GIORNALE STORICO
LETTERATURA ITALIANA
VOLUME LXIV
{29 semestre 1914).
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GIORNALE STORICO
DELLA
LETTERATURA ITALIANA
DIRETTO E REDATTO
FRANCESCO MOVATI E RODOLFO RENIER
VOLUME LXIV.
TORINO)
Casa J5 <1 i t r i o e
ERMANNO LOESCHER
1914
PROPRIETÀ LETTERARIA
Tt.rino - ViNCKNzo Boka, Tip. di S. M. e <le' RR. Principi.
PERSONAGGI DANTESCHI
BOLO GN A
Le orme di Dante in Bologna sono evidenti soprattutto per
alcuni personaggi bolognesi che, da lui conosciuti di persona,
ricinse di luce non peritura nel sacro volume. Di altri non bo-
lognesi, vissuti per un tempo più o meno lungo in Bologna, co-
nosciuti 0 no di persona da lui, vi si conserva pure memoria.
I Memoriali dell'Archivio di Stato bolognese ci parlano della
loro presenza. Dalle ingiallite pagine, di tra le memorie private
del fosco duecento, giunge a noi, non interamente affievolita dal
tempo, l'eco di grandi dolori, di veementi passioni, e talvolta
balza su dalla polvere dei secoli la figura di qualche personaggio
con lineamenti e fattezze alquanto diverse da quelle che siamo
usi scorgere nei versi di Dante o nei commenti spesso inesatti
0 indeterminati degli antichi, e talvolta anche nei commenti
dei moderni.
Qualche altro, che fino ad ora era rimasto avvolto nell'ombra
del passato, ci è dato identificare con quasi assoluta certezza,
oppure per ipotesi assai probabili e, se l'amore alle nostre ri-
cerche non ci fa velo al giudizio, degne di considerazione.
Per altri pochi dobbiamo, purtroppo, contentarci di qualche
notizia, che del resto è pur qualchecosa in tanta penuria.
II buon resultato di queste mie ricerche dimostrerà che sol-
tanto con pazienti e sistematiche indagini d'archivio si potrà
Giornale storico, LXIV, fase. 190-191. 1
G. ZAOOAGNINI
avere una più esatta e larga conoscenza de' personaggi e de' fatti
ricordati dal Poeta che non avessero gli autori dei primi com-
menti, ai quali il più delle volte, purtroppo, si affida anche oggi
la critica dantesca (1).
Maestro Adamo.
Di questo personaggio che, tratto dalle lusinghe dei conti di
Romena nel Casentino, falsificò per loro il fiorino di Firenze e
nel 1281 fu arso in questa città, ove aveva avuto l'imprudenza
d'andare per spendere gli adulterati fiorini, poche e contraddit-
torie notizie ci danno gli antichi commentatori. Dalle parole di
Dante non ci è dato di conoscere che il luogo ove esercitò la
sua colpevole arte e i nomi di coloro che a mal fare lo istiga-
rono, i fratelli conti Guidi del ramo di Romena, Guido, Ales-
sandro e Aghinolfo II o Ildebrandino (2).
Eppure della sua morte, e soprattutto dello scorno che certo
ne venne ai conti di Romena, si parlò assai a Firenze, se un
cronista quasi sincrono, in mezzo a notizie di ben altra impor-
tanza, ci volle dare anche questa; « Si trovarono in Fiorenza
« fiorini d'oro falsi in quantità, per un fuoco, che si apprese in
« Borgo S. Lorenzo, in casa degli Anchioni. E dicesi che li faceva
« fare uno de' conti di Romena, e funne preso un lor spenditore,
^ il quale, per uno che confessò, fu arso » (3).
(1) Adempio al dovere graditissimo di ringraziare pubblicamente il signor
dott. Giov. Livi, direttore del R. Arch. di Stato di Bologna, che mi ha aiu-
tato con squisita cortesia e premura nelle pazienti ricerche in quell'Archivio.
E mi è grato di ringraziare anche il cav. Emilio Orioli che più volte mi ha
sovvenuto nella lettura non sempre facile dei documenti.
(2) Ma s'io vedessi qui l'anima trista
Di Guido, o d'Alessandro, o di lor frate
Per fonte Branda non darei la vista.
{Inferno, XXX, 76-78).
(3) Paolino di Piero, Cronica, Roma, 1755, p. 43.
PERSONAGGI DANTESCHI IN BOLOGNA 3
Dove era nato e donde era venuto il falso monetario che cosi
profonde tracce del suo ignobile delitto e della terribile morte
dovè lasciare nella mente di Dante sedicenne, che forse potè
vederne l'arsione ordinata dal Comune di Firenze? (1).
Gli antichi commentatori non sono punto d'accordo. La maggior
parte, Benvenuto da Imola, l'Anonimo Fiorentino ed altri lo
dicono di Brescia, l'autore delle Chiose anonime edite dal Selmi
afferma invece che fu bolognese, il Bambaglioli lo dice del Ca-
sentino.
Qualche decennio fa Gregorio Palmieri, tra le pergamene ra-
vennati pubblicate dal Tarlazzi, notò un atto rogato in Bologna
il 28 ottobre 1277, nel quale era testimone un « magister Adam
« de Anglia familiaris comitis de Romena » (2). E giustamente
in questo familiare del conte di Romena ravvisò il noto perso-
naggio dantesco ; ma si perde poi in vane ipotesi, per conciliare
il documento con le attestazioni dei commentatori, e credè di-
mostrare che il luogo di nascita del monetiere fu Brest nel nord
della Francia, allora sotto il dominio inglese. Maestro Adamo
dunque sarebbe stato inglese.
I moderni non fecero buon viso a questa affermazione del Pal-
mieri (3) e, non potendo negare che il maestro Adamo del do-
cumento ravennate fosse proprio il dantesco, ricorsero ad espe-
dienti per negarne l'origine inglese. Il Torraca disse che nel
documento si deve leggere « Augna » e non « Anglia » e, tro-
vata una località, Agna nel Casentino, aggiunse che Adamo ben
poteva essere nato in quel luogo.
Io credo che se i documenti ci attesteranno la presenza d'un
maestro Adamo inglese negli anni che di poco precedettero
(1) Nel Purgatorio, XX VII, 18, innanzi alla fiamma dell'ultima cornice
ricorda « umani corpi già veduti accesi » . #
(2) Introiti e debiti di papa Niccolò III (1279-1280), Roma, tip. Vati-
cana, 1889, proemio, pp. xxiv-xxv.
(3) Però 0. Bacci (Lectura Dantis, Firenze, Sansoni, 1901, H canto XXX
deW Inferno, p. 17) pare l'accolga.
4 G. ZAOOAGNINI
il 1281, potremo mettere d'accordo le notizie sicure su questo
personaggio con ciò che ne dicono i commentatori; soltanto in
tal modo riusciremo a convincere anche i più increduli.
Di un « magister Adam de Augnila (sic) » è memoria in do-
cumenti bolognesi fin dall'ultimo di decemhre del 1270 (1), e non
c'è dubbio che qui si tratti d'un Inglese, perché si fa per lui
un cambio di sterline in monete pisane e lucchesi e le persone
per mezzo delle quali è fatto il contratto sono d'evidente origine
straniera.
Che cosa c'impedisce di credere che questo « magister Adam
« de Anguila » sia lo stesso « magister Adam de Anglia » del
documento del 1277 notato dal Palmieri? E questo stesso «ma-
« gister Adam de Anguila o de Anglia » mi pare che possa es-
sere pure r « Adam anglicus » che è teste in un atto del 15 ot-
tobre 1273 (2).
Ma com'è dunque che la maggior parte dei commentatori lo
dice bresciano?
Anche per questo ci vi^ne aiuto inaspettato dai documenti
dell'Archivio bolognese. Dell'anno 1274, e quindi, si noti, proprio
del tempo in cui maestro Adamo poteva, secondo i prece-
(1) 1271 secondo lo stile bolognese. Ecco il documento: « Magister Gui-
« baldus de Meate Burdigalensis diocesis procurator constitutus a magistro
« Petro, priore Sancti Calipratij procuratore magistri Adam de Anguila, pro-
« curatorio nomine prò ipso domino Adam recipienti, confessus fuit habuisse
« a domino Testa de Rodaldis dante et solvente prò domino Aldrevrandino
« Guidonis et sociorum suorum de Luca centum triginta novem libras pisa-
€ norum in florenis argenteis, quos denarios dictus dominus Aldrevrandinus
« et socii eidem magistro Adam solvere tenebantur pretio et cambio viginti
« marchorum argenteorum in sterlinis. Et dominus Bartolomeus Amanati de
« Pistorio precibus dicti magistri Guibaldi promisit se quod si lix vel questio
« mota esset dicto Aldrevandino et sociis promisit de indempnitate. Ex istru-
« mento Bonmartini Bonbologni not. hodie facto in curia Principum, presen-
« tibus domino Rufino de Principibus doctore legum, lacobino Alberti Benvi-
« gnonis, domino Dominico Poete, domino Ricardino domini Bartholomey de
« Principibus, domino Rainuzino libertini de Luca testibus. Die martis ul-
« timo decembris » [Memoriale di Giovanni di Salvo, e. 75 t.).
(2) Arch. di Stato di Bologna, Memoriale di Gtiglielmo Canuti, e. 112 f.
PBESONAGGl DANTESCHI IN BOLOGNA 5
denti documenti, essere in Bologna, è un atto rogato in questa
città, e in esso è testimone proprio un « Addam qui fuit de
« Brixia ».
Poiché il documento mi pare particolarmente importante lo
riporto qui per intero:
Gui9ardinus fratres, filli et heredes quondam domini Laudrixii de Albe-
Doxius ri^iis cesserunt iura Donusdeo quondam lacobini Berite quon-
dam Arardini Zunte in quadraginta sex libris et undecim
solidis bononinorum. Ex istrumento Pasqualis dicti Bochardi Spani notarii
facto sub porticu domus Petri liberti, presentibus Alixeo magistri Petri,
Addam qui fuit de Brixia et Petro domini Eodulphini testibus.
Die Martis xvi lanuarii (1).
E probabilmente questo Adamo è la stessa persona che ap-
paro come teste in un atto del 1276, cosi designato « Adamo
« domini Anesti (sic) de Brissia » (2), e anche mi sembra suo
figlio quel « Boniohamne Adami de Brissia », che è in un atto
del medesimo anno (3).
Alla prima impressione, appena mi sono imbattuto in questi
documenti che parlano d'un maestro Adamo da Brescia, ho cre-
duto d'aver trovato il personaggio dantesco; ma una matura ri-
flessione mi ha convinto che questo è proprio la stessa persona
che il « magister Adam de Anglia ».
Prima di tutto questo che è detto da Brescia è designato con
la forma « Addam », che mi pare accenni a origine straniera,
e anche i numerosi Adami stranieri che trovo nei Memoriali
appariscono tutti ricordati con questa forma indeclinabile. Cosi
un « magister Adam de Corbolio », teste in un atto del 1273 (4),
un « dominus Adam de Attabate », altrove detto « de civitate at-
(1) Ivi, Memoriale di Giovanni di Scuro, e. 125.
(2) Ivi, Memoriale di Pietro di Giovanni, e. 56.
(3) Ivi, e. 12.
(4) Ivi, Memoriale di Amico de' Sardelli, e. 249 t. Da un altro documento
sappiamo che era di Parigi.
6 G. ZACCAGNINI
«tabatensi » (1), un « magister Adam de Ladio » (2), un « do-
« minus Adam de Lambedem scottus » (3). Altrove è un « Gui-
« lielmus quondam Adam de Anglia» (4), un « dominus Thomaxinus
« quondam Adam » (5).
Invece il nome Adamus è declinato tutte le volte che si tratta
d'Italiani. E qui gli esempi abbondano: ne riferirò qualcuno:
« Adamo de Castro Britonum » (6) , « Andreolus quondam ma-
« gistri Adami magistri lignaminis » (7), « Gratiadeus magistri
« Adami » (8), Michael magistri Adami notarius » (9).
Ma resta ancora a superare una grave difficoltà. Nel docu-
mento del 1274 è chiaramente detto : « qui fuit de Brixia ».
Ebbene, frequenti sono i casi in cui negli atti notarili si trova
qualcuno designato col « qui fuit de... » non per indicare il luogo
di nascita, ma il luogo da cui era venuto.
Di questi casi potrei allungare quanto io volessi la serie ; ma
alcuni, in special modo significativi, potranno convincere che
non sempre in quel modo si voleva indicare il luogo di nascita.
Del 2 gennaio 1320 è un atto in cui si parla d'un « lohannes
« quondam Zamboni de Anglia de Regio commorans Bononie in
« capella S. Bertoli Porte Ravennatis » (10). Ma qui il nome del
padre certamente italiano potrebbe far credere che si trattasse
d'un reggiano nato in Inghilterra. Del 1288, e quindi più vicino
al tempo in cui visse il maestro Adamo dantesco, è un altro atto
in cui si ha memoria di un « d. Raimondinus quondam Adhi-
« gherii de Sala qui fuit de Parma» (11), e del 1215 è quest'altro
(1) Ivi, Memoriale del 1275 di Giov. d^ Alberto della Grinza, e. 116^ e 133.
(2) Ivi, Memoriale del 1275 di Giovanni di Gerardo, e. 226.
(3) Ivi, Memoriale del 1275 di Arardo de' Musoni, e. 204.
(4) Ivi, e. 213.
(5) Ivi, Memoriale del 1279 di Pietro di Gherardo da Budrio, e. 55.
(6) Ivi, e. 134 1.
(7) Ivi, e. 95.
(8) Ivi, e. 22 t.
(9) Ivi, e. 64 t.
(10) Ivi, Memoriale di Andrea di Corrado da Medicina, e. 1 1.
(11) Ivi, Memoriale di Lodovico di Marchesino, e. 97 t.
PERSONAGGI DANTESCHI IN BOLOGNA 7
atto in cui è un caso ancora più caratteristico: vi si legge di un
« dominus Ottobonus de Florentia, fìlius domini Bonacci qui fuit
« de Bononia et de Ferraria » (1).
Che ci vieta dunque di credere che il « magister Adam de
« Anglia » abbia dimorato lungamente a Brescia, e, di là venuto
a Bologna, sia stato negli atti notarili designato ora col nome
della regione ove nacque, ora invece col nome del luogo ove
poco prima aveva dimorato ?
In tal modo noi intendiamo come i più dei commentatori an-
tichi del poema sacro abbiano detto che maestro Adamo era da
Brescia.
Che qualcuno poi abbia asserito che era bolognese, si com-
prende pensando alla dimora che noi abbiamo dimostrato aver
fatto in Bologna dal 1270 forse fin presso al 1277, quando lo tro-
viamo già tra i familiari del conte di Romena e quindi ormai fatal-
mente avviato verso la morte, che lo colse poco dopo a Firenze.
Che il Bambaglioli infine lo dicesse del Casentino, è pure cosa
facile a comprendersi: si capisce che, in mancanza di altre in-
dicazioni che si potessero ricavare dai versi danteschi, l'antico
commentatore immaginò che fosse del Casentino colui che falsi-
ficò il fiorino di Firenze per i conti casentinesi.
Probabilmente negli atti notarili, ove si richiedeva la massima
esattezza, faceva aggiungere al notare il « de Anglia » o « an-
« glicus » ; ma, al solito, quando egli non aveva cura di far co-
noscere questa sua origine, il notare lo designava con l'appella-
tivo con cui pare che ormai fosse noto ai più e scriveva :
« magister Addam qui fuit de Brixia ». E cosi, ripeto, intendiamo
come i più dei commentatori antichi lo chiamassero maestro
Adamo da Brescia.
Non so se avrò convinto il lettore; ma non mi pare che sia
da respingersi l'opinione del Palmieri. Se cosi può credersi,
Adamo dimorò a Bologna dal 127(f fin verso al 1277. Tanti sono
i personaggi italiani famosi per vergognosi fatti, o foschi per
(1) Ivi, Archivio Demaniale, S. Francesco, busta 3*, 4135, n^ 32.
8 G. ZAOOAGNINI
fieri e spietati atti di guerra o per altre ragioni infami su cui
Dante impresse il marchio indelebile nei secoli, che ben pos-
siamo restituirne qualcuno anche agli stranieri. Unìcuique suwm.
Pier da Medicina.
Anche di questo personaggio che Dante pose nella nona bolgia
dell'Inferno fra i seminatori di discordie, non è stata possibile
fino ad ora un'identificazione sicura.
Già i commentatori antichi dovevano saperne assai poco, se
ne parlarono con grande incertezza di particolari biografici e
spesso 0 si copiarono fra loro o inventarono addirittura.
L'autore delle Chiose anonime edite dal Selmi dice : « Pietro
« da Medicina fu del contado di Bologna e commise la guerra
« da Fiorenza a Bologna, e da Bologna agli Ubaldini, poi per
« sue male opere fu cacciato, e stette in Fano, e commise la
« guerra tra que' di Fano e i Malatesta ». Jacopo della Lana, con
indeterminatezza ancora maggiore, dice: « Fu de' Cattani di Me-
« dicina, il quale fu molto corrotto in quel vizio, si di semi-
« nare scandalo tra li nobili bolognesi, come eziandio tra li ro-
« magnoli e i bolognesi ».
Benvenuto da Imola, pur esemplificando, sembra accennare a
qualchecosa di più determinato : « Fuit pessimus seminator scan-
« dali, in tantum quod se aliquandiu magnificavit et ditavit do-
« lose ista arte infami. Et ecce modum grafia exempli ; si sen-
« sisset Petrus de Medicina quod dominus Malatesta de Arimino
« tractabat contrahere affinitatem vel societatem cum domino
« Guidone de Ravenna, invenisset ergo Petrus a casu quendam
« familiarem domini Malateste, et petivisset affectuose: Quomodo
« valet Dominus meus ? Et post longam confabulationem dixisset
« in fine : Dicas domino Malateste ut mittat mihi fidum nuntium,
« cum quo loqui possim, sicut secum, aliqua non spargenda in
« vulgo. Et veniente tali nuntio petito, dicebat Petrus : Vide,
« carissime, male libenter dicam, quia de honore meo esset forte
PEKSONAGGI DANTESCHI IN BOLOGNA 9
« tacere : sed sincera afifectio, quam habeo ad dominum meum,
« dominum Malatestam, non permittit me amplius dissimulare.
« Res ita est: Gaveat sibi dominus Malatesta ab illode Ravenna,
« alioquin inveniet se deceptum. Et statim remittebat istum
« nuntium sic informatum ; et deinde idem illud falso fingebat
« apud dominum Guidonem de Ravenna, persuadens ut caverei
« sibi ab ilio de Arimino. Tunc ergo dominus Malatesta concepta
« suspicione ex verbis Petri, incipiebat remissius agere cum do-
« mino Guidone, et paulatim incipiebat revocare quod conce-
« perat. De quo perpendens dominus Guido, dicebat: Bene di-
« cebat mihi Petrus de Medicina. Et e contrario dicebat dominus
« Malatesta. Et uterque deceptus mittebat Petro equos, jocalia,
« munera magna, et uterque liabebat ipsum in amicum, qui erat
« familiaris inimicus » (1).
Il Buti dice che seminò discordie « tra' cittadini Bolognesi e
« tra i tiranni di Romagna » : accenna anche che avesse divisi
« li gentiluomini del contado di Bologna da la città » e quelli
di dentro la città (2).
Come si vede, se si volesse credere ai commentatori, Pier da
Medicina avrebbe suscitato discordie tra i nobili di Bologna, nel
contado, tra i cittadini e quei del contado, tra i signorotti di
Romagna, tra Bologna e Firenze, e chi più n'ha più ne metta.
Ora si capisce che in tutto ciò ci deve essere molta esagera-
zione ; ma, a ogni modo, mi pare se ne possa dedurre che Pier
da Medicina si piacque di tenere discordi i signori di Romagna
e delle Marche.
Un erudito marchigiano, Camillo Pace, credette di identificarlo
con quel Pier da Medicina dei Biancucci che, col titolo di Cat-
taui, tennero, nel secolo XIII, la signoria di Medicina. Costui fu
nel 1235 giudice generale della Marca, e nel 1250 fu podestà a
(1) Comentum super Dantis Comoediam, Firenze, Barbèra, 1887, voi. II,
pp. 363-64.
(2) Commento sopra la Divina Commedia, ed. da Crescentino Giannini,
Pisa, Nistri, 1858, voi. I, p. 725.
10 G. ZACOAGNINI
Castelfìcardo (ora Castelfìdardo) ; ma, quando un ministro di Fe-
derico II volle restituite all'impero le terre di Romagna occu-
pate dai legati pontifici, egli fu spogliato di tutti i suoi averi e
onori (1).
Nulla avremmo da obiettare a questa identificazione sostenuta
dal Pace, se si potesse con i documenti provare che questo Pier
da Medicina, giudice generale della Marca, visse fin verso gli
ultimi decenni del secolo XIII, perché è indubitato per le parole
stesse di Dante che il Pier da Medicina dantesco fu di persona
conosciuto dal Poeta.
Il modo con cui l'Alighieri lo presenta, non lascia alcun dubbio
intorno a ciò :
Un altro, che forata avea la gola
e tronco il naso infin sotto le ciglia,
e non aveva ma' che un'orecchia sola,
restato a riguardar per maraviglia
con gli altri, innanzi agli altri apri la canna
ch'era di fuor d'ogni parte vermiglia;
e disse: Tu, cui colpa non condanna,
e cui io vidi su in terra latina,
se troppa simiglianza non m'inganna,
rimembriti di Pier da Medicina (2).
Ora un documento del 1271, quando è assolutamente impos-
sibile che Dante di soli sei anni avesse conosciuto il Bolognese
seminatore di scandali, ci dà notizia d'un « Petrus quondam
« Ayni de Medicina, nepos quondam domini Petri de Medi-
« Cina », ricordato, insieme con un suo cugino Sette, e, si noti
bene, entrambi, oltre che col nome del padre, sono designati in
un modo non certo frequente negli atti notarili, come nipoti di
Pier da Medicina. Anche in altri documenti questi due cugini
sono sempre detti nipoti di Pier da Medicina (3).
(1) Biv. abruzzese, an. XV, fasce. XVIII -IX dell'agosto-settembre 1900,
pp. 364 e segg.
(2) Inferno, XXVHI, 64-73.
(3) R. Archivio .di Stato di Bologna, Memoriale del 1273 di Iacopino di
PERSONAGGI DANTESCHI IN BOLOGNA 11
Ognuno che abbia pratica di atti notarili, sa che soltanto quando
si trattava di personaggi veramente illustri, il notare ricordava
il nome dell'avo, tralasciando quello del padre. Ora in uno di
questi documenti è ricordato un « Petrus nepos domini Petri de
Medicina », appunto senza il nome del padre (1).
Nel documento del 1271 si parla di rappresaglie concesse a
Pier da Medicina sopra i cittadini di parecchie città e castelli
delle Marche, dalle quali costoro furono esonerati in quell'anno.
Queste rappresaglie erano state concesse, dopo la morte di lui,
ai suoi discendenti.
Il Pier da Medicina senior, cosi illustre da aver lasciato fama
di singolare autorità tra i suoi concittadini e che ebbe ragioni
di odio con i Marchigiani tanto da avere avuto su di loro, pro-
babilmente dalla Chiesa, diritto di rappresaglia, chi può essere
se non Pier da Medicina, giudice generale della Marca nel 1235
e spodestato dal ministro di Federico II nel 1250?
Ecco qui nella sua integrità il documento :
Dominus Peregrinus de Garixindis vice et nomine
omnium et singulorum canpsorum, merchatonim et
aliarum quarumlibet personarum de infrascriptis terris
Marchie Anconitane seu Guarnerij, videlicet
de civitate Firmana - Civita nova - Racha-
nati - Humane - Ausimi - Hesi - Hesculi - Opphide
- Urbini - Phori Semphronii - Pasauri - Phani
- Senagalie - Fabriani - Sancti Benedicti - Sancti
Sevrini - Cinguli - Macerate - Montis Rubiani
promisenint venturos
bine ad X annos proii-
mos ad civitatem Bo-
nonie ad hospitandum
eius hospitio ex una
parte et dominus Septe
filias quondam domini
Capitanei et Petrus
quondam Ayni, nepo-
tes quondam domini
Petri de Medicina patris dictorum patrum suorum, ex altera super represaliis
et bannis concessis prò comune Bononie condam dicto domino Petro eorum
Baiando, e. 165 : Petrizzolo di Lambertino Si Medicina e Prinzivalle suo
fìgUo « vendiderunt iure proprio et Septi quondam domini Capitanei domini
« Petri de Medicina et Petri quondam Aymi dicti domini Petri unam
« domum ... ».
(1) Ivi, Memoriale del 1271 di Guglielmo di Pietro Onesti, e. 94^.
12 G. ZACCAGNINI
avo contra homines et communia dictarum terramm ad tale pactum et con-
cordiam invicem devenerunt, videlicet quod dictus dominus Peregrinus pro-
misit supradictis Septe et Petro se facturum bona fide quod quilibet tam
canpsorura quam merchatorum quam alia quelibet persona de dictis terris
qui veniet Bononiam ad hospitandum in eius hospicio dabit et solvet dictis
Septe et Petro vel quibus comiserint deeera solidos prò qualibet soma pan-
norum ultramontanorum, quam conducerint in civitatem vel per civitatem vel
discrictum Bononie vel exstraxerint de ipsa civitate vel districtu. Item prò
qualibet soma pannorum vel aliarum rerum undecunque sint quinque solidos
bononinorum. Item prò qualibet testa hominis tres solidos bononinorum. Et
hoc ideo quod dicti Septes et Petrus promiserunt, concesserunt et dederunt
dicto domino Peregrino stipulanti vice et nomine omnium et singulorum
campsorum et merchatorum et aliarum quarunlibet personarum de dictis terris
venturarum ad civitatem Bononie ad hospitandum in eius hospitio hinc ad
dictum terminum plenam fidanciam et liberam securitatem secure standi et
veniendi in civitatem Bononie et eius comitatum et districtum cum personis
et rebus merchadandiis eorum in eundo et redeundo cum aliis pactis et con-
ditionibus ininitis (sic) inter eos. Ex istrumento Johannis Bonandree not. facto
hodie in hospitio dicti domini Peregrini {Seguono i testi).
Come si vede, Pier da Medicina senior era già morto nel 1271,
dunque bisogna necessariamente respingere l'asserzione del
Pace che sia costui il personaggio dantesco (1), poiché non potè
essere conosciuto da Dante. D'altra parte, nei Memoriali degli
(1) Ero venuto già a questa conclusione, quando ho veduto un articolo di
Gioacchino Brognoligo, Un nuovo testo poetico volgare del Dugento, nella
Bibl. delle scuole italiane, IX, in cui si combatte per altra via l'opinione
del Pace. Si osserva che il Gozzadini (.Delle torri gentilizie di Bologna,
p. .374) ricorda due bolognesi che ebbero il nome di Pier da Medicina nella
casa dei Biancucci, uno che fu podestà a Castelfì dardo nel 1250 e col figliuolo
Villano fu fatto prigioniero da un ufficiale di Federico II, e un altro Piero
di Piero da Medicina che crede il dantesco. Il Casini nel suo Comm. alla
Divina Commedia confuse le due persone e il Pace ne ripetè l'errore. Secondo
il Brognoligo il primo dei due Pieri ricordati dal Gozzadini può essere una
stessa persona col giudice della Marca del 123.5, ma non può credere che
dopo avere in quell'anno esercitato un pubblico ufficio al seguito del cardinal
rettore, ne esercitasse un altro nel 1250 nella Marca al seguito d'un altro
cardinale. Quindi, conclude, per questi ed altri argomenti, che il dantesco
PERSONAGGI DANTESCHI IN BOLOGNA 13
ultimi decenni del secolo XIII, non troviamo ricordo di altri
Pier da Medicina, tranne che di questo nipote del vecchio giu-
dice della Marca, quindi nulla ci vieta di ritenere che sia proprio
costui il dantesco.
Se ne ha notizia in parecchi altri documenti: in uno dello
stesso anno 1271 (1), in un altro del 9 marzo 1272 (2) e in un
altro ancora dell'I 1 marzo del medesimo anno (3). Riappare in-
fine il suo nome anche in un documento del 1277 (4).
Dopo per vari anni non trovo più il suo nome negli atti, e
questo potrebbe confermare l'affermazione dell'autore delle Chiose
anonime edite dal Selmi, che per le sue male arti fosse cacciato
in esilio dai Bolognesi.
È certo che non in Medicina, da cui probabilmente trassero
il nome, dimorarono i Biancucci, ma ebbero case e palazzo in
Bologna : in più d'un documento si dice che degli atti furono
rogati « in porticu domus domini Petri de Medicina » (5).
Pare che avessero stretta parentela con le più nobili e grandi
famiglie della Romagna, se un documento del 1269 ci parla d'una
« domina Adelaxia, uxor quondam domini Guidonis de Medicina
« et Alia quondam domini Lamberti Guidonis de Polenta » (6).
Questa parentela potrebbe diffondere qualche luce fra le te-
nebre che avvolgono la figura di Pier da Medicina, ci farebbe
fu figlio di Piero, vittima nel 1250 del maniscalco di Federico II. Come si
vede, si avvicina assai a quello che noi crediamo il vero, sebbene a noi sembri
che ben possa essere la stessa persona il Pier da Medicina del 1235 e quello
del 1250.
(1) E. Archivio di Stato di Bologna, 3femoniaZe di Amadore di Guglielmo
d'Albertino, e. 33 t.
(2) Ivi, Memoriale di Spagnolo di Guido Spagnoli, e. 126^: « Dominus
« Petrus domini Ani {sic) filij domini Petri de Medicina promisit solvere do-
« mino Prin9ivalli domini Petrifoli de Medicina triginta sex libras et decem
« solidos bononinorum hinc ad sex menses ex causa mutui ».
(3) Ivi, e. 127 : vende allo stesso Prinzivallift una casa.
(4) Memoriale del 1227 di Luciano d'Useppo, c.l9t.
(5) Nel documento cit. del 1271 e in un altro del 1270 {Memoriale di
Martino delV Agnella, e. 63).
(6) Memoriale del 1269 di Tommaso d'Alberto Fabbro, e. 48 t
14 G. ZACOAGNINI
credere che non del tutto fantastico fosse il racconto che Benve-
nuto da Imola fa intorno ai suoi maneggi nelle corti di Ravenna
e di Rimini.
Sopra il nome d'un suo parente, Petrizzolo di Lambertino da
Medicina, che in forma assai dubitativa il Torraca crede poter
essere il dantesco (1), penso invece che non si possa ragione-
volmente insistere. È vero che di lui si trova memoria anche
in atti del 1290, ed è vero che dal 1265 fino a questo anno lo
troviamo assai spesso nei Memoriali; ma è quasi sempre ricor-
dato in affari di cambio e di prestiti, sicché dobbiamo ritenere
che si fosse dato al commercio. Non ci pare che fosse mai salito
in tale autorità e potenza da aver avuto strette e speciali rela-
zioni con i signori della Romagna e delle Marche. Inoltre in
qualche documento è designato, insieme con altri, come « mer-
« chator » (2).
Credo adunque che, dimostrata insussistente l'identificazione
del personaggio dantesco col Pier da Medicina, giudice della
Marca, si debba per l'età in cui visse, per la sua lunga assenza
da Bologila dal 1277 in poi, e per le relazioni che ebbe con i
mercanti delle Marche, ritenere che proprio Piero di Aimo di
Pier da Medicina sia l'odioso seminatore di discordie che un de-
monio ferisce di spada nella nona bolgia dell'Inferno.
Frate Alberigo Manfredi.
È rimasta avvolta nel mistero la causa che mosse Manfredi,
il cugino di frate Alberigo, a dargli il grande schiaffo, di cui
l'onta e il dolore mossero il frate gaudente alla feroce strage
del 2 maggio 1285.
Un documento da noi rinvenuto nei Memoriali bolognesi ci
mette sulle tracce del vero motivo di tanta contesa.
(1) Commento cit., p. 232.
(2) Memoriale del 1279 di Leonardo di Guerzino, e. 5.
PERSONAGGI DANTESCHI IN BOLOGNA 15
I commentatori antichi, al solito, dicono assai poco, ma quel
poco è sufficiente, con la scorta dei documenti, a guidarci nella
difficile ricerca.
Iacopo della Lana, che, come bolognese, potè essere bene in-
formato sui fatti di Faenza, non lontana da Bologna, la cui vita fu
in quel tempo strettamente legata a quella, dice che lo schiaffo fu
dato da Manfredi a frate Alberico per ragioni d'interesse. Ben-
venuto da Imola asserisce invece: «Accidit autem quod in
« MCCLXXXVI (1) Manfredus iuvenis animosus, cupiditate re-
« gnandi, struxit insidias fratri Alberico : et cum devenissent ad
« graves contentiones verborum, Manfredus, ductus impetu irae,
« dedit fratri alapam magnam » (2).
Ora, prima d'addentrarci nella questione, vediamo un poco
quale fosse il grado di parentela fra i due, perché si scorga
meglio quali potessero essere queste « ragioni d'interesse ».
Francesco, frate Alberico e Manfredi erano figli rispettiva-
mente dei fratelli Alberghetto, Ugolino ed Enrico, nati alla loro
volta da un Alberico, dei quali il primo mori nel 1275, e l'ul-
timo fu ucciso nel 1257 (3).
Premesso ciò, vediamo ora il documento:
Dominus Manfredus quondam domini Henrici de Manfredis de Faventia
per se suosque filios et heredes fecit confessionem ad instanciam et interro-
gationem domini fratris AlberÌ9Ì, fìlii quondam domini Ugolini Bugole de
Manfredis ordinis mihcie Beate Marie Virginis de Faventia, tutoris Francisci,
filii quondam domini Albergipti quondam domini Albergipti de Manfredis de
Faventia, se habere in eius custodia et guardia et penes se castrum Gipsi et
burgum ipsius, quod est situm in diocesi Faventie in plebatu plebis Octavi,
(1) Poiché la celebre strage avvenne nel 1285, bisogna ritenere che qui ci
sia un errore di data. Deve forse leggersi : * MCCLXXXII » ?
(2) Op. cit, m, p. 539. •
(3) A. Messeri, Bermtrdino Azzurrini Chronica hrevwra, I, nella ristampa
dei BIS. del Muratori, fase. 3° del t. XXYHI, P. lU, p. 124. Vedi anche VAl-
bero genealogico de' Manfredi compilato dal Messeri in fondo al voi. A. Mes-
seri ed A. Calzi, Faenza nella storia e neìVarte, Faenza, E. Dal Pozzo, 1909.
16 G. ZAOCAGNINI
quod est comune prò indiviso tam ipsius Francisci quam ipsius domini Man-
fredi, confines cuius sunt hii: ab uno latere curia Kontane, ab alio curia
plebis Octavi, quod quidem castrum, ut dictum est, penes se habere confessus
est cum domibus et liedificiis et apparatibus ad defensionem ipsius, scilicet
unam balistram a tuiio et unam a leva et duas asta(s), que sunt ipsius
Francisci et ideo promisit dicto Turdo (sic) reddere et restituere eidem aut
cui mandaverit dictum castrum et burgum cum omnibus apparatibus supra-
dictis, in eo statu ut nunc est, vel meliori, si petierit, et insuper domini Ri-
9ardus de Primadiciis et dominus Bonifacius domini Lambertini de Samari-
tanis, Guillielmus quondam domini Ugutionis de Samaritanis, dominus Jacobus
de Cambraxe, Bonagratia Gerardi de Monte Nerio de Bononia, Thomaxinus
de Ansaltis, Guido quondam Robacastelli, Bastianus fratris Guarnerii et Gui-
ducius Barufaldi et Suxaltinus de Calcagnolis de Faventia prò ipso fuerunt
fìdeiussores dicti Manfredi. Ex istrumento Alberti quondam Nigri notarii facto
hodie in domo Francisci de Cervis, presentibus domino Bencevene Megliorati
not. de Faventia, domino Benincasa Amatoli not. de Faventia et eius filio,
domino Nicholao fratris Guidonis Episcopi et Ferarino serviente dicti Fran-
cisci et sic dicti contrabentes scribere fecerunt. — Die Sabbati x intrante
aprili (1).
Da questo documento si ricava che, morto a Francesco il padre
Alberghetto nel 1274, il cugino suo frate Alberigo ne assunse la
tutela e impose all'altro cugino Manfredi di riconoscere con atto
notarile che teneva « in eius custodia et guardia et penes se
« castrum Gipsi et burgum ipsius in comune et prò indiviso »
col suo pupillo Francesco.
Ora Benvenuto da Imola ci fa sapere che, poco dopo la morte
del padre di Francesco, Manfredi « struxit insidias » a frate Al-
berigo, e,- in un fiero alterco, preso dall'ira gli lasciò andare uno
schiaffo. È certo dunque che allora frate Alberigo aveva già la
tutela di Francesco : astuto e avido com'era, probabilmente fin-
gendo di tutelare soltanto gl'interessi del cugino minorenne,
cercò d'ostacolare, a suo profitto, la potenza e la ricchezza cre-
scente del cugino Manfredi.
(1) Memoriale del 1277 di Biagio di Martino de* Martinolli, e. 67.
PERSONAGGI DANTESCHI IN BOLOGNA 17
Quali altri potrebbero essere stati « gl'interessi » che fecero
scoppiare la lite fra i due e di cui parla l'antico commentatore,
se non questi?
È vero che Benvenuto da Imola dice solo che Manfredi avrebbe
schiaffeggiato il cugino « cupiditate regnandi » (1), il che farebbe
pensare veramente a qualchecosa di diverso; ma, se ben si ri-
flette, i due motivi si riducono in sostanza ad uno solo. Questa
cupidigia di regnare può intendersi che fosse l'avidità d'impa-
dronirsi de' beni e dei castelli che erano stati lasciati da Al-
berghetto al figlio Francesco, come appunto fa supporre il sur-
riferito documento.
In conclusione, quel che dice Benvenuto non infirma, ma con-
ferma la nostra ipotesi.
Ma v'è qualche altro argomento non meno valido che fa si
che l'ipotesi si cangi in certezza quasi assoluta. Un antico e
autorevolissimo cronista faentino, il Cantinelli, che ci racconta
con ricchezza di particolari la terribile strage del 2 maggio 1285,
dice : « Dicto anno, die Mercurii secundo intrante madio, occisus
« fuit gladio Manfredus de Manfredis et Albergittus eius filius
« cum eo similiter ; et ipsos occiderunt Franciscus filius condam
« Albergitti de Manfredis et Ugolinus filius fratris Alberici de
« Manfredis in presentia dicti fratris Alberici in castro Segate
« subtus Faventiam, in prandio quod ibidem faciebant in domo
« et castro dicti Francisci... et ad eos occidendos fuit Surrucius
« de Petrella et alii VI cum eis, qui omnes, occasione dictorum
« homicidiorum, exbanniti fuerunt » (2).
Se l'uccisione avvenne in una villa di Francesco, forse da
poco tempo uscito dalla tutela di frate Alberigo, ed è proprio
Francesco uno degli assassini in presenza del terribile frate,.
(1) Anche il Mittarelli {Chronicon ex acc^sionibus B. Azzurrini, p. 323)
dice che l'odio nacque « propter alapam datam a domino Alberghetto dicto
« fratri Alberico, cupiditate dominii ». Come si vede, secondo il Mittarelli lo
schiaffo sarebbe stato dato da Alberghetto, ma è da credersi a Benvenuto.
(2) Cantinelli, Chronicon, ed. Torraca, p. 54.
Giornale storico, LXIV, fase. 190-191. 2
'^^
18 G. ZACOAGNINI
perché non pensare che la difesa dei proprii interessi lesi o mi-i
nacciati da Manfredi avesse armata la mano omicida di Fran-
cesco, istigato dalle parole riboccanti d'odio di frate Alberigo?
Cosi la lite incominciata già nel 1277 ebbe il suo triste epilogo
il 2 maggio 1285.
Altri possessi aveva Francesco ad Argenta, a Ferrara e a
Pozzo Maggiore, e chi sa forse che anche per questi non si
siano accese fra i cugini gravi discordie. Infatti un docu-
mento del 1278 ci fa vedere frate Alberigo inteso a curare gli
interessi del pupillo e in lotta con altri Faentini appunto per i
beni lasciati da Alberghetto al figlio suo. Il documento non meno
interessante dell'altro ci pare qui utile riferire:
Dominus frater Albericus de Manfredis de Faventia ordiiiis militie beate
Marie Virginis, tutor Francisci, filli quondam domini Albergipti de Manfredis,
cum auctoritate domini Jacobi quondam Octo domini Jacobi Herbonati iu-
dicis potestatis Bononie fecit, constituit Guidonem quondam Episcopi de Fa-
ventia suum actorem in causis quas predictus pupillus habet cum heredibus
Martinelli de Verola de Faventia et generaliter cum quibus et omnibus per-
sonis de Potio Malori et plebatu ipsius et de Argenta et eius curia et de Fe-
raria et eius districtu ed ad fructus et possessiones eius pupilli dictorum lo-
corum procurandos. Ex istrumento domini Beninchase Amatoli de Faventia
not. facto ho.die in porticu superiori palatii novi. — Die quartodecimo exeunte
madio (1).
Fra il padre di Francesco e frate Alberigo era stata comu-
nanza d'interessi pare fino dal 1271, come ci fa comprendere un
altro documento del settembre di quell'anno, in cui frate Albe-
rigo « suo nomine et nomine domini Albergipti quondam domini
« Albergipti de Manfredis » da una parte, e dall'altra due nobili
bolognesi. Spagnolo di Bencivenni d'Abbate e Bernardo delle
Valli a nome di Rolando de' Grilli, fanno un compromesso fra
loro, rimettendo in Castellano di Fabbro de' Lambertazzi la so-
luzione di tutte le loro liti per i possessi « in curia Fabriaghi »
(1) Memoriale del 1278 di Jcicopino di Pace, e. 141^.
PERSONAGGI DANTESCHI IN BOLOGNA 19
presso le terre dei conti di Conio. Frate Alberigo promette di
far si che Alberghetto accetti il lodo che in tale vertenza avrebbe
dato Castellano (1).
Frate Alberigo adunque, stretto in comunanza d'interessi con
Alberghetto fino dal 1271, alla morte di questo avvenuta nel 1275,
assume la tutela di Francesco, figlio del defunto, ne difende i
diritti contro la cupidigia del cugino Manfredi con tanto calore
da essere atrocemente oflbso e schiaffeggiato. Tace il frate per
lungo tempo, e cova nel chiuso cuore il rancore, finché il con-
cepito odio scoppia in tremenda vendetta il 2 maggio 1285 nella
casa e per mano del pupillo di cui con tanto zelo aveva difeso
gl'interessi.
(1) « Dominus frater Albericus de Manfredis de Fa-
« ventia ordinis railitie Beate Marie suo nomine et
« nomine domini Alber^pti quondam domini Alber-
« gipti de Manfredis ex una parte, dominus Spagnolus
« quondam Bencevenis Abbatis, doctoris legum, eman-
« cipatus ex istrumento Thomaxini Armanini not.,
« dominus Bernardus de Vallibus not. eorum nomine
« et vice et nomine domini Rolandi de Grillis
ex alia de Htibus om-
nibus que vertuntur
inter eos spetialiter
occasione possessionum
et poderis positorum
seu positi in curia Fa-
briaghi iuxta dominos
comites de Cunio et
possessores confinicios
« vel si quis alius fuit confinis compromiserunt in dominum Castellanum quon-
« dam domini Fabri de Lambertaciis presentem tanquam in arbitratorem et
« eorum araicum. Et dictus frater Albericus promisit se facturum quod dietus
« dominus Albergiptus attendet dictum compromissum et laudum unum vel
« phira dicti domini Castellani et dictus dominus Spagnolus et dominus Ber-
« nardus promiserunt se facturos quod dictus dominus Eolandus de Grillis
« attendet dictum compromissum et laudum unum vel plura dicti domini
« Castellani. Ex istrumento scripto manu domini Bonaventure de Primarola
« not. hodie facto in domo dicti domini Castellani, presentibus domino LTgohno
« de Medicina iud., domino Benencasa Amatoli not. de Faventia, domino
« Prendiparte de Atticomitibus, domino Saleso domini Bonanni Calcolarli de
« Castello, domino Boniohanne Gerardi Ungarelli, fratre Amidilixio de Ba-
« gnacavallo dicti ordinis militie et domino Johannino de Ocano not. testibus
« et sic scribere fecerunt diete partes una cuna dicto domino Castellano. Die
« quartodecimo exeunte septembri » {Memoriale di Giovanni di Bernardino
da Ozzano, e. 173 <.).
20 G. ZA.CCAGNINI
Oderisi da Gubbio.
È noto che il miniatore famoso:
L'onor d'Agobbio, e l'onor di quell'arte
che alluminare chiamata è in Parisi (1),
durò a lungo a esercitare l'arte sua in Bologna, fino al 1295,
■quando si recò a Roma.
Dai Memoriali bolognesi si era saputo che Oderisi di Guido
da Gubbio era intento a far rider le carte di mirabili miniature
fino dal 1268 ; era stato sorpreso dalla pazienza degli eruditi ad
alluminare nel 1271 un ricco volume di chiesa per Azzone de'
Lambertazzi.
Un altro documento dell'agosto 1269 ce lo fa vedere in rela-
zione con uno straniero che aveva bisogno d'avere, probabil-
mente per uso di scuola nello Studio bolognese, un Digesto nuovo.
Oderisi, insieme con un altro, si fa garante che il codice sarà
trascritto per la somma convenuta (2).
È poca cosa; ma in tanta scarsità di notizie intorno al mi-
niatore famoso anche questa notiziola non sarà del tutto inutile.
Griffolino d'Arezzo.
Tra i falsari della decima bolgia, tormentati da fastidiosissimi
vermi e coperti di scabbia, è Griffolino d'Arezzo:
(1) Purgatorio, XI, 80-81.
promiserunt se facturos et cura-
turos quod Dominicus Michaelis
scribet et glosabit digestum novum
(2) « Magister Oderisius filius Guidonis
Paulus, filius Jacobini Advocati
« de aparatu domini Accursii domino Henrico canonico Sancti Tome argento-
« nensi prò pretio xxu solidorum bononinorum prò quolibet quaterno. Ex
« istrumento manu Jacobi Tebaldi not. eri facto in domo Manscotoruni, pre-
« sentibus magistro Agliano scriptore, domino Tedericho Luseste, domino Eo-
« dulfo de Suffeni testibus, et sic scribi fecerunt contrahentes. Die Veneris
€ xvj agusti » {Memoriale del 1269, voi. 7, 2® not., e. 15).
PERSONAGGI DANTESCHI IN BOLOGNA 21
Qual sopra il ventre, e qual sopra le spalle
l'un dell'altro giaceva, e qual carpone
si trasmutava per lo triste calle (1).
Vi sono due alchimisti, Griffolino d'Arezzo, che il vescovo di
Siena fece ardere, perché non volle insegnare a volare a un
certo Albero senese, che, secondo i commentatori, pare fosse
figlio a quel vescovo, e secondo noi invece, doveva essere sol-
tanto caro a quel prelato (2), e il fiorentino Capocchio, che,
gonfio per enorme idropisia, giace appoggiato con le spalle
all'Aretino. Presso a loro si lamenta dolorosamente maestro
Adamo, che sul rogo scontò la colpa d'aver falsato il fiorino di
Firenze.
Ma chi era Griffolino ?
Dai commentatori poco o nulla c'è dato ricavare. Fino ad ora
si sapeva che era ascritto alla Società dei Toschi in Bologna
nel 1259, ma si era invano disputato intorno al tempo in cui
sarebbe avvenuto il supplizio dell'infelice alchimista.
Si era detto che il fatto dovette essere avvenuto ai tempi di
Bonfiglio, il quale fu vescovo di Siena dal 1216 al 1252, perché
quel vescovo fu un fiero persecutore di eresie, e i commenta-
tori antichi dicono che fece ardere l'alchimista d'Arezzo come
paterino (3). Ma a questa asserzione degli eruditi senesi si op-
pone il fatto che Griffolino nel 1259 era ascritto alla Matricola
dei Toschi in Bologna.
Un documento del giugno 1272 ci prova che Griffolino non
era allora più tra i vivi, perché apparisce come testimone
(1) Inferno, XXIX, 67-69.
(2) È per me evidente che i commentatori antichi hanno interpretato cer-
velloticamente le parole di Dante: « ...mi f^ | Ardere a tal che l'avea per
figliuolo» (vv. 116-117), asserendo che Albero era proprio figlio del vescovo;
Dante ha solo voluto dire essere stato Albero siffattamente caro al vescovo
che lo teneva in conto di figliuolo.
(3) Bartolomeo Acquarone, Dante in Siena, Siena, 1865, p. 59.
22 G. ZACCAGNINI
in un atto il figlio suo « Bernardinus quondam Griffolini de
* AriQO » (1).
La sua morte dunque deve essere avvenuta certamente fra
il 1259 e il 1272.
Guido Bonatti.
Del famoso dottore e astrologo forlivese, vissuto successiva-
mente alle corti di Federico II, d'Ezzelino da Romano, nella fa-
miglia di Guido Novello, quando nel 1260 venne a Firenze, e
al servizio del conte Guido da Montefeltro, abbiamo qualche
sicura notizia, e le cronache del tempo ne parlano assai.
Egli dimorò a lungo in Bologna, come affermò il Sarti (2), e
forse vi fu nel 1278, se è lui quel « magister Guidone quondam
« Bonati » che nei Memoriali appare testimone ad un atto del
15 agosto di quell'anno, e che potrebbe essere stato cosi indicato
come maestro d'astrologia (3).
Ma v'è di meglio.
Un documento che abbiamo rintracciato nei Memoriali bolo-
gnesi, ci assicura che era ancora vivo nel 1296 fra i più noti e
potenti cittadini forlivesi. Giova a comprendere quale autorità
godesse egli in Forlì, l'osservare come sia ricordato tra i signori
di quella città, e a tal fine pubblico qui intero il documento :
Orius, adultus fìlius quondam domini Boniohannini Ysnardi Pigolpili de
capella Sancte Marie Porte Eavennatis cum auctoritate et consensu domini
Alberti quondam domini Bona9unte sui curatoris ibidem presentis ad infra-
scripta specialiter constituti in presentià domini Pagani de Pairo iudicis et
assessoris domini Jacobi de Summa Elva presentis potestatis Bononie, et
(1) Memoriale di Guido di Spagnolo, e. 206 t « die martis vij intrante
Junio ».
(2) De Claris Archygimna^ii Bononiensis professoi'ibus, voi. I, p. 492. Vedi
anche nella Vita ed opere di G. B. di B. Boncompaqni, Roma, 1851, p. 23.
(3) Memoriale del 1278 di Rolando di Bernardino di Merzario, e. 24 1.
PERSONAGGI DANTESCHI IN BOLOGNA 23
curatorio iure more curatoris et prò dicto curatore Thomax quondam Ysnardi
exstitit fideiussor et dictus iudex auctoritatus fuit dicens: Exto curator. Et
Gerardettus et Petrus fratres et fìlii quondam dieti domini Boniohannini ex
causa venditionis ante solutionem sibi factam dederunt et cesserunt domino
Albergipto quondam domini Ranbaldini de Peppolis omnia iura et actiones
reales et personales, utiles et directas et accessiones alias et que et quas habuit
vel habere potuerat et ad eum spectabant ex hereditaria successione heredi-
tatis dicti domini Boniohannini eorum patris ex cessione eidem Gerardetto
stipulanti et recipienti prò dicto Petro et Orio eius fratre facta ab Abraam
fratre et herede filii quondam dicti domini Boniohannini, ut dixerunt costare
publico istrumento ipsius cessionis ex causa donationis scripto manu Coradini
quondam Bonaventure de Armis notarlo contra dominum Nicholaum Guidonis
Tonsi, iudicem atque vicarium domini Nicholay Bayalerii, potestatis Forlivii,
dominum La^arinum, iudicem et militem atque vicarium domini Bonifa^ii de
Lambertatiis capitanei Forlivij, dominum Andream Alexij civem Forlivii, mas-
sarium dicti comunis, Gerardinum Paganelli, Rogerium Calabroni, procuratorem
dicti comunis, lohannem Manthuanum, syndicum dicti comunis, dominum
Jacobum Capucium, dominum Jacobum Vinciguerre, dominum Guidonem Bo-
NATTi, dominum Jacobum Ymoli, dominum Guardi Moretonum, dominum
Aliottum domine Bernarde, dominum Galvanum de Calanchis, dominum Ber-
tholinum Raynerii Tuschi, dominum Zannem Calegarium, dominum Gerar-
dinum Scallati, dominum Aldovrandinum Bonacursii, dominum Saglimbenem
Dadoli, dominum Jacobum Segaferri, dominum Ubertellum Ravignani, do-
minum Bernardum Morum, dominum Leonardum Velecli et dominum Jacobum
Rubeum, nec non etiam contra omnes et singulas personas civitatis Forlivij et
quamlibet earum in solutionis nomine et occasione centum librarum bononi-
norum prò parte unius debiti mille sexcentarum triginta quinque librarum
bononinorum, ad quas dictum comune et predicti ... (omissis) parte Abrami
quondam domini Boniohannini predicti stipulantis nomine et vice Manfre-
dotti et Franceschi suorum sociorum in solutione ex causa mutui dare et sol-
vere tenebantur, ut dixerunt contineri publico istrumento ipsius debiti scripto
manu PetrÌ9oli de Tettalasinis notarli pretio ipsius cessionis centum librarum
bononinorum et dictus Orius adultus iure et more minorum et dictus iudex
predictis omnibus auctoritatus fuit ex istrumento cure et presentis cessionis
scripto manu Petri de Tettalasinis notarli Modie facto in palatio veteri co-
munis Bononie, presentibus Afolino quondam domini lacobi de Tettalasinis
propinquo dicti adulti et contrahentium cognitore, ut asseruit Bonifatius
quondam domini Bona9unte de Savignano not., Inghelerio Petri Inghelerij
24 ' G. ZACCAGNINI
not., Boninsegna Gualenghi de Massa et Pace Pegolotti testibus. — Die tri-
gesimo primo lanuarij (1).
Era dunque Guido Bonatti ancora stimato e potente cittadino
a Forlì, quando era già tramontata da molto tempo la breve
signoria di Guido da Montefeltro in quella città, e il suo protet-
tore stava per calar le vele e raccoglier le sarte, e ritrarsi nel-
l'ordine dei Minori.
Assai lungamente visse il celebre astrologo forlivese, se, nato
qualche decennio prima del 1233 (2), era ancora tra i vivi
nel 1296 (3).
Lotto degli Agli.
È oltremodo difficile poter determinare chi veramente sia quel
Fiorentino innominato che Dante pone tra i suicidi sulla fine
del canto XIII deìVInferno.
Molti degli antichi commentatori, e fra gli altri anche i più
autorevoli come il Bambaglioli, Jacopo della Lana e l'Anonimo
Fiorentino, dicono che fu il giurista Lotto degli Agli ; disperato
per il dolore d'un'ingiusta sentenza da lui data, si sarebbe ucciso.
Altri, anch'essi invero assai autorevoli, come Benvenuto da
Imola e l'Ottimo, dicono invece che il suicida fu Rocco dei Mozzi.
Francesco da Buti rispecchia ancora di più l'incertezza degli
antichi, mostrandosi titubante nella scelta fra Lotto degli Agli e
Rocco dei Mozzi.
E anche noi non possiamo in alcun modo sciogliere il difficile
enigma ; ma frattanto ci sia lecito dare qualche utile notizia in-
torno all'uno dei due. Lotto degli Agli.
I documenti dell'Archivio di Stato di Bologna ci fanno sapere
(1) Memoriale del 1296, penultimo not., e. 24.
(2) ToRRACA, Nuove rassegne, Livorno, Vigo, 1895, p. 340.
(3) Si crede che vivesse fino al termine del secolo. Vedi Boniomi'A(ìni,
Op. cit., pp. 61 e sgg.
PERSONAGGI DANTESCHI IN BOLOGNA 25
che intorno al 1271 alcuni degli Agli erano in Bologna, forse a
mercanteggiare (1). Nel gennaio di quell'anno Mari d'Ugolotto
degli Agli per sé e i suoi fratelli esonera Lotto di Bozzolo degli
Agli da ogni onere che avesse verso di lui (2); ma questo do-
cumento non può accertare che Lotto fosse allora in Bologna.
Un altro documento del maggio dello stesso anno ci assicura
che Lotto in quel mese era certamente in Bologna, perché fa in
quella città un prestito di cento lire a un maestro Andrea di
Todino da Todi. Forse era in compagnia di Mari e di Bozzolo,
padre suo. Ecco il documento :
Dominus Lottus filius domini B090IÌ de Aglis promisit dare domino ma-
gistro Andrea Tudini de Tuderto centum libras bononinomm ex causa mutui
ad unum mensem. Ex istrumento Michaelis Vinciguerre not. hodie facto in
ecclesia Sancti Ambrosii de Vin9ola, domino Jacobino canonico Montisvellij,
domino Alberto canonico diete plebis, Abrahamo phj'sico de Castellis de
Eegio, et Jacomuto Varnerij testibus et sic scribere fecerunt contrahentes. —
Die Martis tertiodecimo exeunte maio (3).
Era in Bologna fino dal gennaio di quell'anno, perché in quel
mese si trova a far testimonianza : « domino Locto domini Bo-
« qoìì de Aglis doctore legum » (4). Insegnò forse per qualche
tempo nello Studio bolognese ? Il titolo di « doctor legum » lo
farebbe credere.
(1) Memoriale del 1271 di Amadore dì Chiglielmo d^ Albertino, ce. 1 < e 86.
(2) « Dominus Mari domini Ugolotti de Aglis de Florentia liberavit et
« absolvit prò se et fratribus suis dominum Lottum domini B090IÌ de Aglis
« legum doctorem ab omni iure ... (omissis) quod ei petere possit bine retro ex
« quacunque causa. Ex istrumento Mathei Cambij not. facto eri in statione
« dicti Mari. Die Sabbati, octavo exeunte Januario » {Memoriale cit., e. 12).
(3) Memoriale cit., e. 59.
(4) Memoriale di Alberto di Corradino, e. 16 <. È in Bologna in quel
tempo anche il padre suo, Bozzolo, che è procuratore per un Iacopo Cresta
di Firenze nel giugno (ivi, e. 86).
26 G. ZACGAGNINI
Il primo rifugio dei figli di Farinata degli liberti.
È noto che gli liberti furono banditi da Firenze definitiva-
mente nel 1268. Allora Farinata non era più tra i vivi; ma i
Fiorentini non erano placati contro l'oltracotante schiatta degli
Uberti, si accanirono contro i discendenti di Farinata, perse-
guendoli di luogo in luogo.
Tutto assorto nei fieri ricordi delle lotte faziose, e*non curante
del fuoco infernale. Farinata nell' Inferno domanda a Dante :
E, se tu mai nel dolce mondo regge,
dimmi, perchè quel popolo è si empio,
incontro a' miei, in ciascuna sua legge ?
In ciascuna sua legge, infatti, Firenze ribandiva gli Uberti con
ostinata insistenza.
Uno dei primi rifugi e dei primi ostelli dei poveri figli di Fa-
rinata fu probabilmente Bologna. Colà Maghinardo, Azzolino,
Neri, Conte e Federico il 5 ottobre del 1269 si fanno prestare
dei denari forse per sopperire alle urgenti necessità che impo-
neva l'esilio, ed altri prestiti fanno con vari cambiatori. Riporto
qui per intero il primo documento, assicurando che gli altri che
seguono sul medesimo argomento sono dello stesso tenore :
Maginardus, filius quondam domini Farinatte de Ubertis, procurator do-
mini AzoHni, Nerij, Comitis et Frederici, eius fratrum et filiorum quondam
domini Farinate suo proprio nomine et procuratorio nomine predictorum, fuit
confessus habuisse a Baldo domini Jacobi solvente vice et nomine domini
Bonfigloli Specialis et Gualdatij Capreti et aliorum sociorum suorum septin-
gentas tres libras et xu solidos pisanorum in florinis ad duodecim. Ex istru-
mento confessionis manu Thomaxini Petrifoli Armannini not. facto beri in
domo domini lohannis de Vercellis, presentibus Benvenuto Lamberti, Adacto
Maynetti, Alexandrino Guifardini, Zane Clarissi, Combifo Rolandini et Lipo
Auguti testibus. — Die Sabati, quinto intrante octubri (1).
(1) Memoriale del 1269 di Tommaso d'Alberto Fabbro, e. 53 f.
PERSONAGGI DANTESCHI IN BOLOGNA 27
Venetico e la GMsolabella Caccianimici.
Ricinti d'eterna infamia sono la figura e il nome di Venetico
Caccianimici, condannato da Dante ad essere frustato vergogno-
samente dai demoni tra i ruffiani della prima bolgia di Male-
bolge per aver condotto la sorella, la Ghisolabella, «a far la
« voglia del marchese » d'Este (1). Eppure anche le non molte
notizie certe che abbiamo intorno alla sua vita ce lo mostrano
nobile e reputato signore, potente per aderenze ed uffici in patria
e fuori. Cupidigia di denaro e più ancora, io credo, desiderio di
farsi grande col favore del marchese d'Este lo spinsero alla
turpe azione (2).
A fine di comprendere quale sia stata veramente la figura sto-
rica di Venetico e per tratteggiarne l'animo, per quanto la lon-
tananza del tempo in cui visse ce lo consente, ne faremo in
compendio la vita sui dati sicuri fino ad ora noti e su quelli
inediti che ci offrono i documenti d'archivio (3). Solo in tal modo,
e non sulla scorta dei commentatori che con molta confusione
parlano del turpe fatto, potremo conoscere le vere ragioni che
spinsero un personaggio cosi cospicuo a offrire materia alla
« sconcia novella ».
La ricerca sistematica e paziente, che abbiamo fatta nei Me-
moriali bolognesi, ha dato cosi sodisfacenti resultati, che, e lo
diciamo con vero compiacimento, noi potremo vedere, a grado
(1) Inferno, XVIII, 49 e sgg.
(2) In tal modo noi verremo a dimostrare che s'era apposto al vero Isi-
doro DEL Lungo {Dante nei tempi di Dante, Bologna, Zanichelli, 1888)
quando appunto espresse una simile opinione.
(3) Alcuni di questi documenti furono ve^ljti da Ottavio Mazzoni-Toselli,
Voci e passi di Dante chiariti ed illustrati con documenti a ha contempo-
ranei, Bologna, 1871, pp. 120 e sgg. e Racconti di storia patria estratti dàl-
Varchivio antico di Bologìia, t. HI, Bologna, 1870, pp. 273 e sgg. Noi compi-
remo le ricerche del Mazzoni-Toselli.
28 G. ZACOAGNINI
a grado, su dalle nebbie del lontano duecento di fra il rozzo
latino dei notari, dalle carte annerite dai secoli levarsi, quasi
per respirare ancora le aure vitali, la figura del gentiluomo bo-
lognese.
Figlio di Alberto di Caccianimico d'Alberto d'Orso de' Caccia-
nimici grandi (1) e guelfi di Bologna e di una Pellegrina (2), do-
veva avere già almeno trentasei anni, quando nel 1264 fu podestà
ad Imola, perché tanti appunto se ne richiedevano per essere
podestà. È perciò assai verosimile che fosse nato intorno al 1228.
Nel 1267, con i frati gaudenti Loderingo e Catalano e con altri
amanti della pace, fece da paciaro fra le parti che laceravano
la città ; ma, pochi mesi dopo, concorse, con un suo fratello Cac-
cianimico, all'uccisione d'un loro cugino, Guido di Gruamonte,
soprannominato Paltena (3). Fino dai più giovani anni Venetico
si rivela pronto all'ira e alle vendette , « uom di sangue e di
« corrucci ».
I documenti tacciono intorno alle discordie, forse alle ven-
dette che dovettero seguire quell'uccisione. L'atto di pace che
soltanto nel marzo del 1269 fu fatto fra Imelda, moglie di Grua-
monte e tutrice di Gruamonte, figlio ed erede dell'ucciso Paltena,
da una parte e i Caccianimici grandi dall'altra per intromis-
sione di Venetico, che nell'atto rappresentò il fratello Cacciani-
mico, fu l'epilogo di quelle discordie (4).
(1) I Caccianimici si dividevano in grandi (guelfi) e piccoli (ghibellini).
(2) Memoriale del 1270, voi. 11°, l^ not., e. 29.
(3) Pietro Cantinelli nel Chronicon (ed. Torraca, p. 10) narra l'uccisione
di Guido Paltena, nipote di Alberto Caccianimici, fatta per istigazione dello
zio. Alberto fu condannato a pagare 2000 lire di bolognini a Caccianimico
bandito. Cfr. Savioli, Annali di Bologna, p. 411.
(4) « Domina Ymelda, uxor quondam domini Gruamontis de' Ca^animicis
« et tutrix Gruamontis, eius nepotis filii et heredis quondam domini Guidonis
« Palthene sui et dicti domini Gruamontis filii, ut patet ex istrumento diete
« tutele raanu Bartholomei Guidonis sartoris scripto ob reverentiam Domini
« nostri Jesus Christi tutorio nomine prò dicto pupillo, fecit finem, remissionem
« et pacem inviolabilem horis (sic) osculo, interveniente domino Venetico, filio
« domini Alberti Cayanimici recipienti nomine et vice Cajanimici, filii domini
PERSONAGGI DANTESCHI IN BOLOGNA 29
Certo non mosse Venetico a tale atto soltanto desiderio di
pace, ma piuttosto la necessità di liberare il fratello dall'esilio
in cui lo aveva cacciato il comune di Bologna.
Già in quell'anno era sposo ad una gentildonna di famiglia
guelfa, Aichina, figlia di Guidottino de' Prendiparte, che gli mori
poco prima del decembre. Il documento ci dice anche che i Prendi-
parte ebbero dissapori con i Caccianimici per riavere la dote
di lei, e Alberto, a fine di sostenere le sue ragioni e quelle del
figlio in una causa giudiziaria con i Prendiparte, si elesse due
procuratori, perché probabilmente egli e Venetico in quel tempo
non erano in Bologna (1).
« Alberti et fratris ipsius domini Venetici et prò eodem, de insulta, vulnera,
« seu vulneribus facto seu factis prò dicto Ca^animico in persona quondam
« dicti domini Guidonis Palthene et morte ex dicto vulnere seu vulneribus
« insecuta, de quibus et qua positus fuit dictus Ca^animicus in banno seu
« bannis comunis Bononie prò malefìcio et homicidio, volens et confessans
« quod predictus Ca^animicus exiraatur et cancelletur de dicto banno vel
« bannis secundum penam. Ex istrumento Vinciguerre Rovixij not. facto die xi
« exeunte martio in domo Gruamontis filii et heredis dicti domini Guidonis
« Palthene, presentibus domino fratre Bartholomeo de Baxacomatre, fratre
«Amadore de Go9adinis, domino Rodulfo quondam domini Graidani, domino
« Baxacomatre de Baxacomatribus, domino Petro quondam domini Henrici
« domini Frulani, domino Henrigucio de Galluciis, domino Albico de Ubertis,
« domino Guidottino quondam domini Comitis de Prendipartibus, domino
« UgoHno, domino Tebaldino, domino Thomaxio, fratribus de Tebaldis, do-
« mino Petro quondam domini Rambertini Scappe et Alberto Rovisii testibus.
« — Die Veneris x exeunte Martio » (Memoriale del 1269, voi. 10°, ^^ not.,
e. 60 0-
(1) « Bominus Albertus de Ca9animicis fecit, constituit et ordinavit do-
« minos Pasqualinum Tomaxini Risoli et Albertum Rovixii not. presentes
« suos procuratores et nuntios speciales specialiter in causa quam habet vel
« habiturus est cum domino Guidoctino de Prendipartibus ocaxione dotium
« vel hereditatis seu bonorum quondam domine Aichine, filie dicti domini
« Guidoctini et uxoris domini Venetici et generaliter cum quacunque alia per-
« sona et [ad] omnia eius negotia tratanda e1^ gerenda et dixit omnia vera esse
« que in strumento procuratorio continentur. Ex istrumento Nicolai domini
« Boniohannis de Lastignano not. eri facto in domo dicti domini Alberti ...
« — Die Martij viu exeunte decembri » {Memoriale del 1269, voi. 9°,
1° not., e. 10).
30 G. ZACCAGNINI
Pare che la vertenza fra le due nobili famiglie cessasse sol-
tanto verso il principio del 1270, quando Venetico rinunziò a
tutti i diritti sopra un bosco nel vescovato di Reggio che godeva
« prò indiviso » con Jacopino e Guidottino de' Prendiparte (1).
È in Bologna probabilmente per tutto il resto dell'anno (2), e
cosi per tutto l'anno seguente (3), ed è presente ad un atto col
quale una sua nipote, Pellegrina, figlia di Caccianimico, andava
sposa ad Azzuccio, figlio dell'arciprete di Fanano, Rogerio (4).
Vi rimane anche nel 1272 (5), quando con altre ventuna delle
più grandi famiglie bolognesi, Ghisilieri, Beccadelli, Prendiparte,
Galluzzi ed altre, partecipa ad un prestito di 616 bolognini con
gli Zovenzoni (6).
Nel primo semestre del 1273 è podestà a Modena, come si
vede da un atto dell'I! agosto 1272, con cui promette a Giaco-
mino di Arardino 50 lire di bolognini « hinc ad menses quatuor »,
perché doveva seguirlo come assessore in quella podesteria «hinc
« ad sex menses » (7).
È nuovamente in Bologna nel 1274 (8), e nel marzo di quest'anno
(1) Memoriale d' Jacopo d'Ugolino da Medicina, e. 5.
(2) Memoriale del 1270, voi. 12°, 2» not., e. 85 t.
(3) Memoriale del 1271, voi. 15«, 1° not., e. 73 t.
(4) Memoriale di Amadore di Guglielmo d'Albertino, e. 4 t. Questo do-
cumento fu pubblicato da E. Grilli e Fr. Giorgi, Contratto nuziale di Pel-
legrina di Caccianemico Caccianemici, Bologna, Reale tip., 1904, per nozze
Bagnoli-Musi.
(5) Memoriale d'Ubei'tino di Domenico di Cento, e. 94 e Memoriale di
Giuliano d' Asolino di Vitale, e. 84.
(6) Memoriale di Gruido di Spagnolo, e. 194.
(7) « Dominus Veneticus domini Alberti de Cha9animicis promisit solvere
« domino Jacobino Arardini quinquaginta lib. bon. hinc ad menses quatuor
« prò assessoria quam ei prestare debet in campo civitatis Mutine hinc ad
« sex menses. Ex istrumento Gregorij Andree not. hodie facto sub porticu
« domus fiUorum et heredum quondam domini Guillielmi Fran9onis, presen-
« tibus Mino Fralano de Sala et Corbolano quondam domini Guidetti. Die
« Jovis undecimo intrante augusto » {Memoriale di Giacomo d'Ugolino di
Guizzardino, e. 151).
(8) Memoriale di Giacomo di Salvi, v. per tutto il marzo e a e. 178: cosi
pure nel Memoriale d'Azzolino di Cambio de' Vetri, e. 9 t.\
PERSONAGGI DANTESCHI IN BOLOGNA 31
vende alcune case a Giovanni di Lambertino de' Zovenzoni. Da
questo atto di vendita veniamo a conoscere che già aveva con-
tratto nuove nozze con una Maddalena, che sappiamo essere
stata dei Rangoni (1).
Presso a poco in questo tempo capitanò a Bologna la parte
guelfa dei Geremei contro i Ghibellini guidati dai Lambertazzi
e nelle fìerissime mischie del maggio e giugno 1274 cacciò a
forza la parte avversa fuori della città.
L'anno seguente fu podestà a Milano nel secondo semestre,
donde ritornava a Bologna fra il 13 e il 21 gennaio del 1276 (2).
Poco dopo, nel febbraio, è novamente assente dalla patria (3).
(1) « Dominus Albertus quondam domini Cha^a-
« nimici Alberti Tirsi
« Dominus Veneticus
« Dominus Ca^animicus
eius filli emancipati ab eo
et cum eius consensu
vendiderunt et tradide-
runt domino lohanni
domìni Lambertini de
^ovenyonibus ementi
prò se et vice et nomine
« ^oven9onis et Boniohannis eius fratrum domum unam positam in Petraficta
« in capella Sancti Petri iuxta dominum Symonem domini Alberti de Sancto
« Petro ab uno latere et iuxta dominum Albertum domini Jacobini domini
« Gerardi Ca9animici ab alio et vias publicas ab aliis duobus lateribus. Item
« unam aliam domum positam ante plateam comunis Bononie in capella
« Sancte Tede de Gue9is iuxta dominum Albertum domini Hodofredi ab uno
« latere et iuxta dominum Thomaxinum et Pacem de Tebaldis et iuxta pla-
« team comunis et viam publicam prò pretio in summa duorum millium du-
« centarum sexaginta librarum bon. Item promiserunt in soUdo dicti vendi-
« tores se facturos et curaturos quod domina Pellegrina, uxor dicti domini
« Alberti, et domina Madalena, uxor dicti domini Venetici, et domina Aligarda,
« uxor dicti domini Ca9animici, cum consensu domini Jacobini Rubey de
« Parma eius patris consentient et renuntient diete vendictioni. — Die
« octavo exeunte martio » {Memoriale di Simone d^ Ugolino della Corvaria,
e. 159). Cfr. C. Ricci, Daìite allo Studio di Bologna, in Nuova Ant, N. S.,
XXXn, p. 302.
(2) « Dominus Veneticus, filius domini Alberti Cha9animici, assertus a suo
« patre emancipatus, fuit confessus habuisse a domino Faldino, filio domini
« Bene de Florentia solvente et dante prò se et vice et nomine dicti Benvenuti
« de Florentia et alliorum sotiorum, tria millia»6excentarum viginti quinque
« lib. bon. prò pretio et cambio septingentarum quinquaginta lib. imperialium
« Mediolani, quas dictus receperat ab ipso domino Venetico in civitate Medio-
« lani. Die xxi intrante Januario » {Memor. di Francesco d'Adigherio, e. 8).
(8) Memoriale d'Jacopino di Cumino, e. 38 1.
32 G. ZACCAGNINI
Frattanto Alberto, suo padre, già vecchio, dopo vari testamenti
fatti anche prima di quell'anno, muore, disponendo dei suoi beni
con un atto dell'ottobre 1277 e lasciandone una metà a Venetico
e l'altra metà ad Alberto, a Pellegrina, Tommasina, Giovanna e
Bitina, tutti figli dell'estinto Caccianimico (1).
Nel giugno del seguente anno Venetico dispone che Graliana,
vedova dell'estinto padre suo, possa abitare a suo piacere nel
palazzo principale del marito o in altre case (2). Pellegrina
dunque, la madre di Venetico, doveva esser morta poco dopo
il 1274, poiché nel '77 Alberto ha un'altra moglie, Galiana.
Nel 1279 Venetico è di nuovo in mezzo alle lotte politiche e
alle passioni di parte. Quando il cardinal Latino si accinse, per
volere di Niccolò III, a por fine alle diuturne contese fra Guelfi
e Ghibellini, prima di recarsi a Firenze, ove la sua opera di
pacificazione miseramente falli, com'è noto, aveva tentata la
stessa buona ma inefficace opera nelle città di Modena e di Bo-
logna. Già nel 1279, Venetico, insieme con cinquanta suoi con-
(1) « Dominus Albertus quondam domini Chayanimici, sanus mente et cor-
« pore, suum fecit testamentum in quo constituit sibi heredem, instituit in
« dimidiam bonorum suorum dominum Veneticum eius filium et in alliam
« dimidiam Albertum nepotem suum, filium quondam domini Cha9animici sui
« fìlij, et Pellegrinam, Thomaxinam, Johanam, Bitinam, nepotes suas, fQias
« quondam domini Ca9animici sui filij, ita tamen quod quelibet earum habeat
« de dieta ereditate tantum sescentas lib. bon. et dictis voluit esse contenctas
« et tacitas. Ex istrumento scripto manu Alberti Eovixij not. hodie facto in
« cortile doraus ipsius domini Alberti ... — Die quarto exeunte octubri »
{Memoriale di Opizzo de' Panzoni, e. 139).
(2) « Dominus Veneticus domini Alberti Chayanimici dixit velie et sibi
« piacere quod domina Galiana, uxor quondam domini Alberti de Chafani-
« micis, possit habitare in domo magna, que fuit dicti domini Alberti, quam
« olim habitabat dominus Chafanimicus, positam in Petraficta et iuxta vias
« publicas a duobus lateribus, vel alibi, ut placuerit eidem domine Galiane,
« non preiudicando in aliquo suo iure quod habet in usufructu aliquarura
« possessionum et rerum sibi relictarum a dicto domino Alberto, quondam
« eius viro, in eius testamento scripto manu Alberti Rovixij not. et ex istru-
« mento predicto scripto manu Vinciguerre Rovixij not. facto hodie insuper
« domo magna olim dicti domini Alberti. — Die quinto intrante Junio »
{Memoriale d'Jacopino di Pa^e, e. 160 t).
PERSONAGGI DANTESCHI IN BOLOGNA 33
cittadini, aveva giurato la pace fra le due fazioni innanzi al le-
gato (1). Ma sembra die poco dopo parecchi grandi cittadini di
Bologna e di Modena di parte guelfa insultassero un messo che
il cardinal Latino aveva loro mandato per indurli a porre giù
gli odi e gli sdegni.
Il comune di Modena nel settembre del 1279 libera quei fa-
cinorosi cittadini delle due città romagnole dagli obblighi che
avevano giurato di osservare. Questo documento, singolarmente
importante, ci lumeggia assai al vivo la figura battagliera e
riottosa del fiero uomo di parte.
Dominus Andreas de DonoUna, sindicus comunis Mutine, ut constat plu-
bico instrumento sindicatus scripto manu Gillioli de Kubeis not. nomine et
vice comunis et hominum civitatis predicte, promisit dominis Venetico de Ca-
9animicis, Alberto de Asinellis, Guillielmo quondam domini Ugolini de Lan-
bertinis, Comatio quondam domini Gerardi de Galluciis, Gerardo domini Ja-
cobini domine Dotte, Alberto quondam domini Tranchedini de Sabatinis,
Fulco quondam domini Rodulfì Pacis, omnibus de Bononia, et dominis Al-
berto quondam domini ^unte Bo9alis, Nicholao legum doctore quondam do-
mini lohannis Boni de Matarellis, Gerardo domini Guillielmi Rangonis et
Bernardino quondam domini Gerardi de Garzonis, omnibus de Mutina, eos
et quemlibet eorum conservare indepnes ab obligatione, fideiussione et pro-
missione quam fecerant eidem sindico, precibus et mandato, nomine et vice
dicti comunis Mutine, Venerabili Pàtri domino firatri Latino Apostolico Sedis
legato, occaxione iniuriarium factarum cuidam nuncio dicti domini legati et
comunis et hominum diete civitatis Mutine. Ex istrumento scripto manu do-
minorum Martini Pergenarij not. de Mutina et Petri domini Boniohannis
not. civitatis Bononie et Bellamoris not. dicti domini cardinaUs legati hodie
facto in domo dominorum de FHsco, presentibus dominis Guillielmo Durantis,
fratre Petro Gueriani de Campagnola, fratre lohanne de Guarianis de Marola,
fratre Lamberto de Marola regiensis diocesis, Saraceno quondam lohannis de
(1) Vedi lo spoglio del Montefani conservato nella BibUoteca Universitaria di
Bologna, e cfr. C. Ricci, art. citato nella Nuova Antól., p. 302, che di quello
si valse. Nello spoglio del Montefani questa pacificazione è detto che avvenne
nel 1278: il Cantinelli, Chronicon cit., p. 31, dice che avvenne ad Lnola
nel 1279.
Giornale storico, LXIV, fase. 190-191. S
34 . G. ZACOAQNINI
Beate, fratre Tebaldo de Colupna ordinis minorum et magistro Tigone cle-
rico de Ags, rectore ecclesie S. Andree de Alboni albinensis diocesis. — Die
Veneris xxii mensis septembris (1).
Un anno dopo fu citato a comparire da Bertoldo Orsini conte
di Romagna per il papa (2).
Negli anni che seguirono pare che meno agitata sia scorsa la
vita di Venetico, anche perché la sua città, se non potè godere
una sicura pace, negli ultimi decenni del secolo parve riposare
alquanto dopo le fiere lotte intestine che tanto l'avevano sconvolta.
Nel 1283 è a Pistoia a tenervi la podesteria (3), sembra con
sodisfazione sua e dei Pistoiesi, se per lungo tempo mostrò di
conservare buone relazioni con loro, concedendo, nonostanti le
rappresaglie che Bologna aveva stabilite contro di essi, che ne
fossero esenti alcuni di loro nella città e in tutto il distretto di
Bologna (4).
Nel 1286 tiene per la seconda volta la podesteria di Milano (5).
Il 13 agosto dell' '87 arringa nel Consiglio del Comune in un
momento assai tempestoso della vita cittadina, e il giorno dopo
è mandato a confine. Aveva osato parlare in favore degli sban-
diti Lambertazzi (6).
Una seconda volta fu sbandito dalla patria il 14 agosto 1289
e forse per la stessa ragione.
Grande doveva essere in Bologna l'autorità dell'ormai vecchio
gentiluomo, e la sua casa potè avere lo splendore e le ricchezze
(1) Memoriale di Boniacopo d'Ugolino di Guizzardino, e. 22.
(2) C. Ricci, art. cit., ivi. Per qualche altra notizia di minore importanza,
che qui per brevità tralascio anche perché non giova al mio asserto, v. Goz-
ZADiNi, Delle torri gentilizie di Bologna, passim.
(3) L. Zdekauer, Statutum potestatis Comunis Pistorii, Milano, Hoepli,
1888, p. LI.
(4) Memoriale del 129à di Bonifacio di Savignano, e 77 < ; vedi anche
gli atti del 18 die. 1295 e. 86*: anche negli anni precedenti fino dal 1285
aveva fatto identiche concessioni.
(5) Mazzoni-Toselli, Op. cit., p. 122.
(6) Ivi.
PERSONAGGI DANTESCHI IN BOLOGNA 35
d'una casa di principi. I sogni di grandezza di Venetico si rea-
lizzarono nel 1294, quando nel novembre si stipularono le nozze
fra Lambertino, suo figlio, e Costanza, figlia di Azzo Vili, mar-
chese di Ferrara (1).
Perché il potente marchese s'imparentò con i Gaccianimici ?
Non è improbabile che il marchese, desideroso d'estendere il
suo dominio a danno della vicina città, pensasse essergli assai
utile stringere parentela con qualche grande famiglia di nobili
bolognesi, per avere in essa un valido aiuto all'effettuazione dei
suoi ambiziosi disegni. L'esame dei documenti c'induce a credere
che tale fosse veramente il proposito d'Azzo Vili.
Nel 1303, quando Venetico era già morto, i figli suoi, Gaccia-
nimico, « cui dicitur Migolus », Lambertino e Giacomo « cui di-
« citur QuQus », fanno domanda al Consiglio di Bologna, perché
alcune compre di terreno fatte dal padre loro, allorché contrasse
parentela col marchese, quantunque stipulate sotto altro nome,
fossero riconosciute come fatte a nome di Venetico. Il documento
accenna a particolari grazie che il marchese fece a Venetico, e
il principe insiste talmente sullo speciale favore che veniva con
quelle nozze a fare al signorotto bolognese, che mi pare di sen-
tire in quelle parole la compiacente degnazione del marchese
che volle mostrare all'amico e familiare suo quale grande favore
gli facesse. Volle, in compenso, che il futuro parente gli garan-
tisse dei possessi veramente principeschi per oltre duemila lire
di bolognini, corrispondenti alla dote di ugual somma che nel 1294
aveva assegnata a Costanza.
Ma meglio che le mie parole, credo che valga a convincere 1
lettori lasciar parlare il documento medesimo:
(1) « Vir nobilis dominus Bernabò comes de Liivania, procurator ... illustris-
« simi et magnifici viri domini Azonis Marchionis estensis ... dedit et tradidit
« domino Venetico ... duo millia lib. bon. ... in dotem et nomine dotis future
« domine Constancie filie dicti domini Marchionis ob matrimonium contra-
« hendum inter predictam dominam Constanciam et Lambertinum, filium dicti
« domini Venetici ... » {Memoriale di Niccolò di Michele d'Aimerio, e. 42 i)^
36 G. ZACCAGNINl
Placet Consilio et Masse Populi Bononiensis providere de infrascripta
petitione, cuius tenor talis est. Vobis domino Capitaneo, Antianis et Consu-
libus populi Bononie suplicant Ca9animicus, cui dicitur Migolus, Lambertinus
et Jacobus cui dicitur f u^us, fratres et filli quondam domini Venetici de Ca-
5animicis, quod cum eo tempore quo dictus dominus Veneticus contraxit pa-
rentellam cum Marchione Extensi, dictus dominus Marchio fecerit ei multas
gratias, de quibus gratiis dictus Marchio voluit quod dictus dominus Vene-
ticus deberet sibi emere possessiones in comitatu Bononie et cum ipse do-
minus Veneticus adinvenisset possessiones emendas in curiis Manjolini, Plu-
matij et Castri Franchi, et deberent fieri instrumenta emptionum in dictum
dominum Veneticum, dictus dominus Marchio voluit quod pecunia dictarum
gratiarum que deposita erat penes quendam campsorem ferariensem [non] da-
rentur dicto domino Venetico, nisi instrumenta emptionum predictarum sti-
pularentur et conciperentur et fierent in personam Brunini quondam domini
Bianchi Cose {Segue l'elenco dei possessi): « Que quidem possessiones po-
eite et extimate fuerunt in extimo supradictorum Brunini et fratrum et ex-
timate in suma duomilia tredecim lib. bon. (1).
Pochi anni dopo la stipulazione del contratto di nozze, nel 1305,
nel castello di Surizzano, che era nelle vicinanze di G^alliera (2),
si celebrarono, com'è noto, con gran pompa le nozze fra Lam-
bertino e Costanza e insieme anche quelle di Bartola, figlia del
celebre giurista Francesco d'Accursio, con Fresco, fratello di
Costanza. Dolci vincoli d'affetto stringevano cosi i Gaccianimici
alla potente famiglia estense. Ma allora Venetico non era più
tra i vivi.
D'altra parte sappiamo che, negli ultimi anni del secolo XIII,
l'Estense mosse in guerra contro Bologna, invadendone il ter-
ritorio.
(1) R. Archivio di Stato di Bologna, Archivio Demaniale, Convento di S. Do-
menico, busta 11, pergamena n° 630 del 22 febbraio 1303.
(2) H Ricci in un art. pubblicato nel n. 167 del Resto del Carlino, del 1912,
affermò erroneamente che le nozze principesche furono celebrate nel castello
di S. Martino in Soverzano. E. Orioli in un altro art. pubblicato nello stesso
giornale nel num. del 19 giugno 1912 provò che quelle nozze si celebrarono
nel castello di Surizzano in Galliera, ove i Cacoianimici avevano amplissimi
possessi.
PERSONAGGI DANTESCHI IN BOLOGNA S7
Recapitolando, è certo che Azzo Vili, dopo la sua ascensione
al trono nel 1293, fa ripetute grazie al suo familiare e cortigiano
Venetico, stringe a sé con vincoli di parentela la famiglia di
lui cosi influente nella ricca città di Bologna, e poco dopo assale
l'ambita città col pretesto dei confini (1). Ora che cosa può si-
gnificare tutto ciò, se non che l'astuto marchese, conosciuta la
cupidigia di grandezza di Venetico, lo voile per sempre legato
a sé con singolari favori? Cosi poteva averlo docile strumento
per effettuare il suo ambizioso sogno d'aggiungere ai suoi domini
la bella e ricca città.
Si prestò il vecchio gentiluomo alle voglie del marchese, come
a quelle del padre di lui s'era piegata la sua sorella? Alla fe-
deltà alla patria preferi i favori e gli agi della corte estense?
I documenti ci fanno credere veramente che Venetico non
serbasse fede alla patria. Sappiamo che nel 1296, quando più
ferveva la guerra fra gli Estensi e i Bolognesi, Venetico era in
Bologna (2), e un suo parente, un Alberto di Caccianimico,
fu condannato al bando e alla pena di morte come ribelle del
Comune per esser passato con le armi nel campo del marchese
di Ferrara (3). In quell'anno, Pietro e il figlio suo Lorenzo
de' Caccianimici piccoli si rivolgono al podestà perché « do-
« minum Veneticum, filium quondam domini Alberti Caganimici
« capelle Sancti Ypoliti siue Sancii Bartoli in pallaggo qui est
« de millitibus, magnatibus, nobilibus et potentibus civitatis Bo-
(1) RiccoBALDo Ferrarese, Compilatio Chronologica, IX, 144.
(2) Anche in questo anno concede ad Jacopo di Pannocchia e ad altri mer-
canti pistoiesi Ubero passaggio e Ubera dimora per la città e il contado di
Bologna {Memoriale di Gherardo di Ferrarlo, e. 2 t).
(3) R. Archivio di Stato di Bologna, Processo contro Alberto di Cacciani-
mico de' Caccianimici negU Atti del podestà Giacomo di Sommariva del 1296,
n° 1655: « ...die Sabati quinto presentis men^s raaij iniuriose, dolose, frau-
« dolenter et in modum proditionis et rebellionis comunis Bononie discessit
« de civitate Bononie et accessit ad Marchionem Estensem inimicum capi-
« talem comunis et populi Bononie contra formam statutorum ». Segue il
bando emanato due giorni dopo.
38 G. ZACCAGNINI
« nonie, quem dicunt prò ipsius potentiam et magnitudinem eos
« et quemlibet eorum molestare, inquetare et turbare in posses-
« sionem trium suarum domorum » (1).
Pochi anni dopo, il 12 febbraio del 1301, troviamo Venetico in
esilio a Perugia ; si presenta con altri grandi bolognesi al podestà
Carlo de' Manenti per assicurarlo della sua presenza nel luogo ove
era stato confinato (2). È assai probabile che i maneggi in favore
dell'Estense fossero stati la causa delle sue contese con l'altro
ramo de' Gaccianimici di avversa fede politica e quindi di questo
suo terzo ed ultimo sbandimento dalla patria. Pare che fosse
già ritornato dall'esilio il primo decembre del 1302, perché nella
determinazione di certi confini « in curia Gallerie » è detto
« iuxta dominum Veneticum de Gaganimicis » (3).
Quando mori il vecchio uomo di parte? I commentatori mo-
derni concordemente lo credono morto nell' ultimo decennio
del secolo XIII, certo prima della visione dantesca, cioè prima
del 1300 (4). I documenti riferiti, e specialmente l'ultimo, ci di-
mostrano che questa opinione non si appone al vero. La presenza
di lui esule in Perugia, nel febbraio del 1301, e l'altro docu-
mento che ci fa credere che fosse ritornato in Bologna il primo
decembre del 1302, ci costringono a protrarre oltre questo limite
la sua vita. D'altra parte, il documento del 22 febbraio 1303 in
cui, come abbiamo veduto, il Consiglio di Bologna concede ai
figli di Venetico di voltare in nome di lui i beni comprati sotto
altro nome in occasione delle nozze di suo figlio con Costanza
d'Este, atto che certamente i figli di Venetico fecero per po-
(1) Ivi, Carte di corredo dei processi del podestà Matteo da Correggio,
Non v'è altra data che questa a tergo: « die Martis penultima februarii »,
ma certe segnature a tergo permettono di ritener questa pergamena del 1296.
(2) Arch. di Stato di Bologna, Arch. del Podestà, Confinati ad annum.
(3) Ivi, Memoriale di Comazio di Michèle da Canetulo, e. 56 t.
(4) Anche C. Ricci, Op. cit., p. 302, credette che fosse morto prima del 1300
e aggiunse: « Lo prova Dante fingendo d'averlo veduto all'Inferno in quel-
« l'anno ... siamo quindi molto più propensi a credere ch'ei morisse intorno
« al 1290 piuttosto che al 1300 ».
PERSONAGGI DANTESCHI IN BOLOGNA 39
tersi dividere i beni del defunto padre loro, stabilisce l'altro
termine ad quem.
Oltre il figlio minorenne Caccianimico, Lambertino e Giacomo,
di cui parla il documento del 1303, lasciava un altro figlio, Az-
zone, ricordato in un documento dell'S aprile 1304, probabilmente
natogli dalla terza moglie, Lucia di Belvillano Paci, della quale
è memoria nel medesimo documento (1).
Fu, come si vede, apprezzato in corte, come nei consigli delle
parti e probabilmente in quelli del Comune, chiamato al governo
d'importanti città per il senno che doveva averlo reso noto anche
oltre la cerchia delle mura della sua patria.
Capo riconosciuto, dopo la morte d'Alberto, di tutta la sua
casata, ne impersona le sorti, la guida nei fieri tumulti di parte
fra il cozzo delle armi, e, più tardi, le dà splendori principeschi
imparentandola con la famiglia estense.
Ma nell'anima del partigiano s'annidava la cupidigia del de-
naro e la brama del fasto e della grandezza : i documenti, seb-
bene in forma sbiadita e indeterminata, lasciano scorgere questa
sua insaziabile brama. Tutto ciò è già abbastanza per spiegarci
l'ignobile acquiescenza ai voleri del marchese, che lo spinse, per
farsi grande nella corte amica, a indurre la sorella a far le voglie
di quello.
Inoltre, e abbiamo riservato alla fine questo argomento che
ci pare assai forte a sostegno della nostra opinione, il nostro
giudizio concorda con le parole di Benvenuto da Imola, che, per
i fatti accaduti in Bologna, ci pare assai bene informato : « Vir
« quidem nobilis, liberalis et placibilis, qui tempore suo fuit
« valde potens in Bononia favore marchionis Estensis, qui fuit
« Azo III, qui gessit magnum bellum cum Bononia et tandem
«procuravit sibi tacere "ìnagnam pariem in Bononia, quae
« vocata est oh hoc pars Ma^^chiana. Iste ergo miles, nomine
« Veneticus, habuit unam sororem piftcerrimam, quam conduxit
(1) Memoriale del 1304 di Giacomo di Bongerardo, e. 37 t.
40 G. ZACCAGNINI
« ad serviendum marchioni Azoni de sua pulcra persona ut for-
« tius promeretur gratiam eius ».
Un'ultima questione ci piace di trattare, sia pure fugacemente,
questione di singolare importanza, perché riguarda direttamente
la vita di Dante.
Senza dubbio Venetico fu conosciuto personalmente da Dante.
e perciò appunto là tra i frustati per turpe colpa in Malebolge
il Poeta lo riconosce subito :
Mentr'io andava, gli occhi miei in uno
furo scontrati; ed io si tosto dissi:
« Già di veder costui non son digiuno ».
Perciò a figurarlo i piedi affissi;
e il dolce duca meco si ristette,
ed assenti ch'alquanto indietro gissi.
E quel frustato celar si credette,
bassando il viso; ma poco gli valse,
ch'io dissi: « 0 tu, che l'occhio a terra gette,
se le fazion, che porti, non son false,
Venetico se' tu Caccianimico
Dove e quando Dante lo conobbe ?
Dicono alcuni che lo potè conoscere a Pistoia, ove fu podestà
per pochi mesi nel 1283. Non so perché Dante, a soli diciassette
anni, si sarebbe recato a Pistoia, e, se anche ci fosse andato,
non so perché avrebbe potuto dimorarci cosi a lungo da cono-
scere tanto bene Venetico che, appena scorte nell'Inferno le sue
fattezze, lo ravvisa.
Lo Zingarelli giustamente osserva che i versi in cui Dante
parla di lui sono sutficienti « per veder subito che non ci entra
« la fuggevole, problematica conoscenza che può aver fatta di
« lui Dante in occasione della breve podesteria in Pistoia » (1).
Dunque, se non lo ha conosciuto a Pistoia, dicono altri, lo
avrà potuto conoscere a Bologna prima del i287, e credono di
(1) Dante, p. 111.
PERSONAGGI DANTESCHI IN BOLOGNA 41
confermare questa loro ipotesi attribuendo a Dante la paternità
del sonetto famoso sulla Garisenda : Non mi potranno già mai
fare ammenda^ che si trova in un memoriale del 1287 del no-
taro bolognese Enrichetto delle Querce (1).
Ma intanto siamo proprio sicuri che il sonetto sia di Dante?
È vero che quattro buoni codici lo danno a lui; ma nel Me-
moriale è adespoto, e adespoto è pure in un codice capitolare
di Verona. Del resto, anche ammesso che il sonetto sia di Dante
e che Dante quindi sia stato una prima volta in Bologna prima
del 1287, questo non toglie che vi sia stato un'altra volta anche
dopo quest'anno e abbia allora conosciuto Venetico.
Per i documenti che noi abbiamo messi in luce e che provano
come Venetico sia morto certamente fra il 1302 e il 1303 e pro-
babilmente sui primi del 1303, viene a cadere uno dei più validi
argomenti che si avevano per sostenere che Dante fosse venuto
a Bologna prima del 1290. Certamente non può più dirsi con lo
Zingarelli che, incontrandosi Venetico di frequente nei pubblici
documenti dal 1267 al 1289, ma non oltre, è verosimile che fosse
morto poco dopo, e che Dante perciò non potesse averlo cono-
sciuto se non nella giovinezza (2).
È verosimile invece che Dante lo abbia conosciuto in Bo-
logna, quando Venetico era già vecchio e non più occupato in
uffici pubblici lungi dalla patria, perciò negli ultimi anni del
secolo XIII (3).
Questa nostra ipotesi si fonda in sostanza sopra l'esame di
(1) Questa opinione è sostenuta specialmente da C. Ricci, Op. cit., p. 297 e sgg.
(2) Op. cit, ivi.
(3) Nessun documento ci assicura della presenza di Dante in Bologna, se
pure il grande fiorentino non è da riconoscersi in un « domino Dante de Flo-
rentia », che è presente in quella città ad un atto del 27 ottobre 1291 (R. Ar-
chivio di Stato di Bologna, Memoriale di Bonfantino di Fetrizzolo de' Mal-
pigli, e. 79 t). L' ipotesi sarebbe davvero seducente, ma disgraziatamente c'è
anche forte ragione di dubitarne, perché proprio in quel tempo è scolare a
Bologna un Dante di Scoiaio degli Abati di Firenze, come mi assicura il
cav. Giovanni Livi che dei ricordi danteschi in Bologna amorosamente si sta
occupando.
42 G. ZACCAGNINI
documenti sicuri, mentre l'altra che assegna quella conoscenza
al 1287 0 poco prima, non può trovar fondamento che sopra la
paternità attribuita a Dante del sonetto sulla Garisenda, pater-
nità che non mi pare ancora suffragata da argomenti inconfu-
tabili.
Intorno alla G-hisolabella maggiore è l'incertezza e la scarsità
dei fatti.
Grli antichi commentatori, al solito, poco ci dicono, e fanno
grandi confusioni. Si abbandonano ai voli della fantasia anche
intorno al nome. L'Anonimo Fiorentino, per esempio, dice che
fu chiamata cosi « antonomastice, per eccellenzia ; però che avan-
« zava in bellezza tutte le donne bolognesi a quello tempo, fu
« chiamata la Glhisola bella ». No : nei documenti che pubbliche-
remo, vedremo che è sempre detta « Grhixolabella » o « Ghisla-
« bella », e questo nome, assai frequente nella onomastica bolo-
gnese allora e poi, è sempre scritto cosi. Del resto si pensi che
in sostanza Ghisolabella è lo stesso che Isabella.
Ed errano pure intorno al nome del marito che per alcuni fu
un Niccolò di Chiarello bolognese, e per altri Niccolò da Fon-
tana ferrarese. E non sanno nemmeno se il fratello lo inducesse
a far le voglie del marchese Obizzo che visse fino al 1293 o di
Azzo Vili che successe in quell'anno al padre.
Per risolvere queste varie questioni e portare un po' di luce
dove ora s'addensano le tenebre, esponiamo qui le notizie sicure
che intorno all'antica gentildonna bolognese ci conservano i do-
cumenti d'archivio.
Della Ghisolabella non si è finora trovato ricordo alcuno an-
teriore al 1281, nel quale anno apparisce che già dimorava in
Bologna (1), mentre non rari sono, come vedremo, gli atti poste-
riori a quest'anno che la riguardano.
Il 7 giugno 1283 fa quietanza per 60 lire di bolognini a Liario
(1) Vedi il testamento che in questo anno fece in Bologna in Del Lungo,
Op. cit., p. 270.
PERSONAGGI DANTESCHI IN BOLOGNA 43
Arpinelli (1). Il 5 maggio 1289 fa pace con un'Imelda, sua serva,
« de omni iniuria, offensa et dampno quod eidem fecisset ». La
poveretta era stata bandita per volere dell'orgogliosa signora,
che era stata punta forse da qualche parola ingiuriosa ricordante
la vergognosa relazione col marchese d'Este. Il documento na-
turalmente non può contenere minuti paiiicolari, ma « la sconcia
« novella », che doveva essere assai nota in Bologna, chi sa
forse che non abbia offerta buona materia alla linguacciuta serva,
offesa dagli altezzosi modi della superba signora. Ecco qui il
curioso documento :
Domina Ghixila, fiha quondam domini Alberti Chazanimici, fecit fìnem,
remixionem et pacem Imelde, que dicitur Lucha que fait de Panico olim sue
servienti, de omni iniuria, offensa et dampno quod eidem fecisset, et dixit
quod sibi placet et vult quod dieta Imelda eximatur et canzelletur de banno
maleficii in quo fuit posita tempore secundi regiminis domini Bonacursii
De Donatis Potestatis Bononie. Ex istrumento Bene Predalbini net. facto beri
Bononie sub porticu domus heredum quondam Zanini fornarii, presentibus
Rainerio SighinelU, Petro fornario quondam Ubaldini et Adam Rugerii te-
stibus, et sic predicti contrahentes una cum dicto notario dixerunt et scribi
fecerunt. — Die quinto intrante madio (2).
Il 19 decembre 1290 fa un atto di quietanza per 40 lire di
bolognini (3). Il 26 luglio 1295 elegge un procuratore per ricu-
perare dal Comune di Ferrara la sua dote di oltre 600 lire di
bolognini, da lei data a Niccolò da Fontana, suo marito, « olim
« civis Ferrarle ». Questo documento che può, a mio avviso,
darci luce, insieme con gli altri, a comprendere quale sia stata
la vita della Grhisolabella, credo prezzo dell'opera riferire qui
per intero :
Domina Gixilabella, fiUa quondam nobilis viri domini Alberti de Ca^animicis
de civitate Bononie, fecit suum procuratorem dominum Jacobinum de Kanu-
. •
(1) Memoriale di Tommaso di Bartolomeo di Donna Chiara, e. 114 t.
(2) Memoriale di Domenico di Meserazzano, e. 77 t.
(3) Memoriale di Niccolò di Giovannino Manelli, e. 110 ^.
44 G. ZAOCAGNINI
cinis iudicem proprium ad petendam, exigendam et recuperandam a comuni,
sindico aut procuratore civitatis Ferarie et a quacunque allia persona seu uni-
versitate seu domino dotem suam, que fuerunt sexcentarum librarum bon. in
pecunia numerata, quam dotem dedit domino Nicholao de Fontana eius viro,
olim civi Ferarie, et accessiones ipsius dotis tam alimentorum, quam alie ac-
cessiones, ad solutionem recipiendam dictarum dotium, allimentorum et aliarum
accessionum omnium et expensarum factarum et faciendarum dictis de causis
et ad libellum dandum et recipiendum, litem contestandam et ad compro-
mittendum se de omnibus et singulis supradictis et ad soUutionem recipiendam
de dieta dote et ad vocandum se solutum de omnibus et singulis supra dictis
et quolibet et ad requirendum dominum Potestatem, Consilium et Comune
Ferarie et sindicum ipsius Comunis et quamlibet personam et desuper restitu-
tione diete dotis et supra solutione facienda ipsi domino Jacobino de omnibus et
singulis supra dictis recipienti nomine et vice ipsius domine et ad potestates
faciendas nomine ipsius domine et prò ipsa domina prò omnibus et de omnibus
et singulis supra scriptis domino Potestati, Comuni et sindico civitatis eiusdem
et cuilibet singulari persone, domino vel universitati prò omnibus et singulis
supra scriptis et occaxione eorum vice et nomine ipsius domine et prò ipsa
domina et generaliter ad omnia et singula facienda cum promixionibus et
obligationibus et cum relevacione et fideiussione. Ex istrumento Francisci
Eovixii not. odie facto sub porticu domus abitacionis diete domine (1).
Qui è espressamente detto che il marito era Niccolò da Fon-
tana, e r espressione « olim civis Ferarie » non vuol dire che
nel 1295 fosse morto, ma che allora non era più cittadino di
Ferrara, come sotto vedremo.
Credo di potere affermare, con la scorta di questi e altri do-
cumenti, che costui per vari anni visse lungi dalla moglie, e
forse, anche prima del 1281, non visse in compagnia di lei.
Infatti in tutti questi documenti essa è designata quasi sempre
cosi: « Ghixilabella filia quondam domini Alberti Chazanimici »,
senza che si accenni mai al nome del marito, e, d'altra parte,
già nel settembre del 1273, « dominus Albi^us et Thomaxinus,
« fratres filij quondam domini Jacobi de Duglolo, fecerunt eorum
(1) Memoriale di Guido da Manzolino, e. 4 <.
PERSONAGGI DANTESCHI IN BOLOGNA 45
« procuratorem Paulum Henrici de Cospis presentem in causa
« quam habent vel habere sperant cum comuni Ferarie vel eius
« sindico occasione bonorum, que dieta fuerunt domini Nicholai
« de Fontana » (1).
Un altro documento del 10 maggio 1283 ci accerta che costui
già dimorava a Bologna in quel tempo, se, come a me pai'e, è il
marito della Gliisolabella quel « Nicholaus fìl. quondam dom.
« Pegorarii de Fontana de civitate Ferrarle » che con altri ha
un debito con i Tettalasini di Bologna (2).
D'altra parte noi sappiamo che i Fontana, i quali avevano fa-
vorito Obizzo d'Este e lo avevano aiutato a prendere il dominio
di Ferrara, gli erano divenuti poi nemici ed erano stati da lui
cacciati prima in parte nel 1270, e poi tutti nel luglio del 1273(3).
Ora la coincidenza del tempo ci fa credere che le parole del
documento surriferito : « occasione bonorum que dieta fuerunt
« domini Nicholai de Fontana » si riferiscano appunto al bando
di lui cacciato in esilio con tutti i suoi nel luglio del 1273, e
quindi accennino a una confisca dei suoi beni fatta allora dal
Comune di Ferrara.
Francesco Torraca, nel suo commento alla Divina Commedia^
fa un'ipotesi che, a nostro avviso, ha più d'un elemento di pro-
babilità. Egli dice : « Non è improbabile che una delle ragioni
« dell'inimicizia {tra i Fontana e Obizzo) fosse l'oltraggio fatto
« dal marchese a Niccolò » (4). È quindi assai verosimile, a mio
(1) Memoriale dei 1283 di Zaccaria di Botando, e. 97*.
(2) Memoriale del 1273 di Cavazocco degli Albergati, e. 130.
(3) RiccoBALDO Ferrarese nella sua Compilatio chronologica usqiie ad
annum MCCCXIJ producta, IX, 139, dice che i Fontana furono espulsi
tutti quanti nel 1273. Cosi è detto anche nel Chronicon parvum ferrariense,
VITE, 488. Ma una parziale cacciata dei Fontana era stata fatta anche nel 1270,
quando furono espulsi il fratello e il figlio di Alighiero da Fontana {ivi, IX,
250-251). Cfr. anche Ann. veteres Mutinensi^hn, XI, 70.
(4) Anche uno degli antichi commentatori, l'anonimo Cassinese, dice che
Venetico sottomise la sorella alle voglie dell'Estense, quando essa era già moglie
di Niccolò Chiarelli: errò nel nome del marito; ma accennò, e ciò è impor-
tante per noi, che essa era allora maritata.
46 G. ZAOOAGNINI
credere, che lo sconcio fatto sia avvenuto intorno al luglio
del 1273, anche perché mi pare naturale che la causa intentata
da Albizzo e Tommasino da Bugliolo fosse fatta subito dopo
l'espulsione di tutti i Fontana e quindi anche di Niccolò, e non
alla distanza di tre anni, se si potesse credere che Niccolò fosse
stato bandito nel 1270.
Se, come a me pare, si ritenesse accettabile l'ipotesi del Tor-
raca, noi ragionevolmente potremmo pensare che Niccolò fosse
andato con i suoi consorti lungi dalla moglie, di cui doveva es-
sere ben nota la turpe avventura coll'Estense, ed essa fosse ri-
tornata nel palazzo avito in Bologna. Colà appunto la vediamo,
secondo i surriferiti documenti, dal 1281 fino al 1295, nel quale
anno sappiamo con tutta certezza che Niccolò era ancora tra
i vivi.
Nei Memoriali bolognesi abbiamo veduto parecchi documenti
dai quali resulta che Niccolò fu conestabile del comune di Bo-
logna fino ai primi anni del secolo XIV. Mori fra il marzo e il
luglio del 1303 (1).
So bene che questa mia opinione va contro quella sostenuta
dal Mazzoni-Toselli che credette di dimostrare come il vergo-
gnoso fatto deve essere avvenuto prima del 1270, nel quale anno
si erano già celebrate le nozze della Ghisolabella con Niccolò
da Fontana (2); ma mi sembra che i documenti suffraghino
piuttosto la mia opinione, dubitativamente già esposta dal Torraca.
Inoltre, se lo sconcio fatto avvenne nel luglio del 1273, il
marchese d'Este, che fece le sue voglie con la giovine e bella
signora, sarebbe stato, come credono i più, Obizzo, che Salim-
(1) Il 9 marzo 1303 fa un atto di vendita {Memoriale di Santi d'Alber-
tino Bafanelli, e. 28) ; il 4 luglio di quello stesso anno apparisce in un atto
« Andrea, filio et herede quondam domini Nicholai de Fontana » {Memo-
riale d'Iacopo Indovina, e. 2).
(2) Dizionario Gallo Italico, voi. II, p. 1253 e segg., fonda la sua asserzione
sopra certe Memorie manoscritte di Gaetano Monti da lui vedute, per le quali
la Ghisolabella sarebbe stata nel 1270 già moglie di Niccolò da Fontana.
Dell'opinione del Mazzoni-Toselli è anche il Del Lungo, Op. cit., p. 241.
PERSONAGGI DANTESCHI IN BOLOGNA 47
bene asserisce aver contaminato innumerevoli « donne di nobili
« e d'ignobili di Ferrara », piuttosto che Azzo Vili, divenuto
marchese di Ferrara soltanto nel 1293.
Quando la Ghisolabella mori ?
Era ancora in vita nel marzo del 1296, come dimostra un do-
cumento di quel tempo, per cui essa riprende da un Michele di
Petrizzolo barbiere una piccola somma di bolognini che aveva
lasciati in deposito nelle mani di costui (1).
Abitava allora non più nelle avite case, ma presso un Jacopino
di Arpinello. Forse già fin d'allora il Comune aveva confiscato
i beni a Venetico e lo aveva bandito ?
Altre notizie dell'ormai vecchia gentildonna non ci è stato pos-
sibile trovare, cosicché dobbiamo ritenere che verso il termine
del secolo XIII non fosse più tra i vivi.
È certo dunque, per i documenti da noi veduti, che essa per
molti anni visse separata dal marito, il quale verso il termine del
secolo XIII e nei primi del XIV dimorò con un figlio, Andrea,
in Bologna.
Guido Zaccagnini.
(1) Memoriale di Pietrohono di Martino del Grasso, e. 33 t.
Primi contatti fra Italia e Rumania
APPUNTI
sulla lingua e letteratura italiana in Rumania nel sec. XVIII.
PIETRO METASTASIO E I POETI VACARESTI ^'^
IH.
I melodrammi.
Passando ora ad occuparci dei melodrammi, sarà in primo
luogo da osservare come la traduzione greca delle « tragedie »
del signor abate Pietro Metastasio uscisse il 1779 a Venezia
con licenza de' superiori col seguente titolo:
TPAFQM'AI I Toi^ nimòp A'MHA'TE \ IIETPOT \
METASTASI' 01, \ MexacpqaGTelGai ex Tfjc, TxaXiKfjc, eie, \ tìjv
flliETÈQav àjiÀ^v I AidXemov. \\ aipod-'. E'NETFHSIN. 1779. \\
Ilaqà AfjfifjTQlcp Oeoòoaiov %(^ è^ Fùìavvivoìv. \ Con Licenza
de' Superiori.
Pure, un manoscritto della Biblioteca Academiei romàne., e
precisamente il ms. 807, ci mostra come, fin dal 1758, il Meta-
stasio fosse penetrato in Rumania. Si tratta di un ms. miscel-
laneo del secolo XVIII esemplato su carta, contenente 51 fogli.
Misura cm. 25 X 20 ; al f. 10 si legge :
*0 àvayvcoQiofiòg Tfjg Se/iigd/nidog. AQdfia xov UiéTQov
Mexaaxaalov xov 'Pojfidvov, [lExacpQaad^hv ex ttjg FTaÀixrjg
(1) Vedi la prima parte a pp. 193 sgg. del voi. LXm.
PRIMI CONTATTI FRA ITALIA E RUMANIA 49
eig ÈTOVTfjv %riv óidÀSTCTov fino xov 'AvaaxaGlov Sovyòovqfl
xov è^ lù)avvivù)v xarà tò 1758.
Ci troviamo, con ogni probabilità, davanti a una tra le prime
traduzioni greche del Metastasio, giacché le altre registrate dal
IlaJiaóÓTiovZog EgéTog nella sua diligentissima NeoeÀÀrjviTttj
WiÀoÀoyla, e cioè quelle delV Achille in Sciro (Vienna, 1794), del
Demofoonte (Vienna, 1794), del Temistocle (Vienna, 1796) e
&e\V Olimpiade (Vienna, 1797), son tutte posteriori alla prima
traduzione veneta del 1779, che comprendeva soltanto: VArta-
serse, V Adriano in Si7Ha, il Demetrio, la Clemenza di Tito,
il Siroe e il Catone in Utica. Con tutto ciò, è possibile che anche
altre traduzioni di drammi metastasiani circolassero manoscritte
in Rumania, quando, il 1784, Alexandru Beldiman traduceva a
lassy, probabilmente dal greco, la Clemenza di Tito. Ad ogni
modo, per ciò che riguarda questa traduzione, non c'è bisogno
di ricorrere ad un manoscritto immaginario, poi che proprio con
la ETznAArXNFA TOT^ TI' TOT s'apre il secondo volume del-
l'edizione veneta surricordata. A proposito della quale sarà bene
avvertire che manca del nome del traduttore, malgrado il solito
HaTiaòÓTzovXog Bqéxog ci faccia sapere trattarsi d'un tal Tom-
maso da Rodi (0o[idg ò 'Póòiog)^ del quale non è qui il caso
di parlare (1). La traduzione del Beldiman (2) è inedita e si trova
(1) Cfr. IlaTtaòó Tcov a 0 g Bqctos, Nsoe à Àr^v iHtj <p t ÀoÀoyla,
xtÀ. 'Ev "A^rivais, 1854, MéQog B', pp. 70 (n. 158 e non 183 come è stam-
pato per errore tìqW ^A Àtpa^ ev ly^ò g nlva^ sotto il nome di P0AI02
Sùìf^dg) e 332.
(2) Cfr. JoNNESCu-GiON, Vornicul Alecu Beldiman in Portrete istorice già
citati, loc. cit., e N. Jorga, Ist. Ut. rom. in sec. al XVIII'"*, II, 440 sgg., e,
per ciò che riguarda le notizie biografiche. II, 87 (e non 81 come neWitidice
onomastico in fine al volume). Nato adHusi il J760 dal Banu Gheorghe Bel-
diman, percorse tutta la scala delle cariche di corte da ceaus (1785) a Vm-nic
(1819) finché « dupa stabilirea in Scaun de Joan Sandu Sturdza a carili
« Domnie isi propunea s'o descrie » si ritrasse dai pubblici negozi « spre care
« nici 0 data nu si simtise o deosebita aplecare » e « se zabavi cu talmaci-
« rile », antica e cara sua occupazione « de gelos si harnic carturar ». Era
Giornale storico, LXIV, fase. 190-191. 4
50 B. OBTIZ
nel ms. 181 della Biblioteca Academici Romàne sotto il titolo
di: Milosdrdia lui Tit. Ne trascrivo l'argomento, l'elenco dei
personaggi, le prime battute di dialogo della 1^ scena dell'Atto I
e la nota finale, che ci dà il nome del traduttore e la data pre-
cisa del giorno in cui la traduzione fu terminata.
[f.lr.]
MILOSARDIA LUI TIT
Pricina.
Intre ce alalti din vechiu domni si imparati nic[i] unul au statut mai bun
si mai iubit de narodul sau de cat Titu Vespasian, cac[i] den pricina nemar-
ginitelor sali fapte bune si den dragoste ci dobandisa a norodului sau s-au
numit bucuriia niamului omenescu. Cu toate aceste doi tineri de bun niam,
dintre cari unul dobandisa celi mai mari faciri de bine, 1-au pizmuit si hain-
lacul lor dovedindu-sa, sanglitul i-au hotarìt spre moarte. Cu toate aceste
pré milostivul imparat nu numai ca nu i-au pedepsat, ci parintaste i-au
sfatuit si i-au ìnvatat cum sa sa poarte, dandu-le cazuta ertari atat cum si
celor ce se afla cu ei inpreuna.
ormai vecchio di sessant'anni e poco poteva più tradurre. La morte lo colse
a Jassy (come par probabile) nei primi giorni (1-6) del gennaio 1826. Co-
minciò la sua carriera di traduttore proprio con la Clemenza di Tito del Me-
tastasio (1784) e la terminò due anni prima di morire con quella dei Viaggi ^q\
Coxe. — Dopo il primo tentativo (ch'egli stesso dovè accorgersi non esser punto
riuscito), non si lasciò scoraggiare dalle difficoltà incontrate nella traduzione
del melodramma metastasiano ; ma aspettò quasi vent'anni a rinnovarlo. Non
prima infatti del 1803 appare la seconda traduzione del Beldiman, ed è quella
dei Menechmi del Regnard, cui seguiranno a piccoli intervalli Elisaveta sau
cei surguniti in Siberia (1815) ; la Manon Lescaut dell'abate Prévost (1815);
la Istoria Im Maimundu, scoasa din Decameron a Franta (1815); la
Mortea luiAvel dal Gessner (1818); la Tragedia lui Ovest dal Voltaire (1820);
la Storia luì' Numa Ponipilie (1820?) per parlar solo delle più importanti,
giacché questo gran traduttore al cospetto di Dio si crede abbia tradotto
persin V Odissea, di cui però non sappiamo che quanto ce ne dice il Carcalechi,
vale a dire la notizia pura e semplice che Beldiman aveva tradotto aìiche
Omero e lo avrebbe presto dato in luce. Che si tratti dell'Odissea e la tra-
duzione del Beldiman sia da identificarsi con quella versione di cui il Gaster
ha dato un saggio nella sua Crestomazia (II, 38) e il cui manoscritto si trova
a Sibiiu, può darsi benissimo ; ma non ci pare si possa affermare, se non dopo
uno studio accurato del ms. e della lingua in cui è redatto ; cosa che nessuno
si è preso finora la briga di fare.
PRIMI CONTATTI FRA ITALIA E RUMANIA 51
[f. 1 V.] Obrazele.
Tit Vespasaan, ìmparat Kamului.
Sitélia {sic), fiica ìraparatului Vitleiu.
Servilid, sor lui Sastu si libovnica lui Anii.
Sastu, prietenul lui Titu si libovnic Vitelli,
Anii, prietinu lui Sastu si libovnic Servilii.
Puplii, boeriu giudecatonu.
Adunare sangliticilor si narodul.
[f. 2 r.]
MILOSARDIA LUI TIT
Intima facire.
Loc in drept Tiverii, intru carile este lacasul Vitelli.
SCHINA I.
Vitelua si Sastu.
Vit. Pana cànd Saste mi-i spune aceste, stiu ca ai fécut sa crìaza Lendol,
ca oaraenii lui sant gata si, ca ìndata ce vii da foc la Capitol, se vor
pomi cu totii cei se sant intr'un gandu spre savarsire faptii. Vor sa
legi ta[s]ma rosii la mana driiaptà ca sa sa cunoasca ìntre dansii.
Aceste li ara auzit de o mii de ori, si cu toate aceste Titu salit fiind
de robire dragostii, se va cununa cu Verenichi si va da imparatila ci
au rapit de la tatal meu. Spune-mi pentru ce atata ìntarzaeri?
Sàst. Ah
[f. 2 V.]
Vit. Oftezi ; a ìntalegi eu nu pociu, caci, cand nu sant de fata, esti gata spre
savarsire rasplatirii, si cand sant, nu stii ce drum sa apuci. Si te vad
foarte turburat. Talmaceste-mi pilda acasta, caci mi s-au urat a te
vede une ori foarte ìndraznetu si alta data pisti fìri fricos.
s. e. 1.
Ed ecco infine la nota che si legge sul verso deirultima pagina:
« 1784 Octomv. 5. Acasta carte s-au scris si s-au talmacit de mine
« Alexandru Beldiman »,
dalla quale risulta trattarsi proprio dell'autografo.
Disgraziatamente però non è il caso di rallegrarci eccessiva-
mente di una simile fortuna, visto che ci troviamo dinanzi a una
pessima traduzione, in cui del Metastasio non resta proprio più
52 R. ORTIZ
nulla. Sparito ogni ornamento retorico, spogli del loro bel colo-
rito classicheggiante, diluiti nella prosa più rozza e più pedestre
che fantasia umana possa immaginare ; i bei versi del Metastasio,
il cui decoro rende sopportabile codesta scena introduttiva, che,
si può dire, non ha quasi altri pregi che di forma, ci fanno un
po' l'effetto di signori decaduti, che abbiam visto in tutto lo splen-
dore della loro fortuna, eleganti ed azzimati incrociar motti di
spirito sotto la luce sfolgorante dei doppieri tra le marsine e i
decolletès di una festa da ballo, e ci si ripresentano dopo qualche
tempo, vergognosi di se e dei loro abiti cenciosi, per chiederci
un soccorso^ dopo averci narrato una lunga storia di sofferenze
e di guai. Basterà mostrare che miserevole cosa sian diventati
nella traduzione alcuni versi del Metastasio, perchè ognun vegga
come il paragone sia tutt'altro che esagerato :
Vitéllia. Io tutto questo
Già mille volte udii; la mia vendetta
Mai non veggio però. S'aspetta forse
Che Tito a Berenice in faccia mia,
Offra, d'amore insano,
L'usurpato mio soglio e la sua mano?
Parla, di', che s'attende?
Non sono i più bei versi del Metastasio! D'accordo. Ma son
ben vestiti, che è sempre qualcosa. Ora... volete sapere come li
traduce il Beldiman ? Né più né meno di cosi : « Queste cose le
« ho ascoltate mille volte e con tutto ciò Tito, essendo costretto
« dall'accecamento dell'amore, s'ammoglierà con Berenice e (le)
« darà l'impero che ha rapito al padre mio. Dimmi perché tanti
« ritardi ?» E sfido chiunque a dimostrarmi che sono stato io a
tradur male il rumeno !
La colpa, del resto, non sarà poi tutta del Beldiman (1) ; che
(1) Il quale del resto, anche come scrittore rumeno, è giudicato abbastanza
severamente dal Jonnescc-Gion, che scrisse di lui ne' suoi Portrete istorice:
PBIMl CONTATTI FBA ITALIA E RUMANIA 53
se D. Quijote riteneva a buon diritto, che « el traducir de una
« lengua en otra... es corno quien mira los tapices flamencos
« por el reves, que aunque se ven las fìguras, son llenas de
« hilos que las escurecen, y no se ven con la lisara y tez de la
« haz »; che dovremmo dir noi delle traduzioni di seconda mano,
nelle quali i fili sono tanti da non lasciare vedere neppure il
disegno? Aggiungete ora all'inconveniente, già grave di per se
stesso, che il Beldiman non traduceva dal testo, l'altro ancora
più grave d'essersi avvalso d'una fra le peggiori traduzioni del
Metastasio, e vedrete ben chiaro come le conseguenze non po-
tessero risultare diverse da quelle che abbiamo testé avuto oc-
casione di lamentare. La versione di Tommaso da Rodi è infatti
un vero strazio del melodramma metastasiano ed è proprio su
codesta traduzione che il Beldiman ha esemplato la sua. Met-
tiamo a confronto un brano dell'una con quello corrispondente
dell'altra e ce ne convinceremo fin dalle prime parole:
« Vornicul Alecu Beldiman nu a fost nici un geniu nicì un mare talent, nici
« chiar unul din acei scriitori cari, péne si cu uà limba « necanonisita si
« hpsita de mestesugul gramaticesc » adica subreda in formele-i gramaticale
« si saraca in capitalu-ì' de espresiuni si de locutiuni, agiung totusi a 'ti
« da din c'and in cand pitorescul in descriptiune, profunditatea in observare,
« energia verbului in actiune » (p. 10) [B Vornic Alecu Beldiman non è stato
né un genio né uomo di gran talento; non è stato neppure uno di quegli
scrittori, che, anche scrivendo in una lingua « non disciplinata da regole e
priva d'ogni lenocinio grammaticale e stilistico », che è quanto dire insta-
bile nelle sue forme grammaticali e povera sì di vocaboli che di espressioni ;
riescono, ciò non ostante, di tanto in tanto a raggiungere il pittoresco nelle
descrizioni, la profondità nelle osservazioni, l'energia nel verbo (?) in azione].
Op. cit., p. 10. Che diancine voglia dire « l'energia del verbo in azione »
credo che il Jonnescu-Gion in persona si troverebbe assai imbarazzato se
avesse a spiegarcelo. Codesto stile fra biblico e occultistico si ritrova in molti
degli scrittori del secolo passato (fra i rumeni Heliade-Radulescu è uno di
quelli che se ne serve più spesso), specie patriottici e politici, e deve entrarci
qualcosa il gergo delle diverse sette e la tendenza hegeliana a veder nella re-
ligione dei simboli di verità naturali e filosofiche camuffate sotto un manto
soprannaturale.
54
B. ORTIZ
OofA^dg ó 'Po 6 IO s.
ETSnAArXNFA TOT TriOI
Bh. li/l^ S<à<s 7iÓT€ 2fjaT€ d-è va
/ '^f f^k xà Àég ; i^eiógoì TiòJg
inavdTteiaag xòv AévrvÀov, Ttaig
al àvd'QonoC tov eXvai èroifiot,
Ttcàg e^d-i>g ònov òóìoeTS qxoTià
elg TÒ KaTtiiéÀiov S'è va ÓQfAiq-
aers dÀoi xarà zov Titov, y,al
nG>g ol avvcùfi^ózai d-è va òéaovv
elg TÒ òe^tóvTOvg yjQL ìiOQÓéÀÀa
ìcóxxivsv olà va yvcoQl^ùìVTav f^e-
Ta§v Tovg' a^tà y^iÀiaig cpOQalg
xà ànovaa , •kol fih 8Àov xovxo
àxófii ^yù) va Idàj xfjv ènólar^aiv
ÓJiov xóaov ÀauxaQcò ' nóxe S'è va
^VTtvfioexe ; dgp' o^ o Tixog na-
Qay.ivrid'fi ànò xòv xvcpÀòv xov
^Qùìxa va oxs(pavù)d"rj xijv Bege-
vIkt^v, nal xà xijv 6(5aij yial xò
BaaCÀELOv ónov aQTia^ev ànò xòv
HaxéQa fiov ; eÌ7ié fie xò óijÀoZ
xóari àQyonoQia ;
[Op. cit., pp. 7-8).
Alecu Beldiman.
MILOSARDIA LUI TIT
Vit. Pana cand Saste mi-i spune a-
ceste, stiu ca ai facut sa criaza
Lendol ca oamenii lui sant gata si,
ca ìndata ce vii da foc la Capitol,
se vor pomi cu totii cei ce sant
ìntr'un gandu spre savarsire faptii.
Vor sd legi tasma rosii la mana
driiapta ca sa sa cunoasca ìntre
dansii. Aceste li am auzit de o mii
de ori, si cu toate aceste Titu, salit
fìind de robire dragostìl, se va cu-
nuna cu Verenichi si (ìì) va da
inparatiìa ci au rapit de la tatal
meu. Spunemi pentru ce atàta ìn-
tarzaeri ?
{Op.cit., f. 2r.).
Se non che alle nostre critiche il dotto boiardo potrebbe ri-
spondere con un certo risolino tra l'ironico e il bonario, ch'egli
credeva d'essersi ormai messo al sicuro da ogni tentativo di
scientifica maldicenza fin dal giorno che, proemiando alla sua
traduzione del Nwna Poìnpilio^ aveva avvertito: « Le innume-
« revoli difficoltà in cui mi sono imbattuto, la comune opinione che
« sia impossibile lo scrivere qualcosa di men che male in una
« lingua non disciplinata da regole e priva d'ogni lenocinlo gram-
« maticale e stilistico, m'avevan del tutto scoraggiato ; ma poi
« ho considerato che ogni difficoltà si può vincere coll'assiduo
« lavoro e nessiftì principio può essere perfetto. Del resto non
PRIMI CONTATTI FRA ITALIA E RUMANIA 55
« ho mai presunto neppure soltanto col pensiero di dare alla
« luce qualcosa di eccellente » (1).
Delle quali ragioni converrà che ci contentiamo, perchè, mentre
contengono un gran fondo di verità, ci offrono l'opportunità di
troncare la disputa prima che il dotto e flemmatico Beldiman
l'interrompa lui, offi^endoci, eig fieydÀrjv fjavxlav, una sigaretta
e delle confetture.
Ci ricorderemo allora d'avere a che fare con uno di quei
pascià rumeni del secolo XVIII cosi ben descritti dal Jorga e
dal Jonnescu-Gion e cambieremo discorso, portandolo sopra un
argomento alla moda: Voltaire.
« Arlion Vornìce, » gli diremo, « è poi vero quanto ho letto di
« recente in un volume del Garra (2), sulla gran diffusione di cui
« godrebbero in Valachia e in Moldavia le opere del Voltaire ? »
— « Tanto vero ch'io da parte mia ho tradotto V Oreste « cu in-
« vàpaiata dragoste spre procopsirea neamuli romànesc » (3).
« Quanto al Carra... si, dice delle cose abbastanza buone e vere,
« ma esagera anche, oh esagera ! Vuol farmi il piacere di legger
« la pagina che riguarda il Voltaire? Da qualche tempo gli occhi
« non mi aiutano più. Lei è giovine e dovrebbe pensare a go-
« dersi la vita ; ma giacché preferisce occuparsi nientemeno che
«del Carra... Vede? È ancora aperto su quel tabouret » (Bel-
diman m'indica con un gesto indolente un piccolo volume ri-
legato in pelle^ aperto su di un delizioso « tabouret » di legno
scuro intarsiato di madreperla e d'avorio: un vero gioiello
d'arte bizantina).
(1) [« Nenumeratele greutatìf ce am ìntémpinat, glasul obstii ca este cu ne-
« putinta a serie ceva ìntr'o limba necanonisita si Upsita de tot mestesugul
« gramaticesc, me adusese la desnadajduire, dar puind in mintea mea ca toate
« sunt supuse sìrguintei, si despre alta parte ca nici un ìnceput nu poate fi
« cu desavàrsise, apoi nu m'am fàUt , dar nìS. chiar in minte mea , a da in
« lumina vre un lucru vrednic de vedere »].
(2) Histoire de la Moldavie et de la Vaìachie, avec une dissertation sur
l'état actuel de ces deux provinces, Neufchàtel, 1781.
(3) [« ... con infiammato amore, per la nobilitazione della stirpe rumena »].
56 B. ORTIZ
Il critico (non ricordandosi più d'essere in una sala
piuttosto uggiosa che no^ visto ch'è la sala di lettura di una
biblioteca) : Volentieri.
(Prende il volume del Carra che ha dinanzi e copia a
p. 68 del suo manoscritto tardigrado sui « Primi con-
tatti » ecc., le pa7^ole del Carra intorno al Voltaire, fin-
gendo di credere di leggerle al vecchio botar o). «... Les ou-
« vrages de M. de Voltaire se trouvent entre les mains de
« quelques jeunes boyards et le goùt des auteurs frangais ferait
« aujourd'hui un objet de commerce dans ces contrées si le pa-
« triarche de Constantinople n'avait menacé de la colere du ciel
« tous ceux qui lisaient des livres catholiques romains et parti-
« culièrement ceux de M. de Voltaire! » (1).
Beldiman : « Ecco, Signore, dove il Carra esagera. Noi non
« abbiamo punto bisogno del Patriarca di Costantinopoli, la
« nostra Chiesa... ».
Lo SPETTRO d'un LETTORE PEDANTE (ìnter rompendo con voce
vibrante di santo sdegno e d'ineffabile disprezzo) : « La finisci,
« miserabile? Dove vuoi andare a parare? »
Il critico (dà un balzo sulla seggiola, si guarda intorno;
teste curve sui libri, zucche pelate, rumore di pagine mosse.
Ritorna in se, e, lentamente, ricomincia a scrivere).
Volevo dire che il Voltaire nel settecento era tutt'altro che
un ignoto in Rumania e che il Beldiman stesso ne aveva tra-
dotto V Oreste, e, se lo spettro d'un lettore maleducato e pedante
non mi avesse destato cosi nel più bello del mio sogno, avrei
fatto confessare al Beldiman in persona d'essersi indotto a tradur
La Cle^nenza di Tito, per aver letto appunto nel Voltaire le
seguenti parole di suprema ammirazione:
Que ceux qui sont au fait de la vrai littérature des autres nations, et
qui ne bornent pas leur science aux aires de nos ballets, songent à cette
admirable scène dans la Clemenza di Tito, entre Titus et son favori qui a
(1) Op. eit, p. 195.
PRIMI CONTATTI FRA ITALIA E RUMANIA 57
conspiré contre lui, je veu parler de cette scène où Titus dit à Sextus ces
paroles :
« Siam soli; il tao sovrano
« Non è presente. Apri il tuo core a Tito,
« Confidati all'amico; io ti prometto
« Che Augusto noi saprà ».
Qu'ils rélisent le monologue suivant, où Titas dit ces autres paroles, qui
doivent étre l'éternelle le9on de tous les rois, et le charme de tous les hommes :
« n torre altrui la vita
« È facoltà comune
« Al più vii della terra; il darla è solo
« De' numi e de' regnanti ».
Ces deux scènes, comparables à tout ce que la Grece a de plus beau, si elles
ne sont pas supérieures ; ces deux scènes, dignes de Corneille, quand il n'est
pas déclamateur, et de Racine quand il n'est pas faible ; ces deux scènes, qui
ne sont pas fondées sur un amour d'opéraj, mais sur les nobles sentiments
du coeur humain, ont une durée trois fois plus longue au moius que les scènes
les plus étendues de nos tragédies en musique (1).
Or come non ci lasceremmo tentare, dopo aver trascritto un
tal brano ispirato a una tale stima per il Metastasi© e a un tale
entusiasmo per la Clemenza di Tito ; come, ripeto, non ci lasce-
remmo tentar dall'ipotesi che il Beldiman, al corrente com'era
delle ultime novità di Francia e traduttore del Florian e del
Voltaire medesimo, derivasse proprio da queste parole l'impulso
a tradur La Clemenza di Tito piuttosto che un altro qualunque
fra i melodrammi del Metastasio?
Io per me non ci so resistere, e, per questa volta tanto, mi
permetto di consigliare anche il lettore a rifletterci bene prima
(1) (Euvres complètes de Voltaire, Paris, Lesqjiien, MDCCCXX, voi. IV :
Dissertation sur la tragedie, e, qualche pagina innanzi (FV, 266): « Les
« pièces [du célèbre ahhé Metastasio] ... sont pleines de cette poesie d'expres-
« Sion et de cette élégance continue qui embellissent le naturel sans jamais
« le charger ; talent que, depuis les Grecs, le seul Racine a possedè panni
« nous et le seul Addison chez les Anglais ».
58 R. OBTIZ
di scartarla; visto che più d'una volta la letteratura francese è
servita di tramite fra l'italiana e la rumena, e, per ciò che ri-
guarda il Metastasio, abbiamo anzi già visto come la famosa
canzonetta A Nice debba al Rousseau la fortuna di poter aggiun-
gere alle altre anche una traduzione nella lingua dei discendenti
di Trajano.
Seconda in ordine di tempo, ma ben più fortunata, perchè, a
differenza di quella del Beldiman, potè veder la luce per le
stampe, è la traduzione àeW Achille in Sciro, apparsa a Sibiiu
il 1797. Ne è autore il Paharnic Jordache Slatineanu, quel me-
desimo che intorno al 1803-4 vediamo abbonato allo Spectateur
e voglioso di abbonarsi BlVAlmanach des dames per mettere a
parte anche sua moglie di quei benefìcii della cultura occiden-
tale, dei quali ci si mostra non meno de' suoi contemporanei
ammiratore ed entusiasta.
Malgrado però fin d'allora qualche giornale dei nostri comin-
ciasse a farsi strada in Rumania, non abbiamo notizia che il
figliuolo di quel « G-iorgio Slatignano log^ » che spingeva la sua
simpatia per l'Italia fino ad italianizzare il suo nome, vi si fosse
mai abbonato. Il Jorga non ci parla infatti che di un Jenachi
Sterie, il quale, da certi registri deW Agenzia di Bucarest^ ri-
sulterebbe lettore d'un giornale di Milano e precisamente del
Redattore italiano; ma costui era, a quel che pare, un onesto
commerciante di quelli che badano ai fatti loro e non s'impic-
ciano di letteratura né di politica, bellissime cose ma che non
cavano un ragno dal buco e servon solo ad occupare il tempo
ai perdigiorni. Del resto il nostro Paharnic confessa candida-
mente d'aver tradotto il suo Achille dal greco, non sapendo come
meglio occupare il suo tempo, lontano com'era (e gli piaceva di
essere) da ogni maneggio politico.
Una descrizione, come al solito diligente e accurata, di questo
volumetto ch'è un vero cimelio dell'antica letteratura rumena
troviamo sotto il n. 611 nella Bibliografia i^Oìnàneascà vechie
del Bianu-Hodos, sicché potremmo risparmiarci la pena di tra-
scrivere il frontispizio. Visto però che in Italia questa pubbli-
PRIMI CONTATTI FRA ITALIA E RUMANIA 59
cazione è tutt' altro che alla mano, ne diamo qui, in facsimile,
il frontispizio seguito dalla trascrizione:
d ì G K n P 0.
♦AniÀ AJi'H KHf mstActASìS
4^" B^Kl^fUJiH O'hp H f^Mi^MtHilt \A A. 1797.
CO|>fOHHM ff^qa HoAttJ.
60 B. ORTIZ
AMlefs la Skiro. | Fapta lui kir Metastìsie | Kesaricesculni poetic. | Aoum
ìntaiu talmacita de pe | Grecie de catra dumnealui | Iordake SlÌtinean |
Vel Paharnic | In Bucurestii Tari Eumunesti la A. 1797. | lara ] La sfarsit
sau adaugat Istoria lui | Sofronim Greca Noao \\ Sau tiparit in Sibiiu in tipo-
grafia lui Martin | Kohmaister^ cu priv. imperetest. Ki^est mariri.
La traduzione non è in versi come mostra di ritenere il
Jorga (1); ma in prosa. In versi non son ridate che le ariette,
con le quali si chiude ogni singola scena, sicché ad esse sol-
tanto van riferite le parole del Jorga, cui di buon grado sotto-
scriviamo, intorno ai pregi della versificazione e all'armonia
metastasiana che appare ancora qua e là dove la traduzione ne
è meglio riuscita e il verso scorre più facile e più armonioso.
Del resto, anche la prosa non lascia questa volta troppo a de-
siderare come quella che rida con esattezza, se non proprio con
eleganza, il pensiero del poeta italiano.
Eccone un saggio:
Deidamia. Auzit'ai?
Achilefs. Auziiìi.
Deidamia. Care obraznic iaste ala deau (sic) ìndraznit a zadicni taina ca-
pistii noastre cei sfinte cu ast feliu de ojete far de oranduala.
Achilefs. Bine am zis eu, tot de spre mare vine ast glas infricosat. Dar nu
ma pociu priceape, ce sa fie pricina Ah, domnita mea, acuma prece-
puiu, vezi ale doao corabii aicea vin.
Deidamia. Ah, Doamne.
Achilefs. Ceti [= ce 'ti e] frica, sant departe pana acuma.
Deidamia. Sa fugim.
Achilefs. De ce?
Deidamia. Nu stii ca marea iaste plina de cursari, si fac raotatile lumii,
talharii nu fusara ei de hrapire bietele feate ale tmparatuluì' Argus, §i
ai Tirii, stii preabine (sic) focul si nedreptatea ce sa intampla mai dau-
(1) N. Jorga, Ist. Ut. rom. in sec. al XVIII'*'*, II, 433-4 : « In sfàr§it tre-
« buie sa vorbim de o traducere in versurì « Achilefs lo Schiro » de Jor-
« dachi Slatineanu » [Da ultimo ci convien ricordare una traduzione in versi,
* Achille in Sciro » di Jordachi Slatineanu].
PRIMI CONTATTI FRA ITALIA E RUMANIA 61
nazi la sparti (sic)y ii fi auzit de elini ca fac spume de necaz, dar in
zadar, cerind nevasta cea necredincioasa de la Troaditu, care au furato,
dar ce folos cine stie poate sai (sic) corabiile astea... oh pentru numele
lui Dumnezeu vino cu mine.
Achilefs. Ceti (sic) pasa, sufletul mieu, Achilefs iaste cu tine.
Deìdamia. Taci.
Achilefs. Dar cànd iti spuiu cai (sic) cu tine Achilefs.
Deidamia. Taci pentru Dumnezeu sa nu te auza cinevas (sic), ca de teor (sic)
dovedi, sùnt perita, si tepierzu (sic), ce o sa zica atunci ìnsalatul tata
mieu? stii ca sa bucura gandind ca esti fata, si ai (sic) pare bine de
prietesugul nostru, dar oare cear (sic) face decumvas (sic) (gandand nuraai,
invine lesin) sar (sic) ìntàmpla sa priceapa ca eu pe Achilefs iubesc iar
nu pe Pira.
Achilefs. lartama ai mare dreptate.
{Op. cit., pp. 4-6).
Certo, quando si pensi che, p. es., le parole di Deidamia:
Chi temerario ardisce
Turbar col suon profano
Dell'Orgie venerate il rito arcano?
spiranti sdegno principesco fin nella togata e classica maestà
della frase, diventano nella traduzione rumena:
« Quale sfacciato è quegli che ha osato disturbare il mistero
«del nostro santo tempio?», saremmo tentati di ritenere anche
questa dello Slàtineanu, più che una traduzione, una storpiatura
del melodramma metastasiano; ma alle tentazioni bisogna saper
resistere, e infatti, considerata nel suo complesso, e paragonata
sopra tutto a quella del Beldiman, non si può non riconoscere,
che questa àeW Achille in Sciro rappresenta, ad ogni modo, un
bel passo avanti. Sarà anche un po' merito del traduttore greco (1)
(1) Il nome del traduttore ci è sconosciuto, poi che, malgrado la sua tra-
duzione appaia pubblicata a spese e cura di un UoXv^óìrj AafiTiaviz^cÓTTj
di Giannina, il HaTtaSónovÀog BQézog {Op, cit.. Il, 295) non sa dirci a suo
riguardo, se non che verso la metà del sec. XVIII emigrò a Vienna ^à tòv
s^yevfi anÓTcov va óìcpeÀ'^arj tò id-vog tov nal éavxóv xov dia tov è fi-
62
K. ORTIZ
men goffo e rozzo di quel Tommaso da Rodi di nostra cono-
scenza ; ma l'armonia e la scorrevolezza delle strofette in fin di
scena ci fan supporre che lo Slatineanu tenesse presente anche
il testo italiano e ne derivasse quei pregi che non potevan certo
venirgli dalla traduzione greca. Anche il Jorga infatti rileva,
come abbiamo dianzi avuta occasione di accennare : « Per quanto
« riguarda la qualità dei versi, non è poi tanto scadente. Ce ne
« sono di scorrevoli che suonan grati all'orecchio e lasciano qua
« e là trasparire l'armonia dell'originale italiano (1) :
Esti izvor de desfatare
Dulce trudelor uitare,
Pentru line muritoriu,
« ovvero :
Tinerete far' de minte
Turburata din ceput,
« e un po' più avanti :
Care inima vr'o data,
Mai virtos si sàgetata
Ti sa poate 'mpotrivi ».
Nella SiebenbiXrgìsche Quartalschrift del 1798 troviamo una
lunga ma non troppo interessante recensione, in cui, più che di
noQÌov TÒ)v 'EÀÀfjvtxwv ^i^Àliùv, e che èniateveTO eig tohg tplÀovg rov
trjv fiet dq) QUO tv ó lacp ó q cov avyyQafi^fiaTCùv 'IraÀ ixcHv te
xal FaÀÀiyiòìv. Un editore dunque, che nulla ci autorizza a ritenere il tra-
duttore àelVAchille metastasiano. Ecco ad ogni modo il titolo del volume
quale il UanadÓTiovÀog Bgétog ce lo conserva (n. 248) : '0 'Axi^Àevg iv
2!xvQ<f) ' "Onega ^tov ÀQàfia tov xovqIov 'Afifid MetaoTaulov, Kaiaa-
^ixov IIoif]TOv ' [A,eia(pQaaTeloa iv. Ttjg 'iTaÀiKfjg óiaÀéìitov elg t^v ijf4,€-
régav ÙTiÀijv <pQdaiv fietà attxovgyiag ' vvv tiqòìtov T'ónoig énóo^elaa
òanàvfj xal ènif^eÀela IIoÀv^étjg AafA^Tiavit^KÓTrj, rov è^ 'Icoavvlvcov.
'jBx r^5 iÀÀrjv. xv7toyQa(pCag FecùQylov Bevtótf]. 'Ev Biévvp, 1794, eig 8*"*.
(1) « In ceia ce priveste calitatea versulilor, ea nu e totdeauna a§a de ìn-
« ferioare. Sint unele curr/atoare, care suna placut, ^i in care se in tre-
« vede armonia originalului italian ».
PRIMI CONTATTI FEA ITALIA E RUMANIA 63
dare un giudizio sulla bontà della traduzione, l'anonimo recen-
sore sembra proporsi lo scopo di polemizzare collo Slàtineanu
su questioni di ortografia e soprattutto sull'affermata non-infe-
riorità del greco moderno rispetto si all'italiano che al greco
antico. Goll'ingenuità tutta propria dei giornalisti del settecento
il bravuomo si mette a sfondar questa porta aperta della supe-
riorità del greco antico sul moderno e si domanda come mai se
ne possano sballare di cosi grosse: « Und wenn ist es nicht
« bekannt, das diese neugriechische Sprache eben nur ein Ba-
« stard Yon ihrer Mutter, und ein formlicher Mischmasch von
« griechisch, tiirkisch, russisch und walacliischen Wortern sei? »
Quanto alla traduzione osserva: « Uebrigens war eine getreue
« Uebersetzung in die walachische Sprache nicht moglich : er-
« stens, weil schon der griechische Uebersetzer bei manchen
« Stellen in Prosa, hauptsàlich aber bei gebundenem Sylbenmass
« nicht selten vom Originaltext abgewichen war; zweitens, weit
« die walachische Sprache noch aiissert arm an Wortern ist, wo
« man bei Uebersetzungen aus einer reichern Sprachen oft
« nòthig hat, sich angewohnter Perigraphien zu bedienen ».
Del resto come poteva lo Slàtineanu tradur bene, allievo co-
m'era di quei maestri greci che il nostro recensore disprezzava
al punto da ritenerli « in alien wissenschaftlichen Fàchern die
« elendesten Idioten » ?
Come mai ha osato apprendere il greco moderno da un maestro
greco e non ha pensato che, se voleva impararlo da v^^ero come
si conviene, era necessario far le valige e partir li su due piedi
« nach Wien oder Leipzig » ? Ogni salmo finisce in gloria e i
nostri nazionalisti posson tornare a scuola! Del resto le critiche
rivolte in questo articolo alla traduzione dello Slàtineanu son
tali che anche chi, come la maggior parte dei recensori antichi
e moderni, non fosse andato oltre il frontispizio, avrebbe potuto
rivolgerle. Tradotto dal greco? Dunque Si seconda mano. Con-
seguenza necessaria: cattiva traduzione! In rumeno? Ma il ru-
meno è una lingua senza tradizioni letterarie, mentre l'italiano
ne ha anche troppe I Conseguenza più che necessaria : pessima
64
R. OBTIZ
traduzione! Orbène noi non crediamo che la traduzione del-
V Achille sia proprio quel che si dice un capolavoro, ma non
crediamo neppure che sia lecito sbrigarsene con critiche cosi
generali da potersi applicare egualmente a tutte le traduzioni
(e non son poche) dal greco in rumeno di opere italiane e se
abbiam fatta menzione di quest'articolo, è stato solo per dimo-
strare che i critici moderni sono in fin dei conti assai più ga-
lantuomini di qualche critico tedesco dei tempi... in cui Berta
filava.
IV.
Periodo di decadenza.
(Traduzioni incomplete e citazioni frammentarie).
Dal 1829 al 1843, in cui un Achille del Ghristopoulos può venir
scambiato per V Achille in Sciro del Metastasio, abbiamo un in-
termezzo non del tutto trascurabile di tentativi andati a male e
di citazioni frammentarie. Caratteristica di questo periodo (che
coincide con quello àeW italianismo nel suo massimo fiore) è
che questa volta si traduce dal testo ed è il Metastasio cantore
della patria quello ch'è ora alla moda.
Non ci farà quindi meraviglia se il melodramma più in voga
apparirà d'ora innanzi il Temistocle.
Budai-Deleanu, autore di un poema eroicomico in cui è chiara
l'influenza della Secchia rapita^ sarà il primo a por gli occhi
sul capolavoro metastasiano, quando, non sappiamo precisamente
in quale anno, ma prima ad ogni modo del 1820, ne intraprese
la traduzione a prova che « la lingua rumena, coltivata con
« amore, potrà col tempo non isfigurare accanto a quella ita-
« liana ». Uno dei più serii e dotti studiosi rumeni, che, pur
occupandosi di problemi pedagogici e prendendo assai sul serio
la sua missione d'educatore, sa trovare il tempo necessario per
ricerche letterarie del più alto interesse; il prof. G. Bogdan-
Duica in un suo studio ormai classico sulle fonti tedesche della
PRIMI CONTATTI FRA ITALIA E RUMANIA 65
Tiganiada fa rilevare, a proposito della poca considerazione in
cui Budai-Deleanu mostra di tener la meravigliosa letteratura
popolare rumena, come codesta sua avversione si estendesse
eziandio alla lingua popolare. Nella Prefazione infatti della sua
grammatica (1812j, parlando colla dovuta lode del tentativo fatto
da Jenàchità Vacàrescu di sottoporre a regole precise la lingua
rumena ancora fluttuante fra l'uso popolare e l'arbitrio degli
scrittori, esce in queste parole : « Post eum secuti sunt plures ;
« sed pace eórum dictum sit, praeter laudabilem conatum de patrio
« sermone bene merendi, vix aliquid praestiterunt ; nam imprimis
« omnes fere linguam in sua peripheria, ut ita dicam, vigentem
« tradiderunt — seu potius linguam vulgì unde adeo inter se
« disc7^epant ut quemvis eoruyn aliam linguam scripsisse
« credas ». Quali poi fossero le idee del nostro autore intorno
alla lingua letteraria ci fa sapere il Bogdan-Duica medesimo
nello studio sopra citato : « La cultura della lingua nazionale
« doveva secondo lui aver per fondamento le lingue romanze
« (l'italiano) e il latino. Perciò, anticipando una idea di Eliade,
« Budai intraprese la traduzione del Temistocle di Metastasio,
« ma, non avendone tradotto che qualche pagina, non possiamo
« dire dove sarebbe arrivato nella italianizzazione del suo stile »(1).
Veramente anche quelle « cìteva pagini » di cui ci parla il
Bogdan-Duicà sarebbero sufficienti, qualora fossero pubblicate,
al glottologo che si proponesse di ravvisare in esse le tracce
che la cultura italiana e latina dell'autore lian lasciate se non
nella lingua (giacché è chiaro che neppur Budai' in persona
avrebbe osato leggere la sua traduzione cosi come è scritta) al-
meno nella grafia. Fatto sta che in fondo questa offre al glotto-
logo an interesse assai scarso, come ogni particolarità grafica
(1) Op. cit., loc. cit. [« Cultura limbiìi nationale trebuia sa se razime, dupa
« el, pe limbile romanice (italiana) si pe cea latina. Deaceea, anticipìnd o
« idee a lui Eliade, Budai ìncepuse sa traduca pe Temistocle de Metastasio,
« dar traducìnd numai cìteva paginì" nu putem hotarì pina unde ar fi mers
« Budai cu italianisarea stilulut san »].
Giornale storico, LXIV, fase. 190-191. 5
m
B. ORTIZ
che non rappresenti un riflesso di fatti fonetici realmente esistiti,
ma solo delle preoccupazioni e dell'arbitrio individuale. Se però
la lingua di cui il nostro autore si serve nella traduzione del
Temistocle non può interessare che assai scarsamente il glotto-
logo, per noi invece che ci occupiamo dell'influsso che la lingua,
la letteratura e la cultura italiana han potuto esercitare in Ru-
mania, acquista un valore che nessuno vorrà certo attentarsi a
negare.
Il ms. che contiene la traduzione del Temistocle appartiene
con ogni probabilità ai primi anni del secolo scorso e contiene
oltre questo frammento: !*> Dascalul romànesc. Pentru teme-
iurile Gramatictt romànesti, Tom. I; 3° Scrisóre, tratànd
despre « Theoria orthographiei romànesti cu slove latinesti ;
40 ^^ Ty^^ vitejì » poema in versuri, in 4 cdntece. Il nostro
frammento che nel ms. miscellaneo occupa il secondo posto è
intitolato cosi nel catalogo (anch'esso ms.) dei mss. rumeni:
Fragm,ente dinir' 0 compositiune dramaticà avénd de suMect
pre Xersu imperatul Persilor, donde non si rileverebbe af-
fatto trattarsi di una traduzione del Temistocle, se ciò non ap-
parisse nel modo più chiaro dalle seguenti parole che si leggono
a e. 36 r. e che trascriviamo fedelmente:
Temistòclu.
Dramma izvodeitu antèyo de Petru Metastasi! in leimbàa italenésca; tal-
macitu pre leimbàa romanésca ; qua ù Proba : cu quàre se arata ; que leimba
nòstra prein cultura sae potè cu vréme alaturà celii italenesci.
Il ms. è, come abbiam detto, del secolo XIX incipiente e mi-
sura cm. 23 X 18. È scritto tutto in caratteri cirillici ad ecce-
zione del frammento del quale ci occupiamo, nel quale, per mo-
strarsi conseguente a sé stesso e alle sue teorie ortografiche
(largamente esposte nella lettera che si legge a ce. 45-52 (i) del
(1) Le ce. 53, 54 e 55 contengono un frammento di altra opera di Budai-
Deleanu, che non ha niente a che fare colla Lettera ortografica, di cui parla il
catalogo. Si tratta di una quarantina fra massime e proverbii scritti in ca-
ratteri latini ed appaiono di età posteriore agli altri scritti compresi nel codice
PRIMI CONTATTI FRA ITALIA E RUMANIA 67
medesimo ms.), Budai usa l'alfabeto latino. Tutto ciò che il ms.
contiene, è, per quanto io mi sappia, inedito, ad eccezione di
qualche strofa del poema eroicomico: Trei Viteji riportata dal
Bogdan-Duicà nello studio poc'anzi ricordato; sicuramente ine-
dita è ad ogni modo la traduzione del Metastasio che più da
vicino ci riguarda. Per finire, osserveremo, che, nella traduzione
del Temistocle^ per uno sbaglio di legatura che ha determinato
un conseguente errore di numerazione, la e. 33 è diventata 36
e cosi di seguito le ce. 35 e 36 son diventate 33 e 35, di ma-
niera che bisogna leggerle nell'ordine seguente : 3633 34 3335 35^6
37 (indicando col numero sopra il rigo la numerazione errata
attuale e con quelli sotto il rigo la numerazione esatta) se pur
si vuole diano un senso compiuto. Eccone intanto un estratto,
che sarà, credo, sufficiente a mostrar quali sieno le caratteri-
stiche di questa traduzione, che, per lo scopo che si propone,
per le particolarità lessicali e ortografiche che presenta e che
mostran già chiaramente formulata la teoria dell'italianismo ; in-
fine per essere la sola traduzione in versi che possediamo di
un dramma del Metastasio, è forse la più importante di quante
abbiamo finora avuto occasione di esaminare:
[Biblioteca Academiei Romàne ms. No. 24271
[e. 36 /•.]
Excerptum ex opere Manuscripto.
Temistòclu.
Dramma, izvodeitu antèyo de Petm Metastàsu in leimbàa italenésca; qua
ì) Proba : cu quàre se arata ; que leimbàa nòstra prein cultura sae potè cu
vréme alaturà celii italenesci.
Historici dein quàre se hdvu scossu acésta Dramma.
Fostu-hàvu Atenénul' Temistòclu; unul' deintru celi mài luminati capi-
tànni 'a Hellàdei, nò odàta operàe elu cu charniceia si cu sfatul' cinstea si
slobozeia Patriei Sale. Tara dùpa vesteita Batalfeia dela Salamina; unde cu
micu numeru de hostasi, frànsae si infugàe nenumeràta hostea lui Xersu im-
peràtul Persilor ; atàta slavva dobendei ; [e. 36 v.] quàto nemulfamitorii ate-
néni, uèri [= ori] temendo qua pre ùnu puternicu, uèri pismuivendo qua unui
mài inal9àtu deintru celi alàlti, in urma ilu izgoneù'ae deintru acélesi zeiduri.
68
R. ORTIZ
quàre elu cu pu^ino mài nainte le aperasse s. e. 1. [Seguita per tutta la
e. 36 V., dopo la quale, in seguito al sopraddetto errore di legatura, a
e. 34 r. e e. 34 v., dove l'argomento termina colle parole :] Aratarea se tempia
in Sùza cetatea imperatèsca, si scaunul' imperatzilor persyàni.
[e. 33 r.] Persónele quàre vorbéscu.
Xèrsu, imperàtul Persilor.
Temistòclu, ceteyenu de Atena.
Aspasyàa, filia lui,
Neoclu, filiu lui.
Rusànna, Principéssa.
Lysemàchu, SoUul' atenénilor.
Sebdstu, Persyànnu si incredin9atu
alùi Xèrsu.
Semna. Là unele Dramme, precum este Achilevs in Schira — talmaceita
de D. lordàki Slatenénu vai Pecharnicu — typareita in Bucuresti la ànul 1797.
se àfla in lòcu de actus \ . precum dicu latenii: | ^anvb — si in locu de
Scena. \ negòthiùa. ce va sae dica la munténi si la moldovveni cortèna, sèu
pre [e. 83 v.] cura dicu altii zavéssa. iar' èo socotendo que leimba nòstra pur-
céde dela leimba latèna ; si cumque cuvventéle, quàre noae lypsèscu la anve-
^aturi, mai cuvviencioso èste alle imprurautà dèla marna latena dequàto dela
aitele ; mài vertoso seiendo que si itallienii, fràncii si hispànii, aquarór leimbi
hàvu purcessu dein lateneia : pazèscu acésta règula — hàmu pùsu cuvventéle
mài sus numeite, precum se afla la (la)tèni adeque Actu. si Scéna. — [Segue
per tutta la e. 33 v., dando notizie intorno al significato di Atto e di
Scena, fino alle parole: ... pre actori lucrando, con cui termina la lunga ìwta/.
[e. Sòr.] AC TU I.
Scéna I.
( : Teatrul arata deinlauntrul Palafului Imperatèscu : )
Temistòclu, — Neòclu.
Temistòclu: Ce faci? i
Neoclu: Cadintàa làssame pedépsa
Saè dào sume9ului o! Gansa;
vediùsi cùm te ascultàe, cum eti respùnsae:
si quàte mài havvèmu batjocuri ànque
k Buferei? — —
PBIMI CONTATTI FRA ITALIA E RUMANIA
Temistoclu: infrenèzzati o filiule !
ardóre netempuriva, doar' ànque
te crèdi a feire in Atena:
si glóte cnceritóre
a vede imprejurul' mieu:
69
i . tienendo pre Neocìu de mantàuo ; ce smuìgendo sàbia vrèa sàe alérye
dupa unu curtènu, ce ilu hatjocorisse, qua saelu pedepse'sca.
[e. 35 V.] ce s'aduna in fericeia
si se imbùlde la norocu!...
tòte o! Neccie se hàvu scimbàtu!...
celu intielleptu se pléca dupa sórte.
Curtea vrazmasiului mieu è acésta;
si eo nò su mai multo leibovvurAtènei :
seràcu, nemérnecu, si dàtu in urgeia;
izgoneitu, pribegu si lypseitu de tóate;
una mi remàssae; si doar' cea mai bùna!...
Statorniceiaa !...
Neocìu: értame o dulce parente
asta atà statorniceia
me sùpera me interrita!...
tu deintru acéiesi izgoneitu cetate
aquarei de atate bori intregime
aperasi-si in locul de mul9emita
bùrra pretuttendene genitóre
a Patriei cumpleite aflando; ce tòta
adeposteirea ; tòta odecbna ti pismesce;
si va péna intru atàta sae te adùca
qua sàe n'hàvi locu de repàusu! si totusi
zieluvendote nò te audivi; nece
turburatu te vedivi! — ah! parente! —
[e. 37 r.] si cùm poti suferei in leinisce atàta
greutàte, atàta nemul9emita!...«
Temistoclu: filiule in drumul vivè9ii
esti ànque calatòriu novu;
drept acéa ti pare cumpleita
feia ce templare neplacùta !...
70 R. ORTIZ
que te miri no ti bago de vina: mirarea
éste Alia nescien9ei si màica
intiellepcionei ; inse acési urgeia
de quàre te miri este mài cu sàma;
à benefaptelor resplàta in lume!...
quèci benefapta è [ ] (1) povvara
nemul9emitei ; drept acea hurésce
tòtu nemul9emitoriul ' : grevutàtea
fenefaptei in facatoriul de bene:
iar benefaptoriul', fapta sa bùna
intru cèlu nemul9emitoriu li iubesce;
drept asta osebeiti suentem eo, si Atènàa :
ea m'horresce, eo v [■= o] liubesco
s. e. 1.
[Finisce a e. 42 v. coi seguenti versi con cui si chiude la 2"* scena delVatto I
fra Temistocle e Aspasia:
A sortii relè maneia
nò téme celu ce se anvé9a
a privvei là densa in fa9a;
quando ea turba far' cuvvèntu.
Schola è de barba9eia
a ei cumpleita asupréla;
cum suentu carmaciului schóla,
fortune si piovi si ventu,
corrispondenti alla nota arietta:
Al furor d'avversa sorte
Più non palpita e non teme
Chi s'avvezza allor che freme,
Il suo volto a sostener.
Scuola son d'un'alraa forte
L'ire sue le più funeste;
Come i nembi e le tempeste
Son la scuola del nocchier].
(1) Parola illeggibile: prea mare
v?9
PRIMI CONTATTI FRA ITALIA E RUMANIA 71
Malgrado la tendenza visibilissima a non discostarsi dal testo,
neppur quando era addirittura impossibile conservare in rumeno
certe peculiarità del nostro stile poetico, cosi abbondante in in-
versioni e in costruzioni arcaiche che non trovano riscontro nella
lingua de' nostri fratelli del Danubio ; questa traduzione di Budai-
Deleanu mentre ha il pregio d'essere più. delle altre fedele al
pensiero del Metastasio, non è poi cosi ibrida cosa come potrebbe
a prima vista sembrare. Pigliamoci un momento la briga di ri-
durne qualche brano in ortografia moderna, e vediamo che, sti-
listicamente parlando, può ritenersi persino superiore a quella
del Beldiman. Ecco p. es. un brano del dialogo fra Temistocle
e Neocle, che, nella nuova veste spogliata degli orpelli di uii
latinismo di gusto assai dubbio, non si può negare che faccia
tutt'altra figura:
Tem. Infràneste-te, o fiule,
ardoare netimpurie! Doar inca
te crezi a fin in Atena,
si gloate cuceritoare
a vedea imprejurul meu,
ce se aduna in fericire,
si se ìmboalda la noroc?...
Toate oh! Neocle, s'au schimbat.
Cel ìntelept se pleaca dupa scarta.
Curtea vrajmasului meu e aceasta;
si eu nu sunt mai mult libovnicul Atenei;
sarac, nemernic, si dat in urzia,
izgonit, pribeag si lipsit de toate;
una imi ramase (si doar cea mai buna) :
Statornicia !
Neoclu: larta-me, o dulce parinte,
asta a ta statornicia
imi supera, imi intàrata ! •
Tu dintr'aceias izgonit cetate,
a careia de atàte ori ìntregime
aparasi; si in locul de multumita
ura pretutindeni gonitoare
72 B. ORTIZ
a Patriei cumplit aflànd, ce toata
adapostirea, toata odihna iti pizmueste,
si va pan' ìntr'atàt sa te aduca
ca sa n'ai loc de repaos; si totusi
jaluindu-te nu te auzii, nici
turburat te vazui! ah! parinte,
si cum poti suferi in Uniste atàta
greutate, atàta nemultumita?...
Difetti ce ne sono ; ma il lettore riconoscerà che qui, se non
altro, il pensiero del Metastasio è ridato con fedeltà, e, soprat-
tutto, con decoro. Sarà — non lo nego — un decoro che ha
dell'artificiale, e, qua e là, dello stentato ; ma che ci consola ad
ogni modo dello strazio che gli altri traduttori avevan sempre
fatto di questo nostro elegantissimo e venustissimo poeta, tra-
ducendone i versi politi ad unguem nella più linfatica e pe-
destre delle prose immaginabili. Orbene, sarà che certi tentativi
un po' audaci finiscon sempre per cattivarsi la nostra simpatia,
sarà per una ben naturale reazione al dispetto provato nel veder
sciupate in quella tal prosa i versi più squisiti e le più tenere
strofette che sieno mai uscite dalla penna del più dolce dei nostri
poeti ; sarà perchè assai meno delle altre si scosta dal testo ; a
me questa traduzione di Budai-Deleanu par la sola, dalla quale
il Metastasio non esca malconcio, come è certo la sola che si
proponga un alto fine artistico da conseguire. Compiacciamocene
col vecchio boiaro che la nostra lingua conosceva a menadito e
alla nostra letteratura più d'una volta s'ispirò, e riprendiamo il
cammino che abbiamo interrotto,, per trattenerci (forse più del
dovere) nella sua gioviale compagnia (1).
(1) Che cosa avesse dal Metastasio tradotto Stefax Crisan (Koròsi) non
sappiamo. La notiziola citata da Vasile Pop nella sua prefazione al Salterio
in versi del Pralea non ci apprende se non che « acésta multe au tradus din
Metastasie *, e, del resto, anche per ciò che riguarda la vita di questo lette-
rato rumeno del Settecento, se non è buio pesto, poco ci manca. Il Jorga stesso
confessa nella sua Istoria Hteraturii romìnesti in secolulnl XV III'"' (II, 297),
che non ne sappiamo nulla, all'infuori di quanto ce ne dice il Cipàuiu {Prin-
PRIMI CONTATTI FRA ITALIA E RUMANIA 73
Dicevamo dunque, che uno dei caratteri generali più spiccati
di codesto intermezzo di citazioni frammentarie e tentativi di
traduzione andati a male, consiste proprio nel fatto che non è
più il poeta di Nice, ma quello della Patria che troviamo ora
alla moda.
Il Metastasio infatti, mentre « presenti la gran rivoluzione...
« che sopravvenne... a schiantar l'impero da lui amato » (1) e
cantato, trovò anche accenti d'ineffabile dolcezza e d'insolita sin-
cerità ed efficacia ogni qualvolta gli accadde di toccar la corda
dell'amor patrio. Rileggiamo i versi indimenticabili del Temi-
stocle, là dove al rimprovero di Serse {Atto 11^ Se. 8):
Ah dunque Atene ancora
Ti sta nel cor! Ma che tanto ami in lei?
cipia, p. 317 e segg.): che cioè insegnò nei collegi riformati di Cluj e di
Mures-Osorhein in Transilvania, e che non era più in vita il 1820, quando
Asachi, recatosi in Transilvania per reclutarvi professori per il seminario di
Socola, potè acquistar dalla vedova di lui un manoscritto, ch'è ora alla Bi-
blioteca di Jassy (n. 27) e fu studiato (in Revista critica-Uterara, IV, 33 sgg.)
da Aron Densusianu. Una poesia rumeno-italiana (scritta cioè in rumeno ita-
lianizzato) riproduce a fronte coll'originale italiano il Vater a p. 407 del
voi. IV delle sue: Proben deutscher Volksmundarten (Leipzig, 1817). Eccola:
Voi ochi muriture stele Voi occhi, stelle mortali
Ministri perirei mele, Ministre dei miei mali,
S'in somno anche m 'aretati Ch'in sogno ancor mostrate
Che murire mi optati; Che mio morir bramate;
Inchisi de mi ucideti. Se chiusi m'ocideti {sic)
Deschisi, voi ce nu puteti? Aperti, che non farete?
Questo medesimo madrigale italiano, il cui autore non mi è riuscito di tro-
vare, è imitato da Jancu Vacarescu nella seguente poesiola:
Ochi! cànd inchisi ma prapaditi
Deschisi oar ce mi- ati face?
Deschide-va-ti si ma sfìrsiti!
C'astfel sa pier imi place!
{Foeziile Vacarestilor in Bibl Romanesca Enciclopedica Socec (N. 2), Bn-
curesti, 1908). — Cfi*. inoltre L. §aineanu, Istoria filologiei romàne, già ci-
tata, p. 28.
(1) Carducci, Melica e lirica nel Settecento (voi. XIX delle Opere), Bologna,
ZanicheUi, p. 83.
74
R. ORTIZ
l'eroe risponde in uno scoppio improv\iso di passione a lungo
compressa, cli'è un protendersi di tutta l'anima verso un passato
ormai irrevocabile, in un tumulto tragico di ricordi e di rim-
pianti :
Tutto, signor; le ceneri degli avi,
Le sacre leggi, i tutelari Numi,
La favella, i costumi.
Il sudor che mi costa.
Lo splendor che ne trassi.
L'aria, i tronchi, il terren, le mura, i sassi;
e non ci meraviglieremo, che, anche in Rumania, degli spiriti
desiderosi di libertà s'ispirassero talvolta ai versi di questo nostro
poeta, che non fu sempre il rappresentante di quell'epoca, più a
dir vero triste che vergognosa della nostra storia civile e lette-
raria, che noi italiani sogliamo ingiustamente dileggiare qual
madre adultera del cicisbeismo e dell'Arcadia, mentre portava
nel seno i germi fecondi della rinascita futura. No, il Metastasio
non fu solo il poeta della Priìnavera e dell'amor querulo e
lascivo dei pastorelli d'Arcadia: fu il poeta di Roma e della virtù
latina, il poeta di Regolo e di Tito; né solo per Fillide o per
Glori egli pianse, ma anche per le trafitte amare della nostalgia;
e neppur sempre gioì alla corte di Vienna per elogi sovrani e
regali di tabacchiere preziose, ma lamentò in parole di rasse-
gnata amarezza la necessità che lo aveva spinto a « procacciarsi
« sussistenza » oltre i confini della Patria, mentre « ogni altro
« trova asilo nella sua! » (1). Orbene quei versi del Teìnistocle a
me pare trovino un commento in questo sospiro nostalgico, che, di
tanto in tanto, scuote il petto del Metastasio (2). Non era forse
(1) Cfr. Carducci, Op. cit., p. 91 : « Ogni altro trova asilo nella mia patria,
< ed io ho voluto prendermi un volontario esilio per procacciarmi sussistenza ;
« e, come se ciò fosse poco, mentre io non risparmio sudori per onorarla, mi
« eccita calunnie per infamarmi » [Lettera al card. Gentili).
(2) In una delle prime lettere da Vienna (27 gennaio 1731) il povero Me-
tastasio ripensa infatti melanconicamente al carnevale romano ed alle corse
PRIMI CONTATTI FRA ITALIA E RUMANIA 7o
anche lui lontano dalla Patria e mezzo sperduto tra il fasto di
quella corte straniera un po' come il Temistocle del suo dramma?
E chi sa in quante occasioni, in una forma o nell'altra, non sarà
stato mosso anche a lui il rimprovero, ch'egli pone in bocca di
Serse! Forse, in grazia appunto a codesto accento di commossa
sincerità che in Temistocle ci fa vedere il Metastasio in persona,
quando nei primi anni della sua dimora alla corte cesarea le
trafìtte della nostalgia dovevan farglisi sentire più crude ; questi
versi, a distanza di tanti anni, ci commuovono ancora. Non è
quindi strano che il 1829 un greco esule e patriota ne fosse
dei barberi : « Oggi è appunto il primo giorno di carnevale, ed io son qui a
« gelarmi », esclama proprio in sul principio, e, per tutto il resto della let-
tera, questi due ritornelli del carnevale e del gelo si avvicenderanno di con-
tinuo. « Dica chi vuole », esclama dopo una vivace rappresentazione del car-
nevale romano, « è un gran piacere la forte immaginativa. Io ho veduto il
« Corso di Eoma dalla piazza dei Gesuiti di Vienna ! ». E poi, subito, il mo-
tivo del gelo con relativa descrizione della neve che « cade continuamente, si
« stritola e si riduce a tal sottigliezza che vola e si solleva come la polvere
« nell'agosto », rincalzata di lamentele d'abate assiderato, e meraviglia non
priva di disprezzo per quelle « bestie » di viennesi, che, con quel po' po' di
freddo, si divertono un mondo (tutti i gusti son gusti !) a farsi « trascinare in
« slitta la notte » ed infine... spiegazione di tanto accanimento contro il freddo
e la neve, consistente nell'avere il povero poeta « dato solennemente il e. per
« terra, in quel solo passo indispensabile » che doveva fare per montare in
carrozza. Insomma, a legger questa lettera, un po' si ride, un po' ci si com-
muove per l'abate romano, privato crudelmente del suo carnevale e costretto
per giunta a camminar sopra « tre palmi di ghiaccio cocciuto più delle pietre »,
a farsi mettere « le sole di feltro alle scarpe » per premunirsi contro la « lu-
« bricità del paese! ». Persino nello « state allegra » con cui si chiude questa
lettera alla Bulgarelli (o Eomanina dei bei giorni napoletani pieni di sole
e d'amore!) par di scorgere che, quanto a lui, non era certo allegro e rim-
piangeva più ancora che il carnevale e i barberi, il bel sole e il dolce clima
d'Italia! (Lettere disperse di Pietro Metastasio, a cura di Giosuè Carducci,
Bologna, ZanichelH, 1883, pp. 30-32). Cfr. anche la prima delle Bue lettere
autografe di Pietro Metastasio, pubblicate d* E. N. Chiaradia in questo
Giornale (59, 377), datata da Vienna, 3 giugno 1730: « Io sto qui di buona
« salute, ma j^oco contento ; fin ora non posso assuefarmi al paese, ne di
« me posso darvi alcuna notizia perchè la Corte non è paese da conoscersi in
« così pochi giorni » . Nostalgia e tristezza, senza dubbio come poteva sentirla
un abate del settecento, ma non per ciò meno dolorosa!
76 R. OllTIZ
commosso al punto da riportarli tradotti in capo di un suo
IMN02 EI2 THN EAAAàA nei giorni memorabili, in cui la
CVrecia spezzava le secolari catene e l'istmo di Corinto risonava
ancora del grido di Costantino Ganaris.
Quel greco era Costache Aristia, e tradurrà di li a qualche
anno in rumeno la Virginia e il Saul dell'Alfieri ; i versi ch'egli
pone a capo del suo inno suonano in greco cosi:
Tà id'if^à T^g, ol aTé(pavoi fiov,
'lÓQùJveg, aivdvvoi, d-giafi^oC fiov,
'0 '^Àiog f^g nal ó ald-^Q'
Ki^advoì ol Àld-oi Tu'^adrà tà Ì^Àa,
'H yfj, fj X^ó^i, óévÒQùìv xà (pvÀÀa,
Al avTf^g ravTijg ^/a,ovv gcùti^q !
Questi versi gli torneranno alla memoria il 1843, quando per
festeggiar l'avvenimento al trono di Valachia del Voda Gh. Bi-
bescu, pubblicò un certo suo pasticcio epico-lirico-adulatorio in-
titolato Priutul Roman, dove a pp. vii-viii della Prefazione
leggiamo le seguenti parole: « [p. vii] Temistocle màntuitorul
« Grecilor care a rosit limanul Pireu si marea Salaminia cu
« sàngele Persian, apoi pizmuit si osàndit la moarte ca totii
« màntuitorii (uitativa la cruce) scapa si chiar in Pèrsia gene-
« roasa gaseste ocrotire si slava mare, ìnalta si el mai mult
« slava Persana; dar voind Csercses sa '1 trimita ca [p. viii] sa
« bata si Atena, nu primeste ; ascultati dar ce respunde :
Serse. Csercses.
Ah dunque Atene Vai! astfel tot Atena
Ancor ti sta nel cor! Ea sta 'n inima ta!
Ma che tanto ami in lei? Ce 'n ea iube§ti tu?
Temistocle. . Temistocle.
Tutto, Signor; Totul, stapàne; ^ra mea
Le ceneri degli avi, Tanna straraogeasca,
Le sacre leggi, Si legea parinteasca,
I tutelari Numi, Costumuri, cuvàntare,
PRIMI CONTATTI FRA ITALIA E RUMANIA 77
La favella, i costumi, Zei, munca, slava mare
L'aria, i tronchi, Sudoarele 'mi si truda,
Il terren, le mura, i sassi. Si ori ce fel amar
Trunci, aer, holde, ziduri,
Pamànt si pietre chiar » (1).
Se la metrica non è troppo rispettata nel testo italiano, la
traduzione per compenso, senza potersi dire un miracolo, è de-
cente. Ma non sono soltanto questi i versi che Aristia cita nel
corso del sullodato pasticcio adulatorio, che innanzi alla quarta
parte di esso {Parada la Palai) troviamo i noti versi del-
V Achille in Sciro:
Lungi lungi, fuggite fuggite.
Cure ingrate, molesti pensieri;
No, non lice del giorno felice
Che un istante si venga a turbar.
(Metastasio, Achilìe, atto II, scena VII),
(1) [« [p. vii] Temistocle, il redentore dei Greci che tinse di rosso il porto
« del Pireo e il mar di Salamina col sangue dei Persiani, poi, invidiato e
« condannato a morte come tutti 1 redentori (guardate alla croce), riesce a
« salvarsi, ed anche in Persia trova generoso rifugio, e gloria grande, da
« parte sua innalza anche lui la gloria dei Persiani, finché volendo Serse
« mandarlo a [p. viii] combattere Atene, rifiuta. Ascoltate ora come risponde:
« Serse. « Serse.
« Ah dunque Atene « Ahi! dunque sempre Atene
« Ancor ti sta nel cor! « Essa sta nel tuo cuore!
« Ma che tanto ami in lei? « Che in lei tu ami?
« Temistocle. « Temistocle.
« Tutto, Signor; « Tutto, Signore; la patria mia,
« Le ceneri degli avi, « il terreno avito
« Le sacre leggi, « e la legge paterna,
« I tutelari Numi, « i costumi, la lingua,
« La favella, i costumi, « gli Dei, il lavoro, la gran gloria,
« L'aria, i tronchi, « i mieii sudori e le disgrazie,
« Il terren, le mura, i sassi. « e ogni altra amarezza,
« i tronchi, l'aria, le zolle, le mura,
« la terra e le pietre persino »].
È inutile eh' io faccia osservare come, piuttosto che di una traduzione, sia
qui forse il caso di parlare d'una parafrasi.
78
B. ORTIZ
che io cito naturalmente come trovo; e innanzi alla 9^ parte
(Cuvéntul M. Sale la deschiderea cìnstitei obcinuitei oì)ste§tn
adunàrì) questi altri di nuovo del Temistocle:
Di tua virtù la mia virtude accendi!
Più di quel ch'io ti dò, sempre mi rendi.
Quando un'emula l'invita,
La virtù si fa maggior;
Qual di face a face unita
Si raddoppia lo splendor.
(Metastasio, Temistocle, atto HI, ultima scena).
Delle citazioni metastasiane del Negruzzi ho avuto altrove (1)
occasione di occuparmi. Non aggiungerò dunque che una breve
rettificazione. ì^qW Alauta romineasca del 1837, dove per la
prima volta apparve pubblicata la novella Zoè^ i versi del Me-
tastasio sono scritti benissimo, senza gli spropositi, dei quali li
adorna l'edizione Socec, della quale ho avuto l'imprudenza di
fidarmi. Del resto, ciò non toglie nulla alla verità di quanto a
proposito del Negruzzi mi è accaduto di sospettare nella note-
rella in questione: che cioè d'italiano egli dovesse sapere ben
poco. Ci risulta infatti che una sua vagheggiata traduzione della
Gerusalemme non andò oltre le prime strofe e rimase allo stato
di semplice progetto, non avendo il Negruzzi potuto vincere le
difficoltà che lo stile poetico del Tasso gli offriva quasi ad ogni
pie sospinto (2). Ed invero altro è tradurre dal Metastasio, altro
(1) UnHmitazione rumena dal Gessner e dal Vìgny, in Studi letterarie
linguistici dedicati a Pio Rajna nel quarantesimo anno del suo insegnamento,
Firenze, Ariani, 1911, p. 940, n. 2.
(2) « Più che guidato da maestri, Costantino Negruzzi imparò da solo il
« tedesco e l'italiano, quest'ultima lingua così bene da concepire a un dato
« momento il disegno di tradurre in versi la Gerusalemme liberata di Tor-
« quato Tasso. Ma sia che altri lavori gli avessero preso tutto il tempo che aveva
« disponibile, sia che si fosse imbattuto in troppo gravi difficoltà, il tentativo
« non ebbe seguito ed il progetto rimase ineseguito ». Cfr. I. C. Negruzzi,
Inceputurile literare ale lui Constantin Negruzzi, in Atialéle Academiei
Romàne, Seria II, tom. XXXII (1909).
PRIMI CONTATTI FRA ITALIA E ROMANIA 79
dal Tasso! Chi, nel secolo XVIII, non sapeva a memoria, pur
non conoscendo l'italiano, qualche strofetta dell'autore del Regolo l
« Il Metastasio » scrive il De Sanctis (1) « sopravvisse a sé
« stesso. Negli ultimi tempi era come uno straniero accampato in
« mezzo a una società che si rinnovava rapidamente. Assistette
« vivo alla sua demolizione. Vide Goldoni attaccare tutta quella
« sua fantasmagoria eroica, e cercare un'altra base, nella natura.
« Vide Parini dar della scure su quella società ch'egli aveva
« resa immortale. Vide Alfieri rompergli le sue melodie. E già,
« morto appena, la società di cui era stato il poeta e l'idolo, crol-
« lava da tutte parti con tanta rovina, che la nuova generazione
« non la comprese più e parve lontana di un secolo ». Sta bene;
ma « la collera contro la vecchia società » non sempre si riversò
sul poeta, che, se fu accusato « di avere infemminito gli italiani
« co' suoi molli versi », seguitò non pertanto a regnar da padrone
nel cantuccio solitario e fiorito, che più d'un rivoluzionario volle
serbargli nel cuore, per potervisi rifugiare a suo bell'agio, ogni
qualvolta, stanco della lotta e disgustato degli uomini, sentisse
il bisogno di affrancarsi un istante dalle catene brutali della
realtà, per lasciarsi rapire dal fascino di quell'arte delicata e
ingenua come un fiorir di mandorli a primavera (2). Inoltre,
come il principal nemico della sua fama fu l'Alfieri (del quale
(1) Nel Saggio sul Metastasio comparso nella N. Antologia (agosto 1871)
e rifuso poi nella Storia della letteratura. Il brano che riportiamo (non com-
preso nella rifusione) è stato di recente ripubblicato dal Croce nel fascicolo
di marzo 1912 (p. 61) della sua Critica con altre Pagine sparse di Fran-
cesco De Sanctis.
(2) Una riprova ce l'offrirebbe (e, possiamo dire^ ce V offre, visto che l'au-
tore della traduzione riteneva il dramma del Metastasio) Jordachi Sion
(1822-1892) che il 1843, quando già da parecchi anni le tragedie di Vittorio
Alfieri strappavano alle platee rumene i più frei^tici applausi e i poeti can-
tavano ben altre cose che la primavera e i pastorelh d'Arcadia, ci dà, quando
meno ce l'aspetteremmo, la traduzione d'un Achille, ch'egli dice del Metastasio :
AXLI I DPAMt EPOiKt y^H HATpy AKTE jj DE | METACTACIO. il zpadi^cr, \
DE I lOPDAKI CION I lamn. | JLa Kantopa 0oiei Cztemii. \ 1843, ma che,
mentre non ha nulla a che fare con V Achille in Sciro, né si legge fra le
80 R. ORTIZ
furon si conosciute fuori d'Italia le tragedie ma non tutte le
bizze e i giudizi avventati), cosi, data anche la tendenza degli
stranieri a ravvisar nel Metastasio il fiore più vago e quasi
l'essenza stessa dell'arte puramente italiana (le cui note fon-
damentali riesce per avventura più facile ad essi che a noi
di stabilire), è chiaro che, fuori dei confini della Patria, dove
i pettegolezzi letterari non giungono e certe idolatrie non tro-
vano eco, il Metastasio non rimase esposto ad altri colpi che
non fossero quelli che indubbiamente gli venivano dal rinnova-
mento dei tempi e dell'arte. Ai quali colpi l'eroe resistè a lungo,
imbracciando lo scudo romano, dove era scolpita la gesta di
Regolo, e, mostrando di saper combattere anche lui per la li-
bertà, disarmò la maggior parte de' suoi nemici, che, posta giù
la diffidenza per il poeta di Nice, accolsero nelle loro file il
Opere, né presenta le caratteristiche di un dramma metastasiano, è invece
traduzione, come mi è riuscito di assodare, di un dramma eroico di Atanasio
Christopoulos, « naQaorad-év », come ci testimonia il 2A&A2 (NeoeÀ-
ÀtjviHT] 0iÀoÀoyia, "Ev ^Ad-i^vais, 1868, p. 714) « jioÀÀdmg Hai d'av-
fiaod-èv i)cp' 8Àù)v » e cosi intitolato: ^Ax^^^^vS) ÒQdfA^a ^qco'Chòv
elg TÌjv aioTi o ò (0 QiHtjv ó i dÀ eyiTov. "Ev Biévvij, 1805. La traduzione
del Sion c'interessa però per via della Prefazione, in cui, fra molti luoghi
comuni sul dovere che incombe all'uomo di coltivare il suo spirito, e sull'uf-
ficio della poesia, considerata come principio di civiltà, posson leggersi le se-
guenti parole, che, mentre ci attestano ancor viva l'impressione suscitata
dalla rappresentazione moldovana del Saul, par voglia paragonare la poesia in
genere, e quella del Metastasio in ispecie, all'arpa di David, che sola poteva
calmare le furie dell'infelice re d'Israele: « Adese ori un Saul, care in perio-
« dica sa furie si nebunie uria lumea intreaga, pe Dumneze'ii in care pururea
« ca ìntr'un duh al màntuirei vietuiau Evreiì", si insusi pe David, slava lui
« Israil, numai atuncea cunostea rezonul, se imblànzia, si simtia datoriea sa,
« cand cu capul seu rezemat de tenunchii eroului unia dulcele accente ale harpei
« sale, cu harmoniosaele tonuri ce completa lauda vetezilor lut biruin^e si
« izbànzi » [Spesse volte un Saul, che, nel suo periodico furore e nella sua
intermittente follia, odiava il mondo intero e Dio nel quale continuamente
come in uno spirito di redenzione vivevano gli Ebrei e lo stesso David, gloria
e fasto d'Israele, solo allora conosceva ragione, si calmava e si rendeva conto
del dover suo, quando, col capo sulle ginocchia dell'eroe, lo ascoltava sposare
i dolci accordi dell'arpa alle parole armoniose che com pietà van la lode delle
sue forti vittorie].
PRIMI CONTATTI FRA ITALIA E RUMANIA 81
vecchio eroe cui le ginocchia tremavano ormai, non la voce;
la voce, che, di tra il tumulto della folla rivoluzionaria e il fra-
gore delle armi, cantava fioca ma chiara:
La patria è un tutto,
di cui slam parti. Al cittadino è fallo
considerar sé stesso
separato da lei. L'utile o il danno
ch'ei conoscer dee solo, è ciò che giova
0 nuoce alla sua patria, a cui di tutto
è debitor. Quando i sudori, e il sangue
sparge per lei, nulla del proprio ei dona;
rende sol ciò che n'ebbe.
{Regolo, atto II, scena I).
Bellissimi versi, che ne ispirarono degli altri, anche più belli,
al Leopardi (1), e che ad ogni modo valgono a spiegarci il de-
siderio del Carducci di veder V Attilio Regolo « rappresentato
« tutti gli anni con musica degna nel giorno natalizio di Roma
« su '1 Campidoglio » (2).
(1) Air Italia, vv. 54-59:
Oh misero colui che in guerra è spento
non per i patrii lidi e per la pia
consorte e i figli cari,
ma da nemici altrui
per altra gente, e non può dir morendo:
Alma terra natia,
la vita che mi desti, ecco ti rendo,
l'ultimo dei quali non è che un'eco del metastasiano :
rende sol ciò che n'ebbe.
Per altre imitazioni metastasiane nel Leopardi cfr. V. Russo, « La Libertà >
del Metastasio in due canti del Leopardi, in Wote di letteratura e d'arte,
Catania, Giannotta, 1910 ; V. A. Arullani, Una canzonetta del Metastasio e
un canto del Leopardi, in Biblioteca delle scuole italiane, X (1905), 16.
(2) Carducci, Op. cit., p. 83.
Giornale storico, LXIV, taso. 190-191. 6
82
OfiTIZ
Le rappresentazioni del " Catone „
e della "Didone,,.
Il 28 aprile 1835, VAlMna romdneasca usciva col seguente
annunzio : « M. Paulo Cervati ténor, que les amateur s de la
« musique italienne ont admirè dans la pièce de ' Caton en
« Uiique\ engagé par des raisons de famille de séjourner quel-
« que temps dans cette capitale [Jassy], se propose de donner
« des le^ons de chant. On peut apprendre son adresse au théàtre ».
Quali fossero le « ragioni di famiglia » del signor Cervati non
avremo noi l'indiscrezione d'indagare. Si tratta probabilmente
d'un eufemismo, sotto il velo del quale a noi par vedere un ac-
cenno a condizioni finanziarie poco rigogliose, o, con maggiore
verosimiglianza, una excusatìo non petita del suo prolungato
soggiorno nella capitale della Moldavia in attesa d'un'occupazione
onorevole che forse fin d'allora gli si era fatta intravedere come
possibile. Ci conforta in quest'ipotesi l'apprendere che facciamo
dal Burada (1) come l'anno appresso egli occupasse nel Con-
servatorio filarmonico-drammatico di Jassy (2) la cattedra di
Tnusica vocale. Ma non è questo quello che ci preme assodare,
sibbene la rappresentazione del Catone di Utica, della quale
non ci è riuscito trovar altre notizie all' infuori dell'accenno
contenuto nell'annunzio citato. Poi che il Cervati fu la prima
volta a Jassy l'il aprile del 1833, quando, di passaggio, dette
una recita straordinaria di qualche scena isolata del BarMeì^e
di Siviglia e déìV Otello, è lecito argomentare che se il Catone
in Utica fu davvero rappresentato a Jassy, ciò avvenne fra il
(1) Cfr. Arhiva, XVII (1906), p. 34 e n. 2.
(2) Il conservatorio fu inaugurato solennemente il 15 novembre 1836 e si
può argomentare, che, fin dall'anno prima, i promotori avessero posto l'occhio
addosso al tenore italiano per affidargli la cattedra in questione.
PRIMI CONTATTI FRA ITALIA E RUMANIA 83
1833 e il 1835 e con ogni probabilità in quest'ultimo anno, se
l'avviso può riferirsi al successo ottenuto dal Cervati come a
cosa recente. Ma si trattò d'una vera e propria rappresentazione ?
La qualità di tenore del Cervati ce ne fa dubitare e l'aver egli
cantato altra volta solo scene staccate del Barbiere e dell' Ofe/to
ci conferma nel dubbio. Ad ogni modo il Metastasio c'entrava di
sbieco, come autor del libretto^ e qui si tratta del Catone in
Utìca del Leo assai più che di quello del Metastasio (1). Non ci
resta dunque che far le nostre congratulazioni al virtuoso tenore
che vi furoreggiò e rassegnarci senza troppi rimpianti a igno-
rare i particolari dello spettacolo, cui dovettero far seguito cri-
tiche e commenti esclusivamente musicali e che perciò, anche se
li possedessimo, non potrebbero avere grande interesse per noi. Si
(1) Nell'avviso si parla infatti di « amateurs de la musique italienne ».
La cosa è tanto chiara che potrebbe persino sembrare ozioso l'insisterci. Bi-
sogna però tener presente che molte volte la stessa compagnia rappresentava
a un tempo drammi e opere in musica. Ce ne fa fede il Fjlimon {Ciocoii
veclii si noi) a proposito della compagnia Dilli-Steinfels che fu la prima a
fare una tournée in Rumania e recitò al Teatro della Fontana rossa fondato
a Bucarest da Doranitza Ralu. (Cfr. Cap. XX : Teatru in tara romàneasca, pa-
gine 178-79 dell'edizione «Minerva», Bucuresti, 1902). « Pu^in ìnsa dupa
« aceia [dopo cioè che Domnitza Ralù ebbe trasformato in teatro la sala da
* ballo della Fontana rossa] veni in Bucuresti un antrepenor de teatru melo-
« dramatic cu o trupa formata ast-fel in càt sa poata reprezinta tragedia,
« drame, comediY, si chiar opere » [Poco dopo questi avvenimenti giunse a
Bucarest un impresario di teatro melodrammatico con una compagnia formata
in modo da poter rappresentare tragedie, drammi, commedie ed anche opere
in musica]. E poco dopo: « Repertoriul ... se compunea din cele mai frumoase
« productiuni dramatice si opere muzicale ale scohlor italiana si germana;
« dar piesele care intàmpinau o primire mai favorabila in publicul teatrului
« nostra erau: Saul, Pia de^ Tolomei, Briganziì si Faust, precum si operile:
« La gazza ladra, Moise in Egipt, Cenerentola, Flautul magic, Idonieneu,
« si càte-va altele... cele trei opere dintài de Rossini, iar celelalte de Mozart »
[Il repertorio si componeva delle migliori produzioni drammatiche ed opere
in musica delle scuole italiana e tedesca ; ma quelle che ottennero sul nostro
teatro maggior successo furono: il Saul, la Pia de^ Tolotnei, I Masnadieri
e il Faust, e, tra le opere in musica, La gazza ladra, il Mosè in Egitto,
la Cenerentola, il Flauto magico e Vldomeneo, le prime tre del Rossini, le
altre due di Mozart].
84 R. ORTIZ
ha un bel dire, ma quando l'uva è troppo alta è sempre un gran
sollievo potersene consolare ripetendo il detto della vulpecula
esopiana: Nondum matura est^ nolo acerham sumere! E in
che peccaron hamhinì i poveri critici, « allor che ignara di
« misfatto è la vita », perchè un tal sollievo debba esser negato
proprio ad essi, che ne han più degli altri bisogno?
Assai più fortunati siamo per ciò che riguarda la Bidone ab-
bandonata, la rappresentazione della quale (avvenuta nel marzo
del 1833, prima dunque dell'arrivo del Cervati a Jassy), riusci
cosi bene, da far nascere in un manipolo di giovani rumeni il
patriottico desiderio di mostrar coi fatti, come il rumeno non
fosse poi linguaggio si rozzo, da non potersi usare a esprimere
i più delicati e riposti moti dell'animo, come, per un curioso pre-
giudizio, si soleva allora affermare.
Bisogna dunque sapere, che il 1833 furoreggiava a Jassy una
compagnia francese, che richiamava ogni sera al Teatro delle
Varietà quanto di più eletto offrisse allora la gentile capitale
della Moldavia, non esclusi molti giovani delle due colonie stra-
niere più numerose, la tedesca e l'italiana, che, infiammati dai
successi della compagnia francese, incominciarono con non mi-
nore successo a rappresentare, ciascuno nella propria lingua,
opere italiane e tedesche. Sappiamo dal Burada, che codesti gio-
vani erano, per la maggior parte, allievi di convitti privati, che
incoraggiati dai rispettivi direttori ardirono salire sul palco-
scenico, sicuri d'un uditorio ristretto e benevolo, che, nella peg-
giore delle ipotesi, avrebbe almeno apprezzato il tentativo. Un
pubblico più largo c'è da scommettere che li avrebbe accolti a
fischiate tanto a quell'epoca era poca in Moldavia l'importanza
che si dava alle arti e specialmente a quella del teatro. Si co-
minciò dunque alla chetichella con un dramma tedesco intitolato:
Timur Can dei Tartari, che a noi italiani ricorda quello del
Casti : Cublai gran can de' Tartari, del quale in fin dei conti
non sarebbe strano che fosse un rifacimento o magari una tra-
duzione, e si seguitò con la Bidone abbandonata del Metastasio.
Il primo fu dato a beneficio di un signor Herfner, maestro di
PRIMI CONTATTI FRA ITALIA E RUMANIA 85
cappella della guardia moldava e direttore d'orchestra; il se-
condo a beneficio di un signor Livaditi, che aveva il merito
d'aver dipinto le scene e la sala del teatro. Recite dunque asso-
lutamente disinteressate da parte dei giovani filodrammatici, e
che alla compagnia francese non potevano per nessun verso di-
spiacere. Dell'una e dell'altra rappresentazione ci dà notizia
l'Asachi nel n°21 (27 marzo 1833) della sua Albina romdneascà,
dove, a proposito della Bidone, possiamo leggere il resoconto che
segue : « Il secondo [draimna ad andare in iscena] fu il dramma
« italiano dell'immortal Metastasio, intitolato : La Bidone aMn-
« donata (sic) che fu rappresentata a beneficio del signor Liva-
« diti, il bravo decoratore del nostro teatro. La signora Livaditi
« nella parte di Didone ed il signor Kemingher in quella di
« Selene, seppero produrre nel pubblico la migliore impressione
« per la conoscenza perfetta che mostraron di possedere sia del-
« l'arte della scena, sia della declamazione (recitazione teatrale)
« degli armoniosi versi del Metastasio. Il signor Nicoleti (sic)
« interpretò la parte di Jarba con facilità piena d'intelligenza e
« di fuoco e similmente il signor Livaditi fece del suo meglio
« per contribuire al successo della rappresentazione italiana, che,
« facendo saltare agli occhi dei patrioti non immemori [della
« loro origine latina] le simiglianze che corrono fra l'una lingua
« e l'altra, ha fatto rinascere il desiderio di veder sulle scene
« qualche opera [scritta e recitata] nella lingua della patria ».
Il «patriota non immemore» era, com'è chiaro, proprio lui
Asachi, che, meglio di ogni altro, poteva rilevare le affinità nu-
merose fra le due lingue sorelle, essendo stato più anni in
Italia (1), e conoscendo la nostra lingua a segno da scrivere in
italiano madrigali, sonetti e canzonette (2) sin troppo riuscite
dal lato della forma, pur nella loro insipidezza arcadica, perchè
(1) Di' Asachi e della sua dimora in Italia ha recentemente trattato Elena
Bacaloglu in un suo articolo Bianca Milesi e CHorgio Asàki, pubbUcato
nella Nuova Antologia del 1° settembre 1912.
(2) Pubblicati quasi tutti nella rivista romana II Campidoglio.
86 R- ORTIZ
possiamo crederle tutta farina del sacco suo; e. con ogni pro-
babilità, codeste sue parole appunto dovettero destare nell'animo
della gioventù moldava il desiderio di emular sulla scena i
loro coetanei tedeschi e italiani. Sappiamo infatti dal Burada (1)
elle « queste rappresentazioni dei giovani dilettanti tedeschi e
« italiani destarono il desiderio dei dilettanti moldavi di pro-
« dursi sulla scena con opere 7'ecUate in lingua rumena » e
che « aspettavano con impazienza di poter mostrare al pubblico
«di Jassy che anche la gioventù moldava poteva elevarsi alla
« medesima altezza di quella straniera ». Ma la cosa restò per
allora allo stato di puro desiderio. Recite di dilettanti rumeni
ce ne furono, ma in francese, come lo stesso Burada è costretto
ad ammettere, e, salvo un tentativo fatto il 1819 al Teatro della
Fontana Rossa di Bucarest, la lingua rumena dovrà aspettare
la fondazione della Società Filarmonica e del Teatino Nazio-
nale per salire definitivamente agli onori della ribalta, e ciò
doveva avvenire a Bucarest per opera di Joan Heliade Radulescu,
e non a Jassy, malgrado la prima idea ne fosse balenata ad
Asachi. Hahent sua fata libelli ! E questa volta il fato era che,
non al tenero abate, ma al feì^o alloWogo toccasse l'onore di
tenere a battesimo il nascente teatro rumeno, destinato da He-
liade a infranger le catene di un secolare servaggio e bisognoso
perciò del ruggito di libertà del leoncello alfieriano, più che
delle ariette leggiadre del Metastasio (2).
(1) Cfr. Arhiva, loc. cit.
(2) Cfr., nella Gazeta Teatrului del 1836, n. 12, p. 96, l'interessante cam-
pagna condotta da Joan Voinescu II e Barbu Catargiu contro le pochades,
le farse, « ... satirele personale, comediile lipsite de spirit, dar pline de fal-
c sitaci, scrierile reci alcatuite, farà stil, farà miezul, farà un ^1 raoral si
« 0 forma estetica », che « inlocuiau splendorile lui Voltaire, lui Shake-
« speare, lui Alfieri, lui Molière, lui Kotzebue, ori' Schiller pe scena nòstra,
« care, ca si publicul, aveà nevoe de lécurì sufletesci tntaritóre, nu de In-
€ demnuri la amagirì si la desfrìu » [... le satire personali e le commedie
prive di spirito, ma piene di falsità, male imbastite, senza stile, senza capo,
né coda, senza fine morale e senza forma estetica » che « sulla nostra scena,
bisognosa {come il pubblico nostro) di medicine morali corroboranti, noìi di
PRIMI CONTATTI FRA ITALIA E RUMANIA
87
Con le quali parole non intendo, naturalmente, detrarre al
merito grandissimo che pur ebbe questo nostro poeta, del quale,
a dir del Vàcàrescu, la poesia italiana s'è adornata, ma sol-
tanto rilevare, in omaggio alla verità, come, intorno al 1833-35,
il suo teatro non fosse più all'unisono col sentimento generale
e le idee dominanti cosi in Rumania come altrove (1). Ciò spiega,
come, mentre fin dal 1784 e dal 1797 la Clemenza di Tito e
V Achille in Sciro (2) fossero già tradotti, nessuno se ne ricor-
eccitamenti alle illusioni e alla sfreìiatezza dei costumi, avevan usurpato il
posto agli splendori del Voltaire, dello Shakespeare, dell'Alfieri, del Molière,
del Kotzebue e dello Schiller].
(1) 'L'Albina romàneasca infatti, che, pochi giorni prima, annunziava l'ar-
rivo a Jassy di un « Mr. Avanzo, jongleur italien avantajeusement connu
« dans les principales Capitales de l'Europe », a qualche numero di distanza,
crede invece doversi occupare del « fameux Mazzini » e di « autres membres
« de la Giovine Italia », che « répandaient partout des proclamations signées
« par le gouvernement provisoire révolutionnaire, tendantes à exciter le peuple
« à la révolte. Mais comme les habitants ne prenaient aucune part à ce mou-
« vement et que Romarino [leggi naturalmente: Raraorino] avait appris le
« mauvais résultat de l'expédition, il abandona ses gens et se saura sur le
« territoire de Genève ». Da Mr. Avanzo a Mr. Mazzini; dal successo ottenuto
dal giocoliere italiano « dans plusieurs maisons distinguées » di Jassy, all'e-
sito infelice della spedizione di Savoia! Un vecchio mondo di virtuosi che
scompare colle sue boriuzze, le sue miserie, le sue vergogne, un mondo nuovo
che nasce e par soccombere nei primi tentativi di sovrapporsi al vecchio!
(2) Ad una rappresentazione (almeno progettata) àoiV Achille in Sciro mi
farebbe però pensare la lista dei personaggi, che, nell'esemplare posseduto
àBlVAccadeììiia Rumena, porta le traccie di due diverse distribuzioni delle
parti:
OBRAZILE COMEDII
[Ptiicà]
[Debenor]
[Anah]
[DebenorJ
[Puicà]
[Zisso]
[Gesti..]
[VranaJ
LICOSIA ìmparatul Schirii
ACHILEFS in baine femeiesti numit
PIRA si ibovnicul Deidamii
AEIAÀmIA fiica lui AICOMIA
si ibovnica lui Achilefs,»
OÀlSEFS, solul elinesc
THEAGENI, Domnul Colchidi
logodnicul Deidamii
NEARH paznicul lui Achilefs
ARCAAIE credinciosul lui Odisefs
Aresti
Debenor
Popescu
Puicà
Vrana
Qestian
Popescu.
88 R. OBTIZ
dasse quando, dopo il 1830, il teatro rumeno cominciò ad affer-
marsi, che anzi il primo non vide neppur mai la luce per le
stampe (1). Del resto sottoscrivo di gran cuore alle belle parole
del Galletti, colle quali mi piace chiuder questo capitolo sulla
fortuna del Metastasio in Rumania, memore delle piacevoli ore
trascorse nella lettura delle soavi scene deìV Attilio Regolo e
della Bidone, quando non ancora codesto tristo mestiere di cri-
tico mi rubava alla compagnia consolatrice dei più alti spiriti
che abbian mai onorato e reso sopportabile questo nostro misero
mondo : « Lo squisito, il sottile, il melodioso genio metastasiano
« offerse non all'Italia soltanto, ma si può dire a tutti gli stra-
de nieri capaci di sentimento poetico, in una coppa elegante e de-
« licatamente cesellata un sorso di quella poesia, una goccia del
« filtro magico e persuasore di sogni, di cui parevano allora
« dovunque esauste le fonti. I limiti della sua fantasia e del suo
« sentimento parvero angusti alle generazioni che vennero poi :
« e veramente egli non fu che il poeta dell'amore, delle con-
« traddizioni, delle illusioni, delle disperazioni amorose ; stese
« un velo di sospirosa o giocosa melodia sulle varie e sottili com-
« plicazioni di questo tema eterno dell'arte umana, ma qui egli
« fu veramente poeta : il poeta più vario e delicato che l'Europa
« abbia avuto in quel secolo : l'erede e il successore legittimo,
« sebbene meno profondo e civile, del Racine » (2).
Ramiro Ortiz.
(1) Le medesime ragioni valgono a spiegare come Budai-Deleanu non con-
tinuasse la traduzione che aveva intrapresa del Temistocle. Cfr. il citato ar-
ticolo di G. BoGDAN-DuiCA, Despre Tiganiada, ecc., in Convorbiri Ltterare,
XXXV (1901), p. 484, n. 3.
(2) Cfr. la recensione eia citata del Galletti al volume del Maugain sul-
l'evoluzione intellettuale dell'Italia dal 1657 al 1750 in questo Giorn., 58, 221.
IMITAZIONI E REMINISCENZE
NELLE
POESIE JZ>EL aiUSTI
Chiunque sia curioso di conoscere le derivazioni della poesia
giustiana, rischia di formarsi delle idee false o assai confuse
intorno all'arte del Monsummanese, secondochè si lasci impres-
sionare 0 dai troppo benevoli editori de' suoi Scherzi o dai
« fontanieri » di professione. Che gli uni ingrossano, come si
lamenta ormai da parecchi, ogni fortuita rassomiglianza di
suono 0 di concetto e alterano i lineamenti del Giusti per farli
combinare coi tratti di poeti da lui troppo diversi; e gli altri,
per ignoranza o per idolatria, esaltano il Giusti come incompa-
rabile e credono la sua satira prole « sine matre creata ». —
È forse giunto il momento di procedere a una revisione dei giu-
dizi contraddittori, per poter dare al Giusti quello ch'è del Giusti
e mettere il poeta nella sua vera luce. Questo vorrei tentare io
0, dove non mi riesca, fare almeno che altri s'invogli di tentarlo
con maggior fortuna.
Uno degli editori più lungamente apprezzati del Nostro, il
Fioretto, giudicò il poeta « originalissimo » (1) e non sospettò
che potesse aver derivato da altri cosa (fi momento. « Acciden-
(1) Poesie di G. CHustt, illustrate con note storiche e fil. 2* ediz. Verona,
Mtinster, 1877, p. vi.
90 G. SURRA
« tali » parvero a lui certe somiglianze di alcuni Scherzi fra
i più noti a delle canzoni del Béranger; qualche frase o con-
cetto riprodotto da poeti italiani, fenomeno casuale e inconscio
(p. XXXII e seg.).
Il Ghivizzani che, scrivendo del Giusti, ebbe volto il pensiero
soltanto al possibile confronto col Béranger, concede che il To-
scano non abbia letto infruttuosamente il Francese, ma, dice:
« il G-iusti resta Giusti » (1).
Il D'Ancona affermò anche più recisamente l'originalità del
Nostro : « a niun altro somiglia e ninno potè felicemente imi-
« tarlo »; nulla di comune fra lui e il Parini, nulla di derivato
dal Béranger e dal Porta (2).
Il Puccianti, che è certamente il più strenuo esaltatore dei
meriti del Giusti, lo dichiara « proprio originale nel senso più
« preciso della parola > (3) ; appena forse gli s'attaccò, casual-
mente, una frase del Berni, dal son. « Un papato composto di
« rispetti », ma non ha imitato il Porta, solo conosciuto nel '46,
non il Béranger (p. xlii e 186).
Il Martini fu, da prima, nettamente avverso al raccostamento
del Giusti col Béranger: «tanto somiglia il G. al B. quanto il
« Berni a Mathurin Régnier »; e accusò il Correnti, che curò
l'edizione degli Scherzi del 1844, chiamando anonimo Béranger
l'autore, di aver cagionato in seguito « tanti paragoni e raffronti
« e paralleli fra i due poeti, perdonabili soltanto a chi non abbia
« letto né l'uno né l'altro » (4). Poscia, dopo lo studio compara-
tivo del Coppola, riconobbe che alcuni tentativi giovanili del G.
sentono del fare di Béranger, che, per es.. Il mio nuovo amico
è ricalcato su Monsieur Judas (5), ma una rondine non fa pri-
(1) G. Giusti e i suoi tempi, in Propugnatore, Vili, p. 94.
(2) G. Giusti, discorso, 1895, in Ricordi e affetti, Milano, Treves, 1902,
pp. 11-12.
(3) PoesÌ€diG. G^ws^e, Firenze, Lemonnier, 1906 (la 1» ed. è del 1899), p. vii.
(4) Appendice aìV Ejyistoìario di G. G., p. 465.
(5) Discorso pel centenario, Milano, Treves, p. 21.
IMITAZIONI E REMINISCENZE NEL GIUSTI 91
mavera e i due poeti non si somigliano ; e chi voglia tra i Fran-
cesi trovar un poeta da raffrontare al Griusti, scelga piuttosto il
Villon {Disc, p. 20). Però allargando il discorso alle imitazioni
italiane, accennò di passata a spunti e mosse prese dal Oiusti
all'Ariosto, al Rosa, al Menzini, all'Alfieri e consenti con lo
Gnoli circa le derivazioni giustiane dal Giraud {Disc, p. 22 e seg.).
Il Carli, ultimo commentatore d'una scelta di poesie del G.,
si mostra generalmente poco incline a riconoscere l'influsso di
poesie precedenti sul Monsummanese.
Riassumendo, la questione più grossa fu sollevata dal confronto
del G. col Béranger. Della fonte additata dallo Gnoli, nessuna
altra eco finora, ch'io sappia, fuorché nel commento del Carli.
Alcuni riscontri innocui col Porta, coli' Alfieri e altri poeti italiani,
accennati dal Fioretto e dal Martini, sono passati in silenzio e
dormono, senza discussione, fra le note di qualche commento sco-
lastico. Ma, come bisogna sfrondare parecchie esagerazioni del-
l'imitazione bérangeriana, cosi non sarà meno opportuno correg-
gere 0 completare molte altre derivazioni, più e men note, da
poeti italiani.
Cominciamo dunque dal Béranger. È noto che il Nostro, in
una lettera, riconobbe dal Francese « non dirò la nascita e la
« fisonomia, ma di certo una buona parte dell'allevatura » (1).
Nella stessa lettera, non terminata, e però non spedita, si loda
anche il Béranger di aver « saputo dare alla canzone francese
« gli spunti e il volo dell'ode, senza mutarne le corde, senza af-
« fettare di trapiantarla dal Caveau all'Accademia ». L'elogio fa
correre il pensiero all'aspirazione propria del Giusti, nella quale
egli non è però riuscito cosi appunto come il Béranger. Ma né
egli ebbe sempre una visione chiara della differenza fra sé e il
Francese — e forse in questa lettera esagerò, per compiacenza,
la sua quasi parentela e somiglianza «on lui — nò la critica
anonima dei contemporanei guardò le cose per sottile; e prima
(1) Epistolario di G. G., Lemonnier, 1904, III, p. 53.
92 G. SURRA
ancora che il G. morisse, la voce unanime lo salutava Béranger
dell'Italia, come nota il giornale La Frusta, nel 1848 (1). Certo
è che altra volta il poeta dichiara d'aver letto il Béranger
« dopo essersi imbarcato da un pezzo » (2). Il Coppola notò la
contraddizione (3) fra questa dichiarazione e la frase della let-
tera e, tutto inteso a scoprire le molte derivazioni, non prima
sognate, dal Béranger, credette di poter cogliere il vero soltanto
in quella che conveniva alla sua tesi. Ma il vero è in entrambe,
per chi interpreti con discrezione e senza prevenzione; e dopo
l'esame dei riscontri rilevati dal Coppola, può anche parere esa-
gerata la sentenza di chi, cioè il Mazzoni, affermò avesse il G.
tratte dal Béranger le intonazioni de' suoi Scherzi (4), può perfin
sembrare legittima l'esagerazione del Martini, che non vede
quell'allevatura e non sente queste intonazioni ; ma, sopra tutto,
si è più propensi a credere al Giusti stesso, quando dice che il
paragone di lui col Béranger gli pare ingiurioso a tutti e due.
Vero è che potrebbero anche non somigliarsi i due poeti, senza
che ne fosse provata la piena indipendenza dell'uno dall'altro;
ma, ad ogni modo, converrà ridurre di molto il debito immagi-
nario che avrebbe contratto la musa del G. con le canzonette
del Béranger.
Anzitutto, è una mera illusione del Coppola che La 'inanima
educatrice e Ma grand' mère siano « quasi identiche nel
« fondo » (5). Non la forma né il concetto né l'impostazione del
tema ne la situazione psicologica, non v'è nulla di comune fra
le due poesie ; nulla che, leggendo l'una, ti richiami l'altra alla
memoria. Chi voglia farsi un'idea di quel che può essere una
imitazione della canzone del Béranger, dovrà leggere La Nona
del BrofFerio. Né molto maggior analogia mi sembra di poter
(1) Epistol., Append., p. 551.
(2) Scritti vari, Lemonnier, 1866, p. 56.
(3) Béranger e Giusti, in Riv. abruzzese, febbraio 1906.
(4) L'Ottocento, p. 631.
(5) Op. cit, giugno 1906, p. 313.
IMITAZIONI E REMINISCENZE NEL GIUSTI 93
trovare fra II mio nuovo amico e Monsieur Judas^ che già
parvero accostabili al Fioretto (p. xxxiii). Non vera somiglianza
delle figure, ma si può notare nella satira italiana movimento
e ripresa simili nel giro di parecchie strofette, specie in quelle
frasi « io lo credo, io l'ascolto », che concludono analogamente
concetto e sestina come nel Béranger: « nous qui détestons,
« nous qui faisons, etc. ». Ma sarà molto difficile dimostrare la
derivazione di Un fossile dal Roger Bonterìips (1), del Prete-
rito più che perfetto del verbo pensare dal Marquis de Ca-
racas, di Per il priìno congresso dei dotti da La Sainte Al-
liance Mrbaresque, della Rassegnazione da Le bon Frangais^
degli Spettri da Le mort vivant^ de La chiocciola da Les escar-
gots (2), nei quali raccostamenti il Coppola è stato, anche qui,
preceduto dal Fioretto, senza però la temeraria intenzione di
volere indicare delle fonti giustiane. E neanche è possibile isti-
(1) Chi voglia trovare un antecedente del Fossile del Giusti, cerchi piut-
tosto in qualche strofa del Sòr harón del BrofFerio, ch'è a sua volta genuina
imitazione del Marquis de Carahas, e fu composto nel '31. Ma, quasi certa-
mente, il G. ha ignorato le poesie del « torototela » piemontese. Quindi i
riscontri che si possono scoprire fra gli Scherzi dell'uno e le canzoni dell'altro,
hanno un semplice valore di curiosità. Così, per es., il cenno delle sculacciate
scolastiche, ch'è in Crudel destici del BrofFerio (1831), che può richiamar il
noto del G.: « che huon prò' facesse il verbo », ecc., e l'idea generale di èl
cholera morbus (1832), che fa pensare al Colera del G. : « Nina, sbrighia-
« moci, I viene il colera ». — Ma il BroflFerio ha forse sentito l'influenza del
Giusti nel suo èl congress d' Milan (1844), dove l'enumerazione e descrizione
degl'intervenuti ricordano quelle àeìV Incoronazione del G., e la strofa della
chiusa richiama, pel tono se non pel senso, la conclusione posta dal G. bìV Av-
viso per MW settimo congresso : « Dato che torni un secolo | Agli arrosti pro-
« pizio I Se possa il carbon fossile | Servire al santo uffizio »; ma suona più
vivace e mordace : « Ai congress ch'a l'an da vni | Mi frattant a definì | I pro-
« pono, s'as peul fé | D'Italian con d' fafiochè | D' sitadin con d' lecca piat | E
« d' smens d'om con d' smens d' bigat ». — È certa invece ed innegabile la
imitazione del Brofferio nei ritornelli del suo ^st vei e griipia neuva (1853)
dall'intercalare di Girella: « Viva la patria | e i marenghin | Bruto e Temi-
« stocle I e San Martin ] Viva le cedole | la seta e '1 vlù | Caloss e Bormida J
« e '1 salam crù ».
(2) Op. cit., giugno e luglio 1906.
94 G. SURRA
tuire un confronto fra VAve Maria del Giusti e le molte can-
zoni del Béranger citate dal Coppola come probabili esemplari
di quella, fatta eccezione del Tratte de politique à Vusage de
LiseiX). Come Le missionnaire de Monirouge lia di comune colla
brutta poesia del G. la sola frase « Ave Maria », cosi La Gau-
drìole^ indicata come fonte della satira A un arnìco^ ha soltanto
un nome di comune con essa: Momo (« Momus a pris pour
« adjoints »). Né si può, senza rischio di prender lucciole per
lanterne, metter VAmi Robin, che è un volgare prosseneta di
professione, accanto a Gingillino, che potrebbe bensì diventar
tale anch'esso sviluppando logicamente l'indole che gli ha data
il poeta, ma non è tale, mentre è tante altre cose, nel ritratto
che il poeta ha voluto disegnare. Né chi legga Le don Fran^ais
del Béranger, potrà consentir col Coppola che la Rassegnazione
del G. richiami di quello il concetto generale (luglio, p. 374),
quando appena si può credere — tanto è diverso lo spirito e la
portata della sentenza — che i noti versi del G. « prima padron
« di casa in casa mia | poi cittadino nella mia città » trovino
qualche riscontro nel principio della canzonetta francese : « J'aime
« qu'un Russe soit Russe... En Franco soyons Frangais ».
Di tutte le derivazioni bérangeriane più o meno chiaramente
sostenute dal Coppola, resta pertanto ben poca cosa, e cioè: Il
brindisi di Girella da Le Palliasse e da Afa grand' mère] Il
papato di prete Pero da Le roi d'Yvetot; V addio: « Addio per
« sempre albergo avventurato » da L'adieu de M. Stuart e, più
che i toni e i colori delle scollacciate poesie giovanili del G.,
lo spirito generale, fra antichiesastico e libertino. Ma, anche a
proposito delle poesie di cui é certa la derivazione, sarà oppor-
tuno ricordare, per es., che il papato di prete Pero prende, più
che altro, dal Roi d'Yvetot lo spunto solo. Quel papa è un po-
vero diavolo, e un buon diavolo, come quel regolo del Béranger
« joyeux, simple et croyant le bien » ; ma porta nella sua testa
(1) Chansom, Paris, Baudouin, 1829, p. 178.
IMITAZIONI E REMINISCENZE NEL GIUSTI 95
una riforma sostanziale della chiesa e del clero ; e il re d' Yvetot,
die « sur son àne pas à pas parcourait son royaume », è ben
lontano dal potergli somigliare. E cosi sia detto di volo che il
Girella^ già paragonato dal Planche al Palliasse e poi dal Fio-
retto, ha più tratti simili col Ventru, esemplare non sospettato
del 1818 (Le Ventru au compie rendu de la session de i818,
p. 288):
Électeurs de ma province,
il faut que vous sachiez tous...
J'aurais vote dans un jour
dix fois contre et dix fois pour...
Enfin j'ai fait mes aifaires,
je suis procureur du roi.
A queste analogie di temi fondamentali e motivi parziali, fon-
date indubbiamente sulla conoscenza che il Giusti ebbe col Bé-
ranger, da lui letto e riletto e giudicato mirabilissimo, si può
aggiungere qualche battuta, che si trova sonar unisona ne' due
poeti. La chiusa del Roger Bontemps:
Vous, pauvres, pleins d'envie,
vous, riches désireux,
vous, dont le char dévie
après un cours lieureux...
eh gai ! prenez pour maitre
le gres Roger Bontemps,
richiama pel tono, a mio senso, l'ultima strofa della Chiocciola :
Gufi dottissimi....
voi, girovaghi,
Ghiotti, scapati.
Padroni idrofobi,
Servi arrembati.
Prego a cantare
L' intercalare :
Viva la chiocciola
Bestia esemplare!
96 G. SURRA
La quale chiocciola, se di lei può esser indicata una filiazione
legittima, potrebbe giusto derivare da qualche verso del Roger
Bontemps {Chansons, p. 38):
Aux gens atrabiliaires
pour exemple donne...
Vivre obscur à sa guise,
narguer les mécontents;
eh gai! c'est la devise
du gros Koger etc.
Posseder dans sa butte
une table, un vieux lit etc.
Cosi, mi sembra che in Le 7nemorie di Pisa il Giusti abbia
sviluppato più estesamente, in senso sociale e politico, un breve
tema d'indole morale ch'è appena proposto mLescandale{i^AQò):
C'est un vice ou deux
qui font l'honnéte homme...
Pour des vins de prix
vendons tous nos livres...
Grands réformateurs...
cbassez les erreurs,
nous gardons nos vices.
Paix! dit à ce mot
Caton qui fait rage,
mais il préche en sot,
moi je ris en sage.
Basta accennare questi tratti, per richiamar tosto alla mente
di quanti hanno ancor famigliare dal tempo in cui furono stu-
denti la nota poesia del G., simili sentimenti o atteggiamenti di
pensiero e di frase. Anche mi sembra che l'intercalare del G.,
in Professione di fede alle donne:
E posso ascrivere
a mia fortuna
se in certi articoli
basto per una
IMITAZIONI E REMINISCENZE NEL GIUSTI 97
possa raccostarsi a qualche verso di On s'en fiche (p. 174):
C'est trop d'une maitresse...
Que j'eus peu de sagesse
d'en avoir jusqu'à trois
à la fois!
E potrebbe darsi che il principio della canzone Ma rèpublique
(p. 213) avesse suggerito lo spunto de La Repubblica del G.:
« J'ai pris goùt à la rèpublique = Non mi pare idea si strana |
« la repubblica italiana ». Ma il Béranger seguita scherzando :
Je m'en fais une et je m'applique
à lui donner de bonnes lois...
Une table est tout son territoire,
sa^devise est la liberté;
mentre il Griusti prende, molto sul serio, a dimostrar l'utopia
repubblicana:
Dunque via, raggranellate
queste genti sparpagliate
tornino in famiglia ecc.
Certamente, è notevole differenza anche nei riscontri più si-
curi fra i due poeti. Direi che differiscano, in generale, fra loro,
anche quando l'italiano imita il francese, cosi come son diverse
le loro repubbliche : il Giusti è un provinciale toscano che s'ab-
batte a vivere e scrivere in mezzo ai conati del risorgimento
nazionale e di rimatore guadagnolesco e facilone si trasforma
presto in poeta serio, con intendimenti patriottici, con pretese
letterarie, con gusti sempre meno popolari; il Béranger è un
parigino, pieno di spirito indiavolato, ricco d'improvvise asso-
ciazioni, come povero di scrupoli di ogni sorta, felicissimo negli
estri e mutabile d'umore, ma sempre, in fondo, leggiero, scettico,
malizioso e, in mezzo alle varie vicende del suo tempo, sempre
costante ne' suoi amori per la volubile Lisette e per la musa
popolare. E un'altra profonda differenza salta agli occhi del cri-
QiwrnaU storico, LXIV, fase. 190-191. 7
98
G. SURBA
tico, appena si consideri la diversa natura esteriore degli Scherzi
e delle Chansons. Chi legga il Giusti o qualche poeta giustiano,
come per es. Gherardi del Testa che derivò anche lui qualche
cosa dal Béranger nelle sue poesie e potè essere scambiato col
suo compaesano, non sospetta facilmente che possano riprodurre
nei loro metri qualche suono francese : chi legge invece le can-
zoni del BrofFerio immagina subito in quelle rime, in quei ri-
tornelli una possibile eco francese. E le canzoni furono davvero,
al loro tempo, poesia cantata popolarmente, mentre i componi-
menti del Giusti e de' suoi imitatori furono e restano poesia da
leggere, non sempre accessibile al popolo. Questa differenza, più
ancora d'ogni altra che si potrebbe sciorinare senza difficoltà
da qualunque critico, può spiegare l'incredulità sostanziale del
Martini alle imitazioni del Giusti dal Béranger. Tanto gli pare
strana l'idea di quel raccostamento, che sarebbe disposto —
francese per francese — a sostituire il Béranger persino con
Francois Villon. Infatti, quella buona lana del Villon disse anche
lui, una volta: «je ris enpleurs», come il Giusti: «questo che
« par sorriso ed è dolore » (Disc, p. 21). Ma non è in questo sen-
timento il carattere essenziale del G., mentre potè ben essere,
e nella realtà della vita e nell'arte, il carattere proprio di quel
franco birbante del Villon (1). Del resto, il Martini crede tanto
poco egli stesso alla possibilità di questa un tantinetto assurda
equazione, che subito, immaginandola, senti che il raffronto del
Villon col Giusti « slabbrerebbe da più parti » {ihid.). Diciamo
da tutte! Quanto a me, preferisco avere in conto di fonte au-
tentica di quel verso e di consimili frasi del G., che rivelano
un certo fondo di retorica e di posa letteraria, i versi del Mon-
tanelli dal Martini stesso già indicati (2) : « Ah non sa il mondo
« che mi piange l'alma | Mentre il riso sul volto mi balena ».
(1) Il Villon ebbe, or non è molto, un'altra disgrazia immeritata, quella
d'esser paragonato col nostro Angiolieri {Cronache letterarie, 22 genn. 1911).
(2) Epist, I, p. 135.
IMITAZIONI E REMINISCENZE NEL GIUSTI 99
Se guardiamo più alle idee che ai sentimenti, troveremo che
un altro scrittore francese antico ha suggerito qualche cosa al
Giusti, e questo è il Montaigne, ch'egli giudicava uno degli scrit-
tori più forti, più pieni, più liberi da ogni pastoia {Ep.^ II, 252).
Quel certo buon senso pratico del gentiluomo guascone doveva
andar a sangue al toscano « borghese rimatore del buon senso ».
Inoltre, assai più che col Villon e col Béranger, il G. doveva
simpatizzar col Montaigne, che ebbe certi gusti e principi di-
rettivi della vita e dell'educazione molto affini a' suoi. Il Mon-
taigne, paesano come lui, amante di pochi libri piuttosto che
d'una cultura farraginosa e indigesta, che s'affezionò pai'ticolar-
mente a Plutarco e Seneca, come lui a Dante; che ama le teste
ben fatte piuttosto che ripiene, che « dall'infanzia non andò nella
« scienza oltre la prima scorza e sapeva d'ogni cosa e niente di
« tutto », è, come si vede, un ritratto che presenta parecchi li-
neamenti giustiani. E questo ritratto si ricava più che altro, da
un capitolo dei Saggi che il Giusti tradusse. Non senza ragione,
tra i molti Saggi del Montaigne deve egli aver proprio scelti il
XXV del I libro, che tratta dell'educazione e l'VIII del II, ove
si discorre dell'amor dei genitori verso i figli. Quest'ultimo, direi
che il Giusti s'inducesse a voltare in italiano con tanta cura,
come si può giudicare da chi paragoni la versione (1) col testo
originale, forse per consolarsi con quelle pagine dei torti che gli
pareva ricevere dal padre, tanto lontano dal conformarsi ai pre-
cetti del Montaigne, il quale condanna appunto nel suo Saggio
quei parenti che negano ai figli i mezzi opportuni.
Ma, comunque sia di ciò, non mi par dubbio che il Giusti o
abbia preso qualche ispirazione o si sia confermato, traducendo
— sebbene non intero — l'altro saggio De Vinstitutìon des en-
fants, in certe sue idee ben note circa l'educazione dei col-
legi. È ben vero che nella versione gin^tiana manca appunto
quel passo del Saggio che si riferisce alle pratiche manesche
degli educatori; ma chi ricorda il principio degVImmoMli e i
(1) Scritti vari, p. 78.
100 G. SURKA
semoventi, deve sentire in quei versi come un'eco lontana delle
parole del Montaigne. Il G. scrisse:
Che buon prò' facesse il verbo
imparato a suon di nerbo
nelle scuole pubbliche;
come insegnino i latini
e che bravi cittadini
crescano in collegio ;
e che razza di cristiani
si doventi fra le mani
d'un frate collerico,
tutti noi che, grazie al cielo,
non Siam più di primo pelo,
lo diremo ai posteri, ecc.
E il Montaigne confessava a madame Diana de Foix : « Entre
« aultres choses cette police de la pluspart de nos colleges m'a
« tousiours despleu. ...C'est une vraye geaule de jeunesse captive
« ...Vous n'oyez que cris d'enfants suppliciez (1) et de maitres
« enyvrez en leur cholere. Quelle maniere pour èveiller l'ap-
<f. petit envers leurs legons k ces tendres àmes et craintifves,
« de les guider d'une trongne effroyable, les mains armées de
« fouets ! » (2).
Ma ci sono, nel libro del Montaigne, altri spunti d'idee più o
meno sviluppate dal Giusti, sebbene si possa credere che la let-
tura frequente dei Saggi abbia avvezzato il poeta a certi abiti
mentali che son propri del francese, piuttosto che suggerito
chiaramente i pensieri, che si mostrano con aspetto somigliante
nelle sue satire. Ricordo il concetto generale della saffica al
Tommasi, ch'è accennato nella prima strofe*:
(1) Ricorda il pariniano : « ... fan le capaci volte echeggiar sempre di gio-
« vanili strida ».
(2) Essaia de M. de Montaigne, Paris, Lefèvre, 1836.
IMITAZIONI E REMINISCENZE NBL GIUSTI 101
Girolamo, il mestier facile e piano
che gl'insegnò natura, ognun rinnega
e vuol nei ferri de l'altrui bottega
spellar la mano.
E il Montaigne (I, xvi) : « Ainsin il fault travailler de reiecter
« tousiours l'architecte, le peintre, le cordonnier et ainsi du
« reste, chascun à son gibier... ». Il discorso comincia col par-
lare d'un giurista che volle criticare magistralmente una bar-
ricata, e contiene la citazione d'Orazio : « optat ephippia bos
« piger, optat arare caballus », che fa pensare a quell'altra zoo-
logia del Giusti : « invano a volgere il molino | sforzi la zebra
« 0 a farti il procaccino | la tartaruga ».
Il Martini indicò un riscontro a questo passo in una satira
dell'Ariosto, ma non è improbabile che abbia giovato maggior-
mente al Giusti la reminiscenza del Montaigne, molto più con-
sona allo spirito della sua poesia : « chascun à son gibier ». Mi
conforta in questa ipotesi l'osservazione d'un motivo giustiano
a lui prediletto e non solo nelle satire, ma anche spesso trattato
nelle lettere, che appare accennato in questa medesima poesia,
là dove parla di « cervel digiuno in una testa | di stoppa enci-
« clopedica imbottita». Questo è uno dei tratti satirici che meglio
rispondono all'indole e alla cultura del poeta; e altrove, analo-
gamente, si deride l'erudizione e lo sfoggio d'accattate eleganze
greco-latine. Cfr. Contro un letterato pettegolo e copista^ ove
sono le frasi
cranio parassito
all'erudita greppia incarognito...
Somigli uno scaffale
di libri a un tempo idropico e digiuno
e A uno scrìttor di satire in gala^ ch^ contiene questi versi :
Farai tronfiare e declamar la musa...
sempre in cerchio retorico rinchiusa?
... a tempo avanzato
ci scriverai di greco e di latino.
102
G. SURRA
Uno. che non la voglia a letterato,
che non ambisca a poeta di stia,
di becchime dottissimo inghebbiato;
e i noti versi de Le "ìuemorie di Pisa'.
bevi lo scibile
tomo per tomo,
sarai chiarissimo
senza esser uomo.
Ora, chi rilegga il saggio del Montaigne Im pedantisme, che
incomincia colla citazione d'una frase del Du Bellay : « mais je
« hais par sur tout un sgavoir pedantesque », vi troverà lo
stesso spirito e anche similitudini e traslati che hanno certa
analogia con quelli del Giusti : « Je diroy volontiers que comme
« les plantes s'estouffent de trop d'humeur et les lampes de trop
« d'huile ; aussi fait l'action de l'esprit par trop d'estude et de
« matiere : lequel occupé et embarassé d'une grande diversité
« de choses perde le naoyen de se desmeler et que cette charge
« le tienne courbe et croupy. ... Nous ne travaillons qu'à remplir
« la memoire et laissons l'entendement et la conscience vuides...
« Son latin et son grec l'ont rendu plus sot et presumptueux
« qu'il n'estoit party de sa maison. Il en debvoit rapporter l'ame
« pleine, il ne l'en rapporte que bouffle; et l'a seulement enflée
« en lieu de la grossir » (I, xxiv). Per quanto appaia manifesto
che le espressioni del Giusti non riproducono esattamente le
parole del Montaigne e sia più che certo che pensieri e senti-
menti riguardanti la pedanteria della soverchia dottrina costi-
tuiscono un aspetto particolare dell'indole nonché dell'arte giu-
stiana, non credo che la lettura e il ricordo più o men chiaro
di questo Saggio siano stati senza qualche influsso sull'educa-
zione letteraria del poeta.
La stessa impressione si può ricevere da chi, ricordando con-
cetti e immagini che si trovano nella satira A un giovinetto^
per es. :
IMITAZIONI E REMINISCENZE NEL GIUSTI 103
beccando un po' di tutto,
ossia nulla di nulla,
col capolino asciutto ecc.
Mole, aborti, embrioni
di stuprati pensieri
e un correre alla matta
col cervello a ciabatta
in torbida anarchia
ti tengono impedita,
capiti a rileggere queste parole del Montaigne : « Et comme
« nous voyons que les femmes produisent bien toutes seules
« des mnas de pieces de chai?^ informes, mais que pour faire
« une generation bonne et naturelle il les fault embesongner
« d'une anitre semence : ainsin est il des esprits ; si on ne les
« occupe à certain subiect qui les bride et contraigne, ils se
« iectent desreglez par cy par là dans le vague champ des
«imagìnations... L'àme qui n'a point de but estably, elle se
« perd » (I, vili).
Benché il Giusti non ne abbia mai parlato, è però certo ch'egli
ha verso un altro scrittore, suo contemporaneo, più debiti di
ispirazione e di composizione che col Béranger e il Montaigne ;
ed è appunto il Giraud, amico, prima di lui, del Capponi, in
casa del quale si conservarono manoscritte le sue satire.
Il G. dovette conoscerle per tempo, se già nei primi Scherzi
suoi mostra d'averne sentito qualche influsso e, come attesta il
Tabarrini, ripeteva quasi tutte a memoria le satire e gli epi-
grammi del poeta romano (1). Il Giraud, se proprio non aperse
0 indicò la strada al G., gli suggerì certo « motivi e spunti fé-
« liei », qualche metro, qualche verso, gualche arguzia, non già
soltanto « i suoni della sua musica ritmica », come par credere
(1) Gnoli, Satire inedite di G. Giraud, Eoma, Loescher, 1903, p. 154.
104 G. SURRA
il Martini (Bisc., p. 22). Non è facile confutare la dimostrazione
dello Gnoli circa due fondamentali derivazioni del Giusti dal
Giraud, cioè della Rassegnazione e zjroponimenio di cambiar
vita e del Gingillino, che sviluppano germi d'idee e riecheg-
giano accenti della Protesta e del Dialogo sulla sincerità del
satirico romano. Il gusto per certe parole sdrucciole, come : ca-
bala, bussola, panegirico (p. 157), l'uso di alcune frasi latine,
come: in ilio tempore, transeat, a latere, in facie ecclesiae,
nichil de principe parmn de deo, habemus pontificem (p. 171);
l'uso e l'abuso di enumerazioni e filastrocche di nomi o d'epiteti,
come si trovano nel Brindisi di Girella e nella chiusa della
Chiocciola (p. 159) si trovano prima nel Giraud che nel Giusti.
E cosi dicasi di certe immagini e figurazioni care al Monsum-
manese, per es. della galante pinzochera, del politicone e di quella
mezza gente miserevole o ridicola che figura nella scena e nello
sfondo degli Scheì^zi giustiani : tutta roba ch'è già sbozzata nei
versi pensati o estemporanei del Giraud. Quella certa somiglianza
dell'uno coll'altro può anche spiegare come la satira di quest'ul-
timo Nel sabato santo, all'amico in villa abbia potuto esser
compresa, con titolo mutato : Un desinare in tempo di quare-
sima, in qualche edizione, fra le poesie del Giusti (p. 155).
E chi voglia spigolare nel libro de lo Gnoli, potrebbe, oltre
alle derivazioni generiche e particolari avvertite dall'autore,
rinvenir somiglianze o consonanze di stile, di rime, di concetti
del Giusti col Giraud, che lo Gnoli trascurò di notare, se pure
non gli sfuggirono, che mi par quasi certo. Ecco un mazzetto
di questi « paralipomena ».
Il Giraud conclude un epigramma col verso « tanto di carne-
« vale che in quaresima » (p. 211) e il Giusti scrisse, prima nella
lettera in versi a Elvira Giampieri Rossi [Ep., I, 243) :
ha fatto insomma la vita medesima
tanto di carneval che di quaresima
e riprodusse poi la rima e il verso nel primo dei Bue brindisi.
— Tra i versi estemporanei del Giraud si legge (p. 305) :
IMITAZIONI E REMINISCENZE NEL GIUSTI 105
Tutti i martiri e dottori,
i profeti e confessori,
benché zoppi, vengon fuori.
Il metro e il movimento della frase richiamano strofe ben
note del Bies trae :
Tutti i principi reali
e l'altezze imperiali...
Già la corte, il ministero,
il soldato, il birro, il clero
manda il morto al diavolo.
Un epigramma del Giraud dice (p. 211):
Seminando, dicea compar Mattia:
è sterile il podere, io sudo invano,
— Ma perchè, giuraddio, grida il pievano,
Non dev'esser così la serva mia?
L'interrogazione è foggiata sul medesimo stampo di quella del
Giusti, nella Ghigliottina:
Oh perchè, dice al Canosa,
questo genio non m'è nato
nel ducato?
Cosi si può agevolmente notare l'analogia dell'espressione
negli esempi seguenti :
Del Giraud, Dialogo sulla sincerità (p. 233) :
Gli effetti variano,
se dall'astratto
portansi i termini
al nudo fatto.
Del Giusti, La RepvMlica :
Ma se poi discendo all'atto
dalla sfera dell'astratto...
106 G. SURRA
Del Giraud, ibidem :
Tutto è crisalide
che si trasmigra
con metamorfosi
0 pronta o pigra.
Del Giusti, E ballo :
Una è crisalide
d'un quondam frate.
Del Giraud (p. 245) :
Col labbro esprimere
voci del cuore
senz'artifizio
di mentitore,
è un ben ch'inebria,
ch'ogni altro avanza.
Del Giusti, Le memorie di Pisa :
Quel tu alla quacchera
di primo acchito,
virtù di vergine
labbro in quegli anni,
che poi stuprandosi
coi disinganni,
mentisce armato
d'un lei gelato.
Del Giraud, La protesta (p. 266):
Quel devoto che l'amore
tien fra il letto e il confessore
Del Giusti, // giovinetto :
... le penelopee
che si smezzano in seno
il pudore, l'amore,
il ganzo e il confessore.
IMITAZIONI E REMINISCENZE NEL GIUSTI 107
E noterò ancora del Giraud, per conchiudere, un aggettivo e
un nome, che hanno riscontro nelle poesie del Giusti. Giraud
(p. 266) : « la sfacciata garga fante | pria pagata, poi pagante ».
— G-iusti, Gingillino : « Se al mondo è femmina | garga e
« maestra » (si tratta d'un aggettivo raramente usato da altri).
Giraud (p. 268) : « Se non sento compassione | d'un Pirlone ».
— Giusti : « Gole di frati al nuovo don Pirlone \ diranno ev-
« viva », in Rassegnazione e proponimento, ecc. Don Pilone
chiamò il Gigli il suo Tartutfe toscano; il tipo e il nome di-
ventarono in Toscana proverbiali. Il Puccianti {Op. cit., p. 7)
ignora com'esso abbia preso quell'epentesi di un r. Certo per
bizzarria umoristica del popolo, ma, forse, cosi trasformato, passò
prima nell'espressione letteraria per opera del Giraud.
Senza dubbio, su questi riscontri da me indicati e sugli altri
dimostrati da lo Gnoli si può discutere e anche sofisticare,
cangiar la certezza di certi casi in semplice probabilità e anche
negarla del tutto; ma l'attento lettore e spassionato non può non
riceverne l'impressione generale che il Giusti abbia o poco o
molto sfruttato, migliorando o perfezionando bensì, le satire del
Giraud. E mi pare troppo facilmente disposto « a mettersi al
« nego » il Carli, che nel suo commento (1) chiama il Giraud
« vero 0 supposto precursore » del Giusti e vorrebbe menomare
0 negare la dipendenza dell'uno dall'altro « e per la metrica e
« pel resto » (p. 3-4). Pel resto è detto abbastanza. Circa la me-
trica, quando si osservi la frequente analogia delle strofe e dei
ritmi brevi fra l'uno e l'altro, e si ricordi il procedimento al-
quanto meccanico del >. nel comporre, ch'è accennato negli ap-
punti per la biografia di lui dal Tabarrini (2), onde un verso
ricordato a memoria e ripetuto lungamente gli suggerisce per
associazione vocale e ideologica versi e rime e concetti, non
parrà strano che le strofette del Giraud gli abbiano suggerito,
0 spesso 0 di rado, lo spunto ritmico, monche altro. Prima del
(1) G. Giusti, Poesie scelte, con commento, Firenze, Sansoni, 1912, p. 196.
(2) Martini, Disc, pel cent., p. 25.
108 G. SUBRA
Giusti la satira letteraria ebbe poca varietà metrica, quindi gli
Scherzi giustiani parvero originali e più gustosi per la molte-
plice varietà dei ritmi e strofe, oltreché degli argomenti. Anche
per la felice scelta dei metri onde rinfrescò talvolta nobilitan-
dole le forme dell'antica poesia toscana, parve accostarsi mag-
giormente al popolo. E furono ricordati, per es., come precursori
di lui per la strofe distica di ottonari coronata dal cosiddetto
senario sdrucciolo, Jacopone e Franco Sacchetti (1). Ma non solo
in Toscana, si bene anche a Roma e altrove quelli o metri simili
ci offre la poesia popolare più o meno antica. E specie nelle
Pasquinate, fu già notato dal Ghivizzani (p. 104), si trovano metri
e mosse che paion del Giusti, es. : « Dies irae è morto il papa |
« gli è venuto un accidente | non fa niente ». Ora chi credesse
che, nella sua non soverchia cultura letteraria, il G. abbia cer-
cato nell'antica poesia i modelli de' suoi vari metri, mentre gli
erano offerti in copia dalle satire del Giraud, dimenticherebbe
forse che la poltroneria è stata la sua Musa e che il Giusti fu,
salvo negli ultimi anni, quanto a studi e ispirazione, tutto mo-
derno e contemporaneo. Erra certo lo Gnoli nel credere che il
Giraud fosse primo a usare la combinazione strofica de gli otto-
nari conchiusi da un quadernario colla stessa rima (p. 169), che
forse parecchi altri rimasti inediti, prima di lui e con lui attin-
sero, per epigrammi e facezie rimate, alla poesia melodramma-
tica e agli inni del breviario romano; ma non è niente affatto
un'ardita ipotesi il conchiudere che il Giusti debba all'esempio
di lui principalmente l'aver scelto piuttosto certi metri che altri
— il che non importa naturalmente che si debba escludere ogni
altra ispirazione od influenza, popolare o dotta che si voglia; e
non sarebbe da omettere, per esempio, come apparirà in seguito,
il Misogallo dell'Alfieri.
Dai « vicini » o paesani suoi, contemporanei o di poco ante-
riori, il G. non ha derivato cosa di notevole importanza: l'epi-
(1) Ottolini, Delle forme metriche del G., in Riv. d'Italia, I, 1909.
IMITAZIONI E REMINISCENZE NEL GIUSTI 109
fonema d'un sonetto: «E tutto si riduce a parer mio... a dire
« esci di li ci vo' star io », nonché qualche epigramma dal Pa-
nanti (1); movenze di stile più che altro dal Guadagnoli suo
maestro, nei primi saggi di poesia giocosa; niente dal Forti-
guerri, il cui Ricciardetto diceva pure di preferire a tutti i
giornali del mondo (2), ma parecchio nello stile e nel pensiero
degli Scherzi più lavorati dal Menzini, non invano commentato.
Già il Fioretto aveva avvertito la conformità di un verso del-
V Incoronazione « come se fosse il conte di Culagna » con un
altro del Menzini (3), e citato dalla sat. II del medesimo:
(1) BiAGi, Gli epigrammi del Pmmnti, in Aneddoti letterari, Milano,
Treves, 1896.
(2) BiAGi, Vita diG. Giusti, Firenze, Lemonnier, 10* ed., 1911, p. 133.
(3) n verso del G. è coniato su quel del Menzini « come se fosse di Cu-
lagna il conte », ma la figurazione del « Rogantin di Modena » e qualche
tratto del « Lazzarone paladino infermo » son dovuti al Tassoni, dal cui ri-
tratto del conte di Culagna derivò certamente il Giusti i lineamenti delle sue
caricature. Infatti neW Incoronazione è detto del primo :
Boghi e mannaie macchinando vuole
con derise polemiche indigeste,
sguaiato Giosuè di casa d'Este,
fermare il sole ;
e del secondo :
Di tante armi ohe fai, re Sacripante?
Sfondar ti pensi il cielo con un pugno?
Smetti, scimmia d'eroi, t'accusa il grugno
di zoccolante.
Queste qualità tipiche si trovano già nel conte di Culagna tassoniano {Sec-
chia, m, 12):
Quest'era un cavalier bravo e galante,
filosofo, poeta e bacchettone^
ch'era fuor de' perigli un Sacripante,
ma ne' perigli un pezzo di polmone ;
spesso ammazzato avea qualche gigante
e si scopriva poi ch'era un caj^pone.
Di un altro riscontro che sarebbe nella Secchia, IX, 44, del padre di Titta
col Becero della Vestizione e che già anch'io avevo segnato tra i miei ap-
punti, vedo che ha fatto cenno il Carli (p. 71).
Ilo G. 8UKRA
il gran Tonante
chiamò la plebe di ricchezza carca
a corte e die di cavalier l'insegna
a nn mascalzone, a un timonier di barca (1) ;
a riscontro del Becero della Vestizione. Il Martini, oltre gli ac-
cennati, additò un altro riscontro del Giusti col Menzini fra quel
che si dice dall'uno a proposito d'un tenore e dall'altro d'un
saltimbanco. Ma l'imitazione del G. è in quel passo più sicura
che non sembri dalla citazione del Martini : « È pur corbello, |
« bimbi, chi spende per tenervi a scuola ». Il Menzini scrisse
nella sai VII:
Che occorre che Crispino aneli e sudi
in saper l'abbici? Quest'è l'ingegno,
queste son l'arti e gli onorati studi (2).
E il Giusti nello scherzo Per un reuma d'un cantante:
che importa a noi del nobile intelletto
che per l'utile nostro anela e stenta?
dove la mossa interrogativa, il senso generale, la clausola rispon-
dono a capello al terzetto del Menzini. Ma del Menzini egli si
giovò ancora altre volte variamente in certi spunti che si giudi-
cano esser tra i più felici e si credono più originali. Basta leg-
gere i seguenti passi tolti a varie satire menziniane, per rico-
noscere i principali motivi svolti dal G. nella sua cosi detta arte
poetica, A G. Tommasi :
... Tu la scena
dell'umane follie mira in disparte,
e sian per te teatro... (I, 224).
(1) Questa medesima terzina citò il G. nelle illustrazioni ai Proverbi (Le-
monnier, 1853, p. 399).
(2) Cito dall'ediz. Sonzogno, Satire, 1879, p. 265.
IMITAZIONI E EBMINISOENZB NEL GIUSTI 111
[Cfr. del Giusti: « Tu dei pagliacci all'odierna festa | fischia il
« trescone »] :
Ognun gonfia la piva in stil pindarico,
gorgheggia ognun messo in Parnaso il becco ecc.
... Io no; che in Pindo or altra paglia imbecco,
nauseando il troppo usato pasto...
Ciascun di loro il suo mestier rinnega
e del polmone ambizioso e tisico
le fracid'ale all'aura vana spiega.
Cosi comincia la sat. Il (p. 227) del Menzini e il Giusti intona
l'esordio della sua poesia al concetto e alla frase di quello, e ne
serba il suono in qualche rima :
Girolamo il mestier facile e piano
che gì' insegnò natura ognun rinnega
e vuol nei ferri dell'altrui bottega
spellar la mano.
Ognuno in gergo a scrivacchiar s'è messo
sogni accattati, alFetti che non sente...
Non tutti il vento forestiero intasa;
V'ha chi bee le native aure vitali...
Tommasi, Vumor mio fra mesto e lieto
sgorga in versi balzani e semiseri
né so piallar la crosta a' miei pensieri.
E ancora con questa poesia del G. ha relazione l'esordio della
menziniana sat. Ili (p. 235) :
Anch'io volea cantar d'assalti e d'armi
e dando a divorar carne d'eroi
del ventoso polmon far tromba ai carmi.
Ma per me, Apollo, son seccati i tuoi
ruscelli ameni e dopo a la gran cena
da bever non avranno gli avoltofi
Pur tenterò con satiresca avena,
mentr'io bagno nel fele il labbro secco,
far sentire una zolfa orrenda e piena.
112 G. SURRA
Il Giusti, in tono più amabile, presenta il medesimo con-
trasto di tendenza, eh' è il concetto dominante deW Origine
degli scherzi:
Lascia la tromba e il flauto al polmone
di chi c'è nato o se l'è fitto in testa.
Tu de' pagliacci...
fischia il trescone.
Potrebbe darsi anche che tutta quell'ornitologia simbolica con
cui comincia la terza parte del Gingillino'. « 0 merli tarpati...
« 0 galli potati... 0 gufi pennuti... » e falchi, nibbi, corvi, spar-
vieri, avoltoi chiamati al pasto, fosse un'amplificazione d'un'im-
magine del Menzini, che potè suggerire il concetto (III, 237):
I furbi augei che della gran bonaccia
di lui s'erano avvisti, a lui dintorno
stavan di grazia e di favori in traccia.
Ma senza dubbio è da ravvisare un meno opportuno influsso
del Menzini sopra un altro passo della Vestizione:
Ma di modi arcigni e tronfi
non ho copia in casa mia
né un bisnonno che mi gonfi
di fastosa idropisia.
Fu notato dal Carli il vizio della digressione autocritica e bio-
grafica che interrompe il racconto della visione di Becero (p. 68).
Ora chi non sa che negli artisti principianti è spesso «croce e
delizia » una reminiscenza molesta, ch'essi finiscono con lo sfrut-
tare a detrimento dell'economia della composizione? — Al Giusti
frullava certamente nella memoria, e non seppe liberarsene, un
pensiero del Menzini (I, 225):
... Ma tale ingegno ed arte
non ho che gonfi in qualche gran libraccio
del ventoso cervel le vele sparte,
IMITAZIONI E REMINISCENZE NBL GIUSTI 113
che se è un motivo abbastanza ripetuto nel satirico di Ruba-
conte diventa abituale atteggiamento nell'arte del Monsummanese,
come si può rilevare dalla satRca Al Tommasi, dal Ballo e un
po' da per tutto nelle poesie e nelle prose.
Questa influenza delle satire menziniane sull'arte del Giusti
— alquanto più notevole che non sia stato immaginato finora —
è del resto facilmente spiegabile, chi pensi che il poeta ha la-
vorato parecchio tempo sul Menzini, mentre non s'occupò gran
fatto degli altri satirici toscani. Stando alle dichiarazioni del
Giusti medesimo, egli avrebbe fatto nel '35-'36 una buona parte
del commento a quelle satire e anche abbozzato un cenno sulla
vita e le opere del Menzini (1). Del lavoro non possiamo giu-
dicare, perchè è rimasto inedito e forse è andato smarrito, né
il pochissimo che ne cita il Prassi di su le carte del poeta, ba-
sterebbe per formarcene un'idea, ma dalle accennate imitazioni
si può argomentar che quel lavoro non riusci infruttuoso per
l'arte sua.
Del Borni invece che, per certa sua indolenza, parrebbe do-
versi più assomigliare che altri al Giusti ; che fu pigro e lento
nel comporre almeno quanto il Giusti, se bisogna credergli sulla
parola :
Compongo a una certa foggia mia,
che se volete pur ch'io ve lo dica,
me l' ha insegnato la poltroneria (2) ;
quasi nulla si trova d'imitato negli Scherzi del Nostro, salvo il
sonetto Tedeschi e granduca che primo il Fioretto avvisò rical-
cato su quel del Berni [fonte anche del son. del Carducci, Pietro
Fanfani e le postille^ : « Ser Cecco non può star senza la
« corte I né la corte può star senza ser Cecco » ; e quel verso
del Gingillino : « quel nuvolo di se, di ma, di forse », certa re-
(1) Frassi, Epistolario di G. G., Lemonnier, 1859, p. 32, della Vita, e 107,
delle Lettere.
(2) « Al card. IppoUto de' Medici », ediz. Sonzogno, p. 125.
Giornale storico, LXIV, fase. 190-191. 8
114 G. SURRA
miniscenza del Berni nel son. : « Un papato composto di rispetti »,
ben noto al Giusti che lo citò due volte, sempre scambiando
papa Clemente VII con Adriano VI. E anche questa derivazione
fu prima avvertita dal Fioretto, se non che sembra probabile
che l'Alfieri contribuisse pure a quella imitazione, col suo « dei
« ma, dei se, dei forse ecco lo stuolo ». Inoltre un riscontro del
Oingillìno col Berni a proposito di barbe, potrebbe far pensare
airodio che per le medesime professava il Giberti : « ma il pa-
« drone | aveva con la barba aspra questione », e il Giusti :
barba no, ci s'intende, un impiegato...
quanto più serba il muso di castrato,
tanto più entra in grazia al principale.
Degli altri satirici di cui tocca il Nostro nel suo discorso sul
Parini, che sono l'Ariosto e il Rosa, è più facilmente riscontra-
bile qualche influenza del secondo che del primo, negli Scherzi
del Giusti. I versi del Oingillìno :
Ciurma sdraiata in vii prosopopea
che il suo beato non far nulla ostenta,
gabba il salario e vanta la livrea,
sempre sfamata e sempre malcontenta,
dicasterica peste arciplebea,
come già fu notato dal Martini {Bisc.^ 22), ricordano, ma non
soltanto per la rima, si anche per certa sonorità e pienezza di
ritmo, più propria del napoletano che del toscano, questi che si
leggono nella Musica del Rosa (1) :
Ciurma che mai si sazia e si contenta,
quanto più se le dà più se le dona,
scellerata divien, peggior diventa;
Plebe che altro non pensa e non ragiona
che a passar l'ore in crapole e sbadigli...
(1) Sfxtira I, ediz. Sonzogno, p. 81.
IMITAZIONI E EBMINISCBNZE NEL GIUSTI 115
E non parrà dilììcile trovare un riscontro di rima e di parola
fra i versi :
Aver nell'alma il canchero e lo scirro...
Oh s'io faccio il pittor, ch'io faccia il birro!
del Rosa (sat. Ili, 132) e i seguenti de Le ^memorie di Pisa:
Via dalle viscere
l'avaro scirro
di vender l'anima,
di darsi al birro!
E ancora a proposito di barbe, il Gingillino giustiano poteva
anche ricordar il precetto del Rosa (I, 81) :
In corte chi vuol esser ben voluto...
sia musico o ruffian, ma non barbuto.
Né mi sembra da escludere la possibilità che, giudicando del
valor poetico del Rosa, il Giusti avesse in mente una terzina
^q\V Invidia^ quando scrisse di lui che « lo scrivere non era l'arte
« sua naturale, ma un di più del suo ingegno ». Difatto i versi
del Rosa suonano (VI, 202) :
Dimmi, ti par che tanto in là si stenda
l'ingegno ed il saper d'un che per arte
tratti i pennelli e alle pitture attenda?
L'Ariosto ha potuto prestare al Giusti una citazione nella let-
tera autobiografica al Vannucci : « io meglio i miei | casi d'ogni
« altro intendo », che appartiene alla satira seconda, un verso
nel Sortilegio : « credete a chi ne ha fatto esperimento » {OrLy
XXIII, 112), e un altro nella Vestizione', «da la pratica grande
« che ne avea » — cioè Becero, dell'itsura — ch'è una leggiera
alterazione di quel «per la pratica lunga che n'avea» dell'Or-
bando (XXVIII, 21). Di questo s'accorse già il Fioretto ; e il Mar-
tini volle trovar un'altra reminiscenza ariostesca dalla sat. IV :
116 G. SURRA
« non si adatta una sella o un basto solo | ad ogni dosso », ecc.
hqW Orìgine degli scherzi:
Chi nacque al passo e chi nacque alla fuga.
Invano invano a volgere il mulino
sforzi la zebra ecc.
pei quali versi ho già indicato un riscontro nel Montaigne. Ma
a me pare che quei notissimi concetti e sentimenti che for-
mano la cosi detta paesanità del Giusti e la cui espressione si
trova in parte, per es., nel secondo de / brìndisi « brindisi per
« un desinare alla buona », cioè nei versi :
A noi qui non annuvola il cervello
la bottiglia di Francia e la cucina...
Chi del natio terreno i doni sprezza
e il mento in forestieri unti s'imbroda...
Oh beato colui che si ricrea
col fiasco paesano e col galletto!
abbiano, se non un riscontro verbale di suoni, almeno una non
dubbia corrispondenza nella sostanza, sebbene la situazione psi-
cologica dei due poeti non sia la stessa precisamente, con un
altro passo della già citata satira terza :
In casa mia mi sa meglio una rapa
ch'io cuoca e cotta su 'n stecco m'inforco
e mondo e spargo poi d'aceto e sapa,
ch'a l'altrui mensa tordo, starna o porco
selvaggio; e così sotto una vii coltre,
come di seta e d'oro ben mi corco...
Chi vuole andare a torno, a torno vada;
vegga Inghilterra, Ongheria, Francia e Spagna
a me piace abitar la mia contrada (1).
(1) Le Satire di Lud. Ariosto, a cura di 6. Tambara, Livtm», Giusti,
1903, p. 109.
IMITAZIONI E BEMINISCENZE NEL GIUSTI 117
D'altri poeti più antichi studiati dal Giusti, credo non valga
la pena indicare le spicciolate reminiscenze di piccole frasi.
Si comprende facilmente che quando in gioventù « pagò il novi-
« ziato al Petrarca belando d'amore », abbia derivato qualche
cosa anche lui da messer Francesco e che, a furia di studiar
Dante e postillarlo, gli si sia ogni tanto attaccato, scrivendo, un
pensiero o un costrutto dantesco; ma troppo era disforme l'in-
dole del Giusti dall'una e dall'altra delle « due corone » fioren-
tine, perchè la sua poesia potesse ricavarne vital nutrimento.
Checche ne abbiano fantasticato parecchi suoi editori e commen-
tatori, il Giusti tanto somiglia a Dante quanto il suo centone
pel ritratto di Dante somiglia alla Divina Commedia. E all'in-
fuori di quell'occasione poche altre volte egli ha riecheggiati
ne' suoi Scherzi o nelle liriche sentimenti e parole del « vicin
« suo grande ».
Sono sogni di mente fantasiosa i riscontri scoperti dal Puc-
cianti della Comniedia col Giusti \iq\V Amica lontana (1). E
non si potrebbe immaginar niente di più farraginoso dei riscontri
danteschi apposti in più luoghi dal Fioretto al testo delle poesie
giustiane; come sono la più parte fantastici ed arbitrari gl'in-
flussi del poema sacro che il Crocioni credette di poter additare
in noti versi danteschi per certi luoghi del Nostro (2).
Cosi potrebbe dirsi del Parini, che, sebbene il Giusti abbia
(1) Cfr. il suo commento a p. 20 e seg., dove ai versi: « Or flebile mi suona
« e par che dica | ne' dolenti sospiri » è annotata la frase nei sospiri come
modo dantesco, quasi fosse derivazione di quelli dell' Jw/". Vili : « E dicea nei
« sospiri I chi m'ha negate le dolenti Case »; ed è tenuta sputata dantesca la
frase « come una rosea nuvoletta al vento ».
(2) Cfr. passim il suo discorso premesso alle Postille [alla Divina Com-
media] di G. Giusti, Lapi, Città di Castello, 1898, in Coli. op. dant., diretta
dal Passerini]. Chi crederà che il concetto del San Giovanni sia derivato dal
dantesco « la tua città... produce e spande il maledetto fiore »; che la saf-
fica al Tommasi proceda dal Farad., Vili: «*E se il mondo laggiù ponesse
« mente | al fondamento che natura pone »; che il verso « Volle il prete a
« dispetto della fede » con quel che segue sia ispirato dall'apostrofe a Co-
stantino, ecc. ecc.?
118
G. SURRA
letto e riletto quando dovette prepararne l'edizione pelLemon-
nier, non esercitò sopra di lui notevole influenza né per lo stile
né per la sostanza, forse perché non studiato mai prima delle
sue amicizie milanesi o, certamente, non preferito nelle sue let-
ture giovanili al Menzini e agli altri toscani, che, quasi soli, nel
principio della sua carriera, gli furono familiari.
Ma d'un altro milanese, il Porta, sebbene scrittore vernacolo
e perciò non di facile intelligenza per lui toscano, senti più
tardi, cioè verso il tempo in che si occupò del Parini, un'influenza
maggiore e più profonda che dei satirici italiani; e più tracce
ne sarebbero rimaste nei versi suoi, se la morte non avesse
troncato poco dopo la sua operosità ; segno certo che erano dei
tratti afiìni nel suo temperamento artistico con quello, mentre
quasi nulla dalla natura e dalla sorte ebbe di comune coll'autore
del Giorno. Il Giusti doveva conoscer poco più che la fama del
Porta quando nel '43 declinava modestamente l'onor del para-
gone con lui e diceva, scrivendo al Grossi {Ejj.j II, 546), di te-
nersi beato se gli potesse legar le scarpe. Ma poi « lesse e ri-
« lesse attentissimamente » il Porta e il Grossi e « a forza di
« tempestarci su e di tirar a indovinare, trovò il bandolo del
« dialetto tanto da assaporarlo »{Ep., II, 114). Il breve soggiorno
in casa del Manzoni lo fece innamorare di tutte le cose mila-
nesi, quindi anche maggiormente del Porta, che poi nel '46 leg-
geva « tra una pietanza e l'altra » (Biagi, Vita, 97). E sotto il
benefico influsso di quella lettura nacquero appunto il S. Am-
brogio, La rassegnazione, il Delenda Carthago e altre poesie
meno fortunate, dove più o meno si notano spunti e risonanze
del Porta.
Pel S. Ambrogio qualche riscontro fu già additato prima dal
Fioretto, poi da parecchi altri, con più poesie portiane. Ma non
bastano / desgrazi de Giovannin Bongee, Miserere e Fraa
Condutt a esaurire il catalogo dei possibili raffì-onti con quella
poesia. Mosse analoghe e quasi ugual sapore di scherzo si tro-
vano in altri componimenti del Porta, per es. nel son. Vùc-
cinazion :
IMITAZIONI E REMINISCENZE NEL GIUSTI 119
a proposet, lustrissem, de vaccina
ch'el senta, s'el voeur rid, questa che chi
ch'el sarà on mes che la m'è occorsa a mi;
e nell'altro A on veì^o colon'.
Coss'el voeur, Eccellenza, che responda?
[Cfr. « Che vuol Ella, Eccellenza? il pezzo è bello... »]. E bisogna
aggiungere che anche più riscontri si trovano nei Desgrazi che
non si siano finora indicati, per es., dal Guastalla (1) e dal Carli
(p. 253), onde, per completare la somma delle somiglianze del
S. Ambrogio con questa poesia, citerò in un fascio versi vecchi
e nuovi :
De già, lustrissem, che semm sul descors
de quij prepotentoni de Frances,
ch'el senta on poo mo' adess cessa m'è occors
jer sira intra i neuv e mezza e i des...
Seva in contraa de Santa Margaritta
e andava insci beli beli, come se fa...
El sentirà mo adess el bel casett!
Di altri riscontri, quale, per es., della strofa undicesima della
2 erra dei moì^tv. « Perchè ci stanno addosso » ecc., col son. del
Porta : « El sarà vera fors quel ch'el dis lu », indicato dal Gua-
stalla (p. 135) e di una assai problematica rassomiglianza del
ritratto di Taddeo nelVAmor pacifico col « ciappin tentador »
di On striozz del Porta, credo inutile discorrere. Si tratta, nel
primo caso, di analogia meramente fortuita, che nel tempo della
composizione della Terra dei morti il Giusti non aveva ancora
familiarità col Porta ; nell'altro non mi pare possibile il raffronto,
per più d'una ragione.
Ve bensì una poesia del Giusti, poco nota e non condotta a
pulimento dall'autore, che ha con un'altra del Porta tante somi-
(1) Poesie di G. Giusti, scelte e commentate, Livorno, Giusti, 1910.
120 G. SUKBA
glianze d'impostazione, di sviluppo, di forme e di movenze che
si può considerare come una vera imitazione portiana. Si tratta
del son. « Io liberale? » (Scritti vari^ 443).
Il Porta nel Sonett col covon scrisse:
Mi romantegh? Soo ben ch'el me coujonna.
Mi sont classegh fin dent al mòli di oss,
mangi, bevi, foo el porch in Eliconna
e ai Eomantegh che guardi nanch adoss.
E il Giusti :
Io liberale? Signor Presidente!
io che non penso che a su' Altezza Reale (sic),
io che pago e sto zitto, io liberale?
Il Porta passa quindi in rassegna tutti i bei vantaggi che ri-
cava dall'esser classico, e seguita :
.. Ch'el varda mo usciuria
se me peu convegni de renunzià
a tanti comod per andà a cerca
sta rogna de gratta.
Ch'el varda lù se occor risciagh la peli,
lassa i bei vialon per di stradell,
suda come on porcell,
per vess sieur, quand sont rivaa a bottega,
de trovagh nanca on asen che me frega!
No, no, no vuj sta bega!
Classegh sont e vui stagh! Saront fors anch
on cojon, ma on cojon classegh almanch.
E il Giusti, certo con minor vena ed arguzia, riecheggia nel
corpo del sonetto e nella coda le battute principali del Porta:
Guardi se per la foia
di quest'Italia che sarà una perla,
metta la pena di mostrar d'averla! (cioè la testa)
IMITAZIONI E REMINISCENZE NEL GIUSTI 121
Per me, tiro a tenerla
sopra le spalle più anni che posso...
Che un nobile, uno ricco come me
si confondesse a pigliarla coi re:
e per concluder che?
Per perder fin all'ultimo quattrino...
Sor Presidente mio, non son sì bue.
Ma una fonte del Giusti appena sospettata, e non più che per
due 0 tre versi ; fonte invece copiosa e varia di pensieri, di frasi,
di sentimenti, di atteggiamenti fu l'Alfieri, del quale il Martini
riconobbe già l'influsso per qualche rima sul « crocifero babbeo »
del Brìndisi (Disc, 23) e il Guastalla avverti l'analogia ideale
fra La plebe (sat. Ili) e l'ultima parte della Scritta (p. 154) ;
mentre il Fioretto, pur mettendo in testa alla Scritta del Giusti,
come epigrafe, alcuni versi della satira II dell'Alfieri, non si
pensò che i due autori potessero trovarsi in altro rapporto che
di semplice fortuita somiglianza per un concetto satirico. E co-
minciamo appunto dalla Scritta :
Un de' nostri usurai messe una volta
l'unica figlia in vendita per moglie,
dando al patrizio che l'avesse tolta
delle fraterne vittime le spoglie.
Questo è, come chi dicesse il tema del polimetro giustiano,
che il poeta trovò non più che proposto invero dall'Alfieri, ma
in quello stile pregno d'idee non espresse e fecondo d'incrementi,
per un artista che vi mediti su. Infatti, tutta la favola, i perso-
naggi e le varie situazioni della Scritta si possono scoprire in
germe nella satira d'Alfieri :
Nel veder che in ricchezza altri l'avanza,
ei rugge: ha scelta quindi un'aurea moglie,
onde s'impingui la di lui baldanza.
Ricca d'impuro sangue, ella gli toglie
un bocconcin di stemma gentilizio,
ma gli dà d'una o più città le spoglie:
122 G. SURRA
che il di lei babbo a sua prosapia inizio
die con ribalde usure (a quel ch'uom dice)
or Sempronio spolpando or Caio or Tizio.
Chi voglia avere in conto di casuale l'analogia tematica delle
due satire, può leggere ancora una terzina dell' Alfieri:
Tosto il grande al vii suocero disdice
sua casa : dai gran Giove in aurea pioggia
nata è la sposa',
e si ricorderà del pittore, nella Scritta, che pagato tardi e poco
dal quattrinaio, fra gli altri soggetti onde imbrattò le pareti per
dar la berta al padrone, vi dipinse proprio Giove, trasmutato in
pioggia di monete,
che scende a Danae in braccio
ad onta del chiavaccio.
E seguitiamo con altri riscontri di temi fondamentali. L'Al-
fieri, nella sat. XII « Il commercio », scrisse:
Voi, Siculi 0 Polacchi, il grano vostro
dateci tutto o vi farem noi guerra.
Pascavi invece il salumaio nostro.
E più oltre :
Cambiatori e finanzieri,
gli eroi son questi ch'oggi fa la piazza.
Cfr. del Giusti La guerra :
Ma che è questo scoppio
che introna la marina?
Nulla, un carico d'oppio
da vendere alla China,
è una fregata inglese
che l'annunzia al paese.
IMITAZIONI E REMINISCENZE NEL GIUSTI 123
... I barbari una volta,
oggi le mercanzie
migran da luogo a luogo,
bisognose di sfogo.
Strumento di conquista
fu già la guerra: adesso
è aifar da computista :
vedete che progresso!
Pace a tutta la terra:
a chi non compra guerra
... Gli eroi macellari
cedano alle stoccate
degli eroi milionari.
È noto il son. dell'Alfieri : « O gran padre Alighier ». L'autore,
pieno ancor di bile contro il papa e il cognato della contessa
d'Albany e altra gente di chiesa e del mondo che l'hanno ferito
nel suo amore e nel suo orgoglio, chiede a Dante se un uomo
come lui, Alfieri, « Contro invidia e viltà de' stringer l'armi ».
E Dante risponde :
Figlio, io le strinsi e assai men duol...
Se in me fidi, il tuo sguardo a che si abbassa?
E il son. A Dante del Giusti non è cosi diverso nell'imposta-
zione e nella chiusa che non faccia ripensar a quello, come fonte
probabile d'ispirazione :
E vih adesso e traditori ed empi
ci chiaman gli empi, i vili e i traditori...
Ma tu consoli noi tanto minori
a te d'affanni e di liberi tempi,
di cuor, d'ingegno e di persecutori.
Fu censurata La terra dei morti pel doppio senso equivoco,
su che si fonda l'arguzia della prima parfe della poesia. Il pro-
lungato giochetto dello scambio fra la morte propria e la morte
figurata finisce col dare aspetto di sciarada a qualche strofa. Ora
124 G. SURRA
simile bisticcio, colFinsistente doppio senso, è già in un periodo
alfìeriano del dialogo « della virtù sconosciuta ». Parla l'ombra
di Francesco, l'amico senese già trafficante di seta : « Privato
« ed oscuro cittadino nacqui io di picciola e non libera cittade ;
« e nei più morti tempi della nostra Italia vissuto, nulla vi ho
« fatto né tentato di grande ; ignoto agli altri, ignoto quasi a me
« stesso, per m,orire io nacqui e non vissi; e nella immensis-
« sima folla dei nati m^orti non m.ai vissuti già già mi ha
« riposto l'oblio » (1). Ecco nelle parole sottolineate lo spunto
del Giusti :
A noi larve d'Italia
mummie dalla matrice
è becchino la balia;
ecco l'equivoco
Per morto era una cima,
ma per vivo era corto ecc.
Il Giusti parti in guerra due volte, con un epigramma e con
un capitolo ternario, contro i poeti eruditi che accattano faticose
eleganze dai classici :
0 chiarissimo ciuco,
0 cranio parassito,
all'erudita greppia incarognito ecc.
(Contro un letterato pettegolo e copista).
Satirico chiarissimo, lo stile
vorrai forbire...
vorrai di porcherie tenute a mente
spogliando Fiacco, Persio e Giovenale,
latinizzare il secolo presente?
(A uno scrittor di satire in gala).
Sarà stato un quissimile del D'Elei, chi pensi alle dotte satire
(1) Opere, ediz. centenaria, voi. X, p. 200.
IMITAZIONI E REMINISCENZE NEL GIUSTI 125
di quel povero ingegno, che fu morso con un epigramma dal-
l'Alfieri (Op., IV, ep. XLiv):
Da Marzial, da Giovenale accatti
la rabbia e il fiele e i denti.
Quindi sì ben rammenti
i loro sali e a te sì ben gli adatti
ch'hai proprio il lor ingegno.
Il Giusti non ignorava certamente l'epigramma alfìeriano.
La riforma evangelica tentata da prete Pero fatto papa, che
voleva « ripescare in prò' del cielo | colle reti del vangelo | pesci
« che ci scappino », come dicono i sovrani, era già stata proposta
in un popolare epigramma dell'Alfieri : « il maggior prete | torni
« alla rete » (IV, ep. xxxvi), idea o frase già prima rispecchiata
nel preterito p. che p. del v. pensare : « ai pescivendoli torna
« il vangelo ».
Il doppio concetto su cui s'impernia lo Scherzo del re Tra-
vicello : del principe inetto, dei sudditi da poco :
^
Tacete tacete
lasciate il reame,
0 bestie che siete,
a un re di legname.
Volete il serpente
che il sonno vi scota?
Dormite contente
costì nella mota,
0 bestie impotenti:
per chi non ha denti
è fatto a pennello
un re Travicello;
questo doppio concetto, con simile conclusione, si trova già in
un epigramma dell'Alfieri composto nel 1795 (IV, lxiii) :
VitoU il capo, le man, la borsa e il cuore,
pur vi pensate, o re, di rimanere?...
126 G. SURRA
Di virtù vìwti, di giustizia e fede,
liberi farvi, o popoli, sperate ?
Stupido 0 tristo è ben tra voi chi il crede...
Dunque, quai siete, state,
popoli e re, che Vun Valtro mertate.
Né par difiScile ravvisare concetti e sentimenti alfìeriani assai
ripetuti, per es., nel Misogallo, nelle Parole d'un consigliere
al sica principe:
E della torbida
Senna le ondate
son fuochi fatui,
son ragazzate,
e la volubile
genia di Brenno,
che infuria e prodiga
la vita e il senno,
che le repubbliche
distrugge e crea,
non cangiò d'indole,
cangiò livrea.
Basti ricordare a confronto le chiuse d'alcuni sonetti miso-
gallici, per tacer di altri anche troppo facili riscontri:
Sei repubblica tu, gallica greggia,
che muta or servi a rei pezzenti armati?
{son. « È repubblica il suolo »).
Schiavi or siam sì, ma schiavi almen frementi,
non quali, o Galli, e il foste e il siete voi
schiavi, al poter qual ch'ei pur sia plaudenti.
{son. « Di libertà maestri »).
È frutto nel Giusti, senza dubbio, di un inconscio atteggiamento
alfieriano del suo pensiero politico quella ripicchiata distinzione
fra popolo vero e popolo falso o plebe, che si trova, per es.,
IMITAZIONI E EBMINISCENZB NBL GIUSTI 127
nella satira Agli spettri^ hqW Incoronazione e qua e là nell'epi-
stolario.
L'Alfieri scrisse nel Misogallo (son. Vili: «Io cui natura»):
Servii gregge malnato, invan ti nome
popol; sei plebe e il sei più ria che avanti;
e non stimò altro mai che plebe quel popolo che aveva fatto la
rivoluzione francese. Anzi, più volte nelle prose cercò di chia-
rire cosi il vero concetto della libertà. Chi legga le sue parole in
versi e in prosa distese nel testo, o ristrette in note schiaritole,
vedrà appunto in esse la genesi prossima non solo dei versi del
Giusti, ma di molta retorica politica del Risorgimento. Mi limito
a ricordare due luoghi del Misogallo^ in uno dei quali è defi-
nita popolo « non la feccia oziosa e necessitosa ma la moltitu-
« dine, quasi totalità di onesti abitanti si dejla città che del con-
« tado » e nell'altro l'autore protesta con gran forza: « amore
« e adorazione della libertà vera; profondo e ragionato abborri-
« mento per un popolo che colle ribalde e servili sue opere ha
« intrapreso e compiuto pur troppo presso ai maligni e idioti la
« ignominiosa satira del sacrosanto nome di libertà » (Op., IV,
p. 130 e 139).
E il Giusti, già néiV Incoronazione nega che sia popolo la
turba che grida evviva al « raccolto stormo tedesco »
il popol no : la rea ciurma briaca
d'ozio, imbestiata in leggiadrie bastarde
che cola, ingombro, alle città lombarde
- fatte cloaca.
Poi, più tardi, in Alli spettri del 4 sett^ '47:
Popol non è che sorga a vita nwova,
è poca plebe...
È poca plebe e prode di garrito...
0 popol vero, o d'opre e di costume
128 G. SURRA
specchio a tutte le plebi in tutti i tempi,
levati in alto e lascia al bastardume
gli stolti esempi.
Anche il don Abbondio del Giusti grida « popolo e libertà »,
ma egli non è popolo e non conose la libertà. Ci vuol altro ! Il
vero popolo è modesto e pio, egli solo, nato libero, può, fra ti-
rannide e licenza, segnar la via alla plebe, « al volgo in furia
« e al volgo impastoiato ». E sopra questo stesso doloroso ine-
luttabile contrasto di libertà e licenza, di veri e falsi liberali si
fonda la poesia più sinceramente lirica che abbia scritto il Giusti,
la quale ha titolo non opportuno Dello scrivere per le gazzette
e mette alla gogna la vile ciurmaglia che s'atteggia a liberale
sfruttando e screditando la libertà: «Bruti, Licurghì, Catoni e
Gracchi, pullulati d'ozio nell'ozio nati » mentre la libertà è « ma-
« gnanimo freno e desio severo di quanti in petto onorano con
« lei l'onesto e il vero ». Da questi sentimenti a quelli che sono
espressi nel capitolo ad A. Vannucci, L'elezione {Scritti vari, 409)
è logico e facile il passaggio.
Quella poesia, chi non conoscesse i precedenti dell'autore,
potrebbe sembrar l'espressione d'un perfetto retrivo o di tale
che, deluso della libertà al primo esperimento, non avrebbe diffi-
coltà a rinnegarla. È appunto la figura che fa l'Alfieri, il quale
spese l'attività di poeta e pensatore negli ultimi anni a riman-
giarsi, ricreduto in gran parte, gli entusiasmi libertari della età
inesperta.
Del resto, riscontri men notevoli, che se non si possono aver
in conto di fonti certe, appaiono bensì echi più o meno fedeli
e risonanze di frasi, pensieri, parole dell'Alfieri, sono non sol-
tanto nelle poesie, ma anche nelle lettere del Giusti assai fre-
quenti, tanto da lasciar credere che le opere dell'Astigiano, spe-
cialmente le satire e gli epigrammi, gli fossero molto famigliari;
sebbene di rado ne' suoi scritti gli abbia espressamente citati.
Due volte, nella prefazione contro gli editori di Lugano e nel-
l'Epistolario (I, 351) fa proprio un motto dell'Alfieri: « Rubino
IMITAZIONI E BEMINISCENZE NEL GIUSTI
129
« i ladri, è il lor mestiere, il mio | è di schernirli » ch'è del
Misogallo (son. XI) e un'altra volta nel discorso sul Parini, fon-
dandosi quasi certamente sopra il son. « lento, steril, penoso, pro-
« sciugante » (III, 129), cita l'opinione dell'Alfieri intorno al limar
i propri versi, per contraddirlo.
Ma le molte consonanze particolari fra i due poeti — alcune
delle quali vogliamo ben credere casuali — accusano lettura
frequente e sufficiente memoria di più cose dell'Alfieri da parte
del Giusti.
Ecco una lista dei principali riscontri:
Eroi, eroi,
che fate voi?
Ponziamo il poi.
{Il poeta e gli eroi da poltrona).
Pedanti, pedanti,
che fate voi?
Ansanti, sudanti,
stiam dietro a voi (1).
{Op., IV, ep. xx).
Al re dei re che schiavi ci conserva Mandra è di talpe, di conigli e cervi
mantenga Dio lo stomaco e gli artigli; da poche volpi affastellata in branco,
di coronate volpi e di conigli (sat. xiii).
minor caterva
intorno a lui s'agglomera.
{U incoronazione).
La nomea di poeta e letterato
ti reca, amico mio, di gran bei frutti,
(son. La nomea ecc.).
Balbetta di morire,
e di che? di lattime?
{Il giovinetto, che prima ebbe ti-
tolo: Il bimbo nonno).
L'arte ch'io scelsi è un bel mestier,
[perdio.
... Stanca in tal guisa, e sazia
tace anzi tempo ogni laudevol brama
in chi scrivendo merca itala fama.
{Op., m, 78).
Vecchi bambini, carchi di lattime.
{Op., IV, 144).
(1) Fu avvertito già dal Martini e parecchi altri.
Giornale storico, LXIV, fase. 190-191.
130
G. SURKA
Noi toseremo di seconda mano,
babbo, in tuo nome.
{L'incoronazione).
Ottocento San Marini
comporranno i governini
dell'Italia in pillole.
[La repubblica).
Nella penisola
tira a sboccare
continuo vomito
d'alpe e di mare.
Piovono e comprano
gli ossequi stessi
banditi anonimi,
serve e re smessi
a cui confondersi
col canagliume
non è che un cambio
di sudiciume.
(17 hallo).
Proibì di ristacciare
i puntigli del collare,
pena la scomunica;
proibì di belar inni
con quei soliti tintinni,
pena la scomunica;
proibì che fosse in chiesa
più l'entrata che la spesa,
pena la scomunica.
{Il papato di prete Pero).
Cisalpine Spartine
di sei mesi bambine,
già il ben di tutti il picciol cor v'in-
e con brevi manine [fiamma
rubate già da far invidia a mamma.
{Op., IV, 24).
Kepubbliche funghine
(IV, 25).
L'una fogna nell'altra si travasa
(IV, 201).
I « re smessi » han riscontro coi
« vice-tiranni smessi » ossia ministri
licenziati, in Della tirannide, lib. I
{Op., X, 139).
Esempio di simile ripetizione è nel-
l'epigr. xLiv {Op., IV, 196), dove la
frase « la repubblica leva » è detta
quattro volte in quattro terzetti.
Altra ripetizione, che ha maggior ana-
logia con quella del Giusti, è nella
sat. XI : « In nome della santa uma-
« nità I chi vuol che i rei s'impicchino
« s'uccida I e in nome della santa li-
« berta | chi non crede in Volterò e
« in noi s'uccida » (1).
(1) Questi versi citò il Guastalla a riscontro di quelli del Délenda Car-
thago : « Vogliam che ogni figlio di Adamo | Conti per uomo e non vogliam
« Tedeschi », ecc.
IMITAZIONI E REMINISCENZE NEL GIUSTI 131
Per me, tanto ho deciso Al mio nascer ci fui, ma mezzo appena,
di non voler veder la morte in viso : al mio morir io spero
perciò, se piace a Dio, che assisterovvi intero
quando arriverà lei me n'andrò io. e forse doppio, se avrò polso e lena.
{Epigr.). (IV, 21) (1).
E c'è un sonetto famoso del Giusti L' arrutfapopoli che ha
molto dell'Alfieri del Misogallo nel tono, ed è chiazzato d'al-
fierismo un po' da per tutto: nella costipazione dei molti ag-
gettivi in uno stesso verso : « invidioso oltrecotante inetto », nel
contrasto delle immagini del verso « libera larva di plebeo ti-
« ranno », nel conio dei vocaboli e del costrutto : « tutto sfa,
« nulla fa, tutto disprezza » e particolarmente nel concetto della
chiusa :
fecondità del mulo a cui natura
die forte il calcio e più l'ostinatezza
ed i coglioni per coglionatura.
L'Alfieri, come anche un poco il Baretti, ha avuto una singo-
lare predilezione per certe parole che si riferiscono alla virilità,
dirò cosi, secura di sé ed a quell'altra che brilla per la sua as-
senza. Contrapporre la propria viripotenza gagliarda all'impo-
tenza altrui gli piacque almeno quanto il contrapporre la sua
repubblica a quella dei Francesi, quindi spesso nelle sue frec-
ciate satiriche usò il vocabolo « eunuco » e scherni l'eunucherie.
Ecco qualche saggio:
Semi-Claudi imperanti
han gl'Itali sì infranti
che mezzo eunuchi siam, mezzo impotenti.
(IV, epigr. xiLx).
(1) Parrà a qualche lettore un po' strano mettere a riscontro due epigrammi
che tendono a significar un pensiero opposto; ma qui potrebbe essere, più
probabilmente che altrove fra pensieri analogia, una derivazione altìeriana.
Bicordo un avvertimento del Foscolo {In morte di G. Trenti, versi di C. Arici,
art. critico): « Piaccia al lettore di riflettere che il presentare al rovescio le
« concezioni d'un altro scrittore, è un facile artifizio per dar aspetto di no-
« vita al proseguimento d'una stessa idea ».
132 G. SUREA
Forse non dàn gl'italici Narseti
Giusto il peso dei gallici Taleti ecc.
(IV, P. 181)
(e in nota « schiaritola » l'Alfieri dice Narsete più glorioso di
Bonaparte)
A diverbio un eunuco era venuto
con un poeta: questi in due parole
fé' rimanerlo scorbacchiato e muto :
un paio più di quel che aver l'uom suole
all'arte mia fa d'uopo e tu no '1 sai,
perchè appunto se' tu ciò che non hai.
(IV, epigr. Lxi).
Ora il Giusti ha forse anche troppo spesso sentito il bisogno
di vituperare l'impotenza fisica, intellettuale e morale, e non si
può non sospettare che l'esempio dell'Alfieri ve l'abbia incorag-
giato. Il noto epigramma
chi fé' calare i barbari tra noi?
sempre gli eunuchi da Narsete in poi,
ch'è riecheggiato nella chiusa d'un son. {Scrìtti va7% 445) « viva
« gli eunuchi da Narsete a voi » (1), è molto probabilmente una
risonanza dell'epigramma alfieriano. Ma parecchi altri luoghi
palesano l'influsso d'Alfieri:
Tu del cervello eunuco
all'anime bennate
palesi la virtù colle pedate
(Contro un letterato pettegolo e copista).
Non sarò visto volontario eunuco
recidermi il cervel perch'io disperi
la firma d'un real castrapensieri.
(A G. Tommasi).
(1) n son. s'intitola: A tutti coloro che se lo meritano; ma mi par, più
che a ogni altro, allusivo al granduca.
IMITAZIONI E REMINISCENZE NEL GIUSTI 13S
Perchè volerci eunuchi
anche nel cataletto?
{La terra dei morti).
eunuco insatirito...
e non ha cuor né senno
di dir mi sento menno.
{H giovinetto).
Il Giusti diceva, assicura il Prassi suo biografo (p. 31), di
aver imparato i generosi rabbuffi da Salvator Rosa, ma sarebbe
stato più conforme al vero il dire che rabbuffi e altro aveva
imparato dall'Alfieri prima forse di conoscere il Rosa. Negli
Scritti vari (pp. 5-16) è un cenno intorno alla vita di Celestino
Chili nonno materno del poeta. È una scrittura ben fatta, senza
frasi né proverbi, con dignità di stile eguale e sostenuto secondo
la miglior tradizione letteraria, con echi tra del Guerrazzi e del
Colletta. La figura del Chili che fu di meriti forse più modesti
che non paresse al nipote, sorge dallo scritto con un certo ri-
lievo pieno di nobiltà alfieriana, anzi ricorda per più d'un tratto
l'Alfieri. « Togli l'austerità e il colore dei capelli, il volto, la
« persona rammentavano l'Alfieri col quale ebbe dimestichezza ».
Anche lui fu terribile nell'ira. Nel suo ritiro, da vecchio « par-
« lava delle cose che furono, come di sogni ingannevoli, e di
« gioconda ironia rallegi'ava i racconti ridendosi de' suoi av\^er-
« sari come di buffoni... Di Napoleone non voleva udir parole, e
« udendole dava in esclamazioni d'ira e di spregio ». Il nonno
mori nel '25, quando il nepote contava 16 anni. Nel '37, scri-
vendone i cenni sulla vita, non potè non compiacersi di quello
che forse nell'avo gli parve gran titolo di gloria, la dimestichezza
coir Alfieri; un certo gusto per idee e frasi alfieriane dovette
provenirgli, se non durante la scapataggine dell'adolescenza,
certo più tardi, quando senti la vocazione e l'ambizione lette-
raria, da chi sa quali ricordi famigliari intorno a la vita e gli
scritti dell'Alfieri. Quel ritratto alfiereggiante, la qualità del
bisavolo che fu « trafficante di seta » (p. 5) proprio come del
134 G. StJBBA
Gandellini aveva scritto l'Alfieri, son piccoli indizi; una certa
analogia di temperamento inclinato alla satira, all'irrisione con-
fessionale, alla politica di opposizione può bene, insieme con
quelli, far pensare che il Giusti, uomo di pochi libri, cercasse
men di rado che di altri autori le opere dell'Alfieri. Cosi credo
di potermi spiegare la maggior parte dei riscontri verbali o di
pensiero che ho notati di lui coli' Astigiano; e mi sembra di do-
vermeli senz'altro spiegar cosi, quando studiando i due poeti,
m'abbatto in altri riscontri fondamentali di idee, di atteggia-
menti, di gusti e di fissazioni. Senza questa, or conscia ora, e
forse più spesso, inconscia influenza dell'Alfieri sul Nostro, mi
parrebbe strana la casuale somiglianza, per esempio, di questo
passo dell'epistolario con un ben noto vanto alfieriano : « Di tre
« cose ringrazio con tutta l'effusione del cuore l'altissimo dispen-
« satore dei beni e dei mali, cioè d'esser nato in modesta for-
« tuna, d'aver sentito il bisogno di coltivar l'ingegno, d'averlo
« preservato da ogni ciarlataneria » (I, 412). L'Alfieri nelle Rime
(IV, 175) ha il son.:
Pregio mi fo di quattro cose, e grado
ne so non lieve al donator destino,
cioè ch'egli sia non di vii mandria, non nato plebeo, non pari-
gino, e che è poeta; e cosi nel principio della Vita individuò
tre qualità dei parenti: nobiltà, agiatezza, onestà, ascrivendosi
a gran ventura l'esser nato cosi e non altrimenti. Né può sem-
brar altro che una risonanza alfieriana quel principio di un suo
ritratto in versi, che il Giusti non compiè e si trova in una
lettera al Marzucchi del 1836: « or lieto or mesto » (1).
La stessa paesanità, come sentimento e come espressione let-
teraria, ora esaltata ora vituperata dai critici del Giusti, è in
(1) Va notata, a questo proposito, una curiosa appropriazione di pensieri
ed immagini leopardiane che si trova nella lettera a M. Trenta, degli ultimi
del '49 {EiJ., 111,367-69). Il Giusti parla della morte: « Viene come l'amore,
« con la differenza che l'amore ti mette in mille gineprai e la morte ti leva
IMITAZIONI E REMINISCENZE NEL GIUSTI 135
fondo un ruscelletto orgoglioso non ignobil figlio del prepotente
nazionalismo alfieriano. Il ruscelletto s'è impaludato nello stagno
toscano prima del Risorgimento, conservando un carattere spic-
catamente provinciale, mentre il nazionalismo, che l'ha creato,
è corso trionfalmente per la sua strada, diventando fonte co-
mune e general patrimonio di letterati e statisti; ma forse, senza
l'esagerato disprezzo di ogni cosa straniera: costumi, arti, let-
terature (la « mal succhiata oltra montaneria », sat. IX, I), che
informa la vita e l'opera dell'Alfieri, non sarebbe stata l'esalta-
zione del genio e del gusto paesani, che è come un ritornello
in molte lettere e in parecchi Scherzi del Giusti. Ecco l'espres-
sione del sentimento alfieriano:
D'ogni gallume risanate e pure
già già l'idee riporto appien d'oltr'Alpe,
viste dapprima tai caricature...
(sat. IX, e. I).
Ogni esotico innesto a me dispiace.
(sat. IX, e. II).
Per l'Astigiano non meritano nome di lingue e letterature
se non le classiche e l'italiana : « l'Attica, il Lazio, indi l'Etruria
« diero Tardi poi sotto ammanto ispido fero | Sorser l'altre
« europee genti novelle »; e pretesero far poesia : « Ciò disser
« carmi e chi '1 credea n'è degno ». Ma l'Alfieri non cadrà in
quell'errore, anzi si guarderà perfin dal conoscere la produzione
straniera (III, 130):
Di tai loro barbarici bei detti
vendicator, d'ira laudevol pregno,
giungo securo dall'averli io letti.
« d'impiccio una volta per sempre. In ogni mode, o bella o brutta che sia ...
« avrei potuto addormentarmi per sempre senza un' ombra di dolore; anzi
« come uno che ha portato un grave fascio per lungo tratto di via e che
« alla fine non volendo stancarsi oltre il bisogno, lo pone in terra » , ecc. Cfr.
del Leopardi Amore e morte e Canto notturno d'un pastore, ecc.
136 G. SURRA
Cosi appunto il Giusti, senz'aver letto quasi niente delle let-
terature straniere, senza conoscere i romanzi della Sand —
« patto che ho meco stesso di non leggere romanzi oltramon-
«tani » {Ep.^ II, 115) — disprezza la Sand e Victor Hugo, di-
sprezza il forestierume, anche lui « securo » dall'averlo praticato.
E non solo un buon Toscano dev'essere persuaso dell'eccellenza
dell'ingegno italiano e de' suoi prodotti, ma deve guardarsi dalle
mode straniere perfin nella cucina, per patriottismo:
Chi del natio terreno i doni sprezza
e il mento in forestieri unti s'imbroda,
la cara patria a non curar per moda
talor s'avvezza.
Filtra col sugo di straniere salse
in noi di voci pellegrina lue,
brama ci fa d'oltramontano bue
l'anime false.
La chiocciola^ La terra dei tnorti^ La Rassegnazione con-
tengono le variazioni di questo motivo che basterà aver accennato.
Il Giusti non ha mostrato maggior affezione mai di quella che
professò costante al principio dell'impersonalità della satira.
Troppo spesso egli ne parlò e ne han parlato i suoi biografi,
per citar qui le sue varie sentenze a quel proposito; ma non di
rado è venuto meno, voglia o non voglia, al suo principio.
L'Alfieri ha fatto lo stesso, salvo che intendesse escludere gli
epigrammi e il Misogallo dal numero dei componimenti satirici,
riserbandosi quella libertà di mordere negli epigrammi indivi-
duate 0 facilmente individuabili persone, che si negava, per os-
sequio della corretta tradizione letteraria, nelle satire vere e
proprie :
Di tutti il cor, di niun la faccia io veggio.
Cosi nel prologo ; e, con più enfasi, sentenziò altrove : « Le
« satire non a mordere i privati vizi e laidezze e molto meno
« a nominarne gli attori... ma il lor veleno tutto e i loro fui-
IMITAZIONI E RBMINI8CENZE NEL GIUSTI 137
« mini rivolgeranno unicamente a smascherare e trafiggere il
« pubblico vizio » {Del prìncipe e delle lettere^ X, III, 98).
È un'idea del Oiusti spesso ripetuta — basta confrontar l'epi-
stolario e le Memorie (1) — che il carnefice o il tiranno sia da
compianger più delle vittime.
Chiunque abbia dimestichezza col pensiero alfieriano, vedrà
l'idea del Giusti presentarsi «con simile atto e con simile faccia»,
cosi da sembrar una cosa sola con certe idee dell'Alfieri. Ora
quell'idea si può ricavare naturalmente da quel che l'Alfieri ra-
giona in Bella tirannide sulla paura, sulla viltà e sul primo
ministro {Op., X).
Cosi l'atteggiamento politico del Giusti, che lo fece prendere
in tasca da conservatori e democratici, ricorda nel fatto e per
certe espressioni la palinodia recitata in prosa ed in versi dal-
l'Alfieri. Molti luoghi del Misogallo potrebbero per esempio es-
sere raffrontati con queste parole (2) : « Finito il tempo di par-
« lare liberamente agli oppressori, cominciai a dirle chiare agli
« schiavi che s'ammantano di libertà » — « Per me, adulare i
« galloni 0 adulare i cenci è la stessa minestra ».
Perfino quella vergogna della sua ignoranza negli anni maturi
e l'ardore giovanile per gli studi da cui si sente invaso negli
ultimi giorni, fan somigliare il Giusti all'Alfieri, giovane dissi-
pato e vecchio studiosissimo (III, 151):
tardi or me punge del saper la brama,
me cui finora non pungea rossore
del non saper.
Persino la causa dello scrivere : « la noia e il tedio d'ogni
« cosa » (3), e altro, misto a necessità di occuparsi, come dice
•
(1) Epistolario, III, 145 e Meìnorìe inedite, a cura del Martini; Milano,
Treves, 1890, p. 4 dell'Introduzione.
(2) Le cito dalla Vita del Biagi, per far più presto; pp. 121 e 137.
(3) Eisposta a lettera del Calsabigi, Op., VII, 190.
138 G. SURRA
l'Alfieri, e la ragione dell'autobiografia (perchè la sua vita venga
tenuta « alquanto più vera » che se fosse scritta da altri) e la
diligente stesura dei pareri sulle tragedie, i quali sono, come la
Vita^ un voler mettere le mani avanti ; trovano dei riflessi certa-
mente inconsci, ma non tutti casuali, in dichiarazioni e intenzioni
del Griusti. Il quale scrisse per sé, « scemandosi la noia di questa
« vita grulla e inconcludente » {A G. Tommasi)^ e nel sospetto
della morte prossima distese la lettera autobiografica al Van-
nucci « spronato dal desiderio che nessuno mentisse sul conto
« suo », e disegnò scrivere una prefazione a' suoi versi, che poi
rimase tronca, dove figurano appunto in poche parole i giudizi
del poeta stesso su ogni suo componimento {Scritti vari^ pa-
gine 51-60).
Con che non si vuol concludere che il poeta di Monsummano
rassomigliasse troppo più che non si pensi al tragico d'Asti, ma
soltanto mettere in luce — il che non fu fatto ancora — che
di quanti scrittori hanno potuto suggerire od ispirare qualche
cosa al Giusti, l'Alfieri, sia perchè visse lungamente a Firenze
ed occupò dei fatti suoi nonché dell'opera sua letteraria molta
gente specialmente in Tospana, sia perchè più d'ogni altro scrit-
tore esercitò un'azione efficace anche dopo la sua morte in prò'
della lingua viva e della dignità nazionale, è stato l'autore più
indicato dalle circostanze per essere ad un poeta toscano, sati-
rico, amante del popolo e di limitata cultura, esemplare imitabile
talvolta 0, altrimenti, suggeritore opportuno d'idee, di gusti e
cose simili.
Del resto, quella medesima differenza e proporzione ch'è fra
i « pareri » dell'uno sulle tragedie e i giudizi propri dell'altro
sugli Scherzi^ fra il nazionalismo e la paesanità, è fra l'ingegno
e il carattere dei due poeti. L'Alfieri lesse le vite di Plutarco
e smaniava di non poter imitare quegli eroi per esser nato in
Piemonte; il Giusti si contentò di leggere il « Plutarco della
« gioventù », ov'era descritta la vita di pittori, poeti e soldati,
libro di innegabile utilità morale, ma in diverso senso dal Più-
IMITAZIONI E REMINISCENZE NEL GIUSTI 139
tarco greco. Forse, tutto sommato, è la stessa differenza d'indole,
di levatura, d'efficacia fra i due poeti.
E qui, riassumendo, voglio concedere a me stesso l'illusione
di aver potuto dimostrare, fino a un certo segno, che le deri-
vazioni cosi nelle forme come nello spirito provenute al Giusti
da varie parti, sono assai più numerose di quanto generalmente
non si creda. Ho negato la legittimità di qualche raffronto pro-
posto, ho creduto di poter notare come autentica qualche fonte
nuova, ho indicato o più copiosi o più estesi riscontri del Mon-
summanese con altri poeti già da altri con lui prima raccostati,
ho aggiunto alla lista dei debiti giustiani molto d'Alfieri e qualcosa
del Montaigne... Tutto questo parrà più che soverchio a quanti
0 sinceramente o per abito riflesso denigrano la ricerca e il ra-
gionamento delle fonti, e non sembrerà forse ancor sufficiente
agli amatori di micrologie letterarie. Ma io non ho inteso di
contentar nessuno scrivendo, persuaso come sono da una parte,
che indagini siffatte non possono pretendere che un risultato ap-
prossimativo (il che del resto, a voler essere schietti, si deve
pur confessare che avvenga di più altre degne o indegne fatiche
critiche), e dall'altra, che una compiuta rassegna delle fonti e
delle consonanze e degl'influssi è un assurdo. Pertanto, non ho
difficoltà, pur col presente studio sulla coscienza, di riconoscere
la poca 0 nessuna utilità positiva che si ricava dalla ricerca
delle fonti per puro amor delle fonti; e son pronto a ridere
delle esagerazioni altrui, cosi di quelli che invece di fonti pren-
dono delle cantonate, come di parecchi altri che dopo aver su-
dato in ilio tempore più camicie in quella medesima o caccia o
pesca che sia, si sbracciano adesso a screditarla più del bisogno.
È vezzo antico il fondarsi sulla bigotteria e goffaggine di qualche
credente per deridere la fede e la religione ; così il mal esempio
di qualche fanatico « fontaniere » può autorizzare il vituperio di
questa funzione critica non solo utile ma necessaria, ch'è la ri-
cerca delle fonti e dei riscontri. Ma chi, per fastidio di certi
strombazzamenti, come fu per esempio la clamorosa proclama-
140 G. SURRA
zione dei « plagi » dannunziani, o per la pietà che ispirano certi
pedanteschi sudori sugli antecedenti classici e volgari di un
oscurissimo scrittore qualunque, rinunci ai lumi che provengono
allo studioso dalle indagini sulle influenze degli autori prece-
denti e contemporanei e sulle relazioni dell'opera moderna colla
passata — che vuol dire fonti e riscontri — è troppo chiaro e
naturale che sarà condannato, giudicando di fatti letterari, a
brancolar nel buio e a prender delle cantonate peggiori di quelle
deplorate nei fontanieri.
Del resto, non è mia intenzione di far l'apologia delle fonti,
che non ne hanno bisogno, né di rivoltarmi contro chi le stra-
pazza; giacché in fondo si tratta di mera logomachia senza con-
seguenze, non essendovi realmente altro divario fra estimatori
e denigratori fuorché di metodo o misura nella ricerca e nella
valutazione (1).
Stando cosi le cose, come io credo, e salvo ad ognuno il di-
ritto d'incriminar nel presente lavoro quel difetto di metodo o mi-
sura che io deploro cogli altri, senza la presunzione di credermi
più d'ogni altro immune di colpa, resta dunque ch'io mi possa
lusingare d'aver contribuito alquanto, con la discussione delle
fonti prima indicate e la notazione di più altre nuove, a collo-
care l'arte del Giusti in una luce più conveniente per poterla
giudicare. Tutti coloro che hanno lodato il Giusti come poeta
originale, hanno purtroppo fondato la ragione della lode sull'opi-
nione che egli non abbia preso niente o quasi niente dagli altri
e che nessun altro gli somigli. Anche quelli i quali pur si la-
sciano andare a concedere che il Giusti si sia ispirato o giovato
qualche volta dell'opera altrui, lo fanno a denti stretti, paven-
tando sopra tutto la conseguenza che ne dovrebbero tirare, cioè
la minore originalità del poeta. Cosi il Fioretto e il Martini, per
(1) Cfr. Critica del Croce, 1908, p. 468, maggio 1909, giugno 1912; La
cultura, XXIX, 23, per un art. del Bellezza; La cultura, 15 marzo 1912»
la Nuova Antologia, 16 ottobre 1911, per un art. di 6. Urbini : La storia tìel-
Varte.
IMITAZIONI E REMINISCENZE NEL GIUSTI 141
tacere di altri, sebbene in diversa misura, consentono in qualche
modesta derivazione, e poiché non danno particolare importanza
a quel poco ch'era già noto come probabile fonte giustiana, e il
molto che vi si può aggiungere mostrano d'ignorare, concludono
pur sempre che il Griusti fu poeta essenzialmente originale.
E ad una conclusione non molto diversa voglio giungere an-
ch'io, ma per un'altra via, che può sembrare ed è infatti op-
posta. Chi voglia proporzionare il merito e la lode d'uno scrit-
tore a quel tanto di nuovo non derivato né assimilato da altri
che vi si possa scoprire, oltre che troverà di rado l'occasione
di lodare, rischia di applicare il suo « meritometro » — é parola
di conio giustiano — più che altro all'ignoranza dello scrittore.
Poiché più abbondano i mezzi d'informazione sulle abitudini di
lavoro e sulla cultura d'un autore, e più vediamo restringersi
la possibilità di trovare quell'originalità materiale che consiste-
rebbe nel cavar tutta l'arte propria dal proprio cervello. È per-
tanto una poetica illusione quella che si possa trovar tale ori-
ginalità in uno scrittore non barbaro né primitivo, ma vissuto
in ambiente saturo di cultura, sebbene rimasto sempre egli stesso
mediocremente colto. E se fosse possibile, non sarebbe fenomeno
artistico, ma piuttosto teratologico. Bisogna dunque contentarsi
a priori^ anche pel Giusti, di un'originalità relativa, ossia di
quella originalità che, secondo il Leopardi, non si possiede mai
se non si acquista imitando; e ch'è veramente la sola che esista,
e non soltanto nel campo dell'arte. Chi sa meglio imitare e com-
binando ed associando rifoggiare con nuovo aspetto la materia
'già prima trattata, é dunque più originale. Quello che sembra
un paradosso nel mondo economico, che cioè la proprietà, giusta
il motto di Proudhon, sia il furto, é in fondo o più vero o men
falso nel campo dell'arte ; salvo che le appropriazioni più fortu-
nate dell'artista sono le più inconsapevoli, mentre tutte le altre
non artistiche sono effetto di calcolo q volontà.
Ma, comunque sia compiuta l'appropriazione nel tristo mondo
reale, la ricchezza conquistata è scala a raggiungere la reputa-
zione e il decoro, e dopo un certo tempo nessuno ricorda o al
142 G. SUBBA
meno non rinfaccia più l'origine della fortuna ; laddove nel regno
dell'arte la fama conseguita non vieta mai l'indagine e il pro-
cesso della critica intorno ai mezzi onde fu conseguita. Grazie
appunto a questa poliziesca funzione della critica, sono esclusi
dalla stima del pubblico i volgari plagiari e sono esaltati come
gloriosi campioni gli abili imitatori e assimilatori.
La fama del Giusti non avrebbe quindi da temer nulla per
questo verso, quantunque resti assodato un maggior numero di
sue derivazioni e debba modificarsi il concetto della sua origi-
nalità. Se la novità degli autori, come pensava il Foscolo, non
consiste nell'inventare di pianta, ma nel riprodurre opportuna-
mente le cose inventate con nuove e varie bellezze, il Giusti è
nuovo ed originale la parte sua, in quanto nella continuità sto-
rica della poesia civile — lirica o satirica che sia — ha pensato
ed espresso, come credo che direbbe il Croce, un ritmo suo
proprio di quei temi eterni sempre trattati e non mai esauriti
che sono accennati nei titoli stessi dei suoi Scherzi. Ma non
basterà a spiegare quel ritmo o quella maniera, se preferiamo
battezzarla cosi, chiamare in causa il Béranger e il Menzini,
quello per le intonazioni, questo per lo stile, come opinò il Maz-
zoni {Ottocento, p. 631); bisogna bensì far i conti più larghi e
più esatti e considerare come e quanto vi abbiano contribuito
anche più altri autori più o meno a lui congeniali, come per
esempio il Giraud e l'Alfieri.
Se il Giusti potè credere di dover l'allevatura di qualche suo
Scherzo al Béranger, nulla vieta a noi senza tema di sfrondar
il suo alloro — posto ch'ei l'abbia conservato intatto — di cre-
dere ed affermare che nascita e fisonomia di quelli e parecchi
altri egli la deve ai poeti italiani e più a contemporanei o quasi
che agli antichi. Quello studio che il prof. Procacci voleva fare (1),
che in parte G. Nerucci compiè nella Rivista europea (1873),
che, cioè, il Giusti non sorse come un fungo solitario ma cir-
(1) Giornale d^ erudizione, V, p. 142.
IMITAZIONI E REMINISCENZE NEL GIUSTI 143
condato da affini e congeneri nell'ambiente pistoiese-pesciatino,
mostra anche, nel campo delle ispirazioni più propriamente po-
polari, il concetto relativo in cui dobbiamo tenere l'originalità
del Monsummanese ; ma certo, per giudicar complessivamente
della sua poesia in cui prevalgono le ispirazioni letterarie, giova
schierare nella memoria tutte le fonti sicure e probabili della
sua cultura e della sua arte.
Disse già il Ghiappelli non esservi miglior modo « per misurar
« la potenza originale di uno scrittore che sorprenderlo per cosi
« dire nei momenti in cui imita... o soltanto si ricorda » (1). In
verità, fra i molti riscontri, consonanti o pel costrutto verbale
0 per la disposizione del pensiero, che furono registrati nel
corso di questo lavoro, non sarebbe sempre facile stabilire quale
sia propriamente effetto di una semplice reminiscenza verbale
più 0 meno consapevole e quale d'un'imitazione cosciente; ma
che importa? Non sarà meno utile servizio alla critica l'averle
squadernato sotto gli occhi un discreto numero di testimonianze,
fra sicure ed incerte, su cui possa fondar il suo giudizio e mi-
surare a quella stregua il merito o il demerito dello scrittore
in concorrenza dei probabili modelli sfruttati. Se queste ricerche
e considerazioni intorno alle analogie dell'opera giustiana col
pensiero e la forma di altri scrittori, non approdassero ad altro,
sai'ebbe tuttavia, mi sembra, un risultato abbastanza importante.
Ma io mi lusingo che debba interessare agli studiosi piuttosto
la compiuta intelligenza d'uno scrittore che la possibilità di va-
lutarlo comparativamente a quelli da cui ha tolto qualche cosa
in prestito. Ora, se anche non sarà dimostrata con tutta sicu-
rezza questa o quella derivazione giustiana, le molte certe e
probabili insieme ' colle altre più o meno discutibili che sono via
via indicate in questo studio, ci permettono di comprendere assai
meglio di prima la poesia del Giusti. Come per effetto di rea-
genti chimici i restauratori di quadri^fanno riacquistare nuova
(1) Pagine di critica letteraria, Firenze, Lemonnier, 1911, p. 220.
144 G. SURRA
vita a figure stinte, rivelandone i tratti offuscati dal tempo e
dall'incuria, cosi l'arte del Giusti, sottoposta a questo processo
di confronti che proiettano qualche luce sulla genesi di certe
sue idee ed espressioni, s'illumina di un aspetto che il pregiu-
dizio dell'originalità ci aveva finora più o meno nascosto. Gli
autori, siano stranieri o nostrani, siano antichi o recenti, che
gli han prestato un motto, una rima, un pensiero, lungi dal pre-
mergli addosso e soffocarlo, sembrano anzi intonarsi con lui
smussando le peculiarità del loro spirito ; mentre il Giusti riceve
dal paragone con quelli un rilievo che non pregiudica alla sua
fama e lo avvantaggia nell'intelligenza dell'opera presso il lettore.
Giacomo Surra.
V^HIET^
APPUNTI
SPI
LAUDARH lACOPONICI
Lo studio della lauda in generale e di lacopone in particolare,
ha sempre avuto per gli studiosi un'attrattiva speciale, sia per
l'argomento in sé, sia per l'abbondanza del materiale sparso per
tutta l'Italia. Quindi è che la pubblicazione di notizie di antichi
manoscritti contenenti laudi, venne man mano crescendo cosi,
che il numero di quelli ormai conosciuto è rilevante assai. Già
il Tenneroni (1) dava, tre anni sono, un catalogo di essi in cui
ne registrò ben duecento, ma senza riuscire ad esaurire l'argo-
mento (2). È una massa enorme di materiale quale nessun altro,
che sarebbe bene ordinare un po' più sistematicamente, perchè
(1) Tejtneroni, Inizii di antiche poesie italiane religiose e inorali, Fi-
renze, 1909.
(2) Riassumendo quanto è a mia conoscenza, desunto da ogni fonte che mi
è stata accessibile, ho potuto avere notizia di più che novecento rass. con-
tenenti laudi. In questo numero sono naturalmente compresi non solo molti
laudani, ma anche numerosi codd. miscellanei con una o poche laudi. Sono
però ben lungi dal credere di aver completata la raccolta, tanto più che non
mi riusci di avere notizie su alcuni fondi di alcune Bibhoteche, ove ho ra-
gione di credere esistano parecchi codici dello stesso genere. Un dovere qui
sento : di ringraziare coloro che mi prestarono cortese aiuto nelle mie ricerche.
NominarU tutti mi è qui impossibile, tanti ho importunato e ne ho avuto
prezioso concorso : conservo però la speranza di poter presto rendere a ciascuno
il merito dovuto.
Giornale storico, LXIV, fase. 190-191. ' 10
146 G. GALLI
possa riuscire con facilità di vantaggio agli studiosi. Ma tra
questi codici molti sono quelli che contengono laudi di lacopone,
e mi sembra opportuno, limitando il campo alle sole poesie del
frate todino, porger qui un tentativo di ordinamento organico,
per quanto è possibile, del copioso materiale conosciuto.
I codici contenenti i ritmi di lacopone mi pare debbano ri-
dursi a tre grandi categorie, assai diverse fra loro per impor-
tanza e per contenuto. Vi è dapprima la numerosa serie di
quelli in cui appar evidente l'intenzione del compilatore o rac-
coglitore di riunire in un solo corpo le poesie del laico fran-
cescano; di dare insomma un vero laudario iacoponico più o
meno completo. Sono di varia mole, e le poesie ivi contenute
vanno da qualche decina, come nel Riccar diano 1049 (1. 27),
Senese U. v. 5 (1. 28), Angelico 2216 (1. 28), Palatino 170 (1. 25) ecc.,
fino a più di due centinaia come nello Spithòver (1. 264). In
generale però si aggirano tra la settantina, e qualche decina
oltre il centinaio (1). Questi si potrebbero giustamente chiamare
Laudarti iacoponìci puramente e semplicemente, poiché, se
non tutte le laudi in essi contenute, specialmente nei più co-
piosi, come lo Spithòver, i Parigini 559 e 607, il Bergomense,
il Canoniciano 51, il Todino 194, ecc., sono di lacopone, pure
l'intenzione o la credenza dei compilatori sembra sia stata tale,
almeno per la maggior parte dei ritmi.
La seconda serie ha un interesse tutto particolare, ed è di
non poca importanza. Il Ghigiano L. VII. 266; i Palatini, 13
e 168; il Ghigiano L. IV. 120; il Riccardiano 1155, alcuni Mar-
ciani ed altri, ad ogni singola lauda, o per gruppi più o meno
grandi, premettono il nome dell'autore. Sono quindi laudani misti
(1) Eccoli numero approssimativo delle laudi di alcuni, di cui ho potuto
avere notizie precise : Marciano IX. 244, 1. 63 (nella parte prima contenente
il laudario iacoponico): da 70-80; Eiccardiano 1731, 2860, 2929, 2958; Nazio-
nale di Firenze, Conv. sopp., C. 2. 957 : da 80-90; Ghigiano L. IV. 121 ; Oli-
veriana di Pesaro (già Perticari) ; Riccardiano 2841 : Archivio Capitolare di
S. Pietro in Vaticano; Vaticano-Urbinate 784 : da 90-100; Parigi 1037 ; Vit-
torio Emanuele 76 (Roma); Università di Bologna 1787; Mortara; Marciano
IX. 73; Laurenziano 90 inf., 27: da 100-110 ; Comunale di Perugia 519; Giac-
cherino (molte mancano perchè mutilo): da 110-120; Riccard. 2762, 2959;
Laurenz. 90, inf., 28 e 29; 119,41; Nazionale di Firenze, Panciat. 23 ; Mar-
ciano IX. 182 ; Parigi 607 : più di 130 ; Parigi 559 ; Bergamo A. 7, 15 ; Todi 194 ;
Spithòver; Canoniciano 51, ecc.
VARIETÀ 147
di opere di lacopone e di altri laudesi (1), ed essi serviranno
assai a definire l'intricata questione della attribuzione delle
laudi. Si sa che non tutte le laudi che passano col nome del
todino, sono sue; nella stessa edizione del 1490 il Bonacorsi cre-
dette opportuno di avvertire nella prefazione : « Non si dice
« però per questo che lui non facesse maggior numero di laude,
« né anche si afferma che tutte queste siano facte da lui, per
« non si avere di ciò altro di certo » (2). E difatti una delle laudi
di quella edizione, la 41* (0 Christo onnipotente... Una sposa)^
in alcuni, anche laudarli iacoponici, o è attribuita al Panziera, o
è detto non essere di lacopone ; l'ultima {Se per diletto tu cer*-
cando vai) è detta dall'editore stesso « extravagante ». Se si pren-
dono poi in esame le altre edizioni, cominciando dalla Bresciana
del 1495 e dalle sue derivate, le poesie su cui i dubbi sono le-
gittimi, anzi di cui si può essere certi che non sono di lacopone,
sono numerose. Questa serie di codici quindi è interessantissima ;
certo non si dovrà credere ciecamente ad ogni attribuzione;
dovrà vagliarsi il valore di ogni manoscritto, non solo per la sua
età, ma anche a seconda del luogo di origine; dovranno con-
frontarsi coi nomi dati da altri laudari di altri autori, bisognerà
insomma procedere con somma cautela ; ma è certo che potranno
e dovranno essere di grande utilità per risolvere una quistione
cosi intricata. Tuttavia non si possono mescolare impunemente
coi primi : quelli ci devono dare la struttura del laudario iaco-
ponico; questi confermare l'autenticità delle laudi dubbie e, se
ne fosse il caso, aiutare anche la ricostruzione del testo.
(1) Ecco un indice di alcuni di questi laudani misti: Firenze, Nazionale;
Pai. 13, 168; Conv. Sopp. B. 3. 268, C. 2. 1544; Riccard. 1155, 2895; Eoma,
Casanat. C.VI. 17; Chigiana, L. VII. 266, L. Vm. 301 ; Vaticana, 7714, Barb.
XLIV. 72 ; Marciano IX. 244 (nella seconda parte) e 182 (pure nella seconda
parte), ecc. Ad essi sembra da aggiungere il n. 119 indicato dal Tenneroni
nell'opera citata, ma che non mi fu dato di vedere, e certamente il ms. se-
gnato al n. 3 del Catalogo {Manuscripts, incunables et ìivres rares, n. XII,
1913) della Libreria antiquaria De-Marinis di Firenze. Anche i codd. Ha-
milton 348, Laurenz.-Ashburnh. 423, Nazionale di Firenze II. VI. 63, che a
un laudario iacoponico uniscono numerose laudi in parte almeno col nome di
altri autori, vanno avvicinati a questo gruppo. *
(2) L. cit., p. 4. Questa citazione, come tutte le altre di questa edizione,
sono sempre fatte sulla ristampa di Luigi Ferri, a cura della Società filolo-
gica romatia (Roma, 1910).
148 G. GALLI
La terza serie di codici è molto numerosa e si presenta assai
varia. Si tratta spesso di mss. miscellanei in cui si trovano inse-
rite qua e là poesie di lacopone, qualche volta col nome, tal
altra adespote (1), oppure di laudarli adespoti più o meno ricchi
di ritmi, che contengono confuse colle altre, qualche rara volta
col nome, laudi del laico francescano (2). Tra essi alcuni si ac-
(1) Mi accontento di indicarne alcuni, non riferiti dal Tenneroni in Op. cit.
Assisi, Comunale, 100, 656 ; Bologna, Archiginn. A, 95 ; Firenze, Nazion. II
Vn, 2 ; Magi. CI. XXXVIII. 72, Pai. 436 ; Laurenz. Red. 25 ; Eiccard. 1278:
1290, 1431, 1670, 1724, 2188,2355; Lucca, Civica, alcuni codd. Moucke; Mi
lano, Ambros. N, 95, sup.; Braid. Morbio 14; Modena, Camp. 56; NapoU, Na
zionale VI. D. 33, 68 ; Oxford, Canon, lat. mise. 263, 536 ; Padova, Univers. 1080
1511, 1710 ; id.. Museo Civico, De-Visiani XII; Ravenna, Classense, 25; Roma,
Corsin, 43. A. 17,48. B. 26; Vatic. Capp. 116; San Daniele Friuli, Comun. 170
Siena, Comun. J. IL 88, J. VI. 5; Todi, Comunale. 172; Venezia, Marc. Lat
ci. IV. 25, Ital. ci. I. 30; Vicenza, Bertol. 1. 10. 24. Trai citati dal Tenneroni
sono qui da riferirsi i nn. 47, 96, 135, 140, 143, 148, 149, 158, 159, 160, 166
175, 186, 189. Il Bini, in Bime e prose dei buon secolo della linguu (Lucca,
Giusti, 1852), parla di un ms. appartenuto a Fr. De-Rossi, contenente i « Trat
tati di Ugo Panziera » da cui egli trasse tre laudi, due delle quali certo di
lacopone. — Tra questi mss. si devono pure porre i numerosi sermonali del
sec. XV, nei quali sono inserite laudi, spesso di lacopone, ora integre, ora
frammentarie. Tali il Quaresimale « De Fide et articuhs Fidei » di fra Mi-
chele da Carcano, il « De Christiana religione et ecclesia » e l'altro intitolato
« Seraphim », di S. Bernardino da Siena, alcuni di S. Giovanni da Capestrano,
di S. Giacomo della Marca ed altri. Codici di questi già indicarono, il De Bar-
THOLOMAEis e il De Lollis (ìh Bollett. d. ist. stor. ital., nn. 3 e 8, 1887, 1889),
il Crivellucci (i codici della libreria di S. Giacomo della Marca, Livorno,
Giusti, 1889), tra gh altri sono da ricordare: Como, Comun. 12 (Quaresimale
di fra Bernardino Calmi); Bologna, Archiginnasio, A. 158; Cortona, Comu-
nale 52 ; Milano, Ambros. C. 94. sup.; Piacenza, Laudi 156 ; Napoh, Naz. Vili.
A. 4; Roma, Angelica, 740; uno contenuto nel catalogo Rosenthal del 1900,
e un altro posseduto dal cav. Fabio Vitali di Piacenza, tutti col primo dei
Quaresimali indicati di S. Bernardino da Siena; Milano, Ambros. L. 65. sup.;
NapoU, Naz. V. H. 67; Verona, Comun. 517-519; Padova, Univers. 580, 769, e
altri col Quaresimale del da Carcano; Fohgno, Comun. A H. II. 10 (Quaresi-
male di fra Bernardino da Fohgno); Roma, Angelica, 1324 (Quaresimale ano-
nimo); Firenze, Nazion. Pai. 96 (Considerazioni ascetiche). Il ms. 16. e. IV. 22
dell'Archiginnasio di Bologna contiene un trattato ascetico che in ciascun
capitolo riporta una lauda, in tutto 27, spesso di lacopone.
(2) Do la nota dei principaU laudarli adespoti in cui mi consta esistano
laudi di lacopone: Bergamo, Com. -d. II. 6; Bologna, Archiv. Arciv.; Archiv.
VARIETÀ 149
costano assai a quelli del secondo gruppo, contengono cioè laude
di noti laudesi insieme ad una o più di lacopone, ma adespote,
almeno nella massima parte; altri sono laudarli di compagnie
specialmente toscane, o appartenuti a monasteri, in cui sempre
si trovano ritmi del nostro. È facile veder quanti vengano a
riunirsi sotto questa serie; sono manoscritti varii di età, di
contenuto, con autorità diversa l'uno dall'altro a seconda non
solo del valore e dell'età del codice, o dell'abilità e fedeltà del
copista, ma anche rispetto alle regioni in cui furono scritti; e
in essi si incontrano facilmente i trasferimenti di queste poesie
nei varii dialetti.
Queste tre categorie di codici non possono, da chi vuol fare
d. Santa, 8. 2, 10.3, 20. 5; Univ. 2845, 4019; Bra, Confrat. deiDiscipl. Bianchi,
due mss. senza segn.: Brescia, Queriniana, V. XIII. 31 ; Ferrara, Com. 409
(N. B. 3); Firenze, Naz. H. IV. 700, II. VII. 4, H. IX. 58 e 140, Mgl. ci. VH.
27, 285; Conv. Sopp., G. 7. 609; Eiccard. 2224, 3687; Londra, British Mus.;
Harl. 3355 ; Milano, Ambros. Y. 3. sup.; Trivulziana, 535, 923 ; Oxford, Canon,
it. 193; Pavia, Univ., Aldino 474; Perugia, Com. G. 78; Ravenna, Class. 137.
S. L.; Roma, Vatic. 4840; Ott. 681; Barb. XLIV. 76; Siena, Comun. J. II. 6,
J. Vili. 13 ; Venezia, Marciana, It. ci. IX. 312 (rotolo pergam. ora mancante,
ma che fu usato dal Sorio); Verona, Capit. 464, 767 ; Vicenza, Bertol. 2. 8. 17, e
un ms. che apparteneva al march. Gian Giacomo Lepri e da cui vennero pub-
blicate sul Giornale araldico (Roma, 1819) due laudi erratamente attribuite a
lacopone. A questi vanno aggiunti quelli indicati dal Tenneroni, Op. cit., ai
nn. 6, 10, 16, 17, 23, 25, 27, 28, 32, 33, 38, 45, 50, 57, 65-68, 73, 87, 97, 104,
106, 108, 109, 111, 112, 113 (ripetuto al n. 157), 115, 124, 129, 138, 144, 150,
161, 163, 164, 167, 170, 171, 175, 176, 177, 184, 187, 200. Vi sono inoltre
varii mss., veri zibaldoni di materie varie, in cui le laudi, ora raggruppate,
ora sparse, sono numerose, come il Bologna, Archiv. Arciv.; Arch. d. Santa, 3. 2;
Id., Monastero del Corpus Domini, 3. 1; Id., Univers. 157; Milano, Ambros.
C. 35, sup.; Trivulziana, 92, nonché un buon numero di altri minori che
oscillano tra i miscellanei e i veri laudarli, poiché contengono, insieme ad
altro, piccole raccolte di laudi, quali: il Bologna, Archiginnasio 16 e. V. 21 ;
Univers., 201, 2751; Firenze, Nazion., IL IV. 686, IL VHL 3; Panciat. 41;
Riccardiana, 441, 1509, 1802; Padova, Seminario, 359 ; Pavia, Univers., Al-
dino 251 ; Roma, Angelica, 1482, ecc. Nel Catalogo della Biblioteca Lauren-
ziana il Bandini accenna al ms. 142 Med. Paladino come contenente « can-
« tiones italicae in laudem B. Virginis Mariae » che mi sembrano laudi, alle
quali seguirebbe un'altra « Cantio italica » la cui rubrica riportata dal Ban-
dini, corrisponde a quella della lauda: Mutata an veste li lupacini, nei co-
dici di Bergamo e affini.
150 G. GALLI
opera vana, essere messi in un sol fascio, diversa essendone
la natura, l'autorità e il contenuto; ciascuna va studiata dap-
prima a sé, poi confrontata e integrata colle altre. Ma quella
che naturalmente si presenta più interessante è certo la prima.
Quei laudarli iacoponici ci danno veramente, spesso in un or-
dine logico e costante, tutta o almeno la massima parte della
produzione poetica del frate lodino.
Ma prima' che qui riporti i risultati a cui sono giunto dopo
un attento esame del materiale di cui ho potuto disporre, devo
dire qualche parola di un giovane studioso, morto ormai da pa-
recchio tempo, e troppo dimenticato, dalla cui opera appunto ho
desunto parte de' materiali onde mi son valso: voglio dire di
Enrico Molteni.
Nella Biblioteca Ambrosiana di Milano sono state dai parenti
suoi depositate tutte le carte appartenute a questo valente gio-
vane, uscito dalla scuola di Pisa. Sono tre voluminose cartelle,
davanti alle quali uno studioso non può non provare un senso
di vivo stupore, considerando l'immane lavoro di raccolta che
egli ha fatto nel pur breve tempo da lui potuto dedicare ai
suoi studii prediletti. Di queste carte diede un succinto, troppo
succinto, indice il De Bartholomeis (1), dal quale non può traspa-
rirne tutta l'importanza. Non posso qui certo dare un cenno com-
pleto di esse, come sarebbe necessario; lo spazio e l'indole di
questo scritto lo impediscono, ma per manifestare qual preziosa
miniera sia in quelle carte, mi basti accennare che in esse si
trovano notizie di non meno di duecento manoscritti di laudi,
per la massima parte colle tavole integre, o almeno gli inizii
dei ritmi, quando si tratta di miscellanei, e brevi descrizioni
di ciascuno. Anzi parecchi vi sono, o copiati integralmente, o
almeno con larghi estratti. E questi codici provengono da bi-
blioteche d'ogni parte d'Italia, molti sono codici privati, che
il Molteni potè vedere e consultare (2). Né é questo il solo
materiale di quelle carte ; vi si devono aggiungere appunti, ta-
(1) Miscellanea di Ietterai, del Medio evo, fase. I, Appendice, edito dalla
Società filologica romana, 1902.
(2) Tra gli altri vi è la tavola del codice appartenuto al Mortara, di cui il
Molteni dice che appartiene agU eredi dell'abate Manuzzi di Genova. Il Ten-
neroni (1. cit.) asserisce che di questo codice non si conosce il destino. L'in-
dicazione del Molteni potrà forse invogliare qualcuno a rintracciarlo.
VARIETÀ 151
vole di codici, copie ed estratti copiosi dai manoscritti di poeti
provenzali, di canzonieri dei nostri primi poeti, e altri studi
ancora su argomenti particolari della storia letteraria italiana.
L'opera del Molteni appare quindi a chi come me ha potuto
lungamente frugare nelle sue carte, veramente preziosa, e me-
ritevole di ricordo. Ma torniamo a noi.
Ho detto più sopra che i Laudarli iacoponici contengono le
poesie del tudertino disposte in ordine costante; ciò avviene
ordinariamente: ma l'ordine non è sempre quello. Confrontando
però le tavole dei numerosi laudarli di cui ho potuto disporre,
mi venne dato di osservare tre gruppi di codici, caratterizzati
nettamente da un determinato ordine nei ritmi.
Un primo gruppo, che mi sembra il più importante, è for-
mato dal Vaticano-Urbinate 784, dai mss. di Giaccherino, 011-
veriano, già Perticari (1), Angelico 2306 (2), Conv. Sopp. C. 2. 608
della Nazionale di Firenze, Parigino 1037(3), Tedino 194. Questi
manoscritti hanno (eccetto il Todino, che ne contiene 154 circa)
un numero di laudi che si aggira intorno al centinaio, e preci-
samente, 83 l'Oliveriano, 89 il Vaticano, 90 il Parigino, 107 l'An-
gelico, 108 quello di Giaccherino (4) e il Conv. Sopp. Confron-
tando la disposizione dei ritmi si osserva subito che il Vaticano,
il Giaccherino e l'Angelico concordano tra loro (5); anzi la
lauda 12* (Signor damme la morte) è ripetuta da tutti al n. 80
(81 nel Vat.): l'Angelico e quello di Giaccherino concordano
anche nelle poesie che non sono nel Vaticano (89-107). Il To-
dino varia dai tre antecedenti solo ai nn. 22, 46, 51, 61, 68,
89, 90, e manca di qualcuna dopo la 90; invece ne aggiunge
fino alla 154, in massima parte certo non di lacopone. Maggiori
discrepanze si trovano nel Conv, Sopp., ma non essenziali; in
esso tra l'altro cinque laudi sono ripetute. L'Oliveriano concorda
(1) Ne dà la tavola il Pelaez in Atti della B. Acc. Lucchese, voi. XXXI,
Lucca, 1902.
(2) Vedi la tavola in Tenneroni, Catalogo ragionato dei mss. manzoniani.
(3) Vedi la tavola in Bohmer, Rom. Studien, I, Strassburg, 1875. Ne parla
pure il Mazzatinti, Manoscritti italiani delle Biblioteche di Francia, II,
Roma, 1877, il quale ne dà pure una tavola.
(4) È però mutilo in due luoghi ; verso il firincipio e la fine, sì che molte
laudi, che secondo la tavola vi dovrebbero essere, mancano.
(5) Unica dilFerenza è al n. 50, ove il Vaticano ha una lauda diversa dagli
altri due e che non mi pare di lacopone.
152
G. GALLI
fino al n. 34 (1) poi tre (35-37) sono spostate (ai n. 47-49); l'or-
dine riprende in seguito fino al termine ; solo anticipa i ritmi 79-82
(ai n. 51-54). Il Parigino ha come prima lauda la 13^, ad essa
seguono la 55, 57, 69, 82, 60, 63; al nono posto mette la prima
degli altri e prosegue collo stesso ordine, tranne gli spostamenti
accennati : ne inserisce però due, di cui dirò poi, che mancano
negli altri.
Tutti questi codici conservano assai puro il dialetto umbro,
alcuni anzi sono di origine todina, come oltre il Todino, l'An-
gelico. Ma ciò che è interessante si è che, di ms. di questo
gruppo principalmente si servi il Bonacorsi per la sua edizione
del 1490.
Si legge infatti nella prefazione dell'edizione Fiorentina che
servirono per essa « due copie de tale laude cavate studiosa-
« mente da doi esemplari Todini assai antichi: et più copiosi et
« migliori che si trovino in quella città; et doi altri vilumi pur
« antichi in buona charta, facti con diligentia : de quali uno ap-
« pare scripto nella città di Perugia : dell'anno MCGCXXXVI.
« trovato in Firenze de laude 90 et non più et molti altri vo-
« lumi de diversi religiosi : et de altre particulare persone, tro-
« vati pur in Firenze. Da quali tutti volume, et spetialmente
« da li dicti più antichi concordati molto insieme, si ha cavata
« nova copia per dare a l'impressori » (2). Confrontando poi le
note preposte, specialmente alle ultime laudi dell'edizione, si ha
che per le prime 93 non si indica il ms. d'origine: la 94 e 95
sono tolte dal Perugino e mancano nei Todini (3), la 96 era nel
Perugino « et ancora in alcuni todini » (4), la 97-101 « erano
« nel libro todino infine » (5). Sono dunque i due Todini e il
Perugino che hanno in modo speciale servito agli editori. Si
noti pure che l'ordine rinvenuto nei codici non fu seguito per
quanto « li Todini siano quasi ad un modo » (6), e quanto al
(1) Anche qui la 12* è ripetuta, ma al n. 52 : si noti però che il gruppo 51-54
è «postato e corrisponde al gruppo 79-82 dei primi tre.
(2) Ediz. cit., p. 3.
(3) Sono le laudi: Udite una entenzone - che è fra onore e vergogna;
e : Que farai morte mia - che perderai la vita. Cfr. ediz. cit., p. 155.
(4) Ediz. cit., p. 157.
(5) Ediz. cit., p. 159.
(6) Ediz. cit., p. 4.
VARIETÀ 153
numero di 102 ritmi si accontentarono di esso « non essendo
« maggior numero, ma più presto minore » (1) nei mss. com-
pulsati.
Ora appunto l'Angelico, d'origine todina, del sec. XIV, con-
tiene tutte le laudi dell'edizione Bonacorsi, eccetto la 94 e 95
già dette, e la 102, che è aggiunta « extravagante » (2): in esso,
le 97-101 dell'edizione, sono poste in fine, precisamente a n. 102,
103, 107, 106, 101 (3); esse mancano invece nel Vaticano-Urbi-
nate e nell'Oliveriano. In fine l'ordine nell'Angelico e nel Vati-
cano è identico eccetto per una lauda. Senza dunque voler in-
sistere, che proprio da questi sia stata tratta l'edizione, mi
sembra però legittima una forte presunzione che l'Angelico, e,
0 il Vaticano o l'Oliveriano, e più probabilmente questo secondo,
siano quelli che servirono allo scopo, o almeno ne discendano
molto da vicino. È un'ipotesi questa assai probabile che potrà
confermarsi, o essere annullata da un esame minuto colla stampa,
cosa che non ho potuto fare (4).
Il secondo gruppo è molto numeroso, e si presenta distinto
in due sottogruppi. I Laurenziani-Gaddiani 27 (1. 97) e 28
(1) Ediz. cit., p. 4.
(2) Ediz. cit., p. 170.
(3) Ciò che si dice dell'AngeHco va esteso al ms. di Giaccherino, di cui
però non è certa la provenienza umbra.
(4) Resterebbe da identificare il codice Perugino di cui parla il Bonacorsi.
Di esso sappiamo che fa trovato a Firenze, era scritto a Perugia nel 1336,
era cartaceo, e conteneva 90 laudi tra cui le 94 e 95 dell'edizione; anzi
quest'ultima aveva nel ms. due « finestre » (ediz. cit., p. 175, alle varianti di
di detta laude) di cui una, al verso 42, è conservata nella stampa. Ora questa
lauda: Que farai morte mia, che può dare valido aiuto nella ricerca, non
la ritrovai che in cinque codici: il Parigino 1037, il Conv. sopp. C. 8, 957;
il Laur.-Eed. 119, 41 ; il Braidense A. D. IX. 2 e lo Spithòver. È da escludere
subito che il Braidense e lo Spithòver siano il ms. cercato, ma neppur gli
altri rispondono ai dati, e in nessuno trovai la lacuna indicata. Tuttavia la
mia attenzione si fermò sul Parigino 1037. Esso ha 90 laudi; proviene da
Firenze, essendo appartenuto a Luca della Eobbia ; ha tutte le sue laudi con-
tenute nell'edizione Bonacorsi; contiene ambedue le laudi che il Bonacorsi
dice tolte dal Perugino. Però non consta né della data del 1336, né dell'o-
rigine perugina, almeno né il Bohmer, né if Mazzatinti che lo studiarono,
ne parlano. Se non può essere dunque quello cercato, non è possibile che ne
sia una copia ? Non faccio un'afférmazione, che sarebbe rischiata, espongo solo
un'ipotesi che non credo senza fondamento.
154 G. GALLI
(1. 97) (1) e il Marciano IX. 73 (1. 99) hanno un ordine identico
per ben 97 ritmi. A questi va unito il Bolognese (Università 1787,
1. 93) che mantiene l'ordine per 55 poesie, poi se ne scosta, ri-
petendo dei ritmi, omettendone e aggiungendone. Cosi è pure
del Marciano IX. 244 (1. 82) per 48 laudi e IX. 182 (1. HO) ma
con minor costanza. Il Trivulziano 980 (1. 70) segue l'ordine dei
primi codici, ma omette molte laudi, che in parte aggiunge poi.
Il secondo sottogruppo è formato dal Perugino (Comunale 519,
1. 107), Bergomense Civica A. 7. 15 (1. 139) (2) e Parigino 559
(1. 136) (3). Essi concordano tra loro esattamente; solo il Pari-
gino omette i ritmi; 100 (A fra Johanne de l'Alvernia), 103
(Lo pastor per 7ìiio peccato)^ 104 {L'aonore eh' è consumato).
Concordano pure coi tre del primo sottogruppo con queste va-
rianti :
1« Tra il n. 34 e 35 di quelli inseriscono la lauda : Audiie
nova pazzia;
2° Dopo il 48, ne pongono altre cinque (n. 50-54) che man-
cano nei primi;
3° Alla fine dopo il 97 dei primi, inseriscono : L'amore eli' è
consumato^ in seguito al quale viene il n. 98 del Marciano, e
poi aggiungono, due laudi il Perugino, ben 33 gli altri due.
Da questo sottogruppo proviene l'edizione Bresciana del 1495,
la quale concorda per 113 delle sue laudi colle corrispondenti
di questo gruppo, mentre le altre dieci sono scelte fra le restanti
del Bergomense e del Parigino. Da questa stampa si dice derivi
la Veneziana del 1514, che ne differisce: l*' perchè sposta la
lauda : Audite nova pazzia^ portandola dal 35° al primo posto ;
2« inserisce al secondo luogo il ritmo: Mosso da santa pazzia-,
3*» si aggiungono altre nove laudi in fine ; 4<* ha qualche leggera
(1) Nel Laur. 27, dopo la 97* lauda segue la rubrica: Expliciunt latides etc,
a cui seguono tre laude, una attribuita ad un altro frate dello stesso ordine
e una seconda a lacopone. Nel Laur. 28 alla 97 seguono altre 11 laudi, di
cui la prima è la seconda delle aggiunte nel Laur. 27, le altre hanno tutte
la rubrica Alia laus predicti fratris Jacohi de Tiiderto. Sono dunque tutte
aggiunte a quelle che formano il vero laudario, e mi paiono da considerarsi
separatamente, tanto più che nessuna si può con sicurezza attribuire al frate
todino.
(2) Sono poi aggiunte altre tre laudi d'altra mano dopo Vexplicit.
(3) Vedine la tavola in Bohmer, loc. cit.
VARIETÀ 155
variante nelle rubriche. Lo stesso ordine di questa stampa si ha
in tre manoscritti; il Parigino 607, il Corsiniano 43. A. 22 (del 1629)
e quello della Nazionale di Napoli XIII. H. 4. I primi due omet-
tono però i ritmi; 68 (0 papa Bonifazio^ — molto ai locato)^
87 {Piange la ecclesia)^ 88 {Ihesu Cristo se lamenta), 89 {Fri-
gescente caritatis)', il secondo e il terzo sono poi senza alcun
dubbio copie dell'edizione. Resterebbe a vedersi se il Parigino
sia esso pure una copia, o piuttosto l'esemplare che servi per
essa. Vero è che il Bòhmer (1), il Marsand (2) lo giudicano del
sec. XVI: mentre il Mazzatinti (3) lo riporta al sec. XVII. Non
avendolo veduto personalmente nulla posso affermare; credo però
che esso sia in realtà una copia dell'edizione.
Comune a questi mss., eccetto i Marciani IX. 244 e 182, e al
Bolognese è la rubrica iniziale che suona (4) : Incipiunt laudes
quas fecit sanctus frater lacobiis de Tuderto ordine fratrum.
minorum ad utilitate'ìn et consolationem om,niwn cupien-
tium per viam crucis et virtuium dominum, imitari. Il
Laur. 27, al termine ha: Expliciimt laudes sancti fratris
lacoM de Tuderto etc. quas dictavìt prò consolatìone et pro-
fectu nomtiorum et proficentium et perfectoì^um in vita an-
gelica quae dìcitur in terra via Crucis (5).
Questo stesso ms. ha poi in principio questa nota interessante :
« Quia in bis laudibus vulgariter scriptis sunt aliqua vocabula
(1) BoHMER, 1. cit., ove ne dà anche la tavola.
(2) Marsand, I mss. italiani delle regie biblioteche di Parigi, Parigi,
1838, voi. II, p. 160, al n. 8285.
(3) Mazzatinti, / mss. italiani delle biblioteche di Francia, Roma, 1887,
voi. II, p. 172.
(4) Si trova anche nell'ediz. di Brescia; nella Veneziana del 1514 è diversa
e in italiano : e così mutata è anche nel Parigino 607.
(5) Il prof. NovATi, nella sua conferenza snWAmor mistico in S. Francesco
e in lacopone da Todi (in Freschi e minii del Ducento, Milano, 1908), fon-
dandosi su una rubrica simile, espone l'idea che lacopone scrivesse le sue laudi
pei suoi confratelli. Credo che questa rubrica vada spiegata con quella ini-
ziale. Si tratta cioè non solo dei confratelli di lacopone, ma di tutti quelli che
si danno alla vita ascetica « omnium cupientium per viam crucis dominum
imitari » ; essi vanno distinti in tre classi : novitii o incipienti, profìcienti e
perfetti. È però chiaro che tra essi vanno pure i confratelli del poeta, i quah
appunto si sono dati a seguire il Poverello, per abbracciare la vita di per-
fezione ascetica.
156 G. GALLI
« que aliter proferuntur et scribuntur a longobardis quam sint
« hic scripta, et eciam non bene intelliguntur ab eis, ideo hic
« in principio scribuntur quaedam ex ipsis vocabulis sicut scripta
« sunt hic et iuxta ipsa vocabula ponuntur idem significantia
« secundum quam scribuntur et proferuntur a longobardis etc. ».
È quindi forse da desumerne che questo codice ci rappresenti
il capostipite degli altri sia lombardi, sia in generale dell'Alta
Italia, i quali nella massima parte si conformano più o meno a lui.
A questo gruppo vanno poi aggiunti altri due minori ms.: il
Palatino 170 (1. 25), il Canoniciano 240 (1. 35) (1), che, per la
disposizione delle laudi o per le rubriche, vi si avvicinano. Non
va poi dimenticato, non ostante l'età recente (sec. XVII) il 1212
della Comunale di Verona, copia del Bergomense, ma assai mo-
dificata nella lezione (2).
Ed ora un terzo gruppo di manoscritti quasi tutti fiorentini,
e assai affini tra loro. Il Riccardiano 2762, e il Panciaticiano 23
concordano tra loro; solo il primo omette il n. 52: 0 Christo
onipotenie... Molto me meraviglio. Il Panciat. 22 è simile al 23
(che forse ne è una copia posteriore), ma omette i ritmi Figli
nepoti e frati (n. 82) e : Audite una contentione — infra due
persone (n. 86); invece aggiunge in fine: Audite nova pazzia^
che manca nei precedenti (3). Il Laurenziano Gadd. 29 al posto
dei n. 7 e 8 degli altri, che omette, pone i 27 e 28, il n. 26 è
spostato al termine (1. HO) e omette i ritmi 24, 86 e 87. Il Re-
diano 119, 41, omette le laudi 9, 103, 109, sposta la 112 prima
delle due immediatamente precedenti, e aggiunge altre laudi fino
a raggiungere il numero di 117. Il codice della Vittorio Ema-
nuele di Roma 76, mutilo in principio, comincia (land. 2) col
n. 16 del Riccardiano sopra detto, poi concorda fino al ritmo 105,
mentre la seguente : 0 Signor per cortesia è messa in principio
(1. 1), ma il foglio 88 r che la doveva contenere è bianco, e al
(1) Vedi BOhmer, 1. cit., che ne dà la tavola.
(2) Questa copia è quella di cui si servì il Sorio per la edizione di alcune
laudi di Jacopone da lui curata negli OptiscoU religiosi, letterarii e morali di
Modena (1857-1863 passm). Del ms. di Bergamo esistono altre due copie re-
centi, una alla Civica (segn. 2. 5. 26), l'altra di proprietà del conte Suardi
della stessa città.
(3) Il ms. è mutilo e manca delle laudi dal n. 14 al 30, mentre la 81* è
mutila in principio.
VARIETÀ 157
verso si trova la prosa che ordinariamente vi tien dietro: Ne
forte alìquis putet etc. Il Vaticano 8909 ha 110 ritmi disposti
come nel Riccardiano 2762 ; solo omette i nn. 24 e 25 (che nel
Riccardiano e in genere negli altri mss. di questo gruppo sono
attribuiti al Panziera), il 97 (ritmo latino: Frigescente cari-
tatis) e la solita prosa latina dopo il n. 104: Ne forte aliquis
putet ecc.; invece, come gli altri, dopo il n. 50 inserisce la lauda:
0 Cristo onipotente... Molto me TYieramglìo. Il Mazzatinti
poi (1) notava già che il Laurenziano-Ashburnh. 1072 aveva la
stessa disposizione di poesie che il Vittorio Emanuele di Roma:
per rispetto al Riccardiano differisce solo perchè ne posticipa
due laudi; la 32* (0 castitate floì^e) che trasporta al n. 36, e
la 41* (0 libertà subgetta) al n. 51; in tutto ha 112 laudi. In-
fine il IL III. 255 della Nazionale di Firenze, di 1. 33, corrisponde
alle prime 33 di questi mss. (2).
A questo gruppo vanno avvicinati; il Riccardiano 1049(1.27)
che ha 19 delle sue poesie contenute nelle prime 25 del gi'uppo
e quasi nello stesso ordine; e i Riccardiani 2841 (1. 83) e 2959
(1. 116) in cui l'ordine non è costante, ma si avvicina spesso a
quello dei primi. Il Riccardiano 2929, oltre molte laudi adespote
d'altri, contiene un laudario iacoponico di 70 ritmi circa, che
ha affinità con quelli di questo gruppo, al quale mi sembra pure
da assegnare il Magi. GÌ. VII. 1132 (1. 105).
Ciascuno di questi gruppi contiene codici che hanno caratteri
comuni. Grià notai l'origine umbra, e alle volta todina, di qual-
cuno del primo gruppo, e che il dialetto umbro vi è sempre
ben conservato; quanto alle rubriche qualche volta mancano,
come nel Vaticano-Urbinate ; e forse nel Giaccherino, oppure
sono poche, come nell'Oliveriano, in cui le poche esistenti cor-
rispondono a quelle dell'edizione Bonacorsi. Uno solo di questi
mss. ha Vexplicit, simile a quello già riferito del Laur. Gadd. 27,
ed è il Gonv. Sopp. G. 2. 608 (3), nel quale anche le rubriche, per
quanto mi consta, corrispondono a quelle del secondo gruppo.
Pei manosoritti della seconda serie, le rubriche sono sempre le
(1) Mazzatinti, Miscellanea Francescana, 1886, pp. 35-36.
(2) Solo al n. 29 ripete il n. 17 invece di riportare la lauda corrispondente
degli altri.
(3) Suona così: Expliciunt laudes sancii fratris Jacobi de Tuderto quas
dictavit in vulgari ad perfectorum in vita evangelica que dicitur via Crucis.
158 G. GALLI
stesse e sempre latine, eccetto nel Bolognese (che le dà italiane
ma identiche) e il Marciano IX. 182: sono le medesime che si
hanno nell'edizione Bresciana. La raccolta sembra avere uno
scopo ascetico, come fa supporre la rubrica iniziale già ripor-
tata. Quanto alla lingua, pur conservando in parte notevole,
specialmente nel primo sottogruppo, le forme umbre, mi pare vi
si senta, ove più ove meno, l'influenza di altri dialetti e ciò
singolarmente in quei codici che sono scritti nell'Alta Italia.
Da un piccolo esame fatto su due codici di questo gruppo, mi
risultò una notevole concordia colla lezione dell'edizione Bre-
sciana. In tutti, almeno nei principali, vi sono alcune prose la-
tine intercalate ai ritmi.
Il terzo gruppo mi sembra prettamente toscano per la sua
origine : l'ordine delle poesie corrisponde ad una idea costante.
Vi è infatti una spiccata tendenza ad avvicinare le laudi che
hanno inizi simili o trattano argomenti affini (1). Le rubriche
ora italiane, ora latine sono sempre le stesse, generalmente
uguali, ma alle volte diverse da quelle del secondo. Quanto alla
lingua, in alcuni è certo ben conservata la forma umbra, come
nel Riccardiano 2762 ; non mi farebbe meraviglia però se, spe-
cialmente nei meno antichi, si trovasse un influsso toscano.
Oltre questi tre, che sia per numero di manoscritti, sia per
l'importanza di essi, sono di cosi alto interesse, altri gruppi si
possono notare, ma molto meno spiccati. Cosi i due Riccar-
diani 2860 (1. 71) e 2958 (1. 77) hanno ordine uguale e con molta
probabilità provengono l'uno dall'altro: il primo manca di un
gruppo di cinque laudi dopo la 39*; cioè *S'/ fortemente son
(1) Sono avvicinate le laudi: ia hontade infinita e La bontade se lamenta]
Vita di Jesu Christo - specchio immaculato e Vita di Jesu Christo - spec-
chio di veritade; le tre alla Vergine: 0 Vergine più che femina, Donna
del paradiso e 0 regina cortese: i due contrasti: Audite la battaglia - che
mi fa 7 falso nemico e Audite la bataglia - eh' è fra onore e vergogna;
Jesu Christo se lamenta - de la Ecclesia Romana con Piange la Chiesa -
piange et dolora; La veritade piange; 0 papa Bonifatio - quanto ai iocato;
Opapa Bonifatio - io porto ; Lo pastor per mio peccato; Que farai Pier da
Murrone ; Que farai fra Jacobone ; le tre di iSan Francesco : Novo teìnpo
d'ardere; 0 Francesco povero; 0 Francesco da Dio amato; le due esposi-
zioni del Pater noster: Alto padre noi ti preghiamo; e In sette modi come
pare a me ; quelle in lode della povertà : 0 amor di povertade ; Dolce amor
di povertade e Povertade innamorata, e altre ancora.
VARIETÀ 159
tracio d'amore^ attribuita al Panziera anche in mss. lacoponici;
0 Chrìsto anior diletto in te sguardando^ pure data spesso al
Panziera ; D'amor languisco Gesù te amando ; Non si tenga
a'inatore ; NulVuonio se sa mai ì)en confessante, che mancano
tutte nei mss. del primo gruppo eccetto il Todino, che le riporta
però tra le aggiunte dopo la parte comune agli altri del gruppo :
la prima di esse manca pure in tutti i mss. del secondo e terzo
gruppo. È omessa pure la penultima del 2958: Alte quattro
virtute.
Il Chigiano L. IV. 121 (1. 80) mantiene nelle prime 40 poesie
l'ordine del Senese I. VI. 9 (an. 1330); le altre cinque sono ai
numeri 45, 62, 59, 41, 47. Al Chigiano si accosta il codice Mor-
tara (1. 94), ma solo nella prima quarantina, e anche qui non
sempre; mentre nella seconda parte manca ogni corrispondenza,
anche pel fatto che la maggior parte almeno di quelle ivi rac-
colte, non sono di lacopone.
Restano però molti altri laudarli del nostro poeta: alcuni di
essi si possono avvicinare all'uno o all'altro gruppo: cosi l'An-
gelico 2216, importantissimo pel dialetto umbro assai ben con-
servato (1), va unito al primo gruppo, ma solo per la circostanza
dell'origine e della lingua ; vi si accosta pure quello dell'Archivio
(1) Questo codice, già del conte Manzoni, si deve identificare con quello
x\Q.(ixàdito n^W Inventario delV antica biblioteca delS. Convento in Assisi, compi-
lato nel 1381, edito dal prof. Alessandri (Assisi, 1906, p. 84) al n. 213 della
libreria secreta, con queste parole: « Laudes fratris Jacobi de tuderto. Cura
« pluribus aliis, quere tabulam de omnibus in fine. — Cura postibus. —
« Cuius principium est. Soprogne lengua amore. Finis vero. Tu ora hoc modo.
« — In quo libro omnes quaterni sunt XII » . È noto, e lo dichiara l'autore
dell'inventario, che i codici del Sacro Convento compresi in quella recensione,
avevano nel primo foglio retto, e nell'ultimo verso di ogni quaderno la nu-
merazione dei quaderni posta nel margine inferiore, compresa in una figura,
che, come spiega l'Alessandri (p. 4, in nota), « consiste in circolo di punti
« alternatamente rossi e neri, il quale intersecato in alto, in basso e ai lati
« da virgole in forma di raggi, racchiude il numero del quaderno stesso » ed
è ripetuta col numero dei quaderni sul veiio dell'ultimo foglio del ras. Ora
appunto il ms. 2216 porta in ogni suo quaderno, e ripete nell'ultimo questo
segno caratteristico, che il buon frate che compilò l'inventario certo appose
sia per impedire più facilmente le manomissioni, sia perchè costituisse una
specie di segno di riconoscimento dei mss. del Sacro Convento. Vero è che
la prima carta del ms. non comincia con Sopra ogni lingua amore, ma con-
160 G. GALLI
Capitolare di S. Pietro (1. 88, ma molte mancanti perchè mutilo).
Invece il Braidense A, D. IX. 2, va riferito al secondo gruppo,
non tanto per l'ordine delle laudi, quanto per l'affinità nelle ru-
briche e per la sua origine lombarda. Pure al secondo gruppo
va riunito il codice di lacopone esistente nella Civica di Ascoli
Piceno, il quale, come mi comunica il prof. Luzzatti che lo sta
studiando, comincia esso pure colle laudi Aìnor di povertade
e Povertade innamorata. Deve presentare però qualche va-
riante rispetto agli altri (tra l'altro omette la nota lauda : Donna
del paradiso)^ e avvicinarsi specialmente ai mss. di Perugia, di
Bergamo e al Parigino 559, per la presenza di: Audite nova
pazzia al 36<> posto. Anche certe particolarità di lingua farebbero
pensare all'Alta Italia come luogo di provenienza. Il Bohmer (i)
accenna, sulla scorta del Wadding, ad un codice della Colombina
di Siviglia che ha la stessa rubrica iniziale, e comincia colla
stessa lauda e identica rubrica di quelli del secondo gruppo.
Anche il Canoniciano 51 (1. 151) (2), che ha almeno la rubrica
iniziale in italiano, comincia con: Amor di povertade e sarà
quindi probabilmente da assegnare allo stesso gruppo.
Molti altri mss. invece non consentono, dalla sola disposizione
delle laudi, di essere catalogati in alcuno dei gruppi indicati:
tiene prose latine ascetiche, mentre le laudi hanno principio dopo il terzo
foglio. Ma questi tre fogh non fanno parte della quadernazione e precedono
al « primus quaternus », sul quale, con iniziale ornata, comincia la laude di
lacopone. Forse quindi quei fogli furono riempiuti posteriormente; ad ogni
modo essi contengono delle aggiunte ad una operetta ascetica che si trova
poi nel corpo del volume. Anche la finale attuale non corrisponde, poiché le
parole date dall'inventario si trovano al recto precedente, mentre nel verso
una mano posteriore ha aggiunto qualcosa. — Nello stesso Inventario sono
elencati due altri mss. di lacopone, ambedue nella « libreria secreta » ; uno al
n. 214 (p. 84) ha « Laudes fratris Jacobi in vulgari » oltre altre operette pure
volgari, l'altro al n. 159 (p. 74) non credo contenga laudi, ma le prose asce-
tiche di lui in latino. Essi però non possono identificarsi coll'Angelico, non
solo pel diverso numero dei quaderni (undici nel 214, nove nel 159) ma anche
perchè dall'Inventario il 214 appare cartaceo, il 159 cartaceo e membranaceo
insieme, mentre l'Angelico è tutto di pergamena. È da augurare che almeno
il 214 possa rintracciarsi e identificarsi.
(1) Cfr. Romanische Studien cit., voi. I, pp. 160-61.
(2) Cfr. MoRTARA, Catalogo dei mss. canoniciani della Bibl. Bodleiana di
Oxford, ivi, 1864, p. 69. Proviene dal monastero di S. Salvatore di Venezia.
VARIETÀ 161
tali il Riccard. 1731 (1. 78) e il Marciano It., ci. IX. 153, che
tiene nelle laudi di lacopone presso a poco l'ordine del prece-
dente (pur omettendone), ma aggiunge numerose poesie certo
non appartenenti al nostro frate. Tali pure il Barberin. XLV,
119 (1. 35); Siena, Comun. U. V. 5 (1. 28); Napoli, Nazion. XIII.
0. 98 (1. 22) ; Roma, Corsin. 43. A. 25 (1. 20) ; Ghigiana, L. IV. 120,
in cui però molti ritmi non sono di lacopone; quello già del
prof. Adamo Rossi (1. 19) (1); il Gonv. Sopp. G. 8. 957 della Na-
zionale di Firenze, che contiene nella prima parte un laudario
di lacopone (1. 70), nella seconda laudi credo adespote; l'Ha-
milton 343, della Reale di Berlino (2). Del codice appartenuto
al comm. Francesco De Rossi e usato dal Bini (3), e di quello
indicato nel catalogo di vendita della GoUezione Riva (4), al n. 924,
troppo poco conosco per poterne dire qualche cosa; lo Spithòver
illustrato dal Tobler (5) con ben 264 laudi dipende evidente-
mente dalla Franceschina di Iacopo Oddi. Il Bolognese, Univer-
sità, 838, ha una raccoltina di 18 laudi iacoponiche, il Pisano,
Archivio Capitolare, 147, fatto conoscere dal Pecchiai (6), con-
tiene un laudarietto di nove ritmi, la massima parte del frate
lodino. Piccole raccolte si trovano pure nel Fonte Golombo 9
(ora alla Comunale di Rieti, 1. 10), nei Riccardiani 1582 (1. 13)
e 2957 (1. 7, ma le ultime due non di lacopone sebbene attri-
buite a lui dal ms.), nel Padovano Universitaria 2029 (1. 7). Fram-
menti di laudarli iacoponici si possono riconoscere nel Genova,
Univers. E. I. 10; Gubbio, Sperelliana, D. 8; Napoli, Nazion. XIII,
D. 26. Ricorderò pure due copie manoscritte della edizione di
Firenze del 1490; una nella Nazionale di Napoli (XIV. E. 5),
un'altra nella Biblioteca di Lucca (n. 1291). Il ms. 190 dell' Ar-
(1) Ne parla anche il Mazzatinti in Miscellanea frane., 1886, 1. cit.
(2) Il codice Hamilton contiene in principio 131 laudi attribuite a lacopone
e che formano il laudario lacoponico ; ne seguono poi molte altre attribuite
al Giustiniani e ad altri, per cui potrebbe anche unirsi ai laudarli misti. Ne
parla il Biadene in questo Giornale, 9, 187 e segg.
(3) Bini, Mime e prose del buon secolo della lingua, Lucca, 1852.
(4) Catalogue des livres rares et précieuxt^manuscripts et imprimés com-
posant la Bibl. de M. C. B. de Milan, Paris, 1856.
(5) Cfr. Zeitschrift filr romanische Philologie, H, Halle, 1878.
(6) Ofr. Una nuova raccoltina di laudi sacre, in Bullettino critico di cose
francescane, v. I, 1906.
Giornale storico, LXIV, fase. 190-191. 11
162
G. GALLI
chivio Comunale di Todi, del secolo XVII, scritto da Lucalberto
Petti, che nella prima parte è copia del Todino 194, nella se-
conda di altri codici diversi, è però di poca importanza, per
l'attribuzione dei ritmi (in numero di 314) a lacopone; anche la
lezione, a detta del Molteni, è poco attendibile.
Di altri manoscritti che possano aggiungersi a questa classe
di laudarli non ho notizia sicura. Noterò solo un codice, di cui
trovai un appunto nelle Carte Molteni, del British Museum di
Londra. È un membranaceo del sec. XV, segnato: Addit. 16657.
A f. 190 si trovano i Dieta fratrìs Jacóhl Benedica^ a cui se-
guono da f. 193-330 delle laudi di cui nulla dice il Molteni. In
principio porta una nota da cui appare che appartenne a un
frate minore de Bevanea il quale lo comperò da un « viro ma-
« gistro herculano olim domini clementis de tuderto ». Ciò mi
fa sospettare che le laudi ivi contenute possano essere di laco-
pone, tanto più che consta l'esistenza di un codice del nostro
poeta nel monastero di Bevagna, il quale non ho potuto sapere
dove sia andato a finire.
Giuseppe Galli.
LETTERE INEDITE
DI
MATTEO MARIA BOIARDO
Alle centocinquanta lettere del Boiardo raccolte da N. Cam-
panini (1), all'una edita poi dall'Albini (2), alle dodici messe in
luce dal Pagliani (3), altre dodici ne aggiungo qui, rinvenute
sparsamente in alcuni archivi dell'Emilia. E insieme parmi op-
portuno ristamparne quattro delle ultimamente edite, perchè
certe lacune si possono in esse facilmente colmare e alcune
sviste facilmente correggere (4).
I.
Extra: Magnifico ac generoso patri colendissimo Silvio de Sancto Bonifatio
Corniti et Capitaneo Regij etc.
Magnifice ac generose pater amantissime: Francesco de medici notaro da
casalgrande mio homo et latore de la presente, dice che Iha una controversia
(1) Nel volume miscellaneo Studi su M. M. Boiardo, Bologna, Zani-
chelli, 1894.
(2) Nuova Antologia, s. Ili, voi. LIX, p. 56.
(3) Giuseppe Pagliani, Notizie storiche civili e religiose di Arceto e della
antica contea di Scandiano dal medioevo ai nostri tempi, Reggio Emilia,
tip. Artigianelli, 1907. Appendici n' 55, 56, 114.
(4) È da notare poi che in una delle lettere edite dal Pagliani (1. e, App. 56)
e qui non ripetuta, per un semplice errore di stampa la data è del 1463 an-v
zichè 1464, la quale ultima risulta già dai manoscritti di don Giuseppe Pa-
gliani. Tale rettificazione di data è, per il biografo del Boiardo, importantissima
164 G. REICHENBACH
cum uno petro da caranno da baise suo cugino, de la qual ha obtenuto da
la Excellentia del Illustrissimo Signor nostro che Iha sia rimessa ne la M. V.
la qual prego che epso francesco li sie racomandato in quello che Iha può,
perche epso francesco oltre chel sie mio homo, e mia cosa cara : et cosi mostrarli
chel mio scrivere li sia giovato : noctificando ala V. M. che diete francesco non
e men servitore di quella comò di me, et cosi tutto il resto de li mei : me
racomando ala V. M. bene valete Scandianj die 4 Augusti 1461
M. V. filius
Mattheusmaria de boiardis comes etc. (1).
II.
Extra: Magnifico ac generoso tanquam patri Amantissimo Gomiti Silvio de
Sancto Bonifatio Capitaneo Eegij etc.
Magnifice ac generose Comes tanquam pater Amantissime. Jl Lator presente
si e Jacomo di Michele da Scandiano : Jl quale viene dala V. M. per bavere
da quella qualche aviamento : Et perchè epso Jacomo e pur de li mej liquali
son etiandio dela M. V. lo aricomando ad quella che gli presti lo adiuto suo
in quello che Iha può. et de tutto quello sera facto a dicto Jacomo ni rece-
vero grande alpiacere ala quale significo gratia de dio son sano : Yaleat M. V.
cui me comendo. Datum Scandianj die 9 Februarj 1462
M. V.
f. Matheusmaria Bo^^ardus
Scandiani et Caselgrandis Comes (2).
m.
Extra : Magnifico ac generoso fratri ac patri honorandissimo Corniti Silvio de
Sancto bonifatio Capitaneo Regij.
Magnifice ac generose frater et pater honorandissime : Zohanne dala querza
de casalgrande exhibitore presente voria licentia da la M. V. di condure certo
frumento che Iha li a Rezo a casa sua di quello ha ricolto ale ca dal bosco,
havendone bixogno per suo usso per la familgia sua. Ui^e essendo certi del
bixogno suo preghiamo la V. M. che per amore nostro glie conceda la licentia
chel domanda comò che anche altre volte vi habiamo scripto per epso Zohanne.
(1) R. Arch. di Stato di Reggio Emilia: Carteggio del Reggimento. Debbo
alla cortesia del sottoarchivlsta cav. Alberto Catelani la maggior parte delle
lettere rinvenute in questo Archivio.
(2) Ibidem.
VARIETÀ 165
et di questo ni receveremo appiacere assai. Valeat M. V. nos et nostra comen-
damus. Scandianj xxvj Martij 1462
Thadea et ) de boyardis
Mattheusmaria ) comites (1).
IV.
Extra : Magnifico et generoso patri honorandissimo corniti Silvio de Sancto
Bonifacio Eegij Capitaneo D. etc.
Magnifice ac generose comes tanquam pater honorandissime : El latore dela
presente me dice che la excellentia del JUustrissimo nostro Signor ha com-
messo una certa causa ala V. M. de dicto lator, per una acussa gli fu facta
per uno cane che se dicea era suo che pilgio uno levorino disavedutamente
comò credo sia informata epsa V. M. ala qual perche epso lator e pur degli
nostri amici lo aricomando strictamente che a ragione lo favorisca per mio
amore ad ciò chel poverhomo non sia straziato indebite et iniuste: comò
credo gli poterla intervenire se Iha V. M. non gli presta il favore suo atento.
Bene perho cum suo honore: ala quale me recomando. Bene valete. Scandianj
6 Julij 1462
Mattheusmaria Boyardus Comes (2).
V.
Extra: Massarijs et communi scandiani dilectissimis.
Dilectissimi nostri etc. Questa presente si è per farve sapere come vogliamo
adhibeati fede ad quello ve dira stephano panzarase non mancho se io perso-
naliter ve lo dicesse. Appresso ve Ricordo debiati mandare uno apto qua a
ferrara cum bono ordine per lo facto di quello compromesso fu facto ni lo Illustro
Signor miser Sigismundo adcio se gè possa dare expeditione. et di questo comò
seti in ordine di mandarlo per vostre littere datine adviso etc. Bene valete
ferrarle quintodecimo februarij 1475
Mattheus Maria boiardus comes scandiani etc. (3).
VI (4).
ni.me Princeps et Dux Excellentissime D. mi observantissime. le stato et
e longa contesa et differentia de confine territorio et iurisdictione tra el Co-
(1) Ibidem.
(2) Ibidem. ^
(3) E. Arch. di Reggio: Comune di Scandiano: Carteggio del Conte, del
Governatore, della Comunità e d'altri, 1473-1708.
(4) La presente lettera manca del destinatario e della data. Il primo è
certamente il Duca di Ferrara, l'altra è presumibilmente non molto posteriore
alla data della lettera precedente, cui questa va congiunta per il contesto.
166 G. BEIOHENBACH
#
mune et li homeni mei de Scandiano per la villa de Fellegara et suo terri-
torio che e de le pertinentie et iurisdictione de Scandiano da uno canto, et
il Comune et homini de Arcete da laltro Canto, et come più largamente
appare per acti, processi, et testimonij: ali quali se habia rellatione per de-
monstratione deli logi dele differentie : le quale, come ho dicto sono durate
longamente, et mai non sono state decise : benché più et più compromissi se
siano facti per le parte, che sono sempre spirati, et fra li altri ne fu facto
uno in messer Manfredo da Correza, laltro in lo 111. vostro fratello Messer
Sigismondo, laltro pochi di fa in certi amici comuni : quali tuti sono spirati :
el Eeverendissimo Monsignore qui anche adesso se interponea de metterli ac-
cordo, ma non li vedo ordine, et cusi per non essere stata dieta lite (et la
qual e instructa) decisa ogni altro die ne segue qualche scandallo, et in dies
se sta a periculo de grande Inconveniente, perche ogni giorno el conte Zoanne
boiardo : qual governa quilli de Arceto, me da qualche fastidio, et di continuo
e suso li rincresementi cum tuore biave, et fare altre molestatione. Et perchel
saria mio desiderio, che io, et li mei vicinassimo bene, et stare in pace cum
el Conte Zoanne, et cum li suoi, che saria facil cosa, quando tale dififerentia
fusse terminata, et chiarita per sententiam. prego, et supplico Vostra Excel-
lentia acio luna fiata se metta fine a dieta lite, che quella se digni darse uno
ludice che habia a venire suso el loco dele difiPerentie, et terminarla, possa
che dieta causa e instructa, et chel non resta a fare altro che dare sententia,
perche li processi sono facti, et li testimonij examinati, et questo non obstante
instantia o tempo che fusse passato.
Et perche anche li homini da Montebabio governati per dicto conte Zoanne
ogni altro die turbano, et inquietano li mei homini de la Torexella per confine,
che quello tale ludice che havesse a terminare quela de fellegara, et de Ar-
ceto havesse etiam ad intendere, cognoscere, decidere, et terminare tanto quanto
volesse ragione tra dicti da Montebabio, et dala Torexella, altremente non
facendo altra provisione circa diete differentie la V. S. ogni altro giorno sen-
tirà querelle, et rincrescementi Et terminato che fusseno cessariano li fastidij,
et la brigata staria in pace, che mai non se farà insino che non siano ter-
minate Eacomandome a V. Celsitudine.
Servitor Matheus M* boiardus (1).
vn.
Extra: Magnificis ac generosis patribus honorandis D.nis Sapientibus Comunis
Mutine.
Magnifici ac generosi patres honorandi etc. Jo ho cerchato de quelle let-
tere de miser Guasparo de che V. M. me scriveno : lequale non trovo, perche
(1) Biblioteca comunale di Reggio Emilia: ms. CXV, A, 21.
VABIBTÀ 167
nel movimento e stato facto se debbeno essere involupato (sic) in qualche loco,
che anchora non sono venute fora: 'ma som certo se V. M. scriveno ad epso
miser Guasparo chel scriverà di novo quello chel fece ame: preterea circa
quelle cosse me scrivite che manchano la il mio Sechalcho me dice che per
errore fu conducto qui una tavola cum li trepedi, et uno Solo (1): qual subito
le faro recondure la : ma de quelle altre cosse che me scrivite gè manchamo,
epso mio Sechalcho me dice haverle consignate a Zoanne pignata. Salvo che
li Canteri de la stalla, che vero e che sono stati tolti via : ma li mei gè li
haveano anche facto mettere, a V. M. me ricomando. Scandianj ix fe-
bruarij 1483:
Matheusmaria boiardus Scandianj etc. Comes (2).
vm.
Extra : Magnifice ac generose domine tanquam matri honorandissime d. Magda-
lene de Torellis Comitisse Guastalle etc.
Magnifica et generosa domina tanquam mater honorandissima : perche tandem
per questa Magnifica Comunità e stato posto ordine (commandando cussi
strictissimamente il mio Illustrissimo Signore Duca de Ferrara) che il com-
missario de sua excellentia il quale insieme cum quello de lo Illustrissimo
Signore Duca di Milano bavera ad intendere de la differentia fra V. M. et
dieta Comunità (3) : subito se ne venga da Ferrara et trovissi qui : haveria
caro essere advisato da V. M. per il presente latore qual mando a posta in
che loco ambiduy epsi Commissarij se haverano ad ritrovare et qual die pre-
ciso : et come, et se el comissario per la parte vostra sera in ordeno Et cussi
ne prego assay V. M. ala quale mi offero et recommando. Regij 21 Maij 1487.
Mattheus Maria Boyardus Comes
Ducalis Eegij Capitaneus etc. (4).
IX.
Extra : Magnifice et generose domine tanquam matri honorandissime D.ne Mag-
dalene de Torellis Comitisse etc. Guastalle. Subito.
Magnifica et generosa d.na tanquam mater honoranda : il commissario che
debe venire dal canto de questa Magnifica Comunità per quella difierentia
(1) Non saprei dire qual specie di suppellettile fosse questa.
(2) Arch. stor. comunale di Modena: Lettere ducali e diverse, 1450-1493.
(3) Si accenna alle contese sorte nel 1487 fra Reggio e Guastalla per il
possesso di Campo Rainero, indebitamente preteso dai Reggiani.
(4) R. Arch. di Reggio: Carteggio Anziani.
168 G. REIOHENlìACH
sera mo in ordine: et non resta senon che V. M. me ad visi del loco dove se
hanno a convenire luno commissario et laltro : et quando : siche non gli gravi
advisarmene ad ciò che sapiamo luna parte et laltra quanto se hahia ad fare
ala qual mi recomando. Regij 8 Junij 1487
Mattheus Boyardus Comes
Ducalis Regij Capitaneus (1).
X.
Extra : Magnifico tanquam fratri honorando philippo cistarello ducali factori
generali etc. Ferrane.
Magnifice frater honorande : la V. M. vedera per la qui inclusa copia come
li hominj da Scandiano hanno pagato le spelte delanno 1484: le quale me
pare che di novo V. M. ha scripto al massaro quivi che se scodano (.) la copia
di la ricevuta e de manno di hernardino da dallo in quello tempo notare (?)
a la Camera si che sapia V. M. che loro sono creditori de assai quan-
titate: quale se non fussero conducte, non (2) le condurimo sei non gè fusse
li dinari: me racomando a V. M. R«gij xxvj Aprilis 1488.
Mattheus maria boiardus
Scandiani etc. comes (3).
XI.
Extra: Jllustrissimo principi ac excellentissimo Domino d.no ohservandissimo
Domino Joanni Galeaz. Marie Sfortie vicecomiti Duci Mediolani etc.
Jllustrissime princeps ac excellentissime d.ne d.ne observandissime. Quello
che vostra Celsitudine per una sua de xviii del passato data a pavia me scrive
haver ordinato che li Subditi del mio Illustrissimo Signore duca di Ferrara etc.
possano liberamente trare dal teritorio parmesano et condure di qua le biade
et racolti de le possessione et terre si trovano bavere in epso: quello me-
demo e stato ordinato quaoltre per li Subditi de la Sublimita Y. che hanno
possessione et terre da questo canto : et tuto e stato facto promptamente et
voluntieri per continuare ne la consuetudine antiqua et laudabille observata
per adreto hinc inde sopra ciò, de la quale in la sua me ha tocato V. Jllu-
(1) Ibidem.
(2) Forse deve intendersi « noi ».
(3) Bibl. com. di Reggio: ms. CXV, A, 21. Questa è una delle lettere già
edite dal Pagliani, 1. e.
VARIETÀ 169
strissima S. et anche per obsecundare ale equissime voglie di quella a la cui
gratia infinitemente me recoraando. Regij ij Julij Mcccclxxxviij
Eiusdem Ducalis Dominationis Vestre Servitor obsequentissimus
Mattheus M» Boyardus Scandiani Comes etc.
Ducalis Regij Capitaneus (1).
xn.
Extra : JUustrissimo principi ac excellentissimo d.no D.no meo uniche D. Her-
culi Duci Ferrarle etc.
JUustrissimo Signore mio: Io non mi extendero ad scrivere altramente a
V. Ex. quello in che se sia risolto il facto de Guastalla fra Antonio superbo
mandato per quella et Madonna Magdalena Torcila: perche scio che epsa
V. ex. et da Antonio et da questa sua fidelissima comunità per quello che
luno et laltra mi ha dicto bavera inteso la cossa dal A infino al z : solo per
mio debito per la devotione et fide porto a V. JU. S. gli ricordo bene fldel-
mente che in verità lo e da fare buon capitale de questi terreni de la dif-
ferentia se non per la proprietade la quale e pur notabile saltem per la
Jurisdictione et per non lassare dieta Comunità in tanta jactura et mala con-
tenteza per la grande spexa per ley facta et per rimanere cussi schernita da
uno Comunelle come e Guastalla et anche perche sono cosse le quale et pace
et bello fano al proposito de V. Illustrissima S. ala quale sempre me rico-
mando. Regij 26 Martij 1490
Eiusdem JU. Dom. Vestre
Servitor et famulus fidelis
Mattheus M* Boyardus (2).
xm.
Extra : Potestati meo Scandiani.
Podestà: Io te ordinay, Come tu sai che Zoanne mengello non havesse a
pagare se non le Colte reale per quelle sue terre: et per chiarirte quelle Io
Intenda che siano reale : dico che sono tute le cose che se danno al S. cioè
la tassa, et spelte, et il salario del podestà, et del notare o ragionerò del Co-
(1) R. Arch. di Reggio ; Cart. Anziani. La lettera missiva del Duca Gian
Galeazzo Sforza, cui accenna qui il Boiardo, trovasi nel « Carteggio del Reg-
« gimento ».
(2) R. Arch. di Reggio: Cart. Anziani.
170 G. REIOHBNBAOH
mune, et la fabrica de berbera (1), et ogni altra cosa che accadesse pagare a
Conta[nti]. bene vale Regij. xxj Junij 1490
Mattheus M.» boiardus Co: (2).
XIV (3).
Thomaso vede de remosscolare tute Rezo per trovarmi uno strassinazo et
guarda che sia strassinazo proprio e non degagna (4) comò è quello che mi
hai mandato laqual proprio è degagna : Jo Jntendo che el ha uno Monello di
Zoboli et andrea di Zoboli, et potendosse bavere uno mandamelo subito: et
non ne havendo niuno li predicti cercha altrove : et cossi dilo a mia molgiera
che ancora lei fazza cerchare se lei vole gè manda del pesso bene vale die
21 Marcij 1492 Scandiani.
Matheus Maria Boiardus Comes (5).
XV.
Extra: Potestati meo Scandiani.
Podestà : Jo voglio che petro zoanne bertolucio conferisca da nadale in qua
come lo era conferito a tute le graveze occurente : cusi provede chel paga :
Vale Regij 8 Marcij 1494
Mattheus M:* boiardus Co: (6).
XVI.
Extra: Potestati meo Scandianj.
Podestà : provede che li heredi de magistro Andrea cogo non siano gravati
ad instantia de quilli mei hominj per li benj sono scituatj laoltra insino che
havraj altro da me. Vale ex Civitatella Regij v° Aprilis 1494.
Mattheusm.* boiardus Comes
ducalis ibi Capit. (7).
(1) Rubbiera.
(2) R. Arch. di Reggio: Archivi privati : Carte diverse private ; Documenti
relativi alla famiglia Boiardi. Già edita dal Pagliani, 1. e.
(3) Certamente diretta a Tomaso Mattacoda, notaio e fiduciario di Matteo-
maria.
(4) Secondo i vocabolari reggiani il primo è « una specie di giacchio aperto
e per pescare », la seconda una « rete lunga e larga la quale gettasi nel
« fondo delle valli o paludi, si strascina un pezzo e poi si cava fuori col
« pesce ».
(5) R. Arch. di Reggio: Archivio Turri: Comune di Scandiano, n. 1.
(6) Ibidem: Archivi privati: Carte diverse private: Documenti relativi alla
fam. Boiardi. Edita.
(7) Ibidem: Idem.
VAKIETÀ 171
Certamente nessuna delle lettere qui edite reca un documento
decisivo per la conoscenza della vita o dell'anima di Matteo
Maria Boiardo. Tuttavia due mi sembrano notevoli : la settima,
scritta subito dopo il suo ritorno da Modena dov'era stato per
due anni Capitano, colla quale egli vuol far constatare d'essersi
onestamente riprese le masserizie proprie, non già la roba del
Comune; e la quattordicesima, la quale è una prova, data sotto
forma quasi scherzosa, della passione ch'egli aveva per la pesca,
lo svago più acconcio all'indole sua mite.
Le altre (salvo la sesta che mostra ancora una volta lo spi-
rito acre e litigioso del suo sciagurato cugino Giovanni) ce
lo presentano qual già lo conoscevamo, attento amministratore
delle cose proprie, scrupoloso reggitore della città a lui confi-
data. Soltanto si potrebbe aggiungere che le prime quattro, e
cosi pure quelle sincrone edite dal Campanini, acquistano forse
un qualche nuovo valore se si considerano scritte da un perso-
naggio appena ventenne: poiché la data di nascita del Conte
di Scandiano, come spero aver tra breve agio di dimostrare, va
portata dal 1434 fino ad oltre il 1440.
GrlULIO REICHENBACH.
IL MACHIAVELLI
in alcune novelle di Matteo Randello
Vittorio Osimo, avvicinando già in un articolo di questo stesso
Giornale (1) il nome dei due scrittori, a diverso titolo tanto
interessanti e rappresentativi della vita e dell'arte del nostro
Cinquecento, rivendicava al Machiavelli, il quale alla produzione
novellistica pareva aver contribuito soltanto colla novella di
Belfagor arcidiavolo, anche la paternità di uno dei racconti della
copiosa silloge bandelliana. È la novella 40^ della parte I, del-
l'inganno usato da una scaltrita donna al marito, che il Machia-
velli, stando nell'agosto del 1526 sotto Milano al campo di Gio-
vanni delle Bande Nere, ebbe occasione di raccontare dopo alcune
ore di faticose e vane sue esperienze militari.
Il Bandelle con garbato brio ci narra della magra figura che
ebbe a fare la scienza teorica del Machiavelli nel confronto col-
pabilità pratica del condottiero: quello, che cosi dottamente
disquisiva di ordinamenti militari da colpire di persuasa ammi-
razione il buon novellatore, non riusci in due ore di laboriosi
tentativi a disporre tre mila fanti secondo il suo schema ideale,
questi col sussidio di brevi ordini energici e di vibranti rulli di
tamburo, ebbe in pochissimo d'ora ad ordinare quella gente in
vari modi e forme. E del dotto amico si fanno piacevolmente
beffa a tavola guerriero e novellatore, e il Machiavelli, quasi a
compensarli, si tramuta a sua volta di scienziato in novellatore ;
(1) Vedi Giorn., 54, 88-89 (Il Machiavelli e il Bandelle).
VARIETÀ 173
l'avido Bandelle, che d'ogni racconto udito faceva prò per la
sua raccolta, ritiene la novella, la scrive, la dedica a Giovanni
delle Bande Nere.
Stabilisce l'Osimo sulle traccie di Pierre G-authiez (1), che
tanti esatti particolari di luogo e di tempo riferiti dal Bandello
non lasciano adito a dubbi e che il Machiavelli fu veramente
il narratore della novella che lo scrittore lombardo gli attri-
buisce.
Ma né l'Osimo, né altri, ch'io mi sappia, degli studiosi di cose
bandelliane ha notato finora che non soltanto da un racconto
orale, ma da uno scritto ben noto del Machiavelli, ebbe a trarre
il Bandello quasi di sana pianta un'altra delle sue novelle: la 1*
della parte I « Buondelmonte de' Buondelmonti si marita con
« una, e poi la lascia per prenderne un'altra, e fu ammazzato » (2).
Ma il Bandello non si fa in quest'occasione un dovere di citare
la sua fonte ; se ne vale tacitamente e senza scrupoli, con quel
facile sistema che gli è proprio, che studi recenti (3) hanno già
riscontrato per la derivazione di altre sue novelle, e che nuove
indagini sulle fonti delle novelle bandelliane non potranno se
non mettere meglio in luce. Ode il Bandello narrare un fatto
in una di quelle signorili conversazioni in cui gli aneddoti fio-
rivano sulle argute labbra degli interlocutori, lo ritiene nella
memoria pronta e felice, lo scrive dapprima « cosi a la grossa
« a modo di commentario », e dopo parecchi anni magari, ripren-
dendo lo scritto suo e rimaneggiandolo per la pubblicazione,
ricorre volentieri a una fonte scritta che quel racconto con-
tenga, anche se si tratti di un libro largamente noto, senza
timore dell'accusa di un plagio assai facilmente controllabile.
È il caso di questa novella, dedicata a Ippolita Sforza Benti-
voglio, la dotta e gentile protettrice del Bandello, la musa inspi-
ratrice quasi della sua raccolta. Nella dedicatoria il Bandello
prende le mosse da un episodio della vita dei signori Bentivoglio,
(1) Jean des Bandes Noires, Paris, Société des éditions littéraires et ar-
tistiques, 1901.
(2) Le novelle, ed. Laterza, voi. I, pp. 6 s^
(3) Vedi in questo Giornale, 59, 91 sg (Agosti-Garosci , Per la crono-
logia di alcune novelle dì Matteo Bandello). Vedi anche F. Picco, Una fonte
diretta del Bandello nélV « Itinerario » di Lodovico Varthema, Piacenza,
Del Maino, 1912; per nozze Revelli-Zuccante.
174
e. AGOSTI GABOSCI
cui egli attivamente partecipava, investito di incarichi di fiducia,
consultato nelle circostanze più gravi. Egli ritorna infatti alle
sale dei Bentivoglio a Milano, in giorno di ricevimento affollate
di dame e di gentiluomini, a render conto dell'esito di una sua
delicata missione: « mandato dal signor Alessandro Bentivoglio
« vostro consorte e da voi a la signora Barbara Gonzaga contessa
« di Gaiazzo, per cagione di dar una de le signore vostre figliuole
« per moglie al signor conte Roberto Sanseverino suo figliuolo,
« alora ritornava con la graziosa risposta da lei avuta ». Ai due
nobili coniugi tratti in disparte rende il Bandello conto delle
sue pratiche, poi si richiede sul caso il parere dell'intera com-
pagnia : già l'arcivescovo Sanseverino, zio del conte Roberto,
tiene « il maneggio di dare al detto suo nipote la sorella del car-
« dinaie Cibo », figliuola d'una sorella del papa ; bisogna dunque
rinunciare senz'altro ad ogni pratica per non suscitare lo
sdegno di Leone X, sdegno pericoloso per i Bentivoglio, fuoru-
sciti di Bologna, cui il Papa a differenza del suo anteces-
sore Giulio II si mostrava favorevolmente disposto. Si rinuncii
dunque alle vagheggiate nozze; non mancheranno sposi alle
gentili figliuole dei Bentivoglio. Di questa opinione si fa soste-
nitore sopratutto Lodovico Alamanni, ambasciatore fiorentino,
il quale a meglio avvalorare il suo consiglio narra l'infausto
matrimonio di un suo remoto concittadino « che fu il mal seme
« della gente fosca » ; il racconto non poteva essere meglio
collocato che sulle labbra di un fiorentino. Queste circostanze
di fatto ci permettono di dare al piccolo « maneggio » matrimo-
niale dei Bentivoglio e alla narrazione della novella una data
precisa.
Leone X, principale ostacolo al disegnato sposalizio, è ponte-
fice tra il 1513 e il 1521: in questi anni deve essersi trovato in
Milano, ambasciatore del papa e del governo fiorentino, l'Ala-
manni. Lodovico Alamanni è fratello del poeta Luigi (1) e figlio
di quel Piero Alamanni che fu spesso e volentieri impiegato da
Lorenzo de' Medici come ambasciatore a Milano, dove Piero
aveva passata la sua giovinezza, quando il padre suo Francesco
e lo zio Tommaso occupavano onorevoli cariche presso Fran-
cesco Sforza. Morto giovanissimo il 22 giugno 1526, era Lodovico
(1) Vedi H. Hau VETTE, Un exilé florentin à la cour de France, Luigi
Alamanni, Paris, Hachette, 1903, pp. 6 sg.
VARIETÀ 175
dal padre destinato alla vita pubblica, tanto che ebbe nonostante
i giovani anni alcune missioni importanti : dal che si rileva come
le funzioni di ambasciatore o, come allora dicevasi, di oratore,
erano in qualche modo ereditarie nella famiglia Alamanni. Es-
sendo nel 1517 a Roma, fu incaricato dal pontefice (anche il Ban-
dello ce lo mostra infatti bene informato delle intenzioni del
papa) e dal governo fiorentino di una ambascieria presso il
Lautrec rimasto nel Milanese alla testa delle forze francesi. Tra
le lettere di Lodovico che l'Hauvette (1) dice di aver consultate,
datate da Roma, la più interessante è quella che egli scrisse a
suo padre l'il novembre 1517, per sapere se doveva, o non, ac-
cettare l'ambascieria a Milano : non ne conosce ancora lo scopo,
ma gli s'è fatto intendere che è di grande importanza, tanto che
egli si domanda se sarà capace di sbrigarsene. Fu mandato a
Milano con una deliberazione in data 21 gennaio 1518 (2), e ne
tornò il 25 marzo 1519. Egli era dunque nella florida capitale
lombarda nel 1518, ambasciatore al luogotenente del re Cristia-
nissimo di Leone X e alloggiato al convento delle Grazie : e ce lo
riconferma il Randello anche nella dedicatoria della nov. 41,
III (3), alla quale si può in base a questa circostanza assegnare
press'a poco la medesima data.
Il Randello negli anni che corrono tra il 1515 e il 1526 non
ha stabile dimora in Milano, è sempre in moto occupato in mol-
teplici ufiìcì tra Mantova, Grazuolo e Milano stessa, dove dovette
pur fare soste considerevoli al monastero delle Grazie, che ospi-
tava nel 1518 anche l'ambasciatore fiorentino, e mettersi spesso
ai servigi de' suoi protettori ed amici i Rentivoglio: a Milano
egli era dunque certamente contemporaneamente all'Alamanni
tra il 21 gennaio 1518 e il 25 marzo 1519. Ascolta egli allora
questa novella, la scrive e la dedica a Ippolita Sforza Rentivoglio,
anzi la pone in fronte all'intera raccolta delle due novelle. In-
dubbiamente poi, rimaneggiando in Francia negli anni tra il 1542
(1) Ibidem, p. 7, n. 1.
(2) Firenze, Bibl. Naz., ms. 1487 della classe Vili. C£r. all'Archivio di Fi-
renze, Signori, Legazioni e commissarie, vol.«27, f. 22 v.
(3) « Non sono ancora molti giorni che, essendo in Milano il gentilissimo
« e magnifico messer Lodovico Alamanni, ambasciatore di papa Lione X appo
« il luogotenente del re cristianissimo, seco nel convento de le Grazie, ove
« egli albergava, si ritrovarono a desinare alcuni gentiluomini ».
176 e. AGOSTI GAKOSCI
e il 1554, in cui furono stampate le tre prime parti della silloge,
parecchi tra i suoi racconti, anche questo gli venne corretto e
rifatto sul racconto parallelo di Niccolò Machiavelli, contenuto
nei capitoli 2<' e S'' del libro secondo delle Istorie fiorentine. La
prima edizione del 1531 potè essere tra le mani del Bandello,
che degli antichi rapporti amichevoli col Machiavelli doveva ben
aver conservato la curiosità di conoscerne gli scritti.
È bensì vero che il fatto dell'uccisione di Buondelmonte po-
teva in altri modi offrirsi all'attenzione del novellatore. Conte-
nuto nella Cronica del Villani (V, 38) che il Machiavelli ebbe
senza dubbio dinnanzi come traccia e come fondamento, il rac-
conto ci si presenta anche nelle cronache anteriori e contem-
poranee al Villani coi caratteri di una tradizione ben stabilita
non solo nelle linee generali, ma anche in quasi tutti i partico-
lari più salienti, ond'è che tra le varie redazioni, non si trova
varietà di sostanza, ma solo maggiore o minor copia di circo-
stanze diversamente colorite. G-ià prima del Machiavelli altri
scrittori avevano svolta la narrazione del Villani , traendo
profitto anche della forma sotto cui il tradizionale racconto
si presentava nei più antichi cronisti. Cosi Marchionne di Coppo
Stefani (1) e sulle sue traccie un novellatore, ser dio vanni Fio-
rentino (2) nel Pecorone : più liberamente ancora Leonardo Bruni
d'Arezzo (3), il quale a sua volta aveva trovato un imitatore in
Sozomeno (4).
Il Machiavelli riprendendo alla tradizione stessa quei colori
che il Villani aveva trascurati o diluiti, o, come par più pro-
babile, più consono al suo modo di comporre (5), ricorrendo a
questi scrittori direttamente, aveva già amplificato, abbellito la
narrazione, aggiungendo particolari e considerazioni che la ren-
dono più verosimile.
(1) Cronaca fiorentina, rubrica 64, in Ber. it. Script., nuova ediz. Car-
ducci e Fiorini, 1903, tom. XXX, P. I.
(2) Il Pecorone, giornata VITI, nov. 1»; Classici italiani, Milano, 1804,
voi. I, pp. 151 sg.
(3) Storia fiorentina trad. in volgare da Donato Acciainoli, Firenze,
Le Monnier, 1856-58-60, voi. I, pp. 270 sg.
(4) Excerpta ex Mstoria Sozomeni pistoriensi ab ann. IODI ad ann. 1294,
in Ber. it. Script., addit. Tartini, I, ce. 5-208, pp. 95 sg.
(5) P. ViLLARi, Niccolò Machiavèlli e i suoi tempi, 2* ediz., Hoepli, 1897,
voi. m, pp. 232 8g. ; Le istorie fiorentine, libri II, HI e IV.
VARIETÀ 177
Sul testo suo e con anche maggiore libertà lavora il Bandello :
egli toglie peraltro al racconto del Machiavelli con identità quasi
verbale ciò che gli è ben proprio, che non si trova negli scrit-
tori anteriori, le considerazioni di indole politico-filosofica. Ecco
alcuni tra i più evidenti punti di contatto. Dice il Machiavelli :
Tanto che nel mille ottanta, al tempo di Arrigo IH, si ridusse l'Italia
intra quello e la Chiesa in manifesta divisione, la quale non ostante, i fio-
rentini si mantennero infino al mille dugento quindici uniti, ubbidendo ai
vincitori, né cercando altro imperio che salvarsi. Ma come ne' corpi nostri
quanto più sono tarde le infirmità, tanto più sono pericolose e mortali, cosi
Firenze quanto la fu più tarda a seguitare le sette d'Italia, tanto dipoi fu
più afflitta da quelle (1).
E il Bandelle:
Erano dunque gli anni di nostra salute mille ducento quindeci, quando
il miserabil caso, di cui parlarvi intendo, avvenne ; e fin alora la città nostra
era sempre stata ubidiente a li vincitori, non avendo i fiorentini cercato di
ampliare lo stato loro, né offender li vicini popoli, ma solamente atteso a con-
servarsi. E perchè li corpi umani quanto più tardano ad infermarsi, tanto più
le infermità che poi li sopravengono o di febre o d'altro male sono più dan-
nose e mortali e seco mille pericoli recano, così avvenne a Firenze che, quanto
più tardi ella stette a pigliar le parti e divisioni che per tutta Italia con
rovina di quella erano sparse, tanto più poi di tutte l'altre dentro vi s'in-
volse (2).
Altri riscontri si potrebbero facilmente additare quasi lette-
rali nella stesura dell'intero racconto, più serrato e conciso quello
del Machiavelli, che il Bandello diluisce e fiorisce di aggettivi
e d'incisi; anche la psicologia dei personaggi acutamente ana-
lizzata dallo storico fiorentino, attinge a lui direttamente il no-
vellatore : anch'egli fa che la donna dei Donati, delusa nell'aspet-
tativa delle nozze della figliuola col Buondelmonti , non gli si
mostri corrucciata, non gli rivolga parole aspre di rimprovero o
di rimpianto, come accade in tutte le altre redazioni, ma più
astuta, più fine conoscitrice del cuore umano, mostri anzi ralle-
m
(1) Istorie fiorentine di N. Machiavelli, Firenze, Sansoni, 1908, libro II,
cap. 2° e 30, p. 121.
(2) Le fwveUe, ed. Laterza, voi. I, pp. 7-8.
Giornale storico, LXIV, fase. 190-191. 12
178 e. AGOSTI GAROSCI
grarsi con lui degli sponsali coll'Amidea, e solo confidi nella
bellezza della figliuola per rivolgere a nuovi propositi l'animo
del giovane. Avvenute le tristi nozze, e nei congiunti della sposa
ripudiata sorto feroce il desiderio della vendetta, colle stesse
parole ricordano il mal consiglio di Mosca Lamberti: narra il
Machiavelli :
... e convenuti insieme con molti altri loro parenti conchiusero che questa
ingiuria non si poteva senza vergogna tollerare, né con altra vendetta che con
la morte di messer Buondelmonte vendicare. E benché alcuni discorressero i
mali che di quella potessero seguire, il Mosca Lamberti disse, che chi pen-
sava cose assai non ne conchiudeva mai alcuna, dicendo quella trita e nota
sentenza: Cosa fatta capo ha. Dettono pertanto il carico di questo omicidio
al Mosca, a Stiatta liberti, a Lambertuccio Amidei, e a Oderigo Fifanti.
E il Bandello:
Convennero adunque insieme con altri loro parenti ed amici pieni di mal
talento e di fellone animo contra messer Buondelmonte; e conchiusero che
quella ingiuria e si manifesta onta non era a modo veruno da sopportare, e
che così vituperosa macchia non si poteva se non con l'istesso sangue del ne-
mico e dispregiator de l'affinità loro lavare. Vi furono alcuni che, discorrendo
i mali che ne potevono seguire, non volevano che tanto a furia fosse da cor-
rervi, ma da pensarvi più maturamente. Era tra i congregati il Mosca Lam-
berti, uomo audacissimo e pronto di mano, il qual disse che chi pensava di-
versi partiti nessuno ne pigliava, e soggiunse quella volgata sentenza: Cosa
fatta capo ha. Insomma, si conchiuse che la compita vendetta non si poteva
far senza sangue. E così fu commessa l' impresa d'ammazzar messer Buondel-
monte al Mosca, a Stiatta liberti, a Lambertuccio Amidei e ad Uderigo Fifanti.
E quasi con identiche parole attribuiscono all'uccisione la
scissione del popolo fiorentino in guelfi e ghibellini, il Ma-
chiavelli:
Questo omicidio divise tutta la città, e una parte si accostò ai Buondel-
monti, l'altra agli liberti. E perché queste famiglie erano forti di case e di
torri e di uomini, combatterono molti anni insieme senza cacciare l'una l'altra;
e le inimicizie loro, ancora che le non si finissero per pace, si componevano
per triegue, e per questa via, secondo i nuovi accidenti, ora si quietavano ed
ora si accendevano. — Cap. IV. E stette Firenze in questi travagli infino al
tempo di Federigo II, il quale per essere re di Napoli, a potere contro alla
Chiesa le forze sue accrescere si persuase ; e per ridurre più ferma la potenza
in Toscana, favori gli liberti e loro seguaci, i quali con il suo favore caccia-
rono i Buondelmonti, e così la nostra città ancora, come tutta Italia più tempo
era divisa, in Guelfi e in Ghibellini si divise.
VARIETÀ 179
e il Bandello:
Questo omicidio, sendo commesso in persona così notabile, fu cagione che
Firenze tutta si divise... Onde una parte si pose a seguitar gli liberti... e
l'altra parte s'accostò ai Buondelmonti, di maniera che tutta la città era in
arme. Ora perchè queste famiglie erano forti di palazzi e di torri e di uomini,
guerreggiarono lungo tempo insieme, seguendo d'amendue le parti di molte
morti. Ultimamente gli liberti con il favore di Federigo secondo, re di Na-
poli e imperadore, cacciarono fuori di Firenze i Buondelmonti. E alora si
divise la città in due fazioni come già era tutta Italia, cioè in Ghibellini e
Guelfi che fu l'ultima rovina di molte famiglie nobilissime, di modo che dopoi
le discordie e le sette tra le parti, e tra li nobili ed il popolo, e tra popolani
grandi ed il popol minuto fecero varie e grandissime mutazioni, e sempre con
spargimento di sangue grandissimo e rovina di bellissimi palazzi ed essilio
di molti.
Mera amplificazione verbale dunque, da parte del Bandello, del
racconto del Machiavelli, né il novellatore pensa a rendergli
giustizia citandolo almeno come riferimento storico; per il co-
lore locale gli basta aver posto il racconto in bocca a un fio-
rentino. Del resto la relazione tra il Bandello e il Machiavelli
annodatasi nella ricordata occasione, malgrado l'intonazione cor-
diale con cui il Bandello ne parla non si trasformò in vera
amicizia. Quando si serviva del testo del Machiavelli, cioè dopo
il 1531, per rimaneggiare la sua novella, il Bandello aveva del
segretario fiorentino compiutamente perduta ogni traccia. An-
cora un accenno a lui ci è possibile ritrovare nel novelliere, e
credo si esaurisca cosi l'esame dei rapporti tra i due scrittori,
ed è documento dell'aver il Bandello assai presto dimenticato
l'uomo, e fatto giudizio alquanto superficiale del valore morale
delle opere.
Nella dedicatoria della novella 55* della parte III, narrata a
Verona nel 1532 (1), si narra che, avendo uno degli interlocutori
tra mano « gli acuti ed ingegnosi Discorsi dell'arguto messer Ni-
« colò Machiavelli », ne legge il capitolo (XXVII del 1° libro dei
Discorsi) « il cui titolo è, che sanno rarissime volte gli uomini
« esser al tutto tristi od al tutto buoni », e un altro interlocu-
tore, Francesco Torre, nell'esordio della*hovella severamente lo
(1) Quando il Bandello conosce in quella città Francesco Berni, cui la no-
yella è dedicata. Vedi Le novelle, ed. Laterza, voi. IV, pp. 461 sg.
180 e. AGOSTI GABOSCI
commenta come scrittura immorale : « La lezione che il nostro
« da bene messer Desiderio ci ha per sua cortesia letta, come
« Yoi tutti, signori miei, potete aver notato, contiene in sé vie
« più di male che di bene, anzi in sé nessuna buona cosa ha....
« Io non posso nel vero se non ammirare, lodare e commendare
« l'acutezza de l'ingegno del Machiavelli ; ma desidero in lui un
« ottimo giudicio, e vorrei che fosse stato alquanto più parco e
« ritenuto e non cosi facile ad insegnar molte cose triste e mal-
« vagie, de le quali molto leggermente se ne poteva e deveva
« passare tacendole e non mostrandole altrui come fa in diversi
* luoghi. Ora io non voglio già, secondo che egli ha discorso in
« parte l'istorico Padovano, ed instituito un prencipe, discorrere
« i suoi discorsi e meno instituir lui, che non so se viva o sia
« morto. Ben dirò a proposito di quanto egli ha scritto in quel
« XXVII capo del suo primo libro dei Discorsi, che a me non
« può entrar nel capo, ne so come sia possibile che uno possa
« esser onoratamente tristo, e far una sceleraggine, che dai
« buoni sia riputata onorevole..... Invero io mi crederei che non
« si possa mai dire che la tristizia sia lodevole, e che uno, sia
« chi si voglia, mentre che é tristo e sgherro ed usa le ribal-
« derie, non si possa dire se non tristo e scelerato, e che egli
« non meriti se non agre riprensioni, severi gastigamenti e con-
« tinovo biasimo In somma io vi conchiudo che non si può
« essere onoratamente ribaldo ».
Le parole di biasimo stralciate alla conversazione di un gruppo
di gentiluomini e di dotti non esprimono per nulla un giudizio
peregrino del Bandelle, il quale volentieri si atteneva in fatto
di morale ai suggerimenti del più ovvio buon senso. Sono una
riprova che il fenomeno del machiavellismo tanto complesso e
tanto controverso, fu discusso già e rimase incompreso tra i con-
temporanei stessi e i posteri immediati del Machiavelli, e che
quella corrente di antimachiavellismo, che ebbe poi tanti illustri
rappresentanti dal cardinale Reginaldo Polo a Federico il Grande,
si veniva già allora delineando. Proprio nel 1531, press'a poco
un anno prima della conversazione bandelliana, nota il Villari (1),
Bernardo di Giunta facendo in Firenze una 2* edizione del Prin-
ciiJe lo dedicava a monsignor Gaddi pregandolo di difenderlo
« da quelli che per il suo soggetto lo vanno ogni giorno lace-
(1) Op. cit, voi. n, pp. 426 sg.
VARIETÀ 181
« rando si aspramente, non sapendo che coloro che insegnano
« le medicine, insegnano del pari i veleni, acciò possano difen-
« dersene ».
Il capitolo discusso è quello in cui il Machiavelli biasima
Gianpaolo Baglioni per aver avuto tra mano inerme il suo ne-
mico il pontefice Giulio II e non aver saputo cogliere l'occasione
di disfarsene con un atto di audacia feroce: « dove ciascuno
« avesse ammirato l'animo suo, e avesse di sé lasciato memoria
« eterna sendo il primo che avesse dimostro ai prelati, quanto
« sia da stimar poco chi vive e regna come loro » (1).
Come non se ne sarebbe scandolezzato il Bandello, frate, e
per debito stesso del suo ufficio, reverente all'autorità pontificia?
« Meno anco so come Gian Paolo Baglione, che il Machiavelli
« noma nel predetto capo facinoroso, incesto e pubblico parricida,
« devesse esser da uomini di sano giudicio stimato leale, fedele
« e buono in opprimendo un suo signore del quale era vassallo,
« e non solamente che gli era signore, ma che era de la santa
« romana Chiesa capo e sommo pontefice, e in terra vicario del
« nostro Redentore messer Giesu Cristo ».
Liberi e spregiudicati nella pratica della vita e nel concetto
dell'arte, non giungevano tuttavia il Bandello e gli amici suoi
all'acuta visione della realtà del tempo che ebbe il Machiavelli;
quasi solo tra i contemporanei egli solleva e tramanda ai po-
steri con franchezza coraggiosa, che par talvolta cinismo, le mi-
serie morali della patria, « gravamina italicae nationis ». Troppi
altri italiani del tempo, pure colti ed onesti, non si conoscono ;
la loro coscienza si lascia se non corrompere, almeno illudere ;
il loro sentimento morale malsicuro si culla nel placido otti-
mismo che le splendide apparenze esteriori permettevano: il
bene, tanto spesso offeso nei costumi, vogliono vederlo rispet-
tato almeno in teoria, vagheggiarlo come una idealità intangi-
bile e lontana.
Il Bandello poi, che non è rigido mai nelle sue opinioni, poco
più oltre quasi si scusa del severo giudizio : « ma io mi sono
« lasciato trasportare, non so come, contro la consuetudine e
« natura mia a riprendere il Machiavelli ». Nulla sapeva più a
(1) Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, 2* ediz., Firenze, Barlìèra,
1879, p. 153.
182 0. AGOSTI GAROSCI
quest'epoca dell'arguto messer Niccolò, nemmeno se egli vivesse :
solo tra mano ne aveva le opere e le apprezzava.
Cosi si erano un istante incontrati, poi rapidamente allonta-
nati senza seguito di simpatia profonda i due uomini in modo
diverso tanto vivamente rappresentativi dell'epoca loro : la fan-
tasia mobile, il vivace senso d'arte facevano il Bandelle atto a
rifletterne nel vario novellare, come in un cristallo brillante-
mente faccettato, le apparenze policrome e multiformi; il genio
di tanto più acuto e profondo del Machiavelli era pari a com-
prenderne ed esprimerne nello stile tagliente l'intima realtà, il
vuoto morale, l'acre malinconia che si sprigiona dal quadro stu-
pendo per chiunque lo contempli oltre le linee e gli aspetti
esteriori.
Cristina Agosti G-arosci.
Una pagina inedita di U. Foscolo
E IL «MISOGALLO» DELU ALFIERI
a cura dell'Albany.
È assodato che il Misogallo venne pubblicato dopo la morte
dell'autore. Quante edizioni però siano state fatte prima che
FAlbany provvedesse alla pubblicazione della sua copia, rimarrà
forse sempre un mistero. Già ebbe ad occuparsene colla solita
competenza il Renier, il quale fin dair84, nella dotta prefazione
al libro (1), discusse ampiamente delle dieci copie che correvano
manoscritte e del Contravveleno, unica parte del Misogallo
pubblicata vivente e consenziente l'Alfieri. Il Pelaez (2), in se-
guito, trovò una contraffazione dell'edizione principe in una
stampa fatta a Lucca nella tipografia Bertini; il Fumagalli (3),
una nuova contraffazione in altra copia esistente alla Braidense
che, a differenza di quelle già note, con gran difficoltà si di-
stingue dall'originale.
Diffìcile invece è determinare la prima stampa che porta la
falsa data : Londra 1799. Noi ne abbiamo esaminate varie copie
e in esse non abbiamo verificato che una continua contraffazione.
Quando queste copie vennero stampate e diffuse non si sa. Io
propenderei ad ammettere che risalgano all'epoca in cui l'astro
(1) Il Misogallo, le satire e gli epigrammi editi ed inediti di Vittorio
Alfieri, per cura di E. Eenier, Firenze, Santoni, 1884.
(2) M. Pelaez, Intorno alla prima edizione del « Misogallo » di Vittorio
Alfieri, in questo Giornale, 29, 215.
(3) G. FUMAGALLI, Intorno alla prima edizione del « Misogallo » dell' Al-
fieri, in Boll, della Soc. bibl. ital, nn^ 7-8, 1898, p. 110.
184 A. OTTOLINI
napoleonico cominciava a tramontare, dacché solo nel 1814 l'Al-
bany si preoccupò di rimediare agli spropositi e agli arbitri
degli stampatori col curare essa stessa l'edizione del Misogallo
pel Piatti di Firenze, con la falsa data di Londra 1800. Di questa
edizione, tratta dal manoscritto contrassegnato con la lettera F^
che porta nel verso dell'occhio la nota avvertenza, abbiamo esa-
minato due copie diverse fra loro nel formato, ma eguali nel-
l'impaginatura e nel carattere.
L'edizione procurata dall'Albany pei tipi del Piatti, risale al 1814
e non al 1804 (1), e ad essa si riferisce la pagina del Foscolo
che ora vede per la prima volta la luce. Nella lettera ad Ugo (2)
del 13 settembre 1814 scrive: « à présent je dois me justifier de
« ne vous avoir pas dit qu'on imprimait le Misogallo. Vérita-
« blement je l'ai oublié ; je comptais, sans oubli, vous envoyer
« un exemplaire de colui qui est réimprimé par nous, ainsi
« excusez » ; e nella stessa lettera (3) : « Pardonnez mon étour-
« derie de ne vous avoir pas parie du Misogallo. On l'a en-
« voyé à Rome, et le Pape et les Cardinaux ont été furieux ;
« on n'avait cependant pas imprimé les vers contre eux ».
E pochi giorni dopo inviandone copia da Firenze, il 30 set-
tembre (1814) : « Malgré que vous recommencez, mon cher U.,
« votre silence de il y a deux mois, je ne veux pas me dispenser
« de m'acquiter de ma pénitence que vous m'avez imposée pour
« ne vous avoir pas dit qu'on imprimait le Misogallo tout rempli
« de fautes d'impression et de sens commun. Pour réparer a
« cette fante, j'ai fait réimprimer cet ouvrage par le grand et
« obstiné Piatti, et je vous en envois une copie. Vous verrez
« qu'on a òté difFérents vers qui blessent les seìgneiirs qui veu-
« lent dans ce moment commander le monde, et le faire rétro-
« grader de deux ou trois siècles ; mais c'est un vain espoir
« quand on a commencé à voir clair dans de certaines matières. Je
« vous envois donc ce Misogallo par un Anglais nommé Cra-
« kentroph, nom un peu difficile, et dont le caractère n' y res-
(1) Parrebbe, secondo il Renier, che la stampa del manoscritto F fosse stata
intrapresa nel 1804 (vedi p. xxiv, Op. cit.), ma ciò è smentito dalle lettere
dell'Albany pubblicate posteriormente.
(2) Lettere inedite di Luigia Stolberg contessa d'Albany a Ugo Fo-
scolo, ecc., pubblicate da C. Antona Traversi e Domenico Bianchini, Roma,
Mohno, 1887, p. 116.
(3) Op. cit., p. 118.
VARIETÀ 185
« semble pas; car il est doux, aimable, et je l'ai vu souvent
« depuis qu'il est à Florence » (1).
La copia dall'Albany inviata al Foscolo fu, pochi giorni dopo,
da questo donata al Porta e ora trovasi nella raccolta portiana
alla Biblioteca milanese dell'Archivio storico civico. Ha in alto
scritto di pugno dell'Albany:
Per il signor Ugo Foscolo
e sotto le seguenti parole del Foscolo:
Edizione procurata dalla Contessa d'Albany su l'esemplare lasciato a Lei
dall'Alfieri; sebbene io ne La dissuadessi a principio per onore del poeta, il
quale sarà forse accusato da' posteri di rabbia impotente ed esalata in sar-
casmi, quando invece sarebbe stato più onesto un disdegnoso silenzio; da chi
per l'altre opere, più degne dell'Alfieri, l'Italia sa quant'egli odiasse la licenza,
e la tirannide ed il pretume, e peggio di queste tre pesti, la moderna libertà
infranciosata. Ma la Contessa vedendo pubblicato questo canzoniere rabbioso
con mille spropositi, e con arbitrii e licenze dagli stampatori lombardi, tentò
di provvedere se non al nome dell'autore, almeno alla convenzione del suo
manoscritto con questa edizione; ma i tempi, e i reverendissimi ripatriatisi
inquisitori e i revisori concordi per la paura propria, e per la paura del Mi-
nistro, e per la paura del Principe (aggiungi a queste tre paure accumulate
nel povero revisore, la minaccia onnipotentissima della fame), obbligarono
anche questa edizione benché fatta alla macchia, a parecchie ommissioni; le
quali la Contessa mi fece supplire a penna nell'ultima carta del presente esem-
plare. E nondimeno malgrado le ommissioni fatte a riguardo a S.* S.^ e del-
l'Emin.""» Collegio Romano, il Misogalìo spiacque altamente a Roma come
libro d'eretico.
Nota scritta il dì 10 ottobre 1814 a Milano in casa Porta, nel gabinetto
di Carlo Porta, illustre poeta meneghino, presente la bèlla Annetta (2) detta
Straffni, d'anni due, mesi dieci, giorni cinque, castissima innamorata di me
scrittore Didimo chierico discepolo del Reverendo Jacopo Annoni, curato di
buona memoria.
La nota venne già pubblicata dal Barbiera (3), il quale non si
curò di trascrivere quanto la precede.
(1) Op. cit, pp. 119-120.
(2) È la prima delle due figliuole di Carlo Porta, morta a trentun anno
nel 1842.
(3) R. Barbiera, Poesie edite e inedite e rare di Carlo Porta, Firenze,
Barbèra, 1884, p. xliii. La trascrizione del Barbiera non è in tutto esatta.
186 A. OTTOLINI
Se pensiamo che la conoscenza tra il Foscolo e l'Albany ri-
sale al 31 agosto 1812 (1), dobbiamo ammettere che solo verso
la fine di quell'anno o, poco dopo, avessero cominciato a diffon-
dersi le copie del Misogallo se appena allora si risolse a cu-
rarne l'edizione.
La nota del Foscolo, che è un'aspra censura al Misogallo^ dà
ragione anche delle lacune che si trovano nel testo, lacune che
sono riempite a penna nell'ultima carta dell'esemplare, dalla quale
trascriviamo.
Suppleìnento alle lacune che sì riscontrano
nella presente edizione del « Misogallo ».
P. 69 — Sonetto XIX, v. 13 :
Ma, pria che , annullisi la matta.
Ma, pria che il Papa, annullisi la matta.
P. 70 — Epigramma VI, v. 4 :
Così fa ch'ora ai suoi promette
Così fa il Papa, ch'ora ai suoi promette.
P. 95 — Sonetto XXVI, v. 6 :
Dei mostri abominandi:
Dei mostri Inquisitori abominandi,
P. 121 — Nota 36, vv. 5-6 :
Marchesi all'intero
, che in Roma ecc.
Marchesi all'intero Collegio
de' Cardinali, che in. Roma ecc.
P. 144 — Epigramma XXXV, vv. 1-3:
Si dice, che dicea non so qual . . .
Tastandosi « Oh quanto bene
(1) Foscolo, Epistolario, voi. II, lett. 414: Milano, 31 agosto 1814. « Ecco
€ che se n'è ito anche questo mese ; e son due anni oggi, appunto, eh' io ebbi
€ l'onore di conoscerla... ».
VARIETÀ 187
Si dice, che dicea non so qual Papa,
Tastandosi la Tiara: « Oh quanto bene,
« Ci fa quest'ampia favola di Cristo » !
P. 163 — Epigramma LIV, v. 2 :
All'amico il Gallagógo,
All'amico Gran-Duca il Gallagógo,
Ivi, V. 4:
Sei mila armati amici entro
Sei mila armati amici entro Livorno.
Ivi, V. 6:
Pel Signore, il Pedagogo,
Pel lattante Signore, il Pedagogo;
Ivi, V. 8:
Ne fa tutta un muto sfogo :
Ne fa Toscana tutta un muto sfogo:
P. 170 — Sonetto XLII, v. 4:
La men ... di loro Aquila giace
La men ladra di loro Aquila giace
P. 171 — Sonetto XLIH, v. 14:
E l'allor, fin '1
E l'allòr, fin il santissimo Rosario.
Se si confrontano queste aggiunte con Tedizione curata dal
Renier e con le precedenti si vede che le differenze sono po-
chissime e di piccola importanza.
Angelo Ottolini.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
GINO BOTTIGLIONI. — La lirica latina dì Firenze nella
seconda rtietà del secolo XV. Estratto dagli Annali della
R. Scuola normale superiore di Pisa, voi. XXV. — Pisa,
1913 (8°, pp. 232).
H Bottiglioni ha preso ad illustrare la lirica latina in Firenze nella se-
conda metà del secolo XV. A questo scopo ha raccolto l'abbondante materia
che gli fornivano i manoscritti fiorentini e l'ha sistematicamente raggruppata
intorno a due nomi : i nomi di Cristoforo Landino e di Angelo Poliziano.
Intorno al Landino infatti troviamo i suoi discepoli e seguaci: Ugolino Ve-
rino, Naldo Naldi, Alessandro Braccesi. Intorno al Poliziano troviamo i suoi
amici e i suoi nemici: questi assai più importanti di quelli; e basti nomi-
nare Bartolomeo Scala, Bartolomeo della Fonte, Michele Marnilo. Siccome poi
la poesia del Landino è prevalentemente amorosa, la poesia del Poliziano
prevalentemente occasionale ed encomiastica, così da questi due generi poe-
tici pigliano il titolo le due parti del volume.
Cotale divisione è un po' artificiosa, perchè i poeti amorosi hanno trattato
anche argomenti estranei, e i poeti dell'altro genere hanno trattato anche
argomenti amorosi. Ma il Bottiglioni che a tutti i costi cercava una distri-
buzione comprensiva si lasciò imporre dai due nomi più famosi. E che la
duplice distribuzione non corrisponda interamente al vero vediamo da ciò,
che a Pietro Crinito è dedicato un capitolo a sé, che lo stacca dal Poliziano,
e un capitolo a sé, l'ultimo, ha richiesto la lirica religiosa.
Ma l'imperfetta distribuzione non nuoce molto alla trattazione, la quale è
condotta lodevolmente, sussidiata da larga messe di materiali disseminati
nel contesto e nelle note e adunati nelle due copiose appendici. Molta di questa
produzione lirica era nota, ma molta giaceva ancora inesplorata nei mano-
scritti. La nota e la nuova il B. sottopone a un'accurata analisi, premettendo
a ogni poeta un'opportuna notizia biografica.
Una ricerca capitale in argomenti di tal genere è quella che mira alle
fonti ; perchè altro è se le fonti sono antiche, altro è se sono medievali : dalla
mancanza o dalla misura delle une e delle altre può ricevere la poesia intona-
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 189
zioni diverse di pensiero e di forma. L'indagine del B. in questo rispetto è
stata scarsa; non che non abbia scoperto in generale con sicurezza le fonti, ma
bisognava cercare più in largo e andare più a fondo. Dopo il lavoro del Curcio,
Orazio studiato in Italia dal sec. XIII al XV III, si desidererebbe saper
meglio fino a qual punto la lirica oraziana fu imitata. Sicure reminiscenze
di Orazio lirico a ogni modo dal libro del B. risultano per il Landino, per
il Verino, per il Poliziano, per il Marnilo e sopra tutti per il Crinito. Ma è
un fatto però che il lirico prediletto era Catullo; e i più catulliani sono il
Poliziano e il Marnilo. Del Marnilo il B. cita due copie catulliane, così egli
le chiama (pp. 129-130), ma una di quelle non è copia, sì una perfetta pa-
rodia, verso per verso, di un carme di Catullo, una parodia della quale ebbe
un esempio classico nel Catalepton (X) Sabinus ille quem videtis hospites,
dov'è parodiato il catulliano (IV) Phaseìlus ille quem videtis hospites. Una
imitazione catulliana non è stata riconosciuta dal B. a p. 66, dove gli è sfug-
gita anche una curiosa citazione dall'imperatore Gallieno. La Neera del Ma-
rullo deriva da Tibullo o meglio dallo ps. Tibullo (Ligdamo). Accanto a Ti-
bullo occorreva tra le fonti dare maggior posto a Ovidio. Un'imitazione pe-
trarchesca a p. 23 : Quid te iuvat ad flammas addere Ugna tuas ? Confronta :
« A che più vai Giungendo legna al foco onde tu ardi? ».
Nei giudizi il B. coglie abbastanza giusto. Si nota p. e. con piacere che
egli abbia smorzato alquanto gli entusiasmi per l'arte del Poliziano e abbia
innalzato considerevolmente il Marnilo, questo quanto sventurato altrettanto
grande umanista. Non so se il B. se ne sia accorto o se ciò non fosse ne' suoi
intendimenti; ma nel suo libro tra tutti i poeti fiorentini la miglior figura
la fa il Marnilo, il greco Marnilo. Il B. rimprovera al Poliziano mancanza
di sentimento: e il rimprovero è meritato. Ma crede egli sul serio alla ve-
racità di tutto quello che cantano il Landino e compagnia? Crede tutte di
corpo e sangue le donne dei loro canzonieri ? Non ha proprio pensato all'oppri-
mente suggestione classica, che infatuava quella brava gente? Il vero can-
zoniere, il canzoniere vissuto, è quello del Marnilo, il quale gettò in faccia
agli umanisti fiorentini e italiani in genere quel terribile pentametro, molto
a proposito recato a p. 128 : Et quae non facimus dicere facta pudet, dove
è bollata non l'immoralità della vita degli italiani, ma l'infatuamento clas-
sico, che è quanto dire la loro immoralità artistica. Dunque imitazione e
sempre imitazione, forma, forma, forma: preparazione del secentismo.
Infine devo muovere al B. un biasimo, che però non tocca solamente lui,
ma tutti coloro che si occupano di letteratura umanistica. E in vero si os-
serva che costoro nel riguardo storico sono di regola soddisfacentemente pre-
parati, ma non altrettanto nel riguardo della lingua. Chi studia l'umanismo
è necessario che possieda cognizioni esatte di latino classico e di latino me-
dievale e quando si tratta di poeti occorre presentarsi ben corazzati di me-
trica. Sceglierò alcuni esempi.
La lettura dei manoscritti può riuscire talora incerta a chi non è molto
pratico : in tal caso conviene aiutarsi col senso del contesto. Così a p. 58 un
Nec voluto dal senso fu letto per Hec e stampato Haec, a p. 151 fu
190 BASSEGNA BIBLIOGRAFICA
scambiato calce con calore e stampato harenam sine calore ; ma chi conosce
Vharenci sine calce di Caligola non esita un istante.
La divisione delle parole gioca dei brutti tiri: a p. 35 etiam si divida et
iam ; a p. 103 Intortos si divida In tortos ; si tratta, come ognun vede, del
leggendario uovo di Colombo.
La grammatica è un'eccellente guida. A p. 18 è stampato : « Nec bene dum
« noram quid sit amare malum », una frase del Landino, che ricorre in un
altro carme (p. 53): « vides quid sit amare malum ». Il medesimo quid er-
roneo si trova stampato a p. 103: « Quid merito acquari valeant haec sae-
« cula priscis Ostendit claro Lippius ingenio ». Nell'ultimo passo è evidente
che bisogna correggere Quod; e così sarà da ripetere per i due primi. Il B.
ha scambiato tutte tre le volte la sigla di quod per la sigla di quid; ma
la grammatica doveva impedire lo scambio. Parimente a p. 118 visus est an-
dava corretto in visum est ; inoltre confirmatur in confìrmatus e sentiant in
sentiam (dove è caduta una parola come scriberem o simile).
Il verso (p. 37) « Quod si forte meos laudabis, o Petre, libellos » è sba-
gliato ; e forse così è dato dal manoscritto, perchè il copista avrà trasportato
nel contesto l'interiezione o del vocativo, segnata sopra Petre ; ma per ovvia
ragione metrica l'editore lo deve togliere.
Talvolta un semplice ritocco alla punteggiatura ristabilisce il senso. A
p. 24 leggiamo: « Xandra, precor nostri veniat non immemor bora, Ulla tibi
« maneat non temerata fides »; basta trasportare la virgola dopo Ulla. P. 41:
« Tua pectora cur sic Tanto odio flagrent : non tibi causa mei est » . Questa
punteggiatura fa pensare che mei vada connesso con causa, mentre è geni-
tivo oggettivo di odio. Più grave turbamento d'interpunzione incontriamo a
p. 103: « Clauduntur parvo, lector pretiosa libello Pondere charta levis, ni
« gravis; arte potens »; turbamento prodotto certo da quel ni, che va cor-
retto in ui (vi). Racconciamo : « Clauduntur parvo, lector, pretiosa libello ;
« Pondere charta levis, vi gravis, arte potens ».
Non sempre il significato dei testi ò stato capito. Il Poliziano (p. 80) non
corresse al Marullo la quantità di curtus e di longus, ma scherzò sul loro
valore lessicale. Un'interpretazione illegittima è data al seguente passo, che
interpungo e correggo così (p. 22):
Xandra, tuum ut videam gelidum suspìria peotus
Fundere corque simul igne calere meo !
Tuno tua seu rigido quondam precordia ferro
Horruerint, duro sive adamante licet,
Vieta tamen precibus tandem sic fabere nostris:
« Hio meus ingenti iam meret esse fide » .
Splendida tum varii mutabunt ora oolores
Et lachrime in morem fluminis ore fluent, eto.
Il pentametro Hie meus - fide è posto in bocca a Xandra ; e a lei si rife-
riscono gli splendida ora. Veda un po' il B. se con le parole « soltanto Xandra
« può restituire al suo adoratore la salute e la felicità » gli pare d'aver reso
lo spirito dei versi.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 191
E non insisto, perchè nulla odio di odio tanto profondo quanto la pedan-
teria; ma confesso che nei saggi umanistici degli studiosi italiani stona sgra-
devolissimamente col resto l'inettitudine a presentare in modo decoroso i do-
cumenti.
H B. ha cercato inutilmente (p. 146) l'edizione tedesca delle opere di Bar-
tolomeo della Fonte. Ne posso indicare una copia posseduta dalla biblioteca
universitaria di Bologna col titolo : Opera exquisitissima Barth. Fontii florent.
V. e. familiaris Matthiae regis Pannoniarum, Francofurti MDCXXI. Ed ecco
anzi il sommario del volume : p. 6, De locis Persianis ; p. 29, Testo delle Satire
di Persio; p. 77, Commento a Persio; p. 207 , Barth. Fontii JDe mensuris et
ponderibus ad Frane. Saxettum epistola. Florentia Calendis ianuarii
MCCCCLXXII] p. 264, Barth. Fontii Donatus (cioè de poenitentià) ad
Julianum Medicem Petri f.\ p. 287, Pauìi Ghiacceti vita a Barthol.
Fontio edita] p. 303, Oratio a Barth. Fontio in laudem oratoriae facultatis
Florcntiae habita die VII novembris MCCCCLXXXI-, p. 314, Barth.
Fontii oratio in historiae laudationem Florentiae habita die VI novembris
MCCCCLXXXII] p. 329, Barth. Fontii oratio in bonas arteis Florentiae
habita die Vili novembris MCCCCLXXXIIII] p. 343, Oratio Barth.
Fontii in laudem poetices Florentiae habita die UH nov. MCCCCLXXXV\
p. 353, Barth. Fontii oratio de sapientia Florentiae habita die VII novem-
bris MCCCCLXXXVI ] p. 360, Barth. Fontii oratio in satyrae et stu-
diorum hum.anitatis laudationem Florentiae habita die VII novembris
MCCCCLXXXVll] pp. 374-413, Barth. Fontii SaxeUus ad Joannem
Corvinum Matthiae ì^gis f. E una raccolta di poesie, quasi tutte in metro
elegiaco, assai più numerose di quelle pubblicate dal Marchesi. Alcune, di
argomento amoroso, sono indirizzate a una Celia (1).
Remigio Sabbadini.
MARIA IRACI. — Lorenzo Spirito Gualtieri. — Foligno,
R. Gasa editr. F. Gampitelli, 1912 (8«, pp. 313).
Questo non breve volume, dovuto ad una signorina studiosa, che fa le sue
prime armi, non è certo quel che di meglio si potrebbe desiderare intorno
allo scrittore quattrocentista di che tratta. Per quanto l'A. abbia fatto ri-
cerche discretamente ampie e si sia con una certa larghezza preparata allo svol-
(1) Del medesimo Bottiglioni annunziamo un aj^ro lavoretto, che si può consi-
derare come un'appendice del volume suddescritto, dal titolo: Lirici latini del
secolo XV, le propaggini del circolo letterario mediceo fuori di Firenze, Forlì, 1918,
58 pp. (estratto dalla rivista mensile La Romagna, X, 1918), Vi si esamina la pro-
duzione lirica dei seguenti nove umanisti: Lorenzo Buoninoontri, Antonio Pelotti,
Cherubino Quarquagli, Filippo Bonaccorsi, Giambattista Cantalioio, Scipione For-
teguerri, Piattino Piatti, Giovanni Aurelio Augurelli, Jacopo Bianohelli.
192 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
gimento del suo tema, non poche né lievi sono le deficienze e le lacune del
suo lavoro, il quale forse si risente d'una fretta inopportuna, che lo ha fatto
comparire in luce per le stampe prima del tempo. S'aggiungano, a questo
fondamentale, altri difetti dovuti all'inesperienza, ed una esposizione non
sempre ordinata e soverchiamente verbosa, piena di ripetizioni e divagazioni
inutili : il volume , a parer mio, avrebbe potuto agevolmente esser dimi-
nuito d'un centinaio di pagine, al cui posto i lettori avrebbero più volentieri
veduto saggi più numerosi della poesia dello Spirito, che invece l'A. ha in-
tercalati in modo frammentario e non sufficiente nella sua esposizione. Tut-
tavia nel suo complesso il lavoro della I. è tutt'altro che inutile, e certo
contribuisce in notevole misura alla miglior conoscenza dell'opera del rimatore
e venturiere perugino.
Di lui, non pochi anni or sono, io rifeci la biografia sui documenti nume-
rosissimi che trassi dagli archivi perugini (1); ed era mia intenzione conti-
nuare su di lui i miei studi e pubblicarne una compiuta monografia, giovan-
domi dell'esame delle opere e delle molte ricerche fatte. Poi, altri lavori mi
distrassero da quelle mie indagini giovanili. Però non dispiaccia ai lettori del
Giornale che io mi dilunghi un poco nell'esame del volume della sig.^^a I.,
correggendo quel che in esso mi parrà o sarà errato, e aggiungendo ciò che
di ragguardevole mi avvenne di trovare fra i miei appunti.
Non bisogna, innanzi tutto, esagerare i meriti del rimatore perugino, né
sollevarlo al disopra di quel modesto livello, a cui egli ha diritto di esser
posto. Nelle molte, troppe pagine della I. è un'altalena continua di lodi e di
critiche al poeta perugino: incoerenza che dimostra l'atteggiamento in cui
l'A. si è trovata dinanzi al suo autore ; il quale le è apparso, come è, nel
complesso, una di quelle tante mediocrità, poeti a mezzo, del sec. XV, autore
d'un profluvio di versi in mezzo a cui bisogna cercare con pazienza qualche
voce sincera e qualche espressione poetica; ma del quale ella tenta, per l'affetto
posto al suo tema, d'ingrandire i meriti ogni volta che le occorra nell'opera
del Gualtieri una frase, un concetto che abbiano apparenze meno sgraziate
del solito. Nelle prime pagine, ad es., l'A. afferma di sentire nel canzoniere
dello Spirito « la freschezza d'un alito primaverile, tutta l'ingenuità pura e
« seducente della nostra giovane poesia » : da queste doti ella « rimase av-
€ vinta », e ne continuò la lettura « con avidità, sollecitata dall'ammirazione».
Altri pregi non comuni trovò più o meno nelle altre opere del suo autore;
onde s'accinse con « entusiasmo » al suo lavoro, per riparare « un'ingiustizia
« di quattro secoli » (p. 4 sg.). Ma poco più oltre la stessa A. ricaccia nella
moltitudine dei meno illustri quattrocentisti il suo autore, con quest'altro
giudizio, che è davvero più vicino alla verità : « Egli non ha somma impor-
« tanza per sé e per grandi, originali creazioni, che le sue opere non ecce-
« dono la mediocrità, né per correttezza, eleganza di forma, né per genialità
(1) Lorenzo Spirito Gualtieri rimatore e venturiere perug. del sec. XV (nella Raccolta
di ttudii crii, dedic. ad A. D'Anoona, Firenze, Barbèra, 1901, pp. 277-84).
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 193
« d'invenzione, ecc. ». E a questo esempio, che ho citato perchè è il primo,
ne potrei aggiungere moltissimi altri. Ne segue un continuo dire e disdire,
un alterno concedere e togliere ai meriti dello Spirito, un esaltare con forma
inopportunamente enfatica e fiorita (difetto che si estende a tutte le parti
del lavoro (1)) e un attenuare, poco dopo, le lodi esageratamente concesse: il
che genera monotonia e ad un tempo incertezza di giudizi, e stanca il lettore
con le molte ripetizioni, e lo rende incredulo tutte le volte che l'A. prende
l'aire e fraseggia qualche suo giudizio laudativo. Ingrossar la voce per ingran-
dire i meriti dello Spirito è tempo e fiato sprecato : egli resta quello che è
di fatto, un tipico rappresentante della coltura e dei tempi in cui visse, senza
genialità, ma tuttavia non senza qualche buona dote di vigore e di sponta-
neità : un misto simpatico, ma abbastanza comune nella vita e nella letteratura
del sec. XV, di primitivo e di colto.
Lorenzo Spirito Gualtieri, sebbene non ignaro delle letturature classiche,
anzi certamente buon conoscitore del latino, come ci attesta la sua traduzione
d'Ovidio, nella Perugia del 400 rappresenta il sopravvivere della tradizione
volgare e popolare di contro all'invadente coltura umanistica. Chi s'accingerà
ad uno studio delle lettere a Perugia nel XV secolo, per cui si hanno saggi
vari e già antichi e più recenti, troverà in mss. e documenti d'archivio, che
io so abbondanti specialmente nella Biblioteca comunale di quella città, molti
nomi di modesti cultori dell'Umanesimo, insieme ad altri più famosi già noti,
e scritti molteplici latini e greci, per ricostruire una pagina curiosa e impor-
tante del rinascimento classico nell'Italia centrale, in quella Perugia che ne
fu la sede più cospicua, fra gli splendori di Firenze e di Roma. Ma accanto
a questa coltura classica, che s'illustra dei nomi del Campano, dell'Antiquari,
del Maturanzio e d'altri molti ancora sconosciuti nei codici perugini, c'è una
non piccola né indegna letteratura volgare, di cui Lorenzo Spirito fu il prin-
cipale rappresentante. Bene egli adunque meritava che se ne facessero cono-
scere le opere e la vita più compiutamente che finora non si sia fatto. Ma
non perciò è vero ch'egli sia ai cultori della nostra storia letteraria un ignoto,
nò che molto possa diffondersi la sua fama, come la sig.Jia I. asserisce nelle
prime pagine del suo volume. Può anzi dirsi che la sua rinomanza, più o
meno equamente valutata, non sia venuta mai meno. Se l'I. ci avesse dato
una compiuta bibliografia sullo Spirito (e sarebbe stata utilissima, come in
tutti i lavori che trattano d'autori del genere e del valore del suo (2)), sa-
rebbe stato evidente che il nome del Gualtieri non fu mai dimenticato : forse
decadde un po' nel 500, quando la letteratura perugina fiorì e acquistò fama
italiana per merito de' suoi due principali poeti, il Beccuti e il Caporali; ma
dal risveglio di studi eruditi, iniziatosi alla fine del 600 e fattosi sempre
(1) Cfr., p. es., a pp. 83, 48, 53 sg., 57, 63 e via via.
(2) Una smentita alla sua affermazione della poca notorietà dello Spirito dà, l'A.
stessa a p. 17 sg., ricordando coloro che di proposito s'occuparono del rimatore
prima di lei.
Giornale storico, LXIV, faso. 190-191. 13
194 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
più intenso fino al principio del sec. XIX, e poi ai tempi nostri, il nome del
rimatore quattrocentesco non fu più dimenticato : prima il Vincioli, e poi il
Vermiglioli, per dir solo dei principali, quindi il Fabretti e altri minori stu-
diosi perugini, e Vittorio Rossi e ultimo il sottoscritto contribuirono a far
sempre meglio conoscere la vita e le opere dello Spirito. Il quale, per merito
di V. Rossi, uscendo dalla storia umbra, fece con onore il suo ingresso nella
storia della nostra letteratura, e vi prese il posto modesto, ma non insignifi-
cante, che gli spetta (1).
Da quel che s'è discorso innanzi risulta che lo Spirito, in quanto raccoglie
in sé i caratteri, le doti e i difetti del suo tempo, è di quegli autori, che, —
non avendo grandi pregi di originalità, né obbligando chi li studia a con-
centrar su di loro la propria attenzione in modo da isolarli quasi, per quanto
é possibile, dall'ambiente in cui vissero, — devono essere considerati non sepa-
ratamente, ma nella società, in cui si svolse la loro attività, da cui ricevono
luce, e fuori della quale perdono una parte del loro valore e del loro signifi-
cato. Questo l'I. aveva intraveduto ; ma non ha sentito la necessità di dare
allo Spirito quel contorno, nel quale egli non è destinato a confondersi con i
suoi contemporanei, ma ad acquistare il dovuto rilievo : che non può bastare
nemmeno alle più limitate esigenze quel poco che ella dice del Quattrocento
pei-ugino (a pp. 4-7) (2): cose molto generiche e incompiute, laddove il nostro
Quattrocento non presenta gli stessi caratteri in tutte le città e regioni; e
troppo vaghi e imprecisi sono quei riferimenti storici che l'A. ha sparsi senza
abbondanza qua e là per il suo volume, dove si richiedeva molto di più per
illustrare opere, come il Puhlico e V Altro Marte, che trovano la loro ragion
d'essere nelle condizioni di vita della città umbra e dell'Italia intera nel se-
colo del Rinascimento e delle Signorie.
Nel secolo XV Perugia, pur partecipando alla coltura umanistica (3), non
divenne uno dei centri principali dei risorti studi classici, perchè i suoi do-
minatori, benché munifici e splendidi signori, furono soprattutto uomini
d'arme. Il fiorente studio perugino contribuì specialmente all'incremento delle
lettere, poiché in esso la gloriosa tradizione medievale fu continuata da altri
celebri maestri del diritto e della letteratura. A Perugia rimase vari anni
G. A. Campano, ingegno bizzarro, vanaglorioso e anche litigioso, come i più
(1) H Quattrocento, p. 166, dove lo Spirito è messo in compagnia d'altri rimatori
storici.
(2) E molto meno basta quell'elenco disordinato di nomi, che è a p. 16 sg., con
insufficiente bibliografia, anzi senza la più piccola nota bibliografica.
(8) Utilissime, per la storia della coltura perugina di questo secolo, sono le opere
in genere di G. B. Vermiglioli, e specialmente le Memorie di Jacopo Antiquari e degli
studi di ametia letteratura esercitati in Perugia nel sec. decimoquinto, ecc., Perugia,
Baduel, 1813, e le Memorie per servire alla vita di Francesco Maturanzio oratore e
poeta perugino raccolte la maggior parte dalle sue opere (ned., Perugia, Baduel, 1807.
Sul Maturanzio, o Matarazzo, sarebbe pur sempre la benvenuta una monografia
che ne considerasse il merito letterario; ed anche alla sua biografia son da ag-
giungere non pochi particolari, sfoggiti al Vermiglioli.
RASSEGNA BIBLIOGBAFICA 195
de' suoi colleghi. Soggiornò nella capitale dell'Umbria fino al 1460(1), quando
fu chiamato a Eoma da Pio II : protetto dai Baglioni, a cui istruì i figli,
non riportò però favorevole concetto della coltura perugina: di essa infatti
egli fece un ritratto « molto umiliante », come dice il Vermiglioli (2), in
una delle sue Epistolae (Lib. II, ep. 31*). « Ma forse ne parlò anche con
« maggiore arroganza — prosegue l'erudito perugino — in quella prelezione
« che egli recitò nel 1455 nell'assumere la nuova cattedra a lui affidata, ove
« fece vedere quanto i perugini erano alieni dallo studio della retorica e
« dell'eloquenza ». Però chi rifletta che in quel secolo Perugia potè vantarsi
di Iacopo Antiquari, segretario dello Sforza, uomo di gran dottrina e di
animo elevatissimo (3); e di Francesco Maturanzio, storico ed umanista
insigne, che nel '71 viaggiò in Grecia, e si trattenne alcuni anni a Rodi,
imparando la lingua ellenica in modo da parlarla (4), e, tornato in patria
recando seco molti codici greci, fu stimato degno di succedere nell'insegna-
mento, in Vicenza, al suo maestro Ognibene; chi pensi che molti altri mi-
nori vissero e poetarono latinamente a Perugia (5), in quel fervido periodo
di rinnovamento intellettuale, dovrà ammettere che al Campano non è da
prestar fede intera. Solamente a scorrere i fasti dell'Università perugina rac-
colti dal Bini (6), è facile persuadersi che i magistrati della città si presero
gran cura dell'istruzione pubblica : vi insegnarono infatti il Calcondila ed Er-
molao Barbaro, e più volte vi fu invitato il Filelfo. E seguendo l'uso invalso
presso gli stati italiani, Perugia si studiò d'avere nella sua Cancelleria del
Comune un uomo dotto : nel 1440 lo stesso Filelfo fu proposto a quella carica
insieme con l'Aurispa, col Marrasio e con Ranuccio da Castiglione aretino,
perchè appunto si ricercava « unus qui sit bonus scientificus et in arte oratoria
« doctissimus » (7).
(1) Gr. Lesca, G.A. Campano detto VEpiscopua apriitimia, Pontedera, Ristori, 1891,
pp. 26-87. Aggiungo che l'elezione del Campano, che si trovava a Perugia dal 1458,
a lettore, fu fatta ai 16 novembre 1465 ( v. Annalea Decemvirales, presso la Biblioteca
comun. di Perugia, ad ann., f. 126 a).
(2) Memorie di Francesco Maturanzio, p. 116 sg., n. ^.
(8) Oltre il cit. voi. del Vermiglioli, v. gli utili docum. sull'Antiquari, fatti co-
scere da E. Verga, Docum. di stor. pertig. estr. dagli archivi di Milano (nel Bollett. d.
R. Depili, di stor. patria per l'Umbria, V, 717 sgg., VI, 11 sg.).
(4) Vedi l'epistola 79» del Maturanzio nel cod. E. 5 della Comnnale di Perugia.
(5) Cfr. per tutti questi Vermigligli, Mem. di I. Antiquari, pp. 5 sgg. e 80 sg.
(6) Vincenzo Bini, Della perugina Università degli studi e dei suoi professori, voi . I,
parte 2» : i nomi degli illustri maestri di lettere e poesia a pp. 509 sgg. È da notare
che il Campano non fu ingrato verso i perugini, perchè nelle numerose sue epi-
stole dirette al Card. Papiense, legato di Perugia, mostra di aver molti debiti di
riconoscenza con essi (cfr. Opera I. A. Campani, Romae. MCCCCXCV, Epist., L.VI,
no 24). E ne' suoi Carmina (Lib. I, carm. 9^) cosi patla de' suoi mecenati:
Est domus illustris Balionia sanguine avorum,
E qua magnanimi mille fuere duces.
(7) Vedi nella Bibl. com. di Perugia gli Annales Decemvirales, ad ann., f. 18. Per
ricordare alcuno di questi cancellieri illustri, tra i quali già sul finire del seo. XIY
196 BASSEGNA BIBLlOGBAriCA
Né del tutto insignificante, anche togliendone Lorenzo Spirito, era la pro-
duzione letteraria in volgare: ci basti qui ricordare Serafino Candido Bon-
tempi, che, esule dalla patria, trovò presso i Trinci di Foligno accoglienze
liberali (1), e che, mercè del suo tedioso poema in terzine del Salvatore, fu
fatto cavaliere nel 1433 da Sigismondo imperatore, il quale emulò in questo
gl'imperatori del secolo precedente; come pure quel Nicolò Grisanti da Mon-
tefalco, che fu trombetta di Braccio II Baglioni, e verseggiò alla peggio un
suo canzoniere, interessante per la conoscenza di non pochi personaggi di quel
tempo, e che oggi è meglio conosciuto che la sig na I. non sappia (2) ; né di-
menticheremo una donna, bellissima e santa, Elena Coppoli (1425-1500), bea-
tificata col suo nome di religione, Cecilia (3).
Una ricca, se non splendidissima, corte fioriva allora a Perugia: una di
quelle corti, che « erano ritrovo — come dice il D'Ancona — a gente di vario
« grado, di varia cultura e di moralità assai diversa. Capo di esse era il prin-
« cipe, che quando non era dei maggiori, e per ciò stesso intricato negli av-
« volgimenti della più perfida politica, era un condottiero il quale vendeva
« il braccio ad un signore più possente od anche a repubbliche, ma non ven-
« deva l'animo e la volontà, serbandosi di volgerli anche contro chi lo pagava.
« Intorno a lui si accoglievano bastardi fratelli e figliuoli bastardi; e spesso
« le favorite e le drude; e soldati di ventura, e buffoni e giocolieri, e con essi
« veri uomini di corte : poeti, artisti, musici, grammatici, eruditi » (4). Braccio II
Baglioni (5) non era signore assoluto di Perugia, ma vi dominava col suo
(anni 1376-81) fu Filippo Villani, v. R. Marchesi, Intorno allo storico F. Villani eletto
segretario del Comune di Perugia, Perugia, Santucci, 1842, e sui suoi successori
cfr. V. Ansidei, Ser Lodovico di lacopuccio da Rieti cancelliere del Comune di Perugia
(1381-1402), nel cit. Boll, della R. Dep. umbra, VII, 577 sgg. A Perugia, come sanno
gli studiosi dell'umanesimo, stette anche Tommaso Pontano dal 1440 al 1450, quando
mori (cfr. A. Zanelli, Tommaso Pontano. Nuove ricerche ed appunti, nel Bollettino cit.,
XT, 63 sgg.).
(1) Cfr. M. Faloci Pxilionani, Le lettey-e e le arti atta Corte dei Trinci in Foligno (in
questo Giorn., Il, 28 sgg.). Del Bontempi trovo una notizia nel cod. B. 27 della Co-
munale di Perugia: il suo poema, Il Saltxttore, è nei codd. D. 47-48 della stessa bibl.
Vedi quel che ne dice V. Rossi (/Z Quattrocento, p. 192 sg.), che ne ha visto un cod.
estense (segn. VIII, C. 11).
(2) Le è sfuggito infatti un interessante lavoretto ohe al Filenico, il canzoniere
del Grisanti, contenuto nel cod. Classense n° 239, dedicò parecchi anni sono la
sig.» Antonietta Fantozzi {Un canzoniere ined. del secolo XV, nella rivista peru-
gina La favilla, XXI, fase. 2", pp. 37). Quivi sono non poche notizie, sebbene dagli
estratti ch'io posseggo del cod. di Ravenna mi risulti che pai'eochie altre cose era
possibile derivarne. La Fantozzi ha anche pubblicato nel suo studio un'utile ap-
pendice di versi del trombettino di Braccio Baglioni.
(3) Cfr. su di lei Veemiglioli, lac. Antiquari, pp. 16-19, M. Faloci Puligkani, Sa{jgi
della cronaca di suor Caterina Ottarneri da Osimo (in Archivio stor. per le Marche e
per l'Umbria, I, 2804) e specialmente A. Rotelli, Vita della beata Cecilia Coppoli,
Perugia, 1882.
(4) Nel notissimo saggio sul Secentismo nella poesia del Quattrocento.
(5) Vedi su di lui A. Fabbbtti, Biografie dei capitani venturieri dell'Umbria, Mon-
tepulciano, Fumi, 1848, 1, 18 sg.; Vermigligli, Poesie inedite di Pacifico Massimi osco-
RASSEGNA BIBLIOGBAFIOA 197
sfarzo, con la sua politica. Soldato valoroso, si atteggiava a protettore delle
arti, che dovevano con le mirabili pitture render Perugia famosa nel mondo,
e delle lettere; facevasi costruire un superbo e forte palazzo, là dove poi sorse
minacciosa la ròcca di Paolo III ed oggi s'apre ai colli dell'Umbria un bel-
vedere dei più mirabili dell'Italia centrale : con due torri che ne fiancheggiavano
la facciata e apparentemente l'adornavano, mentre all'occorrenza dovevano
mutarsi in formidabili arnesi di difesa; in una sala di esso palazzo faceva
istoriar le pareti coi ritratti de' più illustri perugini, pei quali il Maturanzio
scrisse delle epigrafi in ottave (1): e quivi forse il Campano declamava le sue
eleganze in distici latini e in rotondi periodi ciceroniani, e Pacifico Massimi
ascolano (che anche d'altre città convenivano alla protezione del Paglioni)
leggeva i suoi Triumplii alla presenza del potente signore, cui le lodi rimate
e scandite lusingavano (2).
Poi eran danze e torneamenti, fatti pei begli occhi di Margherita Monte-
sperelli, moglie di Francesco della Bottarda e « manzia ■» del Paglioni , ad
onorar la quale i poeti andavano a gara : oltre alcuni minori, il Massimi rap-
presentandola danzante con grazia squisita, in eleganti distici ; e, più elegante
di lui, il Campano la celebrava ne' suoi carmi col nomignolo di « Diana »,
ond'era nota non soltanto a Perugia. Delle feste che il Paglioni celebrò in
Perugia per amore e in omaggio di questa donna (3), ci parlano anche i cro-
nisti perugini (4) : ai 24 di maggio del 1459 (5), ne' giardini baglioneschi di
lano in lode di Braccio II, ecc., con una narraz. delle sue gesta, Perugia, Baduel,
1818, e O. Scalvanti, Per la sepoltura di Braccio Baglioni e di Braccio Fortebracci in
Perugia, nel Bollettino cit., XII, 503 sgg. Sullo svolgimento della pittura perugina
nel 400, vedi Walter Bombe, Oeschichte der peruginer Molerei bit zti Perugino und
Pinturicchio, Berlin, 1912: quivi un accenno allo Spirito (p. 264), a proposito del
gonfalone di S. Fiorenzo.
(1) Furono edite di su un cod. della Comun. di Perugia dal Fabretti, Note e
docum. alle cit. Biografìe, Montepulciano, 1843, pp. 48-8. Vedi anche F. Flamini, La
lirica toscana del Rinascimento anteriore ai tempi del Magnifico, Pisa, Nistri. 1891,
pp. 332-4. Il cod. perugino che le contiene è segnato H. 47. La gran sala di Braccio TI
trovo descritta dal Grisaldi in certe sue memorie ined. nel cod.1. 110 della Comu-
nale di Perugia, e. 23 a.
(2) Cfr. C. Cali, Pacifico Massimi e V Hecatelegium, Catania, 1896. Su un carme del
Massimi a Braccio Baglioni v. A. Tenneboni, nel BuUet. d. R. Dep. Umbra cit., V,
773 sg.
(3) Era figlia di Antonio di Monte Sperello e moglie di Francesco di Pietro della
Bottarda detto Grassello di Porta Eburnea: < la più bella giovane » che allora
fosse in Perugia, dice un cronista che la paragona a Venere. Braccio se ne inna-
morò nel terzo anno del soggiorno del Campano a Perugia, come dice lo stesso uma-
nista, cioè verso il 1455 o 1456: allora era vedovo (cfr. Lesca, Op. cit, p. 36, n. 2).
Per quel che nel testo si dice di donna Margherita, vedi un art. di O. Scalvanti,
Un garden-party in Perugia nel 1459, nella riv. HUmbria, Perugia, 10 febbr. 1898,
pp. 18 sg.
(4) Vedi la Cronaca perugina inedita pnbblìc. dallo Scalvanti nel cit. Bollettino
d. R. Dep. Umbra, IV, 97, 374, 383, 390.
(5) Il diarista Antonio de' Veghi (in A. Fabretti, Cro7iache della città di Pertigia,
Torino, 1888, II, 38) pone la festa, forse per errore, al 4 maggio.
198 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
Por S. Pietro, Braccio II ordinò un ballo e una colazione in onore di lei
« sua desiderata », e vi invitò ottanta giovani e donne, e la colazione fu « con
« diverse e varie sorte de confetti, cioè pinochiate dorate, mandorle, confetti
« a la divisa sua verde e rosele e bianche, pini inzuccherati, merolle de peschio
« de zuccaro artificiate e castagnie, trasea anesini a la divisa sua e tutte fòr
« date ne le coppe de argento, però che eie era una bella argentarla ». E tra
le molte giostre che Braccio fece correre per la Margherita, ne ricordiamo
solo una del 1460, perchè ad essa prese parte il nostro Lorenzo Spirito, va-
lente cavaliere, addestrato alla scuola dei Piccinini, oltre che rimatore ormeg-
giante il Petrarca (1). Nel canzoniere dello Spirito è un sonetto, che si rife-
risce con tutta probabilità alla bella Margherita, e che io riproduco secondo
la lezione del cod. perugino H. 61 (son. 215):
Deaua che grana tempo il primo stato
tenne, di legiadria l'ultimo segnio
com quella fama che '1 mio basso ingiegnio
per divulgarla à sempre sollevato,
teme l'assalto, il quale incominciato
Venere gli à con ira e con isdegnio,
la qual s'è mossa dal suo santo regnio
per vendicar la 'ngiuria e '1 suo peccato.
Questa dea d'amor, quale apparita
è novamente im questa nostra terra,
veramente Deana à 'mpaurita ;
e tante in sé belle99e e virtù serra,
che ciascum crede im questa mortai vita
ley averà Victoria de la guerra.
Deana va per terra,
tratta è di campo e tolta gli è la 'nsegna,
e ley vincendo, triumphando regnia.
Mi par fatto in lode d'una donna forestiera, paragonata a Venere per la sua
bellezza, dalla quale era offuscata, afferma il poeta encomiatore, quella stessa
della favorita del Baglioni (2). A Margherita dedicava anche qualcuna delle
sue rime rauche e chiocce Nicolò da Montefalco, il trombettino (3).
Nello stesso anno 1459 passò da Perugia il pontefice umanista Pio II, e ci
furono grandi e ricchissime processioni e cortei, ne' quali si vide il « ma-
(1) Oltre lo Scalvanti (nella riv. cit. L'Umbria, 1. cit.), v. Veohi, Cronache oit.,
p. 89. Altre giostre, a cui prese parte Spirito, sono del 1454 (Cronaca -perug. ined. cit.,
in BoU. cit., IV, 100), e del 1459, in onore di Pio II [Ivi, IV, 865).
(2) Si potrebbe supporre che il son. si riferisse all'arrivo in Perugia della nuova
moglie di Braccio II, che fu Anastasia Sforza. Ma poiché la Sforza giunse a Pe-
rugia il 20 giugno 1462 (v, CronoAM perug. ined., in Boll, oit., IX, 39), mentre il cod.
che contiene il son. è datato 1461, converrà rinunziare a questa congettura. Su
questa moglie del Baglioni, che s'era fidanzato ad essa nel 1456, quando Anastasia
aveva appena tredici anni, vedi A. Giulini, Anastasia Baglioni Sforza, ecc., nel oit.
Boll. d. R. Dep. Umbra, XVII, 243 sgg., e cfr. V. Ansidei, Bicordi nuziali di casa
Baglioni, nel BoU. cit., XIV, 105 sgg.
(3) Cfr. Fantozzi, art. cit., p. 6 dell'estratto.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
199
« gnifico » Braccio portare il gonfalone di Santa Chiesa. Inoltre, nella stessa
circostanza, il 3 febbraio, il capitano « fece fare una bella giostra in piazza
« a sette tedesche, e pose pel premio otto braccia di velluto celeste, et il
« premio fu ottenuto da Eidolfo di Malatesta {Bagìioni). Fece venire in piazza
« un castello di legname nelle ruote, et è inficcato in un elefante di legname,
« e poi ci fece venire un carro in su le ruote, nel quale ci erano suoni e canti
« e molti istrumenti; e fu una bella festa » (1). Durante il soggiorno di
Pio n (fino ai 19 di febbraio) nuovi festeggiamenti godette Perugia per l'ar-
rivo del Duca d'Urbino, di Simonetto capitano di Firenze e d'altri cospicui
personaggi ; e più altri ne potremmo ricordare, se volessimo dilungarci a par-
lare della venuta di Federico EI in Perugia nel 1469; di quella, nel 1471,
di Borso d'Este, accompagnato da una corte numerosa e sfarzosa, di cui erano
ornamento anche alcuni poeti come Niccolò da Correggio (2), al quale il Ba-
gìioni donò un codice àoiV Altro Marte dello Spirito; e di quella di Ales-
sandro VI, giunto a Perugia nel 1495, accompagnato da Lucrezia, moglie
allora del signore di Pesaro.
Tuttavia con queste splendidezze invano i Bagìioni s'industriavano di far
dimenticare la loro prepotenza al popolo perugino. Nella seconda metà del
sec. XV, come anche prima, a causa delle fazioni civili le condizioni interne
di Perugia erano infelicissime, quali coraggiosamente le rappresentò nel Pu-
hìico lo Spirito, lamentando la rovina della città e vituperando duramente
con aspri versi quelli che riducevano a mal partito le libere istituzioni. Ce-
sare Crispolti il vecchio, uno storico perugino del secolo XVI, ha lasciato una
diffusa narrazione, tuttora inedita, di queste discordie (3), che spesso bagna-
rono di sangue le vie cittadine ; e la sua storia, condotta su documenti pub-
blici e privati, è certo veritiera, benché non sempre l'autore sappia celare il
suo risentimento verso gli autori dei dolorosi avvenimenti : di lui adunque ci
(1) Cfr. Veghi, Cronache cit., pp. ^-88, e la Cronaca perug. iìied., nel Boll, cit.^ IV,
367 sgg. Il 9 febbr. 1459 giunsero a Perugia Federico d'Urbino {Boll, cit., IV, 861) e
gli altri personaggi.
(2) Per l'arrivo di Federico III, v. Cronaca perug. ined. (in BoU. cit., IX, 62 sg.) e
per Borso d'Este, che stette a Perugia dal 24 al 27 uaarzo 1471, Cronaca cit., IX, 73.
Il signore di Ferrara era accompagnato da Nicolò da Correggio (cfr. Luzio-Renieb,
Nicolò da Correggio, in questo Giorn., XXI, 210), che divenne possessore, come ve-
dremo, d'un cod. dell'Altro Marte dello Spirito, donato al suo signore dal Bagìioni.
Nel 1477 il duca d'Urbino venne a Perugia {Boll, cit., IX, 109).
(3) Si tratta degli inediti Annali delle guerre civili di Perugia descritti da Cesake
Crispolti, perugino canonico et dottore, conservati nel cod. C. 32 della Comun. di
Perugia. Ma di queste vicende parlano, oltre che i vecchi storici perugini, non.
pochi studiosi moderni : vedi Gr. Degli Azzi, Il tumulto del 1488 in Perugia e la po-
litica di Lorenzo il Magìiiftco (nel Boll, cit., XI, 4OT sgg.), V. Assidei, La pace del
6 luglio 1498 fra Guidobaldo I duca d'Urbino e il Cavitine di Perugia {BoU. cit., V,
741 sgg.) e Grius. Mazzatinti, In una < città del silenzio » (nella Rivista d'Italia, VI,
1903, pp. 536-548). Della tirannide dei Bagìioni e della tragedia perugina del 1500
trattò, in alcune delle sue pagine dense ed efficacissime, il Burckhardt {Civiltà del
Rinascimento in Italia, trad. Valbusa, Firenze, Sansoni, 1911, voi. I, pp. 31-36).
200 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
gioveremo per descrivere in breve le civili perturbazioni di Perugia nella se-
conda metà del quattrocento.
I lunghi e ardenti odi insoddisfatti, e gli affronti ricevuti dai Baglioni, indus-
sero i Degli Oddi, l'altra grande famiglia perugina, ad uscir di patria e a ri-
tirarsi nel forte di Agallo : erano trentasette e li seguirono altri seicento nobili,
loro aderenti (1). Esultanti, i Baglioni corsero il rione di porta S. Susanna,
rimasto quasi spopolato per la partenza dei loro rivali, e tutto saccheggiarono,
rovinando le case, le chiese depredando e insultando i sepolcri delle famiglie
fuoruscite, nella chiesa di S. Francesco. Dopo di che, andati contro i Degli Oddi,
riparatisi a Castiglion del Lago, i Baglioni deposero i priori che erano stati
solo un mese in carica, e ne crearono altri di loro piacimento: miserando e
fiacco consiglio, cui si imposero dieci gentiluomini dell'arbitrio, creature dei
Baglioni. E si passò subito alle condanne : i Degli Oddi furono confinati, e i
nomi dei banditi lessero una mattina, commentando sotto voce, i Perugini,
scritti sulla porta della cattedrale di S. Lorenzo e su quella del palazzo del
Podestà (2). Non si quotarono gli esuli : Filippo di Ugolino degli Oddi mi-
nacciava con soldatesche la patria, e per tenergli fronte i Baglioni convertiron
Perugia quasi in un accampamento militare : il duomo pareva una ròcca,
« che guardava la piazza e il cuore della città » (3) ; e Lorenzo il Magnifico
soccorreva la città di denaro, contro i fuorusciti. Al dire del Crispolti (4),
Guido Baglioni, il Nestore della potente famiglia, usciva per le vie con cento
uomini di guardia. E mentre il Pontefice poco ormai si curava di Perugia,
visto che i Baglioni facevano a lor talento, solo il signore di Firenze, mode-
ratore della politica di tutta Italia, moveva di tanto in tanto i suoi rimpro-
veri per la mala amministrazione. Nel 1491 si ebbero stragi nella città, e il
sangue corse abbondante (5); nel '92 le condizioni parevano migliorate, ma
nell'anno seguente scoppiava nuovamente entro le mura la peste, assidua e
funerea visitatrice, e nuovo danno aggiungevasi ai precedenti. Su questo in-
ferocire di stragi, tra l'infierire del morbo, nel cozzo di ambizioni e di furori
nobileschi, si solleva candida e santa la figura della beata Colomba da Rieti,
che, a ricondurre la pace negli animi e a placar l'ira divina, consigliava pre-
diche e digiuni : per suo consiglio, un rosso gonfalone girava per la città, e
sopra vi era rappresentato il popolo perugino, cui S. Domenico e S. Caterina
da Siena riparavano le saette scagliate da un angelo, ministro della giustizia
celeste ; in alto eran dipinti Cristo e Maria, in un coro di santi invocanti la
misericordia divina: Farce, domùie, parcè populo ttw (6). Ma non per questo
restarono le calamità: ai 4 settembre del '95 nuove stragi desolavano Pe-
(1) Crispolti, voi. I, e. 6 a.
(2) Crispolti, I, e. 11.
(8) Crispolti, I, e. 12 6.
(4) Crispolti, I, e. 27 a.
(5) Cose feroci di questa repressioue dei Baglioni narra la oit. Cronaca perug.
ined. (nel BoU. cit., IX, 859 sgg.).
(6) Crispolti, I, e. 46.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 201
rugia, per una nuova entrata degli Oddi, nuovamente con lor danno ricacciati
fuor delle mura ; di fuori continuavano le inimicizie con gli assisani, ed al ca-
dere del 1496, l'anno in cui morì lo Spirito, processioni sacre vagarono per la
Piazza a ribenedirla, dopo le uccisioni fratricide che l'avevano insanguinata.
L'odio implacato, i soprusi e la supremazia di Guido e Kodolfo Baglioni
e dei loro figli furon causa della loro rovina, ma non della liberazione di Pe-
rugia dal giogo della prepotente famiglia. Il 1500, nel giorno appunto che
Astorre di Guido sposava Lavinia, la bella figlia di Giovanni Colonna e di
Giustina Orsini, dopo splendidi festeggiamenti, una congiura, ordita da alcuni
della stessa casa Baglioni, Grifonetto e Carlo Barciglia, scoppiò terribile : lo
sposo fu trucidato in braccio alla sposa ; ucciso il vecchio Guido, e Simonetto,
valorosissimo giovane ; pochi dei Baglioni si salvarono : tra questi Giampaolo
e Eodolfo, e a Giampaolo era dato di vendicare la sua famiglia e signoreggiare,
principe assoluto, in Perugia. In questa tragedia, che chiude un secolo ferreo,
grandeggia la figura d'una madre, Atalanta Baglioni, quella che lampeggiò
una volta alla fantasia creatrice di Gabriele d'Annunzio (1).
Dell'orrore, che in tutta Italia destarono tali eccessi feroci, si faceva inter-
prete l'anima candida di Iacopo Antiquari, il quale da Milano, come cita il
Crispolti traducendo (2), scriveva ad un amico : « Mi si spezza nel mezzo il
« cuore per l'amore della patria, nella quale io prima mi gloriavo di esser
« nato. Ma ora son costretto a lagrimare vedendola andare in rovina. E via
« più grave mi si fa '1 dolore, poi ch'io non posso a lei, che perisce, porger
« aiuto e rimedio alcuno ». In questa età venturosa e travagliata visse Lo-
renzo Spirito di ser Cipriano Gualtieri, che sulle sorti della patria, poco dopo
la metà del secolo, cantò profeticamente:
Et è giunto a tal mani già il Grifone (8),
che mostra mezze spennacchiate l'ali
O genti vane et di prudentia sceme,
qual frutto è '1 vostro?
Ed ora veniamo ad esaminare più da vicino il volume della signorina I.
Esso comincia, dopo un'introduzione veramente e lunga e vuota, con un cap.
che tratta La vita di Lorenzo Spirito. E in questo l'A. si attiene, dirò così,
molto fedelmente alla mia monografia già citata (4) ; e s'io ho ben guardato,
(1) Crispolti, Annali cit., Libro III.
(2) Crispolti, I, e. 97 6.
(3) Il Grrifo è nello stemma di Perugia. I versi da me citati sono dei capitoli IV
e XII del Publico.
(4) Tanto fedelmente, che in gran parte della sma biografia la I. non fa se non
seguire la mia, diluendone la dicitura e spesso appropriandosene le frasi. Non
poche delle mie note sono passate tali e quali nel lavoro della I. (a pp. 17 sg., 21,
27, 86, ecc.). E per il testo si cfr. le pp. 31-38 della I. e le pp. 287-297 della mia me-
moria. Di che non le faccio gran carico, specialmente perchè ritengo che si tratti
d'un difetto di metodo e d'inesperienza. Allo stesso difetto sarà da imputare il
202 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
a ben poca cosa si riducono le notizie e i documenti, che essa ha aggiunto a
quelli da me raccolti. Eppure qualcosa di nuovo non doveva esser impossibile
trovare, e qualcosa era a me sfuggito. Spigolando nelle cronache perugine del
tempo, mirabili archivi di notizie, la I. sarebbe riuscita a trovare qualche
nuovo particolare (1); ed era da illustrare l'andata dello Spirito a Milano
nel 1458 (2), e da tentar di trovare di più intorno alla sua andata a Firenze
nel 1470 al seguito di Rodolfo Baglioni (3), e a quel suo soggiorno a Fer-
rara, del quale l'A. ha trovato cenno in qualche sonetto di lui (nel cod. di
Ravenna). Più minuti ragguagli erano anche desiderabili (e questa parte era
da integrare nella mia monografia) intorno alla podesteria dello Spirito a To-
lentino, tra la fine del 1472 e i primi mesi del 1473, specialmente se, come
l'A. afferma (p. 33), ella ha avuto sott'occhi i libri delle riformanze di quella
città. La parte più notevole di questo I cap. è quella in cui si tratta, non
in tutto chiaramente, la questione della data di nascita del Gualtieri : agli
elementi di tale questione, da me usati nel mio lavoro, l'I. ne aggiunge uno
(la data del Publico, segnata in un codice Barberiniano da lei rintracciato)
e ne trae un argomento per lei decisivo, ad ogni modo buono, per meglio de-
fatto che la I. in parecchi tratti del suo lavoro, dove discorre a larghe linee di
generi e forme letterarie, non fa che parafrasare e qua e là copiare da altri : quel
che dice del « lamento > a p. 53 deriva da considerazioni di V. Rossi {U Quattro-
cento, p. 169), e dal Rossi stesso (pp. 164, 167) quel che dice del poema storico
(pp. 57 sg.). Ciò che discorre dell'imitazione petrarchesca è un centone, sempre
diluito, del Rossi (p. 64 sgg.) e del Graf {Attraveì^so il Cinquecmto, p. 8 sgg.) : e ci fa
sorridere la sua conclusione: «Questa la ragione {il molto che può dirai ancora del
< petrarchismo) per la quale ho creduto opportuno analizzare ed interpretare il feno-
« meno nei suoi principali atteggiamenti » . Più sgradito mi riesce invece qualche
addebito dell'I., che mi attribuisce errori che non ho commesso. Cosi a p. 48 mi fa
dire che la traduzione ovidiana di Nicolò degli Agostini è anteriore a quella dello
Spirito, perchè non ha capito le mie parole, ohe pure son chiare (p. 285 n.), e non
ha osservato che io dico che lo Spirito fu il 2° traduttore d'Ovidio (p. 278). Una
mia svista, certo nella stampa, è l'aver detto del 1504 anziché del 1619, com'è in
tutte le bibliografie, l'ediz. dielV Ovidio dello Spirito. A p. 54 poi l'I., di quella parte
del cod. perug. C. 17, che contiene il Publico, dice che io inclino a stimarla del
principio del sec. XIX, mentre io (p. 279) ho detto dubitativamente che è copia o
del principio del sec. XIX o della fine del XVIII : non so invece capire dalle pa-
role della I. di che secolo sia per lei, poiché nel testo la dice della fine del sec, XVIII,
e in nota afferma che è del sec. XVII o del XVIII.
(1) Riguardando i voi. del Boll. d. R. Dep. timbra, trovo, ad es., ohe il padre del
poeta, Ser Cipriano di Qualtiere, fece il testamento di Giacoma Fortebracci, sorella
di Braccio da Montone e madre di Braccio II Baglioni (IV, 315); e che nel 1473 lo
Spirito era a Perugia Camerlengo e parlò in un'adunanza intorno al Santo Anello
(IX, 86). Nel 1469-70, essendo Braccio Baglioni in Romagna (IX, 64 sgg.), lo Spirito
non lo avrà accompagnato ?
(2) Risulta anche dalla cit. Cronaca pemg. ined. (nel Boll, cit., IV, 848). Il lavoro,
già citato, di A. Giuli»i su Anastasia Sforza avrebbe detto all'A. il perchè del-
l'andata di Braccio a Milano.
(3) Cfr. anche la Cronaca perug. in^. (in Boll, cit., IX, 69). Osservo ohe per una
svista ri. (p. 84) omette il priorato dello Spirito del 1488, riferendo il mio giudizio
intorno a questo, all'altro priorato del 1485.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 203
terminar la data incerta. Ma l'I. mi fa dire in proposito cosa che io non ho
detta, quando lascia credere ch'io concluda che lo Spirito nacque « nel 1425 ».
Invece, poiché lo Spirito in un sonetto, contenuto nel cod. perug. H. 61 da-
tato 1461, dice d'essere alla metà della sua vita, e in un cap. del Publico
(a cui prima s'attribuiva la data 1458 che ha in alcuni codici) attesta d'aver
trent'anni, io mi limitai ad affermare che si doveva « far risalire la sua na-
« scita al 1425 incirca » : non potevo dire altrimenti, non solo perchè — come
è d'avviso l'I. (p. 23) — « mancherebbe di senso comune (!) chi reputasse
« un intero canzoniere opera d'un solo anno ecc. », ma anche perchè se da un
lato la testimonianza del canzoniere mi induceva ad anticipar la data di
qualche anno, rispetto al 1425, dall'altro la data 1458 apposta al Pubh'co
mi consigliava a far l'opposto. Il codice barb. lat. 3719 del Puhlico, trovato
dall'A. in Vaticana, ha la data 1452, che secondo l'I. non è quella della com-
posizione (che sarebbe invece il 1458), ma quella in cui s'immagina dall'au-
tore di far la profezia, e a cui egli quindi subordina gli accenni cronologici (1);
epperò egli dev'esser nato nel 1422 o nel 1423 (pp. 25, 27). Ciò può essere,
sebbene qualche dubbio mi lasci il fatto che hqW Altro Marte lo Spirito dice
di essere andato « giovinecto » ad Assisi, nel 1442, quando fu presa da Ni-
colò Piccinino, «x in conpagnia del mio padre »: « giovinecto » a vent'anni?
Comunque sia, non ci discostiam molto dal 1425 (2).
Titolo impreciso ha il II cap. {Le opere di L. S.), nel quale si fa soltanto
la bibliografia dei codici e delle stampe del rimatore perugino: bibliografia
imperfetta, perchè manca di compiutezza e di ordine. S'incomincia con la
traduzione delle Metamorfosi, impressa a Perugia nel 1519, della quale ci
mancano mss. e di cui è tanta la rarità, che l'A. non ne ha veduto alcun
esemplare. Grande fortuna di stampe e traduzioni ebbe il Libro delle Sorti,
per cui Lorenzo Spirito si può dire divenisse popolare nel 400 e nei due secoli
seguenti : e se ne hanno ancora alcuni codici. La I. conosce solo il codice Mar-
ciano (it. IX, 87), già noto al Vermiglioli, a cui l'aveva segnalato il Morelli
che lo descrisse (3) ; e sa dal Vermiglioli che ne esisteva un altro codice a
Todi ; e parla di quattro edizioni soltanto, con pochi accenni d'alcune altre,
d'una traduzione francese (che crede del 600) e d'una inglese, tolti dallo
Zeno e da qualche altro vecchio bibliografo. Ma la serie dei mss. è da aumen-
tare di uno del sec. XVIII, che trovasi nella bibl. comun. di Udine (n® 22) (4).
Delle numerosissime edizioni italiane di quest'opera (che fu forse, secondo
(1) Questa discussione è dall'A. divisa in due parti del suo lavoro : a pp. 23 sgg.
e a pp. 97 sgg.
(2) A questa data credette meglio attenersi ancora Tomaso Parodi in una re-
censione poco favorevole del voi. della I., pubblicata in La nuova cultura, I, 1913,
pp. 507-11, che diede luogo ad una polemica poco^concludente tra il Parodi stesso
e la I. (nei fase. 9«, 11° e 12° della stessa rivista, voi. cit.).
(3) Cfr. V. Rossi, Appendice alle Lettere di messer Andrea Calmo, Torino, Loesoher,
1888, pp. 57 sg.
(4) Cfr. Gr. Mazzatinti, Inventari dei mss. delle bibl. d'Italia, III, 176. D'un altro ms.,
forse del 600, fa cenno il Molza (v. nota seg.).
204 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
me, rultima composta dallo Spirito), la prima non è, come crede l'A. con la
maggior parte dei bibliografi da me veduti, quella del 1482 di Perugia, ma
una fatta a Vicenza da mastro Leonardo da Basilea, che è del 1474 ; e l'ul-
tima è del 1553; delle traduzioni, la più fortunata fu quella francese, che si
riprodusse fino al 1637 (1). Del Publico, ai due codici noti al Vermiglioli, il
perugino C. 17 e quello dell'accademia di Cortona (n° 249), l'A., come s'è
detto, ne aggiunge un altro, che è nella Vaticana : e di quest'ultimo codice,
che ella dice (p. 55) contenere « tutti antichi lamenti perugini », era bene ci
avesse dato una descrizione e un'informazione più ampia. TìeW Altro Marte
l'A. descrive con qualche particolare, ma al solito in modo non interamente
soddisfacente, un cod. della Comunale di Verona (nn* 1241-2), più conosciuto
che ella non pensi (2), e il Perugino D. 5, e accenna brevemente ad un codice
della Nazion. di Napoli, del quale non s'è curata d'aver altre indicazioni (8) :
(1) L'ediz. 1474 fu fatta conoscere dal marchese Gherardo Molza (in Bibliofilo, II,
1881, pp. 97 sg.), di sopra un suo esemplare. Il Molza diede anche un elenco, in-
completo, delle altre edizioni. Più ampia è la bibliografia che 1' I. poteva trovare
nel Brunets, a cui fece alcune aggiunte, assai importanti, il Grraesse (VI, 470 sg.).
Quest'ultimo conosce la 1* ediz. vicentina, a cui seguirono la perugina del 1482,
quella Bresciana del 1489 (secondo il Graesse essa è la stessa che l'Hain, il Panzer
e altri dissero del 1484), e altre di Milano (1497, 1500, 1508), Bologna (1508, ripro-
duzione della precedente milanese), Milano (1509), Perugia (1532), Brescia (1538),
Roma (Biado, 1535), Venezia (1544), Brescia (1544, 1553). Il Molza dà due antiche
ediz. bresciane : quella del 1484 e quella del 1489 ; e l' Hain cita un Libro delle SoHi,
Fior. 8. d. (forse 1483), che il Graesse dice forse dello Spirito. Intanto eran già dif-
fuse le traduzioni: più fortunata quella francese di Anthitus Faure, 1528 s. 1., ri-
stampata con più o meno varianti a Parigi (1574), a Lione (1576, 1582, 1583) e an-
cora a Parigi (1585, 1634, 1637). Il Panzer citò un'altra trad. del sec. XV (IV, 126).
Il Graesse registra una trad. spagnuola (Libro del juego de las suertas), Valladolid,
1528. In un esemplare della Libreria di A. F. Doni (Venezia, Giolito, 1550, e. 20 ò),
posseduto dalla Bibl. della Se. Norm. Univers. di Pisa, è aggiunta questa postilla,
che non so se si riferisca ad una sconosciuta ediz. delle Sorti à.Q\\o Spirito: Libro
della ventura con dati. Impressum Venetiis per Bernardimim Benalium Bergomensem,
anno Domini MDXX die XXVIII Junii.
(2) Lo descrisse già il Biadego, Catalogo dei ms8. della Bibl. Comun. di Verona, Ve-
rona, 1892, p. 122 sg., e ne parlò poi Andrea Moschetti (Due cronache veneziane ri-
mate del sec. XV, Padova, Draghi, 1897).
(3) Del cod. esistente nella Nazionale di Napoli (XIII, C. 82) aveva dato cosi no-
tizia il Flamini (in questo Giorn., XXI, 416, e poi nelle sue Spigolattire di erudi-
zione e di critica, Pisa, Mariotti, 1895, p. 64): «grosso volume con bellissimo fregio
« iniziale. In fine leggiamo : ' Qui finissie il libro chiamato Altro Marte, composto
« e scricto per mano di me Lorenzo Spirito da Perogia; finito di copiare nel mille-
« quattrocento settanta a dì ventitre del mese di novembre '. E sur una guardia
€ di membrana pure in fine: ' Questo libro me donò il Mag.co Brazo da Perosia, ne
€ la cita propria de Porosa nel suo palazo, dove alhora era aloziato, e fu quando
« andai cum la Ex. a del Sig.re duca Borso mio signore et barba a Roma, e mi Ni-
« colò da Corezo ne feci memoria de mia propria mano' >. Questo codice è certa-
mente autografo. A Roma è andato a finire un cod. del Filocolo boccaccesco, tra-
scritto da Lorenzo Spirito, ohe sappiamo essere stato un valente calligrafo : io ne
debbo la conoscenza a Vittorio Rossi, che qui ringrazio. Si tratta del cod. Vati-
cano 4813, cart., sec. XV, mutilo in principio, che ha in fine la seguente didascalia:
< Finito illibro chiamato philocolo facto e composto da messer giovanni bochaccio
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 205
ma non sono tutti (1). E poi ci parla dell'edizione vicentina del 1489. Del
canzoniere si hanno due codici, il perugino H. 61 autografo, e, più completo,
il Classense n° 232 : l'uno e l'altro sono dall'autrice descritti con una certa
larghezza ; ma sarebbe stato utile che a questo punto ella avesse trattato la
questione delle relazioni fra i due codici e della attribuzione ad altri autori
anziché allo Spirito, di alcune poesie del codice ravennate, invece di rinviarla
al capitolo in cui esamina la lirica del nostro autore. Il II cap. si chiude
con un'utile bibliografia delle liriche a stampa dello Spirito, a cui sarebbe
giovato aggiungere qualche indicazione per l'altra opera, inedita in gran parte,
il Publico (2).
I capitoli successivi (dal III all'YIII) studiano ad una ad una le opere del
rimatore perugino : le Sorti, il Publico, V Altro Marte, il poema La Fenice,
il Canzoniere] e nel Yl l'I. ricerca chi fu la donna amata e celebrata dal
Gualtieri. E senza dubbio riesce utile l'esposizione che essa ci dà della com-
plessa produzione letteraria del suo autore, con riassunti ampi, anzi diffusi,
a cui frammischia con insistenza e ripetizione inopportuna i suoi giudizi: io
avrei preferito (trattandosi di opere mediocri e mss. la più parte, ma imme-
ritevoli di veder la luce integralmente) che l'A. avesse più spesso lasciato
senz'altro la parola alloSpirito, riportandone più frequentemente e meno fram-
mentariamente i componimenti. Non mi riferisco alle Sorti, e nemmeno
2i\V Altro Marte, ma alle altre tre opere, di cui il Publico è la migliore che
abbia composto il quattrocentista perugino, e la Fenice e il Canzoniere, pur
essendo opere mediocri, non son delle peggiori del genere in quel secolo di
umile imitazione petrarchesca. Perchè, invece di riassumere il cap. XII del
Publico, interessante, oltreché per la storia del costume, per altri riguardi,
l'A. non lo ha senz'altro pubblicato ? Eccone alcuni tratti (che tolgo dal codice
perugino), in cui l'autore lamenta il lusso smodato, paragonando i suoi tempi
con quelli passati :
Né fur contenti {gli nomini) a tal, ch'un'altra via
trovare a far di grana il bel colore,
tegnendo i panni in varia fantasia.
«poeta fiorentino clarissimo scripto e copiato per mano de me Lorenzo Spirito
« da peroscia nellanno mille quattrocento sexanta sei Deo gratias. amen.
« Serralo e chiuda chi non sente amore
« Studiai ohi ama e troverà conforto
« Qual se rechiedi a linfiammato ocre » .
(1) Un altro codice ne possiede la Bodleiana di Oxford (ital. 41). Cfr. Flamini,
Spigolature cit., p. oit. Il cod. perug. C. 8, non ricordato dalla I. (v. Mazzatinti,
Inventari, V, 82), contiene alcuni cap. diéiV Altro Marte: frammentari i capp. 5, 6,
8, 9, 11, 12, 13; intieri il 7» ed il 10°. Consta di 15 fogli di cui sei membranacei,
con belle iniziali: lo direi autografo.
(2) Una parte del 8° cap. fu edita per nozze Cerrini-Calindri da A. Fabretti
(Perugia, tip. Santucci, 1844). Conosco anche la seg. stampa : I capitoli terzo e quarto
del lamento di Perugia visione ined. di L. S. poeta perugino del sec. XV, Perugia, Bon-
oompagni, 1877 (nozze Senesi -Roteili).
206 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
Perno poi damaschini a farse onore,
et fu tanto mirabil quell'ingegno
che '1 tessevan di varia fronda et fiore.
Et tutt'hora trovar(o) novo disegno
di far velluti poi detti alla piana,
né ciascun di portarli era più degno.
Trovaro il cremisi più fin che grana,
del qual ferno velluti affigurati,
et passò l'arte qua nella Toscana ;
et ritrovanno vari et bei broccati
d'oro et d'argento et ne' moderni giorni
penso che tutti i modi sian trovati.
Dopo un fiero rabbuffo al lusso degli ecclesiastici
(Peggiore exempio et di più amaro tosco
è ne' prelati con le vesti grandi
lupi già fatti, et Roma è '1 lor mal bosco:
deh perchè resti, o Iddio, che tu non mandi
l'ultimo tuo giuditio iratamente,
com'esser debbe a i lor vitii inefandi?)
viene a lamentare il lusso delle donne:
Ciascuna cerca con parlar humile
mostrarsi et con (i) soi drappi ire sfoggiata,
per parer tra de l'altre più gentile.
Et voi di perle la ghilanda ornata
et al collo il munii d'oro e d'argento
la cioppa intorno a frege racoamata.
Et non saria suo animo contento,
se non havesse tre camorre in uso
et per le feste il niellato cento.
E a qual marito manca fanno il muso,
et non pensan a 'danni de' mariti
et che non basta in ciò la roccha e '1 fuso;
et voglion le camorre coi vestiti
fino a lo spicciato, ch'assai l'aggrada
perchè non troncan lor capei puliti.
Co i panni longhi spazzan ogni strada. . .
Così del tutto ogni virtude è morta,
né più si può sua figlia maritare,
perchè '1 valor ch'ai padre noi comporta;
et conviensi gran dote a quella dare
Qui ognun sente le reminiscenze dantesche e il rammarico di Cacciaguida ;
ma c'è anche, io credo, come un po' in tutto il lamento dello Spirito, il ri-
cordo delle predicazioni contro le vanità e i corrotti costumi, ascoltate dai
perugini dalla bocca di S. Bernardino da Siena e di molti altri celebri pre-
dicatori, a cominciar dal 1425 per tutto quel secolo (1).
(1) E. Dépbez, L'azione di S. Bernardino di Siena neUa città di Perugia (in Boll. d.
B. Dep. Umbra, YI, 109 sgg.). Altri predicatori nel seo. XV rinnovarono gì' inse-
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 207
L'esame deWAltro Marte, e quello della Fenice e del Canzoniere del
Gualtieri si sarebbero molto avvantaggiati, se la sig "a I. avesse conosciuto
quel che scrisse il Moschetti del genere delle cronache rimate, a cui il vasto
poema del perugino appartiene, e se meglio avesse messo a profitto (non lo
vedo però citato) il fondamentale e notissimo volume del Flamini sulla lirica
del Rinascimento. Avrebbe così evitato lunghi e superflui ragionamenti, e ab-
breviata di molto la sua trattazione, restringendosi piuttosto a rilevare le
particolarità stilistiche (1) e i caratteri più originali dell'opera dello Spirito.
Per rispetto all'^Z^ro Marte l'A. contesta che lo Spirito possa considerarsi
come lo storiografo stipendiato di Jacopo Piccinino. Ma le sue ragioni non
finiscon di persuadermi. Sappiamo che Spirito fu coi Piccinini per più di dieci
anni (almeno finche nel 1454 lo troviamo giostrante a Perugia), certo da essi
arruolato. Durante la sua milizia egli attese a raccoglier memorie delle im-
prese dei celebri venturieri perugini. Tornato a Perugia, divenne scrittore,
poiché abbiam ragione di porre la composizione delle sue opere in questo periodo
della sua vita: e appena terminato V Altro Marte, ne offre una copia, anzi
forse la porta egli stesso, nel 1463, a Iacopo Piccinino, col quale sappiamo
che si trovò a Faenza, quando il capitano muoveva verso Napoli, per lui fa-
tale. E nel quattrocento non sarebbe l'unico esempio di rimatori stipendiati
dai capitani di ventura (2). Scarsissimo di pregi, VAltro Marte è ritenuto
un notevolissimo documento storico, del quale sarebbe stato bene che l'A. avesse,
con miglior metodo e ampiezza che non faccia, giudicato il valore storico (3).
Che quanto al valore poetico, in complesso ne giudica in modo approvabile,
cioè severamente, nonostante le solite lodi esagerate che dà alle poche cose
gnamenti del Senese a Perugia: cfr. Boll, cit., TV, 836 sg. per fra Cherubino da
Spoleto nel 1458; IX, 38 per fra Battista da Novara nel 1462, e IX, 244 sgg., 376 sgg.
per fra Bernardino da Feltre nel 1485 e 14^.
(1) Cosi parla delle imitazioni dantesche, e delle similitudini, di cui l'elenco po-
teva esser arricchito d'alcune altre notevoli.
(2) Mi basta ricordare Gambino d'Arezzo {Versi di G. d'Arezzo, pubbl. da Oreste
Gamurrini, Bologna, 1878: Scelta Romagnoli, disp.164) e il Saviozzo che fu ai ser-
vizi del Tartaglia.
(3) P. es. è da rilevare il fatto ohe il Gualtieri ebbe sott'occhio documenti datigli
dallo stesso Piccinino, Nel cap, 64 riassume il breve con cui il re d'Aragona fece
visconte della sua casa Nicolò Piccinino; riporto la chiusa del passo, strana mi-
scela di latino e di volgare :
In felicibus castris data im piena
libera volontà contra Carpeno
che giugnio a uintisecte il tempo mena,
indiction quarta millesimo pieno
milli con quattrocento quattro e doi
da la natiuità né più né meno
et regnorum nostrorum iti poi
uintisecte anni huius nero nostri
Regni Ciciliae citra Farum in noy
Anno octauo
208 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
meno brutte che rintraccia in esso. Ed è strano che essa abbia trascurato un
episodio del cap. 85, che è uno dei passi più attraenti, per certa rozza sem-
plicità di rappresentazione, di tutto il poema. Si tratta del venturiero Tri-
stano, costretto a cedere la ròcca di Soncino e a partirsene, lasciando una
donna amata :
Aveva quisto una ligiadra manca,
giovinì in vista angellica e polita,
avendo avuta insiemi longa usanca.
La qual, sentendo la cruda partita
dil suo benignio e ligiadro signore,
desiderosa più non stare in vita,
si mossi con sdegnio e con furore (sic),
coi crini sciolti e con dolenti strida,
vinta da la passion di tanto amore,
dicendo: — O signor mio, chi mi disfida
di viver(e) più da puoy che ti ni vay,
che sei di la mia vita capo e guida ?
Tu mi lassi, signore, in tanti guai :
ecco la sventurata che rimani,
né più mi credo rivederti mai.
Maledecto il furor(e) di veneti ani :
o dolci signior mio, che mi ti toUi
facendo gli occhi tuoy day miey lontani.
Oimè con quante pene e quante doglie
mi lassoi trista e con quanti martire
quista nostra amicitia si discioglie !
Or oltra ch'io non churo di morire,
occideteme omai, cari frateglie,
ohe morte puoy dar(e) fine ai miey sospiro. —
Da sé levava i suoi biondi capeglie
e panni e carne tucte lacerava,
facendo un(o) fiumi di suoy occhi begli.
Del suo signore il cavallo abracciava,
e non si vol(i) da quil(lo) punto partire,
ma l'arme nelle gambe li basoiava.
« Volevale in sul viso spesso gire,
qual(e) per altepc^a agiogner non podea,
m^a lacrimando par che spesso il mire.
Fu tanto la sua pena acerba e ria,
ohe ohi si ritrovò quivi vicino
a piata mosso lacrimar(e) facea.
Stecte sempre Tristan(o) col viso chino,
lacrimoso, pensando di lassare
lei quale amava e puoy tucto il domino.
Tra l'altre voce e tra i sospiri amare
da dosso ad pena quilla sventurata
ei suoi parenti la poddoro levare (aie).
Era una piata la sconsolata
sentir dicendo: — Oimè, crudeli amore,
oh 'a buon prinoipio mala fine ài data!
Giustamente la sig.^ia I. pensa che nel canzoniere dello Spirito possa esser
cantato più d'un amore del rimatore perugino; ma ciò che ne ragiona non
ha davvero molta chiarezza, né farse ella ha tratto dal canzoniere tutti gli
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 209
elementi che poteva a sostegno della sua opinione. Certo però la donna che
Spirito celebrò nei 21 capp. della Fenice, imitazione fiacca e diluita dei Trionfi
petrarcheschi, con molto più di paganesimo, e cantò nel maggior numero
delle sue liriche, fu quella che con simbolo caro al poeta di Laura e poi a
non so quanti petrarchisti, egli denominò Fenice, e della quale l'A. ha tro-
vato nelle cronache perugine ricordato un brutto scherzo ch'ella, poco poeti-
camente, fece al suo spasimante (1). Fu un avvenimento per la città, data
la notorietà di Spirito : una donna aveva osato oltraggiare il reduce delle
guerre dei Piccinini ! È un documento non trascurabile della non bella realtà
che spesso s'asconde sotto i versi dei rimatori petrarchevoli. Ed è comico il
riflesso che di questo fatto la I. trova nel canzoniere (p. 216 sg.): il Gualtieri,
con tracotanza soldatesca, un po' da miìes gloriosus, arroncigliando i baffi e
con la mano sull'impugnatura della spada, minaccia : « Dal traditor tuo sposo
« io ho l'offesa! ». Poi non ne dovette fare altro, e forse il suo ardore sbollì.
Bene ha fatto l'I. a riportare parecchi sonetti del canzoniere, e più ne
avremmo veduti volentieri (2). E bene anche aveva pensato di chiudere la sua
monografia con un capitolo su La lingua e la metrica nelle op. di L. S.]
ma ciò che questo capitolo ci offre in quattordici pagine è un saggio assolu-
tamente insufficiente.
Quel che ho osservato, criticato e aggiunto al lavoro della I. non toglie ad
esso i pregi che gli ho riconosciuti : e se questi sono in minor numero dei
difetti, io son certo che essi cresceranno, se l'A. vorrà ritornare sull'opera sua
e rifarla da capo. Sfrondando molto, condensando e integrando ad un tempo :
fatta più cauta e sicura nei giudizi, e dalla più profonda preparazione avviata
ad una vista più ampia della società in cui l'opera dello Spirito è nata, le
riuscirà di darci intorno al rimatore e venturiere perugino quella monografia
definitiva, di cui è pur degno, sebbene non sia un grande scrittore, e di cui
il volume presente è un saggio ancor troppo manchevole.
Abdelkader Salza.
(1) Poiché la sig. » I., foi'se per un riguardo al suo autore, non cita la Cronaca,
dove il fatto è narrato, e lo indica in modo generico, riferiremo noi le parole del
cronista: e A di 17 ditto {Febbraio 1468) nel Rembocco del salsa la donna de mastro
« Semone medico et passando Spirito de ser Cipriano de Gualtiere suo amatore
« glie bugilo un bacino pieno de m in sul capo, de modo che tutto lo imbrattò
« e puzzava che non li se podea stare apresso : e questo lo fece perchè tutto el di
« la seguitava e non la podea lassare stare » (dal BoUett. d. R. Dep. Umbra, IX, 68).
«A che strazio va chi s'innamora! » avrà petrarchevolmente pensato il rimatore
venturiere, ignominiosamente debellato da una femminetta.
(2) Alla A. è sfuggito anche un importante articolo di M. Manchisi {Angelo Galli
e i codd. delle sue rime, nel Qiorn. stor. e letter. della Liguria, IX, 1908, pp. 257.310),
dove si raccolgono alcune notizie sulle relazioni corse tra lo Spirito e il Gralli, si
indica un codice fiorentino che contiene qualche poesia del Gualtieri, sono pub-
blicate poesie del Gialli al perugino, e si fa cenn(t di un carme latino diretto al
Galli, che sarebbe dello Spirito.
Giornale storico, LXIV, fase. 190-191. 14
210 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
LUISA CAPRA. — L'ingegno e l'ojyera di Saverio Bettinelli.
— Asti, Paglieri e Raspi, 1913 (8° gr., pp. 229).
A preparare gli elementi necessari per un lavoro organico e sintetico su
Saverio Bettinelli, hanno mirato per lungo tempo gli studiosi del settecento
con illustrazioni di documenti, con saggi e monografie particolari e più re-
centemente con l'accurata ristampa di alcune opere bettinelliane, più famose
che lette (1). Di un primo tentativo di sintesi diede notizia nel 1913 Luisa
Capra in questo Giornale, 62, 166 sgg., con una recensione che per la giusta
severità e per la ricchezza delle informazioni ebbe larga eco tra gli studiosi
del secolo XVIII. Ora l'autrice di quella recensione pubblica un nutrito vo-
lume sull'ingegno e sulle opere del B., che vuol essere a sua volta lavoro di
integrazione e di sintesi.
Vediamo. Basato sopra una profonda conoscenza delle opere edite e inedite
del mantovano, avvalorato da un intenso e lungo studio del carteggio bet-
tineUiano e della letteratura settecentesca, questo lavoro fin dalle prime pa-
gine appare in gran parte nuovo. Bene ha fatto l'autrice a non indugiarsi a
rinarrare la vita del B., che da lungo tempo è nota; bene ha fatto a non
ritessere la vecchia tela delle più trite questioni bettinelliane con quella ri-
dondanza di particolari, che hanno reso idropici e pesanti altri studi sul me-
desimo argomento. Questo libro è il più organico dei lavori finora pubblicati
intorno al B., non soltanto perché l'A. ha idee chiare sull'indole e sull'in-
gegno del mantovano, ma anche perché, pur disponendo di un copiosissimo
materiale, ha saputo servirsene con accortezza e con misura, accettando o re-
spingendo sobriamente i risultati degli scritti precedenti, presentando senza
prolissità i risultati degli studi direttamente compiuti sopra più di cinque-
mila lettere di ammiratori e amici del B., sopra numerose missive e respon-
sive dello stesso, sopra due poemi inediti (2) e sopra altri documenti. Ag-
giunge pregio alla semplice e nitida ripartizione del lavoro l'efficacia di molte
(1) Ricordiamo in particolar modo la nitida ed elegante ristampa delle Lettere
virgiliane per cura di P. Tommasini-Mattiucci, nella Collezione di opuscoli danteschi
inediti o rari, diretta da G. L. Passerini (Città di Castello, Lapi, 1918, voli. 123-124).
Della nutrita introduzione premessa a quest'opusc. la C. non potò giovarsi, perché
esso uso! quando il suo lavoro già era quasi interamente stampato. Per la mede-
sima ragione non potè giovarsi del buon opuso. di L. Cambini, Il pastore Aligerio
{ivi, voli. 121-122) ; del volumetto di R. Bocchia, La drammatica a Parma (1400-1900),
Parma, Battei, 1913; del voi. di C. G. Mikinni su Pietro Napoli Signoreìli (Città di
Castello, Lapi, 1914) e del rinnovato studio di A. D'Ancona su Federico il Grande
e gli Italiani, importante per le pagine sull'Algarotti (in Memorie e documenti di
storia italiana dei sec. XVIII e XIX, Sansoni, Firenze). Degno di nota per le teorie
professate dal Bettinelli sul tradurre e per le notizie riguardanti F. Cassoli, spesso
ricordato dal B. nel suo epistolario, è pure il volume di G. Cukcio, Q. Orazio Fiacco
studiato in Italia dal sec. XIII al XVIII (Catania, Battiato, 1913). L'A., parlando
della j>oe8Ìa sepolcrale, avrebbe anche potuto trarre profitto dal saggio di G. Mconi,
Poesia notturna preromantica (Milano, Soo. ed. libr., 1906).
(2) L'Europa punita ossia il secolo XVIII e il Buonaparte in Italia.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 211
pagine: il B. come uomo e come maestro è tratteggiato con mano sicura;
penetranti sono le osservazioni sul frugonianesimo spesso inconscio del B.;
giuste molte considerazioni sul trattato àeW Entusiasmo, sul saggio dell'JS^^o-
quenza e sul Bisorgimento cV Italia negli studi, nelle arti e nei costumi dopo
il Mille.
Ma in parecchi punti dissentiamo profondamente dall'autrice. Innanzi tutto
questa ha senza dubbio esagerato il valore degli epigrammi bettinelliani, af-
fermando che il mantovano « molti ne compose originali e importanti » (p. 42).
Dove sono questi « molti »? Gli epigrammi bettinelliani sono in gran parte
traduzioni, imitazioni, rifacimenti ed esercizi retorici ; pochi tra gli originali
sono schietti e concisi. Non vogliamo già negare che le Lettere a Lesbia Ci-
donia sopra gli epigrammi siano piacevoli e che il B. abbia spesso saputo inca-
stonar nella sua prosa con garbo e con arguzia gli epigrammi raccolti. Ma tra
le premesse e le conclusioni delle pagine dedicate dalla C. a quest'argomento,
vediamo balzar chiara una contraddizione : poiché l'A., dopo di aver con benigna
volontà esaminato i pochi epigrammi, a suo avviso, migliori (1) e dopo di aver
notato che gli altri sono in gran parte « contorti e lambiccati bisticci », è
costretta a concludere che il B. « non fu un vero e proprio epigrammista di
razza » (p. 42) e che soltanto « ad alcuni » di essi « seppe dare certa vivace
spigliatezza » (p. 47). Alla stessa guisa il sonetto al fratello, che l'A. cerca
di salvare dal naufragio dell'opera poetica del B. (p. 47), ci par pessimo, come
la maggior parte delle sue liriche. Altre osservazioni vorremmo fare sui giu-
dizi che l'A. dà di alcune particolari pagine in versi del B.; ma poiché sul B.
verseggiatore già troppo gli studiosi del Settecento hanno parlato, crediamo
più utile fermar subito la nostra attenzione sui capitoli, che dovrebbero es-
sere i più importanti del libro, vale a dire su quelli che trattano del B. cri-
tico e del B. storiografo. Assai opportunamente l'A. ha messo in rilievo che
il B., « spirito eminentemente soggettivo, portò in tutti i suoi studi di cri-
(1) Non tatti gli epigrammi che la C. giudica buoni, sono veramente originali
ed efficaci. Un esempio solo: a p. 46 la C. à.ìcQ penetrante l'epigramma che il B.
compose dopo la morte del Frugoni :
Di Prugon la breve storia,
Vati, abbiate alla memoria :
Settant'anni egli visse in povertà;
Questa alfin parte ed ei sotterra va.
Quest'epigramma, privo di qualsiasi efficacia, è l'espressione di un pensiero comune
a molti epistolari del tempo. Per quanto poi il Bettinelli epigrammista deva agli
scrittori francesi, vedi il volume di N. Serban, Leopardi et la France, p. 66 (Paris,
Champion, 1913). Questo voi. è pure notevole per quanto vi è detto degli studi
fatti dal Leopardi sulle opere del Bettinelli e in ^articolar modo sulle Lettere a
Lesbia Cidonia. Ma intorno a quest'argomento si veggano le giuste considerazioni
fatte da Carlo Pellegrini nella Raas.hibl. d. lett.ital, SI marzo 1914, n» 8, pp. 65-66.
Si noti anche che le Lettere a Lesbia Cidonia non devono essere esclusivamente con-
siderate come un volgarizzamento della poesia epigrammatica francese.
212 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
« tica e di storia la propria personalità ». Intorno all'originalità del B. si è
molto discusso, e anche recentemente P. Tommasini-Mattiucci, togliendo al B.
ogni vanto di originalità per la sua critica contro Dante e contro gli antichi,
concluse che il B. « non fece che ripetere idee già espresse da altri con mono-
« tona uniformità » e che ad esse « aggiunse » soltanto « il tono scherzoso,
« faceto », ecc. (1). Ora dal lavoro della C. risulta chiaramente che la critica
del B. ha un sapore ben suo, non tanto per « il tono scherzoso, faceto » ecc.,
quanto per l'impronta personale che il B. spesso sa dare al suo pensiero. Già
il Croce notò che il B. per certa sua vigoria spirituale e per certa sua innata
arditezza dovrebbe esser posto « accanto al Baretti » (2). Orbene se l'A. non si
fosse accontentata di fare soltanto un fugace e superficiale parallelo tra il Ba-
retti e il frate segretario di Virgilio, ma anche avesse messo in rilievo come
il grande scrittore piemontese e il letterato mantovano giudicassero a vicenda
le loro opere. (3) e avesse allargato il suo studio alle diverse e più notevoli
caratteristiche che la critica presenta nel Settecento, ella avrebbe certamente
potuto concludere il capitolo sul B. critico con una più profonda e più sinte-
tica valutazione. Questo capitolo, pur contenendo molti dati nuovi, è il più
disorganico di tutto il libro, perché l'A. non ha saputo dare alla materia
pienezza di forma (4).
Belle e assennate osservazioni ha fatto l'A. sui rapporti che intercedono
tra l'opera storica del B. e quelle del Muratori, del Tiraboschi e del Denina ;
ma anche qui sarebbe stato necessario rielaborare con maggior precisione e
con ordine più perspicuo gli elementi raccolti e sarebbe stato opportuno esten-
dere l'esame ad altre opere storiche di quel secolo. Come mai l'A., che, stu-
diando gli scritti del B., ha spesso incontrato i nomi di F. S. Quadrio, di
A. F. Zaccaria, di Stefano Arteaga, di Giovanni Andrès, di F. S. Lampillas,
non ha notato ohe queste curiose figure di letterati settecenteschi, « dolenti
(1) Op. Cit, p. XXXIX.
(2) Vedi Le * Lettere virgiliane» del Bettinelli, in Opinione letteraria, 8 sett. 1882;
ristampato in II primo passo, Napoli, 1910.
(3; Nell'opera del Bettinelli non mancano caustici accenni al Baretti. Es. a p. 280
del t. IV (ed. Cesare), eco. Cfr. poi Morandi, Voltaire contro Shakespeare, Baretti contro
Voltaire (Roma, Sommaruga, 1882) ; Piccioni, Studi e ricerche intorno a O. Baretti (Li-
vorno, Giusti) ; Id., O. Baretti prima della Frusta letteraria (Suppl. 13-14 del Giorn.
stor.); Id., Prefazioni e polemiche di G. Baretti (Bari, Laterza), eoo.
(4) Sarebbe anche stato opportuno che l'A., nelle note di p. 51 e di pp. 69-60, ri-
ferendo le parole di A. Graf, avesse avvertito che quelle citazioni, quantunque
cerchino di tradurre le idee espresse dal Graf in cattedra, nondimeno non ripro-
ducono con esattezza le parole del Maestro. Chi udì quelle lezioni può attestare
che esse furono fatte con quella perspicua eleganza e con quella nitida proprietà
di forma che erano di ogni discorso del Graf. Chiunque poi ricordi con quanta
vigoria di pensiero e con quanta efficacia egli penetrasse addentro a' più ardui
argomenti, subito comprende che il primo periodo citato a pp. 69-60 non è trascritto
con precisione. Sarebbe quindi stato doveroso avvertire che, quantunque le cita-
zioni tentino di riprodurre fedelmente il pensiero del Maestro, nondimeno quei
periodi non sono che note scolastiche approssimative.
Il ASSEGNA BIBLIOGBAFICA 213
« di non posseder tutto lo scibile » (1), pur contrastando talvolta tra loro,
sono spiriti affini ? L'irrequieto e aggressivo Arteaga, « impastato di nitro e
di fuoco » (2), loquace e presuntuoso, « avventato ne' suoi giudizi e spregia-
tore degli altrui » (3); il versatile e facondo Andrès, eruditissimo e aperto
alle più nobili dilettazioni dell'arte, pieghevole e intollerante, conscio che
l'universalità delle cognizioni poteva ritardare il progresso scientifico e desi-
deroso di « abbracciare tutta l'umana cultura » (4) ; Antonio Eximeno, « spre-
« giudicato novatore, ribelle alla vecchia tradizione di lingua e di stile, fau-
« tore di più larghi e razionali concetti di critica e d'arte » (5); il fervido e
maledico Lampillas, carezzevole e asprigno, cerimonioso e pronto a partire in
guerra contro tutto e contro tutti ; questi e altri fantasiosi pellegrini di tutte
le storie, letterariamente, sono i veri e proprii fratelli spirituali di Saverio
Bettinelli.
Di più: perché FA. non ha ravvivato l'opera del B. alla « luce » delle dot-
trine storiche, che son proprie del secolo di Voltaire {Siede des lumières) e che
trovan la loro espressione nella cosi detta « storiografia del rischiaramento » (6)?
Come mai l'A. non ha notato che l'opera critica e storica del B. non fiorisce
a caso in un periodo in cui gli spiriti, avidi' di cultura universale, si disse-
tano all'enciclopedismo (7), in un'età in cui gli storici, desiderosi di intendere
Vesprit dei fatti, sopra tutto mirano a mettere in evidenza « i progressi dello
spirito umano » ? Come mai non ha osservato che molte riflessioni del B.
prendon le mosse dall'opera di F. S. Quadrio, Della stona e della ragione di
ogni poesia (8), e che parecchi scritti del mantovano seguono e precedono altre
(1) La frase fu usata da Isabella Teotochi Albrizzi per Stefano Arteaga {Ritratti,
8» ediz., Venezia, Alvisopoli, 1816, pp. 103-105).
(2) Cosi lo ritrasse il Taruffi in una lettera all'Albergati (cfr. Masi, La vita, i
tempi, gli amici di F. Albergati, Bologna, Zanichelli, 1878, p. 338).
(3) Vedi V. Gian, L'immigrazione dei gesuiti spagnuoli letterati in Italia, estr. dalle
Mera, dell' Accad. delle Scienze di Torino, 1894-96, p. 39.
(4) Pongasi mente al severo giudizio che dell'Andrès diede Giosuè Carducci nella
lettera inviata da Pistoia a Carlo Gargiolli il 12 gennaio 1860.
(5) CiAN, Op. cit, p. 50.
(6) Si veda, su quest'argomento, il vigoroso e sintetico studio di B. Croce, In-
torno alla storia della storiografia {Critica, an. XI, fase. III). Ivi, nel capitolo su La
storiografici del rischiaramento, è detto che « il gesuita Bettinelli imitò i libri sto-
« rici del Voltaire per la storia delle lettere, arti e costumi in Italia » (p. 217),
È indubitabile che il B. risenti l'efficacia delle idee storiche del Voltaire e chiunque
studi le prose bettinelliane non può non ricorrere spesso col pensiero RlVUssai sur
l'Histoire generale, et sur les moeurs et Vesprit des nations depuis CTuirlemagne jusqu'à
nos j'ours e ad altre opere del Voltaire. Ma non è proprio ridurre l'opera storica
del B. a una semplice imitazione dei libri storici del Voltaire.
(7) Il Bettinelli stesso in molte note offre testftoonianza di ciò. Basti qui ricor-
dare che egli spesso discute le opinioni de' filosofi e degli scienziati che ha letto
e studiato e che nel t. IV (p. 298) rimanda chi voglia legger altri scritti sull'en-
tusiasmo « agli articoli enthousiasme. . . poési6 etc, de' più celebri dizionari filosofici
e de' [suoi] tempi >. Vedi anche il t. Ili, p. 17.
(8) Il Bettinelli, nelle note rimanda sovente all'opera del Quadrio. In molti luoghi
214 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
opere consimili alle sue? Se la C. avesse fatto queste considerazioni, certa-
mente avrebbe compreso che gli atteggiamenti critici e istoriomatici del B.
appariranno in piena luce quando saranno intimamente chiariti con lo studio
degli scrittori italiani e francesi, che allo spirito del B., avido di cultura,
offersero maggior nutrimento, e quindi saranno accortamente lumeggiati con
lo studio delle opere di Giovanni Andrès (1), di Gioachino Millàs (2), di
G. F. Masdeu (3), di F. S. Lampillas (4), di Stefano Arteaga (5), di Antonio
Eximeno (6), vale a dire di tutti quegli ingegnosi avventurieri del filosofismo
storico, letterario e artistico, i quali, nella seconda metà del secolo XVIII,
scorrevano come conquistatori i più vasti campi del sapere (7).
Vero è che il B., come altri suoi confratelli, grida spesso contro il filoso-
fismo imperante e contro le speciose « affettazioni dello stil filosofico » (8).
Anche è vero che l'ex-gesuita spagnuolo Gioachino Millàs affermò una volta
che le opere del B. sarebbero state più degnamente apprezzate dagli italiani,
se l'autore avesse voluto pagare il suo tributo al dominante filosofismo (9).
Ma è risaputo che per ironia della sorte accadde al B. di gridare quasi tutta
la vita contro quelle usanze alle quali egli medesimo sottostava. D'altra parte
è noto che il Millàs è quello stesso che non esitava a porre il Bettinelli ac-
canto a Bacone e al Condillac (10) e che vedeva nelle sue idee la ragione per
poi lo loda per l'ingegno, Verudizioìie, lo stile e giudica l'opera sua di capitale im-
portanza. ' Non contento di ciò, a pp. 296-298 del t. IV (ed. Cesare) dà un breve
riassunto di essa per invogliare altri a leggerla.
(1) Dell'origine, progressi e stato attuale d'ogni letteratura, Parma, 1782-1789, ecc.
(2) Dell'unico principio svegliatore della ragione del gusto e della virtù neU'educazion
letteraria, Mantova, 1786-1788, eco.
(8) Storia critica di Spagna e della cultura spagnuola, 1781-1805, ecc.
(4) Saggio storico apologetico della letteratura spagnuola contro le pregiudicate opiniotii
di alcuni moderni scrittori italiani. Il Lampillas stesso attribuisce quest'opera ai
ripetuti eccitamenti del Bettinelli. Sulle relazioni del Lampillas col Bettinelli
vedi Gian, Op. cit., pp. 63-64.
(5) Le rivoluzioni del teatro musicale ital. dalla sua origine fino al presente (1189) , ecc.
(6) DeW origine e delle regole (Mia musica, colla storia del suo progresso, decadenza e
rinnovazione (1774). Importanti per questo studio sono anche le altre sue opere.
Vedi, intorno a lui, le bellissime pagine del Gian, Op. cit., pp. 46-50.
(7) Può giovare a questi studi la prima parte della nota opera del Landau, Ge-
schichte der italienischen Litteratur im achtzehìitén Jahrhundert (Berlin, Felber, 1899).
Si veda anche il voi. di B. Groce, Problemi di estetica (Bari, Laterza, 1910). Ma vedi
in particolar modo Fuetek, Oeschichte der neueren HistoHographie (Milnchen und
Berlin, Oldenbourg, 1911). Non si dimentichi anche il recente voi. di R. Gotuono,
La sorte di Q. B. Vico e le polemiche scientifiche e letterarie dalla fine del XVII alla
metà del XVIII sec. (Bari, Laterza, 1914).
(8) Opere, t. I : « Prefazione dell'autore sopra lo studio delle belle lettere » .
(9) Op. cit, voi. Ili, pp. 226 sgg.
(10) Il Bettinelli fu un appassionato lettore di libri filosofici e in particolar modo
conobbe assai bene le opere del Gondillac, che spesso discute nelle proprie pagine
(08. t. IV, pp. 150, 180, ecc.). Intorno alla diflfusione delle principali opere filoso-
fiche straniere nell'Italia del sec. XVIII, vedi G. Maugaiic, Étude sur l'évolution de
l'Italie de 1657 à 1750 environ (Paris, Hachette, 1909).
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 215
cui i posteri gli avrebbero reso giustizia. Ciò non solo dimostra che il Millàs
dava al Bettinelli un posto ben suo tra i letterati filosofeggianti del suo tempo,
ma anche prova che sarebbe assai proficuo ricercare come e quanto il frate
segretario di Virgilio abbia risentito l'efficacia del filosofismo, di cui tutta
la vita spirituale del Settecento era pervasa. Del resto non sarà difficile sta-
bilire una buona volta quale posto tenga il B. tra i letterati che allora volevan
conciliare « le belle arti e l'erudizione con la filosofia e con la scienza », poiché
l'introduzione Sopra lo studio della storia, premessa dal mantovano al Risor-
gimento d'Italia negli studi, nelle arti e nei costumi dopo il Mille, le annota-
zioni apposte alle due parti dell'opera syAV Entusiasmo delle belle arti, il
Saggio su la vita e le opere di Matteo Borsa, il Discorso sopra la poesia ita-
liana, la lunga lettera All'abate Lampillas sopra il primo tomo della se-
conda parte del Saggio storico apologetico della letteratura spagnuola, le
XX lettere d'una dama ad una sua amica sulle belle arti e moltissimi altri
scritti dell'edizione di Adolfo Cesare offrono a chi voglia compiere questa ri-
cerca indicazioni preziose. Da questi scritti appar chiaro che quella tendenza
spirituale, per cui Luisa Capra giudica che il B. « nella concezione della cri-
« tica storica si allontanava da' suoi contemporanei » (1), non era una ten-
denza esclusiva del mantovano, ma era la tendenza di tutta una turba di
studiosi, i quali, non potendosi acquetare nell'erudizione che ama il freddo
esame dei fatti e dei documenti, cercavan di inalzarsi a opere superiori com-
ponendo storie critiche, quadri filosofici della storia civile, letteraria e arti-
stica, ricostruzioni storico- filoso fiche, libri di storia ragionata, ecc. Siffatte
opere in molte parti diventavano un vero e proprio vaniloquio. Perciò Pietro
Napoli Signorelli in una lettera del 19 ottobre 1784 scriveva a Stefano
Arteaga che il B. « non aveva mai impreso a distendere un'opera istorica com-
« piuta, che abbisognasse d'infiniti dati, essendosi contentato di far quadri
« arbitrari e generali, ove poteva dire e tacere quel che volea » (2). Queste
significative parole sono l'indice di due diverse tendenze istoriomatiche, le
quali nel secolo XVUI spesso contrastan aspramente tra loro. Ma d'altra parte,
nel contrapporre il metodo del Bettinelli a quello del Muratori e del Tira-
boschi, non bisogna neppure dimenticare che la separazione non era recisa e
che parecchi studiosi sembravano in alcune parti delle loro opere contempe-
rare l'un metodo con l'altro. Questa è la ragione per cui, quantunque il Ti-
raboschi apparisca a noi assai superiore, come storico, aU'abate mantovano,
nondimeno Ramon de la Cruz non esitava ad accomunarlo col Bettinelli, col
Quadrio e col Signorelli, dicendo con velenoso dispregio che quei letterati
scrissero « sobre toda la poesia, y toda la literatura, y llamaronla historia
« critica de todos los teatros de este y del otro mundo, in saecula saecu-
(1) P. 96. Anche a pp. 112-113, nella conclusione finale , è detto che il Bettinelli
« fu uno storico diverso da tutti gli altri » .
(2) Vedi questa lettera nelV Epistolario del Signorelli, pubblicato in appendice al
cit. voi. di C. a. Mininni (p. 311).
216 EASSEGNA BIBLIOGBAFICA
« lorum » (1). Ora uno studio che illuminasse una buona volta il mondo
spirituale in cui vivevano quei letterati che s'atteggiavano a storici d'ogni
letteratura e mettesse in rilievo come e perché essi si giudicassero superiori a
quegli scrupolosi e disciplinati eruditi che noi oggi consideriamo come i veri
fondatori della storiografia moderna, recherebbe un notevolissimo contributo
a quella storia dell'erudizione italiana nel secolo XYIII, che Vittorio Gian già
desiderava fin dal 1895 (2). Quanto poi al Bettinelli, è indubitabile che in
un'opera siffatta egli apparirebbe sotto un aspetto che i critici non hanno an-
cora ben considerato (3). Lo studio dei contrasti tra la tendenza erudita e la
tendenza filosofeggiante aiuterebbe a meglio intendere molte astiose polemiche
del settecento, alle quali il Bettinelli prese parte, e nel medesimo tempo a
capire perché l'efìicacia esercitata dal mantovano non debba esser giudicata
soltanto come personale, ma anche come riflesso delle idee che egli propugnava.
Verso questo punto devono convergere gli studi bettinelliani se vogliono
esser proficui. Già abbiamo studiato a fondo la sua opera lirica, satirica e
drammatica, abbiamo parlato a sazietà degli aspetti esteriori delle principali
sue opere in prosa. È tempo che si dica qualche cosa di preciso intorno al suo
filosofismo ora larvato ora iridescente e intorno a quello ancor più protei-
forme di tutto il secolo. Ora è di moda dire con circonlocuzioni vaghe e con-
venzionali che « il B. diede vita con la sua opera, la negativa e \bl positiva, a
« un movimento d'idee nuove » (4). Nell'affermazione è senza dubbio qual-
cosa di vero; ma la frase « diede vita » non è la più propria. Converrà una
buona volta studiare con rigore le idee di cui egli promosse la diffusione con
(1) L' ira di Ramon de la Cruz coatro il Sigaorelli era stata provocata dal giu-
dizio ohe questi aveva dato di lui nella prima edizione della Storia cHtica de' teatri
antichi e moderni. Cfr. C. G. Minikni, Op. cit., pp. 120 sgg. Vedi anche V. Gian, Italia
e Spagna nel secolr> XVIII (Torino, Lattee, 1896), p. 201. Questo volume può esser
pure utile agli studiosi del Bettinelli per alcune accurate notizie e perspicaci con-
siderazioni sul filosofismo e sulle tendenze istoriomatiche del sec. XVIII. Notevo-
lissime le pagine su Pietro Napoli Signorelli.
(2) Vedi Rivista storica italiana, voi. XII, fase. Ili, a. 1895 : « Nel primo centenario
« della morte di Grirolamo Tiraboschi > (p. 10 dell'estratto). Le parole, con le quali
il Bettinelli nel t. VII delle sue opere (pp. 28-29) afferma di aver compiuto « studi
prolissi > e «ricerche minute >, prima di accingersi a scrivere l'opera II risorgi-
mento d'Italia negli studi, nelle arti e nei costumi dopo il Mille, avrebbero potuto dar
modo alla Capra (p. 102 del suo voi.) di estendere il discorso al Quadrio e agli
altri storici studiati dal Bettinelli. Quivi, oltre il Quadrio, sono nominati con onore
lo Zeno, il Crescimbeni, il Querini, il Foscarini, il Mazzuchelli, l'Agostini, il Gori,
il Maffei, ecc.
(3) Si potrebbe opporre che il Bettinelli, a differenza dell'Andrès e di altri, nella
principale delle sue opere, Il risorgimento, stabilisce un punto di partenza, «il Mille >.
Se non che il ravvicinamento non deve esser fatto per i limiti esterni, ma per gli
intendimenti filosofici. Si veggano su ciò alcune acute osservazioni del Gian nella
cit. memoria: L'immigraz. dei gesuiti spagn. letterati in Italia, p. 20.
(4) P. Tommasini-Mattiucci, nella perspicua introduzione da lui premessa alia
nuova ristampa delle Ijettere virgiliane, promette di toccar con maggior precisione
quest'argomento in un « prossimo Opuscolo, ohe conterrà le Lettere inglesi » (p. 1..V11).
EASSBGNA BIBLIOGRAFICA 217
quella vigoria e con quell'audacia che gli erano proprie, converrà determinare
dove e come il suo filosofismo storico, letterario e artistico siasi formato (1),
converrà dire con più concreta e più chiara esattezza quale azione egli abbia
esercitato sulla vita spirituale del Settecento. Chi darà forma organica e viva
a tale studio, scriverà un libro assai dilettevole per la trasmutabile e sapida
materia, di cui dovrà occuparsi, e nel medesimo tempo un libro utilissimo
alla storia del secolo XVIII (2).
Carlo Calcaterra.
(1) In particolar modo sarà necessario determinare, più largamente e più pro-
fondamente di quanto non siasi fatto finora, quale efficacia abbiano esercitato gli
scrittori francesi sul B. Non sarà difficile risalire alle fonti, perché il B. cita spes-
sissimo gli autori ai quali attinge. Intorno all'amore con cui il B. lesse e studiò
la letteratura francese ha fatto alcune veridiche considerazioni il Serban nel ci-
tato voi. sul Leop.irdi : « Si l'on parcourt les vingt-quatre volumes qui contiennent
« ses CEUvres, on remarque que Bettinelli est à tei point fascinò par la littérature
« fran^aise qu'il ne peut plus parler des lettres italiennes sana les comparer cons-
« tamment aux productions correspondantes fran^aises » (p. 66). Potrebbe scrivere
un proficuo saggio di letteratura comparata chi trattasse direttamente quest' ar-
gomento.
(2) Nel buon libro di Luisa Capra anche alcune affermazioni particolari potreb-
bero essere discusse ; p. es. , quella di p. 74 in cui è detto che il B. giudicò la
Divina Commedia « con un criterio unicamente artistico » ; quella di p. 107, per
cui l'A. mostra di credere che il B. « ebbe un' idea più vasta e più sicura della
« critica storica » ohe non il Muratori e il Tiraboschi ; quella di p. 110 , in cui è
detto che l'aver il B. contribuito alla fortuna dello sciolto costituisce « il pregio
« maggiore della poesia bettinelliana » . Ma piuttosto che insistere su queste espres-
sioni improprie, crediamo doveroso avvertire che al libro è unita una ricca e im-
portante appendice, nella quale gli studiosi troveranno utili notizie sopra G. Tira-
boschi, P. A. Serassi, L Cerretti, Gr. Andrès, S. Arteaga, C. Denina, F. Cassoli,
M. Cesarotti, C. Gr. della Torre di Rezzonico, Gr. B. Roberti, Gl^. F. G^aleani-Napione,
L. Mascheroni, Gl^. B. Casti, V. Monti, G^. Parini, C. Bondi, A. Mazza, A. Bertola,
C. Zampieri, Cleofe Teresa Berrettoni, Teresa Bandettini , C. Rosmini, I. Pinde-
monte, Pr. Manara, A. Fabroni, C. Ugoni, ecc. Ricche di nuove e preziose conside-
razioni son pure le pagine in c\ii l'A. esamina i giudizi che il B. diede intomo ai
principali scrittori contemporanei (pp. 79-89) e quelli che i contemporanei diedero
del mantovano (pp. 113-120). Per il primo periodo letterario del Bettinelli si ten-
gano anche presenti i giudizi dati da F. A. Zaccaria nella Storia letteraria d'Italia
(t. in, pp. 555-558 ; t. V, pp. 58-62 ; t. VIII, p. 27 e pp. 80-34 ; t. X, p. 102 ; t. XII, p. 11-19)
e dal Quadrio (Op. cit, voi. VII, Milano, 1752, p. 285).
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
ENRICO AUBEL. — Leon Battista Alberti e i libri della
famiglia. — Città di Castello, Casa editrice S. Lapi, 1913
(8«, pp. 117).
Soltanto la tentazione di vedersi stampato negli eleganti elzeviriani e sotto
la copertina civettuola della casa editrice S. Lapi deve avere spinto irresisti-
bilmente il sig. E. Aubel a pubblicar questo libro. Potrebbe, veramente, pa-
rere altrimenti, a leggere la breve prefazione, ove troviamo asserito che in
L. B. A. « accanto all'umanista che scrive latino e interroga e studia i mo-
« numenti artistici e letterari dell'antichità..., accanto al letterato assorto
« nelle forme e nelle idee del passato, v'è il cittadino di parte stretto per
« tradizione di sangue e di consuetudine agli interessi della sua consorteria
« e della sua città »; onde un certo « contrasto di sentimenti i.. che spiega
« l'individualità del suo umanesimo, la natura del suo temperamento artistico
« e morale » e che « non è stato abbastanza rilevato da chi studiò l'Alberti »
(pp. 8-9).
Una novità, dunque, e che novità! sfuggita perfino all'amoroso e diligen-
tissimo studio semisecolare di Girolamo Mancini, non che di quanti altri si
siano occupati di Leon Battista ! Certo, si penserà, l'autore ha avuto la ven-
tura di por le mani su qualche ignoto documento, che ci riveli cittadino di
pai-te quell'Alberti, che, per quanto abbiam saputo finora della sua vita, o ci
apparisca dalle sue opere, fu alieno dal parteggiare e le parti maledisse, nò
ebbe mai che fare nella vita pubblica della città che considerava sua patria
e che ebbe carissima, ma nella quale neppur dimorò, se non quanto fu ri-
chiesto, prima, dalle necessità del suo ufficio di scrittore apostolico, e poi, a
rari e brevi intervalli, dalle sue opere architettoniche, o da necessità di
qualche fuggevole riposo dalle fatiche sostenute per queste. Se non che la let-
tura del volume disingannerà chi pensasse così. Il sig. E. Aubel, che pure
accoda al suo libro una discretamente lunga, ma né compiuta, nò accurata,
anzi assai arruffata bibliografia (basti notare che non v'ò serbato ordine nò
cronologico nò d'altro genere qualsiasi, e che perfino uno scambio di note dà
allo Scipioni un lavoro di 0. Bacci, e al Bacci uno dello Scipioni), ha letto
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 219
le Opere volgari, o almeno quelle d'argomento morale, nell'ediz. del Bonucci,
e qualcuna delle Opera inedita pubbl. dal Mancini, nonché la Vita di L. B. A.
di quest'ultimo, nella prima edizione ; ha visto, pare, l'elogio del Pozzetti, gli
opuscoli albertiani del Varrini, del Palermo, del Cortesi, e poco altro, fra cui
la raccolta del Trucchi, col quale egli dà il nome di serventese alla frottola
di Francesco d'Altobianco Alberti, AI fuoco soccorrete, omè ch'io ardo (p. 35);
e fermandosi specialmente sui libri Della famiglia, va sentenziando intorno alla
« caratteristica dell'umanesimo dell'Alberti », che è quella di non « essere
« semplice imitatore degli antichi » ma uno che « armonizza il buono e l'u-
« tile dell'antico con le pratiche esigenze, con le aspirazioni dei propri tempi »
(p. 23), e intorno all'argomento e agi' intenti dell'opera sua principale, e al
suo ideale della famiglia : aggiunge infine un'appendice, per trattare l'oramai
sepolta « questione L. B. A. e A. Pandolfini » (p. 89) e per istituire un con-
fronto fra il libro HI della Famiglia e VEconomico di Senofonte (p. 105). E le
novità, che egli cava da tutto questo e che esprime ripetutamente, par ve-
ramente che oramai sappiano un po' di stantìo. L. B. A. « ha di mira l'onore
« della famiglia Alberti, lo studio a mantenerla in onta alla fortuna ; egli de-
« sidera acquistarsi l'affetto dei suoi familiari. L'indole afiettiva del libro non
« permette di annoverarlo fra i trattati pedagogici propriamente detti... Le
« virtù ch'egli raccomanda e tutta l'educazione fisica e morale ha di mira il
« benessere della famiglia Alberti nelle sue particolari condizioni » (p. 52) ;
« il materiale pedagogico e umanistico accolto da Battista del (sic) I libro,
« perde ogni astrattezza di trattazione scientifica oggettiva ; è applicato alle
« condizioni della famiglia che l'Alb. ha sempre nella mente, è vivificato dal-
« l'intimità della conversazione domestica ... Lo spirito di parte ancor vivo in
« quel tempo gli impediva di estendere il suo dialogo tenuto fra persone
« della sua famiglia ad uno scopo più generale » (p. 56). Se togliamo quello
spirito di parte, che nessuno ha sentito finora nelle opere dell'A., « sapevam-
celo », potran dire in coro i vecchi studiosi di quello, proprio come quei di
Capraia. Ma di quello spirito di parte — cosa alquanto differente ♦dall'amore
per la famiglia — dà qualche prova l'Aubel ? Nessuna, di che io abbia sa-
puto accorgermi; come nessuna di altre certo assai nuove novità, quali sa-
rebbero, p. es., che il Pontifex ha « scopo essenzialmente economico » (p. .32),
0 che la composizione del Teogenio (con tutto il suo proemio posteriore alla
morte di Niccolò d'Este) è di tempo anteriore a quella della Famiglia (p. 38;
e cfr. pp. 36 a 45), e il proemio del libro ITI della Famiglia posteriore alla
composizione del libro IV e al certame coronario (pp. 45, 46) e che (se almeno
non mi fa frantendere la sintassi e la punteggiatura del signor Aubel) Ve-
spasiano da Bisticci era « più vecchio dell'Alberti » (p. 66).
Eppure qualche prova di tanto ci parrebbe desiderabile; come parrebbe
desiderabile che l'A., scrivendo nel primo semestf^ del 1913, avesse veduto, se
non altro, la seconda edizione della Vita del Mancini, e soprattutto il testo
della Famiglia edito dal medesimo benemerito studioso già nel 1908. Fra gli
altri vantaggi ne avrebbe potuto cavare anche quello di non trovarsi a scam-
biare un verbo per un nome e regalare alla letteratura greca un filosofo di
220 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
più. Egli ha infatti trovato nell'ediz. del Bonucci {Op. voìg., Il, p. 148) queste
parole poste in bocca a Lionardo Alberti: « Voi meglio per voi queste eru-
« dizioni tutte con miglior guida e più autorità potete riconoscere, Arete
« fra' Greci, Platone, Aristotile, Senofonte, Plutarco, Teofrasto, Demostene,
« Basilio; e tra i Latini Cicerone, Varrone, Catone », ecc.; e scrive (p. 44) che
« l'intimità del dialogo familiare viene turbata dalle dotte velleità di Leo-
« nardo; il quale risponde esser queste cose disseminate nei vari scrittori;
« bisognerebbe aver ripensato, riscelto, rassettato (s^c); potranno consultare
« Arete, Platone, Aristotile, Senofonte, Teofrasto », ecc. Ora, nell'ediz. Mancini
(p. 95) avrebbe letto: « Avete fra' Greci, Platone, Aristotele »,ecc.; ed è pro-
babile che la seconda pers. plur. del presente gli si fosse fatta riconoscere
meglio che quella del futuro!
Mi pare che ciò basti a provare che l'autore, che credo un giovane sedotto,
come altri non pochi, dalla bramosia di una precoce pubblicità, avrebbe fatto
meglio a tenere in briglia il suo desiderio e aspettare a dare in luce, con
maggiore utilità sua e degli altri, il frutto dei suoi studi, quando egli avesse
meglio compiuta la necessaria preparazione. F. C. P.
Trattati d^ainore del Cinquecento, a cura di Giuseppe Zonta.
Nella collezione Scrittori d'Italia (n° 37). — Bari, Laterza,
1912 (8°, pp. 369).
In questo volume, messo insieme con lodevole accuratezza e con molta com-
petenza da G. Zonta (del quale i lettori del Giornale conoscono le diligenti e
concludenti indagini intorno ad uno dei più ragguardevoli trattatisti d'amore
del 500, il Betussi), sono ristampati cinque dialoghi del secolo XVI, scelti se-
condo i criteri precisati dallo Z. stesso nella Nota bibliografica che chiude la sua
raccolta ; ossia con l'intento di riprodurre e rendere più accessibili al pubblico
studioso alcuni dei trattati che meglio rappresentano l'uso cinquecentesco
della discussione erudita e geniale sulla natura dell'amore, o più apertamente
e artisticamente ci svelano qualche aspetto caratteristico del costume di quella
età. Sono il Baverta di G. Betussi, il ragionamento sulla Bella arte d'amore
di Francesco Sansovino, il dialogo Delia infinità cVaviore di Tullia d'Ara-
gona, lo Specchio d^ amore di Bartolomeo Gottifredi e la Leonora del Be-
tussi medesimo: così disposti secondo l'ordine di tempo in cui uscirono in
luce nel Cinquecento. Parrà forse ai lettori che questa scelta, già ricca di
volume e di curiosità, avrebbe potuto vantaggiosamente accrescersi di qualche
altro componimento congenere : e tutti penseranno alla audace Uaffaella, il
dialogo Della bella creanza delle donne, il mirabile ghiottissimo trattato
del lenocinio composto da Alessandro Piccolomini ; ma il raccoglitore ci fa
osservare che di non pochi altri trattati amorosi del secolo XVI si farà la
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 221
ristampa nella collezione degli Scrittori d^ Italia con le altre opere dei loro
autori: e quanto alla Ilaffaeìla essa è stata compresa dallo Zonta nell'altro
volume da lui curato, di Trattati sulla donna del Cinquecento (1).
Cosa molto curiosa penso che sarebbe riuscita, nel volume che esaminiamo,
una ristampa (sarebbe stata la prima) del rarissimo Dialogo amoroso del
Betussi (2). Si tratta d'un breve dialogo, che ha in questa letteratura ero-
tica singolare importanza, perchè riguarda 'gli amori per le cortigiane: si
svolge tra Francesco Sansovino, un tal Pigna, giovane facoltoso dedito agli
amori delle etère veneziane, e madonna Francesca Baffa, la colta etèra di Ve-
nezia, interlocutrice anche del Raverta, che fu per alcuni anni amica del Betussi
e che intorno a sé radunò un circolo di letterati e uomini di guerra; e prende
appunto ai-gomento dagli amori del Pigna, che aveva successivamente com-
prato e goduto i favori delle cortigiane più belle e più desiderate della città
delle lagune. Questo dialogo riesce adunque, sebbene un po' scarno nella parte
trattatistica, un documento di grandissima importanza per conoscere quella
società galante veneziana, intorno alla quale abbiamo non poche testimo-
nianze sparse, ma di cui ci manca tuttora uno studio complessivo : chi vi si
dedicherà di proposito, consertando la storia del costume a quella delle let-
tere, accanto alle numerose cortigiane che si dilettavano di studi e di poesia,
rinnovando gli splendori di Atene, avrà modo d'illustrar l'opera di molti
scrittori, alcuni dei quali soltanto, come il Brocardo, il Betussi, il Parabosco,
il Sansovino ed altri, sono stati studiati con maggiore o minor diligenza.
Dei trattati pubblicati dallo Z. sono abbastanza noti, perchè altra volta
ristampati, il Raverta e V Infinità d^ amore] ma gli altri tre sono ora per
la prima volta ripubblicati di sulle stampe rarissime del secolo XVI. Del
breve ragionamento del Sansovino ho avuto io stesso occasione di occuparmi
recentemente, studiando le relazioni del poligrafo veneziano con Gaspara
Stampa, a cui egli lo dedicò: poco svolta vi è la materia, e i non lodevoli
insegnamenti che contiene hanno affinità con quelli che offrono altri compo-
nimenti simili; pure ha notevole valore per la storia del costume. Più vi-
vace e ricca e varia è la rappresentazione che della società mondana di Ve-
nezia ci dà il Raverta del Betussi; ma la discussione vi è meno ordinata
che in altri trattati simili, ad esempio quello della Tullia. ^QWlnfìnità
d'amore la regolarità dello svolgimento, la partizione della materia, la lin-
dezza della forma sicura e ricercata, la rotondità del periodare complesso e
spesso accademico dimostrano all'evidenza che qualche esperto scrittore reg-
(1) Una recente ristampa della Raffaella s'è fatta, a prezzo modicissimo, nella
Biblioteca universale, del Sonzogno, n° 409, insieme alla Storia di due amanti di Enea
Silvio Piocolomini. Per la bibliografìa sulla trattatistica erotica del 500 richiamo
i due studi recenti di P. Lorenzetti {L'intendiviento e le cause precipue dei trattati
d'avìore nel sec. XVI, nel FanfuUa della Domenica, XXXV, nn» 49 e 50) e di L. Savino
{Di alcuni trattati e trattatisti d'amore ital. nella prima metà del sec. XVI, nel voi. IX
degli Studi di letteratura italiana).
(2) Me ne sono recentemente occupato in questo Giornale, LXII, 42 sgg.
222 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
geva la mano a Tullia d'Aragona, mentr'ella componeva il dialogo. S' è pen-
sato al Varchi ; e qualcuno ha detto ch'egli fu semplicemente revisore dell'o-
pera della cortigiana, altri invece affermò che a lui va attribuita senz'altro
la composizione di essa. Lo Z. giustamente esclude, con i più, questa seconda
opinione, e s'attiene alla prima. Quelle donne si facevano pagar in questo
modo dai letterati amici; e m. Benedetto Varchi, da quel dotto trattatista
addestrato alle sottigliezze dialettiche ch'egli era, non si rifiutò certo di pa-
gare con quell'aiuto di parole ed opera d'inchiostro i favori della Tullia.
E non senza probabilità lo Z. mostra di sospettare che anche il Muzio, di
cui son famosi gli amori con la leggiadra signora, abbia avuto la sua parte
di lavoro nella revisione finale della Infinità d^amore.
La Leotwra del Betussi ci trasporta in mezzo alle conversazioni aristocra-
tiche, rappresentandoci una riunione di gentiluomini e d'uomini colti attorno
ad una cortese dama piemontese della metà del Cinquecento, Leonora Fal-
letti signora di Villafalletto e di Melazzo, che scrisse poesie ed ebbe rela-
zione con non pochi letterati del suo tempo.
Ma il miglior pregio del volume dello Z. è forse quello di rivelarci, si può
dire, uno scapigliato scrittore, pieno d'arguzia e di vivacità, penetrantissimo
conoscitore del cuore femminile e del costume di quel secolo, nell'autore, fin
qui pressoché ignoto, dello Specchio d'amore, che non a torto lo Z. proclama
« la più bella arte d'amore » del 500, dopo la Raffaella del Piccolomini. Dello
Specchio lo Z. conobbe solo un esemplare della rarissima edizione del Doni
(Firenze, 1547) ; ma lo colpì il fatto che due lettere che vi si accompagnano,
una dell'autore, l'altra del Doni, recano rispettivamente le date del 1542
e 1543 : e ne dedusse che la composizione del dialogo « è di qualche anno
anteriore alla data di stampa ». Gli sfuggirono alcune utili ricerche intorno
al Gottifredi, di uno studioso piacentino, il Cerri (1), il quale ci fa sapere
che l'edizione del 1547 fu la ristampa di una precedente edizione piacentina,
forse del 1543, di cui finora non si conosce se non un esemplare mutilo, di
proprietà privata. Poiché le interessanti notizie raccolte dal Cerri, non molto
accessibili, sono ancora incomplete, e con esse non è detta l'ultima parola
intorno a questa curiosa figura di scrittore cinquecentesco, ritengo utile rias-
sumerne e discuterne le risultanze, aggiungendo ad esse il frutto di alcune
mie ricerche, ed augurandomi, come fa lo Z., che qualche studioso, il quale ne
abbia agio, con nuove indagini negli archivi piacentini e parmensi, dove deb-
bono del Gottifredi, che fu al servizio di P. L. Farnese, restare documenti, ne
tratteggi la vita e prenda in esame la sua non abbondante ma significativa
opera letteraria. Il Cerri dice che il Gottifredi fu « di famiglia distintissinìa e
« antica » e, avendo trovato che nel 1531 fu abilitato all'esercizio del notariato,
(1) L. Ckrbi, Bartolomeo Gottifredi e il suo * Specchio d'amore » (nella Strenna pia-
centina, 1900, Piacenza, tip. F. Solari di G. Tononi, pp. 91-106). Ha richiamato l'at-
tenzione su questo breve studio P. L(orenzetti) in un cenno sul voi. dello Z. nella
Rassegna bibliografica del Flamini, XXI (N. S., Ili), pp. 166 sgg. Vedi anche il breve
cenno di S. Fermi (nel Boll. stor. piacentino, Vili, pp. 237 sg.).
BOLLETTINO BIBLIOGKAFICO 223
giudicò che fosse nato nei primi anni del secolo XVI. Fu amico di Lodovico
Domenichi, che lo introdusse a parlare nel dialogo DeìVamor fraterno e lo
lodò nel dialogo Delle imprese: e appartenne all'accademia piacentina degli
Ortolani, spensierata brigata a cui presiedeva il Doni. Di lui alcune raccolte
cinquecentesche ci conservarono delle rime non prive di grazia, e da due
sonetti, in cui il Gottifredi dice di aver solcato il mare di Provenza, il Pog-
giali (1) desunse che egli esercitasse la milizia, oltreché in Provenza, anche
in Ungheria, dove ci risulta da altre testimonianze ch'egli si era recato. Il
Cerri mise in dubbio la vita militare del Gottifredi: e veramente non oc-
corre pensare ad essa per ispiegare quei viaggi del piacentino all'estero; ma
come interpretare quei due versi, in cui il Gottifredi dice di trovarsi « Tra
« ferri et armi et bellici furori Che '1 miser Provenzal tengono oppresso ^ ?
Il Poggiali conobbe anche due lettere del Gottifredi (2) ; e tenne pure conto
d'una lettera del Doni, del 1543, in cui parlando del Gottifredi tornato a
Piacenza, si accenna a La Candida, che il piacentino aveva allora « accomo-
dato », « et fattogli giunta » (3). Il Poggiali non pensò che quest'opera fosse
una cosa sola con lo Specchio d'amore, e intorno a questo riferì la notizia che
il Doni ne diede nella prima Libreria (Venezia, Giolito, 1550, e. 12 è): « Chi
« si diletta di leggere cose amorose, che sieno non meno argute che piacevoli,
« legga un dialogo dottissimo e pien di leggiadria et d'inventione del Got-
« tifredi, uscito fuori sotto il nome suo et del Cipolla Accademico Hortolano,
« che egli vedrà veramente una cosa bellissima : Il titolo del dialogo è
« Specchio d'amore ». Nella Seconda Libreria poi (Venezia, Marcolini, 1555,
p. 41) il Doni cita un'altra opera del suo amico piacentino: Dell'amor santo
delle monache, che designa anche con altro titolo : Il Cipolla tratta dell'amor
santo delle monache e della destrezza di tutte le azioni loro, e che era un altro
dialogo. Di questa seconda opera del Gottifredi la composizione è certo ante-
riore alla metà del 1543. Infatti il Betussi nel suo Dialogo amoroso (Venezia,
1543, p. 20 sg.) fa dire dal Sansovino, uno degli interlocutori, a Francesca
Baffa: « Sapete chi ha ragionato benissimo d'amore e ve ne ha fatto due
« dottissimi dialoghi? Un m. Bartholomeo Gottifredi piacentino »: e loda que-
st'ultimo e il Domenichi, meravigliandosi che stiano a Piacenza e non cer-
chino lor ventura altrove ; al che la Baffa : « Che volete ? Uno [il Gottifredi]
« è legato dall'amore della moglie »; il Domenichi è obbligato a studiar leggi
(1) C. Poggiali, Memorie per la storia letter. di Piacenza, I, pp. 290-3.
(2) Esse furono edite dapprima nel Nuovo libro di lettere, Venezia, 1545, pp. 145 e 151.
(3) Questa lettera del poligrafo fiorentino si trova tra le Lettere di M. A. F. Doki,
Libro primo, Venezia, Scotto, 1545, o. CXXIII sgg., con la data di Piacenza 24 no-
vembre 1544 ; ma per gli accenni che contiene al ritori^ del Gottifredi dall'Ungheria,
e alla lettera « della chiave » diretta dal Doni al Gottifredi (in data 3 dio. 1548 ;
V. Lettere cit., o. LXXXIV sgg.) la data va corretta in 1543, come hanno fatto il
Poggiali e il Cerri. In altra sua lettera da Piacenza, 21 ott. 1543, al Sansovino {ivi,
e. LXII 8g.), il Doni non parla del Gottifredi, che dovette adunque tornare a Pia-
cenza tra la fine d'ottobre e la prima metà di novembre.
224 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
dal padre. E lo stesso Betussi nel Baverta indicò anche i nomi di due in-
terlocutori delVAmore santo (1), che il Poggiali ritenne una cosa sola con
10 Specchio d'amore, nonostante la testimonianza esplicita del Dialogo amo-
roso betussiano. H Doni poi, in una lettera da Piacenza (3 giugno 1543), ci
dice che gli accademici Ortolani di quella città hanno già scritto non poche
opere, e cita, fra l'altre , sei commedie e « un libro àelVAmor santo delle
monache » (2).
Quanto allo Specchio d'amore esso ebbe una prima stampa, come sappiamo
dal Cerri, forse a Piacenza; l'esemplare, ch'egli ne ha veduto, manca del
frontispizio, d'una carta nel mezzo e dell'ultimo quinterno: non si sa quindi
con precisione né dove né quando venne in luce ; ma il Cerri suppose che il
dialogo, poiché oltre la dedica alla « virtuosa giovane la signora Candida »
ne ha un'altra a Sforza Sforza, conte di Borgonovo, in data di Piacenza
11 settembre 1542, fosse stampato nel 1543. Potrebbe, veramente, data la de-
dica, esser venuto in luce alla fine del 1542. Ma il Doni in una sua lettera al
Domenichi (Piacenza, 9 settembre 1545), dopo aver detto all'amico di esser
sulle mosse per andar a Firenze, prosegue: « tornerò fra diece giorni et farò
« stampare il vostro Cencio, lo Specchio del Gottofredi et un altro di M. Hor-
« tensio dialogo del maritarsi » (3). Nell'ottobre e novembre successivi ci
risulta che il Doni era a Firenze. Come dunque conciliare queste testimo-
nianze ? Stando alle notizie dateci dal Cerri, i due esemplari dello Specchio
sono di edizione diversa; e secondo me la data della dedica allo Sforza é
anche la data della prima edizione del dialogo. Il quale nella prima edizione
dovrebbe esser più breve, perchè il Doni in una sua lettera già citata dice
che il Gottifredi, tornato d'Ungheria (a mezzo l'autunno del 1543) gli aveva
fatto una « giunta » (4). Con questa giunta si propose di stamparlo il Doni,
e poi dovette via via differire la cosa, non solo fino al 1545, ma fino al 1547,
quando nella sua tipografia fiorentina lo Specchio ebbe la 2* edizione con la
lettera sulla chiave del Doni e con la risposta ad essa del Gottifredi.
Mi giova aggiunger qualcosa sulle relazioni letterarie del Gottifredi. Di
(1) Nel Raverta (in Trattati d'amore, ediz. Zonta, p. 78), parlandosi della perseve-
ranza come principal dote e prova d'amore , il Domenichi afferma: «... dico ciò
« essere la principale, tutto che gran segno d'essere amata, disse la Corona nel-
« l'Amor aanto, dialogo del mio gentilissimo ed ingegnosissimo Gottifredi, e per lo
« quale si possa esser secura dell'amor dell'amante, sia ch'egli, con qualunque
€ persona e qualsivoglia loco, favelli dell'amata. Benché lungo sarebbe a racoon-
« tare ciò che all'incontro le rispose il buon Pedrione, dandole a vedere che cosi
«si può favellare di persona che s'odia, come che s'ama: e molte altre cose».
(2) Doni, Lettere cit., e. XXXVIII a. Del Doni al Gottifredi, oltre la lettera sulla
Chiave, ne abbiamo una da Piacenza 3 ott. 1548 (e. LVIII sgg.) e un'altra da Ve-
nezia 19 aprile 1544 (e. CXVIII sg.). In principio della lettera della Chiave si fa
una breve citazione* dall'amor santo. Sugli accademici piacentini, v. L. Ckrhi, L'ac-
cademia degli Ortolani, Piacenza, 1893.
(8) Doni, Lettere cit., e. CXXXVI 6.
(4) Questa « giunta » potrebb'essere la seconda parte del dialogo, assai più breve
della prima, che può stare anche senza di essa.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 225
ritorno dall'Ungheria egli s'era fermato a Venezia e vi aveva stretto amicizie.
Ebbe poi occasione di recarvisi nei primi mesi del 1544, come ci apprende
una sua lettera al bassanese Alessandro Campesano (1). Delle sue relazioni
veneziane ci dà anche notizie interessanti una lettera del Parabosco (da Pia-
cenza, s. d., ma forse del 1543) « Alla gentilissima et bellissima M. Hippolita
Bracca », trascurata da chi trattò del Gottifredi (2): « Il virtuosissimo m. Bar-
« tholomeo G., il quale faceste degno della vostra vista, quando m. Pietro
« [l'Aretino ?] a casa V. S. seco il condusse, vi restò tanto servitore che... egli
« qui in Piacenza vi celebra, vi canta, vi depinge et (se tanto lice) v'adora...
« Egli dice che ogni vostro atto, ogni vostra parola è il centro del foco d'a-
« more, et che voi portate esso Amore negli occhi ». B Parabosco continua a
far complimenti a questa gentile signora, « d'ogni cuore triomphatrice », a
cui manda anche un sonetto da lui fatto in lode degli occhi di lei. B « Bar-
« tholomeo G. » piacentino, di cui parla il Parabosco, io ritengo probabile
che fosse appunto il Gottifredi.
Serve a delineare il carattere del Gottifredi la lettera ch'egli scrisse al
Domenichi da Piacenza, il 20 aprile 1544 (3). Comincia con lamentarsi che
anche il Doni stia per allontanarsi da Piacenza: « Io prometto a Dio et a
« voi, che s'io ebbi mai animo di stare nella patria, come ch'io n'avessi
« sempre poco desio, ora in tutto me n'è fuggita la voglia: e quando onesto
« freno non mi tenesse [cioè, credo, Vaver preso moglie], io ne torrei per
« qualche anno essilio volontario, che dalla partenza di voi due non mi pare
« di esser vivo ». Prega l'amico di mandargli le cose che egli e il Doni hanno
stampato o sono per istampare, indi prosegue : « Io vi giuro... che del ritorno
« mio d'Ungheria fin qui, che sono passati oggimai cinque mesi, io non ho
« mai tocco penna per comporre, salvo da due o tre volte stimolato, non per
« mio volere: e molto meno credo fare per l'avvenire; conciosia che io sono
« di natura, e voi ben mi conoscete, che se da alcuno non sono punto, da me
« stesso nulla faccio giamai, se non a lune... Qualora io piglio la penna per
« dettare qualche mio concetto, mi par di pigliare una antenna in mano ».
Così si diletta a leggere, specialmente le cose degli amici come il Doni e
il Domenichi, al quale commette di salutare gli altri suoi conoscenti di
Venezia. Questo suo carattere e le contingenze della vita tolsero forse al
Gottifredi di acquistare maggior fama letteraria: accasatosi ed entrato nella
segreteria farnesiana, diede un addio all'arte dello scrivere, per cui aveva
singolari attitudini, come dimostra questo briosissimo dialogo dello Specchio
d'amore, che prende per la ristampa dello Z. il posto che gli spetta tra le
migliori opere della scapigliatura cinquecentesca. Di esso sono interlocutrici
una giovanotta di nome Maddalena e una domestica corruttrice, Coppina;
pei consigli e ammaestramenti della quale Maddalena si lascia amare e con-
(1) B. Pino, Nuova scelta di lettere, 2» ediz., Venezia, 1582, II, pp. 362 sg.
(2) Gì. Parabosco, H primo libro delle lettere famigliari, Venezia, Griffio, 1651, o. 42.
(8) Cito dalla Nuova scelta del Pino, ediz. cit., II, pp. 158-160.
Giornale storico, LXIV, fase. 190-191. 15
226 BOLLETTINO BIBLIOGBAFICO
quistare da un giovane di nome Fortunio, che la canta in versi col nome di
« Candida », e sé designa con lo pseudonimo « Bargo », formato dalle due
sillabe iniziali del nome e cognome del Gottifredi (1). A. Sa.
LUDWIG MATHAR. — Carlo Goldoni auf dem deutschen
Theater des XVIIl Jahrhunderts. — Montjoie, Weiss, 1910
(8^ pp. xiv-218).
H. C. CHATFIELD-TAYLOR. — Goldoni, a Uography. —
New York, Duffield and Co., 1913 (8" gr., pp. xviii-696).
GIOVANNI ZICCARDI. — Intorno al « Torquato Tasso » di
Carlo Goldoni. Estr. dal voi. XI degli Studi di letteratura
italiana. — Arpino, tip. Arplnate, 1913 (8°, pp. 60).
Il percorrere il volume suntuoso e per tanti lati encomiabile che d'oltre-
oceano mi fece pervenire lo Chatfield-Taylor ravvivò in me il rincrescimento
che questo Giornale non si fosse mai occupato del libro del Mathar sul Gol-
doni in Germania, che pure reca una contribuzione non indiiferente di ri-
cerche nuove (2). Veramente, se non me ne sono occupato, la colpa non è tutta
mia ; il volume né mi fu favorito né è facilissimo a trovarsi. Anche oggi, se
volli vederlo, mi fu mestieri ricorrere alla cortesia d'un valoroso specialista
di cose goldoniane. Ma sebbene in così grande ritardo, non ritengo inutile
neppur ora il dirne qualcosa.
Non era il soggetto del tutto vergine, a dir vero, sebbene il M. non si curi
troppo di menzionare i propri predecessori. Più d'uno aveva toccato della for-
tuna fra le genti teutoniche d'uno o d'un altro componimento goldoniano;
massime quel dotto e fecondo quanto modesto goldonista che è il Maddalena,
al quale, tra l'altro, deve questo stesso Giornale (voi. XLVII) un buon arti-
colo su Lessing e Goldoni. A più d'uno era accaduto di scrutare le somi-
glianze e dissomiglianze tra il Torquato Tasso del Goldoni e quello del Goethe,
indagando se fossero analogie occasionali, ovvero dipendenze dirette (3). Ma
(1) Candida, secondo il Poggiali, si chiamò la moglie del Gottifredi, ricordata
con lode dal Domenichi nella sua Nobiltà delle donne (Venezia, Giolito, 1651, p. 264).
Le nozze con Candida son messe in dubbio dal Cerri. Una lettera del Domenichi
al Gottifredi (Firenze, 16 settembre 1648) è in fine alla Nobiltà delle donne (Venezia,
Giolito, 1649).
(2) In Germania se ne occuparono il Wiese nella Deutsche Literaturzeitung del
22 luglio 1911 ed il Suloer-Gebino nélV Archiv fUr das Studium der neueren Sprachen
del febbraio 1912.
(8) Il Maddalena, nella nota storica alla più recente ristampa del Tasso goldo-
niano, quella che si legge nel voi. XI (1911) delle Opere complete, ediz. veneziana
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 227
il lavoro del M. è altra cosa. Per questa sua veramente osservabile e volumi-
nosa tesi di laurea egli ha esplorato varie biblioteche germaniche ed i pre-
ziosi depositi del Museo Britannico ed ha potuto -dare ragguaglio delle nu-
merose traduzioni, delle imitazioni, delle deformazioni, dei rimaneggiamenti
che le commedie del nostro massimo commediografo s'ebbero nei paesi di
lingua tedesca, prima in Vienna e poi altrove. Ha scovato cartelloni di teatro ;
ha letto le critiche uscite nei giornali tedeschi contemporanei. Ne venne la con-
statazione che la prima commedia goldoniana, ridotta per le scene viennesi
nel 1753 per opera di Federico Guglielmo Weisker, fu II raggiratore (1) ]
successero I due gemelli, La vedova scaltra, le varie incarnazioni di Pa-
mela, L'' avvocato veneziano, La sposa persiana, Il cavaliere e la dama. La
moglie saggia, La dama prudente. Gli innamorati, La fìnta ammalata. La
guerra. La serva amorosa, La donna vendicativa, Il teatro comico, La fa-
miglia deir antiquario, L'adulatore, Le donne curiose. L'avventuriere ono-
rato, Il burbero benefico. Un curioso accidente. La donna di garbo. Il ser-
vitore di due padroni, TI giuocatore, ecc. ecc. Nel secolo XIX s'ebbero altre
versioni e riduzioni, di cui il M. non si occupa. Si tratta quasi sempre di
« bearbeitungen » punto artistiche, nelle quali le opere primitive perdevano
in corso, dà meglio d'ogni altro la bibliografia del soggetto. Lo Ziccardi , nel di-
noccolato e tanto discutibile lavoro inscritto in testa al presente cenno bibliogra-
fico, esclude (p. 60 n.) ogni rapporto tra i due drammi. Ripete egli pure, e di ciò
l'appiglio è nei Mémoires, ohe uno dei moventi a compiere quel dramma fu pel
Goldoni la situazione sua di fronte ai Cruscanti non molto diversa da quella del
Tasso (cosi anche il Dutsohke ; cfr. Giorn., XV, 329), ma aggiunge una analogia
nuova e singolare tra i due autori, la « costituzione nevropatica » eh' ebbero co-
mune ! Sissignori; non c'è da ridere. Il Goldoni, non meno del Tasso, aveva una
dozzina di malattie addosso. E lo Ziccardi ce le enumera. E poi v'erano anche altre
somiglianze: «Come al Tasso si era contrapposto l'Ariosto, cosi a lui, Goldoni, si
«contrapponeva il Chiari; come per la lingua quello era stato maltrattato dai
« Cruscanti, cosi egli era dileggiato dai Granelleschi ; come quello aveva dato al-
« l'Italia un grande poema, cosi egli le dava la buona commedia; in tutti e due
« gli assalti melanconici, talora le debolezze mentali , le subite esaltazioni e i ra-
« pidi abbattimenti; e l'uno e l'altro grandi, buoni e infelici» (p. 41). Pare di sen-
tire A. De Gubernatis, bu.on'anima ! Il Goldoni al suo Tasso ci teneva e chiudendo
il cap. 32 della P. II dei Mémoires scriveva : « Cette pièce eut un succès si general
« et si Constant, qu'elle fut placée par la voix publique dans le rang, je ne dirai
« pas des meilleures, mais des plus heureuses de mes productions ». Lo Z., invece,
è di tutt'altro parere e sentenzia : « Il Goldoni stesso dice che gli costò fatica la
«figura del Tasso, e questa .confessione è la maggiore condanna, della commedia;
« perchè se il nòcciolo d'essa è in Torquato, la fatica nel rappresentarlo attesta da
« sola la mancanza di visione. Al posto di questa, che non è sostituibile, molto altro
« si studiò di porre, dando fuoco a tutte le polveri* stile alto, mezzano e scurrile;
« lingua italiana, gergo cruschevole, dialetto veneziano e dialetto napoletano ; in-
« treccio, caratteri ecc. ; ma riuscì solo a produrre una complessità mostruosa »
(p. 59). E basta.
(1) Der Leutansetzer. Il M. prese equivoco credendo si trattasse non del Raggira-
tore, ma diéiV Impostore goldoniano. Il Maddalena avverti l'errore nelle note al Ra^^
giratore del Xm voi. dell' ediz. veneziana in corso delle Opere del Goldoni.
228 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
tutto il loro sapore; e all'infuori di poche eccezioni, i traduttori, o meglio
rimaneggiatori, eran gente mediocre assai e talora meno che mediocre, a cui
stava più a cuore l'effetto scenico che la dignità e l'interesse dell'arte. È un
grande ammasso di riferimenti quello che il M. ci offre, nel quale chi si rac-
capezza è hravo. Difficilmente può immaginarsi un lavoro più confuso di
questo, 'ove son pure tante notizie. V'è un grande arruffio di nomi e di cose;
v'è quell'andatura impacciata, pesante, poco perspicua che si rimprovera non a
torto a tanti lavori di eruditi tedeschi. Non è la poca chiarezza di chi dice
cose profonde ; ma è quella di chi non sa disciplinare la materia che ha tra
mano, disponendola in modo razionale, dando il debito rilievo a ciò che più
importa, lasciando il resto nella penombra. Tuttavia a questo libro ogni stu-
dioso della grande, fra noi non imaginata, diffusione ch'ebbero in Germania
le commedie del Goldoni, dovrà per forza rifarsi, sottoponendosi alla fatica
ingrata di metter da sé un po' d'ordine in questa congerie.
Nel recente, bel volume dello Chatfield-Taylor abbiamo proprio il rovescio
della medaglia: novità poche, ma ordine molto, chiarezza molta, eleganza
molta. Intendiamoci, peraltro. Novità poche per i cultori di cose goldoniane;
non certo pel pubblico colto e massime pel pubblico colto straniero, a cui il
volume si rivolge. Giacché non é da confondere questo volume (è giusto pro-
clamarlo altamente) con qaei molti altri, simili per eleganza ma non per so-
stanza, che ci piovono così di frequente dai paesi di lingua inglese: pure e
semplici compilazioni, infiorate di qualche erroruzzo, se non contaminate da
molti erroracci ed equivoci ; lavori commerciali bellamente legati in tutta tela,
con gran lusso di fregi d'oro, da cui, spremi spremi, ricavi ben poco succo,
che non sia succo d'altre piante, abilmente sfruttato. No. Il libro del Ch. -Taylor
é cosa diversa.
Viaggiatore, romanziere, giornalista di Chicago, egli sa lavorare non da
romanziere e non da giornalista, quando si mette attorno ad un soggetto
storico. Lo aveva già dimostrato in un libro sul Molière, che uscì nel 1906;
ora ancor meglio lo dimostra in questa piacevole e solida monografia sul Gol-
doni, eh' è il primo libro d' insieme ch'esca in inglese sul commediografo
nostro (1). Volume coscienzioso ; fatto con istudio diretto dei testi, dei luoghi,
dell'autore, della storia del tempo; vivace nella esposizione; assestato nei
giudizi; diretto da un intuito non comune del valore dell'arte comica. Chi
scrive non è in grado di valutare con sicurezza il colorito dei molti brani di
commedie che lo Ch.-T. dà tradotti in inglese ; ma pur gli sembra che nelle
(1) A pp. xii-xiii della prefazione l'A. accenna al non molto che nei paesi di lingua
inglese s'è scritto del Goldoni. Per particolari su questo punto vedasi la biblio-
grafia a pp. 633-37. Da una nota di p. 611 sembra si debba desumere che sulla scena
americana la commedia del Goldoni che ottenne maggiori successi fu 11 ventaylio.
Nel 1912 si tentò di rappresentare a Chicago il Don Marzio a la bottega del caffè;
ma il pubblico ci si annoiò (p. 285) ed era troppo naturale ohe ciò avvenisse. Si
pensi ohe appena fra noi una piccola parte del teatro goldoniano riesce ancora a
vivere nella recitazione, quando trova interpreti degni.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 229
versioni sia spigliato come è felice nella scelta delle scene che dà tradotte
e arguto in molte osservazioni sui caratteri e sulla impostatura comica. Né
fu certo piccol coraggio quello di tradurre scene dialettali; né a noi può se
non far piacere la simpatia verso il soggetto e verso l'Italia che da tutto il
libro traspira, così diverso in questo dall'atteggiamento quasi ostile del Eabany.
In questo Giornale, 61, 125 sgg., a proposito delle lezioni del De Guber-
natis sul Goldoni, accennai al bisogno che si sentirebbe d'un libro compren-
sivo ed approfondito su questo bellissimo tema ed al non molto che v'é di
fatto al riguardo. Ora, certamente, l'opera dello Ch.-T. é troppo diretta alla
divulgazione fra stranieri per corrispondere in tutto ai desideri degli studiosi
d'Italia; ma stimo di non errare asserendo ch'essa é tuttavia il migliore fra
i libri d'insieme che sul gran padre della commedia italiana finor si posseg-
gano. Credo che di questa lode, schiettamente tributatagli, lo Ch.-T. debba
essere soddisfatto.
Acconciamente illustrato con le riproduzioni di 16 quadri e ritratti di
Pietro e di Alessandro Longhi, poggia l'edificio dello Ch.-T. sulle salde co-
lonne di 17 capitoli bene costrutti e disposti. Come appare dalla divisione
accennata dall' A. stesso a p. 124, l'attività del commediografo vien divisa in
tre fasi: il periodo delle prime prove, in principio, il periodo dell'esilio in
Francia, alla fine ; in mezzo la gran fecondità che va dal ritorno a Venezia
nel 1748 alla partenza per Parigi nel 1762, divisa in commedie dell'aristo-
crazia, della borghesia, in dialetto veneziano, esotiche, in versi; per ognuno
di questi gruppi un capitolo. Poi un altro capitolo intitolato Goldoni and
Molière, che non é però punto destinato a discutere l'ormai vieto quesito se
sia maggiore l'uno o l'altro, intorno a cui un giovane volonteroso quanto
inesperto trovò modo di scrivere, ancora nel 1913, un intero volume. Lo Ch-T.,
a ragione, non trova razionale il confronto e già a p. 120 prende posizione di-
cendo: « for, although he has been termed erroneously « theltalian Molière »,
« his genius is distinct from that of the Frenchman » . Nel capitolo summen-
zionato osserva invece lo Ch-T. come si comporti il Goldoni rispetto al Mo-
lière, ch'egli tanto ammirava, e quali elementi dell'arte molieresca siano per
avventura passati nella goldoniana.
Tra i capitoli riguardanti le opere (che sono i più interessanti e quelli
ove è maggiore originalità), s'incuneano i capitoli sulla vita, condotti, natu-
ralmente, col sussidio prezioso dei Me'moires, ma opportunamente integrati
con altre notizie attinte a diverse fonti. L'uomo ne esce ben caratterizzato
nella fiacchezza bonaria, nella giovialità franca, nell'arguzia tutta veneziana
di quella sua anima onesta.
In fondo al volume, che é pure corredato d'un indice alfabetico comodis-
simo di persone e cose, t'imbatti in tre appendici opportune compilate dal
prof. F. C. L. van Steenderen, con l'aiuto e ^tto la sorveglianza dello Ch.-T.
— Appendice A : elenco delle commedie del Goldoni giusta la loro cronologia,
con indicazioni sulle rappresentazioni e le stampe, nonché sulle fonti; ap-
pendice B: cronologia della vita di Carlo Goldoni; appendice C: bibliografia
delle opere di lui e degli scritti critici che lo concernono. Quest'ultima non
230 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
si dà per compiuta, raa è certo assai ricca e gli scritti principali vi son re-
gistrati (1).
Come può rilevarsi anche da questo mio annuncio sommario, l'opera è amo-
rosamente condotta da uno spirito vigile e pratico. La praticità, in ispecie,
va lodata siccome quella che manca tante volte ai libri nostri e che rende
invece tanto utili alla consultazione certi libri stranieri. Tra noi si pensa
troppo poco che i libri forse cinque volte su cento si leggono, mentre novan-
tacinque volte su cento si consultano. Rendere agevole la consultazione è un
gran beneficio. R.
ALBERTO DE VICO. — Per un parallelo mal fatto (Molière
e Goldoni). — Milano, 1913 (16°, pp. 213).
Scopo dell'A. sarebbe il dimostrare che i critici i quali sostengono l'infe-
riorità del Goldoni al Molière (e se la prende particolarmente con Ferdinando
Martini e Augusto Marchetti) hanno letto in fretta, capito poco oppure si
sono lasciati imporre dalla tradizione critica. « Mettiamoli per lo meno alla
pari questi due scrittori » esclama il De Vico, che è infine un buon diavolo e
non vuole questioni in famiglia e dopo aver sostenuto che il commediografo
veneziano è il più psicologo ed originale di tutti i commediografi moderni,
propone una transazione, come chi dicesse un compromesso internazionale;
quanto al suo parere personale esso s'ispira a quel puro nazionalismo che forma
la gloria dei giorni nostri!
Il difficile sta nel provare tale superiorità o tale eguaglianza, poiché la
fisica e la chimica moderna non hanno ancor trovato ne bilancie, nò reagenti,
per cui sia possibile la valutazione del cervello dei pensatori. Alle bellissime
scene goldoniane, che l'A. cita spesso con molto garbo, possono contrapporsene
altrettante del teatro molieresco senza che per questo la questione, messa in
tali teraiini, avanzi di un solo passo. Come mai è possibile comparare la
Locandiera, i Busteghi, la Bottega del caffè e le famosissime Baruffe, con
VEcole des femmes, le Misanthrope, Tartufe e via dicendo e vedere se più
(1) Fuor di luogo sarebbe il segnalare ommissioni in un elenco bibliografico che
si presenta solo come indicazione degli scritti veduti dall' A. e rimanda ad altre
bibliografie. Poco spiegabile, tuttavia, che sul tema di Don Giovanni sia notato il
volumetto del De Simone Brouwer e non la monografia del Farinelli, e sull'origine
di Arlecchino sia richiamato il vecchio articolo del Wesselofsky e non l'opera fon-
damentale del Driesen. Gli ultimi due lavori goldoniani di Attilio Momigliano e
la prefazione del Graf ai Rnsteghi nell'ediz. Itasi, non potevano esser noti all'A. per
ragion di tempo. Con una bibliografia delle edizioni ed una della critica goldo-
niana si chiude anche il volumetto di G. B. Pellizzaro, La vita e le opere di Carle
Goldoni, Livorno, Giusti, 1914, che è un buono e lucido compendio, tenuto a giorno
di tatti gli ultimi risaltati.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 231
valga Don Marzio od Alceste, Mirandolina od Agnese? Forse si sarebbero
potute riaccostare scene simili e simili caratteri, e questo ha talvolta fatto
il Maddalena con quella competenza che, in questo genere di studi, tutti gli
riconoscono, ma l'A. non volle punto curarsi dell'ispirazione che il Nostro ha
tratto dallo scrittore francese e solo ha tentato di mettere faccia a faccia i
due Don Giovanni, senza voler convincersi che al paragone il Goldoni sfigu-
rava parecchio e che tale paragone nuoceva alla tesi sua, anzi giurando che
il Don Giovanni del Nostro aveva pregi meravigliosi ! Chi scende per questa
china, non può far opera efficace di studioso, perchè la mente del critico deve
essere spassionata, serena, non fuorviata da sentimenti, in altri casi nobili e
utili, ma qui assolutamente fuori di posto.
Il De Vico ha ingegno ed entusiasmo, e se più corretta ne fosse la stampa,
specie nei riferimenti dei testi francesi, il suo libro si leggerebbe con diletto ed
anche con qualche utilità; talune sue osservazioni sono anzi argute ed acute.
Perchè trattasi di un giovane che offre qualche affidamento di cose migliori,
gioverà notare subito le mende più appariscenti. La prima consiste in inge-
nuità curiosissime. Il De Vico non sa trovare libri di facile consultazione come
la Précaution imitile dello Scarron che gli piacerebbe di leggere, tanto per
formarsi un'idea del come il Molière imiti (!) ; poi crede necessario d'avvertire
il lettore che certo volume del Leynard glielo ha imprestato « l'illustre gre-
cista A. Olivieri »; poi ancora, con ingenuità singolare, cita le opinioni altrui
ed aggiunge : « avrei potuto fare io stesso tali lodi, (ma) ho preferito citare i
« giudizi di alcuni critici competenti affinchè l'affermazione avesse maggior
« valore ». Buona cosa è la modestia, moneta della quale gli studiosi non fanno
troppo spreco, ma se si ragiona così è proprio inutile il far per proprio conto
gemere i torchi ! Manca di fondamento l'asserzione ripetuta dal D. V., in molte
pagine, che il Molière conoscesse i nostri cinquecentisti e che ad essi s'ispirasse,
anzi che la Mmidragoìa gli fosse addirittura familiare. Ove ne dia le prove,
i molieristi gliene saranno gratissimi. Ben nota l'A. le condizioni così diverse
in cui fiorirono i due commediografi, ma perchè prendersela allora col Mo-
lière se questi non ha staffilato a sangue i nobili della corte di Luigi XIV ?
Non sa forse il De Vico le molte molestie che le caricature dei marchesi gli
cagionarono, tanto che uno di questi osò persino di mettergli le mani ad-
dosso, e non vede forse nel personaggio di Don Giovanni la rappresentazione
del « gran seigneur méchant homme » corrotto e corruttore, egoista, assetato
di piacere, malgrado il coraggio avito e certa posa d'umanitario?
Neppure è esatto l'asserire che la forma del Molière è degna di censura
quanto quella del Goldoni e che « se il Molière fu più colto (del Goldoni),
« ciò non prova che questo maggior grado di istruzione contribuisse tanto alla
« sua arte, perchè al genio basta anche una mediocre cultura letteraria, special-
« mente quando si tratta di comporre commedie ». Ma è appunto questa col-
tura filosofica e classica di cui il De V. fa così buon mercato, che affinando
l'ingegno del poeta francese, l'ha volto allo studio d'alti problemi morali;
non lo studio forma il genio, ma a questo lo studio concede mezzi efficacis-
simi. Queste son cose di cui più ormai non può discutersi nella terra del Ga-
232 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
lileo, del Leopardi e del Carducci. E la critica del De Vico fa ancora più
d'una grinza quando accusa il Molière di non aver rotto in visiera al cici-
sbeismo, come ha fatto più tardi l'avvocato veneziano, mentre si sa che vero
cicisbeismo non c'era in Francia nel XVII sec, malgrado i salotti e le ruelles.
C'erano « femmes précieuses », c'erano « femmes savantes », e i Trissotin ei
Vadius, e tutti sanno a qual salsa sieno stati cucinati dallo scrittore d'Oltr'Alpe.
Per finire (e molte altre cose gioverebbe aggiungere), non credo col De Vico
che il Goldoni nel suo Molière « metta in bella luce il grande commediografo
francese ». L'intenzione del Nostro era certo lodevole, ma alterando la bio-
grafia del poeta e tutto stemperando in un mare di miele, l'avvocato vene-
ziano ha finito col presentarci una moglietta angelica come la propria ed
un Tartufo (Pirlone), rispettoso di Dio e dei santi, un po' tinto di pece an-
cillare, ma un povero untorello insomma che non può rovinare il mondo della
gente dabbene. E che razza di martelliani, martellanti sì da stordire i mi-
gliori timpani! Unico personaggio veramente vivo è quello del protagonista:
però, notate bene, nel Molière il Goldoni se stesso incarna, e sono le proprie
lotte, le proprie aspirazioni che l'autore nostro dipinge.
L'informazione del De Vico è, in generale, buona; tuttavia il giovane critico
mette un po' troppo assieme, senza sufficente discernimento, scrittori di di-
versissimo valore ed ha il torto di ricorrere, ad un certo punto, persino alla
autorità del Demogeot. P. T.
PAUL ROBIQUET. — Buonarroti et la sede des ègaux
d'après des documents inèdits. — Paris, Hachette, 1912
(16«, pp. vi-330).
Non si può dire che il socialismo italiano abbia sin qui, all'infuori degli
scritti di Antonio Labriola, molto arricchito la letteratura paesana, sì che ci
conviene tesoreggiare ciò che vi conferì di veramente rilevante cent'anni sono
il patriarca di tutte queste scuole religioso-economiche : Filippo Buonarroti.
Se si eccettui qualche lavoruccio giovanile e segnatamente il Giornale pa-
triottico di Corsica, vero Nestore della stampa giacobina italiana — il 1*> nu-
mero esci il 1» aprile 1790 —, il Buonarroti non scrisse quasi mai nella lingua
materna e nella sua concezione cosmopolita l'idea nazionale era del resto anne-
gata in quella dell'umanità. Pure di certe caratteristiche etniche egli non potè
mai spogliarsi e questa prima esposisione programmatica del socialismo rivolu-
zionario che abbia dato l'Italia moderna ha troppo valore nella nostra storia
perchè ci possa trattenere la veste francese dall'occuparcene in queste colonne.
Se il Romano-Catania, le cui successive elaborazioni d'un medesimo libro
furono a suo tempo segnalate dal Giornale (1), s'era fondato essenzialmente
(1) Voi. XL.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 233
sui documenti italiani e solo nell'edizione del 1902 si giovò di un articolo
del Weil nella Eevue Mstorique e delle carte comunicategli dal Delhasse,
molto più rigida è rispettivamente la limitazione di questo volume del Ko-
biquet alle fonti francesi: grave manchevolezza, ma attenuata dalla circo-
stanza che i tre quarti della vita del cospiratore furon trascorsi in paesi di
lingua francese. Apologetico era l'intento esposto dal Komano-Catania con
lodevole candore; assai più spassionato si palesa il Eohiquet che, sebbene
nella corrente degli storici rossi o esaltatori della rivoluzione, è però lungi
dal prender fuoco per tutte le panacee proposte dal visionario fiorentino e tien
conto anche delle testimonianze a lui contrarie. La sua fonte precipua son
sempre le carte del Buonarroti, ora nella Nazionale parigina (1).
Solo per la sua sistematica astensione da qualsiasi indagine italiana, può
l'A. dubitare dell'appartenenza di Filippo al ceppo di Michelangelo. Egli ra-
cimola a stento dalle carte del Buonarroti notizie sulla sua gioventù, che il
Romano-Catania aveva già tratte dagli archivi toscani. Documentato è invece
il Robiquet sul soggiorno in Corsica del Buonarroti, lo segue nelle sue pere-
grinazioni di propagandista rivoluzionario durante il Terrore (2), sino alla
missione, che per noi offre grande interesse, di « commissario nazionale »
sulla riviera ligure (3). Dopo una breve prigionìa seguita a Termidoro, il Buo-
narroti, rilasciato nell'ottobre 1795, si costituì il protettore parigino dei gia-
cobini italiani, manifestando allora sentimenti che si potrebbero dire unitarii,
se il suo concetto dell'unità non fosse che un atteggiamento sporadico di
quello, in lui radicatissimo, della fratellanza di tutti i patriotti. In quel torno
di tempo si strinse al Babeuf e si riconciliò con alcuni termidoriani di si-
nistra, p. es. l'Amar. Sciolto il club comunista del Pantheon da Buonaparte,
omai alla vigilia delle sue grandi imprese italiche, i babovisti prepararono
una vasta cospii-azione, sventata sovratutto per merito del Carnot, che per altro
doveva discernere poi nelle sue memorie il Buonarroti, come il più generoso
di quella masnada. Il clamoroso processo dinanzi all'Alta Corte di Vendòme,
in cui il Buonarroti fu condannato alla deportazione, è esposto distesamente
dall'A., che trae poscia dalla polvere degli archivii gli atti illustranti la vita
del prigioniero al Fort National di Cherbourg, mentr'egli con convinta tenacia
si adoperava ad ottenere la revisione della sentenza pronunciata contro di
lui. Il Consolato, sorto dalle rovine di quella costituzione dell'anno III contro
la quale erano invano insorti i condannati di Vendòme, inclinò alla mitezza
verso di loro ed il Buonarroti, trasferito all'isola d'Oléron nell' '800, vi rimase
per un triennio. Gli fu allora assegnato come luogo di confino l'isola d'Elba,
poi scambiato, non si sa in qual modo, col villaggio di^ Sospello nelle Alpi
marittime. Ivi il terribile ideatore di convulsioni sociali visse tranquillamente
(1) Sono i registri 8 R 208Ce e 20804.
(2) Ve poca coordinazione fra ciò che l'A. dice del passaggio del Buonarroti a
Lione nell'estate del 1793, prima contestato (p. 25), poi ammesso (p. 26).
(3) Il « Palestrino » della p. 31 è, verosimilmente , il marchese del Carretto di
Balestrino.
234 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
durante i primi anni dell'impero, facendo il maestro di scuola, sinché nel 1806
ottenne di andare a Ginevra e vi si stabilì insegnando la musica e la ma-
tematica e amoreggiando, giacché la vita domestica del tribuno é una serie
di concubinati. Probabilmente attese anche a raggruppare, all'ombra delle
logge massoniche, i partigiani del comunismo, giacché le stesso Robiquet, che
non si addentra nella storia delle sette — erano appunto i giorni degli in-
cunaboli dell'adelfia — , segnala Filippo venerabile della loggia ginevrina degli
amici sinceri (1). Così il Buonarroti si fece cacciare da Ginevra, ma ormai la
polizia lo lasciò andare al suo destino ed egli si recò a Grenoble. Il Robiquet,
sempre per la stessa ragione della sua strana ignoranza delle fonti italiane,
perde anch'egli di vista il suo eroe, mentre è noto — basterebbe consultare
ora il libro del Sandonà sui processi del '21 — qual parte egli ebbe nel mo-
vimento settario della penisola ai primordi della Restaurazione. L'A. prende
a prestito dall'Andryane e dal Henri Martin (2) ciò che ci racconta dei
piani del Buonarroti contro la Santa Alleanza. Dopo l'arresto dell' Andryane
e la levata di scudi diplomatica contro l'asilo dato in Isvizzera ai profughi
italiani, il Buonarroti raggiunge nel Belgio i regicidi esuli dalla Francia : il
Barére e il Vadier, che frequentò sebbene complici a' suoi occhi della caduta
del suo adorato Robespien-e (3). A Bruxelles nel 1828 pubblicò VHistoire de
la conspiration pour Végaìité dite de Baheuf. Il Buonarroti credeva vieppiù
necessario di avvolgersi in un continuo mistero. E una selva di pseudonimi,
di nomi convenzionali, di gerghi in cui il Robiquet procede omai esumando
la corrispondenza del capo del Gran Firmamento, di cui tra parentesi ignora
la reale portata nel mondo settario sincrono, con Charles Teste e con altri
amici e correligionari meno identificabili. Il libro diventa più che mai una
serie di testimonianze raccolte e accostate senza quel commento che, alla
luce della letteratura sulle società segrete, ci avrebbe permesso di seguire il
Buonarroti nei suoi rapporti col Mazzini, con Blanqui, con Louis Blanc, col
marchese Voyer d'Argenson, altro visionario suo pari, in casa del quale il
patriarca della rivoluzione finì per morire il 16 settembre 1837. Era apparso
ancora una volta alla ribalta, emergendo nella penombra delle sette in seno
alle quali era considerato un nume, quando consentì di figurare dinanzi alla
Camera dei pari come uno dei difensori nel mastodontico processo detto del-
l'aprile '834 (data del tentativo rivoluzionario, il processo non avendo avuto
luogo che l'inverno seguente). È un episodio che l'A., questa volta di nuovo
riposto sul terreno solido di documenti non equivoci, lumeggia assai bene.
Tale è la biografia del celebrato e temuto capo della carboneria universale,
(1) Rapporto di un commissario di polizia al prefetto del Lemano, il famigerato
Capelle, del 18 marzo 1811, ricordato dal Robiquet a p. 147, in nota.
(2) Articolo critico sulle memorie dell' Andryane, nel SiècU del 80 novembre 1897.
(3) Il culto del Buonarroti per il Robespierre appare in tutta la sua franchezza
dai frammenti di ricordi sulla rivoluzione francese, che il Robiquet trasse dalle
carte del cospiratore e pubblicò in appendice (pp. 311-326). Sono una testimonianza
oculare, a parer mio, di innegabile valore storico.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 235
dell'adelfia, dei Sublimi Maestri Perfetti, del Gran Firmamento, per citare
solo le meno mal note denominazioni di quell'occulta sovranità che diede
scacco matto a tutte le polizie d'Europa, accanite invano, malgrado tanti
arresti e non poche debolezze di adepti, nel penetrare i segreti ed afferrare
la testa dirigente di tutto quel moto. A forza di celarsi ai profani, questo
Buonarroti che il Blanc proclamava « l'une des plus grandes figures de notre
epoque » (1) era diventato un vero enigma anche per gli iniziati. E fu forse
in un certo senso provvidenziale, perchè cosi uomini che affrontavano il pa-
tibolo per dare alla patria libertà, indipendenza ed unità, non ebbero l'amara
delusione di constatare (come invece intuì in un dato momento il Mazzini)
che obbedivano ad un uomo che d'una sola cosa si curava, dell'attuazione,
sia pure a prezzo di sangue, della ^a utopia egualitaria e comunistica, illu-
minata da un vago deismo, ma indifferente alle competizioni nazionali!
È ciò che risulta a chiare note dai materiali editi dal Robiquet nelle co-
piose appendici del suo libro. Sono appunti o scritti occasionali, di lotta e
di propaganda, trovati tra i manoscritti del Buonarroti. L'A. attribuisce a
lui con buone ragioni VAnalyse de la doctrine de Baheuf e ne pubblica un
importante Commentaire, tratto dall'autografo di Filippo. A questo seguono
il « Fragment de décret économique», le « Observations sur la communauté
des biens et des travaux », un memoriale in favore dell'imposta progressiva
ed altri scritti, riprodotti in tutto od in parte, vere pietre miliari del moto
comunistico, di cui il Buonarroti, nel suo sincero fanatismo, fu veramente un
antesignano. Gallav.
ACHILLE PELLIZZARI. — Studi manzoniani. — Napoli,
F. Perrella, 1914 (8°, pp. 652, diviso in due volumi).
Dire che il prof. Pellizzari è un critico denso e concettoso, non si potrebbe
davvero senza taccia d'ingiusta adulazione. Dire che ha molto del giornalista
intelligente e disinvolto, e anche bonario, con la sua parolina buona per tutti,
con la sua riflessioncella su tutto, con una gran facilità di penna, con una non
ordinaria prontezza di percezione e vivezza di dizione, con un simpatico en-
tusiasmo per l'arte, con una abilità rara di figurare, sarebbe, bensì, un col-
pire in gran parte nel segno, ma un fargli torto in altro senso. La verità
sta nel mezzo : pensiero poco, virtù rievocativa non molta, facilità di scrivere
moltissima, ma anche gusto, entusiasmo, ingegno, dottrina, che attenuano e
scusano la soverchia voglia di figurare. Io avrei preferito che queste, del resto
ben spazieggiate, secento e più pagine, riducesse a meno di metà o forse a metà
della metà, preoccupandosi un po' più della sostanza e un po' meno dei concorsi,
a cui i candidati bellamente gareggiano nell'inviare quintali di carta stampata.
(1) L. Blanc, Histoire de dix ang, P. IV.
236 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
Il primo volume è tutto materiato di articoli riguardanti i Brani mediti
e ciò che sui suddetti Brani fu scritto. Innegabile pregio è quello di richia-
mare quanto, di buono, di men buono, di scipito e di cattivo, fu scritto a pro-
posito della interessantissima pubblicazione, su cui, per diritto o per tra-
verso, tanti vollero spifferare la loro più o meno desiderata sentenza. Il P.
(e noi già ne toccammo nel Giornale, 50, 824) ha in proposito informazione
compiuta, e giudica con buon senso, e classifica con criterio. Due concetti pre-
dominano in lui: 1°, che la cognizione di quella prima stesura manzoniana
sia tutt'altro che inutile e che, anzi, in essa vi siano pagine di valore artistico
eminente ; 2°, che il motivo fondamentale per cui il Manzoni non accolse
quelle pagine nella redazione definitiva sia d'ordine estetico e non già morale
né religioso. « I brani inediti sono, pur cosi staccati dal romanzo, una forte
« opera d'arte ; il Manzoni gli tolse dal racconto suo non per scrupoli religiosi,
« né per suggestioni di terzi, ma per motivi d'ordine, di misura, d'equilibrio
« artistico » (p. 199). Io già altra volta ebbi a dire ciò che ne penso, né ac-
cade che qui mi ripeta. Sarebbe stato utile che il P., riprendendo la materia,
anziché lasciarle l'assetto giornalistico che prima ebbe, la avesse disposta in
modo più svelto e chiaro. E in questo caso, poiché non si sarebbe trattato
di dare in tipografia, con pochi concieri e giunterelle, articoli per lo innanzi
stampati, ma di ripigliare in mano il soggetto, il P. avrebbe potuto prendere
più d'ogni altro in considerazione il più ampio e minuto esame che si abbia
dei Brani inediti, quello del D'Ovidio, che abbraccia ben 250 fitte pagine
(cfr. Giornale, 53, 158-159). Intorno a quel nucleo centrale, che il P. appena
addita a p. 9 n., si potevano disporre le osservazioni di altri critici minori e
minimi.
L'A. tiene particolarmente, e non a torto, alla seconda parte dell'opera,
che intitola II miracolo dei «Promessi Sposi ». Questa é tutta nuova ed ha
per argomento l'esame della conversione dell'Innominato, più di 400 pagine
su questo soggetto!! Fu sfortuna pel P. che la sua pubblicazione seguisse di
pochi mesi quella di Attilio Momigliano, esaminata, con l'acume consueto, da
Vittorio Osimo in questo Giornale, 63, 428. Non già che i due critici ab-
biano proprio avuto l'intento medesimo; ma se anche al Momigliano si pos-
sono muovere alcune obiezioni, gli é certo ch'egli rivive il personaggio con
facoltà così eccezionali di critico estetico quali il P. non può avere. H P., a sua
volta, evitando i pericoli della critica desanctisiana e vedendo il suo tema in
modo obiettivo, come la critica storica vuole, ha il vantaggio di non abban-
donarsi al proprio lavorio fantastico e ricostruttivo, di rimanere più vicino al
Manzoni. Quindi i due lavori, pur essendo pregevolissimi entrambi, non ven-
gono punto a combaciare né ad eliminarsi.
Comincia il P. con un esame minutissimo del carattere dell'Innominato e
degli atti suoi, che é un commento arguto di tutto l'episodio celebre. Buono
è il parallelo tra la preghiera di Lucia e il tumulto dell'anima dell'Innomi-
nato; nella prima stesura la preghiera di Lucia, fatta in carrozza, quando i
bravi la portavano al castello, aveva già avuto il suo esaudimento in cielo.
La preparazione a quel « giocondo prodigio » è quanto di più fine si può
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 237
ima^nare; e « prodigio » lo chiamano tutti i personaggi del romanzo, dai
più illuminati ai più semplici, all'infuori di uno. Don Abbondio, che tutto
ingombro del suo egoismo pauroso, tutto immerso nella pochezza della sua
anima, non riesce a comprendere i « valori spirituali ».
Che anche pel Manzoni quello fosse veramente un « miracolo » io non ho
mai dubitato. Ma v'è una frase dei Prom. Sposi che ha suscitato le maggiori
dubbiezze, là dove lo scrittore assevera che il sarto e tutti gli umili lo qua-
lificarono di « miracolo » e soggiunge : « e, a dir la verità, con le frange che
« vi s'attaccarono, non gli poteva convenire altro nome ». Il che vuol dire,
secondo alcuni, che senza quelle frange miracolo non era. Sul valore di quelle
frange s'aggira buona parte dello scritto del P., il quale non manca, secondo
la lodevole abitudine sua, di esporre ed esaminare ciò che fu scritto sul tema
dal Graf, dal D'Ovidio, dallo Scherillo, dal Parodi, da Giovanni Negri, da
G. B. Zoppi. Dopo lunghi ragionamenti, egli conclude che quelle frange erano
« le fantasticherie più o meno volgari che, come attorno ad ogni evento
« umano, così era naturale si moltiplicassero attorno ad un evento chiara-
« mente soprannaturale» (p. 436). E senza dubbio ha ragione; e l'avere
pensato diversamente dipese, in alcuni critici, dal non essersi collocati dal
vero punto di vista del Manzoni nel considerare i fatti religiosi.
Il P. ha il merito (e sono ben lieto di riconoscerglielo) d'avere per primo
intuito, non solo il valore del miracolo secondo S. Tommaso (che su ciò G. Negri,
il Parodi ed altri avevano ragionato), ma la speciale interpretazione del mi-
racolo secondo quei giansenisti, alla cui dottrina religiosa il Manzoni s'era
formato. Mentre i teologi tomistici ravvisavano il fatto miracoloso là ove si
trovava infrazione improvvisa ed imprevedibile di fatti naturali, sospensione
di leggi fisiche o psichiche ; i giansenisti ed i portorealisti ammettevano l'in-
tervento prodigioso della Grazia, riservata ab aeterno alle anime predestinate,
ogniqualvolta essa si esercitasse « per assoluta e diretta volontà di Dio », anche
senza rompere apparentemente le leggi della natura (v. pp. 594 a 597). L'im-
pulso divino può operare miracolosamente vuoi con fatti veementi e subitanei,
vuoi con procedimenti graduali, ma conseguentemente diretti ad un fine (pa-
gina 606). Il mutamento spirituale dell'Innominato, corrispondente alla eterna
predestinazione della Grazia, che redime l'uomo dal peccato, è in tutto con-
forme alla maniera giansenista d'intendere il miracolo.
D'aver posto in chiaro questa verità dobbiamo essere grati al Pellizzari,
anche se in questa parte egli s'è esteso troppo nel discorrere del portorea-
lismo del Manzoni, delle conversioni di lui e dei suoi, delle opinioni del De-
gola e del Tosi. Se un giorno egli vorrà attenere la promessa di farci toccare
con mano quali altre dottrine giansenistiche serpeggino nel romanzo manzo-
niano, farà opera utile, nuova e degna del suo ingegno, che è fine ed arguto,
ma ha specialmente bisogno d'essere alqua^o disciplinato e castigato nelle
sue esuberanze (1). R.
(1) Nello studio sopra detto, peraltro, si dovrà tener pure qualche conto dell»
opinioni emesse da due ecclesiastici, il p. Giovanni Busnelli, nell'opuscolo La con-
238 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
UGO FOSCOLO. — Scrìtti vari inediti^ a cura di Fr. Viglione.
— Livorno, Cxiusti, 1913 (8«, pp. xy-492).
Sino dal 1911 il Giornale (58, 411-2, n. 6) annunziò questo volume, non
solo, ma anticipò ai suoi lettori, gradita primizia, i titoli di tutti gli Scritti,
ond'esso sarebbe riuscito composto. Quell'annunzio solleticò la curiosità degli
studiosi, i quali tuttavia dovettero attendere due anni ancora la pubblica-
zione; un ritardo che si spiega facilmente con le condizioni sfavorevoli nelle
quali ebbe a trovarsi l'editore, assente da Livorno, e quindi impedito di col-
lazionare direttamente le bozze sui manoscritti posseduti dalla Labronica,
che per buona parte sono autografi, cioè indiavolati. E fortuna che il V. ebbe
nel prof. F. C. Pellegrini, sempre vigile e cortese, un ottimo revisore e colla-
boratore ! Questi Scritti possono considerarsi come un'Appendice al volume che
egli pubblicò, nel 1910, sul Foscolo in Inghilterra, e, insieme, alle opere del
poeta zacintio ; da pochi infuori, riguardano il periodo del suo esilio svizzero
e inglese, materiali più o meno preziosi, che furono in buona parte sfruttati
in quel volume, onde e per questo motivo e per l'annunzio preventivo che
ne diede il Giornale, non sarà ora il caso di un lungo discorso.
Parecchi di questi Scritti sono abbozzi di articoli noti o redazioni primi-
tive e alquanto diverse da quelle che conosciamo per le stampe. Essi confer-
mano quanto già si sapeva della triste odissea alla quale andarono soggetti
quei lavori, destinati ai periodici inglesi. Costretto il più delle volte ad abboz-
zarli, anzi a « tradurli * e « stemperarli » in una lingua come la francese,
che ancora nel gennaio del 1823 confessava di conoscere appena, il Foscolo
aveva il dolore di vederseli poi trasformati, anzi deformati e mutilati « ve-
nalmente » nella lingua inglese, nella quale si sforzò poi di stendere, ma con
fatica, i propri pensieri (1). L'esempio più singolare di queste disgraziate vi-
cende ci offre l'ampio e importante articolo sui Poemi narrativi e romanzeschi
italiani, che è del 1819, e al quale sembra veramente ricollegarsi il fram-
mento italiano qui pubblicato (pp. 22-4) di sull'autografo, col titolo Uso di
recitare de^ Romani e Greci ed Epigrammi in conversazioni moderne. Ba-
sterebbe questo esempio per dimostrare quanto sia ardua e complicata, ma
versione di Alessandro Manzoni dal carteggio .di lui, Roma, tip. Befani, 1913, ed il
can. Enkio Fabbri, I giansenisti nella conversione della famiglia Manzoni, Faenza,
libr. Salesiana, 1914. Ambedue, basandosi su di una lettera del Manzoni al Cesari,
negano la sua partecipazione costante alle dottrine gianseoistiche. Di specialissima
importanza è nell'opuscolo del Busnelli la comunicazione del documento che sa-
nava l'irregolarità del matrimonio contratto dal Manzoni con Enrichetta Blondel.
Quel matrimonio non era stato ecclesiasticamente legittimo. — Ma, lasciando star
questo, non si intende perchè tanto il Pellizzari , quanto il Busnelli , quanto il
Fabbri trascurino il notabile articolo sulla conversione del Manzoni che Pietro
Paolo Trompeo inserì nella Nuova cultura del luglio 1918 (I, 481 sgg.), ove dell'in-
flusso di Portoreale è discorso ed è discussa anche la lettera del Manzoni al Cesari.
(1) Si rammenti la lettera che nel maggio del 1820 il F. scrisse al Capponi (in
Epistolario, lett. n® 556).
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 239
insieme doverosa l'impresa di dare finalmente una degna edizione degli scritti
inglesi — intendo, del periodo inglese — del Foscolo (1).
Il volume si divide in tre sezioni : la prima, che comprende gli Scritti lette-
rari, la seconda, gli Scritti politici, la terza Lettere. Ma piace, sin dal primo
articolo della prima parte, cioè nell'abbozzo francese che l'ed. volle intito-
lare Secolo di Dante, vedere balzar fuori il pensiero politico del Foscolo, come
in questo passo dove si accenna alle dominazioni straniere e alle discordie
degli italiani: « Les guerres civiles excitées presque chaque année par des
« conquérants étrangers ne finirent qu'après cinq siècles et l'esclavage total
« de l'Italie sous la domination de Charles V: mais la discorde dure
« en e ore » (11). Similmente, nei frammenti anglo-francesi d'un articolo sulla
Storia del testo di Omero che interessano in particolar modo i classicisti e
gli studiosi della critica o filologia classica del Foscolo, incontriamo un'allu-
sione pungente al Cesarotti autore della P ronca (2).
Notevole è il Pian for a periodical Work on foreign Literature, quel pro-
spetto per un giornale che il Foscolo vagheggiava di pubblicare nell'autunno
del 1822, del quale gli editori fiorentini diedero (Opere, Vili, 78-80) una
versione parziale, cioè arbitrariamente mutilata. Nel seguente articolo Viaggi
classici, di cui conoscevamo prima d'ora una parte soltanto, richiamano la
nostra attenzione alcuni accenni (pp. 109 segg.) a Guittone, a Leonardo, al
Vasari, al Pignotti, nonché al veneziano Francesco Gritti. Su quest'ultimo,
cioè il fecondo verseggiatore dialettale, che pei suoi Apologhi il Foscolo è
tentato di collocare vicino al Lafontaine, egli cita con lode certe pagine del
suo amico Rose (nelle Letters of the North of Italy), che qualche studioso
dovrebbe rintracciare e far conoscere, perchè riguardano anche la letteratura
nostra e probabilmente rispecchiano consigli e giudizi del poeta e critico
italiano.
Fra le scritture di questa prima serie l'occhio nostro corre subito a quella
sul Boccaccio (pp. 115-148), che vide la luce nel London Magatine del giugno
1826, e fu trascurata dagli editori fiorentini; ma, per essere sinceri, leggen-
(1) Vedasi l'articolo Per U. Foscolo, che la sig.» Eugenia Levi inseri nella Eass.
bibliogr. d. leti, it., XVII, 1909, pp. 5 sgg. dell'estr.
(2) Il Cesarotti non è menzionato, ma a me l'allusione sembra evidente. Si legga
infatti il passo seguente : « Thus, a man [of] genius now no more who might have
* been great, but who lias abused his extraordinary powers to become only a cele-
« brated writer, on beiag desired to compose a poem in praise of Napoleon, com-
« menced by embarking with his Muse on the trackless ocean of metaphysical
« speculations, heaped together in two or three thòusand verses ali the systems
« ancient and modem, of which not one was unknown to him, bnt of which no one
« was intelligible to his Hero, and ended with a line which instead of words, feet,
« or syllables, presents us with a single name and a long row of these powerful
€ and meaning signs Napoleon!!!!!!!!!» (p. 57). in margine alle parole «a man
« of genius now no more » il Foscolo scrisse di sua mano: e C'est à dire qu'il est
« mort, mais il faut le dire avec gràce». Occorre appena ricordare i severi giudizi
che il Foscolo diede della Pronèa; si veda A. Butti, Le accoglienze alla <Pronèa»
cesarottiana, ecc., in Giornale, LVII, 348 sg., e Donadoni, XJ. Foscolo, pp. 421-2.
240 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
dola, col ricordo presente del Discorso storico sul testo del Decamerone, non
possiamo dissimulare una delusione e grave. È infatti una rifrittura di cose
che il Foscolo aveva già dette e ridette e che era tutt'altro che adatta a
dare, in forma sintetica e divulgativa, ai lettori inglesi un'idea del grande
certaldese e, sovrattutto, del suo capolavoro. Il Y. ne ha pubblicata la tradu-
zione inglese e, aggiunte appiè di pagina, tutte quelle pagine del testo ori-
ginale italiano, che egli aveva rintracciato fra le carte della Labronica, cioè
due terzi circa dell'articolo complessivo (1).
E una mezza delusione ci procurano pure le quattro pagine Sulle epistole
volgari del Petrarca, che il V. riproduce da alcune cartelline autografe. L'edi-
tore si mostra riluttante ad ammettere che esse appartenessero alla Lettera
apologetica, nella quale è rimasta, com'è noto, una vasta lacuna; e di questa
sua riluttanza adduce qualche ragione non disprezzabile. A me viene in mente
che queste pagine fossero destinate a lord Holland, perchè gli servissero a
stendere quella risposta all'ab. Meneghelli, del 16 sett. 1824, che, sebbene, in
apparenza, serena e cortese, riuscì una lezione salata (2). Ormai sarebbe tempo
che qualche petrarchista volonteroso, giovandosi di questo scritterello venuto
ora alla luce, nonché d'un articolo di Eug. Levi (3), tentasse di rintracciare i
tre autografi o pretesi autografi petrarcheschi, e risolvesse una buona volta
e in modo definitivo la questione dell'autenticità delle due lettere volgari del
Petrarca, con le quali viene a raggrupparsi la nota letterina a Leonardo Bec-
camugi (4).
La seconda parte, quella contenente gli Scritti politici, è, in complesso, più
importante e più nuova della prima. Vi primeggiano i Frammenti relativi
alla Storia di Parga, dei quali ebbe già ad occuparsi largamente lo stesso V.
(1) E non soltanto e le prime pagine», come asserì la sig.» E. Levi, ripubblicando
lo stesso articolo nella N. Antologia del 16 ottobre 1918. Ma si avverta che, mentre
essa annuncia in principio di pubblicarlo « tutto intero nell'originale italiano del
« Foscolo, come Vha ritrovato oggi » , confessa, poco oltre, che si tratta, nelle pa-
gine non comprese in questo volume del V., d'una sua «ricostruzione». La quale,
lungi dal provare che questo articolo — impropriamente intitolato dal Foscolo nel
ms. labronico, ma non nel London Magazine, « Illustrazioni sulle Novelle del Boc-
caccio » — « rappresenta l'ultima espressione di ciò che egli pensò e ripetutamente
«scrisse sul Decamerone», come afferma la sig.* L., è poco più d'un rimaneggia-
mento non felice, fatto ad intarsio.
(2) Vedasi Violione, U. Foscolo in Inghilterra, p. 207, il quale rimanda al libro
della LicHTKNSTEiN, Holland House. Bisognerebbe avere il testo della lettera scritta
da lord Holland al professore padovano.
(8) / « Saggi sul Petrarca » di U. Foscolo, Firenze, Olschki, 1909, estr. dal voi. XI,
disp. 3-4, della Bibliofilia.
(4) Rimando, per brevità, a quanto scrissi D^una lettera pseudo-petrarchesca in vol-
gare, nelle Spigolature di erudizione petrarchesca, estr. dal numero unico Padova a
Fr. Petrarca, pp. 9-18 ; e aggiungo che Fk. Novati diede per la prima volta in luce,
nel suo pregevole saggio su H Petrarca ed i Visconti (nella miscellanea Fr. Petrarca
e la Lombardia, Milano, 1904, pp. 50-2) una lettera volgare del Petrarca a Giovanni
da Mandello. Lo stesso voto ebbi già ad esprimere in questo Giornale, XLIX,
pp. 28-9 n.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 241
nel volume citato, e le Osservazioni sulla costituzimie delle isole Ionie, che
sono una serie di chiose severe, inesorabili alla costituzione data dal gene-
rale Maitland, piene d'una forza di eloquenza, a volte impetuosa e caustica,
mirabile. Notevole pure il frammento sul Nelson, che ci fa ripensare all'ac-
cenno famoso dei Sepolcri, e quello su Napoleone, dal quale restano confer-
mati i due sentimenti contrastanti che il Bonaparte suscitava nell'animo del
Foscolo, una viva ammirazione per la sua grandezza e una sincera riprova-
zione pel suo carattere dispotico, ambizioso, egoistico.
Ricca e varia si presenta la serie delle 105 lettere, alcune delle quali ve-
ramente pregevoli come documenti storici, appartenenti quasi tutte al periodo
dell'esilio svizzero ed inglese; non tutte tratte dagli autografi della Labro-
nica. Ma perchè intitolarle Lettere del Foscolo ad altri'ì 0 non bastava dire
Lettere del Foscolo'? Ve n'ha di indirizzate ad amici e ad amiche; fra queste
ultime offrono un interesse particolare due alla contessa d'Albany, nella prima
delle quali, del 27 dicembre 1813, il Foscolo manifesta il proposito di scrivere
un commentario « su le cose da lui vedute e delle quali era stato pars mi-
nima » (1), mentre nella seconda, forse del 16 maggio 1814, egli attesta an-
cora una volta la sua costante e risoluta avversione alla « framassoneria »
(p. 241). La lunghissima lettera a Vincenzo Monti del 1814, è piuttosto una
dissertazione, purtroppo, frammentaria, che, dedicata al poeta rivale, doveva
precedere la versione del canto n diaW Iliade ; è quello stesso documento prezioso,
che fu fatto oggetto di acuta ed esauriente disamina da Benedetto Soldati,
il quale, non solo ne determinò la genesi, il carattere ed il fine, ma con-
fermò anche la data, con ardita ma felice congettura assegnatagli dal V. (2).
In queste lettere parecchio ci sarebbe da spigolare anche dopo la copiosa
mietitura fattane dall'editore stesso; non pochi, qua e là, sono i motivi di
dubbi e di diffidenze e di riserve che sorgono dinanzi a testi troppo riboccanti
talora di punti interrogativi fra parentesi ; ma chi conosca per prova i terri-
bili « geroglifici » foscoliani, si sentirà disposto volentieri all'indulgenza e
volentieri riconoscerà il segnalato servigio che anche con questo volume il V.
ha reso agli studiosi. V. Ci.
(1) Veramente il V. legge e stampa (p. 236): « Ricordami di quel commessario del
« giovine sassone sopra un avvenimento di cui fu testimonio » ; la correzione in
e commentario > mi par sicura, mentre mi sfugge l'allusione al « giovine sassone » .
E l'S gennaio 1814 alla stessa d'Albany : « Bensì potrò scrivere, e ci vado pensando,
« un commentarietto simile a quello del giovine Sassone... > (Epist, I, lett. n"* 379, p. 552).
Forse qui abbiamo il germe dei Discorsi della seì'vitù deU'ItaUa e dei Frammenti di
storia del regno italico, nonché di certe magnifiche pagine della più tarda lettera
apologetica.
(2) Esperimenti foscoliani di versiotie da Omero, negli Scritti ecc. in onore di R. Renier,
Torino, 1912, pp. 583 sgg. •
Giornale storico, LXIV, fase. 190-191. 16
242 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
GIUSEPPE SAITTA. — Le origini del neo-tomismo nel se-
colo XIX. — Bari, Laterza, 1912 (16«, pp. xi-283).
Se da nessun movimento spirituale lo storico delle lettere si può in senso
assoluto disinteressare, importantissimo fra gli altri è per lui quello neo-to-
mistico. Nelle sue origini infatti esso s'intreccia con il moto onde doveva
uscire la vita nostra nazionale e pare per qualche aspetto mettersi come in
opposizione a questa ; viceversa si allarga poi sino ad investire tutta la vita
della Chiesa ed acquista così valore di fatto universale.
L'interpretazione e la giustificazione del fatto religioso varia sempre con
il variare della concezione filosofica di chi se ne fa interprete o giustificatore ;
ora lo scolasticismo, morto nella coscienza filosofica, non poteva più, un secolo
fa incirca, avere virtù in quella teologica, supposto che l'una si possa distin-
guere dall'altra e non siano eff'ettivamente la cosa istessa. Ma la teologia
cattolica s'era formata e sistemata sotto la luce della filosofia scolastica ; il
dogma era stato fissato nel concilio di Trento sotto la pressione, per dir così,
del pensiero tomistico. Ogni rinnovamento dunque dello spirito religioso che
si trovasse a discordare dal pensiero scolastico veniva inevitabilmente ad ur-
tare con l'ortodossia, anzi a distruggerla.
È una verità molto semplice, eppure di essa non si seppero mai persuadere
tutte le grandi anime che tentarono un rinnovamento del pensiero dentro il
cattolicismo ; e però videro tutte, presto o tardi, fallire sempre i loro sforzi.
Né importa che esse non si siano accorte della contradizione dentro alla quale
si aggiravano, e abbiano creduto di spiegare il fallimento dell'opera propria
con l'invidia o la malevolenza degli avversari ignoranti o fanatici ; in realtà
questi, che ignoranti non erano mai, avevano ragione nel combatterle. La
nuova apologetica di Giorgio Hermes, le filosofie del Rosmini e del Gioberti
s'erano formate sotto l'influenza del pensiero filosofico tedesco nel progressivo
suo svolgimento dal Kant sino al Hegel; esse dunque dovevano in ultima
analisi riuscire contrarie e distruggitrici del dogma cattolico, come erano tali
le filosofie onde esse erano germinate. E se il Gioberti nella lotta contro il
Rosmini lo notava acutamente a danno di questo, egli stesso poi, nel progre-
dire del suo spirito, finirà per cascare nella contradizione in che era caduto
il suo emulo; egli stesso finirà per uscire interamente dal cattolicesimo, che
cessa di esser una religione rivelata, cioè il cattolicesimo, quando lo si assorbe,
come faceva il Gioberti, nella filosofia, cioè in una creazione dello spirito
umano.
H ritomo alla scolastica era dunque per gli apologeti del cattolicesimo una
necessità imprescindibile, di difesa dagli assalti sempre più vigorosi degli spiriti
moderni e di offesa contro quei tepidi o meno illuminati che si credevano ancora
nel cerchio dell'ortodossia, quando effettivamente ne erano usciti e potevano
perciò con l'esempio e la predicazione sviare i fedeli. Solo liberandosi da tutti
gli elementi dissolvitori della sua dottrina e disciplina tradizionale, il catto-
licesimo avrebbe potuto vigoreggiare nelle coscienze e riprendere in esse quel
posto che una religione non può mai spartire con nessun altro. A chi spetti
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 243
il merito di cotesta liberazione e di cotesto ritorno è difficile stabilire con
certezza ; in realtà lo prepararono i tradizionalisti di tutta Europa con l'op-
porsi al razionalismo kantiano e con il rimettere in onore il pensiero de'
Padri, onde la scolastica deriva; avviarono ad esso modesti insegnanti fidi
agli antichi insegnamenti, che nei seminari non mancarono mai del tutto,
nemmeno quando il compendio sensistico del padre Soave era libro di testo
nelle scuole cattoliche di filosofia; lo favorirono i pontefici che per il loro
posto sentirono più facilmente d'ogni altro gli urti scotitori venienti da ogni
parte. Ma il merito grande di aver fortificato, disciplinato a un fine il mo-
vimento, averne fatto il centro della difesa e della interpretazione del catto-
licesimo, spetta senzo dubbio ai gesuiti e a un loro giornale : la Civiltà cat-
tolica. Anzi l'enciclica Aeterni Patris di Leone XIII, nella quale s'imponeva
alle scuole cattoliche il ritorno a San Tommaso come al maestro più sicuro,
può dirsi il trionfo più grande da essi riportato nel dominio della dottrina
cattolica nella seconda metà del secolo decimonono.
Queste e molte più altre cose ancora discorre con garbo e con penetrazione
il dottor Saitta nel libro che vogliamo additare ai nostri lettori. L'abitudine
della ricerca filosofica ha allargato la visuale dello storico; ond'egli, a inten-
dere pienamente il fenomeno che studia, sente il bisogno di rifarsi molto più
su che nqn sia il momento nel quale esso apparisce, e può così proiettare su
di esso tutta la luce delle cause anche più lontane. Perciò il libro si rial-
laccia con l'antecedente dello stesso autore su La scolastica del secolo XVI
(v. Giornale, 59, 138) e diventa, nella prima parte, come una rapida corsa
attraverso tutto il movimento filosofico moderno; corsa che il lettore non
rimpiange certo di fare, poiché essa gli serve a comprendere le ripercussioni
di quel pensiero sulla teologia e l'apologetica del cattolicesimo.
Ora il Saitta ha certo occhio acuto e abilità non comune ad aggruppare i
fatti che gli sono necessari alle sue interpretazioni, ed è ricco di virtù dia-
lettica a confutare gli avversari e a far risaltare la propria tesi: possiede
insomma molte fra le doti più difficili a formare uno storico egregio. Ma il
desiderio di trattare vasti temi rispondenti all'ampiezza del suo ingegno e la
fretta, forse, dell'arrivare, lo costringono spesso a lavorare di seconda mano.
Troppe volte si sente ch'egli si è certo impadronito del suo tema e lo domina
nelle linee sue generali, ma anche eh? non è risalito sino alla fonte onde
quella linea si è generata, che non conosce insomma i particolari, che non
ha provato il bisogno di verificare tutte le sue affermazioni. Nella stessa se-
conda parte, ch'è la propria della sua ricerca, egli corre frettoloso su molti
nomi e fatti, anzi indagini proprie, nel senso stretto della parola, non ha.
La linea generale molto probabilmente non ne sarebbe mutata; ma da un
libro di indagine particolare com'è questo noi vorremmo più minute informa-
zioni su molti uomini e su molti fatti: spessjj dove noi vorremmo conoscere
uno spirito in tutta la sua produzione non abbiamo che un nome.
In ogni modo, e se anche ad integrarlo sia necessario ricorrere agli studi
particolari sull'argomento che sono usciti dopo il libro del Saitta, il libro si
legge con interesse vivissimo in ogni pagina e fa pensare. Il rinnovamento
244 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
tomistico non ebbe, forse, dal lato rigidamente filosofico un vero valore: ri-
torno a un momento dello spirito già oltrepassato dalla coltura europea esso
non poteva generare alcuna di quelle grandi opere che segnano un nuovo in-
dirizzo e danno una nuova interpretazione della vita. Ma ritornare a Tom-
maso volle dire aprire tutte le fonti della filosofia medievale, accostarsi ad
esse con desiderio intenso di conoscerle fin nelle più profonde loro scaturigini,
seguirle nelle loro diramazioni; e la intelligenza del medio evo, la coltura
storica, la piena comprensione della Commedia se ne avvantaggiarono in modo
grandissimo. Più ancora : quel ritorno ebbe una poderosa efficacia spirituale,
sia come sforzo della Chiesa ad opporsi al pensiero moderno che tentava di
abbatterla, sia nell'intima compagine di lei stessa per espellerne gli elementi
dissolvitori che a poco a poco ci si erano introdotti e ne minavano l'esistenza.
Né quel movimento è cessato o accenna a cessare. La lotta contro il moder-
nismo non è anzi che una conseguenza di esso ; come sono manifestazioni di
esso i molti periodici che lo propagano e dove veramente pare fervere una
vita operosa. Il neotomismo ebbe forse il torto di credere di poter vincere la
propria prova impadronendosi dei metodi positivistici ; ma la scolastica non è
tutta in S. Tommaso, e in S. Tommaso covano germi non ancora interamente
disviluppati. Al contatto con il nuovo idealismo non potrà forse anche il neo-
tomismo ringiovanire ? L'idealismo assoluto troppo facilmente si dà a credere
nella non vitalità del suo avversario perchè esso non può superare la conce-
zione dualistica della vita; ma non potrebbe invece essere appunto cotesta
visione che determina verso di esso tante simpatie di giovani? Sarebbe cu-
rioso ricercare se il tomismo di questi sia proprio quello stesso del cardinal
Zigliara o del Cornoldi ; e chi sa se un giorno non saranno necessarie nuove
encicliche per raccomandare la retta interpretazione di Tommaso e nuove sco-
muniche contro coloro che, credendo di ringiovanirlo, lo hanno, o avranno,
invece falsato. Falsato, si capisce, secondo i criteri dei Cornoldi e degli Zi-
gliawi, cioè della tradizione cattolica oggi_ imperante. U. C.
GIOSUÈ CARDUCCI. — Lettere] serie seconda: alla famiglia
e a Severino Ferrari. — Bologna, Zanichelli, 1914 (16«,
pp. xxiv-376).
FRANCESCO DE SANCTIS. — Lettere da Zurìgo a Diomede
Mar vasi (1856-1869), pubblicate da Elisabetta Marvasi
con prefazione e note di Benedetto Croce. — Napoli, Ric-
ciardi, 1913 (16«, pp. xvi-148).
Due sillogi epistolari che caratterizzano due tempre d'uomini assai diverse,
n Carducci, quando scrive alla moglie, alle figlie, ai generi, al suo Severino
pressoché figliuolo, pare quasi non pensi più, è tutto azione, vita, senso; il
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 245
De Sanctis resta sempre un sognatore, immerso nelle sue idee, interamente
compreso delle sue funzioni d'insegnante e di critico. Il Carducci ritiene, nel-
l'epistolario famigliare, della semplicità rude del popolano ; il De Sanctis ha
sempre, pur nelle contingenze più umili, del filosofo.
Rimando a ciò che scrissi in questo Giornale, 58, 440 intorno alla prima
serie delle lettere carducciane (1). Molte cose dovrei ripetere, e sarebbe inop-
portuno. La seconda serie, sebbene l'editore Alberto Dallolio la dia come una
scelta, è parecchio povera ed arida. Si tratta di letterine famigliari, che danno
informazioni sulla salute o su altri particolari di vita giornaliera, ovvero
scherzano teneramente con le figliuole o coi nipotini, o alludono fugacemente
a letture fatte, a lavori intrapresi. Tutto può servire al biografo; ma convien
riconoscere che poche raccolte di lettere offrono un contributo così modesto di
fatti rilevanti. Se ne avvide lo stesso editore Dallolio, e nella garbata prefa-
zioncella mise le mani innanzi per antivenire certe obiezioni. Sta il fatto
che la cognizione della psicologia, del resto così poco complessa, del Carducci
non viene ad avvantaggiarsene notabilmente. Ch'egli fosse buono di cuore,
semplice di costumi, eccitabile ed irritabile, tutti sapevamo. Scrive il Dal-
lolio: « Aspro, rude, violento egli era veramente; ma chi se lo figurasse ac-
« cigliato sempre e iracondo commetterebbe un gravissimo errore: chi legga
« le lettere sue alla famiglia vedrà quanto egli fosse buono e pieno di tene-
« rezza verso i suoi cari ; e vedrà anche, non senza commozione, il Carducci
« occuparsi e interessarsi di piccoli fatti, di piccola gente, di umili cose, egli
« che col pensiero saliva tant'alto. Ne deve il conoscerlo in tale aspetto di-
« spiacere ad alcuno, perchè l'uomo, e anche lo scrittore, e anche il poeta,
« tanto è più grande, quanto più dell'umano racchiude nell'animo » (pp. ix-x).
Ed è giusto ; ma questa è una ben umile umanità : tenerezze di babbo e di
nonno ; pentimenti dopo burrasche domestiche, che per buona ventura qui «olo
s'intravvedono (cfr. la lettera buona di pp. 48-49) ; strettezze e richieste di quat-
trini, malgrado una vita molto assestata; innocenti vanaglorie per onori ricevuti,
massime per le accoglienze e i complimenti della regina Margherita ; lamenti
per le troppe faccende professionali ; molte parole sul mangiare e ancora più sul
bere. Qua e là qualche scherzo arguto ; festevolissima, ad es,, la lettera sulle
accoglienze ricevute a Pietrasanta (pp. 66-68). Amici più di frequente nominati
il Chiarini, il Teza, la sig.^ Mario, Severino Ferrari. A lui sono dirette 81 di
queste lettere, mentre 191 andarono a membri della famiglia. Neppure le lettere
(1) Da allora in poi altre ne sono uscite sparsamente in riviste e giornali. Negli
spogli di questo periodico ne fu tenuto conto. Resta pur sempre osservabile quella
raccoltina iniziale Da un carteggio inedito di Q. Carducci, Cappelli e Zanichelli, 1907,
ove si leggono 18 lettere del poeta vecchio alla contessa Silvia Pasolini Zanelli,
nella cui villa romagnola di Lizzano il Carducci spesso ebbe a trattenersi. È un
volumetto ricco di carta bianca e di retorica, ^he ci dà un Carducci quasi di ma-
niera, verniciato, rammorbidito, insentimentalito. Lettera importante, in più luoghi
riprodotta, parve quella di pp. 151-168, ove il Carducci fa una molto ingenua pro-
fessione di fede religiosa, in un cristianesimo non rivelato, in un Cristo « gran
< martire umano > .
246 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
a Severino hanno l'importanza che si poteva attendersi. Molti particolari eruditi,
tra guizzi di malumore, e qualche raro spunto d'eloquenza; frequenti allusioni
alla edizione commentata delle rime del Petrarca, magistrale edizione, che il
Carducci e il Ferrari condussero innanzi insieme. Di giudizi letterari ve n'ha
uno contrario al Giusti (p. 255) ; un altro, preciso, sicuro, calzante, sul Pascoli
filologo (p. 241) (1). Al Ferrari il maestro inviava spesso primizie di suoi versi.
Un accenno storico relativo alle odi barhare trovo a p. 261 : « Alle odi bar-
« bare ci pensai fin da giovane: ne fermai il pensiero dopo il 1870, poi ch'ebbi
« letti i lirici tedeschi. Se loro, perchè non noi ? La prima pensata in quella
« forma, e scrittene subito le prime strofi, è AlVaurora. La seconda, tutta
« di seguito, è L'ideale » (2).
La fresca e viva toscanità della dizione rende accette certe lettere che in
sé e per sé dicono poco. Qua e là spunta il poeta, specialmente nelle de-
scrizioni di luoghi alpini, dello Spluga, del Cadore, del Piemonte.. Curioso
l'osservare come uno di codesti spunti poetici epistolari siasi concretato nel
sonetto In riva al Lys (pp. 271-72; cfr. Opere, XVII, 301). Curioso altret-
tanto il ravvisare in certune lettere le movenze umoristiche della prosa car-
ducciana; ad es. nella lettera arguta del luglio 1882 in cui descrive a Seve-
rino il suo atteggiamento di commissario per la licenza liceale di fronte ai
« lombardotti » di Desenzano (p. 225), e anche questo periodo sulle penne da
scrivere di cui disponeva a Ceresole, in una missiva a Giulio Gnaccarini del
28 luglio 1890: « questa [penna) con cui scrivo é una mollezza di puntina
« che pare quella pastina di minestrina che si chiama semina, e con l'in-
« chiostro s'impappina, e sotto la mano mi declina, e fa la letterina minu-
« tina minutina e vagabondina e civettolina » (p. 144).
Con buona idea, a commento della prima lettera di questo volume, l'unica
diretta, il 18 ottobre 1853, ad Elvira Menicucci fidanzata, ricompare a pa-
gine 297 sgg. una prosa giovanile rarissima del Carducci, l'elogio funebre che
egli, a 18 anni, lesse dal pergamo della chiesa parrocchiale di Celle nel Mon-
tamiata per commemorazione di Ercole Scaramucci. Il Carducci predicatore
e invocatore di testi sacri è ancor più curioso del Carducci inneggiante alla
(1) « Il Pascoli ha molto ingegno, moltissimo gusto, e arte anche di scrivere il
« latino. Quel che si può desiderare giustamente in lui è la cognizione della filo-
« logia germanica : egli non volle mai darsene pensiero e né anche studiare il te-
« desco. In Firenze, dopo e accanto al Vitelli, per quella sua mancanza, non si
« troverebbe egli stesso benissimo. Bisogna consigliarlo e persuaderlo a studiare il
« tedesco, che egli può fare presto e bene. E allora potrà figurar bene in qua-
« lunque posto. Purché si faccia conoscere >. La lettera è del 26 nov. 1885.
(2) Si osservi che scrivendo, in una lettera del 1887 alla moglie da Courmayeur,
intomo al frammento epico della battaglia di Legnano, sul quale lo avea interro-
gato la regina Margherita, il Carducci accenna ad altri due carmi simili ch'egli
aveva in animo di com-porr e, L'ultimo giorno delV anno 7niUe e Canossa (p. 111). Nulla
ne fece e quindi nulla ne è rimasto ; ma che veramente egli vagheggiasse di trat-
tare quei temi, lo attesta Flaminio Pellegrini in una saporita comunicazione fatta
al Fanfulla della domenica del 22 marzo 1914.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 247
beata Giuntini. Dell'opuscolo, stampato nel 1853 a Montepulciano, si conoscono
solo tre esemplari.
Le 42 lettere del De Sanctis a Diomede Marvasi, vivace giureconsulto na-
poletano morto nel 1875 di soli 45 anni, sono gustosissime. Rimaste in fa-
miglia, sono dalla vedova Elisabetta con una graziosa e sentita dedica inti-
tolate ai figliuoli ; ma il merito di questa esumazione spetta al Croce, di cui
è veramente toccante la pietosa cura e l'ardore con che vien rinfrescando la
memoria del grande critico e rintracciandone ogni orma (1). Sebbene l'indole
del Marvasi fosse in tante parti opposta a quella del De Sanctis, il critico
napoletano gli voleva un gran bene, e quando, nel 1876, Camillo De Meis
s'indusse a pubblicare una scelta degli Scritti di lui, il De Sanctis proemiò
al volume e quel suo proemio ricompare adesso. Qui leggiamo, tra l'altro:
« Quell'uomo allegro, vano de' suoi capelli, come una fanciulla, tutto gesto e
« movimento, che ti dominava co' raggi dell'occhio, così infiammabile e così
« placabile, era il confidente universale. Non so come, ma sapeva tutte le in-
« timità, tutti i segreti ; partecipe de' piaceri e degli affanni altrui, come
« fossero suoi, era a ciascuno il suo altro. Natura schietta e calda, ispirava
« la fiducia e guadagnava l'amicizia » (p. 140).
Angelo Camillo De Meis e Diomede Marvasi erano gl'inseparabili amici del
De Sanctis allorché egli pure, uscito dal carcere del Castello dell'Uovo, ri-
parò a Torino. E quando, nel marzo del 1856, si recò ad occupare la cattedra
di lettere italiane nel Politecnico di Zurigo, parve a quei due amici che loro
mancasse un elemento di vita. Le lettere zurighesi del De Sanctis al Marvasi
sono piene di notizie curiose su uomini e cose, con certi sprazzi di pensiero
e talvolta anche di umorismo, che le rende singolarmente gustose. Il Croce
le ha bene annotate.
Espandesi il De S. nel descrivere quei paesi nuovi, quelle consuetudini
nuove di vita e di scuola, non tutte conformi ai gusti suoi. La grande cu-
riosità di veder cose nuove gli rendeva meno aspro l'esilio. Egli stesso lo
dice: « Molti nell'esilio erano detti martiri, che si sentivano felici, io per il
« primo che vedevo nuovi cieli, e quasi non avvertivo le privazioni » (p. 145).
Tuttavia le abitudini alquanto grossolane dei professori tedeschi non gli pia-
(1) Non pago d'averne stampate nel 1897 le lezioni sul secolo XIX e d'averne
raccolti nel 1898 gli Scritti vari, egli ci ha ridati, ripuliti, prima il Saggio crii, sul
Petrarca, poi la Storia della Ietterai, italiana ; ha studiato i rapporti del De Sanctis
con lo Hegel e con altri pensatori tedeschi (vedi ora il voi. Ili dei Saggi filosofici
del Croce) ; è venuto pubblicando nella Critica ì Discorsi politici e molti altri
scritti sparsi, fra cui non poche lettere, del suo autore. Sappiamo che, proseguendo
infaticabilmente le sue indagini, è riuscito a porre le mani su altri sunti di vecchi
corsi tenuti dal De Sanctis. Né fu senza frutto il viaggio che fece a bella posta
a Zurigo per rintracciare anche colà vestigi 41 lui. Si vedano le lettere pubblicate
in La critica, XII, 85 sgg., col titolo II De Sanctis in esilio, molte delle quali sono
complemento e chiarimento a quelle dirette al Marvasi. Tutto questo lavoro per
chiarire in ogni sua parte la vita, l'anima, l'attività d'un morto che si ammira,
è nobile e commovente.
248 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
cevano. Particolari interessanti ha in queste lettere sull'estetico Vischer. Il
fisiologo Moleschott, che conobbe a Zurigo, gli parve, anzichenò, ciarlatano
(p. 12 n.)', severamente giudica anche il Nigra giovine (p. 97): mutò, poi,
avviso, ma queste prime impressioni sono ragguardevoli. D modo suo di fare
le lezioni era molto diverso da quello che s'usava a Zurigo; i pochi ascolta-
tori suoi bentosto crebbero e tutti i migliori provarono verso di lui quell'at-
taccamento straordinario che è il miglior guiderdone dei buoni maestri. Gli
si attaccò, e da lui imparò, anche Jacopo Burckhardt, il benemerito illustra-
tore della nostra arte, lo scrutatore della civiltà del rinascimento (1). Non
fa troppa meraviglia l'apprendere che nel 1856 al Burckhardt era intera-
mente ignoto Giacomo Leopardi (p. 21); la fama del grande lirico nostro
stentò a diffondersi, tanto nella penisola quanto, e più, all'estero. Con l'animo
gonfio d'affetto, il De S. non poteva dimenticare gli amici, gli scolari, le
scolare di Torino; particolarmente le scolare, verso una delle quali provò
tenerezze più che di maestro (pp. 11, 65, 72), sicché ne tolse ispirazione per-
sino a qualche poesia (2). Un amore tutto passionale lo avvolse a Zurigo, di
una ragazza tisica (p. 81); ma non molto dopo incontrava quella relazione
con Maria Testa Arenaprimo, che doveva chiudersi col matrimonio. Il presente
gruppetto di lettere ci fa assistere alla vita dell'uomo di cuore, oltreché d'in-
gegno. Caratteristica la sua bontà verso una povera cameriera conosciuta a
Torino (pp. 27 e 73); caratteristica la sua passione gentile per gli uccelli, che
aveva tratti seco a Zurigo e pei quali, nelle strettezze in cui pur versava,
comperò subito una bella gabbia (p. 4) (3). Per quel ch'è dei letterati italiani,
s'intravvede qualche relazione col Manzoni, che il De S. visitava sul Lago
Maggiore (p. 38), ed il Croce, con la sua consueta informazione sicura, sa dir-
cene di più (p. 33 71.). Lo stile corrente di queste lettere offre maggiori at-
trattive dello stile studiato di opere destinate dal De S. alla stampa. V'è,
impagabile, quella sua sovrana potenza d'osservatore e di rappresentatore.
Non si saprebbe come meglio ridare quella macchietta del professore di let-
teratura francese Challemel-Lacour, piovuto a Zurigo da Parigi e dal Belgio
(pp. 48^50). R.
(1) Sinora quel che se ne sa è tutto nella istruttiva nota di Ciro Trabalza,
Burckhardt e De Sanctis, Cividale del Friuli, 1911, che è destinata a comparire
nella attesa Miscellanea Creacini. Il Tr. rileva certe coincidenze dei due critici nel
giudicare il Petrarca e riferisce i ricordi d'un vecchio superstite sui loro rapporti
personali. Il Croce, speriamo, saprà dircene di più ora che ha compiute le sue
esplorazioni dirette a Zurigo.
(2) Tra quelle scolare fu anche la Grazia Mancini, poi moglie ad Augusto Pie-
rantoni, ohe pubblicò due lettere dirette ad essa dal De S. Vedi la nota del Croce
a p. 84.
(8) Su la passione del De S. per gli uccelli, a cui dava nomi di uomini politici
e di letterati, è da vedere a p. 18 l'opuscolo cit. del Trabalza. In La critica, XII,
112-18, leggesi quel delizioso brano di lettera a Luigi di Larissé in cui il De S.,
con rara festività, narra le gesta coniugali dei suoi canarini.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 249
ANNUNZI ANALITICI
Guido Zaccagnini. — Per la storia letteraria del Duecento. — Milano,
Cogliati, 1913 [Estr. dal periodico II libro e la stampa. Un bel gruzzolo di
notizie bibliografiche desunte da fonti archivistiche (cioè doppiamente preziose,
che ognun sa quanto l'esito di queste ricerche per lo più sia sproporzionato
alla fatica e al tempo speso), riguardanti grammatici e dettatori a Bologna,
scrittori didattici e morali, rimatori toscani e faentini, rimatori bolognesi.
Non son lavori che si possano riassumere : richiamo ad ogni modo specialmente
l'attenzione del lettore sulle pagine dedicate a Matteo de' Libri, a Pier de' Cre-
scenzi, a Guido Guinicelli, a Fabruzzo Lambertazzi, a Ranieri de' Samari-
tani, ad Onesto degli Onesti e ad Albertino Mussato. Non sempre però le
identificazioni ci persuadono, né sempre ci sembrano attendibili le affermazioni
dello Z. Per es., a proposito dei maestri, scrive : « mi parrebbe di potere dire
« che coloro, a cui non è aggiunto il * doctor ' e che sono semplicemente ap-
« pellati ' magistri gramatice ' siano appunto quelli che in altri documenti
« sono detti ' magistri puerorum ' » (p. 5). Questo « mi parrebbe di potere
« dire » è per lo meno alquanto strano : che dicono i documenti ? Sarebbe
utile che lo Z. riprendesse il piccolo problema, perchè in un mio lavoro (1),
ch'egli conosce ma non cita, s'osserva negli usi medievali fiorentini una netta
distinzione tra i ' doctores puerorum ' maestri di leggere e scrivere, e i * ma-
gistri gramatice '. Come propriamente stiano le cose a Bologna, lo Z. non chia-
risce affatto. È del pari avventato ciò che dice di Onesto degli Onesti, ove
osserva che costui col titolo di ' sere ' è « assai spesso ricordato nei codici che
« contengono rime sue ». Ci sarebbe davvero da impensierirsi e da mettere in
quarantena le notizie messe insieme dallo Z. e da altri, se ciò fosse vero, ma
non è : il ' sere ' per ' messere ' è un errore del Magi. Pai. 418. Quanto alle
identificazioni, quella dell'A. del Fiore di Rettorica con Tommaso da Flesso
(p. 15) e quella dei poeti Semprebene da Bologna e Gianni Alfani con Sem-
prebene della Braina (p. 49) e Vanni q. Alfani (p. 80) non si possono, almeno
per ora, accettare. La bibliografia è generalmente accurata. Mi permetto di
aggiungere, per quel che riguarda il Frescobaldi (p. 30), la mia memoria :
Laìììbertuccio Frescobaldi poeta e banchiere fiorentino del sec. XIII, inse-
rita nella Miscellanea Mazzoni. Deb.].
Chartularium Studii Bononiensis, voi. IL — Bologna, 1913 [La Commis-
sione per la Storia dell'Università di Bologna, creata nella ricorrenza del terzo
centenario dalla morte, di Ulisse Aldrovandi per felice iniziativa di Emilio
Costa (vedi Giornale, 50, 473) ed ora potutasi costituire in Ente morale per
le generose elargizioni della locale Cassa di Bisparmio e di quattro beneme-
riti cittadini, prosegue alacremente e fruttuosamente la sua nobilissima opera.
(1) Sui più antichi « doctores puerorum » a Firenze, in Sttidi medievali, II,
250 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
Già abbiamo annunciato la pubblicazione dei tre primi volumi degli Studi e
Memorie {Giornale, 54, 287; 58, 475-76; 61, 473) e del primo del Chartu-
larium [Giornale, 55, 177-79). Ora è uscito il secondo volume di questa
cospicua silloge di antiche carte, il quale comprende i documenti raccolti dal
dr. A. Sorbelli nell'Archivio del Monastero di Sant'Agnese e fra gli Atti del
cardinale legato Lodovico Fieschi (1412-13), dal P. Serafino Gaddoni nell'Ar-
chivio comunale di Dozza e dal dr. F. Baldasseroni nei Registri vaticani e
avignonesi di Gregorio XI. Più numerosi che nel primo volume sono qui i
documenti spettanti agli ordini dello Studio o direttamente a maestri e sco-
lari; e l'accurato indice finale agevolerà co' suoi rinvìi le ricerche. Noi rile-
veremo, ancorché si tratti di cose in parte già note, la lettera, rimasta senza
effetto, con la quale nel 1413 il Fieschi invitava Gasparino Barzizza, allora
insegnante a Padova, ad assumere una lettura nello Studio bolognese (doc. 189)
e parecchie licenze di portar libri fuori di Bologna, concesse dallo stesso car-
dinale a studenti ed a maestri (docc. 179, 185, 200, 206, ecc.), nelle quali
sono spesso annoverate, accanto alle opere giuridiche, scritture letterarie
classiche e medievali. Fra i nomi poi che non figurano nell'indice perchè di
persone estranee allo Studio, si incontrano, anche nel secondo volume, quelli
di Loderingo degli Andalò, la cui madre Agnese, vedova di Andalò, compera
e scambia terreni nel maggio del 1258 (docc. 26 e 27), e del suo collega
nelle podesterie di Bologna e Firenze e nel dantesco collegio degli ipocriti
tristi, frate Catalano, del quale impariamo a conoscere un figliuolo « domino
« Guillielmo domini fratris Cathelani », testimonio ad un atto del 19 gen-
naio 1280 (doc. 30). Se un « Petrus de Medicina », che insieme col dottor di
leggi Ugolino Zamboni consiglia il giudice del podestà in certa causa del 1254
(doc. 23), sia il dantesco seminator di discordie o l'altro Pier da Medicina,
giudice generale del Rettore della Marca nel 1235, cui pochi versi volgari
scoperti qualche anno fa diedero notorietà fra gli studiosi, o non sia né l'uno
né l'altro, sarà difiìcile stabilire. Ma quel « dominus Stricha de Saglimbenis
« de Senis », che é ricordato come podestà di Bologna in un documento
del 1286 (doc. 38), sarà bene, secondo l'opinione della maggior parte dei com-
mentatori, lo Stricca dantesco « che seppe far le temperate spese ». V. R.].
P. Valacca. — Le Rime « estravaganti » da attribuire a G. Boccaccio.
— Maglie, tip. F. Capece, 1913 [Da un'osservazione del Parodi nella sua
rassegna (Marzocco del 14 marzo 1909) della postuma stampa solertiana di
Bime disperse di F. Petrarca è stata determinata nel V. la « tentazione » [si-c]
di scovare dentro l'abbondante raccolta qualche componimento da restituire
al Boccacci. Non possiamo dire per altro né ch'egli abbia cercato bene né
che abbia trovato gran cosa : che, in fondo, tolti i due sonetti Le nevi sono
e le pioggie cessate e Istanca e scalza e co' le trezze avvolte (Solerti, XC
e CLXX), sui quali s'era già appuntato lo sguardo acuto del Parodi, il V.
non à saputo indicare come probabilmente boccacceschi che cinque altri, ossia
quelli numerati CVI, CVII, LX, XCI e CXCIX. Quest'ultimo é del Boccacci
sicuramente, perché col nome di lui si trova nel ed. Magliabechiano VII, 640
(e. 10 v): il che sfugge al V., come sfuggì al Solerti ed ai suoi recensori. Ra-
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 251
gionevole e accettabile, per quanto non appoggiata su così aperte testimo-
nianze, mi sembra anche la rivendicazione dei sonetti LX e XCI a messer
Giovanni ; non oserei invece dir altrettanto dei due CVI-CVU, assolutamente
indegni del nostro poeta per la loro disadorna volgarità e da ritener più tosto
appartenenti alla poesia semiletteraria che alla colta. In una noticina è allar-
gato il sospetto al sonetto CXC, perché « vi si descrivono i divertimenti e le
« delizie di una marina, che potrebbe essere Baia, con tale accento di verità
« che ci richiama alla mente la Fiammetta nei passi relativi », e al CCIII, il
quale offre qualche analogia di concetto con due sonetti autentici : e qui, mi
pare, il V. à ragione. In un prossimo studio egli si propone di tornare più dif-
fusamente sull'argomento e di indagare quali altre poesie della silloge soler-
tiana si possano attribuire al Certaldese ; non mi sembra inutile avvertire che
io, affrontando la stessa ricerca nell'introduzione al mio testo delle Bime
boccaccesche, ò creduto di riconoscere tale qualità in ventinove sonetti, dei
quali ò soggiunto in appendice una ristampa critica. Attendendo il nuovo
studio del V., sia lecito far voti che in esso appariscano meno difettivi il ri-
gore scientifico dell'indagine e la proprietà dell'espressione. A. F. M.].
Luigi Albertazzi. — Compendio della vita del h. Giovanni Colombini,
testo latino del h. Giovanni T avelli da Tossignano e testo volgare di un ano-
nimo del Quattrocento raffrontati con la vita classica del beato cotnpilata
da Feo Belcari. — Quaracchi, tip. S. Bonaventura, 1910 [Qual sia il conte-
nuto dell'opuscolo presente, che solo ora ci giunse, dopo anni che è stampato,
si arguisce precisamente dal lungo titolo. Ne teniamo parola, anche così in
ritardo, perchè è complemento indispensabile a quanto fin dal 1885 il cano-
nico Albertazzi scrisse della vita del b. Colombini. I risultati di quel prege-
vole articolo del vecchio Propugnatore furono già indicati nel Giorn., 6, 453.
Ora l'A. pubblica il testo latino correggendo su d'un ras. Marciano quello
che già avea prodotto nel 1764 il Mansi, esemplando un ms. di Siena. E gli
mette a fronte la versione volgare, quale occorre nel ms. 2545 della Riccar-
diana. A giusto titolo egli s'è convinto che quella versione non è del Belcari,
come prima supponeva, ma che il Belcari la innestò nella vita sua del Co-
lombini. Se a questo fatto ragguardevole si aggiunga che tredici capitoli
della Vita dettata dal Belcari son tratti di peso dalle lettere del Colombini
medesimo, se ne dovrà concludere che il valore della scrittura del Belcari,
tanto esaltato un tempo, va ridotto alquanto, per ciò che spetta al merito
del suo autore, perchè troppe parti di essa non sono opera originale di lui].
Giovanni Pansa. -— Giovanni Quatrario di Sulmona (1336-1402). Con-
tributo alla storia dell'umanesimo. — Sulmona, tip. editrice sociale, 1912 [In
un codice scritto nel 1440 da mano corrente umanistica, con la r che va sotto
il rigo secondo l'uso della scuola napoletana, si conservano le poesie latine di
Giovanni Quatrario sulmonese, della seconda ^età del secolo XIY. Veramente
il cognome autentico fu più tardi frodolentemente raschiato e sostituitovi
quello del Barbato, ma non sì che in un luogo la raschiatura imperfetta non
lasciasse trasparire la parola primitiva. Ora il merito, certamente insigne, di
avere rivendicato al legittimo autore l'opera contenuta nel codice spetta al
252 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
signor Giovanni Pansa. Non che il Quatrario sia un grande poeta: che anzi
per le manchevolezze formali è un poeta infelice, incapace di padroneggiare
la frase e il metro; ma ha una doppia importanza, che nessuno gli può ne-
gare : importanza storica e importanza umanistica. Storica, poiché per mezzo
suo si illuminano di luce nuova molti fatti e personaggi del suo tempo ;
umanistica, non fosse che per questo, che imitò e riprodusse i metri oraziani
lirici ed epodici, onde è il primo degli umanisti che apprezzò Orazio lirico,
superando in questo riguardo lo stesso Petrarca e precorrendo i secoli che a
Orazio lirico resero piena giustizia. — Delle molteplici e amorose cure spese
dal Pansa intorno al suo autore gli studiosi gli devono esser grati. Il testo
delle poesie è pubblicato integralmente, accompagnato a pie di pagina da
note dichiarative ; e ad esso va innanzi un'ampia esposizione storica. Forse
buona parte del lavoro dedicato all'interpretazione poteva egli volgere con
maggior profitto all'esatta costituzione del testo : per l'interpretazione, sempre
difficile e spesso inafferrabile, avrebbe trovato nei lettori altrettanti solerti e
volonterosi collaboratori, come usa quando per la prima volta si dà alle stampe
uno scrittore nuovo. R. S. (1)].
Domenico Santoro. — Il viaggio d'Isabella Gonzaga in Provenza. —
Napoli, tip. Melfi e Joele, 1913 [Può dirsi complemento al lavoro speciale
sull'Equicola già edito dal Santoro; cfr. Giorn., 49, 171-73. Dal 24 aprile al
2 luglio 1517 durò il viaggio che Isabella d'Este Gonzaga, con seguito di
gentiluomini e di donzelle, fece nella Francia meridionale. Era tra gli accom-
pagnatori anche l'Equicola, il quale descrisse quel viaggio in un opuscolo oggi
rarissimo intitolato D. Isabelae Estensis Mantuae principis iter in Narbo-
nensem Galliam. Fu già detto in questo Giorn., 34, 10 che in quell'opuscolo
« le frasi retoriche e le nozioni topografiche e storiche tengono il luogo dei
« particolari privati curiosi che avremmo preferito trovarvi ». E la Cartwright
quasi parafrasando: « The last-named scholar (Equicola) wrote a pedantic
« account of this journey, more with the object of showing bis learning than
« of recording facts of interest » {Isabella d'Uste, II, 133). H Santoro spreme
ora tutto il succo di quella narrazione e ce l'offre in compendio, con qualche
brano di traduzione letterale. A complemento, fa seguire, traendole dall'Archivio
Gonzaga, cinque lettere scritte durante il viaggio dall'Equicola al primogenito
d'Isabella, Federico. Da buon cortigiano, l'Equicola vi si trattiene, più che altro,
sulle licenziosità che si permettevano le damigelle, ben sapendo quanto ne fosse
ghiotto il rampollo alquanto libertino dei Gonzaga. — L'esemplare àeWIter,
di cui si valse il S., è quello mutilo e guasto, di cui egli medesimo già toccò
nel Giorn., 15, 411. Fa meraviglia ch'egli dica quell'esemplare « il solo che,
« per ricerche fatte, credo sia giunto fino a noi » (p. 7). Chi scrive n'ebbe in
casa per molti mesi un altro, integro e ben conservato; né ò l'unico che si
(1) Per la polemica suscitata dal volume del Pausa, polemica dotta, se anche
acerba, che contiene elementi istruttivi , vedansi i rinvii del nostro OiornaU,
liXn, 460. La Direzione.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 253
conservi in Mantova. Gli esemplari veduti dai maggiori bibliografi debbono
essere conservati in grandi depositi esteri. Comunque sia, l'opuscoletto è cer-
tamente ben raro, ed il S. ha fatto bene a trarne le poche notiziole alquanto
curiose che contiene].
Giuseppe De Michele. — La vita di Nicolò Franco. — Arpino, tip. arpi-
nate, 1913 [Estratto dagli Studi di letteratura italiana. Giovandosi di ciò che
il Franco lasciò scritto di sé, e degli studi su di lui più recenti, massime di quelli
di S. Bongi, di C. Simiani, di A. Luzio, di E. Sicardi (gli assidui del Gior-
nale se ne rammenteranno), ritesse del Franco la vita senza apportarvi, a dir
vero, grandi novità, ma aggiungendo piccoli dati nuovi, temperando certi
giudizi forse un poco eccessivi e cercando di fare le parti sue di contro al-
l'Aretino, come altri assunsero le parti dell'Aretino di contro a lui. Non è qui
il luogo di sentenziare chi abbia ragione; ma ad ogni modo a questo studio
va data lode di diligenza coscienziosa, ed anche di esposizione chiara e so-
bria. Dal cod. Vatic. 5642, così spesso posto a profitto da altri, e che il De M.
ritiene « certamente autografo », anzi suppone sia « l'abbozzo del IV libro
« delle Lettere che il Franco spesso promise di dare alle stampe, ma non pub-
« blicò mai »; dal cod. Vaticano suddetto, ripeto, son qui pubblicate 15 lettere
inedite e due sonetti. Inoltre una sua pasquinata contro il cardinale Carafa è
desunta dal ms. Vatic. Ottob. 2684. Rispetto ai motivi della condanna del
Franco ripete il De M. quanto già avea dimostrato lo Gnoli (cfr. Giornale,
38, 462) ed anzi riproduce sulla sua morte il documento che lo Gnoli trovò
nell'archivio della confraternita di S. Giovanni Decollato. Nel complesso, vo-
lentieri lo ripetiamo, lo scritto del De M., senza insegnarci novità molto si-
gnificanti, è un buon riferimento critico e una buona revisione di quanto sul
famigerato libellista fu scritto; e si può fidarsene].
Lina Marci. — Laura Terracina poetessa napoletana del sec. XVL —
Napoli, Fr. Perrella, 1913 [Dev'essere originariamente una tesi di laurea.
Molti fatti nuovi non insegna: ripete quelli che sulla feconda fabbricatrice
di versi napoletana e s«lla famiglia di lei scrissero il Bongi, Annali Gioli-
tini, I, 227-31 e B. Croce nella Napoli nobilissima, per cui cfr. Giorn., 38, 469 e
39, 462. Fa vivere la poetessa dal 1519 alla fine del 1577 o al principio
del 1578. Esamina parecchio sommariamente le sue raccolte di versi a stampa
che sono 8, a cominciare da quella ch'ebbe l'edizione principe dal Giolito
nel 1548 ed a terminare con quella veneziana del 1567. Taluna di quelle
raccolte ebbe nove e fin undici ristampe ; par quasi impossibile, trattandosi di
roba così dozzinale, scipita e senza ispirazione. Si valse pure delle elegie
delle donne vedove, nella rarissima edizione napoletana del 1561, di cui assi-
cura che l'unico esemplare compiuto è quello dei Gerolomini di Napoli (p. 110),
mVitre il Bongi dice [Op. cit., I, 455) che ne possedeva un altro il conte
Manzoni. La M. ha pur tratto profitto d'un^nona raccolta di rime di Laura,
inedite ed encomiastiche, trascritte in un codice della Nazionale di Firenze.
Parrebbe che da questa così larga esplorazione l'Autrice del saggio dovesse
trarre buon costrutto e rappresentarci un po' al vivo l'indole, l'attività, il va-
lore, le relazioni, la fisionomia artistica della sua scrittrice. Invece vaga nel-
254 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
l'indeterminato ; scagiona senza prove la Tenacina dalle tradizioni corse sulla
licenziosità dei suoi costumi ; riporta parecchi tra i suoi versi non belli, ma
non sa determinarne il preciso significato. Ha espressioni come la seguente:
« crebbe vergine di ogni vernice storica e filosofica [sic), ma in compenso ebbe
« ingegno acuto e vivido e la parola ebbe animata, specchio di un pensiero
« fortemente temprato nel sentimento consapevole della virtù » (p. 33). Frasi.
Nelle sue liriche riconosce la « linea spesso difettosa dello stile » (p. 35),
« una forma superficiale e un'invenzione stilistica (sic) scarsa » (p. 97); ma
trova qualcosa di buono nelle sue rime morali e soggettive, senza saperci dire
che cosa veramente sia questo qualcosa di buono. S'entusiasma per un so-
netto politico sull'Italia, che giudica essere tra i più belli del genere nel se-
colo XVI (pp. 95-96), sebbene Laura avesse gran propensione verso gli Spa-
gnuoli. Anche sulle molte amicizie, poetiche e non poetiche, di lei, non aggiunge
gran che di nuovo, neppure su quella col Tansillo già documentata dal Fio-
rentino (vedi la sua ediz. delle Poesie Uriche del Tansillo, Napoli, 1882,
pp. 26 e 233-36); solo apprendiamo dalla chiusa di un sonetto inedito che
quella relazione dovette andar soggetta ad una brusca rottura perchè la poe-
tessa ormai attempata e desiderosa della fine, pur rammentando i suoi ammi-
ratori estinti, conclude col dire : « Di Tancillo non curo, né mi duole | De
« la sua morte, perchè si credeva | Tener de la fortuna in man la rota »
(p. 69). L'A. pone tra il 1560 e il '61 il matrimonio di Laura « con un suo
« ardente amatore e fors'anco suo parente, Polidoro Terracina » (p. 60), che
le fu compagno sin troppo fervidamente attaccato, sì da tormentarla conila
sua gelosia. — Concludendo. La sig.* M. s'è travagliata intorno ad un tema
ingrato, senza ricavarne gran costrutto. Tuttavia, non essendovi ancora sulla
Terracina nessuna memoria speciale, bisogna pur esserle, non foss'altro pel
buon volere, indulgenti e riconoscenti].
Giuseppe Biadego. — Letteratura e patria negli anni della dominazione
aiostriaca. — Città di Castello, Casa Lapi, 1913 [Lodevolissimo pensiero fu
questo di ristampare, con ritocchi ed aggiunte, gli scritti principali del Bia-
dego riguardanti il periodo del nostro risorgimento politico. L'erudito biblio-
tecario veronese non suole scrivere mai cosa alcuna che non rechi qualche
fatto nuovo o non rettifichi errori inveterati; egli porta in ogni argomento
giudizio equilibrato e sereno, cognizione approfondita della materia onde di-
scorre. Centro d'ogni sua ricerca suol essere l'amata patria, Verona, da cui
s'allontana di rado e per poco. — Quelli, e sono i più, tra gli scritti rac-
colti nel presente volume che si riferiscono alla storia delle lettere, furono
annunciati, e alcuni riassunti, nel nostro Giornale, quando videro la prima
volta la luce. Seguendo la cronologia, rammenteremo anzitutto l'articolo su
V. Monti sospettato dalla polizia austriaca (su cui cfr. Giorn., 59, 455); poi le
Spigolature manzoniane, a proposito delle pubblicazioni di Ercole Gnecchi,
con una lettera del Manzoni al can. Giuliari, su cui il B. ha una breve nota
commemorativa; l'articoletto su G. Prati, che riferisce un sonetto scherzoso di
lui per essere ammesso nel congresso dei dotti del 1847; due scritti impor-
tanti su Aleardo Aleardi, uno dei quali, riflettente il '48 e '49, ricompare
BOLLETTINO BIBLIOGBAFICO 255
senza il prezioso corredo epistolare (cfr. Giorn., 57, 163), mentre l'altro rife-
risce una saffica satirica inedita in morte di Maria Luigia. Notizie spicciolate
suir Aleardi occorrono pure in altri luoghi del volume, e l'indice finale dei
nomi propri giova a richiamarle. Ricompare qui la commemorazione di Ce-
sare Betteloni, con l'appendice delle lettere e coi paralipomeni (cfr. Giornale,
40, 463 e 46, 478); e del medesimo poeta veronese leggesi una poesia ama-
ramente giocosa neWsivtìcoìo I prigionieri toscani di Curtatone a Verona, ove
son pure lettere di Pietro Fanfani e di Enrico Bindi al padre Sorio. Anche
di Vittorio Betteloni riappare qui la commemorazione recente, seguita dal-
l'interessante carteggio. Tre brevi scritti riguardano Giacomo Zanella, come
poeta e come traduttore ; di Cristoforo Pasqualigo ò ricordo con bibliografia.
Molte cose utili e garbate, insomma, che attestano, accanto alla bene ordi-
nate dottrina, gentilezza di sentimento].
Alessandro D'Ancona. — Memorie e documenti di storia italiana dei se-
coli XVIII e XIX, Firenze, Sansoni, 1913. — Idem. — Ricordi storici del
risorgimento italiano, Firenze, Sansoni, 1913 [Fa piacere il trovare raccolti,
con alcune giunterelle nelle note, questi scritti ben conosciuti dell'instanca-
bale vecchio letterato, che sono in gran parte frutto di ricerche in antiche
carte obliate. Il D'A. ha il fiuto del documento importante e lo incastona con
maestria nella sua larga e coscienziosa illustrazione, sicché si riesce a trarne
tutto il profitto. Il maggiore scritto dei due volumi, che apre le Memorie,
è quello notissimo su Federico il grande e gli italiani, edito la prima volta
nel 1891 e già nel 1892 uscito in versione tedesca. Letterati e scienziati ita-
liani vissuti a quel tempo presso la corte di Prussia ci sfilano d'innanzi : vi
tengono i primi posti lo Spallanzani e il Lagrange, l'Algarotti, il Denina, il
Lucchesini e il Filati. V è pure detto di artisti da teatro italiani favoriti
dal potente Federico, e specialmente di quella Barberina Comparini, le cui
relazioni col re della giovane Prussia ebbe riflessi anche politici. Né v'è ta-
ciuto degli acquisti d'arte fatti allora in Italia dalla corte prussiana, con la
mediazione specialmente del conte Giulio Cesare Masini di Cesena. Una nota
aggiunta, del tutto nuova, tratta dell'uso che fece della figura di Federico II
la scena italiana (p. 10). Tacendo degli articoli di storia civile sulla prepara-
zione liberale del ventennio 1790-1810, richiamiamo l'attenzione sulle preziose
Spigolature nelV archivio della polizia austriaca di Milano, da cui si ricava
una volta di più quanto vigile fosse l'Austria nel seguire le mosse degli ita-
liani liberali e anche degli stranieri sospetti, come il Fauriel e come lo
Stendhal, sul quale il D'A. ha pure un articolo speciale, che lo studia nei
suoi rapporti con l'Italia, nel voi. dei Bicordi storici (argomento ripreso dal
N ovati in La lettura del gennaio 1914). Le rivelazioni più importanti delle
Spigolature concernono Pietro Giordani: con lettere sue e d'altri, integrate
con le carte rinvenute nell'archivio di Parrai^, il D'A. narra per filo e per
segno la storia dell'esilio del Giordani nel 1824 e della sua carcerazione nel 1834.
In un'aggiunta di pp. 352-55 si trova ribadita con nuovi dati di fatto l'ac-
cusa che grava su Pietro Brighenti di essere spia dell'Austria. Altre spigola-
ture da archivi si trovano nel volume dei Bicordi storici, e qui si tratta di
256 BOLLETTINO BIBLIOGBAFIOO
archivi privati non facilmente accessibili. Nell'archivio Targioni-Tozzetti son
rilevate molte lettere di Antonio Ranieri e alcune del Giordani a Fanny
Targioni-Tozzetti (la celebre Aspasia), in cui è spesso parola del Leopardi;
nell'archivio Lotti rileviamo lettere e frammenti di lettere del Tommaseo;
abbondante messe di notizie s'ha dall'archivio Montanelli, ove non solamente
spiccano caratterizzate le figure di Giuseppe Montanelli e di F. D. Guerrazzi
(del quale è pur parola altrove, con giudizi che la storia giudicherà se siano
del tutto sereni), ma fanno capolino anche altre, G. B. Niccolini, V. Gioberti,
Gino Capponi, Gius. Giusti, ecc. Rilevabili pure due lettere del Manzoni ri-
guardanti la causa ch'egli ebbe col Le Mounier per l'abusiva ristampa del
romanzo, e due altre lettere, interessanti, di Fr. De Sanctis da Torino. Altri
scritti minori riguardano Luigi Carlo Farini, a proposito del suo carteggio
edito da Luigi Rava, con ricordi personali preziosi ; G. P. Vieusseux, a pro-
posito del libro del Prunas snlV Antologia ; Un poeta diplomatico, vale a dire
la missione dell' Aleardi a Parigi nel 1848, sulle lettere edite dal Biadego
(cfr. Giorn., 57, 163); Costantino Nigra riguardato come poeta; G. B. Giorgini.
Tutte cose di buona sostanza e però istruttive, nonché piacevoli a leggersi.
Vuoisi richiamare siccome ampio resoconto di questi due volumi, con l'ag-
giunta di particolari nuovi, l'articolo di V. Cian, Attraverso due secoli di
storia e di vita italiana, nel Fanfulìa della domenica, XXX\T[, 3, 8, 9].
PUBBLICAZIONI NUZIALI
Adolfo Mabellini. — Lettere inedite di Silvio Pellico al conte Andrea
Gahrielli. — Fano, tipogr. letteraria, 1914; ediz. di 150 esemplari per nozze
Borgogelli-Jaume [Cinque lettere al conte Gabrielli dal 1846 al '52; una, del
28 die. '45, al gesuita padre Francesco Degioanni, ove è detto del Gabrielli :
« in gioventù siamo stati amicissimi, ed egli già era eccellente ». Il Pellico
conobbe infatti il Gabrielli a Milano, forse in casa Porro. Egli nacque in Fano
nel 1792 e morì in Roma nel 1852. Ebbe in moglie la contessa Fannv Wise-
mann, sorella del celebre cardinale. Di spiriti temperatamente liberali, prese
parte alla politica ed all'amministrazione pubblica. Su di lui, e sulle sue scrit-
ture in prosa ed in verso, il M. sa darci copiose notizie, desunte dalle carte
che si custodiscono nella biblioteca di Fano, ove sono pure gli autografi delle
lettere del Pellico qui pubblicate. Lettere poco sapide, come in genere tutte
quelle del Saluzzese di quel periodo, ma buone e candide. Rileviamone due
periodi, ove prevale pur sempre la preoccupazione religiosa, ma con qualche
allusione non del tutto scevra di valore : « Il tuo sentire in fatto di religione,
« cred'io, è sempre stato sano; io vissi fra dubbii per molti anni, esaminando
« ora un sistema filosofico, ora un altro. Vidi alfine che la base manca a tutti
« i sistemi quando non s'appoggiano sulla fede cattolica e, per grazia di Dio,
« la verità rifulse al mio sguardo » (p. 35). « Felice me, s'io potessi mirare
« addietro nella vita trascorsa, e non avermi a rimproverare mille giovenili
« stoltezze! Che circa il non aver fatto più numerosi libri, sento che ciò per
« mio conto non significa nulla, ed anzi penso che sia meglio cosi. Amo an-
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
257
« Cora la letteratura per antico gusto, leggo volentieri le cose belle, e riconosco
« negli studii un pregio, un elemento di gentilezza ; ma non mi esagero più
« l'importanza di moltiplicare volumi, allorché altri doveri maggiori chiamano
« l'intelletto a faccende d'altra natura » (pp. 37-38)].
Francesco Picco. — Un « memoridl » di Gabriel Giolito de' Ferrari, con
breve chiosa. — Torino, tip. Bona, 1914; per nozze Vallana-Picco [Verosi-
milmente intorno al 1564, come congettura il Picco, chiede il Giolito, « mer-
« cante de libri al segno della fenice in Venetia », privilegio d'esclusione per
impressione e vendita ad un potentato, che non si sa esattamente qual sia.
Le opere per cui chiede tale privilegio sono cinque, tra cui la Historia d'Italia
del Guicciardini. Il documento si trova nell'archivio di Stato in Parma].
Gregorio Gattinoni. — Inventario di una casa veneziana del sec. XVII.
— Mestre, Officine grafiche, 1914; ediz. di 200 esemplari per nozze Gattinoni-
Carbone [Riproduce un codice dell'archivio domestico. Esso reca il ricco inven-
tario di oggetti d'arte, di lusso, d'uso della casa Caliari, redatto nel 1682. Im-
portante per la storia dell'arte, giacché vi si trovano elencati dipinti, abbozzi e
studii dei quattro pittori di quella famiglia, il più celebre fra i quali fu Paolo,
comunemente noto col nome di Paolo Veronese. L'inventario è scritto in quel
gergo mezzo italiano e mezzo veneto, che a Venezia, durante la Serenissima,
era linguaggio officiale. L'editore non rifuggì dal compito difficile di spiegare
le voci meno agevoli del documento e chiuse il suo signorile opuscolo con un
indice-glossario, per cui tanto il glottologo quanto lo studioso del costume gli
dovranno riconoscenza. È un lessico fatto con diligenza e dottrina].
Ciro Trabalza. — Petrarca, Fauriel e Macine nelV inedita digressione
sulVamore dei Promessi Sposi. — Perugia, tip. cooperativa, 1914; ediz. di
101 esemplari per nozze Giolitti-Tami [Buono e grazioso opuscolo. Il Tr. vi
studia una parte finora trascurata di quella celebre digressione contenuta
nella pi-ima stesura del romanzo manzoniano, che ancor prima della pubbli-
cazione dello Sforza offrì occasione agli scritti del Fogazzaro e di Giov. Negri,
per essere stata riferita dal Bonghi fin dal 1886. È la digressione in cui il
Manzoni giudica poco opportune le descrizioni degli amori nei romanzi. Il Tr.
riferisce quel giudizio alla temperie dei portorealisti e si trattiene in ispecie
su ciò che nota il Manzoni di due grandi travagli d'anime, quello del Pe-
trarca e quello del Bacine. Dilucida le due citazioni e nel tempo stesso fa
vedere che certamente don Alessandro alludeva al Fauriel accennando ad uno
scrittore eminente che avrebbe presto emesso le idee sue profondissime sul Pe-
trarca, ciò che poi in realtà il Fauriel non fece. Il Tr., che pur rivela anche
in questo lavoretto coscienziosa preparazione, poteva forse trovar modo, a pro-
posito della crisi spirituale del Racine, di rammentare il libro del Masson-
Forestier, Autour d'un Racine ignoré, Paris, 1910, libro rivoluzionario e un
po' mattoide, che sollevò in Francia parecchio rumore (cfr. Berne des deux
mondes, 15 die. 1910 e 1° febbr. 1911, e Bevue d'histoire liti, de la France,
voli. XVII e XVIII). Anche negli articoli degli avversari parmi che resti
scossa l'opinione, a cui il Manzoni dovea credere, d'un ritorno del Racine al
giancjenismo ; il Masson e il Faguet negano addirittura che il grande tragico
dovesse qualcosa a Portoreale]. •
Giornale storico, LXIV, fase. 190-191. 17
COMUNICAZIONI ED APPUNTI
Intorno a una « tornada » indirizzata a Otto del Carretto. — Il com-
ponimento di F. de Romans Atccel no triwb chantan (ediz. Zenker, Halle,
1896, p. 50, n. VI) si chiude con questi versi:
N' Oth del Caret, lo cor
avez on prez no mor:
qu'ainch nulhz bars no renhet
plus franchamen
ni genchers no obret
home valen,
per qu'ieu am la vostra senhoria.
Tale è la lezione dello Zenker, il quale s'è attenuto all'unico ms. L (Vati-
cano 3206 ; Arch. f. d. St. d. n. Spr. u. Ut, XXXIV, 426), salvo in due punti :
ha, cioè, mutato ho cor in lo cor al v. 1 e ha cambiato al v. 5 òhret in ohret.
Ora questo verso 5 non accontenta, anzi tutto perchè bisognerebbe ammet-
tere che home valen stia per il nominativo, nel che non si può facilmente
consentire con l'editore, e poi perchè F. de Romans non deve essersi espresso
in modo molto diverso dagli altri trovatori, i quali ascrivevano a somma
lode per un loro protettore il saper accogliere e onorare gli uomini valenti.
Insomma, a me par chiaro che dhret del cod. deve essere modificato in
òdret [ondret), ammettendo uno scambio spiegabilissimo di h per d, da parte
del copista, e che getichers è un fallo dello stesso amanuense per gencheis.
Genchers era tanto comune, che facilmente si comprende come esso abbia
potuto sostituire il meno usato gencheis. L'originale della « tornata » indi-
rizzata a Otto del Carretto doveva sonare, oso dire, certamente: ni gencheis
non otidret — home valen, cioè: « né (alcun barone) seppe mai onorare,
meglio di voi, un uomo valente » (1).
(1) Appel, Lit. f. germ. u. rom. Phil, XVII, 169 e Mussafia, Zur Kritik u. Interpre-
tation roman. Texte, in Sitzungsberichte dell'Aooad. di Vienna, CXXXIV, p. 82, hanno
interpretato diversamente il passo. L'uno e l'altro propongono gencheis, ma man-
tengono obret dello Zenker; il primo non dice nulla di ìiome valen (dunque la sua
dichiarazione è, in fondo, quella medesima dello Zenker); mentre il Mussafia
scrive: * home valen ist Vooativ, und da ist die oblique Form zulftssig». Credo
(naturalmente!) che la mia proposta sia migliore, e ho fiiacia che moltissimi altri
saranno d'accordo con me.
COMUNICAZIONI ED APPUNTI 259
Giacché ho la penna in mano, faccio una piccola osservazione concernente
i vv. 38-48 del medesimo componimento :
donna, ajatz ohai • 1 cor,
que miens es lai que mor,
qu'ainch un jor no • m lonJiet
vostre oors gen
ni re no desiret
tan coralmen.
Bisogna leggere que''l mieus e non lonhet (cioè: « donna, abbiate qui il vostro
« cuore, che il mio è là (presso di voi) e muore e mai non abbandonò il vostro
« corpo grazioso e nulla amò di più corale amore »). Il Mussafia ha proposto
già quel, con piena ragione (e l'Appel, a quanto vedo, pur senza proporre
questa facile correzione aveva perfettamente compreso il senso generale di
questi versi) ; ma a me par necessario ricordare che il nostro trovatore allude
qui alla famosa prigionia del cuore, che è uno dei luoghi comuni dell'antica
poesia provenzale e francese. -Si tratta del « cuore » ,che è imprigionato nel
corpo dell'amata. Potrei citare più esempi per l'antica letteratura francese,
p. es. Cligès, vv. 282 sgg. e nella poesia dei troveri {Archiv del Herrig,
XLin, 273):
Mais [mes cuers]... s'en est en li eritrei»
0 anche: Sanz cuer sui, deus enama dame (Scheler, Trouv. helges, II, 143).
Cfr. anche Gace Brulé (ediz. Huet), n. XXX. Per la lirica provenzale, ricor-
derò i seguenti versi di Gauceran de S. Leidier (ms. A, Studj di filol. rom.,
m, 529):
sapchatz de ver mos cors de mi non fo
anz es remas en la soa preiso.
Non piccola parte del componimento En chantan m^aven di Folchetto di Mar-
siglia è dedicato a codesta « prigionia d'amore », che dalla poesia provenzale
e francese passò ai poeti delle origini nostre.
Giulio Bertoni.
Tre codici umanistici pietroburghesi. — Il prof. Fridolin di Pietroburgo
mi aveva da tempo segnalato l'esistenza, in quella Biblioteca Imperiale, di un
ms., creduto autografo di Lionardo Bruni. L'autunno scorso ebbi la fortuna
di rintracciarlo e ne posso dare la descrizione agli studiosi di cose umanistiche,
pur lasciando sospeso il giudizio in merito all'autografia.
Il Petropol. lat. 0. v. IV. 4 proviene dal fondo del museo dell'Eremitaggio;
vediamo ancora, incollata sulla rilegatura, la quota antica : « EMnepaTopcKan
^pMHxaacHafl HHOCxpaHHaH Bii6jiìoTeKa. 96. niKani. 5, nojiKa 2 ». Sulla
guardia anter. (1 r) leggiamo: « Leonardus Aretinus de Temporibus suis | 1436.
260 COMUNICAZIONI ED APPUNTI
« Orìginalis. La signature de l'Auteur se trouve au dernier feuillet verso ».
Il tutto è scritto da varie mani recenti; l'accenno alla firma del Bruni è
uno sbaglio grossolano, giacché a 52 ^' (guardia posteriore) si trova un « Leo-
nardus Aretinus » di scrittura per lo meno cinquecentesca, accanto alle firme
dei bibliotecari A. EpMOJiaeBi> e II. Bh^kobi. (l'attuale capo-sezione dei mss.).
Per la storia del cod. può servire, oltre ad un'altra vecchia quota 1601 (1 v),
un « Io. Delphini » (m. sec. XM^-XVU ?), 3 r e la preziosa indicazione, 3 v
imo mar g. « Ex Musaeo Petri Dubrowsky »; a 49 v l'istessa nota bibliogra-
fica è ripetuta colla data 1788. Si tratta quindi di uno dei tanti acquisti
fatti in Francia dal solerte bibliotecario di Caterina II, alla quale ultima, sia
detto tra parentesi, dobbiamo la presenza in Pietroburgo di tutta, se non er-
riamo, la biblioteca del Voltaire, con importanti postille a mano, non ancora
studiate a dovere, lasciate dall'istesso filosofo sui margini dei suoi libri (1).
Ma torniamo al Bruni. 11 ms., pergamenaceo, calligrafico, è della prima
metà del secolo XV, misura cm. 12-18,3 (spazio utilizzato 8-11,3 circa). La
scrittura, piuttosto arcaizzante, ha qualcuna delle caratteristiche della minu-
scola « antica » petrarchesca; le lettere mi sembrano alquanto più aguzze di
quelle che ravvisiamo nel « calamus calligraphicus » del Bruni, sebbene non
potrei pronunziarmi recisamente prima di un accurato esame, corredato da
fotografie, che mi riservo di fare nella prossima andata a Pietroburgo. Qualche
noterella marginale coeva (26?;-27r; 27 f-28 r, ecc.) è di una seconda mano.
Il cod. ha 49 carte utilizzate e 5 bianche. A 3 ;• vediamo un bellissimo fron-
tespizio miniato, con fiori e rabeschi in rosa, rosso, avana, verde, blu, viola
ed oro; il titolo spicca in lettere dorate su sfondo rosa e verde (il rosa al-
quanto sbiadito) : Leonardi. De temporibus, suis. lege feU'.
Anche se non autografo, questo cod. ha quindi un' importanza eccezionale
per la critica del testo di una delle più rilevanti opere storiche del Bruni.
Ne daremo in sede più acconcia le varianti.
L'enciclopedia letteraria di Sicco Polenton sembra ora venuta di moda.
Tornerà per ciò gradita una noterella sul bizzarro cod. che ne scoprii a Pie-
troburgo. È il Lat. F. IV. 81, copia settecentesca di un originale scritto « per
« me I Bonifacium Evangelistae de Murroval | lium (se^/) sub annis. D.ni
MCCCCLII I TPR • Nicolai PP. Vti Die X \ lanuarii in Murro antedicto ».
Questo ms. cartaceo (cm. 21-34,9) comincia ex abrupto con un indice alfa-
betico (carta di guardia non num. r-v) ; segue « Ad Henricum Episcopum
" Feltrensem | Epistola » (2) (carte non num. 2 r-4?*), expl. « Ex Padua II (sic)
(1) Ci era già pervenuta questa comunicazione allorché cominciò a Parigi, edi-
tore Champion, la stampa di Voltaire, (Euvres inédites, dovuta alla cura di Fernand
Caussy. I primi volumi di quest'edizione (mentre scriviamo ne è fuori soltanto il
primo) sono in gran parte materiati con gli autografi di Pietroburgo.
La Direzione.
(2) Sì tratta quindi, come comprova altresì l'esame del testo, della seconda red.
(Seoarizzi Catinia, ecc., di Sicco Poi., Bergamo, 1899, XLIX; Sabbadini, Studi it. di
COMUNICAZIONI ED APPUNTI 261
« nonas octobres MCCCCXXXVII ». Il settecentista, 2 r, imo marg., aggiunge
una nota, ove spiega chi fosse il destinatario della lettera colla scorta del-
l'Ughelli {It. sacra, V, 375; cfr. Eubel, I, 136). Esso contiene 5 carte non
numerate, 303 num. e 2 non num. Interessanti sono le correzioni coeve alla
scrittura del ms. in inchiostro rosso, dovute indubbiamente ad un erudito
italiano (24 r marg. « neminem, nisi legendum si 7o nisi stare debet »; 56 r
« Non disputo de lo quod Xicconi non raro idem est ac An, Num »), il quale
si serviva, oltre al nostro, di un secondo codice (11 ?; « Vide codicem al-
« terum »). Queste correzioni sono, crediamo, la sola cosa che può offrire interesse
alla scienza ; il corpo del testo, non sappiamo se per colpa dell'originale o della
copia, è irto di sviste e di abbagli, talvolta grossi.
Il cod. lat. Q. IV. 198 è di mano secentesca, ma probabilmente il suo ori-
ginale risale ancora all'età del tardo umanesimo. Questo manoscr. cartaceo
(cm. 15,2-19,3; carte 171 e otto bianche) contiene un'anonima Historia pro-
f{ana) monarchiae romanae, brevi cenni biografici degl'imperatori da Cesare
a Mauricio, un « symbolum », impresa di ciascuno, la morale che deriva da
tale « impresa », il « fatum » e r« epitaphium ». Secolo per secolo viene
fatta una rapida rassegna della storia sacra dell'epoca, con relativa bibliografia,
a cui è accodata una bibliografia profana; per il sec. V (164 i7-166 r) entrambe
sono fuse insieme : non risulta però che l'autore abbia fatto studi speciali
nel campo della bizantinologia ; tanto maggior rilievo merita l'accenno (39 r-y
per il sec. II; 143 r- 144 r per il sec. IV) alla letteratura ebraica. Un epi-
gramma dello Scaligero (1) citato 164/* determina approssimativamente l'e-
poca della compilazione ; l'intonazione del libro poi mi sembra tale da doverlo
attribuire alla penna di un cinquecentista italiano, probabilmente religioso.
Riparlerò in miglior occasione delle ipotesi che si possono fare in merito al-
l'autore.
Vladimiro Zabughin.
fllol. ci, XV, 1907, 214^4 ; il Trivulz. 815 porta la data M.CCCC.XXX.VI, il rima-
neggiamento è del 1433 circa). Nelle correzioni il settecentista si attacca per lo più
— e qui sta l'interessante — alle lezioni genuine comprovate dall' Ambros. e dal
Trivulz.; così 41 r, 42 u toglie V-m alla forma autentica Aeneidam (Sabb., 226, 230),
non arriva a capire il verbo principetur, e si acqueta soltanto quando lo vede usato
più volte, modifica veri o presunti sbagli di reciprocazione e di costrutto ; egli per
giunta sembra alquanto zoppo nel latino. Curiosa la correz. in « unus et viginti. . .
« versus > dell' «unus de viginti» dell'originale (Sabb., 280; 42 w; si tratta di ^ntft.
lat., 672, « ergone supremis», Donat. auct. Vit. Verg., 33, 17-27, Diehl),
(1) I. C. ScALiGER, Poem., ed. 1591, non contiene tale epigramma, come neppure
l'ed. ottocentesca delle poesie di Gr. Giusto. Eccone il testo :
Nolis aliquid, quod voluisse velie nolis
Hoc efficiet provida mensura futuri.
Prudentia Constantiae in§xplicata Mater
Constantia certissima Poenitentiae nostis.
Lo stile è quello dello Scaligero-padre.
262 COMUNICAZIONI ED APPUNTI
Per una scheda di metrica. — Il prof. Biadene, nella Bassegna hibliogr.
della Ietterai, ita!., XXII, 55 sgg., ha dedicato ad una mia nota petrarchesca
di cinque pagine una recensione di otto : troppe, veramente, quando si osservi
ch'egli non reca un solo argomento nuovo per risolvere la difficoltà e stra-
volge più d'uno de' miei.
Il termine « cantilena de quatuor rithimis » si può tradurre « canzone di
quattro rime » (aggiungo qui la postilla a Che debb'io far: « hos rithmos
iw cawtilenis nos^ris crebro nimis » (1)); di canzoni con la stanza di quattro
rime, il Petrarca non ha che Lasso me, ed in questa è un verso d'Arnaldo ;
i commenti, fuor della presente questione, citano come precedenti di Lasso me
poesie provenzali e delle italiane una sola : Ai fals ri's, di Dante. Questa serie
di « fatti » mi ha suggerito una spiegazione del passo di Benvenuto da Imola,
diversa da quelle proposte finora.
Nell'ipotesi mia resta una difficoltà : il modus et stilus ; gli elementi della
frase di Benvenuto ci son tutti : la sottigliezza starà nell'intendere come essi,
dal ricordo di una conversazione col Petrarca, abbian potuto riunii-si a co-
stituir quella frase. Ho preferito quest'industria di chiosa ad un'alterazione
arbitraria del testo.
Poiché il Biadene, ritornando all'ipotesi del Canello, finisce col dire che
invece di quattro, scritto in tutte lettere, si potrebbe leggere set: chi può
escluderlo ? Ma prima di manomettere un testo, mi pare che si debba tentare
di cavarne un senso, rispettandolo.
E poi, io ripugno dall'attribuire gratuitamente al Petrarca una così gmve
bugia: bisogna non aver mai letto Lo ferm voler di Arnaldo per dubitare
che la sestina petrarchesca abbia più legami con quella che con AI poco giorno
di Dante. Il Petrarca avrebbe detto di aver derivato la sestina da Arnaldo
(« sponte se accepisse... ») fuor dell'esempio dantesco? Può darsi anche questo:
si fanno tante colpe al Petrarca ! Ma, ripeto, se per credere questo debbo anche
cambiare la parola di un documento, non ci sto.
Per parte mia, avrei finito: ma devo ancora oppormi ad alcune osserva-
zioni del B., che hanno l'apparenza della giustezza e non sono che ostili.
Quando ho parlato di « netta divisione tra fronte e sirima » ho spiegato
in nota che cosa intendessi: non che dovesse rifiutarsi lo schema con i due
piedi (tant'è che citavo uno studio, e pagina, del Biadene, dov'è appunto
quello schema), ma che la rima dei versi ultimo della fronte e primo della
sirima in questa ritorna ancora, contro la norma quasi costante del Petrarca :
mi pare sia una cosa diversa. E « minori » chiamavo le rime Beo, ripe-
tute due volte ciascuna, di fronte ad A che ricorre quattro: non è affatto
un « abbaglio ». Il B. osserva « (ciò che il N[eri] omise di fare) che in cia-
« scuna delle cinque stanze onde la canzone si compone, la principale pausa
(1) L'Appel avverte giustamente che si tratta delle rime equivoche tempo: per
tempo, ed enumera gli altri componimenti in cui esse si trovano {Ztir Enttvickelung
italien. Dichtungen Petrarcas, p. 177; cfr. l'ediz. Mestica, p. 885); per cantikna, R\evo
già notato ohe il P. designa con questo nome una canzone di Arnaldo.
COMUNICAZIONI ED APPUNTI 268
« sintattica cade per l'appunto alla fine del quarto verso » ; omisi questa os-
servazione, e poteva senza danno ometterla il B., perchè non è esatta: chi
non si ferrai alla punteggiatura delle edizioni, può riconoscere nella seconda
stanza, ed anche nella terza, due pause principali, alla fine del quarto e del-
l'ottavo verso, sì che il periodo grammaticale accompagna quello ritmico, come
l'avevo indicato.
Ho scritto sopra fronte e sirima; il B. mi richiama alla terminologia di
Dante : voglia credermi, la conoscevo, ma ho seguito un uso che stimo legit-
timo. La divisione in due parti può dirsi col Mari « il distintivo o il sigillo
dell'antica stanza italiana » : i vari tipi sono determinati dalle successive di-
visioni di queste due parti, ma nella prima divisione della stanza è l'elemento
ritmico essenziale; di qui la necessità pratica di nomi propri a denotarlo.
Il Mari dirà sempre fronte e volta- altri, limitando il secondo termine alla
ballata, usano fronte e sirima per la canzone. Ma questi « manualetti » vanno
per le nostre scuole ; cerchiamo un libro che non abbia questo torto, e scritto
quando la canzone era ancora una forma viva: la Poetica del Minturno;
anche il M. conosce la distinzione dantesca: « ma noi, perciocché piedi e versi
« comunalmente altro significano, per fuggir le voci dubbiose, la prima parte,
« nella qual'è il primo canto Fronte semplice, e la seconda, nella qual'ò il
« secondo, semplice Sirima, purché non si raddoppj, chiameremo: e composta
€ cosi la Fronte, come la Sirima, ove sia ripetita » (cito dall'ediz. di Napoli,
1725, p. 187). E quando altri non si occupi che della divisione della stanza
in due parti, gli converrà, credo, valersi delle due parole più note, e che son
proprie della canzone. E dove scrivo, una sol volta, e a poca distanza da con-
catenazione, « verso di chiave », muovo dallo stesso uso, invalso, come il B.
sa, in tutti i nostri manuali (Casini, Guarnerio, Maruffi, Pellegrini, Murari...) ;
approvo meno dell'altra questa deviazione dell'uso moderno, ma non mi aspet-
tavo la lezioncina su Gotto Mantovano.
Si tralasciano per brevità alcune verbose gentilezze del mio contraddittore.
Ferdinando Neri.
ORO N ^O j^
PERIODICI
La critica (XII, 2): B. Croce, Note sulla letteratura italiana nella seconda
metà del sec. XIX, l'articolo s' intitola « licenza » ed è la chiusa di codeste
Note, di cui delinea il carattere e il metodo ; Croce, Il De Sanctis in esilio ,
comincia la pubblicazione di molte lettere inedite interessanti, del De Sanctis
0 a lui dirette da amici, nel tempo ch'egli trascorse a Torino e a Zurigo;
Croce, Per Adolfo Borgognoni, risposta agli appunti mossi al Borgognoni
ed all'ultima silloge di scritti suoi in questo Giornale, 63, 157 sgg. (1).
(1) É inutile tornare su apprezzamenti nei quali è impossibile infilar mai una
via d'intesa. Ma quando, in una noticina vibrata, il Cr. non si perita a fare dei
confronti e giudica il Q-raf inferiore come critico al Borgognoni, si resta straordi-
nariamente stupiti: « Sarebbe tempo (scrive egli) di dire chiaro e tondo che il Graf,
€ in critica e in istoria come in arte, non andò mai oltre la decorosa medio-
« or ita; e ammonire di non confondere con lui, o abbassare sotto di lui, un uomo
« d'ingegno e di gusto, quale fu invece il Borgognoni, che ebbe la sua propria
« personalità, ristretta che fosse ». Siffatto ammonimento io respingo siccome del
tutto ingiusto, e gli spregiudicati e gli spassionati non possono e non potranno
che darmi ragione. Che il Cr., cosi prodigo d'indulgenza nelle sue Noie verso tanti
mediocri e meno che mediocri, abbia giudicato assai severamente il Graf artista,
passi; se ne può discutere, e il gusto ci ha molta parte. Ma che accusi di medio-
crità la sua critica, la quale fu così varia e così feconda, sicché di nessun soggetto
toccato da lui è lecito discorrere senza rammentarlo, è fenomeno che non s'intende !
S'intende, anzi, così poco, in un uomo di coltura e d'ingegno come il Cr. è, che
viene il sospetto ci possa essere di mezzo qualche motivo d'ordine personale. Io
non ho mai voluto dar retta ad una congettura che da molto tempo e da varie
parti mi fu bisbigliata. Il Croce era giovanissimo, non ancora ventenne, quando
pubblicò uno scritto su La leggenda di Niccolò Pesce, che il Graf biasimò acerba-
mente (cfr. questo Giornale, VI, 263'269). È ben vero che un decennio dopo disse
egli medesimo, il Cr., che quell'articolo suo « era assai povero e testimoniava della
« sua inesperienza giovanile » , aggiungendo senz'ombra d'ironia ch'esso pur ebbe
« il merito indiretto di spingere il Graf a farne una lunga recensione, ch'è, in
«realtà, uno studio originale sull'argomento» {Napoli nobilissima, V [1896], p. 68);
è ben vero che il Cr. contribuì spontaneamente a rendere onore al Graf quando
si pubblicò una miscellanea per lui (cfr. Giornale, XLII, 488) ; ma l'anima umana
è cosi misteriosa che mal si possono definirne gli impulsi svariati e comprenderne
le motivazioni intime. Chissà che quella brusca tirata d'orecchi al giovinetto la-
sciasse nell'uomo maturo e celebre un sedimento di amarezza, che inconsciamente
abbia avuto i suoi riflessi nella conseguente e crescente ostilità del critico. Cono-
scendo e apprezzando la superiorità di spirito del Cr., io mi induco a questa ipo-
CRONACA
265
Lares (II, 2-3) : F. Novati, La raccolta di stampe popolari italiane della
biblioteca di Frane. Beina. Earamenta parecchi raccoglitori di stampe po-
polari e si trattiene sulla raccolta ora dispersa del Reina, costituita essen-
zialmente di opuscoli provenienti dall'Italia superiore. Commenta con grande
erudizione i dati del catalogo, fornendo molte indicazioni su stampe popolari
rarissime. Si osservino specialmente le notizie sul cieco Paolo Britti; sugli
zanni celebri, a proposito del poemetto che narra la vita di zan Tabarin Canaia ;
sui poemetti intorno al giudizio linale. Informazioni parecchie vi sono sui
contrasti, dei quali è pubblicato uno tra la madre e la figliuola desiderosa
di marito, ed un altro tra uomo e donna. Il N. stampa ed illustra il lamento
di Prudenzia Anconitana, che uccise il marito; e a proposito dell'ameno e
spigliato poemetto su Orlando morto per una indigestione di polenta, che
pure riproduce, raccoglie preziose indicazioni sulle parodie del Furioso in Italia.
Bollettino storico piacentino (IX, 2) : Fr. Picco, / soggiorni in Piacenza
di C. I. Frugoni, in continuazione.
Nuovo archivio veneto (XXVII, P. I): G. Garbarin, Per la fortuna di
alcuni scrittori stranieri nel Veneto, nella prima metà dell' Ottocento, ciò
che si disse in quel tempo dello Shakespeare, del Byron, dello Scott, degli
scrittori francesi romantici e di qualche altro, con un saggio di bibliografia
delle traduzioni; Laura Lattes, Una letterata veneziana del secolo XVIII,
tratta di Elisabetta Caminer Turra. — Tra le Notizie sono per noi segna-
labili due comunicazioni di Arnaldo Segarizzi, un breve carme latino di
Pietro Contarini diretto al pittore Gentile Bellini, e diverse informazioni
nuove su quel Niccolò Lelio Cosmico di cui V. Rossi parlò nel XIII voi. di
questo Giornale.
Bivista teatrale italiana (XIII, 1): A. Bruno, Il teatro Alfìeri in Firenze,
documenti su quel teatro drammatico, a cui già nel 1828, sotto il governo
granducale, fu dato il nome dell'Alfieri.
Bendiconti del B. Istituto lombardo (XLVII, 5) : C. Pascal, Un episodio
delle guerre religiose di Francia in alcuni carmi latini contemporanei, i
carmi sono editi dal ms. Ambrosiano D. 197 inf. e riguardano l'uccisione di
Gaspare di Coligny. Anche neW Aihenaeum.
Miscellanea storica della Valdelsa (XXII, 1-2): A. F. Massèra, Giovanni
Boccacci nella sua lirica, discorso che poggia su dati storici ricavati dalla
edizione critica delle rime del Boccaccio, che il M. ha apprestata per la com-
missione dei testi di lingua e che certo entro l'anno corrente vedrà la luce;
A. Bonaventura, U Boccaccio e la musica, dati desunti dal Decameroìi ',
IT. Dorini, Contributi alla biografìa del Boccaccio, pubblica documenti giu-
diziari fiorentini, che riguardano i beni territoriali posseduti dal Boccaccio
ed una sua causa del 1352, e spigola negli archivi fiorentini notiziole diverse
su parenti di messer Giovanni; Sant. Debenedetti, Teriìw da Castelfioren-
tesi a stento e con repugnanza e lo faccio solo^ripeto, per ispiegarmi un acceca-
mento intellettuale che mi sembra fenomeno dei più strani. A meno ohe il gusto
di polemizzare per divertire sé e il pubblico, nei momenti « di buon umore > , ch'egli
stesso confessa essere nelle sue abitudini (cfr. La tribuna, 16 aprile 1914), non lo
abbia questa volta tratto a dire, per ripicco, cosa non sentita, o sentita diversa-
mente da quanto appare. R.
266
CRONACA
tino, ricerche per appurare la precìsa personalità di quell'antico rimatore. —
Il fase, contiene pure una minuta cronistoria delle onoranze a Giovanni Boc-
caccio in Certaldo nel Ti centenario della nascita.
Aetna (Alcamo, I, 3): Fed. Barbieri, Aspetti pedagogici e letterari della
controriforma, in continuazione, tratta di Silvio Antoniano e del suo trattato
della educazione cristiana; D. Vitaliani, Intorno alla vita di Brunetto La-
tini, in continuazione, discute l'opinione recentemente espressa da P. For-
nari, che Brunetto non sia dannato fra i sodomiti, ma fra i superbi per in-
gegno 0 studio.
Atti della R. Accademia di archeologia, lettere, belle arti di Napoli
(N. S., voi. Ili) : E. Cocchia, La vita di S. Mummoleno ovvero la tradizione
pia antica intorno alVuso del latino volgare nelle Gallie.
Rivista di diritto civile (1914, n» 2): Alfredo Ascoli e Cesare Levi, lidi-
ritto privato nel teatro contemporaneo francese e italiano, son qui appli-
cati a scrittori moderni criteri e metodi che già da tempo s'usarono per
quelli dell'antichità classica (Plauto, Terenzio). Sono 32 commedie francesi e
21 italiane in cui si sorprendono riflessi di teorie giuridiche. Tra le italiane
ve ne sono due di Paolo Ferrari e una di Leopoldo Marenco.
Bivista tridentina (XIV, 1): 0. dell'Antonio, Antonio Gazzoletti dilettante
di poesia, ritiene esagerata la stima che si fa del Gazzoletti poeta, e fa
molte e ragionevoli critiche ai versi di lui, mostrando l'assurdità che v'è nel
paragonarlo al Prati. — A proposito del Gazzoletti, non isfugga l'articolo
di 0. Brentari, A. Gazzoletti a Milano, nel giornale L'alto Adige,\'è\^, n» 63.
Archivio storico italiano (LXXII, 1): A. F. Massèra, Il serventese roma-
gnolo del 1277, è quello dato in luce e studiato replicate volte dal Casini
(cfr. Giorn.,%'0, 409- io); il M. ne rida il testo « assai largamente rinnovel-
lato » sull'originale di Kavenna, lo interpreta sagacemente e stabilisce il
tempo e l'occasione in che fu scritto; M. Battistini, La condanna di Jacopo
Corbinelli, nell'Archivio di Stato fiorentino furon rintracciati documenti re-
lativi alla condanna del Corbinelli nel 1562 come « ribelle », ragione per cui
egli ebbe a migrare in Francia.
La Lombardia nel risorgimento itcdiano (I, 1) (1): A. Luzio, L'archivio
Arrivabene, lettere inedite di Borsieri e di Gioberti, inizia nuove spigola-
ture nell'archivio Arrivabene, che tante cose ha interessanti anche per la
storia letteraria, e qui pubblica lettere del Borsieri dall'America, ov'erasi ri-
fugiato dopo lo Spielberg, e due del Gioberti, del '45 e '47 ; Fr. Novati, Per
la storia dei deportati del 1799; la « via crucisi» di Francesco Reina, do-
cumenti sulla prigionia e la relegazione del Keina, che fu, oltreché uomo
pubblico e patriota, anche studioso e bibliofilo ; Aless. Casati, Lo herbar-
tismo in Lombardia.
BuUettino senese (XX, 3) : L. Zdekauer, lustitia immagine e idea, consi-
derazioni sulla raffigurazione simbolica della giustizia nelle arti del disegno ;
E. Livi, San Bernardino e le sue prediche secondo un suo ascoltatore pra-
tese del U2à.
(1) Qaesto bollettino trimestrale, ottimamente materiato per quel che sembra
dal primo numero, si viene a schierare accanto alle due riviste speciali che oggi
abbiamo, consacrate allo studio storico del nostro nazionale riscatto.
CRONACA 267
L'arte (XVII, 3): Evelyn, Alcune erniose notizie su fra Luca Pacioli,
dedotte da nuovi documenti.
Atti e memorie delia B. Deputazione di storia patria per le Provincie
modenesi (Serie V, voi. IX): Dafne Colombini, Nuovi documenti su Barto-
lomeo Paganelli, alle poche cose dette dal Tiraboschi intorno a questo uma-
nista e poeta latino nel Quattrocento, son qui aggiunte notizie documentarie
nuove trovate nell'archivio notarile ed in quello capitolare di Modena. Ri-
guardano queste notizie l' insegnamento del Paganelli, che fu magischola
presso la cattedrale di Modena. Notabile è il suo testamento. Da ogni indizio
è tratto profitto con elegante sobrietà di erudizione.
Archivio storico lombardo (XL, 40) : A. Antonelli e F. Novati, Un fram-
mento di zibaldone cancelleresco lombardo del primissimo Quattrocento, ivi
sono inserite lettere del Petrarca e a lui dirette, nonché lettere di Coluccio
Salutati e di Pellegrino Zambeccari, tutte illustrate a fondo dal Novati;
Balilla Pinchetti, La vita di Francesco Saverio Quadrio, con indicazioni
sui suoi mss. inediti; Ag. Zanelli, Due aneddoti della vita del cardinale
Quirini vescovo di Brescia. — Tra le bibliografie vuol esserne segnalata una
specialmente rilevante di C. Salvioni su Carlo Porta, ove sono indicazioni
nuove e ragguardevoli.
Bollettino storico per la provincia di Novara (VII, 3-4) : C. Poma, Un'an-
tica satira contro Biella) A. Sella, Pietro Bolaìidi libraio ed editore ita-
liano a Londra, dal 1826 al 1855, in continuazione; (5), A. Tadini, La
« Pidzella d'Orleans » tradotta da V. Monti nelle carte di P. Custodi.
Periodico della Società storica Comense (fase. 80) : S. Monti, Gioviana e
Vinciana.
Aurea Parma (II, 5-6) : Glauco Lombardi, Griambattista Bodoni, con in-
teressanti riproduzioni grafiche; 0. Masnovo, Don Ferrante di Borbone e
G. B. Bodoni, questo ed il precedente articolo sono da aggiungere alle indi-
cazioni di quanto fu edito sul Bodoni in occasione del centenario, date nel
Giorn., 63, 472, ne dovranno essere trascurati gli Appunti bodoniani di
A. Boselli, che sono speciale ornamento dell'ottima rivista parmigiana, im-
portante per noi specialmente quello su Giambattista Bodoni e /<? « Opere
postume » di V. Alfieri; G. P. Clerici, Pietro Giordani nel 1848.
Atene e Roma (XVII, 181-82): P. L. Ciceri, Un aspetto della leggenda
di Nerone, riguarda Nerone considerato nel medioevo come anticristo.
Atti della I. R. Accadeììiia roveretana degli Agiati (Serie IV, voi. I):
Giac. Cottini, A. Rosmini e A. Manzoni nel pensiero di Giulio Carcano;
A. Rossaro, Cristina Roccati di Rovigo e il suo tempo, nel tracciare la vita
di questa ragguardevole cultrice di studi scientifici e letterari, l'A. contri-
buisce alla storia della vita settecentesca a Rovigo e altrove; Br. Emmert,
Bibliografìa di rappresentazioni gesuitiche in Trento ; (voi. II), Ed. Benve-
nuti, Giovanni iM.mi e i letterati trentini del^sec. XVIII, con lettere estratte
dal carteggio del Lami serbato nella Riccardiana, specialmente del Tarta-
rotti ; C. Battisti, Voci gergali solandre, lessico e saggi del cosidetto taróm
0 gergo dei calderai della valle di Sole nel Trentino ; Br. Emmert, Biblio-
grafia del conte Cesare di Castelbarco, traduttore e poeta lirico e dramma-
tico, nato nel 1782 e morto nel 1860.
268 CRONACA
Atti della B. Accademia delle scienze di Torino (XLIX, 7): G. C. Buraggi,
I giureconsulti deW università di Torino nel Quattrocento, II. Giacomino
da San Giorgio] Attilio Levi, Etimologie piemontesi.
Didascaleion (II, 3-4) : F. Ermini, La « Visio Atiselli » e l'imitazione nella
Divina Commedia.
Rassegna critica della letteratura italiana (XVIII, 1-6): G. Brognoligo,
I libri e gli autori del Bandello, utile e ben fatta raccolta delle indicazioni
d'indole letteraria e bibliografica che si trovano nelle novelle del Bandello, il
quale fu, tra l'altro, anche passionato bibliofilo ; Beatrice Pennacchietti, L'' Ar-
mida del Tasso nei melodrammi di P. Metastasio ; Fr. Viglione, La regina
Anna d'Inghilterra in due poesie italiane contemporanee, le due poesie sono
anonime in un codice del Museo Britannico, e non è senza qualche fondamento
il dubbio che possano essere del Marino ; G. E. Ceriello, Lnitazioni petrar-
chesche di Fernando de Herrera] M. Manchisi, Intorno al nome di Tra-
calo da Rimini, sulla base d'un sonetto di Angelo Galli riferito dal cod. Va-
ticano Urb. 699 mostra che si chiamava « Bolza » di casato quel poeta ri-
minese di cui parlò il Massèra nel nostro Giornale. 57, 21 sgg. — Notevole
fra le recensioni quella di E. Proto sul libro di C. Pellegrini intorno a Luigi
Pulci, specialmente per ciò che dice del Ciriffo Calvaneo.
Rivista d'Italia (XVII, 2): G. Bustico, Un imitatore di Dante del se-
colo X Vili, parla della Fortunopoli, poema di Filippo Tomacelli da Salò ;
Gina Del Vecchio, I caratteri nei Promessi Sposi] Clelia Cocci, Un capitolo
della storia del giornalismo toscano; (XVII, 3), V. De Angelis, La Francia
giudicata da Nicolò Tommaseo, spigolature dalle opere e dal carteggio;
G. B. Menegazzi, Con la musa pariniana, osservazioni su alcune odi.
Archivio storico siciliano (XXXVIII, 3-4): C. A. Garufi, Contributo alla
storia dell'Inquisizione di Sicilia nei sec. XVI e XVII, frutto di ricerche
in Spagna.
La bibliofilia (XV, 7 a 12): L. Sighinolfi, Francesco Puteolano e le ori-
gini della stampa in Bologna e in Parma', (XV, 10-11), L. Zambra, La
barzelletta « Lassa far a mi » in un codice della biblioteca comunale di
Budapest, la barzelletta, che fu musicata, si trova più completa nel codice
ungherese di quello che sia nelle stampe italiane, compresa quella di M. Men-
ghini nel voi. I, p.36 della suaediz. delle rime di Serafino Aquilano; (XV, 12),
Pt. Soriga, A proposito di alcune stampe italiane inedite della raccolta Ma-
laspina.
Rivista musicale italiaìia (XX, 4): L. Torri, Il « Trattato » di Prosdo-
cimo de' Beldomandi contro il « Lucidario » di Marchetto da Padova, im-
portante, pubblica il testo del codice della bibl. governativa di Lucca; A. Can-
tarini. L'opera italiana alla Corte Bavarese dal suo inizio alla morte di
Adelaide di Savoia.
Harmonia (Koma; 1914, n. 2): G. C. Paribeni, Un'affermazione d'italia-
nità artistica nel sec. XV.
Studi senesi (XXIX, 5): P. Rossi, Claudio Tolomei e il latino dei giunsti.
Bollettino della Società pavese di storia patria (XIII, 1-2): A. Corbellini,
Di un rimatore pavese-veneziano del secolo XVI, Antonio Isidoro Mezza-
barba, in continuazione, se ne parlerà prossimamente; Fed. Barbieri, La con-
CRONACA 269
troriforma nello stato di Milano da S. Antonino a S. Carlo Borromeo, in
continuazione; Dante Bianchi, La lettura d'arte oratoria nello Studio di
Pavia nei sec. XV e XVI', A. Corbellini, Documenti d'anima di Adelaide
Cairoli Bono, con lettere interessanti.
Apulia (IV, 1-2): C. Salvioni, Versioni pugliesi della parabola del fìgliuol
prodigo, dalle carte del Biondelli serbate nell'Ambrosiana ; B. Sderci, Intorno
ad un autografo di sermoni di S. Lorenzo da Brindisi, prediche latine ignote
di questo celebre cappuccino nato nel 1551 e morto nel 1619.
Archivio storico sardo (IX, 1-3): C. Salvioni, Versioni sarde e corse della
parabola del fìgliuol prodigo, sempre dalle carte del Biondelli; P. Lutzu,
La leggenda della Pazzia, curiosa leggenda sarda, bene illustrata.
Archivio storico per le provincie napoletane (XXXVIII, 4) : G. Caso, La
carboneria di Capitanata dal 1816 al 1820 nella storia del Risorgimento
italiano, in continuazione; M. Schipa, ia men^e di Masaniello, in continuaz.
Atti e memorie della B. Deputazione di storia patria per le provincie di
Romagna (Serie IV, voi. IH): L. Bava, Ant. Panizzi a L. C. Farini, car-
teggio; L. Frati, La famiglia Beccadelli e il Panormita-, F. Cavicchi, Un
poemetto di Girolamo da Casio e l'ingresso in Bologna (1525) del cardin.
legato Innocenzo Cibo, illustra il libretto del Casio intitolato Bellona.
Il Marzocco (XIX, 10) : L. Bùssola, Un passo oscuro nei Promessi Sposi
e alcuni tentativi di spiegazione, illustra la frase « vada a Bergamo la
vecchia » pronunciata da don Rodrigo nel cap. XI del romanzo manzoniano ;
vedasi pure là rubrica Commenti e frammenti del n<> 11; (no 17), E. G. Pa-
rodi, Giovanni Boccaccio in un libro francese, quello di H. Hauvette;
G. S. Gargano, Carlo Botta in veste di critico ; G. Ortolani, Gli italiani alla
scoperta dell'Inghilterra nel Settecento, a complemento vedansi i Commenti
e frammenti del n» 18 e del n^ 19. — Nei nn. 15, 19, 20, 21 è da vedere
quanto è detto ^\j\V Aminta, a proposito della rappresentazione a Fiesole di
quel dramma pastorale.
L'Ateneo Veneto (XXXVII, I, 1-2): B. C. Cestaio, Rimatori padovani del
sec. XV, in questa puntata dà notizie di Scipione Sanguinacci, Bartolo Za-
barella, Francesco Capodilista, Domizio Brocardo, Reprandino Orsato, Gio-
vanni di S. Lazzaro, Maestro Lazzaro, Nicolò Lazara, Antonio de' Conti di
S. Martino.
Atti del R. Istituto Vemto (LXXII, P. II) : A. Favaro, Studi e ricerche
per una iconografìa galileiana, altre ricerche nella P. II del voi. LXXIII;
(LXXni, P. II), Nino Tamassia, La conversione dell' Innominato, trova ri-
scontri fra le parole che il card. Federigo rivolge all'Innominato ed un tratto
della traduzione latina, fatta da Rufino, della storia ecclesiastica di Eusebio ;
E. Castelnuovo, Per Gaspara Stampa, ammette i « dolci peccati » di Ga-
spara, ma non ammette che possa essere stata cortigiana ; V. Crescini, Fram-
mento di un perduto codice del « Guiron le courtois », in questo scritto
erudito sono raccolte molte informazioni sulla fortuna straordinaria del Gtiiron
in Italia. •
Studi italiani di filologia classica (voi. XX): A. Calderini, Ricerche intorno
alla biblioteca e alla cultura greca di Francesco Filelfo, questa estesa e
dotta monografia è una delle cose più importanti che sul Filelfo siano state
scritte: essa sarà completata nel prossimo volume degli Stìidi con la biblio-
270 CRONACA
grafia dei codici filelfiani ; Gius. Procacci, Scolii a Giovenale di Battista Gua-
rini in un codice ferrarese, è il n» 103 della bibl. comunale di Ferrara.
Rassegna d'arte (Xin, 11): G. Nicodemi, I codici miniati neW archivio
della Basilica Ambrosiana.
Rivista delle bibliotecJie (XXIV, 10-12): Curzio Mazzi, Degli antecessori
dei giornali, pubblica alcune note del sec. XV, che sono alla Laurenziana tra
le carte di Benedetto Dei.
Scientia (n° 35): A. Meillet, Le problèuie de la parente des langues]
A. Mieli, Les précurseurs de Galileo.
Rivista di Roma (IV, 9-10 e V, 1-3): Per la storia della cultura in Pie-
monte nel sec. XIX, gruppo di lettere di Carlo Promis ; (V, 5), Guido Muoni,
A proposito di un giudizio del Carducci sid Baudelaire-, F. Sternberg,
Heiìie e Carducci, Lenau e Carducci ', U. Valente, Letteì'e inedite di Ga-
spare Gozzi e Apostolo Zeno, l'unica lettera del Gozzi è diretta al Parini
da Roma il 29 sett. 1764.
Rivista di filologia classica (XLII, 2) : S. Consoli, La satira secotida di
Giovenale tiella tradizione della cultura sino alla fine del medio evo]
Fr. Garin, La « Expositio TheocHti > di Angelo Poliziano nello Studio fio-
rentino.
Conferenze e prolusioni (VII, 7) : I. Del Lungo, Dante in patria e nel-
VesiUo errabondo, discorso pronunciato in Roma il 25 genn. 1914.
Giornale storico della Lunigiana (V, 3) : F. L. Mannucci, L'' operosità uma-
nistica di Antonio Ivani, in continuazione, ragguardevole; A. Neri, Lettere
di Azzolino Malaspimi, le prime quattro, dirette nel 1 755 ad Angelo Maria
Bandini, trattano di soggetti letterari, e specialmente della traduzione delle
favole di Fedi'o, a cui il Malaspina attendeva.
L'Archiginnasio (IX, 1): G. Nascimbeni, Note e ricerche intorno a Giulio
Cesare Croce, si noti specialmente ciò che vi è detto del Bertoldo, ma su
questi studi intorno all'antico Croce ritorneremo; (IX, 2), V. Franchini, L^i-
stituto dei « memoriali » in Bologna nel sec. XIII; L, Frati, La cittadi-
nanza fraìicese di un ìioto comico bolognese, pubblica il diploma rilasciato
dal re di Francia al comico secentista Gian Andrea Zanotti-Cavazzoni.
Rivista ligure (XLI, 1): A. Ricolfi, G. Carducci e il romanticismo, in con-
tinuazione.
Athetuieum (II, 2): Fed. Barbieri, Per la storia del teatro lombardo nella
seconda metà del sec. XVI] C. Pascal, Un episodio delle guerre religiose di
Francia in alcuni carmi latini contemporanei, fioritura di poesie latine in-
torno all'assassinio di Gaspare di Coligny.
Archivio storico per la Sicilia Orientale (XI, 1): F. Marletta, Un poema
storico popolaresco del sec. XVII, trovasi nella bibl. comunale di Castrogio-
vanni e tratta della ribellione dei castrogiovannesi contro un vescovo di Ca-
tania; A. Raimondi, Federico Ozanam in Sicilia, vi fu nel 1841.
Bilychnis (HI, 4): G. Lesca, Seìm e pensieri religiosi nella poesia di Ar-
turo Graf, in continuazione, con una lettera del Gr. autografata.
CRONACA 271
Bivista militare italiana (16 marzo 1914); A. Vigevano, Il soldato ita-
liano nel canto popolare. Vedasi, per un riscontro col Berchet, una noterella
del Brognoligo nel Fanfulla della domenica, 19 aprile 1914.
La luce del pensiero (an. 1914): A. D'Amato, Un poeta idealista irpino,
tratta di Carmelo Errico, nato a Castelberonia nel 1848 e morto a Roma
nel 1892. Riferisce suoi versi, alcuni anche inediti, riassume i caratteri della
sua poesia, raccoglie i giudizi pronunciati su di essa. Notabile una lettera
del Carducci, fin qui inedita.
Archivio della società vercellese di storia e d'arte (VI, 1) : C. R. Paste, Tre
scritti apocalittici medioevali del codice CXCI dell'Archivio capitolare, pro-
fezie della Sibilla e di Merlino.
Atti e memorie della R. Accademia delle scienze di Padova (voi. XXIX) :
C. Salvioni, Versioni venete, trentine e ladino-centrali della parabola del
fìglitiol prodigo, dalle carte del Biondelli ; G. Albertotti, Due lettere inedite
di L. A. Muratori a Giambattista Morgagni, con indicazione di altre let-
tere di letterati al Morgagni: A. Bonardi, Carlo Scapin famoso libraio pado-
vano del secolo XVIII ; C.Steiner, La « luce più dia » del canto XIV del
Paradiso e l'episodio del cielo del sole, mette in chiaro perchè Dante designi
Salomone a spiegare quale sarà la condizione dei beati quando le anime si ri-
congiungeranno-ai corpi; C.Lsiiìàì, Sulla leggenda del cristianesimo di Stazio,
ragguardevole, con in appendice le notizie che diedero di Stazio Sicco Po-
lenton e Pomponio Leto ; B. Brugi, Una trascurata notizia intorno ai pri-
mordi dello Studio di Padova; V. Rossi, AHudo Graf] A. Marigo, La mi-
stica nella Vita Nuova di Dante.
Pagine istriane (XI, 5-6): G. Quarantotto, Errori vecchi e nuovi su l'Istria
e gli Istriani (Carli e Besenghi); F. Babudri, Il Calendario istriano nelle rime
e nelle assonanze del popolo, in continuazione; (7-8), A. Hotììs, L^ autografo
dell' ^ Aristodemo » di V. Monti donato alla Biblioteca civica di Trieste,
con un saggio di collazione tra il ms. e la prima edizione ; G. Quarantotto,
Trieste per Besenghi degli Ughi: (9-10), A. Pilot, Due canzonette da «bat-
tello » inedite di Antonio Ottoboni] (11-12), G. Quarantotto, La cultura lette-
raria di Trieste e dell' Istria, a proposito del volume di B. Ziliotto sullo stesso
argomento ; A. Pilot, Veneranda Porta in una poesia iìiedita del tempo, da
codice Correr; B. Ziliotto, Miscellanea Vili: Un serventese di Michele
Delia Vedova da Pola, dal cod. Marc. it. IX, 105, e. 13; (XII, 1-2), 0. Ciar-
dulli. Angelo Daìmistro e l'Accademia dei Filoglotti (di Castelfi-anco Ve-
neto), con documenti inediti.
Il Piccolo (Trieste, 28 settembre 1918) : Il cinquantenario della fonda-
zione del I Ginnasio comunale, dove è riprodotto il discorso commemorativo
di A. Hortis, nel quale è notizia degli antichi maestri d'umanità a Trieste;
nella stessa occasione l'Hortis pubblicò un opuscolo Nel cinquantenario della
fondazione del Ginnasio comunale (Trieste, Caprin, 1913), in cui v'è anche
una bella commemorazione di Onorato Occioni.
Rassegna contemporanea (VI, 22) : Lud. Oberziner, Il primo amore di
Niccolò Tommaseo, interessante articoletto, «ve si tratta dell'amore del Dal-
mata illustre per Giuseppina Margherita Rosmini, sorella del filosofo, che fu
poi monaca, e mori di consunzione a 39 anni ; (VI, 23), G. Nascimbeni, Mo-
tivi tassoniani; A. De Angelis, Gli ultimi salotti di Roma papale, la fine nel
fascic. successivo ; (VII, 2), C. Pellegrini, La letteratura italiana nelVopera
di Ippolito Taine: (VII, 4), G. Calò, Il canto XXVI del Paradiso] (VII, 5),
272 CRONACA
I. Sanesi, La critica letteraria e la storia delia letteratura, prolusione al corso
universitario di Pavia; (VII, 6), Giulio Salvadori, Futurismo e dinamismo
nella poesia del sec. XIII.
La Bomagna (XI, 1): O.F&hYettì, Intorno al carteggio di Piero Maron-
cellij nel fascic. successivo comincia a tracciare una biografìa del Maroncelli;
(XI, 2), Nina Eimbocchi, La Romagna nelVojjera di Giovanni Pascoli.
Archivio di antropol. criminale, psichiatria e medicina legale (XXXIV, 6):
Gina Lombroso, Genio e degenerazione.
La civiltà cattolica (quad. 1525): Vittoria Colonna e il castello d' Ischia ]
(quad. 1529), Busnelli, Iv'« avvocato dei tempi cristiani », né Orosio, né Lat-
tanzio, né S. Ambrogio, né Tertulliano, come fu supposto, ma il retore Mario
Vittorino, convertitosi al cristianesimo; se non che ci sembra valida la obie-
zione opposta dal Flamini nella sua Rassegala bibliografica, 22, 75-76;
(quad. 1530), Anagni e Bonifacio Vili-, (quad. 1533), Il concetto di « rina-
scimento » nella storia delVarte.
Rivista araldica (XI, 11): S. Mmìumccì, I pronipoti di Aldo Pio Manuzio.
Rassegna nazionale (voi. CXCV) : A. Zardo, Gaspare Gozzi nella poesia
drammatica ; Guido Sommi Picenardi, Lettere inedite di G. Baretti a G. B. Biffi,
del 1762 e 1763, furono originalmente scritte in inglese, ma qui si danno
tradotte; (voi. CXCVI), Attilio Fontana, Cavour giornalista] G. V., Istitu-
zioni e amici superstiti di G. Mazzini a Londra, termina nel voi. successivo.
Rassegna storica del Risorgimento (I, 1) : M. Mazziotti, Un grande gior-
nalista del secolo scorso, parla di Emanuele Taddei di Barletta; A. Colombo,
Per la storia della massoneria nel risorgimento italiano, documenti dell'ar-
chivio Govean che riguardano Costantino Nigra ; Ida Luisi, Lettera di G. Mon-
tanelli, del 22 ag. 1861 a Carlo De Marco.
Brixia sacra (V, 1-2) : G. Bonelli, Una « Passio Christi » in dialetto, re-
dazione bresciana in quartine ottonarie, tolta da un ms. del principio del
Quattrocento.
Annuario della R. Università di Torino (1913-14): R. Renier, Comme-
morazione di Arturo Graf letta per V inaugurazione delVanno accademico.
Già ne annunciammo la prima pubblicazione nella N. Antologia, per cui vedi
Giorn., 63, 466. Il ritratto del Graf, che dà V Annuario, riproduce con grande
finezza la tela del giovine pittore Angelo Enrie, dipinta con somma cura e
vero intelletto d'arte nel gennaio del 1913, quattro mesi prima che l'insigne
maestro e letterato spirasse.
Gazzetta di Venezia (24 e 30 marzo 1914): Gius. Ortolani, H cavaliere
Alberto Nota, due sensati articoli, che difendono il commediografo piemon-
tese dai giudizi troppo acerbi che gli furono lanciati contro.
Malta letteraria (X, 111-114): Gisella Laurenza, Le unità drammaticfie
e il Metastasio', C. Suriano, Musica e poesia patriottica.
Atti e memorie della R. Accademia virgiliana di Mantova (N. S., VI, 1-2):
A. Luzio, Contributo alla storia delle suppellettili del palazzo ducale di Man-
tova, storia documentata degli arazzi mantovani trasportati nel 1866 a Vienna.
CRONACA 27^3
In altra parte sono oflFerti documenti intorno alle collezioni di cose antiche
acquistate dai duchi Guglielmo e Vincenzo I Gonzaga. V'è anche l'« Inven-
tario del studio fu della bona memoria dell'ill.mo cardinale Bembo ».
Corriere della sera (8 aprile 1914): Gilberto Secrétant, Niccolò Tommaseo
in carcere, a Venezia nel 1848; alcune lettere del II voi. dell'epistolario
Tommaseo-Capponi, che uscirà presto, vengono accostate a documenti della
polizia austriaca che si trovano a Venezia; (4 aprile 1914), G. A. Borgese,
L'innominato, con alcune osservazioni personali non del tutto trascurabili.
La tribuna (30 marzo 1914) : Alfr. Galletti, I « libretti » musicati dal
Verdi e il dramma romantico. Interessante e nuovo. Costituisce la prefazione
ad un volume di G. Roncaglia su Gius. Verdi, Napoli, Perrella, 1914.
La stampa (21 maggio 1914): R. Renier, Don Carlos, sul volume di Ezio
Levi; (6 giugno 1914), L. Ambrosini, Cesare Balbo, caratterizza il Balbo
come scrittore, a proposito dell'edizione barese del Sommario.
Urbinum (I, 1): R. Valentini, Uno scritto ignoto del duca Federico, ri-
leva che il Perotti nella Cornucopici asserisce avere il grande Federico d'Ur-
bino pubblicato un « libellum de furtivis litteris », che sarebbe un trattato
di criptografia.
Veìa latina (II, 15-16): Gino Gori, Il naturalismo nel Rinascimento;
(II, 17-18), G. Crescimanno, Angelica bella, considerazioni critiche su questo
tipo ariosteo.
Bidlettino storico pistoiese (XVI, 1): Luigi C\vÌ2ì^'^q\\\, La donna pistoiese
del tempo antico, segnalabilissima l'appendice con che questo studio si chiude,
sui nomi delle donne pistoiesi del Dugento e del Trecento: vi sono nomi cu-
riosi, parecchi derivati da tradizioni cavalleresche.
Bullettino della Società dantesca italiana (N. S., XX, 3): il fascicolo è tutto
di recensioni, ma fra esse va particolarmente rilevata quella di Fr. Ercole
sulle cognizioni giuridiche di Dante, a proposito dello studio di M. Chiau-
dano, pel quale si veda anche il nostro Giornale, 61, 114.
Giornale Dantesco (XXI, 5) : U. Cosmo, Il canto di santo Francesco, inter-
preta con novità di vedute, senso d'arte e calore di esposizione il canto XI del
Paradiso, accentuando la poca francescanità dell'anima di Dante ; L. Filo-
musi Guelfi, Critica di coalizione, in polemica col p. Busnelli ed in difesa
dei propri studi danteschi (il Busnelli risponde nel Giorn. dantesco, XXII, 1);
Giac. Lidónnici, Il Biiccolicum Carmen di Giovanni Boccaccio, è saggio del
lavoro sulle ecloghe del Boccaccio che il L. pubblicherà nella collezione dan-
tesca passeriniana, accompagnandone la trascrizione del testo di sull'autografo
riccardiano; A. Santi, Cbi sin veramente Matelda, sarebbe « la Pargoletta
« del Casentino, che Dante conobbe ed amò dal 1307 al 1309, e cantò coi
« nomi di Violetta, Pargoletta, Pietra »; G. Rizzacasa d'Orsogna, I motori
celesti'. E. Lamma, Intorno alle due sestine pseudodantesche, rincalza con
nuovi argomenti l'idea ormai prevalente ch% appartenga a Dante solo la se-
stina « Al poco giorno ed al gran cerchio d'ombra »; V. Inguagiato, La fu-
sione delV elemento pagano con V elemento cristiano nel poema sacro] (XXI, 6),
Giac, Lidónnici, La corrispondenza poetica di Giovanni del Virgilio con
Dante e il Mussato, e le postille di Giovanni Boccaccio, studio assai rag-
guardevole, al quale d'ora innanzi converrà ricorrano quanti avranno a occu-
Giornale storico, LXIV, fase. 190-191. 18
274 CRONACA
parsi dell'opera bucolica di Dante; Giosuè Borsi, Il canto XXXII del Pa-
radiso ; D. Ronzoni, Perchè nella Div. Comm. c'è il paradiso terrestre, è
un saggio d'un nuovo libro sulla struttura allegorica del poema; G. Cresci-
manno, Il « tetragono » di Dante, contro il Proto vuole ridare al « tetra-
gono » dantesco « l'idea della resistenza, della fermezza, della immutabilità »;
cfr. Giov. Agnelli, in Giorn. dant., XXII, 1; (XXI, 1), G. Foglia, Guglielmo
e Binoardo della Croce di Marte, con la scorta del Bédier e del Eajna esa-
mina il valore di quei due personaggi nelle « gesta » di Guglielmo d'Orange
e la fortuna di cui godettero nell'Italia medievale ; 0. M. Johnston, Note on
Purgatory I, 34-36, propone l'ipotesi che Dante riproducesse un'espressione
francese nel dire « di pel bianco mista » la barba di Catone ; A. De Micheli,
Dante in Croazia.
La lettura (XIV, 4) : Fausto Torrefranca, Un gran mago della scenografia
secentesca, parla di Ludovico Burnacini; Manara Valgimigli, La cantina di
Gigio, cioè di Luigi Bonati della Spezia, cantina che fu frequentata dal
Carducci e da Sev. Ferrari, e l'articolo, con in più qualche fotografia, era
già stato edito nel giornaletto di corta vita Luceria (cfr. Giorn., 56, 465);
Rosol. Guastalla, Un antico vocabolario furbesco, del Nuovo modo de in-
tendere la lingua zerga indica una stampa del 1546, mentre di solito si
crede che l'ediz. principe sia quella del 1549 ; (XIV, 5), G. Caprin, Il teatro
di primavera a Fiesole, vedi ciò che vi è detto della rappresentazione del-
VAminta.
Fanfulla della domenica (XXXVI, 11): Ferd. Neri, Le idtime rime dì
Gaspara Stampa, osservazioni psicologiche non trascurabili; E. Zenatti, Carlo
Antonio Pilati a Venezia] (12), FI. Pellegrini, Fantasmi epico-drammatici
del mondo poetico carducciano, interessanti notizie di poemi ideati dal Car-
ducci; M. A. Garrone, Per le relazioni letterarie fra Italia e Spagna] (13),
M. Brunetti, Un duello Casanoviano, cfr. anche n» 16; Giuseppina Fuma-
galli, Per la prosa vinciana, inesattezze in cui caddero E. Solmi e L. Bel-
trami nel riferire brani di Leonardo; (15), G. Brognoligo, Il miracolo dei
Promessi Sjwsi, sotto questo titolo equivoco son fatte alcune osservazioni
al Pellizzari; (17), R. Renier, Di Paolo Heyse romanista] Dom. Menghini,
Gaspare Gozzi umorista?] R. Cessi, Giuseppe Baretti contro Venezia: {\^),
F. Stanganelli, Di alcuni mal noti documenti della ptrosa neo-volgare in
Sicilia] A. Ottolini, Una lettera inedita di Vincenzo Monti, biglietto a Vin-
cenzo Dandolo largamente commentato; (19), 0. Bacci, Nuove pubblicazioni
bernardiniane ] A. Ottolini, D Lamberti in un verso del Monti, circa l'allu-
sione della Mascheroniana, I, 226, a Jacopo Lamberti, su cui è da -vedere
quanto scrivono A. Bertoldi e V. Fontana nel n° 20, e poi di nuovo altri nei
nn. 22 e 23 ; (20), V. Cian, Una cronaca domestica del Trecento fiorentino,
quella del Velluti; U. Valente, G. F. Galeani Napione, il Piemonte e la
questione della lingua, la fine nel num. successivo; (21), G. Barini, Carlo
Botta e la musica] Giuseppina Fuitiagalli, L'amarezza leonardesca, arguto
articolo, che fa parte della prefazione di certa « Scelta di prose vinciane »,
che la F. prepara, e che siamo desiderosi di vedere; G. Bertoni, Lingua e
letteratura ladina, sulla grande raccolta di testi ladini del Decurtins.
Il Coìiciliatore (I, 1) : G. A. Borgese, 17 metodo nella storia delVarte, contro
il criterio metodologico additato dal Croce, che si giudica imperfetto, incom-
piuto e pericoloso, e si rappresenta come contradditorio a principi dal Croce
medesimo propugnati; A. Tilgìier, Il concetto della storia e della conoscenza
nell'idealismo italiano contemporaneo, combatte l'identificazione della storia
con la filosofia.
CRONACA 275
Revista de filologia espanola (I, 1) (1): M. Asin Palacios, El originai àrabe
de la « Disputa del asno cantra fr. Anselmo Turmeda », il Ménendez y
Pelayo suppose che quella Disputa, in cui è dimostrato qual sia la superio-
rità dell'uomo sugli animali, fosse imitazione di modelli italiani, come il
Libre de bons ensenyaments rimonta alla Dottrina dello schiavo di Bari ;
ma qui è invece dimostrato che la Disputa è plagio d'un testo arabo ; R. Me-
néndez Pidal, Elena y Maria, poesia leonesa inèdita del siglo XIII, pub-
blica e illustra storicamente e linguisticamente questa composizione sinora
ignota, ove Maria, amica di un abate, discute con Elena, amica d'un cava-
liere, quale sia migliore amante, soggetto di contrasto che notoriamente ri-
sale al poemetto latino Phillis et Flora, che ebbe tanta eco nella poesia
medievale francese.
Nueva etapa (XVII, 58-62): J. Alonso, Influencia dantesca en Espana.
Modem pMlology (XI, 4): John Livingston Lowes, The loveres maladye
of hereos, copiosissimi riferimenti sull'amore considerato come una malattia
e sulle cure proposte nel medioevo per guarirlo.
Neuphilologische Mitteilungen (1914, nn. 3-6): W. Soderhjelm, Les nou-
velles de F. M. Molza, è questo un terzo contributo del S. alla miglior cono-
scenza del Molza (cfr. Giorn., 63, 406) ; egli qui studia le novelle del Molza,
recando loro a confronto altre del Sercambi, del Bracciolini, del Bandelle, ecc.,
e finalmente pubblica dal cod, 3890 della Casanatense la novella frammen-
taria del Molza e quella ivi detta « si crede del Molza ».
Bulletin italien (XIV, 1): G. Bourgin, Chateaubriand et V Italie en 1814]
M. Roy, Les femmes dans V oeuvre de Fogazzaro, in continuazione; oltre le
continuazioni degli articoli già menzionati, del Dejob sui dialoghi nella Div.
Commedia e di R. Sturel sul Bandelle in Francia.
Zeitschrift fiir romanische Philologie (XXXVIII, 2) : G. B. Festa, Il dia-
letto di Matera. — Tra le recensioni vedasi quella dell'edizione finlandese,
anche da noi annunciata, della Disciplina clericalis.
Romania (XLIII, 169): E. Philipon, Suffixes romanes d'origine préla-
tme; G. Bertoni, Il Lucidarlo italiano, constata che quel testo, contenuto
in parecchi codici e stampe, proviene dal francese, e ne segue la storia fra
noi; (XLin, 170), G. Bertoni, Il * pianto » provenzale in morte di re Man-
fredi, testo critico dell'anonimo componimento e osservazioni storiche su di
esso; L. Costans, Une traduction frangaise des * Héro'ides » d'Ovide au
XIII siede, nell'appendice fa vedere quale precisamente sia il testo francese
dell'antica versione italiana del cod. Gaddiano indicata dal Del Lungo e stu-
diata dal Bellorini ; E. Farai, Une source latine de Vhistoire d'Alexandre,
in continuazione, importante contributo alla storia della celebre leggenda,
che riguarda la lettera sulle meraviglie dell'India. — Tra le recensioni si
osservi quella del Bertoni intorno alle poesie che Ezio Levi ricavò dagli an-
tichi memoriali dei notai bolognesi.
Revue hebdomadaire (20 sett. 1913) : E. Bodocanachi, Boccace.
(1) Salutiamo con gioia la comparsa di questa nuova rivista madrilena, diretta
da quel dottissimo uomo che è Ramon Menóndez Pidal. Il primo fascicolo già ci
mostra che essa è ispirata a criteri sanamente ed austeramente scientifici, con
larga e sicura informazione bibliografica. La Direzione.
276 CRONACA
Germanisch-romanische Monatsschrift (VI, 1): J. Petersen, Der Aufhau
der Literaturgeschiclite. Cfr. nella Internation. Monatsschrift del àie. 1913:
Mayna, Die MetJioden der Literaturwissenschaft.
Arcìiiv fiir Kulturgeschickte (XI, 4) : A. v. Martin, Die Populàrphdosophie
des florentiner Cóluccio Salutati.
SiXddeutsche Monatshefte (XI, 5): 0. Bulle, Dante und sein Ptibìil'um.
Versìagen en ìnededeeìingen der K. Akademie van Wetenschappen (Am-
sterdam, Serie IV, P. I, pp. 54-91) : J. J. Salverda de Grave, Inleiding tet een
uitgave der Gedichten van de Troubadour Uc de Saint- Gire,
Bevue des cours et conferences (XXII, 5, 6, 7): H. Charaard, La poesie fran-
gaise de la Renaissance.
Sitzungshericlite der K. Bayerischen Akademie der Wissensckaften (ci. mo-
rale, 1913, Abh. 11): K. Yosslei, Der Trohador Marcabru und die Anfdnge
des gehilnstelten Stiles, questa monografia fa parte delle ricerche d'ordine
estetico intorno alla poesia trobadorica, a cui il V. attende da lungo tempo.
Il primo saggio, su Guglielmo IX, lo diede nella Miscellanea Hortis. Cfr.
Giorn., 57, 141.
Pìd)lications of the modem language Association of America (XXIX, 1):
K. Young, The origin of the easter play, pregevole contribuzione alla storia
del dramma liturgico ; Fred. Tupper, Chaucer and the seven deadly sins,
molte utili erudizioni sul « motivo » popolare dei sette peccati capitali.
The modem language review (IX, 2) : E. Moore, The « Battifolle » letters
sometimes attributed to Dante, sottilmente argomenta che anche quelle tre
epistole, sebbene di scarso interesse storico, sono con tutta probabilità au-
tentiche.
Bevue deslivres ancie^is (an. 1913, n° 2): L.Loviot, Une édition de Merlin
Cocai préparée en 1725.
The american journal ofphilology (XXXV, 2) : W. P. Mustard, Lodowick
Brysket and Bernardo Tasso, mostra che in due sue poesie il Brysket ha
seguito, fino alla parafrasi, la Selva nella morte del signor Aluigi da Gon-
zaga e l'edoga Alcippo, che trovansi entrambe nei libri degli Amori di
Bernardo Tasso.
Bomanische Forschungeti (XXXlll, 2): M. Lòpelmann, Das Weihnachtslied
der Franzosen und der iibrigen romanischen Vòlker, all'Italia è fatta parte
troppo modesta; (XXXIV, 1), Oh. B. Lewis, Die altfranzósischen Prosaver-
sionen des ApoUonius-Bomans, testo critico e studio linguistico. Si tratta
della leggenda notissima di Apollonio di Tiro.
Jahrhu^h der K. Preussischen Kunstsammlungen (suppl. al voi. XXXIV) :
0. Pollak, Italienisclie Kiimtlerbriefe aus der Barockzeit, sono carteggi, bene
annotati, di quasi una trentina di artisti, desunti da archivi di Roma. — A
proposito di ricerche storiche sull'arte non isfuggano i due preziosi volumi
(IV e V delle Italienische Forschungen) che contengono i materiali archivi-
stici raccolti da Gustavo Ludwig per la storia dell'arte veneziana, e, con ag-
giunte ed elaborazione di Walter Bombe, quelli sull'arte perugina di
Adamo Rossi.
CRONACA 277
BuUetin du bibliophiìe (1914, n<' 3): J. Mathorez, Les Itaìiens et V opinion
frangaise à la fin du XVI siede, in continuazione.
Tìie romam'c review (IV, 3): Shirley Gale Patterson, An itàlian proverò
colìection, riferisce una piccola raccolta di antichi proverbi italiani, che si
legge in un ms. dell'Università di Chicago; Donald Olive Stuart, The stage
setting ofliell and the iconography of the middle ages, contributo alla storia
dell'apparato scenico religioso nell'età di mezzo ; E. H. Wilkins, The discus-
sion of the date of the birth of Boccaccio ; A. de Salvio, Studies in the Ir-
pino dialect.
Bepertorium fiir Kiinsticissenschaft (XXXVII, 1): J. A. F. Orbaan, Vir-
tuosi al Pantheon, archivalische Beitrdge zur rómischen Kunstgeschichte,
comunicazione di curiosi documenti, che cominciano con la seconda metà del
sec. XVI e si protraggono sino al mezzo del XVHI.
Neue Jahrbiicher fiir das kìassische Aìtertum (XXXIII-XXXIV, 3):
E. Helm, Das Mdrchen von Amor tind Psyche.
Worter und Sachen (VI, 1): Gino Bottiglioni, Die Terminologie der Mar-
morindustrie in Carrara.
Bevue de dialectologie romane (V, 3-4): D. Giannarelli, Studi sui dia-
letti lunigianesi compresi fra la Magra e T Appennino reggiano] C. Volpati,
Nomi romanzi del pianeta Venere.
Zentralblatt fUr BibliotheJcswesen (XXXI, 2): J. Kest, Die erste allge-
meine pàpstliche Zensurordnung.
Bevue hispanique (XXVIII, 74): E. Moline y Brasès, Textes vidgars ca-
talans del segle XV, il più importante fra questi testi è un contrasto della
Sibilla, che accenna a forma drammatica.
Bevue dliistoire littéraire de la France (XX, 4) : P. Chaponnière, Les
comédies des moeurs du theatre de la Foire; Doris Gunnell, Madame de
Staé'l en Angleterre] (XXI, 1), P. M. Masson, Le séjour de J.-J. Bousseau
à Vhospice du Spirito Santo, a Torino.
Beihefte zur Zeitschrift fiir romaniàche PhìMogie (n» 49) : Carlo Battisti,
Testi dialettali italiani in trascrizione fonetica, questa puntata contiene testi
dell'Italia superiore, veneti, lombardi, piemontesi, genovesi, emiliani, con buone
annotazioni linguistiche. — Si tenga presente che nel n^ 52 dei Beihefte tro-
vasi l'edizione critica dei trovatori Pistoleta e Guillem Magret.
Zeitschrift des Vereins fUr VolJcskunde (XXIV, 1): H. Marzell, VoRskund-
liches aus den Krduterbuchern des XVI Jahrhunderts ; Berta Ilg, Malte-
sische Legenden von der Sibylla.
Bevue de philosophie (an. XIII e XIV) : P. Duhem, Le temps et le mou-
vement selon les scolastiques, esteso e dotto scritto.
Bevue philosophique (XXXIX, 3): L. Arréat, Valeurs d'art; esthetique
sociologique.
Archiv fiir Geschichte der Philosophie (XX, 1): Aurelia Horovitz, Die
Weltanschauung eines Bomantikers, che è Federico Schlegel; (XX, 2),
278 CRONACA
E. V. Sydow, Das System Benedetto Croces, additiamo per buoue ragioni
questo unico articolo sul sistema filosofico del Croce, mentre se ne discute
più 0 meno a lungo in tutte le riviste filosofiche italiane, fra le quali è spe-
cialmente considerevole ciò che ne scrive E. Chiocchetti in varie puntate della
Rivista di filosofia neo-scolastica.
Bevue de Vhistoire des religions {hXy 111, 2): G. Huet, La legende de la
statue de Vénus.
Mélanges d'archeologie et d'kistoire (XXXIII, 4-5): A. de Bouard, Lettres
de Bome de Bartolomeo de Bracciano à Virginio Orsini] G. Bourgin, L'as-
sassinat de Bassville et V opinion romaine en 1793.
Bulìetin hispanique (XV, 3) : F. Hanssen, Los endecasilabos de Alfonso X,
degli alessandrini di Alfonso X parlò il medesimo autore in Anales de la
Universidad de Chile, 1913; (XVI, 2), A. Morel-Fatio, A propos de la cor-
respoìulance diplomatique de D. Diego Hurtado de Mendoza, si collega
strettamente a cose italiane.
Modem language notes (XXIX, 3) : F. Hanssen, Die jambischen Metra
Alfons des X] (4), J. M. Rudw^in, Znm Verlidltnis des religiósen Dramas
zur Liturgie der Kirche.
Historische Zeitschrift (CXII, 3): A. Elkan, Entstehung und Entwicklung
des Begriff « Gegenreformation ».
Deutsche Bundschau (XL, 5, 6, 7): Konrad Burdach, Ueher den Ursprimg
des Humanismus, esteso ed interessante lavoro. Sulle fruttuose ricerche del
Burdach avrà a tornare un egregio cooperatore nostro in uno dei prossimi
fascicoli di questa rivista.
Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und BibliotheJcen
(XVI, 2): H. Kalbfuss, Eine hologneser Ars dictandi desXlIJahrhunderts,
illustra un ms. importante della biblioteca di Mantova.
Mitteilungen des histituts fiir oesterreichische Geschichtsforschung (Ergàn-
zungsband, IX, 1): K. v. Ettmayer, Die geschichtliclien Grundìagen der Spra-
chenverteilung in Tirol, importante per i rapporti coi dialetti ladini e trentini.
Neues Archiv der Gesellschaft fiir altere deidsche Geschichtskunde
(XXXVIII, 3): Bruno Albers, Verse des Erzhischofs Alfanus von Salerno
fiir Monte Cassino.
Annales du midi (n« 101): A. Langfors, Xe troubadour Gtiilhem de Ca-
hestanh, in continuazione, edizione e traduzione delle rime di lui.
Zc Uscii ri ft fin- deutsches Altertuni (voi. LIV): E. Michaelis, Zum Ludus
de Antidiristo] (LV, 1), N. C. Brooks, Orterfeiern aus Bainberger und
WolfenbUttler Handschriften, drammi liturgici.
Ettules franciscaines (an. 1913 e 1914): P. Césaire, La perfection se'ra-
phique d^après St. Francois, esteso lavoro ; (XXXI, 181), H. Matrod, Le
veltro de Dante et son DXV, dottamente sostiene il protagonista tartaro;
(XXX, 180 e XXXI, 182 e 183), J. Th. Welter, Un recueil d'E.rpmph du
XIII siede.
CKONACA 279
The american Imtoricdl revieiv (XIX, 1): A. J. Carlyle, The sources of
medieimì politico} theory and its connection tvith medieval politics.
Bevue des deux mondes (15 febbr. 1914): P. Hazard, La littérature en-
fantine en Italie, osservabile, perchè è forse la prima volta che in una grande
rivista straniera si parla della letteratura nostra per i ragazzi, dando il do-
vuto rilievo al bellissimo Pinocchio ed esaltando fin troppo il Cuore: (l» marzo
1914), T. de Wyzewa, Un épisode de la vieillesse de Casanova] (15 marzo
1914), Imbart de la Tour, La religion des humanistes ; (1° maggio 1914),
Hausson ville. Madame de Staèl e M. Necker d'après leur correspondance
inèdite.
Revue d'histoire moderne et contemporaine (XVni, 6): Ph. Sagnac, i'<?n-
seignement secondaire avant et pendant la Bévolution.
Annales de VUniversité de Grenoble (XXV, 1): G. Maugain, Giosuè Car-
ducci et la France, è la seconda parte d'un articolo minuto e rilevante, prin-
cipiato nelle Annales, XXIII, 3. Vi sono registrati tutti i riferimenti del
Carducci a cose francesi, sia nei versi, sia nelle prose.
Bevue d'histoire ecclesiastique (XIV, 4) : L. Laurand, Le cursus dans le
sacramentaire léonien ; Ch. Moeller, Les buchers et les auto-da-fé de Vln-
qiiisition depuis le moyen àge, in continuazione; (XV, 1), L. Gaugaud, La
datise dans les églises, interessante articolo in continuazione ; P. Mandonnet,
La crise scolaire au début du XIII siede et la fondation de Vordre des
frères-prècheurs.
* Il voi. VII della grande Storia dell'arte italiana di Adolfo Venturi riesce
diviso in quattro parti, ognuna delle quali empie un grosso tomo, ornato
di numerose e ben scelte fototipie. Vi si tratta, con novità di vedute, La
pittura del Quattrocento. Nel Giorn., 58, 289 toccammo già della Parte I,
uscita nel 1911. La Parte II vide la luce nel 1913 (Milano, Hoepli). Essa
studia il diffondersi nell'Italia centrale dell'arte di Piero della Francesca,
ch'è considerato come « monarca della pittura » ai tempi suoi. All'influsso di
lui son richiamati artisti come Melozzo, Lorenzo da Viterbo, Luca Signorelli,
e lo stesso Perugino. Le larghe trattazioni di Luca Signorelli e del Pintu-
ricchio hanno molto interesse anche per la storia delle lettere, sia per i me-
ravigliosi freschi orvietani del primo, sia per gli spunti culturali che il secondo
ha disseminati nell'appartamento Borgia e per la sua vivacissima istoriazione
della libreria del duomo di Siena, la quale, come tutti sanno, riguarda Enea
Silvio Piccolomini. Nella prima sezione del volume ha per noi pure impor-
tanza grande il molto che vi si dice delle arti nel centro urbinate. L'attività
di Giovanni Santi vi è meglio chiarita di quanto fosse per lo innanzi ed è
mostrato che parecchie opere a lui assegnate appartengono invece ad Evan-
gelista di Pian da Meleto. L'iconografia tradizionale di Federico d'Urbino
s'arricchisce di ritratti poco noti, come la tavoletta di fra Carnovale della
bibl. Vaticana (p. 104); il dipinto alquanto grosso, ma robusto e vivace, di
Giusto di Gand, eh' è nella galleria Barberini, con Federico armato che legge
un codice e presso a lui il piccolo Guidubaldo (p. 135) [Giusto ritrasse Fede-
280 CRONACA
rico anche nello sfondo del noto quadro La comunione degli apostoli, clie si
trova nel palazzo ducale d'Urbino, ved. p. 123] ; di nuovo Federico e Guidu-
baldo, pure, sembra, pel pennello di Giusto di Gand, nel castello di Windsor
(p. 159). Altro quadro di scuola urbinate, ch'è ora a Napoli, ritrae Luca Pa-
cioli e Guidubaldo duca (p. 122). Nella galleria Barberini ed al Louvre il V.
rintracciò i dottori della Chiesa, filosofi e poeti che Giusto di Gand ritrasse
per Federico da Montefeltro e che colpirono d'ammirazione l'ingenuo Vespa-
siano da Bisticci. Assai esiguo è il loro valore iconografico, ma tuttavia va
notato che nella serie barberiniana trovansi Alberto Magno, il Petrarca, Pio II ;
nella parigina Pietro d'Abano, Dante, Vittorino da Feltre , il cardinal Bes-
sarione. Le celebri arti liberali, anch'esse dipinte per Federico, il V, vuol rito-
glierle a Melozzo ed assegnarle a Giusto di Gand nel periodo suo d'imitazione
dei pittori italiani più in voga. Sgroppa con molta abilità il V. i nodi mol-
teplici e forti che ha la enorme produzione del Perugino, studiandosi di de-
terminare ciò che veramente gli appartiene e ciò che è lavoro della sua bottega.
Se ne guadagna la persuasione che non del Perugino ma di Andrea d'Assisi
sia il quadro dei camerini d'Isabella d'Este, che oggi è al Louvre (p. 563),
e pure d'Andrea lo Sposalizio che ora si trova nel museo di Caen e che per
molto tempo si ritenne il modello peruginesco dello Sposalizio di Raffaello
(p. 691). Nell'ultimo capitolo del volume, ch'è una dotta e perspicua esposi-
zione della giovinezza di Raffaello e della sua prima educazione pittorica, ri-
torna il V. sul soggetto dello Sposalizio (pp. 808 sgg.) e fa vedere che in
quel mirabile dipinto l' unica vera ispirazione remota è da riconoscere nella
Consegna delle chiavi (p. 495), che il Perugino pitturò per la Sistina e che
è uno de' suoi lavori più originali e significanti. — La Parte III del volume
uscì nel 1914 (Milano, Hoepli). Come l'altra si chiude con la giovinezza di
Raffaello, così questa termina con la giovinezza del Correggio ; e mentre l'altra
particolarmente s'occupa dell'Italia centrale, questa s'aggira tra le scuole pitto-
riche quattrocentesche dell'Italia del nord, Padova, Ferrara, Venezia, l'Emilia.
Vi grandeggia particolarmente la poderosa opera di Andrea Mantegna; con
amorosa cura vi sono studiati i Bellini, il Francia, Cosimo Tura, il Cossa,
il Roberti, il Costa. È un territorio con cui il Venturi ha famigliarità grande
da lungo tempo, essendone stato uno dei primi e più benemeriti dissodatori.
Con l'occhio suo esperto seppe ravvisare opere finora neglette di quei pittori
in raccolte diverse, alcune lontane, private e poco accessibili. Siccome si tratta
del più bel fiorire della Rinascita in citta come Ferrara, Mantova, Padova e
Bologna, tutti intendono che questo tomo ha grande interesse anche per i
cultori di letteratura. Rileviamo, tra le molte particolarità che hanno valor
letterario, la cassetta eburnea della cattedrale di Graz con i Trionfi del Pe-
trarca, che un tempo s'attribuivano nientemeno che a Nicola e a Giovanni
Pisano, sicché sarebbero stati modelli al Petrarca, mentre il V. li vuole rica-
vati dal Mantegna (pp. 215 sgg.). Pel celebre ciclo figurato di Schifanoia,
il V. appoggia l'interpretazione desunta dall'astrologia del tempo, proposta
dal quel sagace cultore d'arte ch'è il Warburg. Si noti quanto ò detto delle
arti alla corte di Alberto Pio, il cui pittore favorito fu Bernardino Loschi,
CRONACA
281
che lo ritrasse più volte (pp. 1090 sgg.). Ma, come è detto sopra, per ognuno
di noi qui v'è, non da spigolare, ma da mietere.
* Nel Giornale, 62, 282, fu preannunziata la pubblicazione dei versi latini
(in parte ancora inediti) di Giovanni Pascoli a cura del prof. Ermenegildo
Pistelli. Intanto Arnaldo Della Torre ha dato opera, con ottimo pensiero, alla
versione e al commento di quel gruppo di cinque poemetti latini del Pascoli,
che riguarda il diifondersi del cristianesimo nel mondo romano dal primo al
quarto secolo dopo Cristo. Il poeta ha voluto rappresentare le grandi difficoltà
d'ordine spirituale che il nuovo verbo incontrava per farsi strada fra i Ro-
mani, educati a visione cosi diversa della vita. Il soggetto non poteva che
riuscir gradito al Della Torre, il quale, com'è noto, s'è occupato anche di
storia delle religioni, e segnatamente della cristiana. Sino al momento in cui
scriviamo egli ha tradotti e illustrati due dei poemetti di quel gruppo. Cen-
tuno, ch'ò del 1902, e Pomponia Graecina, ch'è del 1910. Centuno aveva
già avuto tre versioni italiane (una di queste dovuta a G. B. Giorgini) ; Pom-
ponia Graecina era stato tradotto solo da Vieri Bongi. Le traduzioni del
Della Torre (Firenze, tip. già Claudiana, 1913) sono in esametri di tipo pa-
scoliano, corrispondenti nel numero agli esametri latini dei testi. Seguono note
storiche, filologiche ed esplicative; precedono illustrazioni d'indole letteraria.
Il critico rileva che tutto quel gruppo risente dell'impressione gagliarda che
fece sullo spirito del Pascoli il Quo vadis, così largamente diifuso e fortu-
nato in Italia. Da esso deriva la prima idea della Pomponia, non senza che
il poeta ricorresse anche a Tacito e rammentasse qualche tratto della Fabiola
del card. Wieseman. Del Centurio si lascia meno facilmente determinare la
fonte, ma certo ai testi evangelici che il poeta ebbe d'innanzi vogliono es-
sere accostate altre moderne interpretazioni, ove pure la religione cristiana
è valutata in particolare guisa come promulgatrice di pace. Il D. T. fa in
proposito utili considerazioni e raffronti. Per particolari appunti intorno alle
traduzioni vedasi specialmente A. Gandiglio in Atene e Roma, XVII, 55 sgg.
* Miracolo! Il Ministero della pubblica istruzione del Regno d'Italia s'è
fatto iniziatore e patrocinatore d'una pubblicazione di carattere, oltreché am-
ministrativo, scientifico. Intendiamo alludere ai due grossi volumi di Mono-
grafìe delle università e degli istituti superiori, Roma, tip. operaia coope-
rativa, 1911 e 1913. Vi si offrono dati statistici e storici di 15 università
governative, tre università libere e 24 istituti superiori. E una eccellente messe
di notizie, a cui prenderanno vivo interesse tutti i cultori di storia dell'alta
coltura, e non essi soltanto. Com'era prevedibile, il lavoro no,i fu condotto
con vera omogeneità di criteri, né con alcuna oculatezza di direzione ; accanto
a talune monografie ottime, ve ne sono altre mediocri e meno che mediocri ;
in alcune le notizie traboccano e danno nel vano e nel pettegolo, in altre sono
esili e scarne e date in forma pedestre, degna d'un impiegato d'ordine. Ma
forse questi sconci non erano facilmente evitabili, o per lo meno sarebbe
stata necessaria ben altra intelligenza organizzatrice e regolatrice, che gui-
dasse il lavoro. Più grave è il fatto che di due università governative, una
delle quali di primaria importanza, quelle di Genova e di Napoli, manca ogni
282 CRONACA
notizia. Malgrado ciò, la materia dei dati raccolti è pur copiosa e degna, per
molti rispetti, di considerazione. Peccato che l'edizione sia infelicissima. Se
consideriamo il lusso di pubblicazioni storiche consimili che si fanno all'estero,
come ci mortificano questi due sgarbati volumi senza margini, stampati su
carta da salumaio con quegli odiosi tipi che ci sono noti per via del Bollet-
tino dell'istruzione pubblica! (1).
* In quest'anno 1914 è uscita a Pietroburgo l'edizione russa della mono-
grafia su Pomponio Leto del nostro chiaro collaboratore prof. Vladimiro Za-
bùghin. L'edizione russa è rifusa, ridotta nella mole e corredata d'una edizione
critica delle note di viaggio del Leto e d'un indice alfabetico dei manoscritti
adoperati. Fonti nuove son messe a profitto : l'Urbin. 368 ed il cod. Savign. 68,
scoperto e studiato da Luigi Calvelli, il quale si accinge a stampare una bella
biografia del Platina. Del nuovo materiale lo Z. darà conto nei voli. IH e IV
dell'ediz. italiana del P. Leto. Intanto il laborioso indagatore attende allo
studio su Virgilio 'nel Rinascimento, ed è già bene innanzi. L'affinità della
materia ci induce pure ad annunciare che un altro critico russo, Ivan Pusino,
prepara un libro su Giovanni Pico della Mirandola e che Giovanni Minozzi
ha ultimato un esteso lavoro, con risultati ragguardevoli, su Montecassino
nel Binascimento. Frattanto è uscito in Inghilterra un sontuoso volume, che
alla storia della cultura in Montecassino particolarmente si ricollega e che ha
preso le mosse per l'appunto da indagini su ]Montecassino considerato come
centro di trasmissione dei classici latini, tesi proposta dal compianto Traube.
Il dott. E. A. Loew, che di lui fu allievo, finì col fare una grande opera storico-
paleografica, che annunciamo con la maggior deferenza : The Beneventan script,
a history of the south itàlian minuscule, Oxford, Clarendon Press, 1914.
Seguirà, a cura del medesimo Loew, un albo paleografico in edizione di sole
150 copie, col titolo Scriptura Beneventana.
* Una curiosa esumazione dei Classici del ridere dell'editore Formìggini è
la bizzarra prosa di Giovanni Rajberti, L'arte di convitare, rievocata con le
cure di Giulio Natali (Genova, 1913). Del milanese Rajberti, medico e poeta
dialettale, nato nel 1805, morto nel 1861, sono a stampa tra operette giocose
e in parte satiriche, Il gatto, il Viaggio di un ignorante e L'arte di con-
(1) Con ben altra signorilità provvede fra noi alla propria storia qualche Isti-
tuto singolo. Mentre correggiamo le bozze, ci arriva l'appendice (Catania, tipografia
Mattei, 1913) di Michele Catalano-Tirbito alla, héila, Storia documentata deUa R.Uni-
versità di Catania di Remigio Sabbadini, annunciata in questo Giornale, XXXII, 476.
Pur non uscendo dal sec. XV, quel valente esploratore che è il Catalano-Tirrito
aggiunge alla messe abbondante del Sabbadini ben 169 documenti tolti a depositi
prima non esplorati, quali gli archivi comunale ed arcivescovile di Catania ed il
R. Archivio di Stato in Palermo. Ottimo lavoro, stampato, più ancora che con ele-
ganza, con lusso. È desiderabile che la ricerca e lo studio continuino anche per i
secoli successivi. — Nello stesso tempo la Commissione per la storia dell'Univer-
sità di Bologna, eretta in ente morale, pubblica (Bologna, 1913) il II volume del
OhartuUi riunì Studii Bononienais, coi criteri già indicati in questo Oiornale, L, 478.
Se ne discorre in altra parte di questo fnsoicolo.
CRONACA 283
vitare. Sarebbe bene si ristampassero tutte tre, giacche questa Arte di con-
vitare, edita la prima volta nel 1850, è cosa gustosissima. Essa è una specie
di galateo dei conviti più specialmente borghesi, con osservazioni argute e
festevoli. La prosa scorre spedita ed è di buona lega. A pp. 201 e 206, par-
lando dei brindisi, il Rajberti ne pubblica due suoi in sestine vernacole mi-
lanesi, composti nel 1837 e nel 1838. A chi studia la letteratura lombarda
del sec. XIX questo ameno scrittare non dovrà sfuggire.
* Il giusto sentimento che oggi « il periodico è diventato in tutti i campi
« di ricerca intellettuale uno strumento di lavoro della massima importanza,
« spesso necessario più del libro stesso » ha indotto l'Istituto biblico ponti-
ficio a pubblicare un prezioso Elenco alfabetico delie pithhlicaziom periodiche
esistenti nelle hihlioteche di Roma, Roma, libreria Bretschneider, 1914. Inizia
quest'opera la serie dei Subsidia bihiiographica e s'occupa delle pubblicazioni
periodiche, così vive come estinte (comprese quelle edite dalle Accademie), di
soggetto storico, filologico, filosofico, giuridico, economico. Le biblioteche ro-
mane, private e pubbliche, che vi sono considerate, sommano al bel numero
di quarantacinque. L'opera bibliografica, compilata accuratamente dai due bi-
bliotecari G. Gabrieli e A. Silvagni, ha il vantaggio di avere un prezzo più
che modesto. Essa si schiera utilmente accanto al vecchio Elenco delle puh-
hlicazioni periodiche edito dal Governo italiano nel 1885, allo spoglio siste-
matico delle riviste fatto eseguire dalla Biblioteca della Camera, e alla recente
lista delle riviste che si trovano in Milano, stampata a cura del Circolo filo-
logico milanese. Registri di questo genere sono ben utili agli studiosi.
* Tesi di laurea e programmi : Oskar Zollinger, Leopardi ah Dichter des
Wéltschmerzes (programma, diviso in tre annate, della Scuola femminile su-
periore di Zurigo); Fr. Lo Parco, Il voto di due gentildonne guasconi a
S. Jacopo di Compostella (progr. R. Istituto nautico di Napoli ; da una bolla
dell'Ai-chivio Vaticano in data 8 giugno 1332, il Lo P. è tratto a rammen-
tare la parte che ha il santuario di S. Jacopo nell'antica letteratura italiana
e ad illustrare i voti « prò fecunditate » nel Cantare di Fiorio e Biancofiore
e nel Filocolo) ; Eero Iloven, Parodies dts thèmes pieux dans la poesie fran-
{■aise du moyen age (laurea, Helsingfors) ; M. Filzi, Ein tosco-venetianisches
Legendenhuch (progr. ginn., Pola) ; Paul Kruger, Bedeutung und Enttcicl'-
lung der « salutatio » in den mittelalterliclien Briefstelìern bis zum XIV
Jahrhundert (laurea, Greifswald) : W. Kupsch, Formenlehre des alt- und
neu-sizilianischen DialeJcts (laurea, Bonn) ; R. Neri, Giuseppe Revere (progr.
ginnasio reale, Pisino) ; Maria Gianni, Delle rime d'amore di Torquato Tasso
(progr. liceo femminile, Trieste).
* Pubblicazioni recenti :
Guido Pasquetti. — L'oratorio musicale m Italia. Studio d'arte e d'am-
biente. Seconda edizione. — Firenze, Succ. Le Mounier, 1914 [Questa se-
conda edizione ha in testa la recensione che il Renier consacrò alla prima
nel Giorn., 49, 434. Caso strano! Sebbene quel cenno non sia tutto apologe-
tico, esso piacque al Pasquetti, al quale parve che il suo libro vi fosse giù-
284 CRONACA
dicato « con serietà e competenza » e « considerato l'argomento (dice egli)
« da un punto di vista critico che non solo corrisponde al mio, ma anche a
« quello dei più intelligenti scrittori di letteratura musicale d'Italia e d'ol-
« tralpe >].
Francesco Ercole. — Tractatus de Ty ranno von Coluccio Salutati ; kri-
tische Ausgabe mit einer historisch-juristischen Einleitung. — Berlin und
Leipzig, W. Eothschild, 1914 [Di questa importante pubblicazione e delle
altre, su Coluccio, del Martin, sarà debitamente discorso in seguito].
Carlo Pascal. — L'opera poetica di Mario Mapisardi. — Catania, Bat-
tiato, 1914.
Henry Hauvette. — Boccace. Étude biographique et littéraire. — Paris,
Colin, 1914.
Eapfa Garzia. — Il vocabolario dannunziano. — Bologna, Stab. poli-
gi-afìco emiliano, 1913 [Ci rincresce che la coisuetudine della rivista nostra
di non discorrere di opere riguardanti letterati vivi c'impedisca di trattenerci
su questo libro, che sebbene faticoso, contorto e prolisso, ha in se tante buone
parti di dottrina non comune e di criterio sano. Partendo da una severa re-
visione dei due vocabolari dannunziani di G. L. Passerini, giunge a formulare
un giudizio sull'arte del D'Annunzio. Per via son dette non poche cose giuste
sulle questioni dibattute della lingua e dello stile. Sia notato qui di sfuggita
che sulla letteratura critica intorno al D'Annunzio son da vedere La critica,
Xn, 127 sgg. e le informazioni del Della Torre nella rubrica dei contempo-
ranei della Rassegna bibliografica pisana].
Giovanni Ippoliti. — Dalle sequenze alle laudi. Ragioni di storia e di
metrica. — Osimo, tip. Campocavallo, 1914.
Domenico Bulferetti. — Giovanni Pascoli. L'uomo, il maestro, il poeta.
— Milano, Libreria editrice milanese, 1914 [Sui pregi e sui difetti di questo
libro si può consultare un articolo di L. Ambrosini, Trittico pascoliano, in
La stampa, 2 aprile 1914. Rilevante è pure l'opuscolo di Domenico Guerri,
Il poema delle stagioni di Giovanni Pascoli, Caserta, 1914, che racchiude
un discorso notabile sul gruppo georgico dei Poemetti pascoliani].
Giovanni Pascoli. — Patria e umanità. — Bologna, Zanichelli, 1914
[Venti scritti raccolti da opuscoli e giornali, a cura della sorella Maria, come
già nel 1907 il Pascoli stesso raccolse Pensieri e discorsi. Due soli inediti,
riguardanti Messina. In parecchi di questi discorsi, e nelle note, si parla di
Giosuè Carducci, con alata parola. Altrove si tocca di Giuseppe Chiarini, di
Felice Cavallotti, di Enrico Panzacchi].
BiORDO Bbugnoli. — Le satire di Jacopone da Todi ricostituite nella
loro più probabile lezione originaria, con le varianti dei mss. più importanti
e precedute da un saggio sulle stampe e sui codici Jacoponici. — Firenze,
Olschki, 1914.
Paget Toynbee. — Concise Dictionary ofproper names and notable mai-
ters in the tvorks of Dante. — Oxford, Clarendon press, 1914 [Esaurita da
tempo l'edizione del grande dizionario dantesco del Toynbee uscito nel 1898
(su cui vedi questo Giornale, 33, 370 sgg. e le recensioni del Barbi, Btdlett.
CRONACA 285
Dani., N. S., VI, 201, del Cosmo, Giorn. dant., VII, 310, dello Zingarelli,
Bass. crii., IV, 73), il benemeritissimo dantologo inglese ne apprestò una ri-
duzione, ritoccata e migliorata. Qui i testi illustrativi sono richiamati e non
dati per esteso; ma il libro è pur sempre un modello di praticità e di pre-
cisione].
Giuseppe Manacorda. — Storia delia scuola in Italia. Voi. I, Medioevo.
— Palermo-Milano, Sandron, 1914 [Egregia opera divisa in due tomi. Il
primo considera la storia del diritto scolastico nell'età media; il secondo ri-
tesse la storia interna della scuola medievale italiana, offre un dizionario
geografico delle scuole italiane nel medioevo, termina con una ricca biblio-
grafia del soggetto. Torneremo ad agio sull'opera, che merita il maggiore
rispetto. Intanto vedi R. Renier in La Stampa, 12 maggio 1914].
Abel Lefranc. — Grands écrivains frangais de la Benaissance. — Paris,
Champion, 1914 [Con ritocchi ed aggiunte son qui ripubblicati vari scritti
egregi, che concernono la Rinascita francese. Se ve n'ha alcuni, come quelli
su Calvino e sulla Pleiade, che non hanno nulla a che fare con l'Italia, non
è cosi dei due più estesi ed importanti scritti della silloge. Le platonisme et
la littérature en France e Marguerite de Navarre et le platonisme de la
Benaissance, sui quali è da vedere quanto dicemmo in questo Giorn., 28, 476 e
35, 153-4. Margherita di Navarra entra pure nel primo scritto. Le roman
d^amour de Clément Marot, che è l'amore per Anna d'Alenpon. Nello studio
su Le tiers livre du « Pantagruel » et la querelle des fem,mes son molte
notizie sulla letteratura cinquecentesca intorno alle donne].
Umberto Tria. — Il pensiero del Giannone. — Città di Castello, Lapi,
1913 [In questo opuscolo, estratto dalV Annuario del R. Istituto Tecnico
P. Giannone di Foggia, compare una conferenza tenuta in quella città; ma
non è una delle solite tirate retoriche d'occasione. È un bel saggio di sintesi
elevata, espresso in nobile forma oratoria e che rivela, anche nelle molte e
succose note finali, una larga e seria preparazione. Notevole quanto l'A. scrive
del pensiero religioso del G., nel quale scorge tracce diffuse di naturalismo
lucreziano. Ammiratore e difensore dell' « avvocato napoletano », egli serba
tuttavia la giusta misura; e anche di ciò gli va data lode].
Francesco De Sanctis. - Saggi critici, prima edizione milanese a cura
e con note di Paolo Arcari. — Milano, Treves, 1914 [Son tre volumetti, che
contengono tutti i primi ed i nuovi Saggi del De S. Ad essi ne sono aggiunti
dodici, di cui uno, sulla Fedra del Racine, nel voi. I, e gli altri undici nel
voi. Ili, quasi tutti già raccolti negli Scritti vari ed. dal Croce. L'Arcari
ha aggiunto note, in gran parte bibliografiche, ed in fondo all'opera un indice
alfabetico per nomi di persone e di cose].
Scrittori d'Italia. — Bari, Laterza, 1914 [Nuovi volumi usciti : n» 59, Lo-
renzo de' Medici, Opere, a cura di Attilio Siilioni, il voi. I costituì il n» 54,
ora che l'edizione è completa, ne parleremo; n» 60, Cesare Balbo, Sommario
della storia d'Italia, a cura di Fausto Nicolini, voi. II, termina l'opera ini-
ziata nel n° 50; n» 61, G. B. Guarini, TI Pastor fido e il Compeyidio della
poesia tragicomica, a cura di G. Brognoligo; n° 62, Pietro Metastasi©, Opere,
286 CRONACA
a cura di Fausto Nicolini, voi. IH; n. 68, Teofilo Folengo, Ojjere italiane,
a cura di Umberto Renda, voi. Ili, resta completata l'edizione, che ha i suoi
primi volumi ai nn. 15 e 28: il voi. HI reca i componimenti religiosi, cioè il
lungo poema in terzine La palermitana, e VAtto della Pinta e in appendice,
come saggio, una delle « passiones » àeWHagiomachia in esametri latini, che
si conserva, inedita ancora in gran parte, in un codice della biblioteca di
Cava dei Tirreni; cfr. questo Giornale, 33, 174-175 e 86, 248-249; n° 64,
Fiore di leggende, cantari antichi editi e ordinati da Ezio Levi, Serie prima.
Cantari leggefidari, che sono dodici di numero. Nella nota finale ne è data
la illustrazione esterna: il nostro Giornale ne pubblicherà l'illustrazione in-
terna, per opera del Levi medesimo. I cantari qui editi sono: Il bel Gherar-
dino; Pulzella Gaia; Liombruno; Istoria di tre giovani disperati e di tre fate;
La donna del Vergiù ; Gibello ; Gismirante ; Bruto di Brettagna ; Madonna
Lionessa; La reina d'oriente; Madonna Elena; Gerbino].
Cecilia M. Ady. — Pius li the humanist pope. — Londra, Methuen, 1913
[Se ne può vedere una lunga recensione nel Bidìettino senese, XX, 477 sgg,].
Mario Emilio Cosenza. — Francesco Petrarca and the revolution of Cola
di Rienzo. — Chicago, University Press, 1914 [Sulla politica del Petrarca].
Ezio Levi. — Storia poetica di Don Carlos. — Pavia, Mattei, 1914 [Ne
sarà parlato. Intanto vedi R. Renier in La Stampa, 21 maggio 1914].
Marino Fioroni. - Un oratore sacro del Seicento non seicentista. — Ti-
voli, tip. Chicca, 1914 [Si tratta del milanese p. Carlo A. Cattaneo, le cui
prediche non hanno nulla di secentesco, ma sono piane, incisive, venate d'u-
morismo, che fa pensare al Manzoni].
Francesco Scaduto. — Cesare Beccaria. Saggio di storia del diritto pe-
nale. — Paleraio, Sandron, 1913.
A. GoERLAND. — Die Idee des Schicksals in der Geschichte der Tragòdie.
— Tùbingen, Mohr, 1913.
Bonaventura Zumbini. — W. E. Gladstone nelle sue relazioni con l'Italia.
— Bari, Laterza, 1914 [Qui è ampliato e documentato l'articolo dello Z. uscito
nella iV. Antologia del giugno 1910. Il contenuto del volume è essenzialmente
politico, ma vi si parla anche della coltura del GÌ. e dei suoi giudizi su scrit-
tori italiani].
Michele De Marinis. — Anton Giulio Brignole Sale e i su^i tempi. —
Genova, Libreria editrice apuana, 1914.
Emilio Del Cerro. — Nel regno delle maschere, con prefazione di Bene-
detto Croce. — Napoli, Perrella, 1914.
H. Hepele. — Francesco Petrarca. — Berlin-Schoneberg, Protestantischer
Schriftenvertrieb, 1918 [È il ITI volume della serie « Die Religion der Klas-
siker »].
R. ScHEviLL. — Ovid and the renascence in Spain. — Berkeley, Univer-
sity of California Press, 1914.
Rafpa Garzia. — Gerolamo Arolla. — Bologna, Stabilimento poligrafico
emiliano, 1914 [È il primo volume d'una collezione di Studi di storia lette-
raria sarda].
CRONACA 287
Cl. Della Corte. — Vita ed opere di Tommaso Garzoni. — S. Maria
Capua Vetere, tip. del Progresso, 1913.
Alceste Bisi. — L'Italie et le romantisme frangais. — Milano-Roma,
Albrighi e Segati, 1914 [Vedasi il giudizio di G. Brognoligo, in Fanfidla
della domenica, 17 maggio 1914, e meglio l'articolo di G. Rabizzani nel
Marzocco del 22 marzo 1914].
Anna Benedetti. — L'Orlaìtdo Furioso nella vita intellettuale del popolo
inglese. — Firenze, Beraporad, 1914.
Achille Pellizzari. — Dal Duecento alV Ottocento. Ricerche e studi let-
terari. — Napoli, Fr. Perrella, 1914.
Gaspero Barrerà. — Lettere, pubblicate dai figli con prefaz. di A. D'An-
cona. — Firenze, Barbèra, 1914.
Donato Velluti. - Jja cronica domestica scritta fra il 1367 e il 1370,
per cura di Isidoro Del Lungo e Guglielmo Volpi. — Firenze, Sansoni, 1914.
Arnaldo Alterocca. — Xa vita e Vopera poetica e pittorica di Lorenzo
Lippi. — Catania, Battiato, 1914.
Giulio Salvadori. — Le idee sociali di Niccolò Tommaseo e le moderne.
— Città di Castello, S. Lapi, 1913.
Emilio Santimi. — Matteo Maria Boiardo. L'uomo e il poeta. — Livorno,
Giusti, 1914 [Buon volumetto, che non è soltanto una compilazione intelli-
gente di quanto fu scritto sul Boiardo, ma aggiunge osservazioni nuove e carat-
terizza bene il poeta. Nella medesima collezioncina livornese è da segnalare
il buon libretto di Carlo Pellegrini, su La vita e le opere di Luigi Pulci}.
Giorgio Parenti. — La personalità storica di Guido Guinizelli. Studi e
ricerche. — Firenze, Stabil. tipogr. aldino, 1914.
Michele Vernerò. - Studi critici sopra la geografìa nelV Orlando Fu-
rioso. — Torino, tip. Palatina, 1913.
Girolamo Rossi. — Le accademie letterarie liguri sino a tutto il sec. XVIII.
— Savona, tip. Bertolotti, 1913 [Nel volume pubblicato per onorare P. Boselli].
Alb. Salvi. — Lorenz ino de' siedici e la sua Apologia nella storia e
nelVarte. — Sulmona, tip. sociale, 1913.
Camillo Gaschino. — Le poesie pindareggianti inedite dello Sforza Pal-
lavicini. — Cherasco, tip. Raselli, 1913.
Vittorio Betteloni. — Impressioni critiche e ricordi autobiografici. —
Napoli, Ricciardi, 1914.
Adolfo Gaspary. — Storia della letteratura italiana, tradotta da Nicola
Zingarelli. Seconda edizione interamente riveduta con prefazione e note ag-
giunte e ritratto dell'autore. — Torino, Casa Loescher, 1914 [La seconda edi-
zione di questo primo volume compare 27 anni dopo la prima, sulla quale si
veda il nostro Giornale, 9, 467. Invece la seconda edizione del II volume,
diviso in due parti, venne già fuori nel 1900 #1901. Comunque sia di ciò,
lo Zingarelli ha accuratamente riveduto nella forma (e certo ne aveva bi-
sogno) la sua versione: ha premesso nella prefazione notizie biografiche del
Gaspary ; ha recato a giorno la bibliografia finale. Convien riconoscere che il
libro da queste cure s'è avvantaggiato. Non è colpa del traduttore se le ag-
288 CRONACA
giunte nella bibliografia, essendo moltissime, sono talvolta alquanto confuse.
Forse si potevano risparmiare certe note a pie di pagina, ove si contraddice
all'autore, spesso su questioni disputabili].
Giovanni Boccaccio. — Il Decamerone, illustrato per le persone colte e
per le scuole da Michele Scherillo. — Milano, Hoepli, 1914 [Libro di grande
praticità ed accurato. Per la prima volta in esso, anziché offrire una scelta
di novelle boccaccesche, si dà tutto il Decameron, solo sunteggiando quei
racconti che la decenza vuole non vadano in mano di tutti. Il lavoro è fatto
con senno e buon gusto. Precede una serrata introduzione storica e critica;
ad ogni novella, anche a quelle sunteggiate, seguono indicazioni bibliogra-
fi.che, che concernono fonti, riscontri, imitazioni].
f Chiudendosi l'aprile del 1914, mancava in Napoli Giuseppe De Blasiis,
nato a Sulmona il 9 aprile 1832. Eicercatore espertissimo e passionato, maestro
insigne, consacrò la vita intera agli studi storici. Fu professore di storia mo-
derna nell'Università di Napoli, e ritiratosi dall'insegnamento, attese con in-
teresse non mai scemato alla Società napoletana di storia patria, di cui fu
eletto segretario quando nel 1876 essa fu fondata, e quindi, dopo la morte del
Capasso, presidente. Lavoratore egregio egli stesso, sovvenne con signorile disin-
teresse il lavoro altrui, come appare bellamente dalle parole commosse che
pronunciò sulla sua salma Benedetto Croce e che furono riprodotte nel Gior-
nale d'altana del 1° maggio 1914. Gli studiosi di storia delle lettere ram-
menteranno che uno dei primi scritti del De Blasiis fu una monografia, edita
nel 1860, sulla vita e sulle opere di Pietro della Vigna, e che fruttuose ri-
cerche egli fece sulla dimora del Boccaccio in Napoli.
t Di 74 anni morì il padovano mons. Giacomo Poletto, il 23 aprile 1914.
Per volontà di Leone XIII tenne in Eoma una cattedra dantesca, e di studi
danteschi fu cultore indefesso. Studiò in ispecie i rapporti di Dante con le
dottrine religiose e con la Scrittura. L'opera sua principale fu il voluminoso
Dizionario dantesco.
Luigi Morisengo, Gerenfr rfxi,onsaJ>iJ( ,
Torino — Tipografia Vincenzo Bona.
xt'i
MICHELE MARULLO
E I SUOI
HYMlSri ISr^TXJRj^LES
i.
Una singolare figura di poeta soldato ci appare nell'ultimo
Quattrocento, Michele Marnilo, a torto oggi disconosciuto, o per
lo meno ritenuto solo degno di qualche fuggevole cenno, dagli
storici del Rinascimento. Senza pretendere di metterlo alla pari
coi giganti dell'Umanesimo, quali il Poliziano, il Fontano, il San-
nazaro, non credo inutile studiare i suoi carmi latini, pel va-
lore loro, come vedremo, non mediocre, e come uno dei frutti più
cospicui della cosi detta letteratura « stradiotica », finora poco
esaminati.
Dal titolo delle prime edizioni delle sue opere (1), il Marnilo
(1) Ecco l'elenco che cercai di rendere il più possibile completo, delle edi-
zioni marulliane: Epigrammata, stampati separatamente a Koma nel 1490
e di nuovo nel 1493. — Epigrammata et Hymni, Florentiae, Societas Co-
lubris, 1497, una delle migliori e più diffuse: contiene i quattro libri degli
Epigrammi e i quattro libri degl'Inni, soltanto ; presenta alcune scon-ezioni.
— MaruUi naeniae; eiusdem epigrammata munquam alias impressa, Fani,
Soncinus, 1515. — Hymni, a cura di Beatus Rhenanus, Parisiis, 1529. — Epi-
grammatum libri IV, hymnorum libri IV, neniae quinque et alia quaedam
epigrammata, Brixiae, 1531 ; edizione riprodotta a Parigi nel 1561. — Poé'tae
tres elegantissimi. Michael Marnllus, Hyeronimus Angerianus, loJiannes
Giornale storico, LXIV, fase. 192. ì9
290 P. L. CICERI
risulta nativo di Costantinopoli ; egli crede però latine le sue an-
tiche origini, ed esplicitamente lo afferma in due luoghi degli
Secundus, Parisiis, 1582. — Oltre a queste, nella Biblioteca Ambrosiana sono
indicate le seguenti edizioni : Epigrammata et Hymni, stampati successiva-
mente a Bologna nel 1504, a Parigi nel 1561, a Spira nel 1595; sotto la
designazione di Poemata, a Brescia nel 1582 : e il De principum institu-
tione, a Basilea, Berna (senza data). — Edizione recente è quella data da
C. N. Sathas in Documents inédits rélatifs à VTiiMoire de la Grece au moyen
àge, Paris, 1888. Nel voi. VII, a p. 215 e seg., sono ristampati parte degli
Epigrammi, ma con scorrezioni assai più abbondanti che non nelle edizioni
antiche; a p. 173 seg. dello stesso voi. VII, gl'Inni, completi; nel voi. Vili,
il frammento rimastoci del De princìpum institutione. Per quanto riguarda
la tradizione manoscritta, il Mazzatinti {Inventario dei manoscritti delle
biblioteche d'Italia, Torino, Loescher, 1887 e seg.) ci dà i seguenti cenni:
al voi. XI, p. 264 : nel cod. Laurenz. II, IX, 39 cartac, in-S*', sec. XV erano:
Epigrammata quaedam Marnili, ora mancanti come risulta dall'indice della
carta di custodia; Laur. CI. VII, num. 628, cart., in-8°, sec. XV-XVIII, in-
sieme a molti altri autori, tra le cui opere anche epigrammi del Poliziano :
copie di carmi latini del Marnilo, ai fol. 217-219. — Dall'ediz. del Poliziano
curata da I. Del Lungo {Prose volgali, poesie latine edite ed inedite, ecc., Fi-
renze, Barbèra, 1867), pref., p. xxvii, rileviamo che il ms. riccardiano 971
contiene epigrammi latini di Michele Tarcaniota Marnilo, insieme a due epi-
grammi, pure latini, del Poliziano (n. XXX e XXXI dell'edizione citata del
Del Lungo). — B Salvo-Cozzo cita una lettera del Marnilo al Pico nei Codici
capponiani della Biblioteca Vaticana, da lui descritti (Roma, tip. Vaticana,
1897, p. 315), Cod. 235, cart. 68, Variorum epistulae: Michaelis Marnili, lo-
hanni Pico Mirandulano, « Tu vero, Pice, adeo nihil mihi debes ». « Medio-
lani, Kalendas januarias 1487 ». — L'edizione di Parigi del 1582 {Poetae
tres elegantissimi, ecc.) è la più completa, contenendo anche il De principum
institutione; nell'edizione di Fano 1515, però, sono alcuni carmi che non
si trovano in questa, né in quella del 1497 (la migliore dopo la parigina cit.)
insieme con alcuni carmi di M. Ant. Flaminio, che scrisse un epitaffio sul
Marnilo, e ne imitò l'inno a Bacco. Ecco i titoli dei carmi maruUiani di questa
edizione : De acerbitate fortunae ; Nenia (riprodotta però dal Sathas, Op. cit,
VII, p. 220); De morte loannis Medicis; Ad Carolum regem Gallorum (anche
in Sathas, VII, p. 228); Ad Antonium Bàldracanum. Designati come « epi-
grammata nunquam alias impressa »: Ad Ecnomum] In Monillum; Ad Isa-
bettam Gonzagam ducem Urbini] In sacerdotum avaritiam (Sathas, VII,
p. 231); In Cominium (Sathas, VII, p. 230); De fdio Aldi; De Diogene et
Aristippo; AdHylam; In Posthumum; De miseria vitae (Sathas, VII, p. 231);
Divo Georgia (Sathas, VII, p. 231); De Carolo Gallorum rege (Sathas, VII,
p.230); Epitaphium eiusdem (Sathas, ibid.). — L'Anthologia latina del Meyer
MICHELE MASULLO 291
Epìgrammata (1). La patria del poeta è realmente, secondo ogni
probabilità, Costantinopoli, come possiamo rilevare dal breve
carme 49*^ del libro II, Epigr. (« Patriae ») e dai numerosi passi
nei quali lamenta il trionfo dei Turchi, o considera l'Italia come
terra d'esilio. Il Broukhus (2) lo crede nato in Italia, ma la sua
ipotesi è da respingere con 1' autorità dello Scaligero (3), del
Gaddi (4), del Sathas (5) ; il Tiraboschi lo dice italiano « solo per
abitazione » (6).
Il padre, Manilio Marnilo, era nativo di Dymae in Acaia (cfr.
attribuisce al Marullo gli epigrammi 758 (Anthol. lat., v. I, p. 243; è anche
nell'ediz. del 1497: « Caesar Germanicus », 1562-1570). L'epigramma 1552
(voi. II, p. 189) è attribuito al Marullo anche àsAVAnthoIogia latina del Bur-
mann, voi. I, n. 6 (è anche nell'ediz. del 1497), il quale lo crede probabilmente
una traduzione da Callimaco. L'epigr. 1570, che manca all'ediz. del 1497, è
intitolato: Epitapliium Hersili\ è anche in Burmann, voi. IV, n. 16 (nel Meyer
è nel voi. H, p. 193).
(1) Epigr., 1. I, carme 22, in morte del fratello lanus: « Occurrunt Graiique
atavi proavique Latini ». — Elegia a Neera, 1. II, e. 32: « Et tanien est
aliquid proavos habuisse MaruUos ». Cito dall' ediz. del 1497: « Michaelis
« Tarchaniotae Marulli, Costantinopolitani, Epigrammaton ad Laurentium
« Medicen, Petri Francisci filium [liber primus, ecc.] » (identica a quella
del 1582, cit., salvo che manca del De principum instit.), la quale non ha
numerazione di pagine né di carmi; cito dunque il numero progressivo se-
condo ciascun libro, sia degli Epigrammi, sia degl'Inni. L'origine romana
è accennata anche nell'epigrafe al sepolcro del bisavolo Manilio Marullo, che
si trova ad Ancona.
(2) \.^RO\jmi'c%u,Sannazarii opera, Amsterdam, G. Onder de Linden, 1728,
pp. 121-123 n.] altre notizie sul Marullo specialmente a pp. 110, 137, e passim.
(3) G. C. Scaligero, Poètices, ediz. 1561, A. Viìicentium (specialmente utili
saranno a noi il libro IH, e. 112, e il 1. VI, e. 4).
(4) I. Gaddi, Elogi storici in versi e in prosa, Fiorenza, 1639, libro II, pa-
gine 83-85 : De Marullo Greco {sic).
(5) C. N. Sathas, Documents inédits relatifs à Vhistoire de la Grece au
moyen àge, Paris, 1888 (prefazione al voi. VII) ; è la traduz. francese degli
Mvri(A,€la originali, in greco, dell'erudito. Se ne può avere un'idea generale
dalla recensione che ne fu data in questo Giornale, 12, 264.
(6) G. Tiraboschi, St. d. lett. ital, Milano, 1824, tomo VI, p. 1431. Anche
l'epigrafe dello Zannoni alla tomba del Marullo (o cenotafio) in Ancona, lo
designa italiano d'educazione (« ... Mich. Marulli, ortu graeci, domicilio et
« institutione itali »).
292 P. L. CICERI
elegia a Neera, Epìgr., 1. II, carme 32) (1) ; la madre, Eufroslne,
discendeva dall'illustre famiglia dei Tarcanioti Argivi signori di
« Tarchanium » (2). Troviamo inoltre nominati negli Epigrammi
Michele Tarcaniota, avo materno, Filippo Marnilo, avo paterno,
Giano e altri quattro fratelli del Nostro. Non è ben certa la data
della nascita di Michele, ma possiamo porla senza grave errore
intorno al 1453, come è dato dedurre dall'elegia a Neera {Epigr.,
II, 32), assai importante per le notizie autobiografiche che con-
tiene. Quando cadde la patria era ancora, egli dice, « rude semen
in alvo », e ciò par confermato anche da un passo del carme in-
torno al suo esilio {Epigr.^ Ili, 37), nel quale, infiammato d'amor
patrio, il poeta lamenta di non aver potuto prestare il suo braccio,
quando Costantinopoli cadeva sotto il dominio dei Turchi. Egli
lasciò ben presto la Grecia, e fu condotto fanciullo dai parenti ad
Ancona (3). Vagò di là incessantemente per molti luoghi sia
d'Italia sia dell'estero, ad alcuni dei quali accenna nell'elegia
menzionata e in altri epigrammi, come la Scizia e le regioni al
nord del Mar Nero (4) ; ma da questi scarsi accenni non ci è con-
cesso seguirlo in tutte le sue peregrinazioni. Paolo Giovio (5)
diceva appunto di lui : « inquieto ingenio , nullibi sedem sta-
bilem nactus ».
Quando nel 1453 l'impero d'Oriente cedette alla spada di Mao-
metto II, moltissimi greci, com'è noto, emigrarono in Italia, ag-
giungendosi a quei dotti che antecedentemente vi si trovavano o
per loro spontanea elezione o perchè chiamati dai nostri uma-
(1) Sempre secondo la numerazione nostra.
(2) È il monte « Arachnium » degli antichi.
(3) Vedi HoDius, De Graecis iììustribus ìinguae graecae, litterarumque hu-
maniorum instauratoribus, Londinii, 1742, p. 276 seg. Ciò è molto probabile
pei numerosi epitaffi dei parenti, esistenti in Ancona, nella chiesa di S. Do-
menico.
(4) Il Broukhus, Op. cit., crede che i paesi settentrionali cui accenna in
Epigr. I 22, II 34, III, 37, ecc., siano della Polonia.
(.5) Paolo Giovio, Elogia virorum ìitteris tììmfrmm, Basilea, Perna, 1577,
p. 52 : « MaruUus Tarchaniota » .
MICHELE MAEULLO 293
nisti, bramosi di ammaestrarsi nella lingua d'Omero (1). Varie
classi si possono distinguere in questa turba di esuli: quella
che il Mounier (2) chiama « élite intellectuelle », persone nobili
di origine e di pensiero, d'elevato sentire e di non poca dottrina,
provenienti per la maggior parte da Costantinopoli, da Atene, da
Sparta, alcuni letterati, altri occupanti alte cariche nella chiesa o
nel caduto impero. Tra gli altri sia concesso nominarne alcuni
principalissimi ; Gemisto Pletone, specialmente importante pel
nostro studio, che pose i germi dai quali nacque l'Accademia
platonica (3), e il Bessarione, vescovo di Nicea e poi cardinale,
che verso gl'infelici suoi compatriotti esuli si mostrò padre af-
fettuoso e protettore, e fu tanto benemerito per quanto riguarda
l'avvicinamento dei due popoli, il bizantino e l'italico, tra i quali
non correva troppo buon sangue ; e per tacere di tanti altri, che
consacrarono la loro attività alle lettere o ad altri elevati campi,
faremo menzione di Teodoro Gaza, di Demetrio Galcondila, di
Giovanni Lascaris, ecc., per le relazioni che in maggiore o minor
grado dovettero avere col Marnilo, a quanto è dato supporre dagli
epigrammi che di essi parlano, o a loro dedicati.
Accanto a questa bisogna porre una seconda schiera di greci,
la condizione dei quali fu davvero infelice. Essi rappresentano,
per valermi ancora dell'espressione del Mounier, il « vero pro-
letariato » dell'emigrazione greca. Quegli esuli, che a tutto si
prestavano pur di sostentarsi, che conducevano una misera vita
in mezzo agli stenti e al disprezzo, ed erano ora copisti, ora
calligrafi, ora proti, ora soldati mercenari, rappresentano il vero
popolo minuto di fronte all'aristocrazia, composta dei più illustri
cui sopra ho accennato. Pensiamo allo stato loro, e troveremo in-
(1) Non è mestieri qui citare le notissime e poderose opere fondamentali
sull'umanesimo, ove si parla di ciò. •
(2) Phil. Monnier, Le Quattrocento, Lausanne, Payot, 1901, voi. II, p. 18.
(3) La quale nel successivo svolgimento, com'è noto, se ne allontanò. Vedi
Della Torre, Storia dell' Accademia platonica di Firenze, Firenze, 1902,
p. 429 e seg.
294 P. L. CICERI
giuste le parole di dispregio che scagliarono loro contro i superbi
umanisti: lungi dalla patria, sfuggiti ai Turchi spietati, si trova-
vano in terra non propria, in mezzo a un popolo sconosciuto, che
li guardava con curiosità e scherno, cui si associava la voce dei
letterati, che li chiamavano « Graeculi esurientes », oppure « fal-
laces atque inertes Graeculi ». Né vale l'affaticarsi del Bessarione
per proteggerli, esempio isolato. Essi vanno errando senza posa
qua e là, imprecando contro il destino crudele. Crudeli anche i
dileggi contro di essi dobbiamo riconoscere, quando sentiamo, per
esempio, il Poggio chiamarli senz'altro « digni omni supplicio »;
e Lapo da Gastiglionchio « ego huiusmodi homines numquam
« sine risu aspicio »; il Fontano non vede in loro di greco che la
barba e le strane vesti e li giudica ignoranti delle lingue clas-
siche, e pur pieni di orgoglio ; orgoglio e presunzione loro rim-
provera il Poliziano, né trova passabile alcuna loro produzione
letteraria; alla sterilità letteraria accenna il Filelfo (1). Eppure
tra questi disconosciuti molti ebbero meriti non indifferenti : per
limitarci ai principali, nel campo librario emergono Demetrio di
Creta, primo editore della grammatica di Costantino Lascaris;
Musuros, Decadios e altri, che rendono pregevoli servigi ad Aldo
Manuzio ; poeti latini furono il Marnilo (2) e Manilio Rallis ; in
greco poetò Demetrio Mosco.
Michele Marnilo apparteneva a quella classe detta in Grecia
degli « Stradioti », specie di feudatari, in origine, a quanto si ri-
leva anche da vari passi degli Epigrammi del Nostro, nei quali
egli accenna a possedimenti aviti (3).
(1) Tra queste invettive però una voce «'alza favorevole ai greci, quella di
Vespasiano da Bisticci, che parlando di Giorgio da Trebisonda, così si esprime
« Fu dotto, come sono i più de' Greci, in tutte e sette l'arti liberali ». Vedi
l'edizione bolognese di L. Frati, voi. II, p. 210 al cap.: « Giorgio Trabi-
sonda » {sic).
(2) Ho posto il MaruUo in questa seconda classe, solo per quanto riguarda
la sua condizione sociale, poiché pei meriti letterari lo collocherei piuttosto
nella prima, indotto a ciò anche dalle frequenti allusioni onorevoli che a suo
indirizzo ha il Fontano.
(3) Specialmente il detto € Tarchanium » posseduto dall'avo materno.
MICHELE MARULLO 295
Quale sia il vero significato della parola « Stradioti », appare
dall'etimologia (1) : Stradiota o Stratiota (francese Estradiot)
deriva da aTqdta il noto vocabolo del greco bizantino, signifi-
cante via, strada, non da axQaxiéxrig, come spesso confondendo
si credette; onde « Stradioti » significa « erranti, vaganti » (2), e
la ragione di tal nome sta probabilmente in ciò, che essi, sempre
in guardia contro le terribili bande di monaci (3) che di continuo
invadevano i loro possedimenti, erano costretti a batter la strada,
sia per difesa personale, per impedire che si spingessero fino ai
loro domini, sia anche per la difesa d'altri loro consorti.
Per evitare ulteriori confusioni, sarebbe forse opportuno scri-
vere da ora in poi « Stradioti » e adottare tal grafia per tutte
le altre designazioni, come ad esempio « letteratura stradio-
tica (4), imprese stradiotiche », ecc.
Dai documenti raccolti dal Sathas risulta che gli Stradioti
erano di spirito pagano (5) e che riuscirono a conservare l'elle-
(1) Vi accennò il Sathas, al voi. IV dei suoi Mvrj/^ieta (cit.), pref., p. vii;
egli fa notare anche che il Tasso in questo senso ebbe a menzionarli nella
poesia La battaglia del Taro (in Eime scelte di T. T., Firenze, 1872, p. 472):
« Sparsi e turbati fur da' Greci erranti »; e ancora il Tasso li chiama « Ar-
givi » come il Marnilo. Ma occorre avvertire che il vocabolo avQdòa, segna-
lato dal Sathas, non esiste nella grecità bizantina né nel greco moderno,
come risulta dalle grammatiche e dai lessici migliori bizantini e moiemi.
Noi manteniamo il d nella parola Stradioti e nei derivati, solo per non con-
fondere, come abbiamo mostrato, non perchè la ricolleghiamo a avQdóa.
(2) Sathas cit.: « Marcheurs ou Errants ».
(3) Ampie notizie intorno a ciò vedi nella prefaz. al voi. VII del Sathas,
cit., passim.
(4) Già l'ho scritto in principio (« letteratura stradiotica »). Stradioti,
dunque, dice « vaganti »; altrimenti non si capirebbe come potessero esser
chiamati « Stratiotae » anche E. Chrysoloras e Leonzio Pilato, se non pel
solo fatto di esser senza stabile sede, come il MaruUo.
(5) Questo paganesimo degli Stradioti (vedi Sathas, Op. cit., YTl, prefaz.),
per la naturale evoluzione, molte trasfonnazi(^i aveva subito a contatto di
moltephci elementi; il suo centro era Atene, e Atene e le leggende ateniesi
costituiscono il fondo delle epopee stradiotiche. Il Marnilo chiama appunto
« Cecropius » il guerriero stradioto, perchè riceveva la sua educazione ad Atene.
Ecco come si esprime il Sathas in proposito : « Quand un brave Strathiote
296 P. L. CICERI
nismo (1), in mezzo al dilagare del monachesimo, che coi suoi
vasti tentacoli cercò travolgere ogni avanzo dell'antica tradizione
pagana. Piuttosto che monaci, degni d'esser chiamati belve, ir-
rompevano armati per l'Oriente, con micidiali scorrerie, ormai
completamente dimentichi dei primitivi scopi religiosi, tutto de-
vastando, e massacrando quanti non potevan loro opporre valida
resistenza. Perdurò negli Stradioti, spietatamente cacciati, l'odio
contro di essi ; e perdute col volger dei tempi le terre degli avi,
si dispersero pel mondo, portando il loro valoroso braccio ai
principi e ai bisognosi , divennero insomma una specie di ca-
valieri erranti (2), senza fissa dimora, pronti ad accorrere dove
chiamava il caso.
L'ideale dello stradioto era la gloria, e lo dichiarano queste
parole del Nostro (Epigr., I, 6):
patrii est hoc moris, honestam
Pugnando mortem quaerere, non tumulum;
« eut le courage de jeter la masque et de chanter les dieux de son cceiir
« [è il Marnilo], il donna an guerrier grec son vrai nom, * Cecropius '». Si
veda per curiosità ciò che il Nostro dice dello stradioto, De principum in-
stitutione :
Qualis
Armento pulsus patrio regnisque iuvencus,
Moeret inexhaustum exilia, et rivalis amari
Saccessus; plagarumque immemor atque laboris,
Unam secum ignominiam, amissosque hymenaeos
Mente agitat: quernoque obnixus cornua trunco
lam tum hostem vocat in pugnam, Martemque lacessit,
Ipsam animam dare iam pulchra prò laude paratus.
Anche oggidì, come fa notare il Sathas (p. iv, pref. voi. VII), sopravvive
traccia di ciò nella denominazione di rdyyaQot o BdyyaQoi (= vagabondi)
che il popolo dà agli Ateniesi.
(1) Il Sathas, ancora: « Le foyer de ce paganisme déguisé est Athènes... ».
(2) E nel poemetto Marphisa, di Dragoncino da Fano (Venetia, 1532), è
detto appunto: « Greco è il mio sangue e la mia patria è il mondo ». Nei
documenti veneziani sono detti « Zagdari », che etimologicamente significa
appunto « vaganti ».
MICHELE MASULLO
297
e i due versi seguenti di un altro stradioto, tardivo, Manoli
Elessi (1),
Per le strade cavalchemo
Per trovar algiin polémo (2),
ben riassumono la vita dello stradioto.
La religione loro riteneva nella maggior parte il fondo pagano
ellenico, ma aveva subito l'inevitabile trasformazione dovuta al-
l'influenza del cristianesimo. La Fenice era il loro emblema ; la
divinità suprema era il Sole-Mithra (3); il paradiso era situato
nell'Islanda, e ciò è forse lontana reminiscenza delle Isole dei
Beati degli antichi, poste appunto agli estremi confini del mondo.
Delle peregrinazioni del Marnilo poco si sa. In Italia dimorò
certo assai lungamente, anzi, si può affermare, la maggior parte
della sua vita. Seguendolo attraverso i suoi scritti, lo troviamo
in Calabria {Epìgr.^ I, 9, « a Francesco Scala »), a Ragusa {Epigr.y
IV, 17, « De laudibus Rachusae »), in Toscana, specialmente a
Firenze, a Siena, ecc. In Calabria combattè sotto le bandiere di
Cai'lo Vili. E sappiamo pure che fu tra i difensori di Caterina
Sforza contro il Valentino nella rocca di Forlì (4). Aveva fatto il
(1) Non bisogna confondere questo che chiameremo Elessi « il giovane »
(al servizio della repubblica di Venezia), autore di poemi in dialetto greco-
veneto, col « vecchio », che è oggetto del poema di Marco Antonio Molino;
intorno a ciò vedi V. Rossi, Calmo, p. xxxii, Torino, Loescher, 1898. Il poema
del Molino è intitolato: I fatti e le prodezze di Manoli Elessi Si ratioto, Ye-
nezia. Giolito, 1561.
(2) Anche il MaruUo: Epigr., I, 1, v. 9: « ...diverso gladius dum strin-
gimus orbe ».
(3) Così vuole il Sathas. Amplissime notizie intorno a Mithra si possono
leggere in Cumont, Textes et monuments fìgurés relatifs aux mystères de
Mithra, Bruxelles, 1899, che contiene anche tutta l'abbondante bibliografia
intorno al dio e al suo culto (si vegga la recente 3* edizione).
(4) Vedi P. D. Pasolini, Caterina Sforz€^{\oì. II, pp. 138, 157, 201, 838),
Roma, Loescher, 1893. Il Marnilo e Gabriele Piccoli sono i due soldati poeti
che troviamo intorno a Caterina Sforza; quest'ultimo la celebrò in alcune
poesie, ma non pare che il Marnilo le dedicasse alcun carme. Nel voi. II (dei 3)
a p. 358, il Pasolini riproduce l'eflfigie del Marnilo da quella già data da
298 P. L. CICERI
noviziato delle armi sotto Nicola Rallis, padre dell'amico suo Ma-
nilio; si venne in lui formando una forte tempra di soldato,
benché non immune da una certa « gloriola » (1) che non di rado
fa capolino. Basta però dare una rapida occhiata agli Epigram-
mata^ e qua e là agli Hymni^ per ravvisare l'uomo che non trema
dinanzi al pericolo, che mai volge le spalle al nemico, sempre
pronto ad accorrere là dove un compagno abbisogna d'aiuto.
Ogni volta che parla di lotte ispirate a giusti principi, s'accende
di nobile ardore, e acquista potenza nuova e veramente sugge-
stiva. Tanto maggiormente mostra entusiasmo, quando la causa
della lotta è la sacra difesa della patria.
A Napoli il Marnilo fu scolaro (2) del Fontano, e appartenne
all'Accademia pontaniana, come è attestato dai recenti studi (3).
Paolo Giovio {Elogia dì., p. 52); in quel disegno, benché rozzo, chi volesse
non trascurare le relazioni fra i tratti fisici e l'opera dell' ingegno, ravvise-
rebbe maschia fierezza di lineamenti, accoppiata ad un non so che di triste
nell'occhio, cui fa riscontro il verso seg. {Epigr., I, 1, 5):
Quaeque manus ferrum, posilo fert ense UbeUos;
la vita militare da una parte, dall'altra la poesia in lamento dell'esilio, o
amorosa. Anche un altro poeta soldato di quell'epoca, Lorenzo Bonincontri
da S. Miniato, dicesi portasse con sé un « libellus » di elegie (vedi B. Sol-
dati, GVinni sacri d^un astròlogo del Hinascimento, in Miscellanea Graf,
p. 405 seg.). Quanto alla tradizione figurativa intorno al Nostro, si veda an-
cora: Ardi. star, lomh., serie IH, voi. 16, p. 17 seg.; a p. 149 è riportata la
lettera del Doni al Tintoretto, dove è descritto il museo Gioviano; notevole
il passo riguardante la salita faticosa dei poeti per l'erta del Parnaso, perchè
ha una notizia che ci riguarda : « Il Pottano {sic) sopra una mula, il Marullo
« inanzi {sic) a lui che pareva un unghero ch'andasse a la guerra ».
(1) Nella lunga nota sul Marullo a pp. 121-124 dell'ediz. dei canni latini
del Sannazaro, il Broukhus rimprovera a lui quest'eccessiva vanteria sua, del
doppio merito delle armi e della poesia, mentre altri poeti soldati, al Nostro
coetanei, e il Sannazaro stesso, A. M. Acquaviva, ecc., non menan vanto di
ciò; e non ha torto il commentatore.
(2) Il Ginguené afferma che studiò anche lettere greche e latine a Venezia,
e filosofia a Padova.
(3) Il Marullo è già menzionato nell'elenco degli accademici pontaniani
dato dal Giannone; vi consente il Tiraboschi. Vedi anche L. G. Gtraldus,
MICHELE MARULLO 299
Ad altri maestri, o per lo meno ispiratori, accemia il Oiovio :
« Theodori [Grazae] ac Arg;y^ropuli decora vestigia subsecutus ».
Venuto a Firenze strinse relazione con Lorenzo di Pier Fran-
cesco de' Medici (1), al quale sono dedicati gli Epigrammata, e
che egli loda troppo spesso, talvolta anche toccando l'adulazione,
si che non andremo lungi dal vero affermando che ne ricevette
favori.
Sposò Alessandra Scala, figlia di Bartolomeo Scala, colta e gen-
tile poetessa, che alla bellezza accoppiava il vivido ingegno.
Ebbe una polemica col Poliziano, la quale varcò i limiti della
correttezza, anzi divenne addirittura feroce da parte di quest'ul-
timo. Il Tiraboschi la crede causata da gelosia per colei che
anch'egli, il Poliziano, aveva celebrata in molti epigrammi latini
e greci; medesimamente il Menken (2), benché prima inclini a
credere che il motivo principale fosse il disprezzo del grande
umanista pei greci immigrati in Italia. Il movente amoroso si può
ammettere come principale certamente, tuttavia da nessun luogo
del Marnilo né del Poliziano appare in modo manifesto. Nei
dieci epigrammi che il Poliziano scagliò contro il Marnilo (3),
Dialogus de poètis nostrorum temporum, Lugduni Batavorum, 1696, voi. Il
(V. l'ediz. recente del Wotke, BerHn, 1894): « Ex eadem Fontani Academia
« fluxere Michael MaruUus et Manilius Rhallus, ambo parentibus graecis nati,
« in Italia enutriti, atque invicem amici, uterque epigrammatùm poeta», ecc.
C. MiNiERi-Riccio, Cenno storico delie accademie fiorite nella città di Na-
poli, a p. 107 dà l'elenco degli accademici pontaniani, tra i quali è anche il
Manilio. Il Fontano l'ebbe assai caro, come attestano i carmi a lui diretti.
Vedi Fontani carmina (ed. Soldati), voi. Il, pp. 178, 254, 267, 269. E il Ma-
rullo al Fontano, Epigr., I, 32: « ...mi tieni luogo di padre ».
(1) A questo accenna il Poliziano negli epigrammi XXX e XXXI (Del
Lungo, p. 124 seg., vedi nota), dove è spesso designato « tuus Marullus ».
(2) F. 0. Menken, Historia vitae et in literas meritorum Angeli Politiani,
Lipsiae, Gleditsch, 1736, pp. 378-381 q passim 133, 276, 391.
(3) Ediz. Del Lungo cit., pp. 131-140, epigrammi XLIII-Ln, che formano
la sezione « Invectiva ». Si noti che alcun tempo prima il Poliziano stesso,
nei due epigr. XXX e XXXI citati (nella sezione « Ad amicos et proceres »),
indirizzati a quello stesso Lorenzo di Pier Francesco de' Medici, protettore
del Marullo, si mostra a lui amico, ne loda i versi, e lo chiama col suo vero
300 P. L. CICERI
ora afferma innumerevoli gli errori dei suoi versi, ora fa un tur-
pissimo ritratto della persona di lui, che chiama «Mabilius»,
adoperando spietatamente l'arma del ridicolo, ora l'accusa d'i-
gnoranza delle regole di metrica e di grammatica, oppure lo
schernisce per la misera abitazione di lui in Firenze, e ter-
mina con un epitaffio atrocemente sarcastico. Tal violenza non
manifestò invece il Marnilo nelle sue risposte, otto epigrammi (1),
nei quali il Poliziano è chiamato « Ecnomus », fiacchi e privi
d'ogni forza (2). Trovò un alleato nel Sannazaro, amico suo, del
quale si leggono due violenti epigrammi contro il Poliziano (3).
Oltre ad Alessandra Scala, che egli chiama « Neaera », canta
altre donne da lui amate ; non si sa chi sia Leucotoe, né Marzia
Boconzia, né Eufrosine, né Pietra, né Camilla (4) alle quali de-
dica epigrammi amorosi, se pure alcuni di questi nomi non ce-
lano una medesima sola persona. Però a quanto risulta da molti
luoghi, l'amor suo per Alessandra fu sincero e si mantenne
sempre intenso.
Degli amici del Marnilo si ha notizia nell'epigramma del lib. I,
« Ad sodales » (e. 54), dei quali notevoli Gabriele Altilio, il noto
nome, mentre più tardi lo designerà col soprannome di « Mabilius » (il
Menken : « quasi mala bile praeditus » ) ; non sempre nemici dunque erano
stati i due umanisti.
(1) Otto, secondo le edizioni che diremo « praestantiores »; più quello del-
l'ediz. di Fano 1515, In Ecnomum cit., sarebbero in tutto nove.
(2) n GiNGUENÉ, Storia della ìetter. ital, trad. Perotti, Milano, 1843, t. IV,
p. 290 seg., osserva argutamente: « Egli era amato e gli fu più agevole il
temperarsi »; rispose insomma per rispondere, affine di non esser tacciato di
viltà ritraendosi dalla polemica.
(3) Sono gli epigrammi LXVI « Ad Pulitianum » e LVII « De eodem »
del libro I (ediz. Broukhus); l'editore crede contro il Poliziano anche l'epi-
gramma m del 1. II « In bubonem ».
(4) L'Ariosto che, giovinetto, lo conobbe (vedi più innanzi), dice appunto
di lui {Orl.fur., XXXVII, 8):
Dianzi MaruUo ed il Pontan per vui
Sono, e duo Strozzi, il padre e il figlio, stati
(cioè per le donne).
MICHELE MASULLO 301
umanista, e principalmente il Sannazaro e Manilio Rhallis, pre-
gevole poeta latino, pel quale il Marnilo ha speciali accenti di
viva amicizia. Si rivela poi amico affettuoso di Francesco Scala
nell'epigramma 9*^ del lib. I, che è un vero inno gioioso che il
poeta scioglie al giorno fausto del ritorno dell'amico mentre
egli si trovava solo e abbandonato in Calabria.
Verso Demetrio Calcondila mostra simpatia; di Teodoro Gaza,
al contrario, pare un po' invidioso. Contro Giovanni Pico, che
probabilmente aveva scritto qualche verso in lode di Alessandra
Scala, scrisse un epigramma assai fiero di gelosia; lo celebrò
poi alla morte con un onorevole epitaffio. Il Giraldi credeva
che il Pico lo avesse aiutato nella composizione degVffymni
naturales (1), ma è difficile ammettere che questi, studioso di
teologia cristiana, abbia posto mano in inni, come vedremo, al
tutto pagani.
Procedendo nella rassegna dei principali personaggi menzio-
nati negli epigrammi, il Marnilo si mostra alquanto adulatore
di Antonio Sanseverino principe di Salerno, l'altro suo protet-
tore, al quale dedicò gl'Inni; ne ricevette certo favori, che però
afferma compensati ad usura dai suoi versi, atteggiandosi a di-
spensiere di gloria, come già verso Lorenzo di Pier Francesco
de' Medici. Più grandi e ripetute sono le lodi all' imperatore
Massimiliano, che appaiono però sempre sincere. Ad Andrea
Matteo Acquaviva, altro guerriero letterato, scrisse una bella
elegia di consolazione per la morte del padre di lui, Giulio, ca-
duto in guerra contro i Turchi. A Carlo Vili indirizzò un caldo
incitamento a muover guerra ai Turchi e sollevare la patria
infelice, caduta sotto il duro giogo del barbaro vincitore.
Anche lanus Lascaris forse strinse col Marnilo amicizia negli
ultimi tempi, poiché lo chiama lòv é/iòv MdQovllov (2), e a
(1) Vedi B. Soldati, La poesia astrologica nel Quattrocento, Firenze, San-
soni, 1906, p. 275 n.
(2) Presso Legrand, Bibliogr. heìlénique, Paris, Leroux, 1885, voi. II, p. 324.
302 P. L. CICERI
•
lui dedica un epigramma dopo l'infelice sua morte (1). Dovet-
tero poi esservi certo rapporti d'amicizia fra il Nostro e l'A-
riosto, nella sua gioventù — quando mori il Marullo, nel 1500,
l'Ariosto aveva 26 anni — se è lecito ciò argomentare dall'elegia
che quest'ultimo inviò ad Ercole Strozzi per annunziargli l'ina-
spettata terribile morte del comune amico loro (2).
Il Marullo fu innegabilmente uomo d'ingegno, e di cultura,
pei tempi suoi, considerevole. Conosceva certo i capolavori della
letteratura greca, e in quella lingua aveva anche scritto versi,
che non ci sono rimasti (3). Dei poeti latini fa espressa men-
zione il Marullo stesso nell'epigramma 16^ del libro I, dove con
concisa brevità specifica l'intento principale della loro attività
letteraria; per Lucrezio è più diffuso, e già fa intendere l'entu-
siasmo che egli, ebbe per lui. Ne curò infatti un'edizione, in
collaborazione con Pier Candido Decembrio e col Fontano, nella
quale, per quanto ardite, sono felicissime molte congetture, e
geniali alcune restituzioni (4). Né è giusto il giudizio di Giu-
seppe Scaligero (nel commento a Catullo), dove dice che nessun
antico autore è stato si maltrattato da nessun emendatore,
quanto Lucrezio dal Marullo, queir« audax Graeculus », d'in-
(1) In Legrand cit., voi. I, pp. 198-99.
(2) Carmina ill.poet. it., Florentiae, 1719, I, 358: « Ad Herculem Stroz-
zain ». Al verso 5 lo chiama « noster ». Verso 19: « Quam mors, si vera est
fama, Marulli... », ecc.; non vuol credere alla tristissima notizia, vera pur
troppo, ed esclama: « Nam foret haec gravior iactura mihique tibique »; in
fine, con affetto: « Marullum... meum ».
(3) Rileviamo ciò principalmente dalle testimonianze del Fontano e di
Paolo Giovio. Il primo : « Et graia et latia dare, Marnile, lyra » ; e il Giovio :
« Non graeco tantum, sed latino cannine admirandus [MaruUus] » e aggiunge
che « nihil iam graece doctum esse satis ad laudem putabat ».
(4) Vedi Carlo Pascal, prefaz. all'ediz. del libro I di Lucrezio, Boma-
Milano, Albrighi e Segati, 1904, p. 5 : « Il Marullo, scolare del Fontano, fu
« poeta ed erudito di alto merito ed ebbe per Lucrezio idee geniali e resti-
« tuzioni felici ; ma cedette troppo alla smania del congettumre ». La sua
ediz. è: T.Lucr. Cari De rerum ìiatura cum praef. et castigai. P etri Can-
didi, Florentiae, Ph. Juntha, MDXII (postuma).
MICHELE MARULLO 303
gegno « rapidum et torrens », ma nato piuttosto a scribacchiar
versi alla rinfusa (son parole dello Scaligero) che ad emendare
i buoni autori.
Conosce anche Dante, il Marnilo, e se ne mostra grande ammi-
ratore nell'epigramma dedicato al Poeta {Epigr.^ Ili, 13). Scrisse
qualche verso in volgare fiorentino, e ci rimane un sonetto cau-
dato contro il Poliziano, del tempo della polemica su accennata,
che, a detta del Del Lungo, « morde con sufficiente toscanità » (1).
Ma le opere principali sono le più volte menzionate, gli Epi-
grmnmata e gli Hytnni naturales ; aveva composto anche un
poema didattico intitolato De principuni ìnstitutione^ ma non
ce ne rimane che una parte, di circa seicento versi, edita re-
centemente dal Sathas, nei Monumenta citati, al voi. Vili.
Mori nel 1500 (2), annegato nel Cecina, in quel di Volterra, di
ritorno da una visita a Raffaello Maffei (detto « Volaterranus »),
non è ben certo se per un'insolita piena del fiume, o per es-
sere il suo cavallo sprofondato nel limo sabbioso, donde en-
trambi, il padrone e l'animale, più non poterono districarsi (3).
A proposito di questa morte disgraziata, si ha un epitaffio di
Andrea Dazi (4):
Evasit toties hostilia tela Marullus,
Ut Cecinae tumidis obrueretur aquis.
(1) I. Del Lungo, Florentia, Firenze, Barbèra, 1897, p. 66 e seg.
(2) La data è certa, per la precisa indicazione del Giovio {Op. cit.), secondo
il quale il Marnilo morì « eo die qno Ludovicus Sfortia captus, ut ferrato in
« carcere miser expiraret, in ulteriorem Galliam est perductus »; e Ludovico
Sforza fu catturato l'il aprile 1500.
(3) Ecco quanto riferisce Volaterranus: « Discipulum habuit Pontanus Ma-
« rullum Costantinopolitanum, hospitem meum, qui eodem die quo a me Vo-
« laterris discessit, in amne Cecina submersus est » (presso Hodius cit.); egli
scrisse per lui un'epigi-afe che andò rotta e perduta. Il Marnilo è ora sepolto
nella chiesa di Pomarance, presso Volterra. Mei 1840 fu sostituito al perduto
epitaffio del Volterrano quello dello Zannoni. Anche ad Ancona, secondo l'Hody
citato, si legge un'epigrafe al poeta nostro, fra quelle dei suoi antenati, ma
probabilmente non si tratta che di epigrafe ad un cenotafio.
(4) Giovio, Op. cit., p. 53. Vedi altri epitaffi e compianti nel Giovio cit.
304 P. L. CICERI
Il nostro stradioto aveva prestato ad un tempo il braccio vi-
goroso a Marte e la penna ingegnosa alle Muse, e di ciò spesso
si era compiaciuto (1); questa sua vita avventurosa, accoppiata
all'opera dell'ingegno, gli procacciò tra i contemporanei e tra i
primi cinquecentisti favorevole fortuna. Per tacere degli altri,
lo lodarono il Crinito, Lilio Oregorio Griraldi, Antonio Tebaldeo,
il quale in un epitaffio accenna alla doppia lode delle armi e
delle Muse; Pierio Valeriano, del primo Cinquecento, afferma
che i carmi del Marullo correvano per le mani di tutti; Ercole
Strozzi, nella « Caccia », lo chiama « Musarum comes egregius
cantorque deorum »; il Latomio infine (2) :
Plus est imbelles traxisse in castra Camoenas.
Passionato, patriota fervente (3), d' ingegno vivo e bizzarro,
benché non privo d'un'eccessiva stima del suo valore nelle armi
e nella poesia, si può affermare sia stato umanista degno d'oc-
cupare un posto non trascurabile fra gli altri. Molti dell'età sua
eccessivamente lo esaltarono; da altri, massime posteriori, fu
biasimato. L'esame dell'opera sua cercherà ora di contribuire ad
un più retto giudizio, che s'avvicini il più possibile al vero (4).
Piansero la morte del Marullo il Pont ano {Ep. II, « Tumulus Marnili »);
l'Ariosto accennato; Pietro Crinito: « Nenia de obitu poetae Marnili By-
zantii », e altri.
(1) Come si vede anche in quel verso riportato in nota più sopra.
(2) Presso Giovio, Ojì. cit., p. 54.
(3) Un passo del carme intorno al suo esilio {Ep. HI, 37) potrebbe dimo-
strare a sufficienza, se altre prove non avessimo, che l'anima sua fu since-
ramente infiammata d'amor patrio; in quei versi egli si scaglia contro i
« foederati », chiamati in aiuto, quasi non bastasse il braccio dei greci;
quelli furono — secondo il poeta — la vera rovina della patria:
lUe, iUe hostis erat, iUe espugnabat Achivos
Miles, et eversas diripiebat opes.
IUe deos et fana malis dabat igaibus; iUe
Romanum in Turcas transtulit imperium.
(4) Oltre alla bibliografia fin qui data, si può ricorrere alle seguenti opere :
MICHELE MARULLO
IL
305
Prima di passare all'esame degVRy7nni natu7mles, che for-
mano l'oggetto principale del nostro studio, sarà bene dare un
rapido sguardo alle opere minori, dalle quali non possiamo pre-
scindere per conoscere meglio l'uomo e il letterato in tutti i
suoi punti; sono gli Epìgrammata e il De principmn insti-
tutione.
I primi non comprendono tutti epigrammi, rigorosamente in-
tesi, ma anche un buon numero di epitaffi, di odi, e alcune
elegie. La divisione in quattro libri risale al Marnilo stesso, come
è dimostrato dall'epigramma l*' del libro IV (1), e tale fu sempre
osservata nelle edizioni posteriori (2). Per comodità di studio
divideremo questi carmi in varie classi, secondo una chiara di-
stinzione per argomento ; tralasciando i dedicatori (uno in prin-
cipio di ciascun libro, a Lorenzo):
A. Gaspary, Stoi'ia della letteratura italiana, trad. Rossi, Torino, Loescher,
1891, voi. Il, p. 210 seg. e p. 354; V. Rossi, Il Quattrocento, Milano, Vallardi,
pp. 275 e 351. Ampia messe d'informazioni fornisce, benché antiquato, il Dic-
tionnaire historique del Bayle (alla voce « Marullus »); si vedano poi: Pie-
Rius Valerianus, De litteratorum infelicitate, lib. II; Petrus Crinitus, De
honesta disciplina, lib. XXIII, e. 7 ; Ger. Vossius, Opera omnia, Amsterdam,
P. e J. Blaev, 1697, p. 256 seg.; altri brevissimi cenni, di nessuna importanza
pel nostro studio, sono in altre opere antiche che è inutile citare.
(1) Verso 1 :
Quaì'tus hic en tibi promissus bone Laure libellus,
Ultima tara brevibus cura futura iocis,
(2) Mancando un'edizione critica delle opere del Marnilo, cito, come ho
avvertito, dall'ediz. del 1497, che corrispon(^ in tutto nella disposizione alla
più completa, parigina, citata (tranne il De principum institutione), e che
essendo stata stampata vivo ancora il Marnilo, può tener luogo di manoscritto
per noi (benché forse il poeta non abbia potuto correggerla, dati gli errori
che vi si trovano).
Giornale storico, LXIV, fase. 192. 20
306 P. L. CICERI
I, amatorii^ il maggior numero dei quattro libri, per lo
più a Neera, alcuni ad altre amate, molti ad Amore, a Ve-
nere, ecc.;
II, agli amici e personaggi illustri \
III, d'invettiva^ contro il Poliziano, e qualcuno, raro, contro
altri ;
IV, epitaffi.
Alcuni, come sempre avviene nelle classificazioni, non rien-
trano in nessuna speciale categoria delle enumerate, ma sono si
pochi (ad esempio, quelli autobiografici, ecc.), da non turbare l'or-
dine da me posto.
Come abbiamo accennato, i giudizi intorno al loro valore sono
disparati: è assai favorevole quello di Paolo Giovio {Op. cit.^
p. 51), poiché egli scrive che agli Epigrammi « Apollo perele-
ganter arriserat »; è forse lode non meritata. Come d'altra parte
facilmente ammetteremo ingiusta la demolizione di Giulio Ce-
sare Scaligero, che giudica il Marnilo « totus durus, morosus,
aliorum obtrectator, sui admirator » e più avanti « omnino in-
venustus », e delle lodi di Pietro Crinito avverte che è da ricer-
care se furon date per amicizia o per merito ; comincia poi i suoi
attacchi contro gli Epigrammi, dal l'* del libro I, A Neera^ chia-
mandolo « maxime insuave ». Riportiamo le opinioni sue, perchè
giudicano rettamente, benché in un modo un po' acre, la parte
peggiore degli epigrammi indirizzati a Neera; « non posso abi-
« tuarmi — l'erudito continua — a quel discorso che chiama
« una donna passera o tortora », alludendo a tutti quei diminu-
tivi, spesso ridicoli, frequentissimi, e che in alcuni di questi epi-
grammi sovrabbondano e non rappresentano certo il miglior modo
per significare un amore profondo. Lo Scaligero spende molte
altre parole per questo primo epigramma e per altri che non ne
valevan la pena, spesso affannandosi a proporre correzioni ; ma
non sono questi né i soli né i tipici della poesia del Marnilo, e
non è equo tralasciare i migliori, che meritano più lunga con-
siderazione e più favorevole giudizio.
Nella maggior parte degli epigrammi a Neera è assai palese
MICHELE MASULLO 307
l'imitazione di Catullo (1), in quel susseguirsi di diminutivi che
talvolta ci fanno sorridere, in quel deplorare l'infelice stato di
se languente nell'amore, che lo condurrà alla morte se l'amata
non viene in suo aiuto, nelle domande e risposte fatte a se stesso
per dare maggiore apparenza di realtà ai suoi lamenti. Talvolta
la lode è esagerata, e si nota soverchio artificio, come, ad es.,
nel concettino più volte ripetuto: « se le tue bellezze non mi
« bruciassero, mi scioglierei in acqua per le continue lacrime, e
« se le lacrime tosto non mi raffreddassero, svanirei in tenui
« faville »; e altrove : « tu volti gli occhi per farmi morire, quan-
te tunque tu sappia che puoi perdermi anche col solo guardarmi,
« ma A'uoi che io muoia infelice ». Si direbbe quasi che il Ma-
rullo avesse sott'occhio i poeti della scuola siciliana (2), e non
i migliori, tante sono le reminiscenze che in uno studio più mi-
nuto si potrebbero notare, e tanto più si è indotti ad ammetter
ciò, se si consideri che il gusto del tempo nei numerosi scrittori
di epigrammi latini erotici, non è questo, o per lo meno, non
(1) Il Poliziano riconobbe anch'egli la derivazione, nella maggior parte, da
Catullo; nel e. XXX (ed. Del Lungo cit.) dice:
Est poèta
Unus qui referat suum Catulhim
Aut si quid tenerum magis Catuno est.
Ecco ora alcuni riscontri, che di sfuggita raccolsi, con Catullo, e qualcuno
con Properzio, ai quali rimando il lettore: Marnilo, Ep. I, cfr. Catullo,
e. I, V. 8; Mar. Ep. I, 2, cf. Cat. XXXII, 2 e CXIX, 2, 14; Mar., Ep. I, 4,
cf. Cat.LXIV, 302; Mar., Ep. I, 5 cfr. Properzio, I, 4, 4 e I, 12, 18; II, 20,
20; I, 5, 19; III, 17, 41 ; Mar., Ep. 1, 9 cfr. Prop. II, 15, 54; Mar., Ep. I, 13
cfr. Catullo III, 18 ; Mar. Ep. I, 25 cf. Cat. V, 3; Mar., Ep. 1, 35 cfr. Cat. XXII,
2; Mar., Ep. I, 45 cf. Cat. XI, 18; Mar., Ep. I, 49 cf. Cat. VII, 7 e 3; Mar.,
Ep. I, 50 cfr. Cat. XCII, 4 ; Mar., Ep. I, 61 cf. Cat. XVII, 15 ; Mar., Ep. H, 4
cfr. Cat. XCIX, 2 ; Mar., Ep. II, 8 cf. Cat. XCII, 4 ; Mar., Ep. Ili, 31 cf. Cat.
VII, 1 ; Mar., Ep. HI, 44 cf. Cat. VII, 2; Mar., Ep. IV, 13 cfr. Cat. XXXIV,
10; e molti altri.
(2) Il Rossi a proposito di probabili relazioni della poesia maruUiana coi
poeti volgari, così scriveva {Il Quattrocento cit., p. 275) : « ...Né mancano
« in altre liriche di lui [il Mar.] spiccate reminiscenze dei nostri poeti vol-
« gari, perfino dei burleschi ».
308 P. L. CICERI
giunge a tali esagerazioni ; o piuttosto il poeta si lasciò trascinare
anch'egli a quell'andazzo singolare della lirica volgare cortigia-
nesca, che ben fu chiamato « il secentismo del Quattrocento » (i) :
qui dunque il Marnilo abbandona per un momento Catullo, per
seguire i Siciliani, o i Secentisti del Quattrocento, indulgendo
un tantino anche ad un certo abito suo stilistico, retorico, che
meglio vedremo determinarsi negli epitaffi.
Talvolta riesce però delicatissimo, come quando offre all'amata
viole e candidi gigli {Epigr.j 1. I, carme 21°), questi simbolo del-
l'imminente vecchiaia, per il loro rapido appassire, quelle « perchè,
« con la loro primavera, insegnino a cogliere la primavera della
« vita »; e sempre si rivela poeta, quanto attinge ispirazione
direttamente dal sentimento, o dalla realtà quale passava at-
traverso una fantasia d'innamorato (2).
Però, occorre domandarci, quale umanista non scrive epi-
grammi amorosi in quest'epoca, i quali toccano spesso l'eleganza
classica ? quelli che trattiamo, quindi, hanno tale valore da me-
ritare un luogo eminente tra gli altri? Brevemente risponde-
remo che, se questa parte della lirica erotica marulliana non può
esser collocata insieme con quella di un Poliziano o di un Pon-
(1) Non è improbabile che il Marullo avesse cognizione delle liriche di
Serafino Aquilano, del Tebaldeo, del Cariteo, giacche a Napoli, dove a lungo
dovette dimorare, e in altre corti, potè udirne recite. Sui secentisti del Quat-
trocento vedi A. D'Ancona, Studi sulla letteratura italiana de' primi secoli,
2» impressione, Milano, Treves, 1891; lo studio intitolato: Del secentismo
nella poesia cortigiana del secolo XV. È curioso poi notare che quella stra-
nezza marulliana del fuoco e delle lacrime, teste riferita, si ritroverà più tardi
negli Asolarli del Bembo; è così riassunta dal D'Ancona, a p. 234 del voi.
cit.: « ...Si dimostra che due cagioni di morte tengono in vita, perchè le
€ lagrime allagherebbero il cuore, se il fuoco interno d'amore, rassodando ciò
« che il pianto stempera, non contrastasse all'opera delle lagrime ».
(2) Quando parla del suo amore, ne dipinge a vivi tratti tutta la profondità
e l'ardore, dichiarando suoi compagni indivisibili i sospiri e il pianto, e invo-
cando un liberatore da si funeste catene; nessuna delle cose al mondo — e
ne fa una lunga enumerazione — può eguagliare i suoi dolori; con accorata
tristezza giura d'esser di Neera per sempre.
MICHELE MASULLO 309
tano (1), pure, pel soggettivismo che non di rado la informa, e
riveste di colori nuovi, pel calore del sentimento che erompa
talora potente, si leva dalle monotonie trite e fredde di un Ange-
riano, d'un Crinito e d'altri minori. È il soggettivismo che spicca
soprattutto nelle elegie a Neera; delle quali importante per noi
quella, lunghissima, che le scrive nel II libro (Epigr., II, 32), con-
tenendo notizie autobiografiche: è una vera e propria proposta
di matrimonio, e in piena regola, giacché son citati nella fine i
procedimenti legali, « dictàtis verbis », proposta alla quale sa
giungere con grande naturalezza e soavità di argomenti (2).
Degno di particolare rilievo è dunque questo fatto, che in mezzo
alla lirica latina da una parte, priva di ogni calore e di spon-
taneità, alla lirica cortigiana volgare dall'altra, ancor più sfiac-
colata, questi carmi del Marnilo sono improntati a sincerità viva
velata di tristezza, che risente della vita sua agitata e degli
affetti famigliari infranti.
Un buon numero di epigrammi sono dedicati agli amici, dei
quali specialmente cari a lui furono, come vedemmo, il Sanna-
zaro e Manilio Rhallis. Abbastanza stretti dovettero essere i
rapporti col primo, a giudicare dall'epigramma 25*' del libro I,
« Ad Actium Sincerum », nel quale a lui confida la sua passione
(1) Da quest'ultimo non è difficile ravvisare molte derivazioni, special-
mente dagli epigrammi ad Fanniam, ad Cinnamam, ecc. (vedi l'edizione di
B. Soldati, Firenze, Barbèra, 1902, voi. II, p. 57 e seg.), pur essendo lungi dal
raggiungere la squisitezza del maestro.
(2) Mette conto di esporli: egli antepone nella donna alla bellezza la ca-
stità, e questa dote ammira sommamente in Alessandra; stolta è a suo pa-
rere la fanciulla che cerca di piacere ostentando i doni di natura. Profondo
è il suo amore : credeva evitare nomen amantis, ma cadde un giorno sotto
i colpi di Amore, celato in Alessandra; vorrebbe fuggire lontano lontano, in
regioni remote, ma dubita che anche là il destino non lo perseguiti, giacche
è sempre stato suo nemico fin dalla nascitaij e traccia una breve itoria della
sua vita, dalla caduta dolorosissima della patria, alla morte della madre e
del diletto fratello, alle peregrinazioni piene d'affanni. Oifre infine all'amata
il suo valore, che tante prove ha dato, l'onore della stirpe sua gloriosa ro-
mana, così crede, e della patria Grecia, dal fulgido passato.
310
P. L. CICERI
per la Scala ; in altro epigramma lo esorta a non occuparsi dei
poetastri del tempo, e non sprecare inutilmente il fiato contro
quelli che non ne valevan la pena, alludendo certamente alla
difesa su accennata contro il Poliziano (1). In più luoghi dei
carmi latini del Sannazaro si trova menzione del Marnilo, e
sempre in tono affettuoso o di lode, quale a veri amici si con-
viene.
Dei carmi del Nostro a Francesco Scala e ad Andrea Matteo.
Acquaviva, già abbiamo visto nel cenno biografico introduttivo ;
più viva e sentita si manifesta l'amicizia sua per Manilio
Rhallis (2), suscitata, certo, e vie più stretta, dalla comune sven-
tura, la caduta della patria. A lui è diretta la bella saffica di spi-
rito oraziano che chiude il libro I, nella quale esorta l'amico a
cessare dalle lacrime per l'infelicità della patria e dimenticare
i dolori nel vino e nella letizia, mentre tutti esultano di gioia
nello splendido maggio (3).
Un posto assai largo occupano gli epitaffi, ma non mette conto
di esaminarli minutamente, essendo per la loro fattura, i meno
belli degli Epigrammi, e pel contenuto, non interessando gran
fatto allo studio dell'uomo e del poeta. Alcuni sono ai parenti,
altri ad amate, altri ancora a personaggi illustri dell'antichità (4),
scritti per pura esercitazione letteraria. Manca in tutti quel ca-
rattere di sincerità e spontaneità che un epitaffio do\Tebbe
(1) « Vergilio e Catullo, dice con esempi tratti un po' troppo dall'alto, non
« si curarono dei poetucoli insidiosi e velenosi, e tu vorresti inquietartene ? » .
(2) Anche il Fontano ha un lungo carme falecio al Rhallis, il e. XXIV
degli Hendecasyìlabi, 1. I (ediz. Soldati cit., Il, p. 289).
(3) Altrove gli consiglia la rassegnazione, adducendo come incitamento il
suo esempio stesso ; entrambi, che avrebbero potuto viver felici in patria, posti
in alta condizione sociale, un fato crudele abbattè e cacciò in esilio; così
avvenne da antico di molti potenti; conviene non disperare, e confidare che
il futuro li restituisca al primo stato.
(4) Quello, per esempio, di Omero {Epigr. Ili, 6) tradotto dair^«^/M)7o^«V)f
graeca [Anth. gr., IV, tit. XXVH: Els Ttoitjtdg; ep. 4: Elg eiìióva O/^ì'/qov.
Cfr. anche Anth. gr., III, tit. XXV: Eig noifjTois, quasi tutto su Omero).
Vedi anche il lireve epigramma ad Omero del Sannazaro (1. II, e. 6).
MICHELE MARULLO 311
avere; la retorica v'è manifesta, e non ne vanno immuni nep-
pure quelli ai cari più intimi, come per esempio l'epitaffio alla
madre Eufrosine, non contenenti che domande e risposte che
si suppongono tra il viandante e il tumulo dinanzi al quale si
è soffermato, o che l'autore fa a sé stesso. Non si può negare
tuttavia che qualcuno ve ne sia di bellezza classica, come quello
ai caduti per la patria {Epigr.^ 1. I, e. 6*^), essendo questo tale ar-
gomento pel Marnilo, capace sempre d'infiammarlo e dargli le
migliori ispirazioni. È notevole il fatto che tal forma, che pro-
cede per interrogazioni retoriche e che è tutt'altro che ammi-
revole, giacché finisce con l'urtare il lettore, pare tutta propria
del Marnilo, poiché, per tacere dei Tumuli del Fontano (1), cosi
eleganti e soffusi di tristezza sentita, dai quali tanto si staccano
quelli dello scolaro, non ne troviamo di tal genere presso il
Poliziano, né presso il Sannazaro (tranne l'epigr. XLII del 1. I :
In tumulwn Neaerae^ che fa eccezione) e gli altri minori ;
forse egli potè primamente derivare quella forma dai rari epi-
grammi déìVAnt/iologia graeca i quali appunto procedono a in-
terrogazioni e risposte (2), estendendola poi, e facendola divenir
vezzo suo peculiare. Ciò può esser confermato dal grande fa-
vore e diffusione che godè V Anthologìa graeca nel Rinasci-
n)ento, e dal fatto che il Marnilo da questa alcuni epigrammi
tradusse, altri rimaneggiò o imitò (3), e spesso senza dubbio la
(1) I Tumuli di Gioviano sono nell'ed. cit. del Soldati, voi. II, pp. 169-223.
(2) La forma interrogativa troviamo anche nell'epigr. 69 del libro IV del-
V Antliologia (è amatorio).
(3) Alcune di queste traduzioni marulliane, o imitazioni, sono indicate in
Sélecta epigrammata graeca latine versa ex septem Epigrammatum grae-
corum lihris, Basileae, Bebelius, 1529, a p. 8: 1. I ^eWAnth. graeca, tit. V:
Ei£ àvÒQeiav y.al àvÒQelovs, ^p. 1, tradotto dal Marnilo coll'ep. 6 del 1. II
{De fortitudine Lacaenae)] a p. 50: 1. I deWAnth., tit. XXV: Elg èÀTziòag
(ep. di 2 versi), ampliato dal Marnilo nei 4 jersi dell'ep. 42 del 1. III (De
spe et Nemesi); a p. 61, 1. 1, Anth. gr., intorno a Pasife, cfr. Marnilo, Ep. II, .3
{De Pasiphae)] p. 137: Anth. gr., I, t. LXXXVII: Eig cpiÀoatoQyCav, ep. 2,
cfr. Mar., IH, 22 {De Aenea); p. 140: Anth. gr., I, t. LXXXVII, ep. 4, sulla
rondine, cfr. Mar., Ep. Ili, 49 {De hirundiné) ; p. 244 : Anth.gr., II, su Venere
312 P. L. CICERI
ebbe presente per gli epigrammi che non entrano nelle cate-
gorie che abbiamo poste, cioè quei quadretti brevi, di contenuto
mitologico, oppure descriventi scenette tra dèi e mortali, o ri-
guardanti eroi e poeti, i quali, benché non originali, son quasi
tutti di elegante fattura.
Il Marnilo stesso ci aiuta ora a dare un giudizio complessivo
degli Epìgrammata^ nei distici a Quintiliano, sulla fine del 1. I
(carme 62»), dove determina l'ambito della sua poesia:
Utque nec arma virùm, nec magni orientia caeli
Signa, nec immensum mundi aperiemus opus;
egli, continua, non vuol cantare l'origine dei fenomeni meteo-
rologici, e quella del genere umano, né le forze che agitano il
mare sconfinato:
Et quae non facimus, dicere facta pudet;
Sit satis auratos crines laudare Neaerae,
e lamentarsi della crudeltà di lei, e scagliare invettive contro
Amore spietato. Proclama poi la castità dei suoi versi, la qual
cosa dobbiamo concedergli, poiché accenni osceni, ad onor del
vero, diffìcilmente si potrebbero cogliere. « Tu potrai indurre
« Catullo a scriver di Frine, non me » dice a Quintiliano, di-
sapprovando in Catullo la licenza. Ciò non gl'impedi di leggerlo
e rileggerlo, come dimostrano le reminiscenze che ad ogni passo
e Vulcane, cfr. Mar., Ep. II, 35 {Ad Baraham, ma noi vediamo debolissima re-
lazione tra questo e l'ep. àeW Anthologia) ] p. 251: Anth. gr., HI, cfr. Mar.,
Ep. II, 30 {De forUtudiìie Byzantiae, qui nessuna relazione ; piuttosto è da
vedere l'ep. 2 del tit. V: Eis àvÓQeiovg, del lib. I àeìVAnthoìogia) ; p. 262 :
Anth. gr., sulla luna, cfr. Mar., Ep. II, 13 {Epitaphium Luciae Plioebes) (!);
p. 296: Anth.gr., t. XXV, cfr. 11 Eis O^tpéa, cfr. Mar., II, 46 {Uè morte
Orphaei)] p. 860: Anth.gr., IV, t. XII: Eig d'ecHv Ka£ d-eaivùv àydÀfiata,
cfr. Mar., II, 47 {De Amore) (?); p. 376: Anth. gr., IV, t. XIV: Eis tòv
xacQÓv, cfr. Eis àyaÀfia tov yiaiQov (di Posidippo), cfr. Mai'., Ep. I, 59 {De
Amore) (?) (nessun rapporto tra i due epigrammi). — Per quanto riguarda
gl'idilli su Amore, il Marullo certo molto trasse qua e là dsàVAnthoìogia
graeca, specialmente dal libro I, tit. XXVII: Eig "Eqcjto.
MICHELE MARULLO 313
s'incontrano negli Epigrammi, a cominciare dal « lepidus novus
libellus » subito in principio del libro I, appunto come nel primo
epigramma di Catullo, fino all'imitazione delle parti di cattivo
gusto a cui talvolta s'abbandonò il poeta classico. Qualche affi-
nità, in apparenza, potrebbe trovarsi tra le due figure di poeti :
entrambi tormentati dall'amore, irrequieti, chiedono agli amici
passionatamente affetto e conforto; per singolare coincidenza, la
morte del fratello introduce un doloroso diversivo nell'amore a
Catullo, e muore al Marnilo il fratello Giano, ispirandogli ima
triste elegia la quale ci richiama ai mesti accenti del poeta
veronese (1) ; ma non insistiamo su questo ravvicinamento, che
(1) Riporto intero il carme marulliano, che ritengo di classica bellezza ;
Ep., l, 22 (ediz. 1497):
Per Scythiam, Bessosque feros, per tela, per hostes,
Riphaeo venio tristis ab usque gelu :
Scilicet exequias tibi produoturus inanes,
Fraternis unus ne careas lacrymis :
5 Teque peregrina, frater, tellure iacentem
Et tua sparsurus fletibus ossa meis.
Quandoquidem post tot casus patriaeque domusque
(Tanquam hoc exempto nil nocuisset adhuc)
Te quoque fors invisa mihi, dulcissime frater,
10 Abstulit: Elysium misit et ante diem.
Ne foret aut fletus qui solaretur acerbos,
lungeret aut lachrymis fratris et ipse meas.
Heu, miserande puer, quae te mihi fata tulerunt?
Cui miseram linquis, frater adempte, domum ?
15 Tu mea post patriam turbasti pectora solus.
Omnia sunt teoum vota sepulta mea,
Omnia tecum una tumulo conduntur in isto.
Frater abest: fratrem, quaeso, venire itibe.
Cur sine me elysia felix spatiare sub umbra ?
20 Inter honoratos nobilis umbra patres,
Occurrunt Graiique atavi proavique Latini.
Frater abest: fratrem, quaeso, venire iube.
Hio tibi pallentes violas legit, alter amiomum,
Narcissum hic, vernas porrigit ille rosas.
25 AttoUuntque solo, carisque amplexibus haerent.
Frater abest: fratrem, quaeso, venire iube.
Interea, quoniam sic fata inimica tulerunt,
Nec mihi te licuit posse cadente mori,
Accipe quos habeo lugubria munera fletus,
80 Aeternumque meae frater ave lacrymae.
Come si vede, benché il Marnilo prenda molti spunti da Catullo, al quale
314 P. L. CICERI
del resto non potrebbe esser portato più oltre, poiché va da se
che gli epigrammi di Catullo di gran lunga rimangono insupe-
rati e lascian dietro a se quelli del Nostro, per quanto un' in-
fluenza innegabile questi ne abbiano risentito.
Certo il maggior numero, poiché riguardano i casi suoi, i suoi
amori, le sue relazioni, sono informati a schietta originalità,
poiché direttamente riflettono la vita del poeta, in mezzo al
quadro vasto dell'epoca sua ; ma la forma — quella in cui prin-
cipalmente dobbiamo cercar l'arte — si riduce assai spesso a
pura e semplice imitazione, più o meno palese, e nei casi in cui
par mancare la fonte dell'imitazione, non sempre il Marnilo as-
surge all'altezza di vera poesia.
Non sono degni quindi di troppo lungo studio gli Epigrammi,
né convien fermarci ancora su di essi, perchè non dotati di tali
spiccati caratteri — tranne quelle parti cui accennammo — da
emergere sugi' innumerevoli che in quell'età si scrissero ; noi
dobbiamo studiare il Marnilo come innografo, perché in ciò
massimamente, non avendo emuli, attira l'attenzione nostra.
Per quanto riguarda, infine, il frammento De prìncìpum
instUutione, nulla presenta di notevole, né può essere utile
al nostro studio, se non in quanto ci fornisce sul principio
qualche documento che interesserà per l'esame degVffymni na-
turales (1).
rimandiamo il lettore pei riscontri (vedi Cat., carme CI, e LXVIII, v. 19-24)
si mantiene indipendente, e infonde alla triste poesia una spiccata impronta
personale.
(1) Recentemente il professore Adolfo Cinquini ha pubblicato in Classici
e neolatini, 1908, nn. 2-3 (p. 256 seg.) molti carmi di un codice vaticano-
urbinate, attribuiti a un « Mabilius », e ha cercato di stabilire la identifica-
zione col Marnilo (essendo « Mabilius » il noto soprannome datogli dal Poli-
ziano nell'accennata polemica); senza addentrarmi nella questione, noto che
quei carmi di « Mabilius » mi sembrano troppo alieni dal carattere dominante
in quelli del Marnilo, secondo ciò che per sommi capi abbiam potuto vedere;
un esempio solo basti : l'epitaffio n. LXXIII (sec. la numerazione del Cinquini),
a p. 258 del periodico cit., si stacca in modo assoluto dalla solita forma reto-
rica maruUiana che vedemmo. Senza parlare poi della monotonia dei metri,
notata già dal Cinquini.
MICHELE MARULLO 315
III.
(jVHymni naturales sono stati finora poco studiati, e coloro
che per incidenza ebbero ad occuparsene, variamente ne inter-
pretarono il significato, esprimendo opinioni discordi e talora
opposte ; sia per questa ragione, sia perchè costituiscono l'opera
maggiore del Marnilo, forse la sola per la quale merita d'essere
studiato, essi richiedono una trattazione per quanto sia possibile
accurata.
Perchè il Marullo li abbia chiamati « naturales », e se la divi-
sione in quattro libri (1) sia stata determinata da speciali in-
tenti distributivi della materia, vedremo nel corso del nostro
studio ; ora è necessario parlare di una questione fondamentale *
se il Marullo sia l'unico innografo pagano dell'età sua.
È noto che l'inno, cioè, secondo il significato della parola greca
dfivog^ la lode e l'invocazione della divinità, fu trattato fin dalla
più remota antichità, a cominciar dag^/nn^ omerici, da Alceo,
da Callimaco, per giungere a Catullo e ad Orazio, non citando
che i massimi esempi. 'NegVlnni Omerici si contiene per lo più
la narrazione d'una o più leggende che riguardano la nascita
e le imprese del dio cui sono dedicati, e il canto è chiuso da
una invocazione che divien quasi formula fissa (2) ; le differenze
tra gl'Inni del Marullo e gli omerici consistono in ciò, che questi
ultimi cantano la divinità per sé stessa, ed hanno carattere pre-
valentemente narrativo-mitico, i nostri celebrano il dio, solo come
personificazione, e sono di carattere encomiastico-allegorico e
(1) Come abbiamo visto per gli Epigrammi, è legittimo supporre che anche
questa divisione fosse posta dal Marullo, tale apnarendo nell'edizione del 1497
che forse egli, allora vivente, potè controllare.
(2) È nota la consueta finale cara ad Omero, o, in ogni modo, all'autore degli
Inni omerici: ... atràQ èyòj aal aslo aal àÀÀìjg juv^aofA^ai àoió^g. Altre
vedi nell'ediz. del Baumeister, Lipsia, Teubner, 1901, passiìn.
316 P. L. CICERI
d'invocazione. — Andiamo citando gl'inni della classicità, per
ricercare a quali dei loro precedenti più si accostino quelli del
Nostro; brevemente, diremo in genere che dagli esempi men-
zionati essi son lontani; ma si badi, non vogliamo con ciò fare
del Marnilo il creatore di una poesia nuova, o di un punto nuovo
di un genere poetico, giacché prima di trarre tal conclusione,
dovremmo bene accertarci se lo conceda l'esame del contenuto
e del suo valore poetico.
Venendo al Rinascimento, inni come i marulliani, i quali rag-
giungano nel loro complesso una certa vastità di proporzioni,
prima del Marnilo non conosciamo nel secolo XV, giacché i pochi
inni cristiani del Poliziano, del Sannazaro, del Fontano, e quelli
pagani, rari, dei tre sommi e di altri minori umanisti, sono scritti
quasi per divagazione dall'opera principale, e non con intento
che diremo innografico. L'unico che tratti l'inno con larghezza
prima del Marnilo, è Lorenzo Bonincontri da S. Miniato, ma i
suoi inni, raggruppati in poemetto, i Fasti cristiani^ sono di
materia sacra ; egli — come mostrò Benedetto Soldati (1) —
scrisse sullo schema del calendario della chiesa un dato numero
di inni di carattere cristiano (2), benché amasse adornare la sua
materia di bella veste pagana, trasformando talvolta stranamente
la mitologia classica (3).
Gl'inni dei quali trattiamo, appartengono invece alla categoria
dallo Scaligero chiamata dei cpvGixoi (4), corrispondente appunto
alla qualificazione data dal Marullo ai suoi Inni, quella di « na-
turales », giacché l'oggetto loro é di celebrare la natura nelle sue
molteplici e svariate manifestazioni.
(1) B. Soldati, GVinni sacri, ecc. (in Miscellanea Graf).
(2) Si mostra cristiano anche in due altri poemi, uno scientifico, l'altro re-
ligioso, nei quali tratta dell'influsso astrologico delle varie stelle; qualche
raro rapporto si potrebbe notare tra vari punti àegVHymni naturaìes e questi
poemi.
(3) Per dare un esempio, l'aquila per lui non è l'uccello sacro a Giove, ma
il simbolo dell'evangelista Giovanni (vedi la cit. op. del Soldati).
(4) G. C. Scaligero, Foetices cit., lib. Ili, e. 115 : « Haec itaque omnia na-
« turalia sunt. Sic et Marullus Caelum, Elementaque Hymnis canit ».
MICHELE MASULLO 317
L'idea madre probabilmente gli venne dal Fontano, il quale,
pur non costituendo, come vedremo, un vero precedente, eser-
citò su di lui un'influenza diretta con V Urania, il noto poema
che tratta degli astri e delle costellazioni e del loro influsso
astrologico, adombrando ciascuno sotto la corrispondente divinità
pagana. Specialmente dalla lettura del primo libro il Marnilo
potè esser mosso a imitare il maestro (1), rendendosene poi in-
dipendente e allontanandosi dall'opera sua, giacché questi per-
sonificò gli astri negli dèi pagani e sotto la narrazione mitica
delle loro azioni, dei loro attributi e qualità, velò allegorica-
mente l'influsso astrologico di quelli sul mondo (2), ma l'astro
e il dio pagano sono sempre due cose nettamente distinte, si
che spesso prima è descritta la stella, poi ne è fatta la perso-
nificazione; invece nel Marnilo tale personificazione non è ben
chiara e distinta, e ci lascia spesso nel dubbio se il poeta canti
la natura sotto il velo allegorico, o se l'allegoria non esista ed
egli celebri davvero la divinità pagana.
Che il Marnilo si sia mantenuto sempre pagano, è forza ri-
conoscere da quanto è risultato finora dai precedenti cenni in-
troduttivi, e da ciò che ne pensarono quelli che di lui si occu-
parono, quali, per tacere degli altri, Erasmo da Rotterdam (3),
il Broukhus (4), Rhenanus (5); e in realtà, anche prescindendo
(1) La composizione dieìV Urania è certo anteriore agVHi/mni naturdles]
intorno alla data del poema, vedi Kossi, Il Quattrocento, p. 433 (nota al e. IX,
p. 349): « Pongo la fine del poema tra il 1486 e il '91, perchè vi si accenna
« (negli ultimi versi) alla pace conchiusa con papa Innocenzo, ma non alla
« morte della moglie del poeta ». Vedi Soldati, p. 254 seg. della Poesia astro-
logica cit. Del resto il Marnilo già prima della pubblicazione o della fine
della composizione àfìW Urania, dovè sentirne recitare brani dal maestro.
(2) Vedi B. Soldati, La poesia astrologica nel Quattrocento cit., p. 275.
(3) È il noto passo nel quale chiama le opere del Marnilo « tolerabilia si
« minus haberent paganitatis ».
(4) A p. 121 dell' Oj). cit., n., dice: « ... fuisse paganum liquet ex II Hymno »,
e dal principio del De priìicipum institutione ; poi a p. 137: « si nihil aliud
« e lectione lucretiana Marullus atheismum (sic) perfectissime didicit ».
(5) Rhenanus così deplora ch'egli non si sia dato al canto cristiano, nella pre-
318 P. L. CICEBI
da quanto ci è riferito intorno a pensieri e atti della sua vita,
che tutti rivelano tendenze pagane, è troppo evidente il conte-
nuto pagano nell'opera letteraria (1), per ammettere che i suoi
inni naturali siano allegorie cristiane, né bastano per conclu-
dere del cristianesimo, quei pochi accenni che vaghi e indeter-
minati si ritrovano negli scritti superstiti del Marnilo.
Il Broukhus (Oj). cit, p. 110 n.), domandandosi che cosa avesse
voluto proporsi il Marnilo, pensò perfino ad un tentativo di ri-
pristinamento dell'antico paganesimo (2), ma questa che sarebbe
una ripresa e una continuazione di quella riforma religiosa in
favore del paganesimo che aveva tentata Giorgio Gemisto Ple-
tone (3), è da escludere per quanto riguarda il Nostro, poiché
un continuatore di Pletone egli non fu, benché a lui talvolta
abbia attinto, e se una cosa ebbe di mira, fu la gloria e non altro.
Il libro I s'apre con un inno a Giove Ottimo Massimo, giacché
al sommo degli dèi si conveniva dare il primo posto, come é
accennato anche nel principio del De principmn institutìone (4).
fazione all'ediz. degl'Inni, di Parigi, 1529: « ...Utinam atque utinam inge-
« nium suum plusquam divinum (!) ad sacra accommodasset atque Jesu
« Christi vitani aliorumve nostrae religionis heroicam continentiam, aut sa-
« criloquorum auctorum sententias carminibus suis cognobiliores reddidisset.
« Nani hac tempestate ubique fere in sacris nitor desideratur ».
(1) ViTT. Kossi nel suo Quattrocento, p. 275, così scrive a proposito di ciò:
« Negli Inni naturali personitìcò nelle divinità mitologiche le forze della na-
« tura e ne cantò gli effetti con sentimento schiettamente pagano, che fii
« pensare a Pletone ».
(2) « ...Putes illuni de novo tentasse paganismum introducere » {nic).
(3) Ampia messe di notizie intorno a ciò, e d'indicazioni bibliografiche in-
torno a Pletone e al movimento filosofico dell'età sua, vedi presso: Della
Torre, Storia deW Accademia platonica di Firenze, Firenze, 1902. Cfr. G.
Fiorentino, Il risorgimento filosofico nel Quattrocento, Napoli, tip. dell'Uni-
versità, 1885.
(4) De principum iìistitutione, v. 1 seg.:
Ab love principium rursus cape carminis orsi,
Musa, decet vatem nil non love rite vocato
Moliri ecc.
MICHELE MASULLO 319
I primi versi trovano singolare riscontro con un passo del-
l' Urania (1) :
Fontano, Urania, I, 634-635:
Ab love principium generis; lovis omnia piena;
Ille colit terras ; illi sunt omnia curae (2) ;
Marullo, Hymni, I, 1, 1:
Ab love principium, lovis est quodcumque movemus (3).
Ciò era già in Arato, che aveva iniziato i suoi Fenomeni col
cantare la derivazione di tutto da Giove; ma i versi pontaniani
sono riprodotti quasi testualmente dal noto passo vergiliano, che
forse ebbe presente direttamente anche il Marullo (Vergilio,
Bucol, III, 60) :
Ab love principium Musae, lovis omnia piena
nie colit terras; ecc.
Ma indubbia è la derivazione dai seguenti versi delle Meta-
morfosi ovidiane:
Ovidio, Met., X, 148 seg.:
Ab love. Musa parens, — cedunt lovis omnia regno —
Carmina nostra move. lovis est mihi saepe potestas
Dieta prius ; cecini plectro gramore Gigantes, ecc.
Marullo, Hijmni, I, 1, 2 seg. :
Prima mihi graviore sono dicenda potestà^
Est lovis: ecc.
(1) Cito dall'accurata edizione crìtica di B. Soldati, Fontani carmina,
Fh-enze, Barbèra, 1902, voi. I.
(2) Ma il Fontano riporta ciò come pensiero degli antichi, ed egli stesso
l'ha fatto avvertire al v. 630, dopo aver cantato l'astro Giove:
Quin varios etiam ipsa loves commenta vetustas,
lovem habitum prò dee, prò aethere. prò aere ;
e si vede nella didascalia a fianco.
(3 ) Anche G. Gemisto Pletone nei Nó^aoi, 242, diceva di Giove (presso
Fr. Schultze, Geschichte der Philosophie der Renaissance, voi. I, pag. 63) :
fj àQ%ri dvvri tòìv Ttdvvoìv, ó fA,éyiaTOS ^eòg /ZevgJ.
320 P. L. CICERI
I versi or ora citati del Fontano sembrano il nucleo che il
Marnilo svolse nella prima parte del suo inno, cantando ap-
punto Giove come in tutto presente e di tutto reggitore (1); il
poeta par quasi riallacciarsi alle forme più antiche del culto di
Giove, il Diespìter dei Fetìales^ quando — dirò col Preller (2)
— « era adorato come spirito ovunque presente nella natura ».
Ma sorge un dubbio : non si tratta piuttosto di Dio padre dei
cristiani, al quale si danno appunto i medesimi attributi ? — Es-
sendo più difficile ammettere che il Marnilo conoscesse le for-
mole d'invocazione dei Feziali, inclino a credere che egli qui,
0 abbia inconsciamente accolto elementi cristiani perchè si adat-
tavano a quel dio (Giove), o piuttosto abbia avuto presente
quanto Gemisto Pletone aveva scritto nei suoi Nófioi a propo-
sito di Giove (3) — che poneva, come il Nostro, al più alto gra-
dino nella gerarchia degli dèi pagani — tanta appare la per-
spicuità del riscontro. E se, opponendo che Pletone fu allenissimo
dal cristianesimo (4), si voglia ad ogni costo negare tal deriva-
(1) Kiportiamo il passo per agevolare i riscontri. Marullo, Hymni, I, 1, 17:
Nam quamvis solusque reples, solusque gubernas (aie)
Omnia, et occasus aeque moderaria et ortus ;
Qaamvis quicquid adest, quodcumque ubicumque vìdemus
Ipse idem es, penitusque nihil nisi luppiter usquam,
Quis tamen infirmi comprehendat peotoris haustu,
Quem mare, quem teUus, vacui quem nubila caeU
Non capiunt, sanctique patena plaga lucida regni ?
(2) L. Preller, JRòmische Mythoìogie, Berlin, Weidmann, 1858 ; cito dalla
traduzione francese, più recente, di L. Dietz, Les dieux de Vancienne Home,
Paris, Perrin, 1884, p. 167.
(3) Pletone, Nóf4,oi, 44 (presso Schultze cit.) : « 'AÀÀà fihyiaiov fièv xaì
< i§aÌQ€TOV iva adròiv, xòv ^aaiÀéa Aia, v&v ye àÀÀùìv tfj re à$l^ xai
« g>va€L àfjirixàvo) 8a<p òvacpéQovTa, a^tòv fihv àyévrjtov TtdvTtj te Svia
« jcal Ttàvtùìg, & te è^ oéóevòg tò Tiagànav o^te dvra otx^ àv yeyovóta
« TibìJiove, ai)V07idT0Qa de, xal ftóvov zóòv ndvTcov àvzòv è^ ahtov ».
(4) Ciò ha ben mostrato il Della Torre, nell'Op. cit., specialmente a
p. 429 seg., dove mette in rilievo il fatto che Gemisto Pletone si servì anzi
del paganesimo per tentar di sollevare l'abbiezione della sua patria, e la re-
ligione cristiana egli considerava strumento di decadimento.
MICHELE MARULLO 321
zione, e vedere nell'inno menzionato del Marnilo un canto cri-
stiano, io lo escluderei, pur ammettendo di aver qui un chiaro
esempio di quella naturai trasformazione che la mitologia clas-
sica dovè subire a contatto col cristianesimo. Il Marnilo, che
pure sembra voler attenersi fedelmente alla paganità(l) — mi
riferisco sempre a quanto risulta dall'opera sua letteraria —
non può sfuggire, a sua insaputa, ad accogliere quelle qualità
del Dio dei cristiani, che opportune lo sovvenivano per cantare
la divinità massima, che egli destinava ad iniziare la serie dei
suoi inni.
Del resto già nella paganità — a quanto raccogliamo dal vo-
lume di Carlo Pascal Dèi e diavoli (2) — si rivolgono a Giove
tali invocazioni, che non sarebbero fuor di proposito indirizzate
a Dio padre:
lupiter, omnipotens, rerum rex ipse deusque
Progenitor genitrixque, Deùm Deus, unus et omne.
È l'invocazione del poeta Q. Valerio Sorano (3) vissuto all'e-
poca di Sulla; ecco quanto il Pascal fa seguire : « È facile ri-
« conoscere qui un' eco della intonazione solenne che lo stoico
« Cleante dà al suo inno a Giove ' principio della natura ' ; ' Nulla
« sulla terra è al di fuori di te, nò nel cerchio immenso dell'etere
« divino, né sul mare ! ' — [proprio quello che abbiamo nel Ma-
rullo e in Pletone. Cfr. i rispettivi passi citati in nota] — . Ne
« è improbabile che allo stesso Valerio Sorano sieno da attribuire
« altri versi che si trovano presso Servio {ad Aen. IV, 633), nei
« quali Giove stesso si rivolge agli dèi e cosi dice loro :
(1) Alla tradizione classica pura non è fedele il MaruUo come cercò di es-
serlo Gemisto Pletone ; e lo notò già il Sathas, Op. cit., VII, prefaz., p. vii :
« Il est vrai que MaruUos dans ses hymnes»tàche de revenir à la legende
« classique, mais entre le panthéon de celui-ci et celui de Pléthon il y a une
« grande distance ».
(2) Firenze, Le Mounier, 1904, p. 51 e seg.
(3) Presso Agostino, De civ. Dei, VII, 9.
Giornale storico, LXIV, fase. 192. 21
322 P. L. CICERI
Caelicolae, mea membra, dei, qaos nostra potestas
Officiis divisa facit.
« In tal concezione della divinità Giove è veramente, secondo
« l'espressione di Varrone (1), ' l'anima del mondo, che lo governa
« col movimento e con la ragione ' ».
Questo passo lio riportato, perchè atto a mostrare come la
tendenza ad una concezione di Giove quale dio unico o mas-
simo, si debba far risalire alla classicità pagana, e non si possa
pensare, per quanto riguarda il Marnilo, ad allegorici adombra-
menti di Dio padre.
Tornando al nostro inno, l'esordio è grave e solenne e sembra
promettere un adeguato svolgimento; il poeta invoca dal dio
l'ispirazione, annunziando poi in modo riassuntivo tutta la ma-
teria dei suoi Inni: prima canterà, graviore sono, la potenza
di Giove, poi gli altri dèi, la natura, il cielo, e gli elementi
che si trovan sotto il cielo. Par quasi l'introduzione di un poe-
metto, nella quale l'autore ne dichiari l'argomento; ma come
vedremo in seguito, gli usci invece dalla penna un'opera senza
stretto nesso tra le varie parti, e non corrispondente in tutto
a ciò che qui si è proposto.
Già in quest'inno medesimo si nota sproporzione tra il magni-
loquente esordio e il contenuto seguente (2), che si riduce al-
l'esaltazione dell'infinita grandezza di Giove, tale che mente
umana non può abbracciare (3), cui segue un quadro delle am-
(1) Id., id., VII, 6.
(2) L'aveva notato già lo Scaligero, che fa, a dir vero, troppo aspra cen-
sura degl'Inni, ma al quale non si può dar sempre torto. Op. cit., VI, 4
(p. 299): « Hoc enim viri ilUus ingenio maximo atque praeclarissimo vitium
« fuit peculiare, ut magnifico spiritu scribere aggressus elanguesceret in ora-
« tionis tractu fervor ille: egregiosque primos illos impetus, iudicium dein-
« ceps destitueret, aut voluntas. Nam quibus in poeraatiis sese voluit naviter
« exercere, verus sane poeta est, ac divinus ».
(3) « Mortalesque hebetat captus et pectora pigra », dice il poeta con re-
miniscenza lucreziana e vergiliana. Cfr. Veruilio, Aen., II, 605 : « Mortales
« hebetat visus ... ».
MICHELE MASULLO 323
bizioni e delle infelicità dell' uomo, causate dal timore della
morte (1), per finire con la storia della creazione, le cui varie
parti son tratte promiscuamente dai classici, dalle tradizioni cri-
stiane, e anche dall'Umanesimo. Anche il Fontano, infatti, aveva
trattato lo stesso argomento nel primo inno del De laudibus
divinis, intitolato De mundi creatìone (2), ma attenendosi alla
tradizione biblica : Dio creò tutto dal nulla, e dal suo volere di-
pende l'ordinamento dell'universo.
In modo analogo aveva cantato il Bonincontri nel libro I del
primo poema astrologico, toccando della creazione del mondo.
Nel Marullo, al contrario, Giove pone l'ordine nel caos, informe
ammasso, separando gli elementi dagli elementi confusi promi-
scuamente fra loro ; il che esclude trattarsi di Dio padre — come
vuole il Soldati {La poesia astrologica nel Quattrocento^ cit.,
pag. 275, n.) — perchè Dio, secondo la tradizione cristiana,
non aveva dato ordinamento al già esistente, ma aveva creato
dal nulla.
La fonte della narrazione marulliana è il principio del primo
libro delle Metamorfosi di Ovidio, giacché, sia nell'esposizione
condotta parallelamente a quella del classico — entrambi ponendo
dapprima il caos, « rudis indigestaque moles », poi la separa-
zione delle cose dal « caecum acervum », infine l' ordinata dis-
posizione di esse sulla terra e nel cielo, e la creazione delle
varie specie degli animali e dell'uomo — sia nell'imitazione di
(1) Il passo è tratto dal lib. ITI di Lucrezio (vv. 41 seg.), dove il divino
poeta riporta al timore della morte la causa di tante infelicità e malvagità
umane ; cfr. specialmente i v. 63-64 :
Cfr. Marullo:
haeo vulnera vitaè
Non minimam partem mortis formidine altintnr.
Hinc rapit ambitio, rapit bine furiosa libido,
Inde metus bella aspra movet ecc.
(2) Ediz. Soldati, voi. II, p. 227.
324 P. L. CICERI
frasi e finali di versi, la derivazione è indubbia (i). In Ovidio
l'ordinatore è il « deus et melior natura », l'Amore, nel Nostro
è Giove.
Facilmente si scorgono poi derivazioni lucreziane (2), piut-
tosto d'imitazione che di pensiero, nelle movenze di alcuni versi
e nella predilezione per certe parole e frasi (3).
Di dottrina platonica sono quei luoghi dell'inno nei quali è
detto che l'uomo è di origine celeste e dopo aver trascorso il
periodo assegnatogli nel cieco carcere, il corpo (4), tornerà « di
nuovo all'antica patria ».
(1) MaruUo:
Nam certe cuna tota gravi torperet machina acervo,
Noxque chaos densis circumdaret atra tenebris, ecc.
Si confronti Ovidio, Met., I, 1 seg.; specialm. il v. 24 :
Qaae postquam evolvit eaecoque exemit acervo, ecc.
(2) Però, oltre al passo citato in nota, pare tratto da Lucrezio il pensiero
di quei versi, nei quali, dall'alto del cielo il poeta nostro spera di mirare
un giorno le vane cure degli uomini, come Lucrezio dall'alto dei templi del
sapiente. Marnilo :
Unde hominum curas tot despectevms inanes,
Incertasque vioes rerum, metuendaque fata,
Et quanta mortale genus nox occupet umbra.
Cfr. Lucrezio, II, 1 seg., specialm. v. 8-10:
sapientum tempia serena,
Despicere unde queas alios passimque videro
Errare atque viam palantis quaerere vitae ecc.
(3) Si sente subito Lucrezio nei seg.. esempi, i principali, v. 4: « lucidus
aether »; poi: «et vacuum sola inane teneret », e altri molti.
(4) « Dum data vincla nefas dirumpere carceris atri », ciò che è appunto
nel Fedone platonico; quanto all'» antica patria », riportiamo i versi più
importanti, v. 26 seg.:
Ex quo caelicolae natali sede relieta,
Invalidos artus terrenaque membra subimus,
Corpoream lussi molem compage tueri.
Nam simulac tenebris, et inerti carcere clausi,
Mortiferum Stygiae sonum potavimus undae,
Excidit ofFecto solidum de pectore verum,
MICHELE MARULLO 325
L'inno si chiude con una invocazione al dio, acciocché liberi
l'umanità dalle tenebre e dagli affanni:
Salve sancte parens, vere pater optime rerum,
Vere opifex ,
le quali parole già vedemmo come debbano essere interpretate,
secondo la concezione stoica di Giove, e poi gemistiana (i); se
si voglia invece vedere in quei versi un'invocazione a Dio padre,
osserverò che lo stesso appellativo di « padre » (2) il Marnilo,
dà, come vedremo, a molte altre divinità, mentre nel cristiane-
simo Dio padre è uno solo. Fin d'ora rileviamo quella commi-
stione di elementi disparati che è frequente negl'Inni, e che in
seguito determineremo meglio.
Quanto al Bonincontri e al Fontano, in entrambi Giove è il
pianeta dall'influsso benigno, e non ha quindi riscontro col Giove
del nostro inno P.
In esso abbiamo in complesso una piccola cosmogonia, quasi
una prefazione poetica ai seguenti inni, che canteranno appunto
la natura, della quale Giove è qui celebrato sia come ordina-
tore, sia come arbitro e reggitore.
Nel secondo inno Pallade personifica la sapienza e l'ingegno,
che hanno il potere di liberare la mente umana dall'errore, e
Pro rebusque leves nequicquam amplectimur umbras,
Antiquae patriae ac verae rationis inanes.
E in line dell'inno:
Exutosque olirà terrenae pondera molis
RursTis in antiquam patriam das posse reverti.
(1) Gemisto Pletone, infatti, pone anch'egli Giove come generatore di tutte
le cose. — NófxoL, 154 : « ... ndwa ... tiqòs fièv aov yevovóza te xal Svta,
« yeyovÓTa oh aol, otòhv f^èv adiojv óeofiévo) »; cfr. Nó/aol, 204, Hymn., Ili:
« Zevg j^éyag, òvtùìs ^lavòg, a^vondrcoQ TiQomdxùìQ ze \ Uavvoìv ».
(2) E conforme del resto agli appellativi consueti nell'antichità, di « Ju-
piter Optimus Maximus (Capitolinus) », ecc. Anche Vergilio, per tacere di
altri esempi, ha: Aen., XII, v. 1 : « Concilium vocat divum pater atque ho-
minum rex »; cfr. Aen., II, 648.
326 P. L. CICERI
redimerla dalle tenebre dell'ignoranza; essa principalmente —
e il poeta insiste su questo punto — può additare agli uomini
il modo di far ritorno all' « antica patria » (1), al qual compito
nessun'altra divinità poteva esser meglio scelta di Pallade la
più nobile figlia di Giove, la dottrina degnamente accoppiata
con l'ingegno.
Essa è anche l'autrice della prima civiltà, e infine la dea vit-
toriosa dei Giganti nella titanomachia.
Ma è strano che anch'essa sia chiamata signora unica dell'u-
niverso : « O sola rerum, o lucidi domina aetheris ! » né si com-
prende come il Marnilo ripeta per Pallade quello che ha detto
esser proprio solo di Giove, e se si ammette che Pallade è una
allegoria del Figlio, tanto meno si capisce perchè abbia i me-
desimi attributi del supposto Dio padre.
La trattazione mitologica, però, è lodevole e vi si trovano
tratti di vera arte ; come nella descrizione di Pallade, che scuo-
tendo la fiera chioma campeggia dall'alto d'un igneo carro set-
tigiogato, mentre intorno a lei le vergini, coronate d' ulivo,
spargono rose, e tra esse i sacri poeti dell' antichità, Orfeo e
Omero, cantano col plettro adamantino le imprese e le glorie
della dea.
Fonti manifeste classiche non si possono additare, se si ec-
cettui qualche riscontro con l'inno omerico XXVIII, Eig' Ad^'fivav,
che qui indicheremo per la singolare rispondenza:
Hymn. homer., XXVIII, vv. 10-11 :
àfi^<pl óè yata
UfieQÓaÀéov idxiqaev • ètttP'^d'i] ò^àQa nóvTog
Marullo, Hymni, I, 2:
contremit fretura,
Emota respondent sola (2).
(1) « Tu celsa raptos toUis ad tempia Aetheris. | Tu patriam antiquam
doces ... ».
(2) Si veda anche il seg. di minor perspicuità:
MICHELE MARULLO 327
Come l'inno precedente, e come tutti i seguenti, anche questo
il poeta chiude con un « salve » alla divinità, e con l'invocarne
l'aiuto.
Tra i migliori è da annoverarsi l'inno ad Amore. Quel difetto
notato sopra, d'attribuire a molte divinità una medesima qua-
lità (1) propria di una sola, ricompare qui, giacché il dio è chia-
mato « genitore dei celesti », ciò che solo a Griove era adatto ;
macchia, però, trascurabile di fronte alla poesia che pervade
le belle quartine saffiche.
Il poeta si attiene alle tradizioni mitologiche classiche : Amore
è raffigurato come il signore possente di tutti gli nomini e di tutti
gli dèi; la sua potenza (2) per tutto si manifesta, sulla vasta
terra e in cielo, dove a lui piegano vinti gli dèi, colpiti dalla
sua freccia infallibile (3).
Hymni liomer., XXVIII, 13: Mar., Hymni, I, 2:
(JTi}asv (5' 'XneQiovog àyÀaòg tióg Subsidit aetlier ipse
Ztitiovs (bavTioóas
Gl'Inni omerici, com'è noto, già prima del 1423 furono portati in Italia da
Giovanni Aurispa (vedi R. Sabbadini, Le scoperte di codici latini e greci nei
secoli XIV e XV, Firenze, Sansoni, 1905, pp. 46-47, n. 26); possono quindi
esser stati conosciuti dal MaruUo.
(1) Così anche lo Scaligero, Oj). cit., VI: « si quando seorsum tractavit
« separata, in alteris altera promiscue repetiit ».
(2) Inoltre il Marnilo, per significare l'invincibile potere d'Amore, lo pone
al di sopra dell'antica 'AvdyKt]:
Quid quod antiqua superata Anance
Suscipis mundum placidus regendum !
(3) Figurazione, questa, che risale alle più remote manifestazioni letterarie ;
e già Esiodo aveva cantato di Amore:
Hesiodi quae feruntur carmina (Lipsia, Teubner, 1878), v. 120 seg. :
"EQog, 5g KdÀÀLazog èv àd^avavoiMiv d-eolaiv
ÀvaifA,eÀf^g Ttdvroìv re d'ecòv, ndvTOìv r' àvd-QÓìTtoìv
òdfivaiav èv airid'eooi vóov xal èTzCtpQova ^ovÀi^v.
Cfr. Marullo, Hymni, I, 3, 13 seg.:
S28 P. L. CICERI
Ad Aniore, come già a Giove, attribuisce 1' ordinamento del
caos, e il legame che congiunge i semi discordi delle cose, ri-
salendo cosi, attraverso Ovidio, alla concezione più poetica, em-
pedoclea, della ^iXia (1).
Pieno di delicatezza è il tratto finale: l'amore ha il potere di
sollevare l'uomo, d'innalzarlo dalla « caduca massa » del corpo ;
anche ad esso, come a Pallade, si deve l'incremento della civiltà.
Ora si vede come questa figurazione classica del dio sarebbe
in stridente contrasto se si pensasse adattata allo Spirito santo,
poiché sarebbe in tal modo attribuito a lui quel medesimo uf-
ficio del supposto Dio padre (Giove dell'inno P), la disposizione
del caos; e soltanto pare tutto spiegarsi, se ci rifacciamo a quella
concezione filosofica dell'amore, che sopra abbiamo accennata (2).
Alla medesima altezza non si può porre l' inno ai celesti, il
quale anzi è molto inferiore al precedente, sia rispetto al valore
Saepe magnorum medius deorum,
Aethera immensumque tenes Olympum.
Hic ubi missa superos sagitta
Fleotis et ipsum
Arbitrum rerum dominumque patrem.
Cuius anditum procul omnis horret
Caelitum pubes
Il Marullo non ebbe certo presente proprio questo passo della Teogonia esiodea,
ma aveva innanzi a sé tutta la tradizione classica concorde nel tratteggiare
il medesimo tipo di Amore, nelle linee fondamentali.
(1) Vedi Carlo Pascal, commento all'ediz. di Ovidio, Metani., I, v. 21 :
« Il poeta allude certamente all'amore empedocleo {0iÀla, QiÀÓTtjs)] giacché
« l'opera di questo dio è di porre ordine e concordia nell'accozzo informe
« degli elementi ». Vedi anche E. Zeller, La philosophie des Grecs (trad.
di E. Boutroux), Paris, Hachette, 1882 ; intorno ad Empedocle, voi. II, pa-
gine 199-381.
(2) Sarebbe poi grave empietà per un cristiano far ferire e vincere Dio
padre dallo Spirito santo, nò sarebbe sufficiente scusa l'allegoria. Lo Scaligero
a proposito di ciò e dell'opinione dei platonici sul duplice Amore (cfr. Ma-
rullo, Hymni, I, 3-34: « ...geminaeque duplex | Gloria matris ») giustamente
osservava: « Nam Cupidinem geminum ex matre gemina cum Platonicis
« agnoscit [MaruUus]. At Amor in divinis cunì hoc nostrate haud unus est ».
Si confronti Ovidio, Fasti, IV, v. 1 : « Alma fave dixi, geminorum mater
« Amorum ! ».
MICHELE MARULLO 329
poetico, sia per la mancanza di nesso nel contenuto, che neppure
corrisponde al titolo; infatti agli dèi nel loro complesso, sotto
i quali adombra il complesso degli astri che separatamente can-
terà nel II e III libro (1), rivolge pochi versi solo in principio,
poi torna a celebrare ancora Pallade, e il breve inno si riduce
quasi tutto a trattare di essa, ripetendo le stesse idee e le stesse
preghiere del secondo (2), ma senza alcuna efficacia, si da non
meritare che questo cenno.
Breve anche l'inno seguente, e forse il migliore di tutti, come
ben giudicava lo Scaligero (3), che pure si mostra sempre assai
severo verso il Marnilo. Canta il poeta VAeternìtas, cioè l'in-
finità del tempo, signora dei secoli, « immensi regina aevi ». È
personificazione appropriatissima in tutti i suoi particolari, né
qui è fuor di proposito chiamare l'Eternità dominatrice di tutto,
di tutti gli uomini e di tutti gli dèi, perchè l'universo è soggetto
alla legge ferrea del tempo, che tutto vince e travolge, rima-
nendo unico arbitro, e nulla può concepire mente umana al di
sopra dell'eternità.
Ad essa il poeta chiede l'ispirazione acciocché degnamente
possa celebrarla (v. 1-2) :
Ipsa mihi voceni atque adamantina suffice plectra
Dum caneris
(1) Nei versi seguenti: « Stabileque in aevum lucidas ambis Jovis | Rota
« domos novemplici... », par di vedere un'allusione ai nove cieli del sistema
tolemaico, giacché nei libri II e ITI troviamo appunto negl'Inni il seguente
ordine, dopo Pan (inno I) simbolo di tutto l'universo: 1. Caelo. 2. Steìlis.
3. Saturno. 4. JovL 5. Marti. 6. Veneri. 7. Mercurio. 8. Soli. 9. Lunae-,
mantenendo lo spirito pagano, pure il M. rispettò l'ordine sanzionato dalla
tradizione dantesca.
(2) Ritorna ancora il concetto platonico: « Caecoque mentes involutas
« carcere ... ». •
(3) Scaligero, Op. cit., VI: « Pene enim solum poema illud [Aeternitati],
« universas illius famae rationes sustinere potest ». Il Gaddi poi dice addi-,
rittura che pel solo inno all'Eternità i carmi del Marnilo sono degni del-
l'« eternità », cioè dell'immortalità; ma questo è un po' troppo.
330 P. L. CICERI
Essa è anche rimmortalità, la fama eterna. A te mirano —
dice il poeta — i giovani ancora immaturi da una parte, il saldo
valore dall'altra, pronto a difendere il patrio suolo (alludendo
qui forse a sé stesso) ; tuttavia dopo un intervallo quanto si voglia
lungo, tutto cancella il tempo (v. 13 seg.):
Pone tamen, quamvis longo pone intervallo,
Omniferens natura subit curvaque verendus
Falce senex spaciisque breves aequalibus horae
Atque idem totiens annus remeansque meansque
Lubrica servato relegens vestigia gressu;
due versi, questi ultimi, che dobbiamo riconoscere degni di un
classico, sia per la bella personificazione, sia per la struttura
dell'ultimo verso, si felicemente atteggiato a render quasi la stan-
chezza dell'Anno, che ritorna, compiuto il ciclo abituale, all'an-
tico faticoso cammino.
Eccoci poi il quadro imponente dell'Eternità, assisa sul più alto
seggio tra i Celesti, mentre dà le sue leggi immutabili, immune
da ogni male e pericolo, da principio e da fine, principio e fine
essa stessa. Un verso v'è qui, che basta a rivelare il poeta:
Perpetuoque adamante ligas fugientia saecla,
che desta spontanea in noi l'ammirazione, per l'immagine feli-
cissima, e per la profondità del pensiero racchiuso in rapidi
efficaci tocchi.
Indirizza infine il poeta alla dea un saluto con maggior so-
lennità che non abbia fatto per gli altri dèi, e le rivolge la pre-
ghiera consueta di richiamar l'umanità al cielo.
Anche il verso è quello che più si adattava a quest'inno, l'e-
sametro, che assume veramente movenze dignitose e in qualche
punto epiche.
Lucrezio si riconosce qua e là, ben inteso nel solo campo del-
l'imitazione, e anche questa non diretta, bensi inconscia e limi-
tata a quelle reminiscenze che gli venivano dall'amore e dal-
MICHELE MARULLO 331
l'entusiasmo di cui era acceso verso il poema della natura (1).
Del resto non vien fatto di additare vere fonti dell'inno nella
classicità, 0 nel Rinascimento; possiamo quindi giudicarlo una
prova di quell'originalità che in modo troppo assoluto si è voluta
negare al Marnilo ai nostri tempi, la quale, se di rado si mani-
festa, un ingegno non mediocre, pure, rivela.
Dell'inno a Bacco, che chiude il primo libro, non si può in-
dicare una fonte particolare, perchè il Marnilo non si attiene
ad una sola, ma segue senz'ordine ciò che nelle tradizioni clas-
siche trovava intorno alla rappresentazione del dio e ai suoi
attributi (2).
(1) Per citarne una, in principio i « lucida tempia aetheris » ci richiamano
ai « lucida tempia, lucida tela », ecc., lucrezìani.
(2) Indichiamo alcuni riscontri coi classici. Catullo, c. LXFV, 254 seg. :
Qui tum alaores passim lymphata mente furebant
Euhoe bacchantes, euhoe capita inftectentes.
Harum pars tecta quatiebant cuspide thyrsos,
Pars e divuUo iactahant membra iuvenco,
Pars sese tortis serpentibus inoingebant,
Pars obsoura cavia celébrabant orgia cistis,
Oì'gia quas frustra cupiunt atidire prophani, ecc.
cfr. Marullo, Hymni, I, 6, passim:
Quem bine miUe secutae atque iUinc trepidante pede sacro
Ululent citatis Edonides usque tripudiis
Valido sub thyrso iacientes vi capita fera. . . ecc.
*
Orgia verendis arcana recondita calathis,
Penitus quae sanctis frustra captes sine initiis.
Nimio divulsos raptantes impetu vitulos.
Esaminando i punti in corsivo, si vedrà che la derivazione catulliana è cer-
tissima, benché il Marullo rimaneggi, ampliando o riassumendo, Catullo. Una
reminiscenza oraziana: Orazio, Od., Il, 19, 5-8:
Euohe, recenti mens trepidat metu,
Plenoque Bacchi pectore turbidum
Laetatur. Euhoe, parce Liber,
Parce, gravi metuende thyrso.
•
Marullo, Hymni, I, 6, 4-5 :
Aevoe sonant furenti mihi pectora rabie ;
Nimioque deo plenus concutitur gravis animus.
Cfr. Orazio, Od., IH, 25, 1 seg.:
332 P. L. CICEEI
Il Sannazaro ha un epigramma, e il Fontano un' elegia a
Bacco (1), quest'ultima, nella sua brevità, molto più elegante del-
l'inno che esaminiamo, i cui versi, privi di agilità e sveltezza,
mal si adattano ad un carme a Bacco ; è evidente infatti il con-
trasto tra l'ardore e la febbrile irrequietezza da cui il poeta si
Quo me, Bacche, rapis tui
Plenum? Qaae nemora aut quos agor in specus
Velox mente nova?
Eiscontri ovidiani:
Ovidio, Tristia, V, 3, 89:
Ossa bipenniferi sic sint male pressa Lycurgi
Impia nec poena Pentheos umbra vacet;
cfr. Marullo, Hymnis, I, 6:
qui Penthea, qui male nimium
Adigis Lycurgum tandem sua pendere scelera.
Per tutta quella serie di appellativi rivolti al dio, potè vedere il Marullo il
« locus similis » delle Metamorfosi (IV, 11-15), ma è più probabile avesse
presente quell'epigramma àeWAntìwlogia graeca (1. I, tit. XXXVIII : Elg
Seovg, cfr. 11 » Elg Bàyi^ov) che è tutta una sequela di appellativi del dio.
Cfr. Mar., Hymni, I, 6, 23 seg.:
Aevoe, impotenti thyrso gravis, alme Dionyse,
Martie, bicornis, rex, omnipotens, femorigena,
Mistice, thioneu, ultor, solivage, evies, satyre,
Genitor deorum idem, atque idem germen amabile,
Nyetelie, multiformis, hymeneie, nomie,
Cremine, hospitalis, liber, pater, optime maxime. . .
(e chi più ne ha più ne metta). Questo è del resto il modo classico solito
delle invocazioni a Bacco. — Si confrontino anche i seg. versi del Taigeto
(Jo. Ani. Taygetus, in Carmina iìlustriiim poetarum italorum, Florentiae,
1719, voi. IV, p. 234, inno a Bacco):
Salve, io, Bromie, Nysaee, Lyaee, Thyoneu,
Liber, lacche, Euan, Euhye, Thyrsigere, ecc.
Anche Pietro Crinito (Carm. Uh poet. ita}., Ili, 513 ha una Saltatio bac-
chica che presenta qualche analogia col nostro inno. Oltre all'epigr. Bacco,
menzionato, VAnthologia, ha altri brevi epigrammi allo stesso dio, e ad Apollo,
a Venere, a Mercurio, a Diana (vedi specialm. 1. V, tit. I), ma si distaccano
dal carattere che distingue l'inno, né il Marullo attinse ad essi, essendo brevi
ritratti della divinità, descritta quasi fosse dinanzi al lettore effigiata.
(1) Parthenopeus, ediz. cit., I, 17, p. 79 del voi. IL
MICHELE MARULLO 883
dice invaso, e questo metro, non troppo adatto ad argomenti
leggeri e scherzosi.
Bacco pare qui personificare l'ardore del sangue animoso gio-
vanile (v. 3 : « Puerum coma praesignem et radiantibus oculis »),
0 meglio ancora, il « furor poetarum », l'ispirazione (cf. v. 4-5 :
« Aevoe sonant furenti mihi pectore rabie; | Nimioque deo plenus
« concutitur gravis animus », e sulla fine : « Tibi [Baccho] mille
« vatum praecordia sortilega fremunt »), la quale opportunamente
sarebbe qui cantata, ora che il poeta si accinge veramente a
celebrare gli elementi della natura, dopo il primo libro che po-
trebbe chiamarsi tutta una introduzione ai seguenti (II, III e IV).
Incongruenze e contraddizioni non mancano neppure in que-
st'inno ; noteremo solo che fra le altre lodi è attribuito a Bacco
anche il merito di far verdeggiare i campi e svariatamente co-
lorarli (1), ciò che Lucrezio, com'è noto, aveva detto di Venere,
e che vedremo assegnare poi dal MaruUo a tal dea (inno a Ve-
nere) e al Sole {Ep.^ 1. Ili, inno 1^). Inoltre Bacco qui, come
già Giove e Amore, « dissona semina ligat », ed equilibra l'uni-
verso, tenendo la terra stabilmente sospesa in mezzo all'aria,
cosa che a Giove soltanto si conveniva.
Un inno a Pane inizia il secondo libro, che coi rimanenti cor-
risponde propriamente al titolo d'ffyTuni naturales, e al genere
di poesia che con tal titolo si proponeva il Marnilo.
Nel nostro carme il dio ha il potere di unire in armonica
quiete i semi discordi delle cose e di mantener l'universo nella
sua compagine, non solo, ma è celebrato eterno padre della terra,
del mare, del cielo, e per di più degli dèi, Giove compreso. Ciò
non si potrebbe spiegare se non pensando che il Marnilo segua
qui una redazione tardiva delle tradizioni su Pane, quando, fal-
samente interpretando la parola Udv, l'antico dio arcadico dei
boschi e dei pastori fu fatto simbolo dell' universo e il suono
(1) « Tibi ager viret almus, tu florea prata tepentibus | Zephyris coloras,
334 P. L. CICERI
della sua siringa fu spiegato come l'armonia delle sfere ; con-
cezione che non si accorda con la prima parte dell'inno, dove
il dio è celebrato quale protettore del gi'egge, dilettandosi nelle
solitudini dei boschi al suono della sua sampogna.
Ma Pan in realtà è qui la personificazione di tutto il com-
plesso dei corpi celesti, a ciascuno dei quali dedica in seguito
un canto a parte, e l'accenno al dio dei pastori si spiega, quando
si pensi che il poeta in modo naturale fu portato a non rinun-
ziare ad una reminiscenza classica che credeva aggiungere poesia
al suo canto, poesia che manca però nell' inno, che è da porsi
tra gl'inferiori e non degni di studio.
Più misero è il brevissimo carme al Cielo, che apre la serie
della catena celeste. L'unica cosa che non sia fuor di proposito,
è il chiamare il cielo patria degli dèi ; del resto anch'esso — a
detta del Marnilo — congiunge tutto con perpetuo legame ed
è santissimo padre degli dèi e della natura (!).
Il terzo inno del libro II è trattato astrologicamente (1); il
concetto fondamentale che lo informa è che l'uomo non può sot-
trarsi all'influsso delle « Stelle », ed è costretto a condurre la
vita sua secondo l'azione dell' astro sotto il quale egli nacque!
La finale è originale e include una nota malinconica e ras-
segnata :
Gaudete noctis progenies sacra,
Stellae beatae. Nos procul a domo,
Quae fata nascenti dedistis
Interea miseri feremus.
Nessun dio pagano soccorre il Marnilo in questo carme, né
pel precedente (« Caelo »), che senza velo, in modo diretto la
parola è rivolta rispettivamente alle Stelle e al Cielo.
Una personificazione del pianeta omonimo è invece il dio Sa-
turno neir inno IV, ma non cantato in senso astrologico come
(1) « ...die agedum Dea | Stellas, et influxu tenaci | Cuncta iubar varie
pollens ».
MICHELE MARULLO 335
dal Bonincontri e dal Fontano, che ne fanno una stella dal freddo
influsso e il simbolo della vecchiaia, bensì come colui che pre-
siede all'età dell'oro, poi come marito di Rea e padre di Giove,
infine anche come il tempo, la qual cosa par risultare chiara-
mente da quei versi che pongono la superiorità del dio sulle
Parche (1), cioè il trionfo del tempo sulla morte (2).
L'inno in complesso è buono, e scorre con una certa spon-
taneità : il poeta immagina che sia tornata l'età aurea, e il mondo
gioisca nei tripudi. « Portami, o servo, il bariletto — esclama
con- reminiscenza oraziana — anch' io voglio celebrare tal feli-
cità » ; e conduce la descrizione secondo il tipo tradizionale che
troviamo presso gli scrittori dell'età augustea (3): le biade na-
scono spontaneamente senza bisogno di coltivazione, fiumi di
latte scorrono, la pace e l'onestà regnano ovunque tra gli uo-
(1) « Idem, cum Ubet, omnia | Parcarum, memori lege resolvere ».
(2) Non è perspicua la personificazione che il MaruUo fa; si veda invece
quella, bellissima, del Fontano. Urania, ed. cit., 1. I, v. 705-710.
Ultima sorte senex loca possidet, ultimus auras
Ambit et aeterno contristat frigore terras.
Nigra seni facies, tardus gradus, horrida barba,
Et cani crines, et membra efFeta senecta ;
Ingenio tamen ipse bonus, nec inutile pectus
Consiliis constansque animi prudensque futuri.
(3) Ecco la descrizione maruUiana; Hymni, 11,4, 14 seg.:
iuvat dicere saeeula
Fortunata dei, ac sua
Crescentem cererem sponte, nec annuae
Curae debita semina,
Et ìactis nivei /lumina, flumina
Larga nectaris attici
Cum pax atque fides casta per oppida
Visebant hominum domos :
Nec possessa diu imperia, hospiti
Pigebat dare strenuo.
Cfr. Ovidio, Met, I, 89-112 e specialmente i §ersi 109-112:
Mox etiam fruges tellus inarata ferebat,
Nec renovatus ager gravidis canebat aristis :
Flumina iam lactis, iam fiumina nectaris ibant,
Flavaque de viridi stillabant ilice mella.
336
P. L. CICERI
mini ; i medesimi particolari che sono appunto in Ovidio, in Ver-
gilio, in Orazio.
Tesse poi le lodi del dio, attribuendogli anche la proprietà di
largire agli uomini l'ingegno, ciò che veramente era proprio di
Pallade (i).
A Giove scrive ancora un breve inno, dopo il i^ del libro I,
ma già abbiamo accennato, e qui meglio precisiamo, che quello
d'introduzione è al sommo degli dèi mentre questo è all' astro
omonimo (2), nettamente distinto, è bene avvertirlo fin d' ora,
dal Giove folgoratore del libro IV, che simboleggia il fuoco.
È questo il punto in cui nel Marnilo e nel Fontano le due
concezioni dell'astro personificato in un dio pagano, più che al-
trove si accordano, come risulta dai seguenti riscontri :
Fontano, Urania, I, 615-617 (ed. cit.): Marullo, Hymni, II, 5, 1-5 :
lupiter hinc soHo longe spectandus ab alto luppiter pie, luppiter
Exerit OS pìacidum terris, et fulgidus aureo Benigne, optinie luppiter ;
Sidere felices mortalibus explicat ignis. Qui tuo nitidum aethera
Ambis igne beato.
Te cano, placidum patrem ... ecc.
e Urania, I, 625-628 : cfr. con Hymni nat, II, 5, 33-38 :
Tanta lovis placidi clementia, ni malus atro Aut cum falciferi patris
Sidere torpentis Saturnus funderet ignes, Almo sidere temperas
Funderet et leti causam infelicis et omne Minas et rabiem feram.
Morborum genus et miserae mala plurima vitae. Quo non saevior alter
Seu libet misera lue
Urbes polluere integras, ecc.
(1) Molta ineguaglianza si nota nello svolgimento di quest'inno, occupando
troppi versi la descrizione dell'età aurea proporzionatamente al dio ; il poeta
contaminò, nel senso classico, varie tradizioni intorno a quanto riguardava
Saturno, senza troppo discernimento.
(2) Non convengo con lo Scaligero che interpreta Juppiter come la per-
sonificazione del cielo ; ecco, anche per la trattazione seguente, l' interpre-
tazione dell'erudito, riguardante parte delle divinità marulliane {Op. cit..
MICHELE MARULLO 337
Mantenendo la personificazione, è assegnato dunque a Giove
un « falcifer pater » cioè Saturno, il che, fuori dell' allegoria,
corrisponde all'ordine naturale tolemaico, che abbiamo supposto
che il Marnilo segua, in cui appunto Saturno vien prima di
Giove nella scala dei pianeti (1).
Non è trascurabile l'inno a Marte, come riconosceva lo Sca-
ligero (2): invocata Clio, si canta l'astro, personificato nell'an-
tico dio della guerra, il quale si diletta, ahimè — esclama il
poeta — di tante misere stragi! Marte — continua, con una
nota patriottica personale assai efiìcace — incrudelisce contro
Bisanzio, ma le preghiere lo faran divenire benigno. Allora ciò
accenderà il poeta (sono sue parole) di si potente ispirazione,
che non lo eguaglierebbe nel canto il « padre Orfeo » ; vanto
questo esagerato, ma qui spiegabile, per l'entusiasmo a cui si è
lasciato trasportare dalla visione della fine della guerra funesta
alla patria. « Allora, invaso da marzio furore, canterò le imprese
« di Marte, quando in mezzo agli altri dèi atterriti dinanzi ai
« Titani, che sovrapponendo monti a monti tentavano dar la sca-
« lata al cielo, egli solo, ancor giovinetto, dopo la consacrazione
« dell'armi, osò aflì'ontare, tra lo stupore generale, i mostri
« della terra, e li vinse, acclamato dalla celeste schiera » ;
sed improba
In caede perstabat, ferocum
Impatiens animorum, et irae.
1. ni, e. 115) : « Sic Apollinem Solem dicis ; Dianam Lunam ; lunonem aerem ;
« Jovem aetherem ; Saturnum tempus ; Venerem calorem genitalem ; Martem
« sanguinis effervescentiara ; Mercuri um ingenii dexteritatem ».
(1) Tranne gli aggettivi di grandezza, gloria, potenza, null'altro ha di
comune quest'inno, come del resto il 1° del 1. I, con l'inno omerico XXXIII,
Eig Aia.
(2) Op. cit., VI: « Maius etiam numen affla^it illuni [MaruUum] in Martis
€ hymno ». Precede alla trattazione, nel nostro inno, una breve introduzione
sugli dèi in generale, celebrati quali autori di tutti i beni umani, contra-
riamente al pensiero del suo Lucrezio, che li immaginava noncuranti del-
l'uomo, sereni, nelle tranquille sedi degl' intermundii.
Giornale storico, LXIV, fase. 192. 22
338 P. L. CICERI
Ni iam tum et annos et pueri Venus
Mirata dextram, nec facieni minus,
Complexa gerraanum benignis
Aurea continuisset ulnis (1).
Grazioso quadretto finale, nel quale si sente un lontano sapore
di quel mirabile principio del libro I del poema di Lucrezio, che
rimane tuttavia — s'intende — di gran lunga insuperato.
Tranne una probabile fonte classica, Orazio (2), cui forse at-
tinse il Nostro per la gigantomachia, l'inno pare originale, pieno
di vera potenza ed efficacia, e in tutto appropriato al carattere
che si conveniva alla divinità guerresca.
Analogamente raffigura Marte il Fontano, ma in modo, certo,
assai migliore per potenza di tocchi plastici, opportunissimi alla
personificazione della stella sempre funesta e simbolo della vio-
lenza (3).
A questo punto il Marnilo rompe per un momento l'ordine
dei cieli osservato finora, facendo seguire al cielo di Marte non
quello del Sole, ma quello di Venere, giacché si riserva di can-
tare a parte i due astri creduti massimi, del giorno e della notte,
nel libro III.
Venere, che nel Fontano {Urania^ I, 177 seg.) è celebrata
prima come la dea dell' amore, poi come la stella, per la sua
(1) In questo luogo (come in moltissimi altri) è assai scorretta la lezione
dell'edizione Sathas (cit.); qui, come in tutti i passi marulliani che ripor-
tiamo, cercliiamo di dare la lezione più coiTetta che sia possibile, valendoci
delle migliori edizioni antiche tra loro collazionate.
(2) Cfr. Orazio, Od., III, 4; questo passo potè leggere il Marnilo, mante-
nendosene però indipendente.
(3) Fontano, Urania, I, 548-553 (ed. cit.) :
Ipse deus rapidis insistens pronus habenis
Tela manu quatit insultaus, acerque cruento
Ore tonat. PeUunt agili temone iugales
Exanguis Metus, atque Tremor, tum ferreus ora
Terror, sanguineumque Favor quatitante flagellum,
Ille quidem divis iam formidabilis ipsis.
MICHELE MABULLO 339
luce, emula della luna e del sole, è nel nostro inno il pianeta
fulgentissimo, personificato nella dea (1) autrice dell'ordina-
mento di tutte le cose nell'informe caos; non oziosa ripetizione
questa, perchè qui il Marnilo parte da un concetto molto più
poetico : la dea dell'amore è la forza che domina irresistibile nel-
l'universo, e da essa dipende la generazione, la trasformazione
e la rinnovazione continua di tutte le cose (2).
Ovidio, come nei casi precedenti, fornisce i dati di tale svol-
gimento, Lucrezio quelli della figurazione della dea, all' arrivo
della quale tutto si rasserena; ma tuttavia si ha l'impressione
del nuovo, poiché il poeta ha saputo imprimere nelle sue fonti
il suggello suo personale:
Ridet et tellus veniente diva,
Carpatili et rident freta: nec sereno
Sibilat caelo nisi blandientis
Aura favoni (3).
Nunc no vis sanctum caput impedita
Floribus, plausasque levis choreas
Ducit; et passim violis scatentem
Ter pede nudo
Concutit terram. Sequitur luventa (4)
Fervidum spirans; sequitur Voluptas
(1) Credo che non occorra pensare col Sathas {Op. cit., VII, prefaz., p. lvii)
che il Marnilo abbia voluto celebrare la vergine divina promessa allo stra-
dioto, come premio delle sue fatiche, dopo la morte; né con lo Scaligero in-
tendere Venere un « calor genitalis » (vedi passo riportato in nota) ; si tratta
semplicemente della stella, adombrata in Venere, per cantar la quale il poeta
usufruisce alcuni dati della concezione degli antichi.
(2) È la concezione lucreziana, I, v. 21 : « Quae qnoniam rerum naturam
« sola gubernas », ecc. ^
(3) Si confronti Lucrezio, I, 8: « ... tibi rident aequora ponti », e I, 11:
« et reserata viget genitabihs aura favoni ».
(4) Scrivo con lettera maiuscola Juventa, Voluptas, ecc. perchè seno evi-
denti personificazioni.
340 P. L. CICERI
Prodiga, et zonis Charitum renidens
Turba solutis (1).
Graziosissima è anche la scenetta di Venere e Marte, che
meglio non potrebbe commentarsi che riportando i versi stessi
del poeta:
Spectat occulto latitans roseto
, Mars pater, simulque cupit videri (sic)
Et timet; simul velut igne caera ex- (2)
-Udat abitque.
Nunc ubi currus? ubi amica quondam
Hasta? quid tecum, bone dux, roseto?
Nempe iam sordent galeae; aptiorque
Crinibus lierba est.
Illa tormentisque, deique amore
Pulchrior; quem dissimulat videre:
Hoc magis occulta placuisse quaerit
Callida ab arte.
Et modo suras teretes, reducta
Veste, dum saltat studiosa nudat
Et modo pectus retegit, statimque
Claudit eburneum.
È una saffica che, contrariamente al giudizio dello Scaligero
— che scriveva : « Invenustus etiam in Venerem ; quem decuit
esse lepidissimum » — può annoverarsi tra le migliori poesie
del Marnilo.
(1) Si ponga attenzione al seg. locus similis di Orazio, che fu certo fonte
d'imitazione. Orazio, Odi, I, 30, 5 seg.:
Fervidus tecum puer et solutis
Gratiae zonis properentque Nymphae
Et parum comis sine te luventa
Mercuriasque.
(2) Peccato che la brutta spezzatura della parola in fin di verso, produca
in noi cattiva impressione, se anche passeggera.
MICHELE MARULLO 341
Saffico è pure l'inno col quale finisce il secondo libro. Il poeta
profetizza l' immortalità ai suoi carmi, indi canta l'astro Mer-
curio, personificato nel dio della prudenza e dell'acutezza d'in-
gegno (i).
Ne fa l'autore della civiltà e del progresso, e lo rappresenta
mentre va dirozzando con le arti della sua lira le menti ancor
fiere dei primi uomini, insegnando loro il viver civile. Questo
passo pare uno svolgimento di un altro della nota breve ode
oraziana, come appare dagl' indizi sui quali richiamiamo l' at-
tenzione :
Orazio, Od., I, 10, 1 seg. : Marullo, Hymni, II, 8, 25 seg.:
Mercuri facunde nepos Atlantis 0 potens vatum geminique mundi
Qui feros cultus liominiim recentum Mercuriusinterpres, pater; undeprimum
Voce formasti catus et decorae Fluxit et nervis honor et decorae
More palaestrae. Copia linguae.
Arte dum blanda populos recentes
Caede deterres solita, suisque
Providus silvis meliora tandem
Quaerere suasos (2).
Poi lo canta anche come dio del commercio e dell'arte divi-
(1) Giustamente lo Scaligero, a proposito di Mercurio: ingenii deocteritas
(cit.); e il poeta vi accenna nei seg. versi 11-16:
lUe nec turpem exilio, neo unquam
Passus inertem.
Perque tot terras, mala tot secutus
Per freta, huc fatis agitatum et illuc ;
Largus et scythae dedit et latini
Pectinis usura.
e in fine:
Salve, io, vemm decus, exilique
Duloe lenimen, patriaeque victae,
alludendo al sollievo delle sue infelicità, procurato dall'uso dell'ingegno.
(2) Si confronti anche con Orazio, Od., I, 10, 3-4 (già rif.) : « ... et de-
« corae | More palaestrae », il verso del Marullo: « Sive quis graia nitidus
« palaestra ». Cfr. Ovidio, Fasti, V, 667 seg.
342 P. L. GIOBBI
natoria, toccando in fine anche dell'ufficio proprio a Mercurio,
quello di evocare e ricondurre le anime all'Ade (1).
Come ognun vede, la personificazione diventa pretesto alla so-
lita fusione di elementi vari tratti dalla latinità e dalla grecità,
nel nostro caso dal «Mercurius> e dall' 'E()/*^g.
Due inni, l'uno Soli (2), il più lungo dei quattro libri, l'altro
Limae, formano il libro III, e il poeta conserva nel titolo ai due
corpi celesti il loro nome, personificandoli poi rispettivamente
in Apollo e in Diana.
Del sole avevan trattato il Bonincontri e il Fontano, pei quali
è l'astro di gran lunga più potente negl'influssi, e per quest'ul-
timo è anche l'Apollo dei classici, figlio di Latona, uccisore del
serpente Pitone.
L'esordio dell'inno che esaminiamo (3) è troppo grandioso ri-
spetto al successivo svolgimento:
(1) Marullo, Hymni, II, 8 (in fine): Cfr. Orazio, Od., I, 10, 17 seg.:
Vestrum et aurata revocare virga Tu pias laetis animas reponis
Sedìbus funetas animas sepultis. Sedibus, virgaqtie levem colierces
Vestrum et invisi spaciis iniquis Aurea turbam
Beddere averni.
Anche il Fontano, alla cui personificazione di Mercurio, pianeta, s'ispira il
Nostro, accenna a questo compito del dio: Urania, I, 169:
aut torpentis ad bestia Lethes
Traduoit miseros per opaca silentia manes.
Cfr. Vergilio, Aen., IV, 242-244.
(2) Anche lo Scaligero osservò qui turbato l'ordine naturale della tradi-
zione medievale (Oj9. cit., VI, 4) : « ...imperite Solemsub Mercurio collocavit ».
(3) Non potei confrontare (per la difficoltà di avere il KQrjtiKÒv SfjatQov
del Sathas) il coro àeWErophiìus, di Giorgio Chortakis, per riconoscere le
relazioni col nostro inno, notate dal Sathas {Bocuments inédits, ecc., VII,
pref., pp. i-ii) : « Dans 1'* Erophile » de Georges Chortakis le choeur s'adresse
« au Soleil en termes presque identiques à ceux dont Marullos se sert dans
€ son hymne au Soleil ». Può darsi, inoltre, che il Marullo si rivolga in que-
st'inno al Sole-Mithra, come vuole il Sathas, ma accenni chiaro al culto per-
siano'della decadenza dell'impero, non vediamo. Intorno a Mithra vedi Preller,
Op. cit. (frane, p. 493), ma specialmente F. Cumo.vt, Teoctes et monuments
figurés, citato.
MICHELE MARULLO 343
Quis novus lue aniinìs furor incidit? unde repente
Mens fremit? horrentique sonant praecordia motu?
Quis tantus quatit ossa tremor? (1) procul este, profani,
Este... (2)
Esordio questo rivelatore, perchè, presentando molte somi-
glianze col principio dell' inno Big tòv 'AnóXlaìva, di Calli-
maco (3), ci fa pensare che il Marnilo l'abbia avuto presente:
Olov ó Tq) 'TióÀÀùìvog èaslaato òàcpvivog Sqtvij^ ;
Ola (5' 8À0V TÒ f.iéÀad'Qov ; éaàg, énàg, Satg àÀtvQÓg, ecc.,
benché oltre a questo altri riscontri di tale evidenza non si pos-
sano cogliere tra i due inni.
Dopo aver narrata la nascita del sole da Iperione (4), lo ce-
lebra re degli uomini e degli dèi, e di tutti padre, appellativi
che qui assai più che per le altre divinità tornano appropriati,
trattandosi dell'astro benefico che tutto feconda coi possenti raggi
ristoratori, nessuna parte della natura trascurando.
Ecco Apollo, circondato dagli Anni, dalle Ore, dal Tempo per-
sonificati (5), mentre sale sul carro igneo e s'incammina al viaggio
quotidiano attraverso la volta celeste:
Hunc dextra levaque Anni, Mensesque, Diesque
Circurastant ; nutusque observant Tempora heriles.
(1) Giov. Ant. Taigeto {Carm. ili. poèt. itah, cit.) presenta spiccate ana-
logie con questo passo nel principio del suo breve inno a Bacco (cit.), v. 1:
Euge, io, quonam rapior? quo concitor cestro?
Quae rabies pectus, quis quatit ossa furor?
Ma ciò è appropriato appunto come esordio d'un inno a Bacco, non pel Sole,
come nel nostro caso.
(2) E continua di questo passo di esagerazione in esagerazione, sì che pos-
siam dire con lo Scaligero: « Solys hymnus initio tumidus ».
(3) Anche Callimaco era già scoperto e ccj|iosciuto quando il MaruUo scri-
veva. Vedi Sabbadini, Le scoperte di codd. ìat. e gr. cit., p. 47.
(4) Cfr. Ovidio, Met., IV, 192 e 241 : « Hyperione nate ».
(5) Personificazioni alle quali il poeta potè essere indotto dalla lettura
della descrizione ovidiana della reggia del Sole. Ov., Met., Il, 1 seg.
344 P. L. CICEBI
Ipse gravis quatiens gemmarum pendere habenas
Ingreditur, superis curru spectabilis aureo,
Qua pater obliquum medium via secta per orbem
Certa premens certus vestigia. Cedit eunti
Continuo flectitque loco turba obvia divum;
Regales propius veriti contingere gressus.
Se si confronta ora il seguente passo dell' inno omerico I,
Elg TOP 'AjcóÀÀùùva A^ihov, v. 2 seg.:
hv TE d-Eol xarà óiòfia Aiòg TQO/néovaiv ióvta
xal ^à t' àvataaovaiv Ì7iiaxeóòv èQOfArévoio
Tidvzeg à(f kÒQàoav, 8t€ (paiòtfia TÓ§a TLzacvei^
vien fatto di pensare che l'idea degli dèi riverenti al passaggio
di Apollo sia attinta da questi versi (1).
Veramente mirabile, benché non originale, è la descrizione
del ritorno della primavera, nel qual passo il poeta infonde nuova
vita e freschezza alla sua fonte, Lucrezio (2):
Cum primum tepidi sub tempora verna favoni
Aura suum terris genitalem exsuscitat auctum ;
Adventuque dei gemmantia prata colorat.
At pecudum genus omne viget, genus omne virorum,
(1) Tranne questo, nessun altro indizio palese di derivazione si scorge,
essendo l'inno omerico citato, come anche il seguente (Eig 'AnóÀÀcova IIv-
d'iov), di carattere narrativo (intorno alle vicende del dio, alla nascita, alle
sue imprese).
(2) Cfr. Lucrezio, I, 6 seg. Altre reminiscenze lucreziane si scorgono nel
seguente passo del medesimo inno marulliano:
Unde parens natura et amica daedala lite
Semina de pulchro revocato imitamine caelo
Tot facies volucrum varias, tot saecla ferartim
Concipiunt, tot viarmoreo monstra htimida ponto.
Si notano anche reminiscenze d'imitazione da Stazio. Cfr. Tebatde, I, 157,
coi due versi marulliani: « Et cum mane novo terras sol exit Eoo »; e così
pure: « Aureus, et primo nascentem afflavit Eoo »; si tratta solo d'imita-
zione di finale d'esametro.
MICHELE MAEULLO 345
Perculsi teneras anni dulcedine mentes.
Concurruntque obnixi inter se frontibus hedi
Et nova lascivo persultant pabula motu,
Nec liquidum tremulis concentibus aera cessant
Mukere et laetum volucres peana sonare,
Contectae nemorum viridantibus undique ramis.
La differenza consiste in ciò, che nel sommo poeta latino si
deve a Venere il rinnovamento eterno del bello nella natura,
nel Marnilo al Sole, là il concetto è più poetico e attraente, qui
più conforme a natura e più scientifico (1).
La seconda parte dell'inno, eccessivamente prolissa e noiosa,
è astrologica, e non mette conto di studiarne particolareggia-
tamente il contenuto (2).
L'altro inno del III libro è dedicato alla Luna, Delia, signora
delle selve (3) e del triplice mondo, « diva triformis », la dea
della placida luce notturna (4); finché essa risplende, fuggono
i malvagi che si apprestano ad assalire l'onesto viandante, e il
lavoratore del campo può terminare il lavoro non compiuto du-
rante il giorno ; essa — aggiunge con sentimentale allusione —
favorisce i furtivi e taciti convegni degli amanti:
(1) Tal concetto gli fu suggerito dal maestro suo, il Fontano, il quale
appunto néìì'' Urania, I, v. 250-251, cosi cantava del Sole:
Hino ver purpnrenm vestit florentia prata,
Spiceaque hino campis flavescit messis.
(2) Il tratto finale è personale e triste
Ipsi quos patriae excidio sors ultima rerum
Subduxit, tumulis proavorum aveUimur, heheu,
Fortuna graviore. Et toto spargimur orbe,
Humanae exemplum vitae sortisque futuri.
(3) Anche in Vergilio, Aen., IX, 405 : « Astrorum decus, et nemorum La-
« tonia custos ». •
(4) Anche nel Fontano è la guida del viandante nella notte. Urania, I,
v. 34 seg.:
Dux Clara in tenebrie alienae obnoxia flammae
Aemula fraternis radiis
346 P. L. CICERI
Dum noctis atrum Delia horrorem excutit
Et piena replet omnia,
Carpite cupita gaudia et fruetus breves
Lacrymarum amantes, carpite.
Fonti classiche si possono facilmente additare, specialmente
Catullo e Orazio (1), ma non si attiene ad esse pedissequa-
mente il poeta, bensì ne fa un libero uso.
Il quarto libro comprende le allegorie del cielo, del fuoco,
dell'aria, dell'acqua e della terra, rispettivamente personificati
sotto i nomi di Aether, Juppiter Fulguratoì\ Juno^ Oceanus,
Ter 7^ a.
La musa del nostro poeta, il quale a dir vero non è troppo
ricco di risorse, è stanca dopo il canto laborioso degli altri dèi;
di ciò egli stesso crede prudente a^^^ertirci; però non si sgo-
menta :
nunc rerum benignnm
Aethera concinimus parentem,
Magnum nec uUi auditum opus antehac,
e continua con la solita gonfiezza per metà quasi dell'inno, chie-
dendosi che cosa sia a lui più decoroso di cantare. Il lettore,
cosi, s'aspetta molto ; ma finisce col nascere un « ridiculus mus »,
giacché la personificazione del Cielo (2) quale fecondatore della
(1) Catullo, c. XXXIV, vv. 13-14 : Marullo :
Ta Lucina dolentibus Lucina dieta matribus;
lune dieta puerperis.
e altri riscontri qua e là. Cfr. anche Orazio, Od., 111,22,4: « Diva tri-
« formis » col marulliano: « Sed liaec triformi sat deae ... ». Il verso 1,
ode 10*, 1. I, poi, è riprodotto dal Marullo quasi testualmente, benché si tratti
di Mercurio; Orazio: « Mercuri, facunde nepos Atlantis »; Marullo: « Facunde
« magni Mercuri Atlantis nepos ». Si confronti anche per l'appellativo di
potens che si trova nel Marullo (« Nemorum potentem Deliam ») Orazio,
Carni, saec, 1: «... silvarumque potens Diana ». Nessun riscontro con l'inno
omerico XXXII, Elg ^i^Àr/vr^v, di carattere affatto diverso.
(2) A differenza dell'altro inno al Cielo, che abbiamo visto celebrare il
MICHELE MARULLO 347
terra, con evidente allusione al Giove pluvio dei classici, quel
mito cosi poetico, avrebbe potuto ispirare elevatezza di pensiero
ed esser rivestito di belle immagini, anche attinte dagli antichi,
purché sapientemente usufruite e disposte; mentre nulla si ha
di tutto ciò.
Nella chiusa poi annunzia la materia dell' inno seguente,
dicendo ancora ampollosamente che Giove balenante chiama
già il vate nei suoi antri e perciò egli deve porre fine al suo
canto.
Giove Folgoratore simboleggia il fuoco, rappresentato dal ful-
mine di Giove. L'inno è tutta una narrazione mitologica della
nascita di Giove e dell'origine del suo potere sul fulmine: « Trai
« dalla lira eloquente o vate — dice a se stesso — un suono degno
« di Giove, se miri a spezzare la veloce fuga degli anni e lo stre-
« pito dell'atro fiume, e ad esser chiamato, pei meriti, tra i cori
« delle Pieridi » ; di meritare l'immortalità — come vedemmo in
altri punti e nella fine stessa dell'inno precedente dove si chiama
« Aonidum sacerdos » — egli è sicurissimo, ma tal fiducia, dis-
graziatamente, non si può dir del tutto giustificata. Per quanto
riguarda quest'inno però, non bisogna disconoscere che è dei
migliori, per pregi svariati, non ultimo l'armonico svolgimento
che nelle sue parti si nota.
Mentre non esiste relazione alcuna tra questo e l'inno ome-
rico XXIII, Elg Ala, un riscontro perspicuo si scorge con l'inno
cjallimacheo Elg tòv Ala, al v. 32 seg. (1) ; il racconto del tra-
fugamento di Giove neonato, da Saturno, fino a quando il padre
ode il vagito, essendosi addormentati i Cureti, e scopre la frode,
pare abbia preso le mosse dal passo di Callimaco, nulla man-
cielo più alto, qui è cantato quello che versa le piogge benefiche nel seno
della terra e ne rigenera e sviluppa gì' inaiti semi, e « in fluvios latices
« perennat » [col consueto sapore lucreziano] ; insomma, il grado più alto
nella serie delle sfere degli elementi, sempre secondo la scienza medievale.
(1) Si confrontino i versi di Callimaco (inno cit.) 32-55, con Mar. v. 13-18,
e v. 31-48 dell'inno che esaminiamo.
348 P. L. CICERI
cando dell'una narrazione nell'altra, eccettuata solo la scoperta
dell'inganno, che manca nel poeta greco.
Ma la derivazione certa della maggior parte del racconto ma-
rulliano, è dai versi 199-214 del 1. IV dei Fasti di Ovidio; e lo
dimostri il solo riscontro seguente, chiarissimo:
Cymbala prò galeis, prò scutis tympana pulsant;
cfr. Marullo:
ter cava cymbala
Pulsant innumerum, tentaque tympana,
tralasciando per brevità gli altri, ai quali rimandiamo il lettore.
Iperione, contrariamente all'uso suo crudele (1), non divorò il
figlio, anzi gli donò vasto potere tra gli dèi, e consegnandogli
il terribile fulmine, lo ammoni dell'uso che avrebbe dovuto farne,
con un lungo discorso che richiama alla mente (solo per l'idea
dell'ammonimento e per la forma retorica) l'orazione che Ovidio
pone in bocca ad Apollo nell' atto di affidare a Fetonte il suo
carro (2). A Giove il padre consiglia d'essere implacabile nello
scagliare il fulmine contro i Titani, e contro i malvagi e i su-
perbi, ma di non abusarne contro i deboli, o per piccola colpa
immeritevoli dell'eccessiva crudeltà divina: grandissima è la po-
tenza del fulmine, •e gì' improbi impareranno a temerla e ad
evitarla.
Quest'ultima parte dell'inno ho riassunta, per far notare che
la personificazione del fuoco muta qui il suo significato da na-
turale in morale, e l'elemento distruggitore diviene la vendetta
divina, a cui nulla può sfuggire.
In modo simile al precedente è condotto l'inno a Giunone, pur
senz'essere altrettanto organico e coerente.
(1) « Clam consorte tori pater | Vesci pignoribus creditus est suis ». Cfr.
Ovidio, Fanti, IV, 199 seg.
(2) Cfr. Metam., II, 126 e seg.
MICHELE MARULLO 349
Anche qui il padre rivolge a Giunone il discorso, per due volte,
nella prima incitandola a lasciare i giuochi infantili e pensare
al compito suo, la generazione degli dèi, nella seconda confor-
tandola quando Giove ha già compiuto quello che l'ingenua crede
un atroce delitto.
Nell'unione di Giove con la sorella Giunone, sono poeticamente
adombrate le nozze del cielo con l'aria (1), e questa volta l'ar-
gomento ha saputo suggerire al poeta immagini degne di am-
mirazione. Pieno di fascino, ad esempio, il quadretto della se-
duzione per opera di Giove, appiattato in un cespuglio, mirando
la sorella, la quale
nuda Erasiniis
Pellucebat aquis; quale ebur indicum
Inclusum tenui vitro.
E più avanti, quando il padre consola Giunone lacrimosa, vi-
vacissima è la descrizione del lento, quasi inconscio sorgere
dell'amore nel petto della dea, mentre ancor non cessa dal pianto;
anche il fratello le si a^^^dcina.
Torve quem licet intuens,
Sensit nescio quid plus solito tepens
Irais pectoribus dea.
Non troviamo pari altezza poetica nella personificazione del-
l'acqua. Oceano, cantato nel penultimo inno. Sono però appro-
priati gli epiteti e le qualità che si attribuiscono al dio, quan-
tunque non bene sia detto
0 quadriformis machinae altor unice (2),
(1) Lo Scaligero era d'accordo in ciò (ITE, e. 115): « Coniugium Jovis et
Junonis; id est aetheris et aeris. Discordi^ inter eos, ob alterius humidi-
tatem, alterius siccitatem », ecc.
(2) Potè suggerirglielo Lucano, tal concetto. Phars., IV, 110 seg.:
Sic, o summe pater mundi, sic sorte secunda
Aequorei rector facias, Neptune, tridentis.
350 P. L. CICERI
poiché non si poteva porre l'acqua come unica, bensì come una
delle materie alimentatrici del mondo; in contraddizione del resto
con quanto dice sulla fine, dove Oceano è chiamato « parte ot-
tima delle cose e alimentatore di tutto », come soltanto era op-
portuno dire.
La maggior parte dello svolgimento è mitologica, e vi si narra
una favola relativa a Nettuno (1).
Nessuna relazione tra il nostro inno e 1' omerico XXII, Big
IIoGEiòcbva, che è il dio agitatore delle terre CEvvoalyaiog),
mentre qualche riscontro si nota tra l'ultimo inno marulliano,
Terrae, e l'inno XXX, Eig rijv fieiÉQa ndvxoìv, benché Omero
canti la vetustissima Gea, moglie di Urano, madre degli dèi e
dell'universo (2), e il Marnilo la terra, ultima nella scala degli
elementi, ma in sommo grado veneranda, perchè generatrice e
altrice (3) del genere multiforme degli animali e delle piante,
la quale a tutte le cose concede riposo al termine del breve
ciclo vitale di ciascuna, tutte accogliendo nel suo seno. È la
« magna parens » (4) degli antichi, che nella sua sconfinata bontà
(1) È la favola di Eeto, il gigantesco mostro che mise in serio pericolo il
mare avendo preso, un giorno, a berlo ; e sarebbe riuscito a farlo sparire nel-
l'immensa gola, se Nereo, impegnando aspra lotta con la belva, non le avesse
confitto nelle fauci il tridente; Tetide spaventata era fuggita nelle più lon-
tane terre, lasciando scoperti i lidi, e tali sarebbero rimasti, se Febe provvi-
denzialmente non fosse intervenuta a ricondurre negli antichi confini il mare,
con allusione forse all'azione della luna sul flusso e riflusso.
(2) Verso 17: « X.alQe, d'sòiv firitriQ, oi^o% OÒQavov àQzegóevTog », ecc.
(3) Marullo, Hymni, IV, « Terrae », v. 1 seg.:
Extrema est dea Terra, nubi quoque iure oanenda
Ultima; sed meritis quae primos aequet honores,
Turriferens, fecunda, potens: quam nomine magnae
Sacrarum veteres adyto monstrante pareutis.
Sive quod inde hominum gnavum genus, inde ferarum;
Quaeque virent campis herbae; quaeque ardua silvae
Taygeta, horrentisque tenent pineta Lycei.
linde animale genus generatim vivit adauctum;
verso, quest'ultimo, lucreziano.
(4) Vedi i versi che a ciò si riferiscono, nel passo della nota preced.
MICHELE M ARULLO 351
(li madre a tutti si mostra pia, buoni e malvagi; poetica alle-
goria, tratta dall'affetto che la madre mai non toglie ai suoi figli,
anche se immeritevoli.
La Terra paziente si lascia tormentare ogni anno senza il
minimo lamento, si lascia scrutare nelle sue viscere e permette
che le avide mani dell'uomo le sottraggano i tesori che, per im-
pedire le cieche cupidigie e i delitti cui danno origine, essa
aveva cercato di nascondere. È derivazione, questa, ovidiana (1),
come lucreziana (2) è quella del passo in cui il Marnilo descrive
le condizioni miserevoli del bambino appena nato, che, bisognoso
di tutto lugubremente vagisce, e dalle cure amorose della madre
è assistito e reso atto alla vita.
Il canto assume un carattere d'intimità affettuosa, e tocca sulla
fine un lato morale pessimistico : che giova celebrare la Terra,
se noi contaminiamo il santo nome con turpi azioni, al punto
da dividerci la comune madre con rapine e stragi? Assetati di
dominio, ci dilaceriamo l'un l'altro in tante guerre e dimenti-
chiamo che dopo breve tempo dovremo riposare tutti in quella
medesima terra che fu fonte di separazione e di odio. Il poeta
termina sfiduciato, invocando che la comune madre lo accolga
nel suo seno a ricevere il meritato riposo:
(1) Qui è manifesta la derivazione da Ovidio, quando questi, parlando del
succedersi delle età, descrive appunto i tristi effetti della scoperta dei tesori
della terra, fino allora inesplorati, nell'età del bronzo.
(2) Lucrezio, V, 222 seg.:
Tum porro puer, ut saevis proiectiis ab undis
Navita, nudiis Mimi iacet, infans, indigna omni
Vitali auxilio, cum primum in luminis oras
Nixibus ex alvo matris natura profudit
Vagituque locum lugubri complet, ut aequumst
Cui tantum in vita restet transire malorum.
Marullo, IV, « Terrae »:
Ante repentino caeli quam territus haustu
Vagiat aetheriam in lucem novus editus infans
Cum proiectus humi nudus iacet, indigus, exsora
Auxilii, infirmusque pedum, infirmusque palati.
Atque uno non tantum infelix, quam sua damna
Non capit et quantum superat perferre laborum.
352 P. L. CICERI
At tu, magna parens, quando omnis adempia quietis
Spes aliter, iam tandem adsis, et nos quoque humatis
Adiice, tot duros genitrix miserata labores;
pessimismo paganeggiante clie — « si parva licei componere
magnis » — fa riscontro col pessimismo cristiano di Dante, quando
dall'alto dell'ottavo cielo guardava, triste, la terra causa di odio
reciproco ai mortali (1).
IV.
Tutto ciò che abbiamo avuto occasione di notare in questo
rapido esame degVHyìnni naturales intorno a ciascuno in par-
ticolare, ci induce a trarre alcune conclusioni, che spontanea-
mente scaturiranno dalla riunione degli sparsi elementi.
Il Marnilo trattò un genere di poesia che nel Rinascimento
non ha veri precedenti, giacché da una parte gli scarsi inni dei
tre maggiori umanisti escono dal nostro campo, essendo d'argo-
mento cristiano, dall'altra i pochissimi esempi d'inni a qualche
divinità pagana, sia appunto per l'esiguo numero, presso poeti
di secondaria importanza, sia per la brevità e povertà loro, non
possono paragonarsi ai nostri ; e per questo fatto principalmente
era opportuno richiamare l'attenzione sul Marnilo, perchè è il solo
che nell'Umanesimo tratti l'inno pagano con una certa larghezza.
Chi legga i seguenti versi del De pìHncipum instUutione
(w. 15 seg.):
Primus inexpertum mundi per inane vagatus,
Perpetuam seriem tractus telluris ad ipsos
Ab love deduxi, servatoque ordine rerum
Suspendi solidam naturae ex a6re catenam,
(1) Paradiso, C. XXH, v. 151-153:
L'aiuola ohe oi fa tanto feroci,
volgendola' io con gli eterni Gemelli,
tutta m'apparve dai colli alle foci.
MICHELE MASULLO 353
die chiaramente alludono al contenuto degl'Inni, in pochi tratti
riassumendolo, manifesta vede la sicurezza che l'autore ha nel
dichiarare che non ebbe precedenti: ora, se ciò fosse falso, se
il Marnilo realmente avesse usurpato questa sua vantata prio-
rità, non lo avrebbero i contemporanei rimproverato e richia-
mato al vero, non avrebbe da ciò l'avversario suo, del quale già
conosciamo tutta l'acredine e la violenza contro di lui, il Poli-
ziano, tratto argomento a nuove accuse e invettive, e sarebbe
inoltre il fatto sfuggito all'acuto, minuzioso Scaligero ? E taccio
degli scrittori al Nostro favorevoli, tra i quali, per non citare
altri, il Graddi dichiara di non conoscere precedenti degni di reg-
gere al confronto del poeta di cui tesse l'elogio, il Marnilo (1).
Riconosciuto il Marnilo poeta unico dell' inno pagano nel
Quattrocento, aggiungiamo altre prove a quelle via via accen-
nate durante il nostro esame, affine di concludere con certezza
intorno a questa paganità. In qual senso debbano intendersi le
divinità che canta, il Marnilo indica nei versi or ora riportati,
ai quali dà conferma quest'altro verso, che è pel nostro assunto
di non minore importanza {De pinne, instit., v. 26) :
Post superos ipsumque loveiu, post semina prima (2).
Da queste esplicite dichiarazioni del poeta si può dedurre che
egli intese a cantare le divinità pagane non come simboli di cre-
denze cristiane, e neppure sempre per sé stesse, bensi come per-
sonificazioni di forze della natura, o di astri, o di elementi (3).
(1) Gaddi, Op. cit.: « ... chi troveremo noi che lo superi o pareggi nel nu-
« mero insieme e qualità d'inni latini? »
(2) De principum institut., v. 26. È il punto nel quale annunzia la ma-
teria del nuovo canto (il De principum instittit.) rammentando appunto al
lettore i passati carmi (così il De principum institutione fu composto dopo
gVHymni naturales).
(8) I versi citati « ... servatoque ordine rerum | Suspendi solidam naturae
« ex aere catenam », sembrano proprio alludere al lY libro degli Inni, nel
quale, come abbiamo visto, son cantati gli elementi secondo la concezione e
l'ordine della scienza medievale.
Giornale storico, LXIV, fase. 192. 28
354 P. L. CICERI
Non poteva l'innamorato di Lucrezio rivolgere il suo canto alla
lode degli dèi in sé stessi, lode dalla quale lo distoglieva il sommo
poeta con gl'insegnamenti suoi (1); dall'altra parte poi un cri-
stiano si sarebbe ben guardato dall' usare gli dèi pagani per
celarvi allegoricamente Dio, la Trinità, gli attributi divini, per
gli stridenti contrasti cui si sarebbe dato luogo, e che accen-
nammo: se davvero cosi fosse, l'avrebbe lasciato intendere il
poeta per evitare ogni malinteso nel lettore.
Si narra che a chi lo sconsigliava dall'attraversare il Cecina,
mostrandogli il pericolo, egli incurante rispondesse doversi guar-
dare da Marte non da Nettuno : se non si voglia negare qualche
forza dimostrativa a tale aneddoto, esso pare provare, sia pure
indirettamente, che a personificazioni intese il poeta quando
scrisse gVHyrnni naturales^ dal momento che quasi per un'abi-
tudine, in quell'occasione si valse di due dèi pagani per signi-
ficare rispettivamente la guerra e l'elemento acqueo.
Già ho riferito in quale categoria ponga gVRynini natu-
rales lo Scaligero; si veda ora quel che l'erudito ne pensava
riguardo alla paganità. Nel capitolo CXII del libro III, parlando
dell'inno in genere, scrive quanto riporto, perchè necessario
alla mia dimostrazione: «Dicitur autem Dei laudatio a Graecis
« ijfivog, a Latinis celebratio. Unus igitur Ille cum sit idemque
« trinus, vel ut solum canere, vel personas seorsum celebrare
« ius est homini Christiane ; additis verecunde proprietatibus. Non
« ut disputatores morosi : sed ut pii poetae facere consuevere » ;
poco più avanti, nel cap. CXV dello stesso libro, parlando delle
varie categorie d'inni, cosi si esprime : « Haec itaque omnia na-
turalia sunt. Sic et Marullus Cselum Elementaque hymnis canit » ;
i quali due passi, riavvicinati, chiaramente dicono che se cri-
stiane personificazioni si fosse proposto il Marnilo, l'avrebbe
notato il dottissimo Scaligero, e avrebbe citato il Nostro come
(1) Vedi Carlo Pascal, Studi critici sul poema di Ij'^r^^^^'r T^nma-Mi-
lano, Albrighi e Segati, 1903, passim.
MICHELE MASULLO 355
un esempio nel primo passo, senza collocarlo, invece, tra gli
scrittori di q)voixoì i)fivol, come fa nel secondo. Inoltre nel
libro VI, nel lungo capitolo 4^ tutto dedicato al Marullo, ne la-
menta la paganità: « quin etiam, quod minus tolerabile fuit,
graecanicis fabellarum mendaciis conspurcavit [liymnos] ».
Cosi lo Scaligero, la cui diligenza, anche eccessiva talvolta
nello studio del nostro poeta, ben conosciamo; e io con lui mi
schiero, senza addentrarmi nella questione se quello del Ma-
rullo sia paganesimo puramente letterario, o anche filosofico
e religioso, limitandomi a dire che a quanto sembra risultare
dai carmi marulliani tutti, io inclino a credere che la paga-
nità sua sia stata non solo letteraria — il che ho cercato di-
mostrare nella mia trattazione — ma anche religiosa e filo-
sofica (i).
Come Pletone, egli ricondusse gli dèi dell'antichità, ma, pre-
scindendo dal modo e dai fini diversissimi dell'uno e dell'altro
— giacché Gemisto mira ad una riforma religiosa, e delinea la
figura classica del dio a scopo didattico (2), il Marullo canta una
(1) Anche in tutta la letteratura stradiotica, alla quale il Marullo appar-
tiene, non esiste accenno alcuno cristiano. Ecco ciò che in proposito scrive
il Sathas (Op. cit., VII, pref., p. ii seg.): « [L'impero d'Oriente non era un
« nido di monaci, poiché] dans ce cas Pléthon et Marullos sont deux fous
« isolés. Mais comment alors expliquer le paganisme qui prédomine dans nos
« chansons populaires? Marullos, ce fou iStrathiote, combattant en Calabre
« sous les bannières du roi de France Charles \TII, invoque ses dieux hel-
« lènes. Dans la chanson d'Armuris le guerrier grec combat les Sarrasins en
« Cappadoce au nom de son dieu Soleil [il Sathas cita qui 2 versi di Ar-
« muris]. Dans toutes les épopées populaires qui nous sont parvenues, on ne
« rencontre pas la moindre allusion au christianisme ... « Erotocritos », ce
« roman si goùté du peuple, ne citant pas un mot chrétien, prelude par l'é-
« loge de la religion des anciens Athéniens [si cita un verso del romanzo].
« Les comédies crétoises commencent par un prologue dans lequel se pré-
« sentent les anciens dieux, retournant dans leur patrie après un si long exil,
« pour rapporter aux hommes la joie et le boujieur, disparus avec eux pen-
« dant tant de siècles ». Dice poi degli Stradioti: « Ils ont réussi à con-
« server le flambeau de l'hellénisrae ».
(2) Non si potrebbero meglio riferire gli intenti di Pletone, che con le parole
del Gaspary, Storia della leti. ital. (trad. Bossi), voi. II, p. 148 : « La reli-
356 P. L. CICERI
personificazione solo per esercizio letterario — mentre nel primo
la divinità pagana è quale fu tramandata dall' antichità, nel se-
condo subisce l'immistione di elementi diversi, tra i quali non
escluso il cristiano, per quella naturale evoluzione cui Fantica
mitologia non può sottrarsi nella lotta col cristianesimo.
Ed ora, alla novità del tentativo letterario corrisponde il va-
lore artistico? Egli attinse largamente ai classici, ma non fu
quasi mai coerente nell'uso delle sue fonti, confondendole e con-
taminandole, spesso senza discernimento alcuno. Il suo Catullo,
e più ancora il suo Lucrezio, sono le fonti che di preferenza
usufruisce ; ma raramente sa adattare le belle favole che gli an-
tichi avevan saputo creare, piene di poesia e di fascino, a quella
parte della natura che canta, e spesso viene alla luce un carme
slegato, simile a mal connesso mosaico. Questo che è uno dei
caratteri dominanti, cercò giustificare e spiegare lo Scaligero,
ma si può esser sicuri che un filo conduttore il Marullo non
ebbe mai nel valersi dei classici.
Per quanto riguarda la lingua, l'uso grammaticale non è molto
corretto, poiché errori di morfologia e di sintassi qua e là si
possono cogliere ; il lessico è povero, aggirandosi il poeta quasi
sempre in quella limitata cerchia di frasi, di similitudini, di co-
strutti, a cui fanno però eccezione quei passi che studiammo o
che riportammo.
Il metro nella sua varietà è buono e scelto spesso con discer-
< gione filosofica che egli espose insieme con una dottrina politica e morale
< nel suo libro intitolato Nófiot, era urlo strano culto di astrazioni personi-
« ficate alle quali apponeva i nomi degli dèi classici e che voleva veder con-
« siderate come esseri reali e come tali onorate con cerimonie e con inni ».
Gemisto Pletone non ha la minima allusione cristiana, anzi del cristianesimo
è un fiero avversario, come già vedemmo ; più avanti, ancora il Gaspary :
« Polemizzò direttamente e violentemente contro il cristianesimo, ne chiamò
« i rappresentanti sofisti, difendendo contro di loro la sua dottrina dell'e-
« terna preesistenza delle anime e della loro peregrinazione attraverso molti
€ corpi » (Dottrina che abbiamo visto riprodotta in parte dal Marullo). Vedi
anche Della Torre e S<"hultze, citati.
MICHELE MAEULLO
357
nimento e buon gusto, dalla solennità dell'esametro alla flessi-
bilità del distico elegiaco, all'agilità e grazia del safiìco (1).
Lo stile marulliano. infine, si compiace troppo spesso del-
l'espressione involuta e contorta, quasi fugga ad arte la chiarezza
e il nitore.
Diceva lo Scaligero : « etiam deformes buccae suos habent ba-
siatores», alludendo alle lodi dei contemporanei; pur tenendoci
lontani da questi, che posero il Marnilo all'altezza dei tre mas-
simi umanisti, non solo, ma lo dissero anche paragonabile ai
classici latini, non possiamo neppur convenire con 1' erudito e
con gli altri che eccessivamente deprimendolo, ne fecero un
poetucolo superbo e senza alcun valore ; giacché bastano a rite-
nerlo degno di studio e ad assegnargli un posto non trascura-
bile nella poesia umanistica quei punti, notati, nei quali, sia ri-
plasmando nel suo spirito concetti e immagini tratte dai classici,
sia creandone egli stesso di nuovi, v'infonde il soffio vivificante
della sua individualità (2).
Pier Luigi Ciceri.
(1) Il Marnilo cadde però nel brutto vezzo metrico, da me già in un caso
notato, di spezzare una parola in fin di verso per mantenere il numero delle
sillabe; ecco alcuni esempi principali:
Hìjmni, n, « Veneri » : lam gregem passim varios boumque ar-
-Menta ;
1. IV, « lovi Fulguratori » : Hoste sed tamen impigre op-
- Presso ;
1. IV, « lunoni » : Scymnorum trepidum siculi nacta prae-
-Datorem.
(2) Studio recente sul Marnilo come lirico, è quello di Gino Bottiglioni,
La Urica latina di Firenze nella seconda metà del secolo XV (vedine re-
censione in questo Giornale, 64, 188 sgg.). Il B. vi esamina anche Nenia£
maruUiane da lui trovate.
V^RIETA^
Per la storia dei Bestiarii italiani
Il codice Capponiano 200 della Biblioteca Vaticana, membra-
naceo, dell'ultima parte del sec. XIV, contiene ai fF. 233 i;-237r
un testo colla rubrica La pro^neia d'alcuno animale. Quan-
tunque sia in stretta relazione con testi già conosciuti, è ine-
dito secondo la lezione di questo codice. Lo pubblico come un
contributo allo studio dei bestiarii italiani, facendo seguire al
brevissimo testo alcuni commenti e note. Il codice è minuscolo :
ha quasi il formato della «Collezione Diamante» dell'editore
Barbèra; la legatura è di cm. 10 per 7, la parte scritta della
pagina di cm. 6 per 4 appena. Sono 270 fogli numerati; il nostro
testo è il penultimo fra i nove scritti separati, — leggende,
opere morali [pel contenuto, vedi Salvo-Cozzo, / codici cappo-
niani della Biblioteca Vaticana^ Roma, 1897, p. 276]. Mantengo
fedelmente la lezione del codice, correggendo alcuni errori evi-
denti (colla lezione del codice in nota), sciogliendo le poche
abbreviature, riordinando i nessi, adoperando gli accenti e Tin-
terpunzione moderni. Le parole stampate in neretto sono nel
codice scritte in rosso.
La propieta d'alcuno animale.
La nibbia la quale à questa natura è tanta invidiosa che s'ella vede in-
grasare li suoi figliuoli in del nidio si li pissica loro le coscie accio che Ila
charne infracidi per che dimagrino.
VARIETÀ 359
Lo gaio à questa natura che la sua alegressa è molta profonda e canta
secondo il corso del dì e della nocte, e Ha sua allegressa è ssensa forma di
ragione.
Lo corbo à questa natura, vedendo nascere chorbi bianchi de l'uova suoe
sì s' atrista tanto ch'elli si parte e lasali stare, non credendo che siano suoi
[f. 234 r] figliuoli per che non sono neri, e la natura loro è così prima esser
bianchi ; e vivno di rugiada per in fine che meteno le pene nere ; e ancho più
s'atristano quando li sono tolti più che altro ^ animale.
Lo chastoro si è uno animale di quatro piedi et à questa natura che sa
per natura quando li caciatori lo vano cerchando lo cercano solo per pigliare
li suoi chuglioni e lo resto non è da nulla, e lui sa per natura che no vengano
per pigliarlo se none per chuglioni, et elli se li piglia co bocca e strappali e
lassali a Uoro, [f. 234 v] e li chacciatori li pigliano e '1 chastoro lasano andare.
L'orso à questa natura che quando va ad uno bugno di mele per man-
giare, le lape lo pungeno l'orechio e lui lasa lo bugno e vuoisi vendicare della
lapa e vuo' la amasare, e viene l'autra e pungelo e lassa la prima e core di-
rieto a la seconda, e tanta è la sua ira che se mille lape lo pungeseno di
tutte si vole vendicare.
La lupica è uno ucello, àe questa natura, quando li suoi figliuoli odeno
mormorare lo padre o la madre perdeno lo vedere e no posano volare; e '1
padre e la madre fano loro uno nidio e si vi paschano dentro, e poi cavano
loro le pene vechie e paschonoli in fi- [f. 235 r] no a tanto che sono cre-
sciuoto loro le penne e per natura si rimuoveno e torna ^ loro il vedere.
Lo badalichio il quale è uno serpente molto velenoso che ucide altrui
solo chol guardare, ed à questa natura che non à in sé neuna misericordia,
che sse egli non trova altro che di potere avelenare si fa seccare li arbori, e
per che elli sa per certo che '1 suo fiato è tanto tosschoso che ucide altrui,
e si fiata accio che sse v'è presso a Uui muora.
L'aguila à questa natura eh' è lo più bello velloce velloce ^ che sia al
mondo, ch'ella non à tanta fame che quando ella prende la preda e mangiane,
sempre la [f. 235 i'] metà di quello ch'eia prende lassa agli ucelli che Ili sono
apreso ; e rade volte si vede volare che certi ucelli * che no si possano pascere
per loro se no vano dirieto a lei per avere questa vivanda che li rimane.
Lo lupo àe questa malisia che quando vae a cercare da pascere e rubare,
che se il suo ^ piede inciapasse si che facese romore, ed egli sei piglia co
denti e si lo morde accio che si guardi un altra ^ volta.
La serena si è in forma di messo homo cioè dal meso in su, ed è in
forma d'una bella donzella [f. 236 r] e dal meso in giù è come uno pecio con
due code rivolte in sue ; e sta sempre in luoghi periculosi del mare e ch9anta
si dolcemente che fae adormentare le persone che l'odeno, e come sono ador-
mentate va e ssi l'uccide. #
1 ms. più chelto. - ms. torta. ' 1. lo più bello e velloce ucello. * ms. uelli,
con ce nel margine. s mg, n susuo. ^ ms. atfrja.
360 K. MCKENZIE
Lo bue salvaticho che naturalmente à in odio cosa rosa, si che quando
li chaciatori lo vogliano pigliare eglino si vesteno tuto di roso e vano "^ cer-
chandolo e incotene ^ che '1 bue li vede per la grande passiano pensa niente,
anco core adosso al caciatore, e '1 chaciatore [f. 236 v] fugie e apiatasi dopo
uno albaro, e '1 bue volendo dare al chaciatore ferisce sì forte de le corna in
del arbaro che le corna vi si fichano dentro sì che non se ne può partire, e
'1 caciatore alora si l'ucide.
Le lape si ano una lape più grossa che l'autre ed è re de l'autre, il
quale ordina ed istabilisce per ragione ciaschuna cosa; che certe lape sono
ordinate a ire per li fiori del mele e certe fano li coniuli ^ belli di dentro
e certe ordinate a pungere e certe ^^ a compagnia lo re, e certe anno a com-
batere con autre lape, che naturalmente elleno ano molto gran guera insieme
[f. 237 ?'] per ciò che l'una vuol tore il mele a l'autra; e none uscirebe mai
ninna lapa...^^
Come si vede, le descrizioni animalesche non sono accompa-
gnate da nessuna moralità; sono tolte però da un libro mora-
lissimo, ben conosciuto nel medioevo, il Fiore di virtù ^ nel
quale ogni virtù e ogni vizio viene « appropriato » o « assomi-
gliato » ad un animale, poi illustrato da sentenze citate da vari
autori, e da un esempio o storiella. Lo scrittore anonimo del
nostro testo ha estratto da dodici fra i quaranta capitoli del
Fiore soltanto la parte che trattava gli animali, terminando
però nel mezzo del capitolo delle api. Forse aveva un testo del
Flore notevolmente diverso da quelli finora stampati, e pare
che l'abbia frainteso qualche volta. Sfortunatamente non abbiamo
ancora un testo sicuro, né anche uno studio generale dei mano-
scritti e delle edizioni antiche del Fiore^ tanto importante per
la sua diffusione nei secoli XIV e XV e anche dopo , non che
per l'età della sua composizione, gli ultimi anni del secolo XIII
0 i primi del XIV.
Una prova della larga diffusione del Fiore è anche il fatto
che l'idea di estrarne le descrizioni degli animali si presentò
non solamente allo scrittore del cod. Capp., ma pure a due altri
ben più importanti, se sono veramente opera di Franco Sac-
chetti e di Leonardo da Vinci i bestiarii che vanno sotto i loro
' ms. e vano e vano. » i, incontenente. * cfr. Fiore di virtù, cod. Rice. 1729, in
Ulrich, Saggi (vedi più innanzi), p. 35: non esserebe tietina de le lape del chonulglo,
te lo re non usisse prima. '^ ms. cerete. " Qui segue un altro scritto coUa
rubrica: La qnta etade del mondo. Nel Fiore di viriti, ed. Gelli, la descrizione delle
api continua: e non n'uscirebbe mai nessuna ape dal buco anzi che il re; e ciascuna
gli fa riverenza. E se lo re fosse si vecchio che l'alie gli fussono cadute, ecc.
VARIETÀ 361
nomi. Le edizioni di questi bestiari lasciano molto a desiderare,
ma almeno ci permettono un raffronto col testo Capponiano.
Quando nel volume / sermoni evangelici , le lettere ed altri
scritti inediti o rari di Franco Sacchetti (Firenze, Le Mounier,
1857, pp. 255-61), Ottavio Grigli pubblicò lo scritto Delle pro-
prietà degli animali^ s'era accorto che l'autore ebbe fra mano
un manoscritto del Fiore di virtù^ e che « leggendolo ne trasse
« col nome d'ogni animale, le sue proprietà » ; anzi, trasse anche
lui dal testo pubblicato da A. Gelli nel 1856 le descrizioni degli
animali (pp. Ixxviii, cix-cxii).
Un secolo dopo il Sacchetti, Leonardo da Vinci compilava un
bestiario nel quale descriveva brevemente un centinaio fra ani-
mali, uccelli, pesci e rettili. Il primo editore di questo trattato,
J. P. Richter, nel secondo volume degli Scritti letterari dì Leo-
nardo da Vinci cavati dagli autografi (Londra, 1883), rico-
nosce che il trattato è piuttosto una compilazione che un'opera
originale; ma né lui, ne lo Springer {Der Physiologus des
L. da F., in Berichte der k. sàchs. Gesellschaft der Wissen-
schaften zu Leipzig^ 1884, pp. 244-71), né il Reinsch {Le Bes-
tiaire, Leipzig, 1890, pp. '191-211), aveva trovato nel Fiore la
fonte principale delle prime trentacinque descrizioni animalesche
di Leonardo. Come vedremo, Leonardo non ha seguito rigorosa-
mente né l'ordine né la lezione del Fiore, del quale poteva con-
sultare sia un manoscritto, sia una delle numerose edizioni che
si stamparono prima del 1500 (1). Adoperava diversi fonti, forse
non pochi; per un secondo gruppo di animali seguiva Cecco
d'Ascoli. Anche M. Goldstaub e R. Wendriner, nel loro impor-
tante libro Fin Tosco-Venezianischer Bestiarius (Halle, 1892,
pp. 240-54) non dichiarano recisamente che Leonardo conosceva
il Fiore di virtù; ma ora questa relazione può considerarsi
come stabilita (2). Naturalmente il cod. Capp., con dodici ani-
mali soli e con qualche lezione individuale, non potè essere la
fonte né del Sacchetti né di Leonardo. È evidente pure che
Leon, non deriva dal Sacch., perché qualche volta il testo di
(1) Cfr. Zu den Ausgaòen des « Fiore di i^rtùr>, in Philólogisclie und
volkskundliche Arheiten K. Vollmoller dargehoten, Erlangen, pp. 1908, 52-60 ;
e per i codici, T. Casini, in Rivista crii, della leti, ital., Ili, p. 154 (1886)*
(2) Cfr. Frati, Ricerche sul « Fiore di virtù », in StudJ di fiMogia ro-
manza, VI, p. 283.
362 K. MCKENZIB
Leon, è più vicino al Fiore che al Saccli. (1), e perchè l'ermel-
lino del Fìore^ omesso dal Sacch., si ritrova in Leonardo. Resta
a determinare se Gapp. può derivare dal Sacchetti. I due scritti,
tanto simili l'uno a l'altro, son quasi contemporanei. In Sacch.
le significazioni morali degli animali sono omesse dal testo, ma
le virtù e i vizi sono aggiunti, in latino ed in italiano, nel mar-
gine; mentre in Gapp. non ne resta nessuna traccia, o quasi.
Il primo animale del Fioì^e^ il calandrino, si trova come na-
scosto nel lunghissimo primo capitolo, donde lo trassero il Sacch.
e Leon.; se Gapp. derivasse dal Sacch., il copista avrebbe tro-
vato quel simbolo dell'amore, mentre invece comincia col se-
condo animale del Fiore ^ il nibbio, che cambia in « nibbia ».
Anche alcune frasi di Gapp. dimostrano che il testo non deriva
dal Sacch. (2), e non sembra necessario di supporre un inter-
mediario fra il Fiore e Gapponiano. Abbiamo dunque tre testi che
derivano indipendentemente e senza dubbio direttamente dalle
similitudini animalesche del Fiore di virtù. Del resto, la cosa
è naturalissima, se accanto ai testi del Physiologus e ai bestiarii
moralizzati in varie lingue, troviamo diffuse anche le enciclo-
pedie, come il Tesoro di Brunetto Latini, colla traduzione ita-
liana, e il De x>rop7Hetatil)us ì^ermn di Bartholomeus Anglicus,
anche colla traduzione italiana, dove le stesse proprietà ven-
gono date agli animali, ma senza le moralità. Infatti, la fonte
(1) Fiore di virtù, ed. A. Gelli, 1856, cap. XVII: « E puossi assimigliaie
€ la virtù della giustizia al re dell'api, il quale ordina e distribuisce per ra-
« gione ciascuna cosa ; che certe api sono ordinate ad andare per lo fiore del
« mele », ecc. Leonardo, ed. cit., II, p. 318: « E' si può assimigliare la virtù
« dela giustitia allo re delle api, il quale ordina e dispone ogni cosa con ra-
< gione, imperochè alcune api sono ordinate andare per fiori », ecc. Sacchetti,
ed. cit., p. 257 : « Ape, ovvero Pecchia , è piccolo animale, il quale ordina e
« giudica secondo ragione. Certe sono ordinate andare per li fiori », ecc.
(2) Per esempio, Fiore: « E puossi appropriare la invidia al nibbio, eh' è
€ tanto invidioso che s'egli vede gli figliuoli ingrassare nel nido, si dà loro
« nelle coste col becco perchè la carne si marcisca, acciocch'egli dimagrino ».
Sacch. : « Nibbio, uccello con poco valore, è di tal natura che se vede gli fi-
€ gliuoli ingrassare nel nido, dà loro tanto di becco nelle costole, che dima-
€ grino ». Capp. : « La nibbia la quale à questa natura, è tanta invidiosa che
« s'ella vede ingrasare li suoi figliuoli in del nidio si li pissica loro le coscie
« accio che lìa charne infracidi perchè dimagrino ». Cfr. la nota precedente,
e quanto verrà detto più innanzi sulla « lupica ».
VARIETÀ 363
principale delle similitudini animalesche del Fi07^e è appunto
il libro di Bartliolomeus Anglicus, ben conosciuto in Italia nei
secoli XIII e XIV (1). Senza cercare per ora le fonti più an-
tiche, consideriamo le relazioni dei testi di quella famiglia. La
tavola che segue è completa per gli animali del Fiore di virtù^
del cod. Gapp. e del Sacchetti, non che per la parte dello scritto
di Leonardo da Vinci che corrisponde agli altri testi (dal n° 36
in poi Leonardo segue l'ordine degli animali nel terzo libro del-
V Acerba di Cecco d'Ascoli ; il n° 9 di Leonardo, « I colonbi sono
assimigliati alla ingratitudine », manca negli altri testi). Diamo
pure i richiami ai relativi capitoli del De prop. rermn (lib. 12,
De avibus; lib. 18, De animaliòus); di questo cito sempre l'edi-
zione del Koburger, 1492.
Bart. Ftare Capp. Sacch. Leon.
calandrino 12.22
nibbio 12.26
gallo 12.16
corbo 12.10
castoro 18.28
orso 18.110
lupica (upupa, ipega, pola) 12.37
basilisco . .... 18.15
aquila 12.1
rospo (botta) ....
lupo 18.69
serena 18.95
formica 18.51
bue salvatico . . . . 18.14
re delle api (lape) . . 12.4 (18.10)
diavolo
grue . 12.15
volpe ....... 18.112
pernice 12.30
talpa (topinara) . . . 18.100
lione 18.6S
1
1
1
2
1
2
2
3
2
3
3
4
3
4
4
5
4
5
5
6
5
6
6
7
6
7
7
8
7
8
10
9
8
9
11
10
10
8
11
9
11
12
12
10
12
13
13
13
14
14
11
14
15
15
12
15
16
16
16
...
17
17
18
18
18
19
19
19
17
20
20
20
21
21
21
(1) Vedi H. Varnhagex, Die Quellen der Mestidr-Abschnitte im « Fiore
di virili », in Raccolta di studi dedicata ad A. D'xVncona, Firenze, 1901,
pp. 515-38; e per la fortuna del De prop. rerum, il noto scritto di V. Gian,
Vivaldo Beìcaher e V enciclopedismo italiano delle origini, in questo Gior-
nale, Supplem. n" 5, 1902.
364
K. MCKENZIB
Bari.
Fioi
18.66
22
...
23
12.31
24
12.14
25
12.21
26
18.18
27
18.88
28
18.3
29
30
18.78
31
12.-35
32
12.34
33
34
...
35
Fiore Capp. Saoch. Leon.
22
22
23
23
24
24
25
25
26
26
27
27
28
28
29
29
30
30
31
31
32
32
33
33
34
34
. . .
35
lepre . . .
girfalco . .
paone . . .
fenice . . .
rondine . .
cammello . .
liocorno . .
agnello . .
falcone . .
asino salvatico
avvoltoio . .
tortora . .
pipistrello
ermellino . .
L'ordine dei capitoli nei quattro testi italiani è dovuto dunque
al sistema dell'autore del Fiore, nel quale ogni due capitoli
trattano un paio di qualità morali, una virtù e il vizio opposto;
gli animali poi sono scelti ed ordinati per illustrare coteste qua-
lità. Cosi nei primi capitoli del Fiore troviamo: (1, 2) « amore
« si puote propriamente assomigliare a un uccello il quale ha
« nome calandra (1), che ha tale proprietà, ecc. ; puossi appro-
« priare la invidia al nibbio, ch'è tanto invidioso, ecc. » ; (3, 4)
«allegrezza, gallo; tristizia, corbo »; (.5, 6) « pace, castoro ; ira,
orso »; (7, 8) « misericordia, ipega [lupica]; crudeltà, basilisco »;
(9, 10) « liberalità, aquila; avarizia, botta [rospo] » ; (11, 12) « cor-
« rezione (2), lupo; lusinga, sirena»; (13, 14) «prudenza, for-
« mica; pazzia [matteria; Sacch., stultitia], bue salvatico »; (15, 16)
(1) Cito l'edizione di Agenore Gelli, Firenze, 1856, assai difettosa; nell'ediz.
di Roma, 1740, calandrino. Questo uccello non è propriamente la calandra;
cfr. Goldstaub e Wendriner , Op. cit. , p. 294 ; Bartholomeus , XII, 22 :
« Differt autem Kaladrius ab avicula que dicitur Kalandra ». Il Sacch. ha
« calandrino, aliter calandrio, ovvero calandra > ; Leonardo ha « callendrino » ;
cfr. Springer, Op. cit., pp. 245-8.
(2) Gap. xiii: « Correzione, secondo che dice Aristotile, si è uno effetto
« d'amore a gastigare altrui ... colui che non ha temperanza di gastigare leg-
« germente, si parte dalla virtù della correzione, e cade nel vizio della cru-
« deità » [Si noti che i numeri dei capitoli nelle edizioni non corrisponde ai
numeri dati nella tavola agli animali].
VARIETÀ 365
« giustizia, re dell'api; ingiustizia, diavolo ». Nel manoscritto del
Sacchetti, le virtù ed i vizi sono scritti nel margine, e la serie
si mantiene completa. In Capp., invece, sono omessi il calan-
drino, il rospo, la formica; il testo termina nel bel mezzo del
capitoletto sulle api, forse perchè il diavolo, che segue, non era
per il copista veramente un animale. Anche in Leonardo vien
perduta l'opposizione simmetrica delle virtù e dei vizi; l'autore
mette bensì una qualità morale come titolo di ogni capitoletto,
ma cambia l'ordine, e aggiunge del suo (o forse da un altro
testo del Fìoì^e ?) una descrizione dei colombi : « I colonbi sono
« assimigliati alla ingratitudine, ecc. » ; la virtù opposta, la gra-
titudine, si trova appropriata agli uccelli « detti upica » (altrove
simbolo della misericordia), e cosi la crudeltà del basilisco non
viene opposta a nessuna vertù. Però, malgrado queste differenze,
è evidente che in generale Leonardo deve al Fiore dì virtù
non solamente l'ordine (1), ma pure le descrizioni e le moralità
della prima parte del suo bestiario.
Se confrontiamo col Fiore di virtù il testo Gapponiano, mal-
grado la concordanza di ordine e di parole che non lascia alcun
dubbio sulla relazione dei due scritti, troviamo pure delle diver-
genze. Anche i codici del Fiore di virtù^ che sono numerosis-
simi, differiscono fra di loro; e qualche lezione individuale di
Capp. si troverebbe certamente nella fonte, se potessimo addi-
tare questa. Il nibbio (milvus) del Fiore diventa la nibbia di
Gapponiano. Il gallo nel Fioì^e dispone la sua allegrezza « per
forma di ragione » ; in Capp. la sua allegrezza è « senza forma
di ragione ». In questi due capitoletti di Gapp., le parole invi-
diosa e allegressa sono una reminiscenza delle moralità del
Fiore. La forma hadalìchio è individuale; altrove si scrive o
basilisco 0 hadalischio. Nel Fiore V aquila è « il più liberale
uccello che sia al mondo », anzi a lei « puossi appropriare la
virtù della liberalità » ; senza il lapsus calami^ Gapp. avrebbe
detto probabilmente : « è lo più bello e velloce ucello che sia al
mondo». Nella descrizione del lupo, l'espressione « àe questa
malisia » è aggiunta in Gapponiano. Il capit. della sirena di Gapp.
segue il Fiore^ non però la lezione che si trova nell'ediz. Gelli,
(1) Nel 1884 lo Sprixger, Op. cit., p. 268, aveva detto: « Leonardo gehort
« dami die Gruppirung der Thiere an. Sie ist von der sonst in den Bestiarien
« und Thierbùchern iiblichen vòllig verschieden ».
366 K. McKENZIE
alla quale invece corrisponde la lezione di Sacch. (1). Il Fiore^
Capp. e Sacch. hanno di comune che la sirena è mezzo femmina
e mezzo pesce, « con due code rivolte in suso ». Altri libri medie-
vali danno alla sirena diverse forme ; per esempio, il Bestiario
toscano dice: «La serena si è una criatura molto nova, che
« elle sono di tre nature. L'una si è mego pescie e mega facta
« a similitudine de femena. L'altra si è mego uccello e mego
« femena. L'altra si è mego comò cavallo e mego comò femena.
« Quella che è comò pescie si à si dolce canto che qualunque
« homo l'ode si è misteri che sse Ili apressime. Odendo l'omo
« questa voce, si si adormenta, e quando ella lo vede adormen-
« tato si li viene sopra e uccidelo » (2). Alcuni autori (per es.,
Cecco d'Ascoli, Leonardo da Vinci) parlano della voce della si-
rena, senza dir niente della sua forma. Altri parlano solamente
della forma mezzo uccello. Bartholomeus {De prop, reruin^
XYIII, 95) conosce e non distingue diverse forme: « Sirene sunt
« serpentes cristati et alati. Alii autem dicunt quod sunt pisces
« marini in specie muliebri... Sirenes tres fingunt fuisse ex
« parte virgines et ex parte volucres... De sirena autem dicit
« Phisiologus. Sirena est monstrum marinum ab umbilico et
« sursum habens formam virginis, inferius fìguram piscis... dul-
« cedine cantus facit dormire navigantes ». Brunetto Latini (3)
dice che « serene furono tre », ma tutte della forma mezzo pesce,
alla quale corrisponde pure la descrizione nei dizionari moderni
(cfr. inglese "inerTnaid). Secondo il Varnhagen (4), la fonte della
descrizione nel Fiore sarà il capitolo di Bartholomeus; ma le
« due code rivolte in su » sarebbero una reminiscenza di Al-
bertus Magnus. Se non che Albertus non parla che di una coda :
« Syrena monstra sunt marina, superius fìguram mulieris... in-
« ferius vero aquilinis pedibus et superius alas habentia et retro
(1) Ed. Gelli: «... e come sono addormentate le fa pericolare in mare ».
Sacch. : «... e quando sono addormentati gli fa pericolare ». Cafp. : « ... e come
« sono adormentate va e ssi l'uccide ». Cfr. due codici citati da G. Ulrich,
Fiore di virtù, saggi delia versione tosco-veneta, Lipsia, 1895, p. 15 : « corno
« illi enno odromentà, elle li ancideno »; p. 34 : « e poy si li auyise ».
(2) Studj romanzi (Società filologica romana, 1912), Vili, p. 37 ; cfr. Gold-
STAUB e Wendriner, Op. cit., pp. 27, 294.
(3) Tresor, ed. Chabaille, livre I, P. V, cap. 137 ; lì tesoro di B. L. vol-
garizzato, ed. Gaiter, Bologna, 1877, lib. IV, cap. 7.
(4) Op. cit., pp. 525-7.
VARIETÀ 367
« caudam ». Non è probabile ; credo che per l'origine delle « due
code » dobbiamo ricorrere alla scultura medievale , nella quale
la sirena ha spesso questa forma (1).
La parte più individuale del testo Capponiano è il capitoletto
della lupica. Questo uccello, Vepops dei Greci, era anche uno
dei personaggi di Aristofane; ha il suo posto già nel Pìnjsio-
logus greco, e in molti bestiarii medievali. In italiano moderno
si chiama bubbola (^= ujmpola; Wiese, AltitalieniscJies Ele-
mentarbucìi^ p. 50), ma anche, come in latino, upupa. Nei testi
medievali porta diversi nomi, quasi tutti derivati dal latino
upupa ; questa forma, come l'inglese hoopoe^ sarà onomatopeico,
dalla voce dell'uccello (2). La forma lupica^ poi, rappresenta
evidentemente la combinazione dell'articolo col nome (cfr. la
lapé) ; si trova accanto ad altri nomi nei manoscritti del Fiore
dì virtù', ediz. del 1474 (cfr. Varnhagen, Op. cìi.^ p. 521), upepa-,
ed. di Roma, 1740 (ed. Bottari), ipega^ colle varianti lupica^
pota] ed. Gelli, 1856, ipega\ cod. Riccardiano 1729 (cfr. Ulrich,
Saggi ^ p. 33), lupula; Nuovo Fior di virtù riformato, Tre-
viso [s. a.], polla ; Sacchetti, ediz. citata, p. 256, 2^ola, colla va-
riante mulacchia ; Leonardo da Vinci, « uccielli detti ujnca ».
Questo uccello non fa parte del Bestiario toscano, ma in due
manoscritti citati da Goldstaub e Wendriner (Op. cit., p. 87;
cfr. p. 378) si trova coi nomi upuppula e epopo. Nel Bestiaire
d'amour di Richard de Fournival (ed. C. Hippeau, Paris, 1860,
p. 43) si chiama ìiuple, e i figliuoli huplot; nella traduzione ita-
liana (ed. Grion, nel Propugnatore, II, i, pp. 276-7), luppica..
Nel Tresor di Brunetto Latini (ed. Chabaille, lib. I, P. V, cap. 166),
come nel Bestiaire di Guillaume le Clerc (ed. Reinsch, v. 821)
la forma è hupe (francese moderno, huppe), e nel volgarizza-
mento di Brunetto {Il tesoro, ed. Gaiter, lib. V, cap. 28) ujmpa.
Il Bestiario raoralizzato (v. più innanzi) ha lampo (n*' 41) e
hipìca (n« 48). Finalmente V Acerba di Cecco d'Ascoli ha, se-
condo il cod. Laurenziano XL. 52, la lupula-, cod. Laur. 89 sup.
(1) Vedi A. Venturi, Storia delVarte italiana, III, p. 123, Milano, 1904
(con ligure). — Cfr. H. Schrader, Die Sirenen nacli ihrer Bedeutung und
Mmtlerischen Darsteìlimg , Berlin, 1868 ; Lauchert, Geschicìite des Physio-
logus, Strassburg, 1889, p. 214.
(2) Cfr. Otto Keller, Die antike Tierwelt, voi. II, pp. 60-63, Leipzig,
1913; Lauchert, Op. cit., p. 13. — In tedesco si chiama Wiedehopf.
368 K. McKENZIE
III, la iiqypupa; cod. Laur. Aslib. 1223, la Itfpojm; cod. Laur.
Aslib. 1225, la luppola-, edizioni veneziane del 1519 e del 1820,
lib. Ili, cap. xvi, la popiila (1).
Se lo scrittore del cod. Capp. trovò in un manoscritto del
Fiore dì mrtu l'uccello lupica^ ne cambia però la significazione;
la sua descrizione presenta un esempio dell'amor paterno, mentre
negli altri testi questo uccello è il simbolo della pietà figliale;
e aggiunge alla descrizione consueta le parole « odeno mormo-
rare lo padre, ecc. ». Nel Fi07^e dì virtù [ediz. del 1474, citata
dal Varnhagen, Op. cìt.^ p. 521] leggiamo: « Puossi appropiar la
« virtù de la misericordia a li figlioli d'uno ocello che ha nome
« upepa, che, quando vedeno invecchiar il patre et la maire et
« che perdano la veduta et che non posson volare, gli fanno uno
« nido et li dentro li pasceno. Et doppo gli trazeno le penne
« et gli occhi et stanno nel nido insino ad tanto che per natura
« remittono le penne et gli occhi ». Che i figliuoli cavano ai
parenti non solamente le penne vecchie ma pure gli occhi, vien
detto egualmente dal cod. Rice. 1729 [Ulrich, Saggì^ P- 34] e dal
Sacchetti. È senza dubbio un semplice malinteso da parte dei-
Fautore del Fiore ^ o di qualche copista; altri testi del Fiore
[edizioni Bottari e Gelli, cap. IX] leggono : « gli traggono tutte
«le penne vecchie, e massime quelle che sono d'intorno agli
« occhi ». Niente di questo in Capp. e nei testi latini. Se Gapp.
ha cambiato il senso del capitolo, cosi l'autore del Fiore ha
frainteso quanto dicono le sue fonti : ecco il testo latino al quale
più si avvicina:
De huppupa Phisiologus dicit: est avis que dicitur huppupa. Horum
fihi, cum viderint parentes suos senuisse, et neque volare possint, neque vi-
dere pre caligine oculorum , tunc fìUi eorum evellunt vetustissimas pennas
parentum suorum et linniunt oculos parentum suomm et fovent eos sub alis
suis, donec recrescant penne eorum et reilluminentur oculi eorum, ita ut toto
corpore suo renovari possint, et sicut antea videre et volare (2).
Similmente i manoscritti editi dal Cahier : « evellunt pennas
« veteres parentum et lingunt oculos eorum » ; « tunc filli eorum
« evellunt vetustissimas pennas parentum suorum et diligunt
(1) Devo le lezioni HqW Acerba alla gentilezza del signor J. P. Rice, clie
ha studiato i codici Laurenziani.
(2) Da un codice del British Museum, edito da M. F. Mann, Der Bestiaùe
des Guillaume le Clero, in Franzosische Studien, VI, li, p. 43 (1888).
VARIETÀ 369
« [deligunt?] oculos eoruin » (1). Bartholomeus (XII. 37) parla
inoltre di un succo d'erbe : « De hac autem dicunt physici quod
« cum senuerit eo quod nec videre nec volare queat, pulii eius
« evellunt ei pennas invalidas et liniunt ei oculos herbarum
« succis et fovent sub alis donec recrescant piume eius et sic
« renoA^ata perfecte volat et videat dare sicut et ipsi , ut dicit
« Isidorus ». Cosi pure Albertus Magnus e Vinceiitius Bello va-
censis (2) ; ma Isidoro non parla di questa proprietà dell'upupa,
citando solamente la sua sporchezza : « Upupam Graeci appellant,
« eo quod stercora humana consideret, et fetenti pascatur fimo,
« avis spurcissima, cristis exstantibus galeata, semper in sepulcris
« et humano stercore commorans » (3). Quest'ultima qualità, la
quale del resto sarebbe veramente caratteristica dell'upupa, vien
riferita da Bartholomeus, da Brunetto Latini e da altri, ma manca
nei testi italiani; questi sono nella tradizione del Physiologus
greco, dove i figli àoiVepops gli traggono le penne vecchie e gli
leccano gli occhi (4). Il Bestiario toscano attribuisce la stessa
pietà figliale alla cicogna ; Bartholomeus l'attribuisce alla cicogna
(XII. 8) e inoltre alla cornacchia (XII. 9). Dell'upupa Bartholo-
meus dice anche : « cuius sanguine si quis inunxerit, dormitum
« pergens demones in somnis se suffocantes videbit ; cuius cor
« malefactoribus valet, nam in suis maleficiis eo utuntur ». Questo
sarà la fonte delle due stanze dell'ylcer&a di Cecco d'Ascoli, le
quali stampo secondo il cod. Laur. XL. 52 (cap. 16) :
Del sangue de la lupaia chi s'ogne
Da spiriti dormando vederasse
Essere presso che non [par] che sogne.
(1) Cahier et Martin, Mélanges d'archeologie, voi. Il, pp. 177-80. —
Cfr. Brunetto Latini, Tresor, lib. I, Part. V, cap. 166 : « ... quant lì fil voient
< lor pere envielli, et que il est griès et pesans, et sa vene est auques oscurcie,
« il le deplument tout dedanz son nif, et onoignent lors ses oilz, et puis le
« paissent et norrissent », ecc. ; traduzione italiana, ed. Gaiter: « ... spennanle
« tutte, ed ungono loro occhi », ecc.
(2) Citati dal Varnhagen, Op. cit., p. 521.
(3) IsiDORi Hisp., Etymologiarum , lib. XII, cap. vii, n» 66, in Migne,
Patrol. lai., tom. LXXXII.
(4) Lauchert, Geschichte des Physiologus, pp. 13, 239; 0. Keller, loc. cit.;
GoLDSTAUB e Wendriner, Op. cit., pp. 375-78; Bestiario toscano, ed. cit., n» 32;
Bestiaire d'amour di Eichard de Fournival, ed. Hippeau, pp. 43, 143 ; Pro-
pugnatore. II, i, 276.
Giornale storico, LXIV, fase. 19^!. 24
370 K. McKENZIE
lo non voria che onno [al. ognuno] savesse
Quanta natura vile [al. Quanta virtù] in ley natura sparsse,
No saria furo che so cor avesse.
Invechia tanto che non pò vedere
Né pò volare, sì che ciascun nato
Trappa le penne e la piuma a lor podere;
E poy la cova e con vertù d'erbe
De zovene9a torna al primo stato;
Cossi natura voi che se conserbe.
Leonardo da Vinci, discorrendo degli « iiccielli detti upica »,
segue in generale il Fiore di virtù; ma par probabile che
quando parla della cura degli occhi con erbe si ricordi del-
VAcerba, fonte della seconda parte del suo bestiario, piuttosto
che di un testo latino : « conossciendo il benificio della ricievuta
« vita e nutrimento dal padre e dalla lor madre, quando li ve-
« dano vechi fano loro uno nido e Ili covano e Ili notrisscano,
« e cavan loro col becho le vechie e trisste penne, e chon cierte
« erbe li rendano la vista, in modo che ritornano in prospertà ».
In una favola di Odo de Ceritonia l'upupa vien descritta come
da Isidoro : « Upupa pulcra, varietate colorum distincta et eximie
«cristata, dixit Philomene... ; que in nidum upupe descendit,
« sed stercora fetencia invenit, quod ibi morari non potuit » (1).
In un commento medievale sulle Metamorfosi di Ovidio tro-
viamo : « Ma perchè Tereo cosi sozzissimo peccato commise,
« però è detto convertito in upupa ovvero lupica, che è un uc-
« cello fetidissimo in ciò che vive di sterco umano » (2). E final-
mente nel Bestiario moralizzato (3) in sonetti dei primi anni
del secolo XIV, si trova questa descrizione:
N° 48. De la lupica.
La luppica bellissima è di fore,
Con belle penne si fa portamento,
De sterco è nata, e in esso vive e more,
De quello cibo piglia nutrimento...
(1) Hervieux, Les fdbulisies latins, voi. IV, p. 213, fab. 4L
(2) Allegorie sopra le « Metamorfosi » di Ovidio, citate nel Dizionario
di Tommaseo e Bellini, s. v. lupica.
(3) Edito da G. Mazzatinti ed E. Monaci, in Rendiconti della E. Accad.
dei Lincei, voi. V, Roma, 1889.
VARIETÀ 371
Ma nello stesso Bestiario (n° 41) un uccello chiamato lampo
(nome che non trovo altrove) ha le proprietà ascritte alla lupica
nel Fiore di virtù'.
Lo lampo è uno ucello divisato,
Nonne conversa nullo a suo paese;
Però de recordare m'è en grato,
Ke la natura sua è molto cortese.
Quando nesciuno n'è tanto envekiato,
Ke non pò guadagnare le sue spese,
Da li parenti sì è bene aitato,
Ke se refresca e revene de palese;
La mala piuma li vano pelando.
Ed altri sono ke l'amantano coU'ale,
E tali ke Hi procaciano la vita,
E retornase commo lo primo anno.
E l'uno amico a l'altro sia cotale,
Se vole ke caritade sia compita.
Non so se questo lampo sia da identificai'si colla lupica', si
vede che quando è vecchio , è aiutato dai « parenti », non già
dai figliuoli. In ogni caso, dopo questa rapida rassegna, riman-
gono evidenti i punti individuali nel capitoletto della lupica nel
cod. Gapponiano.
Kenneth McKenzie.
GLI SDEONI AMOROSI
DI
FRAJSrDAGHL.IA DI VAL DI STURJL.A
Da un MS. DELLA BIBLIOTECA DI RoUEN.
Due sono le ragioni che mi muovono a pubblicare questo sce-
nario inedito. Le commedie dell'arte, quelle soprattutto ch'eb-
bero la ventura di peregrinare fuor dei confini d'Italia, sono pur
sempre note in scarsa misura, e d'altra parte vuoisi conside-
rare il titolo che lo scenario reca in fronte e di cui Le dèpit
mnoureux del Molière pare traduzione. Anche la data del 1651
dà materia ad induzioni ; Le dèpit del Molière è di alcuni anni
posteriore. Aggiungendo il fatto che codesto scenario trovasi in
una biblioteca di Francia, la fantasia del critico può correre
parecchie poste.
Non parliamo tuttavia, e davvero non ce ne duole, di nuove
fonti; di queste, ricercatori eruditi, pazienti e anche maligni
(alludo ai coevi, che per ragioni di professione ce l'avevano
col Molière), n'hanno trovate più che non si colgano funghi,
su pei boschi montanini, dopo le piogge del settembre, sicché
il commediografo francese appare ancora, agli occhi di molta
brava gente, discendente diretto di quella famosa gazza che
aveva usurpate le penne del pavone. Becchi di critici s'agitano
per strapparle. I contemporanei del Molière picchiano, martel-
lano rabbiosamente ; i moderni aguzzan lo sguardo con più garbo,
solleticati solo dal piacere della « trouvaille ». Strillano, i primi,
col marchese Mascarille « au voleur, au voleur » ; i secondi, più
equanimi, poiché i morti e sepolti non possono dar ombra, con-
cedono all'imputato molte attenuanti, purché la refurtiva sia
.sciorinata al sole.
VARIETÀ
373
Come in tante istruttorie giudiziarie, anche qui la pesca dei
gi'anchi e dei granchiolini è ricchissima e divertente. L'errore
più comune, sul quale ho già altra volta richiamata l'attenzione
dei lettori, consiste per l'appunto nello scambiar la fonte con la
propaggine, come chi dicesse il babbo col figlio; i comici del-
l'arte saccheggiano allegramente l'autore del Tartufo e questo
è accusato di saccheggiare i suoi saccheggiatori (1).
La questione del Dèpit rientra in tale ordine di fatti. Tutti
conoscono lo spunto che il Molière trasse dal « Donec gratus eram
tibi » d'Orazio e dall' « Amantium irae amoris integratio » di Te-
renzio, né sono di ieri i rafironti con V Interesse del Secchi (2). Il
Riccoboni, ed altri sulle sue orme, hanno voluto andar più oltre,
asserendo che oltre dìV Interesse ed al resto, il Molière, nel com-
porre il suo Dèpit ^ avesse sott'occhio una commedia dell'arte,
intitolata precisamente Gli sdegni amorosi. L'asserzione non
potrebbe essere più esplicita (3); manca soltanto una piccolis-
sima cosa, la prova cioè che questo canevaccio italiano sia ve-
ramente ispiratore, giacché nulla ci è detto di esso e neppure
un rigo se ne cita. Malgrado questo, l'accusa di plagio passa di
bocca in bocca e di penna in penna, acquistando autorità dai molti
che la ripetono. Alza, alfine, il Cailhava un lembo del velo e
messa la mano nel sacco di Scappino, ne trae Gli sdegni amo-
rosi ou les dèpits amour eux^ canevas en trois actes. Ecco il
documento sicuro, indiscutibile dell' imitazione molieresca e il
Cailhava fa la voce grossa e more solito i critici posteriori ri-
petono, affermano. Ora, tutta questa grande somiglianza non è
che opera della fantasia del Cailhava.
(1) Cfr. quanto dico in proposito nel mio studio Molière et sa fortune en
Italie, pp. 240 sgg. e per le fonti del Dépit, pp. 28-35.
(2) D'altre fonti si fa parola, fra l'altro, nel primo voi. delle opere del Mo-
lière, ediz. Despois dei Grands écrivains de ki France, voi. I, pp. 382 sgg.
(3) « Molière... imita son Dépit amoiireux de deux pièces italiennes, l'une
« intitulée L'interesse de Nicolò Secchi, l'autre d'un ancien canevas ou farce,
« jouée à l'impromptu et qui a pour titre Gli sdegni amorosi ». Vedi Obser-
vations sur la comédie et sur le genie de Molière ecc., p. 146. Cfr. inoltre
quanto lo stesso Eiccoboni aggiunge nella Histoire du theàtre italien depuis
la de'cadence de la come'die latine, ed. 1731, II, p. 218. Nulla trovasi al ri-
guardo negli scritti dei Parpaict {Dictiomiaire ; Histoire de V ancien theàtre
italien), i quali indicano solo che il Dépit del Molière fu rappresentato nel
dicembre 1658.
374
P. TOLDO
L' « argomento », riferito in extenso, offre scarsissima analogia
col molieresco e certa scena pur riferita per intiero e di cui
dovrebbe essere calco la terza del IV atto del Bèpit, questa non
ricorda che per il motto finale, il quale, analizzato attentamente,
significa poi ben altra cosa (1). Su questi bei fondamenti il cri-
(1) Perchè la dimostrazione sia evidente e perchè il testo del Cailhava è
poco accessibile, riferisco la scena per intiero:
Flaminio, Diana.
Diana (à part). — . . . mais si je ne l'ócoute point, je lui paraìtrai injuste, et je veux
le oonfondre.
Flaminio. — Avez-vous fini ?
Diana. - Je n'ai pas encore commeucé, jngez si j'ai fini.
Flaminio. — Écoutez-moi, ou je sors.
Diana. — He bien ! cesse-t-il de m'irriter!
Flaminio. — Oh ! vous feignez d'étre irritée ; vous avez trop bien pris vos mesures
pour Tètre réellement.
Diana. — Vous ne pouvez pas en juger, parce que l'amotir que vous avez pour
Béatrix vous aveugle sur le mien.
Flaminio. — Il ne m'aveugle pas si fort que je ne voie aveo peine votre ingrati-
tude. J'ai dans mes mains la lettre que vous avez éerite à Silvio. Le voilà, ce
témoin de votre trahison.
Diana. — J'ai éorit cette lettre, il est vrai, mais
Flaminio (l'interrompant). — Qu'est-ce ? que pouvez-vous dire ? Avouez votre per-
fidie. Oserez-vous encore vous dire innocente?
Diana. — Laissez-moi du moins finir ce que j'ai à vous dire, et vous me eon-
damnerez ensuite si je le mérite.
Flaminio. — Non, il n'est pas besoin de grandes réflexions quand la chose est
evidente.
Diana. — C'est vous qui me faites une perfidie très evidente, lorsque, charme des
beautés de Béatrix, vous renoncez à mon amour, pour devenir son époux.
Flaminio. — J'ai conserve mon amour pour vous tant que vous m'avez conserve
la foi que vous m'aviez promise ; à présent que vous manquez à votre parole,
il m'est permis d'épouser qui bon me semble.
Diana. — He bien ! restez dans votre erreur, puisque vous ne voulez pas écouter
ce qui peut me justifier. . . mais non; admirez jusqu'où je pousse ma bontó
pour vous, quoique vous en soyez indigne. Écoutez-moi du moins ; je vous le
demande au nom de notre ancienne tendresse, puisque vous voulez qu'elle
finisse ; apprenez ce que je dis pour ma défense. . . Vous étes bien inhumain si
vous me refusez cette gràoe.
Flaminio. — Parlez, mais abrégez.
Diana. — Que le Ciel soit loué !. . . Apprenez que je n'ai éorit à Silvio que pour
me conserver à vous en diflfórant cet hymen funeste auquel mon pére vouloit
me forcer; mais j'étois résolue à mourir avant de le terminer. J'en prends à
témoin tous les Dieux du Ciel, mon amour, mon innocence, et vous qui ré-
pondez à ma tendresse aussi vive avec la plus grande ingratitude. Mon cher
Flaminio, trop injuste Flaminio, donnez-moi la mort pour me punir des torta
que vous me supposez, ou rendez-moi votre amour eu récompense de la foi
que je vous ai conservóe.
Flamiitio. — En voilà suffisamment, ma chère Diana, en voilà suffisamment. je
T ARIETI 375
tico dichiara : « Les scènes du dépit entre Éraste et Lucile sont
« prises dans une comédie italienne intitulée Gli sdegni amo-
« rosi », e più lungi : « Les scènes dans lesquelles Marinette et
« Gros René parodient leurs maìtres, sont tirées de la mème
« pièce italienne ». Per lui la dimostrazione « crève les yeux » (i)
e s'aggiunga che la famosa scena è dal Cailhava volta in fran-
cese, sicché citandola ad orecchio e rimaneggiandola nella sua
lingua, egli poteva adattarla alla dimostrazione della propria tesi.
È noto l'umor « accomodante » dei critici di quel tempo e non
di quel tempo soltanto.
Grli Sdegni amorosi che pubblico oggi, comunicatimi dalla
cortesia dell'egregio collega prof. Emilio Tron, provano ancor
meglio l'inanità di certe pretese origini (2). Constatiamo subito
oonnais que je suis le seul coupable ; et pour vous avoir cru infidèle, j'avois
feint d'aimer une autre personne ; mais cette feinte ne m'a été dictée que par
la vengeance, mon cceur n'y a pas eu la moindre part.
Diana. — Je mets tout sur le compte de quelques fausses apparences auxquelles
vous avez ajouté foi trop légèrement. Je vous ordonne. pour votre pénitence,
de m'aimer autaut que je le inerite ; et puisque mon péro est sorti, ramenez-moi
dans ma ìnaùon ; nous chercherons ensemble les moyens de nous unir bientót.
Flaminio. — Je me félioite de mon erreur, puisqu'elle me fait connoìtre la pureté
et la vivacité de votre amour.
Tirate le somme, la scena molieresca e questa sono così diverse che ben si
concepiscono indipendenti l'una dall'altra; qui Diana fa i primi passi, si scusa,
chiede perdono ed amore e come è ra^onevole, almeno in teatro, Flaminio
riconosce i propri errori e s'intenerisce alla sua volta. La Lucile del Molière
fa invece i capriccetti (IV, 3) ed è l'amante Eraste che fa « les avances ». La
simiglianza di certa espressione dello scenario « ramenez-moi dans ma maison ;
« nous chercherons ensemble ecc. » ha ben poca relazione col « ramenez-moi
chez nous » di Lucile, in quanto che il motto di quest'ultima altro non è
che un modo indiretto e ben femminile per far capire come essa sia disposta
al perdono. Tutti i particolari più notevoli della scena del Dépit, quello so-
vrattutto della restituzione dei doni e della parodia dei servi, non trovansi
nel testo italiano.
(1) Cfr. De Vari de la comédie, cit. a pp. 24 e 35.
(2) Il nostro ms. è indicato a pp. 179-180 del voi. Ili {h^ degU Indici é
Cataloghi) dei Manoscritti italiani delle biblioteche di Francia e il Mazza-
tinti scrive:
[Bibl. di Rouen. Fondo Coquebert de Mbntbret] : 10 (sec. X\ai)
« Gli sdegni amorosi, burletta di comedia [all' improvviso, per S. Frandaglia
« da Val di Sturla. 25 novembre 1651 ».
Il ms., catalogato alla bibl. di Eouen col n» 667, è scritto in 16 pp., ed alla
376 P. TOLDO
che fra l'opera del Frandaglia e quella citata dal Gailhava cor-
rono stretti vincoli. Si confrontino gli argomenti. « Diana », ri-
ferisce il Gailhava, « voulant conserver sa main a Flaminio, a
« écrit a Silvio, à qui on la destine , pour le prier de dififérer
« le mariage. Flaminio enlève cette lettre a Arlequin, de\dent
« jaloux, et feint de s'attacher à Béatrix pour se venger de celle
« qu'il croit infidèle. Diana et Flaminio sont dans cette situation,
« quand ils se rencontrent ; Famant veut parler, l'amante l' in-
« terrompt a plusieurs reprises ». Tale è pure la trama su cui
svolgesi la commedia del Frandaglia; identicità dunque d'in-
trighi, di equivoci e delle « amantium irae ». Identici pure il
sequestro della lettera al servo gonzo e i contrasti fra gli amori
dei padroni e quelli degli zanni e chi sa quali altre simiglianze
potevano balzar fuori dalle scene appena abbozzate del cane-
vaccio! Insomma, tutti questi Sdegni riferiti dal Riccoboni e
dal Gailhava o composti da messer Frandaglia e compagnia sono
su per giù la stessa cosa e secondo ogni probabilità risalgono
ad uno scenario prototipo. Le contese degli amanti e il loro rap-
pacificarsi danno grazia al teatro comico e rappresentano quindi
uno degli argomenti più diffusi, anzi si può dire che se ci fosse
accordo perfetto fra gli amanti più che metà delle produzioni
non reggerebbero in piedi. Quanto a Molière, può darsi anche
che qualcosa di questo genere abbia udito di nostro e rimaneg-
giato da pari suo, ma tanto valeva che aprisse la finestra e
guardasse nella via, che l'ispirazione di qui tratta non è, in al-
cuna guisa, sensibile, ne offre linee particolari. Poco monta d'al-
tronde la trama; quello che importa è la finezza e la bontà del
tessuto.
Cosi sfatata ancora una volta, sino a prova più convincente,
la leggenda di Molière scolaro di Scaramuccia, resta a dire qual-
« burletta » seguono alcune « Dichiarationi et instrutioni d'alcune scene » che
non aggiungono cosa notevole all'intreccio. Poi una lettera « All'assai messer
Garauglia » datata da « Val di Sturla li 25 novbre 1651 » e firmata « Fran-
daglia di Val di Sturla » , il quale vi si rivela autore dello scenario da lui in-
titolato « burletta di comedia ». Chi sieno i due corrispondenti ignoro. Segue
in fine La finta rapita, vera commedia sceneggiata dello stesso autore e de-
dicata parimenti « all'assai messere Garauglia della Gorgona, recitata al sere-
« nissimo Senato di S, Marino dalli antichissimi fratelli della compagnia de'
« Rovinati, 1651 ».
VARIETÀ 377
cosa dell'opera del Frandaglia, considerata in sé, nei suoi pregi
0 meglio nei suoi difetti. Anche ammessa in larga misura l'arte
vivificatrice del dialogo, bisogna pur riconoscere che questo
scheletro non lascia supporre venustà di corpo. La scena è nuda,
semplicissima, il che sarebbe un pregio se la nudità rivelasse
grazie di forme. Sono due case e una piazza ove le maschere
s'incontrano, garriscono, fanno lazzi e rivelano i loro segreti in
soliloqui cosi misteriosi che tutti li intendono, quelli special-
mente che non dovrebbero saperne nulla. L'argomento serve di
pretesto agli esercizi funambulistici e mimici degli attori. Quanto
al luogo dell'azione, più ampia libertà non si potrebbe deside-
rare: «(essa) si vuol fingere in qual si voglia luogo o città,
« secondo il gusto di quelli che reciteranno », ed è in tal modo
che la scena dell'arte italiana s'adatta facilmente ai più lontani
paesi.
Qui, fra le maschere antiche, quelle, per es., del repertorio
di Flaminio Scala, Pantalone, Graziano, Isabella e via dicendo,
spunta l'adunco naso di Pulcinella e Coviello dimena i rapaci
artigli; il povero Arlecchino, già deus ex machina d'ogni in-
trigo, non esce, pel momento, dalle quinte.
Peggior genia di questi zanni non si potrebbe trovare, ma
son pur sempre i difetti della razza esposti precedentemente
dalla commedia erudita e popolare. Il servo è vile, ladro, mez-
zano e peggio ed è in questo classicissimo e classicissimo è pure
nell'arte di drizzar trappole, sciogliere situazioni imbrogliate e
spillar quattrini a destra ed a manca. Di nuovo trovi tuttavia
maggiore libertà di mosse ; col padrone, Coviello prende licenze
ignote alla « verberea statua » del teatro plautino. Ci tiene lo
zanni al suo posto e più ai dolci ozi, ma già tanto sa di non
aver da temere né corda, né sferza. Se cosi si stilla il cervello,
gli è un po' per amor proprio e un poco anche per formarsi,
come oggi si dice, una posizione; dopo aver concluso il matri-
monio del padroncino, concluderà il proprio. « Qui de gladio ferit,
de gladio perit ». Le sue bricconate non gli contendono, del resto,
le simpatie del pubblico, non solo perché nel pubblico trovansi
quelli che di bricconate fanno tesoro, ma anche pel buon fine cui
mira e pel lieto fine che impone alla cojamedia. E poi come non
interessarsi a quella lotta dell'astuzia con la forza, l'eterna storia
del « renard » popolare, a quelle cadute subito seguite da mera-
vigliose vittorie? Voi credete Coviello per sempre perduto ed
eccolo alla ribalta, ilare, trionfante, fiancheggiato dagli amanti
378 P. TOLDO
che ha reso lelici e facendo sberrettate al pubblico. E il pub-
blico deve naturalmente applaudire.
Il povero Pulcinella è invece in piena decadenza. Mai l'ab-
biamo visto cosi melenso, neppur quando cavalcava l'asino dalla
parte della coda. Il disgraziato viene di lontano, dal mezzodì
senza dubbio, rifinito, affamato, pezzente. Assunto servitore per
compassione, se e gli altri inganna e s'impiglia in tutte le panie
che l'allegro compare gli tende. Allora s'arrabbia, schizza ve-
leno, minaccia. Nelle sue vendette, non potrebbe mostrarsi più
grossolanamente screanzato. Veggasi questa : Isabella e Violetta,
che ne sono stufe, lo picchiano e lo scacciano. Allora (verba
non rubescunt) Pulcinella « si slaccia i calzoni per e su la
porta ». Violetta non si confonde per cosi poco, e messa mano
a certa stoppa, gliela attacca alla camicia « et li dà fuoco et esso
se ne parte fuggendo ». Bello, edificante spettacolo pel gentil
sesso d'Italia e di Francia!
Come il senex della commedia classica, il dottor Graziano e
messer Pantalone hanno grinze nel volto e nell'anima e s'im-
pantanano in ogni vizio. Graziano fa pancia e tasca della roba
dei clienti ; Pantalone pretende che i suoi figli si sposino come
vuole lui e che facciano presto perchè Violetta gli piace e in-
tende condursela in casa e « pigliarsi ancor lui i suoi spassi »
senza soggezione alcuna. E qui Frandaglia cade poi in luoghi
comunissimi. Pantalone innamorato chiede aiuto a Coviello, ma
anche Pulcinella è innamorato e per aiuto pure a Coviello si
rivolge. Questi ride e fa lazzi. A Pulcinella consiglia di vestirsi
da donna ed a Pantalone di venir di notte sulla piazzetta. Cosi
fanno, ed egli li mette assieme e li spinge in casa. La disillu-
sione d'entrambi, che rientrano in scena svestiti e raccontano
i loro guai, rallegra Coviello ed il pubblico e contribuisce an-
ch'essa alla educazione morale. È la stessa avventura che si ri-
pete in infinite novelle e farse.
Reca l'albero rami di simigliahte natura e ben si capisce che
scuola sia questa di riverenza e di costumatezza pei figli. At-
tendono costoro a godersela in vani spassi ed amori e gettano
ai quattro venti la fortuna accumulata dalla paterna avarizia.
Volete una prova di rispetto filiale ? Ecco Lelio che si presenta
a Pantalone e questo prega di benedirlo. Pantalone acconsente
e Lelio prorompe in una risata. S'è fatto benedire soltanto per
aver fortuna al gioco ; del resto, della benedizione paterna se ne
ride e glielo dice in faccia. Né mancano le lezioni di modestia alle
VARIETÀ 379
ragazze. Isabella ascolta alfine i sospiri di Lelio e d'accordo con
Coviello concede all'innamorato un convegno notturno. Le pa-
role d'ordine per introdurlo in casa sono di per sé al)bastanza
significative. Lelio « dice porta ; essa risponde aperta... Lelio
« dice ì)Otte, essa li risponde con la cannella. Coviello li dice
« che vada a mettere la cannella alla botte » ; e parmi inutile
aggiungere quei chiarimenti di cui Coviello doveva certamente
gratificare gli uditori.
È cosi, che anche sotto tale rispetto, la commedia del Molière
segna notevoli progressi; nulla d'umano è taciuto, ma davanti
ai grandi caratteri ed ai vigorosi sdegni, sfumano, scompaiono
gli intrighi e i motti salaci di Sganarello e di Scappino e l'ir-
riverenza dei figli d'Arpagone; ciò che era fine diventa mezzo
e da quell'arte affogata nel sudiciume zannesco spuntano fiori e
maturano frutti squisiti.
Pietro Toldo.
GLI SDEGNI AMOROSI
Burletta di Commedia ai-l'Inproa^is
Interlocutori.
\. Pantalone
2. Graziano
3. Coviello, servo di Pantalone
4. Isabella, figlia di Graziano
5. Leonora, figlia di Graziano (non comparisce)
6. Lelio, figlio di Pantalone
7. Silvio, figlio di Pantalone (non comparisce)
8. Violetta, serva d'Isabella
9. Pulcinella, servo d'Isabella.
Prima casa.
Gratiano, Isabella, Leonora figlie; Violetta et Pulcinella servi.
Seconda casa.^
Pantalone; Lelio, Silvio figli; Coviello servo.
Fuor di scena.
Il priore della comunità.
380 P. TOLDO
Cose necessarie.
Una veste da donna per Pulcinella; fuoco et stoppa per fare la burla al
medesimo Pulcinella.
La scena si puoi fingere in qual si voglia luogo o città, secondo il gusto di
quelli che reciteranno.
ATTO PFIIMO
SCENA I.
Graziano et Pantalone.
Escono discorrendo de proprij interessi; Pantalone si lamenta d'aver per
figlio Lelio assai discolo; Graziano dice d'esser disperato non sapendo come
farsi a maritar Leonora sua figlia, stante la sua bruttezza per la quale è ne-
cessitato a farla star in villa; onde s'accordan insieme di maritar con Lelio
Leonora et con Silvio Isabella, s'accordan di ritrovarsi assieme, et Gratiano
parte per andar ad agitar non so che lite. Kesta Pantalone rallegrandosi di
aver aggiustato questo negozio, et poi parte per Piazza.
SCENA n.
Lelio et Coviello.
Lelio narra i suoi amori a Coviello et esso finge non intenderlo, sopra di
che scherzano; alla fine Lelio dice esser innamorato d'Isabella et Coviello si
dichiara amante di Violetta; batte Coviello alla casa d'Isabella acciò Lelio
li parli et lui possa discorrere con Violetta.
SCENA m.
Li sopradetti, Isabella et Violetta.
Violetta risponde, et poi va alla porta, Coviello li parla amorosamente, poi
lo lascia dicendo che così gli ha ordinato la padrona per causa di Lelio col
quale è in collera ; Coviello dice il tutto a Lelio, quale va in persona a parlar
a Violetta pregandola a chiamar Isabella : ella doppo molte repulse lo chiama.
Isabella vien fuora et domanda perchè l'ha chiamata et sentito ciò esser per
causa di Lelio la batte ; Lelio s'accosta per parlarli et è da lei scacciato, quale
si parte con Violetta ; resta Lelio lamentandosi ; Coviello lo consola, et l'esorta
a finger di non amarla; esso vi consente, et partono.
SCENA IV.
Pulcinella da pezzente.
Pulcinella esce lamentandosi di sua mala fortuna, deve morirsi di fame et
cerca padrone; in questo mentre
VARIETÀ 381
SCENA V.
Isabella, Violetta ; et Pulcinella.
che Pulcinella discorre, esce fuor Isabella dicendo a Violetta che li pareva di
aver fatto bene a discacciar Lelio acciò inparassi per l'avenire ad esser fedele ;
Pulcinella li vede et li va a domandar limosina; fanno diversi discorsi; alla
fine Isabella lo piglia servitore, et si partono.
SCENA VI.
Graziano, Pantalone, Isabella et Violetta.
Ritorna Graziano dalla sua lite; et dice d'aver fatto stipular il contratto
per la dote et che vuol trovar Pantalone per leggerlilo : in questo esce Pan-
talone, si salutano et Graziano li dice d'aver fatto il contratto di propria
mano ; et poi chiama Isabella sua figlia dicendoli d'averla maritata con Silvio
figlio del sig.'"^ Pantalone; quella dice non volerlo; in questo esce Lelio et
si pone ad ascoltar il tutto ; Isabella lo vede, et si fanno assieme molti cenni
sdegnosi con minacciarsi; vedendo ciò Pantalone, né sapendo a chi Isabella
facessi quei cenni, comincia a gridare che l'è spiritata, et che non vuol più
che il parentado vada avanti per che non vuol spiritati per casa. Graziano
dice non esser ciò vero, onde s'aggiustano; et Isabella et Violetta entrano in
casa per comandamento del Graziano ; et esso si parte per piazza a far provi-
sione ; resta Pantalone dicendo essersi innamorato di Violetta et che vuol ten-
tare (accomodati i figli) di pigliarsi ancor lui i suoi spassi.
SCENA VII.
CoviELLo et Violetta.
Coviello fantastica sopra la repulsa avuta da Violetta, vuol chiarirsi se ella
l'ami 0 no, onde batte alla sua porta; essa vien fuora et comincia a bravarlo,
esso li dice che se seguitare a star così cruda con lui lo sforzerà ad uccidersi,
essa, acciò s'uccida, li porta una spada. Coviello fa un lamento et poi finge
ammazzarsi ; ciò credendo Violetta esce a piangerlo ; et nel dire che gl'aveva
apparecchiato un buon piatto di maccheroni, s'alza Coviello in furia et ab-
bracciandola entrano.
ATTO SECONDO
SCENA I.
Isabella, Violetta et Bblcinella.
Esce Isabella dicendo di voler dare ogni sorte di martello à LeUo et però
dice aver scritta una lettera a Silvio acciò venghi da lei; fa chiamar Pulci-
nella quale finge dormire; alla fine esce mezzo dormiglioso. Isabella li dice
382 P. TOLDO
che li porti quella lettera et esso risponde che non vuol far il rufiano; alla
fine si contenta et loro li dicono che l'acconpagni al giardino ; et partono.
SCENA n.
Lelio, Coviello et Pulcinella.
Lelio si lamenta d'isahella, Coviello dice che è stato con Violetta et che
è poi uscito per la porta falsa; in questo esce Pulcinella con la lettera, di-
cendo che il desiderio di servir la sua padrona l'ha fatto tornar in dietro et
che la padrona per non so che negozij se n'è tornata a casa per la porta falsa.
Coviello con astuzia li leva la lettera ; nel che scherzano insieme ; et alla fine
Pulcinella parte. In questo esce Pantalone; et Lelio e Coviello si ritirano;
resta però Lelio in modo che da Pantalone è visto.
SCENA m.
Pantalone, Lelio ; Isabella dalla porta osservando.
Tratta Pantalone con Lelio dicendoli che l'ha sposato con Leonora, queUo
dice non volerla; in questo volendo uscir Isabella di casa, vedendo questi si
ferma su la porta ad ascoltarli, et vedendola Lelio per farli dispetto dice di
contentarsi ; essa si ritira restando Pantalone et Lelio litigando perchè Lelio
appena visto partire Isabella dice di non voler più Leonora; parte alla fine
Lelio, resta Pantalone maledicendolo; in questo ritorna Lelio, scherzano, ed
alla fine scuopre a Pantalone la causa perchè è tornato, cioè per farsi ribe-
nedire acciò giocando non perda, et ribenedetto se ne parte ridendo. Resta
Pantalone in collera, pure alla fine si dà pace, considerando che di tutto questo
n'è causa amore per il quale ancor lui benché, vecchio perde il cervello.
SCENA IV.
Coviello et Pantalone.
In questo esce Coviello raccontando la gloria del' (sic) anima sua Violetta.
Pantalone lo vede ; et lo grida perchè non si lasci mai vedere ; et poi li chiede
aiuto nell'amor suo con Violetta. Coviello dice di volerlo burlare et li pro-
mette servirlo dopo di aver con Violetta familiarità però che si lasci vedere
a 2 ore di notte; et sentendo dire ostriche di bucazzo risponda cappe lunghe;
et cappe tonde ; che così sarà introdotto, ed in questo Pantalone se ne parte
tutto allegro.
SCENA V.
Coviello, Pulcinella, Isabella et Lelio da parte.
Resta Coviello burlandosi dell'amor di Pantalone, in questo esce Pulcinella
dicendo che amore li ha smagherato per una serva di Pantalone et che aven-
d'animo di sposarla, vorria di ciò scriverne una lettera a sua madre, et ve-
VARIETÀ 383
dendo Coviello lo prega a farli questo servizio ; scherzano nel trovar modo da
scriverla ; alla fine trovanlo ; passa per la scena Lelio, quale vedendo Isabella
alla finestra l'ingiuria ; et essa lui ; et Coviello pensando che fosse Pulcinella
quello che parlava scrive nella lettera tutte quelle ingiurie et finito di scri-
verla la legge; onde esso è (sic) Pulcinella ne vengono alle mani; doppo si
pacificano ; et Pulcinella li scuopre il suo amore ; et Coviello dice volerlo aiu-
tare, onde venga a 2 hore di notte ; ma che per non esser conosciuto si vesta
da donna ; et questo però li lo dice nell'orecchio ; poi diceli forte che quando
sentirà dire pignatte maritato risponda con la pettorina ; Coviella si parte ;
et resta Pulcinella sopra ciò discorrendo.
SCENA VI.
Pulcinella, Isabella et Violetta.
Mentre discorre Pulcinella, esce Isabella et Violetta et li domandano se ha
fatto quel servizio; esso scherza, alla fine li dicono se ha portata la lettera;
e scoperto aver fatto il contrario ne vien battuto, et poi quelle entrano in
casa; resta Pulcinella piangendo; et volendosi vendicare si slaccia i calzoni
per cacarli su la porta, et dice Violetta di dentro (Si è aspetta) gli attacca
alla camicia della stoppa, et li da fuoco et esso se ne parte fuggendo.
ATTO TBIiZO
SCENA I.
Isabella et Violetta.
Esce Isabella dei suoi successi amorosi querelandosi et mentre quasi dispe-
rata sta per tramortire esce Violetta a soccorrerla ; quella per un poco resta
svenuta nelle sue braccia, alla fine ritorna ; et Violetta la consola et conduce
in casa dicendo che non vuol gl'avenga qualche male in strada; et così partono.
SCENA n.
Coviello et Pulcinella.
Coviello dice voler tentar tutte le strade acciò Lelio abbi il possesso d'Isa-
bella; in questo esce Pulcinella con un bastone per bastonar Coviello per la
burla fattali, scherzano sopra il bastone ; et Pulcinella alla fine parte ringra-
ziando Coviello et dicendoli s'arricordi del suo servizio. Resta Coviello.
SCENA HL
Coviello et Lelio.
Mentre Coviello si Imrla di Pulcinella, esce Ldio dicendo esserli impossibile
il poter più vivere et fingendosi disperato mette mano alla spada per ucci-
dersi. Coviello che fin allora era stato a vedere, corre a soccorrerlo et per con-
solarlo li promette il possesso d'Isabella et perciò batte alla sua porta.
384 P. TOLDO
SCENA IV.
Lì sopradetti et Isabella.
Eisponde Isabella di casa poi vien alla porta; et grida Coviello; alla fine
li domanda che vuole, quello li dice che Lelio li vuol parlare, lei non ne vuol
saper niente; pure alla fine si contenta ma non vuol vederl'in faccia; si volta
Coviello facendo cenno a Lelio ch'il partito è vinto ; alla fine li fa pacificare
et si danno la posta per le 3 hore di notte; con il segno porta] quella ri-
sponde aperta ; et sentendo dir botte Isabella risponde coìi la cannella. Lelio
si parte contento, Isabella entra in casa, et Coviello si parte.
SCENA V.
Graziano solo.
Esce Graziano arrabbiato dicendo di voler più tosto dar la figlia al boia
che al figlio di Pantalone, perchè questo si va vantando di mille spropositi
per le barberie et che non vuol matti in casa essendo lui dottor qualificato
et poi parte per andar a cercar di Pantalone.
SCENA VI.
Coviello, Pantalone et Pulcinella.
Esce Coviello dicendo che già saranno vicine le 2 hore et che non potranno
stare i merlotti a venire ; in questo esce Pantalone ringraziando le 3 hore et
sentito da Coviello dà il segno ; et lo fa aspettar da una parte ; in questo esce
Pulcinella vestito da donna, fa l'istesso; et Coviello lo dà per mano a Pan-,
talone et questi se n'entrano; resta in scena Coviello.
SCENA vn.
Coviello ; Lelio et Isabella in casa.
Discorre Coviello sopra il desiderio che ha che Lelio venga ; in questo quello
viene ; s'incontrano et lo fa ritirare poi s'accosta alla porta d'Isabella dicendo
porta, essa risponde apeHa] fa poi accostar Lelio quale dice botte, essa li
risponde con la cannella. Coviello li dice che vada a metterla la cannella alla
botte dicendo che sarà poi pensier suo far in modo ch'i padri ancora di tal
matrimonio si contentino; et parte.
SCENA vm.
Pantalone et Pulcinella da donna.
Esce Pantalone col lume mezzo spogliato dicendo di aver trovato in cambio
di Violetta il diavolo et Pulcinella dice di aver trovo (sic) in vece di Vio-
letta Caronte. Si scuoprono finalmente et Pantalone vuol battere Pulcinella
perchè l'abbi voluto burlare ; Pulcinella fugge, et Pantalone parte per vestirsi.
VAKIETÀ 385
SCENA IX.
Graziano solo.
Esce Graziano et dice che cerca Pantalone, et dicendo non l'hanno mai
trovato fìngendosi stracco se n'entra in casa per riposare.
SCENA X.
Tutti assieme.
Esce Pantalone dicendo voler gastigar Coviello per la burla fattali, in questo
esce Graziano gridando et tenendo la figlia per un braccio, dicendoli villania
per averla trovata in casa con Lelio quale esce dietro ancor lui con Graziano ;
lo minaccia. Pantalone s'accosta per intender quello che passa; et visto da
Graziano cominciano a gridar assieme ; in questo Lelio scusandosi et cercando
perdono da Graziano, esce Coviello, il quale visto da Pantalone questo vuol
cominciar a bravarlo et darli, si per la burla fattali, come anco perchè lui
abbi maneggiato tutti quelli imbrogli ; Coviello si butta in ginocchioni et in
questo esce il priore della comunità, quello mostrasi in mezzo scherzando ag-
giusta il tutto dicendo ch'i matrimonij consumati se non si perfectionano si
cade in pena di 200 scudi, onde Graziano si contenta di dare Isabella a Lelio
et Leonora a Silvio; Coviello si fa avanti dicendo che esso pure ha consu-
mato con Violetta onde l'ottiene, vanno tutti in casa di Graziano per far le
nozze, et esso resta a ringraziar l'audienza.
FINE
Giornale storico, LXIV, fase. 192. 25
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
KONRAD BURDACH und PAUL PIUR. — Briefwechsel des
Cola dì Rienzo. Kritischer Text, Lesarten und Anmer-
kungen; — Anhang, Urkundliche Quellen zur Geschichte
Rienzos. — Berlin, Weidmannsche Buchhandlung . 1912
(S'' gr., pp. 471 e 353).
Mentre l'Istituto storico italiano si cullava nella speranza di accingersi, una
volta 0 l'altra, ad una nuova edizione dell'epistolario di Cola di Eienzo, della
quale si sentiva veramente il bisogno dopo quella del Gabrielli (1), l'Acca-
demia delle scienze di Berlino affidava a due valentissimi studiosi, il Burdacli
ed il Piur, l'incarico di ripubblicar le lettere del tribuno di Roma e di rac-
cogliere tutti i documenti contemporanei che ne illustrassero la storia. E bi-
sogna dire che il difficile compito è stato egregiamente adempiuto. Nella terza
e quarta parte (2) del secondo volume dell'opera, che ha per titolo Vom Mii-
telàlter zur Beformation, il Burdach ed il Piur han raccolto le epistole di
Cola di Rienzo e dei suoi corrispondenti (Parte IH) e le fonti documentarie
che gli si riferiscono (Parte IV). L'edizione del Gabrielli, com'è noto, conte-
neva soltanto le epistole di Cola e pochissimi altri documenti, pubblicati,
ohimè!, in un modo che tradiva la giovanile inesperienza dell'autore, ed ebbe
critiche severe. E tuttavia l'edizione del Gabrielli, nella quale ai quarantadue
testi che si erano venuti raccogliendo dai primi del Cinquecento alla seconda
metà del secolo decimonono, erano stati aggiunti, per merito dell'editore, do-
(1) Annibale Gabrielli, Epistolario di Cola di Rienzo, tra le Fonti per la storia
d'Italia pubblicate dall'Istituto storico italiano, Roma, 1890. Cfr. Gìorn., XVI, 401.
(2) La prima parte del volume contiene un'opera del Burdach col titolo Rienzo
und die geistige Wandhing seiner Zeit. Di quest'opera è stata pubblicata fin ora sol-
tanto la prima metà fino a p. 368, alla quale sono state aggiunte quattro pagine
di Beilage con un « Nachtrag zu Teil 8 und 4 ». Appena sarà pubblicata la seconda
metà di quest'opera importantissima, se ne parlerà in questo Oiorndle. — La se-
conda parte del volume conterrà la descrizione dei manoscritti ; la quinta il com-
mento storico e letterario alle epistole di Cola ed un glossario.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 387
dici nuovi documenti, fu utile e gradita agli studiosi, i quali ebbero così per
la prima volta riunite le lettere di Cola, prima sparsamente pubblicate. Ma,
deposta sul volume del Gabrielli, ormai chiuso per sempre, questa lode, dob-
biamo render grazie all'Accademia delle scienze di Berlino che ci permette ora
di studiare sotto tutti gli aspetti il pensiero e l'opera di Cola di Rienzo, la
cui figura grandeggia accanto alle maggiori della storia italiana del Medioevo.
Singolare destino quello di Cola ! Eccitò in vita gli odi più aspri ed i più
caldi entusiasmi, dei quali risentiamo l'eco, se non nella canzone « Spirto gentil »,
nelle iperboli sonore delle lettere del Petrarca. Ed anche oggi fi-a Gabriele
D'Annunzio che in una biografia di Cola, scolpita in una delle sue prose mi-
gliori senza lo scrupolo della realtà esatta, lo rappresenta come un giuntatore
che per alcun tempo riuscì a ciurmare il mondo (1), ed il Burdach che quasi
lo riavvicina, per alcuni rispetti, a Dante (2), Cola di Rienzo ondeggia tra
la satira ed il panegirico. Onde tornano alla memoria le parole che il 29 no-
vembre del 1347 il Petrarca scriveva al tribuno, scongiurando di sottrarlo alla
dura necessità « ne lyricus apparatus tuarum laudum desinere cogatur
« in satiram » (3).
Per lo studio completo del pensiero e dell'opera di Cola fu perciò sapiente
consiglio pubblicare insieme con le epistole del tribuno quelle dei suoi cor-
rispondenti e specialmente quelle del Petrarca, le quali ci offrono già un pic-
colo ed eccellente saggio di quello che sarà la futura edizione (nazionale, o
dell'Accademia di Berlino?) dell'epistolario del Petrarca (4). Ed in questo,
oltre che nella incomparabile superiorità tecnica sul Gabrielli, sta il merito
principale della nuova edizione. Perchè, a dire il vero, di lettere di Cola di
Rienzo del tutto inedite la nuova edizione non ne aggiungerebbe che cinque.
La prima, sarebbe una lettera degli ambasciatori inviati dal Senato romano
in Avignone, con la quale essi, il 28 gennaio del 1343, annunziavano ai Ro-
mani la promulgazione del nuovo giubileo. Questa lettera, secondo il Burda<;h
ed il Piur, è stata scritta da Cola di Rienzo (I, 1). Abbiamo poi una breve
lettera, diretta da Rienzo a Giovanni von Neumarkt nel 1351 (I, n. 68).
Egualmente inedite erano una letterina ad un ignoto (I, n. 72), un'altra in-
viata da Avignone al doge Andrea Dandolo nel 1353 (1, n. 75) ed infine una
assai notevole, diretta a Carlo IV nel 1354 (I, n. 80). Sono state poi qui per
la prima volta pubblicate due lettere a Cola di Giovanni von Neumarkt
del 1351 e del 1353 (I, nn. 69. 76) e quattro mandati di Clemente VI di scarso
(1) G-ABRiELE D' Annunzio, Vite di uomini ilhtstri e di uomini oscuri. La vita di Cola
di Rienzo, Milano, Treves, 1913.
(2) Burdach, Rienzo und die geistige Wa7idlung, in molti luoghi.
(3) BuBDACH-PiUR, I, p. 183. Per maggior comoditi numero con I la terza parte
e con II la quarta parte.
(4) Com'è noto, l'Accademia di Berlino si propone di pubblicare il carteggio dei
Petrarca con i suoi corrispondenti di nazione tedesca. Inoltre il dott. Piur pubbli-
cherà prossimamente nella biblioteca dell'Istituto storico Prussiano di Roma l'edi-
zione critica delle S'ine titillo.
388 IIASSEGNA BIBLIOGRAFICA
valore, due dei quali erano già in parte noti dai transunti che ne aveva pub-
blicati il Werunsk}'.
Ma dallo scarso manipolo di lettere che la diligenza degli editori ha aggiunto
a quelle già note del tribuno, bisogna sottrarne una, la prima che non è ine-
dita, nò fu scritta da Cola di Eienzo. Essa era già stata additata e pubbli-
cata in parte dal prof. Giacomo Lumbroso nelle sue Lezioni Universitarie (1)
di su lo stesso codice della Biblioteca Nazionale di Torino dal quale ora il
Burdach ed il Piur l'han tratta interamente.
Nel codice Torinese (H, III, 38, f. 112 r) la lettera ha la seguente didascalia:
« Scribunt ambassiatores Senatui et populo Romano, qualiter est collata eis
« gracia, quod centesimus indulgencie reductus est ad quinquagesimum ». Il
nome di Cola non è fatto né qui né in altra parte del documento ; e non ri-
sulta da alcun indizio positivo che la lettera sia stata scritta da lui. Evi-
dentemente gli editori gliel' hanno attribuita per una certa simiglianza di
espressioni, di andamento e di ritmo che essa ha con altre lettere del tribuno.
Ma si tratta, a parer mio, di vane apparenze!
Ricordiamo con la maggior brevità possibile gli avvenimenti (2). Dopo che
il 19 maggio del 1342 Pietro Roger fu incoronato pontefice col nome di Cle-
mente YI, i Romani decretarono d'inviargli una solenne ambasciata, composta
di diciotto membri, sei per ciascuno dei tre ordini della cittadinanza, la no-
biltà, il medio ceto ed il popolo, per oifrirgli, vita durante, il senatorato e
le altre supreme cariche amministrative di Roma, per invitarlo a fare una
visita alla sua sede di Roma e per chiedergli di promulgare il giubileo nel 1350.
A capo degli ambasciatori, dei quali da un prezioso documento pubblicato
dal Cipolla (3) conosciamo tutti i nomi, era il senatore Stefano Colonna,
figliuolo di Stefano il Vecchio (4). L'ambasciata non si mosse da Roma prima
del 10 luglio del 1342, e giunse in Avignone, al più tardi, nel novembre. I
biografi del Petrarca, primo di tutti il De Sade, fantasticarono che dell'am-
basceria facesse parte il Petrarca (5); e non pochi han creduto che nella pre-
(1) Giacomo Lumbroso, Lezioni universitarie su Cola di Rienzo^ Roma, 1891, p. ^.
L'operetta del Lumbroso in edizione di sole cinquanta copie è estremamente rara;
ma fu nota al Burdach-Piur. Queste lezioni del Lumbroso, dalle quali pur dissento
in alcune parti, sono ammirevoli per dottrina e penetrazione.
(2) Riassumo ed in piccola parte qui riproduco i risultati di uno studio più
ampio, frutto di un mio corso universitario sul tribunato di Cola di Rienzo. Della
mia narrazione diversa ed in gran parte contraria a quella tradizionale darò a
suo tempo prove più ampie di quelle che lo spazio qui mi consente.
(3) Cablo Cipolla, Francesco Petrarca e le sue relazioni colla Corte avignonese al
tempo di Clemente VI (Reale Accademia delle Scienze di Torino), Torino, 1909, p. 16
dell'estratto. Il Cipolla pubblicò soltanto la parte sostanziale del documento; ma
questo è di tale importanza ohe merita di esser pubblicato integralmente, come
appunto io mi propongo di fare.
(4) Secondo il Cipolla {ibid.^ p. 16) si tratterebbe invece di Stefano il Vecchio;
ma questi aveva il titolo di « miles >, che non gli è dato, e non si sarebbe fatto a
meno di darglielo, nel documento avignonese, se gli fosse spettato.
(6) Citerò fra i più recenti studiosi del Petrarca il Cochin, Le frère de Pétrarque,
Paris, 1908, p. 56.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
389
tesa missione affidata al poeta dal popolo romano, egli abbia avuto compagno
Cola di Kienzo (1). Il Cipolla che ultimo studiò la questione, pur necessa-
riamente escludendo che il Petrarca e Cola abbiano fatto parte ufficiale del-
l'ambasciata, poiché i loro nomi non figurano fra i diciotto nunzi del senato,
crede tuttavia che « naturalmente ciò non impedisce che, come Cola, anche
« il Petrarca siasi adoperato presso il papa per favorire i Eomani » (2). E questo
è vero, ma solo in un certo senso.
Cola difatti si era anch'egli recato ambasciatore del popolo romano in Avi-
gnone presso Clemente VI ; ma l'ambasciata di Cola è tutt'altra cosa da quella
solenne del Senato romano. In Roma, dopo la partenza dei diciotto, si era
compiuto un rivolgimento politico per il quale il governo della città era stato
affidato ai tredici rappresentanti dei rioni nei quali Roma era divisa, « unus
videlicet per quamlibet regionem » : e furono questi ad inviare Cola di Rienzo
in Avignone. Il quale, giunto colà, non si accontentò di richiedere al pontefice
le tre grazie che avevano già domandato gli ambasciatori del senato ; ma in
solenne concistoro, fra lo stupore dei Cardinali, il mormorio del popolo pre-
sente, lo sdegno dei Colonna, il segreto consenso di alcuni, l'entusiasmo non
ancor palese di Francesco Petrarca, senza dubbio presente (3), parlò con alta
e commossa parola dello stato miserando di Roma, delle ruberie e delle in-
tollerabili oppressioni dei potenti. E papa Clemente la cui signorile presenza
e l'amabilità tutta francese del tratto (4) dovevan piacere all'ardito popolano,
ascoltava, forse dapprima con animo incerto, poi a mano a mano che dalla bocca
di Cola fluivano i periodi sonori, resi quasi musicali dal ritmo, con compiacenza
sempre crescente, con commozione, forse con aperto consenso. « Molto ammirava
« papa Clemente lo bello stile della lingua di Cola... molto concepeo lo papa
« contro li potenti » (5).
Ma appunto per questo l'eloquenza di Cola fu amara ad alcuni cardinali
italiani, ai « reverendi patres Italici libidine consanguinitatis evicti » (6), fu
amarissima ai membri dell'ambasciata senatoriale. Tra costoro e Cola di Rienzo
non corse buon sangue; ed essi insieme col cardinal Colonna non dovettero
essere l'ultima causa della miseria nella quale Cola giacque per alcun tempo
in Avignone, sì « che poca differenza era da gire a lo spedale ; con suo giub-
(1) Per es. il De Sade, il Tiraboschi, il Ginguené, il Baldelli. Anche il Reumont
nella sua storia di BrOma lo suppose.
(2) Op. cit., p. 14.
(3) Soltanto in quella circostanza il Petrarca potè aver modo di giudicare Cola
di Rienzo «uomo eloquentissimo, al persuadere efficace, al parlare spedito». Cfr.
Fam., Xm, 6.
(4) Vedi l'acuta osservazione del Lumbboso, O]0 cit., p. 55, n. 3.
(5) La vita di Cola di Rienzo (ediz. Zefirino Re), Firenze, 1851, p. 19. Solo per
maggior comodità mi valgo di questa pessima edizione del Re invece di quella
del Muratori.
(6) Così Cola di Rienzo nella lettera al cardinal Guido di Boulogne. Cfr. Bur-
DACH-PlUR, I, p. 383.
390 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
« barello addosso stava al sole come biscia » (1). E poi che furono tornati a
Roma dopo il 7 luglio del 1343 (2), gli ambasciatori accusarono apertamente
Cola di aver detto alla presenza del pontefice cose « que in eiusdem Populi
« Romani ambassiatorum dudum missorum ad nostram presenciam ac ipsorum
« ambassiate preiudicium vel vituperium redundabant ». Contro Cola dai nuovi
senatori Matteo Orsini e Paolo Conti fu intentato un processo con la minaccia
della confisca dei beni, dalla quale lo salvò il pontefice, intervenendo aperta-
mente in suo favore con lettera del 9 agosto del 1343 (3).
L'ambasciata adunque di Cola di Rienzo non era soltanto distinta da quella
del senato ; ma le era anche, in un certo senso, opposta. I diciotto sono i rap-
presentanti del potere aristocratico: Cola di Rienzo è il rappresentante del
popolo, venuto in Avignone a levare il grido di dolore « querelas ejusdem
Populi et oppressiones » (4). Egli, il « romanus consul », in contrapposizione
all'ambasciata numerosa e pomposa del senato, si firma nella lettera con la
quale anch'egli annunziava ai Romani la promulgazione del giubileo « orpha-
« norum, viduarum et pauperum unicus popularis legatus » (5).
Tali adunque erano le relazioni fra Cola di Rienzo e gli ambasciatori ro-
mani. Ora com'è possibile supporre che questi il 28 gennaio del 1343, cioè il
giorno dopo quello nel quale il pontefice aveva solennemente promulgato il giu-
bileo e risposto alle altre domande e degli ambasciatori del senato e dell'am-
basciatore del popolo, si siano rivolti proprio a Cola di Rienzo, a quel villano (6),
per farsi stender la lettera con la quale annunziavano a Roma la concessione
delle grazie pontificie ? L'ipotesi è assurda ! E si noti che Cola lo stesso giorno
28 gennaio (7) dovette scrivere al popolo romano quella mirabile epistola (I, n. 2)
nella quale l'umile figliuolo del tavernaio della Regola ci appare per la prima
volta quale egli poi sarà sempre, artefice di periodi rotondi, sognatore inna-
morato della grandezza antica. Nella lettera degli ambasciatori è soltanto l'an-
nunzio giubilante della nuova perdonanza dei peccati concessa dal pontefice per
(1) Vita di Cola, p. 13. Nella edizione dei Re ponendosi il punto e virgola dopo la
parola addosso, si toglie all'espressione gran parte della sua bellezza.
(2) Cipolla, Op. cit, p. 20.
(8) BuRDACH-PlUB, II, p. 3.
(4) Ibidem.
(5) BuRDAcn-PicK, I, p. 8. Il vero significato della parola unicus non è stato finora
avvertito da alcuno, come anche è stato frainteso il significato della parola « consul ».
Il Burdach ed il Piur spiegano in nota a p. 8 la parola ttnicus cosi: « einziger Volks-
« gesandter fùr die Waisen, Witwen und Armen. Rienzo spricht aber auch fttr
* die anderen Gesandten», cioè per gli ambasciatori del Senato. Impossibile! Ciò
dimostra che non si è ben inteso quale fosse la condizione giuridica di Cola.
(6) Si ricordi la magnanima risposta data da Stefano il Vecchio, quando gli fa
data notizia della strage dei suoi a Porta S. Lorenzo.
(7) La lettera di Cola non è datata. Gli editori la pongono fra il 28 ed il 81 gen-
naio. Ma chi conosce il carattere pronto ed impetuoso di Cola, non può supporre
che egli aspettasse tre giorni a scrivere, e si lasciasse prevenire dngli nmbnscia-
tori del Senato!
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 391
il 1350: nella lettera di Cola squilla linno della resurrezione (1). Roma ri-
sorge dalla lunga abbiezione, ascende il trono della maestà, adorna il capo
della libera corona, riprende lo scettro della giustizia. Clemente VI è para-
gonato a Cesare, a Metello, a Marcello, a Fabio, ai liberatori della patria
« quorum solempnes effigies in preciosis lapidibus sculptas prò virtutis me-
« moria et splendore miramur ». La sua statua, insigne di porpora e d'oro,
sarà posta sul Campidoglio o nel Colosseo (2). E tutto questo percliè? Perchè
Clemente VI ha concesso il giubileo? Via, sarebbe grottesco! Cola di Eienzo
che vagheggia la risurrezione della patria e che dalle accoglienze benevole del
pontefice si vede incoraggiato, può a buon diritto intonare l'inno della rina-
scita di Roma. Ecco perchè Cola di Rienzo reputa che la sua ambasciata sia
stata voluta dalla Provvidenza più che dagli uomini « non humano, veruni
« divino Consilio conformatam ! » (3).
Vi è dunque un atteggiamento così diverso negli scrittori delle due lettere
che non è possibile ammettere esse possano essere state composte, e si badi
nello stesso tempo, dalla medesima persona.
Chi mai allora avrà scritto la lettera contenuta nel codice di Torino, let-
tera composta anch'essa con tutta l'arte e le regole della epistolografìa me-
dievale, infiorata di una reminiscenza virgiliana, elegante, se pure di una ele-
ganza più composta, eloquente se pure di una eloquenza, per così dire, in tono
minore? Lasciamo andare che le norme dell'epistolografia erano così costanti
e determinate, per il modo onde l'epistola doveva incominciare, per il numero
e la disposizione delle parti, per il ritmo, per i « colores orationis »,che spesso
le qualità personali dello scrittore ne erano quasi annullate. Ma fra i membri
dell'ambasciata del Senato romano non v'era proprio alcuno che sapesse ma-
neggiare abilmente e con garbo la penna, anche se non fosse quella penna di
« fino ariento » (4) che l'Arte stessa aveva posto fra le dita di Cola? (5).
Uno ve n'era certamente: « Angelus dictus Lellus quondam Petri Stephani
de Tosectis » (6), cognato di quell'Andreozzo dei Normanni (7), camerlengo
di Roma, il quale, un giorno che Cola si levò nell'assettamento, ossia in uno
dei consigli del Comune, a parlare contro le ruberie dei cani di Campidoglio,
(1) Il LuMBiioso, Op. cit., p. 55, aveva osservato che la lettera di Cola « lascia tacito
« indietro quella degli ambasciatori non meno nel saper fare che nel saper dire > .
(2) BuRDACH-PlUR, I, p. 7.
(3) Ibid., p. 6. Io credo che il Gabrielli, pur senza rendersene conto, abbia meglio
dei nuovi editori reso il pensiero di Cola : « Etenim post honorabilis ambaxiate
«nostre supplicationem non humano verum divino Consilio conformatam ». Nella
nuova edizione si legge invece : « ambaxiate v e s t r e » .
(4) Vita di Cola, p. 28: »: Quando Cola di Rienzo scriveva, non usava penna di
« oca, ma sua penna era di fino ariento » . ^
(5) Cosi diceva Cola di sé stesso : « . . . digitos nostros quos ad calamum Ars ipsa
« deoreverat. . . ». Bukdach-Piub, I, p. 177.
(6) Cipolla, Op. cit., p. 19, senza però alcun riavvicinamento.
(7) Questa relazione di parentela mi risulta da un documento inedito dell'Ar-
chivio Vaticano.
392 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
« detteli una sonante gotata » (1). Lello di Pietro di Stefano (gli studiosi
del Petrarca non se ne sono accorti) (2) non è altri che Lelio, legato al Pe-
trarca da lunga, affettuosa, fraternamente intima amicizia, Lelio, che il Petrarca
chiamò così, mutandone lievemente il vero nome, da un esempio di amicizia,
famoso tra gli antichi. « La penna fu la sua spada fin dall' infanzia. L'età
« più adulta e le condizioni della patria lo posero fra le armi ; ma, come volle
« fortuna, richiamato alla pacifica corte dei papi, tornò agli studi primitivi » (3).
Il Petrarca gli dava lode di uomo erudito, ingegnoso, eloquente (4): e, pre-
sentandolo a Carlo IV nel 1355, ne esaltava, fra le altre virtù, la facondia (5).
Lello di Pietro di Stefano, e possiam chiamarlo senz'altro Lelio, era uno dei
membri più autorevoli dell'ambasciata del Senato romano a Clemente VI, au-
torevole non per altezza di natali (il Petrarca lo dice di nobiltà recente) (6),
non per importanza di uffici e di cariche (in Roma fu uno dei sindaci (7) ;
in Avignone alla curia pontificia ostiario) ; ma per la sua cultura e per la
sua eloquenza. Gli storici si sono domandati chi mai fosse l'oratore ufficiale
dell'ambasciata senatoriale, quando questa intorno al 18 novembre del 1342 (8)
fu solennemente ricevuta dal pontefice nella gran sala del concistoro che Matteo
da Viterbo in quel tempo affrescava ammirabilmente (9). Taluno ha anche
immaginato che l'oratore della circostanza fosse il Petrarca (10). Ora il nome
(1) Vita di Cola, p. 20.
(2) li BuRDACH (Rienzo und die geistige Wandlung seiner Zeit, p. 113) che pure aveva
intraveduto il vero, nelle osservazioni aggiunte alla prima metà di questo volume
{Beilage: < Nachtrag zu Teil 3 und 4», p. 6), ha un pentimento, e scrive che la
identificazione dei due Lelli non è sicura. A tale identificazione io ero pervenuto
nelle mie lezioni universitarie indipendentemente dal Burdach, prima della pub-
blicazione del suo volume. Intorno a Lello di Pietro di Stefano conosco qualche
nuovo documentino, che pubblicherò in altra occasione.
(8) Petrarca, Fa7n., ITI, 20.
(4) Id., Fani., IH, 22.
(5) Id., Fam., XIX, 4.
(6) Id., Var., n. 49 (ediz. Fracassetti) : « uomo di recente, ma di nobilissima ro-
mana origine » . Difatti della famiglia « de Tosectis > dalla quale discendeva Lello,
non ho trovato finora testimonianze molto antiche fra i documenti romani a me
noti. Ma la sua parentela con i Normanni che erano di nobilissima origine, con-
ferma il giudizio del Petrarca.
(7) Intorno all'ufficio dei sindaci vedi E. Bodocanachi, Les institutions communales
de Rome, Paris, 1901, p. 118.
(S) Questa data risulta da quel passo della vita di Clemente VI nel quale è detto
che il papa rispose agli ambasciatori due mesi dopo ohe essi ebbero solennemente
esposto le loro domande : * idem papa ad duos menses postea multum grate re-
spondit » (Muratori, R. I. SS., Ili», p. 578). Ora il papa rispose, come ben sappiamo
il 17 gennaio del 1848.
(9) Su Matteo da "Viterbo ha pubblicato un bel documento il Cipolla [Op. cit.,
p. 7) del 26 luglio del 1348. Cfr. Robert André-Michki,, Matteo de Viterbe et les fresques
de l'Audience au palais pontificai d'Avignon, in Bihlioth. de l'École dea chat'tes, LXXIV
(1918), pp. 341 sgg.
(10) BouocANACHi, Cola di Rienzo., Paris, 1888, p. 89 : « La renommée de Pótrarque,
« son amor pour l'Italie, son titre de eitoyen romain, le désignaient pour porter
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 393
degli oratori noi lo sappiamo. L'autore della IH* vita di Clemente VI, dopo
di avere accennato alle richieste degli ambasciatori, scrive : « ad quas quidem
« petitiones per tres dictorum ambasciatorum, scilicet per magnificum virum
« Stephanum de Colurana, senatorem dictae TTrbis illustrem, ac venerabilem
« virum dominum Franciscum de Vico et nobilem virum Lellum Petri Ste-
« phani de Tosectis, syndicum dictae Urbis ac magistrura ostiariorum dicti
« papae, procuratorem ad haec per dictum populum specialiter
« constitutum, plus quam eleganter expositas, idem papa... resj)ondit... » (1).
Da queste parole appare con certezza che 1' onore di esporre al pontefice lo
scopo dell'ambasciata toccò principalmente al buon dicitore Lelio.
Ed allora mi par naturalissima l'ipotesi, che è certo di gran lunga più plau-
sibile dell'affermazione recisa del Burdach e del Piur, che Lelio abbia scritto
la lettera al popolo romano (2).
All'opera degli ambasciatori non fu certo estraneo il Petrarca. Che egli fosse
in Avignone nella seconda metà del 1342, quando l'ambasciata si presentò al
pontefice, non si può dubitare (3). Di quell'ambasciata facevan parte vecchie
sue conoscenze, Stefano Colonna, figliuolo del magnanimo Stefano il Vecchio,
Pietro di Agapito Colonna, il prevosto di Marsiglia (noi lo rivedremo, ohimè,
giacente in una vigna nudo, calvo, grasso, dopo la battaglia alla porta di San
Lorenzo !) (4), Lelio. E vi erano un Annibaldi, parente di quel Paolo al quale
il Petrarca aveva dedicato una delle sue più belle epistole metriche (5), un
Orsini, parente di quel Giordano Orsini che insieme con Orso dell'Anguillara
aveva concesso al Petrarca il Privilegium Laurcae che potrebbe esser defi-
nito l'atto di nascita dell'umanesimo, documento di bella ed indiscutibile au-
tenticità, che valenti studiosi del Petrarca (6) hanno, or non è molto, con
« la parole au noni de ses collègues>. Il Rodocanachi è di quei che credono che il
Petrarca abbia fatto parte dell'ambasciata.
(1) Muratori, R. I. SS., IH», p. 573.
(2) Non molto felice mi sembra l'ipotesi del Burdach {Rienzo und diegeistige Wand-
lung seiner Zeit, p. 104 sgg.) di attribuire a Lelio le due declamazioni sulla morte
di Rienzo. Cfr. Burdach-Piur, II, 204, 208. Quelle declamazioni, non ostante la grande
importanza che vi annette il Burdach, sono in vero una povera cosa !
(3) Dopo quanto abbiamo detto, non si può più naturalmente ritenere col Coohiu
che il Petrarca abbia fatto ritorno in Avignone nell'aprile del '42 come membro
dell'ambasciata dei Romani a Clemente VI. L'ambasciata non s'era ancora mossa
da Roma il 10 luglio del 1342.
(4) Vita di Cola, p. 94.
(5) Cfr. Poesie minori del Petrarca (ediz. Rossetti), Milano, 1881, II, 330.
(6) Primo a giudicarlo apocrifo fu il Fanfani in una nota ai Marmi del Doni,
ediz. Barbèra, 1863, I, 318. Ma il Fanfani sentenziò senza addurre ragioni. Credette
di trovarne parecchie buone Ildebrando della Giovanna, Per V incoronazione del
Petrarca in Campidoglio, nella Rivista d^ Italia (1904), anno VII, voi. II, pp. 113 sgg.
Rincarò la dose Enrico Carrara, Il sesto centenario petrarchesco, in questo Giornale,
XLVII, 1906, p. Ilo. Confermò infine i sospetti di falsità Arnaldo della Torre, H
sesto centenario di F. P., in Arch. stor. ital, serie V, XXXV (1905), p. 141. Senza qui
anticipare la discussione, giova osservare che la ragione più forte di sospetto sa-
394 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
critica troppo affrettata, giudicato apocrifo. Nella ospitale casa del cardinal
Giovanni Colonna la quale dovette accogliere durante la lunga dimora in Avi-
gnone alcuni membri dell'ambasciata, il Petrarca che vi abitava egli stesso (1),
dovette, intrattenendosi con gli amici romani, rinfrescare i ricordi della sua
duplice dimora in Roma del 1337 e del 1341, questa soprattutto così dolce
nella memoria. Più volte in quelle conversazioni si dovè fare il nome di Cola
di Rienzo, dell'eloquente oratore delle adunanze popolari che quei nobili erano
avvezzi a schernire, vedendolo in Roma aggirarsi fra le rovine con sempre
sulle labbra un sorriso « in qualche modo fantastico » (2).
Ora in questa circostanza, cioè nell'autunno del. 1342, il Petrarca compose
l'epistola metrica per Clemente VI, non certo « unmittelbar nach dessen Wahl »,
come il Burdach (3), dopo molti altri, ritiene. E l'intento della epistola non
è già quello — così credono tutti — di invitare il pontefice a far ritorno in
Roma « das einsame caput mundi wieder zum Sitz des obersten Hirteu zu
machen » (4). Secondo questa opinione, il Petrarca non avrebbe ripetuto nel-
l'epistola metrica a Clemente VI se non, su per giù, quello che già aveva in-
vano detto in due altre epistole a Benedetto XII. Certo, la lontananza del
pontefice dalla sua sede naturale era considerata dal Petrarca come una sven-
tura e fonte di sventure per Roma e per l'Italia, nel pensiero del poeta sempre
indissolubilmente congiunte. Ma l'esperienza di due pontificati, di Clemente V
e di Benedetto XII, aveva dimostrato che la speranza di un prossimo ritorno
del papa a Roma era vana. Con qual dolore il Petrarca aveva veduto, per
opera di Benedetto XII, elevarsi la superba mole del palazzo pontificio in
rebbe questa ohe in nessun luogo delle sue opere il Petrarca fa cenno della citta-
dinanza romana che gli fu conferita con quel Privilegio. Pur lasciando, per ora,
da parte alcuni passi evidentissimi delle epistole del Petrarca, come non ricordare
il bellissimo luogo della Apologia cantra Galli calumnias (ediz. di Basilea, 1554,
p. 1074), nel quale il Petrarca si gloria di esser cittadino di Roma? « Sum vero
« italus natione et Romanus civis esse glorior ! > L'asserzione del Della Giovanna
che il Petrarca non accenni mai alla sua qualità di cittadino romano, fu già giu-
dicata inesatta dal prof. Carlo Steiner {Francesco Petrarca, Discorso commemora-
tivo, Padova, 1904, p. 35), il quale molto opportunamente ricordò il passo dell'esor-
tatoria a Cola di Rienzo : « et uel sic Romani civis officio fungerer » . Del resto Cola
dava al Petrarca il titolo di concivis. Cfr. Burdach-Pìur, I, p. 85. Del Privilegiuw
Laureae potrò a suo tempo dare un testo più corretto di quello scorrettissimo che
va per le stampe.
(1) Sulla natura dei rapporti di familiarità fra il Petrarca ed il card. Giovanni
Colonna trattò meglio di ogni altro Arnali>o della Torre, Aneddoti petrarchéschi,
in Giornale dantesco, XVI (1908), p. 69 sgg.
(2) Vita di Cola, p. 18. Il famoso colloquio del Petrarca con Cola sulla porta di
un vecchio tempio in Avignone deve esser posto dopo il 17 gennaio del 1343; e
l'ipotesi del prof. Giuseppe Bkizzolara {Studi storici, Vili, 248). ohe la distanza di
tempo tra la lettera metrica del Petrarca a Clemente VI, della quale ora parle-
remo, e il suo colloquio con Cola non può essere che pochissima, forse di giorni,
non è ammissibile. Vedi anche Studi storici, XIV, 73.
(8) BuBOACH, Rienzo und die geistige Wàndlung seiner Zeit, p. 66.
(4) Ibidem, p. 67.
SASSEGNA BIBLIOGKAFICA
395
Avignone! Le sue speranze erano allora subitamente crollate; e quando uno
Spirto gentil (1) parve ridestare Eouia dal pigro sonno, il poeta si volse a lui
con l'animo pieno di aspettazione, ed in una delle stanze più belle della can-
zone, contrapponendo lo Spirto gentil al pontefice, dimentico di Roma, escla-
mava con dolore fatto sarcasmo :
Tu marito, tu padre I
Ogni soccorso di tua man s'attende
Che il maggior padre ad altr 'opera intende I
E quando Benedetto XII scese nella tomba, il Petrarca gli lanciò il feroce
giudizio della prima delle Sine titillo. Non la noiosa questione della visione
beatifica, non le altre molteplici questioni che la forte dottrina e l'acume di
Francesco Torraca (2) andarono rintracciando durante il pontificato di Cle-
mente VI: ma la costruzione del palazzo pontificio in Avignone (3) ci spiega
il verso « che il maggior padre ad altr'opera intende », il quale, se pur non
m'inganno, riacquista così la sua bellezza.
(1) Se pur non sembri intollerabile presunzione esprimere il proprio parere intorno
ad un argomento tanto disputato senza portare nuove ragioni (ciò però non vuol
dire che io non ne abbia), mi sia lecito umilmente credere ohe la canzone e Spirto
gentil » non fu composta per Cola di Rienzo, né al tempo di Clemente VI, ma pro-
babilmente per Stefano Colonna il Vecchio nel 1339 in occasione della rivoluzione
romana di quell'anno ohe ebbe tanta eco in tutta l'Italia ed accese le « faville »
della corte Avignonese, onde «la magiou di Dio ardeva tutta >. Anche il Burdaoh
ed il Piur si propongono di trattare « die Streitfrage, ob es der Senator des Jahres
« 1337, Bosone da Gubbio, oder der Tribun des Jahres 1347, Rienzo, sei» lo «Spirto
gentil» (cfr. Bvrd xch, Eie72ZO nnd die geistige Wandlung,-p.lio, n. 1). Staremo a vedere.
Ma giacché si ha da parlare ancora di Bosone (forse non ha torto quell'amico del mio
ottimo prof. Scarano che, credendo alla iettatura, raccomanda di non nominarlo
neppure l'antipatico Bosoue I ; cfr. Nicola Scaraxo, Rime del Petrarca, Livorno, 1909,
p. 102), giacché si ha da parlare ancora di lui, è bene fissare definitivamente ohe
il senatore di Roma non è già il mediocre versificatore, il preteso autore delVAvr
venturoso Ciciliano, ma Bosone Novello, suo figlio, come già primo suppose il lia-
bruzzi. Inoltre egli non fu senatore nel 1337, come tutti ripetono, ma nel 1338, e pre-
cisamente a cominciare dal 21 gennaio del 1338 ch'era un mercoledì, nel qual giorno
egli insieme con messer de' Gabrielli pose la prima volta piede in Roma. E le
cose andaron male, perchè vi fu carestia, e l'anno seguente scoppiò la rivoluzione.
Che proprio sia nel vero l'amico del prof. Scarano? E ciò non ostante il prof. Sca-
rano bosoneggia ?
■ 2) Francesco Torraca, Discussioni e ricerche letterarie, Livorno, 1888, p. 71 sgg.
(3) La questione della visione beatifica era stata risoluta con la bolla Benedictus
Deus del 29 gennaio del 1336. Sulla costruzione del palazzo pontificio in Avignone,
opera grandiosa di Benedetto XII, oltre i lavori particolai'i , per i quali vedi l'arti-
colo sopra citato del signor André-Michel, cfr. Jean Guiraud, L'Égllse romaine et
les origines de la Renaissance, quatrième édit., Paris, 1909, p. 26. Nella epistola me-
trica a Clemente VI, per la quale vedi più innanzi, il Petrarca allude alla costru-
zione del palazzo pontificio come appunto ad una delle cause che avevano impedito
il ritorno a Roma di Benedetto XII : «... nunc destinat arces aérias coeloque pares
attoUere turres». Difatti proprio sulla fine del 1338 si cominciava la costruzione
della torre di S. Giovanni, oggi «Tour de la cloche ». Altre torri erano state co-
struite fra il 1336 ed il 1337.
396 BASSEGNA BIBLIOGRAFICA
Sarebbe stata una bella ingenuità richiedere ora a Clemente VI che tornasse
a Roma ! I Romani non se lo sognavano neppure : essi domandavano sempli-
cemente che il pontefice si degnasse di fare una visita a Roma, forse per il
giubileo del 1350. E chi sa che nella loro immaginazione non congiungessero
l'idea della presenza del pontefice con il ricordo di quei rastrelli che nel 1300
« rastrellabant pecuniam infinitam » ! Essi domandavano a Clemente, come
c'informa l'autore della III^^ vita, « quod sibi placeret civitatem romanam et
« sacrosanctam Lateranensem ecclesiam, quae mater ecclesiarum omnium urbis
« existit {e che, noi aggiungeremo, era la chiesa dalla quale si proìmilgava
« il giubileo)... visitare » (1). E l'autore degli Historiae Romanae Fragmenta
scrive: « quessi... ammasciatori lo pregaro da parte de Dio e de lo puopulo
« de Roma, che li piacessi de benire a visitare la sede de lo sio vescovato
« de Roma » (2).
Così Roma, nell' epistola metrica del Petrarca (3), non insiste nel suo di-
ritto di sposa di avere lo sposo con se. All'infedeltà coniugale Roma s'era oraiai
abituata! — Oh! no, ella dice a Clemente, non credere che io sia venuta
qui, ignara delle circostanze. Lo so bene che sei nato in terra lontana, che
ti è dolcissimo il suolo della patria, che sei trattenuto costì dai ricordi della
giovinezza, dagli amici, dalle relazioni con la corte.
Non ignara qnidem, nec rerum nescia veni.
Est tibi longinquae, fateor, telluris erigo
Et patriae praedulce solum; seriesque iuventae
Est aliis traducta locis. Sunt agmina regum
Cara, nec exiguos tibi Grallia iungit amicos.
Ma, Roma prosegue, non vorrai tu, o Clemente, che dianzi eri pur Pietro
( Pietro Roger), non vorrai tu almeno una volta vedere la tua sede, e non ti
muove il desiderio di toccare il capo del mondo ? (Si ricordi che i1 Laterano
era la ecclesia mater et caput urbis et orbisi)
Tu, Clemens, qui Petrus eras, hanc cernere sedem
Nonne voles, cupiesque caput contingere mundi ?
E difatti Clemente VI il 18 gennaio del 1343 prometteva non di ritornare
a Roma, ma soltanto «visitacionem sedis apostolicae post sedata Gallorum
« scandala » (4).
Questa ed altre singolarissime corrispondenze fra la epistola metrica e le
fonti storiche, che svolgerò più ampiamente altrove, ci permettono ora di porre
nella sua vera luce il carme del Petrarca. È una poesia d'occasione : è la para-
(1) R. I. SS., Ili», col. 573.
(2) Muratori, Antiquitates Rai. M. Aevi, III, 348.
(S) Poesie minori del Petrarca, ediz. cit., III, 4 sgg.
(4) « Cosi nella lettera di Cola di Rienzo al Senato ed al popolo di Roma » . Cfr.
BcBDACil-PlUB, I, p. 6.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 397
frasi poetica e, come tutte le poesie d'occasione, mediocre, delle richieste che,
affidate ad un documento ufficiale non pervenutoci, ed esposte « plus quam
elegante! » da Lelio, furono fatte al Pontefice. La epistola metrica fu perciò*
composta intorno al 18 novembre del 1342.
Questa conclusione non è senza importanza anche per un altro rispetto,
perchè essa ci permette di togliere definitivamente un errore insinuatosi nelle
biografie del Petrarca dal De Sade al Kòrting (1), Si suole generalmente ri-
petere che i benefizi concessi da Clemente VI al Petrarca nel territorio Pisano
siano stati come una ricompensa dell'epistola metrica. Soltanto il Della Torre
con sottile accorgimento ne dubitò (2). Ma pur dopo il Della Torre, il Cipolla
scriveva: « può essere che le concessioni fattegli (cioè al Petrarca) dal papa
« rispetto ai benefici sul territorio Pisano, abbiano relazione a questa circo-
« stanza (cioè l'ambasceria dei Eomani) se non come di effetto a causa, almeno
« come largizione che trova nei fatti che la precedono la sua parziale spie-
« gazione » (3). Ma, come abbiamo veduto, è precisamente il contrario : l'am-
basceria dei Romani e la composizione dell'epistola metrica seguono, non pre-
cedono, la elargizione dei benefici nel territorio Pisano (4).
E, tornando ora alla nostra prima domanda, è possibile ammettere che nella
casa del cardinal Giovanni Colonna si sentisse il bisogno di ricorrere a Cola
di Rienzo per stendere l'epistola al Senato ed al popolo romano annunziante
il giubileo?
Ma dopo avere assottigliato il già scarso manipolo dei nuovi documenti ag-
giunti dagli egregi editori alla raccolta del Gabrielli, giova indicarne uno ad
essi sfuggito. È una lettera diretta dal tribuno al comune di Tivoli che si
ritrova in transunto nell'opera esistente in unico esemplare nella biblioteca
Alessandrina di Roma di Marco Antonio Nicodemo (5). Purtroppo il testo del
documento è perduto. A questo proposito parmi che sarebbe stato utile ag-
giungere all'epistolario di Cola di Rienzo un elenco delle lettere perdute delle
quali per altro si ha sicura testimonianza. Le lettere rimasteci, come già os-
servava il Lumbroso (6). sono una piccola, una minima parte di quello che
(1) Vedi ad es. il più recente lavoro, del resto assai mediocre, su Le epistole me-
triche di Frane. Petrarca dì Diana Magrini, Rocca S. Casciano, 1907, p. 102.
(2) Arnaldo della Torre, Documenti su un beneficio toscano del Petrarca, in Arch.
star, ital, LXII (1908), p. 119.
(3) Cipolla, Op. cit., p. 14 sg.
(4) La lettera di Clemente VI che assegnava al Petrarca un canonicato a Pisa
è del 22 maggio del 1342, quella dello stesso pontefice che dava ordine al vescovo di
Teano e a due abati d'immettere il Petrarca nel possesso del priorato di S. Niccolò
di Migliarino, è del 7 ottobre 1342. Ma è rimasto finora ignoto, per quanto io so,
agli studiosi del Petrarca un altro beneficio concessogli da Clemente VI il 24 agosto
del 1343, per compensarlo appunto del priorato di*S. Niccolò di Migliarino « prò
« quo adhuo litigat necdum eius possessionem nescitur assecutus ». È la plebania
di S. Angelo in Castiglione Aretino, oggi Castiglion Fiorentino. Pubblicherò il do-
cumento in altra circostanza.
(5) Marci Ant. Nicodemi, De rebus Tiburtum sive Primae Pentadis, lib. 1-5.
(6) Lumbroso, Op. cit., p. 18.
398 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
pur sappiamo essere stato il carte,^gio di Cola. In questo elenco, ad esempio,
non dovrebbe mancare la lettera al coinune di Modena del 7 giu.^no del lo41
che ha la stessa data e lo stesso contenuto di lettere dirette ad altri Conmni.
ed è non soltanto accennata ma in parte anche riprodotta nel Chronicou Mu-
tineìise (1).
Nella terza parte del secondo volume di questa grande opera destinata ad
illustrare la storia della Rinascita, gli editori, come abbiam detto, si son pro-
posti di raccogliere in edizione critica tutte le fonti documentarie del tempo
di Cola di Eienzo che gli si riferiscono « den erhaltenen Bestand... aller seine
« Person betreffenden gleichzeitigen urkundlichen Quellen » . Magnifico disegno !
Ma per effettuarlo, come si conveniva, sarebbe stata necessaria una ricerca
sistematica negli archivi e nelle biblioteche italiane. Gli editori, e certo non
per alcuna loro negligenza, non potettero farla. In fondo anche a Berlino si
sospettava che Cola di Rienzo forse apparteneva alla storia d'Italia, e non si
credè necessario largheggiare con i benemeriti editori in quei mezzi che non
mancano mai alle grandi imprese scientifiche nazionali, sì che essi dovettero
accontentarsi dei modesti « Mitteln der Deutschen Kommission der Berliner
Akademie » (2). Per mio conto, me ne dolgo sinceramente, perchè credo che
una ricerca sistematica come quelle che gli studiosi tedeschi, primo fi-a tutti
il Kehr (mi tornano grati alla memoria i lunghi mesi trascorsi con lui la-
vorando ed imparando negli Archivi romani!), hanno fatto sovente presso di
noi, avrebbe dato una buona raccolta.
Soltanto dopo la pubblicazione dei due volumi dei quali qui discorriamo,
gli editori ebbero notizia della importantissima lettera che Ildebrandino Conti,
vescovo di Padova, amico del Petrarca, inviava da Roma il 30 luglio del 1347
a Leonardo di S. Sepolcro, suo vicario nella diocesi Padovana. La lettera con-
tiene lunghi minutissimi ragguagli intorno agli avvenimenti di Roma dal
18 maggio al 30 luglio del 1347 ; ed è, senza alcun dubbio, il documento di
maggior rilievo intorno al primo periodo del tribunato di Cola. Pubblicata nella
Dissertazioìie ottava sopra V Moria ecclesiastica P ad oi'ana di Francesco Scipione
Dondi Orologio (Padova, tipografia del Seminario, 1815), essa è rimasta finora
ignota a tutti gli studiosi di Cola di Rienzo (3). Peccato che l'edizione del Dondi
sia scorretta e lacunosa : né è possibile rimediarvi, perchè, come ha constatato
il Piur recatosi nel gennaio del 1913 a Padova, dal protocollo notarile di An-
tonius Zuparius sono stati da mano recente avulsi proprio quei fosrli dip con-
fi) R. I. SS-, XV, 607. Cfr. auche Lusibroso, ibid.
(2) Così nella Beilage a Bckdach, Rienzo und die ueistige Wondlung seitter Zeit
(«Nachtrag zu Teil 3 und 4>, p 6).
(8) Gli editori, dandone notizia nella Beilage citata nella nota preeed., scrivono
che l'opera del Dondi è straordinariamente rara. Ma se ne trovan copie nelle mag-
giori biblioteche italiane. Una copia è posseduta dalla Biblioteca Nazionale di To-
rino. Potei cosi valermi nel mio corso universitario della preziosa lettera di Ilde-
brandino Conti, Balla quale aveva già richiamato la mia attenzione il prof. P. Kehr
h1 quale ne rendo vive grazie.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 399
tenevano il documento prezioso. Dovremo perciò accontentarci di veder ripro-
dotta la lettera di su l'edizione del Dondi nelle aggiunte che il Burdach ed il
Piar si propongono di fare all'epistolario di Rienzo. E fra le aggiunte sarà posto
il bel documento intorno ad an nunzio di Cola di Rienzo in Avignone, che
era un maestro elementare « in primitivis didascalus », pubblicato già dal Ci-
polla fin dal 1909 (1). Gli editori si sono anche accorti che uno spoglio più
accurato delle lettere del Petrarca avrebbe permesso di trarne alcuni altri ac-
cenni a Cola di Rienzo; e non starò quindi a riferirli. Nò io trascurerei, ad
esempio, il passo della Apologia cantra Galli calumnias, nel quale si dipinge
così al vivo lo sgomento che invase Avignone, non appena vi giunse notizia
dei primi trionfi di Cola (2).
Non dispiacerà agli editori se io mi permetto d'indicare per le aggiunte o
per il commento storico alcune altre notizie e documenti che sono ad essi
sfuggiti.
Allo studio delle relazioni fra Cola di Rienzo e Giovanna I di Napoli gio-
verà la lettera inviata dalla regina l'otto agosto del 1347 alla signoria di
Firenze per avvertirla che stava per partire una sua solenne ambasciata la
quale si sarebbe soffermata a Roma per trattare con Cola « per tribunum Urbis
« transitum faciendo ». La lettera fu pubblicata dal Camera (3).
In un documento ancora inedito dell'Archivio comunale di Velletri (4) del
14 febbraio del 1355, riferentesi ad una partizione di beni tra Guglielmo e
Giovanni, figliuoli ed eredi di Buccio Savelli, si fa menzione dell'* arbitrio et
« partimento castrorum, terrarum, molendinorum, casalium, honorum et rerum,
« juriumque et jurisdictionum que fuerunt olim magnifici viri domni Johannis
« de Sabello avi eorum et domni Pandulphi de Gabello olim domni pape
« notarii, facto et lato per olim Nicolaum Laurentii tribunum alme Urbis in
« primo suo officio tribunatus Inter dominum Pandulfam de Sabello filium
« et heredem prò tertia parte dicti domni Johannis de Sabello et Nicolaum
« de Sabello fratrem germanum ipsorum dominorum Guillelmi et Johannis... etc.» .
A proposito di Velletri giova ricordare che da un documento ancora inedito
del 1357 che sarà pubblicato dal mio discepolo dottor Giorgio Falco in ap-
pendice al suo eccellente lavoro su « Il comune di Velletri nel Medio Evo » (5)
risulta pienamente confermato il racconto dell'Anonimo sull'impresa di Pale-
strina del 1353 alla quale i Velletrani presero parte sotto il comando di Cola
di Rienzo (6). Secondo poi un vecchio erudito Veliterno, Ascanio Landi, quei
(1) Cipolla, Op. cit., p. 22,
(2) Ediz. di Basilea, 1551, p. 1071.
(3) Matteo Camera, Elucubrazioni storico-diplomatiche su Giovanna I regina di Na-
poli e Carlo III di Durazzo, Salerno, 18S9, p. 78, n. 3.*
(4) Il documento ohe io ritrovai nell'Archivio comunale di Velletri, mi fu corte-
semente trascritto dal dott. Giorgio Falco.
(5) Gr. Falco, Il comune di Velletri nel Medio Evo (see. XI-XVI), in Archivio della
Reale Società romana di st. patr., XXXVI, 411, ed Appendice^ n. 15.
(6) Vita di Cola, p, 151.
400 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
di Velletri mandarono ambasciatori a Cola di Rienzo, Niccolò Oddoni e Gio-
vanni Mellino per appianare alcune controversie sorte tra il comune di Velletri
e quello di Eoma a proposito dell'elezione del giudice e del podestà. Il Landi
scrive di aver tolta la notizia, ripetuta poi da Alessandro Borgia (1), da un
volume di riformanze antiche. Ma, come avverte il dott. Falco (2), delle ri-
formazioni dei consigli Velletrani non ci è giunto che un solo volume, an-
teriore al quattrocento, il quale non contiene atti del tempo di Cola di Rienzo.
Si tratterà dunque di una notizia inesatta ? od il Landi si sarà valso di altra
fonte, oggi perduta? Lasciamo la risoluzione del piccolo problema alle nuove
indagini del Burdach e del Piur.
Per lo studio delle relazioni fra il tribuno e le città sottoposte del « di-
strictus urbis », specialmente quelle di Campagna e Marittima, non avrebbe
dovuto mancare alla presente edizione il documento importantissimo del 27 set-
tembre del 1347 che Ignazio Giorgi trasse da una pergamena originale del-
l'archivio di Terracina, ed illustrò con la sua consueta perizia nel Bullettino
dell'Istituto storico italiano (3). È un atto col quale il popolo ed il Comune
di Terracina nominano a loro sindaco e procuratore speciale Andrea da Guar-
cino, col mandato di presentarsi al tribuno romano Cola di Rienzo o all'au-
ditore della Curia di lui, per dimostrare e sostenere che il Comune e gli uo-
mini di Terracina sono stati sempre esenti da ogni giurisdizione romana. Da
questo documento risulta in modo sicuro « che non tutta la Marittima si sot-
« tomise al tribuno, e ch'egli trovò opposizione non in una città indipendente,
« ma in una di quelle ch'egli considerava come soggette al popolo romano perchè
« appartenenti al ' districtus Urbis ' » (4). Il commento storico e giuridico che
il Giorgi aggiunge al prezioso documento, è tale che i nostri editori non
potran far nulla di meglio che riprodurlo integralmente.
Tra le fonti documentarie della storia di Cola non potevan mancare le sen-
tenze da lui emanate, poiché l'amministrazione della giustizia fu parte prin-
cipalissima dell'opera sua e fondamento della sua potenza. Vedo così, con pia-
cere, riprodotti gli atti della causa, da me la prima volta pubblicati (5), fra
il monastero dei SS. Cosma e Damiano « in Mica Aurea » e gli eredi di quel
Martino Stefaneschi al quale non possiam ripensare senza vederlo appiccato,
per sentenza del tribuno, nel piano di Campidoglio, idropico : « suo ventre era
« pieno d'acqua, come botticello pareva ; piene le gambe, lo collo sottile, e la
« faccia macra : liuto da sonare parea » . Ma perchè non riprodurre egualmente
(1) Alessandro Borgia, Istoria della chiesa e città di Velletri, Nocera, 1726, p. 3()7.
Cfr. anche Attilio Gabrielli, Storia municipale di Velletri, Velletri, 1913, p. 75.
(2) Falco, Op. cit., p. 358. Il Falco tace di quest'ambasceria a Cola di Rienzo, cre-
dendola evidentemente non mai avvenuta.
(3) I. Giorgi, Documenti (.erracinesi, in BuUettino dell' Istituto storico italiano, n. 18,
Roma, 1895, p. 87 sgg.
(4) Ibidem, p. 90.
(5) P. Fedele, Un giudicato di Cola di Rienzo fra il monastero di S. Cosimato e gli
Stefaneschi, in Arch. della R. Società Romana di storia patria, XXVI, 437-451.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 401
gli atti non meno importanti della causa tra Santa Maria in Monasterio e
S. Agnese, disputata durante il tribunato di Cola di Rienzo per il possesso
del terreno che dalle lunghe, secolari controversie ebbe nome di « Mons della
« questione seu pedica della questione »? La causa subì parecchi rinvìi, e non
potè essere definita durante il tribunato « propter multa occurrentia in re-
« gimine supradicto et feriatum tempus et repentinas ferias quas idem Ni-
« colaus sepe sepius indicebat ». Pubblicai il documento, notevolissimo per lo
studio della procedura civile in Eoma al tempo di Cola di Kienzo, dalla per-
gamena originale dell'Archivio di S. Pietro in Vincoli (1).
Si potrebbe dal punto di vista diplomatico discutere elegantemente se tra
le UrJcundliche Quellen debbano essere inclusi quei capitoli degli statuti di
Roma del 1363 che risalgono al tempo di Cola di Rienzo. Certo è difficile
stabilire quali di essi siano stati promulgati dal tribuno: ed un lavoro sot-
tile di confronti e di induzioni difficilmente condurrebbe a conclusioni sicure.
Tuttavia in due casi il dubbio deve essere escluso. Il capitolo 202 del libro II
ricorda la « misericordia seu indulgentia facta tempore tribunatus domni Ni-
« colai Laurentii » (2). E l'editore degli Statuti nota che in uno dei codici
al disopra delle parole « Cola Rentius tribunus » è delineata una corona im-
periale : documento grafico non trascurabile delle aspirazioni attribuite al tri-
buno! Questo passo degli Statuti conferma il racconto dell'Anonimo (lib.I, cap. 9)
nel quale si parla della casa della giustizia e della pace ordinata da Cola di
Rienzo; e, senza dubbio, si sarebbe dovuto richiamare in nota a quel passo
della lettera all'arcivescovo di Praga (I, p. 241) nel quale Cola si dà vanto
della pacificazione degli animi, per opera sua, compiutasi in Roma : « Nonne
« ego, deo auctore scandalicis omnibus erroribus propulsis omnes Romanos in-
« vicem emulantes, quorum popularium intra se emulancium capitaliter par-
« ticularis numerus repertus est hominura mille et ottingentorum, remissis
« omicidiis et oifensis omnibus inter se ad pacem sinceram ultra opinionem
« hominum revocavi ? » (3).
E come può dubitarsi che sia stato promulgato da Cola di Rienzo il se-
guente capitolo degli Statuti (4) : « Item statuimus et ordinamus quod anno
« quolibet in die XX mensis mali oh memoriam et rememorationem presentis
« pacifici status popularis celebretur sollepniter missa Spiritus Sancti in Ec-
« desia sancta Maria de Aracoeli... »? La rivoluzione di Cola di Rienzo si
compì appunto, giova ricordarlo, il 20 maggio. Lo storico di Cola non dovrà
trascurare nò questi ne altri capitoli degli statuti del '63.
Ma se una breve e sommaria indagine fatta da me per raccogliere qualche
documento, sfuggito ai precedenti studiosi, intorno a Rienzo, col solo intento
(1) P. Fedele, S. Maria in Monasterio, in Archivia d. R. Società Romana di si. patria ,
XXIX, 214 sgg.
(2; Camillo Re, Statuti della citta di Roma, Roma, 1880, p. 192 sg.
(3) Cfr. anche i passi paralleli delle lettere 18 (I, p. 53) e 63 (I, p. 342).
(4) Camillo Re, Oj>. cit., p. 283.
Giornale storico, LXIV, fase. 192. 26
402 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
di servirmene in un modesto corso universitario sul tribunato di Cola, mi ha
dato qualche risultato non spregevole, è lecito sperare che una ricerca siste-
matica dia frutti assai più copiosi.
È merito particolare del dott. Paolo Piur l'avere arricchito la presente edi-
zione con il testo critico àelVOraculum Angelicum Cyrilli, facendolo seguire
dal commentario dello Pseudogioacchino. L^Oraculum ed il commentario prima
malamente noti, se ne togli la parte studiata già dal p. Ehrle, hanno una
grande importanza non solo per la intelligenza delle lettere scritte da Cola
durante la sua prigionia di Praga, ma anche per la storia delle profezie me-
dievali e delle correnti spirituali dei secoli XIII e XIV. Questa edizione del
Piur è condotta in modo davvero ammirevole. I cenni intorno al significato
dell'opera profetica che il Piur ci dà in poche linee, ci fanno aspettare con
vivo desiderio il commento storico che egli ne annunzia. .
La lettura e lo studio dei documenti di Cola di Eienzo ci suggerirebbe qua
e là osservazioni, dubbi, domande. Ma non ho foi'se già abusato dell'ospitalità
del Giornale storico'? Mi sia lecito tuttavia soffermarmi ancora brevemente
su un sol punto. È già da lungo tempo nota la supplica che Cola di Rienzo
presentò a Clemente VI per ottener l'ufficio di notaio della Camera capito-
lina (1). Era un mezzo al quale Cola ricorreva non soltanto per quei cinque
fiorini d'oro al mese ch'era lo stipendio dei notai della Camera, ma anche per
mettersi al riparo dalle persecuzioni che egli temeva violente da parte dei
nobili. Cola desiderava di poter vivere « in dieta Urbe a persone ac honorum
« suorum iactura securior una cum officialibus vestris {scil. pontificis) » (2).
Il pontefice lo accontentò con lettere del 13 aprile e del 17 giugno del 1344
(I, nn. 5 e 6). Ora gli editori dubitano che la supplica di Cola di Rienzo sia
stata scritta in Avignone. La cosa non è senza importanza per la biografia
di Cola, trattandosi di sapere quanto tempo egli si sia soffermato in Avi-
gnone, e quando sia tornato a Roma ad intraprendervi la sua vigorosa pro-
paganda politica. Ma dalla concorde testimonianza dell'Anonimo (3) e d'D-
debrandino Conti risulta con certezza che Cola tornò a Roma soltanto dopo
di avere ottenuto la nomina di notaio capitolino. Nell'aprile del '44 Cola era,
senza dubbio, ancora in Avignone dove egli scrisse la supplica al pontefice;
« factaque longa mora in curia, recessit et Roraam rediit ad exercitium of-
« ficii supradicti [sdì. notarli Camere Urbis) » (4) soltanto nella seconda metà,
probabilmente nell'estate o nell' autunno del '44 (5). Neil' autunno dell' anno
precedente anche il Petrarca aveva lasciato Avignone per recarsi a Napoli,
(1) Essa fa pubblicata già dal Gregorovius.
(2) BuRDACH-PlUB, I, p. 12.
(3) Vita di Cola, p. 19 : « poiché fu tornato da corte comenzò a usare suo ufficio
iH)rtesemente » .
(4) Lettera di Ildebrandino Conti in Frahc. Scip. Donui OaoLooio, Op. cit.
(6) Nota giustamente il Cipolla, Op. cit., p. 161, che « era cosa ordinaria che gli
« ambasciadori recandosi a nome della propria Signoria presso un'altra corte ohie-
< dessero per sé qualche beneficio, quando, finito il proprio ufficio, stavano per
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 403
non già inviatovi dal papa, come tutti senza eccezione si ostinano a ripetere,
per vigilare la condotta della regina Giovanna ed affermarvi i diritti della
sovranità pontificia ; ma per incarico del cardinal Giovanni Colonna e per uno
scopo assai più modesto (1). Si trattava di ottenere la liberazione dalla lunga
prigionia del conte di Minervino, Giovanni Pipino che doveva esser poi così
fatale al tribuno (2). Il Petrarca inconsapevolmente preparava lo strumento
della rovina di Cola!
Abbiamo già detto che la presente edizione è condotta con grande perizia
tecnica. Quando gli editori avranno pubblicato la descrizione dei manoscritti,
potremo renderci più esattamente conto dei criteri da essi seguiti. Dei ma-
noscritti per ora non abbiamo che il nudo elenco. In questo non è segnato
il cod. X • E • della Biblioteca Nazionale di Napoli, il quale, come appare dal
catalogo dei manoscritti di quella biblioteca, dovrebbe contenere, forse in una
tarda copia, le lettere dirette da Cola di Rienzo al comune di Firenze. Nel
preparare la loro edizione il Burdach ed il Piur han fatto gran conto del
cursus, ed il più delle volte con risultati davvero eccellenti.
Non m'indugio qui ad esaminare alcune delle norme, per vero assai discu-
tibili, seguite dagli editori. Era proprio necessario riportare le varianti delle
edizioni precedenti, una volta che la nuova edizione è condotta sui mano-
scritti? È un metodo che in Germania viene adoprato, se non m'inganno^
per la prima volta, ed apre nuove vie alla pedanteria dei futuri editori che
potranno cosi accompagnare i testi con più solenne, per quanto inutile, corteo
di varianti ! E tutte quelle minute osservazioni diplomatiche sulle lettere di
Clemente VI non si potevano, senza danno, lasciare da parte ? Ma di questo
potremo, se mai, discutere un'altra volta.
Aggiungo alcune osservazioni e varianti suggeritemi dalla lettui^a del testo
e dal confronto soltanto di alcune lettere della presente edizione col codice di
Torino H • m • 38.
Lettera I (ediz. I, p. I), r. 3, saticta, si corregga in mcrosancta ; r. 5 accio,
e così quasi sempre dove abbiamo il gruppo ci seguito da vocale, in nctio ;
r. 8 Virginem et Saturnia regna in Virginem ac Saturnia regna] rr. 15-16
spóliis attrahehas in spoliis triumpliaìiter attrahebas; r. 17 congregari in
congregàbit ; r. 47 redemptoris nostri Jhesu Christi in redemptoris nostri do-
mini Jliesn Christi. E lascio da parte alcune altre varianti puramente orto-
« ripartirne. E tanto questa abitudine era radicata, che se si Toleva proibirla o
« regolarla, questo dovevasi fare espressamente » . È una conferma di più che la
supplica di Cola fu scritta in A.vignone.
(1) La discussione di questo punto richiederebbe troppo lungo discorso, e la ri-
mando ad altra circostanza. «
(2) L'intervento di Griovanni Pipino nella sommossa popolare che causò la caduta
del tribuno si spiega principalmente col fatto ch'egli era amico dei Colonna, ai quali
era legato da gratitudine per essere stato, con la loro intercessione, liberato dalla
prigionia alla quale lo aveva condannato Roberto d'Angiò : il che non era stato
prima avvertito.
404 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
grafiche, come nel r. 41 can'smate per carismathe, ed in nota al r. 18 affer-
rent per afferent com'è detto esattamente nel testo del ms.
In questa stessa lettera non è stato bene inteso il seguente periodo. Lo
scrittore che si volge a Roma, dopo di averla esortata ad accogliere i figliuoli
che da ogni parte converranno in essa perii giubileo, prosegue: « Nam quos
« dudum lustrato quoque cliraate, perquisitis polis oceanoque sulcato quibusve
« in viis, stratis et semitis ad te sumptis spoliis triumphaliter attrahebas,
« nunc sponsi tui clemencia iuxta nominis ejusdem presagium congregari vi-
« debis nimirum et afflues, cum filii tui de longe venient et afferent munera
« pacifica reges terrae». L'elegante Lelio non avrebbe scritto un periodo cosi
mal congegnato ! Nel testo del ms. al posto di congregari leggo chiaramente
congregava che per il solito scambio della v con b sarà da correggere in con-
gregabit. Ed allora il periodo raddrizzato corre più speditamente : « Nam quos
« dudum lustrato quoque climate, perquisitis polis oceanoque sulcato quibusve
« in viis, stratis et semitis ad te sumptis spoliis triumphaliter attrahebas,
« nunc sponsi tui clemencia iuxta nominis eiusdem praesagium congregabit
« {cursus veJoxl): videbis nimirum et afflues, cum filii tui de longe venient
« et afferent munera pacifica reges terrae ». Non sfuggirà che l'avverbio ni-
mirum segna la ripresa della seconda parte del periodo.
Lettera 2 (ediz. I, p. 4): r. 8 nel testo del ms. Tor. septrum, non sceptrum:
r. 16 nel testo lumem non lumen; r. 27 nel testo conscilio non Consilio] r. 38
nel testo scandalla non scandala. Ai rr. 35-36 gli editori leggono: « promul-
« gavit [scil. Clemens VI) et reddidit iubileum ». Ma nel testo del cod. Tor.
è edidit alla quale parola è premessa una d cancellata da prima mano. « Pro-
mulgavit et edidit » è la formula abituale in casi simili, e non deve essere
alterata.
Lettera 7 (ediz. I, p. 17) : r. 20 nel testo del cod. Tor. Imius non huic. r. 22
nel testo viris non nostris] menhra non membra; r. 54 in nota detrimeta non
detrimenta; r. 99 inflamavit non infiammava ; r. 118 quod si corregga in
quia; r. 157 nel testo del cod. Tor. vobis non nobis; r. 164 nel testo op)ortunis
non opportunis.
Lettera 11 (ediz. I, p. 30): r. 15 Mactheo de Beccaris è indubbiamente da
correggere in Mactheo de Baccariis (1).
Lettera 18 (ediz. I, p. 53): r. 17 nel testo del cod. Tor. redducte non re-
ducte ; r. 59 nella frase » ita fuit quod illud » si tolga l'inutile fuit che
manca nel testo del cod. Tor. ; r. 96 nel testo subcumbere non succumòere. ;
r. 126 nel testo ascripsit non adscripsit.
Lettera 25 (ediz. I, p. 85) : r. 6 in nota nel testo del cod. Tor. non respersa
et rethorice verissimarum ma, respersa recthorice verissimarum ;t. 13 nel testo
licteris non literis. Al r. 19 segg. di questa lettera di Cola di Rienzo al Pe-
(1) Cfr. P. Fedele, Una compoiiziotte di pace fra privati nel 1364, in Archivio della
B. Società Romana di storia patria, XXVI, 469, dove ho raccolto alcune notizie in-
torno a questo notevole personaggio del secolo XIV.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 405
trarca, il testo dell'edizione suona così : « Cuius tocius populi anima est ipsa
« libertas; quam tam prò eius noviter gustata dulcedine quara diucius
« perplesso servitutis errore Komani omnes prius paterentur animas eorum
« evelli cordibus quam reduci in amarissimam servitutem ». Ai ben costrutti
orecchi del Petrarca e di Cola di Eienzo sarebbero sonati sgraziatamente tutti
quei tam quam ! E poiché il codice di Tor. ha quam tum, correggerei : « quam
« tum prò eius noviter gustata dulcedine cum diucius perpesso servitutis
« errore. ... ».
Lettera 35 (ediz. I, p. 128): fu omessa la parola missarum dopo copia lit-
terarum com'è nella soprascritta di questa lettera nel cod. Tor.
Ma di fronte all'importanza e, considerata nel suo insieme, all' eccellenza
dell'opera compiuta dal Burdach e dal Piur, noi abbiamo quasi esitato a sof-
fermarci su qualche lacuna e su qualche lieve difetto. Opere come queste se-
gnano una data negli studi storici, perchè i documenti che riguardano Cola
di Rienzo, non giovano soltanto a dar rilievo ad una grande figura storica,,
ma anche ad illustrare uno degli atteggiamenti più caratteristici e più si-
gnificativi dello spirito italiano all'alba della Rinascita. E mi sia lecito chiu-
dere con un augurio. Tolta ogni più lieve ombra di dubbio sull'autenticità
della biografia di Cola di Rienzo dell'Anonimo (1), che a me appare sempre
di più un vero ed autentico gioiello della nostra letteratura storica medievale,
è ormai da sperare che l'Istituto storico italiano ne intraprenda ben presto
l'edizione critica, se pure non vorrà abbandonarla alle cure della Deutsche
Kommission der Berliner Akademiel
Pietro Fedele.
PUBBLICAZIONI UMANISTICHE
I, BACCIO ZILIOTTO. — La cultura letteraria di Trieste
e dell'Istria. Parte prima, dall'antichità all'umanesimo. —
Trieste, Ettore Uram, editore, 1913 (8°, pp. 196).
II. FRANCESCO LO PARCO. — Niccolò da Reggio antesi-
gnano del risorgimento dell'antichità ellenica nel se-
colo XIV. Estratto dagli Atti della R. Accad. arch. lett.
belle arli di Napoli. — Napoli, 1913 (8°, pp. 71).
IH. BICE BORALEVI. — Di alcuni scrìtti inediti di Tom-
(1) Anche Ugo Balzani nel sno classico libro Le cronache italiane nel Medio Evo,
3» ediz., Milano, 1909, non sa dichiararsi scevro di ogni esitazione riguardo all'au-
tenticità della biografia dell'Anonimo, i cui pregi per altro egli mette assai bene
in rilievo.
406 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
maso Morroni da Rieti. Estratto dal Bollettino della
R. Deputaz. di storia patria per r Umbria. — Perugia,
1912 (8% pp. 82).
IV. PAUL MAAS. — Fin Notizhuch des Cyriacus von Ancona
aus dem Jahre 1436. Estratto da Beitràge zur For-
Hclmng. Stiidien und Mitteil. aus dem Antiq. J. Rosen-
thaU Folge I. — Mùnchen, J. Rosenthal, 1913 (pp. 5-15).
I. Anche l'umanismo istriano ha trovato il suo storico : dotto, acuto, co-
scienzioso. Veramente il volume, che è il primo di due, porta il sottotitolo:
DalV anticliità alV umanesimo ; ma l'antichità vera e propria offre così scarsa
materia, che non ci possiamo formare un'idea della cultura istriana di quei
tempi, se pure una ce ne fu; e il poco che la produzione latina e volgare
dell'Istria ci manifesta all'uscir dal medio evo è un riverbero della cultura
veneziana. Sicché una cultura istriana non ci si rivela che nel periodo uma-
nistico.
Qui pure, non lo dobbiamo nascondere, manca una vera personalità regio-
nale; ma il territorio, da cui vengono all'Istria gli impulsi, non è più ri-
stretto a Venezia, essendosi allargato all'Italia. E per tal guisa l'Istria ha
un umanismo suo, in quanto partecipando al movimento generale italiano
sviluppa un'attività letteraria propria con le forze proprie ; anzi non di rado
ricambiando largamente alla patria comune ciò che da essa aveva preso ; perchè
ad es. il Vergerlo, il più grande umanista istriano, non visse quasi mai in
patria, mentre della sua varia, meravigliosa e originale produzione godettero
il frutto Padova, Bologna, Firenze e la corte pontificia.
Il capitolo III, dedicato appunto al Vergerlo, è senza paragone il migliore,
non perchè negli altri la facoltà espositiva dello Ziliotto sia venuta meno, ma
perchè la materia vi è più abbondante e più attraente. È un capitolo con-
dotto con ordine e lucidità e che si legge con vero diletto : le notizie biogra-
fiche e storiche vi sono intrecciate con l'analisi delle opere in una maniera
così felice, che ben pochi altri capitoli umanistici saprei mettergli a paro.
Il capitolo IV è consacrato agli elementi della cultura umanistica e in par-
ticolar modo, com'era da aspettarsi, alle scuole che si venivano quali insti-
tuendo, quali riformando nelle varie città. Nel V invece, che è anche l'ultimo
del volume, è presa in esame la produzione umanistica: e questo capitolo si
apre e si chiude con due umanisti che sono i più importanti dopo il Vergerio,
cioè con lo Zovenzoni e con G. B. Goineo. Lo Zovenzoni, allievo di Guarino^
fu maestro, correttore di testi in tipografia, ma soprattutto poeta lirico: il
Goineo fu uno spirito complesso e versatile, letterato e medico, con tutti i
caratteri dell'umanista battagliero, avendo preso parte alle contese letterarie
che allora erano più in voga: sul ciceronianismo, sulla preminenza da darsi
alle lettere o alla milizia, alla medicina o alla giurisprudenza. E fu inoltre
uno spirito illuminato, poiché finì col parteggiare per la riforma.
Seguono ora alcune osservazioni speciali : P. 49, le nuove commedie di Plauto
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 407
non furono scoperte al tempo del concilio di Basilea, ma le portò a Roma il
Cusano nel 1429.
P. 51, Francesco Barbaro potè essere alunno del Ravennate a Venezia,
ma non a Firenze.
P. 52, della metrica di Francesco Zabarella ho dato un'ampia relazione
in Biblioteca delle scuole italiane, IX, 1904, 2-15 gennaio, pp. 3 sgg.
12-15 giugno, pp. 5 sgg.
P. 77, sulla dimora del Vergerlo in Germania al servizio dell'imperatore,
si vedano alcune date presso W. Altmann, Hegesta imperii XI. Die Ur-
hunden Kaiser Stgmunds, nn. 4233 J., 5894, 6199.
P. 121, i Turci erano chiamati Teucri, perchè occupavano il suolo dove
una volta sorgeva la Teucria (Troia). Vedasi la lettera di Francesco Filelfo,
Venetiis, 1502, f. 59'". Del resto gli umanisti ignoravano che l'origine del
Turci era fatta risalire ai Teucri sin dal secolo VI dell'era volgare (cfr. Rhei-
nisch. Mus., LI, 1896, 518).
P. 123, un codice del sec. XV, che contiene la traduzione deW Odissea
di Andrea Divo, è il Vaticano 1568.
Da ultimo alcuni emendamenti ai testi latini citati nel volume.
P. 52, n. 3, si legga e interpunga: « ut et in artibus... licentiatus, ita
« nunc in utroque iure... contigerit, et, si deus dederit, ... statui ».
P. 116, le parole ad celerrimam fahidae scriptionem non si possono in
verun modo trarre al significato di stampa: ivi si parla di trascrizione af-
frettata.
P. 132, nel carme dello Zovenzoni andava rilevato che Crispo era assai
giovane (puer) e che faceva fermare gli astri ad ascoltare i suoi canti. Le
parole «e reddam tihi s'interpretano: faccende tali, 'che io non ti possa re-
plicare '. — Nell'esametro, alla linea 7 togliere sum.
P. 135, n. 2, quum iisce: si corregga quin hisce.
P. 138, in nota: quid tibi cordi erat : leggasi corrf^« (errore di stampa?).
P. 139, nel primo verso, invece di oculos leggi oculis (errore di stampa?).
P. 148, Nulla cuius curat: si corregga eius.
P. 179, nocte diesque: si legga dieque.
II. Credo che nel titolo di quest'opuscolo siano capovolti i termini storici,
perchè Niccolò da Reggio, anziché precorrere i nuovi tempi, chiude i vecchi;
anziché il primo, è l'ultimo di una serie. Il suo metodo è tutto medievale,
mentre la vera risurrezione dell'ellenismo va assegnata agli italiani del set-
tentrione, che strinsero rapporti diretti e molteplici con Costantinopoli. Il
mezzogiorno, per questo riguardo, entrò nell'orbita del nuovo movimento sol-
tanto un secolo dopo. •
Ma ciò non infirma minimamente i meriti grandissimi di Niccolò e i pregi
dell'opuscolo del Lo Parco, che vi ha speso attorno molta dottrina e molta
diligenza. Ricostruisce anzitutto con buoni dati la biografia di Niccolò, for-
mulando l'ipotesi, non improbabile, che abbia fatto gli studi di medicina a
408 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
Salerno. La nascita si può collocare press'a poco nel 1280 ; l'ultima data certa
della sua vita ci riporta al 1345.
In secondo luogo l'autore considera Niccolò nell'opera sua varia e feconda
di traduttore dei medici greci, specialmente di Galeno, escludendo giustamente
che abbia tradotto anche da Aristotile e dall'arabo. Rileva l'onore altissimo
che gli spetta per avere ricondotto la medicina alle fonti dirette della grecità
e illustra con esempi efficacissimi il metodo scrupolosamente letterale delle sue
traduzioni.
Da ultimo il Lo Parco stende un accurato e potremmo dire completo elenco
delle traduzioni di Niccolò: prima le traduzioni che s'incontrano nei mano-
scritti, poi le traduzioni che s'incontrano nelle stampe, compresa la rarissima
di Pavia degli anni 1515-16.
In qualche precedente lavoro il Lo Parco non ha sempre tenuto a freno la
sua vivace fantasia: in questo il rigore del metodo ha fatto così notevoli pro-
gressi, che bisogna rallegrarsene sinceramente con lui.
Soggiungo alcune indicazioni bibliografiche.
W. Goetz , Kònig Robert von Neapél. Seine Personlichkeit und sein
Verhàltniss zum Humanismus, Tiibingen, 1910. Il Lo Parco insiste volen-
tieri sul re da sermone di Dante ; dal Goetz apprenderà che ci sono rimaste
289 prediche di re Roberto.
C. Kalbfleisch, Galenus: de victu attenuante, Teubner, 1898 (di sul
cod. Parig. lat. 6865 e Dresd. D. b. 92).
H. Schone, Galenus: de partibus artis medicativae, Greifswald, 1911.
Con una copiosa bibliografia.
Inoltre un paio di codici.
Cod. di Praga 1404, sec. XIV De marasmo, De sompno, De temporibus
universalis egritudinis, De cura icteri.
Cod. Vatic. Barber. lat. 179, sec. XIV: f. 109 Incipit ìiber G(aleni) de
spermate] f. 116^ Explicit liber de spermxite qui etiam dicitur de zoogonia
idest de generatione animalium. Translatus de greco in latinum a Nicolao
de Beglo de Calabria.
III. Degno di considerazione ci pare questo lavoro della signorina Boralevi,
nel quale è utilmente riassunto tutto quello che finora s'è scritto sul bizzarro
e avventuroso umanista, soldato e diplomatico. Nella prima parte l'autrice espone
brevemente, con ordine e chiarezza, le notizie biografiche del Morroni e nella
seconda passa in rassegna le sue opere latine e volgari, prosastiche e poetiche,
di alcune delle quali, veramente importanti, comunica i testi ancora inediti.
Solo dispiace dover notare che un po' per distrazione del tipografo, un po'
per l'imperizia di coloro che fornirono alla B. le copie, i documenti nuovi
sono mal presentati. Di uno almeno darò io qui la lezione esatta, perchè serve
a richiamare l'attenzione sul nome di un umanista milanese ingiustamente
dimenticato: intendo di Bernabò Carcano (egli si firma ora Bernabos de
Carchano ora Bernabos Carchaneus), intorno al quale si legge un magro
cenno nell'Argelati, Bihl. script. Mediai, I, ii, 297.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 409
Il codice Ambrosiano H 48 inf., donde la B. si fece trarre un'elegia latina
contro il Morroni, contiene molti componimenti del Carcano; e sua è anche
l'elegia, che l'autrice pubblicò anonima : sua, perchè corrisponde perfettamente
e nel contenuto e nella forma alla lettera in prosa, pure pubblicata ivi, la
quale porta il titolo : Epistula cantra antedictum d. Thomam Aretinum (leggi
Beatinum). amatissimo ac generoso lohanni Vicecomiti B. C. sai. dicit pi.
Ora le due iniziali B. C. nascondono per l'appunto il nome di Bernabò Car-
cano. La poesia e la lettera furono scritte dal Carcano nel marzo del 1438
(Scripta die XV marcii 1438), quando il Morroni capitò a Milano a tenervi,
come oggi diremmo, conferenze pubbliche di poesia e d' improvvisazione. Narra
infatti il Carcano nella lettera : « Maxime vero cum se iactarit (Thomas) in
« contione non volgari ex tempore posse de omni materia sibi proposita et
« diserere et eleganter absolvere: hoc est argumenta singulorum recensendo
« et illis ipsis cum orationibus tum rittimis et ver gibus abso-
« lutiones prestando ».
Ecco dunque la poesia (cod. Ambros. H 48 inf., f. 90) :
Ad magistrum Antonium Raudensem theologum summe integritatis virum (in mar-
gine: Cantra prefatum d. Thomam oratorem et militem).
Raude, quìs externis venit peregrinus ab oris,
Quem tantum demens volgus in astra ferat?
An deus ille aliquis celo delapsus ab alto
Insubres petiit qualibet arte rudes?
5 Sed si dispicimus, sane mortalis et ipse est
Imperioque necis subdita vita sua est.
Nos quoque iam Ligures totum penetravimus orbem,
Ora nec est variis clarior ingeniis.
Hio equidem expressos levi de marmore vultus
10 Artificum manibus vivereque era putes.
Rite coloratas hic conspirare iìguras
Cerno et motus quosque referre suos.
Pretereo insignes calathis tenuique Minerva
Nimphas et pictis addere signa thoris.
15 Invictasque arces admotaque culmina celo
Non repetam atque auro tempia opulenta deum
Innumerasque artes, que tecta per ardua fervent,
Exercet quales sordida turba frequens.
Soilicet anne etiam nobis ignotus Apollo,
20 Nesoia Calliope oredidit ille foret ?
Ille quidem media populi spectante corona
Aroane mentis qui reserarit opes?
Heu que tum, demens, que te sententia vertit,
Virtutem si qua est explicuisse tuam ?
26 An melior fieri, si publicus, ipse putasti ?
An novus indocta iam deus urbe eoli ?
Anne tuum obscurum terris nigreaeere (1) nomen,
Ni te iactares, proh! timor ullus erat ?
(1) ingrescere cod.
410 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
At neque te virtus neque te precordia taugunt
30 Conscia sed stoliduni nomen inane eapit.
Debueras certe potius tacuisse neque ipsum
Tollere et insanis exposuisse viris.
Qui preoor obtusam plebem censere putaris
De te aliquid, que se nescierit penitus ?
35 Inter se fictis (1) quid concertare necesse est,
Quos et vera quidem continuisse decet ?
Sed quid inauditum aut dieta mirabile fingis,
Pollicitus vana spe niiserosque foves ?
Crediderasne Ytalis nemo prognatus ab oris
40 Sciret pertectos (2) dissoluisse dolos ?
Ah ne plura, precor, vecors et comprime vocem,
lactator titulis et moderare tuis.
Heu pudeat tantis demum spumescere sponsis
Nam murem peperit terra tumore tumens.
45 Hei vesanus abi, nostris concede camenis ;
Ite procul, tusce, trans maria alta, dee.
Sunt quoque Parnasi duplicata cacumina nobis,
Hic quoque Pegasea defluit amnis aqua.
Stant circum pariter none eantantque sorores,
50 Has etiam lauro protegit umbra cadens.
Hic et Calliopeque parens et pulcher Apollo,
Hic etiam vates fovit uterque suos.
Desine te medios Inter iactare Marones,
Nec (3) cantu Insubres vincere posse puta.
55 Desine te tantum celo equarier alto,
Non equidem Latio solus in orbe canis.
Tu vero tu, Rande pater, non surgere centra
Pergis et hoc Ligurum dedecus ipse feras ?
Tu potis Argivos contra contraque Latinos
60 Solus et haud similem Phebus uterque videt.
Il poeta si rivolge al famoso teologo umanista Antonio da Rho (1 ; 57-58),
del cui valore nutre un'altissima stima (59-60). Di fronte al forestiero {pe-
regrinics, 1) Morroni egli pone in efficace rilievo i meriti della sua Milano,
le cui arti ne hanno diffusa la fama per il mondo (7) : la scultura (in marmo
e bronzo, 9-10), la pittura (11-12), le industrie tessili (13-14), i monumenti
architettonici (15-16), le officine meccaniche (17-18), la letteratura e la poesia
(19-20, 47-52). Le tusce dee (46) saranno le muse volgari, le muse dei rittimi.
Tecnicamente la poesia non è mal condotta; tolti due iati (12, 55), il metro
è rispettato. Aspri i due iperbati qui (22) e que (38) imposti dal metro.
Nel lessico vanno notati i due verbi nigrescere (27) e spumescere (43) con
significato metaforico; nella sintassi due volte credo (20, 39) in paratassi e
timor (27-28) con l'accusativo e l'infinito.
IV. Il Maas dà ampie notizie di un nuovo autografo di Ciriaco, contenente
parte della relazione del suo viaggio archeologico intrapreso nella prima metà
del 1436 traverso rillirio, l'Epiro e la Grecia.
(1) diotis cod. (2) proteotos cod. (8) Ueo cod.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 411
Per la storia deirumanismo il codice reca un curiosissimo documento, finora
ignoto, l'invettiva di Ciriaco, autografa, contro Poggio, nella polemica soste-
nuta da costui e da Guarino sulla preminenza di Scipione e di Cesare. Del-
l'invettiva di Ciriaco sapevamo solo quel tanto che ne dice Poggio in una
lettera al Bruni, con la data Ferrarie priclie kaìenclas aprilis , perciò del-
l'anno 1438, e non 1437, come dubitativamente suppone il Maas (p. 14), perchè
Poggio era a Ferrara col concilio nel 1438.
Di una delle tante note disseminate nel volumetto Ciriacano il Maas non
riesci ad afferrare il senso (p. 9). Sono trascritti prima i due versi omerici,
ai quali Fidia s' inspirò per la sua statua di Elena, poi gli altri tre, ai quali
s'inspirò per la statua di Giove. Indi segue:
ber Iiistinianus Venetus
primi duo versus sic arbitror latine cantari possent
haud equidem indignum talis si femina multos
Europam atque A.siam bello vexaverit annos.
Abbiamo cioè il tentativo di Bernardo Giustiniano, figlio di Leonardo, di
tradurre in latino i due primi versi. Resta a vedere se la nota è veramente
di mano di Ciriaco o di Bernardo.
Approfitto di quest'occasione per dire due parole di un altro autografo di
Ciriaco, presumibilmente ignoto, che si conserva in Roma nel cod. Alessan-
drino 253, cart. del sec. XV, di fogli 16.
Il codice contiene solo due componimenti, il primo dei quali è dello stesso
Ciriaco: f. 1-12^ Kyriaci Anconitani de Pont iano Taraconensium regis con-
flictu navali commentari um ad Franciscum Scalamontium equitem prae-
stantem. Vellem o quam lubentissime praestans et magnanime — haurire
velis. Exactum Anconi idibus septembrib. 1435. Fino al f. 2 scritto in verde,
dal f. 2' in nero. È una seconda bella copia, simile a quella del cod. Ambro-
siano R 93 sup., da me descritta in Miscellanea Ceriani, 244-47.
L'altro componimento è una lettera di Pasquale Sorgo ragusino al cava-
liere siciliano Nicola Ansalone: f. 13^ Exemplar liti, ex Paschale de Soi'go
Raguseo nobili, qui est cum despote Serviae inter primores et fuit in exer-
citu Pannonorum cum transnarent Danuhium. Scripsit ad N. Ansalonem
Siculum equitem clarissimum apud Arachteam Acarnanum regiam. Ciriaco
prima copiò la lettera e poi la sottopose a una revisione stilistica, egli che
in fatto di stile avrebbe avuto tanto bisogno della revisione altrui. Ne traggo
alcuni passi di maggiore importanza storica.
[f. 13''] Ut notificem tibi de novissimis (1) in partibus contigentibus (sic) (2),
Comes lohannes sive Coniati Janus regni Hungariae gubernator magno suo
(1) Ciriaco corresse: novis istis.
(2) Ciriaco aggiunse: ci. eq. X. (= dare eques Nicolae).
412 EASSEGNA BIBLIOGRAFICA
cum exercitu k. sept. in Choino (1) advenerat et copias transmeavit in So-
boticza ad hostium Lamoranae ; [f. 14^] Est et una cum Jano duce prefato
maximi pontif. N. (= Nicolai V) legatus in exercitu Xpistoforus Garatonius
episcopus Coroneus (2) et pleri ex Pannonia proceres et procerum filii; [f. 15]
Salgianich Turca (3) suo cum exercitu optimo ordine paratus est; [f 15'] Meus
preterea dominus despotes sequendi aperte exercitum adhuc anceps est, puto
suo prò posse (4) neutralem se in medio manere curabit. Ego vero hac prò
re in exercitu sum et ter iam orator prò rei compositione laboravi nec adhuc
profeceram ; [f. 16] Haec tibi quam brevia raptimque tibi prescripsi (5); per
alias vero me maiora ad te et latiori ordine scripturum habeto. Optimo maxi-
raoque iuvante love. E felicibus xpistianissimisque castris. Ili idub. (6)
sept. 1448.
Su queste operazioni di guerra cfr. Raynaldi Ann. eccl., XVlll, a. 1448,
nn. 6-7.
Remigio Sabbadini.
H. B. CHARLTON. — Castelvetro's Theory of Poetry (Publi-
cations of the University of Manchester ; Comparative Lite-
rature Series ; n° 1). — Manchester, at the University Press,
1913 (160, pp. xvi-221).
Dopo una serie di studi generali e speciali su la vita, l'opera, il valore
critico del Castelvetro (7), usciva, come è noto, nel 1904 una vivace requisi-
toria del compianto Antonio Fusco (8) ; il quale, squadernando per ogni verso
la famosa Sposizione della Poetica aristotelica e notomizzandola con l'occhio
del filosofo moderno e facendola allegramente a brandelli, poteva affermare
— pur attenuando la crudezza del giudizio con certe lodi di « merito este-
riore » — che « quasi nessuna delle opinioni e delle teorie » del Castelvetro
« va pigliata sul serio » e che « in sé e per sé il libro è carta da straccio » (9).
(1) Ciriaco soprasorisse : oppido.
(2) Ciriaco corresse: olim Coroneus.
(3) Ciriaco corresse: turcua.
(4) Ciriaco corresse : quoad poaae.
(6) Ciriaco canoftUò: tibi e corresse: perscripsi.
(6) Ciriaco corresse: idus.
(7) Ricordo, fra i più importanti, T. Sahdonnini, Lodovico Castelvetro e la sua fa-
miglia, Bologna, Zanichelli, 1882; V. Vivaldi, Una polemica nel Cinquecento ecc.,
Napoli, Morano, 1891; D. A. Capasso, Note critiche sulla polemica tra il Caro e il
Castelvetro, Napoli, Trani, 1897; G. Cavazzuti, Lodovico Castelvetro, Modena, 1908;
ii. Bertoni, Q. M. Barbieri e il Castelvetro, in questo Giorn., XLVI, 888 segg.
(8) Antonio Fusco, La Poetica di Lodovico Castelvetro, Napoli, Pierro, 1904; cfr.
recens. Gentii.r, in Critica, II, 885 sg., F. Neri, in questo Oiorn., XLVII. 149 sgg.
(9) Op. cit., 267.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 413
Ma di questi fortissimi colpi il critico cinquecentista non è morto, anzi oggi,
almeno oltralpe e oltremare, è più vivo di prima. Ed è gran cosa che pro-
prio gli stranieri vengano a rifarci il latino per insegnarci il punto di vista
storico a giudicar le opere nostre (1)! Il Fusco accusa il Castelvetro di una
specie di trucco : fingere di commentare Aristotele per aver mezzo di mo-
strare e accreditar le sue teorie (2) ; ed egli espone e combatte e scompiglia
le teorie del Castelvetro per metterci innanzi la sua dottrina estetica ; e la de-
terminazione del posto che spetta a costui nella storia della critica passa
quasi in seconda linea. Così che lo studio del Charlton è tutt'altro che inu-
tile, e, se si guarda al metodo rigoroso con cui è condotto e alle conclusioni
cui poco nuoce il tono di temperata apologia, dirò anzi che era necessario;
come quello che snebbia la fisionomia del critico da certe nuvole di cui amò
circondarsi, tra le quali parecchi studiosi non seppero coglierne i tratti carat-
teristici: utilissimo ad ogni modo, perchè dall'esame accurato e sottile delle
dottrine di lui, in confronto con quelle dei critici dell'età sua, ed anche delle
età antecedenti e successive, si può trarre un giudizio equanime del valore sto-
rico e assoluto dell'opera castelvetrana. Per far questo occorse certo al Ch. quella
lunga pazienza, cui mi sottomisi io stesso altra volta per dar conto brevemente
delle principali teorie della Poetica (3), e che dovette scappare parecchie volte
al Fusco, fino a fargli esclamare: « quel libro nasconde tante trappole quante
« sono le parole; e i ripieghi, i compromessi, i rimandi, i circoli viziosi, le
« petizioni di principio non si contano » (4). Ma oltre all'amorosa pazienza
gli occorsero larga preparazione di studi sui critici del Rinascimento e chiaro
intelletto dei problemi estetici. Egli volle penetrare nel vero spirito della dot-
trina castelvetrana: non s'arrestò innanzi ai curiosi labirinti stilistici, entro
cui il critico volontariamente s'aggira o involontariamente s'avviluppa; ne
segui abilmente le traccie, investigando le vie per cui quello cammina, e vide
i termini a eui giunge; e i risultati delle sue ricerche ci ha esposti con so-
brietà e sopra tutto con ordine e chiarezza. Questa chiarificazione, per dir
cosi, delle teorie del Castelvetro è il miglior servigio reso al faticoso pensatore,
n libro del Ch. è ben pensato e disegnato. La bibliografia, se pur ha qualche
(1) Il Fusco — scrive il Charlton (p. 173) — lancia una grave accusa contro il
Castelvetro: trova che non è né un Kant, né un Hegel, né un Croce; e cosi è
mosso al sarcasmo. Risum teneatis è il colpo di grazia che egli dà a parecchie teorie
del Castelvetro: anzi questo verso d'Orazio può essere il motto dell'intero libro
del Fusco. La sua attitudine ci appare severissima e anche molto ingiusta : egli
non adotta mai un punto di vista storico, ma sempre un punto di vista assoluto.
Egli guarda, come se nell'uomo che nel secolo XVI insisteva che la poesia non è
storia, che la poesia è puramente una funzione estetica, che il poeta deve soprat-
tutto essere originale e che la poesia non è una» pura pratica di burle e strata-
gemmi poetici fatti sacri dall'uso, non trovasse, più che altro, che « matter for
professorial hilarity and sarcasm ».
(2) Op. cit, 29.
(3) Lodov. Castelvetro cit., cap. VI, pp. 189 sgg.
(4) Op. cit., 28-29.
414 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
omissione, si può dire ampia rispetto all'argomento speciale. Felice l'ordine e
la distribuzione della materia nei tredici capitoli, oltre l'introduttivo, di cui
si compone il volume.
Nell'introduzione è una sufficiente notizia della vita del Castelvetro, de-
sunta dalla biografia scritta dal Muratori [« Librarian to the Duke of Mo-
dena »: Cameade?]: fonte un po' vecchia, diciamo la verità, e sopra tutto in
certi punti sospetta: non avrebbe nociuto al Ch. la conoscenza degli ultimi
studi sulle vicende del critico, quantunque nella narrazione sommaria non
si possa dire che egli cada in errori. Nel primo capitolo è tracciata breve-
mente la storia della critica italiana fino al Castelvetro, con l'opportuno aiuto
dei noti lavori del Saintsbury e dello Spingarn (1); ma non si tien conto
0 si tace, e non è bene ad ogni modo, àeWEstetica del Croce.
Nei capitoli II-X sono esposte le principali teorie castelvetrane ed oppor-
tunamente confrontate con quelle dello Scaligero, del Minturno, del Fracastoro.
del Tasso, che contrastarono con maggiore o minor fortuna il campo alle prime.
Il Ch. si pone tosto a chiarire che cosa intendesse il suo autore per poeta
e per arte della poesia. Per il Castelvetro l'arte imita la natura come una
energia creativa; e il segno dell'artista è la sua originalità, il suo genio per
l'invenzione, « l'ingegno a trovare » , per virtù del quale egli gareggia con la
natura. Ma, contro all'opinione dei più, non ammette nel poeta Vispirazione,
facendosi forte a questo proposito di un passo controvei-so di Aristotele ; il
poeta non è « guidato dalla ventura o dal caso »; sa e deve sapere il perchè:
quindi l'importanza dello studio dell'arte, quindi la ragion d'essere della cri-
tica, intesa a prescrivere le leggi della poesia. Questo concetto della critica
con funzione principalmente legislativa e inceppatrice era generale e pur ac-
cettato dal Castelvetro ; il quale però assegna ad essa, più chiaramente d'ogni
altro, anche una funzione apprezzativa: la Poetica d'Aristotele, egli dice, è
un grande aiuto a « comporre convenevolmente o a giudicare direttamente i
poemi composti ». L^Aiie poetica è dal Castelvetro definita come « una rac-
« colta di tutte le dottrine necessarie, ordinate con bella disposizione per in-
« segnare a fare un lodevole poema »: posto questo, al Castelvetro si aprivano
due vie: tentare una teoria speculativa, con la ragione come autorità, o ac-
cettare certe opere come modelli d'eccellenza, oltre i quali non si potesse
andare : evitò la seconda con disdegno e f\i salvo dai molti errori e dalle ido-
latrie per l'antichità dei suoi contemporanei ; si mise per la prima ; ma da molti
eiTori si tenne pur lontano, in grazia delsuo metodo di sottomettere la ragione
alla esperienza : egli ha — scrive il Ch. — « a wide survey as a basis for his
« speculation, and above ali, a conviction which refused to allow a priori
« reason to oust experience ». Egli, dunque, negata al poeta l'ispirazione e
messolo alle prese con le difficoltà dell'invenzione, la quale sola mostra l'uomo
poeta, viene a formulare con rigor di logica la famigerata teoria della dif-
(1) Saintsburv, a Higtory of CHticùm, Edinburgh, 1900-1904; Spinoarx, A History
of Literary Criticism in the Renaissance, New York, 1908'.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 415
ficoltà superata, che trovò tanta fortuna specialmente in Francia fino a di-
venire col Voltaire « essential part of the classical creed ». E, con lo stesso
rigor di logica, ne deduce la proscrizione della storia, come soggetto della
poesia, e della imitazione degli antichi, perchè l'autore che narra fatti avve-
nuti 0 « ruba » non fa nessuna fatica nell'inventare.
Poesia è « rassomiglianza di coloro che fanno » ; per il Castel vetro come
per Aristotele, l'azione è la cosa principale. Per il Castelvetro ogni pro-
duzione letteraria che « rassomiglia » è poesia, e il verso non è essenziale.
Curiosa una delle ragioni addotte in favore dell'uso del verso: cioè che con
questo si mostra più facilmente che il soggetto è immaginato; e pur curiosa
l'altra: per maggior verosimiglianza il dramma dovrebbe essere in prosa;
ma dovendo gli attori parlar forte per farsi udire dalla moltitudine potreb-
bero sembrare sordi o pazzi ; « la qual sconvenevolezza cessa ne' ragionamenti
« fatti in verso, portando per forza con esso seco lo innalzamento della voce
« senza che altri paia o sordo o pazzo ». Trattando ^t\V imitazione \\ C. giunge
con ragionato procedimento a distinguere l'imitazione che è mera copia dalla
idealizzazione, propria del poeta : « But idealisation is not the creation of a
« new and golden world in comparison with which that of nature is but
« brazen. Nature in her intentions is impeded by accidental obstacles: her
« essential excellence appears but rarely in its full development. But art seizes
« nature's aims, learns her mcthods and, unrestrained, draws them forth to
« their naturai perfection, as if in rivalry with her ». E, contrastando alle
opinioni degli aristotelici e platonici, il Castelvetro affenna che l'artista deve
fissare i propri occhi sull'oggetto stesso e non sopra un « ideale » estraneo.
Venendo a stabilire quale sia il soggetto della poesia, espone una delle sue
teorie fondamentali : la storia e la scienza cercano la verità ; ma, intendendo
la poesia a porgere per <■< rassomiglianza » diletto agli ascoltatori, la sua es-
senza non può aver luogo nella verità. Stabilita la differenza tra venta e
rassomiglianza, notato che la verisimiUtiidine dipende dalla verità, come la
cosa rappresentata è prima della rappresentante, conclude che l'arte della
poesia dipende dall'arte della storia. Qui il Ch. affronta le molte difficoltà
che s'oppongono a chi voglia formulare con precisione la teoria del verosimile,
specialmente per l'incertezza nell'uso della parola in tutti i critici del Rina-
scimento ; e conclude, a buon diritto, che il Castelvetro accetta la teoria del
verosimile senza riserva e nel suo significato più letterale : « la cosa rappresen-
« tante dee bavere quello che ha la cosa rappresentata e non più, nò meno »;
così la poesia non può mai in nessun caso contraddire alla storia. E, seguendo
il critico modenese attraverso le sottili distinzioni, il Ch. giunge a stabilire
che per lui soggetto della poesia non è che Vazione umana ; intendendo per
azione anche l'attività spirituale, ma dando a umana senso ristrettissimo.
Non sono pertanto materia di poesia la vita anjjpale, gli aspetti della natura
e via dicendo ; e le proscrizioni dalla classe dei poeti sono moltissime, e spesso
non ingiuste. E proscrive il Castelvetro le « sole maniere » degli uomini e
le « lezioni filosofiche », cioè la materia satirica e didattica. Nell'ulteriore
distinzione tra poesia e pittura, egli non considera che la pittura-ritratto, e
416 RASSEGNA BIBLIOGBAFICA
accosta l'arte della pittura, che cerca copiare, a quella della storia che ritrae
i fatti avvenuti. Ma con la distinzione fondata sulla natura della materia
rappresentata (il pittore imita la « bontà del corpo », la bellezza, il poetala
« bontà della mente », cioè il carattere, le azioni, ecc.) cammina solo e pre-
corre in qualche modo alle profonde distinzioni del Lessing.
Il Castelvetro chiaramente e saldamente assegna alla poesia lo scopo di
« dilettare e ricreare », tanto da giustificar nell'opera d'arte qualche difetto
0 allontanamento dalle regole, se non si distrugga il fine del diletto. Così
preferisce Vunità d'azione « perchè diletta di più »; per la stessa ragione
antepone la tragedia all'epica. Singolarissima, perchè contraria alle conclu-
sioni del Minturno, dello Scaligero, del Fracastoro e perfino del Tasso, è la
netta separazione tra arte e morale : la morale ha le sue leggi, la ragion di
stato le sue: posson proscrivere le opere, ma non dettare le leggi dell'arte.
Unico è il Castelvetro a sostenere che la poesia deve dilettare la moltitudine
rozza, movendo dall'osservazione che le tragedie e le commedie sono rappre-
sentate al popolo e generalizzando stranamente questo fine speciale. Il diletto
deve sorgere dall' « industria del poeta », cioè dall'originalità e dalla difficoltà
superata, e, quanto alla materia, dal meraviglioso, « lo stupore per cose ve-
rosimili ».
Prima di esporre la teoria della tragedia e della commedia, il Ch. tratta
di quei punti che riguardano il dramma in genere. Per il Castelvetro il
dramma è scritto per essere rappresentato e non può dar lo stesso diletto
nella lettura. Esso si distingue dall'epica, perchè rappresenta cose per mezzo
di cose e parole per mezzo di parole; mentre l'epica rappresenta cose e
parole per mezzo di parole. Dalle rigorose esigenze della verisimilitudine
hanno origine le famose unità, che il Castelvetro per primo formula con
risolutezza e precisione, benché ve ne siano accenni, ma incerti e confusi,
anche in altri critici : la rappresentazione spende tante ore in rappresentare
le cose quante si spendono in farle; e lo spazio del luogo è ristretto a quel
che si vede. Quanto all'orario di 12 ore, attribuito al Castelvetro, il Ch. os-
serva che si tratta di un limite massimo: il principio del critico è la coin-
cidenza dell'azione e della rappresentazione. Nell'epopea le unità di tempo e
di luogo non son necessarie, ma son tuttavia dimostrazione d'eccellenza per
difficoltà superata. Per Aristotele l'unità principale, anzi la sola, richiesta è
quella d'azione : il Castelvetro rovescia l'ordine ; l'ammette come conseguenza
delle altre due ; anzi giudica più dilettevole il dramma di più azioni ; e per
l'epopea difende la moltiplicità. Ma l'azione una, se raggiunga diletto uguale
a quello di più azioni, importa maggiore difficoltà e dovrà essere nell'opera
del poeta che voglia mostrarsi eccellente.
Il Castelvetro è d'accordo con Aristotele nella definizione di tragedia; ma
per lui il fine è indurre compassione e spavento, e la purgazione dalle pas-
sioni — voluta da Aristotele — è quistione morale e antiestetica. Posto
ciò deduce che un dramma ha sufficiente diritto al nome di tragedia, se in
esso la compassione e lo spavento sono sorti indipendentemente dalla conclu-
iiione ; e questa non segna, come altri volevano, la differenza essenziale tra
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 417
arte tragica e arte comica; egli riconosce peraltro che in generale le tra-
gedie che generano compassione e spavento hanno fine triste ; ad ogni modo,
e questo è hen più importante, « le solutioni delle favole deono a venire per
s la favola stessa, cioè che l'uscite de' pericoli e che i cessamenti delle diffi-
* colta sopravenute nelle favole, deono avenire per mezzo delle cose della
^ favola, che di necessità o di verisimilitudine seguitino dopo i pericoli o le
V difficoltcà ».
La tragedia, essendo poesia, non è una galleria di ritratti : la favola è la
cosa principale; i costumi (i caratteri) son cosa accessoria e pur necessaria
all'azione, poiché « senza essi non si fa l'azione ». Rispetto alla poesia la
bontà 0 malvagità grande o mezzana dell'eroe non ha importanza, se non in
quanto possa generare compassione o spavento (è di nuovo l'esclusione del
punto di vista morale); ma l'eroe «deve portare l'impronta di nobiltà «.In-
tendendo per nobiltà la condizione sociale elevata, e però reputando essere un
re l'eroe migliore della tragedia, il Castelvetro esige anche la nobiltà inte-
riore, una specie della « grandeur d'àme bien exprimée » del Corneille ; e, di-
stinguendo le passioni e i godimenti e la capacità di questi e le opere tra grandi
e privati (nel che si trova un'ulteriore differenza tra soggetto di tragedia e
soggetto di commedia), giunge a concludere che, nella tragedia, « l'eroe deve
portare lo scettro del monarca con regale nobiltà ». Questo principio, inne-
stato sulla teoria del verosimile, lo portò a stabilire la necessità della base
storica, il che parrebbe contrastare col principio fondamentale del Castelvetro
della invenzione originale; ma il critico evita la contraddizione dicendo che
il poeta deve inventare i particolari che la storia non racconta e non conosce;
e in questa parte, e solo per questa, egli è poeta, non nel resto. È ben noto
che il Rinascimento pensò allo stesso modo del Castelvetro, rispetto alla con-
dizione delle persone della tragedia e della commedia.
Principale scopo della tragedia, come si è detto, è l'eccitamento della com-
passione e dello spavento; non la purgazione e lo scacciamento di tali
commozioni, che è quistione utilitaria e morale che non riguarda il poeta.
Ma il Castelvetro giustifica Aristotele pensando che questi non volesse for-
mulare una legge di importanza morale, ma solo riconoscere un fatto, per
difendere la tragedia contro Platone, che la escludeva come nociva dalla sua
repubblica. E non avendo il Castelvetro alcuna idea del diletto dell'arte tra-
gica, né volendolo trovare nella purgazione, per non contraddirsi con ciò che
ha affermato sullo scopo della poesia, esamina varie sorta di diletto: prima
quello che nasce dal « meraviglioso » , poi Vobliquo e il diritto : per obliquo
intende la tristezza che nasce dal cader l'uomo buono in miseria, la quale
« è in sé stessa un piacere, perciocché noi riconosciamo che é dovuta a noi
« che abbiamo un senso intimo dell'ingiustizia del cattivo destino dell'uomo
« buono » (sottigliezza che non potrebbe esser» più caratteristica) ; per diletto
(ìiritto intende quel che nasce dal fine cattivo del tristo o dal lieto del vir-
tuoso. Su questo terreno tuttavia il Castelvetro non procede con gran sicu-
rezza, così che, dicendo che dalla tragedia impariamo, meglio che da predi-
catori e dottori, a non fidare del mondo, finisce con l'accettare quasi uno
Giornaìe storico, LXIV, fase. 192. 27
418 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
scopo didattico, contraddicendo alla sua teoria ed accostandosi a quella del
Minturno che sostiene la catarsi aristotelica.
Della commedia il Castelvetro non tratta particolarmente; ha solo poche
osservazioni incidentali sul comico e le limita al ridicolo, il quale, secondo
lui. deve solo suscitare il riso. Soggetto della commedia è la « turpitudine
humana » dell'anima e del corpo: se dell'anima, « sorge da follia non da
vitio »; se del corpo, è « una turpitudine né penosa ne nociva ». La più grande
sorgente del comico è l'inganno^ per diverse vie, quando la persona ingannata
agisca di libera volontà. D Castelvetro non ha idea di commedia non comica.
« L'azione cittadinesca privata è la materia della commedia »: i suoi intrecci
sono piccoli insulti, piccoli inganni, specialmente in amore ; i suoi caratteri
sono poveri di spirito e di basso stato, e i loro piaceri sono nei diletti amo-
rosi (1). Di qui segue che la verosimiglianza non richiede base storica. Il Ch.
(1) La presente occasione fortemente mi pungerebbe a riprender in esame la qui-
stione della paternità della commedia GV Ingannati, già attribuita al Castelvetro
in un mio giovanile articoletto (in questo Giornale, XL, 343 sgg.), nel quale il de-
siderio di provare hctto mi indusse ad usare, tra molti ottimi, anche argomenti
debolucci ; così che, per cagion di questi, la battaglia è sembrata a giudici auto-
revoli tutt'altro che vinta. Ma non è qui luogo a ritornar su la discussione; però
mi sbrigo in poche parole. Il Fusco nell'opera citata (p. 231 sgg.), guidato piut-
tosto da un preconcetto radicato in lui su la mentalità castelvetrana che da va-
lide ragioni, convinto della sordità artistica del critico modenese, rifiutò di accet-
tare la tesi da me sostenuta, raccogliendo dalla Poetica tutti i passi che possono
sembrare in contraddizione con i criteri con cui è scritta la commedia; e concluse :
se GV lìtgannati sono del Castelvetro convien dire che egli « nato sotto l'influsso
« del più mobile dei pianeti ebbe in vita sua l'ingrato compito di contraddirsi
« ad ogni pie' sospinto ; di dire il mattino il contrario di qxiel che avrebbe fatto
« la sera ; di dire la sera il contrario di quel che aveva fatto il mattino » . Ma le
arguzie non provan nulla. La contraddizione così altamente proclamata non esiste
che in cose accessorie, non in ciò che è essenziale per la commedia: cose acces-
sorie rispetto alle quali il critico talora procede incerto tra opposti pareri, come
ad esempio per l'uso del verso, affermando egli che la verosimiglianza del parlar
familiare vorrebbe la prosa nel dramma, ma che è preferibile il verso per la ne-
cessità degli attori di gridar forte per essere intesi. E non è certo prova di lunga
vista il pretendere che un'operetta giovanile corrisponda in tutto e per tutto ad
una teoria critica formulata quarant'anni dopo, in seguito a severe meditazioni
sui canoni aristotelici, sulle opinioni di altri critici e sulla colluvie di operette
drammatiche. Una sola obbiezione, che io del resto previdi e cercai di allontanare,
ha innegabile valore: come il Castelvetro tacque sempre di esserne autore? Che
abbia taciuto sempre chi lo può dire ? che ne abbia taciuto nella Poetica — potrei
rispondere — è naturale, poiché la sua teoria lo conduceva in qualche punto lon-
tano dalla pratica da lui stesso attuata; e chissà quant'altre ragioni potrei tro-
vare : ma a che scopo ? Riuscirei a convincere quelli che hanno già dichiarato di
non arrendersi se non a prove di fatto? Intanto il Sanesi {La Commedia, Vallardi,
829 sgg.) con tranquilla coscienza afferma esser GV Ingannati di autore ignoto] e
non trova strano che l'autore, che non fu davvero privo d'ingegno, fosse vissuto
per qualche tempo (io dico e ripeto lungo tempo) a Modena, senza che di questo
egregio forestiero senese rimanesse traccia almeno in quella meravigliosa minuta
cronaca giornaliera del più pettegolo fra i cronisti che fu il Lancellotti; o che si
fosse procurato informazioni e notizie da altri: il che è abbastanza curioso; più
curioso di tutte le mie supposizioni : doveva interessar molto agli egregi Intronati,
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 419
nota che lo spirito comico non fu inteso dalla critica fino ai nostri giorni, e
conclude : « la commedia non è la farsa. Vi è più del vero spirito della com-
« media nel sorriso della Gioconda che nell'ilare ebbrezza di tutte le Bac-
« canti di Rubens ».
Della teoria epica castelvetrana il Ch. tratta qui brevemente, riferendosi
a quanto ne ha detto via via per incidenza ; ripete la distinzione tra epopea
e tragedia sulle differenze fondamentali, e mostra come il Castelvetro, a ri-
tener la tragedia genere poetico supremo, fosse unico in tutta la critica del
Einascimento : « and in his da}-, Shakespeare had not yet left the woods and
« fields of Stradford to try his fortunes in the theatres of the metropolis. The
« epic may, indeed does, as the other critics unanimously claimed, produce
« more of the « maraviglia » : but tragedy offers the highest scope of art and
« is its noblest offspring, « perchè diletta più » , because in tragedy the noblest
« aesthetic function attains its fuUest fniition ».
In un capitolo a parte studia il Ch. l'atteggiamento del critico rispetto
all'Aristotelismo e al Platonismo, che si contesero il campo e dominarono con
alterna vicenda e con accordi, compromessi, infiltrazioni reciproche, special-
mente nei trattati d'arte poetica : e fa questo con larga dottrina e precisione
di idee, tanto da farci consentire pienamente con lui, quando afferma che
nessun critico del Einascimento formò una teoria d'idealizzazione poetica senza
aiuto del platonismo (perchè in Aristotele si cercava soltanto un'arte pratica
di poesia), ad eccezione del Castelvetro. E, dopo un'accurata esposizione delle
teorie platoniche e aristoteliche sul bello, quali erano intese dai critici, con-
clude : Se Scaligero e Minturno devono esser classificati aristotelici... Tasso e
e Fracastoro come platonici, Castelvetro deve esser collocato in una classe a
sé. Poiché, quantunque non abbia affatto sentito l'influsso di Platone, quan-
tunque, in tutto e per tutto sotto l'influenza d'Aristotele, determinasse le
idee d'Aristotele più esattamente di qualsiasi suo contemporaneo, sarebbe in-
giusto chiamarlo aristotelico. In realtà egli ha molte più cose in comune con
la teoria del Tasso che con quella dello Scaligero Forse egli può soltanto
essere veramente classificato come castelvetrano.
fra cui non era nel 1531 toonie ritiene il Sanesi) neppure un modenese, sentir par-
lare di cose di Modena anche le più insignificanti, per esempio il ricordo di case
e ville fuor di mano, così da indurre l'autore ad occuparsi di preventivi studi
topografici! Mi sbaglierò: e oggi, se dovessi tornar su l'argomento, sosterrei la
tesi stessa forse con minor pretensione e soltanto come probabile; ma non avrei
voluto che il Sanesi avvalorasse con la sua molta autorità le denegazioni del
Fusco, perchè non è vero che « la commedia non corrisponda in nessun modo alle
« teorie drammatiche del Castelvetro » (Sanesi, Op. cit., 485) ; e avrei voluto che,
avendo egli, in ossequio al rigore del metodo, negato valore probativo ai miei ar-
gomenti, m'avesse dato il buon esempio non affermando, come cosa la più ovvia,
essere stato lo scrittore della commedia un cittadino senese {Op. cit., 372), quando
si sa ohe gli accademici non erano tutti cittadini di Siena. Sulle relaz. della com-
media con la novella del Bandello, v. anche G-. Brognoligo, Questione di fonti, in
Fanfulki della Domenica, 2 febbraio 1913 ; I. Sanesi, Qu^tiotie di metodo, in La Nuova
Cultura, I, 5, pp. 322 sgg.
420 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
Interessante e concludente il capitolo sul metodo critico del Castelvetro.
Le teorie di lui son dedotte a priori: tutto dev'essere logica conseguenza
delle premesse; la ragione è il criterio, il sillogismo la forma. Ma il Castel-
vetro aveva una pietra di paragone su cui dovevano esser provate tutte le
possibili leggi, prima di esser promulgate : l'esperienza. Il dogmatismo critico
di lui non è quasi mai pura pedanteria, come accade nel Minturno e nello
Scaligero. Così quando ha elaborato la sua teoria aprioristica, ne cerca la san-
zione nell'esperienza, badando all'effetto psicologico dell'opera d'arte sulle per-
sone per cui l'arte è stabilita; ad esempio l'assegnamento di una base storica
alla tragedia è dedotto dal fatto, che egli stesso osservò, della distruzione
dell'effetto di una tragedia, quando l'uditorio seppe che l'eroe era fittizio;
non occupiamoci del singolare uditorio : vero il fatto, l'argomento è valido.
Così la scelta dell'eroe di stirpe regale muove dal presupposto che la nobiltà
di trattamento poetico non è possibile con personaggi di basso stato. Il pe-
ricolo della critica del Rinascimento — osserva il Ch. — era di limitare l'arte
ad un esercizio scolastico e la critica ad una specie di anatomia. Ma la teoria
del Castelvetro su la funzione dell'arte e sul richiamarsi all'esperienza portò
la critica dalla tavola operatoria dei pedanti al teatro della folla, pronta a
sentire la forza dell'arte: disgraziatamente egli, arrogandosi spesso le attri-
buzioni di un direttore di scena, cadde talvolta, e sarebbe stato impossibile
ad un uomo del secolo XVI non cadere, nella pedanteria ; ma questa non lo
sommerge mai. I suoi difetti son raramente dovuti a errore di metodo: è
sempre guidato da potenza di pensiero e vista acuta e sicura. Va innanzi
al Minturno e allo Scaligero; e, non essendo poeta, ha qualche vantaggio
anche sul Tasso, il quale come critico dovette impugnar le armi a difesa
del poeta.
Il « posto che spetta al Castelvetro nella storia della critica » è argomento
dell'ultimo capitolo, nel quale, si può dire, l'autore si è riserbato anche il
suo nel mostrarsi a giudicare non solo dal valore storico, ma anche dal va-
lore assoluto delle teorie già dichiarate e confrontate con quelle dei cinque-
centisti ; ed egli, passando in rassegna i punti essenziali di quelle, le saggia
acutamente e chiaramente con i criteri estetici oggi più in voga, mettendone
in rilievo i pregi e gli errori. Accurato l'esame e in gran parte accettabili le
conclusioni, in queste belle pagine di critica estetica, che si leggono con pia-
cere e profitto, ma che (jui non possono essere degnamente riassunte: belle in
particolar modo le osservazioni contro la teoria della « difficoltà superata » e
quelle sui « caratteri » della tragedia. Noi non pretendiamo — conclude l'A. —
di dire che il Castelvetro sia un Hegel, un Kant o un Aristotele : noi abbiamo
cercato di dimostrare che egli ha « a firmer liold on aesthetic truth » che non
i suoi predecessori; che come teorico della poesia egli è innanzi al Tasso,
come teorico dell'estetica è in fine suo eguale; che come espositore dell'idea
del dramma e particolarmente della tragedia egli è unico in un lungo periodo
di tempo, quando l'epopea attirava tutta l'attenzione critica; e che sopra
tutto egli è l'uomo, del suo tempo, « dal quale — al dir del Rapin — il più
può essere imparato ». Egli sopravvive, per la larghezza della mente, per la
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 421
disposizione ad approfondire la conoscenza della materia, per la vista acuta
e pronta che percepisce l'errore radicale. Il suo ingegno e il suo metodo lo
guidano a verità fondamentali, come l'asserzione su la funzione vera dell'arte,
l'originalità dell'artista e il respingere Tartificio convenzionale ; e tutto questo
nel secolo XVI. D'altro lato, egli è responsabile d'aver introdotto le unità
nella critica drammatica e la teoria della difficoltà superata. Disgraziatamente
queste furono le parti della sua dottrina che ebbero la più chiara ed imme-
diata efficacia sui suoi successori. Ma, giudicandolo nel complesso, egli è il
più illuminato critico dell'arte della poesia da Longino a Dryden ; « oue, with
« whom to err, is a liberal criticai education ».
GlUSEFPE CaVAZZUTI.
LUIGI TONELLI. — L'evoluzione del teatro contemporaneo
in Italia. — Milano-Palermo, Sandron, 1913 (16°, pp. 435).
Scopo di questo volume è di delineare la storia del teatro italiano dalla
proclamazione del Regno d'Italia sino ai giorni nostri, punto di partenza un
po' arbitrario, e se vogliamo, un po' artificioso, secondo riconosce lo stesso
autore, giacché non sempre un rivolgimento politico coincide con una rivolu-
zione artistica: e di fatto, per venir a parlare degli autori di teatro e delle
tendenze drammatiche degli ultimi cinquant'anni, il critico è costretto a ri-
salire sino al principio del secolo, per vedere quali fossero le condizioni del
nostro teatro prima del periodo preso ad esaminare.
Non già una vera e propria storia della Drammatica Italiana ci ha dato
il T. : come tale, troppi nomi di autori e troppi titoli di opere vi son dimen-
ticati : né v'è quella rigida, rigorosa esattezza di nomi e date, che un libro
di storia esige. Spoglio di ogni richiamo bibliografico, di ogni indice di nomi
e di produzioni, un po' eccessivo in qualche giudizio, sì in lode che in bia-
simo, e mancante talvolta di serenità critica, questo libro di uno scrittore
giovanissimo non va preso come un libro di consultazione, del quale ci si possa
fidare ad occhi chiusi, ma piuttosto come un'opera ricca di idee, acutissima
spesso nella critica di qualche autore e di qualche opera, e nella quale sono
delineate, a larghi tratti, e se vogliamo un po' alla brava, le caratteristiche
più spiccate del teatro italiano degli ultimi cinquant'anni.
Lo stesso autore riconosce, néìV Introduzione, che « non tutti i poeti si pre-
« stano a rientrare comodamente e assolutamente in uno qualsiasi dei tre stati
« d'evoluzione drammatica indicati », e cioè* il romanticismo, che sta per tra-
montare, il realismo, in pieno sviluppo, lo psicologismo, che sta per sorgere :
tre grandi correnti, tre movimenti di idee, che non sono già sempre succes-
sivi, ma talora anche contemporanei, e per dir così, paralleli. Il T. aggiunge
che « alcuni autori sfuggono ad ogni classificazione », che « i geni non pos-
422 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
sono aver attributo » (e ciò per giustificare l'esclusione del D'Anuunzio) (1);
ma andava detto che molti autori sfuggono a una tale classificazione, di per
sé sempre pericolosa, perchè romantici, realisti e psicologici al tempo istesso :
esempio tipico quello del Giacosa. Il T. che colloca questo autore fra i realisti
è costretto per alcune sue opere a classificarlo fra i romantici, e per I diritti
delVanima fra i rappresentanti del teatro psicologico. In realtà il Giacosa fu
sempre un romantico, dalla Partita a scacchi a Come le foglie, egli seguì
nella sua lunga carriera di autore drammatico tutte le tendenze, costruendo
le sue commedie secondo i dettami della scuola realista, quando questa fu di
moda in Italia per influenza del Teatro naturalista francese (precursore anzi
del Teatro realista con Tristi amori, un vero capolavoro) né mancò di essere
uno psicologo, ogniqualvolta colse dalla vita certi caratteri con viva, profonda
penetrazione: perciò non soltanto I diritti delVanima appartiene al Teati-o
psicologico, ma anche, e forse ancor meglio, Tristi amori.
Lo stesso potrebbe dirsi per gli altri autori : perchè, ad esempio, il Nerone
del Cossa non apparterrebbe alla categoria dei realisti o piuttosto a quella
degli psicologi, per quanto v'ò di umano nella rappresentazione del carattere,
anziché a quella dei romantici'^ Ogni opera, nella quale la vita sia rappre-
sentata quale è, e nella quale vi sia efficace riproduzione di stati d'animo, è
al tempo istesso realista e psicologica: come non classificare lo stesso Shake-
speare, il grande precursore del Teatro romantico, fra gli psicologi ? come non
chiamar psicologico un Teatro, che ci ha dato caratteri quali Amleto, Macbeth,
Jago e Lear'l Da Shakespeare parte appunto il T. per parlare del Teatro ro-
mantico tedesco e francese, e dell' influenza che questi ebbero sul!' italiano :
pagine buone ha qui il critico, allorché analizza le due tragedie del Manzoni,
* come Goethe mezzo romantico e mezzo classico » , ed allorché prende bre-
vemente in esame i drammi più significativi del Niccolini.
Neo-romcintiche chiama il T. « quelle opere le quali pur essendo propag-
« gine ed ulteriore sviluppo del genuino romanticismo tragico, fiorito nella
« prima metà del sec. XIX, se ne distinguono tuttavia per certe caratteri-
« stiche troppo evidenti, se anche non sostanziali » : nel dramma neo-roman-
tico mancano infatti i tre sentimenti dominatori dell'altro, e cioè il religioso,
il patriottico e l'eroico, « sostituiti da un vago idealismo prettamente borghese,
e cioè modesto, discreto, gretto »»: rimane in esso intatto il sentimento ro-
mantico amoroso, che diventa il nòcciolo di ogni composizione drammatica.
Spetta a Leopoldo Marenco il merito di aver introdotto il genere in Italia
con II Falconiere di Pietra Ardena, genere che fu poi perfezionato, per lo
meno nella forma, dal Giacosa.
Troppo severo é il T. per La Contessa di Challant, che si stacca dagli
altri drammi medioevali del Giacosa per la più felice intuizione dell'ambiente
e del carattere fosco e truce del medioevo; e severissimo è, a proposito dei
(1) A cui il T. dedicò uno speciale volume, La tragedia di Gabriele D'Anntinzit
Milano-Palermo, Sandron, 1914.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 423
Pezzenti e del Guido, come più tardi per il Cantico, come per V Agatodemo^n,
come, ingiustamente, per La Sposa di Menecìe e per V Alcibiade, il T. pel
Cavallotti, il quale se non fu un grande artista, ebbe però una calda e im-
petuosa comunicativa sugli spettatori, e seppe avvincere con una forma tea-
trale non volgare. Buon conoscitore del mondo greco, il Cavallotti seppe nel-
V Alcibiade rappresentare a vivi colori la società del tempo di Pericle, con
grande elevatezza di intenzioni e con geniale intuizione dell'ambiente storico.
In questa fiera denigrazione postuma del Cavallotti, il T. non è neppur ori-
ginale, che già l'aveva preceduto, con la consueta virulenza di linguaggio, lo
Scarfoglio (nel Libro di Don Chisciotte): il quale poi, nell'attaccare con tanta
asprezza il Cavallotti, aveva ragioni più che artistiche, politiche, per il partito
avverso nel quale il battagliero poeta combatteva. Anche nella critica dei
primi lavori del Giacosa, non ci accordiamo col T., là dove egli dice (p. 66)
che esse « rappresentano l'espressione più genuina del suo ingegno » : il Gia-
cosa senti, come l'Augier, sopratutto la poesia della vita borghese. Il dramma
romantico medioevale si corrompe, secondo il T., negli idillii campestri, nei
bozzetti marinareschi, nei proverbi e negli scherzi poetici : e qui, oltre al Ca-
vallotti e al Marenco, vanno ricordati il De Renzis e il Martini: nel parallelo
col De Musset, il T. coglie assai felicemente i motivi dell'inferiorità dei poeti
italiani.
Eccellente è il capitolo sul Cossa : dopo le poche pagine del Franchetti (in
Nuova Antologia) è questo il migliore studio che sia stato fatto sul poeta
romano. Giustamente ammiratore del Nerone, specialmente per il carattere
del protagonista e per quello, non meno felicemente rappresentato, di Egloge,
il T. si mostra giudice assai severo, ma quasi sempre acutissimo, degli altri
drammi : alcune scene della Messalina e dei Borgia potrebbero pur salvarsi
dal biasimo, in cui il critico tutto avvolge il Teatro del Cossa : l'ammirazione
per un capolavoro, che della sua luce abbaglia i drammi men riesciti, fa tal-
volta velo al sano criterio nel giudicare alcune scene di grande potenza tra-
gica, disseminate negli altri drammi: anche nella Cecilia, che è dei meno
felici. Fra gli imitatori del Cossa, il T. ricorda il Calvi, ma di lui non cita
il dramma più celebre, e cioè la Maria di Magdala; e dimentica il Casta-
gnola, l'autore della Gliceria, dramma di pretta derivazione cossiana.
« Basso romanticismo », derivante da quello di Dumas padre e degli autori
francesi e tedeschi della prima metà del secolo XIX (il Pixerécourt, fra i primi,
l'Iffland e il Kotzebue, fra i secondi), è quello del Giacometti, specialmente
per due drammi che il T, ammira. La Morte civile e Maria Antonietta ;
ma il primo di questi due drammi, più che romantico, è realista : ed il Gia-
cometti potrebbe anzi dirsi il precursore del Teatro realista, precursore del
Ferrari nella commedia a tesi sociale, autore di ingegno vivo, moderno neUe
intenzioni, forse non abbastanza apprezzato ^el suo valore. Miserande condi-
zioni di vita gli impedirono forse di lavorare con quella serenità di spirito,
che è indispensabile ad ogni artista.
Fra i drammaturghi popolari più in voga in quel tempo, del Roti il T.
dimentica il dramma più tipico (se pur ridotto dal francese) e cioè : I due
424 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
sergenti ; del Fortis non ricorda la commedia più celebre, che è Cuore ed
Arte ; del Ciconi, che, per La figlia unica, La rivincita e Le pecorelle smar-
rite, non andrebbe confuso con gli altri, rammenta la sola Statua di carne,
che non è il suo dramma migliore.
Prima di venir a parlare del Teatro naturalista italiano, che senti l'in-
fluenza di quello dell'Augier e del Dumas, il T. accenna a due correnti pre-
naturalistiche paesane, e cioè alla « goldoniana » e alla « fiorentina » : rapi-
damente quanto alla prima, tocca di qualche commedia del Giacometti (Quattro
donne in una casa, di una comicità, a dire il vero, assai scialba, e nella
quale della mirabile festevolezza goldoniana ben poco rimane), del Castelvecchio,
del Muratori (ancor vivo) e del Gherardi Del Testa, che il T. tratta un po'
alla leggera, e che, per la fresca pittura della società toscana e per il brio
del dialogo, meritava una considerazione maggiore. E nel Goldoni di Paolo
Ferrari ammira finalmente il T. un vero capolavoro: era tempo! Ma troppo
superficialmente considera il critico tutto il Teatro dialettale, quasi che
commedie quali Xe miserie d' Moìisìa Travet, I JRecini da festa, Serenis-
sima e anche La Famegia del Sàntolo non possano stare alla pari con le
migliori commedie italiane del XIX secolo. Il T. parte dal pregiudizio che
la forma vernacola non sia adatta che a rappresentare sentimenti mediocri
o volgari: e non riconosce la mirabile spontaneità del dialogo e la profon-
dità geniale dei caratteri di qualche commedia dialettale (come di quelle
sopra ricordate): di Giacinto Gallina il T. non conosce o non ricorda che
quattro commedie, due delle quali (7 oci del cor e La maina no mor) delle
meno felici: non rammenta né Zente refada, né Mia fìa, né TeUri rechi,
né quel gioiello che é Fora del mondo, né La Famegia del Sàntolo, un vero
capolavoro.
Fra i più notevoli rappresentanti della « scuola fiorentina », oltre al Gia-
cometti per II poeta e la hallerina (quesf autore, fecondissimo, lo troviamo
un po' dappertutto : veda il T. il difetto del sistema di classificazione) sono
ricordati Vincenzo Martini e Luigi Suner: ma il primo, del quale il T. si
mostra giustamente ammiratore, é di gran lunga superiore al secondo: oltre
al suo Cavaliev dHnduMria si poteva rammentare La Donna di quaran-
ta anni, che é una delle sue commedie migliori.
Acutissimo è il giudizio che il T. dà del Teatro di Paolo Ferrari. Le brevi
pagine di questo capitolo potrebbero essere additate quale modello di critica
seria, penetrante, definitiva: qui veramente il T. riesce a cogliere, dalle opere
del Ferrari più significative e più personali, il carattere generale del suo Teatro;
smontando una ad una le commedie principali, mette in luce tutta l'incoe-
renza e l'inefficacia della morale ferrariana ; conclude dimostrando che il Teatro
di colui che si eresse a difensore della morale borghese è in fondo un Teatro
profondamente immorale. La « tesi » prese la mano al suo autore; e le con-
clusioni risultarono quasi sempre diametralmente opposte alle premesse. 11 solo
Conte Sirchi del Duello, carattere scolpito con robusto pollice, si stacca per
una più vigorosa umanità dagli altri personaggi del Teatro di Paolo Ferrari.
Un po' severamente è giudicato // Ridicolo, che é ancora una delle più vive
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 425
e fresche commedie del Ferrari : e non mediocre è, per lo meno per due atti,
Cause ed effetti.
Severo giudice del nostro Teatro dunque il T. quasi sempre : di raro in-
giusto però: la sua critica, inquinata da qualche pregiudizio di sistema e di
scuola, è spesso corrosiva e profondamente acuta : qualche lacuna di autori con-
temporanei è perdonabile, ove si pensi che questo libro vuol segnalare sol-
tanto le tendenze e le correnti principali del Teatro italiano. Non accenne-
remo a ciò che il T. dice del Torelli, del Verga, del Praga, del Bracco, ancor
viventi, poiché anche un rapido cenno su di essi non risponderebbe alle con-
suetudini di questo Giornale.
Nel complesso, dunque, un libro di vera critica, nel quale, attraverso in-
temperanze eccessive, e lacune, e pregiudizi, si scopre un ingegno lucido e
brillante, e un temperamento di rara sensitività artistica.
Deturpano il volume i troppo numerosi errori tipografici.
Cesare Levi.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
GIORGIO LA PIANA. — Le rajjpresentazioni sacre nella
letteratura bizantina dalle origini al sec. IX. — Grotta-
ferrata, tip. Italo-Orientale San Nilo, 1912 (8°, pp. xv-344).
I prelati greci venuti in Firenze per il grande concilio che doveva rinsal-
dare i vincoli fra le due Chiese discordi, dinanzi alla pompa scenica onde i
Fiorentini riproducevano, per San Giovanni, fatti e figure della vita del Cristo
e del loro santo, rimasero fortemente stupefatti. Era su per giù lo stesso stu-
pore che, tanti anni avanti, aveva colpito Liutprando, venuto a Costantinopoli
come ambasciatore, di Berengario II prima e di Ottone I dopo, quando vide
« la trasformazione in teatro del tempio di Santa Sofia o assistette alla rap-
« presentazione del ludo sul Ratto di Elia». Bizantini e italiano erano soprat-
tutto colpiti dalla novità del fatto che si svolgeva dinanzi ai loro occhi,
e cotesto stupore ci dice più e più cose per l'intelligenza dello svolgimento
del teatro sacro presso noi e in Oriente.
Tutti gli studiosi dell'argomento conoscono il libro dello Sathas : un filo,
sia pur tenue, collega il teatro religioso bizantino con il classico, e in Metodio,
in Ario, in Giovanni Damasceno, nell'autore del Xqcotòs 7rdax<ov conviene
cercare gli inizi del dramma spirituale. Il più dotto forse degli storici bizan-
tini, il Krurabacher, accettò le conclusioni del critico greco; ma poi a poco
a poco quel filo collegatore di due età si venne sempre più assottigliando, ed
ora il La Piana lo spezza addirittura. Quelle vecchie opere non sono che
pallide esercitazioni di retori o non sono nemmeno drammi: l'esistenza d'un
teatro religioso inspirato alla letteratura classica prima del secolo VI non è
che una fantasia d'eruditi.
Non che un'arte drammatica religiosa, o almeno tracce di essa, siano mancate
a Bisanzio, ma chi le voglia scovare ha a cercarle da tutt'altra parte : e più
precisamente nell'omelia.
Nell'omelia di carattere laudativo e narrativo i brevi spunti dialogici, che
abbondano negli Evangeli, specialmente apocrifi, e nelle leggende dei santi,
>i introdussero molto facilmente, e per naturale ricerca di effetto drammatico
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 427
sugli uditori si svolsero, si ampliarono fino a diventarne quasi tutto il tessuto.
« E cosi i fedeli, assistendo alle sacre liturgie del tempio cristiano, non solo
« vedevano svolgersi sotto i loro occhi tutte le mistiche cerimonie, eseguite dal
« clero in abiti che avevan oramai assunto forme ed ornati speciali, tra i canti
« e le melodie dei cori e il succedersi di letture di antichi libri sacri e d'in-
« vocazioni solenni, di gesti misteriosi e benedizioni ieratiche, partecipando essi
« stessi al rito con le prostrazioni, le litanie e gli auguri di pace; ma ancora
« tra la prima e la seconda parte della cerimonia, in una lunga pausa assiste-
« vano alla narrazione vivace, fatta dall'ambone, di quel dramma sacro, conte-
« nuto in germe nel Vangelo e dall'oratore svolto in tutte le sue parti, col dia-
« logo movimentato e con i commenti e le osservazioni fatte per lo più sotto
« forma di invocazioni o esortazioni eloquenti ai diversi personaggi che prende-
« vano parte all'azione descritta » (pp. 39-40). Basterebbe leggere soltanto VElg
TÒv EdayyeÀiof^òv r^^ é/ie^ayiag Seozónov per vedere subito quanta vita
drammatica scorre per esso : i colloqui della vergine con l'angiolo annunziatore,
di lei con Giuseppe, che dall'inturgidire del seno e da tutti gli altri segni
s'è accorto del concepimento che in lei si svolge, sono caldi di movimento
quanto poche scene di sacre rappresentazioni. Ma la vita drammatica che ser-
peggia in un'opera non fa ancora di essa un dramma : e quando il La Piana
afferma come « non occorre fermarsi a lungo per dimostrare che questa omelia
« non è che un lungo frammento drammatico, a cui fu appiccicato un breve
« esordio sulla Natività al principio e la doxólogia alla fine » (p. 108), noi
siamo tentati di chiedergli la prova della sua asserzione. « La forma dialo-
« gica costante, la vivacità stessa del dialogo e l'assenza di ogni commento
«oratorio » bastano a provare la vivacità drammatica del componimento esa-
minato, non danno la prova perentoria che essa invece che una declamazione
di predicatore fosse in origine una vera e propria rappresentazione.
Anzi cotesta prova decisiva il La Piana non mi pare riesca a dar mai.
Concediamo volentieri che coteste omelie non siano arrivate a noi nella loro
forma originale, e i rimaneggiamenti dei compilatori per ridurle a letture
sempre più edificanti siano dovuti essere parecchi : anzi osservazioni teologiche,
dimostrazioni dottrinali, commenti eruditi ravvolsero sempre più la parte più
schiettamente drammatica e quasi la soffocarono. Ma il districo abilissimo che
il giovane scopritore fa di questa parte viva dai tanti viluppi che l'avevano
sepolta, se ci procura una fine ammirazione spirituale, non può assicurarci
dell'assoluta autonomia della forma drammatica.
Il teatro religioso bizantino, del resto, non riuscì mai ad affermare la propria
indipendenza dalla liturgia, e di qui la pochezza del suo sviluppo e la dif-
ficoltà di seguirne la storia. Più facile invece lo scoprire le fonti dalle quali
sono sgorgati i frammenti drammatici che di esso ci sarebbero ancora rimasti
in cotesti èyytcóf^ia : sono esse i vangeli apocrifi, i canti siriaci, i mimi po-
polari, la letteratura dei padri. Così, per citare qualche esempio, l'omelia d'Eu-
sebio sulla Discesa air Inferno deriva dal Vangelo di Nicodemo : non pochi
tratti di dialogo ^\j1V Annunciazione si ritrovano in un' omelia attribuita a
Sant'Efrem ; Giuseppe par ricalcato sul tipo dello ZrjÀótvTiog del teatro pò-
428 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
polare; dei problemi teologici che si discutono nella scena àeWAnnuìiciazione
fonte unica è il Simposio di Metodio.
Ma più che le fonti importa a noi la forma onde coteste omelie furono com-
poste, e nell'analisi di essa il La Piana scrisse veramente le pagine sue più
notevoli. Nessuno prima di lui aveva notato, o nessuno meglio di lui ha posto
in rilievo il carattere poetico dell'omelia drammatica, la sua ritmicità e le
note onde risultò, l'affinità della forma poetica del dramma sacro bizantino
con la « sougithà » siriaca. Dei frammenti drammatici conservati in un'omelia
attribuita a San Proclo l'ardito critico tenta anzi la ricostruzione metrica : e
se a noi è conteso di discutere qui il valore di essa, ci è lecito però di am-
rairare almeno la dottrina e l'acume del ricostruttore.
H quale anche quando pare più lontano da noi in realtà non perde mai
di vista gli studi più propriamente nostri. La letteratura bizantina può ancor
serbare di grandi sorprese agli studiosi del periodo delle origini anche sotto
il rispetto metrico: la luce che n'è venuta alla storia della sequenza baste-
rebbe da sola a confermarlo. Appunto perciò il La Piana nell' ultima parte
del dotto suo lavoro affronta il problema dei rapporti intercessi nell' età di
mezzo fra il teatro orientale e l'occidentale.
L'ingenuità sentimentale non impedì infatti alle sacre rappresentazioni la-
tine d'accostarsi alla magniloquenza e ostentata dottrina greca, e quando il
predicatore nel celebre Mistero dei Profeti, prima che questi assurgessero
leggeva «nel coro la prima parte del sermone: ' Vos, inquam, convenio, o
Judaei ' », mentre credeva forse di declamar parole di Agostino, riproduceva,
senza sapere, un'omelia drammatica greca di Esichio o tratti di Metodio. Non
solo, ma il dramma che uscì dal sermone « pur dipendendo per la maggior
parte dal sermone » latino stesso, là dove se ne allontana, riproduce esatta-
mente l'omelia greca, in quelle parti appunto che il sermone latino aveva
omesso.
La tesi del Sepet ne esce, come ognun vede, mirabilmente rinforzata contro
il D'Ancona, né cotesto dei profeti è del resto il solo sermone drammatico
latino che il La Piana conosce, che altri ancora egli ne addita. E mette in
rilievo nel tempo stesso altri influssi dell'omelia greca sul teatro nostro : cor-
regge errori comuni alla nostra coltura, come di far sempre risalire diretta-
mente al Vangelo di Nicodemo « le scene della liberazione dei patriarchi con
la seconda processione dei profeti », che invece « dipendono da quello solo in-
direttamente, attraverso le omelie eusebiane > (p. 332).
Cosi gli atteggiamenti di Giuseppe dinanzi alla gravidanza di ^Viaria in
certe rappresentazioni, come in quella di Revello e \\Q\VJoseph''s return, non
bene si spiegherebbero, se oltre che agli Evangeli apocrifi non si ricorresse
al dramma bizantino, ch'esercitò dunque sicuramente una qualche efficacia su
quello occidentale. Certo non grandissima, che non riuscì mai ad alterare di
questo lo spirito così diverso dal greco. Or l'aver messo bene in rilievo cotesti
influssi e aver fissate le linee maestre del teatro sacro e della poesia ritmica
drammatica greca, è merito grande del La Piana. Siano pure — com'egli
dic« — le sue ricerche lunghe e noiose ; in esse però egli « non spese invano »
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 429
né il tempo né la fatica, e per il molto che accertò, per le verità che intra-
vide gli studiosi gli sapranno sempre grado dell' opera paziente coscienziosa
dotta. U. C.
.1. n. KAPCABHH'L. — OnepKU peAUiiosHOu jtcuauu eh Hmcuiiu
XII-XIII ejbKo&ò. — C. nexepòyprB, THnorpa4»ifl M. A. Ajick-
caH;^poBa, 1912 [L. P. Karsavin, Saggi di vita religiosa
in Italia nei secoli XII-XIII^ Pietroburgo, tip. A. Alek-
sandrow, 1912] (8« gr., pp. xx, 843, 21).
Presentiamo con gioia ai lettori di questo Giornale il primo grande la-
voro di un giovane studioso russo che sembra chiamato a lasciare un'im-
pronta non indifferente del suo ingegno e del suo tenacissimo amore per lo
studio nei fasti della storiografia italiana. Abbiamo finalmente trovato il fu-
turo biografo « definitivo » di S. Francesco, il critico altrettanto geniale
quanto diligente delle fonti francescane, un uomo insomma, che, se non si
decide a scrivere in una lingua occidentale, finirà col costringere i francesca-
nologi ed i cultori tutti della storia religiosa d'Italia nel basso Medioevo ad
imparare per forza il russo. Allevato al metodo severo di Fustel de Coulanges
da un suo discepolo, il prof. Greaves di Pietroburgo, il Karsavin va all'avan-
guardia di tutto un movimento insigne di studi storici e storico-letterari,
onde vediamo pubblicati nelle riviste russe documenti importanti e spesso
sconosciuti, riguardanti la storia del pensiero religioso del Medioevo italiano
e francese, e dobbiamo registrare l'apparizione, purtroppo non sempre in idiomi
intelligibili alla maggioranza dei competenti, di lavori critici di un valore
talvolta eccezionale (1). Non occorre rilevare, quanta sia l'importanza di tali
il) Va citato aazitatto, a titolo d'ouore, il lavoro del veterano di tali studi,
prof. GruERRiEE di Mosca {Francesco d'Assisi, apostolo della povertà, 'M.osca,, 1909). Altri
due libri recentissimi sono per fortuna accessibili anche agli ignari della lingua
russa (A. Wulffius, Beitrdge zur Geschichte der Waldenser, Petersburg, 1912; sig.'»
O. DoBiAsc-RoGDESTVENSKi, La vìc paroissiaU en France au XIII siècle , Paris, 1912).
Spigolando tra articoli di riviste scientifiche russe, oltre quelli numerosi e prege-
voli dello stesso Karsavin (cfr. i titoli nella recensione del presente volume di
Greaves, Giornale del Minisi, della P. 1. [russo], N. S., XLVIII, die. 1913, 337, 404),
dobbiamo rilevare, sempre nel Giorn. citato (N. S., LXI, sett. 1912), il bello studiolo
della sig.na K. V. Florovski, allieva del Greaves al pari del Karsavin, sulle Fra-
ternite dei disciplinati in Italia sullo scorcio dei secc. XIII-XIV (essa pubblica Tino sta-
tuto inedito dal Casanat. 4096) e la comunicazione importante per gli studiosi della
questione gioachimita, di O. Dobiasc-Rogdestvenski {ib. , N. S., XLV, giugno 1913)
intorno alla sua scoperta del cod. pietroburghese di Gioacchino del Fiore, ignoto
al Denifle. È il Petropol. lat. I. P. v. 37, saec. XIII-XIV, proveniente con ogni pro-
babilità dalla Badia di St.-Germain, portato in Russia per merito dello zelo dili-
gente del Dubrovski, che seppe salvare dalla dispersione e dalla distruzione du-
430 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
opere per i cultori della storia letteraria d'Italia; imperniate sullo studio
della « religiosità », come parte integrante dell'insieme della coltura di un
popolo, esse frugano un terreno affine a quello, di cui si occupa più dav vi-
cino questo Giornale ; talvolta esse si sentono obbligate a scendere nel campo
della critica di monumenti schiettamente letterari. Le magnifiche pagine,
dedicate dal Karsavin al Celanese ed alla sua difesa contro Sabatier, insegnino.
Una persona affatto ignara del russo troverà nel libro del Karsavin (pa-
gine 675-815) un'edizione completa della « Summa contra Catharos auctore
anonymo » (Vat. lat. 4255, 54r-72 v), copia dugentesca di un trattato affine
a quello noto del Moneta, forse coevo a quest'ultimo, scritto probabilmente
da un chierico italiano (1). Inoltre, l'erudito russo trae dal Riccard. lat. 277
cinque saggi di prediche di Girolamo, vescovo d'Arezzo (1144-1177) (2), sette
dal « flos evangeliorum et omeliarum » (Riccard. lat. 311) (3), cinque dalla
raccolta omiletica di Federigo Visconti, arcivescovo di Pisa (1254-1278; Laur.
PI. XXXni sin. I) (4). n centro di gravità del libro non va peraltro cercato
in questi testi inediti, bensì nell'appendice II (pp. 572-656 : fonti per la storia
delle origini francescane). Anche qui qualcosa possono servire ad eruditi non
molto famigliari colla lingua russa, p. es., le tavole sinottiche dei luoghi
paralleli nei « tres socii », « anon. perus. », « I e II Celano », a pp. 609,
610, 611-14 e nei « tres socii », « anon. » e « II Celano » a pp. 616-8, oltre,
s'intende, lo schema generale del contenuto dei singoli capitoli di « Il Ce-
lano » in confronto coi brani analoghi dell'» Anon. » e dello « Speculum »,
a pp. 624-5 e la tavola sinottica di parallelismi in « I Celano » , « Speculum »
ed « Actus », a pp. 627-8 (5).
rante la bufera rivoluzionaria francese tanti cimeli dei fondi monastici, specie
benedettini; per i codd. lat. pietroburghesi anteriori al Trecento vedi ora il magni-
fico catalogo del P. Staerk. Alquanto meno recente è il lavoretto dello Jegorov sul
«rescriptum heresiarcharum a. 1219» {Oiorn. citato, N. S. , XXXIV, agosto 1911).
(1) Descrizione del codice in K. 675.
(2) Ib. 816-24; Gams, 742; Inv. Riccard. [Fir. 1810] 10.
(8) Karsavin, 825-34; cfr. Lami, Catal. Riccard. 237 (?); Inv. Riccard. [Fir. 1810] 11.
(4) Karsavin, 835-43; cfr. Bandiki, Laur. lY, 273-83.
(5j Cosi pure tutti i disegni e stemmi schematici del volume, che non meritano,
dopo tutto, il giudizio abbastanza severo del Greaves [Giorn. cit. , N. S., XLVIII,
die. 1913, 374 n. 2; cfr. 878 n. 2); tutt'al più quello V dell'appendice è di conpulta-
zioue realmente difficile. I risultati positivi delle ricerche del Karsavin si ridu-
cono, in ultima analisi (Grkaves, 1. e, 378-85) : 1» all'avere dimostrato, completando
le indagini di Sabatier e di K. Miiller, l'esistenza di una regola francescana unica,
sviluppatasi tra il 1310 ed il 1323 circa, attraverso una diecina di stadi consecu-
tivi (Karsavin, 582-5); 2° all'avere provata la buona fede e la veridicità del Cela-
nese, sia pure esagerando alquanto la portata storica della Vita II (Greaves, 380-1 ;
Karsavin, ^2-6); 3° all'avere ricostruito, entro i limiti dell'umanamente possibile,
il contenuto primigenio degli «scripta sociorum > (Karsavin, 624-5; Greaves, 882)
e le linee maestre dell'evoluzione delle masse principali del materiale leggendario
francescano (Karsavin, 637 sgg.; 651 sgg.); 4" all'avere fissato il tempo della com-
pilazione dello « Speculum » (1318 circa) ed all'averne analizzato il contenuto e le
fonti in modo assolutamente definitivo.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 431
Con un acume filologico piuttosto raro in uno storico di mestiere, il Kar-
«avin applica alla prosa del Celanese il « criterio stilistico » del Minocchi ,
ne studia il « cursus » (pp. 630-1), le alliterazioni (p. 631), ed arriva, pur
dopo avere lavorato senza conoscere i risultati ottenuti dallo scienziato ita-
liano (1), ad uno schema pressoché uguale (p. 602). Non entreremo nel merito
della polemica tra il Karsavin ed il Sabatier, cortese e dignitosa nella forma,
spietata nella sostanza. Il recensente russo del K., prof. Greaves (2), crede il
divario, che separa entrambi, assai minore di quanto piacerebbe al giovane
erudito, « figlio spirituale » (e ribelle) del Sabatier: per conto nostro, rite-
niamo necessaria una distinzione. Il K. è irriducibile verso il « sedicente edi-
tore critico dello ' Speculum ' » (p. 599, ove il Sabatier riceve del « pastore-
volgarizzatore » ed è accusato di « dilettantismo testardo ed iracondo »), ma
sembra pronto a qualche blando riguardo dinanzi al biografo del Poverello,
la cui opera però fa rarissime apparizioni nelle note dei capitoli dedicati
al movimento francescano; chi ha la peggio in queste, è il Jorgensen (pa-
gine 286-7 e 287, n. 1), demolito con un'ironia più micidiale ancora, se pos-
sibile, di quella che colpisce il Sabatier a p. 421, n. 1 (421-2). Non potremmo
dare ragione al prof. Greaves, che rimprovera al K. tali escandescenze scien-
tifiche ; crediamo piuttosto al diritto di legittima difesa, imprescrittibile presso
uno scienziato che tuteli la dignità della scienza, purch'esso sia, com'è pie-
namente il caso del K., libero da ogni traccia di ostilità personale. Non esa-
mineremo la sostanza delle idee svolte dal K. nel corpo del testo, ripromet-
tendoci di farlo in sede più adatta ; segnaliamo soltanto l'impostazione larga
ed ardita del problema. Il giovane storico dedica ben 563 pagine fitte, e di
formato piuttosto grande, alla rassegna di tutti quasi i movimenti religiosi
d'ItaUa nell'epoca da lui prescelta ; egli comincia dal catarismo, lontano dalla
Chiesa tradizionale e dallo stesso cristianesimo, indi passa agli eretici meno
spinti, arnoldisti e valdesi, poi si ferma a lungo sui moti rigeneratori, svoltisi
nel grembo stesso della Chiesa, dando un singolare rilievo alle organizzazioni
laicali (cap. XIII, pp. 492-520). Non sempre egli è in grado di dire cose
nuove, né di scostarsi gran che da predecessori, quali K. Muller ed altri (p. es.
Zanoni per gli umiliati); ma anche là dove gli fa difetto la possibilità di
scoprire nuovi documenti o di mettere in nuova luce i testi di dominio co-
(1) L'artiooletto di B. Terracini , Il « cursus » e la questione dello « Specuhim per-
ftctionis», è uscito ora di recente negli Studi medievali, IV, 65 sgg.
(2) Giorn. eit., 1. e, 336-405. Il Greaves insiste assai (883 sgg.) sulla possibilità di
un'intesa scientìfica tra il Sabatier ed il Karsavin, ed in parte ha ragione. Difatti,
dopo aver tolto per sempre la paternità dello Speculum a fra Leone, il Karsavin
vi ravvisa traccie degli «scripta sociorum», cioè in parte di quelli di Leone me-
desimo e di altre fonti di prim'ordine ; secondo uni^elice osservazione del Greaves,
il giovane storico russo adopera, nel suo «ritratto psicologico di S.Francesco, lo
«Speculum» più del suo avversario francese (Greaves, 384 n. 1). Notevole l'insi-
stenza del nostro erudito sul punto controverso dell' « ortodossia » del Poverello ;
gli scienziati cattolici hanno trovato un prezioso alleato in questo confratello
dissidente.
432 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
mune egli rileva colla massima cura il legame organico tra le svariatissime
espressioni della « religiosità » italiana nel basso Medioevo, onde aspirazioni
religiose non dissimili potevano governare gli atti di persecutori e di perse-
guitati, di chierici e di laici, di teologi pensatori e del volgo. Egli si preoc-
cupa per ciò fin troppo di rinvenire la « media aritmetica » di codesta « re-
ligiosità », sacrificando ad essa lo studio delle « cime » : cosi S. Domenico e
tutto il movimento domenicano rimangono fuori del volume ed è parimenti
escluso, ad onta dell'annessa « Summa contra Catharos », lo studio del dogma
neo-manicheo col pretesto, che il « volgo » non afferra finezze dogmatiche,
come se a Bisanzio la gente non si fosse coscienziosamente accapigliata pro-
prio per delle impercettibili « finezze » (1). Ancora più denso d'interesse sarà
il seguito del lavoro che teniamo sott'occhio : uno studio accurato della « re-
ligiosità », nella « mistica volgare », nel « culto quotidiano », che l'autore
ci promette a pp. 551-2. Auguriamolo prossimo.
Il volume del K. è corredato da un accurato indice alfabetico dei nomi e
d'un altro bibliografico. Quest'ultimo contiene, in dodici pagine di stampa
fittissima, « fonti e studi (di eruditi moderni) citati in forma abbreviata, o
non citati afiatto, ma presi in esame ». Vi sono però qua e là citazioni la-
coniche (2), che invano cercheremmo nell'indice. Il K. ha poi il difetto metodo-
logico di abusare talvolta di allusioni generiche a nomi d'autori ed a titoli
di libri, senza indicazione di capitolo o di pagina: gli scienziati russi possono,
è vero, in tali casi invocare l'attenuante della disperata scarsità di lettori,
che vanno a controllare le indicazioni delle note: perchè un libro di erudi-
zione, in Eussia, sia veramente letto con ogni riguardo, bisogna che tratti
della rivoluzione francese ... o della questione semita. Vl. Z.
GIUSEPPE LANDINI. — Il codice aretino 180; laudi antiche
di Cortona. — Roma, tip. Editrice Nazionale, 1912 (8° gr.,
pp. 108).
Il ms. 180 della Fraternità dei Laici di Arezzo era già stato illustrato
brevemente dal prof. Bettazzi {Notizia di un laudario del sec. XIII, Arezzo,
Sai Viotti, 1890) in appendice al suo studio sul codice Cortonese 91. Il L. ne
fa qui di nuovo un esame accurato. Premesso un accenno alla bibliografia del
(1) Gekaves, 343-52.
(2) Greavbs, 359-61. Ad onta delle citazioni non sempre accurate, la bibliografia
del Rarsavin può valere quale apparato di prim' ordine. Anche non conoscendo
il russo, un erudito occidentale può facilmente servirsi dell' indice bibliografioo
(numeraz. a parte, 1-12).
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 433
laudario (1) (pp. 3-4), e al modo con cui da Cortona passò ad Arezzo (pp. 4-5),
ne dà una descrizione fors'anche troppo minuta, certo esauriente anche nel
riguardo paleografico (pp. 6-15), ne discute la data assegnandolo per la
prima parte al 1367, mentre la seconda va attribuita al sec. XV (pp. 15-19).
Riconferma poi la data con argomenti desunti dalla natura delle laudi che
vi sono contenute, le quali risultano certamente molto antiche (pp. 19-22).
Studia il laudario in confronto con altri del gruppo toscano coi quali ha
laudi comuni, e ne stabilisce il relativo ordine cronologico (pp. 22-26), mentre
spiega le laudi comuni ai varii codici sia toscani, sia settentrionali, « ammet-
« tendo la presenza di altri laudarii che circolavano per le varie provincia
« d'Italia, portati qua e là dallo zelo religioso dei Francescani, dei Serviti,
« degli Agostiniani e d'altri pii religiosi regolari di quel tempo ». Né certo
questa ipotesi si può trascurare ; sta però il fatto che spesso le laudi di molti
ci si mostrano trascritte da chi le aveva, più o meno bene, apprese a me-
moria, senza aiuto di codici da cui copiare. Diversamente sarebbe difficile
spiegare le molteplici omissioni e sconvolgimenti di strofe, fatti senza ragione
alcuna, spesso anzi repugnanti al senso o all'andamento stesso della lauda,
sconvolgimenti di cui v'è pure un bell'esempio nella prima delle laudi edite
dallo stesso L. Tanto più che non è raro trovare, in modo speciale nelle tra-
scrizioni in dialetti dell'Alta Italia di laudi toscane, parole o frasi che non
si spiegano se non per un errato ricordo delle corrispondenti toscane.
Poco chiara mi pare la discussione sul nome dell'amanuense, e l'opinione
espressa dall'autore che il Johannes Nini, copista del ms., sia da identificare
nell'Orlandino detto Ser Nino, mi pare contrasti coll'epoca assegnata al ms.
(1367). Infatti dall'albero genealogico (p. 28, n.) risulta che verso il 1360
viveva un nipote di quell'Orlandino, detto Semino. Dovrebbesi quindi con-
cludere che nel 1367 Orlandino era assai avanti negli anni, se pur ancora
viveva. Invece mi pare più probabile, volendo identificare lo scrittore con
qualche personaggio conosciuto dall'albero genealogico, avvicinarlo al Semino
vivente verso il 1360. Né può essere d'ostacolo la mancanza del nome di Gio-
vanni; poiché, nulla impedisce che egli fosse realmente così chiamato, se è
vero che a quel tempo il cognome di Semini, come afferma il Landini, aveva
già sostituito l'antico di Cuccianti.
Neppure mi pare raggiunta completamente la prova che il ms. appartenesse
alla Compagnia di S. Maria delle Laude, piuttosto che a quella della Mise-
ricordia (pp. 31-36), sebbene interessanti siano le notizie che l'A. ci dà della
origine di queste confraternite.
La parte dello studio che riguarda le laudi contenute nel ms. aretino è
condotta con diligenza. Giustamente l'autore, osservando la frequenza della
quartina coi primi tre versi monorimi e il quarto legato coi versi finali delle
altre strofe, ne deduce l'antichità di queste l^di ; poiché é un fatto costante
(1) La bibliografia s'arresta al 1890, per cui è omessa una pubblicazione per nozze
dello stesso prof. Bbttazzi [Compoìiimenti spirituali, Torino, Monao, 1906; nozze An-
dreucci-Newton), in cui stampava altre due laudi dello stesso ms.
Giornale storico, LXIV, fase. 192. 28
434 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
la prevalenza di questa forma ritmica nei laudarii più antichi. L'ultima parte
del lavoro (pp. 43-51) riguarda l'importanza del codice sia per il buon numero
di laudi che l'autore asserisce (non sempre però esattamente) non trovarsi in
altri manoscritti, sia perchè le laudi ivi contenute ci rappresentano l'anima
del popolo cortonese, « la cui cultura intellettuale (in quei tempi) è rappre-
« sentata specialmente dalle laudi » . Ciò è vero, tanto più che, a mio credere,
buona parte di esse sono da dirsi veramente cortonesi di origine. Ma non credo
esatto quanto il Landini dice : che queste laudi siano state nel trecento cantate
dal popolo invece delle canzonette amorose (p. 49). Che questo si avverasse poi,
nella seconda 'metà del quattrocento specialmente, sull'esempio di Firenze, è
cei-to ; che i Serviti usassero far cantare dal popolo le loro laudi, è pur vero ;
ma che queste laudi dei codici cortonesi sostituissero, o potessero sostituire
nel trecento le canzonette amorose e scurrili non è affatto possibile, sia pel
loro metro, sia per l'argomento. Siamo anche qui, come nei mss. umbri, davanti
a poesie composte pei fratelli disciplinati, forse spesso da qualcuno di loro
stessi, perchè si cantassero nelle loro riunioni, intramezzandone il canto colla
disciplina. Né tali laudi in cui si lamenta la Passione di Cristo, si piange il
peccato, e s'invoca misericordia, erano adatte a sostituire le canzonette anìo-
rose. Tanto è vero che, quando anche a Cortona la lauda divenne veramente
di popolo, e cantata dal popolo, cambiò stile e si conformò al tipo fiorentino
di lauda, come predominava nella seconda metà del sec. XIV; una lauda-bal-
lata, per lo più brevissima, con strofe di versi settenarii-endecasillabi varia-
mente unite dalla rima. Una conferma di ciò si ha appunto in un altro ms.
cortonese, di epoca più recente, a cui il Landini accenna. È il codice già indi-
cato dal Perticari come contenente laudi in una lingua « traente al dialetto
« cortonese, e fatto anzi scrivere a Cortona per Bartolomeo Camerlengo della
« fraternità del beato Santo Francesco, al tempo che Paolo della Spina fu
« Priore » (1). Esso è ora conservato a Milano nella Trivulziana, ove porta
il n. 537. È in pergamena e consta di più parti distinte. La prima del 1425
contiene un'ottantina di laudi, di cui sessanta circa comuni con uno o con
entrambi gli altri laudari cortonesi (Arezzo, 180 ; Cortona, 91). La seconda
parte contiene dapprima il poemetto sulla Passione del Cicerchia, che fu fatto
scrivere appunto da quel Bartolomeo Camarlingo, accennato dal Perticari,
nel 1459. Al poemetto seguono di mano più recente, ma sempre del sec. XV,
altre laudi, di quel tipo che possiamo chiamare toscano o fiorentino, colla con-
sueta indicazione pel canto (2), alcune delle quali di origine indubbiamente
(1) Opere, Bologna, Guidi, 1832, v. Il, p. 234. Il ms. fu comperato a Roma dal
Perticari verso il settembre del 1817, come risulta da due lettere del Perticari
stesso al principe Giaagiacomo Trivulzio in Milano. Dopo la morte del Perticari
passò in proprietà del cav. G. Battista Vermiglioli di Perugia, noto studioso, che
nel 1824 lo portava egli stesso in dono al predetto Trivulzio. Devo queste notizie
alla squisita cortesia del Bibl. della Trivulziana sig. ing. Motta, che mise a mia
disposizione le lettere dei due valentuomini ivi conservate.
(2) È da notarsi ohe invece del solito : cantasi come eco. vi si legge : nel tuono di eoe.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 435
cortonese, mentre altre sono le stesse in uso a Firenze. Laudi di tal genere,
non si incontrano mai, come ben osserva il Landini, nei manoscritti di Arezzo
e di Cortona, e una sola (quella : Per Vumiltà che in te Maria trovai) nella
prima parte del Trivulziano.
Al lavoro va unita la stampa di 22 laudi del ms. Aretino che l'editore non
ha trovato negli altri manoscritti da lui consultati, come risulta dalla tavola
premessa alla stampa. In riguardo alle laudi è difficile asserire recisamente
(ne del resto il Landini lo fa) che esse non si trovino in altri mss. o non siano
già edite. Così ad esempio la lauda 5^ di questa stampa è (con sole 8 strofe e
in ordine diverso) tra quelle pubblicate dal Mortara (Jacopone da Todi, Poesie
inedite ridotte alla loro lezione, Lucca, Bertini, 1819), la 2*, 4* e 9* non mi
risultano completamente nuove, sebbene non possa per ora indicare ove le abbia
trovate; la 10^, 11*, 18^, 19^, 22*, sono anche nel ms. Trivulziano citato. Altre
di quelle non edite da lui, il L. le avrebbe potute trovare anche nei mss. 307
e 409 della Comunale di Ferrara (1), nel Chigiano L. VIL 266, e in quelli
settentrionali illustrati dal Neri (2). Sono deficenze inevitabili, mancando an-
cora un elenco completo dei numerosi codici di laudi, e delle non meno nu-
merose e sparse pubblicazioni che le riguardano.
Il libro è chiuso da un prospetto dei più notevoli dialettismi, e da un
breve lessico. G. G.
DONATO VELLUTI. — La cronica domestica, scrìtta fra
il 1367 e il 1370, con le addizioni di Paolo Velluti scritte
fra il 1555 e il 1560, dai manoscritti originali, per cura di
Isidoro del Lungo e Guglielmo Volpi, con cinque ta-
vole dimostrative e sei facsimili. — Firenze, Sansoni, 1914
(8° gr., pp. XLViii-358).
La curiosa cronaca domestica del Velluti non era inedita. Sin dal 1731 la
pubblicò in Firenze Domenico Maria Manni, giovandosi di diversi mss., oggi
non tutti identificati, sebbene se ne conoscano ben otto copie a penna. Sono
già molti anni, peraltro, che del prezioso testo rintracciò il Del Lungo l'au-
tografo nella casa dei Velluti Zati, duchi di San Clemente, e ne diede di-
versi saggi, alcuni dei quali opportunamente ricomparvero nel Mantuile dei
professori D'Ancona e Bacci (I, 572 sgg.), siccome « documento sincerissimo
« della lingua parlata in Firenze » nel più bel Trecento.
(1) Conf. Ferraro, Raccolta di sacre poesie popolari fatte da Giovanni Pellegrini
nel 1446, Bologna, Romagnoli, 1877 {Scelta di curiosità, lett, disp. 162) e Feist^ Mit-
teilungen aus dlteren Samlwngen italietiiscTier geistlicher Lieder, in ZeitschHft filr ro-
manische Philologie, an. 18 (1889).
(2) Neri, Di alcuni latidarii settentrionali, in AttiAcc.Sc.di Torino, voi. 44 (1908-1909).
436 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
Accurata senza pedanteria è la riproduzione integrale di questo testo, che
il Del Lungo, sciogliendo un'antica promessa, ora ci ha dato. Volle che al
lavoro gli fosse aiuto Guglielmo Volpi, né certo poteva scegliere meglio. Il
commento storico, sobrio e sicuro non meno del linguistico, procede senza
dubbio in gran parte da quell'impareggiabile conoscitore della storia antica
di Firenze che il Del Lungo è. Alla novella edizione possiamo con piena si-
curezza affidarci ed a chi ce la diede dobbiamo gratitudine. Sono infatti co-
deste cronache domestiche, di cui Firenze ha quasi l'esclusività, documenti
di singolare valore storico e psicologico, rappresentazioni vivaci di tutte le
persone che formavano quelle antiche consorterie, quadri di vita intima ed
esterna, rivelazioni di anime contrastate tra le necessità, talora quasi sel-
vaggie, della difesa e della vendetta e la religione medievalmente tenace e
fervida. Oltre alla cronaca del Velluti altre due ne esistono di non minore
importanza, quella di Giovanni di Paolo Morelli e quella di Buonaccorso Pitti ;
né l'una né l'altra s'ebbero finora le cure che trovò la più fortunata cronaca
vellutiana (1).
È questa cronaca in parte autobiografica, in parte espositiva di storia sin-
crona ovvero famigliare, antecedente di parecchio la vita dello scrittore. Il
quale espone quanto sa e sente e pensa, senza alcuno studio di fare opera lette-
raria, con quel fare incisivo sino alla plasticità ch'è proprio alla espressione
trecentesca e che siamo avvezzi a lodare segnatamente in Dino Compagni.
Già il Volpi ammirò a giusto titolo que' suoi ritratti che ci stanno innanzi
in una specie di galleria, « dove la penna arguta precorre il pennello di Ma-
« saccio, del Ghirlandaio e degli altri quattrocentisti, che popolarono di vive
« figure le chiese di Firenze ! Sono per lo più pochi tratti, ma di quelli pieni
« di significato » (2). Dei quali ritratti, sbozzati alla brava, e pur tali da
dipingere al vivo ogni individuo, maschio o femmina che fosse, noi ben vo-
lentieri daremmo esempi, se ai pochi già addotti dal Volpi non ne avessero
aggiunti altri parecchi, in giornali diifusi, studiosi esperti che del volume
presente s'occuparono (3).
In quella iconografia vuoisi rilevare lo spirito d'osservazione stesso, che in
quel tempo cominciava a farsi strada nelle arti del disegno. E a ciò si de-
vono pure i molti particolari importanti per la storia del costume che occor-
rono in questa cronaca, tra i quali ve n'è uno che richiamò da tempo l'at-
tenzione per la sua estrema curiosità, la prima menzione del tennis. Dice
il Velluti che i cinquecento « cavalieri franceschi » che si trovavano nel 1325
(1) L'edizione che della cronaca del Pitti curò nel 1905 in Bologna l'ottimo
Bacchi della Lega manca di quei chiarimenti che solo un espertissimo di storio-
grafia fiorentina potea dare. Per la cronaca del Morelli, della quale esiste pure
l'autografo, dobbiamo pur sempre rimaner paghi a ciò ohe ne scrisse Paolo Gioboi
in una sua eccellente memoria del 1882, già segnalata in questo Oiorn., I, 860.
(2) Volpi, Il Trecento, 2» edizione, Milano, 1907, pp. 886-36.
(3) V. Gian nel FanfuUa della domenica, XXXVI, 20 e Nello Tarohiani nel Mar-
zocco, XIX, 20.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
437
in Firenze, giuocavano « tuttodì a la palla », e aggiunge: <' in quello tempo
« si cominciò di qua a giucare a tenes, avegnadio ch'ai tempo del Duca di
« Calavra si raffermasse e fortificasse » (p. 81) (1).
Sul valore della lingua usata dal Velluti non è il caso d'insistere. Gli edi-
tori, entrambi accademici della Crusca, ben seppero chiosarla e chiarirla.
Commuove l'imbattersi in espressioni poco diverse da quelle che dovevano
fiorire sulle labbra del divino poeta, « morto a ghiado », per es. (pp. 39 e 62),
e « diverso » (p. 40), in quel senso in cui Dante chiamò « uomini diversi »
i Genovesi.
Per quel che spetta alla storia letteraria, non si trascurino gli accenni a
Francesco da Barberino (pp. 28-25), ai Frescobaldi (2) ed alla famiglia La-
tini. « La Maffia... fu moglie di Guido di Piero Latini della gente fu ser
« Brunetto Latini » (p. 95). Ove si discerne una volta di più che quel casato
sonava Latini e non Latino, come continuano a scrivere, con testardaggine
mulesca, certi filologi stranieri, specialmente alemanni. K.
PAUL MARIE MASSON. — Chants de caymaval florentins
(Canti carnascialeschi) de l'epoque de Laurent le Magni-
fìque. — Paris, Senart, 1913 (8«, pp. 106).
Ci riserviamo di discorrere più a lungo di questa pubblicazione quando ne
uscirà il secondo volume, al quale l'autore promette far precedere una prefa-
zione. Per ora ci limitiamo a segnalarla agli studiosi e ad accennare breve-
mente al suo contenuto.
L'istituto francese di Firenze, del quale il Masson è a capo per la parte
che riguarda la storia musicale, si mostra davvero benemerito della coltura
del nostro paese con le pubblicazioni che ha iniziato o annunciato. È infatti
già uscito per suo merito Vlntermezzo del Pergolesi Livietta e Tracòllo a
cura del Kadiciotti e presto potremo leggere, nello spartito per pianoforte e
canto di Henry Prunières, V Orfeo di Luigi Rossi, la prima opera italiana
rappresentata a Parigi.
Dai manoscritti preziosissimi della Biblioteca nazionale di Firenze, il Masson
ha tratto questi venti canti carnascialeschi riducendoli diligentemente in
partitura moderna e aggiungendovi la riduzione per solo pianoforte; secondo
noi, con molta opportunità, poiché, data la conoscenza così estesa dello stru-
mento, è resa facile a molti la lor diretta conoscenza.
(1) Gli editori richiamano ciò che ne scrisse il Rajna, per cui vedi questo Qior-
naU, LV, 459, ma non citano le discussioni che s'ebbero a proposito di quell'antica
allusione sportiva in periodici francesi ed inglesi.
(2) Cfr. S. Debenedetti in questo Giornale, XLIX, 814 sgg.
438 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
Il Masson inoltre non ha mancato di segnalare sempre l'autore delle poesie
e, quando gli è stato possibile conoscerlo, l'autore della musica. Musica, come
richiedeva la pratica del tempo, necessariamente polifonica, ma di un polifo-
nismo sobrio e chiaro come in tutta la musica di carattere popolaresco in
quelle forme e come forse era nella tradizione musicale dell' J^rs nova di Fi-
renze del secolo precedente alla comparsa di questi canti. Anzi io penso che
in taluni di questi componimenti si possano trovare nascosti più o meno abil-
mente e integralmente canti popolari di quel tempo : tali, ad esempio, il Canto
delle rivenditrici, la cui poesia è di Lorenzo de' Medici, il canto dei Giudei
e quello dei Lanzi.
Eicco d'interesse e dal lato letterario e musicale è il Canto dei diavoli, la
cui poesia è del Machiavelli, e pieno di giovialità e di grazia maliziosa quello
delle Donne che cacciaìio i conigli. F. V.
AMILDA A. PONS. — Un trattato educativo del Quattrocento.
Estr. della Rivista pedagogica^ VI. — Genova, Formiggini,
1913 (8«, pp. 36).
Dopo la menzione fatta su questo Giornale (61, 471) di un volume della
signorina Laigle su Le livre des trois vertus di Cristina del Pisano, giun-
gerà gradito l'apprendere che sull'opera stessa ha elaborato un breve ma vi-
vace studio una eulta signorina italiana, tratta da carità di patria (oltre che
dalla naturale solidarietà di sesso) a rinfrescare la memoria, per verità non
languida, di quella nostra antica concittadina, trapiantata in terra di Francia.
E veramente, anche dopo le molteplici ricerche di cui è stata oggetto Cri-
stina del Pisano, sino alla ampia e recente della signorina Laigle, un partico-
lare studio, che si proponga un preciso intento, non può dirsi soverchio, specie
se è condotto con la larga preparazione e l'alacrità di spirito, che vi ha messo
la signorina Pons ; né all'A., che rimprovera chi l'ha preceduta d'aver trascu-
rate le cose nostre (p. 6, n. 1), è sfuggito che l'interesse della nuova ricerca
doveva appuntarsi proprio sul singolare carattere di quest'opera, scritta da
una italiana in Francia.
H Thomas, studiando la formazione dottrinale delle opere di Francesco da
Barberino, si curò bene di segnalare quel che vi si derivi dalla cultura aver- .
roistica dello Studio di Padova, ove l'autore fu scolare. Anche mostrò che la
società feudale della Provenza nel secolo XII dovette apparire un ottimo
esempio al moralista, che viveva in quell'altra società fiorentina del sec. XIV,
le cui figure femminili ridono con si sciolta sensualità dalle pagine del Deca-
meron. Analogamente il problema, che sovrattutto doveva attirare, secondo noi,
l'attenzione della signorina Pons era appunto codesto : vedere se e quanto
della coltura italiana — che s'avviava a diventar umanistica — entra nei
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 439
nuovi « Reggimenti » di questa figlia bolognese d' un « grammatico » pi-
sano addestrato ai maneggi della politica veneziana. Cristina, che prosegue
nella Miitacion de Fortune la tradizione del Romanzo della Rosa, incom-
bente tuttavia sulla didattica francese, ha saputo o potuto trar profitto da
una rinnovata corrente di idee « italiche », posto che vi fossero, sulla educa-
zione femminile ? Quello che ne dice l'A. nel suo scritto, che pur è dedicato
ai pedagogisti, è poco anche per noi storici. Ma forse non sarebbe agevole,
neppure alla signorina Pons, che conosce così bene l'argomento, dar una ri-
sposta, che sia più che un'impressione vaga. Quanto a me, confesserò che,
mentre leggevo questo scritto, mi arrivò un opuscolo della signorina Maria
Parrozzani (Padova, 1914), la quale per non so quali sue opportunità ristampa
I dodici ammaestramenti, che la savia donna diede alla figliuola, quando la
maritò : testo del primo trecento, sia che derivi o preceda i Reggimenti del
Da Barberino. Ebbene, a me è parso che quella « savia donna » la pensasse
pochissimo diversamente da ciò che dirà nel Quattrocento Cristina, la donna,
non solo savia, ma scrittrice, che gustò le « gouttelettes » della scienza, e a
cui vien dato vanto d'aver « inventé le métier d'homme de lettres ». Ahi
sempre fatale Eva! Gli è che, con tutti i suoi studi, cui l'avviava il padre
grammatico, la sua mamma (com'essa narra) la tratteneva rigidamente al
pennecchio, quand'era ragazza : e a me fa l'impressione che non se ne sia
veramente staccata troppo, anche quando dettava Vlnstruction des prin-
cesses, etc. Dov'è che ho visto un quadro, in cui con simbolo inelegante la
Parca disegna non so qual parola con la punta del suo fuso fatale ? Non
ricordo; ma quella figura mi ritorna agli occhi, sempre che studio la lette-
ratura femminile. Quella, intendo, dei secoli passati. Ex. C.
ANTONINO TOSTO. — Le Commedie di Ludovico Ariosto.
Studio critico-storico. — Acireale, Tip. ed. XX Secolo, 1913
(8°, pp. x-205).
Dopo gli studi del Tirinelli, del Giannone, e specialmente del Marpillero
(in questo Giornale e nel Fanfidla della Domenica), questo del T. non può
essere additato che come una compilazione sul materiale raccolto dagli altri,
un po' confusamente, e sopratutto con una soverchia insistenza su notizie e
particolari già noti: troppo minuta l'analisi delle commedie, troppo diffusa
la critica: il volume potrebbe essere ridotto di un buon terzo con grande van-
taggio per l'armonia dell'opera. È manifesta pure nel T. l'intenzione polemica :
l'autore, contro la critica corrente, si propine lo scopo di riabilitare l'Ariosto
come autor comico; si oppone cioè a quella critica, secondo lui, ingiusta che
considera le commedie dell'Ariosto come una servile imitazione di Plauto e
Terenzio: contrariamente al Reinhardstoettner, trova più numerosi i paralle-
440 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
lismi con Terenzio che con Plauto : trova errato il giudizio del Bongi a
proposito dei caratteri della Commedia del '500 : clie cioè tutti i poeti comici
del secolo XVI, fuor che il Machiavelli della Mandragola, dipingessero una
società che vedevano soltanto sui libri. Secondo il T., l'Ariosto, con le sue
commedie piene di eleganza e di misura, diede il modello della Commedia
erudita: modello che tutti imitarono.
Criticamente non persuasivo, un po' disordinato nel racconto, il T. si rivela
pur sempre buon conoscitore del Teatro dell'Ariosto e della critica intorno a
lui: la ricchezza delle note bibliografiche in fondo ad ogni capitolo dimostra
che egli non si è messo all'opera senza un'adeguata preparazione. Il primo
dei nove capitoletti, nei quali lo studio è diviso, è appunto l'esame dei giu-
dizi critici intorno all'Ariosto poeta comico. Nei tre capitoli successivi, il T.
studia le commedie dell'Ariosto in generale, mostra cioè come la frequenza
delle agnizioni non sia una riprova dell' imitazione latina, e non sia punto
inverosimile nel '500, essendo frequentissimi in quel secolo i naufragi, e con-
seguentemente teneri giovanetti e fanciulle vendute come schiave, e preda di
pirati. Il critico spiega poi come debba essere intesa la necessità dell'imita-
zione latina, e mette in evidenza gli accenni dei prologhi ariosteschi, sui quali
scrisse in modo esauriente il Campanini. Di recente Emilio Santini ci ha dato
un breve studio (che il T. non conosce, né forse poteva conoscere) su La duplice
redazione della « Cassarla » e dei « Suppositi » di L. Ariosto (Barga, Stab.
tip. Bertagni, 1913, 8°, pp. 15): e su questo argomento pure il T. ampia-
mente si diffonde nel 5*^ e nel 6° capitolo, allorché prende in esame queste
due commedie : dopo aver accennato al « bisticcio aromatico » (cioè al doppio
senso licenzioso) della seconda commedia, e analizzatala, trova che essa è
meno intricata della Cassaria, e che più vivi e moderni ne sono i carat-
teri. Interessante è qui la storia della sua fortuna in Francia: la disputa
all'Hotel de Rambouillet, avvenuta fra Volture e Chapelain, difensore della
commedia, e che finì col giudizio dell'arbitro Balzac. I tre ultimi capitoli
studiano in particolare le altre tre commedie: Il Negromante, La Lena e
La Scolastica.
Buon conoscitore non soltanto di quelle dell'Ariosto, ma anche delle altre
commedie del Cinquecento, il T. studia in queste e in quelle gli elementi
satirici, comuni anche alla Novellistica precedente e contemporanea: esamina
quanto viva sia nell'Ariosto la satira contro la gente di chiesa, contro i gio-
vani effeminati e i vecchi galanti. E non trascura neppure l'esame delle fonti.
Come è noto, non soltanto dal Decameron, ma anche dagli altri novellieri
(dal Bandello, ad es.) tolse l'Ariosto qualche motivo comico.
Si occupò di recente delle commedie dell'Ariosto Maurice Mignon (cfr. questo
Giornale, 63, 470); ma il T. non potè aver conoscenza di questi articoli. Altre
lievi lacune nella bibliografia della critica sono da segnalarsi, cioè lo scritto
di Armando Verzan {Le prime commedie italiane del Cinquecento, in « Jahres-
bericht der Ch-azer Handelsakad ernie, 1900-1901), ove sono esaminate due
commedie dell'Ariosto : La CassaìHa e 1 Suppositi ; il volume di Marino Cam-
panelli (Saggio sulle commedie di L. Ariosto, Rimini, 1903); e i due scritti
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 441
di letteratura comparata di John W. Cunliffe (Supposes and Jocasta, Boston,
1906) e di G. Pace (« I Suppositi » e la <^ Taming ofthe Shrew », in Malta
letteraria, V, 45-46; 1908). C. L.
HENRY PRUNIÈRES. — L'opera italien en France avant
Litlli. — Paris, Champion, 1913 (8« gr., pp. xlvii-431-32).
Per studiare di proposito le vicende dell'opera musicale in Francia avanti
la fondazione dell'Accademia Eeale occorreva sgombrare il terreno dai nume-
rosi errori che scrittori francesi e italiani di tempi diversi a piene mani vi
avevano disseminati ; ardua impresa già in piccola parte tentata e superata
da alcuni studiosi, fra cui il RoUand e, primo in ordine di tempo, l'Ademollo,
che nel volumetto I primi fasti della musica italiana a Parigi aveva
dato in luce i frutti delle sue fortunate ricerche negli archivi di Firenze, di
Venezia e di Torino, recando integralmente le testimonianze lasciate dai con-
temporanei. H Prunières, armatosi di coraggio, si è accinto a quel « lavoro
preparatorio d'indagine » che il compianto nostro Solerti nelle sue Origini
del melodramma (Torino, Bocca, 1903) invocava a profitto di una futura sin-
tesi che valesse ad illuminare tanto sotto l'aspetto letterario quanto quello
musicale una forma d'arte in cui poesia e musica sono strettamente congiunte.
Il P. studia l'una e l'altra cosa, ma in questo volume si cura in modo spe-
ciale della parte biografica e aneddotica, riservandosi di trattare il tema sotto
l'aspetto tecnico in un futuro libro sull'estetica del Lulli: dà qualche cenno
sulla musica e sui libretti unicamente per far meglio sentire al lettore l'im-
portanza delle opere di cui si narrano l'origine e la storia. Egli non pretende
di offrire ai lettori un lavoro perfetto e definitivo: « malgré son étendue
« — egli scrive — cet ouvrage est loin d'étre aussi complet que je l'eusse
« souhaité. Bien des points restent obscurs : le hasard des fouilles d'archives
« met en pleine lumière des faits d'importance secondaire et laisse dans l'ombre
« des questions fort graves. Je n'ai pas cru cependant devoir poursuivre da-
« vantage mes recherches; il me sufiit d'avoir pu reconstituer, dans ses grandes
« lignes, d'après des documents authentiques, l'histoire des représentations
« d'opéras à Paris avant la fondation de l'Académie de Musique. Je laisse à
« d'autres, plus patients ou plus heureux que moi, le soin d'en combler les
« lacunes ». Nel 1907 intraprese una serie di ricerche in Italia con la speranza
di trovare, nelle relazioni dei diplomatici accreditati presso la corte di Francia,
notizie sulle opere rappresentate a Parigi. A Modena, a Venezia, a Parma il
risultato fu mediocre: invece a Torino, a Roma e soprattutto a Firenze fa
corrispondenza dei residenti con i loro governi rivelò all'autore molte cose
prima ignorate ; e numerose lettere scritte ^& cantanti, compositori e macchi-
nisti gli apprestarono gran copia di ragguagli. Ma gli elementi più preziosi
della sua documentazione egli trasse a Parigi dal Ministero degli affari esteri,
dalla Biblioteca e dagli Archivi nazionali.
442 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
In questo nostro annuncio (non è una recensione) ci occuperemo brevemente
di quanto si riferisce al melodramma e alla storia generale dell'arte, come già
fece questo Giorn., 28, 451, per la Histoire de V Opera en Europe avant Lulìy
et Scarìatti di Eomain Eolland, al quale il P. volle intitolare il suo lavoro « en
« témoignage d'admiration, de gratitude et de respectueuse aifection » . In una
diligente « introduction » l'autore studia e rende evidente l'influenza italiana in
Francia in tutte le manifestazioni teatrali aventi attinenza con la musica e spe-
cialmente in quegli spettacoli di corte in cui si cela il germe del balletto e del-
l'opera; e si sofferma sui divertimenti alla corte dei Valois, sui festeggiamenti
pel matrimonio di Enrico IV e di Maria de' Medici, sul soggiorno del Rinuccini
e di Giulio Caccini a Parigi : passa in seguito a considerare i comici italiani, che
coi loro intermezzi lirici furono i divulgatori dell'arte melodrammatica in
Francia, dove spianarono la via agli intrecci cari ai nostri librettisti. Il primo
capitolo, benché, come l'introduzione, non abbondi di notizie nuove, è un quadro
assai ben fatto delle condizioni dell'opera musicale, sotto il pontificato di
Urbano VIII, nelle principali città italiane e specialmente a Roma, dove « des
« princes de l'Église mettaient leur gioire à monter des mélodraraes, à en
« écrire. eux-mémes les livrets ; des inoines pai-aissaient sur le théàtre sans
« exciter ni surprise, ni indignation ». Il Mazarino, che nella sua qualità di
intendente generale del cardinale Antonio Barberini aveva avuto dimesti-
chezza coi più celebri musici di quel tempo, quando succedette al Eichelieu
invitò a Parigi Marco Marazzoli, rinomato cantante e sonatore d'arpa, e la
famosa Leonora Baroni; e, vedute le buone accoglienze fatte dalla corte e
specialmente da Anna d'Austria a questi due artisti ed alla musica italiana,
stabilì, dopo che fu cessato il lutto per la morte del re, di dare una rappre-
sentazione d'opera. Le memorie e gli storiografi musicali francesi affermano
concordi che il primo melodramma rappresentato dagli artisti italiani per in-
vito del cardinale fu la Finta Fazza di Giulio Strozzi con musica di Fran-
cesco Sacrati; e se ne hanno curiosi particolari nelle storie del padre Menestrier,
del Ca^til-Blaze e dello Chouquet. Ma una lettera del cantante Atto Melani
al principe Mattias (E. Archivio di Stato di Firenze, Mediceo) con la data
del 10 marzo 1645, pubblicata per la prima volta dall'AdemoUo con altre
lettere importanti del medesimo cantante, afferma, in modo da non lasciar
dubbio, che una rappresentazione di opera italiana a Parigi avvenne dieci
mesi prima di quella illustrata dagli scrittori francesi: disgraziatamente il
Melani ne tace il titolo. L'Ademollo tentò di dimostrare che il melodramma
rappresentato negli ultimi giorni di febbraio del 1645 fu appunto la Finta
Pazza ; il P. invece crede che si tratti di un Poemetto dramatico per mu-
sica da lui scoperto nella Bibliothèque Nationale, il quale ha per protago-
niste Filli, figlia di Nicandro, e Glori, figlia di Fileno. La Finta Pazza, con
cui si era inaugurato nel 1641 il Teatro novissimo di Venezia, venne rap-
presentata la prima volta a Parigi il 14 dicembre del 1645 e procurò gli
onori del trionfo non al poeta Strozzi né al compositore Sacrati, ma al mac-
chinista e scenografo Giacomo Torelli, che il popolo parigino non tardò a so-
prannominare le grand sorcier. Questa « admirable féte des yeux » indusse
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 443
1 regina e il Mazarino ad ammannire agli spettatori francesi V Orfeo (al
quale il P., come già il Eolland nel suo studio Musiciens d'mitrefois, de-
dica un intiero capitolo), che fu il frutto della collaborazione del poeta Fran-
cesco Buti e del compositore Luigi Rossi, l'uno segretario particolare e l'altro
musico da camera del cardinale Antonio Barberini nipote di Urbano Vili. La
sera del 2 marzo 1647 « le grand public fut surtout frappé de la hardiesse
« des machines, de la rapidité des changements de scène, et de la richesse
« des décors » . I poeti di corte fecero a gara nel celebrare le bellezze del-
l' Orfeo e le benemerenze teatrali del Mazarino ; e la signora Margherita Costa
nella Tromba di Parnasso volle con numerosi sonetti portare il tributo della
sua Musa agli autori, agli interpreti e ai più cospicui ammiratori dell'opera.
Non mancarono, più tardi, critiche aspre e pungenti, tanto che in una ma-
zarinade motteggiante sulle parole Orphée e Morphe'e si giunse ad affermare
che il pubblico durante la rappresentazione aveva dormito della grossa. Il
librettcT (se ne trova una copia manoscritta nel fondo barberiniano della Va-
ticana) non venne mai stampato, ma il Mazarino ne fece distribuire agli
spettatori un riassunto: e fu saggia cosa perchè la lingua italiana non era
capita dalla maggior parte del pubblico e l'intreccio era oltremodo aggrovi-
gliato, come dimostrò il nostro Ademollo riportando nei Fasti sopra mento-
vati la lunga analisi fattane dal padre Menestrier. Anche il P. ne tratta in
modo particolareggiato per comprovare che è « d'une incohérence et d'une
« bizarrerie surprenantes »: Aristeo, pazzo d'amore e disperato per la morte
di Euridice, intona un'aria di bravura che il satiro e Momo accompagnano
imitando il suono della trombetta e del tamburo ; Venere lo esorta ad aver
più cura della propria persona se vuol piacere al bel sesso e lo fa pettinare
e agghindare dalle Grazie ; il satiro, vedendo ciò, chiede di essere acconciato
nello stesso modo e le tre dee condiscendenti ne arricciano gli ispidi capelli
facendogli vedere tutte le stelle del firmamento Con tutto ciò il P. am-
mette nel Buti un merito che è stato troppo dimenticato dagli storiografi del
teatro, quello cioè di avere fatto conoscere ai Francesi atteggiamenti lirici
che dappoi il Lulli ed il Quinault resero popolari. Nella lettera scritta da Atto
Melani al principe Mattias il 12 gennaio 1647 si parla di una seconda opera,
che si voleva ma non si potè rappresentare : secondo il P. sarebbe, con tutta
probabilità, la Ferinda , drammatica composizione che G. B. Andreini il
28 marzo 1647 presentò al Mazarino con la speranza che questi ordinasse di
musicarla. Né più fortunato fu il progetto di una Festa reale per balletto a
Cavallo della signora Margherita Costa: il Mazarino considerando che l'Or/eo
poteva bastare al divertimento della corte durante due mesi, ne ordinò la
ripresa dopo la Pasqua ; la qual cosa non impedì che gli avversari gli si sca-
gliassero contro e lo accusassero di rovinare la Francia e il tesoro regio con
spettacoli allestiti da lui per suo diletto. La reazione anti-italiana diviene sì
violenta che i divertimenti di oltre Alpi v^gon proscritti non meno che gli
stessi oltramontani ; e la regina deve dissimulare la sua passione per la mu-
sica sino alla disfatta dei Frondeurs e al ritorno trionfale del Mazarino, av-
venimenti che ella celebra nel 1654 con le Nozze di Peleo e di llieti del
444 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
Buti (con musica di Carlo Caproli) in cui « la fusion de l'opera italien et
« du ballet de Cour fran^ais est aussi complète que possible ». A leggere l'ar-
gomento, l'azione sembra assai semplice, ma, secondo la sua abitudine, il Buti
complica l'intreccio e riesce a renderlo incoerente e stravagante quanto si può
immaginare. Dopo, per cinque anni, assai esiguo è il numero degli artisti
italiani in Francia, che per l'esecuzione dei balletti composti dal fiorentino
Giambattista LuUi non metteva conto di far valicare le Alpi ai nostri vir-
tuosi ; ma quando apparve sull'orizzonte politico il matrimonio fra Luigi XIV
e l'infanta di Spagna, Mazarino diede incarico al Buti ed al Cavalli di darsi
attorno ad un grande spettacolo degno della circostanza; chiese cantanti a
Roma, a Torino, a Firenze, a Venezia, a Vienna e commise al celebre archi-
tetto Gaspare Vigarani la costruzione di un teatro che si sarebbe inaugurato
con la nuova opera Ercole Amante. Mentre con fervorosa alacrità si attendeva
alla laboriosa preparazione di questo avvenimento teatrale, fu allestito e rap-
presentato al Louvre (22 novembre 1660) lo Xerse, già celebre in tutta Italia,
di Nicolò Minato con musica del Cavalli (nell'elenco dei personaggi del pro-
logo si trova un soprano che non parla]). Il Lulli introdusse fra gli atti
della tragedia lirica « des entrées de ballet » in cui però il giovane re non
ebbe modo di porre in mostra tutta la sua virtù di ballerino e di mimo;
onde si stabilì di dare un balletto mezzo francese e mezzo italiano, nel quale
danzatori e cantanti potessero ugualmente dar saggio della loro abilità : l'abate
Buti ne compose il prologo e l'epilogo in versi italiani; il Benserade alcune
graziose canzoni e i versi per i personaggi del balletto. Finalmente il 7 feb-
braio del 1662 VErcoIe Amante (con balletti del Lulli) veniva eseguito nella
nuova e vasta sala del Vigarani gremita di pubblico. Quanto al libretto « on
« ne peut rien concevoir de plus plat, de plus niaisement compliqué que l'in-
« trigue de V Ercole ». Tuttavia esso esercitò un'azione incontestabile sull'opera
francese e lasciò tracce evidenti di sé nelle tragedie liriche del Quinault. A
questa opera tanto attesa, che conteneva tutti gli elementi per ottenere un
grande successo, non arrise la fortuna : « on peut affirmer que, monte quelques
« années plus tòt, l'opera eùt obtenu un immense succès. Mais les temps
« avaient changé. L^ Ercole Amunte tomba, victime de l'hostilité du public
« contre l'art italien ».
Partito il Cavalli da Parigi, il Lulli diviene lui padrone assoluto del campo
e per meglio stringere i vincoli coi musicisti francesi sposa la figlia di Mi-
chele Lambert, il più celebre e insieme il più popolare di essi. « L'opera
« italien était exilé de la cour de France avec ses interprètes. Désormais
« Lulli règne seul sur les destinées de la musique dramatique... L'opera fran-
« 9ais est son oeuvre, sa chose. Les Parisiens ont déjà oublié les beaux jours
« de V Orfeo, des Nozze di Peleo, de V Ercole Amante] ils semblent croire
« que l'opera est sorti tout arme, tout pare, du cerveau de Lulli et ne doit
« rien à l'Italie. Les adversaires du Florentin en attribuent l'invention à
« Perrin et Cambert et ne se montrent pas plus équitables envers les ceuvres
« italiennes auxquelles l'opera fran9ais doit cependant la vie ». S. F.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 445
GUIDO MAZZONI. — L'Ottocento. — Milano, Fr. Vallardi, 1913
(4«, pp. 1524).
Su questa vasta opera di consultazione assai si mormora in segreto e da
molti (1). Chi trova la materia mal divisa e mal digerita; chi non approva
quella continua spezzettatura dell'opera dei singoli autori per correr dietro a
raggruppamenti artificiali per generi letterari ; chi rileva frequenti inesattezze
ed errori, di cui non sempre è fatta ammenda nelle note, scritte, o almeno
stampate, molto tempo dopo il testo (2) ; chi biasima l'affoltarsi delle notizie
sui minori e sui minimi, che offusca la visione esatta dell'insieme; chi ap-
punta, specialmente negli ultimi capitoli, che sono i più ardui, certa stan-
chezza e povertà di critica, per cui degli scrittori si riferiscono i titoli delle
opere, con lodi generiche, anziché caratterizzarli risolutamente; chi, pur ri-
conoscendo la dovizia grande della bibliografia, che seguita il sistema del
noto e benemerito Manuale scolastico del D'Ancona e del Bacci, con ricchezza
infinitamente maggiore d'informazione, lamenta che quasi sempre quella bi-
bliografia non sia critica, ma riferisca una serie di nomi e di schede, acco-
stando opere nulle a studi pregevolissimi, sicché lo studioso vi rinviene un
agglomerato alquanto meccanico, e direi bruto, d'indicazioni, senza il rilievo
che valga ad orientarlo su quelli che sono i veri e migliori sussidi di ricerca.
Queste ed altre accuse che si vengono bisbigliando hanno la loro parte di
vero, e crediamo che il Mazzoni medesimo sia il primo a riconoscerlo. Ma a
me sembra che l'opera, pei servigi segnalati che rende e che renderà ancora
per un pezzo agli studi, voglia essere, dagli spiriti equilibrati ed equi, difesa.
Anzitutto è giusto por mente alla difficoltà grande dell'impresa. Tranne per
una parte della materia dei primi capitoli e per gli scrittori massimi della
(1) Recensioni vere e proprie non se ne son fatte e forse non se ne faranno. L'im-
presa sarebbe estremamente ardua. Un giovane d'ingegno, devoto alla scuola fio-
rentina, Luigi Tonelli, accennando a questo « enorme Ottocento^ esuberante di no-
« tizie e di riferimenti » , loda in esso il « metodo cronologico e insieme per generi
« letterari, pel quale è stato possibile dipingere ampi e compiuti quadri, sebbene
« talvolta a scapito della visione chiara e completa della singola personalità poe-
« tioa » . Vedi il volume La critica letteraria italiana negli ultimi cinquant'anni, Bari,
Laterza, 1914, pp. 193 e 807.
(2) Com'è risaputo, l'opera usci a dispense in una lunga serie di anni. Nelle note
son citati spesso scritti che non erano peranco in luce quando fu stampato il testo.
Da ciò deriva di necessità qualche incongruenza; ma agli intenti dell'informazione
bibliogr^ifica è pur meglio questo difetto che il silenzio sui lavori usciti dopo la
pubblicazione del testo. Notiamo nel testo due piccoli errori di fatto, per la ve-
rità storica e senza volerne muovere al M. il menomo rimprovero. A p. 1159 scrive
l'A. che Domenico Carutti « attese a grandi lavori storici. . . mentre resse la Bi-
« blioteca .Reale in Torino». Ciò non è esatto. Il Carutti entrò a dirigere la biblio-
teca del Re nel 1889, quando oramai stava pe# toccare la settantina: troppo na-
turale quindi che non facesse più allora gran che; le opere sue storiche sono
anteriori di molti anni. — A p. 1227 il Flechia è detto « rinnovatore dei nostri
studi filologici » . Andava detto glottologici. Di « filologia » , nell'accezione odierna del
vocabolo, quel bellissimo ingegno si può dire non si occupasse, salvo per l'India.
446 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
prima metà del secolo, il M. non aveva spianata la via da ricerche esaurienti ;
anzi fra quel paio di migliaia di scrittori ch'egli tocca, ve n'è un buon terzo
che nessuno aveva menzionato in una storia delle lettere prima di lui. E
poi, è pur giusto riflettere che alla spezzettatura della individualità degli
scrittori (non facilmente evitabile, del resto) rimedia l'indice alfabetico dei
nomi propri (1), i cui rinvìi concedono al consultatore del libro (e questo
sarà sempre libro più di consultazione che di lettura) di rifarsi alle varie
pagine ove si parla dell'autore che gli sta a cuore. Inoltre, se è vero che il M.
ha voluto parlare di troppe persone, anche di quelle, come i filosofi, gli sta-
tisti e gli scienziati, che sembrerebbero destinate non alla storia delle lettere
ma ad altre categorie storiche, è pm* da riconoscere che nel più sta il meno
e non viceversa, ed è da dargli lode per aver tenuto sempre presenti, in un
secolo di continui scambi intellettuali, le letterature straniere che influirono
sulla nostra, e per aver dato il posto che loro compete agli scrittori in dia-
letto, alcuni fra i quali grandissimi, persin maggiori dei più applauditi scrit-
tori in lingua. E pur riconoscendo il difetto organico delle note, che troppe
volte riuscirono elenchi bibliogi-afici ignudi anziché classificazione critica degli
studi eruditi secondo il loro valore; pur ammettendo che il voler troppo ci-
tare, giungendo con le « giunte e con-ezioni alle note » sino alla primavera
del 1913 ed insaccando in fine (pp. 1496-97) un gran numero di nomi di-
versissimi che così nudi e crudi non giovano a nulla, è cosa pericolosa e vi-
ziosa (2) : giustizia vuole si aflfermi che quelle pressoché dugento pagine fitte
di rinvìi bibliografici costituiscono una miniera preziosissima di informazioni
non sempre facili ad aversi, anzi in molti casi difficilissime. Inevitabili, in
tanta congerie di nomi e di titoli, le ommissioni e gli errori ; d'alcune e di
alcuni il M. stesso s'è accorto, di altre e di altri no (3). Ma mettiamoci,
(1) In quell'indice sarebbe fors'anche stato utile menzionare i generi, rimandando
ai luoghi ove se ne parla. A questa esigenza credette forse il M. che sopperissero
i suqj sommari dei capitoli ; ma la ricerca in quel modo non è agevole per chi,
metti caso, voglia saper tutto ciò che nell'opera si dice dell'eloquenza, ovvero
della satira, o dell'epigramma.
(2) Ed anche un poco inconseguente. Nelle oneste parole, con ohe si inizia il
capitolo ultimo, dice il M. tra l'altro: «dei viventi non intendiamo parlare e...
« quanto ai morti di recente, non ci troviamo nelle condizioni necessarie, di reoi-
« proco paragone, e forse di spassionatezza , onde possiamo avere sicura fiducia
« nell'opinione che ci recò a includerli o a escluderli » (p. J211). Sarebbe stato utile
ohe, data questa premessa, dei vivi non avesse seppur toccato, e con la morte
del Carducci avesse fatto punto.
(3) Documentare quest'asserzione sarebbe agevolissimo quanto ingeneroso e pe-
dantesco. Io sono sempre stato grato ai coscienziosi bibliografi (né v'ha dubbio che
il M. è tra questi) ed ho sempre avuto in fastidio il mal vezzo di coloro che, pur
profittandone largamente, si fan belli di poter loro rimproverare sviste od ommis-
sioni. I pochi rilievi che seguono non rimproverano nulla. — pp. 1832-83: suU'Orfw
sarebbe forse stato bene porre in rilievo i risultati dello Zschech, che a me paiono
veramente osservabili. — pp. 1834-35: per Giustina Renier Michiel parmi non siano
citate le importanti lettere da lei dirette al Bettinelli, ohe il Luzio pubblicò nel-
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 447
fratelli in critica ed in bibliografia, una mano sul petto e vediamo un poco
quanti di noi sarebbero stati in grado di raccogliere e ordinare un così spet-
tacoloso numero di citazioni erudite, vediamo quanti di noi hanno letto di
scrittori e su scrittori del sec. XIX altrettanto quanto mostra d'averne letto
il Mazzoni. Neil' insieme del testo e delle note, si ha in questo libro per
l'Italia dell'Ottocento una sorgente così copiosa di notizie di fatto, che sa-
rebbe ingratitudine nera il non valutarla convenientemente, ostentando di
volerne vedere solo le manchevolezze.
La partizione in nove capitoli estesissimi e gremiti di cose non può dirsi
felice. Essa segue dapprima la cronologia, poi la abbandona per altri aggrup-
pamenti, in fine la ripiglia. Traccia il primo capitolo le condizioni delle let-
tere in Italia tra il finire del Settecento e gli inizi dell'Ottocento; poi tre
capitoli esaminano il periodo che va dalle vittorie francesi alla restaurazione,
nella poesia, nella prosa, nel teatro; il quinto ed il sesto capitolo raggrup-
pano l'uno intorno al Manzoni le tendenze romantiche, l'altro intorno al Leo-
pardi il classicismo ; sotto il titolo non molto chiaro di « letteratura di bat-
taglia e di scuola » racchiude il settimo capitolo materia assai diversa, poesia
patriottica e satirica degli epigoni romantici, varie forme di lirica e di ro-
manzo, traduzioni ; segue col teatro e con la prosa polemica e dottrinale il
capitolo ottavo ; nel nono finalmente aleggia lo spirito di Giosuè Carducci,
al quale si ritorna spesso anche discorrendo della critica, del teatro, del ro-
manzo. Quest'ultimo capitolo ha, più degli altri, carattere d'incertezza e di
provvisorietà ; ma s'avvantaggia di molti dati desunti dalla conoscenza per-
sonale che il M. potè avere con non pochi degli autori trattativi. Encomia-
bile è lo studio d'imparzialità che l'A. vi fa valere: egli, ad es., nei troppi
odi e nelle troppe bizze del Carducci non preide partito a favore di lui, ma
vede il prò e il contro, esercita un giudizio di moderatore che riesce simpa-
tico. Vedansi le pagine (pp. 1235-36) ove parla dello Zendrini. Lodevoli anche
quelle sul Chiarini, nelle quali appare manifesto il desiderio di non esagerarne
per nulla il valore.
l'ann. Vili del Preludio d'Ancona. — p. 1385; sul Lucchesini era bene citare (ma
forse nscirono troppo tardi) le curiose relazioni dei suoi viaggi, edite da G. Sforza
nelle Mem. Accad. ToHno. — p. 1350: su Carlo Varese manca il rinvio ad un arti-
colo di L. Fassò nel Bollett. storico tortonese del 1909. — p. 1347; su Bernardo Bel-
lini forse il M. non fu in tempo di tener conto, neppure nella giunta alle note, del
molto che ha sapvito dircene il Novati nel periodico II libro e la stampa, VII, 55 sgg.
— p. 1380: sul Regaldi vorrebbesi veder menzionato accanto alle altre citazioni,
che mancano per ragion di tempo in D'Ancona-Bacci, anche un buon contributo di
E. Stampini, su cui cfr. questo Giorn., LVI, 264. — p. 1470: per Adolfo Bartoli non
so perchè non sia richiamato D'Ancona-Bacci, V, 816 e VI, 370. Su lui va fatto
valere in prima linea lo studio ricchissimo bio-bibliografico di Gr. Sforza. — A p. 1383
trovasi menzionato un mio scritto sul Vagello ^L'amante di Giorgio Sand , inserito
in un numero di Senigallia del 1907. Deve essere un errore di scheda, giacché io
sul Pagello non scrissi se non le poche righe anonime del Giorn., XXXII, 276-77,
ohe il M. gentilmente cita. A meno che qualcuno le abbia ristampate senza dar-
mene avviso; ma non mi sembra cosa verosimile né tale che ne valesse la pena.
448 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
Innegabile che nell'opera vi sono molte disuguaglianze. I migliori capitoli
sono quelli pei quali il M. aveva una più solida e più antica preparazione:
quelli sul romanticismo, sul Manzoni e sul Leopardi. Intorno all'avvento del
romanticismo in Italia, a' suoi primi rappresentanti, a' suoi caratteri nulla si
aveva prima di paragonabile in compiutezza a quanto ne è detto in quest'o-
pera. Buono assai ciò che v'è registrato della fortuna dei Pro w. Spositsmìo
nell'arte quanto nella critica ; utile, sebbene troppo larga nei rispetti dell'eco-
nomia del libro, la trattazione della questione della lingua, dal Monti al Man-
zoni e dal Manzoni all'Ascoli ed ai più recenti lessicografi. Nel capitolo sul
Leopardi buone le caratterizzazioni del Monti e del Foscolo, lodevole lo studio
sui tragediografi di maniera alfieriana, con speciale riguardo al Fabbri, al
Benedetti, al Mccolini (1). La chiusa di quella sezione, ch'è la più meditata
dell'opera, è degna di riferimento per la sua giustezza: « Il Leopardi, poeta
« che negando creò, e artista che conservando rinnovò, sovrasta sul classi-
« cismo ostinato a imitare ; come sul romanticismo, affaccendato a trarre fuori
« del nuovo, sovrasta il Manzoni, poeta che creò affermando, e artista che
« rinnovando conservò » (p. 569). Il naturale equilibrio dello spirito italiano
impedì nei maggiori spiriti quelle esagerazioni e quelle intransigenze che
fuori d'Italia avevano fruttato battaglie aspre e sarcasmi feroci. Ben è vero
che anche fuori d'Italia seppe comprendere nella sua vasta anima tutto Vol-
fango Goethe. Privilegio della grandezza. E.
VITTORIO BETTELONI. — Impressioni critiche e ricordi
autobiografici. — Napoli, Ricciardi, 1914 (16°, pp. viii-406).
L'arguto e gentile Vittorio Betteloni appartiene, purtroppo, ormai anche
egli alla storia. Questo Giornale, 61, 167-68, ha già menzionato due comme-
morazioni d'indole diversa, che furon dette intorno a lui nella sua bella Ve-
rona, l'una di Giuseppe Fraccaroli, l'altra di Giuseppe Biadego. Per noi più
specialmente importante quest'ultima, per i copiosi dati di fatto raccoltivi,
per le note autobiografiche utilizzatevi, per le lettere del Betteloni e al Bet-
teloni che la documentano (2). Né crediamo di andare errati supponendo che
(1) Una pagina sai metri neoclassici ha pregio di novità vera (pp. 352-53), e nella
nota rispettiva confessa il M. d'essersi valso del materiale raccolto dal Carducci
e da lui stesso. Ameremmo che ne parlasse altrove di proposito, essendo rimasta
arenata nel periodo più antico l'opera ideata dal Carducci su quel curioso sog-
getto, e non avendosi finora avuto da altri se non frammenti di ricerche.
(2) Tanto il discorso quanto la documentazione di esso ricomparvero nel volume
del Biadego, Letteratura e patria negli anni della dominazione austriaca, Città di Ca-
stello, Lapi, 1918.
BOLLETTINO BIBLIOGRÀFICO 449
molta parte abbia avuto il Biadego anche nella scelta delle poesie bettelo-
niane che pubblicò in un elegante volume la Ditta Zanichelli, sebbene il
nome di lui non compaia se non nella accurata bibliografia finale di tutti gli
scritti del poeta veronese e di quanto intorno ad esso fu detto pubblica-
mente (1). Il volume è così materiato da raccogliere in sé veramente, come
dice l'avvertenza proemiale, « tutto quello che di più significativo, di più rap-
« presentativo, di più personale ha l'arte del poeta veronese », trascelto nelle
quattro raccolte de' suoi versi. In testa al libro ricompaiono le due maggiori
scritture critiche che l'attività del Betteloni abbia finora richiamato, vale a
dire la prefazione di G. Carducci all'edizione zanichelliana (1880) dei Nuovi
versi e l'articolo di B. Croce nell'anno II (1904) della Critka (2). Buona cosa
davvero questa scelta, poiché in quel periodo che seguì al romanticismo e in
certo modo segnò una reazione contro ad esso, l'operosità poetica del Bette-
Ioni ebbe un valore non trascurabile ed una fisionomia tutta propria, sicché
nella storia letteraria della seconda metà del sec. XIX sarà tenuta in un conto
assai diverso e maggiore di quanto i contemporanei, incuranti o distratti o
solo rivolti a chi sapeva richiamare intorno a sé l'attenzione, mostrassero di
sospettare. Di queste rivendicazioni il tempo galantuomo saprà farne diverse
con quella medesima inflessibilità con cui seppellirà senza speranza di risur-
rezione tanti prodotti d'efimera apparenza, che sollevarono clamore, ma non
hanno vero merito d'arte.
Il Betteloni prosatore e critico era sino ad oggi pressoché ignoto. Il volume
indicato in testa a questo cenno vale a farcelo conoscere ed apprezzare anche
da questo lato. Esso é composto di prose in grandissima parte inedite, ma
che vengono stampate dalla famiglia per desiderio espresso del defunto. Libro
sui generis, che merita qualche parola di benevola presentazione e di com-
mento.
Nota l'A. le osservazioni che gli sono suggerite da letture di libri e di gior-
nali. E siccome é uomo di larga coltura nelle cose letterarie tanto italiane
quanto straniere e dotato, in pari tempo, di senno e buon gusto, le sue os-
servazioni, condite di quell'umorismo bonario che é peculiare a tanti scrittori
veneti e di quella vivacità che proviene da uno spirito vigile e innamorato
dell'arte, si leggono con soddisfazione, anche se non sempre persuadano. Spesso
avviene che in queste sue annotazioni appaia il solitario, costretto da una
paralisi all'immobilità su di una poltrona. L'isolamento gli altera talora al-
quanto la visione dei fatti, e lo induce a dare importanza a cose che non
(1) A quest'ultima parte della bibliografia è da aggiuogere oggi l'articolo Vit-
tono Betteloni di G. A. Borgese, nel Corriere della sera, V> luglio 1914, articolo agro-
dolce, anzi molto più agro che dolce.
(2) Il volume s'intitola Vittorio Betteloni, Poesie (1860-1910), Bologna, Zani-
chelli, 1914, e fa parte della serie che s'apri coi due volumi di poesie e di prose
del Carducci, e che ora l'editore indica col nome di Poeti e prosatori italiani con-
temporanei.
Giornale storico, LXIV, fase. 192. 29
450 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
ne hanno tanta, come anche gli fa credere che la critica dei giornali quoti-
diani abbia un valore assai maggiore di quello che ha. Inoltre, a lui accade
ciò che di solito suole avvenire ai poeti che scrivono di critica: giudica in
conformità ai criteri che lo guidano nel produrre. Egli è poeta di cose pic-
cole e semplici, sicché apprezza specialmente la semplicità, la verità palese
a tutti, la gaiezza, l'umorismo. Del resto, egli stesso confessa e ripete: « Io
« non sono né un maestro né un critico. Sono un dilettante. Leggo per mio
« diletto, e per mio diletto scrivo » (p. 51). « Assolutamente fare il critico e
« il maestro é un mestiere pericoloso, e io non ci casco. Io sono un lettore at-
« tento, che qualche volta dice il suo parere, senza pretesa alcuna che altri
« dia retta a me » (p. 285).
Quasi una cinquantina son gli scritti compresi nel volume; ma i più escono
dal quadro della nostra rivista, o perché trattano di scrittori stranieri (Tol-
stoi, Ibsen, ecc.), o perchè si indugiano su italiani tuttora viventi (D'Annunzio,
Arr. Boito, Gnoli camuffato da Orsini, Guerrini, Marradi, Fanzini, Pirandello,
Barzini, e altri e altri). Tra i poeti, pur facendo alcune riserve, gli piace
assai il Guerrini, che stima « ingegno poetico e artistico di prim'ordìne »
(p. 146) ; tra i prosatori, ha vero entusiasmo pel Barzini : la sua bestia nera
è il D'Annunzio, del quale dice corna senza tregua. In un luogo confessa
schietto: « l'ho in uggia cordialmente, perocché l'arte sua, a mio modo di
« vedere, é pessima e micidiale alle lettere nostre » (p. 115). Alla Figlia di
Jorio giunge a preferire quella povera, artificiosa, grossolana azione scenica,
che é Romanticismo del Eovetta: il che é tutto dire. I critici che più lo
occupano sono 1 giornalisti, e ne dice, di solito, male, particolarmente del
Pastonchi. Di altri critici non discorre, all'infuori del Croce, la cui « fraseo-
logia » gli sembra « un giuoco di parole » (p. 197). Il povero Mantovani gli
piace e ne ha stima; tuttavia se ne burla quando egli loda Gnoli-Orsini
(pp. 342-343 e 350).
Dell'Ariosto fu il Betteloni ammiratore fervente ; ma, a dir vero, sono una
miseria le due paginette che dedica allo stile di lui (pp. 233-34). Interessanti
le notizie che ci offre su due suoi concittadini, Ippolito Pindemonte e il suo
noto biografo, Benassù Montanari. Sulla religiosità del Manzoni ha qualche
pensiero non cattivo (pp. 172-74), e ancor migliori sono le pagine in cui di-
fende contro le soverchie sottigliezze del grande milanese il romanzo storico
(pp. 46-50). Con l'Aleardi ebbe rapporti personali intirai, che si ruppero al-
lorché il Betteloni pubblicò il suo primo libro di versi; ma tuttavia egli
continuò ad essergli affezionato, e di lui e del Prati dà informazioni. Ammi-
razione grande ed incondizionata riscuote presso il Betteloni solo il Carducci.
I versi del Chiarini giudica sevei-amente, e non meno severo giudizio porta
sul Pascoli della seconda maniera, e ride causticamente del suo incensatore,
il Gargano (1). Il Graf poeta gli va poco; biasima specialmente la soverchia
(1) Per mezzo dell'indice alfabetico dei nomi, che è in fondo al volume, ognuno
potrà trovare ciò ohe gli fa comodo di leggere.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 451
abbondanza della sua produzione in versi (1). Come scrittore di storia e cri-
tica letteraria gli sembra « sotto ogni aspetto eccellente » (p. 187); il che
non toglie che lo trovi ridicolo ne' suoi entusiasmi per lo Gnoli truccato da
Orsini.
Il valore massimo del volume di V. Bett cloni è soggettivo, in quanto esso
completa la fisionomia della sua anima e della sua arte. Sul frontispizio, ac-
canto a « impressioni critiche » è indicato « ricordi autobiografici ». E, in
realtà, di note autobiogi-afiche è contesto tutto il libro, giacché buona parte
delle « impressioni » serve di commento al modo di sentire dello scrittore.
Sonvi, inoltre, prose destinate a narrare esplicitamente fatti della vita dell'A.
Tali le pagine ove ritrae la sua infanzia e adolescenza (pp. 75-90), prima
e dopo il suicidio del padre (Cesare, poeta romantico; cfr. Giorn., 40, 463);
tale l'articolo su Uno scienziato ignoto, cioè Giulio Sandri, morto di 87 anni
nel 1876, che insegnò il greco al Betteloni; tale il capitolo sull' Aleardi, ove
l'A. parla dei propri anni di studente e dei primi tentativi poetici ; tale l'altro
capitolo in cui discorre del proprio insegnamento, durato diciassette anni, nel
collegio femminile degli Angeli in Verona (pp. 224-32). Rientrano in questa
categoria anche ciò che dice, per incidenza, sulla chiarezza nello scrivere e
sul modo in cui giunse ad ottenerla (p. 12), e i non pochi lamenti agrodolci
per non essere stato convenientemente valutato dal pubblico e dalla critica.
Siffatte lamentazioni occorrono troppo spesso presso i poeti che non hanno
la fortuna o l'abilità di imporsi.
Assenza quasi completa di pensieri filosofici e religiosi. Solo a p. 174 espresso
il timore « che al cessare della vita fisica e materiale cessi per avventura
« anche la vita spirituale a un medesimo tempo ». R.
ANNUNZI ANALITICI
Ernesto Lamma. — SulV ordinamento dette rime di Dante. — Città di
Castello, Lapi, 1914. Collezione di Opuscoli danteschi dir. da G. L. Passe-
rini, voi. 129°-130o [Annunziammo già (34, 283) questo studio quando fu
pubblicato la prima volta nel Giornale dantesco (voi. VE, quad. 3-6, 1899).
Non sappiamo ora spiegarci perchè si ristampi a così breve distanza, quando
le ricerche preliminari, indispensabili, sull'autenticità e sul testo delle rime
di Dante sono rimaste presso a poco al medesimo punto, e il Lamma stesso
non ha da aggiungere al suo scritto se non poche indicazioni bibliografiche
(1) Pure al Graf deve alludere là dove scrive che la Nuova Antologia « da molti
e anni si è fatta cultrice e fautrice dei più mediocri versi che si scrivano in Italia »
(p. 146).
452 BOLLBTTIWO BIBLIOGRAFICO
e qualche noterella polemica. Che si tolgano da una rivista e si ripubblichino
a parte articoli di gran valore, sì che possano essere più facilmente acqui-
stati dagli studiosi e dalle persone colte, possiamo ammettere; ma lo studio
del Lamma non è tale da meritare una diifusione maggiore di quella che gli
ha assicurato il Giornale dantesco. Avesse almeno l'A. tratto giovamento da
alcuni buoni articoli sulla materia che altri studiosi hanno pubblicato nel
frattempo! Conosce l'articolo del Barbi sulla ballata Per una ghirìandetta;
dice anzi che in esso n'è « sapientemente fermata la lezione ». Ma perchè
continua allora a parlare della « versione popolare » a cui quella ballata
« presto soggiacque », quando tutto l'articolo del Barbi è volto a provare che
la cosiddetta versione popolare non è mai esistita, ma che è invece il testo
genuino di Dante? Cosi cita gli studi del Debenedetti sulla Giuntina, ma
non servono a renderlo più prudente nel sentenziare circa la corrispondenza
fra l'Alighieri e il Maianese; anzi promette di pubblicare fra breve uno
« studio compiuto » nel quale dimostrerà « la falsità di tutto il canzoniere
del Maianese ». Né è riuscito sempre, neppur questa volta, a mettersi d'ac-
cordo con sé stesso. A p. 10 pone il son. Di donne vidi fra le poesie che,
« sebbene siano di dubbia autenticità », pure hanno « più di un indizio che
può farle attribuire a Dante » ; a p. 27 lo respinge risolutamente dal canzo-
niere dantesco e ne fa autore « un ignoto poeta » che sentì l'arte dello stil
nuovo. Così a p. 9 fra le poesie che sono da ascrivere sicuramente a Dante
mette il son. E' non è legno ; a p. 49 invece ne pone in dubbio l'autenticità.
Niente diremo dell'ordinamento che il Lamma propone del Canzoniere di
Dante: é uno degli argomenti più ardui che presenta la critica dantesca, e
per trattarne seriamente occorre prima l'edizione critica di quella disgrazia-
tissima opera. Ogni cosa a suo tempo].
Franz A. Lambert. — Dante' s Matelda und Beatrice. Eine Skizze. —
Munchen, Piloty und Loehle, 1913 [Dovete sapere, dunque, che la identifi-
cazione della Beatrice di Dante con madonna de' Bardi, già Portinari, è
oramai definitivamente tramontata. « Die Portinarigeschichte des Messer
« Boccaccio wurde zuerst von Scartazzini in Zweifel gezogen und mit guten
« Griinden widerlegt ; beute wird sie von alien klardenkenden Danteforschern
« als erledigt angesehen » (p. 117). Invece é certissimo che la beatrice del
poeta fu Piccarda Donati. Sembrerebbe un po' buffo che nel cielo della luna
apparisse a Dante Piccarda mentre egli é accompagnato da Beatrice; ma
questa è difficoltà di sola apparenza. Beatrice nel Paradiso è puro simbolo ;
è la personificazione dell'amore celeste, mentre Piccarda gli compare come
reminiscenza d'un amore terreno passato: « der Geist einer Verstorbenen, die
« frtiher fiir Dante eine beatrix virar, steht neben der Personifikation der
« liiramlischen Liebe, die jetzt seine beatrix ist: die menschliche Liebe ist
« fùr den Uebermenschlichten nur noch eine Erinnerung an vergangene
« Zeiten » (p. 118). Viceversa poi, simbolo dell'amore terreno ò Matelda (p. 148),
la quale nella V. X. è rappresentata dalla donna dello schermo, da Giovanna-
Primavera, dalla donna pietosa, e nella realtà della vita fu Gemma Donati.
Gli amorì di Dante furono due, soltanto due, nient'altro che due: Piccarda-
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 453
Beatrice (« il primo diletto della mia anima », Conv., II, 13) e Gemma-Pie-
tosa-Matelda («lo mio secondo amore prese cominciamento dalla misericor-
« diosa sembianza d'una donna », Conv., Ili, 1). Su ciò vedasi p. 173 del libro
del Lambert, il quale si scaglia ferocemente contro chi dubitò della castità
di Dante e del suo inalterabile affetto per Gemma, che gli fu moglie tanto
affezionata. Queste cose il L. le sa di positivo e di certa scienza, e non c'è
luogo a discutere. Tutta l'opera dantesca s'aggira intorno ad un amore ideale,
che diventa celeste (Piccarda-Beatrice), e ad un fervido amore terreno (Gemma-
Matelda). A sussidio di tale concetto, a cui non manca novità, costruisce il
critico una sua interpretazione della F. N., che si basa sulla simmetricità
riconosciuta dall'americano Charles Eliot Norton, e riconosce i trapassi per
tre gradi (amore ideale, amore beatificante, amore sapienza divina) della
Beatrice nella Commedia. La chiave di volta di tutto l'edificio è la cabala,
alla quale il L. consacra il suo primo capitolo, mostrando che Dante dovette
averla famigliare. « Aus den hier besprochenen Commedia Stellen durfte (dice
« il L.) zur Genùge hervorleuchten, dass Dante den Kern des kabbalistischen
« Systems, die Lehre von der aus der Transzendenz der Gottheit geborenen
« Lichtidee mit ihren neuen sephirotischen Emanationen, gekannt und danach
« scine Kosmologie aufgebaut hat » (p. 48). Chi voglia tuffarsi nella cabala
^er intendere gli amori di Dante e la sua costruzione poetica ha ormai tro-
vato una guida. E se ne avrà appagamento, meglio per lui].
Luigi Chiappelli. — La donna pistoiese del tempo antico. — Pistoia,
Officina tipogr. cooperativa, 1914 [Estratto dal Buìlettino storico pistoiese.
Ottimo conoscitore della storia di Pistoia ed insieme di quella del diritto,
L. C. ci offre un quadro della vita femminile nella città nativa, desumendolo
da testi e da documenti d'archivio, molti dei quali pubblica in appendice.
S'occupa in particolar guisa dell'età medievale: mostra come nel medioevo
alto rimanesse vivo negli usi nuziali pistoiesi il diritto longobardo; si trat-
tiene con speciale amore sui secoli XIII e XIV. Importanti ragguagli sulle
doti, sui corredi, sul lusso, sulle leggi suntuarie; tra i documenti parecchi
inventari di corredi. Anche là, presso all'abbondanza e alla ricchezza delle
vesti e dei gioielli, miseria estrema nella biancheria : « nel sec. XIV era una
« rarità avere poche paia di lenzuola o qualche camicia da giorno ; quelle da
< notte non si conoscevano ancora, ed i fazzoletti, per non parlare d'altro,
« vennero in uso assai tardi ». Nozze e feste nuziali occupano buona parte
del libretto; su altri particolari della vita privata si sorvola: qualche dato
sulle schiave. Curioso assai lo studio, che costituisce la XII appendice (pa-
gine 76 sgg.), sull'onomastica muliebre pistoiese del Dugento e del Trecento.
Il Ch. tocca pure della parte che hanno le donne negli antichi rimatori pi-
stoiesi, e si trattiene su Selvaggia dei Vergiolesi, intorno alla quale riferisce
(pp. 35-36) qualche piccola notiziola documentaria nuova].
Luigi Calvelli. — Un fiorentino del Trecento ; Gruido del Palagio e la
sua canzone a Firetize. — Firenze, tip. Piccini, 1913 [« Il presente lavoro
« non si propone di dare una completa biografia di Guido del Palagio, ma
« soltanto di far meglio conoscere, raccogliendo e integrando i cenni sparsi
454 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
« qua e là nella storia civile e letteraria, la figura di questo singolare cit-
« tadino, che fu considerato ai suoi tempi « il più creduto uomo di Firenze »,
« che amò la sua patria, la sua città, di vivissimo affetto, e a lei consacrò
« non inutilmente né senza gloria la penna e la spada ». Nell'esposizione
della vita, che si chiude nel 1399, il C. usufruisce anche di qualche docu-
mentino rinvenuto tra le carte strozziane dell'Archivio di Stato fiorentino.
Poi ne delinea il carattere di cittadino probo e volto alla religione. La sua
religiosità appare anche da una lettera finora inedita di Guido che il C. fa
conoscere e che è da aggiungere alle altre quattro di lui inserite dal Guasti
nel secondo volume delle lettere di ser Lapo Mazzei. Fu Guido in buoni ter-
mini con umanisti e letterati del tempo e compose la canzone a Firenze « 0
terzo sacro del, col tuo valore » , che è qui ristampata con qualche noterella
dichiarativa. Il C. la confronta con altre canzoni indirizzate a Firenze da
trecentisti e dal dugentista Chiaro Davanzati. A dir vero, non ci si gua-
dagna molto. Il novello editore la rinvenne solo in quel cod. Riccardiano 1156
d'onde ebbero già a ricavarla il Trucchi e il Carducci].
Vittorio Rossi. — La formazione storica del Rinascimento italiano. —
Città di Castello, Lapi, 1914 [Discorso assestato, denso e severamente ele-
gante, con cui il R. inaugurò in Roma il suo corso di lettere italiane a' 16 di
gennaio del 1914. In esso egli si propose di ripensare nell'insieme, ne' suoi
caratteri, negli antecedenti, nei fattori che produssero e negli elementi che
ritardarono l'avvento dell'arte nuova, quel periodo che va dal Petrarca al
Poliziano. Giovandosi delle ricerche proprie e di quelle recenti di Corrado
Burdach {Rienzo iind die geistig e Wandlung seiner Zeit, Berlin, 1913), egli
definisce il valore che la Rinascita ebbe in origine e quello che acquistò in
appresso, cioè il « nuovo modo di concepire l'antico », in che consiste l'essenza
di quel movimento; delinea la coltura di quella parte di medioevo in cui fio-
rirono Irnerio e le artes dictandi] mostra le diverse posizioni che nel rin-
novamento culturale tennero il Petrarca e il Boccaccio ; addita acutamente i
motivi per cui con tanta fatica e ritardo il popolo italiano trovò « la forma
« della sua letteratura, non annullando sé negli antichi, ma gli antichi in
« sé ». Attribuisce il ritardo « al modo in cui i filologi concepirono quel rin-
« novamento; al loro imperialismo ideale, che mentr'era un'esaltazione dello
« spirito nazionale, ne contrastava la spontanea espressione, alla loro, diciam
« pure, gretta idolatria della forma ». A sciogliere il nodo contribuirono il
Poliziano ed il Sannazaro, finché non sopraggiunse il genio, l'Ariosto, che
lo tagliò netto. Nella misurata orazione non manca il R. di determinare
quale per lui debba essere la critica letteraria : « valutazione del fatto arti-
« stico, preparata e sorretta dalla filologia e dalla storia ». Esordendo, seppe
del suo predecessore, Angelo De Gubernatis, tracciare un profilo benevolo, ma
non mendace, al che certo occorreva non poca abilità. Con qualche po' di
zucchero in più, concorda quel profilo con ciò che fu scritto in questo Gior-
nale, 62, 286-7].
Erhard Lommatzsch. — Ein italienisches Novellenbuch des Quattrocento:
Ginvanni Sahadino degli Arienti's « Porrettane*. — Halle a S., Niemeyer,
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 455
1913 [Elegante libretto, al quale si perdona volentieri, in grazia del garbo
con che è scritto, il non recare grandi novità. Sull'Arienti e sulle Poiret-
tane avemmo nel 1909 la buona monografìa di Siegfried von Arx, a cui ci
fu grato tributare la lode dovuta nel Giorn., 55, 176. Il lavoro del L. è tut-
t'altra cosa. Premesse alcune notizie sull'autore, si volge a caratterizzare la
sua raccolta di novelle, raggruppandone i racconti in varie categorie, e rile-
vandone il valore culturale, psicologico, estetico. Gran valore estetico quel
libro non ha davvero, e l'A. lo riconosce; ma per la storia delle lettere e
della cultura gli sembra che superi gli altri due novellieri di quel secolo, il
Sermini e Masuccio. Quanto al Sermini, può darsi ; quanto a Masuccio, avrei
i miei dubbi. La nov. 54 delle Porrettane avvicina il L. alla 37* di Masuccio
(pp. 23-24). Bene illustra l'unica favola delle Porrettane, quella della volpe
e del gallo (pp. 17-18). I rimanenti riscontri che reca in mezzo, ad integra-
zione di quelli dell' Arx, s'appoggiano quasi esclusivamente ai recanti studi di
novellistica comparata del Wesselski (pp. 46-50). È un campo nel quale non
s'arriva mai a dissodare ogni zolla; ma notoriamente il valore tradizionale
delle Porrettane non è grande. Se l'Arx, come si dice, non è in grado per
ragion di salute di pubblicare l'autografo delle Porrettane da lui rinvenuto
nella Nazionale di Firenze, sarebbe buona cosa che lo facesse il L., il quale
sembi-a essere ben disposto a siffatta fatica (pp. 42-43). Le edizioni antiche
che ne abbiamo son tutte rare, e abbisognano di revisione (1)].
Antonio Corbellini. — Di un rimatore pavese-veneziano del sec. XVI]
Antonio Isidoro Mezzaharha. — Pavia, 1913 [Estr. à&l Boll. d. Soc. pavese
di st. patria. Anche il Mezzabarba ha trovato il suo biografo. Si sapeva di
un certo cod. di rime volgari da lui esemplato nel 1509 (quando era « de
«■ l'una et l'altra legge minimo de i scolari » ) sopra fonti antichissime e solo
in parte note ; qualche bibliofilo aveva avuto tra mano un suo volumetto di
versi stampato nel 1536, divenuto ormai quasi introvabile. Pavia pretese
d'avergli dati i natali, ed è vana pretesa; certo però da Pavia scendeva la
sua famiglia. Antonio Isidoro nacque a Venezia, fu posto, nolente, agli studi
di legge, forse a Perugia, fece il giudice ; l'ultima notizia che abbiamo di lui
è del 1564. Il suo Canzoniere, un po' platonico e molto sensuale, ha qualche
battuta non cattiva, ed una canzone alla madre abbastanza buona. Nel mo-
vimento letterario veneto della prima metà del sec. XVI conviene tener conto
del M., non foss'altro perchè i due grandi lumi, Pietro Bembo e Pietro Are-
tino, mostrarono d'averne una certa stima : è vero che il M. era a sua volta
generosissimo di lodi, sì che non potevan mancargli né gli amici né gli apolo-
(1) Quando scrivevamo queste righe, non era peranco uscita l'eccellente edizione
delle Porrettane, curata da Giovanni Grambarin, negli Scrittoio d'Italia di Bari (1914).
Il Grambarin ha posto a base dell'edizion sua^er l'appunto il codice fiorentino, d^
cui riconobbe l'autografia, raffrontandone la lezione con quella dell'ediz. principe
rarissima, la bolognese del 1483. In appendice ristampò una novella dell' Arienti,
esclusa dalle Porrettane, che si trova autografa in un codice urbinate della Vati-
cana e fu già non bene pubblicata per nozze nel 1892. Cfr. Giornale, XIX, 226-27.
456 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
gisti. Il Corbellini ha trattato con molta cura l'argomento, sia per quel che
riguarda le relazioni del M. con Girolamo Verità, Trifon Gabrieli, Niccolò
Delfin, ecc., sia per lo studio intrinseco della poesia del Nostro in relazione
con quella del tempo. Avremmo desiderato alquanto più ricca e documentata
la parte biografica e più succinta l'esposizione ; ma sono lievi mende di fronte
ai pregi di questa memoria coscienziosa e intelligente. Deb.].
Aldo Oberdorfer. — Saggio su Michelangelo. — Palermo, Sandron, 1913
[Di questo libretto non è bene parlare senza tener conto d'una stroncati na,
firmata Luigi Dami, di cui fu gratificato nel 3Iarzocco del 22 febbr. 1914. Il
Dami fa queste principali osservazioni : egli deplora che l'O. trascuri la
« collocazione ambientiva », non ponga mente al « superamento del grado
«espressivo cui Michelangelo arrivò », quasi totalmente lasci in disparte nel
sovrano artista l'architetto, ricostituisca solo la « personalità empirica » di Mi-
chelangelo, si valga della psicologia trascurando lo stile e la tecnica, ubbi-
disca, in fine, ad un falso sistema, « alla cieca trasposizione nella storia del-
« l'arte dei modi della critica letteraria ». Pel Dami, invece, ci sarebbero da
fare su Michelangelo altre ricerche, queste, queste, queste ; e le viene addi-
tando. Insomma, egli avrebbe voluto sull'artista un libro del tutto diverso
da quello dell'O., e, lo riconosciamo volentieri, sarebbe stato un libro migliore.
Ma dir questo e concluderne che « l'Oberdorfer, che è un giovine d'ingegno,
« si è condotto a parlare di cose per le quali egli non aveva la più lontana
« preparazione », non è passaggio che buona logica consenta. L'O. si è pre-
parato all'opera con coscienza, tanto è vero che neppure il suo troppo severo
critico non trova da appuntargli errori di fatto ; ma l'O. è un letterato, av-
vezzo precisamente a quei procedimenti della critica letteraria che non sap-
piamo perchè non possano, fino ad un certo punto, essere adottati anche nella
critica artistica. Con larga e buona informazione delle fonti storiche, egli
ha voluto tracciare uno schizzo del carattere e della psicologia del Buonar-
roti, fermandosi solo sui punti eminenti della sua mirabile attività, la volta
della Sistina, il Giudizio finale, il Mosè e i Prigioni, le tombe medicee.
Questo ha voluto fare e questo ha fatto. Lo specchio d'anima ci sembra terso ;
i tratti michelangioleschi più significativi ben rilevati ; gli amori trattati con
delicatezza e fin troppo a lungo, unica vera sproporzione, forse, nel libretto.
La documentazione è scelta accortamente nelle lettere e nelle rime; né si
poteva fare diversamente movendo dal suo concetto. Un libro va considerato
specialmente nelle intenzioni ch'esso ha e con riguardo ai mezzi di cui il suo
autore dispone. Come schizzo divulgativo, questo è lavoro onesto, condotto
con vero amore del tema, che anche la vivacità dell'esposizione rivela].
Alexander Boecker. — A prohahle italian source of Shakespeare' s « Ju-
litis Caesar ». — New York, 1913 [Lavoro degnissimo di considerazione; anzi,
come tesi di laurea, d'assai superiore a quanto di solito ci perviene d'oltre-
mare e d'oltremonti. Il Cesare | tragedia \ iV Orlando Pescetti | dedicata | al
serenisH. Principe \ donno Alfonso II d' Este, Verona, stamp. discepolo, 1594,
non è una tragedia ignota. Un critico di non facile contentatura, il Bertana
{Im tragedia, pp. 75-78), pur appuntandovi molti difetti e la mancanza di
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 457
profondità psicologica che si deplora nelle tragedie cinquecentesche, non giunse
alla condanna sommaria di N. De Sanctis {Giorn., 26, 4 50), e dietro a lui Ferdi-
nando Neri {La tragedia ital. del Cinquecento, p. 158) ne lodò qualche scena
e asserì che « segna pur qualche spirito nuovo fra il teatro del tempo ». A
questo « spirito nuovo » forse si deve se nel periodo elisabettano quel nostro
povero Cesare varcò la Manica e fu noto (nel grande italianismo di quel tempo)
in Inghilterra, ove sembra probabile che se ne ispirasse pel suo Julivs Caesar
sir William Alexander. Se ne sarà giovato anche il massimo tragediografo
inglese ? Il B. è convinto di sì, e tutto il suo lavoro, ben pensato e diligen-
temente disposto, mira a dimostrarlo. Pur ammettendo che d'entrambe le tra-
gedie sia fonte precipua Appiano Alessandrino, in parecchie situazioni, nella
delineazione di alcuni caratteri, nell'uso del soprannaturale trova parallelismi
non esplicabili senza una derivazione diretta. E si badi ch'egli reca in mezzo
tutti gli elementi che potrebbero derivare da Plutarco e d'altronde, nonché
la trasformazione subita dal carattere di Cesare nella tradizione medievale.
La sua convinzione, insomma, non è avventata e può dar da pensare. La si
accetterebbe ancor più facilmente se al quesito generico di fonti dirette ita-
liane per lo Shakespeare non fossero già state mosse da varie parti obiezioni
così serie. Non inutile leggere II Marzocco del 28 die. 1913].
Achille Pellizzari. — Portogallo e Italia nel secolo XVI. Studi e ri-
cerche. — Napoli, Fr. Perrella, 1914 [Se più d'uno s'è ormai occupato delle
relazioni, intellettuali e varie, della vecchia Castiglia e della Catalogna con
l'Italia, minore attenzione fu data a quelle del Portogallo. È noto che il
laboriosissimo Pellizzari attende da vari anni a Francisco de Hollanda, ar-
tista e scrittore portoghese, venuto nel 1538 in Italia per studiarvi l'arte
nostra, e che per illustrarne degnamente l'attività e gli scritti ha compiuto
molte esplorazioni erudite in depositi italiani e portoghesi. Da codeste inda-
gini germogliarono altri studietti minori, parecchi dei quali sono raccolti nel
volume presente. I primi tre riguardano poeti: Bernardino Ribeiro, Sa de
Miranda, il Camoens; dei quali è studiato il vario petrarcheggiare, le rela-
zioni tra la loro produzione di italianisti e l'arte uscita dalla tradizione lo-
cale. Vi s'impara che quell'italianismo era freddo e poco sentito; solo il Ca-
moens, ispirandosi in condizioni di spirito analoghe al sonetto del Petrarca
« Anima bella, da quel nodo sciolta » , seppe degnamente rivaleggiare con
l'originale, se non superarlo. Accenni trovansi parecchi, vuoi nel Ribeiro, vuoi
nel Miranda, a poeti nostri ; il Ribeiro imitò, nel Libro das Saudades, V Ar-
cadia sannazariana ; il Miranda si ricordò deW Orfeo del Poliziano e delle
commedie dell'Ariosto. Ma tornando al benamato Petrarca, è curioso l'osser-
vare che i suoi versi « eran così noti in Portogallo, che i predicatori li alle-
« gavano nelle loro prediche dal pulpito, come se fossero testi ecclesiastici »
(p. 70). — I rimanenti tre scritti del volume sono materiati alquanto diver-
samente : riguardano più la storia del costume e la bibliografia che la lette-
ratura. Strenne di Leon decimo s'intitola quello in cui il P. completa con
informazioni lusitane quanto da noi si sapeva sull'elefante famoso regalato a
Leone X dal re Emanuele di Portogallo e aggiunge notizie su altri regali
458 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
fatti al godereccio papa mediceo. Il più esteso lavoro del libro, Feste, gioie
e vesti nuziali del Cinquecento, si trattiene particolarmente sulle nozze del-
l'infanta donna Maria, figlia di Edoardo di Portogallo, con Alessandro Far-
nese, celebrate in Italia nel 1566. Ai numerosi particolari su quella pia prin-
cipessa che furono narrati per le stampe dal gesuita Sebastiano Moraes, suo
confessore, aggiunge il P. non pochi documenti trovati tra le carte farnesiane
dell'Archivio di Napoli. Notino in ispecie gli studiosi del costume l'inven-
tario del corredo di Maria edito integralmente a pp. 244 sgg. Per incidenza
l'A. chiarisce con altri documenti (v. pp. 201-19) anche le nozze di Ottavio
Farnese celebrate molti anni prima in Parma con Margherita d'Austria. A
Maria di Portogallo ci richiama di bel nuovo l'ultimo articolo, bibliografico,
I manoscritti portoghesi della biblioteca nazionale di Napoli. Dei sette codici
quivi diligentemente descritti, cinque dovettero appartenere a Maria; gli
altri non sono di molto posteriori alla morte di essa, seguita nel 1537. Tra
i mss. di Maria van segnalati un libro portoghese di cucina ed una descri-
zione di Milano fatta nel 1572 da Cristoforo D'Andrade. Lodevole la vivacità
garbata con che il P. seppe render gradevole la materia non sempre di per sé
molto divertente. Nel giovine critico all'amore per la ricerca van congiunti
molto brio e vivezza di scrittore].
Alessandro Tassoni. — La secchia rapita, secondo l'ediz. veneta del 1630
integrata coi manoscritti e le stampe anteriori a cura di Giovanni Nascim-
beni. — Lanciano, Carabba, 1914 [Nella serie degli Scrittori nostri. T&nto il
Nascimbeni nel Mesto del carlino, 24 gennaio 1913, quanto Giorgio Rossi in
questo Giornale, 62, 149-154, mostrarono erroneo il procedimento di Pietro
Papini (ediz. 1912 della Secchia), che si rifece all'ediz. di Eonciglione 1624,
rimessa in onore nel 1743 dal Barotti. Quivi la censura e riguardi pei-sonali
imposero soppressioni e mutazioni che il Tassoni non avrebbe volute e che
in parte furono da lui stesso reintegrate e modificate nell'edizione del 1630,
l'ultima veduta dal poeta. Il Rossi sostenne che l'ediz. del 1630 è la defini-
tiva, e che ad essa conviene attenersi, il che egli promise di fare nella ri-
stampa che allestisce per i Classici del ridere dati fuori dall'editore Formig-
gini. H Nascimbeni non pare sia in tutto di questo parere; ma ora sembra
avere modificato alquanto l'opinione sua radicale, emessa nel succitato gior-
nale di Bologna, che si dovesse mettere a base del testo l'edizione parigina
del 1622. Ora egli s'è pure acconciato ad attenersi sostanzialmente all'edi-
zione del 1630, solo confrontando le diverse trascrizioni a penna, che fece e
fece fare il Tassoni del suo poema. Di queste varianti rende conto nelle note
a pie di pagina, mentre in fondo al volume riproduce quelle Dichiarazioni di
Gaspare Salviani, di cui si ritiene autore il Tassoni stesso, e che uscirono
la prima volta precisamente nella stampa del 1630. Il volumetto del Nascim-
beni è ben curato, e la sobria introduzioncella ne rende chiaro conto. Noi
però riteniamo che la cosa migliore sarà quella che il Nascimbeni annuncia
di voler fare per la Biblioteca romanica di Strasburgo : ridare fedelmente il
testo del 1630 e porre in nota tutte le varianti dell'ediz. parigina del 1622.
A total complemento, sarebbe buona cosa il poter ricostruire la redazione
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 459
in dieci canti, che il Tassoni mandò nel 1615 al canonico Barisoni acciò la
facesse stampare a Venezia, dato che sia possibile rievocarla con piena sicu-
nezza, come il Rossi opina (cfr. Giorn., 68, 151). Così si avrebbero le tre fasi
principali del poema : il primo getto, la prima stampa, la stampa definitiva.
Altro criterio sembra voglia seguire, per l'edizione degli Scrittori d'Italia,
Venceslao Santi, il benemeritissimo studioso, a cui debbono in gran parte
gli studi tassoniani l'attuale risveglio, per i molti misteri ch'egli seppe ac-
cortamente svelare nell'ironia del Tassoni. Cfr. Giorn., 49, 396 e 57, 85].
Luigi Rava. — Costanza Monti Perticari. — Milano, Fr. Vallardi, 1914
[Estratto dalla rivista La cultura moderna. A purgare la sventurata Co-
stanza Monti dalle fiere e calunniose accuse lanciate contro di lei, valsero
specialmente la biografia e l'epistolario, di cui ebbe cura, una decina d'anni fa,
Mario Romano (cfr. questo Giornale, 44, 456 ; E. Masi nella N. Antologia
del 1" agosto 1904; R. Renier, in Svaghi critici, pp. 117 sgg.). Ora il Rava,
ribadendo quella difesa, fa conoscere altre lettere inedite di Costanza, alcune
rintracciate dal prof. Garavini, alcune custodite nella raccolta di Carlo Pian-
castelli. Notiamo due lettere del 20 e 21 dicembre 1823 dirette da Costanza
a Luigi Crisostomo Ferrucci di Lugo, a proposito delle gelosie che i rapporti
di lui con la bella figliuola del Monti avevano acceso in sua moglie. Quel
Ferrucci, poeta che osò rifare a modo suo una specie di Div. Commedia, era
fratello del latinista Michele, ed ebbe fama fra i retori (cfr. Mazzoni, U Ot-
tocento, pp. 1213-14). Più importanti altre lettere, del 1829, all'agronomo
Giuseppe Monti di Fusignano, in cui la povera vedova perseguitata invocava
soccorsi alla sua miseria. Non si sapeva finora ch'ella si trovasse in tali an-
gustie come si rileva dalle seguenti parole : « La cosa che ho da dirti si è che
« io sono alla disperazione, se non mi mandi danaro. Ti basti che da un
« mese e più, il mio pranzo passa con una minestra e qualche pezzetto di
« carne che servi per il brodo. E spesso neppur questo. E spesso, neppur la
« minestra ; ma me la vivo con due uova ed un po' di cacio. Ciò passa ogni
« limite di sofferenza. Se la Provvidenza mi avesse collocata in tanta miseria,
« ed anche in peggiore, chinerei la testa. Ma il pensare che mentre io stento
« così, coloro che mi devono, se la godono con i miei danari, è cosa da far
« ripudiare ogni sofferenza cristiana ». E più sotto aggiunge: « Il pane e
« l'acqua sono cose belle e buone per gli stomachi di ferro, che non soffri-
« rono mai indigestione per dispiaceri. Ma il mio è già rovinato da quelle e
« da questi ». Il R. riproduce il ritratto che di Costanza Perticari dipinse
Filippo Agricola, e che ora si trova in Roma, nella galleria d'arte moderna.
È noto che quel ritratto ispirò un bello e affettuoso sonetto di V. Monti
(cfr. pp. 102 sgg. dell'ediz. Bertoldi 1908) ed uno assai meno importante del
cesenate Giovanni Roverella. 11 R. li riferisce entrambi. È pur noto che il
medesimo Agricola raffigurò la Beatrice di Dante sotto la bella figura di Co-
stanza, al quale argomento pur s'inspiraron» altri verseggiatori. Vedansi le
pagine 22-23 dell'opuscolo nuziale di Ad. Mabellini, Lettere inedite di Silvio
Pellico al conte Andrea Gabrielli, Fano, 1914].
460 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
Ottone Ciàrdulli. — Lettere e poesie di Arncddo Fusmato ed Erminia
Fuà. — Castelfranco Veneto, tip. Olivotto, 1913 [È poco tempo che rile-
vammo la pubblicazione di qualche inedita poesia del Fusinato (cfr. Grior-
naie, 62, 260). Il gruppetto di nuovi testi che il prof. CiarduUi fa conoscere
deriva dal museo di Castelfranco Veneto, a cui li regalò un grande amico
della famiglia Fusinato, il dott. Lorenzo Puppati. Le poesie di Arnaldo sono
tre, tutte presentate all'accademia dei Filoglotti di Castelfranco; una di esse
è un'ode ispirata dal Pastor fido del Guarini. Sono tutte poesie serie, di sa-
pore classicheggiante. Alcune lettere prodotte nell'opuscolo riguardano il con-
trastato amore d'Arnaldo per la contessina Annetta Colonna di Castelfranco,
che solo nel 1849 egli giunse ad impalmare. Morì quella gentilissima a Schio
il 15 febbr. 1853. La vecchia suocera, contessa Teresa Coletti-Colonna, aperse
le braccia alla seconda moglie di Arnaldo, la soave ed intelligente Erminia
Fuà. Anche di lei pubblica il C. qualche nuovo verso, e otto lettere al dot-
tore Puppati, di non grande importanza. Notisi in una, del 1863, il rim-
pianto per la morte di Teobaldo Cleoni, « una bella mente ed un ottimo
« cuore, che la patria dovrà a lungo ricordare e rimpiangere » (p. 33). Di-
verse fra quelle lettere sono scritte da Firenze e da Roma, ma la buona Er-
minia rimpiangeva allora il suo Veneto natio. « Qui (a Firenze) abbiamo
« molte relazioni ; la maggior parte dei nostri amici l'abbiamo scelta fra i
* Veneti, poiché n'è caro il parlare di sovente il simpatico nostro dialetto, e
« intrattenerci fra noi delle cose nostre. Anche dei Toscani però conobbi
« molti uomini e figure distinte, ma nessuna cosa al mondo può compensarci
« della lontananza dei cari e vecchi amici, dei paesi nostri nativi » (p. 35)].
PUBBLICAZIONI NUZIALI
Carlo Calcaterra. — La secreta prammatica dei conti di San Bonifacio.
— Città di Castello, Casa Lapi, 1914; per nozze Quazza-Capitelli [Ricco,
nutrito, elegante opuscolo, che ci fa conoscere un documento di non piccola
importanza per la storia domestica del patriziato italiano. La illustre famiglia
veronese dei Sambonifacio ebbe feudi in Padova, a Legnago, in altre parti
del Veneto. La Prammatica, che ora viene in luce con le cure dell'egregio
prof. Calcaterra, fu compilata da Giulio Sambonifacio in uno degli ultimi de-
cenni del sec. XVI, ed ebbe ritocchi ed aggiunte da personaggi posteriori
della famiglia. L'originale non si sa dove sia, se pure esiste ancora; ma il C.
dispose d'una copia apografa, con chiose autografe dei primi eredi, ch'è ora
posseduta dal conte Alberto Bevilacqua Lazise. È questa una specie di arte
di governo della famiglia, che doveva esser letta ogni quindici giorni, o al-
meno una volta il mese. Libro di precetti e d'economia domestica e politica,
compilato con intendimenti pratici e con l'occhio sempre fisso alla grandezza
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 461
della famiglia e al dominio ; libro rude, alieno da ogni lenocinlo letterario,
ma sincero e significativo, che dà precetti sul governo della famiglia, sull'e-
ducazione dei figli e delle figlie, sul modo migliore di collocare gli uni e le
altre, sull'amministrazione del patrimonio, sul tenimento della casa, sulla
consorteria, sui servi e sui bravi, sui risparmi, sui traffici. Accortezza grande
vi si avverte, sicché questa segreta prammatica può essere utilmente parago-
nata ai trattati pubblici noti sul governo della famiglia nel Rinascimento.
Vi sono dette cose più ovvie e forse il più delle volte meglio atte alla pra-
tica della vita. Curioso il fatto che l'unico scrittore che si raccomanda sic-
come maestro è Francesco Guicciardini, all'opera del quale l'autore della
Prammatica attribuiva un valore educativo profondo. Il Calcaterra ha fatto
precedere il testo da una larga e sensata illustrazione storica e lo ha fatto
seguire da una serie di documenti sulla nobile famiglia veronese. La Pram-
matica non poteva cadere in migliori mani].
Ermenegildo Pistelli. — lì canto decimoquarto dei Purgatorio. — Fi-
renze, Arte della stampa, 1914; per nozze Giachetti-De Blasi [S'allontana
alquanto questo commento dalle consuetudini ormai prevalenti nelle « let-
ture » dantesche. È cosa più spigliata ed artistica. Raggruppa il P. secondo
un certo ordine ideale le varie ragioni di bellezza che ha il canto tosco-
romagnolo di Guido del Duca e di Ranieri di Calboli. Sono belle le riflessioni
del P. sul ricordo del passato considerato come fonte di poesia, sui motivi
per cui Dante riesce a farci partecipi a' suoi sdegni politici, sul valore che
ha nel canto il fiume Arno, fiume che « raccoglie veramente e compendia
« tutte le memorie più care e più sacre del paese nativo ». Tutto è inteso ed
espresso con arguzia e con vivo senso dell'arte].
Giuseppe Biadego. — Calia dotale di Fiora Betteloni (1534). — Verona,
tip. Franchini, 1914; per nozze Betteloni-Gritti [Dagli atti notarili di Ber-
nardino Zucco estrae il B. un curioso documento, che stabilisce la dote di
Flora Betteloni dopo dieci anni di matrimonio. La cosa singolare in questo
documento è che il notaio chiede a Flora (che aveva già parecchi figliuoli)
se accetti in legittimo consorte Benassuto Farina, e analoga domanda rivolge
a Benassuto. Si torna, insomma, alle formalità del matrimonio, forse pog-
giando sulla massima di diritto romano che « dos sine matrimonio esse non
potest ». Il B. rammenta il caso identico dell'umanista Nicolò Cendrata
(padre di quella Taddea che nel 1418 impalmò Guarino Veronese), il quale,
pure per motivo di dote, rinnovava l'atto matrimoniale dopo ventidue anni
di legittima convivenza. In appendice il B. raccoglie parecchi dati storici
sulla famiglia dei Betteloni, il cui nome appartiene alla storia letteraria del
secolo decimonono].
COMUNICAZIONI ED APPUNTI
Postille alla lauda veronese del duecento. — Ognuno intende che si
tratta della ormai celebre lauda Beìieta sia Vora, edita primamente da
C. Cipolla neìVArch. stor. itah, s. IV, t. VII, pp. 150 sgg. e studiata poscia da
parecchi: dal Gaspary, da C. Pini e, in questa stessa rivista, da FI. Pellegrini
{Giorn., 23, 156). Ho alcune osservazioni da fare al testo della lauda, tra-
scritta da due mani del sec. XIII nella guardia del magnifico ms. 1362 della
bibl. comunale di Verona. Il Cipolla ha già sottoposto il prezioso componi-
mento a un diligente esame paleografico (non ho da aggiungere altro che
questo: che non una volta compare un r gotico, neppure dopo un o) (1), mentre
il Pellegrini s' è industriato di ricostruirne lo schema primitivo. Ritengo
anch'io che l'ultimo verso d'ogni strofa debba essere un quinario (2) (cfr. vv. 16,
31, 41, 60, 75, 85, 95, 100, 104, 119), ma allora come ammettere al v. 5 :
de Vamoto abiso'? Anche al di fuori della ritmica, questa voce amoto non
accontenta punto. Il ms. dà àoto, il che, in verità, pare giustificare la lettura
del Cipolla; ma nel caso speciale dobbiam vedervi, secondo me, il risultato e
quasi il segno materiale di un incrocio, nel pensiero dell'amanuense, di aoto
e di auto, due riflessi di altus che il copista, insieme ad aito, adopera indiffe-
rentemente. Cfr. al V. 30: Vaoto segnar e al v. 25 aotisimo (non aotissimo)]
mentre: v. 18 anto gelo, v. 116 anto deo {It in nt compare sporadicamente
anche nel veneto e nel veneziano. Boerio 37: « antro, altro; idiotismo della
bassa gente » e si veda quanto ho avuto occasione di notare nel mio Ugugon
nei Bend. d, R.Accad. dei Lincei, XXI (1913), p. 624). Si corregga adunque:
de Vanto abiso, ovvero: de Vaoto àbiso.
(1) Altra ragione, questa, per risalire assai indietro, sino alla metà circa del
8«c. XIII (e fors'anche un po' prima).
(2) Credo infatti, con il Wiksk, Zeitschr. f. roman. Phil, XIX, 800, ohe il Pelle-
grini sia nel vero ravvisando nella nostra laude lo schema di serventese : AAAAb,
BBBBc, ecc. Il testo è, però, tanto corrotto, da rendere parecchi versi refrattari
ad ogni permesso emendamento. In siffatti casi, riconosciuto lo schema, convien
forse riprodurre i versi tali e quali e relegare a pie di pagina, o in nota, le cor-
rezioni.
COMUNICAZIONI ED APPUNTI 463
V. 13: Per deuero ìoaro quela alta tema. Nel ms. non si ha, come a me
pare, de itero, ma de nera. Onde la lettura dever a si impone, a mio avviso:
Dogno (1) omo cora e uegna — Per dever, a loaro (a lodare), ecc. Conf.
ital. « per davvero ».
V. 28 : mi lo margè uè clamo ancor. L'amanuense aveva scritto o invece
dell'm di mi, ma poi si corresse (Vi agg. su rasura). Per quanto spetta alla
paleografìa, ritengo che nel modello stesse un m onciale (uno di quegli m on-
ciali che si trasmisero nelle scritture più tardive e di cui i mss. dei sec. XIII-XIV
hanno più esempi), il che spiega come un amanuense potesse leggere un oi (2) ;
quanto poi all'ermeneutica, il passo, come è dato, non offre alcun senso. Io
leggo: milo margè cioè « mille mercè », con la ben nota norma veronese di -o
invece di -e (cfr. loaro 13 e anche ueno 2, come ha sicuramente il codice,
mentre il Cipolla aveva letto : nene, ecc., ecc.).
V. 83 : qicela vaerà. Non intendo come il Cipolla e il Pellegrini siansi
rassegnati a questo vaerà (= guerra), che, foneticamente parlando, si presenta
inammissibile. Occorre: vtiera, e infatti il ms. ha vu-, poiché Va si risolve,
a ben analizzare gli elementi delle lettere, in un'illusione. Cfr. al v. 85 vuarda
(si sa che l'odierno veronese risponde a germ. ic- per v-, salvo intrusioni let-
terarie, come accade appunto per guera). La forma viiera ci rappresenta la
pronuncia popolar^ del sec. XIII, quando l'elemento labiale di vu non era
ancora scomparso. Cfr. vuxxrda 85, moderno veron. varda e anche arda (Bo-
lognini-Patuzzi, Piccolo diz. del dial. mod. della città di Verona, p. 254).
v. 124 : dauanto el (non al) criatoro. v. 126 tato loro nel ms. (come ha
il Cip.). E così: V. 40 Land (cioè La'ìide si orane) ; v. 47 saluagiono (come
ha il Cipolla).
Giulio Bertoni.
{l) Dogno non si può dire forse inammissibile in ant. veronese ; ma la correzione,
che si presenta subito al pensiero, è Ogno.
(2) II testo non fu scritto, a giudicare da più particolarità, a memoria nel ms. ;
ma fu copiato, da due amanuensi, da un modello già guasto. Intervenne poi un
correttore. La lauda, ohe può essere stata composta all'alba del secolo XIII, non
appartiene al genere delle laude dei disciplinati.
ORO isr^ e A^
PERIODICI
Giornale Dantesco (XXII, 2-3) : Fed. Olivero, Sul « Sordello » di Bóbert
Browning, analisi di quella astrusa azione fantastica, nella quale tanto il
trovatore mantovano quanto la letteratura italiana delle origini vengono igno-
miniosamente falsati; A. Vannini, La brigata spendereccia e BaHolomeo
Fohacchieri, notizie sulla brigata e congetture sull'Abbagliato {Inf., XXIX,
132), cioè Meo di Folcacchiero, che l'A. ritiene sia « uno degli ufficiali, che
« contro la brigata stessa proferse il suo senno »; G. Gerola, A proposito del-
Z'« aguglia da Polenta », commento al v. 50 dell'I^/!, XXVII: Chiose dan-
tesche, di qualche rilievo quella di F. Ronchetti su la Pia ; Ed. Benvenuti,
Aneddoti danteschi, il primo comunica le satire che nel Cinquecento furono
dirette contro i cosi detti « visacci », vale a dire i ritratti marmorei di quin-
dici illustri fiorentini che ancor si vedono sulla facciata del palazzo Valori
nel Borgo degli Albizzi : il secondo dà conto d'un centone di versi danteschi
messo insieme nel 1606 da Alessandro Adimari, che si legge nel ms. Magi.
IL I. 398 ; F. Ravello, Peccati e confessioni di Dante, sul traviamento mo-
rale confessato dal poeta, che è della Commedia il grande protagonista.
Archivio della B. Società romana di storia patria (XXX VII, 1-2) : G. B. Pi-
cotti, La pubblicazione e i primi effetti della bolla « Execrabilis » di Pioli]
E. Re, La compagnia dei Riccardi in Inghilterra e il suo fallimento alla
fine del sec. XIII, si tratta dei Riccardi di Lucca, ed è quest'articolo un
buon contributo alla storia economica nel medio evo ; A. Ferrajoli, Il ruolo
della corte di Leone X, in questa parte dell'esteso lavoro, di cui già segna-
lammo la grande importanza, si parla a lungo di Pietro Bembo, col sussidio
di numerosi documenti inediti, che chiariscono la vita di lui e specialmente
quella della sua Morosina. — Si osservi una rilevante recensione di VI. Za-
bughin alle Studien zu Leonardo Bruni di Franz Beck.
Studi di filologia m^oderna (Yll, 1-2): Eug. Mele, Tra grammatici, maestri
di lingua spagnuola e raccoglitori di proverbi spagnuoli in Italia; Amos
Parducci, SulVantico mistero francese della casta Susanna ; Fr. Viglione, Un
ignoto poemetto italiano sulla morte di sir Thomas More, si tratta delle
Stanze di Zanobio Ceffino, di cui il V. vide un esemplare nel Museo Bri-
tannico.
Gazzetta di Venezia (20 maggio 1914): G. Ortolani, La spia Casanova,
nega che il troppo celebre avventuriero possa essere giudicato il rappresen-
tante del secolo suo e della vita veneziana d'allora; (10 luglio 1914), G. Or-
CRONACA
465
tolani, La condanna d'Arlecchino ?, impugna le troppo ardite e cervellotiche
conclusioni del Del Cerro, secondo le quali la commedia improvvisa sarebbe
una leggenda.
Memorie della B. Accad. delle scienze di Torino (voi. LXIV): G. Surra,
Indagini sul carattere e sulVarte di Giuseppe Giusti, vedi ciò che ne fu detto
nel Giorn., 63, 152; G. Sforza, Ortensio Landò e gli usi ed i costumi d' Italia
nella prima metà del Cinquecento, delineato il carattere di quello scapigliato
cinquecentista, toglie ad esaminare parecchie sue operette assai rare e ne
trascrive, con le debite chiose, particolari curiosi per la storia del costume e
giudizi vari su uomini di lettere.
Atti della B. Accademia di archeologia, lettere e belle arti di Napoli
(an. 1914): F. Torraca, Prime impressioni e primi studi di Giov. Boccaccio
a Napoli.
Atti e memorie della Deputazione ferrarese di storia patria (XXI, 8):
Alfonso Lazzari, Un umanista romagnolo alla corte d'Ercole II d'Èste,
Bartolomeo Bicci da Lugo, estesa ed interessante memoria, sulla quale ci
proponiamo di ritornare col debito agio.
Atti della B. Accademia della Crusca (1914; per l'anno accad. 1912-13):
Orazio Bacci, Il Boccaccio e la prosa italiana, discorso nitido e piacevole,
in cui son dette molte più cose di quel che il titolo faccia supporre.
Urbinum (I, 2): Luigi Nardini, Due lettere inedite del Metastasio, da
Vienna all'abate urbinate Crescentino Fiorini; E. Valentini, Per uno scrit-
tore dimenticato, spigolature nella Cornucopia del Perotti, ove son cose curiose.
Coenobium (maggio 1914): Fortunato Rizzi, Anche Miclielangélo ?, spiega
con l'amor platonico il suo sviscerato attaccamento al giovine Tommaso Ca-
valieri.
Vela latina (Napoli; II, 25): L. Ruberto, Una lettera inedita di Aless.
Manzoni, del 30 nov. 1871, tratta di cose agricole ed è diretta al botanico
Vincenzo Tenore; (11,29), Due sonetti inediti di Mario Bapisardi, scritti
a quindici anni; (II, 30 e 31), R. Zagaria, Vittorio Imbriani e la donna,
notabile ; (II, 33-34), A. Vitelli, L'opera letteraria di Antonio Banieri.
Il Trentino (1914, n" 82): Giulio ^mQxì,LaBisurrezione di A. Manzoni.
La Stampa (3 luglio 1914): Franco Sabelli, L'epistolario inedito di Gio-
vanni Berchet, lettere alla marchesa Costanza Arconati- Visconti.
L' Arengo (Genova; IV, 3): G. Surra, Il Machiavelli nella vita privata]
(IV, 4), G. Surra, Il Machiavelli commediografo \ S. Bellotti, Matteo BandeUo.
Picenum (XI, 6 e sgg.) : Gius. Branca, Lm maschera marchegiana e il suo
teatro, tratta della maschera di Mengone e dell'uso che ne fu fatto sulla scena ;
(XI, 8) , G. Castelli, Il paesaggio leopardiano , saggio di un commento al
Leopardi, « con le immagini delle cose e delle persone », che l'A. prepara.
Archivio storico lombardo (XLI, 1-2) : Rinaldo Beretta, Della compagnia
della Morte e della compagnia del Carroccio alla battaglia di Legnano,
Giornale storico, LXIV, fase. 192. 80
4^66 CRONACA
mostra la vanità di certi elementi fantastici, cari al sentimento, che si for-
marono nelle narrazioni tradizionali della battaglia di Legnano e di là pas-
sarono nella poesia.
Periodico della Società storica Comense (fase. 81-82) : S. Monti, Grioviana
e Vinciana. Studi su Leonardo da Vinci del conte Antonio Giuseppe della
Torre di Eezzonico.
Atti e memorie della B. Deputazione di storia patria per le provincie
modenesi (Serie V, voi. Vili, 1914): G. Simonetti, Xc^^^rc inedite di Giro-
lamo Tiraboschi e Ireneo Affò a eruditi Correggesi.
Gazzetta di Parma (1914, nn. 1 e 84): dieci articoli storici, tra cui rile-
viamo Vitt. Alfieri nel carteggio del Paciaudi, e Parma nei Mémoires del
Casanova, e Un grande personaggio dei Promessi Sposi e i Farnesi, ove
il personaggio è il card. Federico Borromeo. In molti luoghi si tocca dell'il-
luminato ministro Du Tillot, al quale è dedicato l'ultimo scritto, che lo con-
sidera in relazione con l'Accademia parmense di belle arti.
Memorie storiche forogitUiesi (IX, 3): C. Foligno, Di alcuni codici litur-
gici di provenienza friulana nella biblioteca Bodleiana di Oxford.
Guglielmo da Saliceto (II, 12): St. Fermi, Per una completa bibliografia
dei trattati di Gtiglielmo da Saliceto, questa nota bibliografica, inserita nella
rivista sanitaria piacentina che dal nome del grande chirurgo medievale si
intitola, completa ciò che di lui scrisse V. Buifetti nel Bollett. stor. piacen-
tino del 1911.
Ri cista pedagogica (VII, 5) : Serafino Paggi, Un pedagogista ignoto, il
Passeroni; non abbiamo dimenticato che sul Passeroni il Paggi ha un buon
libro, di cui attendiamo da tempo la recensione da un collaboratore valoroso ;
(VII, 7), P. Bellezza, Gli studi elettivi e una sentenza manzoniana, con
finezza e dottrina commenta il detto del Manzoni che « noi facciamo volen-
« tieri le cose alle quali abbiamo abilità: non dico quelle sole »; Luisa Mo-
lino, Il pensiero pedagogico di Raffaello Lambruschini.
Rivista teatrale italiana (XIII, 2) : E. Maddalena, Un libro aìnericano sul
Goldoni, quello dello Chatfield-Taylor, sul quale ci trattenemmo in questo
Giornale, 64, 226; (XIII, 3), Giulio Caprin, Una delle idtime sere di car-
nevale, in continuazione, considera il valore biografico di quella commedia
goldoniana ed esamina le ragioni ed i modi del passaggio del Goldoni da
Venezia a Parigi.
Pro cultura (V, 2): Sull'uso del nome « Trentino », attestazioni raccolte
da vari in antiche opere ed in carte topografiche e geografiche (1).
(1) Si rilevi il Sappi. V del Pro cultura, ohe contiene, a cura di Hans Semper, i
docnmenti del periodo desiano (1627-1636) su II castello del buon consUjlio a Trento
(Trento, 1914). I documenti furono trascritti nella sezione trentina dell'Archivio
della Luogotenenza ad Innsbruck e sono ordinazioni, conti, note, inventari, ove
figurano artisti ed artefici a£faccendati intorno a quella fastosa reggia del Rinasci-
mento. Sonvi voci italiane e infiltrazioni di voci alemanne raccolte in parte nel
lessico finale.
CRONACA 467
Gazzetta del popolo (22 giugno 1914) : R. Barbiera, Il poeta Frati quaVera,
con notiziole biografiche non tutte note.
Bullettino senese (XXI, 1): N. Mengozzi, Il pontefice Paolo II e i Senesi,
articolo documentato in continuazione, nel quale si parla parecchio anche di
Pio II Piccolomini.
Rivista abruzzese (XXIX, 6): Egidio Michetti, Il cardinale Federigo
Borromeo nei Promessi Sposi, studietto psicologico con raffronti tra il Man-
zoni e il Rosini.
Bollettino storico piacentino (IX, 3) : E. Rota, Giuseppe Poggi gianse-
nista, rilevante.
Archivio storico italiano (LXXII, 2; n® 274): Cesarini-Sforza, Intorno
(Ula storia e alla storiografi^, espone, commenta e discute le idee del Croce
sulla identificazione della storia con la filosofia.
L'arte (XVII, 4): Italo Maione, Fra Giovanni Dominici e beato Ange-
lico, influsso culturale e spirituale del notissimo Dominici.
Atene e Roma (XVII, 183-184): D. Comparetti, Le imagini di Virgilio
e i primi sette versi delVEneide, sui ritratti di Virgilio nulla fu detto mai
di così significativo come ciò che si legge in questo articolo, importante anche
per l'età nostra umanistica.
Atti della I. R. Accademia Roveretana degli Agiati (an. 164, voi. I):
G. Moro, Canti lirici, canti per il popolo e ballate di Giovanni Prati, giu-
dica severamente la produzione popolareggiante del Prati.
Malta letteraria (XI, 117-119): V. Laurenza, La divina foresta, in con-
tinuazione; saggio d'interpretazione del simbolo dantesco.
Studi storici (XXII, 2) : A. Crivellucci, Utm cantilemi storica, in volgare
del principio del secolo XIII. Curioso testo ritmico inserto in una cro-
naca latina, che si riferisce a fatti di guerra tra Lucchesi e Pisani del 1213.
n narratore comincia in prosa latina, ma ben presto, infocandosi, smette
quella forma e scrive in volgare, rimando. Il testo, breve ma notevole spe-
cialmente per la sua antichità, fu trovato dal prof. P. Filippini in un codice
appartenente all'archivio del Collegio di Spagna in Bologna. Vorrà essere
studiato.
Atti della R. Accademia delle scienze di Torino (XLIX, 9) : Gius. Ma-
nacorda, Un testo di grammatica latino-veneta del secolo XIII, frammento
che si legge sul foglietto di guardia del cod. 1796 dell'Universitaria di Bo-
logna; (11), C. Cipolla, Sulle tradizioni antibonifaciane rispetto a Guido
da Montefeltro e alla guerra dei Colonna, indagini sul procedimento for-
mativo della leggenda echeggiata così eflStftcemente nel poema di Dante;
(12), CI. Merlo, Note di fonetica italiana meridionale] E. Passamonti, Un
memm-iale inedito di Prospero Balbo nel dicembre del 1799, l'A. prepara
un lavoro sulla attività diplomatica di Prospero Balbo, materiato con docu-
menti dell'Archivio di Stato torinese e dell'archivio privato dei Balbo ;
(15), C. Cipolla, La data della morte di Dante secondo Ferreto dei Ferreti,
sarebbe l'il agosto 1321.
468 CRONACA
Bollettino della civica biblioteca di Bergamo (Vili, 1): Come venne in
luce la Ptdcella di Voltaire tradotta da Vincenzo Monti, in continuazione,
articolo anonimo, pieno di dati curiosi ; A. Pinetti, Lettere pittoriche inedite
di mons. Giovanni Bottari e del conte Giacomo Carrara.
Btdlettino storico pistoiese (XVI, 2) : A. Chiti, Un'antica poesia popolare
pistoiese, scongiuro in versi per far uscire i bruchi dalle viti. Fu scritto
nel 1399 in un codice Ricciardi.
Fanfulla della domenica (XXXVI, 22): F. Picco, Di im^ edizione di poesie
scelte di Arturo Graf, opportuno disegno d'una scelta delle poesie più tipiche,
più rappresentative, del Graf ; (24), F. Lo Parco, Il vivo dissenso del Nen-
cioni con [sic] G. Carducci per il dolce canto dell'usignuolo ; A. Segrè, Spi-
golando da una raccolta d^ autografi, ora presso il municipio di Grosseto,
comunica due letterine del Carducci; (25), Guido Mazzoni, Giuseppe Giusti
e Lorenzo Borsini, curiose notizie su quel Borsini, che il Giusti ritenne a
torto avergli rubato il brindisi A Girella] (26), 0. CiarduUi, Una critica e
una replica nel 1823, la fine nel n. 27, si tratta della critica che il Carrer
fece al poemetto Le passioni di Lorenzo Puppati; (27), I. Sanesi, Lorenzo
Lippi; (28), R. Zagaria, Studi e polemiche su L. Ptdci] (29), R. Cessi, La
famiglia di Gasparina Stampa, documentini non privi di valore ; (30), G. Ber-
toni, Fer il testo di una lauda, propone emendamenti ai testi editi dal Sal-
vioni da un codice di Como ; S. Peri, Dopo la lettura delle lettere del Car-
ducci a Severino Ferrari, manipoletto di ricordi personali; (31), V. Clan,
La donna pistoiese del tempo antico, sul volumetto di L. Chiappelli ; V. San-
toro Di Vita, Noterelle al « Centuria » di G. Pascoli, vi ravvisa reminiscenze
dello Heine; (32), G. Rustico, Massimo d'Azeglio e la Sicilia, con due let-
tere prima inedite del D'A. serbate nella bibl. civica di Palermo ; (33), G. Se-
crétant, Goldoni in America-, D. Menghini, Poeta tosco, divagazioni su
Pietro Aretino.
Il libro e la stampa (Vili, 1-2) : C. Frati, Segreti delle antiche legature,
raccoglie molte indicazioni di testi notabili trovate in antiche legature e co-
munica un frammento del Lamento di Pisa di Pucino d'Antonio da Pisa;
Vinc. Ferrari, Lo stampatore Andrea Portilia a Reggio Vanno 1479 ; Al. Ca-
sati, Tra gli autografi, indicazioni sull' indirizzo filosofico della vecchia An-
tologia con comunicazione d'uno scritto inedito dello Stendhal; (^TII, 3),
P. P. Trompeo, Stendhal e Bianca Milesi; C. Frati, Lettere inedite di scrit-
tori italiani dei sec. XVIII e XIX tratte dalle carte di Jacopo Morelli,
in continuazione, sono lettere di bibliografi e di eruditi.
La lettura (XIV, 6): E. Del Giglio, Il bidlicame, presso Viterbo, con ri-
produzioni; (2), Mario Puccini, Passeggiata leopardiaim ; (8), L. Rasi, L'alle-
stimento scenico nel teatro italiano di prosa ; (9), N. Rodolico, Donne e sete
di Firenze antica.
H Marzocco (XIX, 22) : L. D., Un ritratto dimenticato di Fraìu;. Guic-
ciardini] G. Caprin, Il Tristano italiano, sulla compilazione di G. L. Pas-
serini; (23), E. Corradini, Dante e Francesca] (24), P. Bacci, Gli spotisali
di un figlio del conte Ugolino, documenti pisani del 1284-85; G. S. Gargano,
L^ Ariosto in Inghilterra, sul libro della sig.* Benedetti, che sarà esaminato
debitamente anche nella nostra rivista; (26), E. G. Parodi, Il « giullare di
Dio », considerazioni su Jacopone; (27), Ces. Levi, Dalla commedia dell'arte
a Carlo Goldoni, riflessioni suscitate dal volume del Del Cerro, che il nostro
Giornale esaminerà pure ; Edg. Gamerra, Due aneddoti guerrazzani, con do-
CRONACA 469
cumenti inediti; (30), P. Savj-Lopez, Da Carlo Gozzi a Riccardo Wagner,
sul melodramma giovanile wagneriano Le fate, che riproduce una fiaba di
C. Gozzi. Sul soggetto vedi una comunicazione di Guido Manacorda nel n. 36.
La critica (XII, 3 e 4) : B. Croce, Il De Sanctis in esilio, molti carteggi
con amici ed amiche, alcuni gustosi aneddoti zurighesi; B. C, De Sanctis e
la mancanza del « successore », questo articolo provocò dall'amico Gian una
lettera pubblica, ove sono dette molte cose giustissime; (XII, 3), Croce, La
conversione dell' Innominato ; Croce, Un documento su Leone Ebreo, privi-
legio del 1520 trascritto dall'originale che è nell'Arch. di Stato in Napoli;
(XII, 5), Croce, Il De Sanctis in esilio, continuazione di carteggi, fra cui
forse le cose più importanti sono alcune lettere di Vitt. Imbriani ; Psicologia
accademica, trafiletti polemici del senatore Croce contro professori e gior-
nalisti, tra cui pure trovò sempre le maggiori benevolenze. Uno di quei trafi-
letti risponde alla nota di Giorn., 64, 264. Per noi basta. Del valore critico
di A. Graf giudicherà senza partito preso il pubblico competente e senten-
zierà l'avvenire. All'uno e all'altro ci appelliamo.
Rassegna bibliografica della letteratura italiana (XXU, 4-5): A. Bertoldi,
Appunti bibliografici per un commento al Decameron ; segue una accurata
rassegna delle pubblicazioni uscite pel centenario boccaccesco, dovuta ad
A. Della Torre; anche il nostro Giornale ha in serbo una recensione critica
delle più significanti (molto è vanità) tra quelle pubblicazioni; (XXII, 6),
E. Mele, Una traduzione inedita del « Lazarillo de Tormes », è di Girolamo
Visconti e si conserva a Napoli, in quella bibl. nazionale.
Rivista tridentina (XIV, 2) : G. Chelodi, Le proibizioni delVusura nel
Trentino nel secolo XVI, in continuazione, rilevante; (XIV, 3), G. Emert,
Saggi manzoniani, raccolta di concetti specialmente d'ordine morale che nel
romanzo occorrono e riflessioni su di essi.
Nuova Antologia (n» 1019): Corrado Corradino, JLr^wro Graf, discorso com-
memorativo; (n» 1020), G. Natali, Alcune idee sul Settecento, oppone dubbi
a certi giudizi ormai tradizionali su quel secolo; (n® 1021), Gaet. Tiretto,
Lettere inedite di Gius. Mazzini, dieci di numero, dirette dal 1863 al 1872
a Mario Aldisio Sammito; (n® 1022), C. Segrè, Il pericolo italiano nelV In-
ghilterra di Elisabetta, rapporti specialmente morali fra i due paesi ; E. Bel-
lorini, Il carteggio di Federico Gonfalonieri] (n<> 1023), Gr. P. Clerici, Paolo
Toschi e Pietro Giordani, articolo redatto su documenti inediti ; E. Calvi,
Le marionette a Roma.
Rassegna contemporanea (VII, 10) : C. De Lollis, Aleardi poeta delVaHe
per Varie, rileva l'importanza dell' Aleardi « quale poeta di transizione dai
« romantici a quelli che tornano ad essere poeti d'arte, quale, in sommo
« grado, fu il Carducci »; (VII, 12), M. Puccini, Un filologo del secolo scorso,
Giuseppe Manno.
Rivista di Roma (V, 9-10) : A. Lumbroso, Estratti di Silvio Pellico dalle
Sacre Scritture, l'autografo di questi estratti, fatti dal Pellico pel re Carlo
Alberto, si conserva nella biblioteca del Re in Torino e fu stampato nel 1884
da Vincenzo Promis in sessanta esemplari, ora irreperibili; (V, 11), A. Lum-
broso, Dalla contessa Bianca di Challant a Giulio II, trae una serie di figure
dalle novelle del Bandello: (V, 12 e VI, 1-3), A. Dalgas, La Versilia e la sua
poesia, importante anche per chi studia l'indole poetica del Carducci nelle
sue fasi primitive.
470 CRONACA
Bivista d'Italia {XVII, 5): V. Osirao, Il canto III deW Infernx), interpre-
tazione sagace e in parecchie parti nuova ; L. Mannucei, // sentimento della
morte nella poesia di G. Carducci ; Bianca Ciafardini Farina, // piìi ammi-
rato tra i fondatori delV Arcadia, sullo Zappi; F. Pasini, Antonio Gazzo-
letti; (XVII, 6), M. Brunetti, I compagni di Ctiucomo Casanova sotto i
« Piombi »; F. Biondolillo, Un celebre poeta del Cinquecento in Sicilia, parla
di Antonio Veneziano; L. Pastine, L'ultimo sonetto del Parini, spiega quel-
l'elogio alla restaurazione e si sofferma sulle idee politiche e sociali del Pa-
rini; V. Lugli, Appunti su « Fede e bellezza »; A. Sandonà, L'idea unitaria
ed i partiti politici alla vigilia del 1848; (XVII, 7), P. Lorenzetti, La donna
presso gli scrittori del Cinquecento; 0. Fabretti, Paolina Andryane e Piero
Maroncelli, da ricerche nel museo del risorgimento di Forlì ; (XVII, 8), V. Va-
lente, Il Napioìie e l'abate di Caluso in un gruppetto epistolare, due au-
tografi conservati nella biblioteca civica di Torino.
Il Risorgimento italiatm (VII, 2): G. Canevazzi, Lettere di G. Mazzini
a Cesare Marani e Pietro Bolandi, hanno anche particolari letterari e sono
tratte dagli autografi del museo modenese del Risorgimento. In questo fasci-
colo è stampato anche un curioso dramma storico in cinque atti, scritto in
Roma nel 1849 da Vincenzo Bellagambi, La morte dei fratelli Bandiera.
Bassegìm stonca del Bisorgimento (I, 3): G. Gentile, Pasquale Galluppi
giacobino ? , determina molto meglio di quanto finora sia stato fatto l'atteg-
giamento politico del Galluppi, che non fu né di giacobino né di antigiaco-
bino, ma « di liberale e patriota, se non nel senso del 1797, in quello più
« antico della tradizione paesana di Napoli e della posteriore storia italiana »;
G. Cadolini, G-iuseppe Mazzini nel pensiero e nell'azione.
Atti e memorie della B. Deputazione di storia patria per la Bomagna
(Serie IV, voi. IV, 1-3): F. Bosdari, Il comune di Bologna alla fìfie del se-
colo XIV, in continuazione, ampia memoria in cui si tien conto anche della
vita privata e del costume.
Archivio storico per la Sicilia orientale (XI, 2): S. Consoli, Giuseppe
Gioeni elogiato da un umanista catanese del sec. XVIII, riferisce un canne
latino del canonico Vito Coco, del quale dà notizie; A. Raimondi, Un'anto-
logia di rime catalane in un ms. rentimiliano, quel codice della ventimiliana
di Catania era sinora noto soltanto per ciò che ne disse P. Savj -Lopez a pro-
posito d'una nuova redazione della celebre epistola di Rambaut de Vaqueiras ;
F. Stanganelli, Un poeta-filosofo dimenticato, tratta di Tommaso Campailla.
Archivio storico per le provincie napoletane (XXXIX, 1 e 2): Fr. Tor-
raca, Chiovanni Boccaccio a Napoli, in continuazione; G. Caso, La carboneria
di Capitanata dal 1816 al 1820, in continuazione.
Archivio per l'Alto Adige (IX, 1-2): G. A. Morpurgo. Bicordi dell'Aito
Adige in alcuni viaggiatori del Seicento e Settecento.
Atti del B. Istituto Veneto (LXXIII, 3): V. Crescini e V. Todesco, La
versione catalana dell' Inchiesta del San Grani, saggio della redazione cata-
lana della Queste, che si trova nell'Ambrosiana, col raffronto della versione
italiana edita a Venezia nel 1569, della portoghese e della spagnuola; F. Ga-
lanti, Onoranze a Gasparo Gozzi; (LXXIII, 5), V. Crescini e C. Frati,
Emilio Teza e bibliografia di Emilio Teza, il difficile elenco bibliografico
è condotto esemplarmente; E. Bebta, Sulla composizione della cronaca vene-
ziana attribuita al diacono Giovanni.
CRONACA 471
Rivista delle biblioteche e degli archivi (XXV, 1-4): E. Benvenuti, Per
la biografìa di Antonio Magìiahechi, conclude che il Magliabechi « fti una
« fonte di luce letteraria o meglio ancora una vena ricchissima d'erudizione,
« ma non certo di bontà e di onestà »; Paul Hogberg, Manuscrits itaìiens
dans les bibliothèqnes suédoises, in continuazione, qui si registrano mss. del
Petrarca, del Boccaccio, di Leonardo Bruni, di Trajano Boccalini, ecc.
La bibliofììia (XVI, 3-4) : K. Almagià, La carta d'Italia di G. A. Vavas-
sori, del Cinquecento, riprodotta fotograficamente e bene illustrata ; Zambra,
Incunaboli d'origine italiana nella biblioteca delV Accademia ungherese delle
scienze di Budapest.
Bollettino d'arte (Vili, 6): G. Giovannoni, Il palazzo dei tribunali del
Bramante in un disegno di fra Giocondo.
Rassegìia d'arte (XIV, 4) : G. Nicodemi, Codici miniati dell' Archivio
Santambrosiano] (XIV, 5), A. Stanghellini, Due quadri ignorati di Salvator
Uosa in una collezione privata a Firenze.
Rivista musicale italiana (XXI, 2): L. Frati, Musicisti e cantanti bolo-
gnesi del Settecento; A. Cametti, Orazio Michi « dell' arpa », virtuoso e com-
positore di musica della pnma metà del Seicento ; G. Fara, Sulla etimologia
della parola « tumbu », noticina di nomenclatura musicale sarda.
Rassegna gregoriana (1914, nn. 4-6): J. Schuster, Delle origini e dello
sviluppo del canto liturgico.
Rassegala nazionale (voi. 197): G. Sommi Picenardi, Lettere inedite di
Paolo Frisi a G. B. Biffi, dal 1766 al 1775; N. Bodolico, Scipione dei Ricci
e la costituzione civile del clero di Francia ; (voi. 198), G. Sommi Picenardi,
Lettere inedite di Francesco Melzi d'Eril, di G. B. Giovio, di C. Denina
e di Girol. Tiraboschi; I. Del Lungo, Dal primo esilio di Niccolò Tom-
maseo, polemiche politiche; C. Frati, Emilio Teza « aggiunto temporaìieo »
nella biblioteca Marciana, con documenti interessanti.
La civiltà cattolica (quad. 1589) : tutto il quaderno è destinato a comme-
morare la restaurazione ed i fasti della Compagnia di Gesù.
Archeografo triestino (XXXV, 2; : B. Ziliotto, L'assedio di Trieste nella
poesia, si tratta dell'assedio posto a Trieste nel 1508 da Massimiliano im-
peratore, cantato in un carme di Giannantonio Flaminio e rammentato da
altri umanisti.
La cultura filosofica (Vili, 2-8) : G. Fanciulli, La psicologia della musica.
Rivista di filosofia (VI, 4) : G. Maggiore, Intmno all'etica bruniana.
Miscellanea francescatm (XV, 1) : P. Cijjp da Pesaro, Beato Angelo Cla-
reno dei Minori, in continuazione, pare divenga monografia di qualche im-
portanza. — A p. 28 si noti la chiosa al verso dantesco del Par ad., XI, ove ^
proposto di chiamare « oriente » Assisi.
Athenaeum (II, 8) : P. Lorenzetti, Carducciana, pubblica sei lettere del
Carducci riguardanti Silvio Giannini, che si conservano nel Museo Calderini
472 CRONACA
di Varallo ; Art. Pascal, Un capitolo detta « Monarchia di Spagna » di fra
Tommaso Campanetta secondo due precedenti redazioni-^ G. B. Pesenti, Un
epigramma attribuito ad Empedocle e la versione di F. Filelfo, chiarisce un
punto rimasto oscuro nel recente studio filelfiano di A. Calderini.
Giornale storico della Lunigiana (VI, 1) : A. Neri, Lettere di G. Fantoni
a G. B. Bodoni, se ne conservano gli autografi nella Palatina di Parma.
L'Archiginnasio (IX, 3): 0. Antognoni, Giovanni Cod ronchi, parla pure
di sue relazioni con letterati e segnatamente col Pascoli, di cui pubblica una
lettera : A. Sorbelli, Un episodio della storia di Bologtia nelVopera di frate
Cherubino Ghirardacci, è lieto l'annuncio che finalmente verrà stampato il
terzo volume del Ghirardacci; (IX, 4), F. Bosdari, La vita musicale a Bo-
logna nel periodo tmpoleonico ; N. Morini, Piero Maroncelli in alcuni do-
cumenti delV Archivio di Stato di Bologna.
Rivista ligure (XLI, 3): Alf. Ricolfi, Giosuè Carducci e il romanticismo,
in continuazione; Andrea Novara, L'opera poetica di Arturo Graf.
Bollettino della Società pavese di storia patria (XIV, 2): M. Bolis, L'ac-
cademia scientifico-letteria ticitiese, con documenti.
Rivista internazionale di scienze sociali (n. 257): G. Piovano, La libertà
della scuola in Italia dallo Statuto in qua, lungo ed importante scritto.
Rassegna critica della letteratura italiana (XVIII, 7-12): R. Cessi, Vi-
cende « frustatone » di Giuseppe Baretti, buon contributo alla vita del Ba-
retti e alla storia della Frusta, con documenti nuovi trovati nell'Archivio
di Stato in Venezia ; A. Sorrentino, Due battesimi nella poesia cavalleresca,
vacuo raffronto del notissimo battesimo di Clorinda nella Liberata con quello
analogo di Marcovaldo nel Morgante ; G. Rosalba, Tre sonetti rari di An-
gelo di Costanzo e quattro di Luigi Tansillo in un curioso libretto, sono
impressi in appendice alla tragedia Altea di Niccolò Carbone in un esemplare
custodito nella bibl. Nazionale di Napoli ; N. Zingarelli, La corda e Gerione,
giocherello ermeneutico ben meno soddisfacente dell'interpretazione ardita ma
vigorosa del Bevilacqua, su cui cfr. Giorn., 63, 444; (XIX, 1-3), G. Paladino,
La fine del conte di Policastro secondo nuovi documenti, con la bella te-
stimonianza di Battista Bendedei, oratore estense a Napoli, mostra mendace
il Porzio, che sulla attestazione di ben manipolati processi afferma che il
Petrucci ha mostrato debolezza d'animo nel momento supremo. È noto omai
che la narrazione del Porzio, tanto lodata per la robusta ed elegante virtù
espositiva, lascia molto a desiderare quanto a veridicità storica. — Non tra-
scurabile la recensione che E. Pèrcopo consacra al libro della Mazzucchetti su
Schiller in Italia.
L'Ateneo veneto (XXXVII, I, 3): C. Musatti, Il teatro sociale di Oderzo,
sulla cronaca ms. dei barbieri e suonatori Sopran ; A. Pilot, Una canzonetta
per musica inedita di Antonio Ottoboni • (XXXVII, II, 1), B. CI. Cestaro, Ri-
matori padovani del sec. XV, continuazione di questa ricerca erudita, qui si
discorre di Tifi Odasi, di Niccolò Lelio Cosmico, di Benedetto Bertipaglia, di
Francesco Pellati, di Marco Businello, di Leonardo Basso, di Gerolamo Cam-
pagnola; Guido Pusinich, Commento al canto X del Paradiso.
Atti delV Accademia Pontaniana (voi. XLIV): B. Croce, Ricerche e do-
cumenti destnctisiani. Scritti di valore diverso che il Cr. ha racimolati nella
CRONACA 478
caccia, ammirevole per affettuosa tenacia, ch'egli vien dando a ciò che ap-
partiene al suo diletto De Sanctis, Qui ahhiamo cinque discorsi scolastici,
che, a dir vero, sono solamente « nuova testimonianza dell'alto animo, col
« quale il De S. esercitava il suo ufficio di maestro »; quindi una serie di
frammenti estetici, tolti dalle lezioni su Dante, frammenti da cui si discerne
il graduale allontanarsi del De S. dallo hegelismo e si valuta il suo atteg-
giamento di fronte allo Schopenhauer. Per noi potrehhe avere maggiore in-
teresse un frammento di lettera a Camillo De Meis sulle origini della poesia
e della lingua d'Italia, se fosse facile il raccapezzarsi in quei concetti stac-
cati, che il De S. non avrebbe certo mai sognato che fossero un giorno pub-
blicati a quel modo. Cosa di maggior rilievo è il frammento di traduzione
in versi della seconda parte del Faust, che il Cr. attribuisce agli anni della
carcerazione tra il '51 e il '53. Pare che questo sia « il primo tentativo
« italiano di traduzione della seconda parte del Faust », e non è spregevole
davvero. — Incluse il Cr. tra questi documenti desanctisiani Uno scritto
inedito di Luigi La ^ Vista, più importante di quelli che il Villari fece co-
noscere nel 1863. È una lucida esposizione dei Fondamenti di estetica di
Pasquale Balestrieri, che uscirono in luce a Napoli nel 1847. Aggiungonsi
due scritterelli, l'uno del La Vista, l'altro di Agostino Magliani, intorno al
Berchet, che sono « documenti della fortuna del Berchet nell'Italia meridio-
« naie durante gli anni del risorgimento ».
The modem language revieiv (IX, 3) : Paget Toynbee, The S. Pantaleo
italian transìation of Dante's letter te the emperor Henry VII, pubblica
la versione italiana trecentesca dell'epistola di Dante ad Arrigo VII, che si
legge nel ms. di S. Pantaleo della Vittorio Emanuele di Eoma e non era
peranco stampata, mentre lo fu parecchie volte quella attribuita al Ficino;
E. F. Jourdain e J. Evans, A note on an cdlusion to Rome in the Divina
Commedia, si ricerca quale sia « il monte » menzionato neWInf., XVIII, 33
come sorgente di contro a S. Pietro, e si congettura che non sia il monte
Giordano (come vogliono, dietro al Bassermann, i più fra gli odierni com-
mentatori), ma il monte Brianzo, oggi spianato.
Modem Philology (XII, 3): Geoffrey A. Dunlop, The sources ofthe idyls
of Jean Vauquelin de la Fresnaye, sono in gran parte fonti italiane, VAr-
cadia, V Aminta, le liriche del Tasso, G. B. Guarini, ecc.
Revue hleue (30 maggio 1914): Jean Alazard, Le ìuxe et les divertisse-
ments à la Cour de Ludovic le More, su studi recenti e in ispecie sul libro
del Malaguzzi- Valeri.
Mercure de France (CX, 409): Fr. Carco, Re'flexiofis sur Vlmmour; (411),
J. Pollio, Le vrcn teocte des Méinoires de Casanova.
Puhlications ofthe modem language Association of America (XXIX, 2):
R. Altrocchi, The story of Dante^s Gianni Schicchi and Regnard's « Le'-
gataire universe! », riscontri che si aggiungono a quelli indicati dal Toldo
nel voi. 48 di questo Giorncde. «
Bevista de fdologia espanola (I, 2): A. Castro, Disputa entre un cristiano
y un Judio.
BuUetin italien (XIV, 2) : Ferd. Neri, Io son venuto al punto della rota,
acute considerazioni sulle « rime della pietra » del poeta sovrano; Ch. Dejob,
474 CRONACA
L'Orlando innamorato et V Orlando furioso, la fine nel fascic. successivo;
A. Morel-Fatio, Dialogue entre Charon et Fame de Pierre Louis Farnese,
ripubblica più correttamente questo bizzaiTo dialogo spagnuolo, che rappre-
senta l'atteggiamento dell'opinione pubblica verso Paolo III e la sua famiglia;
(XIV, 3), J. Martin, Un saint de Vlmmanisme: ìe bienheureux Battista
Spagnoli dit Mantovano, generai des Cannes, articolo che non dice nulla
di nuovo, mentre pare che all'A. sia rimasta sconosciuta la bella edizioncina
americana commentata delle ecloghe del Carmelita dovuta al Mustard, cfr.
Giorn., 59, 165. Sono continuati in questi due fascicoli gli scritti su Ban-
delìo en France au XVI siede e su Les femmes dans F oeuvre de Fogazzaro.
Zeitschrift fur romanische Phiìoìogie (XXXVIII, 4): R. Palmieri, Appunti
per servire alia biografia di CJiiaro Davanzati, ragguardevole articoletto,
sebbene non contenga dati nuovi di fatto.
Germanisch-romanische Monatsschrift (VI, 3) : Ed. Castle, Zur Entivick-
lungsgeschichte des Wortbegriffs Stil; (VI, 4), C. Battisti, Die Eklogen
Dantes] (VI, 6), M. J. WolflF, I Cinque canti des Ariost.
Archiv fiir Beligionswissenschaft (XVII, 1-2): C. Clement,Z)er Ursprung
des Karnevals.
The fornightìy review (genn. 1914): E. W. Macan, Goethe in Bom.
Bevue des cours et confe'rences {XXll, 13): H. Chamard, Les origines ita-
ìiennes de la Benaissance littéraire en France. Nel n° 14, continuazione,
L'introduction et la diffusion de Vitalianisine ; nel n<> 16, Les origines de
Vlmmanisme, con riflessioni sui suoi benefìci e sui suoi errori.
Bomanistische Arbeiten (pubbl. a Halle dalla Casa Niemeyer, sotto la di-
rezione di C. Voretzsch): n» 4, Aug. Wulff, Die frauenfeindlichen IJichtwngen
in den romanischen Literaturen des Mittelaìters ] n° 5, H. Stiefel, Die ita-
lienische Tenzotie des XIII. Jdhrhunderts und ihr Verhaltnis zur proven-
zalischen Tenzone.
La revue de Paris (XXI, 4, 5, 9, 10): Leon Blum, Stendhal etVhistoire
du Beylisme, notabile.
Bevu£ des deux mondes (15 maggio '14) : T. de Wyzewa, Queìques fìgures
de mystiques siennois, sulla raccolta di Piero Misciatelli ; (l*' giugno '14),
Fr. Picavet, Boger Bacon, la formation intellectuelle d'un homme de genie
au XIII siede.
Bevue d'hùtoire littéraire de la France (XXI, 2): P. Kuhn, Vinfluence
neo-latine dans les églogues de Bonsard.
Qiielien und Untersuchungen zur lateinischen PhUologìe des Mittelaìters
(V, 1): Goswin Frenken, LHe Exempla des Jacob von Vitry, importante
lavoro, che si estende a caratterizzare l'indole e l'origine della letteratura
degli « exempla ».
Le moyen àge (XXVII, 2): M. Wilmotte, Observations sur le Boman de
Troie, importante. Sull'argomento pubblicheremo presto noi pure l'articolo
d'ano specialista, il Gorra.
CRONACA
475
Neue Jahrbiicher fiir das klassisch^ Altertum (XXXIII-XXXIV, 6) : Ernst
Maass, Goethe in Spoleto.
Bulletin hihìiograpliique et pédagogiqite dn Musée Belge (XVIII, 6-7):
A. D. Xenopol, Le caractère scientifiqtie de Vhistoire.
The romanic revieic (V, 1): J. P. Wickersham Crawford, Notes on thetra-
gedies of Lupercio Leonardo de Argensoìa, dimostra che la Aìejandra del-
l'Argensola è in gran parte derivata dalla Marianna di Ludovico Dolce;
H. F. MuUer, The use of the pìural of reverence in the letters of pope Gre-
gory i; J. S. P. Tatlock, Another paraìlel to the first canto of the Inferno,
indica parecchi riscontri con autori medievali, ma il loro valore non è grande.
Revue des questions historiques (n» 188): J. Guiraud, Ozanam historien
chrétien ; (n» 190), Adhéniar d'Alès, Le cardinal Rampolla historien.
Revue de synthèse historique (XXVII, 1 a 3) : L. Davillé, La comparaison
et la méthode comparative, en particulier dans les études histwiques ;
(XXVIII, 1), fascicolo tutto dedicato alla storia dell'arte, di cui si indica il
metodo e si riferisce sull'insegnamento nelle varie parti dell'Europa civile.
Quellen und Forschungen aus dem Gehiete der Geschichte (voi. XVII):
Ludwig Mohler, Die Kardindle Jakob und Peter Colonna, contribuzione
documentata alla storia dei tempi di Bonifazio Vili.
Mélanges d^ archeologie et dliistoire (XXXIV, 1-2): Pi. Faiwtier, Catheri-
niana, serie di nuovi testi inediti, che concernono Santa Caterina; (3), J.Martin,
Le portrait de Virgile et les sept premiers vers de V Eneide, in polemica
col Comparetti; vedi Atene e Roma.
Revue de philosophie (XIV, 6): M. Chassat, Saint Thomas d'Aquin et
Siger de Brabant, termina nel fase, successivo.
Revue de métaphysique et de morale (XXII, 4) : G. Dwelshauvers, Du
sentiment religieux dans ses rappoHs avec Vart.
MaeìhcmÌH OdeccKcno Tud.uopaffìuHecKaio odiu,ecmea npm Hmh. Hoeop.
Vhuo. (Odessa, 1914): V. Krusmann, Un bibliofilo inglese del Trecento,
parla di Eiccardo de Burv e delle relazioni di lui col Petrarca. Il medesimo
Krusmann ha pure trattato dell' incontro del Petrarca col de Bury in una
memoria degli Atti dell'Accademia di Odessa del 1914, ove ha analizzato la
lettera Fam. Ili, 1 del Petrarca. Sia pur notato qui per incidenza che in
occasione del centenario boccaccesco il Krusmann tenne in Odessa un discorso
sul Carattere morale del Boccaccio.
/KypH. MuHucm. Hap. npocoihiu,eHÌR (N. S., 50-51, apr.-maggio 1914):
N. Arsénjev, Il pessimismo di Giacomo Leopardi, rilevante, con estesa bi-
bliografia. Nel cap. m, Leopardi e il cristffinesimo, VA. combatte i tenta-
tivi di riconoscere al Recanatese un sistema filosofico fisso ed organico.
Tale Review s'intitola una rivista trimestrale, che si pubblica fin dal 1911
sotto la direzione di un comitato di professori dell'Università Yale (New Haven,
Conn., Stati Uniti). Alcuni degli articoli riguardano la letteratura italiana:
(l, 1), K. Mckenzie, Antonio Fogazzaro] (II, 1), W. Hutchins, Sem Benelli;
476
CRONACA
(II, 3), W. R. Thayer, Dante as the inspirer of Italian Patriotism, Fautore
di una nota biografìa del Cavour e del Daivn of Italian Independence tratta
delle opinioni politiche di Dante e della sua influenza sul Risorgimento ;
(m, 1), B. B. Amram, Giovanni Pascoli: (III, 2), H. D. ^eàgwìcV, Boccaccio,
an Apology, vorrebbe dimostrare creazione della fantasia del Boccaccio quanto
troviamo nelle opere di lui sulla Fiammetta o sulle Fiammette. Tra le re-
censioni, il Mckenzie parla della Modem Italian Literatvre di L. CoUison-
Morley; e, favorevolmente, della biografia del Goldoni di H. C. Chatfield-
Taylor.
* Di Edmondo Farai il Giornale, 57, 189, lodò già l'opera ragguardevole
sui giullari in Francia. Il libro di lui che ora abbiamo d'innanzi, Recherches
sur les sources latines des contes et romans courtois du moyen àge, Paris,
Champion, 1913, ha tutt'altro carattere e valore. Esso è un aggregato di mono-
grafìe diverse, aventi tutte l'intento di mostrare con esempi tipici « le ròle
« qu'ont eu dans la formation de nos romans la culture livresque et, plus par-
« ticulièrement, les éléments d'origine latine ». Non è certo, oramai, impresa
nuova; ma questi studi confermano la persuasione della continuità dell'in-
flusso latino nell'età media, sicché nella rinascita non si ha tanto scoperta
>di fatti nuovi, quanto novità d'interpretazione di fatti vecchi. Una buona
parte del libro del Farai si aggira intorno ad Ovidio e all'uso che ne fu fatto
nei romanzi su Tebe e su Enea, nel Piramus et Tisbé ed in altri poemetti.
Pure influssi latini constata l'A. nei componimenti medievali che trattano del
quesito se valga meglio amare un clerc od un cavaliere; il poemetto latino
di Phillis et Flora ne è il più antico esemplare. (Sul tema esiste pure un
poemetto franco- veneto ch'è oggi l'Ashburn. 123 della Laurenziana; il F. lo
pubblica studiandone la lingua). S'indugia, quindi, sul meraviglioso nelle de-
scrizioni dei romanzi francesi del XII secolo e sulle fonti di esso. E tutto
cospira a far vedere che di quegli elementi, di cui in generale si additano
sorgenti celtiche, i primi vestigi si hanno in libri della bassa latinità.
* La benemerita Casa Champion di Parigi ha iniziato una nuova impresa
lodevolissima, l'edizione delle (Euvres inédites de Voltaire a cura di Fernand
Caussy. Questo esteso supplemento comprenderà in tre volumi i complementi
agli scritti stòrici, letterari, filosofici, alle poesie, al teatro. Seguiranno sei
volumi dedicati alla corrispondenza, la quale sarà arricchita di ben cinque-
mila lettere inedite o sparsamente edite. Già nel primo volume vi sono non
poche pagine che riguardano l'Italia, e specialmente la letteratura italiana
v'è considerata nel capitolo sulle arti deWEssai sur les moeurs. Ma tutta in-
tera questa grande opera complementare avrà per gli studiosi nostri del se-
colo XVIII interesse cospicuo.
* Federico Olivero, che insegna come libero docente letteratura inglese
neir Università di Torino, ha ormai resa pubblica una serie di suoi scritti
riguardanti la materia cli'egli predilige e che non molti italiani padroneg-
giano ai pari di lui. Ne è uscito un bel volume intitolato Saggi di lettera-
tura inglese, Bari, Laterza, 1913. Fra questi riguardano l'Italia i seguenti:
Le poesie {tediane di Milton, con indicazioni de' suoi studi di cose italiane e
CRONACA 477
dei suoi viaggi in Italia; Wordsworth e l'Italia; Dante e Coleridge ; Leigh
Hunt ed i suoi studi sulla « Divina Commedia » ; Dante e Shelley ; Shelley
e Petrarca ; Shelley e il paesaggio italico ; Keats e la letteratura italiana ;
Il ritornello nella poesia di Dante Gabriele Rossetti, specialmente interes-
sante. L'Olivero tratta talvolta i suoi temi alquanto di scorcio, ma sempre
con gusto, buon discernimento e buona informazione. Un volume gemello a
questo pubblicò poscia l'Olivero col titolo Stttdi sid romanticismo inglese,
Bari, Laterza, 1914, ma esso non ha relazioni dirette con la letteratura nostra.
È desiderabile che questo giovane colto e volonteroso, che possiede così bene
la lingua inglese ed ha letto tanto di quella poesia, si aiFermi con qualche
lavoro di maggiore estensione e comprensione.
* Nuova serie di utili pubblicazioni è quella iniziata e diretta dal Monaci
col titolo Opuscoli e pagine scelte di filologia romanza. Con felice pensiero,
s'inaugurò la collezioncina ristampando dell'Ascoli il Proemio ali" Archivio
glottologico e una lettera sullo stile (Città di Castello, Lapi, 1914). Il proemio
è del 1872; la lettera uscì dapprima nella Perseveranza del 12 aprile 1880:
ma entrambe le scritture poderose e nervose hanno conservato il loro valore.
Nell'una è combattuta l' idea manzoniana rispetto alla lingua e dello stile del
Manzoni è discorso particolarmente nell'altra. Va innanzi un proemio arguto
di F. D'Ovidio; seguono note del valente giovane A. Camilli, vera speranza
degli studi filologici e glottologici.
* Di quel libro buono ed elegante che è la Storia della letteratura spa-
gnuola di James Fitzmaurice-Kelly, annunciammo subito (nel Giornale,
34, 474-75) l'originale inglese, uscito nel 1898, segnalando il valore ch'esso
ha pure per gli studiosi seri della letteratura italiana, i quali non possono
né debbono perdere mai di vista le letterature sorelle. Poscia nel Giornale,
39, 188, indicammo la traduzione spagnuola che ne fu fatta nel 1901 dal
Bonilla y San Martin, notabile per le aggiunte dell'autore e del traduttore
e pel significante proemio del Menéndez y Pelayo. Della elaborazione casti -
gliana s'ebbe nel 1904 una versione francese del Davray, nella quale il libro
fu specialmente diffuso fra noi. Esaurite tutte queste edizioni, oggi, a dieci
anni di distanza, il perspicace e dotto autore ha ripreso in mano l'opera sua.
l'ha in parte rimaneggiata e in parte completata in una redazione francese,
ch'egli medesimo apprestò (Littérature espagnole, Paris, Colin, 1913). Noi
non possiamo che rallegrarci di vedere così ringiovanito l'ottimo manuale. In
opuscolo a parte il F.-K. stampò la Bihliographie de Vhistoire de la litté-
rature espagnole, Paris, Colin, 1913, che è complemento alla Storia e può
anche essere usata con vantaggio indipendentemente da essa.
* Due nuove collezioni di cose romanze ci è grato raccomandare ai lettori
nostri, una che esce a Parigi e l'altra a I^lle. La collezione parigina, già
ricca d'una dozzina di volumetti (Champion editore), s'intitola Les classiques
frangais du moyen àge ed è diretta da Mario Roques. È una collezione di
testi, fra i quali già figurano l'antico Aleocis cumto da G. Paris, i versi del
Villon a cura del Longnon, il poemetto del sec. XIII La chastelaine de Vergi,
assistito dal Raynaud, e due edizioni critiche di trovatori, Les chansons de
478 CBONACA
GuiUaume IX per opera di A. Jeanroy e Les poesies de Peire Vidaì curate
da J. Anglade. Specialmente questa ultima edizioncina, ora che è irreperibile
in commercio quella che diede nel 1857 Carlo Bartsch, sarà gradita agli stu-
diosi italiani per i molti rapporti che la poesia del Vidal ha con l'Italia. —
La raccolta tedesca è di monografie e s'intitola Beitrdge zm- Geschichte der
romanischen Sprachen und Literaturen, diretta da Max Friedi'ich Mann. Vi
son dentro cose diverse, ma la letteratura vi predomina e specialmente quella
francese di tempi moderni. Interessanti in ispecie per noi: Isaak Sondheimer,
Die Herodes-P artieri im lateinischen ìiturgischen JDrama und in den fran-
zòsischen Mystenen] Emmy AUard, Friedrich der Grosse in der Literatur
Frankreichs, mit einem Ausblick auf Italien und Spanien-, Gertrud Richert,
Die Anfdnge der romanischen Philologie und die deutsche Romantik. — Non
mancheremo di tener informati i lettori nostri di ciò che in avvenire potrà
interessarli in queste due serie.
* Per sottoscrizione si pubblica a Boston, diretta da Lewis Einstein, una
Humanists' Library, in volumi eleganti destinati ai bibliofili. Questa colle-
zione, che s'è aperta, a cura del medesimo Einstein, con gli Thoughts on
art and life di Leonardo da Vinci, s'arricchì nel 1914 di due volumi preli-
bati, riproducenti l'antica versione inglese di Thomas Stanley (1651) del di-
scorso di Giovanni Pico della Mirandola sull'amor platonico, a commento della
celebre canzone di Girolamo Benivieni, ed il Galateo di Giovanni Della Casa
tradotto in inglese la prima volta nel 1516 da Robert Petersen. Le ripro-
duzioni di questi cimelii sono precedute da acconcie introduzioni di due be-
nemeriti italianisti, E. G. Gardner, che proemia al Pico, e J. E. Spingarn,
che presenta il Galateo. La nota bibliografica finale di quest'ultimo raccoglie
le informazioni che s'hanno sulla fortuna del Galateo fuori d'Italia.
* Una collezione analoga di versioni pubblica in Germania l'editore Eu-
genio Diederich di Jena, sotto la direzione di Maria Herzfeld. Essa s'intitola
Das Zeitalter der Renaissance, ausgewàhlte Quellen zur Geschichte der ita-
lienischen Kultur. Della prima serie di questa raccolta sono usciti nove vo-
lumi, che contengono le versioni di operette latine del Petrarca e di opere
storiche del Beccadelli, del Decembrio, dell' Infessura, di Fr. Matarazzo, di
Luca Landucci, nonché una scelta di lettere d'Enea Silvio Piccolomini. L'ul-
timo volume si deve all'illustre e rimpianto Paul Heyse, che vi lavorò sino
al giorno della morte, dimostrando così ancora una volta l'affetto tenace che
lo legava all'Italia nostra. Contiene tradotti Drei Lustspiele der Renaissance,
vale a dire la Cassarla, VAridosia e la Mandragola. Nella difficile opera
il vecchio Heyse dimostra le sue eccezionali qualità di traduttore. Lo sov-
venne di consiglio e sorvegliò la stampa postuma Arturo Farinelli, al quale
il volume è dedicato come a caro amico.
* A cura di Guido Biagi sono uscite Cinquanta tavole in fototipia da
codici della R. Biblioteca Medicea Laurenziana, di cui s'è fatto editore
quell'intelligente antiquario di libri che è Tammaro De Marinis (Firenze, 1914).
La scelta e l'esecuzione di queste tavole sono encomiabilissime. I codici, onde
sono trascelte, sono 21, dal sec. VI al XV. Le tavole più preziose sono le
OKONAOA 479
più antiche, d'argomento sacro: ma le più belle sono quelle con miniature
del Trecento e più del Quattrocento. Si notino per la storia del costume le
tavole del cod. Tempiano volgare di Domenico Lenzi, il biadatolo, e quelle
del Rmnuìeon miniate da mano francese. Le ultime tre tavole hanno inte-
resse non artistico, ma paleografico e letterario. Riproducono una facciata
dell'Orazio appartenuto al Petrarca e postillato da lui, un'altra d'una mi-
scellanea di scritti latini copiati di mano del Boccaccio, una terza autografa
del Poliziano. Quest'ultima è d'un codice che contiene la versione latina di
Erodiano.
* Tesi di laurea e programmi : Mario Tamburini, La gioventù di M. Pietro
Bembo e il suo dicdogo « Gli Asolarti » (progr. della Civica Scuola Reale
superiore di S. Giacomo in Trieste); Paul Arbelet, La jeufiesse de Stetulhal
(laurea, Parigi; in altro lavoro lo stesso Arbelet ricerca i plagi dello Stendhal
nella sua Histoire de la peinture en Italie) ; R. Moryay, Saint Antonin, ar-
chevéque de Florence, 1389-1459 (laurea, Parigi); H. Dàumling. Studie
iiber den Typus des Mddchens ohne Hdnde (laurea, Monaco); L. R^sel,
Lord Byrons tàgliches Tun und Treiben in der Schweiz und in Oberita-
lien (laurea, Erlangen); Hans Brosius, Franziskus von Assisi uìid moderne
Lébensideaìe (progr. ginn., Bamberg); Celso Osti, Melchior Cesarotti e F. Au-
gusto Wolf (progr. ginn., Capodistria ; discussioni su Omero).
Pubblicazioni recenti :
J. Pacheu. — Jacopone da Todi, frère mineur de Saint Fraìigois, aiUeur
presume' du Stabat Mater. — Paris, A. Tralin, 1914 [Libro più divulgativo
e pio che scientifico. Vedine la recensione di E. Bouvy nel Bnlletin italien,
XIV, 269].
Giovanni Boccacci. — Rime. Testo critico per cura di Aldo Francesco
Massèra. — Bologna, Romagnoli-Dall' Acqua, 1914 [ì^eWà. Collezione di opere
inedite o rare. Fatica di molti anni, è libro che onora la filologia italiana.
Ne sarà convenientemente discorso, e sarà insieme presa in considerazione
V editto minor che il Massèra ne diede nel volumetto La Caccia di Diana
e le rime di Giovanni Boccacci, Città di Castello, S. Lapi, 1914].
Scrittori d'Italia. — Bari, Laterza, 1914. Sono usciti il molto atteso n® 65,
che contiene II Quadriregio di Federico Prezzi, edizione critica di Enrico
Filippini, che vi attese con solerzia perseverante, rivelata anche dai diversi
scritti preparatorii che il Giornale nostro ha annunciati ; e il n» 67, che a
cura di Giovanni Gentile e di Fausto Nicolini oifre Le orazioni inaugurali,
il « De Italorum sapientia » e ?e polemiche di Giambattista Vico.
Angela Vesin. — Niccolò Tommaseo poeta. — Bologna, Zanichelli, 1914
[Buono; ne parleremo]. ^
Giuseppe Patini. — La prima giovinezza di Giosuè Carducci (1835-1357).
— Città di Castello, Casa Lapi, 1914 [A questo interessante volumetto, di
cui discorreremo, accostiamo, per ciò che può valere, il volumetto d'una si-
gnorina, Luisa Barone, La poesia giovanile di Griosuè Carducci, Napoli, tipo-
grafia D'Auria, 1914].
480
CRONACA
Giovanni Boccaccio. — J? « Bucolicum Carmen » trascritto di stt Vanto-
grafo riccardiano, e illustrato per cura di Giacomo Lidonnici. — Città dì
Castello, Casa Lapi, 1914 [Costituisce i nn. 131 a 135 nella collezione passe-
riniana di opuscoli danteschi].
Gasparo Gozzi. — Prose scelte e sermoni, con introduzione, appendice bi-
bliografica e commento di Pompeo Pompeati. — Milano, Fr. Vallardi, 1914
[L'introduzione amplissima è uno dei migliori saggi che s'abbiano su la vita
e l'operosità del Gozzi].
Attilio Momigliano. — Le opere di Carlo Goldoni scelte e iUmtrate. —
Napoli, Perrella, 1914.
Karl Vossler. — Italienische Literatur der Gegenwart von der Momantik
2um Futurismus. — Heidelberg, Winter, 1914.
Camillo Guerrieri-Crocetti. — L'antica poesia abruzzese. — Lanciano,
Carabba, 1914.
Vittorio Capetti. — Illustrazioni al poema di Dante. — Città di Ca-
stello, Casa Lapi, 1914.
Giuseppe Parini. — Il Giorno, commentato da Giovanni Ferretti. — Mi-
lano-Roma, Albrighi e Segati, 1914 [D testo è quello vulgato del Keina; il
commento è nuovo e nella sua sobrietà osservabile].
Maria Forte Simonetti. — Silvio Pellico poeta tragico. Saggio critico. —
Napoli, tip. Giannini, 1914.
D. Battesti. — Saggio sulla vita e le satire di Salvator Rosa. — Bourges,
Sire, 1914 [Del medesimo autore è pure uscito un volume su Massimo D'A-
zeglio, del quale discorreremo].
J. Shield Nicholson. — Life and Genius of Ariosto. — London, Mac-
millan, 1914.
Giacomo Leopardi. — Paradoxes philosophiques traduits par Challemel-
Lacour, pub. par N. Serban. — Paris, Champion, 1914 [Prima versione in-
tegrale francese delle Operette morali. Giudica il Serban che sia la meglio
riuscita e la confronta con quelle parziali dell'Aulard, del Dapples, del nostro
valente Turiello. Con buon pensiero, sotto la traduzione del Ch.-L. il S. pone
il testo italiano. Solo non approvabile ci sembra il titolo. Che cosa avrebbe
detto il Leopardi trovando designate senz'altro le sue Operette col nome di
paradossi filosofici'^ La designazione è una irriverenza patente].
Tra le monografie della Biblioteca degli studenti, edita con buon pensiero
dall'editore Giusti di Livorno, ne uscirono due ragguardevoli : Francesco Fla-
mini, L'anima e Varie di Giosuè Carducci', Luigi Filippi, La vita e le opere
di Giovanni Pascoli.
Luigi Morisenoo, Gerente responsabile.
Torino — Tipografia Vincenzo Bona.
INDICE ALFABETICO
DELLA RASSEGNA, DEL BOLLETTINO
E DEGLI ANNUNZI ANALITICI
In quest'indice^ che abbraccia l'intera annata (volumi LXIII
e LXIV), sono registrati i nomi degli autori e degli edi-
tori; i titoli delle opere sono dati per lo più in forma
abbreviata. Il primo numero (grassetto) indica il volume;
il secondo numero indica la pagina.
Albertazzi a., V. Tommaseo.
Albertazzi L., Compendio della vita
del b. Colombini di G. Tavelìi con-
frontato con la vita del beato di
Feo Beìcari, 64, 251.
Alberti L. B., v. Ferrari.
Aleardi a., V. Biadego.
Alighieri D., Vita Nuova, edizione
G. A. Cesareo, 63, 413.
Arienti G. S., Le Porrettane, ediz.
Gambarin, 64, 455 n.
Ariosto L., Orlando Furioso nelle
tre edizioni, 63, 474.
— V. Salza.
Aubel e., Leon Battista Alberti, 64,
218.
Azzi (degli) G., Per la biografa di
un insigne musicista, 63, 171.
AzzoLiNA L., Il mondo cavalleresco
in Boiardo, Ariosto e Berni, 68,
416.
Baldi R., Due abati del Settecento,
63, 447.
Balladoro A., Novelline raccolte a
Povegliano Veronese, 63, 457.
Barbi M., Sulla genesi dei « IjOvi-
bardi alla prima crociata », 63,
172.
Barone G., Ancora sulla Gerusa-
lemme celeste, 63, 342.
Bédier J., Les légendes épiques, 68,
402.
Bellezza P., Curiosità dantesche,
63, 408.
Bellucci G., OrazioAntinori, 63, 455.
Bertacchi G., Ore dantesche, 68, 443.
Bertoldi A., H canto XII del Pa-
radiso, 63, 342.
Bertoni G., Dante, 63, 161.
Betteloni V., Impressioni critiche e
ricordi autobiografci, 64, 448.
Bettinelli S. , v. Tommasini-Mat-
tiucci.
Bevilacqua E., L'episodio dantesco
della corda, 63, 444.
Biadego G., Carta dotale di Flora
Betteloni, 64, 461.
— La prima lettera di A. Aleardi,
63, 173.
— Letteratura e patria negli anni
della donmiaz. austriaca, 64, 254.
Giornale storico, LXIV, fase. 192.
81
482
INDICE ALFABETICO DELLA RASSEGNA, DEL BOLLETTINO ECC.
BiAGi G., Cinquanta tavole in foto-
tipia da codici della Lauretmiana,
64, 478.
BioNDOLiLLO F., Intorno a un ms-
autografo diA.Veneziano, 63,455.
Boccaccio G., Il Decamerone, a cura
di M. Scherillo, 64, 288.
— V. Casali e Vandelli.
BoDONi G. B., Pubblicazioni pel cen-
teìmrio, 63, 472.
BoECKER A., A probable italian source
of Shakespeare^ s Julius Caesar,
64, 456.
BoLLEA L. C, Silvio Pellico e il ca-
stello di Envie, 63, 167.
BoRALEvi B., Di alcuni scritti inediti
di T. Morroni, 64, 405.
BoRGiANi G., Marcello Pàlingenio
Stellato, 63, 163.
Borgognoni A., Disciplina e sponta-
neità neWarte, ed. da B. Croce, 63,
157.
BosELLi A., Gius. Baretti « pieno di
turbamento », 63, 171.
Bottiglioni G., La lirica latina di
Firenze nella seconda metà del se-
colo XV, 64, 188.
BuRDACH K., V. Cola di Kienzo.
BusNELLi G., Il concetto e l'ordine
del Paradiso dantesco,. 63, 342.
Calcaterra C. , La Ciaecheide di
C. I. Frugoni, A. Bernieri e G.
A. Scutellari, 63, 447.
— La secreta prammatica dei conti
di San Bonifacio, 64, 460.
Calvelli L., Un fiorentino del Tre-
cento, Guido del Palagio, 64, 453.
Cambini L., Il pastore Aligerio, 63,
411.
— Un precursore del Muratori,
Camino Pellegrino, 63, 171.
Capra L., U ingegno e Vopera di
Saverio Bettinelli, 64, 210.
Carducci G., Lettere, serie seconda,
64, 244.
Casali L. e Vandelli G., Sunto del-
l'Inferno scritto da G. Boccaccio,
63, 457.
Casini T., Scritti danteschi, 63, 408.
Caterina (santa) de' Vigri, La santa
nella storia, 63, 188.
Cesareo G. A., v. Alighieri.
Charlton H. B., Castelvetro's Thcory
ofPoetry, 64,412.
Chartularium Studii Bononiensis,
voi. II, 64, 249.
Chatfield-Taylor H. C, Goldoni, a
biography, 64, 226.
Chiappelli a.. Storia del teatro in
Pistoia, 63, 446.
Chiappelli (L.), La donna pistoiese
del tempo antico, 64, 453.
Chiorboli e., V. Guidiccioni e Cop-
petta.
CiARDULLi 0., Lettere e poesie di Ar-
'naldo Fusinato ed Erminia Fuà,
64, 460.
Cipolla C, Documento veronese ine-
dito del 1181, 63, 173.
Cola di Rienzo, BricfivecJisel, ediz.
Burdach e Piur, 64, 386.
Colleziane di opuscoli danteschi ine-
diti o rari, dir. da G. L. Passerini,
num. 121 a 128, 63, 411.
Compagni P., v. Debenedetti.
Gonfalonieri F., Carteggio, ed. da
G. Gallavresi, Parte II, 63, 435.
Coppetta Beccuti F., Rime, a cura
di E. Chiorboli, 63, 420.
Corbellini A., Di un rimatore pa-
vese-veneziano del secolo XVI, 64,
455.
CoRBUCci V., Cucco di Gualfreduccto
da Perugia, 63, 454.
Croce B., v. Borgognoni.
— V. De Sanctis.
— V. Marino.
INDICE ALFABETICO DELLA RASSEGNA, DEL BOLLETTINO ECC. 483
D'Ancona A., XII lettere di Bettino
Micasoli a Sansone d'Ancona, 63,
456.
— Memorie e documenti di storia
italiana dei sec. XVIII e XIX,
64, 255.
— Ricordi stoì'ici del risorgimento
italiano, 64, 255.
Debenedetti S., Sonetto inedito di
Pietro Compagni, 63, 171.
De Gubernatis A., Giuseppe Parini,
63, 448.
— ViUorio Alfieri, 63, 145.
Della Torre A., « Centurio » e « Pom-
ponia Graecina » di G. Pascoli,
64, 281.
Del Lungo I., v. Velluti.
De Marchi A., Spigolature inedite
manzoniane, 63, 456.
De Michele G., La vita di N. Franco,
64, 253.
De Sanctis F., Lettere da Zurigo a
Diomede Marvasi, a cura di Be-
nedetto Croce, 64, 244.
De Vico A., Per un parallelo mal
fatto (Molière e Goldoni), 64, 230.
Don ADONI E., Antonio Fogazzaro,
63, 154.
Eleìwo alfabetico delle pubblicazioni
periodiche esistenti nelle biblioteche
di Roma, 64, 283.
Erich M. W., Ugo Foscolo come uomo
e come poeta lirico, 63, 139.
Erizzo S., V. Novellieri.
Faloci Pulignani M., Una poetessa
umbra del sec. XVIII, 63, 455.
Faral e., Recherches sur les sources
latines des contes courtois du moyen
àge, 64, 476.
Farina S., Care ombre, 63, 169.
Fassò L., Tre lettere inedite di Ales-
sandro Manzoni, 63, 172.
Ferrari G. I., La poesia di Giac.
Zanella, 63, 452.
Ferrari L., Il testamento di L. B.
Alberti, 63, 171.
FiAMMAzzo A., Note dantesche sparse,
63, 408.
Filippi L., Giacinto Gallina, 63,452.
Filippini E., Frecce e frecciate d'A-
more nel poema frezziano, 63, 455.
FiLOMusi Guelfi L., Novissimi studi
su Dante, 63, 342.
— Nuovi studi su Dante, 63, 342.
Foscolo U., Prose e poesie, a cura
di E. Marinoni, 63, 139.
— Scritti vari inediti, a cura di
F. Viglione, 64, 238.
Fui FusiNATo E., V. Ciardulli.
Fumagalli G., L' ai-te della legatura
alla corte degli Estensi, 63, 189.
FusiNATO A., V. Ciardulli.
Gallavresi G., V. Confalonieri.
Galletti A., Lirica e storia nell'o-
pera di G. Carducci e G. Pascoli,
63, 478.
— Una predica inedita di S. Ber-
nardino da Siena, 63, 170.
Gambarin G., V. Arienti.
Garzia R., 17 vocabolario dannun-
ziano, 64, 284.
Gattinoni Gr., Inventario di una casa
veneziana del sec. XVII, 64, 257.
Giani G., Ser Convenevole da Prato,
63, 445.
Gigli G., v. Novellieri.
Glivenko J. J., Vitt. Alfieri, 63, 392.
Guasti C, CaHeggio, 63, 438.
GuiDiccioNi G. , Rime, a cura di
E. Chiorboli, 63, 420.
GuzzoNi DEGLI Ancarani L., Gitio
frapponi letterato, 63, 451.
Hautecosur L., Rome et la renais-
sance de Vantiquité à la fin dii-^
XVIII siede, 63, 448.
484 INDICE ALFABETICO DELLA RASSEGNA, DEL BOLLETTINO ECC.
Heuckenkamp F., Die Provenzàlische
Prosa-Redaktwn des Barìaam und
Josaphat, 63, 443.
Impallomeni G., La psicosi di Gia-
coììio Leopardi, 63, 432.
Iraci M., Lorenzo Spirito Gnalteri,
64, 191.
Jeanroy a., V. Uc de Saint-Circ.
Karsavin L. P., Saggi di vita reli-
giosa in Italia nei sec. XlI-XIIl,
64, 429.
Lambert F. A., Dante' s Matelda und
Beatrice, 64, 452.
Lamma e., SulV ordinamento delle
rime di Dante, 64, 451.
L ANDINI G., n codice 180 aretino di
laudi, 64,432.
La Piana G., Bappresentazioni salire
nella letteratura hizanti'na, 64, 426 .
Lauchert Fr., Die italienischen li-
terarischen Gegner Luther s, 63»
164.
Lazzareschi e.. La poesia popolare
deW Amiata, 63, 456.
Lazzari A., Le ultime tre duchesse di
Ferrara, 63, 446.
Lefranc a., Grands écrivains fran-
gais de la Benaissance, 64, 285.
LoMMATzscH E. G., Sahodino degli
Arienti's Porrettane, 64, 454.
Lo Parco F., Niccolò da Beggio an-
tesignano del risorgimento delV an-
tichità ellenica, 64, 405.
Maa8 P., Noiizhucli des Cyriacus von
Ancona, 64, 406.
Mabellini a.. Lettere inedite di
S. PelUco ad Andrea Gcdtrielli, 64,
256.
Mal AGUZZI Valeri F., La corte di
Lodovico il Moro ; I, La vita pri-
vata, 63, 135.
Mancini A., Sulle tr accie dipatriotte
m/izziniane, 63, 172.
Manzoni A., v. Fassò.
Marino G. B., Poesie varie, a cura
di B. Croce, 63, 426.
Marinoni E., v. Foscolo.
Mariotti M., Amputatio capitis Pin-
demontis, 63, 166.
Maroi L., Laura Terracina, 64, 253.
Masson P. M., Chants de cartiaval
florentins, 64, 437.
Mathar L., Carlo Goldoni auf dem
deutschen Theater, 64, 226.
Mazzoni G., L^ Ottocento, 64, 445.
Mazzucchetti L., Schiller in Italia,
63, 141.
Mélanges offerts à 31. Émil Picot par
ses amis et ses élèves, 63, 404.
Messedaglia L., Un nòbile atto di
L. C. Farini, 63, 173.
Miscellanea in onore di Albino e
Nina Zenatti, 63, 173.
Momigliano A., L' Innominato, 63,
428.
Monografie delle università e degli
istituti superiori, 64, 281.
Moschetti A., DelVinfìusso del Ma-
rino sul Poussin, 63, 165.
Nascimbeni G., V. Tassoni.
Neri F., Ecco il re forte, 63, 171.
NicoLiNi F., V. Novellieri.
Novellieri minori del Cinquecento
(G. Parabosco e S. Erizzo), a cura
di G. Gigli e F. Nicolini, 63, 117.
Nozze Manzoni- Ansidei, 63, 454.
Nozze Soldati- Ma ni^, 63, 170.
Oberdorper A., Saggio su Michelan-
gelo, 64, 456.
Olivero F., Saggi di letteratura in-
glese, 64, 476.
INDICE ALFABETICO DELLA RASSEGNA, DEL BOLLETTINO ECC.
485
Osti C, Melchior Cesarotti e la sua
versione poeticadelV Iliade, 63,449.
Pausa G., Giovanni Quatrario di
Sulmona, 64, 251.
Parabosco G., vedi Novellieri.
Parodi E. G., La costruzione e l'or-
dinamento del Paradiso dantesco,
63, 342.
Pascoli G., v. Della Torre.
Pasolini P. D., Ravenna e le sue
grandi memorie, 63, 453.
Pellegrini Fl., La vendetta di Ci-
b elino, 63, 173.
Pellico S., v. Mabellini.
Pellizzari a., Portogallo e Italia
nel sec. XVI, 64, 457.
— Studi manzoniani, 64, 235.
Picco F., Due novelle del Bandello
nella « Descrizione delV Africa »
di Giov. Leone, 63, 171.
— Un memoriale di Gabriel Gio-
lito de' Ferrari, 64, 257.
PicoT E., V. Mélanges.
PiLOT A., Antologia della lirica ve-
neziana, 63, 450.
PiNTOR Fr., Un repertorio mano-
scritto di erudizione toscana, 63,
172.
PiSTELLi E., Il canto XIV del Pur-
gatorio, 64, 461.
PiuR P., V. Cola di Rienzo.
PivANO S., Albori costituzionali d'I-
talia, 63, 475.
PoNS A. A., Un trattato educativo
del Quattrocento, 64, 438.
Prunières H., L'opera italien en
France avant Lulli, 64, 441.
Ra.jberti G., L'arte di convitare,
64, 282.
Rava L., Costanza Monti Perticari,
64, 459.
RiCASOLi B., V. D'Ancona.
Ricci Corr., Pagine dantesche, 63,
410.
Ricci E., Un' iscriziotie medievale,
63, 454.
Robiquet P., Buonarroti et la secte
des égaux, 64, 232.
RoDOLico N., Dalla vita e dalla storia
conteìnporanea , 63, 453.
Rossi V., La formazione storica del
Rinascimento italiano, 64, 454.
Ruhlemann M., Etymologie des Wor-
tes harlequin, 63, 161.
Sacchetti Sassetti A., Pietro De An-
gelis a Parigi, 63, 455.
Saitta G., Le origini del neo-to-
mismo, 64, 242.
Salvadori G., Famiglia e città se-
condo la mente di Dante, 68, 408.
Salverda de Grave J. J., v. Uc de
Saint-Circ.
Salza A., Una lettera inedita di
L. Ariosto ad 0. Fregoso, 63, 171.
Santoro D., Il viaggio d' Isabella
Gonzaga in Provenza, 64, 252.
Savj-Lopez P., Tra i sogni roman-
tici, 63, 172.
Scalvanti 0., Le cantatrici in teatro,
63, 455.
Scherillo M., V. Boccaccio.
Scolari A., Il messia dantesco, 63,
162.
Serban N., Leopardi et la France,
63, 128.
— Lettres inédites relatives à G. Leo-
pardi, 63, 450.
SiMEONi L., Poemetto della Madda-
lena di Cecco d'Assisi, 63, 173.
Soldati B., vedi Nozze Soldati.
SoRBELLi A., Intorno alla prima edi-
zione delle « Ultime lettere di Ja-
copo Ortis », 63, 172.
Surra G., Indagini sul carattere e
sull'arte di Gius. Giusti, 63, 152.
486 INDICE ALFABETICO DELLA RASSEGNA, DEL BOLLETTINO ECC.
Tassoni A., La secchia rapita, ed.
da G. Nascimbeni, 64, 458.
ToFFANiN A., Il romanticismo latino
e i Promessi Sposi, 63, 165.
Tommaseo N., Scritti di critica e di
estetica, scelti da A. Albertazzi,
63, 168.
Tommasini-Mattiucci P., Le Lettere
Virgiliane, 63, 411.
— Un epigono di don Ferrante, 63,
455.
ToNELLi L., L'evoluzione del teatro
contemporaneo in Italia, 64, 421.
Tosto A., Le com,medie di L. Ariosto,
64, 439.
Toynbee P., Concise Dante Dictio-
nary, 64, 284.
Trabalza C, Petrarca, Fauriel e
Bacine nelVinedita digressione sul-
Vamore dei Promessi Sposi, 64,
257.
Trattati d'amore del Cinquecento, a
cura di G. Zonta, 64, 220.
Tria U., Il pensiero del Giannone,
64, 285.
Uc DE Saint-Circ, Poésies, a cura di
A. Jeanroy e J. I. Salverda de
Grave, 63, 160.
Val ACCA P., Xe rime estravaganti da
attribuire a G. Boccaccio, 64, 250.
Valori G., Dai ricordi storici di
Filippo di Cino Binuccini, 63, 456.
Vandelli G., V. Casali.
Velluti D., La cronica domestica;
per cura di I. Del Lungo e G. Volpi,
64, 435.
Venturi A., Storia delVarte italiana,
voi. Vn, P. II e III, 64, 279.
Verdi G., 1 copialettere, a cura di
G. Cesari e A. Luzio, 63, 473.
Vermiglioli G. B., Lettere inedite,
63, 455.
Vescovi E., ie dottrine pedagogiche
e la Div. Commedia, 63, 444.
Vicini E. P., I Podestà di Modena,
63, 474.
VlGLIONE F., V. Foscolo.
Volpi G., v. Velluti.
Zacc AGNINI G., Per la storia letter
raria del Duecento, 64, 249.
Zagaria e.. Vita e opere di Niccolò
Amenta, 63, 137.
Zanders J., Die altprovenzaìische
Prosanovelle, 63, 442.
Zenatti a., V. Miscellanea.
ZiccARDi G., Intorno al « Toi'quato
Tasso * di C. Goldoni, 64, 226.
Ziliotto B., La cultura letteraria di
Trieste e deWIstria, Parte I, 64,
405.
Zonta G., v. Trattati d'amoìe.
INDICE DELLE MATERIE DEL VOLUME LXIV
GUIDO ZACC AGNINI, Personaggi danteschi in Bologna (Maestro Adamo —
Pier da Medicina — Frate Alberigo Manfredi — Oderisi da Gubbio —
Griffolino d'Arezzo — Guido Bonatti — Lotto degli Agli — Il primo
rifugio dei figli di Farinata degli liberti — Venetico e la Ghisola-
bella Caccianimici) -Pcm/- 1
RAMIRO ORTIZ, Primi contatti fra Italia e Rumania (Pietro Metastasio e i
poeti VacarestiJ Parte II ed ultima » 48
GIACOMO SURRA, Imitazioni e reminiscenze nelle poesie del Giusti. . . » 89
PIER LUIGI CICERI, Michele Manilio e i suoi * Hymni naturales» . . » 289
VARIETÀ
GIUSEPPE GALLI, Appunti sui Laudarii iacoponici » 145
GILTLIO REICHENBACH, Lettere inedite di Matteo Maria Boiardo. . . » 168
CRISTINA AGOSTI GAROSCI, H MachiaveUi in alcune novelle di Matteo
Bandello » 172
ANGELO OTTOLINI, Una pagina inedita di U. Foscolo e il « Misogallo » del-
l'Alfieri, a cura dell'Albany » 188
KENNETH McKENZIE, Per la storia dei Bestiarii italiani . . . . . 858
PIETRO TOLDO, « Oli sdegni amorosi » di Frandaglia di Val di Sturla . » 872
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
REMIGIO SABBADINI. — Gino Bottiglioni, La lirica latina di Firenze
nella seconda metà del secolo XV » 188
ABDELKADER salza. — Maria Ibaci, Lorenzo Spirito Gualtieri . . » 191
CARLO CALCATERRA. — Luisa Capra, L'ingegno e l'opera di Saverio
Bettinelli .210
PIETRO FEDELE. — Konrad Burdach und Paul Pick, Briefioechsel des
Cola di Rienzo. Kritischer Text, Lesarten und Anmerkungen ; —
Anhang, Urkundliche Quellen zur Geschichte Rienzos . . . » 886
REMIGIO SABBADINI. — Pubblicaziojii umanistiche: I. Baccio Ziliotto,
La cultura letteraria di Trieste e dell'Istria. Parte prima, dall'anti-
chità all'umanesimo. — II. Francesco Lo Parco, Niccolò da Reggio
antesignano del risorgimento dell'antichità ellenica nel secolo XIV. —
in. Bice Boralevi, Di alcuni scritti inèditi di Tommaso Morroni da
Rieti. — IV. Paul. Maas, Ein Notizbuch des Cyriacus von Ancona aus
dem Jahre 1436 » 405
GIUSEPPE CAVAZZUTI. — H. B. Charlton, Castelvetro's Theory of Poefry » 412
CESARE LEVI. — Luigi Tonelli, L'evoluzione del teatro contemporaneo in
Italia » 421
488 INDICE DELLE MATERIE
BOLLETTINO BIBLIOORA^FIGO
Si parla di: E. Aubel, Leon Battista Alberti e i libri della famiglia, p. 218. — Trattati
d'amore del Cinquecento, a cura di G. Zonta, p. 220. — L. Mathar, Carlo Goldoni
auf dem deutschen Theater dee XVIII Jahrhundeì-ts ; H. C. Chatfield-Taylor, Gol-
doni, a biography, G. Ziccardi, Intorno al < Torquato Tasso » di C. Goldoni, p. 226.
— A. Db Vico, Per un parallelo mal fatto (Molière e Goldoni) , p. 230. — P. Ro-
BiQUET, Buonarroti et la sede dea égaux d'après des documenta inédits, p. 232. —
A. Pellizzari, Studi manzoniani, 2 voli., p. 285. — U.Foscolo, Scritti vari inediti,
a cura di Fr. Viglione, p. 238. — Q. Saitta, Le origini del neo-tomismo nel se-
colo XIX, p. 242. — Or. Carducci, Lettere (serie seconda) : alla famiglia e a Seve-
rino Ferrari; Fb. De Sanctis, Lettere da Zurigo a Diomede Marvasi, con prefaz. e
note di B. Croce, p. 244. — G. La Piana, Le rappresentazioni sacre nella lettera-
tura bizantina dalle origini al secolo IX, p. 426. — Ij. P. Karsavin, Saggi di vita
religiosa in Italia nei secoli XII-XIII, p. 429. — Gr. Lakdini, Il codice aretino 180;
laudi antiche di Cortona, p. 432. — D. Velluti, La cronica domestica, scritta fra
il 1367 e il 1870, con le addizioni di Paolo Velluti scritte fra il 1555 e il 1560,
dai manogoritti originali, per cura di I. Del Lungo e G-. Volpi, p. 435. —
P. M. Masson, Chants de carnaval florentins [Canti carnascialeschi) de l'epoque de
Laurent le Magniflque, p. 437. — A. A. Pons , Un trattato educativo del Quattro-
cento, p. 438. — A. Tosto, Le Commedie di Ludovico Ariosto^ studio critico-storico,
p. 439. — H. Prunièees, L'opera italien en France avant Lulli, p. 441. — G-. Maz-
zoni, L'Ottocento, p. 445. — V. Betteloni, Impressioni critiche e ricordi autobio-
grafici, p. 448.
ANNUNZI ANALITICI Pag. 249 e 451
Si parla di : Or. Zacoagnini. — Chartularium, Studii Bononiensis , voi. II. — P. Va-
lacca. — L. Albertazzi. -— G. Pansa. — D. Santoro. — G. De Michele. — L. Marci.
— G. Biadego. — A. D'Ancona. — E. Lamma. — Fr. A. Lambert. — L. Chiap-
pelli. — L. Calvelli. — V. Rossi. — E. Lommatzsch. — A. Corbellini. — A. Ober-
dorfer. — A. Boecker. — A. Pellizzari. — A. Tassoni. — L. Rava. — O. Oiardulli.
PUBBLICAZIONI NUZIALI Pag. 256 e 460
GOMUNIGA.ZIONI ED APPUNTI
GIULIO BERTONI, Intorno a una « tornada » indirizzata a Otto del Carretto, p. 258.
— VLADIMIRO ZABUOHIN, Tre codici umanistici Pietroburghesi , p. 'SBQ. —
FERDINANDO NERI, Per una scheda di metrica, p. 962. — GIULIO BERTONI,
Postille aUa lauda veronese del Duecento, p. 462.
CRONACA Pag. 264 e 464
• 'SI
PQ Giornale storico della
ifOOl letteratura italiana
G5
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