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Full text of "Giornale storico della letteratura italiana"

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GIORNALE  STORICO 


LETTERATURA  ITALIANA 


VOLUME    LXIV 

{29  semestre  1914). 


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GIORNALE  STORICO 


DELLA 


LETTERATURA  ITALIANA 


DIRETTO    E    REDATTO 


FRANCESCO    MOVATI    E    RODOLFO   RENIER 


VOLUME   LXIV. 


TORINO) 

Casa     J5  <1  i  t  r  i  o  e 

ERMANNO    LOESCHER 

1914 


PROPRIETÀ   LETTERARIA 


Tt.rino  -  ViNCKNzo  Boka,  Tip.  di  S.  M.  e  <le'  RR.  Principi. 


PERSONAGGI  DANTESCHI 


BOLO  GN A 


Le  orme  di  Dante  in  Bologna  sono  evidenti  soprattutto  per 
alcuni  personaggi  bolognesi  che,  da  lui  conosciuti  di  persona, 
ricinse  di  luce  non  peritura  nel  sacro  volume.  Di  altri  non  bo- 
lognesi, vissuti  per  un  tempo  più  o  meno  lungo  in  Bologna,  co- 
nosciuti 0  no  di  persona  da  lui,  vi  si  conserva  pure  memoria. 

I  Memoriali  dell'Archivio  di  Stato  bolognese  ci  parlano  della 
loro  presenza.  Dalle  ingiallite  pagine,  di  tra  le  memorie  private 
del  fosco  duecento,  giunge  a  noi,  non  interamente  affievolita  dal 
tempo,  l'eco  di  grandi  dolori,  di  veementi  passioni,  e  talvolta 
balza  su  dalla  polvere  dei  secoli  la  figura  di  qualche  personaggio 
con  lineamenti  e  fattezze  alquanto  diverse  da  quelle  che  siamo 
usi  scorgere  nei  versi  di  Dante  o  nei  commenti  spesso  inesatti 
0  indeterminati  degli  antichi,  e  talvolta  anche  nei  commenti 
dei  moderni. 

Qualche  altro,  che  fino  ad  ora  era  rimasto  avvolto  nell'ombra 
del  passato,  ci  è  dato  identificare  con  quasi  assoluta  certezza, 
oppure  per  ipotesi  assai  probabili  e,  se  l'amore  alle  nostre  ri- 
cerche non  ci  fa  velo  al  giudizio,  degne  di  considerazione. 

Per  altri  pochi  dobbiamo,  purtroppo,  contentarci  di  qualche 
notizia,  che  del  resto  è  pur  qualchecosa  in  tanta  penuria. 

II  buon  resultato  di  queste  mie  ricerche  dimostrerà  che  sol- 
tanto con  pazienti  e  sistematiche  indagini  d'archivio  si  potrà 

Giornale  storico,  LXIV,  fase.  190-191.  1 


G.    ZAOOAGNINI 


avere  una  più  esatta  e  larga  conoscenza  de'  personaggi  e  de'  fatti 
ricordati  dal  Poeta  che  non  avessero  gli  autori  dei  primi  com- 
menti, ai  quali  il  più  delle  volte,  purtroppo,  si  affida  anche  oggi 
la  critica  dantesca  (1). 


Maestro  Adamo. 

Di  questo  personaggio  che,  tratto  dalle  lusinghe  dei  conti  di 
Romena  nel  Casentino,  falsificò  per  loro  il  fiorino  di  Firenze  e 
nel  1281  fu  arso  in  questa  città,  ove  aveva  avuto  l'imprudenza 
d'andare  per  spendere  gli  adulterati  fiorini,  poche  e  contraddit- 
torie notizie  ci  danno  gli  antichi  commentatori.  Dalle  parole  di 
Dante  non  ci  è  dato  di  conoscere  che  il  luogo  ove  esercitò  la 
sua  colpevole  arte  e  i  nomi  di  coloro  che  a  mal  fare  lo  istiga- 
rono, i  fratelli  conti  Guidi  del  ramo  di  Romena,  Guido,  Ales- 
sandro e  Aghinolfo  II  o  Ildebrandino  (2). 

Eppure  della  sua  morte,  e  soprattutto  dello  scorno  che  certo 
ne  venne  ai  conti  di  Romena,  si  parlò  assai  a  Firenze,  se  un 
cronista  quasi  sincrono,  in  mezzo  a  notizie  di  ben  altra  impor- 
tanza, ci  volle  dare  anche  questa;  «  Si  trovarono  in  Fiorenza 
«  fiorini  d'oro  falsi  in  quantità,  per  un  fuoco,  che  si  apprese  in 
«  Borgo  S.  Lorenzo,  in  casa  degli  Anchioni.  E  dicesi  che  li  faceva 
«  fare  uno  de'  conti  di  Romena,  e  funne  preso  un  lor  spenditore, 
^  il  quale,  per  uno  che  confessò,  fu  arso  »  (3). 


(1)  Adempio  al  dovere  graditissimo  di  ringraziare  pubblicamente  il  signor 
dott.  Giov.  Livi,  direttore  del  R.  Arch.  di  Stato  di  Bologna,  che  mi  ha  aiu- 
tato con  squisita  cortesia  e  premura  nelle  pazienti  ricerche  in  quell'Archivio. 
E  mi  è  grato  di  ringraziare  anche  il  cav.  Emilio  Orioli  che  più  volte  mi  ha 
sovvenuto  nella  lettura  non  sempre  facile  dei  documenti. 

(2)  Ma  s'io  vedessi  qui  l'anima  trista 

Di  Guido,  o  d'Alessandro,  o  di  lor  frate 
Per  fonte  Branda  non  darei  la  vista. 

{Inferno,  XXX,  76-78). 

(3)  Paolino  di  Piero,  Cronica,  Roma,  1755,  p.  43. 


PERSONAGGI   DANTESCHI    IN   BOLOGNA  3 

Dove  era  nato  e  donde  era  venuto  il  falso  monetario  che  cosi 
profonde  tracce  del  suo  ignobile  delitto  e  della  terribile  morte 
dovè  lasciare  nella  mente  di  Dante  sedicenne,  che  forse  potè 
vederne  l'arsione  ordinata  dal  Comune  di  Firenze?  (1). 

Gli  antichi  commentatori  non  sono  punto  d'accordo.  La  maggior 
parte,  Benvenuto  da  Imola,  l'Anonimo  Fiorentino  ed  altri  lo 
dicono  di  Brescia,  l'autore  delle  Chiose  anonime  edite  dal  Selmi 
afferma  invece  che  fu  bolognese,  il  Bambaglioli  lo  dice  del  Ca- 
sentino. 

Qualche  decennio  fa  Gregorio  Palmieri,  tra  le  pergamene  ra- 
vennati pubblicate  dal  Tarlazzi,  notò  un  atto  rogato  in  Bologna 
il  28  ottobre  1277,  nel  quale  era  testimone  un  «  magister  Adam 
«  de  Anglia  familiaris  comitis  de  Romena  »  (2).  E  giustamente 
in  questo  familiare  del  conte  di  Romena  ravvisò  il  noto  perso- 
naggio dantesco  ;  ma  si  perde  poi  in  vane  ipotesi,  per  conciliare 
il  documento  con  le  attestazioni  dei  commentatori,  e  credè  di- 
mostrare che  il  luogo  di  nascita  del  monetiere  fu  Brest  nel  nord 
della  Francia,  allora  sotto  il  dominio  inglese.  Maestro  Adamo 
dunque  sarebbe  stato  inglese. 

I  moderni  non  fecero  buon  viso  a  questa  affermazione  del  Pal- 
mieri (3)  e,  non  potendo  negare  che  il  maestro  Adamo  del  do- 
cumento ravennate  fosse  proprio  il  dantesco,  ricorsero  ad  espe- 
dienti per  negarne  l'origine  inglese.  Il  Torraca  disse  che  nel 
documento  si  deve  leggere  «  Augna  »  e  non  «  Anglia  »  e,  tro- 
vata una  località,  Agna  nel  Casentino,  aggiunse  che  Adamo  ben 
poteva  essere  nato  in  quel  luogo. 

Io  credo  che  se  i  documenti  ci  attesteranno  la  presenza  d'un 
maestro   Adamo   inglese   negli  anni  che  di  poco  precedettero 


(1)  Nel  Purgatorio,  XX VII,  18,  innanzi  alla  fiamma  dell'ultima  cornice 
ricorda  «  umani  corpi  già  veduti  accesi  » .  # 

(2)  Introiti  e  debiti  di  papa  Niccolò  III  (1279-1280),  Roma,  tip.  Vati- 
cana, 1889,  proemio,  pp.  xxiv-xxv. 

(3)  Però  0.  Bacci  (Lectura  Dantis,  Firenze,  Sansoni,  1901,  H  canto  XXX 
deW Inferno,  p.  17)  pare  l'accolga. 


4  G.    ZAOOAGNINI 

il  1281,  potremo  mettere  d'accordo  le  notizie  sicure  su  questo 
personaggio  con  ciò  che  ne  dicono  i  commentatori;  soltanto  in 
tal  modo  riusciremo  a  convincere  anche  i  più  increduli. 

Di  un  «  magister  Adam  de  Augnila  (sic)  »  è  memoria  in  do- 
cumenti bolognesi  fin  dall'ultimo  di  decemhre  del  1270  (1),  e  non 
c'è  dubbio  che  qui  si  tratti  d'un  Inglese,  perché  si  fa  per  lui 
un  cambio  di  sterline  in  monete  pisane  e  lucchesi  e  le  persone 
per  mezzo  delle  quali  è  fatto  il  contratto  sono  d'evidente  origine 
straniera. 

Che  cosa  c'impedisce  di  credere  che  questo  «  magister  Adam 
«  de  Anguila  »  sia  lo  stesso  «  magister  Adam  de  Anglia  »  del 
documento  del  1277  notato  dal  Palmieri?  E  questo  stesso  «ma- 
«  gister  Adam  de  Anguila  o  de  Anglia  »  mi  pare  che  possa  es- 
sere pure  r  «  Adam  anglicus  »  che  è  teste  in  un  atto  del  15  ot- 
tobre 1273  (2). 

Ma  com'è  dunque  che  la  maggior  parte  dei  commentatori  lo 
dice  bresciano? 

Anche  per  questo  ci  vi^ne  aiuto  inaspettato  dai  documenti 
dell'Archivio  bolognese.  Dell'anno  1274,  e  quindi,  si  noti,  proprio 
del   tempo   in   cui   maestro  Adamo  poteva,   secondo   i  prece- 


(1)  1271  secondo  lo  stile  bolognese.  Ecco  il  documento:  «  Magister  Gui- 
«  baldus  de  Meate  Burdigalensis  diocesis  procurator  constitutus  a  magistro 
«  Petro,  priore  Sancti  Calipratij  procuratore  magistri  Adam  de  Anguila,  pro- 
«  curatorio  nomine  prò  ipso  domino  Adam  recipienti,  confessus  fuit  habuisse 
«  a  domino  Testa  de  Rodaldis  dante  et  solvente  prò  domino  Aldrevrandino 
«  Guidonis  et  sociorum  suorum  de  Luca  centum  triginta  novem  libras  pisa- 
€  norum  in  florenis  argenteis,  quos  denarios  dictus  dominus  Aldrevrandinus 
«  et  socii  eidem  magistro  Adam  solvere  tenebantur  pretio  et  cambio  viginti 
«  marchorum  argenteorum  in  sterlinis.  Et  dominus  Bartolomeus  Amanati  de 
«  Pistorio  precibus  dicti  magistri  Guibaldi  promisit  se  quod  si  lix  vel  questio 
«  mota  esset  dicto  Aldrevandino  et  sociis  promisit  de  indempnitate.  Ex  istru- 
«  mento  Bonmartini  Bonbologni  not.  hodie  facto  in  curia  Principum,  presen- 
«  tibus  domino  Rufino  de  Principibus  doctore  legum,  lacobino  Alberti  Benvi- 
«  gnonis,  domino  Dominico  Poete,  domino  Ricardino  domini  Bartholomey  de 
«  Principibus,  domino  Rainuzino  libertini  de  Luca  testibus.  Die  martis  ul- 
«  timo  decembris  »  [Memoriale  di  Giovanni  di  Salvo,  e.  75  t.). 

(2)  Arch.  di  Stato  di  Bologna,  Memoriale  di  Gtiglielmo  Canuti,  e.  112  f. 


PBESONAGGl  DANTESCHI  IN  BOLOGNA  5 

denti  documenti,  essere  in  Bologna,  è  un  atto  rogato  in  questa 
città,  e  in  esso  è  testimone  proprio  un  «  Addam  qui  fuit  de 
«  Brixia  ». 

Poiché  il  documento  mi  pare  particolarmente  importante  lo 
riporto  qui  per  intero: 

Gui9ardinus     fratres,  filli  et  heredes   quondam   domini  Laudrixii  de  Albe- 
Doxius         ri^iis  cesserunt  iura  Donusdeo  quondam  lacobini  Berite  quon- 
dam Arardini  Zunte  in  quadraginta   sex  libris  et  undecim 
solidis  bononinorum.   Ex  istrumento  Pasqualis  dicti  Bochardi   Spani   notarii 
facto   sub   porticu   domus   Petri   liberti,  presentibus  Alixeo  magistri  Petri, 
Addam  qui  fuit  de  Brixia  et  Petro  domini  Eodulphini  testibus. 
Die  Martis  xvi  lanuarii  (1). 

E  probabilmente  questo  Adamo  è  la  stessa  persona  che  ap- 
paro come  teste  in  un  atto  del  1276,  cosi  designato  «  Adamo 
«  domini  Anesti  (sic)  de  Brissia  »  (2),  e  anche  mi  sembra  suo 
figlio  quel  «  Boniohamne  Adami  de  Brissia  »,  che  è  in  un  atto 
del  medesimo  anno  (3). 

Alla  prima  impressione,  appena  mi  sono  imbattuto  in  questi 
documenti  che  parlano  d'un  maestro  Adamo  da  Brescia,  ho  cre- 
duto d'aver  trovato  il  personaggio  dantesco;  ma  una  matura  ri- 
flessione mi  ha  convinto  che  questo  è  proprio  la  stessa  persona 
che  il  «  magister  Adam  de  Anglia  ». 

Prima  di  tutto  questo  che  è  detto  da  Brescia  è  designato  con 
la  forma  «  Addam  »,  che  mi  pare  accenni  a  origine  straniera, 
e  anche  i  numerosi  Adami  stranieri  che  trovo  nei  Memoriali 
appariscono  tutti  ricordati  con  questa  forma  indeclinabile.  Cosi 
un  «  magister  Adam  de  Corbolio  »,  teste  in  un  atto  del  1273  (4), 
un  «  dominus  Adam  de  Attabate  »,  altrove  detto  «  de  civitate  at- 


(1)  Ivi,  Memoriale  di  Giovanni  di  Scuro,  e.  125. 

(2)  Ivi,  Memoriale  di  Pietro  di  Giovanni,  e.  56. 

(3)  Ivi,  e.  12. 

(4)  Ivi,  Memoriale  di  Amico  de'  Sardelli,  e.  249  t.  Da  un  altro  documento 
sappiamo  che  era  di  Parigi. 


6  G.    ZACCAGNINI 

«tabatensi  »  (1),  un  «  magister  Adam  de  Ladio  »  (2),  un  «  do- 
«  minus  Adam  de  Lambedem  scottus  »  (3).  Altrove  è  un  «  Gui- 
«  lielmus  quondam  Adam  de  Anglia»  (4),  un  «  dominus  Thomaxinus 
«  quondam  Adam  »  (5). 

Invece  il  nome  Adamus  è  declinato  tutte  le  volte  che  si  tratta 
d'Italiani.  E  qui  gli  esempi  abbondano:  ne  riferirò  qualcuno: 
«  Adamo  de  Castro  Britonum  »  (6) ,  «  Andreolus  quondam  ma- 
«  gistri  Adami  magistri  lignaminis  »  (7),  «  Gratiadeus  magistri 
«  Adami  »  (8),  Michael  magistri  Adami  notarius  »  (9). 

Ma  resta  ancora  a  superare  una  grave  difficoltà.  Nel  docu- 
mento del  1274  è  chiaramente  detto  :  «  qui  fuit  de  Brixia  ». 
Ebbene,  frequenti  sono  i  casi  in  cui  negli  atti  notarili  si  trova 
qualcuno  designato  col  «  qui  fuit  de...  »  non  per  indicare  il  luogo 
di  nascita,  ma  il  luogo  da  cui  era  venuto. 

Di  questi  casi  potrei  allungare  quanto  io  volessi  la  serie  ;  ma 
alcuni,  in  special  modo  significativi,  potranno  convincere  che 
non  sempre  in  quel  modo  si  voleva  indicare  il  luogo  di  nascita. 

Del  2  gennaio  1320  è  un  atto  in  cui  si  parla  d'un  «  lohannes 
«  quondam  Zamboni  de  Anglia  de  Regio  commorans  Bononie  in 
«  capella  S.  Bertoli  Porte  Ravennatis  »  (10).  Ma  qui  il  nome  del 
padre  certamente  italiano  potrebbe  far  credere  che  si  trattasse 
d'un  reggiano  nato  in  Inghilterra.  Del  1288,  e  quindi  più  vicino 
al  tempo  in  cui  visse  il  maestro  Adamo  dantesco,  è  un  altro  atto 
in  cui  si  ha  memoria  di  un  «  d.  Raimondinus  quondam  Adhi- 
«  gherii  de  Sala  qui  fuit  de  Parma»  (11),  e  del  1215  è  quest'altro 


(1)  Ivi,  Memoriale  del  1275  di  Giov.  d^ Alberto  della  Grinza,  e.  116^  e  133. 

(2)  Ivi,  Memoriale  del  1275  di  Giovanni  di  Gerardo,  e.  226. 

(3)  Ivi,  Memoriale  del  1275  di  Arardo  de'  Musoni,  e.  204. 

(4)  Ivi,  e.  213. 

(5)  Ivi,  Memoriale  del  1279  di  Pietro  di  Gherardo  da  Budrio,  e.  55. 

(6)  Ivi,  e.  134 1. 

(7)  Ivi,  e.  95. 

(8)  Ivi,  e.  22  t. 

(9)  Ivi,  e.  64  t. 

(10)  Ivi,  Memoriale  di  Andrea  di  Corrado  da  Medicina,  e.  1 1. 

(11)  Ivi,  Memoriale  di  Lodovico  di  Marchesino,  e.  97  t. 


PERSONAGGI    DANTESCHI    IN    BOLOGNA  7 

atto  in  cui  è  un  caso  ancora  più  caratteristico:  vi  si  legge  di  un 
«  dominus  Ottobonus  de  Florentia,  fìlius  domini  Bonacci  qui  fuit 
«  de  Bononia  et  de  Ferraria  »  (1). 

Che  ci  vieta  dunque  di  credere  che  il  «  magister  Adam  de 
«  Anglia  »  abbia  dimorato  lungamente  a  Brescia,  e,  di  là  venuto 
a  Bologna,  sia  stato  negli  atti  notarili  designato  ora  col  nome 
della  regione  ove  nacque,  ora  invece  col  nome  del  luogo  ove 
poco  prima  aveva  dimorato  ? 

In  tal  modo  noi  intendiamo  come  i  più  dei  commentatori  an- 
tichi del  poema  sacro  abbiano  detto  che  maestro  Adamo  era  da 
Brescia. 

Che  qualcuno  poi  abbia  asserito  che  era  bolognese,  si  com- 
prende pensando  alla  dimora  che  noi  abbiamo  dimostrato  aver 
fatto  in  Bologna  dal  1270  forse  fin  presso  al  1277,  quando  lo  tro- 
viamo già  tra  i  familiari  del  conte  di  Romena  e  quindi  ormai  fatal- 
mente avviato  verso  la  morte,  che  lo  colse  poco  dopo  a  Firenze. 

Che  il  Bambaglioli  infine  lo  dicesse  del  Casentino,  è  pure  cosa 
facile  a  comprendersi:  si  capisce  che,  in  mancanza  di  altre  in- 
dicazioni che  si  potessero  ricavare  dai  versi  danteschi,  l'antico 
commentatore  immaginò  che  fosse  del  Casentino  colui  che  falsi- 
ficò il  fiorino  di  Firenze  per  i  conti  casentinesi. 

Probabilmente  negli  atti  notarili,  ove  si  richiedeva  la  massima 
esattezza,  faceva  aggiungere  al  notare  il  «  de  Anglia  »  o  «  an- 
«  glicus  »  ;  ma,  al  solito,  quando  egli  non  aveva  cura  di  far  co- 
noscere questa  sua  origine,  il  notare  lo  designava  con  l'appella- 
tivo con  cui  pare  che  ormai  fosse  noto  ai  più  e  scriveva  : 
«  magister  Addam  qui  fuit  de  Brixia  ».  E  cosi,  ripeto,  intendiamo 
come  i  più  dei  commentatori  antichi  lo  chiamassero  maestro 
Adamo  da  Brescia. 

Non  so  se  avrò  convinto  il  lettore;  ma  non  mi  pare  che  sia 
da  respingersi  l'opinione  del  Palmieri.  Se  cosi  può  credersi, 
Adamo  dimorò  a  Bologna  dal  127(f  fin  verso  al  1277.  Tanti  sono 
i  personaggi  italiani  famosi  per  vergognosi  fatti,  o  foschi  per 


(1)  Ivi,  Archivio  Demaniale,  S.  Francesco,  busta  3*,  4135,  n^  32. 


8  G.    ZAOOAGNINI 

fieri  e  spietati  atti  di  guerra  o  per  altre  ragioni  infami  su  cui 
Dante  impresse  il  marchio  indelebile  nei  secoli,  che  ben  pos- 
siamo restituirne  qualcuno  anche  agli  stranieri.  Unìcuique  suwm. 


Pier  da  Medicina. 

Anche  di  questo  personaggio  che  Dante  pose  nella  nona  bolgia 
dell'Inferno  fra  i  seminatori  di  discordie,  non  è  stata  possibile 
fino  ad  ora  un'identificazione  sicura. 

Già  i  commentatori  antichi  dovevano  saperne  assai  poco,  se 
ne  parlarono  con  grande  incertezza  di  particolari  biografici  e 
spesso  0  si  copiarono  fra  loro  o  inventarono  addirittura. 

L'autore  delle  Chiose  anonime  edite  dal  Selmi  dice  :  «  Pietro 
«  da  Medicina  fu  del  contado  di  Bologna  e  commise  la  guerra 
«  da  Fiorenza  a  Bologna,  e  da  Bologna  agli  Ubaldini,  poi  per 
«  sue  male  opere  fu  cacciato,  e  stette  in  Fano,  e  commise  la 
«  guerra  tra  que'  di  Fano  e  i  Malatesta  ».  Jacopo  della  Lana,  con 
indeterminatezza  ancora  maggiore,  dice:  «  Fu  de'  Cattani  di  Me- 

«  dicina, il  quale  fu  molto  corrotto  in  quel  vizio,  si  di  semi- 

«  nare  scandalo  tra  li  nobili  bolognesi,  come  eziandio  tra  li  ro- 
«  magnoli  e  i  bolognesi  ». 

Benvenuto  da  Imola,  pur  esemplificando,  sembra  accennare  a 
qualchecosa  di  più  determinato  :  «  Fuit  pessimus  seminator  scan- 
«  dali,  in  tantum  quod  se  aliquandiu  magnificavit  et  ditavit  do- 
«  lose  ista  arte  infami.  Et  ecce  modum  grafia  exempli  ;  si  sen- 
«  sisset  Petrus  de  Medicina  quod  dominus  Malatesta  de  Arimino 
«  tractabat  contrahere  affinitatem  vel  societatem  cum  domino 
«  Guidone  de  Ravenna,  invenisset  ergo  Petrus  a  casu  quendam 
«  familiarem  domini  Malateste,  et  petivisset  affectuose:  Quomodo 
«  valet  Dominus  meus  ?  Et  post  longam  confabulationem  dixisset 
«  in  fine  :  Dicas  domino  Malateste  ut  mittat  mihi  fidum  nuntium, 
«  cum  quo  loqui  possim,  sicut  secum,  aliqua  non  spargenda  in 
«  vulgo.  Et  veniente  tali  nuntio  petito,  dicebat  Petrus  :  Vide, 
«  carissime,  male  libenter  dicam,  quia  de  honore  meo  esset  forte 


PEKSONAGGI    DANTESCHI    IN    BOLOGNA  9 

«  tacere  :  sed  sincera  afifectio,  quam  habeo  ad  dominum  meum, 
«  dominum  Malatestam,  non  permittit  me  amplius  dissimulare. 
«  Res  ita  est:  Gaveat  sibi  dominus  Malatesta  ab  illode  Ravenna, 
«  alioquin  inveniet  se  deceptum.  Et  statim  remittebat  istum 
«  nuntium  sic  informatum  ;  et  deinde  idem  illud  falso  fingebat 
«  apud  dominum  Guidonem  de  Ravenna,  persuadens  ut  caverei 
«  sibi  ab  ilio  de  Arimino.  Tunc  ergo  dominus  Malatesta  concepta 
«  suspicione  ex  verbis  Petri,  incipiebat  remissius  agere  cum  do- 
«  mino  Guidone,  et  paulatim  incipiebat  revocare  quod  conce- 
«  perat.  De  quo  perpendens  dominus  Guido,  dicebat:  Bene  di- 
«  cebat  mihi  Petrus  de  Medicina.  Et  e  contrario  dicebat  dominus 
«  Malatesta.  Et  uterque  deceptus  mittebat  Petro  equos,  jocalia, 
«  munera  magna,  et  uterque  liabebat  ipsum  in  amicum,  qui  erat 
«  familiaris  inimicus  »  (1). 

Il  Buti  dice  che  seminò  discordie  «  tra'  cittadini  Bolognesi  e 
«  tra  i  tiranni  di  Romagna  »  :  accenna  anche  che  avesse  divisi 
«  li  gentiluomini  del  contado  di  Bologna  da  la  città  »  e  quelli 
di  dentro  la  città  (2). 

Come  si  vede,  se  si  volesse  credere  ai  commentatori,  Pier  da 
Medicina  avrebbe  suscitato  discordie  tra  i  nobili  di  Bologna,  nel 
contado,  tra  i  cittadini  e  quei  del  contado,  tra  i  signorotti  di 
Romagna,  tra  Bologna  e  Firenze,  e  chi  più  n'ha  più  ne  metta. 

Ora  si  capisce  che  in  tutto  ciò  ci  deve  essere  molta  esagera- 
zione ;  ma,  a  ogni  modo,  mi  pare  se  ne  possa  dedurre  che  Pier 
da  Medicina  si  piacque  di  tenere  discordi  i  signori  di  Romagna 
e  delle  Marche. 

Un  erudito  marchigiano,  Camillo  Pace,  credette  di  identificarlo 
con  quel  Pier  da  Medicina  dei  Biancucci  che,  col  titolo  di  Cat- 
taui, tennero,  nel  secolo  XIII,  la  signoria  di  Medicina.  Costui  fu 
nel  1235  giudice  generale  della  Marca,  e  nel  1250  fu  podestà  a 


(1)  Comentum  super  Dantis  Comoediam,  Firenze,  Barbèra,  1887,  voi.  II, 
pp.  363-64. 

(2)  Commento  sopra  la  Divina  Commedia,  ed.  da  Crescentino  Giannini, 
Pisa,  Nistri,  1858,  voi.  I,  p.  725. 


10  G.    ZACOAGNINI 

Castelfìcardo  (ora  Castelfìdardo)  ;  ma,  quando  un  ministro  di  Fe- 
derico II  volle  restituite  all'impero  le  terre  di  Romagna  occu- 
pate dai  legati  pontifici,  egli  fu  spogliato  di  tutti  i  suoi  averi  e 
onori  (1). 

Nulla  avremmo  da  obiettare  a  questa  identificazione  sostenuta 
dal  Pace,  se  si  potesse  con  i  documenti  provare  che  questo  Pier 
da  Medicina,  giudice  generale  della  Marca,  visse  fin  verso  gli 
ultimi  decenni  del  secolo  XIII,  perché  è  indubitato  per  le  parole 
stesse  di  Dante  che  il  Pier  da  Medicina  dantesco  fu  di  persona 
conosciuto  dal  Poeta. 

Il  modo  con  cui  l'Alighieri  lo  presenta,  non  lascia  alcun  dubbio 
intorno  a  ciò  : 

Un  altro,  che  forata  avea  la  gola 

e  tronco  il  naso  infin  sotto  le  ciglia, 

e  non  aveva  ma'  che  un'orecchia  sola, 
restato  a  riguardar  per  maraviglia 

con  gli  altri,  innanzi  agli  altri  apri  la  canna 

ch'era  di  fuor  d'ogni  parte  vermiglia; 
e  disse:  Tu,  cui  colpa  non  condanna, 

e  cui  io  vidi  su  in  terra  latina, 

se  troppa  simiglianza  non  m'inganna, 
rimembriti  di  Pier  da  Medicina  (2). 

Ora  un  documento  del  1271,  quando  è  assolutamente  impos- 
sibile che  Dante  di  soli  sei  anni  avesse  conosciuto  il  Bolognese 
seminatore  di  scandali,  ci  dà  notizia  d'un  «  Petrus  quondam 
«  Ayni  de  Medicina,  nepos  quondam  domini  Petri  de  Medi- 
«  Cina  »,  ricordato,  insieme  con  un  suo  cugino  Sette,  e,  si  noti 
bene,  entrambi,  oltre  che  col  nome  del  padre,  sono  designati  in 
un  modo  non  certo  frequente  negli  atti  notarili,  come  nipoti  di 
Pier  da  Medicina.  Anche  in  altri  documenti  questi  due  cugini 
sono  sempre  detti  nipoti  di  Pier  da  Medicina  (3). 


(1)  Biv.  abruzzese,  an.  XV,  fasce.  XVIII -IX  dell'agosto-settembre  1900, 
pp.  364  e  segg. 

(2)  Inferno,  XXVHI,  64-73. 

(3)  R.  Archivio  .di  Stato  di  Bologna,  Memoriale  del  1273  di  Iacopino  di 


PERSONAGGI    DANTESCHI    IN    BOLOGNA  11 

Ognuno  che  abbia  pratica  di  atti  notarili,  sa  che  soltanto  quando 
si  trattava  di  personaggi  veramente  illustri,  il  notare  ricordava 
il  nome  dell'avo,  tralasciando  quello  del  padre.  Ora  in  uno  di 
questi  documenti  è  ricordato  un  «  Petrus  nepos  domini  Petri  de 
Medicina  »,  appunto  senza  il  nome  del  padre  (1). 

Nel  documento  del  1271  si  parla  di  rappresaglie  concesse  a 
Pier  da  Medicina  sopra  i  cittadini  di  parecchie  città  e  castelli 
delle  Marche,  dalle  quali  costoro  furono  esonerati  in  quell'anno. 
Queste  rappresaglie  erano  state  concesse,  dopo  la  morte  di  lui, 
ai  suoi  discendenti. 

Il  Pier  da  Medicina  senior,  cosi  illustre  da  aver  lasciato  fama 
di  singolare  autorità  tra  i  suoi  concittadini  e  che  ebbe  ragioni 
di  odio  con  i  Marchigiani  tanto  da  avere  avuto  su  di  loro,  pro- 
babilmente dalla  Chiesa,  diritto  di  rappresaglia,  chi  può  essere 
se  non  Pier  da  Medicina,  giudice  generale  della  Marca  nel  1235 
e  spodestato  dal  ministro  di  Federico  II  nel  1250? 

Ecco  qui  nella  sua  integrità  il  documento  : 


Dominus  Peregrinus  de  Garixindis  vice  et  nomine 
omnium  et  singulorum  canpsorum,  merchatonim  et 
aliarum  quarumlibet  personarum  de  infrascriptis  terris 
Marchie  Anconitane  seu  Guarnerij,  videlicet 

de  civitate  Firmana  -  Civita  nova  -  Racha- 
nati  -  Humane  -  Ausimi  -  Hesi  -  Hesculi  -  Opphide 

-  Urbini    -  Phori  Semphronii    -  Pasauri    -  Phani 

-  Senagalie   -  Fabriani   -  Sancti  Benedicti  -  Sancti 
Sevrini   -  Cinguli   -  Macerate   -  Montis  Rubiani 


promisenint  venturos 
bine  ad  X  annos  proii- 
mos  ad  civitatem  Bo- 
nonie  ad  hospitandum 
eius  hospitio  ex  una 
parte  et  dominus  Septe 
filias  quondam  domini 
Capitanei  et  Petrus 
quondam  Ayni,  nepo- 
tes  quondam  domini 
Petri  de  Medicina  patris  dictorum  patrum  suorum,  ex  altera  super  represaliis 
et  bannis  concessis  prò  comune  Bononie   condam  dicto  domino  Petro  eorum 


Baiando,  e.  165  :  Petrizzolo  di   Lambertino  Si  Medicina   e    Prinzivalle    suo 
fìgUo  «  vendiderunt  iure  proprio  et  Septi  quondam  domini  Capitanei  domini 
«  Petri  de    Medicina    et  Petri   quondam  Aymi    dicti    domini   Petri    unam 
«  domum ...  ». 
(1)  Ivi,  Memoriale  del  1271    di  Guglielmo   di  Pietro   Onesti,  e.  94^. 


12  G.    ZACCAGNINI 

avo  contra  homines  et  communia  dictarum  terramm  ad  tale  pactum  et  con- 
cordiam  invicem  devenerunt,  videlicet  quod  dictus  dominus  Peregrinus  pro- 
misit  supradictis  Septe  et  Petro  se  facturum  bona  fide  quod  quilibet  tam 
canpsorura  quam  merchatorum  quam  alia  quelibet  persona  de  dictis  terris 
qui  veniet  Bononiam  ad  hospitandum  in  eius  hospicio  dabit  et  solvet  dictis 
Septe  et  Petro  vel  quibus  comiserint  deeera  solidos  prò  qualibet  soma  pan- 
norum  ultramontanorum,  quam  conducerint  in  civitatem  vel  per  civitatem  vel 
discrictum  Bononie  vel  exstraxerint  de  ipsa  civitate  vel  districtu.  Item  prò 
qualibet  soma  pannorum  vel  aliarum  rerum  undecunque  sint  quinque  solidos 
bononinorum.  Item  prò  qualibet  testa  hominis  tres  solidos  bononinorum.  Et 
hoc  ideo  quod  dicti  Septes  et  Petrus  promiserunt,  concesserunt  et  dederunt 
dicto  domino  Peregrino  stipulanti  vice  et  nomine  omnium  et  singulorum 
campsorum  et  merchatorum  et  aliarum  quarunlibet  personarum  de  dictis  terris 
venturarum  ad  civitatem  Bononie  ad  hospitandum  in  eius  hospitio  hinc  ad 
dictum  terminum  plenam  fidanciam  et  liberam  securitatem  secure  standi  et 
veniendi  in  civitatem  Bononie  et  eius  comitatum  et  districtum  cum  personis 
et  rebus  merchadandiis  eorum  in  eundo  et  redeundo  cum  aliis  pactis  et  con- 
ditionibus  ininitis  (sic)  inter  eos.  Ex  istrumento  Johannis  Bonandree  not.  facto 
hodie  in  hospitio  dicti  domini  Peregrini  {Seguono  i  testi). 

Come  si  vede,  Pier  da  Medicina  senior  era  già  morto  nel  1271, 
dunque  bisogna  necessariamente  respingere  l'asserzione  del 
Pace  che  sia  costui  il  personaggio  dantesco  (1),  poiché  non  potè 
essere  conosciuto  da  Dante.  D'altra  parte,  nei  Memoriali  degli 


(1)  Ero  venuto  già  a  questa  conclusione,  quando  ho  veduto  un  articolo  di 
Gioacchino  Brognoligo,  Un  nuovo  testo  poetico  volgare  del  Dugento,  nella 
Bibl.  delle  scuole  italiane,  IX,  in  cui  si  combatte  per  altra  via  l'opinione 
del  Pace.  Si  osserva  che  il  Gozzadini  (.Delle  torri  gentilizie  di  Bologna, 
p.  .374)  ricorda  due  bolognesi  che  ebbero  il  nome  di  Pier  da  Medicina  nella 
casa  dei  Biancucci,  uno  che  fu  podestà  a  Castelfì dardo  nel  1250  e  col  figliuolo 
Villano  fu  fatto  prigioniero  da  un  ufficiale  di  Federico  II,  e  un  altro  Piero 
di  Piero  da  Medicina  che  crede  il  dantesco.  Il  Casini  nel  suo  Comm.  alla 
Divina  Commedia  confuse  le  due  persone  e  il  Pace  ne  ripetè  l'errore.  Secondo 
il  Brognoligo  il  primo  dei  due  Pieri  ricordati  dal  Gozzadini  può  essere  una 
stessa  persona  col  giudice  della  Marca  del  123.5,  ma  non  può  credere  che 
dopo  avere  in  quell'anno  esercitato  un  pubblico  ufficio  al  seguito  del  cardinal 
rettore,  ne  esercitasse  un  altro  nel  1250  nella  Marca  al  seguito  d'un  altro 
cardinale.  Quindi,  conclude,  per  questi  ed  altri  argomenti,  che  il  dantesco 


PERSONAGGI   DANTESCHI    IN    BOLOGNA  13 

ultimi  decenni  del  secolo  XIII,  non  troviamo  ricordo  di  altri 
Pier  da  Medicina,  tranne  che  di  questo  nipote  del  vecchio  giu- 
dice della  Marca,  quindi  nulla  ci  vieta  di  ritenere  che  sia  proprio 
costui  il  dantesco. 

Se  ne  ha  notizia  in  parecchi  altri  documenti:  in  uno  dello 
stesso  anno  1271  (1),  in  un  altro  del  9  marzo  1272  (2)  e  in  un 
altro  ancora  dell'I  1  marzo  del  medesimo  anno  (3).  Riappare  in- 
fine il  suo  nome  anche  in  un  documento  del  1277  (4). 

Dopo  per  vari  anni  non  trovo  più  il  suo  nome  negli  atti,  e 
questo  potrebbe  confermare  l'affermazione  dell'autore  delle  Chiose 
anonime  edite  dal  Selmi,  che  per  le  sue  male  arti  fosse  cacciato 
in  esilio  dai  Bolognesi. 

È  certo  che  non  in  Medicina,  da  cui  probabilmente  trassero 
il  nome,  dimorarono  i  Biancucci,  ma  ebbero  case  e  palazzo  in 
Bologna  :  in  più  d'un  documento  si  dice  che  degli  atti  furono 
rogati  «  in  porticu  domus  domini  Petri  de  Medicina  »  (5). 

Pare  che  avessero  stretta  parentela  con  le  più  nobili  e  grandi 
famiglie  della  Romagna,  se  un  documento  del  1269  ci  parla  d'una 
«  domina  Adelaxia,  uxor  quondam  domini  Guidonis  de  Medicina 
«  et  Alia  quondam  domini  Lamberti  Guidonis  de  Polenta  »  (6). 

Questa  parentela  potrebbe  diffondere  qualche  luce  fra  le  te- 
nebre che  avvolgono  la  figura  di  Pier  da  Medicina,  ci  farebbe 


fu  figlio  di  Piero,  vittima  nel  1250  del  maniscalco  di  Federico  II.  Come  si 
vede,  si  avvicina  assai  a  quello  che  noi  crediamo  il  vero,  sebbene  a  noi  sembri 
che  ben  possa  essere  la  stessa  persona  il  Pier  da  Medicina  del  1235  e  quello 
del  1250. 

(1)  E.  Archivio  di  Stato  di  Bologna,  3femoniaZe  di  Amadore  di  Guglielmo 
d'Albertino,  e.  33  t. 

(2)  Ivi,  Memoriale  di  Spagnolo  di  Guido  Spagnoli,  e.  126^:  «  Dominus 
«  Petrus  domini  Ani  {sic)  filij  domini  Petri  de  Medicina  promisit  solvere  do- 
«  mino  Prin9ivalli  domini  Petrifoli  de  Medicina  triginta  sex  libras  et  decem 
«  solidos  bononinorum  hinc  ad  sex  menses  ex  causa  mutui  ». 

(3)  Ivi,  e.  127  :  vende  allo  stesso  Prinzivallift  una  casa. 

(4)  Memoriale  del  1227  di  Luciano  d'Useppo,  c.l9t. 

(5)  Nel  documento  cit.  del  1271  e  in  un  altro  del  1270  {Memoriale  di 
Martino  delV Agnella,  e.  63). 

(6)  Memoriale  del  1269  di  Tommaso  d'Alberto  Fabbro,  e.  48  t 


14  G.    ZACOAGNINI 

credere  che  non  del  tutto  fantastico  fosse  il  racconto  che  Benve- 
nuto da  Imola  fa  intorno  ai  suoi  maneggi  nelle  corti  di  Ravenna 
e  di  Rimini. 

Sopra  il  nome  d'un  suo  parente,  Petrizzolo  di  Lambertino  da 
Medicina,  che  in  forma  assai  dubitativa  il  Torraca  crede  poter 
essere  il  dantesco  (1),  penso  invece  che  non  si  possa  ragione- 
volmente insistere.  È  vero  che  di  lui  si  trova  memoria  anche 
in  atti  del  1290,  ed  è  vero  che  dal  1265  fino  a  questo  anno  lo 
troviamo  assai  spesso  nei  Memoriali;  ma  è  quasi  sempre  ricor- 
dato in  affari  di  cambio  e  di  prestiti,  sicché  dobbiamo  ritenere 
che  si  fosse  dato  al  commercio.  Non  ci  pare  che  fosse  mai  salito 
in  tale  autorità  e  potenza  da  aver  avuto  strette  e  speciali  rela- 
zioni con  i  signori  della  Romagna  e  delle  Marche.  Inoltre  in 
qualche  documento  è  designato,  insieme  con  altri,  come  «  mer- 
«  chator  »  (2). 

Credo  adunque  che,  dimostrata  insussistente  l'identificazione 
del  personaggio  dantesco  col  Pier  da  Medicina,  giudice  della 
Marca,  si  debba  per  l'età  in  cui  visse,  per  la  sua  lunga  assenza 
da  Bologila  dal  1277  in  poi,  e  per  le  relazioni  che  ebbe  con  i 
mercanti  delle  Marche,  ritenere  che  proprio  Piero  di  Aimo  di 
Pier  da  Medicina  sia  l'odioso  seminatore  di  discordie  che  un  de- 
monio ferisce  di  spada  nella  nona  bolgia  dell'Inferno. 


Frate  Alberigo  Manfredi. 

È  rimasta  avvolta  nel  mistero  la  causa  che  mosse  Manfredi, 
il  cugino  di  frate  Alberigo,  a  dargli  il  grande  schiaffo,  di  cui 
l'onta  e  il  dolore  mossero  il  frate  gaudente  alla  feroce  strage 
del  2  maggio  1285. 

Un  documento  da  noi  rinvenuto  nei  Memoriali  bolognesi  ci 
mette  sulle  tracce  del  vero  motivo  di  tanta  contesa. 


(1)  Commento  cit.,  p.  232. 

(2)  Memoriale  del  1279  di  Leonardo  di  Guerzino,  e.  5. 


PERSONAGGI    DANTESCHI    IN    BOLOGNA  15 

I  commentatori  antichi,  al  solito,  dicono  assai  poco,  ma  quel 
poco  è  sufficiente,  con  la  scorta  dei  documenti,  a  guidarci  nella 
difficile  ricerca. 

Iacopo  della  Lana,  che,  come  bolognese,  potè  essere  bene  in- 
formato sui  fatti  di  Faenza,  non  lontana  da  Bologna,  la  cui  vita  fu 
in  quel  tempo  strettamente  legata  a  quella,  dice  che  lo  schiaffo  fu 
dato  da  Manfredi  a  frate  Alberico  per  ragioni  d'interesse.  Ben- 
venuto da  Imola  asserisce  invece:  «Accidit  autem  quod  in 
«  MCCLXXXVI  (1)  Manfredus  iuvenis  animosus,  cupiditate  re- 
«  gnandi,  struxit  insidias  fratri  Alberico  :  et  cum  devenissent  ad 
«  graves  contentiones  verborum,  Manfredus,  ductus  impetu  irae, 
«  dedit  fratri  alapam  magnam  »  (2). 

Ora,  prima  d'addentrarci  nella  questione,  vediamo  un  poco 
quale  fosse  il  grado  di  parentela  fra  i  due,  perché  si  scorga 
meglio  quali  potessero  essere  queste  «  ragioni  d'interesse  ». 

Francesco,  frate  Alberico  e  Manfredi  erano  figli  rispettiva- 
mente dei  fratelli  Alberghetto,  Ugolino  ed  Enrico,  nati  alla  loro 
volta  da  un  Alberico,  dei  quali  il  primo  mori  nel  1275,  e  l'ul- 
timo fu  ucciso  nel  1257  (3). 

Premesso  ciò,  vediamo  ora  il  documento: 

Dominus  Manfredus  quondam  domini  Henrici  de  Manfredis  de  Faventia 
per  se  suosque  filios  et  heredes  fecit  confessionem  ad  instanciam  et  interro- 
gationem  domini  fratris  AlberÌ9Ì,  fìlii  quondam  domini  Ugolini  Bugole  de 
Manfredis  ordinis  mihcie  Beate  Marie  Virginis  de  Faventia,  tutoris  Francisci, 
filii  quondam  domini  Albergipti  quondam  domini  Albergipti  de  Manfredis  de 
Faventia,  se  habere  in  eius  custodia  et  guardia  et  penes  se  castrum  Gipsi  et 
burgum  ipsius,  quod  est  situm  in  diocesi  Faventie  in  plebatu  plebis  Octavi, 


(1)  Poiché  la  celebre  strage  avvenne  nel  1285,  bisogna  ritenere  che  qui  ci 
sia  un  errore  di  data.  Deve  forse  leggersi  :  *  MCCLXXXII  »  ? 

(2)  Op.  cit,  m,  p.  539.  • 

(3)  A.  Messeri,  Bermtrdino  Azzurrini  Chronica  hrevwra,  I,  nella  ristampa 
dei  BIS.  del  Muratori,  fase.  3°  del  t.  XXYHI,  P.  lU,  p.  124.  Vedi  anche  VAl- 
bero  genealogico  de'  Manfredi  compilato  dal  Messeri  in  fondo  al  voi.  A.  Mes- 
seri ed  A.  Calzi,  Faenza  nella  storia  e  neìVarte,  Faenza,  E.  Dal  Pozzo,  1909. 


16  G.    ZAOCAGNINI 

quod  est  comune  prò  indiviso  tam  ipsius  Francisci  quam  ipsius  domini  Man- 
fredi, confines  cuius  sunt  hii:  ab  uno  latere  curia  Kontane,  ab  alio  curia 
plebis  Octavi,  quod  quidem  castrum,  ut  dictum  est,  penes  se  habere  confessus 
est  cum  domibus  et  liedificiis  et  apparatibus  ad  defensionem  ipsius,  scilicet 
unam  balistram  a  tuiio  et  unam  a  leva  et  duas  asta(s),  que  sunt  ipsius 
Francisci  et  ideo  promisit  dicto  Turdo  (sic)  reddere  et  restituere  eidem  aut 
cui  mandaverit  dictum  castrum  et  burgum  cum  omnibus  apparatibus  supra- 
dictis,  in  eo  statu  ut  nunc  est,  vel  meliori,  si  petierit,  et  insuper  domini  Ri- 
9ardus  de  Primadiciis  et  dominus  Bonifacius  domini  Lambertini  de  Samari- 
tanis,  Guillielmus  quondam  domini  Ugutionis  de  Samaritanis,  dominus  Jacobus 
de  Cambraxe,  Bonagratia  Gerardi  de  Monte  Nerio  de  Bononia,  Thomaxinus 
de  Ansaltis,  Guido  quondam  Robacastelli,  Bastianus  fratris  Guarnerii  et  Gui- 
ducius  Barufaldi  et  Suxaltinus  de  Calcagnolis  de  Faventia  prò  ipso  fuerunt 
fìdeiussores  dicti  Manfredi.  Ex  istrumento  Alberti  quondam  Nigri  notarii  facto 
hodie  in  domo  Francisci  de  Cervis,  presentibus  domino  Bencevene  Megliorati 
not.  de  Faventia,  domino  Benincasa  Amatoli  not.  de  Faventia  et  eius  filio, 
domino  Nicholao  fratris  Guidonis  Episcopi  et  Ferarino  serviente  dicti  Fran- 
cisci et  sic  dicti  contrabentes  scribere  fecerunt.  —  Die  Sabbati  x  intrante 
aprili  (1). 

Da  questo  documento  si  ricava  che,  morto  a  Francesco  il  padre 
Alberghetto  nel  1274,  il  cugino  suo  frate  Alberigo  ne  assunse  la 
tutela  e  impose  all'altro  cugino  Manfredi  di  riconoscere  con  atto 
notarile  che  teneva  «  in  eius  custodia  et  guardia  et  penes  se 
«  castrum  Gipsi  et  burgum  ipsius  in  comune  et  prò  indiviso  » 
col  suo  pupillo  Francesco. 

Ora  Benvenuto  da  Imola  ci  fa  sapere  che,  poco  dopo  la  morte 
del  padre  di  Francesco,  Manfredi  «  struxit  insidias  »  a  frate  Al- 
berigo, e,-  in  un  fiero  alterco,  preso  dall'ira  gli  lasciò  andare  uno 
schiaffo.  È  certo  dunque  che  allora  frate  Alberigo  aveva  già  la 
tutela  di  Francesco  :  astuto  e  avido  com'era,  probabilmente  fin- 
gendo di  tutelare  soltanto  gl'interessi  del  cugino  minorenne, 
cercò  d'ostacolare,  a  suo  profitto,  la  potenza  e  la  ricchezza  cre- 
scente del  cugino  Manfredi. 


(1)  Memoriale  del  1277  di  Biagio  di  Martino  de*  Martinolli,  e.  67. 


PERSONAGGI    DANTESCHI    IN    BOLOGNA  17 

Quali  altri  potrebbero  essere  stati  «  gl'interessi  »  che  fecero 
scoppiare  la  lite  fra  i  due  e  di  cui  parla  l'antico  commentatore, 
se  non  questi? 

È  vero  che  Benvenuto  da  Imola  dice  solo  che  Manfredi  avrebbe 
schiaffeggiato  il  cugino  «  cupiditate  regnandi  »  (1),  il  che  farebbe 
pensare  veramente  a  qualchecosa  di  diverso;  ma,  se  ben  si  ri- 
flette, i  due  motivi  si  riducono  in  sostanza  ad  uno  solo.  Questa 
cupidigia  di  regnare  può  intendersi  che  fosse  l'avidità  d'impa- 
dronirsi de'  beni  e  dei  castelli  che  erano  stati  lasciati  da  Al- 
berghetto  al  figlio  Francesco,  come  appunto  fa  supporre  il  sur- 
riferito documento. 

In  conclusione,  quel  che  dice  Benvenuto  non  infirma,  ma  con- 
ferma la  nostra  ipotesi. 

Ma  v'è  qualche  altro  argomento  non  meno  valido  che  fa  si 
che  l'ipotesi  si  cangi  in  certezza  quasi  assoluta.  Un  antico  e 
autorevolissimo  cronista  faentino,  il  Cantinelli,  che  ci  racconta 
con  ricchezza  di  particolari  la  terribile  strage  del  2  maggio  1285, 
dice  :  «  Dicto  anno,  die  Mercurii  secundo  intrante  madio,  occisus 
«  fuit  gladio  Manfredus  de  Manfredis  et  Albergittus  eius  filius 
«  cum  eo  similiter  ;  et  ipsos  occiderunt  Franciscus  filius  condam 
«  Albergitti  de  Manfredis  et  Ugolinus  filius  fratris  Alberici  de 
«  Manfredis  in  presentia  dicti  fratris  Alberici  in  castro  Segate 
«  subtus  Faventiam,  in  prandio  quod  ibidem  faciebant  in  domo 
«  et  castro  dicti  Francisci...  et  ad  eos  occidendos  fuit  Surrucius 
«  de  Petrella  et  alii  VI  cum  eis,  qui  omnes,  occasione  dictorum 
«  homicidiorum,  exbanniti  fuerunt  »  (2). 

Se  l'uccisione  avvenne  in  una  villa  di  Francesco,  forse  da 
poco  tempo  uscito  dalla  tutela  di  frate  Alberigo,  ed  è  proprio 
Francesco  uno  degli  assassini  in  presenza  del  terribile  frate,. 


(1)  Anche  il  Mittarelli  {Chronicon  ex  acc^sionibus  B.  Azzurrini,  p.  323) 
dice  che  l'odio  nacque  «  propter  alapam  datam  a  domino  Alberghetto  dicto 
«  fratri  Alberico,  cupiditate  dominii  ».  Come  si  vede,  secondo  il  Mittarelli  lo 
schiaffo  sarebbe    stato    dato   da  Alberghetto,  ma  è  da  credersi  a  Benvenuto. 

(2)  Cantinelli,  Chronicon,  ed.  Torraca,  p.  54. 

Giornale  storico,  LXIV,  fase.  190-191.  2 


'^^ 


18  G.    ZACOAGNINI 


perché  non  pensare  che  la  difesa  dei  proprii  interessi  lesi  o  mi-i 
nacciati  da  Manfredi  avesse  armata  la  mano  omicida  di  Fran- 
cesco, istigato  dalle  parole  riboccanti  d'odio  di  frate  Alberigo? 
Cosi  la  lite  incominciata  già  nel  1277  ebbe  il  suo  triste  epilogo 
il  2  maggio  1285. 

Altri  possessi  aveva  Francesco  ad  Argenta,  a  Ferrara  e  a 
Pozzo  Maggiore,  e  chi  sa  forse  che  anche  per  questi  non  si 
siano  accese  fra  i  cugini  gravi  discordie.  Infatti  un  docu- 
mento del  1278  ci  fa  vedere  frate  Alberigo  inteso  a  curare  gli 
interessi  del  pupillo  e  in  lotta  con  altri  Faentini  appunto  per  i 
beni  lasciati  da  Alberghetto  al  figlio  suo.  Il  documento  non  meno 
interessante  dell'altro  ci  pare  qui  utile  riferire: 

Dominus  frater  Albericus  de  Manfredis  de  Faventia  ordiiiis  militie  beate 
Marie  Virginis,  tutor  Francisci,  filli  quondam  domini  Albergipti  de  Manfredis, 
cum  auctoritate  domini  Jacobi  quondam  Octo  domini  Jacobi  Herbonati  iu- 
dicis  potestatis  Bononie  fecit,  constituit  Guidonem  quondam  Episcopi  de  Fa- 
ventia suum  actorem  in  causis  quas  predictus  pupillus  habet  cum  heredibus 
Martinelli  de  Verola  de  Faventia  et  generaliter  cum  quibus  et  omnibus  per- 
sonis  de  Potio  Malori  et  plebatu  ipsius  et  de  Argenta  et  eius  curia  et  de  Fe- 
raria  et  eius  districtu  ed  ad  fructus  et  possessiones  eius  pupilli  dictorum  lo- 
corum  procurandos.  Ex  istrumento  domini  Beninchase  Amatoli  de  Faventia 
not.  facto  ho.die  in  porticu  superiori  palatii  novi.  —  Die  quartodecimo  exeunte 
madio  (1). 

Fra  il  padre  di  Francesco  e  frate  Alberigo  era  stata  comu- 
nanza d'interessi  pare  fino  dal  1271,  come  ci  fa  comprendere  un 
altro  documento  del  settembre  di  quell'anno,  in  cui  frate  Albe- 
rigo «  suo  nomine  et  nomine  domini  Albergipti  quondam  domini 
«  Albergipti  de  Manfredis  »  da  una  parte,  e  dall'altra  due  nobili 
bolognesi.  Spagnolo  di  Bencivenni  d'Abbate  e  Bernardo  delle 
Valli  a  nome  di  Rolando  de'  Grilli,  fanno  un  compromesso  fra 
loro,  rimettendo  in  Castellano  di  Fabbro  de'  Lambertazzi  la  so- 
luzione di  tutte  le  loro  liti  per  i  possessi  «  in  curia  Fabriaghi  » 


(1)  Memoriale  del  1278  di  Jcicopino  di  Pace,  e.  141^. 


PERSONAGGI    DANTESCHI    IN    BOLOGNA  19 

presso  le  terre  dei  conti  di  Conio.  Frate  Alberigo  promette  di 
far  si  che  Alberghetto  accetti  il  lodo  che  in  tale  vertenza  avrebbe 
dato  Castellano  (1). 

Frate  Alberigo  adunque,  stretto  in  comunanza  d'interessi  con 
Alberghetto  fino  dal  1271,  alla  morte  di  questo  avvenuta  nel  1275, 
assume  la  tutela  di  Francesco,  figlio  del  defunto,  ne  difende  i 
diritti  contro  la  cupidigia  del  cugino  Manfredi  con  tanto  calore 
da  essere  atrocemente  oflbso  e  schiaffeggiato.  Tace  il  frate  per 
lungo  tempo,  e  cova  nel  chiuso  cuore  il  rancore,  finché  il  con- 
cepito odio  scoppia  in  tremenda  vendetta  il  2  maggio  1285  nella 
casa  e  per  mano  del  pupillo  di  cui  con  tanto  zelo  aveva  difeso 
gl'interessi. 


(1)  «  Dominus  frater  Albericus  de  Manfredis  de  Fa- 
«  ventia  ordinis  railitie  Beate  Marie  suo  nomine  et 
«  nomine  domini  Alber^pti  quondam  domini  Alber- 
«  gipti  de  Manfredis  ex  una  parte,  dominus  Spagnolus 
«  quondam  Bencevenis  Abbatis,  doctoris  legum,  eman- 
«  cipatus  ex  istrumento  Thomaxini  Armanini  not., 
«  dominus  Bernardus  de  Vallibus  not.  eorum  nomine 
«  et  vice  et  nomine  domini  Rolandi  de  Grillis 


ex  alia  de  Htibus  om- 
nibus que  vertuntur 
inter  eos  spetialiter 
occasione  possessionum 
et  poderis  positorum 
seu  positi  in  curia  Fa- 
briaghi  iuxta  dominos 
comites  de  Cunio  et 
possessores  confinicios 
«  vel  si  quis  alius  fuit  confinis  compromiserunt  in  dominum  Castellanum  quon- 
«  dam  domini  Fabri  de  Lambertaciis  presentem  tanquam  in  arbitratorem  et 
«  eorum  araicum.  Et  dictus  frater  Albericus  promisit  se  facturum  quod  dietus 
«  dominus  Albergiptus  attendet  dictum  compromissum  et  laudum  unum  vel 
«  phira  dicti  domini  Castellani  et  dictus  dominus  Spagnolus  et  dominus  Ber- 
«  nardus  promiserunt  se  facturos  quod  dictus  dominus  Eolandus  de  Grillis 
«  attendet  dictum  compromissum  et  laudum  unum  vel  plura  dicti  domini 
«  Castellani.  Ex  istrumento  scripto  manu  domini  Bonaventure  de  Primarola 
«  not.  hodie  facto  in  domo  dicti  domini  Castellani,  presentibus  domino  LTgohno 
«  de  Medicina  iud.,  domino  Benencasa  Amatoli  not.  de  Faventia,  domino 
«  Prendiparte  de  Atticomitibus,  domino  Saleso  domini  Bonanni  Calcolarli  de 
«  Castello,  domino  Boniohanne  Gerardi  Ungarelli,  fratre  Amidilixio  de  Ba- 
«  gnacavallo  dicti  ordinis  militie  et  domino  Johannino  de  Ocano  not.  testibus 
«  et  sic  scribere  fecerunt  diete  partes  una  cuna  dicto  domino  Castellano.  Die 
«  quartodecimo  exeunte  septembri  »  {Memoriale  di  Giovanni  di  Bernardino 
da  Ozzano,  e.  173  <.). 


20  G.    ZA.CCAGNINI 

Oderisi  da  Gubbio. 

È  noto  che  il  miniatore  famoso: 

L'onor  d'Agobbio,  e  l'onor  di  quell'arte 
che  alluminare  chiamata  è  in  Parisi  (1), 

durò  a  lungo  a  esercitare  l'arte  sua  in  Bologna,  fino  al  1295, 
■quando  si  recò  a  Roma. 

Dai  Memoriali  bolognesi  si  era  saputo  che  Oderisi  di  Guido 
da  Gubbio  era  intento  a  far  rider  le  carte  di  mirabili  miniature 
fino  dal  1268  ;  era  stato  sorpreso  dalla  pazienza  degli  eruditi  ad 
alluminare  nel  1271  un  ricco  volume  di  chiesa  per  Azzone  de' 
Lambertazzi. 

Un  altro  documento  dell'agosto  1269  ce  lo  fa  vedere  in  rela- 
zione con  uno  straniero  che  aveva  bisogno  d'avere,  probabil- 
mente per  uso  di  scuola  nello  Studio  bolognese,  un  Digesto  nuovo. 
Oderisi,  insieme  con  un  altro,  si  fa  garante  che  il  codice  sarà 
trascritto  per  la  somma  convenuta  (2). 

È  poca  cosa;  ma  in  tanta  scarsità  di  notizie  intorno  al  mi- 
niatore famoso  anche  questa  notiziola  non  sarà  del  tutto  inutile. 

Griffolino  d'Arezzo. 

Tra  i  falsari  della  decima  bolgia,  tormentati  da  fastidiosissimi 
vermi  e  coperti  di  scabbia,  è  Griffolino  d'Arezzo: 


(1)  Purgatorio,  XI,  80-81. 

promiserunt  se  facturos  et  cura- 
turos  quod  Dominicus  Michaelis 
scribet  et  glosabit  digestum  novum 


(2)  «  Magister  Oderisius  filius  Guidonis 
Paulus,  filius  Jacobini  Advocati 


«  de  aparatu  domini  Accursii  domino  Henrico  canonico  Sancti  Tome  argento- 
«  nensi  prò  pretio  xxu  solidorum  bononinorum  prò  quolibet  quaterno.  Ex 
«  istrumento  manu  Jacobi  Tebaldi  not.  eri  facto  in  domo  Manscotoruni,  pre- 
«  sentibus  magistro  Agliano  scriptore,  domino  Tedericho  Luseste,  domino  Eo- 
«  dulfo  de  Suffeni  testibus,  et  sic  scribi  fecerunt  contrahentes.  Die  Veneris 
€  xvj  agusti  »  {Memoriale  del  1269,  voi.  7,  2®  not.,  e.  15). 


PERSONAGGI    DANTESCHI    IN    BOLOGNA  21 

Qual  sopra  il  ventre,  e  qual  sopra  le  spalle 
l'un  dell'altro  giaceva,  e  qual  carpone 
si  trasmutava  per  lo  triste  calle  (1). 

Vi  sono  due  alchimisti,  Griffolino  d'Arezzo,  che  il  vescovo  di 
Siena  fece  ardere,  perché  non  volle  insegnare  a  volare  a  un 
certo  Albero  senese,  che,  secondo  i  commentatori,  pare  fosse 
figlio  a  quel  vescovo,  e  secondo  noi  invece,  doveva  essere  sol- 
tanto caro  a  quel  prelato  (2),  e  il  fiorentino  Capocchio,  che, 
gonfio  per  enorme  idropisia,  giace  appoggiato  con  le  spalle 
all'Aretino.  Presso  a  loro  si  lamenta  dolorosamente  maestro 
Adamo,  che  sul  rogo  scontò  la  colpa  d'aver  falsato  il  fiorino  di 
Firenze. 

Ma  chi  era  Griffolino  ? 

Dai  commentatori  poco  o  nulla  c'è  dato  ricavare.  Fino  ad  ora 
si  sapeva  che  era  ascritto  alla  Società  dei  Toschi  in  Bologna 
nel  1259,  ma  si  era  invano  disputato  intorno  al  tempo  in  cui 
sarebbe  avvenuto  il  supplizio  dell'infelice  alchimista. 

Si  era  detto  che  il  fatto  dovette  essere  avvenuto  ai  tempi  di 
Bonfiglio,  il  quale  fu  vescovo  di  Siena  dal  1216  al  1252,  perché 
quel  vescovo  fu  un  fiero  persecutore  di  eresie,  e  i  commenta- 
tori antichi  dicono  che  fece  ardere  l'alchimista  d'Arezzo  come 
paterino  (3).  Ma  a  questa  asserzione  degli  eruditi  senesi  si  op- 
pone il  fatto  che  Griffolino  nel  1259  era  ascritto  alla  Matricola 
dei  Toschi  in  Bologna. 

Un  documento  del  giugno  1272  ci  prova  che  Griffolino  non 
era   allora   più   tra   i   vivi,  perché  apparisce  come  testimone 


(1)  Inferno,  XXIX,  67-69. 

(2)  È  per  me  evidente  che  i  commentatori  antichi  hanno  interpretato  cer- 
velloticamente le  parole  di  Dante:  «  ...mi  f^  |  Ardere  a  tal  che  l'avea  per 
figliuolo»  (vv.  116-117),  asserendo  che  Albero  era  proprio  figlio  del  vescovo; 
Dante  ha  solo  voluto  dire  essere  stato  Albero  siffattamente  caro  al  vescovo 
che  lo  teneva  in  conto  di  figliuolo. 

(3)  Bartolomeo  Acquarone,  Dante  in  Siena,  Siena,  1865,  p.  59. 


22  G.    ZACCAGNINI 

in  un  atto  il  figlio  suo  «  Bernardinus   quondam  Griffolini  de 
*  AriQO  »  (1). 

La  sua  morte  dunque   deve   essere  avvenuta  certamente  fra 
il  1259  e  il  1272. 


Guido  Bonatti. 

Del  famoso  dottore  e  astrologo  forlivese,  vissuto  successiva- 
mente alle  corti  di  Federico  II,  d'Ezzelino  da  Romano,  nella  fa- 
miglia di  Guido  Novello,  quando  nel  1260  venne  a  Firenze,  e 
al  servizio  del  conte  Guido  da  Montefeltro,  abbiamo  qualche 
sicura  notizia,  e  le  cronache  del  tempo  ne  parlano  assai. 

Egli  dimorò  a  lungo  in  Bologna,  come  affermò  il  Sarti  (2),  e 
forse  vi  fu  nel  1278,  se  è  lui  quel  «  magister  Guidone  quondam 
«  Bonati  »  che  nei  Memoriali  appare  testimone  ad  un  atto  del 
15  agosto  di  quell'anno,  e  che  potrebbe  essere  stato  cosi  indicato 
come  maestro  d'astrologia  (3). 

Ma  v'è  di  meglio. 

Un  documento  che  abbiamo  rintracciato  nei  Memoriali  bolo- 
gnesi, ci  assicura  che  era  ancora  vivo  nel  1296  fra  i  più  noti  e 
potenti  cittadini  forlivesi.  Giova  a  comprendere  quale  autorità 
godesse  egli  in  Forlì,  l'osservare  come  sia  ricordato  tra  i  signori 
di  quella  città,  e  a  tal  fine  pubblico  qui  intero  il  documento  : 

Orius,  adultus  fìlius  quondam  domini  Boniohannini  Ysnardi  Pigolpili  de 
capella  Sancte  Marie  Porte  Eavennatis  cum  auctoritate  et  consensu  domini 
Alberti  quondam  domini  Bona9unte  sui  curatoris  ibidem  presentis  ad  infra- 
scripta  specialiter  constituti  in  presentià  domini  Pagani  de  Pairo  iudicis  et 
assessoris   domini  Jacobi    de    Summa  Elva  presentis  potestatis   Bononie,   et 


(1)  Memoriale  di  Guido  di  Spagnolo,  e.  206  t  «  die  martis  vij  intrante 
Junio  ». 

(2)  De  Claris  Archygimna^ii  Bononiensis  professoi'ibus,  voi.  I,  p.  492.  Vedi 
anche  nella  Vita  ed  opere  di  G.  B.  di  B.  Boncompaqni,  Roma,  1851,  p.  23. 

(3)  Memoriale  del  1278  di  Rolando  di  Bernardino  di  Merzario,  e.  24 1. 


PERSONAGGI   DANTESCHI    IN   BOLOGNA  23 

curatorio  iure  more  curatoris  et  prò  dicto  curatore  Thomax  quondam  Ysnardi 
exstitit  fideiussor  et  dictus  iudex  auctoritatus  fuit  dicens:  Exto  curator.  Et 
Gerardettus  et  Petrus  fratres  et  fìlii  quondam  dieti  domini  Boniohannini  ex 
causa  venditionis  ante  solutionem  sibi  factam  dederunt  et  cesserunt  domino 
Albergipto  quondam  domini  Ranbaldini  de  Peppolis  omnia  iura  et  actiones 
reales  et  personales,  utiles  et  directas  et  accessiones  alias  et  que  et  quas  habuit 
vel  habere  potuerat  et  ad  eum  spectabant  ex  hereditaria  successione  heredi- 
tatis  dicti  domini  Boniohannini  eorum  patris  ex  cessione  eidem  Gerardetto 
stipulanti  et  recipienti  prò  dicto  Petro  et  Orio  eius  fratre  facta  ab  Abraam 
fratre  et  herede  filii  quondam  dicti  domini  Boniohannini,  ut  dixerunt  costare 
publico  istrumento  ipsius  cessionis  ex  causa  donationis  scripto  manu  Coradini 
quondam  Bonaventure  de  Armis  notarlo  contra  dominum  Nicholaum  Guidonis 
Tonsi,  iudicem  atque  vicarium  domini  Nicholay  Bayalerii,  potestatis  Forlivii, 
dominum  La^arinum,  iudicem  et  militem  atque  vicarium  domini  Bonifa^ii  de 
Lambertatiis  capitanei  Forlivij,  dominum  Andream  Alexij  civem  Forlivii,  mas- 
sarium  dicti  comunis,  Gerardinum  Paganelli,  Rogerium  Calabroni,  procuratorem 
dicti  comunis,  lohannem  Manthuanum,  syndicum  dicti  comunis,  dominum 
Jacobum  Capucium,  dominum  Jacobum  Vinciguerre,  dominum  Guidonem  Bo- 
NATTi,  dominum  Jacobum  Ymoli,  dominum  Guardi  Moretonum,  dominum 
Aliottum  domine  Bernarde,  dominum  Galvanum  de  Calanchis,  dominum  Ber- 
tholinum  Raynerii  Tuschi,  dominum  Zannem  Calegarium,  dominum  Gerar- 
dinum Scallati,  dominum  Aldovrandinum  Bonacursii,  dominum  Saglimbenem 
Dadoli,  dominum  Jacobum  Segaferri,  dominum  Ubertellum  Ravignani,  do- 
minum Bernardum  Morum,  dominum  Leonardum  Velecli  et  dominum  Jacobum 
Rubeum,  nec  non  etiam  contra  omnes  et  singulas  personas  civitatis  Forlivij  et 
quamlibet  earum  in  solutionis  nomine  et  occasione  centum  librarum  bononi- 
norum  prò  parte  unius  debiti  mille  sexcentarum  triginta  quinque  librarum 
bononinorum,  ad  quas  dictum  comune  et  predicti ...  (omissis)  parte  Abrami 
quondam  domini  Boniohannini  predicti  stipulantis  nomine  et  vice  Manfre- 
dotti  et  Franceschi  suorum  sociorum  in  solutione  ex  causa  mutui  dare  et  sol- 
vere tenebantur,  ut  dixerunt  contineri  publico  istrumento  ipsius  debiti  scripto 
manu  PetrÌ9oli  de  Tettalasinis  notarli  pretio  ipsius  cessionis  centum  librarum 
bononinorum  et  dictus  Orius  adultus  iure  et  more  minorum  et  dictus  iudex 
predictis  omnibus  auctoritatus  fuit  ex  istrumento  cure  et  presentis  cessionis 
scripto  manu  Petri  de  Tettalasinis  notarli  Modie  facto  in  palatio  veteri  co- 
munis Bononie,  presentibus  Afolino  quondam  domini  lacobi  de  Tettalasinis 
propinquo  dicti  adulti  et  contrahentium  cognitore,  ut  asseruit  Bonifatius 
quondam  domini  Bona9unte   de  Savignano  not.,  Inghelerio   Petri  Inghelerij 


24  '  G.    ZACCAGNINI 

not.,  Boninsegna  Gualenghi  de  Massa  et  Pace  Pegolotti  testibus.  —  Die  tri- 
gesimo primo  lanuarij  (1). 

Era  dunque  Guido  Bonatti  ancora  stimato  e  potente  cittadino 
a  Forlì,  quando  era  già  tramontata  da  molto  tempo  la  breve 
signoria  di  Guido  da  Montefeltro  in  quella  città,  e  il  suo  protet- 
tore stava  per  calar  le  vele  e  raccoglier  le  sarte,  e  ritrarsi  nel- 
l'ordine dei  Minori. 

Assai  lungamente  visse  il  celebre  astrologo  forlivese,  se,  nato 
qualche  decennio  prima  del  1233  (2),  era  ancora  tra  i  vivi 
nel  1296  (3). 

Lotto  degli  Agli. 

È  oltremodo  difficile  poter  determinare  chi  veramente  sia  quel 
Fiorentino  innominato  che  Dante  pone  tra  i  suicidi  sulla  fine 
del  canto  XIII  deìVInferno. 

Molti  degli  antichi  commentatori,  e  fra  gli  altri  anche  i  più 
autorevoli  come  il  Bambaglioli,  Jacopo  della  Lana  e  l'Anonimo 
Fiorentino,  dicono  che  fu  il  giurista  Lotto  degli  Agli  ;  disperato 
per  il  dolore  d'un'ingiusta  sentenza  da  lui  data,  si  sarebbe  ucciso. 

Altri,  anch'essi  invero  assai  autorevoli,  come  Benvenuto  da 
Imola  e  l'Ottimo,  dicono  invece  che  il  suicida  fu  Rocco  dei  Mozzi. 
Francesco  da  Buti  rispecchia  ancora  di  più  l'incertezza  degli 
antichi,  mostrandosi  titubante  nella  scelta  fra  Lotto  degli  Agli  e 
Rocco  dei  Mozzi. 

E  anche  noi  non  possiamo  in  alcun  modo  sciogliere  il  difficile 
enigma  ;  ma  frattanto  ci  sia  lecito  dare  qualche  utile  notizia  in- 
torno all'uno  dei  due.  Lotto  degli  Agli. 

I  documenti  dell'Archivio  di  Stato  di  Bologna  ci  fanno  sapere 


(1)  Memoriale  del  1296,  penultimo  not.,  e.  24. 

(2)  ToRRACA,  Nuove  rassegne,  Livorno,  Vigo,  1895,  p.  340. 

(3)  Si   crede   che   vivesse   fino   al   termine  del  secolo.  Vedi  Boniomi'A(ìni, 
Op.  cit.,  pp.  61  e  sgg. 


PERSONAGGI    DANTESCHI    IN    BOLOGNA  25 

che  intorno  al  1271  alcuni  degli  Agli  erano  in  Bologna,  forse  a 
mercanteggiare  (1).  Nel  gennaio  di  quell'anno  Mari  d'Ugolotto 
degli  Agli  per  sé  e  i  suoi  fratelli  esonera  Lotto  di  Bozzolo  degli 
Agli  da  ogni  onere  che  avesse  verso  di  lui  (2);  ma  questo  do- 
cumento non  può  accertare  che  Lotto  fosse  allora  in  Bologna. 

Un  altro  documento  del  maggio  dello  stesso  anno  ci  assicura 
che  Lotto  in  quel  mese  era  certamente  in  Bologna,  perché  fa  in 
quella  città  un  prestito  di  cento  lire  a  un  maestro  Andrea  di 
Todino  da  Todi.  Forse  era  in  compagnia  di  Mari  e  di  Bozzolo, 
padre  suo.  Ecco  il  documento  : 

Dominus  Lottus  filius  domini  B090IÌ  de  Aglis  promisit  dare  domino  ma- 
gistro  Andrea  Tudini  de  Tuderto  centum  libras  bononinomm  ex  causa  mutui 
ad  unum  mensem.  Ex  istrumento  Michaelis  Vinciguerre  not.  hodie  facto  in 
ecclesia  Sancti  Ambrosii  de  Vin9ola,  domino  Jacobino  canonico  Montisvellij, 
domino  Alberto  canonico  diete  plebis,  Abrahamo  phj'sico  de  Castellis  de 
Eegio,  et  Jacomuto  Varnerij  testibus  et  sic  scribere  fecerunt  contrahentes.  — 
Die  Martis  tertiodecimo  exeunte  maio  (3). 

Era  in  Bologna  fino  dal  gennaio  di  quell'anno,  perché  in  quel 
mese  si  trova  a  far  testimonianza  :  «  domino  Locto  domini  Bo- 
«  qoìì  de  Aglis  doctore  legum  »  (4).  Insegnò  forse  per  qualche 
tempo  nello  Studio  bolognese  ?  Il  titolo  di  «  doctor  legum  »  lo 
farebbe  credere. 


(1)  Memoriale  del  1271  di  Amadore  dì  Chiglielmo  d^ Albertino,  ce.  1  <  e  86. 

(2)  «  Dominus  Mari  domini  Ugolotti  de  Aglis  de  Florentia  liberavit  et 
«  absolvit  prò  se  et  fratribus  suis  dominum  Lottum  domini  B090IÌ  de  Aglis 
«  legum  doctorem  ab  omni  iure  ...  (omissis)  quod  ei  petere  possit  bine  retro  ex 
«  quacunque  causa.  Ex  istrumento  Mathei  Cambij  not.  facto  eri  in  statione 
«  dicti  Mari.  Die  Sabbati,  octavo  exeunte  Januario  »  {Memoriale  cit.,  e.  12). 

(3)  Memoriale  cit.,  e.  59. 

(4)  Memoriale  di  Alberto  di  Corradino,  e.  16  <.  È  in  Bologna  in  quel 
tempo  anche  il  padre  suo,  Bozzolo,  che  è  procuratore  per  un  Iacopo  Cresta 
di  Firenze  nel  giugno  (ivi,  e.  86). 


26  G.    ZACGAGNINI 


Il  primo  rifugio  dei  figli  di  Farinata  degli  liberti. 

È  noto  che  gli  liberti  furono  banditi  da  Firenze  definitiva- 
mente nel  1268.  Allora  Farinata  non  era  più  tra  i  vivi;  ma  i 
Fiorentini  non  erano  placati  contro  l'oltracotante  schiatta  degli 
Uberti,  si  accanirono  contro  i  discendenti  di  Farinata,  perse- 
guendoli di  luogo  in  luogo. 

Tutto  assorto  nei  fieri  ricordi  delle  lotte  faziose,  e*non  curante 
del  fuoco  infernale.  Farinata  nell'  Inferno  domanda  a  Dante  : 

E,  se  tu  mai  nel  dolce  mondo  regge, 
dimmi,  perchè  quel  popolo  è  si  empio, 
incontro  a'  miei,  in  ciascuna  sua  legge  ? 

In  ciascuna  sua  legge,  infatti,  Firenze  ribandiva  gli  Uberti  con 
ostinata  insistenza. 

Uno  dei  primi  rifugi  e  dei  primi  ostelli  dei  poveri  figli  di  Fa- 
rinata fu  probabilmente  Bologna.  Colà  Maghinardo,  Azzolino, 
Neri,  Conte  e  Federico  il  5  ottobre  del  1269  si  fanno  prestare 
dei  denari  forse  per  sopperire  alle  urgenti  necessità  che  impo- 
neva l'esilio,  ed  altri  prestiti  fanno  con  vari  cambiatori.  Riporto 
qui  per  intero  il  primo  documento,  assicurando  che  gli  altri  che 
seguono  sul  medesimo  argomento  sono  dello  stesso  tenore  : 

Maginardus,  filius  quondam  domini  Farinatte  de  Ubertis,  procurator  do- 
mini AzoHni,  Nerij,  Comitis  et  Frederici,  eius  fratrum  et  filiorum  quondam 
domini  Farinate  suo  proprio  nomine  et  procuratorio  nomine  predictorum,  fuit 
confessus  habuisse  a  Baldo  domini  Jacobi  solvente  vice  et  nomine  domini 
Bonfigloli  Specialis  et  Gualdatij  Capreti  et  aliorum  sociorum  suorum  septin- 
gentas  tres  libras  et  xu  solidos  pisanorum  in  florinis  ad  duodecim.  Ex  istru- 
mento  confessionis  manu  Thomaxini  Petrifoli  Armannini  not.  facto  beri  in 
domo  domini  lohannis  de  Vercellis,  presentibus  Benvenuto  Lamberti,  Adacto 
Maynetti,  Alexandrino  Guifardini,  Zane  Clarissi,  Combifo  Rolandini  et  Lipo 
Auguti  testibus.  —  Die  Sabati,  quinto  intrante  octubri  (1). 


(1)  Memoriale  del  1269  di  Tommaso  d'Alberto  Fabbro,  e.  53  f. 


PERSONAGGI    DANTESCHI    IN    BOLOGNA  27 


Venetico  e  la  GMsolabella  Caccianimici. 

Ricinti  d'eterna  infamia  sono  la  figura  e  il  nome  di  Venetico 
Caccianimici,  condannato  da  Dante  ad  essere  frustato  vergogno- 
samente dai  demoni  tra  i  ruffiani  della  prima  bolgia  di  Male- 
bolge  per  aver  condotto  la  sorella,  la  Ghisolabella,  «a  far  la 
«  voglia  del  marchese  »  d'Este  (1).  Eppure  anche  le  non  molte 
notizie  certe  che  abbiamo  intorno  alla  sua  vita  ce  lo  mostrano 
nobile  e  reputato  signore,  potente  per  aderenze  ed  uffici  in  patria 
e  fuori.  Cupidigia  di  denaro  e  più  ancora,  io  credo,  desiderio  di 
farsi  grande  col  favore  del  marchese  d'Este  lo  spinsero  alla 
turpe  azione  (2). 

A  fine  di  comprendere  quale  sia  stata  veramente  la  figura  sto- 
rica di  Venetico  e  per  tratteggiarne  l'animo,  per  quanto  la  lon- 
tananza del  tempo  in  cui  visse  ce  lo  consente,  ne  faremo  in 
compendio  la  vita  sui  dati  sicuri  fino  ad  ora  noti  e  su  quelli 
inediti  che  ci  offrono  i  documenti  d'archivio  (3).  Solo  in  tal  modo, 
e  non  sulla  scorta  dei  commentatori  che  con  molta  confusione 
parlano  del  turpe  fatto,  potremo  conoscere  le  vere  ragioni  che 
spinsero  un  personaggio  cosi  cospicuo  a  offrire  materia  alla 
«  sconcia  novella  ». 

La  ricerca  sistematica  e  paziente,  che  abbiamo  fatta  nei  Me- 
moriali bolognesi,  ha  dato  cosi  sodisfacenti  resultati,  che,  e  lo 
diciamo  con  vero  compiacimento,  noi  potremo  vedere,  a  grado 


(1)  Inferno,  XVIII,  49  e  sgg. 

(2)  In  tal  modo  noi  verremo  a  dimostrare  che  s'era  apposto  al  vero  Isi- 
doro DEL  Lungo  {Dante  nei  tempi  di  Dante,  Bologna,  Zanichelli,  1888) 
quando  appunto  espresse  una  simile  opinione. 

(3)  Alcuni  di  questi  documenti  furono  ve^ljti  da  Ottavio  Mazzoni-Toselli, 
Voci  e  passi  di  Dante  chiariti  ed  illustrati  con  documenti  a  ha  contempo- 
ranei, Bologna,  1871,  pp.  120  e  sgg.  e  Racconti  di  storia  patria  estratti  dàl- 
Varchivio  antico  di  Bologìia,  t.  HI,  Bologna,  1870,  pp.  273  e  sgg.  Noi  compi- 
remo le  ricerche  del  Mazzoni-Toselli. 


28  G.    ZACOAGNINI 

a  grado,  su  dalle  nebbie  del  lontano  duecento  di  fra  il  rozzo 
latino  dei  notari,  dalle  carte  annerite  dai  secoli  levarsi,  quasi 
per  respirare  ancora  le  aure  vitali,  la  figura  del  gentiluomo  bo- 
lognese. 

Figlio  di  Alberto  di  Caccianimico  d'Alberto  d'Orso  de'  Caccia- 
nimici  grandi  (1)  e  guelfi  di  Bologna  e  di  una  Pellegrina  (2),  do- 
veva avere  già  almeno  trentasei  anni,  quando  nel  1264  fu  podestà 
ad  Imola,  perché  tanti  appunto  se  ne  richiedevano  per  essere 
podestà.  È  perciò  assai  verosimile  che  fosse  nato  intorno  al  1228. 
Nel  1267,  con  i  frati  gaudenti  Loderingo  e  Catalano  e  con  altri 
amanti  della  pace,  fece  da  paciaro  fra  le  parti  che  laceravano 
la  città  ;  ma,  pochi  mesi  dopo,  concorse,  con  un  suo  fratello  Cac- 
cianimico, all'uccisione  d'un  loro  cugino,  Guido  di  Gruamonte, 
soprannominato  Paltena  (3).  Fino  dai  più  giovani  anni  Venetico 
si  rivela  pronto  all'ira  e  alle  vendette ,  «  uom  di  sangue  e  di 
«  corrucci  ». 

I  documenti  tacciono  intorno  alle  discordie,  forse  alle  ven- 
dette che  dovettero  seguire  quell'uccisione.  L'atto  di  pace  che 
soltanto  nel  marzo  del  1269  fu  fatto  fra  Imelda,  moglie  di  Grua- 
monte e  tutrice  di  Gruamonte,  figlio  ed  erede  dell'ucciso  Paltena, 
da  una  parte  e  i  Caccianimici  grandi  dall'altra  per  intromis- 
sione di  Venetico,  che  nell'atto  rappresentò  il  fratello  Cacciani- 
mico, fu  l'epilogo  di  quelle  discordie  (4). 


(1)  I  Caccianimici  si  dividevano  in  grandi  (guelfi)  e  piccoli  (ghibellini). 

(2)  Memoriale  del  1270,  voi.  11°,  l^  not.,  e.  29. 

(3)  Pietro  Cantinelli  nel  Chronicon  (ed.  Torraca,  p.  10)  narra  l'uccisione 
di  Guido  Paltena,  nipote  di  Alberto  Caccianimici,  fatta  per  istigazione  dello 
zio.  Alberto  fu  condannato  a  pagare  2000  lire  di  bolognini  a  Caccianimico 
bandito.  Cfr.  Savioli,  Annali  di  Bologna,  p.  411. 

(4)  «  Domina  Ymelda,  uxor  quondam  domini  Gruamontis  de'  Ca^animicis 
«  et  tutrix  Gruamontis,  eius  nepotis  filii  et  heredis  quondam  domini  Guidonis 
«  Palthene  sui  et  dicti  domini  Gruamontis  filii,  ut  patet  ex  istrumento  diete 
«  tutele  raanu  Bartholomei  Guidonis  sartoris  scripto  ob  reverentiam  Domini 
«  nostri  Jesus  Christi  tutorio  nomine  prò  dicto  pupillo,  fecit  finem,  remissionem 
«  et  pacem  inviolabilem  horis  (sic)  osculo,  interveniente  domino  Venetico,  filio 
«  domini  Alberti  Cayanimici  recipienti  nomine  et  vice  Cajanimici,  filii  domini 


PERSONAGGI    DANTESCHI    IN    BOLOGNA  29 

Certo  non  mosse  Venetico  a  tale  atto  soltanto  desiderio  di 
pace,  ma  piuttosto  la  necessità  di  liberare  il  fratello  dall'esilio 
in  cui  lo  aveva  cacciato  il  comune  di  Bologna. 

Già  in  quell'anno  era  sposo  ad  una  gentildonna  di  famiglia 
guelfa,  Aichina,  figlia  di  Guidottino  de'  Prendiparte,  che  gli  mori 
poco  prima  del  decembre.  Il  documento  ci  dice  anche  che  i  Prendi- 
parte ebbero  dissapori  con  i  Caccianimici  per  riavere  la  dote 
di  lei,  e  Alberto,  a  fine  di  sostenere  le  sue  ragioni  e  quelle  del 
figlio  in  una  causa  giudiziaria  con  i  Prendiparte,  si  elesse  due 
procuratori,  perché  probabilmente  egli  e  Venetico  in  quel  tempo 
non  erano  in  Bologna  (1). 


«  Alberti  et  fratris  ipsius  domini  Venetici  et  prò  eodem,  de  insulta,  vulnera, 
«  seu  vulneribus  facto  seu  factis  prò  dicto  Ca^animico  in  persona  quondam 
«  dicti  domini  Guidonis  Palthene  et  morte  ex  dicto  vulnere  seu  vulneribus 
«  insecuta,  de  quibus  et  qua  positus  fuit  dictus  Ca^animicus  in  banno  seu 
«  bannis  comunis  Bononie  prò  malefìcio  et  homicidio,  volens  et  confessans 
«  quod  predictus  Ca^animicus  exiraatur  et  cancelletur  de  dicto  banno  vel 
«  bannis  secundum  penam.  Ex  istrumento  Vinciguerre  Rovixij  not.  facto  die  xi 
«  exeunte  martio  in  domo  Gruamontis  filii  et  heredis  dicti  domini  Guidonis 
«  Palthene,  presentibus  domino  fratre  Bartholomeo  de  Baxacomatre,  fratre 
«Amadore  de  Go9adinis,  domino  Rodulfo  quondam  domini  Graidani,  domino 
«  Baxacomatre  de  Baxacomatribus,  domino  Petro  quondam  domini  Henrici 
«  domini  Frulani,  domino  Henrigucio  de  Galluciis,  domino  Albico  de  Ubertis, 
«  domino  Guidottino  quondam  domini  Comitis  de  Prendipartibus,  domino 
«  UgoHno,  domino  Tebaldino,  domino  Thomaxio,  fratribus  de  Tebaldis,  do- 
«  mino  Petro  quondam  domini  Rambertini  Scappe  et  Alberto  Rovisii  testibus. 
«  —  Die  Veneris  x  exeunte  Martio  »  (Memoriale  del  1269,  voi.  10°,  ^^  not., 
e.  60  0- 

(1)  «  Bominus  Albertus  de  Ca9animicis  fecit,  constituit  et  ordinavit  do- 
«  minos  Pasqualinum  Tomaxini  Risoli  et  Albertum  Rovixii  not.  presentes 
«  suos  procuratores  et  nuntios  speciales  specialiter  in  causa  quam  habet  vel 
«  habiturus  est  cum  domino  Guidoctino  de  Prendipartibus  ocaxione  dotium 
«  vel  hereditatis  seu  bonorum  quondam  domine  Aichine,  filie  dicti  domini 
«  Guidoctini  et  uxoris  domini  Venetici  et  generaliter  cum  quacunque  alia  per- 
«  sona  et  [ad]  omnia  eius  negotia  tratanda  e1^  gerenda  et  dixit  omnia  vera  esse 
«  que  in  strumento  procuratorio  continentur.  Ex  istrumento  Nicolai  domini 
«  Boniohannis  de  Lastignano  not.  eri  facto  in  domo  dicti  domini  Alberti ... 
«  —  Die  Martij  viu  exeunte  decembri  »  {Memoriale  del  1269,  voi.  9°, 
1°  not.,  e.  10). 


30  G.    ZACCAGNINI 

Pare  che  la  vertenza  fra  le  due  nobili  famiglie  cessasse  sol- 
tanto verso  il  principio  del  1270,  quando  Venetico  rinunziò  a 
tutti  i  diritti  sopra  un  bosco  nel  vescovato  di  Reggio  che  godeva 
«  prò  indiviso  »  con  Jacopino  e  Guidottino  de'  Prendiparte  (1). 

È  in  Bologna  probabilmente  per  tutto  il  resto  dell'anno  (2),  e 
cosi  per  tutto  l'anno  seguente  (3),  ed  è  presente  ad  un  atto  col 
quale  una  sua  nipote,  Pellegrina,  figlia  di  Caccianimico,  andava 
sposa  ad  Azzuccio,  figlio  dell'arciprete  di  Fanano,  Rogerio  (4). 

Vi  rimane  anche  nel  1272  (5),  quando  con  altre  ventuna  delle 
più  grandi  famiglie  bolognesi,  Ghisilieri,  Beccadelli,  Prendiparte, 
Galluzzi  ed  altre,  partecipa  ad  un  prestito  di  616  bolognini  con 
gli  Zovenzoni  (6). 

Nel  primo  semestre  del  1273  è  podestà  a  Modena,  come  si 
vede  da  un  atto  dell'I!  agosto  1272,  con  cui  promette  a  Giaco- 
mino di  Arardino  50  lire  di  bolognini  «  hinc  ad  menses  quatuor  », 
perché  doveva  seguirlo  come  assessore  in  quella  podesteria  «hinc 
«  ad  sex  menses  »  (7). 

È  nuovamente  in  Bologna  nel  1274  (8),  e  nel  marzo  di  quest'anno 


(1)  Memoriale  d' Jacopo  d'Ugolino  da  Medicina,  e.  5. 

(2)  Memoriale  del  1270,  voi.  12°,  2»  not.,  e.  85  t. 

(3)  Memoriale  del  1271,  voi.  15«,  1°  not.,  e.  73  t. 

(4)  Memoriale  di  Amadore  di  Guglielmo  d'Albertino,  e.  4  t.  Questo  do- 
cumento fu  pubblicato  da  E.  Grilli  e  Fr.  Giorgi,  Contratto  nuziale  di  Pel- 
legrina di  Caccianemico  Caccianemici,  Bologna,  Reale  tip.,  1904,  per  nozze 
Bagnoli-Musi. 

(5)  Memoriale  d'Ubei'tino  di  Domenico  di  Cento,  e.  94  e  Memoriale  di 
Giuliano  d' Asolino  di  Vitale,  e.  84. 

(6)  Memoriale  di  Gruido  di  Spagnolo,  e.  194. 

(7)  «  Dominus  Veneticus  domini  Alberti  de  Cha9animicis  promisit  solvere 
«  domino  Jacobino  Arardini  quinquaginta  lib.  bon.  hinc  ad  menses  quatuor 
«  prò  assessoria  quam  ei  prestare  debet  in  campo  civitatis  Mutine  hinc  ad 
«  sex  menses.  Ex  istrumento  Gregorij  Andree  not.  hodie  facto  sub  porticu 
«  domus  fiUorum  et  heredum  quondam  domini  Guillielmi  Fran9onis,  presen- 
«  tibus  Mino  Fralano  de  Sala  et  Corbolano  quondam  domini  Guidetti.  Die 
«  Jovis  undecimo  intrante  augusto  »  {Memoriale  di  Giacomo  d'Ugolino  di 
Guizzardino,  e.  151). 

(8)  Memoriale  di  Giacomo  di  Salvi,  v.  per  tutto  il  marzo  e  a  e.  178:  cosi 
pure  nel  Memoriale  d'Azzolino  di  Cambio  de'  Vetri,  e.  9  t.\ 


PERSONAGGI    DANTESCHI    IN    BOLOGNA  31 

vende  alcune  case  a  Giovanni  di  Lambertino  de'  Zovenzoni.  Da 
questo  atto  di  vendita  veniamo  a  conoscere  che  già  aveva  con- 
tratto nuove  nozze  con  una  Maddalena,  che  sappiamo  essere 
stata  dei  Rangoni  (1). 

Presso  a  poco  in  questo  tempo  capitanò  a  Bologna  la  parte 
guelfa  dei  Geremei  contro  i  Ghibellini  guidati  dai  Lambertazzi 
e  nelle  fìerissime  mischie  del  maggio  e  giugno  1274  cacciò  a 
forza  la  parte  avversa  fuori  della  città. 

L'anno  seguente  fu  podestà  a  Milano  nel  secondo  semestre, 
donde  ritornava  a  Bologna  fra  il  13  e  il  21  gennaio  del  1276  (2). 
Poco  dopo,  nel  febbraio,  è  novamente  assente  dalla  patria  (3). 


(1)  «  Dominus  Albertus  quondam  domini  Cha^a- 
«  nimici  Alberti  Tirsi 


«  Dominus  Veneticus 
«  Dominus  Ca^animicus 


eius  filli  emancipati  ab  eo 
et  cum  eius  consensu 


vendiderunt  et  tradide- 
runt  domino  lohanni 
domìni  Lambertini  de 
^ovenyonibus  ementi 
prò  se  et  vice  et  nomine 
«  ^oven9onis  et  Boniohannis  eius  fratrum  domum  unam  positam  in  Petraficta 
«  in  capella  Sancti  Petri  iuxta  dominum  Symonem  domini  Alberti  de  Sancto 
«  Petro  ab  uno  latere  et  iuxta  dominum  Albertum  domini  Jacobini  domini 
«  Gerardi  Ca9animici  ab  alio  et  vias  publicas  ab  aliis  duobus  lateribus.  Item 
«  unam  aliam  domum  positam  ante  plateam  comunis  Bononie  in  capella 
«  Sancte  Tede  de  Gue9is  iuxta  dominum  Albertum  domini  Hodofredi  ab  uno 
«  latere  et  iuxta  dominum  Thomaxinum  et  Pacem  de  Tebaldis  et  iuxta  pla- 
«  team  comunis  et  viam  publicam  prò  pretio  in  summa  duorum  millium  du- 
«  centarum  sexaginta  librarum  bon.  Item  promiserunt  in  soUdo  dicti  vendi- 
«  tores  se  facturos  et  curaturos  quod  domina  Pellegrina,  uxor  dicti  domini 
«  Alberti,  et  domina  Madalena,  uxor  dicti  domini  Venetici,  et  domina  Aligarda, 
«  uxor  dicti  domini  Ca9animici,  cum  consensu  domini  Jacobini  Rubey  de 
«  Parma  eius  patris  consentient  et  renuntient  diete  vendictioni.  —  Die 
«  octavo  exeunte  martio  »  {Memoriale  di  Simone  d^  Ugolino  della  Corvaria, 
e.  159).  Cfr.  C.  Ricci,  Daìite  allo  Studio  di  Bologna,  in  Nuova  Ant,  N.  S., 
XXXn,  p.  302. 

(2)  «  Dominus  Veneticus,  filius  domini  Alberti  Cha9animici,  assertus  a  suo 
«  patre  emancipatus,  fuit  confessus  habuisse  a  domino  Faldino,  filio  domini 
«  Bene  de  Florentia  solvente  et  dante  prò  se  et  vice  et  nomine  dicti  Benvenuti 
«  de  Florentia  et  alliorum  sotiorum,  tria  millia»6excentarum  viginti  quinque 
«  lib.  bon.  prò  pretio  et  cambio  septingentarum  quinquaginta  lib.  imperialium 
«  Mediolani,  quas  dictus  receperat  ab  ipso  domino  Venetico  in  civitate  Medio- 
«  lani.  Die  xxi  intrante  Januario  »  {Memor.  di  Francesco  d'Adigherio,  e.  8). 
(8)  Memoriale  d'Jacopino  di  Cumino,  e.  38 1. 


32  G.    ZACCAGNINI 

Frattanto  Alberto,  suo  padre,  già  vecchio,  dopo  vari  testamenti 
fatti  anche  prima  di  quell'anno,  muore,  disponendo  dei  suoi  beni 
con  un  atto  dell'ottobre  1277  e  lasciandone  una  metà  a  Venetico 
e  l'altra  metà  ad  Alberto,  a  Pellegrina,  Tommasina,  Giovanna  e 
Bitina,  tutti  figli  dell'estinto  Caccianimico  (1). 

Nel  giugno  del  seguente  anno  Venetico  dispone  che  Graliana, 
vedova  dell'estinto  padre  suo,  possa  abitare  a  suo  piacere  nel 
palazzo  principale  del  marito  o  in  altre  case  (2).  Pellegrina 
dunque,  la  madre  di  Venetico,  doveva  esser  morta  poco  dopo 
il  1274,  poiché  nel  '77  Alberto  ha  un'altra  moglie,  Galiana. 

Nel  1279  Venetico  è  di  nuovo  in  mezzo  alle  lotte  politiche  e 
alle  passioni  di  parte.  Quando  il  cardinal  Latino  si  accinse,  per 
volere  di  Niccolò  III,  a  por  fine  alle  diuturne  contese  fra  Guelfi 
e  Ghibellini,  prima  di  recarsi  a  Firenze,  ove  la  sua  opera  di 
pacificazione  miseramente  falli,  com'è  noto,  aveva  tentata  la 
stessa  buona  ma  inefficace  opera  nelle  città  di  Modena  e  di  Bo- 
logna. Già  nel  1279,  Venetico,  insieme  con  cinquanta  suoi  con- 


(1)  «  Dominus  Albertus  quondam  domini  Chayanimici,  sanus  mente  et  cor- 
«  pore,  suum  fecit  testamentum  in  quo  constituit  sibi  heredem,  instituit  in 
«  dimidiam  bonorum  suorum  dominum  Veneticum  eius  filium  et  in  alliam 
«  dimidiam  Albertum  nepotem  suum,  filium  quondam  domini  Cha9animici  sui 
«  fìlij,  et  Pellegrinam,  Thomaxinam,  Johanam,  Bitinam,  nepotes  suas,  fQias 
«  quondam  domini  Ca9animici  sui  filij,  ita  tamen  quod  quelibet  earum  habeat 
«  de  dieta  ereditate  tantum  sescentas  lib.  bon.  et  dictis  voluit  esse  contenctas 
«  et  tacitas.  Ex  istrumento  scripto  manu  Alberti  Eovixij  not.  hodie  facto  in 
«  cortile  doraus  ipsius  domini  Alberti ...  —  Die  quarto  exeunte  octubri  » 
{Memoriale  di  Opizzo  de'  Panzoni,  e.  139). 

(2)  «  Dominus  Veneticus  domini  Alberti  Chayanimici  dixit  velie  et  sibi 
«  piacere  quod  domina  Galiana,  uxor  quondam  domini  Alberti  de  Chafani- 
«  micis,  possit  habitare  in  domo  magna,  que  fuit  dicti  domini  Alberti,  quam 
«  olim  habitabat  dominus  Chafanimicus,  positam  in  Petraficta  et  iuxta  vias 
«  publicas  a  duobus  lateribus,  vel  alibi,  ut  placuerit  eidem  domine  Galiane, 
«  non  preiudicando  in  aliquo  suo  iure  quod  habet  in  usufructu  aliquarura 
«  possessionum  et  rerum  sibi  relictarum  a  dicto  domino  Alberto,  quondam 
«  eius  viro,  in  eius  testamento  scripto  manu  Alberti  Rovixij  not.  et  ex  istru- 
«  mento  predicto  scripto  manu  Vinciguerre  Rovixij  not.  facto  hodie  insuper 
«  domo  magna  olim  dicti  domini  Alberti.  —  Die  quinto  intrante  Junio  » 
{Memoriale  d'Jacopino  di  Pa^e,  e.  160  t). 


PERSONAGGI    DANTESCHI    IN    BOLOGNA  33 

cittadini,  aveva  giurato  la  pace  fra  le  due  fazioni  innanzi  al  le- 
gato (1).  Ma  sembra  die  poco  dopo  parecchi  grandi  cittadini  di 
Bologna  e  di  Modena  di  parte  guelfa  insultassero  un  messo  che 
il  cardinal  Latino  aveva  loro  mandato  per  indurli  a  porre  giù 
gli  odi  e  gli  sdegni. 

Il  comune  di  Modena  nel  settembre  del  1279  libera  quei  fa- 
cinorosi cittadini  delle  due  città  romagnole  dagli  obblighi  che 
avevano  giurato  di  osservare.  Questo  documento,  singolarmente 
importante,  ci  lumeggia  assai  al  vivo  la  figura  battagliera  e 
riottosa  del  fiero  uomo  di  parte. 

Dominus  Andreas  de  DonoUna,  sindicus  comunis  Mutine,  ut  constat  plu- 
bico  instrumento  sindicatus  scripto  manu  Gillioli  de  Kubeis  not.  nomine  et 
vice  comunis  et  hominum  civitatis  predicte,  promisit  dominis  Venetico  de  Ca- 
9animicis,  Alberto  de  Asinellis,  Guillielmo  quondam  domini  Ugolini  de  Lan- 
bertinis,  Comatio  quondam  domini  Gerardi  de  Galluciis,  Gerardo  domini  Ja- 
cobini  domine  Dotte,  Alberto  quondam  domini  Tranchedini  de  Sabatinis, 
Fulco  quondam  domini  Rodulfì  Pacis,  omnibus  de  Bononia,  et  dominis  Al- 
berto quondam  domini  ^unte  Bo9alis,  Nicholao  legum  doctore  quondam  do- 
mini lohannis  Boni  de  Matarellis,  Gerardo  domini  Guillielmi  Rangonis  et 
Bernardino  quondam  domini  Gerardi  de  Garzonis,  omnibus  de  Mutina,  eos 
et  quemlibet  eorum  conservare  indepnes  ab  obligatione,  fideiussione  et  pro- 
missione quam  fecerant  eidem  sindico,  precibus  et  mandato,  nomine  et  vice 
dicti  comunis  Mutine,  Venerabili  Pàtri  domino  firatri  Latino  Apostolico  Sedis 
legato,  occaxione  iniuriarium  factarum  cuidam  nuncio  dicti  domini  legati  et 
comunis  et  hominum  diete  civitatis  Mutine.  Ex  istrumento  scripto  manu  do- 
minorum  Martini  Pergenarij  not.  de  Mutina  et  Petri  domini  Boniohannis 
not.  civitatis  Bononie  et  Bellamoris  not.  dicti  domini  cardinaUs  legati  hodie 
facto  in  domo  dominorum  de  FHsco,  presentibus  dominis  Guillielmo  Durantis, 
fratre  Petro  Gueriani  de  Campagnola,  fratre  lohanne  de  Guarianis  de  Marola, 
fratre  Lamberto  de  Marola  regiensis  diocesis,  Saraceno  quondam  lohannis  de 


(1)  Vedi  lo  spoglio  del  Montefani  conservato  nella  BibUoteca  Universitaria  di 
Bologna,  e  cfr.  C.  Ricci,  art.  citato  nella  Nuova  Antól.,  p.  302,  che  di  quello 
si  valse.  Nello  spoglio  del  Montefani  questa  pacificazione  è  detto  che  avvenne 
nel  1278:  il  Cantinelli,  Chronicon  cit.,  p.  31,  dice  che  avvenne  ad  Lnola 
nel  1279. 

Giornale  storico,  LXIV,  fase.  190-191.  S 


34  .  G.    ZACOAQNINI 

Beate,  fratre  Tebaldo  de  Colupna  ordinis  minorum  et  magistro  Tigone  cle- 
rico de  Ags,  rectore  ecclesie  S.  Andree  de  Alboni  albinensis  diocesis.  —  Die 
Veneris  xxii  mensis  septembris  (1). 

Un  anno  dopo  fu  citato  a  comparire  da  Bertoldo  Orsini  conte 
di  Romagna  per  il  papa  (2). 

Negli  anni  che  seguirono  pare  che  meno  agitata  sia  scorsa  la 
vita  di  Venetico,  anche  perché  la  sua  città,  se  non  potè  godere 
una  sicura  pace,  negli  ultimi  decenni  del  secolo  parve  riposare 
alquanto  dopo  le  fiere  lotte  intestine  che  tanto  l'avevano  sconvolta. 

Nel  1283  è  a  Pistoia  a  tenervi  la  podesteria  (3),  sembra  con 
sodisfazione  sua  e  dei  Pistoiesi,  se  per  lungo  tempo  mostrò  di 
conservare  buone  relazioni  con  loro,  concedendo,  nonostanti  le 
rappresaglie  che  Bologna  aveva  stabilite  contro  di  essi,  che  ne 
fossero  esenti  alcuni  di  loro  nella  città  e  in  tutto  il  distretto  di 
Bologna  (4). 

Nel  1286  tiene  per  la  seconda  volta  la  podesteria  di  Milano  (5). 
Il  13  agosto  dell'  '87  arringa  nel  Consiglio  del  Comune  in  un 
momento  assai  tempestoso  della  vita  cittadina,  e  il  giorno  dopo 
è  mandato  a  confine.  Aveva  osato  parlare  in  favore  degli  sban- 
diti Lambertazzi  (6). 

Una  seconda  volta  fu  sbandito  dalla  patria  il  14  agosto  1289 
e  forse  per  la  stessa  ragione. 

Grande  doveva  essere  in  Bologna  l'autorità  dell'ormai  vecchio 
gentiluomo,  e  la  sua  casa  potè  avere  lo  splendore  e  le  ricchezze 


(1)  Memoriale  di  Boniacopo  d'Ugolino  di  Guizzardino,  e.  22. 

(2)  C.  Ricci,  art.  cit.,  ivi.  Per  qualche  altra  notizia  di  minore  importanza, 
che  qui  per  brevità  tralascio  anche  perché  non  giova  al  mio  asserto,  v.  Goz- 
ZADiNi,  Delle  torri  gentilizie  di  Bologna,  passim. 

(3)  L.  Zdekauer,  Statutum  potestatis  Comunis  Pistorii,  Milano,  Hoepli, 
1888,  p.  LI. 

(4)  Memoriale  del  129à  di  Bonifacio  di  Savignano,  e  77  <  ;  vedi  anche 
gli  atti  del  18  die.  1295  e.  86*:  anche  negli  anni  precedenti  fino  dal  1285 
aveva  fatto  identiche  concessioni. 

(5)  Mazzoni-Toselli,  Op.  cit.,  p.  122. 

(6)  Ivi. 


PERSONAGGI    DANTESCHI    IN    BOLOGNA  35 

d'una  casa  di  principi.  I  sogni  di  grandezza  di  Venetico  si  rea- 
lizzarono nel  1294,  quando  nel  novembre  si  stipularono  le  nozze 
fra  Lambertino,  suo  figlio,  e  Costanza,  figlia  di  Azzo  Vili,  mar- 
chese di  Ferrara  (1). 

Perché  il  potente  marchese  s'imparentò  con  i  Gaccianimici  ? 
Non  è  improbabile  che  il  marchese,  desideroso  d'estendere  il 
suo  dominio  a  danno  della  vicina  città,  pensasse  essergli  assai 
utile  stringere  parentela  con  qualche  grande  famiglia  di  nobili 
bolognesi,  per  avere  in  essa  un  valido  aiuto  all'effettuazione  dei 
suoi  ambiziosi  disegni.  L'esame  dei  documenti  c'induce  a  credere 
che  tale  fosse  veramente  il  proposito  d'Azzo  Vili. 

Nel  1303,  quando  Venetico  era  già  morto,  i  figli  suoi,  Gaccia- 
nimico,  «  cui  dicitur  Migolus  »,  Lambertino  e  Giacomo  «  cui  di- 
«  citur  QuQus  »,  fanno  domanda  al  Consiglio  di  Bologna,  perché 
alcune  compre  di  terreno  fatte  dal  padre  loro,  allorché  contrasse 
parentela  col  marchese,  quantunque  stipulate  sotto  altro  nome, 
fossero  riconosciute  come  fatte  a  nome  di  Venetico.  Il  documento 
accenna  a  particolari  grazie  che  il  marchese  fece  a  Venetico,  e 
il  principe  insiste  talmente  sullo  speciale  favore  che  veniva  con 
quelle  nozze  a  fare  al  signorotto  bolognese,  che  mi  pare  di  sen- 
tire in  quelle  parole  la  compiacente  degnazione  del  marchese 
che  volle  mostrare  all'amico  e  familiare  suo  quale  grande  favore 
gli  facesse.  Volle,  in  compenso,  che  il  futuro  parente  gli  garan- 
tisse dei  possessi  veramente  principeschi  per  oltre  duemila  lire 
di  bolognini,  corrispondenti  alla  dote  di  ugual  somma  che  nel  1294 
aveva  assegnata  a  Costanza. 

Ma  meglio  che  le  mie  parole,  credo  che  valga  a  convincere  1 
lettori  lasciar  parlare  il  documento  medesimo: 


(1)  «  Vir  nobilis  dominus  Bernabò  comes  de  Liivania,  procurator  ...  illustris- 
«  simi  et  magnifici  viri  domini  Azonis  Marchionis  estensis  ...  dedit  et  tradidit 
«  domino  Venetico ...  duo  millia  lib.  bon. ...  in  dotem  et  nomine  dotis  future 
«  domine  Constancie  filie  dicti  domini  Marchionis  ob  matrimonium  contra- 
«  hendum  inter  predictam  dominam  Constanciam  et  Lambertinum,  filium  dicti 
«  domini  Venetici ...  »  {Memoriale  di  Niccolò  di  Michele  d'Aimerio,  e.  42  i)^ 


36  G.    ZACCAGNINl 

Placet    Consilio  et  Masse  Populi  Bononiensis  providere  de  infrascripta 

petitione,  cuius  tenor  talis  est.  Vobis  domino  Capitaneo,  Antianis  et  Consu- 
libus  populi  Bononie  suplicant  Ca9animicus,  cui  dicitur  Migolus,  Lambertinus 
et  Jacobus  cui  dicitur  f  u^us,  fratres  et  filli  quondam  domini  Venetici  de  Ca- 
5animicis,  quod  cum  eo  tempore  quo  dictus  dominus  Veneticus  contraxit  pa- 
rentellam  cum  Marchione  Extensi,  dictus  dominus  Marchio  fecerit  ei  multas 
gratias,  de  quibus  gratiis  dictus  Marchio  voluit  quod  dictus  dominus  Vene- 
ticus deberet  sibi  emere  possessiones  in  comitatu  Bononie  et  cum  ipse  do- 
minus Veneticus  adinvenisset  possessiones  emendas  in  curiis  Manjolini,  Plu- 
matij  et  Castri  Franchi,  et  deberent  fieri  instrumenta  emptionum  in  dictum 
dominum  Veneticum,  dictus  dominus  Marchio  voluit  quod  pecunia  dictarum 
gratiarum  que  deposita  erat  penes  quendam  campsorem  ferariensem  [non]  da- 
rentur  dicto  domino  Venetico,  nisi  instrumenta  emptionum  predictarum  sti- 
pularentur  et  conciperentur  et  fierent  in  personam  Brunini  quondam  domini 

Bianchi  Cose {Segue  l'elenco  dei  possessi):  «  Que  quidem  possessiones  po- 

eite  et  extimate  fuerunt  in  extimo  supradictorum  Brunini  et  fratrum  et  ex- 
timate  in  suma  duomilia  tredecim  lib.  bon.  (1). 

Pochi  anni  dopo  la  stipulazione  del  contratto  di  nozze,  nel  1305, 
nel  castello  di  Surizzano,  che  era  nelle  vicinanze  di  G^alliera  (2), 
si  celebrarono,  com'è  noto,  con  gran  pompa  le  nozze  fra  Lam- 
bertino  e  Costanza  e  insieme  anche  quelle  di  Bartola,  figlia  del 
celebre  giurista  Francesco  d'Accursio,  con  Fresco,  fratello  di 
Costanza.  Dolci  vincoli  d'affetto  stringevano  cosi  i  Gaccianimici 
alla  potente  famiglia  estense.  Ma  allora  Venetico  non  era  più 
tra  i  vivi. 

D'altra  parte  sappiamo  che,  negli  ultimi  anni  del  secolo  XIII, 
l'Estense  mosse  in  guerra  contro  Bologna,  invadendone  il  ter- 
ritorio. 


(1)  R.  Archivio  di  Stato  di  Bologna,  Archivio  Demaniale,  Convento  di  S.  Do- 
menico, busta  11,  pergamena  n°  630  del  22  febbraio  1303. 

(2)  H  Ricci  in  un  art.  pubblicato  nel  n.  167  del  Resto  del  Carlino,  del  1912, 
affermò  erroneamente  che  le  nozze  principesche  furono  celebrate  nel  castello 
di  S.  Martino  in  Soverzano.  E.  Orioli  in  un  altro  art.  pubblicato  nello  stesso 
giornale  nel  num.  del  19  giugno  1912  provò  che  quelle  nozze  si  celebrarono 
nel  castello  di  Surizzano  in  Galliera,  ove  i  Cacoianimici  avevano  amplissimi 
possessi. 


PERSONAGGI    DANTESCHI    IN   BOLOGNA  S7 

Recapitolando,  è  certo  che  Azzo  Vili,  dopo  la  sua  ascensione 
al  trono  nel  1293,  fa  ripetute  grazie  al  suo  familiare  e  cortigiano 
Venetico,  stringe  a  sé  con  vincoli  di  parentela  la  famiglia  di 
lui  cosi  influente  nella  ricca  città  di  Bologna,  e  poco  dopo  assale 
l'ambita  città  col  pretesto  dei  confini  (1).  Ora  che  cosa  può  si- 
gnificare tutto  ciò,  se  non  che  l'astuto  marchese,  conosciuta  la 
cupidigia  di  grandezza  di  Venetico,  lo  voile  per  sempre  legato 
a  sé  con  singolari  favori?  Cosi  poteva  averlo  docile  strumento 
per  effettuare  il  suo  ambizioso  sogno  d'aggiungere  ai  suoi  domini 
la  bella  e  ricca  città. 

Si  prestò  il  vecchio  gentiluomo  alle  voglie  del  marchese,  come 
a  quelle  del  padre  di  lui  s'era  piegata  la  sua  sorella?  Alla  fe- 
deltà alla  patria  preferi  i  favori  e  gli  agi  della  corte  estense? 

I  documenti  ci  fanno  credere  veramente  che  Venetico  non 
serbasse  fede  alla  patria.  Sappiamo  che  nel  1296,  quando  più 
ferveva  la  guerra  fra  gli  Estensi  e  i  Bolognesi,  Venetico  era  in 
Bologna  (2),  e  un  suo  parente,  un  Alberto  di  Caccianimico, 
fu  condannato  al  bando  e  alla  pena  di  morte  come  ribelle  del 
Comune  per  esser  passato  con  le  armi  nel  campo  del  marchese 
di  Ferrara  (3).  In  quell'anno,  Pietro  e  il  figlio  suo  Lorenzo 
de'  Caccianimici  piccoli  si  rivolgono  al  podestà  perché  «  do- 
«  minum  Veneticum,  filium  quondam  domini  Alberti  Caganimici 
«  capelle  Sancti  Ypoliti  siue  Sancii  Bartoli  in  pallaggo  qui  est 
«  de  millitibus,  magnatibus,  nobilibus  et  potentibus  civitatis  Bo- 


(1)  RiccoBALDo  Ferrarese,  Compilatio  Chronologica,  IX,  144. 

(2)  Anche  in  questo  anno  concede  ad  Jacopo  di  Pannocchia  e  ad  altri  mer- 
canti pistoiesi  Ubero  passaggio  e  Ubera  dimora  per  la  città  e  il  contado  di 
Bologna  {Memoriale  di  Gherardo  di  Ferrarlo,  e.  2  t). 

(3)  R.  Archivio  di  Stato  di  Bologna,  Processo  contro  Alberto  di  Cacciani- 
mico de'  Caccianimici  negU  Atti  del  podestà  Giacomo  di  Sommariva  del  1296, 
n°  1655:  «  ...die  Sabati  quinto  presentis  men^s  raaij  iniuriose,  dolose,  frau- 
«  dolenter  et  in  modum  proditionis  et  rebellionis  comunis  Bononie  discessit 
«  de  civitate  Bononie  et  accessit  ad  Marchionem  Estensem  inimicum  capi- 
«  talem  comunis  et  populi  Bononie  contra  formam  statutorum  ».  Segue  il 
bando  emanato  due  giorni  dopo. 


38  G.    ZACCAGNINI 

«  nonie,  quem  dicunt  prò  ipsius  potentiam  et  magnitudinem  eos 
«  et  quemlibet  eorum  molestare,  inquetare  et  turbare  in  posses- 
«  sionem  trium  suarum  domorum »  (1). 

Pochi  anni  dopo,  il  12  febbraio  del  1301,  troviamo  Venetico  in 
esilio  a  Perugia  ;  si  presenta  con  altri  grandi  bolognesi  al  podestà 
Carlo  de'  Manenti  per  assicurarlo  della  sua  presenza  nel  luogo  ove 
era  stato  confinato  (2).  È  assai  probabile  che  i  maneggi  in  favore 
dell'Estense  fossero  stati  la  causa  delle  sue  contese  con  l'altro 
ramo  de'  Gaccianimici  di  avversa  fede  politica  e  quindi  di  questo 
suo  terzo  ed  ultimo  sbandimento  dalla  patria.  Pare  che  fosse 
già  ritornato  dall'esilio  il  primo  decembre  del  1302,  perché  nella 
determinazione  di  certi  confini  «  in  curia  Gallerie  »  è  detto 
«  iuxta  dominum  Veneticum  de  Gaganimicis  »  (3). 

Quando  mori  il  vecchio  uomo  di  parte?  I  commentatori  mo- 
derni concordemente  lo  credono  morto  nell'  ultimo  decennio 
del  secolo  XIII,  certo  prima  della  visione  dantesca,  cioè  prima 
del  1300  (4).  I  documenti  riferiti,  e  specialmente  l'ultimo,  ci  di- 
mostrano che  questa  opinione  non  si  appone  al  vero.  La  presenza 
di  lui  esule  in  Perugia,  nel  febbraio  del  1301,  e  l'altro  docu- 
mento che  ci  fa  credere  che  fosse  ritornato  in  Bologna  il  primo 
decembre  del  1302,  ci  costringono  a  protrarre  oltre  questo  limite 
la  sua  vita.  D'altra  parte,  il  documento  del  22  febbraio  1303  in 
cui,  come  abbiamo  veduto,  il  Consiglio  di  Bologna  concede  ai 
figli  di  Venetico  di  voltare  in  nome  di  lui  i  beni  comprati  sotto 
altro  nome  in  occasione  delle  nozze  di  suo  figlio  con  Costanza 
d'Este,  atto  che  certamente  i  figli  di  Venetico  fecero  per  po- 


(1)  Ivi,  Carte  di  corredo  dei  processi  del  podestà  Matteo  da  Correggio, 
Non  v'è  altra  data  che  questa  a  tergo:  «  die  Martis  penultima  februarii  », 
ma  certe  segnature  a  tergo  permettono  di  ritener  questa  pergamena  del  1296. 

(2)  Arch.  di  Stato  di  Bologna,  Arch.  del  Podestà,  Confinati  ad  annum. 

(3)  Ivi,  Memoriale  di  Comazio  di  Michèle  da  Canetulo,  e.  56  t. 

(4)  Anche  C.  Ricci,  Op.  cit.,  p.  302,  credette  che  fosse  morto  prima  del  1300 
e  aggiunse:  «  Lo  prova  Dante  fingendo  d'averlo  veduto  all'Inferno  in  quel- 
«  l'anno ...  siamo  quindi  molto  più  propensi  a  credere  ch'ei  morisse  intorno 
«  al  1290  piuttosto  che  al  1300  ». 


PERSONAGGI   DANTESCHI    IN    BOLOGNA  39 

tersi  dividere  i  beni  del  defunto  padre  loro,  stabilisce  l'altro 
termine  ad  quem. 

Oltre  il  figlio  minorenne  Caccianimico,  Lambertino  e  Giacomo, 
di  cui  parla  il  documento  del  1303,  lasciava  un  altro  figlio,  Az- 
zone,  ricordato  in  un  documento  dell'S  aprile  1304,  probabilmente 
natogli  dalla  terza  moglie,  Lucia  di  Belvillano  Paci,  della  quale 
è  memoria  nel  medesimo  documento  (1). 

Fu,  come  si  vede,  apprezzato  in  corte,  come  nei  consigli  delle 
parti  e  probabilmente  in  quelli  del  Comune,  chiamato  al  governo 
d'importanti  città  per  il  senno  che  doveva  averlo  reso  noto  anche 
oltre  la  cerchia  delle  mura  della  sua  patria. 

Capo  riconosciuto,  dopo  la  morte  d'Alberto,  di  tutta  la  sua 
casata,  ne  impersona  le  sorti,  la  guida  nei  fieri  tumulti  di  parte 
fra  il  cozzo  delle  armi,  e,  più  tardi,  le  dà  splendori  principeschi 
imparentandola  con  la  famiglia  estense. 

Ma  nell'anima  del  partigiano  s'annidava  la  cupidigia  del  de- 
naro e  la  brama  del  fasto  e  della  grandezza  :  i  documenti,  seb- 
bene in  forma  sbiadita  e  indeterminata,  lasciano  scorgere  questa 
sua  insaziabile  brama.  Tutto  ciò  è  già  abbastanza  per  spiegarci 
l'ignobile  acquiescenza  ai  voleri  del  marchese,  che  lo  spinse,  per 
farsi  grande  nella  corte  amica,  a  indurre  la  sorella  a  far  le  voglie 
di  quello. 

Inoltre,  e  abbiamo  riservato  alla  fine  questo  argomento  che 
ci  pare  assai  forte  a  sostegno  della  nostra  opinione,  il  nostro 
giudizio  concorda  con  le  parole  di  Benvenuto  da  Imola,  che,  per 
i  fatti  accaduti  in  Bologna,  ci  pare  assai  bene  informato  :  «  Vir 
«  quidem  nobilis,  liberalis  et  placibilis,  qui  tempore  suo  fuit 
«  valde  potens  in  Bononia  favore  marchionis  Estensis,  qui  fuit 
«  Azo  III,  qui  gessit  magnum  bellum  cum  Bononia  et  tandem 
«procuravit  sibi  tacere  "ìnagnam  pariem  in  Bononia,  quae 
«  vocata  est  oh  hoc  pars  Ma^^chiana.  Iste  ergo  miles,  nomine 
«  Veneticus,  habuit  unam  sororem  piftcerrimam,  quam  conduxit 


(1)  Memoriale  del  1304  di  Giacomo  di  Bongerardo,  e.  37  t. 


40  G.    ZACCAGNINI 

«  ad  serviendum  marchioni  Azoni  de  sua  pulcra  persona  ut  for- 
«  tius  promeretur  gratiam  eius  ». 

Un'ultima  questione  ci  piace  di  trattare,  sia  pure  fugacemente, 
questione  di  singolare  importanza,  perché  riguarda  direttamente 
la  vita  di  Dante. 

Senza  dubbio  Venetico  fu  conosciuto  personalmente  da  Dante. 
e  perciò  appunto  là  tra  i  frustati  per  turpe  colpa  in  Malebolge 
il  Poeta  lo  riconosce  subito  : 

Mentr'io  andava,  gli  occhi  miei  in  uno 
furo  scontrati;  ed  io  si  tosto  dissi: 
«  Già  di  veder  costui  non  son  digiuno  ». 

Perciò  a  figurarlo  i  piedi  affissi; 
e  il  dolce  duca  meco  si  ristette, 
ed  assenti  ch'alquanto  indietro  gissi. 

E  quel  frustato  celar  si  credette, 
bassando  il  viso;  ma  poco  gli  valse, 
ch'io  dissi:  «  0  tu,  che  l'occhio  a  terra  gette, 

se  le  fazion,  che  porti,  non  son  false, 
Venetico  se'  tu  Caccianimico 

Dove  e  quando  Dante  lo  conobbe  ? 

Dicono  alcuni  che  lo  potè  conoscere  a  Pistoia,  ove  fu  podestà 
per  pochi  mesi  nel  1283.  Non  so  perché  Dante,  a  soli  diciassette 
anni,  si  sarebbe  recato  a  Pistoia,  e,  se  anche  ci  fosse  andato, 
non  so  perché  avrebbe  potuto  dimorarci  cosi  a  lungo  da  cono- 
scere tanto  bene  Venetico  che,  appena  scorte  nell'Inferno  le  sue 
fattezze,  lo  ravvisa. 

Lo  Zingarelli  giustamente  osserva  che  i  versi  in  cui  Dante 
parla  di  lui  sono  sutficienti  «  per  veder  subito  che  non  ci  entra 
«  la  fuggevole,  problematica  conoscenza  che  può  aver  fatta  di 
«  lui  Dante  in  occasione  della  breve  podesteria  in  Pistoia  »  (1). 

Dunque,  se  non  lo  ha  conosciuto  a  Pistoia,  dicono  altri,  lo 
avrà  potuto  conoscere  a  Bologna  prima  del  i287,  e  credono  di 


(1)  Dante,  p.  111. 


PERSONAGGI    DANTESCHI    IN    BOLOGNA  41 

confermare  questa  loro  ipotesi  attribuendo  a  Dante  la  paternità 
del  sonetto  famoso  sulla  Garisenda  :  Non  mi  potranno  già  mai 
fare  ammenda^  che  si  trova  in  un  memoriale  del  1287  del  no- 
taro  bolognese  Enrichetto  delle  Querce  (1). 

Ma  intanto  siamo  proprio  sicuri  che  il  sonetto  sia  di  Dante? 

È  vero  che  quattro  buoni  codici  lo  danno  a  lui;  ma  nel  Me- 
moriale è  adespoto,  e  adespoto  è  pure  in  un  codice  capitolare 
di  Verona.  Del  resto,  anche  ammesso  che  il  sonetto  sia  di  Dante 
e  che  Dante  quindi  sia  stato  una  prima  volta  in  Bologna  prima 
del  1287,  questo  non  toglie  che  vi  sia  stato  un'altra  volta  anche 
dopo  quest'anno  e  abbia  allora  conosciuto  Venetico. 

Per  i  documenti  che  noi  abbiamo  messi  in  luce  e  che  provano 
come  Venetico  sia  morto  certamente  fra  il  1302  e  il  1303  e  pro- 
babilmente sui  primi  del  1303,  viene  a  cadere  uno  dei  più  validi 
argomenti  che  si  avevano  per  sostenere  che  Dante  fosse  venuto 
a  Bologna  prima  del  1290.  Certamente  non  può  più  dirsi  con  lo 
Zingarelli  che,  incontrandosi  Venetico  di  frequente  nei  pubblici 
documenti  dal  1267  al  1289,  ma  non  oltre,  è  verosimile  che  fosse 
morto  poco  dopo,  e  che  Dante  perciò  non  potesse  averlo  cono- 
sciuto se  non  nella  giovinezza  (2). 

È  verosimile  invece  che  Dante  lo  abbia  conosciuto  in  Bo- 
logna, quando  Venetico  era  già  vecchio  e  non  più  occupato  in 
uffici  pubblici  lungi  dalla  patria,  perciò  negli  ultimi  anni  del 
secolo  XIII  (3). 

Questa  nostra  ipotesi  si  fonda  in  sostanza  sopra  l'esame  di 


(1)  Questa  opinione  è  sostenuta  specialmente  da  C. Ricci,  Op.  cit.,  p.  297  e  sgg. 

(2)  Op.  cit,  ivi. 

(3)  Nessun  documento  ci  assicura  della  presenza  di  Dante  in  Bologna,  se 
pure  il  grande  fiorentino  non  è  da  riconoscersi  in  un  «  domino  Dante  de  Flo- 
rentia  »,  che  è  presente  in  quella  città  ad  un  atto  del  27  ottobre  1291  (R.  Ar- 
chivio di  Stato  di  Bologna,  Memoriale  di  Bonfantino  di  Fetrizzolo  de'  Mal- 
pigli, e.  79  t).  L' ipotesi  sarebbe  davvero  seducente,  ma  disgraziatamente  c'è 
anche  forte  ragione  di  dubitarne,  perché  proprio  in  quel  tempo  è  scolare  a 
Bologna  un  Dante  di  Scoiaio  degli  Abati  di  Firenze,  come  mi  assicura  il 
cav.  Giovanni  Livi  che  dei  ricordi  danteschi  in  Bologna  amorosamente  si  sta 
occupando. 


42  G.    ZACCAGNINI 

documenti  sicuri,  mentre  l'altra  che  assegna  quella  conoscenza 
al  1287  0  poco  prima,  non  può  trovar  fondamento  che  sopra  la 
paternità  attribuita  a  Dante  del  sonetto  sulla  Garisenda,  pater- 
nità che  non  mi  pare  ancora  suffragata  da  argomenti  inconfu- 
tabili. 

Intorno  alla  G-hisolabella  maggiore  è  l'incertezza  e  la  scarsità 
dei  fatti. 

Grli  antichi  commentatori,  al  solito,  poco  ci  dicono,  e  fanno 
grandi  confusioni.  Si  abbandonano  ai  voli  della  fantasia  anche 
intorno  al  nome.  L'Anonimo  Fiorentino,  per  esempio,  dice  che 
fu  chiamata  cosi  «  antonomastice,  per  eccellenzia  ;  però  che  avan- 
«  zava  in  bellezza  tutte  le  donne  bolognesi  a  quello  tempo,  fu 
«  chiamata  la  Glhisola  bella  ».  No  :  nei  documenti  che  pubbliche- 
remo, vedremo  che  è  sempre  detta  «  Grhixolabella  »  o  «  Ghisla- 
«  bella  »,  e  questo  nome,  assai  frequente  nella  onomastica  bolo- 
gnese allora  e  poi,  è  sempre  scritto  cosi.  Del  resto  si  pensi  che 
in  sostanza  Ghisolabella  è  lo  stesso  che  Isabella. 

Ed  errano  pure  intorno  al  nome  del  marito  che  per  alcuni  fu 
un  Niccolò  di  Chiarello  bolognese,  e  per  altri  Niccolò  da  Fon- 
tana ferrarese.  E  non  sanno  nemmeno  se  il  fratello  lo  inducesse 
a  far  le  voglie  del  marchese  Obizzo  che  visse  fino  al  1293  o  di 
Azzo  Vili  che  successe  in  quell'anno  al  padre. 

Per  risolvere  queste  varie  questioni  e  portare  un  po'  di  luce 
dove  ora  s'addensano  le  tenebre,  esponiamo  qui  le  notizie  sicure 
che  intorno  all'antica  gentildonna  bolognese  ci  conservano  i  do- 
cumenti d'archivio. 

Della  Ghisolabella  non  si  è  finora  trovato  ricordo  alcuno  an- 
teriore al  1281,  nel  quale  anno  apparisce  che  già  dimorava  in 
Bologna  (1),  mentre  non  rari  sono,  come  vedremo,  gli  atti  poste- 
riori a  quest'anno  che  la  riguardano. 

Il  7  giugno  1283  fa  quietanza  per  60  lire  di  bolognini  a  Liario 


(1)  Vedi  il  testamento  che  in  questo  anno  fece  in  Bologna  in  Del  Lungo, 
Op.  cit.,  p.  270. 


PERSONAGGI    DANTESCHI    IN    BOLOGNA  43 

Arpinelli  (1).  Il  5  maggio  1289  fa  pace  con  un'Imelda,  sua  serva, 
«  de  omni  iniuria,  offensa  et  dampno  quod  eidem  fecisset  ».  La 
poveretta  era  stata  bandita  per  volere  dell'orgogliosa  signora, 
che  era  stata  punta  forse  da  qualche  parola  ingiuriosa  ricordante 
la  vergognosa  relazione  col  marchese  d'Este.  Il  documento  na- 
turalmente non  può  contenere  minuti  paiiicolari,  ma  «  la  sconcia 
«  novella  »,  che  doveva  essere  assai  nota  in  Bologna,  chi  sa 
forse  che  non  abbia  offerta  buona  materia  alla  linguacciuta  serva, 
offesa  dagli  altezzosi  modi  della  superba  signora.  Ecco  qui  il 
curioso  documento  : 

Domina  Ghixila,  fiha  quondam  domini  Alberti  Chazanimici,  fecit  fìnem, 
remixionem  et  pacem  Imelde,  que  dicitur  Lucha  que  fait  de  Panico  olim  sue 
servienti,  de  omni  iniuria,  offensa  et  dampno  quod  eidem  fecisset,  et  dixit 
quod  sibi  placet  et  vult  quod  dieta  Imelda  eximatur  et  canzelletur  de  banno 
maleficii  in  quo  fuit  posita  tempore  secundi  regiminis  domini  Bonacursii 
De  Donatis  Potestatis  Bononie.  Ex  istrumento  Bene  Predalbini  net.  facto  beri 
Bononie  sub  porticu  domus  heredum  quondam  Zanini  fornarii,  presentibus 
Rainerio  SighinelU,  Petro  fornario  quondam  Ubaldini  et  Adam  Rugerii  te- 
stibus,  et  sic  predicti  contrahentes  una  cum  dicto  notario  dixerunt  et  scribi 
fecerunt.  —  Die  quinto  intrante  madio  (2). 

Il  19  decembre  1290  fa  un  atto  di  quietanza  per  40  lire  di 
bolognini  (3).  Il  26  luglio  1295  elegge  un  procuratore  per  ricu- 
perare dal  Comune  di  Ferrara  la  sua  dote  di  oltre  600  lire  di 
bolognini,  da  lei  data  a  Niccolò  da  Fontana,  suo  marito,  «  olim 
«  civis  Ferrarle  ».  Questo  documento  che  può,  a  mio  avviso, 
darci  luce,  insieme  con  gli  altri,  a  comprendere  quale  sia  stata 
la  vita  della  Grhisolabella,  credo  prezzo  dell'opera  riferire  qui 
per  intero  : 

Domina  Gixilabella,  fiUa  quondam  nobilis  viri  domini  Alberti  de  Ca^animicis 
de  civitate  Bononie,  fecit  suum  procuratorem  dominum  Jacobinum  de  Kanu- 

. • 

(1)  Memoriale  di  Tommaso  di  Bartolomeo  di  Donna  Chiara,  e.  114  t. 

(2)  Memoriale  di  Domenico  di  Meserazzano,  e.  77  t. 

(3)  Memoriale  di  Niccolò  di  Giovannino  Manelli,  e.  110  ^. 


44  G.    ZAOCAGNINI 

cinis  iudicem  proprium  ad  petendam,  exigendam  et  recuperandam  a  comuni, 
sindico  aut  procuratore  civitatis  Ferarie  et  a  quacunque  allia  persona  seu  uni- 
versitate  seu  domino  dotem  suam,  que  fuerunt  sexcentarum  librarum  bon.  in 
pecunia  numerata,  quam  dotem  dedit  domino  Nicholao  de  Fontana  eius  viro, 
olim  civi  Ferarie,  et  accessiones  ipsius  dotis  tam  alimentorum,  quam  alie  ac- 
cessiones,  ad  solutionem  recipiendam  dictarum  dotium,  allimentorum  et  aliarum 
accessionum  omnium  et  expensarum  factarum  et  faciendarum  dictis  de  causis 
et  ad  libellum  dandum  et  recipiendum,  litem  contestandam  et  ad  compro- 
mittendum  se  de  omnibus  et  singulis  supradictis  et  ad  soUutionem  recipiendam 
de  dieta  dote  et  ad  vocandum  se  solutum  de  omnibus  et  singulis  supra  dictis 
et  quolibet  et  ad  requirendum  dominum  Potestatem,  Consilium  et  Comune 
Ferarie  et  sindicum  ipsius  Comunis  et  quamlibet  personam  et  desuper  restitu- 
tione  diete  dotis  et  supra  solutione  facienda  ipsi  domino  Jacobino  de  omnibus  et 
singulis  supra  dictis  recipienti  nomine  et  vice  ipsius  domine  et  ad  potestates 
faciendas  nomine  ipsius  domine  et  prò  ipsa  domina  prò  omnibus  et  de  omnibus 
et  singulis  supra  scriptis  domino  Potestati,  Comuni  et  sindico  civitatis  eiusdem 
et  cuilibet  singulari  persone,  domino  vel  universitati  prò  omnibus  et  singulis 
supra  scriptis  et  occaxione  eorum  vice  et  nomine  ipsius  domine  et  prò  ipsa 
domina  et  generaliter  ad  omnia  et  singula  facienda  cum  promixionibus  et 
obligationibus  et  cum  relevacione  et  fideiussione.  Ex  istrumento  Francisci 
Eovixii  not.  odie  facto  sub  porticu  domus  abitacionis  diete  domine  (1). 

Qui  è  espressamente  detto  che  il  marito  era  Niccolò  da  Fon- 
tana, e  r  espressione  «  olim  civis  Ferarie  »  non  vuol  dire  che 
nel  1295  fosse  morto,  ma  che  allora  non  era  più  cittadino  di 
Ferrara,  come  sotto  vedremo. 

Credo  di  potere  affermare,  con  la  scorta  di  questi  e  altri  do- 
cumenti, che  costui  per  vari  anni  visse  lungi  dalla  moglie,  e 
forse,  anche  prima  del  1281,  non  visse  in  compagnia  di  lei. 

Infatti  in  tutti  questi  documenti  essa  è  designata  quasi  sempre 
cosi:  «  Ghixilabella  filia  quondam  domini  Alberti  Chazanimici  », 
senza  che  si  accenni  mai  al  nome  del  marito,  e,  d'altra  parte, 
già  nel  settembre  del  1273,  «  dominus  Albi^us  et  Thomaxinus, 
«  fratres  filij  quondam  domini  Jacobi  de  Duglolo,  fecerunt  eorum 


(1)  Memoriale  di  Guido  da  Manzolino,  e.  4  <. 


PERSONAGGI    DANTESCHI    IN    BOLOGNA  45 

«  procuratorem  Paulum  Henrici  de  Cospis  presentem  in  causa 
«  quam  habent  vel  habere  sperant  cum  comuni  Ferarie  vel  eius 
«  sindico  occasione  bonorum,  que  dieta  fuerunt  domini  Nicholai 
«  de  Fontana  »  (1). 

Un  altro  documento  del  10  maggio  1283  ci  accerta  che  costui 
già  dimorava  a  Bologna  in  quel  tempo,  se,  come  a  me  pai'e,  è  il 
marito  della  Gliisolabella  quel  «  Nicholaus  fìl.  quondam  dom. 
«  Pegorarii  de  Fontana  de  civitate  Ferrarle  »  che  con  altri  ha 
un  debito  con  i  Tettalasini  di  Bologna  (2). 

D'altra  parte  noi  sappiamo  che  i  Fontana,  i  quali  avevano  fa- 
vorito Obizzo  d'Este  e  lo  avevano  aiutato  a  prendere  il  dominio 
di  Ferrara,  gli  erano  divenuti  poi  nemici  ed  erano  stati  da  lui 
cacciati  prima  in  parte  nel  1270,  e  poi  tutti  nel  luglio  del  1273(3). 
Ora  la  coincidenza  del  tempo  ci  fa  credere  che  le  parole  del 
documento  surriferito  :  «  occasione  bonorum  que  dieta  fuerunt 
«  domini  Nicholai  de  Fontana  »  si  riferiscano  appunto  al  bando 
di  lui  cacciato  in  esilio  con  tutti  i  suoi  nel  luglio  del  1273,  e 
quindi  accennino  a  una  confisca  dei  suoi  beni  fatta  allora  dal 
Comune  di  Ferrara. 

Francesco  Torraca,  nel  suo  commento  alla  Divina  Commedia^ 
fa  un'ipotesi  che,  a  nostro  avviso,  ha  più  d'un  elemento  di  pro- 
babilità. Egli  dice  :  «  Non  è  improbabile  che  una  delle  ragioni 
«  dell'inimicizia  {tra  i  Fontana  e  Obizzo)  fosse  l'oltraggio  fatto 
«  dal  marchese  a  Niccolò  »  (4).  È  quindi  assai  verosimile,  a  mio 


(1)  Memoriale  dei  1283  di  Zaccaria  di  Botando,  e.  97*. 

(2)  Memoriale  del  1273  di  Cavazocco  degli  Albergati,  e.  130. 

(3)  RiccoBALDO  Ferrarese  nella  sua  Compilatio  chronologica  usqiie  ad 
annum  MCCCXIJ  producta,  IX,  139,  dice  che  i  Fontana  furono  espulsi 
tutti  quanti  nel  1273.  Cosi  è  detto  anche  nel  Chronicon  parvum  ferrariense, 
VITE,  488.  Ma  una  parziale  cacciata  dei  Fontana  era  stata  fatta  anche  nel  1270, 
quando  furono  espulsi  il  fratello  e  il  figlio  di  Alighiero  da  Fontana  {ivi,  IX, 
250-251).  Cfr.  anche  Ann.  veteres  Mutinensi^hn,  XI,  70. 

(4)  Anche  uno  degli  antichi  commentatori,  l'anonimo  Cassinese,  dice  che 
Venetico  sottomise  la  sorella  alle  voglie  dell'Estense,  quando  essa  era  già  moglie 
di  Niccolò  Chiarelli:  errò  nel  nome  del  marito;  ma  accennò,  e  ciò  è  impor- 
tante per  noi,  che  essa  era  allora  maritata. 


46  G.    ZAOOAGNINI 

credere,  che  lo  sconcio  fatto  sia  avvenuto  intorno  al  luglio 
del  1273,  anche  perché  mi  pare  naturale  che  la  causa  intentata 
da  Albizzo  e  Tommasino  da  Bugliolo  fosse  fatta  subito  dopo 
l'espulsione  di  tutti  i  Fontana  e  quindi  anche  di  Niccolò,  e  non 
alla  distanza  di  tre  anni,  se  si  potesse  credere  che  Niccolò  fosse 
stato  bandito  nel  1270. 

Se,  come  a  me  pare,  si  ritenesse  accettabile  l'ipotesi  del  Tor- 
raca,  noi  ragionevolmente  potremmo  pensare  che  Niccolò  fosse 
andato  con  i  suoi  consorti  lungi  dalla  moglie,  di  cui  doveva  es- 
sere ben  nota  la  turpe  avventura  coll'Estense,  ed  essa  fosse  ri- 
tornata nel  palazzo  avito  in  Bologna.  Colà  appunto  la  vediamo, 
secondo  i  surriferiti  documenti,  dal  1281  fino  al  1295,  nel  quale 
anno  sappiamo  con  tutta  certezza  che  Niccolò  era  ancora  tra 
i  vivi. 

Nei  Memoriali  bolognesi  abbiamo  veduto  parecchi  documenti 
dai  quali  resulta  che  Niccolò  fu  conestabile  del  comune  di  Bo- 
logna fino  ai  primi  anni  del  secolo  XIV.  Mori  fra  il  marzo  e  il 
luglio  del  1303  (1). 

So  bene  che  questa  mia  opinione  va  contro  quella  sostenuta 
dal  Mazzoni-Toselli  che  credette  di  dimostrare  come  il  vergo- 
gnoso fatto  deve  essere  avvenuto  prima  del  1270,  nel  quale  anno 
si  erano  già  celebrate  le  nozze  della  Ghisolabella  con  Niccolò 
da  Fontana  (2);  ma  mi  sembra  che  i  documenti  suffraghino 
piuttosto  la  mia  opinione,  dubitativamente  già  esposta  dal  Torraca. 

Inoltre,  se  lo  sconcio  fatto  avvenne  nel  luglio  del  1273,  il 
marchese  d'Este,  che  fece  le  sue  voglie  con  la  giovine  e  bella 
signora,  sarebbe  stato,  come  credono  i  più,  Obizzo,  che  Salim- 


(1)  Il  9  marzo  1303  fa  un  atto  di  vendita  {Memoriale  di  Santi  d'Alber- 
tino Bafanelli,  e.  28)  ;  il  4  luglio  di  quello  stesso  anno  apparisce  in  un  atto 
«  Andrea,  filio  et  herede  quondam  domini  Nicholai  de  Fontana  »  {Memo- 
riale d'Iacopo  Indovina,  e.  2). 

(2)  Dizionario  Gallo  Italico,  voi.  II,  p.  1253  e  segg.,  fonda  la  sua  asserzione 
sopra  certe  Memorie  manoscritte  di  Gaetano  Monti  da  lui  vedute,  per  le  quali 
la  Ghisolabella  sarebbe  stata  nel  1270  già  moglie  di  Niccolò  da  Fontana. 
Dell'opinione  del  Mazzoni-Toselli  è  anche  il  Del  Lungo,  Op.  cit.,  p.  241. 


PERSONAGGI    DANTESCHI    IN    BOLOGNA  47 

bene  asserisce  aver  contaminato  innumerevoli  «  donne  di  nobili 
«  e  d'ignobili  di  Ferrara  »,  piuttosto  che  Azzo  Vili,  divenuto 
marchese  di  Ferrara  soltanto  nel  1293. 

Quando  la  Ghisolabella  mori  ? 

Era  ancora  in  vita  nel  marzo  del  1296,  come  dimostra  un  do- 
cumento di  quel  tempo,  per  cui  essa  riprende  da  un  Michele  di 
Petrizzolo  barbiere  una  piccola  somma  di  bolognini  che  aveva 
lasciati  in  deposito  nelle  mani  di  costui  (1). 

Abitava  allora  non  più  nelle  avite  case,  ma  presso  un  Jacopino 
di  Arpinello.  Forse  già  fin  d'allora  il  Comune  aveva  confiscato 
i  beni  a  Venetico  e  lo  aveva  bandito  ? 

Altre  notizie  dell'ormai  vecchia  gentildonna  non  ci  è  stato  pos- 
sibile trovare,  cosicché  dobbiamo  ritenere  che  verso  il  termine 
del  secolo  XIII  non  fosse  più  tra  i  vivi. 

È  certo  dunque,  per  i  documenti  da  noi  veduti,  che  essa  per 
molti  anni  visse  separata  dal  marito,  il  quale  verso  il  termine  del 
secolo  XIII  e  nei  primi  del  XIV  dimorò  con  un  figlio,  Andrea, 
in  Bologna. 

Guido  Zaccagnini. 


(1)  Memoriale  di  Pietrohono  di  Martino  del  Grasso,  e.  33  t. 


Primi  contatti  fra  Italia  e  Rumania 


APPUNTI 
sulla  lingua  e  letteratura  italiana  in  Rumania  nel  sec.  XVIII. 


PIETRO  METASTASIO  E  I  POETI  VACARESTI  ^'^ 


IH. 
I  melodrammi. 

Passando  ora  ad  occuparci  dei  melodrammi,  sarà  in  primo 
luogo  da  osservare  come  la  traduzione  greca  delle  «  tragedie  » 
del  signor  abate  Pietro  Metastasio  uscisse  il  1779  a  Venezia 
con  licenza  de'  superiori  col  seguente  titolo: 

TPAFQM'AI  I  Toi^  nimòp  A'MHA'TE  \  IIETPOT  \ 
METASTASI' 01,  \  MexacpqaGTelGai  ex  Tfjc,  TxaXiKfjc,  eie,  \  tìjv 
flliETÈQav  àjiÀ^v  I  AidXemov.  \\  aipod-'.  E'NETFHSIN.  1779.  \\ 
Ilaqà  AfjfifjTQlcp  Oeoòoaiov  %(^  è^  Fùìavvivoìv.  \  Con  Licenza 
de'  Superiori. 

Pure,  un  manoscritto  della  Biblioteca  Academiei  romàne.,  e 
precisamente  il  ms.  807,  ci  mostra  come,  fin  dal  1758,  il  Meta- 
stasio fosse  penetrato  in  Rumania.  Si  tratta  di  un  ms.  miscel- 
laneo del  secolo  XVIII  esemplato  su  carta,  contenente  51  fogli. 
Misura  cm.  25  X  20  ;  al  f.  10  si  legge  : 

*0  àvayvcoQiofiòg  Tfjg  Se/iigd/nidog.  AQdfia  xov  UiéTQov 
Mexaaxaalov  xov  'Pojfidvov,  [lExacpQaad^hv  ex  ttjg  FTaÀixrjg 


(1)  Vedi  la  prima  parte  a  pp.  193  sgg.  del  voi.  LXm. 


PRIMI    CONTATTI    FRA    ITALIA    E    RUMANIA  49 

eig  ÈTOVTfjv  %riv  óidÀSTCTov  fino  xov  'AvaaxaGlov  Sovyòovqfl 
xov  è^  lù)avvivù)v  xarà  tò  1758. 

Ci  troviamo,  con  ogni  probabilità,  davanti  a  una  tra  le  prime 
traduzioni  greche  del  Metastasio,  giacché  le  altre  registrate  dal 
IlaJiaóÓTiovZog  EgéTog  nella  sua  diligentissima  NeoeÀÀrjviTttj 
WiÀoÀoyla,  e  cioè  quelle  delV Achille  in  Sciro  (Vienna,  1794),  del 
Demofoonte  (Vienna,  1794),  del  Temistocle  (Vienna,  1796)  e 
&e\V  Olimpiade  (Vienna,  1797),  son  tutte  posteriori  alla  prima 
traduzione  veneta  del  1779,  che  comprendeva  soltanto:  VArta- 
serse,  V Adriano  in  Si7Ha,  il  Demetrio,  la  Clemenza  di  Tito, 
il  Siroe  e  il  Catone  in  Utica.  Con  tutto  ciò,  è  possibile  che  anche 
altre  traduzioni  di  drammi  metastasiani  circolassero  manoscritte 
in  Rumania,  quando,  il  1784,  Alexandru  Beldiman  traduceva  a 
lassy,  probabilmente  dal  greco,  la  Clemenza  di  Tito.  Ad  ogni 
modo,  per  ciò  che  riguarda  questa  traduzione,  non  c'è  bisogno 
di  ricorrere  ad  un  manoscritto  immaginario,  poi  che  proprio  con 
la  ETznAArXNFA  TOT^  TI' TOT  s'apre  il  secondo  volume  del- 
l'edizione veneta  surricordata.  A  proposito  della  quale  sarà  bene 
avvertire  che  manca  del  nome  del  traduttore,  malgrado  il  solito 
HaTiaòÓTzovXog  Bqéxog  ci  faccia  sapere  trattarsi  d'un  tal  Tom- 
maso da  Rodi  (0o[idg  ò  'Póòiog)^  del  quale  non  è  qui  il  caso 
di  parlare  (1).  La  traduzione  del  Beldiman  (2)  è  inedita  e  si  trova 


(1)  Cfr.  IlaTtaòó  Tcov  a  0  g  Bqctos,  Nsoe  à  Àr^v  iHtj  <p  t  ÀoÀoyla, 
xtÀ.  'Ev  "A^rivais,  1854,  MéQog  B',  pp.  70  (n.  158  e  non  183  come  è  stam- 
pato per  errore  tìqW  ^A  Àtpa^ ev ly^ò g  nlva^  sotto  il  nome  di  P0AI02 
Sùìf^dg)  e  332. 

(2)  Cfr.  JoNNESCu-GiON,  Vornicul  Alecu  Beldiman  in  Portrete  istorice  già 
citati,  loc.  cit.,  e  N.  Jorga,  Ist.  Ut.  rom.  in  sec.  al  XVIII'"*,  II,  440  sgg.,  e, 
per  ciò  che  riguarda  le  notizie  biografiche.  II,  87  (e  non  81  come  neWitidice 
onomastico  in  fine  al  volume).  Nato  adHusi  il  J760  dal  Banu  Gheorghe  Bel- 
diman, percorse  tutta  la  scala  delle  cariche  di  corte  da  ceaus  (1785)  a  Vm-nic 
(1819)  finché  «  dupa  stabilirea  in  Scaun  de  Joan  Sandu  Sturdza  a  carili 
«  Domnie  isi  propunea  s'o  descrie  »  si  ritrasse  dai  pubblici  negozi  «  spre  care 
«  nici  0  data  nu  si  simtise  o  deosebita  aplecare  »  e  «  se  zabavi  cu  talmaci- 
«  rile  »,  antica  e  cara    sua   occupazione  «  de  gelos  si  harnic  carturar  ».  Era 

Giornale  storico,  LXIV,  fase.  190-191.  4 


50  B.    OBTIZ 

nel  ms.  181  della  Biblioteca  Academici  Romàne  sotto  il  titolo 
di:  Milosdrdia  lui  Tit.  Ne  trascrivo  l'argomento,  l'elenco  dei 
personaggi,  le  prime  battute  di  dialogo  della  1^  scena  dell'Atto  I 
e  la  nota  finale,  che  ci  dà  il  nome  del  traduttore  e  la  data  pre- 
cisa del  giorno  in  cui  la  traduzione  fu  terminata. 

[f.lr.] 

MILOSARDIA   LUI    TIT 

Pricina. 
Intre  ce  alalti  din  vechiu  domni  si  imparati  nic[i]  unul  au  statut  mai  bun 
si  mai  iubit  de  narodul  sau  de  cat  Titu  Vespasian,  cac[i]  den  pricina  nemar- 
ginitelor  sali  fapte  bune  si  den  dragoste  ci  dobandisa  a  norodului  sau  s-au 
numit  bucuriia  niamului  omenescu.  Cu  toate  aceste  doi  tineri  de  bun  niam, 
dintre  cari  unul  dobandisa  celi  mai  mari  faciri  de  bine,  1-au  pizmuit  si  hain- 
lacul  lor  dovedindu-sa,  sanglitul  i-au  hotarìt  spre  moarte.  Cu  toate  aceste 
pré  milostivul  imparat  nu  numai  ca  nu  i-au  pedepsat,  ci  parintaste  i-au 
sfatuit  si  i-au  ìnvatat  cum  sa  sa  poarte,  dandu-le  cazuta  ertari  atat  cum  si 
celor  ce  se  afla  cu  ei  inpreuna. 


ormai  vecchio  di  sessant'anni  e  poco  poteva  più  tradurre.  La  morte  lo  colse 
a  Jassy  (come  par  probabile)  nei  primi  giorni  (1-6)  del  gennaio  1826.  Co- 
minciò la  sua  carriera  di  traduttore  proprio  con  la  Clemenza  di  Tito  del  Me- 
tastasio  (1784)  e  la  terminò  due  anni  prima  di  morire  con  quella  dei  Viaggi  ^q\ 
Coxe.  —  Dopo  il  primo  tentativo  (ch'egli  stesso  dovè  accorgersi  non  esser  punto 
riuscito),  non  si  lasciò  scoraggiare  dalle  difficoltà  incontrate  nella  traduzione 
del  melodramma  metastasiano  ;  ma  aspettò  quasi  vent'anni  a  rinnovarlo.  Non 
prima  infatti  del  1803  appare  la  seconda  traduzione  del  Beldiman,  ed  è  quella 
dei  Menechmi  del  Regnard,  cui  seguiranno  a  piccoli  intervalli  Elisaveta  sau 
cei  surguniti  in  Siberia  (1815)  ;  la  Manon  Lescaut  dell'abate  Prévost  (1815); 
la  Istoria  Im  Maimundu,  scoasa  din  Decameron  a  Franta  (1815);  la 
Mortea  luiAvel  dal  Gessner  (1818);  la  Tragedia  lui  Ovest  dal  Voltaire  (1820); 
la  Storia  luì'  Numa  Ponipilie  (1820?)  per  parlar  solo  delle  più  importanti, 
giacché  questo  gran  traduttore  al  cospetto  di  Dio  si  crede  abbia  tradotto 
persin  V  Odissea,  di  cui  però  non  sappiamo  che  quanto  ce  ne  dice  il  Carcalechi, 
vale  a  dire  la  notizia  pura  e  semplice  che  Beldiman  aveva  tradotto  aìiche 
Omero  e  lo  avrebbe  presto  dato  in  luce.  Che  si  tratti  dell'Odissea  e  la  tra- 
duzione del  Beldiman  sia  da  identificarsi  con  quella  versione  di  cui  il  Gaster 
ha  dato  un  saggio  nella  sua  Crestomazia  (II,  38)  e  il  cui  manoscritto  si  trova 
a  Sibiiu,  può  darsi  benissimo  ;  ma  non  ci  pare  si  possa  affermare,  se  non  dopo 
uno  studio  accurato  del  ms.  e  della  lingua  in  cui  è  redatto  ;  cosa  che  nessuno 
si  è  preso  finora  la  briga  di  fare. 


PRIMI    CONTATTI    FRA    ITALIA    E   RUMANIA  51 

[f.  1  V.]  Obrazele. 

Tit  Vespasaan,  ìmparat  Kamului. 
Sitélia  {sic),  fiica  ìraparatului  Vitleiu. 
Servilid,  sor  lui  Sastu  si  libovnica  lui  Anii. 
Sastu,  prietenul  lui  Titu  si  libovnic  Vitelli, 
Anii,  prietinu  lui  Sastu  si  libovnic  Servilii. 
Puplii,  boeriu  giudecatonu. 
Adunare  sangliticilor  si  narodul. 

[f.  2  r.] 

MILOSARDIA    LUI    TIT 

Intima    facire. 
Loc  in  drept  Tiverii,  intru  carile  este  lacasul  Vitelli. 
SCHINA  I. 
Vitelua   si  Sastu. 
Vit.  Pana  cànd  Saste  mi-i  spune  aceste,  stiu  ca  ai  fécut  sa  crìaza  Lendol, 
ca  oaraenii  lui  sant  gata  si,  ca  ìndata  ce  vii  da  foc  la  Capitol,  se  vor 
pomi  cu  totii  cei  se  sant  intr'un  gandu  spre  savarsire  faptii.   Vor  sa 
legi  ta[s]ma  rosii  la  mana  driiaptà  ca  sa  sa  cunoasca  ìntre  dansii. 
Aceste  li  ara  auzit  de  o  mii  de  ori,  si  cu  toate  aceste  Titu  salit  fiind 
de  robire  dragostii,  se  va  cununa  cu  Verenichi  si  va  da  imparatila  ci 
au  rapit  de  la  tatal  meu.  Spune-mi  pentru  ce  atata  ìntarzaeri? 

Sàst.  Ah 

[f.  2  V.] 

Vit.  Oftezi  ;  a  ìntalegi  eu  nu  pociu,  caci,  cand  nu  sant  de  fata,  esti  gata  spre 
savarsire  rasplatirii,  si  cand  sant,  nu  stii  ce  drum  sa  apuci.  Si  te  vad 
foarte  turburat.  Talmaceste-mi  pilda  acasta,  caci  mi  s-au  urat  a  te 
vede  une  ori  foarte  ìndraznetu  si  alta  data  pisti  fìri  fricos. 

s.  e.  1. 

Ed  ecco  infine  la  nota  che  si  legge  sul  verso  deirultima  pagina: 

«  1784  Octomv.  5.  Acasta  carte  s-au  scris  si  s-au  talmacit  de  mine 

«  Alexandru  Beldiman  », 

dalla  quale  risulta  trattarsi  proprio  dell'autografo. 

Disgraziatamente  però  non  è  il  caso  di  rallegrarci  eccessiva- 
mente di  una  simile  fortuna,  visto  che  ci  troviamo  dinanzi  a  una 
pessima  traduzione,  in  cui  del  Metastasio  non  resta  proprio  più 


52  R.    ORTIZ 

nulla.  Sparito  ogni  ornamento  retorico,  spogli  del  loro  bel  colo- 
rito classicheggiante,  diluiti  nella  prosa  più  rozza  e  più  pedestre 
che  fantasia  umana  possa  immaginare  ;  i  bei  versi  del  Metastasio, 
il  cui  decoro  rende  sopportabile  codesta  scena  introduttiva,  che, 
si  può  dire,  non  ha  quasi  altri  pregi  che  di  forma,  ci  fanno  un 
po'  l'effetto  di  signori  decaduti,  che  abbiam  visto  in  tutto  lo  splen- 
dore della  loro  fortuna,  eleganti  ed  azzimati  incrociar  motti  di 
spirito  sotto  la  luce  sfolgorante  dei  doppieri  tra  le  marsine  e  i 
decolletès  di  una  festa  da  ballo,  e  ci  si  ripresentano  dopo  qualche 
tempo,  vergognosi  di  se  e  dei  loro  abiti  cenciosi,  per  chiederci 
un  soccorso^  dopo  averci  narrato  una  lunga  storia  di  sofferenze 
e  di  guai.  Basterà  mostrare  che  miserevole  cosa  sian  diventati 
nella  traduzione  alcuni  versi  del  Metastasio,  perchè  ognun  vegga 
come  il  paragone  sia  tutt'altro  che  esagerato  : 

Vitéllia.  Io  tutto  questo 

Già  mille  volte  udii;  la  mia  vendetta 
Mai  non  veggio  però.  S'aspetta  forse 
Che  Tito  a  Berenice  in  faccia  mia, 
Offra,  d'amore  insano, 
L'usurpato  mio  soglio  e  la  sua  mano? 
Parla,  di',  che  s'attende? 

Non  sono  i  più  bei  versi  del  Metastasio!  D'accordo.  Ma  son 
ben  vestiti,  che  è  sempre  qualcosa.  Ora...  volete  sapere  come  li 
traduce  il  Beldiman  ?  Né  più  né  meno  di  cosi  :  «  Queste  cose  le 
«  ho  ascoltate  mille  volte  e  con  tutto  ciò  Tito,  essendo  costretto 
«  dall'accecamento  dell'amore,  s'ammoglierà  con  Berenice  e  (le) 
«  darà  l'impero  che  ha  rapito  al  padre  mio.  Dimmi  perché  tanti 
«  ritardi  ?»  E  sfido  chiunque  a  dimostrarmi  che  sono  stato  io  a 
tradur  male  il  rumeno  ! 

La  colpa,  del  resto,  non  sarà  poi  tutta  del  Beldiman  (1)  ;  che 


(1)  Il  quale  del  resto,  anche  come  scrittore  rumeno,  è  giudicato  abbastanza 
severamente   dal  Jonnescc-Gion,  che  scrisse  di  lui  ne'  suoi  Portrete  istorice: 


PBIMl    CONTATTI    FBA    ITALIA    E    RUMANIA  53 

se  D.  Quijote  riteneva  a  buon  diritto,  che  «  el  traducir  de  una 
«  lengua  en  otra...  es  corno  quien  mira  los  tapices  flamencos 
«  por  el  reves,  que  aunque  se  ven  las  fìguras,  son  llenas  de 
«  hilos  que  las  escurecen,  y  no  se  ven  con  la  lisara  y  tez  de  la 
«  haz  »;  che  dovremmo  dir  noi  delle  traduzioni  di  seconda  mano, 
nelle  quali  i  fili  sono  tanti  da  non  lasciare  vedere  neppure  il 
disegno?  Aggiungete  ora  all'inconveniente,  già  grave  di  per  se 
stesso,  che  il  Beldiman  non  traduceva  dal  testo,  l'altro  ancora 
più  grave  d'essersi  avvalso  d'una  fra  le  peggiori  traduzioni  del 
Metastasio,  e  vedrete  ben  chiaro  come  le  conseguenze  non  po- 
tessero risultare  diverse  da  quelle  che  abbiamo  testé  avuto  oc- 
casione di  lamentare.  La  versione  di  Tommaso  da  Rodi  è  infatti 
un  vero  strazio  del  melodramma  metastasiano  ed  è  proprio  su 
codesta  traduzione  che  il  Beldiman  ha  esemplato  la  sua.  Met- 
tiamo a  confronto  un  brano  dell'una  con  quello  corrispondente 
dell'altra  e  ce  ne  convinceremo  fin  dalle  prime  parole: 


«  Vornicul  Alecu  Beldiman  nu  a  fost  nici  un  geniu  nicì  un  mare  talent,  nici 
«  chiar  unul  din  acei  scriitori  cari,  péne  si  cu  uà  limba  «  necanonisita  si 
«  hpsita  de  mestesugul  gramaticesc  »  adica  subreda  in  formele-i  gramaticale 
«  si  saraca  in  capitalu-ì'  de  espresiuni  si  de  locutiuni,  agiung  totusi  a  'ti 
«  da  din  c'and  in  cand  pitorescul  in  descriptiune,  profunditatea  in  observare, 
«  energia  verbului  in  actiune  »  (p.  10)  [B  Vornic  Alecu  Beldiman  non  è  stato 
né  un  genio  né  uomo  di  gran  talento;  non  è  stato  neppure  uno  di  quegli 
scrittori,  che,  anche  scrivendo  in  una  lingua  «  non  disciplinata  da  regole  e 
priva  d'ogni  lenocinio  grammaticale  e  stilistico  »,  che  è  quanto  dire  insta- 
bile nelle  sue  forme  grammaticali  e  povera  sì  di  vocaboli  che  di  espressioni  ; 
riescono,  ciò  non  ostante,  di  tanto  in  tanto  a  raggiungere  il  pittoresco  nelle 
descrizioni,  la  profondità  nelle  osservazioni,  l'energia  nel  verbo  (?)  in  azione]. 
Op.  cit.,  p.  10.  Che  diancine  voglia  dire  «  l'energia  del  verbo  in  azione  » 
credo  che  il  Jonnescu-Gion  in  persona  si  troverebbe  assai  imbarazzato  se 
avesse  a  spiegarcelo.  Codesto  stile  fra  biblico  e  occultistico  si  ritrova  in  molti 
degli  scrittori  del  secolo  passato  (fra  i  rumeni  Heliade-Radulescu  è  uno  di 
quelli  che  se  ne  serve  più  spesso),  specie  patriottici  e  politici,  e  deve  entrarci 
qualcosa  il  gergo  delle  diverse  sette  e  la  tendenza  hegeliana  a  veder  nella  re- 
ligione dei  simboli  di  verità  naturali  e  filosofiche  camuffate  sotto  un  manto 
soprannaturale. 


54 


B.    ORTIZ 


OofA^dg    ó    'Po  6 IO  s. 
ETSnAArXNFA  TOT  TriOI 

Bh.  li/l^  S<à<s  7iÓT€  2fjaT€  d-è  va 
/  '^f  f^k  xà  Àég  ;  i^eiógoì  TiòJg 
inavdTteiaag  xòv  AévrvÀov,  Ttaig 
al  àvd'QonoC  tov  eXvai  èroifiot, 
Ttcàg  e^d-i>g  ònov  òóìoeTS  qxoTià 
elg  TÒ  KaTtiiéÀiov  S'è  va  ÓQfAiq- 
aers  dÀoi  xarà  zov  Titov,  y,al 
nG>g  ol  avvcùfi^ózai  d-è  va  òéaovv 
elg  TÒ  òe^tóvTOvg  yjQL  ìiOQÓéÀÀa 
ìcóxxivsv  olà  va  yvcoQl^ùìVTav  f^e- 
Ta§v  Tovg'  a^tà  y^iÀiaig  cpOQalg 
xà  ànovaa ,  •kol  fih  8Àov  xovxo 
àxófii  ^yù)  va  Idàj  xfjv  ènólar^aiv 
ÓJiov  xóaov  ÀauxaQcò  '  nóxe  S'è  va 
^VTtvfioexe  ;  dgp'  o^  o  Tixog  na- 
Qay.ivrid'fi  ànò  xòv  xvcpÀòv  xov 
^Qùìxa  va  oxs(pavù)d"rj  xijv  Bege- 
vIkt^v,  nal  xà  xijv  6(5aij  yial  xò 
BaaCÀELOv  ónov  aQTia^ev  ànò  xòv 
HaxéQa  fiov  ;  eÌ7ié  fie  xò  óijÀoZ 
xóari  àQyonoQia  ; 

[Op.  cit.,  pp.  7-8). 


Alecu  Beldiman. 
MILOSARDIA  LUI  TIT 

Vit.  Pana  cand  Saste  mi-i  spune  a- 
ceste,  stiu  ca  ai  facut  sa  criaza 
Lendol  ca  oamenii  lui  sant  gata  si, 
ca  ìndata  ce  vii  da  foc  la  Capitol, 
se  vor  pomi  cu  totii  cei  ce  sant 
ìntr'un  gandu  spre  savarsire  faptii. 
Vor  sd  legi  tasma  rosii  la  mana 
driiapta  ca  sa  sa  cunoasca  ìntre 
dansii.  Aceste  li  am  auzit  de  o  mii 
de  ori,  si  cu  toate  aceste  Titu,  salit 
fìind  de  robire  dragostìl,  se  va  cu- 
nuna  cu  Verenichi  si  (ìì)  va  da 
inparatiìa  ci  au  rapit  de  la  tatal 
meu.  Spunemi  pentru  ce  atàta  ìn- 
tarzaeri  ? 

{Op.cit.,  f.  2r.). 


Se  non  che  alle  nostre  critiche  il  dotto  boiardo  potrebbe  ri- 
spondere con  un  certo  risolino  tra  l'ironico  e  il  bonario,  ch'egli 
credeva  d'essersi  ormai  messo  al  sicuro  da  ogni  tentativo  di 
scientifica  maldicenza  fin  dal  giorno  che,  proemiando  alla  sua 
traduzione  del  Nwna  Poìnpilio^  aveva  avvertito:  «  Le  innume- 
«  revoli  difficoltà  in  cui  mi  sono  imbattuto,  la  comune  opinione  che 
«  sia  impossibile  lo  scrivere  qualcosa  di  men  che  male  in  una 
«  lingua  non  disciplinata  da  regole  e  priva  d'ogni  lenocinlo  gram- 
«  maticale  e  stilistico,  m'avevan  del  tutto  scoraggiato  ;  ma  poi 
«  ho  considerato  che  ogni  difficoltà  si  può  vincere  coll'assiduo 
«  lavoro  e  nessiftì  principio  può  essere  perfetto.  Del  resto  non 


PRIMI    CONTATTI    FRA    ITALIA    E    RUMANIA  55 

«  ho  mai  presunto  neppure  soltanto  col  pensiero  di  dare  alla 
«  luce  qualcosa  di  eccellente  »  (1). 

Delle  quali  ragioni  converrà  che  ci  contentiamo,  perchè,  mentre 
contengono  un  gran  fondo  di  verità,  ci  offrono  l'opportunità  di 
troncare  la  disputa  prima  che  il  dotto  e  flemmatico  Beldiman 
l'interrompa  lui,  offi^endoci,  eig  fieydÀrjv  fjavxlav,  una  sigaretta 
e  delle  confetture. 

Ci  ricorderemo  allora  d'avere  a  che  fare  con  uno  di  quei 
pascià  rumeni  del  secolo  XVIII  cosi  ben  descritti  dal  Jorga  e 
dal  Jonnescu-Gion  e  cambieremo  discorso,  portandolo  sopra  un 
argomento  alla  moda:  Voltaire. 

«  Arlion  Vornìce,  »  gli  diremo,  «  è  poi  vero  quanto  ho  letto  di 
«  recente  in  un  volume  del  Garra  (2),  sulla  gran  diffusione  di  cui 
«  godrebbero  in  Valachia  e  in  Moldavia  le  opere  del  Voltaire  ?  » 
—  «  Tanto  vero  ch'io  da  parte  mia  ho  tradotto  V  Oreste  «  cu  in- 
«  vàpaiata  dragoste  spre  procopsirea  neamuli  romànesc  »  (3). 
«  Quanto  al  Carra...  si,  dice  delle  cose  abbastanza  buone  e  vere, 
«  ma  esagera  anche,  oh  esagera  !  Vuol  farmi  il  piacere  di  legger 
«  la  pagina  che  riguarda  il  Voltaire?  Da  qualche  tempo  gli  occhi 
«  non  mi  aiutano  più.  Lei  è  giovine  e  dovrebbe  pensare  a  go- 
«  dersi  la  vita  ;  ma  giacché  preferisce  occuparsi  nientemeno  che 
«del  Carra...  Vede?  È  ancora  aperto  su  quel  tabouret  »  (Bel- 
diman m'indica  con  un  gesto  indolente  un  piccolo  volume  ri- 
legato  in  pelle^  aperto  su  di  un  delizioso  «  tabouret  »  di  legno 
scuro  intarsiato  di  madreperla  e  d'avorio:  un  vero  gioiello 
d'arte  bizantina). 


(1)  [«  Nenumeratele  greutatìf  ce  am  ìntémpinat,  glasul  obstii  ca  este  cu  ne- 
«  putinta  a  serie  ceva  ìntr'o  limba  necanonisita  si  Upsita  de  tot  mestesugul 
«  gramaticesc,  me  adusese  la  desnadajduire,  dar  puind  in  mintea  mea  ca  toate 
«  sunt  supuse  sìrguintei,  si  despre  alta  parte  ca  nici  un  ìnceput  nu  poate  fi 
«  cu  desavàrsise,  apoi  nu  m'am  fàUt ,  dar  nìS.  chiar  in  minte  mea ,  a  da  in 
«  lumina  vre  un  lucru  vrednic  de  vedere  »]. 

(2)  Histoire  de  la  Moldavie  et  de  la  Vaìachie,  avec  une  dissertation  sur 
l'état  actuel  de  ces  deux  provinces,  Neufchàtel,  1781. 

(3)  [«  ...  con  infiammato  amore,  per  la  nobilitazione  della  stirpe  rumena  »]. 


56  B.    ORTIZ 

Il  critico  (non  ricordandosi  più  d'essere  in  una  sala 
piuttosto  uggiosa  che  no^  visto  ch'è  la  sala  di  lettura  di  una 
biblioteca)  :  Volentieri. 

(Prende  il  volume  del  Carra  che  ha  dinanzi  e  copia  a 
p.  68  del  suo  manoscritto  tardigrado  sui  «  Primi  con- 
tatti »  ecc.,  le  pa7^ole  del  Carra  intorno  al  Voltaire,  fin- 
gendo di  credere  di  leggerle  al  vecchio  botar o).  «...  Les  ou- 
«  vrages  de  M.  de  Voltaire  se  trouvent  entre  les  mains  de 
«  quelques  jeunes  boyards  et  le  goùt  des  auteurs  frangais  ferait 
«  aujourd'hui  un  objet  de  commerce  dans  ces  contrées  si  le  pa- 
«  triarche  de  Constantinople  n'avait  menacé  de  la  colere  du  ciel 
«  tous  ceux  qui  lisaient  des  livres  catholiques  romains  et  parti- 
«  culièrement  ceux  de  M.  de  Voltaire!  »  (1). 

Beldiman  :  «  Ecco,  Signore,  dove  il  Carra  esagera.  Noi  non 
«  abbiamo  punto  bisogno  del  Patriarca  di  Costantinopoli,  la 
«  nostra  Chiesa...  ». 

Lo  SPETTRO  d'un  LETTORE  PEDANTE  (ìnter rompendo  con  voce 
vibrante  di  santo  sdegno  e  d'ineffabile  disprezzo)  :  «  La  finisci, 
«  miserabile?  Dove  vuoi  andare  a  parare?  » 

Il  critico  (dà  un  balzo  sulla  seggiola,  si  guarda  intorno; 
teste  curve  sui  libri,  zucche  pelate,  rumore  di  pagine  mosse. 
Ritorna  in  se,  e,  lentamente,  ricomincia  a  scrivere). 

Volevo  dire  che  il  Voltaire  nel  settecento  era  tutt'altro  che 
un  ignoto  in  Rumania  e  che  il  Beldiman  stesso  ne  aveva  tra- 
dotto V  Oreste,  e,  se  lo  spettro  d'un  lettore  maleducato  e  pedante 
non  mi  avesse  destato  cosi  nel  più  bello  del  mio  sogno,  avrei 
fatto  confessare  al  Beldiman  in  persona  d'essersi  indotto  a  tradur 
La  Cle^nenza  di  Tito,  per  aver  letto  appunto  nel  Voltaire  le 
seguenti  parole  di  suprema  ammirazione: 

Que  ceux  qui  sont  au  fait  de  la  vrai  littérature  des  autres  nations,  et 
qui  ne  bornent  pas  leur  science  aux  aires  de  nos  ballets,  songent  à  cette 
admirable  scène  dans  la  Clemenza  di  Tito,  entre  Titus  et  son  favori  qui  a 


(1)  Op.  eit,  p.  195. 


PRIMI    CONTATTI    FRA    ITALIA    E    RUMANIA  57 

conspiré  contre  lui,  je  veu  parler  de  cette  scène  où  Titus  dit  à  Sextus  ces 
paroles  : 

«  Siam  soli;  il  tao  sovrano 

«  Non  è  presente.  Apri  il  tuo  core  a  Tito, 

«  Confidati  all'amico;  io  ti  prometto 

«  Che  Augusto  noi  saprà  ». 

Qu'ils  rélisent  le  monologue  suivant,  où  Titas  dit  ces  autres  paroles,  qui 
doivent  étre  l'éternelle  le9on  de  tous  les  rois,  et  le  charme  de  tous  les  hommes  : 

« n  torre  altrui  la  vita 

«  È  facoltà  comune 

«  Al  più  vii  della  terra;  il  darla  è  solo 

«  De'  numi  e  de'  regnanti  ». 

Ces  deux  scènes,  comparables  à  tout  ce  que  la  Grece  a  de  plus  beau,  si  elles 
ne  sont  pas  supérieures  ;  ces  deux  scènes,  dignes  de  Corneille,  quand  il  n'est 
pas  déclamateur,  et  de  Racine  quand  il  n'est  pas  faible  ;  ces  deux  scènes,  qui 
ne  sont  pas  fondées  sur  un  amour  d'opéraj,  mais  sur  les  nobles  sentiments 
du  coeur  humain,  ont  une  durée  trois  fois  plus  longue  au  moius  que  les  scènes 
les  plus  étendues  de  nos  tragédies  en  musique  (1). 

Or  come  non  ci  lasceremmo  tentare,  dopo  aver  trascritto  un 
tal  brano  ispirato  a  una  tale  stima  per  il  Metastasi©  e  a  un  tale 
entusiasmo  per  la  Clemenza  di  Tito  ;  come,  ripeto,  non  ci  lasce- 
remmo tentar  dall'ipotesi  che  il  Beldiman,  al  corrente  com'era 
delle  ultime  novità  di  Francia  e  traduttore  del  Florian  e  del 
Voltaire  medesimo,  derivasse  proprio  da  queste  parole  l'impulso 
a  tradur  La  Clemenza  di  Tito  piuttosto  che  un  altro  qualunque 
fra  i  melodrammi  del  Metastasio? 

Io  per  me  non  ci  so  resistere,  e,  per  questa  volta  tanto,  mi 
permetto  di  consigliare  anche  il  lettore  a  rifletterci  bene  prima 


(1)  (Euvres  complètes  de  Voltaire,  Paris,  Lesqjiien,  MDCCCXX,  voi.  IV  : 
Dissertation  sur  la  tragedie,  e,  qualche  pagina  innanzi  (FV,  266):  «  Les 
«  pièces  [du  célèbre  ahhé  Metastasio]  ...  sont  pleines  de  cette  poesie  d'expres- 
«  Sion  et  de  cette  élégance  continue  qui  embellissent  le  naturel  sans  jamais 
«  le  charger  ;  talent  que,  depuis  les  Grecs,  le  seul  Racine  a  possedè  panni 
«  nous  et  le  seul  Addison  chez  les  Anglais  ». 


58  R.    OBTIZ 

di  scartarla;  visto  che  più  d'una  volta  la  letteratura  francese  è 
servita  di  tramite  fra  l'italiana  e  la  rumena,  e,  per  ciò  che  ri- 
guarda il  Metastasio,  abbiamo  anzi  già  visto  come  la  famosa 
canzonetta  A  Nice  debba  al  Rousseau  la  fortuna  di  poter  aggiun- 
gere alle  altre  anche  una  traduzione  nella  lingua  dei  discendenti 
di  Trajano. 

Seconda  in  ordine  di  tempo,  ma  ben  più  fortunata,  perchè,  a 
differenza  di  quella  del  Beldiman,  potè  veder  la  luce  per  le 
stampe,  è  la  traduzione  àeW Achille  in  Sciro,  apparsa  a  Sibiiu 
il  1797.  Ne  è  autore  il  Paharnic  Jordache  Slatineanu,  quel  me- 
desimo che  intorno  al  1803-4  vediamo  abbonato  allo  Spectateur 
e  voglioso  di  abbonarsi  BlVAlmanach  des  dames  per  mettere  a 
parte  anche  sua  moglie  di  quei  benefìcii  della  cultura  occiden- 
tale, dei  quali  ci  si  mostra  non  meno  de'  suoi  contemporanei 
ammiratore  ed  entusiasta. 

Malgrado  però  fin  d'allora  qualche  giornale  dei  nostri  comin- 
ciasse a  farsi  strada  in  Rumania,  non  abbiamo  notizia  che  il 
figliuolo  di  quel  «  G-iorgio  Slatignano  log^  »  che  spingeva  la  sua 
simpatia  per  l'Italia  fino  ad  italianizzare  il  suo  nome,  vi  si  fosse 
mai  abbonato.  Il  Jorga  non  ci  parla  infatti  che  di  un  Jenachi 
Sterie,  il  quale,  da  certi  registri  deW Agenzia  di  Bucarest^  ri- 
sulterebbe lettore  d'un  giornale  di  Milano  e  precisamente  del 
Redattore  italiano;  ma  costui  era,  a  quel  che  pare,  un  onesto 
commerciante  di  quelli  che  badano  ai  fatti  loro  e  non  s'impic- 
ciano di  letteratura  né  di  politica,  bellissime  cose  ma  che  non 
cavano  un  ragno  dal  buco  e  servon  solo  ad  occupare  il  tempo 
ai  perdigiorni.  Del  resto  il  nostro  Paharnic  confessa  candida- 
mente d'aver  tradotto  il  suo  Achille  dal  greco,  non  sapendo  come 
meglio  occupare  il  suo  tempo,  lontano  com'era  (e  gli  piaceva  di 
essere)  da  ogni  maneggio  politico. 

Una  descrizione,  come  al  solito  diligente  e  accurata,  di  questo 
volumetto  ch'è  un  vero  cimelio  dell'antica  letteratura  rumena 
troviamo  sotto  il  n.  611  nella  Bibliografia  i^Oìnàneascà  vechie 
del  Bianu-Hodos,  sicché  potremmo  risparmiarci  la  pena  di  tra- 
scrivere il  frontispizio.  Visto  però  che  in  Italia  questa  pubbli- 


PRIMI    CONTATTI    FRA    ITALIA   E    RUMANIA  59 

cazione  è  tutt' altro  che  alla  mano,  ne  diamo  qui,  in  facsimile, 
il  frontispizio  seguito  dalla  trascrizione: 


d  ì  G  K  n  P  0. 


♦AniÀ  AJi'H  KHf  mstActASìS 

4^"  B^Kl^fUJiH    O'hp  H    f^Mi^MtHilt  \A  A.    1797. 

CO|>fOHHM   ff^qa  HoAttJ. 


60  B.    ORTIZ 

AMlefs  la  Skiro.  |  Fapta  lui  kir  Metastìsie  |  Kesaricesculni  poetic.  |  Aoum 
ìntaiu  talmacita  de  pe  |  Grecie  de  catra  dumnealui  |  Iordake  SlÌtinean  | 
Vel  Paharnic  |  In  Bucurestii  Tari  Eumunesti  la  A.  1797.  |  lara  ]  La  sfarsit 
sau  adaugat  Istoria  lui  |  Sofronim  Greca  Noao  \\  Sau  tiparit  in  Sibiiu  in  tipo- 
grafia lui  Martin  |  Kohmaister^  cu  priv.  imperetest.  Ki^est  mariri. 

La  traduzione  non  è  in  versi  come  mostra  di  ritenere  il 
Jorga  (1);  ma  in  prosa.  In  versi  non  son  ridate  che  le  ariette, 
con  le  quali  si  chiude  ogni  singola  scena,  sicché  ad  esse  sol- 
tanto van  riferite  le  parole  del  Jorga,  cui  di  buon  grado  sotto- 
scriviamo, intorno  ai  pregi  della  versificazione  e  all'armonia 
metastasiana  che  appare  ancora  qua  e  là  dove  la  traduzione  ne 
è  meglio  riuscita  e  il  verso  scorre  più  facile  e  più  armonioso. 
Del  resto,  anche  la  prosa  non  lascia  questa  volta  troppo  a  de- 
siderare come  quella  che  rida  con  esattezza,  se  non  proprio  con 
eleganza,  il  pensiero  del  poeta  italiano. 

Eccone  un  saggio: 

Deidamia.  Auzit'ai? 

Achilefs.     Auziiìi. 

Deidamia.  Care  obraznic  iaste  ala  deau  (sic)  ìndraznit  a  zadicni  taina  ca- 

pistii  noastre  cei  sfinte  cu  ast  feliu  de  ojete  far  de  oranduala. 
Achilefs.     Bine  am  zis  eu,  tot  de  spre  mare  vine  ast  glas  infricosat.  Dar  nu 

ma  pociu  priceape,  ce  sa  fie  pricina Ah,  domnita  mea,  acuma  prece- 

puiu,  vezi  ale  doao  corabii  aicea  vin. 
Deidamia.  Ah,  Doamne. 

Achilefs.     Ceti  [=  ce  'ti  e]  frica,  sant  departe  pana  acuma. 
Deidamia.  Sa  fugim. 
Achilefs.     De  ce? 
Deidamia.  Nu  stii  ca  marea  iaste  plina  de  cursari,  si  fac  raotatile  lumii, 

talharii  nu  fusara  ei  de  hrapire  bietele  feate  ale  tmparatuluì'  Argus,  §i 

ai  Tirii,  stii  preabine  (sic)  focul  si  nedreptatea  ce  sa  intampla  mai  dau- 


(1)  N.  Jorga,  Ist.  Ut.  rom.  in  sec.  al  XVIII'*'*,  II,  433-4  :  «  In  sfàr§it  tre- 
«  buie  sa  vorbim  de  o  traducere  in  versurì  «  Achilefs  lo  Schiro  »  de  Jor- 
«  dachi  Slatineanu  »  [Da  ultimo  ci  convien  ricordare  una  traduzione  in  versi, 
*  Achille  in  Sciro  »  di  Jordachi  Slatineanu]. 


PRIMI    CONTATTI    FRA    ITALIA    E    RUMANIA  61 

nazi  la  sparti  (sic)y  ii  fi  auzit  de  elini  ca  fac  spume  de  necaz,  dar  in 
zadar,  cerind  nevasta  cea  necredincioasa  de  la  Troaditu,  care  au  furato, 
dar  ce  folos  cine  stie  poate  sai  (sic)  corabiile  astea...  oh  pentru  numele 
lui  Dumnezeu  vino  cu  mine. 

Achilefs.     Ceti  (sic)  pasa,  sufletul  mieu,  Achilefs  iaste  cu  tine. 

Deìdamia.  Taci. 

Achilefs.     Dar  cànd  iti  spuiu  cai  (sic)  cu  tine  Achilefs. 

Deidamia.  Taci  pentru  Dumnezeu  sa  nu  te  auza  cinevas  (sic),  ca  de  teor  (sic) 

dovedi,  sùnt  perita,  si  tepierzu  (sic),  ce  o  sa  zica  atunci  ìnsalatul  tata 

mieu?   stii   ca  sa  bucura  gandind  ca  esti  fata,  si  ai  (sic)  pare  bine  de 

prietesugul  nostru,  dar  oare  cear  (sic)  face  decumvas  (sic)  (gandand  nuraai, 

invine  lesin)  sar  (sic)  ìntàmpla  sa  priceapa  ca  eu  pe  Achilefs  iubesc  iar 

nu  pe  Pira. 

Achilefs.     lartama  ai  mare  dreptate. 

{Op.  cit.,  pp.  4-6). 

Certo,  quando  si  pensi  che,  p.  es.,  le  parole  di  Deidamia: 

Chi  temerario  ardisce 
Turbar  col  suon  profano 
Dell'Orgie  venerate  il  rito  arcano? 

spiranti  sdegno  principesco  fin  nella  togata   e   classica  maestà 
della  frase,  diventano  nella  traduzione  rumena: 

«  Quale  sfacciato  è  quegli  che  ha  osato  disturbare  il  mistero 
«del  nostro  santo  tempio?»,  saremmo  tentati  di  ritenere  anche 
questa  dello  Slàtineanu,  più  che  una  traduzione,  una  storpiatura 
del  melodramma  metastasiano;  ma  alle  tentazioni  bisogna  saper 
resistere,  e  infatti,  considerata  nel  suo  complesso,  e  paragonata 
sopra  tutto  a  quella  del  Beldiman,  non  si  può  non  riconoscere, 
che  questa  àeW Achille  in  Sciro  rappresenta,  ad  ogni  modo,  un 
bel  passo  avanti.  Sarà  anche  un  po'  merito  del  traduttore  greco  (1) 


(1)  Il  nome  del  traduttore  ci  è  sconosciuto,  poi  che,  malgrado  la  sua  tra- 
duzione appaia  pubblicata  a  spese  e  cura  di  un  UoXv^óìrj  AafiTiaviz^cÓTTj 
di  Giannina,  il  HaTtaSónovÀog  BQézog  {Op,  cit..  Il,  295)  non  sa  dirci  a  suo 
riguardo,  se  non  che  verso  la  metà  del  sec.  XVIII  emigrò  a  Vienna  ^à  tòv 
s^yevfi   anÓTcov  va  óìcpeÀ'^arj    tò    id-vog  tov   nal  éavxóv  xov  dia  tov  è  fi- 


62 


K.    ORTIZ 


men  goffo  e  rozzo  di  quel  Tommaso  da  Rodi  di  nostra  cono- 
scenza ;  ma  l'armonia  e  la  scorrevolezza  delle  strofette  in  fin  di 
scena  ci  fan  supporre  che  lo  Slatineanu  tenesse  presente  anche 
il  testo  italiano  e  ne  derivasse  quei  pregi  che  non  potevan  certo 
venirgli  dalla  traduzione  greca.  Anche  il  Jorga  infatti  rileva, 
come  abbiamo  dianzi  avuta  occasione  di  accennare  :  «  Per  quanto 
«  riguarda  la  qualità  dei  versi,  non  è  poi  tanto  scadente.  Ce  ne 
«  sono  di  scorrevoli  che  suonan  grati  all'orecchio  e  lasciano  qua 
«  e  là  trasparire  l'armonia  dell'originale  italiano  (1)  : 

Esti  izvor  de  desfatare 
Dulce  trudelor  uitare, 
Pentru  line  muritoriu, 

«  ovvero  : 

Tinerete  far'  de  minte 
Turburata  din  ceput, 

«  e  un  po'  più  avanti  : 

Care  inima  vr'o  data, 
Mai  virtos  si  sàgetata 
Ti  sa  poate  'mpotrivi  ». 

Nella  SiebenbiXrgìsche  Quartalschrift  del  1798  troviamo  una 
lunga  ma  non  troppo  interessante  recensione,  in  cui,  più  che  di 


noQÌov  TÒ)v  'EÀÀfjvtxwv  ^i^Àliùv,  e  che  èniateveTO  eig  tohg  tplÀovg  rov 
trjv  fiet  dq)  QUO  tv  ó  lacp  ó  q  cov  avyyQafi^fiaTCùv  'IraÀ  ixcHv  te 
xal  FaÀÀiyiòìv.  Un  editore  dunque,  che  nulla  ci  autorizza  a  ritenere  il  tra- 
duttore àelVAchille  metastasiano.  Ecco  ad  ogni  modo  il  titolo  del  volume 
quale  il  UanadÓTiovÀog  Bgétog  ce  lo  conserva  (n.  248)  :  '0  'Axi^Àevg  iv 
2!xvQ<f)  '  "Onega  ^tov  ÀQàfia  tov  xovqIov  'Afifid  MetaoTaulov,  Kaiaa- 
^ixov  IIoif]TOv  '  [A,eia(pQaaTeloa  iv.  Ttjg  'iTaÀiKfjg  óiaÀéìitov  elg  t^v  ijf4,€- 
régav  ÙTiÀijv  <pQdaiv  fietà  attxovgyiag  '  vvv  tiqòìtov  T'ónoig  énóo^elaa 
òanàvfj  xal  ènif^eÀela  IIoÀv^étjg  AafA^Tiavit^KÓTrj,  rov  è^  'Icoavvlvcov. 
'jBx  r^5  iÀÀrjv.  xv7toyQa(pCag  FecùQylov  Bevtótf].  'Ev  Biévvp,  1794,  eig  8*"*. 
(1)  «  In  ceia  ce  priveste  calitatea  versulilor,  ea  nu  e  totdeauna  a§a  de  ìn- 
«  ferioare.  Sint  unele  curr/atoare,  care  suna placut,  ^i  in  care  se  in tre- 
«  vede  armonia  originalului  italian  ». 


PRIMI    CONTATTI    FEA    ITALIA    E    RUMANIA  63 

dare  un  giudizio  sulla  bontà  della  traduzione,  l'anonimo  recen- 
sore sembra  proporsi  lo  scopo  di  polemizzare  collo  Slàtineanu 
su  questioni  di  ortografia  e  soprattutto  sull'affermata  non-infe- 
riorità del  greco  moderno  rispetto  si  all'italiano  che  al  greco 
antico.  Goll'ingenuità  tutta  propria  dei  giornalisti  del  settecento 
il  bravuomo  si  mette  a  sfondar  questa  porta  aperta  della  supe- 
riorità del  greco  antico  sul  moderno  e  si  domanda  come  mai  se 
ne  possano  sballare  di  cosi  grosse:  «  Und  wenn  ist  es  nicht 
«  bekannt,  das  diese  neugriechische  Sprache  eben  nur  ein  Ba- 
«  stard  Yon  ihrer  Mutter,  und  ein  formlicher  Mischmasch  von 
«  griechisch,  tiirkisch,  russisch  und  walacliischen  Wortern  sei?  » 

Quanto  alla  traduzione  osserva:  «  Uebrigens  war  eine  getreue 
«  Uebersetzung  in  die  walachische  Sprache  nicht  moglich  :  er- 
«  stens,  weil  schon  der  griechische  Uebersetzer  bei  manchen 
«  Stellen  in  Prosa,  hauptsàlich  aber  bei  gebundenem  Sylbenmass 
«  nicht  selten  vom  Originaltext  abgewichen  war;  zweitens,  weit 
«  die  walachische  Sprache  noch  aiissert  arm  an  Wortern  ist,  wo 
«  man  bei  Uebersetzungen  aus  einer  reichern  Sprachen  oft 
«  nòthig  hat,  sich  angewohnter  Perigraphien  zu  bedienen  ». 

Del  resto  come  poteva  lo  Slàtineanu  tradur  bene,  allievo  co- 
m'era di  quei  maestri  greci  che  il  nostro  recensore  disprezzava 
al  punto  da  ritenerli  «  in  alien  wissenschaftlichen  Fàchern  die 
«  elendesten  Idioten  »  ? 

Come  mai  ha  osato  apprendere  il  greco  moderno  da  un  maestro 
greco  e  non  ha  pensato  che,  se  voleva  impararlo  da v^^ero  come 
si  conviene,  era  necessario  far  le  valige  e  partir  li  su  due  piedi 
«  nach  Wien  oder  Leipzig  »  ?  Ogni  salmo  finisce  in  gloria  e  i 
nostri  nazionalisti  posson  tornare  a  scuola!  Del  resto  le  critiche 
rivolte  in  questo  articolo  alla  traduzione  dello  Slàtineanu  son 
tali  che  anche  chi,  come  la  maggior  parte  dei  recensori  antichi 
e  moderni,  non  fosse  andato  oltre  il  frontispizio,  avrebbe  potuto 
rivolgerle.  Tradotto  dal  greco?  Dunque  Si  seconda  mano.  Con- 
seguenza necessaria:  cattiva  traduzione!  In  rumeno?  Ma  il  ru- 
meno è  una  lingua  senza  tradizioni  letterarie,  mentre  l'italiano 
ne  ha  anche  troppe  I  Conseguenza  più  che  necessaria  :  pessima 


64 


R.    OBTIZ 


traduzione!  Orbène  noi  non  crediamo  che  la  traduzione  del- 
V Achille  sia  proprio  quel  che  si  dice  un  capolavoro,  ma  non 
crediamo  neppure  che  sia  lecito  sbrigarsene  con  critiche  cosi 
generali  da  potersi  applicare  egualmente  a  tutte  le  traduzioni 
(e  non  son  poche)  dal  greco  in  rumeno  di  opere  italiane  e  se 
abbiam  fatta  menzione  di  quest'articolo,  è  stato  solo  per  dimo- 
strare che  i  critici  moderni  sono  in  fin  dei  conti  assai  più  ga- 
lantuomini di  qualche  critico  tedesco  dei  tempi...  in  cui  Berta 
filava. 


IV. 
Periodo  di  decadenza. 

(Traduzioni  incomplete  e  citazioni  frammentarie). 

Dal  1829  al  1843,  in  cui  un  Achille  del  Ghristopoulos  può  venir 
scambiato  per  V Achille  in  Sciro  del  Metastasio,  abbiamo  un  in- 
termezzo non  del  tutto  trascurabile  di  tentativi  andati  a  male  e 
di  citazioni  frammentarie.  Caratteristica  di  questo  periodo  (che 
coincide  con  quello  àeW italianismo  nel  suo  massimo  fiore)  è 
che  questa  volta  si  traduce  dal  testo  ed  è  il  Metastasio  cantore 
della  patria  quello  ch'è  ora  alla  moda. 

Non  ci  farà  quindi  meraviglia  se  il  melodramma  più  in  voga 
apparirà  d'ora  innanzi  il  Temistocle. 

Budai-Deleanu,  autore  di  un  poema  eroicomico  in  cui  è  chiara 
l'influenza  della  Secchia  rapita^  sarà  il  primo  a  por  gli  occhi 
sul  capolavoro  metastasiano,  quando,  non  sappiamo  precisamente 
in  quale  anno,  ma  prima  ad  ogni  modo  del  1820,  ne  intraprese 
la  traduzione  a  prova  che  «  la  lingua  rumena,  coltivata  con 
«  amore,  potrà  col  tempo  non  isfigurare  accanto  a  quella  ita- 
«  liana  ».  Uno  dei  più  serii  e  dotti  studiosi  rumeni,  che,  pur 
occupandosi  di  problemi  pedagogici  e  prendendo  assai  sul  serio 
la  sua  missione  d'educatore,  sa  trovare  il  tempo  necessario  per 
ricerche  letterarie  del  più  alto  interesse;  il  prof.  G.  Bogdan- 
Duica  in  un  suo  studio  ormai  classico  sulle  fonti  tedesche  della 


PRIMI    CONTATTI    FRA    ITALIA    E    RUMANIA  65 

Tiganiada  fa  rilevare,  a  proposito  della  poca  considerazione  in 
cui  Budai-Deleanu  mostra  di  tener  la  meravigliosa  letteratura 
popolare  rumena,  come  codesta  sua  avversione  si  estendesse 
eziandio  alla  lingua  popolare.  Nella  Prefazione  infatti  della  sua 
grammatica  (1812j,  parlando  colla  dovuta  lode  del  tentativo  fatto 
da  Jenàchità  Vacàrescu  di  sottoporre  a  regole  precise  la  lingua 
rumena  ancora  fluttuante  fra  l'uso  popolare  e  l'arbitrio  degli 
scrittori,  esce  in  queste  parole  :  «  Post  eum  secuti  sunt  plures  ; 
«  sed  pace  eórum  dictum  sit,  praeter  laudabilem  conatum  de  patrio 
«  sermone  bene  merendi,  vix  aliquid  praestiterunt  ;  nam  imprimis 
«  omnes  fere  linguam  in  sua  peripheria,  ut  ita  dicam,  vigentem 
«  tradiderunt  —  seu  potius  linguam  vulgì  unde  adeo  inter  se 
«  disc7^epant  ut  quemvis  eoruyn  aliam  linguam  scripsisse 
«  credas  ».  Quali  poi  fossero  le  idee  del  nostro  autore  intorno 
alla  lingua  letteraria  ci  fa  sapere  il  Bogdan-Duica  medesimo 
nello  studio  sopra  citato  :  «  La  cultura  della  lingua  nazionale 
«  doveva  secondo  lui  aver  per  fondamento  le  lingue  romanze 
«  (l'italiano)  e  il  latino.  Perciò,  anticipando  una  idea  di  Eliade, 
«  Budai  intraprese  la  traduzione  del  Temistocle  di  Metastasio, 
«  ma,  non  avendone  tradotto  che  qualche  pagina,  non  possiamo 
«  dire  dove  sarebbe  arrivato  nella  italianizzazione  del  suo  stile  »(1). 
Veramente  anche  quelle  «  cìteva  pagini  »  di  cui  ci  parla  il 
Bogdan-Duicà  sarebbero  sufficienti,  qualora  fossero  pubblicate, 
al  glottologo  che  si  proponesse  di  ravvisare  in  esse  le  tracce 
che  la  cultura  italiana  e  latina  dell'autore  lian  lasciate  se  non 
nella  lingua  (giacché  è  chiaro  che  neppur  Budai'  in  persona 
avrebbe  osato  leggere  la  sua  traduzione  cosi  come  è  scritta)  al- 
meno nella  grafia.  Fatto  sta  che  in  fondo  questa  offre  al  glotto- 
logo an  interesse  assai  scarso,    come   ogni  particolarità  grafica 


(1)  Op.  cit.,  loc.  cit.  [«  Cultura  limbiìi  nationale  trebuia  sa  se  razime,  dupa 
«  el,  pe  limbile  romanice  (italiana)  si  pe  cea  latina.  Deaceea,  anticipìnd  o 
«  idee  a  lui  Eliade,  Budai  ìncepuse  sa  traduca  pe  Temistocle  de  Metastasio, 
«  dar  traducìnd  numai  cìteva  paginì"  nu  putem  hotarì  pina  unde  ar  fi  mers 
«  Budai  cu  italianisarea  stilulut  san  »]. 

Giornale  storico,  LXIV,  fase.  190-191.  5 


m 


B.    ORTIZ 


che  non  rappresenti  un  riflesso  di  fatti  fonetici  realmente  esistiti, 
ma  solo  delle  preoccupazioni  e  dell'arbitrio  individuale.  Se  però 
la  lingua  di  cui  il  nostro  autore  si  serve  nella  traduzione  del 
Temistocle  non  può  interessare  che  assai  scarsamente  il  glotto- 
logo, per  noi  invece  che  ci  occupiamo  dell'influsso  che  la  lingua, 
la  letteratura  e  la  cultura  italiana  han  potuto  esercitare  in  Ru- 
mania,  acquista  un  valore  che  nessuno  vorrà  certo  attentarsi  a 
negare. 

Il  ms.  che  contiene  la  traduzione  del  Temistocle  appartiene 
con  ogni  probabilità  ai  primi  anni  del  secolo  scorso  e  contiene 
oltre  questo  frammento:  !*>  Dascalul  romànesc.  Pentru  teme- 
iurile  Gramatictt  romànesti,  Tom.  I;  3°  Scrisóre,  tratànd 
despre  «  Theoria  orthographiei  romànesti  cu  slove  latinesti  ; 
40  ^^  Ty^^  vitejì  »  poema  in  versuri,  in  4  cdntece.  Il  nostro 
frammento  che  nel  ms.  miscellaneo  occupa  il  secondo  posto  è 
intitolato  cosi  nel  catalogo  (anch'esso  ms.)  dei  mss.  rumeni: 
Fragm,ente  dinir'  0  compositiune  dramaticà  avénd  de  suMect 
pre  Xersu  imperatul  Persilor,  donde  non  si  rileverebbe  af- 
fatto trattarsi  di  una  traduzione  del  Temistocle,  se  ciò  non  ap- 
parisse nel  modo  più  chiaro  dalle  seguenti  parole  che  si  leggono 
a  e.  36 r.  e  che  trascriviamo  fedelmente: 

Temistòclu. 
Dramma  izvodeitu  antèyo  de  Petru  Metastasi!  in  leimbàa  italenésca;   tal- 
macitu  pre  leimbàa  romanésca  ;  qua  ù  Proba  :  cu  quàre  se  arata  ;  que  leimba 
nòstra  prein  cultura  sae  potè  cu  vréme  alaturà  celii  italenesci. 

Il  ms.  è,  come  abbiam  detto,  del  secolo  XIX  incipiente  e  mi- 
sura cm.  23  X  18.  È  scritto  tutto  in  caratteri  cirillici  ad  ecce- 
zione del  frammento  del  quale  ci  occupiamo,  nel  quale,  per  mo- 
strarsi conseguente  a  sé  stesso  e  alle  sue  teorie  ortografiche 
(largamente  esposte  nella  lettera  che  si  legge  a  ce.  45-52  (i)  del 


(1)  Le  ce.  53,  54  e  55  contengono  un  frammento  di  altra  opera  di  Budai- 
Deleanu,  che  non  ha  niente  a  che  fare  colla  Lettera  ortografica,  di  cui  parla  il 
catalogo.  Si  tratta  di  una  quarantina  fra  massime  e  proverbii  scritti  in  ca- 
ratteri latini  ed  appaiono  di  età  posteriore  agli  altri  scritti  compresi  nel  codice 


PRIMI    CONTATTI    FRA    ITALIA    E   RUMANIA  67 

medesimo  ms.),  Budai  usa  l'alfabeto  latino.  Tutto  ciò  che  il  ms. 
contiene,  è,  per  quanto  io  mi  sappia,  inedito,  ad  eccezione  di 
qualche  strofa  del  poema  eroicomico:  Trei  Viteji  riportata  dal 
Bogdan-Duicà  nello  studio  poc'anzi  ricordato;  sicuramente  ine- 
dita è  ad  ogni  modo  la  traduzione  del  Metastasio  che  più  da 
vicino  ci  riguarda.  Per  finire,  osserveremo,  che,  nella  traduzione 
del  Temistocle^  per  uno  sbaglio  di  legatura  che  ha  determinato 
un  conseguente  errore  di  numerazione,  la  e.  33  è  diventata  36 
e  cosi  di  seguito  le  ce.  35  e  36  son  diventate  33  e  35,  di  ma- 
niera che  bisogna  leggerle  nell'ordine  seguente  :  3633  34  3335  35^6 
37  (indicando  col  numero  sopra  il  rigo  la  numerazione  errata 
attuale  e  con  quelli  sotto  il  rigo  la  numerazione  esatta)  se  pur 
si  vuole  diano  un  senso  compiuto.  Eccone  intanto  un  estratto, 
che  sarà,  credo,  sufficiente  a  mostrar  quali  sieno  le  caratteri- 
stiche di  questa  traduzione,  che,  per  lo  scopo  che  si  propone, 
per  le  particolarità  lessicali  e  ortografiche  che  presenta  e  che 
mostran  già  chiaramente  formulata  la  teoria  dell'italianismo  ;  in- 
fine per  essere  la  sola  traduzione  in  versi  che  possediamo  di 
un  dramma  del  Metastasio,  è  forse  la  più  importante  di  quante 
abbiamo  finora  avuto  occasione  di  esaminare: 

[Biblioteca  Academiei  Romàne  ms.  No.  24271 
[e.  36  /•.] 

Excerptum  ex  opere  Manuscripto. 

Temistòclu. 

Dramma,  izvodeitu  antèyo  de  Petm  Metastàsu  in  leimbàa  italenésca;  qua 

ì)  Proba  :  cu  quàre  se  arata  ;  que  leimbàa  nòstra  prein  cultura  sae   potè   cu 

vréme  alaturà  celii  italenesci. 

Historici  dein  quàre  se  hdvu  scossu  acésta  Dramma. 

Fostu-hàvu  Atenénul'  Temistòclu;  unul'  deintru  celi  mài  luminati  capi- 
tànni  'a  Hellàdei,  nò  odàta  operàe  elu  cu  charniceia  si  cu  sfatul'  cinstea  si 
slobozeia  Patriei  Sale.  Tara  dùpa  vesteita  Batalfeia  dela  Salamina;  unde  cu 
micu  numeru  de  hostasi,  frànsae  si  infugàe  nenumeràta  hostea  lui  Xersu  im- 
peràtul  Persilor  ;  atàta  slavva  dobendei  ;  [e.  36  v.]  quàto  nemulfamitorii  ate- 
néni,  uèri  [=  ori]  temendo  qua  pre  ùnu  puternicu,  uèri  pismuivendo  qua  unui 
mài  inal9àtu  deintru  celi  alàlti,  in  urma  ilu  izgoneù'ae  deintru  acélesi  zeiduri. 


68 


R.    ORTIZ 


quàre  elu  cu  pu^ino  mài  nainte  le  aperasse s.  e.  1.  [Seguita  per  tutta  la 

e.  36  V.,  dopo  la  quale,  in  seguito  al  sopraddetto  errore  di  legatura,  a 
e.  34  r.  e  e.  34  v.,  dove  l'argomento  termina  colle  parole  :]  Aratarea  se  tempia 
in  Sùza  cetatea  imperatèsca,  si  scaunul'  imperatzilor  persyàni. 

[e.  33  r.]  Persónele  quàre  vorbéscu. 

Xèrsu,  imperàtul  Persilor. 
Temistòclu,  ceteyenu  de  Atena. 
Aspasyàa,  filia  lui, 
Neoclu,  filiu  lui. 
Rusànna,  Principéssa. 
Lysemàchu,  SoUul'  atenénilor. 
Sebdstu,  Persyànnu  si  incredin9atu 
alùi  Xèrsu. 

Semna.  Là  unele  Dramme,  precum  este  Achilevs  in  Schira  —  talmaceita 
de  D.  lordàki  Slatenénu  vai  Pecharnicu  —  typareita  in  Bucuresti  la  ànul  1797. 
se  àfla  in  lòcu  de  actus  \  .  precum  dicu  latenii:  |  ^anvb  —  si  in  locu  de 
Scena.  \  negòthiùa.  ce  va  sae  dica  la  munténi  si  la  moldovveni  cortèna,  sèu 
pre  [e.  83  v.]  cura  dicu  altii  zavéssa.  iar'  èo  socotendo  que  leimba  nòstra  pur- 
céde  dela  leimba  latèna  ;  si  cumque  cuvventéle,  quàre  noae  lypsèscu  la  anve- 
^aturi,  mai  cuvviencioso  èste  alle  imprurautà  dèla  marna  latena  dequàto  dela 
aitele  ;  mài  vertoso  seiendo  que  si  itallienii,  fràncii  si  hispànii,  aquarór  leimbi 
hàvu  purcessu  dein  lateneia  :  pazèscu  acésta  règula  —  hàmu  pùsu  cuvventéle 
mài  sus  numeite,  precum  se  afla  la  (la)tèni  adeque  Actu.  si  Scéna.  —  [Segue 
per  tutta  la  e.  33  v.,  dando  notizie  intorno  al  significato  di  Atto  e  di 
Scena,  fino  alle  parole:  ...  pre  actori  lucrando,  con  cui  termina  la  lunga  ìwta/. 

[e.  Sòr.]  AC  TU    I. 

Scéna  I. 

(  :  Teatrul  arata  deinlauntrul  Palafului  Imperatèscu  :  ) 

Temistòclu,  —  Neòclu. 

Temistòclu:  Ce  faci?        i 

Neoclu:  Cadintàa  làssame  pedépsa 

Saè  dào  sume9ului  o!  Gansa; 

vediùsi  cùm  te  ascultàe,  cum  eti  respùnsae: 

si  quàte  mài  havvèmu  batjocuri  ànque 

k  Buferei?  —  — 


PBIMI    CONTATTI    FRA    ITALIA    E   RUMANIA 

Temistoclu:  infrenèzzati  o  filiule  ! 

ardóre  netempuriva,  doar'  ànque 
te  crèdi  a  feire  in  Atena: 
si  glóte  cnceritóre 
a  vede  imprejurul'  mieu: 


69 


i .  tienendo  pre  Neocìu  de  mantàuo  ;   ce  smuìgendo  sàbia  vrèa  sàe  alérye 
dupa  unu  curtènu,  ce  ilu  hatjocorisse,  qua  saelu  pedepse'sca. 

[e.  35  V.]  ce  s'aduna  in  fericeia 

si  se  imbùlde  la  norocu!... 
tòte  o!  Neccie  se  hàvu  scimbàtu!... 
celu  intielleptu  se  pléca  dupa  sórte. 
Curtea  vrazmasiului  mieu  è  acésta; 
si  eo  nò  su  mai  multo  leibovvurAtènei  : 
seràcu,  nemérnecu,  si  dàtu  in  urgeia; 
izgoneitu,  pribegu  si  lypseitu  de  tóate; 
una  mi  remàssae;  si  doar'  cea  mai  bùna!... 
Statorniceiaa  !... 
Neocìu:  értame  o  dulce  parente 

asta  atà  statorniceia 

me  sùpera  me  interrita!... 
tu  deintru  acéiesi  izgoneitu  cetate 
aquarei  de  atate  bori  intregime 
aperasi-si  in  locul  de  mul9emita 
bùrra  pretuttendene  genitóre 
a  Patriei  cumpleite  aflando;  ce  tòta 
adeposteirea  ;  tòta  odecbna  ti  pismesce; 
si  va  péna  intru  atàta  sae  te  adùca 
qua  sàe  n'hàvi  locu  de  repàusu!  si  totusi 
zieluvendote  nò  te  audivi;  nece 
turburatu  te  vedivi!  —  ah!  parente!  — 
[e.  37  r.]  si  cùm  poti  suferei  in  leinisce  atàta 

greutàte,  atàta  nemul9emita!...« 
Temistoclu:  filiule  in  drumul  vivè9ii 

esti  ànque  calatòriu  novu; 

drept  acéa  ti  pare  cumpleita 

feia  ce  templare  neplacùta  !... 


70  R.    ORTIZ 

que  te  miri  no  ti  bago  de  vina:  mirarea 
éste  Alia  nescien9ei  si  màica 
intiellepcionei  ;  inse  acési  urgeia 
de  quàre  te  miri  este  mài  cu  sàma; 
à  benefaptelor  resplàta  in  lume!... 

quèci  benefapta  è  [ ]  (1)  povvara 

nemul9emitei  ;  drept  acea  hurésce 
tòtu  nemul9emitoriul  '  :  grevutàtea 
fenefaptei  in  facatoriul  de  bene: 
iar  benefaptoriul',  fapta  sa  bùna 
intru  cèlu  nemul9emitoriu  li  iubesce; 
drept  asta  osebeiti  suentem  eo,  si  Atènàa  : 

ea  m'horresce,  eo  v  [■=  o]  liubesco 

s.  e.  1. 

[Finisce  a  e.  42  v.  coi  seguenti  versi  con  cui  si  chiude  la  2"*  scena  delVatto  I 
fra  Temistocle  e  Aspasia: 

A  sortii  relè  maneia 

nò  téme  celu  ce  se  anvé9a 

a  privvei  là  densa  in  fa9a; 

quando  ea  turba  far'  cuvvèntu. 
Schola  è  de  barba9eia 

a  ei  cumpleita  asupréla; 

cum  suentu  carmaciului  schóla, 

fortune  si  piovi  si  ventu, 

corrispondenti  alla  nota  arietta: 


Al  furor  d'avversa  sorte 

Più  non  palpita  e  non  teme 
Chi  s'avvezza  allor  che  freme, 
Il  suo  volto  a  sostener. 

Scuola  son  d'un'alraa  forte 
L'ire  sue  le  più  funeste; 
Come  i  nembi  e  le  tempeste 
Son  la  scuola  del  nocchier]. 


(1)  Parola  illeggibile:  prea  mare 


v?9 


PRIMI    CONTATTI    FRA    ITALIA    E    RUMANIA  71 

Malgrado  la  tendenza  visibilissima  a  non  discostarsi  dal  testo, 
neppur  quando  era  addirittura  impossibile  conservare  in  rumeno 
certe  peculiarità  del  nostro  stile  poetico,  cosi  abbondante  in  in- 
versioni e  in  costruzioni  arcaiche  che  non  trovano  riscontro  nella 
lingua  de'  nostri  fratelli  del  Danubio  ;  questa  traduzione  di  Budai- 
Deleanu  mentre  ha  il  pregio  d'essere  più. delle  altre  fedele  al 
pensiero  del  Metastasio,  non  è  poi  cosi  ibrida  cosa  come  potrebbe 
a  prima  vista  sembrare.  Pigliamoci  un  momento  la  briga  di  ri- 
durne qualche  brano  in  ortografia  moderna,  e  vediamo  che,  sti- 
listicamente parlando,  può  ritenersi  persino  superiore  a  quella 
del  Beldiman.  Ecco  p.  es.  un  brano  del  dialogo  fra  Temistocle 
e  Neocle,  che,  nella  nuova  veste  spogliata  degli  orpelli  di  uii 
latinismo  di  gusto  assai  dubbio,  non  si  può  negare  che  faccia 
tutt'altra  figura: 

Tem.  Infràneste-te,  o  fiule, 

ardoare  netimpurie!  Doar  inca 

te  crezi  a  fin  in  Atena, 

si  gloate  cuceritoare 

a  vedea  imprejurul  meu, 

ce  se  aduna  in  fericire, 

si  se  ìmboalda  la  noroc?... 
Toate  oh!  Neocle,  s'au  schimbat. 
Cel  ìntelept  se  pleaca  dupa  scarta. 
Curtea  vrajmasului  meu  e  aceasta; 
si  eu  nu  sunt  mai  mult  libovnicul  Atenei; 
sarac,  nemernic,  si  dat  in  urzia, 
izgonit,  pribeag  si  lipsit  de  toate; 
una  imi  ramase  (si  doar  cea  mai  buna)  : 
Statornicia  ! 
Neoclu:  larta-me,  o  dulce  parinte, 

asta  a  ta  statornicia 

imi  supera,  imi  intàrata  !   • 
Tu  dintr'aceias  izgonit  cetate, 
a  careia  de  atàte  ori  ìntregime 
aparasi;  si  in  locul  de  multumita 
ura  pretutindeni  gonitoare 


72  B.    ORTIZ 

a  Patriei  cumplit  aflànd,  ce  toata 
adapostirea,  toata  odihna  iti  pizmueste, 
si  va  pan'  ìntr'atàt  sa  te  aduca 
ca  sa  n'ai  loc  de  repaos;  si  totusi 
jaluindu-te  nu  te  auzii,  nici 
turburat  te  vazui!  ah!  parinte, 
si  cum  poti  suferi  in  Uniste  atàta 
greutate,  atàta  nemultumita?... 

Difetti  ce  ne  sono  ;  ma  il  lettore  riconoscerà  che  qui,  se  non 
altro,  il  pensiero  del  Metastasio  è  ridato  con  fedeltà,  e,  soprat- 
tutto, con  decoro.  Sarà  —  non  lo  nego  —  un  decoro  che  ha 
dell'artificiale,  e,  qua  e  là,  dello  stentato  ;  ma  che  ci  consola  ad 
ogni  modo  dello  strazio  che  gli  altri  traduttori  avevan  sempre 
fatto  di  questo  nostro  elegantissimo  e  venustissimo  poeta,  tra- 
ducendone i  versi  politi  ad  unguem  nella  più  linfatica  e  pe- 
destre delle  prose  immaginabili.  Orbene,  sarà  che  certi  tentativi 
un  po'  audaci  finiscon  sempre  per  cattivarsi  la  nostra  simpatia, 
sarà  per  una  ben  naturale  reazione  al  dispetto  provato  nel  veder 
sciupate  in  quella  tal  prosa  i  versi  più  squisiti  e  le  più  tenere 
strofette  che  sieno  mai  uscite  dalla  penna  del  più  dolce  dei  nostri 
poeti  ;  sarà  perchè  assai  meno  delle  altre  si  scosta  dal  testo  ;  a 
me  questa  traduzione  di  Budai-Deleanu  par  la  sola,  dalla  quale 
il  Metastasio  non  esca  malconcio,  come  è  certo  la  sola  che  si 
proponga  un  alto  fine  artistico  da  conseguire.  Compiacciamocene 
col  vecchio  boiaro  che  la  nostra  lingua  conosceva  a  menadito  e 
alla  nostra  letteratura  più  d'una  volta  s'ispirò,  e  riprendiamo  il 
cammino  che  abbiamo  interrotto,,  per  trattenerci  (forse  più  del 
dovere)  nella  sua  gioviale  compagnia  (1). 


(1)  Che  cosa  avesse  dal  Metastasio  tradotto  Stefax  Crisan  (Koròsi)  non 
sappiamo.  La  notiziola  citata  da  Vasile  Pop  nella  sua  prefazione  al  Salterio 
in  versi  del  Pralea  non  ci  apprende  se  non  che  «  acésta  multe  au  tradus  din 
Metastasie  *,  e,  del  resto,  anche  per  ciò  che  riguarda  la  vita  di  questo  lette- 
rato rumeno  del  Settecento,  se  non  è  buio  pesto,  poco  ci  manca.  Il  Jorga  stesso 
confessa  nella  sua  Istoria  Hteraturii  romìnesti  in  secolulnl  XV III'"'  (II,  297), 
che  non  ne  sappiamo  nulla,  all'infuori  di  quanto  ce  ne  dice  il  Cipàuiu  {Prin- 


PRIMI    CONTATTI    FRA    ITALIA    E    RUMANIA  73 

Dicevamo  dunque,  che  uno  dei  caratteri  generali  più  spiccati 
di  codesto  intermezzo  di  citazioni  frammentarie  e  tentativi  di 
traduzione  andati  a  male,  consiste  proprio  nel  fatto  che  non  è 
più  il  poeta  di  Nice,  ma  quello  della  Patria  che  troviamo  ora 
alla  moda. 

Il  Metastasio  infatti,  mentre  «  presenti  la  gran  rivoluzione... 
«  che  sopravvenne...  a  schiantar  l'impero  da  lui  amato  »  (1)  e 
cantato,  trovò  anche  accenti  d'ineffabile  dolcezza  e  d'insolita  sin- 
cerità ed  efficacia  ogni  qualvolta  gli  accadde  di  toccar  la  corda 
dell'amor  patrio.  Rileggiamo  i  versi  indimenticabili  del  Temi- 
stocle, là  dove  al  rimprovero  di  Serse  {Atto  11^  Se.  8): 

Ah  dunque  Atene  ancora 
Ti  sta  nel  cor!  Ma  che  tanto  ami  in  lei? 


cipia,  p.  317  e  segg.):  che  cioè  insegnò  nei  collegi  riformati  di  Cluj  e  di 
Mures-Osorhein  in  Transilvania,  e  che  non  era  più  in  vita  il  1820,  quando 
Asachi,  recatosi  in  Transilvania  per  reclutarvi  professori  per  il  seminario  di 
Socola,  potè  acquistar  dalla  vedova  di  lui  un  manoscritto,  ch'è  ora  alla  Bi- 
blioteca di  Jassy  (n.  27)  e  fu  studiato  (in  Revista  critica-Uterara,  IV,  33  sgg.) 
da  Aron  Densusianu.  Una  poesia  rumeno-italiana  (scritta  cioè  in  rumeno  ita- 
lianizzato) riproduce  a  fronte  coll'originale  italiano  il  Vater  a  p.  407  del 
voi.  IV  delle  sue:  Proben  deutscher  Volksmundarten  (Leipzig,  1817).  Eccola: 

Voi  ochi  muriture  stele  Voi  occhi,  stelle  mortali 

Ministri  perirei  mele,  Ministre  dei  miei  mali, 

S'in  somno  anche  m 'aretati  Ch'in  sogno  ancor  mostrate 

Che  murire  mi  optati;  Che  mio  morir  bramate; 

Inchisi  de  mi  ucideti.  Se  chiusi  m'ocideti  {sic) 

Deschisi,  voi  ce  nu  puteti?  Aperti,  che  non  farete? 

Questo  medesimo  madrigale  italiano,  il  cui  autore  non  mi  è  riuscito  di  tro- 
vare, è  imitato  da  Jancu  Vacarescu  nella  seguente  poesiola: 

Ochi!  cànd  inchisi  ma  prapaditi 

Deschisi  oar  ce  mi-  ati  face? 
Deschide-va-ti  si  ma  sfìrsiti! 

C'astfel  sa  pier  imi  place! 

{Foeziile  Vacarestilor  in  Bibl  Romanesca  Enciclopedica  Socec  (N.  2),  Bn- 
curesti,  1908).  —  Cfi*.  inoltre  L.  §aineanu,  Istoria  filologiei  romàne,  già  ci- 
tata, p.  28. 

(1)  Carducci,  Melica  e  lirica  nel  Settecento  (voi.  XIX  delle  Opere),  Bologna, 
ZanicheUi,  p.  83. 


74 


R.    ORTIZ 


l'eroe  risponde  in  uno  scoppio  improv\iso  di  passione  a  lungo 
compressa,  cli'è  un  protendersi  di  tutta  l'anima  verso  un  passato 
ormai  irrevocabile,  in  un  tumulto  tragico  di  ricordi  e  di  rim- 
pianti : 

Tutto,  signor;  le  ceneri  degli  avi, 

Le  sacre  leggi,  i  tutelari  Numi, 

La  favella,  i  costumi. 

Il  sudor  che  mi  costa. 

Lo  splendor  che  ne  trassi. 

L'aria,  i  tronchi,  il  terren,  le  mura,  i  sassi; 

e  non  ci  meraviglieremo,  che,  anche  in  Rumania,  degli  spiriti 
desiderosi  di  libertà  s'ispirassero  talvolta  ai  versi  di  questo  nostro 
poeta,  che  non  fu  sempre  il  rappresentante  di  quell'epoca,  più  a 
dir  vero  triste  che  vergognosa  della  nostra  storia  civile  e  lette- 
raria, che  noi  italiani  sogliamo  ingiustamente  dileggiare  qual 
madre  adultera  del  cicisbeismo  e  dell'Arcadia,  mentre  portava 
nel  seno  i  germi  fecondi  della  rinascita  futura.  No,  il  Metastasio 
non  fu  solo  il  poeta  della  Priìnavera  e  dell'amor  querulo  e 
lascivo  dei  pastorelli  d'Arcadia:  fu  il  poeta  di  Roma  e  della  virtù 
latina,  il  poeta  di  Regolo  e  di  Tito;  né  solo  per  Fillide  o  per 
Glori  egli  pianse,  ma  anche  per  le  trafitte  amare  della  nostalgia; 
e  neppur  sempre  gioì  alla  corte  di  Vienna  per  elogi  sovrani  e 
regali  di  tabacchiere  preziose,  ma  lamentò  in  parole  di  rasse- 
gnata amarezza  la  necessità  che  lo  aveva  spinto  a  «  procacciarsi 
«  sussistenza  »  oltre  i  confini  della  Patria,  mentre  «  ogni  altro 
«  trova  asilo  nella  sua!  »  (1).  Orbene  quei  versi  del  Teìnistocle  a 
me  pare  trovino  un  commento  in  questo  sospiro  nostalgico,  che,  di 
tanto  in  tanto,  scuote  il  petto  del  Metastasio  (2).  Non  era  forse 


(1)  Cfr.  Carducci,  Op.  cit.,  p.  91  :  «  Ogni  altro  trova  asilo  nella  mia  patria, 
<  ed  io  ho  voluto  prendermi  un  volontario  esilio  per  procacciarmi  sussistenza  ; 
«  e,  come  se  ciò  fosse  poco,  mentre  io  non  risparmio  sudori  per  onorarla,  mi 
«  eccita  calunnie  per  infamarmi  »  [Lettera  al  card.  Gentili). 

(2)  In  una  delle  prime  lettere  da  Vienna  (27  gennaio  1731)  il  povero  Me- 
tastasio ripensa  infatti  melanconicamente  al  carnevale  romano  ed  alle  corse 


PRIMI    CONTATTI    FRA    ITALIA    E    RUMANIA  7o 

anche  lui  lontano  dalla  Patria  e  mezzo  sperduto  tra  il  fasto  di 
quella  corte  straniera  un  po'  come  il  Temistocle  del  suo  dramma? 
E  chi  sa  in  quante  occasioni,  in  una  forma  o  nell'altra,  non  sarà 
stato  mosso  anche  a  lui  il  rimprovero,  ch'egli  pone  in  bocca  di 
Serse!  Forse,  in  grazia  appunto  a  codesto  accento  di  commossa 
sincerità  che  in  Temistocle  ci  fa  vedere  il  Metastasio  in  persona, 
quando  nei  primi  anni  della  sua  dimora  alla  corte  cesarea  le 
trafìtte  della  nostalgia  dovevan  farglisi  sentire  più  crude  ;  questi 
versi,  a  distanza  di  tanti  anni,  ci  commuovono  ancora.  Non  è 
quindi  strano  che  il  1829  un  greco  esule   e   patriota   ne   fosse 


dei  barberi  :  «  Oggi  è  appunto  il  primo  giorno  di  carnevale,  ed  io  son  qui  a 
«  gelarmi  »,  esclama  proprio  in  sul  principio,  e,  per  tutto  il  resto  della  let- 
tera, questi  due  ritornelli  del  carnevale  e  del  gelo  si  avvicenderanno  di  con- 
tinuo. «  Dica  chi  vuole  »,  esclama  dopo  una  vivace  rappresentazione  del  car- 
nevale romano,  «  è  un  gran  piacere  la  forte  immaginativa.  Io  ho  veduto  il 
«  Corso  di  Eoma  dalla  piazza  dei  Gesuiti  di  Vienna  !  ».  E  poi,  subito,  il  mo- 
tivo del  gelo  con  relativa  descrizione  della  neve  che  «  cade  continuamente,  si 
«  stritola  e  si  riduce  a  tal  sottigliezza  che  vola  e  si  solleva  come  la  polvere 
«  nell'agosto  »,  rincalzata  di  lamentele  d'abate  assiderato,  e  meraviglia  non 
priva  di  disprezzo  per  quelle  «  bestie  »  di  viennesi,  che,  con  quel  po'  po'  di 
freddo,  si  divertono  un  mondo  (tutti  i  gusti  son  gusti  !)  a  farsi  «  trascinare  in 
«  slitta  la  notte  »  ed  infine...  spiegazione  di  tanto  accanimento  contro  il  freddo 
e  la  neve,  consistente  nell'avere  il  povero  poeta  «  dato  solennemente  il  e.  per 
«  terra,  in  quel  solo  passo  indispensabile  »  che  doveva  fare  per  montare  in 
carrozza.  Insomma,  a  legger  questa  lettera,  un  po'  si  ride,  un  po'  ci  si  com- 
muove per  l'abate  romano,  privato  crudelmente  del  suo  carnevale  e  costretto 
per  giunta  a  camminar  sopra  «  tre  palmi  di  ghiaccio  cocciuto  più  delle  pietre  », 
a  farsi  mettere  «  le  sole  di  feltro  alle  scarpe  »  per  premunirsi  contro  la  «  lu- 
«  bricità  del  paese!  ».  Persino  nello  «  state  allegra  »  con  cui  si  chiude  questa 
lettera  alla  Bulgarelli  (o  Eomanina  dei  bei  giorni  napoletani  pieni  di  sole 
e  d'amore!)  par  di  scorgere  che,  quanto  a  lui,  non  era  certo  allegro  e  rim- 
piangeva più  ancora  che  il  carnevale  e  i  barberi,  il  bel  sole  e  il  dolce  clima 
d'Italia!  (Lettere  disperse  di  Pietro  Metastasio,  a  cura  di  Giosuè  Carducci, 
Bologna,  ZanichelH,  1883,  pp.  30-32).  Cfr.  anche  la  prima  delle  Bue  lettere 
autografe  di  Pietro  Metastasio,  pubblicate  d*  E.  N.  Chiaradia  in  questo 
Giornale  (59,  377),  datata  da  Vienna,  3  giugno  1730:  «  Io  sto  qui  di  buona 
«  salute,  ma  j^oco  contento  ;  fin  ora  non  posso  assuefarmi  al  paese,  ne  di 
«  me  posso  darvi  alcuna  notizia  perchè  la  Corte  non  è  paese  da  conoscersi  in 
«  così  pochi  giorni  » .  Nostalgia  e  tristezza,  senza  dubbio  come  poteva  sentirla 
un  abate  del  settecento,  ma  non  per  ciò  meno  dolorosa! 


76  R.    OllTIZ 

commosso  al  punto  da  riportarli  tradotti  in  capo  di  un  suo 
IMN02  EI2  THN  EAAAàA  nei  giorni  memorabili,  in  cui  la 
CVrecia  spezzava  le  secolari  catene  e  l'istmo  di  Corinto  risonava 
ancora  del  grido  di  Costantino  Ganaris. 

Quel  greco  era  Costache  Aristia,  e  tradurrà  di  li  a  qualche 
anno  in  rumeno  la  Virginia  e  il  Saul  dell'Alfieri  ;  i  versi  ch'egli 
pone  a  capo  del  suo  inno  suonano  in  greco  cosi: 

Tà  id'if^à  T^g,  ol  aTé(pavoi  fiov, 
'lÓQùJveg,  aivdvvoi,  d-giafi^oC  fiov, 
'0  '^Àiog  f^g  nal  ó  ald-^Q' 
Ki^advoì  ol  Àld-oi  Tu'^adrà  tà  Ì^Àa, 
'H  yfj,  fj  X^ó^i,  óévÒQùìv  xà  (pvÀÀa, 
Al    avTf^g  ravTijg  ^/a,ovv  gcùti^q  ! 

Questi  versi  gli  torneranno  alla  memoria  il  1843,  quando  per 
festeggiar  l'avvenimento  al  trono  di  Valachia  del  Voda  Gh.  Bi- 
bescu,  pubblicò  un  certo  suo  pasticcio  epico-lirico-adulatorio  in- 
titolato Priutul  Roman,  dove  a  pp.  vii-viii  della  Prefazione 
leggiamo  le  seguenti  parole:  «  [p.  vii]  Temistocle  màntuitorul 
«  Grecilor  care  a  rosit  limanul  Pireu  si  marea  Salaminia  cu 
«  sàngele  Persian,  apoi  pizmuit  si  osàndit  la  moarte  ca  totii 
«  màntuitorii  (uitativa  la  cruce)  scapa  si  chiar  in  Pèrsia  gene- 
«  roasa  gaseste  ocrotire  si  slava  mare,  ìnalta  si  el  mai  mult 
«  slava  Persana;  dar  voind  Csercses  sa  '1  trimita  ca  [p.  viii]  sa 
«  bata  si  Atena,  nu  primeste  ;  ascultati  dar  ce  respunde  : 

Serse.  Csercses. 

Ah  dunque  Atene  Vai!  astfel  tot  Atena 

Ancor  ti  sta  nel  cor!  Ea  sta  'n  inima  ta! 

Ma  che  tanto  ami  in  lei?  Ce  'n  ea  iube§ti  tu? 

Temistocle.  .  Temistocle. 

Tutto,  Signor;  Totul,  stapàne;  ^ra  mea 

Le  ceneri  degli  avi,  Tanna  straraogeasca, 

Le  sacre  leggi,  Si  legea  parinteasca, 

I  tutelari  Numi,  Costumuri,  cuvàntare, 


PRIMI    CONTATTI    FRA    ITALIA    E    RUMANIA  77 

La  favella,  i  costumi,  Zei,  munca,  slava  mare 

L'aria,  i  tronchi,  Sudoarele  'mi  si  truda, 

Il  terren,  le  mura,  i  sassi.  Si  ori  ce  fel  amar 

Trunci,  aer,  holde,  ziduri, 
Pamànt  si  pietre  chiar  »  (1). 

Se  la  metrica  non  è  troppo  rispettata  nel  testo  italiano,  la 
traduzione  per  compenso,  senza  potersi  dire  un  miracolo,  è  de- 
cente. Ma  non  sono  soltanto  questi  i  versi  che  Aristia  cita  nel 
corso  del  sullodato  pasticcio  adulatorio,  che  innanzi  alla  quarta 
parte  di  esso  {Parada  la  Palai)  troviamo  i  noti  versi  del- 
V Achille  in  Sciro: 

Lungi  lungi,  fuggite  fuggite. 
Cure  ingrate,  molesti  pensieri; 
No,  non  lice  del  giorno  felice 
Che  un  istante  si  venga  a  turbar. 

(Metastasio,  Achilìe,  atto  II,  scena  VII), 


(1)  [«  [p.  vii]  Temistocle,  il  redentore  dei  Greci  che  tinse  di  rosso  il  porto 
«  del  Pireo  e  il  mar  di  Salamina  col  sangue  dei  Persiani,  poi,  invidiato  e 
«  condannato  a  morte  come  tutti  1  redentori  (guardate  alla  croce),  riesce  a 
«  salvarsi,  ed  anche  in  Persia  trova  generoso  rifugio,  e  gloria  grande,  da 
«  parte  sua  innalza  anche  lui  la  gloria  dei  Persiani,  finché  volendo  Serse 
«  mandarlo  a  [p.  viii]  combattere  Atene,  rifiuta.  Ascoltate  ora  come  risponde: 

«  Serse.  «  Serse. 

«  Ah  dunque  Atene  «  Ahi!  dunque  sempre  Atene 

«  Ancor  ti  sta  nel  cor!  «  Essa  sta  nel  tuo  cuore! 

«  Ma  che  tanto  ami  in  lei?  «  Che  in  lei  tu  ami? 

«  Temistocle.  «  Temistocle. 

«  Tutto,  Signor;  «  Tutto,  Signore;  la  patria  mia, 

«  Le  ceneri  degli  avi,  «  il  terreno  avito 

«  Le  sacre  leggi,  «  e  la  legge  paterna, 

«  I  tutelari  Numi,  «  i  costumi,  la  lingua, 

«  La  favella,  i  costumi,  «  gli  Dei,  il  lavoro,  la  gran  gloria, 

«  L'aria,  i  tronchi,  «  i  mieii  sudori  e  le  disgrazie, 

«  Il  terren,  le  mura,  i  sassi.  «  e  ogni  altra  amarezza, 

«  i  tronchi,  l'aria,  le  zolle,  le  mura, 
«  la  terra  e  le  pietre  persino  »]. 

È  inutile   eh'  io  faccia  osservare  come,  piuttosto  che  di  una  traduzione,  sia 
qui  forse  il  caso  di  parlare  d'una  parafrasi. 


78 


B.    ORTIZ 


che  io  cito  naturalmente  come  trovo;  e  innanzi  alla  9^  parte 
(Cuvéntul  M.  Sale  la  deschiderea  cìnstitei  obcinuitei  oì)ste§tn 
adunàrì)  questi  altri  di  nuovo  del  Temistocle: 

Di  tua  virtù  la  mia  virtude  accendi! 
Più  di  quel  ch'io  ti  dò,  sempre  mi  rendi. 

Quando  un'emula  l'invita, 
La  virtù  si  fa  maggior; 
Qual  di  face  a  face  unita 
Si  raddoppia  lo  splendor. 

(Metastasio,  Temistocle,  atto  HI,  ultima  scena). 

Delle  citazioni  metastasiane  del  Negruzzi  ho  avuto  altrove  (1) 
occasione  di  occuparmi.  Non  aggiungerò  dunque  che  una  breve 
rettificazione.  ì^qW Alauta  romineasca  del  1837,  dove  per  la 
prima  volta  apparve  pubblicata  la  novella  Zoè^  i  versi  del  Me- 
tastasio sono  scritti  benissimo,  senza  gli  spropositi,  dei  quali  li 
adorna  l'edizione  Socec,  della  quale  ho  avuto  l'imprudenza  di 
fidarmi.  Del  resto,  ciò  non  toglie  nulla  alla  verità  di  quanto  a 
proposito  del  Negruzzi  mi  è  accaduto  di  sospettare  nella  note- 
rella  in  questione:  che  cioè  d'italiano  egli  dovesse  sapere  ben 
poco.  Ci  risulta  infatti  che  una  sua  vagheggiata  traduzione  della 
Gerusalemme  non  andò  oltre  le  prime  strofe  e  rimase  allo  stato 
di  semplice  progetto,  non  avendo  il  Negruzzi  potuto  vincere  le 
difficoltà  che  lo  stile  poetico  del  Tasso  gli  offriva  quasi  ad  ogni 
pie  sospinto  (2).  Ed  invero  altro  è  tradurre  dal  Metastasio,  altro 


(1)  UnHmitazione  rumena  dal  Gessner  e  dal  Vìgny,  in  Studi  letterarie 
linguistici  dedicati  a  Pio  Rajna  nel  quarantesimo  anno  del  suo  insegnamento, 
Firenze,  Ariani,  1911,  p.  940,  n.  2. 

(2)  «  Più  che  guidato  da  maestri,  Costantino  Negruzzi  imparò  da  solo  il 
«  tedesco  e  l'italiano,  quest'ultima  lingua  così  bene  da  concepire  a  un  dato 
«  momento  il  disegno  di  tradurre  in  versi  la  Gerusalemme  liberata  di  Tor- 
«  quato  Tasso.  Ma  sia  che  altri  lavori  gli  avessero  preso  tutto  il  tempo  che  aveva 
«  disponibile,  sia  che  si  fosse  imbattuto  in  troppo  gravi  difficoltà,  il  tentativo 
«  non  ebbe  seguito  ed  il  progetto  rimase  ineseguito  ».  Cfr.  I.  C.  Negruzzi, 
Inceputurile  literare  ale  lui  Constantin  Negruzzi,  in  Atialéle  Academiei 
Romàne,  Seria  II,  tom.  XXXII  (1909). 


PRIMI    CONTATTI    FRA    ITALIA    E   ROMANIA  79 

dal  Tasso!  Chi,  nel  secolo  XVIII,  non  sapeva  a  memoria,  pur 
non  conoscendo  l'italiano,  qualche  strofetta  dell'autore  del  Regolo  l 
«  Il  Metastasio  »  scrive  il  De  Sanctis  (1)  «  sopravvisse  a  sé 
«  stesso.  Negli  ultimi  tempi  era  come  uno  straniero  accampato  in 
«  mezzo  a  una  società  che  si  rinnovava  rapidamente.  Assistette 
«  vivo  alla  sua  demolizione.  Vide  Goldoni  attaccare  tutta  quella 
«  sua  fantasmagoria  eroica,  e  cercare  un'altra  base,  nella  natura. 
«  Vide  Parini  dar  della  scure  su  quella  società  ch'egli  aveva 
«  resa  immortale.  Vide  Alfieri  rompergli  le  sue  melodie.  E  già, 
«  morto  appena,  la  società  di  cui  era  stato  il  poeta  e  l'idolo,  crol- 
«  lava  da  tutte  parti  con  tanta  rovina,  che  la  nuova  generazione 
«  non  la  comprese  più  e  parve  lontana  di  un  secolo  ».  Sta  bene; 
ma  «  la  collera  contro  la  vecchia  società  »  non  sempre  si  riversò 
sul  poeta,  che,  se  fu  accusato  «  di  avere  infemminito  gli  italiani 
«  co'  suoi  molli  versi  »,  seguitò  non  pertanto  a  regnar  da  padrone 
nel  cantuccio  solitario  e  fiorito,  che  più  d'un  rivoluzionario  volle 
serbargli  nel  cuore,  per  potervisi  rifugiare  a  suo  bell'agio,  ogni 
qualvolta,  stanco  della  lotta  e  disgustato  degli  uomini,  sentisse 
il  bisogno  di  affrancarsi  un  istante  dalle  catene  brutali  della 
realtà,  per  lasciarsi  rapire  dal  fascino  di  quell'arte  delicata  e 
ingenua  come  un  fiorir  di  mandorli  a  primavera  (2).  Inoltre, 
come  il  principal  nemico  della  sua  fama  fu  l'Alfieri  (del  quale 


(1)  Nel  Saggio  sul  Metastasio  comparso  nella  N.  Antologia  (agosto  1871) 
e  rifuso  poi  nella  Storia  della  letteratura.  Il  brano  che  riportiamo  (non  com- 
preso nella  rifusione)  è  stato  di  recente  ripubblicato  dal  Croce  nel  fascicolo 
di  marzo  1912  (p.  61)  della  sua  Critica  con  altre  Pagine  sparse  di  Fran- 
cesco De  Sanctis. 

(2)  Una  riprova  ce  l'offrirebbe  (e,  possiamo  dire^  ce  V offre,  visto  che  l'au- 
tore della  traduzione  riteneva  il  dramma  del  Metastasio)  Jordachi  Sion 
(1822-1892)  che  il  1843,  quando  già  da  parecchi  anni  le  tragedie  di  Vittorio 
Alfieri  strappavano  alle  platee  rumene  i  più  frei^tici  applausi  e  i  poeti  can- 
tavano ben  altre  cose  che  la  primavera  e  i  pastorelh  d'Arcadia,  ci  dà,  quando 
meno  ce  l'aspetteremmo,  la  traduzione  d'un  Achille,  ch'egli  dice  del  Metastasio  : 
AXLI  I  DPAMt  EPOiKt  y^H  HATpy  AKTE  jj  DE  |  METACTACIO.  il  zpadi^cr,  \ 
DE  I  lOPDAKI  CION  I  lamn.  |  JLa  Kantopa  0oiei  Cztemii.  \  1843,  ma  che, 
mentre  non  ha  nulla   a   che  fare  con  V Achille  in  Sciro,  né  si  legge  fra  le 


80  R.    ORTIZ 

furon  si  conosciute  fuori  d'Italia  le  tragedie  ma  non  tutte  le 
bizze  e  i  giudizi  avventati),  cosi,  data  anche  la  tendenza  degli 
stranieri  a  ravvisar  nel  Metastasio  il  fiore  più  vago  e  quasi 
l'essenza  stessa  dell'arte  puramente  italiana  (le  cui  note  fon- 
damentali riesce  per  avventura  più  facile  ad  essi  che  a  noi 
di  stabilire),  è  chiaro  che,  fuori  dei  confini  della  Patria,  dove 
i  pettegolezzi  letterari  non  giungono  e  certe  idolatrie  non  tro- 
vano eco,  il  Metastasio  non  rimase  esposto  ad  altri  colpi  che 
non  fossero  quelli  che  indubbiamente  gli  venivano  dal  rinnova- 
mento dei  tempi  e  dell'arte.  Ai  quali  colpi  l'eroe  resistè  a  lungo, 
imbracciando  lo  scudo  romano,  dove  era  scolpita  la  gesta  di 
Regolo,  e,  mostrando  di  saper  combattere  anche  lui  per  la  li- 
bertà, disarmò  la  maggior  parte  de'  suoi  nemici,  che,  posta  giù 
la  diffidenza  per  il  poeta  di  Nice,  accolsero  nelle  loro  file  il 


Opere,  né  presenta  le  caratteristiche  di  un  dramma  metastasiano,  è  invece 
traduzione,  come  mi  è  riuscito  di  assodare,  di  un  dramma  eroico  di  Atanasio 
Christopoulos,  «  naQaorad-év  »,  come  ci  testimonia  il  2A&A2  (NeoeÀ- 
ÀtjviHT]  0iÀoÀoyia,  "Ev  ^Ad-i^vais,  1868,  p.  714)  «  jioÀÀdmg  Hai  d'av- 
fiaod-èv  i)cp' 8Àù)v  »  e  cosi  intitolato:  ^Ax^^^^vS)  ÒQdfA^a  ^qco'Chòv 
elg  TÌjv  aioTi  o  ò  (0  QiHtjv  ó  i  dÀ  eyiTov.  "Ev  Biévvij,  1805.  La  traduzione 
del  Sion  c'interessa  però  per  via  della  Prefazione,  in  cui,  fra  molti  luoghi 
comuni  sul  dovere  che  incombe  all'uomo  di  coltivare  il  suo  spirito,  e  sull'uf- 
ficio della  poesia,  considerata  come  principio  di  civiltà,  posson  leggersi  le  se- 
guenti parole,  che,  mentre  ci  attestano  ancor  viva  l'impressione  suscitata 
dalla  rappresentazione  moldovana  del  Saul,  par  voglia  paragonare  la  poesia  in 
genere,  e  quella  del  Metastasio  in  ispecie,  all'arpa  di  David,  che  sola  poteva 
calmare  le  furie  dell'infelice  re  d'Israele:  «  Adese  ori  un  Saul,  care  in  perio- 
«  dica  sa  furie  si  nebunie  uria  lumea  intreaga,  pe  Dumneze'ii  in  care  pururea 
«  ca  ìntr'un  duh  al  màntuirei  vietuiau  Evreiì",  si  insusi  pe  David,  slava  lui 
«  Israil,  numai  atuncea  cunostea  rezonul,  se  imblànzia,  si  simtia  datoriea  sa, 
«  cand  cu  capul  seu  rezemat  de  tenunchii  eroului  unia  dulcele  accente  ale  harpei 
«  sale,  cu  harmoniosaele  tonuri  ce  completa  lauda  vetezilor  lut  biruin^e  si 
«  izbànzi  »  [Spesse  volte  un  Saul,  che,  nel  suo  periodico  furore  e  nella  sua 
intermittente  follia,  odiava  il  mondo  intero  e  Dio  nel  quale  continuamente 
come  in  uno  spirito  di  redenzione  vivevano  gli  Ebrei  e  lo  stesso  David,  gloria 
e  fasto  d'Israele,  solo  allora  conosceva  ragione,  si  calmava  e  si  rendeva  conto 
del  dover  suo,  quando,  col  capo  sulle  ginocchia  dell'eroe,  lo  ascoltava  sposare 
i  dolci  accordi  dell'arpa  alle  parole  armoniose  che  com  pietà van  la  lode  delle 
sue  forti  vittorie]. 


PRIMI    CONTATTI    FRA    ITALIA    E    RUMANIA  81 

vecchio  eroe  cui  le  ginocchia  tremavano  ormai,  non  la  voce; 
la  voce,  che,  di  tra  il  tumulto  della  folla  rivoluzionaria  e  il  fra- 
gore delle  armi,  cantava  fioca  ma  chiara: 

La  patria  è  un  tutto, 
di  cui  slam  parti.  Al  cittadino  è  fallo 
considerar  sé  stesso 
separato  da  lei.  L'utile  o  il  danno 
ch'ei  conoscer  dee  solo,  è  ciò  che  giova 
0  nuoce  alla  sua  patria,  a  cui  di  tutto 
è  debitor.  Quando  i  sudori,  e  il  sangue 
sparge  per  lei,  nulla  del  proprio  ei  dona; 
rende  sol  ciò  che  n'ebbe. 

{Regolo,  atto  II,  scena  I). 

Bellissimi  versi,  che  ne  ispirarono  degli  altri,  anche  più  belli, 
al  Leopardi  (1),  e  che  ad  ogni  modo  valgono  a  spiegarci  il  de- 
siderio del  Carducci  di  veder  V Attilio  Regolo  «  rappresentato 
«  tutti  gli  anni  con  musica  degna  nel  giorno  natalizio  di  Roma 
«  su  '1  Campidoglio  »  (2). 


(1)  Air  Italia,  vv.  54-59: 

Oh  misero  colui  che  in  guerra  è  spento 

non  per  i  patrii  lidi  e  per  la  pia 

consorte  e  i  figli  cari, 

ma  da  nemici  altrui 

per  altra  gente,  e  non  può  dir  morendo: 

Alma  terra  natia, 

la  vita  che  mi  desti,  ecco  ti  rendo, 

l'ultimo  dei  quali  non  è  che  un'eco  del  metastasiano  : 

rende  sol  ciò  che  n'ebbe. 

Per  altre  imitazioni  metastasiane  nel  Leopardi  cfr.  V.  Russo,  «  La  Libertà  > 
del  Metastasio  in  due  canti  del  Leopardi,  in  Wote  di  letteratura  e  d'arte, 
Catania,  Giannotta,  1910  ;  V.  A.  Arullani,  Una  canzonetta  del  Metastasio  e 
un  canto  del  Leopardi,  in  Biblioteca  delle  scuole  italiane,  X  (1905),  16. 

(2)  Carducci,  Op.  cit.,  p.  83. 

Giornale  storico,  LXIV,  taso.  190-191.  6 


82 


OfiTIZ 


Le  rappresentazioni  del  "  Catone  „ 
e  della  "Didone,,. 

Il  28  aprile  1835,  VAlMna  romdneasca  usciva  col  seguente 
annunzio  :  «  M.  Paulo  Cervati  ténor,  que  les  amateur s  de  la 
«  musique  italienne  ont  admirè  dans  la  pièce  de  '  Caton  en 
«  Uiique\  engagé  par  des  raisons  de  famille  de  séjourner  quel- 
«  que  temps  dans  cette  capitale  [Jassy],  se  propose  de  donner 
«  des  le^ons  de  chant.  On  peut  apprendre  son  adresse  au  théàtre  ». 
Quali  fossero  le  «  ragioni  di  famiglia  »  del  signor  Cervati  non 
avremo  noi  l'indiscrezione  d'indagare.  Si  tratta  probabilmente 
d'un  eufemismo,  sotto  il  velo  del  quale  a  noi  par  vedere  un  ac- 
cenno a  condizioni  finanziarie  poco  rigogliose,  o,  con  maggiore 
verosimiglianza,  una  excusatìo  non  petita  del  suo  prolungato 
soggiorno  nella  capitale  della  Moldavia  in  attesa  d'un'occupazione 
onorevole  che  forse  fin  d'allora  gli  si  era  fatta  intravedere  come 
possibile.  Ci  conforta  in  quest'ipotesi  l'apprendere  che  facciamo 
dal  Burada  (1)  come  l'anno  appresso  egli  occupasse  nel  Con- 
servatorio filarmonico-drammatico  di  Jassy  (2)  la  cattedra  di 
Tnusica  vocale.  Ma  non  è  questo  quello  che  ci  preme  assodare, 
sibbene  la  rappresentazione  del  Catone  di  Utica,  della  quale 
non  ci  è  riuscito  trovar  altre  notizie  all' infuori  dell'accenno 
contenuto  nell'annunzio  citato.  Poi  che  il  Cervati  fu  la  prima 
volta  a  Jassy  l'il  aprile  del  1833,  quando,  di  passaggio,  dette 
una  recita  straordinaria  di  qualche  scena  isolata  del  BarMeì^e 
di  Siviglia  e  déìV  Otello,  è  lecito  argomentare  che  se  il  Catone 
in  Utica  fu  davvero  rappresentato  a  Jassy,  ciò  avvenne  fra  il 


(1)  Cfr.  Arhiva,  XVII  (1906),  p.  34  e  n.  2. 

(2)  Il  conservatorio  fu  inaugurato  solennemente  il  15  novembre  1836  e  si 
può  argomentare,  che,  fin  dall'anno  prima,  i  promotori  avessero  posto  l'occhio 
addosso  al  tenore  italiano  per  affidargli  la  cattedra  in  questione. 


PRIMI    CONTATTI    FRA    ITALIA    E    RUMANIA  83 

1833  e  il  1835  e  con  ogni  probabilità  in  quest'ultimo  anno,  se 
l'avviso  può  riferirsi  al  successo  ottenuto  dal  Cervati  come  a 
cosa  recente.  Ma  si  trattò  d'una  vera  e  propria  rappresentazione  ? 
La  qualità  di  tenore  del  Cervati  ce  ne  fa  dubitare  e  l'aver  egli 
cantato  altra  volta  solo  scene  staccate  del  Barbiere  e  dell' Ofe/to 
ci  conferma  nel  dubbio.  Ad  ogni  modo  il  Metastasio  c'entrava  di 
sbieco,  come  autor  del  libretto^  e  qui  si  tratta  del  Catone  in 
Utìca  del  Leo  assai  più  che  di  quello  del  Metastasio  (1).  Non  ci 
resta  dunque  che  far  le  nostre  congratulazioni  al  virtuoso  tenore 
che  vi  furoreggiò  e  rassegnarci  senza  troppi  rimpianti  a  igno- 
rare i  particolari  dello  spettacolo,  cui  dovettero  far  seguito  cri- 
tiche e  commenti  esclusivamente  musicali  e  che  perciò,  anche  se 
li  possedessimo,  non  potrebbero  avere  grande  interesse  per  noi.  Si 


(1)  Nell'avviso  si  parla  infatti  di  «  amateurs  de  la  musique  italienne  ». 
La  cosa  è  tanto  chiara  che  potrebbe  persino  sembrare  ozioso  l'insisterci.  Bi- 
sogna però  tener  presente  che  molte  volte  la  stessa  compagnia  rappresentava 
a  un  tempo  drammi  e  opere  in  musica.  Ce  ne  fa  fede  il  Fjlimon  {Ciocoii 
veclii  si  noi)  a  proposito  della  compagnia  Dilli-Steinfels  che  fu  la  prima  a 
fare  una  tournée  in  Rumania  e  recitò  al  Teatro  della  Fontana  rossa  fondato 
a  Bucarest  da  Doranitza  Ralu.  (Cfr.  Cap.  XX  :  Teatru  in  tara  romàneasca,  pa- 
gine 178-79  dell'edizione  «Minerva»,  Bucuresti,  1902).  «  Pu^in  ìnsa  dupa 
«  aceia  [dopo  cioè  che  Domnitza  Ralù  ebbe  trasformato  in  teatro  la  sala  da 
*  ballo  della  Fontana  rossa]  veni  in  Bucuresti  un  antrepenor  de  teatru  melo- 
«  dramatic  cu  o  trupa  formata  ast-fel  in  càt  sa  poata  reprezinta  tragedia, 
«  drame,  comediY,  si  chiar  opere  »  [Poco  dopo  questi  avvenimenti  giunse  a 
Bucarest  un  impresario  di  teatro  melodrammatico  con  una  compagnia  formata 
in  modo  da  poter  rappresentare  tragedie,  drammi,  commedie  ed  anche  opere 
in  musica].  E  poco  dopo:  «  Repertoriul ...  se  compunea  din  cele  mai  frumoase 
«  productiuni  dramatice  si  opere  muzicale  ale  scohlor  italiana  si  germana; 
«  dar  piesele  care  intàmpinau  o  primire  mai  favorabila  in  publicul  teatrului 
«  nostra  erau:  Saul,  Pia  de^  Tolomei,  Briganziì  si  Faust,  precum  si  operile: 
«  La  gazza  ladra,  Moise  in  Egipt,  Cenerentola,  Flautul  magic,  Idonieneu, 
«  si  càte-va  altele...  cele  trei  opere  dintài  de  Rossini,  iar  celelalte  de  Mozart  » 
[Il  repertorio  si  componeva  delle  migliori  produzioni  drammatiche  ed  opere 
in  musica  delle  scuole  italiana  e  tedesca  ;  ma  quelle  che  ottennero  sul  nostro 
teatro  maggior  successo  furono:  il  Saul,  la  Pia  de^  Tolotnei,  I  Masnadieri 
e  il  Faust,  e,  tra  le  opere  in  musica,  La  gazza  ladra,  il  Mosè  in  Egitto, 
la  Cenerentola,  il  Flauto  magico  e  Vldomeneo,  le  prime  tre  del  Rossini,  le 
altre  due  di  Mozart]. 


84  R.    ORTIZ 

ha  un  bel  dire,  ma  quando  l'uva  è  troppo  alta  è  sempre  un  gran 
sollievo  potersene  consolare  ripetendo  il  detto  della  vulpecula 
esopiana:  Nondum  matura  est^  nolo  acerham  sumere!  E  in 
che  peccaron  hamhinì  i  poveri  critici,  «  allor  che  ignara  di 
«  misfatto  è  la  vita  »,  perchè  un  tal  sollievo  debba  esser  negato 
proprio  ad  essi,  che  ne  han  più  degli  altri  bisogno? 

Assai  più  fortunati  siamo  per  ciò  che  riguarda  la  Bidone  ab- 
bandonata, la  rappresentazione  della  quale  (avvenuta  nel  marzo 
del  1833,  prima  dunque  dell'arrivo  del  Cervati  a  Jassy),  riusci 
cosi  bene,  da  far  nascere  in  un  manipolo  di  giovani  rumeni  il 
patriottico  desiderio  di  mostrar  coi  fatti,  come  il  rumeno  non 
fosse  poi  linguaggio  si  rozzo,  da  non  potersi  usare  a  esprimere 
i  più  delicati  e  riposti  moti  dell'animo,  come,  per  un  curioso  pre- 
giudizio, si  soleva  allora  affermare. 

Bisogna  dunque  sapere,  che  il  1833  furoreggiava  a  Jassy  una 
compagnia  francese,  che  richiamava  ogni  sera  al  Teatro  delle 
Varietà  quanto  di  più  eletto  offrisse  allora  la  gentile  capitale 
della  Moldavia,  non  esclusi  molti  giovani  delle  due  colonie  stra- 
niere più  numerose,  la  tedesca  e  l'italiana,  che,  infiammati  dai 
successi  della  compagnia  francese,  incominciarono  con  non  mi- 
nore successo  a  rappresentare,  ciascuno  nella  propria  lingua, 
opere  italiane  e  tedesche.  Sappiamo  dal  Burada,  che  codesti  gio- 
vani erano,  per  la  maggior  parte,  allievi  di  convitti  privati,  che 
incoraggiati  dai  rispettivi  direttori  ardirono  salire  sul  palco- 
scenico, sicuri  d'un  uditorio  ristretto  e  benevolo,  che,  nella  peg- 
giore delle  ipotesi,  avrebbe  almeno  apprezzato  il  tentativo.  Un 
pubblico  più  largo  c'è  da  scommettere  che  li  avrebbe  accolti  a 
fischiate  tanto  a  quell'epoca  era  poca  in  Moldavia  l'importanza 
che  si  dava  alle  arti  e  specialmente  a  quella  del  teatro.  Si  co- 
minciò dunque  alla  chetichella  con  un  dramma  tedesco  intitolato: 
Timur  Can  dei  Tartari,  che  a  noi  italiani  ricorda  quello  del 
Casti  :  Cublai  gran  can  de'  Tartari,  del  quale  in  fin  dei  conti 
non  sarebbe  strano  che  fosse  un  rifacimento  o  magari  una  tra- 
duzione, e  si  seguitò  con  la  Bidone  abbandonata  del  Metastasio. 
Il  primo  fu  dato  a  beneficio  di  un  signor  Herfner,  maestro  di 


PRIMI    CONTATTI    FRA    ITALIA    E    RUMANIA  85 

cappella  della  guardia  moldava  e  direttore  d'orchestra;  il  se- 
condo a  beneficio  di  un  signor  Livaditi,  che  aveva  il  merito 
d'aver  dipinto  le  scene  e  la  sala  del  teatro.  Recite  dunque  asso- 
lutamente disinteressate  da  parte  dei  giovani  filodrammatici,  e 
che  alla  compagnia  francese  non  potevano  per  nessun  verso  di- 
spiacere. Dell'una  e  dell'altra  rappresentazione  ci  dà  notizia 
l'Asachi  nel  n°21  (27  marzo  1833)  della  sua  Albina  romdneascà, 
dove,  a  proposito  della  Bidone,  possiamo  leggere  il  resoconto  che 
segue  :  «  Il  secondo  [draimna  ad  andare  in  iscena]  fu  il  dramma 
«  italiano  dell'immortal  Metastasio,  intitolato  :  La  Bidone  aMn- 
«  donata  (sic)  che  fu  rappresentata  a  beneficio  del  signor  Liva- 
«  diti,  il  bravo  decoratore  del  nostro  teatro.  La  signora  Livaditi 
«  nella  parte  di  Didone  ed  il  signor  Kemingher  in  quella  di 
«  Selene,  seppero  produrre  nel  pubblico  la  migliore  impressione 
«  per  la  conoscenza  perfetta  che  mostraron  di  possedere  sia  del- 
«  l'arte  della  scena,  sia  della  declamazione  (recitazione  teatrale) 
«  degli  armoniosi  versi  del  Metastasio.  Il  signor  Nicoleti  (sic) 
«  interpretò  la  parte  di  Jarba  con  facilità  piena  d'intelligenza  e 
«  di  fuoco  e  similmente  il  signor  Livaditi  fece  del  suo  meglio 
«  per  contribuire  al  successo  della  rappresentazione  italiana,  che, 
«  facendo  saltare  agli  occhi  dei  patrioti  non  immemori  [della 
«  loro  origine  latina]  le  simiglianze  che  corrono  fra  l'una  lingua 
«  e  l'altra,  ha  fatto  rinascere  il  desiderio  di  veder  sulle  scene 
«  qualche  opera  [scritta  e  recitata]  nella  lingua  della  patria  ». 
Il  «patriota  non  immemore»  era,  com'è  chiaro,  proprio  lui 
Asachi,  che,  meglio  di  ogni  altro,  poteva  rilevare  le  affinità  nu- 
merose fra  le  due  lingue  sorelle,  essendo  stato  più  anni  in 
Italia  (1),  e  conoscendo  la  nostra  lingua  a  segno  da  scrivere  in 
italiano  madrigali,  sonetti  e  canzonette  (2)  sin  troppo  riuscite 
dal  lato  della  forma,  pur  nella  loro  insipidezza  arcadica,  perchè 


(1)  Di' Asachi  e  della  sua  dimora  in  Italia  ha  recentemente  trattato  Elena 
Bacaloglu  in  un  suo  articolo  Bianca  Milesi  e  CHorgio  Asàki,  pubbUcato 
nella  Nuova  Antologia  del  1°  settembre  1912. 

(2)  Pubblicati  quasi  tutti  nella  rivista  romana  II  Campidoglio. 


86  R-    ORTIZ 

possiamo  crederle  tutta  farina  del  sacco  suo;  e.  con  ogni  pro- 
babilità, codeste  sue  parole  appunto  dovettero  destare  nell'animo 
della  gioventù  moldava  il  desiderio  di  emular  sulla  scena  i 
loro  coetanei  tedeschi  e  italiani.  Sappiamo  infatti  dal  Burada  (1) 
elle  «  queste  rappresentazioni  dei  giovani  dilettanti  tedeschi  e 
«  italiani  destarono  il  desiderio  dei  dilettanti  moldavi  di  pro- 
«  dursi  sulla  scena  con  opere  7'ecUate  in  lingua  rumena  »  e 
che  «  aspettavano  con  impazienza  di  poter  mostrare  al  pubblico 
«di  Jassy  che  anche  la  gioventù  moldava  poteva  elevarsi  alla 
«  medesima  altezza  di  quella  straniera  ».  Ma  la  cosa  restò  per 
allora  allo  stato  di  puro  desiderio.  Recite  di  dilettanti  rumeni 
ce  ne  furono,  ma  in  francese,  come  lo  stesso  Burada  è  costretto 
ad  ammettere,  e,  salvo  un  tentativo  fatto  il  1819  al  Teatro  della 
Fontana  Rossa  di  Bucarest,  la  lingua  rumena  dovrà  aspettare 
la  fondazione  della  Società  Filarmonica  e  del  Teatino  Nazio- 
nale per  salire  definitivamente  agli  onori  della  ribalta,  e  ciò 
doveva  avvenire  a  Bucarest  per  opera  di  Joan  Heliade  Radulescu, 
e  non  a  Jassy,  malgrado  la  prima  idea  ne  fosse  balenata  ad 
Asachi.  Hahent  sua  fata  libelli  !  E  questa  volta  il  fato  era  che, 
non  al  tenero  abate,  ma  al  feì^o  alloWogo  toccasse  l'onore  di 
tenere  a  battesimo  il  nascente  teatro  rumeno,  destinato  da  He- 
liade a  infranger  le  catene  di  un  secolare  servaggio  e  bisognoso 
perciò  del  ruggito  di  libertà  del  leoncello  alfieriano,  più  che 
delle  ariette  leggiadre  del  Metastasio  (2). 


(1)  Cfr.  Arhiva,  loc.  cit. 

(2)  Cfr.,  nella  Gazeta  Teatrului  del  1836,  n.  12,  p.  96,  l'interessante  cam- 
pagna condotta  da  Joan  Voinescu  II  e  Barbu  Catargiu  contro  le  pochades, 
le  farse,  «  ...  satirele  personale,  comediile  lipsite  de  spirit,  dar  pline  de  fal- 
c  sitaci,  scrierile  reci  alcatuite,  farà  stil,  farà  miezul,  farà  un  ^1  raoral  si 
«  0  forma  estetica  »,  che  «  inlocuiau  splendorile  lui  Voltaire,  lui  Shake- 
«  speare,  lui  Alfieri,  lui  Molière,  lui  Kotzebue,  ori'  Schiller  pe  scena  nòstra, 
«  care,  ca  si  publicul,  aveà  nevoe  de  lécurì  sufletesci  tntaritóre,  nu  de  In- 
€  demnuri  la  amagirì  si  la  desfrìu  »  [...  le  satire  personali  e  le  commedie 
prive  di  spirito,  ma  piene  di  falsità,  male  imbastite,  senza  stile,  senza  capo, 
né  coda,  senza  fine  morale  e  senza  forma  estetica  »  che  «  sulla  nostra  scena, 
bisognosa  {come  il  pubblico  nostro)  di  medicine  morali  corroboranti,  noìi  di 


PRIMI    CONTATTI    FRA    ITALIA    E    RUMANIA 


87 


Con  le  quali  parole  non  intendo,  naturalmente,  detrarre  al 
merito  grandissimo  che  pur  ebbe  questo  nostro  poeta,  del  quale, 
a  dir  del  Vàcàrescu,  la  poesia  italiana  s'è  adornata,  ma  sol- 
tanto rilevare,  in  omaggio  alla  verità,  come,  intorno  al  1833-35, 
il  suo  teatro  non  fosse  più  all'unisono  col  sentimento  generale 
e  le  idee  dominanti  cosi  in  Rumania  come  altrove  (1).  Ciò  spiega, 
come,  mentre  fin  dal  1784  e  dal  1797  la  Clemenza  di  Tito  e 
V Achille  in  Sciro  (2)  fossero  già  tradotti,  nessuno  se  ne  ricor- 


eccitamenti  alle  illusioni  e  alla  sfreìiatezza  dei  costumi,  avevan  usurpato  il 
posto  agli  splendori  del  Voltaire,  dello  Shakespeare,  dell'Alfieri,  del  Molière, 
del  Kotzebue  e  dello  Schiller]. 

(1)  'L'Albina  romàneasca  infatti,  che,  pochi  giorni  prima,  annunziava  l'ar- 
rivo a  Jassy  di  un  «  Mr.  Avanzo,  jongleur  italien  avantajeusement  connu 
«  dans  les  principales  Capitales  de  l'Europe  »,  a  qualche  numero  di  distanza, 
crede  invece  doversi  occupare  del  «  fameux  Mazzini  »  e  di  «  autres  membres 
«  de  la  Giovine  Italia  »,  che  «  répandaient  partout  des  proclamations  signées 
«  par  le  gouvernement  provisoire  révolutionnaire,  tendantes  à  exciter  le  peuple 
«  à  la  révolte.  Mais  comme  les  habitants  ne  prenaient  aucune  part  à  ce  mou- 
«  vement  et  que  Romarino  [leggi  naturalmente:  Raraorino]  avait  appris  le 
«  mauvais  résultat  de  l'expédition,  il  abandona  ses  gens  et  se  saura  sur  le 
«  territoire  de  Genève  ».  Da  Mr.  Avanzo  a  Mr.  Mazzini;  dal  successo  ottenuto 
dal  giocoliere  italiano  «  dans  plusieurs  maisons  distinguées  »  di  Jassy,  all'e- 
sito infelice  della  spedizione  di  Savoia!  Un  vecchio  mondo  di  virtuosi  che 
scompare  colle  sue  boriuzze,  le  sue  miserie,  le  sue  vergogne,  un  mondo  nuovo 
che  nasce  e  par  soccombere  nei  primi  tentativi  di  sovrapporsi  al  vecchio! 

(2)  Ad  una  rappresentazione  (almeno  progettata)  àoiV Achille  in  Sciro  mi 
farebbe  però  pensare  la  lista  dei  personaggi,  che,  nell'esemplare  posseduto 
àBlVAccadeììiia  Rumena,  porta  le  traccie  di  due  diverse  distribuzioni  delle 
parti: 

OBRAZILE    COMEDII 


[Ptiicà] 
[Debenor] 
[Anah] 
[DebenorJ 

[Puicà] 
[Zisso] 

[Gesti..] 
[VranaJ 


LICOSIA  ìmparatul  Schirii 
ACHILEFS  in  baine  femeiesti  numit 
PIRA  si  ibovnicul  Deidamii 
AEIAÀmIA  fiica  lui  AICOMIA 

si  ibovnica  lui  Achilefs,» 
OÀlSEFS,  solul  elinesc 
THEAGENI,  Domnul  Colchidi 

logodnicul  Deidamii 
NEARH  paznicul  lui  Achilefs 
ARCAAIE  credinciosul  lui  Odisefs 


Aresti 


Debenor 
Popescu 


Puicà 
Vrana 


Qestian 
Popescu. 


88  R.    OBTIZ 

dasse  quando,  dopo  il  1830,  il  teatro  rumeno  cominciò  ad  affer- 
marsi, che  anzi  il  primo  non  vide  neppur  mai  la  luce  per  le 
stampe  (1).  Del  resto  sottoscrivo  di  gran  cuore  alle  belle  parole 
del  Galletti,  colle  quali  mi  piace  chiuder  questo  capitolo  sulla 
fortuna  del  Metastasio  in  Rumania,  memore  delle  piacevoli  ore 
trascorse  nella  lettura  delle  soavi  scene  deìV Attilio  Regolo  e 
della  Bidone,  quando  non  ancora  codesto  tristo  mestiere  di  cri- 
tico mi  rubava  alla  compagnia  consolatrice  dei  più  alti  spiriti 
che  abbian  mai  onorato  e  reso  sopportabile  questo  nostro  misero 
mondo  :  «  Lo  squisito,  il  sottile,  il  melodioso  genio  metastasiano 
«  offerse  non  all'Italia  soltanto,  ma  si  può  dire  a  tutti  gli  stra- 
de nieri  capaci  di  sentimento  poetico,  in  una  coppa  elegante  e  de- 
«  licatamente  cesellata  un  sorso  di  quella  poesia,  una  goccia  del 
«  filtro  magico  e  persuasore  di  sogni,  di  cui  parevano  allora 
«  dovunque  esauste  le  fonti.  I  limiti  della  sua  fantasia  e  del  suo 
«  sentimento  parvero  angusti  alle  generazioni  che  vennero  poi  : 
«  e  veramente  egli  non  fu  che  il  poeta  dell'amore,  delle  con- 
«  traddizioni,  delle  illusioni,  delle  disperazioni  amorose  ;  stese 
«  un  velo  di  sospirosa  o  giocosa  melodia  sulle  varie  e  sottili  com- 
«  plicazioni  di  questo  tema  eterno  dell'arte  umana,  ma  qui  egli 
«  fu  veramente  poeta  :  il  poeta  più  vario  e  delicato  che  l'Europa 
«  abbia  avuto  in  quel  secolo  :  l'erede  e  il  successore  legittimo, 
«  sebbene  meno  profondo  e  civile,  del  Racine  »  (2). 

Ramiro  Ortiz. 


(1)  Le  medesime  ragioni  valgono  a  spiegare  come  Budai-Deleanu  non  con- 
tinuasse la  traduzione  che  aveva  intrapresa  del  Temistocle.  Cfr.  il  citato  ar- 
ticolo di  G.  BoGDAN-DuiCA,  Despre  Tiganiada,  ecc.,  in  Convorbiri  Ltterare, 
XXXV  (1901),  p.  484,  n.  3. 

(2)  Cfr.  la  recensione  eia  citata  del  Galletti  al  volume  del  Maugain  sul- 
l'evoluzione intellettuale  dell'Italia  dal  1657  al  1750  in  questo  Giorn.,  58,  221. 


IMITAZIONI  E  REMINISCENZE 


NELLE 


POESIE     JZ>EL     aiUSTI 


Chiunque  sia  curioso  di  conoscere  le  derivazioni  della  poesia 
giustiana,  rischia  di  formarsi  delle  idee  false  o  assai  confuse 
intorno  all'arte  del  Monsummanese,  secondochè  si  lasci  impres- 
sionare 0  dai  troppo  benevoli  editori  de'  suoi  Scherzi  o  dai 
«  fontanieri  »  di  professione.  Che  gli  uni  ingrossano,  come  si 
lamenta  ormai  da  parecchi,  ogni  fortuita  rassomiglianza  di 
suono  0  di  concetto  e  alterano  i  lineamenti  del  Giusti  per  farli 
combinare  coi  tratti  di  poeti  da  lui  troppo  diversi;  e  gli  altri, 
per  ignoranza  o  per  idolatria,  esaltano  il  Giusti  come  incompa- 
rabile e  credono  la  sua  satira  prole  «  sine  matre  creata  ».  — 
È  forse  giunto  il  momento  di  procedere  a  una  revisione  dei  giu- 
dizi contraddittori,  per  poter  dare  al  Giusti  quello  ch'è  del  Giusti 
e  mettere  il  poeta  nella  sua  vera  luce.  Questo  vorrei  tentare  io 
0,  dove  non  mi  riesca,  fare  almeno  che  altri  s'invogli  di  tentarlo 
con  maggior  fortuna. 

Uno  degli  editori  più  lungamente  apprezzati  del  Nostro,  il 
Fioretto,  giudicò  il  poeta  «  originalissimo  »  (1)  e  non  sospettò 
che  potesse  aver  derivato  da  altri  cosa  (fi  momento.  «  Acciden- 


(1)  Poesie  di  G.  CHustt,  illustrate  con  note  storiche  e  fil.  2*  ediz.  Verona, 
Mtinster,  1877,  p.  vi. 


90  G.    SURRA 

«  tali  »  parvero  a  lui  certe  somiglianze  di  alcuni  Scherzi  fra 
i  più  noti  a  delle  canzoni  del  Béranger;  qualche  frase  o  con- 
cetto riprodotto  da  poeti  italiani,  fenomeno  casuale  e  inconscio 
(p.  XXXII  e  seg.). 

Il  Ghivizzani  che,  scrivendo  del  Giusti,  ebbe  volto  il  pensiero 
soltanto  al  possibile  confronto  col  Béranger,  concede  che  il  To- 
scano non  abbia  letto  infruttuosamente  il  Francese,  ma,  dice: 
«  il  G-iusti  resta  Giusti  »  (1). 

Il  D'Ancona  affermò  anche  più  recisamente  l'originalità  del 
Nostro  :  «  a  niun  altro  somiglia  e  ninno  potè  felicemente  imi- 
«  tarlo  »;  nulla  di  comune  fra  lui  e  il  Parini,  nulla  di  derivato 
dal  Béranger  e  dal  Porta  (2). 

Il  Puccianti,  che  è  certamente  il  più  strenuo  esaltatore  dei 
meriti  del  Giusti,  lo  dichiara  «  proprio  originale  nel  senso  più 
«  preciso  della  parola  >  (3)  ;  appena  forse  gli  s'attaccò,  casual- 
mente, una  frase  del  Berni,  dal  son.  «  Un  papato  composto  di 
«  rispetti  »,  ma  non  ha  imitato  il  Porta,  solo  conosciuto  nel  '46, 
non  il  Béranger  (p.  xlii  e  186). 

Il  Martini  fu,  da  prima,  nettamente  avverso  al  raccostamento 
del  Giusti  col  Béranger:  «tanto  somiglia  il  G.  al  B.  quanto  il 
«  Berni  a  Mathurin  Régnier  »;  e  accusò  il  Correnti,  che  curò 
l'edizione  degli  Scherzi  del  1844,  chiamando  anonimo  Béranger 
l'autore,  di  aver  cagionato  in  seguito  «  tanti  paragoni  e  raffronti 
«  e  paralleli  fra  i  due  poeti,  perdonabili  soltanto  a  chi  non  abbia 
«  letto  né  l'uno  né  l'altro  »  (4).  Poscia,  dopo  lo  studio  compara- 
tivo del  Coppola,  riconobbe  che  alcuni  tentativi  giovanili  del  G. 
sentono  del  fare  di  Béranger,  che,  per  es..  Il  mio  nuovo  amico 
è  ricalcato  su  Monsieur  Judas  (5),  ma  una  rondine  non  fa  pri- 


(1)  G.  Giusti  e  i  suoi  tempi,  in  Propugnatore,  Vili,  p.  94. 

(2)  G.  Giusti,  discorso,  1895,  in  Ricordi  e  affetti,  Milano,  Treves,  1902, 
pp.  11-12. 

(3)  PoesÌ€diG.  G^ws^e,  Firenze,  Lemonnier,  1906  (la  1»  ed.  è  del  1899),  p.  vii. 

(4)  Appendice  aìV Ejyistoìario  di  G.  G.,  p.  465. 

(5)  Discorso  pel  centenario,  Milano,  Treves,  p.  21. 


IMITAZIONI    E    REMINISCENZE    NEL    GIUSTI  91 

mavera  e  i  due  poeti  non  si  somigliano  ;  e  chi  voglia  tra  i  Fran- 
cesi trovar  un  poeta  da  raffrontare  al  Griusti,  scelga  piuttosto  il 
Villon  {Disc,  p.  20).  Però  allargando  il  discorso  alle  imitazioni 
italiane,  accennò  di  passata  a  spunti  e  mosse  prese  dal  Oiusti 
all'Ariosto,  al  Rosa,  al  Menzini,  all'Alfieri  e  consenti  con  lo 
Gnoli  circa  le  derivazioni  giustiane  dal  Giraud  {Disc,  p.  22  e  seg.). 

Il  Carli,  ultimo  commentatore  d'una  scelta  di  poesie  del  G., 
si  mostra  generalmente  poco  incline  a  riconoscere  l'influsso  di 
poesie  precedenti  sul  Monsummanese. 

Riassumendo,  la  questione  più  grossa  fu  sollevata  dal  confronto 
del  G.  col  Béranger.  Della  fonte  additata  dallo  Gnoli,  nessuna 
altra  eco  finora,  ch'io  sappia,  fuorché  nel  commento  del  Carli. 
Alcuni  riscontri  innocui  col  Porta,  coli' Alfieri  e  altri  poeti  italiani, 
accennati  dal  Fioretto  e  dal  Martini,  sono  passati  in  silenzio  e 
dormono,  senza  discussione,  fra  le  note  di  qualche  commento  sco- 
lastico. Ma,  come  bisogna  sfrondare  parecchie  esagerazioni  del- 
l'imitazione bérangeriana,  cosi  non  sarà  meno  opportuno  correg- 
gere 0  completare  molte  altre  derivazioni,  più  e  men  note,  da 
poeti  italiani. 

Cominciamo  dunque  dal  Béranger.  È  noto  che  il  Nostro,  in 
una  lettera,  riconobbe  dal  Francese  «  non  dirò  la  nascita  e  la 
«  fisonomia,  ma  di  certo  una  buona  parte  dell'allevatura  »  (1). 
Nella  stessa  lettera,  non  terminata,  e  però  non  spedita,  si  loda 
anche  il  Béranger  di  aver  «  saputo  dare  alla  canzone  francese 
«  gli  spunti  e  il  volo  dell'ode,  senza  mutarne  le  corde,  senza  af- 
«  fettare  di  trapiantarla  dal  Caveau  all'Accademia  ».  L'elogio  fa 
correre  il  pensiero  all'aspirazione  propria  del  Giusti,  nella  quale 
egli  non  è  però  riuscito  cosi  appunto  come  il  Béranger.  Ma  né 
egli  ebbe  sempre  una  visione  chiara  della  differenza  fra  sé  e  il 
Francese  —  e  forse  in  questa  lettera  esagerò,  per  compiacenza, 
la  sua  quasi  parentela  e  somiglianza  «on  lui  —  nò  la  critica 
anonima  dei  contemporanei  guardò  le  cose  per  sottile;  e  prima 


(1)  Epistolario  di  G.  G.,  Lemonnier,  1904,  III,  p.  53. 


92  G.    SURRA 

ancora  che  il  G.  morisse,  la  voce  unanime  lo  salutava  Béranger 
dell'Italia,  come  nota  il  giornale  La  Frusta,  nel  1848  (1).  Certo 
è  che  altra  volta  il  poeta  dichiara  d'aver  letto  il  Béranger 
«  dopo  essersi  imbarcato  da  un  pezzo  »  (2).  Il  Coppola  notò  la 
contraddizione  (3)  fra  questa  dichiarazione  e  la  frase  della  let- 
tera e,  tutto  inteso  a  scoprire  le  molte  derivazioni,  non  prima 
sognate,  dal  Béranger,  credette  di  poter  cogliere  il  vero  soltanto 
in  quella  che  conveniva  alla  sua  tesi.  Ma  il  vero  è  in  entrambe, 
per  chi  interpreti  con  discrezione  e  senza  prevenzione;  e  dopo 
l'esame  dei  riscontri  rilevati  dal  Coppola,  può  anche  parere  esa- 
gerata la  sentenza  di  chi,  cioè  il  Mazzoni,  affermò  avesse  il  G. 
tratte  dal  Béranger  le  intonazioni  de'  suoi  Scherzi  (4),  può  perfin 
sembrare  legittima  l'esagerazione  del  Martini,  che  non  vede 
quell'allevatura  e  non  sente  queste  intonazioni  ;  ma,  sopra  tutto, 
si  è  più  propensi  a  credere  al  Giusti  stesso,  quando  dice  che  il 
paragone  di  lui  col  Béranger  gli  pare  ingiurioso  a  tutti  e  due. 
Vero  è  che  potrebbero  anche  non  somigliarsi  i  due  poeti,  senza 
che  ne  fosse  provata  la  piena  indipendenza  dell'uno  dall'altro; 
ma,  ad  ogni  modo,  converrà  ridurre  di  molto  il  debito  immagi- 
nario che  avrebbe  contratto  la  musa  del  G.  con  le  canzonette 
del  Béranger. 

Anzitutto,  è  una  mera  illusione  del  Coppola  che  La  'inanima 
educatrice  e  Ma  grand'  mère  siano  «  quasi  identiche  nel 
«  fondo  »  (5).  Non  la  forma  né  il  concetto  né  l'impostazione  del 
tema  ne  la  situazione  psicologica,  non  v'è  nulla  di  comune  fra 
le  due  poesie  ;  nulla  che,  leggendo  l'una,  ti  richiami  l'altra  alla 
memoria.  Chi  voglia  farsi  un'idea  di  quel  che  può  essere  una 
imitazione  della  canzone  del  Béranger,  dovrà  leggere  La  Nona 
del  BrofFerio.  Né  molto  maggior  analogia  mi  sembra  di  poter 


(1)  Epistol.,  Append.,  p.  551. 

(2)  Scritti  vari,  Lemonnier,  1866,  p.  56. 

(3)  Béranger  e  Giusti,  in  Riv.  abruzzese,  febbraio  1906. 

(4)  L'Ottocento,  p.  631. 

(5)  Op.  cit,  giugno  1906,  p.  313. 


IMITAZIONI    E   REMINISCENZE    NEL    GIUSTI  93 

trovare  fra  II  mio  nuovo  amico  e  Monsieur  Judas^  che  già 
parvero  accostabili  al  Fioretto  (p.  xxxiii).  Non  vera  somiglianza 
delle  figure,  ma  si  può  notare  nella  satira  italiana  movimento 
e  ripresa  simili  nel  giro  di  parecchie  strofette,  specie  in  quelle 
frasi  «  io  lo  credo,  io  l'ascolto  »,  che  concludono  analogamente 
concetto  e  sestina  come  nel  Béranger:  «  nous  qui  détestons, 
«  nous  qui  faisons,  etc.  ».  Ma  sarà  molto  difficile  dimostrare  la 
derivazione  di  Un  fossile  dal  Roger  Bonterìips  (1),  del  Prete- 
rito più  che  perfetto  del  verbo  pensare  dal  Marquis  de  Ca- 
racas, di  Per  il  priìno  congresso  dei  dotti  da  La  Sainte  Al- 
liance  Mrbaresque,  della  Rassegnazione  da  Le  bon  Frangais^ 
degli  Spettri  da  Le  mort  vivant^  de  La  chiocciola  da  Les  escar- 
gots  (2),  nei  quali  raccostamenti  il  Coppola  è  stato,  anche  qui, 
preceduto  dal  Fioretto,  senza  però  la  temeraria  intenzione  di 
volere  indicare  delle  fonti  giustiane.  E  neanche  è  possibile  isti- 


(1)  Chi  voglia  trovare  un  antecedente  del  Fossile  del  Giusti,  cerchi  piut- 
tosto in  qualche  strofa  del  Sòr  harón  del  BrofFerio,  ch'è  a  sua  volta  genuina 
imitazione  del  Marquis  de  Carahas,  e  fu  composto  nel  '31.  Ma,  quasi  certa- 
mente, il  G.  ha  ignorato  le  poesie  del  «  torototela  »  piemontese.  Quindi  i 
riscontri  che  si  possono  scoprire  fra  gli  Scherzi  dell'uno  e  le  canzoni  dell'altro, 
hanno  un  semplice  valore  di  curiosità.  Così,  per  es.,  il  cenno  delle  sculacciate 
scolastiche,  ch'è  in  Crudel  destici  del  BrofFerio  (1831),  che  può  richiamar  il 
noto  del  G.:  «  che  huon  prò'  facesse  il  verbo  »,  ecc.,  e  l'idea  generale  di  èl 
cholera  morbus  (1832),  che  fa  pensare  al  Colera  del  G.  :  «  Nina,  sbrighia- 
«  moci,  I  viene  il  colera  ».  —  Ma  il  BroflFerio  ha  forse  sentito  l'influenza  del 
Giusti  nel  suo  èl  congress  d' Milan  (1844),  dove  l'enumerazione  e  descrizione 
degl'intervenuti  ricordano  quelle  àeìV Incoronazione  del  G.,  e  la  strofa  della 
chiusa  richiama,  pel  tono  se  non  pel  senso,  la  conclusione  posta  dal  G.  bìV Av- 
viso per  MW  settimo  congresso  :  «  Dato  che  torni  un  secolo  |  Agli  arrosti  pro- 
«  pizio  I  Se  possa  il  carbon  fossile  |  Servire  al  santo  uffizio  »;  ma  suona  più 
vivace  e  mordace  :  «  Ai  congress  ch'a  l'an  da  vni  |  Mi  frattant  a  definì  |  I  pro- 
«  pono,  s'as  peul  fé  |  D'Italian  con  d'  fafiochè  |  D'  sitadin  con  d' lecca  piat  |  E 
«  d' smens  d'om  con  d' smens  d' bigat  ».  —  È  certa  invece  ed  innegabile  la 
imitazione  del  Brofferio  nei  ritornelli  del  suo  ^st  vei  e  griipia  neuva  (1853) 
dall'intercalare  di  Girella:  «  Viva  la  patria  |  e  i  marenghin  |  Bruto  e  Temi- 
«  stocle  I  e  San  Martin  ]  Viva  le  cedole  |  la  seta  e  '1  vlù  |  Caloss  e  Bormida  J 
«  e  '1  salam  crù  ». 

(2)  Op.  cit.,  giugno  e  luglio  1906. 


94  G.    SURRA 

tuire  un  confronto  fra  VAve  Maria  del  Giusti  e  le  molte  can- 
zoni del  Béranger  citate  dal  Coppola  come  probabili  esemplari 
di  quella,  fatta  eccezione  del  Tratte  de  politique  à  Vusage  de 
LiseiX).  Come  Le  missionnaire  de  Monirouge  lia  di  comune  colla 
brutta  poesia  del  G.  la  sola  frase  «  Ave  Maria  »,  cosi  La  Gau- 
drìole^  indicata  come  fonte  della  satira  A  un  arnìco^  ha  soltanto 
un  nome  di  comune  con  essa:  Momo  («  Momus  a  pris  pour 
«  adjoints  »).  Né  si  può,  senza  rischio  di  prender  lucciole  per 
lanterne,  metter  VAmi  Robin,  che  è  un  volgare  prosseneta  di 
professione,  accanto  a  Gingillino,  che  potrebbe  bensì  diventar 
tale  anch'esso  sviluppando  logicamente  l'indole  che  gli  ha  data 
il  poeta,  ma  non  è  tale,  mentre  è  tante  altre  cose,  nel  ritratto 
che  il  poeta  ha  voluto  disegnare.  Né  chi  legga  Le  don  Fran^ais 
del  Béranger,  potrà  consentir  col  Coppola  che  la  Rassegnazione 
del  G.  richiami  di  quello  il  concetto  generale  (luglio,  p.  374), 
quando  appena  si  può  credere  —  tanto  è  diverso  lo  spirito  e  la 
portata  della  sentenza  —  che  i  noti  versi  del  G.  «  prima  padron 
«  di  casa  in  casa  mia  |  poi  cittadino  nella  mia  città  »  trovino 
qualche  riscontro  nel  principio  della  canzonetta  francese  :  «  J'aime 
«  qu'un  Russe  soit  Russe...  En  Franco  soyons  Frangais  ». 

Di  tutte  le  derivazioni  bérangeriane  più  o  meno  chiaramente 
sostenute  dal  Coppola,  resta  pertanto  ben  poca  cosa,  e  cioè:  Il 
brindisi  di  Girella  da  Le  Palliasse  e  da  Afa  grand' mère]  Il 
papato  di  prete  Pero  da  Le  roi  d'Yvetot;  V addio:  «  Addio  per 
«  sempre  albergo  avventurato  »  da  L'adieu  de  M.  Stuart  e,  più 
che  i  toni  e  i  colori  delle  scollacciate  poesie  giovanili  del  G., 
lo  spirito  generale,  fra  antichiesastico  e  libertino.  Ma,  anche  a 
proposito  delle  poesie  di  cui  é  certa  la  derivazione,  sarà  oppor- 
tuno ricordare,  per  es.,  che  il  papato  di  prete  Pero  prende,  più 
che  altro,  dal  Roi  d'Yvetot  lo  spunto  solo.  Quel  papa  è  un  po- 
vero diavolo,  e  un  buon  diavolo,  come  quel  regolo  del  Béranger 
«  joyeux,  simple  et  croyant  le  bien  »  ;  ma  porta  nella  sua  testa 


(1)  Chansom,  Paris,  Baudouin,  1829,  p.  178. 


IMITAZIONI    E    REMINISCENZE    NEL    GIUSTI  95 

una  riforma  sostanziale  della  chiesa  e  del  clero  ;  e  il  re  d' Yvetot, 
die  «  sur  son  àne  pas  à  pas  parcourait  son  royaume  »,  è  ben 
lontano  dal  potergli  somigliare.  E  cosi  sia  detto  di  volo  che  il 
Girella^  già  paragonato  dal  Planche  al  Palliasse  e  poi  dal  Fio- 
retto, ha  più  tratti  simili  col  Ventru,  esemplare  non  sospettato 
del  1818  (Le  Ventru  au  compie  rendu  de  la  session  de  i818, 
p.  288): 

Électeurs  de  ma  province, 

il  faut  que  vous  sachiez  tous... 

J'aurais  vote  dans  un  jour 

dix  fois  contre  et  dix  fois  pour... 

Enfin  j'ai  fait  mes  aifaires, 

je  suis  procureur  du  roi. 

A  queste  analogie  di  temi  fondamentali  e  motivi  parziali,  fon- 
date indubbiamente  sulla  conoscenza  che  il  Giusti  ebbe  col  Bé- 
ranger,  da  lui  letto  e  riletto  e  giudicato  mirabilissimo,  si  può 
aggiungere  qualche  battuta,  che  si  trova  sonar  unisona  ne'  due 
poeti.  La  chiusa  del  Roger  Bontemps: 

Vous,  pauvres,  pleins  d'envie, 
vous,  riches  désireux, 
vous,  dont  le  char  dévie 
après  un  cours  lieureux... 
eh  gai  !  prenez  pour  maitre 
le  gres  Roger  Bontemps, 

richiama  pel  tono,  a  mio  senso,  l'ultima  strofa  della  Chiocciola  : 

Gufi  dottissimi.... 
voi,  girovaghi, 
Ghiotti,  scapati. 
Padroni  idrofobi, 
Servi  arrembati. 
Prego  a  cantare 
L' intercalare  : 
Viva  la  chiocciola 
Bestia  esemplare! 


96  G.    SURRA 

La  quale  chiocciola,  se  di  lei  può  esser  indicata  una  filiazione 
legittima,  potrebbe  giusto  derivare  da  qualche  verso  del  Roger 
Bontemps  {Chansons,  p.  38): 

Aux  gens  atrabiliaires 
pour  exemple  donne... 
Vivre  obscur  à  sa  guise, 

narguer  les  mécontents; 
eh  gai!  c'est  la  devise 
du  gros  Koger  etc. 

Posseder  dans  sa  butte 
une  table,  un  vieux  lit  etc. 

Cosi,  mi  sembra  che  in  Le  7nemorie  di  Pisa  il  Giusti  abbia 
sviluppato  più  estesamente,  in  senso  sociale  e  politico,  un  breve 
tema  d'indole  morale  ch'è  appena  proposto  mLescandale{i^AQò): 

C'est  un  vice  ou  deux 

qui  font  l'honnéte  homme... 

Pour  des  vins  de  prix 
vendons  tous  nos  livres... 

Grands  réformateurs... 
cbassez  les  erreurs, 
nous  gardons  nos  vices. 

Paix!  dit  à  ce  mot 
Caton  qui  fait  rage, 
mais  il  préche  en  sot, 
moi  je  ris  en  sage. 

Basta  accennare  questi  tratti,  per  richiamar  tosto  alla  mente 
di  quanti  hanno  ancor  famigliare  dal  tempo  in  cui  furono  stu- 
denti la  nota  poesia  del  G.,  simili  sentimenti  o  atteggiamenti  di 
pensiero  e  di  frase.  Anche  mi  sembra  che  l'intercalare  del  G., 
in  Professione  di  fede  alle  donne: 

E  posso  ascrivere 
a  mia  fortuna 
se  in  certi  articoli 
basto  per  una 


IMITAZIONI  E  REMINISCENZE  NEL  GIUSTI  97 

possa  raccostarsi  a  qualche  verso  di  On  s'en  fiche  (p.  174): 

C'est  trop  d'une  maitresse... 
Que  j'eus  peu  de  sagesse 
d'en  avoir  jusqu'à  trois 
à  la  fois! 

E  potrebbe  darsi  che  il  principio  della  canzone  Ma  rèpublique 
(p.  213)  avesse  suggerito  lo  spunto  de  La  Repubblica  del  G.: 
«  J'ai  pris  goùt  à  la  rèpublique  =  Non  mi  pare  idea  si  strana  | 
«  la  repubblica  italiana  ».  Ma  il  Béranger  seguita  scherzando  : 

Je  m'en  fais  une  et  je  m'applique 
à  lui  donner  de  bonnes  lois... 
Une  table  est  tout  son  territoire, 
sa^devise  est  la  liberté; 

mentre  il  Griusti  prende,   molto  sul  serio,  a  dimostrar  l'utopia 
repubblicana: 

Dunque  via,  raggranellate 
queste  genti  sparpagliate 
tornino  in  famiglia  ecc. 

Certamente,  è  notevole  differenza  anche  nei  riscontri  più  si- 
curi fra  i  due  poeti.  Direi  che  differiscano,  in  generale,  fra  loro, 
anche  quando  l'italiano  imita  il  francese,  cosi  come  son  diverse 
le  loro  repubbliche  :  il  Giusti  è  un  provinciale  toscano  che  s'ab- 
batte a  vivere  e  scrivere  in  mezzo  ai  conati  del  risorgimento 
nazionale  e  di  rimatore  guadagnolesco  e  facilone  si  trasforma 
presto  in  poeta  serio,  con  intendimenti  patriottici,  con  pretese 
letterarie,  con  gusti  sempre  meno  popolari;  il  Béranger  è  un 
parigino,  pieno  di  spirito  indiavolato,  ricco  d'improvvise  asso- 
ciazioni, come  povero  di  scrupoli  di  ogni  sorta,  felicissimo  negli 
estri  e  mutabile  d'umore,  ma  sempre,  in  fondo,  leggiero,  scettico, 
malizioso  e,  in  mezzo  alle  varie  vicende  del  suo  tempo,  sempre 
costante  ne'  suoi  amori  per  la  volubile  Lisette  e  per  la  musa 
popolare.  E  un'altra  profonda  differenza  salta  agli  occhi  del  cri- 

QiwrnaU  storico,  LXIV,  fase.  190-191.  7 


98 


G.    SURBA 


tico,  appena  si  consideri  la  diversa  natura  esteriore  degli  Scherzi 
e  delle  Chansons.  Chi  legga  il  Giusti  o  qualche  poeta  giustiano, 
come  per  es.  Gherardi  del  Testa  che  derivò  anche  lui  qualche 
cosa  dal  Béranger  nelle  sue  poesie  e  potè  essere  scambiato  col 
suo  compaesano,  non  sospetta  facilmente  che  possano  riprodurre 
nei  loro  metri  qualche  suono  francese  :  chi  legge  invece  le  can- 
zoni del  BrofFerio  immagina  subito  in  quelle  rime,  in  quei  ri- 
tornelli una  possibile  eco  francese.  E  le  canzoni  furono  davvero, 
al  loro  tempo,  poesia  cantata  popolarmente,  mentre  i  componi- 
menti del  Giusti  e  de'  suoi  imitatori  furono  e  restano  poesia  da 
leggere,  non  sempre  accessibile  al  popolo.  Questa  differenza,  più 
ancora  d'ogni  altra  che  si  potrebbe  sciorinare  senza  difficoltà 
da  qualunque  critico,  può  spiegare  l'incredulità  sostanziale  del 
Martini  alle  imitazioni  del  Giusti  dal  Béranger.  Tanto  gli  pare 
strana  l'idea  di  quel  raccostamento,  che  sarebbe  disposto  — 
francese  per  francese  —  a  sostituire  il  Béranger  persino  con 
Francois  Villon.  Infatti,  quella  buona  lana  del  Villon  disse  anche 
lui,  una  volta:  «je  ris  enpleurs»,  come  il  Giusti:  «questo  che 
«  par  sorriso  ed  è  dolore  »  (Disc,  p.  21).  Ma  non  è  in  questo  sen- 
timento il  carattere  essenziale  del  G.,  mentre  potè  ben  essere, 
e  nella  realtà  della  vita  e  nell'arte,  il  carattere  proprio  di  quel 
franco  birbante  del  Villon  (1).  Del  resto,  il  Martini  crede  tanto 
poco  egli  stesso  alla  possibilità  di  questa  un  tantinetto  assurda 
equazione,  che  subito,  immaginandola,  senti  che  il  raffronto  del 
Villon  col  Giusti  «  slabbrerebbe  da  più  parti  »  {ihid.).  Diciamo 
da  tutte!  Quanto  a  me,  preferisco  avere  in  conto  di  fonte  au- 
tentica di  quel  verso  e  di  consimili  frasi  del  G.,  che  rivelano 
un  certo  fondo  di  retorica  e  di  posa  letteraria,  i  versi  del  Mon- 
tanelli dal  Martini  stesso  già  indicati  (2)  :  «  Ah  non  sa  il  mondo 
«  che  mi  piange  l'alma  |  Mentre  il  riso  sul  volto  mi  balena  ». 


(1)  Il  Villon  ebbe,  or  non  è  molto,  un'altra  disgrazia  immeritata,  quella 
d'esser  paragonato  col  nostro  Angiolieri  {Cronache  letterarie,  22  genn.  1911). 

(2)  Epist,  I,  p.  135. 


IMITAZIONI    E    REMINISCENZE   NEL    GIUSTI  99 

Se  guardiamo  più  alle  idee  che  ai  sentimenti,  troveremo  che 
un  altro  scrittore  francese  antico  ha  suggerito  qualche  cosa  al 
Giusti,  e  questo  è  il  Montaigne,  ch'egli  giudicava  uno  degli  scrit- 
tori più  forti,  più  pieni,  più  liberi  da  ogni  pastoia  {Ep.^  II,  252). 
Quel  certo  buon  senso  pratico  del  gentiluomo  guascone  doveva 
andar  a  sangue  al  toscano  «  borghese  rimatore  del  buon  senso  ». 
Inoltre,  assai  più  che  col  Villon  e  col  Béranger,  il  G.  doveva 
simpatizzar  col  Montaigne,  che  ebbe  certi  gusti  e  principi  di- 
rettivi della  vita  e  dell'educazione  molto  affini  a'  suoi.  Il  Mon- 
taigne, paesano  come  lui,  amante  di  pochi  libri  piuttosto  che 
d'una  cultura  farraginosa  e  indigesta,  che  s'affezionò  pai'ticolar- 
mente  a  Plutarco  e  Seneca,  come  lui  a  Dante;  che  ama  le  teste 
ben  fatte  piuttosto  che  ripiene,  che  «  dall'infanzia  non  andò  nella 
«  scienza  oltre  la  prima  scorza  e  sapeva  d'ogni  cosa  e  niente  di 
«  tutto  »,  è,  come  si  vede,  un  ritratto  che  presenta  parecchi  li- 
neamenti giustiani.  E  questo  ritratto  si  ricava  più  che  altro,  da 
un  capitolo  dei  Saggi  che  il  Giusti  tradusse.  Non  senza  ragione, 
tra  i  molti  Saggi  del  Montaigne  deve  egli  aver  proprio  scelti  il 
XXV  del  I  libro,  che  tratta  dell'educazione  e  l'VIII  del  II,  ove 
si  discorre  dell'amor  dei  genitori  verso  i  figli.  Quest'ultimo,  direi 
che  il  Giusti  s'inducesse  a  voltare  in  italiano  con  tanta  cura, 
come  si  può  giudicare  da  chi  paragoni  la  versione  (1)  col  testo 
originale,  forse  per  consolarsi  con  quelle  pagine  dei  torti  che  gli 
pareva  ricevere  dal  padre,  tanto  lontano  dal  conformarsi  ai  pre- 
cetti del  Montaigne,  il  quale  condanna  appunto  nel  suo  Saggio 
quei  parenti  che  negano  ai  figli  i  mezzi  opportuni. 

Ma,  comunque  sia  di  ciò,  non  mi  par  dubbio  che  il  Giusti  o 
abbia  preso  qualche  ispirazione  o  si  sia  confermato,  traducendo 
—  sebbene  non  intero  —  l'altro  saggio  De  Vinstitutìon  des  en- 
fants,  in  certe  sue  idee  ben  note  circa  l'educazione  dei  col- 
legi. È  ben  vero  che  nella  versione  gin^tiana  manca  appunto 
quel  passo  del  Saggio  che  si  riferisce  alle  pratiche  manesche 
degli  educatori;  ma  chi  ricorda  il  principio  degVImmoMli  e  i 


(1)  Scritti  vari,  p.  78. 


100  G.    SURKA 

semoventi,  deve  sentire  in  quei  versi  come  un'eco  lontana  delle 
parole  del  Montaigne.  Il  G.  scrisse: 

Che  buon  prò'  facesse  il  verbo 
imparato  a  suon  di  nerbo 
nelle  scuole  pubbliche; 

come  insegnino  i  latini 
e  che  bravi  cittadini 
crescano  in  collegio  ; 

e  che  razza  di  cristiani 
si  doventi  fra  le  mani 
d'un  frate  collerico, 

tutti  noi  che,  grazie  al  cielo, 
non  Siam  più  di  primo  pelo, 
lo  diremo  ai  posteri,  ecc. 

E  il  Montaigne  confessava  a  madame  Diana  de  Foix  :  «  Entre 
«  aultres  choses  cette  police  de  la  pluspart  de  nos  colleges  m'a 
«  tousiours  despleu.  ...C'est  une  vraye  geaule  de  jeunesse  captive 
«  ...Vous  n'oyez  que  cris  d'enfants  suppliciez  (1)  et  de  maitres 
«  enyvrez  en  leur  cholere.  Quelle  maniere  pour  èveiller  l'ap- 
<f.  petit  envers  leurs  legons  k  ces  tendres  àmes  et  craintifves, 
«  de  les  guider  d'une  trongne  effroyable,  les  mains  armées  de 
«  fouets  !  »  (2). 

Ma  ci  sono,  nel  libro  del  Montaigne,  altri  spunti  d'idee  più  o 
meno  sviluppate  dal  Giusti,  sebbene  si  possa  credere  che  la  let- 
tura frequente  dei  Saggi  abbia  avvezzato  il  poeta  a  certi  abiti 
mentali  che  son  propri  del  francese,  piuttosto  che  suggerito 
chiaramente  i  pensieri,  che  si  mostrano  con  aspetto  somigliante 
nelle  sue  satire.  Ricordo  il  concetto  generale  della  saffica  al 
Tommasi,  ch'è  accennato  nella  prima  strofe*: 


(1)  Ricorda  il  pariniano  :  «  ...  fan  le  capaci  volte  echeggiar  sempre  di  gio- 
«  vanili  strida  ». 

(2)  Essaia  de  M.  de  Montaigne,  Paris,  Lefèvre,  1836. 


IMITAZIONI  E  REMINISCENZE  NBL  GIUSTI  101 

Girolamo,  il  mestier  facile  e  piano 
che  gl'insegnò  natura,  ognun  rinnega 
e  vuol  nei  ferri  de  l'altrui  bottega 
spellar  la  mano. 

E  il  Montaigne  (I,  xvi)  :  «  Ainsin  il  fault  travailler  de  reiecter 
«  tousiours  l'architecte,  le  peintre,  le  cordonnier  et  ainsi  du 
«  reste,  chascun  à  son  gibier...  ».  Il  discorso  comincia  col  par- 
lare d'un  giurista  che  volle  criticare  magistralmente  una  bar- 
ricata, e  contiene  la  citazione  d'Orazio  :  «  optat  ephippia  bos 
«  piger,  optat  arare  caballus  »,  che  fa  pensare  a  quell'altra  zoo- 
logia del  Giusti  :  «  invano  a  volgere  il  molino  |  sforzi  la  zebra 
«  0  a  farti  il  procaccino  |  la  tartaruga  ». 

Il  Martini  indicò  un  riscontro  a  questo  passo  in  una  satira 
dell'Ariosto,  ma  non  è  improbabile  che  abbia  giovato  maggior- 
mente al  Giusti  la  reminiscenza  del  Montaigne,  molto  più  con- 
sona allo  spirito  della  sua  poesia  :  «  chascun  à  son  gibier  ».  Mi 
conforta  in  questa  ipotesi  l'osservazione  d'un  motivo  giustiano 
a  lui  prediletto  e  non  solo  nelle  satire,  ma  anche  spesso  trattato 
nelle  lettere,  che  appare  accennato  in  questa  medesima  poesia, 
là  dove  parla  di  «  cervel  digiuno  in  una  testa  |  di  stoppa  enci- 
«  clopedica  imbottita».  Questo  è  uno  dei  tratti  satirici  che  meglio 
rispondono  all'indole  e  alla  cultura  del  poeta;  e  altrove,  analo- 
gamente, si  deride  l'erudizione  e  lo  sfoggio  d'accattate  eleganze 
greco-latine.  Cfr.  Contro  un  letterato  pettegolo  e  copista^  ove 
sono  le  frasi 

cranio  parassito 

all'erudita  greppia  incarognito... 

Somigli  uno  scaffale 

di  libri  a  un  tempo  idropico  e  digiuno 

e  A  uno  scrìttor  di  satire  in  gala^  ch^  contiene  questi  versi  : 

Farai  tronfiare  e  declamar  la  musa... 
sempre  in  cerchio  retorico  rinchiusa? 
...  a  tempo  avanzato 
ci  scriverai  di  greco  e  di  latino. 


102 


G.    SURRA 


Uno.  che  non  la  voglia  a  letterato, 

che  non  ambisca  a  poeta  di  stia, 
di  becchime  dottissimo  inghebbiato; 

e  i  noti  versi  de  Le  "ìuemorie  di  Pisa'. 

bevi  lo  scibile 
tomo  per  tomo, 
sarai  chiarissimo 
senza  esser  uomo. 

Ora,  chi  rilegga  il  saggio  del  Montaigne  Im  pedantisme,  che 
incomincia  colla  citazione  d'una  frase  del  Du  Bellay  :  «  mais  je 
«  hais  par  sur  tout  un  sgavoir  pedantesque  »,  vi  troverà  lo 
stesso  spirito  e  anche  similitudini  e  traslati  che  hanno  certa 
analogia  con  quelli  del  Giusti  :  «  Je  diroy  volontiers  que  comme 
«  les  plantes  s'estouffent  de  trop  d'humeur  et  les  lampes  de  trop 
«  d'huile  ;  aussi  fait  l'action  de  l'esprit  par  trop  d'estude  et  de 
«  matiere  :  lequel  occupé  et  embarassé  d'une  grande  diversité 
«  de  choses  perde  le  naoyen  de  se  desmeler  et  que  cette  charge 
«  le  tienne  courbe  et  croupy. ...  Nous  ne  travaillons  qu'à  remplir 
«  la  memoire  et  laissons  l'entendement  et  la  conscience  vuides... 
«  Son  latin  et  son  grec  l'ont  rendu  plus  sot  et  presumptueux 
«  qu'il  n'estoit  party  de  sa  maison.  Il  en  debvoit  rapporter  l'ame 
«  pleine,  il  ne  l'en  rapporte  que  bouffle;  et  l'a  seulement  enflée 
«  en  lieu  de  la  grossir  »  (I,  xxiv).  Per  quanto  appaia  manifesto 
che  le  espressioni  del  Giusti  non  riproducono  esattamente  le 
parole  del  Montaigne  e  sia  più  che  certo  che  pensieri  e  senti- 
menti riguardanti  la  pedanteria  della  soverchia  dottrina  costi- 
tuiscono un  aspetto  particolare  dell'indole  nonché  dell'arte  giu- 
stiana,  non  credo  che  la  lettura  e  il  ricordo  più  o  men  chiaro 
di  questo  Saggio  siano  stati  senza  qualche  influsso  sull'educa- 
zione letteraria  del  poeta. 

La  stessa  impressione  si  può  ricevere  da  chi,  ricordando  con- 
cetti e  immagini  che  si  trovano  nella  satira  A  un  giovinetto^ 
per  es.  : 


IMITAZIONI    E   REMINISCENZE   NEL    GIUSTI  103 

beccando  un  po'  di  tutto, 
ossia  nulla  di  nulla, 
col  capolino  asciutto  ecc. 

Mole,  aborti,  embrioni 
di  stuprati  pensieri 
e  un  correre  alla  matta 
col  cervello  a  ciabatta 

in  torbida  anarchia 
ti  tengono  impedita, 

capiti  a  rileggere  queste  parole  del  Montaigne  :  «  Et  comme 
«  nous  voyons  que  les  femmes  produisent  bien  toutes  seules 
«  des  mnas  de  pieces  de  chai?^  informes,  mais  que  pour  faire 
«  une  generation  bonne  et  naturelle  il  les  fault  embesongner 
«  d'une  anitre  semence  :  ainsin  est  il  des  esprits  ;  si  on  ne  les 
«  occupe  à  certain  subiect  qui  les  bride  et  contraigne,  ils  se 
«  iectent  desreglez  par  cy  par  là  dans  le  vague  champ  des 
«imagìnations...  L'àme  qui  n'a  point  de  but  estably,  elle  se 
«  perd  »  (I,  vili). 

Benché  il  Giusti  non  ne  abbia  mai  parlato,  è  però  certo  ch'egli 
ha  verso  un  altro  scrittore,  suo  contemporaneo,  più  debiti  di 
ispirazione  e  di  composizione  che  col  Béranger  e  il  Montaigne  ; 
ed  è  appunto  il  Giraud,  amico,  prima  di  lui,  del  Capponi,  in 
casa  del  quale  si  conservarono  manoscritte  le  sue  satire. 

Il  G.  dovette  conoscerle  per  tempo,  se  già  nei  primi  Scherzi 
suoi  mostra  d'averne  sentito  qualche  influsso  e,  come  attesta  il 
Tabarrini,  ripeteva  quasi  tutte  a  memoria  le  satire  e  gli  epi- 
grammi del  poeta  romano  (1).  Il  Giraud,  se  proprio  non  aperse 
0  indicò  la  strada  al  G.,  gli  suggerì  certo  «  motivi  e  spunti  fé- 
«  liei  »,  qualche  metro,  qualche  verso,  gualche  arguzia,  non  già 
soltanto  «  i  suoni  della  sua  musica  ritmica  »,  come  par  credere 


(1)  Gnoli,  Satire  inedite  di  G.  Giraud,  Eoma,  Loescher,  1903,  p.  154. 


104  G.    SURRA 

il  Martini  (Bisc.,  p.  22).  Non  è  facile  confutare  la  dimostrazione 
dello  Gnoli  circa  due  fondamentali  derivazioni  del  Giusti  dal 
Giraud,  cioè  della  Rassegnazione  e  zjroponimenio  di  cambiar 
vita  e  del  Gingillino,  che  sviluppano  germi  d'idee  e  riecheg- 
giano accenti  della  Protesta  e  del  Dialogo  sulla  sincerità  del 
satirico  romano.  Il  gusto  per  certe  parole  sdrucciole,  come  :  ca- 
bala, bussola,  panegirico  (p.  157),  l'uso  di  alcune  frasi  latine, 
come:  in  ilio  tempore,  transeat,  a  latere,  in  facie  ecclesiae, 
nichil  de  principe  parmn  de  deo,  habemus  pontificem  (p.  171); 
l'uso  e  l'abuso  di  enumerazioni  e  filastrocche  di  nomi  o  d'epiteti, 
come  si  trovano  nel  Brindisi  di  Girella  e  nella  chiusa  della 
Chiocciola  (p.  159)  si  trovano  prima  nel  Giraud  che  nel  Giusti. 
E  cosi  dicasi  di  certe  immagini  e  figurazioni  care  al  Monsum- 
manese,  per  es.  della  galante  pinzochera,  del  politicone  e  di  quella 
mezza  gente  miserevole  o  ridicola  che  figura  nella  scena  e  nello 
sfondo  degli  Scheì^zi  giustiani  :  tutta  roba  ch'è  già  sbozzata  nei 
versi  pensati  o  estemporanei  del  Giraud.  Quella  certa  somiglianza 
dell'uno  coll'altro  può  anche  spiegare  come  la  satira  di  quest'ul- 
timo Nel  sabato  santo,  all'amico  in  villa  abbia  potuto  esser 
compresa,  con  titolo  mutato  :  Un  desinare  in  tempo  di  quare- 
sima, in  qualche  edizione,  fra  le  poesie  del  Giusti  (p.  155). 

E  chi  voglia  spigolare  nel  libro  de  lo  Gnoli,  potrebbe,  oltre 
alle  derivazioni  generiche  e  particolari  avvertite  dall'autore, 
rinvenir  somiglianze  o  consonanze  di  stile,  di  rime,  di  concetti 
del  Giusti  col  Giraud,  che  lo  Gnoli  trascurò  di  notare,  se  pure 
non  gli  sfuggirono,  che  mi  par  quasi  certo.  Ecco  un  mazzetto 
di  questi  «  paralipomena  ». 

Il  Giraud  conclude  un  epigramma  col  verso  «  tanto  di  carne- 
«  vale  che  in  quaresima  »  (p.  211)  e  il  Giusti  scrisse,  prima  nella 
lettera  in  versi  a  Elvira  Giampieri  Rossi  [Ep.,  I,  243)  : 

ha  fatto  insomma  la  vita  medesima 
tanto  di  carneval  che  di  quaresima 

e  riprodusse  poi  la  rima  e  il  verso  nel  primo  dei  Bue  brindisi. 
—  Tra  i  versi  estemporanei  del  Giraud  si  legge  (p.  305)  : 


IMITAZIONI    E    REMINISCENZE   NEL    GIUSTI  105 

Tutti  i  martiri  e  dottori, 
i  profeti  e  confessori, 
benché  zoppi,  vengon  fuori. 

Il  metro  e  il  movimento   della  frase   richiamano  strofe  ben 
note  del  Bies  trae  : 

Tutti  i  principi  reali 
e  l'altezze  imperiali... 

Già  la  corte,  il  ministero, 
il  soldato,  il  birro,  il  clero 
manda  il  morto  al  diavolo. 

Un  epigramma  del  Giraud  dice  (p.  211): 

Seminando,  dicea  compar  Mattia: 

è  sterile  il  podere,  io  sudo  invano, 

—  Ma  perchè,  giuraddio,  grida  il  pievano, 

Non  dev'esser  così  la  serva  mia? 

L'interrogazione  è  foggiata  sul  medesimo  stampo  di  quella  del 
Giusti,  nella  Ghigliottina: 

Oh  perchè,  dice  al  Canosa, 
questo  genio  non  m'è  nato 
nel  ducato? 

Cosi   si  può  agevolmente  notare   l'analogia   dell'espressione 
negli  esempi  seguenti  : 
Del  Giraud,  Dialogo  sulla  sincerità  (p.  233)  : 

Gli  effetti  variano, 
se  dall'astratto 
portansi  i  termini 
al  nudo  fatto. 

Del  Giusti,  La  RepvMlica  : 

Ma  se  poi  discendo  all'atto 
dalla  sfera  dell'astratto... 


106  G.    SURRA 

Del  Giraud,  ibidem  : 

Tutto  è  crisalide 
che  si  trasmigra 
con  metamorfosi 
0  pronta  o  pigra. 

Del  Giusti,  E  ballo  : 

Una  è  crisalide 
d'un  quondam  frate. 

Del  Giraud  (p.  245)  : 

Col  labbro  esprimere 
voci  del  cuore 
senz'artifizio 
di  mentitore, 

è  un  ben  ch'inebria, 
ch'ogni  altro  avanza. 

Del  Giusti,  Le  memorie  di  Pisa  : 

Quel  tu  alla  quacchera 
di  primo  acchito, 
virtù  di  vergine 
labbro  in  quegli  anni, 
che  poi  stuprandosi 
coi  disinganni, 
mentisce  armato 
d'un  lei  gelato. 

Del  Giraud,  La  protesta  (p.  266): 

Quel  devoto  che  l'amore 

tien  fra  il  letto  e  il  confessore 

Del  Giusti,  //  giovinetto  : 

...  le  penelopee 
che  si  smezzano  in  seno 
il  pudore,  l'amore, 
il  ganzo  e  il  confessore. 


IMITAZIONI  E  REMINISCENZE  NEL  GIUSTI  107 

E  noterò  ancora  del  Giraud,  per  conchiudere,  un  aggettivo  e 
un  nome,  che  hanno  riscontro  nelle  poesie  del  Giusti.  Giraud 
(p.  266)  :  «  la  sfacciata  garga  fante  |  pria  pagata,  poi  pagante  ». 

—  G-iusti,  Gingillino  :  «  Se  al  mondo  è  femmina  |  garga  e 
«  maestra  »  (si  tratta  d'un  aggettivo  raramente  usato  da  altri). 

Giraud  (p.  268)  :  «  Se  non  sento  compassione  |  d'un  Pirlone  ». 

—  Giusti  :  «  Gole  di  frati  al  nuovo  don  Pirlone  \  diranno  ev- 
«  viva  »,  in  Rassegnazione  e  proponimento,  ecc.  Don  Pilone 
chiamò  il  Gigli  il  suo  Tartutfe  toscano;  il  tipo  e  il  nome  di- 
ventarono in  Toscana  proverbiali.  Il  Puccianti  {Op.  cit.,  p.  7) 
ignora  com'esso  abbia  preso  quell'epentesi  di  un  r.  Certo  per 
bizzarria  umoristica  del  popolo,  ma,  forse,  cosi  trasformato,  passò 
prima  nell'espressione  letteraria  per  opera  del  Giraud. 

Senza  dubbio,  su  questi  riscontri  da  me  indicati  e  sugli  altri 
dimostrati  da  lo  Gnoli  si  può  discutere  e  anche  sofisticare, 
cangiar  la  certezza  di  certi  casi  in  semplice  probabilità  e  anche 
negarla  del  tutto;  ma  l'attento  lettore  e  spassionato  non  può  non 
riceverne  l'impressione  generale  che  il  Giusti  abbia  o  poco  o 
molto  sfruttato,  migliorando  o  perfezionando  bensì,  le  satire  del 
Giraud.  E  mi  pare  troppo  facilmente  disposto  «  a  mettersi  al 
«  nego  »  il  Carli,  che  nel  suo  commento  (1)  chiama  il  Giraud 
«  vero  0  supposto  precursore  »  del  Giusti  e  vorrebbe  menomare 
0  negare  la  dipendenza  dell'uno  dall'altro  «  e  per  la  metrica  e 
«  pel  resto  »  (p.  3-4).  Pel  resto  è  detto  abbastanza.  Circa  la  me- 
trica, quando  si  osservi  la  frequente  analogia  delle  strofe  e  dei 
ritmi  brevi  fra  l'uno  e  l'altro,  e  si  ricordi  il  procedimento  al- 
quanto meccanico  del  >.  nel  comporre,  ch'è  accennato  negli  ap- 
punti per  la  biografia  di  lui  dal  Tabarrini  (2),  onde  un  verso 
ricordato  a  memoria  e  ripetuto  lungamente  gli  suggerisce  per 
associazione  vocale  e  ideologica  versi  e  rime  e  concetti,  non 
parrà  strano  che  le  strofette  del  Giraud  gli  abbiano  suggerito, 
0  spesso  0  di  rado,  lo  spunto  ritmico,  monche  altro.  Prima  del 


(1)  G.  Giusti,  Poesie  scelte,  con  commento,  Firenze,  Sansoni,  1912,  p.  196. 

(2)  Martini,  Disc,  pel  cent.,  p.  25. 


108  G.    SUBRA 

Giusti  la  satira  letteraria  ebbe  poca  varietà  metrica,  quindi  gli 
Scherzi  giustiani  parvero  originali  e  più  gustosi  per  la  molte- 
plice varietà  dei  ritmi  e  strofe,  oltreché  degli  argomenti.  Anche 
per  la  felice  scelta  dei  metri  onde  rinfrescò  talvolta  nobilitan- 
dole le  forme  dell'antica  poesia  toscana,  parve  accostarsi  mag- 
giormente al  popolo.  E  furono  ricordati,  per  es.,  come  precursori 
di  lui  per  la  strofe  distica  di  ottonari  coronata  dal  cosiddetto 
senario  sdrucciolo,  Jacopone  e  Franco  Sacchetti  (1).  Ma  non  solo 
in  Toscana,  si  bene  anche  a  Roma  e  altrove  quelli  o  metri  simili 
ci  offre  la  poesia  popolare  più  o  meno  antica.  E  specie  nelle 
Pasquinate,  fu  già  notato  dal  Ghivizzani  (p.  104),  si  trovano  metri 
e  mosse  che  paion  del  Giusti,  es.  :  «  Dies  irae  è  morto  il  papa  | 
«  gli  è  venuto  un  accidente  |  non  fa  niente  ».  Ora  chi  credesse 
che,  nella  sua  non  soverchia  cultura  letteraria,  il  G.  abbia  cer- 
cato nell'antica  poesia  i  modelli  de'  suoi  vari  metri,  mentre  gli 
erano  offerti  in  copia  dalle  satire  del  Giraud,  dimenticherebbe 
forse  che  la  poltroneria  è  stata  la  sua  Musa  e  che  il  Giusti  fu, 
salvo  negli  ultimi  anni,  quanto  a  studi  e  ispirazione,  tutto  mo- 
derno e  contemporaneo.  Erra  certo  lo  Gnoli  nel  credere  che  il 
Giraud  fosse  primo  a  usare  la  combinazione  strofica  de  gli  otto- 
nari conchiusi  da  un  quadernario  colla  stessa  rima  (p.  169),  che 
forse  parecchi  altri  rimasti  inediti,  prima  di  lui  e  con  lui  attin- 
sero, per  epigrammi  e  facezie  rimate,  alla  poesia  melodramma- 
tica e  agli  inni  del  breviario  romano;  ma  non  è  niente  affatto 
un'ardita  ipotesi  il  conchiudere  che  il  Giusti  debba  all'esempio 
di  lui  principalmente  l'aver  scelto  piuttosto  certi  metri  che  altri 
—  il  che  non  importa  naturalmente  che  si  debba  escludere  ogni 
altra  ispirazione  od  influenza,  popolare  o  dotta  che  si  voglia;  e 
non  sarebbe  da  omettere,  per  esempio,  come  apparirà  in  seguito, 
il  Misogallo  dell'Alfieri. 

Dai  «  vicini  »  o  paesani  suoi,  contemporanei  o  di  poco  ante- 
riori, il  G.  non  ha  derivato  cosa  di  notevole  importanza:  l'epi- 


(1)  Ottolini,  Delle  forme  metriche  del  G.,  in  Riv.  d'Italia,  I,  1909. 


IMITAZIONI    E   REMINISCENZE    NEL    GIUSTI  109 

fonema  d'un  sonetto:  «E  tutto  si  riduce  a  parer  mio...  a  dire 
«  esci  di  li  ci  vo'  star  io  »,  nonché  qualche  epigramma  dal  Pa- 
nanti (1);  movenze  di  stile  più  che  altro  dal  Guadagnoli  suo 
maestro,  nei  primi  saggi  di  poesia  giocosa;  niente  dal  Forti- 
guerri,  il  cui  Ricciardetto  diceva  pure  di  preferire  a  tutti  i 
giornali  del  mondo  (2),  ma  parecchio  nello  stile  e  nel  pensiero 
degli  Scherzi  più  lavorati  dal  Menzini,  non  invano  commentato. 
Già  il  Fioretto  aveva  avvertito  la  conformità  di  un  verso  del- 
V Incoronazione  «  come  se  fosse  il  conte  di  Culagna  »  con  un 
altro  del  Menzini  (3),  e  citato  dalla  sat.  II  del  medesimo: 


(1)  BiAGi,  Gli  epigrammi  del  Pmmnti,  in  Aneddoti  letterari,  Milano, 
Treves,  1896. 

(2)  BiAGi,  Vita  diG.  Giusti,  Firenze,  Lemonnier,  10*  ed.,  1911,  p.  133. 

(3)  n  verso  del  G.  è  coniato  su  quel  del  Menzini  «  come  se  fosse  di  Cu- 
lagna il  conte  »,  ma  la  figurazione  del  «  Rogantin  di  Modena  »  e  qualche 
tratto  del  «  Lazzarone  paladino  infermo  »  son  dovuti  al  Tassoni,  dal  cui  ri- 
tratto del  conte  di  Culagna  derivò  certamente  il  Giusti  i  lineamenti  delle  sue 
caricature.  Infatti  neW Incoronazione  è  detto  del  primo  : 

Boghi  e  mannaie  macchinando  vuole 
con  derise  polemiche  indigeste, 
sguaiato  Giosuè  di  casa  d'Este, 
fermare  il  sole  ; 

e  del  secondo  : 

Di  tante  armi  ohe  fai,  re  Sacripante? 
Sfondar  ti  pensi  il  cielo  con  un  pugno? 
Smetti,  scimmia  d'eroi,  t'accusa  il  grugno 
di  zoccolante. 

Queste  qualità  tipiche  si  trovano  già  nel  conte  di  Culagna  tassoniano  {Sec- 
chia, m,  12): 

Quest'era  un  cavalier  bravo  e  galante, 
filosofo,  poeta  e  bacchettone^ 
ch'era  fuor  de'  perigli  un  Sacripante, 
ma  ne'  perigli  un  pezzo  di  polmone  ; 
spesso  ammazzato  avea  qualche  gigante 
e  si  scopriva  poi  ch'era  un  caj^pone. 

Di  un  altro  riscontro  che  sarebbe  nella  Secchia,  IX,  44,  del  padre  di  Titta 
col  Becero  della  Vestizione  e  che  già  anch'io  avevo  segnato  tra  i  miei  ap- 
punti, vedo  che  ha  fatto  cenno  il  Carli  (p.  71). 


Ilo  G.    8UKRA 

il  gran  Tonante 
chiamò  la  plebe  di  ricchezza  carca 
a  corte  e  die  di  cavalier  l'insegna 
a  nn  mascalzone,  a  un  timonier  di  barca  (1)  ; 

a  riscontro  del  Becero  della  Vestizione.  Il  Martini,  oltre  gli  ac- 
cennati, additò  un  altro  riscontro  del  Giusti  col  Menzini  fra  quel 
che  si  dice  dall'uno  a  proposito  d'un  tenore  e  dall'altro  d'un 
saltimbanco.  Ma  l'imitazione  del  G.  è  in  quel  passo  più  sicura 
che  non  sembri  dalla  citazione  del  Martini  :  «  È  pur  corbello,  | 
«  bimbi,  chi  spende  per  tenervi  a  scuola  ».  Il  Menzini  scrisse 
nella  sai  VII: 

Che  occorre  che  Crispino  aneli  e  sudi 
in  saper  l'abbici?  Quest'è  l'ingegno, 
queste  son  l'arti  e  gli  onorati  studi  (2). 

E  il  Giusti  nello  scherzo  Per  un  reuma  d'un  cantante: 

che  importa  a  noi  del  nobile  intelletto 
che  per  l'utile  nostro  anela  e  stenta? 

dove  la  mossa  interrogativa,  il  senso  generale,  la  clausola  rispon- 
dono a  capello  al  terzetto  del  Menzini.  Ma  del  Menzini  egli  si 
giovò  ancora  altre  volte  variamente  in  certi  spunti  che  si  giudi- 
cano esser  tra  i  più  felici  e  si  credono  più  originali.  Basta  leg- 
gere i  seguenti  passi  tolti  a  varie  satire  menziniane,  per  rico- 
noscere i  principali  motivi  svolti  dal  G.  nella  sua  cosi  detta  arte 
poetica,  A  G.  Tommasi  : 

...  Tu  la  scena 
dell'umane  follie  mira  in  disparte, 
e  sian  per  te  teatro...  (I,  224). 


(1)  Questa  medesima  terzina  citò  il  G.  nelle  illustrazioni  ai  Proverbi  (Le- 
monnier,  1853,  p.  399). 

(2)  Cito  dall'ediz.  Sonzogno,  Satire,  1879,  p.  265. 


IMITAZIONI  E  EBMINISOENZB  NEL  GIUSTI  111 

[Cfr.  del  Giusti:  «  Tu  dei  pagliacci  all'odierna  festa  |  fischia  il 
«  trescone  »]  : 

Ognun  gonfia  la  piva  in  stil  pindarico, 
gorgheggia  ognun  messo  in  Parnaso  il  becco  ecc. 
...  Io  no;  che  in  Pindo  or  altra  paglia  imbecco, 
nauseando  il  troppo  usato  pasto... 
Ciascun  di  loro  il  suo  mestier  rinnega 
e  del  polmone  ambizioso  e  tisico 
le  fracid'ale  all'aura  vana  spiega. 

Cosi  comincia  la  sat.  Il  (p.  227)  del  Menzini  e  il  Giusti  intona 
l'esordio  della  sua  poesia  al  concetto  e  alla  frase  di  quello,  e  ne 
serba  il  suono  in  qualche  rima  : 

Girolamo  il  mestier  facile  e  piano 

che  gì' insegnò  natura  ognun  rinnega 

e  vuol  nei  ferri  dell'altrui  bottega 

spellar  la  mano. 

Ognuno  in  gergo  a  scrivacchiar  s'è  messo 

sogni  accattati,  alFetti  che  non  sente... 

Non  tutti  il  vento  forestiero  intasa; 

V'ha  chi  bee  le  native  aure  vitali... 

Tommasi,  Vumor  mio  fra  mesto  e  lieto 

sgorga  in  versi  balzani  e  semiseri 

né  so  piallar  la  crosta  a'  miei  pensieri. 

E  ancora  con  questa  poesia  del  G.  ha  relazione  l'esordio  della 
menziniana  sat.  Ili  (p.  235)  : 

Anch'io  volea  cantar  d'assalti  e  d'armi 
e  dando  a  divorar  carne  d'eroi 
del  ventoso  polmon  far  tromba  ai  carmi. 

Ma  per  me,  Apollo,  son  seccati  i  tuoi 
ruscelli  ameni  e  dopo  a  la  gran  cena 
da  bever  non  avranno  gli  avoltofi 

Pur  tenterò  con  satiresca  avena, 
mentr'io  bagno  nel  fele  il  labbro  secco, 
far  sentire  una  zolfa  orrenda  e  piena. 


112  G.    SURRA 

Il  Giusti,  in  tono  più  amabile,  presenta  il  medesimo  con- 
trasto di  tendenza,  eh' è  il  concetto  dominante  deW Origine 
degli  scherzi: 

Lascia  la  tromba  e  il  flauto  al  polmone 
di  chi  c'è  nato  o  se  l'è  fitto  in  testa. 
Tu  de'  pagliacci... 
fischia  il  trescone. 

Potrebbe  darsi  anche  che  tutta  quell'ornitologia  simbolica  con 
cui  comincia  la  terza  parte  del  Gingillino'.  «  0  merli  tarpati... 
«  0  galli  potati...  0  gufi  pennuti...  »  e  falchi,  nibbi,  corvi,  spar- 
vieri, avoltoi  chiamati  al  pasto,  fosse  un'amplificazione  d'un'im- 
magine  del  Menzini,  che  potè  suggerire  il  concetto  (III,  237): 

I  furbi  augei  che  della  gran  bonaccia 
di  lui  s'erano  avvisti,  a  lui  dintorno 
stavan  di  grazia  e  di  favori  in  traccia. 

Ma  senza  dubbio  è  da  ravvisare  un  meno  opportuno  influsso 
del  Menzini  sopra  un  altro  passo  della  Vestizione: 

Ma  di  modi  arcigni  e  tronfi 
non  ho  copia  in  casa  mia 
né  un  bisnonno  che  mi  gonfi 
di  fastosa  idropisia. 

Fu  notato  dal  Carli  il  vizio  della  digressione  autocritica  e  bio- 
grafica che  interrompe  il  racconto  della  visione  di  Becero  (p.  68). 
Ora  chi  non  sa  che  negli  artisti  principianti  è  spesso  «croce  e 
delizia  »  una  reminiscenza  molesta,  ch'essi  finiscono  con  lo  sfrut- 
tare a  detrimento  dell'economia  della  composizione?  —  Al  Giusti 
frullava  certamente  nella  memoria,  e  non  seppe  liberarsene,  un 
pensiero  del  Menzini  (I,  225): 

...  Ma  tale  ingegno  ed  arte 

non  ho  che  gonfi  in  qualche  gran  libraccio 

del  ventoso  cervel  le  vele  sparte, 


IMITAZIONI    E    REMINISCENZE    NBL    GIUSTI  113 

che  se  è  un  motivo  abbastanza  ripetuto  nel  satirico  di  Ruba- 
conte  diventa  abituale  atteggiamento  nell'arte  del  Monsummanese, 
come  si  può  rilevare  dalla  satRca  Al  Tommasi,  dal  Ballo  e  un 
po'  da  per  tutto  nelle  poesie  e  nelle  prose. 

Questa  influenza  delle  satire  menziniane  sull'arte  del  Giusti 
—  alquanto  più  notevole  che  non  sia  stato  immaginato  finora  — 
è  del  resto  facilmente  spiegabile,  chi  pensi  che  il  poeta  ha  la- 
vorato parecchio  tempo  sul  Menzini,  mentre  non  s'occupò  gran 
fatto  degli  altri  satirici  toscani.  Stando  alle  dichiarazioni  del 
Giusti  medesimo,  egli  avrebbe  fatto  nel  '35-'36  una  buona  parte 
del  commento  a  quelle  satire  e  anche  abbozzato  un  cenno  sulla 
vita  e  le  opere  del  Menzini  (1).  Del  lavoro  non  possiamo  giu- 
dicare, perchè  è  rimasto  inedito  e  forse  è  andato  smarrito,  né 
il  pochissimo  che  ne  cita  il  Prassi  di  su  le  carte  del  poeta,  ba- 
sterebbe per  formarcene  un'idea,  ma  dalle  accennate  imitazioni 
si  può  argomentar  che  quel  lavoro  non  riusci  infruttuoso  per 
l'arte  sua. 

Del  Borni  invece  che,  per  certa  sua  indolenza,  parrebbe  do- 
versi più  assomigliare  che  altri  al  Giusti  ;  che  fu  pigro  e  lento 
nel  comporre  almeno  quanto  il  Giusti,  se  bisogna  credergli  sulla 
parola  : 

Compongo  a  una  certa  foggia  mia, 

che  se  volete  pur  ch'io  ve  lo  dica, 

me  l' ha  insegnato  la  poltroneria  (2)  ; 

quasi  nulla  si  trova  d'imitato  negli  Scherzi  del  Nostro,  salvo  il 
sonetto  Tedeschi  e  granduca  che  primo  il  Fioretto  avvisò  rical- 
cato su  quel  del  Berni  [fonte  anche  del  son.  del  Carducci,  Pietro 
Fanfani  e  le  postille^  :  «  Ser  Cecco  non  può  star  senza  la 
«  corte  I  né  la  corte  può  star  senza  ser  Cecco  »  ;  e  quel  verso 
del  Gingillino  :  «  quel  nuvolo  di  se,  di  ma,  di  forse  »,  certa  re- 


(1)  Frassi,  Epistolario  di  G.  G.,  Lemonnier,  1859,  p.  32,  della  Vita,  e  107, 
delle  Lettere. 

(2)  «  Al  card.  IppoUto  de'  Medici  »,  ediz.  Sonzogno,  p.  125. 

Giornale  storico,  LXIV,  fase.  190-191.  8 


114  G.    SURRA 

miniscenza  del  Berni  nel  son.  :  «  Un  papato  composto  di  rispetti  », 
ben  noto  al  Giusti  che  lo  citò  due  volte,  sempre  scambiando 
papa  Clemente  VII  con  Adriano  VI.  E  anche  questa  derivazione 
fu  prima  avvertita  dal  Fioretto,  se  non  che  sembra  probabile 
che  l'Alfieri  contribuisse  pure  a  quella  imitazione,  col  suo  «  dei 
«  ma,  dei  se,  dei  forse  ecco  lo  stuolo  ».  Inoltre  un  riscontro  del 
Oingillìno  col  Berni  a  proposito  di  barbe,  potrebbe  far  pensare 
airodio  che  per  le  medesime  professava  il  Giberti  :  «  ma  il  pa- 
«  drone  |  aveva  con  la  barba  aspra  questione  »,  e  il  Giusti  : 

barba  no,  ci  s'intende,  un  impiegato... 
quanto  più  serba  il  muso  di  castrato, 
tanto  più  entra  in  grazia  al  principale. 

Degli  altri  satirici  di  cui  tocca  il  Nostro  nel  suo  discorso  sul 
Parini,  che  sono  l'Ariosto  e  il  Rosa,  è  più  facilmente  riscontra- 
bile qualche  influenza  del  secondo  che  del  primo,  negli  Scherzi 
del  Giusti.  I  versi  del  Oingillìno  : 

Ciurma  sdraiata  in  vii  prosopopea 
che  il  suo  beato  non  far  nulla  ostenta, 
gabba  il  salario  e  vanta  la  livrea, 
sempre  sfamata  e  sempre  malcontenta, 
dicasterica  peste  arciplebea, 

come  già  fu  notato  dal  Martini  {Bisc.^  22),  ricordano,  ma  non 
soltanto  per  la  rima,  si  anche  per  certa  sonorità  e  pienezza  di 
ritmo,  più  propria  del  napoletano  che  del  toscano,  questi  che  si 
leggono  nella  Musica  del  Rosa  (1)  : 

Ciurma  che  mai  si  sazia  e  si  contenta, 
quanto  più  se  le  dà  più  se  le  dona, 
scellerata  divien,  peggior  diventa; 

Plebe  che  altro  non  pensa  e  non  ragiona 
che  a  passar  l'ore  in  crapole  e  sbadigli... 


(1)  Sfxtira  I,  ediz.  Sonzogno,  p.  81. 


IMITAZIONI    E    EBMINISCBNZE    NEL    GIUSTI  115 

E  non  parrà  dilììcile  trovare  un  riscontro  di  rima  e  di  parola 
fra  i  versi  : 

Aver  nell'alma  il  canchero  e  lo  scirro... 

Oh  s'io  faccio  il  pittor,  ch'io  faccia  il  birro! 

del  Rosa  (sat.  Ili,  132)  e  i  seguenti  de  Le  ^memorie  di  Pisa: 

Via  dalle  viscere 
l'avaro  scirro 
di  vender  l'anima, 
di  darsi  al  birro! 

E  ancora  a  proposito  di  barbe,  il  Gingillino  giustiano  poteva 
anche  ricordar  il  precetto  del  Rosa  (I,  81)  : 

In  corte  chi  vuol  esser  ben  voluto... 
sia  musico  o  ruffian,  ma  non  barbuto. 

Né  mi  sembra  da  escludere  la  possibilità  che,  giudicando  del 
valor  poetico  del  Rosa,  il  Giusti  avesse  in  mente  una  terzina 
^q\V Invidia^  quando  scrisse  di  lui  che  «  lo  scrivere  non  era  l'arte 
«  sua  naturale,  ma  un  di  più  del  suo  ingegno  ».  Difatto  i  versi 
del  Rosa  suonano  (VI,  202)  : 

Dimmi,  ti  par  che  tanto  in  là  si  stenda 
l'ingegno  ed  il  saper  d'un  che  per  arte 
tratti  i  pennelli  e  alle  pitture  attenda? 

L'Ariosto  ha  potuto  prestare  al  Giusti  una  citazione  nella  let- 
tera autobiografica  al  Vannucci  :  «  io  meglio  i  miei  |  casi  d'ogni 
«  altro  intendo  »,  che  appartiene  alla  satira  seconda,  un  verso 
nel  Sortilegio  :  «  credete  a  chi  ne  ha  fatto  esperimento  »  {OrLy 
XXIII,  112),  e  un  altro  nella  Vestizione',  «da  la  pratica  grande 
«  che  ne  avea  »  —  cioè  Becero,  dell'itsura  —  ch'è  una  leggiera 
alterazione  di  quel  «per  la  pratica  lunga  che  n'avea»  dell'Or- 
bando (XXVIII,  21).  Di  questo  s'accorse  già  il  Fioretto  ;  e  il  Mar- 
tini volle  trovar  un'altra  reminiscenza  ariostesca  dalla  sat.  IV  : 


116  G.    SURRA 

«  non  si  adatta  una  sella  o  un  basto  solo  |  ad  ogni  dosso  »,  ecc. 
hqW Orìgine  degli  scherzi: 

Chi  nacque  al  passo  e  chi  nacque  alla  fuga. 
Invano  invano  a  volgere  il  mulino 
sforzi  la  zebra  ecc. 

pei  quali  versi  ho  già  indicato  un  riscontro  nel  Montaigne.  Ma 
a  me  pare  che  quei  notissimi  concetti  e  sentimenti  che  for- 
mano la  cosi  detta  paesanità  del  Giusti  e  la  cui  espressione  si 
trova  in  parte,  per  es.,  nel  secondo  de  /  brìndisi  «  brindisi  per 
«  un  desinare  alla  buona  »,  cioè  nei  versi  : 

A  noi  qui  non  annuvola  il  cervello 
la  bottiglia  di  Francia  e  la  cucina... 

Chi  del  natio  terreno  i  doni  sprezza 
e  il  mento  in  forestieri  unti  s'imbroda... 

Oh  beato  colui  che  si  ricrea 
col  fiasco  paesano  e  col  galletto! 

abbiano,  se  non  un  riscontro  verbale  di  suoni,  almeno  una  non 
dubbia  corrispondenza  nella  sostanza,  sebbene  la  situazione  psi- 
cologica dei  due  poeti  non  sia  la  stessa  precisamente,  con  un 
altro  passo  della  già  citata  satira  terza  : 

In  casa  mia  mi  sa  meglio  una  rapa 
ch'io  cuoca  e  cotta  su  'n  stecco  m'inforco 
e  mondo  e  spargo  poi  d'aceto  e  sapa, 

ch'a  l'altrui  mensa  tordo,  starna  o  porco 
selvaggio;  e  così  sotto  una  vii  coltre, 
come  di  seta  e  d'oro  ben  mi  corco... 

Chi  vuole  andare  a  torno,  a  torno  vada; 
vegga  Inghilterra,  Ongheria,  Francia  e  Spagna 
a  me  piace  abitar  la  mia  contrada  (1). 


(1)  Le  Satire  di  Lud.  Ariosto,  a  cura  di  6.  Tambara,  Livtm»,    Giusti, 
1903,  p.  109. 


IMITAZIONI    E   BEMINISCENZE    NEL    GIUSTI  117 

D'altri  poeti  più  antichi  studiati  dal  Giusti,  credo  non  valga 
la  pena  indicare  le  spicciolate  reminiscenze  di  piccole  frasi. 
Si  comprende  facilmente  che  quando  in  gioventù  «  pagò  il  novi- 
«  ziato  al  Petrarca  belando  d'amore  »,  abbia  derivato  qualche 
cosa  anche  lui  da  messer  Francesco  e  che,  a  furia  di  studiar 
Dante  e  postillarlo,  gli  si  sia  ogni  tanto  attaccato,  scrivendo,  un 
pensiero  o  un  costrutto  dantesco;  ma  troppo  era  disforme  l'in- 
dole del  Giusti  dall'una  e  dall'altra  delle  «  due  corone  »  fioren- 
tine, perchè  la  sua  poesia  potesse  ricavarne  vital  nutrimento. 
Checche  ne  abbiano  fantasticato  parecchi  suoi  editori  e  commen- 
tatori, il  Giusti  tanto  somiglia  a  Dante  quanto  il  suo  centone 
pel  ritratto  di  Dante  somiglia  alla  Divina  Commedia.  E  all'in- 
fuori  di  quell'occasione  poche  altre  volte  egli  ha  riecheggiati 
ne'  suoi  Scherzi  o  nelle  liriche  sentimenti  e  parole  del  «  vicin 
«  suo  grande  ». 

Sono  sogni  di  mente  fantasiosa  i  riscontri  scoperti  dal  Puc- 
cianti  della  Comniedia  col  Giusti  \iq\V Amica  lontana  (1).  E 
non  si  potrebbe  immaginar  niente  di  più  farraginoso  dei  riscontri 
danteschi  apposti  in  più  luoghi  dal  Fioretto  al  testo  delle  poesie 
giustiane;  come  sono  la  più  parte  fantastici  ed  arbitrari  gl'in- 
flussi del  poema  sacro  che  il  Crocioni  credette  di  poter  additare 
in  noti  versi  danteschi  per  certi  luoghi  del  Nostro  (2). 

Cosi  potrebbe  dirsi  del  Parini,  che,  sebbene  il  Giusti  abbia 


(1)  Cfr.  il  suo  commento  a  p.  20  e  seg.,  dove  ai  versi:  «  Or  flebile  mi  suona 
«  e  par  che  dica  |  ne'  dolenti  sospiri  »  è  annotata  la  frase  nei  sospiri  come 
modo  dantesco,  quasi  fosse  derivazione  di  quelli  dell' Jw/".  Vili  :  «  E  dicea  nei 
«  sospiri  I  chi  m'ha  negate  le  dolenti  Case  »;  ed  è  tenuta  sputata  dantesca  la 
frase  «  come  una  rosea  nuvoletta  al  vento  ». 

(2)  Cfr.  passim  il  suo  discorso  premesso  alle  Postille  [alla  Divina  Com- 
media] di  G.  Giusti,  Lapi,  Città  di  Castello,  1898,  in  Coli.  op.  dant.,  diretta 
dal  Passerini].  Chi  crederà  che  il  concetto  del  San  Giovanni  sia  derivato  dal 
dantesco  «  la  tua  città...  produce  e  spande  il  maledetto  fiore  »;  che  la  saf- 
fica al  Tommasi  proceda  dal  Farad.,  Vili:  «*E  se  il  mondo  laggiù  ponesse 
«  mente  |  al  fondamento  che  natura  pone  »;  che  il  verso  «  Volle  il  prete  a 
«  dispetto  della  fede  »  con  quel  che  segue  sia  ispirato  dall'apostrofe  a  Co- 
stantino, ecc.  ecc.? 


118 


G.    SURRA 


letto  e  riletto  quando  dovette  prepararne  l'edizione  pelLemon- 
nier,  non  esercitò  sopra  di  lui  notevole  influenza  né  per  lo  stile 
né  per  la  sostanza,  forse  perché  non  studiato  mai  prima  delle 
sue  amicizie  milanesi  o,  certamente,  non  preferito  nelle  sue  let- 
ture giovanili  al  Menzini  e  agli  altri  toscani,  che,  quasi  soli,  nel 
principio  della  sua  carriera,  gli  furono  familiari. 

Ma  d'un  altro  milanese,  il  Porta,  sebbene  scrittore  vernacolo 
e  perciò  non  di  facile  intelligenza  per  lui  toscano,  senti  più 
tardi,  cioè  verso  il  tempo  in  che  si  occupò  del  Parini,  un'influenza 
maggiore  e  più  profonda  che  dei  satirici  italiani;  e  più  tracce 
ne  sarebbero  rimaste  nei  versi  suoi,  se  la  morte  non  avesse 
troncato  poco  dopo  la  sua  operosità  ;  segno  certo  che  erano  dei 
tratti  afiìni  nel  suo  temperamento  artistico  con  quello,  mentre 
quasi  nulla  dalla  natura  e  dalla  sorte  ebbe  di  comune  coll'autore 
del  Giorno.  Il  Giusti  doveva  conoscer  poco  più  che  la  fama  del 
Porta  quando  nel  '43  declinava  modestamente  l'onor  del  para- 
gone con  lui  e  diceva,  scrivendo  al  Grossi  {Ejj.j  II,  546),  di  te- 
nersi beato  se  gli  potesse  legar  le  scarpe.  Ma  poi  «  lesse  e  ri- 
«  lesse  attentissimamente  »  il  Porta  e  il  Grossi  e  «  a  forza  di 
«  tempestarci  su  e  di  tirar  a  indovinare,  trovò  il  bandolo  del 
«  dialetto  tanto  da  assaporarlo  »{Ep.,  II,  114).  Il  breve  soggiorno 
in  casa  del  Manzoni  lo  fece  innamorare  di  tutte  le  cose  mila- 
nesi, quindi  anche  maggiormente  del  Porta,  che  poi  nel  '46  leg- 
geva «  tra  una  pietanza  e  l'altra  »  (Biagi,  Vita,  97).  E  sotto  il 
benefico  influsso  di  quella  lettura  nacquero  appunto  il  S.  Am- 
brogio, La  rassegnazione,  il  Delenda  Carthago  e  altre  poesie 
meno  fortunate,  dove  più  o  meno  si  notano  spunti  e  risonanze 
del  Porta. 

Pel  S.  Ambrogio  qualche  riscontro  fu  già  additato  prima  dal 
Fioretto,  poi  da  parecchi  altri,  con  più  poesie  portiane.  Ma  non 
bastano  /  desgrazi  de  Giovannin  Bongee,  Miserere  e  Fraa 
Condutt  a  esaurire  il  catalogo  dei  possibili  raffì-onti  con  quella 
poesia.  Mosse  analoghe  e  quasi  ugual  sapore  di  scherzo  si  tro- 
vano in  altri  componimenti  del  Porta,  per  es.  nel  son.  Vùc- 
cinazion  : 


IMITAZIONI  E  REMINISCENZE  NEL  GIUSTI  119 

a  proposet,  lustrissem,  de  vaccina 

ch'el  senta,  s'el  voeur  rid,  questa  che  chi 

ch'el  sarà  on  mes  che  la  m'è  occorsa  a  mi; 

e  nell'altro  A  on  veì^o  colon'. 

Coss'el  voeur,  Eccellenza,  che  responda? 

[Cfr.  «  Che  vuol  Ella,  Eccellenza?  il  pezzo  è  bello...  »].  E  bisogna 
aggiungere  che  anche  più  riscontri  si  trovano  nei  Desgrazi  che 
non  si  siano  finora  indicati,  per  es.,  dal  Guastalla  (1)  e  dal  Carli 
(p.  253),  onde,  per  completare  la  somma  delle  somiglianze  del 
S.  Ambrogio  con  questa  poesia,  citerò  in  un  fascio  versi  vecchi 
e  nuovi  : 

De  già,  lustrissem,  che  semm  sul  descors 

de  quij  prepotentoni  de  Frances, 

ch'el  senta  on  poo  mo'  adess  cessa  m'è  occors 

jer  sira  intra  i  neuv  e  mezza  e  i  des... 

Seva  in  contraa  de  Santa  Margaritta 
e  andava  insci  beli  beli,  come  se  fa... 
El  sentirà  mo  adess  el  bel  casett! 

Di  altri  riscontri,  quale,  per  es.,  della  strofa  undicesima  della 
2 erra  dei  moì^tv.  «  Perchè  ci  stanno  addosso  »  ecc.,  col  son.  del 
Porta  :  «  El  sarà  vera  fors  quel  ch'el  dis  lu  »,  indicato  dal  Gua- 
stalla (p.  135)  e  di  una  assai  problematica  rassomiglianza  del 
ritratto  di  Taddeo  nelVAmor  pacifico  col  «  ciappin  tentador  » 
di  On  striozz  del  Porta,  credo  inutile  discorrere.  Si  tratta,  nel 
primo  caso,  di  analogia  meramente  fortuita,  che  nel  tempo  della 
composizione  della  Terra  dei  morti  il  Giusti  non  aveva  ancora 
familiarità  col  Porta  ;  nell'altro  non  mi  pare  possibile  il  raffronto, 
per  più  d'una  ragione. 

Ve  bensì  una  poesia  del  Giusti,  poco  nota  e  non  condotta  a 
pulimento  dall'autore,  che  ha  con  un'altra  del  Porta  tante  somi- 


(1)  Poesie  di  G.  Giusti,  scelte  e  commentate,  Livorno,  Giusti,  1910. 


120  G.    SUKBA 

glianze  d'impostazione,  di  sviluppo,  di  forme  e  di  movenze  che 
si  può  considerare  come  una  vera  imitazione  portiana.  Si  tratta 
del  son.  «  Io  liberale?  »  (Scritti  vari^  443). 
Il  Porta  nel  Sonett  col  covon  scrisse: 

Mi  romantegh?  Soo  ben  ch'el  me  coujonna. 
Mi  sont  classegh  fin  dent  al  mòli  di  oss, 
mangi,  bevi,  foo  el  porch  in  Eliconna 
e  ai  Eomantegh  che  guardi  nanch  adoss. 

E  il  Giusti  : 

Io  liberale?  Signor  Presidente! 

io  che  non  penso  che  a  su'  Altezza  Reale  (sic), 

io  che  pago  e  sto  zitto,  io  liberale? 

Il  Porta  passa  quindi  in  rassegna  tutti  i  bei  vantaggi  che  ri- 
cava dall'esser  classico,  e  seguita  : 

..    Ch'el  varda  mo  usciuria 
se  me  peu  convegni  de  renunzià 
a  tanti  comod  per  andà  a  cerca 
sta  rogna  de  gratta. 

Ch'el  varda  lù  se  occor  risciagh  la  peli, 
lassa  i  bei  vialon  per  di  stradell, 
suda  come  on  porcell, 

per  vess  sieur,  quand  sont  rivaa  a  bottega, 
de  trovagh  nanca  on  asen  che  me  frega! 
No,  no,  no  vuj  sta  bega! 

Classegh  sont  e  vui  stagh!  Saront  fors  anch 
on  cojon,  ma  on  cojon  classegh  almanch. 

E  il  Giusti,  certo  con  minor  vena  ed  arguzia,  riecheggia  nel 
corpo  del  sonetto  e  nella  coda  le  battute  principali  del  Porta: 

Guardi  se  per  la  foia 

di  quest'Italia  che  sarà  una  perla, 

metta  la  pena  di  mostrar  d'averla!  (cioè  la  testa) 


IMITAZIONI    E   REMINISCENZE    NEL    GIUSTI  121 

Per  me,  tiro  a  tenerla 
sopra  le  spalle  più  anni  che  posso... 
Che  un  nobile,  uno  ricco  come  me 
si  confondesse  a  pigliarla  coi  re: 
e  per  concluder  che? 

Per  perder  fin  all'ultimo  quattrino... 
Sor  Presidente  mio,  non  son  sì  bue. 

Ma  una  fonte  del  Giusti  appena  sospettata,  e  non  più  che  per 
due  0  tre  versi  ;  fonte  invece  copiosa  e  varia  di  pensieri,  di  frasi, 
di  sentimenti,  di  atteggiamenti  fu  l'Alfieri,  del  quale  il  Martini 
riconobbe  già  l'influsso  per  qualche  rima  sul  «  crocifero  babbeo  » 
del  Brìndisi  (Disc,  23)  e  il  Guastalla  avverti  l'analogia  ideale 
fra  La  plebe  (sat.  Ili)  e  l'ultima  parte  della  Scritta  (p.  154)  ; 
mentre  il  Fioretto,  pur  mettendo  in  testa  alla  Scritta  del  Giusti, 
come  epigrafe,  alcuni  versi  della  satira  II  dell'Alfieri,  non  si 
pensò  che  i  due  autori  potessero  trovarsi  in  altro  rapporto  che 
di  semplice  fortuita  somiglianza  per  un  concetto  satirico.  E  co- 
minciamo appunto  dalla  Scritta  : 

Un  de'  nostri  usurai  messe  una  volta 
l'unica  figlia  in  vendita  per  moglie, 
dando  al  patrizio  che  l'avesse  tolta 
delle  fraterne  vittime  le  spoglie. 

Questo  è,  come  chi  dicesse  il  tema  del  polimetro  giustiano, 
che  il  poeta  trovò  non  più  che  proposto  invero  dall'Alfieri,  ma 
in  quello  stile  pregno  d'idee  non  espresse  e  fecondo  d'incrementi, 
per  un  artista  che  vi  mediti  su.  Infatti,  tutta  la  favola,  i  perso- 
naggi e  le  varie  situazioni  della  Scritta  si  possono  scoprire  in 
germe  nella  satira  d'Alfieri  : 

Nel  veder  che  in  ricchezza  altri  l'avanza, 
ei  rugge:  ha  scelta  quindi  un'aurea  moglie, 
onde  s'impingui  la  di  lui  baldanza. 

Ricca  d'impuro  sangue,  ella  gli  toglie 
un  bocconcin  di  stemma  gentilizio, 
ma  gli  dà  d'una  o  più  città  le  spoglie: 


122  G.    SURRA 

che  il  di  lei  babbo  a  sua  prosapia  inizio 
die  con  ribalde  usure  (a  quel  ch'uom  dice) 
or  Sempronio  spolpando  or  Caio  or  Tizio. 

Chi  voglia  avere  in  conto  di  casuale  l'analogia  tematica  delle 
due  satire,  può  leggere  ancora  una  terzina  dell' Alfieri: 

Tosto  il  grande  al  vii  suocero  disdice 

sua  casa  :  dai  gran  Giove  in  aurea  pioggia 

nata  è  la  sposa', 

e  si  ricorderà  del  pittore,  nella  Scritta,  che  pagato  tardi  e  poco 
dal  quattrinaio,  fra  gli  altri  soggetti  onde  imbrattò  le  pareti  per 
dar  la  berta  al  padrone,  vi  dipinse  proprio  Giove,  trasmutato  in 
pioggia  di  monete, 

che  scende  a  Danae  in  braccio 
ad  onta  del  chiavaccio. 

E  seguitiamo  con  altri  riscontri  di  temi  fondamentali.  L'Al- 
fieri, nella  sat.  XII  «  Il  commercio  »,  scrisse: 

Voi,  Siculi  0  Polacchi,  il  grano  vostro 
dateci  tutto  o  vi  farem  noi  guerra. 
Pascavi  invece  il  salumaio  nostro. 

E  più  oltre  : 

Cambiatori  e  finanzieri, 
gli  eroi  son  questi  ch'oggi  fa  la  piazza. 

Cfr.  del  Giusti  La  guerra  : 

Ma  che  è  questo  scoppio 
che  introna  la  marina? 
Nulla,  un  carico  d'oppio 
da  vendere  alla  China, 
è  una  fregata  inglese 
che  l'annunzia  al  paese. 


IMITAZIONI    E    REMINISCENZE    NEL    GIUSTI  123 

...  I  barbari  una  volta, 
oggi  le  mercanzie 
migran  da  luogo  a  luogo, 
bisognose  di  sfogo. 

Strumento  di  conquista 
fu  già  la  guerra:  adesso 
è  aifar  da  computista  : 
vedete  che  progresso! 
Pace  a  tutta  la  terra: 
a  chi  non  compra  guerra 

...  Gli  eroi  macellari 
cedano  alle  stoccate 
degli  eroi  milionari. 

È  noto  il  son.  dell'Alfieri  :  «  O  gran  padre  Alighier  ».  L'autore, 
pieno  ancor  di  bile  contro  il  papa  e  il  cognato  della  contessa 
d'Albany  e  altra  gente  di  chiesa  e  del  mondo  che  l'hanno  ferito 
nel  suo  amore  e  nel  suo  orgoglio,  chiede  a  Dante  se  un  uomo 
come  lui,  Alfieri,  «  Contro  invidia  e  viltà  de'  stringer  l'armi  ». 

E  Dante  risponde  : 

Figlio,  io  le  strinsi  e  assai  men  duol... 

Se  in  me  fidi,  il  tuo  sguardo  a  che  si  abbassa? 

E  il  son.  A  Dante  del  Giusti  non  è  cosi  diverso  nell'imposta- 
zione e  nella  chiusa  che  non  faccia  ripensar  a  quello,  come  fonte 
probabile  d'ispirazione  : 

E  vih  adesso  e  traditori  ed  empi 

ci  chiaman  gli  empi,  i  vili  e  i  traditori... 

Ma  tu  consoli  noi  tanto  minori 
a  te  d'affanni  e  di  liberi  tempi, 
di  cuor,  d'ingegno  e  di  persecutori. 

Fu  censurata  La  terra  dei  morti  pel  doppio  senso  equivoco, 
su  che  si  fonda  l'arguzia  della  prima  parfe  della  poesia.  Il  pro- 
lungato giochetto  dello  scambio  fra  la  morte  propria  e  la  morte 
figurata  finisce  col  dare  aspetto  di  sciarada  a  qualche  strofa.  Ora 


124  G.    SURRA 

simile  bisticcio,  colFinsistente  doppio  senso,  è  già  in  un  periodo 
alfìeriano  del  dialogo  «  della  virtù  sconosciuta  ».  Parla  l'ombra 
di  Francesco,  l'amico  senese  già  trafficante  di  seta  :  «  Privato 
«  ed  oscuro  cittadino  nacqui  io  di  picciola  e  non  libera  cittade  ; 
«  e  nei  più  morti  tempi  della  nostra  Italia  vissuto,  nulla  vi  ho 
«  fatto  né  tentato  di  grande  ;  ignoto  agli  altri,  ignoto  quasi  a  me 
«  stesso,  per  m,orire  io  nacqui  e  non  vissi;  e  nella  immensis- 
«  sima  folla  dei  nati  m^orti  non  m.ai  vissuti  già  già  mi  ha 
«  riposto  l'oblio  »  (1).  Ecco  nelle  parole  sottolineate  lo  spunto 
del  Giusti  : 

A  noi  larve  d'Italia 

mummie  dalla  matrice 

è  becchino  la  balia; 


ecco  l'equivoco 


Per  morto  era  una  cima, 
ma  per  vivo  era  corto  ecc. 


Il  Giusti  parti  in  guerra  due  volte,  con  un  epigramma  e  con 
un  capitolo  ternario,  contro  i  poeti  eruditi  che  accattano  faticose 
eleganze  dai  classici  : 

0  chiarissimo  ciuco, 

0  cranio  parassito, 

all'erudita  greppia  incarognito  ecc. 

(Contro  un  letterato  pettegolo  e  copista). 

Satirico  chiarissimo,  lo  stile 

vorrai  forbire... 

vorrai  di  porcherie  tenute  a  mente 

spogliando  Fiacco,  Persio  e  Giovenale, 

latinizzare  il  secolo  presente? 

(A  uno  scrittor  di  satire  in  gala). 

Sarà  stato  un  quissimile  del  D'Elei,  chi  pensi  alle  dotte  satire 


(1)  Opere,  ediz.  centenaria,  voi.  X,  p.  200. 


IMITAZIONI    E    REMINISCENZE    NEL    GIUSTI  125 

di  quel  povero  ingegno,  che  fu  morso  con  un  epigramma  dal- 
l'Alfieri (Op.,  IV,  ep.  XLiv): 

Da  Marzial,  da  Giovenale  accatti 
la  rabbia  e  il  fiele  e  i  denti. 
Quindi  sì  ben  rammenti 
i  loro  sali  e  a  te  sì  ben  gli  adatti 
ch'hai  proprio  il  lor  ingegno. 

Il  Giusti  non  ignorava  certamente  l'epigramma  alfìeriano. 

La  riforma  evangelica  tentata  da  prete  Pero  fatto  papa,  che 
voleva  «  ripescare  in  prò'  del  cielo  |  colle  reti  del  vangelo  |  pesci 
«  che  ci  scappino  »,  come  dicono  i  sovrani,  era  già  stata  proposta 
in  un  popolare  epigramma  dell'Alfieri  :  «  il  maggior  prete  |  torni 
«  alla  rete  »  (IV,  ep.  xxxvi),  idea  o  frase  già  prima  rispecchiata 
nel  preterito  p.  che  p.  del  v.  pensare  :  «  ai  pescivendoli  torna 
«  il  vangelo  ». 

Il  doppio  concetto  su  cui  s'impernia  lo  Scherzo  del  re  Tra- 
vicello :  del  principe  inetto,  dei  sudditi  da  poco  : 


^ 


Tacete  tacete 
lasciate  il  reame, 
0  bestie  che  siete, 
a  un  re  di  legname. 

Volete  il  serpente 
che  il  sonno  vi  scota? 
Dormite  contente 
costì  nella  mota, 

0  bestie  impotenti: 
per  chi  non  ha  denti 
è  fatto  a  pennello 
un  re  Travicello; 

questo  doppio  concetto,  con  simile   conclusione,  si  trova  già  in 
un  epigramma  dell'Alfieri  composto  nel  1795  (IV,  lxiii)  : 

VitoU  il  capo,  le  man,  la  borsa  e  il  cuore, 
pur  vi  pensate,  o  re,  di  rimanere?... 


126  G.    SURRA 

Di  virtù  vìwti,  di  giustizia  e  fede, 

liberi  farvi,  o  popoli,  sperate  ? 

Stupido  0  tristo  è  ben  tra  voi  chi  il  crede... 

Dunque,  quai  siete,  state, 

popoli  e  re,  che  Vun  Valtro  mertate. 

Né  par  difiScile  ravvisare  concetti  e  sentimenti  alfìeriani  assai 
ripetuti,  per  es.,  nel  Misogallo,  nelle  Parole  d'un  consigliere 
al  sica  principe: 

E  della  torbida 
Senna  le  ondate 
son  fuochi  fatui, 
son  ragazzate, 

e  la  volubile 
genia  di  Brenno, 
che  infuria  e  prodiga 
la  vita  e  il  senno, 

che  le  repubbliche 
distrugge  e  crea, 
non  cangiò  d'indole, 
cangiò  livrea. 

Basti  ricordare  a  confronto  le  chiuse  d'alcuni  sonetti  miso- 
gallici,  per  tacer  di  altri  anche  troppo  facili  riscontri: 

Sei  repubblica  tu,  gallica  greggia, 

che  muta  or  servi  a  rei  pezzenti  armati? 

{son.  «  È  repubblica  il  suolo  »). 

Schiavi  or  siam  sì,  ma  schiavi  almen  frementi, 
non  quali,  o  Galli,  e  il  foste  e  il  siete  voi 
schiavi,  al  poter  qual  ch'ei  pur  sia  plaudenti. 
{son.  «  Di  libertà  maestri  »). 

È  frutto  nel  Giusti,  senza  dubbio,  di  un  inconscio  atteggiamento 
alfieriano  del  suo  pensiero  politico  quella  ripicchiata  distinzione 
fra  popolo  vero  e  popolo  falso  o  plebe,  che  si  trova,  per  es., 


IMITAZIONI  E  EBMINISCENZB  NBL  GIUSTI  127 

nella  satira  Agli  spettri^  hqW Incoronazione  e  qua  e  là  nell'epi- 
stolario. 
L'Alfieri  scrisse  nel  Misogallo  (son.  Vili:  «Io  cui  natura»): 

Servii  gregge  malnato,  invan  ti  nome 
popol;  sei  plebe  e  il  sei  più  ria  che  avanti; 

e  non  stimò  altro  mai  che  plebe  quel  popolo  che  aveva  fatto  la 
rivoluzione  francese.  Anzi,  più  volte  nelle  prose  cercò  di  chia- 
rire cosi  il  vero  concetto  della  libertà.  Chi  legga  le  sue  parole  in 
versi  e  in  prosa  distese  nel  testo,  o  ristrette  in  note  schiaritole, 
vedrà  appunto  in  esse  la  genesi  prossima  non  solo  dei  versi  del 
Giusti,  ma  di  molta  retorica  politica  del  Risorgimento.  Mi  limito 
a  ricordare  due  luoghi  del  Misogallo^  in  uno  dei  quali  è  defi- 
nita popolo  «  non  la  feccia  oziosa  e  necessitosa  ma  la  moltitu- 
«  dine,  quasi  totalità  di  onesti  abitanti  si  dejla  città  che  del  con- 
«  tado  »  e  nell'altro  l'autore  protesta  con  gran  forza:  «  amore 
«  e  adorazione  della  libertà  vera;  profondo  e  ragionato  abborri- 
«  mento  per  un  popolo  che  colle  ribalde  e  servili  sue  opere  ha 
«  intrapreso  e  compiuto  pur  troppo  presso  ai  maligni  e  idioti  la 
«  ignominiosa  satira  del  sacrosanto  nome  di  libertà  »  (Op.,  IV, 
p.  130  e  139). 

E  il  Giusti,  già  néiV Incoronazione  nega   che   sia  popolo  la 
turba  che  grida  evviva  al  «  raccolto  stormo  tedesco  » 

il  popol  no  :  la  rea  ciurma  briaca 
d'ozio,  imbestiata  in  leggiadrie  bastarde 
che  cola,  ingombro,  alle  città  lombarde 
-    fatte  cloaca. 

Poi,  più  tardi,  in  Alli  spettri  del  4  sett^  '47: 

Popol  non  è  che  sorga  a  vita  nwova, 
è  poca  plebe... 

È  poca  plebe  e  prode  di  garrito... 
0  popol  vero,  o  d'opre  e  di  costume 


128  G.    SURRA 

specchio  a  tutte  le  plebi  in  tutti  i  tempi, 
levati  in  alto  e  lascia  al  bastardume 
gli  stolti  esempi. 

Anche  il  don  Abbondio  del  Giusti  grida  «  popolo  e  libertà  », 
ma  egli  non  è  popolo  e  non  conose  la  libertà.  Ci  vuol  altro  !  Il 
vero  popolo  è  modesto  e  pio,  egli  solo,  nato  libero,  può,  fra  ti- 
rannide e  licenza,  segnar  la  via  alla  plebe,  «  al  volgo  in  furia 
«  e  al  volgo  impastoiato  ».  E  sopra  questo  stesso  doloroso  ine- 
luttabile contrasto  di  libertà  e  licenza,  di  veri  e  falsi  liberali  si 
fonda  la  poesia  più  sinceramente  lirica  che  abbia  scritto  il  Giusti, 
la  quale  ha  titolo  non  opportuno  Dello  scrivere  per  le  gazzette 
e  mette  alla  gogna  la  vile  ciurmaglia  che  s'atteggia  a  liberale 
sfruttando  e  screditando  la  libertà:  «Bruti,  Licurghì,  Catoni  e 
Gracchi,  pullulati  d'ozio  nell'ozio  nati  »  mentre  la  libertà  è  «  ma- 
«  gnanimo  freno  e  desio  severo  di  quanti  in  petto  onorano  con 
«  lei  l'onesto  e  il  vero  ».  Da  questi  sentimenti  a  quelli  che  sono 
espressi  nel  capitolo  ad  A.  Vannucci,  L'elezione  {Scritti  vari,  409) 
è  logico  e  facile  il  passaggio. 

Quella  poesia,  chi  non  conoscesse  i  precedenti  dell'autore, 
potrebbe  sembrar  l'espressione  d'un  perfetto  retrivo  o  di  tale 
che,  deluso  della  libertà  al  primo  esperimento,  non  avrebbe  diffi- 
coltà a  rinnegarla.  È  appunto  la  figura  che  fa  l'Alfieri,  il  quale 
spese  l'attività  di  poeta  e  pensatore  negli  ultimi  anni  a  riman- 
giarsi, ricreduto  in  gran  parte,  gli  entusiasmi  libertari  della  età 
inesperta. 

Del  resto,  riscontri  men  notevoli,  che  se  non  si  possono  aver 
in  conto  di  fonti  certe,  appaiono  bensì  echi  più  o  meno  fedeli 
e  risonanze  di  frasi,  pensieri,  parole  dell'Alfieri,  sono  non  sol- 
tanto nelle  poesie,  ma  anche  nelle  lettere  del  Giusti  assai  fre- 
quenti, tanto  da  lasciar  credere  che  le  opere  dell'Astigiano,  spe- 
cialmente le  satire  e  gli  epigrammi,  gli  fossero  molto  famigliari; 
sebbene  di  rado  ne'  suoi  scritti  gli  abbia  espressamente  citati. 
Due  volte,  nella  prefazione  contro  gli  editori  di  Lugano  e  nel- 
l'Epistolario (I,  351)  fa  proprio  un  motto  dell'Alfieri:  «  Rubino 


IMITAZIONI   E    BEMINISCENZE   NEL    GIUSTI 


129 


«  i  ladri,  è  il  lor  mestiere,  il  mio  |  è  di  schernirli  »  ch'è  del 
Misogallo  (son.  XI)  e  un'altra  volta  nel  discorso  sul  Parini,  fon- 
dandosi quasi  certamente  sopra  il  son.  «  lento,  steril,  penoso,  pro- 
«  sciugante  »  (III,  129),  cita  l'opinione  dell'Alfieri  intorno  al  limar 
i  propri  versi,  per  contraddirlo. 

Ma  le  molte  consonanze  particolari  fra  i  due  poeti  —  alcune 
delle  quali  vogliamo  ben  credere  casuali  —  accusano  lettura 
frequente  e  sufficiente  memoria  di  più  cose  dell'Alfieri  da  parte 
del  Giusti. 

Ecco  una  lista  dei  principali  riscontri: 


Eroi,  eroi, 
che  fate  voi? 
Ponziamo  il  poi. 
{Il  poeta  e  gli  eroi  da  poltrona). 


Pedanti,  pedanti, 
che  fate  voi? 
Ansanti,  sudanti, 
stiam  dietro  a  voi  (1). 

{Op.,  IV,  ep.  xx). 


Al  re  dei  re  che  schiavi  ci  conserva  Mandra  è  di  talpe,  di  conigli  e  cervi 
mantenga  Dio  lo  stomaco  e  gli  artigli;  da  poche  volpi  affastellata  in  branco, 
di  coronate  volpi  e  di  conigli  (sat.  xiii). 

minor  caterva 
intorno  a  lui  s'agglomera. 

{U  incoronazione). 


La  nomea  di  poeta  e  letterato 
ti  reca,  amico  mio,  di  gran  bei  frutti, 
(son.  La  nomea  ecc.). 


Balbetta  di  morire, 
e  di  che?  di  lattime? 

{Il  giovinetto,  che  prima  ebbe  ti- 
tolo: Il  bimbo  nonno). 


L'arte  ch'io  scelsi  è  un  bel  mestier, 

[perdio. 
...  Stanca  in  tal  guisa,  e  sazia 
tace  anzi  tempo  ogni  laudevol  brama 
in  chi  scrivendo  merca  itala  fama. 
{Op.,  m,  78). 

Vecchi  bambini,  carchi  di  lattime. 
{Op.,  IV,  144). 


(1)  Fu  avvertito  già  dal  Martini  e  parecchi  altri. 
Giornale  storico,  LXIV,  fase.  190-191. 


130 


G.    SURKA 


Noi  toseremo  di  seconda  mano, 
babbo,  in  tuo  nome. 

{L'incoronazione). 


Ottocento  San  Marini 
comporranno  i  governini 
dell'Italia  in  pillole. 

[La  repubblica). 

Nella  penisola 
tira  a  sboccare 
continuo  vomito 
d'alpe  e  di  mare. 

Piovono  e  comprano 
gli  ossequi  stessi 
banditi  anonimi, 
serve  e  re  smessi 

a  cui  confondersi 
col  canagliume 
non  è  che  un  cambio 
di  sudiciume. 

(17  hallo). 

Proibì  di  ristacciare 
i  puntigli  del  collare, 
pena  la  scomunica; 
proibì  di  belar  inni 
con  quei  soliti  tintinni, 
pena  la  scomunica; 
proibì  che  fosse  in  chiesa 
più  l'entrata  che  la  spesa, 
pena  la  scomunica. 

{Il  papato  di  prete  Pero). 


Cisalpine  Spartine 
di  sei  mesi  bambine, 
già  il  ben  di  tutti  il  picciol  cor  v'in- 
e  con  brevi  manine  [fiamma 

rubate  già  da  far  invidia  a  mamma. 
{Op.,  IV,  24). 

Kepubbliche  funghine 

(IV,  25). 

L'una  fogna  nell'altra  si  travasa 

(IV,  201). 


I  «  re  smessi  »  han  riscontro  coi 
«  vice-tiranni  smessi  »  ossia  ministri 
licenziati,  in  Della  tirannide,  lib.  I 
{Op.,  X,  139). 


Esempio  di  simile  ripetizione  è  nel- 
l'epigr.  xLiv  {Op.,  IV,  196),  dove  la 
frase  «  la  repubblica  leva  »  è  detta 
quattro  volte  in  quattro  terzetti. 
Altra  ripetizione,  che  ha  maggior  ana- 
logia con  quella  del  Giusti,  è  nella 
sat.  XI  :  «  In  nome  della  santa  uma- 
«  nità  I  chi  vuol  che  i  rei  s'impicchino 
«  s'uccida  I  e  in  nome  della  santa  li- 
«  berta  |  chi  non  crede  in  Volterò  e 
«  in  noi  s'uccida  »  (1). 


(1)  Questi  versi  citò  il  Guastalla  a  riscontro  di  quelli  del  Délenda  Car- 
thago  :  «  Vogliam  che  ogni  figlio  di  Adamo  |  Conti  per  uomo  e  non  vogliam 
«  Tedeschi  »,  ecc. 


IMITAZIONI    E   REMINISCENZE    NEL    GIUSTI  131 

Per  me,  tanto  ho  deciso  Al  mio  nascer  ci  fui,  ma  mezzo  appena, 

di  non  voler  veder  la  morte  in  viso  :  al  mio  morir  io  spero 

perciò,  se  piace  a  Dio,  che  assisterovvi  intero 

quando  arriverà  lei  me  n'andrò  io.  e  forse  doppio,  se  avrò  polso  e  lena. 

{Epigr.).  (IV,  21)  (1). 

E  c'è  un  sonetto  famoso  del  Giusti  L' arrutfapopoli  che  ha 
molto  dell'Alfieri  del  Misogallo  nel  tono,  ed  è  chiazzato  d'al- 
fierismo  un  po'  da  per  tutto:  nella  costipazione  dei  molti  ag- 
gettivi in  uno  stesso  verso  :  «  invidioso  oltrecotante  inetto  »,  nel 
contrasto  delle  immagini  del  verso  «  libera  larva  di  plebeo  ti- 
«  ranno  »,  nel  conio  dei  vocaboli  e  del  costrutto  :  «  tutto  sfa, 
«  nulla  fa,  tutto  disprezza  »  e  particolarmente  nel  concetto  della 

chiusa  : 

fecondità  del  mulo  a  cui  natura 
die  forte  il  calcio  e  più  l'ostinatezza 
ed  i  coglioni  per  coglionatura. 

L'Alfieri,  come  anche  un  poco  il  Baretti,  ha  avuto  una  singo- 
lare predilezione  per  certe  parole  che  si  riferiscono  alla  virilità, 
dirò  cosi,  secura  di  sé  ed  a  quell'altra  che  brilla  per  la  sua  as- 
senza. Contrapporre  la  propria  viripotenza  gagliarda  all'impo- 
tenza altrui  gli  piacque  almeno  quanto  il  contrapporre  la  sua 
repubblica  a  quella  dei  Francesi,  quindi  spesso  nelle  sue  frec- 
ciate satiriche  usò  il  vocabolo  «  eunuco  »  e  scherni  l'eunucherie. 
Ecco  qualche  saggio: 

Semi-Claudi  imperanti 
han  gl'Itali  sì  infranti 
che  mezzo  eunuchi  siam,  mezzo  impotenti. 
(IV,  epigr.  xiLx). 


(1)  Parrà  a  qualche  lettore  un  po'  strano  mettere  a  riscontro  due  epigrammi 
che  tendono  a  significar  un  pensiero  opposto;  ma  qui  potrebbe  essere,  più 
probabilmente  che  altrove  fra  pensieri  analogia,  una  derivazione  altìeriana. 
Bicordo  un  avvertimento  del  Foscolo  {In  morte  di  G.  Trenti,  versi  di  C.  Arici, 
art.  critico):  «  Piaccia  al  lettore  di  riflettere  che  il  presentare  al  rovescio  le 
«  concezioni  d'un  altro  scrittore,  è  un  facile  artifizio  per  dar  aspetto  di  no- 
«  vita  al  proseguimento  d'una  stessa  idea  ». 


132  G.    SUREA 

Forse  non  dàn  gl'italici  Narseti 
Giusto  il  peso  dei  gallici  Taleti  ecc. 
(IV,  P.  181) 

(e  in  nota  «  schiaritola  »  l'Alfieri  dice  Narsete  più  glorioso  di 
Bonaparte) 

A  diverbio  un  eunuco  era  venuto 
con  un  poeta:  questi  in  due  parole 
fé'  rimanerlo  scorbacchiato  e  muto  : 
un  paio  più  di  quel  che  aver  l'uom  suole 
all'arte  mia  fa  d'uopo  e  tu  no  '1  sai, 
perchè  appunto  se'  tu  ciò  che  non  hai. 
(IV,  epigr.  Lxi). 

Ora  il  Giusti  ha  forse  anche  troppo  spesso  sentito  il  bisogno 
di  vituperare  l'impotenza  fisica,  intellettuale  e  morale,  e  non  si 
può  non  sospettare  che  l'esempio  dell'Alfieri  ve  l'abbia  incorag- 
giato. Il  noto  epigramma 

chi  fé'  calare  i  barbari  tra  noi? 
sempre  gli  eunuchi  da  Narsete  in  poi, 

ch'è  riecheggiato  nella  chiusa  d'un  son.  {Scrìtti  va7%  445)  «  viva 
«  gli  eunuchi  da  Narsete  a  voi  »  (1),  è  molto  probabilmente  una 
risonanza  dell'epigramma  alfieriano.  Ma  parecchi  altri  luoghi 
palesano  l'influsso  d'Alfieri: 

Tu  del  cervello  eunuco 

all'anime  bennate 

palesi  la  virtù  colle  pedate 

(Contro  un  letterato  pettegolo  e  copista). 

Non  sarò  visto  volontario  eunuco 
recidermi  il  cervel  perch'io  disperi 
la  firma  d'un  real  castrapensieri. 
(A  G.  Tommasi). 


(1)  n  son.  s'intitola:  A  tutti  coloro  che  se  lo  meritano;  ma  mi  par,  più 
che  a  ogni  altro,  allusivo  al  granduca. 


IMITAZIONI    E    REMINISCENZE    NEL    GIUSTI  13S 

Perchè  volerci  eunuchi 
anche  nel  cataletto? 

{La  terra  dei  morti). 

eunuco  insatirito... 
e  non  ha  cuor  né  senno 
di  dir  mi  sento  menno. 
{H  giovinetto). 

Il  Giusti  diceva,  assicura  il  Prassi  suo  biografo  (p.  31),  di 
aver  imparato  i  generosi  rabbuffi  da  Salvator  Rosa,  ma  sarebbe 
stato  più  conforme  al  vero  il  dire  che  rabbuffi  e  altro  aveva 
imparato  dall'Alfieri  prima  forse  di  conoscere  il  Rosa.  Negli 
Scritti  vari  (pp.  5-16)  è  un  cenno  intorno  alla  vita  di  Celestino 
Chili  nonno  materno  del  poeta.  È  una  scrittura  ben  fatta,  senza 
frasi  né  proverbi,  con  dignità  di  stile  eguale  e  sostenuto  secondo 
la  miglior  tradizione  letteraria,  con  echi  tra  del  Guerrazzi  e  del 
Colletta.  La  figura  del  Chili  che  fu  di  meriti  forse  più  modesti 
che  non  paresse  al  nipote,  sorge  dallo  scritto  con  un  certo  ri- 
lievo pieno  di  nobiltà  alfieriana,  anzi  ricorda  per  più  d'un  tratto 
l'Alfieri.  «  Togli  l'austerità  e  il  colore  dei  capelli,  il  volto,  la 
«  persona  rammentavano  l'Alfieri  col  quale  ebbe  dimestichezza  ». 
Anche  lui  fu  terribile  nell'ira.  Nel  suo  ritiro,  da  vecchio  «  par- 
«  lava  delle  cose  che  furono,  come  di  sogni  ingannevoli,  e  di 
«  gioconda  ironia  rallegi'ava  i  racconti  ridendosi  de'  suoi  av\^er- 
«  sari  come  di  buffoni...  Di  Napoleone  non  voleva  udir  parole,  e 
«  udendole  dava  in  esclamazioni  d'ira  e  di  spregio  ».  Il  nonno 
mori  nel  '25,  quando  il  nepote  contava  16  anni.  Nel  '37,  scri- 
vendone i  cenni  sulla  vita,  non  potè  non  compiacersi  di  quello 
che  forse  nell'avo  gli  parve  gran  titolo  di  gloria,  la  dimestichezza 
coir  Alfieri;  un  certo  gusto  per  idee  e  frasi  alfieriane  dovette 
provenirgli,  se  non  durante  la  scapataggine  dell'adolescenza, 
certo  più  tardi,  quando  senti  la  vocazione  e  l'ambizione  lette- 
raria, da  chi  sa  quali  ricordi  famigliari  intorno  a  la  vita  e  gli 
scritti  dell'Alfieri.  Quel  ritratto  alfiereggiante,  la  qualità  del 
bisavolo  che  fu  «  trafficante  di  seta  »  (p.  5)  proprio  come  del 


134  G.    StJBBA 

Gandellini  aveva  scritto  l'Alfieri,  son  piccoli  indizi;  una  certa 
analogia  di  temperamento  inclinato  alla  satira,  all'irrisione  con- 
fessionale, alla  politica  di  opposizione  può  bene,  insieme  con 
quelli,  far  pensare  che  il  Giusti,  uomo  di  pochi  libri,  cercasse 
men  di  rado  che  di  altri  autori  le  opere  dell'Alfieri.  Cosi  credo 
di  potermi  spiegare  la  maggior  parte  dei  riscontri  verbali  o  di 
pensiero  che  ho  notati  di  lui  coli' Astigiano;  e  mi  sembra  di  do- 
vermeli senz'altro  spiegar  cosi,  quando  studiando  i  due  poeti, 
m'abbatto  in  altri  riscontri  fondamentali  di  idee,  di  atteggia- 
menti, di  gusti  e  di  fissazioni.  Senza  questa,  or  conscia  ora,  e 
forse  più  spesso,  inconscia  influenza  dell'Alfieri  sul  Nostro,  mi 
parrebbe  strana  la  casuale  somiglianza,  per  esempio,  di  questo 
passo  dell'epistolario  con  un  ben  noto  vanto  alfieriano  :  «  Di  tre 
«  cose  ringrazio  con  tutta  l'effusione  del  cuore  l'altissimo  dispen- 
«  satore  dei  beni  e  dei  mali,  cioè  d'esser  nato  in  modesta  for- 
«  tuna,  d'aver  sentito  il  bisogno  di  coltivar  l'ingegno,  d'averlo 
«  preservato  da  ogni  ciarlataneria  »  (I,  412).  L'Alfieri  nelle  Rime 
(IV,  175)  ha  il  son.: 

Pregio  mi  fo  di  quattro  cose,  e  grado 
ne  so  non  lieve  al  donator  destino, 

cioè  ch'egli  sia  non  di  vii  mandria,  non  nato  plebeo,  non  pari- 
gino, e  che  è  poeta;  e  cosi  nel  principio  della  Vita  individuò 
tre  qualità  dei  parenti:  nobiltà,  agiatezza,  onestà,  ascrivendosi 
a  gran  ventura  l'esser  nato  cosi  e  non  altrimenti.  Né  può  sem- 
brar altro  che  una  risonanza  alfieriana  quel  principio  di  un  suo 
ritratto  in  versi,  che  il  Giusti  non  compiè  e  si  trova  in  una 
lettera  al  Marzucchi  del  1836:  «  or  lieto  or  mesto  »  (1). 

La  stessa  paesanità,  come  sentimento  e  come  espressione  let- 
teraria, ora  esaltata  ora  vituperata  dai  critici  del  Giusti,  è  in 


(1)  Va  notata,  a  questo  proposito,  una  curiosa  appropriazione  di  pensieri 
ed  immagini  leopardiane  che  si  trova  nella  lettera  a  M.  Trenta,  degli  ultimi 
del  '49  {EiJ.,  111,367-69).  Il  Giusti  parla  della  morte:  «  Viene  come  l'amore, 
«  con  la  differenza  che  l'amore  ti  mette  in  mille  gineprai  e  la  morte  ti  leva 


IMITAZIONI    E   REMINISCENZE    NEL    GIUSTI  135 

fondo  un  ruscelletto  orgoglioso  non  ignobil  figlio  del  prepotente 
nazionalismo  alfieriano.  Il  ruscelletto  s'è  impaludato  nello  stagno 
toscano  prima  del  Risorgimento,  conservando  un  carattere  spic- 
catamente provinciale,  mentre  il  nazionalismo,  che  l'ha  creato, 
è  corso  trionfalmente  per  la  sua  strada,  diventando  fonte  co- 
mune e  general  patrimonio  di  letterati  e  statisti;  ma  forse,  senza 
l'esagerato  disprezzo  di  ogni  cosa  straniera:  costumi,  arti,  let- 
terature (la  «  mal  succhiata  oltra  montaneria  »,  sat.  IX,  I),  che 
informa  la  vita  e  l'opera  dell'Alfieri,  non  sarebbe  stata  l'esalta- 
zione del  genio  e  del  gusto  paesani,  che  è  come  un  ritornello 
in  molte  lettere  e  in  parecchi  Scherzi  del  Giusti.  Ecco  l'espres- 
sione del  sentimento  alfieriano: 

D'ogni  gallume  risanate  e  pure 

già  già  l'idee  riporto  appien  d'oltr'Alpe, 

viste  dapprima  tai  caricature... 

(sat.  IX,  e.  I). 

Ogni  esotico  innesto  a  me  dispiace. 

(sat.  IX,  e.  II). 

Per  l'Astigiano   non   meritano   nome  di  lingue  e  letterature 
se  non  le  classiche  e  l'italiana  :  «  l'Attica,  il  Lazio,  indi  l'Etruria 

«  diero Tardi  poi  sotto  ammanto  ispido  fero  |  Sorser  l'altre 

«  europee  genti  novelle  »;  e  pretesero  far  poesia  :  «  Ciò  disser 
«  carmi  e  chi  '1  credea  n'è  degno  ».  Ma  l'Alfieri  non  cadrà  in 
quell'errore,  anzi  si  guarderà  perfin  dal  conoscere  la  produzione 
straniera  (III,  130): 

Di  tai  loro  barbarici  bei  detti 
vendicator,  d'ira  laudevol  pregno, 
giungo  securo  dall'averli  io  letti. 


«  d'impiccio  una  volta  per  sempre.  In  ogni  mode,  o  bella  o  brutta  che  sia ... 
«  avrei  potuto  addormentarmi  per  sempre  senza  un'  ombra  di  dolore;  anzi 
«  come  uno  che  ha  portato  un  grave  fascio  per  lungo  tratto  di  via  e  che 
«  alla  fine  non  volendo  stancarsi  oltre  il  bisogno,  lo  pone  in  terra  » ,  ecc.  Cfr. 
del  Leopardi  Amore  e  morte  e  Canto  notturno  d'un  pastore,  ecc. 


136  G.    SURRA 

Cosi  appunto  il  Giusti,  senz'aver  letto  quasi  niente  delle  let- 
terature straniere,  senza  conoscere  i  romanzi  della  Sand  — 
«  patto  che  ho  meco  stesso  di  non  leggere  romanzi  oltramon- 
«tani  »  {Ep.^  II,  115)  —  disprezza  la  Sand  e  Victor  Hugo,  di- 
sprezza il  forestierume,  anche  lui  «  securo  »  dall'averlo  praticato. 
E  non  solo  un  buon  Toscano  dev'essere  persuaso  dell'eccellenza 
dell'ingegno  italiano  e  de'  suoi  prodotti,  ma  deve  guardarsi  dalle 
mode  straniere  perfin  nella  cucina,  per  patriottismo: 

Chi  del  natio  terreno  i  doni  sprezza 
e  il  mento  in  forestieri  unti  s'imbroda, 
la  cara  patria  a  non  curar  per  moda 
talor  s'avvezza. 

Filtra  col  sugo  di  straniere  salse 
in  noi  di  voci  pellegrina  lue, 
brama  ci  fa  d'oltramontano  bue 
l'anime  false. 

La  chiocciola^  La  terra  dei  tnorti^  La  Rassegnazione  con- 
tengono le  variazioni  di  questo  motivo  che  basterà  aver  accennato. 

Il  Giusti  non  ha  mostrato  maggior  affezione  mai  di  quella  che 
professò  costante  al  principio  dell'impersonalità  della  satira. 
Troppo  spesso  egli  ne  parlò  e  ne  han  parlato  i  suoi  biografi, 
per  citar  qui  le  sue  varie  sentenze  a  quel  proposito;  ma  non  di 
rado  è  venuto  meno,  voglia  o  non  voglia,  al  suo  principio. 

L'Alfieri  ha  fatto  lo  stesso,  salvo  che  intendesse  escludere  gli 
epigrammi  e  il  Misogallo  dal  numero  dei  componimenti  satirici, 
riserbandosi  quella  libertà  di  mordere  negli  epigrammi  indivi- 
duate 0  facilmente  individuabili  persone,  che  si  negava,  per  os- 
sequio della  corretta  tradizione  letteraria,  nelle  satire  vere  e 
proprie  : 

Di  tutti  il  cor,  di  niun  la  faccia  io  veggio. 

Cosi  nel  prologo  ;  e,  con  più  enfasi,  sentenziò  altrove  :  «  Le 
«  satire  non  a  mordere  i  privati  vizi  e  laidezze  e  molto  meno 
«  a  nominarne  gli  attori...  ma  il  lor  veleno  tutto  e  i  loro  fui- 


IMITAZIONI  E  RBMINI8CENZE  NEL  GIUSTI  137 

«  mini  rivolgeranno  unicamente  a  smascherare  e  trafiggere  il 
«  pubblico  vizio  »  {Del  prìncipe  e  delle  lettere^  X,  III,  98). 

È  un'idea  del  Oiusti  spesso  ripetuta  —  basta  confrontar  l'epi- 
stolario e  le  Memorie  (1)  —  che  il  carnefice  o  il  tiranno  sia  da 
compianger  più  delle  vittime. 

Chiunque  abbia  dimestichezza  col  pensiero  alfieriano,  vedrà 
l'idea  del  Giusti  presentarsi  «con  simile  atto  e  con  simile  faccia», 
cosi  da  sembrar  una  cosa  sola  con  certe  idee  dell'Alfieri.  Ora 
quell'idea  si  può  ricavare  naturalmente  da  quel  che  l'Alfieri  ra- 
giona in  Bella  tirannide  sulla  paura,  sulla  viltà  e  sul  primo 
ministro  {Op.,  X). 

Cosi  l'atteggiamento  politico  del  Giusti,  che  lo  fece  prendere 
in  tasca  da  conservatori  e  democratici,  ricorda  nel  fatto  e  per 
certe  espressioni  la  palinodia  recitata  in  prosa  ed  in  versi  dal- 
l'Alfieri. Molti  luoghi  del  Misogallo  potrebbero  per  esempio  es- 
sere raffrontati  con  queste  parole  (2)  :  «  Finito  il  tempo  di  par- 
«  lare  liberamente  agli  oppressori,  cominciai  a  dirle  chiare  agli 
«  schiavi  che  s'ammantano  di  libertà  »  —  «  Per  me,  adulare  i 
«  galloni  0  adulare  i  cenci  è  la  stessa  minestra  ». 

Perfino  quella  vergogna  della  sua  ignoranza  negli  anni  maturi 
e  l'ardore  giovanile  per  gli  studi  da  cui  si  sente  invaso  negli 
ultimi  giorni,  fan  somigliare  il  Giusti  all'Alfieri,  giovane  dissi- 
pato e  vecchio  studiosissimo  (III,  151): 

tardi  or  me  punge  del  saper  la  brama, 
me  cui  finora  non  pungea  rossore 
del  non  saper. 

Persino  la  causa  dello  scrivere  :  «  la  noia  e  il  tedio  d'ogni 
«  cosa  »  (3),  e  altro,  misto  a  necessità  di  occuparsi,  come  dice 


• 

(1)  Epistolario,  III,  145  e  Meìnorìe  inedite,  a  cura  del  Martini;  Milano, 
Treves,  1890,  p.  4  dell'Introduzione. 

(2)  Le  cito  dalla  Vita  del  Biagi,  per  far  più  presto;  pp.  121  e  137. 

(3)  Eisposta  a  lettera  del  Calsabigi,  Op.,  VII,  190. 


138  G.    SURRA 

l'Alfieri,  e  la  ragione  dell'autobiografia  (perchè  la  sua  vita  venga 
tenuta  «  alquanto  più  vera  »  che  se  fosse  scritta  da  altri)  e  la 
diligente  stesura  dei  pareri  sulle  tragedie,  i  quali  sono,  come  la 
Vita^  un  voler  mettere  le  mani  avanti  ;  trovano  dei  riflessi  certa- 
mente inconsci,  ma  non  tutti  casuali,  in  dichiarazioni  e  intenzioni 
del  Griusti.  Il  quale  scrisse  per  sé,  «  scemandosi  la  noia  di  questa 
«  vita  grulla  e  inconcludente  »  {A  G.  Tommasi)^  e  nel  sospetto 
della  morte  prossima  distese  la  lettera  autobiografica  al  Van- 
nucci  «  spronato  dal  desiderio  che  nessuno  mentisse  sul  conto 
«  suo  »,  e  disegnò  scrivere  una  prefazione  a'  suoi  versi,  che  poi 
rimase  tronca,  dove  figurano  appunto  in  poche  parole  i  giudizi 
del  poeta  stesso  su  ogni  suo  componimento  {Scritti  vari^  pa- 
gine 51-60). 

Con  che  non  si  vuol  concludere  che  il  poeta  di  Monsummano 
rassomigliasse  troppo  più  che  non  si  pensi  al  tragico  d'Asti,  ma 
soltanto  mettere  in  luce  —  il  che  non  fu  fatto  ancora  —  che 
di  quanti  scrittori  hanno  potuto  suggerire  od  ispirare  qualche 
cosa  al  Giusti,  l'Alfieri,  sia  perchè  visse  lungamente  a  Firenze 
ed  occupò  dei  fatti  suoi  nonché  dell'opera  sua  letteraria  molta 
gente  specialmente  in  Tospana,  sia  perchè  più  d'ogni  altro  scrit- 
tore esercitò  un'azione  efficace  anche  dopo  la  sua  morte  in  prò' 
della  lingua  viva  e  della  dignità  nazionale,  è  stato  l'autore  più 
indicato  dalle  circostanze  per  essere  ad  un  poeta  toscano,  sati- 
rico, amante  del  popolo  e  di  limitata  cultura,  esemplare  imitabile 
talvolta  0,  altrimenti,  suggeritore  opportuno  d'idee,  di  gusti  e 
cose  simili. 

Del  resto,  quella  medesima  differenza  e  proporzione  ch'è  fra 
i  «  pareri  »  dell'uno  sulle  tragedie  e  i  giudizi  propri  dell'altro 
sugli  Scherzi^  fra  il  nazionalismo  e  la  paesanità,  è  fra  l'ingegno 
e  il  carattere  dei  due  poeti.  L'Alfieri  lesse  le  vite  di  Plutarco 
e  smaniava  di  non  poter  imitare  quegli  eroi  per  esser  nato  in 
Piemonte;  il  Giusti  si  contentò  di  leggere  il  «  Plutarco  della 
«  gioventù  »,  ov'era  descritta  la  vita  di  pittori,  poeti  e  soldati, 
libro  di  innegabile  utilità  morale,  ma  in  diverso  senso  dal  Più- 


IMITAZIONI    E    REMINISCENZE    NEL    GIUSTI  139 

tarco  greco.  Forse,  tutto  sommato,  è  la  stessa  differenza  d'indole, 
di  levatura,  d'efficacia  fra  i  due  poeti. 

E  qui,  riassumendo,  voglio  concedere  a  me  stesso  l'illusione 
di  aver  potuto  dimostrare,  fino  a  un  certo  segno,  che  le  deri- 
vazioni cosi  nelle  forme  come  nello  spirito  provenute  al  Giusti 
da  varie  parti,  sono  assai  più  numerose  di  quanto  generalmente 
non  si  creda.  Ho  negato  la  legittimità  di  qualche  raffronto  pro- 
posto, ho  creduto  di  poter  notare  come  autentica  qualche  fonte 
nuova,  ho  indicato  o  più  copiosi  o  più  estesi  riscontri  del  Mon- 
summanese  con  altri  poeti  già  da  altri  con  lui  prima  raccostati, 
ho  aggiunto  alla  lista  dei  debiti  giustiani  molto  d'Alfieri  e  qualcosa 
del  Montaigne...  Tutto  questo  parrà  più  che  soverchio  a  quanti 
0  sinceramente  o  per  abito  riflesso  denigrano  la  ricerca  e  il  ra- 
gionamento delle  fonti,  e  non  sembrerà  forse  ancor  sufficiente 
agli  amatori  di  micrologie  letterarie.  Ma  io  non  ho  inteso  di 
contentar  nessuno  scrivendo,  persuaso  come  sono  da  una  parte, 
che  indagini  siffatte  non  possono  pretendere  che  un  risultato  ap- 
prossimativo (il  che  del  resto,  a  voler  essere  schietti,  si  deve 
pur  confessare  che  avvenga  di  più  altre  degne  o  indegne  fatiche 
critiche),  e  dall'altra,  che  una  compiuta  rassegna  delle  fonti  e 
delle  consonanze  e  degl'influssi  è  un  assurdo.  Pertanto,  non  ho 
difficoltà,  pur  col  presente  studio  sulla  coscienza,  di  riconoscere 
la  poca  0  nessuna  utilità  positiva  che  si  ricava  dalla  ricerca 
delle  fonti  per  puro  amor  delle  fonti;  e  son  pronto  a  ridere 
delle  esagerazioni  altrui,  cosi  di  quelli  che  invece  di  fonti  pren- 
dono delle  cantonate,  come  di  parecchi  altri  che  dopo  aver  su- 
dato in  ilio  tempore  più  camicie  in  quella  medesima  o  caccia  o 
pesca  che  sia,  si  sbracciano  adesso  a  screditarla  più  del  bisogno. 
È  vezzo  antico  il  fondarsi  sulla  bigotteria  e  goffaggine  di  qualche 
credente  per  deridere  la  fede  e  la  religione  ;  così  il  mal  esempio 
di  qualche  fanatico  «  fontaniere  »  può  autorizzare  il  vituperio  di 
questa  funzione  critica  non  solo  utile  ma  necessaria,  ch'è  la  ri- 
cerca delle  fonti  e  dei  riscontri.  Ma  chi,  per  fastidio  di  certi 
strombazzamenti,  come  fu  per  esempio  la  clamorosa  proclama- 


140  G.    SURRA 

zione  dei  «  plagi  »  dannunziani,  o  per  la  pietà  che  ispirano  certi 
pedanteschi  sudori  sugli  antecedenti  classici  e  volgari  di  un 
oscurissimo  scrittore  qualunque,  rinunci  ai  lumi  che  provengono 
allo  studioso  dalle  indagini  sulle  influenze  degli  autori  prece- 
denti e  contemporanei  e  sulle  relazioni  dell'opera  moderna  colla 
passata  —  che  vuol  dire  fonti  e  riscontri  —  è  troppo  chiaro  e 
naturale  che  sarà  condannato,  giudicando  di  fatti  letterari,  a 
brancolar  nel  buio  e  a  prender  delle  cantonate  peggiori  di  quelle 
deplorate  nei  fontanieri. 

Del  resto,  non  è  mia  intenzione  di  far  l'apologia  delle  fonti, 
che  non  ne  hanno  bisogno,  né  di  rivoltarmi  contro  chi  le  stra- 
pazza; giacché  in  fondo  si  tratta  di  mera  logomachia  senza  con- 
seguenze, non  essendovi  realmente  altro  divario  fra  estimatori 
e  denigratori  fuorché  di  metodo  o  misura  nella  ricerca  e  nella 
valutazione  (1). 

Stando  cosi  le  cose,  come  io  credo,  e  salvo  ad  ognuno  il  di- 
ritto d'incriminar  nel  presente  lavoro  quel  difetto  di  metodo  o  mi- 
sura che  io  deploro  cogli  altri,  senza  la  presunzione  di  credermi 
più  d'ogni  altro  immune  di  colpa,  resta  dunque  ch'io  mi  possa 
lusingare  d'aver  contribuito  alquanto,  con  la  discussione  delle 
fonti  prima  indicate  e  la  notazione  di  più  altre  nuove,  a  collo- 
care l'arte  del  Giusti  in  una  luce  più  conveniente  per  poterla 
giudicare.  Tutti  coloro  che  hanno  lodato  il  Giusti  come  poeta 
originale,  hanno  purtroppo  fondato  la  ragione  della  lode  sull'opi- 
nione che  egli  non  abbia  preso  niente  o  quasi  niente  dagli  altri 
e  che  nessun  altro  gli  somigli.  Anche  quelli  i  quali  pur  si  la- 
sciano andare  a  concedere  che  il  Giusti  si  sia  ispirato  o  giovato 
qualche  volta  dell'opera  altrui,  lo  fanno  a  denti  stretti,  paven- 
tando sopra  tutto  la  conseguenza  che  ne  dovrebbero  tirare,  cioè 
la  minore  originalità  del  poeta.  Cosi  il  Fioretto  e  il  Martini,  per 


(1)  Cfr.  Critica  del  Croce,  1908,  p.  468,  maggio  1909,  giugno  1912;  La 
cultura,  XXIX,  23,  per  un  art.  del  Bellezza;  La  cultura,  15  marzo  1912» 
la  Nuova  Antologia,  16  ottobre  1911,  per  un  art.  di  6.  Urbini  :  La  storia  tìel- 
Varte. 


IMITAZIONI    E    REMINISCENZE    NEL    GIUSTI  141 

tacere  di  altri,  sebbene  in  diversa  misura,  consentono  in  qualche 
modesta  derivazione,  e  poiché  non  danno  particolare  importanza 
a  quel  poco  ch'era  già  noto  come  probabile  fonte  giustiana,  e  il 
molto  che  vi  si  può  aggiungere  mostrano  d'ignorare,  concludono 
pur  sempre  che  il  Griusti  fu  poeta  essenzialmente  originale. 

E  ad  una  conclusione  non  molto  diversa  voglio  giungere  an- 
ch'io, ma  per  un'altra  via,  che  può  sembrare  ed  è  infatti  op- 
posta. Chi  voglia  proporzionare  il  merito  e  la  lode  d'uno  scrit- 
tore a  quel  tanto  di  nuovo  non  derivato  né  assimilato  da  altri 
che  vi  si  possa  scoprire,  oltre  che  troverà  di  rado  l'occasione 
di  lodare,  rischia  di  applicare  il  suo  «  meritometro  »  —  é  parola 
di  conio  giustiano  —  più  che  altro  all'ignoranza  dello  scrittore. 
Poiché  più  abbondano  i  mezzi  d'informazione  sulle  abitudini  di 
lavoro  e  sulla  cultura  d'un  autore,  e  più  vediamo  restringersi 
la  possibilità  di  trovare  quell'originalità  materiale  che  consiste- 
rebbe nel  cavar  tutta  l'arte  propria  dal  proprio  cervello.  È  per- 
tanto una  poetica  illusione  quella  che  si  possa  trovar  tale  ori- 
ginalità in  uno  scrittore  non  barbaro  né  primitivo,  ma  vissuto 
in  ambiente  saturo  di  cultura,  sebbene  rimasto  sempre  egli  stesso 
mediocremente  colto.  E  se  fosse  possibile,  non  sarebbe  fenomeno 
artistico,  ma  piuttosto  teratologico.  Bisogna  dunque  contentarsi 
a  priori^  anche  pel  Giusti,  di  un'originalità  relativa,  ossia  di 
quella  originalità  che,  secondo  il  Leopardi,  non  si  possiede  mai 
se  non  si  acquista  imitando;  e  ch'è  veramente  la  sola  che  esista, 
e  non  soltanto  nel  campo  dell'arte.  Chi  sa  meglio  imitare  e  com- 
binando ed  associando  rifoggiare  con  nuovo  aspetto  la  materia 
'già  prima  trattata,  é  dunque  più  originale.  Quello  che  sembra 
un  paradosso  nel  mondo  economico,  che  cioè  la  proprietà,  giusta 
il  motto  di  Proudhon,  sia  il  furto,  é  in  fondo  o  più  vero  o  men 
falso  nel  campo  dell'arte  ;  salvo  che  le  appropriazioni  più  fortu- 
nate dell'artista  sono  le  più  inconsapevoli,  mentre  tutte  le  altre 
non  artistiche  sono  effetto  di  calcolo  q  volontà. 

Ma,  comunque  sia  compiuta  l'appropriazione  nel  tristo  mondo 
reale,  la  ricchezza  conquistata  è  scala  a  raggiungere  la  reputa- 
zione e  il  decoro,  e  dopo  un  certo  tempo  nessuno  ricorda  o  al 


142  G.    SUBBA 

meno  non  rinfaccia  più  l'origine  della  fortuna  ;  laddove  nel  regno 
dell'arte  la  fama  conseguita  non  vieta  mai  l'indagine  e  il  pro- 
cesso della  critica  intorno  ai  mezzi  onde  fu  conseguita.  Grazie 
appunto  a  questa  poliziesca  funzione  della  critica,  sono  esclusi 
dalla  stima  del  pubblico  i  volgari  plagiari  e  sono  esaltati  come 
gloriosi  campioni  gli  abili  imitatori  e  assimilatori. 

La  fama  del  Giusti  non  avrebbe  quindi  da  temer  nulla  per 
questo  verso,  quantunque  resti  assodato  un  maggior  numero  di 
sue  derivazioni  e  debba  modificarsi  il  concetto  della  sua  origi- 
nalità. Se  la  novità  degli  autori,  come  pensava  il  Foscolo,  non 
consiste  nell'inventare  di  pianta,  ma  nel  riprodurre  opportuna- 
mente le  cose  inventate  con  nuove  e  varie  bellezze,  il  Giusti  è 
nuovo  ed  originale  la  parte  sua,  in  quanto  nella  continuità  sto- 
rica della  poesia  civile  —  lirica  o  satirica  che  sia  —  ha  pensato 
ed  espresso,  come  credo  che  direbbe  il  Croce,  un  ritmo  suo 
proprio  di  quei  temi  eterni  sempre  trattati  e  non  mai  esauriti 
che  sono  accennati  nei  titoli  stessi  dei  suoi  Scherzi.  Ma  non 
basterà  a  spiegare  quel  ritmo  o  quella  maniera,  se  preferiamo 
battezzarla  cosi,  chiamare  in  causa  il  Béranger  e  il  Menzini, 
quello  per  le  intonazioni,  questo  per  lo  stile,  come  opinò  il  Maz- 
zoni {Ottocento,  p.  631);  bisogna  bensì  far  i  conti  più  larghi  e 
più  esatti  e  considerare  come  e  quanto  vi  abbiano  contribuito 
anche  più  altri  autori  più  o  meno  a  lui  congeniali,  come  per 
esempio  il  Giraud  e  l'Alfieri. 

Se  il  Giusti  potè  credere  di  dover  l'allevatura  di  qualche  suo 
Scherzo  al  Béranger,  nulla  vieta  a  noi  senza  tema  di  sfrondar 
il  suo  alloro  —  posto  ch'ei  l'abbia  conservato  intatto  —  di  cre- 
dere ed  affermare  che  nascita  e  fisonomia  di  quelli  e  parecchi 
altri  egli  la  deve  ai  poeti  italiani  e  più  a  contemporanei  o  quasi 
che  agli  antichi.  Quello  studio  che  il  prof.  Procacci  voleva  fare  (1), 
che  in  parte  G.  Nerucci  compiè  nella  Rivista  europea  (1873), 
che,  cioè,  il  Giusti  non  sorse  come  un  fungo  solitario  ma  cir- 


(1)  Giornale  d^ erudizione,  V,  p.  142. 


IMITAZIONI    E    REMINISCENZE    NEL    GIUSTI  143 

condato  da  affini  e  congeneri  nell'ambiente  pistoiese-pesciatino, 
mostra  anche,  nel  campo  delle  ispirazioni  più  propriamente  po- 
polari, il  concetto  relativo  in  cui  dobbiamo  tenere  l'originalità 
del  Monsummanese  ;  ma  certo,  per  giudicar  complessivamente 
della  sua  poesia  in  cui  prevalgono  le  ispirazioni  letterarie,  giova 
schierare  nella  memoria  tutte  le  fonti  sicure  e  probabili  della 
sua  cultura  e  della  sua  arte. 

Disse  già  il  Ghiappelli  non  esservi  miglior  modo  «  per  misurar 
«  la  potenza  originale  di  uno  scrittore  che  sorprenderlo  per  cosi 
«  dire  nei  momenti  in  cui  imita...  o  soltanto  si  ricorda  »  (1).  In 
verità,  fra  i  molti  riscontri,  consonanti  o  pel  costrutto  verbale 
0  per  la  disposizione  del  pensiero,  che  furono  registrati  nel 
corso  di  questo  lavoro,  non  sarebbe  sempre  facile  stabilire  quale 
sia  propriamente  effetto  di  una  semplice  reminiscenza  verbale 
più  0  meno  consapevole  e  quale  d'un'imitazione  cosciente;  ma 
che  importa?  Non  sarà  meno  utile  servizio  alla  critica  l'averle 
squadernato  sotto  gli  occhi  un  discreto  numero  di  testimonianze, 
fra  sicure  ed  incerte,  su  cui  possa  fondar  il  suo  giudizio  e  mi- 
surare a  quella  stregua  il  merito  o  il  demerito  dello  scrittore 
in  concorrenza  dei  probabili  modelli  sfruttati.  Se  queste  ricerche 
e  considerazioni  intorno  alle  analogie  dell'opera  giustiana  col 
pensiero  e  la  forma  di  altri  scrittori,  non  approdassero  ad  altro, 
sai'ebbe  tuttavia,  mi  sembra,  un  risultato  abbastanza  importante. 
Ma  io  mi  lusingo  che  debba  interessare  agli  studiosi  piuttosto 
la  compiuta  intelligenza  d'uno  scrittore  che  la  possibilità  di  va- 
lutarlo comparativamente  a  quelli  da  cui  ha  tolto  qualche  cosa 
in  prestito.  Ora,  se  anche  non  sarà  dimostrata  con  tutta  sicu- 
rezza questa  o  quella  derivazione  giustiana,  le  molte  certe  e 
probabili  insieme  '  colle  altre  più  o  meno  discutibili  che  sono  via 
via  indicate  in  questo  studio,  ci  permettono  di  comprendere  assai 
meglio  di  prima  la  poesia  del  Giusti.  Come  per  effetto  di  rea- 
genti chimici  i  restauratori  di  quadri^fanno  riacquistare  nuova 


(1)  Pagine  di  critica  letteraria,  Firenze,  Lemonnier,  1911,  p.  220. 


144  G.    SURRA 

vita  a  figure  stinte,  rivelandone  i  tratti  offuscati  dal  tempo  e 
dall'incuria,  cosi  l'arte  del  Giusti,  sottoposta  a  questo  processo 
di  confronti  che  proiettano  qualche  luce  sulla  genesi  di  certe 
sue  idee  ed  espressioni,  s'illumina  di  un  aspetto  che  il  pregiu- 
dizio dell'originalità  ci  aveva  finora  più  o  meno  nascosto.  Gli 
autori,  siano  stranieri  o  nostrani,  siano  antichi  o  recenti,  che 
gli  han  prestato  un  motto,  una  rima,  un  pensiero,  lungi  dal  pre- 
mergli addosso  e  soffocarlo,  sembrano  anzi  intonarsi  con  lui 
smussando  le  peculiarità  del  loro  spirito  ;  mentre  il  Giusti  riceve 
dal  paragone  con  quelli  un  rilievo  che  non  pregiudica  alla  sua 
fama  e  lo  avvantaggia  nell'intelligenza  dell'opera  presso  il  lettore. 

Giacomo  Surra. 


V^HIET^ 


APPUNTI 


SPI 


LAUDARH  lACOPONICI 


Lo  studio  della  lauda  in  generale  e  di  lacopone  in  particolare, 
ha  sempre  avuto  per  gli  studiosi  un'attrattiva  speciale,  sia  per 
l'argomento  in  sé,  sia  per  l'abbondanza  del  materiale  sparso  per 
tutta  l'Italia.  Quindi  è  che  la  pubblicazione  di  notizie  di  antichi 
manoscritti  contenenti  laudi,  venne  man  mano  crescendo  cosi, 
che  il  numero  di  quelli  ormai  conosciuto  è  rilevante  assai.  Già 
il  Tenneroni  (1)  dava,  tre  anni  sono,  un  catalogo  di  essi  in  cui 
ne  registrò  ben  duecento,  ma  senza  riuscire  ad  esaurire  l'argo- 
mento (2).  È  una  massa  enorme  di  materiale  quale  nessun  altro, 
che  sarebbe  bene  ordinare  un  po'  più  sistematicamente,  perchè 


(1)  Tejtneroni,  Inizii  di  antiche  poesie  italiane  religiose  e  inorali,  Fi- 
renze, 1909. 

(2)  Riassumendo  quanto  è  a  mia  conoscenza,  desunto  da  ogni  fonte  che  mi 
è  stata  accessibile,  ho  potuto  avere  notizia  di  più  che  novecento  rass.  con- 
tenenti laudi.  In  questo  numero  sono  naturalmente  compresi  non  solo  molti 
laudani,  ma  anche  numerosi  codd.  miscellanei  con  una  o  poche  laudi.  Sono 
però  ben  lungi  dal  credere  di  aver  completata  la  raccolta,  tanto  più  che  non 
mi  riusci  di  avere  notizie  su  alcuni  fondi  di  alcune  Bibhoteche,  ove  ho  ra- 
gione di  credere  esistano  parecchi  codici  dello  stesso  genere.  Un  dovere  qui 
sento  :  di  ringraziare  coloro  che  mi  prestarono  cortese  aiuto  nelle  mie  ricerche. 
NominarU  tutti  mi  è  qui  impossibile,  tanti  ho  importunato  e  ne  ho  avuto 
prezioso  concorso  :  conservo  però  la  speranza  di  poter  presto  rendere  a  ciascuno 
il  merito  dovuto. 

Giornale  storico,  LXIV,  fase.  190-191.  '  10 


146  G.    GALLI 

possa  riuscire  con  facilità  di  vantaggio  agli  studiosi.  Ma  tra 
questi  codici  molti  sono  quelli  che  contengono  laudi  di  lacopone, 
e  mi  sembra  opportuno,  limitando  il  campo  alle  sole  poesie  del 
frate  todino,  porger  qui  un  tentativo  di  ordinamento  organico, 
per  quanto  è  possibile,  del  copioso  materiale  conosciuto. 

I  codici  contenenti  i  ritmi  di  lacopone  mi  pare  debbano  ri- 
dursi a  tre  grandi  categorie,  assai  diverse  fra  loro  per  impor- 
tanza e  per  contenuto.  Vi  è  dapprima  la  numerosa  serie  di 
quelli  in  cui  appar  evidente  l'intenzione  del  compilatore  o  rac- 
coglitore di  riunire  in  un  solo  corpo  le  poesie  del  laico  fran- 
cescano; di  dare  insomma  un  vero  laudario  iacoponico  più  o 
meno  completo.  Sono  di  varia  mole,  e  le  poesie  ivi  contenute 
vanno  da  qualche  decina,  come  nel  Riccar diano  1049  (1.  27), 
Senese  U.  v.  5  (1.  28),  Angelico  2216  (1.  28),  Palatino  170  (1.  25)  ecc., 
fino  a  più  di  due  centinaia  come  nello  Spithòver  (1.  264).  In 
generale  però  si  aggirano  tra  la  settantina,  e  qualche  decina 
oltre  il  centinaio  (1).  Questi  si  potrebbero  giustamente  chiamare 
Laudarti  iacoponìci  puramente  e  semplicemente,  poiché,  se 
non  tutte  le  laudi  in  essi  contenute,  specialmente  nei  più  co- 
piosi, come  lo  Spithòver,  i  Parigini  559  e  607,  il  Bergomense, 
il  Canoniciano  51,  il  Todino  194,  ecc.,  sono  di  lacopone,  pure 
l'intenzione  o  la  credenza  dei  compilatori  sembra  sia  stata  tale, 
almeno  per  la  maggior  parte  dei  ritmi. 

La  seconda  serie  ha  un  interesse  tutto  particolare,  ed  è  di 
non  poca  importanza.  Il  Ghigiano  L.  VII.  266;  i  Palatini,  13 
e  168;  il  Ghigiano  L.  IV.  120;  il  Riccardiano  1155,  alcuni  Mar- 
ciani  ed  altri,  ad  ogni  singola  lauda,  o  per  gruppi  più  o  meno 
grandi,  premettono  il  nome  dell'autore.  Sono  quindi  laudani  misti 


(1)  Eccoli  numero  approssimativo  delle  laudi  di  alcuni,  di  cui  ho  potuto 
avere  notizie  precise  :  Marciano  IX.  244,  1.  63  (nella  parte  prima  contenente 
il  laudario  iacoponico):  da  70-80;  Eiccardiano  1731,  2860,  2929,  2958;  Nazio- 
nale di  Firenze,  Conv.  sopp.,  C.  2.  957  :  da  80-90;  Ghigiano  L.  IV.  121  ;  Oli- 
veriana  di  Pesaro  (già  Perticari)  ;  Riccardiano  2841  :  Archivio  Capitolare  di 
S.  Pietro  in  Vaticano;  Vaticano-Urbinate  784  :  da  90-100;  Parigi  1037  ;  Vit- 
torio Emanuele  76  (Roma);  Università  di  Bologna  1787;  Mortara;  Marciano 
IX.  73;  Laurenziano  90  inf.,  27:  da  100-110  ;  Comunale  di  Perugia  519;  Giac- 
cherino  (molte  mancano  perchè  mutilo):  da  110-120;  Riccard.  2762,  2959; 
Laurenz.  90,  inf.,  28  e  29;  119,41;  Nazionale  di  Firenze,  Panciat.  23  ;  Mar- 
ciano IX.  182  ;  Parigi  607  :  più  di  130  ;  Parigi  559  ;  Bergamo  A.  7, 15  ;  Todi  194  ; 
Spithòver;  Canoniciano  51,  ecc. 


VARIETÀ  147 

di  opere  di  lacopone  e  di  altri  laudesi  (1),  ed  essi  serviranno 
assai  a  definire  l'intricata  questione  della  attribuzione  delle 
laudi.  Si  sa  che  non  tutte  le  laudi  che  passano  col  nome  del 
todino,  sono  sue;  nella  stessa  edizione  del  1490  il  Bonacorsi  cre- 
dette opportuno  di  avvertire  nella  prefazione  :  «  Non  si  dice 
«  però  per  questo  che  lui  non  facesse  maggior  numero  di  laude, 
«  né  anche  si  afferma  che  tutte  queste  siano  facte  da  lui,  per 
«  non  si  avere  di  ciò  altro  di  certo  »  (2).  E  difatti  una  delle  laudi 
di  quella  edizione,  la  41*  (0  Christo  onnipotente...  Una  sposa)^ 
in  alcuni,  anche  laudarli  iacoponici,  o  è  attribuita  al  Panziera,  o 
è  detto  non  essere  di  lacopone  ;  l'ultima  {Se  per  diletto  tu  cer*- 
cando  vai)  è  detta  dall'editore  stesso  «  extravagante  ».  Se  si  pren- 
dono poi  in  esame  le  altre  edizioni,  cominciando  dalla  Bresciana 
del  1495  e  dalle  sue  derivate,  le  poesie  su  cui  i  dubbi  sono  le- 
gittimi, anzi  di  cui  si  può  essere  certi  che  non  sono  di  lacopone, 
sono  numerose.  Questa  serie  di  codici  quindi  è  interessantissima  ; 
certo  non  si  dovrà  credere  ciecamente  ad  ogni  attribuzione; 
dovrà  vagliarsi  il  valore  di  ogni  manoscritto,  non  solo  per  la  sua 
età,  ma  anche  a  seconda  del  luogo  di  origine;  dovranno  con- 
frontarsi coi  nomi  dati  da  altri  laudari  di  altri  autori,  bisognerà 
insomma  procedere  con  somma  cautela  ;  ma  è  certo  che  potranno 
e  dovranno  essere  di  grande  utilità  per  risolvere  una  quistione 
cosi  intricata.  Tuttavia  non  si  possono  mescolare  impunemente 
coi  primi  :  quelli  ci  devono  dare  la  struttura  del  laudario  iaco- 
ponico;  questi  confermare  l'autenticità  delle  laudi  dubbie  e,  se 
ne  fosse  il  caso,  aiutare  anche  la  ricostruzione  del  testo. 


(1)  Ecco  un  indice  di  alcuni  di  questi  laudani  misti:  Firenze,  Nazionale; 
Pai.  13,  168;  Conv.  Sopp.  B.  3.  268,  C.  2.  1544;  Riccard.  1155,  2895;  Eoma, 
Casanat.  C.VI.  17;  Chigiana,  L.  VII.  266,  L.  Vm.  301  ;  Vaticana,  7714,  Barb. 
XLIV.  72  ;  Marciano  IX.  244  (nella  seconda  parte)  e  182  (pure  nella  seconda 
parte),  ecc.  Ad  essi  sembra  da  aggiungere  il  n.  119  indicato  dal  Tenneroni 
nell'opera  citata,  ma  che  non  mi  fu  dato  di  vedere,  e  certamente  il  ms.  se- 
gnato al  n.  3  del  Catalogo  {Manuscripts,  incunables  et  ìivres  rares,  n.  XII, 
1913)  della  Libreria  antiquaria  De-Marinis  di  Firenze.  Anche  i  codd.  Ha- 
milton 348,  Laurenz.-Ashburnh.  423,  Nazionale  di  Firenze  II.  VI.  63,  che  a 
un  laudario  iacoponico  uniscono  numerose  laudi  in  parte  almeno  col  nome  di 
altri  autori,  vanno  avvicinati  a  questo  gruppo.  * 

(2)  L.  cit.,  p.  4.  Questa  citazione,  come  tutte  le  altre  di  questa  edizione, 
sono  sempre  fatte  sulla  ristampa  di  Luigi  Ferri,  a  cura  della  Società  filolo- 
gica romatia  (Roma,  1910). 


148  G.    GALLI 

La  terza  serie  di  codici  è  molto  numerosa  e  si  presenta  assai 
varia.  Si  tratta  spesso  di  mss.  miscellanei  in  cui  si  trovano  inse- 
rite qua  e  là  poesie  di  lacopone,  qualche  volta  col  nome,  tal 
altra  adespote  (1),  oppure  di  laudarli  adespoti  più  o  meno  ricchi 
di  ritmi,  che  contengono  confuse  colle  altre,  qualche  rara  volta 
col  nome,  laudi  del  laico  francescano  (2).  Tra  essi  alcuni  si  ac- 


(1)  Mi  accontento  di  indicarne  alcuni,  non  riferiti  dal  Tenneroni  in  Op.  cit. 
Assisi,  Comunale,  100,  656  ;   Bologna,  Archiginn.  A,  95  ;  Firenze,  Nazion.  II 
Vn,  2  ;  Magi.  CI.  XXXVIII.  72,  Pai.  436  ;  Laurenz.  Red.  25  ;  Eiccard.  1278: 
1290,  1431, 1670,  1724,  2188,2355;  Lucca,  Civica,  alcuni  codd.  Moucke;  Mi 
lano,  Ambros.  N,  95,  sup.;  Braid.  Morbio  14;  Modena,  Camp.  56;  NapoU,  Na 
zionale  VI.  D.  33,  68  ;  Oxford,  Canon,  lat.  mise.  263, 536  ;  Padova,  Univers.  1080 
1511,  1710  ;  id..  Museo  Civico,  De-Visiani  XII;  Ravenna,  Classense,  25;  Roma, 
Corsin,  43.  A.  17,48.  B.  26;  Vatic.  Capp.  116;  San  Daniele  Friuli,  Comun.  170 
Siena,  Comun.  J.  IL  88,  J.  VI.  5;  Todi,  Comunale.  172;  Venezia,  Marc.  Lat 
ci.  IV.  25,  Ital.  ci.  I.  30;  Vicenza,  Bertol.  1.  10.  24.  Trai  citati  dal  Tenneroni 
sono  qui  da  riferirsi  i  nn.  47,  96,  135,  140,  143,  148,  149,  158,  159,  160,  166 
175,  186,  189.  Il  Bini,  in  Bime  e  prose  dei  buon  secolo  della  linguu  (Lucca, 
Giusti,  1852),  parla  di  un  ms.  appartenuto  a  Fr.  De-Rossi,  contenente  i  «  Trat 
tati  di  Ugo  Panziera  »  da  cui  egli  trasse  tre  laudi,  due  delle  quali  certo  di 
lacopone.  —  Tra  questi  mss.  si  devono  pure  porre  i  numerosi  sermonali  del 
sec.  XV,  nei  quali   sono   inserite   laudi,   spesso  di  lacopone,  ora  integre,  ora 
frammentarie.  Tali  il   Quaresimale  «  De  Fide  et  articuhs  Fidei  »  di  fra  Mi- 
chele da  Carcano,  il  «  De  Christiana  religione  et  ecclesia  »  e  l'altro  intitolato 
«  Seraphim  »,  di  S.  Bernardino  da  Siena,  alcuni  di  S.  Giovanni  da  Capestrano, 
di  S.  Giacomo  della  Marca  ed  altri.  Codici  di  questi  già  indicarono,  il  De  Bar- 
THOLOMAEis  e  il  De  Lollis  (ìh  Bollett.  d.  ist.  stor.  ital.,  nn.  3  e  8,  1887,  1889), 
il  Crivellucci  (i  codici  della  libreria  di  S.  Giacomo  della  Marca,  Livorno, 
Giusti,  1889),  tra  gh  altri  sono  da  ricordare:  Como,  Comun.  12  (Quaresimale 
di  fra  Bernardino  Calmi);  Bologna,  Archiginnasio,  A.  158;  Cortona,  Comu- 
nale 52  ;  Milano,  Ambros.  C.  94.  sup.;  Piacenza,  Laudi  156  ;  Napoh,  Naz.  Vili. 
A.  4;  Roma,  Angelica,  740;  uno  contenuto  nel  catalogo  Rosenthal  del  1900, 
e  un  altro  posseduto  dal  cav.  Fabio  Vitali  di  Piacenza,  tutti  col  primo  dei 
Quaresimali  indicati  di  S.  Bernardino  da  Siena;  Milano,  Ambros.  L.  65.  sup.; 
NapoU,  Naz.  V.  H.  67;  Verona,  Comun.  517-519;  Padova,  Univers.  580,  769,  e 
altri  col  Quaresimale  del  da  Carcano;  Fohgno,  Comun.  A  H.  II.  10  (Quaresi- 
male di  fra  Bernardino  da  Fohgno);  Roma,  Angelica,  1324  (Quaresimale  ano- 
nimo); Firenze,  Nazion.  Pai.  96  (Considerazioni  ascetiche).  Il  ms.  16.  e.  IV.  22 
dell'Archiginnasio   di   Bologna  contiene  un   trattato  ascetico  che  in  ciascun 
capitolo  riporta  una  lauda,  in  tutto  27,  spesso  di  lacopone. 

(2)  Do  la  nota  dei   principaU   laudarli  adespoti  in  cui  mi  consta  esistano 
laudi  di  lacopone:  Bergamo,  Com.  -d.  II.  6;  Bologna,  Archiv.  Arciv.;  Archiv. 


VARIETÀ  149 

costano  assai  a  quelli  del  secondo  gruppo,  contengono  cioè  laude 
di  noti  laudesi  insieme  ad  una  o  più  di  lacopone,  ma  adespote, 
almeno  nella  massima  parte;  altri  sono  laudarli  di  compagnie 
specialmente  toscane,  o  appartenuti  a  monasteri,  in  cui  sempre 
si  trovano  ritmi  del  nostro.  È  facile  veder  quanti  vengano  a 
riunirsi  sotto  questa  serie;  sono  manoscritti  varii  di  età,  di 
contenuto,  con  autorità  diversa  l'uno  dall'altro  a  seconda  non 
solo  del  valore  e  dell'età  del  codice,  o  dell'abilità  e  fedeltà  del 
copista,  ma  anche  rispetto  alle  regioni  in  cui  furono  scritti;  e 
in  essi  si  incontrano  facilmente  i  trasferimenti  di  queste  poesie 
nei  varii  dialetti. 
Queste  tre  categorie  di  codici  non  possono,  da  chi  vuol  fare 


d.  Santa,  8.  2, 10.3,  20.  5;  Univ.  2845,  4019;  Bra,  Confrat.  deiDiscipl.  Bianchi, 
due  mss.  senza  segn.:  Brescia,  Queriniana,  V.  XIII.  31  ;  Ferrara,  Com.  409 
(N.  B.  3);  Firenze,  Naz.  H.  IV.  700,  II.  VII.  4,  H.  IX.  58  e  140,  Mgl.  ci.  VH. 
27,  285;  Conv.  Sopp.,  G.  7.  609;  Eiccard.  2224,  3687;  Londra,  British  Mus.; 
Harl.  3355  ;  Milano,  Ambros.  Y.  3.  sup.;  Trivulziana,  535,  923  ;  Oxford,  Canon, 
it.  193;  Pavia,  Univ.,  Aldino  474;  Perugia,  Com.  G.  78;  Ravenna,  Class.  137. 
S.  L.;  Roma,  Vatic.  4840;  Ott.  681;  Barb.  XLIV.  76;  Siena,  Comun.  J.  II.  6, 
J.  Vili.  13  ;  Venezia,  Marciana,  It.  ci.  IX.  312  (rotolo  pergam.  ora  mancante, 
ma  che  fu  usato  dal  Sorio);  Verona,  Capit.  464,  767  ;  Vicenza,  Bertol.  2.  8.  17,  e 
un  ms.  che  apparteneva  al  march.  Gian  Giacomo  Lepri  e  da  cui  vennero  pub- 
blicate sul  Giornale  araldico  (Roma,  1819)  due  laudi  erratamente  attribuite  a 
lacopone.  A  questi  vanno  aggiunti  quelli  indicati  dal  Tenneroni,  Op.  cit.,  ai 
nn.  6,  10,  16,  17,  23,  25,  27,  28,  32,  33,  38,  45,  50,  57,  65-68,  73,  87,  97, 104, 
106,  108,  109,  111,  112,  113  (ripetuto  al  n.  157),  115,  124,  129, 138, 144,  150, 
161,  163,  164,  167,  170,  171,  175,  176,  177,  184,  187,  200.  Vi  sono  inoltre 
varii  mss.,  veri  zibaldoni  di  materie  varie,  in  cui  le  laudi,  ora  raggruppate, 
ora  sparse,  sono  numerose,  come  il  Bologna,  Archiv.  Arciv.;  Arch.  d.  Santa,  3. 2; 
Id.,  Monastero  del  Corpus  Domini,  3.  1;  Id.,  Univers.  157;  Milano,  Ambros. 
C.  35,  sup.;  Trivulziana,  92,  nonché  un  buon  numero  di  altri  minori  che 
oscillano  tra  i  miscellanei  e  i  veri  laudarli,  poiché  contengono,  insieme  ad 
altro,  piccole  raccolte  di  laudi,  quali:  il  Bologna,  Archiginnasio  16  e.  V.  21  ; 
Univers.,  201,  2751;  Firenze,  Nazion.,  IL  IV.  686,  IL  VHL  3;  Panciat.  41; 
Riccardiana,  441,  1509,  1802;  Padova,  Seminario,  359  ;  Pavia,  Univers.,  Al- 
dino 251  ;  Roma,  Angelica,  1482,  ecc.  Nel  Catalogo  della  Biblioteca  Lauren- 
ziana  il  Bandini  accenna  al  ms.  142  Med.  Paladino  come  contenente  «  can- 
«  tiones  italicae  in  laudem  B.  Virginis  Mariae  »  che  mi  sembrano  laudi,  alle 
quali  seguirebbe  un'altra  «  Cantio  italica  »  la  cui  rubrica  riportata  dal  Ban- 
dini, corrisponde  a  quella  della  lauda:  Mutata  an  veste  li  lupacini,  nei  co- 
dici di  Bergamo  e  affini. 


150  G.    GALLI 

opera  vana,  essere  messi  in  un  sol  fascio,  diversa  essendone 
la  natura,  l'autorità  e  il  contenuto;  ciascuna  va  studiata  dap- 
prima a  sé,  poi  confrontata  e  integrata  colle  altre.  Ma  quella 
che  naturalmente  si  presenta  più  interessante  è  certo  la  prima. 
Quei  laudarli  iacoponici  ci  danno  veramente,  spesso  in  un  or- 
dine logico  e  costante,  tutta  o  almeno  la  massima  parte  della 
produzione  poetica  del  frate  lodino. 

Ma  prima' che  qui  riporti  i  risultati  a  cui  sono  giunto  dopo 
un  attento  esame  del  materiale  di  cui  ho  potuto  disporre,  devo 
dire  qualche  parola  di  un  giovane  studioso,  morto  ormai  da  pa- 
recchio tempo,  e  troppo  dimenticato,  dalla  cui  opera  appunto  ho 
desunto  parte  de'  materiali  onde  mi  son  valso:  voglio  dire  di 
Enrico  Molteni. 

Nella  Biblioteca  Ambrosiana  di  Milano  sono  state  dai  parenti 
suoi  depositate  tutte  le  carte  appartenute  a  questo  valente  gio- 
vane, uscito  dalla  scuola  di  Pisa.  Sono  tre  voluminose  cartelle, 
davanti  alle  quali  uno  studioso  non  può  non  provare  un  senso 
di  vivo  stupore,  considerando  l'immane  lavoro  di  raccolta  che 
egli  ha  fatto  nel  pur  breve  tempo  da  lui  potuto  dedicare  ai 
suoi  studii  prediletti.  Di  queste  carte  diede  un  succinto,  troppo 
succinto,  indice  il  De  Bartholomeis  (1),  dal  quale  non  può  traspa- 
rirne tutta  l'importanza.  Non  posso  qui  certo  dare  un  cenno  com- 
pleto di  esse,  come  sarebbe  necessario;  lo  spazio  e  l'indole  di 
questo  scritto  lo  impediscono,  ma  per  manifestare  qual  preziosa 
miniera  sia  in  quelle  carte,  mi  basti  accennare  che  in  esse  si 
trovano  notizie  di  non  meno  di  duecento  manoscritti  di  laudi, 
per  la  massima  parte  colle  tavole  integre,  o  almeno  gli  inizii 
dei  ritmi,  quando  si  tratta  di  miscellanei,  e  brevi  descrizioni 
di  ciascuno.  Anzi  parecchi  vi  sono,  o  copiati  integralmente,  o 
almeno  con  larghi  estratti.  E  questi  codici  provengono  da  bi- 
blioteche d'ogni  parte  d'Italia,  molti  sono  codici  privati,  che 
il  Molteni  potè  vedere  e  consultare  (2).  Né  é  questo  il  solo 
materiale  di  quelle  carte  ;  vi  si  devono  aggiungere  appunti,  ta- 


(1)  Miscellanea  di  Ietterai,  del  Medio  evo,  fase.  I,  Appendice,  edito  dalla 
Società  filologica  romana,  1902. 

(2)  Tra  gli  altri  vi  è  la  tavola  del  codice  appartenuto  al  Mortara,  di  cui  il 
Molteni  dice  che  appartiene  agU  eredi  dell'abate  Manuzzi  di  Genova.  Il  Ten- 
neroni  (1.  cit.)  asserisce  che  di  questo  codice  non  si  conosce  il  destino.  L'in- 
dicazione del  Molteni  potrà  forse  invogliare  qualcuno  a  rintracciarlo. 


VARIETÀ  151 

vole  di  codici,  copie  ed  estratti  copiosi  dai  manoscritti  di  poeti 
provenzali,  di  canzonieri  dei  nostri  primi  poeti,  e  altri  studi 
ancora  su  argomenti  particolari  della  storia  letteraria  italiana. 
L'opera  del  Molteni  appare  quindi  a  chi  come  me  ha  potuto 
lungamente  frugare  nelle  sue  carte,  veramente  preziosa,  e  me- 
ritevole di  ricordo.  Ma  torniamo  a  noi. 

Ho  detto  più  sopra  che  i  Laudarli  iacoponici  contengono  le 
poesie  del  tudertino  disposte  in  ordine  costante;  ciò  avviene 
ordinariamente:  ma  l'ordine  non  è  sempre  quello.  Confrontando 
però  le  tavole  dei  numerosi  laudarli  di  cui  ho  potuto  disporre, 
mi  venne  dato  di  osservare  tre  gruppi  di  codici,  caratterizzati 
nettamente  da  un  determinato  ordine  nei  ritmi. 

Un  primo  gruppo,  che  mi  sembra  il  più  importante,  è  for- 
mato dal  Vaticano-Urbinate  784,  dai  mss.  di  Giaccherino,  011- 
veriano,  già  Perticari  (1),  Angelico  2306  (2),  Conv.  Sopp.  C.  2.  608 
della  Nazionale  di  Firenze,  Parigino  1037(3),  Tedino  194.  Questi 
manoscritti  hanno  (eccetto  il  Todino,  che  ne  contiene  154  circa) 
un  numero  di  laudi  che  si  aggira  intorno  al  centinaio,  e  preci- 
samente, 83  l'Oliveriano,  89  il  Vaticano,  90  il  Parigino,  107  l'An- 
gelico, 108  quello  di  Giaccherino  (4)  e  il  Conv.  Sopp.  Confron- 
tando la  disposizione  dei  ritmi  si  osserva  subito  che  il  Vaticano, 
il  Giaccherino  e  l'Angelico  concordano  tra  loro  (5);  anzi  la 
lauda  12*  (Signor  damme  la  morte)  è  ripetuta  da  tutti  al  n.  80 
(81  nel  Vat.):  l'Angelico  e  quello  di  Giaccherino  concordano 
anche  nelle  poesie  che  non  sono  nel  Vaticano  (89-107).  Il  To- 
dino varia  dai  tre  antecedenti  solo  ai  nn.  22,  46,  51,  61,  68, 
89,  90,  e  manca  di  qualcuna  dopo  la  90;  invece  ne  aggiunge 
fino  alla  154,  in  massima  parte  certo  non  di  lacopone.  Maggiori 
discrepanze  si  trovano  nel  Conv,  Sopp.,  ma  non  essenziali;  in 
esso  tra  l'altro  cinque  laudi  sono  ripetute.  L'Oliveriano  concorda 


(1)  Ne  dà  la  tavola  il  Pelaez  in  Atti  della  B.  Acc.  Lucchese,  voi.  XXXI, 
Lucca,  1902. 

(2)  Vedi  la  tavola  in  Tenneroni,  Catalogo  ragionato  dei  mss.  manzoniani. 

(3)  Vedi  la  tavola  in  Bohmer,  Rom.  Studien,  I,  Strassburg,  1875.  Ne  parla 
pure  il  Mazzatinti,  Manoscritti  italiani  delle  Biblioteche  di  Francia,  II, 
Roma,  1877,  il  quale  ne  dà  pure  una  tavola. 

(4)  È  però  mutilo  in  due  luoghi  ;  verso  il  firincipio  e  la  fine,  sì  che  molte 
laudi,  che  secondo  la  tavola  vi  dovrebbero  essere,  mancano. 

(5)  Unica  dilFerenza  è  al  n.  50,  ove  il  Vaticano  ha  una  lauda  diversa  dagli 
altri  due  e  che  non  mi  pare  di  lacopone. 


152 


G.    GALLI 


fino  al  n.  34  (1)  poi  tre  (35-37)  sono  spostate  (ai  n.  47-49);  l'or- 
dine riprende  in  seguito  fino  al  termine  ;  solo  anticipa  i  ritmi  79-82 
(ai  n.  51-54).  Il  Parigino  ha  come  prima  lauda  la  13^,  ad  essa 
seguono  la  55,  57,  69,  82,  60,  63;  al  nono  posto  mette  la  prima 
degli  altri  e  prosegue  collo  stesso  ordine,  tranne  gli  spostamenti 
accennati  :  ne  inserisce  però  due,  di  cui  dirò  poi,  che  mancano 
negli  altri. 

Tutti  questi  codici  conservano  assai  puro  il  dialetto  umbro, 
alcuni  anzi  sono  di  origine  todina,  come  oltre  il  Todino,  l'An- 
gelico. Ma  ciò  che  è  interessante  si  è  che,  di  ms.  di  questo 
gruppo  principalmente  si  servi  il  Bonacorsi  per  la  sua  edizione 
del  1490. 

Si  legge  infatti  nella  prefazione  dell'edizione  Fiorentina  che 
servirono  per  essa  «  due  copie  de  tale  laude  cavate  studiosa- 
«  mente  da  doi  esemplari  Todini  assai  antichi:  et  più  copiosi  et 
«  migliori  che  si  trovino  in  quella  città;  et  doi  altri  vilumi  pur 
«  antichi  in  buona  charta,  facti  con  diligentia  :  de  quali  uno  ap- 
«  pare  scripto  nella  città  di  Perugia  :  dell'anno  MCGCXXXVI. 
«  trovato  in  Firenze  de  laude  90  et  non  più  et  molti  altri  vo- 
«  lumi  de  diversi  religiosi  :  et  de  altre  particulare  persone,  tro- 
«  vati  pur  in  Firenze.  Da  quali  tutti  volume,  et  spetialmente 
«  da  li  dicti  più  antichi  concordati  molto  insieme,  si  ha  cavata 
«  nova  copia  per  dare  a  l'impressori  »  (2).  Confrontando  poi  le 
note  preposte,  specialmente  alle  ultime  laudi  dell'edizione,  si  ha 
che  per  le  prime  93  non  si  indica  il  ms.  d'origine:  la  94  e  95 
sono  tolte  dal  Perugino  e  mancano  nei  Todini  (3),  la  96  era  nel 
Perugino  «  et  ancora  in  alcuni  todini  »  (4),  la  97-101  «  erano 
«  nel  libro  todino  infine  »  (5).  Sono  dunque  i  due  Todini  e  il 
Perugino  che  hanno  in  modo  speciale  servito  agli  editori.  Si 
noti  pure  che  l'ordine  rinvenuto  nei  codici  non  fu  seguito  per 
quanto  «  li  Todini  siano  quasi  ad  un  modo  »  (6),   e  quanto  al 


(1)  Anche  qui  la  12*  è  ripetuta,  ma  al  n.  52  :  si  noti  però  che  il  gruppo  51-54 
è  «postato  e  corrisponde  al  gruppo  79-82  dei  primi  tre. 

(2)  Ediz.  cit.,  p.  3. 

(3)  Sono  le  laudi:    Udite  una  entenzone  -  che  è  fra  onore  e  vergogna; 
e  :  Que  farai  morte  mia  -  che  perderai  la  vita.  Cfr.  ediz.  cit.,  p.  155. 

(4)  Ediz.  cit.,  p.  157. 

(5)  Ediz.  cit.,  p.  159. 

(6)  Ediz.  cit.,  p.  4. 


VARIETÀ  153 

numero  di  102  ritmi  si  accontentarono  di  esso  «  non  essendo 
«  maggior  numero,  ma  più  presto  minore  »  (1)  nei  mss.  com- 
pulsati. 

Ora  appunto  l'Angelico,  d'origine  todina,  del  sec.  XIV,  con- 
tiene tutte  le  laudi  dell'edizione  Bonacorsi,  eccetto  la  94  e  95 
già  dette,  e  la  102,  che  è  aggiunta  «  extravagante  »  (2):  in  esso, 
le  97-101  dell'edizione,  sono  poste  in  fine,  precisamente  a  n.  102, 
103,  107,  106,  101  (3);  esse  mancano  invece  nel  Vaticano-Urbi- 
nate  e  nell'Oliveriano.  In  fine  l'ordine  nell'Angelico  e  nel  Vati- 
cano è  identico  eccetto  per  una  lauda.  Senza  dunque  voler  in- 
sistere, che  proprio  da  questi  sia  stata  tratta  l'edizione,  mi 
sembra  però  legittima  una  forte  presunzione  che  l'Angelico,  e, 
0  il  Vaticano  o  l'Oliveriano,  e  più  probabilmente  questo  secondo, 
siano  quelli  che  servirono  allo  scopo,  o  almeno  ne  discendano 
molto  da  vicino.  È  un'ipotesi  questa  assai  probabile  che  potrà 
confermarsi,  o  essere  annullata  da  un  esame  minuto  colla  stampa, 
cosa  che  non  ho  potuto  fare  (4). 

Il  secondo  gruppo  è  molto  numeroso,  e  si  presenta  distinto 
in   due    sottogruppi.    I   Laurenziani-Gaddiani   27   (1.   97)    e  28 


(1)  Ediz.  cit.,  p.  4. 

(2)  Ediz.  cit.,  p.  170. 

(3)  Ciò  che  si  dice  dell'AngeHco  va  esteso  al  ms.  di  Giaccherino,  di  cui 
però  non  è  certa  la  provenienza  umbra. 

(4)  Resterebbe  da  identificare  il  codice  Perugino  di  cui  parla  il  Bonacorsi. 
Di  esso  sappiamo  che  fa  trovato  a  Firenze,  era  scritto  a  Perugia  nel  1336, 
era  cartaceo,  e  conteneva  90  laudi  tra  cui  le  94  e  95  dell'edizione;  anzi 
quest'ultima  aveva  nel  ms.  due  «  finestre  »  (ediz.  cit.,  p.  175,  alle  varianti  di 
di  detta  laude)  di  cui  una,  al  verso  42,  è  conservata  nella  stampa.  Ora  questa 
lauda:  Que  farai  morte  mia,  che  può  dare  valido  aiuto  nella  ricerca,  non 
la  ritrovai  che  in  cinque  codici:  il  Parigino  1037,  il  Conv.  sopp.  C.  8,  957; 
il  Laur.-Eed.  119,  41  ;  il  Braidense  A.  D.  IX.  2  e  lo  Spithòver.  È  da  escludere 
subito  che  il  Braidense  e  lo  Spithòver  siano  il  ms.  cercato,  ma  neppur  gli 
altri  rispondono  ai  dati,  e  in  nessuno  trovai  la  lacuna  indicata.  Tuttavia  la 
mia  attenzione  si  fermò  sul  Parigino  1037.  Esso  ha  90  laudi;  proviene  da 
Firenze,  essendo  appartenuto  a  Luca  della  Eobbia  ;  ha  tutte  le  sue  laudi  con- 
tenute nell'edizione  Bonacorsi;  contiene  ambedue  le  laudi  che  il  Bonacorsi 
dice  tolte  dal  Perugino.  Però  non  consta  né  della  data  del  1336,  né  dell'o- 
rigine perugina,  almeno  né  il  Bohmer,  né  if  Mazzatinti  che  lo  studiarono, 
ne  parlano.  Se  non  può  essere  dunque  quello  cercato,  non  è  possibile  che  ne 
sia  una  copia  ?  Non  faccio  un'afférmazione,  che  sarebbe  rischiata,  espongo  solo 
un'ipotesi  che  non  credo  senza  fondamento. 


154  G.    GALLI 

(1.  97)  (1)  e  il  Marciano  IX.  73  (1.  99)  hanno  un  ordine  identico 
per  ben  97  ritmi.  A  questi  va  unito  il  Bolognese  (Università  1787, 
1.  93)  che  mantiene  l'ordine  per  55  poesie,  poi  se  ne  scosta,  ri- 
petendo dei  ritmi,  omettendone  e  aggiungendone.  Cosi  è  pure 
del  Marciano  IX.  244  (1.  82)  per  48  laudi  e  IX.  182  (1.  HO)  ma 
con  minor  costanza.  Il  Trivulziano  980  (1.  70)  segue  l'ordine  dei 
primi  codici,  ma  omette  molte  laudi,  che  in  parte  aggiunge  poi. 

Il  secondo  sottogruppo  è  formato  dal  Perugino  (Comunale  519, 
1.  107),  Bergomense  Civica  A.  7.  15  (1.  139)  (2)  e  Parigino  559 
(1.  136)  (3).  Essi  concordano  tra  loro  esattamente;  solo  il  Pari- 
gino omette  i  ritmi;  100  (A  fra  Johanne  de  l'Alvernia),  103 
(Lo  pastor  per  7ìiio  peccato)^  104  {L'aonore  eh' è  consumato). 
Concordano  pure  coi  tre  del  primo  sottogruppo  con  queste  va- 
rianti : 

1«  Tra  il  n.  34  e  35  di  quelli  inseriscono  la  lauda  :  Audiie 
nova  pazzia; 

2°  Dopo  il  48,  ne  pongono  altre  cinque  (n.  50-54)  che  man- 
cano nei  primi; 

3°  Alla  fine  dopo  il  97  dei  primi,  inseriscono  :  L'amore  eli' è 
consumato^  in  seguito  al  quale  viene  il  n.  98  del  Marciano,  e 
poi  aggiungono,  due  laudi  il  Perugino,  ben  33  gli  altri  due. 

Da  questo  sottogruppo  proviene  l'edizione  Bresciana  del  1495, 
la  quale  concorda  per  113  delle  sue  laudi  colle  corrispondenti 
di  questo  gruppo,  mentre  le  altre  dieci  sono  scelte  fra  le  restanti 
del  Bergomense  e  del  Parigino.  Da  questa  stampa  si  dice  derivi 
la  Veneziana  del  1514,  che  ne  differisce:  l*'  perchè  sposta  la 
lauda  :  Audite  nova  pazzia^  portandola  dal  35°  al  primo  posto  ; 
2«  inserisce  al  secondo  luogo  il  ritmo:  Mosso  da  santa  pazzia-, 
3*»  si  aggiungono  altre  nove  laudi  in  fine  ;  4<*  ha  qualche  leggera 


(1)  Nel  Laur.  27,  dopo  la  97*  lauda  segue  la  rubrica:  Expliciunt  latides  etc, 
a  cui  seguono  tre  laude,  una  attribuita  ad  un  altro  frate  dello  stesso  ordine 
e  una  seconda  a  lacopone.  Nel  Laur.  28  alla  97  seguono  altre  11  laudi,  di 
cui  la  prima  è  la  seconda  delle  aggiunte  nel  Laur.  27,  le  altre  hanno  tutte 
la  rubrica  Alia  laus  predicti  fratris  Jacohi  de  Tiiderto.  Sono  dunque  tutte 
aggiunte  a  quelle  che  formano  il  vero  laudario,  e  mi  paiono  da  considerarsi 
separatamente,  tanto  più  che  nessuna  si  può  con  sicurezza  attribuire  al  frate 
todino. 

(2)  Sono  poi  aggiunte  altre  tre  laudi  d'altra  mano  dopo  Vexplicit. 

(3)  Vedine  la  tavola  in  Bohmer,  loc.  cit. 


VARIETÀ  155 

variante  nelle  rubriche.  Lo  stesso  ordine  di  questa  stampa  si  ha 
in  tre  manoscritti;  il  Parigino  607,  il  Corsiniano  43.  A.  22  (del  1629) 
e  quello  della  Nazionale  di  Napoli  XIII.  H.  4.  I  primi  due  omet- 
tono però  i  ritmi;  68  (0  papa  Bonifazio^  —  molto  ai  locato)^ 
87  {Piange  la  ecclesia)^  88  {Ihesu  Cristo  se  lamenta),  89  {Fri- 
gescente  caritatis)',  il  secondo  e  il  terzo  sono  poi  senza  alcun 
dubbio  copie  dell'edizione.  Resterebbe  a  vedersi  se  il  Parigino 
sia  esso  pure  una  copia,  o  piuttosto  l'esemplare  che  servi  per 
essa.  Vero  è  che  il  Bòhmer  (1),  il  Marsand  (2)  lo  giudicano  del 
sec.  XVI:  mentre  il  Mazzatinti  (3)  lo  riporta  al  sec.  XVII.  Non 
avendolo  veduto  personalmente  nulla  posso  affermare;  credo  però 
che  esso  sia  in  realtà  una  copia  dell'edizione. 

Comune  a  questi  mss.,  eccetto  i  Marciani  IX.  244  e  182,  e  al 
Bolognese  è  la  rubrica  iniziale  che  suona  (4)  :  Incipiunt  laudes 
quas  fecit  sanctus  frater  lacobiis  de  Tuderto  ordine  fratrum. 
minorum  ad  utilitate'ìn  et  consolationem  om,niwn  cupien- 
tium  per  viam  crucis  et  virtuium  dominum,  imitari.  Il 
Laur.  27,  al  termine  ha:  Expliciimt  laudes  sancti  fratris 
lacoM  de  Tuderto  etc.  quas  dictavìt  prò  consolatìone  et  pro- 
fectu  nomtiorum  et  proficentium  et  perfectoì^um  in  vita  an- 
gelica quae  dìcitur  in  terra  via  Crucis  (5). 

Questo  stesso  ms.  ha  poi  in  principio  questa  nota  interessante  : 
«  Quia  in  bis  laudibus  vulgariter  scriptis  sunt  aliqua  vocabula 


(1)  BoHMER,  1.  cit.,  ove  ne  dà  anche  la  tavola. 

(2)  Marsand,  I  mss.  italiani  delle  regie  biblioteche  di  Parigi,  Parigi, 
1838,  voi.  II,  p.  160,  al  n.  8285. 

(3)  Mazzatinti,  /  mss.  italiani  delle  biblioteche  di  Francia,  Roma,  1887, 
voi.  II,  p.  172. 

(4)  Si  trova  anche  nell'ediz.  di  Brescia;  nella  Veneziana  del  1514  è  diversa 
e  in  italiano  :  e  così  mutata  è  anche  nel  Parigino  607. 

(5)  Il  prof.  NovATi,  nella  sua  conferenza  snWAmor  mistico  in  S.  Francesco 
e  in  lacopone  da  Todi  (in  Freschi  e  minii  del  Ducento,  Milano,  1908),  fon- 
dandosi su  una  rubrica  simile,  espone  l'idea  che  lacopone  scrivesse  le  sue  laudi 
pei  suoi  confratelli.  Credo  che  questa  rubrica  vada  spiegata  con  quella  ini- 
ziale. Si  tratta  cioè  non  solo  dei  confratelli  di  lacopone,  ma  di  tutti  quelli  che 
si  danno  alla  vita  ascetica  «  omnium  cupientium  per  viam  crucis  dominum 
imitari  »  ;  essi  vanno  distinti  in  tre  classi  :  novitii  o  incipienti,  profìcienti  e 
perfetti.  È  però  chiaro  che  tra  essi  vanno  pure  i  confratelli  del  poeta,  i  quah 
appunto  si  sono  dati  a  seguire  il  Poverello,  per  abbracciare  la  vita  di  per- 
fezione ascetica. 


156  G.    GALLI 

«  que  aliter  proferuntur  et  scribuntur  a  longobardis  quam  sint 
«  hic  scripta,  et  eciam  non  bene  intelliguntur  ab  eis,  ideo  hic 
«  in  principio  scribuntur  quaedam  ex  ipsis  vocabulis  sicut  scripta 
«  sunt  hic  et  iuxta  ipsa  vocabula  ponuntur  idem  significantia 
«  secundum  quam  scribuntur  et  proferuntur  a  longobardis  etc.  ». 
È  quindi  forse  da  desumerne  che  questo  codice  ci  rappresenti 
il  capostipite  degli  altri  sia  lombardi,  sia  in  generale  dell'Alta 
Italia,  i  quali  nella  massima  parte  si  conformano  più  o  meno  a  lui. 

A  questo  gruppo  vanno  poi  aggiunti  altri  due  minori  ms.:  il 
Palatino  170  (1.  25),  il  Canoniciano  240  (1.  35)  (1),  che,  per  la 
disposizione  delle  laudi  o  per  le  rubriche,  vi  si  avvicinano.  Non 
va  poi  dimenticato,  non  ostante  l'età  recente  (sec.  XVII)  il  1212 
della  Comunale  di  Verona,  copia  del  Bergomense,  ma  assai  mo- 
dificata nella  lezione  (2). 

Ed  ora  un  terzo  gruppo  di  manoscritti  quasi  tutti  fiorentini, 
e  assai  affini  tra  loro.  Il  Riccardiano  2762,  e  il  Panciaticiano  23 
concordano  tra  loro;  solo  il  primo  omette  il  n.  52:  0  Christo 
onipotenie...  Molto  me  meraviglio.  Il  Panciat.  22  è  simile  al  23 
(che  forse  ne  è  una  copia  posteriore),  ma  omette  i  ritmi  Figli 
nepoti  e  frati  (n.  82)  e  :  Audite  una  contentione  —  infra  due 
persone  (n.  86);  invece  aggiunge  in  fine:  Audite  nova  pazzia^ 
che  manca  nei  precedenti  (3).  Il  Laurenziano  Gadd.  29  al  posto 
dei  n.  7  e  8  degli  altri,  che  omette,  pone  i  27  e  28,  il  n.  26  è 
spostato  al  termine  (1.  HO)  e  omette  i  ritmi  24,  86  e  87.  Il  Re- 
diano 119,  41,  omette  le  laudi  9,  103,  109,  sposta  la  112  prima 
delle  due  immediatamente  precedenti,  e  aggiunge  altre  laudi  fino 
a  raggiungere  il  numero  di  117.  Il  codice  della  Vittorio  Ema- 
nuele di  Roma  76,  mutilo  in  principio,  comincia  (land.  2)  col 
n.  16  del  Riccardiano  sopra  detto,  poi  concorda  fino  al  ritmo  105, 
mentre  la  seguente  :  0  Signor  per  cortesia  è  messa  in  principio 
(1.  1),  ma  il  foglio  88  r  che  la  doveva  contenere  è  bianco,  e  al 


(1)  Vedi  BOhmer,  1.  cit.,  che  ne  dà  la  tavola. 

(2)  Questa  copia  è  quella  di  cui  si  servì  il  Sorio  per  la  edizione  di  alcune 
laudi  di  Jacopone  da  lui  curata  negli  OptiscoU  religiosi,  letterarii  e  morali  di 
Modena  (1857-1863 passm).  Del  ms.  di  Bergamo  esistono  altre  due  copie  re- 
centi, una  alla  Civica  (segn.  2.  5.  26),  l'altra  di  proprietà  del  conte  Suardi 
della  stessa  città. 

(3)  Il  ms.  è  mutilo  e  manca  delle  laudi  dal  n.  14  al  30,  mentre  la  81*  è 
mutila  in  principio. 


VARIETÀ  157 

verso  si  trova  la  prosa  che  ordinariamente  vi  tien  dietro:  Ne 
forte  alìquis  putet  etc.  Il  Vaticano  8909  ha  110  ritmi  disposti 
come  nel  Riccardiano  2762  ;  solo  omette  i  nn.  24  e  25  (che  nel 
Riccardiano  e  in  genere  negli  altri  mss.  di  questo  gruppo  sono 
attribuiti  al  Panziera),  il  97  (ritmo  latino:  Frigescente  cari- 
tatis)  e  la  solita  prosa  latina  dopo  il  n.  104:  Ne  forte  aliquis 
putet  ecc.;  invece,  come  gli  altri,  dopo  il  n.  50  inserisce  la  lauda: 
0  Cristo  onipotente...  Molto  me  TYieramglìo.  Il  Mazzatinti 
poi  (1)  notava  già  che  il  Laurenziano-Ashburnh.  1072  aveva  la 
stessa  disposizione  di  poesie  che  il  Vittorio  Emanuele  di  Roma: 
per  rispetto  al  Riccardiano  differisce  solo  perchè  ne  posticipa 
due  laudi;  la  32*  (0  castitate  floì^e)  che  trasporta  al  n.  36,  e 
la  41*  (0  libertà  subgetta)  al  n.  51;  in  tutto  ha  112  laudi.  In- 
fine il  IL  III.  255  della  Nazionale  di  Firenze,  di  1.  33,  corrisponde 
alle  prime  33  di  questi  mss.  (2). 

A  questo  gruppo  vanno  avvicinati;  il  Riccardiano  1049(1.27) 
che  ha  19  delle  sue  poesie  contenute  nelle  prime  25  del  gi'uppo 
e  quasi  nello  stesso  ordine;  e  i  Riccardiani  2841  (1.  83)  e  2959 
(1.  116)  in  cui  l'ordine  non  è  costante,  ma  si  avvicina  spesso  a 
quello  dei  primi.  Il  Riccardiano  2929,  oltre  molte  laudi  adespote 
d'altri,  contiene  un  laudario  iacoponico  di  70  ritmi  circa,  che 
ha  affinità  con  quelli  di  questo  gruppo,  al  quale  mi  sembra  pure 
da  assegnare  il  Magi.  GÌ.  VII.  1132  (1.  105). 

Ciascuno  di  questi  gruppi  contiene  codici  che  hanno  caratteri 
comuni.  Grià  notai  l'origine  umbra,  e  alle  volta  todina,  di  qual- 
cuno del  primo  gruppo,  e  che  il  dialetto  umbro  vi  è  sempre 
ben  conservato;  quanto  alle  rubriche  qualche  volta  mancano, 
come  nel  Vaticano-Urbinate  ;  e  forse  nel  Giaccherino,  oppure 
sono  poche,  come  nell'Oliveriano,  in  cui  le  poche  esistenti  cor- 
rispondono a  quelle  dell'edizione  Bonacorsi.  Uno  solo  di  questi 
mss.  ha  Vexplicit,  simile  a  quello  già  riferito  del  Laur.  Gadd.  27, 
ed  è  il  Gonv.  Sopp.  G.  2.  608  (3),  nel  quale  anche  le  rubriche,  per 
quanto  mi  consta,  corrispondono  a  quelle  del  secondo  gruppo. 
Pei  manosoritti  della  seconda  serie,  le  rubriche  sono  sempre  le 


(1)  Mazzatinti,  Miscellanea  Francescana,  1886,  pp.  35-36. 

(2)  Solo  al  n.  29  ripete  il  n.  17  invece  di  riportare  la  lauda  corrispondente 
degli  altri. 

(3)  Suona  così:  Expliciunt  laudes  sancii  fratris  Jacobi  de  Tuderto  quas 
dictavit  in  vulgari  ad  perfectorum  in  vita  evangelica  que  dicitur  via  Crucis. 


158  G.    GALLI 

stesse  e  sempre  latine,  eccetto  nel  Bolognese  (che  le  dà  italiane 
ma  identiche)  e  il  Marciano  IX.  182:  sono  le  medesime  che  si 
hanno  nell'edizione  Bresciana.  La  raccolta  sembra  avere  uno 
scopo  ascetico,  come  fa  supporre  la  rubrica  iniziale  già  ripor- 
tata. Quanto  alla  lingua,  pur  conservando  in  parte  notevole, 
specialmente  nel  primo  sottogruppo,  le  forme  umbre,  mi  pare  vi 
si  senta,  ove  più  ove  meno,  l'influenza  di  altri  dialetti  e  ciò 
singolarmente  in  quei  codici  che  sono  scritti  nell'Alta  Italia. 
Da  un  piccolo  esame  fatto  su  due  codici  di  questo  gruppo,  mi 
risultò  una  notevole  concordia  colla  lezione  dell'edizione  Bre- 
sciana. In  tutti,  almeno  nei  principali,  vi  sono  alcune  prose  la- 
tine intercalate  ai  ritmi. 

Il  terzo  gruppo  mi  sembra  prettamente  toscano  per  la  sua 
origine  :  l'ordine  delle  poesie  corrisponde  ad  una  idea  costante. 
Vi  è  infatti  una  spiccata  tendenza  ad  avvicinare  le  laudi  che 
hanno  inizi  simili  o  trattano  argomenti  affini  (1).  Le  rubriche 
ora  italiane,  ora  latine  sono  sempre  le  stesse,  generalmente 
uguali,  ma  alle  volte  diverse  da  quelle  del  secondo.  Quanto  alla 
lingua,  in  alcuni  è  certo  ben  conservata  la  forma  umbra,  come 
nel  Riccardiano  2762  ;  non  mi  farebbe  meraviglia  però  se,  spe- 
cialmente nei  meno  antichi,  si  trovasse  un  influsso  toscano. 

Oltre  questi  tre,  che  sia  per  numero  di  manoscritti,  sia  per 
l'importanza  di  essi,  sono  di  cosi  alto  interesse,  altri  gruppi  si 
possono  notare,  ma  molto  meno  spiccati.  Cosi  i  due  Riccar- 
diani  2860  (1.  71)  e  2958  (1.  77)  hanno  ordine  uguale  e  con  molta 
probabilità  provengono  l'uno  dall'altro:  il  primo  manca  di  un 
gruppo  di  cinque  laudi  dopo  la   39*;   cioè    *S'/  fortemente  son 


(1)  Sono  avvicinate  le  laudi:  ia  hontade  infinita  e  La  bontade  se  lamenta] 
Vita  di  Jesu  Christo  -  specchio  immaculato  e  Vita  di  Jesu  Christo  -  spec- 
chio di  veritade;  le  tre  alla  Vergine:  0  Vergine  più  che  femina,  Donna 
del  paradiso  e  0  regina  cortese:  i  due  contrasti:  Audite  la  battaglia  -  che 
mi  fa  7  falso  nemico  e  Audite  la  bataglia  -  eh' è  fra  onore  e  vergogna; 
Jesu  Christo  se  lamenta  -  de  la  Ecclesia  Romana  con  Piange  la  Chiesa  - 
piange  et  dolora;  La  veritade  piange;  0  papa  Bonifatio  -  quanto  ai  iocato; 
Opapa  Bonifatio  -  io  porto  ;  Lo  pastor  per  mio  peccato;  Que  farai  Pier  da 
Murrone  ;  Que  farai  fra  Jacobone  ;  le  tre  di  iSan  Francesco  :  Novo  teìnpo 
d'ardere;  0  Francesco  povero;  0  Francesco  da  Dio  amato;  le  due  esposi- 
zioni del  Pater  noster:  Alto  padre  noi  ti  preghiamo;  e  In  sette  modi  come 
pare  a  me  ;  quelle  in  lode  della  povertà  :  0  amor  di  povertade  ;  Dolce  amor 
di  povertade  e  Povertade  innamorata,  e  altre  ancora. 


VARIETÀ  159 

tracio  d'amore^  attribuita  al  Panziera  anche  in  mss.  lacoponici; 
0  Chrìsto  anior  diletto  in  te  sguardando^  pure  data  spesso  al 
Panziera  ;  D'amor  languisco  Gesù  te  amando  ;  Non  si  tenga 
a'inatore  ;  NulVuonio  se  sa  mai  ì)en  confessante,  che  mancano 
tutte  nei  mss.  del  primo  gruppo  eccetto  il  Todino,  che  le  riporta 
però  tra  le  aggiunte  dopo  la  parte  comune  agli  altri  del  gruppo  : 
la  prima  di  esse  manca  pure  in  tutti  i  mss.  del  secondo  e  terzo 
gruppo.  È  omessa  pure  la  penultima  del  2958:  Alte  quattro 
virtute. 

Il  Chigiano  L.  IV.  121  (1.  80)  mantiene  nelle  prime  40  poesie 
l'ordine  del  Senese  I.  VI.  9  (an.  1330);  le  altre  cinque  sono  ai 
numeri  45,  62,  59,  41,  47.  Al  Chigiano  si  accosta  il  codice  Mor- 
tara  (1.  94),  ma  solo  nella  prima  quarantina,  e  anche  qui  non 
sempre;  mentre  nella  seconda  parte  manca  ogni  corrispondenza, 
anche  pel  fatto  che  la  maggior  parte  almeno  di  quelle  ivi  rac- 
colte, non  sono  di  lacopone. 

Restano  però  molti  altri  laudarli  del  nostro  poeta:  alcuni  di 
essi  si  possono  avvicinare  all'uno  o  all'altro  gruppo:  cosi  l'An- 
gelico 2216,  importantissimo  pel  dialetto  umbro  assai  ben  con- 
servato (1),  va  unito  al  primo  gruppo,  ma  solo  per  la  circostanza 
dell'origine  e  della  lingua  ;  vi  si  accosta  pure  quello  dell'Archivio 


(1)  Questo  codice,  già  del  conte  Manzoni,  si  deve  identificare  con  quello 
x\Q.(ixàdito  n^W Inventario  delV antica  biblioteca  delS.  Convento  in  Assisi,  compi- 
lato nel  1381,  edito  dal  prof.  Alessandri  (Assisi,  1906,  p.  84)  al  n.  213  della 
libreria  secreta,  con  queste  parole:  «  Laudes  fratris  Jacobi  de  tuderto.  Cura 
«  pluribus  aliis,  quere  tabulam  de  omnibus  in  fine.  —  Cura  postibus.  — 
«  Cuius  principium  est.  Soprogne  lengua  amore.  Finis  vero.  Tu  ora  hoc  modo. 
«  —  In  quo  libro  omnes  quaterni  sunt  XII  » .  È  noto,  e  lo  dichiara  l'autore 
dell'inventario,  che  i  codici  del  Sacro  Convento  compresi  in  quella  recensione, 
avevano  nel  primo  foglio  retto,  e  nell'ultimo  verso  di  ogni  quaderno  la  nu- 
merazione dei  quaderni  posta  nel  margine  inferiore,  compresa  in  una  figura, 
che,  come  spiega  l'Alessandri  (p.  4,  in  nota),  «  consiste  in  circolo  di  punti 
«  alternatamente  rossi  e  neri,  il  quale  intersecato  in  alto,  in  basso  e  ai  lati 
«  da  virgole  in  forma  di  raggi,  racchiude  il  numero  del  quaderno  stesso  »  ed 
è  ripetuta  col  numero  dei  quaderni  sul  veiio  dell'ultimo  foglio  del  ras.  Ora 
appunto  il  ms.  2216  porta  in  ogni  suo  quaderno,  e  ripete  nell'ultimo  questo 
segno  caratteristico,  che  il  buon  frate  che  compilò  l'inventario  certo  appose 
sia  per  impedire  più  facilmente  le  manomissioni,  sia  perchè  costituisse  una 
specie  di  segno  di  riconoscimento  dei  mss.  del  Sacro  Convento.  Vero  è  che 
la  prima  carta  del  ms.  non  comincia  con  Sopra  ogni  lingua  amore,  ma  con- 


160  G.    GALLI 

Capitolare  di  S.  Pietro  (1.  88,  ma  molte  mancanti  perchè  mutilo). 
Invece  il  Braidense  A,  D.  IX.  2,  va  riferito  al  secondo  gruppo, 
non  tanto  per  l'ordine  delle  laudi,  quanto  per  l'affinità  nelle  ru- 
briche e  per  la  sua  origine  lombarda.  Pure  al  secondo  gruppo 
va  riunito  il  codice  di  lacopone  esistente  nella  Civica  di  Ascoli 
Piceno,  il  quale,  come  mi  comunica  il  prof.  Luzzatti  che  lo  sta 
studiando,  comincia  esso  pure  colle  laudi  Aìnor  di  povertade 
e  Povertade  innamorata.  Deve  presentare  però  qualche  va- 
riante rispetto  agli  altri  (tra  l'altro  omette  la  nota  lauda  :  Donna 
del  paradiso)^  e  avvicinarsi  specialmente  ai  mss.  di  Perugia,  di 
Bergamo  e  al  Parigino  559,  per  la  presenza  di:  Audite  nova 
pazzia  al  36<>  posto.  Anche  certe  particolarità  di  lingua  farebbero 
pensare  all'Alta  Italia  come  luogo  di  provenienza.  Il  Bohmer  (i) 
accenna,  sulla  scorta  del  Wadding,  ad  un  codice  della  Colombina 
di  Siviglia  che  ha  la  stessa  rubrica  iniziale,  e  comincia  colla 
stessa  lauda  e  identica  rubrica  di  quelli  del  secondo  gruppo. 
Anche  il  Canoniciano  51  (1.  151)  (2),  che  ha  almeno  la  rubrica 
iniziale  in  italiano,  comincia  con:  Amor  di  povertade  e  sarà 
quindi  probabilmente  da  assegnare  allo  stesso  gruppo. 

Molti  altri  mss.  invece  non  consentono,  dalla  sola  disposizione 
delle  laudi,  di  essere  catalogati  in  alcuno  dei  gruppi  indicati: 


tiene  prose  latine  ascetiche,  mentre  le  laudi  hanno  principio  dopo  il  terzo 
foglio.  Ma  questi  tre  fogh  non  fanno  parte  della  quadernazione  e  precedono 
al  «  primus  quaternus  »,  sul  quale,  con  iniziale  ornata,  comincia  la  laude  di 
lacopone.  Forse  quindi  quei  fogli  furono  riempiuti  posteriormente;  ad  ogni 
modo  essi  contengono  delle  aggiunte  ad  una  operetta  ascetica  che  si  trova 
poi  nel  corpo  del  volume.  Anche  la  finale  attuale  non  corrisponde,  poiché  le 
parole  date  dall'inventario  si  trovano  al  recto  precedente,  mentre  nel  verso 
una  mano  posteriore  ha  aggiunto  qualcosa.  —  Nello  stesso  Inventario  sono 
elencati  due  altri  mss.  di  lacopone,  ambedue  nella  «  libreria  secreta  »  ;  uno  al 
n.  214  (p.  84)  ha  «  Laudes  fratris  Jacobi  in  vulgari  »  oltre  altre  operette  pure 
volgari,  l'altro  al  n.  159  (p.  74)  non  credo  contenga  laudi,  ma  le  prose  asce- 
tiche di  lui  in  latino.  Essi  però  non  possono  identificarsi  coll'Angelico,  non 
solo  pel  diverso  numero  dei  quaderni  (undici  nel  214,  nove  nel  159)  ma  anche 
perchè  dall'Inventario  il  214  appare  cartaceo,  il  159  cartaceo  e  membranaceo 
insieme,  mentre  l'Angelico  è  tutto  di  pergamena.  È  da  augurare  che  almeno 
il  214  possa  rintracciarsi  e  identificarsi. 

(1)  Cfr.  Romanische  Studien  cit.,  voi.  I,  pp.  160-61. 

(2)  Cfr.  MoRTARA,  Catalogo  dei  mss.  canoniciani  della  Bibl.  Bodleiana  di 
Oxford,  ivi,  1864,  p.  69.  Proviene  dal  monastero  di  S.  Salvatore  di  Venezia. 


VARIETÀ  161 

tali  il  Riccard.  1731  (1.  78)  e  il  Marciano  It.,  ci.  IX.  153,  che 
tiene  nelle  laudi  di  lacopone  presso  a  poco  l'ordine  del  prece- 
dente (pur  omettendone),  ma  aggiunge  numerose  poesie  certo 
non  appartenenti  al  nostro  frate.  Tali  pure  il  Barberin.  XLV, 
119  (1.  35);  Siena,  Comun.  U.  V.  5  (1.  28);  Napoli,  Nazion.  XIII. 
0.  98  (1.  22)  ;  Roma,  Corsin.  43.  A.  25  (1.  20)  ;  Ghigiana,  L.  IV.  120, 
in  cui  però  molti  ritmi  non  sono  di  lacopone;  quello  già  del 
prof.  Adamo  Rossi  (1.  19)  (1);  il  Gonv.  Sopp.  G.  8.  957  della  Na- 
zionale di  Firenze,  che  contiene  nella  prima  parte  un  laudario 
di  lacopone  (1.  70),  nella  seconda  laudi  credo  adespote;  l'Ha- 
milton 343,  della  Reale  di  Berlino  (2).  Del  codice  appartenuto 
al  comm.  Francesco  De  Rossi  e  usato  dal  Bini  (3),  e  di  quello 
indicato  nel  catalogo  di  vendita  della  GoUezione  Riva  (4),  al  n.  924, 
troppo  poco  conosco  per  poterne  dire  qualche  cosa;  lo  Spithòver 
illustrato  dal  Tobler  (5)  con  ben  264  laudi  dipende  evidente- 
mente dalla  Franceschina  di  Iacopo  Oddi.  Il  Bolognese,  Univer- 
sità, 838,  ha  una  raccoltina  di  18  laudi  iacoponiche,  il  Pisano, 
Archivio  Capitolare,  147,  fatto  conoscere  dal  Pecchiai  (6),  con- 
tiene un  laudarietto  di  nove  ritmi,  la  massima  parte  del  frate 
lodino.  Piccole  raccolte  si  trovano  pure  nel  Fonte  Golombo  9 
(ora  alla  Comunale  di  Rieti,  1.  10),  nei  Riccardiani  1582  (1.  13) 
e  2957  (1.  7,  ma  le  ultime  due  non  di  lacopone  sebbene  attri- 
buite a  lui  dal  ms.),  nel  Padovano  Universitaria  2029  (1.  7).  Fram- 
menti di  laudarli  iacoponici  si  possono  riconoscere  nel  Genova, 
Univers.  E.  I.  10;  Gubbio,  Sperelliana,  D.  8;  Napoli,  Nazion.  XIII, 
D.  26.  Ricorderò  pure  due  copie  manoscritte  della  edizione  di 
Firenze  del  1490;  una  nella  Nazionale  di  Napoli  (XIV.  E.  5), 
un'altra  nella  Biblioteca  di  Lucca  (n.  1291).  Il  ms.  190  dell' Ar- 


(1)  Ne  parla  anche  il  Mazzatinti  in  Miscellanea  frane.,  1886,  1.  cit. 

(2)  Il  codice  Hamilton  contiene  in  principio  131  laudi  attribuite  a  lacopone 
e  che  formano  il  laudario  lacoponico  ;  ne  seguono  poi  molte  altre  attribuite 
al  Giustiniani  e  ad  altri,  per  cui  potrebbe  anche  unirsi  ai  laudarli  misti.  Ne 
parla  il  Biadene  in  questo  Giornale,  9,  187  e  segg. 

(3)  Bini,  Mime  e  prose  del  buon  secolo  della  lingua,  Lucca,  1852. 

(4)  Catalogue  des  livres  rares  et  précieuxt^manuscripts  et  imprimés  com- 
posant  la  Bibl.  de  M.  C.  B.  de  Milan,  Paris,  1856. 

(5)  Cfr.  Zeitschrift  filr  romanische  Philologie,  H,  Halle,  1878. 

(6)  Ofr.  Una  nuova  raccoltina  di  laudi  sacre,  in  Bullettino  critico  di  cose 
francescane,  v.  I,  1906. 

Giornale  storico,  LXIV,  fase.  190-191.  11 


162 


G.    GALLI 


chivio  Comunale  di  Todi,  del  secolo  XVII,  scritto  da  Lucalberto 
Petti,  che  nella  prima  parte  è  copia  del  Todino  194,  nella  se- 
conda di  altri  codici  diversi,  è  però  di  poca  importanza,  per 
l'attribuzione  dei  ritmi  (in  numero  di  314)  a  lacopone;  anche  la 
lezione,  a  detta  del  Molteni,  è  poco  attendibile. 

Di  altri  manoscritti  che  possano  aggiungersi  a  questa  classe 
di  laudarli  non  ho  notizia  sicura.  Noterò  solo  un  codice,  di  cui 
trovai  un  appunto  nelle  Carte  Molteni,  del  British  Museum  di 
Londra.  È  un  membranaceo  del  sec.  XV,  segnato:  Addit.  16657. 
A  f.  190  si  trovano  i  Dieta  fratrìs  Jacóhl  Benedica^  a  cui  se- 
guono da  f.  193-330  delle  laudi  di  cui  nulla  dice  il  Molteni.  In 
principio  porta  una  nota  da  cui  appare  che  appartenne  a  un 
frate  minore  de  Bevanea  il  quale  lo  comperò  da  un  «  viro  ma- 
«  gistro  herculano  olim  domini  clementis  de  tuderto  ».  Ciò  mi 
fa  sospettare  che  le  laudi  ivi  contenute  possano  essere  di  laco- 
pone, tanto  più  che  consta  l'esistenza  di  un  codice  del  nostro 
poeta  nel  monastero  di  Bevagna,  il  quale  non  ho  potuto  sapere 
dove  sia  andato  a  finire. 

Giuseppe  Galli. 


LETTERE  INEDITE 


DI 


MATTEO  MARIA  BOIARDO 


Alle  centocinquanta  lettere  del  Boiardo  raccolte  da  N.  Cam- 
panini (1),  all'una  edita  poi  dall'Albini  (2),  alle  dodici  messe  in 
luce  dal  Pagliani  (3),  altre  dodici  ne  aggiungo  qui,  rinvenute 
sparsamente  in  alcuni  archivi  dell'Emilia.  E  insieme  parmi  op- 
portuno ristamparne  quattro  delle  ultimamente  edite,  perchè 
certe  lacune  si  possono  in  esse  facilmente  colmare  e  alcune 
sviste  facilmente  correggere  (4). 


I. 

Extra:  Magnifico  ac  generoso  patri  colendissimo  Silvio  de  Sancto  Bonifatio 
Corniti  et  Capitaneo  Regij  etc. 

Magnifice  ac  generose  pater  amantissime:  Francesco  de  medici  notaro  da 
casalgrande  mio  homo  et  latore  de  la  presente,  dice  che  Iha  una  controversia 


(1)  Nel  volume  miscellaneo  Studi  su  M.  M.  Boiardo,  Bologna,  Zani- 
chelli, 1894. 

(2)  Nuova  Antologia,  s.  Ili,  voi.  LIX,  p.  56. 

(3)  Giuseppe  Pagliani,  Notizie  storiche  civili  e  religiose  di  Arceto  e  della 
antica  contea  di  Scandiano  dal  medioevo  ai  nostri  tempi,  Reggio  Emilia, 
tip.  Artigianelli,  1907.  Appendici  n'  55,  56,  114. 

(4)  È  da  notare  poi  che  in  una  delle  lettere  edite  dal  Pagliani  (1.  e,  App.  56) 
e  qui  non  ripetuta,  per  un  semplice  errore  di  stampa  la  data  è  del  1463  an-v 
zichè  1464,  la  quale  ultima  risulta  già  dai  manoscritti  di  don  Giuseppe  Pa- 
gliani. Tale  rettificazione  di  data  è,  per  il  biografo  del  Boiardo,  importantissima 


164  G.    REICHENBACH 

cum  uno  petro  da  caranno  da  baise  suo  cugino,  de  la  qual  ha  obtenuto  da 
la  Excellentia  del  Illustrissimo  Signor  nostro  che  Iha  sia  rimessa  ne  la  M.  V. 
la  qual  prego  che  epso  francesco  li  sie  racomandato  in  quello  che  Iha  può, 
perche  epso  francesco  oltre  chel  sie  mio  homo,  e  mia  cosa  cara  :  et  cosi  mostrarli 
chel  mio  scrivere  li  sia  giovato  :  noctificando  ala  V.  M.  che  diete  francesco  non 
e  men  servitore  di  quella  comò  di  me,  et  cosi  tutto  il  resto  de  li  mei  :  me 
racomando  ala  V.  M.  bene  valete  Scandianj  die  4  Augusti  1461 

M.  V.  filius 

Mattheusmaria  de  boiardis  comes  etc.  (1). 


II. 

Extra:  Magnifico  ac  generoso  tanquam  patri  Amantissimo  Gomiti  Silvio  de 
Sancto  Bonifatio  Capitaneo  Eegij  etc. 

Magnifice  ac  generose  Comes  tanquam  pater  Amantissime.  Jl  Lator  presente 
si  e  Jacomo  di  Michele  da  Scandiano  :  Jl  quale  viene  dala  V.  M.  per  bavere 
da  quella  qualche  aviamento  :  Et  perchè  epso  Jacomo  e  pur  de  li  mej  liquali 
son  etiandio  dela  M.  V.  lo  aricomando  ad  quella  che  gli  presti  lo  adiuto  suo 
in  quello  che  Iha  può.  et  de  tutto  quello  sera  facto  a  dicto  Jacomo  ni  rece- 
vero  grande  alpiacere  ala  quale  significo  gratia  de  dio  son  sano  :  Yaleat  M.  V. 
cui  me  comendo.  Datum  Scandianj  die  9  Februarj  1462 

M.  V. 

f.  Matheusmaria  Bo^^ardus 
Scandiani  et  Caselgrandis  Comes  (2). 

m. 

Extra  :  Magnifico  ac  generoso  fratri  ac  patri  honorandissimo  Corniti  Silvio  de 
Sancto  bonifatio  Capitaneo  Regij. 

Magnifice  ac  generose  frater  et  pater  honorandissime  :  Zohanne  dala  querza 
de  casalgrande  exhibitore  presente  voria  licentia  da  la  M.  V.  di  condure  certo 
frumento  che  Iha  li  a  Rezo  a  casa  sua  di  quello  ha  ricolto  ale  ca  dal  bosco, 
havendone  bixogno  per  suo  usso  per  la  familgia  sua.  Ui^e  essendo  certi  del 
bixogno  suo  preghiamo  la  V.  M.  che  per  amore  nostro  glie  conceda  la  licentia 
chel  domanda  comò  che  anche  altre  volte  vi  habiamo  scripto  per  epso  Zohanne. 


(1)  R.  Arch.  di  Stato  di  Reggio  Emilia:  Carteggio  del  Reggimento.  Debbo 
alla  cortesia  del  sottoarchivlsta  cav.  Alberto  Catelani  la  maggior  parte  delle 
lettere  rinvenute  in  questo  Archivio. 

(2)  Ibidem. 


VARIETÀ  165 

et  di  questo  ni  receveremo  appiacere  assai.  Valeat  M.  V.  nos  et  nostra  comen- 

damus.  Scandianj  xxvj  Martij  1462 

Thadea  et  )  de  boyardis 
Mattheusmaria  )      comites  (1). 

IV. 

Extra  :  Magnifico  et  generoso  patri  honorandissimo  corniti  Silvio  de  Sancto 
Bonifacio  Eegij  Capitaneo  D.  etc. 
Magnifice  ac  generose  comes  tanquam  pater  honorandissime  :  El  latore  dela 
presente  me  dice  che  la  excellentia  del  JUustrissimo  nostro  Signor  ha  com- 
messo una  certa  causa  ala  V.  M.  de  dicto  lator,  per  una  acussa  gli  fu  facta 
per  uno  cane  che  se  dicea  era  suo  che  pilgio  uno  levorino  disavedutamente 
comò  credo  sia  informata  epsa  V.  M.  ala  qual  perche  epso  lator  e  pur  degli 
nostri  amici  lo  aricomando  strictamente  che  a  ragione  lo  favorisca  per  mio 
amore  ad  ciò  chel  poverhomo  non  sia  straziato  indebite  et  iniuste:  comò 
credo  gli  poterla  intervenire  se  Iha  V.  M.  non  gli  presta  il  favore  suo  atento. 
Bene  perho  cum  suo  honore:  ala  quale  me  recomando.  Bene  valete.  Scandianj 
6  Julij  1462 

Mattheusmaria  Boyardus  Comes  (2). 

V. 

Extra:  Massarijs  et  communi  scandiani  dilectissimis. 

Dilectissimi  nostri  etc.  Questa  presente  si  è  per  farve  sapere  come  vogliamo 
adhibeati  fede  ad  quello  ve  dira  stephano  panzarase  non  mancho  se  io  perso- 
naliter  ve  lo  dicesse.  Appresso  ve  Ricordo  debiati  mandare  uno  apto  qua  a 
ferrara  cum  bono  ordine  per  lo  facto  di  quello  compromesso  fu  facto  ni  lo  Illustro 
Signor  miser  Sigismundo  adcio  se  gè  possa  dare  expeditione.  et  di  questo  comò 
seti  in  ordine  di  mandarlo  per  vostre  littere  datine  adviso  etc.  Bene  valete 
ferrarle  quintodecimo  februarij  1475 

Mattheus  Maria  boiardus  comes  scandiani  etc.  (3). 

VI  (4). 

ni.me  Princeps  et  Dux  Excellentissime  D.  mi  observantissime.  le  stato  et 
e  longa  contesa  et  differentia  de  confine  territorio  et  iurisdictione  tra  el  Co- 


(1)  Ibidem. 

(2)  Ibidem.  ^ 

(3)  E.  Arch.  di  Reggio:  Comune  di  Scandiano:  Carteggio  del  Conte,  del 
Governatore,  della  Comunità  e  d'altri,  1473-1708. 

(4)  La  presente  lettera  manca  del  destinatario  e  della  data.  Il  primo  è 
certamente  il  Duca  di  Ferrara,  l'altra  è  presumibilmente  non  molto  posteriore 
alla  data  della  lettera  precedente,  cui  questa  va  congiunta  per  il  contesto. 


166  G.    BEIOHENBACH 

# 

mune  et  li  homeni  mei  de  Scandiano  per  la  villa  de  Fellegara  et  suo  terri- 
torio che  e  de  le  pertinentie  et  iurisdictione  de  Scandiano  da  uno  canto,  et 
il  Comune  et  homini  de  Arcete  da  laltro  Canto,  et  come  più  largamente 
appare  per  acti,  processi,  et  testimonij:  ali  quali  se  habia  rellatione  per  de- 
monstratione  deli  logi  dele  differentie  :  le  quale,  come  ho  dicto  sono  durate 
longamente,  et  mai  non  sono  state  decise  :  benché  più  et  più  compromissi  se 
siano  facti  per  le  parte,  che  sono  sempre  spirati,  et  fra  li  altri  ne  fu  facto 
uno  in  messer  Manfredo  da  Correza,  laltro  in  lo  111.  vostro  fratello  Messer 
Sigismondo,  laltro  pochi  di  fa  in  certi  amici  comuni  :  quali  tuti  sono  spirati  : 
el  Eeverendissimo  Monsignore  qui  anche  adesso  se  interponea  de  metterli  ac- 
cordo, ma  non  li  vedo  ordine,  et  cusi  per  non  essere  stata  dieta  lite  (et  la 
qual  e  instructa)  decisa  ogni  altro  die  ne  segue  qualche  scandallo,  et  in  dies 
se  sta  a  periculo  de  grande  Inconveniente,  perche  ogni  giorno  el  conte  Zoanne 
boiardo  :  qual  governa  quilli  de  Arceto,  me  da  qualche  fastidio,  et  di  continuo 
e  suso  li  rincresementi  cum  tuore  biave,  et  fare  altre  molestatione.  Et  perchel 
saria  mio  desiderio,  che  io,  et  li  mei  vicinassimo  bene,  et  stare  in  pace  cum 
el  Conte  Zoanne,  et  cum  li  suoi,  che  saria  facil  cosa,  quando  tale  dififerentia 
fusse  terminata,  et  chiarita  per  sententiam.  prego,  et  supplico  Vostra  Excel- 
lentia  acio  luna  fiata  se  metta  fine  a  dieta  lite,  che  quella  se  digni  darse  uno 
ludice  che  habia  a  venire  suso  el  loco  dele  difiPerentie,  et  terminarla,  possa 
che  dieta  causa  e  instructa,  et  chel  non  resta  a  fare  altro  che  dare  sententia, 
perche  li  processi  sono  facti,  et  li  testimonij  examinati,  et  questo  non  obstante 
instantia  o  tempo  che  fusse  passato. 

Et  perche  anche  li  homini  da  Montebabio  governati  per  dicto  conte  Zoanne 
ogni  altro  die  turbano,  et  inquietano  li  mei  homini  de  la  Torexella  per  confine, 
che  quello  tale  ludice  che  havesse  a  terminare  quela  de  fellegara,  et  de  Ar- 
ceto havesse  etiam  ad  intendere,  cognoscere,  decidere,  et  terminare  tanto  quanto 
volesse  ragione  tra  dicti  da  Montebabio,  et  dala  Torexella,  altremente  non 
facendo  altra  provisione  circa  diete  differentie  la  V.  S.  ogni  altro  giorno  sen- 
tirà querelle,  et  rincrescementi  Et  terminato  che  fusseno  cessariano  li  fastidij, 
et  la  brigata  staria  in  pace,  che  mai  non  se  farà  insino  che  non  siano  ter- 
minate Eacomandome  a  V.  Celsitudine. 

Servitor  Matheus  M*  boiardus  (1). 


vn. 

Extra:  Magnificis  ac  generosis  patribus  honorandis  D.nis  Sapientibus  Comunis 
Mutine. 
Magnifici  ac  generosi  patres  honorandi  etc.  Jo  ho   cerchato   de  quelle  let- 
tere de  miser  Guasparo  de  che  V.  M.  me  scriveno  :  lequale  non  trovo,  perche 


(1)  Biblioteca  comunale  di  Reggio  Emilia:  ms.  CXV,  A,  21. 


VABIBTÀ  167 

nel  movimento  e  stato  facto  se  debbeno  essere  involupato  (sic)  in  qualche  loco, 
che  anchora  non  sono  venute  fora:  'ma  som  certo  se  V.  M.  scriveno  ad  epso 
miser  Guasparo  chel  scriverà  di  novo  quello  chel  fece  ame:  preterea  circa 
quelle  cosse  me  scrivite  che  manchano  la  il  mio  Sechalcho  me  dice  che  per 
errore  fu  conducto  qui  una  tavola  cum  li  trepedi,  et  uno  Solo  (1):  qual  subito 
le  faro  recondure  la  :  ma  de  quelle  altre  cosse  che  me  scrivite  gè  manchamo, 
epso  mio  Sechalcho  me  dice  haverle  consignate  a  Zoanne  pignata.  Salvo  che 
li  Canteri  de  la  stalla,  che  vero  e  che  sono  stati  tolti  via  :  ma  li  mei  gè  li 
haveano  anche  facto  mettere,  a  V.  M.  me  ricomando.  Scandianj  ix  fe- 
bruarij  1483: 

Matheusmaria  boiardus  Scandianj  etc.  Comes  (2). 


vm. 

Extra  :  Magnifice  ac  generose  domine  tanquam  matri  honorandissime  d.  Magda- 
lene  de  Torellis  Comitisse  Guastalle  etc. 

Magnifica  et  generosa  domina  tanquam  mater  honorandissima  :  perche  tandem 
per  questa  Magnifica  Comunità  e  stato  posto  ordine  (commandando  cussi 
strictissimamente  il  mio  Illustrissimo  Signore  Duca  de  Ferrara)  che  il  com- 
missario de  sua  excellentia  il  quale  insieme  cum  quello  de  lo  Illustrissimo 
Signore  Duca  di  Milano  bavera  ad  intendere  de  la  differentia  fra  V.  M.  et 
dieta  Comunità  (3)  :  subito  se  ne  venga  da  Ferrara  et  trovissi  qui  :  haveria 
caro  essere  advisato  da  V.  M.  per  il  presente  latore  qual  mando  a  posta  in 
che  loco  ambiduy  epsi  Commissarij  se  haverano  ad  ritrovare  et  qual  die  pre- 
ciso :  et  come,  et  se  el  comissario  per  la  parte  vostra  sera  in  ordeno  Et  cussi 
ne  prego  assay  V.  M.  ala  quale  mi  offero  et  recommando.  Regij  21  Maij  1487. 

Mattheus  Maria  Boyardus  Comes 
Ducalis  Eegij  Capitaneus  etc.  (4). 


IX. 

Extra  :  Magnifice  et  generose  domine  tanquam  matri  honorandissime  D.ne  Mag- 
dalene  de  Torellis  Comitisse  etc.  Guastalle.  Subito. 

Magnifica  et  generosa  d.na  tanquam  mater  honoranda  :  il  commissario  che 
debe  venire  dal  canto  de  questa  Magnifica  Comunità   per   quella   difierentia 


(1)  Non  saprei  dire  qual  specie  di  suppellettile  fosse  questa. 

(2)  Arch.  stor.  comunale  di  Modena:  Lettere  ducali  e  diverse,  1450-1493. 

(3)  Si  accenna  alle  contese   sorte  nel  1487  fra  Reggio  e   Guastalla  per   il 
possesso  di  Campo  Rainero,  indebitamente  preteso  dai  Reggiani. 

(4)  R.  Arch.  di  Reggio:  Carteggio  Anziani. 


168  G.    REIOHENlìACH 

sera  mo  in  ordine:  et  non  resta  senon  che  V.  M.  me  ad  visi  del  loco  dove  se 
hanno  a  convenire  luno  commissario  et  laltro  :  et  quando  :  siche  non  gli  gravi 
advisarmene  ad  ciò  che  sapiamo  luna  parte  et  laltra  quanto  se  hahia  ad  fare 
ala  qual  mi  recomando.  Regij  8  Junij  1487 

Mattheus  Boyardus  Comes 
Ducalis  Regij   Capitaneus  (1). 


X. 


Extra  :  Magnifico  tanquam  fratri  honorando  philippo  cistarello  ducali  factori 
generali  etc.  Ferrane. 

Magnifice  frater  honorande  :  la  V.  M.  vedera  per  la  qui  inclusa  copia  come 
li  hominj  da  Scandiano  hanno  pagato  le  spelte  delanno  1484:  le  quale  me 
pare  che  di  novo  V.  M.  ha  scripto  al  massaro  quivi  che  se  scodano  (.)  la  copia 
di  la  ricevuta  e  de  manno  di  hernardino  da  dallo  in  quello  tempo  notare  (?) 
a  la  Camera  si  che  sapia  V.  M.  che  loro  sono  creditori  de  assai  quan- 
titate:  quale  se  non  fussero  conducte,  non  (2)  le  condurimo  sei  non  gè  fusse 
li  dinari:  me  racomando  a  V. M.  R«gij  xxvj  Aprilis  1488. 

Mattheus  maria  boiardus 
Scandiani  etc.  comes  (3). 


XI. 


Extra:  Jllustrissimo  principi  ac  excellentissimo  Domino  d.no  ohservandissimo 
Domino  Joanni  Galeaz.  Marie  Sfortie  vicecomiti  Duci  Mediolani  etc. 

Jllustrissime  princeps  ac  excellentissime  d.ne  d.ne  observandissime.  Quello 
che  vostra  Celsitudine  per  una  sua  de  xviii  del  passato  data  a  pavia  me  scrive 
haver  ordinato  che  li  Subditi  del  mio  Illustrissimo  Signore  duca  di  Ferrara  etc. 
possano  liberamente  trare  dal  teritorio  parmesano  et  condure  di  qua  le  biade 
et  racolti  de  le  possessione  et  terre  si  trovano  bavere  in  epso:  quello  me- 
demo  e  stato  ordinato  quaoltre  per  li  Subditi  de  la  Sublimita  Y.  che  hanno 
possessione  et  terre  da  questo  canto  :  et  tuto  e  stato  facto  promptamente  et 
voluntieri  per  continuare  ne  la  consuetudine  antiqua  et  laudabille  observata 
per  adreto  hinc  inde  sopra  ciò,  de  la  quale  in  la  sua  me  ha  tocato  V.  Jllu- 


(1)  Ibidem. 

(2)  Forse  deve  intendersi  «  noi  ». 

(3)  Bibl.  com.  di  Reggio:  ms.  CXV,  A,  21.  Questa  è  una  delle  lettere  già 
edite  dal  Pagliani,  1.  e. 


VARIETÀ  169 

strissima  S.  et  anche  per  obsecundare  ale  equissime  voglie  di  quella  a  la  cui 
gratia  infinitemente  me  recoraando.  Regij  ij  Julij  Mcccclxxxviij 

Eiusdem  Ducalis  Dominationis  Vestre  Servitor  obsequentissimus 
Mattheus  M»  Boyardus  Scandiani  Comes  etc. 
Ducalis  Regij  Capitaneus  (1). 


xn. 


Extra  :  JUustrissimo  principi  ac  excellentissimo  d.no  D.no  meo  uniche  D.  Her- 
culi  Duci  Ferrarle  etc. 

JUustrissimo  Signore  mio:  Io  non  mi  extendero  ad  scrivere  altramente  a 
V.  Ex.  quello  in  che  se  sia  risolto  il  facto  de  Guastalla  fra  Antonio  superbo 
mandato  per  quella  et  Madonna  Magdalena  Torcila:  perche  scio  che  epsa 
V.  ex.  et  da  Antonio  et  da  questa  sua  fidelissima  comunità  per  quello  che 
luno  et  laltra  mi  ha  dicto  bavera  inteso  la  cossa  dal  A  infino  al  z  :  solo  per 
mio  debito  per  la  devotione  et  fide  porto  a  V.  JU.  S.  gli  ricordo  bene  fldel- 
mente  che  in  verità  lo  e  da  fare  buon  capitale  de  questi  terreni  de  la  dif- 
ferentia  se  non  per  la  proprietade  la  quale  e  pur  notabile  saltem  per  la 
Jurisdictione  et  per  non  lassare  dieta  Comunità  in  tanta  jactura  et  mala  con- 
tenteza  per  la  grande  spexa  per  ley  facta  et  per  rimanere  cussi  schernita  da 
uno  Comunelle  come  e  Guastalla  et  anche  perche  sono  cosse  le  quale  et  pace 
et  bello  fano  al  proposito  de  V.  Illustrissima  S.  ala  quale  sempre  me  rico- 
mando. Regij  26  Martij  1490 

Eiusdem  JU.  Dom.  Vestre 
Servitor  et  famulus  fidelis 

Mattheus  M*  Boyardus  (2). 


xm. 


Extra  :  Potestati  meo  Scandiani. 

Podestà:  Io  te  ordinay,  Come  tu  sai  che  Zoanne  mengello  non  havesse  a 
pagare  se  non  le  Colte  reale  per  quelle  sue  terre:  et  per  chiarirte  quelle  Io 
Intenda  che  siano  reale  :  dico  che  sono  tute  le  cose  che  se  danno  al  S.  cioè 
la  tassa,  et  spelte,  et  il  salario  del  podestà,  et  del  notare  o  ragionerò  del  Co- 


(1)  R.  Arch.  di  Reggio  ;  Cart.  Anziani.  La  lettera  missiva  del  Duca  Gian 
Galeazzo  Sforza,  cui  accenna  qui  il  Boiardo,  trovasi  nel  «  Carteggio  del  Reg- 
«  gimento  ». 

(2)  R.  Arch.  di  Reggio:  Cart.  Anziani. 


170  G.    REIOHBNBAOH 

mune,  et  la  fabrica  de  berbera  (1),  et  ogni  altra  cosa  che  accadesse  pagare  a 
Conta[nti].  bene  vale  Regij.  xxj  Junij  1490 

Mattheus  M.»  boiardus  Co:  (2). 

XIV  (3). 

Thomaso  vede  de  remosscolare  tute  Rezo  per  trovarmi  uno  strassinazo  et 
guarda  che  sia  strassinazo  proprio  e  non  degagna  (4)  comò  è  quello  che  mi 
hai  mandato  laqual  proprio  è  degagna  :  Jo  Jntendo  che  el  ha  uno  Monello  di 
Zoboli  et  andrea  di  Zoboli,  et  potendosse  bavere  uno  mandamelo  subito:  et 
non  ne  havendo  niuno  li  predicti  cercha  altrove  :  et  cossi  dilo  a  mia  molgiera 
che  ancora  lei  fazza  cerchare  se  lei  vole  gè  manda  del  pesso  bene  vale  die 
21  Marcij  1492  Scandiani. 

Matheus  Maria  Boiardus  Comes  (5). 

XV. 

Extra:  Potestati  meo  Scandiani. 

Podestà  :  Jo  voglio  che  petro  zoanne  bertolucio  conferisca  da  nadale  in  qua 
come  lo  era  conferito  a  tute  le  graveze  occurente  :  cusi  provede  chel  paga  : 
Vale  Regij  8  Marcij  1494 

Mattheus  M:*  boiardus  Co:  (6). 

XVI. 

Extra:  Potestati  meo  Scandianj. 

Podestà  :  provede  che  li  heredi  de  magistro  Andrea  cogo  non  siano  gravati 
ad  instantia  de  quilli  mei  hominj  per  li  benj  sono  scituatj  laoltra  insino  che 
havraj  altro  da  me.  Vale  ex  Civitatella  Regij  v°  Aprilis  1494. 

Mattheusm.*  boiardus  Comes 
ducalis  ibi  Capit.  (7). 

(1)  Rubbiera. 

(2)  R.  Arch.  di  Reggio:  Archivi  privati  :  Carte  diverse  private  ;  Documenti 
relativi  alla  famiglia  Boiardi.  Già  edita  dal  Pagliani,  1.  e. 

(3)  Certamente  diretta  a  Tomaso  Mattacoda,  notaio  e  fiduciario  di  Matteo- 
maria. 

(4)  Secondo  i  vocabolari  reggiani  il  primo  è  «  una  specie  di  giacchio  aperto 
e  per  pescare  »,  la  seconda  una  «  rete  lunga  e  larga  la  quale  gettasi  nel 
«  fondo  delle  valli  o  paludi,  si  strascina  un  pezzo  e  poi  si  cava  fuori  col 
«  pesce  ». 

(5)  R.  Arch.  di  Reggio:  Archivio  Turri:  Comune  di  Scandiano,  n.  1. 

(6)  Ibidem:  Archivi  privati:  Carte  diverse  private:  Documenti  relativi  alla 
fam.  Boiardi.  Edita. 

(7)  Ibidem:  Idem. 


VAKIETÀ  171 

Certamente  nessuna  delle  lettere  qui  edite  reca  un  documento 
decisivo  per  la  conoscenza  della  vita  o  dell'anima  di  Matteo 
Maria  Boiardo.  Tuttavia  due  mi  sembrano  notevoli  :  la  settima, 
scritta  subito  dopo  il  suo  ritorno  da  Modena  dov'era  stato  per 
due  anni  Capitano,  colla  quale  egli  vuol  far  constatare  d'essersi 
onestamente  riprese  le  masserizie  proprie,  non  già  la  roba  del 
Comune;  e  la  quattordicesima,  la  quale  è  una  prova,  data  sotto 
forma  quasi  scherzosa,  della  passione  ch'egli  aveva  per  la  pesca, 
lo  svago  più  acconcio  all'indole  sua  mite. 

Le  altre  (salvo  la  sesta  che  mostra  ancora  una  volta  lo  spi- 
rito acre  e  litigioso  del  suo  sciagurato  cugino  Giovanni)  ce 
lo  presentano  qual  già  lo  conoscevamo,  attento  amministratore 
delle  cose  proprie,  scrupoloso  reggitore  della  città  a  lui  confi- 
data. Soltanto  si  potrebbe  aggiungere  che  le  prime  quattro,  e 
cosi  pure  quelle  sincrone  edite  dal  Campanini,  acquistano  forse 
un  qualche  nuovo  valore  se  si  considerano  scritte  da  un  perso- 
naggio appena  ventenne:  poiché  la  data  di  nascita  del  Conte 
di  Scandiano,  come  spero  aver  tra  breve  agio  di  dimostrare,  va 
portata  dal  1434  fino  ad  oltre  il  1440. 

GrlULIO   REICHENBACH. 


IL  MACHIAVELLI 

in  alcune  novelle  di  Matteo  Randello 


Vittorio  Osimo,  avvicinando  già  in  un  articolo  di  questo  stesso 
Giornale  (1)  il  nome  dei  due  scrittori,  a  diverso  titolo  tanto 
interessanti  e  rappresentativi  della  vita  e  dell'arte  del  nostro 
Cinquecento,  rivendicava  al  Machiavelli,  il  quale  alla  produzione 
novellistica  pareva  aver  contribuito  soltanto  colla  novella  di 
Belfagor  arcidiavolo,  anche  la  paternità  di  uno  dei  racconti  della 
copiosa  silloge  bandelliana.  È  la  novella  40^  della  parte  I,  del- 
l'inganno usato  da  una  scaltrita  donna  al  marito,  che  il  Machia- 
velli, stando  nell'agosto  del  1526  sotto  Milano  al  campo  di  Gio- 
vanni delle  Bande  Nere,  ebbe  occasione  di  raccontare  dopo  alcune 
ore  di  faticose  e  vane  sue  esperienze  militari. 

Il  Bandelle  con  garbato  brio  ci  narra  della  magra  figura  che 
ebbe  a  fare  la  scienza  teorica  del  Machiavelli  nel  confronto  col- 
pabilità pratica  del  condottiero:  quello,  che  cosi  dottamente 
disquisiva  di  ordinamenti  militari  da  colpire  di  persuasa  ammi- 
razione il  buon  novellatore,  non  riusci  in  due  ore  di  laboriosi 
tentativi  a  disporre  tre  mila  fanti  secondo  il  suo  schema  ideale, 
questi  col  sussidio  di  brevi  ordini  energici  e  di  vibranti  rulli  di 
tamburo,  ebbe  in  pochissimo  d'ora  ad  ordinare  quella  gente  in 
vari  modi  e  forme.  E  del  dotto  amico  si  fanno  piacevolmente 
beffa  a  tavola  guerriero  e  novellatore,  e  il  Machiavelli,  quasi  a 
compensarli,  si  tramuta  a  sua  volta  di  scienziato  in  novellatore  ; 


(1)  Vedi  Giorn.,  54,  88-89  (Il  Machiavelli  e  il  Bandelle). 


VARIETÀ  173 

l'avido  Bandelle,  che  d'ogni  racconto  udito  faceva  prò  per  la 
sua  raccolta,  ritiene  la  novella,  la  scrive,  la  dedica  a  Giovanni 
delle  Bande  Nere. 

Stabilisce  l'Osimo  sulle  traccie  di  Pierre  G-authiez  (1),  che 
tanti  esatti  particolari  di  luogo  e  di  tempo  riferiti  dal  Bandello 
non  lasciano  adito  a  dubbi  e  che  il  Machiavelli  fu  veramente 
il  narratore  della  novella  che  lo  scrittore  lombardo  gli  attri- 
buisce. 

Ma  né  l'Osimo,  né  altri,  ch'io  mi  sappia,  degli  studiosi  di  cose 
bandelliane  ha  notato  finora  che  non  soltanto  da  un  racconto 
orale,  ma  da  uno  scritto  ben  noto  del  Machiavelli,  ebbe  a  trarre 
il  Bandello  quasi  di  sana  pianta  un'altra  delle  sue  novelle:  la  1* 
della  parte  I  «  Buondelmonte  de'  Buondelmonti  si  marita  con 
«  una,  e  poi  la  lascia  per  prenderne  un'altra,  e  fu  ammazzato  »  (2). 
Ma  il  Bandello  non  si  fa  in  quest'occasione  un  dovere  di  citare 
la  sua  fonte  ;  se  ne  vale  tacitamente  e  senza  scrupoli,  con  quel 
facile  sistema  che  gli  è  proprio,  che  studi  recenti  (3)  hanno  già 
riscontrato  per  la  derivazione  di  altre  sue  novelle,  e  che  nuove 
indagini  sulle  fonti  delle  novelle  bandelliane  non  potranno  se 
non  mettere  meglio  in  luce.  Ode  il  Bandello  narrare  un  fatto 
in  una  di  quelle  signorili  conversazioni  in  cui  gli  aneddoti  fio- 
rivano sulle  argute  labbra  degli  interlocutori,  lo  ritiene  nella 
memoria  pronta  e  felice,  lo  scrive  dapprima  «  cosi  a  la  grossa 
«  a  modo  di  commentario  »,  e  dopo  parecchi  anni  magari,  ripren- 
dendo lo  scritto  suo  e  rimaneggiandolo  per  la  pubblicazione, 
ricorre  volentieri  a  una  fonte  scritta  che  quel  racconto  con- 
tenga, anche  se  si  tratti  di  un  libro  largamente  noto,  senza 
timore  dell'accusa  di  un  plagio  assai  facilmente  controllabile. 

È  il  caso  di  questa  novella,  dedicata  a  Ippolita  Sforza  Benti- 
voglio,  la  dotta  e  gentile  protettrice  del  Bandello,  la  musa  inspi- 
ratrice  quasi  della  sua  raccolta.  Nella  dedicatoria  il  Bandello 
prende  le  mosse  da  un  episodio  della  vita  dei  signori  Bentivoglio, 


(1)  Jean  des  Bandes  Noires,  Paris,  Société  des  éditions  littéraires  et  ar- 
tistiques,  1901. 

(2)  Le  novelle,  ed.  Laterza,  voi.  I,  pp.  6  s^ 

(3)  Vedi  in  questo  Giornale,  59,  91  sg  (Agosti-Garosci  ,  Per  la  crono- 
logia di  alcune  novelle  dì  Matteo  Bandello).  Vedi  anche  F.  Picco,  Una  fonte 
diretta  del  Bandello  nélV  «  Itinerario  »  di  Lodovico  Varthema,  Piacenza, 
Del  Maino,  1912;  per  nozze  Revelli-Zuccante. 


174 


e.    AGOSTI    GABOSCI 


cui  egli  attivamente  partecipava,  investito  di  incarichi  di  fiducia, 
consultato  nelle  circostanze  più  gravi.  Egli  ritorna  infatti  alle 
sale  dei  Bentivoglio  a  Milano,  in  giorno  di  ricevimento  affollate 
di  dame  e  di  gentiluomini,  a  render  conto  dell'esito  di  una  sua 
delicata  missione:  «  mandato  dal  signor  Alessandro  Bentivoglio 
«  vostro  consorte  e  da  voi  a  la  signora  Barbara  Gonzaga  contessa 
«  di  Gaiazzo,  per  cagione  di  dar  una  de  le  signore  vostre  figliuole 
«  per  moglie  al  signor  conte  Roberto  Sanseverino  suo  figliuolo, 
«  alora  ritornava  con  la  graziosa  risposta  da  lei  avuta  ».  Ai  due 
nobili  coniugi  tratti  in  disparte  rende  il  Bandello  conto  delle 
sue  pratiche,  poi  si  richiede  sul  caso  il  parere  dell'intera  com- 
pagnia :  già  l'arcivescovo  Sanseverino,  zio  del  conte  Roberto, 
tiene  «  il  maneggio  di  dare  al  detto  suo  nipote  la  sorella  del  car- 
«  dinaie  Cibo  »,  figliuola  d'una  sorella  del  papa  ;  bisogna  dunque 
rinunciare  senz'altro  ad  ogni  pratica  per  non  suscitare  lo 
sdegno  di  Leone  X,  sdegno  pericoloso  per  i  Bentivoglio,  fuoru- 
sciti di  Bologna,  cui  il  Papa  a  differenza  del  suo  anteces- 
sore Giulio  II  si  mostrava  favorevolmente  disposto.  Si  rinuncii 
dunque  alle  vagheggiate  nozze;  non  mancheranno  sposi  alle 
gentili  figliuole  dei  Bentivoglio.  Di  questa  opinione  si  fa  soste- 
nitore sopratutto  Lodovico  Alamanni,  ambasciatore  fiorentino, 
il  quale  a  meglio  avvalorare  il  suo  consiglio  narra  l'infausto 
matrimonio  di  un  suo  remoto  concittadino  «  che  fu  il  mal  seme 
«  della  gente  fosca  »  ;  il  racconto  non  poteva  essere  meglio 
collocato  che  sulle  labbra  di  un  fiorentino.  Queste  circostanze 
di  fatto  ci  permettono  di  dare  al  piccolo  «  maneggio  »  matrimo- 
niale dei  Bentivoglio  e  alla  narrazione  della  novella  una  data 
precisa. 

Leone  X,  principale  ostacolo  al  disegnato  sposalizio,  è  ponte- 
fice tra  il  1513  e  il  1521:  in  questi  anni  deve  essersi  trovato  in 
Milano,  ambasciatore  del  papa  e  del  governo  fiorentino,  l'Ala- 
manni. Lodovico  Alamanni  è  fratello  del  poeta  Luigi  (1)  e  figlio 
di  quel  Piero  Alamanni  che  fu  spesso  e  volentieri  impiegato  da 
Lorenzo  de'  Medici  come  ambasciatore  a  Milano,  dove  Piero 
aveva  passata  la  sua  giovinezza,  quando  il  padre  suo  Francesco 
e  lo  zio  Tommaso  occupavano  onorevoli  cariche  presso  Fran- 
cesco Sforza.  Morto  giovanissimo  il  22  giugno  1526,  era  Lodovico 


(1)  Vedi  H.  Hau VETTE,  Un  exilé  florentin  à  la  cour  de  France,  Luigi 
Alamanni,  Paris,  Hachette,  1903,  pp.  6  sg. 


VARIETÀ  175 

dal  padre  destinato  alla  vita  pubblica,  tanto  che  ebbe  nonostante 
i  giovani  anni  alcune  missioni  importanti  :  dal  che  si  rileva  come 
le  funzioni  di  ambasciatore  o,  come  allora  dicevasi,  di  oratore, 
erano  in  qualche  modo  ereditarie  nella  famiglia  Alamanni.  Es- 
sendo nel  1517  a  Roma,  fu  incaricato  dal  pontefice  (anche  il  Ban- 
dello  ce  lo  mostra  infatti  bene  informato  delle  intenzioni  del 
papa)  e  dal  governo  fiorentino  di  una  ambascieria  presso  il 
Lautrec  rimasto  nel  Milanese  alla  testa  delle  forze  francesi.  Tra 
le  lettere  di  Lodovico  che  l'Hauvette  (1)  dice  di  aver  consultate, 
datate  da  Roma,  la  più  interessante  è  quella  che  egli  scrisse  a 
suo  padre  l'il  novembre  1517,  per  sapere  se  doveva,  o  non,  ac- 
cettare l'ambascieria  a  Milano  :  non  ne  conosce  ancora  lo  scopo, 
ma  gli  s'è  fatto  intendere  che  è  di  grande  importanza,  tanto  che 
egli  si  domanda  se  sarà  capace  di  sbrigarsene.  Fu  mandato  a 
Milano  con  una  deliberazione  in  data  21  gennaio  1518  (2),  e  ne 
tornò  il  25  marzo  1519.  Egli  era  dunque  nella  florida  capitale 
lombarda  nel  1518,  ambasciatore  al  luogotenente  del  re  Cristia- 
nissimo di  Leone  X  e  alloggiato  al  convento  delle  Grazie  :  e  ce  lo 
riconferma  il  Randello  anche  nella  dedicatoria  della  nov.  41, 
III  (3),  alla  quale  si  può  in  base  a  questa  circostanza  assegnare 
press'a  poco  la  medesima  data. 

Il  Randello  negli  anni  che  corrono  tra  il  1515  e  il  1526  non 
ha  stabile  dimora  in  Milano,  è  sempre  in  moto  occupato  in  mol- 
teplici ufiìcì  tra  Mantova,  Grazuolo  e  Milano  stessa,  dove  dovette 
pur  fare  soste  considerevoli  al  monastero  delle  Grazie,  che  ospi- 
tava nel  1518  anche  l'ambasciatore  fiorentino,  e  mettersi  spesso 
ai  servigi  de'  suoi  protettori  ed  amici  i  Rentivoglio:  a  Milano 
egli  era  dunque  certamente  contemporaneamente  all'Alamanni 
tra  il  21  gennaio  1518  e  il  25  marzo  1519.  Ascolta  egli  allora 
questa  novella,  la  scrive  e  la  dedica  a  Ippolita  Sforza  Rentivoglio, 
anzi  la  pone  in  fronte  all'intera  raccolta  delle  due  novelle.  In- 
dubbiamente poi,  rimaneggiando  in  Francia  negli  anni  tra  il  1542 


(1)  Ibidem,  p.  7,  n.  1. 

(2)  Firenze,  Bibl.  Naz.,  ms.  1487  della  classe  Vili.  C£r.  all'Archivio  di  Fi- 
renze, Signori,  Legazioni  e  commissarie,  vol.«27,  f.  22  v. 

(3)  «  Non  sono  ancora  molti  giorni  che,  essendo  in  Milano  il  gentilissimo 
«  e  magnifico  messer  Lodovico  Alamanni,  ambasciatore  di  papa  Lione  X  appo 
«  il  luogotenente  del  re  cristianissimo,  seco  nel  convento  de  le  Grazie,  ove 
«  egli  albergava,  si  ritrovarono  a  desinare  alcuni  gentiluomini  ». 


176  e.    AGOSTI    GAKOSCI 

e  il  1554,  in  cui  furono  stampate  le  tre  prime  parti  della  silloge, 
parecchi  tra  i  suoi  racconti,  anche  questo  gli  venne  corretto  e 
rifatto  sul  racconto  parallelo  di  Niccolò  Machiavelli,  contenuto 
nei  capitoli  2<'  e  S''  del  libro  secondo  delle  Istorie  fiorentine.  La 
prima  edizione  del  1531  potè  essere  tra  le  mani  del  Bandello, 
che  degli  antichi  rapporti  amichevoli  col  Machiavelli  doveva  ben 
aver  conservato  la  curiosità  di  conoscerne  gli  scritti. 

È  bensì  vero  che  il  fatto  dell'uccisione  di  Buondelmonte  po- 
teva in  altri  modi  offrirsi  all'attenzione  del  novellatore.  Conte- 
nuto nella  Cronica  del  Villani  (V,  38)  che  il  Machiavelli  ebbe 
senza  dubbio  dinnanzi  come  traccia  e  come  fondamento,  il  rac- 
conto ci  si  presenta  anche  nelle  cronache  anteriori  e  contem- 
poranee al  Villani  coi  caratteri  di  una  tradizione  ben  stabilita 
non  solo  nelle  linee  generali,  ma  anche  in  quasi  tutti  i  partico- 
lari più  salienti,  ond'è  che  tra  le  varie  redazioni,  non  si  trova 
varietà  di  sostanza,  ma  solo  maggiore  o  minor  copia  di  circo- 
stanze diversamente  colorite.  G-ià  prima  del  Machiavelli  altri 
scrittori  avevano  svolta  la  narrazione  del  Villani ,  traendo 
profitto  anche  della  forma  sotto  cui  il  tradizionale  racconto 
si  presentava  nei  più  antichi  cronisti.  Cosi  Marchionne  di  Coppo 
Stefani  (1)  e  sulle  sue  traccie  un  novellatore,  ser  dio  vanni  Fio- 
rentino (2)  nel  Pecorone  :  più  liberamente  ancora  Leonardo  Bruni 
d'Arezzo  (3),  il  quale  a  sua  volta  aveva  trovato  un  imitatore  in 
Sozomeno  (4). 

Il  Machiavelli  riprendendo  alla  tradizione  stessa  quei  colori 
che  il  Villani  aveva  trascurati  o  diluiti,  o,  come  par  più  pro- 
babile, più  consono  al  suo  modo  di  comporre  (5),  ricorrendo  a 
questi  scrittori  direttamente,  aveva  già  amplificato,  abbellito  la 
narrazione,  aggiungendo  particolari  e  considerazioni  che  la  ren- 
dono più  verosimile. 


(1)  Cronaca  fiorentina,  rubrica  64,  in  Ber.  it.  Script.,  nuova  ediz.  Car- 
ducci e  Fiorini,  1903,  tom.  XXX,  P.  I. 

(2)  Il  Pecorone,  giornata  VITI,  nov.  1»;  Classici  italiani,  Milano,  1804, 
voi.  I,  pp.  151  sg. 

(3)  Storia  fiorentina  trad.  in  volgare  da  Donato   Acciainoli,  Firenze, 
Le  Monnier,  1856-58-60,  voi.  I,  pp.  270  sg. 

(4)  Excerpta  ex  Mstoria  Sozomeni  pistoriensi  ab  ann.  IODI  ad  ann.  1294, 
in  Ber.  it.  Script.,  addit.  Tartini,  I,  ce.  5-208,  pp.  95  sg. 

(5)  P.  ViLLARi,  Niccolò  Machiavèlli  e  i  suoi  tempi,  2*  ediz.,  Hoepli,  1897, 
voi.  m,  pp.  232  8g.  ;  Le  istorie  fiorentine,  libri  II,  HI  e  IV. 


VARIETÀ  177 

Sul  testo  suo  e  con  anche  maggiore  libertà  lavora  il  Bandello  : 
egli  toglie  peraltro  al  racconto  del  Machiavelli  con  identità  quasi 
verbale  ciò  che  gli  è  ben  proprio,  che  non  si  trova  negli  scrit- 
tori anteriori,  le  considerazioni  di  indole  politico-filosofica.  Ecco 
alcuni  tra  i  più  evidenti  punti  di  contatto.  Dice  il  Machiavelli  : 

Tanto  che  nel  mille  ottanta,  al  tempo  di  Arrigo  IH,  si  ridusse  l'Italia 
intra  quello  e  la  Chiesa  in  manifesta  divisione,  la  quale  non  ostante,  i  fio- 
rentini si  mantennero  infino  al  mille  dugento  quindici  uniti,  ubbidendo  ai 
vincitori,  né  cercando  altro  imperio  che  salvarsi.  Ma  come  ne'  corpi  nostri 
quanto  più  sono  tarde  le  infirmità,  tanto  più  sono  pericolose  e  mortali,  cosi 
Firenze  quanto  la  fu  più  tarda  a  seguitare  le  sette  d'Italia,  tanto  dipoi  fu 
più  afflitta  da  quelle  (1). 

E  il  Bandelle: 

Erano  dunque  gli  anni  di  nostra  salute  mille  ducento  quindeci,  quando 
il  miserabil  caso,  di  cui  parlarvi  intendo,  avvenne  ;  e  fin  alora  la  città  nostra 
era  sempre  stata  ubidiente  a  li  vincitori,  non  avendo  i  fiorentini  cercato  di 
ampliare  lo  stato  loro,  né  offender  li  vicini  popoli,  ma  solamente  atteso  a  con- 
servarsi. E  perchè  li  corpi  umani  quanto  più  tardano  ad  infermarsi,  tanto  più 
le  infermità  che  poi  li  sopravengono  o  di  febre  o  d'altro  male  sono  più  dan- 
nose e  mortali  e  seco  mille  pericoli  recano,  così  avvenne  a  Firenze  che,  quanto 
più  tardi  ella  stette  a  pigliar  le  parti  e  divisioni  che  per  tutta  Italia  con 
rovina  di  quella  erano  sparse,  tanto  più  poi  di  tutte  l'altre  dentro  vi  s'in- 
volse (2). 

Altri  riscontri  si  potrebbero  facilmente  additare  quasi  lette- 
rali nella  stesura  dell'intero  racconto,  più  serrato  e  conciso  quello 
del  Machiavelli,  che  il  Bandello  diluisce  e  fiorisce  di  aggettivi 
e  d'incisi;  anche  la  psicologia  dei  personaggi  acutamente  ana- 
lizzata dallo  storico  fiorentino,  attinge  a  lui  direttamente  il  no- 
vellatore :  anch'egli  fa  che  la  donna  dei  Donati,  delusa  nell'aspet- 
tativa delle  nozze  della  figliuola  col  Buondelmonti ,  non  gli  si 
mostri  corrucciata,  non  gli  rivolga  parole  aspre  di  rimprovero  o 
di  rimpianto,  come  accade  in  tutte  le  altre  redazioni,  ma  più 
astuta,  più  fine  conoscitrice  del  cuore  umano,  mostri  anzi  ralle- 

m 


(1)  Istorie  fiorentine  di  N.  Machiavelli,  Firenze,  Sansoni,  1908,  libro  II, 
cap.  2°  e  30,  p.  121. 

(2)  Le  fwveUe,  ed.  Laterza,  voi.  I,  pp.  7-8. 

Giornale  storico,  LXIV,  fase.  190-191.  12 


178  e.    AGOSTI    GAROSCI 

grarsi  con  lui  degli  sponsali  coll'Amidea,  e  solo  confidi  nella 
bellezza  della  figliuola  per  rivolgere  a  nuovi  propositi  l'animo 
del  giovane.  Avvenute  le  tristi  nozze,  e  nei  congiunti  della  sposa 
ripudiata  sorto  feroce  il  desiderio  della  vendetta,  colle  stesse 
parole  ricordano  il  mal  consiglio  di  Mosca  Lamberti:  narra  il 
Machiavelli  : 

...  e  convenuti  insieme  con  molti  altri  loro  parenti  conchiusero  che  questa 
ingiuria  non  si  poteva  senza  vergogna  tollerare,  né  con  altra  vendetta  che  con 
la  morte  di  messer  Buondelmonte  vendicare.  E  benché  alcuni  discorressero  i 
mali  che  di  quella  potessero  seguire,  il  Mosca  Lamberti  disse,  che  chi  pen- 
sava cose  assai  non  ne  conchiudeva  mai  alcuna,  dicendo  quella  trita  e  nota 
sentenza:  Cosa  fatta  capo  ha.  Dettono  pertanto  il  carico  di  questo  omicidio 
al  Mosca,  a  Stiatta  liberti,  a  Lambertuccio  Amidei,  e  a  Oderigo  Fifanti. 

E  il  Bandello: 

Convennero  adunque  insieme  con  altri  loro  parenti  ed  amici  pieni  di  mal 
talento  e  di  fellone  animo  contra  messer  Buondelmonte;  e  conchiusero  che 
quella  ingiuria  e  si  manifesta  onta  non  era  a  modo  veruno  da  sopportare,  e 
che  così  vituperosa  macchia  non  si  poteva  se  non  con  l'istesso  sangue  del  ne- 
mico e  dispregiator  de  l'affinità  loro  lavare.  Vi  furono  alcuni  che,  discorrendo 
i  mali  che  ne  potevono  seguire,  non  volevano  che  tanto  a  furia  fosse  da  cor- 
rervi, ma  da  pensarvi  più  maturamente.  Era  tra  i  congregati  il  Mosca  Lam- 
berti, uomo  audacissimo  e  pronto  di  mano,  il  qual  disse  che  chi  pensava  di- 
versi partiti  nessuno  ne  pigliava,  e  soggiunse  quella  volgata  sentenza:  Cosa 
fatta  capo  ha.  Insomma,  si  conchiuse  che  la  compita  vendetta  non  si  poteva 
far  senza  sangue.  E  così  fu  commessa  l' impresa  d'ammazzar  messer  Buondel- 
monte al  Mosca,  a  Stiatta  liberti,  a  Lambertuccio  Amidei  e  ad  Uderigo  Fifanti. 

E  quasi  con  identiche  parole  attribuiscono  all'uccisione  la 
scissione  del  popolo  fiorentino  in  guelfi  e  ghibellini,  il  Ma- 
chiavelli: 

Questo  omicidio  divise  tutta  la  città,  e  una  parte  si  accostò  ai  Buondel- 
monti,  l'altra  agli  liberti.  E  perché  queste  famiglie  erano  forti  di  case  e  di 
torri  e  di  uomini,  combatterono  molti  anni  insieme  senza  cacciare  l'una  l'altra; 
e  le  inimicizie  loro,  ancora  che  le  non  si  finissero  per  pace,  si  componevano 
per  triegue,  e  per  questa  via,  secondo  i  nuovi  accidenti,  ora  si  quietavano  ed 
ora  si  accendevano.  —  Cap.  IV.  E  stette  Firenze  in  questi  travagli  infino  al 
tempo  di  Federigo  II,  il  quale  per  essere  re  di  Napoli,  a  potere  contro  alla 
Chiesa  le  forze  sue  accrescere  si  persuase  ;  e  per  ridurre  più  ferma  la  potenza 
in  Toscana,  favori  gli  liberti  e  loro  seguaci,  i  quali  con  il  suo  favore  caccia- 
rono i  Buondelmonti,  e  così  la  nostra  città  ancora,  come  tutta  Italia  più  tempo 
era  divisa,  in  Guelfi  e  in  Ghibellini  si  divise. 


VARIETÀ  179 

e  il  Bandello: 

Questo  omicidio,  sendo  commesso  in  persona  così  notabile,  fu  cagione  che 
Firenze  tutta  si  divise...  Onde  una  parte  si  pose  a  seguitar  gli  liberti...  e 
l'altra  parte  s'accostò  ai  Buondelmonti,  di  maniera  che  tutta  la  città  era  in 
arme.  Ora  perchè  queste  famiglie  erano  forti  di  palazzi  e  di  torri  e  di  uomini, 
guerreggiarono  lungo  tempo  insieme,  seguendo  d'amendue  le  parti  di  molte 
morti.  Ultimamente  gli  liberti  con  il  favore  di  Federigo  secondo,  re  di  Na- 
poli e  imperadore,  cacciarono  fuori  di  Firenze  i  Buondelmonti.  E  alora  si 
divise  la  città  in  due  fazioni  come  già  era  tutta  Italia,  cioè  in  Ghibellini  e 
Guelfi  che  fu  l'ultima  rovina  di  molte  famiglie  nobilissime,  di  modo  che  dopoi 
le  discordie  e  le  sette  tra  le  parti,  e  tra  li  nobili  ed  il  popolo,  e  tra  popolani 
grandi  ed  il  popol  minuto  fecero  varie  e  grandissime  mutazioni,  e  sempre  con 
spargimento  di  sangue  grandissimo  e  rovina  di  bellissimi  palazzi  ed  essilio 
di  molti. 

Mera  amplificazione  verbale  dunque,  da  parte  del  Bandello,  del 
racconto  del  Machiavelli,  né  il  novellatore  pensa  a  rendergli 
giustizia  citandolo  almeno  come  riferimento  storico;  per  il  co- 
lore locale  gli  basta  aver  posto  il  racconto  in  bocca  a  un  fio- 
rentino. Del  resto  la  relazione  tra  il  Bandello  e  il  Machiavelli 
annodatasi  nella  ricordata  occasione,  malgrado  l'intonazione  cor- 
diale con  cui  il  Bandello  ne  parla  non  si  trasformò  in  vera 
amicizia.  Quando  si  serviva  del  testo  del  Machiavelli,  cioè  dopo 
il  1531,  per  rimaneggiare  la  sua  novella,  il  Bandello  aveva  del 
segretario  fiorentino  compiutamente  perduta  ogni  traccia.  An- 
cora un  accenno  a  lui  ci  è  possibile  ritrovare  nel  novelliere,  e 
credo  si  esaurisca  cosi  l'esame  dei  rapporti  tra  i  due  scrittori, 
ed  è  documento  dell'aver  il  Bandello  assai  presto  dimenticato 
l'uomo,  e  fatto  giudizio  alquanto  superficiale  del  valore  morale 
delle  opere. 

Nella  dedicatoria  della  novella  55*  della  parte  III,  narrata  a 
Verona  nel  1532  (1),  si  narra  che,  avendo  uno  degli  interlocutori 
tra  mano  «  gli  acuti  ed  ingegnosi  Discorsi  dell'arguto  messer  Ni- 
«  colò  Machiavelli  »,  ne  legge  il  capitolo  (XXVII  del  1°  libro  dei 
Discorsi)  «  il  cui  titolo  è,  che  sanno  rarissime  volte  gli  uomini 
«  esser  al  tutto  tristi  od  al  tutto  buoni  »,  e  un  altro  interlocu- 
tore, Francesco  Torre,  nell'esordio  della*hovella  severamente  lo 


(1)  Quando  il  Bandello  conosce  in  quella  città  Francesco  Berni,  cui  la  no- 
yella  è  dedicata.  Vedi  Le  novelle,  ed.  Laterza,  voi.  IV,  pp.  461  sg. 


180  e.    AGOSTI    GABOSCI 

commenta  come  scrittura  immorale  :  «  La  lezione  che  il  nostro 
«  da  bene  messer  Desiderio  ci  ha  per  sua  cortesia  letta,  come 
«  Yoi  tutti,  signori  miei,  potete  aver  notato,  contiene  in  sé  vie 
«  più  di  male  che  di  bene,  anzi  in  sé  nessuna  buona  cosa  ha.... 
«  Io  non  posso  nel  vero  se  non  ammirare,  lodare  e  commendare 
«  l'acutezza  de  l'ingegno  del  Machiavelli  ;  ma  desidero  in  lui  un 
«  ottimo  giudicio,  e  vorrei  che  fosse  stato  alquanto  più  parco  e 
«  ritenuto  e  non  cosi  facile  ad  insegnar  molte  cose  triste  e  mal- 
«  vagie,  de  le  quali  molto  leggermente  se  ne  poteva  e  deveva 
«  passare  tacendole  e  non  mostrandole  altrui  come  fa  in  diversi 
*  luoghi.  Ora  io  non  voglio  già,  secondo  che  egli  ha  discorso  in 
«  parte  l'istorico  Padovano,  ed  instituito  un  prencipe,  discorrere 
«  i  suoi  discorsi  e  meno  instituir  lui,  che  non  so  se  viva  o  sia 
«  morto.  Ben  dirò  a  proposito  di  quanto  egli  ha  scritto  in  quel 
«  XXVII  capo  del  suo  primo  libro  dei  Discorsi,  che  a  me  non 
«  può  entrar  nel  capo,  ne  so  come  sia  possibile  che  uno  possa 
«  esser  onoratamente  tristo,  e  far  una  sceleraggine,  che  dai 
«  buoni  sia  riputata  onorevole.....  Invero  io  mi  crederei  che  non 
«  si  possa  mai  dire  che  la  tristizia  sia  lodevole,  e  che  uno,  sia 
«  chi  si  voglia,  mentre  che  é  tristo  e  sgherro  ed  usa  le  ribal- 
«  derie,  non  si  possa  dire  se  non  tristo  e  scelerato,  e  che  egli 
«  non  meriti  se  non  agre  riprensioni,  severi  gastigamenti  e  con- 

«  tinovo  biasimo In  somma  io  vi  conchiudo  che  non  si  può 

«  essere  onoratamente  ribaldo  ». 

Le  parole  di  biasimo  stralciate  alla  conversazione  di  un  gruppo 
di  gentiluomini  e  di  dotti  non  esprimono  per  nulla  un  giudizio 
peregrino  del  Bandelle,  il  quale  volentieri  si  atteneva  in  fatto 
di  morale  ai  suggerimenti  del  più  ovvio  buon  senso.  Sono  una 
riprova  che  il  fenomeno  del  machiavellismo  tanto  complesso  e 
tanto  controverso,  fu  discusso  già  e  rimase  incompreso  tra  i  con- 
temporanei stessi  e  i  posteri  immediati  del  Machiavelli,  e  che 
quella  corrente  di  antimachiavellismo,  che  ebbe  poi  tanti  illustri 
rappresentanti  dal  cardinale  Reginaldo  Polo  a  Federico  il  Grande, 
si  veniva  già  allora  delineando.  Proprio  nel  1531,  press'a  poco 
un  anno  prima  della  conversazione  bandelliana,  nota  il  Villari  (1), 
Bernardo  di  Giunta  facendo  in  Firenze  una  2*  edizione  del  Prin- 
ciiJe  lo  dedicava  a  monsignor  Gaddi  pregandolo  di  difenderlo 
«  da  quelli  che  per  il  suo  soggetto  lo  vanno  ogni  giorno  lace- 


(1)  Op.  cit,  voi.  n,  pp.  426  sg. 


VARIETÀ  181 

«  rando  si  aspramente,  non  sapendo  che  coloro  che  insegnano 
«  le  medicine,  insegnano  del  pari  i  veleni,  acciò  possano  difen- 
«  dersene  ». 

Il  capitolo  discusso  è  quello  in  cui  il  Machiavelli  biasima 
Gianpaolo  Baglioni  per  aver  avuto  tra  mano  inerme  il  suo  ne- 
mico il  pontefice  Giulio  II  e  non  aver  saputo  cogliere  l'occasione 
di  disfarsene  con  un  atto  di  audacia  feroce:  «  dove  ciascuno 
«  avesse  ammirato  l'animo  suo,  e  avesse  di  sé  lasciato  memoria 
«  eterna  sendo  il  primo  che  avesse  dimostro  ai  prelati,  quanto 
«  sia  da  stimar  poco  chi  vive  e  regna  come  loro  »  (1). 

Come  non  se  ne  sarebbe  scandolezzato  il  Bandello,  frate,  e 
per  debito  stesso  del  suo  ufficio,  reverente  all'autorità  pontificia? 
«  Meno  anco  so  come  Gian  Paolo  Baglione,  che  il  Machiavelli 
«  noma  nel  predetto  capo  facinoroso,  incesto  e  pubblico  parricida, 
«  devesse  esser  da  uomini  di  sano  giudicio  stimato  leale,  fedele 
«  e  buono  in  opprimendo  un  suo  signore  del  quale  era  vassallo, 
«  e  non  solamente  che  gli  era  signore,  ma  che  era  de  la  santa 
«  romana  Chiesa  capo  e  sommo  pontefice,  e  in  terra  vicario  del 
«  nostro  Redentore  messer  Giesu  Cristo  ». 

Liberi  e  spregiudicati  nella  pratica  della  vita  e  nel  concetto 
dell'arte,  non  giungevano  tuttavia  il  Bandello  e  gli  amici  suoi 
all'acuta  visione  della  realtà  del  tempo  che  ebbe  il  Machiavelli; 
quasi  solo  tra  i  contemporanei  egli  solleva  e  tramanda  ai  po- 
steri con  franchezza  coraggiosa,  che  par  talvolta  cinismo,  le  mi- 
serie morali  della  patria,  «  gravamina  italicae  nationis  ».  Troppi 
altri  italiani  del  tempo,  pure  colti  ed  onesti,  non  si  conoscono  ; 
la  loro  coscienza  si  lascia  se  non  corrompere,  almeno  illudere  ; 
il  loro  sentimento  morale  malsicuro  si  culla  nel  placido  otti- 
mismo che  le  splendide  apparenze  esteriori  permettevano:  il 
bene,  tanto  spesso  offeso  nei  costumi,  vogliono  vederlo  rispet- 
tato almeno  in  teoria,  vagheggiarlo  come  una  idealità  intangi- 
bile e  lontana. 

Il  Bandello  poi,  che  non  è  rigido  mai  nelle  sue  opinioni,  poco 
più  oltre  quasi  si  scusa  del  severo  giudizio  :  «  ma  io  mi  sono 
«  lasciato  trasportare,  non  so  come,  contro  la  consuetudine  e 
«  natura  mia  a  riprendere  il  Machiavelli  ».  Nulla  sapeva  più  a 


(1)  Discorsi  sulla  prima  deca  di  Tito  Livio,  2*  ediz.,  Firenze,  Barlìèra, 
1879,  p.  153. 


182  0.    AGOSTI    GAROSCI 

quest'epoca  dell'arguto  messer  Niccolò,  nemmeno  se  egli  vivesse  : 
solo  tra  mano  ne  aveva  le  opere  e  le  apprezzava. 

Cosi  si  erano  un  istante  incontrati,  poi  rapidamente  allonta- 
nati senza  seguito  di  simpatia  profonda  i  due  uomini  in  modo 
diverso  tanto  vivamente  rappresentativi  dell'epoca  loro  :  la  fan- 
tasia mobile,  il  vivace  senso  d'arte  facevano  il  Bandelle  atto  a 
rifletterne  nel  vario  novellare,  come  in  un  cristallo  brillante- 
mente faccettato,  le  apparenze  policrome  e  multiformi;  il  genio 
di  tanto  più  acuto  e  profondo  del  Machiavelli  era  pari  a  com- 
prenderne ed  esprimerne  nello  stile  tagliente  l'intima  realtà,  il 
vuoto  morale,  l'acre  malinconia  che  si  sprigiona  dal  quadro  stu- 
pendo per  chiunque  lo  contempli  oltre  le  linee  e  gli  aspetti 
esteriori. 

Cristina  Agosti  G-arosci. 


Una  pagina  inedita  di  U.  Foscolo 

E  IL  «MISOGALLO»  DELU  ALFIERI 

a  cura  dell'Albany. 


È  assodato  che  il  Misogallo  venne  pubblicato  dopo  la  morte 
dell'autore.  Quante  edizioni  però  siano  state  fatte  prima  che 
FAlbany  provvedesse  alla  pubblicazione  della  sua  copia,  rimarrà 
forse  sempre  un  mistero.  Già  ebbe  ad  occuparsene  colla  solita 
competenza  il  Renier,  il  quale  fin  dair84,  nella  dotta  prefazione 
al  libro  (1),  discusse  ampiamente  delle  dieci  copie  che  correvano 
manoscritte  e  del  Contravveleno,  unica  parte  del  Misogallo 
pubblicata  vivente  e  consenziente  l'Alfieri.  Il  Pelaez  (2),  in  se- 
guito, trovò  una  contraffazione  dell'edizione  principe  in  una 
stampa  fatta  a  Lucca  nella  tipografia  Bertini;  il  Fumagalli  (3), 
una  nuova  contraffazione  in  altra  copia  esistente  alla  Braidense 
che,  a  differenza  di  quelle  già  note,  con  gran  difficoltà  si  di- 
stingue dall'originale. 

Diffìcile  invece  è  determinare  la  prima  stampa  che  porta  la 
falsa  data  :  Londra  1799.  Noi  ne  abbiamo  esaminate  varie  copie 
e  in  esse  non  abbiamo  verificato  che  una  continua  contraffazione. 

Quando  queste  copie  vennero  stampate  e  diffuse  non  si  sa.  Io 
propenderei  ad  ammettere  che  risalgano  all'epoca  in  cui  l'astro 


(1)  Il  Misogallo,  le  satire  e  gli  epigrammi  editi  ed  inediti  di  Vittorio 
Alfieri,  per  cura  di  E.  Eenier,  Firenze,  Santoni,  1884. 

(2)  M.  Pelaez,  Intorno  alla  prima  edizione  del  «  Misogallo  »  di  Vittorio 
Alfieri,  in  questo  Giornale,  29,  215. 

(3)  G.  FUMAGALLI,  Intorno  alla  prima  edizione  del  «  Misogallo  »  dell' Al- 
fieri, in  Boll,  della  Soc.  bibl.  ital,  nn^  7-8,  1898,  p.  110. 


184  A.    OTTOLINI 

napoleonico  cominciava  a  tramontare,  dacché  solo  nel  1814  l'Al- 
bany  si  preoccupò  di  rimediare  agli  spropositi  e  agli  arbitri 
degli  stampatori  col  curare  essa  stessa  l'edizione  del  Misogallo 
pel  Piatti  di  Firenze,  con  la  falsa  data  di  Londra  1800.  Di  questa 
edizione,  tratta  dal  manoscritto  contrassegnato  con  la  lettera  F^ 
che  porta  nel  verso  dell'occhio  la  nota  avvertenza,  abbiamo  esa- 
minato due  copie  diverse  fra  loro  nel  formato,  ma  eguali  nel- 
l'impaginatura e  nel  carattere. 

L'edizione  procurata  dall'Albany  pei  tipi  del  Piatti,  risale  al  1814 
e  non  al  1804  (1),  e  ad  essa  si  riferisce  la  pagina  del  Foscolo 
che  ora  vede  per  la  prima  volta  la  luce.  Nella  lettera  ad  Ugo  (2) 
del  13  settembre  1814  scrive:  «  à  présent  je  dois  me  justifier  de 
«  ne  vous  avoir  pas  dit  qu'on  imprimait  le  Misogallo.  Vérita- 
«  blement  je  l'ai  oublié  ;  je  comptais,  sans  oubli,  vous  envoyer 
«  un  exemplaire  de  colui  qui  est  réimprimé  par  nous,  ainsi 
«  excusez  »  ;  e  nella  stessa  lettera  (3)  :  «  Pardonnez  mon  étour- 
«  derie  de  ne  vous  avoir  pas  parie  du  Misogallo.  On  l'a  en- 
«  voyé  à  Rome,  et  le  Pape  et  les  Cardinaux  ont  été  furieux  ; 
«  on  n'avait  cependant  pas  imprimé  les  vers  contre  eux  ». 

E  pochi  giorni  dopo  inviandone  copia  da  Firenze,  il  30  set- 
tembre (1814)  :  «  Malgré  que  vous  recommencez,  mon  cher  U., 
«  votre  silence  de  il  y  a  deux  mois,  je  ne  veux  pas  me  dispenser 
«  de  m'acquiter  de  ma  pénitence  que  vous  m'avez  imposée  pour 
«  ne  vous  avoir  pas  dit  qu'on  imprimait  le  Misogallo  tout  rempli 
«  de  fautes  d'impression  et  de  sens  commun.  Pour  réparer  a 
«  cette  fante,  j'ai  fait  réimprimer  cet  ouvrage  par  le  grand  et 
«  obstiné  Piatti,  et  je  vous  en  envois  une  copie.  Vous  verrez 
«  qu'on  a  òté  difFérents  vers  qui  blessent  les  seìgneiirs  qui  veu- 
«  lent  dans  ce  moment  commander  le  monde,  et  le  faire  rétro- 
«  grader  de  deux  ou  trois  siècles  ;  mais  c'est  un  vain  espoir 
«  quand  on  a  commencé  à  voir  clair  dans  de  certaines  matières.  Je 
«  vous  envois  donc  ce  Misogallo  par  un  Anglais  nommé  Cra- 
«  kentroph,  nom  un  peu  difficile,  et  dont  le  caractère  n'  y  res- 


(1)  Parrebbe,  secondo  il  Renier,  che  la  stampa  del  manoscritto  F  fosse  stata 
intrapresa  nel  1804  (vedi  p.  xxiv,  Op.  cit.),  ma  ciò  è  smentito  dalle  lettere 
dell'Albany  pubblicate  posteriormente. 

(2)  Lettere  inedite  di  Luigia  Stolberg  contessa  d'Albany  a  Ugo  Fo- 
scolo, ecc.,  pubblicate  da  C.  Antona  Traversi  e  Domenico  Bianchini,  Roma, 
Mohno,  1887,  p.  116. 

(3)  Op.  cit.,  p.  118. 


VARIETÀ  185 

«  semble  pas;  car  il  est  doux,  aimable,  et  je   l'ai   vu   souvent 
«  depuis  qu'il  est  à  Florence  »  (1). 

La  copia  dall'Albany  inviata  al  Foscolo  fu,  pochi  giorni  dopo, 
da  questo  donata  al  Porta  e  ora  trovasi  nella  raccolta  portiana 
alla  Biblioteca  milanese  dell'Archivio  storico  civico.  Ha  in  alto 
scritto  di  pugno  dell'Albany: 

Per  il  signor  Ugo  Foscolo 

e  sotto  le  seguenti  parole  del  Foscolo: 

Edizione  procurata  dalla  Contessa  d'Albany  su  l'esemplare  lasciato  a  Lei 
dall'Alfieri;  sebbene  io  ne  La  dissuadessi  a  principio  per  onore  del  poeta,  il 
quale  sarà  forse  accusato  da'  posteri  di  rabbia  impotente  ed  esalata  in  sar- 
casmi, quando  invece  sarebbe  stato  più  onesto  un  disdegnoso  silenzio;  da  chi 
per  l'altre  opere,  più  degne  dell'Alfieri,  l'Italia  sa  quant'egli  odiasse  la  licenza, 
e  la  tirannide  ed  il  pretume,  e  peggio  di  queste  tre  pesti,  la  moderna  libertà 
infranciosata.  Ma  la  Contessa  vedendo  pubblicato  questo  canzoniere  rabbioso 
con  mille  spropositi,  e  con  arbitrii  e  licenze  dagli  stampatori  lombardi,  tentò 
di  provvedere  se  non  al  nome  dell'autore,  almeno  alla  convenzione  del  suo 
manoscritto  con  questa  edizione;  ma  i  tempi,  e  i  reverendissimi  ripatriatisi 
inquisitori  e  i  revisori  concordi  per  la  paura  propria,  e  per  la  paura  del  Mi- 
nistro, e  per  la  paura  del  Principe  (aggiungi  a  queste  tre  paure  accumulate 
nel  povero  revisore,  la  minaccia  onnipotentissima  della  fame),  obbligarono 
anche  questa  edizione  benché  fatta  alla  macchia,  a  parecchie  ommissioni;  le 
quali  la  Contessa  mi  fece  supplire  a  penna  nell'ultima  carta  del  presente  esem- 
plare. E  nondimeno  malgrado  le  ommissioni  fatte  a  riguardo  a  S.*  S.^  e  del- 
l'Emin.""»  Collegio  Romano,  il  Misogalìo  spiacque  altamente  a  Roma  come 
libro  d'eretico. 

Nota  scritta  il  dì  10  ottobre  1814  a  Milano  in  casa  Porta,  nel  gabinetto 
di  Carlo  Porta,  illustre  poeta  meneghino,  presente  la  bèlla  Annetta  (2)  detta 
Straffni,  d'anni  due,  mesi  dieci,  giorni  cinque,  castissima  innamorata  di  me 
scrittore  Didimo  chierico  discepolo  del  Reverendo  Jacopo  Annoni,  curato  di 
buona  memoria. 

La  nota  venne  già  pubblicata  dal  Barbiera  (3),  il  quale  non  si 
curò  di  trascrivere  quanto  la  precede. 


(1)  Op.  cit,  pp.  119-120. 

(2)  È  la  prima  delle  due  figliuole  di  Carlo  Porta,  morta  a  trentun  anno 
nel  1842. 

(3)  R.  Barbiera,  Poesie  edite  e  inedite  e  rare  di  Carlo  Porta,  Firenze, 
Barbèra,  1884,  p.  xliii.   La  trascrizione  del  Barbiera  non  è  in  tutto  esatta. 


186  A.    OTTOLINI 

Se  pensiamo  che  la  conoscenza  tra  il  Foscolo  e  l'Albany  ri- 
sale al  31  agosto  1812  (1),  dobbiamo  ammettere  che  solo  verso 
la  fine  di  quell'anno  o,  poco  dopo,  avessero  cominciato  a  diffon- 
dersi le  copie  del  Misogallo  se  appena  allora  si  risolse  a  cu- 
rarne l'edizione. 

La  nota  del  Foscolo,  che  è  un'aspra  censura  al  Misogallo^  dà 
ragione  anche  delle  lacune  che  si  trovano  nel  testo,  lacune  che 
sono  riempite  a  penna  nell'ultima  carta  dell'esemplare,  dalla  quale 
trascriviamo. 


Suppleìnento  alle  lacune  che  sì  riscontrano 
nella  presente  edizione  del  «  Misogallo  ». 

P.  69  —  Sonetto  XIX,  v.  13  : 

Ma,  pria  che ,  annullisi  la  matta. 

Ma,  pria  che  il  Papa,  annullisi  la  matta. 

P.  70  —  Epigramma  VI,  v.  4  : 

Così  fa ch'ora  ai  suoi  promette 

Così  fa  il  Papa,  ch'ora  ai  suoi  promette. 

P.  95  —  Sonetto  XXVI,  v.  6  : 

Dei  mostri abominandi: 

Dei  mostri  Inquisitori  abominandi, 

P.  121  —  Nota  36,  vv.  5-6  : 

Marchesi  all'intero 

,  che  in  Roma  ecc. 

Marchesi  all'intero  Collegio 
de'  Cardinali,  che  in.  Roma  ecc. 

P.  144  —  Epigramma  XXXV,  vv.  1-3: 

Si  dice,  che  dicea  non  so  qual  .  .  . 
Tastandosi «  Oh  quanto  bene 


(1)  Foscolo,  Epistolario,  voi.  II,  lett.  414:  Milano,  31  agosto  1814.  «  Ecco 
€  che  se  n'è  ito  anche  questo  mese  ;  e  son  due  anni  oggi,  appunto,  eh'  io  ebbi 
€  l'onore  di  conoscerla...  ». 


VARIETÀ  187 


Si  dice,  che  dicea  non  so  qual  Papa, 
Tastandosi  la  Tiara:  «  Oh  quanto  bene, 
«  Ci  fa  quest'ampia  favola  di  Cristo  »  ! 

P.  163  —  Epigramma  LIV,  v.  2  : 

All'amico il  Gallagógo, 

All'amico  Gran-Duca  il  Gallagógo, 
Ivi,  V.  4: 

Sei  mila  armati  amici  entro 

Sei  mila  armati  amici  entro  Livorno. 
Ivi,  V.  6: 

Pel Signore,  il  Pedagogo, 

Pel  lattante  Signore,  il  Pedagogo; 
Ivi,  V.  8: 

Ne  fa tutta  un  muto  sfogo  : 

Ne  fa  Toscana  tutta  un  muto  sfogo: 

P.  170  —  Sonetto  XLII,  v.  4: 

La  men  ...  di  loro  Aquila  giace 
La  men  ladra  di  loro  Aquila  giace 

P.  171  —  Sonetto  XLIH,  v.  14: 

E  l'allor,  fin  '1 

E  l'allòr,  fin  il  santissimo  Rosario. 

Se  si  confrontano  queste  aggiunte  con  Tedizione  curata  dal 
Renier  e  con  le  precedenti  si  vede  che  le  differenze  sono  po- 
chissime e  di  piccola  importanza. 

Angelo  Ottolini. 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 


GINO  BOTTIGLIONI.  —  La  lirica  latina  dì  Firenze  nella 
seconda  rtietà  del  secolo  XV.  Estratto  dagli  Annali  della 
R.  Scuola  normale  superiore  di  Pisa,  voi.  XXV.  —  Pisa, 
1913  (8°,  pp.  232). 

H  Bottiglioni  ha  preso  ad  illustrare  la  lirica  latina  in  Firenze  nella  se- 
conda metà  del  secolo  XV.  A  questo  scopo  ha  raccolto  l'abbondante  materia 
che  gli  fornivano  i  manoscritti  fiorentini  e  l'ha  sistematicamente  raggruppata 
intorno  a  due  nomi  :  i  nomi  di  Cristoforo  Landino  e  di  Angelo  Poliziano. 
Intorno  al  Landino  infatti  troviamo  i  suoi  discepoli  e  seguaci:  Ugolino  Ve- 
rino, Naldo  Naldi,  Alessandro  Braccesi.  Intorno  al  Poliziano  troviamo  i  suoi 
amici  e  i  suoi  nemici:  questi  assai  più  importanti  di  quelli;  e  basti  nomi- 
nare Bartolomeo  Scala,  Bartolomeo  della  Fonte,  Michele  Marnilo.  Siccome  poi 
la  poesia  del  Landino  è  prevalentemente  amorosa,  la  poesia  del  Poliziano 
prevalentemente  occasionale  ed  encomiastica,  così  da  questi  due  generi  poe- 
tici pigliano  il  titolo  le  due  parti  del  volume. 

Cotale  divisione  è  un  po'  artificiosa,  perchè  i  poeti  amorosi  hanno  trattato 
anche  argomenti  estranei,  e  i  poeti  dell'altro  genere  hanno  trattato  anche 
argomenti  amorosi.  Ma  il  Bottiglioni  che  a  tutti  i  costi  cercava  una  distri- 
buzione comprensiva  si  lasciò  imporre  dai  due  nomi  più  famosi.  E  che  la 
duplice  distribuzione  non  corrisponda  interamente  al  vero  vediamo  da  ciò, 
che  a  Pietro  Crinito  è  dedicato  un  capitolo  a  sé,  che  lo  stacca  dal  Poliziano, 
e  un  capitolo  a  sé,  l'ultimo,  ha  richiesto  la  lirica  religiosa. 

Ma  l'imperfetta  distribuzione  non  nuoce  molto  alla  trattazione,  la  quale  è 
condotta  lodevolmente,  sussidiata  da  larga  messe  di  materiali  disseminati 
nel  contesto  e  nelle  note  e  adunati  nelle  due  copiose  appendici.  Molta  di  questa 
produzione  lirica  era  nota,  ma  molta  giaceva  ancora  inesplorata  nei  mano- 
scritti. La  nota  e  la  nuova  il  B.  sottopone  a  un'accurata  analisi,  premettendo 
a  ogni  poeta  un'opportuna  notizia  biografica. 

Una  ricerca  capitale  in  argomenti  di  tal  genere  è  quella  che  mira  alle 
fonti  ;  perchè  altro  è  se  le  fonti  sono  antiche,  altro  è  se  sono  medievali  :  dalla 
mancanza  o  dalla  misura  delle  une  e  delle  altre  può  ricevere  la  poesia  intona- 


RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA  189 

zioni  diverse  di  pensiero  e  di  forma.  L'indagine  del  B.  in  questo  rispetto  è 
stata  scarsa;  non  che  non  abbia  scoperto  in  generale  con  sicurezza  le  fonti,  ma 
bisognava  cercare  più  in  largo  e  andare  più  a  fondo.  Dopo  il  lavoro  del  Curcio, 
Orazio  studiato  in  Italia  dal  sec.  XIII  al  XV III,  si  desidererebbe  saper 
meglio  fino  a  qual  punto  la  lirica  oraziana  fu  imitata.  Sicure  reminiscenze 
di  Orazio  lirico  a  ogni  modo  dal  libro  del  B.  risultano  per  il  Landino,  per 
il  Verino,  per  il  Poliziano,  per  il  Marnilo  e  sopra  tutti  per  il  Crinito.  Ma  è 
un  fatto  però  che  il  lirico  prediletto  era  Catullo;  e  i  più  catulliani  sono  il 
Poliziano  e  il  Marnilo.  Del  Marnilo  il  B.  cita  due  copie  catulliane,  così  egli 
le  chiama  (pp.  129-130),  ma  una  di  quelle  non  è  copia,  sì  una  perfetta  pa- 
rodia, verso  per  verso,  di  un  carme  di  Catullo,  una  parodia  della  quale  ebbe 
un  esempio  classico  nel  Catalepton  (X)  Sabinus  ille  quem  videtis  hospites, 
dov'è  parodiato  il  catulliano  (IV)  Phaseìlus  ille  quem  videtis  hospites.  Una 
imitazione  catulliana  non  è  stata  riconosciuta  dal  B.  a  p.  66,  dove  gli  è  sfug- 
gita anche  una  curiosa  citazione  dall'imperatore  Gallieno.  La  Neera  del  Ma- 
rullo  deriva  da  Tibullo  o  meglio  dallo  ps.  Tibullo  (Ligdamo).  Accanto  a  Ti- 
bullo occorreva  tra  le  fonti  dare  maggior  posto  a  Ovidio.  Un'imitazione  pe- 
trarchesca a  p.  23  :  Quid  te  iuvat  ad  flammas  addere  Ugna  tuas  ?  Confronta  : 
«  A  che  più  vai  Giungendo  legna  al  foco  onde  tu  ardi?  ». 

Nei  giudizi  il  B.  coglie  abbastanza  giusto.  Si  nota  p.  e.  con  piacere  che 
egli  abbia  smorzato  alquanto  gli  entusiasmi  per  l'arte  del  Poliziano  e  abbia 
innalzato  considerevolmente  il  Marnilo,  questo  quanto  sventurato  altrettanto 
grande  umanista.  Non  so  se  il  B.  se  ne  sia  accorto  o  se  ciò  non  fosse  ne'  suoi 
intendimenti;  ma  nel  suo  libro  tra  tutti  i  poeti  fiorentini  la  miglior  figura 
la  fa  il  Marnilo,  il  greco  Marnilo.  Il  B.  rimprovera  al  Poliziano  mancanza 
di  sentimento:  e  il  rimprovero  è  meritato.  Ma  crede  egli  sul  serio  alla  ve- 
racità di  tutto  quello  che  cantano  il  Landino  e  compagnia?  Crede  tutte  di 
corpo  e  sangue  le  donne  dei  loro  canzonieri  ?  Non  ha  proprio  pensato  all'oppri- 
mente suggestione  classica,  che  infatuava  quella  brava  gente?  Il  vero  can- 
zoniere, il  canzoniere  vissuto,  è  quello  del  Marnilo,  il  quale  gettò  in  faccia 
agli  umanisti  fiorentini  e  italiani  in  genere  quel  terribile  pentametro,  molto 
a  proposito  recato  a  p.  128  :  Et  quae  non  facimus  dicere  facta  pudet,  dove 
è  bollata  non  l'immoralità  della  vita  degli  italiani,  ma  l'infatuamento  clas- 
sico, che  è  quanto  dire  la  loro  immoralità  artistica.  Dunque  imitazione  e 
sempre  imitazione,  forma,  forma,  forma:  preparazione  del  secentismo. 

Infine  devo  muovere  al  B.  un  biasimo,  che  però  non  tocca  solamente  lui, 
ma  tutti  coloro  che  si  occupano  di  letteratura  umanistica.  E  in  vero  si  os- 
serva che  costoro  nel  riguardo  storico  sono  di  regola  soddisfacentemente  pre- 
parati, ma  non  altrettanto  nel  riguardo  della  lingua.  Chi  studia  l'umanismo 
è  necessario  che  possieda  cognizioni  esatte  di  latino  classico  e  di  latino  me- 
dievale e  quando  si  tratta  di  poeti  occorre  presentarsi  ben  corazzati  di  me- 
trica. Sceglierò  alcuni  esempi. 

La  lettura  dei  manoscritti  può  riuscire  talora  incerta  a  chi  non  è  molto 
pratico  :  in  tal  caso  conviene  aiutarsi  col  senso  del  contesto.  Così  a  p.  58  un 
Nec   voluto   dal    senso  fu  letto   per  Hec  e  stampato    Haec,    a   p.  151  fu 


190  BASSEGNA    BIBLIOGRAFICA 

scambiato  calce  con  calore  e  stampato  harenam  sine  calore  ;  ma  chi  conosce 
Vharenci  sine  calce  di  Caligola  non  esita  un  istante. 

La  divisione  delle  parole  gioca  dei  brutti  tiri:  a  p.  35  etiam  si  divida  et 
iam  ;  a  p.  103  Intortos  si  divida  In  tortos  ;  si  tratta,  come  ognun  vede,  del 
leggendario  uovo  di  Colombo. 

La  grammatica  è  un'eccellente  guida.  A  p.  18  è  stampato  :  «  Nec  bene  dum 
«  noram  quid  sit  amare  malum  »,  una  frase  del  Landino,  che  ricorre  in  un 
altro  carme  (p.  53):  «  vides  quid  sit  amare  malum  ».  Il  medesimo  quid  er- 
roneo si  trova  stampato  a  p.  103:  «  Quid  merito  acquari  valeant  haec  sae- 
«  cula  priscis  Ostendit  claro  Lippius  ingenio  ».  Nell'ultimo  passo  è  evidente 
che  bisogna  correggere  Quod;  e  così  sarà  da  ripetere  per  i  due  primi.  Il  B. 
ha  scambiato  tutte  tre  le  volte  la  sigla  di  quod  per  la  sigla  di  quid;  ma 
la  grammatica  doveva  impedire  lo  scambio.  Parimente  a  p.  118  visus  est  an- 
dava corretto  in  visum  est  ;  inoltre  confirmatur  in  confìrmatus  e  sentiant  in 
sentiam  (dove  è  caduta  una  parola  come  scriberem  o  simile). 

Il  verso  (p.  37)  «  Quod  si  forte  meos  laudabis,  o  Petre,  libellos  »  è  sba- 
gliato ;  e  forse  così  è  dato  dal  manoscritto,  perchè  il  copista  avrà  trasportato 
nel  contesto  l'interiezione  o  del  vocativo,  segnata  sopra  Petre  ;  ma  per  ovvia 
ragione  metrica  l'editore  lo  deve  togliere. 

Talvolta  un  semplice  ritocco  alla  punteggiatura  ristabilisce  il  senso.  A 
p.  24  leggiamo:  «  Xandra,  precor  nostri  veniat  non  immemor  bora,  Ulla  tibi 
«  maneat  non  temerata  fides  »;  basta  trasportare  la  virgola  dopo  Ulla.  P.  41: 
«  Tua  pectora  cur  sic  Tanto  odio  flagrent  :  non  tibi  causa  mei  est  » .  Questa 
punteggiatura  fa  pensare  che  mei  vada  connesso  con  causa,  mentre  è  geni- 
tivo oggettivo  di  odio.  Più  grave  turbamento  d'interpunzione  incontriamo  a 
p.  103:  «  Clauduntur  parvo,  lector  pretiosa  libello  Pondere  charta  levis,  ni 
«  gravis;  arte  potens  »;  turbamento  prodotto  certo  da  quel  ni,  che  va  cor- 
retto in  ui  (vi).  Racconciamo  :  «  Clauduntur  parvo,  lector,  pretiosa  libello  ; 
«  Pondere  charta  levis,  vi  gravis,  arte  potens  ». 

Non  sempre  il  significato  dei  testi  ò  stato  capito.  Il  Poliziano  (p.  80)  non 
corresse  al  Marullo  la  quantità  di  curtus  e  di  longus,  ma  scherzò  sul  loro 
valore  lessicale.  Un'interpretazione  illegittima  è  data  al  seguente  passo,  che 
interpungo  e  correggo  così  (p.  22): 

Xandra,  tuum  ut  videam  gelidum  suspìria  peotus 

Fundere  corque  simul  igne  calere  meo  ! 
Tuno  tua  seu  rigido  quondam  precordia  ferro 

Horruerint,  duro  sive  adamante  licet, 
Vieta  tamen  precibus  tandem  sic  fabere  nostris: 

«  Hio  meus  ingenti  iam  meret  esse  fide  » . 
Splendida  tum  varii  mutabunt  ora  oolores 

Et  lachrime  in  morem  fluminis  ore  fluent,  eto. 

Il  pentametro  Hie  meus  -  fide  è  posto  in  bocca  a  Xandra  ;  e  a  lei  si  rife- 
riscono gli  splendida  ora.  Veda  un  po'  il  B.  se  con  le  parole  «  soltanto  Xandra 
«  può  restituire  al  suo  adoratore  la  salute  e  la  felicità  »  gli  pare  d'aver  reso 
lo  spirito  dei  versi. 


RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA  191 

E  non  insisto,  perchè  nulla  odio  di  odio  tanto  profondo  quanto  la  pedan- 
teria; ma  confesso  che  nei  saggi  umanistici  degli  studiosi  italiani  stona  sgra- 
devolissimamente col  resto  l'inettitudine  a  presentare  in  modo  decoroso  i  do- 
cumenti. 

H  B.  ha  cercato  inutilmente  (p.  146)  l'edizione  tedesca  delle  opere  di  Bar- 
tolomeo della  Fonte.  Ne  posso  indicare  una  copia  posseduta  dalla  biblioteca 
universitaria  di  Bologna  col  titolo  :  Opera  exquisitissima  Barth.  Fontii  florent. 
V.  e.  familiaris  Matthiae  regis  Pannoniarum,  Francofurti  MDCXXI.  Ed  ecco 
anzi  il  sommario  del  volume  :  p.  6,  De  locis  Persianis  ;  p.  29,  Testo  delle  Satire 
di  Persio;  p.  77,  Commento  a  Persio;  p.  207 ,  Barth.  Fontii  JDe  mensuris  et 
ponderibus  ad  Frane.  Saxettum  epistola.  Florentia  Calendis  ianuarii 
MCCCCLXXII]  p.  264,  Barth.  Fontii  Donatus  (cioè  de  poenitentià)  ad 
Julianum  Medicem  Petri  f.\  p.  287,  Pauìi  Ghiacceti  vita  a  Barthol. 
Fontio  edita]  p.  303,  Oratio  a  Barth.  Fontio  in  laudem  oratoriae  facultatis 
Florcntiae  habita  die  VII  novembris  MCCCCLXXXI-,  p.  314,  Barth. 
Fontii  oratio  in  historiae  laudationem  Florentiae  habita  die  VI  novembris 
MCCCCLXXXII]  p.  329,  Barth.  Fontii  oratio  in  bonas  arteis  Florentiae 
habita  die  Vili  novembris  MCCCCLXXXIIII]  p.  343,  Oratio  Barth. 
Fontii  in  laudem  poetices  Florentiae  habita  die  UH  nov.  MCCCCLXXXV\ 
p.  353,  Barth.  Fontii  oratio  de  sapientia  Florentiae  habita  die  VII  novem- 
bris MCCCCLXXXVI ]  p.  360,  Barth.  Fontii  oratio  in  satyrae  et  stu- 
diorum  hum.anitatis  laudationem  Florentiae  habita  die  VII  novembris 
MCCCCLXXXVll]  pp.  374-413,  Barth.  Fontii  SaxeUus  ad  Joannem 
Corvinum  Matthiae  ì^gis  f.  E  una  raccolta  di  poesie,  quasi  tutte  in  metro 
elegiaco,  assai  più  numerose  di  quelle  pubblicate  dal  Marchesi.  Alcune,  di 
argomento  amoroso,  sono  indirizzate  a  una  Celia  (1). 

Remigio  Sabbadini. 


MARIA  IRACI.   —  Lorenzo   Spirito   Gualtieri.  —   Foligno, 
R.  Gasa  editr.  F.  Gampitelli,  1912  (8«,  pp.  313). 

Questo  non  breve  volume,  dovuto  ad  una  signorina  studiosa,  che  fa  le  sue 
prime  armi,  non  è  certo  quel  che  di  meglio  si  potrebbe  desiderare  intorno 
allo  scrittore  quattrocentista  di  che  tratta.  Per  quanto  l'A.  abbia  fatto  ri- 
cerche discretamente  ampie  e  si  sia  con  una  certa  larghezza  preparata  allo  svol- 


(1)  Del  medesimo  Bottiglioni  annunziamo  un  aj^ro  lavoretto,  che  si  può  consi- 
derare come  un'appendice  del  volume  suddescritto,  dal  titolo:  Lirici  latini  del 
secolo  XV,  le  propaggini  del  circolo  letterario  mediceo  fuori  di  Firenze,  Forlì,  1918, 
58  pp.  (estratto  dalla  rivista  mensile  La  Romagna,  X,  1918),  Vi  si  esamina  la  pro- 
duzione lirica  dei  seguenti  nove  umanisti:  Lorenzo  Buoninoontri,  Antonio  Pelotti, 
Cherubino  Quarquagli,  Filippo  Bonaccorsi,  Giambattista  Cantalioio,  Scipione  For- 
teguerri,  Piattino  Piatti,  Giovanni  Aurelio  Augurelli,  Jacopo  Bianohelli. 


192  RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA 

gimento  del  suo  tema,  non  poche  né  lievi  sono  le  deficienze  e  le  lacune  del 
suo  lavoro,  il  quale  forse  si  risente  d'una  fretta  inopportuna,  che  lo  ha  fatto 
comparire  in  luce  per  le  stampe  prima  del  tempo.  S'aggiungano,  a  questo 
fondamentale,  altri  difetti  dovuti  all'inesperienza,  ed  una  esposizione  non 
sempre  ordinata  e  soverchiamente  verbosa,  piena  di  ripetizioni  e  divagazioni 
inutili  :  il  volume ,  a  parer  mio,  avrebbe  potuto  agevolmente  esser  dimi- 
nuito d'un  centinaio  di  pagine,  al  cui  posto  i  lettori  avrebbero  più  volentieri 
veduto  saggi  più  numerosi  della  poesia  dello  Spirito,  che  invece  l'A.  ha  in- 
tercalati in  modo  frammentario  e  non  sufficiente  nella  sua  esposizione.  Tut- 
tavia nel  suo  complesso  il  lavoro  della  I.  è  tutt'altro  che  inutile,  e  certo 
contribuisce  in  notevole  misura  alla  miglior  conoscenza  dell'opera  del  rimatore 
e  venturiere  perugino. 

Di  lui,  non  pochi  anni  or  sono,  io  rifeci  la  biografia  sui  documenti  nume- 
rosissimi che  trassi  dagli  archivi  perugini  (1);  ed  era  mia  intenzione  conti- 
nuare su  di  lui  i  miei  studi  e  pubblicarne  una  compiuta  monografia,  giovan- 
domi dell'esame  delle  opere  e  delle  molte  ricerche  fatte.  Poi,  altri  lavori  mi 
distrassero  da  quelle  mie  indagini  giovanili.  Però  non  dispiaccia  ai  lettori  del 
Giornale  che  io  mi  dilunghi  un  poco  nell'esame  del  volume  della  sig.^^a  I., 
correggendo  quel  che  in  esso  mi  parrà  o  sarà  errato,  e  aggiungendo  ciò  che 
di  ragguardevole  mi  avvenne  di  trovare  fra  i  miei  appunti. 

Non  bisogna,  innanzi  tutto,  esagerare  i  meriti  del  rimatore  perugino,  né 
sollevarlo  al  disopra  di  quel  modesto  livello,  a  cui  egli  ha  diritto  di  esser 
posto.  Nelle  molte,  troppe  pagine  della  I.  è  un'altalena  continua  di  lodi  e  di 
critiche  al  poeta  perugino:  incoerenza  che  dimostra  l'atteggiamento  in  cui 
l'A.  si  è  trovata  dinanzi  al  suo  autore  ;  il  quale  le  è  apparso,  come  è,  nel 
complesso,  una  di  quelle  tante  mediocrità,  poeti  a  mezzo,  del  sec.  XV,  autore 
d'un  profluvio  di  versi  in  mezzo  a  cui  bisogna  cercare  con  pazienza  qualche 
voce  sincera  e  qualche  espressione  poetica;  ma  del  quale  ella  tenta,  per  l'affetto 
posto  al  suo  tema,  d'ingrandire  i  meriti  ogni  volta  che  le  occorra  nell'opera 
del  Gualtieri  una  frase,  un  concetto  che  abbiano  apparenze  meno  sgraziate 
del  solito.  Nelle  prime  pagine,  ad  es.,  l'A.  afferma  di  sentire  nel  canzoniere 
dello  Spirito  «  la  freschezza  d'un  alito  primaverile,  tutta  l'ingenuità  pura  e 
«  seducente  della  nostra  giovane  poesia  »  :  da  queste  doti  ella  «  rimase  av- 
€  vinta  »,  e  ne  continuò  la  lettura  «  con  avidità,  sollecitata  dall'ammirazione». 
Altri  pregi  non  comuni  trovò  più  o  meno  nelle  altre  opere  del  suo  autore; 
onde  s'accinse  con  «  entusiasmo  »  al  suo  lavoro,  per  riparare  «  un'ingiustizia 
«  di  quattro  secoli  »  (p.  4  sg.).  Ma  poco  più  oltre  la  stessa  A.  ricaccia  nella 
moltitudine  dei  meno  illustri  quattrocentisti  il  suo  autore,  con  quest'altro 
giudizio,  che  è  davvero  più  vicino  alla  verità  :  «  Egli  non  ha  somma  impor- 
«  tanza  per  sé  e  per  grandi,  originali  creazioni,  che  le  sue  opere  non  ecce- 
«  dono  la  mediocrità,  né  per  correttezza,  eleganza  di  forma,  né  per  genialità 


(1)  Lorenzo  Spirito  Gualtieri  rimatore  e  venturiere  perug.  del  sec.  XV  (nella  Raccolta 
di  ttudii  crii,  dedic.  ad  A.  D'Anoona,  Firenze,  Barbèra,  1901,  pp.  277-84). 


RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA  193 

«  d'invenzione,  ecc.  ».  E  a  questo  esempio,  che  ho  citato  perchè  è  il  primo, 
ne  potrei  aggiungere  moltissimi  altri.  Ne  segue  un  continuo  dire  e  disdire, 
un  alterno  concedere  e  togliere  ai  meriti  dello  Spirito,  un  esaltare  con  forma 
inopportunamente  enfatica  e  fiorita  (difetto  che  si  estende  a  tutte  le  parti 
del  lavoro  (1))  e  un  attenuare,  poco  dopo,  le  lodi  esageratamente  concesse:  il 
che  genera  monotonia  e  ad  un  tempo  incertezza  di  giudizi,  e  stanca  il  lettore 
con  le  molte  ripetizioni,  e  lo  rende  incredulo  tutte  le  volte  che  l'A.  prende 
l'aire  e  fraseggia  qualche  suo  giudizio  laudativo.  Ingrossar  la  voce  per  ingran- 
dire i  meriti  dello  Spirito  è  tempo  e  fiato  sprecato  :  egli  resta  quello  che  è 
di  fatto,  un  tipico  rappresentante  della  coltura  e  dei  tempi  in  cui  visse,  senza 
genialità,  ma  tuttavia  non  senza  qualche  buona  dote  di  vigore  e  di  sponta- 
neità :  un  misto  simpatico,  ma  abbastanza  comune  nella  vita  e  nella  letteratura 
del  sec.  XV,  di  primitivo  e  di  colto. 

Lorenzo  Spirito  Gualtieri,  sebbene  non  ignaro  delle  letturature  classiche, 
anzi  certamente  buon  conoscitore  del  latino,  come  ci  attesta  la  sua  traduzione 
d'Ovidio,  nella  Perugia  del  400  rappresenta  il  sopravvivere  della  tradizione 
volgare  e  popolare  di  contro  all'invadente  coltura  umanistica.  Chi  s'accingerà 
ad  uno  studio  delle  lettere  a  Perugia  nel  XV  secolo,  per  cui  si  hanno  saggi 
vari  e  già  antichi  e  più  recenti,  troverà  in  mss.  e  documenti  d'archivio,  che 
io  so  abbondanti  specialmente  nella  Biblioteca  comunale  di  quella  città,  molti 
nomi  di  modesti  cultori  dell'Umanesimo,  insieme  ad  altri  più  famosi  già  noti, 
e  scritti  molteplici  latini  e  greci,  per  ricostruire  una  pagina  curiosa  e  impor- 
tante del  rinascimento  classico  nell'Italia  centrale,  in  quella  Perugia  che  ne 
fu  la  sede  più  cospicua,  fra  gli  splendori  di  Firenze  e  di  Roma.  Ma  accanto 
a  questa  coltura  classica,  che  s'illustra  dei  nomi  del  Campano,  dell'Antiquari, 
del  Maturanzio  e  d'altri  molti  ancora  sconosciuti  nei  codici  perugini,  c'è  una 
non  piccola  né  indegna  letteratura  volgare,  di  cui  Lorenzo  Spirito  fu  il  prin- 
cipale rappresentante.  Bene  egli  adunque  meritava  che  se  ne  facessero  cono- 
scere le  opere  e  la  vita  più  compiutamente  che  finora  non  si  sia  fatto.  Ma 
non  perciò  è  vero  ch'egli  sia  ai  cultori  della  nostra  storia  letteraria  un  ignoto, 
nò  che  molto  possa  diffondersi  la  sua  fama,  come  la  sig.Jia  I.  asserisce  nelle 
prime  pagine  del  suo  volume.  Può  anzi  dirsi  che  la  sua  rinomanza,  più  o 
meno  equamente  valutata,  non  sia  venuta  mai  meno.  Se  l'I.  ci  avesse  dato 
una  compiuta  bibliografia  sullo  Spirito  (e  sarebbe  stata  utilissima,  come  in 
tutti  i  lavori  che  trattano  d'autori  del  genere  e  del  valore  del  suo  (2)),  sa- 
rebbe stato  evidente  che  il  nome  del  Gualtieri  non  fu  mai  dimenticato  :  forse 
decadde  un  po'  nel  500,  quando  la  letteratura  perugina  fiorì  e  acquistò  fama 
italiana  per  merito  de'  suoi  due  principali  poeti,  il  Beccuti  e  il  Caporali;  ma 
dal  risveglio  di  studi  eruditi,  iniziatosi  alla   fine   del  600   e   fattosi   sempre 


(1)  Cfr.,  p.  es.,  a  pp.  83,  48,  53  sg.,  57,  63  e  via  via. 

(2)  Una  smentita  alla  sua  affermazione  della  poca  notorietà  dello  Spirito  dà,  l'A. 
stessa  a  p.  17  sg.,  ricordando  coloro  che  di  proposito  s'occuparono  del  rimatore 
prima  di  lei. 

Giornale  storico,  LXIV,  faso.  190-191.  13 


194  RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA 

più  intenso  fino  al  principio  del  sec.  XIX,  e  poi  ai  tempi  nostri,  il  nome  del 
rimatore  quattrocentesco  non  fu  più  dimenticato  :  prima  il  Vincioli,  e  poi  il 
Vermiglioli,  per  dir  solo  dei  principali,  quindi  il  Fabretti  e  altri  minori  stu- 
diosi perugini,  e  Vittorio  Rossi  e  ultimo  il  sottoscritto  contribuirono  a  far 
sempre  meglio  conoscere  la  vita  e  le  opere  dello  Spirito.  Il  quale,  per  merito 
di  V.  Rossi,  uscendo  dalla  storia  umbra,  fece  con  onore  il  suo  ingresso  nella 
storia  della  nostra  letteratura,  e  vi  prese  il  posto  modesto,  ma  non  insignifi- 
cante, che  gli  spetta  (1). 

Da  quel  che  s'è  discorso  innanzi  risulta  che  lo  Spirito,  in  quanto  raccoglie 
in  sé  i  caratteri,  le  doti  e  i  difetti  del  suo  tempo,  è  di  quegli  autori,  che,  — 
non  avendo  grandi  pregi  di  originalità,  né  obbligando  chi  li  studia  a  con- 
centrar su  di  loro  la  propria  attenzione  in  modo  da  isolarli  quasi,  per  quanto 
é  possibile,  dall'ambiente  in  cui  vissero,  —  devono  essere  considerati  non  sepa- 
ratamente, ma  nella  società,  in  cui  si  svolse  la  loro  attività,  da  cui  ricevono 
luce,  e  fuori  della  quale  perdono  una  parte  del  loro  valore  e  del  loro  signifi- 
cato. Questo  l'I.  aveva  intraveduto  ;  ma  non  ha  sentito  la  necessità  di  dare 
allo  Spirito  quel  contorno,  nel  quale  egli  non  è  destinato  a  confondersi  con  i 
suoi  contemporanei,  ma  ad  acquistare  il  dovuto  rilievo  :  che  non  può  bastare 
nemmeno  alle  più  limitate  esigenze  quel  poco  che  ella  dice  del  Quattrocento 
pei-ugino  (a  pp.  4-7)  (2):  cose  molto  generiche  e  incompiute,  laddove  il  nostro 
Quattrocento  non  presenta  gli  stessi  caratteri  in  tutte  le  città  e  regioni;  e 
troppo  vaghi  e  imprecisi  sono  quei  riferimenti  storici  che  l'A.  ha  sparsi  senza 
abbondanza  qua  e  là  per  il  suo  volume,  dove  si  richiedeva  molto  di  più  per 
illustrare  opere,  come  il  Puhlico  e  V Altro  Marte,  che  trovano  la  loro  ragion 
d'essere  nelle  condizioni  di  vita  della  città  umbra  e  dell'Italia  intera  nel  se- 
colo del  Rinascimento  e  delle  Signorie. 

Nel  secolo  XV  Perugia,  pur  partecipando  alla  coltura  umanistica  (3),  non 
divenne  uno  dei  centri  principali  dei  risorti  studi  classici,  perchè  i  suoi  do- 
minatori, benché  munifici  e  splendidi  signori,  furono  soprattutto  uomini 
d'arme.  Il  fiorente  studio  perugino  contribuì  specialmente  all'incremento  delle 
lettere,  poiché  in  esso  la  gloriosa  tradizione  medievale  fu  continuata  da  altri 
celebri  maestri  del  diritto  e  della  letteratura.  A  Perugia  rimase  vari  anni 
G.  A.  Campano,  ingegno  bizzarro,  vanaglorioso  e  anche  litigioso,  come  i  più 


(1)  H  Quattrocento,  p.  166,  dove  lo  Spirito  è  messo  in  compagnia  d'altri  rimatori 
storici. 

(2)  E  molto  meno  basta  quell'elenco  disordinato  di  nomi,  che  è  a  p.  16  sg.,  con 
insufficiente  bibliografia,  anzi  senza  la  più  piccola  nota  bibliografica. 

(8)  Utilissime,  per  la  storia  della  coltura  perugina  di  questo  secolo,  sono  le  opere 
in  genere  di  G.  B.  Vermiglioli,  e  specialmente  le  Memorie  di  Jacopo  Antiquari  e  degli 
studi  di  ametia  letteratura  esercitati  in  Perugia  nel  sec.  decimoquinto,  ecc.,  Perugia, 
Baduel,  1813,  e  le  Memorie  per  servire  alla  vita  di  Francesco  Maturanzio  oratore  e 
poeta  perugino  raccolte  la  maggior  parte  dalle  sue  opere  (ned.,  Perugia,  Baduel,  1807. 
Sul  Maturanzio,  o  Matarazzo,  sarebbe  pur  sempre  la  benvenuta  una  monografia 
che  ne  considerasse  il  merito  letterario;  ed  anche  alla  sua  biografia  son  da  ag- 
giungere non  pochi  particolari,  sfoggiti  al  Vermiglioli. 


RASSEGNA    BIBLIOGBAFICA  195 

de'  suoi  colleghi.  Soggiornò  nella  capitale  dell'Umbria  fino  al  1460(1),  quando 
fu  chiamato  a  Eoma  da  Pio  II  :  protetto  dai  Baglioni,  a  cui  istruì  i  figli, 
non  riportò  però  favorevole  concetto  della  coltura  perugina:  di  essa  infatti 
egli  fece  un  ritratto  «  molto  umiliante  »,  come  dice  il  Vermiglioli  (2),  in 
una  delle  sue  Epistolae  (Lib.  II,  ep.  31*).  «  Ma  forse  ne  parlò  anche  con 
«  maggiore  arroganza  —  prosegue  l'erudito  perugino  —  in  quella  prelezione 
«  che  egli  recitò  nel  1455  nell'assumere  la  nuova  cattedra  a  lui  affidata,  ove 
«  fece  vedere  quanto  i  perugini  erano  alieni  dallo  studio  della  retorica  e 
«  dell'eloquenza  ».  Però  chi  rifletta  che  in  quel  secolo  Perugia  potè  vantarsi 
di  Iacopo  Antiquari,  segretario  dello  Sforza,  uomo  di  gran  dottrina  e  di 
animo  elevatissimo  (3);  e  di  Francesco  Maturanzio,  storico  ed  umanista 
insigne,  che  nel  '71  viaggiò  in  Grecia,  e  si  trattenne  alcuni  anni  a  Rodi, 
imparando  la  lingua  ellenica  in  modo  da  parlarla  (4),  e,  tornato  in  patria 
recando  seco  molti  codici  greci,  fu  stimato  degno  di  succedere  nell'insegna- 
mento, in  Vicenza,  al  suo  maestro  Ognibene;  chi  pensi  che  molti  altri  mi- 
nori vissero  e  poetarono  latinamente  a  Perugia  (5),  in  quel  fervido  periodo 
di  rinnovamento  intellettuale,  dovrà  ammettere  che  al  Campano  non  è  da 
prestar  fede  intera.  Solamente  a  scorrere  i  fasti  dell'Università  perugina  rac- 
colti dal  Bini  (6),  è  facile  persuadersi  che  i  magistrati  della  città  si  presero 
gran  cura  dell'istruzione  pubblica  :  vi  insegnarono  infatti  il  Calcondila  ed  Er- 
molao Barbaro,  e  più  volte  vi  fu  invitato  il  Filelfo.  E  seguendo  l'uso  invalso 
presso  gli  stati  italiani,  Perugia  si  studiò  d'avere  nella  sua  Cancelleria  del 
Comune  un  uomo  dotto  :  nel  1440  lo  stesso  Filelfo  fu  proposto  a  quella  carica 
insieme  con  l'Aurispa,  col  Marrasio  e  con  Ranuccio  da  Castiglione  aretino, 
perchè  appunto  si  ricercava  «  unus  qui  sit  bonus  scientificus  et  in  arte  oratoria 
«  doctissimus  »  (7). 


(1)  Gr.  Lesca,  G.A.  Campano  detto  VEpiscopua  apriitimia,  Pontedera,  Ristori,  1891, 
pp.  26-87.  Aggiungo  che  l'elezione  del  Campano,  che  si  trovava  a  Perugia  dal  1458, 
a  lettore,  fu  fatta  ai  16  novembre  1465  (  v.  Annalea  Decemvirales,  presso  la  Biblioteca 
comun.  di  Perugia,  ad  ann.,  f.  126  a). 

(2)  Memorie  di  Francesco  Maturanzio,  p.  116  sg.,  n.  ^. 

(8)  Oltre  il  cit.  voi.  del  Vermiglioli,  v.  gli  utili  docum.  sull'Antiquari,  fatti  co- 
scere  da  E.  Verga,  Docum.  di  stor.  pertig.  estr.  dagli  archivi  di  Milano  (nel  Bollett.  d. 
R.  Depili,  di  stor.  patria  per  l'Umbria,  V,  717  sgg.,  VI,  11  sg.). 

(4)  Vedi  l'epistola  79»  del  Maturanzio  nel  cod.  E.  5  della  Comnnale  di  Perugia. 

(5)  Cfr.  per  tutti  questi  Vermigligli,  Mem.  di  I.  Antiquari,  pp.  5  sgg.  e  80  sg. 

(6)  Vincenzo  Bini,  Della  perugina  Università  degli  studi  e  dei  suoi  professori,  voi .  I, 
parte  2»  :  i  nomi  degli  illustri  maestri  di  lettere  e  poesia  a  pp.  509  sgg.  È  da  notare 
che  il  Campano  non  fu  ingrato  verso  i  perugini,  perchè  nelle  numerose  sue  epi- 
stole dirette  al  Card.  Papiense,  legato  di  Perugia,  mostra  di  aver  molti  debiti  di 
riconoscenza  con  essi  (cfr.  Opera  I.  A.  Campani,  Romae.  MCCCCXCV,  Epist.,  L.VI, 
no  24).  E  ne'  suoi  Carmina  (Lib.  I,  carm.  9^)  cosi  patla  de'  suoi  mecenati: 

Est  domus  illustris  Balionia  sanguine  avorum, 
E  qua  magnanimi  mille  fuere  duces. 

(7)  Vedi  nella  Bibl.  com.  di  Perugia  gli  Annales  Decemvirales,  ad  ann.,  f.  18.  Per 
ricordare  alcuno  di  questi  cancellieri  illustri,  tra  i  quali  già  sul  finire  del  seo.  XIY 


196  BASSEGNA    BIBLlOGBAriCA 

Né  del  tutto  insignificante,  anche  togliendone  Lorenzo  Spirito,  era  la  pro- 
duzione letteraria  in  volgare:  ci  basti  qui  ricordare  Serafino  Candido  Bon- 
tempi,  che,  esule  dalla  patria,  trovò  presso  i  Trinci  di  Foligno  accoglienze 
liberali  (1),  e  che,  mercè  del  suo  tedioso  poema  in  terzine  del  Salvatore,  fu 
fatto  cavaliere  nel  1433  da  Sigismondo  imperatore,  il  quale  emulò  in  questo 
gl'imperatori  del  secolo  precedente;  come  pure  quel  Nicolò  Grisanti  da  Mon- 
tefalco,  che  fu  trombetta  di  Braccio  II  Baglioni,  e  verseggiò  alla  peggio  un 
suo  canzoniere,  interessante  per  la  conoscenza  di  non  pochi  personaggi  di  quel 
tempo,  e  che  oggi  è  meglio  conosciuto  che  la  sig  na  I.  non  sappia  (2)  ;  né  di- 
menticheremo una  donna,  bellissima  e  santa,  Elena  Coppoli  (1425-1500),  bea- 
tificata col  suo  nome  di  religione,  Cecilia  (3). 

Una  ricca,  se  non  splendidissima,  corte  fioriva  allora  a  Perugia:  una  di 
quelle  corti,  che  «  erano  ritrovo  —  come  dice  il  D'Ancona  —  a  gente  di  vario 
«  grado,  di  varia  cultura  e  di  moralità  assai  diversa.  Capo  di  esse  era  il  prin- 
«  cipe,  che  quando  non  era  dei  maggiori,  e  per  ciò  stesso  intricato  negli  av- 
«  volgimenti  della  più  perfida  politica,  era  un  condottiero  il  quale  vendeva 
«  il  braccio  ad  un  signore  più  possente  od  anche  a  repubbliche,  ma  non  ven- 
«  deva  l'animo  e  la  volontà,  serbandosi  di  volgerli  anche  contro  chi  lo  pagava. 
«  Intorno  a  lui  si  accoglievano  bastardi  fratelli  e  figliuoli  bastardi;  e  spesso 
«  le  favorite  e  le  drude;  e  soldati  di  ventura,  e  buffoni  e  giocolieri,  e  con  essi 
«  veri  uomini  di  corte  :  poeti,  artisti,  musici,  grammatici,  eruditi  »  (4).  Braccio  II 
Baglioni  (5)  non  era  signore   assoluto  di  Perugia,  ma  vi  dominava  col  suo 


(anni  1376-81)  fu  Filippo  Villani,  v.  R.  Marchesi,  Intorno  allo  storico  F.  Villani  eletto 
segretario  del  Comune  di  Perugia,  Perugia,  Santucci,  1842,  e  sui  suoi  successori 
cfr.  V.  Ansidei,  Ser  Lodovico  di  lacopuccio  da  Rieti  cancelliere  del  Comune  di  Perugia 
(1381-1402),  nel  cit.  Boll,  della  R.  Dep.  umbra,  VII,  577  sgg.  A  Perugia,  come  sanno 
gli  studiosi  dell'umanesimo,  stette  anche  Tommaso  Pontano  dal  1440  al  1450,  quando 
mori  (cfr.  A.  Zanelli,  Tommaso  Pontano.  Nuove  ricerche  ed  appunti,  nel  Bollettino  cit., 
XT,  63  sgg.). 

(1)  Cfr.  M.  Faloci  Pxilionani,  Le  lettey-e  e  le  arti  atta  Corte  dei  Trinci  in  Foligno  (in 
questo  Giorn.,  Il,  28  sgg.).  Del  Bontempi  trovo  una  notizia  nel  cod.  B.  27  della  Co- 
munale di  Perugia:  il  suo  poema,  Il  Saltxttore,  è  nei  codd.  D.  47-48  della  stessa  bibl. 
Vedi  quel  che  ne  dice  V.  Rossi  (/Z  Quattrocento,  p.  192  sg.),  che  ne  ha  visto  un  cod. 
estense  (segn.  VIII,  C.  11). 

(2)  Le  è  sfuggito  infatti  un  interessante  lavoretto  ohe  al  Filenico,  il  canzoniere 
del  Grisanti,  contenuto  nel  cod.  Classense  n°  239,  dedicò  parecchi  anni  sono  la 
sig.»  Antonietta  Fantozzi  {Un  canzoniere  ined.  del  secolo  XV,  nella  rivista  peru- 
gina La  favilla,  XXI,  fase.  2",  pp.  37).  Quivi  sono  non  poche  notizie,  sebbene  dagli 
estratti  ch'io  posseggo  del  cod.  di  Ravenna  mi  risulti  che  pai'eochie  altre  cose  era 
possibile  derivarne.  La  Fantozzi  ha  anche  pubblicato  nel  suo  studio  un'utile  ap- 
pendice di  versi  del  trombettino  di  Braccio  Baglioni. 

(3)  Cfr.  su  di  lei  Veemiglioli,  lac.  Antiquari,  pp.  16-19,  M.  Faloci  Puligkani,  Sa{jgi 
della  cronaca  di  suor  Caterina  Ottarneri  da  Osimo  (in  Archivio  stor.  per  le  Marche  e 
per  l'Umbria,  I,  2804)  e  specialmente  A.  Rotelli,  Vita  della  beata  Cecilia  Coppoli, 
Perugia,  1882. 

(4)  Nel  notissimo  saggio  sul  Secentismo  nella  poesia  del  Quattrocento. 

(5)  Vedi  su  di  lui  A.  Fabbbtti,  Biografie  dei  capitani  venturieri  dell'Umbria,  Mon- 
tepulciano, Fumi,  1848, 1,  18  sg.;  Vermigligli,  Poesie  inedite  di  Pacifico  Massimi  osco- 


RASSEGNA   BIBLIOGBAFIOA  197 

sfarzo,  con  la  sua  politica.  Soldato  valoroso,  si  atteggiava  a  protettore  delle 
arti,  che  dovevano  con  le  mirabili  pitture  render  Perugia  famosa  nel  mondo, 
e  delle  lettere;  facevasi  costruire  un  superbo  e  forte  palazzo,  là  dove  poi  sorse 
minacciosa  la  ròcca  di  Paolo  III  ed  oggi  s'apre  ai  colli  dell'Umbria  un  bel- 
vedere dei  più  mirabili  dell'Italia  centrale  :  con  due  torri  che  ne  fiancheggiavano 
la  facciata  e  apparentemente  l'adornavano,  mentre  all'occorrenza  dovevano 
mutarsi  in  formidabili  arnesi  di  difesa;  in  una  sala  di  esso  palazzo  faceva 
istoriar  le  pareti  coi  ritratti  de'  più  illustri  perugini,  pei  quali  il  Maturanzio 
scrisse  delle  epigrafi  in  ottave  (1):  e  quivi  forse  il  Campano  declamava  le  sue 
eleganze  in  distici  latini  e  in  rotondi  periodi  ciceroniani,  e  Pacifico  Massimi 
ascolano  (che  anche  d'altre  città  convenivano  alla  protezione  del  Paglioni) 
leggeva  i  suoi  Triumplii  alla  presenza  del  potente  signore,  cui  le  lodi  rimate 
e  scandite  lusingavano  (2). 

Poi  eran  danze  e  torneamenti,  fatti  pei  begli  occhi  di  Margherita  Monte- 
sperelli,  moglie  di  Francesco  della  Bottarda  e  «  manzia  ■»  del  Paglioni ,  ad 
onorar  la  quale  i  poeti  andavano  a  gara  :  oltre  alcuni  minori,  il  Massimi  rap- 
presentandola danzante  con  grazia  squisita,  in  eleganti  distici  ;  e,  più  elegante 
di  lui,  il  Campano  la  celebrava  ne'  suoi  carmi  col  nomignolo  di  «  Diana  », 
ond'era  nota  non  soltanto  a  Perugia.  Delle  feste  che  il  Paglioni  celebrò  in 
Perugia  per  amore  e  in  omaggio  di  questa  donna  (3),  ci  parlano  anche  i  cro- 
nisti perugini  (4)  :  ai  24  di  maggio  del  1459  (5),  ne'  giardini  baglioneschi  di 


lano  in  lode  di  Braccio  II,  ecc.,  con  una  narraz.  delle  sue  gesta,  Perugia,  Baduel, 
1818,  e  O.  Scalvanti,  Per  la  sepoltura  di  Braccio  Baglioni  e  di  Braccio  Fortebracci  in 
Perugia,  nel  Bollettino  cit.,  XII,  503  sgg.  Sullo  svolgimento  della  pittura  perugina 
nel  400,  vedi  Walter  Bombe,  Oeschichte  der  peruginer  Molerei  bit  zti  Perugino  und 
Pinturicchio,  Berlin,  1912:  quivi  un  accenno  allo  Spirito  (p.  264),  a  proposito  del 
gonfalone  di  S.  Fiorenzo. 

(1)  Furono  edite  di  su  un  cod.  della  Comun.  di  Perugia  dal  Fabretti,  Note  e 
docum.  alle  cit.  Biografìe,  Montepulciano,  1843,  pp.  48-8.  Vedi  anche  F.  Flamini,  La 
lirica  toscana  del  Rinascimento  anteriore  ai  tempi  del  Magnifico,  Pisa,  Nistri.  1891, 
pp.  332-4.  Il  cod.  perugino  che  le  contiene  è  segnato  H.  47.  La  gran  sala  di  Braccio  TI 
trovo  descritta  dal  Grisaldi  in  certe  sue  memorie  ined.  nel  cod.1. 110  della  Comu- 
nale di  Perugia,  e.  23  a. 

(2)  Cfr.  C.  Cali,  Pacifico  Massimi  e  V Hecatelegium,  Catania,  1896.  Su  un  carme  del 
Massimi  a  Braccio  Baglioni  v.  A.  Tenneboni,  nel  BuUet.  d.  R.  Dep.  Umbra  cit.,  V, 
773  sg. 

(3)  Era  figlia  di  Antonio  di  Monte  Sperello  e  moglie  di  Francesco  di  Pietro  della 
Bottarda  detto  Grassello  di  Porta  Eburnea:  <  la  più  bella  giovane  »  che  allora 
fosse  in  Perugia,  dice  un  cronista  che  la  paragona  a  Venere.  Braccio  se  ne  inna- 
morò nel  terzo  anno  del  soggiorno  del  Campano  a  Perugia,  come  dice  lo  stesso  uma- 
nista, cioè  verso  il  1455  o  1456:  allora  era  vedovo  (cfr.  Lesca,  Op.  cit,  p.  36,  n.  2). 
Per  quel  che  nel  testo  si  dice  di  donna  Margherita,  vedi  un  art.  di  O.  Scalvanti, 
Un  garden-party  in  Perugia  nel  1459,  nella  riv.  HUmbria,  Perugia,  10  febbr.  1898, 
pp.  18  sg. 

(4)  Vedi  la  Cronaca  perugina  inedita  pnbblìc.  dallo  Scalvanti  nel  cit.  Bollettino 
d.  R.  Dep.  Umbra,  IV,  97,  374,  383,  390. 

(5)  Il  diarista  Antonio  de'  Veghi  (in  A.  Fabretti,  Cro7iache  della  città  di  Pertigia, 
Torino,  1888,  II,  38)  pone  la  festa,  forse  per  errore,  al  4  maggio. 


198  RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA 

Por  S.  Pietro,  Braccio  II  ordinò  un  ballo  e  una  colazione  in  onore  di  lei 
«  sua  desiderata  »,  e  vi  invitò  ottanta  giovani  e  donne,  e  la  colazione  fu  «  con 
«  diverse  e  varie  sorte  de  confetti,  cioè  pinochiate  dorate,  mandorle,  confetti 
«  a  la  divisa  sua  verde  e  rosele  e  bianche,  pini  inzuccherati,  merolle  de  peschio 
«  de  zuccaro  artificiate  e  castagnie,  trasea  anesini  a  la  divisa  sua  e  tutte  fòr 
«  date  ne  le  coppe  de  argento,  però  che  eie  era  una  bella  argentarla  ».  E  tra 
le  molte  giostre  che  Braccio  fece  correre  per  la  Margherita,  ne  ricordiamo 
solo  una  del  1460,  perchè  ad  essa  prese  parte  il  nostro  Lorenzo  Spirito,  va- 
lente cavaliere,  addestrato  alla  scuola  dei  Piccinini,  oltre  che  rimatore  ormeg- 
giante  il  Petrarca  (1).  Nel  canzoniere  dello  Spirito  è  un  sonetto,  che  si  rife- 
risce con  tutta  probabilità  alla  bella  Margherita,  e  che  io  riproduco  secondo 
la  lezione  del  cod.  perugino  H.  61  (son.  215): 

Deaua  che  grana  tempo  il  primo  stato 
tenne,  di  legiadria  l'ultimo  segnio 
com  quella  fama  che  '1  mio  basso  ingiegnio 
per  divulgarla  à  sempre  sollevato, 

teme  l'assalto,  il  quale  incominciato 
Venere  gli  à  con  ira  e  con  isdegnio, 
la  qual  s'è  mossa  dal  suo  santo  regnio 
per  vendicar  la  'ngiuria  e  '1  suo  peccato. 

Questa  dea  d'amor,  quale  apparita 
è  novamente  im  questa  nostra  terra, 
veramente  Deana  à  'mpaurita  ; 

e  tante  in  sé  belle99e  e  virtù  serra, 
che  ciascum  crede  im  questa  mortai  vita 
ley  averà  Victoria  de  la  guerra. 

Deana  va  per  terra, 
tratta  è  di  campo  e  tolta  gli  è  la  'nsegna, 
e  ley  vincendo,  triumphando  regnia. 

Mi  par  fatto  in  lode  d'una  donna  forestiera,  paragonata  a  Venere  per  la  sua 
bellezza,  dalla  quale  era  offuscata,  afferma  il  poeta  encomiatore,  quella  stessa 
della  favorita  del  Baglioni  (2).  A  Margherita  dedicava  anche  qualcuna  delle 
sue  rime  rauche  e  chiocce  Nicolò  da  Montefalco,  il  trombettino  (3). 

Nello  stesso  anno  1459  passò  da  Perugia  il  pontefice  umanista  Pio  II,  e  ci 
furono  grandi  e  ricchissime  processioni  e  cortei,  ne'  quali  si   vide  il  «  ma- 


(1)  Oltre  lo  Scalvanti  (nella  riv.  cit.  L'Umbria,  1.  cit.),  v.  Veohi,  Cronache  oit., 
p.  89.  Altre  giostre,  a  cui  prese  parte  Spirito,  sono  del  1454  (Cronaca  -perug.  ined.  cit., 
in  BoU.  cit.,  IV,  100),  e  del  1459,  in  onore  di  Pio  II  [Ivi,  IV,  865). 

(2)  Si  potrebbe  supporre  che  il  son.  si  riferisse  all'arrivo  in  Perugia  della  nuova 
moglie  di  Braccio  II,  che  fu  Anastasia  Sforza.  Ma  poiché  la  Sforza  giunse  a  Pe- 
rugia il  20  giugno  1462  (v,  CronoAM  perug.  ined.,  in  Boll,  oit.,  IX,  39),  mentre  il  cod. 
che  contiene  il  son.  è  datato  1461,  converrà  rinunziare  a  questa  congettura.  Su 
questa  moglie  del  Baglioni,  che  s'era  fidanzato  ad  essa  nel  1456,  quando  Anastasia 
aveva  appena  tredici  anni,  vedi  A.  Giulini,  Anastasia  Baglioni  Sforza,  ecc.,  nel  oit. 
Boll.  d.  R.  Dep.  Umbra,  XVII,  243  sgg.,  e  cfr.  V.  Ansidei,  Bicordi  nuziali  di  casa 
Baglioni,  nel  BoU.  cit.,  XIV,  105  sgg. 

(3)  Cfr.  Fantozzi,  art.  cit.,  p.  6  dell'estratto. 


RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA 


199 


«  gnifico  »  Braccio  portare  il  gonfalone  di  Santa  Chiesa.  Inoltre,  nella  stessa 
circostanza,  il  3  febbraio,  il  capitano  «  fece  fare  una  bella  giostra  in  piazza 
«  a  sette  tedesche,  e  pose  pel  premio  otto  braccia  di  velluto  celeste,  et  il 
«  premio  fu  ottenuto  da  Eidolfo  di  Malatesta  {Bagìioni).  Fece  venire  in  piazza 
«  un  castello  di  legname  nelle  ruote,  et  è  inficcato  in  un  elefante  di  legname, 
«  e  poi  ci  fece  venire  un  carro  in  su  le  ruote,  nel  quale  ci  erano  suoni  e  canti 
«  e  molti  istrumenti;  e  fu  una  bella  festa  »  (1).  Durante  il  soggiorno  di 
Pio  n  (fino  ai  19  di  febbraio)  nuovi  festeggiamenti  godette  Perugia  per  l'ar- 
rivo del  Duca  d'Urbino,  di  Simonetto  capitano  di  Firenze  e  d'altri  cospicui 
personaggi  ;  e  più  altri  ne  potremmo  ricordare,  se  volessimo  dilungarci  a  par- 
lare della  venuta  di  Federico  EI  in  Perugia  nel  1469;  di  quella,  nel  1471, 
di  Borso  d'Este,  accompagnato  da  una  corte  numerosa  e  sfarzosa,  di  cui  erano 
ornamento  anche  alcuni  poeti  come  Niccolò  da  Correggio  (2),  al  quale  il  Ba- 
gìioni donò  un  codice  àoiV Altro  Marte  dello  Spirito;  e  di  quella  di  Ales- 
sandro VI,  giunto  a  Perugia  nel  1495,  accompagnato  da  Lucrezia,  moglie 
allora  del  signore  di  Pesaro. 

Tuttavia  con  queste  splendidezze  invano  i  Bagìioni  s'industriavano  di  far 
dimenticare  la  loro  prepotenza  al  popolo  perugino.  Nella  seconda  metà  del 
sec.  XV,  come  anche  prima,  a  causa  delle  fazioni  civili  le  condizioni  interne 
di  Perugia  erano  infelicissime,  quali  coraggiosamente  le  rappresentò  nel  Pu- 
hìico  lo  Spirito,  lamentando  la  rovina  della  città  e  vituperando  duramente 
con  aspri  versi  quelli  che  riducevano  a  mal  partito  le  libere  istituzioni.  Ce- 
sare Crispolti  il  vecchio,  uno  storico  perugino  del  secolo  XVI,  ha  lasciato  una 
diffusa  narrazione,  tuttora  inedita,  di  queste  discordie  (3),  che  spesso  bagna- 
rono di  sangue  le  vie  cittadine  ;  e  la  sua  storia,  condotta  su  documenti  pub- 
blici e  privati,  è  certo  veritiera,  benché  non  sempre  l'autore  sappia  celare  il 
suo  risentimento  verso  gli  autori  dei  dolorosi  avvenimenti  :  di  lui  adunque  ci 


(1)  Cfr.  Veghi,  Cronache  cit.,  pp.  ^-88,  e  la  Cronaca  perug.  iìied.,  nel  Boll,  cit.^  IV, 
367  sgg.  Il  9  febbr.  1459  giunsero  a  Perugia  Federico  d'Urbino  {Boll,  cit.,  IV,  861)  e 
gli  altri  personaggi. 

(2)  Per  l'arrivo  di  Federico  III,  v.  Cronaca  perug.  ined.  (in  BoU.  cit.,  IX,  62  sg.)  e 
per  Borso  d'Este,  che  stette  a  Perugia  dal  24  al  27  uaarzo  1471,  Cronaca  cit.,  IX,  73. 
Il  signore  di  Ferrara  era  accompagnato  da  Nicolò  da  Correggio  (cfr.  Luzio-Renieb, 
Nicolò  da  Correggio,  in  questo  Giorn.,  XXI,  210),  che  divenne  possessore,  come  ve- 
dremo, d'un  cod.  dell'Altro  Marte  dello  Spirito,  donato  al  suo  signore  dal  Bagìioni. 
Nel  1477  il  duca  d'Urbino  venne  a  Perugia  {Boll,  cit.,  IX,  109). 

(3)  Si  tratta  degli  inediti  Annali  delle  guerre  civili  di  Perugia  descritti  da  Cesake 
Crispolti,  perugino  canonico  et  dottore,  conservati  nel  cod.  C.  32  della  Comun.  di 
Perugia.  Ma  di  queste  vicende  parlano,  oltre  che  i  vecchi  storici  perugini,  non. 
pochi  studiosi  moderni  :  vedi  Gr.  Degli  Azzi,  Il  tumulto  del  1488  in  Perugia  e  la  po- 
litica di  Lorenzo  il  Magìiiftco  (nel  Boll,  cit.,  XI,  4OT  sgg.),  V.  Assidei,  La  pace  del 
6  luglio  1498  fra  Guidobaldo  I  duca  d'Urbino  e  il  Cavitine  di  Perugia  {BoU.  cit.,  V, 
741  sgg.)  e  Grius.  Mazzatinti,  In  una  <  città  del  silenzio  »  (nella  Rivista  d'Italia,  VI, 
1903,  pp.  536-548).  Della  tirannide  dei  Bagìioni  e  della  tragedia  perugina  del  1500 
trattò,  in  alcune  delle  sue  pagine  dense  ed  efficacissime,  il  Burckhardt  {Civiltà  del 
Rinascimento  in  Italia,  trad.  Valbusa,  Firenze,  Sansoni,  1911,  voi.  I,  pp.  31-36). 


200  RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA 

gioveremo  per  descrivere  in  breve  le  civili  perturbazioni  di  Perugia  nella  se- 
conda metà  del  quattrocento. 

I  lunghi  e  ardenti  odi  insoddisfatti,  e  gli  affronti  ricevuti  dai  Baglioni,  indus- 
sero i  Degli  Oddi,  l'altra  grande  famiglia  perugina,  ad  uscir  di  patria  e  a  ri- 
tirarsi nel  forte  di  Agallo  :  erano  trentasette  e  li  seguirono  altri  seicento  nobili, 
loro  aderenti  (1).  Esultanti,  i  Baglioni  corsero  il  rione  di  porta  S.  Susanna, 
rimasto  quasi  spopolato  per  la  partenza  dei  loro  rivali,  e  tutto  saccheggiarono, 
rovinando  le  case,  le  chiese  depredando  e  insultando  i  sepolcri  delle  famiglie 
fuoruscite,  nella  chiesa  di  S.  Francesco.  Dopo  di  che,  andati  contro  i  Degli  Oddi, 
riparatisi  a  Castiglion  del  Lago,  i  Baglioni  deposero  i  priori  che  erano  stati 
solo  un  mese  in  carica,  e  ne  crearono  altri  di  loro  piacimento:  miserando  e 
fiacco  consiglio,  cui  si  imposero  dieci  gentiluomini  dell'arbitrio,  creature  dei 
Baglioni.  E  si  passò  subito  alle  condanne  :  i  Degli  Oddi  furono  confinati,  e  i 
nomi  dei  banditi  lessero  una  mattina,  commentando  sotto  voce,  i  Perugini, 
scritti  sulla  porta  della  cattedrale  di  S.  Lorenzo  e  su  quella  del  palazzo  del 
Podestà  (2).  Non  si  quotarono  gli  esuli  :  Filippo  di  Ugolino  degli  Oddi  mi- 
nacciava con  soldatesche  la  patria,  e  per  tenergli  fronte  i  Baglioni  convertiron 
Perugia  quasi  in  un  accampamento  militare  :  il  duomo  pareva  una  ròcca, 
«  che  guardava  la  piazza  e  il  cuore  della  città  »  (3)  ;  e  Lorenzo  il  Magnifico 
soccorreva  la  città  di  denaro,  contro  i  fuorusciti.  Al  dire  del  Crispolti  (4), 
Guido  Baglioni,  il  Nestore  della  potente  famiglia,  usciva  per  le  vie  con  cento 
uomini  di  guardia.  E  mentre  il  Pontefice  poco  ormai  si  curava  di  Perugia, 
visto  che  i  Baglioni  facevano  a  lor  talento,  solo  il  signore  di  Firenze,  mode- 
ratore della  politica  di  tutta  Italia,  moveva  di  tanto  in  tanto  i  suoi  rimpro- 
veri per  la  mala  amministrazione.  Nel  1491  si  ebbero  stragi  nella  città,  e  il 
sangue  corse  abbondante  (5);  nel  '92  le  condizioni  parevano  migliorate,  ma 
nell'anno  seguente  scoppiava  nuovamente  entro  le  mura  la  peste,  assidua  e 
funerea  visitatrice,  e  nuovo  danno  aggiungevasi  ai  precedenti.  Su  questo  in- 
ferocire di  stragi,  tra  l'infierire  del  morbo,  nel  cozzo  di  ambizioni  e  di  furori 
nobileschi,  si  solleva  candida  e  santa  la  figura  della  beata  Colomba  da  Rieti, 
che,  a  ricondurre  la  pace  negli  animi  e  a  placar  l'ira  divina,  consigliava  pre- 
diche e  digiuni  :  per  suo  consiglio,  un  rosso  gonfalone  girava  per  la  città,  e 
sopra  vi  era  rappresentato  il  popolo  perugino,  cui  S.  Domenico  e  S.  Caterina 
da  Siena  riparavano  le  saette  scagliate  da  un  angelo,  ministro  della  giustizia 
celeste  ;  in  alto  eran  dipinti  Cristo  e  Maria,  in  un  coro  di  santi  invocanti  la 
misericordia  divina:  Farce,  domùie, parcè populo  ttw  (6).  Ma  non  per  questo 
restarono  le  calamità:  ai  4  settembre  del  '95  nuove  stragi  desolavano  Pe- 


(1)  Crispolti,  voi.  I,  e.  6  a. 

(2)  Crispolti,  I,  e.  11. 
(8)  Crispolti,  I,  e.  12  6. 

(4)  Crispolti,  I,  e.  27  a. 

(5)  Cose  feroci  di  questa  repressioue  dei  Baglioni  narra  la  oit.   Cronaca  perug. 
ined.  (nel  BoU.  cit.,  IX,  859  sgg.). 

(6)  Crispolti,  I,  e.  46. 


RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA  201 

rugia,  per  una  nuova  entrata  degli  Oddi,  nuovamente  con  lor  danno  ricacciati 
fuor  delle  mura  ;  di  fuori  continuavano  le  inimicizie  con  gli  assisani,  ed  al  ca- 
dere del  1496,  l'anno  in  cui  morì  lo  Spirito,  processioni  sacre  vagarono  per  la 
Piazza  a  ribenedirla,  dopo  le  uccisioni  fratricide  che  l'avevano  insanguinata. 

L'odio  implacato,  i  soprusi  e  la  supremazia  di  Guido  e  Kodolfo  Baglioni 
e  dei  loro  figli  furon  causa  della  loro  rovina,  ma  non  della  liberazione  di  Pe- 
rugia dal  giogo  della  prepotente  famiglia.  Il  1500,  nel  giorno  appunto  che 
Astorre  di  Guido  sposava  Lavinia,  la  bella  figlia  di  Giovanni  Colonna  e  di 
Giustina  Orsini,  dopo  splendidi  festeggiamenti,  una  congiura,  ordita  da  alcuni 
della  stessa  casa  Baglioni,  Grifonetto  e  Carlo  Barciglia,  scoppiò  terribile  :  lo 
sposo  fu  trucidato  in  braccio  alla  sposa  ;  ucciso  il  vecchio  Guido,  e  Simonetto, 
valorosissimo  giovane  ;  pochi  dei  Baglioni  si  salvarono  :  tra  questi  Giampaolo 
e  Eodolfo,  e  a  Giampaolo  era  dato  di  vendicare  la  sua  famiglia  e  signoreggiare, 
principe  assoluto,  in  Perugia.  In  questa  tragedia,  che  chiude  un  secolo  ferreo, 
grandeggia  la  figura  d'una  madre,  Atalanta  Baglioni,  quella  che  lampeggiò 
una  volta  alla  fantasia  creatrice  di  Gabriele  d'Annunzio  (1). 

Dell'orrore,  che  in  tutta  Italia  destarono  tali  eccessi  feroci,  si  faceva  inter- 
prete l'anima  candida  di  Iacopo  Antiquari,  il  quale  da  Milano,  come  cita  il 
Crispolti  traducendo  (2),  scriveva  ad  un  amico  :  «  Mi  si  spezza  nel  mezzo  il 
«  cuore  per  l'amore  della  patria,  nella  quale  io  prima  mi  gloriavo  di  esser 
«  nato.  Ma  ora  son  costretto  a  lagrimare  vedendola  andare  in  rovina.  E  via 
«  più  grave  mi  si  fa  '1  dolore,  poi  ch'io  non  posso  a  lei,  che  perisce,  porger 
«  aiuto  e  rimedio  alcuno  ».  In  questa  età  venturosa  e  travagliata  visse  Lo- 
renzo Spirito  di  ser  Cipriano  Gualtieri,  che  sulle  sorti  della  patria,  poco  dopo 
la  metà  del  secolo,  cantò  profeticamente: 

Et  è  giunto  a  tal  mani  già  il  Grifone  (8), 

che  mostra  mezze  spennacchiate  l'ali 

O  genti  vane  et  di  prudentia  sceme, 
qual  frutto  è  '1  vostro? 

Ed  ora  veniamo  ad  esaminare  più  da  vicino  il  volume  della  signorina  I. 
Esso  comincia,  dopo  un'introduzione  veramente  e  lunga  e  vuota,  con  un  cap. 
che  tratta  La  vita  di  Lorenzo  Spirito.  E  in  questo  l'A.  si  attiene,  dirò  così, 
molto  fedelmente  alla  mia  monografia  già  citata  (4)  ;  e  s'io  ho  ben  guardato, 


(1)  Crispolti,  Annali  cit.,  Libro  III. 

(2)  Crispolti,  I,  e.  97  6. 

(3)  Il  Grrifo  è  nello  stemma  di  Perugia.  I  versi  da  me  citati  sono  dei  capitoli  IV 
e  XII  del  Publico. 

(4)  Tanto  fedelmente,  che  in  gran  parte  della  sma  biografia  la  I.  non  fa  se  non 
seguire  la  mia,  diluendone  la  dicitura  e  spesso  appropriandosene  le  frasi.  Non 
poche  delle  mie  note  sono  passate  tali  e  quali  nel  lavoro  della  I.  (a  pp.  17  sg.,  21, 
27,  86,  ecc.).  E  per  il  testo  si  cfr.  le  pp.  31-38  della  I.  e  le  pp.  287-297  della  mia  me- 
moria. Di  che  non  le  faccio  gran  carico,  specialmente  perchè  ritengo  che  si  tratti 
d'un  difetto  di  metodo  e  d'inesperienza.  Allo  stesso  difetto   sarà  da  imputare  il 


202  RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA 

a  ben  poca  cosa  si  riducono  le  notizie  e  i  documenti,  che  essa  ha  aggiunto  a 
quelli  da  me  raccolti.  Eppure  qualcosa  di  nuovo  non  doveva  esser  impossibile 
trovare,  e  qualcosa  era  a  me  sfuggito.  Spigolando  nelle  cronache  perugine  del 
tempo,  mirabili  archivi  di  notizie,  la  I.  sarebbe  riuscita  a  trovare  qualche 
nuovo  particolare  (1);  ed  era  da  illustrare  l'andata  dello  Spirito  a  Milano 
nel  1458  (2),  e  da  tentar  di  trovare  di  più  intorno  alla  sua  andata  a  Firenze 
nel  1470  al  seguito  di  Rodolfo  Baglioni  (3),  e  a  quel  suo  soggiorno  a  Fer- 
rara, del  quale  l'A.  ha  trovato  cenno  in  qualche  sonetto  di  lui  (nel  cod.  di 
Ravenna).  Più  minuti  ragguagli  erano  anche  desiderabili  (e  questa  parte  era 
da  integrare  nella  mia  monografia)  intorno  alla  podesteria  dello  Spirito  a  To- 
lentino, tra  la  fine  del  1472  e  i  primi  mesi  del  1473,  specialmente  se,  come 
l'A.  afferma  (p.  33),  ella  ha  avuto  sott'occhi  i  libri  delle  riformanze  di  quella 
città.  La  parte  più  notevole  di  questo  I  cap.  è  quella  in  cui  si  tratta,  non 
in  tutto  chiaramente,  la  questione  della  data  di  nascita  del  Gualtieri  :  agli 
elementi  di  tale  questione,  da  me  usati  nel  mio  lavoro,  l'I.  ne  aggiunge  uno 
(la  data  del  Publico,  segnata  in  un  codice  Barberiniano  da  lei  rintracciato) 
e  ne  trae  un  argomento  per  lei  decisivo,  ad  ogni  modo  buono,  per  meglio  de- 


fatto che  la  I.  in  parecchi  tratti  del  suo  lavoro,  dove  discorre  a  larghe  linee  di 
generi  e  forme  letterarie,  non  fa  che  parafrasare  e  qua  e  là  copiare  da  altri  :  quel 
che  dice  del  «  lamento  >  a  p.  53  deriva  da  considerazioni  di  V.  Rossi  {U  Quattro- 
cento, p.  169),  e  dal  Rossi  stesso  (pp.  164,  167)  quel  che  dice  del  poema  storico 
(pp.  57  sg.).  Ciò  che  discorre  dell'imitazione  petrarchesca  è  un  centone,  sempre 
diluito,  del  Rossi  (p.  64  sgg.)  e  del  Graf  {Attraveì^so  il  Cinquecmto,  p.  8  sgg.)  :  e  ci  fa 
sorridere  la  sua  conclusione:  «Questa  la  ragione  {il  molto  che  può  dirai  ancora  del 
<  petrarchismo)  per  la  quale  ho  creduto  opportuno  analizzare  ed  interpretare  il  feno- 
«  meno  nei  suoi  principali  atteggiamenti  » .  Più  sgradito  mi  riesce  invece  qualche 
addebito  dell'I.,  che  mi  attribuisce  errori  che  non  ho  commesso.  Cosi  a  p.  48  mi  fa 
dire  che  la  traduzione  ovidiana  di  Nicolò  degli  Agostini  è  anteriore  a  quella  dello 
Spirito,  perchè  non  ha  capito  le  mie  parole,  ohe  pure  son  chiare  (p.  285  n.),  e  non 
ha  osservato  che  io  dico  che  lo  Spirito  fu  il  2°  traduttore  d'Ovidio  (p.  278).  Una 
mia  svista,  certo  nella  stampa,  è  l'aver  detto  del  1504  anziché  del  1619,  com'è  in 
tutte  le  bibliografie,  l'ediz.  dielV Ovidio  dello  Spirito.  A  p.  54  poi  l'I.,  di  quella  parte 
del  cod.  perug.  C.  17,  che  contiene  il  Publico,  dice  che  io  inclino  a  stimarla  del 
principio  del  sec.  XIX,  mentre  io  (p.  279)  ho  detto  dubitativamente  che  è  copia  o 
del  principio  del  sec.  XIX  o  della  fine  del  XVIII  :  non  so  invece  capire  dalle  pa- 
role della  I.  di  che  secolo  sia  per  lei,  poiché  nel  testo  la  dice  della  fine  del  sec,  XVIII, 
e  in  nota  afferma  che  è  del  sec.  XVII  o  del  XVIII. 

(1)  Riguardando  i  voi.  del  Boll.  d.  R.  Dep.  timbra,  trovo,  ad  es.,  ohe  il  padre  del 
poeta,  Ser  Cipriano  di  Qualtiere,  fece  il  testamento  di  Giacoma  Fortebracci,  sorella 
di  Braccio  da  Montone  e  madre  di  Braccio  II  Baglioni  (IV,  315);  e  che  nel  1473  lo 
Spirito  era  a  Perugia  Camerlengo  e  parlò  in  un'adunanza  intorno  al  Santo  Anello 
(IX,  86).  Nel  1469-70,  essendo  Braccio  Baglioni  in  Romagna  (IX,  64  sgg.),  lo  Spirito 
non  lo  avrà  accompagnato  ? 

(2)  Risulta  anche  dalla  cit.  Cronaca  pemg.  ined.  (nel  Boll,  cit.,  IV,  848).  Il  lavoro, 
già  citato,  di  A.  Giuli»i  su  Anastasia  Sforza  avrebbe  detto  all'A.  il  perchè  del- 
l'andata di  Braccio  a  Milano. 

(3)  Cfr.  anche  la  Cronaca  perug.  in^.  (in  Boll,  cit.,  IX,  69).  Osservo  ohe  per  una 
svista  ri.  (p.  84)  omette  il  priorato  dello  Spirito  del  1488,  riferendo  il  mio  giudizio 
intorno  a  questo,  all'altro  priorato  del  1485. 


RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA  203 

terminar  la  data  incerta.  Ma  l'I.  mi  fa  dire  in  proposito  cosa  che  io  non  ho 
detta,  quando  lascia  credere  ch'io  concluda  che  lo  Spirito  nacque  «  nel  1425  ». 
Invece,  poiché  lo  Spirito  in  un  sonetto,  contenuto  nel  cod.  perug.  H.  61  da- 
tato 1461,  dice  d'essere  alla  metà  della  sua  vita,  e  in  un  cap.  del  Publico 
(a  cui  prima  s'attribuiva  la  data  1458  che  ha  in  alcuni  codici)  attesta  d'aver 
trent'anni,  io  mi  limitai  ad  affermare  che  si  doveva  «  far  risalire  la  sua  na- 
«  scita  al  1425  incirca  »  :  non  potevo  dire  altrimenti,  non  solo  perchè  —  come 
è  d'avviso  l'I.  (p.  23)  —  «  mancherebbe  di  senso  comune  (!)  chi  reputasse 
«  un  intero  canzoniere  opera  d'un  solo  anno  ecc.  »,  ma  anche  perchè  se  da  un 
lato  la  testimonianza  del  canzoniere  mi  induceva  ad  anticipar  la  data  di 
qualche  anno,  rispetto  al  1425,  dall'altro  la  data  1458  apposta  al  Pubh'co 
mi  consigliava  a  far  l'opposto.  Il  codice  barb.  lat.  3719  del  Puhlico,  trovato 
dall'A.  in  Vaticana,  ha  la  data  1452,  che  secondo  l'I.  non  è  quella  della  com- 
posizione (che  sarebbe  invece  il  1458),  ma  quella  in  cui  s'immagina  dall'au- 
tore di  far  la  profezia,  e  a  cui  egli  quindi  subordina  gli  accenni  cronologici  (1); 
epperò  egli  dev'esser  nato  nel  1422  o  nel  1423  (pp.  25,  27).  Ciò  può  essere, 
sebbene  qualche  dubbio  mi  lasci  il  fatto  che  hqW Altro  Marte  lo  Spirito  dice 
di  essere  andato  «  giovinecto  »  ad  Assisi,  nel  1442,  quando  fu  presa  da  Ni- 
colò Piccinino,  «x  in  conpagnia  del  mio  padre  »:  «  giovinecto  »  a  vent'anni? 
Comunque  sia,  non  ci  discostiam  molto  dal  1425  (2). 

Titolo  impreciso  ha  il  II  cap.  {Le  opere  di  L.  S.),  nel  quale  si  fa  soltanto 
la  bibliografia  dei  codici  e  delle  stampe  del  rimatore  perugino:  bibliografia 
imperfetta,  perchè  manca  di  compiutezza  e  di  ordine.  S'incomincia  con  la 
traduzione  delle  Metamorfosi,  impressa  a  Perugia  nel  1519,  della  quale  ci 
mancano  mss.  e  di  cui  è  tanta  la  rarità,  che  l'A.  non  ne  ha  veduto  alcun 
esemplare.  Grande  fortuna  di  stampe  e  traduzioni  ebbe  il  Libro  delle  Sorti, 
per  cui  Lorenzo  Spirito  si  può  dire  divenisse  popolare  nel  400  e  nei  due  secoli 
seguenti  :  e  se  ne  hanno  ancora  alcuni  codici.  La  I.  conosce  solo  il  codice  Mar- 
ciano (it.  IX,  87),  già  noto  al  Vermiglioli,  a  cui  l'aveva  segnalato  il  Morelli 
che  lo  descrisse  (3)  ;  e  sa  dal  Vermiglioli  che  ne  esisteva  un  altro  codice  a 
Todi  ;  e  parla  di  quattro  edizioni  soltanto,  con  pochi  accenni  d'alcune  altre, 
d'una  traduzione  francese  (che  crede  del  600)  e  d'una  inglese,  tolti  dallo 
Zeno  e  da  qualche  altro  vecchio  bibliografo.  Ma  la  serie  dei  mss.  è  da  aumen- 
tare di  uno  del  sec.  XVIII,  che  trovasi  nella  bibl.  comun.  di  Udine  (n®  22)  (4). 
Delle  numerosissime  edizioni  italiane   di   quest'opera  (che  fu  forse,  secondo 


(1)  Questa  discussione  è  dall'A.  divisa  in  due  parti  del  suo  lavoro  :  a  pp.  23  sgg. 
e  a  pp.  97  sgg. 

(2)  A  questa  data  credette  meglio  attenersi  ancora  Tomaso  Parodi  in  una  re- 
censione poco  favorevole  del  voi.  della  I.,  pubblicata  in  La  nuova  cultura,  I,  1913, 
pp.  507-11,  che  diede  luogo  ad  una  polemica  poco^concludente  tra  il  Parodi  stesso 
e  la  I.  (nei  fase.  9«,  11°  e  12°  della  stessa  rivista,  voi.  cit.). 

(3)  Cfr.  V.  Rossi,  Appendice  alle  Lettere  di  messer  Andrea  Calmo,  Torino,  Loesoher, 
1888,  pp.  57  sg. 

(4)  Cfr.  Gr.  Mazzatinti,  Inventari  dei  mss.  delle  bibl.  d'Italia,  III,  176.  D'un  altro  ms., 
forse  del  600,  fa  cenno  il  Molza  (v.  nota  seg.). 


204  RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA 

me,  rultima  composta  dallo  Spirito),  la  prima  non  è,  come  crede  l'A.  con  la 
maggior  parte  dei  bibliografi  da  me  veduti,  quella  del  1482  di  Perugia,  ma 
una  fatta  a  Vicenza  da  mastro  Leonardo  da  Basilea,  che  è  del  1474  ;  e  l'ul- 
tima è  del  1553;  delle  traduzioni,  la  più  fortunata  fu  quella  francese,  che  si 
riprodusse  fino  al  1637  (1).  Del  Publico,  ai  due  codici  noti  al  Vermiglioli,  il 
perugino  C.  17  e  quello  dell'accademia  di  Cortona  (n°  249),  l'A.,  come  s'è 
detto,  ne  aggiunge  un  altro,  che  è  nella  Vaticana  :  e  di  quest'ultimo  codice, 
che  ella  dice  (p.  55)  contenere  «  tutti  antichi  lamenti  perugini  »,  era  bene  ci 
avesse  dato  una  descrizione  e  un'informazione  più  ampia.  TìeW Altro  Marte 
l'A.  descrive  con  qualche  particolare,  ma  al  solito  in  modo  non  interamente 
soddisfacente,  un  cod.  della  Comunale  di  Verona  (nn*  1241-2),  più  conosciuto 
che  ella  non  pensi  (2),  e  il  Perugino  D.  5,  e  accenna  brevemente  ad  un  codice 
della  Nazion.  di  Napoli,  del  quale  non  s'è  curata  d'aver  altre  indicazioni  (8)  : 


(1)  L'ediz.  1474  fu  fatta  conoscere  dal  marchese  Gherardo  Molza  (in  Bibliofilo,  II, 
1881,  pp.  97  sg.),  di  sopra  un  suo  esemplare.  Il  Molza  diede  anche  un  elenco,  in- 
completo, delle  altre  edizioni.  Più  ampia  è  la  bibliografia  che  1'  I.  poteva  trovare 
nel  Brunets,  a  cui  fece  alcune  aggiunte,  assai  importanti,  il  Grraesse  (VI,  470  sg.). 
Quest'ultimo  conosce  la  1*  ediz.  vicentina,  a  cui  seguirono  la  perugina  del  1482, 
quella  Bresciana  del  1489  (secondo  il  Graesse  essa  è  la  stessa  che  l'Hain,  il  Panzer 
e  altri  dissero  del  1484),  e  altre  di  Milano  (1497,  1500,  1508),  Bologna  (1508,  ripro- 
duzione della  precedente  milanese),  Milano  (1509),  Perugia  (1532),  Brescia  (1538), 
Roma  (Biado,  1535),  Venezia  (1544),  Brescia  (1544,  1553).  Il  Molza  dà  due  antiche 
ediz.  bresciane  :  quella  del  1484  e  quella  del  1489  ;  e  l' Hain  cita  un  Libro  delle  SoHi, 
Fior.  8.  d.  (forse  1483),  che  il  Graesse  dice  forse  dello  Spirito.  Intanto  eran  già  dif- 
fuse le  traduzioni:  più  fortunata  quella  francese  di  Anthitus  Faure,  1528  s.  1.,  ri- 
stampata con  più  o  meno  varianti  a  Parigi  (1574),  a  Lione  (1576,  1582,  1583)  e  an- 
cora a  Parigi  (1585,  1634,  1637).  Il  Panzer  citò  un'altra  trad.  del  sec.  XV  (IV,  126). 
Il  Graesse  registra  una  trad.  spagnuola  (Libro  del  juego  de  las  suertas),  Valladolid, 
1528.  In  un  esemplare  della  Libreria  di  A.  F.  Doni  (Venezia,  Giolito,  1550,  e.  20  ò), 
posseduto  dalla  Bibl.  della  Se.  Norm.  Univers.  di  Pisa,  è  aggiunta  questa  postilla, 
che  non  so  se  si  riferisca  ad  una  sconosciuta  ediz.  delle  Sorti  à.Q\\o  Spirito:  Libro 
della  ventura  con  dati.  Impressum  Venetiis  per  Bernardimim  Benalium  Bergomensem, 
anno  Domini  MDXX  die  XXVIII  Junii. 

(2)  Lo  descrisse  già  il  Biadego,  Catalogo  dei  ms8.  della  Bibl.  Comun.  di  Verona,  Ve- 
rona, 1892,  p.  122  sg.,  e  ne  parlò  poi  Andrea  Moschetti  (Due  cronache  veneziane  ri- 
mate del  sec.  XV,  Padova,  Draghi,  1897). 

(3)  Del  cod.  esistente  nella  Nazionale  di  Napoli  (XIII,  C.  82)  aveva  dato  cosi  no- 
tizia il  Flamini  (in  questo  Giorn.,  XXI,  416,  e  poi  nelle  sue  Spigolattire  di  erudi- 
zione e  di  critica,  Pisa,  Mariotti,  1895,  p.  64):  «grosso  volume  con  bellissimo  fregio 
«  iniziale.  In  fine  leggiamo  :  '  Qui  finissie  il  libro  chiamato  Altro  Marte,  composto 
«  e  scricto  per  mano  di  me  Lorenzo  Spirito  da  Perogia;  finito  di  copiare  nel  mille- 
«  quattrocento  settanta  a  dì  ventitre  del  mese  di  novembre  '.  E  sur  una  guardia 
€  di  membrana  pure  in  fine:  '  Questo  libro  me  donò  il  Mag.co  Brazo  da  Perosia,  ne 
€  la  cita  propria  de  Porosa  nel  suo  palazo,  dove  alhora  era  aloziato,  e  fu  quando 
«  andai  cum  la  Ex. a  del  Sig.re  duca  Borso  mio  signore  et  barba  a  Roma,  e  mi  Ni- 
«  colò  da  Corezo  ne  feci  memoria  de  mia  propria  mano'  >.  Questo  codice  è  certa- 
mente autografo.  A  Roma  è  andato  a  finire  un  cod.  del  Filocolo  boccaccesco,  tra- 
scritto da  Lorenzo  Spirito,  ohe  sappiamo  essere  stato  un  valente  calligrafo  :  io  ne 
debbo  la  conoscenza  a  Vittorio  Rossi,  che  qui  ringrazio.  Si  tratta  del  cod.  Vati- 
cano 4813,  cart.,  sec.  XV,  mutilo  in  principio,  che  ha  in  fine  la  seguente  didascalia: 
<  Finito  illibro  chiamato  philocolo  facto  e  composto  da  messer  giovanni  bochaccio 


RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA  205 

ma  non  sono  tutti  (1).  E  poi  ci  parla  dell'edizione  vicentina  del  1489.  Del 
canzoniere  si  hanno  due  codici,  il  perugino  H.  61  autografo,  e,  più  completo, 
il  Classense  n°  232  :  l'uno  e  l'altro  sono  dall'autrice  descritti  con  una  certa 
larghezza  ;  ma  sarebbe  stato  utile  che  a  questo  punto  ella  avesse  trattato  la 
questione  delle  relazioni  fra  i  due  codici  e  della  attribuzione  ad  altri  autori 
anziché  allo  Spirito,  di  alcune  poesie  del  codice  ravennate,  invece  di  rinviarla 
al  capitolo  in  cui  esamina  la  lirica  del  nostro  autore.  Il  II  cap.  si  chiude 
con  un'utile  bibliografia  delle  liriche  a  stampa  dello  Spirito,  a  cui  sarebbe 
giovato  aggiungere  qualche  indicazione  per  l'altra  opera,  inedita  in  gran  parte, 
il  Publico  (2). 

I  capitoli  successivi  (dal  III  all'YIII)  studiano  ad  una  ad  una  le  opere  del 
rimatore  perugino  :  le  Sorti,  il  Publico,  V Altro  Marte,  il  poema  La  Fenice, 
il  Canzoniere]  e  nel  Yl  l'I.  ricerca  chi  fu  la  donna  amata  e  celebrata  dal 
Gualtieri.  E  senza  dubbio  riesce  utile  l'esposizione  che  essa  ci  dà  della  com- 
plessa produzione  letteraria  del  suo  autore,  con  riassunti  ampi,  anzi  diffusi, 
a  cui  frammischia  con  insistenza  e  ripetizione  inopportuna  i  suoi  giudizi:  io 
avrei  preferito  (trattandosi  di  opere  mediocri  e  mss.  la  più  parte,  ma  imme- 
ritevoli di  veder  la  luce  integralmente)  che  l'A.  avesse  più  spesso  lasciato 
senz'altro  la  parola  alloSpirito,  riportandone  più  frequentemente  e  meno  fram- 
mentariamente i  componimenti.  Non  mi  riferisco  alle  Sorti,  e  nemmeno 
2i\V Altro  Marte,  ma  alle  altre  tre  opere,  di  cui  il  Publico  è  la  migliore  che 
abbia  composto  il  quattrocentista  perugino,  e  la  Fenice  e  il  Canzoniere,  pur 
essendo  opere  mediocri,  non  son  delle  peggiori  del  genere  in  quel  secolo  di 
umile  imitazione  petrarchesca.  Perchè,  invece  di  riassumere  il  cap.  XII  del 
Publico,  interessante,  oltreché  per  la  storia  del  costume,  per  altri  riguardi, 
l'A.  non  lo  ha  senz'altro  pubblicato  ?  Eccone  alcuni  tratti  (che  tolgo  dal  codice 
perugino),  in  cui  l'autore  lamenta  il  lusso  smodato,  paragonando  i  suoi  tempi 
con  quelli  passati  : 

Né  fur  contenti  {gli  nomini)  a  tal,  ch'un'altra  via 
trovare  a  far  di  grana  il  bel  colore, 
tegnendo  i  panni  in  varia  fantasia. 


«poeta  fiorentino  clarissimo  scripto  e  copiato  per  mano  de  me  Lorenzo  Spirito 
«  da  peroscia  nellanno  mille  quattrocento  sexanta  sei  Deo  gratias.  amen. 

«  Serralo  e  chiuda  chi  non  sente  amore 
«  Studiai  ohi  ama  e  troverà  conforto 
«  Qual  se  rechiedi  a  linfiammato  ocre  » . 

(1)  Un  altro  codice  ne  possiede  la  Bodleiana  di  Oxford  (ital.  41).  Cfr.  Flamini, 
Spigolature  cit.,  p.  oit.  Il  cod.  perug.  C.  8,  non  ricordato  dalla  I.  (v.  Mazzatinti, 
Inventari,  V,  82),  contiene  alcuni  cap.  diéiV Altro  Marte:  frammentari  i  capp.  5,  6, 
8,  9,  11,  12,  13;  intieri  il  7»  ed  il  10°.  Consta  di  15  fogli  di  cui  sei  membranacei, 
con  belle  iniziali:  lo  direi  autografo. 

(2)  Una  parte  del  8°  cap.  fu  edita  per  nozze  Cerrini-Calindri  da  A.  Fabretti 
(Perugia,  tip.  Santucci,  1844).  Conosco  anche  la  seg.  stampa  :  I  capitoli  terzo  e  quarto 
del  lamento  di  Perugia  visione  ined.  di  L.  S.  poeta  perugino  del  sec.  XV,  Perugia,  Bon- 
oompagni,  1877  (nozze  Senesi -Roteili). 


206  RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA 

Perno  poi  damaschini  a  farse  onore, 
et  fu  tanto  mirabil  quell'ingegno 
che  '1  tessevan  di  varia  fronda  et  fiore. 

Et  tutt'hora  trovar(o)  novo  disegno 
di  far  velluti  poi  detti  alla  piana, 
né  ciascun  di  portarli  era  più  degno. 

Trovaro  il  cremisi  più  fin  che  grana, 
del  qual  ferno  velluti  affigurati, 
et  passò  l'arte  qua  nella  Toscana  ; 

et  ritrovanno  vari  et  bei  broccati 
d'oro  et  d'argento  et  ne'  moderni  giorni 
penso  che  tutti  i  modi  sian  trovati. 

Dopo  un  fiero  rabbuffo  al  lusso  degli  ecclesiastici 

(Peggiore  exempio  et  di  più  amaro  tosco 
è  ne'  prelati  con  le  vesti  grandi 
lupi  già  fatti,  et  Roma  è  '1  lor  mal  bosco: 

deh  perchè  resti,  o  Iddio,  che  tu  non  mandi 
l'ultimo  tuo  giuditio  iratamente, 
com'esser  debbe  a  i  lor  vitii  inefandi?) 

viene  a  lamentare  il  lusso  delle  donne: 

Ciascuna  cerca  con  parlar  humile 
mostrarsi  et  con  (i)  soi  drappi  ire  sfoggiata, 
per  parer  tra  de  l'altre  più  gentile. 

Et  voi  di  perle  la  ghilanda  ornata 
et  al  collo  il  munii  d'oro  e  d'argento 
la  cioppa  intorno  a  frege  racoamata. 

Et  non  saria  suo  animo  contento, 
se  non  havesse  tre  camorre  in  uso 
et  per  le  feste  il  niellato  cento. 

E  a  qual  marito  manca  fanno  il  muso, 
et  non  pensan  a  'danni  de'  mariti 
et  che  non  basta  in  ciò  la  roccha  e  '1  fuso; 

et  voglion  le  camorre  coi  vestiti 
fino  a  lo  spicciato,  ch'assai  l'aggrada 
perchè  non  troncan  lor  capei  puliti. 

Co  i  panni  longhi  spazzan  ogni  strada. . . 

Così  del  tutto  ogni  virtude  è  morta, 
né  più  si  può  sua  figlia  maritare, 
perchè  '1  valor  ch'ai  padre  noi  comporta; 

et  conviensi  gran  dote  a  quella  dare 

Qui  ognun  sente  le  reminiscenze  dantesche  e  il  rammarico  di  Cacciaguida  ; 
ma  c'è  anche,  io  credo,  come  un  po'  in  tutto  il  lamento  dello  Spirito,  il  ri- 
cordo delle  predicazioni  contro  le  vanità  e  i  corrotti  costumi,  ascoltate  dai 
perugini  dalla  bocca  di  S.  Bernardino  da  Siena  e  di  molti  altri  celebri  pre- 
dicatori, a  cominciar  dal  1425  per  tutto  quel  secolo  (1). 


(1)  E.  Dépbez,  L'azione  di  S.  Bernardino  di  Siena  neUa  città  di  Perugia  (in  Boll.  d. 
B.  Dep.  Umbra,  YI,  109  sgg.).  Altri  predicatori  nel  seo.  XV   rinnovarono  gì'  inse- 


RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA  207 

L'esame  deWAltro  Marte,  e  quello  della  Fenice  e  del  Canzoniere  del 
Gualtieri  si  sarebbero  molto  avvantaggiati,  se  la  sig  "a  I.  avesse  conosciuto 
quel  che  scrisse  il  Moschetti  del  genere  delle  cronache  rimate,  a  cui  il  vasto 
poema  del  perugino  appartiene,  e  se  meglio  avesse  messo  a  profitto  (non  lo 
vedo  però  citato)  il  fondamentale  e  notissimo  volume  del  Flamini  sulla  lirica 
del  Rinascimento.  Avrebbe  così  evitato  lunghi  e  superflui  ragionamenti,  e  ab- 
breviata di  molto  la  sua  trattazione,  restringendosi  piuttosto  a  rilevare  le 
particolarità  stilistiche  (1)  e  i  caratteri  più  originali  dell'opera  dello  Spirito. 
Per  rispetto  all'^Z^ro  Marte  l'A.  contesta  che  lo  Spirito  possa  considerarsi 
come  lo  storiografo  stipendiato  di  Jacopo  Piccinino.  Ma  le  sue  ragioni  non 
finiscon  di  persuadermi.  Sappiamo  che  Spirito  fu  coi  Piccinini  per  più  di  dieci 
anni  (almeno  finche  nel  1454  lo  troviamo  giostrante  a  Perugia),  certo  da  essi 
arruolato.  Durante  la  sua  milizia  egli  attese  a  raccoglier  memorie  delle  im- 
prese dei  celebri  venturieri  perugini.  Tornato  a  Perugia,  divenne  scrittore, 
poiché  abbiam  ragione  di  porre  la  composizione  delle  sue  opere  in  questo  periodo 
della  sua  vita:  e  appena  terminato  V Altro  Marte,  ne  offre  una  copia,  anzi 
forse  la  porta  egli  stesso,  nel  1463,  a  Iacopo  Piccinino,  col  quale  sappiamo 
che  si  trovò  a  Faenza,  quando  il  capitano  muoveva  verso  Napoli,  per  lui  fa- 
tale. E  nel  quattrocento  non  sarebbe  l'unico  esempio  di  rimatori  stipendiati 
dai  capitani  di  ventura  (2).  Scarsissimo  di  pregi,  VAltro  Marte  è  ritenuto 
un  notevolissimo  documento  storico,  del  quale  sarebbe  stato  bene  che  l'A.  avesse, 
con  miglior  metodo  e  ampiezza  che  non  faccia,  giudicato  il  valore  storico  (3). 
Che  quanto  al  valore  poetico,  in  complesso  ne  giudica  in  modo  approvabile, 
cioè   severamente,  nonostante  le  solite  lodi   esagerate  che  dà  alle  poche  cose 


gnamenti  del  Senese  a  Perugia:  cfr.  Boll,  cit.,  TV,  836  sg.  per  fra  Cherubino  da 
Spoleto  nel  1458;  IX,  38  per  fra  Battista  da  Novara  nel  1462,  e  IX,  244  sgg.,  376  sgg. 
per  fra  Bernardino  da  Feltre  nel  1485  e  14^. 

(1)  Cosi  parla  delle  imitazioni  dantesche,  e  delle  similitudini,  di  cui  l'elenco  po- 
teva esser  arricchito  d'alcune  altre  notevoli. 

(2)  Mi  basta  ricordare  Gambino  d'Arezzo  {Versi  di  G.  d'Arezzo,  pubbl.  da  Oreste 
Gamurrini,  Bologna,  1878:  Scelta  Romagnoli,  disp.164)  e  il  Saviozzo  che  fu  ai  ser- 
vizi del  Tartaglia. 

(3)  P.  es.  è  da  rilevare  il  fatto  ohe  il  Gualtieri  ebbe  sott'occhio  documenti  datigli 
dallo  stesso  Piccinino,  Nel  cap,  64  riassume  il  breve  con  cui  il  re  d'Aragona  fece 
visconte  della  sua  casa  Nicolò  Piccinino;  riporto  la  chiusa  del  passo,  strana  mi- 
scela di  latino  e  di  volgare  : 

In  felicibus  castris  data  im  piena 

libera  volontà  contra  Carpeno 

che  giugnio  a  uintisecte  il  tempo  mena, 
indiction  quarta  millesimo  pieno 

milli  con  quattrocento  quattro  e  doi 

da  la  natiuità  né  più  né  meno 
et  regnorum  nostrorum  iti  poi 

uintisecte  anni  huius  nero  nostri 

Regni  Ciciliae  citra  Farum  in  noy 
Anno  octauo 


208  RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA 

meno  brutte  che  rintraccia  in  esso.  Ed  è  strano  che  essa  abbia  trascurato  un 
episodio  del  cap.  85,  che  è  uno  dei  passi  più  attraenti,  per  certa  rozza  sem- 
plicità di  rappresentazione,  di  tutto  il  poema.  Si  tratta  del  venturiero  Tri- 
stano, costretto  a  cedere  la  ròcca  di  Soncino  e  a  partirsene,  lasciando  una 
donna  amata  : 

Aveva  quisto  una  ligiadra  manca, 
giovinì  in  vista  angellica  e  polita, 
avendo  avuta  insiemi  longa  usanca. 

La  qual,  sentendo  la  cruda  partita 
dil  suo  benignio  e  ligiadro  signore, 
desiderosa  più  non  stare  in  vita, 

si  mossi  con  sdegnio  e  con  furore  (sic), 
coi  crini  sciolti  e  con  dolenti  strida, 
vinta  da  la  passion  di  tanto  amore, 

dicendo:  —  O  signor  mio,  chi  mi  disfida 
di  viver(e)  più  da  puoy  che  ti  ni  vay, 
che  sei  di  la  mia  vita  capo  e  guida  ? 

Tu  mi  lassi,  signore,  in  tanti  guai  : 
ecco  la  sventurata  che  rimani, 
né  più  mi  credo  rivederti  mai. 

Maledecto  il  furor(e)  di  veneti  ani  : 
o  dolci  signior  mio,  che  mi  ti  toUi 
facendo  gli  occhi  tuoy  day  miey  lontani. 

Oimè  con  quante  pene  e  quante  doglie 
mi  lassoi  trista  e  con  quanti  martire 
quista  nostra  amicitia  si  discioglie  ! 

Or  oltra  ch'io  non  churo  di  morire, 
occideteme  omai,  cari  frateglie, 
ohe  morte  puoy  dar(e)  fine  ai  miey  sospiro.  — 

Da  sé  levava  i  suoi  biondi  capeglie 
e  panni  e  carne  tucte  lacerava, 
facendo  un(o)  fiumi  di  suoy  occhi  begli. 

Del  suo  signore  il  cavallo  abracciava, 
e  non  si  vol(i)  da  quil(lo)  punto  partire, 
ma  l'arme  nelle  gambe  li  basoiava. 
«  Volevale  in  sul  viso  spesso  gire, 

qual(e)  per  altepc^a  agiogner  non  podea, 
m^a  lacrimando  par  che  spesso  il  mire. 

Fu  tanto  la  sua  pena  acerba  e  ria, 
ohe  ohi  si  ritrovò  quivi  vicino 
a  piata  mosso  lacrimar(e)  facea. 

Stecte  sempre  Tristan(o)  col  viso  chino, 
lacrimoso,  pensando  di  lassare 
lei  quale  amava  e  puoy  tucto  il  domino. 

Tra  l'altre  voce  e  tra  i  sospiri  amare 
da  dosso  ad  pena  quilla  sventurata 
ei  suoi  parenti  la  poddoro  levare  (aie). 

Era  una  piata  la  sconsolata 
sentir  dicendo:  —  Oimè,  crudeli  amore, 
oh 'a  buon  prinoipio  mala  fine  ài  data! 

Giustamente  la  sig.^ia  I.  pensa  che  nel  canzoniere  dello  Spirito  possa  esser 
cantato  più  d'un  amore  del  rimatore  perugino;  ma  ciò  che  ne  ragiona  non 
ha  davvero  molta  chiarezza,  né  farse  ella  ha  tratto  dal  canzoniere  tutti  gli 


RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA  209 

elementi  che  poteva  a  sostegno  della  sua  opinione.  Certo  però  la  donna  che 
Spirito  celebrò  nei  21  capp.  della  Fenice,  imitazione  fiacca  e  diluita  dei  Trionfi 
petrarcheschi,  con  molto  più  di  paganesimo,  e  cantò  nel  maggior  numero 
delle  sue  liriche,  fu  quella  che  con  simbolo  caro  al  poeta  di  Laura  e  poi  a 
non  so  quanti  petrarchisti,  egli  denominò  Fenice,  e  della  quale  l'A.  ha  tro- 
vato nelle  cronache  perugine  ricordato  un  brutto  scherzo  ch'ella,  poco  poeti- 
camente, fece  al  suo  spasimante  (1).  Fu  un  avvenimento  per  la  città,  data 
la  notorietà  di  Spirito  :  una  donna  aveva  osato  oltraggiare  il  reduce  delle 
guerre  dei  Piccinini  !  È  un  documento  non  trascurabile  della  non  bella  realtà 
che  spesso  s'asconde  sotto  i  versi  dei  rimatori  petrarchevoli.  Ed  è  comico  il 
riflesso  che  di  questo  fatto  la  I.  trova  nel  canzoniere  (p.  216  sg.):  il  Gualtieri, 
con  tracotanza  soldatesca,  un  po'  da  miìes  gloriosus,  arroncigliando  i  baffi  e 
con  la  mano  sull'impugnatura  della  spada,  minaccia  :  «  Dal  traditor  tuo  sposo 
«  io  ho  l'offesa!  ».  Poi  non  ne  dovette  fare  altro,  e  forse  il  suo  ardore  sbollì. 
Bene  ha  fatto  l'I.  a  riportare  parecchi  sonetti  del  canzoniere,  e  più  ne 
avremmo  veduti  volentieri  (2).  E  bene  anche  aveva  pensato  di  chiudere  la  sua 
monografia  con  un  capitolo  su  La  lingua  e  la  metrica  nelle  op.  di  L.  S.] 
ma  ciò  che  questo  capitolo  ci  offre  in  quattordici  pagine  è  un  saggio  assolu- 
tamente insufficiente. 

Quel  che  ho  osservato,  criticato  e  aggiunto  al  lavoro  della  I.  non  toglie  ad 
esso  i  pregi  che  gli  ho  riconosciuti  :  e  se  questi  sono  in  minor  numero  dei 
difetti,  io  son  certo  che  essi  cresceranno,  se  l'A.  vorrà  ritornare  sull'opera  sua 
e  rifarla  da  capo.  Sfrondando  molto,  condensando  e  integrando  ad  un  tempo  : 
fatta  più  cauta  e  sicura  nei  giudizi,  e  dalla  più  profonda  preparazione  avviata 
ad  una  vista  più  ampia  della  società  in  cui  l'opera  dello  Spirito  è  nata,  le 
riuscirà  di  darci  intorno  al  rimatore  e  venturiere  perugino  quella  monografia 
definitiva,  di  cui  è  pur  degno,  sebbene  non  sia  un  grande  scrittore,  e  di  cui 
il  volume  presente  è  un  saggio  ancor  troppo  manchevole. 

Abdelkader  Salza. 


(1)  Poiché  la  sig.  »  I.,  foi'se  per  un  riguardo  al  suo  autore,  non  cita  la  Cronaca, 
dove  il  fatto  è  narrato,  e  lo  indica  in  modo  generico,  riferiremo  noi  le  parole  del 
cronista:  e  A  di  17  ditto  {Febbraio  1468)  nel  Rembocco  del  salsa  la  donna  de  mastro 
«  Semone  medico  et  passando  Spirito  de   ser  Cipriano   de  Gualtiere   suo   amatore 

«  glie  bugilo  un  bacino  pieno  de  m in  sul  capo,  de  modo  che  tutto  lo  imbrattò 

«  e  puzzava  che  non  li  se  podea  stare  apresso  :  e  questo  lo  fece  perchè  tutto  el  di 
«  la  seguitava  e  non  la  podea  lassare  stare  »  (dal  BoUett.  d.  R.  Dep.  Umbra,  IX,  68). 
«A  che  strazio  va  chi  s'innamora!  »  avrà  petrarchevolmente  pensato  il  rimatore 
venturiere,  ignominiosamente  debellato  da  una  femminetta. 

(2)  Alla  A.  è  sfuggito  anche  un  importante  articolo  di  M.  Manchisi  {Angelo  Galli 
e  i  codd.  delle  sue  rime,  nel  Qiorn.  stor.  e  letter.  della  Liguria,  IX,  1908,  pp.  257.310), 
dove  si  raccolgono  alcune  notizie  sulle  relazioni  corse  tra  lo  Spirito  e  il  Gralli,  si 
indica  un  codice  fiorentino  che  contiene  qualche  poesia  del  Gualtieri,  sono  pub- 
blicate poesie  del  Gialli  al  perugino,  e  si  fa  cenn(t  di  un  carme  latino  diretto  al 
Galli,  che  sarebbe  dello  Spirito. 


Giornale  storico,  LXIV,  fase.  190-191.  14 


210  RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA 

LUISA  CAPRA.  —  L'ingegno  e  l'ojyera  di  Saverio  Bettinelli. 
—  Asti,  Paglieri  e  Raspi,  1913  (8°  gr.,  pp.  229). 

A  preparare  gli  elementi  necessari  per  un  lavoro  organico  e  sintetico  su 
Saverio  Bettinelli,  hanno  mirato  per  lungo  tempo  gli  studiosi  del  settecento 
con  illustrazioni  di  documenti,  con  saggi  e  monografie  particolari  e  più  re- 
centemente con  l'accurata  ristampa  di  alcune  opere  bettinelliane,  più  famose 
che  lette  (1).  Di  un  primo  tentativo  di  sintesi  diede  notizia  nel  1913  Luisa 
Capra  in  questo  Giornale,  62,  166  sgg.,  con  una  recensione  che  per  la  giusta 
severità  e  per  la  ricchezza  delle  informazioni  ebbe  larga  eco  tra  gli  studiosi 
del  secolo  XVIII.  Ora  l'autrice  di  quella  recensione  pubblica  un  nutrito  vo- 
lume sull'ingegno  e  sulle  opere  del  B.,  che  vuol  essere  a  sua  volta  lavoro  di 
integrazione  e  di  sintesi. 

Vediamo.  Basato  sopra  una  profonda  conoscenza  delle  opere  edite  e  inedite 
del  mantovano,  avvalorato  da  un  intenso  e  lungo  studio  del  carteggio  bet- 
tineUiano  e  della  letteratura  settecentesca,  questo  lavoro  fin  dalle  prime  pa- 
gine appare  in  gran  parte  nuovo.  Bene  ha  fatto  l'autrice  a  non  indugiarsi  a 
rinarrare  la  vita  del  B.,  che  da  lungo  tempo  è  nota;  bene  ha  fatto  a  non 
ritessere  la  vecchia  tela  delle  più  trite  questioni  bettinelliane  con  quella  ri- 
dondanza di  particolari,  che  hanno  reso  idropici  e  pesanti  altri  studi  sul  me- 
desimo argomento.  Questo  libro  è  il  più  organico  dei  lavori  finora  pubblicati 
intorno  al  B.,  non  soltanto  perché  l'A.  ha  idee  chiare  sull'indole  e  sull'in- 
gegno del  mantovano,  ma  anche  perché,  pur  disponendo  di  un  copiosissimo 
materiale,  ha  saputo  servirsene  con  accortezza  e  con  misura,  accettando  o  re- 
spingendo sobriamente  i  risultati  degli  scritti  precedenti,  presentando  senza 
prolissità  i  risultati  degli  studi  direttamente  compiuti  sopra  più  di  cinque- 
mila lettere  di  ammiratori  e  amici  del  B.,  sopra  numerose  missive  e  respon- 
sive dello  stesso,  sopra  due  poemi  inediti  (2)  e  sopra  altri  documenti.  Ag- 
giunge pregio  alla  semplice  e  nitida  ripartizione  del  lavoro  l'efficacia  di  molte 


(1)  Ricordiamo  in  particolar  modo  la  nitida  ed  elegante  ristampa  delle  Lettere 
virgiliane  per  cura  di  P.  Tommasini-Mattiucci,  nella  Collezione  di  opuscoli  danteschi 
inediti  o  rari,  diretta  da  G.  L.  Passerini  (Città  di  Castello,  Lapi,  1918,  voli.  123-124). 
Della  nutrita  introduzione  premessa  a  quest'opusc.  la  C.  non  potò  giovarsi,  perché 
esso  uso!  quando  il  suo  lavoro  già  era  quasi  interamente  stampato.  Per  la  mede- 
sima ragione  non  potè  giovarsi  del  buon  opuso.  di  L.  Cambini,  Il  pastore  Aligerio 
{ivi,  voli.  121-122)  ;  del  volumetto  di  R.  Bocchia,  La  drammatica  a  Parma  (1400-1900), 
Parma,  Battei,  1913;  del  voi.  di  C.  G.  Mikinni  su  Pietro  Napoli  Signoreìli  (Città  di 
Castello,  Lapi,  1914)  e  del  rinnovato  studio  di  A.  D'Ancona  su  Federico  il  Grande 
e  gli  Italiani,  importante  per  le  pagine  sull'Algarotti  (in  Memorie  e  documenti  di 
storia  italiana  dei  sec.  XVIII  e  XIX,  Sansoni,  Firenze).  Degno  di  nota  per  le  teorie 
professate  dal  Bettinelli  sul  tradurre  e  per  le  notizie  riguardanti  F.  Cassoli,  spesso 
ricordato  dal  B.  nel  suo  epistolario,  è  pure  il  volume  di  G.  Cukcio,  Q.  Orazio  Fiacco 
studiato  in  Italia  dal  sec.  XIII  al  XVIII  (Catania,  Battiato,  1913).  L'A.,  parlando 
della  j>oe8Ìa  sepolcrale,  avrebbe  anche  potuto  trarre  profitto  dal  saggio  di  G.  Mconi, 
Poesia  notturna  preromantica  (Milano,  Soo.  ed.  libr.,  1906). 

(2)  L'Europa  punita  ossia  il  secolo  XVIII  e  il  Buonaparte  in  Italia. 


RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA  211 

pagine:  il  B.  come  uomo  e  come  maestro  è  tratteggiato  con  mano  sicura; 
penetranti  sono  le  osservazioni  sul  frugonianesimo  spesso  inconscio  del  B.; 
giuste  molte  considerazioni  sul  trattato  àeW Entusiasmo,  sul  saggio  dell'JS^^o- 
quenza  e  sul  Bisorgimento  cV Italia  negli  studi,  nelle  arti  e  nei  costumi  dopo 
il  Mille. 

Ma  in  parecchi  punti  dissentiamo  profondamente  dall'autrice.  Innanzi  tutto 
questa  ha  senza  dubbio  esagerato  il  valore  degli  epigrammi  bettinelliani,  af- 
fermando che  il  mantovano  «  molti  ne  compose  originali  e  importanti  »  (p.  42). 
Dove  sono  questi  «  molti  »?  Gli  epigrammi  bettinelliani  sono  in  gran  parte 
traduzioni,  imitazioni,  rifacimenti  ed  esercizi  retorici  ;  pochi  tra  gli  originali 
sono  schietti  e  concisi.  Non  vogliamo  già  negare  che  le  Lettere  a  Lesbia  Ci- 
donia  sopra  gli  epigrammi  siano  piacevoli  e  che  il  B.  abbia  spesso  saputo  inca- 
stonar nella  sua  prosa  con  garbo  e  con  arguzia  gli  epigrammi  raccolti.  Ma  tra 
le  premesse  e  le  conclusioni  delle  pagine  dedicate  dalla  C.  a  quest'argomento, 
vediamo  balzar  chiara  una  contraddizione  :  poiché  l'A.,  dopo  di  aver  con  benigna 
volontà  esaminato  i  pochi  epigrammi,  a  suo  avviso,  migliori  (1)  e  dopo  di  aver 
notato  che  gli  altri  sono  in  gran  parte  «  contorti  e  lambiccati  bisticci  »,  è 
costretta  a  concludere  che  il  B.  «  non  fu  un  vero  e  proprio  epigrammista  di 
razza  »  (p.  42)  e  che  soltanto  «  ad  alcuni  »  di  essi  «  seppe  dare  certa  vivace 
spigliatezza  »  (p.  47).  Alla  stessa  guisa  il  sonetto  al  fratello,  che  l'A.  cerca 
di  salvare  dal  naufragio  dell'opera  poetica  del  B.  (p.  47),  ci  par  pessimo,  come 
la  maggior  parte  delle  sue  liriche.  Altre  osservazioni  vorremmo  fare  sui  giu- 
dizi che  l'A.  dà  di  alcune  particolari  pagine  in  versi  del  B.;  ma  poiché  sul  B. 
verseggiatore  già  troppo  gli  studiosi  del  Settecento  hanno  parlato,  crediamo 
più  utile  fermar  subito  la  nostra  attenzione  sui  capitoli,  che  dovrebbero  es- 
sere i  più  importanti  del  libro,  vale  a  dire  su  quelli  che  trattano  del  B.  cri- 
tico e  del  B.  storiografo.  Assai  opportunamente  l'A.  ha  messo  in  rilievo  che 
il  B.,  «  spirito  eminentemente  soggettivo,  portò  in  tutti  i  suoi  studi  di  cri- 


(1)  Non  tatti  gli  epigrammi  che  la  C.  giudica  buoni,  sono  veramente  originali 
ed  efficaci.  Un  esempio  solo:  a  p.  46  la  C.  à.ìcQ  penetrante  l'epigramma  che  il  B. 
compose  dopo  la  morte  del  Frugoni  : 

Di  Prugon  la  breve  storia, 
Vati,  abbiate  alla  memoria  : 
Settant'anni  egli  visse  in  povertà; 
Questa  alfin  parte  ed  ei  sotterra  va. 

Quest'epigramma,  privo  di  qualsiasi  efficacia,  è  l'espressione  di  un  pensiero  comune 
a  molti  epistolari  del  tempo.  Per  quanto  poi  il  Bettinelli  epigrammista  deva  agli 
scrittori  francesi,  vedi  il  volume  di  N.  Serban,  Leopardi  et  la  France,  p.  66  (Paris, 
Champion,  1913).  Questo  voi.  è  pure  notevole  per  quanto  vi  è  detto  degli  studi 
fatti  dal  Leopardi  sulle  opere  del  Bettinelli  e  in  ^articolar  modo  sulle  Lettere  a 
Lesbia  Cidonia.  Ma  intorno  a  quest'argomento  si  veggano  le  giuste  considerazioni 
fatte  da  Carlo  Pellegrini  nella  Raas.hibl.  d.  lett.ital,  SI  marzo  1914,  n»  8,  pp.  65-66. 
Si  noti  anche  che  le  Lettere  a  Lesbia  Cidonia  non  devono  essere  esclusivamente  con- 
siderate come  un  volgarizzamento  della  poesia  epigrammatica  francese. 


212  RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA 

«  tica  e  di  storia  la  propria  personalità  ».  Intorno  all'originalità  del  B.  si  è 
molto  discusso,  e  anche  recentemente  P.  Tommasini-Mattiucci,  togliendo  al  B. 
ogni  vanto  di  originalità  per  la  sua  critica  contro  Dante  e  contro  gli  antichi, 
concluse  che  il  B.  «  non  fece  che  ripetere  idee  già  espresse  da  altri  con  mono- 
«  tona  uniformità  »  e  che  ad  esse  «  aggiunse  »  soltanto  «  il  tono  scherzoso, 
«  faceto  »,  ecc.  (1).  Ora  dal  lavoro  della  C.  risulta  chiaramente  che  la  critica 
del  B.  ha  un  sapore  ben  suo,  non  tanto  per  «  il  tono  scherzoso,  faceto  »  ecc., 
quanto  per  l'impronta  personale  che  il  B.  spesso  sa  dare  al  suo  pensiero.  Già 
il  Croce  notò  che  il  B.  per  certa  sua  vigoria  spirituale  e  per  certa  sua  innata 
arditezza  dovrebbe  esser  posto  «  accanto  al  Baretti  »  (2).  Orbene  se  l'A.  non  si 
fosse  accontentata  di  fare  soltanto  un  fugace  e  superficiale  parallelo  tra  il  Ba- 
retti e  il  frate  segretario  di  Virgilio,  ma  anche  avesse  messo  in  rilievo  come 
il  grande  scrittore  piemontese  e  il  letterato  mantovano  giudicassero  a  vicenda 
le  loro  opere. (3)  e  avesse  allargato  il  suo  studio  alle  diverse  e  più  notevoli 
caratteristiche  che  la  critica  presenta  nel  Settecento,  ella  avrebbe  certamente 
potuto  concludere  il  capitolo  sul  B.  critico  con  una  più  profonda  e  più  sinte- 
tica valutazione.  Questo  capitolo,  pur  contenendo  molti  dati  nuovi,  è  il  più 
disorganico  di  tutto  il  libro,  perché  l'A.  non  ha  saputo  dare  alla  materia 
pienezza  di  forma  (4). 

Belle  e  assennate  osservazioni  ha  fatto  l'A.  sui  rapporti  che  intercedono 
tra  l'opera  storica  del  B.  e  quelle  del  Muratori,  del  Tiraboschi  e  del  Denina  ; 
ma  anche  qui  sarebbe  stato  necessario  rielaborare  con  maggior  precisione  e 
con  ordine  più  perspicuo  gli  elementi  raccolti  e  sarebbe  stato  opportuno  esten- 
dere l'esame  ad  altre  opere  storiche  di  quel  secolo.  Come  mai  l'A.,  che,  stu- 
diando gli  scritti  del  B.,  ha  spesso  incontrato  i  nomi  di  F.  S.  Quadrio,  di 
A.  F.  Zaccaria,  di  Stefano  Arteaga,  di  Giovanni  Andrès,  di  F.  S.  Lampillas, 
non  ha  notato  ohe  queste  curiose  figure  di  letterati  settecenteschi,  «  dolenti 


(1)  Op.   Cit,    p.   XXXIX. 

(2)  Vedi  Le  *  Lettere  virgiliane»  del  Bettinelli,  in  Opinione  letteraria,  8  sett.  1882; 
ristampato  in  II  primo  passo,  Napoli,  1910. 

(3;  Nell'opera  del  Bettinelli  non  mancano  caustici  accenni  al  Baretti.  Es.  a  p.  280 
del  t.  IV  (ed.  Cesare),  eco.  Cfr.  poi  Morandi,  Voltaire  contro  Shakespeare,  Baretti  contro 
Voltaire  (Roma,  Sommaruga,  1882)  ;  Piccioni,  Studi  e  ricerche  intorno  a  O.  Baretti  (Li- 
vorno, Giusti)  ;  Id.,  O.  Baretti  prima  della  Frusta  letteraria  (Suppl.  13-14  del  Giorn. 
stor.);  Id.,  Prefazioni  e  polemiche  di  G.  Baretti  (Bari,  Laterza),  eoo. 

(4)  Sarebbe  anche  stato  opportuno  che  l'A.,  nelle  note  di  p.  51  e  di  pp.  69-60,  ri- 
ferendo le  parole  di  A.  Graf,  avesse  avvertito  che  quelle  citazioni,  quantunque 
cerchino  di  tradurre  le  idee  espresse  dal  Graf  in  cattedra,  nondimeno  non  ripro- 
ducono con  esattezza  le  parole  del  Maestro.  Chi  udì  quelle  lezioni  può  attestare 
che  esse  furono  fatte  con  quella  perspicua  eleganza  e  con  quella  nitida  proprietà 
di  forma  che  erano  di  ogni  discorso  del  Graf.  Chiunque  poi  ricordi  con  quanta 
vigoria  di  pensiero  e  con  quanta  efficacia  egli  penetrasse  addentro  a'  più  ardui 
argomenti,  subito  comprende  che  il  primo  periodo  citato  a  pp.  69-60  non  è  trascritto 
con  precisione.  Sarebbe  quindi  stato  doveroso  avvertire  che,  quantunque  le  cita- 
zioni tentino  di  riprodurre  fedelmente  il  pensiero  del  Maestro,  nondimeno  quei 
periodi  non  sono  che  note  scolastiche  approssimative. 


Il  ASSEGNA   BIBLIOGBAFICA  213 

«  di  non  posseder  tutto  lo  scibile  »  (1),  pur  contrastando  talvolta  tra  loro, 
sono  spiriti  affini  ?  L'irrequieto  e  aggressivo  Arteaga,  «  impastato  di  nitro  e 
di  fuoco  »  (2),  loquace  e  presuntuoso,  «  avventato  ne'  suoi  giudizi  e  spregia- 
tore degli  altrui  »  (3);  il  versatile  e  facondo  Andrès,  eruditissimo  e  aperto 
alle  più  nobili  dilettazioni  dell'arte,  pieghevole  e  intollerante,  conscio  che 
l'universalità  delle  cognizioni  poteva  ritardare  il  progresso  scientifico  e  desi- 
deroso di  «  abbracciare  tutta  l'umana  cultura  »  (4)  ;  Antonio  Eximeno,  «  spre- 
«  giudicato  novatore,  ribelle  alla  vecchia  tradizione  di  lingua  e  di  stile,  fau- 
«  tore  di  più  larghi  e  razionali  concetti  di  critica  e  d'arte  »  (5);  il  fervido  e 
maledico  Lampillas,  carezzevole  e  asprigno,  cerimonioso  e  pronto  a  partire  in 
guerra  contro  tutto  e  contro  tutti  ;  questi  e  altri  fantasiosi  pellegrini  di  tutte 
le  storie,  letterariamente,  sono  i  veri  e  proprii  fratelli  spirituali  di  Saverio 
Bettinelli. 

Di  più:  perché  FA.  non  ha  ravvivato  l'opera  del  B.  alla  «  luce  »  delle  dot- 
trine storiche,  che  son  proprie  del  secolo  di  Voltaire  {Siede  des  lumières)  e  che 
trovan  la  loro  espressione  nella  cosi  detta  «  storiografia  del  rischiaramento  »  (6)? 
Come  mai  l'A.  non  ha  notato  che  l'opera  critica  e  storica  del  B.  non  fiorisce 
a  caso  in  un  periodo  in  cui  gli  spiriti,  avidi' di  cultura  universale,  si  disse- 
tano all'enciclopedismo  (7),  in  un'età  in  cui  gli  storici,  desiderosi  di  intendere 
Vesprit  dei  fatti,  sopra  tutto  mirano  a  mettere  in  evidenza  «  i  progressi  dello 
spirito  umano  »  ?  Come  mai  non  ha  osservato  che  molte  riflessioni  del  B. 
prendon  le  mosse  dall'opera  di  F.  S.  Quadrio,  Della  stona  e  della  ragione  di 
ogni  poesia  (8),  e  che  parecchi  scritti  del  mantovano  seguono  e  precedono  altre 


(1)  La  frase  fu  usata  da  Isabella  Teotochi  Albrizzi  per  Stefano  Arteaga  {Ritratti, 
8»  ediz.,  Venezia,  Alvisopoli,  1816,  pp.  103-105). 

(2)  Cosi  lo  ritrasse  il  Taruffi  in  una  lettera  all'Albergati  (cfr.  Masi,  La  vita,  i 
tempi,  gli  amici  di  F.  Albergati,  Bologna,  Zanichelli,  1878,  p.  338). 

(3)  Vedi  V.  Gian,  L'immigrazione  dei  gesuiti  spagnuoli  letterati  in  Italia,  estr.  dalle 
Mera,  dell' Accad.  delle  Scienze  di  Torino,  1894-96,  p.  39. 

(4)  Pongasi  mente  al  severo  giudizio  che  dell'Andrès  diede  Giosuè  Carducci  nella 
lettera  inviata  da  Pistoia  a  Carlo  Gargiolli  il  12  gennaio  1860. 

(5)  CiAN,  Op.  cit,  p.  50. 

(6)  Si  veda,  su  quest'argomento,  il  vigoroso  e  sintetico  studio  di  B.  Croce,  In- 
torno alla  storia  della  storiografia  {Critica,  an.  XI,  fase.  III).  Ivi,  nel  capitolo  su  La 
storiografici  del  rischiaramento,  è  detto  che  «  il  gesuita  Bettinelli  imitò  i  libri  sto- 
«  rici  del  Voltaire  per  la  storia  delle  lettere,  arti  e  costumi  in  Italia  »  (p.  217), 
È  indubitabile  che  il  B.  risenti  l'efficacia  delle  idee  storiche  del  Voltaire  e  chiunque 
studi  le  prose  bettinelliane  non  può  non  ricorrere  spesso  col  pensiero  RlVUssai  sur 
l'Histoire  generale,  et  sur  les  moeurs  et  Vesprit  des  nations  depuis  CTuirlemagne  jusqu'à 
nos  j'ours  e  ad  altre  opere  del  Voltaire.  Ma  non  è  proprio  ridurre  l'opera  storica 
del  B.  a  una  semplice  imitazione  dei  libri  storici  del  Voltaire. 

(7)  Il  Bettinelli  stesso  in  molte  note  offre  testftoonianza  di  ciò.  Basti  qui  ricor- 
dare che  egli  spesso  discute  le  opinioni  de'  filosofi  e  degli  scienziati  che  ha  letto 
e  studiato  e  che  nel  t.  IV  (p.  298)  rimanda  chi  voglia  legger  altri  scritti  sull'en- 
tusiasmo «  agli  articoli  enthousiasme. . .  poési6  etc,  de'  più  celebri  dizionari  filosofici 
e  de'  [suoi]  tempi  >.  Vedi  anche  il  t.  Ili,  p.  17. 

(8)  Il  Bettinelli,  nelle  note  rimanda  sovente  all'opera  del  Quadrio.  In  molti  luoghi 


214  RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA 

opere  consimili  alle  sue?  Se  la  C.  avesse  fatto  queste  considerazioni,  certa- 
mente avrebbe  compreso  che  gli  atteggiamenti  critici  e  istoriomatici  del  B. 
appariranno  in  piena  luce  quando  saranno  intimamente  chiariti  con  lo  studio 
degli  scrittori  italiani  e  francesi,  che  allo  spirito  del  B.,  avido  di  cultura, 
offersero  maggior  nutrimento,  e  quindi  saranno  accortamente  lumeggiati  con 
lo  studio  delle  opere  di  Giovanni  Andrès  (1),  di  Gioachino  Millàs  (2),  di 
G.  F.  Masdeu  (3),  di  F.  S.  Lampillas  (4),  di  Stefano  Arteaga  (5),  di  Antonio 
Eximeno  (6),  vale  a  dire  di  tutti  quegli  ingegnosi  avventurieri  del  filosofismo 
storico,  letterario  e  artistico,  i  quali,  nella  seconda  metà  del  secolo  XVIII, 
scorrevano  come  conquistatori  i  più  vasti  campi  del  sapere  (7). 

Vero  è  che  il  B.,  come  altri  suoi  confratelli,  grida  spesso  contro  il  filoso- 
fismo imperante  e  contro  le  speciose  «  affettazioni  dello  stil  filosofico  »  (8). 
Anche  è  vero  che  l'ex-gesuita  spagnuolo  Gioachino  Millàs  affermò  una  volta 
che  le  opere  del  B.  sarebbero  state  più  degnamente  apprezzate  dagli  italiani, 
se  l'autore  avesse  voluto  pagare  il  suo  tributo  al  dominante  filosofismo  (9). 
Ma  è  risaputo  che  per  ironia  della  sorte  accadde  al  B.  di  gridare  quasi  tutta 
la  vita  contro  quelle  usanze  alle  quali  egli  medesimo  sottostava.  D'altra  parte 
è  noto  che  il  Millàs  è  quello  stesso  che  non  esitava  a  porre  il  Bettinelli  ac- 
canto a  Bacone  e  al  Condillac  (10)  e  che  vedeva  nelle  sue  idee  la  ragione  per 


poi  lo  loda  per  l'ingegno,  Verudizioìie,  lo  stile  e  giudica  l'opera  sua  di  capitale  im- 
portanza. '  Non  contento  di  ciò,  a  pp.  296-298  del  t.  IV  (ed.  Cesare)  dà  un  breve 
riassunto  di  essa  per  invogliare  altri  a  leggerla. 

(1)  Dell'origine,  progressi  e  stato  attuale  d'ogni  letteratura,  Parma,  1782-1789,  ecc. 

(2)  Dell'unico  principio  svegliatore  della  ragione  del  gusto  e  della  virtù  neU'educazion 
letteraria,  Mantova,  1786-1788,  eco. 

(8)  Storia  critica  di  Spagna  e  della  cultura  spagnuola,  1781-1805,  ecc. 

(4)  Saggio  storico  apologetico  della  letteratura  spagnuola  contro  le  pregiudicate  opiniotii 
di  alcuni  moderni  scrittori  italiani.  Il  Lampillas  stesso  attribuisce  quest'opera  ai 
ripetuti  eccitamenti  del  Bettinelli.  Sulle  relazioni  del  Lampillas  col  Bettinelli 
vedi  Gian,  Op.  cit.,  pp.  63-64. 

(5)  Le  rivoluzioni  del  teatro  musicale  ital.  dalla  sua  origine  fino  al  presente  (1189) ,  ecc. 

(6)  DeW origine  e  delle  regole  (Mia  musica,  colla  storia  del  suo  progresso,  decadenza  e 
rinnovazione  (1774).  Importanti  per  questo  studio  sono  anche  le  altre  sue  opere. 
Vedi,  intorno  a  lui,  le  bellissime  pagine  del  Gian,  Op.  cit.,  pp.  46-50. 

(7)  Può  giovare  a  questi  studi  la  prima  parte  della  nota  opera  del  Landau,  Ge- 
schichte  der  italienischen  Litteratur  im  achtzehìitén  Jahrhundert  (Berlin,  Felber,  1899). 
Si  veda  anche  il  voi.  di  B.  Groce,  Problemi  di  estetica  (Bari,  Laterza,  1910).  Ma  vedi 
in  particolar  modo  Fuetek,  Oeschichte  der  neueren  HistoHographie  (Milnchen  und 
Berlin,  Oldenbourg,  1911).  Non  si  dimentichi  anche  il  recente  voi.  di  R.  Gotuono, 
La  sorte  di  Q.  B.  Vico  e  le  polemiche  scientifiche  e  letterarie  dalla  fine  del  XVII  alla 
metà  del  XVIII  sec.  (Bari,  Laterza,  1914). 

(8)  Opere,  t.  I  :  «  Prefazione  dell'autore  sopra  lo  studio  delle  belle  lettere  » . 

(9)  Op.  cit,  voi.  Ili,  pp.  226  sgg. 

(10)  Il  Bettinelli  fu  un  appassionato  lettore  di  libri  filosofici  e  in  particolar  modo 
conobbe  assai  bene  le  opere  del  Gondillac,  che  spesso  discute  nelle  proprie  pagine 
(08.  t.  IV,  pp.  150,  180,  ecc.).  Intorno  alla  diflfusione  delle  principali  opere  filoso- 
fiche straniere  nell'Italia  del  sec.  XVIII,  vedi  G.  Maugaiic,  Étude  sur  l'évolution  de 
l'Italie  de  1657  à  1750  environ  (Paris,  Hachette,  1909). 


RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA  215 

cui  i  posteri  gli  avrebbero  reso  giustizia.  Ciò  non  solo  dimostra  che  il  Millàs 
dava  al  Bettinelli  un  posto  ben  suo  tra  i  letterati  filosofeggianti  del  suo  tempo, 
ma  anche  prova  che  sarebbe  assai  proficuo  ricercare  come  e  quanto  il  frate 
segretario  di  Virgilio  abbia  risentito  l'efficacia  del  filosofismo,  di  cui  tutta 
la  vita  spirituale  del  Settecento  era  pervasa.  Del  resto  non  sarà  difficile  sta- 
bilire una  buona  volta  quale  posto  tenga  il  B.  tra  i  letterati  che  allora  volevan 
conciliare  «  le  belle  arti  e  l'erudizione  con  la  filosofia  e  con  la  scienza  »,  poiché 
l'introduzione  Sopra  lo  studio  della  storia,  premessa  dal  mantovano  al  Risor- 
gimento d'Italia  negli  studi,  nelle  arti  e  nei  costumi  dopo  il  Mille,  le  annota- 
zioni apposte  alle  due  parti  dell'opera  syAV Entusiasmo  delle  belle  arti,  il 
Saggio  su  la  vita  e  le  opere  di  Matteo  Borsa,  il  Discorso  sopra  la  poesia  ita- 
liana, la  lunga  lettera  All'abate  Lampillas  sopra  il  primo  tomo  della  se- 
conda parte  del  Saggio  storico  apologetico  della  letteratura  spagnuola,  le 
XX  lettere  d'una  dama  ad  una  sua  amica  sulle  belle  arti  e  moltissimi  altri 
scritti  dell'edizione  di  Adolfo  Cesare  offrono  a  chi  voglia  compiere  questa  ri- 
cerca indicazioni  preziose.  Da  questi  scritti  appar  chiaro  che  quella  tendenza 
spirituale,  per  cui  Luisa  Capra  giudica  che  il  B.  «  nella  concezione  della  cri- 
«  tica  storica  si  allontanava  da'  suoi  contemporanei  »  (1),  non  era  una  ten- 
denza esclusiva  del  mantovano,  ma  era  la  tendenza  di  tutta  una  turba  di 
studiosi,  i  quali,  non  potendosi  acquetare  nell'erudizione  che  ama  il  freddo 
esame  dei  fatti  e  dei  documenti,  cercavan  di  inalzarsi  a  opere  superiori  com- 
ponendo storie  critiche,  quadri  filosofici  della  storia  civile,  letteraria  e  arti- 
stica, ricostruzioni  storico- filoso  fiche,  libri  di  storia  ragionata,  ecc.  Siffatte 
opere  in  molte  parti  diventavano  un  vero  e  proprio  vaniloquio.  Perciò  Pietro 
Napoli  Signorelli  in  una  lettera  del  19  ottobre  1784  scriveva  a  Stefano 
Arteaga  che  il  B.  «  non  aveva  mai  impreso  a  distendere  un'opera  istorica  com- 
«  piuta,  che  abbisognasse  d'infiniti  dati,  essendosi  contentato  di  far  quadri 
«  arbitrari  e  generali,  ove  poteva  dire  e  tacere  quel  che  volea  »  (2).  Queste 
significative  parole  sono  l'indice  di  due  diverse  tendenze  istoriomatiche,  le 
quali  nel  secolo  XVUI  spesso  contrastan  aspramente  tra  loro.  Ma  d'altra  parte, 
nel  contrapporre  il  metodo  del  Bettinelli  a  quello  del  Muratori  e  del  Tira- 
boschi,  non  bisogna  neppure  dimenticare  che  la  separazione  non  era  recisa  e 
che  parecchi  studiosi  sembravano  in  alcune  parti  delle  loro  opere  contempe- 
rare l'un  metodo  con  l'altro.  Questa  è  la  ragione  per  cui,  quantunque  il  Ti- 
raboschi  apparisca  a  noi  assai  superiore,  come  storico,  aU'abate  mantovano, 
nondimeno  Ramon  de  la  Cruz  non  esitava  ad  accomunarlo  col  Bettinelli,  col 
Quadrio  e  col  Signorelli,  dicendo  con  velenoso  dispregio  che  quei  letterati 
scrissero  «  sobre  toda  la  poesia,  y  toda  la  literatura,  y  llamaronla  historia 
«  critica  de  todos  los  teatros  de  este  y  del  otro  mundo,   in   saecula  saecu- 


(1)  P.  96.  Anche  a  pp.  112-113,  nella  conclusione   finale  ,  è  detto  che  il  Bettinelli 
«  fu  uno  storico  diverso  da  tutti  gli  altri  » . 

(2)  Vedi  questa  lettera  nelV Epistolario  del  Signorelli,  pubblicato  in  appendice  al 
cit.  voi.  di  C.  a.  Mininni  (p.  311). 


216  EASSEGNA    BIBLIOGBAFICA 

«  lorum  »  (1).  Ora  uno  studio  che  illuminasse  una  buona  volta  il  mondo 
spirituale  in  cui  vivevano  quei  letterati  che  s'atteggiavano  a  storici  d'ogni 
letteratura  e  mettesse  in  rilievo  come  e  perché  essi  si  giudicassero  superiori  a 
quegli  scrupolosi  e  disciplinati  eruditi  che  noi  oggi  consideriamo  come  i  veri 
fondatori  della  storiografia  moderna,  recherebbe  un  notevolissimo  contributo 
a  quella  storia  dell'erudizione  italiana  nel  secolo  XYIII,  che  Vittorio  Gian  già 
desiderava  fin  dal  1895  (2).  Quanto  poi  al  Bettinelli,  è  indubitabile  che  in 
un'opera  siffatta  egli  apparirebbe  sotto  un  aspetto  che  i  critici  non  hanno  an- 
cora ben  considerato  (3).  Lo  studio  dei  contrasti  tra  la  tendenza  erudita  e  la 
tendenza  filosofeggiante  aiuterebbe  a  meglio  intendere  molte  astiose  polemiche 
del  settecento,  alle  quali  il  Bettinelli  prese  parte,  e  nel  medesimo  tempo  a 
capire  perché  l'efìicacia  esercitata  dal  mantovano  non  debba  esser  giudicata 
soltanto  come  personale,  ma  anche  come  riflesso  delle  idee  che  egli  propugnava. 
Verso  questo  punto  devono  convergere  gli  studi  bettinelliani  se  vogliono 
esser  proficui.  Già  abbiamo  studiato  a  fondo  la  sua  opera  lirica,  satirica  e 
drammatica,  abbiamo  parlato  a  sazietà  degli  aspetti  esteriori  delle  principali 
sue  opere  in  prosa.  È  tempo  che  si  dica  qualche  cosa  di  preciso  intorno  al  suo 
filosofismo  ora  larvato  ora  iridescente  e  intorno  a  quello  ancor  più  protei- 
forme di  tutto  il  secolo.  Ora  è  di  moda  dire  con  circonlocuzioni  vaghe  e  con- 
venzionali che  «  il  B.  diede  vita  con  la  sua  opera,  la  negativa  e  \bl  positiva,  a 
«  un  movimento  d'idee  nuove  »  (4).  Nell'affermazione  è  senza  dubbio  qual- 
cosa di  vero;  ma  la  frase  «  diede  vita  »  non  è  la  più  propria.  Converrà  una 
buona  volta  studiare  con  rigore  le  idee  di  cui  egli  promosse  la  diffusione  con 


(1)  L' ira  di  Ramon  de  la  Cruz  coatro  il  Sigaorelli  era  stata  provocata  dal  giu- 
dizio ohe  questi  aveva  dato  di  lui  nella  prima  edizione  della  Storia  cHtica  de'  teatri 
antichi  e  moderni.  Cfr.  C.  G.  Minikni,  Op.  cit.,  pp.  120  sgg.  Vedi  anche  V.  Gian,  Italia 
e  Spagna  nel  secolr>  XVIII  (Torino,  Lattee,  1896),  p.  201.  Questo  volume  può  esser 
pure  utile  agli  studiosi  del  Bettinelli  per  alcune  accurate  notizie  e  perspicaci  con- 
siderazioni sul  filosofismo  e  sulle  tendenze  istoriomatiche  del  sec.  XVIII.  Notevo- 
lissime le  pagine  su  Pietro  Napoli  Signorelli. 

(2)  Vedi  Rivista  storica  italiana,  voi.  XII,  fase.  Ili,  a.  1895  :  «  Nel  primo  centenario 
«  della  morte  di  Grirolamo  Tiraboschi  >  (p.  10  dell'estratto).  Le  parole,  con  le  quali 
il  Bettinelli  nel  t.  VII  delle  sue  opere  (pp.  28-29)  afferma  di  aver  compiuto  «  studi 
prolissi  >  e  «ricerche  minute  >,  prima  di  accingersi  a  scrivere  l'opera  II  risorgi- 
mento d'Italia  negli  studi,  nelle  arti  e  nei  costumi  dopo  il  Mille,  avrebbero  potuto  dar 
modo  alla  Capra  (p.  102  del  suo  voi.)  di  estendere  il  discorso  al  Quadrio  e  agli 
altri  storici  studiati  dal  Bettinelli.  Quivi,  oltre  il  Quadrio,  sono  nominati  con  onore 
lo  Zeno,  il  Crescimbeni,  il  Querini,  il  Foscarini,  il  Mazzuchelli,  l'Agostini,  il  Gori, 
il  Maffei,  ecc. 

(3)  Si  potrebbe  opporre  che  il  Bettinelli,  a  differenza  dell'Andrès  e  di  altri,  nella 
principale  delle  sue  opere,  Il  risorgimento,  stabilisce  un  punto  di  partenza,  «il  Mille >. 
Se  non  che  il  ravvicinamento  non  deve  esser  fatto  per  i  limiti  esterni,  ma  per  gli 
intendimenti  filosofici.  Si  veggano  su  ciò  alcune  acute  osservazioni  del  Gian  nella 
cit.  memoria:  L'immigraz.  dei  gesuiti  spagn.  letterati  in  Italia,  p.  20. 

(4)  P.  Tommasini-Mattiucci,  nella  perspicua  introduzione  da  lui  premessa  alia 
nuova  ristampa  delle  Ijettere  virgiliane,  promette  di  toccar  con  maggior  precisione 
quest'argomento  in  un  «  prossimo  Opuscolo,  ohe  conterrà  le  Lettere  inglesi  »  (p.  1..V11). 


EASSBGNA   BIBLIOGRAFICA  217 

quella  vigoria  e  con  quell'audacia  che  gli  erano  proprie,  converrà  determinare 
dove  e  come  il  suo  filosofismo  storico,  letterario  e  artistico  siasi  formato  (1), 
converrà  dire  con  più  concreta  e  più  chiara  esattezza  quale  azione  egli  abbia 
esercitato  sulla  vita  spirituale  del  Settecento.  Chi  darà  forma  organica  e  viva 
a  tale  studio,  scriverà  un  libro  assai  dilettevole  per  la  trasmutabile  e  sapida 
materia,  di  cui  dovrà  occuparsi,  e  nel  medesimo  tempo  un  libro  utilissimo 
alla  storia  del  secolo  XVIII  (2). 

Carlo  Calcaterra. 


(1)  In  particolar  modo  sarà  necessario  determinare,  più  largamente  e  più  pro- 
fondamente di  quanto  non  siasi  fatto  finora,  quale  efficacia  abbiano  esercitato  gli 
scrittori  francesi  sul  B.  Non  sarà  difficile  risalire  alle  fonti,  perché  il  B.  cita  spes- 
sissimo gli  autori  ai  quali  attinge.  Intorno  all'amore  con  cui  il  B.  lesse  e  studiò 
la  letteratura  francese  ha  fatto  alcune  veridiche  considerazioni  il  Serban  nel  ci- 
tato voi.  sul  Leop.irdi  :  «  Si  l'on  parcourt  les  vingt-quatre  volumes  qui  contiennent 
«  ses  CEUvres,  on  remarque  que  Bettinelli  est  à  tei  point  fascinò  par  la  littérature 
«  fran^aise  qu'il  ne  peut  plus  parler  des  lettres  italiennes  sana  les  comparer  cons- 
«  tamment  aux  productions  correspondantes  fran^aises  »  (p.  66).  Potrebbe  scrivere 
un  proficuo  saggio  di  letteratura  comparata  chi  trattasse  direttamente  quest'  ar- 
gomento. 

(2)  Nel  buon  libro  di  Luisa  Capra  anche  alcune  affermazioni  particolari  potreb- 
bero essere  discusse  ;  p.  es. ,  quella  di  p.  74  in  cui  è  detto  che  il  B.  giudicò  la 
Divina  Commedia  «  con  un  criterio  unicamente  artistico  »  ;  quella  di  p.  107,  per 
cui  l'A.  mostra  di  credere  che  il  B.  «  ebbe  un'  idea  più  vasta  e  più  sicura  della 
«  critica  storica  »  ohe  non  il  Muratori  e  il  Tiraboschi  ;  quella  di  p.  110 ,  in  cui  è 
detto  che  l'aver  il  B.  contribuito  alla  fortuna  dello  sciolto  costituisce  «  il  pregio 
«  maggiore  della  poesia  bettinelliana  » .  Ma  piuttosto  che  insistere  su  queste  espres- 
sioni improprie,  crediamo  doveroso  avvertire  che  al  libro  è  unita  una  ricca  e  im- 
portante appendice,  nella  quale  gli  studiosi  troveranno  utili  notizie  sopra  G.  Tira- 
boschi,  P.  A.  Serassi,  L  Cerretti,  Gr.  Andrès,  S.  Arteaga,  C.  Denina,  F.  Cassoli, 
M.  Cesarotti,  C.  Gr.  della  Torre  di  Rezzonico,  Gr.  B.  Roberti,  Gl^.  F.  G^aleani-Napione, 
L.  Mascheroni,  Gl^.  B.  Casti,  V.  Monti,  G^.  Parini,  C.  Bondi,  A.  Mazza,  A.  Bertola, 
C.  Zampieri,  Cleofe  Teresa  Berrettoni,  Teresa  Bandettini ,  C.  Rosmini,  I.  Pinde- 
monte,  Pr.  Manara,  A.  Fabroni,  C.  Ugoni,  ecc.  Ricche  di  nuove  e  preziose  conside- 
razioni son  pure  le  pagine  in  c\ii  l'A.  esamina  i  giudizi  che  il  B.  diede  intomo  ai 
principali  scrittori  contemporanei  (pp.  79-89)  e  quelli  che  i  contemporanei  diedero 
del  mantovano  (pp.  113-120).  Per  il  primo  periodo  letterario  del  Bettinelli  si  ten- 
gano anche  presenti  i  giudizi  dati  da  F.  A.  Zaccaria  nella  Storia  letteraria  d'Italia 
(t.  in,  pp.  555-558  ;  t.  V,  pp.  58-62  ;  t.  VIII,  p.  27  e  pp.  80-34  ;  t.  X,  p.  102  ;  t.  XII,  p.  11-19) 
e  dal  Quadrio  (Op.  cit,  voi.  VII,  Milano,  1752,  p.  285). 


BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO 


ENRICO  AUBEL.  —  Leon  Battista  Alberti  e  i  libri  della 
famiglia.  —  Città  di  Castello,  Casa  editrice  S.  Lapi,  1913 
(8«,  pp.  117). 

Soltanto  la  tentazione  di  vedersi  stampato  negli  eleganti  elzeviriani  e  sotto 
la  copertina  civettuola  della  casa  editrice  S.  Lapi  deve  avere  spinto  irresisti- 
bilmente il  sig.  E.  Aubel  a  pubblicar  questo  libro.  Potrebbe,  veramente,  pa- 
rere altrimenti,  a  leggere  la  breve  prefazione,  ove  troviamo  asserito  che  in 
L.  B.  A.  «  accanto  all'umanista  che  scrive  latino  e  interroga  e  studia  i  mo- 
«  numenti  artistici  e  letterari  dell'antichità...,  accanto  al  letterato  assorto 
«  nelle  forme  e  nelle  idee  del  passato,  v'è  il  cittadino  di  parte  stretto  per 
«  tradizione  di  sangue  e  di  consuetudine  agli  interessi  della  sua  consorteria 
«  e  della  sua  città  »;  onde  un  certo  «  contrasto  di  sentimenti  i..  che  spiega 
«  l'individualità  del  suo  umanesimo,  la  natura  del  suo  temperamento  artistico 
«  e  morale  »  e  che  «  non  è  stato  abbastanza  rilevato  da  chi  studiò  l'Alberti  » 
(pp.  8-9). 

Una  novità,  dunque,  e  che  novità!  sfuggita  perfino  all'amoroso  e  diligen- 
tissimo  studio  semisecolare  di  Girolamo  Mancini,  non  che  di  quanti  altri  si 
siano  occupati  di  Leon  Battista  !  Certo,  si  penserà,  l'autore  ha  avuto  la  ven- 
tura di  por  le  mani  su  qualche  ignoto  documento,  che  ci  riveli  cittadino  di 
pai-te  quell'Alberti,  che,  per  quanto  abbiam  saputo  finora  della  sua  vita,  o  ci 
apparisca  dalle  sue  opere,  fu  alieno  dal  parteggiare  e  le  parti  maledisse,  nò 
ebbe  mai  che  fare  nella  vita  pubblica  della  città  che  considerava  sua  patria 
e  che  ebbe  carissima,  ma  nella  quale  neppur  dimorò,  se  non  quanto  fu  ri- 
chiesto, prima,  dalle  necessità  del  suo  ufficio  di  scrittore  apostolico,  e  poi,  a 
rari  e  brevi  intervalli,  dalle  sue  opere  architettoniche,  o  da  necessità  di 
qualche  fuggevole  riposo  dalle  fatiche  sostenute  per  queste.  Se  non  che  la  let- 
tura del  volume  disingannerà  chi  pensasse  così.  Il  sig.  E.  Aubel,  che  pure 
accoda  al  suo  libro  una  discretamente  lunga,  ma  né  compiuta,  nò  accurata, 
anzi  assai  arruffata  bibliografia  (basti  notare  che  non  v'ò  serbato  ordine  nò 
cronologico  nò  d'altro  genere  qualsiasi,  e  che  perfino  uno  scambio  di  note  dà 
allo  Scipioni  un  lavoro  di  0.  Bacci,  e  al  Bacci  uno  dello  Scipioni),  ha  letto 


BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO  219 

le  Opere  volgari,  o  almeno  quelle  d'argomento  morale,  nell'ediz.  del  Bonucci, 
e  qualcuna  delle  Opera  inedita  pubbl.  dal  Mancini,  nonché  la  Vita  di  L.  B.  A. 
di  quest'ultimo,  nella  prima  edizione  ;  ha  visto,  pare,  l'elogio  del  Pozzetti,  gli 
opuscoli  albertiani  del  Varrini,  del  Palermo,  del  Cortesi,  e  poco  altro,  fra  cui 
la  raccolta  del  Trucchi,  col  quale  egli  dà  il  nome  di  serventese  alla  frottola 
di  Francesco  d'Altobianco  Alberti,  AI  fuoco  soccorrete,  omè  ch'io  ardo  (p.  35); 
e  fermandosi  specialmente  sui  libri  Della  famiglia,  va  sentenziando  intorno  alla 
«  caratteristica  dell'umanesimo  dell'Alberti  »,  che  è  quella  di  non  «  essere 
«  semplice  imitatore  degli  antichi  »  ma  uno  che  «  armonizza  il  buono  e  l'u- 
«  tile  dell'antico  con  le  pratiche  esigenze,  con  le  aspirazioni  dei  propri  tempi  » 
(p.  23),  e  intorno  all'argomento  e  agi'  intenti  dell'opera  sua  principale,  e  al 
suo  ideale  della  famiglia  :  aggiunge  infine  un'appendice,  per  trattare  l'oramai 
sepolta  «  questione  L.  B.  A.  e  A.  Pandolfini  »  (p.  89)  e  per  istituire  un  con- 
fronto fra  il  libro  HI  della  Famiglia  e  VEconomico  di  Senofonte  (p.  105).  E  le 
novità,  che  egli  cava  da  tutto  questo  e  che  esprime  ripetutamente,  par  ve- 
ramente che  oramai  sappiano  un  po'  di  stantìo.  L.  B.  A.  «  ha  di  mira  l'onore 
«  della  famiglia  Alberti,  lo  studio  a  mantenerla  in  onta  alla  fortuna  ;  egli  de- 
«  sidera  acquistarsi  l'affetto  dei  suoi  familiari.  L'indole  afiettiva  del  libro  non 
«  permette  di  annoverarlo  fra  i  trattati  pedagogici  propriamente  detti...  Le 
«  virtù  ch'egli  raccomanda  e  tutta  l'educazione  fisica  e  morale  ha  di  mira  il 
«  benessere  della  famiglia  Alberti  nelle  sue  particolari  condizioni  »  (p.  52)  ; 
«  il  materiale  pedagogico  e  umanistico  accolto  da  Battista  del  (sic)  I  libro, 
«  perde  ogni  astrattezza  di  trattazione  scientifica  oggettiva  ;  è  applicato  alle 
«  condizioni  della  famiglia  che  l'Alb.  ha  sempre  nella  mente,  è  vivificato  dal- 
«  l'intimità  della  conversazione  domestica ...  Lo  spirito  di  parte  ancor  vivo  in 
«  quel  tempo  gli  impediva  di  estendere  il  suo  dialogo  tenuto  fra  persone 
«  della  sua  famiglia  ad  uno  scopo  più  generale  »  (p.  56).  Se  togliamo  quello 
spirito  di  parte,  che  nessuno  ha  sentito  finora  nelle  opere  dell'A.,  «  sapevam- 
celo  »,  potran  dire  in  coro  i  vecchi  studiosi  di  quello,  proprio  come  quei  di 
Capraia.  Ma  di  quello  spirito  di  parte  —  cosa  alquanto  differente  ♦dall'amore 
per  la  famiglia  —  dà  qualche  prova  l'Aubel  ?  Nessuna,  di  che  io  abbia  sa- 
puto accorgermi;  come  nessuna  di  altre  certo  assai  nuove  novità,  quali  sa- 
rebbero, p.  es.,  che  il  Pontifex  ha  «  scopo  essenzialmente  economico  »  (p.  .32), 
0  che  la  composizione  del  Teogenio  (con  tutto  il  suo  proemio  posteriore  alla 
morte  di  Niccolò  d'Este)  è  di  tempo  anteriore  a  quella  della  Famiglia  (p.  38; 
e  cfr.  pp.  36  a  45),  e  il  proemio  del  libro  ITI  della  Famiglia  posteriore  alla 
composizione  del  libro  IV  e  al  certame  coronario  (pp.  45,  46)  e  che  (se  almeno 
non  mi  fa  frantendere  la  sintassi  e  la  punteggiatura  del  signor  Aubel)  Ve- 
spasiano da  Bisticci  era  «  più  vecchio  dell'Alberti  »  (p.  66). 

Eppure  qualche  prova  di  tanto  ci  parrebbe  desiderabile;  come  parrebbe 
desiderabile  che  l'A.,  scrivendo  nel  primo  semestf^  del  1913,  avesse  veduto,  se 
non  altro,  la  seconda  edizione  della  Vita  del  Mancini,  e  soprattutto  il  testo 
della  Famiglia  edito  dal  medesimo  benemerito  studioso  già  nel  1908.  Fra  gli 
altri  vantaggi  ne  avrebbe  potuto  cavare  anche  quello  di  non  trovarsi  a  scam- 
biare un  verbo  per  un  nome  e   regalare  alla  letteratura  greca  un  filosofo  di 


220  BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

più.  Egli  ha  infatti  trovato  nell'ediz.  del  Bonucci  {Op.  voìg.,  Il,  p.  148)  queste 
parole  poste  in  bocca  a  Lionardo  Alberti:  «  Voi  meglio  per  voi  queste  eru- 
«  dizioni  tutte  con  miglior  guida  e  più  autorità  potete  riconoscere,  Arete 
«  fra'  Greci,  Platone,  Aristotile,  Senofonte,  Plutarco,  Teofrasto,  Demostene, 
«  Basilio;  e  tra  i  Latini  Cicerone,  Varrone,  Catone  »,  ecc.;  e  scrive  (p.  44)  che 
«  l'intimità  del  dialogo  familiare  viene  turbata  dalle  dotte  velleità  di  Leo- 
«  nardo;  il  quale  risponde  esser  queste  cose  disseminate  nei  vari  scrittori; 
«  bisognerebbe  aver  ripensato,  riscelto,  rassettato  (s^c);  potranno  consultare 
«  Arete,  Platone,  Aristotile,  Senofonte,  Teofrasto  »,  ecc.  Ora,  nell'ediz.  Mancini 
(p.  95)  avrebbe  letto:  «  Avete  fra'  Greci,  Platone,  Aristotele  »,ecc.;  ed  è  pro- 
babile che  la  seconda  pers.  plur.  del  presente  gli  si  fosse  fatta  riconoscere 
meglio  che  quella  del  futuro! 

Mi  pare  che  ciò  basti  a  provare  che  l'autore,  che  credo  un  giovane  sedotto, 
come  altri  non  pochi,  dalla  bramosia  di  una  precoce  pubblicità,  avrebbe  fatto 
meglio  a  tenere  in  briglia  il  suo  desiderio  e  aspettare  a  dare  in  luce,  con 
maggiore  utilità  sua  e  degli  altri,  il  frutto  dei  suoi  studi,  quando  egli  avesse 
meglio  compiuta  la  necessaria  preparazione.  F.  C.  P. 


Trattati  d^ainore  del  Cinquecento,  a  cura  di  Giuseppe  Zonta. 
Nella  collezione  Scrittori  d'Italia  (n°  37).  —  Bari,  Laterza, 
1912  (8°,  pp.  369). 

In  questo  volume,  messo  insieme  con  lodevole  accuratezza  e  con  molta  com- 
petenza da  G.  Zonta  (del  quale  i  lettori  del  Giornale  conoscono  le  diligenti  e 
concludenti  indagini  intorno  ad  uno  dei  più  ragguardevoli  trattatisti  d'amore 
del  500,  il  Betussi),  sono  ristampati  cinque  dialoghi  del  secolo  XVI,  scelti  se- 
condo i  criteri  precisati  dallo  Z.  stesso  nella  Nota  bibliografica  che  chiude  la  sua 
raccolta  ;  ossia  con  l'intento  di  riprodurre  e  rendere  più  accessibili  al  pubblico 
studioso  alcuni  dei  trattati  che  meglio  rappresentano  l'uso  cinquecentesco 
della  discussione  erudita  e  geniale  sulla  natura  dell'amore,  o  più  apertamente 
e  artisticamente  ci  svelano  qualche  aspetto  caratteristico  del  costume  di  quella 
età.  Sono  il  Baverta  di  G.  Betussi,  il  ragionamento  sulla  Bella  arte  d'amore 
di  Francesco  Sansovino,  il  dialogo  Delia  infinità  cVaviore  di  Tullia  d'Ara- 
gona, lo  Specchio  d^ amore  di  Bartolomeo  Gottifredi  e  la  Leonora  del  Be- 
tussi medesimo:  così  disposti  secondo  l'ordine  di  tempo  in  cui  uscirono  in 
luce  nel  Cinquecento.  Parrà  forse  ai  lettori  che  questa  scelta,  già  ricca  di 
volume  e  di  curiosità,  avrebbe  potuto  vantaggiosamente  accrescersi  di  qualche 
altro  componimento  congenere  :  e  tutti  penseranno  alla  audace  Uaffaella,  il 
dialogo  Della  bella  creanza  delle  donne,  il  mirabile  ghiottissimo  trattato 
del  lenocinio  composto  da  Alessandro  Piccolomini  ;  ma  il  raccoglitore  ci  fa 
osservare  che  di  non  pochi   altri  trattati   amorosi  del  secolo  XVI  si  farà  la 


BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO  221 

ristampa  nella  collezione  degli  Scrittori  d^ Italia  con  le  altre  opere  dei  loro 
autori:  e  quanto  alla  Ilaffaeìla  essa  è  stata  compresa  dallo  Zonta  nell'altro 
volume  da  lui  curato,  di  Trattati  sulla  donna  del  Cinquecento  (1). 

Cosa  molto  curiosa  penso  che  sarebbe  riuscita,  nel  volume  che  esaminiamo, 
una  ristampa  (sarebbe  stata  la  prima)  del  rarissimo  Dialogo  amoroso  del 
Betussi  (2).  Si  tratta  d'un  breve  dialogo,  che  ha  in  questa  letteratura  ero- 
tica singolare  importanza,  perchè  riguarda  'gli  amori  per  le  cortigiane:  si 
svolge  tra  Francesco  Sansovino,  un  tal  Pigna,  giovane  facoltoso  dedito  agli 
amori  delle  etère  veneziane,  e  madonna  Francesca  Baffa,  la  colta  etèra  di  Ve- 
nezia, interlocutrice  anche  del  Raverta,  che  fu  per  alcuni  anni  amica  del  Betussi 
e  che  intorno  a  sé  radunò  un  circolo  di  letterati  e  uomini  di  guerra;  e  prende 
appunto  ai-gomento  dagli  amori  del  Pigna,  che  aveva  successivamente  com- 
prato e  goduto  i  favori  delle  cortigiane  più  belle  e  più  desiderate  della  città 
delle  lagune.  Questo  dialogo  riesce  adunque,  sebbene  un  po'  scarno  nella  parte 
trattatistica,  un  documento  di  grandissima  importanza  per  conoscere  quella 
società  galante  veneziana,  intorno  alla  quale  abbiamo  non  poche  testimo- 
nianze sparse,  ma  di  cui  ci  manca  tuttora  uno  studio  complessivo  :  chi  vi  si 
dedicherà  di  proposito,  consertando  la  storia  del  costume  a  quella  delle  let- 
tere, accanto  alle  numerose  cortigiane  che  si  dilettavano  di  studi  e  di  poesia, 
rinnovando  gli  splendori  di  Atene,  avrà  modo  d'illustrar  l'opera  di  molti 
scrittori,  alcuni  dei  quali  soltanto,  come  il  Brocardo,  il  Betussi,  il  Parabosco, 
il  Sansovino  ed  altri,  sono  stati  studiati  con  maggiore  o  minor  diligenza. 

Dei  trattati  pubblicati  dallo  Z.  sono  abbastanza  noti,  perchè  altra  volta 
ristampati,  il  Raverta  e  V Infinità  d^ amore]  ma  gli  altri  tre  sono  ora  per 
la  prima  volta  ripubblicati  di  sulle  stampe  rarissime  del  secolo  XVI.  Del 
breve  ragionamento  del  Sansovino  ho  avuto  io  stesso  occasione  di  occuparmi 
recentemente,  studiando  le  relazioni  del  poligrafo  veneziano  con  Gaspara 
Stampa,  a  cui  egli  lo  dedicò:  poco  svolta  vi  è  la  materia,  e  i  non  lodevoli 
insegnamenti  che  contiene  hanno  affinità  con  quelli  che  offrono  altri  compo- 
nimenti simili;  pure  ha  notevole  valore  per  la  storia  del  costume.  Più  vi- 
vace e  ricca  e  varia  è  la  rappresentazione  che  della  società  mondana  di  Ve- 
nezia ci  dà  il  Raverta  del  Betussi;  ma  la  discussione  vi  è  meno  ordinata 
che  in  altri  trattati  simili,  ad  esempio  quello  della  Tullia.  ^QWlnfìnità 
d'amore  la  regolarità  dello  svolgimento,  la  partizione  della  materia,  la  lin- 
dezza della  forma  sicura  e  ricercata,  la  rotondità  del  periodare  complesso  e 
spesso  accademico  dimostrano  all'evidenza  che   qualche  esperto  scrittore  reg- 


(1)  Una  recente  ristampa  della  Raffaella  s'è  fatta,  a  prezzo  modicissimo,  nella 
Biblioteca  universale,  del  Sonzogno,  n°  409,  insieme  alla  Storia  di  due  amanti  di  Enea 
Silvio  Piocolomini.  Per  la  bibliografìa  sulla  trattatistica  erotica  del  500  richiamo 
i  due  studi  recenti  di  P.  Lorenzetti  {L'intendiviento  e  le  cause  precipue  dei  trattati 
d'avìore  nel  sec.  XVI,  nel  FanfuUa  della  Domenica,  XXXV,  nn»  49  e  50)  e  di  L.  Savino 
{Di  alcuni  trattati  e  trattatisti  d'amore  ital.  nella  prima  metà  del  sec.  XVI,  nel  voi.  IX 
degli  Studi  di  letteratura  italiana). 

(2)  Me  ne  sono  recentemente  occupato  in  questo  Giornale,  LXII,  42  sgg. 


222  BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

geva  la  mano  a  Tullia  d'Aragona,  mentr'ella  componeva  il  dialogo.  S' è  pen- 
sato al  Varchi  ;  e  qualcuno  ha  detto  ch'egli  fu  semplicemente  revisore  dell'o- 
pera della  cortigiana,  altri  invece  affermò  che  a  lui  va  attribuita  senz'altro 
la  composizione  di  essa.  Lo  Z.  giustamente  esclude,  con  i  più,  questa  seconda 
opinione,  e  s'attiene  alla  prima.  Quelle  donne  si  facevano  pagar  in  questo 
modo  dai  letterati  amici;  e  m.  Benedetto  Varchi,  da  quel  dotto  trattatista 
addestrato  alle  sottigliezze  dialettiche  ch'egli  era,  non  si  rifiutò  certo  di  pa- 
gare con  quell'aiuto  di  parole  ed  opera  d'inchiostro  i  favori  della  Tullia. 
E  non  senza  probabilità  lo  Z.  mostra  di  sospettare  che  anche  il  Muzio,  di 
cui  son  famosi  gli  amori  con  la  leggiadra  signora,  abbia  avuto  la  sua  parte 
di  lavoro  nella  revisione  finale  della  Infinità  d^amore. 

La  Leotwra  del  Betussi  ci  trasporta  in  mezzo  alle  conversazioni  aristocra- 
tiche, rappresentandoci  una  riunione  di  gentiluomini  e  d'uomini  colti  attorno 
ad  una  cortese  dama  piemontese  della  metà  del  Cinquecento,  Leonora  Fal- 
letti  signora  di  Villafalletto  e  di  Melazzo,  che  scrisse  poesie  ed  ebbe  rela- 
zione con  non  pochi  letterati  del  suo  tempo. 

Ma  il  miglior  pregio  del  volume  dello  Z.  è  forse  quello  di  rivelarci,  si  può 
dire,  uno  scapigliato  scrittore,  pieno  d'arguzia  e  di  vivacità,  penetrantissimo 
conoscitore  del  cuore  femminile  e  del  costume  di  quel  secolo,  nell'autore,  fin 
qui  pressoché  ignoto,  dello  Specchio  d'amore,  che  non  a  torto  lo  Z.  proclama 
«  la  più  bella  arte  d'amore  »  del  500,  dopo  la  Raffaella  del  Piccolomini.  Dello 
Specchio  lo  Z.  conobbe  solo  un  esemplare  della  rarissima  edizione  del  Doni 
(Firenze,  1547)  ;  ma  lo  colpì  il  fatto  che  due  lettere  che  vi  si  accompagnano, 
una  dell'autore,  l'altra  del  Doni,  recano  rispettivamente  le  date  del  1542 
e  1543  :  e  ne  dedusse  che  la  composizione  del  dialogo  «  è  di  qualche  anno 
anteriore  alla  data  di  stampa  ».  Gli  sfuggirono  alcune  utili  ricerche  intorno 
al  Gottifredi,  di  uno  studioso  piacentino,  il  Cerri  (1),  il  quale  ci  fa  sapere 
che  l'edizione  del  1547  fu  la  ristampa  di  una  precedente  edizione  piacentina, 
forse  del  1543,  di  cui  finora  non  si  conosce  se  non  un  esemplare  mutilo,  di 
proprietà  privata.  Poiché  le  interessanti  notizie  raccolte  dal  Cerri,  non  molto 
accessibili,  sono  ancora  incomplete,  e  con  esse  non  è  detta  l'ultima  parola 
intorno  a  questa  curiosa  figura  di  scrittore  cinquecentesco,  ritengo  utile  rias- 
sumerne e  discuterne  le  risultanze,  aggiungendo  ad  esse  il  frutto  di  alcune 
mie  ricerche,  ed  augurandomi,  come  fa  lo  Z.,  che  qualche  studioso,  il  quale  ne 
abbia  agio,  con  nuove  indagini  negli  archivi  piacentini  e  parmensi,  dove  deb- 
bono del  Gottifredi,  che  fu  al  servizio  di  P.  L.  Farnese,  restare  documenti,  ne 
tratteggi  la  vita  e  prenda  in  esame  la  sua  non  abbondante  ma  significativa 
opera  letteraria.  Il  Cerri  dice  che  il  Gottifredi  fu  «  di  famiglia  distintissinìa  e 
«  antica  »  e,  avendo  trovato  che  nel  1531  fu  abilitato  all'esercizio  del  notariato, 


(1)  L.  Ckrbi,  Bartolomeo  Gottifredi  e  il  suo  *  Specchio  d'amore  »  (nella  Strenna  pia- 
centina, 1900,  Piacenza,  tip.  F.  Solari  di  G.  Tononi,  pp.  91-106).  Ha  richiamato  l'at- 
tenzione su  questo  breve  studio  P.  L(orenzetti)  in  un  cenno  sul  voi.  dello  Z.  nella 
Rassegna  bibliografica  del  Flamini,  XXI  (N.  S.,  Ili),  pp.  166  sgg.  Vedi  anche  il  breve 
cenno  di  S.  Fermi  (nel  Boll.  stor.  piacentino,  Vili,  pp.  237  sg.). 


BOLLETTINO    BIBLIOGKAFICO  223 

giudicò  che  fosse  nato  nei  primi  anni  del  secolo  XVI.  Fu  amico  di  Lodovico 
Domenichi,  che  lo  introdusse  a  parlare  nel  dialogo  DeìVamor  fraterno  e  lo 
lodò  nel  dialogo  Delle  imprese:  e  appartenne  all'accademia  piacentina  degli 
Ortolani,  spensierata  brigata  a  cui  presiedeva  il  Doni.  Di  lui  alcune  raccolte 
cinquecentesche  ci  conservarono  delle  rime  non  prive  di  grazia,  e  da  due 
sonetti,  in  cui  il  Gottifredi  dice  di  aver  solcato  il  mare  di  Provenza,  il  Pog- 
giali (1)  desunse  che  egli  esercitasse  la  milizia,  oltreché  in  Provenza,  anche 
in  Ungheria,  dove  ci  risulta  da  altre  testimonianze  ch'egli  si  era  recato.  Il 
Cerri  mise  in  dubbio  la  vita  militare  del  Gottifredi:  e  veramente  non  oc- 
corre pensare  ad  essa  per  ispiegare  quei  viaggi  del  piacentino  all'estero;  ma 
come  interpretare  quei  due  versi,  in  cui  il  Gottifredi  dice  di  trovarsi  «  Tra 
«  ferri  et  armi  et  bellici  furori  Che  '1  miser  Provenzal  tengono  oppresso  ^  ? 
Il  Poggiali  conobbe  anche  due  lettere  del  Gottifredi  (2)  ;  e  tenne  pure  conto 
d'una  lettera  del  Doni,  del  1543,  in  cui  parlando  del  Gottifredi  tornato  a 
Piacenza,  si  accenna  a  La  Candida,  che  il  piacentino  aveva  allora  «  accomo- 
dato »,  «  et  fattogli  giunta  »  (3).  Il  Poggiali  non  pensò  che  quest'opera  fosse 
una  cosa  sola  con  lo  Specchio  d'amore,  e  intorno  a  questo  riferì  la  notizia  che 
il  Doni  ne  diede  nella  prima  Libreria  (Venezia,  Giolito,  1550,  e.  12 è):  «  Chi 
«  si  diletta  di  leggere  cose  amorose,  che  sieno  non  meno  argute  che  piacevoli, 
«  legga  un  dialogo  dottissimo  e  pien  di  leggiadria  et  d'inventione  del  Got- 
«  tifredi,  uscito  fuori  sotto  il  nome  suo  et  del  Cipolla  Accademico  Hortolano, 
«  che  egli  vedrà  veramente  una  cosa  bellissima  :  Il  titolo  del  dialogo  è 
«  Specchio  d'amore  ».  Nella  Seconda  Libreria  poi  (Venezia,  Marcolini,  1555, 
p.  41)  il  Doni  cita  un'altra  opera  del  suo  amico  piacentino:  Dell'amor  santo 
delle  monache,  che  designa  anche  con  altro  titolo  :  Il  Cipolla  tratta  dell'amor 
santo  delle  monache  e  della  destrezza  di  tutte  le  azioni  loro,  e  che  era  un  altro 
dialogo.  Di  questa  seconda  opera  del  Gottifredi  la  composizione  è  certo  ante- 
riore alla  metà  del  1543.  Infatti  il  Betussi  nel  suo  Dialogo  amoroso  (Venezia, 
1543,  p.  20  sg.)  fa  dire  dal  Sansovino,  uno  degli  interlocutori,  a  Francesca 
Baffa:  «  Sapete  chi  ha  ragionato  benissimo  d'amore  e  ve  ne  ha  fatto  due 
«  dottissimi  dialoghi?  Un  m.  Bartholomeo  Gottifredi  piacentino  »:  e  loda  que- 
st'ultimo e  il  Domenichi,  meravigliandosi  che  stiano  a  Piacenza  e  non  cer- 
chino lor  ventura  altrove  ;  al  che  la  Baffa  :  «  Che  volete  ?  Uno  [il  Gottifredi] 
«  è  legato  dall'amore  della  moglie  »;  il  Domenichi  è  obbligato  a  studiar  leggi 


(1)  C.  Poggiali,  Memorie  per  la  storia  letter.  di  Piacenza,  I,  pp.  290-3. 

(2)  Esse  furono  edite  dapprima  nel  Nuovo  libro  di  lettere,  Venezia,  1545,  pp.  145  e  151. 

(3)  Questa  lettera  del  poligrafo  fiorentino  si  trova  tra  le  Lettere  di  M.  A.  F.  Doki, 
Libro  primo,  Venezia,  Scotto,  1545,  o.  CXXIII  sgg.,  con  la  data  di  Piacenza  24  no- 
vembre 1544  ;  ma  per  gli  accenni  che  contiene  al  ritori^  del  Gottifredi  dall'Ungheria, 
e  alla  lettera  «  della  chiave  »  diretta  dal  Doni  al  Gottifredi  (in  data  3  dio.  1548  ; 
V.  Lettere  cit.,  o.  LXXXIV  sgg.)  la  data  va  corretta  in  1543,  come  hanno  fatto  il 
Poggiali  e  il  Cerri.  In  altra  sua  lettera  da  Piacenza,  21  ott.  1543,  al  Sansovino  {ivi, 
e.  LXII  8g.),  il  Doni  non  parla  del  Gottifredi,  che  dovette  adunque  tornare  a  Pia- 
cenza tra  la  fine  d'ottobre  e  la  prima  metà  di  novembre. 


224  BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

dal  padre.  E  lo  stesso  Betussi  nel  Baverta  indicò  anche  i  nomi  di  due  in- 
terlocutori delVAmore  santo  (1),  che  il  Poggiali  ritenne   una  cosa   sola  con 

10  Specchio  d'amore,  nonostante  la  testimonianza  esplicita  del  Dialogo  amo- 
roso betussiano.  H  Doni  poi,  in  una  lettera  da  Piacenza  (3  giugno  1543),  ci 
dice  che  gli  accademici  Ortolani  di  quella  città  hanno  già  scritto  non  poche 
opere,  e  cita,  fra  l'altre ,  sei  commedie  e  «  un  libro  àelVAmor  santo  delle 
monache  »  (2). 

Quanto  allo  Specchio  d'amore  esso  ebbe  una  prima  stampa,  come  sappiamo 
dal  Cerri,  forse  a  Piacenza;  l'esemplare,  ch'egli  ne  ha  veduto,  manca  del 
frontispizio,  d'una  carta  nel  mezzo  e  dell'ultimo  quinterno:  non  si  sa  quindi 
con  precisione  né  dove  né  quando  venne  in  luce  ;  ma  il  Cerri  suppose  che  il 
dialogo,  poiché  oltre  la  dedica  alla  «  virtuosa  giovane  la  signora  Candida  » 
ne  ha  un'altra   a   Sforza   Sforza,  conte   di  Borgonovo,   in  data   di  Piacenza 

11  settembre  1542,  fosse  stampato  nel  1543.  Potrebbe,  veramente,  data  la  de- 
dica, esser  venuto  in  luce  alla  fine  del  1542.  Ma  il  Doni  in  una  sua  lettera  al 
Domenichi  (Piacenza,  9  settembre  1545),  dopo  aver  detto  all'amico  di  esser 
sulle  mosse  per  andar  a  Firenze,  prosegue:  «  tornerò  fra  diece  giorni  et  farò 
«  stampare  il  vostro  Cencio,  lo  Specchio  del  Gottofredi  et  un  altro  di  M.  Hor- 
«  tensio  dialogo  del  maritarsi  »  (3).  Nell'ottobre  e  novembre  successivi  ci 
risulta  che  il  Doni  era  a  Firenze.  Come  dunque  conciliare  queste  testimo- 
nianze ?  Stando  alle  notizie  dateci  dal  Cerri,  i  due  esemplari  dello  Specchio 
sono  di  edizione  diversa;  e  secondo  me  la  data  della  dedica  allo  Sforza  é 
anche  la  data  della  prima  edizione  del  dialogo.  Il  quale  nella  prima  edizione 
dovrebbe  esser  più  breve,  perchè  il  Doni  in  una  sua  lettera  già  citata  dice 
che  il  Gottifredi,  tornato  d'Ungheria  (a  mezzo  l'autunno  del  1543)  gli  aveva 
fatto  una  «  giunta  »  (4).  Con  questa  giunta  si  propose  di  stamparlo  il  Doni, 
e  poi  dovette  via  via  differire  la  cosa,  non  solo  fino  al  1545,  ma  fino  al  1547, 
quando  nella  sua  tipografia  fiorentina  lo  Specchio  ebbe  la  2*  edizione  con  la 
lettera  sulla  chiave  del  Doni  e  con  la  risposta  ad  essa  del  Gottifredi. 

Mi  giova  aggiunger  qualcosa    sulle  relazioni    letterarie  del  Gottifredi.  Di 


(1)  Nel  Raverta  (in  Trattati  d'amore,  ediz.  Zonta,  p.  78),  parlandosi  della  perseve- 
ranza come  principal  dote  e  prova  d'amore ,  il  Domenichi  afferma:  «...  dico  ciò 
«  essere  la  principale,  tutto  che  gran  segno  d'essere  amata,  disse  la  Corona  nel- 
«  l'Amor  aanto,  dialogo  del  mio  gentilissimo  ed  ingegnosissimo  Gottifredi,  e  per  lo 
«  quale  si  possa  esser  secura  dell'amor  dell'amante,  sia  ch'egli,  con  qualunque 
€  persona  e  qualsivoglia  loco,  favelli  dell'amata.  Benché  lungo  sarebbe  a  racoon- 
«  tare  ciò  che  all'incontro  le  rispose  il  buon  Pedrione,  dandole  a  vedere  che  cosi 
«si  può  favellare  di  persona  che  s'odia,  come  che  s'ama:  e  molte  altre  cose». 

(2)  Doni,  Lettere  cit.,  e.  XXXVIII  a.  Del  Doni  al  Gottifredi,  oltre  la  lettera  sulla 
Chiave,  ne  abbiamo  una  da  Piacenza  3  ott.  1548  (e.  LVIII  sgg.)  e  un'altra  da  Ve- 
nezia 19  aprile  1544  (e.  CXVIII  sg.).  In  principio  della  lettera  della  Chiave  si  fa 
una  breve  citazione*  dall'amor  santo.  Sugli  accademici  piacentini,  v.  L.  Ckrhi,  L'ac- 
cademia degli  Ortolani,  Piacenza,  1893. 

(8)  Doni,  Lettere  cit.,  e.  CXXXVI  6. 

(4)  Questa  «  giunta  »  potrebb'essere  la  seconda  parte  del  dialogo,  assai  più  breve 
della  prima,  che  può  stare  anche  senza  di  essa. 


BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO  225 

ritorno  dall'Ungheria  egli  s'era  fermato  a  Venezia  e  vi  aveva  stretto  amicizie. 
Ebbe  poi  occasione  di  recarvisi  nei  primi  mesi  del  1544,  come  ci  apprende 
una  sua  lettera  al  bassanese  Alessandro  Campesano  (1).  Delle  sue  relazioni 
veneziane  ci  dà  anche  notizie  interessanti  una  lettera  del  Parabosco  (da  Pia- 
cenza, s.  d.,  ma  forse  del  1543)  «  Alla  gentilissima  et  bellissima  M.  Hippolita 
Bracca  »,  trascurata  da  chi  trattò  del  Gottifredi  (2):  «  Il  virtuosissimo  m.  Bar- 
«  tholomeo  G.,  il  quale  faceste  degno  della  vostra  vista,  quando  m.  Pietro 
«  [l'Aretino  ?]  a  casa  V.  S.  seco  il  condusse,  vi  restò  tanto  servitore  che...  egli 
«  qui  in  Piacenza  vi  celebra,  vi  canta,  vi  depinge  et  (se  tanto  lice)  v'adora... 
«  Egli  dice  che  ogni  vostro  atto,  ogni  vostra  parola  è  il  centro  del  foco  d'a- 
«  more,  et  che  voi  portate  esso  Amore  negli  occhi  ».  B  Parabosco  continua  a 
far  complimenti  a  questa  gentile  signora,  «  d'ogni  cuore  triomphatrice  »,  a 
cui  manda  anche  un  sonetto  da  lui  fatto  in  lode  degli  occhi  di  lei.  B  «  Bar- 
«  tholomeo  G.  »  piacentino,  di  cui  parla  il  Parabosco,  io  ritengo  probabile 
che  fosse  appunto  il  Gottifredi. 

Serve  a  delineare  il  carattere  del  Gottifredi  la  lettera  ch'egli  scrisse  al 
Domenichi  da  Piacenza,  il  20  aprile  1544  (3).  Comincia  con  lamentarsi  che 
anche  il  Doni  stia  per  allontanarsi  da  Piacenza:  «  Io  prometto  a  Dio  et  a 
«  voi,  che  s'io  ebbi  mai  animo  di  stare  nella  patria,  come  ch'io  n'avessi 
«  sempre  poco  desio,  ora  in  tutto  me  n'è  fuggita  la  voglia:  e  quando  onesto 
«  freno  non  mi  tenesse  [cioè,  credo,  Vaver  preso  moglie],  io  ne  torrei  per 
«  qualche  anno  essilio  volontario,  che  dalla  partenza  di  voi  due  non  mi  pare 
«  di  esser  vivo  ».  Prega  l'amico  di  mandargli  le  cose  che  egli  e  il  Doni  hanno 
stampato  o  sono  per  istampare,  indi  prosegue  :  «  Io  vi  giuro...  che  del  ritorno 
«  mio  d'Ungheria  fin  qui,  che  sono  passati  oggimai  cinque  mesi,  io  non  ho 
«  mai  tocco  penna  per  comporre,  salvo  da  due  o  tre  volte  stimolato,  non  per 
«  mio  volere:  e  molto  meno  credo  fare  per  l'avvenire;  conciosia  che  io  sono 
«  di  natura,  e  voi  ben  mi  conoscete,  che  se  da  alcuno  non  sono  punto,  da  me 
«  stesso  nulla  faccio  giamai,  se  non  a  lune...  Qualora  io  piglio  la  penna  per 
«  dettare  qualche  mio  concetto,  mi  par  di  pigliare  una  antenna  in  mano  ». 
Così  si  diletta  a  leggere,  specialmente  le  cose  degli  amici  come  il  Doni  e 
il  Domenichi,  al  quale  commette  di  salutare  gli  altri  suoi  conoscenti  di 
Venezia.  Questo  suo  carattere  e  le  contingenze  della  vita  tolsero  forse  al 
Gottifredi  di  acquistare  maggior  fama  letteraria:  accasatosi  ed  entrato  nella 
segreteria  farnesiana,  diede  un  addio  all'arte  dello  scrivere,  per  cui  aveva 
singolari  attitudini,  come  dimostra  questo  briosissimo  dialogo  dello  Specchio 
d'amore,  che  prende  per  la  ristampa  dello  Z.  il  posto  che  gli  spetta  tra  le 
migliori  opere  della  scapigliatura  cinquecentesca.  Di  esso  sono  interlocutrici 
una  giovanotta  di  nome  Maddalena  e  una  domestica  corruttrice,  Coppina; 
pei  consigli  e  ammaestramenti  della  quale  Maddalena  si  lascia  amare  e  con- 


(1)  B.  Pino,  Nuova  scelta  di  lettere,  2»  ediz.,  Venezia,  1582,  II,  pp.  362  sg. 

(2)  Gì.  Parabosco,  H  primo  libro  delle  lettere  famigliari,  Venezia,  Griffio,  1651,  o.  42. 
(8)  Cito  dalla  Nuova  scelta  del  Pino,  ediz.  cit.,  II,  pp.  158-160. 

Giornale  storico,  LXIV,  fase.  190-191.  15 


226  BOLLETTINO    BIBLIOGBAFICO 

quistare  da  un  giovane  di  nome  Fortunio,  che  la  canta  in  versi  col  nome  di 
«  Candida  »,  e  sé  designa  con  lo  pseudonimo  «  Bargo  »,  formato  dalle  due 
sillabe  iniziali  del  nome  e  cognome  del  Gottifredi  (1).  A.  Sa. 


LUDWIG  MATHAR.  —  Carlo  Goldoni  auf  dem  deutschen 
Theater  des  XVIIl  Jahrhunderts.  —  Montjoie,  Weiss,  1910 
(8^  pp.  xiv-218). 

H.  C.  CHATFIELD-TAYLOR.  —  Goldoni,  a  Uography.  — 
New  York,  Duffield  and  Co.,  1913  (8"  gr.,  pp.  xviii-696). 

GIOVANNI  ZICCARDI.  —  Intorno  al  «  Torquato  Tasso  »  di 
Carlo  Goldoni.  Estr.  dal  voi.  XI  degli  Studi  di  letteratura 
italiana.  —  Arpino,  tip.  Arplnate,  1913  (8°,  pp.  60). 

Il  percorrere  il  volume  suntuoso  e  per  tanti  lati  encomiabile  che  d'oltre- 
oceano mi  fece  pervenire  lo  Chatfield-Taylor  ravvivò  in  me  il  rincrescimento 
che  questo  Giornale  non  si  fosse  mai  occupato  del  libro  del  Mathar  sul  Gol- 
doni in  Germania,  che  pure  reca  una  contribuzione  non  indiiferente  di  ri- 
cerche nuove  (2).  Veramente,  se  non  me  ne  sono  occupato,  la  colpa  non  è  tutta 
mia  ;  il  volume  né  mi  fu  favorito  né  è  facilissimo  a  trovarsi.  Anche  oggi,  se 
volli  vederlo,  mi  fu  mestieri  ricorrere  alla  cortesia  d'un  valoroso  specialista 
di  cose  goldoniane.  Ma  sebbene  in  così  grande  ritardo,  non  ritengo  inutile 
neppur  ora  il  dirne  qualcosa. 

Non  era  il  soggetto  del  tutto  vergine,  a  dir  vero,  sebbene  il  M.  non  si  curi 
troppo  di  menzionare  i  propri  predecessori.  Più  d'uno  aveva  toccato  della  for- 
tuna fra  le  genti  teutoniche  d'uno  o  d'un  altro  componimento  goldoniano; 
massime  quel  dotto  e  fecondo  quanto  modesto  goldonista  che  è  il  Maddalena, 
al  quale,  tra  l'altro,  deve  questo  stesso  Giornale  (voi.  XLVII)  un  buon  arti- 
colo su  Lessing  e  Goldoni.  A  più  d'uno  era  accaduto  di  scrutare  le  somi- 
glianze e  dissomiglianze  tra  il  Torquato  Tasso  del  Goldoni  e  quello  del  Goethe, 
indagando  se  fossero  analogie  occasionali,   ovvero   dipendenze  dirette  (3).  Ma 


(1)  Candida,  secondo  il  Poggiali,  si  chiamò  la  moglie  del  Gottifredi,  ricordata 
con  lode  dal  Domenichi  nella  sua  Nobiltà  delle  donne  (Venezia,  Giolito,  1651,  p.  264). 
Le  nozze  con  Candida  son  messe  in  dubbio  dal  Cerri.  Una  lettera  del  Domenichi 
al  Gottifredi  (Firenze,  16  settembre  1648)  è  in  fine  alla  Nobiltà  delle  donne  (Venezia, 
Giolito,  1649). 

(2)  In  Germania  se  ne  occuparono  il  Wiese  nella  Deutsche  Literaturzeitung  del 
22  luglio  1911  ed  il  Suloer-Gebino  nélV Archiv  fUr  das  Studium  der  neueren  Sprachen 
del  febbraio  1912. 

(8)  Il  Maddalena,  nella  nota  storica  alla  più  recente  ristampa  del  Tasso  goldo- 
niano, quella  che  si  legge  nel  voi.  XI  (1911)   delle  Opere  complete,   ediz.  veneziana 


BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO  227 

il  lavoro  del  M.  è  altra  cosa.  Per  questa  sua  veramente  osservabile  e  volumi- 
nosa tesi  di  laurea  egli  ha  esplorato  varie  biblioteche  germaniche  ed  i  pre- 
ziosi depositi  del  Museo  Britannico  ed  ha  potuto  -dare  ragguaglio  delle  nu- 
merose traduzioni,  delle  imitazioni,  delle  deformazioni,  dei  rimaneggiamenti 
che  le  commedie  del  nostro  massimo  commediografo  s'ebbero  nei  paesi  di 
lingua  tedesca,  prima  in  Vienna  e  poi  altrove.  Ha  scovato  cartelloni  di  teatro  ; 
ha  letto  le  critiche  uscite  nei  giornali  tedeschi  contemporanei.  Ne  venne  la  con- 
statazione che  la  prima  commedia  goldoniana,  ridotta  per  le  scene  viennesi 
nel  1753  per  opera  di  Federico  Guglielmo  Weisker,  fu  II  raggiratore  (1)  ] 
successero  I  due  gemelli,  La  vedova  scaltra,  le  varie  incarnazioni  di  Pa- 
mela, L'' avvocato  veneziano,  La  sposa  persiana,  Il  cavaliere  e  la  dama.  La 
moglie  saggia,  La  dama  prudente.  Gli  innamorati,  La  fìnta  ammalata.  La 
guerra.  La  serva  amorosa,  La  donna  vendicativa,  Il  teatro  comico,  La  fa- 
miglia deir antiquario,  L'adulatore,  Le  donne  curiose.  L'avventuriere  ono- 
rato, Il  burbero  benefico.  Un  curioso  accidente.  La  donna  di  garbo.  Il  ser- 
vitore di  due  padroni,  TI  giuocatore,  ecc.  ecc.  Nel  secolo  XIX  s'ebbero  altre 
versioni  e  riduzioni,  di  cui  il  M.  non  si  occupa.  Si  tratta  quasi  sempre  di 
«  bearbeitungen  »  punto  artistiche,  nelle   quali  le  opere  primitive  perdevano 


in  corso,  dà  meglio  d'ogni  altro  la  bibliografia  del  soggetto.  Lo  Ziccardi ,  nel  di- 
noccolato e  tanto  discutibile  lavoro  inscritto  in  testa  al  presente  cenno  bibliogra- 
fico, esclude  (p.  60  n.)  ogni  rapporto  tra  i  due  drammi.  Ripete  egli  pure,  e  di  ciò 
l'appiglio  è  nei  Mémoires,  ohe  uno  dei  moventi  a  compiere  quel  dramma  fu  pel 
Goldoni  la  situazione  sua  di  fronte  ai  Cruscanti  non  molto  diversa  da  quella  del 
Tasso  (cosi  anche  il  Dutsohke  ;  cfr.  Giorn.,  XV,  329),  ma  aggiunge  una  analogia 
nuova  e  singolare  tra  i  due  autori,  la  «  costituzione  nevropatica  »  eh'  ebbero  co- 
mune !  Sissignori;  non  c'è  da  ridere.  Il  Goldoni,  non  meno  del  Tasso,  aveva  una 
dozzina  di  malattie  addosso.  E  lo  Ziccardi  ce  le  enumera.  E  poi  v'erano  anche  altre 
somiglianze:  «Come  al  Tasso  si  era  contrapposto  l'Ariosto,  cosi  a  lui,  Goldoni,  si 
«contrapponeva  il  Chiari;  come  per  la  lingua  quello  era  stato  maltrattato  dai 
«  Cruscanti,  cosi  egli  era  dileggiato  dai  Granelleschi  ;  come  quello  aveva  dato  al- 
«  l'Italia  un  grande  poema,  cosi  egli  le  dava  la  buona  commedia;  in  tutti  e  due 
«  gli  assalti  melanconici,  talora  le  debolezze  mentali ,  le  subite  esaltazioni  e  i  ra- 
«  pidi  abbattimenti;  e  l'uno  e  l'altro  grandi,  buoni  e  infelici»  (p.  41).  Pare  di  sen- 
tire A.  De  Gubernatis,  bu.on'anima  !  Il  Goldoni  al  suo  Tasso  ci  teneva  e  chiudendo 
il  cap.  32  della  P.  II  dei  Mémoires  scriveva  :  «  Cette  pièce  eut  un  succès  si  general 
«  et  si  Constant,  qu'elle  fut  placée  par  la  voix  publique  dans  le  rang,  je  ne  dirai 
«  pas  des  meilleures,  mais  des  plus  heureuses  de  mes  productions  ».  Lo  Z.,  invece, 
è  di  tutt'altro  parere  e  sentenzia  :  «  Il  Goldoni  stesso  dice  che  gli  costò  fatica  la 
«figura  del  Tasso,  e  questa  .confessione  è  la  maggiore  condanna,  della  commedia; 
«  perchè  se  il  nòcciolo  d'essa  è  in  Torquato,  la  fatica  nel  rappresentarlo  attesta  da 
«  sola  la  mancanza  di  visione.  Al  posto  di  questa,  che  non  è  sostituibile,  molto  altro 
«  si  studiò  di  porre,  dando  fuoco  a  tutte  le  polveri*  stile  alto,  mezzano  e  scurrile; 
«  lingua  italiana,  gergo  cruschevole,  dialetto  veneziano  e  dialetto  napoletano  ;  in- 
«  treccio,  caratteri  ecc.  ;  ma  riuscì  solo  a  produrre  una  complessità  mostruosa  » 
(p.  59).  E  basta. 

(1)  Der  Leutansetzer.  Il  M.  prese  equivoco  credendo  si  trattasse  non  del  Raggira- 
tore, ma  diéiV Impostore  goldoniano.  Il  Maddalena  avverti  l'errore  nelle  note  al  Ra^^ 
giratore  del  Xm  voi.  dell' ediz.  veneziana  in  corso  delle  Opere  del  Goldoni. 


228  BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

tutto  il  loro  sapore;  e  all'infuori  di  poche  eccezioni,  i  traduttori,  o  meglio 
rimaneggiatori,  eran  gente  mediocre  assai  e  talora  meno  che  mediocre,  a  cui 
stava  più  a  cuore  l'effetto  scenico  che  la  dignità  e  l'interesse  dell'arte.  È  un 
grande  ammasso  di  riferimenti  quello  che  il  M.  ci  offre,  nel  quale  chi  si  rac- 
capezza è  hravo.  Difficilmente  può  immaginarsi  un  lavoro  più  confuso  di 
questo, 'ove  son  pure  tante  notizie.  V'è  un  grande  arruffio  di  nomi  e  di  cose; 
v'è  quell'andatura  impacciata,  pesante,  poco  perspicua  che  si  rimprovera  non  a 
torto  a  tanti  lavori  di  eruditi  tedeschi.  Non  è  la  poca  chiarezza  di  chi  dice 
cose  profonde  ;  ma  è  quella  di  chi  non  sa  disciplinare  la  materia  che  ha  tra 
mano,  disponendola  in  modo  razionale,  dando  il  debito  rilievo  a  ciò  che  più 
importa,  lasciando  il  resto  nella  penombra.  Tuttavia  a  questo  libro  ogni  stu- 
dioso della  grande,  fra  noi  non  imaginata,  diffusione  ch'ebbero  in  Germania 
le  commedie  del  Goldoni,  dovrà  per  forza  rifarsi,  sottoponendosi  alla  fatica 
ingrata  di  metter  da  sé  un  po'  d'ordine  in  questa  congerie. 

Nel  recente,  bel  volume  dello  Chatfield-Taylor  abbiamo  proprio  il  rovescio 
della  medaglia:  novità  poche,  ma  ordine  molto,  chiarezza  molta,  eleganza 
molta.  Intendiamoci,  peraltro.  Novità  poche  per  i  cultori  di  cose  goldoniane; 
non  certo  pel  pubblico  colto  e  massime  pel  pubblico  colto  straniero,  a  cui  il 
volume  si  rivolge.  Giacché  non  é  da  confondere  questo  volume  (è  giusto  pro- 
clamarlo altamente)  con  qaei  molti  altri,  simili  per  eleganza  ma  non  per  so- 
stanza, che  ci  piovono  così  di  frequente  dai  paesi  di  lingua  inglese:  pure  e 
semplici  compilazioni,  infiorate  di  qualche  erroruzzo,  se  non  contaminate  da 
molti  erroracci  ed  equivoci  ;  lavori  commerciali  bellamente  legati  in  tutta  tela, 
con  gran  lusso  di  fregi  d'oro,  da  cui,  spremi  spremi,  ricavi  ben  poco  succo, 
che  non  sia  succo  d'altre  piante,  abilmente  sfruttato.  No.  Il  libro  del  Ch. -Taylor 
é  cosa  diversa. 

Viaggiatore,  romanziere,  giornalista  di  Chicago,  egli  sa  lavorare  non  da 
romanziere  e  non  da  giornalista,  quando  si  mette  attorno  ad  un  soggetto 
storico.  Lo  aveva  già  dimostrato  in  un  libro  sul  Molière,  che  uscì  nel  1906; 
ora  ancor  meglio  lo  dimostra  in  questa  piacevole  e  solida  monografia  sul  Gol- 
doni, eh'  è  il  primo  libro  d' insieme  ch'esca  in  inglese  sul  commediografo 
nostro  (1).  Volume  coscienzioso  ;  fatto  con  istudio  diretto  dei  testi,  dei  luoghi, 
dell'autore,  della  storia  del  tempo;  vivace  nella  esposizione;  assestato  nei 
giudizi;  diretto  da  un  intuito  non  comune  del  valore  dell'arte  comica.  Chi 
scrive  non  è  in  grado  di  valutare  con  sicurezza  il  colorito  dei  molti  brani  di 
commedie  che  lo  Ch.-T.  dà  tradotti  in  inglese  ;  ma  pur  gli  sembra  che  nelle 


(1)  A  pp.  xii-xiii  della  prefazione  l'A.  accenna  al  non  molto  che  nei  paesi  di  lingua 
inglese  s'è  scritto  del  Goldoni.  Per  particolari  su  questo  punto  vedasi  la  biblio- 
grafia a  pp.  633-37.  Da  una  nota  di  p.  611  sembra  si  debba  desumere  che  sulla  scena 
americana  la  commedia  del  Goldoni  che  ottenne  maggiori  successi  fu  11  ventaylio. 
Nel  1912  si  tentò  di  rappresentare  a  Chicago  il  Don  Marzio  a  la  bottega  del  caffè; 
ma  il  pubblico  ci  si  annoiò  (p.  285)  ed  era  troppo  naturale  ohe  ciò  avvenisse.  Si 
pensi  ohe  appena  fra  noi  una  piccola  parte  del  teatro  goldoniano  riesce  ancora  a 
vivere  nella  recitazione,  quando  trova  interpreti  degni. 


BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO  229 

versioni  sia  spigliato  come  è  felice  nella  scelta  delle  scene  che  dà  tradotte 
e  arguto  in  molte  osservazioni  sui  caratteri  e  sulla  impostatura  comica.  Né 
fu  certo  piccol  coraggio  quello  di  tradurre  scene  dialettali;  né  a  noi  può  se 
non  far  piacere  la  simpatia  verso  il  soggetto  e  verso  l'Italia  che  da  tutto  il 
libro  traspira,  così  diverso  in  questo  dall'atteggiamento  quasi  ostile  del  Eabany. 

In  questo  Giornale,  61,  125  sgg.,  a  proposito  delle  lezioni  del  De  Guber- 
natis  sul  Goldoni,  accennai  al  bisogno  che  si  sentirebbe  d'un  libro  compren- 
sivo ed  approfondito  su  questo  bellissimo  tema  ed  al  non  molto  che  v'é  di 
fatto  al  riguardo.  Ora,  certamente,  l'opera  dello  Ch.-T.  é  troppo  diretta  alla 
divulgazione  fra  stranieri  per  corrispondere  in  tutto  ai  desideri  degli  studiosi 
d'Italia;  ma  stimo  di  non  errare  asserendo  ch'essa  é  tuttavia  il  migliore  fra 
i  libri  d'insieme  che  sul  gran  padre  della  commedia  italiana  finor  si  posseg- 
gano. Credo  che  di  questa  lode,  schiettamente  tributatagli,  lo  Ch.-T.  debba 
essere  soddisfatto. 

Acconciamente  illustrato  con  le  riproduzioni  di  16  quadri  e  ritratti  di 
Pietro  e  di  Alessandro  Longhi,  poggia  l'edificio  dello  Ch.-T.  sulle  salde  co- 
lonne di  17  capitoli  bene  costrutti  e  disposti.  Come  appare  dalla  divisione 
accennata  dall' A.  stesso  a  p.  124,  l'attività  del  commediografo  vien  divisa  in 
tre  fasi:  il  periodo  delle  prime  prove,  in  principio,  il  periodo  dell'esilio  in 
Francia,  alla  fine  ;  in  mezzo  la  gran  fecondità  che  va  dal  ritorno  a  Venezia 
nel  1748  alla  partenza  per  Parigi  nel  1762,  divisa  in  commedie  dell'aristo- 
crazia, della  borghesia,  in  dialetto  veneziano,  esotiche,  in  versi;  per  ognuno 
di  questi  gruppi  un  capitolo.  Poi  un  altro  capitolo  intitolato  Goldoni  and 
Molière,  che  non  é  però  punto  destinato  a  discutere  l'ormai  vieto  quesito  se 
sia  maggiore  l'uno  o  l'altro,  intorno  a  cui  un  giovane  volonteroso  quanto 
inesperto  trovò  modo  di  scrivere,  ancora  nel  1913,  un  intero  volume.  Lo  Ch-T., 
a  ragione,  non  trova  razionale  il  confronto  e  già  a  p.  120  prende  posizione  di- 
cendo: «  for,  although  he  has  been  termed  erroneously  «  theltalian  Molière  », 
«  his  genius  is  distinct  from  that  of  the  Frenchman  » .  Nel  capitolo  summen- 
zionato osserva  invece  lo  Ch-T.  come  si  comporti  il  Goldoni  rispetto  al  Mo- 
lière, ch'egli  tanto  ammirava,  e  quali  elementi  dell'arte  molieresca  siano  per 
avventura  passati  nella  goldoniana. 

Tra  i  capitoli  riguardanti  le  opere  (che  sono  i  più  interessanti  e  quelli 
ove  è  maggiore  originalità),  s'incuneano  i  capitoli  sulla  vita,  condotti,  natu- 
ralmente, col  sussidio  prezioso  dei  Me'moires,  ma  opportunamente  integrati 
con  altre  notizie  attinte  a  diverse  fonti.  L'uomo  ne  esce  ben  caratterizzato 
nella  fiacchezza  bonaria,  nella  giovialità  franca,  nell'arguzia  tutta  veneziana 
di  quella  sua  anima  onesta. 

In  fondo  al  volume,  che  é  pure  corredato  d'un  indice  alfabetico  comodis- 
simo di  persone  e  cose,  t'imbatti  in  tre  appendici  opportune  compilate  dal 
prof.  F.  C.  L.  van  Steenderen,  con  l'aiuto  e  ^tto  la  sorveglianza  dello  Ch.-T. 
—  Appendice  A  :  elenco  delle  commedie  del  Goldoni  giusta  la  loro  cronologia, 
con  indicazioni  sulle  rappresentazioni  e  le  stampe,  nonché  sulle  fonti;  ap- 
pendice B:  cronologia  della  vita  di  Carlo  Goldoni;  appendice  C:  bibliografia 
delle  opere  di  lui  e  degli  scritti  critici  che  lo  concernono.  Quest'ultima  non 


230  BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

si  dà  per  compiuta,  raa  è  certo  assai  ricca  e  gli  scritti   principali  vi  son  re- 
gistrati (1). 

Come  può  rilevarsi  anche  da  questo  mio  annuncio  sommario,  l'opera  è  amo- 
rosamente condotta  da  uno  spirito  vigile  e  pratico.  La  praticità,  in  ispecie, 
va  lodata  siccome  quella  che  manca  tante  volte  ai  libri  nostri  e  che  rende 
invece  tanto  utili  alla  consultazione  certi  libri  stranieri.  Tra  noi  si  pensa 
troppo  poco  che  i  libri  forse  cinque  volte  su  cento  si  leggono,  mentre  novan- 
tacinque volte  su  cento  si  consultano.  Rendere  agevole  la  consultazione  è  un 
gran  beneficio.  R. 


ALBERTO  DE  VICO.  —  Per  un  parallelo  mal  fatto  (Molière 
e  Goldoni).  —  Milano,  1913  (16°,  pp.  213). 

Scopo  dell'A.  sarebbe  il  dimostrare  che  i  critici  i  quali  sostengono  l'infe- 
riorità del  Goldoni  al  Molière  (e  se  la  prende  particolarmente  con  Ferdinando 
Martini  e  Augusto  Marchetti)  hanno  letto  in  fretta,  capito  poco  oppure  si 
sono  lasciati  imporre  dalla  tradizione  critica.  «  Mettiamoli  per  lo  meno  alla 
pari  questi  due  scrittori  »  esclama  il  De  Vico,  che  è  infine  un  buon  diavolo  e 
non  vuole  questioni  in  famiglia  e  dopo  aver  sostenuto  che  il  commediografo 
veneziano  è  il  più  psicologo  ed  originale  di  tutti  i  commediografi  moderni, 
propone  una  transazione,  come  chi  dicesse  un  compromesso  internazionale; 
quanto  al  suo  parere  personale  esso  s'ispira  a  quel  puro  nazionalismo  che  forma 
la  gloria  dei  giorni  nostri! 

Il  difficile  sta  nel  provare  tale  superiorità  o  tale  eguaglianza,  poiché  la 
fisica  e  la  chimica  moderna  non  hanno  ancor  trovato  ne  bilancie,  nò  reagenti, 
per  cui  sia  possibile  la  valutazione  del  cervello  dei  pensatori.  Alle  bellissime 
scene  goldoniane,  che  l'A.  cita  spesso  con  molto  garbo,  possono  contrapporsene 
altrettante  del  teatro  molieresco  senza  che  per  questo  la  questione,  messa  in 
tali  teraiini,  avanzi  di  un  solo  passo.  Come  mai  è  possibile  comparare  la 
Locandiera,  i  Busteghi,  la  Bottega  del  caffè  e  le  famosissime  Baruffe,  con 
VEcole  des  femmes,  le  Misanthrope,  Tartufe  e  via  dicendo  e  vedere  se  più 


(1)  Fuor  di  luogo  sarebbe  il  segnalare  ommissioni  in  un  elenco  bibliografico  che 
si  presenta  solo  come  indicazione  degli  scritti  veduti  dall' A.  e  rimanda  ad  altre 
bibliografie.  Poco  spiegabile,  tuttavia,  che  sul  tema  di  Don  Giovanni  sia  notato  il 
volumetto  del  De  Simone  Brouwer  e  non  la  monografia  del  Farinelli,  e  sull'origine 
di  Arlecchino  sia  richiamato  il  vecchio  articolo  del  Wesselofsky  e  non  l'opera  fon- 
damentale del  Driesen.  Gli  ultimi  due  lavori  goldoniani  di  Attilio  Momigliano  e 
la  prefazione  del  Graf  ai  Rnsteghi  nell'ediz.  Itasi,  non  potevano  esser  noti  all'A.  per 
ragion  di  tempo.  Con  una  bibliografia  delle  edizioni  ed  una  della  critica  goldo- 
niana si  chiude  anche  il  volumetto  di  G.  B.  Pellizzaro,  La  vita  e  le  opere  di  Carle 
Goldoni,  Livorno,  Giusti,  1914,  che  è  un  buono  e  lucido  compendio,  tenuto  a  giorno 
di  tatti  gli  ultimi  risaltati. 


BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO  231 

valga  Don  Marzio  od  Alceste,  Mirandolina  od  Agnese?  Forse  si  sarebbero 
potute  riaccostare  scene  simili  e  simili  caratteri,  e  questo  ha  talvolta  fatto 
il  Maddalena  con  quella  competenza  che,  in  questo  genere  di  studi,  tutti  gli 
riconoscono,  ma  l'A.  non  volle  punto  curarsi  dell'ispirazione  che  il  Nostro  ha 
tratto  dallo  scrittore  francese  e  solo  ha  tentato  di  mettere  faccia  a  faccia  i 
due  Don  Giovanni,  senza  voler  convincersi  che  al  paragone  il  Goldoni  sfigu- 
rava parecchio  e  che  tale  paragone  nuoceva  alla  tesi  sua,  anzi  giurando  che 
il  Don  Giovanni  del  Nostro  aveva  pregi  meravigliosi  !  Chi  scende  per  questa 
china,  non  può  far  opera  efficace  di  studioso,  perchè  la  mente  del  critico  deve 
essere  spassionata,  serena,  non  fuorviata  da  sentimenti,  in  altri  casi  nobili  e 
utili,  ma  qui  assolutamente  fuori  di  posto. 

Il  De  Vico  ha  ingegno  ed  entusiasmo,  e  se  più  corretta  ne  fosse  la  stampa, 
specie  nei  riferimenti  dei  testi  francesi,  il  suo  libro  si  leggerebbe  con  diletto  ed 
anche  con  qualche  utilità;  talune  sue  osservazioni  sono  anzi  argute  ed  acute. 
Perchè  trattasi  di  un  giovane  che  offre  qualche  affidamento  di  cose  migliori, 
gioverà  notare  subito  le  mende  più  appariscenti.  La  prima  consiste  in  inge- 
nuità curiosissime.  Il  De  Vico  non  sa  trovare  libri  di  facile  consultazione  come 
la  Précaution  imitile  dello  Scarron  che  gli  piacerebbe  di  leggere,  tanto  per 
formarsi  un'idea  del  come  il  Molière  imiti  (!)  ;  poi  crede  necessario  d'avvertire 
il  lettore  che  certo  volume  del  Leynard  glielo  ha  imprestato  «  l'illustre  gre- 
cista A.  Olivieri  »;  poi  ancora,  con  ingenuità  singolare,  cita  le  opinioni  altrui 
ed  aggiunge  :  «  avrei  potuto  fare  io  stesso  tali  lodi,  (ma)  ho  preferito  citare  i 
«  giudizi  di  alcuni  critici  competenti  affinchè  l'affermazione  avesse  maggior 
«  valore  ».  Buona  cosa  è  la  modestia,  moneta  della  quale  gli  studiosi  non  fanno 
troppo  spreco,  ma  se  si  ragiona  così  è  proprio  inutile  il  far  per  proprio  conto 
gemere  i  torchi  !  Manca  di  fondamento  l'asserzione  ripetuta  dal  D.  V.,  in  molte 
pagine,  che  il  Molière  conoscesse  i  nostri  cinquecentisti  e  che  ad  essi  s'ispirasse, 
anzi  che  la  Mmidragoìa  gli  fosse  addirittura  familiare.  Ove  ne  dia  le  prove, 
i  molieristi  gliene  saranno  gratissimi.  Ben  nota  l'A.  le  condizioni  così  diverse 
in  cui  fiorirono  i  due  commediografi,  ma  perchè  prendersela  allora  col  Mo- 
lière se  questi  non  ha  staffilato  a  sangue  i  nobili  della  corte  di  Luigi  XIV  ? 
Non  sa  forse  il  De  Vico  le  molte  molestie  che  le  caricature  dei  marchesi  gli 
cagionarono,  tanto  che  uno  di  questi  osò  persino  di  mettergli  le  mani  ad- 
dosso, e  non  vede  forse  nel  personaggio  di  Don  Giovanni  la  rappresentazione 
del  «  gran  seigneur  méchant  homme  »  corrotto  e  corruttore,  egoista,  assetato 
di  piacere,  malgrado  il  coraggio  avito  e  certa  posa  d'umanitario? 

Neppure  è  esatto  l'asserire  che  la  forma  del  Molière  è  degna  di  censura 
quanto  quella  del  Goldoni  e  che  «  se  il  Molière  fu  più  colto  (del  Goldoni), 
«  ciò  non  prova  che  questo  maggior  grado  di  istruzione  contribuisse  tanto  alla 
«  sua  arte,  perchè  al  genio  basta  anche  una  mediocre  cultura  letteraria,  special- 
«  mente  quando  si  tratta  di  comporre  commedie  ».  Ma  è  appunto  questa  col- 
tura filosofica  e  classica  di  cui  il  De  V.  fa  così  buon  mercato,  che  affinando 
l'ingegno  del  poeta  francese,  l'ha  volto  allo  studio  d'alti  problemi  morali; 
non  lo  studio  forma  il  genio,  ma  a  questo  lo  studio  concede  mezzi  efficacis- 
simi. Queste  son  cose  di  cui  più  ormai  non  può  discutersi  nella  terra  del  Ga- 


232  BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

lileo,  del  Leopardi  e  del  Carducci.  E  la  critica  del  De  Vico  fa  ancora  più 
d'una  grinza  quando  accusa  il  Molière  di  non  aver  rotto  in  visiera  al  cici- 
sbeismo, come  ha  fatto  più  tardi  l'avvocato  veneziano,  mentre  si  sa  che  vero 
cicisbeismo  non  c'era  in  Francia  nel  XVII  sec,  malgrado  i  salotti  e  le  ruelles. 
C'erano  «  femmes  précieuses  »,  c'erano  «  femmes  savantes  »,  e  i  Trissotin  ei 
Vadius,  e  tutti  sanno  a  qual  salsa  sieno  stati  cucinati  dallo  scrittore  d'Oltr'Alpe. 

Per  finire  (e  molte  altre  cose  gioverebbe  aggiungere),  non  credo  col  De  Vico 
che  il  Goldoni  nel  suo  Molière  «  metta  in  bella  luce  il  grande  commediografo 
francese  ».  L'intenzione  del  Nostro  era  certo  lodevole,  ma  alterando  la  bio- 
grafia del  poeta  e  tutto  stemperando  in  un  mare  di  miele,  l'avvocato  vene- 
ziano ha  finito  col  presentarci  una  moglietta  angelica  come  la  propria  ed 
un  Tartufo  (Pirlone),  rispettoso  di  Dio  e  dei  santi,  un  po'  tinto  di  pece  an- 
cillare, ma  un  povero  untorello  insomma  che  non  può  rovinare  il  mondo  della 
gente  dabbene.  E  che  razza  di  martelliani,  martellanti  sì  da  stordire  i  mi- 
gliori timpani!  Unico  personaggio  veramente  vivo  è  quello  del  protagonista: 
però,  notate  bene,  nel  Molière  il  Goldoni  se  stesso  incarna,  e  sono  le  proprie 
lotte,  le  proprie  aspirazioni  che  l'autore  nostro  dipinge. 

L'informazione  del  De  Vico  è,  in  generale,  buona;  tuttavia  il  giovane  critico 
mette  un  po'  troppo  assieme,  senza  sufficente  discernimento,  scrittori  di  di- 
versissimo valore  ed  ha  il  torto  di  ricorrere,  ad  un  certo  punto,  persino  alla 
autorità  del  Demogeot.  P.  T. 


PAUL  ROBIQUET.  —  Buonarroti  et  la  sede  des  ègaux 
d'après  des  documents  inèdits.  —  Paris,  Hachette,  1912 
(16«,  pp.  vi-330). 

Non  si  può  dire  che  il  socialismo  italiano  abbia  sin  qui,  all'infuori  degli 
scritti  di  Antonio  Labriola,  molto  arricchito  la  letteratura  paesana,  sì  che  ci 
conviene  tesoreggiare  ciò  che  vi  conferì  di  veramente  rilevante  cent'anni  sono 
il  patriarca  di  tutte  queste  scuole  religioso-economiche  :  Filippo  Buonarroti. 
Se  si  eccettui  qualche  lavoruccio  giovanile  e  segnatamente  il  Giornale  pa- 
triottico di  Corsica,  vero  Nestore  della  stampa  giacobina  italiana  —  il  1*>  nu- 
mero esci  il  1»  aprile  1790  —,  il  Buonarroti  non  scrisse  quasi  mai  nella  lingua 
materna  e  nella  sua  concezione  cosmopolita  l'idea  nazionale  era  del  resto  anne- 
gata in  quella  dell'umanità.  Pure  di  certe  caratteristiche  etniche  egli  non  potè 
mai  spogliarsi  e  questa  prima  esposisione  programmatica  del  socialismo  rivolu- 
zionario che  abbia  dato  l'Italia  moderna  ha  troppo  valore  nella  nostra  storia 
perchè  ci  possa  trattenere  la  veste  francese  dall'occuparcene  in  queste  colonne. 

Se  il  Romano-Catania,  le  cui  successive  elaborazioni  d'un  medesimo  libro 
furono  a  suo  tempo  segnalate  dal  Giornale  (1),  s'era  fondato  essenzialmente 


(1)  Voi.  XL. 


BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO  233 

sui  documenti  italiani  e  solo  nell'edizione  del  1902  si  giovò  di  un  articolo 
del  Weil  nella  Eevue  Mstorique  e  delle  carte  comunicategli  dal  Delhasse, 
molto  più  rigida  è  rispettivamente  la  limitazione  di  questo  volume  del  Ko- 
biquet  alle  fonti  francesi:  grave  manchevolezza,  ma  attenuata  dalla  circo- 
stanza che  i  tre  quarti  della  vita  del  cospiratore  furon  trascorsi  in  paesi  di 
lingua  francese.  Apologetico  era  l'intento  esposto  dal  Komano-Catania  con 
lodevole  candore;  assai  più  spassionato  si  palesa  il  Eohiquet  che,  sebbene 
nella  corrente  degli  storici  rossi  o  esaltatori  della  rivoluzione,  è  però  lungi 
dal  prender  fuoco  per  tutte  le  panacee  proposte  dal  visionario  fiorentino  e  tien 
conto  anche  delle  testimonianze  a  lui  contrarie.  La  sua  fonte  precipua  son 
sempre  le  carte  del  Buonarroti,  ora  nella  Nazionale  parigina  (1). 

Solo  per  la  sua  sistematica  astensione  da  qualsiasi  indagine  italiana,  può 
l'A.  dubitare  dell'appartenenza  di  Filippo  al  ceppo  di  Michelangelo.  Egli  ra- 
cimola a  stento  dalle  carte  del  Buonarroti  notizie  sulla  sua  gioventù,  che  il 
Romano-Catania  aveva  già  tratte  dagli  archivi  toscani.  Documentato  è  invece 
il  Robiquet  sul  soggiorno  in  Corsica  del  Buonarroti,  lo  segue  nelle  sue  pere- 
grinazioni di  propagandista  rivoluzionario  durante  il  Terrore  (2),  sino  alla 
missione,  che  per  noi  offre  grande  interesse,  di  «  commissario  nazionale  » 
sulla  riviera  ligure  (3).  Dopo  una  breve  prigionìa  seguita  a  Termidoro,  il  Buo- 
narroti, rilasciato  nell'ottobre  1795,  si  costituì  il  protettore  parigino  dei  gia- 
cobini italiani,  manifestando  allora  sentimenti  che  si  potrebbero  dire  unitarii, 
se  il  suo  concetto  dell'unità  non  fosse  che  un  atteggiamento  sporadico  di 
quello,  in  lui  radicatissimo,  della  fratellanza  di  tutti  i  patriotti.  In  quel  torno 
di  tempo  si  strinse  al  Babeuf  e  si  riconciliò  con  alcuni  termidoriani  di  si- 
nistra, p.  es.  l'Amar.  Sciolto  il  club  comunista  del  Pantheon  da  Buonaparte, 
omai  alla  vigilia  delle  sue  grandi  imprese  italiche,  i  babovisti  prepararono 
una  vasta  cospii-azione,  sventata  sovratutto  per  merito  del  Carnot,  che  per  altro 
doveva  discernere  poi  nelle  sue  memorie  il  Buonarroti,  come  il  più  generoso 
di  quella  masnada.  Il  clamoroso  processo  dinanzi  all'Alta  Corte  di  Vendòme, 
in  cui  il  Buonarroti  fu  condannato  alla  deportazione,  è  esposto  distesamente 
dall'A.,  che  trae  poscia  dalla  polvere  degli  archivii  gli  atti  illustranti  la  vita 
del  prigioniero  al  Fort  National  di  Cherbourg,  mentr'egli  con  convinta  tenacia 
si  adoperava  ad  ottenere  la  revisione  della  sentenza  pronunciata  contro  di 
lui.  Il  Consolato,  sorto  dalle  rovine  di  quella  costituzione  dell'anno  III  contro 
la  quale  erano  invano  insorti  i  condannati  di  Vendòme,  inclinò  alla  mitezza 
verso  di  loro  ed  il  Buonarroti,  trasferito  all'isola  d'Oléron  nell'  '800,  vi  rimase 
per  un  triennio.  Gli  fu  allora  assegnato  come  luogo  di  confino  l'isola  d'Elba, 
poi  scambiato,  non  si  sa  in  qual  modo,  col  villaggio  di^  Sospello  nelle  Alpi 
marittime.  Ivi  il  terribile  ideatore  di  convulsioni  sociali  visse  tranquillamente 


(1)  Sono  i  registri  8  R  208Ce  e  20804. 

(2)  Ve  poca  coordinazione  fra  ciò  che  l'A.  dice  del  passaggio  del   Buonarroti  a 
Lione  nell'estate  del  1793,  prima  contestato  (p.  25),  poi  ammesso  (p.  26). 

(3)  Il  «  Palestrino  »  della  p.  31  è,  verosimilmente ,   il  marchese   del   Carretto   di 
Balestrino. 


234  BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

durante  i  primi  anni  dell'impero,  facendo  il  maestro  di  scuola,  sinché  nel  1806 
ottenne  di  andare  a  Ginevra  e  vi  si  stabilì  insegnando  la  musica  e  la  ma- 
tematica e  amoreggiando,  giacché  la  vita  domestica  del  tribuno  é  una  serie 
di  concubinati.  Probabilmente  attese  anche  a  raggruppare,  all'ombra  delle 
logge  massoniche,  i  partigiani  del  comunismo,  giacché  le  stesso  Robiquet,  che 
non  si  addentra  nella  storia  delle  sette  —  erano  appunto  i  giorni  degli  in- 
cunaboli dell'adelfia  — ,  segnala  Filippo  venerabile  della  loggia  ginevrina  degli 
amici  sinceri  (1).  Così  il  Buonarroti  si  fece  cacciare  da  Ginevra,  ma  ormai  la 
polizia  lo  lasciò  andare  al  suo  destino  ed  egli  si  recò  a  Grenoble.  Il  Robiquet, 
sempre  per  la  stessa  ragione  della  sua  strana  ignoranza  delle  fonti  italiane, 
perde  anch'egli  di  vista  il  suo  eroe,  mentre  è  noto  —  basterebbe  consultare 
ora  il  libro  del  Sandonà  sui  processi  del  '21  —  qual  parte  egli  ebbe  nel  mo- 
vimento settario  della  penisola  ai  primordi  della  Restaurazione.  L'A.  prende 
a  prestito  dall'Andryane  e  dal  Henri  Martin  (2)  ciò  che  ci  racconta  dei 
piani  del  Buonarroti  contro  la  Santa  Alleanza.  Dopo  l'arresto  dell' Andryane 
e  la  levata  di  scudi  diplomatica  contro  l'asilo  dato  in  Isvizzera  ai  profughi 
italiani,  il  Buonarroti  raggiunge  nel  Belgio  i  regicidi  esuli  dalla  Francia  :  il 
Barére  e  il  Vadier,  che  frequentò  sebbene  complici  a'  suoi  occhi  della  caduta 
del  suo  adorato  Robespien-e  (3).  A  Bruxelles  nel  1828  pubblicò  VHistoire  de 
la  conspiration  pour  Végaìité  dite  de  Baheuf.  Il  Buonarroti  credeva  vieppiù 
necessario  di  avvolgersi  in  un  continuo  mistero.  E  una  selva  di  pseudonimi, 
di  nomi  convenzionali,  di  gerghi  in  cui  il  Robiquet  procede  omai  esumando 
la  corrispondenza  del  capo  del  Gran  Firmamento,  di  cui  tra  parentesi  ignora 
la  reale  portata  nel  mondo  settario  sincrono,  con  Charles  Teste  e  con  altri 
amici  e  correligionari  meno  identificabili.  Il  libro  diventa  più  che  mai  una 
serie  di  testimonianze  raccolte  e  accostate  senza  quel  commento  che,  alla 
luce  della  letteratura  sulle  società  segrete,  ci  avrebbe  permesso  di  seguire  il 
Buonarroti  nei  suoi  rapporti  col  Mazzini,  con  Blanqui,  con  Louis  Blanc,  col 
marchese  Voyer  d'Argenson,  altro  visionario  suo  pari,  in  casa  del  quale  il 
patriarca  della  rivoluzione  finì  per  morire  il  16  settembre  1837.  Era  apparso 
ancora  una  volta  alla  ribalta,  emergendo  nella  penombra  delle  sette  in  seno 
alle  quali  era  considerato  un  nume,  quando  consentì  di  figurare  dinanzi  alla 
Camera  dei  pari  come  uno  dei  difensori  nel  mastodontico  processo  detto  del- 
l'aprile '834  (data  del  tentativo  rivoluzionario,  il  processo  non  avendo  avuto 
luogo  che  l'inverno  seguente).  È  un  episodio  che  l'A.,  questa  volta  di  nuovo 
riposto  sul  terreno  solido  di  documenti  non  equivoci,  lumeggia  assai  bene. 
Tale  è  la  biografia  del  celebrato  e  temuto  capo  della  carboneria  universale, 


(1)  Rapporto  di  un  commissario  di  polizia  al  prefetto  del  Lemano,  il  famigerato 
Capelle,  del  18  marzo  1811,  ricordato  dal  Robiquet  a  p.  147,  in  nota. 

(2)  Articolo  critico  sulle  memorie  dell' Andryane,  nel  SiècU  del  80  novembre  1897. 

(3)  Il  culto  del  Buonarroti  per  il  Robespierre  appare  in  tutta  la  sua  franchezza 
dai  frammenti  di  ricordi  sulla  rivoluzione  francese,  che  il  Robiquet  trasse  dalle 
carte  del  cospiratore  e  pubblicò  in  appendice  (pp.  311-326).  Sono  una  testimonianza 
oculare,  a  parer  mio,  di  innegabile  valore  storico. 


BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO  235 

dell'adelfia,  dei  Sublimi  Maestri  Perfetti,  del  Gran  Firmamento,  per  citare 
solo  le  meno  mal  note  denominazioni  di  quell'occulta  sovranità  che  diede 
scacco  matto  a  tutte  le  polizie  d'Europa,  accanite  invano,  malgrado  tanti 
arresti  e  non  poche  debolezze  di  adepti,  nel  penetrare  i  segreti  ed  afferrare 
la  testa  dirigente  di  tutto  quel  moto.  A  forza  di  celarsi  ai  profani,  questo 
Buonarroti  che  il  Blanc  proclamava  «  l'une  des  plus  grandes  figures  de  notre 
epoque  »  (1)  era  diventato  un  vero  enigma  anche  per  gli  iniziati.  E  fu  forse 
in  un  certo  senso  provvidenziale,  perchè  cosi  uomini  che  affrontavano  il  pa- 
tibolo per  dare  alla  patria  libertà,  indipendenza  ed  unità,  non  ebbero  l'amara 
delusione  di  constatare  (come  invece  intuì  in  un  dato  momento  il  Mazzini) 
che  obbedivano  ad  un  uomo  che  d'una  sola  cosa  si  curava,  dell'attuazione, 
sia  pure  a  prezzo  di  sangue,  della  ^a  utopia  egualitaria  e  comunistica,  illu- 
minata da  un  vago  deismo,  ma  indifferente  alle  competizioni  nazionali! 

È  ciò  che  risulta  a  chiare  note  dai  materiali  editi  dal  Robiquet  nelle  co- 
piose appendici  del  suo  libro.  Sono  appunti  o  scritti  occasionali,  di  lotta  e 
di  propaganda,  trovati  tra  i  manoscritti  del  Buonarroti.  L'A.  attribuisce  a 
lui  con  buone  ragioni  VAnalyse  de  la  doctrine  de  Baheuf  e  ne  pubblica  un 
importante  Commentaire,  tratto  dall'autografo  di  Filippo.  A  questo  seguono 
il  «  Fragment  de  décret  économique»,  le  «  Observations  sur  la  communauté 
des  biens  et  des  travaux  »,  un  memoriale  in  favore  dell'imposta  progressiva 
ed  altri  scritti,  riprodotti  in  tutto  od  in  parte,  vere  pietre  miliari  del  moto 
comunistico,  di  cui  il  Buonarroti,  nel  suo  sincero  fanatismo,  fu  veramente  un 
antesignano.  Gallav. 


ACHILLE   PELLIZZARI.   —    Studi   manzoniani.   —    Napoli, 
F.  Perrella,  1914  (8°,  pp.  652,  diviso  in  due  volumi). 

Dire  che  il  prof.  Pellizzari  è  un  critico  denso  e  concettoso,  non  si  potrebbe 
davvero  senza  taccia  d'ingiusta  adulazione.  Dire  che  ha  molto  del  giornalista 
intelligente  e  disinvolto,  e  anche  bonario,  con  la  sua  parolina  buona  per  tutti, 
con  la  sua  riflessioncella  su  tutto,  con  una  gran  facilità  di  penna,  con  una  non 
ordinaria  prontezza  di  percezione  e  vivezza  di  dizione,  con  un  simpatico  en- 
tusiasmo per  l'arte,  con  una  abilità  rara  di  figurare,  sarebbe,  bensì,  un  col- 
pire in  gran  parte  nel  segno,  ma  un  fargli  torto  in  altro  senso.  La  verità 
sta  nel  mezzo  :  pensiero  poco,  virtù  rievocativa  non  molta,  facilità  di  scrivere 
moltissima,  ma  anche  gusto,  entusiasmo,  ingegno,  dottrina,  che  attenuano  e 
scusano  la  soverchia  voglia  di  figurare.  Io  avrei  preferito  che  queste,  del  resto 
ben  spazieggiate,  secento  e  più  pagine,  riducesse  a  meno  di  metà  o  forse  a  metà 
della  metà,  preoccupandosi  un  po'  più  della  sostanza  e  un  po'  meno  dei  concorsi, 
a  cui  i  candidati  bellamente  gareggiano  nell'inviare  quintali  di  carta  stampata. 


(1)  L.  Blanc,  Histoire  de  dix  ang,  P.  IV. 


236  BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

Il  primo  volume  è  tutto  materiato  di  articoli  riguardanti  i  Brani  mediti 
e  ciò  che  sui  suddetti  Brani  fu  scritto.  Innegabile  pregio  è  quello  di  richia- 
mare quanto,  di  buono,  di  men  buono,  di  scipito  e  di  cattivo,  fu  scritto  a  pro- 
posito della  interessantissima  pubblicazione,  su  cui,  per  diritto  o  per  tra- 
verso, tanti  vollero  spifferare  la  loro  più  o  meno  desiderata  sentenza.  Il  P. 
(e  noi  già  ne  toccammo  nel  Giornale,  50,  824)  ha  in  proposito  informazione 
compiuta,  e  giudica  con  buon  senso,  e  classifica  con  criterio.  Due  concetti  pre- 
dominano in  lui:  1°,  che  la  cognizione  di  quella  prima  stesura  manzoniana 
sia  tutt'altro  che  inutile  e  che,  anzi,  in  essa  vi  siano  pagine  di  valore  artistico 
eminente  ;  2°,  che  il  motivo  fondamentale  per  cui  il  Manzoni  non  accolse 
quelle  pagine  nella  redazione  definitiva  sia  d'ordine  estetico  e  non  già  morale 
né  religioso.  «  I  brani  inediti  sono,  pur  cosi  staccati  dal  romanzo,  una  forte 
«  opera  d'arte  ;  il  Manzoni  gli  tolse  dal  racconto  suo  non  per  scrupoli  religiosi, 
«  né  per  suggestioni  di  terzi,  ma  per  motivi  d'ordine,  di  misura,  d'equilibrio 
«  artistico  »  (p.  199).  Io  già  altra  volta  ebbi  a  dire  ciò  che  ne  penso,  né  ac- 
cade che  qui  mi  ripeta.  Sarebbe  stato  utile  che  il  P.,  riprendendo  la  materia, 
anziché  lasciarle  l'assetto  giornalistico  che  prima  ebbe,  la  avesse  disposta  in 
modo  più  svelto  e  chiaro.  E  in  questo  caso,  poiché  non  si  sarebbe  trattato 
di  dare  in  tipografia,  con  pochi  concieri  e  giunterelle,  articoli  per  lo  innanzi 
stampati,  ma  di  ripigliare  in  mano  il  soggetto,  il  P.  avrebbe  potuto  prendere 
più  d'ogni  altro  in  considerazione  il  più  ampio  e  minuto  esame  che  si  abbia 
dei  Brani  inediti,  quello  del  D'Ovidio,  che  abbraccia  ben  250  fitte  pagine 
(cfr.  Giornale,  53,  158-159).  Intorno  a  quel  nucleo  centrale,  che  il  P.  appena 
addita  a  p.  9  n.,  si  potevano  disporre  le  osservazioni  di  altri  critici  minori  e 
minimi. 

L'A.  tiene  particolarmente,  e  non  a  torto,  alla  seconda  parte  dell'opera, 
che  intitola  II  miracolo  dei  «Promessi  Sposi  ».  Questa  é  tutta  nuova  ed  ha 
per  argomento  l'esame  della  conversione  dell'Innominato,  più  di  400  pagine 
su  questo  soggetto!!  Fu  sfortuna  pel  P.  che  la  sua  pubblicazione  seguisse  di 
pochi  mesi  quella  di  Attilio  Momigliano,  esaminata,  con  l'acume  consueto,  da 
Vittorio  Osimo  in  questo  Giornale,  63,  428.  Non  già  che  i  due  critici  ab- 
biano proprio  avuto  l'intento  medesimo;  ma  se  anche  al  Momigliano  si  pos- 
sono muovere  alcune  obiezioni,  gli  é  certo  ch'egli  rivive  il  personaggio  con 
facoltà  così  eccezionali  di  critico  estetico  quali  il  P.  non  può  avere.  H  P.,  a  sua 
volta,  evitando  i  pericoli  della  critica  desanctisiana  e  vedendo  il  suo  tema  in 
modo  obiettivo,  come  la  critica  storica  vuole,  ha  il  vantaggio  di  non  abban- 
donarsi al  proprio  lavorio  fantastico  e  ricostruttivo,  di  rimanere  più  vicino  al 
Manzoni.  Quindi  i  due  lavori,  pur  essendo  pregevolissimi  entrambi,  non  ven- 
gono punto  a  combaciare  né  ad  eliminarsi. 

Comincia  il  P.  con  un  esame  minutissimo  del  carattere  dell'Innominato  e 
degli  atti  suoi,  che  é  un  commento  arguto  di  tutto  l'episodio  celebre.  Buono 
è  il  parallelo  tra  la  preghiera  di  Lucia  e  il  tumulto  dell'anima  dell'Innomi- 
nato; nella  prima  stesura  la  preghiera  di  Lucia,  fatta  in  carrozza,  quando  i 
bravi  la  portavano  al  castello,  aveva  già  avuto  il  suo  esaudimento  in  cielo. 
La    preparazione   a  quel  «  giocondo  prodigio  »   è   quanto  di  più  fine  si  può 


BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO  237 

ima^nare;  e  «  prodigio  »  lo  chiamano  tutti  i  personaggi  del  romanzo,  dai 
più  illuminati  ai  più  semplici,  all'infuori  di  uno.  Don  Abbondio,  che  tutto 
ingombro  del  suo  egoismo  pauroso,  tutto  immerso  nella  pochezza  della  sua 
anima,  non  riesce  a  comprendere  i  «  valori  spirituali  ». 

Che  anche  pel  Manzoni  quello  fosse  veramente  un  «  miracolo  »  io  non  ho 
mai  dubitato.  Ma  v'è  una  frase  dei  Prom.  Sposi  che  ha  suscitato  le  maggiori 
dubbiezze,  là  dove  lo  scrittore  assevera  che  il  sarto  e  tutti  gli  umili  lo  qua- 
lificarono di  «  miracolo  »  e  soggiunge  :  «  e,  a  dir  la  verità,  con  le  frange  che 
«  vi  s'attaccarono,  non  gli  poteva  convenire  altro  nome  ».  Il  che  vuol  dire, 
secondo  alcuni,  che  senza  quelle  frange  miracolo  non  era.  Sul  valore  di  quelle 
frange  s'aggira  buona  parte  dello  scritto  del  P.,  il  quale  non  manca,  secondo 
la  lodevole  abitudine  sua,  di  esporre  ed  esaminare  ciò  che  fu  scritto  sul  tema 
dal  Graf,  dal  D'Ovidio,  dallo  Scherillo,  dal  Parodi,  da  Giovanni  Negri,  da 
G.  B.  Zoppi.  Dopo  lunghi  ragionamenti,  egli  conclude  che  quelle  frange  erano 
«  le  fantasticherie  più  o  meno  volgari  che,  come  attorno  ad  ogni  evento 
«  umano,  così  era  naturale  si  moltiplicassero  attorno  ad  un  evento  chiara- 
«  mente  soprannaturale»  (p.  436).  E  senza  dubbio  ha  ragione;  e  l'avere 
pensato  diversamente  dipese,  in  alcuni  critici,  dal  non  essersi  collocati  dal 
vero  punto  di  vista  del  Manzoni  nel  considerare  i  fatti  religiosi. 

Il  P.  ha  il  merito  (e  sono  ben  lieto  di  riconoscerglielo)  d'avere  per  primo 
intuito,  non  solo  il  valore  del  miracolo  secondo  S.  Tommaso  (che  su  ciò  G.  Negri, 
il  Parodi  ed  altri  avevano  ragionato),  ma  la  speciale  interpretazione  del  mi- 
racolo secondo  quei  giansenisti,  alla  cui  dottrina  religiosa  il  Manzoni  s'era 
formato.  Mentre  i  teologi  tomistici  ravvisavano  il  fatto  miracoloso  là  ove  si 
trovava  infrazione  improvvisa  ed  imprevedibile  di  fatti  naturali,  sospensione 
di  leggi  fisiche  o  psichiche  ;  i  giansenisti  ed  i  portorealisti  ammettevano  l'in- 
tervento prodigioso  della  Grazia,  riservata  ab  aeterno  alle  anime  predestinate, 
ogniqualvolta  essa  si  esercitasse  «  per  assoluta  e  diretta  volontà  di  Dio  »,  anche 
senza  rompere  apparentemente  le  leggi  della  natura  (v.  pp.  594  a  597).  L'im- 
pulso divino  può  operare  miracolosamente  vuoi  con  fatti  veementi  e  subitanei, 
vuoi  con  procedimenti  graduali,  ma  conseguentemente  diretti  ad  un  fine  (pa- 
gina 606).  Il  mutamento  spirituale  dell'Innominato,  corrispondente  alla  eterna 
predestinazione  della  Grazia,  che  redime  l'uomo  dal  peccato,  è  in  tutto  con- 
forme alla  maniera  giansenista  d'intendere  il  miracolo. 

D'aver  posto  in  chiaro  questa  verità  dobbiamo  essere  grati  al  Pellizzari, 
anche  se  in  questa  parte  egli  s'è  esteso  troppo  nel  discorrere  del  portorea- 
lismo  del  Manzoni,  delle  conversioni  di  lui  e  dei  suoi,  delle  opinioni  del  De- 
gola e  del  Tosi.  Se  un  giorno  egli  vorrà  attenere  la  promessa  di  farci  toccare 
con  mano  quali  altre  dottrine  giansenistiche  serpeggino  nel  romanzo  manzo- 
niano, farà  opera  utile,  nuova  e  degna  del  suo  ingegno,  che  è  fine  ed  arguto, 
ma  ha  specialmente  bisogno  d'essere  alqua^o  disciplinato  e  castigato  nelle 
sue  esuberanze  (1).  R. 


(1)  Nello  studio  sopra  detto,  peraltro,  si  dovrà  tener  pure   qualche   conto  dell» 
opinioni  emesse  da  due  ecclesiastici,  il  p.  Giovanni  Busnelli,  nell'opuscolo  La  con- 


238  BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

UGO  FOSCOLO.  —  Scrìtti  vari  inediti^  a  cura  di  Fr.  Viglione. 
—  Livorno,  Cxiusti,  1913  (8«,  pp.  xy-492). 

Sino  dal  1911  il  Giornale  (58,  411-2,  n.  6)  annunziò  questo  volume,  non 
solo,  ma  anticipò  ai  suoi  lettori,  gradita  primizia,  i  titoli  di  tutti  gli  Scritti, 
ond'esso  sarebbe  riuscito  composto.  Quell'annunzio  solleticò  la  curiosità  degli 
studiosi,  i  quali  tuttavia  dovettero  attendere  due  anni  ancora  la  pubblica- 
zione; un  ritardo  che  si  spiega  facilmente  con  le  condizioni  sfavorevoli  nelle 
quali  ebbe  a  trovarsi  l'editore,  assente  da  Livorno,  e  quindi  impedito  di  col- 
lazionare direttamente  le  bozze  sui  manoscritti  posseduti  dalla  Labronica, 
che  per  buona  parte  sono  autografi,  cioè  indiavolati.  E  fortuna  che  il  V.  ebbe 
nel  prof.  F.  C.  Pellegrini,  sempre  vigile  e  cortese,  un  ottimo  revisore  e  colla- 
boratore !  Questi  Scritti  possono  considerarsi  come  un'Appendice  al  volume  che 
egli  pubblicò,  nel  1910,  sul  Foscolo  in  Inghilterra,  e,  insieme,  alle  opere  del 
poeta  zacintio  ;  da  pochi  infuori,  riguardano  il  periodo  del  suo  esilio  svizzero 
e  inglese,  materiali  più  o  meno  preziosi,  che  furono  in  buona  parte  sfruttati 
in  quel  volume,  onde  e  per  questo  motivo  e  per  l'annunzio  preventivo  che 
ne  diede  il  Giornale,  non  sarà  ora  il  caso  di  un  lungo  discorso. 

Parecchi  di  questi  Scritti  sono  abbozzi  di  articoli  noti  o  redazioni  primi- 
tive e  alquanto  diverse  da  quelle  che  conosciamo  per  le  stampe.  Essi  confer- 
mano quanto  già  si  sapeva  della  triste  odissea  alla  quale  andarono  soggetti 
quei  lavori,  destinati  ai  periodici  inglesi.  Costretto  il  più  delle  volte  ad  abboz- 
zarli, anzi  a  «  tradurli  *  e  «  stemperarli  »  in  una  lingua  come  la  francese, 
che  ancora  nel  gennaio  del  1823  confessava  di  conoscere  appena,  il  Foscolo 
aveva  il  dolore  di  vederseli  poi  trasformati,  anzi  deformati  e  mutilati  «  ve- 
nalmente »  nella  lingua  inglese,  nella  quale  si  sforzò  poi  di  stendere,  ma  con 
fatica,  i  propri  pensieri  (1).  L'esempio  più  singolare  di  queste  disgraziate  vi- 
cende ci  offre  l'ampio  e  importante  articolo  sui  Poemi  narrativi  e  romanzeschi 
italiani,  che  è  del  1819,  e  al  quale  sembra  veramente  ricollegarsi  il  fram- 
mento italiano  qui  pubblicato  (pp.  22-4)  di  sull'autografo,  col  titolo  Uso  di 
recitare  de^  Romani  e  Greci  ed  Epigrammi  in  conversazioni  moderne.  Ba- 
sterebbe questo  esempio    per    dimostrare    quanto  sia  ardua  e  complicata,  ma 


versione  di  Alessandro  Manzoni  dal  carteggio  .di  lui,  Roma,  tip.  Befani,  1913,  ed  il 
can.  Enkio  Fabbri,  I  giansenisti  nella  conversione  della  famiglia  Manzoni,  Faenza, 
libr.  Salesiana,  1914.  Ambedue,  basandosi  su  di  una  lettera  del  Manzoni  al  Cesari, 
negano  la  sua  partecipazione  costante  alle  dottrine  gianseoistiche.  Di  specialissima 
importanza  è  nell'opuscolo  del  Busnelli  la  comunicazione  del  documento  che  sa- 
nava l'irregolarità  del  matrimonio  contratto  dal  Manzoni  con  Enrichetta  Blondel. 
Quel  matrimonio  non  era  stato  ecclesiasticamente  legittimo.  —  Ma,  lasciando  star 
questo,  non  si  intende  perchè  tanto  il  Pellizzari ,  quanto  il  Busnelli ,  quanto  il 
Fabbri  trascurino  il  notabile  articolo  sulla  conversione  del  Manzoni  che  Pietro 
Paolo  Trompeo  inserì  nella  Nuova  cultura  del  luglio  1918  (I,  481  sgg.),  ove  dell'in- 
flusso di  Portoreale  è  discorso  ed  è  discussa  anche  la  lettera  del  Manzoni  al  Cesari. 
(1)  Si  rammenti  la  lettera  che  nel  maggio  del  1820  il  F.  scrisse  al  Capponi  (in 
Epistolario,  lett.  n®  556). 


BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO  239 

insieme  doverosa  l'impresa  di  dare  finalmente  una  degna  edizione  degli  scritti 
inglesi  —  intendo,  del  periodo  inglese  —  del  Foscolo  (1). 

Il  volume  si  divide  in  tre  sezioni  :  la  prima,  che  comprende  gli  Scritti  lette- 
rari, la  seconda,  gli  Scritti  politici,  la  terza  Lettere.  Ma  piace,  sin  dal  primo 
articolo  della  prima  parte,  cioè  nell'abbozzo  francese  che  l'ed.  volle  intito- 
lare Secolo  di  Dante,  vedere  balzar  fuori  il  pensiero  politico  del  Foscolo,  come 
in  questo  passo  dove  si  accenna  alle  dominazioni  straniere  e  alle  discordie 
degli  italiani:  «  Les  guerres  civiles  excitées  presque  chaque  année  par  des 
«  conquérants  étrangers  ne  finirent  qu'après  cinq  siècles  et  l'esclavage  total 
«  de  l'Italie  sous  la  domination  de  Charles  V:  mais  la  discorde  dure 
«  en  e  ore  »  (11).  Similmente,  nei  frammenti  anglo-francesi  d'un  articolo  sulla 
Storia  del  testo  di  Omero  che  interessano  in  particolar  modo  i  classicisti  e 
gli  studiosi  della  critica  o  filologia  classica  del  Foscolo,  incontriamo  un'allu- 
sione pungente  al  Cesarotti  autore  della  P ronca  (2). 

Notevole  è  il  Pian  for  a  periodical  Work  on  foreign  Literature,  quel  pro- 
spetto per  un  giornale  che  il  Foscolo  vagheggiava  di  pubblicare  nell'autunno 
del  1822,  del  quale  gli  editori  fiorentini  diedero  (Opere,  Vili,  78-80)  una 
versione  parziale,  cioè  arbitrariamente  mutilata.  Nel  seguente  articolo  Viaggi 
classici,  di  cui  conoscevamo  prima  d'ora  una  parte  soltanto,  richiamano  la 
nostra  attenzione  alcuni  accenni  (pp.  109  segg.)  a  Guittone,  a  Leonardo,  al 
Vasari,  al  Pignotti,  nonché  al  veneziano  Francesco  Gritti.  Su  quest'ultimo, 
cioè  il  fecondo  verseggiatore  dialettale,  che  pei  suoi  Apologhi  il  Foscolo  è 
tentato  di  collocare  vicino  al  Lafontaine,  egli  cita  con  lode  certe  pagine  del 
suo  amico  Rose  (nelle  Letters  of  the  North  of  Italy),  che  qualche  studioso 
dovrebbe  rintracciare  e  far  conoscere,  perchè  riguardano  anche  la  letteratura 
nostra  e  probabilmente  rispecchiano  consigli  e  giudizi  del  poeta  e  critico 
italiano. 

Fra  le  scritture  di  questa  prima  serie  l'occhio  nostro  corre  subito  a  quella 
sul  Boccaccio  (pp.  115-148),  che  vide  la  luce  nel  London  Magatine  del  giugno 
1826,  e  fu  trascurata  dagli  editori  fiorentini;  ma,  per  essere  sinceri,  leggen- 


(1)  Vedasi  l'articolo  Per  U.  Foscolo,  che  la  sig.»  Eugenia  Levi  inseri  nella  Eass. 
bibliogr.  d.  leti,  it.,  XVII,  1909,  pp.  5  sgg.  dell'estr. 

(2)  Il  Cesarotti  non  è  menzionato,  ma  a  me  l'allusione  sembra  evidente.  Si  legga 
infatti  il  passo  seguente  :  «  Thus,  a  man  [of]  genius  now  no  more  who  might  have 
*  been  great,  but  who  lias  abused  his  extraordinary  powers  to  become  only  a  cele- 
«  brated  writer,  on  beiag  desired  to  compose  a  poem  in  praise  of  Napoleon,  com- 
«  menced  by  embarking  with  his  Muse  on  the  trackless  ocean  of  metaphysical 
«  speculations,  heaped  together  in  two  or  three  thòusand  verses  ali  the  systems 
«  ancient  and  modem,  of  which  not  one  was  unknown  to  him,  bnt  of  which  no  one 
«  was  intelligible  to  his  Hero,  and  ended  with  a  line  which  instead  of  words,  feet, 
«  or  syllables,  presents  us  with  a  single  name  and  a  long  row  of  these  powerful 
€  and  meaning  signs  Napoleon!!!!!!!!!»  (p.  57).  in  margine  alle  parole  «a  man 
«  of  genius  now  no  more  »  il  Foscolo  scrisse  di  sua  mano:  e  C'est  à  dire  qu'il  est 
«  mort,  mais  il  faut  le  dire  avec  gràce».  Occorre  appena  ricordare  i  severi  giudizi 
che  il  Foscolo  diede  della  Pronèa;  si  veda  A.  Butti,  Le  accoglienze  alla  <Pronèa» 
cesarottiana,  ecc.,  in  Giornale,  LVII,  348  sg.,  e  Donadoni,  XJ.  Foscolo,  pp.  421-2. 


240  BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

dola,  col  ricordo  presente  del  Discorso  storico  sul  testo  del  Decamerone,  non 
possiamo  dissimulare  una  delusione  e  grave.  È  infatti  una  rifrittura  di  cose 
che  il  Foscolo  aveva  già  dette  e  ridette  e  che  era  tutt'altro  che  adatta  a 
dare,  in  forma  sintetica  e  divulgativa,  ai  lettori  inglesi  un'idea  del  grande 
certaldese  e,  sovrattutto,  del  suo  capolavoro.  Il  Y.  ne  ha  pubblicata  la  tradu- 
zione inglese  e,  aggiunte  appiè  di  pagina,  tutte  quelle  pagine  del  testo  ori- 
ginale italiano,  che  egli  aveva  rintracciato  fra  le  carte  della  Labronica,  cioè 
due  terzi  circa  dell'articolo  complessivo  (1). 

E  una  mezza  delusione  ci  procurano  pure  le  quattro  pagine  Sulle  epistole 
volgari  del  Petrarca,  che  il  V.  riproduce  da  alcune  cartelline  autografe.  L'edi- 
tore si  mostra  riluttante  ad  ammettere  che  esse  appartenessero  alla  Lettera 
apologetica,  nella  quale  è  rimasta,  com'è  noto,  una  vasta  lacuna;  e  di  questa 
sua  riluttanza  adduce  qualche  ragione  non  disprezzabile.  A  me  viene  in  mente 
che  queste  pagine  fossero  destinate  a  lord  Holland,  perchè  gli  servissero  a 
stendere  quella  risposta  all'ab.  Meneghelli,  del  16  sett.  1824,  che,  sebbene,  in 
apparenza,  serena  e  cortese,  riuscì  una  lezione  salata  (2).  Ormai  sarebbe  tempo 
che  qualche  petrarchista  volonteroso,  giovandosi  di  questo  scritterello  venuto 
ora  alla  luce,  nonché  d'un  articolo  di  Eug.  Levi  (3),  tentasse  di  rintracciare  i 
tre  autografi  o  pretesi  autografi  petrarcheschi,  e  risolvesse  una  buona  volta 
e  in  modo  definitivo  la  questione  dell'autenticità  delle  due  lettere  volgari  del 
Petrarca,  con  le  quali  viene  a  raggrupparsi  la  nota  letterina  a  Leonardo  Bec- 
camugi  (4). 

La  seconda  parte,  quella  contenente  gli  Scritti  politici,  è,  in  complesso,  più 
importante  e  più  nuova  della  prima.  Vi  primeggiano  i  Frammenti  relativi 
alla  Storia  di  Parga,  dei  quali  ebbe  già  ad  occuparsi  largamente  lo  stesso  V. 


(1)  E  non  soltanto  e  le  prime  pagine»,  come  asserì  la  sig.»  E.  Levi,  ripubblicando 
lo  stesso  articolo  nella  N.  Antologia  del  16  ottobre  1918.  Ma  si  avverta  che,  mentre 
essa  annuncia  in  principio  di  pubblicarlo  «  tutto  intero  nell'originale  italiano  del 
«  Foscolo,  come  Vha  ritrovato  oggi  » ,  confessa,  poco  oltre,  che  si  tratta,  nelle  pa- 
gine non  comprese  in  questo  volume  del  V.,  d'una  sua  «ricostruzione».  La  quale, 
lungi  dal  provare  che  questo  articolo  —  impropriamente  intitolato  dal  Foscolo  nel 
ms.  labronico,  ma  non  nel  London  Magazine,  «  Illustrazioni  sulle  Novelle  del  Boc- 
caccio »  —  «  rappresenta  l'ultima  espressione  di  ciò  che  egli  pensò  e  ripetutamente 
«scrisse  sul  Decamerone»,  come  afferma  la  sig.*  L.,  è  poco  più  d'un  rimaneggia- 
mento non  felice,  fatto  ad  intarsio. 

(2)  Vedasi  Violione,  U.  Foscolo  in  Inghilterra,  p.  207,  il  quale  rimanda  al  libro 
della  LicHTKNSTEiN,  Holland  House.  Bisognerebbe  avere  il  testo  della  lettera  scritta 
da  lord  Holland  al  professore  padovano. 

(8)  /  «  Saggi  sul  Petrarca  »  di  U.  Foscolo,  Firenze,  Olschki,  1909,  estr.  dal  voi.  XI, 
disp.  3-4,  della  Bibliofilia. 

(4)  Rimando,  per  brevità,  a  quanto  scrissi  D^una  lettera  pseudo-petrarchesca  in  vol- 
gare, nelle  Spigolature  di  erudizione  petrarchesca,  estr.  dal  numero  unico  Padova  a 
Fr.  Petrarca,  pp.  9-18  ;  e  aggiungo  che  Fk.  Novati  diede  per  la  prima  volta  in  luce, 
nel  suo  pregevole  saggio  su  H  Petrarca  ed  i  Visconti  (nella  miscellanea  Fr.  Petrarca 
e  la  Lombardia,  Milano,  1904,  pp.  50-2)  una  lettera  volgare  del  Petrarca  a  Giovanni 
da  Mandello.  Lo  stesso  voto  ebbi  già  ad  esprimere  in  questo  Giornale,  XLIX, 
pp.  28-9  n. 


BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO  241 

nel  volume  citato,  e  le  Osservazioni  sulla  costituzimie  delle  isole  Ionie,  che 
sono  una  serie  di  chiose  severe,  inesorabili  alla  costituzione  data  dal  gene- 
rale Maitland,  piene  d'una  forza  di  eloquenza,  a  volte  impetuosa  e  caustica, 
mirabile.  Notevole  pure  il  frammento  sul  Nelson,  che  ci  fa  ripensare  all'ac- 
cenno famoso  dei  Sepolcri,  e  quello  su  Napoleone,  dal  quale  restano  confer- 
mati i  due  sentimenti  contrastanti  che  il  Bonaparte  suscitava  nell'animo  del 
Foscolo,  una  viva  ammirazione  per  la  sua  grandezza  e  una  sincera  riprova- 
zione pel  suo  carattere  dispotico,  ambizioso,  egoistico. 

Ricca  e  varia  si  presenta  la  serie  delle  105  lettere,  alcune  delle  quali  ve- 
ramente pregevoli  come  documenti  storici,  appartenenti  quasi  tutte  al  periodo 
dell'esilio  svizzero  ed  inglese;  non  tutte  tratte  dagli  autografi  della  Labro- 
nica. Ma  perchè  intitolarle  Lettere  del  Foscolo  ad  altri'ì  0  non  bastava  dire 
Lettere  del  Foscolo'?  Ve  n'ha  di  indirizzate  ad  amici  e  ad  amiche;  fra  queste 
ultime  offrono  un  interesse  particolare  due  alla  contessa  d'Albany,  nella  prima 
delle  quali,  del  27  dicembre  1813,  il  Foscolo  manifesta  il  proposito  di  scrivere 
un  commentario  «  su  le  cose  da  lui  vedute  e  delle  quali  era  stato  pars  mi- 
nima »  (1),  mentre  nella  seconda,  forse  del  16  maggio  1814,  egli  attesta  an- 
cora una  volta  la  sua  costante  e  risoluta  avversione  alla  «  framassoneria  » 
(p.  241).  La  lunghissima  lettera  a  Vincenzo  Monti  del  1814,  è  piuttosto  una 
dissertazione,  purtroppo,  frammentaria,  che,  dedicata  al  poeta  rivale,  doveva 
precedere  la  versione  del  canto  n  diaW Iliade  ;  è  quello  stesso  documento  prezioso, 
che  fu  fatto  oggetto  di  acuta  ed  esauriente  disamina  da  Benedetto  Soldati, 
il  quale,  non  solo  ne  determinò  la  genesi,  il  carattere  ed  il  fine,  ma  con- 
fermò anche  la  data,  con  ardita  ma  felice  congettura  assegnatagli  dal  V.  (2). 

In  queste  lettere  parecchio  ci  sarebbe  da  spigolare  anche  dopo  la  copiosa 
mietitura  fattane  dall'editore  stesso;  non  pochi,  qua  e  là,  sono  i  motivi  di 
dubbi  e  di  diffidenze  e  di  riserve  che  sorgono  dinanzi  a  testi  troppo  riboccanti 
talora  di  punti  interrogativi  fra  parentesi  ;  ma  chi  conosca  per  prova  i  terri- 
bili «  geroglifici  »  foscoliani,  si  sentirà  disposto  volentieri  all'indulgenza  e 
volentieri  riconoscerà  il  segnalato  servigio  che  anche  con  questo  volume  il  V. 
ha  reso  agli  studiosi.  V.  Ci. 


(1)  Veramente  il  V.  legge  e  stampa  (p.  236):  «  Ricordami  di  quel  commessario  del 
«  giovine  sassone  sopra  un  avvenimento  di  cui  fu  testimonio  »  ;  la  correzione  in 
e  commentario  >  mi  par  sicura,  mentre  mi  sfugge  l'allusione  al  «  giovine  sassone  » . 
E  l'S  gennaio  1814  alla  stessa  d'Albany  :  «  Bensì  potrò  scrivere,  e  ci  vado  pensando, 
«  un  commentarietto  simile  a  quello  del  giovine  Sassone... >  (Epist,  I,  lett.  n"*  379,  p.  552). 
Forse  qui  abbiamo  il  germe  dei  Discorsi  della  seì'vitù  deU'ItaUa  e  dei  Frammenti  di 
storia  del  regno  italico,  nonché  di  certe  magnifiche  pagine  della  più  tarda  lettera 
apologetica. 

(2)  Esperimenti  foscoliani  di  versiotie  da  Omero,  negli  Scritti  ecc.  in  onore  di  R.  Renier, 
Torino,  1912,  pp.  583  sgg.  • 


Giornale  storico,  LXIV,  fase.  190-191.  16 


242  BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO 

GIUSEPPE  SAITTA.  —  Le  origini  del  neo-tomismo  nel  se- 
colo XIX.  —  Bari,  Laterza,  1912  (16«,  pp.  xi-283). 

Se  da  nessun  movimento  spirituale  lo  storico  delle  lettere  si  può  in  senso 
assoluto  disinteressare,  importantissimo  fra  gli  altri  è  per  lui  quello  neo-to- 
mistico. Nelle  sue  origini  infatti  esso  s'intreccia  con  il  moto  onde  doveva 
uscire  la  vita  nostra  nazionale  e  pare  per  qualche  aspetto  mettersi  come  in 
opposizione  a  questa  ;  viceversa  si  allarga  poi  sino  ad  investire  tutta  la  vita 
della  Chiesa  ed  acquista  così  valore  di  fatto  universale. 

L'interpretazione  e  la  giustificazione  del  fatto  religioso  varia  sempre  con 
il  variare  della  concezione  filosofica  di  chi  se  ne  fa  interprete  o  giustificatore  ; 
ora  lo  scolasticismo,  morto  nella  coscienza  filosofica,  non  poteva  più,  un  secolo 
fa  incirca,  avere  virtù  in  quella  teologica,  supposto  che  l'una  si  possa  distin- 
guere dall'altra  e  non  siano  eff'ettivamente  la  cosa  istessa.  Ma  la  teologia 
cattolica  s'era  formata  e  sistemata  sotto  la  luce  della  filosofia  scolastica  ;  il 
dogma  era  stato  fissato  nel  concilio  di  Trento  sotto  la  pressione,  per  dir  così, 
del  pensiero  tomistico.  Ogni  rinnovamento  dunque  dello  spirito  religioso  che 
si  trovasse  a  discordare  dal  pensiero  scolastico  veniva  inevitabilmente  ad  ur- 
tare con  l'ortodossia,  anzi  a  distruggerla. 

È  una  verità  molto  semplice,  eppure  di  essa  non  si  seppero  mai  persuadere 
tutte  le  grandi  anime  che  tentarono  un  rinnovamento  del  pensiero  dentro  il 
cattolicismo  ;  e  però  videro  tutte,  presto  o  tardi,  fallire  sempre  i  loro  sforzi. 
Né  importa  che  esse  non  si  siano  accorte  della  contradizione  dentro  alla  quale 
si  aggiravano,  e  abbiano  creduto  di  spiegare  il  fallimento  dell'opera  propria 
con  l'invidia  o  la  malevolenza  degli  avversari  ignoranti  o  fanatici  ;  in  realtà 
questi,  che  ignoranti  non  erano  mai,  avevano  ragione  nel  combatterle.  La 
nuova  apologetica  di  Giorgio  Hermes,  le  filosofie  del  Rosmini  e  del  Gioberti 
s'erano  formate  sotto  l'influenza  del  pensiero  filosofico  tedesco  nel  progressivo 
suo  svolgimento  dal  Kant  sino  al  Hegel;  esse  dunque  dovevano  in  ultima 
analisi  riuscire  contrarie  e  distruggitrici  del  dogma  cattolico,  come  erano  tali 
le  filosofie  onde  esse  erano  germinate.  E  se  il  Gioberti  nella  lotta  contro  il 
Rosmini  lo  notava  acutamente  a  danno  di  questo,  egli  stesso  poi,  nel  progre- 
dire del  suo  spirito,  finirà  per  cascare  nella  contradizione  in  che  era  caduto 
il  suo  emulo;  egli  stesso  finirà  per  uscire  interamente  dal  cattolicesimo,  che 
cessa  di  esser  una  religione  rivelata,  cioè  il  cattolicesimo,  quando  lo  si  assorbe, 
come  faceva  il  Gioberti,  nella  filosofia,  cioè  in  una  creazione  dello  spirito 
umano. 

H  ritomo  alla  scolastica  era  dunque  per  gli  apologeti  del  cattolicesimo  una 
necessità  imprescindibile,  di  difesa  dagli  assalti  sempre  più  vigorosi  degli  spiriti 
moderni  e  di  offesa  contro  quei  tepidi  o  meno  illuminati  che  si  credevano  ancora 
nel  cerchio  dell'ortodossia,  quando  effettivamente  ne  erano  usciti  e  potevano 
perciò  con  l'esempio  e  la  predicazione  sviare  i  fedeli.  Solo  liberandosi  da  tutti 
gli  elementi  dissolvitori  della  sua  dottrina  e  disciplina  tradizionale,  il  catto- 
licesimo avrebbe  potuto  vigoreggiare  nelle  coscienze  e  riprendere  in  esse  quel 
posto  che  una  religione  non  può  mai  spartire  con  nessun  altro.  A  chi  spetti 


BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO  243 

il  merito  di  cotesta  liberazione  e  di  cotesto  ritorno  è  difficile  stabilire  con 
certezza  ;  in  realtà  lo  prepararono  i  tradizionalisti  di  tutta  Europa  con  l'op- 
porsi  al  razionalismo  kantiano  e  con  il  rimettere  in  onore  il  pensiero  de' 
Padri,  onde  la  scolastica  deriva;  avviarono  ad  esso  modesti  insegnanti  fidi 
agli  antichi  insegnamenti,  che  nei  seminari  non  mancarono  mai  del  tutto, 
nemmeno  quando  il  compendio  sensistico  del  padre  Soave  era  libro  di  testo 
nelle  scuole  cattoliche  di  filosofia;  lo  favorirono  i  pontefici  che  per  il  loro 
posto  sentirono  più  facilmente  d'ogni  altro  gli  urti  scotitori  venienti  da  ogni 
parte.  Ma  il  merito  grande  di  aver  fortificato,  disciplinato  a  un  fine  il  mo- 
vimento, averne  fatto  il  centro  della  difesa  e  della  interpretazione  del  catto- 
licesimo, spetta  senzo  dubbio  ai  gesuiti  e  a  un  loro  giornale  :  la  Civiltà  cat- 
tolica. Anzi  l'enciclica  Aeterni  Patris  di  Leone  XIII,  nella  quale  s'imponeva 
alle  scuole  cattoliche  il  ritorno  a  San  Tommaso  come  al  maestro  più  sicuro, 
può  dirsi  il  trionfo  più  grande  da  essi  riportato  nel  dominio  della  dottrina 
cattolica  nella  seconda  metà  del  secolo  decimonono. 

Queste  e  molte  più  altre  cose  ancora  discorre  con  garbo  e  con  penetrazione 
il  dottor  Saitta  nel  libro  che  vogliamo  additare  ai  nostri  lettori.  L'abitudine 
della  ricerca  filosofica  ha  allargato  la  visuale  dello  storico;  ond'egli,  a  inten- 
dere pienamente  il  fenomeno  che  studia,  sente  il  bisogno  di  rifarsi  molto  più 
su  che  nqn  sia  il  momento  nel  quale  esso  apparisce,  e  può  così  proiettare  su 
di  esso  tutta  la  luce  delle  cause  anche  più  lontane.  Perciò  il  libro  si  rial- 
laccia con  l'antecedente  dello  stesso  autore  su  La  scolastica  del  secolo  XVI 
(v.  Giornale,  59,  138)  e  diventa,  nella  prima  parte,  come  una  rapida  corsa 
attraverso  tutto  il  movimento  filosofico  moderno;  corsa  che  il  lettore  non 
rimpiange  certo  di  fare,  poiché  essa  gli  serve  a  comprendere  le  ripercussioni 
di  quel  pensiero  sulla  teologia  e  l'apologetica  del  cattolicesimo. 

Ora  il  Saitta  ha  certo  occhio  acuto  e  abilità  non  comune  ad  aggruppare  i 
fatti  che  gli  sono  necessari  alle  sue  interpretazioni,  ed  è  ricco  di  virtù  dia- 
lettica a  confutare  gli  avversari  e  a  far  risaltare  la  propria  tesi:  possiede 
insomma  molte  fra  le  doti  più  difficili  a  formare  uno  storico  egregio.  Ma  il 
desiderio  di  trattare  vasti  temi  rispondenti  all'ampiezza  del  suo  ingegno  e  la 
fretta,  forse,  dell'arrivare,  lo  costringono  spesso  a  lavorare  di  seconda  mano. 
Troppe  volte  si  sente  ch'egli  si  è  certo  impadronito  del  suo  tema  e  lo  domina 
nelle  linee  sue  generali,  ma  anche  eh?  non  è  risalito  sino  alla  fonte  onde 
quella  linea  si  è  generata,  che  non  conosce  insomma  i  particolari,  che  non 
ha  provato  il  bisogno  di  verificare  tutte  le  sue  affermazioni.  Nella  stessa  se- 
conda parte,  ch'è  la  propria  della  sua  ricerca,  egli  corre  frettoloso  su  molti 
nomi  e  fatti,  anzi  indagini  proprie,  nel  senso  stretto  della  parola,  non  ha. 
La  linea  generale  molto  probabilmente  non  ne  sarebbe  mutata;  ma  da  un 
libro  di  indagine  particolare  com'è  questo  noi  vorremmo  più  minute  informa- 
zioni su  molti  uomini  e  su  molti  fatti:  spessjj  dove  noi  vorremmo  conoscere 
uno  spirito  in  tutta  la  sua  produzione  non  abbiamo  che  un  nome. 

In  ogni  modo,  e  se  anche  ad  integrarlo  sia  necessario  ricorrere  agli  studi 
particolari  sull'argomento  che  sono  usciti  dopo  il  libro  del  Saitta,  il  libro  si 
legge  con  interesse  vivissimo  in   ogni    pagina  e  fa  pensare.  Il  rinnovamento 


244  BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

tomistico  non  ebbe,  forse,  dal  lato  rigidamente  filosofico  un  vero  valore:  ri- 
torno a  un  momento  dello  spirito  già  oltrepassato  dalla  coltura  europea  esso 
non  poteva  generare  alcuna  di  quelle  grandi  opere  che  segnano  un  nuovo  in- 
dirizzo e  danno  una  nuova  interpretazione  della  vita.  Ma  ritornare  a  Tom- 
maso volle  dire  aprire  tutte  le  fonti  della  filosofia  medievale,  accostarsi  ad 
esse  con  desiderio  intenso  di  conoscerle  fin  nelle  più  profonde  loro  scaturigini, 
seguirle  nelle  loro  diramazioni;  e  la  intelligenza  del  medio  evo,  la  coltura 
storica,  la  piena  comprensione  della  Commedia  se  ne  avvantaggiarono  in  modo 
grandissimo.  Più  ancora  :  quel  ritorno  ebbe  una  poderosa  efficacia  spirituale, 
sia  come  sforzo  della  Chiesa  ad  opporsi  al  pensiero  moderno  che  tentava  di 
abbatterla,  sia  nell'intima  compagine  di  lei  stessa  per  espellerne  gli  elementi 
dissolvitori  che  a  poco  a  poco  ci  si  erano  introdotti  e  ne  minavano  l'esistenza. 
Né  quel  movimento  è  cessato  o  accenna  a  cessare.  La  lotta  contro  il  moder- 
nismo non  è  anzi  che  una  conseguenza  di  esso  ;  come  sono  manifestazioni  di 
esso  i  molti  periodici  che  lo  propagano  e  dove  veramente  pare  fervere  una 
vita  operosa.  Il  neotomismo  ebbe  forse  il  torto  di  credere  di  poter  vincere  la 
propria  prova  impadronendosi  dei  metodi  positivistici  ;  ma  la  scolastica  non  è 
tutta  in  S.  Tommaso,  e  in  S.  Tommaso  covano  germi  non  ancora  interamente 
disviluppati.  Al  contatto  con  il  nuovo  idealismo  non  potrà  forse  anche  il  neo- 
tomismo ringiovanire  ?  L'idealismo  assoluto  troppo  facilmente  si  dà  a  credere 
nella  non  vitalità  del  suo  avversario  perchè  esso  non  può  superare  la  conce- 
zione dualistica  della  vita;  ma  non  potrebbe  invece  essere  appunto  cotesta 
visione  che  determina  verso  di  esso  tante  simpatie  di  giovani?  Sarebbe  cu- 
rioso ricercare  se  il  tomismo  di  questi  sia  proprio  quello  stesso  del  cardinal 
Zigliara  o  del  Cornoldi  ;  e  chi  sa  se  un  giorno  non  saranno  necessarie  nuove 
encicliche  per  raccomandare  la  retta  interpretazione  di  Tommaso  e  nuove  sco- 
muniche contro  coloro  che,  credendo  di  ringiovanirlo,  lo  hanno,  o  avranno, 
invece  falsato.  Falsato,  si  capisce,  secondo  i  criteri  dei  Cornoldi  e  degli  Zi- 
gliawi,  cioè  della  tradizione  cattolica  oggi_  imperante.  U.  C. 


GIOSUÈ  CARDUCCI.  —  Lettere]  serie  seconda:  alla  famiglia 
e  a  Severino  Ferrari.  —  Bologna,  Zanichelli,  1914  (16«, 
pp.  xxiv-376). 

FRANCESCO  DE  SANCTIS.  —  Lettere  da  Zurìgo  a  Diomede 
Mar  vasi  (1856-1869),  pubblicate  da  Elisabetta  Marvasi 
con  prefazione  e  note  di  Benedetto  Croce.  —  Napoli,  Ric- 
ciardi, 1913  (16«,  pp.  xvi-148). 

Due  sillogi  epistolari  che  caratterizzano  due  tempre  d'uomini  assai  diverse, 
n  Carducci,  quando  scrive  alla  moglie,  alle  figlie,  ai  generi,  al  suo  Severino 
pressoché   figliuolo,  pare  quasi  non  pensi  più,  è  tutto  azione,  vita,  senso;  il 


BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO  245 

De  Sanctis  resta  sempre  un  sognatore,  immerso  nelle  sue  idee,  interamente 
compreso  delle  sue  funzioni  d'insegnante  e  di  critico.  Il  Carducci  ritiene,  nel- 
l'epistolario famigliare,  della  semplicità  rude  del  popolano  ;  il  De  Sanctis  ha 
sempre,  pur  nelle  contingenze  più  umili,  del  filosofo. 

Rimando  a  ciò  che  scrissi  in  questo  Giornale,  58,  440  intorno  alla  prima 
serie  delle  lettere  carducciane  (1).  Molte  cose  dovrei  ripetere,  e  sarebbe  inop- 
portuno. La  seconda  serie,  sebbene  l'editore  Alberto  Dallolio  la  dia  come  una 
scelta,  è  parecchio  povera  ed  arida.  Si  tratta  di  letterine  famigliari,  che  danno 
informazioni  sulla  salute  o  su  altri  particolari  di  vita  giornaliera,  ovvero 
scherzano  teneramente  con  le  figliuole  o  coi  nipotini,  o  alludono  fugacemente 
a  letture  fatte,  a  lavori  intrapresi.  Tutto  può  servire  al  biografo;  ma  convien 
riconoscere  che  poche  raccolte  di  lettere  offrono  un  contributo  così  modesto  di 
fatti  rilevanti.  Se  ne  avvide  lo  stesso  editore  Dallolio,  e  nella  garbata  prefa- 
zioncella  mise  le  mani  innanzi  per  antivenire  certe  obiezioni.  Sta  il  fatto 
che  la  cognizione  della  psicologia,  del  resto  così  poco  complessa,  del  Carducci 
non  viene  ad  avvantaggiarsene  notabilmente.  Ch'egli  fosse  buono  di  cuore, 
semplice  di  costumi,  eccitabile  ed  irritabile,  tutti  sapevamo.  Scrive  il  Dal- 
lolio: «  Aspro,  rude,  violento  egli  era  veramente;  ma  chi  se  lo  figurasse  ac- 
«  cigliato  sempre  e  iracondo  commetterebbe  un  gravissimo  errore:  chi  legga 
«  le  lettere  sue  alla  famiglia  vedrà  quanto  egli  fosse  buono  e  pieno  di  tene- 
«  rezza  verso  i  suoi  cari  ;  e  vedrà  anche,  non  senza  commozione,  il  Carducci 
«  occuparsi  e  interessarsi  di  piccoli  fatti,  di  piccola  gente,  di  umili  cose,  egli 
«  che  col  pensiero  saliva  tant'alto.  Ne  deve  il  conoscerlo  in  tale  aspetto  di- 
«  spiacere  ad  alcuno,  perchè  l'uomo,  e  anche  lo  scrittore,  e  anche  il  poeta, 
«  tanto  è  più  grande,  quanto  più  dell'umano  racchiude  nell'animo  »  (pp.  ix-x). 
Ed  è  giusto  ;  ma  questa  è  una  ben  umile  umanità  :  tenerezze  di  babbo  e  di 
nonno  ;  pentimenti  dopo  burrasche  domestiche,  che  per  buona  ventura  qui  «olo 
s'intravvedono  (cfr.  la  lettera  buona  di  pp.  48-49)  ;  strettezze  e  richieste  di  quat- 
trini, malgrado  una  vita  molto  assestata;  innocenti  vanaglorie  per  onori  ricevuti, 
massime  per  le  accoglienze  e  i  complimenti  della  regina  Margherita  ;  lamenti 
per  le  troppe  faccende  professionali  ;  molte  parole  sul  mangiare  e  ancora  più  sul 
bere.  Qua  e  là  qualche  scherzo  arguto  ;  festevolissima,  ad  es,,  la  lettera  sulle 
accoglienze  ricevute  a  Pietrasanta  (pp.  66-68).  Amici  più  di  frequente  nominati 
il  Chiarini,  il  Teza,  la  sig.^  Mario,  Severino  Ferrari.  A  lui  sono  dirette  81  di 
queste  lettere,  mentre  191  andarono  a  membri  della  famiglia.  Neppure  le  lettere 


(1)  Da  allora  in  poi  altre  ne  sono  uscite  sparsamente  in  riviste  e  giornali.  Negli 
spogli  di  questo  periodico  ne  fu  tenuto  conto.  Resta  pur  sempre  osservabile  quella 
raccoltina  iniziale  Da  un  carteggio  inedito  di  Q.  Carducci,  Cappelli  e  Zanichelli,  1907, 
ove  si  leggono  18  lettere  del  poeta  vecchio  alla  contessa  Silvia  Pasolini  Zanelli, 
nella  cui  villa  romagnola  di  Lizzano  il  Carducci  spesso  ebbe  a  trattenersi.  È  un 
volumetto  ricco  di  carta  bianca  e  di  retorica,  ^he  ci  dà  un  Carducci  quasi  di  ma- 
niera, verniciato,  rammorbidito,  insentimentalito.  Lettera  importante,  in  più  luoghi 
riprodotta,  parve  quella  di  pp.  151-168,  ove  il  Carducci  fa  una  molto  ingenua  pro- 
fessione di  fede  religiosa,  in  un  cristianesimo  non  rivelato,  in  un  Cristo  «  gran 
<  martire  umano  > . 


246  BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO 

a  Severino  hanno  l'importanza  che  si  poteva  attendersi.  Molti  particolari  eruditi, 
tra  guizzi  di  malumore,  e  qualche  raro  spunto  d'eloquenza;  frequenti  allusioni 
alla  edizione  commentata  delle  rime  del  Petrarca,  magistrale  edizione,  che  il 
Carducci  e  il  Ferrari  condussero  innanzi  insieme.  Di  giudizi  letterari  ve  n'ha 
uno  contrario  al  Giusti  (p.  255)  ;  un  altro,  preciso,  sicuro,  calzante,  sul  Pascoli 
filologo  (p.  241)  (1).  Al  Ferrari  il  maestro  inviava  spesso  primizie  di  suoi  versi. 
Un  accenno  storico  relativo  alle  odi  barhare  trovo  a  p.  261  :  «  Alle  odi  bar- 
«  bare  ci  pensai  fin  da  giovane:  ne  fermai  il  pensiero  dopo  il  1870,  poi  ch'ebbi 
«  letti  i  lirici  tedeschi.  Se  loro,  perchè  non  noi  ?  La  prima  pensata  in  quella 
«  forma,  e  scrittene  subito  le  prime  strofi,  è  AlVaurora.  La  seconda,  tutta 
«  di  seguito,  è  L'ideale  »  (2). 

La  fresca  e  viva  toscanità  della  dizione  rende  accette  certe  lettere  che  in 
sé  e  per  sé  dicono  poco.  Qua  e  là  spunta  il  poeta,  specialmente  nelle  de- 
scrizioni di  luoghi  alpini,  dello  Spluga,  del  Cadore,  del  Piemonte..  Curioso 
l'osservare  come  uno  di  codesti  spunti  poetici  epistolari  siasi  concretato  nel 
sonetto  In  riva  al  Lys  (pp.  271-72;  cfr.  Opere,  XVII,  301).  Curioso  altret- 
tanto il  ravvisare  in  certune  lettere  le  movenze  umoristiche  della  prosa  car- 
ducciana; ad  es.  nella  lettera  arguta  del  luglio  1882  in  cui  descrive  a  Seve- 
rino il  suo  atteggiamento  di  commissario  per  la  licenza  liceale  di  fronte  ai 
«  lombardotti  »  di  Desenzano  (p.  225),  e  anche  questo  periodo  sulle  penne  da 
scrivere  di  cui  disponeva  a  Ceresole,  in  una  missiva  a  Giulio  Gnaccarini  del 
28  luglio  1890:  «  questa  [penna)  con  cui  scrivo  é  una  mollezza  di  puntina 
«  che  pare  quella  pastina  di  minestrina  che  si  chiama  semina,  e  con  l'in- 
«  chiostro  s'impappina,  e  sotto  la  mano  mi  declina,  e  fa  la  letterina  minu- 
«  tina  minutina  e  vagabondina  e  civettolina  »  (p.  144). 

Con  buona  idea,  a  commento  della  prima  lettera  di  questo  volume,  l'unica 
diretta,  il  18  ottobre  1853,  ad  Elvira  Menicucci  fidanzata,  ricompare  a  pa- 
gine 297  sgg.  una  prosa  giovanile  rarissima  del  Carducci,  l'elogio  funebre  che 
egli,  a  18  anni,  lesse  dal  pergamo  della  chiesa  parrocchiale  di  Celle  nel  Mon- 
tamiata  per  commemorazione  di  Ercole  Scaramucci.  Il  Carducci  predicatore 
e  invocatore  di  testi  sacri  è  ancor  più  curioso  del  Carducci  inneggiante  alla 


(1)  «  Il  Pascoli  ha  molto  ingegno,  moltissimo  gusto,  e  arte  anche  di  scrivere  il 
«  latino.  Quel  che  si  può  desiderare  giustamente  in  lui  è  la  cognizione  della  filo- 
«  logia  germanica  :  egli  non  volle  mai  darsene  pensiero  e  né  anche  studiare  il  te- 
«  desco.  In  Firenze,  dopo  e  accanto  al  Vitelli,  per  quella  sua  mancanza,  non  si 
«  troverebbe  egli  stesso  benissimo.  Bisogna  consigliarlo  e  persuaderlo  a  studiare  il 
«  tedesco,  che  egli  può  fare  presto  e  bene.  E  allora  potrà  figurar  bene  in  qua- 
«  lunque  posto.  Purché  si  faccia  conoscere  >.  La  lettera  è  del  26  nov.  1885. 

(2)  Si  osservi  che  scrivendo,  in  una  lettera  del  1887  alla  moglie  da  Courmayeur, 
intomo  al  frammento  epico  della  battaglia  di  Legnano,  sul  quale  lo  avea  interro- 
gato la  regina  Margherita,  il  Carducci  accenna  ad  altri  due  carmi  simili  ch'egli 
aveva  in  animo  di  com-porr e,  L'ultimo  giorno  delV anno  7niUe  e  Canossa  (p.  111).  Nulla 
ne  fece  e  quindi  nulla  ne  è  rimasto  ;  ma  che  veramente  egli  vagheggiasse  di  trat- 
tare quei  temi,  lo  attesta  Flaminio  Pellegrini  in  una  saporita  comunicazione  fatta 
al  Fanfulla  della  domenica  del  22  marzo  1914. 


BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO  247 

beata  Giuntini.  Dell'opuscolo,  stampato  nel  1853  a  Montepulciano,  si  conoscono 
solo  tre  esemplari. 

Le  42  lettere  del  De  Sanctis  a  Diomede  Marvasi,  vivace  giureconsulto  na- 
poletano morto  nel  1875  di  soli  45  anni,  sono  gustosissime.  Rimaste  in  fa- 
miglia, sono  dalla  vedova  Elisabetta  con  una  graziosa  e  sentita  dedica  inti- 
tolate ai  figliuoli  ;  ma  il  merito  di  questa  esumazione  spetta  al  Croce,  di  cui 
è  veramente  toccante  la  pietosa  cura  e  l'ardore  con  che  vien  rinfrescando  la 
memoria  del  grande  critico  e  rintracciandone  ogni  orma  (1).  Sebbene  l'indole 
del  Marvasi  fosse  in  tante  parti  opposta  a  quella  del  De  Sanctis,  il  critico 
napoletano  gli  voleva  un  gran  bene,  e  quando,  nel  1876,  Camillo  De  Meis 
s'indusse  a  pubblicare  una  scelta  degli  Scritti  di  lui,  il  De  Sanctis  proemiò 
al  volume  e  quel  suo  proemio  ricompare  adesso.  Qui  leggiamo,  tra  l'altro: 
«  Quell'uomo  allegro,  vano  de'  suoi  capelli,  come  una  fanciulla,  tutto  gesto  e 
«  movimento,  che  ti  dominava  co'  raggi  dell'occhio,  così  infiammabile  e  così 
«  placabile,  era  il  confidente  universale.  Non  so  come,  ma  sapeva  tutte  le  in- 
«  timità,  tutti  i  segreti  ;  partecipe  de'  piaceri  e  degli  affanni  altrui,  come 
«  fossero  suoi,  era  a  ciascuno  il  suo  altro.  Natura  schietta  e  calda,  ispirava 
«  la  fiducia  e  guadagnava  l'amicizia  »  (p.  140). 

Angelo  Camillo  De  Meis  e  Diomede  Marvasi  erano  gl'inseparabili  amici  del 
De  Sanctis  allorché  egli  pure,  uscito  dal  carcere  del  Castello  dell'Uovo,  ri- 
parò a  Torino.  E  quando,  nel  marzo  del  1856,  si  recò  ad  occupare  la  cattedra 
di  lettere  italiane  nel  Politecnico  di  Zurigo,  parve  a  quei  due  amici  che  loro 
mancasse  un  elemento  di  vita.  Le  lettere  zurighesi  del  De  Sanctis  al  Marvasi 
sono  piene  di  notizie  curiose  su  uomini  e  cose,  con  certi  sprazzi  di  pensiero 
e  talvolta  anche  di  umorismo,  che  le  rende  singolarmente  gustose.  Il  Croce 
le  ha  bene  annotate. 

Espandesi  il  De  S.  nel  descrivere  quei  paesi  nuovi,  quelle  consuetudini 
nuove  di  vita  e  di  scuola,  non  tutte  conformi  ai  gusti  suoi.  La  grande  cu- 
riosità di  veder  cose  nuove  gli  rendeva  meno  aspro  l'esilio.  Egli  stesso  lo 
dice:  «  Molti  nell'esilio  erano  detti  martiri,  che  si  sentivano  felici,  io  per  il 
«  primo  che  vedevo  nuovi  cieli,  e  quasi  non  avvertivo  le  privazioni  »  (p.  145). 
Tuttavia  le  abitudini  alquanto  grossolane  dei  professori  tedeschi  non  gli  pia- 


(1)  Non  pago  d'averne  stampate  nel  1897  le  lezioni  sul  secolo  XIX  e  d'averne 
raccolti  nel  1898  gli  Scritti  vari,  egli  ci  ha  ridati,  ripuliti,  prima  il  Saggio  crii,  sul 
Petrarca,  poi  la  Storia  della  Ietterai,  italiana  ;  ha  studiato  i  rapporti  del  De  Sanctis 
con  lo  Hegel  e  con  altri  pensatori  tedeschi  (vedi  ora  il  voi.  Ili  dei  Saggi  filosofici 
del  Croce)  ;  è  venuto  pubblicando  nella  Critica  ì  Discorsi  politici  e  molti  altri 
scritti  sparsi,  fra  cui  non  poche  lettere,  del  suo  autore.  Sappiamo  che,  proseguendo 
infaticabilmente  le  sue  indagini,  è  riuscito  a  porre  le  mani  su  altri  sunti  di  vecchi 
corsi  tenuti  dal  De  Sanctis.  Né  fu  senza  frutto  il  viaggio  che  fece  a  bella  posta 
a  Zurigo  per  rintracciare  anche  colà  vestigi  41  lui.  Si  vedano  le  lettere  pubblicate 
in  La  critica,  XII,  85  sgg.,  col  titolo  II  De  Sanctis  in  esilio,  molte  delle  quali  sono 
complemento  e  chiarimento  a  quelle  dirette  al  Marvasi.  Tutto  questo  lavoro  per 
chiarire  in  ogni  sua  parte  la  vita,  l'anima,  l'attività  d'un  morto  che  si  ammira, 
è  nobile  e  commovente. 


248  BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

cevano.  Particolari  interessanti  ha  in  queste  lettere  sull'estetico  Vischer.  Il 
fisiologo  Moleschott,  che  conobbe  a  Zurigo,  gli  parve,  anzichenò,  ciarlatano 
(p.  12  n.)',  severamente  giudica  anche  il  Nigra  giovine  (p.  97):  mutò,  poi, 
avviso,  ma  queste  prime  impressioni  sono  ragguardevoli.  D  modo  suo  di  fare 
le  lezioni  era  molto  diverso  da  quello  che  s'usava  a  Zurigo;  i  pochi  ascolta- 
tori suoi  bentosto  crebbero  e  tutti  i  migliori  provarono  verso  di  lui  quell'at- 
taccamento straordinario  che  è  il  miglior  guiderdone  dei  buoni  maestri.  Gli 
si  attaccò,  e  da  lui  imparò,  anche  Jacopo  Burckhardt,  il  benemerito  illustra- 
tore della  nostra  arte,  lo  scrutatore  della  civiltà  del  rinascimento  (1).  Non 
fa  troppa  meraviglia  l'apprendere  che  nel  1856  al  Burckhardt  era  intera- 
mente ignoto  Giacomo  Leopardi  (p.  21);  la  fama  del  grande  lirico  nostro 
stentò  a  diffondersi,  tanto  nella  penisola  quanto,  e  più,  all'estero.  Con  l'animo 
gonfio  d'affetto,  il  De  S.  non  poteva  dimenticare  gli  amici,  gli  scolari,  le 
scolare  di  Torino;  particolarmente  le  scolare,  verso  una  delle  quali  provò 
tenerezze  più  che  di  maestro  (pp.  11,  65,  72),  sicché  ne  tolse  ispirazione  per- 
sino a  qualche  poesia  (2).  Un  amore  tutto  passionale  lo  avvolse  a  Zurigo,  di 
una  ragazza  tisica  (p.  81);  ma  non  molto  dopo  incontrava  quella  relazione 
con  Maria  Testa  Arenaprimo,  che  doveva  chiudersi  col  matrimonio.  Il  presente 
gruppetto  di  lettere  ci  fa  assistere  alla  vita  dell'uomo  di  cuore,  oltreché  d'in- 
gegno. Caratteristica  la  sua  bontà  verso  una  povera  cameriera  conosciuta  a 
Torino  (pp.  27  e  73);  caratteristica  la  sua  passione  gentile  per  gli  uccelli,  che 
aveva  tratti  seco  a  Zurigo  e  pei  quali,  nelle  strettezze  in  cui  pur  versava, 
comperò  subito  una  bella  gabbia  (p.  4)  (3).  Per  quel  ch'è  dei  letterati  italiani, 
s'intravvede  qualche  relazione  col  Manzoni,  che  il  De  S.  visitava  sul  Lago 
Maggiore  (p.  38),  ed  il  Croce,  con  la  sua  consueta  informazione  sicura,  sa  dir- 
cene di  più  (p.  33  71.).  Lo  stile  corrente  di  queste  lettere  offre  maggiori  at- 
trattive dello  stile  studiato  di  opere  destinate  dal  De  S.  alla  stampa.  V'è, 
impagabile,  quella  sua  sovrana  potenza  d'osservatore  e  di  rappresentatore. 
Non  si  saprebbe  come  meglio  ridare  quella  macchietta  del  professore  di  let- 
teratura francese  Challemel-Lacour,  piovuto  a  Zurigo  da  Parigi  e  dal  Belgio 
(pp.  48^50).  R. 


(1)  Sinora  quel  che  se  ne  sa  è  tutto  nella  istruttiva  nota  di  Ciro  Trabalza, 
Burckhardt  e  De  Sanctis,  Cividale  del  Friuli,  1911,  che  è  destinata  a  comparire 
nella  attesa  Miscellanea  Creacini.  Il  Tr.  rileva  certe  coincidenze  dei  due  critici  nel 
giudicare  il  Petrarca  e  riferisce  i  ricordi  d'un  vecchio  superstite  sui  loro  rapporti 
personali.  Il  Croce,  speriamo,  saprà  dircene  di  più  ora  che  ha  compiute  le  sue 
esplorazioni  dirette  a  Zurigo. 

(2)  Tra  quelle  scolare  fu  anche  la  Grazia  Mancini,  poi  moglie  ad  Augusto  Pie- 
rantoni,  ohe  pubblicò  due  lettere  dirette  ad  essa  dal  De  S.  Vedi  la  nota  del  Croce 
a  p.  84. 

(8)  Su  la  passione  del  De  S.  per  gli  uccelli,  a  cui  dava  nomi  di  uomini  politici 
e  di  letterati,  è  da  vedere  a  p.  18  l'opuscolo  cit.  del  Trabalza.  In  La  critica,  XII, 
112-18,  leggesi  quel  delizioso  brano  di  lettera  a  Luigi  di  Larissé  in  cui  il  De  S., 
con  rara  festività,  narra  le  gesta  coniugali  dei  suoi  canarini. 


BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO  249 


ANNUNZI    ANALITICI 


Guido  Zaccagnini.  —  Per  la  storia  letteraria  del  Duecento.  —  Milano, 
Cogliati,  1913  [Estr.  dal  periodico  II  libro  e  la  stampa.  Un  bel  gruzzolo  di 
notizie  bibliografiche  desunte  da  fonti  archivistiche  (cioè  doppiamente  preziose, 
che  ognun  sa  quanto  l'esito  di  queste  ricerche  per  lo  più  sia  sproporzionato 
alla  fatica  e  al  tempo  speso),  riguardanti  grammatici  e  dettatori  a  Bologna, 
scrittori  didattici  e  morali,  rimatori  toscani  e  faentini,  rimatori  bolognesi. 
Non  son  lavori  che  si  possano  riassumere  :  richiamo  ad  ogni  modo  specialmente 
l'attenzione  del  lettore  sulle  pagine  dedicate  a  Matteo  de'  Libri,  a  Pier  de'  Cre- 
scenzi,  a  Guido  Guinicelli,  a  Fabruzzo  Lambertazzi,  a  Ranieri  de'  Samari- 
tani, ad  Onesto  degli  Onesti  e  ad  Albertino  Mussato.  Non  sempre  però  le 
identificazioni  ci  persuadono,  né  sempre  ci  sembrano  attendibili  le  affermazioni 
dello  Z.  Per  es.,  a  proposito  dei  maestri,  scrive  :  «  mi  parrebbe  di  potere  dire 
«  che  coloro,  a  cui  non  è  aggiunto  il  *  doctor  '  e  che  sono  semplicemente  ap- 
«  pellati  '  magistri  gramatice  '  siano  appunto  quelli  che  in  altri  documenti 
«  sono  detti  '  magistri  puerorum  '  »  (p.  5).  Questo  «  mi  parrebbe  di  potere 
«  dire  »  è  per  lo  meno  alquanto  strano  :  che  dicono  i  documenti  ?  Sarebbe 
utile  che  lo  Z.  riprendesse  il  piccolo  problema,  perchè  in  un  mio  lavoro  (1), 
ch'egli  conosce  ma  non  cita,  s'osserva  negli  usi  medievali  fiorentini  una  netta 
distinzione  tra  i  '  doctores  puerorum  '  maestri  di  leggere  e  scrivere,  e  i  *  ma- 
gistri gramatice  '.  Come  propriamente  stiano  le  cose  a  Bologna,  lo  Z.  non  chia- 
risce affatto.  È  del  pari  avventato  ciò  che  dice  di  Onesto  degli  Onesti,  ove 
osserva  che  costui  col  titolo  di  '  sere  '  è  «  assai  spesso  ricordato  nei  codici  che 
«  contengono  rime  sue  ».  Ci  sarebbe  davvero  da  impensierirsi  e  da  mettere  in 
quarantena  le  notizie  messe  insieme  dallo  Z.  e  da  altri,  se  ciò  fosse  vero,  ma 
non  è  :  il  '  sere  '  per  '  messere  '  è  un  errore  del  Magi.  Pai.  418.  Quanto  alle 
identificazioni,  quella  dell'A.  del  Fiore  di  Rettorica  con  Tommaso  da  Flesso 
(p.  15)  e  quella  dei  poeti  Semprebene  da  Bologna  e  Gianni  Alfani  con  Sem- 
prebene  della  Braina  (p.  49)  e  Vanni  q.  Alfani  (p.  80)  non  si  possono,  almeno 
per  ora,  accettare.  La  bibliografia  è  generalmente  accurata.  Mi  permetto  di 
aggiungere,  per  quel  che  riguarda  il  Frescobaldi  (p.  30),  la  mia  memoria  : 
Laìììbertuccio  Frescobaldi  poeta  e  banchiere  fiorentino  del  sec.  XIII,  inse- 
rita nella  Miscellanea  Mazzoni.     Deb.]. 

Chartularium  Studii  Bononiensis,  voi.  IL  —  Bologna,  1913  [La  Commis- 
sione per  la  Storia  dell'Università  di  Bologna,  creata  nella  ricorrenza  del  terzo 
centenario  dalla  morte,  di  Ulisse  Aldrovandi  per  felice  iniziativa  di  Emilio 
Costa  (vedi  Giornale,  50,  473)  ed  ora  potutasi  costituire  in  Ente  morale  per 
le  generose  elargizioni  della  locale  Cassa  di  Bisparmio  e  di  quattro  beneme- 
riti cittadini,  prosegue  alacremente  e  fruttuosamente  la  sua  nobilissima  opera. 


(1)  Sui  più  antichi  «  doctores  puerorum  »  a  Firenze,  in  Sttidi  medievali,  II, 


250  BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

Già  abbiamo  annunciato  la  pubblicazione  dei  tre  primi  volumi  degli  Studi  e 
Memorie  {Giornale,  54,  287;  58,  475-76;  61,  473)  e  del  primo  del  Chartu- 
larium  [Giornale,  55,  177-79).  Ora  è  uscito  il  secondo  volume  di  questa 
cospicua  silloge  di  antiche  carte,  il  quale  comprende  i  documenti  raccolti  dal 
dr.  A.  Sorbelli  nell'Archivio  del  Monastero  di  Sant'Agnese  e  fra  gli  Atti  del 
cardinale  legato  Lodovico  Fieschi  (1412-13),  dal  P.  Serafino  Gaddoni  nell'Ar- 
chivio comunale  di  Dozza  e  dal  dr.  F.  Baldasseroni  nei  Registri  vaticani  e 
avignonesi  di  Gregorio  XI.  Più  numerosi  che  nel  primo  volume  sono  qui  i 
documenti  spettanti  agli  ordini  dello  Studio  o  direttamente  a  maestri  e  sco- 
lari; e  l'accurato  indice  finale  agevolerà  co' suoi  rinvìi  le  ricerche.  Noi  rile- 
veremo, ancorché  si  tratti  di  cose  in  parte  già  note,  la  lettera,  rimasta  senza 
effetto,  con  la  quale  nel  1413  il  Fieschi  invitava  Gasparino  Barzizza,  allora 
insegnante  a  Padova,  ad  assumere  una  lettura  nello  Studio  bolognese  (doc.  189) 
e  parecchie  licenze  di  portar  libri  fuori  di  Bologna,  concesse  dallo  stesso  car- 
dinale a  studenti  ed  a  maestri  (docc.  179,  185,  200,  206,  ecc.),  nelle  quali 
sono  spesso  annoverate,  accanto  alle  opere  giuridiche,  scritture  letterarie 
classiche  e  medievali.  Fra  i  nomi  poi  che  non  figurano  nell'indice  perchè  di 
persone  estranee  allo  Studio,  si  incontrano,  anche  nel  secondo  volume,  quelli 
di  Loderingo  degli  Andalò,  la  cui  madre  Agnese,  vedova  di  Andalò,  compera 
e  scambia  terreni  nel  maggio  del  1258  (docc.  26  e  27),  e  del  suo  collega 
nelle  podesterie  di  Bologna  e  Firenze  e  nel  dantesco  collegio  degli  ipocriti 
tristi,  frate  Catalano,  del  quale  impariamo  a  conoscere  un  figliuolo  «  domino 
«  Guillielmo  domini  fratris  Cathelani  »,  testimonio  ad  un  atto  del  19  gen- 
naio 1280  (doc.  30).  Se  un  «  Petrus  de  Medicina  »,  che  insieme  col  dottor  di 
leggi  Ugolino  Zamboni  consiglia  il  giudice  del  podestà  in  certa  causa  del  1254 
(doc.  23),  sia  il  dantesco  seminator  di  discordie  o  l'altro  Pier  da  Medicina, 
giudice  generale  del  Rettore  della  Marca  nel  1235,  cui  pochi  versi  volgari 
scoperti  qualche  anno  fa  diedero  notorietà  fra  gli  studiosi,  o  non  sia  né  l'uno 
né  l'altro,  sarà  difiìcile  stabilire.  Ma  quel  «  dominus  Stricha  de  Saglimbenis 
«  de  Senis  »,  che  é  ricordato  come  podestà  di  Bologna  in  un  documento 
del  1286  (doc.  38),  sarà  bene,  secondo  l'opinione  della  maggior  parte  dei  com- 
mentatori, lo  Stricca  dantesco  «  che  seppe  far  le  temperate  spese  ».  V.  R.]. 
P.  Valacca.  —  Le  Rime  «  estravaganti  »  da  attribuire  a  G.  Boccaccio. 
—  Maglie,  tip.  F.  Capece,  1913  [Da  un'osservazione  del  Parodi  nella  sua 
rassegna  (Marzocco  del  14  marzo  1909)  della  postuma  stampa  solertiana  di 
Bime  disperse  di  F.  Petrarca  è  stata  determinata  nel  V.  la  «  tentazione  »  [si-c] 
di  scovare  dentro  l'abbondante  raccolta  qualche  componimento  da  restituire 
al  Boccacci.  Non  possiamo  dire  per  altro  né  ch'egli  abbia  cercato  bene  né 
che  abbia  trovato  gran  cosa  :  che,  in  fondo,  tolti  i  due  sonetti  Le  nevi  sono 
e  le  pioggie  cessate  e  Istanca  e  scalza  e  co'  le  trezze  avvolte  (Solerti,  XC 
e  CLXX),  sui  quali  s'era  già  appuntato  lo  sguardo  acuto  del  Parodi,  il  V. 
non  à  saputo  indicare  come  probabilmente  boccacceschi  che  cinque  altri,  ossia 
quelli  numerati  CVI,  CVII,  LX,  XCI  e  CXCIX.  Quest'ultimo  é  del  Boccacci 
sicuramente,  perché  col  nome  di  lui  si  trova  nel  ed.  Magliabechiano  VII,  640 
(e.  10  v):  il  che  sfugge  al  V.,  come  sfuggì  al  Solerti  ed  ai  suoi  recensori.  Ra- 


BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO  251 

gionevole  e  accettabile,  per  quanto  non  appoggiata  su  così  aperte  testimo- 
nianze, mi  sembra  anche  la  rivendicazione  dei  sonetti  LX  e  XCI  a  messer 
Giovanni  ;  non  oserei  invece  dir  altrettanto  dei  due  CVI-CVU,  assolutamente 
indegni  del  nostro  poeta  per  la  loro  disadorna  volgarità  e  da  ritener  più  tosto 
appartenenti  alla  poesia  semiletteraria  che  alla  colta.  In  una  noticina  è  allar- 
gato il  sospetto  al  sonetto  CXC,  perché  «  vi  si  descrivono  i  divertimenti  e  le 
«  delizie  di  una  marina,  che  potrebbe  essere  Baia,  con  tale  accento  di  verità 
«  che  ci  richiama  alla  mente  la  Fiammetta  nei  passi  relativi  »,  e  al  CCIII,  il 
quale  offre  qualche  analogia  di  concetto  con  due  sonetti  autentici  :  e  qui,  mi 
pare,  il  V.  à  ragione.  In  un  prossimo  studio  egli  si  propone  di  tornare  più  dif- 
fusamente sull'argomento  e  di  indagare  quali  altre  poesie  della  silloge  soler- 
tiana  si  possano  attribuire  al  Certaldese  ;  non  mi  sembra  inutile  avvertire  che 
io,  affrontando  la  stessa  ricerca  nell'introduzione  al  mio  testo  delle  Bime 
boccaccesche,  ò  creduto  di  riconoscere  tale  qualità  in  ventinove  sonetti,  dei 
quali  ò  soggiunto  in  appendice  una  ristampa  critica.  Attendendo  il  nuovo 
studio  del  V.,  sia  lecito  far  voti  che  in  esso  appariscano  meno  difettivi  il  ri- 
gore scientifico  dell'indagine  e  la  proprietà  dell'espressione.     A.  F.  M.]. 

Luigi  Albertazzi.  —  Compendio  della  vita  del  h.  Giovanni  Colombini, 
testo  latino  del  h.  Giovanni  T avelli  da  Tossignano  e  testo  volgare  di  un  ano- 
nimo del  Quattrocento  raffrontati  con  la  vita  classica  del  beato  cotnpilata 
da  Feo  Belcari.  —  Quaracchi,  tip.  S.  Bonaventura,  1910  [Qual  sia  il  conte- 
nuto dell'opuscolo  presente,  che  solo  ora  ci  giunse,  dopo  anni  che  è  stampato, 
si  arguisce  precisamente  dal  lungo  titolo.  Ne  teniamo  parola,  anche  così  in 
ritardo,  perchè  è  complemento  indispensabile  a  quanto  fin  dal  1885  il  cano- 
nico Albertazzi  scrisse  della  vita  del  b.  Colombini.  I  risultati  di  quel  prege- 
vole articolo  del  vecchio  Propugnatore  furono  già  indicati  nel  Giorn.,  6,  453. 
Ora  l'A.  pubblica  il  testo  latino  correggendo  su  d'un  ras.  Marciano  quello 
che  già  avea  prodotto  nel  1764  il  Mansi,  esemplando  un  ms.  di  Siena.  E  gli 
mette  a  fronte  la  versione  volgare,  quale  occorre  nel  ms.  2545  della  Riccar- 
diana.  A  giusto  titolo  egli  s'è  convinto  che  quella  versione  non  è  del  Belcari, 
come  prima  supponeva,  ma  che  il  Belcari  la  innestò  nella  vita  sua  del  Co- 
lombini. Se  a  questo  fatto  ragguardevole  si  aggiunga  che  tredici  capitoli 
della  Vita  dettata  dal  Belcari  son  tratti  di  peso  dalle  lettere  del  Colombini 
medesimo,  se  ne  dovrà  concludere  che  il  valore  della  scrittura  del  Belcari, 
tanto  esaltato  un  tempo,  va  ridotto  alquanto,  per  ciò  che  spetta  al  merito 
del  suo  autore,  perchè  troppe  parti  di  essa  non  sono  opera  originale  di  lui]. 

Giovanni  Pansa.  -—  Giovanni  Quatrario  di  Sulmona  (1336-1402).  Con- 
tributo alla  storia  dell'umanesimo.  —  Sulmona,  tip.  editrice  sociale,  1912  [In 
un  codice  scritto  nel  1440  da  mano  corrente  umanistica,  con  la  r  che  va  sotto 
il  rigo  secondo  l'uso  della  scuola  napoletana,  si  conservano  le  poesie  latine  di 
Giovanni  Quatrario  sulmonese,  della  seconda  ^età  del  secolo  XIY.  Veramente 
il  cognome  autentico  fu  più  tardi  frodolentemente  raschiato  e  sostituitovi 
quello  del  Barbato,  ma  non  sì  che  in  un  luogo  la  raschiatura  imperfetta  non 
lasciasse  trasparire  la  parola  primitiva.  Ora  il  merito,  certamente  insigne,  di 
avere  rivendicato  al  legittimo  autore  l'opera  contenuta  nel  codice  spetta  al 


252  BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

signor  Giovanni  Pansa.  Non  che  il  Quatrario  sia  un  grande  poeta:  che  anzi 
per  le  manchevolezze  formali  è  un  poeta  infelice,  incapace  di  padroneggiare 
la  frase  e  il  metro;  ma  ha  una  doppia  importanza,  che  nessuno  gli  può  ne- 
gare :  importanza  storica  e  importanza  umanistica.  Storica,  poiché  per  mezzo 
suo  si  illuminano  di  luce  nuova  molti  fatti  e  personaggi  del  suo  tempo  ; 
umanistica,  non  fosse  che  per  questo,  che  imitò  e  riprodusse  i  metri  oraziani 
lirici  ed  epodici,  onde  è  il  primo  degli  umanisti  che  apprezzò  Orazio  lirico, 
superando  in  questo  riguardo  lo  stesso  Petrarca  e  precorrendo  i  secoli  che  a 
Orazio  lirico  resero  piena  giustizia.  —  Delle  molteplici  e  amorose  cure  spese 
dal  Pansa  intorno  al  suo  autore  gli  studiosi  gli  devono  esser  grati.  Il  testo 
delle  poesie  è  pubblicato  integralmente,  accompagnato  a  pie  di  pagina  da 
note  dichiarative  ;  e  ad  esso  va  innanzi  un'ampia  esposizione  storica.  Forse 
buona  parte  del  lavoro  dedicato  all'interpretazione  poteva  egli  volgere  con 
maggior  profitto  all'esatta  costituzione  del  testo  :  per  l'interpretazione,  sempre 
difficile  e  spesso  inafferrabile,  avrebbe  trovato  nei  lettori  altrettanti  solerti  e 
volonterosi  collaboratori,  come  usa  quando  per  la  prima  volta  si  dà  alle  stampe 
uno  scrittore  nuovo.     R.  S.  (1)]. 

Domenico  Santoro.  —  Il  viaggio  d'Isabella  Gonzaga  in  Provenza.  — 
Napoli,  tip.  Melfi  e  Joele,  1913  [Può  dirsi  complemento  al  lavoro  speciale 
sull'Equicola  già  edito  dal  Santoro;  cfr.  Giorn.,  49,  171-73.  Dal  24  aprile  al 
2  luglio  1517  durò  il  viaggio  che  Isabella  d'Este  Gonzaga,  con  seguito  di 
gentiluomini  e  di  donzelle,  fece  nella  Francia  meridionale.  Era  tra  gli  accom- 
pagnatori anche  l'Equicola,  il  quale  descrisse  quel  viaggio  in  un  opuscolo  oggi 
rarissimo  intitolato  D.  Isabelae  Estensis  Mantuae  principis  iter  in  Narbo- 
nensem  Galliam.  Fu  già  detto  in  questo  Giorn.,  34,  10  che  in  quell'opuscolo 
«  le  frasi  retoriche  e  le  nozioni  topografiche  e  storiche  tengono  il  luogo  dei 
«  particolari  privati  curiosi  che  avremmo  preferito  trovarvi  ».  E  la  Cartwright 
quasi  parafrasando:  «  The  last-named  scholar  (Equicola)  wrote  a  pedantic 
«  account  of  this  journey,  more  with  the  object  of  showing  bis  learning  than 
«  of  recording  facts  of  interest  »  {Isabella  d'Uste,  II,  133).  H  Santoro  spreme 
ora  tutto  il  succo  di  quella  narrazione  e  ce  l'offre  in  compendio,  con  qualche 
brano  di  traduzione  letterale.  A  complemento,  fa  seguire,  traendole  dall'Archivio 
Gonzaga,  cinque  lettere  scritte  durante  il  viaggio  dall'Equicola  al  primogenito 
d'Isabella,  Federico.  Da  buon  cortigiano,  l'Equicola  vi  si  trattiene,  più  che  altro, 
sulle  licenziosità  che  si  permettevano  le  damigelle,  ben  sapendo  quanto  ne  fosse 
ghiotto  il  rampollo  alquanto  libertino  dei  Gonzaga.  —  L'esemplare  àeWIter, 
di  cui  si  valse  il  S.,  è  quello  mutilo  e  guasto,  di  cui  egli  medesimo  già  toccò 
nel  Giorn.,  15,  411.  Fa  meraviglia  ch'egli  dica  quell'esemplare  «  il  solo  che, 
«  per  ricerche  fatte,  credo  sia  giunto  fino  a  noi  »  (p.  7).  Chi  scrive  n'ebbe  in 
casa  per  molti  mesi  un  altro,  integro   e  ben  conservato;  né  ò  l'unico  che  si 


(1)  Per  la  polemica  suscitata  dal  volume  del  Pausa,  polemica  dotta,  se  anche 
acerba,  che  contiene  elementi  istruttivi ,  vedansi  i  rinvii  del  nostro  OiornaU, 
liXn,  460.  La  Direzione. 


BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO  253 

conservi  in  Mantova.  Gli  esemplari  veduti  dai  maggiori  bibliografi  debbono 
essere  conservati  in  grandi  depositi  esteri.  Comunque  sia,  l'opuscoletto  è  cer- 
tamente ben  raro,  ed  il  S.  ha  fatto  bene  a  trarne  le  poche  notiziole  alquanto 
curiose  che  contiene]. 

Giuseppe  De  Michele.  —  La  vita  di  Nicolò  Franco.  —  Arpino,  tip.  arpi- 
nate,  1913  [Estratto  dagli  Studi  di  letteratura  italiana.  Giovandosi  di  ciò  che 
il  Franco  lasciò  scritto  di  sé,  e  degli  studi  su  di  lui  più  recenti,  massime  di  quelli 
di  S.  Bongi,  di  C.  Simiani,  di  A.  Luzio,  di  E.  Sicardi  (gli  assidui  del  Gior- 
nale se  ne  rammenteranno),  ritesse  del  Franco  la  vita  senza  apportarvi,  a  dir 
vero,  grandi  novità,  ma  aggiungendo  piccoli  dati  nuovi,  temperando  certi 
giudizi  forse  un  poco  eccessivi  e  cercando  di  fare  le  parti  sue  di  contro  al- 
l'Aretino, come  altri  assunsero  le  parti  dell'Aretino  di  contro  a  lui.  Non  è  qui 
il  luogo  di  sentenziare  chi  abbia  ragione;  ma  ad  ogni  modo  a  questo  studio 
va  data  lode  di  diligenza  coscienziosa,  ed  anche  di  esposizione  chiara  e  so- 
bria. Dal  cod.  Vatic.  5642,  così  spesso  posto  a  profitto  da  altri,  e  che  il  De  M. 
ritiene  «  certamente  autografo  »,  anzi  suppone  sia  «  l'abbozzo  del  IV  libro 
«  delle  Lettere  che  il  Franco  spesso  promise  di  dare  alle  stampe,  ma  non  pub- 
«  blicò  mai  »;  dal  cod.  Vaticano  suddetto,  ripeto,  son  qui  pubblicate  15  lettere 
inedite  e  due  sonetti.  Inoltre  una  sua  pasquinata  contro  il  cardinale  Carafa  è 
desunta  dal  ms.  Vatic.  Ottob.  2684.  Rispetto  ai  motivi  della  condanna  del 
Franco  ripete  il  De  M.  quanto   già  avea  dimostrato  lo  Gnoli  (cfr.  Giornale, 

38,  462)  ed  anzi  riproduce  sulla  sua  morte  il  documento  che  lo  Gnoli  trovò 
nell'archivio  della  confraternita  di  S.  Giovanni  Decollato.  Nel  complesso,  vo- 
lentieri lo  ripetiamo,  lo  scritto  del  De  M.,  senza  insegnarci  novità  molto  si- 
gnificanti, è  un  buon  riferimento  critico  e  una  buona  revisione  di  quanto  sul 
famigerato  libellista  fu  scritto;  e  si  può  fidarsene]. 

Lina  Marci.  —  Laura  Terracina  poetessa  napoletana  del  sec.  XVL  — 
Napoli,  Fr.  Perrella,  1913  [Dev'essere  originariamente  una  tesi  di  laurea. 
Molti  fatti  nuovi  non  insegna:  ripete  quelli  che  sulla  feconda  fabbricatrice 
di  versi  napoletana  e  s«lla  famiglia  di  lei  scrissero  il  Bongi,  Annali  Gioli- 
tini,  I,  227-31  e  B.  Croce  nella  Napoli  nobilissima,  per  cui  cfr.  Giorn.,  38,  469  e 

39,  462.  Fa  vivere  la  poetessa  dal  1519  alla  fine  del  1577  o  al  principio 
del  1578.  Esamina  parecchio  sommariamente  le  sue  raccolte  di  versi  a  stampa 
che  sono  8,  a  cominciare  da  quella  ch'ebbe  l'edizione  principe  dal  Giolito 
nel  1548  ed  a  terminare  con  quella  veneziana  del  1567.  Taluna  di  quelle 
raccolte  ebbe  nove  e  fin  undici  ristampe  ;  par  quasi  impossibile,  trattandosi  di 
roba  così  dozzinale,  scipita  e  senza  ispirazione.  Si  valse  pure  delle  elegie 
delle  donne  vedove,  nella  rarissima  edizione  napoletana  del  1561,  di  cui  assi- 
cura che  l'unico  esemplare  compiuto  è  quello  dei  Gerolomini  di  Napoli  (p.  110), 
mVitre  il  Bongi  dice  [Op.  cit.,  I,  455)  che  ne  possedeva  un  altro  il  conte 
Manzoni.  La  M.  ha  pur  tratto  profitto  d'un^nona  raccolta  di  rime  di  Laura, 
inedite  ed  encomiastiche,  trascritte  in  un  codice  della  Nazionale  di  Firenze. 
Parrebbe  che  da  questa  così  larga  esplorazione  l'Autrice  del  saggio  dovesse 
trarre  buon  costrutto  e  rappresentarci  un  po'  al  vivo  l'indole,  l'attività,  il  va- 
lore, le  relazioni,  la  fisionomia  artistica  della  sua  scrittrice.  Invece  vaga  nel- 


254  BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

l'indeterminato  ;  scagiona  senza  prove  la  Tenacina  dalle  tradizioni  corse  sulla 
licenziosità  dei  suoi  costumi  ;  riporta  parecchi  tra  i  suoi  versi  non  belli,  ma 
non  sa  determinarne  il  preciso  significato.  Ha  espressioni  come  la  seguente: 
«  crebbe  vergine  di  ogni  vernice  storica  e  filosofica  [sic),  ma  in  compenso  ebbe 
«  ingegno  acuto  e  vivido  e  la  parola  ebbe  animata,  specchio  di  un  pensiero 
«  fortemente  temprato  nel  sentimento  consapevole  della  virtù  »  (p.  33).  Frasi. 
Nelle  sue  liriche  riconosce  la  «  linea  spesso  difettosa  dello  stile  »  (p.  35), 
«  una  forma  superficiale  e  un'invenzione  stilistica  (sic)  scarsa  »  (p.  97);  ma 
trova  qualcosa  di  buono  nelle  sue  rime  morali  e  soggettive,  senza  saperci  dire 
che  cosa  veramente  sia  questo  qualcosa  di  buono.  S'entusiasma  per  un  so- 
netto politico  sull'Italia,  che  giudica  essere  tra  i  più  belli  del  genere  nel  se- 
colo XVI  (pp.  95-96),  sebbene  Laura  avesse  gran  propensione  verso  gli  Spa- 
gnuoli.  Anche  sulle  molte  amicizie,  poetiche  e  non  poetiche,  di  lei,  non  aggiunge 
gran  che  di  nuovo,  neppure  su  quella  col  Tansillo  già  documentata  dal  Fio- 
rentino (vedi  la  sua  ediz.  delle  Poesie  Uriche  del  Tansillo,  Napoli,  1882, 
pp.  26  e  233-36);  solo  apprendiamo  dalla  chiusa  di  un  sonetto  inedito  che 
quella  relazione  dovette  andar  soggetta  ad  una  brusca  rottura  perchè  la  poe- 
tessa ormai  attempata  e  desiderosa  della  fine,  pur  rammentando  i  suoi  ammi- 
ratori estinti,  conclude  col  dire  :  «  Di  Tancillo  non  curo,  né  mi  duole  |  De 
«  la  sua  morte,  perchè  si  credeva  |  Tener  de  la  fortuna  in  man  la  rota  » 
(p.  69).  L'A.  pone  tra  il  1560  e  il  '61  il  matrimonio  di  Laura  «  con  un  suo 
«  ardente  amatore  e  fors'anco  suo  parente,  Polidoro  Terracina  »  (p.  60),  che 
le  fu  compagno  sin  troppo  fervidamente  attaccato,  sì  da  tormentarla  conila 
sua  gelosia.  —  Concludendo.  La  sig.*  M.  s'è  travagliata  intorno  ad  un  tema 
ingrato,  senza  ricavarne  gran  costrutto.  Tuttavia,  non  essendovi  ancora  sulla 
Terracina  nessuna  memoria  speciale,  bisogna  pur  esserle,  non  foss'altro  pel 
buon  volere,  indulgenti  e  riconoscenti]. 

Giuseppe  Biadego.  —  Letteratura  e  patria  negli  anni  della  dominazione 
aiostriaca.  —  Città  di  Castello,  Casa  Lapi,  1913  [Lodevolissimo  pensiero  fu 
questo  di  ristampare,  con  ritocchi  ed  aggiunte,  gli  scritti  principali  del  Bia- 
dego riguardanti  il  periodo  del  nostro  risorgimento  politico.  L'erudito  biblio- 
tecario veronese  non  suole  scrivere  mai  cosa  alcuna  che  non  rechi  qualche 
fatto  nuovo  o  non  rettifichi  errori  inveterati;  egli  porta  in  ogni  argomento 
giudizio  equilibrato  e  sereno,  cognizione  approfondita  della  materia  onde  di- 
scorre. Centro  d'ogni  sua  ricerca  suol  essere  l'amata  patria,  Verona,  da  cui 
s'allontana  di  rado  e  per  poco.  —  Quelli,  e  sono  i  più,  tra  gli  scritti  rac- 
colti nel  presente  volume  che  si  riferiscono  alla  storia  delle  lettere,  furono 
annunciati,  e  alcuni  riassunti,  nel  nostro  Giornale,  quando  videro  la  prima 
volta  la  luce.  Seguendo  la  cronologia,  rammenteremo  anzitutto  l'articolo  su 
V.  Monti  sospettato  dalla  polizia  austriaca  (su  cui  cfr.  Giorn.,  59,  455);  poi  le 
Spigolature  manzoniane,  a  proposito  delle  pubblicazioni  di  Ercole  Gnecchi, 
con  una  lettera  del  Manzoni  al  can.  Giuliari,  su  cui  il  B.  ha  una  breve  nota 
commemorativa;  l'articoletto  su  G.  Prati,  che  riferisce  un  sonetto  scherzoso  di 
lui  per  essere  ammesso  nel  congresso  dei  dotti  del  1847;  due  scritti  impor- 
tanti su  Aleardo  Aleardi,   uno   dei  quali,   riflettente  il  '48  e  '49,  ricompare 


BOLLETTINO    BIBLIOGBAFICO  255 

senza  il  prezioso  corredo  epistolare  (cfr.  Giorn.,  57,  163),  mentre  l'altro  rife- 
risce una  saffica  satirica  inedita  in  morte  di  Maria  Luigia.  Notizie  spicciolate 
suir Aleardi  occorrono  pure  in  altri  luoghi  del  volume,  e  l'indice  finale  dei 
nomi  propri  giova  a  richiamarle.  Ricompare  qui  la  commemorazione  di  Ce- 
sare Betteloni,  con  l'appendice  delle  lettere  e  coi  paralipomeni  (cfr.  Giornale, 
40,  463  e  46,  478);  e  del  medesimo  poeta  veronese  leggesi  una  poesia  ama- 
ramente giocosa  neWsivtìcoìo  I  prigionieri  toscani  di  Curtatone  a  Verona,  ove 
son  pure  lettere  di  Pietro  Fanfani  e  di  Enrico  Bindi  al  padre  Sorio.  Anche 
di  Vittorio  Betteloni  riappare  qui  la  commemorazione  recente,  seguita  dal- 
l'interessante carteggio.  Tre  brevi  scritti  riguardano  Giacomo  Zanella,  come 
poeta  e  come  traduttore  ;  di  Cristoforo  Pasqualigo  ò  ricordo  con  bibliografia. 
Molte  cose  utili  e  garbate,  insomma,  che  attestano,  accanto  alla  bene  ordi- 
nate dottrina,  gentilezza  di  sentimento]. 

Alessandro  D'Ancona.  —  Memorie  e  documenti  di  storia  italiana  dei  se- 
coli XVIII  e  XIX,  Firenze,  Sansoni,  1913.  —  Idem.  —  Ricordi  storici  del 
risorgimento  italiano,  Firenze,  Sansoni,  1913  [Fa  piacere  il  trovare  raccolti, 
con  alcune  giunterelle  nelle  note,  questi  scritti  ben  conosciuti  dell'instanca- 
bale  vecchio  letterato,  che  sono  in  gran  parte  frutto  di  ricerche  in  antiche 
carte  obliate.  Il  D'A.  ha  il  fiuto  del  documento  importante  e  lo  incastona  con 
maestria  nella  sua  larga  e  coscienziosa  illustrazione,  sicché  si  riesce  a  trarne 
tutto  il  profitto.  Il  maggiore  scritto  dei  due  volumi,  che  apre  le  Memorie, 
è  quello  notissimo  su  Federico  il  grande  e  gli  italiani,  edito  la  prima  volta 
nel  1891  e  già  nel  1892  uscito  in  versione  tedesca.  Letterati  e  scienziati  ita- 
liani vissuti  a  quel  tempo  presso  la  corte  di  Prussia  ci  sfilano  d'innanzi  :  vi 
tengono  i  primi  posti  lo  Spallanzani  e  il  Lagrange,  l'Algarotti,  il  Denina,  il 
Lucchesini  e  il  Filati.  V  è  pure  detto  di  artisti  da  teatro  italiani  favoriti 
dal  potente  Federico,  e  specialmente  di  quella  Barberina  Comparini,  le  cui 
relazioni  col  re  della  giovane  Prussia  ebbe  riflessi  anche  politici.  Né  v'è  ta- 
ciuto degli  acquisti  d'arte  fatti  allora  in  Italia  dalla  corte  prussiana,  con  la 
mediazione  specialmente  del  conte  Giulio  Cesare  Masini  di  Cesena.  Una  nota 
aggiunta,  del  tutto  nuova,  tratta  dell'uso  che  fece  della  figura  di  Federico  II 
la  scena  italiana  (p.  10).  Tacendo  degli  articoli  di  storia  civile  sulla  prepara- 
zione liberale  del  ventennio  1790-1810,  richiamiamo  l'attenzione  sulle  preziose 
Spigolature  nelV archivio  della  polizia  austriaca  di  Milano,  da  cui  si  ricava 
una  volta  di  più  quanto  vigile  fosse  l'Austria  nel  seguire  le  mosse  degli  ita- 
liani liberali  e  anche  degli  stranieri  sospetti,  come  il  Fauriel  e  come  lo 
Stendhal,  sul  quale  il  D'A.  ha  pure  un  articolo  speciale,  che  lo  studia  nei 
suoi  rapporti  con  l'Italia,  nel  voi.  dei  Bicordi  storici  (argomento  ripreso  dal 
N  ovati  in  La  lettura  del  gennaio  1914).  Le  rivelazioni  più  importanti  delle 
Spigolature  concernono  Pietro  Giordani:  con  lettere  sue  e  d'altri,  integrate 
con  le  carte  rinvenute  nell'archivio  di  Parrai^,  il  D'A.  narra  per  filo  e  per 
segno  la  storia  dell'esilio  del  Giordani  nel  1824  e  della  sua  carcerazione  nel  1834. 
In  un'aggiunta  di  pp.  352-55  si  trova  ribadita  con  nuovi  dati  di  fatto  l'ac- 
cusa che  grava  su  Pietro  Brighenti  di  essere  spia  dell'Austria.  Altre  spigola- 
ture da  archivi  si  trovano  nel  volume  dei  Bicordi  storici,  e  qui  si  tratta  di 


256  BOLLETTINO    BIBLIOGBAFIOO 

archivi  privati  non  facilmente  accessibili.  Nell'archivio  Targioni-Tozzetti  son 
rilevate  molte  lettere  di  Antonio  Ranieri  e  alcune  del  Giordani  a  Fanny 
Targioni-Tozzetti  (la  celebre  Aspasia),  in  cui  è  spesso  parola  del  Leopardi; 
nell'archivio  Lotti  rileviamo  lettere  e  frammenti  di  lettere  del  Tommaseo; 
abbondante  messe  di  notizie  s'ha  dall'archivio  Montanelli,  ove  non  solamente 
spiccano  caratterizzate  le  figure  di  Giuseppe  Montanelli  e  di  F.  D.  Guerrazzi 
(del  quale  è  pur  parola  altrove,  con  giudizi  che  la  storia  giudicherà  se  siano 
del  tutto  sereni),  ma  fanno  capolino  anche  altre,  G.  B.  Niccolini,  V.  Gioberti, 
Gino  Capponi,  Gius.  Giusti,  ecc.  Rilevabili  pure  due  lettere  del  Manzoni  ri- 
guardanti la  causa  ch'egli  ebbe  col  Le  Mounier  per  l'abusiva  ristampa  del 
romanzo,  e  due  altre  lettere,  interessanti,  di  Fr.  De  Sanctis  da  Torino.  Altri 
scritti  minori  riguardano  Luigi  Carlo  Farini,  a  proposito  del  suo  carteggio 
edito  da  Luigi  Rava,  con  ricordi  personali  preziosi  ;  G.  P.  Vieusseux,  a  pro- 
posito del  libro  del  Prunas  snlV Antologia  ;  Un  poeta  diplomatico,  vale  a  dire 
la  missione  dell' Aleardi  a  Parigi  nel  1848,  sulle  lettere  edite  dal  Biadego 
(cfr.  Giorn.,  57,  163);  Costantino  Nigra  riguardato  come  poeta;  G.  B.  Giorgini. 
Tutte  cose  di  buona  sostanza  e  però  istruttive,  nonché  piacevoli  a  leggersi. 
Vuoisi  richiamare  siccome  ampio  resoconto  di  questi  due  volumi,  con  l'ag- 
giunta di  particolari  nuovi,  l'articolo  di  V.  Cian,  Attraverso  due  secoli  di 
storia  e  di  vita  italiana,  nel  Fanfulìa  della  domenica,  XXX\T[,  3,  8,  9]. 


PUBBLICAZIONI    NUZIALI 


Adolfo  Mabellini.  —  Lettere  inedite  di  Silvio  Pellico  al  conte  Andrea 
Gahrielli.  —  Fano,  tipogr.  letteraria,  1914;  ediz.  di  150  esemplari  per  nozze 
Borgogelli-Jaume  [Cinque  lettere  al  conte  Gabrielli  dal  1846  al  '52;  una,  del 
28  die.  '45,  al  gesuita  padre  Francesco  Degioanni,  ove  è  detto  del  Gabrielli  : 
«  in  gioventù  siamo  stati  amicissimi,  ed  egli  già  era  eccellente  ».  Il  Pellico 
conobbe  infatti  il  Gabrielli  a  Milano,  forse  in  casa  Porro.  Egli  nacque  in  Fano 
nel  1792  e  morì  in  Roma  nel  1852.  Ebbe  in  moglie  la  contessa  Fannv  Wise- 
mann,  sorella  del  celebre  cardinale.  Di  spiriti  temperatamente  liberali,  prese 
parte  alla  politica  ed  all'amministrazione  pubblica.  Su  di  lui,  e  sulle  sue  scrit- 
ture in  prosa  ed  in  verso,  il  M.  sa  darci  copiose  notizie,  desunte  dalle  carte 
che  si  custodiscono  nella  biblioteca  di  Fano,  ove  sono  pure  gli  autografi  delle 
lettere  del  Pellico  qui  pubblicate.  Lettere  poco  sapide,  come  in  genere  tutte 
quelle  del  Saluzzese  di  quel  periodo,  ma  buone  e  candide.  Rileviamone  due 
periodi,  ove  prevale  pur  sempre  la  preoccupazione  religiosa,  ma  con  qualche 
allusione  non  del  tutto  scevra  di  valore  :  «  Il  tuo  sentire  in  fatto  di  religione, 
«  cred'io,  è  sempre  stato  sano;  io  vissi  fra  dubbii  per  molti  anni,  esaminando 
«  ora  un  sistema  filosofico,  ora  un  altro.  Vidi  alfine  che  la  base  manca  a  tutti 
«  i  sistemi  quando  non  s'appoggiano  sulla  fede  cattolica  e,  per  grazia  di  Dio, 
«  la  verità  rifulse  al  mio  sguardo  »  (p.  35).  «  Felice  me,  s'io  potessi  mirare 
«  addietro  nella  vita  trascorsa,  e  non  avermi  a  rimproverare  mille  giovenili 
«  stoltezze!  Che  circa  il  non  aver  fatto  più  numerosi  libri,  sento  che  ciò  per 
«  mio  conto  non  significa  nulla,  ed  anzi  penso  che  sia  meglio  cosi.  Amo  an- 


BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO 


257 


«  Cora  la  letteratura  per  antico  gusto,  leggo  volentieri  le  cose  belle,  e  riconosco 
«  negli  studii  un  pregio,  un  elemento  di  gentilezza  ;  ma  non  mi  esagero  più 
«  l'importanza  di  moltiplicare  volumi,  allorché  altri  doveri  maggiori  chiamano 
«  l'intelletto  a  faccende  d'altra  natura  »  (pp.  37-38)]. 

Francesco  Picco.  —  Un  «  memoridl  »  di  Gabriel  Giolito  de'  Ferrari,  con 
breve  chiosa.  —  Torino,  tip.  Bona,  1914;  per  nozze  Vallana-Picco  [Verosi- 
milmente intorno  al  1564,  come  congettura  il  Picco,  chiede  il  Giolito,  «  mer- 
«  cante  de  libri  al  segno  della  fenice  in  Venetia  »,  privilegio  d'esclusione  per 
impressione  e  vendita  ad  un  potentato,  che  non  si  sa  esattamente  qual  sia. 
Le  opere  per  cui  chiede  tale  privilegio  sono  cinque,  tra  cui  la  Historia  d'Italia 
del  Guicciardini.  Il  documento  si  trova  nell'archivio  di  Stato  in  Parma]. 

Gregorio  Gattinoni.  —  Inventario  di  una  casa  veneziana  del  sec.  XVII. 
—  Mestre,  Officine  grafiche,  1914;  ediz.  di  200  esemplari  per  nozze  Gattinoni- 
Carbone  [Riproduce  un  codice  dell'archivio  domestico.  Esso  reca  il  ricco  inven- 
tario di  oggetti  d'arte,  di  lusso,  d'uso  della  casa  Caliari,  redatto  nel  1682.  Im- 
portante per  la  storia  dell'arte,  giacché  vi  si  trovano  elencati  dipinti,  abbozzi  e 
studii  dei  quattro  pittori  di  quella  famiglia,  il  più  celebre  fra  i  quali  fu  Paolo, 
comunemente  noto  col  nome  di  Paolo  Veronese.  L'inventario  è  scritto  in  quel 
gergo  mezzo  italiano  e  mezzo  veneto,  che  a  Venezia,  durante  la  Serenissima, 
era  linguaggio  officiale.  L'editore  non  rifuggì  dal  compito  difficile  di  spiegare 
le  voci  meno  agevoli  del  documento  e  chiuse  il  suo  signorile  opuscolo  con  un 
indice-glossario,  per  cui  tanto  il  glottologo  quanto  lo  studioso  del  costume  gli 
dovranno  riconoscenza.  È  un  lessico  fatto  con  diligenza  e  dottrina]. 

Ciro  Trabalza.  —  Petrarca,  Fauriel  e  Macine  nelV  inedita  digressione 
sulVamore  dei  Promessi  Sposi.  —  Perugia,  tip.  cooperativa,  1914;  ediz.  di 
101  esemplari  per  nozze  Giolitti-Tami  [Buono  e  grazioso  opuscolo.  Il  Tr.  vi 
studia  una  parte  finora  trascurata  di  quella  celebre  digressione  contenuta 
nella  pi-ima  stesura  del  romanzo  manzoniano,  che  ancor  prima  della  pubbli- 
cazione dello  Sforza  offrì  occasione  agli  scritti  del  Fogazzaro  e  di  Giov.  Negri, 
per  essere  stata  riferita  dal  Bonghi  fin  dal  1886.  È  la  digressione  in  cui  il 
Manzoni  giudica  poco  opportune  le  descrizioni  degli  amori  nei  romanzi.  Il  Tr. 
riferisce  quel  giudizio  alla  temperie  dei  portorealisti  e  si  trattiene  in  ispecie 
su  ciò  che  nota  il  Manzoni  di  due  grandi  travagli  d'anime,  quello  del  Pe- 
trarca e  quello  del  Bacine.  Dilucida  le  due  citazioni  e  nel  tempo  stesso  fa 
vedere  che  certamente  don  Alessandro  alludeva  al  Fauriel  accennando  ad  uno 
scrittore  eminente  che  avrebbe  presto  emesso  le  idee  sue  profondissime  sul  Pe- 
trarca, ciò  che  poi  in  realtà  il  Fauriel  non  fece.  Il  Tr.,  che  pur  rivela  anche 
in  questo  lavoretto  coscienziosa  preparazione,  poteva  forse  trovar  modo,  a  pro- 
posito della  crisi  spirituale  del  Racine,  di  rammentare  il  libro  del  Masson- 
Forestier,  Autour  d'un  Racine  ignoré,  Paris,  1910,  libro  rivoluzionario  e  un 
po'  mattoide,  che  sollevò  in  Francia  parecchio  rumore  (cfr.  Berne  des  deux 
mondes,  15  die.  1910  e  1°  febbr.  1911,  e  Bevue  d'histoire  liti,  de  la  France, 
voli.  XVII  e  XVIII).  Anche  negli  articoli  degli  avversari  parmi  che  resti 
scossa  l'opinione,  a  cui  il  Manzoni  dovea  credere,  d'un  ritorno  del  Racine  al 
giancjenismo  ;  il  Masson  e  il  Faguet  negano  addirittura  che  il  grande  tragico 
dovesse  qualcosa  a  Portoreale].  • 


Giornale  storico,  LXIV,  fase.  190-191.  17 


COMUNICAZIONI  ED  APPUNTI 


Intorno  a  una  «  tornada  »  indirizzata  a  Otto  del  Carretto.  —  Il  com- 
ponimento di  F.  de  Romans  Atccel  no  triwb  chantan  (ediz.  Zenker,  Halle, 
1896,  p.  50,  n.  VI)  si  chiude  con  questi  versi: 

N'  Oth  del  Caret,  lo  cor 
avez  on  prez  no  mor: 
qu'ainch  nulhz  bars  no  renhet 

plus  franchamen 
ni  genchers  no  obret 

home  valen, 
per  qu'ieu  am  la  vostra  senhoria. 

Tale  è  la  lezione  dello  Zenker,  il  quale  s'è  attenuto  all'unico  ms.  L  (Vati- 
cano 3206  ;  Arch.  f.  d.  St.  d.  n.  Spr.  u.  Ut,  XXXIV,  426),  salvo  in  due  punti  : 
ha,  cioè,  mutato  ho  cor  in  lo  cor  al  v.  1  e  ha  cambiato  al  v.  5  òhret  in  ohret. 
Ora  questo  verso  5  non  accontenta,  anzi  tutto  perchè  bisognerebbe  ammet- 
tere che  home  valen  stia  per  il  nominativo,  nel  che  non  si  può  facilmente 
consentire  con  l'editore,  e  poi  perchè  F.  de  Romans  non  deve  essersi  espresso 
in  modo  molto  diverso  dagli  altri  trovatori,  i  quali  ascrivevano  a  somma 
lode  per  un  loro  protettore  il  saper  accogliere  e  onorare  gli  uomini  valenti. 
Insomma,  a  me  par  chiaro  che  dhret  del  cod.  deve  essere  modificato  in 
òdret  [ondret),  ammettendo  uno  scambio  spiegabilissimo  di  h  per  d,  da  parte 
del  copista,  e  che  getichers  è  un  fallo  dello  stesso  amanuense  per  gencheis. 
Genchers  era  tanto  comune,  che  facilmente  si  comprende  come  esso  abbia 
potuto  sostituire  il  meno  usato  gencheis.  L'originale  della  «  tornata  »  indi- 
rizzata a  Otto  del  Carretto  doveva  sonare,  oso  dire,  certamente:  ni  gencheis 
non  otidret  —  home  valen,  cioè:  «  né  (alcun  barone)  seppe  mai  onorare, 
meglio  di  voi,  un  uomo  valente  »  (1). 


(1)  Appel,  Lit.  f.  germ.  u.  rom.  Phil,  XVII,  169  e  Mussafia,  Zur  Kritik  u.  Interpre- 
tation  roman.  Texte,  in  Sitzungsberichte  dell'Aooad.  di  Vienna,  CXXXIV,  p.  82,  hanno 
interpretato  diversamente  il  passo.  L'uno  e  l'altro  propongono  gencheis,  ma  man- 
tengono obret  dello  Zenker;  il  primo  non  dice  nulla  di  ìiome  valen  (dunque  la  sua 
dichiarazione  è,  in  fondo,  quella  medesima  dello  Zenker);  mentre  il  Mussafia 
scrive:  *  home  valen  ist  Vooativ,  und  da  ist  die  oblique  Form  zulftssig».  Credo 
(naturalmente!)  che  la  mia  proposta  sia  migliore,  e  ho  fiiacia  che  moltissimi  altri 
saranno  d'accordo  con  me. 


COMUNICAZIONI    ED    APPUNTI  259 

Giacché  ho  la  penna  in  mano,  faccio  una  piccola  osservazione  concernente 
i  vv.  38-48  del  medesimo  componimento  : 

donna,  ajatz  ohai  •  1  cor, 
que  miens  es  lai  que  mor, 
qu'ainch  un  jor  no  •  m  lonJiet 

vostre  oors  gen 
ni  re  no  desiret 

tan  coralmen. 

Bisogna  leggere  que''l  mieus  e  non  lonhet  (cioè:  «  donna,  abbiate  qui  il  vostro 
«  cuore,  che  il  mio  è  là  (presso  di  voi)  e  muore  e  mai  non  abbandonò  il  vostro 
«  corpo  grazioso  e  nulla  amò  di  più  corale  amore  »).  Il  Mussafia  ha  proposto 
già  quel,  con  piena  ragione  (e  l'Appel,  a  quanto  vedo,  pur  senza  proporre 
questa  facile  correzione  aveva  perfettamente  compreso  il  senso  generale  di 
questi  versi)  ;  ma  a  me  par  necessario  ricordare  che  il  nostro  trovatore  allude 
qui  alla  famosa  prigionia  del  cuore,  che  è  uno  dei  luoghi  comuni  dell'antica 
poesia  provenzale  e  francese. -Si  tratta  del  «  cuore  »  ,che  è  imprigionato  nel 
corpo  dell'amata.  Potrei  citare  più  esempi  per  l'antica  letteratura  francese, 
p.  es.  Cligès,  vv.  282  sgg.  e  nella  poesia  dei  troveri  {Archiv  del  Herrig, 
XLin,  273): 

Mais  [mes  cuers]...  s'en  est  en  li  eritrei» 

0  anche:  Sanz  cuer  sui,  deus  enama  dame  (Scheler,  Trouv.  helges,  II,  143). 
Cfr.  anche  Gace  Brulé  (ediz.  Huet),  n.  XXX.  Per  la  lirica  provenzale,  ricor- 
derò i  seguenti  versi  di  Gauceran  de  S.  Leidier  (ms.  A,  Studj  di  filol.  rom., 
m,  529): 

sapchatz  de  ver  mos  cors  de  mi  non  fo 

anz  es  remas  en  la  soa  preiso. 

Non  piccola  parte  del  componimento  En  chantan  m^aven  di  Folchetto  di  Mar- 
siglia è  dedicato  a  codesta  «  prigionia  d'amore  »,  che  dalla  poesia  provenzale 
e  francese  passò  ai  poeti  delle  origini  nostre. 

Giulio  Bertoni. 


Tre  codici  umanistici  pietroburghesi.  —  Il  prof.  Fridolin  di  Pietroburgo 
mi  aveva  da  tempo  segnalato  l'esistenza,  in  quella  Biblioteca  Imperiale,  di  un 
ms.,  creduto  autografo  di  Lionardo  Bruni.  L'autunno  scorso  ebbi  la  fortuna 
di  rintracciarlo  e  ne  posso  dare  la  descrizione  agli  studiosi  di  cose  umanistiche, 
pur  lasciando  sospeso  il  giudizio  in  merito  all'autografia. 

Il  Petropol.  lat.  0.  v.  IV.  4  proviene  dal  fondo  del  museo  dell'Eremitaggio; 
vediamo  ancora,  incollata  sulla  rilegatura,  la  quota  antica  :  «  EMnepaTopcKan 
^pMHxaacHafl  HHOCxpaHHaH  Bii6jiìoTeKa.  96.  niKani.  5,  nojiKa  2  ».  Sulla 
guardia  anter.  (1  r)  leggiamo:  «  Leonardus  Aretinus  de  Temporibus  suis  |  1436. 


260  COMUNICAZIONI    ED    APPUNTI 

«  Orìginalis.  La  signature  de  l'Auteur  se  trouve  au  dernier  feuillet  verso  ». 
Il  tutto  è  scritto  da  varie  mani  recenti;  l'accenno  alla  firma  del  Bruni  è 
uno  sbaglio  grossolano,  giacché  a  52  ^'  (guardia  posteriore)  si  trova  un  «  Leo- 
nardus  Aretinus  »  di  scrittura  per  lo  meno  cinquecentesca,  accanto  alle  firme 
dei  bibliotecari  A.  EpMOJiaeBi>  e  II.  Bh^kobi.  (l'attuale  capo-sezione  dei  mss.). 
Per  la  storia  del  cod.  può  servire,  oltre  ad  un'altra  vecchia  quota  1601  (1  v), 
un  «  Io.  Delphini  »  (m.  sec.  XM^-XVU  ?),  3  r  e  la  preziosa  indicazione,  3  v 
imo  mar g.  «  Ex  Musaeo  Petri  Dubrowsky  »;  a  49  v  l'istessa  nota  bibliogra- 
fica è  ripetuta  colla  data  1788.  Si  tratta  quindi  di  uno  dei  tanti  acquisti 
fatti  in  Francia  dal  solerte  bibliotecario  di  Caterina  II,  alla  quale  ultima,  sia 
detto  tra  parentesi,  dobbiamo  la  presenza  in  Pietroburgo  di  tutta,  se  non  er- 
riamo, la  biblioteca  del  Voltaire,  con  importanti  postille  a  mano,  non  ancora 
studiate  a  dovere,  lasciate  dall'istesso  filosofo  sui  margini  dei  suoi  libri  (1). 

Ma  torniamo  al  Bruni.  11  ms.,  pergamenaceo,  calligrafico,  è  della  prima 
metà  del  secolo  XV,  misura  cm.  12-18,3  (spazio  utilizzato  8-11,3  circa).  La 
scrittura,  piuttosto  arcaizzante,  ha  qualcuna  delle  caratteristiche  della  minu- 
scola «  antica  »  petrarchesca;  le  lettere  mi  sembrano  alquanto  più  aguzze  di 
quelle  che  ravvisiamo  nel  «  calamus  calligraphicus  »  del  Bruni,  sebbene  non 
potrei  pronunziarmi  recisamente  prima  di  un  accurato  esame,  corredato  da 
fotografie,  che  mi  riservo  di  fare  nella  prossima  andata  a  Pietroburgo.  Qualche 
noterella  marginale  coeva  (26?;-27r;  27  f-28  r,  ecc.)  è  di  una  seconda  mano. 
Il  cod.  ha  49  carte  utilizzate  e  5  bianche.  A  3  ;•  vediamo  un  bellissimo  fron- 
tespizio miniato,  con  fiori  e  rabeschi  in  rosa,  rosso,  avana,  verde,  blu,  viola 
ed  oro;  il  titolo  spicca  in  lettere  dorate  su  sfondo  rosa  e  verde  (il  rosa  al- 
quanto sbiadito)  :  Leonardi.  De  temporibus,  suis.  lege  feU'. 

Anche  se  non  autografo,  questo  cod.  ha  quindi  un'  importanza  eccezionale 
per  la  critica  del  testo  di  una  delle  più  rilevanti  opere  storiche  del  Bruni. 
Ne  daremo  in  sede  più  acconcia  le  varianti. 

L'enciclopedia  letteraria  di  Sicco  Polenton  sembra  ora  venuta  di  moda. 
Tornerà  per  ciò  gradita  una  noterella  sul  bizzarro  cod.  che  ne  scoprii  a  Pie- 
troburgo. È  il  Lat.  F.  IV.  81,  copia  settecentesca  di  un  originale  scritto  «  per 
«  me  I  Bonifacium  Evangelistae  de  Murroval  |  lium  (se^/)  sub  annis.  D.ni 
MCCCCLII  I  TPR  •  Nicolai  PP.  Vti  Die  X  \  lanuarii  in  Murro  antedicto  ». 
Questo  ms.  cartaceo  (cm.  21-34,9)  comincia  ex  abrupto  con  un  indice  alfa- 
betico (carta  di  guardia  non  num.  r-v)  ;  segue  «  Ad  Henricum  Episcopum 
"  Feltrensem  |  Epistola  »  (2)  (carte  non  num.  2  r-4?*),  expl.  «  Ex  Padua  II  (sic) 


(1)  Ci  era  già  pervenuta  questa  comunicazione  allorché  cominciò  a  Parigi,  edi- 
tore Champion,  la  stampa  di  Voltaire,  (Euvres  inédites,  dovuta  alla  cura  di  Fernand 
Caussy.  I  primi  volumi  di  quest'edizione  (mentre  scriviamo  ne  è  fuori  soltanto  il 
primo)  sono  in  gran  parte  materiati  con  gli  autografi  di  Pietroburgo. 

La  Direzione. 

(2)  Sì  tratta  quindi,  come  comprova  altresì  l'esame  del  testo,  della  seconda  red. 
(Seoarizzi    Catinia,  ecc.,  di  Sicco  Poi.,  Bergamo,  1899,  XLIX;   Sabbadini,  Studi  it.  di 


COMUNICAZIONI    ED    APPUNTI  261 

«  nonas  octobres  MCCCCXXXVII  ».  Il  settecentista,  2  r,  imo  marg.,  aggiunge 
una  nota,  ove  spiega  chi  fosse  il  destinatario  della  lettera  colla  scorta  del- 
l'Ughelli  {It.  sacra,  V,  375;  cfr.  Eubel,  I,  136).  Esso  contiene  5  carte  non 
numerate,  303  num.  e  2  non  num.  Interessanti  sono  le  correzioni  coeve  alla 
scrittura  del  ms.  in  inchiostro  rosso,  dovute  indubbiamente  ad  un  erudito 
italiano  (24  r  marg.  «  neminem,  nisi  legendum  si  7o  nisi  stare  debet  »;  56  r 
«  Non  disputo  de  lo  quod  Xicconi  non  raro  idem  est  ac  An,  Num  »),  il  quale 
si  serviva,  oltre  al  nostro,  di  un  secondo  codice  (11  ?;  «  Vide  codicem  al- 
«  terum  »).  Queste  correzioni  sono,  crediamo,  la  sola  cosa  che  può  offrire  interesse 
alla  scienza  ;  il  corpo  del  testo,  non  sappiamo  se  per  colpa  dell'originale  o  della 
copia,  è  irto  di  sviste  e  di  abbagli,  talvolta  grossi. 

Il  cod.  lat.  Q.  IV.  198  è  di  mano  secentesca,  ma  probabilmente  il  suo  ori- 
ginale risale  ancora  all'età  del  tardo  umanesimo.  Questo  manoscr.  cartaceo 
(cm.  15,2-19,3;  carte  171  e  otto  bianche)  contiene  un'anonima  Historia  pro- 
f{ana)  monarchiae  romanae,  brevi  cenni  biografici  degl'imperatori  da  Cesare 
a  Mauricio,  un  «  symbolum  »,  impresa  di  ciascuno,  la  morale  che  deriva  da 
tale  «  impresa  »,  il  «  fatum  »  e  r«  epitaphium  ».  Secolo  per  secolo  viene 
fatta  una  rapida  rassegna  della  storia  sacra  dell'epoca,  con  relativa  bibliografia, 
a  cui  è  accodata  una  bibliografia  profana;  per  il  sec.  V  (164  i7-166  r)  entrambe 
sono  fuse  insieme  :  non  risulta  però  che  l'autore  abbia  fatto  studi  speciali 
nel  campo  della  bizantinologia  ;  tanto  maggior  rilievo  merita  l'accenno  (39  r-y 
per  il  sec.  II;  143  r- 144  r  per  il  sec.  IV)  alla  letteratura  ebraica.  Un  epi- 
gramma dello  Scaligero  (1)  citato  164/*  determina  approssimativamente  l'e- 
poca della  compilazione  ;  l'intonazione  del  libro  poi  mi  sembra  tale  da  doverlo 
attribuire  alla  penna  di  un  cinquecentista  italiano,  probabilmente  religioso. 
Riparlerò  in  miglior  occasione  delle  ipotesi  che  si  possono  fare  in  merito  al- 
l'autore. 

Vladimiro  Zabughin. 


fllol.  ci,  XV,  1907,  214^4  ;  il  Trivulz.  815  porta  la  data  M.CCCC.XXX.VI,  il  rima- 
neggiamento è  del  1433  circa).  Nelle  correzioni  il  settecentista  si  attacca  per  lo  più 
—  e  qui  sta  l'interessante  —  alle  lezioni  genuine  comprovate  dall' Ambros.  e  dal 
Trivulz.;  così  41  r,  42 u  toglie  V-m  alla  forma  autentica  Aeneidam  (Sabb.,  226,  230), 
non  arriva  a  capire  il  verbo  principetur,  e  si  acqueta  soltanto  quando  lo  vede  usato 
più  volte,  modifica  veri  o  presunti  sbagli  di  reciprocazione  e  di  costrutto  ;  egli  per 
giunta  sembra  alquanto  zoppo  nel  latino.  Curiosa  la  correz.  in  «  unus  et  viginti. . . 
«  versus  >  dell'  «unus  de  viginti»  dell'originale  (Sabb.,  280;  42  w;  si  tratta  di  ^ntft. 
lat.,  672,  «  ergone  supremis»,  Donat.  auct.  Vit.  Verg.,  33,  17-27,  Diehl), 

(1)  I.  C.  ScALiGER,  Poem.,  ed.  1591,  non   contiene   tale   epigramma,  come  neppure 
l'ed.  ottocentesca  delle  poesie  di  Gr.  Giusto.  Eccone  il  testo  : 

Nolis  aliquid,  quod  voluisse  velie  nolis 
Hoc  efficiet  provida  mensura  futuri. 
Prudentia  Constantiae  in§xplicata  Mater 
Constantia  certissima  Poenitentiae  nostis. 

Lo  stile  è  quello  dello  Scaligero-padre. 


262  COMUNICAZIONI    ED    APPUNTI 

Per  una  scheda  di  metrica.  —  Il  prof.  Biadene,  nella  Bassegna  hibliogr. 
della  Ietterai,  ita!.,  XXII,  55  sgg.,  ha  dedicato  ad  una  mia  nota  petrarchesca 
di  cinque  pagine  una  recensione  di  otto  :  troppe,  veramente,  quando  si  osservi 
ch'egli  non  reca  un  solo  argomento  nuovo  per  risolvere  la  difficoltà  e  stra- 
volge più  d'uno  de'  miei. 

Il  termine  «  cantilena  de  quatuor  rithimis  »  si  può  tradurre  «  canzone  di 
quattro  rime  »  (aggiungo  qui  la  postilla  a  Che  debb'io  far:  «  hos  rithmos 
iw  cawtilenis  nos^ris  crebro  nimis  »  (1));  di  canzoni  con  la  stanza  di  quattro 
rime,  il  Petrarca  non  ha  che  Lasso  me,  ed  in  questa  è  un  verso  d'Arnaldo  ; 
i  commenti,  fuor  della  presente  questione,  citano  come  precedenti  di  Lasso  me 
poesie  provenzali  e  delle  italiane  una  sola  :  Ai  fals  ri's,  di  Dante.  Questa  serie 
di  «  fatti  »  mi  ha  suggerito  una  spiegazione  del  passo  di  Benvenuto  da  Imola, 
diversa  da  quelle  proposte  finora. 

Nell'ipotesi  mia  resta  una  difficoltà  :  il  modus  et  stilus  ;  gli  elementi  della 
frase  di  Benvenuto  ci  son  tutti  :  la  sottigliezza  starà  nell'intendere  come  essi, 
dal  ricordo  di  una  conversazione  col  Petrarca,  abbian  potuto  riunii-si  a  co- 
stituir quella  frase.  Ho  preferito  quest'industria  di  chiosa  ad  un'alterazione 
arbitraria  del  testo. 

Poiché  il  Biadene,  ritornando  all'ipotesi  del  Canello,  finisce  col  dire  che 
invece  di  quattro,  scritto  in  tutte  lettere,  si  potrebbe  leggere  set:  chi  può 
escluderlo  ?  Ma  prima  di  manomettere  un  testo,  mi  pare  che  si  debba  tentare 
di  cavarne  un  senso,  rispettandolo. 

E  poi,  io  ripugno  dall'attribuire  gratuitamente  al  Petrarca  una  così  gmve 
bugia:  bisogna  non  aver  mai  letto  Lo  ferm  voler  di  Arnaldo  per  dubitare 
che  la  sestina  petrarchesca  abbia  più  legami  con  quella  che  con  AI  poco  giorno 
di  Dante.  Il  Petrarca  avrebbe  detto  di  aver  derivato  la  sestina  da  Arnaldo 
(«  sponte  se  accepisse...  »)  fuor  dell'esempio  dantesco?  Può  darsi  anche  questo: 
si  fanno  tante  colpe  al  Petrarca  !  Ma,  ripeto,  se  per  credere  questo  debbo  anche 
cambiare  la  parola  di  un  documento,  non  ci  sto. 

Per  parte  mia,  avrei  finito:  ma  devo  ancora  oppormi  ad  alcune  osserva- 
zioni del  B.,  che  hanno  l'apparenza  della  giustezza  e  non  sono  che  ostili. 

Quando  ho  parlato  di  «  netta  divisione  tra  fronte  e  sirima  »  ho  spiegato 
in  nota  che  cosa  intendessi:  non  che  dovesse  rifiutarsi  lo  schema  con  i  due 
piedi  (tant'è  che  citavo  uno  studio,  e  pagina,  del  Biadene,  dov'è  appunto 
quello  schema),  ma  che  la  rima  dei  versi  ultimo  della  fronte  e  primo  della 
sirima  in  questa  ritorna  ancora,  contro  la  norma  quasi  costante  del  Petrarca  : 
mi  pare  sia  una  cosa  diversa.  E  «  minori  »  chiamavo  le  rime  Beo,  ripe- 
tute due  volte  ciascuna,  di  fronte  ad  A  che  ricorre  quattro:  non  è  affatto 
un  «  abbaglio  ».  Il  B.  osserva  «  (ciò  che  il  N[eri]  omise  di  fare)  che  in  cia- 
«  scuna  delle  cinque  stanze  onde  la  canzone  si  compone,  la  principale  pausa 


(1)  L'Appel  avverte  giustamente  che  si  tratta  delle  rime  equivoche  tempo:  per 
tempo,  ed  enumera  gli  altri  componimenti  in  cui  esse  si  trovano  {Ztir  Enttvickelung 
italien.  Dichtungen  Petrarcas,  p.  177;  cfr.  l'ediz.  Mestica,  p.  885);  per  cantikna,  R\evo 
già  notato  ohe  il  P.  designa  con  questo  nome  una  canzone  di  Arnaldo. 


COMUNICAZIONI    ED    APPUNTI  268 

«  sintattica  cade  per  l'appunto  alla  fine  del  quarto  verso  »  ;  omisi  questa  os- 
servazione, e  poteva  senza  danno  ometterla  il  B.,  perchè  non  è  esatta:  chi 
non  si  ferrai  alla  punteggiatura  delle  edizioni,  può  riconoscere  nella  seconda 
stanza,  ed  anche  nella  terza,  due  pause  principali,  alla  fine  del  quarto  e  del- 
l'ottavo verso,  sì  che  il  periodo  grammaticale  accompagna  quello  ritmico,  come 
l'avevo  indicato. 

Ho  scritto  sopra  fronte  e  sirima;  il  B.  mi  richiama  alla  terminologia  di 
Dante  :  voglia  credermi,  la  conoscevo,  ma  ho  seguito  un  uso  che  stimo  legit- 
timo. La  divisione  in  due  parti  può  dirsi  col  Mari  «  il  distintivo  o  il  sigillo 
dell'antica  stanza  italiana  »  :  i  vari  tipi  sono  determinati  dalle  successive  di- 
visioni di  queste  due  parti,  ma  nella  prima  divisione  della  stanza  è  l'elemento 
ritmico  essenziale;  di  qui  la  necessità  pratica  di  nomi  propri  a  denotarlo. 
Il  Mari  dirà  sempre  fronte  e  volta-  altri,  limitando  il  secondo  termine  alla 
ballata,  usano  fronte  e  sirima  per  la  canzone.  Ma  questi  «  manualetti  »  vanno 
per  le  nostre  scuole  ;  cerchiamo  un  libro  che  non  abbia  questo  torto,  e  scritto 
quando  la  canzone  era  ancora  una  forma  viva:  la  Poetica  del  Minturno; 
anche  il  M.  conosce  la  distinzione  dantesca:  «  ma  noi,  perciocché  piedi  e  versi 
«  comunalmente  altro  significano,  per  fuggir  le  voci  dubbiose,  la  prima  parte, 
«  nella  qual'è  il  primo  canto  Fronte  semplice,  e  la  seconda,  nella  qual'ò  il 
«  secondo,  semplice  Sirima,  purché  non  si  raddoppj,  chiameremo:  e  composta 
€  cosi  la  Fronte,  come  la  Sirima,  ove  sia  ripetita  »  (cito  dall'ediz.  di  Napoli, 
1725,  p.  187).  E  quando  altri  non  si  occupi  che  della  divisione  della  stanza 
in  due  parti,  gli  converrà,  credo,  valersi  delle  due  parole  più  note,  e  che  son 
proprie  della  canzone.  E  dove  scrivo,  una  sol  volta,  e  a  poca  distanza  da  con- 
catenazione, «  verso  di  chiave  »,  muovo  dallo  stesso  uso,  invalso,  come  il  B. 
sa,  in  tutti  i  nostri  manuali  (Casini,  Guarnerio,  Maruffi,  Pellegrini,  Murari...)  ; 
approvo  meno  dell'altra  questa  deviazione  dell'uso  moderno,  ma  non  mi  aspet- 
tavo la  lezioncina  su  Gotto  Mantovano. 

Si  tralasciano  per  brevità  alcune  verbose  gentilezze  del  mio  contraddittore. 

Ferdinando  Neri. 


ORO  N  ^O  j^ 


PERIODICI 


La  critica  (XII,  2):  B.  Croce,  Note  sulla  letteratura  italiana  nella  seconda 
metà  del  sec.  XIX,  l'articolo  s' intitola  «  licenza  »  ed  è  la  chiusa  di  codeste 
Note,  di  cui  delinea  il  carattere  e  il  metodo  ;  Croce,  Il  De  Sanctis  in  esilio , 
comincia  la  pubblicazione  di  molte  lettere  inedite  interessanti,  del  De  Sanctis 
0  a  lui  dirette  da  amici,  nel  tempo  ch'egli  trascorse  a  Torino  e  a  Zurigo; 
Croce,  Per  Adolfo  Borgognoni,  risposta  agli  appunti  mossi  al  Borgognoni 
ed  all'ultima  silloge  di  scritti  suoi  in  questo  Giornale,  63,  157  sgg.  (1). 


(1)  É  inutile  tornare  su  apprezzamenti  nei  quali  è  impossibile  infilar  mai  una 
via  d'intesa.  Ma  quando,  in  una  noticina  vibrata,  il  Cr.  non  si  perita  a  fare  dei 
confronti  e  giudica  il  Q-raf  inferiore  come  critico  al  Borgognoni,  si  resta  straordi- 
nariamente stupiti:  «  Sarebbe  tempo  (scrive  egli)  di  dire  chiaro  e  tondo  che  il  Graf, 
€  in  critica  e  in  istoria  come  in  arte,  non  andò  mai  oltre  la  decorosa  medio- 
«  or  ita;  e  ammonire  di  non  confondere  con  lui,  o  abbassare  sotto  di  lui,  un  uomo 
«  d'ingegno  e  di  gusto,  quale  fu  invece  il  Borgognoni,  che  ebbe  la  sua  propria 
«  personalità,  ristretta  che  fosse  ».  Siffatto  ammonimento  io  respingo  siccome  del 
tutto  ingiusto,  e  gli  spregiudicati  e  gli  spassionati  non  possono  e  non  potranno 
che  darmi  ragione.  Che  il  Cr.,  cosi  prodigo  d'indulgenza  nelle  sue  Noie  verso  tanti 
mediocri  e  meno  che  mediocri,  abbia  giudicato  assai  severamente  il  Graf  artista, 
passi;  se  ne  può  discutere,  e  il  gusto  ci  ha  molta  parte.  Ma  che  accusi  di  medio- 
crità la  sua  critica,  la  quale  fu  così  varia  e  così  feconda,  sicché  di  nessun  soggetto 
toccato  da  lui  è  lecito  discorrere  senza  rammentarlo,  è  fenomeno  che  non  s'intende  ! 
S'intende,  anzi,  così  poco,  in  un  uomo  di  coltura  e  d'ingegno  come  il  Cr.  è,  che 
viene  il  sospetto  ci  possa  essere  di  mezzo  qualche  motivo  d'ordine  personale.  Io 
non  ho  mai  voluto  dar  retta  ad  una  congettura  che  da  molto  tempo  e  da  varie 
parti  mi  fu  bisbigliata.  Il  Croce  era  giovanissimo,  non  ancora  ventenne,  quando 
pubblicò  uno  scritto  su  La  leggenda  di  Niccolò  Pesce,  che  il  Graf  biasimò  acerba- 
mente (cfr.  questo  Giornale,  VI,  263'269).  È  ben  vero  che  un  decennio  dopo  disse 
egli  medesimo,  il  Cr.,  che  quell'articolo  suo  «  era  assai  povero  e  testimoniava  della 
«  sua  inesperienza  giovanile  » ,  aggiungendo  senz'ombra  d'ironia  ch'esso  pur  ebbe 
«  il  merito  indiretto  di  spingere  il  Graf  a  farne  una  lunga  recensione,  ch'è,  in 
«realtà,  uno  studio  originale  sull'argomento»  {Napoli  nobilissima,  V  [1896],  p.  68); 
è  ben  vero  che  il  Cr.  contribuì  spontaneamente  a  rendere  onore  al  Graf  quando 
si  pubblicò  una  miscellanea  per  lui  (cfr.  Giornale,  XLII,  488)  ;  ma  l'anima  umana 
è  cosi  misteriosa  che  mal  si  possono  definirne  gli  impulsi  svariati  e  comprenderne 
le  motivazioni  intime.  Chissà  che  quella  brusca  tirata  d'orecchi  al  giovinetto  la- 
sciasse nell'uomo  maturo  e  celebre  un  sedimento  di  amarezza,  che  inconsciamente 
abbia  avuto  i  suoi  riflessi  nella  conseguente  e  crescente  ostilità  del  critico.  Cono- 
scendo e  apprezzando  la  superiorità  di  spirito  del  Cr.,  io  mi  induco  a  questa  ipo- 


CRONACA 


265 


Lares  (II,  2-3)  :  F.  Novati,  La  raccolta  di  stampe  popolari  italiane  della 
biblioteca  di  Frane.  Beina.  Earamenta  parecchi  raccoglitori  di  stampe  po- 
polari e  si  trattiene  sulla  raccolta  ora  dispersa  del  Reina,  costituita  essen- 
zialmente di  opuscoli  provenienti  dall'Italia  superiore.  Commenta  con  grande 
erudizione  i  dati  del  catalogo,  fornendo  molte  indicazioni  su  stampe  popolari 
rarissime.  Si  osservino  specialmente  le  notizie  sul  cieco  Paolo  Britti;  sugli 
zanni  celebri,  a  proposito  del  poemetto  che  narra  la  vita  di  zan  Tabarin  Canaia  ; 
sui  poemetti  intorno  al  giudizio  linale.  Informazioni  parecchie  vi  sono  sui 
contrasti,  dei  quali  è  pubblicato  uno  tra  la  madre  e  la  figliuola  desiderosa 
di  marito,  ed  un  altro  tra  uomo  e  donna.  Il  N.  stampa  ed  illustra  il  lamento 
di  Prudenzia  Anconitana,  che  uccise  il  marito;  e  a  proposito  dell'ameno  e 
spigliato  poemetto  su  Orlando  morto  per  una  indigestione  di  polenta,  che 
pure  riproduce,  raccoglie  preziose  indicazioni  sulle  parodie  del  Furioso  in  Italia. 

Bollettino  storico  piacentino  (IX,  2)  :  Fr.  Picco,  /  soggiorni  in  Piacenza 
di  C.  I.  Frugoni,  in  continuazione. 

Nuovo  archivio  veneto  (XXVII,  P.  I):  G.  Garbarin,  Per  la  fortuna  di 
alcuni  scrittori  stranieri  nel  Veneto,  nella  prima  metà  dell'  Ottocento,  ciò 
che  si  disse  in  quel  tempo  dello  Shakespeare,  del  Byron,  dello  Scott,  degli 
scrittori  francesi  romantici  e  di  qualche  altro,  con  un  saggio  di  bibliografia 
delle  traduzioni;  Laura  Lattes,  Una  letterata  veneziana  del  secolo  XVIII, 
tratta  di  Elisabetta  Caminer  Turra.  —  Tra  le  Notizie  sono  per  noi  segna- 
labili due  comunicazioni  di  Arnaldo  Segarizzi,  un  breve  carme  latino  di 
Pietro  Contarini  diretto  al  pittore  Gentile  Bellini,  e  diverse  informazioni 
nuove  su  quel  Niccolò  Lelio  Cosmico  di  cui  V.  Rossi  parlò  nel  XIII  voi.  di 
questo  Giornale. 

Bivista  teatrale  italiana  (XIII,  1):  A.  Bruno,  Il  teatro  Alfìeri  in  Firenze, 
documenti  su  quel  teatro  drammatico,  a  cui  già  nel  1828,  sotto  il  governo 
granducale,  fu  dato  il  nome  dell'Alfieri. 

Bendiconti  del  B.  Istituto  lombardo  (XLVII,  5)  :  C.  Pascal,  Un  episodio 
delle  guerre  religiose  di  Francia  in  alcuni  carmi  latini  contemporanei,  i 
carmi  sono  editi  dal  ms.  Ambrosiano  D.  197  inf.  e  riguardano  l'uccisione  di 
Gaspare  di  Coligny.  Anche  neW Aihenaeum. 

Miscellanea  storica  della  Valdelsa  (XXII,  1-2):  A.  F.  Massèra,  Giovanni 
Boccacci  nella  sua  lirica,  discorso  che  poggia  su  dati  storici  ricavati  dalla 
edizione  critica  delle  rime  del  Boccaccio,  che  il  M.  ha  apprestata  per  la  com- 
missione dei  testi  di  lingua  e  che  certo  entro  l'anno  corrente  vedrà  la  luce; 
A.  Bonaventura,  U  Boccaccio  e  la  musica,  dati  desunti  dal  Decameroìi ', 
IT.  Dorini,  Contributi  alla  biografìa  del  Boccaccio,  pubblica  documenti  giu- 
diziari fiorentini,  che  riguardano  i  beni  territoriali  posseduti  dal  Boccaccio 
ed  una  sua  causa  del  1352,  e  spigola  negli  archivi  fiorentini  notiziole  diverse 
su  parenti  di  messer  Giovanni;   Sant.  Debenedetti,   Teriìw  da   Castelfioren- 


tesi  a  stento  e  con  repugnanza  e  lo  faccio  solo^ripeto,  per  ispiegarmi  un  acceca- 
mento intellettuale  che  mi  sembra  fenomeno  dei  più  strani.  A  meno  ohe  il  gusto 
di  polemizzare  per  divertire  sé  e  il  pubblico,  nei  momenti  «  di  buon  umore  > ,  ch'egli 
stesso  confessa  essere  nelle  sue  abitudini  (cfr.  La  tribuna,  16  aprile  1914),  non  lo 
abbia  questa  volta  tratto  a  dire,  per  ripicco,  cosa  non  sentita,  o  sentita  diversa- 
mente da  quanto  appare.  R. 


266 


CRONACA 


tino,  ricerche  per  appurare  la  precìsa  personalità  di  quell'antico  rimatore.  — 
Il  fase,  contiene  pure  una  minuta  cronistoria  delle  onoranze  a  Giovanni  Boc- 
caccio in  Certaldo  nel  Ti  centenario  della  nascita. 

Aetna  (Alcamo,  I,  3):  Fed.  Barbieri,  Aspetti  pedagogici  e  letterari  della 
controriforma,  in  continuazione,  tratta  di  Silvio  Antoniano  e  del  suo  trattato 
della  educazione  cristiana;  D.  Vitaliani,  Intorno  alla  vita  di  Brunetto  La- 
tini, in  continuazione,  discute  l'opinione  recentemente  espressa  da  P.  For- 
nari,  che  Brunetto  non  sia  dannato  fra  i  sodomiti,  ma  fra  i  superbi  per  in- 
gegno 0  studio. 

Atti  della  R.  Accademia  di  archeologia,  lettere,  belle  arti  di  Napoli 
(N.  S.,  voi.  Ili)  :  E.  Cocchia,  La  vita  di  S.  Mummoleno  ovvero  la  tradizione 
pia  antica  intorno  alVuso  del  latino  volgare  nelle  Gallie. 

Rivista  di  diritto  civile  (1914,  n»  2):  Alfredo  Ascoli  e  Cesare  Levi,  lidi- 
ritto  privato  nel  teatro  contemporaneo  francese  e  italiano,  son  qui  appli- 
cati a  scrittori  moderni  criteri  e  metodi  che  già  da  tempo  s'usarono  per 
quelli  dell'antichità  classica  (Plauto,  Terenzio).  Sono  32  commedie  francesi  e 
21  italiane  in  cui  si  sorprendono  riflessi  di  teorie  giuridiche.  Tra  le  italiane 
ve  ne  sono  due  di  Paolo  Ferrari  e  una  di  Leopoldo  Marenco. 

Bivista  tridentina  (XIV,  1):  0.  dell'Antonio,  Antonio  Gazzoletti  dilettante 
di  poesia,  ritiene  esagerata  la  stima  che  si  fa  del  Gazzoletti  poeta,  e  fa 
molte  e  ragionevoli  critiche  ai  versi  di  lui,  mostrando  l'assurdità  che  v'è  nel 
paragonarlo  al  Prati.  —  A  proposito  del  Gazzoletti,  non  isfugga  l'articolo 
di  0.  Brentari,  A.  Gazzoletti  a  Milano,  nel  giornale  L'alto  Adige,\'è\^,  n»  63. 

Archivio  storico  italiano  (LXXII,  1):  A.  F.  Massèra,  Il  serventese  roma- 
gnolo del  1277,  è  quello  dato  in  luce  e  studiato  replicate  volte  dal  Casini 
(cfr.  Giorn.,%'0,  409- io);  il  M.  ne  rida  il  testo  «  assai  largamente  rinnovel- 
lato »  sull'originale  di  Kavenna,  lo  interpreta  sagacemente  e  stabilisce  il 
tempo  e  l'occasione  in  che  fu  scritto;  M.  Battistini,  La  condanna  di  Jacopo 
Corbinelli,  nell'Archivio  di  Stato  fiorentino  furon  rintracciati  documenti  re- 
lativi alla  condanna  del  Corbinelli  nel  1562  come  «  ribelle  »,  ragione  per  cui 
egli  ebbe  a  migrare  in  Francia. 

La  Lombardia  nel  risorgimento  itcdiano  (I,  1)  (1):  A.  Luzio,  L'archivio 
Arrivabene,  lettere  inedite  di  Borsieri  e  di  Gioberti,  inizia  nuove  spigola- 
ture nell'archivio  Arrivabene,  che  tante  cose  ha  interessanti  anche  per  la 
storia  letteraria,  e  qui  pubblica  lettere  del  Borsieri  dall'America,  ov'erasi  ri- 
fugiato dopo  lo  Spielberg,  e  due  del  Gioberti,  del  '45  e  '47  ;  Fr.  Novati,  Per 
la  storia  dei  deportati  del  1799;  la  «  via  crucisi»  di  Francesco  Reina,  do- 
cumenti sulla  prigionia  e  la  relegazione  del  Keina,  che  fu,  oltreché  uomo 
pubblico  e  patriota,  anche  studioso  e  bibliofilo  ;  Aless.  Casati,  Lo  herbar- 
tismo  in  Lombardia. 

BuUettino  senese  (XX,  3)  :  L.  Zdekauer,  lustitia  immagine  e  idea,  consi- 
derazioni sulla  raffigurazione  simbolica  della  giustizia  nelle  arti  del  disegno  ; 
E.  Livi,  San  Bernardino  e  le  sue  prediche  secondo  un  suo  ascoltatore  pra- 
tese del  U2à. 


(1)  Qaesto  bollettino  trimestrale,  ottimamente  materiato  per  quel  che  sembra 
dal  primo  numero,  si  viene  a  schierare  accanto  alle  due  riviste  speciali  che  oggi 
abbiamo,  consacrate  allo  studio  storico  del  nostro  nazionale  riscatto. 


CRONACA  267 

L'arte  (XVII,  3):  Evelyn,  Alcune  erniose  notizie  su  fra  Luca  Pacioli, 
dedotte  da  nuovi  documenti. 

Atti  e  memorie  delia  B.  Deputazione  di  storia  patria  per  le  Provincie 
modenesi  (Serie  V,  voi.  IX):  Dafne  Colombini,  Nuovi  documenti  su  Barto- 
lomeo Paganelli,  alle  poche  cose  dette  dal  Tiraboschi  intorno  a  questo  uma- 
nista e  poeta  latino  nel  Quattrocento,  son  qui  aggiunte  notizie  documentarie 
nuove  trovate  nell'archivio  notarile  ed  in  quello  capitolare  di  Modena.  Ri- 
guardano queste  notizie  l' insegnamento  del  Paganelli,  che  fu  magischola 
presso  la  cattedrale  di  Modena.  Notabile  è  il  suo  testamento.  Da  ogni  indizio 
è  tratto  profitto  con  elegante  sobrietà  di  erudizione. 

Archivio  storico  lombardo  (XL,  40)  :  A.  Antonelli  e  F.  Novati,  Un  fram- 
mento di  zibaldone  cancelleresco  lombardo  del  primissimo  Quattrocento,  ivi 
sono  inserite  lettere  del  Petrarca  e  a  lui  dirette,  nonché  lettere  di  Coluccio 
Salutati  e  di  Pellegrino  Zambeccari,  tutte  illustrate  a  fondo  dal  Novati; 
Balilla  Pinchetti,  La  vita  di  Francesco  Saverio  Quadrio,  con  indicazioni 
sui  suoi  mss.  inediti;  Ag.  Zanelli,  Due  aneddoti  della  vita  del  cardinale 
Quirini  vescovo  di  Brescia.  —  Tra  le  bibliografie  vuol  esserne  segnalata  una 
specialmente  rilevante  di  C.  Salvioni  su  Carlo  Porta,  ove  sono  indicazioni 
nuove  e  ragguardevoli. 

Bollettino  storico  per  la  provincia  di  Novara  (VII,  3-4)  :  C.  Poma,  Un'an- 
tica satira  contro  Biella)  A.  Sella,  Pietro  Bolaìidi  libraio  ed  editore  ita- 
liano a  Londra,  dal  1826  al  1855,  in  continuazione;  (5),  A.  Tadini,  La 
«  Pidzella  d'Orleans  »  tradotta  da  V.  Monti  nelle  carte  di  P.  Custodi. 

Periodico  della  Società  storica  Comense  (fase.  80)  :  S.  Monti,  Gioviana  e 
Vinciana. 

Aurea  Parma  (II,  5-6)  :  Glauco  Lombardi,  Griambattista  Bodoni,  con  in- 
teressanti riproduzioni  grafiche;  0.  Masnovo,  Don  Ferrante  di  Borbone  e 
G.  B.  Bodoni,  questo  ed  il  precedente  articolo  sono  da  aggiungere  alle  indi- 
cazioni di  quanto  fu  edito  sul  Bodoni  in  occasione  del  centenario,  date  nel 
Giorn.,  63,  472,  ne  dovranno  essere  trascurati  gli  Appunti  bodoniani  di 
A.  Boselli,  che  sono  speciale  ornamento  dell'ottima  rivista  parmigiana,  im- 
portante per  noi  specialmente  quello  su  Giambattista  Bodoni  e  /<?  «  Opere 
postume  »  di  V.  Alfieri;  G.  P.  Clerici,  Pietro  Giordani  nel  1848. 

Atene  e  Roma  (XVII,  181-82):  P.  L.  Ciceri,  Un  aspetto  della  leggenda 
di  Nerone,  riguarda  Nerone  considerato  nel  medioevo  come  anticristo. 

Atti  della  I.  R.  Accadeììiia  roveretana  degli  Agiati  (Serie  IV,  voi.  I): 
Giac.  Cottini,  A.  Rosmini  e  A.  Manzoni  nel  pensiero  di  Giulio  Carcano; 
A.  Rossaro,  Cristina  Roccati  di  Rovigo  e  il  suo  tempo,  nel  tracciare  la  vita 
di  questa  ragguardevole  cultrice  di  studi  scientifici  e  letterari,  l'A.  contri- 
buisce alla  storia  della  vita  settecentesca  a  Rovigo  e  altrove;  Br.  Emmert, 
Bibliografìa  di  rappresentazioni  gesuitiche  in  Trento  ;  (voi.  II),  Ed.  Benve- 
nuti, Giovanni  iM.mi  e  i  letterati  trentini  del^sec.  XVIII,  con  lettere  estratte 
dal  carteggio  del  Lami  serbato  nella  Riccardiana,  specialmente  del  Tarta- 
rotti  ;  C.  Battisti,  Voci  gergali  solandre,  lessico  e  saggi  del  cosidetto  taróm 
0  gergo  dei  calderai  della  valle  di  Sole  nel  Trentino  ;  Br.  Emmert,  Biblio- 
grafia del  conte  Cesare  di  Castelbarco,  traduttore  e  poeta  lirico  e  dramma- 
tico, nato  nel  1782  e  morto  nel  1860. 


268  CRONACA 

Atti  della  B.  Accademia  delle  scienze  di  Torino  (XLIX,  7):  G.  C.  Buraggi, 
I  giureconsulti  deW università  di  Torino  nel  Quattrocento,  II.  Giacomino 
da  San  Giorgio]  Attilio  Levi,  Etimologie  piemontesi. 

Didascaleion  (II,  3-4)  :  F.  Ermini,  La  «  Visio  Atiselli  »  e  l'imitazione  nella 
Divina  Commedia. 

Rassegna  critica  della  letteratura  italiana  (XVIII,  1-6):  G.  Brognoligo, 
I  libri  e  gli  autori  del  Bandello,  utile  e  ben  fatta  raccolta  delle  indicazioni 
d'indole  letteraria  e  bibliografica  che  si  trovano  nelle  novelle  del  Bandello,  il 
quale  fu,  tra  l'altro,  anche  passionato  bibliofilo  ;  Beatrice  Pennacchietti,  L'' Ar- 
mida del  Tasso  nei  melodrammi  di  P.  Metastasio  ;  Fr.  Viglione,  La  regina 
Anna  d'Inghilterra  in  due  poesie  italiane  contemporanee,  le  due  poesie  sono 
anonime  in  un  codice  del  Museo  Britannico,  e  non  è  senza  qualche  fondamento 
il  dubbio  che  possano  essere  del  Marino  ;  G.  E.  Ceriello,  Lnitazioni  petrar- 
chesche di  Fernando  de  Herrera]  M.  Manchisi,  Intorno  al  nome  di  Tra- 
calo da  Rimini,  sulla  base  d'un  sonetto  di  Angelo  Galli  riferito  dal  cod.  Va- 
ticano Urb.  699  mostra  che  si  chiamava  «  Bolza  »  di  casato  quel  poeta  ri- 
minese  di  cui  parlò  il  Massèra  nel  nostro  Giornale.  57,  21  sgg.  —  Notevole 
fra  le  recensioni  quella  di  E.  Proto  sul  libro  di  C.  Pellegrini  intorno  a  Luigi 
Pulci,  specialmente  per  ciò  che  dice  del  Ciriffo  Calvaneo. 

Rivista  d'Italia  (XVII,  2):  G.  Bustico,  Un  imitatore  di  Dante  del  se- 
colo X  Vili,  parla  della  Fortunopoli,  poema  di  Filippo  Tomacelli  da  Salò  ; 
Gina  Del  Vecchio,  I  caratteri  nei  Promessi  Sposi]  Clelia  Cocci,  Un  capitolo 
della  storia  del  giornalismo  toscano;  (XVII,  3),  V.  De  Angelis,  La  Francia 
giudicata  da  Nicolò  Tommaseo,  spigolature  dalle  opere  e  dal  carteggio; 
G.  B.  Menegazzi,  Con  la  musa  pariniana,  osservazioni  su  alcune  odi. 

Archivio  storico  siciliano  (XXXVIII,  3-4):  C.  A.  Garufi,  Contributo  alla 
storia  dell'Inquisizione  di  Sicilia  nei  sec.  XVI  e  XVII,  frutto  di  ricerche 
in  Spagna. 

La  bibliofilia  (XV,  7  a  12):  L.  Sighinolfi,  Francesco  Puteolano  e  le  ori- 
gini della  stampa  in  Bologna  e  in  Parma',  (XV,  10-11),  L.  Zambra,  La 
barzelletta  «  Lassa  far  a  mi  »  in  un  codice  della  biblioteca  comunale  di 
Budapest,  la  barzelletta,  che  fu  musicata,  si  trova  più  completa  nel  codice 
ungherese  di  quello  che  sia  nelle  stampe  italiane,  compresa  quella  di  M.  Men- 
ghini  nel  voi.  I,  p.36  della  suaediz.  delle  rime  di  Serafino  Aquilano;  (XV,  12), 
Pt.  Soriga,  A  proposito  di  alcune  stampe  italiane  inedite  della  raccolta  Ma- 
laspina. 

Rivista  musicale  italiaìia  (XX,  4):  L.  Torri,  Il  «  Trattato  »  di  Prosdo- 
cimo  de'  Beldomandi  contro  il  «  Lucidario  »  di  Marchetto  da  Padova,  im- 
portante, pubblica  il  testo  del  codice  della  bibl.  governativa  di  Lucca;  A.  Can- 
tarini.  L'opera  italiana  alla  Corte  Bavarese  dal  suo  inizio  alla  morte  di 
Adelaide  di  Savoia. 

Harmonia  (Koma;  1914,  n.  2):  G.  C.  Paribeni,  Un'affermazione  d'italia- 
nità artistica  nel  sec.  XV. 

Studi  senesi  (XXIX,  5):  P.  Rossi,  Claudio  Tolomei  e  il  latino  dei  giunsti. 

Bollettino  della  Società  pavese  di  storia  patria  (XIII,  1-2):  A.  Corbellini, 
Di  un  rimatore  pavese-veneziano  del  secolo  XVI,  Antonio  Isidoro  Mezza- 
barba,  in  continuazione,  se  ne  parlerà  prossimamente;  Fed.  Barbieri,  La  con- 


CRONACA  269 

troriforma  nello  stato  di  Milano  da  S.  Antonino  a  S.  Carlo  Borromeo,  in 
continuazione;  Dante  Bianchi,  La  lettura  d'arte  oratoria  nello  Studio  di 
Pavia  nei  sec.  XV  e  XVI',  A.  Corbellini,  Documenti  d'anima  di  Adelaide 
Cairoli  Bono,  con  lettere  interessanti. 

Apulia  (IV,  1-2):  C.  Salvioni,  Versioni  pugliesi  della  parabola  del  fìgliuol 
prodigo,  dalle  carte  del  Biondelli  serbate  nell'Ambrosiana  ;  B.  Sderci,  Intorno 
ad  un  autografo  di  sermoni  di  S.  Lorenzo  da  Brindisi,  prediche  latine  ignote 
di  questo  celebre  cappuccino  nato  nel  1551  e  morto  nel  1619. 

Archivio  storico  sardo  (IX,  1-3):  C.  Salvioni,  Versioni  sarde  e  corse  della 
parabola  del  fìgliuol  prodigo,  sempre  dalle  carte  del  Biondelli;  P.  Lutzu, 
La  leggenda  della  Pazzia,  curiosa  leggenda  sarda,  bene  illustrata. 

Archivio  storico  per  le  provincie  napoletane  (XXXVIII,  4)  :  G.  Caso,  La 
carboneria  di  Capitanata  dal  1816  al  1820  nella  storia  del  Risorgimento 
italiano,  in  continuazione;  M.  Schipa,  ia  men^e  di  Masaniello,  in  continuaz. 

Atti  e  memorie  della  B.  Deputazione  di  storia  patria  per  le  provincie  di 
Romagna  (Serie  IV,  voi.  IH):  L.  Bava,  Ant.  Panizzi  a  L.  C.  Farini,  car- 
teggio; L.  Frati,  La  famiglia  Beccadelli  e  il  Panormita-,  F.  Cavicchi,  Un 
poemetto  di  Girolamo  da  Casio  e  l'ingresso  in  Bologna  (1525)  del  cardin. 
legato  Innocenzo  Cibo,  illustra  il  libretto  del  Casio  intitolato  Bellona. 

Il  Marzocco  (XIX,  10)  :  L.  Bùssola,  Un  passo  oscuro  nei  Promessi  Sposi 
e  alcuni  tentativi  di  spiegazione,  illustra  la  frase  «  vada  a  Bergamo  la 
vecchia  »  pronunciata  da  don  Rodrigo  nel  cap.  XI  del  romanzo  manzoniano  ; 
vedasi  pure  là  rubrica  Commenti  e  frammenti  del  n<>  11;  (no  17),  E.  G.  Pa- 
rodi, Giovanni  Boccaccio  in  un  libro  francese,  quello  di  H.  Hauvette; 
G.  S.  Gargano,  Carlo  Botta  in  veste  di  critico  ;  G.  Ortolani,  Gli  italiani  alla 
scoperta  dell'Inghilterra  nel  Settecento,  a  complemento  vedansi  i  Commenti 
e  frammenti  del  n»  18  e  del  n^  19.  —  Nei  nn.  15,  19,  20,  21  è  da  vedere 
quanto  è  detto  ^\j\V Aminta,  a  proposito  della  rappresentazione  a  Fiesole  di 
quel  dramma  pastorale. 

L'Ateneo  Veneto  (XXXVII,  I,  1-2):  B.  C.  Cestaio,  Rimatori  padovani  del 
sec.  XV,  in  questa  puntata  dà  notizie  di  Scipione  Sanguinacci,  Bartolo  Za- 
barella,  Francesco  Capodilista,  Domizio  Brocardo,  Reprandino  Orsato,  Gio- 
vanni di  S.  Lazzaro,  Maestro  Lazzaro,  Nicolò  Lazara,  Antonio  de'  Conti  di 
S.  Martino. 

Atti  del  R.  Istituto  Vemto  (LXXII,  P.  II)  :  A.  Favaro,  Studi  e  ricerche 
per  una  iconografìa  galileiana,  altre  ricerche  nella  P.  II  del  voi.  LXXIII; 
(LXXni,  P.  II),  Nino  Tamassia,  La  conversione  dell'  Innominato,  trova  ri- 
scontri fra  le  parole  che  il  card.  Federigo  rivolge  all'Innominato  ed  un  tratto 
della  traduzione  latina,  fatta  da  Rufino,  della  storia  ecclesiastica  di  Eusebio  ; 
E.  Castelnuovo,  Per  Gaspara  Stampa,  ammette  i  «  dolci  peccati  »  di  Ga- 
spara, ma  non  ammette  che  possa  essere  stata  cortigiana  ;  V.  Crescini,  Fram- 
mento di  un  perduto  codice  del  «  Guiron  le  courtois  »,  in  questo  scritto 
erudito  sono  raccolte  molte  informazioni  sulla  fortuna  straordinaria  del  Gtiiron 
in  Italia.  • 

Studi  italiani  di  filologia  classica  (voi.  XX):  A.  Calderini,  Ricerche  intorno 
alla  biblioteca  e  alla  cultura  greca  di  Francesco  Filelfo,  questa  estesa  e 
dotta  monografia  è  una  delle  cose  più  importanti  che  sul  Filelfo  siano  state 
scritte:  essa  sarà  completata  nel  prossimo  volume  degli  Stìidi  con  la  biblio- 


270  CRONACA 

grafia  dei  codici  filelfiani  ;  Gius.  Procacci,  Scolii  a  Giovenale  di  Battista  Gua- 
rini  in  un  codice  ferrarese,  è  il  n»  103   della  bibl.  comunale  di  Ferrara. 

Rassegna  d'arte  (Xin,  11):  G.  Nicodemi,  I  codici  miniati  neW archivio 
della  Basilica  Ambrosiana. 

Rivista  delle  bibliotecJie  (XXIV,  10-12):  Curzio  Mazzi,  Degli  antecessori 
dei  giornali,  pubblica  alcune  note  del  sec.  XV,  che  sono  alla  Laurenziana  tra 
le  carte  di  Benedetto  Dei. 

Scientia  (n°  35):  A.  Meillet,  Le  problèuie  de  la  parente  des  langues] 
A.  Mieli,  Les  précurseurs  de  Galileo. 

Rivista  di  Roma  (IV,  9-10  e  V,  1-3):  Per  la  storia  della  cultura  in  Pie- 
monte nel  sec.  XIX,  gruppo  di  lettere  di  Carlo  Promis  ;  (V,  5),  Guido  Muoni, 
A  proposito  di  un  giudizio  del  Carducci  sid  Baudelaire-,  F.  Sternberg, 
Heiìie  e  Carducci,  Lenau  e  Carducci ',  U.  Valente,  Letteì'e  inedite  di  Ga- 
spare Gozzi  e  Apostolo  Zeno,  l'unica  lettera  del  Gozzi  è  diretta  al  Parini 
da  Roma  il  29  sett.  1764. 

Rivista  di  filologia  classica  (XLII,  2)  :  S.  Consoli,  La  satira  secotida  di 
Giovenale  tiella  tradizione  della  cultura  sino  alla  fine  del  medio  evo] 
Fr.  Garin,  La  «  Expositio  TheocHti  >  di  Angelo  Poliziano  nello  Studio  fio- 
rentino. 

Conferenze  e  prolusioni  (VII,  7)  :  I.  Del  Lungo,  Dante  in  patria  e  nel- 
VesiUo  errabondo,  discorso  pronunciato  in  Roma  il  25  genn.  1914. 

Giornale  storico  della  Lunigiana  (V,  3)  :  F.  L.  Mannucci,  L'' operosità  uma- 
nistica di  Antonio  Ivani,  in  continuazione,  ragguardevole;  A.  Neri,  Lettere 
di  Azzolino  Malaspimi,  le  prime  quattro,  dirette  nel  1 755  ad  Angelo  Maria 
Bandini,  trattano  di  soggetti  letterari,  e  specialmente  della  traduzione  delle 
favole  di  Fedi'o,  a  cui  il  Malaspina  attendeva. 

L'Archiginnasio  (IX,  1):  G.  Nascimbeni,  Note  e  ricerche  intorno  a  Giulio 
Cesare  Croce,  si  noti  specialmente  ciò  che  vi  è  detto  del  Bertoldo,  ma  su 
questi  studi  intorno  all'antico  Croce  ritorneremo;  (IX,  2),  V.  Franchini,  L^i- 
stituto  dei  «  memoriali  »  in  Bologna  nel  sec.  XIII;  L,  Frati,  La  cittadi- 
nanza fraìicese  di  un  ìioto  comico  bolognese,  pubblica  il  diploma  rilasciato 
dal  re  di  Francia  al  comico  secentista  Gian  Andrea  Zanotti-Cavazzoni. 

Rivista  ligure  (XLI,  1):  A.  Ricolfi,  G.  Carducci  e  il  romanticismo,  in  con- 
tinuazione. 

Athetuieum  (II,  2):  Fed.  Barbieri,  Per  la  storia  del  teatro  lombardo  nella 
seconda  metà  del  sec.  XVI]  C.  Pascal,  Un  episodio  delle  guerre  religiose  di 
Francia  in  alcuni  carmi  latini  contemporanei,  fioritura  di  poesie  latine  in- 
torno all'assassinio  di  Gaspare  di  Coligny. 

Archivio  storico  per  la  Sicilia  Orientale  (XI,  1):  F.  Marletta,  Un  poema 
storico  popolaresco  del  sec.  XVII,  trovasi  nella  bibl.  comunale  di  Castrogio- 
vanni  e  tratta  della  ribellione  dei  castrogiovannesi  contro  un  vescovo  di  Ca- 
tania; A.  Raimondi,  Federico  Ozanam  in  Sicilia,  vi  fu  nel  1841. 

Bilychnis  (HI,  4):  G.  Lesca,  Seìm  e  pensieri  religiosi  nella  poesia  di  Ar- 
turo Graf,  in  continuazione,  con  una  lettera  del  Gr.  autografata. 


CRONACA  271 

Bivista  militare  italiana  (16  marzo  1914);  A.  Vigevano,  Il  soldato  ita- 
liano nel  canto  popolare.  Vedasi,  per  un  riscontro  col  Berchet,  una  noterella 
del  Brognoligo  nel  Fanfulla  della  domenica,  19  aprile  1914. 

La  luce  del  pensiero  (an.  1914):  A.  D'Amato,  Un  poeta  idealista  irpino, 
tratta  di  Carmelo  Errico,  nato  a  Castelberonia  nel  1848  e  morto  a  Roma 
nel  1892.  Riferisce  suoi  versi,  alcuni  anche  inediti,  riassume  i  caratteri  della 
sua  poesia,  raccoglie  i  giudizi  pronunciati  su  di  essa.  Notabile  una  lettera 
del  Carducci,  fin  qui  inedita. 

Archivio  della  società  vercellese  di  storia  e  d'arte  (VI,  1)  :  C.  R.  Paste,  Tre 
scritti  apocalittici  medioevali  del  codice  CXCI  dell'Archivio  capitolare,  pro- 
fezie della  Sibilla  e  di  Merlino. 

Atti  e  memorie  della  R.  Accademia  delle  scienze  di  Padova  (voi.  XXIX)  : 
C.  Salvioni,  Versioni  venete,  trentine  e  ladino-centrali  della  parabola  del 
fìglitiol  prodigo,  dalle  carte  del  Biondelli  ;  G.  Albertotti,  Due  lettere  inedite 
di  L.  A.  Muratori  a  Giambattista  Morgagni,  con  indicazione  di  altre  let- 
tere di  letterati  al  Morgagni:  A.  Bonardi,  Carlo  Scapin  famoso  libraio  pado- 
vano  del  secolo  XVIII  ;  C.Steiner,  La  «  luce  più  dia  »  del  canto  XIV  del 
Paradiso  e  l'episodio  del  cielo  del  sole,  mette  in  chiaro  perchè  Dante  designi 
Salomone  a  spiegare  quale  sarà  la  condizione  dei  beati  quando  le  anime  si  ri- 
congiungeranno-ai  corpi;  C.Lsiiìàì,  Sulla  leggenda  del  cristianesimo  di  Stazio, 
ragguardevole,  con  in  appendice  le  notizie  che  diedero  di  Stazio  Sicco  Po- 
lenton  e  Pomponio  Leto  ;  B.  Brugi,  Una  trascurata  notizia  intorno  ai  pri- 
mordi dello  Studio  di  Padova;  V.  Rossi,  AHudo  Graf]  A.  Marigo,  La  mi- 
stica nella  Vita  Nuova  di  Dante. 

Pagine  istriane  (XI,  5-6):  G.  Quarantotto,  Errori  vecchi  e  nuovi  su  l'Istria 
e  gli  Istriani  (Carli  e  Besenghi);  F.  Babudri,  Il  Calendario  istriano  nelle  rime 
e  nelle  assonanze  del  popolo,  in  continuazione;  (7-8),  A.  Hotììs,  L^ autografo 
dell' ^  Aristodemo  »  di  V.  Monti  donato  alla  Biblioteca  civica  di  Trieste, 
con  un  saggio  di  collazione  tra  il  ms.  e  la  prima  edizione  ;  G.  Quarantotto, 
Trieste  per  Besenghi  degli  Ughi:  (9-10),  A.  Pilot,  Due  canzonette  da  «bat- 
tello »  inedite  di  Antonio  Ottoboni]  (11-12),  G.  Quarantotto,  La  cultura  lette- 
raria di  Trieste  e  dell' Istria,  a  proposito  del  volume  di  B.  Ziliotto  sullo  stesso 
argomento  ;  A.  Pilot,  Veneranda  Porta  in  una  poesia  iìiedita  del  tempo,  da 
codice  Correr;  B.  Ziliotto,  Miscellanea  Vili:  Un  serventese  di  Michele 
Delia  Vedova  da  Pola,  dal  cod.  Marc.  it.  IX,  105,  e.  13;  (XII,  1-2),  0.  Ciar- 
dulli.  Angelo  Daìmistro  e  l'Accademia  dei  Filoglotti  (di  Castelfi-anco  Ve- 
neto), con  documenti  inediti. 

Il  Piccolo  (Trieste,  28  settembre  1918)  :  Il  cinquantenario  della  fonda- 
zione del  I  Ginnasio  comunale,  dove  è  riprodotto  il  discorso  commemorativo 
di  A.  Hortis,  nel  quale  è  notizia  degli  antichi  maestri  d'umanità  a  Trieste; 
nella  stessa  occasione  l'Hortis  pubblicò  un  opuscolo  Nel  cinquantenario  della 
fondazione  del  Ginnasio  comunale  (Trieste,  Caprin,  1913),  in  cui  v'è  anche 
una  bella  commemorazione  di  Onorato  Occioni. 

Rassegna  contemporanea  (VI,  22)  :  Lud.  Oberziner,  Il  primo  amore  di 
Niccolò  Tommaseo,  interessante  articoletto,  «ve  si  tratta  dell'amore  del  Dal- 
mata illustre  per  Giuseppina  Margherita  Rosmini,  sorella  del  filosofo,  che  fu 
poi  monaca,  e  mori  di  consunzione  a  39  anni  ;  (VI,  23),  G.  Nascimbeni,  Mo- 
tivi tassoniani;  A.  De  Angelis,  Gli  ultimi  salotti  di  Roma  papale,  la  fine  nel 
fascic.  successivo  ;  (VII,  2),  C.  Pellegrini,  La  letteratura  italiana  nelVopera 
di  Ippolito  Taine:  (VII,  4),  G.  Calò,  Il  canto  XXVI  del  Paradiso]  (VII,  5), 


272  CRONACA 

I.  Sanesi,  La  critica  letteraria  e  la  storia  delia  letteratura,  prolusione  al  corso 
universitario  di  Pavia;  (VII,  6),  Giulio  Salvadori,  Futurismo  e  dinamismo 
nella  poesia  del  sec.  XIII. 

La  Bomagna  (XI,  1):  O.F&hYettì,  Intorno  al  carteggio  di  Piero  Maron- 
cellij  nel  fascic.  successivo  comincia  a  tracciare  una  biografìa  del  Maroncelli; 
(XI,  2),  Nina  Eimbocchi,  La  Romagna  nelVojjera  di  Giovanni  Pascoli. 

Archivio  di  antropol.  criminale,  psichiatria  e  medicina  legale  (XXXIV,  6): 
Gina  Lombroso,  Genio  e  degenerazione. 

La  civiltà  cattolica  (quad.  1525):  Vittoria  Colonna  e  il  castello  d' Ischia  ] 
(quad.  1529),  Busnelli,  Iv'«  avvocato  dei  tempi  cristiani  »,  né  Orosio,  né  Lat- 
tanzio, né  S.  Ambrogio,  né  Tertulliano,  come  fu  supposto,  ma  il  retore  Mario 
Vittorino,  convertitosi  al  cristianesimo;  se  non  che  ci  sembra  valida  la  obie- 
zione opposta  dal  Flamini  nella  sua  Rassegala  bibliografica,  22,  75-76; 
(quad.  1530),  Anagni  e  Bonifacio  Vili-,  (quad.  1533),  Il  concetto  di  «  rina- 
scimento »  nella  storia  delVarte. 

Rivista  araldica  (XI,  11):  S.  Mmìumccì,  I pronipoti  di  Aldo  Pio  Manuzio. 

Rassegna  nazionale  (voi.  CXCV)  :  A.  Zardo,  Gaspare  Gozzi  nella  poesia 
drammatica  ;  Guido  Sommi  Picenardi,  Lettere  inedite  di  G.  Baretti  a  G.  B.  Biffi, 
del  1762  e  1763,  furono  originalmente  scritte  in  inglese,  ma  qui  si  danno 
tradotte;  (voi.  CXCVI),  Attilio  Fontana,  Cavour  giornalista]  G.  V.,  Istitu- 
zioni e  amici  superstiti  di  G.  Mazzini  a  Londra,  termina  nel  voi.  successivo. 

Rassegna  storica  del  Risorgimento  (I,  1)  :  M.  Mazziotti,  Un  grande  gior- 
nalista del  secolo  scorso,  parla  di  Emanuele  Taddei  di  Barletta;  A.  Colombo, 
Per  la  storia  della  massoneria  nel  risorgimento  italiano,  documenti  dell'ar- 
chivio Govean  che  riguardano  Costantino  Nigra  ;  Ida  Luisi,  Lettera  di  G.  Mon- 
tanelli, del  22  ag.  1861  a  Carlo  De  Marco. 

Brixia  sacra  (V,  1-2)  :  G.  Bonelli,  Una  «  Passio  Christi  »  in  dialetto,  re- 
dazione bresciana  in  quartine  ottonarie,  tolta  da  un  ms.  del  principio  del 
Quattrocento. 

Annuario  della  R.  Università  di  Torino  (1913-14):  R.  Renier,  Comme- 
morazione di  Arturo  Graf  letta  per  V inaugurazione  delVanno  accademico. 
Già  ne  annunciammo  la  prima  pubblicazione  nella  N.  Antologia,  per  cui  vedi 
Giorn.,  63,  466.  Il  ritratto  del  Graf,  che  dà  V Annuario,  riproduce  con  grande 
finezza  la  tela  del  giovine  pittore  Angelo  Enrie,  dipinta  con  somma  cura  e 
vero  intelletto  d'arte  nel  gennaio  del  1913,  quattro  mesi  prima  che  l'insigne 
maestro  e  letterato  spirasse. 

Gazzetta  di  Venezia  (24  e  30  marzo  1914):  Gius.  Ortolani,  H  cavaliere 
Alberto  Nota,  due  sensati  articoli,  che  difendono  il  commediografo  piemon- 
tese dai  giudizi  troppo  acerbi  che  gli  furono  lanciati  contro. 

Malta  letteraria  (X,  111-114):  Gisella  Laurenza,  Le  unità  drammaticfie 
e  il  Metastasio',  C.  Suriano,  Musica  e  poesia  patriottica. 

Atti  e  memorie  della  R.  Accademia  virgiliana  di  Mantova  (N.  S.,  VI,  1-2): 
A.  Luzio,  Contributo  alla  storia  delle  suppellettili  del  palazzo  ducale  di  Man- 
tova, storia  documentata  degli  arazzi  mantovani  trasportati  nel  1866  a  Vienna. 


CRONACA  27^3 

In  altra  parte  sono  oflFerti  documenti  intorno  alle  collezioni  di  cose  antiche 
acquistate  dai  duchi  Guglielmo  e  Vincenzo  I  Gonzaga.  V'è  anche  l'«  Inven- 
tario del  studio  fu  della  bona  memoria  dell'ill.mo  cardinale  Bembo  ». 

Corriere  della  sera  (8  aprile  1914):  Gilberto  Secrétant,  Niccolò  Tommaseo 
in  carcere,  a  Venezia  nel  1848;  alcune  lettere  del  II  voi.  dell'epistolario 
Tommaseo-Capponi,  che  uscirà  presto,  vengono  accostate  a  documenti  della 
polizia  austriaca  che  si  trovano  a  Venezia;  (4  aprile  1914),  G.  A.  Borgese, 
L'innominato,  con    alcune  osservazioni   personali  non  del  tutto  trascurabili. 

La  tribuna  (30  marzo  1914)  :  Alfr.  Galletti,  I  «  libretti  »  musicati  dal 
Verdi  e  il  dramma  romantico.  Interessante  e  nuovo.  Costituisce  la  prefazione 
ad  un  volume  di  G.  Roncaglia  su  Gius.  Verdi,  Napoli,  Perrella,  1914. 

La  stampa  (21  maggio  1914):  R.  Renier,  Don  Carlos,  sul  volume  di  Ezio 
Levi;  (6  giugno  1914),  L.  Ambrosini,  Cesare  Balbo,  caratterizza  il  Balbo 
come  scrittore,  a  proposito  dell'edizione  barese  del  Sommario. 

Urbinum  (I,  1):  R.  Valentini,  Uno  scritto  ignoto  del  duca  Federico,  ri- 
leva che  il  Perotti  nella  Cornucopici  asserisce  avere  il  grande  Federico  d'Ur- 
bino pubblicato  un  «  libellum  de  furtivis  litteris  »,  che  sarebbe  un  trattato 
di  criptografia. 

Veìa  latina  (II,  15-16):  Gino  Gori,  Il  naturalismo  nel  Rinascimento; 
(II,  17-18),  G.  Crescimanno,  Angelica  bella,  considerazioni  critiche  su  questo 
tipo  ariosteo. 

Bidlettino  storico  pistoiese  (XVI,  1):  Luigi  C\vÌ2ì^'^q\\\,  La  donna  pistoiese 
del  tempo  antico,  segnalabilissima  l'appendice  con  che  questo  studio  si  chiude, 
sui  nomi  delle  donne  pistoiesi  del  Dugento  e  del  Trecento:  vi  sono  nomi  cu- 
riosi, parecchi  derivati  da  tradizioni  cavalleresche. 

Bullettino  della  Società  dantesca  italiana  (N.  S.,  XX,  3):  il  fascicolo  è  tutto 
di  recensioni,  ma  fra  esse  va  particolarmente  rilevata  quella  di  Fr.  Ercole 
sulle  cognizioni  giuridiche  di  Dante,  a  proposito  dello  studio  di  M.  Chiau- 
dano,  pel  quale  si  veda  anche  il  nostro  Giornale,  61,  114. 

Giornale  Dantesco  (XXI,  5)  :  U.  Cosmo,  Il  canto  di  santo  Francesco,  inter- 
preta con  novità  di  vedute,  senso  d'arte  e  calore  di  esposizione  il  canto  XI  del 
Paradiso,  accentuando  la  poca  francescanità  dell'anima  di  Dante  ;  L.  Filo- 
musi Guelfi,  Critica  di  coalizione,  in  polemica  col  p.  Busnelli  ed  in  difesa 
dei  propri  studi  danteschi  (il  Busnelli  risponde  nel  Giorn.  dantesco,  XXII,  1); 
Giac.  Lidónnici,  Il  Biiccolicum  Carmen  di  Giovanni  Boccaccio,  è  saggio  del 
lavoro  sulle  ecloghe  del  Boccaccio  che  il  L.  pubblicherà  nella  collezione  dan- 
tesca passeriniana,  accompagnandone  la  trascrizione  del  testo  di  sull'autografo 
riccardiano;  A.  Santi,  Cbi  sin  veramente  Matelda,  sarebbe  «  la  Pargoletta 
«  del  Casentino,  che  Dante  conobbe  ed  amò  dal  1307  al  1309,  e  cantò  coi 
«  nomi  di  Violetta,  Pargoletta,  Pietra  »;  G.  Rizzacasa  d'Orsogna,  I  motori 
celesti'.  E.  Lamma,  Intorno  alle  due  sestine  pseudodantesche,  rincalza  con 
nuovi  argomenti  l'idea  ormai  prevalente  ch%  appartenga  a  Dante  solo  la  se- 
stina «  Al  poco  giorno  ed  al  gran  cerchio  d'ombra  »;  V.  Inguagiato,  La  fu- 
sione delV  elemento  pagano  con  V  elemento  cristiano  nel  poema  sacro]  (XXI,  6), 
Giac,  Lidónnici,  La  corrispondenza  poetica  di  Giovanni  del  Virgilio  con 
Dante  e  il  Mussato,  e  le  postille  di  Giovanni  Boccaccio,  studio  assai  rag- 
guardevole, al  quale  d'ora  innanzi  converrà  ricorrano  quanti  avranno  a  occu- 

Giornale  storico,  LXIV,  fase.  190-191.  18 


274  CRONACA 

parsi  dell'opera  bucolica  di  Dante;  Giosuè  Borsi,  Il  canto  XXXII  del  Pa- 
radiso ;  D.  Ronzoni,  Perchè  nella  Div.  Comm.  c'è  il  paradiso  terrestre,  è 
un  saggio  d'un  nuovo  libro  sulla  struttura  allegorica  del  poema;  G.  Cresci- 
manno,  Il  «  tetragono  »  di  Dante,  contro  il  Proto  vuole  ridare  al  «  tetra- 
gono »  dantesco  «  l'idea  della  resistenza,  della  fermezza,  della  immutabilità  »; 
cfr.  Giov.  Agnelli,  in  Giorn.  dant.,  XXII,  1;  (XXI,  1),  G.  Foglia,  Guglielmo 
e  Binoardo  della  Croce  di  Marte,  con  la  scorta  del  Bédier  e  del  Eajna  esa- 
mina il  valore  di  quei  due  personaggi  nelle  «  gesta  »  di  Guglielmo  d'Orange 
e  la  fortuna  di  cui  godettero  nell'Italia  medievale  ;  0.  M.  Johnston,  Note  on 
Purgatory  I,  34-36,  propone  l'ipotesi  che  Dante  riproducesse  un'espressione 
francese  nel  dire  «  di  pel  bianco  mista  »  la  barba  di  Catone  ;  A.  De  Micheli, 
Dante  in  Croazia. 

La  lettura  (XIV,  4)  :  Fausto  Torrefranca,  Un  gran  mago  della  scenografia 
secentesca,  parla  di  Ludovico  Burnacini;  Manara  Valgimigli,  La  cantina  di 
Gigio,  cioè  di  Luigi  Bonati  della  Spezia,  cantina  che  fu  frequentata  dal 
Carducci  e  da  Sev.  Ferrari,  e  l'articolo,  con  in  più  qualche  fotografia,  era 
già  stato  edito  nel  giornaletto  di  corta  vita  Luceria  (cfr.  Giorn.,  56,  465); 
Rosol.  Guastalla,  Un  antico  vocabolario  furbesco,  del  Nuovo  modo  de  in- 
tendere la  lingua  zerga  indica  una  stampa  del  1546,  mentre  di  solito  si 
crede  che  l'ediz.  principe  sia  quella  del  1549  ;  (XIV,  5),  G.  Caprin,  Il  teatro 
di  primavera  a  Fiesole,  vedi  ciò  che  vi  è  detto  della  rappresentazione  del- 
VAminta. 

Fanfulla  della  domenica  (XXXVI,  11):  Ferd.  Neri,  Le  idtime  rime  dì 
Gaspara  Stampa,  osservazioni  psicologiche  non  trascurabili;  E.  Zenatti,  Carlo 
Antonio  Pilati  a  Venezia]  (12),  FI.  Pellegrini,  Fantasmi  epico-drammatici 
del  mondo  poetico  carducciano,  interessanti  notizie  di  poemi  ideati  dal  Car- 
ducci; M.  A.  Garrone,  Per  le  relazioni  letterarie  fra  Italia  e  Spagna]  (13), 
M.  Brunetti,  Un  duello  Casanoviano,  cfr.  anche  n»  16;  Giuseppina  Fuma- 
galli, Per  la  prosa  vinciana,  inesattezze  in  cui  caddero  E.  Solmi  e  L.  Bel- 
trami  nel  riferire  brani  di  Leonardo;  (15),  G.  Brognoligo,  Il  miracolo  dei 
Promessi  Sjwsi,  sotto  questo  titolo  equivoco  son  fatte  alcune  osservazioni 
al  Pellizzari;  (17),  R.  Renier,  Di  Paolo  Heyse  romanista]  Dom.  Menghini, 
Gaspare  Gozzi  umorista?]  R.  Cessi,  Giuseppe  Baretti  contro  Venezia:  {\^), 
F.  Stanganelli,  Di  alcuni  mal  noti  documenti  della  ptrosa  neo-volgare  in 
Sicilia]  A.  Ottolini,  Una  lettera  inedita  di  Vincenzo  Monti,  biglietto  a  Vin- 
cenzo Dandolo  largamente  commentato;  (19),  0.  Bacci,  Nuove  pubblicazioni 
bernardiniane  ]  A.  Ottolini,  D  Lamberti  in  un  verso  del  Monti,  circa  l'allu- 
sione della  Mascheroniana,  I,  226,  a  Jacopo  Lamberti,  su  cui  è  da  -vedere 
quanto  scrivono  A.  Bertoldi  e  V.  Fontana  nel  n°  20,  e  poi  di  nuovo  altri  nei 
nn.  22  e  23  ;  (20),  V.  Cian,  Una  cronaca  domestica  del  Trecento  fiorentino, 
quella  del  Velluti;  U.  Valente,  G.  F.  Galeani  Napione,  il  Piemonte  e  la 
questione  della  lingua,  la  fine  nel  num.  successivo;  (21),  G.  Barini,  Carlo 
Botta  e  la  musica]  Giuseppina  Fuitiagalli,  L'amarezza  leonardesca,  arguto 
articolo,  che  fa  parte  della  prefazione  di  certa  «  Scelta  di  prose  vinciane  », 
che  la  F.  prepara,  e  che  siamo  desiderosi  di  vedere;  G.  Bertoni,  Lingua  e 
letteratura  ladina,  sulla  grande  raccolta  di  testi  ladini  del  Decurtins. 

Il  Coìiciliatore  (I,  1)  :  G.  A.  Borgese,  17  metodo  nella  storia  delVarte,  contro 
il  criterio  metodologico  additato  dal  Croce,  che  si  giudica  imperfetto,  incom- 
piuto e  pericoloso,  e  si  rappresenta  come  contradditorio  a  principi  dal  Croce 
medesimo  propugnati;  A.  Tilgìier,  Il  concetto  della  storia  e  della  conoscenza 
nell'idealismo  italiano  contemporaneo,  combatte  l'identificazione  della  storia 
con  la  filosofia. 


CRONACA  275 

Revista  de  filologia  espanola  (I,  1)  (1):  M.  Asin  Palacios,  El  originai  àrabe 
de  la  «  Disputa  del  asno  cantra  fr.  Anselmo  Turmeda  »,  il  Ménendez  y 
Pelayo  suppose  che  quella  Disputa,  in  cui  è  dimostrato  qual  sia  la  superio- 
rità dell'uomo  sugli  animali,  fosse  imitazione  di  modelli  italiani,  come  il 
Libre  de  bons  ensenyaments  rimonta  alla  Dottrina  dello  schiavo  di  Bari  ; 
ma  qui  è  invece  dimostrato  che  la  Disputa  è  plagio  d'un  testo  arabo  ;  R.  Me- 
néndez  Pidal,  Elena  y  Maria,  poesia  leonesa  inèdita  del  siglo  XIII,  pub- 
blica e  illustra  storicamente  e  linguisticamente  questa  composizione  sinora 
ignota,  ove  Maria,  amica  di  un  abate,  discute  con  Elena,  amica  d'un  cava- 
liere, quale  sia  migliore  amante,  soggetto  di  contrasto  che  notoriamente  ri- 
sale al  poemetto  latino  Phillis  et  Flora,  che  ebbe  tanta  eco  nella  poesia 
medievale  francese. 

Nueva  etapa  (XVII,  58-62):  J.  Alonso,  Influencia   dantesca  en  Espana. 

Modem  pMlology  (XI,  4):  John  Livingston  Lowes,  The  loveres  maladye 
of  hereos,  copiosissimi  riferimenti  sull'amore  considerato  come  una  malattia 
e  sulle  cure  proposte  nel  medioevo  per  guarirlo. 

Neuphilologische  Mitteilungen  (1914,  nn.  3-6):  W.  Soderhjelm,  Les  nou- 
velles  de  F.  M.  Molza,  è  questo  un  terzo  contributo  del  S.  alla  miglior  cono- 
scenza del  Molza  (cfr.  Giorn.,  63,  406)  ;  egli  qui  studia  le  novelle  del  Molza, 
recando  loro  a  confronto  altre  del  Sercambi,  del  Bracciolini,  del  Bandelle,  ecc., 
e  finalmente  pubblica  dal  cod,  3890  della  Casanatense  la  novella  frammen- 
taria del  Molza  e  quella  ivi  detta  «  si  crede  del  Molza  ». 

Bulletin  italien  (XIV,  1):  G.  Bourgin,  Chateaubriand  et  V Italie  en  1814] 
M.  Roy,  Les  femmes  dans  V oeuvre  de  Fogazzaro,  in  continuazione;  oltre  le 
continuazioni  degli  articoli  già  menzionati,  del  Dejob  sui  dialoghi  nella  Div. 
Commedia  e  di  R.  Sturel  sul  Bandelle  in  Francia. 

Zeitschrift  fiir  romanische  Philologie  (XXXVIII,  2)  :  G.  B.  Festa,  Il  dia- 
letto di  Matera.  —  Tra  le  recensioni  vedasi  quella  dell'edizione  finlandese, 
anche  da  noi  annunciata,  della  Disciplina  clericalis. 

Romania  (XLIII,  169):  E.  Philipon,  Suffixes  romanes  d'origine  préla- 
tme;  G.  Bertoni,  Il  Lucidarlo  italiano,  constata  che  quel  testo,  contenuto 
in  parecchi  codici  e  stampe,  proviene  dal  francese,  e  ne  segue  la  storia  fra 
noi;  (XLin,  170),  G.  Bertoni,  Il  *  pianto  »  provenzale  in  morte  di  re  Man- 
fredi, testo  critico  dell'anonimo  componimento  e  osservazioni  storiche  su  di 
esso;  L.  Costans,  Une  traduction  frangaise  des  *  Héro'ides  »  d'Ovide  au 
XIII  siede,  nell'appendice  fa  vedere  quale  precisamente  sia  il  testo  francese 
dell'antica  versione  italiana  del  cod.  Gaddiano  indicata  dal  Del  Lungo  e  stu- 
diata dal  Bellorini  ;  E.  Farai,  Une  source  latine  de  Vhistoire  d'Alexandre, 
in  continuazione,  importante  contributo  alla  storia  della  celebre  leggenda, 
che  riguarda  la  lettera  sulle  meraviglie  dell'India.  —  Tra  le  recensioni  si 
osservi  quella  del  Bertoni  intorno  alle  poesie  che  Ezio  Levi  ricavò  dagli  an- 
tichi memoriali  dei  notai  bolognesi. 

Revue  hebdomadaire  (20  sett.  1913)  :  E.  Bodocanachi,  Boccace. 


(1)  Salutiamo  con  gioia  la  comparsa  di  questa  nuova  rivista  madrilena,  diretta 
da  quel  dottissimo  uomo  che  è  Ramon  Menóndez  Pidal.  Il  primo  fascicolo  già  ci 
mostra  che  essa  è  ispirata  a  criteri  sanamente  ed  austeramente  scientifici,  con 
larga  e  sicura  informazione  bibliografica.  La  Direzione. 


276  CRONACA 

Germanisch-romanische  Monatsschrift  (VI,  1):  J.  Petersen,  Der  Aufhau 
der  Literaturgeschiclite.  Cfr.  nella  Internation.  Monatsschrift  del  àie.  1913: 
Mayna,  Die  MetJioden  der  Literaturwissenschaft. 

Arcìiiv  fiir  Kulturgeschickte  (XI,  4)  :  A.  v.  Martin,  Die  Populàrphdosophie 
des  florentiner  Cóluccio  Salutati. 

SiXddeutsche  Monatshefte  (XI,  5):  0.  Bulle,  Dante   und  sein  Ptibìil'um. 

Versìagen  en  ìnededeeìingen  der  K.  Akademie  van  Wetenschappen  (Am- 
sterdam, Serie  IV,  P.  I,  pp.  54-91)  :  J.  J.  Salverda  de  Grave,  Inleiding  tet  een 
uitgave  der  Gedichten  van  de  Troubadour  Uc  de  Saint- Gire, 

Bevue  des  cours  et  conferences  (XXII,  5,  6,  7):  H.  Charaard,  La  poesie  fran- 
gaise  de  la  Renaissance. 

Sitzungshericlite  der  K.  Bayerischen  Akademie  der  Wissensckaften  (ci.  mo- 
rale, 1913,  Abh.  11):  K.  Yosslei,  Der  Trohador  Marcabru  und  die  Anfdnge 
des  gehilnstelten  Stiles,  questa  monografia  fa  parte  delle  ricerche  d'ordine 
estetico  intorno  alla  poesia  trobadorica,  a  cui  il  V.  attende  da  lungo  tempo. 
Il  primo  saggio,  su  Guglielmo  IX,  lo  diede  nella  Miscellanea  Hortis.  Cfr. 
Giorn.,  57,  141. 

Pìd)lications  of  the  modem  language  Association  of  America  (XXIX,  1): 
K.  Young,  The  origin  of  the  easter  play,  pregevole  contribuzione  alla  storia 
del  dramma  liturgico  ;  Fred.  Tupper,  Chaucer  and  the  seven  deadly  sins, 
molte  utili  erudizioni  sul  «  motivo  »  popolare  dei  sette  peccati  capitali. 

The  modem  language  review  (IX,  2)  :  E.  Moore,  The  «  Battifolle  »  letters 
sometimes  attributed  to  Dante,  sottilmente  argomenta  che  anche  quelle  tre 
epistole,  sebbene  di  scarso  interesse  storico,  sono  con  tutta  probabilità  au- 
tentiche. 

Bevue  deslivres  ancie^is  (an.  1913,  n°  2):  L.Loviot,  Une  édition  de  Merlin 
Cocai  préparée  en  1725. 

The  american  journal  ofphilology  (XXXV,  2)  :  W.  P.  Mustard,  Lodowick 
Brysket  and  Bernardo  Tasso,  mostra  che  in  due  sue  poesie  il  Brysket  ha 
seguito,  fino  alla  parafrasi,  la  Selva  nella  morte  del  signor  Aluigi  da  Gon- 
zaga e  l'edoga  Alcippo,  che  trovansi  entrambe  nei  libri  degli  Amori  di 
Bernardo  Tasso. 

Bomanische  Forschungeti  (XXXlll,  2):  M.  Lòpelmann,  Das  Weihnachtslied 
der  Franzosen  und  der  iibrigen  romanischen  Vòlker,  all'Italia  è  fatta  parte 
troppo  modesta;  (XXXIV,  1),  Oh.  B.  Lewis,  Die  altfranzósischen  Prosaver- 
sionen  des  ApoUonius-Bomans,  testo  critico  e  studio  linguistico.  Si  tratta 
della  leggenda  notissima  di  Apollonio  di  Tiro. 

Jahrhu^h  der  K.  Preussischen  Kunstsammlungen  (suppl.  al  voi.  XXXIV)  : 
0.  Pollak,  Italienisclie  Kiimtlerbriefe  aus  der  Barockzeit,  sono  carteggi,  bene 
annotati,  di  quasi  una  trentina  di  artisti,  desunti  da  archivi  di  Roma.  —  A 
proposito  di  ricerche  storiche  sull'arte  non  isfuggano  i  due  preziosi  volumi 
(IV  e  V  delle  Italienische  Forschungen)  che  contengono  i  materiali  archivi- 
stici raccolti  da  Gustavo  Ludwig  per  la  storia  dell'arte  veneziana,  e,  con  ag- 
giunte ed  elaborazione  di  Walter  Bombe,  quelli  sull'arte  perugina  di 
Adamo  Rossi. 


CRONACA  277 

BuUetin  du  bibliophiìe  (1914,  n<'  3):  J.  Mathorez,  Les  Itaìiens  et  V opinion 
frangaise  à  la  fin  du  XVI  siede,  in  continuazione. 

Tìie  romam'c  review  (IV,  3):  Shirley  Gale  Patterson,  An  itàlian  proverò 
colìection,  riferisce  una  piccola  raccolta  di  antichi  proverbi  italiani,  che  si 
legge  in  un  ms.  dell'Università  di  Chicago;  Donald  Olive  Stuart,  The  stage 
setting  ofliell  and  the  iconography  of  the  middle  ages,  contributo  alla  storia 
dell'apparato  scenico  religioso  nell'età  di  mezzo  ;  E.  H.  Wilkins,  The  discus- 
sion  of  the  date  of  the  birth  of  Boccaccio  ;  A.  de  Salvio,  Studies  in  the  Ir- 
pino  dialect. 

Bepertorium  fiir  Kiinsticissenschaft  (XXXVII,  1):  J.  A.  F.  Orbaan,  Vir- 
tuosi  al  Pantheon,  archivalische  Beitrdge  zur  rómischen  Kunstgeschichte, 
comunicazione  di  curiosi  documenti,  che  cominciano  con  la  seconda  metà  del 
sec.  XVI  e  si  protraggono  sino  al  mezzo  del  XVHI. 

Neue  Jahrbiicher  fiir  das  kìassische  Aìtertum  (XXXIII-XXXIV,  3): 
E.  Helm,  Das  Mdrchen  von  Amor  tind  Psyche. 

Worter  und  Sachen  (VI,  1):  Gino  Bottiglioni,  Die  Terminologie  der  Mar- 
morindustrie  in  Carrara. 

Bevue  de  dialectologie  romane  (V,  3-4):  D.  Giannarelli,  Studi  sui  dia- 
letti lunigianesi  compresi  fra  la  Magra  e  T Appennino  reggiano]  C.  Volpati, 
Nomi  romanzi  del  pianeta  Venere. 

Zentralblatt  fUr  BibliotheJcswesen  (XXXI,  2):  J.  Kest,  Die  erste  allge- 
meine  pàpstliche  Zensurordnung. 

Bevue  hispanique  (XXVIII,  74):  E.  Moline  y  Brasès,  Textes  vidgars  ca- 
talans  del  segle  XV,  il  più  importante  fra  questi  testi  è  un  contrasto  della 
Sibilla,  che  accenna  a  forma  drammatica. 

Bevue  dliistoire  littéraire  de  la  France  (XX,  4)  :  P.  Chaponnière,  Les 
comédies  des  moeurs  du  theatre  de  la  Foire;  Doris  Gunnell,  Madame  de 
Staé'l  en  Angleterre]  (XXI,  1),  P.  M.  Masson,  Le  séjour  de  J.-J.  Bousseau 
à  Vhospice  du  Spirito  Santo,  a  Torino. 

Beihefte  zur  Zeitschrift  fiir  romaniàche  PhìMogie  (n»  49)  :  Carlo  Battisti, 
Testi  dialettali  italiani  in  trascrizione  fonetica,  questa  puntata  contiene  testi 
dell'Italia  superiore,  veneti,  lombardi,  piemontesi,  genovesi,  emiliani,  con  buone 
annotazioni  linguistiche.  —  Si  tenga  presente  che  nel  n^  52  dei  Beihefte  tro- 
vasi l'edizione  critica  dei  trovatori  Pistoleta  e  Guillem  Magret. 

Zeitschrift  des  Vereins  fUr  VolJcskunde  (XXIV,  1):  H.  Marzell,  VoRskund- 
liches  aus  den  Krduterbuchern  des  XVI  Jahrhunderts  ;  Berta  Ilg,  Malte- 
sische  Legenden  von  der  Sibylla. 

Bevue  de  philosophie  (an.  XIII  e  XIV)  :  P.  Duhem,  Le  temps  et  le  mou- 
vement  selon  les  scolastiques,  esteso  e  dotto  scritto. 

Bevue  philosophique  (XXXIX,  3):  L.  Arréat,  Valeurs  d'art;  esthetique 
sociologique. 

Archiv  fiir  Geschichte  der  Philosophie  (XX,  1):  Aurelia  Horovitz,  Die 
Weltanschauung    eines    Bomantikers,    che    è   Federico    Schlegel;    (XX,  2), 


278  CRONACA 

E.  V.  Sydow,  Das  System  Benedetto  Croces,  additiamo  per  buoue  ragioni 
questo  unico  articolo  sul  sistema  filosofico  del  Croce,  mentre  se  ne  discute 
più  0  meno  a  lungo  in  tutte  le  riviste  filosofiche  italiane,  fra  le  quali  è  spe- 
cialmente considerevole  ciò  che  ne  scrive  E.  Chiocchetti  in  varie  puntate  della 
Rivista  di  filosofia  neo-scolastica. 

Bevue  de  Vhistoire  des  religions  {hXy 111,  2):  G.  Huet,  La  legende  de  la 
statue  de  Vénus. 

Mélanges  d'archeologie  et  d'kistoire  (XXXIII,  4-5):  A.  de  Bouard,  Lettres 
de  Bome  de  Bartolomeo  de  Bracciano  à  Virginio  Orsini]  G.  Bourgin,  L'as- 
sassinat  de  Bassville  et  V opinion  romaine  en  1793. 

Bulìetin  hispanique  (XV,  3)  :  F.  Hanssen,  Los  endecasilabos  de  Alfonso  X, 
degli  alessandrini  di  Alfonso  X  parlò  il  medesimo  autore  in  Anales  de  la 
Universidad  de  Chile,  1913;  (XVI,  2),  A.  Morel-Fatio,  A  propos  de  la  cor- 
respoìulance  diplomatique  de  D.  Diego  Hurtado  de  Mendoza,  si  collega 
strettamente  a  cose  italiane. 

Modem  language  notes  (XXIX,  3)  :  F.  Hanssen,  Die  jambischen  Metra 
Alfons  des  X]  (4),  J.  M.  Rudw^in,  Znm  Verlidltnis  des  religiósen  Dramas 
zur  Liturgie  der  Kirche. 

Historische  Zeitschrift  (CXII,  3):  A.  Elkan,  Entstehung  und  Entwicklung 
des  Begriff  «  Gegenreformation  ». 

Deutsche  Bundschau  (XL,  5,  6,  7):  Konrad  Burdach,  Ueher  den  Ursprimg 
des  Humanismus,  esteso  ed  interessante  lavoro.  Sulle  fruttuose  ricerche  del 
Burdach  avrà  a  tornare  un  egregio  cooperatore  nostro  in  uno  dei  prossimi 
fascicoli  di  questa  rivista. 

Quellen  und  Forschungen  aus  italienischen  Archiven  und  BibliotheJcen 
(XVI,  2):  H.  Kalbfuss,  Eine  hologneser  Ars  dictandi  desXlIJahrhunderts, 
illustra  un  ms.  importante  della  biblioteca  di  Mantova. 

Mitteilungen  des  histituts  fiir  oesterreichische  Geschichtsforschung  (Ergàn- 
zungsband,  IX,  1):  K.  v.  Ettmayer,  Die  geschichtliclien  Grundìagen  der  Spra- 
chenverteilung  in  Tirol,  importante  per  i  rapporti  coi  dialetti  ladini  e  trentini. 

Neues  Archiv  der  Gesellschaft  fiir  altere  deidsche  Geschichtskunde 
(XXXVIII,  3):  Bruno  Albers,  Verse  des  Erzhischofs  Alfanus  von  Salerno 
fiir  Monte  Cassino. 

Annales  du  midi  (n«  101):  A.  Langfors,  Xe  troubadour  Gtiilhem  de  Ca- 
hestanh,  in  continuazione,  edizione  e  traduzione  delle  rime  di  lui. 

Zc Uscii  ri ft  fin-  deutsches  Altertuni  (voi.  LIV):  E.  Michaelis,  Zum  Ludus 
de  Antidiristo]  (LV,  1),  N.  C.  Brooks,  Orterfeiern  aus  Bainberger  und 
WolfenbUttler  Handschriften,  drammi  liturgici. 

Ettules  franciscaines  (an.  1913  e  1914):  P.  Césaire,  La  perfection  se'ra- 
phique  d^après  St.  Francois,  esteso  lavoro  ;  (XXXI,  181),  H.  Matrod,  Le 
veltro  de  Dante  et  son  DXV,  dottamente  sostiene  il  protagonista  tartaro; 
(XXX,  180  e  XXXI,  182  e  183),  J.  Th.  Welter,  Un  recueil  d'E.rpmph  du 
XIII  siede. 


CKONACA  279 

The  american  Imtoricdl  revieiv  (XIX,  1):  A.  J.  Carlyle,  The  sources  of 
medieimì  politico}  theory  and  its  connection  tvith  medieval  politics. 

Bevue  des  deux  mondes  (15  febbr.  1914):  P.  Hazard,  La  littérature  en- 
fantine  en  Italie,  osservabile,  perchè  è  forse  la  prima  volta  che  in  una  grande 
rivista  straniera  si  parla  della  letteratura  nostra  per  i  ragazzi,  dando  il  do- 
vuto rilievo  al  bellissimo  Pinocchio  ed  esaltando  fin  troppo  il  Cuore:  (l»  marzo 
1914),  T.  de  Wyzewa,  Un  épisode  de  la  vieillesse  de  Casanova]  (15  marzo 
1914),  Imbart  de  la  Tour,  La  religion  des  humanistes  ;  (1°  maggio  1914), 
Hausson ville.  Madame  de  Staèl  e  M.  Necker  d'après  leur  correspondance 
inèdite. 

Revue  d'histoire  moderne  et  contemporaine  (XVni,  6):  Ph.  Sagnac,  i'<?n- 
seignement  secondaire  avant  et  pendant  la  Bévolution. 

Annales  de  VUniversité  de  Grenoble  (XXV,  1):  G.  Maugain,  Giosuè  Car- 
ducci et  la  France,  è  la  seconda  parte  d'un  articolo  minuto  e  rilevante,  prin- 
cipiato nelle  Annales,  XXIII,  3.  Vi  sono  registrati  tutti  i  riferimenti  del 
Carducci  a  cose  francesi,  sia  nei  versi,  sia  nelle  prose. 

Bevue  d'histoire  ecclesiastique  (XIV,  4)  :  L.  Laurand,  Le  cursus  dans  le 
sacramentaire  léonien  ;  Ch.  Moeller,  Les  buchers  et  les  auto-da-fé  de  Vln- 
qiiisition  depuis  le  moyen  àge,  in  continuazione;  (XV,  1),  L.  Gaugaud,  La 
datise  dans  les  églises,  interessante  articolo  in  continuazione  ;  P.  Mandonnet, 
La  crise  scolaire  au  début  du  XIII  siede  et  la  fondation  de  Vordre  des 
frères-prècheurs. 


*  Il  voi.  VII  della  grande  Storia  dell'arte  italiana  di  Adolfo  Venturi  riesce 
diviso  in  quattro  parti,  ognuna  delle  quali  empie  un  grosso  tomo,  ornato 
di  numerose  e  ben  scelte  fototipie.  Vi  si  tratta,  con  novità  di  vedute,  La 
pittura  del  Quattrocento.  Nel  Giorn.,  58,  289  toccammo  già  della  Parte  I, 
uscita  nel  1911.  La  Parte  II  vide  la  luce  nel  1913  (Milano,  Hoepli).  Essa 
studia  il  diffondersi  nell'Italia  centrale  dell'arte  di  Piero  della  Francesca, 
ch'è  considerato  come  «  monarca  della  pittura  »  ai  tempi  suoi.  All'influsso  di 
lui  son  richiamati  artisti  come  Melozzo,  Lorenzo  da  Viterbo,  Luca  Signorelli, 
e  lo  stesso  Perugino.  Le  larghe  trattazioni  di  Luca  Signorelli  e  del  Pintu- 
ricchio  hanno  molto  interesse  anche  per  la  storia  delle  lettere,  sia  per  i  me- 
ravigliosi freschi  orvietani  del  primo,  sia  per  gli  spunti  culturali  che  il  secondo 
ha  disseminati  nell'appartamento  Borgia  e  per  la  sua  vivacissima  istoriazione 
della  libreria  del  duomo  di  Siena,  la  quale,  come  tutti  sanno,  riguarda  Enea 
Silvio  Piccolomini.  Nella  prima  sezione  del  volume  ha  per  noi  pure  impor- 
tanza grande  il  molto  che  vi  si  dice  delle  arti  nel  centro  urbinate.  L'attività 
di  Giovanni  Santi  vi  è  meglio  chiarita  di  quanto  fosse  per  lo  innanzi  ed  è 
mostrato  che  parecchie  opere  a  lui  assegnate  appartengono  invece  ad  Evan- 
gelista di  Pian  da  Meleto.  L'iconografia  tradizionale  di  Federico  d'Urbino 
s'arricchisce  di  ritratti  poco  noti,  come  la  tavoletta  di  fra  Carnovale  della 
bibl.  Vaticana  (p.  104);  il  dipinto  alquanto  grosso,  ma  robusto  e  vivace,  di 
Giusto  di  Gand,  eh'  è  nella  galleria  Barberini,  con  Federico  armato  che  legge 
un  codice  e  presso  a  lui  il  piccolo  Guidubaldo  (p.  135)  [Giusto  ritrasse  Fede- 


280  CRONACA 

rico  anche  nello  sfondo  del  noto  quadro  La  comunione  degli  apostoli,  clie  si 
trova  nel  palazzo  ducale  d'Urbino,  ved.  p.  123]  ;  di  nuovo  Federico  e  Guidu- 
baldo,  pure,  sembra,  pel  pennello  di  Giusto  di  Gand,  nel  castello  di  Windsor 
(p.  159).  Altro  quadro  di  scuola  urbinate,  ch'è  ora  a  Napoli,  ritrae  Luca  Pa- 
cioli  e  Guidubaldo  duca  (p.  122).  Nella  galleria  Barberini  ed  al  Louvre  il  V. 
rintracciò  i  dottori  della  Chiesa,  filosofi  e  poeti  che  Giusto  di  Gand  ritrasse 
per  Federico  da  Montefeltro  e  che  colpirono  d'ammirazione  l'ingenuo  Vespa- 
siano da  Bisticci.  Assai  esiguo  è  il  loro  valore  iconografico,  ma  tuttavia  va 
notato  che  nella  serie  barberiniana  trovansi  Alberto  Magno,  il  Petrarca,  Pio  II  ; 
nella  parigina  Pietro  d'Abano,  Dante,  Vittorino  da  Feltre ,  il  cardinal  Bes- 
sarione.  Le  celebri  arti  liberali,  anch'esse  dipinte  per  Federico,  il  V,  vuol  rito- 
glierle a  Melozzo  ed  assegnarle  a  Giusto  di  Gand  nel  periodo  suo  d'imitazione 
dei  pittori  italiani  più  in  voga.  Sgroppa  con  molta  abilità  il  V.  i  nodi  mol- 
teplici e  forti  che  ha  la  enorme  produzione  del  Perugino,  studiandosi  di  de- 
terminare ciò  che  veramente  gli  appartiene  e  ciò  che  è  lavoro  della  sua  bottega. 
Se  ne  guadagna  la  persuasione  che  non  del  Perugino  ma  di  Andrea  d'Assisi 
sia  il  quadro  dei  camerini  d'Isabella  d'Este,  che  oggi  è  al  Louvre  (p.  563), 
e  pure  d'Andrea  lo  Sposalizio  che  ora  si  trova  nel  museo  di  Caen  e  che  per 
molto  tempo  si  ritenne  il  modello  peruginesco  dello  Sposalizio  di  Raffaello 
(p.  691).  Nell'ultimo  capitolo  del  volume,  ch'è  una  dotta  e  perspicua  esposi- 
zione della  giovinezza  di  Raffaello  e  della  sua  prima  educazione  pittorica,  ri- 
torna il  V.  sul  soggetto  dello  Sposalizio  (pp.  808  sgg.)  e  fa  vedere  che  in 
quel  mirabile  dipinto  l' unica  vera  ispirazione  remota  è  da  riconoscere  nella 
Consegna  delle  chiavi  (p.  495),  che  il  Perugino  pitturò  per  la  Sistina  e  che 
è  uno  de'  suoi  lavori  più  originali  e  significanti.  —  La  Parte  III  del  volume 
uscì  nel  1914  (Milano,  Hoepli).  Come  l'altra  si  chiude  con  la  giovinezza  di 
Raffaello,  così  questa  termina  con  la  giovinezza  del  Correggio  ;  e  mentre  l'altra 
particolarmente  s'occupa  dell'Italia  centrale,  questa  s'aggira  tra  le  scuole  pitto- 
riche quattrocentesche  dell'Italia  del  nord,  Padova,  Ferrara,  Venezia,  l'Emilia. 
Vi  grandeggia  particolarmente  la  poderosa  opera  di  Andrea  Mantegna;  con 
amorosa  cura  vi  sono  studiati  i  Bellini,  il  Francia,  Cosimo  Tura,  il  Cossa, 
il  Roberti,  il  Costa.  È  un  territorio  con  cui  il  Venturi  ha  famigliarità  grande 
da  lungo  tempo,  essendone  stato  uno  dei  primi  e  più  benemeriti  dissodatori. 
Con  l'occhio  suo  esperto  seppe  ravvisare  opere  finora  neglette  di  quei  pittori 
in  raccolte  diverse,  alcune  lontane,  private  e  poco  accessibili.  Siccome  si  tratta 
del  più  bel  fiorire  della  Rinascita  in  citta  come  Ferrara,  Mantova,  Padova  e 
Bologna,  tutti  intendono  che  questo  tomo  ha  grande  interesse  anche  per  i 
cultori  di  letteratura.  Rileviamo,  tra  le  molte  particolarità  che  hanno  valor 
letterario,  la  cassetta  eburnea  della  cattedrale  di  Graz  con  i  Trionfi  del  Pe- 
trarca, che  un  tempo  s'attribuivano  nientemeno  che  a  Nicola  e  a  Giovanni 
Pisano,  sicché  sarebbero  stati  modelli  al  Petrarca,  mentre  il  V.  li  vuole  rica- 
vati dal  Mantegna  (pp.  215  sgg.).  Pel  celebre  ciclo  figurato  di  Schifanoia, 
il  V.  appoggia  l'interpretazione  desunta  dall'astrologia  del  tempo,  proposta 
dal  quel  sagace  cultore  d'arte  ch'è  il  Warburg.  Si  noti  quanto  ò  detto  delle 
arti  alla  corte  di  Alberto  Pio,  il  cui  pittore  favorito  fu   Bernardino  Loschi, 


CRONACA 


281 


che  lo  ritrasse  più  volte  (pp.  1090  sgg.).  Ma,  come  è  detto  sopra,  per  ognuno 
di  noi  qui  v'è,  non  da  spigolare,  ma  da  mietere. 

*  Nel  Giornale,  62,  282,  fu  preannunziata  la  pubblicazione  dei  versi  latini 
(in  parte  ancora  inediti)  di  Giovanni  Pascoli  a  cura  del  prof.  Ermenegildo 
Pistelli.  Intanto  Arnaldo  Della  Torre  ha  dato  opera,  con  ottimo  pensiero,  alla 
versione  e  al  commento  di  quel  gruppo  di  cinque  poemetti  latini  del  Pascoli, 
che  riguarda  il  diifondersi  del  cristianesimo  nel  mondo  romano  dal  primo  al 
quarto  secolo  dopo  Cristo.  Il  poeta  ha  voluto  rappresentare  le  grandi  difficoltà 
d'ordine  spirituale  che  il  nuovo  verbo  incontrava  per  farsi  strada  fra  i  Ro- 
mani, educati  a  visione  cosi  diversa  della  vita.  Il  soggetto  non  poteva  che 
riuscir  gradito  al  Della  Torre,  il  quale,  com'è  noto,  s'è  occupato  anche  di 
storia  delle  religioni,  e  segnatamente  della  cristiana.  Sino  al  momento  in  cui 
scriviamo  egli  ha  tradotti  e  illustrati  due  dei  poemetti  di  quel  gruppo.  Cen- 
tuno, ch'ò  del  1902,  e  Pomponia  Graecina,  ch'è  del  1910.  Centuno  aveva 
già  avuto  tre  versioni  italiane  (una  di  queste  dovuta  a  G.  B.  Giorgini)  ;  Pom- 
ponia Graecina  era  stato  tradotto  solo  da  Vieri  Bongi.  Le  traduzioni  del 
Della  Torre  (Firenze,  tip.  già  Claudiana,  1913)  sono  in  esametri  di  tipo  pa- 
scoliano,  corrispondenti  nel  numero  agli  esametri  latini  dei  testi.  Seguono  note 
storiche,  filologiche  ed  esplicative;  precedono  illustrazioni  d'indole  letteraria. 
Il  critico  rileva  che  tutto  quel  gruppo  risente  dell'impressione  gagliarda  che 
fece  sullo  spirito  del  Pascoli  il  Quo  vadis,  così  largamente  diifuso  e  fortu- 
nato in  Italia.  Da  esso  deriva  la  prima  idea  della  Pomponia,  non  senza  che 
il  poeta  ricorresse  anche  a  Tacito  e  rammentasse  qualche  tratto  della  Fabiola 
del  card.  Wieseman.  Del  Centurio  si  lascia  meno  facilmente  determinare  la 
fonte,  ma  certo  ai  testi  evangelici  che  il  poeta  ebbe  d'innanzi  vogliono  es- 
sere accostate  altre  moderne  interpretazioni,  ove  pure  la  religione  cristiana 
è  valutata  in  particolare  guisa  come  promulgatrice  di  pace.  Il  D.  T.  fa  in 
proposito  utili  considerazioni  e  raffronti.  Per  particolari  appunti  intorno  alle 
traduzioni  vedasi  specialmente  A.  Gandiglio  in  Atene  e  Roma,  XVII,  55  sgg. 

*  Miracolo!  Il  Ministero  della  pubblica  istruzione  del  Regno  d'Italia  s'è 
fatto  iniziatore  e  patrocinatore  d'una  pubblicazione  di  carattere,  oltreché  am- 
ministrativo, scientifico.  Intendiamo  alludere  ai  due  grossi  volumi  di  Mono- 
grafìe delle  università  e  degli  istituti  superiori,  Roma,  tip.  operaia  coope- 
rativa, 1911  e  1913.  Vi  si  offrono  dati  statistici  e  storici  di  15  università 
governative,  tre  università  libere  e  24  istituti  superiori.  E  una  eccellente  messe 
di  notizie,  a  cui  prenderanno  vivo  interesse  tutti  i  cultori  di  storia  dell'alta 
coltura,  e  non  essi  soltanto.  Com'era  prevedibile,  il  lavoro  no,i  fu  condotto 
con  vera  omogeneità  di  criteri,  né  con  alcuna  oculatezza  di  direzione  ;  accanto 
a  talune  monografie  ottime,  ve  ne  sono  altre  mediocri  e  meno  che  mediocri  ; 
in  alcune  le  notizie  traboccano  e  danno  nel  vano  e  nel  pettegolo,  in  altre  sono 
esili  e  scarne  e  date  in  forma  pedestre,  degna  d'un  impiegato  d'ordine.  Ma 
forse  questi  sconci  non  erano  facilmente  evitabili,  o  per  lo  meno  sarebbe 
stata  necessaria  ben  altra  intelligenza  organizzatrice  e  regolatrice,  che  gui- 
dasse il  lavoro.  Più  grave  è  il  fatto  che  di  due  università  governative,  una 
delle  quali  di  primaria  importanza,  quelle  di  Genova  e  di  Napoli,  manca  ogni 


282  CRONACA 

notizia.  Malgrado  ciò,  la  materia  dei  dati  raccolti  è  pur  copiosa  e  degna,  per 
molti  rispetti,  di  considerazione.  Peccato  che  l'edizione  sia  infelicissima.  Se 
consideriamo  il  lusso  di  pubblicazioni  storiche  consimili  che  si  fanno  all'estero, 
come  ci  mortificano  questi  due  sgarbati  volumi  senza  margini,  stampati  su 
carta  da  salumaio  con  quegli  odiosi  tipi  che  ci  sono  noti  per  via  del  Bollet- 
tino dell'istruzione  pubblica!  (1). 

*  In  quest'anno  1914  è  uscita  a  Pietroburgo  l'edizione  russa  della  mono- 
grafia su  Pomponio  Leto  del  nostro  chiaro  collaboratore  prof.  Vladimiro  Za- 
bùghin.  L'edizione  russa  è  rifusa,  ridotta  nella  mole  e  corredata  d'una  edizione 
critica  delle  note  di  viaggio  del  Leto  e  d'un  indice  alfabetico  dei  manoscritti 
adoperati.  Fonti  nuove  son  messe  a  profitto  :  l'Urbin.  368  ed  il  cod.  Savign.  68, 
scoperto  e  studiato  da  Luigi  Calvelli,  il  quale  si  accinge  a  stampare  una  bella 
biografia  del  Platina.  Del  nuovo  materiale  lo  Z.  darà  conto  nei  voli.  IH  e  IV 
dell'ediz.  italiana  del  P.  Leto.  Intanto  il  laborioso  indagatore  attende  allo 
studio  su  Virgilio  'nel  Rinascimento,  ed  è  già  bene  innanzi.  L'affinità  della 
materia  ci  induce  pure  ad  annunciare  che  un  altro  critico  russo,  Ivan  Pusino, 
prepara  un  libro  su  Giovanni  Pico  della  Mirandola  e  che  Giovanni  Minozzi 
ha  ultimato  un  esteso  lavoro,  con  risultati  ragguardevoli,  su  Montecassino 
nel  Binascimento.  Frattanto  è  uscito  in  Inghilterra  un  sontuoso  volume,  che 
alla  storia  della  cultura  in  Montecassino  particolarmente  si  ricollega  e  che  ha 
preso  le  mosse  per  l'appunto  da  indagini  su  ]Montecassino  considerato  come 
centro  di  trasmissione  dei  classici  latini,  tesi  proposta  dal  compianto  Traube. 
Il  dott.  E.  A.  Loew,  che  di  lui  fu  allievo,  finì  col  fare  una  grande  opera  storico- 
paleografica,  che  annunciamo  con  la  maggior  deferenza  :  The  Beneventan  script, 
a  history  of  the  south  itàlian  minuscule,  Oxford,  Clarendon  Press,  1914. 
Seguirà,  a  cura  del  medesimo  Loew,  un  albo  paleografico  in  edizione  di  sole 
150  copie,  col  titolo  Scriptura  Beneventana. 

*  Una  curiosa  esumazione  dei  Classici  del  ridere  dell'editore  Formìggini  è 
la  bizzarra  prosa  di  Giovanni  Rajberti,  L'arte  di  convitare,  rievocata  con  le 
cure  di  Giulio  Natali  (Genova,  1913).  Del  milanese  Rajberti,  medico  e  poeta 
dialettale,  nato  nel  1805,  morto  nel  1861,  sono  a  stampa  tra  operette  giocose 
e  in  parte  satiriche,  Il  gatto,  il  Viaggio  di  un  ignorante  e  L'arte  di  con- 


(1)  Con  ben  altra  signorilità  provvede  fra  noi  alla  propria  storia  qualche  Isti- 
tuto singolo.  Mentre  correggiamo  le  bozze,  ci  arriva  l'appendice  (Catania,  tipografia 
Mattei,  1913)  di  Michele  Catalano-Tirbito  alla,  héila,  Storia  documentata  deUa  R.Uni- 
versità  di  Catania  di  Remigio  Sabbadini,  annunciata  in  questo  Giornale,  XXXII,  476. 
Pur  non  uscendo  dal  sec.  XV,  quel  valente  esploratore  che  è  il  Catalano-Tirrito 
aggiunge  alla  messe  abbondante  del  Sabbadini  ben  169  documenti  tolti  a  depositi 
prima  non  esplorati,  quali  gli  archivi  comunale  ed  arcivescovile  di  Catania  ed  il 
R.  Archivio  di  Stato  in  Palermo.  Ottimo  lavoro,  stampato,  più  ancora  che  con  ele- 
ganza, con  lusso.  È  desiderabile  che  la  ricerca  e  lo  studio  continuino  anche  per  i 
secoli  successivi.  —  Nello  stesso  tempo  la  Commissione  per  la  storia  dell'Univer- 
sità di  Bologna,  eretta  in  ente  morale,  pubblica  (Bologna,  1913)  il  II  volume  del 
OhartuUi riunì  Studii  Bononienais,  coi  criteri  già  indicati  in  questo  Oiornale,  L,  478. 
Se  ne  discorre  in  altra  parte  di  questo  fnsoicolo. 


CRONACA  283 

vitare.  Sarebbe  bene  si  ristampassero  tutte  tre,  giacche  questa  Arte  di  con- 
vitare,  edita  la  prima  volta  nel  1850,  è  cosa  gustosissima.  Essa  è  una  specie 
di  galateo  dei  conviti  più  specialmente  borghesi,  con  osservazioni  argute  e 
festevoli.  La  prosa  scorre  spedita  ed  è  di  buona  lega.  A  pp.  201  e  206,  par- 
lando dei  brindisi,  il  Rajberti  ne  pubblica  due  suoi  in  sestine  vernacole  mi- 
lanesi, composti  nel  1837  e  nel  1838.  A  chi  studia  la  letteratura  lombarda 
del  sec.  XIX  questo  ameno  scrittare  non  dovrà  sfuggire. 

*  Il  giusto  sentimento  che  oggi  «  il  periodico  è  diventato  in  tutti  i  campi 
«  di  ricerca  intellettuale  uno  strumento  di  lavoro  della  massima  importanza, 
«  spesso  necessario  più  del  libro  stesso  »  ha  indotto  l'Istituto  biblico  ponti- 
ficio a  pubblicare  un  prezioso  Elenco  alfabetico  delie  pithhlicaziom  periodiche 
esistenti  nelle  hihlioteche  di  Roma,  Roma,  libreria  Bretschneider,  1914.  Inizia 
quest'opera  la  serie  dei  Subsidia  bihiiographica  e  s'occupa  delle  pubblicazioni 
periodiche,  così  vive  come  estinte  (comprese  quelle  edite  dalle  Accademie),  di 
soggetto  storico,  filologico,  filosofico,  giuridico,  economico.  Le  biblioteche  ro- 
mane, private  e  pubbliche,  che  vi  sono  considerate,  sommano  al  bel  numero 
di  quarantacinque.  L'opera  bibliografica,  compilata  accuratamente  dai  due  bi- 
bliotecari G.  Gabrieli  e  A.  Silvagni,  ha  il  vantaggio  di  avere  un  prezzo  più 
che  modesto.  Essa  si  schiera  utilmente  accanto  al  vecchio  Elenco  delle  puh- 
hlicazioni  periodiche  edito  dal  Governo  italiano  nel  1885,  allo  spoglio  siste- 
matico delle  riviste  fatto  eseguire  dalla  Biblioteca  della  Camera,  e  alla  recente 
lista  delle  riviste  che  si  trovano  in  Milano,  stampata  a  cura  del  Circolo  filo- 
logico milanese.  Registri  di  questo  genere  sono  ben  utili  agli  studiosi. 

*  Tesi  di  laurea  e  programmi  :  Oskar  Zollinger,  Leopardi  ah  Dichter  des 
Wéltschmerzes  (programma,  diviso  in  tre  annate,  della  Scuola  femminile  su- 
periore di  Zurigo);  Fr.  Lo  Parco,  Il  voto  di  due  gentildonne  guasconi  a 
S.  Jacopo  di  Compostella  (progr.  R.  Istituto  nautico  di  Napoli  ;  da  una  bolla 
dell'Ai-chivio  Vaticano  in  data  8  giugno  1332,  il  Lo  P.  è  tratto  a  rammen- 
tare la  parte  che  ha  il  santuario  di  S.  Jacopo  nell'antica  letteratura  italiana 
e  ad  illustrare  i  voti  «  prò  fecunditate  »  nel  Cantare  di  Fiorio  e  Biancofiore 
e  nel  Filocolo)  ;  Eero  Iloven,  Parodies  dts  thèmes  pieux  dans  la  poesie  fran- 
{■aise  du  moyen  age  (laurea,  Helsingfors)  ;  M.  Filzi,  Ein  tosco-venetianisches 
Legendenhuch  (progr.  ginn.,  Pola)  ;  Paul  Kruger,  Bedeutung  und  Enttcicl'- 
lung  der  «  salutatio  »  in  den  mittelalterliclien  Briefstelìern  bis  zum  XIV 
Jahrhundert  (laurea,  Greifswald)  :  W.  Kupsch,  Formenlehre  des  alt-  und 
neu-sizilianischen  DialeJcts  (laurea,  Bonn)  ;  R.  Neri,  Giuseppe  Revere  (progr. 
ginnasio  reale,  Pisino)  ;  Maria  Gianni,  Delle  rime  d'amore  di  Torquato  Tasso 
(progr.  liceo  femminile,  Trieste). 

*  Pubblicazioni  recenti  : 

Guido  Pasquetti.  —  L'oratorio  musicale  m  Italia.  Studio  d'arte  e  d'am- 
biente. Seconda  edizione.  —  Firenze,  Succ.  Le  Mounier,  1914  [Questa  se- 
conda edizione  ha  in  testa  la  recensione  che  il  Renier  consacrò  alla  prima 
nel  Giorn.,  49,  434.  Caso  strano!  Sebbene  quel  cenno  non  sia  tutto  apologe- 
tico, esso  piacque  al  Pasquetti,  al  quale  parve  che  il  suo  libro  vi  fosse  giù- 


284  CRONACA 

dicato  «  con  serietà  e  competenza  »  e  «  considerato  l'argomento  (dice  egli) 
«  da  un  punto  di  vista  critico  che  non  solo  corrisponde  al  mio,  ma  anche  a 
«  quello  dei  più  intelligenti  scrittori  di  letteratura  musicale  d'Italia  e  d'ol- 
«  tralpe  >]. 

Francesco  Ercole.  —  Tractatus  de  Ty  ranno  von  Coluccio  Salutati  ;  kri- 
tische  Ausgabe  mit  einer  historisch-juristischen  Einleitung.  —  Berlin  und 
Leipzig,  W.  Eothschild,  1914  [Di  questa  importante  pubblicazione  e  delle 
altre,  su  Coluccio,  del  Martin,  sarà  debitamente  discorso  in  seguito]. 

Carlo  Pascal.  —  L'opera  poetica  di  Mario  Mapisardi.  —  Catania,  Bat- 
tiato,  1914. 

Henry  Hauvette.  —  Boccace.  Étude  biographique  et  littéraire.  —  Paris, 
Colin,  1914. 

Eapfa  Garzia.  —  Il  vocabolario  dannunziano.  —  Bologna,  Stab.  poli- 
gi-afìco  emiliano,  1913  [Ci  rincresce  che  la  coisuetudine  della  rivista  nostra 
di  non  discorrere  di  opere  riguardanti  letterati  vivi  c'impedisca  di  trattenerci 
su  questo  libro,  che  sebbene  faticoso,  contorto  e  prolisso,  ha  in  se  tante  buone 
parti  di  dottrina  non  comune  e  di  criterio  sano.  Partendo  da  una  severa  re- 
visione dei  due  vocabolari  dannunziani  di  G.  L.  Passerini,  giunge  a  formulare 
un  giudizio  sull'arte  del  D'Annunzio.  Per  via  son  dette  non  poche  cose  giuste 
sulle  questioni  dibattute  della  lingua  e  dello  stile.  Sia  notato  qui  di  sfuggita 
che  sulla  letteratura  critica  intorno  al  D'Annunzio  son  da  vedere  La  critica, 
Xn,  127  sgg.  e  le  informazioni  del  Della  Torre  nella  rubrica  dei  contempo- 
ranei della  Rassegna  bibliografica  pisana]. 

Giovanni  Ippoliti.  —  Dalle  sequenze  alle  laudi.  Ragioni  di  storia  e  di 
metrica.  —  Osimo,  tip.  Campocavallo,  1914. 

Domenico  Bulferetti.  —  Giovanni  Pascoli.  L'uomo,  il  maestro,  il  poeta. 
—  Milano,  Libreria  editrice  milanese,  1914  [Sui  pregi  e  sui  difetti  di  questo 
libro  si  può  consultare  un  articolo  di  L.  Ambrosini,  Trittico  pascoliano,  in 
La  stampa,  2  aprile  1914.  Rilevante  è  pure  l'opuscolo  di  Domenico  Guerri, 
Il  poema  delle  stagioni  di  Giovanni  Pascoli,  Caserta,  1914,  che  racchiude 
un  discorso  notabile  sul  gruppo  georgico  dei  Poemetti  pascoliani]. 

Giovanni  Pascoli.  —  Patria  e  umanità.  —  Bologna,  Zanichelli,  1914 
[Venti  scritti  raccolti  da  opuscoli  e  giornali,  a  cura  della  sorella  Maria,  come 
già  nel  1907  il  Pascoli  stesso  raccolse  Pensieri  e  discorsi.  Due  soli  inediti, 
riguardanti  Messina.  In  parecchi  di  questi  discorsi,  e  nelle  note,  si  parla  di 
Giosuè  Carducci,  con  alata  parola.  Altrove  si  tocca  di  Giuseppe  Chiarini,  di 
Felice  Cavallotti,  di  Enrico  Panzacchi]. 

BiORDO  Bbugnoli.  —  Le  satire  di  Jacopone  da  Todi  ricostituite  nella 
loro  più  probabile  lezione  originaria,  con  le  varianti  dei  mss.  più  importanti 
e  precedute  da  un  saggio  sulle  stampe  e  sui  codici  Jacoponici.  —  Firenze, 
Olschki,  1914. 

Paget  Toynbee.  —  Concise  Dictionary  ofproper  names  and  notable  mai- 
ters  in  the  tvorks  of  Dante.  —  Oxford,  Clarendon  press,  1914  [Esaurita  da 
tempo  l'edizione  del  grande  dizionario  dantesco  del  Toynbee  uscito  nel  1898 
(su  cui  vedi  questo  Giornale,  33,  370  sgg.  e  le  recensioni  del  Barbi,  Btdlett. 


CRONACA  285 

Dani.,  N.  S.,  VI,  201,  del  Cosmo,  Giorn.  dant.,  VII,  310,  dello  Zingarelli, 
Bass.  crii.,  IV,  73),  il  benemeritissimo  dantologo  inglese  ne  apprestò  una  ri- 
duzione, ritoccata  e  migliorata.  Qui  i  testi  illustrativi  sono  richiamati  e  non 
dati  per  esteso;  ma  il  libro  è  pur  sempre  un  modello  di  praticità  e  di  pre- 
cisione]. 

Giuseppe  Manacorda.  —  Storia  delia  scuola  in  Italia.  Voi.  I,  Medioevo. 
—  Palermo-Milano,  Sandron,  1914  [Egregia  opera  divisa  in  due  tomi.  Il 
primo  considera  la  storia  del  diritto  scolastico  nell'età  media;  il  secondo  ri- 
tesse la  storia  interna  della  scuola  medievale  italiana,  offre  un  dizionario 
geografico  delle  scuole  italiane  nel  medioevo,  termina  con  una  ricca  biblio- 
grafia del  soggetto.  Torneremo  ad  agio  sull'opera,  che  merita  il  maggiore 
rispetto.  Intanto  vedi  R.  Renier  in  La  Stampa,  12  maggio  1914]. 

Abel  Lefranc.  —  Grands  écrivains  frangais  de  la  Benaissance.  —  Paris, 
Champion,  1914  [Con  ritocchi  ed  aggiunte  son  qui  ripubblicati  vari  scritti 
egregi,  che  concernono  la  Rinascita  francese.  Se  ve  n'ha  alcuni,  come  quelli 
su  Calvino  e  sulla  Pleiade,  che  non  hanno  nulla  a  che  fare  con  l'Italia,  non 
è  cosi  dei  due  più  estesi  ed  importanti  scritti  della  silloge.  Le  platonisme  et 
la  littérature  en  France  e  Marguerite  de  Navarre  et  le  platonisme  de  la 
Benaissance,  sui  quali  è  da  vedere  quanto  dicemmo  in  questo  Giorn.,  28,  476  e 
35,  153-4.  Margherita  di  Navarra  entra  pure  nel  primo  scritto.  Le  roman 
d^amour  de  Clément  Marot,  che  è  l'amore  per  Anna  d'Alenpon.  Nello  studio 
su  Le  tiers  livre  du  «  Pantagruel  »  et  la  querelle  des  fem,mes  son  molte 
notizie  sulla  letteratura  cinquecentesca  intorno  alle  donne]. 

Umberto  Tria.  —  Il  pensiero  del  Giannone.  —  Città  di  Castello,  Lapi, 
1913  [In  questo  opuscolo,  estratto  dalV Annuario  del  R.  Istituto  Tecnico 
P.  Giannone  di  Foggia,  compare  una  conferenza  tenuta  in  quella  città;  ma 
non  è  una  delle  solite  tirate  retoriche  d'occasione.  È  un  bel  saggio  di  sintesi 
elevata,  espresso  in  nobile  forma  oratoria  e  che  rivela,  anche  nelle  molte  e 
succose  note  finali,  una  larga  e  seria  preparazione.  Notevole  quanto  l'A.  scrive 
del  pensiero  religioso  del  G.,  nel  quale  scorge  tracce  diffuse  di  naturalismo 
lucreziano.  Ammiratore  e  difensore  dell' «  avvocato  napoletano  »,  egli  serba 
tuttavia  la  giusta  misura;  e  anche  di  ciò  gli  va  data  lode]. 

Francesco  De  Sanctis.  -  Saggi  critici,  prima  edizione  milanese  a  cura 
e  con  note  di  Paolo  Arcari.  —  Milano,  Treves,  1914  [Son  tre  volumetti,  che 
contengono  tutti  i  primi  ed  i  nuovi  Saggi  del  De  S.  Ad  essi  ne  sono  aggiunti 
dodici,  di  cui  uno,  sulla  Fedra  del  Racine,  nel  voi.  I,  e  gli  altri  undici  nel 
voi.  Ili,  quasi  tutti  già  raccolti  negli  Scritti  vari  ed.  dal  Croce.  L'Arcari 
ha  aggiunto  note,  in  gran  parte  bibliografiche,  ed  in  fondo  all'opera  un  indice 
alfabetico  per  nomi  di  persone  e  di  cose]. 

Scrittori  d'Italia.  —  Bari,  Laterza,  1914  [Nuovi  volumi  usciti  :  n»  59,  Lo- 
renzo de'  Medici,  Opere,  a  cura  di  Attilio  Siilioni,  il  voi.  I  costituì  il  n»  54, 
ora  che  l'edizione  è  completa,  ne  parleremo;  n»  60,  Cesare  Balbo,  Sommario 
della  storia  d'Italia,  a  cura  di  Fausto  Nicolini,  voi.  II,  termina  l'opera  ini- 
ziata nel  n°  50;  n»  61,  G.  B.  Guarini,  TI  Pastor  fido  e  il  Compeyidio  della 
poesia  tragicomica,  a  cura  di  G.  Brognoligo;  n°  62,  Pietro  Metastasi©,  Opere, 


286  CRONACA 

a  cura  di  Fausto  Nicolini,  voi.  IH;  n.  68,  Teofilo  Folengo,  Ojjere  italiane, 
a  cura  di  Umberto  Renda,  voi.  Ili,  resta  completata  l'edizione,  che  ha  i  suoi 
primi  volumi  ai  nn.  15  e  28:  il  voi.  HI  reca  i  componimenti  religiosi,  cioè  il 
lungo  poema  in  terzine  La  palermitana,  e  VAtto  della  Pinta  e  in  appendice, 
come  saggio,  una  delle  «  passiones  »  àeWHagiomachia  in  esametri  latini,  che 
si  conserva,  inedita  ancora  in  gran  parte,  in  un  codice  della  biblioteca  di 
Cava  dei  Tirreni;  cfr.  questo  Giornale,  33,  174-175  e  86,  248-249;  n°  64, 
Fiore  di  leggende,  cantari  antichi  editi  e  ordinati  da  Ezio  Levi,  Serie  prima. 
Cantari  leggefidari,  che  sono  dodici  di  numero.  Nella  nota  finale  ne  è  data 
la  illustrazione  esterna:  il  nostro  Giornale  ne  pubblicherà  l'illustrazione  in- 
terna, per  opera  del  Levi  medesimo.  I  cantari  qui  editi  sono:  Il  bel  Gherar- 
dino;  Pulzella  Gaia;  Liombruno;  Istoria  di  tre  giovani  disperati  e  di  tre  fate; 
La  donna  del  Vergiù  ;  Gibello  ;  Gismirante  ;  Bruto  di  Brettagna  ;  Madonna 
Lionessa;  La  reina  d'oriente;  Madonna  Elena;  Gerbino]. 

Cecilia  M.  Ady.  — Pius  li  the  humanist  pope.  —  Londra,  Methuen,  1913 
[Se  ne  può  vedere  una  lunga  recensione  nel  Bidìettino  senese,  XX,  477  sgg,]. 

Mario  Emilio  Cosenza.  —  Francesco  Petrarca  and  the  revolution  of  Cola 
di  Rienzo.  —  Chicago,  University  Press,  1914  [Sulla  politica  del  Petrarca]. 

Ezio  Levi.  —  Storia  poetica  di  Don  Carlos.  —  Pavia,  Mattei,  1914  [Ne 
sarà  parlato.  Intanto  vedi  R.  Renier  in  La  Stampa,  21  maggio  1914]. 

Marino  Fioroni.  -  Un  oratore  sacro  del  Seicento  non  seicentista.  —  Ti- 
voli, tip.  Chicca,  1914  [Si  tratta  del  milanese  p.  Carlo  A.  Cattaneo,  le  cui 
prediche  non  hanno  nulla  di  secentesco,  ma  sono  piane,  incisive,  venate  d'u- 
morismo, che  fa  pensare  al  Manzoni]. 

Francesco  Scaduto.  —  Cesare  Beccaria.  Saggio  di  storia  del  diritto  pe- 
nale. —  Paleraio,  Sandron,  1913. 

A.  GoERLAND.  —  Die  Idee  des  Schicksals  in  der  Geschichte  der  Tragòdie. 

—  Tùbingen,  Mohr,  1913. 

Bonaventura  Zumbini.  —  W.  E.  Gladstone  nelle  sue  relazioni  con  l'Italia. 

—  Bari,  Laterza,  1914  [Qui  è  ampliato  e  documentato  l'articolo  dello  Z.  uscito 
nella  iV.  Antologia  del  giugno  1910.  Il  contenuto  del  volume  è  essenzialmente 
politico,  ma  vi  si  parla  anche  della  coltura  del  GÌ.  e  dei  suoi  giudizi  su  scrit- 
tori italiani]. 

Michele  De  Marinis.  —  Anton  Giulio  Brignole  Sale  e  i  su^i  tempi.  — 
Genova,  Libreria  editrice  apuana,  1914. 

Emilio  Del  Cerro.  —  Nel  regno  delle  maschere,  con  prefazione  di  Bene- 
detto Croce.  —  Napoli,  Perrella,  1914. 

H.  Hepele.  —  Francesco  Petrarca.  —  Berlin-Schoneberg,  Protestantischer 
Schriftenvertrieb,  1918  [È  il  ITI  volume  della  serie  «  Die  Religion  der  Klas- 
siker  »]. 

R.  ScHEviLL.  —  Ovid  and  the  renascence  in  Spain.  —  Berkeley,  Univer- 
sity of  California  Press,  1914. 

Rafpa  Garzia.  —  Gerolamo  Arolla.  —  Bologna,  Stabilimento  poligrafico 
emiliano,  1914  [È  il  primo  volume  d'una  collezione  di  Studi  di  storia  lette- 
raria sarda]. 


CRONACA  287 

Cl.  Della  Corte.  —  Vita  ed  opere  di  Tommaso  Garzoni.  —  S.  Maria 
Capua  Vetere,  tip.  del  Progresso,  1913. 

Alceste  Bisi.  —  L'Italie  et  le  romantisme  frangais.  —  Milano-Roma, 
Albrighi  e  Segati,  1914  [Vedasi  il  giudizio  di  G.  Brognoligo,  in  Fanfidla 
della  domenica,  17  maggio  1914,  e  meglio  l'articolo  di  G.  Rabizzani  nel 
Marzocco  del  22  marzo  1914]. 

Anna  Benedetti.  —  L'Orlaìtdo  Furioso  nella  vita  intellettuale  del  popolo 
inglese.  —  Firenze,  Beraporad,  1914. 

Achille  Pellizzari.  —  Dal  Duecento  alV Ottocento.  Ricerche  e  studi  let- 
terari. —  Napoli,  Fr.  Perrella,  1914. 

Gaspero  Barrerà.  —  Lettere,  pubblicate  dai  figli  con  prefaz.  di  A.  D'An- 
cona. —  Firenze,  Barbèra,  1914. 

Donato  Velluti.  -  Jja  cronica  domestica  scritta  fra  il  1367  e  il  1370, 
per  cura  di  Isidoro  Del  Lungo  e  Guglielmo  Volpi.  —  Firenze,  Sansoni,  1914. 

Arnaldo  Alterocca.  —  Xa  vita  e  Vopera  poetica  e  pittorica  di  Lorenzo 
Lippi.  —  Catania,  Battiato,  1914. 

Giulio  Salvadori.  —  Le  idee  sociali  di  Niccolò  Tommaseo  e  le  moderne. 

—  Città  di  Castello,  S.  Lapi,  1913. 

Emilio  Santimi.  —  Matteo  Maria  Boiardo.  L'uomo  e  il  poeta.  —  Livorno, 
Giusti,  1914  [Buon  volumetto,  che  non  è  soltanto  una  compilazione  intelli- 
gente di  quanto  fu  scritto  sul  Boiardo,  ma  aggiunge  osservazioni  nuove  e  carat- 
terizza bene  il  poeta.  Nella  medesima  collezioncina  livornese  è  da  segnalare 
il  buon  libretto  di  Carlo  Pellegrini,  su  La  vita  e  le  opere  di  Luigi  Pulci}. 

Giorgio  Parenti.  —  La  personalità  storica  di  Guido  Guinizelli.  Studi  e 
ricerche.  —  Firenze,  Stabil.  tipogr.  aldino,  1914. 

Michele  Vernerò.  -  Studi  critici  sopra  la  geografìa  nelV  Orlando  Fu- 
rioso. —  Torino,  tip.  Palatina,  1913. 

Girolamo  Rossi.  — Le  accademie  letterarie  liguri  sino  a  tutto  il  sec.  XVIII. 

—  Savona,  tip.  Bertolotti,  1913  [Nel  volume  pubblicato  per  onorare  P.  Boselli]. 
Alb.  Salvi.   —    Lorenz  ino  de'  siedici   e   la  sua  Apologia  nella  storia  e 

nelVarte.  —  Sulmona,  tip.  sociale,  1913. 

Camillo  Gaschino.  —  Le  poesie  pindareggianti  inedite  dello  Sforza  Pal- 
lavicini. —  Cherasco,  tip.  Raselli,  1913. 

Vittorio  Betteloni.  —  Impressioni  critiche  e  ricordi  autobiografici.  — 
Napoli,  Ricciardi,  1914. 

Adolfo  Gaspary.  —  Storia  della  letteratura  italiana,  tradotta  da  Nicola 
Zingarelli.  Seconda  edizione  interamente  riveduta  con  prefazione  e  note  ag- 
giunte e  ritratto  dell'autore.  —  Torino,  Casa  Loescher,  1914  [La  seconda  edi- 
zione di  questo  primo  volume  compare  27  anni  dopo  la  prima,  sulla  quale  si 
veda  il  nostro  Giornale,  9,  467.  Invece  la  seconda  edizione  del  II  volume, 
diviso  in  due  parti,  venne  già  fuori  nel  1900  #1901.  Comunque  sia  di  ciò, 
lo  Zingarelli  ha  accuratamente  riveduto  nella  forma  (e  certo  ne  aveva  bi- 
sogno) la  sua  versione:  ha  premesso  nella  prefazione  notizie  biografiche  del 
Gaspary  ;  ha  recato  a  giorno  la  bibliografia  finale.  Convien  riconoscere  che  il 
libro  da  queste  cure  s'è  avvantaggiato.  Non  è  colpa  del  traduttore  se  le  ag- 


288  CRONACA 

giunte  nella  bibliografia,  essendo  moltissime,  sono  talvolta  alquanto  confuse. 
Forse  si  potevano  risparmiare  certe  note  a  pie  di  pagina,  ove  si  contraddice 
all'autore,  spesso  su  questioni  disputabili]. 

Giovanni  Boccaccio.  —  Il  Decamerone,  illustrato  per  le  persone  colte  e 
per  le  scuole  da  Michele  Scherillo.  —  Milano,  Hoepli,  1914  [Libro  di  grande 
praticità  ed  accurato.  Per  la  prima  volta  in  esso,  anziché  offrire  una  scelta 
di  novelle  boccaccesche,  si  dà  tutto  il  Decameron,  solo  sunteggiando  quei 
racconti  che  la  decenza  vuole  non  vadano  in  mano  di  tutti.  Il  lavoro  è  fatto 
con  senno  e  buon  gusto.  Precede  una  serrata  introduzione  storica  e  critica; 
ad  ogni  novella,  anche  a  quelle  sunteggiate,  seguono  indicazioni  bibliogra- 
fi.che,  che  concernono  fonti,  riscontri,  imitazioni]. 


f  Chiudendosi  l'aprile  del  1914,  mancava  in  Napoli  Giuseppe  De  Blasiis, 
nato  a  Sulmona  il  9  aprile  1832.  Eicercatore  espertissimo  e  passionato,  maestro 
insigne,  consacrò  la  vita  intera  agli  studi  storici.  Fu  professore  di  storia  mo- 
derna nell'Università  di  Napoli,  e  ritiratosi  dall'insegnamento,  attese  con  in- 
teresse non  mai  scemato  alla  Società  napoletana  di  storia  patria,  di  cui  fu 
eletto  segretario  quando  nel  1876  essa  fu  fondata,  e  quindi,  dopo  la  morte  del 
Capasso,  presidente.  Lavoratore  egregio  egli  stesso,  sovvenne  con  signorile  disin- 
teresse il  lavoro  altrui,  come  appare  bellamente  dalle  parole  commosse  che 
pronunciò  sulla  sua  salma  Benedetto  Croce  e  che  furono  riprodotte  nel  Gior- 
nale d'altana  del  1°  maggio  1914.  Gli  studiosi  di  storia  delle  lettere  ram- 
menteranno che  uno  dei  primi  scritti  del  De  Blasiis  fu  una  monografia,  edita 
nel  1860,  sulla  vita  e  sulle  opere  di  Pietro  della  Vigna,  e  che  fruttuose  ri- 
cerche egli  fece  sulla  dimora  del  Boccaccio  in  Napoli. 

t  Di  74  anni  morì  il  padovano  mons.  Giacomo  Poletto,  il  23  aprile  1914. 
Per  volontà  di  Leone  XIII  tenne  in  Eoma  una  cattedra  dantesca,  e  di  studi 
danteschi  fu  cultore  indefesso.  Studiò  in  ispecie  i  rapporti  di  Dante  con  le 
dottrine  religiose  e  con  la  Scrittura.  L'opera  sua  principale  fu  il  voluminoso 
Dizionario  dantesco. 


Luigi  Morisengo,  Gerenfr  rfxi,onsaJ>iJ( , 


Torino  —  Tipografia  Vincenzo  Bona. 


xt'i 


MICHELE  MARULLO 


E    I   SUOI 


HYMlSri    ISr^TXJRj^LES 


i. 

Una  singolare  figura  di  poeta  soldato  ci  appare  nell'ultimo 
Quattrocento,  Michele  Marnilo,  a  torto  oggi  disconosciuto,  o  per 
lo  meno  ritenuto  solo  degno  di  qualche  fuggevole  cenno,  dagli 
storici  del  Rinascimento.  Senza  pretendere  di  metterlo  alla  pari 
coi  giganti  dell'Umanesimo,  quali  il  Poliziano,  il  Fontano,  il  San- 
nazaro, non  credo  inutile  studiare  i  suoi  carmi  latini,  pel  va- 
lore loro,  come  vedremo,  non  mediocre,  e  come  uno  dei  frutti  più 
cospicui  della  cosi  detta  letteratura  «  stradiotica  »,  finora  poco 
esaminati. 

Dal  titolo  delle  prime  edizioni  delle  sue  opere  (1),  il  Marnilo 


(1)  Ecco  l'elenco  che  cercai  di  rendere  il  più  possibile  completo,  delle  edi- 
zioni marulliane:  Epigrammata,  stampati  separatamente  a  Koma  nel  1490 
e  di  nuovo  nel  1493.  —  Epigrammata  et  Hymni,  Florentiae,  Societas  Co- 
lubris,  1497,  una  delle  migliori  e  più  diffuse:  contiene  i  quattro  libri  degli 
Epigrammi  e  i  quattro  libri  degl'Inni,  soltanto  ;  presenta  alcune  scon-ezioni. 
—  MaruUi  naeniae;  eiusdem  epigrammata  munquam  alias  impressa,  Fani, 
Soncinus,  1515.  —  Hymni,  a  cura  di  Beatus  Rhenanus,  Parisiis,  1529.  —  Epi- 
grammatum  libri  IV,  hymnorum  libri  IV,  neniae  quinque  et  alia  quaedam 
epigrammata,  Brixiae,  1531  ;  edizione  riprodotta  a  Parigi  nel  1561.  —  Poé'tae 
tres  elegantissimi.    Michael  Marnllus,  Hyeronimus  Angerianus,  loJiannes 

Giornale  storico,  LXIV,  fase.  192.  ì9 


290  P.    L.    CICERI 

risulta  nativo  di  Costantinopoli  ;  egli  crede  però  latine  le  sue  an- 
tiche origini,  ed  esplicitamente  lo  afferma  in  due  luoghi  degli 


Secundus,  Parisiis,  1582.  —  Oltre  a  queste,  nella  Biblioteca  Ambrosiana  sono 
indicate  le  seguenti  edizioni  :  Epigrammata  et  Hymni,  stampati  successiva- 
mente a  Bologna  nel  1504,  a  Parigi  nel  1561,  a  Spira  nel  1595;  sotto  la 
designazione  di  Poemata,  a  Brescia  nel  1582  :  e  il  De  principum  institu- 
tione,  a  Basilea,  Berna  (senza  data).  —  Edizione  recente  è  quella  data  da 
C.  N.  Sathas  in  Documents  inédits  rélatifs  à  VTiiMoire  de  la  Grece  au  moyen 
àge,  Paris,  1888.  Nel  voi.  VII,  a  p.  215  e  seg.,  sono  ristampati  parte  degli 
Epigrammi,  ma  con  scorrezioni  assai  più  abbondanti  che  non  nelle  edizioni 
antiche;  a  p.  173  seg.  dello  stesso  voi.  VII,  gl'Inni,  completi;  nel  voi.  Vili, 
il  frammento  rimastoci  del  De  princìpum  institutione.  Per  quanto  riguarda 
la  tradizione  manoscritta,  il  Mazzatinti  {Inventario  dei  manoscritti  delle 
biblioteche  d'Italia,  Torino,  Loescher,  1887  e  seg.)  ci  dà  i  seguenti  cenni: 
al  voi.  XI,  p.  264  :  nel  cod.  Laurenz.  II,  IX,  39  cartac,  in-S*',  sec.  XV  erano: 
Epigrammata  quaedam  Marnili,  ora  mancanti  come  risulta  dall'indice  della 
carta  di  custodia;  Laur.  CI.  VII,  num.  628,  cart.,  in-8°,  sec.  XV-XVIII,  in- 
sieme a  molti  altri  autori,  tra  le  cui  opere  anche  epigrammi  del  Poliziano  : 
copie  di  carmi  latini  del  Marnilo,  ai  fol.  217-219.  —  Dall'ediz.  del  Poliziano 
curata  da  I.  Del  Lungo  {Prose  volgali,  poesie  latine  edite  ed  inedite,  ecc.,  Fi- 
renze, Barbèra,  1867),  pref.,  p.  xxvii,  rileviamo  che  il  ms.  riccardiano  971 
contiene  epigrammi  latini  di  Michele  Tarcaniota  Marnilo,  insieme  a  due  epi- 
grammi, pure  latini,  del  Poliziano  (n.  XXX  e  XXXI  dell'edizione  citata  del 
Del  Lungo).  —  B  Salvo-Cozzo  cita  una  lettera  del  Marnilo  al  Pico  nei  Codici 
capponiani  della  Biblioteca  Vaticana,  da  lui  descritti  (Roma,  tip.  Vaticana, 
1897,  p.  315),  Cod.  235,  cart.  68,  Variorum  epistulae:  Michaelis  Marnili,  lo- 
hanni  Pico  Mirandulano,  «  Tu  vero,  Pice,  adeo  nihil  mihi  debes  ».  «  Medio- 
lani,  Kalendas  januarias  1487  ».  —  L'edizione  di  Parigi  del  1582  {Poetae 
tres  elegantissimi,  ecc.)  è  la  più  completa,  contenendo  anche  il  De  principum 
institutione;  nell'edizione  di  Fano  1515,  però,  sono  alcuni  carmi  che  non 
si  trovano  in  questa,  né  in  quella  del  1497  (la  migliore  dopo  la  parigina  cit.) 
insieme  con  alcuni  carmi  di  M.  Ant.  Flaminio,  che  scrisse  un  epitaffio  sul 
Marnilo,  e  ne  imitò  l'inno  a  Bacco.  Ecco  i  titoli  dei  carmi  maruUiani  di  questa 
edizione  :  De  acerbitate  fortunae  ;  Nenia  (riprodotta  però  dal  Sathas,  Op.  cit, 
VII,  p.  220);  De  morte  loannis  Medicis;  Ad  Carolum  regem  Gallorum  (anche 
in  Sathas,  VII,  p.  228);  Ad  Antonium  Bàldracanum.  Designati  come  «  epi- 
grammata nunquam  alias  impressa  »:  Ad  Ecnomum]  In  Monillum;  Ad  Isa- 
bettam  Gonzagam  ducem  Urbini]  In  sacerdotum  avaritiam  (Sathas,  VII, 
p.  231);  In  Cominium  (Sathas,  VII,  p.  230);  De  fdio  Aldi;  De  Diogene  et 
Aristippo;  AdHylam;  In  Posthumum;  De  miseria  vitae  (Sathas,  VII, p.  231); 
Divo  Georgia  (Sathas,  VII,  p.  231);  De  Carolo  Gallorum  rege  (Sathas,  VII, 
p.230);  Epitaphium  eiusdem  (Sathas,  ibid.).  —  L'Anthologia  latina  del  Meyer 


MICHELE    MASULLO  291 

Epìgrammata  (1).  La  patria  del  poeta  è  realmente,  secondo  ogni 
probabilità,  Costantinopoli,  come  possiamo  rilevare  dal  breve 
carme  49*^  del  libro  II,  Epigr.  («  Patriae  »)  e  dai  numerosi  passi 
nei  quali  lamenta  il  trionfo  dei  Turchi,  o  considera  l'Italia  come 
terra  d'esilio.  Il  Broukhus  (2)  lo  crede  nato  in  Italia,  ma  la  sua 
ipotesi  è  da  respingere  con  1'  autorità  dello  Scaligero  (3),  del 
Gaddi  (4),  del  Sathas  (5)  ;  il  Tiraboschi  lo  dice  italiano  «  solo  per 
abitazione  »  (6). 
Il  padre,  Manilio  Marnilo,  era  nativo  di  Dymae  in  Acaia  (cfr. 


attribuisce  al  Marullo  gli  epigrammi  758  (Anthol.  lat.,  v.  I,  p.  243;  è  anche 
nell'ediz.  del  1497:  «  Caesar  Germanicus  »,  1562-1570).  L'epigramma  1552 
(voi.  II,  p.  189)  è  attribuito  al  Marullo  anche  àsAVAnthoIogia  latina  del  Bur- 
mann,  voi.  I,  n.  6  (è  anche  nell'ediz.  del  1497),  il  quale  lo  crede  probabilmente 
una  traduzione  da  Callimaco.  L'epigr.  1570,  che  manca  all'ediz.  del  1497,  è 
intitolato:  Epitapliium  Hersili\  è  anche  in  Burmann,  voi.  IV, n.  16  (nel  Meyer 
è  nel  voi.  H,  p.  193). 

(1)  Epigr.,  1.  I,  carme  22,  in  morte  del  fratello  lanus:  «  Occurrunt  Graiique 
atavi  proavique  Latini  ».  —  Elegia  a  Neera,  1.  II,  e.  32:  «  Et  tanien  est 
aliquid  proavos  habuisse  MaruUos  ».  Cito  dall' ediz.  del  1497:  «  Michaelis 
«  Tarchaniotae  Marulli,  Costantinopolitani,  Epigrammaton  ad  Laurentium 
«  Medicen,  Petri  Francisci  filium  [liber  primus,  ecc.]  »  (identica  a  quella 
del  1582,  cit.,  salvo  che  manca  del  De  principum  instit.),  la  quale  non  ha 
numerazione  di  pagine  né  di  carmi;  cito  dunque  il  numero  progressivo  se- 
condo ciascun  libro,  sia  degli  Epigrammi,  sia  degl'Inni.  L'origine  romana 
è  accennata  anche  nell'epigrafe  al  sepolcro  del  bisavolo  Manilio  Marullo,  che 
si  trova  ad  Ancona. 

(2)  \.^RO\jmi'c%u,Sannazarii opera,  Amsterdam,  G.  Onder  de  Linden,  1728, 
pp.  121-123  n.]  altre  notizie  sul  Marullo  specialmente  a  pp.  110,  137,  e  passim. 

(3)  G.  C.  Scaligero,  Poètices,  ediz.  1561,  A.  Viìicentium  (specialmente  utili 
saranno  a  noi  il  libro  IH,  e.  112,  e  il  1.  VI,  e.  4). 

(4)  I.  Gaddi,  Elogi  storici  in  versi  e  in  prosa,  Fiorenza,  1639,  libro  II,  pa- 
gine 83-85  :  De  Marullo  Greco  {sic). 

(5)  C.  N.  Sathas,  Documents  inédits  relatifs  à  Vhistoire  de  la  Grece  au 
moyen  àge,  Paris,  1888  (prefazione  al  voi.  VII)  ;  è  la  traduz.  francese  degli 
Mvri(A,€la  originali,  in  greco,  dell'erudito.  Se  ne  può  avere  un'idea  generale 
dalla  recensione  che  ne  fu  data  in  questo  Giornale,  12,  264. 

(6)  G.  Tiraboschi,  St.  d.  lett.  ital,  Milano,  1824,  tomo  VI,  p.  1431.  Anche 
l'epigrafe  dello  Zannoni  alla  tomba  del  Marullo  (o  cenotafio)  in  Ancona,  lo 
designa  italiano  d'educazione  («  ... Mich.  Marulli,  ortu  graeci,  domicilio  et 
«  institutione  itali  »). 


292  P.    L.    CICERI 

elegia  a  Neera,  Epìgr.,  1.  II,  carme  32)  (1)  ;  la  madre,  Eufroslne, 
discendeva  dall'illustre  famiglia  dei  Tarcanioti  Argivi  signori  di 
«  Tarchanium  »  (2).  Troviamo  inoltre  nominati  negli  Epigrammi 
Michele  Tarcaniota,  avo  materno,  Filippo  Marnilo,  avo  paterno, 
Giano  e  altri  quattro  fratelli  del  Nostro.  Non  è  ben  certa  la  data 
della  nascita  di  Michele,  ma  possiamo  porla  senza  grave  errore 
intorno  al  1453,  come  è  dato  dedurre  dall'elegia  a  Neera  {Epigr., 
II,  32),  assai  importante  per  le  notizie  autobiografiche  che  con- 
tiene. Quando  cadde  la  patria  era  ancora,  egli  dice,  «  rude  semen 
in  alvo  »,  e  ciò  par  confermato  anche  da  un  passo  del  carme  in- 
torno al  suo  esilio  {Epigr.^  Ili,  37),  nel  quale,  infiammato  d'amor 
patrio,  il  poeta  lamenta  di  non  aver  potuto  prestare  il  suo  braccio, 
quando  Costantinopoli  cadeva  sotto  il  dominio  dei  Turchi.  Egli 
lasciò  ben  presto  la  Grecia,  e  fu  condotto  fanciullo  dai  parenti  ad 
Ancona  (3).  Vagò  di  là  incessantemente  per  molti  luoghi  sia 
d'Italia  sia  dell'estero,  ad  alcuni  dei  quali  accenna  nell'elegia 
menzionata  e  in  altri  epigrammi,  come  la  Scizia  e  le  regioni  al 
nord  del  Mar  Nero  (4)  ;  ma  da  questi  scarsi  accenni  non  ci  è  con- 
cesso seguirlo  in  tutte  le  sue  peregrinazioni.  Paolo  Giovio  (5) 
diceva  appunto  di  lui  :  «  inquieto  ingenio ,  nullibi  sedem  sta- 
bilem  nactus  ». 

Quando  nel  1453  l'impero  d'Oriente  cedette  alla  spada  di  Mao- 
metto II,  moltissimi  greci,  com'è  noto,  emigrarono  in  Italia,  ag- 
giungendosi a  quei  dotti  che  antecedentemente  vi  si  trovavano  o 
per  loro  spontanea  elezione  o  perchè  chiamati  dai  nostri  uma- 


(1)  Sempre  secondo  la  numerazione  nostra. 

(2)  È  il  monte  «  Arachnium  »  degli  antichi. 

(3)  Vedi  HoDius,  De  Graecis  iììustribus  ìinguae  graecae,  litterarumque  hu- 
maniorum  instauratoribus,  Londinii,  1742,  p.  276  seg.  Ciò  è  molto  probabile 
pei  numerosi  epitaffi  dei  parenti,  esistenti  in  Ancona,  nella  chiesa  di  S.  Do- 
menico. 

(4)  Il  Broukhus,  Op.  cit.,  crede  che  i  paesi  settentrionali  cui  accenna  in 
Epigr.  I  22,  II  34,  III,  37,  ecc.,  siano  della  Polonia. 

(.5)  Paolo  Giovio,  Elogia  virorum  ìitteris  tììmfrmm,  Basilea,  Perna,  1577, 
p.  52  :  «  MaruUus  Tarchaniota  » . 


MICHELE   MAEULLO  293 

nisti,  bramosi  di  ammaestrarsi  nella  lingua  d'Omero  (1).  Varie 
classi  si  possono  distinguere  in  questa  turba  di  esuli:  quella 
che  il  Mounier  (2)  chiama  «  élite  intellectuelle  »,  persone  nobili 
di  origine  e  di  pensiero,  d'elevato  sentire  e  di  non  poca  dottrina, 
provenienti  per  la  maggior  parte  da  Costantinopoli,  da  Atene,  da 
Sparta,  alcuni  letterati,  altri  occupanti  alte  cariche  nella  chiesa  o 
nel  caduto  impero.  Tra  gli  altri  sia  concesso  nominarne  alcuni 
principalissimi  ;  Gemisto  Pletone,  specialmente  importante  pel 
nostro  studio,  che  pose  i  germi  dai  quali  nacque  l'Accademia 
platonica  (3),  e  il  Bessarione,  vescovo  di  Nicea  e  poi  cardinale, 
che  verso  gl'infelici  suoi  compatriotti  esuli  si  mostrò  padre  af- 
fettuoso e  protettore,  e  fu  tanto  benemerito  per  quanto  riguarda 
l'avvicinamento  dei  due  popoli,  il  bizantino  e  l'italico,  tra  i  quali 
non  correva  troppo  buon  sangue  ;  e  per  tacere  di  tanti  altri,  che 
consacrarono  la  loro  attività  alle  lettere  o  ad  altri  elevati  campi, 
faremo  menzione  di  Teodoro  Gaza,  di  Demetrio  Galcondila,  di 
Giovanni  Lascaris,  ecc.,  per  le  relazioni  che  in  maggiore  o  minor 
grado  dovettero  avere  col  Marnilo,  a  quanto  è  dato  supporre  dagli 
epigrammi  che  di  essi  parlano,  o  a  loro  dedicati. 

Accanto  a  questa  bisogna  porre  una  seconda  schiera  di  greci, 
la  condizione  dei  quali  fu  davvero  infelice.  Essi  rappresentano, 
per  valermi  ancora  dell'espressione  del  Mounier,  il  «  vero  pro- 
letariato »  dell'emigrazione  greca.  Quegli  esuli,  che  a  tutto  si 
prestavano  pur  di  sostentarsi,  che  conducevano  una  misera  vita 
in  mezzo  agli  stenti  e  al  disprezzo,  ed  erano  ora  copisti,  ora 
calligrafi,  ora  proti,  ora  soldati  mercenari,  rappresentano  il  vero 
popolo  minuto  di  fronte  all'aristocrazia,  composta  dei  più  illustri 
cui  sopra  ho  accennato.  Pensiamo  allo  stato  loro,  e  troveremo  in- 


(1)  Non  è  mestieri  qui  citare  le  notissime  e  poderose  opere  fondamentali 
sull'umanesimo,  ove  si  parla  di  ciò.  • 

(2)  Phil.  Monnier,  Le  Quattrocento,  Lausanne,  Payot,  1901,  voi.  II,  p.  18. 

(3)  La  quale  nel  successivo  svolgimento,  com'è  noto,  se  ne  allontanò.  Vedi 
Della  Torre,  Storia  dell' Accademia  platonica  di  Firenze,  Firenze,  1902, 
p.  429  e  seg. 


294  P.    L.    CICERI 

giuste  le  parole  di  dispregio  che  scagliarono  loro  contro  i  superbi 
umanisti:  lungi  dalla  patria,  sfuggiti  ai  Turchi  spietati,  si  trova- 
vano in  terra  non  propria,  in  mezzo  a  un  popolo  sconosciuto,  che 
li  guardava  con  curiosità  e  scherno,  cui  si  associava  la  voce  dei 
letterati,  che  li  chiamavano  «  Graeculi  esurientes  »,  oppure  «  fal- 
laces  atque  inertes  Graeculi  ».  Né  vale  l'affaticarsi  del  Bessarione 
per  proteggerli,  esempio  isolato.  Essi  vanno  errando  senza  posa 
qua  e  là,  imprecando  contro  il  destino  crudele.  Crudeli  anche  i 
dileggi  contro  di  essi  dobbiamo  riconoscere,  quando  sentiamo,  per 
esempio,  il  Poggio  chiamarli  senz'altro  «  digni  omni  supplicio  »; 
e  Lapo  da  Gastiglionchio  «  ego  huiusmodi  homines  numquam 
«  sine  risu  aspicio  »;  il  Fontano  non  vede  in  loro  di  greco  che  la 
barba  e  le  strane  vesti  e  li  giudica  ignoranti  delle  lingue  clas- 
siche, e  pur  pieni  di  orgoglio  ;  orgoglio  e  presunzione  loro  rim- 
provera il  Poliziano,  né  trova  passabile  alcuna  loro  produzione 
letteraria;  alla  sterilità  letteraria  accenna  il  Filelfo  (1).  Eppure 
tra  questi  disconosciuti  molti  ebbero  meriti  non  indifferenti  :  per 
limitarci  ai  principali,  nel  campo  librario  emergono  Demetrio  di 
Creta,  primo  editore  della  grammatica  di  Costantino  Lascaris; 
Musuros,  Decadios  e  altri,  che  rendono  pregevoli  servigi  ad  Aldo 
Manuzio  ;  poeti  latini  furono  il  Marnilo  (2)  e  Manilio  Rallis  ;  in 
greco  poetò  Demetrio  Mosco. 

Michele  Marnilo  apparteneva  a  quella  classe  detta  in  Grecia 
degli  «  Stradioti  »,  specie  di  feudatari,  in  origine,  a  quanto  si  ri- 
leva anche  da  vari  passi  degli  Epigrammi  del  Nostro,  nei  quali 
egli  accenna  a  possedimenti  aviti  (3). 


(1)  Tra  queste  invettive  però  una  voce  «'alza  favorevole  ai  greci,  quella  di 
Vespasiano  da  Bisticci,  che  parlando  di  Giorgio  da  Trebisonda,  così  si  esprime 
«  Fu  dotto,  come  sono  i  più  de'  Greci,  in  tutte  e  sette  l'arti  liberali  ».  Vedi 
l'edizione   bolognese  di  L.  Frati,  voi.  II,  p.  210  al  cap.:    «  Giorgio   Trabi- 
sonda  »  {sic). 

(2)  Ho  posto  il  MaruUo  in  questa  seconda  classe,  solo  per  quanto  riguarda 
la  sua  condizione  sociale,  poiché  pei  meriti  letterari  lo  collocherei  piuttosto 
nella  prima,  indotto  a  ciò  anche  dalle  frequenti  allusioni  onorevoli  che  a  suo 
indirizzo  ha  il  Fontano. 

(3)  Specialmente  il  detto  €  Tarchanium  »  posseduto  dall'avo  materno. 


MICHELE   MARULLO  295 

Quale  sia  il  vero  significato  della  parola  «  Stradioti  »,  appare 
dall'etimologia  (1)  :  Stradiota  o  Stratiota  (francese  Estradiot) 
deriva  da  aTqdta  il  noto  vocabolo  del  greco  bizantino,  signifi- 
cante via,  strada,  non  da  axQaxiéxrig,  come  spesso  confondendo 
si  credette;  onde  «  Stradioti  »  significa  «  erranti,  vaganti  »  (2),  e 
la  ragione  di  tal  nome  sta  probabilmente  in  ciò,  che  essi,  sempre 
in  guardia  contro  le  terribili  bande  di  monaci  (3)  che  di  continuo 
invadevano  i  loro  possedimenti,  erano  costretti  a  batter  la  strada, 
sia  per  difesa  personale,  per  impedire  che  si  spingessero  fino  ai 
loro  domini,  sia  anche  per  la  difesa  d'altri  loro  consorti. 

Per  evitare  ulteriori  confusioni,  sarebbe  forse  opportuno  scri- 
vere da  ora  in  poi  «  Stradioti  »  e  adottare  tal  grafia  per  tutte 
le  altre  designazioni,  come  ad  esempio  «  letteratura  stradio- 
tica  (4),  imprese  stradiotiche  »,  ecc. 

Dai  documenti  raccolti  dal  Sathas  risulta  che  gli  Stradioti 
erano  di  spirito  pagano  (5)  e  che  riuscirono  a  conservare  l'elle- 


(1)  Vi  accennò  il  Sathas,  al  voi.  IV  dei  suoi  Mvrj/^ieta  (cit.),  pref.,  p.  vii; 
egli  fa  notare  anche  che  il  Tasso  in  questo  senso  ebbe  a  menzionarli  nella 
poesia  La  battaglia  del  Taro  (in  Eime  scelte  di  T.  T.,  Firenze,  1872,  p.  472): 
«  Sparsi  e  turbati  fur  da'  Greci  erranti  »;  e  ancora  il  Tasso  li  chiama  «  Ar- 
givi »  come  il  Marnilo.  Ma  occorre  avvertire  che  il  vocabolo  avQdòa,  segna- 
lato dal  Sathas,  non  esiste  nella  grecità  bizantina  né  nel  greco  moderno, 
come  risulta  dalle  grammatiche  e  dai  lessici  migliori  bizantini  e  moiemi. 
Noi  manteniamo  il  d  nella  parola  Stradioti  e  nei  derivati,  solo  per  non  con- 
fondere, come  abbiamo  mostrato,  non  perchè  la  ricolleghiamo  a  avQdóa. 

(2)  Sathas  cit.:  «  Marcheurs  ou  Errants  ». 

(3)  Ampie  notizie  intorno  a  ciò  vedi  nella  prefaz.  al  voi.  VII  del  Sathas, 
cit.,  passim. 

(4)  Già  l'ho  scritto  in  principio  («  letteratura  stradiotica  »).  Stradioti, 
dunque,  dice  «  vaganti  »;  altrimenti  non  si  capirebbe  come  potessero  esser 
chiamati  «  Stratiotae  »  anche  E.  Chrysoloras  e  Leonzio  Pilato,  se  non  pel 
solo  fatto  di  esser  senza  stabile  sede,  come  il  MaruUo. 

(5)  Questo  paganesimo  degli  Stradioti  (vedi  Sathas,  Op.  cit.,  YTl,  prefaz.), 
per  la  naturale  evoluzione,  molte  trasfonnazi(^i  aveva  subito  a  contatto  di 
moltephci  elementi;  il  suo  centro  era  Atene,  e  Atene  e  le  leggende  ateniesi 
costituiscono  il  fondo  delle  epopee  stradiotiche.  Il  Marnilo  chiama  appunto 
«  Cecropius  »  il  guerriero  stradioto,  perchè  riceveva  la  sua  educazione  ad  Atene. 
Ecco  come  si  esprime  il  Sathas   in    proposito  :  «  Quand  un  brave  Strathiote 


296  P.    L.    CICERI 

nismo  (1),  in  mezzo  al  dilagare  del  monachesimo,  che  coi  suoi 
vasti  tentacoli  cercò  travolgere  ogni  avanzo  dell'antica  tradizione 
pagana.  Piuttosto  che  monaci,  degni  d'esser  chiamati  belve,  ir- 
rompevano armati  per  l'Oriente,  con  micidiali  scorrerie,  ormai 
completamente  dimentichi  dei  primitivi  scopi  religiosi,  tutto  de- 
vastando, e  massacrando  quanti  non  potevan  loro  opporre  valida 
resistenza.  Perdurò  negli  Stradioti,  spietatamente  cacciati,  l'odio 
contro  di  essi  ;  e  perdute  col  volger  dei  tempi  le  terre  degli  avi, 
si  dispersero  pel  mondo,  portando  il  loro  valoroso  braccio  ai 
principi  e  ai  bisognosi ,  divennero  insomma  una  specie  di  ca- 
valieri erranti  (2),  senza  fissa  dimora,  pronti  ad  accorrere  dove 
chiamava  il  caso. 

L'ideale  dello  stradioto  era  la  gloria,  e  lo  dichiarano  queste 
parole  del  Nostro  (Epigr.,  I,  6): 

patrii  est  hoc  moris,  honestam 

Pugnando  mortem  quaerere,  non  tumulum; 


«  eut  le  courage  de  jeter  la  masque  et  de  chanter  les  dieux  de  son  cceiir 
«  [è  il  Marnilo],  il  donna  an  guerrier  grec  son  vrai  nom,  *  Cecropius  '».  Si 
veda  per  curiosità  ciò  che  il  Nostro  dice  dello  stradioto,  De  principum  in- 
stitutione  : 

Qualis 

Armento  pulsus  patrio  regnisque  iuvencus, 
Moeret  inexhaustum  exilia,  et  rivalis  amari 
Saccessus;  plagarumque  immemor  atque  laboris, 
Unam  secum  ignominiam,  amissosque  hymenaeos 
Mente  agitat:  quernoque  obnixus  cornua  trunco 
lam  tum  hostem  vocat  in  pugnam,  Martemque  lacessit, 
Ipsam  animam  dare  iam  pulchra  prò  laude  paratus. 

Anche  oggidì,  come  fa  notare  il  Sathas  (p.  iv,  pref.  voi.  VII),  sopravvive 
traccia  di  ciò  nella  denominazione  di  rdyyaQot  o  BdyyaQoi  (=  vagabondi) 
che  il  popolo  dà  agli  Ateniesi. 

(1)  Il  Sathas,  ancora:  «  Le  foyer  de  ce  paganisme  déguisé  est  Athènes...  ». 

(2)  E  nel  poemetto  Marphisa,  di  Dragoncino  da  Fano  (Venetia,  1532),  è 
detto  appunto:  «  Greco  è  il  mio  sangue  e  la  mia  patria  è  il  mondo  ».  Nei 
documenti  veneziani  sono  detti  «  Zagdari  »,  che  etimologicamente  significa 
appunto  «  vaganti  ». 


MICHELE    MASULLO 


297 


e  i  due  versi   seguenti   di  un  altro  stradioto,  tardivo,  Manoli 
Elessi  (1), 

Per  le  strade  cavalchemo 

Per  trovar  algiin  polémo  (2), 

ben  riassumono  la  vita  dello  stradioto. 

La  religione  loro  riteneva  nella  maggior  parte  il  fondo  pagano 
ellenico,  ma  aveva  subito  l'inevitabile  trasformazione  dovuta  al- 
l'influenza del  cristianesimo.  La  Fenice  era  il  loro  emblema  ;  la 
divinità  suprema  era  il  Sole-Mithra  (3);  il  paradiso  era  situato 
nell'Islanda,  e  ciò  è  forse  lontana  reminiscenza  delle  Isole  dei 
Beati  degli  antichi,  poste  appunto  agli  estremi  confini  del  mondo. 

Delle  peregrinazioni  del  Marnilo  poco  si  sa.  In  Italia  dimorò 
certo  assai  lungamente,  anzi,  si  può  affermare,  la  maggior  parte 
della  sua  vita.  Seguendolo  attraverso  i  suoi  scritti,  lo  troviamo 
in  Calabria  {Epìgr.^  I,  9,  «  a  Francesco  Scala  »),  a  Ragusa  {Epigr.y 
IV,  17,  «  De  laudibus  Rachusae  »),  in  Toscana,  specialmente  a 
Firenze,  a  Siena,  ecc.  In  Calabria  combattè  sotto  le  bandiere  di 
Cai'lo  Vili.  E  sappiamo  pure  che  fu  tra  i  difensori  di  Caterina 
Sforza  contro  il  Valentino  nella  rocca  di  Forlì  (4).  Aveva  fatto  il 


(1)  Non  bisogna  confondere  questo  che  chiameremo  Elessi  «  il  giovane  » 
(al  servizio  della  repubblica  di  Venezia),  autore  di  poemi  in  dialetto  greco- 
veneto,  col  «  vecchio  »,  che  è  oggetto  del  poema  di  Marco  Antonio  Molino; 
intorno  a  ciò  vedi  V.  Rossi,  Calmo,  p.  xxxii,  Torino,  Loescher,  1898.  Il  poema 
del  Molino  è  intitolato:  I  fatti  e  le  prodezze  di  Manoli  Elessi  Si ratioto,  Ye- 
nezia.   Giolito,  1561. 

(2)  Anche  il  MaruUo:  Epigr.,  I,  1,  v.  9:  «  ...diverso  gladius  dum  strin- 
gimus  orbe  ». 

(3)  Così  vuole  il  Sathas.  Amplissime  notizie  intorno  a  Mithra  si  possono 
leggere  in  Cumont,  Textes  et  monuments  fìgurés  relatifs  aux  mystères  de 
Mithra,  Bruxelles,  1899,  che  contiene  anche  tutta  l'abbondante  bibliografia 
intorno  al  dio  e  al  suo  culto  (si  vegga  la  recente  3*  edizione). 

(4)  Vedi  P.  D.  Pasolini,  Caterina  Sforz€^{\oì.  II,  pp.  138,  157,  201,  838), 
Roma,  Loescher,  1893.  Il  Marnilo  e  Gabriele  Piccoli  sono  i  due  soldati  poeti 
che  troviamo  intorno  a  Caterina  Sforza;  quest'ultimo  la  celebrò  in  alcune 
poesie,  ma  non  pare  che  il  Marnilo  le  dedicasse  alcun  carme.  Nel  voi.  II  (dei  3) 
a  p.  358,  il  Pasolini   riproduce   l'eflfigie   del  Marnilo  da  quella  già  data  da 


298  P.    L.    CICERI 

noviziato  delle  armi  sotto  Nicola  Rallis,  padre  dell'amico  suo  Ma- 
nilio; si  venne  in  lui  formando  una  forte  tempra  di  soldato, 
benché  non  immune  da  una  certa  «  gloriola  »  (1)  che  non  di  rado 
fa  capolino.  Basta  però  dare  una  rapida  occhiata  agli  Epigram- 
mata^  e  qua  e  là  agli  Hymni^  per  ravvisare  l'uomo  che  non  trema 
dinanzi  al  pericolo,  che  mai  volge  le  spalle  al  nemico,  sempre 
pronto  ad  accorrere  là  dove  un  compagno  abbisogna  d'aiuto. 
Ogni  volta  che  parla  di  lotte  ispirate  a  giusti  principi,  s'accende 
di  nobile  ardore,  e  acquista  potenza  nuova  e  veramente  sugge- 
stiva. Tanto  maggiormente  mostra  entusiasmo,  quando  la  causa 
della  lotta  è  la  sacra  difesa  della  patria. 

A  Napoli  il  Marnilo  fu  scolaro  (2)  del  Fontano,  e  appartenne 
all'Accademia  pontaniana,  come  è  attestato  dai  recenti  studi  (3). 


Paolo  Giovio  {Elogia  dì.,  p.  52);  in  quel  disegno,  benché  rozzo,  chi  volesse 
non  trascurare  le  relazioni  fra  i  tratti  fisici  e  l'opera  dell'  ingegno,  ravvise- 
rebbe maschia  fierezza  di  lineamenti,  accoppiata  ad  un  non  so  che  di  triste 
nell'occhio,  cui  fa  riscontro  il  verso  seg.  {Epigr.,  I,  1,  5): 

Quaeque  manus  ferrum,  posilo  fert  ense  UbeUos; 

la  vita  militare  da  una  parte,  dall'altra  la  poesia  in  lamento  dell'esilio,  o 
amorosa.  Anche  un  altro  poeta  soldato  di  quell'epoca,  Lorenzo  Bonincontri 
da  S.  Miniato,  dicesi  portasse  con  sé  un  «  libellus  »  di  elegie  (vedi  B.  Sol- 
dati, GVinni  sacri  d^un  astròlogo  del  Hinascimento,  in  Miscellanea  Graf, 
p.  405  seg.).  Quanto  alla  tradizione  figurativa  intorno  al  Nostro,  si  veda  an- 
cora: Ardi.  star,  lomh.,  serie  IH,  voi.  16,  p.  17  seg.;  a  p.  149  è  riportata  la 
lettera  del  Doni  al  Tintoretto,  dove  è  descritto  il  museo  Gioviano;  notevole 
il  passo  riguardante  la  salita  faticosa  dei  poeti  per  l'erta  del  Parnaso,  perchè 
ha  una  notizia  che  ci  riguarda  :  «  Il  Pottano  {sic)  sopra  una  mula,  il  Marullo 
«  inanzi  {sic)  a  lui  che  pareva  un  unghero  ch'andasse  a  la  guerra  ». 

(1)  Nella  lunga  nota  sul  Marullo  a  pp.  121-124  dell'ediz.  dei  canni  latini 
del  Sannazaro,  il  Broukhus  rimprovera  a  lui  quest'eccessiva  vanteria  sua,  del 
doppio  merito  delle  armi  e  della  poesia,  mentre  altri  poeti  soldati,  al  Nostro 
coetanei,  e  il  Sannazaro  stesso,  A.  M.  Acquaviva,  ecc.,  non  menan  vanto  di 
ciò;  e  non  ha  torto  il  commentatore. 

(2)  Il  Ginguené  afferma  che  studiò  anche  lettere  greche  e  latine  a  Venezia, 
e  filosofia  a  Padova. 

(3)  Il  Marullo  è  già  menzionato  nell'elenco  degli  accademici  pontaniani 
dato  dal  Giannone;  vi  consente  il   Tiraboschi.  Vedi  anche  L.  G.  Gtraldus, 


MICHELE   MARULLO  299 

Ad  altri  maestri,  o  per  lo  meno  ispiratori,  accemia  il  Oiovio  : 
«  Theodori  [Grazae]  ac  Arg;y^ropuli  decora  vestigia  subsecutus  ». 

Venuto  a  Firenze  strinse  relazione  con  Lorenzo  di  Pier  Fran- 
cesco de'  Medici  (1),  al  quale  sono  dedicati  gli  Epigrammata,  e 
che  egli  loda  troppo  spesso,  talvolta  anche  toccando  l'adulazione, 
si  che  non  andremo  lungi  dal  vero  affermando  che  ne  ricevette 
favori. 

Sposò  Alessandra  Scala,  figlia  di  Bartolomeo  Scala,  colta  e  gen- 
tile poetessa,  che  alla  bellezza  accoppiava  il  vivido  ingegno. 

Ebbe  una  polemica  col  Poliziano,  la  quale  varcò  i  limiti  della 
correttezza,  anzi  divenne  addirittura  feroce  da  parte  di  quest'ul- 
timo. Il  Tiraboschi  la  crede  causata  da  gelosia  per  colei  che 
anch'egli,  il  Poliziano,  aveva  celebrata  in  molti  epigrammi  latini 
e  greci;  medesimamente  il  Menken  (2),  benché  prima  inclini  a 
credere  che  il  motivo  principale  fosse  il  disprezzo  del  grande 
umanista  pei  greci  immigrati  in  Italia.  Il  movente  amoroso  si  può 
ammettere  come  principale  certamente,  tuttavia  da  nessun  luogo 
del  Marnilo  né  del  Poliziano  appare  in  modo  manifesto.  Nei 
dieci  epigrammi  che  il  Poliziano  scagliò  contro  il  Marnilo  (3), 


Dialogus  de  poètis  nostrorum  temporum,  Lugduni  Batavorum,  1696,  voi.  Il 
(V.  l'ediz.  recente  del  Wotke,  BerHn,  1894):  «  Ex  eadem  Fontani  Academia 
«  fluxere  Michael  MaruUus  et  Manilius  Rhallus,  ambo  parentibus  graecis  nati, 
«  in  Italia  enutriti,  atque  invicem  amici,  uterque  epigrammatùm  poeta»,  ecc. 
C.  MiNiERi-Riccio,  Cenno  storico  delie  accademie  fiorite  nella  città  di  Na- 
poli, a  p.  107  dà  l'elenco  degli  accademici  pontaniani,  tra  i  quali  è  anche  il 
Manilio.  Il  Fontano  l'ebbe  assai  caro,  come  attestano  i  carmi  a  lui  diretti. 
Vedi  Fontani  carmina  (ed.  Soldati),  voi.  Il,  pp.  178,  254,  267,  269.  E  il  Ma- 
rullo  al  Fontano,  Epigr.,  I,  32:  «  ...mi  tieni  luogo  di  padre  ». 

(1)  A  questo  accenna  il  Poliziano  negli  epigrammi  XXX  e  XXXI  (Del 
Lungo,  p.  124  seg.,  vedi  nota),  dove  è  spesso  designato  «  tuus  Marullus  ». 

(2)  F.  0.  Menken,  Historia  vitae  et  in  literas  meritorum  Angeli  Politiani, 
Lipsiae,  Gleditsch,  1736,  pp.  378-381  q  passim  133,  276,  391. 

(3)  Ediz.  Del  Lungo  cit.,  pp.  131-140,  epigrammi  XLIII-Ln,  che  formano 
la  sezione  «  Invectiva  ».  Si  noti  che  alcun  tempo  prima  il  Poliziano  stesso, 
nei  due  epigr.  XXX  e  XXXI  citati  (nella  sezione  «  Ad  amicos  et  proceres  »), 
indirizzati  a  quello  stesso  Lorenzo  di  Pier  Francesco  de'  Medici,  protettore 
del  Marullo,  si  mostra  a  lui  amico,  ne  loda  i  versi,  e  lo  chiama  col  suo  vero 


300  P.    L.    CICERI 

ora  afferma  innumerevoli  gli  errori  dei  suoi  versi,  ora  fa  un  tur- 
pissimo ritratto  della  persona  di  lui,  che  chiama  «Mabilius», 
adoperando  spietatamente  l'arma  del  ridicolo,  ora  l'accusa  d'i- 
gnoranza delle  regole  di  metrica  e  di  grammatica,  oppure  lo 
schernisce  per  la  misera  abitazione  di  lui  in  Firenze,  e  ter- 
mina con  un  epitaffio  atrocemente  sarcastico.  Tal  violenza  non 
manifestò  invece  il  Marnilo  nelle  sue  risposte,  otto  epigrammi  (1), 
nei  quali  il  Poliziano  è  chiamato  «  Ecnomus  »,  fiacchi  e  privi 
d'ogni  forza  (2).  Trovò  un  alleato  nel  Sannazaro,  amico  suo,  del 
quale  si  leggono  due  violenti  epigrammi  contro  il  Poliziano  (3). 

Oltre  ad  Alessandra  Scala,  che  egli  chiama  «  Neaera  »,  canta 
altre  donne  da  lui  amate  ;  non  si  sa  chi  sia  Leucotoe,  né  Marzia 
Boconzia,  né  Eufrosine,  né  Pietra,  né  Camilla  (4)  alle  quali  de- 
dica epigrammi  amorosi,  se  pure  alcuni  di  questi  nomi  non  ce- 
lano una  medesima  sola  persona.  Però  a  quanto  risulta  da  molti 
luoghi,  l'amor  suo  per  Alessandra  fu  sincero  e  si  mantenne 
sempre  intenso. 

Degli  amici  del  Marnilo  si  ha  notizia  nell'epigramma  del  lib.  I, 
«  Ad  sodales  »  (e.  54),  dei  quali  notevoli  Gabriele  Altilio,  il  noto 


nome,  mentre  più  tardi  lo  designerà  col  soprannome  di  «  Mabilius  »  (il 
Menken  :  «  quasi  mala  bile  praeditus  »  )  ;  non  sempre  nemici  dunque  erano 
stati  i  due  umanisti. 

(1)  Otto,  secondo  le  edizioni  che  diremo  «  praestantiores  »;  più  quello  del- 
l'ediz.  di  Fano  1515,  In  Ecnomum  cit.,  sarebbero  in  tutto  nove. 

(2)  n  GiNGUENÉ,  Storia  della  ìetter.  ital,  trad.  Perotti,  Milano,  1843,  t.  IV, 
p.  290  seg.,  osserva  argutamente:  «  Egli  era  amato  e  gli  fu  più  agevole  il 
temperarsi  »;  rispose  insomma  per  rispondere,  affine  di  non  esser  tacciato  di 
viltà  ritraendosi  dalla  polemica. 

(3)  Sono  gli  epigrammi  LXVI  «  Ad  Pulitianum  »  e  LVII  «  De  eodem  » 
del  libro  I  (ediz.  Broukhus);  l'editore  crede  contro  il  Poliziano  anche  l'epi- 
gramma m  del  1.  II  «  In  bubonem  ». 

(4)  L'Ariosto  che,  giovinetto,  lo  conobbe  (vedi  più  innanzi),  dice  appunto 
di  lui  {Orl.fur.,  XXXVII,  8): 

Dianzi  MaruUo  ed  il  Pontan  per  vui 

Sono,  e  duo  Strozzi,  il  padre  e  il  figlio,  stati 

(cioè  per  le  donne). 


MICHELE    MASULLO  301 

umanista,  e  principalmente  il  Sannazaro  e  Manilio  Rhallis,  pre- 
gevole poeta  latino,  pel  quale  il  Marnilo  ha  speciali  accenti  di 
viva  amicizia.  Si  rivela  poi  amico  affettuoso  di  Francesco  Scala 
nell'epigramma  9*^  del  lib.  I,  che  è  un  vero  inno  gioioso  che  il 
poeta  scioglie  al  giorno  fausto  del  ritorno  dell'amico  mentre 
egli  si  trovava  solo  e  abbandonato  in  Calabria. 

Verso  Demetrio  Calcondila  mostra  simpatia;  di  Teodoro  Gaza, 
al  contrario,  pare  un  po'  invidioso.  Contro  Giovanni  Pico,  che 
probabilmente  aveva  scritto  qualche  verso  in  lode  di  Alessandra 
Scala,  scrisse  un  epigramma  assai  fiero  di  gelosia;  lo  celebrò 
poi  alla  morte  con  un  onorevole  epitaffio.  Il  Giraldi  credeva 
che  il  Pico  lo  avesse  aiutato  nella  composizione  degVffymni 
naturales  (1),  ma  è  difficile  ammettere  che  questi,  studioso  di 
teologia  cristiana,  abbia  posto  mano  in  inni,  come  vedremo,  al 
tutto  pagani. 

Procedendo  nella  rassegna  dei  principali  personaggi  menzio- 
nati negli  epigrammi,  il  Marnilo  si  mostra  alquanto  adulatore 
di  Antonio  Sanseverino  principe  di  Salerno,  l'altro  suo  protet- 
tore, al  quale  dedicò  gl'Inni;  ne  ricevette  certo  favori,  che  però 
afferma  compensati  ad  usura  dai  suoi  versi,  atteggiandosi  a  di- 
spensiere di  gloria,  come  già  verso  Lorenzo  di  Pier  Francesco 
de'  Medici.  Più  grandi  e  ripetute  sono  le  lodi  all'  imperatore 
Massimiliano,  che  appaiono  però  sempre  sincere.  Ad  Andrea 
Matteo  Acquaviva,  altro  guerriero  letterato,  scrisse  una  bella 
elegia  di  consolazione  per  la  morte  del  padre  di  lui,  Giulio,  ca- 
duto in  guerra  contro  i  Turchi.  A  Carlo  Vili  indirizzò  un  caldo 
incitamento  a  muover  guerra  ai  Turchi  e  sollevare  la  patria 
infelice,  caduta  sotto  il  duro  giogo  del  barbaro  vincitore. 

Anche  lanus  Lascaris  forse  strinse  col  Marnilo  amicizia  negli 
ultimi  tempi,  poiché   lo   chiama  lòv  é/iòv  MdQovllov  (2),  e  a 


(1)  Vedi  B.  Soldati,  La  poesia  astrologica  nel  Quattrocento,  Firenze,  San- 
soni, 1906,  p.  275  n. 

(2)  Presso  Legrand,  Bibliogr.  heìlénique,  Paris,  Leroux,  1885,  voi.  II,  p.  324. 


302  P.    L.    CICERI 

• 

lui  dedica  un  epigramma  dopo  l'infelice  sua  morte  (1).  Dovet- 
tero poi  esservi  certo  rapporti  d'amicizia  fra  il  Nostro  e  l'A- 
riosto, nella  sua  gioventù  —  quando  mori  il  Marullo,  nel  1500, 
l'Ariosto  aveva  26  anni  —  se  è  lecito  ciò  argomentare  dall'elegia 
che  quest'ultimo  inviò  ad  Ercole  Strozzi  per  annunziargli  l'ina- 
spettata terribile  morte  del  comune  amico  loro  (2). 

Il  Marullo  fu  innegabilmente  uomo  d'ingegno,  e  di  cultura, 
pei  tempi  suoi,  considerevole.  Conosceva  certo  i  capolavori  della 
letteratura  greca,  e  in  quella  lingua  aveva  anche  scritto  versi, 
che  non  ci  sono  rimasti  (3).  Dei  poeti  latini  fa  espressa  men- 
zione il  Marullo  stesso  nell'epigramma  16^  del  libro  I,  dove  con 
concisa  brevità  specifica  l'intento  principale  della  loro  attività 
letteraria;  per  Lucrezio  è  più  diffuso,  e  già  fa  intendere  l'entu- 
siasmo che  egli,  ebbe  per  lui.  Ne  curò  infatti  un'edizione,  in 
collaborazione  con  Pier  Candido  Decembrio  e  col  Fontano,  nella 
quale,  per  quanto  ardite,  sono  felicissime  molte  congetture,  e 
geniali  alcune  restituzioni  (4).  Né  è  giusto  il  giudizio  di  Giu- 
seppe Scaligero  (nel  commento  a  Catullo),  dove  dice  che  nessun 
antico  autore  è  stato  si  maltrattato  da  nessun  emendatore, 
quanto   Lucrezio   dal   Marullo,  queir«  audax  Graeculus  »,  d'in- 


(1)  In  Legrand  cit.,  voi.  I,  pp.  198-99. 

(2)  Carmina  ill.poet.  it.,  Florentiae,  1719,  I,  358:  «  Ad  Herculem  Stroz- 
zain  ».  Al  verso  5  lo  chiama  «  noster  ».  Verso  19:  «  Quam  mors,  si  vera  est 
fama,  Marulli...  »,  ecc.;  non  vuol  credere  alla  tristissima  notizia,  vera  pur 
troppo,  ed  esclama:  «  Nam  foret  haec  gravior  iactura  mihique  tibique  »;  in 
fine,  con  affetto:  «  Marullum...  meum  ». 

(3)  Rileviamo  ciò  principalmente  dalle  testimonianze  del  Fontano  e  di 
Paolo  Giovio.  Il  primo  :  «  Et  graia  et  latia  dare,  Marnile,  lyra  »  ;  e  il  Giovio  : 
«  Non  graeco  tantum,  sed  latino  cannine  admirandus  [MaruUus]  »  e  aggiunge 
che  «  nihil  iam  graece  doctum  esse  satis  ad  laudem  putabat  ». 

(4)  Vedi  Carlo  Pascal,  prefaz.  all'ediz.  del  libro  I  di  Lucrezio,  Boma- 
Milano,  Albrighi  e  Segati,  1904,  p.  5  :  «  Il  Marullo,  scolare  del  Fontano,  fu 
«  poeta  ed  erudito  di  alto  merito  ed  ebbe  per  Lucrezio  idee  geniali  e  resti- 
«  tuzioni  felici  ;  ma  cedette  troppo  alla  smania  del  congettumre  ».  La  sua 
ediz.  è:  T.Lucr.  Cari  De  rerum  ìiatura  cum  praef.  et  castigai.  P etri  Can- 
didi, Florentiae,  Ph.  Juntha,  MDXII  (postuma). 


MICHELE   MARULLO  303 

gegno  «  rapidum  et  torrens  »,  ma  nato  piuttosto  a  scribacchiar 
versi  alla  rinfusa  (son  parole  dello  Scaligero)  che  ad  emendare 
i  buoni  autori. 

Conosce  anche  Dante,  il  Marnilo,  e  se  ne  mostra  grande  ammi- 
ratore nell'epigramma  dedicato  al  Poeta  {Epigr.^  Ili,  13).  Scrisse 
qualche  verso  in  volgare  fiorentino,  e  ci  rimane  un  sonetto  cau- 
dato contro  il  Poliziano,  del  tempo  della  polemica  su  accennata, 
che,  a  detta  del  Del  Lungo,  «  morde  con  sufficiente  toscanità  »  (1). 
Ma  le  opere  principali  sono  le  più  volte  menzionate,  gli  Epi- 
grmnmata  e  gli  Hytnni  naturales  ;  aveva  composto  anche  un 
poema  didattico  intitolato  De  principuni  ìnstitutione^  ma  non 
ce  ne  rimane  che  una  parte,  di  circa  seicento  versi,  edita  re- 
centemente dal  Sathas,  nei  Monumenta  citati,  al  voi.  Vili. 

Mori  nel  1500  (2),  annegato  nel  Cecina,  in  quel  di  Volterra,  di 
ritorno  da  una  visita  a  Raffaello  Maffei  (detto  «  Volaterranus  »), 
non  è  ben  certo  se  per  un'insolita  piena  del  fiume,  o  per  es- 
sere il  suo  cavallo  sprofondato  nel  limo  sabbioso,  donde  en- 
trambi, il  padrone  e  l'animale,  più  non  poterono  districarsi  (3). 
A  proposito  di  questa  morte  disgraziata,  si  ha  un  epitaffio  di 
Andrea  Dazi  (4): 

Evasit  toties  hostilia  tela  Marullus, 
Ut  Cecinae  tumidis  obrueretur  aquis. 


(1)  I.  Del  Lungo,  Florentia,  Firenze,  Barbèra,  1897,  p.  66  e  seg. 

(2)  La  data  è  certa,  per  la  precisa  indicazione  del  Giovio  {Op.  cit.),  secondo 
il  quale  il  Marnilo  morì  «  eo  die  qno  Ludovicus  Sfortia  captus,  ut  ferrato  in 
«  carcere  miser  expiraret,  in  ulteriorem  Galliam  est  perductus  »;  e  Ludovico 
Sforza  fu  catturato  l'il  aprile  1500. 

(3)  Ecco  quanto  riferisce  Volaterranus:  «  Discipulum  habuit  Pontanus  Ma- 
«  rullum  Costantinopolitanum,  hospitem  meum,  qui  eodem  die  quo  a  me  Vo- 
«  laterris  discessit,  in  amne  Cecina  submersus  est  »  (presso  Hodius  cit.);  egli 
scrisse  per  lui  un'epigi-afe  che  andò  rotta  e  perduta.  Il  Marnilo  è  ora  sepolto 
nella  chiesa  di  Pomarance,  presso  Volterra.  Mei  1840  fu  sostituito  al  perduto 
epitaffio  del  Volterrano  quello  dello  Zannoni.  Anche  ad  Ancona,  secondo  l'Hody 
citato,  si  legge  un'epigrafe  al  poeta  nostro,  fra  quelle  dei  suoi  antenati,  ma 
probabilmente  non  si  tratta  che  di  epigrafe  ad  un  cenotafio. 

(4)  Giovio,  Op.  cit.,  p.  53.  Vedi  altri  epitaffi  e  compianti  nel  Giovio  cit. 


304  P.    L.    CICERI 

Il  nostro  stradioto  aveva  prestato  ad  un  tempo  il  braccio  vi- 
goroso a  Marte  e  la  penna  ingegnosa  alle  Muse,  e  di  ciò  spesso 
si  era  compiaciuto  (1);  questa  sua  vita  avventurosa,  accoppiata 
all'opera  dell'ingegno,  gli  procacciò  tra  i  contemporanei  e  tra  i 
primi  cinquecentisti  favorevole  fortuna.  Per  tacere  degli  altri, 
lo  lodarono  il  Crinito,  Lilio  Oregorio  Griraldi,  Antonio  Tebaldeo, 
il  quale  in  un  epitaffio  accenna  alla  doppia  lode  delle  armi  e 
delle  Muse;  Pierio  Valeriano,  del  primo  Cinquecento,  afferma 
che  i  carmi  del  Marullo  correvano  per  le  mani  di  tutti;  Ercole 
Strozzi,  nella  «  Caccia  »,  lo  chiama  «  Musarum  comes  egregius 
cantorque  deorum  »;  il  Latomio  infine  (2)  : 

Plus  est  imbelles  traxisse  in  castra  Camoenas. 


Passionato,  patriota  fervente  (3),  d' ingegno  vivo  e  bizzarro, 
benché  non  privo  d'un'eccessiva  stima  del  suo  valore  nelle  armi 
e  nella  poesia,  si  può  affermare  sia  stato  umanista  degno  d'oc- 
cupare un  posto  non  trascurabile  fra  gli  altri.  Molti  dell'età  sua 
eccessivamente  lo  esaltarono;  da  altri,  massime  posteriori,  fu 
biasimato.  L'esame  dell'opera  sua  cercherà  ora  di  contribuire  ad 
un  più  retto  giudizio,  che  s'avvicini  il  più  possibile  al  vero  (4). 


Piansero  la  morte  del  Marullo  il  Pont  ano  {Ep.  II,  «  Tumulus  Marnili  »); 
l'Ariosto  accennato;  Pietro  Crinito:  «  Nenia  de  obitu  poetae  Marnili  By- 
zantii  »,  e  altri. 

(1)  Come  si  vede  anche  in  quel  verso  riportato  in  nota  più  sopra. 

(2)  Presso  Giovio,  Ojì.  cit.,  p.  54. 

(3)  Un  passo  del  carme  intorno  al  suo  esilio  {Ep.  HI,  37)  potrebbe  dimo- 
strare a  sufficienza,  se  altre  prove  non  avessimo,  che  l'anima  sua  fu  since- 
ramente infiammata  d'amor  patrio;  in  quei  versi  egli  si  scaglia  contro  i 
«  foederati  »,  chiamati  in  aiuto,  quasi  non  bastasse  il  braccio  dei  greci; 
quelli  furono  —  secondo  il  poeta  —  la  vera  rovina  della  patria: 

lUe,  iUe  hostis  erat,  iUe  espugnabat  Achivos 
Miles,  et  eversas  diripiebat  opes. 
IUe  deos  et  fana  malis  dabat  igaibus;  iUe 
Romanum  in  Turcas  transtulit  imperium. 

(4)  Oltre  alla  bibliografia  fin  qui  data,  si  può  ricorrere  alle  seguenti  opere  : 


MICHELE    MARULLO 


IL 


305 


Prima  di  passare  all'esame  degVRy7nni  natu7mles,  che  for- 
mano l'oggetto  principale  del  nostro  studio,  sarà  bene  dare  un 
rapido  sguardo  alle  opere  minori,  dalle  quali  non  possiamo  pre- 
scindere per  conoscere  meglio  l'uomo  e  il  letterato  in  tutti  i 
suoi  punti;  sono  gli  Epìgrammata  e  il  De  principmn  insti- 
tutione. 

I  primi  non  comprendono  tutti  epigrammi,  rigorosamente  in- 
tesi, ma  anche  un  buon  numero  di  epitaffi,  di  odi,  e  alcune 
elegie.  La  divisione  in  quattro  libri  risale  al  Marnilo  stesso,  come 
è  dimostrato  dall'epigramma  l*'  del  libro  IV  (1),  e  tale  fu  sempre 
osservata  nelle  edizioni  posteriori  (2).  Per  comodità  di  studio 
divideremo  questi  carmi  in  varie  classi,  secondo  una  chiara  di- 
stinzione per  argomento  ;  tralasciando  i  dedicatori  (uno  in  prin- 
cipio di  ciascun  libro,  a  Lorenzo): 


A.  Gaspary,  Stoi'ia  della  letteratura  italiana,  trad.  Rossi,  Torino,  Loescher, 
1891,  voi.  Il,  p.  210  seg.  e  p.  354;  V.  Rossi,  Il  Quattrocento,  Milano,  Vallardi, 
pp.  275  e  351.  Ampia  messe  d'informazioni  fornisce,  benché  antiquato,  il  Dic- 
tionnaire  historique  del  Bayle  (alla  voce  «  Marullus  »);  si  vedano  poi:  Pie- 
Rius  Valerianus,  De  litteratorum  infelicitate,  lib.  II;  Petrus  Crinitus,  De 
honesta  disciplina,  lib.  XXIII,  e.  7  ;  Ger.  Vossius,  Opera  omnia,  Amsterdam, 
P.  e  J.  Blaev,  1697,  p.  256  seg.;  altri  brevissimi  cenni,  di  nessuna  importanza 
pel  nostro  studio,  sono  in  altre  opere  antiche  che  è  inutile  citare. 

(1)  Verso  1  : 

Quaì'tus  hic  en  tibi  promissus  bone  Laure  libellus, 
Ultima  tara  brevibus  cura  futura  iocis, 

(2)  Mancando  un'edizione  critica  delle  opere  del  Marnilo,  cito,  come  ho 
avvertito,  dall'ediz.  del  1497,  che  corrispon(^  in  tutto  nella  disposizione  alla 
più  completa,  parigina,  citata  (tranne  il  De  principum  institutione),  e  che 
essendo  stata  stampata  vivo  ancora  il  Marnilo,  può  tener  luogo  di  manoscritto 
per  noi  (benché  forse  il  poeta  non  abbia  potuto  correggerla,  dati  gli  errori 
che  vi  si  trovano). 

Giornale  storico,  LXIV,  fase.  192.  20 


306  P.    L.    CICERI 

I,  amatorii^  il  maggior  numero  dei  quattro  libri,  per  lo 
più  a  Neera,  alcuni  ad  altre  amate,  molti  ad  Amore,  a  Ve- 
nere, ecc.; 

II,  agli  amici  e  personaggi  illustri  \ 

III,  d'invettiva^  contro  il  Poliziano,  e  qualcuno,  raro,  contro 
altri  ; 

IV,  epitaffi. 

Alcuni,  come  sempre  avviene  nelle  classificazioni,  non  rien- 
trano in  nessuna  speciale  categoria  delle  enumerate,  ma  sono  si 
pochi  (ad  esempio,  quelli  autobiografici,  ecc.),  da  non  turbare  l'or- 
dine da  me  posto. 

Come  abbiamo  accennato,  i  giudizi  intorno  al  loro  valore  sono 
disparati:  è  assai  favorevole  quello  di  Paolo  Giovio  {Op.  cit.^ 
p.  51),  poiché  egli  scrive  che  agli  Epigrammi  «  Apollo  perele- 
ganter  arriserat  »;  è  forse  lode  non  meritata.  Come  d'altra  parte 
facilmente  ammetteremo  ingiusta  la  demolizione  di  Giulio  Ce- 
sare Scaligero,  che  giudica  il  Marnilo  «  totus  durus,  morosus, 
aliorum  obtrectator,  sui  admirator  »  e  più  avanti  «  omnino  in- 
venustus  »,  e  delle  lodi  di  Pietro  Crinito  avverte  che  è  da  ricer- 
care se  furon  date  per  amicizia  o  per  merito  ;  comincia  poi  i  suoi 
attacchi  contro  gli  Epigrammi,  dal  l'*  del  libro  I,  A  Neera^  chia- 
mandolo «  maxime  insuave  ».  Riportiamo  le  opinioni  sue,  perchè 
giudicano  rettamente,  benché  in  un  modo  un  po'  acre,  la  parte 
peggiore  degli  epigrammi  indirizzati  a  Neera;  «  non  posso  abi- 
«  tuarmi  —  l'erudito  continua  —  a  quel  discorso  che  chiama 
«  una  donna  passera  o  tortora  »,  alludendo  a  tutti  quei  diminu- 
tivi, spesso  ridicoli,  frequentissimi,  e  che  in  alcuni  di  questi  epi- 
grammi sovrabbondano  e  non  rappresentano  certo  il  miglior  modo 
per  significare  un  amore  profondo.  Lo  Scaligero  spende  molte 
altre  parole  per  questo  primo  epigramma  e  per  altri  che  non  ne 
valevan  la  pena,  spesso  affannandosi  a  proporre  correzioni  ;  ma 
non  sono  questi  né  i  soli  né  i  tipici  della  poesia  del  Marnilo,  e 
non  è  equo  tralasciare  i  migliori,  che  meritano  più  lunga  con- 
siderazione e  più  favorevole  giudizio. 

Nella  maggior  parte  degli  epigrammi  a  Neera  è  assai  palese 


MICHELE    MASULLO  307 

l'imitazione  di  Catullo  (1),  in  quel  susseguirsi  di  diminutivi  che 
talvolta  ci  fanno  sorridere,  in  quel  deplorare  l'infelice  stato  di 
se  languente  nell'amore,  che  lo  condurrà  alla  morte  se  l'amata 
non  viene  in  suo  aiuto,  nelle  domande  e  risposte  fatte  a  se  stesso 
per  dare  maggiore  apparenza  di  realtà  ai  suoi  lamenti.  Talvolta 
la  lode  è  esagerata,  e  si  nota  soverchio  artificio,  come,  ad  es., 
nel  concettino  più  volte  ripetuto:  «  se  le  tue  bellezze  non  mi 
«  bruciassero,  mi  scioglierei  in  acqua  per  le  continue  lacrime,  e 
«  se  le  lacrime  tosto  non  mi  raffreddassero,  svanirei  in  tenui 
«  faville  »;  e  altrove  :  «  tu  volti  gli  occhi  per  farmi  morire,  quan- 
te tunque  tu  sappia  che  puoi  perdermi  anche  col  solo  guardarmi, 
«  ma  A'uoi  che  io  muoia  infelice  ».  Si  direbbe  quasi  che  il  Ma- 
rullo  avesse  sott'occhio  i  poeti  della  scuola  siciliana  (2),  e  non 
i  migliori,  tante  sono  le  reminiscenze  che  in  uno  studio  più  mi- 
nuto si  potrebbero  notare,  e  tanto  più  si  è  indotti  ad  ammetter 
ciò,  se  si  consideri  che  il  gusto  del  tempo  nei  numerosi  scrittori 
di  epigrammi  latini  erotici,  non  è  questo,   o  per  lo  meno,  non 


(1)  Il  Poliziano  riconobbe  anch'egli  la  derivazione,  nella  maggior  parte,  da 
Catullo;  nel  e.  XXX  (ed.  Del  Lungo  cit.)  dice: 

Est  poèta 

Unus  qui  referat  suum  Catulhim 

Aut  si  quid  tenerum  magis  Catuno  est. 

Ecco  ora  alcuni  riscontri,  che  di  sfuggita  raccolsi,  con  Catullo,  e  qualcuno 
con  Properzio,  ai  quali  rimando  il  lettore:  Marnilo,  Ep.  I,  cfr.  Catullo, 
e.  I,  V.  8;  Mar.  Ep.  I,  2,  cf.  Cat.  XXXII,  2  e  CXIX,  2,  14;  Mar.,  Ep.  I,  4, 
cf.  Cat.LXIV,  302;  Mar.,  Ep.  I,  5  cfr.  Properzio,  I,  4,  4  e  I,  12,  18;  II,  20, 
20;  I,  5,  19;  III,  17,  41  ;  Mar.,  Ep.  1,  9  cfr.  Prop.  II,  15,  54;  Mar.,  Ep.  I,  13 
cfr.  Catullo  III,  18  ;  Mar.  Ep.  I,  25  cf.  Cat.  V,  3;  Mar.,  Ep.  1,  35  cfr.  Cat.  XXII, 
2;  Mar.,  Ep.  I,  45  cf.  Cat.  XI,  18;  Mar.,  Ep.  I,  49  cf.  Cat.  VII,  7  e  3;  Mar., 
Ep.  I,  50  cfr.  Cat.  XCII,  4  ;  Mar.,  Ep.  I,  61  cf.  Cat.  XVII,  15  ;  Mar.,  Ep.  H,  4 
cfr.  Cat.  XCIX,  2  ;  Mar.,  Ep.  II,  8  cf.  Cat.  XCII,  4  ;  Mar.,  Ep.  Ili,  31  cf.  Cat. 
VII,  1  ;  Mar.,  Ep.  HI,  44  cf.  Cat.  VII,  2;  Mar.,  Ep.  IV,  13  cfr.  Cat.  XXXIV, 
10;  e  molti  altri. 

(2)  Il  Rossi  a  proposito  di  probabili  relazioni  della  poesia  maruUiana  coi 
poeti  volgari,  così  scriveva  {Il  Quattrocento  cit.,  p.  275)  :  «  ...Né  mancano 
«  in  altre  liriche  di  lui  [il  Mar.]  spiccate  reminiscenze  dei  nostri  poeti  vol- 
«  gari,  perfino  dei  burleschi  ». 


308  P.    L.    CICERI 

giunge  a  tali  esagerazioni  ;  o  piuttosto  il  poeta  si  lasciò  trascinare 
anch'egli  a  quell'andazzo  singolare  della  lirica  volgare  cortigia- 
nesca, che  ben  fu  chiamato  «  il  secentismo  del  Quattrocento  »  (i)  : 
qui  dunque  il  Marnilo  abbandona  per  un  momento  Catullo,  per 
seguire  i  Siciliani,  o  i  Secentisti  del  Quattrocento,  indulgendo 
un  tantino  anche  ad  un  certo  abito  suo  stilistico,  retorico,  che 
meglio  vedremo  determinarsi  negli  epitaffi. 

Talvolta  riesce  però  delicatissimo,  come  quando  offre  all'amata 
viole  e  candidi  gigli  {Epigr.j  1.  I,  carme  21°),  questi  simbolo  del- 
l'imminente vecchiaia,  per  il  loro  rapido  appassire,  quelle  «  perchè, 
«  con  la  loro  primavera,  insegnino  a  cogliere  la  primavera  della 
«  vita  »;  e  sempre  si  rivela  poeta,  quanto  attinge  ispirazione 
direttamente  dal  sentimento,  o  dalla  realtà  quale  passava  at- 
traverso una  fantasia  d'innamorato  (2). 

Però,  occorre  domandarci,  quale  umanista  non  scrive  epi- 
grammi amorosi  in  quest'epoca,  i  quali  toccano  spesso  l'eleganza 
classica  ?  quelli  che  trattiamo,  quindi,  hanno  tale  valore  da  me- 
ritare un  luogo  eminente  tra  gli  altri?  Brevemente  risponde- 
remo che,  se  questa  parte  della  lirica  erotica  marulliana  non  può 
esser  collocata  insieme  con  quella  di  un  Poliziano  o  di  un  Pon- 


(1)  Non  è  improbabile  che  il  Marullo  avesse  cognizione  delle  liriche  di 
Serafino  Aquilano,  del  Tebaldeo,  del  Cariteo,  giacche  a  Napoli,  dove  a  lungo 
dovette  dimorare,  e  in  altre  corti,  potè  udirne  recite.  Sui  secentisti  del  Quat- 
trocento vedi  A.  D'Ancona,  Studi  sulla  letteratura  italiana  de'  primi  secoli, 
2»  impressione,  Milano,  Treves,  1891;  lo  studio  intitolato:  Del  secentismo 
nella  poesia  cortigiana  del  secolo  XV.  È  curioso  poi  notare  che  quella  stra- 
nezza marulliana  del  fuoco  e  delle  lacrime,  teste  riferita,  si  ritroverà  più  tardi 
negli  Asolarli  del  Bembo;  è  così  riassunta  dal  D'Ancona,  a  p.  234  del  voi. 
cit.:  «  ...Si  dimostra  che  due  cagioni  di  morte  tengono  in  vita,  perchè  le 
€  lagrime  allagherebbero  il  cuore,  se  il  fuoco  interno  d'amore,  rassodando  ciò 
«  che  il  pianto  stempera,  non  contrastasse  all'opera  delle  lagrime  ». 

(2)  Quando  parla  del  suo  amore,  ne  dipinge  a  vivi  tratti  tutta  la  profondità 
e  l'ardore,  dichiarando  suoi  compagni  indivisibili  i  sospiri  e  il  pianto,  e  invo- 
cando un  liberatore  da  si  funeste  catene;  nessuna  delle  cose  al  mondo  —  e 
ne  fa  una  lunga  enumerazione  —  può  eguagliare  i  suoi  dolori;  con  accorata 
tristezza  giura  d'esser  di  Neera  per  sempre. 


MICHELE    MASULLO  309 

tano  (1),  pure,  pel  soggettivismo  che  non  di  rado  la  informa,  e 
riveste  di  colori  nuovi,  pel  calore  del  sentimento  che  erompa 
talora  potente,  si  leva  dalle  monotonie  trite  e  fredde  di  un  Ange- 
riano,  d'un  Crinito  e  d'altri  minori.  È  il  soggettivismo  che  spicca 
soprattutto  nelle  elegie  a  Neera;  delle  quali  importante  per  noi 
quella,  lunghissima,  che  le  scrive  nel  II  libro  (Epigr.,  II,  32),  con- 
tenendo notizie  autobiografiche:  è  una  vera  e  propria  proposta 
di  matrimonio,  e  in  piena  regola,  giacché  son  citati  nella  fine  i 
procedimenti  legali,  «  dictàtis  verbis  »,  proposta  alla  quale  sa 
giungere  con  grande  naturalezza  e  soavità  di  argomenti  (2). 
Degno  di  particolare  rilievo  è  dunque  questo  fatto,  che  in  mezzo 
alla  lirica  latina  da  una  parte,  priva  di  ogni  calore  e  di  spon- 
taneità, alla  lirica  cortigiana  volgare  dall'altra,  ancor  più  sfiac- 
colata, questi  carmi  del  Marnilo  sono  improntati  a  sincerità  viva 
velata  di  tristezza,  che  risente  della  vita  sua  agitata  e  degli 
affetti  famigliari  infranti. 

Un  buon  numero  di  epigrammi  sono  dedicati  agli  amici,  dei 
quali  specialmente  cari  a  lui  furono,  come  vedemmo,  il  Sanna- 
zaro e  Manilio  Rhallis.  Abbastanza  stretti  dovettero  essere  i 
rapporti  col  primo,  a  giudicare  dall'epigramma  25*'  del  libro  I, 
«  Ad  Actium  Sincerum  »,  nel  quale  a  lui  confida  la  sua  passione 


(1)  Da  quest'ultimo  non  è  difficile  ravvisare  molte  derivazioni,  special- 
mente dagli  epigrammi  ad  Fanniam,  ad  Cinnamam,  ecc.  (vedi  l'edizione  di 
B.  Soldati,  Firenze,  Barbèra,  1902,  voi.  II,  p.  57  e  seg.),  pur  essendo  lungi  dal 
raggiungere  la  squisitezza  del  maestro. 

(2)  Mette  conto  di  esporli:  egli  antepone  nella  donna  alla  bellezza  la  ca- 
stità, e  questa  dote  ammira  sommamente  in  Alessandra;  stolta  è  a  suo  pa- 
rere la  fanciulla  che  cerca  di  piacere  ostentando  i  doni  di  natura.  Profondo 
è  il  suo  amore  :  credeva  evitare  nomen  amantis,  ma  cadde  un  giorno  sotto 
i  colpi  di  Amore,  celato  in  Alessandra;  vorrebbe  fuggire  lontano  lontano,  in 
regioni  remote,  ma  dubita  che  anche  là  il  destino  non  lo  perseguiti,  giacche 
è  sempre  stato  suo  nemico  fin  dalla  nascitaij  e  traccia  una  breve  itoria  della 
sua  vita,  dalla  caduta  dolorosissima  della  patria,  alla  morte  della  madre  e 
del  diletto  fratello,  alle  peregrinazioni  piene  d'affanni.  Oifre  infine  all'amata 
il  suo  valore,  che  tante  prove  ha  dato,  l'onore  della  stirpe  sua  gloriosa  ro- 
mana, così  crede,  e  della  patria  Grecia,  dal  fulgido  passato. 


310 


P.    L.    CICERI 


per  la  Scala  ;  in  altro  epigramma  lo  esorta  a  non  occuparsi  dei 
poetastri  del  tempo,  e  non  sprecare  inutilmente  il  fiato  contro 
quelli  che  non  ne  valevan  la  pena,  alludendo  certamente  alla 
difesa  su  accennata  contro  il  Poliziano  (1).  In  più  luoghi  dei 
carmi  latini  del  Sannazaro  si  trova  menzione  del  Marnilo,  e 
sempre  in  tono  affettuoso  o  di  lode,  quale  a  veri  amici  si  con- 
viene. 

Dei  carmi  del  Nostro  a  Francesco  Scala  e  ad  Andrea  Matteo. 
Acquaviva,  già  abbiamo  visto  nel  cenno  biografico  introduttivo  ; 
più  viva  e  sentita  si  manifesta  l'amicizia  sua  per  Manilio 
Rhallis  (2),  suscitata,  certo,  e  vie  più  stretta,  dalla  comune  sven- 
tura, la  caduta  della  patria.  A  lui  è  diretta  la  bella  saffica  di  spi- 
rito oraziano  che  chiude  il  libro  I,  nella  quale  esorta  l'amico  a 
cessare  dalle  lacrime  per  l'infelicità  della  patria  e  dimenticare 
i  dolori  nel  vino  e  nella  letizia,  mentre  tutti  esultano  di  gioia 
nello  splendido  maggio  (3). 

Un  posto  assai  largo  occupano  gli  epitaffi,  ma  non  mette  conto 
di  esaminarli  minutamente,  essendo  per  la  loro  fattura,  i  meno 
belli  degli  Epigrammi,  e  pel  contenuto,  non  interessando  gran 
fatto  allo  studio  dell'uomo  e  del  poeta.  Alcuni  sono  ai  parenti, 
altri  ad  amate,  altri  ancora  a  personaggi  illustri  dell'antichità  (4), 
scritti  per  pura  esercitazione  letteraria.  Manca  in  tutti  quel  ca- 
rattere  di   sincerità   e   spontaneità  che  un  epitaffio  do\Tebbe 


(1)  «  Vergilio  e  Catullo,  dice  con  esempi  tratti  un  po'  troppo  dall'alto,  non 
«  si  curarono  dei  poetucoli  insidiosi  e  velenosi,  e  tu  vorresti  inquietartene  ?  » . 

(2)  Anche  il  Fontano  ha  un  lungo  carme  falecio  al  Rhallis,  il  e.  XXIV 
degli  Hendecasyìlabi,  1.  I  (ediz.  Soldati  cit.,  Il,  p.  289). 

(3)  Altrove  gli  consiglia  la  rassegnazione,  adducendo  come  incitamento  il 
suo  esempio  stesso  ;  entrambi,  che  avrebbero  potuto  viver  felici  in  patria,  posti 
in  alta  condizione  sociale,  un  fato  crudele  abbattè  e  cacciò  in  esilio;  così 
avvenne  da  antico  di  molti  potenti;  conviene  non  disperare,  e  confidare  che 
il  futuro  li  restituisca  al  primo  stato. 

(4)  Quello,  per  esempio,  di  Omero  {Epigr.  Ili,  6)  tradotto  dair^«^/M)7o^«V)f 
graeca  [Anth.  gr.,  IV,  tit.  XXVH:  Els  Ttoitjtdg;  ep.  4:  Elg  eiìióva  O/^ì'/qov. 
Cfr.  anche  Anth.  gr.,  III,  tit.  XXV:  Eig  noifjTois,  quasi  tutto  su  Omero). 
Vedi  anche  il  lireve  epigramma  ad  Omero  del  Sannazaro  (1.  II,  e.  6). 


MICHELE    MARULLO  311 

avere;  la  retorica  v'è  manifesta,  e  non  ne  vanno  immuni  nep- 
pure quelli  ai  cari  più  intimi,  come  per  esempio  l'epitaffio  alla 
madre  Eufrosine,  non  contenenti  che  domande  e  risposte  che 
si  suppongono  tra  il  viandante  e  il  tumulo  dinanzi  al  quale  si 
è  soffermato,  o  che  l'autore  fa  a  sé  stesso.  Non  si  può  negare 
tuttavia  che  qualcuno  ve  ne  sia  di  bellezza  classica,  come  quello 
ai  caduti  per  la  patria  {Epigr.^  1.  I,  e.  6*^),  essendo  questo  tale  ar- 
gomento pel  Marnilo,  capace  sempre  d'infiammarlo  e  dargli  le 
migliori  ispirazioni.  È  notevole  il  fatto  che  tal  forma,  che  pro- 
cede per  interrogazioni  retoriche  e  che  è  tutt'altro  che  ammi- 
revole, giacché  finisce  con  l'urtare  il  lettore,  pare  tutta  propria 
del  Marnilo,  poiché,  per  tacere  dei  Tumuli  del  Fontano  (1),  cosi 
eleganti  e  soffusi  di  tristezza  sentita,  dai  quali  tanto  si  staccano 
quelli  dello  scolaro,  non  ne  troviamo  di  tal  genere  presso  il 
Poliziano,  né  presso  il  Sannazaro  (tranne  l'epigr.  XLII  del  1.  I  : 
In  tumulwn  Neaerae^  che  fa  eccezione)  e  gli  altri  minori  ; 
forse  egli  potè  primamente  derivare  quella  forma  dai  rari  epi- 
grammi déìVAnt/iologia  graeca  i  quali  appunto  procedono  a  in- 
terrogazioni e  risposte  (2),  estendendola  poi,  e  facendola  divenir 
vezzo  suo  peculiare.  Ciò  può  esser  confermato  dal  grande  fa- 
vore e  diffusione  che  godè  V Anthologìa  graeca  nel  Rinasci- 
n)ento,  e  dal  fatto  che  il  Marnilo  da  questa  alcuni  epigrammi 
tradusse,  altri  rimaneggiò  o  imitò  (3),  e  spesso  senza  dubbio  la 


(1)  I  Tumuli  di  Gioviano  sono  nell'ed.  cit.  del  Soldati,  voi.  II,  pp.  169-223. 

(2)  La  forma  interrogativa  troviamo  anche  nell'epigr.  69  del  libro  IV  del- 
V Antliologia  (è  amatorio). 

(3)  Alcune  di  queste  traduzioni  marulliane,  o  imitazioni,  sono  indicate  in 
Sélecta  epigrammata  graeca  latine  versa  ex  septem  Epigrammatum  grae- 
corum  lihris,  Basileae,  Bebelius,  1529,  a  p.  8:  1.  I  ^eWAnth.  graeca,  tit.  V: 
Ei£  àvÒQeiav  y.al  àvÒQelovs,  ^p.  1,  tradotto  dal  Marnilo  coll'ep.  6  del  1.  II 
{De  fortitudine  Lacaenae)]  a  p.  50:  1.  I  deWAnth.,  tit.  XXV:  Elg  èÀTziòag 
(ep.  di  2  versi),  ampliato  dal  Marnilo  nei  4  jersi  dell'ep.  42  del  1.  III  (De 
spe  et  Nemesi);  a  p.  61,  1. 1,  Anth.  gr.,  intorno  a  Pasife,  cfr.  Marnilo,  Ep.  II,  .3 
{De  Pasiphae)]  p.  137:  Anth.  gr.,  I,  t.  LXXXVII:  Eig  cpiÀoatoQyCav,  ep.  2, 
cfr.  Mar.,  IH,  22  {De  Aenea);  p.  140:  Anth.  gr.,  I,  t.  LXXXVII,  ep.  4,  sulla 
rondine,  cfr.  Mar.,  Ep.  Ili,  49  {De  hirundiné)  ;  p.  244  :  Anth.gr.,  II,  su  Venere 


312  P.    L.    CICERI 

ebbe  presente  per  gli  epigrammi  che  non  entrano  nelle  cate- 
gorie che  abbiamo  poste,  cioè  quei  quadretti  brevi,  di  contenuto 
mitologico,  oppure  descriventi  scenette  tra  dèi  e  mortali,  o  ri- 
guardanti eroi  e  poeti,  i  quali,  benché  non  originali,  son  quasi 
tutti  di  elegante  fattura. 

Il  Marnilo  stesso  ci  aiuta  ora  a  dare  un  giudizio  complessivo 
degli  Epìgrammata^  nei  distici  a  Quintiliano,  sulla  fine  del  1.  I 
(carme  62»),  dove  determina  l'ambito  della  sua  poesia: 

Utque  nec  arma  virùm,  nec  magni  orientia  caeli 
Signa,  nec  immensum  mundi  aperiemus  opus; 

egli,  continua,  non  vuol  cantare  l'origine  dei  fenomeni  meteo- 
rologici, e  quella  del  genere  umano,  né  le  forze  che  agitano  il 
mare  sconfinato: 

Et  quae  non  facimus,  dicere  facta  pudet; 
Sit  satis  auratos  crines  laudare  Neaerae, 

e  lamentarsi  della  crudeltà  di  lei,  e  scagliare  invettive  contro 
Amore  spietato.  Proclama  poi  la  castità  dei  suoi  versi,  la  qual 
cosa  dobbiamo  concedergli,  poiché  accenni  osceni,  ad  onor  del 
vero,  diffìcilmente  si  potrebbero  cogliere.  «  Tu  potrai  indurre 
«  Catullo  a  scriver  di  Frine,  non  me  »  dice  a  Quintiliano,  di- 
sapprovando in  Catullo  la  licenza.  Ciò  non  gl'impedi  di  leggerlo 
e  rileggerlo,  come  dimostrano  le  reminiscenze  che  ad  ogni  passo 


e  Vulcane,  cfr.  Mar.,  Ep.  II,  35  {Ad  Baraham,  ma  noi  vediamo  debolissima  re- 
lazione tra  questo  e  l'ep.  àeW Anthologia)  ]  p.  251:  Anth.  gr.,  HI,  cfr.  Mar., 
Ep.  II,  30  {De  forUtudiìie  Byzantiae,  qui  nessuna  relazione  ;  piuttosto  è  da 
vedere  l'ep.  2  del  tit.  V:  Eis  àvÓQeiovg,  del  lib.  I  àeìVAnthoìogia)  ;  p.  262  : 
Anth.  gr.,  sulla  luna,  cfr.  Mar.,  Ep.  II,  13  {Epitaphium  Luciae  Plioebes)  (!); 
p.  296:  Anth.gr.,  t.  XXV,  cfr.  11  Eis  O^tpéa,  cfr.  Mar.,  II,  46  {Uè  morte 
Orphaei)]  p.  860:  Anth.gr.,  IV,  t.  XII:  Eig  d'ecHv  Ka£  d-eaivùv  àydÀfiata, 
cfr.  Mar.,  II,  47  {De  Amore)  (?);  p.  376:  Anth.  gr.,  IV,  t.  XIV:  Eis  tòv 
xacQÓv,  cfr.  Eis  àyaÀfia  tov  yiaiQov  (di  Posidippo),  cfr.  Mai'.,  Ep.  I,  59  {De 
Amore)  (?)  (nessun  rapporto  tra  i  due  epigrammi).  —  Per  quanto  riguarda 
gl'idilli  su  Amore,  il  Marullo  certo  molto  trasse  qua  e  là  dsàVAnthoìogia 
graeca,  specialmente  dal  libro  I,  tit.  XXVII:  Eig  "Eqcjto. 


MICHELE   MARULLO  313 

s'incontrano  negli  Epigrammi,  a  cominciare  dal  «  lepidus  novus 
libellus  »  subito  in  principio  del  libro  I,  appunto  come  nel  primo 
epigramma  di  Catullo,  fino  all'imitazione  delle  parti  di  cattivo 
gusto  a  cui  talvolta  s'abbandonò  il  poeta  classico.  Qualche  affi- 
nità, in  apparenza,  potrebbe  trovarsi  tra  le  due  figure  di  poeti  : 
entrambi  tormentati  dall'amore,  irrequieti,  chiedono  agli  amici 
passionatamente  affetto  e  conforto;  per  singolare  coincidenza,  la 
morte  del  fratello  introduce  un  doloroso  diversivo  nell'amore  a 
Catullo,  e  muore  al  Marnilo  il  fratello  Giano,  ispirandogli  ima 
triste  elegia  la  quale  ci  richiama  ai  mesti  accenti  del  poeta 
veronese  (1)  ;  ma  non  insistiamo  su  questo  ravvicinamento,  che 


(1)  Riporto  intero  il  carme   marulliano,  che  ritengo  di  classica   bellezza  ; 
Ep.,  l,  22  (ediz.  1497): 

Per  Scythiam,  Bessosque  feros,  per  tela,  per  hostes, 

Riphaeo  venio  tristis  ab  usque  gelu  : 
Scilicet  exequias  tibi  produoturus  inanes, 

Fraternis  unus  ne  careas  lacrymis  : 
5    Teque  peregrina,  frater,  tellure  iacentem 

Et  tua  sparsurus  fletibus  ossa  meis. 
Quandoquidem  post  tot  casus  patriaeque  domusque 

(Tanquam  hoc  exempto  nil  nocuisset  adhuc) 
Te  quoque  fors  invisa  mihi,  dulcissime  frater, 
10        Abstulit:  Elysium  misit  et  ante  diem. 
Ne  foret  aut  fletus  qui  solaretur  acerbos, 

lungeret  aut  lachrymis  fratris  et  ipse  meas. 
Heu,  miserande  puer,  quae  te  mihi  fata  tulerunt? 

Cui  miseram  linquis,  frater  adempte,  domum  ? 
15    Tu  mea  post  patriam  turbasti  pectora  solus. 

Omnia  sunt  teoum  vota  sepulta  mea, 
Omnia  tecum  una  tumulo  conduntur  in  isto. 

Frater  abest:  fratrem,  quaeso,  venire  itibe. 
Cur  sine  me  elysia  felix  spatiare  sub  umbra  ? 
20        Inter  honoratos  nobilis  umbra  patres, 

Occurrunt  Graiique  atavi  proavique  Latini. 

Frater  abest:  fratrem,  quaeso,  venire  iube. 
Hio  tibi  pallentes  violas  legit,  alter  amiomum, 

Narcissum  hic,  vernas  porrigit  ille  rosas. 
25    AttoUuntque  solo,  carisque  amplexibus  haerent. 

Frater  abest:  fratrem,  quaeso,  venire  iube. 
Interea,  quoniam  sic  fata  inimica  tulerunt, 

Nec  mihi  te  licuit  posse  cadente  mori, 
Accipe  quos  habeo  lugubria  munera  fletus, 
80        Aeternumque  meae  frater  ave  lacrymae. 

Come  si  vede,  benché  il  Marnilo   prenda  molti   spunti  da  Catullo,  al  quale 


314  P.    L.    CICERI 

del  resto  non  potrebbe  esser  portato  più  oltre,  poiché  va  da  se 
che  gli  epigrammi  di  Catullo  di  gran  lunga  rimangono  insupe- 
rati e  lascian  dietro  a  se  quelli  del  Nostro,  per  quanto  un'  in- 
fluenza innegabile  questi  ne  abbiano  risentito. 

Certo  il  maggior  numero,  poiché  riguardano  i  casi  suoi,  i  suoi 
amori,  le  sue  relazioni,  sono  informati  a  schietta  originalità, 
poiché  direttamente  riflettono  la  vita  del  poeta,  in  mezzo  al 
quadro  vasto  dell'epoca  sua  ;  ma  la  forma  —  quella  in  cui  prin- 
cipalmente dobbiamo  cercar  l'arte  —  si  riduce  assai  spesso  a 
pura  e  semplice  imitazione,  più  o  meno  palese,  e  nei  casi  in  cui 
par  mancare  la  fonte  dell'imitazione,  non  sempre  il  Marnilo  as- 
surge all'altezza  di  vera  poesia. 

Non  sono  degni  quindi  di  troppo  lungo  studio  gli  Epigrammi, 
né  convien  fermarci  ancora  su  di  essi,  perchè  non  dotati  di  tali 
spiccati  caratteri  —  tranne  quelle  parti  cui  accennammo  —  da 
emergere  sugi'  innumerevoli  che  in  quell'età  si  scrissero  ;  noi 
dobbiamo  studiare  il  Marnilo  come  innografo,  perché  in  ciò 
massimamente,  non  avendo  emuli,  attira  l'attenzione  nostra. 

Per  quanto  riguarda,  infine,  il  frammento  De  prìncìpum 
instUutione,  nulla  presenta  di  notevole,  né  può  essere  utile 
al  nostro  studio,  se  non  in  quanto  ci  fornisce  sul  principio 
qualche  documento  che  interesserà  per  l'esame  degVffymni  na- 
turales  (1). 


rimandiamo  il  lettore  pei  riscontri  (vedi  Cat.,  carme  CI,  e  LXVIII,  v.  19-24) 
si  mantiene  indipendente,  e  infonde  alla  triste  poesia  una  spiccata  impronta 
personale. 

(1)  Recentemente  il  professore  Adolfo  Cinquini  ha  pubblicato  in  Classici 
e  neolatini,  1908,  nn.  2-3  (p.  256  seg.)  molti  carmi  di  un  codice  vaticano- 
urbinate,  attribuiti  a  un  «  Mabilius  »,  e  ha  cercato  di  stabilire  la  identifica- 
zione col  Marnilo  (essendo  «  Mabilius  »  il  noto  soprannome  datogli  dal  Poli- 
ziano nell'accennata  polemica);  senza  addentrarmi  nella  questione,  noto  che 
quei  carmi  di  «  Mabilius  »  mi  sembrano  troppo  alieni  dal  carattere  dominante 
in  quelli  del  Marnilo,  secondo  ciò  che  per  sommi  capi  abbiam  potuto  vedere; 
un  esempio  solo  basti  :  l'epitaffio  n.  LXXIII  (sec.  la  numerazione  del  Cinquini), 
a  p.  258  del  periodico  cit.,  si  stacca  in  modo  assoluto  dalla  solita  forma  reto- 
rica maruUiana  che  vedemmo.  Senza  parlare  poi  della  monotonia  dei  metri, 
notata  già  dal  Cinquini. 


MICHELE    MARULLO  315 


III. 


(jVHymni  naturales  sono  stati  finora  poco  studiati,  e  coloro 
che  per  incidenza  ebbero  ad  occuparsene,  variamente  ne  inter- 
pretarono il  significato,  esprimendo  opinioni  discordi  e  talora 
opposte  ;  sia  per  questa  ragione,  sia  perchè  costituiscono  l'opera 
maggiore  del  Marnilo,  forse  la  sola  per  la  quale  merita  d'essere 
studiato,  essi  richiedono  una  trattazione  per  quanto  sia  possibile 
accurata. 

Perchè  il  Marullo  li  abbia  chiamati  «  naturales  »,  e  se  la  divi- 
sione in  quattro  libri  (1)  sia  stata  determinata  da  speciali  in- 
tenti distributivi  della  materia,  vedremo  nel  corso  del  nostro 
studio  ;  ora  è  necessario  parlare  di  una  questione  fondamentale  * 
se  il  Marullo  sia  l'unico  innografo  pagano  dell'età  sua. 

È  noto  che  l'inno,  cioè,  secondo  il  significato  della  parola  greca 
dfivog^  la  lode  e  l'invocazione  della  divinità,  fu  trattato  fin  dalla 
più  remota  antichità,  a  cominciar  dag^/nn^  omerici,  da  Alceo, 
da  Callimaco,  per  giungere  a  Catullo  e  ad  Orazio,  non  citando 
che  i  massimi  esempi.  'NegVlnni  Omerici  si  contiene  per  lo  più 
la  narrazione  d'una  o  più  leggende  che  riguardano  la  nascita 
e  le  imprese  del  dio  cui  sono  dedicati,  e  il  canto  è  chiuso  da 
una  invocazione  che  divien  quasi  formula  fissa  (2)  ;  le  differenze 
tra  gl'Inni  del  Marullo  e  gli  omerici  consistono  in  ciò,  che  questi 
ultimi  cantano  la  divinità  per  sé  stessa,  ed  hanno  carattere  pre- 
valentemente narrativo-mitico,  i  nostri  celebrano  il  dio,  solo  come 
personificazione,  e  sono  di  carattere  encomiastico-allegorico  e 


(1)  Come  abbiamo  visto  per  gli  Epigrammi,  è  legittimo  supporre  che  anche 
questa  divisione  fosse  posta  dal  Marullo,  tale  apnarendo  nell'edizione  del  1497 
che  forse  egli,  allora  vivente,  potè  controllare. 

(2)  È  nota  la  consueta  finale  cara  ad  Omero,  o,  in  ogni  modo,  all'autore  degli 
Inni  omerici:  ...  atràQ  èyòj  aal  aslo  aal  àÀÀìjg  juv^aofA^ai  àoió^g.  Altre 
vedi  nell'ediz.  del  Baumeister,  Lipsia,  Teubner,  1901,  passiìn. 


316  P.    L.    CICERI 

d'invocazione.  —  Andiamo  citando  gl'inni  della  classicità,  per 
ricercare  a  quali  dei  loro  precedenti  più  si  accostino  quelli  del 
Nostro;  brevemente,  diremo  in  genere  che  dagli  esempi  men- 
zionati essi  son  lontani;  ma  si  badi,  non  vogliamo  con  ciò  fare 
del  Marnilo  il  creatore  di  una  poesia  nuova,  o  di  un  punto  nuovo 
di  un  genere  poetico,  giacché  prima  di  trarre  tal  conclusione, 
dovremmo  bene  accertarci  se  lo  conceda  l'esame  del  contenuto 
e  del  suo  valore  poetico. 

Venendo  al  Rinascimento,  inni  come  i  marulliani,  i  quali  rag- 
giungano nel  loro  complesso  una  certa  vastità  di  proporzioni, 
prima  del  Marnilo  non  conosciamo  nel  secolo  XV,  giacché  i  pochi 
inni  cristiani  del  Poliziano,  del  Sannazaro,  del  Fontano,  e  quelli 
pagani,  rari,  dei  tre  sommi  e  di  altri  minori  umanisti,  sono  scritti 
quasi  per  divagazione  dall'opera  principale,  e  non  con  intento 
che  diremo  innografico.  L'unico  che  tratti  l'inno  con  larghezza 
prima  del  Marnilo,  è  Lorenzo  Bonincontri  da  S.  Miniato,  ma  i 
suoi  inni,  raggruppati  in  poemetto,  i  Fasti  cristiani^  sono  di 
materia  sacra  ;  egli  —  come  mostrò  Benedetto  Soldati  (1)  — 
scrisse  sullo  schema  del  calendario  della  chiesa  un  dato  numero 
di  inni  di  carattere  cristiano  (2),  benché  amasse  adornare  la  sua 
materia  di  bella  veste  pagana,  trasformando  talvolta  stranamente 
la  mitologia  classica  (3). 

Gl'inni  dei  quali  trattiamo,  appartengono  invece  alla  categoria 
dallo  Scaligero  chiamata  dei  cpvGixoi  (4),  corrispondente  appunto 
alla  qualificazione  data  dal  Marullo  ai  suoi  Inni,  quella  di  «  na- 
turales  »,  giacché  l'oggetto  loro  é  di  celebrare  la  natura  nelle  sue 
molteplici  e  svariate  manifestazioni. 


(1)  B.  Soldati,  GVinni  sacri,  ecc.  (in  Miscellanea  Graf). 

(2)  Si  mostra  cristiano  anche  in  due  altri  poemi,  uno  scientifico,  l'altro  re- 
ligioso, nei  quali  tratta  dell'influsso  astrologico  delle  varie  stelle;  qualche 
raro  rapporto  si  potrebbe  notare  tra  vari  punti  àegVHymni  naturaìes  e  questi 
poemi. 

(3)  Per  dare  un  esempio,  l'aquila  per  lui  non  è  l'uccello  sacro  a  Giove,  ma 
il  simbolo  dell'evangelista  Giovanni  (vedi  la  cit.  op.  del  Soldati). 

(4)  G.  C.  Scaligero,  Foetices  cit.,  lib.  Ili,  e.  115  :  «  Haec  itaque  omnia  na- 
«  turalia  sunt.  Sic  et  Marullus  Caelum,  Elementaque  Hymnis  canit  ». 


MICHELE    MASULLO  317 

L'idea  madre  probabilmente  gli  venne  dal  Fontano,  il  quale, 
pur  non  costituendo,  come  vedremo,  un  vero  precedente,  eser- 
citò su  di  lui  un'influenza  diretta  con  V  Urania,  il  noto  poema 
che  tratta  degli  astri  e  delle  costellazioni  e  del  loro  influsso 
astrologico,  adombrando  ciascuno  sotto  la  corrispondente  divinità 
pagana.  Specialmente  dalla  lettura  del  primo  libro  il  Marnilo 
potè  esser  mosso  a  imitare  il  maestro  (1),  rendendosene  poi  in- 
dipendente e  allontanandosi  dall'opera  sua,  giacché  questi  per- 
sonificò gli  astri  negli  dèi  pagani  e  sotto  la  narrazione  mitica 
delle  loro  azioni,  dei  loro  attributi  e  qualità,  velò  allegorica- 
mente l'influsso  astrologico  di  quelli  sul  mondo  (2),  ma  l'astro 
e  il  dio  pagano  sono  sempre  due  cose  nettamente  distinte,  si 
che  spesso  prima  è  descritta  la  stella,  poi  ne  è  fatta  la  perso- 
nificazione; invece  nel  Marnilo  tale  personificazione  non  è  ben 
chiara  e  distinta,  e  ci  lascia  spesso  nel  dubbio  se  il  poeta  canti 
la  natura  sotto  il  velo  allegorico,  o  se  l'allegoria  non  esista  ed 
egli  celebri  davvero  la  divinità  pagana. 

Che  il  Marnilo  si  sia  mantenuto  sempre  pagano,  è  forza  ri- 
conoscere da  quanto  è  risultato  finora  dai  precedenti  cenni  in- 
troduttivi, e  da  ciò  che  ne  pensarono  quelli  che  di  lui  si  occu- 
parono, quali,  per  tacere  degli  altri,  Erasmo  da  Rotterdam  (3), 
il  Broukhus  (4),  Rhenanus  (5);  e  in  realtà,  anche  prescindendo 


(1)  La  composizione  dieìV  Urania  è  certo  anteriore  agVHi/mni  naturdles] 
intorno  alla  data  del  poema,  vedi  Kossi,  Il  Quattrocento,  p.  433  (nota  al  e.  IX, 
p.  349):  «  Pongo  la  fine  del  poema  tra  il  1486  e  il  '91,  perchè  vi  si  accenna 
«  (negli  ultimi  versi)  alla  pace  conchiusa  con  papa  Innocenzo,  ma  non  alla 
«  morte  della  moglie  del  poeta  ».  Vedi  Soldati,  p.  254  seg.  della  Poesia  astro- 
logica cit.  Del  resto  il  Marnilo  già  prima  della  pubblicazione  o  della  fine 
della  composizione  àfìW  Urania,  dovè  sentirne  recitare  brani  dal  maestro. 

(2)  Vedi  B.  Soldati,  La  poesia  astrologica  nel  Quattrocento  cit.,  p.  275. 

(3)  È  il  noto  passo  nel  quale  chiama  le  opere  del  Marnilo  «  tolerabilia  si 
«  minus  haberent  paganitatis  ». 

(4)  A  p.  121  dell' Oj).  cit.,  n.,  dice:  «  ...  fuisse paganum  liquet  ex  II  Hymno  », 
e  dal  principio  del  De  priìicipum  institutione  ;  poi  a  p.  137:  «  si  nihil  aliud 
«  e  lectione  lucretiana  Marullus  atheismum  (sic)  perfectissime  didicit  ». 

(5)  Rhenanus  così  deplora  ch'egli  non  si  sia  dato  al  canto  cristiano,  nella  pre- 


318  P.    L.    CICEBI 

da  quanto  ci  è  riferito  intorno  a  pensieri  e  atti  della  sua  vita, 
che  tutti  rivelano  tendenze  pagane,  è  troppo  evidente  il  conte- 
nuto pagano  nell'opera  letteraria  (1),  per  ammettere  che  i  suoi 
inni  naturali  siano  allegorie  cristiane,  né  bastano  per  conclu- 
dere del  cristianesimo,  quei  pochi  accenni  che  vaghi  e  indeter- 
minati si  ritrovano  negli  scritti  superstiti  del  Marnilo. 

Il  Broukhus  (Oj).  cit,  p.  110  n.),  domandandosi  che  cosa  avesse 
voluto  proporsi  il  Marnilo,  pensò  perfino  ad  un  tentativo  di  ri- 
pristinamento  dell'antico  paganesimo  (2),  ma  questa  che  sarebbe 
una  ripresa  e  una  continuazione  di  quella  riforma  religiosa  in 
favore  del  paganesimo  che  aveva  tentata  Giorgio  Gemisto  Ple- 
tone  (3),  è  da  escludere  per  quanto  riguarda  il  Nostro,  poiché 
un  continuatore  di  Pletone  egli  non  fu,  benché  a  lui  talvolta 
abbia  attinto,  e  se  una  cosa  ebbe  di  mira,  fu  la  gloria  e  non  altro. 

Il  libro  I  s'apre  con  un  inno  a  Giove  Ottimo  Massimo,  giacché 
al  sommo  degli  dèi  si  conveniva  dare  il  primo  posto,  come  é 
accennato  anche  nel  principio  del  De  principmn  institutìone  (4). 


fazione  all'ediz.  degl'Inni,  di  Parigi,  1529:  «  ...Utinam  atque  utinam  inge- 
«  nium  suum  plusquam  divinum  (!)  ad  sacra  accommodasset  atque  Jesu 
«  Christi  vitani  aliorumve  nostrae  religionis  heroicam  continentiam,  aut  sa- 
«  criloquorum  auctorum  sententias  carminibus  suis  cognobiliores  reddidisset. 
«  Nani  hac  tempestate  ubique  fere  in  sacris  nitor  desideratur  ». 

(1)  ViTT.  Kossi  nel  suo  Quattrocento,  p.  275,  così  scrive  a  proposito  di  ciò: 
«  Negli  Inni  naturali  personitìcò  nelle  divinità  mitologiche  le  forze  della  na- 
«  tura  e  ne  cantò  gli  effetti  con  sentimento  schiettamente  pagano,  che  fii 
«  pensare  a  Pletone  ». 

(2)  «  ...Putes  illuni  de  novo  tentasse  paganismum  introducere  »  {nic). 

(3)  Ampia  messe  di  notizie  intorno  a  ciò,  e  d'indicazioni  bibliografiche  in- 
torno a  Pletone  e  al  movimento  filosofico  dell'età  sua,  vedi  presso:  Della 
Torre,  Storia  deW Accademia  platonica  di  Firenze,  Firenze,  1902.  Cfr.  G. 
Fiorentino,  Il  risorgimento  filosofico  nel  Quattrocento,  Napoli,  tip.  dell'Uni- 
versità, 1885. 

(4)  De  principum  iìistitutione,  v.  1  seg.: 

Ab  love  principium  rursus  cape  carminis  orsi, 
Musa,  decet  vatem  nil  non  love  rite  vocato 
Moliri ecc. 


MICHELE   MASULLO  319 

I  primi   versi   trovano   singolare  riscontro   con   un   passo  del- 
l' Urania  (1)  : 

Fontano,  Urania,  I,  634-635: 
Ab  love  principium  generis;  lovis  omnia  piena; 
Ille  colit  terras  ;  illi  sunt  omnia  curae  (2)  ; 

Marullo,  Hymni,  I,  1,  1: 
Ab  love  principium,  lovis  est  quodcumque  movemus  (3). 

Ciò  era  già  in  Arato,  che  aveva  iniziato  i  suoi  Fenomeni  col 
cantare  la  derivazione  di  tutto  da  Giove;  ma  i  versi  pontaniani 
sono  riprodotti  quasi  testualmente  dal  noto  passo  vergiliano,  che 
forse  ebbe  presente  direttamente  anche  il  Marullo  (Vergilio, 
Bucol,  III,  60)  : 

Ab  love  principium  Musae,  lovis  omnia  piena 
nie  colit  terras;  ecc. 

Ma  indubbia  è  la  derivazione  dai  seguenti  versi  delle  Meta- 
morfosi ovidiane: 

Ovidio,  Met.,  X,  148  seg.: 
Ab  love.  Musa  parens,  —  cedunt  lovis  omnia  regno  — 
Carmina  nostra  move.  lovis  est  mihi  saepe  potestas 
Dieta  prius  ;  cecini  plectro  gramore  Gigantes,  ecc. 

Marullo,  Hijmni,  I,  1,  2  seg.  : 
Prima  mihi  graviore  sono  dicenda  potestà^ 
Est  lovis:  ecc. 


(1)  Cito  dall'accurata  edizione  crìtica  di  B.  Soldati,  Fontani  carmina, 
Fh-enze,  Barbèra,  1902,  voi.  I. 

(2)  Ma  il  Fontano  riporta  ciò  come  pensiero  degli  antichi,  ed  egli  stesso 
l'ha  fatto  avvertire  al  v.  630,  dopo  aver  cantato  l'astro  Giove: 

Quin  varios  etiam  ipsa  loves  commenta  vetustas, 
lovem  habitum  prò  dee,  prò  aethere.  prò  aere  ; 

e  si  vede  nella  didascalia  a  fianco. 

(3  )  Anche  G.  Gemisto  Pletone  nei  Nó^aoi,  242,  diceva  di  Giove  (presso 
Fr.  Schultze,  Geschichte  der  Philosophie  der  Renaissance,  voi.  I,  pag.  63)  : 
fj  àQ%ri  dvvri  tòìv  Ttdvvoìv,  ó  fA,éyiaTOS  ^eòg  /ZevgJ. 


320  P.    L.    CICERI 

I  versi  or  ora  citati  del  Fontano  sembrano  il  nucleo  che  il 
Marnilo  svolse  nella  prima  parte  del  suo  inno,  cantando  ap- 
punto Giove  come  in  tutto  presente  e  di  tutto  reggitore  (1);  il 
poeta  par  quasi  riallacciarsi  alle  forme  più  antiche  del  culto  di 
Giove,  il  Diespìter  dei  Fetìales^  quando  —  dirò  col  Preller  (2) 
—  «  era  adorato  come  spirito  ovunque  presente  nella  natura  ». 

Ma  sorge  un  dubbio  :  non  si  tratta  piuttosto  di  Dio  padre  dei 
cristiani,  al  quale  si  danno  appunto  i  medesimi  attributi  ?  —  Es- 
sendo più  difficile  ammettere  che  il  Marnilo  conoscesse  le  for- 
mole  d'invocazione  dei  Feziali,  inclino  a  credere  che  egli  qui, 
0  abbia  inconsciamente  accolto  elementi  cristiani  perchè  si  adat- 
tavano a  quel  dio  (Giove),  o  piuttosto  abbia  avuto  presente 
quanto  Gemisto  Pletone  aveva  scritto  nei  suoi  Nófioi  a  propo- 
sito di  Giove  (3)  —  che  poneva,  come  il  Nostro,  al  più  alto  gra- 
dino nella  gerarchia  degli  dèi  pagani  —  tanta  appare  la  per- 
spicuità del  riscontro.  E  se,  opponendo  che  Pletone  fu  allenissimo 
dal  cristianesimo  (4),  si  voglia  ad  ogni  costo  negare  tal  deriva- 


(1)  Kiportiamo  il  passo  per  agevolare  i  riscontri.  Marullo,  Hymni,  I,  1,  17: 

Nam  quamvis  solusque  reples,  solusque  gubernas  (aie) 

Omnia,  et  occasus  aeque  moderaria  et  ortus  ; 

Qaamvis  quicquid  adest,  quodcumque  ubicumque  vìdemus 

Ipse  idem  es,  penitusque  nihil  nisi  luppiter  usquam, 

Quis  tamen  infirmi  comprehendat  peotoris  haustu, 

Quem  mare,  quem  teUus,  vacui  quem  nubila  caeU 

Non  capiunt,  sanctique  patena  plaga  lucida  regni  ? 

(2)  L.  Preller,  JRòmische  Mythoìogie,  Berlin,  Weidmann,  1858  ;  cito  dalla 
traduzione  francese,  più  recente,  di  L.  Dietz,  Les  dieux  de  Vancienne  Home, 
Paris,  Perrin,  1884,  p.  167. 

(3)  Pletone,  Nóf4,oi,  44  (presso  Schultze  cit.)  :  «  'AÀÀà  fihyiaiov  fièv  xaì 
<  i§aÌQ€TOV  iva  adròiv,  xòv  ^aaiÀéa  Aia,  v&v  ye  àÀÀùìv  tfj  re  à$l^  xai 
«  g>va€L  àfjirixàvo)  8a<p  òvacpéQovTa,  a^tòv  fihv  àyévrjtov  TtdvTtj  te  Svia 
«  jcal  Ttàvtùìg,  &  te  è^  oéóevòg  tò  Tiagànav  o^te  dvra  otx^  àv  yeyovóta 
«  TibìJiove,  ai)V07idT0Qa  de,  xal  ftóvov  zóòv  ndvTcov  àvzòv  è^  ahtov  ». 

(4)  Ciò  ha  ben  mostrato  il  Della  Torre,  nell'Op.  cit.,  specialmente  a 
p.  429  seg.,  dove  mette  in  rilievo  il  fatto  che  Gemisto  Pletone  si  servì  anzi 
del  paganesimo  per  tentar  di  sollevare  l'abbiezione  della  sua  patria,  e  la  re- 
ligione cristiana  egli  considerava  strumento  di  decadimento. 


MICHELE    MARULLO  321 

zione,  e  vedere  nell'inno  menzionato  del  Marnilo  un  canto  cri- 
stiano, io  lo  escluderei,  pur  ammettendo  di  aver  qui  un  chiaro 
esempio  di  quella  naturai  trasformazione  che  la  mitologia  clas- 
sica dovè  subire  a  contatto  col  cristianesimo.  Il  Marnilo,  che 
pure  sembra  voler  attenersi  fedelmente  alla  paganità(l)  —  mi 
riferisco  sempre  a  quanto  risulta  dall'opera  sua  letteraria  — 
non  può  sfuggire,  a  sua  insaputa,  ad  accogliere  quelle  qualità 
del  Dio  dei  cristiani,  che  opportune  lo  sovvenivano  per  cantare 
la  divinità  massima,  che  egli  destinava  ad  iniziare  la  serie  dei 
suoi  inni. 

Del  resto  già  nella  paganità  —  a  quanto  raccogliamo  dal  vo- 
lume di  Carlo  Pascal  Dèi  e  diavoli  (2)  —  si  rivolgono  a  Giove 
tali  invocazioni,  che  non  sarebbero  fuor  di  proposito  indirizzate 
a  Dio  padre: 

lupiter,  omnipotens,  rerum  rex  ipse  deusque 
Progenitor  genitrixque,  Deùm  Deus,  unus  et  omne. 

È  l'invocazione  del  poeta  Q.  Valerio  Sorano  (3)  vissuto  all'e- 
poca di  Sulla;  ecco  quanto  il  Pascal  fa  seguire  :  «  È  facile  ri- 
«  conoscere  qui  un'  eco  della  intonazione  solenne  che  lo  stoico 
«  Cleante  dà  al  suo  inno  a  Giove  '  principio  della  natura  '  ;  '  Nulla 
«  sulla  terra  è  al  di  fuori  di  te,  nò  nel  cerchio  immenso  dell'etere 
«  divino,  né  sul  mare  !  '  —  [proprio  quello  che  abbiamo  nel  Ma- 
rullo  e  in  Pletone.  Cfr.  i  rispettivi  passi  citati  in  nota]  — .  Ne 
«  è  improbabile  che  allo  stesso  Valerio  Sorano  sieno  da  attribuire 
«  altri  versi  che  si  trovano  presso  Servio  {ad  Aen.  IV,  633),  nei 
«  quali  Giove  stesso  si  rivolge  agli  dèi  e  cosi  dice  loro  : 


(1)  Alla  tradizione  classica  pura  non  è  fedele  il  MaruUo  come  cercò  di  es- 
serlo Gemisto  Pletone  ;  e  lo  notò  già  il  Sathas,  Op.  cit.,  VII,  prefaz.,  p.  vii  : 
«  Il  est  vrai  que  MaruUos  dans  ses  hymnes»tàche  de  revenir  à  la  legende 
«  classique,  mais  entre  le  panthéon  de  celui-ci  et  celui  de  Pléthon  il  y  a  une 
«  grande  distance  ». 

(2)  Firenze,  Le  Mounier,  1904,  p.  51  e  seg. 

(3)  Presso  Agostino,  De  civ.  Dei,  VII,  9. 

Giornale  storico,  LXIV,  fase.  192.  21 


322  P.    L.    CICERI 

Caelicolae,  mea  membra,  dei,  qaos  nostra  potestas 
Officiis  divisa  facit. 

«  In  tal  concezione  della  divinità  Giove  è  veramente,  secondo 
«  l'espressione  di  Varrone  (1),  '  l'anima  del  mondo,  che  lo  governa 
«  col  movimento  e  con  la  ragione  '  ». 

Questo  passo  lio  riportato,  perchè  atto  a  mostrare  come  la 
tendenza  ad  una  concezione  di  Giove  quale  dio  unico  o  mas- 
simo, si  debba  far  risalire  alla  classicità  pagana,  e  non  si  possa 
pensare,  per  quanto  riguarda  il  Marnilo,  ad  allegorici  adombra- 
menti di  Dio  padre. 

Tornando  al  nostro  inno,  l'esordio  è  grave  e  solenne  e  sembra 
promettere  un  adeguato  svolgimento;  il  poeta  invoca  dal  dio 
l'ispirazione,  annunziando  poi  in  modo  riassuntivo  tutta  la  ma- 
teria dei  suoi  Inni:  prima  canterà,  graviore  sono,  la  potenza 
di  Giove,  poi  gli  altri  dèi,  la  natura,  il  cielo,  e  gli  elementi 
che  si  trovan  sotto  il  cielo.  Par  quasi  l'introduzione  di  un  poe- 
metto, nella  quale  l'autore  ne  dichiari  l'argomento;  ma  come 
vedremo  in  seguito,  gli  usci  invece  dalla  penna  un'opera  senza 
stretto  nesso  tra  le  varie  parti,  e  non  corrispondente  in  tutto 
a  ciò  che  qui  si  è  proposto. 

Già  in  quest'inno  medesimo  si  nota  sproporzione  tra  il  magni- 
loquente esordio  e  il  contenuto  seguente  (2),  che  si  riduce  al- 
l'esaltazione dell'infinita  grandezza  di  Giove,  tale  che  mente 
umana  non  può  abbracciare  (3),  cui  segue  un  quadro  delle  am- 


(1)  Id.,  id.,  VII,  6. 

(2)  L'aveva  notato  già  lo  Scaligero,  che  fa,  a  dir  vero,  troppo  aspra  cen- 
sura degl'Inni,  ma  al  quale  non  si  può  dar  sempre  torto.  Op.  cit.,  VI,  4 
(p.  299):  «  Hoc  enim  viri  ilUus  ingenio  maximo  atque  praeclarissimo  vitium 
«  fuit  peculiare,  ut  magnifico  spiritu  scribere  aggressus  elanguesceret  in  ora- 
«  tionis  tractu  fervor  ille:  egregiosque  primos  illos  impetus,  iudicium  dein- 
«  ceps  destitueret,  aut  voluntas.  Nam  quibus  in  poeraatiis  sese  voluit  naviter 
«  exercere,  verus  sane  poeta  est,  ac  divinus  ». 

(3)  «  Mortalesque  hebetat  captus  et  pectora  pigra  »,  dice  il  poeta  con  re- 
miniscenza lucreziana  e  vergiliana.  Cfr.  Veruilio,  Aen.,  II,  605  :  «  Mortales 
«  hebetat  visus  ...  ». 


MICHELE    MASULLO  323 

bizioni  e  delle  infelicità  dell'  uomo,  causate  dal  timore  della 
morte  (1),  per  finire  con  la  storia  della  creazione,  le  cui  varie 
parti  son  tratte  promiscuamente  dai  classici,  dalle  tradizioni  cri- 
stiane, e  anche  dall'Umanesimo.  Anche  il  Fontano,  infatti,  aveva 
trattato  lo  stesso  argomento  nel  primo  inno  del  De  laudibus 
divinis,  intitolato  De  mundi  creatìone  (2),  ma  attenendosi  alla 
tradizione  biblica  :  Dio  creò  tutto  dal  nulla,  e  dal  suo  volere  di- 
pende l'ordinamento  dell'universo. 

In  modo  analogo  aveva  cantato  il  Bonincontri  nel  libro  I  del 
primo  poema  astrologico,  toccando  della  creazione  del  mondo. 
Nel  Marullo,  al  contrario,  Giove  pone  l'ordine  nel  caos,  informe 
ammasso,  separando  gli  elementi  dagli  elementi  confusi  promi- 
scuamente fra  loro  ;  il  che  esclude  trattarsi  di  Dio  padre  —  come 
vuole  il  Soldati  {La  poesia  astrologica  nel  Quattrocento^  cit., 
pag.  275,  n.)  —  perchè  Dio,  secondo  la  tradizione  cristiana, 
non  aveva  dato  ordinamento  al  già  esistente,  ma  aveva  creato 
dal  nulla. 

La  fonte  della  narrazione  marulliana  è  il  principio  del  primo 
libro  delle  Metamorfosi  di  Ovidio,  giacché,  sia  nell'esposizione 
condotta  parallelamente  a  quella  del  classico  —  entrambi  ponendo 
dapprima  il  caos,  «  rudis  indigestaque  moles  »,  poi  la  separa- 
zione delle  cose  dal  «  caecum  acervum  »,  infine  l' ordinata  dis- 
posizione di  esse  sulla  terra  e  nel  cielo,  e  la  creazione  delle 
varie  specie  degli  animali  e  dell'uomo  —  sia  nell'imitazione  di 


(1)  Il  passo  è  tratto  dal  lib.  ITI  di  Lucrezio  (vv.  41  seg.),  dove  il  divino 
poeta  riporta  al  timore  della  morte  la  causa  di  tante  infelicità  e  malvagità 
umane  ;  cfr.  specialmente  i  v.  63-64  : 


Cfr.  Marullo: 


haeo  vulnera  vitaè 

Non  minimam  partem  mortis  formidine  altintnr. 


Hinc  rapit  ambitio,  rapit  bine  furiosa  libido, 
Inde  metus  bella  aspra  movet ecc. 


(2)  Ediz.  Soldati,  voi.  II,  p.  227. 


324  P.    L.    CICERI 

frasi  e  finali  di  versi,  la  derivazione  è  indubbia  (i).  In  Ovidio 
l'ordinatore  è  il  «  deus  et  melior  natura  »,  l'Amore,  nel  Nostro 
è  Giove. 

Facilmente  si  scorgono  poi  derivazioni  lucreziane  (2),  piut- 
tosto d'imitazione  che  di  pensiero,  nelle  movenze  di  alcuni  versi 
e  nella  predilezione  per  certe  parole  e  frasi  (3). 

Di  dottrina  platonica  sono  quei  luoghi  dell'inno  nei  quali  è 
detto  che  l'uomo  è  di  origine  celeste  e  dopo  aver  trascorso  il 
periodo  assegnatogli  nel  cieco  carcere,  il  corpo  (4),  tornerà  «  di 
nuovo  all'antica  patria  ». 


(1)  MaruUo: 

Nam  certe  cuna  tota  gravi  torperet  machina  acervo, 
Noxque  chaos  densis  circumdaret  atra  tenebris,  ecc. 

Si  confronti  Ovidio,  Met.,  I,  1  seg.;  specialm.  il  v.  24  : 

Qaae  postquam  evolvit  eaecoque  exemit  acervo,  ecc. 

(2)  Però,  oltre  al  passo  citato  in  nota,  pare  tratto  da  Lucrezio  il  pensiero 
di  quei  versi,  nei  quali,  dall'alto  del  cielo  il  poeta  nostro  spera  di  mirare 
un  giorno  le  vane  cure  degli  uomini,  come  Lucrezio  dall'alto  dei  templi  del 
sapiente.  Marnilo  : 

Unde  hominum  curas  tot  despectevms  inanes, 
Incertasque  vioes  rerum,  metuendaque  fata, 
Et  quanta  mortale  genus  nox  occupet  umbra. 

Cfr.  Lucrezio,  II,  1  seg.,  specialm.  v.  8-10: 

sapientum  tempia  serena, 

Despicere  unde  queas  alios  passimque  videro 

Errare  atque  viam  palantis  quaerere  vitae ecc. 

(3)  Si  sente  subito  Lucrezio  nei  seg..  esempi,  i  principali,  v.  4:  «  lucidus 
aether  »;  poi:  «et  vacuum  sola  inane  teneret  »,  e  altri  molti. 

(4)  «  Dum  data  vincla  nefas  dirumpere  carceris  atri  »,  ciò  che  è  appunto 
nel  Fedone  platonico;  quanto  all'»  antica  patria  »,  riportiamo  i  versi  più 
importanti,  v.  26  seg.: 

Ex  quo  caelicolae  natali  sede  relieta, 
Invalidos  artus  terrenaque  membra  subimus, 
Corpoream  lussi  molem  compage  tueri. 
Nam  simulac  tenebris,  et  inerti  carcere  clausi, 
Mortiferum  Stygiae  sonum  potavimus  undae, 
Excidit  ofFecto  solidum  de  pectore  verum, 


MICHELE   MARULLO  325 

L'inno  si  chiude  con  una  invocazione  al  dio,  acciocché  liberi 
l'umanità  dalle  tenebre  e  dagli  affanni: 

Salve  sancte  parens,  vere  pater  optime  rerum, 
Vere  opifex , 

le  quali  parole  già  vedemmo  come  debbano  essere  interpretate, 
secondo  la  concezione  stoica  di  Giove,  e  poi  gemistiana  (i);  se 
si  voglia  invece  vedere  in  quei  versi  un'invocazione  a  Dio  padre, 
osserverò  che  lo  stesso  appellativo  di  «  padre  »  (2)  il  Marnilo, 
dà,  come  vedremo,  a  molte  altre  divinità,  mentre  nel  cristiane- 
simo Dio  padre  è  uno  solo.  Fin  d'ora  rileviamo  quella  commi- 
stione di  elementi  disparati  che  è  frequente  negl'Inni,  e  che  in 
seguito  determineremo  meglio. 

Quanto  al  Bonincontri  e  al  Fontano,  in  entrambi  Giove  è  il 
pianeta  dall'influsso  benigno,  e  non  ha  quindi  riscontro  col  Giove 
del  nostro  inno  P. 

In  esso  abbiamo  in  complesso  una  piccola  cosmogonia,  quasi 
una  prefazione  poetica  ai  seguenti  inni,  che  canteranno  appunto 
la  natura,  della  quale  Giove  è  qui  celebrato  sia  come  ordina- 
tore, sia  come  arbitro  e  reggitore. 

Nel  secondo  inno  Pallade  personifica  la  sapienza  e  l'ingegno, 
che  hanno  il  potere  di  liberare  la  mente  umana  dall'errore,  e 


Pro  rebusque  leves  nequicquam  amplectimur  umbras, 
Antiquae  patriae  ac  verae  rationis  inanes. 

E  in  line  dell'inno: 

Exutosque  olirà  terrenae  pondera  molis 
RursTis  in  antiquam  patriam  das  posse  reverti. 

(1)  Gemisto  Pletone,  infatti,  pone  anch'egli  Giove  come  generatore  di  tutte 
le  cose.  —  NófxoL,  154  :  «  ...  ndwa  ...  tiqòs  fièv  aov  yevovóza  te  xal  Svta, 
«  yeyovÓTa  oh  aol,  otòhv  f^èv  adiojv  óeofiévo)  »;  cfr.  Nó/aol,  204,  Hymn.,  Ili: 
«  Zevg  j^éyag,  òvtùìs  ^lavòg,  a^vondrcoQ  TiQomdxùìQ  ze  \  Uavvoìv ». 

(2)  E  conforme  del  resto  agli  appellativi  consueti  nell'antichità,  di  «  Ju- 
piter  Optimus  Maximus  (Capitolinus)  »,  ecc.  Anche  Vergilio,  per  tacere  di 
altri  esempi,  ha:  Aen.,  XII,  v.  1  :  «  Concilium  vocat  divum  pater  atque  ho- 
minum  rex  »;  cfr.  Aen.,  II,  648. 


326  P.    L.    CICERI 

redimerla  dalle  tenebre  dell'ignoranza;  essa  principalmente  — 
e  il  poeta  insiste  su  questo  punto  —  può  additare  agli  uomini 
il  modo  di  far  ritorno  all'  «  antica  patria  »  (1),  al  qual  compito 
nessun'altra  divinità  poteva  esser  meglio  scelta  di  Pallade  la 
più  nobile  figlia  di  Giove,  la  dottrina  degnamente  accoppiata 
con  l'ingegno. 

Essa  è  anche  l'autrice  della  prima  civiltà,  e  infine  la  dea  vit- 
toriosa dei  Giganti  nella  titanomachia. 

Ma  è  strano  che  anch'essa  sia  chiamata  signora  unica  dell'u- 
niverso :  «  O  sola  rerum,  o  lucidi  domina  aetheris  !  »  né  si  com- 
prende come  il  Marnilo  ripeta  per  Pallade  quello  che  ha  detto 
esser  proprio  solo  di  Giove,  e  se  si  ammette  che  Pallade  è  una 
allegoria  del  Figlio,  tanto  meno  si  capisce  perchè  abbia  i  me- 
desimi attributi  del  supposto  Dio  padre. 

La  trattazione  mitologica,  però,  è  lodevole  e  vi  si  trovano 
tratti  di  vera  arte  ;  come  nella  descrizione  di  Pallade,  che  scuo- 
tendo la  fiera  chioma  campeggia  dall'alto  d'un  igneo  carro  set- 
tigiogato,  mentre  intorno  a  lei  le  vergini,  coronate  d' ulivo, 
spargono  rose,  e  tra  esse  i  sacri  poeti  dell'  antichità,  Orfeo  e 
Omero,  cantano  col  plettro  adamantino  le  imprese  e  le  glorie 
della  dea. 

Fonti  manifeste  classiche  non  si  possono  additare,  se  si  ec- 
cettui qualche  riscontro  con  l'inno  omerico  XXVIII,  Eig'  Ad^'fivav, 
che  qui  indicheremo  per  la  singolare  rispondenza: 

Hymn.  homer.,  XXVIII,  vv.  10-11  : 

àfi^<pl  óè  yata 

UfieQÓaÀéov  idxiqaev  •  ètttP'^d'i]  ò^àQa  nóvTog 


Marullo,  Hymni,  I,  2: 

contremit  fretura, 

Emota  respondent  sola (2). 


(1)  «  Tu  celsa  raptos  toUis   ad  tempia  Aetheris.  |  Tu  patriam  antiquam 
doces ...  ». 

(2)  Si  veda  anche  il  seg.  di  minor  perspicuità: 


MICHELE    MARULLO  327 

Come  l'inno  precedente,  e  come  tutti  i  seguenti,  anche  questo 
il  poeta  chiude  con  un  «  salve  »  alla  divinità,  e  con  l'invocarne 
l'aiuto. 

Tra  i  migliori  è  da  annoverarsi  l'inno  ad  Amore.  Quel  difetto 
notato  sopra,  d'attribuire  a  molte  divinità  una  medesima  qua- 
lità (1)  propria  di  una  sola,  ricompare  qui,  giacché  il  dio  è  chia- 
mato «  genitore  dei  celesti  »,  ciò  che  solo  a  Griove  era  adatto  ; 
macchia,  però,  trascurabile  di  fronte  alla  poesia  che  pervade 
le  belle  quartine  saffiche. 

Il  poeta  si  attiene  alle  tradizioni  mitologiche  classiche  :  Amore 
è  raffigurato  come  il  signore  possente  di  tutti  gli  nomini  e  di  tutti 
gli  dèi;  la  sua  potenza  (2)  per  tutto  si  manifesta,  sulla  vasta 
terra  e  in  cielo,  dove  a  lui  piegano  vinti  gli  dèi,  colpiti  dalla 
sua  freccia  infallibile  (3). 


Hymni  liomer.,  XXVIII,  13:  Mar.,  Hymni,  I,  2: 

(JTi}asv  (5'  'XneQiovog  àyÀaòg  tióg  Subsidit  aetlier  ipse 

Ztitiovs  (bavTioóas 

Gl'Inni  omerici,  com'è  noto,  già  prima  del  1423  furono  portati  in  Italia  da 
Giovanni  Aurispa  (vedi  R.  Sabbadini,  Le  scoperte  di  codici  latini  e  greci  nei 
secoli  XIV  e  XV,  Firenze,  Sansoni,  1905,  pp.  46-47,  n.  26);  possono  quindi 
esser  stati  conosciuti  dal  MaruUo. 

(1)  Così  anche    lo    Scaligero,  Oj).  cit.,  VI:  «  si  quando  seorsum  tractavit 
«  separata,  in  alteris  altera  promiscue  repetiit  ». 

(2)  Inoltre  il  Marnilo,  per  significare  l'invincibile  potere  d'Amore,  lo  pone 
al  di  sopra  dell'antica  'AvdyKt]: 

Quid  quod  antiqua  superata  Anance 
Suscipis  mundum  placidus  regendum  ! 

(3)  Figurazione,  questa,  che  risale  alle  più  remote  manifestazioni  letterarie  ; 
e  già  Esiodo  aveva  cantato  di  Amore: 

Hesiodi  quae  feruntur  carmina  (Lipsia,  Teubner,  1878),  v.  120  seg.  : 

"EQog,  5g  KdÀÀLazog  èv  àd^avavoiMiv  d-eolaiv 
ÀvaifA,eÀf^g  Ttdvroìv  re  d'ecòv,  ndvTOìv  r'  àvd-QÓìTtoìv 
òdfivaiav  èv  airid'eooi  vóov  xal  èTzCtpQova  ^ovÀi^v. 

Cfr.  Marullo,  Hymni,  I,  3,  13  seg.: 


S28  P.    L.    CICERI 

Ad  Aniore,  come  già  a  Giove,  attribuisce  1'  ordinamento  del 
caos,  e  il  legame  che  congiunge  i  semi  discordi  delle  cose,  ri- 
salendo cosi,  attraverso  Ovidio,  alla  concezione  più  poetica,  em- 
pedoclea,  della  ^iXia  (1). 

Pieno  di  delicatezza  è  il  tratto  finale:  l'amore  ha  il  potere  di 
sollevare  l'uomo,  d'innalzarlo  dalla  «  caduca  massa  »  del  corpo  ; 
anche  ad  esso,  come  a  Pallade,  si  deve  l'incremento  della  civiltà. 

Ora  si  vede  come  questa  figurazione  classica  del  dio  sarebbe 
in  stridente  contrasto  se  si  pensasse  adattata  allo  Spirito  santo, 
poiché  sarebbe  in  tal  modo  attribuito  a  lui  quel  medesimo  uf- 
ficio del  supposto  Dio  padre  (Giove  dell'inno  P),  la  disposizione 
del  caos;  e  soltanto  pare  tutto  spiegarsi,  se  ci  rifacciamo  a  quella 
concezione  filosofica  dell'amore,  che  sopra  abbiamo  accennata  (2). 

Alla  medesima  altezza  non  si  può  porre  l' inno  ai  celesti,  il 
quale  anzi  è  molto  inferiore  al  precedente,  sia  rispetto  al  valore 


Saepe  magnorum  medius  deorum, 
Aethera  immensumque  tenes  Olympum. 
Hic  ubi  missa  superos  sagitta 
Fleotis  et  ipsum 

Arbitrum  rerum  dominumque  patrem. 
Cuius  anditum  procul  omnis  horret 
Caelitum  pubes 

Il  Marullo  non  ebbe  certo  presente  proprio  questo  passo  della  Teogonia  esiodea, 
ma  aveva  innanzi  a  sé  tutta  la  tradizione  classica  concorde  nel  tratteggiare 
il  medesimo  tipo  di  Amore,  nelle  linee  fondamentali. 

(1)  Vedi  Carlo  Pascal,  commento  all'ediz.  di  Ovidio,  Metani.,  I,  v.  21  : 
«  Il  poeta  allude  certamente  all'amore  empedocleo  {0iÀla,  QiÀÓTtjs)]  giacché 
«  l'opera  di  questo  dio  è  di  porre  ordine  e  concordia  nell'accozzo  informe 
«  degli  elementi  ».  Vedi  anche  E.  Zeller,  La  philosophie  des  Grecs  (trad. 
di  E.  Boutroux),  Paris,  Hachette,  1882  ;  intorno  ad  Empedocle,  voi.  II,  pa- 
gine 199-381. 

(2)  Sarebbe  poi  grave  empietà  per  un  cristiano  far  ferire  e  vincere  Dio 
padre  dallo  Spirito  santo,  nò  sarebbe  sufficiente  scusa  l'allegoria.  Lo  Scaligero 
a  proposito  di  ciò  e  dell'opinione  dei  platonici  sul  duplice  Amore  (cfr.  Ma- 
rullo,  Hymni,  I,  3-34:  «  ...geminaeque  duplex  |  Gloria  matris  »)  giustamente 
osservava:  «  Nam  Cupidinem  geminum  ex  matre  gemina  cum  Platonicis 
«  agnoscit  [MaruUus].  At  Amor  in  divinis  cunì  hoc  nostrate  haud  unus  est  ». 
Si  confronti  Ovidio,  Fasti,  IV,  v.  1  :  «  Alma  fave  dixi,  geminorum  mater 
«  Amorum  !  ». 


MICHELE    MARULLO  329 

poetico,  sia  per  la  mancanza  di  nesso  nel  contenuto,  che  neppure 
corrisponde  al  titolo;  infatti  agli  dèi  nel  loro  complesso,  sotto 
i  quali  adombra  il  complesso  degli  astri  che  separatamente  can- 
terà nel  II  e  III  libro  (1),  rivolge  pochi  versi  solo  in  principio, 
poi  torna  a  celebrare  ancora  Pallade,  e  il  breve  inno  si  riduce 
quasi  tutto  a  trattare  di  essa,  ripetendo  le  stesse  idee  e  le  stesse 
preghiere  del  secondo  (2),  ma  senza  alcuna  efficacia,  si  da  non 
meritare  che  questo  cenno. 

Breve  anche  l'inno  seguente,  e  forse  il  migliore  di  tutti,  come 
ben  giudicava  lo  Scaligero  (3),  che  pure  si  mostra  sempre  assai 
severo  verso  il  Marnilo.  Canta  il  poeta  VAeternìtas,  cioè  l'in- 
finità del  tempo,  signora  dei  secoli,  «  immensi  regina  aevi  ».  È 
personificazione  appropriatissima  in  tutti  i  suoi  particolari,  né 
qui  è  fuor  di  proposito  chiamare  l'Eternità  dominatrice  di  tutto, 
di  tutti  gli  uomini  e  di  tutti  gli  dèi,  perchè  l'universo  è  soggetto 
alla  legge  ferrea  del  tempo,  che  tutto  vince  e  travolge,  rima- 
nendo unico  arbitro,  e  nulla  può  concepire  mente  umana  al  di 
sopra  dell'eternità. 

Ad  essa  il  poeta  chiede  l'ispirazione  acciocché  degnamente 
possa  celebrarla  (v.  1-2)  : 

Ipsa  mihi  voceni  atque  adamantina  suffice  plectra 
Dum  caneris 


(1)  Nei  versi  seguenti:  «  Stabileque  in  aevum  lucidas  ambis  Jovis  |  Rota 
«  domos  novemplici...  »,  par  di  vedere  un'allusione  ai  nove  cieli  del  sistema 
tolemaico,  giacché  nei  libri  II  e  ITI  troviamo  appunto  negl'Inni  il  seguente 
ordine,  dopo  Pan  (inno  I)  simbolo  di  tutto  l'universo:  1.  Caelo.  2.  Steìlis. 
3.  Saturno.  4.  JovL  5.  Marti.  6.  Veneri.  7.  Mercurio.  8.  Soli.  9.  Lunae-, 
mantenendo  lo  spirito  pagano,  pure  il  M.  rispettò  l'ordine  sanzionato  dalla 
tradizione  dantesca. 

(2)  Ritorna  ancora  il  concetto  platonico:  «  Caecoque  mentes  involutas 
«  carcere  ...  ».  • 

(3)  Scaligero,  Op.  cit.,  VI:  «  Pene  enim  solum  poema  illud  [Aeternitati], 
«  universas  illius  famae  rationes  sustinere  potest  ».  Il  Gaddi  poi  dice  addi-, 
rittura  che  pel  solo  inno  all'Eternità  i  carmi  del  Marnilo  sono  degni  del- 
l'«  eternità  »,  cioè  dell'immortalità;  ma  questo  è  un  po'  troppo. 


330  P.    L.    CICERI 

Essa  è  anche  rimmortalità,  la  fama  eterna.  A  te  mirano  — 
dice  il  poeta  —  i  giovani  ancora  immaturi  da  una  parte,  il  saldo 
valore  dall'altra,  pronto  a  difendere  il  patrio  suolo  (alludendo 
qui  forse  a  sé  stesso)  ;  tuttavia  dopo  un  intervallo  quanto  si  voglia 
lungo,  tutto  cancella  il  tempo  (v.  13  seg.): 

Pone  tamen,  quamvis  longo  pone  intervallo, 
Omniferens  natura  subit  curvaque  verendus 
Falce  senex  spaciisque  breves  aequalibus  horae 
Atque  idem  totiens  annus  remeansque  meansque 
Lubrica  servato  relegens  vestigia  gressu; 

due  versi,  questi  ultimi,  che  dobbiamo  riconoscere  degni  di  un 
classico,  sia  per  la  bella  personificazione,  sia  per  la  struttura 
dell'ultimo  verso,  si  felicemente  atteggiato  a  render  quasi  la  stan- 
chezza dell'Anno,  che  ritorna,  compiuto  il  ciclo  abituale,  all'an- 
tico faticoso  cammino. 

Eccoci  poi  il  quadro  imponente  dell'Eternità,  assisa  sul  più  alto 
seggio  tra  i  Celesti,  mentre  dà  le  sue  leggi  immutabili,  immune 
da  ogni  male  e  pericolo,  da  principio  e  da  fine,  principio  e  fine 
essa  stessa.  Un  verso  v'è  qui,  che  basta  a  rivelare  il  poeta: 

Perpetuoque  adamante  ligas  fugientia  saecla, 

che  desta  spontanea  in  noi  l'ammirazione,  per  l'immagine  feli- 
cissima, e  per  la  profondità  del  pensiero  racchiuso  in  rapidi 
efficaci  tocchi. 

Indirizza  infine  il  poeta  alla  dea  un  saluto  con  maggior  so- 
lennità che  non  abbia  fatto  per  gli  altri  dèi,  e  le  rivolge  la  pre- 
ghiera consueta  di  richiamar  l'umanità  al  cielo. 

Anche  il  verso  è  quello  che  più  si  adattava  a  quest'inno,  l'e- 
sametro, che  assume  veramente  movenze  dignitose  e  in  qualche 
punto  epiche. 

Lucrezio  si  riconosce  qua  e  là,  ben  inteso  nel  solo  campo  del- 
l'imitazione, e  anche  questa  non  diretta,  bensi  inconscia  e  limi- 
tata a  quelle  reminiscenze  che  gli  venivano  dall'amore  e  dal- 


MICHELE    MARULLO  331 

l'entusiasmo  di  cui  era  acceso  verso  il  poema  della  natura  (1). 
Del  resto  non  vien  fatto  di  additare  vere  fonti  dell'inno  nella 
classicità,  0  nel  Rinascimento;  possiamo  quindi  giudicarlo  una 
prova  di  quell'originalità  che  in  modo  troppo  assoluto  si  è  voluta 
negare  al  Marnilo  ai  nostri  tempi,  la  quale,  se  di  rado  si  mani- 
festa, un  ingegno  non  mediocre,  pure,  rivela. 

Dell'inno  a  Bacco,  che  chiude  il  primo  libro,  non  si  può  in- 
dicare una  fonte  particolare,  perchè  il  Marnilo  non  si  attiene 
ad  una  sola,  ma  segue  senz'ordine  ciò  che  nelle  tradizioni  clas- 
siche trovava  intorno  alla  rappresentazione  del  dio  e  ai  suoi 
attributi  (2). 


(1)  Per  citarne  una,  in  principio  i  «  lucida  tempia  aetheris  »  ci  richiamano 
ai  «  lucida  tempia,  lucida  tela  »,  ecc.,  lucrezìani. 

(2)  Indichiamo  alcuni  riscontri  coi  classici.  Catullo,  c.  LXFV,  254  seg.  : 

Qui  tum  alaores  passim  lymphata  mente  furebant 
Euhoe  bacchantes,  euhoe  capita  inftectentes. 
Harum  pars  tecta  quatiebant  cuspide  thyrsos, 
Pars  e  divuUo  iactahant  membra  iuvenco, 
Pars  sese  tortis  serpentibus  inoingebant, 
Pars  obsoura  cavia  celébrabant  orgia  cistis, 
Oì'gia  quas  frustra  cupiunt  atidire  prophani,  ecc. 

cfr.  Marullo,  Hymni,  I,  6,  passim: 

Quem  bine  miUe  secutae  atque  iUinc  trepidante  pede  sacro 
Ululent  citatis  Edonides  usque  tripudiis 
Valido  sub  thyrso  iacientes  vi  capita  fera. . .  ecc. 

* 
Orgia  verendis  arcana  recondita  calathis, 
Penitus  quae  sanctis  frustra  captes  sine  initiis. 

Nimio  divulsos  raptantes  impetu  vitulos. 

Esaminando  i  punti  in  corsivo,  si  vedrà  che  la  derivazione  catulliana  è  cer- 
tissima, benché  il  Marullo  rimaneggi,  ampliando  o  riassumendo,  Catullo.  Una 
reminiscenza  oraziana:     Orazio,  Od.,  Il,  19,  5-8: 

Euohe,  recenti  mens  trepidat  metu, 
Plenoque  Bacchi  pectore  turbidum 
Laetatur.  Euhoe,  parce  Liber, 
Parce,  gravi  metuende  thyrso. 
• 
Marullo,  Hymni,  I,  6,  4-5  : 

Aevoe  sonant  furenti  mihi  pectora  rabie  ; 
Nimioque  deo  plenus  concutitur  gravis  animus. 

Cfr.  Orazio,  Od.,  IH,  25,  1  seg.: 


332  P.    L.    CICEEI 

Il  Sannazaro  ha  un  epigramma,  e  il  Fontano  un'  elegia  a 
Bacco  (1),  quest'ultima,  nella  sua  brevità,  molto  più  elegante  del- 
l'inno che  esaminiamo,  i  cui  versi,  privi  di  agilità  e  sveltezza, 
mal  si  adattano  ad  un  carme  a  Bacco  ;  è  evidente  infatti  il  con- 
trasto tra  l'ardore  e  la  febbrile  irrequietezza  da  cui  il  poeta  si 


Quo  me,  Bacche,  rapis  tui 

Plenum?  Qaae  nemora  aut  quos  agor  in  specus 

Velox  mente  nova? 

Eiscontri  ovidiani: 

Ovidio,  Tristia,  V,  3,  89: 

Ossa  bipenniferi  sic  sint  male  pressa  Lycurgi 
Impia  nec  poena  Pentheos  umbra  vacet; 

cfr.  Marullo,  Hymnis,  I,  6: 

qui  Penthea,  qui  male  nimium 

Adigis  Lycurgum  tandem  sua  pendere  scelera. 

Per  tutta  quella  serie  di  appellativi  rivolti  al  dio,  potè  vedere  il  Marullo  il 
«  locus  similis  »  delle  Metamorfosi  (IV,  11-15),  ma  è  più  probabile  avesse 
presente  quell'epigramma  àeWAntìwlogia  graeca  (1.  I,  tit.  XXXVIII  :  Elg 
Seovg,  cfr.  11  »  Elg  Bàyi^ov)  che  è  tutta  una  sequela  di  appellativi  del  dio. 
Cfr.  Mar.,  Hymni,  I,  6,  23  seg.: 

Aevoe,  impotenti  thyrso  gravis,  alme  Dionyse, 
Martie,  bicornis,  rex,  omnipotens,  femorigena, 
Mistice,  thioneu,  ultor,  solivage,  evies,  satyre, 
Genitor  deorum  idem,  atque  idem  germen  amabile, 
Nyetelie,  multiformis,  hymeneie,  nomie, 
Cremine,  hospitalis,  liber,  pater,  optime  maxime. . . 

(e  chi  più  ne  ha  più  ne  metta).  Questo  è  del  resto  il  modo  classico  solito 
delle  invocazioni  a  Bacco.  —  Si  confrontino  anche  i  seg.  versi  del  Taigeto 
(Jo.  Ani.  Taygetus,  in  Carmina  iìlustriiim  poetarum  italorum,  Florentiae, 
1719,  voi.  IV,  p.  234,  inno  a  Bacco): 

Salve,  io,  Bromie,  Nysaee,  Lyaee,  Thyoneu, 
Liber,  lacche,  Euan,  Euhye,  Thyrsigere,  ecc. 

Anche  Pietro  Crinito  (Carm.  Uh  poet.  ita}.,  Ili,  513  ha  una  Saltatio  bac- 
chica che  presenta  qualche  analogia  col  nostro  inno.  Oltre  all'epigr.  Bacco, 
menzionato,  VAnthologia,  ha  altri  brevi  epigrammi  allo  stesso  dio,  e  ad  Apollo, 
a  Venere,  a  Mercurio,  a  Diana  (vedi  specialm.  1.  V,  tit.  I),  ma  si  distaccano 
dal  carattere  che  distingue  l'inno,  né  il  Marullo  attinse  ad  essi,  essendo  brevi 
ritratti  della  divinità,  descritta  quasi  fosse  dinanzi  al  lettore  effigiata. 

(1)  Parthenopeus,  ediz.  cit.,  I,  17,  p.  79  del  voi.  IL 


MICHELE    MARULLO  883 

dice  invaso,  e  questo  metro,  non  troppo  adatto  ad  argomenti 
leggeri  e  scherzosi. 

Bacco  pare  qui  personificare  l'ardore  del  sangue  animoso  gio- 
vanile (v.  3  :  «  Puerum  coma  praesignem  et  radiantibus  oculis  »), 
0  meglio  ancora,  il  «  furor  poetarum  »,  l'ispirazione  (cf.  v.  4-5  : 
«  Aevoe  sonant  furenti  mihi  pectore  rabie;  |  Nimioque  deo  plenus 
«  concutitur  gravis  animus  »,  e  sulla  fine  :  «  Tibi  [Baccho]  mille 
«  vatum  praecordia  sortilega  fremunt  »),  la  quale  opportunamente 
sarebbe  qui  cantata,  ora  che  il  poeta  si  accinge  veramente  a 
celebrare  gli  elementi  della  natura,  dopo  il  primo  libro  che  po- 
trebbe chiamarsi  tutta  una  introduzione  ai  seguenti  (II,  III  e  IV). 

Incongruenze  e  contraddizioni  non  mancano  neppure  in  que- 
st'inno ;  noteremo  solo  che  fra  le  altre  lodi  è  attribuito  a  Bacco 
anche  il  merito  di  far  verdeggiare  i  campi  e  svariatamente  co- 
lorarli (1),  ciò  che  Lucrezio,  com'è  noto,  aveva  detto  di  Venere, 
e  che  vedremo  assegnare  poi  dal  MaruUo  a  tal  dea  (inno  a  Ve- 
nere) e  al  Sole  {Ep.^  1.  Ili,  inno  1^).  Inoltre  Bacco  qui,  come 
già  Giove  e  Amore,  «  dissona  semina  ligat  »,  ed  equilibra  l'uni- 
verso, tenendo  la  terra  stabilmente  sospesa  in  mezzo  all'aria, 
cosa  che  a  Giove  soltanto  si  conveniva. 

Un  inno  a  Pane  inizia  il  secondo  libro,  che  coi  rimanenti  cor- 
risponde propriamente  al  titolo  d'ffyTuni  naturales,  e  al  genere 
di  poesia  che  con  tal  titolo  si  proponeva  il  Marnilo. 

Nel  nostro  carme  il  dio  ha  il  potere  di  unire  in  armonica 
quiete  i  semi  discordi  delle  cose  e  di  mantener  l'universo  nella 
sua  compagine,  non  solo,  ma  è  celebrato  eterno  padre  della  terra, 
del  mare,  del  cielo,  e  per  di  più  degli  dèi,  Giove  compreso.  Ciò 
non  si  potrebbe  spiegare  se  non  pensando  che  il  Marnilo  segua 
qui  una  redazione  tardiva  delle  tradizioni  su  Pane,  quando,  fal- 
samente interpretando  la  parola  Udv,  l'antico  dio  arcadico  dei 
boschi  e  dei  pastori  fu  fatto  simbolo  dell'  universo  e  il  suono 


(1)  «  Tibi  ager  viret  almus,  tu  florea  prata  tepentibus  |  Zephyris  coloras, 


334  P.    L.    CICERI 

della  sua  siringa  fu  spiegato  come  l'armonia  delle  sfere  ;  con- 
cezione che  non  si  accorda  con  la  prima  parte  dell'inno,  dove 
il  dio  è  celebrato  quale  protettore  del  gi'egge,  dilettandosi  nelle 
solitudini  dei  boschi  al  suono  della  sua  sampogna. 

Ma  Pan  in  realtà  è  qui  la  personificazione  di  tutto  il  com- 
plesso dei  corpi  celesti,  a  ciascuno  dei  quali  dedica  in  seguito 
un  canto  a  parte,  e  l'accenno  al  dio  dei  pastori  si  spiega,  quando 
si  pensi  che  il  poeta  in  modo  naturale  fu  portato  a  non  rinun- 
ziare ad  una  reminiscenza  classica  che  credeva  aggiungere  poesia 
al  suo  canto,  poesia  che  manca  però  nell'  inno,  che  è  da  porsi 
tra  gl'inferiori  e  non  degni  di  studio. 

Più  misero  è  il  brevissimo  carme  al  Cielo,  che  apre  la  serie 
della  catena  celeste.  L'unica  cosa  che  non  sia  fuor  di  proposito, 
è  il  chiamare  il  cielo  patria  degli  dèi  ;  del  resto  anch'esso  —  a 
detta  del  Marnilo  —  congiunge  tutto  con  perpetuo  legame  ed 
è  santissimo  padre  degli  dèi  e  della  natura  (!). 

Il  terzo  inno  del  libro  II  è  trattato  astrologicamente  (1);  il 
concetto  fondamentale  che  lo  informa  è  che  l'uomo  non  può  sot- 
trarsi all'influsso  delle  «  Stelle  »,  ed  è  costretto  a  condurre  la 
vita  sua  secondo  l'azione  dell'  astro  sotto  il  quale  egli  nacque! 

La  finale  è  originale  e  include  una  nota  malinconica  e  ras- 
segnata : 

Gaudete  noctis  progenies  sacra, 
Stellae  beatae.  Nos  procul  a  domo, 
Quae  fata  nascenti  dedistis 
Interea  miseri  feremus. 

Nessun  dio  pagano  soccorre  il  Marnilo  in  questo  carme,  né 
pel  precedente  («  Caelo  »),  che  senza  velo,  in  modo  diretto  la 
parola  è  rivolta  rispettivamente  alle  Stelle  e  al  Cielo. 

Una  personificazione  del  pianeta  omonimo  è  invece  il  dio  Sa- 
turno neir  inno  IV,  ma  non  cantato  in  senso  astrologico  come 


(1)  «  ...die  agedum  Dea  |  Stellas,  et   influxu  tenaci  |  Cuncta  iubar  varie 
pollens  ». 


MICHELE   MARULLO  335 

dal  Bonincontri  e  dal  Fontano,  che  ne  fanno  una  stella  dal  freddo 
influsso  e  il  simbolo  della  vecchiaia,  bensì  come  colui  che  pre- 
siede all'età  dell'oro,  poi  come  marito  di  Rea  e  padre  di  Giove, 
infine  anche  come  il  tempo,  la  qual  cosa  par  risultare  chiara- 
mente da  quei  versi  che  pongono  la  superiorità  del  dio  sulle 
Parche  (1),  cioè  il  trionfo  del  tempo  sulla  morte  (2). 

L'inno  in  complesso  è  buono,  e  scorre  con  una  certa  spon- 
taneità :  il  poeta  immagina  che  sia  tornata  l'età  aurea,  e  il  mondo 
gioisca  nei  tripudi.  «  Portami,  o  servo,  il  bariletto  —  esclama 
con-  reminiscenza  oraziana  —  anch'  io  voglio  celebrare  tal  feli- 
cità »  ;  e  conduce  la  descrizione  secondo  il  tipo  tradizionale  che 
troviamo  presso  gli  scrittori  dell'età  augustea  (3):  le  biade  na- 
scono spontaneamente  senza  bisogno  di  coltivazione,  fiumi  di 
latte  scorrono,  la  pace  e  l'onestà  regnano  ovunque  tra  gli  uo- 


(1)  «  Idem,  cum  Ubet,  omnia  |  Parcarum,  memori  lege  resolvere  ». 

(2)  Non  è  perspicua   la   personificazione  che  il  MaruUo  fa;  si  veda  invece 
quella,  bellissima,  del  Fontano.   Urania,  ed.  cit.,  1.  I,  v.  705-710. 

Ultima  sorte  senex  loca  possidet,  ultimus  auras 
Ambit  et  aeterno  contristat  frigore  terras. 
Nigra  seni  facies,  tardus  gradus,  horrida  barba, 
Et  cani  crines,  et  membra  efFeta  senecta  ; 
Ingenio  tamen  ipse  bonus,  nec  inutile  pectus 
Consiliis  constansque  animi  prudensque  futuri. 

(3)  Ecco  la  descrizione  maruUiana;  Hymni,  11,4,  14  seg.: 

iuvat  dicere  saeeula 

Fortunata  dei,  ac  sua 

Crescentem  cererem  sponte,  nec  annuae 

Curae  debita  semina, 

Et  ìactis  nivei  /lumina,  flumina 

Larga  nectaris  attici 

Cum  pax  atque  fides  casta  per  oppida 

Visebant  hominum  domos  : 

Nec  possessa  diu  imperia,  hospiti 

Pigebat  dare  strenuo. 

Cfr.  Ovidio,  Met,  I,  89-112  e  specialmente  i  §ersi  109-112: 

Mox  etiam  fruges  tellus  inarata  ferebat, 
Nec  renovatus  ager  gravidis  canebat  aristis  : 
Flumina  iam  lactis,  iam  fiumina  nectaris  ibant, 
Flavaque  de  viridi  stillabant  ilice  mella. 


336 


P.    L.    CICERI 


mini  ;  i  medesimi  particolari  che  sono  appunto  in  Ovidio,  in  Ver- 
gilio,  in  Orazio. 

Tesse  poi  le  lodi  del  dio,  attribuendogli  anche  la  proprietà  di 
largire  agli  uomini  l'ingegno,  ciò  che  veramente  era  proprio  di 
Pallade  (i). 

A  Giove  scrive  ancora  un  breve  inno,  dopo  il  i^  del  libro  I, 
ma  già  abbiamo  accennato,  e  qui  meglio  precisiamo,  che  quello 
d'introduzione  è  al  sommo  degli  dèi  mentre  questo  è  all'  astro 
omonimo  (2),  nettamente  distinto,  è  bene  avvertirlo  fin  d'  ora, 
dal  Giove  folgoratore  del  libro  IV,  che  simboleggia  il  fuoco. 

È  questo  il  punto  in  cui  nel  Marnilo  e  nel  Fontano  le  due 
concezioni  dell'astro  personificato  in  un  dio  pagano,  più  che  al- 
trove si  accordano,  come  risulta  dai  seguenti  riscontri  : 

Fontano,  Urania,  I,  615-617  (ed.  cit.):  Marullo,  Hymni,  II,  5,  1-5  : 

lupiter  hinc  soHo  longe  spectandus  ab  alto      luppiter  pie,  luppiter 
Exerit  OS  pìacidum  terris,  et  fulgidus  aureo      Benigne,  optinie  luppiter  ; 
Sidere  felices  mortalibus  explicat  ignis.  Qui  tuo  nitidum  aethera 

Ambis  igne  beato. 

Te  cano,  placidum  patrem ...  ecc. 

e  Urania,  I,  625-628  :  cfr.  con  Hymni  nat,  II,  5,  33-38  : 

Tanta  lovis  placidi  clementia,  ni  malus  atro         Aut  cum  falciferi  patris 
Sidere  torpentis  Saturnus  funderet  ignes,  Almo  sidere  temperas 

Funderet  et  leti  causam  infelicis  et  omne  Minas  et  rabiem  feram. 

Morborum  genus  et  miserae  mala  plurima  vitae.      Quo  non  saevior  alter 

Seu  libet  misera  lue 
Urbes  polluere  integras,  ecc. 


(1)  Molta  ineguaglianza  si  nota  nello  svolgimento  di  quest'inno,  occupando 
troppi  versi  la  descrizione  dell'età  aurea  proporzionatamente  al  dio  ;  il  poeta 
contaminò,  nel  senso  classico,  varie  tradizioni  intorno  a  quanto  riguardava 
Saturno,  senza  troppo  discernimento. 

(2)  Non  convengo  con  lo  Scaligero  che  interpreta  Juppiter  come  la  per- 
sonificazione del  cielo  ;  ecco,  anche  per  la  trattazione  seguente,  l' interpre- 
tazione dell'erudito,   riguardante  parte  delle  divinità  marulliane  {Op.  cit.. 


MICHELE   MARULLO  337 

Mantenendo  la  personificazione,  è  assegnato  dunque  a  Giove 
un  «  falcifer  pater  »  cioè  Saturno,  il  che,  fuori  dell'  allegoria, 
corrisponde  all'ordine  naturale  tolemaico,  che  abbiamo  supposto 
che  il  Marnilo  segua,  in  cui  appunto  Saturno  vien  prima  di 
Giove  nella  scala  dei  pianeti  (1). 

Non  è  trascurabile  l'inno  a  Marte,  come  riconosceva  lo  Sca- 
ligero (2):  invocata  Clio,  si  canta  l'astro,  personificato  nell'an- 
tico dio  della  guerra,  il  quale  si  diletta,  ahimè  —  esclama  il 
poeta  —  di  tante  misere  stragi!  Marte  —  continua,  con  una 
nota  patriottica  personale  assai  efiìcace  —  incrudelisce  contro 
Bisanzio,  ma  le  preghiere  lo  faran  divenire  benigno.  Allora  ciò 
accenderà  il  poeta  (sono  sue  parole)  di  si  potente  ispirazione, 
che  non  lo  eguaglierebbe  nel  canto  il  «  padre  Orfeo  »  ;  vanto 
questo  esagerato,  ma  qui  spiegabile,  per  l'entusiasmo  a  cui  si  è 
lasciato  trasportare  dalla  visione  della  fine  della  guerra  funesta 
alla  patria.  «  Allora,  invaso  da  marzio  furore,  canterò  le  imprese 
«  di  Marte,  quando  in  mezzo  agli  altri  dèi  atterriti  dinanzi  ai 
«  Titani,  che  sovrapponendo  monti  a  monti  tentavano  dar  la  sca- 
«  lata  al  cielo,  egli  solo,  ancor  giovinetto,  dopo  la  consacrazione 
«  dell'armi,  osò  aflì'ontare,  tra  lo  stupore  generale,  i  mostri 
«  della  terra,  e  li  vinse,  acclamato  dalla  celeste  schiera  »  ; 

sed  improba 

In  caede  perstabat,  ferocum 
Impatiens  animorum,  et  irae. 


1.  ni,  e.  115)  :  «  Sic  Apollinem  Solem  dicis  ;  Dianam  Lunam  ;  lunonem  aerem  ; 
«  Jovem  aetherem  ;  Saturnum  tempus  ;  Venerem  calorem  genitalem  ;  Martem 
«  sanguinis  effervescentiara ;  Mercuri um  ingenii  dexteritatem  ». 

(1)  Tranne  gli  aggettivi  di  grandezza,  gloria,  potenza,  null'altro  ha  di 
comune  quest'inno,  come  del  resto  il  1°  del  1.  I,  con  l'inno  omerico  XXXIII, 
Eig  Aia. 

(2)  Op.  cit.,  VI:  «  Maius  etiam  numen  affla^it  illuni  [MaruUum]  in  Martis 
€  hymno  ».  Precede  alla  trattazione,  nel  nostro  inno,  una  breve  introduzione 
sugli  dèi  in  generale,  celebrati  quali  autori  di  tutti  i  beni  umani,  contra- 
riamente al  pensiero  del  suo  Lucrezio,  che  li  immaginava  noncuranti  del- 
l'uomo, sereni,  nelle  tranquille  sedi  degl' intermundii. 

Giornale  storico,  LXIV,  fase.  192.  22 


338  P.    L.    CICERI 

Ni  iam  tum  et  annos  et  pueri  Venus 
Mirata  dextram,  nec  facieni  minus, 
Complexa  gerraanum  benignis 
Aurea  continuisset  ulnis  (1). 

Grazioso  quadretto  finale,  nel  quale  si  sente  un  lontano  sapore 
di  quel  mirabile  principio  del  libro  I  del  poema  di  Lucrezio,  che 
rimane  tuttavia  —  s'intende  —  di  gran  lunga  insuperato. 

Tranne  una  probabile  fonte  classica,  Orazio  (2),  cui  forse  at- 
tinse il  Nostro  per  la  gigantomachia,  l'inno  pare  originale,  pieno 
di  vera  potenza  ed  efficacia,  e  in  tutto  appropriato  al  carattere 
che  si  conveniva  alla  divinità  guerresca. 

Analogamente  raffigura  Marte  il  Fontano,  ma  in  modo,  certo, 
assai  migliore  per  potenza  di  tocchi  plastici,  opportunissimi  alla 
personificazione  della  stella  sempre  funesta  e  simbolo  della  vio- 
lenza (3). 

A  questo  punto  il  Marnilo  rompe  per  un  momento  l'ordine 
dei  cieli  osservato  finora,  facendo  seguire  al  cielo  di  Marte  non 
quello  del  Sole,  ma  quello  di  Venere,  giacché  si  riserva  di  can- 
tare a  parte  i  due  astri  creduti  massimi,  del  giorno  e  della  notte, 
nel  libro  III. 

Venere,  che  nel  Fontano  {Urania^  I,  177  seg.)  è  celebrata 
prima  come  la  dea  dell'  amore,  poi  come  la  stella,  per  la  sua 


(1)  In  questo  luogo  (come  in  moltissimi  altri)  è  assai  scorretta  la  lezione 
dell'edizione  Sathas  (cit.);  qui,  come  in  tutti  i  passi  marulliani  che  ripor- 
tiamo, cercliiamo  di  dare  la  lezione  più  coiTetta  che  sia  possibile,  valendoci 
delle  migliori  edizioni  antiche  tra  loro  collazionate. 

(2)  Cfr.  Orazio,  Od.,  III,  4;  questo  passo  potè  leggere  il  Marnilo,  mante- 
nendosene però  indipendente. 

(3)  Fontano,  Urania,  I,  548-553  (ed.  cit.)  : 

Ipse  deus  rapidis  insistens  pronus  habenis 
Tela  manu  quatit  insultaus,  acerque  cruento 
Ore  tonat.  PeUunt  agili  temone  iugales 
Exanguis  Metus,  atque  Tremor,  tum  ferreus  ora 
Terror,  sanguineumque  Favor  quatitante  flagellum, 
Ille  quidem  divis  iam  formidabilis  ipsis. 


MICHELE    MABULLO  339 

luce,  emula  della  luna  e  del  sole,  è  nel  nostro  inno  il  pianeta 
fulgentissimo,  personificato  nella  dea  (1)  autrice  dell'ordina- 
mento di  tutte  le  cose  nell'informe  caos;  non  oziosa  ripetizione 
questa,  perchè  qui  il  Marnilo  parte  da  un  concetto  molto  più 
poetico  :  la  dea  dell'amore  è  la  forza  che  domina  irresistibile  nel- 
l'universo, e  da  essa  dipende  la  generazione,  la  trasformazione 
e  la  rinnovazione  continua  di  tutte  le  cose  (2). 

Ovidio,  come  nei  casi  precedenti,  fornisce  i  dati  di  tale  svol- 
gimento, Lucrezio  quelli  della  figurazione  della  dea,  all'  arrivo 
della  quale  tutto  si  rasserena;  ma  tuttavia  si  ha  l'impressione 
del  nuovo,  poiché  il  poeta  ha  saputo  imprimere  nelle  sue  fonti 
il  suggello  suo  personale: 

Ridet  et  tellus  veniente  diva, 
Carpatili  et  rident  freta:  nec  sereno 
Sibilat  caelo  nisi  blandientis 
Aura  favoni  (3). 

Nunc  no  vis  sanctum  caput  impedita 
Floribus,  plausasque  levis  choreas 
Ducit;  et  passim  violis  scatentem 
Ter  pede  nudo 

Concutit  terram.  Sequitur  luventa  (4) 
Fervidum  spirans;  sequitur  Voluptas 


(1)  Credo  che  non  occorra  pensare  col  Sathas  {Op.  cit.,  VII,  prefaz.,  p.  lvii) 
che  il  Marnilo  abbia  voluto  celebrare  la  vergine  divina  promessa  allo  stra- 
dioto,  come  premio  delle  sue  fatiche,  dopo  la  morte;  né  con  lo  Scaligero  in- 
tendere Venere  un  «  calor  genitalis  »  (vedi  passo  riportato  in  nota)  ;  si  tratta 
semplicemente  della  stella,  adombrata  in  Venere,  per  cantar  la  quale  il  poeta 
usufruisce  alcuni  dati  della  concezione  degli  antichi. 

(2)  È  la  concezione  lucreziana,  I,  v.  21  :  «  Quae  qnoniam  rerum  naturam 
«  sola  gubernas  »,  ecc.  ^ 

(3)  Si  confronti  Lucrezio,  I,  8:  «  ...  tibi  rident  aequora  ponti  »,  e  I,  11: 
«  et  reserata  viget  genitabihs  aura  favoni  ». 

(4)  Scrivo  con  lettera  maiuscola  Juventa,  Voluptas,  ecc.  perchè  seno  evi- 
denti personificazioni. 


340  P.    L.    CICERI 

Prodiga,  et  zonis  Charitum  renidens 
Turba  solutis  (1). 

Graziosissima  è  anche  la  scenetta  di  Venere  e  Marte,  che 
meglio  non  potrebbe  commentarsi  che  riportando  i  versi  stessi 
del  poeta: 

Spectat  occulto  latitans  roseto 
,     Mars  pater,  simulque  cupit  videri  (sic) 
Et  timet;  simul  velut  igne  caera  ex-  (2) 
-Udat  abitque. 

Nunc  ubi  currus?  ubi  amica  quondam 
Hasta?  quid  tecum,  bone  dux,  roseto? 
Nempe  iam  sordent  galeae;  aptiorque 
Crinibus  lierba  est. 

Illa  tormentisque,  deique  amore 
Pulchrior;  quem  dissimulat  videre: 
Hoc  magis  occulta  placuisse  quaerit 
Callida  ab  arte. 

Et  modo  suras  teretes,  reducta 
Veste,  dum  saltat  studiosa  nudat 
Et  modo  pectus  retegit,  statimque 
Claudit  eburneum. 

È  una  saffica  che,  contrariamente  al  giudizio  dello  Scaligero 
—  che  scriveva  :  «  Invenustus  etiam  in  Venerem  ;  quem  decuit 
esse  lepidissimum  »  —  può  annoverarsi  tra  le  migliori  poesie 
del  Marnilo. 


(1)  Si  ponga  attenzione  al  seg.  locus  similis  di  Orazio,  che  fu  certo  fonte 
d'imitazione.  Orazio,  Odi,  I,  30,  5  seg.: 

Fervidus  tecum  puer  et  solutis 
Gratiae  zonis  properentque  Nymphae 
Et  parum  comis  sine  te  luventa 
Mercuriasque. 

(2)  Peccato  che  la  brutta  spezzatura  della   parola  in  fin  di  verso,  produca 
in  noi  cattiva  impressione,  se  anche  passeggera. 


MICHELE   MARULLO  341 

Saffico  è  pure  l'inno  col  quale  finisce  il  secondo  libro.  Il  poeta 
profetizza  l' immortalità  ai  suoi  carmi,  indi  canta  l'astro  Mer- 
curio, personificato  nel  dio  della  prudenza  e  dell'acutezza  d'in- 
gegno (i). 

Ne  fa  l'autore  della  civiltà  e  del  progresso,  e  lo  rappresenta 
mentre  va  dirozzando  con  le  arti  della  sua  lira  le  menti  ancor 
fiere  dei  primi  uomini,  insegnando  loro  il  viver  civile.  Questo 
passo  pare  uno  svolgimento  di  un  altro  della  nota  breve  ode 
oraziana,  come  appare  dagl'  indizi  sui  quali  richiamiamo  l' at- 
tenzione : 

Orazio,  Od.,  I,  10,  1  seg.  :  Marullo,  Hymni,  II,  8,  25  seg.: 

Mercuri  facunde  nepos  Atlantis  0  potens  vatum  geminique  mundi 

Qui  feros  cultus  liominiim  recentum  Mercuriusinterpres,  pater;  undeprimum 

Voce  formasti  catus  et  decorae  Fluxit  et  nervis  honor  et  decorae 

More  palaestrae.  Copia  linguae. 

Arte  dum  blanda  populos  recentes 
Caede  deterres  solita,  suisque 
Providus  silvis  meliora  tandem 
Quaerere  suasos  (2). 

Poi  lo  canta  anche  come  dio  del  commercio  e  dell'arte  divi- 


(1)  Giustamente  lo  Scaligero,  a  proposito  di  Mercurio:  ingenii  deocteritas 
(cit.);  e  il  poeta  vi  accenna  nei  seg.  versi  11-16: 

lUe  nec  turpem  exilio,  neo  unquam 
Passus  inertem. 

Perque  tot  terras,  mala  tot  secutus 
Per  freta,  huc  fatis  agitatum  et  illuc  ; 
Largus  et  scythae  dedit  et  latini 
Pectinis  usura. 


e  in  fine: 


Salve,  io,  vemm  decus,  exilique 
Duloe  lenimen,  patriaeque  victae, 


alludendo  al  sollievo  delle  sue  infelicità,  procurato  dall'uso  dell'ingegno. 

(2)  Si  confronti  anche  con  Orazio,  Od.,  I,  10,  3-4  (già  rif.)  :  «  ...  et  de- 
«  corae  |  More  palaestrae  »,  il  verso  del  Marullo:  «  Sive  quis  graia  nitidus 
«  palaestra  ».  Cfr.  Ovidio,  Fasti,  V,  667  seg. 


342  P.   L.    GIOBBI 

natoria,  toccando  in  fine  anche  dell'ufficio  proprio  a  Mercurio, 
quello  di  evocare  e  ricondurre  le  anime  all'Ade  (1). 

Come  ognun  vede,  la  personificazione  diventa  pretesto  alla  so- 
lita fusione  di  elementi  vari  tratti  dalla  latinità  e  dalla  grecità, 
nel  nostro  caso  dal  «Mercurius>  e  dall' 'E()/*^g. 

Due  inni,  l'uno  Soli  (2),  il  più  lungo  dei  quattro  libri,  l'altro 
Limae,  formano  il  libro  III,  e  il  poeta  conserva  nel  titolo  ai  due 
corpi  celesti  il  loro  nome,  personificandoli  poi  rispettivamente 
in  Apollo  e  in  Diana. 

Del  sole  avevan  trattato  il  Bonincontri  e  il  Fontano,  pei  quali 
è  l'astro  di  gran  lunga  più  potente  negl'influssi,  e  per  quest'ul- 
timo è  anche  l'Apollo  dei  classici,  figlio  di  Latona,  uccisore  del 
serpente  Pitone. 

L'esordio  dell'inno  che  esaminiamo  (3)  è  troppo  grandioso  ri- 
spetto al  successivo  svolgimento: 


(1)  Marullo,  Hymni,  II,  8  (in  fine):         Cfr.  Orazio,  Od.,  I,  10,  17  seg.: 

Vestrum  et  aurata  revocare  virga  Tu  pias  laetis  animas  reponis 

Sedìbus  funetas  animas  sepultis.  Sedibus,  virgaqtie  levem  colierces 


Vestrum  et  invisi  spaciis  iniquis  Aurea  turbam 

Beddere  averni. 

Anche  il  Fontano,  alla   cui   personificazione  di  Mercurio,  pianeta,  s'ispira  il 
Nostro,  accenna  a  questo  compito  del  dio:  Urania,  I,  169: 

aut  torpentis  ad  bestia  Lethes 

Traduoit  miseros  per  opaca  silentia  manes. 

Cfr.  Vergilio,  Aen.,  IV,  242-244. 

(2)  Anche  lo  Scaligero  osservò  qui  turbato  l'ordine  naturale  della  tradi- 
zione medievale  (Oj9.  cit.,  VI,  4)  :  «  ...imperite  Solemsub  Mercurio  collocavit  ». 

(3)  Non  potei  confrontare  (per  la  difficoltà  di  avere  il  KQrjtiKÒv  SfjatQov 
del  Sathas)  il  coro  àeWErophiìus,  di  Giorgio  Chortakis,  per  riconoscere  le 
relazioni  col  nostro  inno,  notate  dal  Sathas  {Bocuments  inédits,  ecc.,  VII, 
pref.,  pp.  i-ii)  :  «  Dans  1'*  Erophile  »  de  Georges  Chortakis  le  choeur  s'adresse 
«  au  Soleil  en  termes  presque  identiques  à  ceux  dont  Marullos  se  sert  dans 
€  son  hymne  au  Soleil  ».  Può  darsi,  inoltre,  che  il  Marullo  si  rivolga  in  que- 
st'inno al  Sole-Mithra,  come  vuole  il  Sathas,  ma  accenni  chiaro  al  culto  per- 
siano'della  decadenza  dell'impero,  non  vediamo.  Intorno  a  Mithra  vedi  Preller, 
Op.  cit.  (frane,  p.  493),  ma  specialmente  F.  Cumo.vt,  Teoctes  et  monuments 
figurés,  citato. 


MICHELE   MARULLO  343 

Quis  novus  lue  aniinìs  furor  incidit?  unde  repente 
Mens  fremit?  horrentique  sonant  praecordia  motu? 
Quis  tantus  quatit  ossa  tremor?  (1)  procul  este,  profani, 
Este...  (2) 

Esordio  questo  rivelatore,  perchè,  presentando  molte  somi- 
glianze col  principio  dell'  inno  Big  tòv  'AnóXlaìva,  di  Calli- 
maco (3),  ci  fa  pensare  che  il  Marnilo  l'abbia  avuto  presente: 

Olov  ó  Tq)  'TióÀÀùìvog  èaslaato  òàcpvivog  Sqtvij^  ; 

Ola  (5'  8À0V  TÒ  f.iéÀad'Qov  ;  éaàg,  énàg,  Satg  àÀtvQÓg,  ecc., 

benché  oltre  a  questo  altri  riscontri  di  tale  evidenza  non  si  pos- 
sano cogliere  tra  i  due  inni. 

Dopo  aver  narrata  la  nascita  del  sole  da  Iperione  (4),  lo  ce- 
lebra re  degli  uomini  e  degli  dèi,  e  di  tutti  padre,  appellativi 
che  qui  assai  più  che  per  le  altre  divinità  tornano  appropriati, 
trattandosi  dell'astro  benefico  che  tutto  feconda  coi  possenti  raggi 
ristoratori,  nessuna  parte  della  natura  trascurando. 

Ecco  Apollo,  circondato  dagli  Anni,  dalle  Ore,  dal  Tempo  per- 
sonificati (5),  mentre  sale  sul  carro  igneo  e  s'incammina  al  viaggio 
quotidiano  attraverso  la  volta  celeste: 

Hunc  dextra  levaque  Anni,  Mensesque,  Diesque 
Circurastant  ;  nutusque  observant  Tempora  heriles. 


(1)  Giov.  Ant.  Taigeto  {Carm.  ili.  poèt.  itah,  cit.)  presenta  spiccate  ana- 
logie con  questo  passo  nel  principio  del  suo  breve  inno  a  Bacco  (cit.),  v.  1: 

Euge,  io,  quonam  rapior?  quo  concitor  cestro? 
Quae  rabies  pectus,  quis  quatit  ossa  furor? 

Ma  ciò  è  appropriato  appunto  come  esordio  d'un  inno  a  Bacco,  non  pel  Sole, 
come  nel  nostro  caso. 

(2)  E  continua  di  questo  passo  di  esagerazione  in  esagerazione,  sì  che  pos- 
siam  dire  con  lo  Scaligero:  «  Solys  hymnus  initio  tumidus  ». 

(3)  Anche  Callimaco  era  già  scoperto  e  ccj|iosciuto  quando  il  MaruUo  scri- 
veva. Vedi  Sabbadini,  Le  scoperte  di  codd.  ìat.  e  gr.  cit.,  p.  47. 

(4)  Cfr.  Ovidio,  Met.,  IV,  192  e  241  :  «  Hyperione  nate  ». 

(5)  Personificazioni  alle   quali  il  poeta  potè  essere  indotto  dalla  lettura 
della  descrizione  ovidiana  della  reggia  del  Sole.  Ov.,  Met.,  Il,  1  seg. 


344  P.    L.    CICEBI 

Ipse  gravis  quatiens  gemmarum  pendere  habenas 
Ingreditur,  superis  curru  spectabilis  aureo, 
Qua  pater  obliquum  medium  via  secta  per  orbem 
Certa  premens  certus  vestigia.  Cedit  eunti 
Continuo  flectitque  loco  turba  obvia  divum; 
Regales  propius  veriti  contingere  gressus. 

Se  si  confronta  ora  il  seguente  passo  dell'  inno  omerico  I, 
Elg  TOP  'AjcóÀÀùùva  A^ihov,  v.  2  seg.: 

hv  TE  d-Eol  xarà  óiòfia  Aiòg  TQO/néovaiv  ióvta 
xal  ^à  t'  àvataaovaiv  Ì7iiaxeóòv  èQOfArévoio 
Tidvzeg  à(f    kÒQàoav,  8t€  (paiòtfia  TÓ§a  TLzacvei^ 

vien  fatto  di  pensare  che  l'idea  degli  dèi  riverenti  al  passaggio 
di  Apollo  sia  attinta  da  questi  versi  (1). 

Veramente  mirabile,  benché  non  originale,  è  la  descrizione 
del  ritorno  della  primavera,  nel  qual  passo  il  poeta  infonde  nuova 
vita  e  freschezza  alla  sua  fonte,  Lucrezio  (2): 

Cum  primum  tepidi  sub  tempora  verna  favoni 
Aura  suum  terris  genitalem  exsuscitat  auctum  ; 
Adventuque  dei  gemmantia  prata  colorat. 
At  pecudum  genus  omne  viget,  genus  omne  virorum, 


(1)  Tranne  questo,  nessun  altro  indizio  palese  di  derivazione  si  scorge, 
essendo  l'inno  omerico  citato,  come  anche  il  seguente  (Eig  'AnóÀÀcova  IIv- 
d'iov),  di  carattere  narrativo  (intorno  alle  vicende  del  dio,  alla  nascita,  alle 
sue  imprese). 

(2)  Cfr.  Lucrezio,  I,  6  seg.  Altre  reminiscenze  lucreziane  si  scorgono  nel 
seguente  passo  del  medesimo  inno  marulliano: 

Unde  parens  natura  et  amica  daedala  lite 
Semina  de  pulchro  revocato  imitamine  caelo 
Tot  facies  volucrum  varias,  tot  saecla  ferartim 
Concipiunt,  tot  viarmoreo  monstra  htimida  ponto. 

Si  notano  anche  reminiscenze  d'imitazione  da  Stazio.  Cfr.  Tebatde,  I,  157, 
coi  due  versi  marulliani:  «  Et  cum  mane  novo  terras  sol  exit  Eoo  »;  e  così 
pure:  «  Aureus,  et  primo  nascentem  afflavit  Eoo  »;  si  tratta  solo  d'imita- 
zione di  finale  d'esametro. 


MICHELE    MAEULLO  345 

Perculsi  teneras  anni  dulcedine  mentes. 
Concurruntque  obnixi  inter  se  frontibus  hedi 
Et  nova  lascivo  persultant  pabula  motu, 
Nec  liquidum  tremulis  concentibus  aera  cessant 
Mukere  et  laetum  volucres  peana  sonare, 
Contectae  nemorum  viridantibus  undique  ramis. 

La  differenza  consiste  in  ciò,  che  nel  sommo  poeta  latino  si 
deve  a  Venere  il  rinnovamento  eterno  del  bello  nella  natura, 
nel  Marnilo  al  Sole,  là  il  concetto  è  più  poetico  e  attraente,  qui 
più  conforme  a  natura  e  più  scientifico  (1). 

La  seconda  parte  dell'inno,  eccessivamente  prolissa  e  noiosa, 
è  astrologica,  e  non  mette  conto  di  studiarne  particolareggia- 
tamente il  contenuto  (2). 

L'altro  inno  del  III  libro  è  dedicato  alla  Luna,  Delia,  signora 
delle  selve  (3)  e  del  triplice  mondo,  «  diva  triformis  »,  la  dea 
della  placida  luce  notturna  (4);  finché  essa  risplende,  fuggono 
i  malvagi  che  si  apprestano  ad  assalire  l'onesto  viandante,  e  il 
lavoratore  del  campo  può  terminare  il  lavoro  non  compiuto  du- 
rante il  giorno  ;  essa  —  aggiunge  con  sentimentale  allusione  — 
favorisce  i  furtivi  e  taciti  convegni  degli  amanti: 


(1)  Tal  concetto   gli   fu    suggerito    dal   maestro  suo,  il  Fontano,  il  quale 
appunto  néìì'' Urania,  I,  v.  250-251,  cosi  cantava  del  Sole: 

Hino  ver  purpnrenm  vestit  florentia  prata, 
Spiceaque  hino  campis  flavescit  messis. 

(2)  Il  tratto  finale  è  personale  e  triste 

Ipsi  quos  patriae  excidio  sors  ultima  rerum 
Subduxit,  tumulis  proavorum  aveUimur,  heheu, 
Fortuna  graviore.  Et  toto  spargimur  orbe, 
Humanae  exemplum  vitae  sortisque  futuri. 

(3)  Anche  in  Vergilio,  Aen.,  IX,  405  :  «  Astrorum  decus,  et  nemorum  La- 
«  tonia  custos  ».  • 

(4)  Anche   nel   Fontano  è  la  guida  del  viandante  nella  notte.  Urania,  I, 
v.  34  seg.: 

Dux  Clara  in  tenebrie  alienae  obnoxia  flammae 
Aemula  fraternis  radiis 


346  P.    L.    CICERI 

Dum  noctis  atrum  Delia  horrorem  excutit 
Et  piena  replet  omnia, 
Carpite  cupita  gaudia  et  fruetus  breves 
Lacrymarum  amantes,  carpite. 

Fonti  classiche  si  possono  facilmente  additare,  specialmente 
Catullo  e  Orazio  (1),  ma  non  si  attiene  ad  esse  pedissequa- 
mente il  poeta,  bensì  ne  fa  un  libero  uso. 

Il  quarto  libro  comprende  le  allegorie  del  cielo,  del  fuoco, 
dell'aria,  dell'acqua  e  della  terra,  rispettivamente  personificati 
sotto  i  nomi  di  Aether,  Juppiter  Fulguratoì\  Juno^  Oceanus, 
Ter  7^  a. 

La  musa  del  nostro  poeta,  il  quale  a  dir  vero  non  è  troppo 
ricco  di  risorse,  è  stanca  dopo  il  canto  laborioso  degli  altri  dèi; 
di  ciò  egli  stesso  crede  prudente  a^^^ertirci;  però  non  si  sgo- 
menta : 

nunc  rerum  benignnm 

Aethera  concinimus  parentem, 

Magnum  nec  uUi  auditum  opus  antehac, 

e  continua  con  la  solita  gonfiezza  per  metà  quasi  dell'inno,  chie- 
dendosi che  cosa  sia  a  lui  più  decoroso  di  cantare.  Il  lettore, 
cosi,  s'aspetta  molto  ;  ma  finisce  col  nascere  un  «  ridiculus  mus  », 
giacché  la  personificazione  del  Cielo  (2)  quale  fecondatore  della 


(1)  Catullo,  c.  XXXIV,  vv.  13-14  :  Marullo  : 

Ta  Lucina  dolentibus  Lucina  dieta  matribus; 

lune  dieta  puerperis. 

e  altri  riscontri  qua  e  là.  Cfr.  anche  Orazio,  Od.,  111,22,4:  «  Diva  tri- 
«  formis  »  col  marulliano:  «  Sed  liaec  triformi  sat  deae  ...  ».  Il  verso  1, 
ode  10*,  1.  I,  poi,  è  riprodotto  dal  Marullo  quasi  testualmente,  benché  si  tratti 
di  Mercurio;  Orazio:  «  Mercuri,  facunde  nepos  Atlantis  »;  Marullo:  «  Facunde 
«  magni  Mercuri  Atlantis  nepos  ».  Si  confronti  anche  per  l'appellativo  di 
potens  che  si  trova  nel  Marullo  («  Nemorum  potentem  Deliam  »)  Orazio, 
Carni,  saec,  1:  «...  silvarumque  potens  Diana  ».  Nessun  riscontro  con  l'inno 
omerico  XXXII,  Elg  ^i^Àr/vr^v,  di  carattere  affatto  diverso. 

(2)  A  differenza  dell'altro  inno   al   Cielo,  che  abbiamo   visto   celebrare  il 


MICHELE   MARULLO  347 

terra,  con  evidente  allusione  al  Giove  pluvio  dei  classici,  quel 
mito  cosi  poetico,  avrebbe  potuto  ispirare  elevatezza  di  pensiero 
ed  esser  rivestito  di  belle  immagini,  anche  attinte  dagli  antichi, 
purché  sapientemente  usufruite  e  disposte;  mentre  nulla  si  ha 
di  tutto  ciò. 

Nella  chiusa  poi  annunzia  la  materia  dell'  inno  seguente, 
dicendo  ancora  ampollosamente  che  Giove  balenante  chiama 
già  il  vate  nei  suoi  antri  e  perciò  egli  deve  porre  fine  al  suo 
canto. 

Giove  Folgoratore  simboleggia  il  fuoco,  rappresentato  dal  ful- 
mine di  Giove.  L'inno  è  tutta  una  narrazione  mitologica  della 
nascita  di  Giove  e  dell'origine  del  suo  potere  sul  fulmine:  «  Trai 
«  dalla  lira  eloquente  o  vate  —  dice  a  se  stesso  —  un  suono  degno 
«  di  Giove,  se  miri  a  spezzare  la  veloce  fuga  degli  anni  e  lo  stre- 
«  pito  dell'atro  fiume,  e  ad  esser  chiamato,  pei  meriti,  tra  i  cori 
«  delle  Pieridi  »  ;  di  meritare  l'immortalità  —  come  vedemmo  in 
altri  punti  e  nella  fine  stessa  dell'inno  precedente  dove  si  chiama 
«  Aonidum  sacerdos  »  —  egli  è  sicurissimo,  ma  tal  fiducia,  dis- 
graziatamente, non  si  può  dir  del  tutto  giustificata.  Per  quanto 
riguarda  quest'inno  però,  non  bisogna  disconoscere  che  è  dei 
migliori,  per  pregi  svariati,  non  ultimo  l'armonico  svolgimento 
che  nelle  sue  parti  si  nota. 

Mentre  non  esiste  relazione  alcuna  tra  questo  e  l'inno  ome- 
rico XXIII,  Elg  Ala,  un  riscontro  perspicuo  si  scorge  con  l'inno 
cjallimacheo  Elg  tòv  Ala,  al  v.  32  seg.  (1)  ;  il  racconto  del  tra- 
fugamento di  Giove  neonato,  da  Saturno,  fino  a  quando  il  padre 
ode  il  vagito,  essendosi  addormentati  i  Cureti,  e  scopre  la  frode, 
pare  abbia  preso  le  mosse  dal  passo  di  Callimaco,  nulla  man- 


cielo  più  alto,  qui  è  cantato  quello  che  versa  le  piogge  benefiche  nel  seno 
della  terra  e  ne  rigenera  e  sviluppa  gì'  inaiti  semi,  e  «  in  fluvios  latices 
«  perennat  »  [col  consueto  sapore  lucreziano]  ;  insomma,  il  grado  più  alto 
nella  serie  delle  sfere  degli  elementi,  sempre  secondo  la  scienza  medievale. 

(1)  Si  confrontino  i  versi  di  Callimaco  (inno  cit.)  32-55,  con  Mar.  v.  13-18, 
e  v.  31-48  dell'inno  che  esaminiamo. 


348  P.    L.    CICERI 

cando  dell'una  narrazione  nell'altra,  eccettuata  solo  la  scoperta 
dell'inganno,  che  manca  nel  poeta  greco. 

Ma  la  derivazione  certa  della  maggior  parte  del  racconto  ma- 
rulliano,  è  dai  versi  199-214  del  1.  IV  dei  Fasti  di  Ovidio;  e  lo 
dimostri  il  solo  riscontro  seguente,  chiarissimo: 

Cymbala  prò  galeis,  prò  scutis  tympana  pulsant; 

cfr.  Marullo: 

ter  cava  cymbala 

Pulsant  innumerum,  tentaque  tympana, 

tralasciando  per  brevità  gli  altri,  ai  quali  rimandiamo  il  lettore. 
Iperione,  contrariamente  all'uso  suo  crudele  (1),  non  divorò  il 
figlio,  anzi  gli  donò  vasto  potere  tra  gli  dèi,  e  consegnandogli 
il  terribile  fulmine,  lo  ammoni  dell'uso  che  avrebbe  dovuto  farne, 
con  un  lungo  discorso  che  richiama  alla  mente  (solo  per  l'idea 
dell'ammonimento  e  per  la  forma  retorica)  l'orazione  che  Ovidio 
pone  in  bocca  ad  Apollo  nell'  atto  di  affidare  a  Fetonte  il  suo 
carro  (2).  A  Giove  il  padre  consiglia  d'essere  implacabile  nello 
scagliare  il  fulmine  contro  i  Titani,  e  contro  i  malvagi  e  i  su- 
perbi, ma  di  non  abusarne  contro  i  deboli,  o  per  piccola  colpa 
immeritevoli  dell'eccessiva  crudeltà  divina:  grandissima  è  la  po- 
tenza del  fulmine,  •e  gì'  improbi  impareranno  a  temerla  e  ad 
evitarla. 

Quest'ultima  parte  dell'inno  ho  riassunta,  per  far  notare  che 
la  personificazione  del  fuoco  muta  qui  il  suo  significato  da  na- 
turale in  morale,  e  l'elemento  distruggitore  diviene  la  vendetta 
divina,  a  cui  nulla  può  sfuggire. 

In  modo  simile  al  precedente  è  condotto  l'inno  a  Giunone,  pur 
senz'essere  altrettanto  organico  e  coerente. 


(1)  «  Clam   consorte  tori  pater  |  Vesci   pignoribus  creditus  est  suis  ».  Cfr. 
Ovidio,  Fanti,  IV,  199  seg. 

(2)  Cfr.  Metam.,  II,  126  e  seg. 


MICHELE   MARULLO  349 

Anche  qui  il  padre  rivolge  a  Giunone  il  discorso,  per  due  volte, 
nella  prima  incitandola  a  lasciare  i  giuochi  infantili  e  pensare 
al  compito  suo,  la  generazione  degli  dèi,  nella  seconda  confor- 
tandola quando  Giove  ha  già  compiuto  quello  che  l'ingenua  crede 
un  atroce  delitto. 

Nell'unione  di  Giove  con  la  sorella  Giunone,  sono  poeticamente 
adombrate  le  nozze  del  cielo  con  l'aria  (1),  e  questa  volta  l'ar- 
gomento ha  saputo  suggerire  al  poeta  immagini  degne  di  am- 
mirazione. Pieno  di  fascino,  ad  esempio,  il  quadretto  della  se- 
duzione per  opera  di  Giove,  appiattato  in  un  cespuglio,  mirando 
la  sorella,  la  quale 

nuda  Erasiniis 

Pellucebat  aquis;  quale  ebur  indicum 
Inclusum  tenui  vitro. 

E  più  avanti,  quando  il  padre  consola  Giunone  lacrimosa,  vi- 
vacissima è  la  descrizione  del  lento,  quasi  inconscio  sorgere 
dell'amore  nel  petto  della  dea,  mentre  ancor  non  cessa  dal  pianto; 
anche  il  fratello  le  si  a^^^dcina. 

Torve  quem  licet  intuens, 

Sensit  nescio  quid  plus  solito  tepens 

Irais  pectoribus  dea. 

Non  troviamo  pari  altezza  poetica  nella  personificazione  del- 
l'acqua. Oceano,  cantato  nel  penultimo  inno.  Sono  però  appro- 
priati gli  epiteti  e  le  qualità  che  si  attribuiscono  al  dio,  quan- 
tunque non  bene  sia  detto 

0  quadriformis  machinae  altor  unice  (2), 


(1)  Lo  Scaligero  era  d'accordo  in  ciò  (ITE,  e.  115):  «  Coniugium  Jovis  et 
Junonis;  id  est  aetheris  et  aeris.  Discordi^  inter  eos,  ob  alterius  humidi- 
tatem,  alterius  siccitatem  »,  ecc. 

(2)  Potè  suggerirglielo  Lucano,  tal  concetto.  Phars.,  IV,  110  seg.: 

Sic,  o  summe  pater  mundi,  sic  sorte  secunda 
Aequorei  rector  facias,  Neptune,  tridentis. 


350  P.    L.    CICERI 

poiché  non  si  poteva  porre  l'acqua  come  unica,  bensì  come  una 
delle  materie  alimentatrici  del  mondo;  in  contraddizione  del  resto 
con  quanto  dice  sulla  fine,  dove  Oceano  è  chiamato  «  parte  ot- 
tima delle  cose  e  alimentatore  di  tutto  »,  come  soltanto  era  op- 
portuno dire. 

La  maggior  parte  dello  svolgimento  è  mitologica,  e  vi  si  narra 
una  favola  relativa  a  Nettuno  (1). 

Nessuna  relazione  tra  il  nostro  inno  e  1'  omerico  XXII,  Big 
IIoGEiòcbva,  che  è  il  dio  agitatore  delle  terre  CEvvoalyaiog), 
mentre  qualche  riscontro  si  nota  tra  l'ultimo  inno  marulliano, 
Terrae,  e  l'inno  XXX,  Eig  rijv  fieiÉQa  ndvxoìv,  benché  Omero 
canti  la  vetustissima  Gea,  moglie  di  Urano,  madre  degli  dèi  e 
dell'universo  (2),  e  il  Marnilo  la  terra,  ultima  nella  scala  degli 
elementi,  ma  in  sommo  grado  veneranda,  perchè  generatrice  e 
altrice  (3)  del  genere  multiforme  degli  animali  e  delle  piante, 
la  quale  a  tutte  le  cose  concede  riposo  al  termine  del  breve 
ciclo  vitale  di  ciascuna,  tutte  accogliendo  nel  suo  seno.  È  la 
«  magna  parens  »  (4)  degli  antichi,  che  nella  sua  sconfinata  bontà 


(1)  È  la  favola  di  Eeto,  il  gigantesco  mostro  che  mise  in  serio  pericolo  il 
mare  avendo  preso,  un  giorno,  a  berlo  ;  e  sarebbe  riuscito  a  farlo  sparire  nel- 
l'immensa gola,  se  Nereo,  impegnando  aspra  lotta  con  la  belva,  non  le  avesse 
confitto  nelle  fauci  il  tridente;  Tetide  spaventata  era  fuggita  nelle  più  lon- 
tane terre,  lasciando  scoperti  i  lidi,  e  tali  sarebbero  rimasti,  se  Febe  provvi- 
denzialmente non  fosse  intervenuta  a  ricondurre  negli  antichi  confini  il  mare, 
con  allusione  forse  all'azione  della  luna  sul  flusso  e  riflusso. 

(2)  Verso  17:  «  X.alQe,  d'sòiv  firitriQ,  oi^o%  OÒQavov  àQzegóevTog  »,  ecc. 

(3)  Marullo,  Hymni,  IV,  «  Terrae  »,  v.  1  seg.: 

Extrema  est  dea  Terra,  nubi  quoque  iure  oanenda 
Ultima;  sed  meritis  quae  primos  aequet  honores, 
Turriferens,  fecunda,  potens:  quam  nomine  magnae 
Sacrarum  veteres  adyto  monstrante  pareutis. 
Sive  quod  inde  hominum  gnavum  genus,  inde  ferarum; 
Quaeque  virent  campis  herbae;  quaeque  ardua  silvae 
Taygeta,  horrentisque  tenent  pineta  Lycei. 
linde  animale  genus  generatim  vivit  adauctum; 

verso,  quest'ultimo,  lucreziano. 

(4)  Vedi  i  versi  che  a  ciò  si  riferiscono,  nel  passo  della  nota  preced. 


MICHELE   M ARULLO  351 

(li  madre  a  tutti  si  mostra  pia,  buoni  e  malvagi;  poetica  alle- 
goria, tratta  dall'affetto  che  la  madre  mai  non  toglie  ai  suoi  figli, 
anche  se  immeritevoli. 

La  Terra  paziente  si  lascia  tormentare  ogni  anno  senza  il 
minimo  lamento,  si  lascia  scrutare  nelle  sue  viscere  e  permette 
che  le  avide  mani  dell'uomo  le  sottraggano  i  tesori  che,  per  im- 
pedire le  cieche  cupidigie  e  i  delitti  cui  danno  origine,  essa 
aveva  cercato  di  nascondere.  È  derivazione,  questa,  ovidiana  (1), 
come  lucreziana  (2)  è  quella  del  passo  in  cui  il  Marnilo  descrive 
le  condizioni  miserevoli  del  bambino  appena  nato,  che,  bisognoso 
di  tutto  lugubremente  vagisce,  e  dalle  cure  amorose  della  madre 
è  assistito  e  reso  atto  alla  vita. 

Il  canto  assume  un  carattere  d'intimità  affettuosa,  e  tocca  sulla 
fine  un  lato  morale  pessimistico  :  che  giova  celebrare  la  Terra, 
se  noi  contaminiamo  il  santo  nome  con  turpi  azioni,  al  punto 
da  dividerci  la  comune  madre  con  rapine  e  stragi?  Assetati  di 
dominio,  ci  dilaceriamo  l'un  l'altro  in  tante  guerre  e  dimenti- 
chiamo che  dopo  breve  tempo  dovremo  riposare  tutti  in  quella 
medesima  terra  che  fu  fonte  di  separazione  e  di  odio.  Il  poeta 
termina  sfiduciato,  invocando  che  la  comune  madre  lo  accolga 
nel  suo  seno  a  ricevere  il  meritato  riposo: 


(1)  Qui  è  manifesta  la  derivazione  da  Ovidio,  quando  questi,  parlando  del 
succedersi  delle  età,  descrive  appunto  i  tristi  effetti  della  scoperta  dei  tesori 
della  terra,  fino  allora  inesplorati,  nell'età  del  bronzo. 

(2)  Lucrezio,  V,  222  seg.: 

Tum  porro  puer,  ut  saevis  proiectiis  ab  undis 
Navita,  nudiis  Mimi  iacet,  infans,  indigna  omni 
Vitali  auxilio,  cum  primum  in  luminis  oras 
Nixibus  ex  alvo  matris  natura  profudit 
Vagituque  locum  lugubri  complet,  ut  aequumst 
Cui  tantum  in  vita  restet  transire  malorum. 

Marullo,  IV,  «  Terrae  »: 

Ante  repentino  caeli  quam  territus  haustu 
Vagiat  aetheriam  in  lucem  novus  editus  infans 
Cum  proiectus  humi  nudus  iacet,  indigus,  exsora 
Auxilii,  infirmusque  pedum,  infirmusque  palati. 
Atque  uno  non  tantum  infelix,  quam  sua  damna 
Non  capit  et  quantum  superat  perferre  laborum. 


352  P.    L.    CICERI 

At  tu,  magna  parens,  quando  omnis  adempia  quietis 
Spes  aliter,  iam  tandem  adsis,  et  nos  quoque  humatis 
Adiice,  tot  duros  genitrix  miserata  labores; 

pessimismo  paganeggiante  clie  —  «  si  parva  licei  componere 
magnis  »  —  fa  riscontro  col  pessimismo  cristiano  di  Dante,  quando 
dall'alto  dell'ottavo  cielo  guardava,  triste,  la  terra  causa  di  odio 
reciproco  ai  mortali  (1). 


IV. 


Tutto  ciò  che  abbiamo  avuto  occasione  di  notare  in  questo 
rapido  esame  degVHyìnni  naturales  intorno  a  ciascuno  in  par- 
ticolare, ci  induce  a  trarre  alcune  conclusioni,  che  spontanea- 
mente scaturiranno  dalla  riunione  degli  sparsi  elementi. 

Il  Marnilo  trattò  un  genere  di  poesia  che  nel  Rinascimento 
non  ha  veri  precedenti,  giacché  da  una  parte  gli  scarsi  inni  dei 
tre  maggiori  umanisti  escono  dal  nostro  campo,  essendo  d'argo- 
mento cristiano,  dall'altra  i  pochissimi  esempi  d'inni  a  qualche 
divinità  pagana,  sia  appunto  per  l'esiguo  numero,  presso  poeti 
di  secondaria  importanza,  sia  per  la  brevità  e  povertà  loro,  non 
possono  paragonarsi  ai  nostri  ;  e  per  questo  fatto  principalmente 
era  opportuno  richiamare  l'attenzione  sul  Marnilo,  perchè  è  il  solo 
che  nell'Umanesimo  tratti  l'inno  pagano  con  una  certa  larghezza. 

Chi  legga  i  seguenti  versi  del  De  pìHncipum  instUutione 
(w.  15  seg.): 

Primus  inexpertum  mundi  per  inane  vagatus, 
Perpetuam  seriem  tractus  telluris  ad  ipsos 
Ab  love  deduxi,  servatoque  ordine  rerum 
Suspendi  solidam  naturae  ex  a6re  catenam, 


(1)  Paradiso,  C.  XXH,  v.  151-153: 


L'aiuola  ohe  oi  fa  tanto  feroci, 
volgendola' io  con  gli  eterni  Gemelli, 
tutta  m'apparve  dai  colli  alle  foci. 


MICHELE    MASULLO  353 

die  chiaramente  alludono  al  contenuto  degl'Inni,  in  pochi  tratti 
riassumendolo,  manifesta  vede  la  sicurezza  che  l'autore  ha  nel 
dichiarare  che  non  ebbe  precedenti:  ora,  se  ciò  fosse  falso,  se 
il  Marnilo  realmente  avesse  usurpato  questa  sua  vantata  prio- 
rità, non  lo  avrebbero  i  contemporanei  rimproverato  e  richia- 
mato al  vero,  non  avrebbe  da  ciò  l'avversario  suo,  del  quale  già 
conosciamo  tutta  l'acredine  e  la  violenza  contro  di  lui,  il  Poli- 
ziano, tratto  argomento  a  nuove  accuse  e  invettive,  e  sarebbe 
inoltre  il  fatto  sfuggito  all'acuto,  minuzioso  Scaligero  ?  E  taccio 
degli  scrittori  al  Nostro  favorevoli,  tra  i  quali,  per  non  citare 
altri,  il  Graddi  dichiara  di  non  conoscere  precedenti  degni  di  reg- 
gere al  confronto  del  poeta  di  cui  tesse  l'elogio,  il  Marnilo  (1). 
Riconosciuto  il  Marnilo  poeta  unico  dell'  inno  pagano  nel 
Quattrocento,  aggiungiamo  altre  prove  a  quelle  via  via  accen- 
nate durante  il  nostro  esame,  affine  di  concludere  con  certezza 
intorno  a  questa  paganità.  In  qual  senso  debbano  intendersi  le 
divinità  che  canta,  il  Marnilo  indica  nei  versi  or  ora  riportati, 
ai  quali  dà  conferma  quest'altro  verso,  che  è  pel  nostro  assunto 
di  non  minore  importanza  {De  pinne,  instit.,  v.  26)  : 

Post  superos  ipsumque  loveiu,  post  semina  prima (2). 

Da  queste  esplicite  dichiarazioni  del  poeta  si  può  dedurre  che 
egli  intese  a  cantare  le  divinità  pagane  non  come  simboli  di  cre- 
denze cristiane,  e  neppure  sempre  per  sé  stesse,  bensi  come  per- 
sonificazioni di  forze  della  natura,  o  di  astri,  o  di  elementi  (3). 


(1)  Gaddi,  Op.  cit.:  «  ...  chi  troveremo  noi  che  lo  superi  o  pareggi  nel  nu- 
«  mero  insieme  e  qualità  d'inni  latini?  » 

(2)  De  principum  institut.,  v.  26.  È  il  punto  nel  quale  annunzia  la  ma- 
teria del  nuovo  canto  (il  De  principum  instittit.)  rammentando  appunto  al 
lettore  i  passati  carmi  (così  il  De  principum  institutione  fu  composto  dopo 
gVHymni  naturales). 

(8)  I  versi  citati  «  ...  servatoque  ordine  rerum  |  Suspendi  solidam  naturae 
«  ex  aere  catenam  »,  sembrano  proprio  alludere  al  lY  libro  degli  Inni,  nel 
quale,  come  abbiamo  visto,  son  cantati  gli  elementi  secondo  la  concezione  e 
l'ordine  della  scienza  medievale. 

Giornale  storico,  LXIV,  fase.  192.  28 


354  P.    L.    CICERI 

Non  poteva  l'innamorato  di  Lucrezio  rivolgere  il  suo  canto  alla 
lode  degli  dèi  in  sé  stessi,  lode  dalla  quale  lo  distoglieva  il  sommo 
poeta  con  gl'insegnamenti  suoi  (1);  dall'altra  parte  poi  un  cri- 
stiano si  sarebbe  ben  guardato  dall' usare  gli  dèi  pagani  per 
celarvi  allegoricamente  Dio,  la  Trinità,  gli  attributi  divini,  per 
gli  stridenti  contrasti  cui  si  sarebbe  dato  luogo,  e  che  accen- 
nammo: se  davvero  cosi  fosse,  l'avrebbe  lasciato  intendere  il 
poeta  per  evitare  ogni  malinteso  nel  lettore. 

Si  narra  che  a  chi  lo  sconsigliava  dall'attraversare  il  Cecina, 
mostrandogli  il  pericolo,  egli  incurante  rispondesse  doversi  guar- 
dare da  Marte  non  da  Nettuno  :  se  non  si  voglia  negare  qualche 
forza  dimostrativa  a  tale  aneddoto,  esso  pare  provare,  sia  pure 
indirettamente,  che  a  personificazioni  intese  il  poeta  quando 
scrisse  gVHyrnni  naturales^  dal  momento  che  quasi  per  un'abi- 
tudine, in  quell'occasione  si  valse  di  due  dèi  pagani  per  signi- 
ficare rispettivamente  la  guerra  e  l'elemento  acqueo. 

Già  ho  riferito  in  quale  categoria  ponga  gVRynini  natu- 
rales  lo  Scaligero;  si  veda  ora  quel  che  l'erudito  ne  pensava 
riguardo  alla  paganità.  Nel  capitolo  CXII  del  libro  III,  parlando 
dell'inno  in  genere,  scrive  quanto  riporto,  perchè  necessario 
alla  mia  dimostrazione:  «Dicitur  autem  Dei  laudatio  a  Graecis 
«  ijfivog,  a  Latinis  celebratio.  Unus  igitur  Ille  cum  sit  idemque 
«  trinus,  vel  ut  solum  canere,  vel  personas  seorsum  celebrare 
«  ius  est  homini  Christiane  ;  additis  verecunde  proprietatibus.  Non 
«  ut  disputatores  morosi  :  sed  ut  pii  poetae  facere  consuevere  »  ; 
poco  più  avanti,  nel  cap.  CXV  dello  stesso  libro,  parlando  delle 
varie  categorie  d'inni,  cosi  si  esprime  :  «  Haec  itaque  omnia  na- 
turalia  sunt.  Sic  et  Marullus  Cselum  Elementaque  hymnis  canit  »  ; 
i  quali  due  passi,  riavvicinati,  chiaramente  dicono  che  se  cri- 
stiane personificazioni  si  fosse  proposto  il  Marnilo,  l'avrebbe 
notato  il  dottissimo  Scaligero,  e  avrebbe  citato  il  Nostro  come 


(1)  Vedi  Carlo  Pascal,  Studi  critici  sul  poema  di  Ij'^r^^^^'r   T^nma-Mi- 
lano,  Albrighi  e  Segati,  1903,  passim. 


MICHELE    MASULLO  355 

un  esempio  nel  primo  passo,  senza  collocarlo,  invece,  tra  gli 
scrittori  di  q)voixoì  i)fivol,  come  fa  nel  secondo.  Inoltre  nel 
libro  VI,  nel  lungo  capitolo  4^  tutto  dedicato  al  Marullo,  ne  la- 
menta la  paganità:  « quin  etiam,  quod  minus  tolerabile  fuit, 

graecanicis  fabellarum  mendaciis  conspurcavit  [liymnos]  ». 

Cosi  lo  Scaligero,  la  cui  diligenza,  anche  eccessiva  talvolta 
nello  studio  del  nostro  poeta,  ben  conosciamo;  e  io  con  lui  mi 
schiero,  senza  addentrarmi  nella  questione  se  quello  del  Ma- 
rullo  sia  paganesimo  puramente  letterario,  o  anche  filosofico 
e  religioso,  limitandomi  a  dire  che  a  quanto  sembra  risultare 
dai  carmi  marulliani  tutti,  io  inclino  a  credere  che  la  paga- 
nità sua  sia  stata  non  solo  letteraria  —  il  che  ho  cercato  di- 
mostrare nella  mia  trattazione  —  ma  anche  religiosa  e  filo- 
sofica (i). 

Come  Pletone,  egli  ricondusse  gli  dèi  dell'antichità,  ma,  pre- 
scindendo dal  modo  e  dai  fini  diversissimi  dell'uno  e  dell'altro 
—  giacché  Gemisto  mira  ad  una  riforma  religiosa,  e  delinea  la 
figura  classica  del  dio  a  scopo  didattico  (2),  il  Marullo  canta  una 


(1)  Anche  in  tutta  la  letteratura  stradiotica,  alla  quale  il  Marullo  appar- 
tiene, non  esiste  accenno  alcuno  cristiano.  Ecco  ciò  che  in  proposito  scrive 
il  Sathas  (Op.  cit.,  VII,  pref.,  p.  ii  seg.):  «  [L'impero  d'Oriente  non  era  un 
«  nido  di  monaci,  poiché]  dans  ce  cas  Pléthon  et  Marullos  sont  deux  fous 
«  isolés.  Mais  comment  alors  expliquer  le  paganisme  qui  prédomine  dans  nos 
«  chansons  populaires?  Marullos,  ce  fou  iStrathiote,  combattant  en  Calabre 
«  sous  les  bannières  du  roi  de  France  Charles  \TII,  invoque  ses  dieux  hel- 
«  lènes.  Dans  la  chanson  d'Armuris  le  guerrier  grec  combat  les  Sarrasins  en 
«  Cappadoce  au  nom  de  son  dieu  Soleil  [il  Sathas  cita  qui  2  versi  di  Ar- 
«  muris].  Dans  toutes  les  épopées  populaires  qui  nous  sont  parvenues,  on  ne 
«  rencontre  pas  la  moindre  allusion  au  christianisme ...  «  Erotocritos  »,  ce 
«  roman  si  goùté  du  peuple,  ne  citant  pas  un  mot  chrétien,  prelude  par  l'é- 
«  loge  de  la  religion  des  anciens  Athéniens  [si  cita  un  verso  del  romanzo]. 
«  Les  comédies  crétoises  commencent  par  un  prologue  dans  lequel  se  pré- 
«  sentent  les  anciens  dieux,  retournant  dans  leur  patrie  après  un  si  long  exil, 
«  pour  rapporter  aux  hommes  la  joie  et  le  boujieur,  disparus  avec  eux  pen- 
«  dant  tant  de  siècles  ».  Dice  poi  degli  Stradioti:  «  Ils  ont  réussi  à  con- 
«  server  le  flambeau  de  l'hellénisrae  ». 

(2)  Non  si  potrebbero  meglio  riferire  gli  intenti  di  Pletone,  che  con  le  parole 
del  Gaspary,  Storia  della  leti.  ital.  (trad.  Bossi),  voi.  II,  p.  148  :  «  La  reli- 


356  P.    L.    CICERI 

personificazione  solo  per  esercizio  letterario  —  mentre  nel  primo 
la  divinità  pagana  è  quale  fu  tramandata  dall' antichità,  nel  se- 
condo subisce  l'immistione  di  elementi  diversi,  tra  i  quali  non 
escluso  il  cristiano,  per  quella  naturale  evoluzione  cui  Fantica 
mitologia  non  può  sottrarsi  nella  lotta  col  cristianesimo. 

Ed  ora,  alla  novità  del  tentativo  letterario  corrisponde  il  va- 
lore artistico?  Egli  attinse  largamente  ai  classici,  ma  non  fu 
quasi  mai  coerente  nell'uso  delle  sue  fonti,  confondendole  e  con- 
taminandole, spesso  senza  discernimento  alcuno.  Il  suo  Catullo, 
e  più  ancora  il  suo  Lucrezio,  sono  le  fonti  che  di  preferenza 
usufruisce  ;  ma  raramente  sa  adattare  le  belle  favole  che  gli  an- 
tichi avevan  saputo  creare,  piene  di  poesia  e  di  fascino,  a  quella 
parte  della  natura  che  canta,  e  spesso  viene  alla  luce  un  carme 
slegato,  simile  a  mal  connesso  mosaico.  Questo  che  è  uno  dei 
caratteri  dominanti,  cercò  giustificare  e  spiegare  lo  Scaligero, 
ma  si  può  esser  sicuri  che  un  filo  conduttore  il  Marullo  non 
ebbe  mai  nel  valersi  dei  classici. 

Per  quanto  riguarda  la  lingua,  l'uso  grammaticale  non  è  molto 
corretto,  poiché  errori  di  morfologia  e  di  sintassi  qua  e  là  si 
possono  cogliere  ;  il  lessico  è  povero,  aggirandosi  il  poeta  quasi 
sempre  in  quella  limitata  cerchia  di  frasi,  di  similitudini,  di  co- 
strutti, a  cui  fanno  però  eccezione  quei  passi  che  studiammo  o 
che  riportammo. 

Il  metro  nella  sua  varietà  è  buono  e  scelto  spesso  con  discer- 


<  gione  filosofica  che  egli  espose  insieme  con  una  dottrina   politica  e  morale 

<  nel  suo  libro  intitolato  Nófiot,  era  urlo  strano  culto  di  astrazioni  personi- 
«  ficate  alle  quali  apponeva  i  nomi  degli  dèi  classici  e  che  voleva  veder  con- 
«  siderate  come  esseri  reali  e  come  tali  onorate  con  cerimonie  e  con  inni  ». 
Gemisto  Pletone  non  ha  la  minima  allusione  cristiana,  anzi  del  cristianesimo 
è  un  fiero  avversario,  come  già  vedemmo  ;  più  avanti,  ancora  il  Gaspary  : 
«  Polemizzò  direttamente  e  violentemente  contro  il  cristianesimo,  ne  chiamò 
«  i  rappresentanti  sofisti,  difendendo  contro  di  loro  la  sua  dottrina  dell'e- 
«  terna  preesistenza  delle  anime  e  della  loro  peregrinazione  attraverso  molti 
€  corpi  »  (Dottrina  che  abbiamo  visto  riprodotta  in  parte  dal  Marullo).  Vedi 
anche  Della  Torre  e  S<"hultze,  citati. 


MICHELE    MAEULLO 


357 


nimento  e  buon  gusto,  dalla  solennità  dell'esametro  alla  flessi- 
bilità del  distico  elegiaco,  all'agilità  e  grazia  del  safiìco  (1). 

Lo  stile  marulliano.  infine,  si  compiace  troppo  spesso  del- 
l'espressione involuta  e  contorta,  quasi  fugga  ad  arte  la  chiarezza 
e  il  nitore. 

Diceva  lo  Scaligero  :  «  etiam  deformes  buccae  suos  habent  ba- 
siatores»,  alludendo  alle  lodi  dei  contemporanei;  pur  tenendoci 
lontani  da  questi,  che  posero  il  Marnilo  all'altezza  dei  tre  mas- 
simi umanisti,  non  solo,  ma  lo  dissero  anche  paragonabile  ai 
classici  latini,  non  possiamo  neppur  convenire  con  1'  erudito  e 
con  gli  altri  che  eccessivamente  deprimendolo,  ne  fecero  un 
poetucolo  superbo  e  senza  alcun  valore  ;  giacché  bastano  a  rite- 
nerlo degno  di  studio  e  ad  assegnargli  un  posto  non  trascura- 
bile nella  poesia  umanistica  quei  punti,  notati,  nei  quali,  sia  ri- 
plasmando nel  suo  spirito  concetti  e  immagini  tratte  dai  classici, 
sia  creandone  egli  stesso  di  nuovi,  v'infonde  il  soffio  vivificante 
della  sua  individualità  (2). 

Pier  Luigi  Ciceri. 


(1)  Il  Marnilo  cadde  però  nel  brutto  vezzo  metrico,  da  me  già  in  un  caso 
notato,  di  spezzare  una  parola  in  fin  di  verso  per  mantenere  il  numero  delle 
sillabe;  ecco  alcuni  esempi  principali: 

Hìjmni,  n,  «  Veneri  »  :        lam  gregem  passim  varios  boumque  ar- 

-Menta  ; 
1.  IV,  «  lovi  Fulguratori  »  :   Hoste  sed  tamen  impigre  op- 

-  Presso  ; 
1.  IV,  «  lunoni  »  :  Scymnorum  trepidum  siculi  nacta  prae- 

-Datorem. 

(2)  Studio  recente  sul  Marnilo  come  lirico,  è  quello  di  Gino  Bottiglioni, 
La  Urica  latina  di  Firenze  nella  seconda  metà  del  secolo  XV  (vedine  re- 
censione in  questo  Giornale,  64,  188  sgg.).  Il  B.  vi  esamina  anche  Nenia£ 
maruUiane  da  lui  trovate. 


V^RIETA^ 


Per  la  storia  dei  Bestiarii  italiani 


Il  codice  Capponiano  200  della  Biblioteca  Vaticana,  membra- 
naceo, dell'ultima  parte  del  sec.  XIV,  contiene  ai  fF.  233  i;-237r 
un  testo  colla  rubrica  La  pro^neia  d'alcuno  animale.  Quan- 
tunque sia  in  stretta  relazione  con  testi  già  conosciuti,  è  ine- 
dito secondo  la  lezione  di  questo  codice.  Lo  pubblico  come  un 
contributo  allo  studio  dei  bestiarii  italiani,  facendo  seguire  al 
brevissimo  testo  alcuni  commenti  e  note.  Il  codice  è  minuscolo  : 
ha  quasi  il  formato  della  «Collezione  Diamante»  dell'editore 
Barbèra;  la  legatura  è  di  cm.  10  per  7,  la  parte  scritta  della 
pagina  di  cm.  6  per  4  appena.  Sono  270  fogli  numerati;  il  nostro 
testo  è  il  penultimo  fra  i  nove  scritti  separati,  —  leggende, 
opere  morali  [pel  contenuto,  vedi  Salvo-Cozzo,  /  codici  cappo- 
niani  della  Biblioteca  Vaticana^  Roma,  1897,  p.  276].  Mantengo 
fedelmente  la  lezione  del  codice,  correggendo  alcuni  errori  evi- 
denti (colla  lezione  del  codice  in  nota),  sciogliendo  le  poche 
abbreviature,  riordinando  i  nessi,  adoperando  gli  accenti  e  Tin- 
terpunzione  moderni.  Le  parole  stampate  in  neretto  sono  nel 
codice  scritte  in  rosso. 


La  propieta  d'alcuno  animale. 

La  nibbia  la  quale  à  questa  natura  è  tanta  invidiosa  che  s'ella  vede  in- 
grasare  li  suoi  figliuoli  in  del  nidio  si  li  pissica  loro  le  coscie  accio  che  Ila 
charne  infracidi  per  che  dimagrino. 


VARIETÀ  359 

Lo  gaio  à  questa  natura  che  la  sua  alegressa  è  molta  profonda  e  canta 
secondo  il  corso  del  dì  e  della  nocte,  e  Ha  sua  allegressa  è  ssensa  forma  di 
ragione. 

Lo  corbo  à  questa  natura,  vedendo  nascere  chorbi  bianchi  de  l'uova  suoe 
sì  s' atrista  tanto  ch'elli  si  parte  e  lasali  stare,  non  credendo  che  siano  suoi 
[f.  234  r]  figliuoli  per  che  non  sono  neri,  e  la  natura  loro  è  così  prima  esser 
bianchi  ;  e  vivno  di  rugiada  per  in  fine  che  meteno  le  pene  nere  ;  e  ancho  più 
s'atristano  quando  li  sono  tolti  più  che  altro  ^  animale. 

Lo  chastoro  si  è  uno  animale  di  quatro  piedi  et  à  questa  natura  che  sa 
per  natura  quando  li  caciatori  lo  vano  cerchando  lo  cercano  solo  per  pigliare 
li  suoi  chuglioni  e  lo  resto  non  è  da  nulla,  e  lui  sa  per  natura  che  no  vengano 
per  pigliarlo  se  none  per  chuglioni,  et  elli  se  li  piglia  co  bocca  e  strappali  e 
lassali  a  Uoro,  [f.  234  v]  e  li  chacciatori  li  pigliano  e  '1  chastoro  lasano  andare. 

L'orso  à  questa  natura  che  quando  va  ad  uno  bugno  di  mele  per  man- 
giare, le  lape  lo  pungeno  l'orechio  e  lui  lasa  lo  bugno  e  vuoisi  vendicare  della 
lapa  e  vuo'  la  amasare,  e  viene  l'autra  e  pungelo  e  lassa  la  prima  e  core  di- 
rieto  a  la  seconda,  e  tanta  è  la  sua  ira  che  se  mille  lape  lo  pungeseno  di 
tutte  si  vole  vendicare. 

La  lupica  è  uno  ucello,  àe  questa  natura,  quando  li  suoi  figliuoli  odeno 
mormorare  lo  padre  o  la  madre  perdeno  lo  vedere  e  no  posano  volare;  e  '1 
padre  e  la  madre  fano  loro  uno  nidio  e  si  vi  paschano  dentro,  e  poi  cavano 
loro  le  pene  vechie  e  paschonoli  in  fi-  [f.  235  r]  no  a  tanto  che  sono  cre- 
sciuoto  loro  le  penne  e  per  natura  si  rimuoveno  e  torna  ^  loro  il  vedere. 

Lo  badalichio  il  quale  è  uno  serpente  molto  velenoso  che  ucide  altrui 
solo  chol  guardare,  ed  à  questa  natura  che  non  à  in  sé  neuna  misericordia, 
che  sse  egli  non  trova  altro  che  di  potere  avelenare  si  fa  seccare  li  arbori,  e 
per  che  elli  sa  per  certo  che  '1  suo  fiato  è  tanto  tosschoso  che  ucide  altrui, 
e  si  fiata  accio  che  sse  v'è  presso  a  Uui  muora. 

L'aguila  à  questa  natura  eh' è  lo  più  bello  velloce  velloce  ^  che  sia  al 
mondo,  ch'ella  non  à  tanta  fame  che  quando  ella  prende  la  preda  e  mangiane, 
sempre  la  [f.  235  i']  metà  di  quello  ch'eia  prende  lassa  agli  ucelli  che  Ili  sono 
apreso  ;  e  rade  volte  si  vede  volare  che  certi  ucelli  *  che  no  si  possano  pascere 
per  loro  se  no  vano  dirieto  a  lei  per  avere  questa  vivanda  che  li  rimane. 

Lo  lupo  àe  questa  malisia  che  quando  vae  a  cercare  da  pascere  e  rubare, 
che  se  il  suo  ^  piede  inciapasse  si  che  facese  romore,  ed  egli  sei  piglia  co 
denti  e  si  lo  morde  accio  che  si  guardi  un  altra  ^  volta. 

La  serena  si  è  in  forma  di  messo  homo  cioè  dal  meso  in  su,  ed  è  in 
forma  d'una  bella  donzella  [f.  236  r]  e  dal  meso  in  giù  è  come  uno  pecio  con 
due  code  rivolte  in  sue  ;  e  sta  sempre  in  luoghi  periculosi  del  mare  e  ch9anta 
si  dolcemente  che  fae  adormentare  le  persone  che  l'odeno,  e  come  sono  ador- 
mentate  va  e  ssi  l'uccide.  # 


1  ms.  più  chelto.  -  ms.  torta.  '  1.  lo  più  bello  e  velloce  ucello.  *  ms.  uelli, 

con  ce  nel  margine.  s  mg,  n  susuo.  ^  ms.  atfrja. 


360  K.    MCKENZIE 

Lo  bue  salvaticho  che  naturalmente  à  in  odio  cosa  rosa,  si  che  quando 
li  chaciatori  lo  vogliano  pigliare  eglino  si  vesteno  tuto  di  roso  e  vano  "^  cer- 
chandolo  e  incotene  ^  che  '1  bue  li  vede  per  la  grande  passiano  pensa  niente, 
anco  core  adosso  al  caciatore,  e  '1  chaciatore  [f.  236  v]  fugie  e  apiatasi  dopo 
uno  albaro,  e  '1  bue  volendo  dare  al  chaciatore  ferisce  sì  forte  de  le  corna  in 
del  arbaro  che  le  corna  vi  si  fichano  dentro  sì  che  non  se  ne  può  partire,  e 
'1  caciatore  alora  si  l'ucide. 

Le  lape  si  ano  una  lape  più  grossa  che  l'autre  ed  è  re  de  l'autre,  il 
quale  ordina  ed  istabilisce  per  ragione  ciaschuna  cosa;  che  certe  lape  sono 
ordinate  a  ire  per  li  fiori  del  mele  e  certe  fano  li  coniuli  ^  belli  di  dentro 
e  certe  ordinate  a  pungere  e  certe  ^^  a  compagnia  lo  re,  e  certe  anno  a  com- 
batere  con  autre  lape,  che  naturalmente  elleno  ano  molto  gran  guera  insieme 
[f.  237  ?']  per  ciò  che  l'una  vuol  tore  il  mele  a  l'autra;  e  none  uscirebe  mai 
ninna  lapa...^^ 

Come  si  vede,  le  descrizioni  animalesche  non  sono  accompa- 
gnate da  nessuna  moralità;  sono  tolte  però  da  un  libro  mora- 
lissimo,  ben  conosciuto  nel  medioevo,  il  Fiore  di  virtù  ^  nel 
quale  ogni  virtù  e  ogni  vizio  viene  «  appropriato  »  o  «  assomi- 
gliato »  ad  un  animale,  poi  illustrato  da  sentenze  citate  da  vari 
autori,  e  da  un  esempio  o  storiella.  Lo  scrittore  anonimo  del 
nostro  testo  ha  estratto  da  dodici  fra  i  quaranta  capitoli  del 
Fiore  soltanto  la  parte  che  trattava  gli  animali,  terminando 
però  nel  mezzo  del  capitolo  delle  api.  Forse  aveva  un  testo  del 
Flore  notevolmente  diverso  da  quelli  finora  stampati,  e  pare 
che  l'abbia  frainteso  qualche  volta.  Sfortunatamente  non  abbiamo 
ancora  un  testo  sicuro,  né  anche  uno  studio  generale  dei  mano- 
scritti e  delle  edizioni  antiche  del  Fiore^  tanto  importante  per 
la  sua  diffusione  nei  secoli  XIV  e  XV  e  anche  dopo ,  non  che 
per  l'età  della  sua  composizione,  gli  ultimi  anni  del  secolo  XIII 
0  i  primi  del  XIV. 

Una  prova  della  larga  diffusione  del  Fiore  è  anche  il  fatto 
che  l'idea  di  estrarne  le  descrizioni  degli  animali  si  presentò 
non  solamente  allo  scrittore  del  cod.  Capp.,  ma  pure  a  due  altri 
ben  più  importanti,  se  sono  veramente  opera  di  Franco  Sac- 
chetti e  di  Leonardo  da  Vinci  i  bestiarii  che  vanno  sotto  i  loro 


'  ms.  e  vano  e  vano.  »  i,  incontenente.  *  cfr.  Fiore  di  virtù,  cod.  Rice.  1729,  in 
Ulrich,  Saggi  (vedi  più  innanzi),  p.  35:  non  esserebe  tietina  de  le  lape  del  chonulglo, 
te  lo  re  non  usisse  prima.  '^  ms.  cerete.  "  Qui  segue  un  altro  scritto  coUa 

rubrica:  La  qnta  etade  del  mondo.  Nel  Fiore  di  viriti,  ed.  Gelli,  la  descrizione  delle 
api  continua:  e  non  n'uscirebbe  mai  nessuna  ape  dal  buco  anzi  che  il  re;  e  ciascuna 
gli  fa  riverenza.  E  se  lo  re  fosse  si  vecchio  che  l'alie  gli  fussono  cadute,  ecc. 


VARIETÀ  361 

nomi.  Le  edizioni  di  questi  bestiari  lasciano  molto  a  desiderare, 
ma  almeno  ci  permettono  un  raffronto  col  testo  Capponiano. 
Quando  nel  volume  /  sermoni  evangelici ,  le  lettere  ed  altri 
scritti  inediti  o  rari  di  Franco  Sacchetti  (Firenze,  Le  Mounier, 
1857,  pp.  255-61),  Ottavio  Grigli  pubblicò  lo  scritto  Delle  pro- 
prietà degli  animali^  s'era  accorto  che  l'autore  ebbe  fra  mano 
un  manoscritto  del  Fiore  di  virtù^  e  che  «  leggendolo  ne  trasse 
«  col  nome  d'ogni  animale,  le  sue  proprietà  »  ;  anzi,  trasse  anche 
lui  dal  testo  pubblicato  da  A.  Gelli  nel  1856  le  descrizioni  degli 
animali  (pp.  Ixxviii,  cix-cxii). 

Un  secolo  dopo  il  Sacchetti,  Leonardo  da  Vinci  compilava  un 
bestiario  nel  quale  descriveva  brevemente  un  centinaio  fra  ani- 
mali, uccelli,  pesci  e  rettili.  Il  primo  editore  di  questo  trattato, 
J.  P.  Richter,  nel  secondo  volume  degli  Scritti  letterari  dì  Leo- 
nardo da  Vinci  cavati  dagli  autografi  (Londra,  1883),  rico- 
nosce che  il  trattato  è  piuttosto  una  compilazione  che  un'opera 
originale;  ma  né  lui,  ne  lo  Springer  {Der  Physiologus  des 
L.  da  F.,  in  Berichte  der  k.  sàchs.  Gesellschaft  der  Wissen- 
schaften  zu  Leipzig^  1884,  pp.  244-71),  né  il  Reinsch  {Le  Bes- 
tiaire,  Leipzig,  1890,  pp.  '191-211),  aveva  trovato  nel  Fiore  la 
fonte  principale  delle  prime  trentacinque  descrizioni  animalesche 
di  Leonardo.  Come  vedremo,  Leonardo  non  ha  seguito  rigorosa- 
mente né  l'ordine  né  la  lezione  del  Fiore,  del  quale  poteva  con- 
sultare sia  un  manoscritto,  sia  una  delle  numerose  edizioni  che 
si  stamparono  prima  del  1500  (1).  Adoperava  diversi  fonti,  forse 
non  pochi;  per  un  secondo  gruppo  di  animali  seguiva  Cecco 
d'Ascoli.  Anche  M.  Goldstaub  e  R.  Wendriner,  nel  loro  impor- 
tante libro  Fin  Tosco-Venezianischer  Bestiarius  (Halle,  1892, 
pp.  240-54)  non  dichiarano  recisamente  che  Leonardo  conosceva 
il  Fiore  di  virtù;  ma  ora  questa  relazione  può  considerarsi 
come  stabilita  (2).  Naturalmente  il  cod.  Capp.,  con  dodici  ani- 
mali soli  e  con  qualche  lezione  individuale,  non  potè  essere  la 
fonte  né  del  Sacchetti  né  di  Leonardo.  È  evidente  pure  che 
Leon,  non  deriva  dal  Sacch.,  perché  qualche  volta  il  testo  di 


(1)  Cfr.  Zu  den  Ausgaòen  des  «  Fiore  di  i^rtùr>,  in  Philólogisclie  und 
volkskundliche  Arheiten  K.  Vollmoller  dargehoten,  Erlangen,  pp.  1908,  52-60  ; 
e  per  i  codici,  T.  Casini,  in  Rivista  crii,  della  leti,  ital.,  Ili,  p.  154  (1886)* 

(2)  Cfr.  Frati,  Ricerche  sul  «  Fiore  di  virtù  »,  in  StudJ  di  fiMogia  ro- 
manza, VI,  p.  283. 


362  K.    MCKENZIB 

Leon,  è  più  vicino  al  Fiore  che  al  Saccli.  (1),  e  perchè  l'ermel- 
lino del  Fìore^  omesso  dal  Sacch.,  si  ritrova  in  Leonardo.  Resta 
a  determinare  se  Gapp.  può  derivare  dal  Sacchetti.  I  due  scritti, 
tanto  simili  l'uno  a  l'altro,  son  quasi  contemporanei.  In  Sacch. 
le  significazioni  morali  degli  animali  sono  omesse  dal  testo,  ma 
le  virtù  e  i  vizi  sono  aggiunti,  in  latino  ed  in  italiano,  nel  mar- 
gine; mentre  in  Gapp.  non  ne  resta  nessuna  traccia,  o  quasi. 
Il  primo  animale  del  Fioì^e^  il  calandrino,  si  trova  come  na- 
scosto nel  lunghissimo  primo  capitolo,  donde  lo  trassero  il  Sacch. 
e  Leon.;  se  Gapp.  derivasse  dal  Sacch.,  il  copista  avrebbe  tro- 
vato quel  simbolo  dell'amore,  mentre  invece  comincia  col  se- 
condo animale  del  Fiore  ^  il  nibbio,  che  cambia  in  «  nibbia  ». 
Anche  alcune  frasi  di  Gapp.  dimostrano  che  il  testo  non  deriva 
dal  Sacch.  (2),  e  non  sembra  necessario  di  supporre  un  inter- 
mediario fra  il  Fiore  e  Gapponiano.  Abbiamo  dunque  tre  testi  che 
derivano  indipendentemente  e  senza  dubbio  direttamente  dalle 
similitudini  animalesche  del  Fiore  di  virtù.  Del  resto,  la  cosa 
è  naturalissima,  se  accanto  ai  testi  del  Physiologus  e  ai  bestiarii 
moralizzati  in  varie  lingue,  troviamo  diffuse  anche  le  enciclo- 
pedie, come  il  Tesoro  di  Brunetto  Latini,  colla  traduzione  ita- 
liana, e  il  De  x>rop7Hetatil)us  ì^ermn  di  Bartholomeus  Anglicus, 
anche  colla  traduzione  italiana,  dove  le  stesse  proprietà  ven- 
gono date  agli  animali,  ma  senza  le  moralità.    Infatti,  la  fonte 


(1)  Fiore  di  virtù,  ed.  A.  Gelli,  1856,  cap.  XVII:  «  E  puossi  assimigliaie 
€  la  virtù  della  giustizia  al  re  dell'api,  il  quale  ordina  e  distribuisce  per  ra- 
«  gione  ciascuna  cosa  ;  che  certe  api  sono  ordinate  ad  andare  per  lo  fiore  del 
«  mele  »,  ecc.  Leonardo,  ed.  cit.,  II,  p.  318:  «  E'  si  può  assimigliare  la  virtù 
«  dela  giustitia  allo  re  delle  api,  il  quale  ordina  e  dispone  ogni  cosa  con  ra- 
<  gione,  imperochè  alcune  api  sono  ordinate  andare  per  fiori  »,  ecc.  Sacchetti, 
ed.  cit.,  p.  257  :  «  Ape,  ovvero  Pecchia ,  è  piccolo  animale,  il  quale  ordina  e 
«  giudica  secondo  ragione.  Certe  sono  ordinate  andare  per  li  fiori  »,  ecc. 

(2)  Per  esempio,  Fiore:  «  E  puossi  appropriare  la  invidia  al  nibbio,  eh' è 
€  tanto  invidioso  che  s'egli  vede  gli  figliuoli  ingrassare  nel  nido,  si  dà  loro 
«  nelle  coste  col  becco  perchè  la  carne  si  marcisca,  acciocch'egli  dimagrino  ». 
Sacch.  :  «  Nibbio,  uccello  con  poco  valore,  è  di  tal  natura  che  se  vede  gli  fi- 
€  gliuoli  ingrassare  nel  nido,  dà  loro  tanto  di  becco  nelle  costole,  che  dima- 
€  grino  ».  Capp.  :  «  La  nibbia  la  quale  à  questa  natura,  è  tanta  invidiosa  che 
«  s'ella  vede  ingrasare  li  suoi  figliuoli  in  del  nidio  si  li  pissica  loro  le  coscie 
«  accio  che  lìa  charne  infracidi  perchè  dimagrino  ».  Cfr.  la  nota  precedente, 
e  quanto  verrà  detto  più  innanzi  sulla  «  lupica  ». 


VARIETÀ  363 

principale  delle  similitudini  animalesche  del  Fi07^e  è  appunto 
il  libro  di  Bartliolomeus  Anglicus,  ben  conosciuto  in  Italia  nei 
secoli  XIII  e  XIV  (1).  Senza  cercare  per  ora  le  fonti  più  an- 
tiche, consideriamo  le  relazioni  dei  testi  di  quella  famiglia.  La 
tavola  che  segue  è  completa  per  gli  animali  del  Fiore  di  virtù^ 
del  cod.  Gapp.  e  del  Sacchetti,  non  che  per  la  parte  dello  scritto 
di  Leonardo  da  Vinci  che  corrisponde  agli  altri  testi  (dal  n°  36 
in  poi  Leonardo  segue  l'ordine  degli  animali  nel  terzo  libro  del- 
V Acerba  di  Cecco  d'Ascoli  ;  il  n°  9  di  Leonardo,  «  I  colonbi  sono 
assimigliati  alla  ingratitudine  »,  manca  negli  altri  testi).  Diamo 
pure  i  richiami  ai  relativi  capitoli  del  De  prop.  rermn  (lib.  12, 
De  avibus;  lib.  18,  De  animaliòus);  di  questo  cito  sempre  l'edi- 
zione del  Koburger,  1492. 

Bart.         Ftare       Capp.      Sacch.      Leon. 

calandrino 12.22 

nibbio 12.26 

gallo 12.16 

corbo 12.10 

castoro 18.28 

orso 18.110 

lupica  (upupa,  ipega,  pola)  12.37 

basilisco    .          ....  18.15 

aquila 12.1 

rospo  (botta)     .... 

lupo 18.69 

serena 18.95 

formica 18.51 

bue  salvatico     .     .     .     .  18.14 

re  delle  api  (lape)      .     .  12.4  (18.10) 

diavolo     

grue .  12.15 

volpe    .......  18.112 

pernice 12.30 

talpa  (topinara)     .     .     .  18.100 

lione 18.6S 


1 

1 

1 

2 

1 

2 

2 

3 

2 

3 

3 

4 

3 

4 

4 

5 

4 

5 

5 

6 

5 

6 

6 

7 

6 

7 

7 

8 

7 

8 

10 

9 

8 

9 

11 

10 

10 

8 

11 

9 

11 

12 

12 

10 

12 

13 

13 

13 

14 

14 

11 

14 

15 

15 

12 

15 

16 

16 

16 

... 

17 

17 

18 

18 

18 

19 

19 

19 

17 

20 

20 

20 

21 

21 

21 

(1)  Vedi  H.  Varnhagex,  Die  Quellen  der  Mestidr-Abschnitte  im  «  Fiore 
di  virili  »,  in  Raccolta  di  studi  dedicata  ad  A.  D'xVncona,  Firenze,  1901, 
pp.  515-38;  e  per  la  fortuna  del  De  prop.  rerum,  il  noto  scritto  di  V.  Gian, 
Vivaldo  Beìcaher  e  V enciclopedismo  italiano  delle  origini,  in  questo  Gior- 
nale, Supplem.  n"  5,  1902. 


364 


K.  MCKENZIB 

Bari. 

Fioi 

18.66 

22 

... 

23 

12.31 

24 

12.14 

25 

12.21 

26 

18.18 

27 

18.88 

28 

18.3 

29 

30 

18.78 

31 

12.-35 

32 

12.34 

33 

34 

... 

35 

Fiore       Capp.       Saoch.       Leon. 


22 

22 

23 

23 

24 

24 

25 

25 

26 

26 

27 

27 

28 

28 

29 

29 

30 

30 

31 

31 

32 

32 

33 

33 

34 

34 

. . . 

35 

lepre    .     .  . 

girfalco     .  . 

paone  .     .  . 

fenice  .     .  . 

rondine     .  . 

cammello  .  . 

liocorno     .  . 

agnello      .  . 

falcone      .  . 
asino  salvatico 

avvoltoio  .  . 

tortora      .  . 
pipistrello 

ermellino  .  . 


L'ordine  dei  capitoli  nei  quattro  testi  italiani  è  dovuto  dunque 
al  sistema  dell'autore  del  Fiore,  nel  quale  ogni  due  capitoli 
trattano  un  paio  di  qualità  morali,  una  virtù  e  il  vizio  opposto; 
gli  animali  poi  sono  scelti  ed  ordinati  per  illustrare  coteste  qua- 
lità. Cosi  nei  primi  capitoli  del  Fiore  troviamo:  (1,  2)  «  amore 
«  si  puote  propriamente  assomigliare  a  un  uccello  il  quale  ha 
«  nome  calandra  (1),  che  ha  tale  proprietà,  ecc.  ;  puossi  appro- 
«  priare  la  invidia  al  nibbio,  ch'è  tanto  invidioso,  ecc.  »  ;  (3,  4) 
«allegrezza,  gallo;  tristizia,  corbo  »;  (.5,  6)  «  pace,  castoro  ;  ira, 
orso  »;  (7,  8)  «  misericordia,  ipega  [lupica];  crudeltà,  basilisco  »; 
(9, 10)  «  liberalità,  aquila;  avarizia,  botta  [rospo]  »  ;  (11,  12)  «  cor- 
«  rezione  (2),  lupo;  lusinga,  sirena»;  (13,  14)  «prudenza,  for- 
«  mica;  pazzia  [matteria;  Sacch.,  stultitia],  bue  salvatico  »;  (15, 16) 


(1)  Cito  l'edizione  di  Agenore  Gelli,  Firenze,  1856,  assai  difettosa;  nell'ediz. 
di  Roma,  1740,  calandrino.  Questo  uccello  non  è  propriamente  la  calandra; 
cfr.  Goldstaub  e  Wendriner  ,  Op.  cit. ,  p.  294  ;  Bartholomeus  ,  XII,  22  : 
«  Differt  autem  Kaladrius  ab  avicula  que  dicitur  Kalandra  ».  Il  Sacch.  ha 
«  calandrino,  aliter  calandrio,  ovvero  calandra  >  ;  Leonardo  ha  «  callendrino  »  ; 
cfr.  Springer,  Op.  cit.,  pp.  245-8. 

(2)  Gap.  xiii:  «  Correzione,  secondo  che  dice  Aristotile,  si  è  uno  effetto 
«  d'amore  a  gastigare  altrui ...  colui  che  non  ha  temperanza  di  gastigare  leg- 
«  germente,  si  parte  dalla  virtù  della  correzione,  e  cade  nel  vizio  della  cru- 
«  deità  »  [Si  noti  che  i  numeri  dei  capitoli  nelle  edizioni  non  corrisponde  ai 
numeri  dati  nella  tavola  agli  animali]. 


VARIETÀ  365 

«  giustizia,  re  dell'api;  ingiustizia,  diavolo  ».  Nel  manoscritto  del 
Sacchetti,  le  virtù  ed  i  vizi  sono  scritti  nel  margine,  e  la  serie 
si  mantiene  completa.  In  Capp.,  invece,  sono  omessi  il  calan- 
drino, il  rospo,  la  formica;  il  testo  termina  nel  bel  mezzo  del 
capitoletto  sulle  api,  forse  perchè  il  diavolo,  che  segue,  non  era 
per  il  copista  veramente  un  animale.  Anche  in  Leonardo  vien 
perduta  l'opposizione  simmetrica  delle  virtù  e  dei  vizi;  l'autore 
mette  bensì  una  qualità  morale  come  titolo  di  ogni  capitoletto, 
ma  cambia  l'ordine,  e  aggiunge  del  suo  (o  forse  da  un  altro 
testo  del  Fìoì^e  ?)  una  descrizione  dei  colombi  :  «  I  colonbi  sono 
«  assimigliati  alla  ingratitudine,  ecc.  »  ;  la  virtù  opposta,  la  gra- 
titudine, si  trova  appropriata  agli  uccelli  «  detti  upica  »  (altrove 
simbolo  della  misericordia),  e  cosi  la  crudeltà  del  basilisco  non 
viene  opposta  a  nessuna  vertù.  Però,  malgrado  queste  differenze, 
è  evidente  che  in  generale  Leonardo  deve  al  Fiore  dì  virtù 
non  solamente  l'ordine  (1),  ma  pure  le  descrizioni  e  le  moralità 
della  prima  parte  del  suo  bestiario. 

Se  confrontiamo  col  Fiore  di  virtù  il  testo  Gapponiano,  mal- 
grado la  concordanza  di  ordine  e  di  parole  che  non  lascia  alcun 
dubbio  sulla  relazione  dei  due  scritti,  troviamo  pure  delle  diver- 
genze. Anche  i  codici  del  Fiore  di  virtù^  che  sono  numerosis- 
simi, differiscono  fra  di  loro;  e  qualche  lezione  individuale  di 
Capp.  si  troverebbe  certamente  nella  fonte,  se  potessimo  addi- 
tare questa.  Il  nibbio  (milvus)  del  Fiore  diventa  la  nibbia  di 
Gapponiano.  Il  gallo  nel  Fioì^e  dispone  la  sua  allegrezza  «  per 
forma  di  ragione  »  ;  in  Capp.  la  sua  allegrezza  è  «  senza  forma 
di  ragione  ».  In  questi  due  capitoletti  di  Gapp.,  le  parole  invi- 
diosa e  allegressa  sono  una  reminiscenza  delle  moralità  del 
Fiore.  La  forma  hadalìchio  è  individuale;  altrove  si  scrive  o 
basilisco  0  hadalischio.  Nel  Fiore  V  aquila  è  «  il  più  liberale 
uccello  che  sia  al  mondo  »,  anzi  a  lei  «  puossi  appropriare  la 
virtù  della  liberalità  »  ;  senza  il  lapsus  calami^  Gapp.  avrebbe 
detto  probabilmente  :  «  è  lo  più  bello  e  velloce  ucello  che  sia  al 
mondo».  Nella  descrizione  del  lupo,  l'espressione  «  àe  questa 
malisia  »  è  aggiunta  in  Gapponiano.  Il  capit.  della  sirena  di  Gapp. 
segue  il  Fiore^  non  però  la  lezione  che  si  trova  nell'ediz.  Gelli, 


(1)  Nel  1884  lo  Sprixger,  Op.  cit.,  p.  268,  aveva  detto:  «  Leonardo  gehort 
«  dami  die  Gruppirung  der  Thiere  an.  Sie  ist  von  der  sonst  in  den  Bestiarien 
«  und  Thierbùchern  iiblichen  vòllig  verschieden  ». 


366  K.    McKENZIE 

alla  quale  invece  corrisponde  la  lezione  di  Sacch.  (1).  Il  Fiore^ 
Capp.  e  Sacch.  hanno  di  comune  che  la  sirena  è  mezzo  femmina 
e  mezzo  pesce,  «  con  due  code  rivolte  in  suso  ».  Altri  libri  medie- 
vali danno  alla  sirena  diverse  forme  ;  per  esempio,  il  Bestiario 
toscano  dice:  «La  serena  si  è  una  criatura  molto  nova,  che 
«  elle  sono  di  tre  nature.  L'una  si  è  mego  pescie  e  mega  facta 
«  a  similitudine  de  femena.  L'altra  si  è  mego  uccello  e  mego 
«  femena.  L'altra  si  è  mego  comò  cavallo  e  mego  comò  femena. 
«  Quella  che  è  comò  pescie  si  à  si  dolce  canto  che  qualunque 
«  homo  l'ode  si  è  misteri  che  sse  Ili  apressime.  Odendo  l'omo 
«  questa  voce,  si  si  adormenta,  e  quando  ella  lo  vede  adormen- 
«  tato  si  li  viene  sopra  e  uccidelo  »  (2).  Alcuni  autori  (per  es., 
Cecco  d'Ascoli,  Leonardo  da  Vinci)  parlano  della  voce  della  si- 
rena, senza  dir  niente  della  sua  forma.  Altri  parlano  solamente 
della  forma  mezzo  uccello.  Bartholomeus  {De  prop,  reruin^ 
XYIII,  95)  conosce  e  non  distingue  diverse  forme:  «  Sirene  sunt 
«  serpentes  cristati  et  alati.  Alii  autem  dicunt  quod  sunt  pisces 
«  marini  in  specie  muliebri...  Sirenes  tres  fingunt  fuisse  ex 
«  parte  virgines  et  ex  parte  volucres...  De  sirena  autem  dicit 
«  Phisiologus.  Sirena  est  monstrum  marinum  ab  umbilico  et 
«  sursum  habens  formam  virginis,  inferius  fìguram  piscis...  dul- 
«  cedine  cantus  facit  dormire  navigantes  ».  Brunetto  Latini  (3) 
dice  che  «  serene  furono  tre  »,  ma  tutte  della  forma  mezzo  pesce, 
alla  quale  corrisponde  pure  la  descrizione  nei  dizionari  moderni 
(cfr.  inglese  "inerTnaid).  Secondo  il  Varnhagen  (4),  la  fonte  della 
descrizione  nel  Fiore  sarà  il  capitolo  di  Bartholomeus;  ma  le 
«  due  code  rivolte  in  su  »  sarebbero  una  reminiscenza  di  Al- 
bertus Magnus.  Se  non  che  Albertus  non  parla  che  di  una  coda  : 
«  Syrena  monstra  sunt  marina,  superius  fìguram  mulieris...  in- 
«  ferius  vero  aquilinis  pedibus  et  superius  alas  habentia  et  retro 


(1)  Ed.  Gelli:  «...  e  come  sono  addormentate  le  fa  pericolare  in  mare  ». 
Sacch.  :  «...  e  quando  sono  addormentati  gli  fa  pericolare  ».  Cafp.  :  «  ...  e  come 
«  sono  adormentate  va  e  ssi  l'uccide  ».  Cfr.  due  codici  citati  da  G.  Ulrich, 
Fiore  di  virtù,  saggi  delia  versione  tosco-veneta,  Lipsia,  1895,  p.  15  :  «  corno 
«  illi  enno  odromentà,  elle  li  ancideno  »;  p.  34  :  «  e  poy  si  li  auyise  ». 

(2)  Studj  romanzi  (Società  filologica  romana,  1912),  Vili,  p.  37  ;  cfr.  Gold- 
STAUB  e  Wendriner,  Op.  cit.,  pp.  27,  294. 

(3)  Tresor,  ed.  Chabaille,  livre  I,  P.  V,  cap.  137  ;  lì  tesoro  di  B.  L.  vol- 
garizzato, ed.  Gaiter,  Bologna,  1877,  lib.  IV,  cap.  7. 

(4)  Op.  cit.,  pp.  525-7. 


VARIETÀ  367 

«  caudam  ».  Non  è  probabile  ;  credo  che  per  l'origine  delle  «  due 
code  »  dobbiamo  ricorrere  alla  scultura  medievale ,  nella  quale 
la  sirena  ha  spesso  questa  forma  (1). 

La  parte  più  individuale  del  testo  Capponiano  è  il  capitoletto 
della  lupica.  Questo  uccello,  Vepops  dei  Greci,  era  anche  uno 
dei  personaggi  di  Aristofane;  ha  il  suo  posto  già  nel  Pìnjsio- 
logus  greco,  e  in  molti  bestiarii  medievali.  In  italiano  moderno 
si  chiama  bubbola  (^=  ujmpola;  Wiese,  AltitalieniscJies  Ele- 
mentarbucìi^  p.  50),  ma  anche,  come  in  latino,  upupa.  Nei  testi 
medievali  porta  diversi  nomi,  quasi  tutti  derivati  dal  latino 
upupa  ;  questa  forma,  come  l'inglese  hoopoe^  sarà  onomatopeico, 
dalla  voce  dell'uccello  (2).  La  forma  lupica^  poi,  rappresenta 
evidentemente  la  combinazione  dell'articolo  col  nome  (cfr.  la 
lapé)  ;  si  trova  accanto  ad  altri  nomi  nei  manoscritti  del  Fiore 
dì  virtù',  ediz.  del  1474  (cfr.  Varnhagen,  Op.  cìi.^  p.  521),  upepa-, 
ed.  di  Roma,  1740  (ed.  Bottari),  ipega^  colle  varianti  lupica^ 
pota]  ed.  Gelli,  1856,  ipega\  cod.  Riccardiano  1729  (cfr.  Ulrich, 
Saggi  ^  p.  33),  lupula;  Nuovo  Fior  di  virtù  riformato,  Tre- 
viso [s.  a.],  polla  ;  Sacchetti,  ediz.  citata,  p.  256,  2^ola,  colla  va- 
riante mulacchia  ;  Leonardo  da  Vinci,  «  uccielli  detti  ujnca  ». 
Questo  uccello  non  fa  parte  del  Bestiario  toscano,  ma  in  due 
manoscritti  citati  da  Goldstaub  e  Wendriner  (Op.  cit.,  p.  87; 
cfr.  p.  378)  si  trova  coi  nomi  upuppula  e  epopo.  Nel  Bestiaire 
d'amour  di  Richard  de  Fournival  (ed.  C.  Hippeau,  Paris,  1860, 
p.  43)  si  chiama  ìiuple,  e  i  figliuoli  huplot;  nella  traduzione  ita- 
liana (ed.  Grion,  nel  Propugnatore,  II,  i,  pp.  276-7),  luppica.. 
Nel  Tresor  di  Brunetto  Latini  (ed.  Chabaille,  lib.  I,  P.  V,  cap.  166), 
come  nel  Bestiaire  di  Guillaume  le  Clerc  (ed.  Reinsch,  v.  821) 
la  forma  è  hupe  (francese  moderno,  huppe),  e  nel  volgarizza- 
mento di  Brunetto  {Il  tesoro,  ed.  Gaiter,  lib.  V,  cap.  28)  ujmpa. 
Il  Bestiario  raoralizzato  (v.  più  innanzi)  ha  lampo  (n*'  41)  e 
hipìca  (n«  48).  Finalmente  V Acerba  di  Cecco  d'Ascoli  ha,  se- 
condo il  cod.  Laurenziano  XL.  52,  la  lupula-,  cod.  Laur.  89  sup. 


(1)  Vedi  A.  Venturi,  Storia  delVarte  italiana,  III,  p.  123,  Milano,  1904 
(con  ligure).  —  Cfr.  H.  Schrader,  Die  Sirenen  nacli  ihrer  Bedeutung  und 
Mmtlerischen  Darsteìlimg ,  Berlin,  1868  ;  Lauchert,  Geschicìite  des  Physio- 
logus,  Strassburg,  1889,  p.  214. 

(2)  Cfr.  Otto  Keller,  Die  antike  Tierwelt,  voi.  II,  pp.  60-63,  Leipzig, 
1913;  Lauchert,  Op.  cit.,  p.  13.  —  In  tedesco  si  chiama  Wiedehopf. 


368  K.    McKENZIE 

III,  la  iiqypupa;  cod.  Laur.  Aslib.  1223,  la  Itfpojm;  cod.  Laur. 
Aslib.  1225,  la  luppola-,  edizioni  veneziane  del  1519  e  del  1820, 
lib.  Ili,  cap.  xvi,  la  popiila  (1). 

Se  lo  scrittore  del  cod.  Capp.  trovò  in  un  manoscritto  del 
Fiore  dì  mrtu  l'uccello  lupica^  ne  cambia  però  la  significazione; 
la  sua  descrizione  presenta  un  esempio  dell'amor  paterno,  mentre 
negli  altri  testi  questo  uccello  è  il  simbolo  della  pietà  figliale; 
e  aggiunge  alla  descrizione  consueta  le  parole  «  odeno  mormo- 
rare lo  padre,  ecc.  ».  Nel  Fi07^e  dì  virtù  [ediz.  del  1474,  citata 
dal  Varnhagen,  Op.  cìt.^  p.  521]  leggiamo:  «  Puossi  appropiar  la 
«  virtù  de  la  misericordia  a  li  figlioli  d'uno  ocello  che  ha  nome 
«  upepa,  che,  quando  vedeno  invecchiar  il  patre  et  la  maire  et 
«  che  perdano  la  veduta  et  che  non  posson  volare,  gli  fanno  uno 
«  nido  et  li  dentro  li  pasceno.  Et  doppo  gli  trazeno  le  penne 
«  et  gli  occhi  et  stanno  nel  nido  insino  ad  tanto  che  per  natura 
«  remittono  le  penne  et  gli  occhi  ».  Che  i  figliuoli  cavano  ai 
parenti  non  solamente  le  penne  vecchie  ma  pure  gli  occhi,  vien 
detto  egualmente  dal  cod.  Rice.  1729  [Ulrich,  Saggì^  P-  34]  e  dal 
Sacchetti.  È  senza  dubbio  un  semplice  malinteso  da  parte  dei- 
Fautore  del  Fiore ^  o  di  qualche  copista;  altri  testi  del  Fiore 
[edizioni  Bottari  e  Gelli,  cap.  IX]  leggono  :  «  gli  traggono  tutte 
«le  penne  vecchie,  e  massime  quelle  che  sono  d'intorno  agli 
«  occhi  ».  Niente  di  questo  in  Capp.  e  nei  testi  latini.  Se  Gapp. 
ha  cambiato  il  senso  del  capitolo,  cosi  l'autore  del  Fiore  ha 
frainteso  quanto  dicono  le  sue  fonti  :  ecco  il  testo  latino  al  quale 
più  si  avvicina: 

De  huppupa  Phisiologus  dicit:   est  avis  que  dicitur  huppupa.    Horum 

fihi,  cum  viderint  parentes  suos  senuisse,  et  neque  volare  possint,  neque  vi- 
dere  pre  caligine  oculorum ,  tunc  fìUi  eorum  evellunt  vetustissimas  pennas 
parentum  suorum  et  linniunt  oculos  parentum  suomm  et  fovent  eos  sub  alis 
suis,  donec  recrescant  penne  eorum  et  reilluminentur  oculi  eorum,  ita  ut  toto 
corpore  suo  renovari  possint,  et  sicut  antea  videre  et  volare  (2). 

Similmente  i  manoscritti  editi  dal  Cahier  :  «  evellunt  pennas 
«  veteres  parentum  et  lingunt  oculos  eorum  »  ;  «  tunc  filli  eorum 
«  evellunt  vetustissimas  pennas  parentum  suorum  et  diligunt 


(1)  Devo  le  lezioni  HqW Acerba  alla  gentilezza  del  signor  J.  P.  Rice,  clie 
ha  studiato  i  codici  Laurenziani. 

(2)  Da  un  codice  del  British  Museum,  edito  da  M.  F.  Mann,  Der  Bestiaùe 
des  Guillaume  le  Clero,  in  Franzosische  Studien,  VI,  li,  p.  43  (1888). 


VARIETÀ  369 

«  [deligunt?]  oculos  eoruin  »  (1).  Bartholomeus  (XII.  37)  parla 
inoltre  di  un  succo  d'erbe  :  «  De  hac  autem  dicunt  physici  quod 
«  cum  senuerit  eo  quod  nec  videre  nec  volare  queat,  pulii  eius 
«  evellunt  ei  pennas  invalidas  et  liniunt  ei  oculos  herbarum 
«  succis  et  fovent  sub  alis  donec  recrescant  piume  eius  et  sic 
«  renoA^ata  perfecte  volat  et  videat  dare  sicut  et  ipsi ,  ut  dicit 
«  Isidorus  ».  Cosi  pure  Albertus  Magnus  e  Vinceiitius  Bello va- 
censis  (2)  ;  ma  Isidoro  non  parla  di  questa  proprietà  dell'upupa, 
citando  solamente  la  sua  sporchezza  :  «  Upupam  Graeci  appellant, 
«  eo  quod  stercora  humana  consideret,  et  fetenti  pascatur  fimo, 
«  avis  spurcissima,  cristis  exstantibus  galeata,  semper  in  sepulcris 
«  et  humano  stercore  commorans  »  (3).  Quest'ultima  qualità,  la 
quale  del  resto  sarebbe  veramente  caratteristica  dell'upupa,  vien 
riferita  da  Bartholomeus,  da  Brunetto  Latini  e  da  altri,  ma  manca 
nei  testi  italiani;  questi  sono  nella  tradizione  del  Physiologus 
greco,  dove  i  figli  àoiVepops  gli  traggono  le  penne  vecchie  e  gli 
leccano  gli  occhi  (4).  Il  Bestiario  toscano  attribuisce  la  stessa 
pietà  figliale  alla  cicogna  ;  Bartholomeus  l'attribuisce  alla  cicogna 
(XII.  8)  e  inoltre  alla  cornacchia  (XII.  9).  Dell'upupa  Bartholo- 
meus dice  anche  :  «  cuius  sanguine  si  quis  inunxerit,  dormitum 
«  pergens  demones  in  somnis  se  suffocantes  videbit  ;  cuius  cor 
«  malefactoribus  valet,  nam  in  suis  maleficiis  eo  utuntur  ».  Questo 
sarà  la  fonte  delle  due  stanze  dell'ylcer&a  di  Cecco  d'Ascoli,  le 
quali  stampo  secondo  il  cod.  Laur.  XL.  52  (cap.  16)  : 


Del  sangue  de  la  lupaia  chi  s'ogne 
Da  spiriti  dormando  vederasse 
Essere  presso  che  non  [par]  che  sogne. 


(1)  Cahier  et  Martin,  Mélanges  d'archeologie,  voi.  Il,  pp.  177-80.  — 
Cfr.  Brunetto  Latini,  Tresor,  lib.  I,  Part.  V,  cap.  166  :  «  ...  quant  lì  fil  voient 
<  lor  pere  envielli,  et  que  il  est  griès  et  pesans,  et  sa  vene  est  auques  oscurcie, 
«  il  le  deplument  tout  dedanz  son  nif,  et  onoignent  lors  ses  oilz,  et  puis  le 
«  paissent  et  norrissent  »,  ecc.  ;  traduzione  italiana,  ed.  Gaiter:  «  ...  spennanle 
«  tutte,  ed  ungono  loro  occhi  »,  ecc. 

(2)  Citati  dal  Varnhagen,  Op.  cit.,  p.  521. 

(3)  IsiDORi  Hisp.,  Etymologiarum ,  lib.  XII,  cap.  vii,  n»  66,  in  Migne, 
Patrol.  lai.,  tom.  LXXXII. 

(4)  Lauchert,  Geschichte  des  Physiologus,  pp.  13,  239;  0.  Keller,  loc.  cit.; 
GoLDSTAUB  e  Wendriner,  Op.  cit.,  pp.  375-78;  Bestiario  toscano,  ed.  cit.,  n»  32; 
Bestiaire  d'amour  di  Eichard  de  Fournival,  ed.  Hippeau,  pp.  43,  143  ;  Pro- 
pugnatore.  II,  i,  276. 

Giornale  storico,  LXIV,  fase.  19^!.  24 


370  K.    McKENZIE 

lo  non  voria  che  onno  [al.  ognuno]  savesse 

Quanta  natura  vile  [al.  Quanta  virtù]  in  ley  natura  sparsse, 

No  saria  furo  che  so  cor  avesse. 

Invechia  tanto  che  non  pò  vedere 
Né  pò  volare,  sì  che  ciascun  nato 
Trappa  le  penne  e  la  piuma  a  lor  podere; 
E  poy  la  cova  e  con  vertù  d'erbe 
De  zovene9a  torna  al  primo  stato; 
Cossi  natura  voi  che  se  conserbe. 

Leonardo  da  Vinci,  discorrendo  degli  «  iiccielli  detti  upica  », 
segue  in  generale  il  Fiore  di  virtù;  ma  par  probabile  che 
quando  parla  della  cura  degli  occhi  con  erbe  si  ricordi  del- 
VAcerba,  fonte  della  seconda  parte  del  suo  bestiario,  piuttosto 
che  di  un  testo  latino  :  «  conossciendo  il  benificio  della  ricievuta 
«  vita  e  nutrimento  dal  padre  e  dalla  lor  madre,  quando  li  ve- 
«  dano  vechi  fano  loro  uno  nido  e  Ili  covano  e  Ili  notrisscano, 
«  e  cavan  loro  col  becho  le  vechie  e  trisste  penne,  e  chon  cierte 
«  erbe  li  rendano  la  vista,  in  modo  che  ritornano  in  prospertà  ». 

In  una  favola  di  Odo  de  Ceritonia  l'upupa  vien  descritta  come 
da  Isidoro  :  «  Upupa  pulcra,  varietate  colorum  distincta  et  eximie 
«cristata,  dixit  Philomene...  ;  que  in  nidum  upupe  descendit, 
«  sed  stercora  fetencia  invenit,  quod  ibi  morari  non  potuit  »  (1). 
In  un  commento  medievale  sulle  Metamorfosi  di  Ovidio  tro- 
viamo :  «  Ma  perchè  Tereo  cosi  sozzissimo  peccato  commise, 
«  però  è  detto  convertito  in  upupa  ovvero  lupica,  che  è  un  uc- 
«  cello  fetidissimo  in  ciò  che  vive  di  sterco  umano  »  (2).  E  final- 
mente nel  Bestiario  moralizzato  (3)  in  sonetti  dei  primi  anni 
del  secolo  XIV,  si  trova  questa  descrizione: 

N°  48.     De  la  lupica. 

La  luppica  bellissima  è  di  fore, 
Con  belle  penne  si  fa  portamento, 
De  sterco  è  nata,  e  in  esso  vive  e  more, 
De  quello  cibo  piglia  nutrimento... 


(1)  Hervieux,  Les  fdbulisies  latins,  voi.  IV,  p.  213,  fab.  4L 

(2)  Allegorie  sopra  le  «  Metamorfosi  »  di  Ovidio,  citate  nel  Dizionario 
di  Tommaseo  e  Bellini,  s.  v.  lupica. 

(3)  Edito  da  G.  Mazzatinti  ed  E.  Monaci,  in  Rendiconti  della  E.  Accad. 
dei  Lincei,  voi.  V,  Roma,  1889. 


VARIETÀ  371 

Ma  nello  stesso  Bestiario  (n°  41)  un  uccello  chiamato  lampo 
(nome  che  non  trovo  altrove)  ha  le  proprietà  ascritte  alla  lupica 
nel  Fiore  di  virtù'. 

Lo  lampo  è  uno  ucello  divisato, 
Nonne  conversa  nullo  a  suo  paese; 
Però  de  recordare  m'è  en  grato, 
Ke  la  natura  sua  è  molto  cortese. 
Quando  nesciuno  n'è  tanto  envekiato, 
Ke  non  pò  guadagnare  le  sue  spese, 
Da  li  parenti  sì  è  bene  aitato, 
Ke  se  refresca  e  revene  de  palese; 
La  mala  piuma  li  vano  pelando. 
Ed  altri  sono  ke  l'amantano  coU'ale, 
E  tali  ke  Hi  procaciano  la  vita, 
E  retornase  commo  lo  primo  anno. 
E  l'uno  amico  a  l'altro  sia  cotale, 
Se  vole  ke  caritade  sia  compita. 

Non  so  se  questo  lampo  sia  da  identificai'si  colla  lupica',  si 
vede  che  quando  è  vecchio ,  è  aiutato  dai  «  parenti  »,  non  già 
dai  figliuoli.  In  ogni  caso,  dopo  questa  rapida  rassegna,  riman- 
gono evidenti  i  punti  individuali  nel  capitoletto  della  lupica  nel 
cod.  Gapponiano. 

Kenneth  McKenzie. 


GLI  SDEONI  AMOROSI 

DI 

FRAJSrDAGHL.IA     DI    VAL     DI     STURJL.A 

Da   un   MS.    DELLA    BIBLIOTECA    DI    RoUEN. 


Due  sono  le  ragioni  che  mi  muovono  a  pubblicare  questo  sce- 
nario inedito.  Le  commedie  dell'arte,  quelle  soprattutto  ch'eb- 
bero la  ventura  di  peregrinare  fuor  dei  confini  d'Italia,  sono  pur 
sempre  note  in  scarsa  misura,  e  d'altra  parte  vuoisi  conside- 
rare il  titolo  che  lo  scenario  reca  in  fronte  e  di  cui  Le  dèpit 
mnoureux  del  Molière  pare  traduzione.  Anche  la  data  del  1651 
dà  materia  ad  induzioni  ;  Le  dèpit  del  Molière  è  di  alcuni  anni 
posteriore.  Aggiungendo  il  fatto  che  codesto  scenario  trovasi  in 
una  biblioteca  di  Francia,  la  fantasia  del  critico  può  correre 
parecchie  poste. 

Non  parliamo  tuttavia,  e  davvero  non  ce  ne  duole,  di  nuove 
fonti;  di  queste,  ricercatori  eruditi,  pazienti  e  anche  maligni 
(alludo  ai  coevi,  che  per  ragioni  di  professione  ce  l'avevano 
col  Molière),  n'hanno  trovate  più  che  non  si  colgano  funghi, 
su  pei  boschi  montanini,  dopo  le  piogge  del  settembre,  sicché 
il  commediografo  francese  appare  ancora,  agli  occhi  di  molta 
brava  gente,  discendente  diretto  di  quella  famosa  gazza  che 
aveva  usurpate  le  penne  del  pavone.  Becchi  di  critici  s'agitano 
per  strapparle.  I  contemporanei  del  Molière  picchiano,  martel- 
lano rabbiosamente  ;  i  moderni  aguzzan  lo  sguardo  con  più  garbo, 
solleticati  solo  dal  piacere  della  «  trouvaille  ».  Strillano,  i  primi, 
col  marchese  Mascarille  «  au  voleur,  au  voleur  »  ;  i  secondi,  più 
equanimi,  poiché  i  morti  e  sepolti  non  possono  dar  ombra,  con- 
cedono all'imputato  molte  attenuanti,  purché  la  refurtiva  sia 
.sciorinata  al  sole. 


VARIETÀ 


373 


Come  in  tante  istruttorie  giudiziarie,  anche  qui  la  pesca  dei 
gi'anchi  e  dei  granchiolini  è  ricchissima  e  divertente.  L'errore 
più  comune,  sul  quale  ho  già  altra  volta  richiamata  l'attenzione 
dei  lettori,  consiste  per  l'appunto  nello  scambiar  la  fonte  con  la 
propaggine,  come  chi  dicesse  il  babbo  col  figlio;  i  comici  del- 
l'arte saccheggiano  allegramente  l'autore  del  Tartufo  e  questo 
è  accusato  di  saccheggiare  i  suoi  saccheggiatori  (1). 

La  questione  del  Dèpit  rientra  in  tale  ordine  di  fatti.  Tutti 
conoscono  lo  spunto  che  il  Molière  trasse  dal  «  Donec  gratus  eram 
tibi  »  d'Orazio  e  dall'  «  Amantium  irae  amoris  integratio  »  di  Te- 
renzio, né  sono  di  ieri  i  rafironti  con  V Interesse  del  Secchi  (2).  Il 
Riccoboni,  ed  altri  sulle  sue  orme,  hanno  voluto  andar  più  oltre, 
asserendo  che  oltre  dìV Interesse  ed  al  resto,  il  Molière,  nel  com- 
porre il  suo  Dèpit ^  avesse  sott'occhio  una  commedia  dell'arte, 
intitolata  precisamente  Gli  sdegni  amorosi.  L'asserzione  non 
potrebbe  essere  più  esplicita  (3);  manca  soltanto  una  piccolis- 
sima cosa,  la  prova  cioè  che  questo  canevaccio  italiano  sia  ve- 
ramente ispiratore,  giacché  nulla  ci  è  detto  di  esso  e  neppure 
un  rigo  se  ne  cita.  Malgrado  questo,  l'accusa  di  plagio  passa  di 
bocca  in  bocca  e  di  penna  in  penna,  acquistando  autorità  dai  molti 
che  la  ripetono.  Alza,  alfine,  il  Cailhava  un  lembo  del  velo  e 
messa  la  mano  nel  sacco  di  Scappino,  ne  trae  Gli  sdegni  amo- 
rosi ou  les  dèpits  amour eux^  canevas  en  trois  actes.  Ecco  il 
documento  sicuro,  indiscutibile  dell'  imitazione  molieresca  e  il 
Cailhava  fa  la  voce  grossa  e  more  solito  i  critici  posteriori  ri- 
petono, affermano.  Ora,  tutta  questa  grande  somiglianza  non  è 
che  opera  della  fantasia  del  Cailhava. 


(1)  Cfr.  quanto  dico  in  proposito  nel  mio  studio  Molière  et  sa  fortune  en 
Italie,  pp.  240  sgg.  e  per  le  fonti  del  Dépit,  pp.  28-35. 

(2)  D'altre  fonti  si  fa  parola,  fra  l'altro,  nel  primo  voi.  delle  opere  del  Mo- 
lière, ediz.  Despois  dei  Grands  écrivains  de  ki  France,  voi.  I,  pp.  382  sgg. 

(3)  «  Molière...  imita  son  Dépit  amoiireux  de  deux  pièces  italiennes,  l'une 
«  intitulée  L'interesse  de  Nicolò  Secchi,  l'autre  d'un  ancien  canevas  ou  farce, 
«  jouée  à  l'impromptu  et  qui  a  pour  titre  Gli  sdegni  amorosi  ».  Vedi  Obser- 
vations  sur  la  comédie  et  sur  le  genie  de  Molière  ecc.,  p.  146.  Cfr.  inoltre 
quanto  lo  stesso  Eiccoboni  aggiunge  nella  Histoire  du  theàtre  italien  depuis 
la  de'cadence  de  la  come'die  latine,  ed.  1731,  II,  p.  218.  Nulla  trovasi  al  ri- 
guardo negli  scritti  dei  Parpaict  {Dictiomiaire  ;  Histoire  de  V ancien  theàtre 
italien),  i  quali  indicano  solo  che  il  Dépit  del  Molière  fu  rappresentato  nel 
dicembre  1658. 


374 


P.    TOLDO 


L'  «  argomento  »,  riferito  in  extenso,  offre  scarsissima  analogia 
col  molieresco  e  certa  scena  pur  riferita  per  intiero  e  di  cui 
dovrebbe  essere  calco  la  terza  del  IV  atto  del  Bèpit,  questa  non 
ricorda  che  per  il  motto  finale,  il  quale,  analizzato  attentamente, 
significa  poi  ben  altra  cosa  (1).  Su  questi  bei  fondamenti  il  cri- 


(1)  Perchè  la  dimostrazione  sia  evidente  e  perchè  il  testo  del  Cailhava  è 
poco  accessibile,  riferisco  la  scena  per  intiero: 

Flaminio,  Diana. 

Diana  (à  part).  —  . . .  mais  si  je  ne  l'ócoute  point,  je  lui  paraìtrai  injuste,  et  je  veux 
le  oonfondre. 

Flaminio.  —  Avez-vous  fini  ? 

Diana.    -  Je  n'ai  pas  encore  commeucé,  jngez  si  j'ai  fini. 

Flaminio.  —  Écoutez-moi,  ou  je  sors. 

Diana.  —  He  bien  !  cesse-t-il  de  m'irriter! 

Flaminio.  —  Oh  !  vous  feignez  d'étre  irritée  ;  vous  avez  trop  bien  pris  vos  mesures 
pour  Tètre  réellement. 

Diana.  —  Vous  ne  pouvez  pas  en  juger,  parce  que  l'amotir  que  vous  avez  pour 
Béatrix  vous  aveugle  sur  le  mien. 

Flaminio.  —  Il  ne  m'aveugle  pas  si  fort  que  je  ne  voie  aveo  peine  votre  ingrati- 
tude.  J'ai  dans  mes  mains  la  lettre  que  vous  avez  éerite  à  Silvio.  Le  voilà,  ce 
témoin  de  votre  trahison. 

Diana.  —  J'ai  éorit  cette  lettre,  il  est  vrai,  mais 

Flaminio  (l'interrompant).  —  Qu'est-ce  ?  que  pouvez-vous  dire  ?  Avouez  votre  per- 
fidie. Oserez-vous  encore  vous  dire  innocente? 

Diana.  —  Laissez-moi  du  moins  finir  ce  que  j'ai  à  vous  dire,  et  vous  me  eon- 
damnerez  ensuite  si  je  le  mérite. 

Flaminio.  —  Non,  il  n'est  pas  besoin  de  grandes  réflexions  quand  la  chose  est 
evidente. 

Diana.  —  C'est  vous  qui  me  faites  une  perfidie  très  evidente,  lorsque,  charme  des 
beautés  de  Béatrix,  vous  renoncez  à  mon  amour,  pour  devenir  son  époux. 

Flaminio.  —  J'ai  conserve  mon  amour  pour  vous  tant  que  vous  m'avez  conserve 
la  foi  que  vous  m'aviez  promise  ;  à  présent  que  vous  manquez  à  votre  parole, 
il  m'est  permis  d'épouser  qui  bon  me  semble. 

Diana.  —  He  bien  !  restez  dans  votre  erreur,  puisque  vous  ne  voulez  pas  écouter 
ce  qui  peut  me  justifier. . .  mais  non;  admirez  jusqu'où  je  pousse  ma  bontó 
pour  vous,  quoique  vous  en  soyez  indigne.  Écoutez-moi  du  moins  ;  je  vous  le 
demande  au  nom  de  notre  ancienne  tendresse,  puisque  vous  voulez  qu'elle 
finisse  ;  apprenez  ce  que  je  dis  pour  ma  défense. . .  Vous  étes  bien  inhumain  si 
vous  me  refusez  cette  gràoe. 

Flaminio.  —  Parlez,  mais  abrégez. 

Diana.  —  Que  le  Ciel  soit  loué  !. . .  Apprenez  que  je  n'ai  éorit  à  Silvio  que  pour 
me  conserver  à  vous  en  diflfórant  cet  hymen  funeste  auquel  mon  pére  vouloit 
me  forcer;  mais  j'étois  résolue  à  mourir  avant  de  le  terminer.  J'en  prends  à 
témoin  tous  les  Dieux  du  Ciel,  mon  amour,  mon  innocence,  et  vous  qui  ré- 
pondez  à  ma  tendresse  aussi  vive  avec  la  plus  grande  ingratitude.  Mon  cher 
Flaminio,  trop  injuste  Flaminio,  donnez-moi  la  mort  pour  me  punir  des  torta 
que  vous  me  supposez,  ou  rendez-moi  votre  amour  eu  récompense  de  la  foi 
que  je  vous  ai  conservóe. 

Flamiitio.  —  En  voilà  suffisamment,  ma  chère   Diana,   en   voilà  suffisamment.  je 


T  ARIETI  375 

tico  dichiara  :  «  Les  scènes  du  dépit  entre  Éraste  et  Lucile  sont 
«  prises  dans  une  comédie  italienne  intitulée  Gli  sdegni  amo- 
«  rosi  »,  e  più  lungi  :  «  Les  scènes  dans  lesquelles  Marinette  et 
«  Gros  René  parodient  leurs  maìtres,  sont  tirées  de  la  mème 
«  pièce  italienne  ».  Per  lui  la  dimostrazione  «  crève  les  yeux  »  (i) 
e  s'aggiunga  che  la  famosa  scena  è  dal  Cailhava  volta  in  fran- 
cese, sicché  citandola  ad  orecchio  e  rimaneggiandola  nella  sua 
lingua,  egli  poteva  adattarla  alla  dimostrazione  della  propria  tesi. 
È  noto  l'umor  «  accomodante  »  dei  critici  di  quel  tempo  e  non 
di  quel  tempo  soltanto. 

Grli  Sdegni  amorosi  che  pubblico  oggi,  comunicatimi  dalla 
cortesia  dell'egregio  collega  prof.  Emilio  Tron,  provano  ancor 
meglio  l'inanità  di  certe  pretese  origini  (2).  Constatiamo  subito 


oonnais  que  je  suis  le  seul  coupable  ;  et  pour  vous  avoir  cru  infidèle,  j'avois 
feint  d'aimer  une  autre  personne  ;  mais  cette  feinte  ne  m'a  été  dictée  que  par 
la  vengeance,  mon  cceur  n'y  a  pas  eu  la  moindre  part. 

Diana.  —  Je  mets  tout  sur  le  compte  de  quelques  fausses  apparences  auxquelles 
vous  avez  ajouté  foi  trop  légèrement.  Je  vous  ordonne.  pour  votre  pénitence, 
de  m'aimer  autaut  que  je  le  inerite  ;  et  puisque  mon  péro  est  sorti,  ramenez-moi 
dans  ma  ìnaùon  ;  nous  chercherons  ensemble  les  moyens  de  nous  unir  bientót. 

Flaminio.  —  Je  me  félioite  de  mon  erreur,  puisqu'elle  me  fait  connoìtre  la  pureté 
et  la  vivacité  de  votre  amour. 

Tirate  le  somme,  la  scena  molieresca  e  questa  sono  così  diverse  che  ben  si 
concepiscono  indipendenti  l'una  dall'altra;  qui  Diana  fa  i  primi  passi,  si  scusa, 
chiede  perdono  ed  amore  e  come  è  ra^onevole,  almeno  in  teatro,  Flaminio 
riconosce  i  propri  errori  e  s'intenerisce  alla  sua  volta.  La  Lucile  del  Molière 
fa  invece  i  capriccetti  (IV,  3)  ed  è  l'amante  Eraste  che  fa  «  les  avances  ».  La 
simiglianza  di  certa  espressione  dello  scenario  «  ramenez-moi  dans  ma  maison  ; 
«  nous  chercherons  ensemble  ecc.  »  ha  ben  poca  relazione  col  «  ramenez-moi 
chez  nous  »  di  Lucile,  in  quanto  che  il  motto  di  quest'ultima  altro  non  è 
che  un  modo  indiretto  e  ben  femminile  per  far  capire  come  essa  sia  disposta 
al  perdono.  Tutti  i  particolari  più  notevoli  della  scena  del  Dépit,  quello  so- 
vrattutto  della  restituzione  dei  doni  e  della  parodia  dei  servi,  non  trovansi 
nel  testo  italiano. 

(1)  Cfr.  De  Vari  de  la  comédie,  cit.  a  pp.  24  e  35. 

(2)  Il  nostro  ms.  è  indicato  a  pp.  179-180  del  voi.  Ili  {h^  degU  Indici  é 
Cataloghi)  dei  Manoscritti  italiani  delle  biblioteche  di  Francia  e  il  Mazza- 
tinti  scrive: 

[Bibl.  di  Rouen.  Fondo  Coquebert  de  Mbntbret]  :  10  (sec.  X\ai) 
«  Gli  sdegni  amorosi,  burletta  di  comedia  [all' improvviso,  per  S.  Frandaglia 
«  da  Val  di  Sturla.  25  novembre  1651  ». 

Il  ms.,  catalogato  alla  bibl.  di  Eouen  col  n»  667,  è  scritto  in  16  pp.,  ed  alla 


376  P.    TOLDO 

che  fra  l'opera  del  Frandaglia  e  quella  citata  dal  Gailhava  cor- 
rono stretti  vincoli.  Si  confrontino  gli  argomenti.  «  Diana  »,  ri- 
ferisce il  Gailhava,  «  voulant  conserver  sa  main  a  Flaminio,  a 
«  écrit  a  Silvio,  à  qui  on  la  destine ,  pour  le  prier  de  dififérer 
«  le  mariage.  Flaminio  enlève  cette  lettre  a  Arlequin,  de\dent 
«  jaloux,  et  feint  de  s'attacher  à  Béatrix  pour  se  venger  de  celle 
«  qu'il  croit  infidèle.  Diana  et  Flaminio  sont  dans  cette  situation, 
«  quand  ils  se  rencontrent  ;  Famant  veut  parler,  l'amante  l' in- 
«  terrompt  a  plusieurs  reprises  ».  Tale  è  pure  la  trama  su  cui 
svolgesi  la  commedia  del  Frandaglia;  identicità  dunque  d'in- 
trighi, di  equivoci  e  delle  «  amantium  irae  ».  Identici  pure  il 
sequestro  della  lettera  al  servo  gonzo  e  i  contrasti  fra  gli  amori 
dei  padroni  e  quelli  degli  zanni  e  chi  sa  quali  altre  simiglianze 
potevano  balzar  fuori  dalle  scene  appena  abbozzate  del  cane- 
vaccio! Insomma,  tutti  questi  Sdegni  riferiti  dal  Riccoboni  e 
dal  Gailhava  o  composti  da  messer  Frandaglia  e  compagnia  sono 
su  per  giù  la  stessa  cosa  e  secondo  ogni  probabilità  risalgono 
ad  uno  scenario  prototipo.  Le  contese  degli  amanti  e  il  loro  rap- 
pacificarsi danno  grazia  al  teatro  comico  e  rappresentano  quindi 
uno  degli  argomenti  più  diffusi,  anzi  si  può  dire  che  se  ci  fosse 
accordo  perfetto  fra  gli  amanti  più  che  metà  delle  produzioni 
non  reggerebbero  in  piedi.  Quanto  a  Molière,  può  darsi  anche 
che  qualcosa  di  questo  genere  abbia  udito  di  nostro  e  rimaneg- 
giato da  pari  suo,  ma  tanto  valeva  che  aprisse  la  finestra  e 
guardasse  nella  via,  che  l'ispirazione  di  qui  tratta  non  è,  in  al- 
cuna guisa,  sensibile,  ne  offre  linee  particolari.  Poco  monta  d'al- 
tronde la  trama;  quello  che  importa  è  la  finezza  e  la  bontà  del 
tessuto. 

Cosi  sfatata  ancora  una  volta,  sino  a  prova  più  convincente, 
la  leggenda  di  Molière  scolaro  di  Scaramuccia,  resta  a  dire  qual- 


«  burletta  »  seguono  alcune  «  Dichiarationi  et  instrutioni  d'alcune  scene  »  che 
non  aggiungono  cosa  notevole  all'intreccio.  Poi  una  lettera  «  All'assai  messer 
Garauglia  »  datata  da  «  Val  di  Sturla  li  25  novbre  1651  »  e  firmata  «  Fran- 
daglia di  Val  di  Sturla  » ,  il  quale  vi  si  rivela  autore  dello  scenario  da  lui  in- 
titolato «  burletta  di  comedia  ».  Chi  sieno  i  due  corrispondenti  ignoro.  Segue 
in  fine  La  finta  rapita,  vera  commedia  sceneggiata  dello  stesso  autore  e  de- 
dicata parimenti  «  all'assai  messere  Garauglia  della  Gorgona,  recitata  al  sere- 
«  nissimo  Senato  di  S,  Marino  dalli  antichissimi  fratelli  della  compagnia  de' 
«  Rovinati,  1651  ». 


VARIETÀ  377 

cosa  dell'opera  del  Frandaglia,  considerata  in  sé,  nei  suoi  pregi 
0  meglio  nei  suoi  difetti.  Anche  ammessa  in  larga  misura  l'arte 
vivificatrice  del  dialogo,  bisogna  pur  riconoscere  che  questo 
scheletro  non  lascia  supporre  venustà  di  corpo.  La  scena  è  nuda, 
semplicissima,  il  che  sarebbe  un  pregio  se  la  nudità  rivelasse 
grazie  di  forme.  Sono  due  case  e  una  piazza  ove  le  maschere 
s'incontrano,  garriscono,  fanno  lazzi  e  rivelano  i  loro  segreti  in 
soliloqui  cosi  misteriosi  che  tutti  li  intendono,  quelli  special- 
mente che  non  dovrebbero  saperne  nulla.  L'argomento  serve  di 
pretesto  agli  esercizi  funambulistici  e  mimici  degli  attori.  Quanto 
al  luogo  dell'azione,  più  ampia  libertà  non  si  potrebbe  deside- 
rare: «(essa) si  vuol  fingere  in  qual  si  voglia  luogo  o  città, 

«  secondo  il  gusto  di  quelli  che  reciteranno  »,  ed  è  in  tal  modo 
che  la  scena  dell'arte  italiana  s'adatta  facilmente  ai  più  lontani 
paesi. 

Qui,  fra  le  maschere  antiche,  quelle,  per  es.,  del  repertorio 
di  Flaminio  Scala,  Pantalone,  Graziano,  Isabella  e  via  dicendo, 
spunta  l'adunco  naso  di  Pulcinella  e  Coviello  dimena  i  rapaci 
artigli;  il  povero  Arlecchino,  già  deus  ex  machina  d'ogni  in- 
trigo, non  esce,  pel  momento,  dalle  quinte. 

Peggior  genia  di  questi  zanni  non  si  potrebbe  trovare,  ma 
son  pur  sempre  i  difetti  della  razza  esposti  precedentemente 
dalla  commedia  erudita  e  popolare.  Il  servo  è  vile,  ladro,  mez- 
zano e  peggio  ed  è  in  questo  classicissimo  e  classicissimo  è  pure 
nell'arte  di  drizzar  trappole,  sciogliere  situazioni  imbrogliate  e 
spillar  quattrini  a  destra  ed  a  manca.  Di  nuovo  trovi  tuttavia 
maggiore  libertà  di  mosse  ;  col  padrone,  Coviello  prende  licenze 
ignote  alla  «  verberea  statua  »  del  teatro  plautino.  Ci  tiene  lo 
zanni  al  suo  posto  e  più  ai  dolci  ozi,  ma  già  tanto  sa  di  non 
aver  da  temere  né  corda,  né  sferza.  Se  cosi  si  stilla  il  cervello, 
gli  è  un  po'  per  amor  proprio  e  un  poco  anche  per  formarsi, 
come  oggi  si  dice,  una  posizione;  dopo  aver  concluso  il  matri- 
monio del  padroncino,  concluderà  il  proprio.  «  Qui  de  gladio  ferit, 
de  gladio  perit  ».  Le  sue  bricconate  non  gli  contendono,  del  resto, 
le  simpatie  del  pubblico,  non  solo  perché  nel  pubblico  trovansi 
quelli  che  di  bricconate  fanno  tesoro,  ma  anche  pel  buon  fine  cui 
mira  e  pel  lieto  fine  che  impone  alla  cojamedia.  E  poi  come  non 
interessarsi  a  quella  lotta  dell'astuzia  con  la  forza,  l'eterna  storia 
del  «  renard  »  popolare,  a  quelle  cadute  subito  seguite  da  mera- 
vigliose vittorie?  Voi  credete  Coviello  per  sempre  perduto  ed 
eccolo  alla  ribalta,  ilare,  trionfante,  fiancheggiato  dagli  amanti 


378  P.    TOLDO 

che  ha  reso  lelici  e  facendo  sberrettate  al  pubblico.  E  il  pub- 
blico deve  naturalmente  applaudire. 

Il  povero  Pulcinella  è  invece  in  piena  decadenza.  Mai  l'ab- 
biamo visto  cosi  melenso,  neppur  quando  cavalcava  l'asino  dalla 
parte  della  coda.  Il  disgraziato  viene  di  lontano,  dal  mezzodì 
senza  dubbio,  rifinito,  affamato,  pezzente.  Assunto  servitore  per 
compassione,  se  e  gli  altri  inganna  e  s'impiglia  in  tutte  le  panie 
che  l'allegro  compare  gli  tende.  Allora  s'arrabbia,  schizza  ve- 
leno, minaccia.  Nelle  sue  vendette,  non  potrebbe  mostrarsi  più 
grossolanamente  screanzato.  Veggasi  questa  :  Isabella  e  Violetta, 
che  ne  sono  stufe,  lo  picchiano  e  lo   scacciano.  Allora  (verba 

non  rubescunt)  Pulcinella  «  si  slaccia  i  calzoni  per  e su  la 

porta  ».  Violetta  non  si  confonde  per  cosi  poco,  e  messa  mano 
a  certa  stoppa,  gliela  attacca  alla  camicia  «  et  li  dà  fuoco  et  esso 
se  ne  parte  fuggendo  ».  Bello,  edificante  spettacolo  pel  gentil 
sesso  d'Italia  e  di  Francia! 

Come  il  senex  della  commedia  classica,  il  dottor  Graziano  e 
messer  Pantalone  hanno  grinze  nel  volto  e  nell'anima  e  s'im- 
pantanano in  ogni  vizio.  Graziano  fa  pancia  e  tasca  della  roba 
dei  clienti  ;  Pantalone  pretende  che  i  suoi  figli  si  sposino  come 
vuole  lui  e  che  facciano  presto  perchè  Violetta  gli  piace  e  in- 
tende condursela  in  casa  e  «  pigliarsi  ancor  lui  i  suoi  spassi  » 
senza  soggezione  alcuna.  E  qui  Frandaglia  cade  poi  in  luoghi 
comunissimi.  Pantalone  innamorato  chiede  aiuto  a  Coviello,  ma 
anche  Pulcinella  è  innamorato  e  per  aiuto  pure  a  Coviello  si 
rivolge.  Questi  ride  e  fa  lazzi.  A  Pulcinella  consiglia  di  vestirsi 
da  donna  ed  a  Pantalone  di  venir  di  notte  sulla  piazzetta.  Cosi 
fanno,  ed  egli  li  mette  assieme  e  li  spinge  in  casa.  La  disillu- 
sione d'entrambi,  che  rientrano  in  scena  svestiti  e  raccontano 
i  loro  guai,  rallegra  Coviello  ed  il  pubblico  e  contribuisce  an- 
ch'essa alla  educazione  morale.  È  la  stessa  avventura  che  si  ri- 
pete in  infinite  novelle  e  farse. 

Reca  l'albero  rami  di  simigliahte  natura  e  ben  si  capisce  che 
scuola  sia  questa  di  riverenza  e  di  costumatezza  pei  figli.  At- 
tendono costoro  a  godersela  in  vani  spassi  ed  amori  e  gettano 
ai  quattro  venti  la  fortuna  accumulata  dalla  paterna  avarizia. 
Volete  una  prova  di  rispetto  filiale  ?  Ecco  Lelio  che  si  presenta 
a  Pantalone  e  questo  prega  di  benedirlo.  Pantalone  acconsente 
e  Lelio  prorompe  in  una  risata.  S'è  fatto  benedire  soltanto  per 
aver  fortuna  al  gioco  ;  del  resto,  della  benedizione  paterna  se  ne 
ride  e  glielo  dice  in  faccia.  Né  mancano  le  lezioni  di  modestia  alle 


VARIETÀ  379 

ragazze.  Isabella  ascolta  alfine  i  sospiri  di  Lelio  e  d'accordo  con 
Coviello  concede  all'innamorato  un  convegno  notturno.  Le  pa- 
role d'ordine  per  introdurlo  in  casa  sono  di  per  sé  al)bastanza 
significative.  Lelio  «  dice  porta  ;  essa  risponde  aperta...  Lelio 
«  dice  ì)Otte,  essa  li  risponde  con  la  cannella.  Coviello  li  dice 
«  che  vada  a  mettere  la  cannella  alla  botte  »  ;  e  parmi  inutile 
aggiungere  quei  chiarimenti  di  cui  Coviello  doveva  certamente 
gratificare  gli  uditori. 

È  cosi,  che  anche  sotto  tale  rispetto,  la  commedia  del  Molière 
segna  notevoli  progressi;  nulla  d'umano  è  taciuto,  ma  davanti 
ai  grandi  caratteri  ed  ai  vigorosi  sdegni,  sfumano,  scompaiono 
gli  intrighi  e  i  motti  salaci  di  Sganarello  e  di  Scappino  e  l'ir- 
riverenza dei  figli  d'Arpagone;  ciò  che  era  fine  diventa  mezzo 
e  da  quell'arte  affogata  nel  sudiciume  zannesco  spuntano  fiori  e 
maturano  frutti  squisiti. 

Pietro  Toldo. 


GLI  SDEGNI  AMOROSI 

Burletta   di   Commedia   ai-l'Inproa^is 


Interlocutori. 

\.  Pantalone 

2.  Graziano 

3.  Coviello,  servo  di  Pantalone 

4.  Isabella,  figlia  di  Graziano 

5.  Leonora,  figlia  di  Graziano  (non  comparisce) 

6.  Lelio,  figlio  di  Pantalone 

7.  Silvio,  figlio  di  Pantalone  (non  comparisce) 

8.  Violetta,  serva  d'Isabella 

9.  Pulcinella,  servo  d'Isabella. 

Prima  casa. 
Gratiano,  Isabella,  Leonora  figlie;  Violetta  et  Pulcinella  servi. 

Seconda  casa.^ 
Pantalone;  Lelio,  Silvio  figli;  Coviello  servo. 

Fuor  di  scena. 
Il  priore  della  comunità. 


380  P.    TOLDO 

Cose  necessarie. 

Una  veste  da  donna  per  Pulcinella;  fuoco  et  stoppa  per  fare  la  burla  al 

medesimo  Pulcinella. 
La  scena  si  puoi  fingere  in  qual  si  voglia  luogo  o  città,  secondo  il  gusto  di 

quelli  che  reciteranno. 


ATTO     PFIIMO 

SCENA  I. 
Graziano  et  Pantalone. 

Escono  discorrendo  de  proprij  interessi;  Pantalone  si  lamenta  d'aver  per 
figlio  Lelio  assai  discolo;  Graziano  dice  d'esser  disperato  non  sapendo  come 
farsi  a  maritar  Leonora  sua  figlia,  stante  la  sua  bruttezza  per  la  quale  è  ne- 
cessitato a  farla  star  in  villa;  onde  s'accordan  insieme  di  maritar  con  Lelio 
Leonora  et  con  Silvio  Isabella,  s'accordan  di  ritrovarsi  assieme,  et  Gratiano 
parte  per  andar  ad  agitar  non  so  che  lite.  Kesta  Pantalone  rallegrandosi  di 
aver  aggiustato  questo  negozio,  et  poi  parte  per  Piazza. 

SCENA  n. 
Lelio  et  Coviello. 

Lelio  narra  i  suoi  amori  a  Coviello  et  esso  finge  non  intenderlo,  sopra  di 
che  scherzano;  alla  fine  Lelio  dice  esser  innamorato  d'Isabella  et  Coviello  si 
dichiara  amante  di  Violetta;  batte  Coviello  alla  casa  d'Isabella  acciò  Lelio 
li  parli  et  lui  possa  discorrere  con  Violetta. 

SCENA  m. 
Li  sopradetti,  Isabella  et  Violetta. 

Violetta  risponde,  et  poi  va  alla  porta,  Coviello  li  parla  amorosamente,  poi 
lo  lascia  dicendo  che  così  gli  ha  ordinato  la  padrona  per  causa  di  Lelio  col 
quale  è  in  collera  ;  Coviello  dice  il  tutto  a  Lelio,  quale  va  in  persona  a  parlar 
a  Violetta  pregandola  a  chiamar  Isabella  :  ella  doppo  molte  repulse  lo  chiama. 
Isabella  vien  fuora  et  domanda  perchè  l'ha  chiamata  et  sentito  ciò  esser  per 
causa  di  Lelio  la  batte  ;  Lelio  s'accosta  per  parlarli  et  è  da  lei  scacciato,  quale 
si  parte  con  Violetta  ;  resta  Lelio  lamentandosi  ;  Coviello  lo  consola,  et  l'esorta 
a  finger  di  non  amarla;  esso  vi  consente,  et  partono. 

SCENA  IV. 
Pulcinella  da  pezzente. 

Pulcinella  esce  lamentandosi  di  sua  mala  fortuna,  deve  morirsi  di  fame  et 
cerca  padrone;  in  questo  mentre 


VARIETÀ  381 


SCENA  V. 
Isabella,  Violetta  ;  et  Pulcinella. 

che  Pulcinella  discorre,  esce  fuor  Isabella  dicendo  a  Violetta  che  li  pareva  di 
aver  fatto  bene  a  discacciar  Lelio  acciò  inparassi  per  l'avenire  ad  esser  fedele  ; 
Pulcinella  li  vede  et  li  va  a  domandar  limosina;  fanno  diversi  discorsi;  alla 
fine  Isabella  lo  piglia  servitore,  et  si  partono. 

SCENA  VI. 
Graziano,  Pantalone,  Isabella  et  Violetta. 

Ritorna  Graziano  dalla  sua  lite;  et  dice  d'aver  fatto  stipular  il  contratto 
per  la  dote  et  che  vuol  trovar  Pantalone  per  leggerlilo  :  in  questo  esce  Pan- 
talone, si  salutano  et  Graziano  li  dice  d'aver  fatto  il  contratto  di  propria 
mano  ;  et  poi  chiama  Isabella  sua  figlia  dicendoli  d'averla  maritata  con  Silvio 
figlio  del  sig.'"^  Pantalone;  quella  dice  non  volerlo;  in  questo  esce  Lelio  et 
si  pone  ad  ascoltar  il  tutto  ;  Isabella  lo  vede,  et  si  fanno  assieme  molti  cenni 
sdegnosi  con  minacciarsi;  vedendo  ciò  Pantalone,  né  sapendo  a  chi  Isabella 
facessi  quei  cenni,  comincia  a  gridare  che  l'è  spiritata,  et  che  non  vuol  più 
che  il  parentado  vada  avanti  per  che  non  vuol  spiritati  per  casa.  Graziano 
dice  non  esser  ciò  vero,  onde  s'aggiustano;  et  Isabella  et  Violetta  entrano  in 
casa  per  comandamento  del  Graziano  ;  et  esso  si  parte  per  piazza  a  far  provi- 
sione ;  resta  Pantalone  dicendo  essersi  innamorato  di  Violetta  et  che  vuol  ten- 
tare (accomodati  i  figli)  di  pigliarsi  ancor  lui  i  suoi  spassi. 

SCENA  VII. 
CoviELLo  et  Violetta. 

Coviello  fantastica  sopra  la  repulsa  avuta  da  Violetta,  vuol  chiarirsi  se  ella 
l'ami  0  no,  onde  batte  alla  sua  porta;  essa  vien  fuora  et  comincia  a  bravarlo, 
esso  li  dice  che  se  seguitare  a  star  così  cruda  con  lui  lo  sforzerà  ad  uccidersi, 
essa,  acciò  s'uccida,  li  porta  una  spada.  Coviello  fa  un  lamento  et  poi  finge 
ammazzarsi  ;  ciò  credendo  Violetta  esce  a  piangerlo  ;  et  nel  dire  che  gl'aveva 
apparecchiato  un  buon  piatto  di  maccheroni,  s'alza  Coviello  in  furia  et  ab- 
bracciandola entrano. 

ATTO   SECONDO 

SCENA  I. 
Isabella,  Violetta  et  Bblcinella. 

Esce  Isabella  dicendo  di  voler  dare  ogni  sorte  di  martello  à  LeUo  et  però 
dice  aver  scritta  una  lettera  a  Silvio  acciò  venghi  da  lei;  fa  chiamar  Pulci- 
nella quale  finge  dormire;   alla  fine  esce  mezzo  dormiglioso.   Isabella  li  dice 


382  P.    TOLDO 

che  li  porti  quella  lettera  et  esso  risponde  che  non  vuol  far  il  rufiano;  alla 
fine  si  contenta  et  loro  li  dicono  che  l'acconpagni  al  giardino  ;  et  partono. 

SCENA  n. 
Lelio,  Coviello  et  Pulcinella. 

Lelio  si  lamenta  d'isahella,  Coviello  dice  che  è  stato  con  Violetta  et  che 
è  poi  uscito  per  la  porta  falsa;  in  questo  esce  Pulcinella  con  la  lettera,  di- 
cendo che  il  desiderio  di  servir  la  sua  padrona  l'ha  fatto  tornar  in  dietro  et 
che  la  padrona  per  non  so  che  negozij  se  n'è  tornata  a  casa  per  la  porta  falsa. 
Coviello  con  astuzia  li  leva  la  lettera  ;  nel  che  scherzano  insieme  ;  et  alla  fine 
Pulcinella  parte.  In  questo  esce  Pantalone;  et  Lelio  e  Coviello  si  ritirano; 
resta  però  Lelio  in  modo  che  da  Pantalone  è  visto. 

SCENA  m. 
Pantalone,  Lelio  ;  Isabella  dalla  porta  osservando. 

Tratta  Pantalone  con  Lelio  dicendoli  che  l'ha  sposato  con  Leonora,  queUo 
dice  non  volerla;  in  questo  volendo  uscir  Isabella  di  casa,  vedendo  questi  si 
ferma  su  la  porta  ad  ascoltarli,  et  vedendola  Lelio  per  farli  dispetto  dice  di 
contentarsi  ;  essa  si  ritira  restando  Pantalone  et  Lelio  litigando  perchè  Lelio 
appena  visto  partire  Isabella  dice  di  non  voler  più  Leonora;  parte  alla  fine 
Lelio,  resta  Pantalone  maledicendolo;  in  questo  ritorna  Lelio,  scherzano,  ed 
alla  fine  scuopre  a  Pantalone  la  causa  perchè  è  tornato,  cioè  per  farsi  ribe- 
nedire acciò  giocando  non  perda,  et  ribenedetto  se  ne  parte  ridendo.  Resta 
Pantalone  in  collera,  pure  alla  fine  si  dà  pace,  considerando  che  di  tutto  questo 
n'è  causa  amore  per  il  quale  ancor  lui  benché,  vecchio  perde  il  cervello. 

SCENA  IV. 
Coviello  et  Pantalone. 

In  questo  esce  Coviello  raccontando  la  gloria  del'  (sic)  anima  sua  Violetta. 
Pantalone  lo  vede  ;  et  lo  grida  perchè  non  si  lasci  mai  vedere  ;  et  poi  li  chiede 
aiuto  nell'amor  suo  con  Violetta.  Coviello  dice  di  volerlo  burlare  et  li  pro- 
mette servirlo  dopo  di  aver  con  Violetta  familiarità  però  che  si  lasci  vedere 
a  2  ore  di  notte;  et  sentendo  dire  ostriche  di  bucazzo  risponda  cappe  lunghe; 
et  cappe  tonde  ;  che  così  sarà  introdotto,  ed  in  questo  Pantalone  se  ne  parte 
tutto  allegro. 

SCENA   V. 
Coviello,  Pulcinella,  Isabella  et  Lelio  da  parte. 

Resta  Coviello  burlandosi  dell'amor  di  Pantalone,  in  questo  esce  Pulcinella 
dicendo  che  amore  li  ha  smagherato  per  una  serva  di  Pantalone  et  che  aven- 
d'animo  di  sposarla,  vorria  di  ciò  scriverne  una  lettera  a  sua  madre,  et  ve- 


VARIETÀ  383 

dendo  Coviello  lo  prega  a  farli  questo  servizio  ;  scherzano  nel  trovar  modo  da 
scriverla  ;  alla  fine  trovanlo  ;  passa  per  la  scena  Lelio,  quale  vedendo  Isabella 
alla  finestra  l'ingiuria  ;  et  essa  lui  ;  et  Coviello  pensando  che  fosse  Pulcinella 
quello  che  parlava  scrive  nella  lettera  tutte  quelle  ingiurie  et  finito  di  scri- 
verla la  legge;  onde  esso  è  (sic)  Pulcinella  ne  vengono  alle  mani;  doppo  si 
pacificano  ;  et  Pulcinella  li  scuopre  il  suo  amore  ;  et  Coviello  dice  volerlo  aiu- 
tare, onde  venga  a  2  hore  di  notte  ;  ma  che  per  non  esser  conosciuto  si  vesta 
da  donna  ;  et  questo  però  li  lo  dice  nell'orecchio  ;  poi  diceli  forte  che  quando 
sentirà  dire  pignatte  maritato  risponda  con  la  pettorina  ;  Coviella  si  parte  ; 
et  resta  Pulcinella  sopra  ciò  discorrendo. 

SCENA  VI. 
Pulcinella,  Isabella  et  Violetta. 

Mentre  discorre  Pulcinella,  esce  Isabella  et  Violetta  et  li  domandano  se  ha 
fatto  quel  servizio;  esso  scherza,  alla  fine  li  dicono  se  ha  portata  la  lettera; 
e  scoperto  aver  fatto  il  contrario  ne  vien  battuto,  et  poi  quelle  entrano  in 
casa;  resta  Pulcinella  piangendo;  et  volendosi  vendicare  si  slaccia  i  calzoni 
per  cacarli  su  la  porta,  et  dice  Violetta  di  dentro  (Si  è  aspetta)  gli  attacca 
alla  camicia  della  stoppa,  et  li  da  fuoco  et  esso  se  ne  parte  fuggendo. 

ATTO     TBIiZO 

SCENA  I. 
Isabella  et  Violetta. 

Esce  Isabella  dei  suoi  successi  amorosi  querelandosi  et  mentre  quasi  dispe- 
rata sta  per  tramortire  esce  Violetta  a  soccorrerla  ;  quella  per  un  poco  resta 
svenuta  nelle  sue  braccia,  alla  fine  ritorna  ;  et  Violetta  la  consola  et  conduce 
in  casa  dicendo  che  non  vuol  gl'avenga  qualche  male  in  strada;  et  così  partono. 

SCENA  n. 
Coviello  et  Pulcinella. 

Coviello  dice  voler  tentar  tutte  le  strade  acciò  Lelio  abbi  il  possesso  d'Isa- 
bella; in  questo  esce  Pulcinella  con  un  bastone  per  bastonar  Coviello  per  la 
burla  fattali,  scherzano  sopra  il  bastone  ;  et  Pulcinella  alla  fine  parte  ringra- 
ziando Coviello  et  dicendoli  s'arricordi  del  suo  servizio.  Resta  Coviello. 

SCENA  HL 
Coviello  et  Lelio. 

Mentre  Coviello  si  Imrla  di  Pulcinella,  esce  Ldio  dicendo  esserli  impossibile 
il  poter  più  vivere  et  fingendosi  disperato  mette  mano  alla  spada  per  ucci- 
dersi. Coviello  che  fin  allora  era  stato  a  vedere,  corre  a  soccorrerlo  et  per  con- 
solarlo li  promette  il  possesso  d'Isabella  et  perciò  batte  alla  sua  porta. 


384  P.    TOLDO 

SCENA  IV. 
Lì  sopradetti  et  Isabella. 

Eisponde  Isabella  di  casa  poi  vien  alla  porta;  et  grida  Coviello;  alla  fine 
li  domanda  che  vuole,  quello  li  dice  che  Lelio  li  vuol  parlare,  lei  non  ne  vuol 
saper  niente;  pure  alla  fine  si  contenta  ma  non  vuol  vederl'in  faccia;  si  volta 
Coviello  facendo  cenno  a  Lelio  ch'il  partito  è  vinto  ;  alla  fine  li  fa  pacificare 
et  si  danno  la  posta  per  le  3  hore  di  notte;  con  il  segno  porta]  quella  ri- 
sponde aperta  ;  et  sentendo  dir  botte  Isabella  risponde  coìi  la  cannella.  Lelio 
si  parte  contento,  Isabella  entra  in  casa,  et  Coviello  si  parte. 

SCENA  V. 
Graziano   solo. 

Esce  Graziano  arrabbiato  dicendo  di  voler  più  tosto  dar  la  figlia  al  boia 
che  al  figlio  di  Pantalone,  perchè  questo  si  va  vantando  di  mille  spropositi 
per  le  barberie  et  che  non  vuol  matti  in  casa  essendo  lui  dottor  qualificato 
et  poi  parte  per  andar  a  cercar  di  Pantalone. 

SCENA  VI. 
Coviello,  Pantalone  et  Pulcinella. 

Esce  Coviello  dicendo  che  già  saranno  vicine  le  2  hore  et  che  non  potranno 
stare  i  merlotti  a  venire  ;  in  questo  esce  Pantalone  ringraziando  le  3  hore  et 
sentito  da  Coviello  dà  il  segno  ;  et  lo  fa  aspettar  da  una  parte  ;  in  questo  esce 
Pulcinella  vestito  da  donna,  fa  l'istesso;  et  Coviello  lo  dà  per  mano  a  Pan-, 
talone  et  questi  se  n'entrano;  resta  in  scena  Coviello. 

SCENA  vn. 

Coviello  ;  Lelio  et  Isabella  in  casa. 

Discorre  Coviello  sopra  il  desiderio  che  ha  che  Lelio  venga  ;  in  questo  quello 
viene  ;  s'incontrano  et  lo  fa  ritirare  poi  s'accosta  alla  porta  d'Isabella  dicendo 
porta,  essa  risponde  apeHa]  fa  poi  accostar  Lelio  quale  dice  botte,  essa  li 
risponde  con  la  cannella.  Coviello  li  dice  che  vada  a  metterla  la  cannella  alla 
botte  dicendo  che  sarà  poi  pensier  suo  far  in  modo  ch'i  padri  ancora  di  tal 
matrimonio  si  contentino;  et  parte. 

SCENA  vm. 

Pantalone  et  Pulcinella  da  donna. 

Esce  Pantalone  col  lume  mezzo  spogliato  dicendo  di  aver  trovato  in  cambio 
di  Violetta  il  diavolo  et  Pulcinella  dice  di  aver  trovo  (sic)  in  vece  di  Vio- 
letta Caronte.  Si  scuoprono  finalmente  et  Pantalone  vuol  battere  Pulcinella 
perchè  l'abbi  voluto  burlare  ;  Pulcinella  fugge,  et  Pantalone  parte  per  vestirsi. 


VAKIETÀ  385 

SCENA  IX. 
Graziano    solo. 

Esce  Graziano  et  dice  che  cerca  Pantalone,  et  dicendo  non  l'hanno  mai 
trovato  fìngendosi  stracco  se  n'entra  in  casa  per  riposare. 

SCENA  X. 
Tutti   assieme. 

Esce  Pantalone  dicendo  voler  gastigar  Coviello  per  la  burla  fattali,  in  questo 
esce  Graziano  gridando  et  tenendo  la  figlia  per  un  braccio,  dicendoli  villania 
per  averla  trovata  in  casa  con  Lelio  quale  esce  dietro  ancor  lui  con  Graziano  ; 
lo  minaccia.  Pantalone  s'accosta  per  intender  quello  che  passa;  et  visto  da 
Graziano  cominciano  a  gridar  assieme  ;  in  questo  Lelio  scusandosi  et  cercando 
perdono  da  Graziano,  esce  Coviello,  il  quale  visto  da  Pantalone  questo  vuol 
cominciar  a  bravarlo  et  darli,  si  per  la  burla  fattali,  come  anco  perchè  lui 
abbi  maneggiato  tutti  quelli  imbrogli  ;  Coviello  si  butta  in  ginocchioni  et  in 
questo  esce  il  priore  della  comunità,  quello  mostrasi  in  mezzo  scherzando  ag- 
giusta il  tutto  dicendo  ch'i  matrimonij  consumati  se  non  si  perfectionano  si 
cade  in  pena  di  200  scudi,  onde  Graziano  si  contenta  di  dare  Isabella  a  Lelio 
et  Leonora  a  Silvio;  Coviello  si  fa  avanti  dicendo  che  esso  pure  ha  consu- 
mato con  Violetta  onde  l'ottiene,  vanno  tutti  in  casa  di  Graziano  per  far  le 
nozze,  et  esso  resta  a  ringraziar  l'audienza. 

FINE 


Giornale  storico,  LXIV,  fase.  192.  25 


RASSEGNA  BIBLIOGRAFICA 


KONRAD  BURDACH  und  PAUL  PIUR.  —  Briefwechsel  des 
Cola  dì  Rienzo.  Kritischer  Text,  Lesarten  und  Anmer- 
kungen;  —  Anhang,  Urkundliche  Quellen  zur  Geschichte 
Rienzos.  —  Berlin,  Weidmannsche  Buchhandlung .  1912 
(S''  gr.,  pp.  471  e  353). 

Mentre  l'Istituto  storico  italiano  si  cullava  nella  speranza  di  accingersi,  una 
volta  0  l'altra,  ad  una  nuova  edizione  dell'epistolario  di  Cola  di  Eienzo,  della 
quale  si  sentiva  veramente  il  bisogno  dopo  quella  del  Gabrielli  (1),  l'Acca- 
demia delle  scienze  di  Berlino  affidava  a  due  valentissimi  studiosi,  il  Burdacli 
ed  il  Piur,  l'incarico  di  ripubblicar  le  lettere  del  tribuno  di  Roma  e  di  rac- 
cogliere tutti  i  documenti  contemporanei  che  ne  illustrassero  la  storia.  E  bi- 
sogna dire  che  il  difficile  compito  è  stato  egregiamente  adempiuto.  Nella  terza 
e  quarta  parte  (2)  del  secondo  volume  dell'opera,  che  ha  per  titolo  Vom  Mii- 
telàlter  zur  Beformation,  il  Burdach  ed  il  Piur  han  raccolto  le  epistole  di 
Cola  di  Rienzo  e  dei  suoi  corrispondenti  (Parte  IH)  e  le  fonti  documentarie 
che  gli  si  riferiscono  (Parte  IV).  L'edizione  del  Gabrielli,  com'è  noto,  conte- 
neva soltanto  le  epistole  di  Cola  e  pochissimi  altri  documenti,  pubblicati, 
ohimè!,  in  un  modo  che  tradiva  la  giovanile  inesperienza  dell'autore,  ed  ebbe 
critiche  severe.  E  tuttavia  l'edizione  del  Gabrielli,  nella  quale  ai  quarantadue 
testi  che  si  erano  venuti  raccogliendo  dai  primi  del  Cinquecento  alla  seconda 
metà  del  secolo  decimonono,  erano  stati  aggiunti,  per  merito  dell'editore,  do- 


(1)  Annibale  Gabrielli,  Epistolario  di  Cola  di  Rienzo,  tra  le  Fonti  per  la  storia 
d'Italia  pubblicate  dall'Istituto  storico  italiano,  Roma,  1890.  Cfr.  Gìorn.,  XVI,  401. 

(2)  La  prima  parte  del  volume  contiene  un'opera  del  Burdach  col  titolo  Rienzo 
und  die  geistige  Wandhing  seiner  Zeit.  Di  quest'opera  è  stata  pubblicata  fin  ora  sol- 
tanto la  prima  metà  fino  a  p.  368,  alla  quale  sono  state  aggiunte  quattro  pagine 
di  Beilage  con  un  «  Nachtrag  zu  Teil  8 und  4  ».  Appena  sarà  pubblicata  la  seconda 
metà  di  quest'opera  importantissima,  se  ne  parlerà  in  questo  Oiorndle.  —  La  se- 
conda parte  del  volume  conterrà  la  descrizione  dei  manoscritti  ;  la  quinta  il  com- 
mento storico  e  letterario  alle  epistole  di  Cola  ed  un  glossario. 


RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA  387 

dici  nuovi  documenti,  fu  utile  e  gradita  agli  studiosi,  i  quali  ebbero  così  per 
la  prima  volta  riunite  le  lettere  di  Cola,  prima  sparsamente  pubblicate.  Ma, 
deposta  sul  volume  del  Gabrielli,  ormai  chiuso  per  sempre,  questa  lode,  dob- 
biamo render  grazie  all'Accademia  delle  scienze  di  Berlino  che  ci  permette  ora 
di  studiare  sotto  tutti  gli  aspetti  il  pensiero  e  l'opera  di  Cola  di  Rienzo,  la 
cui  figura  grandeggia  accanto  alle  maggiori  della  storia  italiana  del  Medioevo. 

Singolare  destino  quello  di  Cola  !  Eccitò  in  vita  gli  odi  più  aspri  ed  i  più 
caldi  entusiasmi,  dei  quali  risentiamo  l'eco,  se  non  nella  canzone  «  Spirto  gentil  », 
nelle  iperboli  sonore  delle  lettere  del  Petrarca.  Ed  anche  oggi  fi-a  Gabriele 
D'Annunzio  che  in  una  biografia  di  Cola,  scolpita  in  una  delle  sue  prose  mi- 
gliori senza  lo  scrupolo  della  realtà  esatta,  lo  rappresenta  come  un  giuntatore 
che  per  alcun  tempo  riuscì  a  ciurmare  il  mondo  (1),  ed  il  Burdach  che  quasi 
lo  riavvicina,  per  alcuni  rispetti,  a  Dante  (2),  Cola  di  Rienzo  ondeggia  tra 
la  satira  ed  il  panegirico.  Onde  tornano  alla  memoria  le  parole  che  il  29  no- 
vembre del  1347  il  Petrarca  scriveva  al  tribuno,  scongiurando  di  sottrarlo  alla 

dura  necessità  «  ne  lyricus   apparatus  tuarum   laudum desinere    cogatur 

«  in  satiram  »  (3). 

Per  lo  studio  completo  del  pensiero  e  dell'opera  di  Cola  fu  perciò  sapiente 
consiglio  pubblicare  insieme  con  le  epistole  del  tribuno  quelle  dei  suoi  cor- 
rispondenti e  specialmente  quelle  del  Petrarca,  le  quali  ci  offrono  già  un  pic- 
colo ed  eccellente  saggio  di  quello  che  sarà  la  futura  edizione  (nazionale,  o 
dell'Accademia  di  Berlino?)  dell'epistolario  del  Petrarca  (4).  Ed  in  questo, 
oltre  che  nella  incomparabile  superiorità  tecnica  sul  Gabrielli,  sta  il  merito 
principale  della  nuova  edizione.  Perchè,  a  dire  il  vero,  di  lettere  di  Cola  di 
Rienzo  del  tutto  inedite  la  nuova  edizione  non  ne  aggiungerebbe  che  cinque. 
La  prima,  sarebbe  una  lettera  degli  ambasciatori  inviati  dal  Senato  romano 
in  Avignone,  con  la  quale  essi,  il  28  gennaio  del  1343,  annunziavano  ai  Ro- 
mani la  promulgazione  del  nuovo  giubileo.  Questa  lettera,  secondo  il  Burda<;h 
ed  il  Piur,  è  stata  scritta  da  Cola  di  Rienzo  (I,  1).  Abbiamo  poi  una  breve 
lettera,  diretta  da  Rienzo  a  Giovanni  von  Neumarkt  nel  1351  (I,  n.  68). 
Egualmente  inedite  erano  una  letterina  ad  un  ignoto  (I,  n.  72),  un'altra  in- 
viata da  Avignone  al  doge  Andrea  Dandolo  nel  1353  (1,  n.  75)  ed  infine  una 
assai  notevole,  diretta  a  Carlo  IV  nel  1354  (I,  n.  80).  Sono  state  poi  qui  per 
la  prima  volta  pubblicate  due  lettere  a  Cola  di  Giovanni  von  Neumarkt 
del  1351  e  del  1353  (I,  nn.  69.  76)  e  quattro  mandati  di  Clemente  VI  di  scarso 


(1)  G-ABRiELE  D' Annunzio,  Vite  di  uomini  ilhtstri  e  di  uomini  oscuri.  La  vita  di  Cola 
di  Rienzo,  Milano,  Treves,  1913. 

(2)  Burdach,  Rienzo  und  die  geistige  Wa7idlung,  in  molti  luoghi. 

(3)  BuBDACH-PiUR,  I,  p.  183.  Per  maggior  comoditi  numero  con  I  la  terza  parte 
e  con  II  la  quarta  parte. 

(4)  Com'è  noto,  l'Accademia  di  Berlino  si  propone  di  pubblicare  il  carteggio  dei 
Petrarca  con  i  suoi  corrispondenti  di  nazione  tedesca.  Inoltre  il  dott.  Piur  pubbli- 
cherà prossimamente  nella  biblioteca  dell'Istituto  storico  Prussiano  di  Roma  l'edi- 
zione critica  delle  S'ine  titillo. 


388  IIASSEGNA    BIBLIOGRAFICA 

valore,  due  dei  quali  erano  già  in  parte  noti  dai  transunti  che  ne  aveva  pub- 
blicati il  Werunsk}'. 

Ma  dallo  scarso  manipolo  di  lettere  che  la  diligenza  degli  editori  ha  aggiunto 
a  quelle  già  note  del  tribuno,  bisogna  sottrarne  una,  la  prima  che  non  è  ine- 
dita, nò  fu  scritta  da  Cola  di  Eienzo.  Essa  era  già  stata  additata  e  pubbli- 
cata in  parte  dal  prof.  Giacomo  Lumbroso  nelle  sue  Lezioni  Universitarie  (1) 
di  su  lo  stesso  codice  della  Biblioteca  Nazionale  di  Torino  dal  quale  ora  il 
Burdach  ed  il  Piur  l'han  tratta  interamente. 

Nel  codice  Torinese  (H,  III,  38,  f.  112  r)  la  lettera  ha  la  seguente  didascalia: 
«  Scribunt  ambassiatores  Senatui  et  populo  Romano,  qualiter  est  collata  eis 
«  gracia,  quod  centesimus  indulgencie  reductus  est  ad  quinquagesimum  ».  Il 
nome  di  Cola  non  è  fatto  né  qui  né  in  altra  parte  del  documento  ;  e  non  ri- 
sulta da  alcun  indizio  positivo  che  la  lettera  sia  stata  scritta  da  lui.  Evi- 
dentemente gli  editori  gliel' hanno  attribuita  per  una  certa  simiglianza  di 
espressioni,  di  andamento  e  di  ritmo  che  essa  ha  con  altre  lettere  del  tribuno. 
Ma  si  tratta,  a  parer  mio,  di  vane  apparenze! 

Ricordiamo  con  la  maggior  brevità  possibile  gli  avvenimenti  (2).  Dopo  che 
il  19  maggio  del  1342  Pietro  Roger  fu  incoronato  pontefice  col  nome  di  Cle- 
mente YI,  i  Romani  decretarono  d'inviargli  una  solenne  ambasciata,  composta 
di  diciotto  membri,  sei  per  ciascuno  dei  tre  ordini  della  cittadinanza,  la  no- 
biltà, il  medio  ceto  ed  il  popolo,  per  oifrirgli,  vita  durante,  il  senatorato  e 
le  altre  supreme  cariche  amministrative  di  Roma,  per  invitarlo  a  fare  una 
visita  alla  sua  sede  di  Roma  e  per  chiedergli  di  promulgare  il  giubileo  nel  1350. 
A  capo  degli  ambasciatori,  dei  quali  da  un  prezioso  documento  pubblicato 
dal  Cipolla  (3)  conosciamo  tutti  i  nomi,  era  il  senatore  Stefano  Colonna, 
figliuolo  di  Stefano  il  Vecchio  (4).  L'ambasciata  non  si  mosse  da  Roma  prima 
del  10  luglio  del  1342,  e  giunse  in  Avignone,  al  più  tardi,  nel  novembre.  I 
biografi  del  Petrarca,  primo  di  tutti  il  De  Sade,  fantasticarono  che  dell'am- 
basceria facesse  parte  il  Petrarca  (5);  e  non  pochi  han  creduto  che  nella  pre- 


(1)  Giacomo  Lumbroso,  Lezioni  universitarie  su  Cola  di  Rienzo^  Roma,  1891,  p.  ^. 
L'operetta  del  Lumbroso  in  edizione  di  sole  cinquanta  copie  è  estremamente  rara; 
ma  fu  nota  al  Burdach-Piur.  Queste  lezioni  del  Lumbroso,  dalle  quali  pur  dissento 
in  alcune  parti,  sono  ammirevoli  per  dottrina  e  penetrazione. 

(2)  Riassumo  ed  in  piccola  parte  qui  riproduco  i  risultati  di  uno  studio  più 
ampio,  frutto  di  un  mio  corso  universitario  sul  tribunato  di  Cola  di  Rienzo.  Della 
mia  narrazione  diversa  ed  in  gran  parte  contraria  a  quella  tradizionale  darò  a 
suo  tempo  prove  più  ampie  di  quelle  che  lo  spazio  qui  mi  consente. 

(3)  Cablo  Cipolla,  Francesco  Petrarca  e  le  sue  relazioni  colla  Corte  avignonese  al 
tempo  di  Clemente  VI  (Reale  Accademia  delle  Scienze  di  Torino),  Torino,  1909,  p.  16 
dell'estratto.  Il  Cipolla  pubblicò  soltanto  la  parte  sostanziale  del  documento;  ma 
questo  è  di  tale  importanza  ohe  merita  di  esser  pubblicato  integralmente,  come 
appunto  io  mi  propongo  di  fare. 

(4)  Secondo  il  Cipolla  {ibid.^  p.  16)  si  tratterebbe  invece  di  Stefano  il  Vecchio; 
ma  questi  aveva  il  titolo  di  «  miles  >,  che  non  gli  è  dato,  e  non  si  sarebbe  fatto  a 
meno  di  darglielo,  nel  documento  avignonese,  se  gli  fosse  spettato. 

(6)  Citerò  fra  i  più  recenti  studiosi  del  Petrarca  il  Cochin,  Le  frère  de  Pétrarque, 
Paris,  1908,  p.  56. 


RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA 


389 


tesa  missione  affidata  al  poeta  dal  popolo  romano,  egli  abbia  avuto  compagno 
Cola  di  Kienzo  (1).  Il  Cipolla  che  ultimo  studiò  la  questione,  pur  necessa- 
riamente escludendo  che  il  Petrarca  e  Cola  abbiano  fatto  parte  ufficiale  del- 
l'ambasciata, poiché  i  loro  nomi  non  figurano  fra  i  diciotto  nunzi  del  senato, 
crede  tuttavia  che  «  naturalmente  ciò  non  impedisce  che,  come  Cola,  anche 
«  il  Petrarca  siasi  adoperato  presso  il  papa  per  favorire  i  Eomani  »  (2).  E  questo 
è  vero,  ma  solo  in  un  certo  senso. 

Cola  difatti  si  era  anch'egli  recato  ambasciatore  del  popolo  romano  in  Avi- 
gnone presso  Clemente  VI  ;  ma  l'ambasciata  di  Cola  è  tutt'altra  cosa  da  quella 
solenne  del  Senato  romano.  In  Roma,  dopo  la  partenza  dei  diciotto,  si  era 
compiuto  un  rivolgimento  politico  per  il  quale  il  governo  della  città  era  stato 
affidato  ai  tredici  rappresentanti  dei  rioni  nei  quali  Roma  era  divisa,  «  unus 
videlicet  per  quamlibet  regionem  »  :  e  furono  questi  ad  inviare  Cola  di  Rienzo 
in  Avignone.  Il  quale,  giunto  colà,  non  si  accontentò  di  richiedere  al  pontefice 
le  tre  grazie  che  avevano  già  domandato  gli  ambasciatori  del  senato  ;  ma  in 
solenne  concistoro,  fra  lo  stupore  dei  Cardinali,  il  mormorio  del  popolo  pre- 
sente, lo  sdegno  dei  Colonna,  il  segreto  consenso  di  alcuni,  l'entusiasmo  non 
ancor  palese  di  Francesco  Petrarca,  senza  dubbio  presente  (3),  parlò  con  alta 
e  commossa  parola  dello  stato  miserando  di  Roma,  delle  ruberie  e  delle  in- 
tollerabili oppressioni  dei  potenti.  E  papa  Clemente  la  cui  signorile  presenza 
e  l'amabilità  tutta  francese  del  tratto  (4)  dovevan  piacere  all'ardito  popolano, 
ascoltava,  forse  dapprima  con  animo  incerto,  poi  a  mano  a  mano  che  dalla  bocca 
di  Cola  fluivano  i  periodi  sonori,  resi  quasi  musicali  dal  ritmo,  con  compiacenza 
sempre  crescente,  con  commozione,  forse  con  aperto  consenso.  «  Molto  ammirava 
«  papa  Clemente  lo  bello  stile  della  lingua  di  Cola...  molto  concepeo  lo  papa 
«  contro  li  potenti  »  (5). 

Ma  appunto  per  questo  l'eloquenza  di  Cola  fu  amara  ad  alcuni  cardinali 
italiani,  ai  «  reverendi  patres  Italici  libidine  consanguinitatis  evicti  »  (6),  fu 
amarissima  ai  membri  dell'ambasciata  senatoriale.  Tra  costoro  e  Cola  di  Rienzo 
non  corse  buon  sangue;  ed  essi  insieme  col  cardinal  Colonna  non  dovettero 
essere  l'ultima  causa  della  miseria  nella  quale  Cola  giacque  per  alcun  tempo 
in  Avignone,  sì  «  che  poca  differenza  era  da  gire  a  lo  spedale  ;  con  suo  giub- 


(1)  Per  es.  il  De  Sade,  il  Tiraboschi,  il  Ginguené,  il  Baldelli.  Anche  il  Reumont 
nella  sua  storia  di  BrOma  lo  suppose. 

(2)  Op.  cit.,  p.  14. 

(3)  Soltanto  in  quella  circostanza  il  Petrarca  potè  aver  modo  di  giudicare  Cola 
di  Rienzo  «uomo  eloquentissimo,  al  persuadere  efficace,  al  parlare  spedito».  Cfr. 
Fam.,  Xm,  6. 

(4)  Vedi  l'acuta  osservazione  del  Lumbboso,  O]0  cit.,  p.  55,  n.  3. 

(5)  La  vita  di  Cola  di  Rienzo  (ediz.  Zefirino  Re),  Firenze,  1851,  p.  19.  Solo  per 
maggior  comodità  mi  valgo  di  questa  pessima  edizione  del  Re  invece  di  quella 
del  Muratori. 

(6)  Così  Cola  di  Rienzo  nella  lettera  al  cardinal  Guido  di  Boulogne.  Cfr.  Bur- 
DACH-PlUR,  I,  p.  383. 


390  RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA 

«  barello  addosso  stava  al  sole  come  biscia  »  (1).  E  poi  che  furono  tornati  a 
Roma  dopo  il  7  luglio  del  1343  (2),  gli  ambasciatori  accusarono  apertamente 
Cola  di  aver  detto  alla  presenza  del  pontefice  cose  «  que  in  eiusdem  Populi 
«  Romani  ambassiatorum  dudum  missorum  ad  nostram  presenciam  ac  ipsorum 
«  ambassiate  preiudicium  vel  vituperium  redundabant  ».  Contro  Cola  dai  nuovi 
senatori  Matteo  Orsini  e  Paolo  Conti  fu  intentato  un  processo  con  la  minaccia 
della  confisca  dei  beni,  dalla  quale  lo  salvò  il  pontefice,  intervenendo  aperta- 
mente in  suo  favore  con  lettera  del  9  agosto  del  1343  (3). 

L'ambasciata  adunque  di  Cola  di  Rienzo  non  era  soltanto  distinta  da  quella 
del  senato  ;  ma  le  era  anche,  in  un  certo  senso,  opposta.  I  diciotto  sono  i  rap- 
presentanti del  potere  aristocratico:  Cola  di  Rienzo  è  il  rappresentante  del 
popolo,  venuto  in  Avignone  a  levare  il  grido  di  dolore  «  querelas  ejusdem 
Populi  et  oppressiones  »  (4).  Egli,  il  «  romanus  consul  »,  in  contrapposizione 
all'ambasciata  numerosa  e  pomposa  del  senato,  si  firma  nella  lettera  con  la 
quale  anch'egli  annunziava  ai  Romani  la  promulgazione  del  giubileo  «  orpha- 
«  norum,  viduarum  et  pauperum  unicus  popularis  legatus  »  (5). 

Tali  adunque  erano  le  relazioni  fra  Cola  di  Rienzo  e  gli  ambasciatori  ro- 
mani. Ora  com'è  possibile  supporre  che  questi  il  28  gennaio  del  1343,  cioè  il 
giorno  dopo  quello  nel  quale  il  pontefice  aveva  solennemente  promulgato  il  giu- 
bileo e  risposto  alle  altre  domande  e  degli  ambasciatori  del  senato  e  dell'am- 
basciatore del  popolo,  si  siano  rivolti  proprio  a  Cola  di  Rienzo,  a  quel  villano  (6), 
per  farsi  stender  la  lettera  con  la  quale  annunziavano  a  Roma  la  concessione 
delle  grazie  pontificie  ?  L'ipotesi  è  assurda  !  E  si  noti  che  Cola  lo  stesso  giorno 
28  gennaio  (7)  dovette  scrivere  al  popolo  romano  quella  mirabile  epistola  (I,  n.  2) 
nella  quale  l'umile  figliuolo  del  tavernaio  della  Regola  ci  appare  per  la  prima 
volta  quale  egli  poi  sarà  sempre,  artefice  di  periodi  rotondi,  sognatore  inna- 
morato della  grandezza  antica.  Nella  lettera  degli  ambasciatori  è  soltanto  l'an- 
nunzio giubilante  della  nuova  perdonanza  dei  peccati  concessa  dal  pontefice  per 


(1)  Vita  di  Cola,  p.  13.  Nella  edizione  dei  Re  ponendosi  il  punto  e  virgola  dopo  la 
parola  addosso,  si  toglie  all'espressione  gran  parte  della  sua  bellezza. 

(2)  Cipolla,  Op.  cit,  p.  20. 

(8)   BuRDACH-PlUB,   II,   p.    3. 

(4)  Ibidem. 

(5)  BuRDAcn-PicK,  I,  p.  8.  Il  vero  significato  della  parola  unicus  non  è  stato  finora 
avvertito  da  alcuno,  come  anche  è  stato  frainteso  il  significato  della  parola  «  consul  ». 
Il  Burdach  ed  il  Piur  spiegano  in  nota  a  p.  8  la  parola  ttnicus  cosi:  «  einziger  Volks- 
«  gesandter  fùr  die  Waisen,  Witwen  und  Armen.  Rienzo  spricht  aber  auch  fttr 
*  die  anderen  Gesandten»,  cioè  per  gli  ambasciatori  del  Senato.  Impossibile!  Ciò 
dimostra  che  non  si  è  ben  inteso  quale  fosse  la  condizione  giuridica  di  Cola. 

(6)  Si  ricordi  la  magnanima  risposta  data  da  Stefano  il  Vecchio,  quando  gli  fa 
data  notizia  della  strage  dei  suoi  a  Porta  S.  Lorenzo. 

(7)  La  lettera  di  Cola  non  è  datata.  Gli  editori  la  pongono  fra  il  28  ed  il  81  gen- 
naio. Ma  chi  conosce  il  carattere  pronto  ed  impetuoso  di  Cola,  non  può  supporre 
che  egli  aspettasse  tre  giorni  a  scrivere,  e  si  lasciasse  prevenire  dngli  nmbnscia- 
tori  del  Senato! 


RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA  391 

il  1350:  nella  lettera  di  Cola  squilla  linno  della  resurrezione  (1).  Roma  ri- 
sorge dalla  lunga  abbiezione,  ascende  il  trono  della  maestà,  adorna  il  capo 
della  libera  corona,  riprende  lo  scettro  della  giustizia.  Clemente  VI  è  para- 
gonato a  Cesare,  a  Metello,  a  Marcello,  a  Fabio,  ai  liberatori  della  patria 
«  quorum  solempnes  effigies  in  preciosis  lapidibus  sculptas  prò  virtutis  me- 
«  moria  et  splendore  miramur  ».  La  sua  statua,  insigne  di  porpora  e  d'oro, 
sarà  posta  sul  Campidoglio  o  nel  Colosseo  (2).  E  tutto  questo  percliè?  Perchè 
Clemente  VI  ha  concesso  il  giubileo?  Via,  sarebbe  grottesco!  Cola  di  Eienzo 
che  vagheggia  la  risurrezione  della  patria  e  che  dalle  accoglienze  benevole  del 
pontefice  si  vede  incoraggiato,  può  a  buon  diritto  intonare  l'inno  della  rina- 
scita di  Roma.  Ecco  perchè  Cola  di  Rienzo  reputa  che  la  sua  ambasciata  sia 
stata  voluta  dalla  Provvidenza  più  che  dagli  uomini  «  non  humano,  veruni 
«  divino  Consilio  conformatam  !  »  (3). 

Vi  è  dunque  un  atteggiamento  così  diverso  negli  scrittori  delle  due  lettere 
che  non  è  possibile  ammettere  esse  possano  essere  state  composte,  e  si  badi 
nello  stesso  tempo,  dalla  medesima  persona. 

Chi  mai  allora  avrà  scritto  la  lettera  contenuta  nel  codice  di  Torino,  let- 
tera composta  anch'essa  con  tutta  l'arte  e  le  regole  della  epistolografìa  me- 
dievale, infiorata  di  una  reminiscenza  virgiliana,  elegante,  se  pure  di  una  ele- 
ganza più  composta,  eloquente  se  pure  di  una  eloquenza,  per  così  dire,  in  tono 
minore?  Lasciamo  andare  che  le  norme  dell'epistolografia  erano  così  costanti 
e  determinate,  per  il  modo  onde  l'epistola  doveva  incominciare,  per  il  numero 
e  la  disposizione  delle  parti,  per  il  ritmo,  per  i  «  colores  orationis  »,che  spesso 
le  qualità  personali  dello  scrittore  ne  erano  quasi  annullate.  Ma  fra  i  membri 
dell'ambasciata  del  Senato  romano  non  v'era  proprio  alcuno  che  sapesse  ma- 
neggiare abilmente  e  con  garbo  la  penna,  anche  se  non  fosse  quella  penna  di 
«  fino  ariento  »  (4)  che  l'Arte  stessa  aveva  posto  fra  le  dita  di  Cola?  (5). 
Uno  ve  n'era  certamente:  «  Angelus  dictus  Lellus  quondam  Petri  Stephani 
de  Tosectis  »  (6),  cognato  di  quell'Andreozzo  dei  Normanni  (7),  camerlengo 
di  Roma,  il  quale,  un  giorno  che  Cola  si  levò  nell'assettamento,  ossia  in  uno 
dei  consigli  del  Comune,  a  parlare  contro  le  ruberie  dei  cani  di  Campidoglio, 


(1)  Il  LuMBiioso,  Op.  cit.,  p.  55,  aveva  osservato  che  la  lettera  di  Cola  «  lascia  tacito 
«  indietro  quella  degli  ambasciatori  non  meno  nel  saper  fare  che  nel  saper  dire  > . 

(2)  BuRDACH-PlUR,   I,   p.   7. 

(3)  Ibid.,  p.  6.  Io  credo  che  il  Gabrielli,  pur  senza  rendersene  conto,  abbia  meglio 
dei  nuovi  editori  reso  il  pensiero  di  Cola  :  «  Etenim  post  honorabilis  ambaxiate 
«nostre  supplicationem  non  humano  verum  divino  Consilio  conformatam  ».  Nella 
nuova  edizione  si  legge  invece  :  «  ambaxiate  v  e  s  t  r  e  » . 

(4)  Vita  di  Cola,  p.  28:  »:  Quando  Cola  di  Rienzo  scriveva,  non  usava  penna  di 
«  oca,  ma  sua  penna  era  di  fino  ariento  » .  ^ 

(5)  Cosi  diceva  Cola  di  sé  stesso  :  « . . .  digitos  nostros  quos  ad  calamum  Ars  ipsa 
«  deoreverat. . .  ».  Bukdach-Piub,  I,  p.  177. 

(6)  Cipolla,  Op.  cit.,  p.  19,  senza  però  alcun  riavvicinamento. 

(7)  Questa  relazione  di  parentela  mi  risulta  da  un  documento  inedito  dell'Ar- 
chivio Vaticano. 


392  RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA 

«  detteli  una  sonante  gotata  »  (1).  Lello  di  Pietro  di  Stefano  (gli  studiosi 
del  Petrarca  non  se  ne  sono  accorti)  (2)  non  è  altri  che  Lelio,  legato  al  Pe- 
trarca da  lunga,  affettuosa,  fraternamente  intima  amicizia,  Lelio,  che  il  Petrarca 
chiamò  così,  mutandone  lievemente  il  vero  nome,  da  un  esempio  di  amicizia, 
famoso  tra  gli  antichi.  «  La  penna  fu  la  sua  spada  fin  dall'  infanzia.  L'età 
«  più  adulta  e  le  condizioni  della  patria  lo  posero  fra  le  armi  ;  ma,  come  volle 
«  fortuna,  richiamato  alla  pacifica  corte  dei  papi,  tornò  agli  studi  primitivi  »  (3). 
Il  Petrarca  gli  dava  lode  di  uomo  erudito,  ingegnoso,  eloquente  (4):  e,  pre- 
sentandolo a  Carlo  IV  nel  1355,  ne  esaltava,  fra  le  altre  virtù,  la  facondia  (5). 
Lello  di  Pietro  di  Stefano,  e  possiam  chiamarlo  senz'altro  Lelio,  era  uno  dei 
membri  più  autorevoli  dell'ambasciata  del  Senato  romano  a  Clemente  VI,  au- 
torevole non  per  altezza  di  natali  (il  Petrarca  lo  dice  di  nobiltà  recente)  (6), 
non  per  importanza  di  uffici  e  di  cariche  (in  Roma  fu  uno  dei  sindaci  (7)  ; 
in  Avignone  alla  curia  pontificia  ostiario)  ;  ma  per  la  sua  cultura  e  per  la 
sua  eloquenza.  Gli  storici  si  sono  domandati  chi  mai  fosse  l'oratore  ufficiale 
dell'ambasciata  senatoriale,  quando  questa  intorno  al  18  novembre  del  1342  (8) 
fu  solennemente  ricevuta  dal  pontefice  nella  gran  sala  del  concistoro  che  Matteo 
da  Viterbo  in  quel  tempo  affrescava  ammirabilmente  (9).  Taluno  ha  anche 
immaginato  che  l'oratore  della  circostanza  fosse  il  Petrarca  (10).  Ora  il  nome 


(1)  Vita  di  Cola,  p.  20. 

(2)  li  BuRDACH  (Rienzo  und  die  geistige  Wandlung  seiner  Zeit,  p.  113)  che  pure  aveva 
intraveduto  il  vero,  nelle  osservazioni  aggiunte  alla  prima  metà  di  questo  volume 
{Beilage:  <  Nachtrag  zu  Teil  3  und  4»,  p.  6),  ha  un  pentimento,  e  scrive  che  la 
identificazione  dei  due  Lelli  non  è  sicura.  A  tale  identificazione  io  ero  pervenuto 
nelle  mie  lezioni  universitarie  indipendentemente  dal  Burdach,  prima  della  pub- 
blicazione del  suo  volume.  Intorno  a  Lello  di  Pietro  di  Stefano  conosco  qualche 
nuovo  documentino,  che  pubblicherò  in  altra  occasione. 

(8)  Petrarca,  Fa7n.,  ITI,  20. 

(4)  Id.,  Fani.,  IH,  22. 

(5)  Id.,  Fam.,  XIX,  4. 

(6)  Id.,  Var.,  n.  49  (ediz.  Fracassetti)  :  «  uomo  di  recente,  ma  di  nobilissima  ro- 
mana origine  » .  Difatti  della  famiglia  «  de  Tosectis  >  dalla  quale  discendeva  Lello, 
non  ho  trovato  finora  testimonianze  molto  antiche  fra  i  documenti  romani  a  me 
noti.  Ma  la  sua  parentela  con  i  Normanni  che  erano  di  nobilissima  origine,  con- 
ferma il  giudizio  del  Petrarca. 

(7)  Intorno  all'ufficio  dei  sindaci  vedi  E.  Bodocanachi,  Les  institutions  communales 
de  Rome,  Paris,  1901,  p.  118. 

(S)  Questa  data  risulta  da  quel  passo  della  vita  di  Clemente  VI  nel  quale  è  detto 
che  il  papa  rispose  agli  ambasciatori  due  mesi  dopo  ohe  essi  ebbero  solennemente 
esposto  le  loro  domande  :  *  idem  papa  ad  duos  menses  postea  multum  grate  re- 
spondit  »  (Muratori,  R.  I.  SS.,  Ili»,  p.  578).  Ora  il  papa  rispose,  come  ben  sappiamo 
il  17  gennaio  del  1848. 

(9)  Su  Matteo  da  "Viterbo  ha  pubblicato  un  bel  documento  il  Cipolla  [Op.  cit., 
p.  7)  del  26  luglio  del  1348.  Cfr.  Robert  André-Michki,,  Matteo  de  Viterbe  et  les  fresques 
de  l'Audience  au  palais  pontificai  d'Avignon,  in  Bihlioth.  de  l'École  dea  chat'tes,  LXXIV 
(1918),  pp.  341  sgg. 

(10)  BouocANACHi,  Cola  di  Rienzo.,  Paris,  1888,  p.  89  :  «  La  renommée  de  Pótrarque, 
«  son  amor  pour  l'Italie,  son  titre  de   eitoyen   romain,  le  désignaient  pour  porter 


RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA  393 

degli  oratori  noi  lo  sappiamo.  L'autore  della  IH*  vita  di  Clemente  VI,  dopo 
di  avere  accennato  alle  richieste  degli  ambasciatori,  scrive  :  «  ad  quas  quidem 
«  petitiones  per  tres  dictorum  ambasciatorum,  scilicet  per  magnificum  virum 
«  Stephanum  de  Colurana,  senatorem  dictae  TTrbis  illustrem,  ac  venerabilem 
«  virum  dominum  Franciscum  de  Vico  et  nobilem  virum  Lellum  Petri  Ste- 
«  phani  de  Tosectis,  syndicum  dictae  Urbis  ac  magistrura  ostiariorum  dicti 
«  papae,  procuratorem  ad  haec  per  dictum  populum  specialiter 
«  constitutum,  plus  quam  eleganter  expositas,  idem  papa...  resj)ondit...  »  (1). 
Da  queste  parole  appare  con  certezza  che  1'  onore  di  esporre  al  pontefice  lo 
scopo  dell'ambasciata  toccò  principalmente  al  buon  dicitore  Lelio. 

Ed  allora  mi  par  naturalissima  l'ipotesi,  che  è  certo  di  gran  lunga  più  plau- 
sibile dell'affermazione  recisa  del  Burdach  e  del  Piur,  che  Lelio  abbia  scritto 
la  lettera  al  popolo  romano  (2). 

All'opera  degli  ambasciatori  non  fu  certo  estraneo  il  Petrarca.  Che  egli  fosse 
in  Avignone  nella  seconda  metà  del  1342,  quando  l'ambasciata  si  presentò  al 
pontefice,  non  si  può  dubitare  (3).  Di  quell'ambasciata  facevan  parte  vecchie 
sue  conoscenze,  Stefano  Colonna,  figliuolo  del  magnanimo  Stefano  il  Vecchio, 
Pietro  di  Agapito  Colonna,  il  prevosto  di  Marsiglia  (noi  lo  rivedremo,  ohimè, 
giacente  in  una  vigna  nudo,  calvo,  grasso,  dopo  la  battaglia  alla  porta  di  San 
Lorenzo  !)  (4),  Lelio.  E  vi  erano  un  Annibaldi,  parente  di  quel  Paolo  al  quale 
il  Petrarca  aveva  dedicato  una  delle  sue  più  belle  epistole  metriche  (5),  un 
Orsini,  parente  di  quel  Giordano  Orsini  che  insieme  con  Orso  dell'Anguillara 
aveva  concesso  al  Petrarca  il  Privilegium  Laurcae  che  potrebbe  esser  defi- 
nito l'atto  di  nascita  dell'umanesimo,  documento  di  bella  ed  indiscutibile  au- 
tenticità, che  valenti  studiosi   del  Petrarca  (6)   hanno,  or  non   è  molto,  con 


«  la  parole  au  noni  de  ses  collègues>.  Il  Rodocanachi  è  di  quei  che  credono  che  il 
Petrarca  abbia  fatto  parte  dell'ambasciata. 

(1)  Muratori,  R.  I.  SS.,  IH»,  p.  573. 

(2)  Non  molto  felice  mi  sembra  l'ipotesi  del  Burdach  {Rienzo  und  diegeistige  Wand- 
lung  seiner  Zeit,  p.  104  sgg.)  di  attribuire  a  Lelio  le  due  declamazioni  sulla  morte 
di  Rienzo.  Cfr.  Burdach-Piur,  II,  204,  208.  Quelle  declamazioni,  non  ostante  la  grande 
importanza  che  vi  annette  il  Burdach,  sono  in  vero  una  povera  cosa  ! 

(3)  Dopo  quanto  abbiamo  detto,  non  si  può  più  naturalmente  ritenere  col  Coohiu 
che  il  Petrarca  abbia  fatto  ritorno  in  Avignone  nell'aprile  del  '42  come  membro 
dell'ambasciata  dei  Romani  a  Clemente  VI.  L'ambasciata  non  s'era  ancora  mossa 
da  Roma  il  10  luglio  del  1342. 

(4)  Vita  di  Cola,  p.  94. 

(5)  Cfr.  Poesie  minori  del  Petrarca  (ediz.  Rossetti),  Milano,  1881,  II,  330. 

(6)  Primo  a  giudicarlo  apocrifo  fu  il  Fanfani  in  una  nota  ai  Marmi  del  Doni, 
ediz.  Barbèra,  1863,  I,  318.  Ma  il  Fanfani  sentenziò  senza  addurre  ragioni.  Credette 
di  trovarne  parecchie  buone  Ildebrando  della  Giovanna,  Per  V incoronazione  del 
Petrarca  in  Campidoglio,  nella  Rivista  d^ Italia  (1904),  anno  VII,  voi.  II,  pp.  113  sgg. 
Rincarò  la  dose  Enrico  Carrara,  Il  sesto  centenario  petrarchesco,  in  questo  Giornale, 
XLVII,  1906,  p.  Ilo.  Confermò  infine  i  sospetti  di  falsità  Arnaldo  della  Torre,  H 
sesto  centenario  di  F.  P.,  in  Arch.  stor.  ital,  serie  V,  XXXV  (1905),  p.  141.  Senza  qui 
anticipare  la  discussione,  giova  osservare  che  la  ragione  più   forte  di  sospetto  sa- 


394  RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA 

critica  troppo  affrettata,  giudicato  apocrifo.  Nella  ospitale  casa  del  cardinal 
Giovanni  Colonna  la  quale  dovette  accogliere  durante  la  lunga  dimora  in  Avi- 
gnone alcuni  membri  dell'ambasciata,  il  Petrarca  che  vi  abitava  egli  stesso  (1), 
dovette,  intrattenendosi  con  gli  amici  romani,  rinfrescare  i  ricordi  della  sua 
duplice  dimora  in  Roma  del  1337  e  del  1341,  questa  soprattutto  così  dolce 
nella  memoria.  Più  volte  in  quelle  conversazioni  si  dovè  fare  il  nome  di  Cola 
di  Rienzo,  dell'eloquente  oratore  delle  adunanze  popolari  che  quei  nobili  erano 
avvezzi  a  schernire,  vedendolo  in  Roma  aggirarsi  fra  le  rovine  con  sempre 
sulle  labbra  un  sorriso  «  in  qualche  modo  fantastico  »  (2). 

Ora  in  questa  circostanza,  cioè  nell'autunno  del.  1342,  il  Petrarca  compose 
l'epistola  metrica  per  Clemente  VI,  non  certo  «  unmittelbar  nach  dessen  Wahl  », 
come  il  Burdach  (3),  dopo  molti  altri,  ritiene.  E  l'intento  della  epistola  non 
è  già  quello  —  così  credono  tutti  —  di  invitare  il  pontefice  a  far  ritorno  in 
Roma  «  das  einsame  caput  mundi  wieder  zum  Sitz  des  obersten  Hirteu  zu 
machen  »  (4).  Secondo  questa  opinione,  il  Petrarca  non  avrebbe  ripetuto  nel- 
l'epistola metrica  a  Clemente  VI  se  non,  su  per  giù,  quello  che  già  aveva  in- 
vano detto  in  due  altre  epistole  a  Benedetto  XII.  Certo,  la  lontananza  del 
pontefice  dalla  sua  sede  naturale  era  considerata  dal  Petrarca  come  una  sven- 
tura e  fonte  di  sventure  per  Roma  e  per  l'Italia,  nel  pensiero  del  poeta  sempre 
indissolubilmente  congiunte.  Ma  l'esperienza  di  due  pontificati,  di  Clemente  V 
e  di  Benedetto  XII,  aveva  dimostrato  che  la  speranza  di  un  prossimo  ritorno 
del  papa  a  Roma  era  vana.  Con  qual  dolore  il  Petrarca  aveva  veduto,  per 
opera  di  Benedetto  XII,  elevarsi  la  superba  mole  del   palazzo  pontificio  in 


rebbe  questa  ohe  in  nessun  luogo  delle  sue  opere  il  Petrarca  fa  cenno  della  citta- 
dinanza romana  che  gli  fu  conferita  con  quel  Privilegio.  Pur  lasciando,  per  ora, 
da  parte  alcuni  passi  evidentissimi  delle  epistole  del  Petrarca,  come  non  ricordare 
il  bellissimo  luogo  della  Apologia  cantra  Galli  calumnias  (ediz.  di  Basilea,  1554, 
p.  1074),  nel  quale  il  Petrarca  si  gloria  di  esser  cittadino  di  Roma?  «  Sum  vero 
«  italus  natione  et  Romanus  civis  esse  glorior  !  >  L'asserzione  del  Della  Giovanna 
che  il  Petrarca  non  accenni  mai  alla  sua  qualità  di  cittadino  romano,  fu  già  giu- 
dicata inesatta  dal  prof.  Carlo  Steiner  {Francesco  Petrarca,  Discorso  commemora- 
tivo, Padova,  1904,  p.  35),  il  quale  molto  opportunamente  ricordò  il  passo  dell'esor- 
tatoria a  Cola  di  Rienzo  :  «  et  uel  sic  Romani  civis  officio  fungerer  » .  Del  resto  Cola 
dava  al  Petrarca  il  titolo  di  concivis.  Cfr.  Burdach-Pìur,  I,  p.  85.  Del  Privilegiuw 
Laureae  potrò  a  suo  tempo  dare  un  testo  più  corretto  di  quello  scorrettissimo  che 
va  per  le  stampe. 

(1)  Sulla  natura  dei  rapporti  di  familiarità  fra  il  Petrarca  ed  il  card.  Giovanni 
Colonna  trattò  meglio  di  ogni  altro  Arnali>o  della  Torre,  Aneddoti  petrarchéschi, 
in  Giornale  dantesco,  XVI  (1908),  p.  69  sgg. 

(2)  Vita  di  Cola,  p.  18.  Il  famoso  colloquio  del  Petrarca  con  Cola  sulla  porta  di 
un  vecchio  tempio  in  Avignone  deve  esser  posto  dopo  il  17  gennaio  del  1343;  e 
l'ipotesi  del  prof.  Giuseppe  Bkizzolara  {Studi  storici,  Vili,  248).  ohe  la  distanza  di 
tempo  tra  la  lettera  metrica  del  Petrarca  a  Clemente  VI,  della  quale  ora  parle- 
remo, e  il  suo  colloquio  con  Cola  non  può  essere  che  pochissima,  forse  di  giorni, 
non  è  ammissibile.  Vedi  anche  Studi  storici,  XIV,  73. 

(8)  BuBOACH,  Rienzo  und  die  geistige  Wàndlung  seiner  Zeit,  p.  66. 
(4)  Ibidem,  p.  67. 


SASSEGNA    BIBLIOGKAFICA 


395 


Avignone!  Le  sue  speranze  erano  allora  subitamente  crollate;  e  quando  uno 
Spirto  gentil  (1)  parve  ridestare  Eouia  dal  pigro  sonno,  il  poeta  si  volse  a  lui 
con  l'animo  pieno  di  aspettazione,  ed  in  una  delle  stanze  più  belle  della  can- 
zone, contrapponendo  lo  Spirto  gentil  al  pontefice,  dimentico  di  Roma,  escla- 
mava con  dolore  fatto  sarcasmo  : 

Tu  marito,  tu  padre  I 

Ogni  soccorso  di  tua  man  s'attende 

Che  il  maggior  padre  ad  altr 'opera  intende  I 

E  quando  Benedetto  XII  scese  nella  tomba,  il  Petrarca  gli  lanciò  il  feroce 
giudizio  della  prima  delle  Sine  titillo.  Non  la  noiosa  questione  della  visione 
beatifica,  non  le  altre  molteplici  questioni  che  la  forte  dottrina  e  l'acume  di 
Francesco  Torraca  (2)  andarono  rintracciando  durante  il  pontificato  di  Cle- 
mente VI:  ma  la  costruzione  del  palazzo  pontificio  in  Avignone  (3)  ci  spiega 
il  verso  «  che  il  maggior  padre  ad  altr'opera  intende  »,  il  quale,  se  pur  non 
m'inganno,  riacquista  così  la  sua  bellezza. 


(1)  Se  pur  non  sembri  intollerabile  presunzione  esprimere  il  proprio  parere  intorno 
ad  un  argomento  tanto  disputato  senza  portare  nuove  ragioni  (ciò  però  non  vuol 
dire  che  io  non  ne  abbia),  mi  sia  lecito  umilmente  credere  ohe  la  canzone  e  Spirto 
gentil  »  non  fu  composta  per  Cola  di  Rienzo,  né  al  tempo  di  Clemente  VI,  ma  pro- 
babilmente per  Stefano  Colonna  il  Vecchio  nel  1339  in  occasione  della  rivoluzione 
romana  di  quell'anno  ohe  ebbe  tanta  eco  in  tutta  l'Italia  ed  accese  le  «  faville  » 
della  corte  Avignonese,  onde  «la  magiou  di  Dio  ardeva  tutta  >.  Anche  il  Burdaoh 
ed  il  Piur  si  propongono  di  trattare  «  die  Streitfrage,  ob  es  der  Senator  des  Jahres 
«  1337,  Bosone  da  Gubbio,  oder  der  Tribun  des  Jahres  1347,  Rienzo,  sei»  lo  «Spirto 
gentil»  (cfr.  Bvrd xch,  Eie72ZO  nnd  die  geistige  Wandlung,-p.lio,  n.  1).  Staremo  a  vedere. 
Ma  giacché  si  ha  da  parlare  ancora  di  Bosone  (forse  non  ha  torto  quell'amico  del  mio 
ottimo  prof.  Scarano  che,  credendo  alla  iettatura,  raccomanda  di  non  nominarlo 
neppure  l'antipatico  Bosoue  I  ;  cfr.  Nicola  Scaraxo,  Rime  del  Petrarca,  Livorno,  1909, 
p.  102),  giacché  si  ha  da  parlare  ancora  di  lui,  è  bene  fissare  definitivamente  ohe 
il  senatore  di  Roma  non  è  già  il  mediocre  versificatore,  il  preteso  autore  delVAvr 
venturoso  Ciciliano,  ma  Bosone  Novello,  suo  figlio,  come  già  primo  suppose  il  lia- 
bruzzi.  Inoltre  egli  non  fu  senatore  nel  1337,  come  tutti  ripetono,  ma  nel  1338,  e  pre- 
cisamente a  cominciare  dal  21  gennaio  del  1338  ch'era  un  mercoledì,  nel  qual  giorno 
egli  insieme  con  messer  de'  Gabrielli  pose  la  prima  volta  piede  in  Roma.  E  le 
cose  andaron  male,  perchè  vi  fu  carestia,  e  l'anno  seguente  scoppiò  la  rivoluzione. 
Che  proprio  sia  nel  vero  l'amico  del  prof.  Scarano?  E  ciò  non  ostante  il  prof.  Sca- 
rano bosoneggia  ? 

■  2)  Francesco  Torraca,  Discussioni  e  ricerche  letterarie,  Livorno,  1888,  p.  71  sgg. 

(3)  La  questione  della  visione  beatifica  era  stata  risoluta  con  la  bolla  Benedictus 
Deus  del  29  gennaio  del  1336.  Sulla  costruzione  del  palazzo  pontificio  in  Avignone, 
opera  grandiosa  di  Benedetto  XII,  oltre  i  lavori  particolai'i ,  per  i  quali  vedi  l'arti- 
colo sopra  citato  del  signor  André-Michel,  cfr.  Jean  Guiraud,  L'Égllse  romaine  et 
les  origines  de  la  Renaissance,  quatrième  édit.,  Paris,  1909,  p.  26.  Nella  epistola  me- 
trica a  Clemente  VI,  per  la  quale  vedi  più  innanzi,  il  Petrarca  allude  alla  costru- 
zione del  palazzo  pontificio  come  appunto  ad  una  delle  cause  che  avevano  impedito 
il  ritorno  a  Roma  di  Benedetto  XII  :  «...  nunc  destinat  arces  aérias  coeloque  pares 
attoUere  turres».  Difatti  proprio  sulla  fine  del  1338  si  cominciava  la  costruzione 
della  torre  di  S.  Giovanni,  oggi  «Tour  de  la  cloche  ».  Altre  torri  erano  state  co- 
struite fra  il  1336  ed  il  1337. 


396  BASSEGNA    BIBLIOGRAFICA 

Sarebbe  stata  una  bella  ingenuità  richiedere  ora  a  Clemente  VI  che  tornasse 
a  Roma  !  I  Romani  non  se  lo  sognavano  neppure  :  essi  domandavano  sempli- 
cemente che  il  pontefice  si  degnasse  di  fare  una  visita  a  Roma,  forse  per  il 
giubileo  del  1350.  E  chi  sa  che  nella  loro  immaginazione  non  congiungessero 
l'idea  della  presenza  del  pontefice  con  il  ricordo  di  quei  rastrelli  che  nel  1300 
«  rastrellabant  pecuniam  infinitam  »  !  Essi  domandavano  a  Clemente,  come 
c'informa  l'autore  della  III^^  vita,  «  quod  sibi  placeret  civitatem  romanam  et 
«  sacrosanctam  Lateranensem  ecclesiam,  quae  mater  ecclesiarum  omnium  urbis 
«  existit  {e  che,  noi  aggiungeremo,  era  la  chiesa  dalla  quale  si  proìmilgava 
«  il  giubileo)...  visitare  »  (1).  E  l'autore  degli  Historiae  Romanae  Fragmenta 
scrive:  «  quessi...  ammasciatori  lo  pregaro  da  parte  de  Dio  e  de  lo  puopulo 
«  de  Roma,  che  li  piacessi  de  benire  a  visitare  la  sede  de  lo  sio  vescovato 
«  de  Roma  »  (2). 

Così  Roma,  nell'  epistola  metrica  del  Petrarca  (3),  non  insiste  nel  suo  di- 
ritto di  sposa  di  avere  lo  sposo  con  se.  All'infedeltà  coniugale  Roma  s'era  oraiai 
abituata!  —  Oh!  no,  ella  dice  a  Clemente,  non  credere  che  io  sia  venuta 
qui,  ignara  delle  circostanze.  Lo  so  bene  che  sei  nato  in  terra  lontana,  che 
ti  è  dolcissimo  il  suolo  della  patria,  che  sei  trattenuto  costì  dai  ricordi  della 
giovinezza,  dagli  amici,  dalle  relazioni  con  la  corte. 

Non  ignara  qnidem,  nec  rerum  nescia  veni. 
Est  tibi  longinquae,  fateor,  telluris  erigo 
Et  patriae  praedulce  solum;  seriesque  iuventae 
Est  aliis  traducta  locis.  Sunt  agmina  regum 
Cara,  nec  exiguos  tibi  Grallia  iungit  amicos. 

Ma,  Roma  prosegue,  non  vorrai  tu,  o  Clemente,  che  dianzi  eri  pur  Pietro 
(  Pietro  Roger),  non  vorrai  tu  almeno  una  volta  vedere  la  tua  sede,  e  non  ti 
muove  il  desiderio  di  toccare  il  capo  del  mondo  ?  (Si  ricordi  che  i1  Laterano 
era  la  ecclesia  mater  et  caput  urbis  et  orbisi) 

Tu,  Clemens,  qui  Petrus  eras,  hanc  cernere  sedem 
Nonne  voles,  cupiesque  caput  contingere  mundi  ? 

E  difatti  Clemente  VI  il  18  gennaio  del  1343  prometteva  non  di  ritornare 
a  Roma,  ma  soltanto  «visitacionem  sedis  apostolicae  post  sedata  Gallorum 
«  scandala  »  (4). 

Questa  ed  altre  singolarissime  corrispondenze  fra  la  epistola  metrica  e  le 
fonti  storiche,  che  svolgerò  più  ampiamente  altrove,  ci  permettono  ora  di  porre 
nella  sua  vera  luce  il  carme  del  Petrarca.  È  una  poesia  d'occasione  :  è  la  para- 


(1)  R.  I.  SS.,  Ili»,  col.  573. 

(2)  Muratori,  Antiquitates  Rai.  M.  Aevi,  III,  348. 
(S)  Poesie  minori  del  Petrarca,  ediz.  cit.,  III,  4  sgg. 

(4)  «  Cosi  nella  lettera  di  Cola  di  Rienzo  al  Senato  ed  al  popolo  di  Roma  » .  Cfr. 

BcBDACil-PlUB,   I,   p.  6. 


RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA  397 

frasi  poetica  e,  come  tutte  le  poesie  d'occasione,  mediocre,  delle  richieste  che, 
affidate  ad   un   documento  ufficiale  non  pervenutoci,  ed  esposte  «  plus  quam 
elegante!  »  da  Lelio,  furono  fatte  al  Pontefice.  La  epistola  metrica  fu  perciò* 
composta  intorno  al  18  novembre  del  1342. 

Questa  conclusione  non  è  senza  importanza  anche  per  un  altro  rispetto, 
perchè  essa  ci  permette  di  togliere  definitivamente  un  errore  insinuatosi  nelle 
biografie  del  Petrarca  dal  De  Sade  al  Kòrting  (1),  Si  suole  generalmente  ri- 
petere che  i  benefizi  concessi  da  Clemente  VI  al  Petrarca  nel  territorio  Pisano 
siano  stati  come  una  ricompensa  dell'epistola  metrica.  Soltanto  il  Della  Torre 
con  sottile  accorgimento  ne  dubitò  (2).  Ma  pur  dopo  il  Della  Torre,  il  Cipolla 
scriveva:  «  può  essere  che  le  concessioni  fattegli  (cioè  al  Petrarca)  dal  papa 
«  rispetto  ai  benefici  sul  territorio  Pisano,  abbiano  relazione  a  questa  circo- 
«  stanza  (cioè  l'ambasceria  dei  Eomani)  se  non  come  di  effetto  a  causa,  almeno 
«  come  largizione  che  trova  nei  fatti  che  la  precedono  la  sua  parziale  spie- 
«  gazione  »  (3).  Ma,  come  abbiamo  veduto,  è  precisamente  il  contrario  :  l'am- 
basceria dei  Romani  e  la  composizione  dell'epistola  metrica  seguono,  non  pre- 
cedono, la  elargizione  dei  benefici  nel  territorio  Pisano  (4). 

E,  tornando  ora  alla  nostra  prima  domanda,  è  possibile  ammettere  che  nella 
casa  del  cardinal  Giovanni  Colonna  si  sentisse  il  bisogno  di  ricorrere  a  Cola 
di  Rienzo  per  stendere  l'epistola  al  Senato  ed  al  popolo  romano  annunziante 
il  giubileo? 

Ma  dopo  avere  assottigliato  il  già  scarso  manipolo  dei  nuovi  documenti  ag- 
giunti dagli  egregi  editori  alla  raccolta  del  Gabrielli,  giova  indicarne  uno  ad 
essi  sfuggito.  È  una  lettera  diretta  dal  tribuno  al  comune  di  Tivoli  che  si 
ritrova  in  transunto  nell'opera  esistente  in  unico  esemplare  nella  biblioteca 
Alessandrina  di  Roma  di  Marco  Antonio  Nicodemo  (5).  Purtroppo  il  testo  del 
documento  è  perduto.  A  questo  proposito  parmi  che  sarebbe  stato  utile  ag- 
giungere all'epistolario  di  Cola  di  Rienzo  un  elenco  delle  lettere  perdute  delle 
quali  per  altro  si  ha  sicura  testimonianza.  Le  lettere  rimasteci,  come  già  os- 
servava il  Lumbroso  (6).  sono  una  piccola,  una  minima  parte  di  quello  che 


(1)  Vedi  ad  es.  il  più  recente  lavoro,  del  resto  assai  mediocre,  su  Le  epistole  me- 
triche di  Frane.  Petrarca  dì  Diana  Magrini,  Rocca  S.  Casciano,  1907,  p.  102. 

(2)  Arnaldo  della  Torre,  Documenti  su  un  beneficio  toscano  del  Petrarca,  in  Arch. 
star,  ital,  LXII  (1908),  p.  119. 

(3)  Cipolla,  Op.  cit.,  p.  14  sg. 

(4)  La  lettera  di  Clemente  VI  che  assegnava  al  Petrarca  un  canonicato  a  Pisa 
è  del  22  maggio  del  1342,  quella  dello  stesso  pontefice  che  dava  ordine  al  vescovo  di 
Teano  e  a  due  abati  d'immettere  il  Petrarca  nel  possesso  del  priorato  di  S.  Niccolò 
di  Migliarino,  è  del  7  ottobre  1342.  Ma  è  rimasto  finora  ignoto,  per  quanto  io  so, 
agli  studiosi  del  Petrarca  un  altro  beneficio  concessogli  da  Clemente  VI  il  24  agosto 
del  1343,  per  compensarlo  appunto  del  priorato  di*S.  Niccolò  di  Migliarino  «  prò 
«  quo  adhuo  litigat  necdum  eius  possessionem  nescitur  assecutus  ».  È  la  plebania 
di  S.  Angelo  in  Castiglione  Aretino,  oggi  Castiglion  Fiorentino.  Pubblicherò  il  do- 
cumento in  altra  circostanza. 

(5)  Marci  Ant.  Nicodemi,  De  rebus  Tiburtum  sive  Primae  Pentadis,  lib.  1-5. 

(6)  Lumbroso,  Op.  cit.,  p.  18. 


398  RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA 

pur  sappiamo  essere  stato  il  carte,^gio  di  Cola.  In  questo  elenco,  ad  esempio, 
non  dovrebbe  mancare  la  lettera  al  coinune  di  Modena  del  7  giu.^no  del  lo41 
che  ha  la  stessa  data  e  lo  stesso  contenuto  di  lettere  dirette  ad  altri  Conmni. 
ed  è  non  soltanto  accennata  ma  in  parte  anche  riprodotta  nel  Chronicou  Mu- 
tineìise  (1). 

Nella  terza  parte  del  secondo  volume  di  questa  grande  opera  destinata  ad 
illustrare  la  storia  della  Rinascita,  gli  editori,  come  abbiam  detto,  si  son  pro- 
posti di  raccogliere  in  edizione  critica  tutte  le  fonti  documentarie  del  tempo 
di  Cola  di  Eienzo  che  gli  si  riferiscono  «  den  erhaltenen  Bestand...  aller  seine 
«  Person  betreffenden  gleichzeitigen  urkundlichen  Quellen  » .  Magnifico  disegno  ! 
Ma  per  effettuarlo,  come  si  conveniva,  sarebbe  stata  necessaria  una  ricerca 
sistematica  negli  archivi  e  nelle  biblioteche  italiane.  Gli  editori,  e  certo  non 
per  alcuna  loro  negligenza,  non  potettero  farla.  In  fondo  anche  a  Berlino  si 
sospettava  che  Cola  di  Rienzo  forse  apparteneva  alla  storia  d'Italia,  e  non  si 
credè  necessario  largheggiare  con  i  benemeriti  editori  in  quei  mezzi  che  non 
mancano  mai  alle  grandi  imprese  scientifiche  nazionali,  sì  che  essi  dovettero 
accontentarsi  dei  modesti  «  Mitteln  der  Deutschen  Kommission  der  Berliner 
Akademie  »  (2).  Per  mio  conto,  me  ne  dolgo  sinceramente,  perchè  credo  che 
una  ricerca  sistematica  come  quelle  che  gli  studiosi  tedeschi,  primo  fi-a  tutti 
il  Kehr  (mi  tornano  grati  alla  memoria  i  lunghi  mesi  trascorsi  con  lui  la- 
vorando ed  imparando  negli  Archivi  romani!),  hanno  fatto  sovente  presso  di 
noi,  avrebbe  dato  una  buona  raccolta. 

Soltanto  dopo  la  pubblicazione  dei  due  volumi  dei  quali  qui  discorriamo, 
gli  editori  ebbero  notizia  della  importantissima  lettera  che  Ildebrandino  Conti, 
vescovo  di  Padova,  amico  del  Petrarca,  inviava  da  Roma  il  30  luglio  del  1347 
a  Leonardo  di  S.  Sepolcro,  suo  vicario  nella  diocesi  Padovana.  La  lettera  con- 
tiene lunghi  minutissimi  ragguagli  intorno  agli  avvenimenti  di  Roma  dal 
18  maggio  al  30  luglio  del  1347  ;  ed  è,  senza  alcun  dubbio,  il  documento  di 
maggior  rilievo  intorno  al  primo  periodo  del  tribunato  di  Cola.  Pubblicata  nella 
Dissertazioìie  ottava  sopra  V Moria  ecclesiastica  P ad oi'ana  di  Francesco  Scipione 
Dondi  Orologio  (Padova,  tipografia  del  Seminario,  1815),  essa  è  rimasta  finora 
ignota  a  tutti  gli  studiosi  di  Cola  di  Rienzo  (3).  Peccato  che  l'edizione  del  Dondi 
sia  scorretta  e  lacunosa  :  né  è  possibile  rimediarvi,  perchè,  come  ha  constatato 
il  Piur  recatosi  nel  gennaio  del  1913  a  Padova,  dal  protocollo  notarile  di  An- 
tonius  Zuparius  sono  stati  da  mano  recente  avulsi  proprio  quei  fosrli  dip  con- 


fi) R.  I.  SS-,  XV,  607.  Cfr.  auche  Lusibroso,  ibid. 

(2)  Così  nella  Beilage  a  Bckdach,  Rienzo  und  die  ueistige  Wondlung  seitter  Zeit 
(«Nachtrag  zu  Teil  3  und  4>,  p  6). 

(8)  Gli  editori,  dandone  notizia  nella  Beilage  citata  nella  nota  preeed.,  scrivono 
che  l'opera  del  Dondi  è  straordinariamente  rara.  Ma  se  ne  trovan  copie  nelle  mag- 
giori biblioteche  italiane.  Una  copia  è  posseduta  dalla  Biblioteca  Nazionale  di  To- 
rino. Potei  cosi  valermi  nel  mio  corso  universitario  della  preziosa  lettera  di  Ilde- 
brandino Conti,  Balla  quale  aveva  già  richiamato  la  mia  attenzione  il  prof.  P.  Kehr 
h1  quale  ne  rendo  vive  grazie. 


RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA  399 

tenevano  il  documento  prezioso.  Dovremo  perciò  accontentarci  di  veder  ripro- 
dotta la  lettera  di  su  l'edizione  del  Dondi  nelle  aggiunte  che  il  Burdach  ed  il 
Piar  si  propongono  di  fare  all'epistolario  di  Rienzo.  E  fra  le  aggiunte  sarà  posto 
il  bel  documento  intorno  ad  an  nunzio  di  Cola  di  Rienzo  in  Avignone,  che 
era  un  maestro  elementare  «  in  primitivis  didascalus  »,  pubblicato  già  dal  Ci- 
polla fin  dal  1909  (1).  Gli  editori  si  sono  anche  accorti  che  uno  spoglio  più 
accurato  delle  lettere  del  Petrarca  avrebbe  permesso  di  trarne  alcuni  altri  ac- 
cenni a  Cola  di  Rienzo;  e  non  starò  quindi  a  riferirli.  Nò  io  trascurerei,  ad 
esempio,  il  passo  della  Apologia  cantra  Galli  calumnias,  nel  quale  si  dipinge 
così  al  vivo  lo  sgomento  che  invase  Avignone,  non  appena  vi  giunse  notizia 
dei  primi  trionfi  di  Cola  (2). 

Non  dispiacerà  agli  editori  se  io  mi  permetto  d'indicare  per  le  aggiunte  o 
per  il  commento  storico  alcune  altre  notizie  e  documenti  che  sono  ad  essi 
sfuggiti. 

Allo  studio  delle  relazioni  fra  Cola  di  Rienzo  e  Giovanna  I  di  Napoli  gio- 
verà la  lettera  inviata  dalla  regina  l'otto  agosto  del  1347  alla  signoria  di 
Firenze  per  avvertirla  che  stava  per  partire  una  sua  solenne  ambasciata  la 
quale  si  sarebbe  soffermata  a  Roma  per  trattare  con  Cola  «  per  tribunum  Urbis 
«  transitum  faciendo  ».  La  lettera  fu  pubblicata  dal  Camera  (3). 

In  un  documento  ancora  inedito  dell'Archivio  comunale  di  Velletri  (4)  del 
14  febbraio  del  1355,  riferentesi  ad  una  partizione  di  beni  tra  Guglielmo  e 
Giovanni,  figliuoli  ed  eredi  di  Buccio  Savelli,  si  fa  menzione  dell'*  arbitrio  et 
«  partimento  castrorum,  terrarum,  molendinorum,  casalium,  honorum  et  rerum, 
«  juriumque  et  jurisdictionum  que  fuerunt  olim  magnifici  viri  domni  Johannis 
«  de  Sabello  avi  eorum  et  domni  Pandulphi  de  Gabello  olim  domni  pape 
«  notarii,  facto  et  lato  per  olim  Nicolaum  Laurentii  tribunum  alme  Urbis  in 
«  primo  suo  officio  tribunatus  Inter  dominum  Pandulfam  de  Sabello  filium 
«  et  heredem  prò  tertia  parte  dicti  domni  Johannis  de  Sabello  et  Nicolaum 
«  de  Sabello  fratrem  germanum  ipsorum  dominorum  Guillelmi  et  Johannis...  etc.» . 
A  proposito  di  Velletri  giova  ricordare  che  da  un  documento  ancora  inedito 
del  1357  che  sarà  pubblicato  dal  mio  discepolo  dottor  Giorgio  Falco  in  ap- 
pendice al  suo  eccellente  lavoro  su  «  Il  comune  di  Velletri  nel  Medio  Evo  »  (5) 
risulta  pienamente  confermato  il  racconto  dell'Anonimo  sull'impresa  di  Pale- 
strina  del  1353  alla  quale  i  Velletrani  presero  parte  sotto  il  comando  di  Cola 
di  Rienzo  (6).  Secondo  poi  un  vecchio  erudito  Veliterno,  Ascanio  Landi,  quei 


(1)  Cipolla,  Op.  cit.,  p.  22, 

(2)  Ediz.  di  Basilea,  1551,  p.  1071. 

(3)  Matteo  Camera,  Elucubrazioni  storico-diplomatiche  su  Giovanna  I  regina  di  Na- 
poli e  Carlo  III  di  Durazzo,  Salerno,  18S9,  p.  78,  n.  3.* 

(4)  Il  documento  ohe  io  ritrovai  nell'Archivio  comunale  di  Velletri,  mi  fu  corte- 
semente trascritto  dal  dott.  Giorgio  Falco. 

(5)  Gr.  Falco,  Il  comune  di  Velletri  nel  Medio   Evo  (see.  XI-XVI),  in  Archivio  della 
Reale  Società  romana  di  st.  patr.,  XXXVI,  411,  ed  Appendice^  n.  15. 

(6)  Vita  di  Cola,  p,  151. 


400  RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA 

di  Velletri  mandarono  ambasciatori  a  Cola  di  Rienzo,  Niccolò  Oddoni  e  Gio- 
vanni Mellino  per  appianare  alcune  controversie  sorte  tra  il  comune  di  Velletri 
e  quello  di  Eoma  a  proposito  dell'elezione  del  giudice  e  del  podestà.  Il  Landi 
scrive  di  aver  tolta  la  notizia,  ripetuta  poi  da  Alessandro  Borgia  (1),  da  un 
volume  di  riformanze  antiche.  Ma,  come  avverte  il  dott.  Falco  (2),  delle  ri- 
formazioni dei  consigli  Velletrani  non  ci  è  giunto  che  un  solo  volume,  an- 
teriore al  quattrocento,  il  quale  non  contiene  atti  del  tempo  di  Cola  di  Rienzo. 
Si  tratterà  dunque  di  una  notizia  inesatta  ?  od  il  Landi  si  sarà  valso  di  altra 
fonte,  oggi  perduta?  Lasciamo  la  risoluzione  del  piccolo  problema  alle  nuove 
indagini  del  Burdach  e  del  Piur. 

Per  lo  studio  delle  relazioni  fra  il  tribuno  e  le  città  sottoposte  del  «  di- 
strictus  urbis  »,  specialmente  quelle  di  Campagna  e  Marittima,  non  avrebbe 
dovuto  mancare  alla  presente  edizione  il  documento  importantissimo  del  27  set- 
tembre del  1347  che  Ignazio  Giorgi  trasse  da  una  pergamena  originale  del- 
l'archivio di  Terracina,  ed  illustrò  con  la  sua  consueta  perizia  nel  Bullettino 
dell'Istituto  storico  italiano  (3).  È  un  atto  col  quale  il  popolo  ed  il  Comune 
di  Terracina  nominano  a  loro  sindaco  e  procuratore  speciale  Andrea  da  Guar- 
cino,  col  mandato  di  presentarsi  al  tribuno  romano  Cola  di  Rienzo  o  all'au- 
ditore della  Curia  di  lui,  per  dimostrare  e  sostenere  che  il  Comune  e  gli  uo- 
mini di  Terracina  sono  stati  sempre  esenti  da  ogni  giurisdizione  romana.  Da 
questo  documento  risulta  in  modo  sicuro  «  che  non  tutta  la  Marittima  si  sot- 
«  tomise  al  tribuno,  e  ch'egli  trovò  opposizione  non  in  una  città  indipendente, 
«  ma  in  una  di  quelle  ch'egli  considerava  come  soggette  al  popolo  romano  perchè 
«  appartenenti  al  '  districtus  Urbis  '  »  (4).  Il  commento  storico  e  giuridico  che 
il  Giorgi  aggiunge  al  prezioso  documento,  è  tale  che  i  nostri  editori  non 
potran  far  nulla  di  meglio  che  riprodurlo  integralmente. 

Tra  le  fonti  documentarie  della  storia  di  Cola  non  potevan  mancare  le  sen- 
tenze da  lui  emanate,  poiché  l'amministrazione  della  giustizia  fu  parte  prin- 
cipalissima  dell'opera  sua  e  fondamento  della  sua  potenza.  Vedo  così,  con  pia- 
cere, riprodotti  gli  atti  della  causa,  da  me  la  prima  volta  pubblicati  (5),  fra 
il  monastero  dei  SS.  Cosma  e  Damiano  «  in  Mica  Aurea  »  e  gli  eredi  di  quel 
Martino  Stefaneschi  al  quale  non  possiam  ripensare  senza  vederlo  appiccato, 
per  sentenza  del  tribuno,  nel  piano  di  Campidoglio,  idropico  :  «  suo  ventre  era 
«  pieno  d'acqua,  come  botticello  pareva  ;  piene  le  gambe,  lo  collo  sottile,  e  la 
«  faccia  macra  :  liuto  da  sonare  parea  » .  Ma  perchè  non  riprodurre  egualmente 


(1)  Alessandro   Borgia,  Istoria  della  chiesa  e  città  di  Velletri,  Nocera,  1726,  p.  3()7. 
Cfr.  anche  Attilio  Gabrielli,  Storia  municipale  di  Velletri,  Velletri,  1913,  p.  75. 

(2)  Falco,  Op.  cit.,  p.  358.  Il  Falco  tace  di  quest'ambasceria  a  Cola  di  Rienzo,  cre- 
dendola evidentemente  non  mai  avvenuta. 

(3)  I.  Giorgi,  Documenti  (.erracinesi,  in  BuUettino  dell' Istituto  storico  italiano,  n.  18, 
Roma,  1895,  p.  87  sgg. 

(4)  Ibidem,  p.  90. 

(5)  P.  Fedele,   Un  giudicato  di  Cola  di  Rienzo  fra  il  monastero  di  S.  Cosimato  e  gli 
Stefaneschi,  in  Arch.  della  R.  Società  Romana  di  storia  patria,  XXVI,  437-451. 


RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA  401 

gli  atti  non  meno  importanti  della  causa  tra  Santa  Maria  in  Monasterio  e 
S.  Agnese,  disputata  durante  il  tribunato  di  Cola  di  Rienzo  per  il  possesso 
del  terreno  che  dalle  lunghe,  secolari  controversie  ebbe  nome  di  «  Mons  della 
«  questione  seu  pedica  della  questione  »?  La  causa  subì  parecchi  rinvìi,  e  non 
potè  essere  definita  durante  il  tribunato  «  propter  multa  occurrentia  in  re- 
«  gimine  supradicto  et  feriatum  tempus  et  repentinas  ferias  quas  idem  Ni- 
«  colaus  sepe  sepius  indicebat  ».  Pubblicai  il  documento,  notevolissimo  per  lo 
studio  della  procedura  civile  in  Eoma  al  tempo  di  Cola  di  Kienzo,  dalla  per- 
gamena originale  dell'Archivio  di  S.  Pietro  in  Vincoli  (1). 

Si  potrebbe  dal  punto  di  vista  diplomatico  discutere  elegantemente  se  tra 
le  UrJcundliche  Quellen  debbano  essere  inclusi  quei  capitoli  degli  statuti  di 
Roma  del  1363  che  risalgono  al  tempo  di  Cola  di  Rienzo.  Certo  è  difficile 
stabilire  quali  di  essi  siano  stati  promulgati  dal  tribuno:  ed  un  lavoro  sot- 
tile di  confronti  e  di  induzioni  difficilmente  condurrebbe  a  conclusioni  sicure. 
Tuttavia  in  due  casi  il  dubbio  deve  essere  escluso.  Il  capitolo  202  del  libro  II 
ricorda  la  «  misericordia  seu  indulgentia  facta  tempore  tribunatus  domni  Ni- 
«  colai  Laurentii  »  (2).  E  l'editore  degli  Statuti  nota  che  in  uno  dei  codici 
al  disopra  delle  parole  «  Cola  Rentius  tribunus  »  è  delineata  una  corona  im- 
periale :  documento  grafico  non  trascurabile  delle  aspirazioni  attribuite  al  tri- 
buno! Questo  passo  degli  Statuti  conferma  il  racconto  dell'Anonimo  (lib.I,  cap.  9) 
nel  quale  si  parla  della  casa  della  giustizia  e  della  pace  ordinata  da  Cola  di 
Rienzo;  e,  senza  dubbio,  si  sarebbe  dovuto  richiamare  in  nota  a  quel  passo 
della  lettera  all'arcivescovo  di  Praga  (I,  p.  241)  nel  quale  Cola  si  dà  vanto 
della  pacificazione  degli  animi,  per  opera  sua,  compiutasi  in  Roma  :  «  Nonne 
«  ego,  deo  auctore  scandalicis  omnibus  erroribus  propulsis  omnes  Romanos  in- 
«  vicem  emulantes,  quorum  popularium  intra  se  emulancium  capitaliter  par- 
«  ticularis  numerus  repertus  est  hominura  mille  et  ottingentorum,  remissis 
«  omicidiis  et  oifensis  omnibus  inter  se  ad  pacem  sinceram  ultra  opinionem 
«  hominum  revocavi  ?  »  (3). 

E  come  può  dubitarsi  che  sia  stato  promulgato  da  Cola  di  Rienzo  il  se- 
guente capitolo  degli  Statuti  (4)  :  «  Item  statuimus  et  ordinamus  quod  anno 
«  quolibet  in  die  XX  mensis  mali  oh  memoriam  et  rememorationem  presentis 
«  pacifici  status  popularis  celebretur  sollepniter  missa  Spiritus  Sancti  in  Ec- 
«  desia  sancta  Maria  de  Aracoeli...  »?  La  rivoluzione  di  Cola  di  Rienzo  si 
compì  appunto,  giova  ricordarlo,  il  20  maggio.  Lo  storico  di  Cola  non  dovrà 
trascurare  nò  questi  ne  altri  capitoli  degli  statuti  del  '63. 

Ma  se  una  breve  e  sommaria  indagine  fatta  da  me  per  raccogliere  qualche 
documento,  sfuggito  ai  precedenti  studiosi,  intorno  a  Rienzo,  col  solo  intento 


(1)  P.  Fedele,  S.  Maria  in  Monasterio,  in  Archivia  d.  R.  Società  Romana  di  si.  patria , 
XXIX,  214  sgg. 
(2;  Camillo  Re,  Statuti  della  citta  di  Roma,  Roma,  1880,  p.  192  sg. 

(3)  Cfr.  anche  i  passi  paralleli  delle  lettere  18  (I,  p.  53)  e  63  (I,  p.  342). 

(4)  Camillo  Re,  Oj>.  cit.,  p.  283. 

Giornale  storico,  LXIV,  fase.  192.  26 


402  RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA 

di  servirmene  in  un  modesto  corso  universitario  sul  tribunato  di  Cola,  mi  ha 
dato  qualche  risultato  non  spregevole,  è  lecito  sperare  che  una  ricerca  siste- 
matica dia  frutti  assai  più  copiosi. 

È  merito  particolare  del  dott.  Paolo  Piur  l'avere  arricchito  la  presente  edi- 
zione con  il  testo  critico  àelVOraculum  Angelicum  Cyrilli,  facendolo  seguire 
dal  commentario  dello  Pseudogioacchino.  L^Oraculum  ed  il  commentario  prima 
malamente  noti,  se  ne  togli  la  parte  studiata  già  dal  p.  Ehrle,  hanno  una 
grande  importanza  non  solo  per  la  intelligenza  delle  lettere  scritte  da  Cola 
durante  la  sua  prigionia  di  Praga,  ma  anche  per  la  storia  delle  profezie  me- 
dievali e  delle  correnti  spirituali  dei  secoli  XIII  e  XIV.  Questa  edizione  del 
Piur  è  condotta  in  modo  davvero  ammirevole.  I  cenni  intorno  al  significato 
dell'opera  profetica  che  il  Piur  ci  dà  in  poche  linee,  ci  fanno  aspettare  con 
vivo  desiderio  il  commento  storico  che  egli  ne  annunzia.  . 

La  lettura  e  lo  studio  dei  documenti  di  Cola  di  Eienzo  ci  suggerirebbe  qua 
e  là  osservazioni,  dubbi,  domande.  Ma  non  ho  foi'se  già  abusato  dell'ospitalità 
del  Giornale  storico'?  Mi  sia  lecito  tuttavia  soffermarmi  ancora  brevemente 
su  un  sol  punto.  È  già  da  lungo  tempo  nota  la  supplica  che  Cola  di  Rienzo 
presentò  a  Clemente  VI  per  ottener  l'ufficio  di  notaio  della  Camera  capito- 
lina (1).  Era  un  mezzo  al  quale  Cola  ricorreva  non  soltanto  per  quei  cinque 
fiorini  d'oro  al  mese  ch'era  lo  stipendio  dei  notai  della  Camera,  ma  anche  per 
mettersi  al  riparo  dalle  persecuzioni  che  egli  temeva  violente  da  parte  dei 
nobili.  Cola  desiderava  di  poter  vivere  «  in  dieta  Urbe  a  persone  ac  honorum 
«  suorum  iactura  securior  una  cum  officialibus  vestris  {scil.  pontificis)  »  (2). 
Il  pontefice  lo  accontentò  con  lettere  del  13  aprile  e  del  17  giugno  del  1344 
(I,  nn.  5  e  6).  Ora  gli  editori  dubitano  che  la  supplica  di  Cola  di  Rienzo  sia 
stata  scritta  in  Avignone.  La  cosa  non  è  senza  importanza  per  la  biografia 
di  Cola,  trattandosi  di  sapere  quanto  tempo  egli  si  sia  soffermato  in  Avi- 
gnone, e  quando  sia  tornato  a  Roma  ad  intraprendervi  la  sua  vigorosa  pro- 
paganda politica.  Ma  dalla  concorde  testimonianza  dell'Anonimo  (3)  e  d'D- 
debrandino  Conti  risulta  con  certezza  che  Cola  tornò  a  Roma  soltanto  dopo 
di  avere  ottenuto  la  nomina  di  notaio  capitolino.  Nell'aprile  del  '44  Cola  era, 
senza  dubbio,  ancora  in  Avignone  dove  egli  scrisse  la  supplica  al  pontefice; 
«  factaque  longa  mora  in  curia,  recessit  et  Roraam  rediit  ad  exercitium  of- 
«  ficii  supradicti  [sdì.  notarli  Camere  Urbis)  »  (4)  soltanto  nella  seconda  metà, 
probabilmente  nell'estate  o  nell'  autunno  del  '44  (5).  Neil'  autunno  dell'  anno 
precedente  anche  il  Petrarca  aveva   lasciato  Avignone  per   recarsi  a  Napoli, 


(1)  Essa  fa  pubblicata  già  dal  Gregorovius. 

(2)  BuRDACH-PlUB,   I,  p.    12. 

(3)  Vita  di  Cola,  p.  19  :  «  poiché  fu  tornato  da  corte  comenzò  a  usare  suo  ufficio 
iH)rtesemente  » . 

(4)  Lettera  di  Ildebrandino  Conti  in  Frahc.  Scip.  Donui  OaoLooio,  Op.  cit. 

(6)  Nota  giustamente  il  Cipolla,  Op.  cit.,  p.  161,  che  «  era  cosa  ordinaria  che  gli 
«  ambasciadori  recandosi  a  nome  della  propria  Signoria  presso  un'altra  corte  ohie- 
<  dessero  per  sé  qualche   beneficio,  quando,  finito  il  proprio  ufficio,   stavano  per 


RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA  403 

non  già  inviatovi  dal  papa,  come  tutti  senza  eccezione  si  ostinano  a  ripetere, 
per  vigilare  la  condotta  della  regina  Giovanna  ed  affermarvi  i  diritti  della 
sovranità  pontificia  ;  ma  per  incarico  del  cardinal  Giovanni  Colonna  e  per  uno 
scopo  assai  più  modesto  (1).  Si  trattava  di  ottenere  la  liberazione  dalla  lunga 
prigionia  del  conte  di  Minervino,  Giovanni  Pipino  che  doveva  esser  poi  così 
fatale  al  tribuno  (2).  Il  Petrarca  inconsapevolmente  preparava  lo  strumento 
della  rovina  di  Cola! 

Abbiamo  già  detto  che  la  presente  edizione  è  condotta  con  grande  perizia 
tecnica.  Quando  gli  editori  avranno  pubblicato  la  descrizione  dei  manoscritti, 
potremo  renderci  più  esattamente  conto  dei  criteri  da  essi  seguiti.  Dei  ma- 
noscritti per  ora  non  abbiamo  che  il  nudo  elenco.  In  questo  non  è  segnato 
il  cod.  X  •  E  •  della  Biblioteca  Nazionale  di  Napoli,  il  quale,  come  appare  dal 
catalogo  dei  manoscritti  di  quella  biblioteca,  dovrebbe  contenere,  forse  in  una 
tarda  copia,  le  lettere  dirette  da  Cola  di  Rienzo  al  comune  di  Firenze.  Nel 
preparare  la  loro  edizione  il  Burdach  ed  il  Piur  han  fatto  gran  conto  del 
cursus,  ed  il  più  delle  volte  con  risultati  davvero  eccellenti. 

Non  m'indugio  qui  ad  esaminare  alcune  delle  norme,  per  vero  assai  discu- 
tibili, seguite  dagli  editori.  Era  proprio  necessario  riportare  le  varianti  delle 
edizioni  precedenti,  una  volta  che  la  nuova  edizione  è  condotta  sui  mano- 
scritti? È  un  metodo  che  in  Germania  viene  adoprato,  se  non  m'inganno^ 
per  la  prima  volta,  ed  apre  nuove  vie  alla  pedanteria  dei  futuri  editori  che 
potranno  cosi  accompagnare  i  testi  con  più  solenne,  per  quanto  inutile,  corteo 
di  varianti  !  E  tutte  quelle  minute  osservazioni  diplomatiche  sulle  lettere  di 
Clemente  VI  non  si  potevano,  senza  danno,  lasciare  da  parte  ?  Ma  di  questo 
potremo,  se  mai,  discutere  un'altra  volta. 

Aggiungo  alcune  osservazioni  e  varianti  suggeritemi  dalla  lettui^a  del  testo 
e  dal  confronto  soltanto  di  alcune  lettere  della  presente  edizione  col  codice  di 
Torino  H  •  m  •  38. 

Lettera  I  (ediz.  I,  p.  I),  r.  3,  saticta,  si  corregga  in  mcrosancta  ;  r.  5  accio, 
e  così  quasi  sempre  dove  abbiamo  il  gruppo  ci  seguito  da  vocale,  in  nctio  ; 
r.  8  Virginem  et  Saturnia  regna  in  Virginem  ac  Saturnia  regna]  rr.  15-16 
spóliis  attrahehas  in  spoliis  triumpliaìiter  attrahebas;  r.  17  congregari  in 
congregàbit  ;  r.  47  redemptoris  nostri  Jhesu  Christi  in  redemptoris  nostri  do- 
mini Jliesn  Christi.  E  lascio  da  parte  alcune  altre  varianti  puramente  orto- 


«  ripartirne.  E  tanto  questa  abitudine  era  radicata,  che  se  si  Toleva  proibirla  o 
«  regolarla,  questo  dovevasi  fare  espressamente  » .  È  una  conferma  di  più  che  la 
supplica  di  Cola  fu  scritta  in  A.vignone. 

(1)  La  discussione  di  questo  punto  richiederebbe  troppo  lungo  discorso,  e  la  ri- 
mando ad  altra  circostanza.  « 

(2)  L'intervento  di  Griovanni  Pipino  nella  sommossa  popolare  che  causò  la  caduta 
del  tribuno  si  spiega  principalmente  col  fatto  ch'egli  era  amico  dei  Colonna,  ai  quali 
era  legato  da  gratitudine  per  essere  stato,  con  la  loro  intercessione,  liberato  dalla 
prigionia  alla  quale  lo  aveva  condannato  Roberto  d'Angiò  :  il  che  non  era  stato 
prima  avvertito. 


404  RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA 

grafiche,  come  nel  r.  41  can'smate  per  carismathe,  ed  in  nota  al  r.  18  affer- 
rent  per  afferent  com'è  detto  esattamente  nel  testo  del  ms. 

In  questa  stessa  lettera  non  è  stato  bene  inteso  il  seguente  periodo.  Lo 
scrittore  che  si  volge  a  Roma,  dopo  di  averla  esortata  ad  accogliere  i  figliuoli 
che  da  ogni  parte  converranno  in  essa  perii  giubileo,  prosegue:  «  Nam  quos 
«  dudum  lustrato  quoque  cliraate,  perquisitis  polis  oceanoque  sulcato  quibusve 
«  in  viis,  stratis  et  semitis  ad  te  sumptis  spoliis  triumphaliter  attrahebas, 
«  nunc  sponsi  tui  clemencia  iuxta  nominis  ejusdem  presagium  congregari  vi- 
«  debis  nimirum  et  afflues,  cum  filii  tui  de  longe  venient  et  afferent  munera 
«  pacifica  reges  terrae».  L'elegante  Lelio  non  avrebbe  scritto  un  periodo  cosi 
mal  congegnato  !  Nel  testo  del  ms.  al  posto  di  congregari  leggo  chiaramente 
congregava  che  per  il  solito  scambio  della  v  con  b  sarà  da  correggere  in  con- 
gregabit.  Ed  allora  il  periodo  raddrizzato  corre  più  speditamente  :  «  Nam  quos 
«  dudum  lustrato  quoque  climate,  perquisitis  polis  oceanoque  sulcato  quibusve 
«  in  viis,  stratis  et  semitis  ad  te  sumptis  spoliis  triumphaliter  attrahebas, 
«  nunc  sponsi  tui  clemencia  iuxta  nominis  eiusdem  praesagium  congregabit 
«  {cursus  veJoxl):  videbis  nimirum  et  afflues,  cum  filii  tui  de  longe  venient 
«  et  afferent  munera  pacifica  reges  terrae  ».  Non  sfuggirà  che  l'avverbio  ni- 
mirum segna  la  ripresa  della  seconda  parte  del  periodo. 

Lettera  2  (ediz.  I,  p.  4):  r.  8  nel  testo  del  ms.  Tor.  septrum,  non  sceptrum: 
r.  16  nel  testo  lumem  non  lumen;  r.  27  nel  testo  conscilio  non  Consilio]  r.  38 
nel  testo  scandalla  non  scandala.  Ai  rr.  35-36  gli  editori  leggono:  «  promul- 
«  gavit  [scil.  Clemens  VI)  et  reddidit  iubileum  ».  Ma  nel  testo  del  cod.  Tor. 
è  edidit  alla  quale  parola  è  premessa  una  d  cancellata  da  prima  mano.  «  Pro- 
mulgavit  et  edidit  »  è  la  formula  abituale  in  casi  simili,  e  non  deve  essere 
alterata. 

Lettera  7  (ediz.  I,  p.  17)  :  r.  20  nel  testo  del  cod.  Tor.  Imius  non  huic.  r.  22 
nel  testo  viris  non  nostris]  menhra  non  membra;  r.  54  in  nota  detrimeta  non 
detrimenta;  r.  99  inflamavit  non  infiammava  ;  r.  118  quod  si  corregga  in 
quia;  r.  157  nel  testo  del  cod.  Tor.  vobis  non  nobis;  r.  164  nel  testo  op)ortunis 
non  opportunis. 

Lettera  11  (ediz.  I,  p.  30):  r.  15  Mactheo  de  Beccaris  è  indubbiamente  da 
correggere  in  Mactheo  de  Baccariis  (1). 

Lettera  18  (ediz.  I,  p.  53):  r.  17  nel  testo  del  cod.  Tor.  redducte  non  re- 
ducte  ;  r.  59  nella  frase  »  ita  fuit  quod  illud  »  si  tolga  l'inutile  fuit  che 
manca  nel  testo  del  cod.  Tor.  ;  r.  96  nel  testo  subcumbere  non  succumòere.  ; 
r.  126  nel  testo  ascripsit  non  adscripsit. 

Lettera  25  (ediz.  I,  p.  85)  :  r.  6  in  nota  nel  testo  del  cod.  Tor.  non  respersa 
et  rethorice  verissimarum  ma,  respersa  recthorice  verissimarum  ;t.  13  nel  testo 
licteris  non  literis.  Al  r.  19  segg.  di  questa  lettera  di  Cola  di  Rienzo  al  Pe- 


(1)  Cfr.  P.  Fedele,  Una  compoiiziotte  di  pace  fra  privati  nel  1364,  in  Archivio  della 
B.  Società  Romana  di  storia  patria,  XXVI,  469,  dove  ho  raccolto  alcune  notizie  in- 
torno a  questo  notevole  personaggio  del  secolo  XIV. 


RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA  405 

trarca,  il  testo  dell'edizione  suona  così  :  «  Cuius  tocius  populi  anima  est  ipsa 
«  libertas;  quam  tam  prò  eius  noviter  gustata  dulcedine  quara  diucius 
«  perplesso  servitutis  errore  Komani  omnes  prius  paterentur  animas  eorum 
«  evelli  cordibus  quam  reduci  in  amarissimam  servitutem  ».  Ai  ben  costrutti 
orecchi  del  Petrarca  e  di  Cola  di  Eienzo  sarebbero  sonati  sgraziatamente  tutti 
quei  tam  quam  !  E  poiché  il  codice  di  Tor.  ha  quam  tum,  correggerei  :  «  quam 
«  tum  prò  eius  noviter  gustata  dulcedine  cum  diucius  perpesso  servitutis 
«  errore. ...  ». 

Lettera  35  (ediz.  I,  p.  128):  fu  omessa  la  parola  missarum  dopo  copia  lit- 
terarum  com'è  nella  soprascritta  di  questa  lettera  nel  cod.  Tor. 

Ma  di  fronte  all'importanza  e,  considerata  nel  suo  insieme,  all'  eccellenza 
dell'opera  compiuta  dal  Burdach  e  dal  Piur,  noi  abbiamo  quasi  esitato  a  sof- 
fermarci su  qualche  lacuna  e  su  qualche  lieve  difetto.  Opere  come  queste  se- 
gnano una  data  negli  studi  storici,  perchè  i  documenti  che  riguardano  Cola 
di  Rienzo,  non  giovano  soltanto  a  dar  rilievo  ad  una  grande  figura  storica,, 
ma  anche  ad  illustrare  uno  degli  atteggiamenti  più  caratteristici  e  più  si- 
gnificativi dello  spirito  italiano  all'alba  della  Rinascita.  E  mi  sia  lecito  chiu- 
dere con  un  augurio.  Tolta  ogni  più  lieve  ombra  di  dubbio  sull'autenticità 
della  biografia  di  Cola  di  Rienzo  dell'Anonimo  (1),  che  a  me  appare  sempre 
di  più  un  vero  ed  autentico  gioiello  della  nostra  letteratura  storica  medievale, 
è  ormai  da  sperare  che  l'Istituto  storico  italiano  ne  intraprenda  ben  presto 
l'edizione  critica,  se  pure  non  vorrà  abbandonarla  alle  cure  della  Deutsche 
Kommission  der  Berliner  Akademiel 

Pietro  Fedele. 


PUBBLICAZIONI  UMANISTICHE 

I,  BACCIO  ZILIOTTO.  —  La  cultura  letteraria  di  Trieste 

e  dell'Istria.  Parte  prima,  dall'antichità  all'umanesimo.  — 
Trieste,  Ettore  Uram,  editore,  1913  (8°,  pp.  196). 

II.  FRANCESCO  LO  PARCO.  —  Niccolò  da  Reggio  antesi- 

gnano del  risorgimento  dell'antichità  ellenica  nel  se- 
colo XIV.  Estratto  dagli  Atti  della  R.  Accad.  arch.  lett. 
belle  arli  di  Napoli.  —  Napoli,  1913  (8°,  pp.  71). 
IH.  BICE  BORALEVI.  —  Di  alcuni  scrìtti  inediti  di   Tom- 


(1)  Anche  Ugo  Balzani  nel  sno  classico  libro  Le  cronache  italiane  nel  Medio  Evo, 
3»  ediz.,  Milano,  1909,  non  sa  dichiararsi  scevro  di  ogni  esitazione  riguardo  all'au- 
tenticità della  biografia  dell'Anonimo,  i  cui  pregi  per  altro  egli  mette  assai  bene 
in  rilievo. 


406  RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA 

maso  Morroni  da  Rieti.  Estratto  dal  Bollettino  della 
R.  Deputaz.  di  storia  patria  per  r  Umbria.  —  Perugia, 
1912  (8%  pp.  82). 

IV.  PAUL  MAAS.  —  Fin  Notizhuch  des  Cyriacus  von  Ancona 
aus  dem  Jahre  1436.  Estratto  da  Beitràge  zur  For- 
Hclmng.  Stiidien  und  Mitteil.  aus  dem  Antiq.  J.  Rosen- 
thaU  Folge  I.  —   Mùnchen,  J.  Rosenthal,  1913  (pp.  5-15). 

I.  Anche  l'umanismo  istriano  ha  trovato  il  suo  storico  :  dotto,  acuto,  co- 
scienzioso. Veramente  il  volume,  che  è  il  primo  di  due,  porta  il  sottotitolo: 
DalV anticliità  alV umanesimo  ;  ma  l'antichità  vera  e  propria  offre  così  scarsa 
materia,  che  non  ci  possiamo  formare  un'idea  della  cultura  istriana  di  quei 
tempi,  se  pure  una  ce  ne  fu;  e  il  poco  che  la  produzione  latina  e  volgare 
dell'Istria  ci  manifesta  all'uscir  dal  medio  evo  è  un  riverbero  della  cultura 
veneziana.  Sicché  una  cultura  istriana  non  ci  si  rivela  che  nel  periodo  uma- 
nistico. 

Qui  pure,  non  lo  dobbiamo  nascondere,  manca  una  vera  personalità  regio- 
nale; ma  il  territorio,  da  cui  vengono  all'Istria  gli  impulsi,  non  è  più  ri- 
stretto a  Venezia,  essendosi  allargato  all'Italia.  E  per  tal  guisa  l'Istria  ha 
un  umanismo  suo,  in  quanto  partecipando  al  movimento  generale  italiano 
sviluppa  un'attività  letteraria  propria  con  le  forze  proprie  ;  anzi  non  di  rado 
ricambiando  largamente  alla  patria  comune  ciò  che  da  essa  aveva  preso  ;  perchè 
ad  es.  il  Vergerlo,  il  più  grande  umanista  istriano,  non  visse  quasi  mai  in 
patria,  mentre  della  sua  varia,  meravigliosa  e  originale  produzione  godettero 
il  frutto  Padova,  Bologna,  Firenze  e  la  corte  pontificia. 

Il  capitolo  III,  dedicato  appunto  al  Vergerlo,  è  senza  paragone  il  migliore, 
non  perchè  negli  altri  la  facoltà  espositiva  dello  Ziliotto  sia  venuta  meno,  ma 
perchè  la  materia  vi  è  più  abbondante  e  più  attraente.  È  un  capitolo  con- 
dotto con  ordine  e  lucidità  e  che  si  legge  con  vero  diletto  :  le  notizie  biogra- 
fiche e  storiche  vi  sono  intrecciate  con  l'analisi  delle  opere  in  una  maniera 
così  felice,  che  ben  pochi  altri  capitoli  umanistici  saprei  mettergli  a  paro. 

Il  capitolo  IV  è  consacrato  agli  elementi  della  cultura  umanistica  e  in  par- 
ticolar  modo,  com'era  da  aspettarsi,  alle  scuole  che  si  venivano  quali  insti- 
tuendo,  quali  riformando  nelle  varie  città.  Nel  V  invece,  che  è  anche  l'ultimo 
del  volume,  è  presa  in  esame  la  produzione  umanistica:  e  questo  capitolo  si 
apre  e  si  chiude  con  due  umanisti  che  sono  i  più  importanti  dopo  il  Vergerio, 
cioè  con  lo  Zovenzoni  e  con  G.  B.  Goineo.  Lo  Zovenzoni,  allievo  di  Guarino^ 
fu  maestro,  correttore  di  testi  in  tipografia,  ma  soprattutto  poeta  lirico:  il 
Goineo  fu  uno  spirito  complesso  e  versatile,  letterato  e  medico,  con  tutti  i 
caratteri  dell'umanista  battagliero,  avendo  preso  parte  alle  contese  letterarie 
che  allora  erano  più  in  voga:  sul  ciceronianismo,  sulla  preminenza  da  darsi 
alle  lettere  o  alla  milizia,  alla  medicina  o  alla  giurisprudenza.  E  fu  inoltre 
uno  spirito  illuminato,  poiché  finì  col  parteggiare  per  la  riforma. 

Seguono  ora  alcune  osservazioni  speciali  :  P.  49,  le  nuove  commedie  di  Plauto 


RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA  407 

non  furono  scoperte  al  tempo  del  concilio  di  Basilea,  ma  le  portò  a  Roma  il 
Cusano  nel  1429. 

P.  51,  Francesco  Barbaro  potè  essere  alunno  del  Ravennate  a  Venezia, 
ma  non  a  Firenze. 

P.  52,  della  metrica  di  Francesco  Zabarella  ho  dato  un'ampia  relazione 
in   Biblioteca  delle  scuole  italiane,  IX,  1904,  2-15  gennaio,  pp.  3  sgg. 
12-15  giugno,  pp.  5  sgg. 

P.  77,  sulla  dimora  del  Vergerlo  in  Germania  al  servizio  dell'imperatore, 
si  vedano  alcune  date  presso  W.  Altmann,  Hegesta  imperii  XI.  Die  Ur- 
hunden  Kaiser  Stgmunds,  nn.  4233  J.,  5894,  6199. 

P.  121,  i  Turci  erano  chiamati  Teucri,  perchè  occupavano  il  suolo  dove 
una  volta  sorgeva  la  Teucria  (Troia).  Vedasi  la  lettera  di  Francesco  Filelfo, 
Venetiis,  1502,  f.  59'".  Del  resto  gli  umanisti  ignoravano  che  l'origine  del 
Turci  era  fatta  risalire  ai  Teucri  sin  dal  secolo  VI  dell'era  volgare  (cfr.  Rhei- 
nisch.  Mus.,  LI,  1896,  518). 

P.  123,  un  codice  del  sec.  XV,  che  contiene  la  traduzione   deW  Odissea 
di  Andrea  Divo,  è  il  Vaticano  1568. 
Da  ultimo  alcuni  emendamenti  ai  testi  latini  citati  nel  volume. 

P.  52,  n.  3,  si  legga  e  interpunga:  «  ut  et  in  artibus...  licentiatus,  ita 
«  nunc  in  utroque  iure...  contigerit,  et,  si  deus  dederit,  ...  statui  ». 

P.  116,  le  parole  ad  celerrimam  fahidae  scriptionem  non  si  possono  in 
verun  modo  trarre  al  significato  di  stampa:  ivi  si  parla  di  trascrizione  af- 
frettata. 

P.  132,  nel  carme  dello  Zovenzoni  andava  rilevato  che  Crispo  era  assai 
giovane  (puer)  e  che  faceva  fermare  gli  astri  ad  ascoltare  i  suoi  canti.  Le 
parole  «e  reddam  tihi  s'interpretano:  faccende  tali,  'che  io  non  ti  possa  re- 
plicare '.  —  Nell'esametro,  alla  linea  7  togliere  sum. 

P.  135,  n.  2,  quum  iisce:  si  corregga  quin  hisce. 

P.  138,  in  nota:  quid  tibi  cordi  erat :  leggasi  corrf^« (errore  di  stampa?). 

P.  139,  nel  primo  verso,  invece  di  oculos  leggi  oculis  (errore  di  stampa?). 

P.  148,  Nulla  cuius  curat:  si  corregga  eius. 

P.  179,  nocte  diesque:  si  legga  dieque. 


II.  Credo  che  nel  titolo  di  quest'opuscolo  siano  capovolti  i  termini  storici, 
perchè  Niccolò  da  Reggio,  anziché  precorrere  i  nuovi  tempi,  chiude  i  vecchi; 
anziché  il  primo,  è  l'ultimo  di  una  serie.  Il  suo  metodo  è  tutto  medievale, 
mentre  la  vera  risurrezione  dell'ellenismo  va  assegnata  agli  italiani  del  set- 
tentrione, che  strinsero  rapporti  diretti  e  molteplici  con  Costantinopoli.  Il 
mezzogiorno,  per  questo  riguardo,  entrò  nell'orbita  del  nuovo  movimento  sol- 
tanto un  secolo  dopo.  • 

Ma  ciò  non  infirma  minimamente  i  meriti  grandissimi  di  Niccolò  e  i  pregi 
dell'opuscolo  del  Lo  Parco,  che  vi  ha  speso  attorno  molta  dottrina  e  molta 
diligenza.  Ricostruisce  anzitutto  con  buoni  dati  la  biografia  di  Niccolò,  for- 
mulando l'ipotesi,  non  improbabile,  che  abbia  fatto  gli  studi  di  medicina  a 


408  RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA 

Salerno.  La  nascita  si  può  collocare  press'a  poco  nel  1280  ;  l'ultima  data  certa 
della  sua  vita  ci  riporta  al  1345. 

In  secondo  luogo  l'autore  considera  Niccolò  nell'opera  sua  varia  e  feconda 
di  traduttore  dei  medici  greci,  specialmente  di  Galeno,  escludendo  giustamente 
che  abbia  tradotto  anche  da  Aristotile  e  dall'arabo.  Rileva  l'onore  altissimo 
che  gli  spetta  per  avere  ricondotto  la  medicina  alle  fonti  dirette  della  grecità 
e  illustra  con  esempi  efficacissimi  il  metodo  scrupolosamente  letterale  delle  sue 
traduzioni. 

Da  ultimo  il  Lo  Parco  stende  un  accurato  e  potremmo  dire  completo  elenco 
delle  traduzioni  di  Niccolò:  prima  le  traduzioni  che  s'incontrano  nei  mano- 
scritti, poi  le  traduzioni  che  s'incontrano  nelle  stampe,  compresa  la  rarissima 
di  Pavia  degli  anni  1515-16. 

In  qualche  precedente  lavoro  il  Lo  Parco  non  ha  sempre  tenuto  a  freno  la 
sua  vivace  fantasia:  in  questo  il  rigore  del  metodo  ha  fatto  così  notevoli  pro- 
gressi, che  bisogna  rallegrarsene  sinceramente  con  lui. 
Soggiungo  alcune  indicazioni  bibliografiche. 

W.  Goetz ,  Kònig  Robert  von  Neapél.  Seine  Personlichkeit  und  sein 
Verhàltniss  zum  Humanismus,  Tiibingen,  1910.  Il  Lo  Parco  insiste  volen- 
tieri sul  re  da  sermone  di  Dante  ;  dal  Goetz  apprenderà  che  ci  sono  rimaste 
289  prediche  di  re  Roberto. 

C.  Kalbfleisch,  Galenus:  de  victu  attenuante,  Teubner,  1898  (di  sul 
cod.  Parig.  lat.  6865  e  Dresd.  D.  b.  92). 

H.  Schone,  Galenus:  de  partibus  artis  medicativae,  Greifswald,  1911. 
Con  una  copiosa  bibliografia. 
Inoltre  un  paio  di  codici. 

Cod.  di  Praga  1404,  sec.  XIV  De  marasmo,  De  sompno,  De  temporibus 
universalis  egritudinis,  De  cura  icteri. 

Cod.  Vatic.  Barber.  lat.  179,  sec.  XIV:  f.  109  Incipit  ìiber  G(aleni)  de 
spermate]  f.  116^  Explicit  liber  de  spermxite  qui  etiam  dicitur  de  zoogonia 
idest  de  generatione  animalium.  Translatus  de  greco  in  latinum  a  Nicolao 
de  Beglo  de  Calabria. 

III.  Degno  di  considerazione  ci  pare  questo  lavoro  della  signorina  Boralevi, 
nel  quale  è  utilmente  riassunto  tutto  quello  che  finora  s'è  scritto  sul  bizzarro 
e  avventuroso  umanista,  soldato  e  diplomatico.  Nella  prima  parte  l'autrice  espone 
brevemente,  con  ordine  e  chiarezza,  le  notizie  biografiche  del  Morroni  e  nella 
seconda  passa  in  rassegna  le  sue  opere  latine  e  volgari,  prosastiche  e  poetiche, 
di  alcune  delle  quali,  veramente  importanti,  comunica  i  testi  ancora  inediti. 

Solo  dispiace  dover  notare  che  un  po'  per  distrazione  del  tipografo,  un  po' 
per  l'imperizia  di  coloro  che  fornirono  alla  B.  le  copie,  i  documenti  nuovi 
sono  mal  presentati.  Di  uno  almeno  darò  io  qui  la  lezione  esatta,  perchè  serve 
a  richiamare  l'attenzione  sul  nome  di  un  umanista  milanese  ingiustamente 
dimenticato:  intendo  di  Bernabò  Carcano  (egli  si  firma  ora  Bernabos  de 
Carchano  ora  Bernabos  Carchaneus),  intorno  al  quale  si  legge  un  magro 
cenno  nell'Argelati,  Bihl.  script.  Mediai,  I,  ii,  297. 


RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA  409 

Il  codice  Ambrosiano  H  48  inf.,  donde  la  B.  si  fece  trarre  un'elegia  latina 
contro  il  Morroni,  contiene  molti  componimenti  del  Carcano;  e  sua  è  anche 
l'elegia,  che  l'autrice  pubblicò  anonima  :  sua,  perchè  corrisponde  perfettamente 
e  nel  contenuto  e  nella  forma  alla  lettera  in  prosa,  pure  pubblicata  ivi,  la 
quale  porta  il  titolo  :  Epistula  cantra  antedictum  d.  Thomam  Aretinum  (leggi 
Beatinum).  amatissimo  ac  generoso  lohanni  Vicecomiti  B.  C.  sai.  dicit  pi. 
Ora  le  due  iniziali  B.  C.  nascondono  per  l'appunto  il  nome  di  Bernabò  Car- 
cano. La  poesia  e  la  lettera  furono  scritte  dal  Carcano  nel  marzo  del  1438 
(Scripta  die  XV  marcii  1438),  quando  il  Morroni  capitò  a  Milano  a  tenervi, 
come  oggi  diremmo,  conferenze  pubbliche  di  poesia  e  d' improvvisazione.  Narra 
infatti  il  Carcano  nella  lettera  :  «  Maxime  vero  cum  se  iactarit  (Thomas)  in 
«  contione  non  volgari  ex  tempore  posse  de  omni  materia  sibi  proposita  et 
«  diserere  et  eleganter  absolvere:  hoc  est  argumenta  singulorum  recensendo 
«  et  illis  ipsis  cum  orationibus  tum  rittimis  et  ver  gibus  abso- 
«  lutiones  prestando  ». 

Ecco  dunque  la  poesia  (cod.  Ambros.  H  48  inf.,  f.  90)  : 

Ad  magistrum  Antonium  Raudensem  theologum  summe  integritatis  virum  (in  mar- 
gine: Cantra  prefatum  d.  Thomam  oratorem  et  militem). 

Raude,  quìs  externis  venit  peregrinus  ab  oris, 

Quem  tantum  demens  volgus  in  astra  ferat? 
An  deus  ille  aliquis  celo  delapsus  ab  alto 

Insubres  petiit  qualibet  arte  rudes? 
5    Sed  si  dispicimus,  sane  mortalis  et  ipse  est 

Imperioque  necis  subdita  vita  sua  est. 
Nos  quoque  iam  Ligures  totum  penetravimus  orbem, 

Ora  nec  est  variis  clarior  ingeniis. 
Hio  equidem  expressos  levi  de  marmore  vultus 
10        Artificum  manibus  vivereque  era  putes. 
Rite  coloratas  hic  conspirare  iìguras 

Cerno  et  motus  quosque  referre  suos. 
Pretereo  insignes  calathis  tenuique  Minerva 

Nimphas  et  pictis  addere  signa  thoris. 
15    Invictasque  arces  admotaque  culmina  celo 

Non  repetam  atque  auro  tempia  opulenta  deum 
Innumerasque  artes,  que  tecta  per  ardua  fervent, 

Exercet  quales  sordida  turba  frequens. 
Soilicet  anne  etiam  nobis  ignotus  Apollo, 
20        Nesoia  Calliope  oredidit  ille  foret  ? 

Ille  quidem  media  populi  spectante  corona 

Aroane  mentis  qui  reserarit  opes? 
Heu  que  tum,  demens,  que  te  sententia  vertit, 

Virtutem  si  qua  est  explicuisse  tuam  ? 
26    An  melior  fieri,  si  publicus,  ipse  putasti  ? 

An  novus  indocta  iam  deus  urbe  eoli  ? 
Anne  tuum  obscurum  terris  nigreaeere  (1)  nomen, 

Ni  te  iactares,  proh!  timor  ullus  erat  ? 


(1)  ingrescere  cod. 


410  RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA 

At  neque  te  virtus  neque  te  precordia  taugunt 
30        Conscia  sed  stoliduni  nomen  inane  eapit. 
Debueras  certe  potius  tacuisse  neque  ipsum 

Tollere  et  insanis  exposuisse  viris. 
Qui  preoor  obtusam  plebem  censere  putaris 
De  te  aliquid,  que  se  nescierit  penitus  ? 
35    Inter  se  fictis  (1)  quid  concertare  necesse  est, 
Quos  et  vera  quidem  continuisse  decet  ? 
Sed  quid  inauditum  aut  dieta  mirabile  fingis, 

Pollicitus  vana  spe  niiserosque  foves  ? 
Crediderasne  Ytalis  nemo  prognatus  ab  oris 
40        Sciret  pertectos  (2)  dissoluisse  dolos  ? 

Ah  ne  plura,  precor,  vecors  et  comprime  vocem, 

lactator  titulis  et  moderare  tuis. 
Heu  pudeat  tantis  demum  spumescere  sponsis 
Nam  murem  peperit  terra  tumore  tumens. 
45    Hei  vesanus  abi,  nostris  concede  camenis  ; 
Ite  procul,  tusce,  trans  maria  alta,  dee. 
Sunt  quoque  Parnasi  duplicata  cacumina  nobis, 

Hic  quoque  Pegasea  defluit  amnis  aqua. 
Stant  circum  pariter  none  eantantque  sorores, 
50        Has  etiam  lauro  protegit  umbra  cadens. 
Hic  et  Calliopeque  parens  et  pulcher  Apollo, 

Hic  etiam  vates  fovit  uterque  suos. 
Desine  te  medios  Inter  iactare  Marones, 
Nec  (3)  cantu  Insubres  vincere  posse  puta. 
55    Desine  te  tantum  celo  equarier  alto, 

Non  equidem  Latio  solus  in  orbe  canis. 
Tu  vero  tu,  Rande  pater,  non  surgere  centra 
Pergis  et  hoc  Ligurum  dedecus  ipse  feras  ? 
Tu  potis  Argivos  contra  contraque  Latinos 
60        Solus  et  haud  similem  Phebus  uterque  videt. 

Il  poeta  si  rivolge  al  famoso  teologo  umanista  Antonio  da  Rho  (1  ;  57-58), 
del  cui  valore  nutre  un'altissima  stima  (59-60).  Di  fronte  al  forestiero  {pe- 
regrinics,  1)  Morroni  egli  pone  in  efficace  rilievo  i  meriti  della  sua  Milano, 
le  cui  arti  ne  hanno  diffusa  la  fama  per  il  mondo  (7)  :  la  scultura  (in  marmo 
e  bronzo,  9-10),  la  pittura  (11-12),  le  industrie  tessili  (13-14),  i  monumenti 
architettonici  (15-16),  le  officine  meccaniche  (17-18),  la  letteratura  e  la  poesia 
(19-20,  47-52).  Le  tusce  dee  (46)  saranno  le  muse  volgari,  le  muse  dei  rittimi. 

Tecnicamente  la  poesia  non  è  mal  condotta;  tolti  due  iati  (12,  55),  il  metro 
è  rispettato.  Aspri  i  due  iperbati  qui  (22)  e  que  (38)  imposti  dal  metro. 

Nel  lessico  vanno  notati  i  due  verbi  nigrescere  (27)  e  spumescere  (43)  con 
significato  metaforico;  nella  sintassi  due  volte  credo  (20,  39)  in  paratassi  e 
timor  (27-28)  con  l'accusativo  e  l'infinito. 

IV.  Il  Maas  dà  ampie  notizie  di  un  nuovo  autografo  di  Ciriaco,  contenente 
parte  della  relazione  del  suo  viaggio  archeologico  intrapreso  nella  prima  metà 
del  1436  traverso  rillirio,  l'Epiro  e  la  Grecia. 


(1)  diotis  cod.  (2)  proteotos  cod.  (8)  Ueo  cod. 


RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA  411 

Per  la  storia  deirumanismo  il  codice  reca  un  curiosissimo  documento,  finora 
ignoto,  l'invettiva  di  Ciriaco,  autografa,  contro  Poggio,  nella  polemica  soste- 
nuta da  costui  e  da  Guarino  sulla  preminenza  di  Scipione  e  di  Cesare.  Del- 
l'invettiva di  Ciriaco  sapevamo  solo  quel  tanto  che  ne  dice  Poggio  in  una 
lettera  al  Bruni,  con  la  data  Ferrarie  priclie  kaìenclas  aprilis ,  perciò  del- 
l'anno 1438,  e  non  1437,  come  dubitativamente  suppone  il  Maas  (p.  14),  perchè 
Poggio  era  a  Ferrara  col  concilio  nel  1438. 

Di  una  delle  tante  note  disseminate  nel  volumetto  Ciriacano  il  Maas  non 
riesci  ad  afferrare  il  senso  (p.  9).  Sono  trascritti  prima  i  due  versi  omerici, 
ai  quali  Fidia  s' inspirò  per  la  sua  statua  di  Elena,  poi  gli  altri  tre,  ai  quali 
s'inspirò  per  la  statua  di  Giove.  Indi  segue: 

ber  Iiistinianus  Venetus 
primi  duo  versus  sic  arbitror  latine  cantari  possent 
haud  equidem  indignum  talis  si  femina  multos 
Europam  atque  A.siam  bello  vexaverit  annos. 

Abbiamo  cioè  il  tentativo  di  Bernardo  Giustiniano,  figlio  di  Leonardo,  di 
tradurre  in  latino  i  due  primi  versi.  Resta  a  vedere  se  la  nota  è  veramente 
di  mano  di  Ciriaco  o  di  Bernardo. 


Approfitto  di  quest'occasione  per  dire  due  parole  di  un  altro  autografo  di 
Ciriaco,  presumibilmente  ignoto,  che  si  conserva  in  Roma  nel  cod.  Alessan- 
drino 253,  cart.  del  sec.  XV,  di  fogli  16. 

Il  codice  contiene  solo  due  componimenti,  il  primo  dei  quali  è  dello  stesso 
Ciriaco:  f.  1-12^  Kyriaci  Anconitani  de  Pont iano  Taraconensium  regis  con- 
flictu  navali  commentari um  ad  Franciscum  Scalamontium  equitem  prae- 
stantem.  Vellem  o  quam  lubentissime  praestans  et  magnanime  —  haurire 
velis.  Exactum  Anconi  idibus  septembrib.  1435.  Fino  al  f.  2  scritto  in  verde, 
dal  f.  2'  in  nero.  È  una  seconda  bella  copia,  simile  a  quella  del  cod.  Ambro- 
siano R  93  sup.,  da  me  descritta  in  Miscellanea  Ceriani,  244-47. 

L'altro  componimento  è  una  lettera  di  Pasquale  Sorgo  ragusino  al  cava- 
liere siciliano  Nicola  Ansalone:  f.  13^  Exemplar  liti,  ex  Paschale  de  Soi'go 
Raguseo  nobili,  qui  est  cum  despote  Serviae  inter  primores  et  fuit  in  exer- 
citu  Pannonorum  cum  transnarent  Danuhium.  Scripsit  ad  N.  Ansalonem 
Siculum  equitem  clarissimum  apud  Arachteam  Acarnanum  regiam.  Ciriaco 
prima  copiò  la  lettera  e  poi  la  sottopose  a  una  revisione  stilistica,  egli  che 
in  fatto  di  stile  avrebbe  avuto  tanto  bisogno  della  revisione  altrui.  Ne  traggo 
alcuni  passi  di  maggiore  importanza  storica. 

[f.  13'']  Ut  notificem  tibi  de  novissimis  (1)  in  partibus  contigentibus  (sic)  (2), 
Comes  lohannes  sive  Coniati  Janus  regni  Hungariae  gubernator  magno    suo 


(1)  Ciriaco  corresse:  novis  istis. 

(2)  Ciriaco  aggiunse:  ci.  eq.  X.  (=  dare  eques  Nicolae). 


412  EASSEGNA    BIBLIOGRAFICA 

cum  exercitu  k.  sept.  in  Choino  (1)  advenerat  et  copias  transmeavit  in  So- 
boticza  ad  hostium  Lamoranae  ;  [f.  14^]  Est  et  una  cum  Jano  duce  prefato 
maximi  pontif.  N.  (=  Nicolai  V)  legatus  in  exercitu  Xpistoforus  Garatonius 
episcopus  Coroneus  (2)  et  pleri  ex  Pannonia  proceres  et  procerum  filii;  [f.  15] 
Salgianich  Turca  (3)  suo  cum  exercitu  optimo  ordine  paratus  est;  [f  15']  Meus 
preterea  dominus  despotes  sequendi  aperte  exercitum  adhuc  anceps  est,  puto 
suo  prò  posse  (4)  neutralem  se  in  medio  manere  curabit.  Ego  vero  hac  prò 
re  in  exercitu  sum  et  ter  iam  orator  prò  rei  compositione  laboravi  nec  adhuc 
profeceram  ;  [f.  16]  Haec  tibi  quam  brevia  raptimque  tibi  prescripsi  (5);  per 
alias  vero  me  maiora  ad  te  et  latiori  ordine  scripturum  habeto.  Optimo  maxi- 
raoque  iuvante  love.  E  felicibus  xpistianissimisque  castris.  Ili  idub.  (6) 
sept.  1448. 

Su  queste  operazioni  di  guerra  cfr.  Raynaldi  Ann.  eccl.,  XVlll,  a.  1448, 
nn.  6-7. 

Remigio  Sabbadini. 


H.  B.  CHARLTON.  —  Castelvetro's  Theory  of  Poetry  (Publi- 
cations  of  the  University  of  Manchester  ;  Comparative  Lite- 
rature  Series  ;  n°  1).  —  Manchester,  at  the  University  Press, 
1913  (160,  pp.  xvi-221). 

Dopo  una  serie  di  studi  generali  e  speciali  su  la  vita,  l'opera,  il  valore 
critico  del  Castelvetro  (7),  usciva,  come  è  noto,  nel  1904  una  vivace  requisi- 
toria del  compianto  Antonio  Fusco  (8)  ;  il  quale,  squadernando  per  ogni  verso 
la  famosa  Sposizione  della  Poetica  aristotelica  e  notomizzandola  con  l'occhio 
del  filosofo  moderno  e  facendola  allegramente  a  brandelli,  poteva  affermare 
—  pur  attenuando  la  crudezza  del  giudizio  con  certe  lodi  di  «  merito  este- 
riore »  —  che  «  quasi  nessuna  delle  opinioni  e  delle  teorie  »  del  Castelvetro 
«  va  pigliata  sul  serio  »  e  che  «  in  sé  e  per  sé  il  libro  è  carta  da  straccio  »  (9). 


(1)  Ciriaco  soprasorisse  :  oppido. 

(2)  Ciriaco  corresse:  olim  Coroneus. 

(3)  Ciriaco  corresse:  turcua. 

(4)  Ciriaco  corresse  :  quoad  poaae. 

(6)  Ciriaco  canoftUò:  tibi  e  corresse:  perscripsi. 

(6)  Ciriaco  corresse:  idus. 

(7)  Ricordo,  fra  i  più  importanti,  T.  Sahdonnini,  Lodovico  Castelvetro  e  la  sua  fa- 
miglia, Bologna,  Zanichelli,  1882;  V.  Vivaldi,  Una  polemica  nel  Cinquecento  ecc., 
Napoli,  Morano,  1891;  D.  A.  Capasso,  Note  critiche  sulla  polemica  tra  il  Caro  e  il 
Castelvetro,  Napoli,  Trani,  1897;  G.  Cavazzuti,  Lodovico  Castelvetro,  Modena,  1908; 
ii.  Bertoni,  Q.  M.  Barbieri  e  il  Castelvetro,  in  questo  Giorn.,  XLVI,  888  segg. 

(8)  Antonio  Fusco,  La  Poetica  di  Lodovico  Castelvetro,  Napoli,  Pierro,  1904;  cfr. 
recens.  Gentii.r,  in  Critica,  II,  885  sg.,  F.  Neri,  in  questo  Oiorn.,  XLVII.  149  sgg. 

(9)  Op.  cit.,  267. 


RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA  413 

Ma  di  questi  fortissimi  colpi  il  critico  cinquecentista  non  è  morto,  anzi  oggi, 
almeno  oltralpe  e  oltremare,  è  più  vivo  di  prima.  Ed  è  gran  cosa  che  pro- 
prio gli  stranieri  vengano  a  rifarci  il  latino  per  insegnarci  il  punto  di  vista 
storico  a  giudicar  le  opere  nostre  (1)!  Il  Fusco  accusa  il  Castelvetro  di  una 
specie  di  trucco  :  fingere  di  commentare  Aristotele  per  aver  mezzo  di  mo- 
strare e  accreditar  le  sue  teorie  (2)  ;  ed  egli  espone  e  combatte  e  scompiglia 
le  teorie  del  Castelvetro  per  metterci  innanzi  la  sua  dottrina  estetica  ;  e  la  de- 
terminazione del  posto  che  spetta  a  costui  nella  storia  della  critica  passa 
quasi  in  seconda  linea.  Così  che  lo  studio  del  Charlton  è  tutt'altro  che  inu- 
tile, e,  se  si  guarda  al  metodo  rigoroso  con  cui  è  condotto  e  alle  conclusioni 
cui  poco  nuoce  il  tono  di  temperata  apologia,  dirò  anzi  che  era  necessario; 
come  quello  che  snebbia  la  fisionomia  del  critico  da  certe  nuvole  di  cui  amò 
circondarsi,  tra  le  quali  parecchi  studiosi  non  seppero  coglierne  i  tratti  carat- 
teristici: utilissimo  ad  ogni  modo,  perchè  dall'esame  accurato  e  sottile  delle 
dottrine  di  lui,  in  confronto  con  quelle  dei  critici  dell'età  sua,  ed  anche  delle 
età  antecedenti  e  successive,  si  può  trarre  un  giudizio  equanime  del  valore  sto- 
rico e  assoluto  dell'opera  castelvetrana.  Per  far  questo  occorse  certo  al  Ch.  quella 
lunga  pazienza,  cui  mi  sottomisi  io  stesso  altra  volta  per  dar  conto  brevemente 
delle  principali  teorie  della  Poetica  (3),  e  che  dovette  scappare  parecchie  volte 
al  Fusco,  fino  a  fargli  esclamare:  «  quel  libro  nasconde  tante  trappole  quante 
«  sono  le  parole;  e  i  ripieghi,  i  compromessi,  i  rimandi,  i  circoli  viziosi,  le 
«  petizioni  di  principio  non  si  contano  »  (4).  Ma  oltre  all'amorosa  pazienza 
gli  occorsero  larga  preparazione  di  studi  sui  critici  del  Rinascimento  e  chiaro 
intelletto  dei  problemi  estetici.  Egli  volle  penetrare  nel  vero  spirito  della  dot- 
trina castelvetrana:  non  s'arrestò  innanzi  ai  curiosi  labirinti  stilistici,  entro 
cui  il  critico  volontariamente  s'aggira  o  involontariamente  s'avviluppa;  ne 
segui  abilmente  le  traccie,  investigando  le  vie  per  cui  quello  cammina,  e  vide 
i  termini  a  eui  giunge;  e  i  risultati  delle  sue  ricerche  ci  ha  esposti  con  so- 
brietà e  sopra  tutto  con  ordine  e  chiarezza.  Questa  chiarificazione,  per  dir 
cosi,  delle  teorie  del  Castelvetro  è  il  miglior  servigio  reso  al  faticoso  pensatore, 
n  libro  del  Ch.  è  ben  pensato  e  disegnato.  La  bibliografia,  se  pur  ha  qualche 


(1)  Il  Fusco  —  scrive  il  Charlton  (p.  173)  —  lancia  una  grave  accusa  contro  il 
Castelvetro:  trova  che  non  è  né  un  Kant,  né  un  Hegel,  né  un  Croce;  e  cosi  è 
mosso  al  sarcasmo.  Risum  teneatis  è  il  colpo  di  grazia  che  egli  dà  a  parecchie  teorie 
del  Castelvetro:  anzi  questo  verso  d'Orazio  può  essere  il  motto  dell'intero  libro 
del  Fusco.  La  sua  attitudine  ci  appare  severissima  e  anche  molto  ingiusta  :  egli 
non  adotta  mai  un  punto  di  vista  storico,  ma  sempre  un  punto  di  vista  assoluto. 
Egli  guarda,  come  se  nell'uomo  che  nel  secolo  XVI  insisteva  che  la  poesia  non  è 
storia,  che  la  poesia  è  puramente  una  funzione  estetica,  che  il  poeta  deve  soprat- 
tutto essere  originale  e  che  la  poesia  non  è  una»  pura  pratica  di  burle  e  strata- 
gemmi poetici  fatti  sacri  dall'uso,  non  trovasse,  più  che  altro,  che  «  matter  for 
professorial  hilarity  and  sarcasm  ». 

(2)  Op.  cit,  29. 

(3)  Lodov.  Castelvetro  cit.,  cap.  VI,  pp.  189  sgg. 

(4)  Op.  cit.,  28-29. 


414  RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA 

omissione,  si  può  dire  ampia  rispetto  all'argomento  speciale.  Felice  l'ordine  e 
la  distribuzione  della  materia  nei  tredici  capitoli,  oltre  l'introduttivo,  di  cui 
si  compone  il  volume. 

Nell'introduzione  è  una  sufficiente  notizia  della  vita  del  Castelvetro,  de- 
sunta dalla  biografia  scritta  dal  Muratori  [«  Librarian  to  the  Duke  of  Mo- 
dena »:  Cameade?]:  fonte  un  po' vecchia,  diciamo  la  verità,  e  sopra  tutto  in 
certi  punti  sospetta:  non  avrebbe  nociuto  al  Ch.  la  conoscenza  degli  ultimi 
studi  sulle  vicende  del  critico,  quantunque  nella  narrazione  sommaria  non 
si  possa  dire  che  egli  cada  in  errori.  Nel  primo  capitolo  è  tracciata  breve- 
mente la  storia  della  critica  italiana  fino  al  Castelvetro,  con  l'opportuno  aiuto 
dei  noti  lavori  del  Saintsbury  e  dello  Spingarn  (1);  ma  non  si  tien  conto 
0  si  tace,  e  non  è  bene  ad  ogni  modo,  àeWEstetica  del  Croce. 

Nei  capitoli  II-X  sono  esposte  le  principali  teorie  castelvetrane  ed  oppor- 
tunamente confrontate  con  quelle  dello  Scaligero,  del  Minturno,  del  Fracastoro. 
del  Tasso,  che  contrastarono  con  maggiore  o  minor  fortuna  il  campo  alle  prime. 

Il  Ch.  si  pone  tosto  a  chiarire  che  cosa  intendesse  il  suo  autore  per  poeta 
e  per  arte  della  poesia.  Per  il  Castelvetro  l'arte  imita  la  natura  come  una 
energia  creativa;  e  il  segno  dell'artista  è  la  sua  originalità,  il  suo  genio  per 
l'invenzione,  «  l'ingegno  a  trovare  » ,  per  virtù  del  quale  egli  gareggia  con  la 
natura.  Ma,  contro  all'opinione  dei  più,  non  ammette  nel  poeta  Vispirazione, 
facendosi  forte  a  questo  proposito  di  un  passo  controvei-so  di  Aristotele  ;  il 
poeta  non  è  «  guidato  dalla  ventura  o  dal  caso  »;  sa  e  deve  sapere  il  perchè: 
quindi  l'importanza  dello  studio  dell'arte,  quindi  la  ragion  d'essere  della  cri- 
tica, intesa  a  prescrivere  le  leggi  della  poesia.  Questo  concetto  della  critica 
con  funzione  principalmente  legislativa  e  inceppatrice  era  generale  e  pur  ac- 
cettato dal  Castelvetro  ;  il  quale  però  assegna  ad  essa,  più  chiaramente  d'ogni 
altro,  anche  una  funzione  apprezzativa:  la  Poetica  d'Aristotele,  egli  dice,  è 
un  grande  aiuto  a  «  comporre  convenevolmente  o  a  giudicare  direttamente  i 
poemi  composti  ».  L^Aiie  poetica  è  dal  Castelvetro  definita  come  «  una  rac- 
«  colta  di  tutte  le  dottrine  necessarie,  ordinate  con  bella  disposizione  per  in- 
«  segnare  a  fare  un  lodevole  poema  »:  posto  questo,  al  Castelvetro  si  aprivano 
due  vie:  tentare  una  teoria  speculativa,  con  la  ragione  come  autorità,  o  ac- 
cettare certe  opere  come  modelli  d'eccellenza,  oltre  i  quali  non  si  potesse 
andare  :  evitò  la  seconda  con  disdegno  e  f\i  salvo  dai  molti  errori  e  dalle  ido- 
latrie per  l'antichità  dei  suoi  contemporanei  ;  si  mise  per  la  prima  ;  ma  da  molti 
eiTori  si  tenne  pur  lontano,  in  grazia  delsuo  metodo  di  sottomettere  la  ragione 
alla  esperienza  :  egli  ha  —  scrive  il  Ch.  —  «  a  wide  survey  as  a  basis  for  his 
«  speculation,  and  above  ali,  a  conviction  which  refused  to  allow  a  priori 
«  reason  to  oust  experience  ».  Egli,  dunque,  negata  al  poeta  l'ispirazione  e 
messolo  alle  prese  con  le  difficoltà  dell'invenzione,  la  quale  sola  mostra  l'uomo 
poeta,  viene  a  formulare  con  rigor  di  logica    la  famigerata  teoria  della  dif- 


(1)  Saintsburv,  a  Higtory  of  CHticùm,  Edinburgh,  1900-1904;  Spinoarx,   A  History 
of  Literary  Criticism  in  the  Renaissance,  New  York,  1908'. 


RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA  415 

ficoltà  superata,  che  trovò  tanta  fortuna  specialmente  in  Francia  fino  a  di- 
venire col  Voltaire  «  essential  part  of  the  classical  creed  ».  E,  con  lo  stesso 
rigor  di  logica,  ne  deduce  la  proscrizione  della  storia,  come  soggetto  della 
poesia,  e  della  imitazione  degli  antichi,  perchè  l'autore  che  narra  fatti  avve- 
nuti 0  «  ruba  »  non  fa  nessuna  fatica  nell'inventare. 

Poesia  è  «  rassomiglianza  di  coloro  che  fanno  »  ;  per  il  Castel  vetro  come 
per  Aristotele,  l'azione  è  la  cosa  principale.  Per  il  Castelvetro  ogni  pro- 
duzione letteraria  che  «  rassomiglia  »  è  poesia,  e  il  verso  non  è  essenziale. 
Curiosa  una  delle  ragioni  addotte  in  favore  dell'uso  del  verso:  cioè  che  con 
questo  si  mostra  più  facilmente  che  il  soggetto  è  immaginato;  e  pur  curiosa 
l'altra:  per  maggior  verosimiglianza  il  dramma  dovrebbe  essere  in  prosa; 
ma  dovendo  gli  attori  parlar  forte  per  farsi  udire  dalla  moltitudine  potreb- 
bero sembrare  sordi  o  pazzi  ;  «  la  qual  sconvenevolezza  cessa  ne'  ragionamenti 
«  fatti  in  verso,  portando  per  forza  con  esso  seco  lo  innalzamento  della  voce 
«  senza  che  altri  paia  o  sordo  o  pazzo  ».  Trattando  ^t\V imitazione \\  C.  giunge 
con  ragionato  procedimento  a  distinguere  l'imitazione  che  è  mera  copia  dalla 
idealizzazione,  propria  del  poeta  :  «  But  idealisation  is  not  the  creation  of  a 
«  new  and  golden  world  in  comparison  with  which  that  of  nature  is  but 
«  brazen.  Nature  in  her  intentions  is  impeded  by  accidental  obstacles:  her 
«  essential  excellence  appears  but  rarely  in  its  full  development.  But  art  seizes 
«  nature's  aims,  learns  her  mcthods  and,  unrestrained,  draws  them  forth  to 
«  their  naturai  perfection,  as  if  in  rivalry  with  her  ».  E,  contrastando  alle 
opinioni  degli  aristotelici  e  platonici,  il  Castelvetro  affenna  che  l'artista  deve 
fissare  i  propri  occhi  sull'oggetto   stesso  e  non   sopra  un  «  ideale  »  estraneo. 

Venendo  a  stabilire  quale  sia  il  soggetto  della  poesia,  espone  una  delle  sue 
teorie  fondamentali  :  la  storia  e  la  scienza  cercano  la  verità  ;  ma,  intendendo 
la  poesia  a  porgere  per  <■<  rassomiglianza  »  diletto  agli  ascoltatori,  la  sua  es- 
senza non  può  aver  luogo  nella  verità.  Stabilita  la  differenza  tra  venta  e 
rassomiglianza,  notato  che  la  verisimiUtiidine  dipende  dalla  verità,  come  la 
cosa  rappresentata  è  prima  della  rappresentante,  conclude  che  l'arte  della 
poesia  dipende  dall'arte  della  storia.  Qui  il  Ch.  affronta  le  molte  difficoltà 
che  s'oppongono  a  chi  voglia  formulare  con  precisione  la  teoria  del  verosimile, 
specialmente  per  l'incertezza  nell'uso  della  parola  in  tutti  i  critici  del  Rina- 
scimento ;  e  conclude,  a  buon  diritto,  che  il  Castelvetro  accetta  la  teoria  del 
verosimile  senza  riserva  e  nel  suo  significato  più  letterale  :  «  la  cosa  rappresen- 
«  tante  dee  bavere  quello  che  ha  la  cosa  rappresentata  e  non  più,  nò  meno  »; 
così  la  poesia  non  può  mai  in  nessun  caso  contraddire  alla  storia.  E,  seguendo 
il  critico  modenese  attraverso  le  sottili  distinzioni,  il  Ch.  giunge  a  stabilire 
che  per  lui  soggetto  della  poesia  non  è  che  Vazione  umana  ;  intendendo  per 
azione  anche  l'attività  spirituale,  ma  dando  a  umana  senso  ristrettissimo. 
Non  sono  pertanto  materia  di  poesia  la  vita  anjjpale,  gli  aspetti  della  natura 
e  via  dicendo  ;  e  le  proscrizioni  dalla  classe  dei  poeti  sono  moltissime,  e  spesso 
non  ingiuste.  E  proscrive  il  Castelvetro  le  «  sole  maniere  »  degli  uomini  e 
le  «  lezioni  filosofiche  »,  cioè  la  materia  satirica  e  didattica.  Nell'ulteriore 
distinzione  tra  poesia  e  pittura,  egli  non  considera  che  la  pittura-ritratto,  e 


416  RASSEGNA    BIBLIOGBAFICA 

accosta  l'arte  della  pittura,  che  cerca  copiare,  a  quella  della  storia  che  ritrae 
i  fatti  avvenuti.  Ma  con  la  distinzione  fondata  sulla  natura  della  materia 
rappresentata  (il  pittore  imita  la  «  bontà  del  corpo  »,  la  bellezza,  il  poetala 
«  bontà  della  mente  »,  cioè  il  carattere,  le  azioni,  ecc.)  cammina  solo  e  pre- 
corre in  qualche  modo  alle  profonde  distinzioni  del  Lessing. 

Il  Castelvetro  chiaramente  e  saldamente  assegna  alla  poesia  lo  scopo  di 
«  dilettare  e  ricreare  »,  tanto  da  giustificar  nell'opera  d'arte  qualche  difetto 
0  allontanamento  dalle  regole,  se  non  si  distrugga  il  fine  del  diletto.  Così 
preferisce  Vunità  d'azione  «  perchè  diletta  di  più  »;  per  la  stessa  ragione 
antepone  la  tragedia  all'epica.  Singolarissima,  perchè  contraria  alle  conclu- 
sioni del  Minturno,  dello  Scaligero,  del  Fracastoro  e  perfino  del  Tasso,  è  la 
netta  separazione  tra  arte  e  morale  :  la  morale  ha  le  sue  leggi,  la  ragion  di 
stato  le  sue:  posson  proscrivere  le  opere,  ma  non  dettare  le  leggi  dell'arte. 
Unico  è  il  Castelvetro  a  sostenere  che  la  poesia  deve  dilettare  la  moltitudine 
rozza,  movendo  dall'osservazione  che  le  tragedie  e  le  commedie  sono  rappre- 
sentate al  popolo  e  generalizzando  stranamente  questo  fine  speciale.  Il  diletto 
deve  sorgere  dall' «  industria  del  poeta  »,  cioè  dall'originalità  e  dalla  difficoltà 
superata,  e,  quanto  alla  materia,  dal  meraviglioso,  «  lo  stupore  per  cose  ve- 
rosimili ». 

Prima  di  esporre  la  teoria  della  tragedia  e  della  commedia,  il  Ch.  tratta 
di  quei  punti  che  riguardano  il  dramma  in  genere.  Per  il  Castelvetro  il 
dramma  è  scritto  per  essere  rappresentato  e  non  può  dar  lo  stesso  diletto 
nella  lettura.  Esso  si  distingue  dall'epica,  perchè  rappresenta  cose  per  mezzo 
di  cose  e  parole  per  mezzo  di  parole;  mentre  l'epica  rappresenta  cose  e 
parole  per  mezzo  di  parole.  Dalle  rigorose  esigenze  della  verisimilitudine 
hanno  origine  le  famose  unità,  che  il  Castelvetro  per  primo  formula  con 
risolutezza  e  precisione,  benché  ve  ne  siano  accenni,  ma  incerti  e  confusi, 
anche  in  altri  critici  :  la  rappresentazione  spende  tante  ore  in  rappresentare 
le  cose  quante  si  spendono  in  farle;  e  lo  spazio  del  luogo  è  ristretto  a  quel 
che  si  vede.  Quanto  all'orario  di  12  ore,  attribuito  al  Castelvetro,  il  Ch.  os- 
serva che  si  tratta  di  un  limite  massimo:  il  principio  del  critico  è  la  coin- 
cidenza dell'azione  e  della  rappresentazione.  Nell'epopea  le  unità  di  tempo  e 
di  luogo  non  son  necessarie,  ma  son  tuttavia  dimostrazione  d'eccellenza  per 
difficoltà  superata.  Per  Aristotele  l'unità  principale,  anzi  la  sola,  richiesta  è 
quella  d'azione  :  il  Castelvetro  rovescia  l'ordine  ;  l'ammette  come  conseguenza 
delle  altre  due  ;  anzi  giudica  più  dilettevole  il  dramma  di  più  azioni  ;  e  per 
l'epopea  difende  la  moltiplicità.  Ma  l'azione  una,  se  raggiunga  diletto  uguale 
a  quello  di  più  azioni,  importa  maggiore  difficoltà  e  dovrà  essere  nell'opera 
del  poeta  che  voglia  mostrarsi  eccellente. 

Il  Castelvetro  è  d'accordo  con  Aristotele  nella  definizione  di  tragedia;  ma 
per  lui  il  fine  è  indurre  compassione  e  spavento,  e  la  purgazione  dalle  pas- 
sioni —  voluta  da  Aristotele  —  è  quistione  morale  e  antiestetica.  Posto 
ciò  deduce  che  un  dramma  ha  sufficiente  diritto  al  nome  di  tragedia,  se  in 
esso  la  compassione  e  lo  spavento  sono  sorti  indipendentemente  dalla  conclu- 
iiione  ;  e  questa   non    segna,  come  altri  volevano,  la  differenza  essenziale  tra 


RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA  417 

arte  tragica  e  arte  comica;  egli  riconosce  peraltro  che  in  generale  le  tra- 
gedie che  generano  compassione  e  spavento  hanno  fine  triste  ;  ad  ogni  modo, 
e  questo  è  hen  più  importante,  «  le  solutioni  delle  favole  deono  a  venire  per 
s  la  favola  stessa,  cioè  che  l'uscite  de' pericoli  e  che  i  cessamenti  delle  diffi- 
*  colta  sopravenute  nelle  favole,  deono  avenire  per  mezzo  delle  cose  della 
^  favola,  che  di  necessità  o  di  verisimilitudine  seguitino  dopo  i  pericoli  o  le 
V  difficoltcà  ». 

La  tragedia,  essendo  poesia,  non  è  una  galleria  di  ritratti  :  la  favola  è  la 
cosa  principale;  i  costumi  (i  caratteri)  son  cosa  accessoria  e  pur  necessaria 
all'azione,  poiché  «  senza  essi  non  si  fa  l'azione  ».  Rispetto  alla  poesia  la 
bontà  0  malvagità  grande  o  mezzana  dell'eroe  non  ha  importanza,  se  non  in 
quanto  possa  generare  compassione  o  spavento  (è  di  nuovo  l'esclusione  del 
punto  di  vista  morale);  ma  l'eroe  «deve  portare  l'impronta  di  nobiltà  «.In- 
tendendo per  nobiltà  la  condizione  sociale  elevata,  e  però  reputando  essere  un 
re  l'eroe  migliore  della  tragedia,  il  Castelvetro  esige  anche  la  nobiltà  inte- 
riore, una  specie  della  «  grandeur  d'àme  bien  exprimée  »  del  Corneille  ;  e,  di- 
stinguendo le  passioni  e  i  godimenti  e  la  capacità  di  questi  e  le  opere  tra  grandi 
e  privati  (nel  che  si  trova  un'ulteriore  differenza  tra  soggetto  di  tragedia  e 
soggetto  di  commedia),  giunge  a  concludere  che,  nella  tragedia,  «  l'eroe  deve 
portare  lo  scettro  del  monarca  con  regale  nobiltà  ».  Questo  principio,  inne- 
stato sulla  teoria  del  verosimile,  lo  portò  a  stabilire  la  necessità  della  base 
storica,  il  che  parrebbe  contrastare  col  principio  fondamentale  del  Castelvetro 
della  invenzione  originale;  ma  il  critico  evita  la  contraddizione  dicendo  che 
il  poeta  deve  inventare  i  particolari  che  la  storia  non  racconta  e  non  conosce; 
e  in  questa  parte,  e  solo  per  questa,  egli  è  poeta,  non  nel  resto.  È  ben  noto 
che  il  Rinascimento  pensò  allo  stesso  modo  del  Castelvetro,  rispetto  alla  con- 
dizione delle  persone  della  tragedia  e  della  commedia. 

Principale  scopo  della  tragedia,  come  si  è  detto,  è  l'eccitamento  della  com- 
passione e  dello  spavento;  non  la  purgazione  e  lo  scacciamento  di  tali 
commozioni,  che  è  quistione  utilitaria  e  morale  che  non  riguarda  il  poeta. 
Ma  il  Castelvetro  giustifica  Aristotele  pensando  che  questi  non  volesse  for- 
mulare una  legge  di  importanza  morale,  ma  solo  riconoscere  un  fatto,  per 
difendere  la  tragedia  contro  Platone,  che  la  escludeva  come  nociva  dalla  sua 
repubblica.  E  non  avendo  il  Castelvetro  alcuna  idea  del  diletto  dell'arte  tra- 
gica, né  volendolo  trovare  nella  purgazione,  per  non  contraddirsi  con  ciò  che 
ha  affermato  sullo  scopo  della  poesia,  esamina  varie  sorta  di  diletto:  prima 
quello  che  nasce  dal  «  meraviglioso  » ,  poi  Vobliquo  e  il  diritto  :  per  obliquo 
intende  la  tristezza  che  nasce  dal  cader  l'uomo  buono  in  miseria,  la  quale 
«  è  in  sé  stessa  un  piacere,  perciocché  noi  riconosciamo  che  é  dovuta  a  noi 
«  che  abbiamo  un  senso  intimo  dell'ingiustizia  del  cattivo  destino  dell'uomo 
«  buono  »  (sottigliezza  che  non  potrebbe  esser»  più  caratteristica)  ;  per  diletto 
(ìiritto  intende  quel  che  nasce  dal  fine  cattivo  del  tristo  o  dal  lieto  del  vir- 
tuoso. Su  questo  terreno  tuttavia  il  Castelvetro  non  procede  con  gran  sicu- 
rezza, così  che,  dicendo  che  dalla  tragedia  impariamo,  meglio  che  da  predi- 
catori e  dottori,  a  non   fidare    del    mondo,  finisce   con  l'accettare  quasi  uno 

Giornaìe  storico,  LXIV,  fase.  192.  27 


418  RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA 

scopo  didattico,  contraddicendo  alla   sua    teoria  ed  accostandosi  a  quella  del 
Minturno  che  sostiene  la  catarsi  aristotelica. 

Della  commedia  il  Castelvetro  non  tratta  particolarmente;  ha  solo  poche 
osservazioni  incidentali  sul  comico  e  le  limita  al  ridicolo,  il  quale,  secondo 
lui.  deve  solo  suscitare  il  riso.  Soggetto  della  commedia  è  la  «  turpitudine 
humana  »  dell'anima  e  del  corpo:  se  dell'anima,  «  sorge  da  follia  non  da 
vitio  »;  se  del  corpo,  è  «  una  turpitudine  né  penosa  ne  nociva  ».  La  più  grande 
sorgente  del  comico  è  l'inganno^  per  diverse  vie,  quando  la  persona  ingannata 
agisca  di  libera  volontà.  D  Castelvetro  non  ha  idea  di  commedia  non  comica. 
«  L'azione  cittadinesca  privata  è  la  materia  della  commedia  »:  i  suoi  intrecci 
sono  piccoli  insulti,  piccoli  inganni,  specialmente  in  amore  ;  i  suoi  caratteri 
sono  poveri  di  spirito  e  di  basso  stato,  e  i  loro  piaceri  sono  nei  diletti  amo- 
rosi (1).  Di  qui  segue  che  la  verosimiglianza  non  richiede  base  storica.  Il  Ch. 


(1)  La  presente  occasione  fortemente  mi  pungerebbe  a  riprender  in  esame  la  qui- 
stione  della  paternità  della  commedia  GV Ingannati,  già  attribuita  al  Castelvetro 
in  un  mio  giovanile  articoletto  (in  questo  Giornale,  XL,  343  sgg.),  nel  quale  il  de- 
siderio di  provare  hctto  mi  indusse  ad  usare,  tra  molti  ottimi,  anche  argomenti 
debolucci  ;  così  che,  per  cagion  di  questi,  la  battaglia  è  sembrata  a  giudici  auto- 
revoli tutt'altro  che  vinta.  Ma  non  è  qui  luogo  a  ritornar  su  la  discussione;  però 
mi  sbrigo  in  poche  parole.  Il  Fusco  nell'opera  citata  (p.  231  sgg.),  guidato  piut- 
tosto da  un  preconcetto  radicato  in  lui  su  la  mentalità  castelvetrana  che  da  va- 
lide ragioni,  convinto  della  sordità  artistica  del  critico  modenese,  rifiutò  di  accet- 
tare la  tesi  da  me  sostenuta,  raccogliendo  dalla  Poetica  tutti  i  passi  che  possono 
sembrare  in  contraddizione  con  i  criteri  con  cui  è  scritta  la  commedia;  e  concluse  : 
se  GV lìtgannati  sono  del  Castelvetro  convien  dire  che  egli    «  nato   sotto   l'influsso 

«  del  più  mobile  dei  pianeti ebbe  in  vita  sua  l'ingrato  compito  di  contraddirsi 

«  ad  ogni  pie'  sospinto  ;  di  dire  il  mattino  il  contrario  di  qxiel  che  avrebbe  fatto 
«  la  sera  ;  di  dire  la  sera  il  contrario  di  quel  che  aveva  fatto  il  mattino  » .  Ma  le 
arguzie  non  provan  nulla.  La  contraddizione  così  altamente  proclamata  non  esiste 
che  in  cose  accessorie,  non  in  ciò  che  è  essenziale  per  la  commedia:  cose  acces- 
sorie rispetto  alle  quali  il  critico  talora  procede  incerto  tra  opposti  pareri,  come 
ad  esempio  per  l'uso  del  verso,  affermando  egli  che  la  verosimiglianza  del  parlar 
familiare  vorrebbe  la  prosa  nel  dramma,  ma  che  è  preferibile  il  verso  per  la  ne- 
cessità degli  attori  di  gridar  forte  per  essere  intesi.  E  non  è  certo  prova  di  lunga 
vista  il  pretendere  che  un'operetta  giovanile  corrisponda  in  tutto  e  per  tutto  ad 
una  teoria  critica  formulata  quarant'anni  dopo,  in  seguito  a  severe  meditazioni 
sui  canoni  aristotelici,  sulle  opinioni  di  altri  critici  e  sulla  colluvie  di  operette 
drammatiche.  Una  sola  obbiezione,  che  io  del  resto  previdi  e  cercai  di  allontanare, 
ha  innegabile  valore:  come  il  Castelvetro  tacque  sempre  di  esserne  autore?  Che 
abbia  taciuto  sempre  chi  lo  può  dire  ?  che  ne  abbia  taciuto  nella  Poetica  —  potrei 
rispondere  —  è  naturale,  poiché  la  sua  teoria  lo  conduceva  in  qualche  punto  lon- 
tano dalla  pratica  da  lui  stesso  attuata;  e  chissà  quant'altre  ragioni  potrei  tro- 
vare :  ma  a  che  scopo  ?  Riuscirei  a  convincere  quelli  che  hanno  già  dichiarato  di 
non  arrendersi  se  non  a  prove  di  fatto?  Intanto  il  Sanesi  {La  Commedia,  Vallardi, 
829  sgg.)  con  tranquilla  coscienza  afferma  esser  GV  Ingannati  di  autore  ignoto]  e 
non  trova  strano  che  l'autore,  che  non  fu  davvero  privo  d'ingegno,  fosse  vissuto 
per  qualche  tempo  (io  dico  e  ripeto  lungo  tempo)  a  Modena,  senza  che  di  questo 
egregio  forestiero  senese  rimanesse  traccia  almeno  in  quella  meravigliosa  minuta 
cronaca  giornaliera  del  più  pettegolo  fra  i  cronisti  che  fu  il  Lancellotti;  o  che  si 
fosse  procurato  informazioni  e  notizie  da  altri:  il  che  è  abbastanza  curioso;  più 
curioso  di  tutte  le  mie  supposizioni  :  doveva  interessar  molto  agli  egregi  Intronati, 


RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA  419 

nota  che  lo  spirito  comico  non  fu  inteso  dalla  critica  fino  ai  nostri  giorni,  e 
conclude  :  «  la  commedia  non  è  la  farsa.  Vi  è  più  del  vero  spirito  della  com- 
«  media  nel  sorriso  della  Gioconda  che  nell'ilare  ebbrezza  di  tutte  le  Bac- 
«  canti  di  Rubens  ». 

Della  teoria  epica  castelvetrana  il  Ch.  tratta  qui  brevemente,  riferendosi 
a  quanto  ne  ha  detto  via  via  per  incidenza  ;  ripete  la  distinzione  tra  epopea 
e  tragedia  sulle  differenze  fondamentali,  e  mostra  come  il  Castelvetro,  a  ri- 
tener la  tragedia  genere  poetico  supremo,  fosse  unico  in  tutta  la  critica  del 
Einascimento  :  «  and  in  his  da}-,  Shakespeare  had  not  yet  left  the  woods  and 
«  fields  of  Stradford  to  try  his  fortunes  in  the  theatres  of  the  metropolis.  The 
«  epic  may,  indeed  does,  as  the  other  critics  unanimously  claimed,  produce 
«  more  of  the  «  maraviglia  »  :  but  tragedy  offers  the  highest  scope  of  art  and 
«  is  its  noblest  offspring,  «  perchè  diletta  più  » ,  because  in  tragedy  the  noblest 
«  aesthetic  function  attains  its  fuUest  fniition  ». 

In  un  capitolo  a  parte  studia  il  Ch.  l'atteggiamento  del  critico  rispetto 
all'Aristotelismo  e  al  Platonismo,  che  si  contesero  il  campo  e  dominarono  con 
alterna  vicenda  e  con  accordi,  compromessi,  infiltrazioni  reciproche,  special- 
mente nei  trattati  d'arte  poetica  :  e  fa  questo  con  larga  dottrina  e  precisione 
di  idee,  tanto  da  farci  consentire  pienamente  con  lui,  quando  afferma  che 
nessun  critico  del  Einascimento  formò  una  teoria  d'idealizzazione  poetica  senza 
aiuto  del  platonismo  (perchè  in  Aristotele  si  cercava  soltanto  un'arte  pratica 
di  poesia),  ad  eccezione  del  Castelvetro.  E,  dopo  un'accurata  esposizione  delle 
teorie  platoniche  e  aristoteliche  sul  bello,  quali  erano  intese  dai  critici,  con- 
clude :  Se  Scaligero  e  Minturno  devono  esser  classificati  aristotelici...  Tasso  e 
e  Fracastoro  come  platonici,  Castelvetro  deve  esser  collocato  in  una  classe  a 
sé.  Poiché,  quantunque  non  abbia  affatto  sentito  l'influsso  di  Platone,  quan- 
tunque, in  tutto  e  per  tutto  sotto  l'influenza  d'Aristotele,  determinasse  le 
idee  d'Aristotele  più  esattamente  di  qualsiasi  suo  contemporaneo,  sarebbe  in- 
giusto chiamarlo  aristotelico.  In  realtà  egli  ha  molte  più  cose  in  comune  con 

la  teoria  del  Tasso  che  con  quella  dello  Scaligero Forse  egli  può  soltanto 

essere  veramente  classificato  come  castelvetrano. 


fra  cui  non  era  nel  1531  toonie  ritiene  il  Sanesi)  neppure  un  modenese,  sentir  par- 
lare di  cose  di  Modena  anche  le  più  insignificanti,  per  esempio  il  ricordo  di  case 
e  ville  fuor  di  mano,  così  da  indurre  l'autore  ad  occuparsi  di  preventivi  studi 
topografici!  Mi  sbaglierò:  e  oggi,  se  dovessi  tornar  su  l'argomento,  sosterrei  la 
tesi  stessa  forse  con  minor  pretensione  e  soltanto  come  probabile;  ma  non  avrei 
voluto  che  il  Sanesi  avvalorasse  con  la  sua  molta  autorità  le  denegazioni  del 
Fusco,  perchè  non  è  vero  che  «  la  commedia  non  corrisponda  in  nessun  modo  alle 
«  teorie  drammatiche  del  Castelvetro  »  (Sanesi,  Op.  cit.,  485)  ;  e  avrei  voluto  che, 
avendo  egli,  in  ossequio  al  rigore  del  metodo,  negato  valore  probativo  ai  miei  ar- 
gomenti, m'avesse  dato  il  buon  esempio  non  affermando,  come  cosa  la  più  ovvia, 
essere  stato  lo  scrittore  della  commedia  un  cittadino  senese  {Op.  cit.,  372),  quando 
si  sa  ohe  gli  accademici  non  erano  tutti  cittadini  di  Siena.  Sulle  relaz.  della  com- 
media con  la  novella  del  Bandello,  v.  anche  G-.  Brognoligo,  Questione  di  fonti,  in 
Fanfulki  della  Domenica,  2  febbraio  1913  ;  I.  Sanesi,  Qu^tiotie  di  metodo,  in  La  Nuova 
Cultura,  I,  5,  pp.  322  sgg. 


420  RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA 

Interessante  e  concludente  il  capitolo  sul  metodo  critico  del  Castelvetro. 
Le  teorie  di  lui  son  dedotte  a  priori:  tutto  dev'essere  logica  conseguenza 
delle  premesse;  la  ragione  è  il  criterio,  il  sillogismo  la  forma.  Ma  il  Castel- 
vetro  aveva  una  pietra  di  paragone  su  cui  dovevano  esser  provate  tutte  le 
possibili  leggi,  prima  di  esser  promulgate  :  l'esperienza.  Il  dogmatismo  critico 
di  lui  non  è  quasi  mai  pura  pedanteria,  come  accade  nel  Minturno  e  nello 
Scaligero.  Così  quando  ha  elaborato  la  sua  teoria  aprioristica,  ne  cerca  la  san- 
zione nell'esperienza,  badando  all'effetto  psicologico  dell'opera  d'arte  sulle  per- 
sone per  cui  l'arte  è  stabilita;  ad  esempio  l'assegnamento  di  una  base  storica 
alla  tragedia  è  dedotto  dal  fatto,  che  egli  stesso  osservò,  della  distruzione 
dell'effetto  di  una  tragedia,  quando  l'uditorio  seppe  che  l'eroe  era  fittizio; 
non  occupiamoci  del  singolare  uditorio  :  vero  il  fatto,  l'argomento  è  valido. 
Così  la  scelta  dell'eroe  di  stirpe  regale  muove  dal  presupposto  che  la  nobiltà 
di  trattamento  poetico  non  è  possibile  con  personaggi  di  basso  stato.  Il  pe- 
ricolo della  critica  del  Rinascimento  —  osserva  il  Ch.  —  era  di  limitare  l'arte 
ad  un  esercizio  scolastico  e  la  critica  ad  una  specie  di  anatomia.  Ma  la  teoria 
del  Castelvetro  su  la  funzione  dell'arte  e  sul  richiamarsi  all'esperienza  portò 
la  critica  dalla  tavola  operatoria  dei  pedanti  al  teatro  della  folla,  pronta  a 
sentire  la  forza  dell'arte:  disgraziatamente  egli,  arrogandosi  spesso  le  attri- 
buzioni di  un  direttore  di  scena,  cadde  talvolta,  e  sarebbe  stato  impossibile 
ad  un  uomo  del  secolo  XVI  non  cadere,  nella  pedanteria  ;  ma  questa  non  lo 
sommerge  mai.  I  suoi  difetti  son  raramente  dovuti  a  errore  di  metodo:  è 
sempre  guidato  da  potenza  di  pensiero  e  vista  acuta  e  sicura.  Va  innanzi 
al  Minturno  e  allo  Scaligero;  e,  non  essendo  poeta,  ha  qualche  vantaggio 
anche  sul  Tasso,  il  quale  come  critico  dovette  impugnar  le  armi  a  difesa 
del  poeta. 

Il  «  posto  che  spetta  al  Castelvetro  nella  storia  della  critica  »  è  argomento 
dell'ultimo  capitolo,  nel  quale,  si  può  dire,  l'autore  si  è  riserbato  anche  il 
suo  nel  mostrarsi  a  giudicare  non  solo  dal  valore  storico,  ma  anche  dal  va- 
lore assoluto  delle  teorie  già  dichiarate  e  confrontate  con  quelle  dei  cinque- 
centisti ;  ed  egli,  passando  in  rassegna  i  punti  essenziali  di  quelle,  le  saggia 
acutamente  e  chiaramente  con  i  criteri  estetici  oggi  più  in  voga,  mettendone 
in  rilievo  i  pregi  e  gli  errori.  Accurato  l'esame  e  in  gran  parte  accettabili  le 
conclusioni,  in  queste  belle  pagine  di  critica  estetica,  che  si  leggono  con  pia- 
cere e  profitto,  ma  che  (jui  non  possono  essere  degnamente  riassunte:  belle  in 
particolar  modo  le  osservazioni  contro  la  teoria  della  «  difficoltà  superata  »  e 
quelle  sui  «  caratteri  »  della  tragedia.  Noi  non  pretendiamo  —  conclude  l'A.  — 
di  dire  che  il  Castelvetro  sia  un  Hegel,  un  Kant  o  un  Aristotele  :  noi  abbiamo 
cercato  di  dimostrare  che  egli  ha  «  a  firmer  liold  on  aesthetic  truth  »  che  non 
i  suoi  predecessori;  che  come  teorico  della  poesia  egli  è  innanzi  al  Tasso, 
come  teorico  dell'estetica  è  in  fine  suo  eguale;  che  come  espositore  dell'idea 
del  dramma  e  particolarmente  della  tragedia  egli  è  unico  in  un  lungo  periodo 
di  tempo,  quando  l'epopea  attirava  tutta  l'attenzione  critica;  e  che  sopra 
tutto  egli  è  l'uomo,  del  suo  tempo,  «  dal  quale  —  al  dir  del  Rapin  —  il  più 
può  essere  imparato  ».  Egli  sopravvive,  per  la  larghezza  della  mente,  per  la 


RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA  421 

disposizione  ad  approfondire  la  conoscenza  della  materia,  per  la  vista  acuta 
e  pronta  che  percepisce  l'errore  radicale.  Il  suo  ingegno  e  il  suo  metodo  lo 
guidano  a  verità  fondamentali,  come  l'asserzione  su  la  funzione  vera  dell'arte, 
l'originalità  dell'artista  e  il  respingere  Tartificio  convenzionale  ;  e  tutto  questo 
nel  secolo  XVI.  D'altro  lato,  egli  è  responsabile  d'aver  introdotto  le  unità 
nella  critica  drammatica  e  la  teoria  della  difficoltà  superata.  Disgraziatamente 
queste  furono  le  parti  della  sua  dottrina  che  ebbero  la  più  chiara  ed  imme- 
diata efficacia  sui  suoi  successori.  Ma,  giudicandolo  nel  complesso,  egli  è  il 
più  illuminato  critico  dell'arte  della  poesia  da  Longino  a  Dryden  ;  «  oue,  with 
«  whom  to  err,  is  a  liberal  criticai  education  ». 

GlUSEFPE    CaVAZZUTI. 


LUIGI  TONELLI.  —  L'evoluzione  del  teatro  contemporaneo 

in  Italia.  —  Milano-Palermo,  Sandron,  1913  (16°,  pp.  435). 

Scopo  di  questo  volume  è  di  delineare  la  storia  del  teatro  italiano  dalla 
proclamazione  del  Regno  d'Italia  sino  ai  giorni  nostri,  punto  di  partenza  un 
po'  arbitrario,  e  se  vogliamo,  un  po'  artificioso,  secondo  riconosce  lo  stesso 
autore,  giacché  non  sempre  un  rivolgimento  politico  coincide  con  una  rivolu- 
zione artistica:  e  di  fatto,  per  venir  a  parlare  degli  autori  di  teatro  e  delle 
tendenze  drammatiche  degli  ultimi  cinquant'anni,  il  critico  è  costretto  a  ri- 
salire sino  al  principio  del  secolo,  per  vedere  quali  fossero  le  condizioni  del 
nostro  teatro  prima  del  periodo  preso  ad  esaminare. 

Non  già  una  vera  e  propria  storia  della  Drammatica  Italiana  ci  ha  dato 
il  T.  :  come  tale,  troppi  nomi  di  autori  e  troppi  titoli  di  opere  vi  son  dimen- 
ticati :  né  v'è  quella  rigida,  rigorosa  esattezza  di  nomi  e  date,  che  un  libro 
di  storia  esige.  Spoglio  di  ogni  richiamo  bibliografico,  di  ogni  indice  di  nomi 
e  di  produzioni,  un  po'  eccessivo  in  qualche  giudizio,  sì  in  lode  che  in  bia- 
simo, e  mancante  talvolta  di  serenità  critica,  questo  libro  di  uno  scrittore 
giovanissimo  non  va  preso  come  un  libro  di  consultazione,  del  quale  ci  si  possa 
fidare  ad  occhi  chiusi,  ma  piuttosto  come  un'opera  ricca  di  idee,  acutissima 
spesso  nella  critica  di  qualche  autore  e  di  qualche  opera,  e  nella  quale  sono 
delineate,  a  larghi  tratti,  e  se  vogliamo  un  po'  alla  brava,  le  caratteristiche 
più  spiccate  del  teatro  italiano  degli  ultimi  cinquant'anni. 

Lo  stesso  autore  riconosce,  néìV Introduzione,  che  «  non  tutti  i  poeti  si  pre- 
«  stano  a  rientrare  comodamente  e  assolutamente  in  uno  qualsiasi  dei  tre  stati 
«  d'evoluzione  drammatica  indicati  »,  e  cioè*  il  romanticismo,  che  sta  per  tra- 
montare, il  realismo,  in  pieno  sviluppo,  lo  psicologismo,  che  sta  per  sorgere  : 
tre  grandi  correnti,  tre  movimenti  di  idee,  che  non  sono  già  sempre  succes- 
sivi, ma  talora  anche  contemporanei,  e  per  dir  così,  paralleli.  Il  T.  aggiunge 
che  «  alcuni  autori  sfuggono  ad  ogni  classificazione  »,  che  «  i  geni  non  pos- 


422  RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA 

sono  aver  attributo  »  (e  ciò  per  giustificare  l'esclusione  del  D'Anuunzio)  (1); 
ma  andava  detto  che  molti  autori  sfuggono  a  una  tale  classificazione,  di  per 
sé  sempre  pericolosa,  perchè  romantici,  realisti  e  psicologici  al  tempo  istesso  : 
esempio  tipico  quello  del  Giacosa.  Il  T.  che  colloca  questo  autore  fra  i  realisti 
è  costretto  per  alcune  sue  opere  a  classificarlo  fra  i  romantici,  e  per  I  diritti 
delVanima  fra  i  rappresentanti  del  teatro  psicologico.  In  realtà  il  Giacosa  fu 
sempre  un  romantico,  dalla  Partita  a  scacchi  a  Come  le  foglie,  egli  seguì 
nella  sua  lunga  carriera  di  autore  drammatico  tutte  le  tendenze,  costruendo 
le  sue  commedie  secondo  i  dettami  della  scuola  realista,  quando  questa  fu  di 
moda  in  Italia  per  influenza  del  Teatro  naturalista  francese  (precursore  anzi 
del  Teatro  realista  con  Tristi  amori,  un  vero  capolavoro)  né  mancò  di  essere 
uno  psicologo,  ogniqualvolta  colse  dalla  vita  certi  caratteri  con  viva,  profonda 
penetrazione:  perciò  non  soltanto  I  diritti  delVanima  appartiene  al  Teati-o 
psicologico,  ma  anche,  e  forse  ancor  meglio,  Tristi  amori. 

Lo  stesso  potrebbe  dirsi  per  gli  altri  autori  :  perchè,  ad  esempio,  il  Nerone 
del  Cossa  non  apparterrebbe  alla  categoria  dei  realisti  o  piuttosto  a  quella 
degli  psicologi,  per  quanto  v'ò  di  umano  nella  rappresentazione  del  carattere, 
anziché  a  quella  dei  romantici'^  Ogni  opera,  nella  quale  la  vita  sia  rappre- 
sentata quale  è,  e  nella  quale  vi  sia  efficace  riproduzione  di  stati  d'animo,  è 
al  tempo  istesso  realista  e  psicologica:  come  non  classificare  lo  stesso  Shake- 
speare, il  grande  precursore  del  Teatro  romantico,  fra  gli  psicologi  ?  come  non 
chiamar  psicologico  un  Teatro,  che  ci  ha  dato  caratteri  quali  Amleto,  Macbeth, 
Jago  e  Lear'l  Da  Shakespeare  parte  appunto  il  T.  per  parlare  del  Teatro  ro- 
mantico tedesco  e  francese,  e  dell'  influenza  che  questi  ebbero  sul!'  italiano  : 
pagine  buone  ha  qui  il  critico,  allorché  analizza  le  due  tragedie  del  Manzoni, 
*  come  Goethe  mezzo  romantico  e  mezzo  classico  » ,  ed  allorché  prende  bre- 
vemente in  esame  i  drammi  più  significativi  del  Niccolini. 

Neo-romcintiche  chiama  il  T.  «  quelle  opere  le  quali  pur  essendo  propag- 
«  gine  ed  ulteriore  sviluppo  del  genuino  romanticismo  tragico,  fiorito  nella 
«  prima  metà  del  sec.  XIX,  se  ne  distinguono  tuttavia  per  certe  caratteri- 
«  stiche  troppo  evidenti,  se  anche  non  sostanziali  »  :  nel  dramma  neo-roman- 
tico mancano  infatti  i  tre  sentimenti  dominatori  dell'altro,  e  cioè  il  religioso, 
il  patriottico  e  l'eroico,  «  sostituiti  da  un  vago  idealismo  prettamente  borghese, 
e  cioè  modesto,  discreto,  gretto  »»:  rimane  in  esso  intatto  il  sentimento  ro- 
mantico amoroso,  che  diventa  il  nòcciolo  di  ogni  composizione  drammatica. 
Spetta  a  Leopoldo  Marenco  il  merito  di  aver  introdotto  il  genere  in  Italia 
con  II  Falconiere  di  Pietra  Ardena,  genere  che  fu  poi  perfezionato,  per  lo 
meno  nella  forma,  dal  Giacosa. 

Troppo  severo  é  il  T.  per  La  Contessa  di  Challant,  che  si  stacca  dagli 
altri  drammi  medioevali  del  Giacosa  per  la  più  felice  intuizione  dell'ambiente 
e  del  carattere  fosco  e  truce  del  medioevo;  e  severissimo  è,  a  proposito  dei 


(1)  A  cui  il  T.  dedicò  uno  speciale  volume,  La  tragedia  di  Gabriele  D'Anntinzit 
Milano-Palermo,  Sandron,  1914. 


RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA  423 

Pezzenti  e  del  Guido,  come  più  tardi  per  il  Cantico,  come  per  V Agatodemo^n, 
come,  ingiustamente,  per  La  Sposa  di  Menecìe  e  per  V Alcibiade,  il  T.  pel 
Cavallotti,  il  quale  se  non  fu  un  grande  artista,  ebbe  però  una  calda  e  im- 
petuosa comunicativa  sugli  spettatori,  e  seppe  avvincere  con  una  forma  tea- 
trale non  volgare.  Buon  conoscitore  del  mondo  greco,  il  Cavallotti  seppe  nel- 
V Alcibiade  rappresentare  a  vivi  colori  la  società  del  tempo  di  Pericle,  con 
grande  elevatezza  di  intenzioni  e  con  geniale  intuizione  dell'ambiente  storico. 
In  questa  fiera  denigrazione  postuma  del  Cavallotti,  il  T.  non  è  neppur  ori- 
ginale, che  già  l'aveva  preceduto,  con  la  consueta  virulenza  di  linguaggio,  lo 
Scarfoglio  (nel  Libro  di  Don  Chisciotte):  il  quale  poi,  nell'attaccare  con  tanta 
asprezza  il  Cavallotti,  aveva  ragioni  più  che  artistiche,  politiche,  per  il  partito 
avverso  nel  quale  il  battagliero  poeta  combatteva.  Anche  nella  critica  dei 
primi  lavori  del  Giacosa,  non  ci  accordiamo  col  T.,  là  dove  egli  dice  (p.  66) 
che  esse  «  rappresentano  l'espressione  più  genuina  del  suo  ingegno  »  :  il  Gia- 
cosa senti,  come  l'Augier,  sopratutto  la  poesia  della  vita  borghese.  Il  dramma 
romantico  medioevale  si  corrompe,  secondo  il  T.,  negli  idillii  campestri,  nei 
bozzetti  marinareschi,  nei  proverbi  e  negli  scherzi  poetici  :  e  qui,  oltre  al  Ca- 
vallotti e  al  Marenco,  vanno  ricordati  il  De  Renzis  e  il  Martini:  nel  parallelo 
col  De  Musset,  il  T.  coglie  assai  felicemente  i  motivi  dell'inferiorità  dei  poeti 
italiani. 

Eccellente  è  il  capitolo  sul  Cossa  :  dopo  le  poche  pagine  del  Franchetti  (in 
Nuova  Antologia)  è  questo  il  migliore  studio  che  sia  stato  fatto  sul  poeta 
romano.  Giustamente  ammiratore  del  Nerone,  specialmente  per  il  carattere 
del  protagonista  e  per  quello,  non  meno  felicemente  rappresentato,  di  Egloge, 
il  T.  si  mostra  giudice  assai  severo,  ma  quasi  sempre  acutissimo,  degli  altri 
drammi  :  alcune  scene  della  Messalina  e  dei  Borgia  potrebbero  pur  salvarsi 
dal  biasimo,  in  cui  il  critico  tutto  avvolge  il  Teatro  del  Cossa  :  l'ammirazione 
per  un  capolavoro,  che  della  sua  luce  abbaglia  i  drammi  men  riesciti,  fa  tal- 
volta velo  al  sano  criterio  nel  giudicare  alcune  scene  di  grande  potenza  tra- 
gica, disseminate  negli  altri  drammi:  anche  nella  Cecilia,  che  è  dei  meno 
felici.  Fra  gli  imitatori  del  Cossa,  il  T.  ricorda  il  Calvi,  ma  di  lui  non  cita 
il  dramma  più  celebre,  e  cioè  la  Maria  di  Magdala;  e  dimentica  il  Casta- 
gnola, l'autore  della  Gliceria,  dramma  di  pretta  derivazione  cossiana. 

«  Basso  romanticismo  »,  derivante  da  quello  di  Dumas  padre  e  degli  autori 
francesi  e  tedeschi  della  prima  metà  del  secolo  XIX  (il  Pixerécourt,  fra  i  primi, 
l'Iffland  e  il  Kotzebue,  fra  i  secondi),  è  quello  del  Giacometti,  specialmente 
per  due  drammi  che  il  T,  ammira.  La  Morte  civile  e  Maria  Antonietta  ; 
ma  il  primo  di  questi  due  drammi,  più  che  romantico,  è  realista  :  ed  il  Gia- 
cometti potrebbe  anzi  dirsi  il  precursore  del  Teatro  realista,  precursore  del 
Ferrari  nella  commedia  a  tesi  sociale,  autore  di  ingegno  vivo,  moderno  neUe 
intenzioni,  forse  non  abbastanza  apprezzato  ^el  suo  valore.  Miserande  condi- 
zioni di  vita  gli  impedirono  forse  di  lavorare  con  quella  serenità  di  spirito, 
che  è  indispensabile  ad  ogni  artista. 

Fra  i  drammaturghi  popolari  più  in  voga  in  quel  tempo,  del  Roti  il  T. 
dimentica  il  dramma  più  tipico    (se  pur  ridotto  dal  francese)  e  cioè  :  I  due 


424  RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA 

sergenti  ;  del  Fortis  non  ricorda  la  commedia  più  celebre,  che  è  Cuore  ed 
Arte  ;  del  Ciconi,  che,  per  La  figlia  unica,  La  rivincita  e  Le  pecorelle  smar- 
rite, non  andrebbe  confuso  con  gli  altri,  rammenta  la  sola  Statua  di  carne, 
che  non  è  il  suo  dramma  migliore. 

Prima  di  venir  a  parlare  del  Teatro  naturalista  italiano,  che  senti  l'in- 
fluenza di  quello  dell'Augier  e  del  Dumas,  il  T.  accenna  a  due  correnti  pre- 
naturalistiche paesane,  e  cioè  alla  «  goldoniana  »  e  alla  «  fiorentina  »  :  rapi- 
damente quanto  alla  prima,  tocca  di  qualche  commedia  del  Giacometti  (Quattro 
donne  in  una  casa,  di  una  comicità,  a  dire  il  vero,  assai  scialba,  e  nella 
quale  della  mirabile  festevolezza  goldoniana  ben  poco  rimane),  del  Castelvecchio, 
del  Muratori  (ancor  vivo)  e  del  Gherardi  Del  Testa,  che  il  T.  tratta  un  po' 
alla  leggera,  e  che,  per  la  fresca  pittura  della  società  toscana  e  per  il  brio 
del  dialogo,  meritava  una  considerazione  maggiore.  E  nel  Goldoni  di  Paolo 
Ferrari  ammira  finalmente  il  T.  un  vero  capolavoro:  era  tempo!  Ma  troppo 
superficialmente  considera  il  critico  tutto  il  Teatro  dialettale,  quasi  che 
commedie  quali  Xe  miserie  d'  Moìisìa  Travet,  I  JRecini  da  festa,  Serenis- 
sima e  anche  La  Famegia  del  Sàntolo  non  possano  stare  alla  pari  con  le 
migliori  commedie  italiane  del  XIX  secolo.  Il  T.  parte  dal  pregiudizio  che 
la  forma  vernacola  non  sia  adatta  che  a  rappresentare  sentimenti  mediocri 
o  volgari:  e  non  riconosce  la  mirabile  spontaneità  del  dialogo  e  la  profon- 
dità geniale  dei  caratteri  di  qualche  commedia  dialettale  (come  di  quelle 
sopra  ricordate):  di  Giacinto  Gallina  il  T.  non  conosce  o  non  ricorda  che 
quattro  commedie,  due  delle  quali  (7  oci  del  cor  e  La  maina  no  mor)  delle 
meno  felici:  non  rammenta  né  Zente  refada,  né  Mia  fìa,  né  TeUri  rechi, 
né  quel  gioiello  che  é  Fora  del  mondo,  né  La  Famegia  del  Sàntolo,  un  vero 
capolavoro. 

Fra  i  più  notevoli  rappresentanti  della  «  scuola  fiorentina  »,  oltre  al  Gia- 
cometti per  II  poeta  e  la  hallerina  (quesf  autore,  fecondissimo,  lo  troviamo 
un  po'  dappertutto  :  veda  il  T.  il  difetto  del  sistema  di  classificazione)  sono 
ricordati  Vincenzo  Martini  e  Luigi  Suner:  ma  il  primo,  del  quale  il  T.  si 
mostra  giustamente  ammiratore,  é  di  gran  lunga  superiore  al  secondo:  oltre 
al  suo  Cavaliev  dHnduMria  si  poteva  rammentare  La  Donna  di  quaran- 
ta anni,  che  é  una  delle  sue  commedie  migliori. 

Acutissimo  è  il  giudizio  che  il  T.  dà  del  Teatro  di  Paolo  Ferrari.  Le  brevi 
pagine  di  questo  capitolo  potrebbero  essere  additate  quale  modello  di  critica 
seria,  penetrante,  definitiva:  qui  veramente  il  T.  riesce  a  cogliere,  dalle  opere 
del  Ferrari  più  significative  e  più  personali,  il  carattere  generale  del  suo  Teatro; 
smontando  una  ad  una  le  commedie  principali,  mette  in  luce  tutta  l'incoe- 
renza e  l'inefficacia  della  morale  ferrariana  ;  conclude  dimostrando  che  il  Teatro 
di  colui  che  si  eresse  a  difensore  della  morale  borghese  è  in  fondo  un  Teatro 
profondamente  immorale.  La  «  tesi  »  prese  la  mano  al  suo  autore;  e  le  con- 
clusioni risultarono  quasi  sempre  diametralmente  opposte  alle  premesse.  11  solo 
Conte  Sirchi  del  Duello,  carattere  scolpito  con  robusto  pollice,  si  stacca  per 
una  più  vigorosa  umanità  dagli  altri  personaggi  del  Teatro  di  Paolo  Ferrari. 
Un  po'  severamente  è  giudicato  //  Ridicolo,  che  é  ancora  una  delle  più  vive 


RASSEGNA   BIBLIOGRAFICA  425 

e  fresche  commedie  del  Ferrari  :  e  non  mediocre  è,  per  lo  meno  per  due  atti, 
Cause  ed  effetti. 

Severo  giudice  del  nostro  Teatro  dunque  il  T.  quasi  sempre  :  di  raro  in- 
giusto però:  la  sua  critica,  inquinata  da  qualche  pregiudizio  di  sistema  e  di 
scuola,  è  spesso  corrosiva  e  profondamente  acuta  :  qualche  lacuna  di  autori  con- 
temporanei è  perdonabile,  ove  si  pensi  che  questo  libro  vuol  segnalare  sol- 
tanto le  tendenze  e  le  correnti  principali  del  Teatro  italiano.  Non  accenne- 
remo a  ciò  che  il  T.  dice  del  Torelli,  del  Verga,  del  Praga,  del  Bracco,  ancor 
viventi,  poiché  anche  un  rapido  cenno  su  di  essi  non  risponderebbe  alle  con- 
suetudini di  questo  Giornale. 

Nel  complesso,  dunque,  un  libro  di  vera  critica,  nel  quale,  attraverso  in- 
temperanze eccessive,  e  lacune,  e  pregiudizi,  si  scopre  un  ingegno  lucido  e 
brillante,  e  un  temperamento  di  rara  sensitività  artistica. 

Deturpano  il  volume  i  troppo  numerosi  errori  tipografici. 

Cesare  Levi. 


BOLLETTINO  BIBLIOGRAFICO 


GIORGIO  LA  PIANA.  —  Le  rajjpresentazioni  sacre  nella 
letteratura  bizantina  dalle  origini  al  sec.  IX.  —  Grotta- 
ferrata,  tip.  Italo-Orientale  San  Nilo,  1912  (8°,  pp.  xv-344). 

I  prelati  greci  venuti  in  Firenze  per  il  grande  concilio  che  doveva  rinsal- 
dare i  vincoli  fra  le  due  Chiese  discordi,  dinanzi  alla  pompa  scenica  onde  i 
Fiorentini  riproducevano,  per  San  Giovanni,  fatti  e  figure  della  vita  del  Cristo 
e  del  loro  santo,  rimasero  fortemente  stupefatti.  Era  su  per  giù  lo  stesso  stu- 
pore che,  tanti  anni  avanti,  aveva  colpito  Liutprando,  venuto  a  Costantinopoli 
come  ambasciatore,  di  Berengario  II  prima  e  di  Ottone  I  dopo,  quando  vide 
«  la  trasformazione  in  teatro  del  tempio  di  Santa  Sofia  o  assistette  alla  rap- 
«  presentazione  del  ludo  sul  Ratto  di  Elia».  Bizantini  e  italiano  erano  soprat- 
tutto colpiti  dalla  novità  del  fatto  che  si  svolgeva  dinanzi  ai  loro  occhi, 
e  cotesto  stupore  ci  dice  più  e  più  cose  per  l'intelligenza  dello  svolgimento 
del  teatro  sacro  presso  noi  e  in  Oriente. 

Tutti  gli  studiosi  dell'argomento  conoscono  il  libro  dello  Sathas  :  un  filo, 
sia  pur  tenue,  collega  il  teatro  religioso  bizantino  con  il  classico,  e  in  Metodio, 
in  Ario,  in  Giovanni  Damasceno,  nell'autore  del  Xqcotòs  7rdax<ov  conviene 
cercare  gli  inizi  del  dramma  spirituale.  Il  più  dotto  forse  degli  storici  bizan- 
tini, il  Krurabacher,  accettò  le  conclusioni  del  critico  greco;  ma  poi  a  poco 
a  poco  quel  filo  collegatore  di  due  età  si  venne  sempre  più  assottigliando,  ed 
ora  il  La  Piana  lo  spezza  addirittura.  Quelle  vecchie  opere  non  sono  che 
pallide  esercitazioni  di  retori  o  non  sono  nemmeno  drammi:  l'esistenza  d'un 
teatro  religioso  inspirato  alla  letteratura  classica  prima  del  secolo  VI  non  è 
che  una  fantasia  d'eruditi. 

Non  che  un'arte  drammatica  religiosa,  o  almeno  tracce  di  essa,  siano  mancate 
a  Bisanzio,  ma  chi  le  voglia  scovare  ha  a  cercarle  da  tutt'altra  parte  :  e  più 
precisamente  nell'omelia. 

Nell'omelia  di  carattere  laudativo  e  narrativo  i  brevi  spunti  dialogici,  che 
abbondano  negli  Evangeli,  specialmente  apocrifi,  e  nelle  leggende  dei  santi, 
>i  introdussero  molto  facilmente,  e  per  naturale  ricerca  di  effetto  drammatico 


BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO  427 

sugli  uditori  si  svolsero,  si  ampliarono  fino  a  diventarne  quasi  tutto  il  tessuto. 
«  E  cosi  i  fedeli,  assistendo  alle  sacre  liturgie  del  tempio  cristiano,  non  solo 
«  vedevano  svolgersi  sotto  i  loro  occhi  tutte  le  mistiche  cerimonie,  eseguite  dal 
«  clero  in  abiti  che  avevan  oramai  assunto  forme  ed  ornati  speciali,  tra  i  canti 
«  e  le  melodie  dei  cori  e  il  succedersi  di  letture  di  antichi  libri  sacri  e  d'in- 
«  vocazioni  solenni,  di  gesti  misteriosi  e  benedizioni  ieratiche,  partecipando  essi 
«  stessi  al  rito  con  le  prostrazioni,  le  litanie  e  gli  auguri  di  pace;  ma  ancora 
«  tra  la  prima  e  la  seconda  parte  della  cerimonia,  in  una  lunga  pausa  assiste- 
«  vano  alla  narrazione  vivace,  fatta  dall'ambone,  di  quel  dramma  sacro,  conte- 
«  nuto  in  germe  nel  Vangelo  e  dall'oratore  svolto  in  tutte  le  sue  parti,  col  dia- 
«  logo  movimentato  e  con  i  commenti  e  le  osservazioni  fatte  per  lo  più  sotto 
«  forma  di  invocazioni  o  esortazioni  eloquenti  ai  diversi  personaggi  che  prende- 
«  vano  parte  all'azione  descritta  »  (pp.  39-40).  Basterebbe  leggere  soltanto  VElg 
TÒv  EdayyeÀiof^òv  r^^  é/ie^ayiag  Seozónov  per  vedere  subito  quanta  vita 
drammatica  scorre  per  esso  :  i  colloqui  della  vergine  con  l'angiolo  annunziatore, 
di  lei  con  Giuseppe,  che  dall'inturgidire  del  seno  e  da  tutti  gli  altri  segni 
s'è  accorto  del  concepimento  che  in  lei  si  svolge,  sono  caldi  di  movimento 
quanto  poche  scene  di  sacre  rappresentazioni.  Ma  la  vita  drammatica  che  ser- 
peggia in  un'opera  non  fa  ancora  di  essa  un  dramma  :  e  quando  il  La  Piana 
afferma  come  «  non  occorre  fermarsi  a  lungo  per  dimostrare  che  questa  omelia 
«  non  è  che  un  lungo  frammento  drammatico,  a  cui  fu  appiccicato  un  breve 
«  esordio  sulla  Natività  al  principio  e  la  doxólogia  alla  fine  »  (p.  108),  noi 
siamo  tentati  di  chiedergli  la  prova  della  sua  asserzione.  «  La  forma  dialo- 
«  gica  costante,  la  vivacità  stessa  del  dialogo  e  l'assenza  di  ogni  commento 
«oratorio  »  bastano  a  provare  la  vivacità  drammatica  del  componimento  esa- 
minato, non  danno  la  prova  perentoria  che  essa  invece  che  una  declamazione 
di  predicatore  fosse  in  origine  una  vera  e  propria  rappresentazione. 

Anzi  cotesta  prova  decisiva  il  La  Piana  non  mi  pare  riesca  a  dar  mai. 
Concediamo  volentieri  che  coteste  omelie  non  siano  arrivate  a  noi  nella  loro 
forma  originale,  e  i  rimaneggiamenti  dei  compilatori  per  ridurle  a  letture 
sempre  più  edificanti  siano  dovuti  essere  parecchi  :  anzi  osservazioni  teologiche, 
dimostrazioni  dottrinali,  commenti  eruditi  ravvolsero  sempre  più  la  parte  più 
schiettamente  drammatica  e  quasi  la  soffocarono.  Ma  il  districo  abilissimo  che 
il  giovane  scopritore  fa  di  questa  parte  viva  dai  tanti  viluppi  che  l'avevano 
sepolta,  se  ci  procura  una  fine  ammirazione  spirituale,  non  può  assicurarci 
dell'assoluta  autonomia  della  forma  drammatica. 

Il  teatro  religioso  bizantino,  del  resto,  non  riuscì  mai  ad  affermare  la  propria 
indipendenza  dalla  liturgia,  e  di  qui  la  pochezza  del  suo  sviluppo  e  la  dif- 
ficoltà di  seguirne  la  storia.  Più  facile  invece  lo  scoprire  le  fonti  dalle  quali 
sono  sgorgati  i  frammenti  drammatici  che  di  esso  ci  sarebbero  ancora  rimasti 
in  cotesti  èyytcóf^ia  :  sono  esse  i  vangeli  apocrifi,  i  canti  siriaci,  i  mimi  po- 
polari, la  letteratura  dei  padri.  Così,  per  citare  qualche  esempio,  l'omelia  d'Eu- 
sebio sulla  Discesa  air  Inferno  deriva  dal  Vangelo  di  Nicodemo  :  non  pochi 
tratti  di  dialogo  ^\j1V Annunciazione  si  ritrovano  in  un'  omelia  attribuita  a 
Sant'Efrem  ;  Giuseppe  par  ricalcato  sul  tipo  dello  ZrjÀótvTiog  del  teatro  pò- 


428  BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

polare;  dei  problemi  teologici  che  si  discutono  nella  scena  àeWAnnuìiciazione 
fonte  unica  è  il  Simposio  di  Metodio. 

Ma  più  che  le  fonti  importa  a  noi  la  forma  onde  coteste  omelie  furono  com- 
poste, e  nell'analisi  di  essa  il  La  Piana  scrisse  veramente  le  pagine  sue  più 
notevoli.  Nessuno  prima  di  lui  aveva  notato,  o  nessuno  meglio  di  lui  ha  posto 
in  rilievo  il  carattere  poetico  dell'omelia  drammatica,  la  sua  ritmicità  e  le 
note  onde  risultò,  l'affinità  della  forma  poetica  del  dramma  sacro  bizantino 
con  la  «  sougithà  »  siriaca.  Dei  frammenti  drammatici  conservati  in  un'omelia 
attribuita  a  San  Proclo  l'ardito  critico  tenta  anzi  la  ricostruzione  metrica  :  e 
se  a  noi  è  conteso  di  discutere  qui  il  valore  di  essa,  ci  è  lecito  però  di  am- 
rairare  almeno  la  dottrina  e  l'acume  del  ricostruttore. 

H  quale  anche  quando  pare  più  lontano  da  noi  in  realtà  non  perde  mai 
di  vista  gli  studi  più  propriamente  nostri.  La  letteratura  bizantina  può  ancor 
serbare  di  grandi  sorprese  agli  studiosi  del  periodo  delle  origini  anche  sotto 
il  rispetto  metrico:  la  luce  che  n'è  venuta  alla  storia  della  sequenza  baste- 
rebbe da  sola  a  confermarlo.  Appunto  perciò  il  La  Piana  nell'  ultima  parte 
del  dotto  suo  lavoro  affronta  il  problema  dei  rapporti  intercessi  nell'  età  di 
mezzo  fra  il  teatro  orientale  e  l'occidentale. 

L'ingenuità  sentimentale  non  impedì  infatti  alle  sacre  rappresentazioni  la- 
tine d'accostarsi  alla  magniloquenza  e  ostentata  dottrina  greca,  e  quando  il 
predicatore  nel  celebre  Mistero  dei  Profeti,  prima  che  questi  assurgessero 
leggeva  «nel  coro  la  prima  parte  del  sermone:  '  Vos,  inquam,  convenio,  o 
Judaei  '  »,  mentre  credeva  forse  di  declamar  parole  di  Agostino,  riproduceva, 
senza  sapere,  un'omelia  drammatica  greca  di  Esichio  o  tratti  di  Metodio.  Non 
solo,  ma  il  dramma  che  uscì  dal  sermone  «  pur  dipendendo  per  la  maggior 
parte  dal  sermone  »  latino  stesso,  là  dove  se  ne  allontana,  riproduce  esatta- 
mente l'omelia  greca,  in  quelle  parti  appunto  che  il  sermone  latino  aveva 
omesso. 

La  tesi  del  Sepet  ne  esce,  come  ognun  vede,  mirabilmente  rinforzata  contro 
il  D'Ancona,  né  cotesto  dei  profeti  è  del  resto  il  solo  sermone  drammatico 
latino  che  il  La  Piana  conosce,  che  altri  ancora  egli  ne  addita.  E  mette  in 
rilievo  nel  tempo  stesso  altri  influssi  dell'omelia  greca  sul  teatro  nostro  :  cor- 
regge errori  comuni  alla  nostra  coltura,  come  di  far  sempre  risalire  diretta- 
mente al  Vangelo  di  Nicodemo  «  le  scene  della  liberazione  dei  patriarchi  con 
la  seconda  processione  dei  profeti  »,  che  invece  «  dipendono  da  quello  solo  in- 
direttamente, attraverso  le  omelie  eusebiane  >  (p.  332). 

Cosi  gli  atteggiamenti  di  Giuseppe  dinanzi  alla  gravidanza  di  ^Viaria  in 
certe  rappresentazioni,  come  in  quella  di  Revello  e  \\Q\VJoseph''s  return,  non 
bene  si  spiegherebbero,  se  oltre  che  agli  Evangeli  apocrifi  non  si  ricorresse 
al  dramma  bizantino,  ch'esercitò  dunque  sicuramente  una  qualche  efficacia  su 
quello  occidentale.  Certo  non  grandissima,  che  non  riuscì  mai  ad  alterare  di 
questo  lo  spirito  così  diverso  dal  greco.  Or  l'aver  messo  bene  in  rilievo  cotesti 
influssi  e  aver  fissate  le  linee  maestre  del  teatro  sacro  e  della  poesia  ritmica 
drammatica  greca,  è  merito  grande  del  La  Piana.  Siano  pure  —  com'egli 
dic«  —  le  sue  ricerche  lunghe  e  noiose  ;  in  esse  però  egli  «  non  spese  invano  » 


BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO  429 

né  il  tempo  né  la  fatica,  e  per  il  molto  che  accertò,  per  le  verità  che  intra- 
vide gli  studiosi  gli  sapranno  sempre  grado  dell'  opera  paziente  coscienziosa 
dotta.  U.  C. 


.1.  n.  KAPCABHH'L.  —  OnepKU  peAUiiosHOu  jtcuauu  eh  Hmcuiiu 
XII-XIII  ejbKo&ò.  —  C.  nexepòyprB,  THnorpa4»ifl  M.  A.  Ajick- 
caH;^poBa,  1912  [L.  P.  Karsavin,  Saggi  di  vita  religiosa 
in  Italia  nei  secoli  XII-XIII^  Pietroburgo,  tip.  A.  Alek- 
sandrow,  1912]  (8«  gr.,  pp.  xx,  843,  21). 

Presentiamo  con  gioia  ai  lettori  di  questo  Giornale  il  primo  grande  la- 
voro di  un  giovane  studioso  russo  che  sembra  chiamato  a  lasciare  un'im- 
pronta non  indifferente  del  suo  ingegno  e  del  suo  tenacissimo  amore  per  lo 
studio  nei  fasti  della  storiografia  italiana.  Abbiamo  finalmente  trovato  il  fu- 
turo biografo  «  definitivo  »  di  S.  Francesco,  il  critico  altrettanto  geniale 
quanto  diligente  delle  fonti  francescane,  un  uomo  insomma,  che,  se  non  si 
decide  a  scrivere  in  una  lingua  occidentale,  finirà  col  costringere  i  francesca- 
nologi  ed  i  cultori  tutti  della  storia  religiosa  d'Italia  nel  basso  Medioevo  ad 
imparare  per  forza  il  russo.  Allevato  al  metodo  severo  di  Fustel  de  Coulanges 
da  un  suo  discepolo,  il  prof.  Greaves  di  Pietroburgo,  il  Karsavin  va  all'avan- 
guardia di  tutto  un  movimento  insigne  di  studi  storici  e  storico-letterari, 
onde  vediamo  pubblicati  nelle  riviste  russe  documenti  importanti  e  spesso 
sconosciuti,  riguardanti  la  storia  del  pensiero  religioso  del  Medioevo  italiano 
e  francese,  e  dobbiamo  registrare  l'apparizione,  purtroppo  non  sempre  in  idiomi 
intelligibili  alla  maggioranza  dei  competenti,  di  lavori  critici  di  un  valore 
talvolta  eccezionale  (1).  Non  occorre  rilevare,  quanta  sia  l'importanza  di  tali 


il)  Va  citato  aazitatto,  a  titolo  d'ouore,  il  lavoro  del  veterano  di  tali  studi, 
prof.  GruERRiEE  di  Mosca  {Francesco  d'Assisi,  apostolo  della  povertà, 'M.osca,,  1909).  Altri 
due  libri  recentissimi  sono  per  fortuna  accessibili  anche  agli  ignari  della  lingua 
russa  (A.  Wulffius,  Beitrdge  zur  Geschichte  der  Waldenser,  Petersburg,  1912;  sig.'» 
O.  DoBiAsc-RoGDESTVENSKi,  La  vìc  paroissiaU  en  France  au  XIII  siècle ,  Paris,  1912). 
Spigolando  tra  articoli  di  riviste  scientifiche  russe,  oltre  quelli  numerosi  e  prege- 
voli dello  stesso  Karsavin  (cfr.  i  titoli  nella  recensione  del  presente  volume  di 
Greaves,  Giornale  del  Minisi,  della  P.  1.  [russo],  N.  S.,  XLVIII,  die.  1913,  337,  404), 
dobbiamo  rilevare,  sempre  nel  Giorn.  citato  (N.  S.,  LXI,  sett.  1912),  il  bello  studiolo 
della  sig.na  K.  V.  Florovski,  allieva  del  Greaves  al  pari  del  Karsavin,  sulle  Fra- 
ternite  dei  disciplinati  in  Italia  sullo  scorcio  dei  secc.  XIII-XIV  (essa  pubblica  Tino  sta- 
tuto inedito  dal  Casanat.  4096)  e  la  comunicazione  importante  per  gli  studiosi  della 
questione  gioachimita,  di  O.  Dobiasc-Rogdestvenski  {ib. ,  N.  S.,  XLV,  giugno  1913) 
intorno  alla  sua  scoperta  del  cod.  pietroburghese  di  Gioacchino  del  Fiore,  ignoto 
al  Denifle.  È  il  Petropol.  lat.  I.  P.  v.  37,  saec.  XIII-XIV,  proveniente  con  ogni  pro- 
babilità dalla  Badia  di  St.-Germain,  portato  in  Russia  per  merito  dello  zelo  dili- 
gente del  Dubrovski,  che  seppe  salvare  dalla  dispersione  e  dalla  distruzione  du- 


430  BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

opere  per  i  cultori  della  storia  letteraria  d'Italia;  imperniate  sullo  studio 
della  «  religiosità  »,  come  parte  integrante  dell'insieme  della  coltura  di  un 
popolo,  esse  frugano  un  terreno  affine  a  quello,  di  cui  si  occupa  più  dav vi- 
cino questo  Giornale  ;  talvolta  esse  si  sentono  obbligate  a  scendere  nel  campo 
della  critica  di  monumenti  schiettamente  letterari.  Le  magnifiche  pagine, 
dedicate  dal  Karsavin  al  Celanese  ed  alla  sua  difesa  contro  Sabatier,  insegnino. 
Una  persona  affatto  ignara  del  russo  troverà  nel  libro  del  Karsavin  (pa- 
gine 675-815)  un'edizione  completa  della  «  Summa  contra  Catharos  auctore 
anonymo  »  (Vat.  lat.  4255,  54r-72  v),  copia  dugentesca  di  un  trattato  affine 
a  quello  noto  del  Moneta,  forse  coevo  a  quest'ultimo,  scritto  probabilmente 
da  un  chierico  italiano  (1).  Inoltre,  l'erudito  russo  trae  dal  Riccard.  lat.  277 
cinque  saggi  di  prediche  di  Girolamo,  vescovo  d'Arezzo  (1144-1177)  (2),  sette 
dal  «  flos  evangeliorum  et  omeliarum  »  (Riccard.  lat.  311)  (3),  cinque  dalla 
raccolta  omiletica  di  Federigo  Visconti,  arcivescovo  di  Pisa  (1254-1278;  Laur. 
PI.  XXXni  sin.  I)  (4).  n  centro  di  gravità  del  libro  non  va  peraltro  cercato 
in  questi  testi  inediti,  bensì  nell'appendice  II  (pp.  572-656  :  fonti  per  la  storia 
delle  origini  francescane).  Anche  qui  qualcosa  possono  servire  ad  eruditi  non 
molto  famigliari  colla  lingua  russa,  p.  es.,  le  tavole  sinottiche  dei  luoghi 
paralleli  nei  «  tres  socii  »,  «  anon.  perus.  »,  «  I  e  II  Celano  »,  a  pp.  609, 
610,  611-14  e  nei  «  tres  socii  »,  «  anon.  »  e  «  II  Celano  »  a  pp.  616-8,  oltre, 
s'intende,  lo  schema  generale  del  contenuto  dei  singoli  capitoli  di  «  Il  Ce- 
lano »  in  confronto  coi  brani  analoghi  dell'»  Anon.  »  e  dello  «  Speculum  », 
a  pp.  624-5  e  la  tavola  sinottica  di  parallelismi  in  «  I  Celano  » ,  «  Speculum  » 
ed  «  Actus  »,  a  pp.  627-8  (5). 


rante  la  bufera  rivoluzionaria  francese  tanti  cimeli  dei  fondi  monastici,  specie 
benedettini;  per  i  codd.  lat.  pietroburghesi  anteriori  al  Trecento  vedi  ora  il  magni- 
fico catalogo  del  P.  Staerk.  Alquanto  meno  recente  è  il  lavoretto  dello  Jegorov  sul 
«rescriptum   heresiarcharum   a.  1219»  {Oiorn.  citato,  N.  S. ,  XXXIV,  agosto  1911). 

(1)  Descrizione  del  codice  in  K.  675. 

(2)  Ib.  816-24;  Gams,  742;  Inv.  Riccard.  [Fir.  1810]  10. 

(8)  Karsavin,  825-34;  cfr.  Lami,  Catal.  Riccard.  237  (?);  Inv.  Riccard.  [Fir.  1810]  11. 

(4)  Karsavin,  835-43;  cfr.  Bandiki,  Laur.  lY,  273-83. 

(5j  Cosi  pure  tutti  i  disegni  e  stemmi  schematici  del  volume,  che  non  meritano, 
dopo  tutto,  il  giudizio  abbastanza  severo  del  Greaves  [Giorn.  cit. ,  N.  S.,  XLVIII, 
die.  1913,  374  n.  2;  cfr.  878  n.  2);  tutt'al  più  quello  V  dell'appendice  è  di  conpulta- 
zioue  realmente  difficile.  I  risultati  positivi  delle  ricerche  del  Karsavin  si  ridu- 
cono, in  ultima  analisi  (Grkaves,  1.  e,  378-85)  :  1»  all'avere  dimostrato,  completando 
le  indagini  di  Sabatier  e  di  K.  Miiller,  l'esistenza  di  una  regola  francescana  unica, 
sviluppatasi  tra  il  1310  ed  il  1323  circa,  attraverso  una  diecina  di  stadi  consecu- 
tivi (Karsavin,  582-5);  2°  all'avere  provata  la  buona  fede  e  la  veridicità  del  Cela- 
nese, sia  pure  esagerando  alquanto  la  portata  storica  della  Vita  II  (Greaves,  380-1  ; 
Karsavin,  ^2-6);  3°  all'avere  ricostruito,  entro  i  limiti  dell'umanamente  possibile, 
il  contenuto  primigenio  degli  «scripta  sociorum  >  (Karsavin,  624-5;  Greaves,  882) 
e  le  linee  maestre  dell'evoluzione  delle  masse  principali  del  materiale  leggendario 
francescano  (Karsavin,  637  sgg.;  651  sgg.);  4"  all'avere  fissato  il  tempo  della  com- 
pilazione dello  «  Speculum  »  (1318  circa)  ed  all'averne  analizzato  il  contenuto  e  le 
fonti  in  modo  assolutamente  definitivo. 


BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO  431 

Con  un  acume  filologico  piuttosto  raro  in  uno  storico  di  mestiere,  il  Kar- 
«avin  applica  alla  prosa  del  Celanese  il  «  criterio  stilistico  »  del  Minocchi , 
ne  studia  il  «  cursus  »  (pp.  630-1),  le  alliterazioni  (p.  631),  ed  arriva,  pur 
dopo  avere  lavorato  senza  conoscere  i  risultati  ottenuti  dallo  scienziato  ita- 
liano (1),  ad  uno  schema  pressoché  uguale  (p.  602).  Non  entreremo  nel  merito 
della  polemica  tra  il  Karsavin  ed  il  Sabatier,  cortese  e  dignitosa  nella  forma, 
spietata  nella  sostanza.  Il  recensente  russo  del  K.,  prof.  Greaves  (2),  crede  il 
divario,  che  separa  entrambi,  assai  minore  di  quanto  piacerebbe  al  giovane 
erudito,  «  figlio  spirituale  »  (e  ribelle)  del  Sabatier:  per  conto  nostro,  rite- 
niamo necessaria  una  distinzione.  Il  K.  è  irriducibile  verso  il  «  sedicente  edi- 
tore critico  dello  '  Speculum  '  »  (p.  599,  ove  il  Sabatier  riceve  del  «  pastore- 
volgarizzatore  »  ed  è  accusato  di  «  dilettantismo  testardo  ed  iracondo  »),  ma 
sembra  pronto  a  qualche  blando  riguardo  dinanzi  al  biografo  del  Poverello, 
la  cui  opera  però  fa  rarissime  apparizioni  nelle  note  dei  capitoli  dedicati 
al  movimento  francescano;  chi  ha  la  peggio  in  queste,  è  il  Jorgensen  (pa- 
gine 286-7  e  287,  n.  1),  demolito  con  un'ironia  più  micidiale  ancora,  se  pos- 
sibile, di  quella  che  colpisce  il  Sabatier  a  p.  421,  n.  1  (421-2).  Non  potremmo 
dare  ragione  al  prof.  Greaves,  che  rimprovera  al  K.  tali  escandescenze  scien- 
tifiche ;  crediamo  piuttosto  al  diritto  di  legittima  difesa,  imprescrittibile  presso 
uno  scienziato  che  tuteli  la  dignità  della  scienza,  purch'esso  sia,  com'è  pie- 
namente il  caso  del  K.,  libero  da  ogni  traccia  di  ostilità  personale.  Non  esa- 
mineremo la  sostanza  delle  idee  svolte  dal  K.  nel  corpo  del  testo,  ripromet- 
tendoci di  farlo  in  sede  più  adatta  ;  segnaliamo  soltanto  l'impostazione  larga 
ed  ardita  del  problema.  Il  giovane  storico  dedica  ben  563  pagine  fitte,  e  di 
formato  piuttosto  grande,  alla  rassegna  di  tutti  quasi  i  movimenti  religiosi 
d'ItaUa  nell'epoca  da  lui  prescelta  ;  egli  comincia  dal  catarismo,  lontano  dalla 
Chiesa  tradizionale  e  dallo  stesso  cristianesimo,  indi  passa  agli  eretici  meno 
spinti,  arnoldisti  e  valdesi,  poi  si  ferma  a  lungo  sui  moti  rigeneratori,  svoltisi 
nel  grembo  stesso  della  Chiesa,  dando  un  singolare  rilievo  alle  organizzazioni 
laicali  (cap.  XIII,  pp.  492-520).  Non  sempre  egli  è  in  grado  di  dire  cose 
nuove,  né  di  scostarsi  gran  che  da  predecessori,  quali  K.  Muller  ed  altri  (p.  es. 
Zanoni  per  gli  umiliati);  ma  anche  là  dove  gli  fa  difetto  la  possibilità  di 
scoprire  nuovi  documenti  o  di  mettere  in  nuova  luce  i  testi  di  dominio  co- 


(1)  L'artiooletto  di  B.  Terracini  ,  Il  «  cursus  »  e  la  questione  dello  «  Specuhim  per- 
ftctionis»,  è  uscito  ora  di  recente  negli  Studi  medievali,  IV,  65  sgg. 

(2)  Giorn.  eit.,  1.  e,  336-405.  Il  Greaves  insiste  assai  (883  sgg.)  sulla  possibilità  di 
un'intesa  scientìfica  tra  il  Sabatier  ed  il  Karsavin,  ed  in  parte  ha  ragione.  Difatti, 
dopo  aver  tolto  per  sempre  la  paternità  dello  Speculum  a  fra  Leone,  il  Karsavin 
vi  ravvisa  traccie  degli  «scripta  sociorum»,  cioè  in  parte  di  quelli  di  Leone  me- 
desimo e  di  altre  fonti  di  prim'ordine  ;  secondo  uni^elice  osservazione  del  Greaves, 
il  giovane  storico  russo  adopera,  nel  suo  «ritratto  psicologico  di  S.Francesco,  lo 
«Speculum»  più  del  suo  avversario  francese  (Greaves,  384  n.  1).  Notevole  l'insi- 
stenza del  nostro  erudito  sul  punto  controverso  dell'  «  ortodossia  »  del  Poverello  ; 
gli  scienziati  cattolici  hanno  trovato  un  prezioso  alleato  in  questo  confratello 
dissidente. 


432  BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

mune  egli  rileva  colla  massima  cura  il  legame  organico  tra  le  svariatissime 
espressioni  della  «  religiosità  »  italiana  nel  basso  Medioevo,  onde  aspirazioni 
religiose  non  dissimili  potevano  governare  gli  atti  di  persecutori  e  di  perse- 
guitati, di  chierici  e  di  laici,  di  teologi  pensatori  e  del  volgo.  Egli  si  preoc- 
cupa per  ciò  fin  troppo  di  rinvenire  la  «  media  aritmetica  »  di  codesta  «  re- 
ligiosità »,  sacrificando  ad  essa  lo  studio  delle  «  cime  »  :  cosi  S.  Domenico  e 
tutto  il  movimento  domenicano  rimangono  fuori  del  volume  ed  è  parimenti 
escluso,  ad  onta  dell'annessa  «  Summa  contra  Catharos  »,  lo  studio  del  dogma 
neo-manicheo  col  pretesto,  che  il  «  volgo  »  non  afferra  finezze  dogmatiche, 
come  se  a  Bisanzio  la  gente  non  si  fosse  coscienziosamente  accapigliata  pro- 
prio per  delle  impercettibili  «  finezze  »  (1).  Ancora  più  denso  d'interesse  sarà 
il  seguito  del  lavoro  che  teniamo  sott'occhio  :  uno  studio  accurato  della  «  re- 
ligiosità »,  nella  «  mistica  volgare  »,  nel  «  culto  quotidiano  »,  che  l'autore 
ci  promette  a  pp.  551-2.  Auguriamolo  prossimo. 

Il  volume  del  K.  è  corredato  da  un  accurato  indice  alfabetico  dei  nomi  e 
d'un  altro  bibliografico.  Quest'ultimo  contiene,  in  dodici  pagine  di  stampa 
fittissima,  «  fonti  e  studi  (di  eruditi  moderni)  citati  in  forma  abbreviata,  o 
non  citati  afiatto,  ma  presi  in  esame  ».  Vi  sono  però  qua  e  là  citazioni  la- 
coniche (2),  che  invano  cercheremmo  nell'indice.  Il  K.  ha  poi  il  difetto  metodo- 
logico di  abusare  talvolta  di  allusioni  generiche  a  nomi  d'autori  ed  a  titoli 
di  libri,  senza  indicazione  di  capitolo  o  di  pagina:  gli  scienziati  russi  possono, 
è  vero,  in  tali  casi  invocare  l'attenuante  della  disperata  scarsità  di  lettori, 
che  vanno  a  controllare  le  indicazioni  delle  note:  perchè  un  libro  di  erudi- 
zione, in  Eussia,  sia  veramente  letto  con  ogni  riguardo,  bisogna  che  tratti 
della  rivoluzione  francese ...  o  della  questione  semita.  Vl.  Z. 


GIUSEPPE  LANDINI.  —  Il  codice  aretino  180;  laudi  antiche 
di  Cortona.  —  Roma,  tip.  Editrice  Nazionale,  1912  (8°  gr., 
pp.  108). 

Il  ms.  180  della  Fraternità  dei  Laici  di  Arezzo  era  già  stato  illustrato 
brevemente  dal  prof.  Bettazzi  {Notizia  di  un  laudario  del  sec.  XIII,  Arezzo, 
Sai  Viotti,  1890)  in  appendice  al  suo  studio  sul  codice  Cortonese  91.  Il  L.  ne 
fa  qui  di  nuovo  un  esame  accurato.  Premesso  un  accenno  alla  bibliografia  del 


(1)  Gekaves,  343-52. 

(2)  Greavbs,  359-61.  Ad  onta  delle  citazioni  non  sempre  accurate,  la  bibliografia 
del  Rarsavin  può  valere  quale  apparato  di  prim' ordine.  Anche  non  conoscendo 
il  russo,  un  erudito  occidentale  può  facilmente  servirsi  dell'  indice  bibliografioo 
(numeraz.  a  parte,  1-12). 


BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO  433 

laudario  (1)  (pp.  3-4),  e  al  modo  con  cui  da  Cortona  passò  ad  Arezzo  (pp.  4-5), 
ne  dà  una  descrizione  fors'anche  troppo  minuta,  certo  esauriente  anche  nel 
riguardo  paleografico  (pp.  6-15),  ne  discute  la  data  assegnandolo  per  la 
prima  parte  al  1367,  mentre  la  seconda  va  attribuita  al  sec.  XV  (pp.  15-19). 
Riconferma  poi  la  data  con  argomenti  desunti  dalla  natura  delle  laudi  che 
vi  sono  contenute,  le  quali  risultano  certamente  molto  antiche  (pp.  19-22). 
Studia  il  laudario  in  confronto  con  altri  del  gruppo  toscano  coi  quali  ha 
laudi  comuni,  e  ne  stabilisce  il  relativo  ordine  cronologico  (pp.  22-26),  mentre 
spiega  le  laudi  comuni  ai  varii  codici  sia  toscani,  sia  settentrionali,  «  ammet- 
«  tendo  la  presenza  di  altri  laudarii  che  circolavano  per  le  varie  provincia 
«  d'Italia,  portati  qua  e  là  dallo  zelo  religioso  dei  Francescani,  dei  Serviti, 
«  degli  Agostiniani  e  d'altri  pii  religiosi  regolari  di  quel  tempo  ».  Né  certo 
questa  ipotesi  si  può  trascurare  ;  sta  però  il  fatto  che  spesso  le  laudi  di  molti 
ci  si  mostrano  trascritte  da  chi  le  aveva,  più  o  meno  bene,  apprese  a  me- 
moria, senza  aiuto  di  codici  da  cui  copiare.  Diversamente  sarebbe  difficile 
spiegare  le  molteplici  omissioni  e  sconvolgimenti  di  strofe,  fatti  senza  ragione 
alcuna,  spesso  anzi  repugnanti  al  senso  o  all'andamento  stesso  della  lauda, 
sconvolgimenti  di  cui  v'è  pure  un  bell'esempio  nella  prima  delle  laudi  edite 
dallo  stesso  L.  Tanto  più  che  non  è  raro  trovare,  in  modo  speciale  nelle  tra- 
scrizioni in  dialetti  dell'Alta  Italia  di  laudi  toscane,  parole  o  frasi  che  non 
si  spiegano  se  non  per  un  errato  ricordo  delle  corrispondenti  toscane. 

Poco  chiara  mi  pare  la  discussione  sul  nome  dell'amanuense,  e  l'opinione 
espressa  dall'autore  che  il  Johannes  Nini,  copista  del  ms.,  sia  da  identificare 
nell'Orlandino  detto  Ser  Nino,  mi  pare  contrasti  coll'epoca  assegnata  al  ms. 
(1367).  Infatti  dall'albero  genealogico  (p.  28,  n.)  risulta  che  verso  il  1360 
viveva  un  nipote  di  quell'Orlandino,  detto  Semino.  Dovrebbesi  quindi  con- 
cludere che  nel  1367  Orlandino  era  assai  avanti  negli  anni,  se  pur  ancora 
viveva.  Invece  mi  pare  più  probabile,  volendo  identificare  lo  scrittore  con 
qualche  personaggio  conosciuto  dall'albero  genealogico,  avvicinarlo  al  Semino 
vivente  verso  il  1360.  Né  può  essere  d'ostacolo  la  mancanza  del  nome  di  Gio- 
vanni; poiché,  nulla  impedisce  che  egli  fosse  realmente  così  chiamato,  se  è 
vero  che  a  quel  tempo  il  cognome  di  Semini,  come  afferma  il  Landini,  aveva 
già  sostituito  l'antico  di  Cuccianti. 

Neppure  mi  pare  raggiunta  completamente  la  prova  che  il  ms.  appartenesse 
alla  Compagnia  di  S.  Maria  delle  Laude,  piuttosto  che  a  quella  della  Mise- 
ricordia (pp.  31-36),  sebbene  interessanti  siano  le  notizie  che  l'A.  ci  dà  della 
origine  di  queste  confraternite. 

La  parte  dello  studio  che  riguarda  le  laudi  contenute  nel  ms.  aretino  è 
condotta  con  diligenza.  Giustamente  l'autore,  osservando  la  frequenza  della 
quartina  coi  primi  tre  versi  monorimi  e  il  quarto  legato  coi  versi  finali  delle 
altre  strofe,  ne  deduce  l'antichità  di  queste  l^di  ;  poiché  é  un  fatto  costante 


(1)  La  bibliografia  s'arresta  al  1890,  per  cui  è  omessa  una  pubblicazione  per  nozze 
dello  stesso  prof.  Bbttazzi  [Compoìiimenti  spirituali,  Torino,  Monao,  1906;  nozze  An- 
dreucci-Newton),  in  cui  stampava  altre  due  laudi  dello  stesso  ms. 

Giornale  storico,  LXIV,  fase.  192.  28 


434  BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

la  prevalenza  di  questa  forma  ritmica  nei  laudarii  più  antichi.  L'ultima  parte 
del  lavoro  (pp.  43-51)  riguarda  l'importanza  del  codice  sia  per  il  buon  numero 
di  laudi  che  l'autore  asserisce  (non  sempre  però  esattamente)  non  trovarsi  in 
altri  manoscritti,  sia  perchè  le  laudi  ivi  contenute  ci  rappresentano  l'anima 
del  popolo  cortonese,  «  la  cui  cultura  intellettuale  (in  quei  tempi)  è  rappre- 
«  sentata  specialmente  dalle  laudi  » .  Ciò  è  vero,  tanto  più  che,  a  mio  credere, 
buona  parte  di  esse  sono  da  dirsi  veramente  cortonesi  di  origine.  Ma  non  credo 
esatto  quanto  il  Landini  dice  :  che  queste  laudi  siano  state  nel  trecento  cantate 
dal  popolo  invece  delle  canzonette  amorose  (p.  49).  Che  questo  si  avverasse  poi, 
nella  seconda  'metà  del  quattrocento  specialmente,  sull'esempio  di  Firenze,  è 
cei-to  ;  che  i  Serviti  usassero  far  cantare  dal  popolo  le  loro  laudi,  è  pur  vero  ; 
ma  che  queste  laudi  dei  codici  cortonesi  sostituissero,  o  potessero  sostituire 
nel  trecento  le  canzonette  amorose  e  scurrili  non  è  affatto  possibile,  sia  pel 
loro  metro,  sia  per  l'argomento.  Siamo  anche  qui,  come  nei  mss.  umbri,  davanti 
a  poesie  composte  pei  fratelli  disciplinati,  forse  spesso  da  qualcuno  di  loro 
stessi,  perchè  si  cantassero  nelle  loro  riunioni,  intramezzandone  il  canto  colla 
disciplina.  Né  tali  laudi  in  cui  si  lamenta  la  Passione  di  Cristo,  si  piange  il 
peccato,  e  s'invoca  misericordia,  erano  adatte  a  sostituire  le  canzonette  anìo- 
rose.  Tanto  è  vero  che,  quando  anche  a  Cortona  la  lauda  divenne  veramente 
di  popolo,  e  cantata  dal  popolo,  cambiò  stile  e  si  conformò  al  tipo  fiorentino 
di  lauda,  come  predominava  nella  seconda  metà  del  sec.  XIV;  una  lauda-bal- 
lata, per  lo  più  brevissima,  con  strofe  di  versi  settenarii-endecasillabi  varia- 
mente unite  dalla  rima.  Una  conferma  di  ciò  si  ha  appunto  in  un  altro  ms. 
cortonese,  di  epoca  più  recente,  a  cui  il  Landini  accenna.  È  il  codice  già  indi- 
cato dal  Perticari  come  contenente  laudi  in  una  lingua  «  traente  al  dialetto 
«  cortonese,  e  fatto  anzi  scrivere  a  Cortona  per  Bartolomeo  Camerlengo  della 
«  fraternità  del  beato  Santo  Francesco,  al  tempo  che  Paolo  della  Spina  fu 
«  Priore  »  (1).  Esso  è  ora  conservato  a  Milano  nella  Trivulziana,  ove  porta 
il  n.  537.  È  in  pergamena  e  consta  di  più  parti  distinte.  La  prima  del  1425 
contiene  un'ottantina  di  laudi,  di  cui  sessanta  circa  comuni  con  uno  o  con 
entrambi  gli  altri  laudari  cortonesi  (Arezzo,  180  ;  Cortona,  91).  La  seconda 
parte  contiene  dapprima  il  poemetto  sulla  Passione  del  Cicerchia,  che  fu  fatto 
scrivere  appunto  da  quel  Bartolomeo  Camarlingo,  accennato  dal  Perticari, 
nel  1459.  Al  poemetto  seguono  di  mano  più  recente,  ma  sempre  del  sec.  XV, 
altre  laudi,  di  quel  tipo  che  possiamo  chiamare  toscano  o  fiorentino,  colla  con- 
sueta indicazione  pel  canto  (2),  alcune  delle  quali  di  origine  indubbiamente 


(1)  Opere,  Bologna,  Guidi,  1832,  v.  Il,  p.  234.  Il  ms.  fu  comperato  a  Roma  dal 
Perticari  verso  il  settembre  del  1817,  come  risulta  da  due  lettere  del  Perticari 
stesso  al  principe  Giaagiacomo  Trivulzio  in  Milano.  Dopo  la  morte  del  Perticari 
passò  in  proprietà  del  cav.  G.  Battista  Vermiglioli  di  Perugia,  noto  studioso,  che 
nel  1824  lo  portava  egli  stesso  in  dono  al  predetto  Trivulzio.  Devo  queste  notizie 
alla  squisita  cortesia  del  Bibl.  della  Trivulziana  sig.  ing.  Motta,  che  mise  a  mia 
disposizione  le  lettere  dei  due  valentuomini  ivi  conservate. 

(2)  È  da  notarsi  ohe  invece  del  solito  :  cantasi  come  eco.  vi  si  legge  :  nel  tuono  di  eoe. 


BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO  435 

cortonese,  mentre  altre  sono  le  stesse  in  uso  a  Firenze.  Laudi  di  tal  genere, 
non  si  incontrano  mai,  come  ben  osserva  il  Landini,  nei  manoscritti  di  Arezzo 
e  di  Cortona,  e  una  sola  (quella  :  Per  Vumiltà  che  in  te  Maria  trovai)  nella 
prima  parte  del  Trivulziano. 

Al  lavoro  va  unita  la  stampa  di  22  laudi  del  ms.  Aretino  che  l'editore  non 
ha  trovato  negli  altri  manoscritti  da  lui  consultati,  come  risulta  dalla  tavola 
premessa  alla  stampa.  In  riguardo  alle  laudi  è  difficile  asserire  recisamente 
(ne  del  resto  il  Landini  lo  fa)  che  esse  non  si  trovino  in  altri  mss.  o  non  siano 
già  edite.  Così  ad  esempio  la  lauda  5^  di  questa  stampa  è  (con  sole  8  strofe  e 
in  ordine  diverso)  tra  quelle  pubblicate  dal  Mortara  (Jacopone  da  Todi,  Poesie 
inedite  ridotte  alla  loro  lezione,  Lucca,  Bertini,  1819),  la  2*,  4*  e  9*  non  mi 
risultano  completamente  nuove,  sebbene  non  possa  per  ora  indicare  ove  le  abbia 
trovate;  la  10^,  11*,  18^,  19^,  22*,  sono  anche  nel  ms.  Trivulziano  citato.  Altre 
di  quelle  non  edite  da  lui,  il  L.  le  avrebbe  potute  trovare  anche  nei  mss.  307 
e  409  della  Comunale  di  Ferrara  (1),  nel  Chigiano  L.  VIL  266,  e  in  quelli 
settentrionali  illustrati  dal  Neri  (2).  Sono  deficenze  inevitabili,  mancando  an- 
cora un  elenco  completo  dei  numerosi  codici  di  laudi,  e  delle  non  meno  nu- 
merose e  sparse  pubblicazioni  che  le  riguardano. 

Il  libro  è  chiuso  da  un  prospetto  dei  più  notevoli  dialettismi,  e  da  un 
breve  lessico.  G.  G. 


DONATO  VELLUTI.  —  La  cronica  domestica,  scrìtta  fra 
il  1367  e  il  1370,  con  le  addizioni  di  Paolo  Velluti  scritte 
fra  il  1555  e  il  1560,  dai  manoscritti  originali,  per  cura  di 
Isidoro  del  Lungo  e  Guglielmo  Volpi,  con  cinque  ta- 
vole dimostrative  e  sei  facsimili.  —  Firenze,  Sansoni,  1914 
(8°  gr.,  pp.  XLViii-358). 

La  curiosa  cronaca  domestica  del  Velluti  non  era  inedita.  Sin  dal  1731  la 
pubblicò  in  Firenze  Domenico  Maria  Manni,  giovandosi  di  diversi  mss.,  oggi 
non  tutti  identificati,  sebbene  se  ne  conoscano  ben  otto  copie  a  penna.  Sono 
già  molti  anni,  peraltro,  che  del  prezioso  testo  rintracciò  il  Del  Lungo  l'au- 
tografo nella  casa  dei  Velluti  Zati,  duchi  di  San  Clemente,  e  ne  diede  di- 
versi saggi,  alcuni  dei  quali  opportunamente  ricomparvero  nel  Mantuile  dei 
professori  D'Ancona  e  Bacci  (I,  572  sgg.),  siccome  «  documento  sincerissimo 
«  della  lingua  parlata  in  Firenze  »  nel  più  bel  Trecento. 


(1)  Conf.  Ferraro,  Raccolta  di  sacre  poesie  popolari  fatte  da  Giovanni  Pellegrini 
nel  1446,  Bologna,  Romagnoli,  1877  {Scelta  di  curiosità,  lett,  disp.  162)  e  Feist^  Mit- 
teilungen  aus  dlteren  Samlwngen  italietiiscTier  geistlicher  Lieder,  in  ZeitschHft  filr  ro- 
manische  Philologie,  an.  18  (1889). 

(2)  Neri,  Di  alcuni  latidarii  settentrionali,  in  AttiAcc.Sc.di  Torino,  voi.  44  (1908-1909). 


436  BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

Accurata  senza  pedanteria  è  la  riproduzione  integrale  di  questo  testo,  che 
il  Del  Lungo,  sciogliendo  un'antica  promessa,  ora  ci  ha  dato.  Volle  che  al 
lavoro  gli  fosse  aiuto  Guglielmo  Volpi,  né  certo  poteva  scegliere  meglio.  Il 
commento  storico,  sobrio  e  sicuro  non  meno  del  linguistico,  procede  senza 
dubbio  in  gran  parte  da  quell'impareggiabile  conoscitore  della  storia  antica 
di  Firenze  che  il  Del  Lungo  è.  Alla  novella  edizione  possiamo  con  piena  si- 
curezza affidarci  ed  a  chi  ce  la  diede  dobbiamo  gratitudine.  Sono  infatti  co- 
deste cronache  domestiche,  di  cui  Firenze  ha  quasi  l'esclusività,  documenti 
di  singolare  valore  storico  e  psicologico,  rappresentazioni  vivaci  di  tutte  le 
persone  che  formavano  quelle  antiche  consorterie,  quadri  di  vita  intima  ed 
esterna,  rivelazioni  di  anime  contrastate  tra  le  necessità,  talora  quasi  sel- 
vaggie, della  difesa  e  della  vendetta  e  la  religione  medievalmente  tenace  e 
fervida.  Oltre  alla  cronaca  del  Velluti  altre  due  ne  esistono  di  non  minore 
importanza,  quella  di  Giovanni  di  Paolo  Morelli  e  quella  di  Buonaccorso  Pitti  ; 
né  l'una  né  l'altra  s'ebbero  finora  le  cure  che  trovò  la  più  fortunata  cronaca 
vellutiana  (1). 

È  questa  cronaca  in  parte  autobiografica,  in  parte  espositiva  di  storia  sin- 
crona ovvero  famigliare,  antecedente  di  parecchio  la  vita  dello  scrittore.  Il 
quale  espone  quanto  sa  e  sente  e  pensa,  senza  alcuno  studio  di  fare  opera  lette- 
raria, con  quel  fare  incisivo  sino  alla  plasticità  ch'è  proprio  alla  espressione 
trecentesca  e  che  siamo  avvezzi  a  lodare  segnatamente  in  Dino  Compagni. 
Già  il  Volpi  ammirò  a  giusto  titolo  que'  suoi  ritratti  che  ci  stanno  innanzi 
in  una  specie  di  galleria,  «  dove  la  penna  arguta  precorre  il  pennello  di  Ma- 
«  saccio,  del  Ghirlandaio  e  degli  altri  quattrocentisti,  che  popolarono  di  vive 
«  figure  le  chiese  di  Firenze  !  Sono  per  lo  più  pochi  tratti,  ma  di  quelli  pieni 
«  di  significato  »  (2).  Dei  quali  ritratti,  sbozzati  alla  brava,  e  pur  tali  da 
dipingere  al  vivo  ogni  individuo,  maschio  o  femmina  che  fosse,  noi  ben  vo- 
lentieri daremmo  esempi,  se  ai  pochi  già  addotti  dal  Volpi  non  ne  avessero 
aggiunti  altri  parecchi,  in  giornali  diifusi,  studiosi  esperti  che  del  volume 
presente  s'occuparono  (3). 

In  quella  iconografia  vuoisi  rilevare  lo  spirito  d'osservazione  stesso,  che  in 
quel  tempo  cominciava  a  farsi  strada  nelle  arti  del  disegno.  E  a  ciò  si  de- 
vono pure  i  molti  particolari  importanti  per  la  storia  del  costume  che  occor- 
rono in  questa  cronaca,  tra  i  quali  ve  n'è  uno  che  richiamò  da  tempo  l'at- 
tenzione per  la  sua  estrema  curiosità,  la  prima  menzione  del  tennis.  Dice 
il  Velluti  che  i  cinquecento  «  cavalieri  franceschi  »  che  si  trovavano  nel  1325 


(1)  L'edizione  che  della  cronaca  del  Pitti  curò  nel  1905  in  Bologna  l'ottimo 
Bacchi  della  Lega  manca  di  quei  chiarimenti  che  solo  un  espertissimo  di  storio- 
grafia fiorentina  potea  dare.  Per  la  cronaca  del  Morelli,  della  quale  esiste  pure 
l'autografo,  dobbiamo  pur  sempre  rimaner  paghi  a  ciò  ohe  ne  scrisse  Paolo  Gioboi 
in  una  sua  eccellente  memoria  del  1882,  già  segnalata  in  questo  Oiorn.,  I,  860. 

(2)  Volpi,  Il  Trecento,  2»  edizione,  Milano,  1907,  pp.  886-36. 

(3)  V.  Gian  nel  FanfuUa  della  domenica,  XXXVI,  20  e  Nello  Tarohiani  nel  Mar- 
zocco, XIX,  20. 


BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO 


437 


in  Firenze,  giuocavano  «  tuttodì  a  la  palla  »,  e  aggiunge:  <'  in  quello  tempo 
«  si  cominciò  di  qua  a  giucare  a  tenes,  avegnadio  ch'ai  tempo  del  Duca  di 
«  Calavra  si  raffermasse  e  fortificasse  »  (p.  81)  (1). 

Sul  valore  della  lingua  usata  dal  Velluti  non  è  il  caso  d'insistere.  Gli  edi- 
tori, entrambi  accademici  della  Crusca,  ben  seppero  chiosarla  e  chiarirla. 
Commuove  l'imbattersi  in  espressioni  poco  diverse  da  quelle  che  dovevano 
fiorire  sulle  labbra  del  divino  poeta,  «  morto  a  ghiado  »,  per  es.  (pp.  39  e  62), 
e  «  diverso  »  (p.  40),  in  quel  senso  in  cui  Dante  chiamò  «  uomini  diversi  » 
i  Genovesi. 

Per  quel  che  spetta  alla  storia  letteraria,  non  si  trascurino  gli  accenni  a 
Francesco  da  Barberino  (pp.  28-25),  ai  Frescobaldi  (2)  ed  alla  famiglia  La- 
tini. «  La  Maffia...  fu  moglie  di  Guido  di  Piero  Latini  della  gente  fu  ser 
«  Brunetto  Latini  »  (p.  95).  Ove  si  discerne  una  volta  di  più  che  quel  casato 
sonava  Latini  e  non  Latino,  come  continuano  a  scrivere,  con  testardaggine 
mulesca,  certi  filologi  stranieri,  specialmente  alemanni.  K. 


PAUL  MARIE  MASSON.  —  Chants  de  caymaval  florentins 
(Canti  carnascialeschi)  de  l'epoque  de  Laurent  le  Magni- 
fìque.  —  Paris,  Senart,  1913  (8«,  pp.  106). 

Ci  riserviamo  di  discorrere  più  a  lungo  di  questa  pubblicazione  quando  ne 
uscirà  il  secondo  volume,  al  quale  l'autore  promette  far  precedere  una  prefa- 
zione. Per  ora  ci  limitiamo  a  segnalarla  agli  studiosi  e  ad  accennare  breve- 
mente al  suo  contenuto. 

L'istituto  francese  di  Firenze,  del  quale  il  Masson  è  a  capo  per  la  parte 
che  riguarda  la  storia  musicale,  si  mostra  davvero  benemerito  della  coltura 
del  nostro  paese  con  le  pubblicazioni  che  ha  iniziato  o  annunciato.  È  infatti 
già  uscito  per  suo  merito  Vlntermezzo  del  Pergolesi  Livietta  e  Tracòllo  a 
cura  del  Kadiciotti  e  presto  potremo  leggere,  nello  spartito  per  pianoforte  e 
canto  di  Henry  Prunières,  V  Orfeo  di  Luigi  Rossi,  la  prima  opera  italiana 
rappresentata  a  Parigi. 

Dai  manoscritti  preziosissimi  della  Biblioteca  nazionale  di  Firenze,  il  Masson 
ha  tratto  questi  venti  canti  carnascialeschi  riducendoli  diligentemente  in 
partitura  moderna  e  aggiungendovi  la  riduzione  per  solo  pianoforte;  secondo 
noi,  con  molta  opportunità,  poiché,  data  la  conoscenza  così  estesa  dello  stru- 
mento, è  resa  facile  a  molti  la  lor  diretta  conoscenza. 


(1)  Gli  editori  richiamano  ciò  che  ne  scrisse  il  Rajna,  per  cui  vedi  questo  Qior- 
naU,  LV,  459,  ma  non  citano  le  discussioni  che  s'ebbero  a  proposito  di  quell'antica 
allusione  sportiva  in  periodici  francesi  ed  inglesi. 

(2)  Cfr.  S.  Debenedetti  in  questo  Giornale,  XLIX,  814  sgg. 


438  BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

Il  Masson  inoltre  non  ha  mancato  di  segnalare  sempre  l'autore  delle  poesie 
e,  quando  gli  è  stato  possibile  conoscerlo,  l'autore  della  musica.  Musica,  come 
richiedeva  la  pratica  del  tempo,  necessariamente  polifonica,  ma  di  un  polifo- 
nismo  sobrio  e  chiaro  come  in  tutta  la  musica  di  carattere  popolaresco  in 
quelle  forme  e  come  forse  era  nella  tradizione  musicale  dell' J^rs  nova  di  Fi- 
renze del  secolo  precedente  alla  comparsa  di  questi  canti.  Anzi  io  penso  che 
in  taluni  di  questi  componimenti  si  possano  trovare  nascosti  più  o  meno  abil- 
mente e  integralmente  canti  popolari  di  quel  tempo  :  tali,  ad  esempio,  il  Canto 
delle  rivenditrici,  la  cui  poesia  è  di  Lorenzo  de'  Medici,  il  canto  dei  Giudei 
e  quello  dei  Lanzi. 

Eicco  d'interesse  e  dal  lato  letterario  e  musicale  è  il  Canto  dei  diavoli,  la 
cui  poesia  è  del  Machiavelli,  e  pieno  di  giovialità  e  di  grazia  maliziosa  quello 
delle  Donne  che  cacciaìio  i  conigli.  F.  V. 


AMILDA  A.  PONS.  —  Un  trattato  educativo  del  Quattrocento. 
Estr.  della  Rivista  pedagogica^  VI.  —  Genova,  Formiggini, 
1913  (8«,  pp.  36). 

Dopo  la  menzione  fatta  su  questo  Giornale  (61,  471)  di  un  volume  della 
signorina  Laigle  su  Le  livre  des  trois  vertus  di  Cristina  del  Pisano,  giun- 
gerà gradito  l'apprendere  che  sull'opera  stessa  ha  elaborato  un  breve  ma  vi- 
vace studio  una  eulta  signorina  italiana,  tratta  da  carità  di  patria  (oltre  che 
dalla  naturale  solidarietà  di  sesso)  a  rinfrescare  la  memoria,  per  verità  non 
languida,  di  quella  nostra  antica  concittadina,  trapiantata  in  terra  di  Francia. 
E  veramente,  anche  dopo  le  molteplici  ricerche  di  cui  è  stata  oggetto  Cri- 
stina del  Pisano,  sino  alla  ampia  e  recente  della  signorina  Laigle,  un  partico- 
lare studio,  che  si  proponga  un  preciso  intento,  non  può  dirsi  soverchio,  specie 
se  è  condotto  con  la  larga  preparazione  e  l'alacrità  di  spirito,  che  vi  ha  messo 
la  signorina  Pons  ;  né  all'A.,  che  rimprovera  chi  l'ha  preceduta  d'aver  trascu- 
rate le  cose  nostre  (p.  6,  n.  1),  è  sfuggito  che  l'interesse  della  nuova  ricerca 
doveva  appuntarsi  proprio  sul  singolare  carattere  di  quest'opera,  scritta  da 
una  italiana  in  Francia. 

H  Thomas,  studiando  la  formazione  dottrinale  delle  opere  di  Francesco  da 
Barberino,  si  curò  bene  di  segnalare  quel  che  vi  si  derivi  dalla  cultura  aver- . 
roistica  dello  Studio  di  Padova,  ove  l'autore  fu  scolare.  Anche  mostrò  che  la 
società  feudale  della  Provenza  nel  secolo  XII  dovette  apparire  un  ottimo 
esempio  al  moralista,  che  viveva  in  quell'altra  società  fiorentina  del  sec.  XIV, 
le  cui  figure  femminili  ridono  con  si  sciolta  sensualità  dalle  pagine  del  Deca- 
meron. Analogamente  il  problema,  che  sovrattutto  doveva  attirare,  secondo  noi, 
l'attenzione  della  signorina  Pons  era  appunto  codesto  :  vedere  se  e  quanto 
della   coltura  italiana  —  che   s'avviava  a  diventar  umanistica  —  entra  nei 


BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO  439 

nuovi  «  Reggimenti  »  di  questa  figlia  bolognese  d' un  «  grammatico  »  pi- 
sano addestrato  ai  maneggi  della  politica  veneziana.  Cristina,  che  prosegue 
nella  Miitacion  de  Fortune  la  tradizione  del  Romanzo  della  Rosa,  incom- 
bente tuttavia  sulla  didattica  francese,  ha  saputo  o  potuto  trar  profitto  da 
una  rinnovata  corrente  di  idee  «  italiche  »,  posto  che  vi  fossero,  sulla  educa- 
zione femminile  ?  Quello  che  ne  dice  l'A.  nel  suo  scritto,  che  pur  è  dedicato 
ai  pedagogisti,  è  poco  anche  per  noi  storici.  Ma  forse  non  sarebbe  agevole, 
neppure  alla  signorina  Pons,  che  conosce  così  bene  l'argomento,  dar  una  ri- 
sposta, che  sia  più  che  un'impressione  vaga.  Quanto  a  me,  confesserò  che, 
mentre  leggevo  questo  scritto,  mi  arrivò  un  opuscolo  della  signorina  Maria 
Parrozzani  (Padova,  1914),  la  quale  per  non  so  quali  sue  opportunità  ristampa 
I  dodici  ammaestramenti,  che  la  savia  donna  diede  alla  figliuola,  quando  la 
maritò  :  testo  del  primo  trecento,  sia  che  derivi  o  preceda  i  Reggimenti  del 
Da  Barberino.  Ebbene,  a  me  è  parso  che  quella  «  savia  donna  »  la  pensasse 
pochissimo  diversamente  da  ciò  che  dirà  nel  Quattrocento  Cristina,  la  donna, 
non  solo  savia,  ma  scrittrice,  che  gustò  le  «  gouttelettes  »  della  scienza,  e  a 
cui  vien  dato  vanto  d'aver  «  inventé  le  métier  d'homme  de  lettres  ».  Ahi 
sempre  fatale  Eva!  Gli  è  che,  con  tutti  i  suoi  studi,  cui  l'avviava  il  padre 
grammatico,  la  sua  mamma  (com'essa  narra)  la  tratteneva  rigidamente  al 
pennecchio,  quand'era  ragazza  :  e  a  me  fa  l'impressione  che  non  se  ne  sia 
veramente  staccata  troppo,  anche  quando  dettava  Vlnstruction  des  prin- 
cesses,  etc.  Dov'è  che  ho  visto  un  quadro,  in  cui  con  simbolo  inelegante  la 
Parca  disegna  non  so  qual  parola  con  la  punta  del  suo  fuso  fatale  ?  Non 
ricordo;  ma  quella  figura  mi  ritorna  agli  occhi,  sempre  che  studio  la  lette- 
ratura femminile.  Quella,  intendo,  dei  secoli  passati.  Ex.  C. 


ANTONINO  TOSTO.  —  Le  Commedie  di  Ludovico  Ariosto. 
Studio  critico-storico.  —  Acireale,  Tip.  ed.  XX  Secolo,  1913 
(8°,  pp.  x-205). 

Dopo  gli  studi  del  Tirinelli,  del  Giannone,  e  specialmente  del  Marpillero 
(in  questo  Giornale  e  nel  Fanfidla  della  Domenica),  questo  del  T.  non  può 
essere  additato  che  come  una  compilazione  sul  materiale  raccolto  dagli  altri, 
un  po'  confusamente,  e  sopratutto  con  una  soverchia  insistenza  su  notizie  e 
particolari  già  noti:  troppo  minuta  l'analisi  delle  commedie,  troppo  diffusa 
la  critica:  il  volume  potrebbe  essere  ridotto  di  un  buon  terzo  con  grande  van- 
taggio per  l'armonia  dell'opera.  È  manifesta  pure  nel  T.  l'intenzione  polemica  : 
l'autore,  contro  la  critica  corrente,  si  propine  lo  scopo  di  riabilitare  l'Ariosto 
come  autor  comico;  si  oppone  cioè  a  quella  critica,  secondo  lui,  ingiusta  che 
considera  le  commedie  dell'Ariosto  come  una  servile  imitazione  di  Plauto  e 
Terenzio:  contrariamente  al  Reinhardstoettner,  trova  più  numerosi  i  paralle- 


440  BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

lismi  con  Terenzio  che  con  Plauto  :  trova  errato  il  giudizio  del  Bongi  a 
proposito  dei  caratteri  della  Commedia  del  '500  :  clie  cioè  tutti  i  poeti  comici 
del  secolo  XVI,  fuor  che  il  Machiavelli  della  Mandragola,  dipingessero  una 
società  che  vedevano  soltanto  sui  libri.  Secondo  il  T.,  l'Ariosto,  con  le  sue 
commedie  piene  di  eleganza  e  di  misura,  diede  il  modello  della  Commedia 
erudita:  modello  che  tutti  imitarono. 

Criticamente  non  persuasivo,  un  po'  disordinato  nel  racconto,  il  T.  si  rivela 
pur  sempre  buon  conoscitore  del  Teatro  dell'Ariosto  e  della  critica  intorno  a 
lui:  la  ricchezza  delle  note  bibliografiche  in  fondo  ad  ogni  capitolo  dimostra 
che  egli  non  si  è  messo  all'opera  senza  un'adeguata  preparazione.  Il  primo 
dei  nove  capitoletti,  nei  quali  lo  studio  è  diviso,  è  appunto  l'esame  dei  giu- 
dizi critici  intorno  all'Ariosto  poeta  comico.  Nei  tre  capitoli  successivi,  il  T. 
studia  le  commedie  dell'Ariosto  in  generale,  mostra  cioè  come  la  frequenza 
delle  agnizioni  non  sia  una  riprova  dell'  imitazione  latina,  e  non  sia  punto 
inverosimile  nel  '500,  essendo  frequentissimi  in  quel  secolo  i  naufragi,  e  con- 
seguentemente teneri  giovanetti  e  fanciulle  vendute  come  schiave,  e  preda  di 
pirati.  Il  critico  spiega  poi  come  debba  essere  intesa  la  necessità  dell'imita- 
zione latina,  e  mette  in  evidenza  gli  accenni  dei  prologhi  ariosteschi,  sui  quali 
scrisse  in  modo  esauriente  il  Campanini.  Di  recente  Emilio  Santini  ci  ha  dato 
un  breve  studio  (che  il  T.  non  conosce,  né  forse  poteva  conoscere)  su  La  duplice 
redazione  della  «  Cassarla  »  e  dei  «  Suppositi  »  di  L.  Ariosto  (Barga,  Stab. 
tip.  Bertagni,  1913,  8°,  pp.  15):  e  su  questo  argomento  pure  il  T.  ampia- 
mente si  diffonde  nel  5*^  e  nel  6°  capitolo,  allorché  prende  in  esame  queste 
due  commedie  :  dopo  aver  accennato  al  «  bisticcio  aromatico  »  (cioè  al  doppio 
senso  licenzioso)  della  seconda  commedia,  e  analizzatala,  trova  che  essa  è 
meno  intricata  della  Cassaria,  e  che  più  vivi  e  moderni  ne  sono  i  carat- 
teri. Interessante  è  qui  la  storia  della  sua  fortuna  in  Francia:  la  disputa 
all'Hotel  de  Rambouillet,  avvenuta  fra  Volture  e  Chapelain,  difensore  della 
commedia,  e  che  finì  col  giudizio  dell'arbitro  Balzac.  I  tre  ultimi  capitoli 
studiano  in  particolare  le  altre  tre  commedie:  Il  Negromante,  La  Lena  e 
La  Scolastica. 

Buon  conoscitore  non  soltanto  di  quelle  dell'Ariosto,  ma  anche  delle  altre 
commedie  del  Cinquecento,  il  T.  studia  in  queste  e  in  quelle  gli  elementi 
satirici,  comuni  anche  alla  Novellistica  precedente  e  contemporanea:  esamina 
quanto  viva  sia  nell'Ariosto  la  satira  contro  la  gente  di  chiesa,  contro  i  gio- 
vani effeminati  e  i  vecchi  galanti.  E  non  trascura  neppure  l'esame  delle  fonti. 
Come  è  noto,  non  soltanto  dal  Decameron,  ma  anche  dagli  altri  novellieri 
(dal  Bandello,  ad  es.)  tolse  l'Ariosto  qualche  motivo  comico. 

Si  occupò  di  recente  delle  commedie  dell'Ariosto  Maurice  Mignon  (cfr.  questo 
Giornale,  63,  470);  ma  il  T.  non  potè  aver  conoscenza  di  questi  articoli.  Altre 
lievi  lacune  nella  bibliografia  della  critica  sono  da  segnalarsi,  cioè  lo  scritto 
di  Armando  Verzan  {Le  prime  commedie  italiane  del  Cinquecento,  in  «  Jahres- 
bericht  der  Ch-azer  Handelsakad ernie,  1900-1901),  ove  sono  esaminate  due 
commedie  dell'Ariosto  :  La  CassaìHa  e  1  Suppositi  ;  il  volume  di  Marino  Cam- 
panelli (Saggio  sulle  commedie  di  L.  Ariosto,  Rimini,  1903);  e  i  due  scritti 


BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO  441 

di  letteratura  comparata  di  John  W.  Cunliffe  (Supposes  and  Jocasta,  Boston, 
1906)  e  di  G.  Pace  («  I  Suppositi  »  e  la  <^  Taming  ofthe  Shrew  »,  in  Malta 
letteraria,  V,  45-46;  1908).  C.   L. 


HENRY  PRUNIÈRES.  —  L'opera  italien  en  France  avant 
Litlli.  —  Paris,  Champion,  1913  (8«  gr.,  pp.  xlvii-431-32). 

Per  studiare  di  proposito  le  vicende  dell'opera  musicale  in  Francia  avanti 
la  fondazione  dell'Accademia  Eeale  occorreva  sgombrare  il  terreno  dai  nume- 
rosi errori  che  scrittori  francesi  e  italiani  di  tempi  diversi  a  piene  mani  vi 
avevano  disseminati  ;  ardua  impresa  già  in  piccola  parte  tentata  e  superata 
da  alcuni  studiosi,  fra  cui  il  RoUand  e,  primo  in  ordine  di  tempo,  l'Ademollo, 
che  nel  volumetto  I  primi  fasti  della  musica  italiana  a  Parigi  aveva 
dato  in  luce  i  frutti  delle  sue  fortunate  ricerche  negli  archivi  di  Firenze,  di 
Venezia  e  di  Torino,  recando  integralmente  le  testimonianze  lasciate  dai  con- 
temporanei. H  Prunières,  armatosi  di  coraggio,  si  è  accinto  a  quel  «  lavoro 
preparatorio  d'indagine  »  che  il  compianto  nostro  Solerti  nelle  sue  Origini 
del  melodramma  (Torino,  Bocca,  1903)  invocava  a  profitto  di  una  futura  sin- 
tesi che  valesse  ad  illuminare  tanto  sotto  l'aspetto  letterario  quanto  quello 
musicale  una  forma  d'arte  in  cui  poesia  e  musica  sono  strettamente  congiunte. 
Il  P.  studia  l'una  e  l'altra  cosa,  ma  in  questo  volume  si  cura  in  modo  spe- 
ciale della  parte  biografica  e  aneddotica,  riservandosi  di  trattare  il  tema  sotto 
l'aspetto  tecnico  in  un  futuro  libro  sull'estetica  del  Lulli:  dà  qualche  cenno 
sulla  musica  e  sui  libretti  unicamente  per  far  meglio  sentire  al  lettore  l'im- 
portanza delle  opere  di  cui  si  narrano  l'origine  e  la  storia.  Egli  non  pretende 
di  offrire  ai  lettori  un  lavoro  perfetto  e  definitivo:  «  malgré  son  étendue 
«  —  egli  scrive  —  cet  ouvrage  est  loin  d'étre  aussi  complet  que  je  l'eusse 
«  souhaité.  Bien  des  points  restent  obscurs  :  le  hasard  des  fouilles  d'archives 
«  met  en  pleine  lumière  des  faits  d'importance  secondaire  et  laisse  dans  l'ombre 
«  des  questions  fort  graves.  Je  n'ai  pas  cru  cependant  devoir  poursuivre  da- 
«  vantage  mes  recherches;  il  me  sufiit  d'avoir  pu  reconstituer,  dans  ses  grandes 
«  lignes,  d'après  des  documents  authentiques,  l'histoire  des  représentations 
«  d'opéras  à  Paris  avant  la  fondation  de  l'Académie  de  Musique.  Je  laisse  à 
«  d'autres,  plus  patients  ou  plus  heureux  que  moi,  le  soin  d'en  combler  les 
«  lacunes  ».  Nel  1907  intraprese  una  serie  di  ricerche  in  Italia  con  la  speranza 
di  trovare,  nelle  relazioni  dei  diplomatici  accreditati  presso  la  corte  di  Francia, 
notizie  sulle  opere  rappresentate  a  Parigi.  A  Modena,  a  Venezia,  a  Parma  il 
risultato  fu  mediocre:  invece  a  Torino,  a  Roma  e  soprattutto  a  Firenze  fa 
corrispondenza  dei  residenti  con  i  loro  governi  rivelò  all'autore  molte  cose 
prima  ignorate  ;  e  numerose  lettere  scritte  ^&  cantanti,  compositori  e  macchi- 
nisti gli  apprestarono  gran  copia  di  ragguagli.  Ma  gli  elementi  più  preziosi 
della  sua  documentazione  egli  trasse  a  Parigi  dal  Ministero  degli  affari  esteri, 
dalla  Biblioteca  e  dagli  Archivi  nazionali. 


442  BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

In  questo  nostro  annuncio  (non  è  una  recensione)  ci  occuperemo  brevemente 
di  quanto  si  riferisce  al  melodramma  e  alla  storia  generale  dell'arte,  come  già 
fece  questo  Giorn.,  28,  451,  per  la  Histoire  de  V Opera  en  Europe  avant  Lulìy 
et  Scarìatti  di  Eomain  Eolland,  al  quale  il  P.  volle  intitolare  il  suo  lavoro  «  en 
«  témoignage  d'admiration,  de  gratitude  et  de  respectueuse  aifection  » .  In  una 
diligente  «  introduction  »  l'autore  studia  e  rende  evidente  l'influenza  italiana  in 
Francia  in  tutte  le  manifestazioni  teatrali  aventi  attinenza  con  la  musica  e  spe- 
cialmente in  quegli  spettacoli  di  corte  in  cui  si  cela  il  germe  del  balletto  e  del- 
l'opera; e  si  sofferma  sui  divertimenti  alla  corte  dei  Valois,  sui  festeggiamenti 
pel  matrimonio  di  Enrico  IV  e  di  Maria  de'  Medici,  sul  soggiorno  del  Rinuccini 
e  di  Giulio  Caccini  a  Parigi  :  passa  in  seguito  a  considerare  i  comici  italiani,  che 
coi  loro  intermezzi  lirici  furono  i  divulgatori  dell'arte  melodrammatica  in 
Francia,  dove  spianarono  la  via  agli  intrecci  cari  ai  nostri  librettisti.  Il  primo 
capitolo,  benché,  come  l'introduzione,  non  abbondi  di  notizie  nuove,  è  un  quadro 
assai  ben  fatto  delle  condizioni  dell'opera  musicale,  sotto  il  pontificato  di 
Urbano  VIII,  nelle  principali  città  italiane  e  specialmente  a  Roma,  dove  «  des 
«  princes  de  l'Église  mettaient  leur  gioire  à  monter  des  mélodraraes,  à  en 
«  écrire.  eux-mémes  les  livrets  ;  des  inoines  pai-aissaient  sur  le  théàtre  sans 
«  exciter  ni  surprise,  ni  indignation  ».  Il  Mazarino,  che  nella  sua  qualità  di 
intendente  generale  del  cardinale  Antonio  Barberini  aveva  avuto  dimesti- 
chezza coi  più  celebri  musici  di  quel  tempo,  quando  succedette  al  Eichelieu 
invitò  a  Parigi  Marco  Marazzoli,  rinomato  cantante  e  sonatore  d'arpa,  e  la 
famosa  Leonora  Baroni;  e,  vedute  le  buone  accoglienze  fatte  dalla  corte  e 
specialmente  da  Anna  d'Austria  a  questi  due  artisti  ed  alla  musica  italiana, 
stabilì,  dopo  che  fu  cessato  il  lutto  per  la  morte  del  re,  di  dare  una  rappre- 
sentazione d'opera.  Le  memorie  e  gli  storiografi  musicali  francesi  affermano 
concordi  che  il  primo  melodramma  rappresentato  dagli  artisti  italiani  per  in- 
vito del  cardinale  fu  la  Finta  Fazza  di  Giulio  Strozzi  con  musica  di  Fran- 
cesco Sacrati;  e  se  ne  hanno  curiosi  particolari  nelle  storie  del  padre  Menestrier, 
del  Ca^til-Blaze  e  dello  Chouquet.  Ma  una  lettera  del  cantante  Atto  Melani 
al  principe  Mattias  (E.  Archivio  di  Stato  di  Firenze,  Mediceo)  con  la  data 
del  10  marzo  1645,  pubblicata  per  la  prima  volta  dall'AdemoUo  con  altre 
lettere  importanti  del  medesimo  cantante,  afferma,  in  modo  da  non  lasciar 
dubbio,  che  una  rappresentazione  di  opera  italiana  a  Parigi  avvenne  dieci 
mesi  prima  di  quella  illustrata  dagli  scrittori  francesi:  disgraziatamente  il 
Melani  ne  tace  il  titolo.  L'Ademollo  tentò  di  dimostrare  che  il  melodramma 
rappresentato  negli  ultimi  giorni  di  febbraio  del  1645  fu  appunto  la  Finta 
Pazza  ;  il  P.  invece  crede  che  si  tratti  di  un  Poemetto  dramatico  per  mu- 
sica da  lui  scoperto  nella  Bibliothèque  Nationale,  il  quale  ha  per  protago- 
niste Filli,  figlia  di  Nicandro,  e  Glori,  figlia  di  Fileno.  La  Finta  Pazza,  con 
cui  si  era  inaugurato  nel  1641  il  Teatro  novissimo  di  Venezia,  venne  rap- 
presentata la  prima  volta  a  Parigi  il  14  dicembre  del  1645  e  procurò  gli 
onori  del  trionfo  non  al  poeta  Strozzi  né  al  compositore  Sacrati,  ma  al  mac- 
chinista e  scenografo  Giacomo  Torelli,  che  il  popolo  parigino  non  tardò  a  so- 
prannominare le  grand  sorcier.  Questa   «  admirable  féte  des  yeux  »    indusse 


BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO  443 

1  regina  e  il  Mazarino  ad  ammannire  agli  spettatori  francesi  V  Orfeo  (al 
quale  il  P.,  come  già  il  Eolland  nel  suo  studio  Musiciens  d'mitrefois,  de- 
dica un  intiero  capitolo),  che  fu  il  frutto  della  collaborazione  del  poeta  Fran- 
cesco Buti  e  del  compositore  Luigi  Rossi,  l'uno  segretario  particolare  e  l'altro 
musico  da  camera  del  cardinale  Antonio  Barberini  nipote  di  Urbano  Vili.  La 
sera  del  2  marzo  1647  «  le  grand  public  fut  surtout  frappé  de  la  hardiesse 
«  des  machines,  de  la  rapidité  des  changements  de  scène,  et  de  la  richesse 
«  des  décors  » .  I  poeti  di  corte  fecero  a  gara  nel  celebrare  le  bellezze  del- 
l' Orfeo  e  le  benemerenze  teatrali  del  Mazarino  ;  e  la  signora  Margherita  Costa 
nella  Tromba  di  Parnasso  volle  con  numerosi  sonetti  portare  il  tributo  della 
sua  Musa  agli  autori,  agli  interpreti  e  ai  più  cospicui  ammiratori  dell'opera. 
Non  mancarono,  più  tardi,  critiche  aspre  e  pungenti,  tanto  che  in  una  ma- 
zarinade  motteggiante  sulle  parole  Orphée  e  Morphe'e  si  giunse  ad  affermare 
che  il  pubblico  durante  la  rappresentazione  aveva  dormito  della  grossa.  Il 
librettcT  (se  ne  trova  una  copia  manoscritta  nel  fondo  barberiniano  della  Va- 
ticana) non  venne  mai  stampato,  ma  il  Mazarino  ne  fece  distribuire  agli 
spettatori  un  riassunto:  e  fu  saggia  cosa  perchè  la  lingua  italiana  non  era 
capita  dalla  maggior  parte  del  pubblico  e  l'intreccio  era  oltremodo  aggrovi- 
gliato, come  dimostrò  il  nostro  Ademollo  riportando  nei  Fasti  sopra  mento- 
vati la  lunga  analisi  fattane  dal  padre  Menestrier.  Anche  il  P.  ne  tratta  in 
modo  particolareggiato  per  comprovare  che  è  «  d'une  incohérence  et  d'une 
«  bizarrerie  surprenantes  »:  Aristeo,  pazzo  d'amore  e  disperato  per  la  morte 
di  Euridice,  intona  un'aria  di  bravura  che  il  satiro  e  Momo  accompagnano 
imitando  il  suono  della  trombetta  e  del  tamburo  ;  Venere  lo  esorta  ad  aver 
più  cura  della  propria  persona  se  vuol  piacere  al  bel  sesso  e  lo  fa  pettinare 
e  agghindare  dalle  Grazie  ;  il  satiro,  vedendo  ciò,  chiede  di  essere  acconciato 
nello  stesso  modo  e  le  tre  dee  condiscendenti  ne  arricciano  gli  ispidi  capelli 
facendogli  vedere  tutte  le  stelle  del  firmamento Con  tutto  ciò  il  P.  am- 
mette nel  Buti  un  merito  che  è  stato  troppo  dimenticato  dagli  storiografi  del 
teatro,  quello  cioè  di  avere  fatto  conoscere  ai  Francesi  atteggiamenti  lirici 
che  dappoi  il  Lulli  ed  il  Quinault  resero  popolari.  Nella  lettera  scritta  da  Atto 
Melani  al  principe  Mattias  il  12  gennaio  1647  si  parla  di  una  seconda  opera, 
che  si  voleva  ma  non  si  potè  rappresentare  :  secondo  il  P.  sarebbe,  con  tutta 
probabilità,  la  Ferinda ,  drammatica  composizione  che  G.  B.  Andreini  il 
28  marzo  1647  presentò  al  Mazarino  con  la  speranza  che  questi  ordinasse  di 
musicarla.  Né  più  fortunato  fu  il  progetto  di  una  Festa  reale  per  balletto  a 
Cavallo  della  signora  Margherita  Costa:  il  Mazarino  considerando  che  l'Or/eo 
poteva  bastare  al  divertimento  della  corte  durante  due  mesi,  ne  ordinò  la 
ripresa  dopo  la  Pasqua  ;  la  qual  cosa  non  impedì  che  gli  avversari  gli  si  sca- 
gliassero contro  e  lo  accusassero  di  rovinare  la  Francia  e  il  tesoro  regio  con 
spettacoli  allestiti  da  lui  per  suo  diletto.  La  reazione  anti-italiana  diviene  sì 
violenta  che  i  divertimenti  di  oltre  Alpi  v^gon  proscritti  non  meno  che  gli 
stessi  oltramontani  ;  e  la  regina  deve  dissimulare  la  sua  passione  per  la  mu- 
sica sino  alla  disfatta  dei  Frondeurs  e  al  ritorno  trionfale  del  Mazarino,  av- 
venimenti che  ella  celebra  nel  1654  con  le   Nozze  di  Peleo  e  di  llieti  del 


444  BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

Buti  (con  musica  di  Carlo  Caproli)  in  cui  «  la  fusion  de  l'opera  italien  et 
«  du  ballet  de  Cour  fran^ais  est  aussi  complète  que  possible  ».  A  leggere  l'ar- 
gomento, l'azione  sembra  assai  semplice,  ma,  secondo  la  sua  abitudine,  il  Buti 
complica  l'intreccio  e  riesce  a  renderlo  incoerente  e  stravagante  quanto  si  può 
immaginare.  Dopo,  per  cinque  anni,  assai  esiguo  è  il  numero  degli  artisti 
italiani  in  Francia,  che  per  l'esecuzione  dei  balletti  composti  dal  fiorentino 
Giambattista  LuUi  non  metteva  conto  di  far  valicare  le  Alpi  ai  nostri  vir- 
tuosi ;  ma  quando  apparve  sull'orizzonte  politico  il  matrimonio  fra  Luigi  XIV 
e  l'infanta  di  Spagna,  Mazarino  diede  incarico  al  Buti  ed  al  Cavalli  di  darsi 
attorno  ad  un  grande  spettacolo  degno  della  circostanza;  chiese  cantanti  a 
Roma,  a  Torino,  a  Firenze,  a  Venezia,  a  Vienna  e  commise  al  celebre  archi- 
tetto Gaspare  Vigarani  la  costruzione  di  un  teatro  che  si  sarebbe  inaugurato 
con  la  nuova  opera  Ercole  Amante.  Mentre  con  fervorosa  alacrità  si  attendeva 
alla  laboriosa  preparazione  di  questo  avvenimento  teatrale,  fu  allestito  e  rap- 
presentato al  Louvre  (22  novembre  1660)  lo  Xerse,  già  celebre  in  tutta  Italia, 
di  Nicolò  Minato  con  musica  del  Cavalli  (nell'elenco  dei  personaggi  del  pro- 
logo si  trova  un  soprano  che  non  parla]).  Il  Lulli  introdusse  fra  gli  atti 
della  tragedia  lirica  «  des  entrées  de  ballet  »  in  cui  però  il  giovane  re  non 
ebbe  modo  di  porre  in  mostra  tutta  la  sua  virtù  di  ballerino  e  di  mimo; 
onde  si  stabilì  di  dare  un  balletto  mezzo  francese  e  mezzo  italiano,  nel  quale 
danzatori  e  cantanti  potessero  ugualmente  dar  saggio  della  loro  abilità  :  l'abate 
Buti  ne  compose  il  prologo  e  l'epilogo  in  versi  italiani;  il  Benserade  alcune 
graziose  canzoni  e  i  versi  per  i  personaggi  del  balletto.  Finalmente  il  7  feb- 
braio del  1662  VErcoIe  Amante  (con  balletti  del  Lulli)  veniva  eseguito  nella 
nuova  e  vasta  sala  del  Vigarani  gremita  di  pubblico.  Quanto  al  libretto  «  on 
«  ne  peut  rien  concevoir  de  plus  plat,  de  plus  niaisement  compliqué  que  l'in- 
«  trigue  de  V Ercole  ».  Tuttavia  esso  esercitò  un'azione  incontestabile  sull'opera 
francese  e  lasciò  tracce  evidenti  di  sé  nelle  tragedie  liriche  del  Quinault.  A 
questa  opera  tanto  attesa,  che  conteneva  tutti  gli  elementi  per  ottenere  un 
grande  successo,  non  arrise  la  fortuna  :  «  on  peut  affirmer  que,  monte  quelques 
«  années  plus  tòt,  l'opera  eùt  obtenu  un  immense  succès.  Mais  les  temps 
«  avaient  changé.  L^ Ercole  Amunte  tomba,  victime  de  l'hostilité  du  public 
«  contre  l'art  italien  ». 

Partito  il  Cavalli  da  Parigi,  il  Lulli  diviene  lui  padrone  assoluto  del  campo 
e  per  meglio  stringere  i  vincoli  coi  musicisti  francesi  sposa  la  figlia  di  Mi- 
chele Lambert,  il  più  celebre  e  insieme  il  più  popolare  di  essi.  «  L'opera 
«  italien  était  exilé  de  la  cour  de  France  avec  ses  interprètes.  Désormais 
«  Lulli  règne  seul  sur  les  destinées  de  la  musique  dramatique...  L'opera  fran- 
«  9ais  est  son  oeuvre,  sa  chose.  Les  Parisiens  ont  déjà  oublié  les  beaux  jours 
«  de  V Orfeo,  des  Nozze  di  Peleo,  de  V Ercole  Amante]  ils  semblent  croire 
«  que  l'opera  est  sorti  tout  arme,  tout  pare,  du  cerveau  de  Lulli  et  ne  doit 
«  rien  à  l'Italie.  Les  adversaires  du  Florentin  en  attribuent  l'invention  à 
«  Perrin  et  Cambert  et  ne  se  montrent  pas  plus  équitables  envers  les  ceuvres 
«  italiennes  auxquelles  l'opera  fran9ais  doit  cependant  la  vie  ».  S.  F. 


BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO  445 

GUIDO  MAZZONI.  —  L'Ottocento.  —  Milano,  Fr.  Vallardi,  1913 

(4«,  pp.  1524). 

Su  questa  vasta  opera  di  consultazione  assai  si  mormora  in  segreto  e  da 
molti  (1).  Chi  trova  la  materia  mal  divisa  e  mal  digerita;  chi  non  approva 
quella  continua  spezzettatura  dell'opera  dei  singoli  autori  per  correr  dietro  a 
raggruppamenti  artificiali  per  generi  letterari  ;  chi  rileva  frequenti  inesattezze 
ed  errori,  di  cui  non  sempre  è  fatta  ammenda  nelle  note,  scritte,  o  almeno 
stampate,  molto  tempo  dopo  il  testo  (2)  ;  chi  biasima  l'affoltarsi  delle  notizie 
sui  minori  e  sui  minimi,  che  offusca  la  visione  esatta  dell'insieme;  chi  ap- 
punta, specialmente  negli  ultimi  capitoli,  che  sono  i  più  ardui,  certa  stan- 
chezza e  povertà  di  critica,  per  cui  degli  scrittori  si  riferiscono  i  titoli  delle 
opere,  con  lodi  generiche,  anziché  caratterizzarli  risolutamente;  chi,  pur  ri- 
conoscendo la  dovizia  grande  della  bibliografia,  che  seguita  il  sistema  del 
noto  e  benemerito  Manuale  scolastico  del  D'Ancona  e  del  Bacci,  con  ricchezza 
infinitamente  maggiore  d'informazione,  lamenta  che  quasi  sempre  quella  bi- 
bliografia non  sia  critica,  ma  riferisca  una  serie  di  nomi  e  di  schede,  acco- 
stando opere  nulle  a  studi  pregevolissimi,  sicché  lo  studioso  vi  rinviene  un 
agglomerato  alquanto  meccanico,  e  direi  bruto,  d'indicazioni,  senza  il  rilievo 
che  valga  ad  orientarlo  su  quelli  che  sono  i  veri  e  migliori  sussidi  di  ricerca. 

Queste  ed  altre  accuse  che  si  vengono  bisbigliando  hanno  la  loro  parte  di 
vero,  e  crediamo  che  il  Mazzoni  medesimo  sia  il  primo  a  riconoscerlo.  Ma  a 
me  sembra  che  l'opera,  pei  servigi  segnalati  che  rende  e  che  renderà  ancora 
per  un  pezzo  agli  studi,  voglia  essere,  dagli  spiriti  equilibrati  ed  equi,  difesa. 
Anzitutto  è  giusto  por  mente  alla  difficoltà  grande  dell'impresa.  Tranne  per 
una  parte  della  materia  dei  primi  capitoli  e  per  gli  scrittori  massimi  della 


(1)  Recensioni  vere  e  proprie  non  se  ne  son  fatte  e  forse  non  se  ne  faranno.  L'im- 
presa sarebbe  estremamente  ardua.  Un  giovane  d'ingegno,  devoto  alla  scuola  fio- 
rentina, Luigi  Tonelli,  accennando  a  questo  «  enorme  Ottocento^  esuberante  di  no- 
«  tizie  e  di  riferimenti  » ,  loda  in  esso  il  «  metodo  cronologico  e  insieme  per  generi 
«  letterari,  pel  quale  è  stato  possibile  dipingere  ampi  e  compiuti  quadri,  sebbene 
«  talvolta  a  scapito  della  visione  chiara  e  completa  della  singola  personalità  poe- 
«  tioa  » .  Vedi  il  volume  La  critica  letteraria  italiana  negli  ultimi  cinquant'anni,  Bari, 
Laterza,  1914,  pp.  193  e  807. 

(2)  Com'è  risaputo,  l'opera  usci  a  dispense  in  una  lunga  serie  di  anni.  Nelle  note 
son  citati  spesso  scritti  che  non  erano  peranco  in  luce  quando  fu  stampato  il  testo. 
Da  ciò  deriva  di  necessità  qualche  incongruenza;  ma  agli  intenti  dell'informazione 
bibliogr^ifica  è  pur  meglio  questo  difetto  che  il  silenzio  sui  lavori  usciti  dopo  la 
pubblicazione  del  testo.  Notiamo  nel  testo  due  piccoli  errori  di  fatto,  per  la  ve- 
rità storica  e  senza  volerne  muovere  al  M.  il  menomo  rimprovero.  A  p.  1159  scrive 
l'A.  che  Domenico  Carutti  «  attese  a  grandi  lavori  storici. . .  mentre  resse  la  Bi- 
«  blioteca  .Reale  in  Torino».  Ciò  non  è  esatto.  Il  Carutti  entrò  a  dirigere  la  biblio- 
teca del  Re  nel  1889,  quando  oramai  stava  pe#  toccare  la  settantina:  troppo  na- 
turale quindi  che  non  facesse  più  allora  gran  che;  le  opere  sue  storiche  sono 
anteriori  di  molti  anni.  —  A  p.  1227  il  Flechia  è  detto  «  rinnovatore  dei  nostri 
studi  filologici  » .  Andava  detto  glottologici.  Di  «  filologia  » ,  nell'accezione  odierna  del 
vocabolo,  quel  bellissimo  ingegno  si  può  dire  non  si  occupasse,  salvo  per  l'India. 


446  BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO 

prima  metà  del  secolo,  il  M.  non  aveva  spianata  la  via  da  ricerche  esaurienti  ; 
anzi  fra  quel  paio  di  migliaia  di  scrittori  ch'egli  tocca,  ve  n'è  un  buon  terzo 
che  nessuno  aveva  menzionato  in  una  storia  delle  lettere  prima  di  lui.  E 
poi,  è  pur  giusto  riflettere  che  alla  spezzettatura  della  individualità  degli 
scrittori  (non  facilmente  evitabile,  del  resto)  rimedia  l'indice  alfabetico  dei 
nomi  propri  (1),  i  cui  rinvìi  concedono  al  consultatore  del  libro  (e  questo 
sarà  sempre  libro  più  di  consultazione  che  di  lettura)  di  rifarsi  alle  varie 
pagine  ove  si  parla  dell'autore  che  gli  sta  a  cuore.  Inoltre,  se  è  vero  che  il  M. 
ha  voluto  parlare  di  troppe  persone,  anche  di  quelle,  come  i  filosofi,  gli  sta- 
tisti e  gli  scienziati,  che  sembrerebbero  destinate  non  alla  storia  delle  lettere 
ma  ad  altre  categorie  storiche,  è  pm*  da  riconoscere  che  nel  più  sta  il  meno 
e  non  viceversa,  ed  è  da  dargli  lode  per  aver  tenuto  sempre  presenti,  in  un 
secolo  di  continui  scambi  intellettuali,  le  letterature  straniere  che  influirono 
sulla  nostra,  e  per  aver  dato  il  posto  che  loro  compete  agli  scrittori  in  dia- 
letto, alcuni  fra  i  quali  grandissimi,  persin  maggiori  dei  più  applauditi  scrit- 
tori in  lingua.  E  pur  riconoscendo  il  difetto  organico  delle  note,  che  troppe 
volte  riuscirono  elenchi  bibliogi-afici  ignudi  anziché  classificazione  critica  degli 
studi  eruditi  secondo  il  loro  valore;  pur  ammettendo  che  il  voler  troppo  ci- 
tare, giungendo  con  le  «  giunte  e  con-ezioni  alle  note  »  sino  alla  primavera 
del  1913  ed  insaccando  in  fine  (pp.  1496-97)  un  gran  numero  di  nomi  di- 
versissimi che  così  nudi  e  crudi  non  giovano  a  nulla,  è  cosa  pericolosa  e  vi- 
ziosa (2)  :  giustizia  vuole  si  aflfermi  che  quelle  pressoché  dugento  pagine  fitte 
di  rinvìi  bibliografici  costituiscono  una  miniera  preziosissima  di  informazioni 
non  sempre  facili  ad  aversi,  anzi  in  molti  casi  difficilissime.  Inevitabili,  in 
tanta  congerie  di  nomi  e  di  titoli,  le  ommissioni  e  gli  errori  ;  d'alcune  e  di 
alcuni  il  M.  stesso  s'è  accorto,  di  altre  e  di   altri  no  (3).   Ma  mettiamoci, 


(1)  In  quell'indice  sarebbe  fors'anche  stato  utile  menzionare  i  generi,  rimandando 
ai  luoghi  ove  se  ne  parla.  A  questa  esigenza  credette  forse  il  M.  che  sopperissero 
i  suqj  sommari  dei  capitoli  ;  ma  la  ricerca  in  quel  modo  non  è  agevole  per  chi, 
metti  caso,  voglia  saper  tutto  ciò  che  nell'opera  si  dice  dell'eloquenza,  ovvero 
della  satira,  o  dell'epigramma. 

(2)  Ed  anche  un  poco  inconseguente.  Nelle  oneste  parole,  con  ohe  si  inizia  il 
capitolo  ultimo,  dice  il  M.  tra  l'altro:  «dei  viventi  non  intendiamo  parlare  e... 
«  quanto  ai  morti  di  recente,  non  ci  troviamo  nelle  condizioni  necessarie,  di  reoi- 
«  proco  paragone,  e  forse  di  spassionatezza ,  onde  possiamo  avere  sicura  fiducia 
«  nell'opinione  che  ci  recò  a  includerli  o  a  escluderli  »  (p.  J211).  Sarebbe  stato  utile 
ohe,  data  questa  premessa,  dei  vivi  non  avesse  seppur  toccato,  e  con  la  morte 
del  Carducci  avesse  fatto  punto. 

(3)  Documentare  quest'asserzione  sarebbe  agevolissimo  quanto  ingeneroso  e  pe- 
dantesco. Io  sono  sempre  stato  grato  ai  coscienziosi  bibliografi  (né  v'ha  dubbio  che 
il  M.  è  tra  questi)  ed  ho  sempre  avuto  in  fastidio  il  mal  vezzo  di  coloro  che,  pur 
profittandone  largamente,  si  fan  belli  di  poter  loro  rimproverare  sviste  od  ommis- 
sioni. I  pochi  rilievi  che  seguono  non  rimproverano  nulla.  —  pp.  1832-83:  suU'Orfw 
sarebbe  forse  stato  bene  porre  in  rilievo  i  risultati  dello  Zschech,  che  a  me  paiono 
veramente  osservabili.  —  pp.  1834-35:  per  Giustina  Renier  Michiel  parmi  non  siano 
citate  le  importanti  lettere  da  lei  dirette  al  Bettinelli,  ohe  il  Luzio  pubblicò  nel- 


BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO  447 

fratelli  in  critica  ed  in  bibliografia,  una  mano  sul  petto  e  vediamo  un  poco 
quanti  di  noi  sarebbero  stati  in  grado  di  raccogliere  e  ordinare  un  così  spet- 
tacoloso numero  di  citazioni  erudite,  vediamo  quanti  di  noi  hanno  letto  di 
scrittori  e  su  scrittori  del  sec.  XIX  altrettanto  quanto  mostra  d'averne  letto 
il  Mazzoni.  Neil'  insieme  del  testo  e  delle  note,  si  ha  in  questo  libro  per 
l'Italia  dell'Ottocento  una  sorgente  così  copiosa  di  notizie  di  fatto,  che  sa- 
rebbe ingratitudine  nera  il  non  valutarla  convenientemente,  ostentando  di 
volerne  vedere  solo  le  manchevolezze. 

La  partizione  in  nove  capitoli  estesissimi  e  gremiti  di  cose  non  può  dirsi 
felice.  Essa  segue  dapprima  la  cronologia,  poi  la  abbandona  per  altri  aggrup- 
pamenti, in  fine  la  ripiglia.  Traccia  il  primo  capitolo  le  condizioni  delle  let- 
tere in  Italia  tra  il  finire  del  Settecento  e  gli  inizi  dell'Ottocento;  poi  tre 
capitoli  esaminano  il  periodo  che  va  dalle  vittorie  francesi  alla  restaurazione, 
nella  poesia,  nella  prosa,  nel  teatro;  il  quinto  ed  il  sesto  capitolo  raggrup- 
pano l'uno  intorno  al  Manzoni  le  tendenze  romantiche,  l'altro  intorno  al  Leo- 
pardi il  classicismo  ;  sotto  il  titolo  non  molto  chiaro  di  «  letteratura  di  bat- 
taglia e  di  scuola  »  racchiude  il  settimo  capitolo  materia  assai  diversa,  poesia 
patriottica  e  satirica  degli  epigoni  romantici,  varie  forme  di  lirica  e  di  ro- 
manzo, traduzioni  ;  segue  col  teatro  e  con  la  prosa  polemica  e  dottrinale  il 
capitolo  ottavo  ;  nel  nono  finalmente  aleggia  lo  spirito  di  Giosuè  Carducci, 
al  quale  si  ritorna  spesso  anche  discorrendo  della  critica,  del  teatro,  del  ro- 
manzo. Quest'ultimo  capitolo  ha,  più  degli  altri,  carattere  d'incertezza  e  di 
provvisorietà  ;  ma  s'avvantaggia  di  molti  dati  desunti  dalla  conoscenza  per- 
sonale che  il  M.  potè  avere  con  non  pochi  degli  autori  trattativi.  Encomia- 
bile è  lo  studio  d'imparzialità  che  l'A.  vi  fa  valere:  egli,  ad  es.,  nei  troppi 
odi  e  nelle  troppe  bizze  del  Carducci  non  preide  partito  a  favore  di  lui,  ma 
vede  il  prò  e  il  contro,  esercita  un  giudizio  di  moderatore  che  riesce  simpa- 
tico. Vedansi  le  pagine  (pp.  1235-36)  ove  parla  dello  Zendrini.  Lodevoli  anche 
quelle  sul  Chiarini,  nelle  quali  appare  manifesto  il  desiderio  di  non  esagerarne 
per  nulla  il  valore. 


l'ann.  Vili  del  Preludio  d'Ancona.  —  p.  1385;  sul  Lucchesini  era  bene  citare  (ma 
forse  nscirono  troppo  tardi)  le  curiose  relazioni  dei  suoi  viaggi,  edite  da  G.  Sforza 
nelle  Mem.  Accad.  ToHno.  —  p.  1350:  su  Carlo  Varese  manca  il  rinvio  ad  un  arti- 
colo di  L.  Fassò  nel  Bollett.  storico  tortonese  del  1909.  —  p.  1347;  su  Bernardo  Bel- 
lini forse  il  M.  non  fu  in  tempo  di  tener  conto,  neppure  nella  giunta  alle  note,  del 
molto  che  ha  sapvito  dircene  il  Novati  nel  periodico  II  libro  e  la  stampa,  VII,  55  sgg. 
—  p.  1380:  sul  Regaldi  vorrebbesi  veder  menzionato  accanto  alle  altre  citazioni, 
che  mancano  per  ragion  di  tempo  in  D'Ancona-Bacci,  anche  un  buon  contributo  di 
E.  Stampini,  su  cui  cfr.  questo  Giorn.,  LVI,  264.  —  p.  1470:  per  Adolfo  Bartoli  non 
so  perchè  non  sia  richiamato  D'Ancona-Bacci,  V,  816  e  VI,  370.  Su  lui  va  fatto 
valere  in  prima  linea  lo  studio  ricchissimo  bio-bibliografico  di  Gr.  Sforza.  —  A  p.  1383 
trovasi  menzionato  un  mio  scritto  sul  Vagello  ^L'amante  di  Giorgio  Sand ,  inserito 
in  un  numero  di  Senigallia  del  1907.  Deve  essere  un  errore  di  scheda,  giacché  io 
sul  Pagello  non  scrissi  se  non  le  poche  righe  anonime  del  Giorn.,  XXXII,  276-77, 
ohe  il  M.  gentilmente  cita.  A  meno  che  qualcuno  le  abbia  ristampate  senza  dar- 
mene avviso;   ma  non  mi  sembra  cosa  verosimile  né  tale  che  ne  valesse  la  pena. 


448  BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

Innegabile  che  nell'opera  vi  sono  molte  disuguaglianze.  I  migliori  capitoli 
sono  quelli  pei  quali  il  M.  aveva  una  più  solida  e  più  antica  preparazione: 
quelli  sul  romanticismo,  sul  Manzoni  e  sul  Leopardi.  Intorno  all'avvento  del 
romanticismo  in  Italia,  a'  suoi  primi  rappresentanti,  a'  suoi  caratteri  nulla  si 
aveva  prima  di  paragonabile  in  compiutezza  a  quanto  ne  è  detto  in  quest'o- 
pera. Buono  assai  ciò  che  v'è  registrato  della  fortuna  dei  Pro w.  Spositsmìo 
nell'arte  quanto  nella  critica  ;  utile,  sebbene  troppo  larga  nei  rispetti  dell'eco- 
nomia del  libro,  la  trattazione  della  questione  della  lingua,  dal  Monti  al  Man- 
zoni e  dal  Manzoni  all'Ascoli  ed  ai  più  recenti  lessicografi.  Nel  capitolo  sul 
Leopardi  buone  le  caratterizzazioni  del  Monti  e  del  Foscolo,  lodevole  lo  studio 
sui  tragediografi  di  maniera  alfieriana,  con  speciale  riguardo  al  Fabbri,  al 
Benedetti,  al  Mccolini  (1).  La  chiusa  di  quella  sezione,  ch'è  la  più  meditata 
dell'opera,  è  degna  di  riferimento  per  la  sua  giustezza:  «  Il  Leopardi,  poeta 
«  che  negando  creò,  e  artista  che  conservando  rinnovò,  sovrasta  sul  classi- 
«  cismo  ostinato  a  imitare  ;  come  sul  romanticismo,  affaccendato  a  trarre  fuori 
«  del  nuovo,  sovrasta  il  Manzoni,  poeta  che  creò  affermando,  e  artista  che 
«  rinnovando  conservò  »  (p.  569).  Il  naturale  equilibrio  dello  spirito  italiano 
impedì  nei  maggiori  spiriti  quelle  esagerazioni  e  quelle  intransigenze  che 
fuori  d'Italia  avevano  fruttato  battaglie  aspre  e  sarcasmi  feroci.  Ben  è  vero 
che  anche  fuori  d'Italia  seppe  comprendere  nella  sua  vasta  anima  tutto  Vol- 
fango  Goethe.  Privilegio  della  grandezza.  E. 


VITTORIO   BETTELONI.  —  Impressioni  critiche  e  ricordi 
autobiografici.  —  Napoli,  Ricciardi,  1914  (16°,  pp.  viii-406). 

L'arguto  e  gentile  Vittorio  Betteloni  appartiene,  purtroppo,  ormai  anche 
egli  alla  storia.  Questo  Giornale,  61,  167-68,  ha  già  menzionato  due  comme- 
morazioni d'indole  diversa,  che  furon  dette  intorno  a  lui  nella  sua  bella  Ve- 
rona, l'una  di  Giuseppe  Fraccaroli,  l'altra  di  Giuseppe  Biadego.  Per  noi  più 
specialmente  importante  quest'ultima,  per  i  copiosi  dati  di  fatto  raccoltivi, 
per  le  note  autobiografiche  utilizzatevi,  per  le  lettere  del  Betteloni  e  al  Bet- 
teloni che  la  documentano  (2).  Né  crediamo  di  andare  errati  supponendo  che 


(1)  Una  pagina  sai  metri  neoclassici  ha  pregio  di  novità  vera  (pp.  352-53),  e  nella 
nota  rispettiva  confessa  il  M.  d'essersi  valso  del  materiale  raccolto  dal  Carducci 
e  da  lui  stesso.  Ameremmo  che  ne  parlasse  altrove  di  proposito,  essendo  rimasta 
arenata  nel  periodo  più  antico  l'opera  ideata  dal  Carducci  su  quel  curioso  sog- 
getto, e  non  avendosi  finora  avuto  da  altri  se  non  frammenti  di  ricerche. 

(2)  Tanto  il  discorso  quanto  la  documentazione  di  esso  ricomparvero  nel  volume 
del  Biadego,  Letteratura  e  patria  negli  anni  della  dominazione  austriaca,  Città  di  Ca- 
stello, Lapi,  1918. 


BOLLETTINO    BIBLIOGRÀFICO  449 

molta  parte  abbia  avuto  il  Biadego  anche  nella  scelta  delle  poesie  bettelo- 
niane  che  pubblicò  in  un  elegante  volume  la  Ditta  Zanichelli,  sebbene  il 
nome  di  lui  non  compaia  se  non  nella  accurata  bibliografia  finale  di  tutti  gli 
scritti  del  poeta  veronese  e  di  quanto  intorno  ad  esso  fu  detto  pubblica- 
mente (1).  Il  volume  è  così  materiato  da  raccogliere  in  sé  veramente,  come 
dice  l'avvertenza  proemiale,  «  tutto  quello  che  di  più  significativo,  di  più  rap- 
«  presentativo,  di  più  personale  ha  l'arte  del  poeta  veronese  »,  trascelto  nelle 
quattro  raccolte  de'  suoi  versi.  In  testa  al  libro  ricompaiono  le  due  maggiori 
scritture  critiche  che  l'attività  del  Betteloni  abbia  finora  richiamato,  vale  a 
dire  la  prefazione  di  G.  Carducci  all'edizione  zanichelliana  (1880)  dei  Nuovi 
versi  e  l'articolo  di  B.  Croce  nell'anno  II  (1904)  della  Critka  (2).  Buona  cosa 
davvero  questa  scelta,  poiché  in  quel  periodo  che  seguì  al  romanticismo  e  in 
certo  modo  segnò  una  reazione  contro  ad  esso,  l'operosità  poetica  del  Bette- 
Ioni  ebbe  un  valore  non  trascurabile  ed  una  fisionomia  tutta  propria,  sicché 
nella  storia  letteraria  della  seconda  metà  del  sec.  XIX  sarà  tenuta  in  un  conto 
assai  diverso  e  maggiore  di  quanto  i  contemporanei,  incuranti  o  distratti  o 
solo  rivolti  a  chi  sapeva  richiamare  intorno  a  sé  l'attenzione,  mostrassero  di 
sospettare.  Di  queste  rivendicazioni  il  tempo  galantuomo  saprà  farne  diverse 
con  quella  medesima  inflessibilità  con  cui  seppellirà  senza  speranza  di  risur- 
rezione tanti  prodotti  d'efimera  apparenza,  che  sollevarono  clamore,  ma  non 
hanno  vero  merito  d'arte. 

Il  Betteloni  prosatore  e  critico  era  sino  ad  oggi  pressoché  ignoto.  Il  volume 
indicato  in  testa  a  questo  cenno  vale  a  farcelo  conoscere  ed  apprezzare  anche 
da  questo  lato.  Esso  é  composto  di  prose  in  grandissima  parte  inedite,  ma 
che  vengono  stampate  dalla  famiglia  per  desiderio  espresso  del  defunto.  Libro 
sui  generis,  che  merita  qualche  parola  di  benevola  presentazione  e  di  com- 
mento. 

Nota  l'A.  le  osservazioni  che  gli  sono  suggerite  da  letture  di  libri  e  di  gior- 
nali. E  siccome  é  uomo  di  larga  coltura  nelle  cose  letterarie  tanto  italiane 
quanto  straniere  e  dotato,  in  pari  tempo,  di  senno  e  buon  gusto,  le  sue  os- 
servazioni, condite  di  quell'umorismo  bonario  che  é  peculiare  a  tanti  scrittori 
veneti  e  di  quella  vivacità  che  proviene  da  uno  spirito  vigile  e  innamorato 
dell'arte,  si  leggono  con  soddisfazione,  anche  se  non  sempre  persuadano.  Spesso 
avviene  che  in  queste  sue  annotazioni  appaia  il  solitario,  costretto  da  una 
paralisi  all'immobilità  su  di  una  poltrona.  L'isolamento  gli  altera  talora  al- 
quanto la  visione    dei  fatti,  e  lo  induce  a   dare  importanza  a  cose  che  non 


(1)  A  quest'ultima  parte  della  bibliografia  è  da  aggiuogere  oggi  l'articolo  Vit- 
tono  Betteloni  di  G.  A.  Borgese,  nel  Corriere  della  sera,  V>  luglio  1914,  articolo  agro- 
dolce, anzi  molto  più  agro  che  dolce. 

(2)  Il  volume  s'intitola  Vittorio  Betteloni,  Poesie  (1860-1910),  Bologna,  Zani- 
chelli, 1914,  e  fa  parte  della  serie  che  s'apri  coi  due  volumi  di  poesie  e  di  prose 
del  Carducci,  e  che  ora  l'editore  indica  col  nome  di  Poeti  e  prosatori  italiani  con- 
temporanei. 

Giornale  storico,  LXIV,  fase.  192.  29 


450  BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

ne  hanno  tanta,  come  anche  gli  fa  credere  che  la  critica  dei  giornali  quoti- 
diani abbia  un  valore  assai  maggiore  di  quello  che  ha.  Inoltre,  a  lui  accade 
ciò  che  di  solito  suole  avvenire  ai  poeti  che  scrivono  di  critica:  giudica  in 
conformità  ai  criteri  che  lo  guidano  nel  produrre.  Egli  è  poeta  di  cose  pic- 
cole e  semplici,  sicché  apprezza  specialmente  la  semplicità,  la  verità  palese 
a  tutti,  la  gaiezza,  l'umorismo.  Del  resto,  egli  stesso  confessa  e  ripete:  «  Io 
«  non  sono  né  un  maestro  né  un  critico.  Sono  un  dilettante.  Leggo  per  mio 
«  diletto,  e  per  mio  diletto  scrivo  »  (p.  51).  «  Assolutamente  fare  il  critico  e 
«  il  maestro  é  un  mestiere  pericoloso,  e  io  non  ci  casco.  Io  sono  un  lettore  at- 
«  tento,  che  qualche  volta  dice  il  suo  parere,  senza  pretesa  alcuna  che  altri 
«  dia  retta  a  me  »  (p.  285). 

Quasi  una  cinquantina  son  gli  scritti  compresi  nel  volume;  ma  i  più  escono 
dal  quadro  della  nostra  rivista,  o  perché  trattano  di  scrittori  stranieri  (Tol- 
stoi,  Ibsen,  ecc.),  o  perchè  si  indugiano  su  italiani  tuttora  viventi  (D'Annunzio, 
Arr.  Boito,  Gnoli  camuffato  da  Orsini,  Guerrini,  Marradi,  Fanzini,  Pirandello, 
Barzini,  e  altri  e  altri).  Tra  i  poeti,  pur  facendo  alcune  riserve,  gli  piace 
assai  il  Guerrini,  che  stima  «  ingegno  poetico  e  artistico  di  prim'ordìne  » 
(p.  146)  ;  tra  i  prosatori,  ha  vero  entusiasmo  pel  Barzini  :  la  sua  bestia  nera 
è  il  D'Annunzio,  del  quale  dice  corna  senza  tregua.  In  un  luogo  confessa 
schietto:  «  l'ho  in  uggia  cordialmente,  perocché  l'arte  sua,  a  mio  modo  di 
«  vedere,  é  pessima  e  micidiale  alle  lettere  nostre  »  (p.  115).  Alla  Figlia  di 
Jorio  giunge  a  preferire  quella  povera,  artificiosa,  grossolana  azione  scenica, 
che  é  Romanticismo  del  Eovetta:  il  che  é  tutto  dire.  I  critici  che  più  lo 
occupano  sono  1  giornalisti,  e  ne  dice,  di  solito,  male,  particolarmente  del 
Pastonchi.  Di  altri  critici  non  discorre,  all'infuori  del  Croce,  la  cui  «  fraseo- 
logia »  gli  sembra  «  un  giuoco  di  parole  »  (p.  197).  Il  povero  Mantovani  gli 
piace  e  ne  ha  stima;  tuttavia  se  ne  burla  quando  egli  loda  Gnoli-Orsini 
(pp.  342-343  e  350). 

Dell'Ariosto  fu  il  Betteloni  ammiratore  fervente  ;  ma,  a  dir  vero,  sono  una 
miseria  le  due  paginette  che  dedica  allo  stile  di  lui  (pp.  233-34).  Interessanti 
le  notizie  che  ci  offre  su  due  suoi  concittadini,  Ippolito  Pindemonte  e  il  suo 
noto  biografo,  Benassù  Montanari.  Sulla  religiosità  del  Manzoni  ha  qualche 
pensiero  non  cattivo  (pp.  172-74),  e  ancor  migliori  sono  le  pagine  in  cui  di- 
fende contro  le  soverchie  sottigliezze  del  grande  milanese  il  romanzo  storico 
(pp.  46-50).  Con  l'Aleardi  ebbe  rapporti  personali  intirai,  che  si  ruppero  al- 
lorché il  Betteloni  pubblicò  il  suo  primo  libro  di  versi;  ma  tuttavia  egli 
continuò  ad  essergli  affezionato,  e  di  lui  e  del  Prati  dà  informazioni.  Ammi- 
razione grande  ed  incondizionata  riscuote  presso  il  Betteloni  solo  il  Carducci. 
I  versi  del  Chiarini  giudica  sevei-amente,  e  non  meno  severo  giudizio  porta 
sul  Pascoli  della  seconda  maniera,  e  ride  causticamente  del  suo  incensatore, 
il  Gargano  (1).  Il  Graf  poeta  gli  va  poco;  biasima  specialmente  la  soverchia 


(1)  Per  mezzo  dell'indice  alfabetico  dei  nomi,  che  è  in  fondo  al  volume,  ognuno 
potrà  trovare  ciò  ohe  gli  fa  comodo  di  leggere. 


BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO  451 

abbondanza  della  sua  produzione  in  versi  (1).  Come  scrittore  di  storia  e  cri- 
tica letteraria  gli  sembra  «  sotto  ogni  aspetto  eccellente  »  (p.  187);  il  che 
non  toglie  che  lo  trovi  ridicolo  ne'  suoi  entusiasmi  per  lo  Gnoli  truccato  da 
Orsini. 

Il  valore  massimo  del  volume  di  V.  Bett cloni  è  soggettivo,  in  quanto  esso 
completa  la  fisionomia  della  sua  anima  e  della  sua  arte.  Sul  frontispizio,  ac- 
canto a  «  impressioni  critiche  »  è  indicato  «  ricordi  autobiografici  ».  E,  in 
realtà,  di  note  autobiogi-afiche  è  contesto  tutto  il  libro,  giacché  buona  parte 
delle  «  impressioni  »  serve  di  commento  al  modo  di  sentire  dello  scrittore. 
Sonvi,  inoltre,  prose  destinate  a  narrare  esplicitamente  fatti  della  vita  dell'A. 
Tali  le  pagine  ove  ritrae  la  sua  infanzia  e  adolescenza  (pp.  75-90),  prima 
e  dopo  il  suicidio  del  padre  (Cesare,  poeta  romantico;  cfr.  Giorn.,  40,  463); 
tale  l'articolo  su  Uno  scienziato  ignoto,  cioè  Giulio  Sandri,  morto  di  87  anni 
nel  1876,  che  insegnò  il  greco  al  Betteloni;  tale  il  capitolo  sull' Aleardi,  ove 
l'A.  parla  dei  propri  anni  di  studente  e  dei  primi  tentativi  poetici  ;  tale  l'altro 
capitolo  in  cui  discorre  del  proprio  insegnamento,  durato  diciassette  anni,  nel 
collegio  femminile  degli  Angeli  in  Verona  (pp.  224-32).  Rientrano  in  questa 
categoria  anche  ciò  che  dice,  per  incidenza,  sulla  chiarezza  nello  scrivere  e 
sul  modo  in  cui  giunse  ad  ottenerla  (p.  12),  e  i  non  pochi  lamenti  agrodolci 
per  non  essere  stato  convenientemente  valutato  dal  pubblico  e  dalla  critica. 
Siffatte  lamentazioni  occorrono  troppo  spesso  presso  i  poeti  che  non  hanno 
la  fortuna  o  l'abilità  di  imporsi. 

Assenza  quasi  completa  di  pensieri  filosofici  e  religiosi.  Solo  a  p.  174  espresso 
il  timore  «  che  al  cessare  della  vita  fisica  e  materiale  cessi  per  avventura 
«  anche  la  vita  spirituale  a  un  medesimo  tempo  ».  R. 


ANNUNZI    ANALITICI 


Ernesto  Lamma.  —  SulV ordinamento  dette  rime  di  Dante.  —  Città  di 
Castello,  Lapi,  1914.  Collezione  di  Opuscoli  danteschi  dir.  da  G.  L.  Passe- 
rini, voi.  129°-130o  [Annunziammo  già  (34,  283)  questo  studio  quando  fu 
pubblicato  la  prima  volta  nel  Giornale  dantesco  (voi.  VE,  quad.  3-6,  1899). 
Non  sappiamo  ora  spiegarci  perchè  si  ristampi  a  così  breve  distanza,  quando 
le  ricerche  preliminari,  indispensabili,  sull'autenticità  e  sul  testo  delle  rime 
di  Dante  sono  rimaste  presso  a  poco  al  medesimo  punto,  e  il  Lamma  stesso 
non  ha  da  aggiungere  al  suo  scritto  se  non  poche   indicazioni   bibliografiche 


(1)  Pure  al  Graf  deve  alludere  là  dove  scrive  che  la  Nuova  Antologia  «  da  molti 
e  anni  si  è  fatta  cultrice  e  fautrice  dei  più  mediocri  versi  che  si  scrivano  in  Italia  » 
(p.  146). 


452  BOLLBTTIWO    BIBLIOGRAFICO 

e  qualche  noterella  polemica.  Che  si  tolgano  da  una  rivista  e  si  ripubblichino 
a  parte  articoli  di  gran  valore,  sì  che  possano  essere  più  facilmente  acqui- 
stati dagli  studiosi  e  dalle  persone  colte,  possiamo  ammettere;  ma  lo  studio 
del  Lamma  non  è  tale  da  meritare  una  diifusione  maggiore  di  quella  che  gli 
ha  assicurato  il  Giornale  dantesco.  Avesse  almeno  l'A.  tratto  giovamento  da 
alcuni  buoni  articoli  sulla  materia  che  altri  studiosi  hanno  pubblicato  nel 
frattempo!  Conosce  l'articolo  del  Barbi  sulla  ballata  Per  una  ghirìandetta; 
dice  anzi  che  in  esso  n'è  «  sapientemente  fermata  la  lezione  ».  Ma  perchè 
continua  allora  a  parlare  della  «  versione  popolare  »  a  cui  quella  ballata 
«  presto  soggiacque  »,  quando  tutto  l'articolo  del  Barbi  è  volto  a  provare  che 
la  cosiddetta  versione  popolare  non  è  mai  esistita,  ma  che  è  invece  il  testo 
genuino  di  Dante?  Cosi  cita  gli  studi  del  Debenedetti  sulla  Giuntina,  ma 
non  servono  a  renderlo  più  prudente  nel  sentenziare  circa  la  corrispondenza 
fra  l'Alighieri  e  il  Maianese;  anzi  promette  di  pubblicare  fra  breve  uno 
«  studio  compiuto  »  nel  quale  dimostrerà  «  la  falsità  di  tutto  il  canzoniere 
del  Maianese  ».  Né  è  riuscito  sempre,  neppur  questa  volta,  a  mettersi  d'ac- 
cordo con  sé  stesso.  A  p.  10  pone  il  son.  Di  donne  vidi  fra  le  poesie  che, 
«  sebbene  siano  di  dubbia  autenticità  »,  pure  hanno  «  più  di  un  indizio  che 
può  farle  attribuire  a  Dante  »  ;  a  p.  27  lo  respinge  risolutamente  dal  canzo- 
niere dantesco  e  ne  fa  autore  «  un  ignoto  poeta  »  che  sentì  l'arte  dello  stil 
nuovo.  Così  a  p.  9  fra  le  poesie  che  sono  da  ascrivere  sicuramente  a  Dante 
mette  il  son.  E'  non  è  legno  ;  a  p.  49  invece  ne  pone  in  dubbio  l'autenticità. 
Niente  diremo  dell'ordinamento  che  il  Lamma  propone  del  Canzoniere  di 
Dante:  é  uno  degli  argomenti  più  ardui  che  presenta  la  critica  dantesca,  e 
per  trattarne  seriamente  occorre  prima  l'edizione  critica  di  quella  disgrazia- 
tissima  opera.  Ogni  cosa  a  suo  tempo]. 

Franz  A.  Lambert.  —  Dante' s  Matelda  und  Beatrice.  Eine  Skizze.  — 
Munchen,  Piloty  und  Loehle,  1913  [Dovete  sapere,  dunque,  che  la  identifi- 
cazione della  Beatrice  di  Dante  con  madonna  de'  Bardi,  già  Portinari,  è 
oramai  definitivamente  tramontata.  «  Die  Portinarigeschichte  des  Messer 
«  Boccaccio  wurde  zuerst  von  Scartazzini  in  Zweifel  gezogen  und  mit  guten 
«  Griinden  widerlegt  ;  beute  wird  sie  von  alien  klardenkenden  Danteforschern 
«  als  erledigt  angesehen  »  (p.  117).  Invece  é  certissimo  che  la  beatrice  del 
poeta  fu  Piccarda  Donati.  Sembrerebbe  un  po'  buffo  che  nel  cielo  della  luna 
apparisse  a  Dante  Piccarda  mentre  egli  é  accompagnato  da  Beatrice;  ma 
questa  è  difficoltà  di  sola  apparenza.  Beatrice  nel  Paradiso  è  puro  simbolo  ; 
è  la  personificazione  dell'amore  celeste,  mentre  Piccarda  gli  compare  come 
reminiscenza  d'un  amore  terreno  passato:  «  der  Geist  einer  Verstorbenen,  die 
«  frtiher  fiir  Dante  eine  beatrix  virar,  steht  neben  der  Personifikation  der 
«  liiramlischen  Liebe,  die  jetzt  seine  beatrix  ist:  die  menschliche  Liebe  ist 
«  fùr  den  Uebermenschlichten  nur  noch  eine  Erinnerung  an  vergangene 
«  Zeiten  »  (p.  118).  Viceversa  poi,  simbolo  dell'amore  terreno  ò  Matelda  (p.  148), 
la  quale  nella  V.  X.  è  rappresentata  dalla  donna  dello  schermo,  da  Giovanna- 
Primavera,  dalla  donna  pietosa,  e  nella  realtà  della  vita  fu  Gemma  Donati. 
Gli  amorì  di  Dante  furono  due,  soltanto  due,  nient'altro  che  due:  Piccarda- 


BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO  453 

Beatrice  («  il  primo  diletto  della  mia  anima  »,  Conv.,  II,  13)  e  Gemma-Pie- 
tosa-Matelda  («lo  mio  secondo  amore  prese  cominciamento  dalla  misericor- 
«  diosa  sembianza  d'una  donna  »,  Conv.,  Ili,  1).  Su  ciò  vedasi  p.  173  del  libro 
del  Lambert,  il  quale  si  scaglia  ferocemente  contro  chi  dubitò  della  castità 
di  Dante  e  del  suo  inalterabile  affetto  per  Gemma,  che  gli  fu  moglie  tanto 
affezionata.  Queste  cose  il  L.  le  sa  di  positivo  e  di  certa  scienza,  e  non  c'è 
luogo  a  discutere.  Tutta  l'opera  dantesca  s'aggira  intorno  ad  un  amore  ideale, 
che  diventa  celeste  (Piccarda-Beatrice),  e  ad  un  fervido  amore  terreno  (Gemma- 
Matelda).  A  sussidio  di  tale  concetto,  a  cui  non  manca  novità,  costruisce  il 
critico  una  sua  interpretazione  della  F.  N.,  che  si  basa  sulla  simmetricità 
riconosciuta  dall'americano  Charles  Eliot  Norton,  e  riconosce  i  trapassi  per 
tre  gradi  (amore  ideale,  amore  beatificante,  amore  sapienza  divina)  della 
Beatrice  nella  Commedia.  La  chiave  di  volta  di  tutto  l'edificio  è  la  cabala, 
alla  quale  il  L.  consacra  il  suo  primo  capitolo,  mostrando  che  Dante  dovette 
averla  famigliare.  «  Aus  den  hier  besprochenen  Commedia  Stellen  durfte  (dice 
«  il  L.)  zur  Genùge  hervorleuchten,  dass  Dante  den  Kern  des  kabbalistischen 
«  Systems,  die  Lehre  von  der  aus  der  Transzendenz  der  Gottheit  geborenen 
«  Lichtidee  mit  ihren  neuen  sephirotischen  Emanationen,  gekannt  und  danach 
«  scine  Kosmologie  aufgebaut  hat  »  (p.  48).  Chi  voglia  tuffarsi  nella  cabala 
^er  intendere  gli  amori  di  Dante  e  la  sua  costruzione  poetica  ha  ormai  tro- 
vato una  guida.  E  se  ne  avrà  appagamento,  meglio  per  lui]. 

Luigi  Chiappelli.  —  La  donna  pistoiese  del  tempo  antico.  —  Pistoia, 
Officina  tipogr.  cooperativa,  1914  [Estratto  dal  Buìlettino  storico  pistoiese. 
Ottimo  conoscitore  della  storia  di  Pistoia  ed  insieme  di  quella  del  diritto, 
L.  C.  ci  offre  un  quadro  della  vita  femminile  nella  città  nativa,  desumendolo 
da  testi  e  da  documenti  d'archivio,  molti  dei  quali  pubblica  in  appendice. 
S'occupa  in  particolar  guisa  dell'età  medievale:  mostra  come  nel  medioevo 
alto  rimanesse  vivo  negli  usi  nuziali  pistoiesi  il  diritto  longobardo;  si  trat- 
tiene con  speciale  amore  sui  secoli  XIII  e  XIV.  Importanti  ragguagli  sulle 
doti,  sui  corredi,  sul  lusso,  sulle  leggi  suntuarie;  tra  i  documenti  parecchi 
inventari  di  corredi.  Anche  là,  presso  all'abbondanza  e  alla  ricchezza  delle 
vesti  e  dei  gioielli,  miseria  estrema  nella  biancheria  :  «  nel  sec.  XIV  era  una 
«  rarità  avere  poche  paia  di  lenzuola  o  qualche  camicia  da  giorno  ;  quelle  da 
<  notte  non  si  conoscevano  ancora,  ed  i  fazzoletti,  per  non  parlare  d'altro, 
«  vennero  in  uso  assai  tardi  ».  Nozze  e  feste  nuziali  occupano  buona  parte 
del  libretto;  su  altri  particolari  della  vita  privata  si  sorvola:  qualche  dato 
sulle  schiave.  Curioso  assai  lo  studio,  che  costituisce  la  XII  appendice  (pa- 
gine 76  sgg.),  sull'onomastica  muliebre  pistoiese  del  Dugento  e  del  Trecento. 
Il  Ch.  tocca  pure  della  parte  che  hanno  le  donne  negli  antichi  rimatori  pi- 
stoiesi, e  si  trattiene  su  Selvaggia  dei  Vergiolesi,  intorno  alla  quale  riferisce 
(pp.  35-36)  qualche  piccola  notiziola  documentaria  nuova]. 

Luigi  Calvelli.  —  Un  fiorentino  del  Trecento  ;  Gruido  del  Palagio  e  la 
sua  canzone  a  Firetize.  —  Firenze,  tip.  Piccini,  1913  [«  Il  presente  lavoro 
«  non  si  propone  di  dare  una  completa  biografia  di  Guido  del  Palagio,  ma 
«  soltanto  di  far  meglio  conoscere,   raccogliendo  e  integrando  i  cenni  sparsi 


454  BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

«  qua  e  là  nella  storia  civile  e  letteraria,  la  figura  di  questo  singolare  cit- 
«  tadino,  che  fu  considerato  ai  suoi  tempi  «  il  più  creduto  uomo  di  Firenze  », 
«  che  amò  la  sua  patria,  la  sua  città,  di  vivissimo  affetto,  e  a  lei  consacrò 
«  non  inutilmente  né  senza  gloria  la  penna  e  la  spada  ».  Nell'esposizione 
della  vita,  che  si  chiude  nel  1399,  il  C.  usufruisce  anche  di  qualche  docu- 
mentino rinvenuto  tra  le  carte  strozziane  dell'Archivio  di  Stato  fiorentino. 
Poi  ne  delinea  il  carattere  di  cittadino  probo  e  volto  alla  religione.  La  sua 
religiosità  appare  anche  da  una  lettera  finora  inedita  di  Guido  che  il  C.  fa 
conoscere  e  che  è  da  aggiungere  alle  altre  quattro  di  lui  inserite  dal  Guasti 
nel  secondo  volume  delle  lettere  di  ser  Lapo  Mazzei.  Fu  Guido  in  buoni  ter- 
mini con  umanisti  e  letterati  del  tempo  e  compose  la  canzone  a  Firenze  «  0 
terzo  sacro  del,  col  tuo  valore  » ,  che  è  qui  ristampata  con  qualche  noterella 
dichiarativa.  Il  C.  la  confronta  con  altre  canzoni  indirizzate  a  Firenze  da 
trecentisti  e  dal  dugentista  Chiaro  Davanzati.  A  dir  vero,  non  ci  si  gua- 
dagna molto.  Il  novello  editore  la  rinvenne  solo  in  quel  cod.  Riccardiano  1156 
d'onde  ebbero  già  a  ricavarla  il  Trucchi  e  il  Carducci]. 

Vittorio  Rossi.  —  La  formazione  storica  del  Rinascimento  italiano.  — 
Città  di  Castello,  Lapi,  1914  [Discorso  assestato,  denso  e  severamente  ele- 
gante, con  cui  il  R.  inaugurò  in  Roma  il  suo  corso  di  lettere  italiane  a'  16  di 
gennaio  del  1914.  In  esso  egli  si  propose  di  ripensare  nell'insieme,  ne'  suoi 
caratteri,  negli  antecedenti,  nei  fattori  che  produssero  e  negli  elementi  che 
ritardarono  l'avvento  dell'arte  nuova,  quel  periodo  che  va  dal  Petrarca  al 
Poliziano.  Giovandosi  delle  ricerche  proprie  e  di  quelle  recenti  di  Corrado 
Burdach  {Rienzo  iind  die  geistig e  Wandlung  seiner  Zeit,  Berlin,  1913),  egli 
definisce  il  valore  che  la  Rinascita  ebbe  in  origine  e  quello  che  acquistò  in 
appresso,  cioè  il  «  nuovo  modo  di  concepire  l'antico  »,  in  che  consiste  l'essenza 
di  quel  movimento;  delinea  la  coltura  di  quella  parte  di  medioevo  in  cui  fio- 
rirono Irnerio  e  le  artes  dictandi]  mostra  le  diverse  posizioni  che  nel  rin- 
novamento culturale  tennero  il  Petrarca  e  il  Boccaccio  ;  addita  acutamente  i 
motivi  per  cui  con  tanta  fatica  e  ritardo  il  popolo  italiano  trovò  «  la  forma 
«  della  sua  letteratura,  non  annullando  sé  negli  antichi,  ma  gli  antichi  in 
«  sé  ».  Attribuisce  il  ritardo  «  al  modo  in  cui  i  filologi  concepirono  quel  rin- 
«  novamento;  al  loro  imperialismo  ideale,  che  mentr'era  un'esaltazione  dello 
«  spirito  nazionale,  ne  contrastava  la  spontanea  espressione,  alla  loro,  diciam 
«  pure,  gretta  idolatria  della  forma  ».  A  sciogliere  il  nodo  contribuirono  il 
Poliziano  ed  il  Sannazaro,  finché  non  sopraggiunse  il  genio,  l'Ariosto,  che 
lo  tagliò  netto.  Nella  misurata  orazione  non  manca  il  R.  di  determinare 
quale  per  lui  debba  essere  la  critica  letteraria  :  «  valutazione  del  fatto  arti- 
«  stico,  preparata  e  sorretta  dalla  filologia  e  dalla  storia  ».  Esordendo,  seppe 
del  suo  predecessore,  Angelo  De  Gubernatis,  tracciare  un  profilo  benevolo,  ma 
non  mendace,  al  che  certo  occorreva  non  poca  abilità.  Con  qualche  po'  di 
zucchero  in  più,  concorda  quel  profilo  con  ciò  che  fu  scritto  in  questo  Gior- 
nale, 62,  286-7]. 

Erhard  Lommatzsch.  —  Ein  italienisches  Novellenbuch  des  Quattrocento: 
Ginvanni  Sahadino  degli  Arienti's  «  Porrettane*.  —  Halle  a  S.,  Niemeyer, 


BOLLETTINO   BIBLIOGRAFICO  455 

1913  [Elegante  libretto,  al  quale  si  perdona  volentieri,  in  grazia  del  garbo 
con  che  è  scritto,  il  non  recare  grandi  novità.  Sull'Arienti  e  sulle  Poiret- 
tane  avemmo  nel  1909  la  buona  monografìa  di  Siegfried  von  Arx,  a  cui  ci 
fu  grato  tributare  la  lode  dovuta  nel  Giorn.,  55,  176.  Il  lavoro  del  L.  è  tut- 
t'altra  cosa.  Premesse  alcune  notizie  sull'autore,  si  volge  a  caratterizzare  la 
sua  raccolta  di  novelle,  raggruppandone  i  racconti  in  varie  categorie,  e  rile- 
vandone il  valore  culturale,  psicologico,  estetico.  Gran  valore  estetico  quel 
libro  non  ha  davvero,  e  l'A.  lo  riconosce;  ma  per  la  storia  delle  lettere  e 
della  cultura  gli  sembra  che  superi  gli  altri  due  novellieri  di  quel  secolo,  il 
Sermini  e  Masuccio.  Quanto  al  Sermini,  può  darsi  ;  quanto  a  Masuccio,  avrei 
i  miei  dubbi.  La  nov.  54  delle  Porrettane  avvicina  il  L.  alla  37*  di  Masuccio 
(pp.  23-24).  Bene  illustra  l'unica  favola  delle  Porrettane,  quella  della  volpe 
e  del  gallo  (pp.  17-18).  I  rimanenti  riscontri  che  reca  in  mezzo,  ad  integra- 
zione di  quelli  dell' Arx,  s'appoggiano  quasi  esclusivamente  ai  recanti  studi  di 
novellistica  comparata  del  Wesselski  (pp.  46-50).  È  un  campo  nel  quale  non 
s'arriva  mai  a  dissodare  ogni  zolla;  ma  notoriamente  il  valore  tradizionale 
delle  Porrettane  non  è  grande.  Se  l'Arx,  come  si  dice,  non  è  in  grado  per 
ragion  di  salute  di  pubblicare  l'autografo  delle  Porrettane  da  lui  rinvenuto 
nella  Nazionale  di  Firenze,  sarebbe  buona  cosa  che  lo  facesse  il  L.,  il  quale 
sembi-a  essere  ben  disposto  a  siffatta  fatica  (pp.  42-43).  Le  edizioni  antiche 
che  ne  abbiamo  son  tutte  rare,  e  abbisognano  di  revisione  (1)]. 

Antonio  Corbellini.  —  Di  un  rimatore  pavese-veneziano  del  sec.  XVI] 
Antonio  Isidoro  Mezzaharha.  —  Pavia,  1913  [Estr.  à&l  Boll.  d.  Soc.  pavese 
di  st.  patria.  Anche  il  Mezzabarba  ha  trovato  il  suo  biografo.  Si  sapeva  di 
un  certo  cod.  di  rime  volgari  da  lui  esemplato  nel  1509  (quando  era  «  de 
«■  l'una  et  l'altra  legge  minimo  de  i  scolari  »  )  sopra  fonti  antichissime  e  solo 
in  parte  note  ;  qualche  bibliofilo  aveva  avuto  tra  mano  un  suo  volumetto  di 
versi  stampato  nel  1536,  divenuto  ormai  quasi  introvabile.  Pavia  pretese 
d'avergli  dati  i  natali,  ed  è  vana  pretesa;  certo  però  da  Pavia  scendeva  la 
sua  famiglia.  Antonio  Isidoro  nacque  a  Venezia,  fu  posto,  nolente,  agli  studi 
di  legge,  forse  a  Perugia,  fece  il  giudice  ;  l'ultima  notizia  che  abbiamo  di  lui 
è  del  1564.  Il  suo  Canzoniere,  un  po'  platonico  e  molto  sensuale,  ha  qualche 
battuta  non  cattiva,  ed  una  canzone  alla  madre  abbastanza  buona.  Nel  mo- 
vimento letterario  veneto  della  prima  metà  del  sec.  XVI  conviene  tener  conto 
del  M.,  non  foss'altro  perchè  i  due  grandi  lumi,  Pietro  Bembo  e  Pietro  Are- 
tino, mostrarono  d'averne  una  certa  stima  :  è  vero  che  il  M.  era  a  sua  volta 
generosissimo  di  lodi,  sì  che  non  potevan  mancargli  né  gli  amici  né  gli  apolo- 


(1)  Quando  scrivevamo  queste  righe,  non  era  peranco  uscita  l'eccellente  edizione 
delle  Porrettane,  curata  da  Giovanni  Grambarin,  negli  Scrittoio  d'Italia  di  Bari  (1914). 
Il  Grambarin  ha  posto  a  base  dell'edizion  sua^er  l'appunto  il  codice  fiorentino,  d^ 
cui  riconobbe  l'autografia,  raffrontandone  la  lezione  con  quella  dell'ediz.  principe 
rarissima,  la  bolognese  del  1483.  In  appendice  ristampò  una  novella  dell' Arienti, 
esclusa  dalle  Porrettane,  che  si  trova  autografa  in  un  codice  urbinate  della  Vati- 
cana e  fu  già  non  bene  pubblicata  per  nozze  nel  1892.    Cfr.  Giornale,  XIX,  226-27. 


456  BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

gisti.  Il  Corbellini  ha  trattato  con  molta  cura  l'argomento,  sia  per  quel  che 
riguarda  le  relazioni  del  M.  con  Girolamo  Verità,  Trifon  Gabrieli,  Niccolò 
Delfin,  ecc.,  sia  per  lo  studio  intrinseco  della  poesia  del  Nostro  in  relazione 
con  quella  del  tempo.  Avremmo  desiderato  alquanto  più  ricca  e  documentata 
la  parte  biografica  e  più  succinta  l'esposizione  ;  ma  sono  lievi  mende  di  fronte 
ai  pregi  di  questa  memoria  coscienziosa  e  intelligente.     Deb.]. 

Aldo  Oberdorfer.  —  Saggio  su  Michelangelo.  —  Palermo,  Sandron,  1913 
[Di  questo  libretto  non  è  bene  parlare  senza  tener  conto  d'una  stroncati na, 
firmata  Luigi  Dami,  di  cui  fu  gratificato  nel  3Iarzocco  del  22  febbr.  1914.  Il 
Dami  fa  queste  principali  osservazioni  :  egli  deplora  che  l'O.  trascuri  la 
«  collocazione  ambientiva  »,  non  ponga  mente  al  «  superamento  del  grado 
«espressivo  cui  Michelangelo  arrivò  »,  quasi  totalmente  lasci  in  disparte  nel 
sovrano  artista  l'architetto,  ricostituisca  solo  la  «  personalità  empirica  »  di  Mi- 
chelangelo, si  valga  della  psicologia  trascurando  lo  stile  e  la  tecnica,  ubbi- 
disca, in  fine,  ad  un  falso  sistema,  «  alla  cieca  trasposizione  nella  storia  del- 
«  l'arte  dei  modi  della  critica  letteraria  ».  Pel  Dami,  invece,  ci  sarebbero  da 
fare  su  Michelangelo  altre  ricerche,  queste,  queste,  queste  ;  e  le  viene  addi- 
tando. Insomma,  egli  avrebbe  voluto  sull'artista  un  libro  del  tutto  diverso 
da  quello  dell'O.,  e,  lo  riconosciamo  volentieri,  sarebbe  stato  un  libro  migliore. 
Ma  dir  questo  e  concluderne  che  «  l'Oberdorfer,  che  è  un  giovine  d'ingegno, 
«  si  è  condotto  a  parlare  di  cose  per  le  quali  egli  non  aveva  la  più  lontana 
«  preparazione  »,  non  è  passaggio  che  buona  logica  consenta.  L'O.  si  è  pre- 
parato all'opera  con  coscienza,  tanto  è  vero  che  neppure  il  suo  troppo  severo 
critico  non  trova  da  appuntargli  errori  di  fatto  ;  ma  l'O.  è  un  letterato,  av- 
vezzo precisamente  a  quei  procedimenti  della  critica  letteraria  che  non  sap- 
piamo perchè  non  possano,  fino  ad  un  certo  punto,  essere  adottati  anche  nella 
critica  artistica.  Con  larga  e  buona  informazione  delle  fonti  storiche,  egli 
ha  voluto  tracciare  uno  schizzo  del  carattere  e  della  psicologia  del  Buonar- 
roti, fermandosi  solo  sui  punti  eminenti  della  sua  mirabile  attività,  la  volta 
della  Sistina,  il  Giudizio  finale,  il  Mosè  e  i  Prigioni,  le  tombe  medicee. 
Questo  ha  voluto  fare  e  questo  ha  fatto.  Lo  specchio  d'anima  ci  sembra  terso  ; 
i  tratti  michelangioleschi  più  significativi  ben  rilevati  ;  gli  amori  trattati  con 
delicatezza  e  fin  troppo  a  lungo,  unica  vera  sproporzione,  forse,  nel  libretto. 
La  documentazione  è  scelta  accortamente  nelle  lettere  e  nelle  rime;  né  si 
poteva  fare  diversamente  movendo  dal  suo  concetto.  Un  libro  va  considerato 
specialmente  nelle  intenzioni  ch'esso  ha  e  con  riguardo  ai  mezzi  di  cui  il  suo 
autore  dispone.  Come  schizzo  divulgativo,  questo  è  lavoro  onesto,  condotto 
con  vero  amore  del  tema,  che  anche  la  vivacità  dell'esposizione  rivela]. 

Alexander  Boecker.  —  A  prohahle  italian  source  of  Shakespeare' s  «  Ju- 
litis  Caesar  ».  —  New  York,  1913  [Lavoro  degnissimo  di  considerazione;  anzi, 
come  tesi  di  laurea,  d'assai  superiore  a  quanto  di  solito  ci  perviene  d'oltre- 
mare e  d'oltremonti.  Il  Cesare  |  tragedia  \  iV Orlando  Pescetti  |  dedicata  |  al 
serenisH.  Principe  \  donno  Alfonso  II  d' Este,  Verona,  stamp.  discepolo,  1594, 
non  è  una  tragedia  ignota.  Un  critico  di  non  facile  contentatura,  il  Bertana 
{Im  tragedia,  pp.  75-78),   pur  appuntandovi  molti  difetti  e  la  mancanza  di 


BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO  457 

profondità  psicologica  che  si  deplora  nelle  tragedie  cinquecentesche,  non  giunse 
alla  condanna  sommaria  di  N.  De  Sanctis  {Giorn.,  26,  4  50),  e  dietro  a  lui  Ferdi- 
nando Neri  {La  tragedia  ital.  del  Cinquecento,  p.  158)  ne  lodò  qualche  scena 
e  asserì  che  «  segna  pur  qualche  spirito  nuovo  fra  il  teatro  del  tempo  ».  A 
questo  «  spirito  nuovo  »  forse  si  deve  se  nel  periodo  elisabettano  quel  nostro 
povero  Cesare  varcò  la  Manica  e  fu  noto  (nel  grande  italianismo  di  quel  tempo) 
in  Inghilterra,  ove  sembra  probabile  che  se  ne  ispirasse  pel  suo  Julivs  Caesar 
sir  William  Alexander.  Se  ne  sarà  giovato  anche  il  massimo  tragediografo 
inglese  ?  Il  B.  è  convinto  di  sì,  e  tutto  il  suo  lavoro,  ben  pensato  e  diligen- 
temente disposto,  mira  a  dimostrarlo.  Pur  ammettendo  che  d'entrambe  le  tra- 
gedie sia  fonte  precipua  Appiano  Alessandrino,  in  parecchie  situazioni,  nella 
delineazione  di  alcuni  caratteri,  nell'uso  del  soprannaturale  trova  parallelismi 
non  esplicabili  senza  una  derivazione  diretta.  E  si  badi  ch'egli  reca  in  mezzo 
tutti  gli  elementi  che  potrebbero  derivare  da  Plutarco  e  d'altronde,  nonché 
la  trasformazione  subita  dal  carattere  di  Cesare  nella  tradizione  medievale. 
La  sua  convinzione,  insomma,  non  è  avventata  e  può  dar  da  pensare.  La  si 
accetterebbe  ancor  più  facilmente  se  al  quesito  generico  di  fonti  dirette  ita- 
liane per  lo  Shakespeare  non  fossero  già  state  mosse  da  varie  parti  obiezioni 
così  serie.  Non  inutile  leggere  II  Marzocco  del  28  die.  1913]. 

Achille  Pellizzari.  —  Portogallo  e  Italia  nel  secolo  XVI.  Studi  e  ri- 
cerche. —  Napoli,  Fr.  Perrella,  1914  [Se  più  d'uno  s'è  ormai  occupato  delle 
relazioni,  intellettuali  e  varie,  della  vecchia  Castiglia  e  della  Catalogna  con 
l'Italia,  minore  attenzione  fu  data  a  quelle  del  Portogallo.  È  noto  che  il 
laboriosissimo  Pellizzari  attende  da  vari  anni  a  Francisco  de  Hollanda,  ar- 
tista e  scrittore  portoghese,  venuto  nel  1538  in  Italia  per  studiarvi  l'arte 
nostra,  e  che  per  illustrarne  degnamente  l'attività  e  gli  scritti  ha  compiuto 
molte  esplorazioni  erudite  in  depositi  italiani  e  portoghesi.  Da  codeste  inda- 
gini germogliarono  altri  studietti  minori,  parecchi  dei  quali  sono  raccolti  nel 
volume  presente.  I  primi  tre  riguardano  poeti:  Bernardino  Ribeiro,  Sa  de 
Miranda,  il  Camoens;  dei  quali  è  studiato  il  vario  petrarcheggiare,  le  rela- 
zioni tra  la  loro  produzione  di  italianisti  e  l'arte  uscita  dalla  tradizione  lo- 
cale. Vi  s'impara  che  quell'italianismo  era  freddo  e  poco  sentito;  solo  il  Ca- 
moens, ispirandosi  in  condizioni  di  spirito  analoghe  al  sonetto  del  Petrarca 
«  Anima  bella,  da  quel  nodo  sciolta  » ,  seppe  degnamente  rivaleggiare  con 
l'originale,  se  non  superarlo.  Accenni  trovansi  parecchi,  vuoi  nel  Ribeiro,  vuoi 
nel  Miranda,  a  poeti  nostri  ;  il  Ribeiro  imitò,  nel  Libro  das  Saudades,  V Ar- 
cadia sannazariana  ;  il  Miranda  si  ricordò  deW  Orfeo  del  Poliziano  e  delle 
commedie  dell'Ariosto.  Ma  tornando  al  benamato  Petrarca,  è  curioso  l'osser- 
vare che  i  suoi  versi  «  eran  così  noti  in  Portogallo,  che  i  predicatori  li  alle- 
«  gavano  nelle  loro  prediche  dal  pulpito,  come  se  fossero  testi  ecclesiastici  » 
(p.  70).  —  I  rimanenti  tre  scritti  del  volume  sono  materiati  alquanto  diver- 
samente :  riguardano  più  la  storia  del  costume  e  la  bibliografia  che  la  lette- 
ratura. Strenne  di  Leon  decimo  s'intitola  quello  in  cui  il  P.  completa  con 
informazioni  lusitane  quanto  da  noi  si  sapeva  sull'elefante  famoso  regalato  a 
Leone  X  dal  re  Emanuele  di  Portogallo    e   aggiunge  notizie  su   altri  regali 


458  BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

fatti  al  godereccio  papa  mediceo.  Il  più  esteso  lavoro  del  libro,  Feste,  gioie 
e  vesti  nuziali  del  Cinquecento,  si  trattiene  particolarmente  sulle  nozze  del- 
l'infanta donna  Maria,  figlia  di  Edoardo  di  Portogallo,  con  Alessandro  Far- 
nese, celebrate  in  Italia  nel  1566.  Ai  numerosi  particolari  su  quella  pia  prin- 
cipessa che  furono  narrati  per  le  stampe  dal  gesuita  Sebastiano  Moraes,  suo 
confessore,  aggiunge  il  P.  non  pochi  documenti  trovati  tra  le  carte  farnesiane 
dell'Archivio  di  Napoli.  Notino  in  ispecie  gli  studiosi  del  costume  l'inven- 
tario del  corredo  di  Maria  edito  integralmente  a  pp.  244  sgg.  Per  incidenza 
l'A.  chiarisce  con  altri  documenti  (v.  pp.  201-19)  anche  le  nozze  di  Ottavio 
Farnese  celebrate  molti  anni  prima  in  Parma  con  Margherita  d'Austria.  A 
Maria  di  Portogallo  ci  richiama  di  bel  nuovo  l'ultimo  articolo,  bibliografico, 
I  manoscritti  portoghesi  della  biblioteca  nazionale  di  Napoli.  Dei  sette  codici 
quivi  diligentemente  descritti,  cinque  dovettero  appartenere  a  Maria;  gli 
altri  non  sono  di  molto  posteriori  alla  morte  di  essa,  seguita  nel  1537.  Tra 
i  mss.  di  Maria  van  segnalati  un  libro  portoghese  di  cucina  ed  una  descri- 
zione di  Milano  fatta  nel  1572  da  Cristoforo  D'Andrade.  Lodevole  la  vivacità 
garbata  con  che  il  P.  seppe  render  gradevole  la  materia  non  sempre  di  per  sé 
molto  divertente.  Nel  giovine  critico  all'amore  per  la  ricerca  van  congiunti 
molto  brio  e  vivezza  di  scrittore]. 

Alessandro  Tassoni.  —  La  secchia  rapita,  secondo  l'ediz.  veneta  del  1630 
integrata  coi  manoscritti  e  le  stampe  anteriori  a  cura  di  Giovanni  Nascim- 
beni.  —  Lanciano,  Carabba,  1914  [Nella  serie  degli  Scrittori  nostri.  T&nto  il 
Nascimbeni  nel  Mesto  del  carlino,  24  gennaio  1913,  quanto  Giorgio  Rossi  in 
questo  Giornale,  62,  149-154,  mostrarono  erroneo  il  procedimento  di  Pietro 
Papini  (ediz.  1912  della  Secchia),  che  si  rifece  all'ediz.  di  Eonciglione  1624, 
rimessa  in  onore  nel  1743  dal  Barotti.  Quivi  la  censura  e  riguardi  pei-sonali 
imposero  soppressioni  e  mutazioni  che  il  Tassoni  non  avrebbe  volute  e  che 
in  parte  furono  da  lui  stesso  reintegrate  e  modificate  nell'edizione  del  1630, 
l'ultima  veduta  dal  poeta.  Il  Rossi  sostenne  che  l'ediz.  del  1630  è  la  defini- 
tiva, e  che  ad  essa  conviene  attenersi,  il  che  egli  promise  di  fare  nella  ri- 
stampa che  allestisce  per  i  Classici  del  ridere  dati  fuori  dall'editore  Formig- 
gini.  H  Nascimbeni  non  pare  sia  in  tutto  di  questo  parere;  ma  ora  sembra 
avere  modificato  alquanto  l'opinione  sua  radicale,  emessa  nel  succitato  gior- 
nale di  Bologna,  che  si  dovesse  mettere  a  base  del  testo  l'edizione  parigina 
del  1622.  Ora  egli  s'è  pure  acconciato  ad  attenersi  sostanzialmente  all'edi- 
zione del  1630,  solo  confrontando  le  diverse  trascrizioni  a  penna,  che  fece  e 
fece  fare  il  Tassoni  del  suo  poema.  Di  queste  varianti  rende  conto  nelle  note 
a  pie  di  pagina,  mentre  in  fondo  al  volume  riproduce  quelle  Dichiarazioni  di 
Gaspare  Salviani,  di  cui  si  ritiene  autore  il  Tassoni  stesso,  e  che  uscirono 
la  prima  volta  precisamente  nella  stampa  del  1630.  Il  volumetto  del  Nascim- 
beni è  ben  curato,  e  la  sobria  introduzioncella  ne  rende  chiaro  conto.  Noi 
però  riteniamo  che  la  cosa  migliore  sarà  quella  che  il  Nascimbeni  annuncia 
di  voler  fare  per  la  Biblioteca  romanica  di  Strasburgo  :  ridare  fedelmente  il 
testo  del  1630  e  porre  in  nota  tutte  le  varianti  dell'ediz.  parigina  del  1622. 
A  total  complemento,  sarebbe  buona  cosa  il   poter   ricostruire  la  redazione 


BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO  459 

in  dieci  canti,  che  il  Tassoni  mandò  nel  1615  al  canonico  Barisoni  acciò  la 
facesse  stampare  a  Venezia,  dato  che  sia  possibile  rievocarla  con  piena  sicu- 
nezza,  come  il  Rossi  opina  (cfr.  Giorn.,  68,  151).  Così  si  avrebbero  le  tre  fasi 
principali  del  poema  :  il  primo  getto,  la  prima  stampa,  la  stampa  definitiva. 
Altro  criterio  sembra  voglia  seguire,  per  l'edizione  degli  Scrittori  d'Italia, 
Venceslao  Santi,  il  benemeritissimo  studioso,  a  cui  debbono  in  gran  parte 
gli  studi  tassoniani  l'attuale  risveglio,  per  i  molti  misteri  ch'egli  seppe  ac- 
cortamente svelare  nell'ironia  del  Tassoni.  Cfr.  Giorn.,  49,  396  e  57,  85]. 

Luigi  Rava.  —  Costanza  Monti  Perticari.  —  Milano,  Fr.  Vallardi,  1914 
[Estratto  dalla  rivista  La  cultura  moderna.  A  purgare  la  sventurata  Co- 
stanza Monti  dalle  fiere  e  calunniose  accuse  lanciate  contro  di  lei,  valsero 
specialmente  la  biografia  e  l'epistolario,  di  cui  ebbe  cura,  una  decina  d'anni  fa, 
Mario  Romano  (cfr.  questo  Giornale,  44,  456  ;  E.  Masi  nella  N.  Antologia 
del  1"  agosto  1904;  R.  Renier,  in  Svaghi  critici,  pp.  117  sgg.).  Ora  il  Rava, 
ribadendo  quella  difesa,  fa  conoscere  altre  lettere  inedite  di  Costanza,  alcune 
rintracciate  dal  prof.  Garavini,  alcune  custodite  nella  raccolta  di  Carlo  Pian- 
castelli.  Notiamo  due  lettere  del  20  e  21  dicembre  1823  dirette  da  Costanza 
a  Luigi  Crisostomo  Ferrucci  di  Lugo,  a  proposito  delle  gelosie  che  i  rapporti 
di  lui  con  la  bella  figliuola  del  Monti  avevano  acceso  in  sua  moglie.  Quel 
Ferrucci,  poeta  che  osò  rifare  a  modo  suo  una  specie  di  Div.  Commedia,  era 
fratello  del  latinista  Michele,  ed  ebbe  fama  fra  i  retori  (cfr.  Mazzoni,  U  Ot- 
tocento, pp.  1213-14).  Più  importanti  altre  lettere,  del  1829,  all'agronomo 
Giuseppe  Monti  di  Fusignano,  in  cui  la  povera  vedova  perseguitata  invocava 
soccorsi  alla  sua  miseria.  Non  si  sapeva  finora  ch'ella  si  trovasse  in  tali  an- 
gustie come  si  rileva  dalle  seguenti  parole  :  «  La  cosa  che  ho  da  dirti  si  è  che 
«  io  sono  alla  disperazione,  se  non  mi  mandi  danaro.  Ti  basti  che  da  un 
«  mese  e  più,  il  mio  pranzo  passa  con  una  minestra  e  qualche  pezzetto  di 
«  carne  che  servi  per  il  brodo.  E  spesso  neppur  questo.  E  spesso,  neppur  la 
«  minestra  ;  ma  me  la  vivo  con  due  uova  ed  un  po'  di  cacio.  Ciò  passa  ogni 
«  limite  di  sofferenza.  Se  la  Provvidenza  mi  avesse  collocata  in  tanta  miseria, 
«  ed  anche  in  peggiore,  chinerei  la  testa.  Ma  il  pensare  che  mentre  io  stento 
«  così,  coloro  che  mi  devono,  se  la  godono  con  i  miei  danari,  è  cosa  da  far 
«  ripudiare  ogni  sofferenza  cristiana  ».  E  più  sotto  aggiunge:  «  Il  pane  e 
«  l'acqua  sono  cose  belle  e  buone  per  gli  stomachi  di  ferro,  che  non  soffri- 
«  rono  mai  indigestione  per  dispiaceri.  Ma  il  mio  è  già  rovinato  da  quelle  e 
«  da  questi  ».  Il  R.  riproduce  il  ritratto  che  di  Costanza  Perticari  dipinse 
Filippo  Agricola,  e  che  ora  si  trova  in  Roma,  nella  galleria  d'arte  moderna. 
È  noto  che  quel  ritratto  ispirò  un  bello  e  affettuoso  sonetto  di  V.  Monti 
(cfr.  pp.  102  sgg.  dell'ediz.  Bertoldi  1908)  ed  uno  assai  meno  importante  del 
cesenate  Giovanni  Roverella.  11  R.  li  riferisce  entrambi.  È  pur  noto  che  il 
medesimo  Agricola  raffigurò  la  Beatrice  di  Dante  sotto  la  bella  figura  di  Co- 
stanza, al  quale  argomento  pur  s'inspiraron»  altri  verseggiatori.  Vedansi  le 
pagine  22-23  dell'opuscolo  nuziale  di  Ad.  Mabellini,  Lettere  inedite  di  Silvio 
Pellico  al  conte  Andrea  Gabrielli,  Fano,  1914]. 


460  BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO 

Ottone  Ciàrdulli.  —  Lettere  e  poesie  di  Arncddo  Fusmato  ed  Erminia 
Fuà.  —  Castelfranco  Veneto,  tip.  Olivotto,  1913  [È  poco  tempo  che  rile- 
vammo la  pubblicazione  di  qualche  inedita  poesia  del  Fusinato  (cfr.  Grior- 
naie,  62,  260).  Il  gruppetto  di  nuovi  testi  che  il  prof.  CiarduUi  fa  conoscere 
deriva  dal  museo  di  Castelfranco  Veneto,  a  cui  li  regalò  un  grande  amico 
della  famiglia  Fusinato,  il  dott.  Lorenzo  Puppati.  Le  poesie  di  Arnaldo  sono 
tre,  tutte  presentate  all'accademia  dei  Filoglotti  di  Castelfranco;  una  di  esse 
è  un'ode  ispirata  dal  Pastor  fido  del  Guarini.  Sono  tutte  poesie  serie,  di  sa- 
pore classicheggiante.  Alcune  lettere  prodotte  nell'opuscolo  riguardano  il  con- 
trastato amore  d'Arnaldo  per  la  contessina  Annetta  Colonna  di  Castelfranco, 
che  solo  nel  1849  egli  giunse  ad  impalmare.  Morì  quella  gentilissima  a  Schio 
il  15  febbr.  1853.  La  vecchia  suocera,  contessa  Teresa  Coletti-Colonna,  aperse 
le  braccia  alla  seconda  moglie  di  Arnaldo,  la  soave  ed  intelligente  Erminia 
Fuà.  Anche  di  lei  pubblica  il  C.  qualche  nuovo  verso,  e  otto  lettere  al  dot- 
tore Puppati,  di  non  grande  importanza.  Notisi  in  una,  del  1863,  il  rim- 
pianto per  la  morte  di  Teobaldo  Cleoni,  «  una  bella  mente  ed  un  ottimo 
«  cuore,  che  la  patria  dovrà  a  lungo  ricordare  e  rimpiangere  »  (p.  33).  Di- 
verse fra  quelle  lettere  sono  scritte  da  Firenze  e  da  Roma,  ma  la  buona  Er- 
minia rimpiangeva  allora  il  suo  Veneto  natio.  «  Qui  (a  Firenze)  abbiamo 
«  molte  relazioni  ;  la  maggior  parte  dei  nostri  amici  l'abbiamo  scelta  fra  i 
*  Veneti,  poiché  n'è  caro  il  parlare  di  sovente  il  simpatico  nostro  dialetto,  e 
«  intrattenerci  fra  noi  delle  cose  nostre.  Anche  dei  Toscani  però  conobbi 
«  molti  uomini  e  figure  distinte,  ma  nessuna  cosa  al  mondo  può  compensarci 
«  della  lontananza  dei  cari  e  vecchi  amici,  dei  paesi  nostri  nativi  »  (p.  35)]. 


PUBBLICAZIONI    NUZIALI 


Carlo  Calcaterra.  —  La  secreta  prammatica  dei  conti  di  San  Bonifacio. 
—  Città  di  Castello,  Casa  Lapi,  1914;  per  nozze  Quazza-Capitelli  [Ricco, 
nutrito,  elegante  opuscolo,  che  ci  fa  conoscere  un  documento  di  non  piccola 
importanza  per  la  storia  domestica  del  patriziato  italiano.  La  illustre  famiglia 
veronese  dei  Sambonifacio  ebbe  feudi  in  Padova,  a  Legnago,  in  altre  parti 
del  Veneto.  La  Prammatica,  che  ora  viene  in  luce  con  le  cure  dell'egregio 
prof.  Calcaterra,  fu  compilata  da  Giulio  Sambonifacio  in  uno  degli  ultimi  de- 
cenni del  sec.  XVI,  ed  ebbe  ritocchi  ed  aggiunte  da  personaggi  posteriori 
della  famiglia.  L'originale  non  si  sa  dove  sia,  se  pure  esiste  ancora;  ma  il  C. 
dispose  d'una  copia  apografa,  con  chiose  autografe  dei  primi  eredi,  ch'è  ora 
posseduta  dal  conte  Alberto  Bevilacqua  Lazise.  È  questa  una  specie  di  arte 
di  governo  della  famiglia,  che  doveva  esser  letta  ogni  quindici  giorni,  o  al- 
meno una  volta  il  mese.  Libro  di  precetti  e  d'economia  domestica  e  politica, 
compilato  con  intendimenti  pratici  e  con  l'occhio  sempre  fisso  alla  grandezza 


BOLLETTINO    BIBLIOGRAFICO  461 

della  famiglia  e  al  dominio  ;  libro  rude,  alieno  da  ogni  lenocinlo  letterario, 
ma  sincero  e  significativo,  che  dà  precetti  sul  governo  della  famiglia,  sull'e- 
ducazione dei  figli  e  delle  figlie,  sul  modo  migliore  di  collocare  gli  uni  e  le 
altre,  sull'amministrazione  del  patrimonio,  sul  tenimento  della  casa,  sulla 
consorteria,  sui  servi  e  sui  bravi,  sui  risparmi,  sui  traffici.  Accortezza  grande 
vi  si  avverte,  sicché  questa  segreta  prammatica  può  essere  utilmente  parago- 
nata ai  trattati  pubblici  noti  sul  governo  della  famiglia  nel  Rinascimento. 
Vi  sono  dette  cose  più  ovvie  e  forse  il  più  delle  volte  meglio  atte  alla  pra- 
tica della  vita.  Curioso  il  fatto  che  l'unico  scrittore  che  si  raccomanda  sic- 
come maestro  è  Francesco  Guicciardini,  all'opera  del  quale  l'autore  della 
Prammatica  attribuiva  un  valore  educativo  profondo.  Il  Calcaterra  ha  fatto 
precedere  il  testo  da  una  larga  e  sensata  illustrazione  storica  e  lo  ha  fatto 
seguire  da  una  serie  di  documenti  sulla  nobile  famiglia  veronese.  La  Pram- 
matica non  poteva  cadere  in  migliori  mani]. 

Ermenegildo  Pistelli.  —  lì  canto  decimoquarto  dei  Purgatorio.  —  Fi- 
renze, Arte  della  stampa,  1914;  per  nozze  Giachetti-De  Blasi  [S'allontana 
alquanto  questo  commento  dalle  consuetudini  ormai  prevalenti  nelle  «  let- 
ture »  dantesche.  È  cosa  più  spigliata  ed  artistica.  Raggruppa  il  P.  secondo 
un  certo  ordine  ideale  le  varie  ragioni  di  bellezza  che  ha  il  canto  tosco- 
romagnolo  di  Guido  del  Duca  e  di  Ranieri  di  Calboli.  Sono  belle  le  riflessioni 
del  P.  sul  ricordo  del  passato  considerato  come  fonte  di  poesia,  sui  motivi 
per  cui  Dante  riesce  a  farci  partecipi  a'  suoi  sdegni  politici,  sul  valore  che 
ha  nel  canto  il  fiume  Arno,  fiume  che  «  raccoglie  veramente  e  compendia 
«  tutte  le  memorie  più  care  e  più  sacre  del  paese  nativo  ».  Tutto  è  inteso  ed 
espresso  con  arguzia  e  con  vivo  senso  dell'arte]. 

Giuseppe  Biadego.  —  Calia  dotale  di  Fiora  Betteloni  (1534).  —  Verona, 
tip.  Franchini,  1914;  per  nozze  Betteloni-Gritti  [Dagli  atti  notarili  di  Ber- 
nardino Zucco  estrae  il  B.  un  curioso  documento,  che  stabilisce  la  dote  di 
Flora  Betteloni  dopo  dieci  anni  di  matrimonio.  La  cosa  singolare  in  questo 
documento  è  che  il  notaio  chiede  a  Flora  (che  aveva  già  parecchi  figliuoli) 
se  accetti  in  legittimo  consorte  Benassuto  Farina,  e  analoga  domanda  rivolge 
a  Benassuto.  Si  torna,  insomma,  alle  formalità  del  matrimonio,  forse  pog- 
giando sulla  massima  di  diritto  romano  che  «  dos  sine  matrimonio  esse  non 
potest  ».  Il  B.  rammenta  il  caso  identico  dell'umanista  Nicolò  Cendrata 
(padre  di  quella  Taddea  che  nel  1418  impalmò  Guarino  Veronese),  il  quale, 
pure  per  motivo  di  dote,  rinnovava  l'atto  matrimoniale  dopo  ventidue  anni 
di  legittima  convivenza.  In  appendice  il  B.  raccoglie  parecchi  dati  storici 
sulla  famiglia  dei  Betteloni,  il  cui  nome  appartiene  alla  storia  letteraria  del 
secolo  decimonono]. 


COMUNICAZIONI  ED  APPUNTI 


Postille  alla  lauda  veronese  del  duecento.  —  Ognuno  intende  che  si 
tratta  della  ormai  celebre  lauda  Beìieta  sia  Vora,  edita  primamente  da 
C.  Cipolla  neìVArch.  stor.  itah,  s.  IV,  t.  VII,  pp.  150  sgg.  e  studiata  poscia  da 
parecchi:  dal  Gaspary,  da  C.  Pini  e,  in  questa  stessa  rivista,  da  FI.  Pellegrini 
{Giorn.,  23,  156).  Ho  alcune  osservazioni  da  fare  al  testo  della  lauda,  tra- 
scritta da  due  mani  del  sec.  XIII  nella  guardia  del  magnifico  ms.  1362  della 
bibl.  comunale  di  Verona.  Il  Cipolla  ha  già  sottoposto  il  prezioso  componi- 
mento a  un  diligente  esame  paleografico  (non  ho  da  aggiungere  altro  che 
questo:  che  non  una  volta  compare  un  r  gotico,  neppure  dopo  un  o)  (1),  mentre 
il  Pellegrini  s' è  industriato  di  ricostruirne  lo  schema  primitivo.  Ritengo 
anch'io  che  l'ultimo  verso  d'ogni  strofa  debba  essere  un  quinario  (2)  (cfr.  vv.  16, 
31,  41,  60,  75,  85,  95,  100,  104,  119),  ma  allora  come  ammettere  al  v.  5  : 
de  Vamoto  abiso'?  Anche  al  di  fuori  della  ritmica,  questa  voce  amoto  non 
accontenta  punto.  Il  ms.  dà  àoto,  il  che,  in  verità,  pare  giustificare  la  lettura 
del  Cipolla;  ma  nel  caso  speciale  dobbiam  vedervi,  secondo  me,  il  risultato  e 
quasi  il  segno  materiale  di  un  incrocio,  nel  pensiero  dell'amanuense,  di  aoto 
e  di  auto,  due  riflessi  di  altus  che  il  copista,  insieme  ad  aito,  adopera  indiffe- 
rentemente. Cfr.  al  V.  30:  Vaoto  segnar  e  al  v.  25  aotisimo  (non  aotissimo)] 
mentre:  v.  18  anto  gelo,  v.  116  anto  deo  {It  in  nt  compare  sporadicamente 
anche  nel  veneto  e  nel  veneziano.  Boerio  37:  «  antro,  altro;  idiotismo  della 
bassa  gente  »  e  si  veda  quanto  ho  avuto  occasione  di  notare  nel  mio  Ugugon 
nei  Bend.  d,  R.Accad.  dei  Lincei,  XXI  (1913),  p.  624).  Si  corregga  adunque: 
de  Vanto  abiso,  ovvero:  de  Vaoto  àbiso. 


(1)  Altra  ragione,  questa,  per  risalire  assai  indietro,  sino  alla  metà  circa  del 
8«c.  XIII  (e  fors'anche  un  po'  prima). 

(2)  Credo  infatti,  con  il  Wiksk,  Zeitschr.  f.  roman.  Phil,  XIX,  800,  ohe  il  Pelle- 
grini sia  nel  vero  ravvisando  nella  nostra  laude  lo  schema  di  serventese  :  AAAAb, 
BBBBc,  ecc.  Il  testo  è,  però,  tanto  corrotto,  da  rendere  parecchi  versi  refrattari 
ad  ogni  permesso  emendamento.  In  siffatti  casi,  riconosciuto  lo  schema,  convien 
forse  riprodurre  i  versi  tali  e  quali  e  relegare  a  pie  di  pagina,  o  in  nota,  le  cor- 
rezioni. 


COMUNICAZIONI    ED    APPUNTI  463 

V.  13:  Per  deuero  ìoaro  quela  alta  tema.  Nel  ms.  non  si  ha,  come  a  me 
pare,  de  itero,  ma  de  nera.  Onde  la  lettura  dever  a  si  impone,  a  mio  avviso: 
Dogno  (1)  omo  cora  e  uegna  —  Per  dever,  a  loaro  (a  lodare),  ecc.  Conf. 
ital.  «  per  davvero  ». 

V.  28  :  mi  lo  margè  uè  clamo  ancor.  L'amanuense  aveva  scritto  o  invece 
dell'm  di  mi,  ma  poi  si  corresse  (Vi  agg.  su  rasura).  Per  quanto  spetta  alla 
paleografìa,  ritengo  che  nel  modello  stesse  un  m  onciale  (uno  di  quegli  m  on- 
ciali che  si  trasmisero  nelle  scritture  più  tardive  e  di  cui  i  mss.  dei  sec.  XIII-XIV 
hanno  più  esempi),  il  che  spiega  come  un  amanuense  potesse  leggere  un  oi  (2)  ; 
quanto  poi  all'ermeneutica,  il  passo,  come  è  dato,  non  offre  alcun  senso.  Io 
leggo:  milo  margè  cioè  «  mille  mercè  »,  con  la  ben  nota  norma  veronese  di  -o 
invece  di  -e  (cfr.  loaro  13  e  anche  ueno  2,  come  ha  sicuramente  il  codice, 
mentre  il  Cipolla  aveva  letto  :  nene,  ecc.,  ecc.). 

V.  83  :  qicela  vaerà.  Non  intendo  come  il  Cipolla  e  il  Pellegrini  siansi 
rassegnati  a  questo  vaerà  (=  guerra),  che,  foneticamente  parlando,  si  presenta 
inammissibile.  Occorre:  vtiera,  e  infatti  il  ms.  ha  vu-,  poiché  Va  si  risolve, 
a  ben  analizzare  gli  elementi  delle  lettere,  in  un'illusione.  Cfr.  al  v.  85  vuarda 
(si  sa  che  l'odierno  veronese  risponde  a  germ.  ic-  per  v-,  salvo  intrusioni  let- 
terarie, come  accade  appunto  per  guera).  La  forma  viiera  ci  rappresenta  la 
pronuncia  popolar^  del  sec.  XIII,  quando  l'elemento  labiale  di  vu  non  era 
ancora  scomparso.  Cfr.  vuxxrda  85,  moderno  veron.  varda  e  anche  arda  (Bo- 
lognini-Patuzzi,  Piccolo  diz.  del  dial.  mod.  della  città  di  Verona,  p.  254). 

v.  124  :  dauanto  el  (non  al)  criatoro.  v.  126  tato  loro  nel  ms.  (come  ha 
il  Cip.).  E  così:  V.  40  Land  (cioè  La'ìide  si  orane)  ;  v.  47  saluagiono  (come 
ha  il  Cipolla). 

Giulio  Bertoni. 


{l)  Dogno  non  si  può  dire  forse  inammissibile  in  ant.  veronese  ;  ma  la  correzione, 
che  si  presenta  subito  al  pensiero,  è  Ogno. 

(2)  II  testo  non  fu  scritto,  a  giudicare  da  più  particolarità,  a  memoria  nel  ms.  ; 
ma  fu  copiato,  da  due  amanuensi,  da  un  modello  già  guasto.  Intervenne  poi  un 
correttore.  La  lauda,  ohe  può  essere  stata  composta  all'alba  del  secolo  XIII,  non 
appartiene  al  genere  delle  laude  dei  disciplinati. 


ORO  isr^  e  A^ 


PERIODICI 


Giornale  Dantesco  (XXII,  2-3)  :  Fed.  Olivero,  Sul  «  Sordello  »  di  Bóbert 
Browning,  analisi  di  quella  astrusa  azione  fantastica,  nella  quale  tanto  il 
trovatore  mantovano  quanto  la  letteratura  italiana  delle  origini  vengono  igno- 
miniosamente  falsati;  A.  Vannini,  La  brigata  spendereccia  e  BaHolomeo 
Fohacchieri,  notizie  sulla  brigata  e  congetture  sull'Abbagliato  {Inf.,  XXIX, 
132),  cioè  Meo  di  Folcacchiero,  che  l'A.  ritiene  sia  «  uno  degli  ufficiali,  che 
«  contro  la  brigata  stessa  proferse  il  suo  senno  »;  G.  Gerola,  A  proposito  del- 
Z'«  aguglia  da  Polenta  »,  commento  al  v.  50  dell'I^/!,  XXVII:  Chiose  dan- 
tesche, di  qualche  rilievo  quella  di  F.  Ronchetti  su  la  Pia  ;  Ed.  Benvenuti, 
Aneddoti  danteschi,  il  primo  comunica  le  satire  che  nel  Cinquecento  furono 
dirette  contro  i  cosi  detti  «  visacci  »,  vale  a  dire  i  ritratti  marmorei  di  quin- 
dici illustri  fiorentini  che  ancor  si  vedono  sulla  facciata  del  palazzo  Valori 
nel  Borgo  degli  Albizzi  :  il  secondo  dà  conto  d'un  centone  di  versi  danteschi 
messo  insieme  nel  1606  da  Alessandro  Adimari,  che  si  legge  nel  ms.  Magi. 
IL  I.  398  ;  F.  Ravello,  Peccati  e  confessioni  di  Dante,  sul  traviamento  mo- 
rale confessato  dal  poeta,  che  è  della  Commedia  il  grande  protagonista. 

Archivio  della  B.  Società  romana  di  storia  patria  (XXX VII,  1-2)  :  G.  B.  Pi- 
cotti,  La  pubblicazione  e  i primi  effetti  della  bolla  «  Execrabilis  »  di  Pioli] 
E.  Re,  La  compagnia  dei  Riccardi  in  Inghilterra  e  il  suo  fallimento  alla 
fine  del  sec.  XIII,  si  tratta  dei  Riccardi  di  Lucca,  ed  è  quest'articolo  un 
buon  contributo  alla  storia  economica  nel  medio  evo  ;  A.  Ferrajoli,  Il  ruolo 
della  corte  di  Leone  X,  in  questa  parte  dell'esteso  lavoro,  di  cui  già  segna- 
lammo la  grande  importanza,  si  parla  a  lungo  di  Pietro  Bembo,  col  sussidio 
di  numerosi  documenti  inediti,  che  chiariscono  la  vita  di  lui  e  specialmente 
quella  della  sua  Morosina.  —  Si  osservi  una  rilevante  recensione  di  VI.  Za- 
bughin  alle  Studien  zu  Leonardo  Bruni  di  Franz  Beck. 

Studi  di  filologia  m^oderna  (Yll,  1-2):  Eug.  Mele,  Tra  grammatici,  maestri 
di  lingua  spagnuola  e  raccoglitori  di  proverbi  spagnuoli  in  Italia;  Amos 
Parducci,  SulVantico  mistero  francese  della  casta  Susanna  ;  Fr.  Viglione,  Un 
ignoto  poemetto  italiano  sulla  morte  di  sir  Thomas  More,  si  tratta  delle 
Stanze  di  Zanobio  Ceffino,  di  cui  il  V.  vide  un  esemplare  nel  Museo  Bri- 
tannico. 

Gazzetta  di  Venezia  (20  maggio  1914):  G.  Ortolani,  La  spia  Casanova, 
nega  che  il  troppo  celebre  avventuriero  possa  essere  giudicato  il  rappresen- 
tante del  secolo  suo  e  della  vita  veneziana  d'allora;  (10  luglio  1914),  G.  Or- 


CRONACA 


465 


tolani,  La  condanna  d'Arlecchino  ?,  impugna  le  troppo  ardite  e  cervellotiche 
conclusioni  del  Del  Cerro,  secondo  le  quali  la  commedia  improvvisa  sarebbe 
una  leggenda. 

Memorie  della  B.  Accad.  delle  scienze  di  Torino  (voi.  LXIV):  G.  Surra, 
Indagini  sul  carattere  e  sulVarte  di  Giuseppe  Giusti,  vedi  ciò  che  ne  fu  detto 
nel  Giorn.,  63,  152;  G.  Sforza,  Ortensio  Landò  e  gli  usi  ed  i  costumi  d' Italia 
nella  prima  metà  del  Cinquecento,  delineato  il  carattere  di  quello  scapigliato 
cinquecentista,  toglie  ad  esaminare  parecchie  sue  operette  assai  rare  e  ne 
trascrive,  con  le  debite  chiose,  particolari  curiosi  per  la  storia  del  costume  e 
giudizi  vari  su  uomini  di  lettere. 

Atti  della  B.  Accademia  di  archeologia,  lettere  e  belle  arti  di  Napoli 
(an.  1914):  F.  Torraca,  Prime  impressioni  e  primi  studi  di  Giov.  Boccaccio 
a  Napoli. 

Atti  e  memorie  della  Deputazione  ferrarese  di  storia  patria  (XXI,  8): 
Alfonso  Lazzari,  Un  umanista  romagnolo  alla  corte  d'Ercole  II  d'Èste, 
Bartolomeo  Bicci  da  Lugo,  estesa  ed  interessante  memoria,  sulla  quale  ci 
proponiamo  di  ritornare  col  debito  agio. 

Atti  della  B.  Accademia  della  Crusca  (1914;  per  l'anno  accad.  1912-13): 
Orazio  Bacci,  Il  Boccaccio  e  la  prosa  italiana,  discorso  nitido  e  piacevole, 
in  cui  son  dette  molte  più  cose  di  quel  che  il  titolo  faccia  supporre. 

Urbinum  (I,  2):  Luigi  Nardini,  Due  lettere  inedite  del  Metastasio,  da 
Vienna  all'abate  urbinate  Crescentino  Fiorini;  E.  Valentini,  Per  uno  scrit- 
tore dimenticato,  spigolature  nella  Cornucopia  del  Perotti,  ove  son  cose  curiose. 

Coenobium  (maggio  1914):  Fortunato  Rizzi,  Anche  Miclielangélo  ?,  spiega 
con  l'amor  platonico  il  suo  sviscerato  attaccamento  al  giovine  Tommaso  Ca- 
valieri. 

Vela  latina  (Napoli;  II,  25):  L.  Ruberto,  Una  lettera  inedita  di  Aless. 
Manzoni,  del  30  nov.  1871,  tratta  di  cose  agricole  ed  è  diretta  al  botanico 
Vincenzo  Tenore;  (11,29),  Due  sonetti  inediti  di  Mario  Bapisardi,  scritti 
a  quindici  anni;  (II,  30  e  31),  R.  Zagaria,  Vittorio  Imbriani  e  la  donna, 
notabile  ;  (II,  33-34),  A.  Vitelli,  L'opera  letteraria  di  Antonio  Banieri. 

Il  Trentino  (1914,  n"  82):  Giulio  ^mQxì,LaBisurrezione  di  A.  Manzoni. 

La  Stampa  (3  luglio  1914):  Franco  Sabelli,  L'epistolario  inedito  di  Gio- 
vanni Berchet,  lettere  alla  marchesa  Costanza  Arconati- Visconti. 

L' Arengo  (Genova;  IV,  3):  G.  Surra,  Il  Machiavelli  nella  vita  privata] 
(IV,  4),  G.  Surra,  Il  Machiavelli  commediografo  \  S.  Bellotti,  Matteo  BandeUo. 

Picenum  (XI,  6  e  sgg.)  :  Gius.  Branca,  Lm  maschera  marchegiana  e  il  suo 
teatro,  tratta  della  maschera  di  Mengone  e  dell'uso  che  ne  fu  fatto  sulla  scena  ; 
(XI,  8) ,  G.  Castelli,  Il  paesaggio  leopardiano ,  saggio  di  un  commento  al 
Leopardi,  «  con  le  immagini  delle  cose  e  delle  persone  »,  che  l'A.  prepara. 

Archivio  storico  lombardo  (XLI,  1-2)  :  Rinaldo  Beretta,  Della  compagnia 
della  Morte  e  della  compagnia   del    Carroccio   alla   battaglia  di  Legnano, 

Giornale  storico,  LXIV,  fase.  192.  80 


4^66  CRONACA 

mostra  la  vanità  di  certi  elementi  fantastici,  cari  al  sentimento,  che  si  for- 
marono nelle  narrazioni  tradizionali  della  battaglia  di  Legnano  e  di  là  pas- 
sarono nella  poesia. 

Periodico  della  Società  storica  Comense  (fase.  81-82)  :  S.  Monti,  Grioviana 
e  Vinciana.  Studi  su  Leonardo  da  Vinci  del  conte  Antonio  Giuseppe  della 
Torre  di  Eezzonico. 

Atti  e  memorie  della  B.  Deputazione  di  storia  patria  per  le  provincie 
modenesi  (Serie  V,  voi.  Vili,  1914):  G.  Simonetti,  Xc^^^rc  inedite  di  Giro- 
lamo Tiraboschi  e  Ireneo  Affò  a  eruditi  Correggesi. 

Gazzetta  di  Parma  (1914,  nn.  1  e  84):  dieci  articoli  storici,  tra  cui  rile- 
viamo Vitt.  Alfieri  nel  carteggio  del  Paciaudi,  e  Parma  nei  Mémoires  del 
Casanova,  e  Un  grande  personaggio  dei  Promessi  Sposi  e  i  Farnesi,  ove 
il  personaggio  è  il  card.  Federico  Borromeo.  In  molti  luoghi  si  tocca  dell'il- 
luminato ministro  Du  Tillot,  al  quale  è  dedicato  l'ultimo  scritto,  che  lo  con- 
sidera in  relazione  con  l'Accademia  parmense  di  belle  arti. 

Memorie  storiche  forogitUiesi  (IX,  3):  C.  Foligno,  Di  alcuni  codici  litur- 
gici di  provenienza  friulana  nella  biblioteca  Bodleiana  di  Oxford. 

Guglielmo  da  Saliceto  (II,  12):  St.  Fermi,  Per  una  completa  bibliografia 
dei  trattati  di  Gtiglielmo  da  Saliceto,  questa  nota  bibliografica,  inserita  nella 
rivista  sanitaria  piacentina  che  dal  nome  del  grande  chirurgo  medievale  si 
intitola,  completa  ciò  che  di  lui  scrisse  V.  Buifetti  nel  Bollett.  stor.  piacen- 
tino del  1911. 

Ri  cista  pedagogica  (VII,  5)  :  Serafino  Paggi,  Un  pedagogista  ignoto,  il 
Passeroni;  non  abbiamo  dimenticato  che  sul  Passeroni  il  Paggi  ha  un  buon 
libro,  di  cui  attendiamo  da  tempo  la  recensione  da  un  collaboratore  valoroso  ; 
(VII,  7),  P.  Bellezza,  Gli  studi  elettivi  e  una  sentenza  manzoniana,  con 
finezza  e  dottrina  commenta  il  detto  del  Manzoni  che  «  noi  facciamo  volen- 
«  tieri  le  cose  alle  quali  abbiamo  abilità:  non  dico  quelle  sole  »;  Luisa  Mo- 
lino, Il  pensiero  pedagogico  di  Raffaello  Lambruschini. 

Rivista  teatrale  italiana  (XIII,  2)  :  E.  Maddalena,  Un  libro  aìnericano  sul 
Goldoni,  quello  dello  Chatfield-Taylor,  sul  quale  ci  trattenemmo  in  questo 
Giornale,  64,  226;  (XIII,  3),  Giulio  Caprin,  Una  delle  idtime  sere  di  car- 
nevale, in  continuazione,  considera  il  valore  biografico  di  quella  commedia 
goldoniana  ed  esamina  le  ragioni  ed  i  modi  del  passaggio  del  Goldoni  da 
Venezia  a  Parigi. 

Pro  cultura  (V,  2):  Sull'uso  del  nome  «  Trentino  »,  attestazioni  raccolte 
da  vari  in  antiche  opere  ed  in  carte  topografiche  e  geografiche  (1). 


(1)  Si  rilevi  il  Sappi.  V  del  Pro  cultura,  ohe  contiene,  a  cura  di  Hans  Semper,  i 
docnmenti  del  periodo  desiano  (1627-1636)  su  II  castello  del  buon  consUjlio  a  Trento 
(Trento,  1914).  I  documenti  furono  trascritti  nella  sezione  trentina  dell'Archivio 
della  Luogotenenza  ad  Innsbruck  e  sono  ordinazioni,  conti,  note,  inventari,  ove 
figurano  artisti  ed  artefici  a£faccendati  intorno  a  quella  fastosa  reggia  del  Rinasci- 
mento. Sonvi  voci  italiane  e  infiltrazioni  di  voci  alemanne  raccolte  in  parte  nel 
lessico  finale. 


CRONACA  467 

Gazzetta  del  popolo  (22  giugno  1914)  :  R.  Barbiera,  Il  poeta  Frati  quaVera, 
con  notiziole  biografiche  non  tutte  note. 

Bullettino  senese  (XXI,  1):  N.  Mengozzi,  Il  pontefice  Paolo  II  e  i  Senesi, 
articolo  documentato  in  continuazione,  nel  quale  si  parla  parecchio  anche  di 
Pio  II  Piccolomini. 

Rivista  abruzzese  (XXIX,  6):  Egidio  Michetti,  Il  cardinale  Federigo 
Borromeo  nei  Promessi  Sposi,  studietto  psicologico  con  raffronti  tra  il  Man- 
zoni e  il  Rosini. 

Bollettino  storico  piacentino  (IX,  3)  :  E.  Rota,  Giuseppe  Poggi  gianse- 
nista, rilevante. 

Archivio  storico  italiano  (LXXII,  2;  n®  274):  Cesarini-Sforza,  Intorno 
(Ula  storia  e  alla  storiografi^,  espone,  commenta  e  discute  le  idee  del  Croce 
sulla  identificazione  della  storia  con  la  filosofia. 

L'arte  (XVII,  4):  Italo  Maione,  Fra  Giovanni  Dominici  e  beato  Ange- 
lico, influsso  culturale  e  spirituale  del  notissimo  Dominici. 

Atene  e  Roma  (XVII,  183-184):  D.  Comparetti,  Le  imagini  di  Virgilio 
e  i  primi  sette  versi  delVEneide,  sui  ritratti  di  Virgilio  nulla  fu  detto  mai 
di  così  significativo  come  ciò  che  si  legge  in  questo  articolo,  importante  anche 
per  l'età  nostra  umanistica. 

Atti  della  I.  R.  Accademia  Roveretana  degli  Agiati  (an.  164,  voi.  I): 
G.  Moro,  Canti  lirici,  canti  per  il  popolo  e  ballate  di  Giovanni  Prati,  giu- 
dica severamente  la  produzione  popolareggiante  del  Prati. 

Malta  letteraria  (XI,  117-119):  V.  Laurenza,  La  divina  foresta,  in  con- 
tinuazione; saggio  d'interpretazione  del  simbolo  dantesco. 

Studi  storici  (XXII,  2)  :  A.  Crivellucci,  Utm  cantilemi  storica,  in  volgare 
del  principio  del  secolo  XIII.  Curioso  testo  ritmico  inserto  in  una  cro- 
naca latina,  che  si  riferisce  a  fatti  di  guerra  tra  Lucchesi  e  Pisani  del  1213. 
n  narratore  comincia  in  prosa  latina,  ma  ben  presto,  infocandosi,  smette 
quella  forma  e  scrive  in  volgare,  rimando.  Il  testo,  breve  ma  notevole  spe- 
cialmente per  la  sua  antichità,  fu  trovato  dal  prof.  P.  Filippini  in  un  codice 
appartenente  all'archivio  del  Collegio  di  Spagna  in  Bologna.  Vorrà  essere 
studiato. 

Atti  della  R.  Accademia  delle  scienze  di  Torino  (XLIX,  9)  :  Gius.  Ma- 
nacorda, Un  testo  di  grammatica  latino-veneta  del  secolo  XIII,  frammento 
che  si  legge  sul  foglietto  di  guardia  del  cod.  1796  dell'Universitaria  di  Bo- 
logna; (11),  C.  Cipolla,  Sulle  tradizioni  antibonifaciane  rispetto  a  Guido 
da  Montefeltro  e  alla  guerra  dei  Colonna,  indagini  sul  procedimento  for- 
mativo della  leggenda  echeggiata  così  eflStftcemente  nel  poema  di  Dante; 
(12),  CI.  Merlo,  Note  di  fonetica  italiana  meridionale]  E.  Passamonti,  Un 
memm-iale  inedito  di  Prospero  Balbo  nel  dicembre  del  1799,  l'A.  prepara 
un  lavoro  sulla  attività  diplomatica  di  Prospero  Balbo,  materiato  con  docu- 
menti dell'Archivio  di  Stato  torinese  e  dell'archivio  privato  dei  Balbo  ; 
(15),  C.  Cipolla,  La  data  della  morte  di  Dante  secondo  Ferreto  dei  Ferreti, 
sarebbe  l'il  agosto  1321. 


468  CRONACA 

Bollettino  della  civica  biblioteca  di  Bergamo  (Vili,  1):  Come  venne  in 
luce  la  Ptdcella  di  Voltaire  tradotta  da  Vincenzo  Monti,  in  continuazione, 
articolo  anonimo,  pieno  di  dati  curiosi  ;  A.  Pinetti,  Lettere  pittoriche  inedite 
di  mons.  Giovanni  Bottari  e  del  conte  Giacomo  Carrara. 

Btdlettino  storico  pistoiese  (XVI,  2)  :  A.  Chiti,  Un'antica  poesia  popolare 
pistoiese,  scongiuro  in  versi  per  far  uscire  i  bruchi  dalle  viti.  Fu  scritto 
nel  1399  in  un  codice  Ricciardi. 

Fanfulla  della  domenica  (XXXVI,  22):  F.  Picco,  Di  im^  edizione  di  poesie 
scelte  di  Arturo  Graf,  opportuno  disegno  d'una  scelta  delle  poesie  più  tipiche, 
più  rappresentative,  del  Graf  ;  (24),  F.  Lo  Parco,  Il  vivo  dissenso  del  Nen- 
cioni  con  [sic]  G.  Carducci  per  il  dolce  canto  dell'usignuolo  ;  A.  Segrè,  Spi- 
golando da  una  raccolta  d^ autografi,  ora  presso  il  municipio  di  Grosseto, 
comunica  due  letterine  del  Carducci;  (25),  Guido  Mazzoni,  Giuseppe  Giusti 
e  Lorenzo  Borsini,  curiose  notizie  su  quel  Borsini,  che  il  Giusti  ritenne  a 
torto  avergli  rubato  il  brindisi  A  Girella]  (26),  0.  CiarduUi,  Una  critica  e 
una  replica  nel  1823,  la  fine  nel  n.  27,  si  tratta  della  critica  che  il  Carrer 
fece  al  poemetto  Le  passioni  di  Lorenzo  Puppati;  (27),  I.  Sanesi,  Lorenzo 
Lippi;  (28),  R.  Zagaria,  Studi  e  polemiche  su  L.  Ptdci]  (29),  R.  Cessi,  La 
famiglia  di  Gasparina  Stampa,  documentini  non  privi  di  valore  ;  (30),  G.  Ber- 
toni, Fer  il  testo  di  una  lauda,  propone  emendamenti  ai  testi  editi  dal  Sal- 
vioni  da  un  codice  di  Como  ;  S.  Peri,  Dopo  la  lettura  delle  lettere  del  Car- 
ducci a  Severino  Ferrari,  manipoletto  di  ricordi  personali;  (31),  V.  Clan, 
La  donna  pistoiese  del  tempo  antico,  sul  volumetto  di  L.  Chiappelli  ;  V.  San- 
toro Di  Vita,  Noterelle  al  «  Centuria  »  di  G.  Pascoli,  vi  ravvisa  reminiscenze 
dello  Heine;  (32),  G.  Rustico,  Massimo  d'Azeglio  e  la  Sicilia,  con  due  let- 
tere prima  inedite  del  D'A.  serbate  nella  bibl.  civica  di  Palermo  ;  (33),  G.  Se- 
crétant,  Goldoni  in  America-,  D.  Menghini,  Poeta  tosco,  divagazioni  su 
Pietro  Aretino. 

Il  libro  e  la  stampa  (Vili,  1-2)  :  C.  Frati,  Segreti  delle  antiche  legature, 
raccoglie  molte  indicazioni  di  testi  notabili  trovate  in  antiche  legature  e  co- 
munica un  frammento  del  Lamento  di  Pisa  di  Pucino  d'Antonio  da  Pisa; 
Vinc.  Ferrari,  Lo  stampatore  Andrea  Portilia  a  Reggio  Vanno  1479  ;  Al.  Ca- 
sati, Tra  gli  autografi,  indicazioni  sull'  indirizzo  filosofico  della  vecchia  An- 
tologia con  comunicazione  d'uno  scritto  inedito  dello  Stendhal;  (^TII,  3), 
P.  P.  Trompeo,  Stendhal  e  Bianca  Milesi;  C.  Frati,  Lettere  inedite  di  scrit- 
tori italiani  dei  sec.  XVIII  e  XIX  tratte  dalle  carte  di  Jacopo  Morelli, 
in  continuazione,  sono  lettere  di  bibliografi  e  di  eruditi. 

La  lettura  (XIV,  6):  E.  Del  Giglio,  Il  bidlicame,  presso  Viterbo,  con  ri- 
produzioni; (2),  Mario  Puccini,  Passeggiata  leopardiaim  ;  (8),  L.  Rasi,  L'alle- 
stimento scenico  nel  teatro  italiano  di  prosa  ;  (9),  N.  Rodolico,  Donne  e  sete 
di  Firenze  antica. 

H  Marzocco  (XIX,  22)  :  L.  D.,  Un  ritratto  dimenticato  di  Fraìu;.  Guic- 
ciardini] G.  Caprin,  Il  Tristano  italiano,  sulla  compilazione  di  G.  L.  Pas- 
serini; (23),  E.  Corradini,  Dante  e  Francesca]  (24),  P.  Bacci,  Gli spotisali 
di  un  figlio  del  conte  Ugolino,  documenti  pisani  del  1284-85;  G.  S.  Gargano, 
L^ Ariosto  in  Inghilterra,  sul  libro  della  sig.*  Benedetti,  che  sarà  esaminato 
debitamente  anche  nella  nostra  rivista;  (26),  E.  G.  Parodi,  Il  «  giullare  di 
Dio  »,  considerazioni  su  Jacopone;  (27),  Ces.  Levi,  Dalla  commedia  dell'arte 
a  Carlo  Goldoni,  riflessioni  suscitate  dal  volume  del  Del  Cerro,  che  il  nostro 
Giornale  esaminerà  pure  ;  Edg.  Gamerra,  Due  aneddoti  guerrazzani,  con  do- 


CRONACA  469 

cumenti  inediti;  (30),  P.  Savj-Lopez,  Da  Carlo  Gozzi  a  Riccardo  Wagner, 
sul  melodramma  giovanile  wagneriano  Le  fate,  che  riproduce  una  fiaba  di 
C.  Gozzi.  Sul  soggetto  vedi  una  comunicazione  di  Guido  Manacorda  nel  n.  36. 

La  critica  (XII,  3  e  4)  :  B.  Croce,  Il  De  Sanctis  in  esilio,  molti  carteggi 
con  amici  ed  amiche,  alcuni  gustosi  aneddoti  zurighesi;  B.  C,  De  Sanctis  e 
la  mancanza  del  «  successore  »,  questo  articolo  provocò  dall'amico  Gian  una 
lettera  pubblica,  ove  sono  dette  molte  cose  giustissime;  (XII,  3),  Croce,  La 
conversione  dell' Innominato  ;  Croce,  Un  documento  su  Leone  Ebreo,  privi- 
legio del  1520  trascritto  dall'originale  che  è  nell'Arch.  di  Stato  in  Napoli; 
(XII,  5),  Croce,  Il  De  Sanctis  in  esilio,  continuazione  di  carteggi,  fra  cui 
forse  le  cose  più  importanti  sono  alcune  lettere  di  Vitt.  Imbriani  ;  Psicologia 
accademica,  trafiletti  polemici  del  senatore  Croce  contro  professori  e  gior- 
nalisti, tra  cui  pure  trovò  sempre  le  maggiori  benevolenze.  Uno  di  quei  trafi- 
letti risponde  alla  nota  di  Giorn.,  64,  264.  Per  noi  basta.  Del  valore  critico 
di  A.  Graf  giudicherà  senza  partito  preso  il  pubblico  competente  e  senten- 
zierà  l'avvenire.  All'uno  e  all'altro  ci  appelliamo. 

Rassegna  bibliografica  della  letteratura  italiana  (XXU,  4-5):  A.  Bertoldi, 
Appunti  bibliografici  per  un  commento  al  Decameron  ;  segue  una  accurata 
rassegna  delle  pubblicazioni  uscite  pel  centenario  boccaccesco,  dovuta  ad 
A.  Della  Torre;  anche  il  nostro  Giornale  ha  in  serbo  una  recensione  critica 
delle  più  significanti  (molto  è  vanità)  tra  quelle  pubblicazioni;  (XXII,  6), 
E.  Mele,  Una  traduzione  inedita  del  «  Lazarillo  de  Tormes  »,  è  di  Girolamo 
Visconti  e  si  conserva  a  Napoli,  in  quella  bibl.  nazionale. 

Rivista  tridentina  (XIV,  2)  :  G.  Chelodi,  Le  proibizioni  delVusura  nel 
Trentino  nel  secolo  XVI,  in  continuazione,  rilevante;  (XIV,  3),  G.  Emert, 
Saggi  manzoniani,  raccolta  di  concetti  specialmente  d'ordine  morale  che  nel 
romanzo  occorrono  e  riflessioni  su  di  essi. 

Nuova  Antologia  (n»  1019):  Corrado  Corradino,  JLr^wro  Graf,  discorso  com- 
memorativo; (n»  1020),  G.  Natali,  Alcune  idee  sul  Settecento,  oppone  dubbi 
a  certi  giudizi  ormai  tradizionali  su  quel  secolo;  (n®  1021),  Gaet.  Tiretto, 
Lettere  inedite  di  Gius.  Mazzini,  dieci  di  numero,  dirette  dal  1863  al  1872 
a  Mario  Aldisio  Sammito;  (n®  1022),  C.  Segrè,  Il  pericolo  italiano  nelV In- 
ghilterra di  Elisabetta,  rapporti  specialmente  morali  fra  i  due  paesi  ;  E.  Bel- 
lorini,  Il  carteggio  di  Federico  Gonfalonieri]  (n<>  1023),  Gr.  P.  Clerici,  Paolo 
Toschi  e  Pietro  Giordani,  articolo  redatto  su  documenti  inediti  ;  E.  Calvi, 
Le  marionette  a  Roma. 

Rassegna  contemporanea  (VII,  10)  :  C.  De  Lollis,  Aleardi  poeta  delVaHe 
per  Varie,  rileva  l'importanza  dell' Aleardi  «  quale  poeta  di  transizione  dai 
«  romantici  a  quelli  che  tornano  ad  essere  poeti  d'arte,  quale,  in  sommo 
«  grado,  fu  il  Carducci  »;  (VII,  12),  M.  Puccini,  Un  filologo  del  secolo  scorso, 
Giuseppe  Manno. 

Rivista  di  Roma  (V,  9-10)  :  A.  Lumbroso,  Estratti  di  Silvio  Pellico  dalle 
Sacre  Scritture,  l'autografo  di  questi  estratti,  fatti  dal  Pellico  pel  re  Carlo 
Alberto,  si  conserva  nella  biblioteca  del  Re  in  Torino  e  fu  stampato  nel  1884 
da  Vincenzo  Promis  in  sessanta  esemplari,  ora  irreperibili;  (V,  11),  A.  Lum- 
broso, Dalla  contessa  Bianca  di  Challant  a  Giulio  II,  trae  una  serie  di  figure 
dalle  novelle  del  Bandello:  (V,  12  e  VI,  1-3),  A.  Dalgas,  La  Versilia  e  la  sua 
poesia,  importante  anche  per  chi  studia  l'indole  poetica  del  Carducci  nelle 
sue  fasi  primitive. 


470  CRONACA 

Bivista  d'Italia  {XVII,  5):  V.  Osirao,  Il  canto  III  deW Infernx),  interpre- 
tazione sagace  e  in  parecchie  parti  nuova  ;  L.  Mannucei,  //  sentimento  della 
morte  nella  poesia  di  G.  Carducci  ;  Bianca  Ciafardini  Farina,  //  piìi  ammi- 
rato tra  i  fondatori  delV Arcadia,  sullo  Zappi;  F.  Pasini,  Antonio  Gazzo- 
letti;  (XVII,  6),  M.  Brunetti,  I  compagni  di  Ctiucomo  Casanova  sotto  i 
«  Piombi  »;  F.  Biondolillo,  Un  celebre  poeta  del  Cinquecento  in  Sicilia,  parla 
di  Antonio  Veneziano;  L.  Pastine,  L'ultimo  sonetto  del  Parini,  spiega  quel- 
l'elogio alla  restaurazione  e  si  sofferma  sulle  idee  politiche  e  sociali  del  Pa- 
rini; V.  Lugli,  Appunti  su  «  Fede  e  bellezza  »;  A.  Sandonà,  L'idea  unitaria 
ed  i  partiti  politici  alla  vigilia  del  1848;  (XVII,  7),  P.  Lorenzetti,  La  donna 
presso  gli  scrittori  del  Cinquecento;  0.  Fabretti,  Paolina  Andryane  e  Piero 
Maroncelli,  da  ricerche  nel  museo  del  risorgimento  di  Forlì  ;  (XVII,  8),  V.  Va- 
lente, Il  Napioìie  e  l'abate  di  Caluso  in  un  gruppetto  epistolare,  due  au- 
tografi conservati  nella  biblioteca  civica  di  Torino. 

Il  Risorgimento  italiatm  (VII,  2):  G.  Canevazzi,  Lettere  di  G.  Mazzini 
a  Cesare  Marani  e  Pietro  Bolandi,  hanno  anche  particolari  letterari  e  sono 
tratte  dagli  autografi  del  museo  modenese  del  Risorgimento.  In  questo  fasci- 
colo è  stampato  anche  un  curioso  dramma  storico  in  cinque  atti,  scritto  in 
Roma  nel  1849  da  Vincenzo  Bellagambi,  La  morte  dei  fratelli  Bandiera. 

Bassegìm  stonca  del  Bisorgimento  (I,  3):  G.  Gentile,  Pasquale  Galluppi 
giacobino  ? ,  determina  molto  meglio  di  quanto  finora  sia  stato  fatto  l'atteg- 
giamento politico  del  Galluppi,  che  non  fu  né  di  giacobino  né  di  antigiaco- 
bino, ma  «  di  liberale  e  patriota,  se  non  nel  senso  del  1797,  in  quello  più 
«  antico  della  tradizione  paesana  di  Napoli  e  della  posteriore  storia  italiana  »; 
G.  Cadolini,  G-iuseppe  Mazzini  nel  pensiero  e  nell'azione. 

Atti  e  memorie  della  B.  Deputazione  di  storia  patria  per  la  Bomagna 
(Serie  IV,  voi.  IV,  1-3):  F.  Bosdari,  Il  comune  di  Bologna  alla  fìfie  del  se- 
colo XIV,  in  continuazione,  ampia  memoria  in  cui  si  tien  conto  anche  della 
vita  privata  e  del  costume. 

Archivio  storico  per  la  Sicilia  orientale  (XI,  2):  S.  Consoli,  Giuseppe 
Gioeni  elogiato  da  un  umanista  catanese  del  sec.  XVIII,  riferisce  un  canne 
latino  del  canonico  Vito  Coco,  del  quale  dà  notizie;  A.  Raimondi,  Un'anto- 
logia di  rime  catalane  in  un  ms.  rentimiliano,  quel  codice  della  ventimiliana 
di  Catania  era  sinora  noto  soltanto  per  ciò  che  ne  disse  P.  Savj -Lopez  a  pro- 
posito d'una  nuova  redazione  della  celebre  epistola  di  Rambaut  de  Vaqueiras  ; 
F.  Stanganelli,  Un  poeta-filosofo  dimenticato,  tratta  di  Tommaso  Campailla. 

Archivio  storico  per  le  provincie  napoletane  (XXXIX,  1  e  2):  Fr.  Tor- 
raca,  Chiovanni  Boccaccio  a  Napoli,  in  continuazione;  G.  Caso,  La  carboneria 
di  Capitanata  dal  1816  al  1820,  in  continuazione. 

Archivio  per  l'Alto  Adige  (IX,  1-2):  G.  A.  Morpurgo.  Bicordi  dell'Aito 
Adige  in  alcuni  viaggiatori  del  Seicento  e  Settecento. 

Atti  del  B.  Istituto  Veneto  (LXXIII,  3):  V.  Crescini  e  V.  Todesco,  La 
versione  catalana  dell'  Inchiesta  del  San  Grani,  saggio  della  redazione  cata- 
lana della  Queste,  che  si  trova  nell'Ambrosiana,  col  raffronto  della  versione 
italiana  edita  a  Venezia  nel  1569,  della  portoghese  e  della  spagnuola;  F.  Ga- 
lanti, Onoranze  a  Gasparo  Gozzi;  (LXXIII,  5),  V.  Crescini  e  C.  Frati, 
Emilio  Teza  e  bibliografia  di  Emilio  Teza,  il  difficile  elenco  bibliografico 
è  condotto  esemplarmente;  E.  Bebta,  Sulla  composizione  della  cronaca  vene- 
ziana attribuita  al  diacono  Giovanni. 


CRONACA  471 

Rivista  delle  biblioteche  e  degli  archivi  (XXV,  1-4):  E.  Benvenuti,  Per 
la  biografìa  di  Antonio  Magìiahechi,  conclude  che  il  Magliabechi  «  fti  una 
«  fonte  di  luce  letteraria  o  meglio  ancora  una  vena  ricchissima  d'erudizione, 
«  ma  non  certo  di  bontà  e  di  onestà  »;  Paul  Hogberg,  Manuscrits  itaìiens 
dans  les  bibliothèqnes  suédoises,  in  continuazione,  qui  si  registrano  mss.  del 
Petrarca,  del  Boccaccio,  di  Leonardo  Bruni,  di  Trajano  Boccalini,  ecc. 

La  bibliofììia  (XVI,  3-4)  :  K.  Almagià,  La  carta  d'Italia  di  G.  A.  Vavas- 
sori,  del  Cinquecento,  riprodotta  fotograficamente  e  bene  illustrata  ;  Zambra, 
Incunaboli  d'origine  italiana  nella  biblioteca  delV Accademia  ungherese  delle 
scienze  di  Budapest. 

Bollettino  d'arte  (Vili,  6):  G.  Giovannoni,  Il  palazzo  dei  tribunali  del 
Bramante  in  un  disegno  di  fra  Giocondo. 

Rassegìia  d'arte  (XIV,  4)  :  G.  Nicodemi,  Codici  miniati  dell' Archivio 
Santambrosiano]  (XIV,  5),  A.  Stanghellini,  Due  quadri  ignorati  di  Salvator 
Uosa  in  una  collezione  privata  a  Firenze. 

Rivista  musicale  italiana  (XXI,  2):  L.  Frati,  Musicisti  e  cantanti  bolo- 
gnesi del  Settecento;  A.  Cametti,  Orazio  Michi  «  dell'  arpa  »,  virtuoso  e  com- 
positore di  musica  della  pnma  metà  del  Seicento  ;  G.  Fara,  Sulla  etimologia 
della  parola  «  tumbu  »,  noticina  di  nomenclatura  musicale  sarda. 

Rassegna  gregoriana  (1914,  nn.  4-6):  J.  Schuster,  Delle  origini  e  dello 
sviluppo  del  canto  liturgico. 

Rassegala  nazionale  (voi.  197):  G.  Sommi  Picenardi,  Lettere  inedite  di 
Paolo  Frisi  a  G.  B.  Biffi,  dal  1766  al  1775;  N.  Bodolico,  Scipione  dei  Ricci 
e  la  costituzione  civile  del  clero  di  Francia  ;  (voi.  198),  G.  Sommi  Picenardi, 
Lettere  inedite  di  Francesco  Melzi  d'Eril,  di  G.  B.  Giovio,  di  C.  Denina 
e  di  Girol.  Tiraboschi;  I.  Del  Lungo,  Dal  primo  esilio  di  Niccolò  Tom- 
maseo, polemiche  politiche;  C.  Frati,  Emilio  Teza  «  aggiunto  temporaìieo  » 
nella  biblioteca  Marciana,  con  documenti  interessanti. 

La  civiltà  cattolica  (quad.  1589)  :  tutto  il  quaderno  è  destinato  a  comme- 
morare la  restaurazione  ed  i  fasti  della  Compagnia  di  Gesù. 

Archeografo  triestino  (XXXV,  2;  :  B.  Ziliotto,  L'assedio  di  Trieste  nella 
poesia,  si  tratta  dell'assedio  posto  a  Trieste  nel  1508  da  Massimiliano  im- 
peratore, cantato  in  un  carme  di  Giannantonio  Flaminio  e  rammentato  da 
altri  umanisti. 

La  cultura  filosofica  (Vili,  2-8)  :  G.  Fanciulli,  La  psicologia  della  musica. 

Rivista  di  filosofia  (VI,  4)  :  G.  Maggiore,  Intmno  all'etica  bruniana. 

Miscellanea  francescatm  (XV,  1)  :  P.  Cijjp  da  Pesaro,  Beato  Angelo  Cla- 
reno  dei  Minori,  in  continuazione,  pare  divenga  monografia  di  qualche  im- 
portanza. —  A  p.  28  si  noti  la  chiosa  al  verso  dantesco  del  Par  ad.,  XI,  ove  ^ 
proposto  di  chiamare  «  oriente  »  Assisi. 

Athenaeum  (II,  8)  :  P.  Lorenzetti,  Carducciana,  pubblica  sei  lettere  del 
Carducci  riguardanti  Silvio  Giannini,  che  si  conservano  nel  Museo  Calderini 


472  CRONACA 

di  Varallo  ;  Art.  Pascal,  Un  capitolo  detta  «  Monarchia  di  Spagna  »  di  fra 
Tommaso  Campanetta  secondo  due  precedenti  redazioni-^  G.  B.  Pesenti,  Un 
epigramma  attribuito  ad  Empedocle  e  la  versione  di  F.  Filelfo,  chiarisce  un 
punto  rimasto  oscuro  nel  recente  studio  filelfiano  di  A.  Calderini. 

Giornale  storico  della  Lunigiana  (VI,  1)  :  A.  Neri,  Lettere  di  G.  Fantoni 
a  G.  B.  Bodoni,  se  ne  conservano  gli  autografi  nella  Palatina  di  Parma. 

L'Archiginnasio  (IX,  3):  0.  Antognoni,  Giovanni  Cod ronchi,  parla  pure 
di  sue  relazioni  con  letterati  e  segnatamente  col  Pascoli,  di  cui  pubblica  una 
lettera  :  A.  Sorbelli,  Un  episodio  della  storia  di  Bologtia  nelVopera  di  frate 
Cherubino  Ghirardacci,  è  lieto  l'annuncio  che  finalmente  verrà  stampato  il 
terzo  volume  del  Ghirardacci;  (IX,  4),  F.  Bosdari,  La  vita  musicale  a  Bo- 
logna nel  periodo  tmpoleonico  ;  N.  Morini,  Piero  Maroncelli  in  alcuni  do- 
cumenti delV Archivio  di  Stato  di  Bologna. 

Rivista  ligure  (XLI,  3):  Alf.  Ricolfi,  Giosuè  Carducci  e  il  romanticismo, 
in  continuazione;  Andrea  Novara,  L'opera  poetica  di  Arturo  Graf. 

Bollettino  della  Società  pavese  di  storia  patria  (XIV,  2):  M.  Bolis,  L'ac- 
cademia scientifico-letteria  ticitiese,  con  documenti. 

Rivista  internazionale  di  scienze  sociali  (n.  257):  G.  Piovano,  La  libertà 
della  scuola  in  Italia  dallo  Statuto  in  qua,   lungo  ed  importante  scritto. 

Rassegna  critica  della  letteratura  italiana  (XVIII,  7-12):  R.  Cessi,  Vi- 
cende «  frustatone  »  di  Giuseppe  Baretti,  buon  contributo  alla  vita  del  Ba- 
retti  e  alla  storia  della  Frusta,  con  documenti  nuovi  trovati  nell'Archivio 
di  Stato  in  Venezia  ;  A.  Sorrentino,  Due  battesimi  nella  poesia  cavalleresca, 
vacuo  raffronto  del  notissimo  battesimo  di  Clorinda  nella  Liberata  con  quello 
analogo  di  Marcovaldo  nel  Morgante  ;  G.  Rosalba,  Tre  sonetti  rari  di  An- 
gelo di  Costanzo  e  quattro  di  Luigi  Tansillo  in  un  curioso  libretto,  sono 
impressi  in  appendice  alla  tragedia  Altea  di  Niccolò  Carbone  in  un  esemplare 
custodito  nella  bibl.  Nazionale  di  Napoli  ;  N.  Zingarelli,  La  corda  e  Gerione, 
giocherello  ermeneutico  ben  meno  soddisfacente  dell'interpretazione  ardita  ma 
vigorosa  del  Bevilacqua,  su  cui  cfr.  Giorn.,  63,  444;  (XIX,  1-3),  G.  Paladino, 
La  fine  del  conte  di  Policastro  secondo  nuovi  documenti,  con  la  bella  te- 
stimonianza di  Battista  Bendedei,  oratore  estense  a  Napoli,  mostra  mendace 
il  Porzio,  che  sulla  attestazione  di  ben  manipolati  processi  afferma  che  il 
Petrucci  ha  mostrato  debolezza  d'animo  nel  momento  supremo.  È  noto  omai 
che  la  narrazione  del  Porzio,  tanto  lodata  per  la  robusta  ed  elegante  virtù 
espositiva,  lascia  molto  a  desiderare  quanto  a  veridicità  storica.  —  Non  tra- 
scurabile la  recensione  che  E.  Pèrcopo  consacra  al  libro  della  Mazzucchetti  su 
Schiller  in  Italia. 

L'Ateneo  veneto  (XXXVII,  I,  3):  C.  Musatti,  Il  teatro  sociale  di  Oderzo, 
sulla  cronaca  ms.  dei  barbieri  e  suonatori  Sopran  ;  A.  Pilot,  Una  canzonetta 
per  musica  inedita  di  Antonio  Ottoboni  •  (XXXVII,  II,  1),  B.  CI.  Cestaro,  Ri- 
matori padovani  del  sec.  XV,  continuazione  di  questa  ricerca  erudita,  qui  si 
discorre  di  Tifi  Odasi,  di  Niccolò  Lelio  Cosmico,  di  Benedetto  Bertipaglia,  di 
Francesco  Pellati,  di  Marco  Businello,  di  Leonardo  Basso,  di  Gerolamo  Cam- 
pagnola; Guido  Pusinich,  Commento  al  canto  X  del  Paradiso. 

Atti  delV Accademia  Pontaniana  (voi.  XLIV):  B.  Croce,  Ricerche  e  do- 
cumenti destnctisiani.  Scritti  di  valore  diverso  che  il  Cr.  ha  racimolati  nella 


CRONACA  478 

caccia,  ammirevole  per  affettuosa  tenacia,  ch'egli  vien  dando  a  ciò  che  ap- 
partiene al  suo  diletto  De  Sanctis,  Qui  ahhiamo  cinque  discorsi  scolastici, 
che,  a  dir  vero,  sono  solamente  «  nuova  testimonianza  dell'alto  animo,  col 
«  quale  il  De  S.  esercitava  il  suo  ufficio  di  maestro  »;  quindi  una  serie  di 
frammenti  estetici,  tolti  dalle  lezioni  su  Dante,  frammenti  da  cui  si  discerne 
il  graduale  allontanarsi  del  De  S.  dallo  hegelismo  e  si  valuta  il  suo  atteg- 
giamento di  fronte  allo  Schopenhauer.  Per  noi  potrehhe  avere  maggiore  in- 
teresse un  frammento  di  lettera  a  Camillo  De  Meis  sulle  origini  della  poesia 
e  della  lingua  d'Italia,  se  fosse  facile  il  raccapezzarsi  in  quei  concetti  stac- 
cati, che  il  De  S.  non  avrebbe  certo  mai  sognato  che  fossero  un  giorno  pub- 
blicati a  quel  modo.  Cosa  di  maggior  rilievo  è  il  frammento  di  traduzione 
in  versi  della  seconda  parte  del  Faust,  che  il  Cr.  attribuisce  agli  anni  della 
carcerazione  tra  il  '51  e  il  '53.  Pare  che  questo  sia  «  il  primo  tentativo 
«  italiano  di  traduzione  della  seconda  parte  del  Faust  »,  e  non  è  spregevole 
davvero.  —  Incluse  il  Cr.  tra  questi  documenti  desanctisiani  Uno  scritto 
inedito  di  Luigi  La  ^  Vista,  più  importante  di  quelli  che  il  Villari  fece  co- 
noscere nel  1863.  È  una  lucida  esposizione  dei  Fondamenti  di  estetica  di 
Pasquale  Balestrieri,  che  uscirono  in  luce  a  Napoli  nel  1847.  Aggiungonsi 
due  scritterelli,  l'uno  del  La  Vista,  l'altro  di  Agostino  Magliani,  intorno  al 
Berchet,  che  sono  «  documenti  della  fortuna  del  Berchet  nell'Italia  meridio- 
«  naie  durante  gli  anni  del  risorgimento  ». 


The  modem  language  revieiv  (IX,  3)  :  Paget  Toynbee,  The  S.  Pantaleo 
italian  transìation  of  Dante's  letter  te  the  emperor  Henry  VII,  pubblica 
la  versione  italiana  trecentesca  dell'epistola  di  Dante  ad  Arrigo  VII,  che  si 
legge  nel  ms.  di  S.  Pantaleo  della  Vittorio  Emanuele  di  Eoma  e  non  era 
peranco  stampata,  mentre  lo  fu  parecchie  volte  quella  attribuita  al  Ficino; 
E.  F.  Jourdain  e  J.  Evans,  A  note  on  an  cdlusion  to  Rome  in  the  Divina 
Commedia,  si  ricerca  quale  sia  «  il  monte  »  menzionato  neWInf.,  XVIII,  33 
come  sorgente  di  contro  a  S.  Pietro,  e  si  congettura  che  non  sia  il  monte 
Giordano  (come  vogliono,  dietro  al  Bassermann,  i  più  fra  gli  odierni  com- 
mentatori), ma  il  monte  Brianzo,  oggi  spianato. 

Modem  Philology  (XII,  3):  Geoffrey  A.  Dunlop,  The  sources  ofthe  idyls 
of  Jean  Vauquelin  de  la  Fresnaye,  sono  in  gran  parte  fonti  italiane,  VAr- 
cadia,  V Aminta,  le  liriche  del  Tasso,  G.  B.  Guarini,  ecc. 

Revue  hleue  (30  maggio  1914):  Jean  Alazard,  Le  ìuxe  et  les  divertisse- 
ments  à  la  Cour  de  Ludovic  le  More,  su  studi  recenti  e  in  ispecie  sul  libro 
del  Malaguzzi- Valeri. 

Mercure  de  France  (CX,  409):  Fr.  Carco,  Re'flexiofis  sur  Vlmmour;  (411), 
J.  Pollio,  Le  vrcn  teocte  des  Méinoires  de  Casanova. 

Puhlications  ofthe  modem  language  Association  of  America  (XXIX,  2): 
R.  Altrocchi,  The  story  of  Dante^s  Gianni  Schicchi  and  Regnard's  «  Le'- 
gataire  universe!  »,  riscontri  che  si  aggiungono  a  quelli  indicati  dal  Toldo 
nel  voi.  48  di  questo  Giorncde.  « 

Bevista  de  fdologia  espanola  (I,  2):  A.  Castro,  Disputa  entre  un  cristiano 
y  un  Judio. 

BuUetin  italien  (XIV,  2)  :  Ferd.  Neri,  Io  son  venuto  al  punto  della  rota, 
acute  considerazioni  sulle  «  rime  della  pietra  »  del  poeta  sovrano;  Ch.  Dejob, 


474  CRONACA 

L'Orlando  innamorato  et  V Orlando  furioso,  la  fine  nel  fascic.  successivo; 
A.  Morel-Fatio,  Dialogue  entre  Charon  et  Fame  de  Pierre  Louis  Farnese, 
ripubblica  più  correttamente  questo  bizzaiTo  dialogo  spagnuolo,  che  rappre- 
senta l'atteggiamento  dell'opinione  pubblica  verso  Paolo  III  e  la  sua  famiglia; 
(XIV,  3),  J.  Martin,  Un  saint  de  Vlmmanisme:  ìe  bienheureux  Battista 
Spagnoli  dit  Mantovano,  generai  des  Cannes,  articolo  che  non  dice  nulla 
di  nuovo,  mentre  pare  che  all'A.  sia  rimasta  sconosciuta  la  bella  edizioncina 
americana  commentata  delle  ecloghe  del  Carmelita  dovuta  al  Mustard,  cfr. 
Giorn.,  59,  165.  Sono  continuati  in  questi  due  fascicoli  gli  scritti  su  Ban- 
delìo  en  France  au  XVI  siede  e  su  Les  femmes  dans  F oeuvre  de  Fogazzaro. 

Zeitschrift  fur  romanische  Phiìoìogie  (XXXVIII,  4):  R.  Palmieri,  Appunti 
per  servire  alia  biografia  di  CJiiaro  Davanzati,  ragguardevole  articoletto, 
sebbene  non  contenga  dati  nuovi  di  fatto. 

Germanisch-romanische  Monatsschrift  (VI,  3)  :  Ed.  Castle,  Zur  Entivick- 
lungsgeschichte  des  Wortbegriffs  Stil;  (VI,  4),  C.  Battisti,  Die  Eklogen 
Dantes]  (VI,  6),  M.  J.  WolflF,  I  Cinque  canti  des  Ariost. 

Archiv  fiir  Beligionswissenschaft  (XVII,  1-2):  C.  Clement,Z)er  Ursprung 
des  Karnevals. 

The  fornightìy  review  (genn.  1914):  E.  W.  Macan,  Goethe  in  Bom. 

Bevue  des  cours  et  confe'rences  {XXll,  13):  H.  Chamard,  Les  origines  ita- 
ìiennes  de  la  Benaissance  littéraire  en  France.  Nel  n°  14,  continuazione, 
L'introduction  et  la  diffusion  de  Vitalianisine  ;  nel  n<>  16,  Les  origines  de 
Vlmmanisme,  con  riflessioni  sui  suoi  benefìci  e  sui  suoi  errori. 

Bomanistische  Arbeiten  (pubbl.  a  Halle  dalla  Casa  Niemeyer,  sotto  la  di- 
rezione di  C.  Voretzsch):  n»  4,  Aug.  Wulff,  Die  frauenfeindlichen  IJichtwngen 
in  den  romanischen  Literaturen  des  Mittelaìters  ]  n°  5,  H.  Stiefel,  Die  ita- 
lienische  Tenzotie  des  XIII.  Jdhrhunderts  und  ihr  Verhaltnis  zur  proven- 
zalischen  Tenzone. 

La  revue  de  Paris  (XXI,  4,  5,  9,  10):  Leon  Blum,  Stendhal  etVhistoire 
du  Beylisme,  notabile. 

Bevu£  des  deux  mondes  (15  maggio  '14)  :  T.  de  Wyzewa,  Queìques  fìgures 
de  mystiques  siennois,  sulla  raccolta  di  Piero  Misciatelli  ;  (l*'  giugno  '14), 
Fr.  Picavet,  Boger  Bacon,  la  formation  intellectuelle  d'un  homme  de  genie 
au  XIII  siede. 

Bevue  d'hùtoire  littéraire  de  la  France  (XXI,  2):  P.  Kuhn,  Vinfluence 
neo-latine  dans  les  églogues  de  Bonsard. 

Qiielien  und  Untersuchungen  zur  lateinischen  PhUologìe  des  Mittelaìters 
(V,  1):  Goswin  Frenken,  LHe  Exempla  des  Jacob  von  Vitry,  importante 
lavoro,  che  si  estende  a  caratterizzare  l'indole  e  l'origine  della  letteratura 
degli  «  exempla  ». 

Le  moyen  àge  (XXVII,  2):  M.  Wilmotte,  Observations  sur  le  Boman  de 
Troie,  importante.  Sull'argomento  pubblicheremo  presto  noi  pure  l'articolo 
d'ano  specialista,  il  Gorra. 


CRONACA 


475 


Neue  Jahrbiicher  fiir  das  klassisch^  Altertum  (XXXIII-XXXIV,  6)  :  Ernst 
Maass,  Goethe  in  Spoleto. 

Bulletin  hihìiograpliique  et  pédagogiqite  dn  Musée  Belge  (XVIII,  6-7): 
A.  D.  Xenopol,  Le  caractère  scientifiqtie  de  Vhistoire. 

The  romanic  revieic  (V,  1):  J.  P.  Wickersham  Crawford,  Notes  on  thetra- 
gedies  of  Lupercio  Leonardo  de  Argensoìa,  dimostra  che  la  Aìejandra  del- 
l'Argensola  è  in  gran  parte  derivata  dalla  Marianna  di  Ludovico  Dolce; 
H.  F.  MuUer,  The  use  of  the  pìural  of  reverence  in  the  letters  of  pope  Gre- 
gory i;  J.  S.  P.  Tatlock,  Another  paraìlel  to  the  first  canto  of  the  Inferno, 
indica  parecchi  riscontri  con  autori  medievali,  ma  il  loro  valore  non  è  grande. 

Revue  des  questions  historiques  (n»  188):  J.  Guiraud,  Ozanam  historien 
chrétien  ;  (n»  190),  Adhéniar  d'Alès,  Le  cardinal  Rampolla  historien. 

Revue  de  synthèse  historique  (XXVII,  1  a  3)  :  L.  Davillé,  La  comparaison 
et  la  méthode  comparative,  en  particulier  dans  les  études  histwiques  ; 
(XXVIII,  1),  fascicolo  tutto  dedicato  alla  storia  dell'arte,  di  cui  si  indica  il 
metodo  e  si  riferisce  sull'insegnamento  nelle  varie  parti  dell'Europa  civile. 

Quellen  und  Forschungen  aus  dem  Gehiete  der  Geschichte  (voi.  XVII): 
Ludwig  Mohler,  Die  Kardindle  Jakob  und  Peter  Colonna,  contribuzione 
documentata  alla  storia  dei  tempi  di  Bonifazio  Vili. 

Mélanges  d^ archeologie  et  dliistoire  (XXXIV,  1-2):  Pi.  Faiwtier,  Catheri- 
niana,  serie  di  nuovi  testi  inediti,  che  concernono  Santa  Caterina;  (3),  J.Martin, 
Le  portrait  de  Virgile  et  les  sept  premiers  vers  de  V Eneide,  in  polemica 
col  Comparetti;  vedi  Atene  e  Roma. 

Revue  de  philosophie  (XIV,  6):  M.  Chassat,  Saint  Thomas  d'Aquin  et 
Siger  de  Brabant,  termina  nel  fase,  successivo. 

Revue  de  métaphysique  et  de  morale  (XXII,  4)  :  G.  Dwelshauvers,  Du 
sentiment  religieux  dans  ses  rappoHs  avec  Vart. 

MaeìhcmÌH  OdeccKcno  Tud.uopaffìuHecKaio  odiu,ecmea  npm  Hmh.  Hoeop. 
Vhuo.  (Odessa,  1914):  V.  Krusmann,  Un  bibliofilo  inglese  del  Trecento, 
parla  di  Eiccardo  de  Burv  e  delle  relazioni  di  lui  col  Petrarca.  Il  medesimo 
Krusmann  ha  pure  trattato  dell'  incontro  del  Petrarca  col  de  Bury  in  una 
memoria  degli  Atti  dell'Accademia  di  Odessa  del  1914,  ove  ha  analizzato  la 
lettera  Fam.  Ili,  1  del  Petrarca.  Sia  pur  notato  qui  per  incidenza  che  in 
occasione  del  centenario  boccaccesco  il  Krusmann  tenne  in  Odessa  un  discorso 
sul  Carattere  morale  del  Boccaccio. 

/KypH.  MuHucm.  Hap.  npocoihiu,eHÌR  (N.  S.,  50-51,  apr.-maggio  1914): 
N.  Arsénjev,  Il  pessimismo  di  Giacomo  Leopardi,  rilevante,  con  estesa  bi- 
bliografia. Nel  cap.  m,  Leopardi  e  il  cristffinesimo,  VA.  combatte  i  tenta- 
tivi di  riconoscere  al  Recanatese  un  sistema  filosofico  fisso  ed  organico. 

Tale  Review  s'intitola  una  rivista  trimestrale,  che  si  pubblica  fin  dal  1911 
sotto  la  direzione  di  un  comitato  di  professori  dell'Università  Yale  (New  Haven, 
Conn.,  Stati  Uniti).  Alcuni  degli  articoli  riguardano  la  letteratura  italiana: 
(l,  1),  K.  Mckenzie,  Antonio  Fogazzaro]  (II,  1),  W.  Hutchins,  Sem  Benelli; 


476 


CRONACA 


(II,  3),  W.  R.  Thayer,  Dante  as  the  inspirer  of  Italian  Patriotism,  Fautore 
di  una  nota  biografìa  del  Cavour  e  del  Daivn  of  Italian  Independence  tratta 
delle  opinioni  politiche  di  Dante  e  della  sua  influenza  sul  Risorgimento  ; 
(m,  1),  B.  B.  Amram,  Giovanni  Pascoli:  (III,  2),  H.  D.  ^eàgwìcV, Boccaccio, 
an  Apology,  vorrebbe  dimostrare  creazione  della  fantasia  del  Boccaccio  quanto 
troviamo  nelle  opere  di  lui  sulla  Fiammetta  o  sulle  Fiammette.  Tra  le  re- 
censioni, il  Mckenzie  parla  della  Modem  Italian  Literatvre  di  L.  CoUison- 
Morley;  e,  favorevolmente,  della  biografia  del  Goldoni  di  H.  C.  Chatfield- 
Taylor. 


*  Di  Edmondo  Farai  il  Giornale,  57,  189,  lodò  già  l'opera  ragguardevole 
sui  giullari  in  Francia.  Il  libro  di  lui  che  ora  abbiamo  d'innanzi,  Recherches 
sur  les  sources  latines  des  contes  et  romans  courtois  du  moyen  àge,  Paris, 
Champion,  1913,  ha  tutt'altro  carattere  e  valore.  Esso  è  un  aggregato  di  mono- 
grafìe diverse,  aventi  tutte  l'intento  di  mostrare  con  esempi  tipici  «  le  ròle 
«  qu'ont  eu  dans  la  formation  de  nos  romans  la  culture  livresque  et,  plus  par- 
«  ticulièrement,  les  éléments  d'origine  latine  ».  Non  è  certo,  oramai,  impresa 
nuova;  ma  questi  studi  confermano  la  persuasione  della  continuità  dell'in- 
flusso latino  nell'età  media,  sicché  nella  rinascita  non  si  ha  tanto  scoperta 
>di  fatti  nuovi,  quanto  novità  d'interpretazione  di  fatti  vecchi.  Una  buona 
parte  del  libro  del  Farai  si  aggira  intorno  ad  Ovidio  e  all'uso  che  ne  fu  fatto 
nei  romanzi  su  Tebe  e  su  Enea,  nel  Piramus  et  Tisbé  ed  in  altri  poemetti. 
Pure  influssi  latini  constata  l'A.  nei  componimenti  medievali  che  trattano  del 
quesito  se  valga  meglio  amare  un  clerc  od  un  cavaliere;  il  poemetto  latino 
di  Phillis  et  Flora  ne  è  il  più  antico  esemplare.  (Sul  tema  esiste  pure  un 
poemetto  franco- veneto  ch'è  oggi  l'Ashburn.  123  della  Laurenziana;  il  F.  lo 
pubblica  studiandone  la  lingua).  S'indugia,  quindi,  sul  meraviglioso  nelle  de- 
scrizioni dei  romanzi  francesi  del  XII  secolo  e  sulle  fonti  di  esso.  E  tutto 
cospira  a  far  vedere  che  di  quegli  elementi,  di  cui  in  generale  si  additano 
sorgenti  celtiche,  i  primi  vestigi  si  hanno  in  libri  della  bassa  latinità. 

*  La  benemerita  Casa  Champion  di  Parigi  ha  iniziato  una  nuova  impresa 
lodevolissima,  l'edizione  delle  (Euvres  inédites  de  Voltaire  a  cura  di  Fernand 
Caussy.  Questo  esteso  supplemento  comprenderà  in  tre  volumi  i  complementi 
agli  scritti  stòrici,  letterari,  filosofici,  alle  poesie,  al  teatro.  Seguiranno  sei 
volumi  dedicati  alla  corrispondenza,  la  quale  sarà  arricchita  di  ben  cinque- 
mila lettere  inedite  o  sparsamente  edite.  Già  nel  primo  volume  vi  sono  non 
poche  pagine  che  riguardano  l'Italia,  e  specialmente  la  letteratura  italiana 
v'è  considerata  nel  capitolo  sulle  arti  deWEssai  sur  les  moeurs.  Ma  tutta  in- 
tera questa  grande  opera  complementare  avrà  per  gli  studiosi  nostri  del  se- 
colo XVIII  interesse  cospicuo. 

*  Federico  Olivero,  che  insegna  come  libero  docente  letteratura  inglese 
neir  Università  di  Torino,  ha  ormai  resa  pubblica  una  serie  di  suoi  scritti 
riguardanti  la  materia  cli'egli  predilige  e  che  non  molti  italiani  padroneg- 
giano ai  pari  di  lui.  Ne  è  uscito  un  bel  volume  intitolato  Saggi  di  lettera- 
tura inglese,  Bari,  Laterza,  1913.  Fra  questi  riguardano  l'Italia  i  seguenti: 
Le  poesie  {tediane  di  Milton,  con  indicazioni  de'  suoi  studi  di  cose  italiane  e 


CRONACA  477 

dei  suoi  viaggi  in  Italia;  Wordsworth  e  l'Italia;  Dante  e  Coleridge  ;  Leigh 
Hunt  ed  i  suoi  studi  sulla  «  Divina  Commedia  »  ;  Dante  e  Shelley  ;  Shelley 
e  Petrarca  ;  Shelley  e  il  paesaggio  italico  ;  Keats  e  la  letteratura  italiana  ; 
Il  ritornello  nella  poesia  di  Dante  Gabriele  Rossetti,  specialmente  interes- 
sante. L'Olivero  tratta  talvolta  i  suoi  temi  alquanto  di  scorcio,  ma  sempre 
con  gusto,  buon  discernimento  e  buona  informazione.  Un  volume  gemello  a 
questo  pubblicò  poscia  l'Olivero  col  titolo  Stttdi  sid  romanticismo  inglese, 
Bari,  Laterza,  1914,  ma  esso  non  ha  relazioni  dirette  con  la  letteratura  nostra. 
È  desiderabile  che  questo  giovane  colto  e  volonteroso,  che  possiede  così  bene 
la  lingua  inglese  ed  ha  letto  tanto  di  quella  poesia,  si  aiFermi  con  qualche 
lavoro  di  maggiore  estensione  e  comprensione. 

*  Nuova  serie  di  utili  pubblicazioni  è  quella  iniziata  e  diretta  dal  Monaci 
col  titolo  Opuscoli  e  pagine  scelte  di  filologia  romanza.  Con  felice  pensiero, 
s'inaugurò  la  collezioncina  ristampando  dell'Ascoli  il  Proemio  ali" Archivio 
glottologico  e  una  lettera  sullo  stile  (Città  di  Castello,  Lapi,  1914).  Il  proemio 
è  del  1872;  la  lettera  uscì  dapprima  nella  Perseveranza  del  12  aprile  1880: 
ma  entrambe  le  scritture  poderose  e  nervose  hanno  conservato  il  loro  valore. 
Nell'una  è  combattuta  l' idea  manzoniana  rispetto  alla  lingua  e  dello  stile  del 
Manzoni  è  discorso  particolarmente  nell'altra.  Va  innanzi  un  proemio  arguto 
di  F.  D'Ovidio;  seguono  note  del  valente  giovane  A.  Camilli,  vera  speranza 
degli  studi  filologici  e  glottologici. 

*  Di  quel  libro  buono  ed  elegante  che  è  la  Storia  della  letteratura  spa- 
gnuola  di  James  Fitzmaurice-Kelly,  annunciammo  subito  (nel  Giornale, 
34,  474-75)  l'originale  inglese,  uscito  nel  1898,  segnalando  il  valore  ch'esso 
ha  pure  per  gli  studiosi  seri  della  letteratura  italiana,  i  quali  non  possono 
né  debbono  perdere  mai  di  vista  le  letterature  sorelle.  Poscia  nel  Giornale, 
39,  188,  indicammo  la  traduzione  spagnuola  che  ne  fu  fatta  nel  1901  dal 
Bonilla  y  San  Martin,  notabile  per  le  aggiunte  dell'autore  e  del  traduttore 
e  pel  significante  proemio  del  Menéndez  y  Pelayo.  Della  elaborazione  casti - 
gliana  s'ebbe  nel  1904  una  versione  francese  del  Davray,  nella  quale  il  libro 
fu  specialmente  diffuso  fra  noi.  Esaurite  tutte  queste  edizioni,  oggi,  a  dieci 
anni  di  distanza,  il  perspicace  e  dotto  autore  ha  ripreso  in  mano  l'opera  sua. 
l'ha  in  parte  rimaneggiata  e  in  parte  completata  in  una  redazione  francese, 
ch'egli  medesimo  apprestò  (Littérature  espagnole,  Paris,  Colin,  1913).  Noi 
non  possiamo  che  rallegrarci  di  vedere  così  ringiovanito  l'ottimo  manuale.  In 
opuscolo  a  parte  il  F.-K.  stampò  la  Bihliographie  de  Vhistoire  de  la  litté- 
rature espagnole,  Paris,  Colin,  1913,  che  è  complemento  alla  Storia  e  può 
anche  essere  usata  con  vantaggio  indipendentemente  da  essa. 

*  Due  nuove  collezioni  di  cose  romanze  ci  è  grato  raccomandare  ai  lettori 
nostri,  una  che  esce  a  Parigi  e  l'altra  a  I^lle.  La  collezione  parigina,  già 
ricca  d'una  dozzina  di  volumetti  (Champion  editore),  s'intitola  Les  classiques 
frangais  du  moyen  àge  ed  è  diretta  da  Mario  Roques.  È  una  collezione  di 
testi,  fra  i  quali  già  figurano  l'antico  Aleocis  cumto  da  G.  Paris,  i  versi  del 
Villon  a  cura  del  Longnon,  il  poemetto  del  sec.  XIII  La  chastelaine  de  Vergi, 
assistito    dal  Raynaud,  e  due  edizioni  critiche  di  trovatori,  Les  chansons  de 


478  CBONACA 

GuiUaume  IX  per  opera  di  A.  Jeanroy  e  Les  poesies  de  Peire  Vidaì  curate 
da  J.  Anglade.  Specialmente  questa  ultima  edizioncina,  ora  che  è  irreperibile 
in  commercio  quella  che  diede  nel  1857  Carlo  Bartsch,  sarà  gradita  agli  stu- 
diosi italiani  per  i  molti  rapporti  che  la  poesia  del  Vidal  ha  con  l'Italia.  — 
La  raccolta  tedesca  è  di  monografie  e  s'intitola  Beitrdge  zm-  Geschichte  der 
romanischen  Sprachen  und  Literaturen,  diretta  da  Max  Friedi'ich  Mann.  Vi 
son  dentro  cose  diverse,  ma  la  letteratura  vi  predomina  e  specialmente  quella 
francese  di  tempi  moderni.  Interessanti  in  ispecie  per  noi:  Isaak  Sondheimer, 
Die  Herodes-P artieri  im  lateinischen  ìiturgischen  JDrama  und  in  den  fran- 
zòsischen  Mystenen]  Emmy  AUard,  Friedrich  der  Grosse  in  der  Literatur 
Frankreichs,  mit  einem  Ausblick  auf  Italien  und  Spanien-,  Gertrud  Richert, 
Die  Anfdnge  der  romanischen  Philologie  und  die  deutsche  Romantik.  —  Non 
mancheremo  di  tener  informati  i  lettori  nostri  di  ciò  che  in  avvenire  potrà 
interessarli  in  queste  due  serie. 

*  Per  sottoscrizione  si  pubblica  a  Boston,  diretta  da  Lewis  Einstein,  una 
Humanists'  Library,  in  volumi  eleganti  destinati  ai  bibliofili.  Questa  colle- 
zione, che  s'è  aperta,  a  cura  del  medesimo  Einstein,  con  gli  Thoughts  on 
art  and  life  di  Leonardo  da  Vinci,  s'arricchì  nel  1914  di  due  volumi  preli- 
bati, riproducenti  l'antica  versione  inglese  di  Thomas  Stanley  (1651)  del  di- 
scorso di  Giovanni  Pico  della  Mirandola  sull'amor  platonico,  a  commento  della 
celebre  canzone  di  Girolamo  Benivieni,  ed  il  Galateo  di  Giovanni  Della  Casa 
tradotto  in  inglese  la  prima  volta  nel  1516  da  Robert  Petersen.  Le  ripro- 
duzioni di  questi  cimelii  sono  precedute  da  acconcie  introduzioni  di  due  be- 
nemeriti italianisti,  E.  G.  Gardner,  che  proemia  al  Pico,  e  J.  E.  Spingarn, 
che  presenta  il  Galateo.  La  nota  bibliografica  finale  di  quest'ultimo  raccoglie 
le  informazioni  che  s'hanno  sulla  fortuna  del  Galateo  fuori  d'Italia. 

*  Una  collezione  analoga  di  versioni  pubblica  in  Germania  l'editore  Eu- 
genio Diederich  di  Jena,  sotto  la  direzione  di  Maria  Herzfeld.  Essa  s'intitola 
Das  Zeitalter  der  Renaissance,  ausgewàhlte  Quellen  zur  Geschichte  der  ita- 
lienischen  Kultur.  Della  prima  serie  di  questa  raccolta  sono  usciti  nove  vo- 
lumi, che  contengono  le  versioni  di  operette  latine  del  Petrarca  e  di  opere 
storiche  del  Beccadelli,  del  Decembrio,  dell' Infessura,  di  Fr.  Matarazzo,  di 
Luca  Landucci,  nonché  una  scelta  di  lettere  d'Enea  Silvio  Piccolomini.  L'ul- 
timo volume  si  deve  all'illustre  e  rimpianto  Paul  Heyse,  che  vi  lavorò  sino 
al  giorno  della  morte,  dimostrando  così  ancora  una  volta  l'affetto  tenace  che 
lo  legava  all'Italia  nostra.  Contiene  tradotti  Drei  Lustspiele  der  Renaissance, 
vale  a  dire  la  Cassarla,  VAridosia  e  la  Mandragola.  Nella  difficile  opera 
il  vecchio  Heyse  dimostra  le  sue  eccezionali  qualità  di  traduttore.  Lo  sov- 
venne di  consiglio  e  sorvegliò  la  stampa  postuma  Arturo  Farinelli,  al  quale 
il  volume  è  dedicato  come  a  caro  amico. 

*  A  cura  di  Guido  Biagi  sono  uscite  Cinquanta  tavole  in  fototipia  da 
codici  della  R.  Biblioteca  Medicea  Laurenziana,  di  cui  s'è  fatto  editore 
quell'intelligente  antiquario  di  libri  che  è  Tammaro  De  Marinis  (Firenze,  1914). 
La  scelta  e  l'esecuzione  di  queste  tavole  sono  encomiabilissime.  I  codici,  onde 
sono  trascelte,  sono  21,  dal  sec.  VI  al  XV.  Le  tavole   più   preziose  sono  le 


OKONAOA  479 

più  antiche,  d'argomento  sacro:  ma  le  più  belle  sono  quelle  con  miniature 
del  Trecento  e  più  del  Quattrocento.  Si  notino  per  la  storia  del  costume  le 
tavole  del  cod.  Tempiano  volgare  di  Domenico  Lenzi,  il  biadatolo,  e  quelle 
del  Rmnuìeon  miniate  da  mano  francese.  Le  ultime  tre  tavole  hanno  inte- 
resse non  artistico,  ma  paleografico  e  letterario.  Riproducono  una  facciata 
dell'Orazio  appartenuto  al  Petrarca  e  postillato  da  lui,  un'altra  d'una  mi- 
scellanea di  scritti  latini  copiati  di  mano  del  Boccaccio,  una  terza  autografa 
del  Poliziano.  Quest'ultima  è  d'un  codice  che  contiene  la  versione  latina  di 
Erodiano. 

*  Tesi  di  laurea  e  programmi  :  Mario  Tamburini,  La  gioventù  di  M.  Pietro 
Bembo  e  il  suo  dicdogo  «  Gli  Asolarti  »  (progr.  della  Civica  Scuola  Reale 
superiore  di  S.  Giacomo  in  Trieste);  Paul  Arbelet,  La  jeufiesse  de  Stetulhal 
(laurea,  Parigi;  in  altro  lavoro  lo  stesso  Arbelet  ricerca  i  plagi  dello  Stendhal 
nella  sua  Histoire  de  la  peinture  en  Italie)  ;  R.  Moryay,  Saint  Antonin,  ar- 
chevéque  de  Florence,  1389-1459  (laurea,  Parigi);  H.  Dàumling.  Studie 
iiber  den  Typus  des  Mddchens  ohne  Hdnde  (laurea,  Monaco);  L.  R^sel, 
Lord  Byrons  tàgliches  Tun  und  Treiben  in  der  Schweiz  und  in  Oberita- 
lien  (laurea,  Erlangen);  Hans  Brosius,  Franziskus  von  Assisi  uìid  moderne 
Lébensideaìe  (progr.  ginn.,  Bamberg);  Celso  Osti,  Melchior  Cesarotti  e  F.  Au- 
gusto Wolf  (progr.  ginn.,  Capodistria  ;   discussioni  su  Omero). 

Pubblicazioni  recenti  : 

J.  Pacheu.  —  Jacopone  da  Todi,  frère  mineur  de  Saint  Fraìigois,  aiUeur 
presume'  du  Stabat  Mater.  —  Paris,  A.  Tralin,  1914  [Libro  più  divulgativo 
e  pio  che  scientifico.  Vedine  la  recensione  di  E.  Bouvy  nel  Bnlletin  italien, 
XIV,  269]. 

Giovanni  Boccacci.  —  Rime.  Testo  critico  per  cura  di  Aldo  Francesco 
Massèra.  —  Bologna,  Romagnoli-Dall' Acqua,  1914  [ì^eWà.  Collezione  di  opere 
inedite  o  rare.  Fatica  di  molti  anni,  è  libro  che  onora  la  filologia  italiana. 
Ne  sarà  convenientemente  discorso,  e  sarà  insieme  presa  in  considerazione 
V editto  minor  che  il  Massèra  ne  diede  nel  volumetto  La  Caccia  di  Diana 
e  le  rime  di  Giovanni  Boccacci,  Città  di  Castello,  S.  Lapi,  1914]. 

Scrittori  d'Italia.  —  Bari,  Laterza,  1914.  Sono  usciti  il  molto  atteso  n®  65, 
che  contiene  II  Quadriregio  di  Federico  Prezzi,  edizione  critica  di  Enrico 
Filippini,  che  vi  attese  con  solerzia  perseverante,  rivelata  anche  dai  diversi 
scritti  preparatorii  che  il  Giornale  nostro  ha  annunciati  ;  e  il  n»  67,  che  a 
cura  di  Giovanni  Gentile  e  di  Fausto  Nicolini  oifre  Le  orazioni  inaugurali, 
il  «  De  Italorum  sapientia  »  e  ?e  polemiche  di  Giambattista  Vico. 

Angela  Vesin.  —  Niccolò  Tommaseo  poeta.  —  Bologna,  Zanichelli,  1914 
[Buono;  ne  parleremo].  ^ 

Giuseppe  Patini.  —  La  prima  giovinezza  di  Giosuè  Carducci  (1835-1357). 
—  Città  di  Castello,  Casa  Lapi,  1914  [A  questo  interessante  volumetto,  di 
cui  discorreremo,  accostiamo,  per  ciò  che  può  valere,  il  volumetto  d'una  si- 
gnorina, Luisa  Barone,  La  poesia  giovanile  di  Griosuè  Carducci,  Napoli,  tipo- 
grafia D'Auria,  1914]. 


480 


CRONACA 


Giovanni  Boccaccio.  —  J?  «  Bucolicum  Carmen  »  trascritto  di  stt  Vanto- 
grafo  riccardiano,  e  illustrato  per  cura  di  Giacomo  Lidonnici.  —  Città  dì 
Castello,  Casa  Lapi,  1914  [Costituisce  i  nn.  131  a  135  nella  collezione  passe- 
riniana  di  opuscoli  danteschi]. 

Gasparo  Gozzi.  —  Prose  scelte  e  sermoni,  con  introduzione,  appendice  bi- 
bliografica  e  commento  di  Pompeo  Pompeati.  —  Milano,  Fr.  Vallardi,  1914 
[L'introduzione  amplissima  è  uno  dei  migliori  saggi  che  s'abbiano  su  la  vita 
e  l'operosità  del  Gozzi]. 

Attilio  Momigliano.  —  Le  opere  di  Carlo  Goldoni  scelte  e  iUmtrate.  — 
Napoli,  Perrella,  1914. 

Karl  Vossler.  —  Italienische  Literatur  der  Gegenwart  von  der  Momantik 
2um  Futurismus.  —  Heidelberg,  Winter,  1914. 

Camillo  Guerrieri-Crocetti.  —  L'antica  poesia  abruzzese.  —  Lanciano, 
Carabba,  1914. 

Vittorio  Capetti.  —  Illustrazioni  al  poema  di  Dante.  —  Città  di  Ca- 
stello, Casa  Lapi,  1914. 

Giuseppe  Parini.  —  Il  Giorno,  commentato  da  Giovanni  Ferretti.  —  Mi- 
lano-Roma, Albrighi  e  Segati,  1914  [D  testo  è  quello  vulgato  del  Keina;  il 
commento  è  nuovo  e  nella  sua  sobrietà  osservabile]. 

Maria  Forte  Simonetti.  —  Silvio  Pellico  poeta  tragico.  Saggio  critico.  — 
Napoli,  tip.  Giannini,  1914. 

D.  Battesti.  —  Saggio  sulla  vita  e  le  satire  di  Salvator  Rosa.  —  Bourges, 
Sire,  1914  [Del  medesimo  autore  è  pure  uscito  un  volume  su  Massimo  D'A- 
zeglio, del  quale  discorreremo]. 

J.  Shield  Nicholson.  —  Life  and  Genius  of  Ariosto.  —  London,  Mac- 
millan, 1914. 

Giacomo  Leopardi.  —  Paradoxes  philosophiques  traduits  par  Challemel- 
Lacour,  pub.  par  N.  Serban.  —  Paris,  Champion,  1914  [Prima  versione  in- 
tegrale francese  delle  Operette  morali.  Giudica  il  Serban  che  sia  la  meglio 
riuscita  e  la  confronta  con  quelle  parziali  dell'Aulard,  del  Dapples,  del  nostro 
valente  Turiello.  Con  buon  pensiero,  sotto  la  traduzione  del  Ch.-L.  il  S.  pone 
il  testo  italiano.  Solo  non  approvabile  ci  sembra  il  titolo.  Che  cosa  avrebbe 
detto  il  Leopardi  trovando  designate  senz'altro  le  sue  Operette  col  nome  di 
paradossi  filosofici'^  La  designazione  è  una  irriverenza  patente]. 

Tra  le  monografie  della  Biblioteca  degli  studenti,  edita  con  buon  pensiero 
dall'editore  Giusti  di  Livorno,  ne  uscirono  due  ragguardevoli  :  Francesco  Fla- 
mini, L'anima  e  Varie  di  Giosuè  Carducci',  Luigi  Filippi,  La  vita  e  le  opere 
di  Giovanni  Pascoli. 


Luigi  Morisenoo,  Gerente  responsabile. 


Torino  —  Tipografia  Vincenzo  Bona. 


INDICE  ALFABETICO 

DELLA    RASSEGNA,    DEL    BOLLETTINO 
E  DEGLI  ANNUNZI  ANALITICI 


In  quest'indice^  che  abbraccia  l'intera  annata  (volumi  LXIII 
e  LXIV),  sono  registrati  i  nomi  degli  autori  e  degli  edi- 
tori; i  titoli  delle  opere  sono  dati  per  lo  più  in  forma 
abbreviata.  Il  primo  numero  (grassetto)  indica  il  volume; 
il  secondo  numero  indica  la  pagina. 


Albertazzi  a.,  V.  Tommaseo. 
Albertazzi  L.,  Compendio  della  vita 

del  b.  Colombini  di  G.  Tavelìi  con- 
frontato con   la   vita  del  beato  di 

Feo  Beìcari,  64,  251. 
Alberti  L.  B.,  v.  Ferrari. 
Aleardi  a.,  V.  Biadego. 
Alighieri  D.,   Vita  Nuova,  edizione 

G.  A.  Cesareo,  63,  413. 
Arienti  G.  S.,  Le  Porrettane,  ediz. 

Gambarin,  64,  455  n. 
Ariosto  L.,   Orlando  Furioso   nelle 

tre  edizioni,  63,  474. 
—  V.  Salza. 
Aubel  e.,  Leon  Battista  Alberti,  64, 

218. 
Azzi  (degli)  G.,  Per  la  biografa  di 

un  insigne  musicista,  63,  171. 
AzzoLiNA   L.,   Il  mondo  cavalleresco 

in  Boiardo,  Ariosto  e  Berni,  68, 

416. 

Baldi  R.,  Due  abati  del  Settecento, 

63,  447. 
Balladoro  A.,    Novelline   raccolte  a 

Povegliano  Veronese,  63,  457. 


Barbi  M.,  Sulla  genesi  dei  «  IjOvi- 
bardi  alla  prima  crociata  »,  63, 
172. 

Barone  G.,  Ancora  sulla  Gerusa- 
lemme celeste,  63,  342. 

Bédier  J.,  Les  légendes  épiques,  68, 
402. 

Bellezza  P.,  Curiosità  dantesche, 
63,  408. 

Bellucci  G.,  OrazioAntinori,  63, 455. 

Bertacchi  G.,  Ore  dantesche,  68,  443. 

Bertoldi  A.,  H  canto  XII  del  Pa- 
radiso, 63,  342. 

Bertoni  G.,  Dante,  63,  161. 

Betteloni  V.,  Impressioni  critiche  e 
ricordi  autobiografci,  64,  448. 

Bettinelli  S.  ,  v.  Tommasini-Mat- 
tiucci. 

Bevilacqua  E.,  L'episodio  dantesco 
della  corda,  63,  444. 

Biadego  G.,  Carta  dotale  di  Flora 
Betteloni,  64,  461. 

—  La  prima  lettera  di  A.  Aleardi, 
63,  173. 

—  Letteratura  e  patria  negli  anni 
della  donmiaz.  austriaca,  64,  254. 


Giornale  storico,  LXIV,  fase.  192. 


81 


482 


INDICE  ALFABETICO  DELLA  RASSEGNA,  DEL  BOLLETTINO  ECC. 


BiAGi  G.,  Cinquanta  tavole  in  foto- 
tipia da  codici  della  Lauretmiana, 
64,  478. 

BioNDOLiLLO  F.,  Intorno  a  un  ms- 
autografo  diA.Veneziano,  63,455. 

Boccaccio  G.,  Il  Decamerone,  a  cura 
di  M.  Scherillo,  64,  288. 

—  V.  Casali  e  Vandelli. 

BoDONi  G.  B.,  Pubblicazioni  pel  cen- 
teìmrio,  63,  472. 

BoECKER  A.,  A  probable  italian  source 
of  Shakespeare^ s  Julius  Caesar, 
64,  456. 

BoLLEA  L.  C,  Silvio  Pellico  e  il  ca- 
stello di  Envie,  63,  167. 

BoRALEvi  B.,  Di  alcuni  scritti  inediti 
di  T.  Morroni,  64,  405. 

BoRGiANi  G.,  Marcello  Pàlingenio 
Stellato,  63,  163. 

Borgognoni  A.,  Disciplina  e  sponta- 
neità neWarte,  ed.  da  B.  Croce,  63, 
157. 

BosELLi  A.,  Gius.  Baretti  «  pieno  di 
turbamento  »,  63,  171. 

Bottiglioni  G.,  La  lirica  latina  di 
Firenze  nella  seconda  metà  del  se- 
colo XV,  64, 188. 

BuRDACH  K.,  V.  Cola  di  Kienzo. 

BusNELLi  G.,  Il  concetto  e  l'ordine 
del  Paradiso  dantesco,.  63,  342. 


Calcaterra  C.  ,  La  Ciaecheide  di 
C.  I.  Frugoni,  A.  Bernieri  e  G. 
A.  Scutellari,  63,  447. 

—  La  secreta  prammatica  dei  conti 
di  San  Bonifacio,  64,  460. 

Calvelli  L.,  Un  fiorentino  del  Tre- 
cento, Guido  del  Palagio,  64,  453. 

Cambini  L.,  Il  pastore  Aligerio,  63, 
411. 

—  Un  precursore  del  Muratori, 
Camino  Pellegrino,  63,  171. 

Capra  L.,  U  ingegno  e  Vopera  di 
Saverio  Bettinelli,  64,  210. 


Carducci  G.,  Lettere,  serie  seconda, 
64,  244. 

Casali  L.  e  Vandelli  G.,  Sunto  del- 
l'Inferno  scritto  da  G.  Boccaccio, 

63,  457. 

Casini  T.,  Scritti  danteschi,  63,  408. 
Caterina  (santa)  de'  Vigri,  La  santa 

nella  storia,  63,  188. 
Cesareo  G.  A.,  v.  Alighieri. 
Charlton  H.  B.,  Castelvetro's  Thcory 

ofPoetry,  64,412. 
Chartularium    Studii    Bononiensis, 

voi.  II,  64,  249. 
Chatfield-Taylor  H.  C,  Goldoni,  a 

biography,  64,  226. 
Chiappelli   a..  Storia  del  teatro  in 

Pistoia,  63,  446. 
Chiappelli  (L.),  La   donna  pistoiese 

del  tempo  antico,  64,  453. 
Chiorboli  e.,  V.  Guidiccioni   e  Cop- 
petta. 
CiARDULLi  0.,  Lettere  e  poesie  di  Ar- 

'naldo  Fusinato  ed  Erminia  Fuà, 

64,  460. 

Cipolla  C,  Documento  veronese  ine- 
dito del  1181,  63,  173. 

Cola  di  Rienzo,  BricfivecJisel,  ediz. 
Burdach  e  Piur,  64,  386. 

Colleziane  di  opuscoli  danteschi  ine- 
diti o  rari,  dir.  da  G.  L.  Passerini, 
num.  121  a  128,  63,  411. 

Compagni  P.,  v.  Debenedetti. 

Gonfalonieri  F.,  Carteggio,  ed.  da 
G.  Gallavresi,  Parte  II,  63,  435. 

Coppetta  Beccuti  F.,  Rime,  a  cura 
di  E.  Chiorboli,  63,  420. 

Corbellini  A.,  Di  un  rimatore  pa- 
vese-veneziano del  secolo  XVI,  64, 
455. 

CoRBUCci  V.,  Cucco  di  Gualfreduccto 
da  Perugia,  63,  454. 

Croce  B.,  v.  Borgognoni. 

—  V.  De  Sanctis. 

—  V.  Marino. 


INDICE  ALFABETICO  DELLA  RASSEGNA,  DEL  BOLLETTINO  ECC.    483 


D'Ancona  A.,  XII  lettere  di  Bettino 
Micasoli a  Sansone  d'Ancona,  63, 
456. 

—  Memorie  e  documenti  di  storia 
italiana  dei  sec.  XVIII  e  XIX, 
64,  255. 

—  Ricordi  stoì'ici  del  risorgimento 
italiano,  64,  255. 

Debenedetti   S.,   Sonetto    inedito    di 

Pietro  Compagni,  63,  171. 
De  Gubernatis  A.,  Giuseppe  Parini, 

63,  448. 

—  ViUorio  Alfieri,  63,  145. 
Della  Torre  A.,  «  Centurio  »  e  «  Pom- 

ponia    Graecina  »   di  G.  Pascoli, 

64,  281. 

Del  Lungo  I.,  v.  Velluti. 

De  Marchi  A.,  Spigolature  inedite 
manzoniane,  63,  456. 

De  Michele  G.,  La  vita  di  N.  Franco, 
64,  253. 

De  Sanctis  F.,  Lettere  da  Zurigo  a 
Diomede  Marvasi,  a  cura  di  Be- 
nedetto Croce,  64,  244. 

De  Vico  A.,  Per  un  parallelo  mal 
fatto  (Molière  e  Goldoni),  64, 230. 

Don  ADONI  E.,  Antonio  Fogazzaro, 
63,  154. 

Eleìwo  alfabetico  delle  pubblicazioni 
periodiche  esistenti  nelle  biblioteche 
di  Roma,  64,  283. 

Erich  M.  W.,  Ugo  Foscolo  come  uomo 
e  come  poeta  lirico,  63,  139. 

Erizzo  S.,  V.  Novellieri. 


Faloci  Pulignani  M.,  Una  poetessa 
umbra  del  sec.  XVIII,  63,  455. 

Faral  e.,  Recherches  sur  les  sources 
latines  des  contes  courtois  du  moyen 
àge,  64,  476. 

Farina  S.,  Care  ombre,   63,   169. 

Fassò  L.,  Tre  lettere  inedite  di  Ales- 
sandro Manzoni,  63,  172. 


Ferrari  G.  I.,  La  poesia  di  Giac. 
Zanella,  63,  452. 

Ferrari  L.,  Il  testamento  di  L.  B. 
Alberti,  63,  171. 

FiAMMAzzo  A.,  Note  dantesche  sparse, 
63,  408. 

Filippi  L.,  Giacinto  Gallina,  63,452. 

Filippini  E.,  Frecce  e  frecciate  d'A- 
more nel  poema  frezziano,  63,  455. 

FiLOMusi  Guelfi  L.,  Novissimi  studi 
su  Dante,  63,  342. 

—  Nuovi  studi  su  Dante,  63,  342. 
Foscolo  U.,  Prose   e  poesie,  a  cura 

di  E.  Marinoni,  63,  139. 

—  Scritti  vari  inediti,  a  cura  di 
F.  Viglione,  64,  238. 

Fui  FusiNATo  E.,  V.  Ciardulli. 
Fumagalli  G.,  L' ai-te  della  legatura 
alla  corte  degli  Estensi,  63,  189. 
FusiNATO  A.,  V.  Ciardulli. 

Gallavresi  G.,  V.  Confalonieri. 

Galletti  A.,  Lirica  e  storia  nell'o- 
pera di  G.  Carducci  e  G.  Pascoli, 
63,  478. 

—  Una  predica  inedita  di  S.  Ber- 
nardino da  Siena,  63,  170. 

Gambarin  G.,  V.  Arienti. 

Garzia  R.,  17  vocabolario  dannun- 
ziano, 64,  284. 

Gattinoni  Gr.,  Inventario  di  una  casa 
veneziana  del  sec.  XVII,  64,  257. 

Giani  G.,  Ser  Convenevole  da  Prato, 
63,  445. 

Gigli  G.,  v.  Novellieri. 

Glivenko  J.  J.,  Vitt.  Alfieri,  63,  392. 

Guasti  C,  CaHeggio,  63,  438. 

GuiDiccioNi  G. ,  Rime,  a  cura  di 
E.  Chiorboli,  63,  420. 

GuzzoNi  DEGLI  Ancarani  L.,  Gitio 
frapponi  letterato,  63,  451. 

Hautecosur    L.,  Rome   et  la  renais- 
sance  de  Vantiquité  à   la  fin  dii-^ 
XVIII  siede,  63,  448. 


484    INDICE  ALFABETICO  DELLA  RASSEGNA,  DEL  BOLLETTINO  ECC. 


Heuckenkamp  F.,  Die  Provenzàlische 
Prosa-Redaktwn  des  Barìaam  und 
Josaphat,  63,  443. 

Impallomeni  G.,  La  psicosi  di  Gia- 

coììio  Leopardi,  63,  432. 
Iraci  M.,  Lorenzo  Spirito  Gnalteri, 

64,  191. 

Jeanroy  a.,  V.  Uc  de  Saint-Circ. 

Karsavin  L.  P.,  Saggi  di  vita  reli- 
giosa in  Italia  nei  sec.  XlI-XIIl, 
64,  429. 

Lambert  F.  A.,  Dante' s  Matelda  und 
Beatrice,  64,  452. 

Lamma  e.,  SulV  ordinamento  delle 
rime  di  Dante,  64,  451. 

L ANDINI  G.,  n  codice  180  aretino  di 
laudi,  64,432. 

La  Piana  G.,  Bappresentazioni  salire 
nella  letteratura  hizanti'na,  64, 426 . 

Lauchert  Fr.,  Die  italienischen  li- 
terarischen  Gegner  Luther s,  63» 
164. 

Lazzareschi  e..  La  poesia  popolare 
deW Amiata,  63,  456. 

Lazzari  A.,  Le  ultime  tre  duchesse  di 
Ferrara,  63,  446. 

Lefranc  a.,  Grands  écrivains  fran- 
gais  de  la  Benaissance,  64,  285. 

LoMMATzscH  E.  G.,  Sahodino  degli 
Arienti's  Porrettane,  64,  454. 

Lo  Parco  F.,  Niccolò  da  Beggio  an- 
tesignano del  risorgimento  delV an- 
tichità ellenica,  64,  405. 

Maa8  P.,  Noiizhucli  des  Cyriacus  von 

Ancona,  64,  406. 
Mabellini     a..     Lettere    inedite    di 

S.  PelUco  ad  Andrea  Gcdtrielli,  64, 

256. 
Mal  AGUZZI  Valeri  F.,    La   corte  di 


Lodovico  il  Moro  ;  I,  La  vita  pri- 
vata, 63,  135. 
Mancini  A.,  Sulle  tr accie  dipatriotte 

m/izziniane,  63,  172. 
Manzoni  A.,  v.  Fassò. 
Marino  G.  B.,  Poesie  varie,  a   cura 

di  B.  Croce,  63,  426. 
Marinoni  E.,  v.  Foscolo. 
Mariotti  M.,  Amputatio  capitis  Pin- 

demontis,  63,  166. 
Maroi  L.,  Laura  Terracina,  64,  253. 
Masson  P.  M.,   Chants  de   cartiaval 

florentins,  64,  437. 
Mathar  L.,  Carlo  Goldoni  auf  dem 

deutschen  Theater,  64,  226. 
Mazzoni  G.,  L^ Ottocento,  64,  445. 
Mazzucchetti  L.,   Schiller  in  Italia, 

63,  141. 
Mélanges  offerts  à  31.  Émil  Picot  par 

ses  amis  et  ses  élèves,  63,  404. 
Messedaglia  L.,    Un  nòbile  atto  di 

L.  C.  Farini,  63,  173. 
Miscellanea   in   onore  di  Albino   e 

Nina  Zenatti,  63,  173. 
Momigliano  A.,  L' Innominato,  63, 

428. 
Monografie    delle  università  e  degli 

istituti  superiori,  64,  281. 
Moschetti  A.,  DelVinfìusso  del  Ma- 
rino sul  Poussin,  63,  165. 

Nascimbeni  G.,  V.  Tassoni. 

Neri  F.,  Ecco  il  re  forte,  63,  171. 

NicoLiNi  F.,  V.  Novellieri. 

Novellieri  minori  del  Cinquecento 
(G.  Parabosco  e  S.  Erizzo),  a  cura 
di  G.  Gigli  e  F.  Nicolini,  63,  117. 

Nozze  Manzoni- Ansidei,  63,  454. 

Nozze  Soldati- Ma ni^,  63,   170. 

Oberdorper  A.,  Saggio  su  Michelan- 
gelo, 64,  456. 

Olivero  F.,  Saggi  di  letteratura  in- 
glese, 64,  476. 


INDICE  ALFABETICO  DELLA  RASSEGNA,  DEL  BOLLETTINO  ECC. 


485 


Osti  C,  Melchior  Cesarotti  e  la  sua 
versione poeticadelV Iliade,  63,449. 

Pausa  G.,  Giovanni  Quatrario  di 
Sulmona,  64,  251. 

Parabosco  G.,  vedi  Novellieri. 

Parodi  E.  G.,  La  costruzione  e  l'or- 
dinamento del  Paradiso  dantesco, 
63,  342. 

Pascoli  G.,  v.  Della  Torre. 

Pasolini  P.  D.,  Ravenna  e  le  sue 
grandi  memorie,  63,  453. 

Pellegrini  Fl.,  La  vendetta  di  Ci- 
b elino,  63,  173. 

Pellico  S.,  v.  Mabellini. 

Pellizzari  a.,  Portogallo  e  Italia 
nel  sec.  XVI,  64,  457. 

—  Studi  manzoniani,  64,  235. 
Picco  F.,  Due  novelle  del  Bandello 

nella    «  Descrizione    delV Africa  » 
di  Giov.  Leone,  63,  171. 

—  Un  memoriale  di  Gabriel  Gio- 
lito de'  Ferrari,  64,  257. 

PicoT  E.,  V.  Mélanges. 

PiLOT  A.,  Antologia  della  lirica  ve- 
neziana, 63,  450. 

PiNTOR  Fr.,  Un  repertorio  mano- 
scritto di  erudizione  toscana,  63, 
172. 

PiSTELLi  E.,  Il  canto  XIV  del  Pur- 
gatorio, 64,  461. 

PiuR  P.,  V.  Cola  di  Rienzo. 

PivANO  S.,  Albori  costituzionali  d'I- 
talia, 63,  475. 

PoNS  A.  A.,  Un  trattato  educativo 
del  Quattrocento,   64,  438. 

Prunières  H.,  L'opera  italien  en 
France  avant  Lulli,  64,  441. 


Ra.jberti   G.,    L'arte    di    convitare, 

64,  282. 
Rava  L.,  Costanza  Monti  Perticari, 

64,  459. 
RiCASOLi  B.,  V.  D'Ancona. 


Ricci  Corr.,  Pagine  dantesche,  63, 

410. 
Ricci    E.,    Un'  iscriziotie   medievale, 

63,  454. 
Robiquet  P.,  Buonarroti  et  la  secte 

des  égaux,  64,  232. 
RoDOLico  N.,  Dalla  vita  e  dalla  storia 

conteìnporanea ,  63,  453. 
Rossi  V.,  La  formazione  storica  del 

Rinascimento  italiano,  64,  454. 
Ruhlemann  M.,  Etymologie  des  Wor- 

tes  harlequin,  63,  161. 


Sacchetti  Sassetti  A.,  Pietro  De  An- 
gelis  a  Parigi,  63,  455. 

Saitta  G.,  Le  origini  del  neo-to- 
mismo, 64,  242. 

Salvadori  G.,  Famiglia  e  città  se- 
condo la  mente  di  Dante,  68,  408. 

Salverda  de  Grave  J.  J.,  v.  Uc  de 
Saint-Circ. 

Salza  A.,  Una  lettera  inedita  di 
L.  Ariosto  ad  0.  Fregoso,  63,  171. 

Santoro  D.,  Il  viaggio  d' Isabella 
Gonzaga  in  Provenza,  64,  252. 

Savj-Lopez  P.,  Tra  i  sogni  roman- 
tici, 63,  172. 

Scalvanti  0.,  Le  cantatrici  in  teatro, 
63,  455. 

Scherillo  M.,  V.  Boccaccio. 

Scolari  A.,  Il  messia  dantesco,  63, 
162. 

Serban  N.,  Leopardi  et  la  France, 
63,  128. 

—  Lettres  inédites  relatives  à  G.  Leo- 
pardi, 63,  450. 

SiMEONi  L.,  Poemetto  della  Madda- 
lena di    Cecco  d'Assisi,  63,  173. 

Soldati  B.,  vedi  Nozze  Soldati. 

SoRBELLi  A.,  Intorno  alla  prima  edi- 
zione delle  «  Ultime  lettere  di  Ja- 
copo Ortis  »,  63,  172. 

Surra  G.,  Indagini  sul  carattere  e 
sull'arte  di  Gius.  Giusti,  63,  152. 


486    INDICE  ALFABETICO  DELLA  RASSEGNA,  DEL  BOLLETTINO  ECC. 


Tassoni  A.,   La  secchia   rapita,  ed. 

da  G.  Nascimbeni,  64,  458. 
ToFFANiN  A.,  Il  romanticismo  latino 

e  i  Promessi  Sposi,  63,  165. 
Tommaseo  N.,  Scritti  di  critica  e  di 

estetica,    scelti   da   A.   Albertazzi, 

63,  168. 
Tommasini-Mattiucci  P.,  Le  Lettere 

Virgiliane,  63,  411. 
—  Un  epigono  di  don  Ferrante,  63, 

455. 
ToNELLi  L.,  L'evoluzione  del   teatro 

contemporaneo  in  Italia,  64,  421. 
Tosto  A.,  Le  com,medie  di  L.  Ariosto, 

64,  439. 

Toynbee  P.,  Concise    Dante   Dictio- 

nary,  64,  284. 
Trabalza    C,   Petrarca,   Fauriel  e 

Bacine  nelVinedita  digressione  sul- 

Vamore   dei  Promessi  Sposi,  64, 

257. 
Trattati  d'amore  del  Cinquecento,  a 

cura  di  G.  Zonta,  64,  220. 
Tria  U.,  Il  pensiero  del   Giannone, 

64,  285. 

Uc  DE  Saint-Circ,  Poésies,  a  cura  di 
A.  Jeanroy  e  J.  I.  Salverda  de 
Grave,  63,  160. 

Val  ACCA  P.,  Xe  rime  estravaganti  da 
attribuire  a  G.  Boccaccio,  64,  250. 


Valori   G.,  Dai   ricordi    storici   di 

Filippo  di  Cino  Binuccini,  63, 456. 
Vandelli  G.,  V.  Casali. 
Velluti  D.,   La   cronica  domestica; 

per  cura  di  I.  Del  Lungo  e  G.  Volpi, 

64,  435. 
Venturi  A.,  Storia  delVarte  italiana, 

voi.  Vn,  P.  II  e  III,  64,  279. 
Verdi  G.,   1  copialettere,   a  cura  di 

G.  Cesari  e  A.  Luzio,  63,  473. 
Vermiglioli  G.   B.,  Lettere  inedite, 

63,  455. 
Vescovi  E.,  ie  dottrine  pedagogiche 

e  la  Div.  Commedia,  63,  444. 
Vicini  E.  P.,  I  Podestà  di  Modena, 

63,  474. 

VlGLIONE    F.,    V.    Foscolo. 

Volpi  G.,  v.  Velluti. 

Zacc AGNINI  G.,  Per  la   storia   letter 

raria  del  Duecento,  64,  249. 
Zagaria  e..  Vita  e  opere  di  Niccolò 

Amenta,  63,  137. 
Zanders     J.,    Die    altprovenzaìische 

Prosanovelle,  63,  442. 
Zenatti  a.,  V.  Miscellanea. 
ZiccARDi  G.,  Intorno  al  «  Toi'quato 

Tasso  *  di  C.  Goldoni,  64,  226. 
Ziliotto  B.,  La  cultura  letteraria  di 

Trieste  e  deWIstria,  Parte  I,  64, 

405. 
Zonta  G.,  v.  Trattati  d'amoìe. 


INDICE  DELLE  MATERIE  DEL  VOLUME  LXIV 


GUIDO  ZACC AGNINI,  Personaggi  danteschi  in  Bologna  (Maestro  Adamo  — 
Pier  da  Medicina  —  Frate  Alberigo  Manfredi  —  Oderisi  da  Gubbio  — 
Griffolino  d'Arezzo  —  Guido  Bonatti  —  Lotto  degli  Agli  —  Il  primo 
rifugio  dei  figli  di  Farinata  degli  liberti  —  Venetico  e  la  Ghisola- 
bella  Caccianimici) -Pcm/-      1 

RAMIRO  ORTIZ,  Primi  contatti  fra  Italia  e  Rumania  (Pietro  Metastasio  e  i 

poeti  VacarestiJ  Parte  II  ed  ultima »       48 

GIACOMO  SURRA,  Imitazioni  e  reminiscenze  nelle  poesie  del  Giusti.      .        .     »       89 

PIER  LUIGI  CICERI,  Michele  Manilio  e  i  suoi  *  Hymni  naturales»      .        .     »     289 

VARIETÀ 

GIUSEPPE  GALLI,  Appunti  sui  Laudarii  iacoponici »  145 

GILTLIO  REICHENBACH,  Lettere  inedite  di  Matteo  Maria  Boiardo.       .         .  »  168 
CRISTINA  AGOSTI    GAROSCI,  H  MachiaveUi  in  alcune  novelle  di  Matteo 

Bandello »  172 

ANGELO  OTTOLINI,  Una  pagina  inedita  di  U.  Foscolo  e  il  «  Misogallo  »  del- 
l'Alfieri,  a  cura  dell'Albany »  188 

KENNETH  McKENZIE,  Per  la  storia  dei  Bestiarii  italiani  .         .         .         .  .  858 

PIETRO  TOLDO,  «  Oli  sdegni  amorosi  »  di  Frandaglia  di  Val  di  Sturla        .  »  872 

RASSEGNA    BIBLIOGRAFICA 

REMIGIO  SABBADINI.   —   Gino  Bottiglioni,  La  lirica  latina  di  Firenze 

nella  seconda  metà  del  secolo  XV »     188 

ABDELKADER  salza.  —  Maria  Ibaci,  Lorenzo  Spirito  Gualtieri       .         .     »      191 

CARLO  CALCATERRA.  —   Luisa   Capra,    L'ingegno  e  l'opera  di  Saverio 

Bettinelli .210 

PIETRO  FEDELE.  —  Konrad  Burdach  und  Paul  Pick,  Briefioechsel  des 
Cola  di  Rienzo.  Kritischer  Text,  Lesarten  und  Anmerkungen  ;  — 
Anhang,  Urkundliche  Quellen  zur  Geschichte  Rienzos   .         .         .     »      886 

REMIGIO  SABBADINI.  —  Pubblicaziojii  umanistiche:  I.  Baccio  Ziliotto, 
La  cultura  letteraria  di  Trieste  e  dell'Istria.  Parte  prima,  dall'anti- 
chità all'umanesimo.  —  II.  Francesco  Lo  Parco,  Niccolò  da  Reggio 
antesignano  del  risorgimento  dell'antichità  ellenica  nel  secolo  XIV.  — 
in.  Bice  Boralevi,  Di  alcuni  scritti  inèditi  di  Tommaso  Morroni  da 
Rieti.  —  IV.  Paul.  Maas,  Ein  Notizbuch  des  Cyriacus  von  Ancona  aus 
dem  Jahre  1436 »     405 

GIUSEPPE  CAVAZZUTI.  —  H.  B.  Charlton,  Castelvetro's  Theory  of  Poefry     »     412 

CESARE  LEVI.  —  Luigi  Tonelli,  L'evoluzione  del  teatro  contemporaneo  in 

Italia »      421 


488  INDICE    DELLE    MATERIE 


BOLLETTINO    BIBLIOORA^FIGO 

Si  parla  di:  E.  Aubel,  Leon  Battista  Alberti  e  i  libri  della  famiglia,  p.  218.  —  Trattati 
d'amore  del  Cinquecento,  a  cura  di  G.  Zonta,  p.  220.  —  L.  Mathar,  Carlo  Goldoni 
auf  dem  deutschen  Theater  dee  XVIII  Jahrhundeì-ts  ;  H.  C.  Chatfield-Taylor,  Gol- 
doni, a  biography,  G.  Ziccardi,  Intorno  al  <  Torquato  Tasso  »  di  C.  Goldoni,  p.  226. 

—  A.  Db  Vico,  Per  un  parallelo  mal  fatto  (Molière  e  Goldoni) ,  p.  230.  —  P.  Ro- 
BiQUET,  Buonarroti  et  la  sede  dea  égaux  d'après  des  documenta  inédits,  p.  232.  — 
A.  Pellizzari,  Studi  manzoniani,  2  voli.,  p.  285.  —  U.Foscolo,  Scritti  vari  inediti, 
a  cura  di  Fr.  Viglione,  p.  238.  —  Q.  Saitta,  Le  origini  del  neo-tomismo  nel  se- 
colo XIX,  p.  242.  —  Or.  Carducci,  Lettere  (serie  seconda)  :  alla  famiglia  e  a  Seve- 
rino Ferrari;  Fb.  De  Sanctis,  Lettere  da  Zurigo  a  Diomede  Marvasi,  con  prefaz.  e 
note  di  B.  Croce,  p.  244.  —  G.  La  Piana,  Le  rappresentazioni  sacre  nella  lettera- 
tura bizantina  dalle  origini  al  secolo  IX,  p.  426.  —  Ij.  P.  Karsavin,  Saggi  di  vita 
religiosa  in  Italia  nei  secoli  XII-XIII,  p.  429.  —  Gr.  Lakdini,  Il  codice  aretino  180; 
laudi  antiche  di  Cortona,  p.  432.  —  D.  Velluti,  La  cronica  domestica,  scritta  fra 
il  1367  e  il  1870,  con  le  addizioni  di  Paolo  Velluti  scritte  fra  il  1555  e  il  1560, 
dai  manogoritti  originali,  per  cura  di  I.  Del  Lungo  e  G-.  Volpi,  p.  435.  — 
P.  M.  Masson,  Chants  de  carnaval  florentins  [Canti  carnascialeschi)  de  l'epoque  de 
Laurent  le  Magniflque,  p.  437.  —  A.  A.  Pons  ,  Un  trattato  educativo  del  Quattro- 
cento, p.  438.  —  A.  Tosto,  Le  Commedie  di  Ludovico  Ariosto^  studio  critico-storico, 
p.  439.  —  H.  Prunièees,  L'opera  italien  en  France  avant  Lulli,  p.  441.  —  G-.  Maz- 
zoni, L'Ottocento,  p.  445.  —  V.  Betteloni,  Impressioni  critiche  e  ricordi  autobio- 
grafici, p.  448. 

ANNUNZI  ANALITICI Pag.  249  e  451 

Si  parla  di  :  Or.  Zacoagnini.  —  Chartularium,  Studii  Bononiensis ,  voi.  II.  —  P.  Va- 
lacca.  —  L.  Albertazzi.  -—  G.  Pansa.  —  D.  Santoro.  —  G.  De  Michele.  —  L.  Marci. 

—  G.  Biadego.  —  A.  D'Ancona.  —  E.  Lamma.  —  Fr.  A.  Lambert.  —  L.  Chiap- 
pelli.  —  L.  Calvelli.  —  V.  Rossi.  —  E.  Lommatzsch.  —  A.  Corbellini.  —  A.  Ober- 
dorfer.  —  A.  Boecker.  —  A.  Pellizzari.  —  A.  Tassoni.  —  L.  Rava.  —  O.  Oiardulli. 

PUBBLICAZIONI  NUZIALI Pag.  256  e  460 

GOMUNIGA.ZIONI  ED  APPUNTI 

GIULIO  BERTONI,  Intorno  a  una  «  tornada  »  indirizzata  a  Otto  del  Carretto,  p.  258. 

—  VLADIMIRO  ZABUOHIN,  Tre  codici  umanistici  Pietroburghesi ,  p. 'SBQ.  — 
FERDINANDO  NERI,  Per  una  scheda  di  metrica,  p.  962.  —  GIULIO  BERTONI, 
Postille  aUa  lauda  veronese  del  Duecento,  p.  462. 

CRONACA Pag.  264  e  464 


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PQ  Giornale  storico  della 

ifOOl  letteratura  italiana 

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