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Full text of "Il Guazzabuglio : ossia varietà di poesie e saggio di prose"

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Presented  to  the 

LIBRARY  o/r/ze 

UNIVERSITY  OF  TORONTO 

from 

the  estate  of 

GIORGIO  BANDINI 


r^ 


GUAZZABUGLIO 


OSSI.V 


VARIETÀ  DI  POESIE  E  SAGGIO  DI  PROSE 

DI 

P.    GIACCHI 

PufaLIicafe   per    cura  degli   Editori 
della  Tipografia  dell'Associazione 


FIRENZE 

Tipografia   dell'  Associazione 

Via  Valfontla,  79 

1875 


]V.  B.   —   Le   poesie   rimate   vanno   tutte 
sopra  arie  toscane,  belle,  e  non  monotone. 


RAGIONE  DELL'OPERA 


Era  già  del  tempo  die  noi  avremmo  avuto 
desiderio  di  stampare  le  Poesie  del  Profes- 
sore Giacchi,  ma  non  sapevamo  come  fare, 
giacché  Egli  ha  l'abitudine  non  bella  di  do- 
nare i  suoi  scritti  senza  ritenerne  copia  al- 
cuna. Finalmente ,  approfittandoci  dell' esibi- 
zioni dei  suoi  Amici,  siamo  andati  raggra- 
nellando le  sparse  p)oesie  qua  e  là  e  perfino 
dalla  gente  del  popolo.  Fatto  sta  che  abbiamo 
raccapezzalo  almeno  la  metà  delle  tante  da 
Lui  composte,  ma  che  basteranno  a  palesare 
la  versatilità  del  suo  ingegno.  D'altronde  lo 
scopo  dell'autore  ci  parve  ottimo. 


Esso  ha  voluto  dare  al  popolo,  che  vuol  can- 
tare a  ogni  costo,  delle  poesie  con  del  senso 
comune,  e  prive  di  oscenità.  Questo  sacro- 
santo scopo  lo  tentava  il  suo  venerato  Nic- 
colò Tommaseo  in  una  raccolta  di  stornelli, 
ai  quali  però  non  seppe  dare  il  ritmo.  Più 
tardi  il  Maestro  Gordigiani  fece  lo  stesso,  e 
riuscì  a  bella  musica,  ma  il  popolo  non  l'ac- 
cettò. Il  Giacchi  invece  produsse  arie  cono- 
sciutissime,  e  ottenne  di  sentir  ripetere  i  suoi 
versi  con  amore. 

Ci  duole  che  quest'arie  non  possiamo  ri- 
2)rodurle  con  note.  A  Firenze  vi  è  di  fedo  di 
quest'arte,  o  almeno  riesce  carissima.  Figu- 
rarsi! Ci  narra  l'Autore  che  per  musicare 
quelle  quattro  parole  della  sua  Fame,  in  po- 
che copie,  spese  lire  40  !  Ci  è  convenuto  quin- 
di indicare  solamente  l'aria  sotto  ogni  Can- 
zone alla  Beranger.  Speriamo  che  a  Milano, 
0  a  Napoli  dove  le  note  costano  poco,  sia 
richiesta  la  proprietà  letteraria,  o  la  ristampa 
se  avviene,  e  allora  con  eque  condizioni  l'au- 
tore si  presterebbe  a  detiare  la  musica  sul 
piano  -forte. 

Alle  poesie  musicate  si  aggiungono  altre 
senza  musica.  L'espresso  divieto  dell'Autore 
c'impedisce  di  farne  l'elogio,  ma  i  lettoìn  sa- 


-  5  - 

pranno  giustamente  apprezzarle.  Né  faccia 
specie  la  varietà  dei  temi  e  delio  stile.  Ciò 
sta  nella  natura  slessa  dell'Autore,  e  nelle 
diverse  fasi  sociali  che  Egli  dovette  subire. 
Del  resto  ci  sembra  che  Egli  non  abbia  mai 
mancato  ai  sentimenti  di  probo  cittadino,  e 
di  delicato  poeta. 

Alle  poesie  accoìjpiamo  un  saggio  di  prose 
per  manifestarne  la  purgatezza  dello  stile,  la 
disinvoltura,  e  la  leggiadria.  Le  abbiamo  tol- 
te in  parte  dal  Piovano  Arlotto  Periodico 
restato  a  ragione  monumcìitale  per  lingua, 
letteratura,  scienza  d'arti,  estetica  di  musica, 
e  in  cui  scrìvevano  le  pili  illustri  ^jenne  d'I- 
talia. L'Autore  fu  dei  primi  e  più  assidui 
collaboratori  sotto  il  pseudonimo  di  Cece.  — 
Le  misure  compassive  dell'opera  non  ci  han- 
no permesso  d'inserire  altri  suoi  scritti,  che 
avremmo  volentieri  riportato,  specialmente 
«  /  Dialoghi  de' Morti  »,  che  l'insigne  filologo 
Pietro  Fanfani  chiamava  Lucianeschi. 

Forse  ci  sarà  tempo,  ma  intanto  ci  prote- 
stiamo coi  Cortesi  Lettori 

Ohhìigati  e  Devoti 
GLI      EDITORI. 


POESIE   MUSICATE 


SAGOGE 


BartolommBO  Sestini,  nato  su  quel  di  Pistoia, 
Ingegnere  e  disegnatore  distinto,  fu  l'autore 
del  Poema  Romantico  La  Pia  de'  Tolomeì  e  di 
altre  lodate  poesie;  celeberrimo  improvvisato- 
re e  caldo  patriota  subì  nel  21  lunga  carcera- 
zione nel  Regno  di  Napoli.  Liberato  per  me- 
diazione di  Vittorio  Fossombroni,  insigne  pro- 
tettore dei  letterati,  e  ridotto  in  patria,  amò 
una  giovane  popolana  che  faceva  la  treccia  da 
cappelli  di  paglia,  ricchezza  allora  della  To- 
scana. Egli  la  educava  per  farsene  una  moglie, 
quando  in  una  burrasca  di  autunno  essa  fu 
uccisa  dal  fulmine.  Le  persecuzioni  della  po- 
lizia e  questa   ultima  dolorosa  catastrofe  de- 


—  10  — 

terminarono  il  Sestini  ad  esulare.  Fu  onorato 
a  Parigi  col  titolo  di  «  Tirteo  italiano  » 
Mori  giovane  di  solo  oltre  30  anni,  di  con- 
gestione cerebrale.  Sul  tristo  caso  dell'  An- 
ilina la  fidanzata  che  sopra  l'  autore  com- 
pose la  seguente  pietosa  leggenda,  che  da 
molto  tempo  si  canta  dal  popolo  in  Firenze 
sulla  chitarra. 

ANNINA 

(Suir  aria  del    Pescatore.) 


1. 

In  riva  dell'Ombron 
Nel  pistoiese  suolo. 
Là  dove  1'  usignolo 
Canta  la  sua  canzon, 
Viveva  una  donzella 
Che  il  pregio  avea  di  bella 
E  a  cui  quella  beltà 
Le  grazie  aumentavano 
Della  primiera  età. 


—  11  — 


2. 


Egli  era  suo  raestier 
Coir  industriosa  maglia 
Intesser  quella  paglia 
Che  piace  al  forestier. 
Che  passa  i  monti  e  il  mare 
E  che  dovunque  appare 
i-iammenta  con  onor 
Delle  toscane  artefici 
Il  più  gentil  lavor. 


3. 

Annina  il  nome  fu 
Della  fanciulla  altera. 
Che  si  mostrò  severa 
Con  chi  l'amò  di  più  : 
Ma  il  fanciuUetto  amore 
Alfin  destò  l'ardore, 
E  chi  rapille  il  cor 
Fa  giovin  vate  celebre 
Per  r  estro  animator. 


—  12  — 


Sestinì  ella  mirò, 
E  ambo  sentirò  in  petto 
Scambievole  un  affetto 
Che  mai  si  cancellò  : 
Egli  cantava  ognora 
Di  lei  che  lo  innamora, 
Ed  ella  ripetè 
Quei  versi  tenerissimi 
Pegni  di  eterna  fé. 


Quando  al  venir  del  sol 
Alza  dal  molle  prato 
Col  canto  innamorato 
La  lodoletta  il  voi. 
Lunghesso  il  patrio  fiume 
Parlarsi  avean  costume, 
E  rallegrarsi  il  cor 
Allo  spirar  dell'  aure. 
All'  olezziar  dei  fior. 


-  13  — 


6. 


Ma  se  di  bianco  vel 
La  luna  rivestita. 
Di  dietro  al  monte  uscita, 
Spargea  le  perle  in  ciel. 
All'  ombra  delle  piante 
Siedea  la  coppia  amante, 
E  i  muti  campi  udir 
In  quella  quiete  placida, 
Un  bacio  ed  un  sospir. 


7. 

Era  nella  stagion 
Che  r  uva  si  matura 
E  porge  la  natura 
Dei  frutti  il  ricco  don  : 
Annina  assisa  eli'  era 
Sotto  una  querce  altera. 
Cantando  in  suo  lavor 
Di  Vienna  bella  e  Parise 
L' avventuroso  amor. 


—  14  — 


8. 


Ed  ecco  il  sol  spari. 
Fiero  levossi  il  vento 
E  parve  in  un  momento 
Cambiarsi  in  notte  il  di: 
Della  procella  il  seno 
Solcando  va  il  baleno, 
Mugghia  da  lungi  il  tuon, 
E  lo  precede  il  turbine 
Con  fragoi'oso  suon. 


9. 

Segnossi  e  trepidò 
La  giovine  infelice  : 
Si  prostra  e  preci  dice. 
Ma  il  fulmine  piombò... 
Figlio  della  tempesta 
Fulmin  crudele  arresta  ; 
Al  bieco  tuo  furor 
Immola  una  altra  vittima. 
Distruggi  un  altro  cor- 


—  15  - 


10. 


Di  nuovo  il  sole  in  ciel 
Pomposo  fé  ritorno. 
Tornò  di  nuovo  il  giorno 
E  i  fior  sopra  lo  stel. 
Ma  la  leggiadra  Annina 
Non  sorge  più,  meschina  r 
Spari  tanta  beltà. 
La  trista  morte  squallida 
Sul  caro  viso  sta  ! 


i\. 

Del  caso  il  gran  terror 
Empi  quelle  campagne 
E  venner  le  compagne 
Piangendo  di  dolor, 
E  la  donzella  cara 
Composer  nella  bara, 
E  lungi  la  portar 
Dove  di  un  colle  al  vertice 
Umil  chiesetta  appar. 


IG  — 


12. 


Sestini  intanto,  oimè  I 
Udita  sua  sventura 
Alle  romite  mura 
Rapido  mosse  il  pie  ; 
Vide  la  bella  estinta 
Di  bianca  veste  cinta; 
Non  pianse,  non  pregò. 
Nò  un  moto  sol  dell'  anima 
Sul  volto  tramandò. 


13. 

Muto,  severo  uscì, 
Diede  un  estremo  addio 
Al  tetto  suo  natio. 
Per  sempre  indi  parti  : 
Tra  la  straniera  gente 
Menò  vita  dolente, 
Finché  cessogli  il  cor 
Di  batter  per  la  patria, 
Di  palpitar  di  amor. 


17  — 


ISAGOGE 


Chi  furono  i  fratelli  Bandiera  tutti  sanno. 
Emilio  ed  Attilio  nati  a  Venezia,  ed  Alfieri 
della  Bellona,  di  cui  era  ammiraglio  il  padre 
devotissimo  all'Austria.  Addetti  alla  Giovine 
Italia,  e  sedotti  dalla  speranza  della  sua  im- 
minente liberazione,  disertarono  nel  1845,  e 
col  leggiadro  e  prode  Domenico  Moro,  Rie- 
ciotti  ed  altri  generosi  si  recarono  in  Cala- 
bria dove  speravano  un'insurrezione.  Sparsero 
proclami,  combatterono  con  estremo  valore 
contro  i  Regi,  ma  superati  da  soverchio  nu- 
mero, e  tradotti  a  Cosenza,  quivi  furono  fu- 
cilati. Non  vollero  benda,  si  baciarono,  e  mo- 
rirono con  in  bocca  un'apostrofe  all'Italia. 

L'autore  essendo  a  Livorno  la  sera  dell'in- 
fausto annunzio,  nella  retrostanza  d'un  caffè, 
vivamente  stimolato,  scrisse  la  seguente  Can- 
zone, che  poi  per  anni   lunghi  fu  colle  solite 

2 


—  18  — 

precauzioni  cantata,  e  servi  a  mantenere  gli 
spiriti  patriottici  —  E  dedicata  alla  Madre  dei 
Martiri. 


LA   MORTE  DEI   FRATELLI   BANDIERA 

(Suir  aria  della  «   Vaga  Clori  ») 


Sorge  il  dì  sereno  e  bello 
D'  Adria  spunta  lieto  il  sol. 
Dei  Bandiera  nell'  ostello 
Sta  silenzio  ed  alto  duol. 

Una  donna  in  bruno  ammanto 
Nova  Niobe  s' impietrò  ; 
Senza  moto,  senza  pianto 
L'occhio  a  terra  si  fissò. 

È  la  Madre,  oh  rio  cordoglio  I 
Degli  eroi  che  furo  un  di 
Di  sue  viscere  1'  orgoglio 
Neil'  amor  che  a  lei  gli  uni. 


—  19  — 

Non  più  lieta  di  sua  prole 
Tutte  gioie  le  mancar  ; 
Si  oscurò  per  lei  quel  sole, 
Tristo  è  fatto  a  lei  quel  mar. 

Pensa  ai  di  lieti  e  ridenti 
Quando  stretti  i  figli  al  cor. 
Raffrenava  in  lor  gli  ardenti 
Primi  slanci  del  valor. 

Queir  istesso  ahimè  valore 
Che  li  trasse  in  altra  età 
A  spruzzar  di  sangue  il  fiore 
Di  che  cinta  è  Libertà! 

Cuor  veloce  in  mezzo  al  petto, 
Senno  acuto  e  prode  man 
Nel  natio  macchiato  tetto 
Tratteneva  i  figli  invan, 

Quando  udir  grido  sonoro 
Degli  arditi  che  si  unir 
In  Calabria  e  sul  Peloro 
Per  dar  morte  o  per  morir. 


—  20  — 

È  quel  grido  onnipossente, 
Ed  il  mar  varcato  fu  — 
Va  pur,  vola  o  coppia  ardente 
Sulla  via  della  virtù  : 

Pugna  a  strage  e  la  vittoria 
Tanto  ardir  coronerà, 
0  veridica  l' istoria 
Il  tuo  nome  eternerà. 

Ma  qual  vedo  atro  apparato 
D'  empi  sgherri  e  d'  empio  Re  ? 
Ahi  f  il  tiranno  ha  trionfato. 
La  giustizia  soccombè. 

Oh  !  fermate  vili  voi, 
Prodi  il  numero  vi  fa; 
Rispettate  degli  eroi 
La  costanza  e  1'  amistà. 

Grido  invan;  sono  i  Bandiera;. 
Un  Ricciotti,  un  Moro  ancor. 
Che  tradita  e  poca  schiera 
Pur  sostiene  alto  valor. 


Il  Re  vii  della  vii  pugna 
Gode  i  frutti  di  raccór. 
Come  tigre  che  oprò  1'  ugna 
Sopra  il  misero  pastor. 

Ecco  i  ferri  e  le  ritorte 
Gr  infelici  circondar, 
E  ministri  della  morte 
Gli  archibusi  luccicar. 

Fermo  il  pie,  volto  più  fermo 
Hanno  i  martiri  del  ver. 
Né  di  benda  si  fa  schermo 
L'  occhio  avvezzo  a  non  temer. 

«  Viva  Italia!  il  nostro  sangue 
«  E  battesmo  a  libertà  : 
«  Qual  rugiada  al  fior  che  langue 
«  Nuova  vita  apporterà.  » 

Così  dissero  ed  al  cielo 
Volto  il  guardo  a  Dio  pregar, 
E  racchiuse  in  santo  zelo 
L'  alme  unite  sen  volar. 


5-2 


Ma  a  te  madre  inonda  il  seno 
Largo  pianto  in  caldo  umor  — 
Ah  !  il  mio  canto  ruppe  il  freno 
Del  racchiuso  tuo  dolor. 

Piangi  si  :  storia  dolente 

10  narrai  che  ti  feri  ; 
Forse  storia  più  ridente 
Fia  eh'  io  narri  in  altri  di. 

Se  tai  madri  e  tali  figli 
Spesso  r  Adria  a  noi  darà, 

11  Lion  coi  novi  artigli 
La  sua  chioma  arrufferà  : 

Che  dei  prodi  il  puro  sangue 
È  battesmo  a  libertà  — 
Qual  rugiada  al  fior  che  langue- 
Nuova  vita  apporterà. 


—  23  — 

IL   RITROVAMENTO  DI   UN'AMICA 

(Sull'aria  della  Rondinella) 

(A  commento    dell'ultime    sestine    ò    da    dire  che  quando  la 
dettò  r  autore  era  assai  malato). 


Ti  rammenta  la  dolcezza 
Della  nostra  gioventude  ; 
Del  tuo  colle  la  vaghezza. 
L'orizzonte  che  lo  chiude. 
Lieti  i  giochi  e  le  parole. 
Altri  campi  ed  altro  sole  ! 


Eri  allor  come  il  sorriso 
Della  stella  sul  mattino, 
Eri  l'angiolo  indiviso 
Che  guidavi  il  mio  destino  ; 
Sempre  cara,  sempre  bella. 
Putativa  mia  sorella. 


—  24  — 

Poi  spariste  —  e  io  pur  sparito 
Me  ne  andai  di  gente  in  gente^, 
Ma  col  cuore  al  patrio  lito 
Io  tornavo  di  sovente. 
Ricercando  di  colei. 
Che  fu  luce  agli  occhi  miei. 


Oggi  dopo  errar  cotanto, 
Dopo  l'aspre  mie  vicende. 
Ti  rivedo  nell'incanto 
Dell'età  che  ancor  mi  accende. 
Sempre  cara,  sempre  bella, 
Putativa  mia  sorella. 


Ma  già  sento  della  vita 
Lo  sgomento  in  mezzo  al  petto; 
Scenderò  dove  m'invita 
Il  sepolcro  nel  suo  letto  : 
Tu  pietosa  sulla  sera 
Per  me  sciogli  una  preghiera. 


—  25  — 

Ed  io  giunto  innanzi  a  Dio, 
Se  la  speme  non  m'inganni. 
Non  saprò  porre  in  oblio 
La  fanciulla  dei  prim'anni, 
E  otterrò  con  santo  zelo 
Ch'  ella  a  me  si  unisca  in  cielo. 


—  26  — 


ISAGOGE 


Questa  Romanza  si  riporta  ai  tempi  che  i 
Mori  invasero  la  Spagna,  occupando  le  Pro- 
vincie meridionali  di  Murcia,  Valenza  e  Gra- 
nata. In  Granata  avevano  la  lor  reggia  nel 
famoso  Palazzo  detto  L'  Alhambra  (1).  Gli 
Abecenradi,  di  razza  Araba,  furono  prodi  guer- 
rieri e  portarono  le  scienze  e  le  arti  nel- 
r  Europa  abbrutita.  Di  uno  di  questi  regnanti 
ha  fatto  r  A.  la  seguente  Romanza. 

ABUDHALLA^2) 

(Sull'Aria  *  Afia  bella  l'undici  sono  sonate  »]. 


Era  Abudhalla  Sultan  di  Granata 
Prode  in  armi,  leggiadro  d'  aspetto, 
E  un  grand' amore  gli  ardeva  nel  petto 
Per  Gulnara  (3)  sua  schiava  gentil. 


(1)  Alhambra—  in  Arabo,  Palazzo  rosso,  perchè  fatto  di  mat- 
toni. 

i2)  Abudhalla  —  Ama-Dio.  — 

(3}  Gulnara —  Dalle  belle  guancia. 


->  27  — 

L'occhio  a  gazzella  (1)  ed  il  seno  di  neve, 
Sulla  bocca  la  rosa  florìa: 
Anco  Gulnara  di  amore  languia 
Ma  schivava  gli  amplessi  del  Sir, 

Invan  1'  Alhambra  nell'  arabe  sale 
Risuonava  dell'  arpe  e  del  canto  : 
Quella  ritrosa  sentiva  l'incanto, 
Ma  schivava  gli  amplessi  del  Sir. 

Era  una  notte  silente,  serena, 
Profumata  dai  fiori  di  Maggio; 
La  bianca  luna  pioveva  il  suo  raggio 
Sul  veron  della  torre  orientai. 

Quivi  il  sultano  e  la  schiava  sedeano 
Ai  fidati  discorsi  di  amore, 
E  a  poco  a  poco  a  Gulnara  nel  core 
Scendea  la  smania  della  voluttà: 

Un  bacio,  un  altro,  una  stretta  sul  seno 

Abudhalla  al  trionfo  è  vicino 

Ahi!  nello  sforzo  ella  fece  un  petino, 
E  fu  rotto  r  incanto  di  amor. 


(1)  Gazzella—  Specie  di  Capra  con  occhio  bello  ed  espressivo. 


—  28  — 

Questa  chiusa  non  poteva  piacer  troppo  a 
quelle  Donzelle  che  1'  avrebbero  cantata  sul 
Pianforte;  quindi  l'A.  la  mutò  cosi: 

Quivi  il  Sultano  e  la  Schiava  sedeano 
Ai  fidati  discorsi  d'  amore 
E  a  poco  a  poco  a  Gulnara  nel  core 
Scendea  la  smania  della  voluttà. 

Ma  impallidita  rizzossi  ad  un  tratto 
E  carpito  il  tagano  (1)  all'amante: 
Sposami,  disse,  o  t'  uccido  all'  istante. 
Ed  io  sopra  il  tuo  petto  morrò. 

Questa  ferocia  d'amore  pudico  ■ 
Fu  una  potenza  per  l'Arabo  arcana: 
Tosto  la  Schiava  divenne  Sultana 
E  fur  paghi  gli  amplessi  del  Sir. 


(1)  Tagano  —  Jatagan,  pugnala  ricurvo  usato    in  Oriente 


—  i9  - 


LAUDE  A   MARIA  DI   MAGGIO 

(Sull'aria  de]  coro  della  Straniera  «  Pari  alVanior  degli  angeli») 

{Scrina  al  tempo  della  crittogama) 


Sposa  al  Divino  Spirito, 
Madre  del  tuo  Signore 
Figlia  del  primo  Amore 
Bella  Maria  siei  tu. 


Tu  dei  lontani  secoli 
Vaticinata  speme 
D'Eva  rendesti  al  seme 
L'antica  sua  virtù 


—  so- 
li trono  tuo  degli  angioli 
Va  sopra  l'ali  ardenti. 
L'atre  procelle  e  1  venti 
Taccion  dinanzi  a  te: 


Serto  di  stelle  limpide 
Intorno  al  crin  si  aduna. 
Sulla  falcata  luna 
Muovi,  0  Leggiadra,  il  pie. 


Padre  dei  campi  floridi 
Lieto  ritorna  il  maggio; 
Tepido  piove  il  raggio 
Il  re  dello  splendor. 


E  la  romita  mammola 
Dalla  scoscesa  balza 
A  te.  Regina,  inalza 
Il  suo  soave  odor. 


—  31  - 

Deh  I  col  profumo  tenue 
Dei  verginelli  fiori. 
Anco  dei  nostri  cuori 
Accetta  il  palpitar. 

Tu  delle  grazie  provida 
Alle  pentite  genti. 
Tu  dei  mortali  eventi 
Il  nume  tutelar. 


Salva  la  messe  tenera 
Dalla  crudel  tempesta; 
Rendi  all'usata  festa 
La  vigna  che  languì  : 


Delle  stagion  volubili 
Torni  l'usata  legge: 
Goda  il  pastor  e  il  gregge 
Di  più  sereni  dì. 


—  32 


LAUDE  A   MARIA  ASSUNTA 

CORO  DI   FANCIULLE 
(Sull'aria  dei  Lombardi  «  0  signore  che  dal  tetto  natio  »). 


Vergili  bella  che  al  limpido  lume 
Della  Mente  Divina  piacesti, 
Che  il  nemico  infernale  vincesti. 
Calpestando  il  suo  capo  col  pie. 

Nel  tuo  seno  si  chiuse  quel  Nume, 
Cui  non  basta  a  capire  il  creato,  . 
E  dimesso  l'antico  reato. 
Tutto  il  mondo  fu  salvo  per  te. 

Tu  siei  Madre,  siei  Figliola,  siei  Sposa 
Dell'Eterno  Signor; 
Tu  ci  assisti,  ci  consola  pietosa; 
Accetta  il  nostro  amor  —  amor 


-  33  - 

Contro  Te  fu  impotente  la  morte, 
Percliè  assiem  col  corporeo  tuo  velo 
Fosti  assunta  dagli  angioli  in  cielo 
Dentro  un  raggio  di  limpido  sol. 

Qui  dei  Santi  la  varia  coorte 
Rende  omaggio  alla  nuova  Regina, 
Ogni  angelico  spirto  s'inchina. 
Fiammeggiando  nel  rapido  voi. 

Tu  siei  Madre  ecc. 


Nuovo  patto  portasti  alle  genti, 
Arca  santa,  Refugio  al  peccato; 
Orto  e  Fonte  racchiuso  e  segnato, 
Verde  palma  in  deserto  sentier. 

Fosti  sempre  conforto  alle  genti, 
Se  sventura  o  dubbiezza  ne  appare, 
E  col  nome  di  stella  del  mare 
T'invocò  lo  smarrito  nocchier. 

Tu  siei  Madre  ecc. 


—  34  — 

Supplichiamo  col  flebile  canto 
Te  che  siei  nostra  sola  speranza. 
Onde  armate  di  santa  costanza, 
Imitiam  le  tue  belle  virtù. 

In  quest'orrida  valle  del  pianto 
Noi  moviamo  inesperte  ed  erranti  ; 
Tu  ci  guida  e  conduci  davanti 
All'amato  ed  amante  Gesù. 

Tu  siei  Madre  ecc. 


Qual  ruscello  che  scorre  gemendo 
Dove  il  lago  a  riposo  lo  invita, 
Dei  nostri  anni  tal  scorra  la  vita 
Dove  Amore  la  chiama  al  suo  sen  ; 

E  di  morte  all'istante  tremendo 
Tu  ci  assisti,  o  soave  Maria, 
E  solleva  la  nostra  agonia 
Additandoci  il  cielo  seren. 

Tu  siei  madre  ecc. 


-  35  - 


GIULIA    GENTILE 

(Aria  omonima) 


Giovinetta  in  verde  etade. 
Quanto  siei  leggiadra  e  bella! 
Tu  rammenti  quella  stella. 
Che  apparisce  innanzi  al  dì. 

Giulia  gentil  —  Dal  bel  color 
Ah  tu  non  sai  —  che  sia  l'amor 
Ma  forse  un  di  —  Giulia  gentil 
T'insegnerò  —  che  sia  l'amor  (I) 

Con  quegl'  occhi,  con  quel  volto 
La  regina  siei  de'cuori. 
Ma  farfalla  in  mezzo  ai  fiori 
Tu  non  sai  dove  posar. 

Giulia  gentil  ecc. 


(1]  Di  quest'aria  che  fu  popolarissima  l'autore  mutò  le  quar- 
tine, ma  ha  conservato  il  ritornello  benché  poco  felice. 


-  36  — 

Qualche  volta  nel  guardarmi 
Tu  sorridi  al  mio  sorriso  ; 
Farmi  allor  che  un  paradiso 
Si  dischiuda  innanzi  a  me. 

Giulia  gentil  ecc. 

Quando  baci  il  canarino 
Quanto  invidio  l'augelletto } 
Quanto  invidio  quel  mughetto 
Che  ti  posa  in  mezzo  al  sen  t 

Giulia  gentil  ecc. 

Cresci  adunque,  o  bella,  e  udrai 
Misteriosa  una  parola: 
Tu  l'ascolta  e  mi  consola 
Di  sì  lungo  palpitar 

Giulia  gentil  ecc. 


-  37  — 

LUI   E   LEI 

[Coppiola  erotica  sull'aria  «  Quando  sarò  inr/egnere  >) 


Lui 

Dammi  de  tuoi  capelli. 
Dammi  la  bruna  ciocca^ 
Amor  degli  occhi  beili^, 
Delizia  della  bocca: 

Dagli  umidi  tuoi  labbri 
Io  coglierò  la  voglia  ; 
Leggier  come  una  foglia 
Un  bacio  io  ti  darò 

Lei 

Posa  su  miei  ginocchi. 
Posa  la  fronte  altera. 
Delizia  di  quest'occhi. 
Bel  fior  di  primavera  : 

Ricoprirò  di  baci 
La  bocca  tua  serena  ; 
L'anima  mia  con  pena 
Sui  labbri  arresterò. 


-  38  - 

IL  PRIMO   AMORE 

(Sull'aria  <   Ti  voglio  lene  assai  >) 


Il  buon  nocchier  dimentica 
Dd  mar  le  insidie  e  l'ire, 
E  torna  a  quel  pericolo 
Ch'egli  giurò  fuggire: 
Dimentica  già  vecchio 
Le  selve  il  cacciatore  — 
Ma  il  caro  primo  amore 
Mai  non  si  può  scordar. 

Nella  pace  domestica 
Riposa  il  pro'guerriero, 
Né  di  battaglie  strepito 
Più  turba  il  suo  pensiero; 
Ed  oblioso  e  tenero 
In  mezzo  ai  figli  ei  muore  — 
Ma  il  caro  primo  amore 
Mai  non  si  può  scordar. 


—  39  — 

Il  prigioniero  libero 
Scorda  le  sue  catene; 
Si  scorda  fin  la  patria. 
Nelle  lontane  arene;, 
Si  scorda  ogni  periglio. 
Si  scorda  ogni  dolore  — 
Ma  il  caro  primo  amore 
Mai  non  si  può  scordar. 


—  40  — 

IL  MONTAGNOLO  CHE  VA  IN   MAREMMA 

(Aria  omonima] 


Care  montagne  addio: 
Vado  in  Maremma, 
Ma  r  amor  mio 
Come  una  gemma 
Lo  serberò. 

E  tu  da  me  divisa 
Non  pianger  tanto 
Povera  Lisa; 
Rasciuga  il  pianto 
Ch'  io  tornerò. 

Se  in  cielo  si  presenta 
La  vaga  stella. 
Guardala  attenta 
Che  io  pure  o  bella 
La  guarderò. 


—  -il  — 

Se  il  vento  in  giù  si  muove 
Manda  un  sospiro; 
Ei  saprà  dove 
Allor  mi  aggiro 
E  dove  io  sto. 

Quando  dalla  finestra 
Vedrai  fiorire 
Quella  ginestra^ 
Tu  puoi  ben  dire 
Gli  è  per  tornar. 

Ed  io  portar  ti  voglio 
Un  bel  violo 
Pien  di  rigoglio, 
E  un  bacio  solo 
Mi  devi  dar. 


-  4-2  — 


ERSILIA 


Questi  pochi  versi  furono  scritti  dall'Autore 
ad  istanza  della  sua  fantesca  Maria  Lanini  per 
la  morte  della  nipote  Ersilia  Lanini,  cara 
bambina,  delizia  e  pianto  di  entrambi. 


(SulTaria    bellissima  recente   popolare  «  Privo  deWomor 
mio  viver  non  posso  più  »J. 


Avea  nov'  anni  appena. 
Era  un  desio  di  amor; 
La  faccia  sua  serena 
Rassomigliava  un  fior; 
E  rallegrar  sembravasi 
Al  suo  sorriso  il  ciel, 
Dove  appariva  l'anima 
Placida  e  senza  vel. 


—  43  - 

Domestici  i  lavori 
Tesseva  oltre  l'età. 
Affetto  ai  campij  ai  fiori, 
Ai  poveri  pietà; 
E  il  culto  della  Vergine 
Prediligea  cosi. 
Che  al  sacro  aitar  prostravasi 
Spontanea  in  ogni  di. 


Eppure  essa  morìa 
E  piena  di  martir  1 
Sui  labbri  della  zia 
Fu  l'ultimo  sospir; 
Ridirne  i  detti  teneri 
Bocca  non  può  quaggiù. 
Volò  farfalla  candida 
In  seno  di  Gesù. 


—  44  _ 

1   PREGI   DEL   PORCO 

Dirimpetto    alla    Società. 

[Sull'aria  della  «  Clarina  »  di  G.  BerclietJ 


Non  è  in  terra  un  animale 
Util  tanto  ad  ogni  gente. 
Quanto  il  celebre  Maiale 
Vero  tipo  del  candor  ; 
Viva  il  Porco  seducente 
Tutto  pieno  di  sapor. 


Lesso  il  Grifo  e  gli  Zampetti 
Non  son  cibi,  ma  son  gemme, 
Gli  altri  lessi  piìi  perfetti 
Lascio  a  chi  gli  vuol  mangiar, 
La  Cotenna  lemme  lemme 
Va  giù  senza  masticar. 


—  45  — 

CotegMni  bene  asciutti 
Chi  non  mangia  grave  pecca, 
I  Salami  ed  i  ProsciuUi 
Chi  non  compra?  chi  non  ha? 
Ma  in  gratella  la  Bistecca 
Come  in  trono  se  ne  sta. 


La  PorcJieUa  cotta  in  forno 
Lo  Stufato  con  le  mele 
Tanto  piaccion  che  d'intorno 
Sempre  han  gente  per  comprar, 
E  la  colica  crudele 
Fan  dal  ventre  allontanar. 


Ecco  l'Arista  odorosa, 
Ecco  qua  la  Soprassaia 
Con  la  polpa  rugiadosa 
Che  il  calletto  tien  con  se^, 
Bene  stretta,  ben  drogata 
È  un  boccon  degno  dei  Re. 


—  46  — 

Quella  Gola  è  saporita 
Variegata  è  quella  Spalla  ; 
L'una  e  l'altra  a  nuova  vita 
L'affamato  torneran, 
Ma  coi  Rocchi  non  si  falla 
Se  in  tegame  si  faran. 


Or  per  ultimo  vi  voglio 
Nominer  cibo  più  bello^ 
Di  cucina  il  primo  orgoglio 
Che  raggiunger  non  si  può, 
L'  irretato  Fegatello 
Che  il  tartufo  superò. 


Cantiam  dunque  uniti  in  coro 
Con  il  ciglio  reverente  : 
Viva  questo  gran  tesoro 
Questo  palpito  del  cuor. 
Viva  il  Porco  seducente 
Tutto  pieno  di  sapor. 
Viva  il  Porco  seducente 
Ch'è  l'emblema  del  candor. 


—  47  — 

ROMANZA 

ALLA  SIGNORA  R.  C  (1) 

(Sull'aria  della  «  Clarina  »  di  Berchet). 


Tutta  mesta,  tutta  sola. 
Vaga  donna  innamorata, 
Qual  mai  detto  ti  consola, 
Qual  conforto  è  nel  tuo  cuor  ? 
Piangi  piangi  o  sventurata, 
È  supremo  il  tuo  dolor. 


Sul  tuo  capo  è  inaridita 
La  ghirlanda  dell'  Imene  ; 
Sparve  il  sogno  della  vita, 
Sol  l'affanno  ti  restò  — 
Quelle  dolci  tue  catene 
La  sventura  le  spezzò. 


(IJ  II  marito  della  suddetta  signora  era  nel  Manicomio. 


—  48   - 

Scese  il  buio  nel  pensiero 
Al  tuo  florido  marito  ; 
Il  sorrìso  lusinghiero 
In  quel  labbro  illanguidì  ; 
Ma  nel  senno  suo  smarrito 
Sta  r  immagine  di  un  di. 


Di  quel  giorno  in  cui  dall'  ara 
Ambo  accolse  il  Sacerdote  — 
Rimembranza  sempre  cara, 
Chiaro  lampo  di  piacer  — 
Sale  il  sangue  sulle  gote 
Air  indomito  pensier. 


Né  il  più  vedi  I  da  lontano 
Come  tortora  fedele 
Gemi  sempre,  e  gemi  invano. 
Mesci  il  pianto  col  pregar  — 
Il  destin  fatto  crudele 
Par  eh'  esulti  al  tuo  penar. 


-  49  — 

Pur  neir  anima  costante 
Sia  la  speme  revocata; 
Ma  finché  rieda  l' istante 
Della  fede  e  dell'  amor. 
Piangi  piangi  o  sventurata  ; 
È  supremo  il  tuo  dolor. 


—  50  - 


ISAGOGE 


Questa  canzone  fu  scritta  e  musicata  dal- 
l'Autore nel  1868  quando  eravi  fame  nell'Al- 
geria, quando  la  carestia  minacciava  l' Italia,  e 
il  solito  monopolio  aveva  fatto  scomparire 
anche  la  moneta  erosa. 


LA    FAME 


Io  sono  la  Fame, 
Che  picchio  alle  porte  : 
lo  son  la  terribile 
Ministra  di  morte  ; 
Cogli  occhi  di  scheletro. 
Col  nudo  carcame  — 
La  Fame  !  La  Fame  ! 


-  51   — 

Giacevo  dell'Affrica 
Sili  lido  infocato: 
Chiamommi  in  Italia 
Un  turpe  mercato, 
E  corsi  per  compiere 
Le  sordide  trame  — 
La  Fame  !  La  Fame  ! 

Dei  cenci  battuti 
Divenni  regina; 
Innanzi  mi  spinsero 
E  furto  e  rapina; 
Sparito  il  commercio 
Coir  oro,  col  rame  — 
La  Fame  !  La  Fame  ! 

Cessate  il  tripudio 
Di  balli  e  di  scene  : 
V'impone  silenzio 
La  Fame  che  viene  ; 
Lo  impone  dei  poveri 
Il  lurido  sciame  — 
La  Fame  !  La  Fame  ! 


Vedete  quei  pargoli 
Dai  pallidi  visi. 
Ridotti  cadaveri  ! 
Son  io  che  li  uccisi: 
Io  sono  la  pronubla 
D'un'  epoca  infame  — 
La  Fame  I  La  Fame  ! 


Vedete  quei  popoli, 
Che  corrono  insieme  ; 
Che  r  armi  brandiscono 
La  Fame  li  preme: 
Oh  come  disfogano 
Le  vindici  brame  t  — 
La  Fame  !  La  Fame  ! 


POESIE  NON  MUSICATE 


SEGUITO  DELLA  PARISINA 

(da  Byron  con  varianti] 
1  S  50 


Ugo  morì  —  Di  Parisina  il  fato 
Altri  non  seppe  nell'  Estense  corte  ; 
Ma  sommesso  il  ridisse  un'  uom  contrito 
Neil'  estremo  di  morte,  e  a  noi   pervenne 
Paurosa  leggenda  e  custodita. 
Era  queir  uom  d'  Azzo  un  fedele,  e   tutti 
Gli  arcani  conoscea  del  suo  signore^ 
Compagno  di  virtudi  e  di  delitti. 


—  t>6  — 

Sul  grand' arco  del  ciel  folgoreggiando 
Saliva  il  sole  e  i  raggi  suoi  spargeva 
D'Ugo  sopra  del  cippo  insanguinato 
Come  sul  cespo  della  rosa  —  uguale 
E  imperturbato  negli  umani  eventi. 
Ma  non  luce  di  sol  le  volte  antiche 
Rischiarava  del  carcere,  ove  il  pianto 
Cessato  avea  la  bella  Carrarese. 
Stupida,  muta,  affisa  il  ciglio  asciutto 
Su  fioca  lampa,  che  posava  appresso, 
Stavasi  Parisina  accovacciata 
Sulle  tavole  rudi,  e  il  suo  pensiero 
Come  fantasma  all'  egro  iva  e  tornava. 
Senza  che  sforzo  della  mente  stanca 
A-fferrar  lo  potesse  —  A  un  tratto  un  guizzo 
Di  quel  lame  sfavilla,  e  come  un  lampo 
Percote  gli  occhi  alla  smarrita  —  In  piedi 
Levossi  essa,  e  portate  ambo  le  palme 
Sulle  trecce  scomposte,  qual  volesse 
Un  pensiero  scacciar  di  troppo  affanno. 
«  Oh  l'avessero  ucciso  !  essa  esclamava  : 
«  Minacciato  1'  avean,  ma  come  il  padre 
«  Può  contro  il  figlio  decretar  la  morte? 
«  Ah  no  !  di  Azzo  nel  cor  l'ira  bollente 


«  Calmato  avrà  natura  —  io  sola,  io  sono 

«  La  moglie  rea,  che  raerta  pena,  e  avrolla 

«  E  dolce  flami  di  morir  per  esso 

«  E  il  pianto  averne  sulla  tomba  —  ahi  lassa 

«  Cosi  strappando  vo'  questo  tremendo 

«  Amor  del  petto?  —  Ma  che  mai  potea 

«  Inesperta  fanciulla  a  sposo  in  braccio 

«  Di  canuti  capelli,  e  che  si  vede 

«  Cara  apparir  la  lusinghiera  iramago 

«  Che  a  lei  venia  ne'  sogni  suoi  sovente  ? 

«  Era  si  bello  !  era  si  prode  !  e  tanto 

«  Di  amor  parlava  con  gentil  favella  ! 

«  Oh  i  baci  suoi!...  misera  me  che  penso? 

«  Cosi  prego  Colui,  che  un  di  concesse 

«  All'  adultera  donna  il  suo  perdono  ? 

«  0  degli  afflitti  e  dei  pentiti  dolce 

«  Patrono  e  difensor,  debole,  sola, 

«  Peccatrice,  soccorrimi  —  ricevi 

«  Quest'  agnella  smarrita  al  santo  ovile  » 

Cotal  pregava  e  le  scendea  di  pianto 

Caldo  conforto  sulle  gote,  quando 

I  cardini  stridean  dell'  urail  porta 

E  uno  sgherro  apparìa,  cibo  recando 

E  alimento  alla  lampada  —  Ansiosa 


—  58  - 

Parisina  il  richiese  «  e   d'Ugo,  disse, 
«  Dimmi  che  fu?  —  fammi  parola  —  in  nome 
«  Di  Dio  tei  chiedo  —  per  la  madre  tua, 
«  Se  ti  fu  cara  —  per  1'  estremo  punto 
«  Di  nostra  vita  —  o  crudo,  io  non  ti  lascio 
«  Se  pria. .. —  La  spinse  indietro  il  rozzo  fante 
E  come  muto  erale  apparso,  muto 
L'  abbandonava  nella  ria  prigione. 

Più  giorni  e  giorni  1'  infelice  donna 
Pianse  e  pregò  —  de'  suoi  monili  e  delle 
Gemme,  onde  un  giorno  nelle  sale  altera 
Mostra  e  ornamento  fece  a  sua  bellezza, 
Il  tesoro  proiFerse,  e  sempre  invano, 
Che  il  terror  contenea  chiuse  le  labbra 
E  più  dell'avarizia  era  possente. 
Chi  può  ridir  le  travagliate  notti 
E  il  pregare  e  1'  odiare,  alternativa 
D'  ore  che  eran  per  Lei  secoli  eterni  '? 
Anco  tentò  la  morte,  e  sconoscendo 
La  divina  pietade,  al  muro  incontro 
Già  percoteva  il  capo  —  in  queir  istante 
Dell'etèrno  martiro  le  si  offerse 
Tremendo  1'  avvenire,  e  ormai  ridotta 


59 


Alle  memorie  sue  di  fanciullezza 
Sopportò  quella  sua  dolente  vita. 
E  come  tutto  ha  sua  vicenda,  e  l'alma 
Lungo  non  soffre  di  un  sol  carco  il  pondO;, 
Appoco  appoco  a  Lei  tornò  la  quiete, 
Larva  mentita  di  spossata  idea, 
E  la  dolce  speranza  ed  il  desio 
Di  riveder  l'  aure  serene,  e  mite 
Se  non  lieta  rifar  sua  giovinezza. 
Intanto  un  libro,  che  la  madre  sua 
Donato  aveale  bambinetta,  ed  era 
Storia  di  Santi,  e  di  eremiti,  trasse 
Dal  seno  ove  il  tenea  quasi  reliquia 
Di  lei  perduta  in  sul  fiorir  degli  anni, 
E  raccolta  leggea,  sentendo  in  core 
Piover  la  manna  di  quei  santi  accenti. 
Ed  ecco  un  di  mentre  ella  intenta  stava 
Agli  antichi  racconti,  in  sulla  soglia 
Azzo  apparire,  il  suo  consorte  —  un  balzo 
Essa  fece  e  tremava  in  tutte  membra, 
Ma  quegli  procedea  pacato  in  volto, 
Non  irato,  non  truce,  e  tali  detti 
Con  lenta  voce  dispiegando  andava. 
<  Parisina  il  rammenti  ?  a  noi  venisti 


—  60  — 

«  Fanciulla  ancora,  e  questa  terra  e  questo 
«  Palagio  mio  ti  accolse  ospite  illustre 
«  Ed  onorata  —  tu  cresciuta,  e  gli  anni 
«  Di  virtude  adornati  e  di  beltade, 
«  Molti  richieser  la  tua  mano  —  io  fui 
«  Che  ti  nomai  gii  amanti,  il  nome  e  il  grado, 
«  Offrendo  in  uno  le  mie  nozze,  e  sola 
«  Arbitria  te  della  tua  scelta  io  feci. 
«  Piacque  a  te  preferirmi,  e  s'io  fui  lieto 
«  Dello  strinto  imeneo,  lo  dica  Italia, 
«  Clio  mai  non  vide  di  pompose  feste 
«  Spettacolo  simile,  onde  più  altero 
«  L'  Eridano  sen  corse  all'  Adria  in  seno. 
«  Ma  di  festivi  omaggi  eri  tu  schiva, 
«  Ed  una  cura  ti  tacea  nel  seno, 
«  Mal  lusingata  e  mal  celata  troppo. 
«  Il  mio  figlio  riedea  :  di  amor  nascoso 
«  Figlio  diletto,  e  caro  or  più,  che  cinto 
«  Degli  allori  marziali,  appresso  al  padre 
«  Ne  cresceva  1'  orgoglio  —  Io  non  temea, 
«  E  voi  come  pupille  di  quest'  occhi 
«  Amava  io  si,  che  mi  esultava  il  cuore 
«  Qualor  sorpresi  nei  colloqui  insieme. 
«  Sgomenti  vi  veJea,  quasi  che  questa 


—  61  — 

<  Troppo  canuta  etade,  i  vostri  lieti 

«  Consorzi  scompigliasse.Aliimenche  a  padre 
«  E  a  sposo  amante  esser  dovea  di  dubbio, 
•<  Dubbio  fatai  l' inopportuna  tema  ! 
«  Il  resto  chi  noi  sa  ?  la  mia  cittade 

<  Non  sol,  ma  quanto  ha  di  paese  intorno 

<  Ridice  il  vostro  fallo,  e  l'onta  mia. 

<<  Ecco,  io  per  te,  donna  fatai,  son  fatto 

«  Alle  genti  ludibrio,  io  che  superbo 

«<  Della  ducal  corona,  iva  del  pari 

<,<  Coi  maggior  prenci  nella  mia  possanza  ! 

<  Pur  non  ti  aborro,  e  prepotente  amore, 
«  Vinse  r  indugio  della  mia  vendetta. 

«  A  questo  io  venni  —  se  pentita  sei, 

«  Se  dell'  infame  amor  1'  empia  memoria 

«  Cancellasti  dal  seno,  or  vieni,  e  sia 

«  Un  mal  sogno  il  passato;  e  tempo  e  modo 

«  Io  troverò  perchè  ogni  bocca  taccia 

«  E  anco  il  pensier  sulla  nefanda  istoria.  » 

Parisina  a  parlar  si  fatto,  avea 

Mille  provati  sentimenti  in  petto 

E  or  rimorso,  or  mestizia,  ora  pietade  : 

Ma  quando  il  fin  ne  udì,  giunte  le  mani 

Gettossi  ai  suoi  ginocchi,  e  «  o  generoso, 


—  62  — 

<<  Esclamò,  qui  potessi  or  di  vergogna 
«  Terminar  la  mia  vita,  iniqua  sposa 
«  Che  al  mio  signor  di  benefici  tanti 
«  Cotal  resi  merce  !  pur  se  il  rimorso 
«  Non  mi  uccide,  saprò  schiava  sommessa 
«  Intender  sempre  a  nuovi  affetti  e  farmi 
«  Merto  che  copra  del  passato  i  falli: 
«  Ma  deh  1  ten  prego,  e  sol  perchè  sen  fugga 
«  Un  ultimo  pensier,  che  fu  di  Lui  ?  — 
«  Di  Lui?  di  chi?  —  Del  figlio.  .  tuo  — 
«  Del  figlio  ?  d'  Ugo  a  me  chiedi  ? 

«  Adunque  ancor che  dico? 

«  Giusta  è  tua  brama  e  appagherolla  e  tosto  » 
In  questo  mentre  le  sue  folte  ciglia 
Si  eran  più  volte  tra  di  lor  congiunte, 
E  sugli  occhi  abbassate;  indi  un  sorriso 
Spinto  avea  sulle  labbra  —  era  simile 
Al  sorriso  di  Satana  in  l' istante 
Che  il  pomo  colse  la  curiosa  donna. — 
Azzo  per  mano  Parisina  trasse 
Pei  lunghi  corridoi  fino  al  sbocco 
Di  gotico  uscio  oltre  del  quale  apparve 
Un  ameno  giardino  —  in  fra  i  meandri 
Dei  boschetti  seguiano,  e  giunti  dove 


—  63  — 

Una  tomba  si  ergeva  a  mo'di  tempio 

Che  un  tardo  pentimento  ad  Ugo  eresse 

Azzo  l' indice  stese  —  eccolo  —  mira 

«  Là  I'  adultero  tuo  col  mozzo  capo 

«  Giace,  e  per  te  fui  parricida  —  Un  grido 

La  misera  non  mosse,  un  moto,  un  atto. 

Solennemente  all'  omicida  in  faccia 

Confisse  il  guardo,  e  con  la  roca  voce 

Ad  una  ad  una  tai  parole  espresse: 

«  Tiranno,  eppur  codardo,  il  sangue  tuo 

«  Bevesti  all'  ombra  della  tua  corona 

«  E  r  amore  scemare  in  me  sperasti 

«  Coll'involarmi  il  dolce  oggetto  —  invano  — 

«  Ugo  amai  —  l'  amerò  se  anco  sotterra 

«  Mi  aspetteranno  i  tormentosi  regni, 

«  Tant'egli  caro,  quanto  tu  spregiato, 

«  Si  ben  sappilo  alfine,  al  fianco  tuo 

«  Giorni  trassi  di  duolo,  ed  il  tuo  letto 

«  Fu  strato  di  dolore  e  di  paura; 

«  E  la  pietà  mentii,  che  altro  nel  petto 

«  Non  mi  destasti  sentimento  alcuno, 

«  Se  non  quel  che  dal  rettile  ne  viene 

«  Quando  un'  incauto  pie  pestato   1'  abbia  » 

Disse,  e  la  piena  dell'  angoscia  in  seno 


—  6i  — 

Di  più  non  sopportando  giù  col  volto 
Cadde  le  braccia  irrigidite  e  tese 
Verso  la  tomba  dell'  ucciso  amante. 

Se  quando  il  mauro  osa  rapir  la  prole 
Che  scovò  della  tigre,  essa  da  lunge 
Vede  l'audace,  non  tant'  ira  in  salti 
Mette  la  fiera  poderosa,  quanta 
Azzo  invadea  —  stravolto  il  viso;  schiuma 
Sulle  labbra,  e  dall'  orbita  gli  usciano 
Gli  occhi  ferocemente,  —  «  Olà  Rodrigo: 
«  Olà  —  dentro  costei  di  quel  sepolcro 
«  Tratta  e  rinchiusa — niun  più  qui  s'inoltri: 
«  Io  riparo  al  tuo  fallo,  e  alle  tue  voglie 
«  Altro  talamo  dono,  ed  altro  sposo  »    — 

Già  declinava  il  di  —  fuor  di  Ferrara 
Comitiva  di  dame  e  cavalieri 
Sopra  gli  ornati  palafreni  uscia 
E  il  Duca  in  mezzo  —  verso  una  sua  villa 
Tenean  la  via,  lieti  discorsi  e  ciance 
Tessendo  e  carolando  coi  destrieri 
Ora  che  il  sire  appo  la  morte  d'  Ugo 
Lieto  torna^-a  d' inattesa  gioia. 


—  65  — 

Giunti  all'ameno  ostello,  e  danze  e  j^nochi 
E  conviti  ferveano  —  Azzo  il  primiero 
Dava  r  esempio  del  gioir  —  ridea 
Quasi  smodatamente,  e  più  che  ad   uomo 
Di  anni  maturo  non  convien.  trescava 
Folleggiando  con  tutti,  e  coppe  e  coppe 
Di  possente  liquor  votava,  come 
Se  di  sete  febril  gli  ardesse  il  petto. 
Stupiano  i  cortigiani,  e  un  sogguardarsi 
Era  tra  loro  e  un  bisbigliar  sommesso. 
Che  tramezzo  a  quel  gaudio  anco  un  momento 
Spesso  si  sorprendea  sopra  quel  volto 
D'ira  feroce  e  di  tristezza  cupa; 
Come  in  un  cielo  di  pomposa  luna 
Talor  appar  di  vagabondi  nuvoli 
La  nera  massa  a  ricoprirla,  e  il  volgo 
Auspicio  piglia  di  vicina  pioggia. 
Pur  non  cessava  il  ballo  e  il  banchettare 
E  di  canti  giulivi  insiem  concordi 
Tutta  echeggiava  la  collina  ombrosa. 


—  66  - 

«  Le  tazze  fumano 
«  Di  almo  liquore 
«  E  a  bere  invitano 
«  Pace  e  beltà: 

«  Sugo  di  grappoli 
«  Bacio  d'  amore 
«  Un  nodo  stringono 
«  Che  al  cor  mi  sta. 

«  Saltella  vivace 
«  I!  vino  mi  piace; 
«  Vivace  saltella 
«  Mi  piace  la  bella. 

«  Là  dove  1'  aura 
«  Più  mite  impera 
«  Io  vo'  raccogliermi 
«  Col  mio  tesor  ; 

«  Copra  una  nuvola 
«  La  luna  altera, 
«  Sussurri  zeffiro 
«  Tramezzo  ai  fior. 


—  67  — 

«  T' invoco  0  mistero  ; 
«  Circondami  intero; 
«  Mistero  t'invoco; 
«  Circonda  il  mio  foco. 

«  Ma  ormai  risuonana 
«  Le  note  liete 
«  Le  coppie  unisone 
«  La  danza  unì . 

«  Lasciamo  o  Doride 
«  Quest'  ombre  chete; 
«  Lieti  si  attendino 
«  I  rai  del  di. 

«  Il  piede  e  la  mano 
«  S'  intreccin  nel  piano  ; 
«  La  mano  ed  il  piede 
«  Intreccin  la  fede.  » 

Dopo  sei  di  di  tal  tripudio  il  Duca 
Yer  la  bella  Ferrara  alfin  si  mosse 
Sparuto  si  che  ritornar  parea 
Da  un  banchetto  di  spettri  —  incolto  il  crine 


—  68  - 

Livido  il  volto  e  disensato  il  guardo. 
Come  si  narra  che  dell'  Indo  in  riva 
Erri  il  fatuo  Fakir,  mentre  la  turba 
Reverente  si  scosta  e  colto  il  crede 
Dallo  spirto  di  un  dio;  ma  ben  diversa 
Sulla  spiaggia  di  Po  credea  la  gente. 
«  Ve  che  lieve  non  è  figlio  e  consorte 
«  Punir  r  uno  di  scure,  e  l'altra...  il  sai? 
«  Evvi  talun  che  udia  strida  di  donna 
«  Presso  il  giardino  che  si  stende  al  lato 
«  Boreal  del  castello  —  Eccolo  !  il  vedi  ? 
«  Bandeggiata  è  la  gioia  ~  nel  Ietto  ei  giace, 
«  Talché  il  fisico  spesso  il  capo  scuote, 
<<  E  ne  van  mesti  della  corte  i  servi. 
Ma  il  risparmiò  la  Parca  e  di  più  trista 
Vita  che  morte  gli  torcea  lo  t^tame. 
Era  d'  Autunno:   quel!'  Aprii  dei  fiori 
Canti  chi  vuole,  il  classico  cervello 
Sui  greci  Idilli  modellando  a  forza. 
A  noi  piace  la  languida  stagione. 
Quando  natura  le  perdute  spoglie 
Melanconica  piange,  e  un  aura,  un  soffio 
Puro,  leggiero  tra  la  terra  e  il  cielo 
Pare  il  sospiro  di  due  fidi  petti. 


—  69  — 

Che  separò  sventura  e  che  il  desìo 
Ricongiunti  vorrebbe  in  un  amplesso. 
Chi  allora  non  amò  ?  chi  non  dipinse 
Una  visione  di  leggiadra  forma 
Aggirarsegli  intorno  come  silfo 
Vaga  figlia  dell'  aria  ?  oh  solo  un  core 
Disperato,  o  maligno,  o  inaridito 
Dalla  cupa  ambizion  non  si  commove 
Alle  delizie  di  autunnal  serata. 
E  tal  scendea  la  notte  allorché  il  passo 
Azzo  drizzò  verso  il  giardin  romito 
Quasi  magica  forza  ivi  il  traesse. 
Di  due  corni  splendea  la  luna  in  alto 
Dolce  raggio  solingo  e  lieve  striscia 
Di  sua  luce  listava  in  sulla  tomba. 
Ahi  non  di  un  solo  !  —  vacillante  il  piede 
Pure  il  vecchio  s'inoltra  —  ed  ecco  al  paro 
Di  due  colombe  che  fugò  dal  nido 
Il  fiero  nibbio  e  tra  stormenti  frasche 
Unite  neir  amore  e  nel  periglio 
Battono  i  vanni  spaurite  insieme. 
Videro  gli  occhi  suoi  due  bianche  forme 
Alzarsi  e  disparir,  e  udir  gli  parve 
Gemito  lungo  e  che  mancava  quasi 


-  70  — 

■Corda  spezzata  d'  arpa  armoniosa. 
Ristette  e  istupidì  :  tutti  sul  capo 
Gli  si  drizzaro  i  bianchi  crini,  e  acuto 
Sottil  gelido  un  brivido  gli  corse 
Per  la  persona:  poi  dalla  paura 
Riscosso  all'  ira  di  gelosa  febbre 
Trasse  il  pugnale  e  percoteva  il  vento 
Come  insensato:  «  Adunque  più  non  avvi 
«  Né  Dio  né  inferno  !  adunque  eternamente 
«  Sarà  mia  smania,  e  quell'amor  nefando  t 
«  Iniqua  coppia  ti  divida  il  fulmine 
«  La  procella  ti  sperda  e  queste  mie 
«  Vipere  che  ho  nel  sen  tra  voi  ributto 
«  Ad  impedire  i  baci  vostri  infami: 
«  Né  qui  più  stanza  avrete  ;  a  ferro  a  fuoco 
«  Vada  il  ricetto  dei  notturni  amori  » 
Ei  delirava,  ma  il  mattin  non  vide 
Orma  di  tomba  né  di  pianta,  tanto 
Devastatore  vi  passò  lo  sdegno. 
Soli  negletti  o  non  veduti  due 
Fioretti  umili  in  una  proda  estrema 
Sorgeano  all'ombra  dell'  antico  muro: 
Ed  essi  vegetar,  ma  sopravenne 
L' invernai  bruma  e  adagio  adagio  il  capo 


—  71  — 

Appassiti  abbassar,  finché  furente 
Schìantolli  e  seco  li  travolse  il  turbo.  — 
Di  lui  che  fu  ?  quali  i  suoi  giorni  e  quali 
Fosser  le  notti  or  chi  può  dir?  ben  raro 
•Et  si  mostrava  e  sol  quanto  il  volea 
Ragion  di  stato  —  ma  non  sposa  mai 
Scaldò  il  vedovo  letto,  e  non  mai  figlio 
Caro  gli  crebbe  ed  a  cui  dir  potesse 
«  Ecco  r  immago  dei  primi  anni  miei.  » 


ISAGOGE 


L'  Autore  tornava  dalla  emigrazione  e  tro- 
vava in  Firenze  gli  austriaci  e  triste  condi- 
zioni nel  popolo.  È  da  attribuirsi  agli  sdegni 
politici  e  ai  dolori  sofferti  una  certa  acrimo- 
nia di  questo  scritto. 


ALLA    PLEBE 


0  in  ogni  tempo  vittima 
Delle  sociali  scene, 

0  condannata  a  porgere 

1  polsi  alle  catene. 

Plebe  che  i  cenci  scuotere 
Non  osi  ancora,  e  abietta 
Vedi  passare  i  secoli 
Dinanzi  alla  vendetta. 


—  73  — 

Qual  dritto  hai'  tu  di  gemere. 
Qua]  di  mangiar  hai  dritto, 
Se  il  duro  giogo  infrangere 
Tu  reputi  un  delitto  'f 

D'  anni  per  lunga  serie 
Tradizional  timore, 
Ti  reijde  curva  e  docile 
Al  ricco  ed  al  signore  : 

Questi  ha  un  illustre  titolo 
Quello  ha  gran  censo  avito. 
Quando  nel  cocchio  ei  passano 
Godi  mostrargli  a  dito. 

Che  vai  se  pur  t' infrangono 
Colla  volubil  ruota? 
Non  sei  tu  forse  simile 
Alla  più  sozza  mota  ? 

Eppur  spesso  anco  mormori, 
0  plebe  irriverente. 
Ed  osi  avere  un'  anima 
Che  i  propri  mali  sente  ! 


—  74  — 

Incauta  I  allor  tu  provochi 
Del  reo  baston  ia  legge, 
0  la  temuta  carcere 
Il  troppo  ardir  corregge. 

Come  il  bastone  ?  —  Acquetati 
Dono  è  del  tuo  sovrano, 
Tu  il  richiamasti,  o  stolida, 
Quand'  ei  fuggia  lontano. 

Or  taci,  e  allor  che  penetra 
L' inverno  al  tuo  tugurio, 
Trema  di  freddo  e  pentiti 
Del  malaccorto  augurio. 

Eco  ai  venduti  plausi 
E  alle  canzoni  strane. 
Fanno  i  tuoi  figli  queruli 
Col  domandar  del  pane: 

Né  pane  hai  tu  che  rubalo 
Sul  tuo  medesmo  desco, 
Calato  air  orgia  facile 
Il  vincitor  tedesco. 


Mira  burbanza  !  il  lurido 
Poiché  saziò  sue  voglie. 
Osa  la  mano  stendere 
Sulla  pudica  moglie. 

Pudica  ancor,  ma  assidua 
La  seduzione  e  1'  oro 
Fia  che  le  tolga  1'  ultimo 
Di  povertà  tesoro  ; 

E  resterà  di  adultera 
Prole  fecondo  il  seno, 
Onde  la  razza  italica 
Cresca  corrotta  appieno. 

Oh  1  quanti  siete  i  miseri 
Che  allo  straniero  insulto 
La  rossa  guancia  a  battervi 
Alzate  il  braccio  inulto: 

Oh  !  quanti  siete  !  —  I  gemiti 
Vi  hanno  ridotto  fiochi, 
Pur  non  ardite  opponervi 
Tutti  al  voler  dei  pochi. 


—  76  — 

Su  via  !  tu  che  distruggere 
Non  cessa  il  dazio  avaro. 
Piglia  il  coltello  e  affilalo 
Ardito  macellaro. 

Vuoi  tu  la  gola  porgere 
Come  r  agnel  che  scanni^ 
I  sanguinosi  aneliti 
Belando  ai  tuoi  tiranni  ? 

Sii,  tu  che  neir  incudine 
Batti  il  martel  sonante, 
Cento  per  quello  cadano. 
Bure  cervici  infrante; 

Né  di  calzari  lucidi, 
0  tu  suturatore. 
Voler  più  il  piede  cingere 
Che  ti  pestò  1'  onore, 

Ma  forti  strisce  fabbrica 
Onde  abbattuti  e  vinti 
Questi  ladri  Prometei 
Siano  alla  rupe  avvinti. 


—  77  — 

Chi  edificò  quegli  atri 
Nei  superbi  palagi  "? 
Chi  nelle  stanze  seriche. 
Creò  le  pompe  e  gli  agi  ? 

Tu  fosti  che  coli'  opera 
Della  callosa  mano. 
Scarso  lucrasti  1'  obolo, 
0  misero  artigiano  I 

Oh  !  quella  man  medesima 
A  miglior  uso  adopra; 
Stringi  il  moschetto  impavido 
E  avrai  mercede  all'  opra. 

Né  lui  fia  eh'  io  dimentichi, 
Coltivator  di  glebe, 
Che  nel  lavoro  assiduo. 
Anch'esso  è  della  plebe; 

Ahi  I  colli  stenti  pargoli, 
Sopra  il  fecondo  solco 
Casca  per  lunga  inedia^ 
L' improvido  bifolco. 


Ma  alla  catena  docile 
Più  dell'  ilota  antico. 
La  man  rapace  e  barbara 
Bacia  del  suo  nemico. 

Cessi  cotanta  infamia  ; 
Su,  come  un'  uomo  solo. 
Dall' oltraggiato  trivio 
Dal  taglieggiato  suolo  f 

Delle  campane  italiclie 
S'  oda  il  tremendo  squillo. 
Spieghi  le  bende  all'aura 
Il  tricolor  vessillo: 

Oggi  si  pugni  intrepidi, 
E  avremo  alla  domane 
Frutto  non  più  fallibile. 
Pace,  lavoro  e  pane 


79 


all'amico   r.  procuratore 
ALESSANDRO   C. 

SPOSATO    CJLLA 

NOBILE  DONZELLA   CESIRA   A. 


EPITALAMIO 

fSI  dà  par  la  difficoltà  delle  rime  sdrucciole  e  i.>aritiiienti!. 


Or  che  per  te  Imeneo  la  face  illumina 
Ed  hai  d*  amore  traboccante  l' anima, 
La  mia  torpida  musa  si  rianima 
E  un  buon  augurio  in  questi  versi  rumina. 

Mi  scusi  il  ciel  se  invece  di  una  predica 
Sul  mal  che  spesso  tra  gli  sposi  radica, 
Resucitando  la  mollezza  arcadica. 
Tento  inviarti  una  leggiadra  dedica. 


—  80  — 

Ma  tu  non  siei  lo  zerbinetto  stolido 
Che  sbuffa  e  smania  insofferente  e  calido; 
Vuol  fare  il  coloandro  e  parer  valido, 
E  non  possiede  poi  nulla  di  solido. 

Tua  testa  è  quadra,  non  è  tonda  o  sferica 
Sul  guancial  delle  ciance  non  si  corica, 
La  Logica  conosci  e  la  Rettorica 
E  bisogno  non  hai  di  alcuna  chierica. 

Onde  la  poesia  richiami  Venere 
A  sollevar  del  matrimonio  l'onere, 
Che  con  dolce  rigor  ti  volle  imponere 
Cesìra  bella  con  le  luci  tenere. 

Godi,  si,  godi  degli  istanti  floridi, 
Lascia  quei  fogli  tuoi  severi  ed  aridi,  • 
Mena  la  vita  dei  felici  Paridi; 
Sieno  i  tuoi  giorni  imporporati  e  roridi. 

Quando  però  sarai  per  poco  sazio, 
Ti  esorto  a  ritornar  nel  proprio  ufìzio 
A  quel  di  perorare  esoso  vizio, 
Che  Cicerone  a  noi  lasciò  dal  Lazio. 


1 


—  81  — 

Così  alternan.lo  col  dovere  immobile 
Del  matrimonio  la  vicenda  amabile, 
Un  marito  sarai  molto  invidiabile, 
Un  magistrato  saggio,  giusto  e  nobile. 

In  conseguenza  tra  le  fasce  e  i  codici. 
Senza  1'  aiuto  di  chirurghi  e  medici. 
Sotto  la  protezione  del  dì  sedici 
Nasceranno  i  tuoi  figli  infino  a  dodici. 

Farmi  vederti  in  mezzo  alla  ^miglia 
Correr  di  qua  di  là  come  una  quaglia. 
Or  badando  allo  scritto,  ora  alla  maglia, 
Ora  baciando  un  maschio,  ora  una  figlia. 

E  mentre  un  ragazzetto  ride  e  ciambola. 
Porgere  ad  un  che  ha  sete  la  sua  bombola, 
Rizzare  un  altro  che  per  terra  tombola. 
Tirare  il  calessin,  vestir  la  bambola  : 

Tal  se  dagli  uovi  la  covata  sboccia 
Serve  ai  pulcini  suoi  di  fida  traccia, 
E  col  becco  e  col  pie  cibo  procaccia 
Crocchiando  sempre  1'  amorosa  chioccia. 


—  82  — 

Oh  I  quanto  è  dolce  tra  i  suoi  cari  vivere 
Ed  a  mensa  gen'ial  mangiare  e  bevere, 
Le  nuore  in  casa  e  i  generi  ricevere, 
E  nei  nepoti  due  volte  rivivere! 

Solchi  audace  il  nocchier,  solchi  l'Atlantico 
Del  paese  natio  fatto  dimentico, 
E  l'Anglo  in  sua  pazzìa  soltanto  identico 
Giri  il  mondo  a  sua  posta  e  sia  romantico. 

Visiti  l'orde  che  la  mirra  odorano. 
Color  che  nel  deserto  si  riparano, 
Gli  altri  che  1'  oppio  col  fumar  rincarano, 
E  quei  che  di  Visnù  la  triade  adorano: 

Scorra  del  Piata  le  correnti  rapide, 
E  r  altro  fiume  delle  donne  intrepide, 
Affrica  scorra  dalle  genti  Gepide 
Fin  dove  un  giorno  si  adorò  Serapide. 

L'  areostata  pur  varchi  la  Manica, 
Cerchi  il  pittor  la  posizion  più  scenica. 
Nella  contrada  Elvetica  ed  Ellenica, 
Osservi  un  Plinio  1'  eruzion  vulcanica. 


—  83  — 

Sandro^  a  te  basti  di  mangiare  i  broccoli, 
E  senza  camminar  sopra  i  trabiccoli. 
Starti  seduto  tra  la  moglie  e  i  piccoli, 
E  aver  buono  il  cappello  e  buoni  zoccoli.  (1) 

In  tal  modo  scansando  odio  ed  invidia 
In  questo  mondo  l'uomo  non  si  tedia, 
E  siede  spettator  della  commedia, 
Morendo  poi  di  gloriosa  accidia. 

Ed  io  povero  vate  ?  Il  buon  augurio 
Anche  a  me  vuoisi  dare  e  dar  sul  serio. 
Che  mi  son  fatto  mia  delizia  e  imperio 
Di  un  silenzioso  e  povero  tugurio. 

Oh  I  domestica  pace,  oh  I  solitudine  ! 
Oh  !  di  una  libreria  dotta  torpedine. 
Oh  !  della  pancia  sinodal  pinguedine 
Temperato  piacer  senza  inquietudine, - 


(1}  Dice  un  proverbio  toscano  • 

Broccoli,  zoccoli,  e  buon  cappello 
Far  le  viste  di  non  aver  cervello. 


Io  vi  godrò  finché  degli  anni  il  cumulo 
Non  renda  il  capo  mio  svanito  e  tremulo, 
E  alimento  al  basilico  e  al  prezzemolo 
Giaccia  il  mio  frale  in  un  modesto  tumulo. 

Allor,  benché  non  degno  io  sia  di  storia. 
Qualcun  per  tormi  l'impression  dell'aria 
Mi  turerà  con  lapida  precaria. 
Dove  si  leggerà  questa  memoria: 

«  Lasciò  detto  costui  che  non  si  nomini  ; 
«  Il  viandante  a  suo  bell'agio  esamini, 
«  Non  si  sparga  di  fior,  non  si  contamini  ; 
«  Nacque,  visse,  e  mori  come  gli  altr'uomini.  » 


—  85  — 

L'  ADD  I  0 

( 1851 J 


Per  sempre  addio.  Mesta  parola  è  questa^ 
Che  dalle  labbra  va  gemendo  in  core 
Come  vento  che  passa  alla  foresta. 

Nei  congedi  supremi  evvi  un  amore, 
Qual  mai  non  vive  uguale  in  uman  petto, 
Misto  di  tenerezza  e  di  dolore  : 

Ed  i  dolci  consorzi,  un  caro  aspetto. 
Or  che  li  perdi,  a  te  ritorneranno 
Più  seducenti  di  novello  affetto. 

Tal  dei  mortali  desiderii  è  il  danno 
Che  sorgon  quando  la  speranza  tace, 
E  cessato  il  piacer,  riede  l'affanno. 


—  8G  — 

Ma  se  lo  spirto  fatto  più  vivace, 
E  svelti  i  ceppi  onde  1'  oppresse  il  frale 
Ricerca  in  ciel  la  sua  perduta  pace. 

Simbolica  farfalla  ei  spiega  1'  ale 
All'  amplesso  di  Dio  che  su  lo  aspetta 
Dove  terreno  delirar  non  vale. 

Il  sacrifizio  del  passato  accetta. 
Né  le  sembianze  di  un  amor  gentile. 
Né  più  l'antica  voluttà  lo  alletta. 

Benché  qual  mai  su  questo  suolo  umile, 
Qual  sorge  fior,  che  tolto  al  verde  stelo 
Poi  non  riesca  illanguidito  e  vile  ? 

Tradita  1'  amistà,  falso  lo  zelo. 
Avide  voglie  in  carità  mentita. 
Impunito  il  delitto  e  senza  velo. 

Dov'  é  la  patria  e  la  virtude  avita  ? 
Dove  i  germogli  del  latino  seme  ? 
Perché  cadde  la  pianta  inaridita  ? 


-  87  - 

0  gente  ausonia,  o  male  unita  insieme. 
La  vana  ciancia,  ed  i  fraterni  piati 
Son  tristi  pegni  alla  futura  speme. 

Intanto  oimè,    sui  campi  insanguinati 
I  prodi  figli  della  tua  contrada 
Travolti  fur  nei  ruinosi  fati  I 

Or  dagli  occhi  piangenti  il  lembo  cada, 
E  altra  luce  si  mostri  e  che  mi  additi 
Di  altra  meta  più  nobile  la  strada. 

Tenebre  sono  in  questi  bassi  liti. 
Una  forza  celeste  a  se  mi  toglie, 
E  agli  aperti  mi  trae  campi  fioriti. 

Ah  sì,  desio  possente  in  me  si  accoglie 
Di  esser  del  gregge  dei  leviti  santi, 
Seppur  son  degno  di  cotante  voglie. 

Oh  come  dolci  mi  saran  gì'  istanti. 
Ministro  umile  del  pomposo  altare. 
Fra  le  nubi  d'  incenso,  e  i  sacri  canti  I 


—  88  — 

Ecco,  ecco,  un  Dio  per  la  mia  prece  appare 
E  nel  mistico  pane  si  racchiude 
Portento  di  umiltà  che  non  ha  pare: 

Ecco  trasfusa  ai  detti  miei  virtude, 
Che  lega  e  scioglie,  e  al  peccator  confesso 
Serra  1'  aula  del  cielo  e  la  dischiude  : 

Ecco  le  sorti  del  variato  sesso, 
Col  liturgico  rito  unite  insieme, 
E  divien  casto  il  coniugale  amplesso  ; 

La  santa  acqua  profondo,  e  l'ore  estreme 
Del  nascer  e  morire  io  liete  rendo. 
Là  di  macchia  lavata,  e  qua  di  speme; 

Ecco  la  fede  a  predicare  intendo, 
E  per  le  turbe  che  mi  stanno  intorno 
Tutto  di  ardente  carità  mi  accendo. 

Oh  venga  alfin  ben' auguroso  il  giorno 
Che  il  cor  ricovri  la  perduta  calma 
E  al  mite  palpitar  faccia  ritorno  f 


—  89  - 

Colpita,  oppressa,  titubante  l'alma, 
In  mezzo  al  turbo  che  furente  spira, 
E  grave  peso  all'  agitata  salma. 

Già  le  cure  raolcir  solea  la  lira  ; 
Ora  non  più  ;  ma  come  il  rege  antico 
Spesso  la  melodia  mi  spinge  all'  ira. 

Talor  gli  umani  eventi  io  maledico, 
E  non  mi  avveggo,  ahi  folle,  che  nel  seno 
Io  stesso  nutro  il  mio  più  fìer  nemico! 

Intanto  di  amarezze  io  fai  ripieno, 
E  mille  fantasie  mi  dan  tortura 
Come  brutti  ftxntasmi  in  ballo  osceno. 

Eppur  traveggo  in  questa  notte  oscura 
Un'  immagine  bella,  e  che  mi  addita 
Dove  io  possa  calcar  la  via  sicura. 

0  Tu  che  desti  al  tuo  Signor  la  vita. 
Sposa  e  figlia  all'  Eterno,  intatto  fiore 
Dalla  d'  Jesse  eletta  pianta  uscita. 


—  90  — 

E  cosi  raccendesti  il  divo  Amore^ 
Che  si  placò  del  veto  inobbedito 
Colla  creta  ribelle  il  gran  Fattore, 

Pietosa  accogli  il  viator  smarrito 
E  fallo  degno  del  nuziale  ammitto, 
Onde  si  assida  al  celestial  convito. 

Accogli  me  da  tante  colpe  afflitto, 
E  mi  disciogli  come  un  di  tua  gente 
Dalle  catene  del  tiranno  Egitto  : 

Togli  gli  affetti  miei,  togli  la  mente 
Dalla  voracità  di  quel  Satanno 
Che  mi  circonda  qual  lion  ruggente; 

Sicché  con  lena  di  passato  affanno 
Il  pelago  guatando  superato, 
Sul  lido  io  posi  a  ristorar  mio  danno  : 

Allor  tentando  il  plettro  innamorato, 
La  musa  invocherò,  che  un  dì  sì  bella 
Sorrise  al  canto  del  gentil  Torquato; 


—  91  — 

E  se  avverrà  che  un'  ultima  facella 
Resti  ancora  nell'  alma  illanguidita. 
Pria  che  ritorni  alla  sua  prima  stella. 

Alzerò  r  inno  della  nuova  vita 
Suir  ali  bianche  del  divin  pensiero. 
Percossi  i  sensi  e  la  ragion  contrita. 

Cosi  la  fiamma,  che  distrusse  intero, 
Il  sermento  dell'  arida  fascina. 
Incerta,  errante,  indi  con  guizzo  altero 

Splende  piiì  bella  al  suo  morir  vicina. 


—  92  — 

ALTRO    ADDIO 

(1  840] 


Questo  che  in  meste  pagine 
Vi  scrivo  ultimo  addio. 
Di  sconsolate  lacrime 
Sia  sfogo  al  dolor  mio. 

Ah  !  non  credea  che  il  salice 
Cinto  mi  avria  cantore 
Quel  primo  dì  che  il  palpito 
Io  ti  spiegai  di  amore  ! 

Addio;  mestizia  improvida 
Non  ti  perturbi  il  seno, 
S'  io  son,  s' io  sarò  misero  — 
Ch'  io  lo  sia  solo  almeno. 

Vivi,  e  di  liete  immagini 
Ti  ricomponi  l'alma; 
Torni  il  sorriso  a  schiudersi, 
Rieda  nel  cor  la  calma. 


-  93  - 

Ma  forse,  oime  f,  che  il  giubbilo 
Fia  richiamato  invano. 
Ed  il  pensier  sollecito 
Me  seguirà  lontano, 

A  far  la  mia  memoria 
Pili  desiata  e  cara 
Verrà  dei  di  che  furono 
La  rimembranza  amara. 

Tu  penserai  le  tenere 
Parole  e  i  dolci  modi, 
Onde  il  figliol  di  Venere 
Ci  avvinse  in  mille  nodi. 

Quando  il  rintocco  lugubre 
Della  campana  a  sera 
Desta  nel  cuore  un  palpito, 
Sul  labbro  una  preghiera, 

Ricorderai  del  tacito 
Amor  r  ora  furtiva. 
Al  raggio  incerto  e  tremolo 
Della  triforme  Diva  ; 


-  94  — 

Ma  allor  che  l'astro  fulgido 
Apportator  del  giorno 
Ad  incalzar  le  tenebre 
In  ciel  farà  ritorno, 

Invan  tuo  sguardo,  o  misera. 
Per  consueta  cura 
Rivolgerassi  cupido 
Alle  deserte  mura. 

Altri  la  soglia  premere 
Del  mio  balcon  vedrai. 
Ma  il  noto  volto  riedervi 
Fia  che  noi  ve^ora  mai  : 


■'OD' 


E  allora,  oh  Dio  1,  non  piangere. 
Non  lacerarti  il  seno  — 
S' io  son,  s' io  sarò  misero, 
Ch'  io  lo  sia  solo  almeno. 

A  fato  lagrimevole 
Tal  mi  dannò  la  sorte, 
Ch'  io  ti  dovea  conoscere 
Cinta  di  ree  ritorte, 


—  95  — 

E  perchè  dolce  balsamo 
Fin  r  illusion  si  muora, 
Si  aggiunge  irremissibile 
La  lontananza  ancora. 

E  fia  così  —  la  gelida 
Morte  verrà  puranco, 
E  poserà  lo  spirito 
Ormai  languente  e  stanco. 

Lassù  dove  si  frangono 
I  nodi  della  Terra, 
Dove  r  amor  coronasi, 
Né  trova  ingiusta  guerra. 

Più  dolce  ancor,  più  vivido 
Sarà  r  amore  antico, 
E  tu  potrai  sorridere 
Al  sospirato  amico  ; 

Ma  intanto  il  ciglio  vivido 
Torni  a  brillar  sereno  — 
S'  io  son,  s' io  sarò  misero, 
Ch'  io  lo  sia  solo  almeno. 


L'ULTIMO  GIORNO   DI   MISSQLUNGI 

(Ottave  improvvisate  e  corrette) 


I. 


Qaal  mestizia  veg-g'io,  quale  spavento  ! 
Quale  sventura,  e  interminato  lutto  ! 
Quai  grida  soffocate  ovunque  io  sento, 
Quasi  lontano  tempestoso  flutto? 
Come  tacere  un  lamentoso  accento, 
Come  il  ciglio  serbar  di  pianto  asciutto 
Missolungi  in  mirar  città  reina 
Prossima  fatta  alla  fatai  ruina  ? 


-   97  — 


Ormai  dalla  sua  sfera  il  sol  declina 
E  mesto  in  grembo  a  Teti  si  riduce. 
Fiammeggiando  al  confin  della  marina 
Sanguigni  raggi  di  un'infausta  luce, 
Allorché  intorno  alla  città  meschina 
L'oste  turco  sen'vien  col  fero  duce. 
Che  minacciando  già,  siccome  feo 
Intorno  a  Tebe  l'empio  Capaneo 


3. 


Seguendo  i  Traci  un  condottier  sì  reo 
Strinser  d'assalto  le  guernite  mura, 
E  la  battaglia  iratamente  ardeo 
Con  tutte  l'armi  della  sua  paura; 
Ma  nell'interno  le  sue  prove  feo 
Una  virtù  più  bella  e  più  sicura. 
Tenace  e  forte  nel  proposto  fine 
Di  appiccar  foco  alle  celate  mine. 


98  - 


Vedi  una  madre  scarmigliata  il  crine 
Senza  lacrime  aver,  senza  parole. 
Fredda  aspettando  1'  ultimo  suo  fine 
Stringere  al  petto  1'  adorata  prole  ; 
Vedi  un  vegliardo  colle  spalle  chine 
Degli  anni  sotto  la  gravosa  mole 
Ohe  rammentando  la  costanza  avita 
Ad  emularla  i  timorosi  incita. 


Vedi  la  donzelletta  sbigottita 
A  cui  furtiva  scende  giù  dal  ciglio 
Lacrima  figlia  del  desio  di  vita 
Espressione  del  feral  periglio  ; 
Anche  essa  quanto  può  fermezza  imita 
Maschil  vigore^  impavido  consiglio; 
Ma  in  sé  ristretta  nell'  interno  core 
Piange  la  sua  beltà,  piange  l'amore. 


-  99  — 


6. 


Codesta  turba,  muta  in  quel  dolore 
Che  non  sa  più  temer,  non  ha  più  speme. 
Si  raccoglieva  nel  tempio  maggiore 
Per  consacrare  a  Dio  queir  ore  estreme  : 
Si  prostra  e  prega  intanto  il  buon  Pastore 
Prostrasi  e  prega  quella  folla  insieme: 
Gli  Angioli-  della  pace  e  del  perdono 
Recar  le  preci  dell'Eterno  al  trono. 


Ma  già  ì  nemici  trapassati  sono 
Colle  caudate  insegne  entro  le  porte  : 
Già  nel  variato  spaventevol  suono 
Si  ascolta  il  grido  e  il  fulminar  di  morte. 
Quando  le  mine  con  ben  altro  tuono 
Scoppiar  di  rombo  sì  gagliardo  e  forte. 
Che  del  Bosforo  in  riva  il  gran  tiranno 
Pallido  udillo  sul  mal  fermo  scanno. 


—   100 


Pietade,  alta  pietà,  terror  mi  fanno 
Le  membra  lacerate  in  mille  guise  : 
Accumunate  nell'  eccidio  stanno 
Le  diverse  sembianze  e  le  divise  : 
Fuggono  questi  degli  schiavi  il  danno, 
Muoiono  quelli,  or  che  vittoria  arrise  ; 
L*  eccidio  sol  per  questa  fiata  aduna 
La  greca  croce  coli'  odrisia  luna. 


9. 


Allora  fu  che  per  la  notte  bruna 
Coll'ali  al  tergo  e  coli'  alloro  in  fronte 
Scendea  nelle  macerie  ov'  ebbe  cuna 
Leggiadra  donna  di  sembianze  conte, 
Che  di  quelle  ruine  insieme  aduna 
La  nobil  polve,  e  colle  mani  pronte 
La  lanciava  sul  dorso  ai  quattro  venti 
Nunziatrice  di  gloria  e  di  portenti. 


—  101  — 


DELIRIO 


Santo,  severo  e  nobile 
Il  mio  destin  novello 
Mi  rivelò  nell'anima 
Un  avvenir  più  bello. 

Sciolto  dai  molli  vincoli 
Del  mondo  lusinghiero 
A  più  severe  indagini 
Si  leva  il  mio  pensiero, 

E  di  mia  scorta  l'angiolo 
Suso  nel  ciel  mi  addita 
Il  premio  incorruttibile 
Della  seconda  vita. 


—  10-2  — 

Ma  spesso  oimè,  lo  spirito 
Avvien  che  pur  ritorni 
A  ravvisar  le  immagini 
Dei  trapassati  giorni! 

Dunque  non  più  di  palpiti 
Traboccherammi  il  core 
Di  bella  amica  e  tenera 
Al  corrisposto  amore? 

Dunque  non  più  di  plausi 
Fia  che  io  raccolga  il  vanto 
Cogli  improvvisi  numeri 
Del  provocato  canto? 

0  rimembranza  !  assiduo 
Stuol  di  compagni  eletto 
Pendea  del  labbro  facile 
Al  desiato  detto. 

E  le  donzelle  unanimi, 
Premio  alle  rime  pronte, 
Del  verde  allór  mi  cinsero 
Una  ghirlanda  in  fronte. 


—  103  -• 

Tutto  provai  —  la  patria 
Mi  fece  un  di  guerriero; 
Fui  di  commosso  popolo 
Audace  condottiero  ; 

Poi  minacciato  e  profugo 
Lasciai  le  amate  mura, 
Ma  mi  rendea  simpatico 
La  stessa  mia  sventura. 

Il  nome  mio  nei  circoli 
Della  patrizia  gente. 
Come  in  umil  tugurio 
Si  ripetea  sovente. 

Varia,  brillante;,  elettrica. 
Al  bene,  al  male  unita, 
Di  mille  affetti  energici 
Mi  rifluì  la  vita. 

Ora  non  più  —  la  sterile 
Realità  mi.  opprime; 
Al  positivo  cessero 
L'ira,  l'amor,  le  rime. 


—  104  — 

In  nere  spoglie  lùgubri. 
Ai  passi  impedimento, 
Il  crin  ritondo  ed  umile. 
Raso  r  onor  del  mento. 

Uguali,  melanconici 
I  lunghi  giorni  miei. 
La  venustade  orrevole, 
L' ilarità  perdei 

Oh  Dio  !  quai  detti  stolidi 
La  voce  mia  sprigiona  ?  — 
Cielo  pietoso  assistimi  : 
Io  delirai  —  perdona. 


105  — 


PER   LA  SOLENNE  FESTA  DEL  SS.  CHIODO 

a  Colle  di  Val  d'Elsa  (1874). 


ODE 


Quando  giacea  Gesù  sul  duro  legno 
A  scontar  le  nostre  onte  ed  il  peccato 
Per  la  codarda  mente  di  Pilato, 
Ligio  all'ebraico  sdegno, 

I  forsennati,  nell'error  perduti, 
A  forar  quelle  mani  e  quelle  piante 
Coi  fìtti  colpi  del  martel  sonante 
Batteano  i  chiodi  acuti: 

Ed  a  quei  colpi  ahi  I  di  una  Madre  in  petto 
Rispondevano  i  palpiti  del  core 
Neil'  immenso  qual  mar  fiero  dolore 
Verso  il  Figliol  diletto. 


—  106  — 

Tai  strumenti  di  morte  e  di  tortura. 
Scelti  per  dare  ai  rei  l'ultima  pena, 
Nel  sacro  Corpo  penetrati  appena 
Cangiata  ebber  natura  : 

E  non  più  rozzo  ferro,  e  atroci  ordigni, 
Ma  tinti  di  quel  sangue  generoso 
Divennero  nel  mondo  ossequioso 
Sante  Reliquie  insigni. 

E  ben  le  sa  la  mia  Colle  ridente  (1) 
Che  un  ne  possiede  nel  maggior  suo  tempio, 
E  che  oggi  vede  di  pietà  1'  esempio 
Nell'affollata  gente; 

E  ben  lo  sa  chi  di  queir  urna  al  piede. 
Umilmente  atteggiati  i  mesti  cigli. 
Riceveva  le  grazie  ed  i  consigli 
Sull'ali  della  Fede. 


fi)   I.a    famÌL'Iia    dell'  Autore  è    oriunda    di    Colle    di  Val 
d'Elsa. 


—  107  — 

Oh  lo  vedete  I  sul  cuspide  antico 
Sta  ancora  il  sangue  che  salvò  la  Terra^ 
E  che  movea  la  vittoriosa  guerra 
All'infernal  nemico. 

Vedete  ?  dagli  aerei  confini 
Quaggiù  discesi  intorno  intorno  all'  ara 
Volano,  come  in  ricambiata  gara. 
Gli  ardenti  Serafini. 

Ben  lieto  giorno  è  questo,  e  tu  dell'  Elsa 
Operosa  Regina  esulta,  esulta. 
Ti  benedice  Provvidenza  occulta 
Sopra  la  fronte  eccelsa. 

Ricca  degli  opifici  in  te  rimane 
L'agitato  commercio;  e  ai  popolani 
Tu  porgi,  senza  dubbio  del  domani, 
Vario  lavoro  e  pane. 

Ed  io  di  mie  vicende  in  1'  aspra  via, 
0  sul  mar  tempestoso,  o  in  lido  strano. 
Col  rapido  pensier  frenato  invano 
Sovente  a  te  venia  : 


—  108  — 

E  rivedevo  i  lieti  poggi  in  giro. 
Le  convalli    ubertose  e  la  fresca  onda, 
E  i  lussuriosi  frutti  in  sulla  sponda 
Col  memore  sospiro. 

Eppure  in  questo  dì  per  te  sì  santo 
Resto  ancor  lungi;  ma  in  Aliai  desìo 
Mando  alla  Festa  del  terren  natio 
Il  cuore,  e  1'  umil  canto  (1). 


[IJ  Questa  ode,  che  l'Autore  intitolò  Anacreonlica,  piacque 
assai  al  buon  popolo  colligiano,  e  fu  dedicata  dai  Deputati 
delle  feste  alTesiinio  Gonfaloniere  Avv.  Marziale  Dini. 


—   109 


VERGH ERETO 

(Romagna  J 


Qui  (love  sciolsi  all'aure 
I  primi  miei  vagiti. 
Fra  duri  gioghi  inospiti 
E  inosservati  liti, 
Sento  compresa  l'anima 
D' insolito  piacer. 


Salii  per  l'erta  ripida, 
Scesi  alla  valle  alpestra. 
Vidi  del  verde  cespite 
Sorger  l' umil  ginestra, 
E  i  Cerri  e  i  figgi  ombriferi 
Lunghesso  il  mio  sentier. 


—  HO  — 

Da  casolari  poveri 
Racchiusa  una  chiesetta 
Di  redenzion  col  simbolo 
Il  viandante  alletta  ; 
Ivi  del  ciel  la  Vergine 
Cinta  è  di  freschi  fior. 


Io  mi  prostrai  —  scendevano 
Degli  Angioli  le  squadre 
Siccome  un  di  discesero 
Ai  voti  della  madre  — 
Era  il  pregar  medesimo. 
Era  ristesso  cor. 


Ma  qual  destossi  palpito. 
Quando  varcai  le  soglie, 
Che  il  sovvenir  più  tenero 
Dei  genitori  accoglie 
E  che  un  amor  scambievole 
Fecondo  consacrò  I 


—  Ili  - 

Baciai  le  mura,  estatico 
Di  poter  dir  —  qui  nacqui; 
Qui,  con  il  sonno  placido. 
In  breve  culla  io  giacqui  : 
Quivi  neir  orma  istabile 
Il  picciol  piede  errò.  — 


Ed  or  te  lascio,  o  vertice 
Di  Verghereto  mio  ; 
Da  questa  balza  accogliere 
Piacciati  un  mesto  addio  — 
Chi  sa  se  mai  più  reduce 
Mi  avrai  presso  di  te  I 


Ali  !  venga  il  dì  che  celebre 
Del  mio  natal  tu  sia, 
E  il  pellegrin  ti  visiti, 
E  sulla  scabra  v'm. 
Quasi  a  votivo  termine, 
Posi  lo  stanco  pie. 


112  — 


A  contrapposto  di  una  canzone  dello  stesso  metro  con 
la  quale  un  famoso  poeta  inneggiava  Satana  e  lo 
faceva  vincitor  di  Dìo. 


DIO 


Ente  immutabile, 
Mente  increata^ 
Eccelsa,  archetipa. 
Sempre  beata, 

Dio  che  dal  Càosse 
Trasse  più  mondi. 
Lucidi,  armonici 
Vari,  fecondi  ; 

Dio  che  per  gii  esseri 
Di  nostra  mole 
Fugò  le  tenebre 
Svelando  il  sole; 


—  113  — 

Dio  che  dai  cardini 
Scuote  la  terra 
E  il  mar  ceruleo 
Agita  in  guerra; 

Signor  del  fulmine 
Talor  le  stelle 
Copre  col  buio 
Delle  procelle. 

Ma  poi  sui  nugoli 
Sfrenando  il  vento. 
Le  torna  limpide 
Nel  firmamento, 

Ed  esse  annunziano 
Coir  ampie  schiere 
Tutta  la  gloria 
Del  suo  potere. 

Eppure  il  cinico 
Con  labbro  immondo 
Cantò  del  diavolo 
Padron  del  mondo  f... 


—  114  — 

Padrone  ed  unico 
È  il  re  dell'  etra, 
Che  spregia  i  numeri 
D' insana  cetra. 

L'  urlo  di  Satana 
Non  lo  sgomenta — , 
Furore  inutile, 
Bestemmia  spenta  : 

Spenta  nei  vortici 
Di  eterno  foco 
Dove  il  rio  demone 
Divenne  roco : 

E  s'  ei  mal'  Angiolo, 
Spinto  al  dirupo 
Dal  brando  vindice 
Del  folle  strupo. 

Vantò  i  proseliti 
A  mille  a  mille 
Pei  versi  delfici 
Per  le  sibille. 


-  115  — 

Poscia  neir  Èrebo 
Giacque  il  feroce 
Quando  sul  Golgota 
Surse  la  Croce  ; 

E  or  regna  leova 
Possente  e  solo, 
Col  Divo  Spirito 
Col  Gran  Figliuolo, 

E  si  maturano 
Gloriosi  i  tempi 
Della  vittoria 
Su  tutti  gli  erapi. 


—  ne  - 


PROGNOSTICO 
per  il  Capo  d'Anno    ISoo 


L' anno  si  scarica. 
Un  altro  accosto 

Monta  dei  secoli 
Sul  girarrosto. 

Salire  e  scendere, 
Questo  è  il  costume 
Che  il  vecchio  bindolo 
Tien  colle  piume, 

Mentre  i  fantastici 
Credon  progresso 
Salire  e  scendere 
Nel  tempo  stesso. 


—  117  — 

La  gente  aggirasi 
la  giù  e  in  su  : 
È  una  vertigine 
E  nulla  più. 

Vedete  il  popolo 
Il  popol  tutto. 
Che  alcun  nobilita 
Fino  nel  rutto, 

Sempre  il  medesimo 
Non  e'  è  divario, 
È  come  i  trespoli 
D'  uno  scenario  : 

Questi  si  mutano 
Di  boschi  in  sale, 
Ma  il  palco  scenico 
È  sempre  uguale. 

Eppur  vi  furono 
Certi  babbei 
Da  dire  al  popolo 
«  Tu  fai,  tu  siei  !  > 


—  118  — 

Povero  diavolo  I 
Per  un  momento 
Cambiò  la  bettola 
Nel  Parlamento; 

E  colle  regole 
Dei  ciceroni 
Fece  spropositi 
Da  can-barboni. 

Ah  si  credetelo. 
In  questo  mondo 
Per  legge  arclietipa 
Domina  il  tondo; 

Onde  il  terraqueo 
Nostro  soggiorno 
Fa  i  capitomboli 
Giorno  per  giorno. 

Mangiare  e  bevere 
Bere  e  mangiare. 
Ecco  ove  tendono 
Tutte  le  gare. 


—  119  — 

L'  Aristocratico 
È  realista. 
Perchè  nei  torbidi 
E'  non  ci  acquista. 

Vuol  la  repubblica 
Pseudo-milorde, 
Perchè  il  soprabito 
Mostra  le  corde; 

E  se  la  lesina 
Gli  rende  male 
Il  ciaba  Prospero 
Divien  sociale. 

Eh  via  finiamola 
Con  tal  letigi. 
Si  pigli  esempio 
Dal  gran  Parigi. 

Regno,  Repubblica, 
Costituzione 
Son  dolci  ninnoli 
Per  la  nazione. 


_  120  — 

Piglia  i  Quinqueviri 
E  il  Dittatore, 
Quindi  resuscita 
L' Imperatore. 

Questo  è  bel  vivere  : 
Di  quando  in  quando 
Bisogna  muoversi 
Fermi  restando. 

Le  non  son  frottole 
Da  darsi  a  busca; 
Il  motto  è  classico, 
É  della  Crusca. 

Chi  avesse  stomaco 
Ingoierebbe 
Ogni  politica 
Come  il  giulebbe. 

Almen  serbiamoci 
Come  noi  siamo; 
Non  facciam  strepito 
Non  sussurriamo, 


Che  cosa  sperasi 
Ditelo  a  me 
Da  questo  giovine 
Cinquantatrè  ? 

Cile  ricchi  e  poveri 
Tornino  uguali  ? 
Che  i  vecchi  veggano 
Senza  gli  occhiali? 

Che  godin  gli  uomini 
L'  età  dell'  oro 
Mostrando  i  ciondoli 
Senza  decoro  ? 

Che  più  non  rubino 
Cogli  speziali 
Segnando  i  medici 
Dei  serviziali  ? 

Che  non  sia  bindolo 
Un  avvocato  ? 
Che  non  sian  debiti 
la  uno  Stato  ? 


—  122  — 

Che  sian  Penelopi 
Tutte  le  dame? 
Che  qualche  comico 
Non  abbia  fame  ? 

Forse  vorrebbesi. 
State  a  vedere, 
Che  sappia  leggere 
Un  Cancelliere? 

Si  vuol  pretendere 
Che  un  impiegato 
Più  non  si  arrisichi 
Coi  peculato  ? 

Questi  son  ninnoli 
Che  il  fu  Platone 
Dette  ad  intendere 
Alle  persone, 

Quando  i  filosofi 
Dotti  e  somari 
Tutti  scroccavano 
Sugli  scolari. 


—  123  — 

Ma  or  che  le  lettere 
Fan  tanti  acquisti 
E  si  addottorano 
Fino  i  callisti  ; 

Ora  che  un  giovane 
Bevendo  un  ponce^, 
Ti  stende  un  opera 
Di  quarant'  once. 

Gli  antichi  metodi 
Quelle  utopie, 
Son  cose  rancide. 
Roba  da  spie. 

Oggi  predomina 
Il  positivo, 

I  sofi  crepino, 

L'  Abbaco  è  vivo. 

Oggi  sol  circola 

II  Francescone, 
Negli  altri  circoli 
Speri  il  minchione. 


—  124  — 

Giunto  al  suo  termine 
Quest'  anno  nuovo 
Dirà  —  vi  lascio 
Come  vi  trovo  — 

Fermi,  immutabili 
Sono  i  destini, 
Che  ci  distinguono 
Grandi  e  piccini  : 

Il  mondo  putrido 
Ormai  non  cangia,  — 
Questo  è  il  prognostico: 
Chi  n'  ha  ne  mangia. 


■ì 


—  125  — 

PER    LE    REALI    NOZZE 

DELLA 

PRINCIPESSA    MARGHERITA 

COL 

PRINCIPE  UMBERTO 

f  1  8  6  8  J 


Inventa  una  pretiosa  Margarita...  emit  eam. 
Vangelo  di  S.  Matteo  J3 

Era  un'  ascosa  perla, 
Dì  candida  beltà, 
Angelica  a  vederla 
In  quella  prima  età. 

Trovò  la  perla  ascosa 
Umberto  un  bel  mattin. 
Ed  adorata  sposa 
Unilla  al  suo  destin. 


—  126  — 

Germe  dei  Padri  stessi, 
Cinti  di  verde  allòr, 
Liberator  di  oppressi. 
Di  pugne  vincitor. 

Domestico  1'  affetto. 
Scambiato,  unico  fu, 
Medesmo  cuor  nel  petto, 
Medesma  la  virtù  : 

E  qual  della  colomba, 
Costante  (ìa  1'  amar. 
Né  il  gelo  della  tomba 
Potralli  separar. 

Perchè  fuor  della  vita 
Altra  esistenza  vi  è. 
Sii  dove  il  Nume  invita 

I  figli  della  Fé. 

Or  spera  e  non  indarno 
Italia  in  tanto  iman; 

II  ciel  del  Pò,  dell'  Arno 
Raddoppia  il  suo  seren. 


Al  nodo  fortunato 
L'  Insubria  applaudi. 
Quasi  prepari  il  Fato 
Più  fortunati  di. 

L' inno  della  Laguna 
E  r  inno  del  piacer  : 
Al  raggio  della  luna 
Lo  canta  il  gondolier. 

Fino  il  Vesuvio  ardente 
Spinge  sue  fiamme  fuor, 
Non  più  strazio  di  gente. 
Ma  pronubo  splendor. 

Perla  nascosa  vieni; 
È  tempo  di  brillar  : 
DI  giorni  appien  sereni 
Ormai  la  stella  appar. 

E  Tu  sì  cara  e  bella. 
Ricca  di  maestà. 
Tu  sei  la  vaga  stella 
Che  il  trono  irradierà. 


—  158  - 


AL   PRINCIPE  FEDERIGO   DI   PRUSSIA 


Presente  alle  Reali  Nozze 


Salve  air  Eroe  di  Sadowa, 
Che  Italia  nostra  onora  ; 
Salve  al  magnanim  ospite 
Della  regal  mia  Flora! 

Chi  Te  rimira,  o  Principe, 
In  quel  marziale  aspetto. 
Sente  del  cuore  un  palpito 
Dentro  il  commosso  petto; 


E  nel  pensier  t'immagina 
Duce  dei  mille  e  mille, 
Qual  sulle  sponde  iliache 
Apparve  il  fiero  Achille, 


—  129  — 

La  già  sparsa  Germania, 
Prodiga  di  tue  lodi. 
Ti  chiama  al  vasto  imperio^ 
Dominator  di  prodi. 

Alti  destin  ti  aspettano, 
E  ormai  vicini  sono  : 
Per  Te  tornerà  splendido 
Di  Carlo  Magno  il  trono  (1). 

Intanto  i  voti  e  i  plausi 
Odi  sul  tuo  passaggio  ; 
Ve'  degli  Ausoni!  popoli 
L'  universale  omaggio. 

Dhe  !  a  questa  bella  Italia 
Stendi  la  invitta  mano  : 
In  sen  della  Penisola 
Non  sii  venuto  invano. 


(IJ  Profezia. 


—  130  — 


PER   ALTRE    NOZZE 


L'ADDIO  DELLA  SPOSA  NOVELLA 

alia  sua  Camera 


Addio  mura  dilette,  addio  romita 
Cameretta  dai  sonni  non  turbati. 
Dove  tranquilla  i  giorni  della  vita 
Passai  cantando  nei  lavori  usati  : 
Ti  lascio,  e  vado  in  più  addobbata  cella. 
Ma  per  me  non  più  cara  e  non  più  bella. 


Quando  del  primo  sole  il  raggio  schietto 
Le  tue  pareti  a  illuminar  venia. 
Discesa  appena  dal  modesto  letto. 
Tutta  contenta  la  finestra  apria, 
E  mi  sentiva  rallegrare  il  core. 
Inalzando  le  preci  al  mio  Signore. 


-  131  — 

Un  ricordo  di  te,  mia  cameretta, 
Bramo  recare  ia  casa  del  mio  sposo  ; 
Ma  quale  oggetto  ?  il  flore  ?  la  piletta  ? 
Il  guancial  del  dolcissimo  riposo? 
Nò  —  te  sola  vogl'  io,  piccola  immago 
Della  Madonna,  con  quel  volto  vago. 

Vieni,  0  soave  madre,  a  questo  seno  ; 
Ti  porto  da  colui  che  mi  ama  tanto: 
Vieni  a  render  piìi  bello  il  di  sereno, 
E...  forse  a  confortar  1'  ora  del  pianto; 
Vieni,  e  ogni  sera  col  Divin  Figliolo, 
Avrai  due  baci  per  un  bacio  solo. 


-  132  - 


AD   UNA   MADRE 

clie    ebbe   lasciato    nell'  Educatorio 
la  sua  amatissima  figlia. 


Povera  Madre^  rimasta  sola 
Senza  il  conforto  della  figliuola^ 
Povera  Madre  !  piangi  che  n'  hai 
Cagione  assai. 


Quando  ti  svegli^,  ti  volti  intorno 
E  torbo,  sembrati,  languido  il  giorno 
Ahi  !  non  Io  allegra  col  dolce  viso 
D'  Elena  il  riso  I 


—  133  — 

Tacita,  trista  cala  la  sera, 
E  tu  seduta  muta,  severa. 
Un  posto  vuoto  guardi  ogni  tanto 
A  te  daccanto. 

Colà  soleva  la  tua  diletta. 
Con  il  ricamo,  colla  calzetta. 
Vivace,  tenera  scambiare  i  detti. 
Mescer  gli  affetti. 

Lieti  mattini,  dolci  serate 
Perchè  alla  madre  più  non  tornate  ? 
Povera  Madre  I  piangi  che  n'  hai 
Cagione  assai. 

Ma  pur  rimembra,  mesta  Isolina, 
Che  il  più  bel  fiore  cinto  è  di  spina, 
E  che  le  nubi  fanno  più  bella 
La  prima  stella. 

Dopo  alcun  anno  verrà  quel  giorno 
Che  a  te  la  figlia  farà  ritorno. 
Destra  ai  lavori,  dotta  la  mente. 
Sempre  innocente. 


—  134  — 

Ebben  quel  giorno,  dimmi,  un  amplesso 
Lo  cambieresti  col  cielo  istesso  ? 
Invidieresti  gli  Angioli  santi 
Con  Lei  davanti  ? 


Mesta  Isolina,  piangi,  ma  pensa 
Che  una  divina  legge  dispensa, 
Vicenda  eterna  nel  nostro  cuore. 
Gioia  e  dolore. 


—  135 


ISAGOGE 


Trovandosi  1'  Autore  in  una  conversazione 
fu  pregato  dalla  illustre  Padrona  di  casa  a 
scrivere  qualche  cosa  sul  suo  Album.  Egli  im- 
maginò 1  seguenti  versi  arrovesciati,  ma  che 
piacquero  a  tutti  sul  serio:  sennonché  un  gobbo 
poco  stante  rilevò  1'  equivoco  —  Oh  i  gobbi  I 


APOLOGO 


Di  vivido  color 
Sul  margine  di  un  fior 
Cresceva  un  rio  : 

Egle  il  voleva  raccòr, 
Ma  dalla  biscia  fuor 
La  siepe  uscio; 


—  136  — 

E  colla  bianca  man 
Sopra  il  morso  inuman 
Fece  onta  e  danno  — 


Ahi  spesso  del  sentier 
Sul  facile  piacer 
Cresce  1'  affanno  ! 


-  137  — 


VITA  DEL   LACHERA 

spifferata  da  Lui  medesimo. 

f 1 80O ) 


Signori  io  sono  il  Lacliera, 
Illustre  fiorentino, 
Gran  pasticcer  del  popolo 
Gran  bevitor  di  vino. 

Che  conto  tra  cent'opere 
Una  delle  più  belle 
Di  aver  saputo  crescere 
Il  buco  alle  ciambelle. 

Io  nacqui  nei  Camaldoli 
Il  giorno  di  san  Rocco 
Nell'anno  che  sui  tegoli 
Soflìava  lo  scirocco. 


—  138  — 

Mio  padre,  uomo  di  credito 
Anch'ei  cortese  e  gaio. 
Per  suo  minore  incomodo 
Faceva  il  palmiziaio. 

Lui  vedendo  me  piccolo 
Pien  d'ingegno  squisito. 
Mi  messe  in  Montedomini 
A  studiar  l'appetito. 

Giunto  sugli  anni  dodici 
Passai  da  un  legnaiolo. 
Che  spesso  bastonavami 
Proprio  come  un  figliolo; 

E  in  men  di  mesi  sedici, 
A  suon  di  lavorare 
Giunsi  all'intento  celebre 
Di  rassettar  tre  bare. 

Ma  i  morti  ohimè  non  pagano, 
E  i  vivi  hanno  il  restio  ; 
Onde  con  garbo  e  grazia 
Dissi  alla  pialla  addio. 


—  139  — 

Quindi  mi  diedi  a  mescere 
Il  vin  come  garzone. 
Ma  un  giorno  tutto  burbero 
Mi  licenziò  il  padrone; 

Perchè  della  canicola 
Nella  più  calda  stretta 
Col  fiasco  d'aleatico 
Suonavo  la  trombetta. 

Divenni  poi  domestico 
Di  madama  Tegame, 
E  la  livrea  mi  messero 
Di  uno  morto  di  fame  ; 

E  qui  mi  stancai  subito, 
Non  avendo  piacere 
Per  tante  ore  di  seguito 
Reggere  il  candeliere. 

Ma  non  vorrei,  carissimi. 
Che  la  intendeste  male  : 
Io  vo'dir  che  toccavami 
Di  consumar  le  scale, 


—  140  — 

Giacché  una  moltitudine 
Di  gente  assai  compita 
Nella  sera  venivano 
A  fare  una  partita. 

Ridotto  a  spassò  e  povero, 
Feci  un  sogno  una  notte 
Che  mi  parea  di  vendere 
Qua  e  là  le  pere  cotte. 

L'ebbi  per  buono  augurio, 
E  senza  altri  pensieri 
Presi  una  teglia  a  debito 
Da  un  certo  Capineri  : 

Ed  eccomi  a  percorrere 
Le  strade  di  Firenze 
Con  mille  lazzi  comici. 
Con  mille  reverenze. 


Sicché  tutti  venivano 
Come  per  un  istinto 
Le  perecotte  a  mordere 
Ed  a  leccar  l'intinto. 


—  141  — 

Ohimè  I  tre  case  nobili 
Mi  astrinsero  a  fallire, 
E  feci  un  capitombolo 
Di  venti  mila  lire  ! 

E  il  male  fu  che  ingenuo 
Io  non  fallii  col  sacco. 
Come  tant'altri  sogliono 
Pili  ladri  assai  di  Cacco. 

Allor  pieno  di  smania 
E  di  sinistre  voglie. 
Deliberai  di  prendere 
Quel  che  si  dice  Moglie. 

Vidi  un  giorno  una  giovine. 
Ed  era  così  bella 
Come  quando  si  pettina 
Nel  ciel  la  prima  stella. 

Io  le  andai  dietro,  e  tenero 
Le  dissi  due  parole. 
Cioè;  mia  bella  Venere, 
Inzuccherato  sole. 


—  142  - 

Ella  allora  volgendosi, 
E  visto  questo  busto. 
Fece  il  bocchin  da  ridere, 
E  parve  averci  gusto. 

Insomma  a  corta  farvela 
La  presi  calda  calda 
Colla  cravatta  candida; 
E  colla  nera  falda; 

La  stessa  che  ammiravano 
Tante  buone  persone 
Quando  del  Corpus-Domini 
Usò  la  processione. 

Or  con  il  mio  giudizio 
E  con  un  po'di  dote 
Messi  su  gran  negozio 
Di  cavoli  e  carote: 

Ma  d'ogni  specie  cavoli 
Crebbero  in  ogni  lato, 
E  le  carote  vennero 
Pur  troppo  a  buon  mercato; 


-  143  - 

Per  cui  mandato  al  diavolo 
Ogni  altro  mio  mestiere. 
Io  mi  ridussi  all'ultimo 
Che  è  quel  di  pasticciere, 

Sebben  su  tal  proposito. 
Cioè  quanto  ai  pasticci 
Mi  ritrovai  di  subito 
In  mezzo  a  degl'impicci. 

Poiché  li  confiscarono 
Dopo  una  recidiva. 
Dicendo  che  i  Lustrissimi 
Ne  avean  la  privativa. 

Poi  di  Roma  e  Venezia 
Le  paste  si  gradite, 
Dopo  infinite  chiacchiere. 
Mi  furon  proibite, 

E  il  marzapan  di  Napoli? 
Come  rimasi  brutto  1 
Mi  prese  un  dì  di  mucido 
E  mi  si  guastò  tutto. 


—  144  - 

Ma  la  maggior  disgrazia, 
E  me  ne  accorsi  tardi 
Per  me  si  fu  la  perdita 
Di  tutti  i  Savoiardi. 

Un  giorno  mentre  io  ninnolo 
Me  li  mangia  un  can  corso 
E  innoltre  al  destro  gomito 
Mi  appicca  un  bel  morso. 

Or  vendo  sol  le  solite 
Azzime  mie  ciambelle. 
Ed  il  mestier  continuo 
Per  iscampar  la  pelle. 

È  un  affare  magrissimo. 
Ma  ho  trovato  tre  modi 
Per  vivere  un  po'meglio,   — 
Chiodi,  chiodi  e  poi  chiodi. 

E  altro  rimedio  stabile, 
A  dirla  in  un  orecchio 
Me  lo  promesse  in  Bobuli 
Un  amicone  vecchio. 


•èf 


—  145  — 

È  tanto  che  lo  stimolo, 
È  tanto  che  lo  prego. 
Che  non  sarà  difficile 
Di  farmi  aver  l'impiego.  — 

Che  cosa  c'è  da  ridere? 
Cos'è  questo  dileggio? 
Nelle  moderne  nomine 
Se  n'é  viste  di  peggio. 

0  impiego  !  o  refrigerio 
Di  tasche  nell'arsura  1 
0  del  mensil  di  sedici 
Liscia  e  soave  cura  I 

Bello  quai  nuovi  bamboli 
Il  ritornare  in  culla  ! 
Bella  vita  poetica 
Mangiare  e  non  far  nulla  I 

Marcerò  col  soprabito, 
E  in  lucidi  stivali; 
Sopra  alla  mia  proposcide 
Cavalcheran  gli  occhiali. 


10 


—  146  — 

Userò  nel  dialogo 
Poche  parole  e  lente, 
E  senza  saper  leggere 
Passerò  per  sapiente. 

Ognun  che  pensa  libero 
L'avrò  per  un  ribelle, 
E  loderò  con  enfasi 


Qui  il  Lacliera,  viste  due  guardie  di  sicu- 
rezza, che  pian  piano  vengon  verso  di  lui 
recide  la  canzone,  e  grida  colla  solila  voce 
chioccia  il  solilo  ritornello 

Che  roba  di  mammelle  ! 


—  UT  — 


TESTAMENTO  DEL   LACHERA 


Crepo  da  buon  Cattolico, 
Unto  dell'Olio  Santo, 
Col  confessore  a  latere 
Col  crocifisso  accanto. 

Ogni  mia  scelleraggine. 
Ed  ogni  mio  peccato 
Prego  lo  sconti  il  Diavolo, 
Che  mi  ha  sempre  tentato. 

Istituisco  il  figlio 
Erede  fiduciario, 
Onde  passi  alla  vedova 
I  giorni  del  lunario: 


—  148  — 

E  alle  figlie  amatissime. 
Del  ballo  spasimate, 
Lascio  due  grossi  bugnoli 
Di  lupini  e  patate. 

Lascio  all'Italia  libera, 
Indipendete,  unita 
Mille  braccia  di  canapo, 
E  una  catena  a  vita. 

Lascio  ai  Briganti  il  metodo 
Di  parer  morti  tutti, 
E  poi  poter  risorgere 
Più  spaventosi  e  brutti. 

Ai  giornali  d'Ufficio, 
Venduti  alla  menzogna. 
Lascio  il  comune  obbrobrio. 
Le  legnate  e  la  gogna. 

Ai  Ministri  che  furono 
Che  sono,  e  che  saranno. 
Lascio  quel  che  rubarono. 
Rubano,  e  ruberanno. 


—  149  — 

Badiamo  veli  !  avvertitelo, 
Fisco  a  scanso  di  beghe  : 
Qui  per  Ministri  intendesi 
Quelli  delle  botteghe  ! 

Lascio  a  ogni  Legge  e  Codice, 
A  ogni  Editto  e  Contratto, 
Matasse  con  gomitoli, 
Dipanate  dal  Gatto. 

Item  agli  altri  Uffici 
Lascio  l'erba  trastulla 
E  quella  comodissima 
Arte  di  non  far  nulla. 

Item  ai  burocratici 
Dei  dicasteri  bassi 
Un  monte  di  spropositi 
Di  lingua  e  di  sintassi. 

Ai  deputati  docili, 
Dopo  la  chiaccherata. 
Lascio  per  loro  incomodo 
La  trattoria  pagata. 


—  150  — 

E  se  al  poter  proseguono  ^' 

Di  essere  ognor  cortesi 
Avranno  alcuni  ninnoli... 
Basta  !  ci  siamo  intesi. 

Alla  mandria  più  innocua. 
Vale  a  dire  al  Senato, 
Di  lattughe  e  papaveri 
Lascio  pieno  un  mercato. 

Lascio  al  mio  caro  popolo  ^'• 

Lascio  agli  amici  in  massa 
Tutto  il  dare  dei  bindoli. 
Tutti  i  vuoti  di  Cassa.  "*■ 

Più  la  Ricchezza  Mobile 

• 

E  il  tanto  desiato,  ì 

Quanto  la  Manna  Ebraica  ^^^     ig 

Provido  Macinato.  '.   *  ' ^  .  2 

Popolo-Rè,  consolati  : 
Ecco  una  nuova  età  !     > 
Ai  gridi  tuoi  frenetici  ,    ; 
Surse  la  Libertà. 


r. 

\ 


rx 


—  151  — 

La  libertà  del  carcere 
Dai  molesti  riparo  : 
La  libertà  di  spendere. 
Quando  tu  l'hai,  denaro. 

La  libertà  di  scegliere 
Fra  il  gravamento  e  il  Monte  : 
La  libertà  di  starsene 
0  in/casa,  o  sotto  il  ponte. 

La  libertade  amplissima 
Delle  inutili  brame, 
E  l'onor  di  soccombere 
Martire  della  fame  : 

Il  Camposanto  libero. 

Il  becchino  pagato 

Popolo-Rè,  rallegrati 
Nascesti  fortunato  I 

(Il  Lachera  è  in  a^anno  per  lo  sforzo.  Il 
jyotaro  gli  raccomanda  la  calma;  e  che  fini- 
sca di  detiare.  Dopo  un  lungo  intervallo  l'in- 
fermo ripiglia:)         » 


—  152  — 

Lascio  a  chi  sulla  cattedra 
Stentatamente  raglia 
A  ristorar  l'esofago 
Un  decotto  di  paglia. 

Bevete,  o  menni  idropici. 
Dalla  scienza  indigesta. 
Campane  pneummatiche 
Col  vuoto  nella  testa. 

Per  voi  gli  alunni  restano 
Come  tanti  salami, 
E  son  vergogne  pubbliche 
I  mal  tentati  esami. 

Ma  i  padri  si  arrovellano, 
E  lesti  come  topi, 
I  figli  riconducono 
Ai  soliti  Scolopi. 

0  voi  professorucoli 
Questa  proprio  mi  garba, 
I  Frati,  quei  retrogradi 
Ve  l'hanno  fatta  in  barba. 


—  153  — 

Non  ho  più  fiato  e  termino  : 
Chiuda  Signor  Notaro... 
No  no  !  veggo  in  un  angolo 
L'amico  mio  più  caro. 

0  compare  di  bettola. 
Già  lieto  Stenterello, 
Colla  sola  camicia 
Chi  ti  lasciò,  fratello? 

Intendo,  intendo,  i  soliti 
Vampiri  prepotenti 
I  tristi  Mangiapopoli 
Che  spellano  le  genti, 

Ebben  !  ti  lascio,  o  misero, 
Due  mutande  ragnate. 
Onde  celare  al  pubblico 
Le  chiappe  dimagrate 

(Il  Lacliera  cade  in  totale  sfinimento  e  più 
non  iKxrla.  Stenterello  piange) . 

Umh  !  umh  !  umh  ! 


—  154  — 

(U  Notavo  esorta  Stenterello  a  partire 
per  non  turl)are  con  idee  profane  gli  ultimi 
momenti  dell'amico,  Stenterello  obbedisce  e 
partendo  piange.)  e  dice  : 

Muore  l'ultimo  degli  Italiani  f  Andiamo  do- 
lenti e  cisposi  a  fargli  il  pitafDo.  (1) 


(1)  Ci  resta  debito  di  cosoienza  il  dire  che  se  abbiamo 
scherzato  sull'uomo  faceto,  il  Lachera  fu  onesto  popolano, 
pulito  di  persona  e  di  modi,  e  diligente  educatore  della  pio- 
pria  faroi^ilia. 


—  155  — 


ISAGOGE 


L'Autore  fece  con  taluno  la  bizzarra  scom- 
messa di  non  bere  più  vino;  ma  prima  volle 
una  intera  nottata  per  cong-edarsi  dall'  almo 
liquore.  In  quella  notte  cintellando  scrisse  il 
seguente 

ADDIO   AL    FIASCO 


0  Fiasco,  0  antica  gloria 
Delle  toscane  genti. 
Da  Cisti  panicocolo, 
E  da  Filippo  Argenti;  (l) 

0  mio  compagno  assiduo 
Fin  dalla  fonciullezza, 
Adunque  sarà  l'ultima 
Per  noi  questa  carezza? 


(1)  Vedi  il  Decameron  del  Boccaccio  —  Novella  II  Giorna- 
ta quinta,  Novella  Vili  Giornata  nona. 


—  156  — 

Giurai  di  non  più  bevere... 
Ahi,  non  più  bever  vino  1 
E  mi  convien  di  cedere 
Al  duro  mio  destino; 

Ma  di  te,  rosso  e  tumido 
Amico  mio  diletto. 
Sitibonda  memoria 
Mi  rimarrà  nel  petto; 

Quando  al  seno  stringendoti. 
Chiamandoti  mia  vita. 
Io  colsi  i  baci  fervidi, 
Bocca  con  bocca  unita, 

Mentre  versando  1'  anima 
Con  impeti  soavi. 
Cento  parole  tenere 
Tu  gorgogliando  andavi; 

Quando  sdegnando  i  numeri 
Della  cetra  sonori, 
Sulle  tue  corde  morbide 
Cantai  1'  armi  e  gli  amori; 


—  157  — 

Quando  di  Belle  Lettere 
Nello  studio  ridente. 
Come  commento  ai  Classici 
Ti  consultai  sovente  ; 

Quando  d'  astrusi  termini 
Nell'intricata  via 
Bevvi  nelle  tue  gocciole 
Pretta  Filosofia; 

Quando  alfin  di  politica 

Nelle  sfere  superne 
Tu  mi  facesti  credere 
Lucciole  per  lanterne. 

Ora  non  più  !  la  gelida 
Boccia  coir  umor  bianco 
Mi  domerà  lo  spirito 
Forse  un  po'  troppo  franco. 

Allor  ridotto  ascetico, 
E  privo  d'ogni  vizio, 
Farò  le  corna  al  diavolo, 
E  metterò  giudizio  — 


—  158  — 

Oimè,  il  giudizio  !  1'  arido 
Stato  della  ragione, 
Che  nel  cerrel  le  immagini 
Tiene  come  in  prigione  : 

Maestro  d' archipenzolo, 
Kotaro  del  consiglio;, 
Fratel  dell'itterizia. 
Padre  dello  sbadiglio. 

Egli  oserà  di  togliermi 
Dal  consueto  oblio  ; 
Dirà  eh'  io  sono  un  misero, 
E  ch'io  proprio  son  io. 

La  cosa  è  insopportabile.. 
Esser  sempre  lo  stesso  1 
E  la  sorte  dell'  asino, 
La  sorte  del  cipresso. 

Invece,  o  Fiasco  amabile. 
Col  tuo  dolce  elemento, 
E  di  persona  e  d'  indole 
Cambiavo  in  un  momento. 


—  159  — 

Quindi  mi  piacque  d'essere 

Un  soggetto  di  storia  ; 

Per  esempio  il  Ricasoli 

Con  tutta  la  sua  gìoria. 

Volli  r  Italia  libera 
Senza  l' insurrezione^ 
Misi  le  briglie  al  popolo, 
Diressi  1'  opinione. 

E  seguitavo  a  fingermi 
Il  Barone  in  persona; 
Ma  poi  gridai  suU'  ultimo  : 
«  Dio  ce  la  mandi  buona  !  » 

Perchè  apparian  de'  nuvoli 
Da  settentrione  ad  ostro 
Più  fitti  dei  manipoli. 
Più  neri  dell'  inchiostro. 

Onde  mutata  maschera, 
Mi  feci  Garibaldi, 
L' italiano  Leonida, 
Il  Re  degli  spavaldi; 


—  160  — 

Menavo  ben  le  mestole, 
Ero  sempre  in  impegni, 
E  fumando  il  mio  sigaro 
Ingollavo  dei  regni; 

Ma,  racchiuso  in  un'  isola. 
Sentendomi  indolente. 
Lasciando  capra  e  cavoli 
Tornai  sul  continente. 

Quivi  divenni  subito 
Ministro  di  Finanza, 
E  di  balzelli  e  imprestiti 
Avea  piena  la  stanza. 

Al  Gran  libro  del  Debito 
Appoggiavo  le  rene, 
E  ripetea:    «  Che  comodo  ! 
Come  ci  si  sta  bene  !  » 

Ma  un  giorno  a  fermi  visita 
Venne  un  uomo  sparuto. 
Coi  capelli  in  disordine, 
Giallo^  magro  ed  ossuto  : 


-  IGl  — 

E  a  me,  che  interrogavalo^ 
Con  un  certo  spavento. 
Chi  fosse,  in  tuono  rauco 
Rispose  :  Il  Fallimento. 

A  cotal  nome  un  brivido 
Sentii  di  vena  in  vena. 
Onde  mi  diedi  a  correre 
Con  quanto  aveo  di  lena. 

Giunto  a  Firenze,  spiacquemi 
Di  aver  preso  a  imitare 
Quei  personaggi  altissimi 
Che  hanno  troppo  da  fare; 

E  discendendo  all'  umile 
Popolaresco  stato, 
Volli  assaggiar  la  gloria 
Del  vecchio  Tribunato. 

Scelsi  dunque  l'immagine 
Di  un  celebre  fornajo 
Moderno  capopopolo. 
Ricco,  robusto  e  gajo. 


—  162   - 

Feci  cose  mirabili. 
Ma  poi  proprio  sul  bello, 
Mi  convenne  soccombere 
Kel  fin  di  Masaniello.  (1) 

Cosi  traea  le  rapide 
Ore  nel  caso  vario, 
E  poi  fìnia  col  credermi 
Sei  volte  milionario. 

E  allor  venite,  o  voglie 
Tutte  vi  soddisfaccio  : 
Non  trovo  alcun  ostacolo. 
Non  sento  alcun  impaccio. 

Lusso,  viaggi,  musica. 
Fiori,  cavalli,  cene 
Ed  anche  1'  elemosina 
Per  fare  un  po'  di  bene. 


(IJ  Profezia. 


—  163  — 

0  miei  castelli  in  aria  ! 
O  mia  perduta  gioja  f 
Sento  di  già  lo  spirito 
Della  futura  noja. 

Piangi,  Fiasco  sensibile. 
Piangi  sulle  mie  pene... 
Ah  !  le  tue  dolci  lacrime 
Mi  fanno  pur  del  bene  ! 

Baciami  ancor...  ribaciami... 
Dammi  un'amplesso  ancora... 
Ti  ho  da  lasciar  ?  Lasciamoci  ! 
Si  ha  da  morir?  Si  muora  ! 

Addio...  convien  risolversi; 
E  or  che  ti  sento  vuoto^ 
Ti  attacco  a  un  chiodo  in  camera 
E  cosi  sciolgo  il  voto. 

E  qui  facciam  punto  alle  Poesie,  perchè  i 
limiti  che  ci  siamo  imposti  non  ci  permettono, 
e  ce  ne  duole,  d'inserire  molti  sonetti  ed  epi- 
grammi dell'Autore.  —  Ci  sarà  tempo. 


PROSE 


REMINISCENZE  NOTTURNE  FIORENTINE 


SOMMAPaO 


La  Piazza  del  Popolo  —  La  Ritirata  —  I  Saltim- 
banchi —  I  Burattini  —  Il  Burattinaio  —  Origine 
della  Quarconia  —  Programma  della  Quarconia 
—  La  Quarconia  —  Il  Pizzicagnolo  —  GÌ'  Im- 
provvisatori —  A  letto. 

Io  sono  tra  quei  goccioloni  tagliati  all'an- 
tica^,  che  se  non  meritano  il  nome  di  animali 
retrogradi,  come  per  esempio  il  gambero,  vo- 
glionsi  per  altro  annoverare  tra  ifermicci;  non 
mica  nel  senso  politico,  badiamo  ve'  amiconi  !, 
ma  per  certi  usi  e  costumi  che  in  gioventù  ci 
dilettarono  tanto,  ed  hanno  lasciato  nell'anima 
una  traccia   leggiera,   candida  e  gentile,  pari 


—  1(18  — 

alla  via  lattea  neirarco  del  cielo  notturno.  Che 
parvi,  neh?  Non  so  anch'io  esser  poeta,  e  far 
paragoni  abbacati  oltre  le  nuvole? 

Fatto  sta  che  il  vecchio  è  sempre  laudatov 
iempOìHs  adi;  ma  la  satira  romana  non  toglie 
ad  un  buon  fiorentino  la  dolcezza  dei  vecchi 
ricordi,  quando  la  città  offriva  a  noi  plebei 
que'  divertimenti,  con  poca  spesa  o  senza,  i 
quali  oggimai  sono  divenuti  una  specie  di  pro- 
prietà per  le  persone  ricche. 

Sonavano  le  ventiquattro,  ed  io  mi  trovava 
sulla  Piazza  del  Popolo  per  godere  la  Ritirata. 
I  tamburi  battevano,  le  trombe  squillavano,  ed 
una  mano  di  pacifici  soldati  faceva  il  giro  della 
piazza.  Guardavo  io  a'  soldati  ?  No  davvero  : 
per  me  invece  era  un'estasi  lo  stare  attento 
ai  monelli,  che  saltavano  a  guisa  de'  pagliacci 
con  diverse  carole  davanti  ai  sonatori  di  pif- 
fero, accompagnando  la  marciata  cogli  urli  e 
coi  fischi.  Qual  bellicoso  spettacolo  ! 

Dopo  la  scena  marziale,  e  sulla  piazza  stessa, 
davasi  un'altra  e  piìi  variata  rappresentanza 
dalla  genia  de' saltimbanchi  e  rivenditori,  che 
empivano  lo  spazio  di  lumi  e  di  gaiezza.  Qua 
un  cavadenti,  che  a  suon  di  chiacchiere  sga- 


—   IG9  — 

nasciava  il  suo  simile;  là  un  saltatore,  che 
sopra  un  lacero  tappeto  faceva  mostra  di  des- 
trezza; da  un  lato  un  giocatore  di  bussolotti 
moltiplicatore  di  palle;  dall'altro  uno  spaccia- 
tore di  miracoli  inauditi:  e  un  maccheronaio. 
che  dava  la  mercanzia  per  un  quattrino  su 
la  palma  della  mano;  un  professore  di  ceretta 
da  scarpe;  un  libraio  col  suo  baroccino,  che 
vendeva  a  una  crazia  1'  una  le  tragedie  del- 
l'Alfieri;  e  un  cieco  che  cantava  sulla  tiorba 
i  casi  amorosi  d'Ippolito  e  di  Dianora. 

Ma  quello  che  di  gran  tratto  superava  ogni 
altro  spettacolo  erano  i  burattini  a  caslelio, 
retti  dal  così  detto  Luyìgo  di  onoranda  me- 
moria. I  suoi  drammi  ei  gì'  improvvisava,  e 
non  mancavano  spesso  di  argute  allusioni  ai 
tempi  che  correvano.  I  personaggi  eran  pochi, 
ma  avevano  tutti  un  carattere  spiccato,  sicché 
il  popolo  si  era  loro  affezionato,  e  gli  cono- 
sceva appuntalo.  Il  Mago  Sabino,  la  signora 
Rosetta,  il  signor  Orazio  Grattasassi,  il  Rapa 
suo  contadino,  il  Capitano  Squarcia,  e  il  prode 
Pulcinella,  avevano  lor  partigiani,  e  tenevano 
in  moto  l'udienza.  Metastasi©  della  plebe,  il 
Lungo  era  fiicile  e  fertile  come  il  Poeta  Cesareo, 


—  170  — 

ma  com' esso  si  ripeteva  negl'intrecci,  e  finiva 
coll'araore  trionfiinte:  se  non  che  Pulcinella 
bastonava  per  vezzo  anche  gli  sposi,  onde  il 
noto  proverbio  delle  Nozze  di  Pulcinella  per 
denotare  un  esito  di  cose  non  troppo  pacifico. 
La  platea  del  Burattinaio  era  delle  più  nume- 
rose, e  qualche  quattrinello  lo  raccapezzava  : 
almeno  un  due  per  cento.  Io  davo  sempre  un 
soldo,  e  la  fedele  metà  del  Lungo,  che  veniva 
in  giro  ad  invocare  la  cortesia  della  turba 
non  tralasciava  mai  di  chiamarmi  illustris- 
simo. 

Ora  la  Piazza  del  Popolo,  divenuta  Piazza 
dei  Signori,  è  nella  notte  così  deserta  e  poco 
illuminata,  che  nemmeno  una  spia  vi  passeggia. 
Questa  riforma  di  tenebre  e  di  solitudine  si 
deve  ad  un  Aurelio  Puccini,  già  ombroso  Pre- 
sidente del  Buon  Governo,  e  ad  una  stringata 
civiltà  che  proscrive  le  spontanee  gioie  della 
strade,  e  senza  parlar  di  pane,  vende  i  suoi 
circensi  per  acqui.-tar  fautori. 

Un  giorno  io  rividi  il  Lungo  burattinaio, 
giubbilato  senza  pensione.  Hei  miìii!  .... 
quantum  mutatus  ab  ilio!  Altro  che  l'Ettore 
di  Virgilio!  Vero  è  bene  che  alcune  difierenze 


—   171   — 

ci  erano,  ma  l'aspetto  era  tristo  del  pari.  La 
barba,  per  esempio,  anzi  che  raggruppata  nel 
sangue,  era  sordida  di  polvere  ;  e  per  quante 
ferite  avesse  nella  carne  1'  eroe  troiano,  non 
superavano  le  toppe  che  spiccavano  sul  vestito 
del  nostro  artista. 

—  Lungo  ! 

—  Lustrissimo  f 

—  Sei  tu? 

—  Son  io,  ma  non  son  più  io. 

—  E  che  fai  adesso  ? 

—  0  non  lo  vede  ?  Delle  assi  del  casotto  ho 
formato  questo  carruccio,  e  mi  diverto  a  spazzar 
le  strade.  La  lo  sa  che  la  pulizia  mi  è  sempre 
piaciuta. 

—  E  sempre  ti  mantieni  allegro  e  faceto: 
buon  prò  ti  faccia.  Ma  dimmi,  o  i  tuoi  per- 
sonaggi ? 

—  Non  me  gli  nomini  :  sono  tanti  ingrati, 
e  anch'essi  mi  hanno  abbandonato. 

—  Delle  tue.  E  dove  andarono?  Sentiamo 
per  ridere.  La  signora  Rosetta? 

—  La  signora  Rosetta  è  a  Londra  e  vive 
da  regina,  stando  dietro  a  tutte  le  mode  e 
corbellando  il  mondo. 


—  172  — 

—  E  il  signor  Orazio  Grattasassi  c'è  sempre 
innamorato? 

—  Oibò!  Costui  si  è  fatto  un  discolo  a  Pa- 
rigi, e  scrive  cose  dolci  a  cento  innamorate. 

—  Ma  la  signora  Rosetta  lo  sa  ? 

—  Lo  sa  pur  troppo,  ma  ancora  non  la  vuol 
rompere.  Insomma  son  due  fìnti,  e  vedremo 
come  finiranno. 

—  Il  Mago  Sabino  almeno,  che  era  un  bu- 
rattino sodo,  sarà  rimasto  teco. 

—  S'immagini!  e' mi  voleva  tanto  bene!... 
ma  che  vuole  !  gli  diedero  delle  pedate  nel 
sedere,  ed  egli  stizzito  si  ritirò  a  Vienna 
dove  cova...  cova...  chi  lo  sa  che  cosa  cova? 
Secondo  me  però,  se  fa  come  faceva  quaggiù, 
lo  manderanno  via  anche  di  lassìi. 

—  Questo  non  è  possibile,  perchè  il  Capitano 
Squarcia  è  suo  amico,  e  lo  proteggerà  sempre. 

—  La  si  cheti;  la  non  sa  nulla.  Il  Capitano 
Squarcia  non  è  piti  suo  amico  per  certe  por- 
cherie che  gli  furon  fatte,  e  oramai  ognuno 
fa  da  sé.  Basta!  e' si  possono  anche  rappattu- 
mare, che,  a  dirla  schietta,  sono  a  un  bel  circa 
dello  stesso  pelame;  ma  intanto  lo  Squarcia 
ha  fiitto  fortuna  in  Russia,  e  senza  punto  la- 


—  173  — 
Torare  ha  aperto  un  banco  da  stordire;  anzi 
si  dice  che  presto  presto  rizzerà   un  negozio 
anche  in  Costantinopoli. 

—  Mira  un  po' che  diavolo  mi  conti!  Già 
il  proverbio  lo  dice:  chi  fila  ha  una  camicia, 
e  chi  non  fila  ne  ha  due.  Ora  poi  non  mi  resta 
ad  interrogarti  che  sul  Rapa  e  su  Pulcinella. 
Dimmene  qualche  cosa:  tu  sai  che  special- 
mente di  Pulcinella  io  era  fanatico.  E  il  Rapa 
è  sempre  contadino  del  signor  Orazio  Grat- 
tasassi  ? 

—  Altro  che  contadino  !  E' l'ha  creato  fat- 
tore della  sua  tenuta  a  Torino;  e  la  lo  vedesse, 
lustrissimo  !...  si  è  rirapulizzito,  ha  messo  su 
occhiali,  e  si  fa  rispettare:  insomma  e' paro 
un  altro. 

~  E  Pulcinella? 

—  Ohi  quanto  a  Pulcinella  sarebbe  lunga 
la  storia.  Le  basti  che  si  è  sempre  conservato 
del  suo  umore.  Legnate  alla  cieca,  e  avanti. 
I  burattini  suoi  compagni,  e  perfino  le  com- 
parse, gli  hanno  fatto  una  guerra  proprio  laida; 
ma  egli  duro,  e  senza  paura.  Finalmente  però, 
dopo  un  insultacelo  ricevuto  dal  Rapa,  andò 
in  Sicilia,  dove  fu  accolto    a   braccia    aperte. 


—  174  — 
Ora  è  a  Napoli,  ed  ha  condito  un  bel  piatto 
di  lasagne,  ma  quegli  scrocconi  già  rammen- 
tati non  gli  lasceranno  a  leccare  neppure  un 
po' d'unto;  dopo  di  ohe  diranno  ipocritamen- 
te, che  r  han  fatto  per  impedirgli  un'  indige  ■ 
stìone. 

—  Ah,  ah,  ah  ! 

—  La  ride  ? 

—  Rido  si  :  rido  della  tua  fantasia  che  è 
sempre  cosi  sveglia,  e  dà  la  vita  alle  teste  di 
legno. 

—  Che  vuole  !  Di  reale  non  mi  resta  che 
una  cosa. 

—  E  quale? 

—  La  miseria,  lustrissimo. 

—  Intendo  :  tieni. 

—  Grazie,  lustrissimo,  e  a  rivederci  in 
Piazza  del  Popolo,  se  Dio  vuole. 

—  Come  !  senza  casotto,  senza  più  burattini? 

—  Eh!  il  casotto  c'è,  e  stabile.  Quanto  a 
burattini  poi  ne  avrò  quanti  ne  vorrò,  e  più 
graziosi  di  prima.  — 

Io  me  ne  andai  tra  mesto  e  ridente  ;  ma  da 
ultimo  mi  uscì  dal  petto  un  sospiro,  che  volea 
dire:   Valentuomo   di   Burattinaio!    neanche 


una  pensione  di  14  mila    lire  !    neanche    una 
croce  !  !  1 


In  ilio  tempore  non  ilnivano  sulla  Piazza 
del  Popolo  i  divertimenti  notturni  a  poca 
spesa.  Altri  dieci  quattrini  ad  uscita,  e  la 
serata  si  terminava  allegrissimamente  al  Tea- 
tro della  Quarconia. 

Verso  la  metà  del  secolo  decimosettimo, 
Filippo  Franci  (ora  Beato),  sacerdote  pien  dì 
zelo  e  di  carità,  con  somme  all'uopo  raccolte, 
si  diede  per  la  città  di  Firenze,  sua  patria, 
a  radunare  fanciulli  poveri,  idioti  e  traviati 
per  condurli  a  vita  comune,  e  migliorarli  così 
dal  Iato  morale  come  fisico  in  un  ospizio  di 
carità  da  esso  fondato  in  via  dei  Cerchi.  Santo 
e  nobile  istituto  quello  di  educare  i  fanciulli 
del  popolo  e  dì  sovvenire  ai  loro  bisogni,  che 
il  Franci  esercitò  pressoché  al  tempo  istesso 
di  S.  Vincenzio  De'  Paoli. 

Ora  in  codesto  Ospizio  erano  accolti  ancora 
que'  giovinetti,  che  l' autorità  paterna  non 
aveva  saputo  o  potuto  correggere:  quivi  erano 
sostenuti  in  alcune  celle,  e  non  meno  aiutati 
di  consiglio  che  puniti  con  qualche  lieve  pena: 


-  176  - 
onde  opina  il  dotto  Lastri,  che  si  desse  forse 
a  quel  luogo  il  nonne  di  Qaarconia,  o  Quar- 
quonia,  per  la  congiunzione  de' due  avverbii 
latini  quare  e  quontam,  comecché  non  senza 
precedente  cagione  gravissima  si  procedesse 
all'atto  della  carcerazione. 

Qualunque  però  ne  sia  la  provenienza,  il 
volgo  chiamò  Quarconia  quell'edifizio,  e  cosi 
seguitò  a  chiamarlo  anche  quando  vedovato 
del  pio  consorzio,  valse  ben  dopo  molto  tempo 
a  far  parte  di  un  teatro  che  ebbe  nome  del 
Giglio,  ma  che  al  solito  l' ostinato  popolino 
chiamò  Teatro  della  Qaarconia. 

Teatro  a  due  crazie,  teatro  in  mezzo  alla 
città,  teatro  che  scornava  i  guanti  e  le  giubbe, 
non  vi  sto  a  dire  se  era  frequentato  dagli 
onorevoli  inquilini  di  Via  Gora,  di  Via  Por- 
ciaia,  di  Borgo  San  Frediano  e  di  Mercato: 
aggiungi  poi ,  che  neppure  la  Pergola  dava 
in  una  sera  tanta  roba  a'  suoi  avventori.  Per 
il  solito  s' incominciava  con  una  tragedia  di 
autore  vivente  :  da  questa  si  passava  a  un 
pezzo  d'opera  in  musica  :  quindi  c'era  un  ballo 
e  un  concerto:  e  da  ultimo  la  farsa,  o  il  giuoco 
de'bussolotti.  Nella  recita  in  benefizio  di  Saar- 


—  177  — 
classa,  che  da  lupinaio  passò  alla  Quarconia 
a  far  da  primo  Uomo,  io  che  buttai  6  crazie 
sul  vassoio,  ebbi  il  privilegio  di  un  manifesto 
del  trattenimento,  trascrittomi  in  carta  su- 
gante dall'Impresario:  e  diceva  cosi: 

1"  Due  atti  a  scelta  della  platea  del 
Crispo  del  sig.  Quaratesl 

2°  Giuochi  di  forza  e  destrezza  ese- 
guiti dal  celebre  sig.  Rogantino  delle 
Conce  e  Compagni. 

3°  Concerto  di  violino  e  trombone  dei 
SIG.  N.  N. 

¥  Maometto  secondo,  ossia  la  presa  di 
Costantinopoli,  ballo  storico  con  trombe, 
tamburi,  cannoni  e  bandiere. 

5"  Finalmente  il  tanto  applaudito  Pan- 
tomima DEI  DUE  Pretendenti. 

Se  per  due  grazie  vi  par  poco,  fatevi 
rifare  il  resto. 

Ma  già  il  gobbo  Masoni  dà  principio  con 
le  strida  del  suo  violino  —  La  Platea  schia- 
mazza e  rutteggia  —  I  Signori  dei  palchetti 
fischiano  come  biacchi  —  Le    Ciane   leticano 


—  178  — 
—  I  Beceri  si  chiamano  a  nome...  Entriamo, 
entriamo,  che  l'ora  è  matura. 

Il  Teatro  della  Quarconia  era  un  parallello- 
grammo  con  Logge  sorretto  da  colonne  di 
legno,  che  cosi  lateralmente  formavano  due 
corsie.  Le  solite  panche  a  doppia  fila,  como- 
dissima l'orchestra,  e  il  palco  scenico  ampio 
quasi  quanto  la  platea;  quindi  adatto  a  balli 
e  a  spettacoli  d'ogni  genere.  L'aspetto,  di  gior- 
no non  ne  riusciva  sgradito.  Dico  di  giorno 
perchè  la  sera  il  teatro  non  si  vedeva  che 
mezzo:  molti  lumi  sul  proscenio,  due  soli  dalle 
parti,  e  buio  pesto  in  fondo,  dacché  la  lumie- 
ruccia  di  mezzo  serviva  solamente  per  il  mezzo. 
Era  una  distinzione  di  luce  e  di  tenebre,  come 
ai  primi  giorni  della  creazione. 

Ma  se  vi  erano  gente  illuminata  e  gente 
oscura,  l'accordo  morale  sarebbe  slato  invidia- 
bile in  tutti  i  parlamenti  del  mondo:  non  erano 
men  vive  le  discussioni,  e  i  conflitti  di  plausi 
d'urli  e  di  fischi;  pure  ogni  tempesta  finiva 
colla  pace  comune  e  col  comun  consenso. 

Anche  alla  Quarconia  vi  era  una  destra  e 
una  sinistra,  che  meglio  però  si  chiamereb- 
bero alto  e   basso,  dacché    le  gallerie   eran 


—  179  — 
occupate  dagli  uditori  un  pò  meglio  vestiti  e 
più  intelligenti,  vale  a  dire  da  praticanti  di 
medicina  e  di  legge^  da  commessi  di  commer- 
cio, e  da  figli  aspiranti  di  buone  famiglie  ; 
mentre  le  panche  contenevano  i  béceri  di  puro 
sangue,  e  per  tali  si  intendono  a  Firenze  i 
ciabattini,  i  garzoni  di  macello,  i  conciatori 
di  pelli,  i  piccoli  rivenditori  delle  strade  e 
ogni  minuzzaglia  di  Mercato  Vecchio. 

Certo  i  beceri  erano  in  maggioranza,  e  cosi 
rappresentando  la  destra,  si  trovavano  disposti 
ad  approvare  ogni  corbelleria  del  palco  scenico, 
dove  gli  istrioni  la  facevano  da  ministri,  come 
qualche  volta  altrove  1  ministri  la  fanno  da 
istrioni. 

Ma  la  sinistra,  ossia  la  camera  alta,  aveva 
dalla  sua  di  buone  zucche,  e  ciò  bastava  a 
bilanciare  e  vincere  la  partita.  Difatti  i  si- 
gnori Deputati  delle  gallerie,  nelle  quali  eglino 
stavano  per  la  maggior  parte  a  cavalcioni, 
dopo  essersi  battuti  col  ventre  dell'assemblea 
al  si  e  no,  a  fischi  e  a  plausi  traevano  dalle 
tasche,  mele,  pere,  pomodori  (secondo  la  sta- 
gione), e  più  sovente  zucche  depredate  ai  ri- 
denti orti  di  Legnaia  e  di  S.   Salvi,   le  quali 


—  180  — 
andavano  a  frangersi  sul  tiranno  e  sull'amo- 
roso della  compagnia  declamante.  A  quest'ul- 
timo argomento  i  béceri  battevano  le  mani, 
e  l'unione  degl'urli  rinasceva  compiuta.  Oh, 
bell'audacia  da  una  parte!  Oh,  bella  docilità 
dall'altra  I  Oh,  esempi  da  imitarsi  di  cittadina 
concordia  1 1  ! 

I  due  partiti  mangiavano.  Badiamo  ve  f  non 
calunniate,  perchè  qui  non  si  tratta  che  di 
bocconi  di  carne,  e  non  di  denari,  di  province, 
di  portafogli  e  di  croci  e  nemmeno  di  uomini 
all'uso  dei  moderni  politici  irocchesi.  I  fre- 
quentatori del  teatro  mangiavano  chi  dei  vo- 
latili, chi  dei  quadrupedi,  e  la  carcassa  di  un 
pollo  scendeva  in  platea,  come  un  osso  d'agnello 
saliva  sulle  logge  :  lo  che  serviva  a  mantenere 
amichevoli  corrispondenze  in  mancanza  di  pa- 
role. Erano  gli  scambi  diplomatici  della  Quar- 
conia. 

Tanta  pace  per  altro  in  mezzo  alla  guerra 
veniva  spesse  volte  turbata  da  particolari  ac- 
cidenti; i  quali  ninna  comunanza  di  perso- 
ne meglio  assortite  ha  mai  potuto  impedire. 
Ora  si  tratla  di  un  briaco,  che  ribattezzava  i 
suoi  sottoposti  con  un  fiasco  di  vino;  ora  di 


—  181  — 
■un  tale,  che  approOftandosi  del  buio  in  fondo, 
e  per  non  far  rumore,  scaricava  la  vessica 
sulla  gonnella  di  una  ciana;  ora  di  un  torso 
di  cavolo  che  smorzava  il  lume  al  gobbo  Ma- 
soni,  guidaiolo  de  suoni.  Di  qui  i  richiami,  i 
bisticci,  e  le  minaccie,  che  Dio  vel  dica, 

0  che  non  c'era  alcuna  autorità  che  vi 
mettesse  riparo?  Altro  se  c'era  I  ma  disgra- 
ziatamente poco  rispettata. 

La  Maschera,  ossia  il  custode  del  Teatro, 
esercitava  anche  l' ufficio  di  Cavaliere  d' Ispe- 
zione, e  si  dava  l'aria  del  più  gran  baccalare 
del  mondo.  Appunto  forse  per  questo,  e  per 
un  suo  sterminato  cappellone  a  due  becchi,  1 
béceri  gli  ridevano  sul  naso,  e  non  lo  conta- 
vano un  fico.  Anzi  la  cosa  andava  più  là  del 
■disprezzo.  Certa  sera  un  mercatino  urlava  a 
piena  gola:  «  Maschera,  Maschera  »  Il  prefato 
ufficiale  accorreva,  tutto  tronfio  di  autorità,  ad 
<3sercitare  i  suoi  poteri  : 

•-  Che  cosa  c'è?  Che  volete? 

—  r  ho  una  sete  da  cani  :  portatemi  un  soldo 
di  vino. 

—  Che  discorsi  son  codesti?  Per  chi  m'avete 
preso  ? 


—  182  — 

—  Vòtta!  pel  servo  del  Teatro;  e  poi  non 
si  può  chiedere  un  piacere  a  un'amico? 

—  Begli  amici  !  Vi  farò  vedere  chi  sono  : 
intanto  vo'  siete  in  arresto. 

—  Bella  forza  1  e  neanche  mi  muovo,  finché 
dura  la  commedia. 

—  Sappiate  che  io  ora  rappresento  Sua  Al- 
tezza. 

A  questa  bravata,  una  poderosa  latta  piove 
da  mano  incognita  sulla  lucerna  del  Real  Rap- 
presentante, e  gliela  ficca  fino  ai  denti.  La 
Maschera  corre  furibonda  a  un  picchetto  di 
soldati,  che  giocavano  alla  mora  sull'ingresso 
del  Teatro  e  chiede  vendetta.  I  soldati  venuti 
in  platea,  trovano  che  tutto  era  tranquillo,  e 
non  conoscendo  l'autore  della  latta,  fanno  un 
mezzo  giro,  e  tornano  al  gioco  favorito. 

Di  queste  scenette  ne  avvenivano  seralmente, 
e  non  per  questo  il  prenominato  ufllziale  sce- 
mava di  zelo:  anzi  era  sempre  in  moto  a  im- 
pedire, a  sgridare,  a  vigilare  e  a  proibire  ogni 
sorta  di  contravvenzioni  e  di  disordini.  Se  vi 
facesse  meraviglia  che  ei  non  si  desse  briga 
del  mangiare  e  del  bere,  sappiate  che  questi 
erano  abusi  tollerati    non   solo,   ma   eziandio 


—  183  — 
consentiti.  Il  contrabbando  del  vino  e  delle 
pietanze  si  sarebbe  fotto  a  ogni  modo;  sicché 
i  distributori  dei  biglietti  d'ingresso  pigliavano 
una  tassa  proporzionale  sui  tegami  e  su'fiaschi, 
che  occupavano  uno  spazio  a  carico  degli  ascol- 
tanti. C'era  qualche  cosa  che  somigliava  all'uf- 
ficio dei  gabellieri  pontificj  quando  il  Papa  pos- 
sedeva stati,  confini  e  gabelle,  sopraccapo  gentil- 
mente a  lui  risparmiato  dal  Ministero  di  Torino. 

Ma  ormai  è  tempo  di  gustare  in  parte  una 
rappresentanza  della  Quarconia 

S'alza  il  sipario,  e  sta  per  recitarsi  il  Buon- 
delmonte,  tragedia  del  signor  Corsi,  emulo  for- 
tunato del  signor  Quaratesi  perchè  riscossa 
ognora  più  fischi  e  più  patate  addosso.  Alle 
prime  parole  gli  spettatori  si  risolvevano  ad 
ascoltare  o  no.  Quella  sera  si  risolsero  pel  si, 
a  cagione  degli  schiamazzi  e  delle  insinua- 
zioni della  minoranza^  che  impose  a  tutti  la 
stessa  opinione.  Da  ciò  si  arguisce,  che  gli 
onorandi  appaltati  della  Quarconia  conoscevano 
il  suffragio  universale  assai  prima  di  Luigi 
Buonaparte. 

Il  Corsi  autore,  secondo  il  solito  declamava 
da  sé  le  sue  tragedie,  e  sosteneva  la  parte  di 


—  184  — 
protagonista.  In  quella  tragedia  egli  rappre- 
sentava Buondelmonte  in  persona,  vestito  da 
guerriero  in  corazza  di  fogli  da  impannata, 
dipinta  a  rabeschi,  schinieri  di  cartone,  co- 
sciali di  cartone,  bracciali  di  cartone,  ed 
elmo  di  cartone,  ornato  di  penne  di  galletto. 
Si  sentiva  di  lontano  come  un  serpente  a  so- 
nagli, e  se  in  quella  guisa  avesse  attraversato 
i  boschi  deiriraalaja,  i  selvaggi  per  terrore, 
l'avrebbero  data  a  gambe  :  noi  al  contrario 
sapevamo  che  era  un  animale  innocente. 

Il  primo  atto  piacque  pe'suoi  spropositi  sino 
alla  sesta  scena;  ma  poi  diventando  spropositi 
comuni  e  già  ripetuti,  l'udienza  non  ne  volle 
saper  altro,  e  cominciarono  i  fischi  e  il  batter 
<-.elle  mazze. 

Il  Corsi  allora,  così  incartonato  com'  era, 
^nche  col  pericolo  di  una  combustione,  venne 
alla  ribalta  de'iumi,  e  disse. 

—  Signori!  un  poco  di  pazienza:  il  bello 
viene  al  terz'atto. 

—  Bravo  !  bene  I  (gridava  1'  udienza)  al 
terz'atto,  al  terz'atto. 

—  Ma  vedon  bene  lor  Signori,  che  si  sal- 
terebbe il  secondo. 


—  185  — 

—  Non  importa:  al  lerz'atto,  al  terz'atto. 

—  Mi  pare  però  — 

—  Al  terz'  atto,  al  terz'atto. 
Era  un  inferno. 

Fu  forza  dunque  calare  il  sipario,  e  dopo 
un  trescone  del  Masoni,  rialzarlo  al  terz'atto 

Il  terz'atto  spiccava  per  una  lunga  descri- 
ttone del  Consiglio  tenuto  nel  Palazzo  della 
Signoria,  sulla  quale  il  Corsi  fondava  le  sue 
l'iù  vive  speranze.  Se  non  che  un  verso  ebbe 
a  guastare  ogni  cosa,  verso  divenuto  celebre, 
avvegnaché,  come  proverbio,  sia  restato  in 
liocca  di  tutti.  Dopo  aver  rammentato  i  diversi 
Ottimati,  che  entravano  nel  Salone  de'Cinque- 
cento,  l'attore  terminava  l'elenco  dicendo: 

«  L'ultimo  a  comparir  fu  Gambacorta.  » 

—  Lo  credo  se  fu  l'ultimo  !  con  una  gamba 
più  corta!  Fuori  Gambacorta. 

—  Signori  I  (esclamò  fieramente  il  Corsi) 
sappiano  che  il  Gambacorti,  o  il  Gambacorta 
era  un  casato. 

—  Non  è  vero;  era  uno  zoppo  —  Fuori  Gam- 
bacorta: fuori,  fuori. 

—  Ma  (soggiungeva  il  Corsi)  Questo  perso- 


—  186  — 

—  Non  importa:  si  stacchi  una  Carrozza, 
e  si  mandi  a  pigliare  in  Palazzo  Vecchio.  — 
Fuori  Gambacorta,  fuori  Gambacorta ,  o  si 
rompono  i  lumi. 

L'impresario  sapeva  con  che  gente  aveva  da 
fare,  e  come  era  uomo  di  bei  trovati  e  di  buoni 
compensi,  cacciò  fuori  dalle  Quinte  una  brutta 
comparsa,  che  zoppicando  fece  il  giro  del  palco 
scenico  tra  i  più  vivi  applausi  dell'  uditorio. 
La  tragedia  potè  quindi  procedere  liberamente 
sino  in  fondo. 

Ma  appunto  in  fondo  saltò  in  capo  al  pub- 
blico un'  altro  ghiribizzo.  Si  era  notato  che 
Mosca  Lamberti  tramava  insidie  contro  Buon- 
delmonte;  e  siccome  quanto  questi  era  simpa- 
tico altrettanto  riusciva  odioso  il  Mosca,  fu 
deliberato  che  Baondelmonte  non  fosse  ammaz- 
zato né  da  lui,  né  da  altri  ;  sicché  dopo  un'ac- 
cesissima discussione,  il  buon  Corsi,  si  dovette 
uccidere,  a  uso  Saul,  colla  sua  spada  di  legno 
inargentato. 

Finita  la  tragedia,  i  bravo  e  i  viva  ebbero 
a  sfondare  il  soffitto,  e  fu  richiesta  per  la  sera 
seguente. 

Il  Corsi,  nonostante  le  varianti  che  era  stato 


—  187  — 

costretto  a  fare,  gongolava  di  poter  mettere 
sul  cartellone  «  A  richiesta  universale.  » 

Egli  fu  chiamato  agli  onori  del  proscenio; 
e  ci  andò  col  restio,  perchè  sapeva  come  per 
lo  più  la  faccenda  andava  a  finire  :  pure  questa 
volta  non  rilevò  che  un  colpo  di  mela  nel  petto, 
il  quale  squarciò  soltanto  la  corazza  di  foglio. 
Cosi  terminò  l'esecuzione  di  quel  capolavoro. 

Dopo  la  tragedia  ci  fu  un  concerto  d' un 
violinista,  che  parca  sonasse  l'amor  dei  gatti. 
Successe  un  prestigiatore,  cioè  un  Bosco  in 
sessantaquattresimo,  di  cui  si  indovinavano 
avanti,  e  a  piena  voce  si  ridicevano;  i  segre- 
ti dell'  arte.  Venne  finalmente  il  pantomima 
danzato. 

Codesto  ballo  s'  intitolava  «  La  Fucina  di 
Vulcano  »  e  l'intreccio  aveva  questo  di  buono, 
che  non  s'intendeva  nulla. 

Vulcano  era  un'ossesso  che  gesticolava  sen- 
za posa,  cacciando  spesso  le  sue  mani  nella 
sua  testa  arruffata,  e  non  rifinendo  mai  dal 
litigare  ;  ma  ben  si  capivano  le  ragioni  della 
sua  stizza. 

Tuttavia  quel  che  riusciva  incompatibile,  fu 
che  quasi  per  virtù  magnetica  l'ira  del  fabbro 


—  188  — 

si  trasfuse  negl'altri,  tantoché  Venere,  Marte, 
Mercurio,  e  gli  stessi  Ciclopi,  si  diedero  a  poco 
a  poco  a  fare  una  ridda  diabolica  ;  e  tutto  in 
breve  spazio  apparve  un  Pandemonio.  Per  la  me- 
desima cagione  l'uditorio  riscaldandosi,  comin- 
ciò a  battere  le  panche  e  ad  urlare,  mentre 
l'orchestra  sonava  a  stormo  con  timpani  trom- 
be e  tromboni,  che  era  uno  spavento.  A  para- 
gone di  tal  fracasso  le  famose  giornate  di 
Luglio  a  Parigi  potean  passare  per  la  pro- 
cessione di  Gesù  morto  a  Prato, 

Calmato  alquanto  1'  uni  versai  furore,  si  alzò 
un  deputato  dell'  estrema  sinistra  per  una 
<^iuestione  d'  urgenza.  Egli  notò  che  i  ciclopi 
avevano  due  occhi;  lo  che  era  un  oltraggio  alla 
mitologia,  che  ce  li  ha  dati  con  un  occhio  solo. 
Formulava  per  conseguenza  un  decreto ,  me- 
<liante  il  quale  dovevasi  cacciar  subito  un  oc- 
chio dalla  fronte  di  Sterope  e  compagni.  I  tre 
Oiclopi  impallidirono,  e  si  ritrassero  bel  bello 
dentro  le  quinte.  Intanto  un  altro  deputato  del 
<:entro  si  oppose ,  asserendo  che  dopo  il  fatto 
<li  Ulisse  con  Polifemo,  Giove  aveva  regalato 
un'  altra  pupilla  a  quei  Giganti,  cotalchè  non 
v'era  diritto   all'invocata   estrazione.    E   poi 


—  189  — 
(continuava  egli)  se  un  Cilcope  prendesse  mo- 
glie, come  potrebbe  giusta  il  costume  moderno 
chiudere  un  occhio  avendone  un  solo? 

L'argomento  garbò  e  la  camera  passò  al- 
l'ordine del  giorno  puro  e  semplice. 

Non  fu  cosi  d' un  altra  proposta,  accolta 
invece  con  acclamazione.  Qualcuno  denunziò 
alla  decenza  del  Parlamento  una  frittella  d'olia 
situata  in  una  coscia  di  Venere;  ed  argomen- 
tando da  ciò  che  Vulcano  dovesse  essere  un 
marito  spilorcio,  concluse  pel  divorzio,  e  per 
le  seconde  nozze  con  Marte.  Come  ho  detto, 
la  proposta  passò  a  pieni  voti  e  per  di  più  lo 
zoppo  Dio,  durante  l'imeneo,  dovette  reggere 
un  lume  dell'orchestra  fattogli  offrire  dal 
primo  Clarinetto.  Cosi  il  ballo  terminò  come 
le  commedie  del  Goldoni,  e  si  calò  per  sempre 
il  sipario. 

Non  ostante  si  lungo  e  sì  variante  diverti- 
mento, gl'incontentabili  Quarconiani  avrebbero 
voluto  altri  spettacoli,  e  concepito  altre  esi- 
genze; ma  l'impresario  non  sempre  era  debole, 
e  remissivo.  L' ora  era  tarda,  e  il  suo  do* 
vere  compito;  onde,  per  iscongiurare  un  nuo- 
vo  chiasso,    s'  appigliò   al   consueto  colpo  di 


—  100  — 
stato:    fece   spengere  ì  lumi  e  diede  la  buona 
notte. 

La  folla,  persuasa  dalle  tenebre,  se  ne  andò  a 
tastoni,  ne  vi  furono  altri  inconvenienti  che 
alcune  acute  esclamazioni  femminili,  conse- 
guenze de'soliti  pizzicotti   alle  parti   postiche. 

I  più  vecchi  frequentatori  della  Quarconia, 
comecché  tarda  fosse  l'ora  al  termine  della 
Rappresentazione,  non  sarebbero  andati  a  casa 
per  tutto  l'oro  del  mondo,  sapendo  qual  altro 
genere  di  divertimenti  gli  aspettava.  E  qui  è 
bene  il  dire  che  le  scene  descritte,  e  quelle  da 
descriversi  accadevano  specialmente  nelle  tre 
belle  stagioni  dell'anno,  bellissime  in  Firenze. 
Certamente  l'inverno  non  è  d'ostacolo  ai  not- 
turni piaceri;  ma  pel  solito,  li  tiene  rinchiusi 
fra  quattro  mura,  e  mentre  da  un  lato  esso 
accresce  l'intimità  dei  consorzi,  per  lo  più 
non  ci  concede  l'aere  mite  e  il  cielo  sereno, 
da  dove  la  luna  sputa  le  perle  sugl'occhi  de- 
gli amanti  infelici. 

Per  trovar  luogo  che  ci  capisse,  noi  ci  divì- 
devamo in  due  masnade:  l'una  entrava  dal 
Pintuccio  dietro  Palazzo  Vecchio  e  l'altra  dal- 
l'Oste Barbaro  presso  la  Piazza  dei    Tavolini. 


—  191  — 
Il  Pintuccio  era,  ed  è  tuttavia,  un  famoso 
pizzicagnolo  dal  vin  buono  ;  l'Oste  Barbaro 
condiva  egregiamente  la  trippa,  e  mutava  la 
tovaglia  tre  volte  l'anno,  tenendola  ferma  alla 
tavola  con  quattro  bullette,  conficcate  alle 
quattro  cocche.  Era  una  carta  sinottica  di 
quattro  in  quattro  mesi,  dimostrante  tutto 
quel  che  aveano  mangiato  e  bevuto  gii  avven- 
tori. 

Dall'oste  andavano  i  ricchi  e  i  ghiotti,  seb- 
bene la  differenza  della  spesa  non  fosse  molta. 
Eppure,  come  spender  meno  di  ciò  che  si  spen- 
deva a  que' tempi  dal  pizzicagnolo?  Quattro 
quattrini  di  salame,  un  soldo  di  pane,  e  un 
soldo  di  vino  :  in  tutto,  due  crazie  dell'antica 
moneta.  Che  cena  lesta,  saporita,  ed  econo- 
mica f  Questa  cosa  farebbe  ridere  a  Milano  e 
a  Torino,  la  cui  gente  inghiotte  pezzi  di  car- 
ne che  paiono  aborti  di  mastodonte,  forse  per 
dilatarsi  l'esofago,  e  cantar  di  basso  :  ma  noi 
qui  siamo  quasi  tutti  tenori  ;  il  poco  ci  basta, 
e  l'antica  parsimonia  ci  assolve. 

Dal  pizzicagnolo  e  dall'oste  attendevano  di 
piantone  gl'improvvisatori,  poeti  popolari,  che 
parte  per  apollineo  istinto,  parte   ancora  per 


—  192  — 
l'aspettativa  d'un  piccolo  lucro,  rallegravano 
le  turbe  coi  loro  canti;  ed  erano  più  rispet- 
tabili dei  greci  rapsodi ,  dacché  recitavano 
versi  spontanei  e  di  proprio  conio.  Si  con- 
tavano fra  i  più  celebri  il  Chiarini,  il  Nan- 
nucci,  detto  Pretino,  Angiolo  Baghéo,  l'Otto- 
naio ed  il  Quattrini,  tutti  più  o  meno  al- 
lievi di  Domenico  Somigli,  noto  sotto  il  nome 
di  Beco  Sudicio,  di  cui  già  dettammo  la  vita. 
Capitanati  dunque  da  vati  si  fatti,  che  so- 
navano 0  si  facevano  sonare  il  chitarrino, 
uscendo  dalle  respettive  taverne,  parimente  in 
distinti  gruppi,  ci  recavamo  dove  non  man- 
cava subietto  a  patriottiche  rime.  Il  Brunel- 
lesco,  Giotto,  Arnolfo,  Michelangiolo,  Donatello, 
il  Perseo,  il  Ratto  delle  Sabine,  il  David,  la 
Giuditta,  Pier  Capponi,  il  Duca  d'Atene,  i 
Ciompi,  il  Savonarola,  e  cento  altri  perso- 
naggi, monumenti  e  fatti  apparivano  a  vicenda 
nelle  rapide  rime.  Quelle  ottave,  quelle  ana- 
creontiche non  erano  per  l'appunto  del  Tasso 
e  del  Chiabrera  ;  anzi  troppo  sovente  resultava 
la  rozzezza  e  lo  stento:  ma  di  tratto  in  tratto 
un  volo  pindarico  bastava  a  largo  compenso. 
Il  Chiarini   una   volta,   dopo   aver   celebrato 


—  193  — 
alla  meglio  le  nostre  antiche  glorie,  usci  in 
queste  due  quartine  nobilmente  lamentose,  e 
ammirabili  in  uomo  senza  lettere  : 


Italia  o  bella  Italia  ! 
Più  non  ti  riconosco  : 
Il  tuo  giardino  fertile 
Parrai  cangiato  in  bosco  ; 

E  il  tno  mattino  splendido 
Ormai  declina  a  sera 
Per  cagion  della  barbara, 
Cruda  nazion  straniera. 


I  Birri  che  stavano  a  longe,  non  ardivano 
impor  silenzio,  e  forse  ancor  essi  si  godevano 
l'accademia;  ma  nondimeno,  con  qua' loro  oc- 
chi perfetti,  e  con  quella  lor  tenace  memoria, 
mordevano  anche  a  longe,  e  spesso  accadeva 
che  il  Poeta  si  trovasse  il  giorno  dopo  in  Domo 
Petri  a  godersi  i  brutti  musi  invece  delle  belle 
muse. 

Intanto  queste  poesie  e  i  commenti  in  pro- 
sa di  alcuni  ascoltatori  piìi  eruditi,  mentre 
conducevano  il  pensiero  alle  splendide  tra- 
dizioni avite,  mantenevano  nei  generosi  petti 
il  sacro  fuoco  di  libertà,  e  preparavano  le  vie 

13 


—  194  — 

al  48,  genitore  legittimo  del  59,  il  quale  ris- 
cossa l'eredità,  non  recitò  sulla  tomba  paterna 
che  un  R,equiem  aeternam  in  fretta  e  in  fu- 
ria, senz'altri  uffizi  ne  moccoli. 

Dalle  due  celebri  piazze  si  passava  in  Lun- 
garno, dove  la  poesia  prendeva  aspetto  gio- 
coso, nel  cui  genere  meglio  valevano  i  detti 
Chiarini  e  Baghéo.  Ed  ecco  che  i  Poeti,  sino 
allora  unisoni  e  concordi,  divenivano  rivali, 
e  con  tal  garbo  si  rimbeccavano  l'un  l'altro, 
che  gli  ascoltanti  ne  andavano  in  visibilio.  A 
ogni  ottava,  a  ogni  quartina,  a  ogni  verso, 
piovevano  i  sali  attici,  le  arguzie  toscane,  i 
frizzi  fiorentini,  facezie,  equivochi,  motti,  pro- 
verbi, baie,  frottole  e  riboboli  da  riderne  a 
crepa  pancia.  In  tal  guisa  il  tempo  volava  sì 
rapido,  che  non  di  rado  l'aurora  affacciata  ai 
colli  fiesolani,  ci  tirava  a  canestrate  le  rose 
per  mandarci  a  letto. 

E  a  letto  si  andava  senza  aver  bisogno  del 
pastrano  di  Morfeo  per  coprirci  gli  occhi. 
L'  ora,  la  stanchezza  e  le  dolci  variate  imma- 
gini ben  ci  servivano  di  ninna  nanna;  e  se 
pure  un  molesto  pensiero  assaliva  i  soavi  ri- 
posi, era  quello  della  Patria   oppressa:  ma  la 


—  195  — 
speranza  colla  crésta  bianca,  il  grembiule  rosso 
e  la  sottana  verde,  sedeva  lì  presso  il  capez- 
zale, e  raccontandoci  le  novelle,  come  la  nonna 
ai  nipotini,  ci  ravviava  il  sonno  sulle  gravi 
palpebre. 

Cece. 


—  196  — 


CICALATA  SUI   FEGATELLI 

dettata  da  CECE  e  recitata  da  SUCCHIELLINO 

Chierico  del  Piovano  Arlotto 
neir  ultima    cena    del    Carnevale 


I  porci.  Signori,  io  sostengo  essere  i  mi- 
gliori tra  gli  animali  che  servono  al  nostro 
nutrimento;  dunque  il  fegatello  è  l'ottimo  fra 
le  pietanze  della  cucina. 

Da  questo  sillogismo  si  desume  come  corol- 
lario che  il  fegatello  è  migliore  del  peduccio 
e  del  lombo  arrosto  :  Figaiillus  melior  est  pe- 
cliculo,  lumboque  rotealo.  —  Seneca,  de  syste- 
male  culinario.  Di  fatti  gli  antichi  Egiziani 
adoravano  il  fegatello  sotto  il  velame  della 
rete,  e  lo  credevano  un  mezzo  sicuro  per  un 
buon  corso  di  digestioni.  Il  fegatello  passò 
dall'Egitto  in  Grecia,  e  fu  riserbato  fra  i  pre- 
mi ai  vincitori   del  cèsto.   Sotto   il   regno  dì 


—  197  — 
Mastrilli  nella  ventesima  prima  Olimpiade  , 
Rinaldo  di  Montealbano  mangiò  9'2  fegatelli, 
mentre  Pindaro  portava  i  porci  alle  stelle 
con  gl'inni  immortali.  Roma  sotto  i  Califfi 
gustò  per  la  prima  volta  il  suino  boccone,  e 
nacque  tra  gli  Apici  contesa  se  freddo  o  caldo 
dovesse  imbandirsi.  Cicerone  nonno  della  latina 
eloquenza,  eletto  giudice,  divorò  dieci  pezzi 
diversi,  e  ritornò  in  senato  masticando  e  ta- 
cendo :  cosi  fu  definita  la  gran  lite  che  tenne 
per    tanto  tempo  diviso  il  popolo  di  Quirino. 

AI  cadere  dell'Impero  di  Occidente,  Attila  in- 
trodusse i  fegatelli  nelle  trattorie,  e  allora  a 
Londra,  a  Parigi,  a  Berlino  fu  gara  di  fega- 
telli ne'  più  allegri  ritrovati.  Gli  zerbinotti 
portavangii  attaccati  tra  i  ciondoli  dell'orolo- 
gio, e  le  dame,  ad  esempio  della  Regina  Cleo- 
patra se  n'empivano  le  borse  e  le  tasche:  1 
poeti  poi,  specialmente  Bacone  da  Verulamio 
e  Cristoforo  Colombo,  cantarono  in  coro  i  pre- 
gi dei  fegatelli,  e  gli  sostituirono  alle  bacche 
nelle  corone  che  cingevano  loro  la  fronte.  Da 
quel  tempo  il  fegatello  e  l'alloro  furono  giu- 
dicati inseparabili  compagni. 

Ma  il  momento  più  bello  dei  fegatelliani  tri- 


—  198  — 

onfi  ce  lo  descrive  Diodoro  Siculo  nella  vita 
di  Castruccio  Castracani.  Io  non  fo  che  tra- 
durre dell'arabo  le  sue  stesse  parole. 

«  Per  la  morte  di  Patroclo  venne  il  rovello  a 
«  quel  ragazzaccio  d'Achille,  e  sacrò  di  di- 
«  struggere  Troia  con  tutti  i  troiani  ed  i  tro- 
«  iolini  che  vi  erano  dentro;  e  però,  dopo  ave- 
«  re  ammazzato  Ettore,  e  gli  altri  che  erano 
«  restati  fuori  a  fare  i  bravacci,  il  giovedì  gras- 
ce so  dopo  desinare  si  incamminò,  armato  co- 
«  me  un  Saracino,  verso  la  tremula  città  per- 
<  gamena.  Stavano  sulle  mura  gli  abitanti,  e  i 
«  bambini  strillavano  come  tanti  tordi  impa- 
«  niati,  mentre  i  guerrieri  si  risolvevano  nei 
«  materiali  effetti  della  paura.  Achille  trovò 
«  chiusa  la  porta  Scea;  e  poiché  in  quei  tempi 
«  a  porte  chiuse  non  s'entrava,  prese  l'eroe  una 
«  cervigambàle  rincorsa,  e  sferrò  una  macignea 
«  pedata  sulle  quercine  tavole.  Il  corrosivo  tarlo, 
«  figlio  del  Tempo,  e  della  Dea  soffitta,  per  or- 
«  dine  dell'occhivacca  Giunone,  avea  in  due  lu- 
«  stri  spolverizzata  tutta  la  polpa  del  cardinoso 
«  ligneo  serrarne,  sicché  al  tremendissimo  colpo 
«  cadde  infranto  come  un  veggio  sfuggito  di 
«  mano  a  un  curato  che  dice  l'uffizio.  Apparve 


—  109  — 

«  allora  l'interno    della  reggia,  ed  Ecuba  e  le 
«  cento  nuore  si  strapparono  le  creste:  ilPelide 

«  intanto  s'inoltrava  con  una  piatola  alla  mano, 

«  sbuffando  come  un  istrice  e  bestemmiando  peg- 

«  gio  di  un  eretico,  quando  all'angolo  d'un  chias- 

«  suolo  gli  si  fece  incontro   Polissena,  la  più 

«  giovane  e  vaga  figlia  di  Priamo.  Ella  teneva 

*<  infilato  nella  forchetta  un  bel  fegatello  e  lo 

«  accostò  con  grazia  sotto   il  naso  del   feroce 

«  guerriero:  a  quella  vista,  a  quell'odore  cadde 

«  l'ira  del  Tessalo  ;  e  se  non  era  la  freccia  di 

«  Paride   egli    avrebbe  sposata   Polissena,    e 

«  sarebbe  divenuto  campione  di  quella  Troia, 

«  che  aveva  giurato  di  abbattere,. 

Fin  qui  Diodoro  Siculo 

L,  Catilina  poi  nel  suo  celebre  trattato  dei 
Tartufi  ci  narra  come  Giove  un  giorno  fu  re- 
galato da  Mercurio  di  un  bel  piatto  di  fegatelli, 
i  quali  tanto  piacquero  al  padre  degli  Dei, 
che  indirizzò  al  Porco  un  lusinghiero  com- 
plimento: il  porco  profittando  del  fovore,  e 
volendo  ormai  trarsi  dal  fango,  e  seguitare 
padron  Mercurio  nelle  sue  gite,  chiese  a  Giove 
il  dono  delle  ali;  ma  Giove    bruscamente    ri- 


—  200  — 
spose:  Mai  al';  e  quelle  due  parole  unite  in- 
sieme, diedero  Hn  d'allora  il  secondo  nome  al 
nostro  porco.  Ma  Mercurio  perorò  la  causa 
del  setoloso  cliente,  ed  il  Tonante  per  immor- 
talare i  fegatelli  ne  sotterrò  due  in  Creta,  che 
indurando  e  vegetando,  diedero  origine  alla 
famiglia  di  quei  bulbi  odorosi,  noti  sotto  il 
nome  di  tartufi.  Questi  conservano  ancora  la 
forma  ed  il  colore  dei  fegatelli,  e  scavati  per 
privilegio  dai  maiali  loro  autori,  formarono  e 
formano  la  delizia  delle  mense  lussuriose. 

Che  se  dobbiamo  prestar  fede  alla  relazione 
di  uno  speziale  di  Costantinopoli,  trovata  nella 
cantina  del  Magliabechi  dopo  il  suo  discessit 
il  noto  e  feroce  Sultano  Gengiskan  (italica- 
mente Gengivedicane)  in  onta  al  divieto  del 
Corano  mangiava  spessissimo  fegatelli.  E  per- 
chè i  suoi  sudditi  non  ne  restassero  scanda- 
lizzati, dava  voce  d' aver  sempre  aggrava- 
to lo  stomaco,  e  che  quei  boli  erano  pillole 
del  Piovano  belle  e  buone,  fatte  apposta  un 
pò  grosse  per  la  regia  bocca,  la  quale  per 
avventura  era  la  più  spalancata  e  vorace 
di  tutte  quelle  del  felicissimo  Impero.  Stu- 
pivano   per    vero    dire    i    cortigiani    che    il 


—  201  — 
Gran  Signore  si  purgasse  quasi  tutti  i  giorni 
e  che  nonostante  il  suo  ventre  e  le  gote 
crescessero  a  vista  d'occhio;  ma  un  palo  ben 
acuto  eretto  nella  sala  d'udienza,  e  non  so 
quali  espedienti  di  cordini  insaponati,  fecero 
bever  grosso  a  quei  signori.  Se  non  che  Gengi- 
A-edicane  un  bel  giorno  trangugiò  tante  di  quel- 
le pillole,  che  si  purgò  davvero,  e  finì  l'il- 
lustre vita  proprio  nel  modo  che  la  doveva 
finire.  (Sono  parole  della  relazione)  e  qui  il 
(Ietto  speziale  ne  avverte  in  un  orecchio,  che 
questo  fu  un  gastigo  spedito  da  Maometto  al 
suo  infedele  successore.  Noi  per  altro,  che  non 
siamo  molto  propensi  a  credere  i  miracoli  del 
profeta  della  Mecca,  mentre  dalla  cronaca  dello 
speziale  ricaviamo  la  certezza  del  credito  dei 
fegatelli  anche  presso  coloro  che  non  possono 
cibarsi  di  carne  porcina,  non  sapremmo  ve- 
dere nella  morte  di  Gengivedicane  che  il  na- 
turale effetto  dell'abuso  di  un  cibo  assai  calido. 
Anzi  a  questo  proposito  ci  giova  osservare 
che  gli  Ebrei  pure  mangiarono  di  furto  i  fe- 
gatelli, e  che  per  prevenire  le  diarree  lo  spa- 
gnuolo  Rabbino  Cascaritto  nel  1590  emanò 
una  provida  legge,  con  la  quale  si  restringeva 


—  202  — 
a  cento  il  numero  macrgiore  di  fegatelli  da 
ingollarsi  da  un  buono  Isdraelita  in  una  volta. 
Né  basterebbe  una  lunga  ora  a  raccogliere 
tutti  i  pregi  sulla  pietanza  di  cui  ho  sbozzato 
l'elogio;  sicché  taglio  corto,  e  fatto  un  brin- 
disi alla  salute  di  chi  mi  ha  invitato  e  di  tutti 
quanti  i  commensali,  compreso  me,  do  fine 
alla  mia  chiacchierata. 


203  — 


LE  FESTE  DI   FIRENZE 

ALLA      VENUTA      DEL      RE 

(Dal  Diario  di  Cece) 


Ricordo  come  il  di  16  d'Aprile  dell'anno  ISGO 
entrò  in  Firenze  il  Re,  e  fu  ricevuto  tra  le 
acclamazioni  dei  popoli.  Codesta  accoglienza, 
che  del  resto  deve  essere  la  piìi  grata  ad  un 
principe,  non  venne  molto  ben  secondata  dalle 
feste  e  dagli  addobbi  della  città,  i  quali,  a  pa- 
rer mio,  nel  termometro  del  Bello  segnavano 
appena  la  media  temperatura,  sebbene  alcuno 
li  pose  6  gradi  sotto  lo  zero.  Da  ciò  ne  na- 
cque qualche  piccolo  neo,  come  sarebbe  a  dire 
sconciature,  disarmonìe  e  barbarismi,  di  cui 
voglionsi  segnatamente  incolpare  il  Tempo- 
rale, il  Municipio,  e  il  tipografo  Torelli.  Que- 
sti tre  Signori  fecero  di  tutto  perchè  la  Festa 


—  £04  — 
riuscisse  come  è  riuscita;  ma  se  mancò  il 
buono  effetto,  la  buona  intenzione  ci  era  di 
certo,  almeno  per  conto  del  secondo.  Che  vo- 
lete !  tutte  le  ciambelle  non  riescon  col  buco; 
e  solamente  chi  non  fa,  non  falla. 

Quanto  al  Temporale  non  v'é  da  farsene 
caso,  giacché  da  quando  e'  è,  ed  è  un  bel  pezzo, 
ha  fatto  sempre  a  suo  modo:  e  poiché  non 
teme  né  carceri,  né  confische,  cosi  mal  rispetta 
grado  0  persona,  e  imperversa  a  dispetto  delle 
lune,  dei  lunari,  e  dei  lunatici.  E  poi  che  dob- 
biamo sperare  da  uno  scapigliato,  la  cui  madre 
è  una  nuvola  si  leggera  e  volubile,  e  il  padre 
un  tuono,  il  più  brontolone  e  spavaldo  essere 
che  passeggi  per  le  vie  dell'aria? 

Fatto  sta  che  la  cattiva  stagione  guastò  in 
gran  parte;  ma  non  si  che  l'ingresso  non 
riuscisse  magnifico,  e  non  si  godesse  il  palio 
dei  cocchi.  Questo  palio,  come  tutti  sanno,  è 
una  larva  delle  corse  olimpiche:  tre  o  quattro 
mozzi  di  stalla,  camuffati  all'  eroica,  e  con- 
certatisi avanti  sul  vincitore,  rébbiano  forte 
due  rozze,  che  non  ostante  intendono  il  gergo. 


—  205  — 
e  fanno  il  loro  comodo.  Forse  alludendo  al  re- 
stio dei  corridori,  quel  valentuomo  di  Gian  Bo- 
logna, alle  guglie  che  determinano  lo  stadio, 
sottopose  otto  tartarughe  di  bronzo. 

Al  Municipio  è  avvenuto  come  a  Don  Desi- 
derio :  si  é  tradito  per  eccesso  di  buon  cuo- 
re;... ha  fatto  troppo.  Generoso  peccato  è 
questo,  ma  pure  è  peccato,  perchè  la  grazia 
di  Dio  non  si  deve  sprecare.  Mi  burlate  !  Sette 
archi  d' ingresso  !  E  quante  volte  un  galan- 
tuomo deve  sentir  dire  «  La  passi?  »  Io  per 
me,  a  casa  mia,  lo  dico  con  ischiettezza  una 
volta  solamente;  che  a  ripetere  sette  invitimi 
parrebbe  che  1'  ospite  ci  vedesse  sotto  della 
canzonatura.  E  poi  quali  archi,  Gesù  mio  f 
Non  dirò  che  fossero  per  l'appunto  archi  di 
stomaco,  ma  neanche  archi  di  testa,  almena 
di  testa  artistica.  Un  tisicume  di  colonne,  ca- 
pitelli bastardi,  sesti  fuori  della  centina  na- 
turale ;  e  negli  ornamenti,  o  frastagliume  so- 
vercliio,  0  arida  gretteria. 

L' unico  arco  da  passarci  sopra  apparve 
quello  dei   Negozianti,  eretto  dal  signor  Fai- 


—  -206  — 
Cini:  ma  perchè  anche  questo  godesse  i  pri- 
vilegi de' suoi  fratelli,  indovinate  dove  fu  collo- 
cato? Nientemeno  che  in  piazza  San  Giovanni 
rimpetto  al  Duomo,  a  cui  serviva  di  non  lieve 
ingombro.  Invano  le  ombre  di  Brunellesco  e 
di  Giotto  urlarono  Al  ladro,  e  dagli  dagli  : 
gli  orecchi  erano  di  mercante,  e  fu  consumato 
il  sacrilegio.  Quel  monumento  posticcio  insom- 
ma stette  li  per  dire  :  «  Messer  lo  Re,  non 
«  alzate  gli  occhi  né  alla  Cupola,  né  al  Cam- 
«  panile,  né  al  Battistero,  roba  stantia,  vista 
«  e  rivista;  ma  guardate  me,  che  sono  un 
«  arco  fresco  fresco,  e  fatto  apposta  per  Voi.  » 

Questa  mania  d'ingombrare  le  bellezze  mo- 
numentali della  città  si  rilevava  singolarmente 
nella  Piazza  di  Santa  Maria  Novella,  cosi  spa- 
ziosa ed  armonica  colla  prospettiva  della  sua 
Chiesa,  le  sue  logge  di  S.  Paolo,  e  le  sue  guglie. 
Parendo  dunque  ai  festajuoli  esser  quelle  poche 
cose  per  una  piazza,  vi  piantarono  uno  degli 
archi  menzionati;  quindi  una  colonna  con  suv- 
vi  la  statua  di  Vittorio  Emanuele  (colonna 
sproporzionata  alla  base,  statua  sproporzionata 
alla  colonna),  quattro  trofei  di  ogni  sorta  armi. 


—  207  — 
e  non  so  quante  antenne  in  giro  piene  di  ban- 
diere e  fettucce:   arrogi  i  palchi  di  legno,   e 
facilmente  t'  immagini  che  la   piazza   era  di- 
venuta. 

Una  selva  selvaggia  ed  aspra  e  forte, 
Che  nel  pensier  rinnuova  la  paura. 

Lo  stesso  sistema  boschereccio,  ma  piiì  gen- 
tile, ed  eseguito  secondo  le  regole  di  giardi- 
naggio, era  conservato  in  Via  Calzaiuoli,  via 
notabile  per  l'ampiezza  e  pel  decente  fabbri- 
cato, ed  ora  condotta  a  piccole  dimensioni  per 
certi  alberetti  piantati  in  doppia  fila,  e  capi- 
tanati da  due  storpiate  statue  in  gesso,  di  cui 
s'ignora  il  significato.  Tali  alberetti  riuscivano 
mirabili,  perchè  essendo  lauri,  si  vedeano  tra 
le  foglie,  rose,  camelie,  ed  altri  vivacissimi 
fiori  legati  col  filo.  0  andate  a  dire  che  le 
querce  non  fanno  i  limoni  I 

Meglio  era  assai  lo  sdrucciolo  de' Pitti;  il 
quale  essendo  cosi  stretto  di  suo,  fu  con  senno 
messo  a  presepio,  e  cancellato  al  solito  da  due 
archi.  Ora  dal  bosco  e  dal  giardino  passeremo 
al  deserto,  senza  rappresentanza  cosmoramica 


—  208  — 
del  Municipio  fiorentino.  Come  !  Firenze  un 
deserto?  o  se  c'era  tanta  gente  !  —  Eh,  via  r 
non  intendete  nulla:  qui  si  tratta  di  una  pa- 
rodia. Tutta  quella  gente  vuol  dire  una  caro- 
vana, e  vi  sono  dentro  arabi,  mercanti,  san- 
toni, dervissi,  caimacani,  e  perfino  cammelli 
dai  ginocchi  incalliti.  Il  Palazzo  Pitti  é  la 
Mecca;  ed  il  deserto  è  costituito  da  molte 
centinaia  di  carrette  di  rena,  sparsa  per  le 
vie  e  per  le  piazze:  allo  spettacolo  è  gen- 
tilmente concorso  anche  il  vento,  che  alzando 
vortici  di  quella  rena,  simulava  il  terribile 
Simoun,  che  uccide  e  seppellisce  ad  un  tempo. 
Vero  è  bene  che  qui  non  si  tratta  di  uccidere, 
ma  solamente  di  dar  la  polvere  negli  occhi:  e 
gli  occhi  di  tutti  in  sulla  sera  erano  orlati  di 
porpora...  fuor  che  quelli  del  Conte  di  Cavour, 
che  porta  sul  naso  un  par  d'occhiali  di  Parigi. 
Qualche  saccente,  fanatico  delle  lastre,  notò 
che  era  un  peccato  ricoprire  quel  bel  musaico 
di  selci,  invidiato  dalle  altre  città  d'Italia;  ma 
i  partigiani  della  rena  risposero,  che  con  quel 
morbido  strato  si  era  voluto  assicurare  i  ca- 
valli dalle  cadute.  Certo,  questo  provvedimento 
non  poteva  riguardare  il  Re,  né  gli  altri  suoi 


-  209  —  . 
cavalieri,  avvezzi  a  cimentarsi  e  superare  gli 
ostacoli  dei  campi  di  guerra:  sarà  forse  stato 
fatto  a  vantaggio  di  alcuni  militi  novellini,  i 
quali,  a  vero  dire,  battevano  fitto  fitto  le  na- 
tiche in  su  l'arcione,  come  fanno  su  gli  arbusti 
le  fervide  cicale. 

Ed  eccoci,  o  Signori,  all'ultima  rappresen- 
tazione. Dal  bosco  al  giardino,  dal  giardino  al 
deserto,  dal  deserto  al  pantano.  L'acqua  cadde, 
ed  il  fango  fu  fatto.  Pochi  uomini  e  poche 
signore  si  salvarono  dalle  pillacchere;  e  molti 
tornarono  a  casa  in  peduli,  avendo  lasciato  le 
scarpe  nel  pantano  a  benefizio-  degli  spazzini. 
Dopo  questo  il  Municipio  calò  il  sipario,  e 
licenziò  il  pubblico. 

Parlerò  io  del  Corso?  Era  il  solito.  Cavalli 
da  tre  gambe  che  vanno  avanti  a  focosi  de- 
strieri :  legni  sdruciti  che  tengon  dietro  a 
sontuose  carrozze:  campagnuoli  che  ridono  a 
sentirsi  strascicare:  signore  che  fanno  le  meste 
per  parer  di  essere  annoiate  del  lusso:  urli 
dei  cocchieri;  timoni  nelle  rene;  gambe  in 
moto;  bocche  aperte,  et  similia.  La  sola  scena 

14 


—  210  — 
di  singoiar  varietà  avvenne  per  dato  e  fatto 
di  un  cotale  americano,  notissimo  ippofilo^  che 
si  faceva  dirigere  da  dodici  ben  pacifici  de- 
strieri, i  quali  non  valevano  in  tutti  una  buona 
pariglia.  Eppure,  vedete  gentilezza  del  popolo 
fiorentino  \,  gli  applausi  scoppiavano  come  se 
passasse  il  Re,  onde  l'ottimo  Signore  (vo'dir 
l'americano)  trasecolando  di  tanta  sua  impor- 
tanza, sudava  gioia  da  tutti  i  pori,  e  nitriva 
alla  moltitudine  i  piii  graziosi  ringraziamenti. 

Né  anche  parlerò  de' fuochi  artifizìati,  dac- 
ché oramai  si  sanno  a  mente,  come  gli  anda- 
menti di  certo  Gabinetto  politico:  globi  di  tutti 
i  colori:  girandole  continue:  razzi  qua  e  là: 
scoppi  e  scoppietti;  e  da  ultimo  una  terribile 
sparata,  fumo  densissimo,  e  buio  pesto. 

Non  cosi  della  luminara:  essa  fu  spontanea 
e  riusci  bella;  bella  per  molti  lumi;  bella  per 
la  notte  oscura;  bellissima  per  me,  che  la  go- 
devo dai  merli  di  Palazzo  A^'ecchio.  Quale 
spettacolo  offriva  Firenze  da  queir  altezza  t  io 
respirava  l'aere  di  un  bel  sogno.  Quella  cu- 
pola, quelle  torri,  quei  palagi,  quelle  statue  mi 


—  211  — 
parlavano  di  un  tempo  glorioso^  in  cui  la 
sapienza  e  il  valore  degli  avi  nostri  resero 
potente  lo  statO;  e  di  tante  magnificenze  or- 
narono la  Regina  dell'Arno.  Il  decoro  del  ma- 
gistrato, l'eloquenza  dell'  oratore,  l' audacia  del 
guerriere,  la  magnanimità  del  cittadino  splen- 
derono in  quelle  stesse  mura,  or  solitarie  e 
tristi,  dove  io  mi  stava.  La  Libertà,  sbandita 
&à\\e  corti  dei  tirannelli,  aveva  raccolte  le  ali 
sulla  torre  di  Arnolfo,  e  quivi  cantava  gl'inni 
immortali  come  a' bei  giorni  di  Atene.  Oh! 
ritorni,  esclamavo,  ritorni  l'ora  dell'intero 
riscatto.  Dio  ti  salvi,  o  Italia  !...  —  Ecci  —  Un 
sonoro  starnuto  mi  fece  voltare  tutto  spaven- 
tato, e  mi  trovai  dirimpetto  al  faccione  ridente 
di  Lotto,  che  mi  si  era  accostato  pian  piano. 

—  Non  si  dice  né  anche  viva  quando  un 
amico  starnutisce?  eppure  ha  starnutito  l'Italia, 
e  tu  subito  hai  gridato:  Dio  ti  salvi,  o  Italia  ! 

—  Lotto  !  bando  agli  scherzi  :  io  son  pieno 
di  melanconia. 

—  Le  zucche  !  ti  par  egli  che  questi  sieno 
giorni  da  pensare  ai  debiti? 

—  Io  pensava  alle  antiche  nostre  glorie,  ai 
tempi  passati. 


—  212  — 

—  Io  poi,  quando  studiavo  grammatica,  pen- 
savo sempre  ai  tempi  futuri,  che  mi  riuscivano- 
alquanto  indigesti. 

—  Tu  vuoi  la  baia  in  ogni  verso:  ma  se  dai 
un'occhiata  a  questa  nostra  Firenze,  tu  ti  senti 
commosso.  Guarda,  guarda.  Lotto. 

—  Ho  beli'  e  visto. 

—  E  che  ti  par  d'essere  in  questo  momento? 

—  Un  merlo  un  po' più  alto  di  questi. 

—  Non  dici  punto  male.  Ed  a  me  ancora 
pare  di  non  aver  operato  abbastanza  in  pra 
della  dolce  patria,  e  mi  duole  di  non  potermi 
illustrare  con  qualche  azione  egregia. 

—  E  sì  che  il  mezzo  è  facile. 

—  T'intendo:  correre  in  Sicilia... 

—  Oibò  !  siei  troppo  ingrassato.  Per  battersi 
di  nuovo  bisognerebbe  che  tu  noleggiassi  a 
Canton  un  palanchino  di  quelli  a  prova  di 
mandarino.  Il  mio  è  un  modo  piìi  spedito  per 
segnalarsi. 

— •  E  quale? 

—  Buttati  a  capo  fitto  in  piazza,  proprio 
sul  Davide  di  Michelangelo:  se  riesci  a  sca- 
vezzargli il  collo,  0  a  rompergli  un  braccio 
per  la  seconda  volta,  la  tua  reputazione  è  fatta. 


—  213  - 
Vedendo  che  da  co&tui  non  caverei  alcun 
«ostruttO;,  lo  lasciai  improvvisamente,  e  scen- 
dendo un  300  scalini  mi  trovai  sulla  piazza 
co' piedi  più  caldi  e  col  cervello  più  freddo: 
quindi  per  guarire  affatto  da  queir  affezione 
ipocondrica  mi  avviai  ad  un  Caffè  coli' inten- 
zione di  leggere  un  foglietto  di  quei  faceti,  o 
che  fanno  ridere.  Invano  I  I  giornalisti  ave- 
Tano  tutti  indossata  la  clamide,  e  per  un  po- 
vero tribolato  mio  pari  non  e'  era  un  frizzo 
né  anche  a  pagarlo.  Intanto  entrava  in  bottega 
un  venditore  pubblico  con  un  fascio  di  opu- 
scoletti  tra  le  mani.  Ne  comprai  uno  a  pochi 
soldi,  sperando  di  scuotermi  da  dosso  il  resto 
■della  mia  mestizia;  ma  invece  l'accrebbi  due 
cotanti  di  più,  appena  letto  il  frontespizio,  che 
era  questo: 

ISCRIZIONI 

PER  LA  VENUTA 

DI   S.   M.   VITTORIO   EMANUELE 

IN    FIRENZE 

RACCOLTE 

AD  ONORE   DI   S.    M.   E   DEL   PAESE 

DAL    TIPOGRAFO  POPOLARE 

EMILIO  TORELLI. 


—  214  — 

Ora  alcune  di  quelle  Epigrafi  io  le  aveva 
già  lette  col  sudor  gelato  alla  fronte;  nondi- 
meno, sperando  che  sparirebbero  colle  feste, 
me  n'ero  dato  pace;  ma  il  vederle  adesso  rin- 
novare in  istampa,  e  il  leggere  quel  fronte- 
spizio, mi  produsse  lo  stesso  spavento  che 
ebbe  Dante  quando  compitò  colle  labbra  smorte 
la  nota  iscrizione  sulla  porta  di  Dite.  Io  pen- 
sava: bella  figura  che  faremo  noi  fiorentini 
se  vanno  per  il  mondo  sì  fatte  balordaggini  ì 
E  che  balordaggini,  per  non  dir  peggio,  fos- 
sero alcune  di  quelle  iscrizioni,  io  voglio  pro- 
varlo subito  col  riportarne  quattro  tra  le  altre- 
che  si  leggevano  intorno  alla  colonna  di  Santa 
Maria  Novella.  Badiamo  che  non  tutte  erana 
su  questo  taglio:  anzi  giustizia  vuole  che  al- 
cune se  ne  lodino,  ma  senza  mentovarle:  tut- 
tavia un  frate  guasta  il  convento,  e  bastano 
quelle  quattro  per  ricoprire  un  popolo  di  ver- 
gogna immortale.  Eccole  qui  tali  e  quali,  o- 
lettore.  A  chi  vanno  dirette  pensaci  tu,  che 
mal  s'indovina  senza  testata,  fregio  o  figura 
che  lo  accenni  —  Ephpheta. 


—  215  — 
(Pare  all'Italia) 

DA  OLTRE   MARE  (e  Dcn  d'cUremonU?) 

EBBE 
VIZJ    E    MISERIA 

PAPI   E  VENTURIERI  (cbe  lazza  di  ccffi- 

LA    TRAFFICARONO  pagnial) 

CHI    LA  RESSE 

SPERGIURÒ   (come,  come?) 

FUGHI   IL   TIRANNO    (qUah.   cki?) 
E   RIVIVRÀ 
NAZIONE. 

(Pare  al  Re) 


IL    VALORE 

TI   DIE    LA   POTENZA 

IL    SERVAGGIO 

TI   NUTRISCE 

DI    AFFANNI    (?!) 

L'ITALIA   REDENTA 

TI    RENDERÀ 

LA   GRANDEZZA. 


—  216 


(Al  Re) 


DI   MAGNANIMI   PRINCIPI   CONCETTO 
NEL   SANGUE   DEI   POPOLI   RASSODATO   (sic) 
IL    FELICE     CONNUBIO    (sic) 
NUOVA   SPLENDIDA   ERA 
all'umanità  ASPETTANTE   PREPARA  (l) 

(A  nessuno) 


Questo  è  il 


IMMACOLATA 
NEL   SUO    CANDORE 

FECONDÒ 
LA   VIRTÙ   ITALIANA  (t'Jlla  di  CE  pezzo) 

IN    PETTO 
A  NOVELLI    CROCIATI 

DISPERDA  I  NEMICI 

IL    TURPE    EDIFIZIO 

UNISCA  E   IMPERI. 


Rafel  mai  amech  zabi  almi 


-  217  — 
di  Nembrotto,  e  sfiderei  Pico  Della  Mirandola 
col  suo  mostro  d'ingegno,  e  il  Cardinal  Mez- 
zofanti colle  sue  tante  lingue  a  dirne  qualcosa. 
Scommetto  che  se  la  Sfinge  in  sul  bivio  te- 
bano  cimentava  sì  fatti  enirami,  Edipo  non 
saliva  sul  trono,  e  anzi  avrebbe  servito  dì 
un'altra  merenda  all'ingorda.  Né  io  vo'fare 
rimprovero  a  quel  che  scrissero:  fecero  ciò  che 
poterono,  e  forse  anche  invocarono  Minerva. 
Io  me  la  piglio  coi  committenti,  i  quali  si 
■scordarono  dei  valentuomini  che  composero 
già  tante  belle  iscrizioni,  fra  le  quali  prima 
ed  inimitabile  quella  murata  nelle  case  di 
Cerrettieri  Yisdomini.  0  Pietro  Contrucci,  tu 
moristi  a  tempo:  poche  più  settimane  di  vita, 
e  ti  toccava  colle  lagrime  agli  occhi  a  scri- 
vere l'epitafiio  della  Epigrafia  italiana,  in  cui 
riuscisti  cosi  valente  maestro  ! 

Ma  che  diremo  del  Torelli  tipografo  popò- 
polare,  che  mette  in  luce  tali  vergogne,  e  come 
egli  dice  ad  onore  del  Paese!  L'  ironia  è 
sanguinosa,  e  il  Torelli  se  voleva  mortificare 
quegli  epigrafaj,  non  doveva  però  esporre  i 
loro  aborti  alla  berlina  di   tutta  Italia.   Egli 


—  218  — 
non  ebbe  carità,  del  prossimo,  e  scoperse,  come 
dice  il  ^''angelo,  la  festuca  nell'altrui  pupilla, 
senza  avvedersi  della  trave  negli  occhi  proprj. 

Infastidito  di  quest'ultima  suzzacchera,  presi 
le  mie  carabàttole  e  me  ne  andai  a  letto,  come 
a  una  specie  di  porto  dopo  un  navigare  fortu- 
noso. Quivi  aspettando  il  sonno,  mi  diedi  col 
pensiero  ad  armeggiare  sulle  cose  vedute,  e 
andavo  immaginando  un  tribunale  di  uomini 
dotti  e  di  artisti,  che  si  prendesse  briga  dei 
vandalismi  di  ogni  genere,  e  regolasse  o  pu- 
nisse i  contravventori  alle  leggi  del  Bello.  Si 
lede  forse  la  libertà  della  stampa  e  degli  scritti 
col  tentare  di  ricondurli  al  loro  essere?  L'opi- 
nione pubblica  è  spesso  fallace,  e  poi  non  basta 
a  frenare  gli  stolti  e  i  protervi:  Roma  ebbe 
gli  Edili,  gli  Efori  Sparta  ....  Così  arzigo- 
golando, adagio  adagio  dal  torpore  al  sopore, 
dal  sopore  al  sonno,  entrai  nella  fantastica 
regione  dei  sogni. 

Immagini  del  di  guaste  e  corrotte. 


Era  una  landa  incolta,   arenosa   ed   ampia. 


—  219  — 
sparsa  qua  e  là  dei  monumenti  fiorentini,  che 
appena  si  distinguevano  sotto  un  aere  caligi- 
noso e  pesante.  Gente  infinita  andava  per  ogni 
verso  come  dissennata  e  senza  proposito.  Io 
mi  assisi  sopra  una  macìa  di  sassi,  e  tentavo 
di  ravviare  gli  scompigliati  concetti  della 
mente.  Che  sia  questa  la  valle  di  Giosaffatte? 
Ed  io  e  costoro  tutti  morti"?  E  allora  che  ci 
hanno  che  fare  quelle  ben  note  fabbriche?  Che 
sia  morta  anche  Firenze  ? 

Mentre  io  cosi  dubitava,  ecco  farsi  innanzi 
e  fermarsi  a'miei  piedi  il  campanile  del  Duomo, 
ed  in  atto  di  saluto  piegare  il  collo;  ma  tanto 
piegarlo,  che  la  punta  si  ficcò  in  terra,  ed  esso 
rimase  così  curvato  in  arco.  Allo  spettacolo 
stupendo  mi  alzai,  e  guardavo  tutto  smemo- 
rato. La  gente  intanto  traeva  ad  ammirare  il 
portento,  ed  anche  le  fabbriche  tutte  ad  una 
ad  una  quivi  si  avviavano.  E  ultimo  fu  Pa- 
lazzo Vecchio,  che  giunto  al  mirabile  arco^ 
l'osservò  attentamente;  poi  crollò  il  capo  in 
segno  di  malcontento.  A  quel  crollo,  come  pine 
percosse  dalla  bufera,  piombarono  giù  tre  merli 
con  grande  spavento  della  turba,   che  si   ri- 


—  220  — 
traeva  gridando:  Bada,  bada.  Nondimeno  i 
merli  non  caddero  a  vuoto,  e  colpirono  tre  teste, 
che  io  credetti  sfracellate.  All'opposto  (un'altra 
meraviglia)  quei  tre  percossi  si  grattarono  un 
poco  la  zucca,  e  si  diedero  a  ridere.  Uno  di 
essi  ben  lo  conobbi  per  il  Torelli,  tipografo 
popolare;  il  secondo  era  un  architetto  fioren- 
tino: il  terzo  ...  del  terzo  non  mi  rammento. 

A  un  tratto  la  moltitudine  si  volse  da  un 
lato,  aguzzando  le  ciglia  verso  l'oscuro  oriz- 
zonte di  quella  pianura,  e  facendo  tettoja  della 
mano  all'occhio  per  ispingere  più  oltre  la  vista. 
Io  pure  guardai  da  quella  parte,  e  vidi  un  pol- 
verio, che  a  poco  a  poco  dissipandosi,  lasciò 
distinguere  un  cocchio  tirato  da  dodici  cavalli, 
con  uno  che  li  dirigeva,  ed  altri  personaggi 
dentro.  Anche  qui  l'americano  ?  io  pensai:  ma 
non  era  desso.  Era  un  bel  vecchio  vestito  alla 
greca,  senza  isfarzo  ma  schietto  e  decoroso,  che 
si  tirava  innanzi,  guidando  con  molta  più 
maestria  che  1'  età  sua  non  comportasse.  La 
gente  faceva  ala,  ed  esclamava  plaudendo  :  Ecco 
il  Buongusto;  viva  il  Buongusto.  Il  vecchio 
giunto  sotto  r  arco  frenò  i  cavalli,   i   quali. 


221  

appena  Egli  buttò  via  le  briglie  ,  sparvero 
come  per  incanto,  ed  il  cocchio  cangiossi  in 
un  trono,  sui  gradini  del  quale  sedevano  le 
Muse  e  le  Arti  sorelle. 

Allora  il  vecchio  alzossi,  ed  impose  silenzio 
col  gesto  alla  turba  ossequente:  quindi  così 
prese  brevemente  a  favellare. 

Io  sono  il  Buongusto,  nò  potendo  approvare, 
anzi  altamente  riprovando,  le  ultime  Feste  fio- 
rentine; 

Visto  quel  che  non  era  da  vedersi. 

Considerato  quel  che  non  è  stato  considerato, 

Delib.  delib. 

Articolo  1.  Condanno  il  Temporale  a  star 
chiuso  in  un  otre  a  disposizione  dei  Paler- 
mitani, qualora  venissero  assaliti  dalla  parte 
di  mare. 

Articolo  2.  Multo  il  Municipio  Fiorentino  in 
tante  moggia  di  calcina,  quante  ne  occor- 
rano a  mescolarsi  colla  rena  da  esso  spre- 
cata; e  ciò  per  fabbricare  un'altra  torre  di 
Babelle. 


—  222  — 
Articolo  3.  Applico  al  Torelli  tipografo  popo- 
lare  la   pena  del  taglione,   vale  a  dire  la 
berlina  in  piazza  per  un'ora  con  una  trave 
confitta  in  un  occhio  a  sua  scelta. 

Cosi  decreto  ec.  ec.  ec. 

Codesto  decreto  fu  assai  applaudito  dalla 
parte  sinistra,  ma  mentre  si  alzava  un  depu- 
tato della  destra  per  fare  un  discorso  come 
qualmente  le  cose  che  erano  state  fatte  erano 
state  fatte  bene ,  perchè  erano  state  fatte , 
scoppiò  all'improvviso  un  uragano,  che  scom- 
pigliò r  assemblea ,  e  ricacciò  in  corpo  le 
parole  agli  oratori. 

Granrline  grossa,  e  acqua  tinta  e  neve 
Per  l'aer  tenebroso  si  riversa: 

sebbene  il  maggior  turbinio  era  di  croci,  tosoni, 
monture,  spallette,  berrettoni  da  cattedra, 
rescritti,  portafogli  e  diplomi,  che  piovevano 
senza  misericordia  dalle  quattro  regioni  del 
cielo.  A  quella  rovina  teneva  bordone  il  gar- 
buglio degli  uomini  che  correvano,  si  urtavano, 
raccattavano  schiamazzando,  urlando,  bestem- 


—  253  — 
miando.  Vedendomi  in  pericolo,  salii  sulla 
solita  macia,  e  mi  riassisi,  facendo  alla  meglio 
schermo  delle  braccia  allo  strano  diluvio. 
Stato  alquanto  in  queir  angoscia,  mi  sento 
afferrare  per  un  piede  e  tirar  giìi.  Pensa  se 
io  presi  spavento,  e  se  puntai  i  gomiti  per 
non  battere  il  deretano  :  ma  la  difesa  era 
inutile,  perchè  sempre  più  sdrucciolavo:  laonde 
impaurito,  arrabbiato,  sudato  in  quegli  sforzi, 
volli  gridare  ajuto  con  quanta  voce  avevo  in 
gola:  ma  la  voce  non  venne.  Allora  feci  una 
pro-ia  suprema  di  gambe,  di  braccia,  di  polmoni, 
€  ....  mi  svegliai. 

Tutto  era  sparito.  La  landa,  la  gente,  le 
fabbriche,  il  cocchio,  il  trono,  e  fino  il  Buon- 
gusto era  un  sogno.  Una  cosa  so'a  restava, 
la  ghermitura  alla  gamba  ;  per  il  che  sbar- 
rando pili  gli  occhi,  vidi  a  pie  del  letto  quel 
malanno  di  Lotto,  che  tentava  di  trarmi  a 
terra,  e  mi  avea  già  ridotto  a  metà  di  len- 
zuoli. 

—  Fermati  I  che  modi  sono  questi  ?  Ti 
venga  il  verraocane  ! 


224  

—  Destati,  levati,  poltrone,  che  è  1'  alba 
de'  tafani. 

Io  mi  vestii  adagio  adagio,  e  intanto  rac- 
contai il  sogno  e  le  cose  osservate  e  pensate 
il  giorno  precedente.  Lotto  ne  rise,  e  mi  si 
offerse  per  amanuense.  Accettai;  e  gli  ho  det- 
tato queste  pagine  sul  mio  diario,  le  quali 
sebbene  scritte  da  lui,  riconosco  per  mie,  e 
mi  soscrivo  come  appresso. 

Cece. 


225  — 


LE     MEZZECODE 

OSSI.X. 

IL  CASTELLO  DELLA  COMESSA  DI  CIVILLARI  (1] 

Cenno  storico  dei  nostri  tempi 
(  1  8  5  9  J 


La  Coda  fu  un  tempo  simbolo  d'onore  e  di 
forza,  e  lasciando  stare  le  comete  e  le  tigri, 
colle  quali  non  è  da  pigliarsi  troppa  confidenza, 
noi  sappiamo  che  il  Giudice  Sansone  ebbe  fin 
sette  code,  e  Massimiliano  Robespierre  si 
pettinava  la  sua  tutti  i  giorni.  Eppure  nomini 
furono  questi  così  per  eccellenza  patriotti,  che 
giunsero  ad  ammazzare  migliaja  di  persone, 
uno  con  la  scure  per  maggior  comodo,  l'altro 


(1)  Contessa  di  Civillari  è  modo  di  dire  in  gergo,  usato  dai 
Boccaccio  e  da  altri  buoni  scrittori  per  denotare  la  materia 
che  si  raccoglie  negli  uman  privati. 

15 


—  226  - 
con  la  mascella  di  un  asino,  secondo  il  suo  gusto 
e  la  grandezza  degli  asini  d'  allora,  che  non 
erano  imbastarditi  come  gli  asini  del  giorno 
d'oggi.  Malgrado  di  queste  e  di  cento  altre  cita- 
zioni che  si  potrebbero  fare  a  gloria  delle  Code, 
certa  mattina  un  tale  che  soffriva  d'indige- 
stione, correndo  qua  e  là  spacciò  che  Codino 
voleva  dire  retrogrado  in  politica;  e  tra  la 
gente  mezza  sveglia  la  parola  fece  fortuna. 
Quindi  ora  da  un  capo  all'altro  d'Italia  il  Co- 
dino é  un  uomo  vituperato,  esecrato,  scomu- 
nicato. E  va  bene,  perchè  non  vuoisi  fare 
quistione  di  nomi;  ma  dove  l'idea  popolare  si 
posa,  quivi  sta  il  baco^  o  bruco  o  filugello  ch'ei 
sia.  Di  quel  che  però  mi  dolgo  si  è  che  ancora 
l'idea  ormai  vien  falsata;  e  massime /n  gitesi/ 
momenti  tu  odi  dar  del  Codino  a  casaccio,  o 
meglio  secondo  la  ignoranza  e  la  malizia  di 
alcuni  ;  anzi  quel  nome  si  spende  come  i  fogli 
di  zecca,  che  rappresentano  ogni  specie  di 
moneta,  e  non  è  raro  che  un  debitore  dia  del 
Codino  a  un  creditore  perchè  rivuole  il  denaro 
imprestato,  ed  uno  zerbinotto  lo  appicchi  al 
suo  rivale  in  amore.  Ma  il  bello  è  che  i  dispen- 
sieri dell'odioso  vocabolo  sono  sovente  quelli 


—  227  — 
stessi  che  più  la  meriterebbero  :  gente  di  scarsa 
levatura,  e  dal  cuore  di  coniglio,  che  sbucan 
fuori  a' bei  tempi,  e  schiamazzano  quando  non 
vi  è  un  pericolo  al  mondo  né  per  la  pelle  né 
per  la  borsa:  pallidi  nipoti  di  libertà;  rino- 
ceronti impagliati,  aborti  nell'  acquavite  ;  i 
Cureulioni  insomma,  quali  altra  volta  io  gli 
<lescrissi,  ossia  le  Mezzecode,  ossia  i  così  detti 
Moderati.  Badate  che  questo  ultimo  titolo  so- 
nerebbe assai  umano  e  cristiano,  se  non  che 
alle  mie  Mezzecode  sta  bene  come  la  gual- 
drappa all'asino,  e  sono  di  quei  moderati  sul 
taglio  di  Omar  III  Califfo,  il  quale  predicava 
il  Corano  con  la  scimitarra  in  pugno,  e  mi- 
nacciava le  gole  per  conquistar  le  coscienze. 

Ora  di  codesta  genia,  che  impesta  special- 
mente le  campagne,  voglio  narrarvi  una  cu- 
riosa storiella  cosi  per  passare  il  tempo,  e 
per  mostrare  a  che  grado  d'intolleranza  e  di 
ridicolosaggine  possa  spingere  la  gente  un 
■cieco  e  pazzo  fanatismo. 

Sappiate  dunque,  miei  buoni  Lettori,  che 
su  lo  scorcio  dell'ottobre  passato  villeggiava 
in  una  piccola  terra  nostra  un  vecchio  dottore 
di  oltre  70  anni,  il  quale,  com'era  suo  costa- 


—  228  — 
me,  veniva  quivi  ogni  autunno  a  rallegrare 
gli  ozj  forensi,  ed  in  mancanza  di  clienti  ten- 
deva per  antico  uso  insidie  di  reti  e  di  panie 
agli  uccelli.  Egli  è  per  natura  piuttosto  sel- 
vatichetto,  e  particolarmente  in  tempi  di  po- 
litiche commozioni  si  astiene  di  mettere  il 
becco  in  molle,  a  fine  di  non  turbare  per  av- 
ventura i  suoi  giorni  senili.  Questo  contegno 
che  in  quell'uomo  non  più  atto  alle  straordi- 
narie civili  fatiche  avrebbe  dovuto  reputarsi- 
effetto  della  prudenza  e  della  modestia,  apparve 
sospetto  alle  Mezzecode  del  paesùcolo,  sicché 
si  diedero  a  fiutar  le  péste  del  povero  dottore, 
come  tanti  segugj  quelle  della  lepre.  E  bene 
avvenne  un  caso,  che  gli  rese  lieti  più  dell'in- 
quisitore Torquemada  ad  un'accusa  di  eresia; 
e  mancò  poco  che  anch'essi,  le  Mezzecode^ 
non  preparassero  un  Aido-da-fè  di  proprio 
moto.  Una  lettera  circolare,  di  quelle  tante 
che  si  scriveano  allora  senza  firma  e  senza  data, 
pervenne  al  nostro  buon  vecchio,  annunzian- 
dogli, a  quanto  pare,  un  cambiamento  di  go- 
verno, 0  altre  frottole  di  simil  genere;  ma 
il  buon  uomo,  come  vi  ho  detto,  era  tutt'altro 
che  sollecito  di  simili  brighe,  e  tenendo  nella 


—  229  — 
sua  vera  stima  il  foglio  anonimo,  lo  adoprò 
meritamente  al  primo  bisogno,  vale  a  dire  la 
mattina  seguente  all'alba.  Dovrò  io  dir  come? 
Mi  ci  proverò:  ma  intanto,  o  lettori  delicati, 
turatevi  il  naso,  se  pur  non  leggeste  il  deci- 
-mottavo  canto  dell'Inferno  di  Dante. 

Il  dottore  adunque  uscito  di  casa  a  buon 
mattino,  e  sentendo  un  peso  soverchio  nel 
irislo  sacco,  andò  a  depositarlo  a  pie  di  una 
vite,  da  buono  enòfilo  ch'egli  è,  per  far  onta 
alla  crittògama.  Cavata  poi  la  lettera,  la  divise 
in  quarti,  e....  ne  fece  quell'uso  che  credè  op- 
portuno. Quindi  più  vispo  e  leggiero  avviossi 
all'aucupio:  ed  ecco  sbucare  dagli  aguati  le 
Mezzecode,  come  tanti  valorosi  zuavi,  e  pigliar 
d'assalto  il  castello  della  Contessa  di  Civillari. 
Esaminata  diligentemente  la  ròcca,  le  fòsse, 
gli  spaldi,  i  rivellini  ed  i  merli,  conobbero 
bene  che  il  male  stava  nei  quattro  padiglioni 
piantati  sulle  quattro  torrette  angolari  ;  laonde 
■fatto  impeto,  gli  svelsero  a  viva  forza,  e  riuni- 
tili insieme  n'ebbero  di  nuovo  la  lettera  or- 
mai famosa;  senonchè  la  deturpavano  alcune 
macchiette  Ma  ciò  che  rileva?  anche  il  sole 
e  la  luna,  che  sono  gli  astri  più  belli  del  nostro 


—  230  — 

sistema  planetario,  hanno  le  macchie,  e  non. 
persero  il  credito.  Così  conclusero  le  Mezze- 
code  ;  e  accompagnato  da  un'accusa  viperina^ 
spedirono  l'inquinato  documento  nientemeno 
che  al  supremo  Magistrato  della  metropoli. 

L'uomo  di  Stato  pensava  forse  a  rose  e 
viòle,  quando  allo  svolger  del  plico  si  trova 
colla  muffa  al  naso,  e  letta  in  fretta  l'accusa, 
ordinò  si  spedisse  all'ufficiale  subalterno  più 
prossimo  al  distretto  del  crimine  il  lurido  af- 
fare, lavandosene  le  mani  con  tutto  il  rigore 
dei  termini. 

L'ufficiale  subalterno  sbollò  anch'egli,  ed  a 
sua  volta  dovè  arricciare  il  niffolo,  e  dare 
una  spallata  alla  poltrona.  Nondimeno  uno  sfogo 
bisognava  che  la  cosa  l'avesse,  e  fu  citato  il 
Dottore,  Il  quale  riconobbe  la  lettera,  rico- 
nobbe le  sue  bolle  patenti  segnate  sub  aìiulo- 
ani,  e  confessò  il  fatto  com'era.  Avrei  sfidato 
Fouquier-Tinville  a  pescare  un'accusa.  II  Dot- 
tore quindi  venne  licenziato,  e  fu  chiuso  il 
processo,  non  foss'altro  per  la  ragione  igienica, 
di  non  infettare  l'Archivio. 

Ed  ora  che  vi  ho  narrato  la  storiella,  parmi^ 
lettori  cari,  che  non  sia  da  licenziarvi   senza 


—  231  — 

una  conseguenza  morale,  senza  un  ammaestra- 
mento da  essa  dedotto  per  vivere  in  pace  e 
non  aver  beghe  di  alcuna  sorte.  Ecco  dunque 
quel  che  ho  alla  meglio  concluso,  dopo  maturo 
esame,  sui  contingenti  possibili. 

Mangiate  poco  la  sera  per  non  trovarvi  la 
mattina  ad  una  escrezione  coatta  in  pubblico 
luogo.  In  ogni  caso  portate  sempre  in  tasca 
una  risma  di  carta  bianca  ;  e  soprattutto  te- 
nete lo  stile  dei  gatti  a  tutela  del  fatto  vostro, 
e  contro  gli  assalti  delle  Mezzecode.  Così  Dio 
vi  salvi. 

Cece. 


—  232  — 


LE  QUATTRO  STAGIONI 

(alle  sole  Donne) 


La  Terra  nelle  sue  produzioni  e  nei  suoi 
movimenti  si  ricopia  e  si  alterna  con  mirabile 
armonia.  L'acqua  attinta  e  sollevata  dai  raggi 
solari  in  vapori  che  si  condensano,  ricade  sul 
mare  e  sui  fiumi  a  compenso  dell'umore  man- 
cato. Le  tempeste,  dileguandosi  nell'attrito  del 
doppio  elettricismo,  danno  luogo  di  nuovo 
alla  serenità  dell'  aere.  Le  parti  arenose  del 
terreno  si  consolidano  in  pietre,  che  poi  si 
polverizzano  e  ridivengono  limo.  Le  piante  e 
l'erbe,  che  traggono  alimento  dalla  terra,  re- 
stituiscono il  succo  alla  loro  nutrice  colle  fo- 
glie e  gli  steli  appassiti.  I  fiori  ed  i  frutti  con- 
tengono il  germe  di  altri  frutti  e  di  altri  fiori. 
La  parte  poi  animata  di  questa  bella  creazione 


-  1^33  - 
distrugge  e  rinnuova  le  razze  col  concepi- 
mento e  la  dissoluzione,  colla  vita  e  la  morte. 
Tutto  è  vicenda,  tutto  é  ritorno  di  forme  con- 
suete, regolate  da  una  legge  suprema,  uguale 
e  impassibile.  Intanto  l'uomo  è  signore,  e  ri- 
assume in  sé  tutti  gli  ordini  di  questa  in  ap- 
parenza svariata  famiglia,  talché  i  Greci  lo 
appellarono  mici^ocosmos,  cioè  piccolo  mondo. 
Anzi  le  stagioni  dell'anno  porgono  stupenda 
somiglianza  coll'epoche  di  nostra  vita.  Benché 
il  paragone  non  sia  nuovo,  ci  piace  a  nostro 
modo  svilupparlo  per  comodo  specialmente  delle 
nostre  care  villeggianti,  le  quali  non  potendo  an- 
dare a  caccia  come  i  mariti  e  i  fratelli,  sono  co- 
strette a  mirare  i  campi  e  il  cielo  con  quegli 
occhi,  che  forse  più  volentieri  si  poserebbero 
sopra  una  vetrina  di  mode,  o  dentro  un  palco 
scenico.  Io  dunque,  supponendo  piamente  di 
essere  da  esse  letto,  vengo  in  soccorso  di  lor 
solitudine,  e  dirigerò  più  piacevolmente  ch'io 
possa  l'occhio  e  il  pensiero  delle  Leggiadre  sullo 
spettacolo  che  le  circonda,  accennando  alle 
quattro  stagioni,  in  tre  delle  quali  oggimai  è 
costume  di  andare  di  tratto  in  tratto  in  cam- 
pagna. 


—  234  — 

Il  sole  si  scosta  dall'orizzonte  da  dove  spar- 
geva sul  globo  obliquamente  i  languidi  raggi, 
e  sale  a  poco  a  poco  la  fervida  curva  dei 
cieli.  Le  nevi  si  sciolgono,  i  ghiacci  si  squa- 
gliano; e  zeffiro  dai  colli  scende  col  placida 
soffio  sui  campi  già  verdi  —  ecco  la  Prima- 
vera. Gli  uccelli  rallegrano  i  boschi  dei  varii 
canti:  gli  armenti  usciti  dall'ovile  muggiscono 
e  belano  pei  prati;  guizzano  i  pesci  nell'onde 
cristalline;  la  pastorella  consegna  allo  speco 
l'amorosa  leggenda  e  coglie  la  romita  mam- 
mola che  manda  il  suo  tenue  profumo  dalla 
balza  scoscesa.  Tutto  è  concordia  e  nuova  gioja 
nel  cielo,  sulla  terra  e  sull'acque. 

Tale  è  l'età  tua  fresca,  o  giovinetta  dei  primi 
anni.  Vivace  l'occhio,  agile  il  piede,  e  sulla 
bocca  rosata  regna  come  in  sua  reggia  il  sor- 
riso. Vola  e  folleggia  qual  variopinta  farfalla 
tra  i  meandri  delle  ajole,  ma  non  ti  appres- 
sare allo  spino  che  punge,  né  al  ciglione  che 
per  lubrica  via  conduce  al  precipizio.  Cògli 
dei  fiori  e  intrecciane  corone  da  porsi  sulla 
limpida  fronte,  ma  quel  giglio  te  lo  riponi  in 
petto,  e  siati  emblema  della  candidezza  dell'a- 
nima. Tra  poco  quei  fiori  appassiranno,  e  in- 


—  235  — 
segneranno  a  te   pure  che  vano   sogno  e  fu- 
gace é  la  gioventù  e  la  bellezza. 

L'aria  vie  più  s'infiamma;  la  spiga  biondeg- 
gia, l'oliva  educa  le  preziose  sue  bacche;  la 
vigna  colorisce  i  suoi  grappoli;  la  biscia  cangia 
di  siepe  come  folgore,  e  la  noiosa  cicala  fa 
risonare  le  valli  dell'assiduo  suo  canto  —  l'E- 
state è  al  colmo,  e  le  ubertose  raccolte  ralle- 
grano il  villano  delle  durate  fatiche. 

Tu  ora  sei  sposa,  o  sempre  giovane  donna. 
L'amore  estuoso  e  palpitante  fu  corretto  dalle 
pacate  dolcezze  dell'  imeneo,  e  gli  anni  cre- 
sciuti ti  diedero  il  senno  che  esige  lo  stato  no- 
vello. Non  più  le  futili  occupazioni,  non  più  i 
giochi  fanciulleschi,  ma  le  domestiche  cure  ri- 
empiono il  tuo  giorno.  Sii  la  dolce  compagna 
che  aiuta  il  marito  a  calcare  il  difficile  sen- 
tiero della  vita  Per  lui  sola  sii  bella.  Imita 
la  speciosa  oliva  dei  campi;  imita  la  vite  frutti- 
fera che  dà  la  soavità  dell'odore.  Ben  altri  do- 
veri ti  aspettano,  e  il  turgido  seno  gli  annunzia. 

Siamo  d'autunno,  la  più  deliziosa  e  la  più 
mesta  stagione  dell'anno.  I  frutti,  i  pomi  di 
ogni  specie  rallegrano  la  vista  e  l'aura  mite 
che  sussurra  tra  la  chioma  degli  alberi  sem- 


—  236  — 

bra  un  sospiro  ricambiato  tra  la  terra  ed  il 
cielo,  e  desta  in  petto  una  dolce  melan- 
conia. Un  tramonto  autunnale  osservato  dal 
colle,  riduce  a  mente  le  passate  vicende,  e 
il  pensiero  ritorna  agli  anni  che  furono.  Ma 
l'esule  e  l'errante  lontano  dal  focolare  materno 
piange  i  perduti  consorzi  della  famiglia,  clie 
forse  non  rivedrà  piìi  mai. 

Intanto  una  vaga  scena  si  rappresenta.  E  la 
festa  della  vendemmia.  Sono  occupati  tutti  a 
tagliare  grappoli  e  trasportarne  i  pieni  canes- 
tri al  tino  dove  un  ruvido  Noè  li  calca  coi 
piedi  a  trarne  l'umore  gradito.  Tra  1  vendem- 
miatori una  turba  di  piccoli  fanciulli  si  affa- 
tica più  degli  altri,  agitando  i  bei  ricci,  e  colla 
porpora  sulle  guancie.  Tuoi  sono  quegli  an- 
gioletti 0  donna  e  tu  li  sorvegli  con  gli  occhi 
materni,  ne  sgridi  il  soverchio  affaccendarsi, 
e  talora  soavemente  sorridi  a  quei  detti,  a 
quegli  atti  infantili.  Nobile  missione  è  la  tua 
dar  cittadini  alla  patria,  virtuosi  alla  società 
—  beata,  se  quando  Dio  ti  chiederà  conto 
della  prole  affidata  tu  potrai  rispondere:  io  li 
ho  conservati  coli' anima  pura,  quale  nelle 
mie  viscere  tu  la  infondesti. 


—  237  — 
La  natura  è  morte.  Non  fiori,  non  frutti, 
non  pomi.  Il  gelo  aumenta,  la  neve  fiocca,  e  il 
rabbuffato  aquilone  domina  sugli  squallidi  cam- 
pi, imperversando  tra  i  roveti  e  i  brulli  rami 
delle  alte  piante.  Una  vecchiarella  sta  assisa 
presso  la  fiamma  a  riscaldarsi  le  membra  inti- 
rizzite. Ahi  I  gli  oltraggi  del  tempo  f  Quella 
ricurva  schiena  fu  un  giorno  modello  di  svel- 
tezza e  di  eleganza.  Quegli  occhi  semispen- 
ti lanciarono  una  volta  lampi  di  amore.  In 
quelle  guancie  aggrinzite,  su  quella  bocca 
priva  di  denti  già  fioriva  la  rosa,  e  quei  radi 
capelli  canuti  furono  lucide  trecce,  quali  non 
ebbe  pur  Leda.  Donna,  il  sepolcro  ti  aspetta. 
Stesa  sul  letto  nuziale,  confortata  dalla  reli- 
gione dei  padri,  circondata  dai  figli  piangenti, 
benedicendo  e  benedetta,  ti  avvierai  alla  eterna 
primavera,  dacché  nelle  quattro  stagioni  della 
vita  fosti  pudica  fanciulla,  consorte  amorosa, 
madre  diligente,  e  veneranda  matrona. 

Cece. 


—  233  — 


DOMENICO    SOMIGLI 

detto     BECO    SUDICIO 


Sullo  scorcio  del  passato  secolo,  in  una  lim- 
pida notte  di  estate,  Firenze  era  immersa  nel 
più  alto  silenzio.  L' orologio  della  Signoria 
aveva  sonato  un  tocco,  e  la  campana  di  San 
Miniato  al  Monte,  chiamando  i  frati  al  mat- 
tutino, distendeva  la  malenconica  voce  lungo 
la  valle  sottoposta  dell'Arno.  A  queir  ora  una 
porta  di  Gualfonda  si  aperse,  e  ne  usciva  una 
brigatella  di  amici,  che  avevano  consumata  la 
sera  a  desco;  e  capitanati  da  una  tiorba  (1), 
s'incamminavano  verso  la  Piazza  Vecchia  di 
Santa  Maria  Novella.  Quei  tempi  correvano 
più  allegri  dei  nostri.   Le  ore   notturne  della 


fi)  La  Tiorba  è  una  specie  di  chitarra  colla  pancia  e  tutte 
le  corde  di  metallo,  le  quali  si  pizzicano  col  plettro. 


—  239  — 
calda  stagione  spesso  erano  rallegrate  da  canti 
e  da  suoni,  e  più  specialmente  dalle  cocchiate  (1) 
che,  fermatesi  alquanto  sulla  Piazza  del  Duo- 
mo, dove  per  antico  costume  i  cittadini  sulle 
gradinate  godevano  1'  aria  fresca,  giravan  poi 
per  tutta  la  città,  arrestandosi  qui  e  li  secondo 
le  intenzioni  dei  sonatori  o  di  chi  li  condu- 
ceva. Né  allora  i  Fiorentini  avevano  cosi  de- 
licate le  orecchie,  né  l' urgente  bisogno  del 
sonno.  Chi  era  a  letto  se  la  dormiva  sapori- 
tamente, e  i  molti  seguitavano  le  armoniche 
ragunate  con  gli  occhi  vispi  e  col  viso  rag- 
giante di  letizia.  Ai  di  nostri  invece,  se  qual- 
cuno zufola  un'arietta  dope  le  10  di  sera, 
viene  proclamato  perturbatore  della  pubblica 
quiete,  e  buon  per  lui  se  n'  esce  con  un  fiero 
rabbuffo,  o  con  un  orciòlo  di  acqua  nanfa  sul 
capo.  La  nostra  brigatella  dunque,  senza  alcun 
timore  e  riguardo,  traversava  canterellando 
la  piazza;  s'inoltrava  per  via  dell'Amore,  via 
Santa  Maria,  via  Porciaja,  al  termine  della 
quale  voltando  dal  canto  del  Bisogno  in  via 


(1)  Cosi  si  chiamavano  in  Firenze  alcune  ragunate  di  so- 
natori, che  nelle  notti  estive  giravano  per  lo  pìU  in  un  coc- 
chio tirato  da  2  0  4  cavalli. 


•  —  240  — 

Chiara,  sostava  in  crocchio  e  bisbigliava  un 
partito,  che  dopo  fu  preso  unanimemente.  Di- 
fatti i  compagnoni  cheti  cheti  entravano  per 
la  sinistra  nell'  angusta  via  Romita,  e  si  fer- 
mavano dinanzi  ad  una  casetta  di  umilissimo 
aspetto.  Qui  la  tiorba  cominciò  il  passagallo,  (1) 
ed  un  giovine  di  vivace  aspetto  si  fece  in- 
nanzi a  improvvisare  un'ottava,  e  un'altra,  e 
un'altra  con  tal  cultura  di  lingua  e  freschezza 
d'immagini,  da  reputarlo  ingegnoso  e  di  buone 
lettere.  L'argomento  di  queste  ottave  era  co- 
stante, cioè  r  evocazione  di  altro  poeta  chiuso 
in  quella  casuccia;  e  si  esprimevano  come  po- 
tenti scongiuri,  l'amicizia,  l'amor  delle  muse 
e  la  bellezza  di  quel  cielo  notturno.  Né  guari 
andò  che  gli  scongiuri  fecero  l'effetto:  si  apri 
una  finestra  e  vi  apparve  una  faccia  grassa 
ed  ingenua  di  un  uomo  circa  i  60  anni,  con 
gli  occhi  quasi  affatto  chiusi.  Costui  cominciò 
a  rispondere  sempre  su  quel  suono  del  pas- 
sagallo e  nell'istesso  metro  d'ottava,  sicché 
la   battaglia   prese   fervore,    eJ   assunse  varj 


fi)  n  Passagallo  è   il   suono    che    accompagna   esclusiva- 
mente l'ottava  nei  canti  improvvisati. 


—  241   — 

aspetti  secondo  il  vario  terreno  in  cui  la  trae- 
vano i  due  campioni.  Intanto  dalle  finestre  e 
sugli  usci  apparivano  béceri  e  ciane  (1)  in 
abito  semplicissimo  di  camera,  cioè  in  ca- 
micia. Ad  ogni  chiusa  di  ottava  si  udivano  i 
plausi;  e  le  pulci  tradotte  dalle  case  nella 
strada,  quasi  partecipassero  di  quel  tripudio, 
carolavano  bizzarramente  al  dolce  lume  delle 
stelle.  Era  una  vera  festa  per  quella  via, 
poc'anzi  romita  di  nome  e  di  fatto.  Ma  già 
la  crocea  aurora,  per  dirlo  all'omerica,  aveva 
lasciato  il  letto  di  Titone;  ond'è  che  dopo  i 
consueti  amichevoli  addio,  i  vati  si  separa- 
rono, uno  tornando  a  letto,  l'altro  disperden- 
dosi coi  compagni,  che  si  riducevano  alle 
proprie  abitazioni. 

Or  chi  fosse  quel  vispo  giovine,  che  primo 
provocò  il  canto?  Chi  fosse  il  vecchio  della 
grassa  faccia,  che  rispondeva  dalla  finestra? 
E  perchè  teneva  gli  occhi  chiusi?  Era  forse 
sonnambulo?  Il  giovine  chiamavasi  Barto- 
lommeo  Bestini  pistojese,  che  allora  studiava 
il  disegno   nell'Accademia   di   Belle   Arti    di 


(IJ  Questo  è  il  nenie    della  gente  del  volgo  fiorentino. 

1(> 


Firenze,  e  che  -poi,  autore  della  Pia  de'  To- 
lomei  e  di  altri  lodati  lavori  poetici,  ramingò 
esule  per  diverse  contrade,  finché  mori  a  Pa- 
rigi, come  vi  muoiono  quasi  tutti  gl'Italiani 
di  merito,  vale  a  dire  di  stento.  L'altro  era 
il  cieco  Domenico  Somigli,  più  noto  sotto  il 
soprannome  di  Beco  Sudicio,  per  certa  sua 
trascuratezza  della  persona.  Di  lui  appunto  ci 
giova  dire  quattro  parole. 

Nel  1744  nacque  il  nostro  Domenico  al  ra- 
sojo  ed  al  sapone,  giacché  il  padre  suo  bar- 
biere lo  iniziò  fino  da  piccolo  nello  stesso 
morbidissimo  ufficio.  Apollo  per  altro,  che  in 
fondo  è  l'Intonso  nume,  e  olia  per  conse- 
guenza chi  taglia  i  capelli  e  rade  i  peli,  si 
vendicò  del  vecchio  barbiere  sul  figlio,  a  cui, 
mentre  dormiva,  con  una  canna  rubata  a 
mamma  Latona,  iniettò  pei  fori  del  naso  fino 
al  cervello  un  pentolino  di  acqua  d'Ippocrene. 
D  povero  ragazzo  destossi,  edera  poetai  Im- 
maginatevi che  entrò  subito  la  Versiera  in 
bottega  Somigli,  perché  Domenico  agitato  dalle 
fantasie  poetesche^  faceva  braciuole  (1)  a  biz- 


(1)  Braciuole  si  dicono  i  tagli  che  i  barbieri  fanno  col  ra- 
soio, alle  'volle,  sul  viso  di  coloro  cui  radouo. 


—  243  — 
zeffe  sul  viso  de' suoi  avventori;  strappava  le 
code  e  strapazzava  1  nasi.  Il  padre,  credendolo 
ossesso,  avrebbe  voluto  condurlo  a  San  Va- 
lentino di  Bientina  ;  ma  il  prete  di  Varlungo, 
che  era  allora  un  Giuseppe  Tanzini  e  bazzi- 
cava in  bottega,  pizzicando  anch'esso  di  poeta, 
conobbe  di  che  male  pativa  il  giovane,  e  si 
pose  all'opra  di  guarirlo.  Gli  prestò  dunque 
delle  storie  e  la  Mitologia,  e  gli  fece  scorrere 
i  principali  classici  della  nostra  lingua.  A  poco 
a  poco  le  idee  dell'eroe  da  noi  descritto  si 
ravviarono,  e  tra  non  molto  potè  improvvi- 
sare e  compor  versi  senz' altra  effusione  di 
sangue:  anzi  la  sua  gaiezza,  i  suoi  motti,  le 
sue  rime  facevano  la  delizia  degli  avventori. 
Ma  ohimè  I  una  crudele  sventura  doveva  col- 
pirlo nel  colmo  della  contentezza:  a  21  anno 
una  ineluttabile  amaurosi  gli  chiuse  per  sem- 
pre gli  occhi  alla  luce  ! 

Che  fare?  come  vivere?  Da  uno  scultore 
cieco,  per  esempio  da  Giovanni  Gonnelli  detto 
il  cieco  di  Gambassi,  vi  fu  chi  si  fece  model- 
lare il  ritratto  e  lo  trovò  somigliantissimo; 
ma  un  barbiere  senz'occhi  è  troppo  pericoloso, 
né  vi  sarebbs  persona  che  gli  affidasse  la  gola. 


—  244  — 

Scommetto  che  lo  avrebbe  rifiutato  Leonida 
alle  Termopili  quando  si  agghindava  per  l'ul- 
tima pugna. 

Non  vi  era  altro  modo  per  campare,  che  di 
giovarsi  della  poesia;  e  l'infelice  Domenico 
dovette  riconoscere  come  donna  e  madonna  la 
Musa  che  aveva  sposata  dalla  mano  sinistra. 
Fortuna  per  lui  che  il  buon  umore  non  gli 
scemò  di  un  granello,  e  migliori  apparvero 
gl'improvvisamenti  del  povero  Cieco.  Ai  ma- 
trimoni del  medio  ceto,  alle  nascite  del  prima 
figliuolo,  ai  lieti  simposi,  ai  ritrovati  amiche- 
voli non  mancava  la  voce  di  Beco  Sudicio,  che 
beveva  e  mangiava  a  strippapelle,  empiendo 
per  soprammercato  il  borsellino. 

Anche  dei  versi  pensati  ne  compose  un  di- 
luvio, e  tentò  tutti  ì  generi  di  poesia,  dal- 
l'eroico al  drammatico  e  al  pastorale.  E  fa  ma- 
raviglia il  vedere  come  ne  uscisse  a  bene  un 
uomo  del  volgo,  privo  affatto  di  lettere  :  anzi 
quei  versi  stampati  in  diverse  edizioni,  ed  ora 
rarissimi,  crebbero  fama  e  contante  al  Cieco^ 
il  quale  venne  ascritto  all'Arcadia,  all'Acca- 
demia degli  Apatisti,  a  quella  degli  Aborigeni 
della  colonia  Araiatense,  ed  a  quella  degl'In- 


—  245  — 
<;amminati  di  Modigliana.  Riporto   un  saggio 
<]i  dette  poesie. 

(Compatisca  il  lettore.  Nell'atto  di  comporre  il  presente 
quaderno,  uno  dei  soliti  furti  di  che  spesseggia  Firenze,  ci  ha 
tolto  insieme  con  altra  roba  di  valore,  due  tomi  delle  poesia 
•del  signor  Domenico  Somigli). 

(Il  Piovano  Arlotto). 

Ma  dove  proprio  il  Somigli  si  mostrò  va- 
lente, ed  anco  singolare,  fa  nel  genere  ber- 
nesco. Il  sale  fiorentino  vi  è  sparso  a  iosa,  e 
le  immagini  sono  nuove  ed  affatto  bizzarre. 
€odesti  componimenti  però  scemano  alquanto 
■d'importanza  per  essere  troppo  corti  e  pochi. 
Dall'altra  parte  il  Cieco  non  poteva  scrivere, 
«  doveva  ritenere  a  memoria  quello  che  con- 
cepiva: conveniva  esser  ricco  da  dettare  ad 
un  segretario,  che  fosse  lì  con  la  penna  in  ma- 
no, e  r  adoprasse  sbadigliando  secondo  l'estro 
del  padrone;  o  avere,  come  il  Milton,  delle 
amabili  figlie,  che  trascrivessero  a  vicenda  le 
ispirazioni  paterne.  Omero,  o  non  fu  cieco,  o 
scrisse  prima  d' accecare  :  che  se  il  Somigli 
■avesse  potuto  mettere  insieme  un  poema  pri- 
ma di  accecare,  non  si  dubita  che  avrebbe 
■emulato  il  Forteguerri,  il  Tassoni  e  simili 
giocosi  scrittori. 


—  246  — 
A  me  poi  duole  altamente  che,  per  quante 
diligenze  io  abbia  adoperato,  non  mi  sia  riu- 
scito trovare  di  nuovo  le  Rime  bernesche  del 
signor  Domenico  Somigli;  ma  se  mi  vien  fatto 
alla  fine  di  raccapezzarle  (me  lo  ha  promesso 
un  libraio  coi  baffi),  i  nostri  lettori  non  ne  sa- 
ranno frodati  :  intanto  nulla  qui  possiamo 
darne  nemmeno  per  mostra.  Erano  pur  gio- 
conde !  Io  rammento  di  averle  avidamente  lette 
in  altri  tempi;  e  tra  gli  altri  mi  è  restato  im- 
presso il  tema  di  un  sonetto  dove  s'introduce 
in  iscena  un  cristiano  ed  un  ebreo,  che,  liti- 
gando sul  numero  maggiore  dei  santi  del 
nuovo  e  del  vecchio  Testamento,  scommettono 
a  strapparsi  un  pelo  di  barba  ogni  volta  che 
uno  d'essi  nomina  un  santo  come  suo.  Abramo 
incomincia  l'ebreo,  e  sbarba  un  pelo:  San 
Pietro,  ribatte  il  cristiano,  e  pela  anch' egli. 
Incalorito  l'affare  si  suona  a  doppio.  Enoch 
ed  Elia.  Cosimo  e  Damiano:  e  i  peli  volano. 
Finalmente  il  cristiano  stanco  della  lungag- 
ginC;,  gridò  all'ebreo  con  brusca  cera: 

Orsola,  e  sue   compagne  undicimila, 
E  toppa!  gli  strappò  la  barba  intera. 


—  2.L7  — 
Ora  il  nostro  vate  trovandosi  ad  avere  del 
ben  di  Dio,  decise  di  pigliar  moglie:  e  non 
potendosi  valere  degli  occhi,  fece  come  tutti 
i  ciechi:  supplì  con  altri  due  sensi,  e  la  tolse 
grassa  e  di  grata  voce:  salvochè  ebbe  poi  a 
dire  che  essa  non  corrispondeva  all'olfatto, 
come  all'udito  ed  al  tatto.  E  pure  col  solito 
suo  bon  umore,  traendo  partito,  invece  d'in- 
fastidirsene, della  sudiceria  che  gli  si  coricava 
accanto,  la  fece  sovente  argomento  de' suoi 
lepidi  versi,-  ed  una  volta  tra  le  altre,  can- 
tando della  cara  metà,  finiva  in  tal  modo  un 
ottava  : 

Un  giorno  che  lavossi  alla  Sardigna  (1) 
Fece  sudicia  1'  acqua  insino  a  Sigiia. 

Ma  il  pover  uomo  non  avea  da  buttar  via 
nulla  in  genere  di  1  indura.  Il  nome  di  Beco 
Sudicio  gli  stava  bene  come  il  becco  all'oca 
e  le  corna  al  podestà.  Fra  le  altre  sue  non 
pulite  consuetudini  vi  era  quella  di  portar  via 


(1)  La  Sardigna  è  un  luogo  sotto  le  mura  di  Firenze  sul 
greto  d'Arno  dove  si  sotterrano  le  carogne  degli  animali. 
Signa ,  castello  distante  7  miglia  da  Firenze  sul  decliva 
del  Fiume. 


—  248  — 
dai  desinari  ciò  che  gli  avanzava  nel  piatto, 
al  qual  uso  immodesto  egli  teneva  una  tasca 
di  cuojo,  dove,  come  nel  vaso  di  Pandora,  vi 
era  ogni  genere  musicorum,  —  una  vera  sco- 
della di  cacciucco;  un'olla  x>odrida.  Quindi 
spesso  a  quella  tasca  si  affacciava  una  triglia, 
che  rassomigliava  la  modesta  damigella  del 
trecento  al  verone;  o  un  capo  di  galletto,  che 
a  male  agguagliare,  pareva  un  arguto  predi- 
catore in  pulpito. 

Questo  sistema,  che  conveniva  alla  masse- 
rizia di  Beco,  era  per  altro,  motivo  di  pun- 
genti assalti  non  solo  per  parte  dei  poeti  rivali, 
ma  anche  di  molti  uditori,  che  così  si  ricat- 
tavano di  qualche  satiretta  pungente.  Ma 
chi  di  spada  uccide,  ■perirà  di  spada,  dice 
il  Vangelo;  e  qual  asino  dà  in  parele,  tal 
7nceve,  aggiunge  un  pi-overbio  nostro.  Ciò  av- 
venne ad  un  bel  giovine  azzimato,  di  scarso 
cervello  e  di  più  scarsa  scarsella,  uno  dei 
Lioni,  come  oggi  li  chiamano,  o,  come  meglio 
allora  li  chiamavano,  Ganimedi.  Costui  aveva 
spesso  morso  il  poeta  su  quel  modo  d' insac- 
care le  pietanze,  e  n'era  uscito  alia  pulita: 
quando  infine  la  recondita  legge  della  vicenda 


—  249  — 
universale  volle  ch'egli  cadesse  nello  stesso 
peccato,  con  questo  divario  che  in  Reco  Su- 
dicio era  divenuto  un  vezzo,  laido  se  volete, 
ma  sopportato  dalla  gente  che  ne  rideva;  men- 
tre che  nel  nostro  zerbinotto  parve,  ed  era, 
uno  sporco  furtarello:  e  servi  a  bandirgli  ad- 
dosso una  crociata  di  epigrammi,  tra  1  quali 
non  mancarono  certo  quelli  di  Beco.  Ecco  come 
passò  l'avvenimento. 

Questo  giovine  invitato  ad  un  pranzo,  per  ri- 
guardo ad  una  signora  a  cui  professava  la 
qualità  di  cavalier  servente,  vista  la  cuccagna 
cedette  alla  tentazione,  ed  intascò  destramente 
una  coscia  di  cappone  freddo,  che  faceva  ve- 
nire l'acquolina  in  bocca  da  lontano  un  miglio. 
Finito  il  pasto,  si  alzarono  i  convitati  da  ta- 
vola; e  siccome  era  caldo  grandissimo  passa- 
rono nell'attiguo  giardinetto,  tutto  coperto  di 
ombre  liete.  Quella  tal  signora,  volendo  co- 
glier fiori,  cedette  il  ventaglio  al  rammentato 
giovine;  il  quale,  desideroso  anch' esso  di  fare 
un  mazzetto,  cacciò  il  ventaglio  in  tasca... 
oimè  I  accanto  alla  coscia  involata.  La  signora, 
cessata  la  preda  odorosa,  richiese  ad  un  tratto 
il  ventaglio,  ed  il  cavalierino,  avvezzo  ad  ub- 


—  250  —  - 
bidire  con  prontezza,  sbagliando  da  osso  a  osso 
trasse  fuori  ìa  coscia  di  cappone,  e  la  presentò 
con  grazia  al  naso  della  dama.  Ora  consideri 
il  lettore  la  indignazione  di  questa,  la  confu- 
sione del  giovinotto,  e  le  risa  della  brigata  : 
io  non  saprei  descriver  la  scena  co' suoi  veri 
colori. 

A  che  vai  sciorinando  sifìTatte  pappolate? 
Paionti  elleno  cotai  ciauciafruscole  roba  da 
intrattenerci? —  Non  tanta  muffa,  messeri  ono- 
randissimi. Quando  dei  vostri  Alessandri,  e 
Cesari,  e  simili  omaccioni  riferite  con  impor- 
tanza le  più  tenui  particolarità,  tantoché  or- 
mai sappiamo  come,  dove  e  quando  si  ubria- 
carono, e  se  dormirono  la  tal  notte,  e  se  eb- 
bero la  crudezza  di  stomaco;  anch'  io  voglio 
ridir  qualche  minuzia  del  mio  eroe  popolare: 
e  chi  non  la  vuole  la  butti  via;  e  a  cui  non 
piace,  mi  rincari  il  fitto.  Anzi  tra  certe,  che 
potrei  ripescare  nella  memoria,  vo  raccontare 
un'  ultima  storiella,  che  più  direttamente  ri- 
guarda il  signor  Beco  Sudicio. 

Egli  era  stato  invitato  alle  nozze  dell'  israe- 
lita Chimichinchi  nel  ghetto  di  Firenze.  Aveva 
cantato  tutto  il  giorno  con  gusto  grande  degli 


-  251  - 

iiditori  :  quando  ad  una  chiusa  di  ottava  parve 
inciampare 

Viva  tutta  la  casa  Chiraichinchi  '. 

esclamava  con  enfasi  nel  settimo  verso  per 
due  0  tre  volte,  senzachè  l'ultimo  volesse  ve- 
nire, mentre  la  tiorba  strimpellava  invano  : 

Viva  tutta  la  casa  Chiraichinchi  I 

I  circostanti  sogghignavano,  e  sommessamente 
mormoravano:  il  poeta  dà  in  cenci.  Final- 
mente cessò  la  titubanza,  e  Beco,  non  trovan- 
do altro  compenso  alla  idea  ed  alla  rima,  già 
concepite,  le  spiattellò  come  gli  erano  venute 
alla  prima: 

Viva  tutta  la  casa  Chimichinchi, 
Gloria  ed  onor  dei  circoncisi  p..   . 

Alla  inopinata  chiu&ura  la  sposa  fece  il  viso 
rosso  come  le  ciliege  ;  la  signora  madre  si 
oscurò;  al  Rabbino  per  la  prima  volta  cad- 
dero gli  occhiali  dal  naso;  i  cugini  montati 
in  bestia  minacciavano  una  strage.  La  confu- 
sione ed  il  trambusto  rammentarono  la  presa 


—  252  — 
di  Gerusalemme.  In  quel  critico  momento  la 
prudenza  di  uno  zio  dello  sposo  briaco  salvò 
la  capra  e  i  cavoli:  egli  in  fretta  pagò  il 
poeta,  e  k>  trasse  fuori  del  quartiere,  ed  im- 
boccandolo alla  uscita,  gli  grido  con  voce  soffo- 
cata: Addio  signor  poeta;  ringraziate  Adonai 
se  non  vi  precipuo  per  le  scale  (1). 

Ecco  fatto  f  lo  schizzo  su  Beco  Sudicio  è 
finito^  e  buon  per  me  che  ho  tirato  via  men- 
tre il  Barbèra  aspetta:  d'altra  parte  il  suo 
decessit  (voglio  dire  di  Beco)  non  vai  nulla. 
Egli,  come  tre  quarti  del  genere  umano,  ebbe 
una  malattia  delle  comuni,  e  forse  campò  un 
mesetto  di  meno  per  aver  chiamato  il  medico, 
il  quale,  come  tutti  i  ministri,  vinse  nello 
zelo  il  suo  principale. 

Un'  ultima  parola  alla  memoria  di  Beco  Su- 
dicio la  consacrerò  asserendo,  che  il  popolo 
fiorentino  lo  ha  sempre  in  bocca,  e  ne  ripete 
i  frizzi  e  le  rime.  Questo   amore  costante  al 


fi)  Questo  è  puramente  un  fatto  accaduto  a  Domenico  So- 
migli. Or  non  vorremmo  che  da  qualcuno  si  pensasse  aver 
voluto  il  Piovano  Arlotto  njettere  con  ciò  in  deriso  gl'Israe- 
liti; che,  oltre  ad  essere  alieno  da  si  fatte  intemperanze, 
esso  ha  mostrato  più  volta  di  non  essera  un  fazioso  cieco 
«  di»s9nnato. 


—  253  — 
SUO  nome  é  un  elogio  più  bello  di  un'epigrafe 
del  Muzzi.  Quindi  mi  sono  doluto  quando 
in  un  giornaletto  della  città  nostra  vidi  i  ver- 
sacci  di  un  cotale  esser  paragonati  a  quelli 
del  Somigli;,  quasi  ei  fosse  poeta  sotto  la  doz- 
zina. Suppongo  che  l'autore  di  quello  scritte- 
rello  non  abbia  conosciuto  il  valore  di  quel 
Beco  Sudicio,  che  mal  forse  sonava  al  suo 
orecchio,  e  basta.  Ma  pur  troppo  oggigiorno 
convicii  deplorare  la  smania  che  si  è  impa- 
dronita di  alcuni  moderni  Italiani,  nel  ricer- 
care il  peggio  0  falsato  o  equivoco  dei  nostri 
maggiori,  sia  pure  la  loro  memoria  gloriosa- 
mente consacrata  dalla  istoria  del  mondo.  È 
ella  questa  carità  patria?  Io  non  voglio  la 
impudenza  francese,  che  di  un  Lamartine,  di 
un  Dumas,  di  un  Janin  ne  fa  degl'  idoli,  ma 
nego  che  impuberi  vanarelli,  rosicando  gli  ar- 
chivi, traggano  fuori  mendaci  argomenti  con- 
tro un  Piero  Capponi  e  un  Filippo  Strozzi.  Io 
per  me,  adoperando  le  scarse  forze,  ho  voluto 
in  cotal  modo  celebrare  il  mio  eroe;  e  se  qual- 
cuno mi  facesse  il  muso  arcigno,  io  gli  direi: 
Domenico  Somfgli  fu  uomo  onesto  —  Si 
elevò  da  un'  umile  condizione  col  solo  ingegno 


—  254  — 
—  Poetò  con  naturalezza  e  senza  matti  ar- 
zigogoli —  Fa  hellumore  senza  essere  imper- 
tinente —  Sojrrattuito  non  elite  presunzione. 
Di  quanti  si  potrebbe  asserire  altrettanto  il 
primo  di  febbraio  1859  ? 

Cece. 


—  ioo  — 


Epigrafe  sulla  tomba  di  BECO  SUDCIO 


Ci  parrebbe  di  avere  un  grave  debito  coi  let- 
tori del  Piovano  se,  dopo  aver  dato  loro  la  Vita 
del  Somi^iii,  non  ponessimo  qui  per  suo  neces- 
sario compimento  1'  epigrafe  che  gli  fu  posta 
sulla  tomba  dagli  amici.  Essa  è  nel  primo 
chiostro  del  Convento  degli  Angeli ,  a  pian 
terreno  del  quale  dava  Beco  sudicio  le  sue 
Accademie  di  poesia  improvvisata. 

A  cTo  a 

nOMIXICO  LAVRENTII  F.  SOMU^LIO 

INTER  ARCADES  ADLECTO 

ti'.I  IVVKNTVTE  INEVNTE  TONSOR  COMOEDVS  ET  CVLTOR  P0E3IS  yvIT 

EXPLBTOQ  LYSTRO  AETATIS  IV  OCVLIS  REPENTE  ORBATUS 

ET  DEIN  ALIENA  LECTIONE  EXPOLITVS 

PROSATA  CARMINA  MEDITATVS  EST 

PROBATISSIMA  EXTEMPORE  FVDIT 

LVDICRI  PRAESERTIM  ARGVMENTI 

<JVAE  NOVA  IVCYNDITATE  ARGVTIISQ  FACETISSIMI    SALIS  ADSPRRSIT 


VIX  AN  LXXVII  M  X  D  Vili  DECESS  PRID  II)  IVN  MDCCCXXllI 

AMICI  VIRO  PROBO  RELIGIOSISSIiMO 

IIEIC  VBI  AD  PLVRES  ANNOS  VENAE  DIVITIIS  SVAE  PEEICVLVM  FECIT 

POSVERVNT  MEMORIAE  CAVSSA 

ATQ  AD  LAVDEM  TVSCORVM  QYI  OB  INGENIVM  PROMPTVM  FESTIVVMQVE 

ET  LINGVAE  COPIA  MOLLISSIMAB 

IN  SVBITIS  VEESIBVS  MAXIME  SEMPBR  ENITVERE. 


—  256  - 


PARRUCCHIERI 


Il  Parrucchiere  ò  una  specialità  sociale  e 
non  somiglia  al  resto  dei  figli  di  Eva.  Eva 
non  si  pettinava,  ma  si  vuole  che  un  figlio  di 
Caino  alzasse  bottega  di  barbiere  nelle  vici- 
nanze del  Paradiso  Terrestre.  Questa  notizia 
però  si  perde  nella  nebbia  della  storia,  molto 
più  che  Mosè  impose  la  barba  ai  suoi  conna- 
zionali e  non  si  parlò  più  di  parrucchieri 
specialmente  nel  deserto.  Per  non  pettinarsi 
quella  buona  lana  di  Assalonne  aveva  i  ca- 
pelli così  intricati,  che  restò  appeso  come 
sapete  ad  un  quercia:  se  portava  la  parrucca 
non  avrebbe  avuto  la  disgrazia  poco  rimedia- 
bile di  essere  ammazzato  da  Gioabbo.  I  Fili- 
stei al  conti'ario  avevano  i  parrucchieri.  Dalila 
che  rapò  Sansone  era  figlia  di  un  Parrucchiere 

I  Romani  stettero  300  anni  senza  barbieri, 
e  i  primi  vennero  a  Roma  dalla  Sicilia  al  tem- 


pò  di  Catone  il  censore.  In  seguito  i  barbieri 
acquistarono  credito  e  molti  di  essi  divennero 
potentissimi:  Oliviero  il  Daino^  barbiere  di  Lui- 
gi XI  re  di  Francia,  s' insinuò  talmente  nel- 
l'animo di  quel  monarca,  che  dispose  a  sua 
posta  del  regno. 

Il  Parrucchiere  non  è  come  gli  altri  artisti, 
che  per  lo  più  patiscono  del  loro  mestiere. 
Difatti  il  calzolaio  ha  le  scarpe  rotte,  il  sarto 
veste  male,  e  il  falegname  è  capace  di  non 
avere  imposte  alle  finestre.  Il  Parrucchiere 
invece  prima  di  acconciare  il  capo  agli  altri, 
sacrifica  il  suo  con  ricercata  diligenza,  più 
onesto  in  ciò  del  boja,  che  tira  a  ftir  teste 
rispettando  sempre  la  sua. 

Il  Parrucchiere  ha  le  mani  morbide  ed  il 
tratto  cortesissimo.  Egli  saluta  a  nome  tutti 
i  suoi  avventori,  e  li  riceve  col  maggior  garbo 
del  mondo.  Per  iscemar  la  noja  al  paziente  che 
sta  sotto,  tra  i  colpi  di  rasoio  e  di  pettine,  gli 
racconta  le  più  vaghe  storielle,  e  gli  aneddoti 
i  più  curiosi.  Esso  conosce  tutto  il  vicinato,  o 
meglio,  tutto  il  paese,  e  sa  per  filo  e  por  segno 
gl'intrighi,  le  risse,  gli  scandali;  sian  pure  av- 
venuti di  notte.  Non  potresti  avere  un"  indica- 

17 


—  258  — 
zione  di  interessi,  di  persone  e  di  case  da  aiìit- 
tarsi  meglio  che  dal  Parrucchiere.  Vuoisi  anzi 
da  taluno  che  i  parrucchieri  generalmente  si 
prestino  a  portar  bigliettini  muschiati  e  inzuc- 
cherate paroline,  ma  questa  è  pretta  calunnia. 
Se  il  fatto  è  avvenuto  tra  qualcuno  di  quelli 
che  vanno  a  pettinar  le  dame,  tali  singolarità 
non  debbono  nuocere  all'  intero  ceto  rispetta- 
bilissimo dei  parrucchieri.  Dico  rispettabilis- 
simo perché  nessuno  ò  più  virtuoso  di  un  Par- 
rucchiere. Ei  si  sacrifica  tutto  l'anno  per  gli 
altri.  Sta  sempre  in  bottega  e  non  partecipa  di 
nessun  divertimento  esterno.  Qualunque  arti- 
giano la  domenica  si  riposa,  si  riveste  e  va  a 
godersela  a  feste,  a  teatri,  a  lieti  pranzi.  Il 
povero  Parrucchiere,  al  contrario  fatica  più  le 
domeniche  che  gli  altri  giorni  e  sta  sempre  in 
maniche  di  camicia.  Per  pochi  soldi  vi  rade 
la  barba,  vi  assetta  il  crine,  vi  spazzola  il 
soprabito,  il  cappello,  e  a  un  bisogno  vi  leva 
i  calli:  dal  capo  ai  piedi  vi  ripulisce,  vi  liscia, 
vi  accomoda;  e  voi  uscite  dalle  sue  mani  tra- 
sformati in  meglio,  come  a  male  uguagliare,  la 
terra  rossa  che  si  chiamò  Adamo  dalle  mani 
del  Signore.  E  tutto  questo  deve  fare  il  Par- 


rucchiere  con  parole  soavi,  col  sorriso  alla 
bocca,  giacché  un  Parrucchiere  non  può  mo- 
strarsi burbero  o  mesto,  quand'anche  gli  fosse 
morta  la  moglie,  quand'anche  non  avesse  da 
pagar  la  pigione  —  il  martirio  è  completo, 
l'abnegazione  è  totale. 

Un  solo  conforto,  una  sola  gloria  sta  a  com- 
pensare cotanti  sacrifici,  l'avere  cioè  in  pieno 
dominio  la  testa  dell'avventore.  Il  Parruc- 
chiere gli  intride  il  viso  maneggiandolo  senza 
misericordia,  gii  netta  le  labbra  come  a  un 
bambino  imbrodolato  di  pappa,  lo  piglia  per 
il  naso;  gli  mette  le  dita  in  bocca,  e  lo  alza, 
lo  abbassa,  lo  piega,  lo  gira  e  rigira,  quasi 
proprio  si  trattasse  di  un  fantoccio.  Qualche 
volta  anche  lo  scortica  e  lo  ferisce  esclamando 
con  disinvoltura:  non  è  niente.  Questo  trat- 
tamento è  dispotico,  né  vi  è  preferenza  per 
alcuno:  non  si  guardane  a  conti  né  a  mar- 
chesi: quella  seggiola  è  come  la  tomba;  ugua 
glia  tutte  le  età  e  tutti  i  ceti.  Il  paziente  poi  en- 
tra in  uno  stato  di  soggezione,  e  subisce  una  cor- 
rente magnetica.  Chiotto,  chiotto,  senza  fiatare, 
senza  lamentarsi  lascia  agire  il  tiranno,  as- 
sai fortunato,  se  si  alza  colla  gola  sana. 


~  200  — 
Finiremo  dunque  come  abbiam  cominciato, 
asserendo  che  il  parrucchiere  è  un  essere  sui 
generis  e  non  ha  riscontro  in  natura,  aggiun- 
gendo poi  che  egli  è  sempre  odoroso,  buon 
patriotta,  qualche  volta  semi- letterato  come 
il  mio,  e  gran  leggitore,  nelle  ore  di  ozio,  di 
giornali  e  di  opuscoli,  su  cui  fa  note,  chiose 
e  commenti,  specialmente  il  sabato  sera  al 
pubblico  insaponato. 

Cece 


£61   — 


SAGOGE 


La  prima  battaglia  in  campo  aperto  tra  Ita- 
liani e  Austriaci  fu  quella  di  Sorto  e  Monte- 
bello.  Vi  accorsero  gli  studenti  di  Padova,  molti 
artisti  e  altri  veneti.  L'Autore  era  con  essi. 
Durò  molte  ore.  Il  soverchio  numero  dei  ne- 
mici vinse.  L'Autore  fa  degli  ultimi  a  ritrarsi 
con  un  amico  trevigiano.  Dopo  una  notte  e  un 
giorno  coi  piedi  feriti  e  sanguinosi  si  ridusse 
a  Vicenza,  dove  credevasi  morto.  Presa  questa 
città,  tornò  a  Firenze  col  grado  di  ufflziale. 
Fu  impiegato  al  Governo  di  Livorno.  Emigrò 
lungamente.  Tornato  in  patria  dietro  l'amnistia 
fu  per  la  terza  volta  incarcerato  senza  alcun 
motivo,  e  quindi  messo  in  domicilio  coatto  a 
Pontassieve.  Gli  ottimi  paesani  lo  accolsero 
con  amore  fraterno.  Questa   l' ultima   di   sue 


—  262  — 
dolorose  vicende  politiche.    —    A   nostra   ri- 
chiesta Ei  dettava  le  seguenti  poche  parole  : 


A    SO  R  I  0 


10  vi  saluto  0  colli  di  Sorio,  dalla  sventura 
tì  dalla  gloria  auspicati. 

11  pellegrino,  che  dalla  vostra  balza  si  af- 
faccia, allieta  il  guardo  sulla  verde  pianura, 
stesa  dal  placido  Chiampo   all'  Adige  sonante. 

Sui  vostri  gioghi  convenne,  o  colli  augu- 
rosi, la  veneta  gioventude  a  fronteggiare,  la 
prima  volta  in  campo,  il  nemico  straniero. 

Furono  notti  di  patimento  e  di  tedio. 

Impegnossi  aitine  ineguale  poderosa  la  pu- 
gna, che  il  sole  illuminava  dal  suo  oriente 
all'occaso. 

Ci  oppresse  il  numero  ma  fu  vittoria  la 
sconfitta. 

Il  sangue  dei  prodi,  o  colli  di  Sorio,  impor- 
porò le  vostre  glebe,  né  però  foste  maledetti 
come  di  Gelboe  i  monti. 


—  263  — 

In  voi  la  prima  sfida  venne  gettata  dell'au- 
sonio valore. 

Eppure  la  cronaca  vi  rammenta  appena,  e 
il  lascivo  poeta  tramuta  la  vostra  storia  nella 
leggenda  servile. 

0  superstiti  compagni  della  ben  durata  bat- 
taglia, uniamoci  insieme  a  un  imperituro  ri- 
cordo. 

Sorga  sui  colli  di  Sorio  un  cippo  votivo,  che 
additi  al  mondo  della  libertà  nostra  l'aurora. 


BSRATA-CORRIGE 


pag. 

verso 

ove  dice 

leggasi 

19 

15 

natio 

natio 

27 

11 

pioveva 

spargeva 

37 

5 

dagli 

degli 

77 

1 

atri 

atrii 

88 

8 

unite 

unisco 

97 

6 

oste  turco 

oste  turca 

114 

■16 

del  folle  strupo. 

del  folle  strupo 

135 

12 

voleva 

vele  a 

137 

6 

pasticcer 

pasticcier 

189 

1 

Cilcope 

Ciclope 

> 

19 

variante 

svariato 

198 

27 

uffizio 

ufizio 

208 

20 

musaico 

mosaico 

144 

7 

innoltre 

inoltre 

» 

8 

appicca 

appiccica 

INDICE 


Ragione  dell'Opera Pag.    3 

POEI-IE  MUSICATE. 

Aiìnina  —  Leggenda  storica  (sulFaria  del  Pesca- 
tore)  >.        9 

La  morte  dei  fratelli  Bandiera  —  Canzone  sto- 
rica (sull'aria  della  «  Vaga  Clari  »)..,»        17 

Il  ritrovamento  di  un'Amica  —  (sull'aria  della 

Rondinella) »       23 

Abìidhalla  —  Romanza  moresca  (sull'aria  «  Mia 

bella  l'undici  son  sonate  ») »       20 

Lande  a  Maria  di  Maggio  (sull'aria  del  coro  della 

S{ra.n'ievh  <ii  Paì-i  all'amor  degl'Angeli  »)     .     .    »      29 

Lai'de  a  Maria  Assunta  (sull'aria,  del    coro  dei 

Lombardi  «  0  Signor  che  dal  tetto  nat'io  »)     »       32 

Giìdia  Gentile  (aria  omonima) »       35 

Lìti  e  Lei  — (Coppiola  erotica  sull'aria  «  Quando 

sarò  Ingegnere  >) »       37 

Il  Primo  .4/j)oj'^  (sull'aria  «  Ti  voglio  bene  assai)     »       38 

Il  Montagnolo  che  va  in  Maremma  (aria  omonima)    »      40 


—  -2CG  — 

Ersilia  (sviiravia  «  Priro  dell' Aìììoì"  mio  >•)  .  Ph; 
I  pregi  del  Porco  di  ritnpetto  alla  soriela    (sul- 

Faria  delia  «  Clarina  di  Berchef  »....» 
Romanza  alla  sig.  R.  C.  (sull'aria  della  «  Clari/ui 

di  Berchet  ») » 

La  Fame » 

POESIE  NON"  MUSICATE. 

Seguito   della   Parisina  (ila  Pyron  con  varianti.  » 

Alla  Plebe » 

Epitalai/Ho  (in  rime  sdrucciole  e  p^a-itlnentl)  .     .  » 

L'Addio » 

Altro  Addio » 

L' ulti/no  giorno  di  Missoliingi » 

Delirio » 

Per    la    solenne    festa  del   S.    Chiodo     a    Colle 

d'Elsa » 

Verghereto  (Romagna) » 

Dio  e  Satana  (Confutazione) » 

Prognostico  per  il  Capo  d' Anno  1853  .  .  .  '  » 
Per  le  Reali  no:ze   della  Princijìessa   Margite- 

rita  col  Principe   U/nberto » 

Al  Principe  Federigo    di  Prussia    presente  alle 

Reali  Nozze » 

L'Addio  della  Sposa  norella  alla  sua   Cannerà  .  » 

Ad  -lina  Madre » 

Apologo » 

Vita  del  Larliera » 

Testamento  del  Lachcra » 

L'Addio  al  Fiasco » 


42 


44 


47 
50 


72 
79 
85 
02 
Olì 
101 


i«r, 

109 
112 
lli3 

12.-. 

128 
Uù 
l:12 
135 
137 
147 
1.ÒJ 


Ì67 


PROSE. 


Bcminisceìi^e  notturne  fiurenthic P-^g- 

Cicalala  sui  Fegatelli,  dettata  da  Cece  e  recitata 
da  SnccHiPXLiNO,  Cherico  del  Piovano  Ar- 
lotto nell'ultima  cena  del  Carnevale      ...» 

Lr  Feste  di  Firen  :e  alla  renìi.tarlel  Br  (dal  Diario 
di  Cece) » 

Le  Mez-zecode,  ossin.  Il  Castello  della  Contessa 
di  Cirillari 

Lr  Quattro  Stagioni  (alle  «ole  Donne)    ... 

Domenico  Somigli  detto  Buco  St'Dicio    ... 

I  Parrucchieri 

A   Sorio  (Reminiscenze  di  guerra) , 


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