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; ARBOR
Presented to the
LIBRARY o/r/ze
UNIVERSITY OF TORONTO
from
the estate of
GIORGIO BANDINI
r^
GUAZZABUGLIO
OSSI.V
VARIETÀ DI POESIE E SAGGIO DI PROSE
DI
P. GIACCHI
PufaLIicafe per cura degli Editori
della Tipografia dell'Associazione
FIRENZE
Tipografia dell' Associazione
Via Valfontla, 79
1875
]V. B. — Le poesie rimate vanno tutte
sopra arie toscane, belle, e non monotone.
RAGIONE DELL'OPERA
Era già del tempo die noi avremmo avuto
desiderio di stampare le Poesie del Profes-
sore Giacchi, ma non sapevamo come fare,
giacché Egli ha l'abitudine non bella di do-
nare i suoi scritti senza ritenerne copia al-
cuna. Finalmente , approfittandoci dell' esibi-
zioni dei suoi Amici, siamo andati raggra-
nellando le sparse p)oesie qua e là e perfino
dalla gente del popolo. Fatto sta che abbiamo
raccapezzalo almeno la metà delle tante da
Lui composte, ma che basteranno a palesare
la versatilità del suo ingegno. D'altronde lo
scopo dell'autore ci parve ottimo.
Esso ha voluto dare al popolo, che vuol can-
tare a ogni costo, delle poesie con del senso
comune, e prive di oscenità. Questo sacro-
santo scopo lo tentava il suo venerato Nic-
colò Tommaseo in una raccolta di stornelli,
ai quali però non seppe dare il ritmo. Più
tardi il Maestro Gordigiani fece lo stesso, e
riuscì a bella musica, ma il popolo non l'ac-
cettò. Il Giacchi invece produsse arie cono-
sciutissime, e ottenne di sentir ripetere i suoi
versi con amore.
Ci duole che quest'arie non possiamo ri-
2)rodurle con note. A Firenze vi è di fedo di
quest'arte, o almeno riesce carissima. Figu-
rarsi! Ci narra l'Autore che per musicare
quelle quattro parole della sua Fame, in po-
che copie, spese lire 40 ! Ci è convenuto quin-
di indicare solamente l'aria sotto ogni Can-
zone alla Beranger. Speriamo che a Milano,
0 a Napoli dove le note costano poco, sia
richiesta la proprietà letteraria, o la ristampa
se avviene, e allora con eque condizioni l'au-
tore si presterebbe a detiare la musica sul
piano -forte.
Alle poesie musicate si aggiungono altre
senza musica. L'espresso divieto dell'Autore
c'impedisce di farne l'elogio, ma i lettoìn sa-
- 5 -
pranno giustamente apprezzarle. Né faccia
specie la varietà dei temi e delio stile. Ciò
sta nella natura slessa dell'Autore, e nelle
diverse fasi sociali che Egli dovette subire.
Del resto ci sembra che Egli non abbia mai
mancato ai sentimenti di probo cittadino, e
di delicato poeta.
Alle poesie accoìjpiamo un saggio di prose
per manifestarne la purgatezza dello stile, la
disinvoltura, e la leggiadria. Le abbiamo tol-
te in parte dal Piovano Arlotto Periodico
restato a ragione monumcìitale per lingua,
letteratura, scienza d'arti, estetica di musica,
e in cui scrìvevano le pili illustri ^jenne d'I-
talia. L'Autore fu dei primi e più assidui
collaboratori sotto il pseudonimo di Cece. —
Le misure compassive dell'opera non ci han-
no permesso d'inserire altri suoi scritti, che
avremmo volentieri riportato, specialmente
« / Dialoghi de' Morti », che l'insigne filologo
Pietro Fanfani chiamava Lucianeschi.
Forse ci sarà tempo, ma intanto ci prote-
stiamo coi Cortesi Lettori
Ohhìigati e Devoti
GLI EDITORI.
POESIE MUSICATE
SAGOGE
BartolommBO Sestini, nato su quel di Pistoia,
Ingegnere e disegnatore distinto, fu l'autore
del Poema Romantico La Pia de' Tolomeì e di
altre lodate poesie; celeberrimo improvvisato-
re e caldo patriota subì nel 21 lunga carcera-
zione nel Regno di Napoli. Liberato per me-
diazione di Vittorio Fossombroni, insigne pro-
tettore dei letterati, e ridotto in patria, amò
una giovane popolana che faceva la treccia da
cappelli di paglia, ricchezza allora della To-
scana. Egli la educava per farsene una moglie,
quando in una burrasca di autunno essa fu
uccisa dal fulmine. Le persecuzioni della po-
lizia e questa ultima dolorosa catastrofe de-
— 10 —
terminarono il Sestini ad esulare. Fu onorato
a Parigi col titolo di « Tirteo italiano »
Mori giovane di solo oltre 30 anni, di con-
gestione cerebrale. Sul tristo caso dell' An-
ilina la fidanzata che sopra l' autore com-
pose la seguente pietosa leggenda, che da
molto tempo si canta dal popolo in Firenze
sulla chitarra.
ANNINA
(Suir aria del Pescatore.)
1.
In riva dell'Ombron
Nel pistoiese suolo.
Là dove 1' usignolo
Canta la sua canzon,
Viveva una donzella
Che il pregio avea di bella
E a cui quella beltà
Le grazie aumentavano
Della primiera età.
— 11 —
2.
Egli era suo raestier
Coir industriosa maglia
Intesser quella paglia
Che piace al forestier.
Che passa i monti e il mare
E che dovunque appare
i-iammenta con onor
Delle toscane artefici
Il più gentil lavor.
3.
Annina il nome fu
Della fanciulla altera.
Che si mostrò severa
Con chi l'amò di più :
Ma il fanciuUetto amore
Alfin destò l'ardore,
E chi rapille il cor
Fa giovin vate celebre
Per r estro animator.
— 12 —
Sestinì ella mirò,
E ambo sentirò in petto
Scambievole un affetto
Che mai si cancellò :
Egli cantava ognora
Di lei che lo innamora,
Ed ella ripetè
Quei versi tenerissimi
Pegni di eterna fé.
Quando al venir del sol
Alza dal molle prato
Col canto innamorato
La lodoletta il voi.
Lunghesso il patrio fiume
Parlarsi avean costume,
E rallegrarsi il cor
Allo spirar dell' aure.
All' olezziar dei fior.
- 13 —
6.
Ma se di bianco vel
La luna rivestita.
Di dietro al monte uscita,
Spargea le perle in ciel.
All' ombra delle piante
Siedea la coppia amante,
E i muti campi udir
In quella quiete placida,
Un bacio ed un sospir.
7.
Era nella stagion
Che r uva si matura
E porge la natura
Dei frutti il ricco don :
Annina assisa eli' era
Sotto una querce altera.
Cantando in suo lavor
Di Vienna bella e Parise
L' avventuroso amor.
— 14 —
8.
Ed ecco il sol spari.
Fiero levossi il vento
E parve in un momento
Cambiarsi in notte il di:
Della procella il seno
Solcando va il baleno,
Mugghia da lungi il tuon,
E lo precede il turbine
Con fragoi'oso suon.
9.
Segnossi e trepidò
La giovine infelice :
Si prostra e preci dice.
Ma il fulmine piombò...
Figlio della tempesta
Fulmin crudele arresta ;
Al bieco tuo furor
Immola una altra vittima.
Distruggi un altro cor-
— 15 -
10.
Di nuovo il sole in ciel
Pomposo fé ritorno.
Tornò di nuovo il giorno
E i fior sopra lo stel.
Ma la leggiadra Annina
Non sorge più, meschina r
Spari tanta beltà.
La trista morte squallida
Sul caro viso sta !
i\.
Del caso il gran terror
Empi quelle campagne
E venner le compagne
Piangendo di dolor,
E la donzella cara
Composer nella bara,
E lungi la portar
Dove di un colle al vertice
Umil chiesetta appar.
IG —
12.
Sestini intanto, oimè I
Udita sua sventura
Alle romite mura
Rapido mosse il pie ;
Vide la bella estinta
Di bianca veste cinta;
Non pianse, non pregò.
Nò un moto sol dell' anima
Sul volto tramandò.
13.
Muto, severo uscì,
Diede un estremo addio
Al tetto suo natio.
Per sempre indi parti :
Tra la straniera gente
Menò vita dolente,
Finché cessogli il cor
Di batter per la patria,
Di palpitar di amor.
17 —
ISAGOGE
Chi furono i fratelli Bandiera tutti sanno.
Emilio ed Attilio nati a Venezia, ed Alfieri
della Bellona, di cui era ammiraglio il padre
devotissimo all'Austria. Addetti alla Giovine
Italia, e sedotti dalla speranza della sua im-
minente liberazione, disertarono nel 1845, e
col leggiadro e prode Domenico Moro, Rie-
ciotti ed altri generosi si recarono in Cala-
bria dove speravano un'insurrezione. Sparsero
proclami, combatterono con estremo valore
contro i Regi, ma superati da soverchio nu-
mero, e tradotti a Cosenza, quivi furono fu-
cilati. Non vollero benda, si baciarono, e mo-
rirono con in bocca un'apostrofe all'Italia.
L'autore essendo a Livorno la sera dell'in-
fausto annunzio, nella retrostanza d'un caffè,
vivamente stimolato, scrisse la seguente Can-
zone, che poi per anni lunghi fu colle solite
2
— 18 —
precauzioni cantata, e servi a mantenere gli
spiriti patriottici — E dedicata alla Madre dei
Martiri.
LA MORTE DEI FRATELLI BANDIERA
(Suir aria della « Vaga Clori »)
Sorge il dì sereno e bello
D' Adria spunta lieto il sol.
Dei Bandiera nell' ostello
Sta silenzio ed alto duol.
Una donna in bruno ammanto
Nova Niobe s' impietrò ;
Senza moto, senza pianto
L'occhio a terra si fissò.
È la Madre, oh rio cordoglio I
Degli eroi che furo un di
Di sue viscere 1' orgoglio
Neil' amor che a lei gli uni.
— 19 —
Non più lieta di sua prole
Tutte gioie le mancar ;
Si oscurò per lei quel sole,
Tristo è fatto a lei quel mar.
Pensa ai di lieti e ridenti
Quando stretti i figli al cor.
Raffrenava in lor gli ardenti
Primi slanci del valor.
Queir istesso ahimè valore
Che li trasse in altra età
A spruzzar di sangue il fiore
Di che cinta è Libertà!
Cuor veloce in mezzo al petto,
Senno acuto e prode man
Nel natio macchiato tetto
Tratteneva i figli invan,
Quando udir grido sonoro
Degli arditi che si unir
In Calabria e sul Peloro
Per dar morte o per morir.
— 20 —
È quel grido onnipossente,
Ed il mar varcato fu —
Va pur, vola o coppia ardente
Sulla via della virtù :
Pugna a strage e la vittoria
Tanto ardir coronerà,
0 veridica l' istoria
Il tuo nome eternerà.
Ma qual vedo atro apparato
D' empi sgherri e d' empio Re ?
Ahi f il tiranno ha trionfato.
La giustizia soccombè.
Oh ! fermate vili voi,
Prodi il numero vi fa;
Rispettate degli eroi
La costanza e 1' amistà.
Grido invan; sono i Bandiera;.
Un Ricciotti, un Moro ancor.
Che tradita e poca schiera
Pur sostiene alto valor.
Il Re vii della vii pugna
Gode i frutti di raccór.
Come tigre che oprò 1' ugna
Sopra il misero pastor.
Ecco i ferri e le ritorte
Gr infelici circondar,
E ministri della morte
Gli archibusi luccicar.
Fermo il pie, volto più fermo
Hanno i martiri del ver.
Né di benda si fa schermo
L' occhio avvezzo a non temer.
« Viva Italia! il nostro sangue
« E battesmo a libertà :
« Qual rugiada al fior che langue
« Nuova vita apporterà. »
Così dissero ed al cielo
Volto il guardo a Dio pregar,
E racchiuse in santo zelo
L' alme unite sen volar.
5-2
Ma a te madre inonda il seno
Largo pianto in caldo umor —
Ah ! il mio canto ruppe il freno
Del racchiuso tuo dolor.
Piangi si : storia dolente
10 narrai che ti feri ;
Forse storia più ridente
Fia eh' io narri in altri di.
Se tai madri e tali figli
Spesso r Adria a noi darà,
11 Lion coi novi artigli
La sua chioma arrufferà :
Che dei prodi il puro sangue
È battesmo a libertà —
Qual rugiada al fior che langue-
Nuova vita apporterà.
— 23 —
IL RITROVAMENTO DI UN'AMICA
(Sull'aria della Rondinella)
(A commento dell'ultime sestine ò da dire che quando la
dettò r autore era assai malato).
Ti rammenta la dolcezza
Della nostra gioventude ;
Del tuo colle la vaghezza.
L'orizzonte che lo chiude.
Lieti i giochi e le parole.
Altri campi ed altro sole !
Eri allor come il sorriso
Della stella sul mattino,
Eri l'angiolo indiviso
Che guidavi il mio destino ;
Sempre cara, sempre bella.
Putativa mia sorella.
— 24 —
Poi spariste — e io pur sparito
Me ne andai di gente in gente^,
Ma col cuore al patrio lito
Io tornavo di sovente.
Ricercando di colei.
Che fu luce agli occhi miei.
Oggi dopo errar cotanto,
Dopo l'aspre mie vicende.
Ti rivedo nell'incanto
Dell'età che ancor mi accende.
Sempre cara, sempre bella,
Putativa mia sorella.
Ma già sento della vita
Lo sgomento in mezzo al petto;
Scenderò dove m'invita
Il sepolcro nel suo letto :
Tu pietosa sulla sera
Per me sciogli una preghiera.
— 25 —
Ed io giunto innanzi a Dio,
Se la speme non m'inganni.
Non saprò porre in oblio
La fanciulla dei prim'anni,
E otterrò con santo zelo
Ch' ella a me si unisca in cielo.
— 26 —
ISAGOGE
Questa Romanza si riporta ai tempi che i
Mori invasero la Spagna, occupando le Pro-
vincie meridionali di Murcia, Valenza e Gra-
nata. In Granata avevano la lor reggia nel
famoso Palazzo detto L' Alhambra (1). Gli
Abecenradi, di razza Araba, furono prodi guer-
rieri e portarono le scienze e le arti nel-
r Europa abbrutita. Di uno di questi regnanti
ha fatto r A. la seguente Romanza.
ABUDHALLA^2)
(Sull'Aria * Afia bella l'undici sono sonate »].
Era Abudhalla Sultan di Granata
Prode in armi, leggiadro d' aspetto,
E un grand' amore gli ardeva nel petto
Per Gulnara (3) sua schiava gentil.
(1) Alhambra— in Arabo, Palazzo rosso, perchè fatto di mat-
toni.
i2) Abudhalla — Ama-Dio. —
(3} Gulnara — Dalle belle guancia.
-> 27 —
L'occhio a gazzella (1) ed il seno di neve,
Sulla bocca la rosa florìa:
Anco Gulnara di amore languia
Ma schivava gli amplessi del Sir,
Invan 1' Alhambra nell' arabe sale
Risuonava dell' arpe e del canto :
Quella ritrosa sentiva l'incanto,
Ma schivava gli amplessi del Sir.
Era una notte silente, serena,
Profumata dai fiori di Maggio;
La bianca luna pioveva il suo raggio
Sul veron della torre orientai.
Quivi il sultano e la schiava sedeano
Ai fidati discorsi di amore,
E a poco a poco a Gulnara nel core
Scendea la smania della voluttà:
Un bacio, un altro, una stretta sul seno
Abudhalla al trionfo è vicino
Ahi! nello sforzo ella fece un petino,
E fu rotto r incanto di amor.
(1) Gazzella— Specie di Capra con occhio bello ed espressivo.
— 28 —
Questa chiusa non poteva piacer troppo a
quelle Donzelle che 1' avrebbero cantata sul
Pianforte; quindi l'A. la mutò cosi:
Quivi il Sultano e la Schiava sedeano
Ai fidati discorsi d' amore
E a poco a poco a Gulnara nel core
Scendea la smania della voluttà.
Ma impallidita rizzossi ad un tratto
E carpito il tagano (1) all'amante:
Sposami, disse, o t' uccido all' istante.
Ed io sopra il tuo petto morrò.
Questa ferocia d'amore pudico ■
Fu una potenza per l'Arabo arcana:
Tosto la Schiava divenne Sultana
E fur paghi gli amplessi del Sir.
(1) Tagano — Jatagan, pugnala ricurvo usato in Oriente
— i9 -
LAUDE A MARIA DI MAGGIO
(Sull'aria de] coro della Straniera « Pari alVanior degli angeli»)
{Scrina al tempo della crittogama)
Sposa al Divino Spirito,
Madre del tuo Signore
Figlia del primo Amore
Bella Maria siei tu.
Tu dei lontani secoli
Vaticinata speme
D'Eva rendesti al seme
L'antica sua virtù
— so-
li trono tuo degli angioli
Va sopra l'ali ardenti.
L'atre procelle e 1 venti
Taccion dinanzi a te:
Serto di stelle limpide
Intorno al crin si aduna.
Sulla falcata luna
Muovi, 0 Leggiadra, il pie.
Padre dei campi floridi
Lieto ritorna il maggio;
Tepido piove il raggio
Il re dello splendor.
E la romita mammola
Dalla scoscesa balza
A te. Regina, inalza
Il suo soave odor.
— 31 -
Deh I col profumo tenue
Dei verginelli fiori.
Anco dei nostri cuori
Accetta il palpitar.
Tu delle grazie provida
Alle pentite genti.
Tu dei mortali eventi
Il nume tutelar.
Salva la messe tenera
Dalla crudel tempesta;
Rendi all'usata festa
La vigna che languì :
Delle stagion volubili
Torni l'usata legge:
Goda il pastor e il gregge
Di più sereni dì.
— 32
LAUDE A MARIA ASSUNTA
CORO DI FANCIULLE
(Sull'aria dei Lombardi « 0 signore che dal tetto natio »).
Vergili bella che al limpido lume
Della Mente Divina piacesti,
Che il nemico infernale vincesti.
Calpestando il suo capo col pie.
Nel tuo seno si chiuse quel Nume,
Cui non basta a capire il creato, .
E dimesso l'antico reato.
Tutto il mondo fu salvo per te.
Tu siei Madre, siei Figliola, siei Sposa
Dell'Eterno Signor;
Tu ci assisti, ci consola pietosa;
Accetta il nostro amor — amor
- 33 -
Contro Te fu impotente la morte,
Percliè assiem col corporeo tuo velo
Fosti assunta dagli angioli in cielo
Dentro un raggio di limpido sol.
Qui dei Santi la varia coorte
Rende omaggio alla nuova Regina,
Ogni angelico spirto s'inchina.
Fiammeggiando nel rapido voi.
Tu siei Madre ecc.
Nuovo patto portasti alle genti,
Arca santa, Refugio al peccato;
Orto e Fonte racchiuso e segnato,
Verde palma in deserto sentier.
Fosti sempre conforto alle genti,
Se sventura o dubbiezza ne appare,
E col nome di stella del mare
T'invocò lo smarrito nocchier.
Tu siei Madre ecc.
— 34 —
Supplichiamo col flebile canto
Te che siei nostra sola speranza.
Onde armate di santa costanza,
Imitiam le tue belle virtù.
In quest'orrida valle del pianto
Noi moviamo inesperte ed erranti ;
Tu ci guida e conduci davanti
All'amato ed amante Gesù.
Tu siei Madre ecc.
Qual ruscello che scorre gemendo
Dove il lago a riposo lo invita,
Dei nostri anni tal scorra la vita
Dove Amore la chiama al suo sen ;
E di morte all'istante tremendo
Tu ci assisti, o soave Maria,
E solleva la nostra agonia
Additandoci il cielo seren.
Tu siei madre ecc.
- 35 -
GIULIA GENTILE
(Aria omonima)
Giovinetta in verde etade.
Quanto siei leggiadra e bella!
Tu rammenti quella stella.
Che apparisce innanzi al dì.
Giulia gentil — Dal bel color
Ah tu non sai — che sia l'amor
Ma forse un di — Giulia gentil
T'insegnerò — che sia l'amor (I)
Con quegl' occhi, con quel volto
La regina siei de'cuori.
Ma farfalla in mezzo ai fiori
Tu non sai dove posar.
Giulia gentil ecc.
(1] Di quest'aria che fu popolarissima l'autore mutò le quar-
tine, ma ha conservato il ritornello benché poco felice.
- 36 —
Qualche volta nel guardarmi
Tu sorridi al mio sorriso ;
Farmi allor che un paradiso
Si dischiuda innanzi a me.
Giulia gentil ecc.
Quando baci il canarino
Quanto invidio l'augelletto }
Quanto invidio quel mughetto
Che ti posa in mezzo al sen t
Giulia gentil ecc.
Cresci adunque, o bella, e udrai
Misteriosa una parola:
Tu l'ascolta e mi consola
Di sì lungo palpitar
Giulia gentil ecc.
- 37 —
LUI E LEI
[Coppiola erotica sull'aria « Quando sarò inr/egnere >)
Lui
Dammi de tuoi capelli.
Dammi la bruna ciocca^
Amor degli occhi beili^,
Delizia della bocca:
Dagli umidi tuoi labbri
Io coglierò la voglia ;
Leggier come una foglia
Un bacio io ti darò
Lei
Posa su miei ginocchi.
Posa la fronte altera.
Delizia di quest'occhi.
Bel fior di primavera :
Ricoprirò di baci
La bocca tua serena ;
L'anima mia con pena
Sui labbri arresterò.
- 38 -
IL PRIMO AMORE
(Sull'aria < Ti voglio lene assai >)
Il buon nocchier dimentica
Dd mar le insidie e l'ire,
E torna a quel pericolo
Ch'egli giurò fuggire:
Dimentica già vecchio
Le selve il cacciatore —
Ma il caro primo amore
Mai non si può scordar.
Nella pace domestica
Riposa il pro'guerriero,
Né di battaglie strepito
Più turba il suo pensiero;
Ed oblioso e tenero
In mezzo ai figli ei muore —
Ma il caro primo amore
Mai non si può scordar.
— 39 —
Il prigioniero libero
Scorda le sue catene;
Si scorda fin la patria.
Nelle lontane arene;,
Si scorda ogni periglio.
Si scorda ogni dolore —
Ma il caro primo amore
Mai non si può scordar.
— 40 —
IL MONTAGNOLO CHE VA IN MAREMMA
(Aria omonima]
Care montagne addio:
Vado in Maremma,
Ma r amor mio
Come una gemma
Lo serberò.
E tu da me divisa
Non pianger tanto
Povera Lisa;
Rasciuga il pianto
Ch' io tornerò.
Se in cielo si presenta
La vaga stella.
Guardala attenta
Che io pure o bella
La guarderò.
— -il —
Se il vento in giù si muove
Manda un sospiro;
Ei saprà dove
Allor mi aggiro
E dove io sto.
Quando dalla finestra
Vedrai fiorire
Quella ginestra^
Tu puoi ben dire
Gli è per tornar.
Ed io portar ti voglio
Un bel violo
Pien di rigoglio,
E un bacio solo
Mi devi dar.
- 4-2 —
ERSILIA
Questi pochi versi furono scritti dall'Autore
ad istanza della sua fantesca Maria Lanini per
la morte della nipote Ersilia Lanini, cara
bambina, delizia e pianto di entrambi.
(SulTaria bellissima recente popolare « Privo deWomor
mio viver non posso più »J.
Avea nov' anni appena.
Era un desio di amor;
La faccia sua serena
Rassomigliava un fior;
E rallegrar sembravasi
Al suo sorriso il ciel,
Dove appariva l'anima
Placida e senza vel.
— 43 -
Domestici i lavori
Tesseva oltre l'età.
Affetto ai campij ai fiori,
Ai poveri pietà;
E il culto della Vergine
Prediligea cosi.
Che al sacro aitar prostravasi
Spontanea in ogni di.
Eppure essa morìa
E piena di martir 1
Sui labbri della zia
Fu l'ultimo sospir;
Ridirne i detti teneri
Bocca non può quaggiù.
Volò farfalla candida
In seno di Gesù.
— 44 _
1 PREGI DEL PORCO
Dirimpetto alla Società.
[Sull'aria della « Clarina » di G. BerclietJ
Non è in terra un animale
Util tanto ad ogni gente.
Quanto il celebre Maiale
Vero tipo del candor ;
Viva il Porco seducente
Tutto pieno di sapor.
Lesso il Grifo e gli Zampetti
Non son cibi, ma son gemme,
Gli altri lessi piìi perfetti
Lascio a chi gli vuol mangiar,
La Cotenna lemme lemme
Va giù senza masticar.
— 45 —
CotegMni bene asciutti
Chi non mangia grave pecca,
I Salami ed i ProsciuUi
Chi non compra? chi non ha?
Ma in gratella la Bistecca
Come in trono se ne sta.
La PorcJieUa cotta in forno
Lo Stufato con le mele
Tanto piaccion che d'intorno
Sempre han gente per comprar,
E la colica crudele
Fan dal ventre allontanar.
Ecco l'Arista odorosa,
Ecco qua la Soprassaia
Con la polpa rugiadosa
Che il calletto tien con se^,
Bene stretta, ben drogata
È un boccon degno dei Re.
— 46 —
Quella Gola è saporita
Variegata è quella Spalla ;
L'una e l'altra a nuova vita
L'affamato torneran,
Ma coi Rocchi non si falla
Se in tegame si faran.
Or per ultimo vi voglio
Nominer cibo più bello^
Di cucina il primo orgoglio
Che raggiunger non si può,
L' irretato Fegatello
Che il tartufo superò.
Cantiam dunque uniti in coro
Con il ciglio reverente :
Viva questo gran tesoro
Questo palpito del cuor.
Viva il Porco seducente
Tutto pieno di sapor.
Viva il Porco seducente
Ch'è l'emblema del candor.
— 47 —
ROMANZA
ALLA SIGNORA R. C (1)
(Sull'aria della « Clarina » di Berchet).
Tutta mesta, tutta sola.
Vaga donna innamorata,
Qual mai detto ti consola,
Qual conforto è nel tuo cuor ?
Piangi piangi o sventurata,
È supremo il tuo dolor.
Sul tuo capo è inaridita
La ghirlanda dell' Imene ;
Sparve il sogno della vita,
Sol l'affanno ti restò —
Quelle dolci tue catene
La sventura le spezzò.
(IJ II marito della suddetta signora era nel Manicomio.
— 48 -
Scese il buio nel pensiero
Al tuo florido marito ;
Il sorrìso lusinghiero
In quel labbro illanguidì ;
Ma nel senno suo smarrito
Sta r immagine di un di.
Di quel giorno in cui dall' ara
Ambo accolse il Sacerdote —
Rimembranza sempre cara,
Chiaro lampo di piacer —
Sale il sangue sulle gote
Air indomito pensier.
Né il più vedi I da lontano
Come tortora fedele
Gemi sempre, e gemi invano.
Mesci il pianto col pregar —
Il destin fatto crudele
Par eh' esulti al tuo penar.
- 49 —
Pur neir anima costante
Sia la speme revocata;
Ma finché rieda l' istante
Della fede e dell' amor.
Piangi piangi o sventurata ;
È supremo il tuo dolor.
— 50 -
ISAGOGE
Questa canzone fu scritta e musicata dal-
l'Autore nel 1868 quando eravi fame nell'Al-
geria, quando la carestia minacciava l' Italia, e
il solito monopolio aveva fatto scomparire
anche la moneta erosa.
LA FAME
Io sono la Fame,
Che picchio alle porte :
lo son la terribile
Ministra di morte ;
Cogli occhi di scheletro.
Col nudo carcame —
La Fame ! La Fame !
- 51 —
Giacevo dell'Affrica
Sili lido infocato:
Chiamommi in Italia
Un turpe mercato,
E corsi per compiere
Le sordide trame —
La Fame ! La Fame !
Dei cenci battuti
Divenni regina;
Innanzi mi spinsero
E furto e rapina;
Sparito il commercio
Coir oro, col rame —
La Fame ! La Fame !
Cessate il tripudio
Di balli e di scene :
V'impone silenzio
La Fame che viene ;
Lo impone dei poveri
Il lurido sciame —
La Fame ! La Fame !
Vedete quei pargoli
Dai pallidi visi.
Ridotti cadaveri !
Son io che li uccisi:
Io sono la pronubla
D'un' epoca infame —
La Fame I La Fame !
Vedete quei popoli,
Che corrono insieme ;
Che r armi brandiscono
La Fame li preme:
Oh come disfogano
Le vindici brame t —
La Fame ! La Fame !
POESIE NON MUSICATE
SEGUITO DELLA PARISINA
(da Byron con varianti]
1 S 50
Ugo morì — Di Parisina il fato
Altri non seppe nell' Estense corte ;
Ma sommesso il ridisse un' uom contrito
Neil' estremo di morte, e a noi pervenne
Paurosa leggenda e custodita.
Era queir uom d' Azzo un fedele, e tutti
Gli arcani conoscea del suo signore^
Compagno di virtudi e di delitti.
— t>6 —
Sul grand' arco del ciel folgoreggiando
Saliva il sole e i raggi suoi spargeva
D'Ugo sopra del cippo insanguinato
Come sul cespo della rosa — uguale
E imperturbato negli umani eventi.
Ma non luce di sol le volte antiche
Rischiarava del carcere, ove il pianto
Cessato avea la bella Carrarese.
Stupida, muta, affisa il ciglio asciutto
Su fioca lampa, che posava appresso,
Stavasi Parisina accovacciata
Sulle tavole rudi, e il suo pensiero
Come fantasma all' egro iva e tornava.
Senza che sforzo della mente stanca
A-fferrar lo potesse — A un tratto un guizzo
Di quel lame sfavilla, e come un lampo
Percote gli occhi alla smarrita — In piedi
Levossi essa, e portate ambo le palme
Sulle trecce scomposte, qual volesse
Un pensiero scacciar di troppo affanno.
« Oh l'avessero ucciso ! essa esclamava :
« Minacciato 1' avean, ma come il padre
« Può contro il figlio decretar la morte?
« Ah no ! di Azzo nel cor l'ira bollente
« Calmato avrà natura — io sola, io sono
« La moglie rea, che raerta pena, e avrolla
« E dolce flami di morir per esso
« E il pianto averne sulla tomba — ahi lassa
« Cosi strappando vo' questo tremendo
« Amor del petto? — Ma che mai potea
« Inesperta fanciulla a sposo in braccio
« Di canuti capelli, e che si vede
« Cara apparir la lusinghiera iramago
« Che a lei venia ne' sogni suoi sovente ?
« Era si bello ! era si prode ! e tanto
« Di amor parlava con gentil favella !
« Oh i baci suoi!... misera me che penso?
« Cosi prego Colui, che un di concesse
« All' adultera donna il suo perdono ?
« 0 degli afflitti e dei pentiti dolce
« Patrono e difensor, debole, sola,
« Peccatrice, soccorrimi — ricevi
« Quest' agnella smarrita al santo ovile »
Cotal pregava e le scendea di pianto
Caldo conforto sulle gote, quando
I cardini stridean dell' urail porta
E uno sgherro apparìa, cibo recando
E alimento alla lampada — Ansiosa
— 58 -
Parisina il richiese « e d'Ugo, disse,
« Dimmi che fu? — fammi parola — in nome
« Di Dio tei chiedo — per la madre tua,
« Se ti fu cara — per 1' estremo punto
« Di nostra vita — o crudo, io non ti lascio
« Se pria. .. — La spinse indietro il rozzo fante
E come muto erale apparso, muto
L' abbandonava nella ria prigione.
Più giorni e giorni 1' infelice donna
Pianse e pregò — de' suoi monili e delle
Gemme, onde un giorno nelle sale altera
Mostra e ornamento fece a sua bellezza,
Il tesoro proiFerse, e sempre invano,
Che il terror contenea chiuse le labbra
E più dell'avarizia era possente.
Chi può ridir le travagliate notti
E il pregare e 1' odiare, alternativa
D' ore che eran per Lei secoli eterni '?
Anco tentò la morte, e sconoscendo
La divina pietade, al muro incontro
Già percoteva il capo — in queir istante
Dell'etèrno martiro le si offerse
Tremendo 1' avvenire, e ormai ridotta
59
Alle memorie sue di fanciullezza
Sopportò quella sua dolente vita.
E come tutto ha sua vicenda, e l'alma
Lungo non soffre di un sol carco il pondO;,
Appoco appoco a Lei tornò la quiete,
Larva mentita di spossata idea,
E la dolce speranza ed il desio
Di riveder l' aure serene, e mite
Se non lieta rifar sua giovinezza.
Intanto un libro, che la madre sua
Donato aveale bambinetta, ed era
Storia di Santi, e di eremiti, trasse
Dal seno ove il tenea quasi reliquia
Di lei perduta in sul fiorir degli anni,
E raccolta leggea, sentendo in core
Piover la manna di quei santi accenti.
Ed ecco un di mentre ella intenta stava
Agli antichi racconti, in sulla soglia
Azzo apparire, il suo consorte — un balzo
Essa fece e tremava in tutte membra,
Ma quegli procedea pacato in volto,
Non irato, non truce, e tali detti
Con lenta voce dispiegando andava.
< Parisina il rammenti ? a noi venisti
— 60 —
« Fanciulla ancora, e questa terra e questo
« Palagio mio ti accolse ospite illustre
« Ed onorata — tu cresciuta, e gli anni
« Di virtude adornati e di beltade,
« Molti richieser la tua mano — io fui
« Che ti nomai gii amanti, il nome e il grado,
« Offrendo in uno le mie nozze, e sola
« Arbitria te della tua scelta io feci.
« Piacque a te preferirmi, e s'io fui lieto
« Dello strinto imeneo, lo dica Italia,
« Clio mai non vide di pompose feste
« Spettacolo simile, onde più altero
« L' Eridano sen corse all' Adria in seno.
« Ma di festivi omaggi eri tu schiva,
« Ed una cura ti tacea nel seno,
« Mal lusingata e mal celata troppo.
« Il mio figlio riedea : di amor nascoso
« Figlio diletto, e caro or più, che cinto
« Degli allori marziali, appresso al padre
« Ne cresceva 1' orgoglio — Io non temea,
« E voi come pupille di quest' occhi
« Amava io si, che mi esultava il cuore
« Qualor sorpresi nei colloqui insieme.
« Sgomenti vi veJea, quasi che questa
— 61 —
< Troppo canuta etade, i vostri lieti
« Consorzi scompigliasse.Aliimenche a padre
« E a sposo amante esser dovea di dubbio,
•< Dubbio fatai l' inopportuna tema !
« Il resto chi noi sa ? la mia cittade
< Non sol, ma quanto ha di paese intorno
< Ridice il vostro fallo, e l'onta mia.
<< Ecco, io per te, donna fatai, son fatto
« Alle genti ludibrio, io che superbo
«< Della ducal corona, iva del pari
<,< Coi maggior prenci nella mia possanza !
< Pur non ti aborro, e prepotente amore,
« Vinse r indugio della mia vendetta.
« A questo io venni — se pentita sei,
« Se dell' infame amor 1' empia memoria
« Cancellasti dal seno, or vieni, e sia
« Un mal sogno il passato; e tempo e modo
« Io troverò perchè ogni bocca taccia
« E anco il pensier sulla nefanda istoria. »
Parisina a parlar si fatto, avea
Mille provati sentimenti in petto
E or rimorso, or mestizia, ora pietade :
Ma quando il fin ne udì, giunte le mani
Gettossi ai suoi ginocchi, e « o generoso,
— 62 —
<< Esclamò, qui potessi or di vergogna
« Terminar la mia vita, iniqua sposa
« Che al mio signor di benefici tanti
« Cotal resi merce ! pur se il rimorso
« Non mi uccide, saprò schiava sommessa
« Intender sempre a nuovi affetti e farmi
« Merto che copra del passato i falli:
« Ma deh 1 ten prego, e sol perchè sen fugga
« Un ultimo pensier, che fu di Lui ? —
« Di Lui? di chi? — Del figlio. . tuo —
« Del figlio ? d' Ugo a me chiedi ?
« Adunque ancor che dico?
« Giusta è tua brama e appagherolla e tosto »
In questo mentre le sue folte ciglia
Si eran più volte tra di lor congiunte,
E sugli occhi abbassate; indi un sorriso
Spinto avea sulle labbra — era simile
Al sorriso di Satana in l' istante
Che il pomo colse la curiosa donna. —
Azzo per mano Parisina trasse
Pei lunghi corridoi fino al sbocco
Di gotico uscio oltre del quale apparve
Un ameno giardino — in fra i meandri
Dei boschetti seguiano, e giunti dove
— 63 —
Una tomba si ergeva a mo'di tempio
Che un tardo pentimento ad Ugo eresse
Azzo l' indice stese — eccolo — mira
« Là I' adultero tuo col mozzo capo
« Giace, e per te fui parricida — Un grido
La misera non mosse, un moto, un atto.
Solennemente all' omicida in faccia
Confisse il guardo, e con la roca voce
Ad una ad una tai parole espresse:
« Tiranno, eppur codardo, il sangue tuo
« Bevesti all' ombra della tua corona
« E r amore scemare in me sperasti
« Coll'involarmi il dolce oggetto — invano —
« Ugo amai — l' amerò se anco sotterra
« Mi aspetteranno i tormentosi regni,
« Tant'egli caro, quanto tu spregiato,
« Si ben sappilo alfine, al fianco tuo
« Giorni trassi di duolo, ed il tuo letto
« Fu strato di dolore e di paura;
« E la pietà mentii, che altro nel petto
« Non mi destasti sentimento alcuno,
« Se non quel che dal rettile ne viene
« Quando un' incauto pie pestato 1' abbia »
Disse, e la piena dell' angoscia in seno
— 6i —
Di più non sopportando giù col volto
Cadde le braccia irrigidite e tese
Verso la tomba dell' ucciso amante.
Se quando il mauro osa rapir la prole
Che scovò della tigre, essa da lunge
Vede l'audace, non tant' ira in salti
Mette la fiera poderosa, quanta
Azzo invadea — stravolto il viso; schiuma
Sulle labbra, e dall' orbita gli usciano
Gli occhi ferocemente, — « Olà Rodrigo:
« Olà — dentro costei di quel sepolcro
« Tratta e rinchiusa — niun più qui s'inoltri:
« Io riparo al tuo fallo, e alle tue voglie
« Altro talamo dono, ed altro sposo » —
Già declinava il di — fuor di Ferrara
Comitiva di dame e cavalieri
Sopra gli ornati palafreni uscia
E il Duca in mezzo — verso una sua villa
Tenean la via, lieti discorsi e ciance
Tessendo e carolando coi destrieri
Ora che il sire appo la morte d' Ugo
Lieto torna^-a d' inattesa gioia.
— 65 —
Giunti all'ameno ostello, e danze e j^nochi
E conviti ferveano — Azzo il primiero
Dava r esempio del gioir — ridea
Quasi smodatamente, e più che ad uomo
Di anni maturo non convien. trescava
Folleggiando con tutti, e coppe e coppe
Di possente liquor votava, come
Se di sete febril gli ardesse il petto.
Stupiano i cortigiani, e un sogguardarsi
Era tra loro e un bisbigliar sommesso.
Che tramezzo a quel gaudio anco un momento
Spesso si sorprendea sopra quel volto
D'ira feroce e di tristezza cupa;
Come in un cielo di pomposa luna
Talor appar di vagabondi nuvoli
La nera massa a ricoprirla, e il volgo
Auspicio piglia di vicina pioggia.
Pur non cessava il ballo e il banchettare
E di canti giulivi insiem concordi
Tutta echeggiava la collina ombrosa.
— 66 -
« Le tazze fumano
« Di almo liquore
« E a bere invitano
« Pace e beltà:
« Sugo di grappoli
« Bacio d' amore
« Un nodo stringono
« Che al cor mi sta.
« Saltella vivace
« I! vino mi piace;
« Vivace saltella
« Mi piace la bella.
« Là dove 1' aura
« Più mite impera
« Io vo' raccogliermi
« Col mio tesor ;
« Copra una nuvola
« La luna altera,
« Sussurri zeffiro
« Tramezzo ai fior.
— 67 —
« T' invoco 0 mistero ;
« Circondami intero;
« Mistero t'invoco;
« Circonda il mio foco.
« Ma ormai risuonana
« Le note liete
« Le coppie unisone
« La danza unì .
« Lasciamo o Doride
« Quest' ombre chete;
« Lieti si attendino
« I rai del di.
« Il piede e la mano
« S' intreccin nel piano ;
« La mano ed il piede
« Intreccin la fede. »
Dopo sei di di tal tripudio il Duca
Yer la bella Ferrara alfin si mosse
Sparuto si che ritornar parea
Da un banchetto di spettri — incolto il crine
— 68 -
Livido il volto e disensato il guardo.
Come si narra che dell' Indo in riva
Erri il fatuo Fakir, mentre la turba
Reverente si scosta e colto il crede
Dallo spirto di un dio; ma ben diversa
Sulla spiaggia di Po credea la gente.
« Ve che lieve non è figlio e consorte
« Punir r uno di scure, e l'altra... il sai?
« Evvi talun che udia strida di donna
« Presso il giardino che si stende al lato
« Boreal del castello — Eccolo ! il vedi ?
« Bandeggiata è la gioia ~ nel Ietto ei giace,
« Talché il fisico spesso il capo scuote,
<< E ne van mesti della corte i servi.
Ma il risparmiò la Parca e di più trista
Vita che morte gli torcea lo t^tame.
Era d' Autunno: quel!' Aprii dei fiori
Canti chi vuole, il classico cervello
Sui greci Idilli modellando a forza.
A noi piace la languida stagione.
Quando natura le perdute spoglie
Melanconica piange, e un aura, un soffio
Puro, leggiero tra la terra e il cielo
Pare il sospiro di due fidi petti.
— 69 —
Che separò sventura e che il desìo
Ricongiunti vorrebbe in un amplesso.
Chi allora non amò ? chi non dipinse
Una visione di leggiadra forma
Aggirarsegli intorno come silfo
Vaga figlia dell' aria ? oh solo un core
Disperato, o maligno, o inaridito
Dalla cupa ambizion non si commove
Alle delizie di autunnal serata.
E tal scendea la notte allorché il passo
Azzo drizzò verso il giardin romito
Quasi magica forza ivi il traesse.
Di due corni splendea la luna in alto
Dolce raggio solingo e lieve striscia
Di sua luce listava in sulla tomba.
Ahi non di un solo ! — vacillante il piede
Pure il vecchio s'inoltra — ed ecco al paro
Di due colombe che fugò dal nido
Il fiero nibbio e tra stormenti frasche
Unite neir amore e nel periglio
Battono i vanni spaurite insieme.
Videro gli occhi suoi due bianche forme
Alzarsi e disparir, e udir gli parve
Gemito lungo e che mancava quasi
- 70 —
■Corda spezzata d' arpa armoniosa.
Ristette e istupidì : tutti sul capo
Gli si drizzaro i bianchi crini, e acuto
Sottil gelido un brivido gli corse
Per la persona: poi dalla paura
Riscosso all' ira di gelosa febbre
Trasse il pugnale e percoteva il vento
Come insensato: « Adunque più non avvi
« Né Dio né inferno ! adunque eternamente
« Sarà mia smania, e quell'amor nefando t
« Iniqua coppia ti divida il fulmine
« La procella ti sperda e queste mie
« Vipere che ho nel sen tra voi ributto
« Ad impedire i baci vostri infami:
« Né qui più stanza avrete ; a ferro a fuoco
« Vada il ricetto dei notturni amori »
Ei delirava, ma il mattin non vide
Orma di tomba né di pianta, tanto
Devastatore vi passò lo sdegno.
Soli negletti o non veduti due
Fioretti umili in una proda estrema
Sorgeano all'ombra dell' antico muro:
Ed essi vegetar, ma sopravenne
L' invernai bruma e adagio adagio il capo
— 71 —
Appassiti abbassar, finché furente
Schìantolli e seco li travolse il turbo. —
Di lui che fu ? quali i suoi giorni e quali
Fosser le notti or chi può dir? ben raro
•Et si mostrava e sol quanto il volea
Ragion di stato — ma non sposa mai
Scaldò il vedovo letto, e non mai figlio
Caro gli crebbe ed a cui dir potesse
« Ecco r immago dei primi anni miei. »
ISAGOGE
L' Autore tornava dalla emigrazione e tro-
vava in Firenze gli austriaci e triste condi-
zioni nel popolo. È da attribuirsi agli sdegni
politici e ai dolori sofferti una certa acrimo-
nia di questo scritto.
ALLA PLEBE
0 in ogni tempo vittima
Delle sociali scene,
0 condannata a porgere
1 polsi alle catene.
Plebe che i cenci scuotere
Non osi ancora, e abietta
Vedi passare i secoli
Dinanzi alla vendetta.
— 73 —
Qual dritto hai' tu di gemere.
Qua] di mangiar hai dritto,
Se il duro giogo infrangere
Tu reputi un delitto 'f
D' anni per lunga serie
Tradizional timore,
Ti reijde curva e docile
Al ricco ed al signore :
Questi ha un illustre titolo
Quello ha gran censo avito.
Quando nel cocchio ei passano
Godi mostrargli a dito.
Che vai se pur t' infrangono
Colla volubil ruota?
Non sei tu forse simile
Alla più sozza mota ?
Eppur spesso anco mormori,
0 plebe irriverente.
Ed osi avere un' anima
Che i propri mali sente !
— 74 —
Incauta I allor tu provochi
Del reo baston ia legge,
0 la temuta carcere
Il troppo ardir corregge.
Come il bastone ? — Acquetati
Dono è del tuo sovrano,
Tu il richiamasti, o stolida,
Quand' ei fuggia lontano.
Or taci, e allor che penetra
L' inverno al tuo tugurio,
Trema di freddo e pentiti
Del malaccorto augurio.
Eco ai venduti plausi
E alle canzoni strane.
Fanno i tuoi figli queruli
Col domandar del pane:
Né pane hai tu che rubalo
Sul tuo medesmo desco,
Calato air orgia facile
Il vincitor tedesco.
Mira burbanza ! il lurido
Poiché saziò sue voglie.
Osa la mano stendere
Sulla pudica moglie.
Pudica ancor, ma assidua
La seduzione e 1' oro
Fia che le tolga 1' ultimo
Di povertà tesoro ;
E resterà di adultera
Prole fecondo il seno,
Onde la razza italica
Cresca corrotta appieno.
Oh 1 quanti siete i miseri
Che allo straniero insulto
La rossa guancia a battervi
Alzate il braccio inulto:
Oh ! quanti siete ! — I gemiti
Vi hanno ridotto fiochi,
Pur non ardite opponervi
Tutti al voler dei pochi.
— 76 —
Su via ! tu che distruggere
Non cessa il dazio avaro.
Piglia il coltello e affilalo
Ardito macellaro.
Vuoi tu la gola porgere
Come r agnel che scanni^
I sanguinosi aneliti
Belando ai tuoi tiranni ?
Sii, tu che neir incudine
Batti il martel sonante,
Cento per quello cadano.
Bure cervici infrante;
Né di calzari lucidi,
0 tu suturatore.
Voler più il piede cingere
Che ti pestò 1' onore,
Ma forti strisce fabbrica
Onde abbattuti e vinti
Questi ladri Prometei
Siano alla rupe avvinti.
— 77 —
Chi edificò quegli atri
Nei superbi palagi "?
Chi nelle stanze seriche.
Creò le pompe e gli agi ?
Tu fosti che coli' opera
Della callosa mano.
Scarso lucrasti 1' obolo,
0 misero artigiano I
Oh ! quella man medesima
A miglior uso adopra;
Stringi il moschetto impavido
E avrai mercede all' opra.
Né lui fia eh' io dimentichi,
Coltivator di glebe,
Che nel lavoro assiduo.
Anch'esso è della plebe;
Ahi I colli stenti pargoli,
Sopra il fecondo solco
Casca per lunga inedia^
L' improvido bifolco.
Ma alla catena docile
Più dell' ilota antico.
La man rapace e barbara
Bacia del suo nemico.
Cessi cotanta infamia ;
Su, come un' uomo solo.
Dall' oltraggiato trivio
Dal taglieggiato suolo f
Delle campane italiclie
S' oda il tremendo squillo.
Spieghi le bende all'aura
Il tricolor vessillo:
Oggi si pugni intrepidi,
E avremo alla domane
Frutto non più fallibile.
Pace, lavoro e pane
79
all'amico r. procuratore
ALESSANDRO C.
SPOSATO CJLLA
NOBILE DONZELLA CESIRA A.
EPITALAMIO
fSI dà par la difficoltà delle rime sdrucciole e i.>aritiiienti!.
Or che per te Imeneo la face illumina
Ed hai d* amore traboccante l' anima,
La mia torpida musa si rianima
E un buon augurio in questi versi rumina.
Mi scusi il ciel se invece di una predica
Sul mal che spesso tra gli sposi radica,
Resucitando la mollezza arcadica.
Tento inviarti una leggiadra dedica.
— 80 —
Ma tu non siei lo zerbinetto stolido
Che sbuffa e smania insofferente e calido;
Vuol fare il coloandro e parer valido,
E non possiede poi nulla di solido.
Tua testa è quadra, non è tonda o sferica
Sul guancial delle ciance non si corica,
La Logica conosci e la Rettorica
E bisogno non hai di alcuna chierica.
Onde la poesia richiami Venere
A sollevar del matrimonio l'onere,
Che con dolce rigor ti volle imponere
Cesìra bella con le luci tenere.
Godi, si, godi degli istanti floridi,
Lascia quei fogli tuoi severi ed aridi, •
Mena la vita dei felici Paridi;
Sieno i tuoi giorni imporporati e roridi.
Quando però sarai per poco sazio,
Ti esorto a ritornar nel proprio ufìzio
A quel di perorare esoso vizio,
Che Cicerone a noi lasciò dal Lazio.
1
— 81 —
Così alternan.lo col dovere immobile
Del matrimonio la vicenda amabile,
Un marito sarai molto invidiabile,
Un magistrato saggio, giusto e nobile.
In conseguenza tra le fasce e i codici.
Senza 1' aiuto di chirurghi e medici.
Sotto la protezione del dì sedici
Nasceranno i tuoi figli infino a dodici.
Farmi vederti in mezzo alla ^miglia
Correr di qua di là come una quaglia.
Or badando allo scritto, ora alla maglia,
Ora baciando un maschio, ora una figlia.
E mentre un ragazzetto ride e ciambola.
Porgere ad un che ha sete la sua bombola,
Rizzare un altro che per terra tombola.
Tirare il calessin, vestir la bambola :
Tal se dagli uovi la covata sboccia
Serve ai pulcini suoi di fida traccia,
E col becco e col pie cibo procaccia
Crocchiando sempre 1' amorosa chioccia.
— 82 —
Oh I quanto è dolce tra i suoi cari vivere
Ed a mensa gen'ial mangiare e bevere,
Le nuore in casa e i generi ricevere,
E nei nepoti due volte rivivere!
Solchi audace il nocchier, solchi l'Atlantico
Del paese natio fatto dimentico,
E l'Anglo in sua pazzìa soltanto identico
Giri il mondo a sua posta e sia romantico.
Visiti l'orde che la mirra odorano.
Color che nel deserto si riparano,
Gli altri che 1' oppio col fumar rincarano,
E quei che di Visnù la triade adorano:
Scorra del Piata le correnti rapide,
E r altro fiume delle donne intrepide,
Affrica scorra dalle genti Gepide
Fin dove un giorno si adorò Serapide.
L' areostata pur varchi la Manica,
Cerchi il pittor la posizion più scenica.
Nella contrada Elvetica ed Ellenica,
Osservi un Plinio 1' eruzion vulcanica.
— 83 —
Sandro^ a te basti di mangiare i broccoli,
E senza camminar sopra i trabiccoli.
Starti seduto tra la moglie e i piccoli,
E aver buono il cappello e buoni zoccoli. (1)
In tal modo scansando odio ed invidia
In questo mondo l'uomo non si tedia,
E siede spettator della commedia,
Morendo poi di gloriosa accidia.
Ed io povero vate ? Il buon augurio
Anche a me vuoisi dare e dar sul serio.
Che mi son fatto mia delizia e imperio
Di un silenzioso e povero tugurio.
Oh I domestica pace, oh I solitudine !
Oh ! di una libreria dotta torpedine.
Oh ! della pancia sinodal pinguedine
Temperato piacer senza inquietudine, -
(1} Dice un proverbio toscano •
Broccoli, zoccoli, e buon cappello
Far le viste di non aver cervello.
Io vi godrò finché degli anni il cumulo
Non renda il capo mio svanito e tremulo,
E alimento al basilico e al prezzemolo
Giaccia il mio frale in un modesto tumulo.
Allor, benché non degno io sia di storia.
Qualcun per tormi l'impression dell'aria
Mi turerà con lapida precaria.
Dove si leggerà questa memoria:
« Lasciò detto costui che non si nomini ;
« Il viandante a suo bell'agio esamini,
« Non si sparga di fior, non si contamini ;
« Nacque, visse, e mori come gli altr'uomini. »
— 85 —
L' ADD I 0
( 1851 J
Per sempre addio. Mesta parola è questa^
Che dalle labbra va gemendo in core
Come vento che passa alla foresta.
Nei congedi supremi evvi un amore,
Qual mai non vive uguale in uman petto,
Misto di tenerezza e di dolore :
Ed i dolci consorzi, un caro aspetto.
Or che li perdi, a te ritorneranno
Più seducenti di novello affetto.
Tal dei mortali desiderii è il danno
Che sorgon quando la speranza tace,
E cessato il piacer, riede l'affanno.
— 8G —
Ma se lo spirto fatto più vivace,
E svelti i ceppi onde 1' oppresse il frale
Ricerca in ciel la sua perduta pace.
Simbolica farfalla ei spiega 1' ale
All' amplesso di Dio che su lo aspetta
Dove terreno delirar non vale.
Il sacrifizio del passato accetta.
Né le sembianze di un amor gentile.
Né più l'antica voluttà lo alletta.
Benché qual mai su questo suolo umile,
Qual sorge fior, che tolto al verde stelo
Poi non riesca illanguidito e vile ?
Tradita 1' amistà, falso lo zelo.
Avide voglie in carità mentita.
Impunito il delitto e senza velo.
Dov' é la patria e la virtude avita ?
Dove i germogli del latino seme ?
Perché cadde la pianta inaridita ?
- 87 -
0 gente ausonia, o male unita insieme.
La vana ciancia, ed i fraterni piati
Son tristi pegni alla futura speme.
Intanto oimè, sui campi insanguinati
I prodi figli della tua contrada
Travolti fur nei ruinosi fati I
Or dagli occhi piangenti il lembo cada,
E altra luce si mostri e che mi additi
Di altra meta più nobile la strada.
Tenebre sono in questi bassi liti.
Una forza celeste a se mi toglie,
E agli aperti mi trae campi fioriti.
Ah sì, desio possente in me si accoglie
Di esser del gregge dei leviti santi,
Seppur son degno di cotante voglie.
Oh come dolci mi saran gì' istanti.
Ministro umile del pomposo altare.
Fra le nubi d' incenso, e i sacri canti I
— 88 —
Ecco, ecco, un Dio per la mia prece appare
E nel mistico pane si racchiude
Portento di umiltà che non ha pare:
Ecco trasfusa ai detti miei virtude,
Che lega e scioglie, e al peccator confesso
Serra 1' aula del cielo e la dischiude :
Ecco le sorti del variato sesso,
Col liturgico rito unite insieme,
E divien casto il coniugale amplesso ;
La santa acqua profondo, e l'ore estreme
Del nascer e morire io liete rendo.
Là di macchia lavata, e qua di speme;
Ecco la fede a predicare intendo,
E per le turbe che mi stanno intorno
Tutto di ardente carità mi accendo.
Oh venga alfin ben' auguroso il giorno
Che il cor ricovri la perduta calma
E al mite palpitar faccia ritorno f
— 89 -
Colpita, oppressa, titubante l'alma,
In mezzo al turbo che furente spira,
E grave peso all' agitata salma.
Già le cure raolcir solea la lira ;
Ora non più ; ma come il rege antico
Spesso la melodia mi spinge all' ira.
Talor gli umani eventi io maledico,
E non mi avveggo, ahi folle, che nel seno
Io stesso nutro il mio più fìer nemico!
Intanto di amarezze io fai ripieno,
E mille fantasie mi dan tortura
Come brutti ftxntasmi in ballo osceno.
Eppur traveggo in questa notte oscura
Un' immagine bella, e che mi addita
Dove io possa calcar la via sicura.
0 Tu che desti al tuo Signor la vita.
Sposa e figlia all' Eterno, intatto fiore
Dalla d' Jesse eletta pianta uscita.
— 90 —
E cosi raccendesti il divo Amore^
Che si placò del veto inobbedito
Colla creta ribelle il gran Fattore,
Pietosa accogli il viator smarrito
E fallo degno del nuziale ammitto,
Onde si assida al celestial convito.
Accogli me da tante colpe afflitto,
E mi disciogli come un di tua gente
Dalle catene del tiranno Egitto :
Togli gli affetti miei, togli la mente
Dalla voracità di quel Satanno
Che mi circonda qual lion ruggente;
Sicché con lena di passato affanno
Il pelago guatando superato,
Sul lido io posi a ristorar mio danno :
Allor tentando il plettro innamorato,
La musa invocherò, che un dì sì bella
Sorrise al canto del gentil Torquato;
— 91 —
E se avverrà che un' ultima facella
Resti ancora nell' alma illanguidita.
Pria che ritorni alla sua prima stella.
Alzerò r inno della nuova vita
Suir ali bianche del divin pensiero.
Percossi i sensi e la ragion contrita.
Cosi la fiamma, che distrusse intero,
Il sermento dell' arida fascina.
Incerta, errante, indi con guizzo altero
Splende piiì bella al suo morir vicina.
— 92 —
ALTRO ADDIO
(1 840]
Questo che in meste pagine
Vi scrivo ultimo addio.
Di sconsolate lacrime
Sia sfogo al dolor mio.
Ah ! non credea che il salice
Cinto mi avria cantore
Quel primo dì che il palpito
Io ti spiegai di amore !
Addio; mestizia improvida
Non ti perturbi il seno,
S' io son, s' io sarò misero —
Ch' io lo sia solo almeno.
Vivi, e di liete immagini
Ti ricomponi l'alma;
Torni il sorriso a schiudersi,
Rieda nel cor la calma.
- 93 -
Ma forse, oime f, che il giubbilo
Fia richiamato invano.
Ed il pensier sollecito
Me seguirà lontano,
A far la mia memoria
Pili desiata e cara
Verrà dei di che furono
La rimembranza amara.
Tu penserai le tenere
Parole e i dolci modi,
Onde il figliol di Venere
Ci avvinse in mille nodi.
Quando il rintocco lugubre
Della campana a sera
Desta nel cuore un palpito,
Sul labbro una preghiera,
Ricorderai del tacito
Amor r ora furtiva.
Al raggio incerto e tremolo
Della triforme Diva ;
- 94 —
Ma allor che l'astro fulgido
Apportator del giorno
Ad incalzar le tenebre
In ciel farà ritorno,
Invan tuo sguardo, o misera.
Per consueta cura
Rivolgerassi cupido
Alle deserte mura.
Altri la soglia premere
Del mio balcon vedrai.
Ma il noto volto riedervi
Fia che noi ve^ora mai :
■'OD'
E allora, oh Dio 1, non piangere.
Non lacerarti il seno —
S' io son, s' io sarò misero,
Ch' io lo sia solo almeno.
A fato lagrimevole
Tal mi dannò la sorte,
Ch' io ti dovea conoscere
Cinta di ree ritorte,
— 95 —
E perchè dolce balsamo
Fin r illusion si muora,
Si aggiunge irremissibile
La lontananza ancora.
E fia così — la gelida
Morte verrà puranco,
E poserà lo spirito
Ormai languente e stanco.
Lassù dove si frangono
I nodi della Terra,
Dove r amor coronasi,
Né trova ingiusta guerra.
Più dolce ancor, più vivido
Sarà r amore antico,
E tu potrai sorridere
Al sospirato amico ;
Ma intanto il ciglio vivido
Torni a brillar sereno —
S' io son, s' io sarò misero,
Ch' io lo sia solo almeno.
L'ULTIMO GIORNO DI MISSQLUNGI
(Ottave improvvisate e corrette)
I.
Qaal mestizia veg-g'io, quale spavento !
Quale sventura, e interminato lutto !
Quai grida soffocate ovunque io sento,
Quasi lontano tempestoso flutto?
Come tacere un lamentoso accento,
Come il ciglio serbar di pianto asciutto
Missolungi in mirar città reina
Prossima fatta alla fatai ruina ?
- 97 —
Ormai dalla sua sfera il sol declina
E mesto in grembo a Teti si riduce.
Fiammeggiando al confin della marina
Sanguigni raggi di un'infausta luce,
Allorché intorno alla città meschina
L'oste turco sen'vien col fero duce.
Che minacciando già, siccome feo
Intorno a Tebe l'empio Capaneo
3.
Seguendo i Traci un condottier sì reo
Strinser d'assalto le guernite mura,
E la battaglia iratamente ardeo
Con tutte l'armi della sua paura;
Ma nell'interno le sue prove feo
Una virtù più bella e più sicura.
Tenace e forte nel proposto fine
Di appiccar foco alle celate mine.
98 -
Vedi una madre scarmigliata il crine
Senza lacrime aver, senza parole.
Fredda aspettando 1' ultimo suo fine
Stringere al petto 1' adorata prole ;
Vedi un vegliardo colle spalle chine
Degli anni sotto la gravosa mole
Ohe rammentando la costanza avita
Ad emularla i timorosi incita.
Vedi la donzelletta sbigottita
A cui furtiva scende giù dal ciglio
Lacrima figlia del desio di vita
Espressione del feral periglio ;
Anche essa quanto può fermezza imita
Maschil vigore^ impavido consiglio;
Ma in sé ristretta nell' interno core
Piange la sua beltà, piange l'amore.
- 99 —
6.
Codesta turba, muta in quel dolore
Che non sa più temer, non ha più speme.
Si raccoglieva nel tempio maggiore
Per consacrare a Dio queir ore estreme :
Si prostra e prega intanto il buon Pastore
Prostrasi e prega quella folla insieme:
Gli Angioli- della pace e del perdono
Recar le preci dell'Eterno al trono.
Ma già ì nemici trapassati sono
Colle caudate insegne entro le porte :
Già nel variato spaventevol suono
Si ascolta il grido e il fulminar di morte.
Quando le mine con ben altro tuono
Scoppiar di rombo sì gagliardo e forte.
Che del Bosforo in riva il gran tiranno
Pallido udillo sul mal fermo scanno.
— 100
Pietade, alta pietà, terror mi fanno
Le membra lacerate in mille guise :
Accumunate nell' eccidio stanno
Le diverse sembianze e le divise :
Fuggono questi degli schiavi il danno,
Muoiono quelli, or che vittoria arrise ;
L* eccidio sol per questa fiata aduna
La greca croce coli' odrisia luna.
9.
Allora fu che per la notte bruna
Coll'ali al tergo e coli' alloro in fronte
Scendea nelle macerie ov' ebbe cuna
Leggiadra donna di sembianze conte,
Che di quelle ruine insieme aduna
La nobil polve, e colle mani pronte
La lanciava sul dorso ai quattro venti
Nunziatrice di gloria e di portenti.
— 101 —
DELIRIO
Santo, severo e nobile
Il mio destin novello
Mi rivelò nell'anima
Un avvenir più bello.
Sciolto dai molli vincoli
Del mondo lusinghiero
A più severe indagini
Si leva il mio pensiero,
E di mia scorta l'angiolo
Suso nel ciel mi addita
Il premio incorruttibile
Della seconda vita.
— 10-2 —
Ma spesso oimè, lo spirito
Avvien che pur ritorni
A ravvisar le immagini
Dei trapassati giorni!
Dunque non più di palpiti
Traboccherammi il core
Di bella amica e tenera
Al corrisposto amore?
Dunque non più di plausi
Fia che io raccolga il vanto
Cogli improvvisi numeri
Del provocato canto?
0 rimembranza ! assiduo
Stuol di compagni eletto
Pendea del labbro facile
Al desiato detto.
E le donzelle unanimi,
Premio alle rime pronte,
Del verde allór mi cinsero
Una ghirlanda in fronte.
— 103 -•
Tutto provai — la patria
Mi fece un di guerriero;
Fui di commosso popolo
Audace condottiero ;
Poi minacciato e profugo
Lasciai le amate mura,
Ma mi rendea simpatico
La stessa mia sventura.
Il nome mio nei circoli
Della patrizia gente.
Come in umil tugurio
Si ripetea sovente.
Varia, brillante;, elettrica.
Al bene, al male unita,
Di mille affetti energici
Mi rifluì la vita.
Ora non più — la sterile
Realità mi. opprime;
Al positivo cessero
L'ira, l'amor, le rime.
— 104 —
In nere spoglie lùgubri.
Ai passi impedimento,
Il crin ritondo ed umile.
Raso r onor del mento.
Uguali, melanconici
I lunghi giorni miei.
La venustade orrevole,
L' ilarità perdei
Oh Dio ! quai detti stolidi
La voce mia sprigiona ? —
Cielo pietoso assistimi :
Io delirai — perdona.
105 —
PER LA SOLENNE FESTA DEL SS. CHIODO
a Colle di Val d'Elsa (1874).
ODE
Quando giacea Gesù sul duro legno
A scontar le nostre onte ed il peccato
Per la codarda mente di Pilato,
Ligio all'ebraico sdegno,
I forsennati, nell'error perduti,
A forar quelle mani e quelle piante
Coi fìtti colpi del martel sonante
Batteano i chiodi acuti:
Ed a quei colpi ahi I di una Madre in petto
Rispondevano i palpiti del core
Neil' immenso qual mar fiero dolore
Verso il Figliol diletto.
— 106 —
Tai strumenti di morte e di tortura.
Scelti per dare ai rei l'ultima pena,
Nel sacro Corpo penetrati appena
Cangiata ebber natura :
E non più rozzo ferro, e atroci ordigni,
Ma tinti di quel sangue generoso
Divennero nel mondo ossequioso
Sante Reliquie insigni.
E ben le sa la mia Colle ridente (1)
Che un ne possiede nel maggior suo tempio,
E che oggi vede di pietà 1' esempio
Nell'affollata gente;
E ben lo sa chi di queir urna al piede.
Umilmente atteggiati i mesti cigli.
Riceveva le grazie ed i consigli
Sull'ali della Fede.
fi) I.a famÌL'Iia dell' Autore è oriunda di Colle di Val
d'Elsa.
— 107 —
Oh lo vedete I sul cuspide antico
Sta ancora il sangue che salvò la Terra^
E che movea la vittoriosa guerra
All'infernal nemico.
Vedete ? dagli aerei confini
Quaggiù discesi intorno intorno all' ara
Volano, come in ricambiata gara.
Gli ardenti Serafini.
Ben lieto giorno è questo, e tu dell' Elsa
Operosa Regina esulta, esulta.
Ti benedice Provvidenza occulta
Sopra la fronte eccelsa.
Ricca degli opifici in te rimane
L'agitato commercio; e ai popolani
Tu porgi, senza dubbio del domani,
Vario lavoro e pane.
Ed io di mie vicende in 1' aspra via,
0 sul mar tempestoso, o in lido strano.
Col rapido pensier frenato invano
Sovente a te venia :
— 108 —
E rivedevo i lieti poggi in giro.
Le convalli ubertose e la fresca onda,
E i lussuriosi frutti in sulla sponda
Col memore sospiro.
Eppure in questo dì per te sì santo
Resto ancor lungi; ma in Aliai desìo
Mando alla Festa del terren natio
Il cuore, e 1' umil canto (1).
[IJ Questa ode, che l'Autore intitolò Anacreonlica, piacque
assai al buon popolo colligiano, e fu dedicata dai Deputati
delle feste alTesiinio Gonfaloniere Avv. Marziale Dini.
— 109
VERGH ERETO
(Romagna J
Qui (love sciolsi all'aure
I primi miei vagiti.
Fra duri gioghi inospiti
E inosservati liti,
Sento compresa l'anima
D' insolito piacer.
Salii per l'erta ripida,
Scesi alla valle alpestra.
Vidi del verde cespite
Sorger l' umil ginestra,
E i Cerri e i figgi ombriferi
Lunghesso il mio sentier.
— HO —
Da casolari poveri
Racchiusa una chiesetta
Di redenzion col simbolo
Il viandante alletta ;
Ivi del ciel la Vergine
Cinta è di freschi fior.
Io mi prostrai — scendevano
Degli Angioli le squadre
Siccome un di discesero
Ai voti della madre —
Era il pregar medesimo.
Era ristesso cor.
Ma qual destossi palpito.
Quando varcai le soglie,
Che il sovvenir più tenero
Dei genitori accoglie
E che un amor scambievole
Fecondo consacrò I
— Ili -
Baciai le mura, estatico
Di poter dir — qui nacqui;
Qui, con il sonno placido.
In breve culla io giacqui :
Quivi neir orma istabile
Il picciol piede errò. —
Ed or te lascio, o vertice
Di Verghereto mio ;
Da questa balza accogliere
Piacciati un mesto addio —
Chi sa se mai più reduce
Mi avrai presso di te I
Ali ! venga il dì che celebre
Del mio natal tu sia,
E il pellegrin ti visiti,
E sulla scabra v'm.
Quasi a votivo termine,
Posi lo stanco pie.
112 —
A contrapposto di una canzone dello stesso metro con
la quale un famoso poeta inneggiava Satana e lo
faceva vincitor di Dìo.
DIO
Ente immutabile,
Mente increata^
Eccelsa, archetipa.
Sempre beata,
Dio che dal Càosse
Trasse più mondi.
Lucidi, armonici
Vari, fecondi ;
Dio che per gii esseri
Di nostra mole
Fugò le tenebre
Svelando il sole;
— 113 —
Dio che dai cardini
Scuote la terra
E il mar ceruleo
Agita in guerra;
Signor del fulmine
Talor le stelle
Copre col buio
Delle procelle.
Ma poi sui nugoli
Sfrenando il vento.
Le torna limpide
Nel firmamento,
Ed esse annunziano
Coir ampie schiere
Tutta la gloria
Del suo potere.
Eppure il cinico
Con labbro immondo
Cantò del diavolo
Padron del mondo f...
— 114 —
Padrone ed unico
È il re dell' etra,
Che spregia i numeri
D' insana cetra.
L' urlo di Satana
Non lo sgomenta — ,
Furore inutile,
Bestemmia spenta :
Spenta nei vortici
Di eterno foco
Dove il rio demone
Divenne roco :
E s' ei mal' Angiolo,
Spinto al dirupo
Dal brando vindice
Del folle strupo.
Vantò i proseliti
A mille a mille
Pei versi delfici
Per le sibille.
- 115 —
Poscia neir Èrebo
Giacque il feroce
Quando sul Golgota
Surse la Croce ;
E or regna leova
Possente e solo,
Col Divo Spirito
Col Gran Figliuolo,
E si maturano
Gloriosi i tempi
Della vittoria
Su tutti gli erapi.
— ne -
PROGNOSTICO
per il Capo d'Anno ISoo
L' anno si scarica.
Un altro accosto
Monta dei secoli
Sul girarrosto.
Salire e scendere,
Questo è il costume
Che il vecchio bindolo
Tien colle piume,
Mentre i fantastici
Credon progresso
Salire e scendere
Nel tempo stesso.
— 117 —
La gente aggirasi
la giù e in su :
È una vertigine
E nulla più.
Vedete il popolo
Il popol tutto.
Che alcun nobilita
Fino nel rutto,
Sempre il medesimo
Non e' è divario,
È come i trespoli
D' uno scenario :
Questi si mutano
Di boschi in sale,
Ma il palco scenico
È sempre uguale.
Eppur vi furono
Certi babbei
Da dire al popolo
« Tu fai, tu siei ! >
— 118 —
Povero diavolo I
Per un momento
Cambiò la bettola
Nel Parlamento;
E colle regole
Dei ciceroni
Fece spropositi
Da can-barboni.
Ah si credetelo.
In questo mondo
Per legge arclietipa
Domina il tondo;
Onde il terraqueo
Nostro soggiorno
Fa i capitomboli
Giorno per giorno.
Mangiare e bevere
Bere e mangiare.
Ecco ove tendono
Tutte le gare.
— 119 —
L' Aristocratico
È realista.
Perchè nei torbidi
E' non ci acquista.
Vuol la repubblica
Pseudo-milorde,
Perchè il soprabito
Mostra le corde;
E se la lesina
Gli rende male
Il ciaba Prospero
Divien sociale.
Eh via finiamola
Con tal letigi.
Si pigli esempio
Dal gran Parigi.
Regno, Repubblica,
Costituzione
Son dolci ninnoli
Per la nazione.
_ 120 —
Piglia i Quinqueviri
E il Dittatore,
Quindi resuscita
L' Imperatore.
Questo è bel vivere :
Di quando in quando
Bisogna muoversi
Fermi restando.
Le non son frottole
Da darsi a busca;
Il motto è classico,
É della Crusca.
Chi avesse stomaco
Ingoierebbe
Ogni politica
Come il giulebbe.
Almen serbiamoci
Come noi siamo;
Non facciam strepito
Non sussurriamo,
Che cosa sperasi
Ditelo a me
Da questo giovine
Cinquantatrè ?
Cile ricchi e poveri
Tornino uguali ?
Che i vecchi veggano
Senza gli occhiali?
Che godin gli uomini
L' età dell' oro
Mostrando i ciondoli
Senza decoro ?
Che più non rubino
Cogli speziali
Segnando i medici
Dei serviziali ?
Che non sia bindolo
Un avvocato ?
Che non sian debiti
la uno Stato ?
— 122 —
Che sian Penelopi
Tutte le dame?
Che qualche comico
Non abbia fame ?
Forse vorrebbesi.
State a vedere,
Che sappia leggere
Un Cancelliere?
Si vuol pretendere
Che un impiegato
Più non si arrisichi
Coi peculato ?
Questi son ninnoli
Che il fu Platone
Dette ad intendere
Alle persone,
Quando i filosofi
Dotti e somari
Tutti scroccavano
Sugli scolari.
— 123 —
Ma or che le lettere
Fan tanti acquisti
E si addottorano
Fino i callisti ;
Ora che un giovane
Bevendo un ponce^,
Ti stende un opera
Di quarant' once.
Gli antichi metodi
Quelle utopie,
Son cose rancide.
Roba da spie.
Oggi predomina
Il positivo,
I sofi crepino,
L' Abbaco è vivo.
Oggi sol circola
II Francescone,
Negli altri circoli
Speri il minchione.
— 124 —
Giunto al suo termine
Quest' anno nuovo
Dirà — vi lascio
Come vi trovo —
Fermi, immutabili
Sono i destini,
Che ci distinguono
Grandi e piccini :
Il mondo putrido
Ormai non cangia, —
Questo è il prognostico:
Chi n' ha ne mangia.
■ì
— 125 —
PER LE REALI NOZZE
DELLA
PRINCIPESSA MARGHERITA
COL
PRINCIPE UMBERTO
f 1 8 6 8 J
Inventa una pretiosa Margarita... emit eam.
Vangelo di S. Matteo J3
Era un' ascosa perla,
Dì candida beltà,
Angelica a vederla
In quella prima età.
Trovò la perla ascosa
Umberto un bel mattin.
Ed adorata sposa
Unilla al suo destin.
— 126 —
Germe dei Padri stessi,
Cinti di verde allòr,
Liberator di oppressi.
Di pugne vincitor.
Domestico 1' affetto.
Scambiato, unico fu,
Medesmo cuor nel petto,
Medesma la virtù :
E qual della colomba,
Costante (ìa 1' amar.
Né il gelo della tomba
Potralli separar.
Perchè fuor della vita
Altra esistenza vi è.
Sii dove il Nume invita
I figli della Fé.
Or spera e non indarno
Italia in tanto iman;
II ciel del Pò, dell' Arno
Raddoppia il suo seren.
Al nodo fortunato
L' Insubria applaudi.
Quasi prepari il Fato
Più fortunati di.
L' inno della Laguna
E r inno del piacer :
Al raggio della luna
Lo canta il gondolier.
Fino il Vesuvio ardente
Spinge sue fiamme fuor,
Non più strazio di gente.
Ma pronubo splendor.
Perla nascosa vieni;
È tempo di brillar :
DI giorni appien sereni
Ormai la stella appar.
E Tu sì cara e bella.
Ricca di maestà.
Tu sei la vaga stella
Che il trono irradierà.
— 158 -
AL PRINCIPE FEDERIGO DI PRUSSIA
Presente alle Reali Nozze
Salve air Eroe di Sadowa,
Che Italia nostra onora ;
Salve al magnanim ospite
Della regal mia Flora!
Chi Te rimira, o Principe,
In quel marziale aspetto.
Sente del cuore un palpito
Dentro il commosso petto;
E nel pensier t'immagina
Duce dei mille e mille,
Qual sulle sponde iliache
Apparve il fiero Achille,
— 129 —
La già sparsa Germania,
Prodiga di tue lodi.
Ti chiama al vasto imperio^
Dominator di prodi.
Alti destin ti aspettano,
E ormai vicini sono :
Per Te tornerà splendido
Di Carlo Magno il trono (1).
Intanto i voti e i plausi
Odi sul tuo passaggio ;
Ve' degli Ausoni! popoli
L' universale omaggio.
Dhe ! a questa bella Italia
Stendi la invitta mano :
In sen della Penisola
Non sii venuto invano.
(IJ Profezia.
— 130 —
PER ALTRE NOZZE
L'ADDIO DELLA SPOSA NOVELLA
alia sua Camera
Addio mura dilette, addio romita
Cameretta dai sonni non turbati.
Dove tranquilla i giorni della vita
Passai cantando nei lavori usati :
Ti lascio, e vado in più addobbata cella.
Ma per me non più cara e non più bella.
Quando del primo sole il raggio schietto
Le tue pareti a illuminar venia.
Discesa appena dal modesto letto.
Tutta contenta la finestra apria,
E mi sentiva rallegrare il core.
Inalzando le preci al mio Signore.
- 131 —
Un ricordo di te, mia cameretta,
Bramo recare ia casa del mio sposo ;
Ma quale oggetto ? il flore ? la piletta ?
Il guancial del dolcissimo riposo?
Nò — te sola vogl' io, piccola immago
Della Madonna, con quel volto vago.
Vieni, 0 soave madre, a questo seno ;
Ti porto da colui che mi ama tanto:
Vieni a render piìi bello il di sereno,
E... forse a confortar 1' ora del pianto;
Vieni, e ogni sera col Divin Figliolo,
Avrai due baci per un bacio solo.
- 132 -
AD UNA MADRE
clie ebbe lasciato nell' Educatorio
la sua amatissima figlia.
Povera Madre^ rimasta sola
Senza il conforto della figliuola^
Povera Madre ! piangi che n' hai
Cagione assai.
Quando ti svegli^, ti volti intorno
E torbo, sembrati, languido il giorno
Ahi ! non Io allegra col dolce viso
D' Elena il riso I
— 133 —
Tacita, trista cala la sera,
E tu seduta muta, severa.
Un posto vuoto guardi ogni tanto
A te daccanto.
Colà soleva la tua diletta.
Con il ricamo, colla calzetta.
Vivace, tenera scambiare i detti.
Mescer gli affetti.
Lieti mattini, dolci serate
Perchè alla madre più non tornate ?
Povera Madre I piangi che n' hai
Cagione assai.
Ma pur rimembra, mesta Isolina,
Che il più bel fiore cinto è di spina,
E che le nubi fanno più bella
La prima stella.
Dopo alcun anno verrà quel giorno
Che a te la figlia farà ritorno.
Destra ai lavori, dotta la mente.
Sempre innocente.
— 134 —
Ebben quel giorno, dimmi, un amplesso
Lo cambieresti col cielo istesso ?
Invidieresti gli Angioli santi
Con Lei davanti ?
Mesta Isolina, piangi, ma pensa
Che una divina legge dispensa,
Vicenda eterna nel nostro cuore.
Gioia e dolore.
— 135
ISAGOGE
Trovandosi 1' Autore in una conversazione
fu pregato dalla illustre Padrona di casa a
scrivere qualche cosa sul suo Album. Egli im-
maginò 1 seguenti versi arrovesciati, ma che
piacquero a tutti sul serio: sennonché un gobbo
poco stante rilevò 1' equivoco — Oh i gobbi I
APOLOGO
Di vivido color
Sul margine di un fior
Cresceva un rio :
Egle il voleva raccòr,
Ma dalla biscia fuor
La siepe uscio;
— 136 —
E colla bianca man
Sopra il morso inuman
Fece onta e danno —
Ahi spesso del sentier
Sul facile piacer
Cresce 1' affanno !
- 137 —
VITA DEL LACHERA
spifferata da Lui medesimo.
f 1 80O )
Signori io sono il Lacliera,
Illustre fiorentino,
Gran pasticcer del popolo
Gran bevitor di vino.
Che conto tra cent'opere
Una delle più belle
Di aver saputo crescere
Il buco alle ciambelle.
Io nacqui nei Camaldoli
Il giorno di san Rocco
Nell'anno che sui tegoli
Soflìava lo scirocco.
— 138 —
Mio padre, uomo di credito
Anch'ei cortese e gaio.
Per suo minore incomodo
Faceva il palmiziaio.
Lui vedendo me piccolo
Pien d'ingegno squisito.
Mi messe in Montedomini
A studiar l'appetito.
Giunto sugli anni dodici
Passai da un legnaiolo.
Che spesso bastonavami
Proprio come un figliolo;
E in men di mesi sedici,
A suon di lavorare
Giunsi all'intento celebre
Di rassettar tre bare.
Ma i morti ohimè non pagano,
E i vivi hanno il restio ;
Onde con garbo e grazia
Dissi alla pialla addio.
— 139 —
Quindi mi diedi a mescere
Il vin come garzone.
Ma un giorno tutto burbero
Mi licenziò il padrone;
Perchè della canicola
Nella più calda stretta
Col fiasco d'aleatico
Suonavo la trombetta.
Divenni poi domestico
Di madama Tegame,
E la livrea mi messero
Di uno morto di fame ;
E qui mi stancai subito,
Non avendo piacere
Per tante ore di seguito
Reggere il candeliere.
Ma non vorrei, carissimi.
Che la intendeste male :
Io vo'dir che toccavami
Di consumar le scale,
— 140 —
Giacché una moltitudine
Di gente assai compita
Nella sera venivano
A fare una partita.
Ridotto a spassò e povero,
Feci un sogno una notte
Che mi parea di vendere
Qua e là le pere cotte.
L'ebbi per buono augurio,
E senza altri pensieri
Presi una teglia a debito
Da un certo Capineri :
Ed eccomi a percorrere
Le strade di Firenze
Con mille lazzi comici.
Con mille reverenze.
Sicché tutti venivano
Come per un istinto
Le perecotte a mordere
Ed a leccar l'intinto.
— 141 —
Ohimè I tre case nobili
Mi astrinsero a fallire,
E feci un capitombolo
Di venti mila lire !
E il male fu che ingenuo
Io non fallii col sacco.
Come tant'altri sogliono
Pili ladri assai di Cacco.
Allor pieno di smania
E di sinistre voglie.
Deliberai di prendere
Quel che si dice Moglie.
Vidi un giorno una giovine.
Ed era così bella
Come quando si pettina
Nel ciel la prima stella.
Io le andai dietro, e tenero
Le dissi due parole.
Cioè; mia bella Venere,
Inzuccherato sole.
— 142 -
Ella allora volgendosi,
E visto questo busto.
Fece il bocchin da ridere,
E parve averci gusto.
Insomma a corta farvela
La presi calda calda
Colla cravatta candida;
E colla nera falda;
La stessa che ammiravano
Tante buone persone
Quando del Corpus-Domini
Usò la processione.
Or con il mio giudizio
E con un po'di dote
Messi su gran negozio
Di cavoli e carote:
Ma d'ogni specie cavoli
Crebbero in ogni lato,
E le carote vennero
Pur troppo a buon mercato;
- 143 -
Per cui mandato al diavolo
Ogni altro mio mestiere.
Io mi ridussi all'ultimo
Che è quel di pasticciere,
Sebben su tal proposito.
Cioè quanto ai pasticci
Mi ritrovai di subito
In mezzo a degl'impicci.
Poiché li confiscarono
Dopo una recidiva.
Dicendo che i Lustrissimi
Ne avean la privativa.
Poi di Roma e Venezia
Le paste si gradite,
Dopo infinite chiacchiere.
Mi furon proibite,
E il marzapan di Napoli?
Come rimasi brutto 1
Mi prese un dì di mucido
E mi si guastò tutto.
— 144 -
Ma la maggior disgrazia,
E me ne accorsi tardi
Per me si fu la perdita
Di tutti i Savoiardi.
Un giorno mentre io ninnolo
Me li mangia un can corso
E innoltre al destro gomito
Mi appicca un bel morso.
Or vendo sol le solite
Azzime mie ciambelle.
Ed il mestier continuo
Per iscampar la pelle.
È un affare magrissimo.
Ma ho trovato tre modi
Per vivere un po'meglio, —
Chiodi, chiodi e poi chiodi.
E altro rimedio stabile,
A dirla in un orecchio
Me lo promesse in Bobuli
Un amicone vecchio.
•èf
— 145 —
È tanto che lo stimolo,
È tanto che lo prego.
Che non sarà difficile
Di farmi aver l'impiego. —
Che cosa c'è da ridere?
Cos'è questo dileggio?
Nelle moderne nomine
Se n'é viste di peggio.
0 impiego ! o refrigerio
Di tasche nell'arsura 1
0 del mensil di sedici
Liscia e soave cura I
Bello quai nuovi bamboli
Il ritornare in culla !
Bella vita poetica
Mangiare e non far nulla I
Marcerò col soprabito,
E in lucidi stivali;
Sopra alla mia proposcide
Cavalcheran gli occhiali.
10
— 146 —
Userò nel dialogo
Poche parole e lente,
E senza saper leggere
Passerò per sapiente.
Ognun che pensa libero
L'avrò per un ribelle,
E loderò con enfasi
Qui il Lacliera, viste due guardie di sicu-
rezza, che pian piano vengon verso di lui
recide la canzone, e grida colla solila voce
chioccia il solilo ritornello
Che roba di mammelle !
— UT —
TESTAMENTO DEL LACHERA
Crepo da buon Cattolico,
Unto dell'Olio Santo,
Col confessore a latere
Col crocifisso accanto.
Ogni mia scelleraggine.
Ed ogni mio peccato
Prego lo sconti il Diavolo,
Che mi ha sempre tentato.
Istituisco il figlio
Erede fiduciario,
Onde passi alla vedova
I giorni del lunario:
— 148 —
E alle figlie amatissime.
Del ballo spasimate,
Lascio due grossi bugnoli
Di lupini e patate.
Lascio all'Italia libera,
Indipendete, unita
Mille braccia di canapo,
E una catena a vita.
Lascio ai Briganti il metodo
Di parer morti tutti,
E poi poter risorgere
Più spaventosi e brutti.
Ai giornali d'Ufficio,
Venduti alla menzogna.
Lascio il comune obbrobrio.
Le legnate e la gogna.
Ai Ministri che furono
Che sono, e che saranno.
Lascio quel che rubarono.
Rubano, e ruberanno.
— 149 —
Badiamo veli ! avvertitelo,
Fisco a scanso di beghe :
Qui per Ministri intendesi
Quelli delle botteghe !
Lascio a ogni Legge e Codice,
A ogni Editto e Contratto,
Matasse con gomitoli,
Dipanate dal Gatto.
Item agli altri Uffici
Lascio l'erba trastulla
E quella comodissima
Arte di non far nulla.
Item ai burocratici
Dei dicasteri bassi
Un monte di spropositi
Di lingua e di sintassi.
Ai deputati docili,
Dopo la chiaccherata.
Lascio per loro incomodo
La trattoria pagata.
— 150 —
E se al poter proseguono ^'
Di essere ognor cortesi
Avranno alcuni ninnoli...
Basta ! ci siamo intesi.
Alla mandria più innocua.
Vale a dire al Senato,
Di lattughe e papaveri
Lascio pieno un mercato.
Lascio al mio caro popolo ^'•
Lascio agli amici in massa
Tutto il dare dei bindoli.
Tutti i vuoti di Cassa. "*■
Più la Ricchezza Mobile
•
E il tanto desiato, ì
Quanto la Manna Ebraica ^^^ ig
Provido Macinato. '. * ' ^ . 2
Popolo-Rè, consolati :
Ecco una nuova età ! >
Ai gridi tuoi frenetici , ;
Surse la Libertà.
r.
\
rx
— 151 —
La libertà del carcere
Dai molesti riparo :
La libertà di spendere.
Quando tu l'hai, denaro.
La libertà di scegliere
Fra il gravamento e il Monte :
La libertà di starsene
0 in/casa, o sotto il ponte.
La libertade amplissima
Delle inutili brame,
E l'onor di soccombere
Martire della fame :
Il Camposanto libero.
Il becchino pagato
Popolo-Rè, rallegrati
Nascesti fortunato I
(Il Lachera è in a^anno per lo sforzo. Il
jyotaro gli raccomanda la calma; e che fini-
sca di detiare. Dopo un lungo intervallo l'in-
fermo ripiglia:) »
— 152 —
Lascio a chi sulla cattedra
Stentatamente raglia
A ristorar l'esofago
Un decotto di paglia.
Bevete, o menni idropici.
Dalla scienza indigesta.
Campane pneummatiche
Col vuoto nella testa.
Per voi gli alunni restano
Come tanti salami,
E son vergogne pubbliche
I mal tentati esami.
Ma i padri si arrovellano,
E lesti come topi,
I figli riconducono
Ai soliti Scolopi.
0 voi professorucoli
Questa proprio mi garba,
I Frati, quei retrogradi
Ve l'hanno fatta in barba.
— 153 —
Non ho più fiato e termino :
Chiuda Signor Notaro...
No no ! veggo in un angolo
L'amico mio più caro.
0 compare di bettola.
Già lieto Stenterello,
Colla sola camicia
Chi ti lasciò, fratello?
Intendo, intendo, i soliti
Vampiri prepotenti
I tristi Mangiapopoli
Che spellano le genti,
Ebben ! ti lascio, o misero,
Due mutande ragnate.
Onde celare al pubblico
Le chiappe dimagrate
(Il Lacliera cade in totale sfinimento e più
non iKxrla. Stenterello piange) .
Umh ! umh ! umh !
— 154 —
(U Notavo esorta Stenterello a partire
per non turl)are con idee profane gli ultimi
momenti dell'amico, Stenterello obbedisce e
partendo piange.) e dice :
Muore l'ultimo degli Italiani f Andiamo do-
lenti e cisposi a fargli il pitafDo. (1)
(1) Ci resta debito di cosoienza il dire che se abbiamo
scherzato sull'uomo faceto, il Lachera fu onesto popolano,
pulito di persona e di modi, e diligente educatore della pio-
pria faroi^ilia.
— 155 —
ISAGOGE
L'Autore fece con taluno la bizzarra scom-
messa di non bere più vino; ma prima volle
una intera nottata per cong-edarsi dall' almo
liquore. In quella notte cintellando scrisse il
seguente
ADDIO AL FIASCO
0 Fiasco, 0 antica gloria
Delle toscane genti.
Da Cisti panicocolo,
E da Filippo Argenti; (l)
0 mio compagno assiduo
Fin dalla fonciullezza,
Adunque sarà l'ultima
Per noi questa carezza?
(1) Vedi il Decameron del Boccaccio — Novella II Giorna-
ta quinta, Novella Vili Giornata nona.
— 156 —
Giurai di non più bevere...
Ahi, non più bever vino 1
E mi convien di cedere
Al duro mio destino;
Ma di te, rosso e tumido
Amico mio diletto.
Sitibonda memoria
Mi rimarrà nel petto;
Quando al seno stringendoti.
Chiamandoti mia vita.
Io colsi i baci fervidi,
Bocca con bocca unita,
Mentre versando 1' anima
Con impeti soavi.
Cento parole tenere
Tu gorgogliando andavi;
Quando sdegnando i numeri
Della cetra sonori,
Sulle tue corde morbide
Cantai 1' armi e gli amori;
— 157 —
Quando di Belle Lettere
Nello studio ridente.
Come commento ai Classici
Ti consultai sovente ;
Quando d' astrusi termini
Nell'intricata via
Bevvi nelle tue gocciole
Pretta Filosofia;
Quando alfin di politica
Nelle sfere superne
Tu mi facesti credere
Lucciole per lanterne.
Ora non più ! la gelida
Boccia coir umor bianco
Mi domerà lo spirito
Forse un po' troppo franco.
Allor ridotto ascetico,
E privo d'ogni vizio,
Farò le corna al diavolo,
E metterò giudizio —
— 158 —
Oimè, il giudizio ! 1' arido
Stato della ragione,
Che nel cerrel le immagini
Tiene come in prigione :
Maestro d' archipenzolo,
Kotaro del consiglio;,
Fratel dell'itterizia.
Padre dello sbadiglio.
Egli oserà di togliermi
Dal consueto oblio ;
Dirà eh' io sono un misero,
E ch'io proprio son io.
La cosa è insopportabile..
Esser sempre lo stesso 1
E la sorte dell' asino,
La sorte del cipresso.
Invece, o Fiasco amabile.
Col tuo dolce elemento,
E di persona e d' indole
Cambiavo in un momento.
— 159 —
Quindi mi piacque d'essere
Un soggetto di storia ;
Per esempio il Ricasoli
Con tutta la sua gìoria.
Volli r Italia libera
Senza l' insurrezione^
Misi le briglie al popolo,
Diressi 1' opinione.
E seguitavo a fingermi
Il Barone in persona;
Ma poi gridai suU' ultimo :
« Dio ce la mandi buona ! »
Perchè apparian de' nuvoli
Da settentrione ad ostro
Più fitti dei manipoli.
Più neri dell' inchiostro.
Onde mutata maschera,
Mi feci Garibaldi,
L' italiano Leonida,
Il Re degli spavaldi;
— 160 —
Menavo ben le mestole,
Ero sempre in impegni,
E fumando il mio sigaro
Ingollavo dei regni;
Ma, racchiuso in un' isola.
Sentendomi indolente.
Lasciando capra e cavoli
Tornai sul continente.
Quivi divenni subito
Ministro di Finanza,
E di balzelli e imprestiti
Avea piena la stanza.
Al Gran libro del Debito
Appoggiavo le rene,
E ripetea: « Che comodo !
Come ci si sta bene ! »
Ma un giorno a fermi visita
Venne un uomo sparuto.
Coi capelli in disordine,
Giallo^ magro ed ossuto :
- IGl —
E a me, che interrogavalo^
Con un certo spavento.
Chi fosse, in tuono rauco
Rispose : Il Fallimento.
A cotal nome un brivido
Sentii di vena in vena.
Onde mi diedi a correre
Con quanto aveo di lena.
Giunto a Firenze, spiacquemi
Di aver preso a imitare
Quei personaggi altissimi
Che hanno troppo da fare;
E discendendo all' umile
Popolaresco stato,
Volli assaggiar la gloria
Del vecchio Tribunato.
Scelsi dunque l'immagine
Di un celebre fornajo
Moderno capopopolo.
Ricco, robusto e gajo.
— 162 -
Feci cose mirabili.
Ma poi proprio sul bello,
Mi convenne soccombere
Kel fin di Masaniello. (1)
Cosi traea le rapide
Ore nel caso vario,
E poi fìnia col credermi
Sei volte milionario.
E allor venite, o voglie
Tutte vi soddisfaccio :
Non trovo alcun ostacolo.
Non sento alcun impaccio.
Lusso, viaggi, musica.
Fiori, cavalli, cene
Ed anche 1' elemosina
Per fare un po' di bene.
(IJ Profezia.
— 163 —
0 miei castelli in aria !
O mia perduta gioja f
Sento di già lo spirito
Della futura noja.
Piangi, Fiasco sensibile.
Piangi sulle mie pene...
Ah ! le tue dolci lacrime
Mi fanno pur del bene !
Baciami ancor... ribaciami...
Dammi un'amplesso ancora...
Ti ho da lasciar ? Lasciamoci !
Si ha da morir? Si muora !
Addio... convien risolversi;
E or che ti sento vuoto^
Ti attacco a un chiodo in camera
E cosi sciolgo il voto.
E qui facciam punto alle Poesie, perchè i
limiti che ci siamo imposti non ci permettono,
e ce ne duole, d'inserire molti sonetti ed epi-
grammi dell'Autore. — Ci sarà tempo.
PROSE
REMINISCENZE NOTTURNE FIORENTINE
SOMMAPaO
La Piazza del Popolo — La Ritirata — I Saltim-
banchi — I Burattini — Il Burattinaio — Origine
della Quarconia — Programma della Quarconia
— La Quarconia — Il Pizzicagnolo — GÌ' Im-
provvisatori — A letto.
Io sono tra quei goccioloni tagliati all'an-
tica^, che se non meritano il nome di animali
retrogradi, come per esempio il gambero, vo-
glionsi per altro annoverare tra ifermicci; non
mica nel senso politico, badiamo ve' amiconi !,
ma per certi usi e costumi che in gioventù ci
dilettarono tanto, ed hanno lasciato nell'anima
una traccia leggiera, candida e gentile, pari
— 1(18 —
alla via lattea neirarco del cielo notturno. Che
parvi, neh? Non so anch'io esser poeta, e far
paragoni abbacati oltre le nuvole?
Fatto sta che il vecchio è sempre laudatov
iempOìHs adi; ma la satira romana non toglie
ad un buon fiorentino la dolcezza dei vecchi
ricordi, quando la città offriva a noi plebei
que' divertimenti, con poca spesa o senza, i
quali oggimai sono divenuti una specie di pro-
prietà per le persone ricche.
Sonavano le ventiquattro, ed io mi trovava
sulla Piazza del Popolo per godere la Ritirata.
I tamburi battevano, le trombe squillavano, ed
una mano di pacifici soldati faceva il giro della
piazza. Guardavo io a' soldati ? No davvero :
per me invece era un'estasi lo stare attento
ai monelli, che saltavano a guisa de' pagliacci
con diverse carole davanti ai sonatori di pif-
fero, accompagnando la marciata cogli urli e
coi fischi. Qual bellicoso spettacolo !
Dopo la scena marziale, e sulla piazza stessa,
davasi un'altra e piìi variata rappresentanza
dalla genia de' saltimbanchi e rivenditori, che
empivano lo spazio di lumi e di gaiezza. Qua
un cavadenti, che a suon di chiacchiere sga-
— IG9 —
nasciava il suo simile; là un saltatore, che
sopra un lacero tappeto faceva mostra di des-
trezza; da un lato un giocatore di bussolotti
moltiplicatore di palle; dall'altro uno spaccia-
tore di miracoli inauditi: e un maccheronaio.
che dava la mercanzia per un quattrino su
la palma della mano; un professore di ceretta
da scarpe; un libraio col suo baroccino, che
vendeva a una crazia 1' una le tragedie del-
l'Alfieri; e un cieco che cantava sulla tiorba
i casi amorosi d'Ippolito e di Dianora.
Ma quello che di gran tratto superava ogni
altro spettacolo erano i burattini a caslelio,
retti dal così detto Luyìgo di onoranda me-
moria. I suoi drammi ei gì' improvvisava, e
non mancavano spesso di argute allusioni ai
tempi che correvano. I personaggi eran pochi,
ma avevano tutti un carattere spiccato, sicché
il popolo si era loro affezionato, e gli cono-
sceva appuntalo. Il Mago Sabino, la signora
Rosetta, il signor Orazio Grattasassi, il Rapa
suo contadino, il Capitano Squarcia, e il prode
Pulcinella, avevano lor partigiani, e tenevano
in moto l'udienza. Metastasi© della plebe, il
Lungo era fiicile e fertile come il Poeta Cesareo,
— 170 —
ma com' esso si ripeteva negl'intrecci, e finiva
coll'araore trionfiinte: se non che Pulcinella
bastonava per vezzo anche gli sposi, onde il
noto proverbio delle Nozze di Pulcinella per
denotare un esito di cose non troppo pacifico.
La platea del Burattinaio era delle più nume-
rose, e qualche quattrinello lo raccapezzava :
almeno un due per cento. Io davo sempre un
soldo, e la fedele metà del Lungo, che veniva
in giro ad invocare la cortesia della turba
non tralasciava mai di chiamarmi illustris-
simo.
Ora la Piazza del Popolo, divenuta Piazza
dei Signori, è nella notte così deserta e poco
illuminata, che nemmeno una spia vi passeggia.
Questa riforma di tenebre e di solitudine si
deve ad un Aurelio Puccini, già ombroso Pre-
sidente del Buon Governo, e ad una stringata
civiltà che proscrive le spontanee gioie della
strade, e senza parlar di pane, vende i suoi
circensi per acqui.-tar fautori.
Un giorno io rividi il Lungo burattinaio,
giubbilato senza pensione. Hei miìii! ....
quantum mutatus ab ilio! Altro che l'Ettore
di Virgilio! Vero è bene che alcune difierenze
— 171 —
ci erano, ma l'aspetto era tristo del pari. La
barba, per esempio, anzi che raggruppata nel
sangue, era sordida di polvere ; e per quante
ferite avesse nella carne 1' eroe troiano, non
superavano le toppe che spiccavano sul vestito
del nostro artista.
— Lungo !
— Lustrissimo f
— Sei tu?
— Son io, ma non son più io.
— E che fai adesso ?
— 0 non lo vede ? Delle assi del casotto ho
formato questo carruccio, e mi diverto a spazzar
le strade. La lo sa che la pulizia mi è sempre
piaciuta.
— E sempre ti mantieni allegro e faceto:
buon prò ti faccia. Ma dimmi, o i tuoi per-
sonaggi ?
— Non me gli nomini : sono tanti ingrati,
e anch'essi mi hanno abbandonato.
— Delle tue. E dove andarono? Sentiamo
per ridere. La signora Rosetta?
— La signora Rosetta è a Londra e vive
da regina, stando dietro a tutte le mode e
corbellando il mondo.
— 172 —
— E il signor Orazio Grattasassi c'è sempre
innamorato?
— Oibò! Costui si è fatto un discolo a Pa-
rigi, e scrive cose dolci a cento innamorate.
— Ma la signora Rosetta lo sa ?
— Lo sa pur troppo, ma ancora non la vuol
rompere. Insomma son due fìnti, e vedremo
come finiranno.
— Il Mago Sabino almeno, che era un bu-
rattino sodo, sarà rimasto teco.
— S'immagini! e' mi voleva tanto bene!...
ma che vuole ! gli diedero delle pedate nel
sedere, ed egli stizzito si ritirò a Vienna
dove cova... cova... chi lo sa che cosa cova?
Secondo me però, se fa come faceva quaggiù,
lo manderanno via anche di lassìi.
— Questo non è possibile, perchè il Capitano
Squarcia è suo amico, e lo proteggerà sempre.
— La si cheti; la non sa nulla. Il Capitano
Squarcia non è piti suo amico per certe por-
cherie che gli furon fatte, e oramai ognuno
fa da sé. Basta! e' si possono anche rappattu-
mare, che, a dirla schietta, sono a un bel circa
dello stesso pelame; ma intanto lo Squarcia
ha fiitto fortuna in Russia, e senza punto la-
— 173 —
Torare ha aperto un banco da stordire; anzi
si dice che presto presto rizzerà un negozio
anche in Costantinopoli.
— Mira un po' che diavolo mi conti! Già
il proverbio lo dice: chi fila ha una camicia,
e chi non fila ne ha due. Ora poi non mi resta
ad interrogarti che sul Rapa e su Pulcinella.
Dimmene qualche cosa: tu sai che special-
mente di Pulcinella io era fanatico. E il Rapa
è sempre contadino del signor Orazio Grat-
tasassi ?
— Altro che contadino ! E' l'ha creato fat-
tore della sua tenuta a Torino; e la lo vedesse,
lustrissimo !... si è rirapulizzito, ha messo su
occhiali, e si fa rispettare: insomma e' paro
un altro.
~ E Pulcinella?
— Ohi quanto a Pulcinella sarebbe lunga
la storia. Le basti che si è sempre conservato
del suo umore. Legnate alla cieca, e avanti.
I burattini suoi compagni, e perfino le com-
parse, gli hanno fatto una guerra proprio laida;
ma egli duro, e senza paura. Finalmente però,
dopo un insultacelo ricevuto dal Rapa, andò
in Sicilia, dove fu accolto a braccia aperte.
— 174 —
Ora è a Napoli, ed ha condito un bel piatto
di lasagne, ma quegli scrocconi già rammen-
tati non gli lasceranno a leccare neppure un
po' d'unto; dopo di ohe diranno ipocritamen-
te, che r han fatto per impedirgli un' indige ■
stìone.
— Ah, ah, ah !
— La ride ?
— Rido si : rido della tua fantasia che è
sempre cosi sveglia, e dà la vita alle teste di
legno.
— Che vuole ! Di reale non mi resta che
una cosa.
— E quale?
— La miseria, lustrissimo.
— Intendo : tieni.
— Grazie, lustrissimo, e a rivederci in
Piazza del Popolo, se Dio vuole.
— Come ! senza casotto, senza più burattini?
— Eh! il casotto c'è, e stabile. Quanto a
burattini poi ne avrò quanti ne vorrò, e più
graziosi di prima. —
Io me ne andai tra mesto e ridente ; ma da
ultimo mi uscì dal petto un sospiro, che volea
dire: Valentuomo di Burattinaio! neanche
una pensione di 14 mila lire ! neanche una
croce ! ! 1
In ilio tempore non ilnivano sulla Piazza
del Popolo i divertimenti notturni a poca
spesa. Altri dieci quattrini ad uscita, e la
serata si terminava allegrissimamente al Tea-
tro della Quarconia.
Verso la metà del secolo decimosettimo,
Filippo Franci (ora Beato), sacerdote pien dì
zelo e di carità, con somme all'uopo raccolte,
si diede per la città di Firenze, sua patria,
a radunare fanciulli poveri, idioti e traviati
per condurli a vita comune, e migliorarli così
dal Iato morale come fisico in un ospizio di
carità da esso fondato in via dei Cerchi. Santo
e nobile istituto quello di educare i fanciulli
del popolo e dì sovvenire ai loro bisogni, che
il Franci esercitò pressoché al tempo istesso
di S. Vincenzio De' Paoli.
Ora in codesto Ospizio erano accolti ancora
que' giovinetti, che l' autorità paterna non
aveva saputo o potuto correggere: quivi erano
sostenuti in alcune celle, e non meno aiutati
di consiglio che puniti con qualche lieve pena:
- 176 -
onde opina il dotto Lastri, che si desse forse
a quel luogo il nonne di Qaarconia, o Quar-
quonia, per la congiunzione de' due avverbii
latini quare e quontam, comecché non senza
precedente cagione gravissima si procedesse
all'atto della carcerazione.
Qualunque però ne sia la provenienza, il
volgo chiamò Quarconia quell'edifizio, e cosi
seguitò a chiamarlo anche quando vedovato
del pio consorzio, valse ben dopo molto tempo
a far parte di un teatro che ebbe nome del
Giglio, ma che al solito l' ostinato popolino
chiamò Teatro della Qaarconia.
Teatro a due crazie, teatro in mezzo alla
città, teatro che scornava i guanti e le giubbe,
non vi sto a dire se era frequentato dagli
onorevoli inquilini di Via Gora, di Via Por-
ciaia, di Borgo San Frediano e di Mercato:
aggiungi poi , che neppure la Pergola dava
in una sera tanta roba a' suoi avventori. Per
il solito s' incominciava con una tragedia di
autore vivente : da questa si passava a un
pezzo d'opera in musica : quindi c'era un ballo
e un concerto: e da ultimo la farsa, o il giuoco
de'bussolotti. Nella recita in benefizio di Saar-
— 177 —
classa, che da lupinaio passò alla Quarconia
a far da primo Uomo, io che buttai 6 crazie
sul vassoio, ebbi il privilegio di un manifesto
del trattenimento, trascrittomi in carta su-
gante dall'Impresario: e diceva cosi:
1" Due atti a scelta della platea del
Crispo del sig. Quaratesl
2° Giuochi di forza e destrezza ese-
guiti dal celebre sig. Rogantino delle
Conce e Compagni.
3° Concerto di violino e trombone dei
SIG. N. N.
¥ Maometto secondo, ossia la presa di
Costantinopoli, ballo storico con trombe,
tamburi, cannoni e bandiere.
5" Finalmente il tanto applaudito Pan-
tomima DEI DUE Pretendenti.
Se per due grazie vi par poco, fatevi
rifare il resto.
Ma già il gobbo Masoni dà principio con
le strida del suo violino — La Platea schia-
mazza e rutteggia — I Signori dei palchetti
fischiano come biacchi — Le Ciane leticano
— 178 —
— I Beceri si chiamano a nome... Entriamo,
entriamo, che l'ora è matura.
Il Teatro della Quarconia era un parallello-
grammo con Logge sorretto da colonne di
legno, che cosi lateralmente formavano due
corsie. Le solite panche a doppia fila, como-
dissima l'orchestra, e il palco scenico ampio
quasi quanto la platea; quindi adatto a balli
e a spettacoli d'ogni genere. L'aspetto, di gior-
no non ne riusciva sgradito. Dico di giorno
perchè la sera il teatro non si vedeva che
mezzo: molti lumi sul proscenio, due soli dalle
parti, e buio pesto in fondo, dacché la lumie-
ruccia di mezzo serviva solamente per il mezzo.
Era una distinzione di luce e di tenebre, come
ai primi giorni della creazione.
Ma se vi erano gente illuminata e gente
oscura, l'accordo morale sarebbe slato invidia-
bile in tutti i parlamenti del mondo: non erano
men vive le discussioni, e i conflitti di plausi
d'urli e di fischi; pure ogni tempesta finiva
colla pace comune e col comun consenso.
Anche alla Quarconia vi era una destra e
una sinistra, che meglio però si chiamereb-
bero alto e basso, dacché le gallerie eran
— 179 —
occupate dagli uditori un pò meglio vestiti e
più intelligenti, vale a dire da praticanti di
medicina e di legge^ da commessi di commer-
cio, e da figli aspiranti di buone famiglie ;
mentre le panche contenevano i béceri di puro
sangue, e per tali si intendono a Firenze i
ciabattini, i garzoni di macello, i conciatori
di pelli, i piccoli rivenditori delle strade e
ogni minuzzaglia di Mercato Vecchio.
Certo i beceri erano in maggioranza, e cosi
rappresentando la destra, si trovavano disposti
ad approvare ogni corbelleria del palco scenico,
dove gli istrioni la facevano da ministri, come
qualche volta altrove 1 ministri la fanno da
istrioni.
Ma la sinistra, ossia la camera alta, aveva
dalla sua di buone zucche, e ciò bastava a
bilanciare e vincere la partita. Difatti i si-
gnori Deputati delle gallerie, nelle quali eglino
stavano per la maggior parte a cavalcioni,
dopo essersi battuti col ventre dell'assemblea
al si e no, a fischi e a plausi traevano dalle
tasche, mele, pere, pomodori (secondo la sta-
gione), e più sovente zucche depredate ai ri-
denti orti di Legnaia e di S. Salvi, le quali
— 180 —
andavano a frangersi sul tiranno e sull'amo-
roso della compagnia declamante. A quest'ul-
timo argomento i béceri battevano le mani,
e l'unione degl'urli rinasceva compiuta. Oh,
bell'audacia da una parte! Oh, bella docilità
dall'altra I Oh, esempi da imitarsi di cittadina
concordia 1 1 !
I due partiti mangiavano. Badiamo ve f non
calunniate, perchè qui non si tratta che di
bocconi di carne, e non di denari, di province,
di portafogli e di croci e nemmeno di uomini
all'uso dei moderni politici irocchesi. I fre-
quentatori del teatro mangiavano chi dei vo-
latili, chi dei quadrupedi, e la carcassa di un
pollo scendeva in platea, come un osso d'agnello
saliva sulle logge : lo che serviva a mantenere
amichevoli corrispondenze in mancanza di pa-
role. Erano gli scambi diplomatici della Quar-
conia.
Tanta pace per altro in mezzo alla guerra
veniva spesse volte turbata da particolari ac-
cidenti; i quali ninna comunanza di perso-
ne meglio assortite ha mai potuto impedire.
Ora si tratla di un briaco, che ribattezzava i
suoi sottoposti con un fiasco di vino; ora di
— 181 —
■un tale, che approOftandosi del buio in fondo,
e per non far rumore, scaricava la vessica
sulla gonnella di una ciana; ora di un torso
di cavolo che smorzava il lume al gobbo Ma-
soni, guidaiolo de suoni. Di qui i richiami, i
bisticci, e le minaccie, che Dio vel dica,
0 che non c'era alcuna autorità che vi
mettesse riparo? Altro se c'era I ma disgra-
ziatamente poco rispettata.
La Maschera, ossia il custode del Teatro,
esercitava anche l' ufficio di Cavaliere d' Ispe-
zione, e si dava l'aria del più gran baccalare
del mondo. Appunto forse per questo, e per
un suo sterminato cappellone a due becchi, 1
béceri gli ridevano sul naso, e non lo conta-
vano un fico. Anzi la cosa andava più là del
■disprezzo. Certa sera un mercatino urlava a
piena gola: « Maschera, Maschera » Il prefato
ufficiale accorreva, tutto tronfio di autorità, ad
<3sercitare i suoi poteri :
•- Che cosa c'è? Che volete?
— r ho una sete da cani : portatemi un soldo
di vino.
— Che discorsi son codesti? Per chi m'avete
preso ?
— 182 —
— Vòtta! pel servo del Teatro; e poi non
si può chiedere un piacere a un'amico?
— Begli amici ! Vi farò vedere chi sono :
intanto vo' siete in arresto.
— Bella forza 1 e neanche mi muovo, finché
dura la commedia.
— Sappiate che io ora rappresento Sua Al-
tezza.
A questa bravata, una poderosa latta piove
da mano incognita sulla lucerna del Real Rap-
presentante, e gliela ficca fino ai denti. La
Maschera corre furibonda a un picchetto di
soldati, che giocavano alla mora sull'ingresso
del Teatro e chiede vendetta. I soldati venuti
in platea, trovano che tutto era tranquillo, e
non conoscendo l'autore della latta, fanno un
mezzo giro, e tornano al gioco favorito.
Di queste scenette ne avvenivano seralmente,
e non per questo il prenominato ufllziale sce-
mava di zelo: anzi era sempre in moto a im-
pedire, a sgridare, a vigilare e a proibire ogni
sorta di contravvenzioni e di disordini. Se vi
facesse meraviglia che ei non si desse briga
del mangiare e del bere, sappiate che questi
erano abusi tollerati non solo, ma eziandio
— 183 —
consentiti. Il contrabbando del vino e delle
pietanze si sarebbe fotto a ogni modo; sicché
i distributori dei biglietti d'ingresso pigliavano
una tassa proporzionale sui tegami e su'fiaschi,
che occupavano uno spazio a carico degli ascol-
tanti. C'era qualche cosa che somigliava all'uf-
ficio dei gabellieri pontificj quando il Papa pos-
sedeva stati, confini e gabelle, sopraccapo gentil-
mente a lui risparmiato dal Ministero di Torino.
Ma ormai è tempo di gustare in parte una
rappresentanza della Quarconia
S'alza il sipario, e sta per recitarsi il Buon-
delmonte, tragedia del signor Corsi, emulo for-
tunato del signor Quaratesi perchè riscossa
ognora più fischi e più patate addosso. Alle
prime parole gli spettatori si risolvevano ad
ascoltare o no. Quella sera si risolsero pel si,
a cagione degli schiamazzi e delle insinua-
zioni della minoranza^ che impose a tutti la
stessa opinione. Da ciò si arguisce, che gli
onorandi appaltati della Quarconia conoscevano
il suffragio universale assai prima di Luigi
Buonaparte.
Il Corsi autore, secondo il solito declamava
da sé le sue tragedie, e sosteneva la parte di
— 184 —
protagonista. In quella tragedia egli rappre-
sentava Buondelmonte in persona, vestito da
guerriero in corazza di fogli da impannata,
dipinta a rabeschi, schinieri di cartone, co-
sciali di cartone, bracciali di cartone, ed
elmo di cartone, ornato di penne di galletto.
Si sentiva di lontano come un serpente a so-
nagli, e se in quella guisa avesse attraversato
i boschi deiriraalaja, i selvaggi per terrore,
l'avrebbero data a gambe : noi al contrario
sapevamo che era un animale innocente.
Il primo atto piacque pe'suoi spropositi sino
alla sesta scena; ma poi diventando spropositi
comuni e già ripetuti, l'udienza non ne volle
saper altro, e cominciarono i fischi e il batter
<-.elle mazze.
Il Corsi allora, così incartonato com' era,
^nche col pericolo di una combustione, venne
alla ribalta de'iumi, e disse.
— Signori! un poco di pazienza: il bello
viene al terz'atto.
— Bravo ! bene I (gridava 1' udienza) al
terz'atto, al terz'atto.
— Ma vedon bene lor Signori, che si sal-
terebbe il secondo.
— 185 —
— Non importa: al lerz'atto, al terz'atto.
— Mi pare però —
— Al terz' atto, al terz'atto.
Era un inferno.
Fu forza dunque calare il sipario, e dopo
un trescone del Masoni, rialzarlo al terz'atto
Il terz'atto spiccava per una lunga descri-
ttone del Consiglio tenuto nel Palazzo della
Signoria, sulla quale il Corsi fondava le sue
l'iù vive speranze. Se non che un verso ebbe
a guastare ogni cosa, verso divenuto celebre,
avvegnaché, come proverbio, sia restato in
liocca di tutti. Dopo aver rammentato i diversi
Ottimati, che entravano nel Salone de'Cinque-
cento, l'attore terminava l'elenco dicendo:
« L'ultimo a comparir fu Gambacorta. »
— Lo credo se fu l'ultimo ! con una gamba
più corta! Fuori Gambacorta.
— Signori I (esclamò fieramente il Corsi)
sappiano che il Gambacorti, o il Gambacorta
era un casato.
— Non è vero; era uno zoppo — Fuori Gam-
bacorta: fuori, fuori.
— Ma (soggiungeva il Corsi) Questo perso-
— 186 —
— Non importa: si stacchi una Carrozza,
e si mandi a pigliare in Palazzo Vecchio. —
Fuori Gambacorta, fuori Gambacorta , o si
rompono i lumi.
L'impresario sapeva con che gente aveva da
fare, e come era uomo di bei trovati e di buoni
compensi, cacciò fuori dalle Quinte una brutta
comparsa, che zoppicando fece il giro del palco
scenico tra i più vivi applausi dell' uditorio.
La tragedia potè quindi procedere liberamente
sino in fondo.
Ma appunto in fondo saltò in capo al pub-
blico un' altro ghiribizzo. Si era notato che
Mosca Lamberti tramava insidie contro Buon-
delmonte; e siccome quanto questi era simpa-
tico altrettanto riusciva odioso il Mosca, fu
deliberato che Baondelmonte non fosse ammaz-
zato né da lui, né da altri ; sicché dopo un'ac-
cesissima discussione, il buon Corsi, si dovette
uccidere, a uso Saul, colla sua spada di legno
inargentato.
Finita la tragedia, i bravo e i viva ebbero
a sfondare il soffitto, e fu richiesta per la sera
seguente.
Il Corsi, nonostante le varianti che era stato
— 187 —
costretto a fare, gongolava di poter mettere
sul cartellone « A richiesta universale. »
Egli fu chiamato agli onori del proscenio;
e ci andò col restio, perchè sapeva come per
lo più la faccenda andava a finire : pure questa
volta non rilevò che un colpo di mela nel petto,
il quale squarciò soltanto la corazza di foglio.
Cosi terminò l'esecuzione di quel capolavoro.
Dopo la tragedia ci fu un concerto d' un
violinista, che parca sonasse l'amor dei gatti.
Successe un prestigiatore, cioè un Bosco in
sessantaquattresimo, di cui si indovinavano
avanti, e a piena voce si ridicevano; i segre-
ti dell' arte. Venne finalmente il pantomima
danzato.
Codesto ballo s' intitolava « La Fucina di
Vulcano » e l'intreccio aveva questo di buono,
che non s'intendeva nulla.
Vulcano era un'ossesso che gesticolava sen-
za posa, cacciando spesso le sue mani nella
sua testa arruffata, e non rifinendo mai dal
litigare ; ma ben si capivano le ragioni della
sua stizza.
Tuttavia quel che riusciva incompatibile, fu
che quasi per virtù magnetica l'ira del fabbro
— 188 —
si trasfuse negl'altri, tantoché Venere, Marte,
Mercurio, e gli stessi Ciclopi, si diedero a poco
a poco a fare una ridda diabolica ; e tutto in
breve spazio apparve un Pandemonio. Per la me-
desima cagione l'uditorio riscaldandosi, comin-
ciò a battere le panche e ad urlare, mentre
l'orchestra sonava a stormo con timpani trom-
be e tromboni, che era uno spavento. A para-
gone di tal fracasso le famose giornate di
Luglio a Parigi potean passare per la pro-
cessione di Gesù morto a Prato,
Calmato alquanto 1' uni versai furore, si alzò
un deputato dell' estrema sinistra per una
<^iuestione d' urgenza. Egli notò che i ciclopi
avevano due occhi; lo che era un oltraggio alla
mitologia, che ce li ha dati con un occhio solo.
Formulava per conseguenza un decreto , me-
<liante il quale dovevasi cacciar subito un oc-
chio dalla fronte di Sterope e compagni. I tre
Oiclopi impallidirono, e si ritrassero bel bello
dentro le quinte. Intanto un altro deputato del
<:entro si oppose , asserendo che dopo il fatto
<li Ulisse con Polifemo, Giove aveva regalato
un' altra pupilla a quei Giganti, cotalchè non
v'era diritto all'invocata estrazione. E poi
— 189 —
(continuava egli) se un Cilcope prendesse mo-
glie, come potrebbe giusta il costume moderno
chiudere un occhio avendone un solo?
L'argomento garbò e la camera passò al-
l'ordine del giorno puro e semplice.
Non fu cosi d' un altra proposta, accolta
invece con acclamazione. Qualcuno denunziò
alla decenza del Parlamento una frittella d'olia
situata in una coscia di Venere; ed argomen-
tando da ciò che Vulcano dovesse essere un
marito spilorcio, concluse pel divorzio, e per
le seconde nozze con Marte. Come ho detto,
la proposta passò a pieni voti e per di più lo
zoppo Dio, durante l'imeneo, dovette reggere
un lume dell'orchestra fattogli offrire dal
primo Clarinetto. Cosi il ballo terminò come
le commedie del Goldoni, e si calò per sempre
il sipario.
Non ostante si lungo e sì variante diverti-
mento, gl'incontentabili Quarconiani avrebbero
voluto altri spettacoli, e concepito altre esi-
genze; ma l'impresario non sempre era debole,
e remissivo. L' ora era tarda, e il suo do*
vere compito; onde, per iscongiurare un nuo-
vo chiasso, s' appigliò al consueto colpo di
— 100 —
stato: fece spengere ì lumi e diede la buona
notte.
La folla, persuasa dalle tenebre, se ne andò a
tastoni, ne vi furono altri inconvenienti che
alcune acute esclamazioni femminili, conse-
guenze de'soliti pizzicotti alle parti postiche.
I più vecchi frequentatori della Quarconia,
comecché tarda fosse l'ora al termine della
Rappresentazione, non sarebbero andati a casa
per tutto l'oro del mondo, sapendo qual altro
genere di divertimenti gli aspettava. E qui è
bene il dire che le scene descritte, e quelle da
descriversi accadevano specialmente nelle tre
belle stagioni dell'anno, bellissime in Firenze.
Certamente l'inverno non è d'ostacolo ai not-
turni piaceri; ma pel solito, li tiene rinchiusi
fra quattro mura, e mentre da un lato esso
accresce l'intimità dei consorzi, per lo più
non ci concede l'aere mite e il cielo sereno,
da dove la luna sputa le perle sugl'occhi de-
gli amanti infelici.
Per trovar luogo che ci capisse, noi ci divì-
devamo in due masnade: l'una entrava dal
Pintuccio dietro Palazzo Vecchio e l'altra dal-
l'Oste Barbaro presso la Piazza dei Tavolini.
— 191 —
Il Pintuccio era, ed è tuttavia, un famoso
pizzicagnolo dal vin buono ; l'Oste Barbaro
condiva egregiamente la trippa, e mutava la
tovaglia tre volte l'anno, tenendola ferma alla
tavola con quattro bullette, conficcate alle
quattro cocche. Era una carta sinottica di
quattro in quattro mesi, dimostrante tutto
quel che aveano mangiato e bevuto gii avven-
tori.
Dall'oste andavano i ricchi e i ghiotti, seb-
bene la differenza della spesa non fosse molta.
Eppure, come spender meno di ciò che si spen-
deva a que' tempi dal pizzicagnolo? Quattro
quattrini di salame, un soldo di pane, e un
soldo di vino : in tutto, due crazie dell'antica
moneta. Che cena lesta, saporita, ed econo-
mica f Questa cosa farebbe ridere a Milano e
a Torino, la cui gente inghiotte pezzi di car-
ne che paiono aborti di mastodonte, forse per
dilatarsi l'esofago, e cantar di basso : ma noi
qui siamo quasi tutti tenori ; il poco ci basta,
e l'antica parsimonia ci assolve.
Dal pizzicagnolo e dall'oste attendevano di
piantone gl'improvvisatori, poeti popolari, che
parte per apollineo istinto, parte ancora per
— 192 —
l'aspettativa d'un piccolo lucro, rallegravano
le turbe coi loro canti; ed erano più rispet-
tabili dei greci rapsodi , dacché recitavano
versi spontanei e di proprio conio. Si con-
tavano fra i più celebri il Chiarini, il Nan-
nucci, detto Pretino, Angiolo Baghéo, l'Otto-
naio ed il Quattrini, tutti più o meno al-
lievi di Domenico Somigli, noto sotto il nome
di Beco Sudicio, di cui già dettammo la vita.
Capitanati dunque da vati si fatti, che so-
navano 0 si facevano sonare il chitarrino,
uscendo dalle respettive taverne, parimente in
distinti gruppi, ci recavamo dove non man-
cava subietto a patriottiche rime. Il Brunel-
lesco, Giotto, Arnolfo, Michelangiolo, Donatello,
il Perseo, il Ratto delle Sabine, il David, la
Giuditta, Pier Capponi, il Duca d'Atene, i
Ciompi, il Savonarola, e cento altri perso-
naggi, monumenti e fatti apparivano a vicenda
nelle rapide rime. Quelle ottave, quelle ana-
creontiche non erano per l'appunto del Tasso
e del Chiabrera ; anzi troppo sovente resultava
la rozzezza e lo stento: ma di tratto in tratto
un volo pindarico bastava a largo compenso.
Il Chiarini una volta, dopo aver celebrato
— 193 —
alla meglio le nostre antiche glorie, usci in
queste due quartine nobilmente lamentose, e
ammirabili in uomo senza lettere :
Italia o bella Italia !
Più non ti riconosco :
Il tuo giardino fertile
Parrai cangiato in bosco ;
E il tno mattino splendido
Ormai declina a sera
Per cagion della barbara,
Cruda nazion straniera.
I Birri che stavano a longe, non ardivano
impor silenzio, e forse ancor essi si godevano
l'accademia; ma nondimeno, con qua' loro oc-
chi perfetti, e con quella lor tenace memoria,
mordevano anche a longe, e spesso accadeva
che il Poeta si trovasse il giorno dopo in Domo
Petri a godersi i brutti musi invece delle belle
muse.
Intanto queste poesie e i commenti in pro-
sa di alcuni ascoltatori piìi eruditi, mentre
conducevano il pensiero alle splendide tra-
dizioni avite, mantenevano nei generosi petti
il sacro fuoco di libertà, e preparavano le vie
13
— 194 —
al 48, genitore legittimo del 59, il quale ris-
cossa l'eredità, non recitò sulla tomba paterna
che un R,equiem aeternam in fretta e in fu-
ria, senz'altri uffizi ne moccoli.
Dalle due celebri piazze si passava in Lun-
garno, dove la poesia prendeva aspetto gio-
coso, nel cui genere meglio valevano i detti
Chiarini e Baghéo. Ed ecco che i Poeti, sino
allora unisoni e concordi, divenivano rivali,
e con tal garbo si rimbeccavano l'un l'altro,
che gli ascoltanti ne andavano in visibilio. A
ogni ottava, a ogni quartina, a ogni verso,
piovevano i sali attici, le arguzie toscane, i
frizzi fiorentini, facezie, equivochi, motti, pro-
verbi, baie, frottole e riboboli da riderne a
crepa pancia. In tal guisa il tempo volava sì
rapido, che non di rado l'aurora affacciata ai
colli fiesolani, ci tirava a canestrate le rose
per mandarci a letto.
E a letto si andava senza aver bisogno del
pastrano di Morfeo per coprirci gli occhi.
L' ora, la stanchezza e le dolci variate imma-
gini ben ci servivano di ninna nanna; e se
pure un molesto pensiero assaliva i soavi ri-
posi, era quello della Patria oppressa: ma la
— 195 —
speranza colla crésta bianca, il grembiule rosso
e la sottana verde, sedeva lì presso il capez-
zale, e raccontandoci le novelle, come la nonna
ai nipotini, ci ravviava il sonno sulle gravi
palpebre.
Cece.
— 196 —
CICALATA SUI FEGATELLI
dettata da CECE e recitata da SUCCHIELLINO
Chierico del Piovano Arlotto
neir ultima cena del Carnevale
I porci. Signori, io sostengo essere i mi-
gliori tra gli animali che servono al nostro
nutrimento; dunque il fegatello è l'ottimo fra
le pietanze della cucina.
Da questo sillogismo si desume come corol-
lario che il fegatello è migliore del peduccio
e del lombo arrosto : Figaiillus melior est pe-
cliculo, lumboque rotealo. — Seneca, de syste-
male culinario. Di fatti gli antichi Egiziani
adoravano il fegatello sotto il velame della
rete, e lo credevano un mezzo sicuro per un
buon corso di digestioni. Il fegatello passò
dall'Egitto in Grecia, e fu riserbato fra i pre-
mi ai vincitori del cèsto. Sotto il regno dì
— 197 —
Mastrilli nella ventesima prima Olimpiade ,
Rinaldo di Montealbano mangiò 9'2 fegatelli,
mentre Pindaro portava i porci alle stelle
con gl'inni immortali. Roma sotto i Califfi
gustò per la prima volta il suino boccone, e
nacque tra gli Apici contesa se freddo o caldo
dovesse imbandirsi. Cicerone nonno della latina
eloquenza, eletto giudice, divorò dieci pezzi
diversi, e ritornò in senato masticando e ta-
cendo : cosi fu definita la gran lite che tenne
per tanto tempo diviso il popolo di Quirino.
AI cadere dell'Impero di Occidente, Attila in-
trodusse i fegatelli nelle trattorie, e allora a
Londra, a Parigi, a Berlino fu gara di fega-
telli ne' più allegri ritrovati. Gli zerbinotti
portavangii attaccati tra i ciondoli dell'orolo-
gio, e le dame, ad esempio della Regina Cleo-
patra se n'empivano le borse e le tasche: 1
poeti poi, specialmente Bacone da Verulamio
e Cristoforo Colombo, cantarono in coro i pre-
gi dei fegatelli, e gli sostituirono alle bacche
nelle corone che cingevano loro la fronte. Da
quel tempo il fegatello e l'alloro furono giu-
dicati inseparabili compagni.
Ma il momento più bello dei fegatelliani tri-
— 198 —
onfi ce lo descrive Diodoro Siculo nella vita
di Castruccio Castracani. Io non fo che tra-
durre dell'arabo le sue stesse parole.
« Per la morte di Patroclo venne il rovello a
« quel ragazzaccio d'Achille, e sacrò di di-
« struggere Troia con tutti i troiani ed i tro-
« iolini che vi erano dentro; e però, dopo ave-
« re ammazzato Ettore, e gli altri che erano
« restati fuori a fare i bravacci, il giovedì gras-
ce so dopo desinare si incamminò, armato co-
« me un Saracino, verso la tremula città per-
< gamena. Stavano sulle mura gli abitanti, e i
« bambini strillavano come tanti tordi impa-
« niati, mentre i guerrieri si risolvevano nei
« materiali effetti della paura. Achille trovò
« chiusa la porta Scea; e poiché in quei tempi
« a porte chiuse non s'entrava, prese l'eroe una
« cervigambàle rincorsa, e sferrò una macignea
« pedata sulle quercine tavole. Il corrosivo tarlo,
« figlio del Tempo, e della Dea soffitta, per or-
« dine dell'occhivacca Giunone, avea in due lu-
« stri spolverizzata tutta la polpa del cardinoso
« ligneo serrarne, sicché al tremendissimo colpo
« cadde infranto come un veggio sfuggito di
« mano a un curato che dice l'uffizio. Apparve
— 109 —
« allora l'interno della reggia, ed Ecuba e le
« cento nuore si strapparono le creste: ilPelide
« intanto s'inoltrava con una piatola alla mano,
« sbuffando come un istrice e bestemmiando peg-
« gio di un eretico, quando all'angolo d'un chias-
« suolo gli si fece incontro Polissena, la più
« giovane e vaga figlia di Priamo. Ella teneva
*< infilato nella forchetta un bel fegatello e lo
« accostò con grazia sotto il naso del feroce
« guerriero: a quella vista, a quell'odore cadde
« l'ira del Tessalo ; e se non era la freccia di
« Paride egli avrebbe sposata Polissena, e
« sarebbe divenuto campione di quella Troia,
« che aveva giurato di abbattere,.
Fin qui Diodoro Siculo
L, Catilina poi nel suo celebre trattato dei
Tartufi ci narra come Giove un giorno fu re-
galato da Mercurio di un bel piatto di fegatelli,
i quali tanto piacquero al padre degli Dei,
che indirizzò al Porco un lusinghiero com-
plimento: il porco profittando del fovore, e
volendo ormai trarsi dal fango, e seguitare
padron Mercurio nelle sue gite, chiese a Giove
il dono delle ali; ma Giove bruscamente ri-
— 200 —
spose: Mai al'; e quelle due parole unite in-
sieme, diedero Hn d'allora il secondo nome al
nostro porco. Ma Mercurio perorò la causa
del setoloso cliente, ed il Tonante per immor-
talare i fegatelli ne sotterrò due in Creta, che
indurando e vegetando, diedero origine alla
famiglia di quei bulbi odorosi, noti sotto il
nome di tartufi. Questi conservano ancora la
forma ed il colore dei fegatelli, e scavati per
privilegio dai maiali loro autori, formarono e
formano la delizia delle mense lussuriose.
Che se dobbiamo prestar fede alla relazione
di uno speziale di Costantinopoli, trovata nella
cantina del Magliabechi dopo il suo discessit
il noto e feroce Sultano Gengiskan (italica-
mente Gengivedicane) in onta al divieto del
Corano mangiava spessissimo fegatelli. E per-
chè i suoi sudditi non ne restassero scanda-
lizzati, dava voce d' aver sempre aggrava-
to lo stomaco, e che quei boli erano pillole
del Piovano belle e buone, fatte apposta un
pò grosse per la regia bocca, la quale per
avventura era la più spalancata e vorace
di tutte quelle del felicissimo Impero. Stu-
pivano per vero dire i cortigiani che il
— 201 —
Gran Signore si purgasse quasi tutti i giorni
e che nonostante il suo ventre e le gote
crescessero a vista d'occhio; ma un palo ben
acuto eretto nella sala d'udienza, e non so
quali espedienti di cordini insaponati, fecero
bever grosso a quei signori. Se non che Gengi-
A-edicane un bel giorno trangugiò tante di quel-
le pillole, che si purgò davvero, e finì l'il-
lustre vita proprio nel modo che la doveva
finire. (Sono parole della relazione) e qui il
(Ietto speziale ne avverte in un orecchio, che
questo fu un gastigo spedito da Maometto al
suo infedele successore. Noi per altro, che non
siamo molto propensi a credere i miracoli del
profeta della Mecca, mentre dalla cronaca dello
speziale ricaviamo la certezza del credito dei
fegatelli anche presso coloro che non possono
cibarsi di carne porcina, non sapremmo ve-
dere nella morte di Gengivedicane che il na-
turale effetto dell'abuso di un cibo assai calido.
Anzi a questo proposito ci giova osservare
che gli Ebrei pure mangiarono di furto i fe-
gatelli, e che per prevenire le diarree lo spa-
gnuolo Rabbino Cascaritto nel 1590 emanò
una provida legge, con la quale si restringeva
— 202 —
a cento il numero macrgiore di fegatelli da
ingollarsi da un buono Isdraelita in una volta.
Né basterebbe una lunga ora a raccogliere
tutti i pregi sulla pietanza di cui ho sbozzato
l'elogio; sicché taglio corto, e fatto un brin-
disi alla salute di chi mi ha invitato e di tutti
quanti i commensali, compreso me, do fine
alla mia chiacchierata.
203 —
LE FESTE DI FIRENZE
ALLA VENUTA DEL RE
(Dal Diario di Cece)
Ricordo come il di 16 d'Aprile dell'anno ISGO
entrò in Firenze il Re, e fu ricevuto tra le
acclamazioni dei popoli. Codesta accoglienza,
che del resto deve essere la piìi grata ad un
principe, non venne molto ben secondata dalle
feste e dagli addobbi della città, i quali, a pa-
rer mio, nel termometro del Bello segnavano
appena la media temperatura, sebbene alcuno
li pose 6 gradi sotto lo zero. Da ciò ne na-
cque qualche piccolo neo, come sarebbe a dire
sconciature, disarmonìe e barbarismi, di cui
voglionsi segnatamente incolpare il Tempo-
rale, il Municipio, e il tipografo Torelli. Que-
sti tre Signori fecero di tutto perchè la Festa
— £04 —
riuscisse come è riuscita; ma se mancò il
buono effetto, la buona intenzione ci era di
certo, almeno per conto del secondo. Che vo-
lete ! tutte le ciambelle non riescon col buco;
e solamente chi non fa, non falla.
Quanto al Temporale non v'é da farsene
caso, giacché da quando e' è, ed è un bel pezzo,
ha fatto sempre a suo modo: e poiché non
teme né carceri, né confische, cosi mal rispetta
grado 0 persona, e imperversa a dispetto delle
lune, dei lunari, e dei lunatici. E poi che dob-
biamo sperare da uno scapigliato, la cui madre
è una nuvola si leggera e volubile, e il padre
un tuono, il più brontolone e spavaldo essere
che passeggi per le vie dell'aria?
Fatto sta che la cattiva stagione guastò in
gran parte; ma non si che l'ingresso non
riuscisse magnifico, e non si godesse il palio
dei cocchi. Questo palio, come tutti sanno, è
una larva delle corse olimpiche: tre o quattro
mozzi di stalla, camuffati all' eroica, e con-
certatisi avanti sul vincitore, rébbiano forte
due rozze, che non ostante intendono il gergo.
— 205 —
e fanno il loro comodo. Forse alludendo al re-
stio dei corridori, quel valentuomo di Gian Bo-
logna, alle guglie che determinano lo stadio,
sottopose otto tartarughe di bronzo.
Al Municipio è avvenuto come a Don Desi-
derio : si é tradito per eccesso di buon cuo-
re;... ha fatto troppo. Generoso peccato è
questo, ma pure è peccato, perchè la grazia
di Dio non si deve sprecare. Mi burlate ! Sette
archi d' ingresso ! E quante volte un galan-
tuomo deve sentir dire « La passi? » Io per
me, a casa mia, lo dico con ischiettezza una
volta solamente; che a ripetere sette invitimi
parrebbe che 1' ospite ci vedesse sotto della
canzonatura. E poi quali archi, Gesù mio f
Non dirò che fossero per l'appunto archi di
stomaco, ma neanche archi di testa, almena
di testa artistica. Un tisicume di colonne, ca-
pitelli bastardi, sesti fuori della centina na-
turale ; e negli ornamenti, o frastagliume so-
vercliio, 0 arida gretteria.
L' unico arco da passarci sopra apparve
quello dei Negozianti, eretto dal signor Fai-
— -206 —
Cini: ma perchè anche questo godesse i pri-
vilegi de' suoi fratelli, indovinate dove fu collo-
cato? Nientemeno che in piazza San Giovanni
rimpetto al Duomo, a cui serviva di non lieve
ingombro. Invano le ombre di Brunellesco e
di Giotto urlarono Al ladro, e dagli dagli :
gli orecchi erano di mercante, e fu consumato
il sacrilegio. Quel monumento posticcio insom-
ma stette li per dire : « Messer lo Re, non
« alzate gli occhi né alla Cupola, né al Cam-
« panile, né al Battistero, roba stantia, vista
« e rivista; ma guardate me, che sono un
« arco fresco fresco, e fatto apposta per Voi. »
Questa mania d'ingombrare le bellezze mo-
numentali della città si rilevava singolarmente
nella Piazza di Santa Maria Novella, cosi spa-
ziosa ed armonica colla prospettiva della sua
Chiesa, le sue logge di S. Paolo, e le sue guglie.
Parendo dunque ai festajuoli esser quelle poche
cose per una piazza, vi piantarono uno degli
archi menzionati; quindi una colonna con suv-
vi la statua di Vittorio Emanuele (colonna
sproporzionata alla base, statua sproporzionata
alla colonna), quattro trofei di ogni sorta armi.
— 207 —
e non so quante antenne in giro piene di ban-
diere e fettucce: arrogi i palchi di legno, e
facilmente t' immagini che la piazza era di-
venuta.
Una selva selvaggia ed aspra e forte,
Che nel pensier rinnuova la paura.
Lo stesso sistema boschereccio, ma piiì gen-
tile, ed eseguito secondo le regole di giardi-
naggio, era conservato in Via Calzaiuoli, via
notabile per l'ampiezza e pel decente fabbri-
cato, ed ora condotta a piccole dimensioni per
certi alberetti piantati in doppia fila, e capi-
tanati da due storpiate statue in gesso, di cui
s'ignora il significato. Tali alberetti riuscivano
mirabili, perchè essendo lauri, si vedeano tra
le foglie, rose, camelie, ed altri vivacissimi
fiori legati col filo. 0 andate a dire che le
querce non fanno i limoni I
Meglio era assai lo sdrucciolo de' Pitti; il
quale essendo cosi stretto di suo, fu con senno
messo a presepio, e cancellato al solito da due
archi. Ora dal bosco e dal giardino passeremo
al deserto, senza rappresentanza cosmoramica
— 208 —
del Municipio fiorentino. Come ! Firenze un
deserto? o se c'era tanta gente ! — Eh, via r
non intendete nulla: qui si tratta di una pa-
rodia. Tutta quella gente vuol dire una caro-
vana, e vi sono dentro arabi, mercanti, san-
toni, dervissi, caimacani, e perfino cammelli
dai ginocchi incalliti. Il Palazzo Pitti é la
Mecca; ed il deserto è costituito da molte
centinaia di carrette di rena, sparsa per le
vie e per le piazze: allo spettacolo è gen-
tilmente concorso anche il vento, che alzando
vortici di quella rena, simulava il terribile
Simoun, che uccide e seppellisce ad un tempo.
Vero è bene che qui non si tratta di uccidere,
ma solamente di dar la polvere negli occhi: e
gli occhi di tutti in sulla sera erano orlati di
porpora... fuor che quelli del Conte di Cavour,
che porta sul naso un par d'occhiali di Parigi.
Qualche saccente, fanatico delle lastre, notò
che era un peccato ricoprire quel bel musaico
di selci, invidiato dalle altre città d'Italia; ma
i partigiani della rena risposero, che con quel
morbido strato si era voluto assicurare i ca-
valli dalle cadute. Certo, questo provvedimento
non poteva riguardare il Re, né gli altri suoi
- 209 — .
cavalieri, avvezzi a cimentarsi e superare gli
ostacoli dei campi di guerra: sarà forse stato
fatto a vantaggio di alcuni militi novellini, i
quali, a vero dire, battevano fitto fitto le na-
tiche in su l'arcione, come fanno su gli arbusti
le fervide cicale.
Ed eccoci, o Signori, all'ultima rappresen-
tazione. Dal bosco al giardino, dal giardino al
deserto, dal deserto al pantano. L'acqua cadde,
ed il fango fu fatto. Pochi uomini e poche
signore si salvarono dalle pillacchere; e molti
tornarono a casa in peduli, avendo lasciato le
scarpe nel pantano a benefizio- degli spazzini.
Dopo questo il Municipio calò il sipario, e
licenziò il pubblico.
Parlerò io del Corso? Era il solito. Cavalli
da tre gambe che vanno avanti a focosi de-
strieri : legni sdruciti che tengon dietro a
sontuose carrozze: campagnuoli che ridono a
sentirsi strascicare: signore che fanno le meste
per parer di essere annoiate del lusso: urli
dei cocchieri; timoni nelle rene; gambe in
moto; bocche aperte, et similia. La sola scena
14
— 210 —
di singoiar varietà avvenne per dato e fatto
di un cotale americano, notissimo ippofilo^ che
si faceva dirigere da dodici ben pacifici de-
strieri, i quali non valevano in tutti una buona
pariglia. Eppure, vedete gentilezza del popolo
fiorentino \, gli applausi scoppiavano come se
passasse il Re, onde l'ottimo Signore (vo'dir
l'americano) trasecolando di tanta sua impor-
tanza, sudava gioia da tutti i pori, e nitriva
alla moltitudine i piii graziosi ringraziamenti.
Né anche parlerò de' fuochi artifizìati, dac-
ché oramai si sanno a mente, come gli anda-
menti di certo Gabinetto politico: globi di tutti
i colori: girandole continue: razzi qua e là:
scoppi e scoppietti; e da ultimo una terribile
sparata, fumo densissimo, e buio pesto.
Non cosi della luminara: essa fu spontanea
e riusci bella; bella per molti lumi; bella per
la notte oscura; bellissima per me, che la go-
devo dai merli di Palazzo A^'ecchio. Quale
spettacolo offriva Firenze da queir altezza t io
respirava l'aere di un bel sogno. Quella cu-
pola, quelle torri, quei palagi, quelle statue mi
— 211 —
parlavano di un tempo glorioso^ in cui la
sapienza e il valore degli avi nostri resero
potente lo statO; e di tante magnificenze or-
narono la Regina dell'Arno. Il decoro del ma-
gistrato, l'eloquenza dell' oratore, l' audacia del
guerriere, la magnanimità del cittadino splen-
derono in quelle stesse mura, or solitarie e
tristi, dove io mi stava. La Libertà, sbandita
&à\\e corti dei tirannelli, aveva raccolte le ali
sulla torre di Arnolfo, e quivi cantava gl'inni
immortali come a' bei giorni di Atene. Oh!
ritorni, esclamavo, ritorni l'ora dell'intero
riscatto. Dio ti salvi, o Italia !... — Ecci — Un
sonoro starnuto mi fece voltare tutto spaven-
tato, e mi trovai dirimpetto al faccione ridente
di Lotto, che mi si era accostato pian piano.
— Non si dice né anche viva quando un
amico starnutisce? eppure ha starnutito l'Italia,
e tu subito hai gridato: Dio ti salvi, o Italia !
— Lotto ! bando agli scherzi : io son pieno
di melanconia.
— Le zucche ! ti par egli che questi sieno
giorni da pensare ai debiti?
— Io pensava alle antiche nostre glorie, ai
tempi passati.
— 212 —
— Io poi, quando studiavo grammatica, pen-
savo sempre ai tempi futuri, che mi riuscivano-
alquanto indigesti.
— Tu vuoi la baia in ogni verso: ma se dai
un'occhiata a questa nostra Firenze, tu ti senti
commosso. Guarda, guarda. Lotto.
— Ho beli' e visto.
— E che ti par d'essere in questo momento?
— Un merlo un po' più alto di questi.
— Non dici punto male. Ed a me ancora
pare di non aver operato abbastanza in pra
della dolce patria, e mi duole di non potermi
illustrare con qualche azione egregia.
— E sì che il mezzo è facile.
— T'intendo: correre in Sicilia...
— Oibò ! siei troppo ingrassato. Per battersi
di nuovo bisognerebbe che tu noleggiassi a
Canton un palanchino di quelli a prova di
mandarino. Il mio è un modo piìi spedito per
segnalarsi.
— • E quale?
— Buttati a capo fitto in piazza, proprio
sul Davide di Michelangelo: se riesci a sca-
vezzargli il collo, 0 a rompergli un braccio
per la seconda volta, la tua reputazione è fatta.
— 213 -
Vedendo che da co&tui non caverei alcun
«ostruttO;, lo lasciai improvvisamente, e scen-
dendo un 300 scalini mi trovai sulla piazza
co' piedi più caldi e col cervello più freddo:
quindi per guarire affatto da queir affezione
ipocondrica mi avviai ad un Caffè coli' inten-
zione di leggere un foglietto di quei faceti, o
che fanno ridere. Invano I I giornalisti ave-
Tano tutti indossata la clamide, e per un po-
vero tribolato mio pari non e' era un frizzo
né anche a pagarlo. Intanto entrava in bottega
un venditore pubblico con un fascio di opu-
scoletti tra le mani. Ne comprai uno a pochi
soldi, sperando di scuotermi da dosso il resto
■della mia mestizia; ma invece l'accrebbi due
cotanti di più, appena letto il frontespizio, che
era questo:
ISCRIZIONI
PER LA VENUTA
DI S. M. VITTORIO EMANUELE
IN FIRENZE
RACCOLTE
AD ONORE DI S. M. E DEL PAESE
DAL TIPOGRAFO POPOLARE
EMILIO TORELLI.
— 214 —
Ora alcune di quelle Epigrafi io le aveva
già lette col sudor gelato alla fronte; nondi-
meno, sperando che sparirebbero colle feste,
me n'ero dato pace; ma il vederle adesso rin-
novare in istampa, e il leggere quel fronte-
spizio, mi produsse lo stesso spavento che
ebbe Dante quando compitò colle labbra smorte
la nota iscrizione sulla porta di Dite. Io pen-
sava: bella figura che faremo noi fiorentini
se vanno per il mondo sì fatte balordaggini ì
E che balordaggini, per non dir peggio, fos-
sero alcune di quelle iscrizioni, io voglio pro-
varlo subito col riportarne quattro tra le altre-
che si leggevano intorno alla colonna di Santa
Maria Novella. Badiamo che non tutte erana
su questo taglio: anzi giustizia vuole che al-
cune se ne lodino, ma senza mentovarle: tut-
tavia un frate guasta il convento, e bastano
quelle quattro per ricoprire un popolo di ver-
gogna immortale. Eccole qui tali e quali, o-
lettore. A chi vanno dirette pensaci tu, che
mal s'indovina senza testata, fregio o figura
che lo accenni — Ephpheta.
— 215 —
(Pare all'Italia)
DA OLTRE MARE (e Dcn d'cUremonU?)
EBBE
VIZJ E MISERIA
PAPI E VENTURIERI (cbe lazza di ccffi-
LA TRAFFICARONO pagnial)
CHI LA RESSE
SPERGIURÒ (come, come?)
FUGHI IL TIRANNO (qUah. cki?)
E RIVIVRÀ
NAZIONE.
(Pare al Re)
IL VALORE
TI DIE LA POTENZA
IL SERVAGGIO
TI NUTRISCE
DI AFFANNI (?!)
L'ITALIA REDENTA
TI RENDERÀ
LA GRANDEZZA.
— 216
(Al Re)
DI MAGNANIMI PRINCIPI CONCETTO
NEL SANGUE DEI POPOLI RASSODATO (sic)
IL FELICE CONNUBIO (sic)
NUOVA SPLENDIDA ERA
all'umanità ASPETTANTE PREPARA (l)
(A nessuno)
Questo è il
IMMACOLATA
NEL SUO CANDORE
FECONDÒ
LA VIRTÙ ITALIANA (t'Jlla di CE pezzo)
IN PETTO
A NOVELLI CROCIATI
DISPERDA I NEMICI
IL TURPE EDIFIZIO
UNISCA E IMPERI.
Rafel mai amech zabi almi
- 217 —
di Nembrotto, e sfiderei Pico Della Mirandola
col suo mostro d'ingegno, e il Cardinal Mez-
zofanti colle sue tante lingue a dirne qualcosa.
Scommetto che se la Sfinge in sul bivio te-
bano cimentava sì fatti enirami, Edipo non
saliva sul trono, e anzi avrebbe servito dì
un'altra merenda all'ingorda. Né io vo'fare
rimprovero a quel che scrissero: fecero ciò che
poterono, e forse anche invocarono Minerva.
Io me la piglio coi committenti, i quali si
■scordarono dei valentuomini che composero
già tante belle iscrizioni, fra le quali prima
ed inimitabile quella murata nelle case di
Cerrettieri Yisdomini. 0 Pietro Contrucci, tu
moristi a tempo: poche più settimane di vita,
e ti toccava colle lagrime agli occhi a scri-
vere l'epitafiio della Epigrafia italiana, in cui
riuscisti cosi valente maestro !
Ma che diremo del Torelli tipografo popò-
polare, che mette in luce tali vergogne, e come
egli dice ad onore del Paese! L' ironia è
sanguinosa, e il Torelli se voleva mortificare
quegli epigrafaj, non doveva però esporre i
loro aborti alla berlina di tutta Italia. Egli
— 218 —
non ebbe carità, del prossimo, e scoperse, come
dice il ^''angelo, la festuca nell'altrui pupilla,
senza avvedersi della trave negli occhi proprj.
Infastidito di quest'ultima suzzacchera, presi
le mie carabàttole e me ne andai a letto, come
a una specie di porto dopo un navigare fortu-
noso. Quivi aspettando il sonno, mi diedi col
pensiero ad armeggiare sulle cose vedute, e
andavo immaginando un tribunale di uomini
dotti e di artisti, che si prendesse briga dei
vandalismi di ogni genere, e regolasse o pu-
nisse i contravventori alle leggi del Bello. Si
lede forse la libertà della stampa e degli scritti
col tentare di ricondurli al loro essere? L'opi-
nione pubblica è spesso fallace, e poi non basta
a frenare gli stolti e i protervi: Roma ebbe
gli Edili, gli Efori Sparta .... Così arzigo-
golando, adagio adagio dal torpore al sopore,
dal sopore al sonno, entrai nella fantastica
regione dei sogni.
Immagini del di guaste e corrotte.
Era una landa incolta, arenosa ed ampia.
— 219 —
sparsa qua e là dei monumenti fiorentini, che
appena si distinguevano sotto un aere caligi-
noso e pesante. Gente infinita andava per ogni
verso come dissennata e senza proposito. Io
mi assisi sopra una macìa di sassi, e tentavo
di ravviare gli scompigliati concetti della
mente. Che sia questa la valle di Giosaffatte?
Ed io e costoro tutti morti"? E allora che ci
hanno che fare quelle ben note fabbriche? Che
sia morta anche Firenze ?
Mentre io cosi dubitava, ecco farsi innanzi
e fermarsi a'miei piedi il campanile del Duomo,
ed in atto di saluto piegare il collo; ma tanto
piegarlo, che la punta si ficcò in terra, ed esso
rimase così curvato in arco. Allo spettacolo
stupendo mi alzai, e guardavo tutto smemo-
rato. La gente intanto traeva ad ammirare il
portento, ed anche le fabbriche tutte ad una
ad una quivi si avviavano. E ultimo fu Pa-
lazzo Vecchio, che giunto al mirabile arco^
l'osservò attentamente; poi crollò il capo in
segno di malcontento. A quel crollo, come pine
percosse dalla bufera, piombarono giù tre merli
con grande spavento della turba, che si ri-
— 220 —
traeva gridando: Bada, bada. Nondimeno i
merli non caddero a vuoto, e colpirono tre teste,
che io credetti sfracellate. All'opposto (un'altra
meraviglia) quei tre percossi si grattarono un
poco la zucca, e si diedero a ridere. Uno di
essi ben lo conobbi per il Torelli, tipografo
popolare; il secondo era un architetto fioren-
tino: il terzo ... del terzo non mi rammento.
A un tratto la moltitudine si volse da un
lato, aguzzando le ciglia verso l'oscuro oriz-
zonte di quella pianura, e facendo tettoja della
mano all'occhio per ispingere più oltre la vista.
Io pure guardai da quella parte, e vidi un pol-
verio, che a poco a poco dissipandosi, lasciò
distinguere un cocchio tirato da dodici cavalli,
con uno che li dirigeva, ed altri personaggi
dentro. Anche qui l'americano ? io pensai: ma
non era desso. Era un bel vecchio vestito alla
greca, senza isfarzo ma schietto e decoroso, che
si tirava innanzi, guidando con molta più
maestria che 1' età sua non comportasse. La
gente faceva ala, ed esclamava plaudendo : Ecco
il Buongusto; viva il Buongusto. Il vecchio
giunto sotto r arco frenò i cavalli, i quali.
221
appena Egli buttò via le briglie , sparvero
come per incanto, ed il cocchio cangiossi in
un trono, sui gradini del quale sedevano le
Muse e le Arti sorelle.
Allora il vecchio alzossi, ed impose silenzio
col gesto alla turba ossequente: quindi così
prese brevemente a favellare.
Io sono il Buongusto, nò potendo approvare,
anzi altamente riprovando, le ultime Feste fio-
rentine;
Visto quel che non era da vedersi.
Considerato quel che non è stato considerato,
Delib. delib.
Articolo 1. Condanno il Temporale a star
chiuso in un otre a disposizione dei Paler-
mitani, qualora venissero assaliti dalla parte
di mare.
Articolo 2. Multo il Municipio Fiorentino in
tante moggia di calcina, quante ne occor-
rano a mescolarsi colla rena da esso spre-
cata; e ciò per fabbricare un'altra torre di
Babelle.
— 222 —
Articolo 3. Applico al Torelli tipografo popo-
lare la pena del taglione, vale a dire la
berlina in piazza per un'ora con una trave
confitta in un occhio a sua scelta.
Cosi decreto ec. ec. ec.
Codesto decreto fu assai applaudito dalla
parte sinistra, ma mentre si alzava un depu-
tato della destra per fare un discorso come
qualmente le cose che erano state fatte erano
state fatte bene , perchè erano state fatte ,
scoppiò all'improvviso un uragano, che scom-
pigliò r assemblea , e ricacciò in corpo le
parole agli oratori.
Granrline grossa, e acqua tinta e neve
Per l'aer tenebroso si riversa:
sebbene il maggior turbinio era di croci, tosoni,
monture, spallette, berrettoni da cattedra,
rescritti, portafogli e diplomi, che piovevano
senza misericordia dalle quattro regioni del
cielo. A quella rovina teneva bordone il gar-
buglio degli uomini che correvano, si urtavano,
raccattavano schiamazzando, urlando, bestem-
— 253 —
miando. Vedendomi in pericolo, salii sulla
solita macia, e mi riassisi, facendo alla meglio
schermo delle braccia allo strano diluvio.
Stato alquanto in queir angoscia, mi sento
afferrare per un piede e tirar giìi. Pensa se
io presi spavento, e se puntai i gomiti per
non battere il deretano : ma la difesa era
inutile, perchè sempre più sdrucciolavo: laonde
impaurito, arrabbiato, sudato in quegli sforzi,
volli gridare ajuto con quanta voce avevo in
gola: ma la voce non venne. Allora feci una
pro-ia suprema di gambe, di braccia, di polmoni,
€ .... mi svegliai.
Tutto era sparito. La landa, la gente, le
fabbriche, il cocchio, il trono, e fino il Buon-
gusto era un sogno. Una cosa so'a restava,
la ghermitura alla gamba ; per il che sbar-
rando pili gli occhi, vidi a pie del letto quel
malanno di Lotto, che tentava di trarmi a
terra, e mi avea già ridotto a metà di len-
zuoli.
— Fermati I che modi sono questi ? Ti
venga il verraocane !
224
— Destati, levati, poltrone, che è 1' alba
de' tafani.
Io mi vestii adagio adagio, e intanto rac-
contai il sogno e le cose osservate e pensate
il giorno precedente. Lotto ne rise, e mi si
offerse per amanuense. Accettai; e gli ho det-
tato queste pagine sul mio diario, le quali
sebbene scritte da lui, riconosco per mie, e
mi soscrivo come appresso.
Cece.
225 —
LE MEZZECODE
OSSI.X.
IL CASTELLO DELLA COMESSA DI CIVILLARI (1]
Cenno storico dei nostri tempi
( 1 8 5 9 J
La Coda fu un tempo simbolo d'onore e di
forza, e lasciando stare le comete e le tigri,
colle quali non è da pigliarsi troppa confidenza,
noi sappiamo che il Giudice Sansone ebbe fin
sette code, e Massimiliano Robespierre si
pettinava la sua tutti i giorni. Eppure nomini
furono questi così per eccellenza patriotti, che
giunsero ad ammazzare migliaja di persone,
uno con la scure per maggior comodo, l'altro
(1) Contessa di Civillari è modo di dire in gergo, usato dai
Boccaccio e da altri buoni scrittori per denotare la materia
che si raccoglie negli uman privati.
15
— 226 -
con la mascella di un asino, secondo il suo gusto
e la grandezza degli asini d' allora, che non
erano imbastarditi come gli asini del giorno
d'oggi. Malgrado di queste e di cento altre cita-
zioni che si potrebbero fare a gloria delle Code,
certa mattina un tale che soffriva d'indige-
stione, correndo qua e là spacciò che Codino
voleva dire retrogrado in politica; e tra la
gente mezza sveglia la parola fece fortuna.
Quindi ora da un capo all'altro d'Italia il Co-
dino é un uomo vituperato, esecrato, scomu-
nicato. E va bene, perchè non vuoisi fare
quistione di nomi; ma dove l'idea popolare si
posa, quivi sta il baco^ o bruco o filugello ch'ei
sia. Di quel che però mi dolgo si è che ancora
l'idea ormai vien falsata; e massime /n gitesi/
momenti tu odi dar del Codino a casaccio, o
meglio secondo la ignoranza e la malizia di
alcuni ; anzi quel nome si spende come i fogli
di zecca, che rappresentano ogni specie di
moneta, e non è raro che un debitore dia del
Codino a un creditore perchè rivuole il denaro
imprestato, ed uno zerbinotto lo appicchi al
suo rivale in amore. Ma il bello è che i dispen-
sieri dell'odioso vocabolo sono sovente quelli
— 227 —
stessi che più la meriterebbero : gente di scarsa
levatura, e dal cuore di coniglio, che sbucan
fuori a' bei tempi, e schiamazzano quando non
vi è un pericolo al mondo né per la pelle né
per la borsa: pallidi nipoti di libertà; rino-
ceronti impagliati, aborti nell' acquavite ; i
Cureulioni insomma, quali altra volta io gli
<lescrissi, ossia le Mezzecode, ossia i così detti
Moderati. Badate che questo ultimo titolo so-
nerebbe assai umano e cristiano, se non che
alle mie Mezzecode sta bene come la gual-
drappa all'asino, e sono di quei moderati sul
taglio di Omar III Califfo, il quale predicava
il Corano con la scimitarra in pugno, e mi-
nacciava le gole per conquistar le coscienze.
Ora di codesta genia, che impesta special-
mente le campagne, voglio narrarvi una cu-
riosa storiella cosi per passare il tempo, e
per mostrare a che grado d'intolleranza e di
ridicolosaggine possa spingere la gente un
■cieco e pazzo fanatismo.
Sappiate dunque, miei buoni Lettori, che
su lo scorcio dell'ottobre passato villeggiava
in una piccola terra nostra un vecchio dottore
di oltre 70 anni, il quale, com'era suo costa-
— 228 —
me, veniva quivi ogni autunno a rallegrare
gli ozj forensi, ed in mancanza di clienti ten-
deva per antico uso insidie di reti e di panie
agli uccelli. Egli è per natura piuttosto sel-
vatichetto, e particolarmente in tempi di po-
litiche commozioni si astiene di mettere il
becco in molle, a fine di non turbare per av-
ventura i suoi giorni senili. Questo contegno
che in quell'uomo non più atto alle straordi-
narie civili fatiche avrebbe dovuto reputarsi-
effetto della prudenza e della modestia, apparve
sospetto alle Mezzecode del paesùcolo, sicché
si diedero a fiutar le péste del povero dottore,
come tanti segugj quelle della lepre. E bene
avvenne un caso, che gli rese lieti più dell'in-
quisitore Torquemada ad un'accusa di eresia;
e mancò poco che anch'essi, le Mezzecode^
non preparassero un Aido-da-fè di proprio
moto. Una lettera circolare, di quelle tante
che si scriveano allora senza firma e senza data,
pervenne al nostro buon vecchio, annunzian-
dogli, a quanto pare, un cambiamento di go-
verno, 0 altre frottole di simil genere; ma
il buon uomo, come vi ho detto, era tutt'altro
che sollecito di simili brighe, e tenendo nella
— 229 —
sua vera stima il foglio anonimo, lo adoprò
meritamente al primo bisogno, vale a dire la
mattina seguente all'alba. Dovrò io dir come?
Mi ci proverò: ma intanto, o lettori delicati,
turatevi il naso, se pur non leggeste il deci-
-mottavo canto dell'Inferno di Dante.
Il dottore adunque uscito di casa a buon
mattino, e sentendo un peso soverchio nel
irislo sacco, andò a depositarlo a pie di una
vite, da buono enòfilo ch'egli è, per far onta
alla crittògama. Cavata poi la lettera, la divise
in quarti, e.... ne fece quell'uso che credè op-
portuno. Quindi più vispo e leggiero avviossi
all'aucupio: ed ecco sbucare dagli aguati le
Mezzecode, come tanti valorosi zuavi, e pigliar
d'assalto il castello della Contessa di Civillari.
Esaminata diligentemente la ròcca, le fòsse,
gli spaldi, i rivellini ed i merli, conobbero
bene che il male stava nei quattro padiglioni
piantati sulle quattro torrette angolari ; laonde
■fatto impeto, gli svelsero a viva forza, e riuni-
tili insieme n'ebbero di nuovo la lettera or-
mai famosa; senonchè la deturpavano alcune
macchiette Ma ciò che rileva? anche il sole
e la luna, che sono gli astri più belli del nostro
— 230 —
sistema planetario, hanno le macchie, e non.
persero il credito. Così conclusero le Mezze-
code ; e accompagnato da un'accusa viperina^
spedirono l'inquinato documento nientemeno
che al supremo Magistrato della metropoli.
L'uomo di Stato pensava forse a rose e
viòle, quando allo svolger del plico si trova
colla muffa al naso, e letta in fretta l'accusa,
ordinò si spedisse all'ufficiale subalterno più
prossimo al distretto del crimine il lurido af-
fare, lavandosene le mani con tutto il rigore
dei termini.
L'ufficiale subalterno sbollò anch'egli, ed a
sua volta dovè arricciare il niffolo, e dare
una spallata alla poltrona. Nondimeno uno sfogo
bisognava che la cosa l'avesse, e fu citato il
Dottore, Il quale riconobbe la lettera, rico-
nobbe le sue bolle patenti segnate sub aìiulo-
ani, e confessò il fatto com'era. Avrei sfidato
Fouquier-Tinville a pescare un'accusa. II Dot-
tore quindi venne licenziato, e fu chiuso il
processo, non foss'altro per la ragione igienica,
di non infettare l'Archivio.
Ed ora che vi ho narrato la storiella, parmi^
lettori cari, che non sia da licenziarvi senza
— 231 —
una conseguenza morale, senza un ammaestra-
mento da essa dedotto per vivere in pace e
non aver beghe di alcuna sorte. Ecco dunque
quel che ho alla meglio concluso, dopo maturo
esame, sui contingenti possibili.
Mangiate poco la sera per non trovarvi la
mattina ad una escrezione coatta in pubblico
luogo. In ogni caso portate sempre in tasca
una risma di carta bianca ; e soprattutto te-
nete lo stile dei gatti a tutela del fatto vostro,
e contro gli assalti delle Mezzecode. Così Dio
vi salvi.
Cece.
— 232 —
LE QUATTRO STAGIONI
(alle sole Donne)
La Terra nelle sue produzioni e nei suoi
movimenti si ricopia e si alterna con mirabile
armonia. L'acqua attinta e sollevata dai raggi
solari in vapori che si condensano, ricade sul
mare e sui fiumi a compenso dell'umore man-
cato. Le tempeste, dileguandosi nell'attrito del
doppio elettricismo, danno luogo di nuovo
alla serenità dell' aere. Le parti arenose del
terreno si consolidano in pietre, che poi si
polverizzano e ridivengono limo. Le piante e
l'erbe, che traggono alimento dalla terra, re-
stituiscono il succo alla loro nutrice colle fo-
glie e gli steli appassiti. I fiori ed i frutti con-
tengono il germe di altri frutti e di altri fiori.
La parte poi animata di questa bella creazione
- 1^33 -
distrugge e rinnuova le razze col concepi-
mento e la dissoluzione, colla vita e la morte.
Tutto è vicenda, tutto é ritorno di forme con-
suete, regolate da una legge suprema, uguale
e impassibile. Intanto l'uomo è signore, e ri-
assume in sé tutti gli ordini di questa in ap-
parenza svariata famiglia, talché i Greci lo
appellarono mici^ocosmos, cioè piccolo mondo.
Anzi le stagioni dell'anno porgono stupenda
somiglianza coll'epoche di nostra vita. Benché
il paragone non sia nuovo, ci piace a nostro
modo svilupparlo per comodo specialmente delle
nostre care villeggianti, le quali non potendo an-
dare a caccia come i mariti e i fratelli, sono co-
strette a mirare i campi e il cielo con quegli
occhi, che forse più volentieri si poserebbero
sopra una vetrina di mode, o dentro un palco
scenico. Io dunque, supponendo piamente di
essere da esse letto, vengo in soccorso di lor
solitudine, e dirigerò più piacevolmente ch'io
possa l'occhio e il pensiero delle Leggiadre sullo
spettacolo che le circonda, accennando alle
quattro stagioni, in tre delle quali oggimai è
costume di andare di tratto in tratto in cam-
pagna.
— 234 —
Il sole si scosta dall'orizzonte da dove spar-
geva sul globo obliquamente i languidi raggi,
e sale a poco a poco la fervida curva dei
cieli. Le nevi si sciolgono, i ghiacci si squa-
gliano; e zeffiro dai colli scende col placida
soffio sui campi già verdi — ecco la Prima-
vera. Gli uccelli rallegrano i boschi dei varii
canti: gli armenti usciti dall'ovile muggiscono
e belano pei prati; guizzano i pesci nell'onde
cristalline; la pastorella consegna allo speco
l'amorosa leggenda e coglie la romita mam-
mola che manda il suo tenue profumo dalla
balza scoscesa. Tutto è concordia e nuova gioja
nel cielo, sulla terra e sull'acque.
Tale è l'età tua fresca, o giovinetta dei primi
anni. Vivace l'occhio, agile il piede, e sulla
bocca rosata regna come in sua reggia il sor-
riso. Vola e folleggia qual variopinta farfalla
tra i meandri delle ajole, ma non ti appres-
sare allo spino che punge, né al ciglione che
per lubrica via conduce al precipizio. Cògli
dei fiori e intrecciane corone da porsi sulla
limpida fronte, ma quel giglio te lo riponi in
petto, e siati emblema della candidezza dell'a-
nima. Tra poco quei fiori appassiranno, e in-
— 235 —
segneranno a te pure che vano sogno e fu-
gace é la gioventù e la bellezza.
L'aria vie più s'infiamma; la spiga biondeg-
gia, l'oliva educa le preziose sue bacche; la
vigna colorisce i suoi grappoli; la biscia cangia
di siepe come folgore, e la noiosa cicala fa
risonare le valli dell'assiduo suo canto — l'E-
state è al colmo, e le ubertose raccolte ralle-
grano il villano delle durate fatiche.
Tu ora sei sposa, o sempre giovane donna.
L'amore estuoso e palpitante fu corretto dalle
pacate dolcezze dell' imeneo, e gli anni cre-
sciuti ti diedero il senno che esige lo stato no-
vello. Non più le futili occupazioni, non più i
giochi fanciulleschi, ma le domestiche cure ri-
empiono il tuo giorno. Sii la dolce compagna
che aiuta il marito a calcare il difficile sen-
tiero della vita Per lui sola sii bella. Imita
la speciosa oliva dei campi; imita la vite frutti-
fera che dà la soavità dell'odore. Ben altri do-
veri ti aspettano, e il turgido seno gli annunzia.
Siamo d'autunno, la più deliziosa e la più
mesta stagione dell'anno. I frutti, i pomi di
ogni specie rallegrano la vista e l'aura mite
che sussurra tra la chioma degli alberi sem-
— 236 —
bra un sospiro ricambiato tra la terra ed il
cielo, e desta in petto una dolce melan-
conia. Un tramonto autunnale osservato dal
colle, riduce a mente le passate vicende, e
il pensiero ritorna agli anni che furono. Ma
l'esule e l'errante lontano dal focolare materno
piange i perduti consorzi della famiglia, clie
forse non rivedrà piìi mai.
Intanto una vaga scena si rappresenta. E la
festa della vendemmia. Sono occupati tutti a
tagliare grappoli e trasportarne i pieni canes-
tri al tino dove un ruvido Noè li calca coi
piedi a trarne l'umore gradito. Tra 1 vendem-
miatori una turba di piccoli fanciulli si affa-
tica più degli altri, agitando i bei ricci, e colla
porpora sulle guancie. Tuoi sono quegli an-
gioletti 0 donna e tu li sorvegli con gli occhi
materni, ne sgridi il soverchio affaccendarsi,
e talora soavemente sorridi a quei detti, a
quegli atti infantili. Nobile missione è la tua
dar cittadini alla patria, virtuosi alla società
— beata, se quando Dio ti chiederà conto
della prole affidata tu potrai rispondere: io li
ho conservati coli' anima pura, quale nelle
mie viscere tu la infondesti.
— 237 —
La natura è morte. Non fiori, non frutti,
non pomi. Il gelo aumenta, la neve fiocca, e il
rabbuffato aquilone domina sugli squallidi cam-
pi, imperversando tra i roveti e i brulli rami
delle alte piante. Una vecchiarella sta assisa
presso la fiamma a riscaldarsi le membra inti-
rizzite. Ahi I gli oltraggi del tempo f Quella
ricurva schiena fu un giorno modello di svel-
tezza e di eleganza. Quegli occhi semispen-
ti lanciarono una volta lampi di amore. In
quelle guancie aggrinzite, su quella bocca
priva di denti già fioriva la rosa, e quei radi
capelli canuti furono lucide trecce, quali non
ebbe pur Leda. Donna, il sepolcro ti aspetta.
Stesa sul letto nuziale, confortata dalla reli-
gione dei padri, circondata dai figli piangenti,
benedicendo e benedetta, ti avvierai alla eterna
primavera, dacché nelle quattro stagioni della
vita fosti pudica fanciulla, consorte amorosa,
madre diligente, e veneranda matrona.
Cece.
— 233 —
DOMENICO SOMIGLI
detto BECO SUDICIO
Sullo scorcio del passato secolo, in una lim-
pida notte di estate, Firenze era immersa nel
più alto silenzio. L' orologio della Signoria
aveva sonato un tocco, e la campana di San
Miniato al Monte, chiamando i frati al mat-
tutino, distendeva la malenconica voce lungo
la valle sottoposta dell'Arno. A queir ora una
porta di Gualfonda si aperse, e ne usciva una
brigatella di amici, che avevano consumata la
sera a desco; e capitanati da una tiorba (1),
s'incamminavano verso la Piazza Vecchia di
Santa Maria Novella. Quei tempi correvano
più allegri dei nostri. Le ore notturne della
fi) La Tiorba è una specie di chitarra colla pancia e tutte
le corde di metallo, le quali si pizzicano col plettro.
— 239 —
calda stagione spesso erano rallegrate da canti
e da suoni, e più specialmente dalle cocchiate (1)
che, fermatesi alquanto sulla Piazza del Duo-
mo, dove per antico costume i cittadini sulle
gradinate godevano 1' aria fresca, giravan poi
per tutta la città, arrestandosi qui e li secondo
le intenzioni dei sonatori o di chi li condu-
ceva. Né allora i Fiorentini avevano cosi de-
licate le orecchie, né l' urgente bisogno del
sonno. Chi era a letto se la dormiva sapori-
tamente, e i molti seguitavano le armoniche
ragunate con gli occhi vispi e col viso rag-
giante di letizia. Ai di nostri invece, se qual-
cuno zufola un'arietta dope le 10 di sera,
viene proclamato perturbatore della pubblica
quiete, e buon per lui se n' esce con un fiero
rabbuffo, o con un orciòlo di acqua nanfa sul
capo. La nostra brigatella dunque, senza alcun
timore e riguardo, traversava canterellando
la piazza; s'inoltrava per via dell'Amore, via
Santa Maria, via Porciaja, al termine della
quale voltando dal canto del Bisogno in via
(1) Cosi si chiamavano in Firenze alcune ragunate di so-
natori, che nelle notti estive giravano per lo pìU in un coc-
chio tirato da 2 0 4 cavalli.
• — 240 —
Chiara, sostava in crocchio e bisbigliava un
partito, che dopo fu preso unanimemente. Di-
fatti i compagnoni cheti cheti entravano per
la sinistra nell' angusta via Romita, e si fer-
mavano dinanzi ad una casetta di umilissimo
aspetto. Qui la tiorba cominciò il passagallo, (1)
ed un giovine di vivace aspetto si fece in-
nanzi a improvvisare un'ottava, e un'altra, e
un'altra con tal cultura di lingua e freschezza
d'immagini, da reputarlo ingegnoso e di buone
lettere. L'argomento di queste ottave era co-
stante, cioè r evocazione di altro poeta chiuso
in quella casuccia; e si esprimevano come po-
tenti scongiuri, l'amicizia, l'amor delle muse
e la bellezza di quel cielo notturno. Né guari
andò che gli scongiuri fecero l'effetto: si apri
una finestra e vi apparve una faccia grassa
ed ingenua di un uomo circa i 60 anni, con
gli occhi quasi affatto chiusi. Costui cominciò
a rispondere sempre su quel suono del pas-
sagallo e nell'istesso metro d'ottava, sicché
la battaglia prese fervore, eJ assunse varj
fi) n Passagallo è il suono che accompagna esclusiva-
mente l'ottava nei canti improvvisati.
— 241 —
aspetti secondo il vario terreno in cui la trae-
vano i due campioni. Intanto dalle finestre e
sugli usci apparivano béceri e ciane (1) in
abito semplicissimo di camera, cioè in ca-
micia. Ad ogni chiusa di ottava si udivano i
plausi; e le pulci tradotte dalle case nella
strada, quasi partecipassero di quel tripudio,
carolavano bizzarramente al dolce lume delle
stelle. Era una vera festa per quella via,
poc'anzi romita di nome e di fatto. Ma già
la crocea aurora, per dirlo all'omerica, aveva
lasciato il letto di Titone; ond'è che dopo i
consueti amichevoli addio, i vati si separa-
rono, uno tornando a letto, l'altro disperden-
dosi coi compagni, che si riducevano alle
proprie abitazioni.
Or chi fosse quel vispo giovine, che primo
provocò il canto? Chi fosse il vecchio della
grassa faccia, che rispondeva dalla finestra?
E perchè teneva gli occhi chiusi? Era forse
sonnambulo? Il giovine chiamavasi Barto-
lommeo Bestini pistojese, che allora studiava
il disegno nell'Accademia di Belle Arti di
(IJ Questo è il nenie della gente del volgo fiorentino.
1(>
Firenze, e che -poi, autore della Pia de' To-
lomei e di altri lodati lavori poetici, ramingò
esule per diverse contrade, finché mori a Pa-
rigi, come vi muoiono quasi tutti gl'Italiani
di merito, vale a dire di stento. L'altro era
il cieco Domenico Somigli, più noto sotto il
soprannome di Beco Sudicio, per certa sua
trascuratezza della persona. Di lui appunto ci
giova dire quattro parole.
Nel 1744 nacque il nostro Domenico al ra-
sojo ed al sapone, giacché il padre suo bar-
biere lo iniziò fino da piccolo nello stesso
morbidissimo ufficio. Apollo per altro, che in
fondo è l'Intonso nume, e olia per conse-
guenza chi taglia i capelli e rade i peli, si
vendicò del vecchio barbiere sul figlio, a cui,
mentre dormiva, con una canna rubata a
mamma Latona, iniettò pei fori del naso fino
al cervello un pentolino di acqua d'Ippocrene.
D povero ragazzo destossi, edera poetai Im-
maginatevi che entrò subito la Versiera in
bottega Somigli, perché Domenico agitato dalle
fantasie poetesche^ faceva braciuole (1) a biz-
(1) Braciuole si dicono i tagli che i barbieri fanno col ra-
soio, alle 'volle, sul viso di coloro cui radouo.
— 243 —
zeffe sul viso de' suoi avventori; strappava le
code e strapazzava 1 nasi. Il padre, credendolo
ossesso, avrebbe voluto condurlo a San Va-
lentino di Bientina ; ma il prete di Varlungo,
che era allora un Giuseppe Tanzini e bazzi-
cava in bottega, pizzicando anch'esso di poeta,
conobbe di che male pativa il giovane, e si
pose all'opra di guarirlo. Gli prestò dunque
delle storie e la Mitologia, e gli fece scorrere
i principali classici della nostra lingua. A poco
a poco le idee dell'eroe da noi descritto si
ravviarono, e tra non molto potè improvvi-
sare e compor versi senz' altra effusione di
sangue: anzi la sua gaiezza, i suoi motti, le
sue rime facevano la delizia degli avventori.
Ma ohimè I una crudele sventura doveva col-
pirlo nel colmo della contentezza: a 21 anno
una ineluttabile amaurosi gli chiuse per sem-
pre gli occhi alla luce !
Che fare? come vivere? Da uno scultore
cieco, per esempio da Giovanni Gonnelli detto
il cieco di Gambassi, vi fu chi si fece model-
lare il ritratto e lo trovò somigliantissimo;
ma un barbiere senz'occhi è troppo pericoloso,
né vi sarebbs persona che gli affidasse la gola.
— 244 —
Scommetto che lo avrebbe rifiutato Leonida
alle Termopili quando si agghindava per l'ul-
tima pugna.
Non vi era altro modo per campare, che di
giovarsi della poesia; e l'infelice Domenico
dovette riconoscere come donna e madonna la
Musa che aveva sposata dalla mano sinistra.
Fortuna per lui che il buon umore non gli
scemò di un granello, e migliori apparvero
gl'improvvisamenti del povero Cieco. Ai ma-
trimoni del medio ceto, alle nascite del prima
figliuolo, ai lieti simposi, ai ritrovati amiche-
voli non mancava la voce di Beco Sudicio, che
beveva e mangiava a strippapelle, empiendo
per soprammercato il borsellino.
Anche dei versi pensati ne compose un di-
luvio, e tentò tutti ì generi di poesia, dal-
l'eroico al drammatico e al pastorale. E fa ma-
raviglia il vedere come ne uscisse a bene un
uomo del volgo, privo affatto di lettere : anzi
quei versi stampati in diverse edizioni, ed ora
rarissimi, crebbero fama e contante al Cieco^
il quale venne ascritto all'Arcadia, all'Acca-
demia degli Apatisti, a quella degli Aborigeni
della colonia Araiatense, ed a quella degl'In-
— 245 —
<;amminati di Modigliana. Riporto un saggio
<]i dette poesie.
(Compatisca il lettore. Nell'atto di comporre il presente
quaderno, uno dei soliti furti di che spesseggia Firenze, ci ha
tolto insieme con altra roba di valore, due tomi delle poesia
•del signor Domenico Somigli).
(Il Piovano Arlotto).
Ma dove proprio il Somigli si mostrò va-
lente, ed anco singolare, fa nel genere ber-
nesco. Il sale fiorentino vi è sparso a iosa, e
le immagini sono nuove ed affatto bizzarre.
€odesti componimenti però scemano alquanto
■d'importanza per essere troppo corti e pochi.
Dall'altra parte il Cieco non poteva scrivere,
« doveva ritenere a memoria quello che con-
cepiva: conveniva esser ricco da dettare ad
un segretario, che fosse lì con la penna in ma-
no, e r adoprasse sbadigliando secondo l'estro
del padrone; o avere, come il Milton, delle
amabili figlie, che trascrivessero a vicenda le
ispirazioni paterne. Omero, o non fu cieco, o
scrisse prima d' accecare : che se il Somigli
■avesse potuto mettere insieme un poema pri-
ma di accecare, non si dubita che avrebbe
■emulato il Forteguerri, il Tassoni e simili
giocosi scrittori.
— 246 —
A me poi duole altamente che, per quante
diligenze io abbia adoperato, non mi sia riu-
scito trovare di nuovo le Rime bernesche del
signor Domenico Somigli; ma se mi vien fatto
alla fine di raccapezzarle (me lo ha promesso
un libraio coi baffi), i nostri lettori non ne sa-
ranno frodati : intanto nulla qui possiamo
darne nemmeno per mostra. Erano pur gio-
conde ! Io rammento di averle avidamente lette
in altri tempi; e tra gli altri mi è restato im-
presso il tema di un sonetto dove s'introduce
in iscena un cristiano ed un ebreo, che, liti-
gando sul numero maggiore dei santi del
nuovo e del vecchio Testamento, scommettono
a strapparsi un pelo di barba ogni volta che
uno d'essi nomina un santo come suo. Abramo
incomincia l'ebreo, e sbarba un pelo: San
Pietro, ribatte il cristiano, e pela anch' egli.
Incalorito l'affare si suona a doppio. Enoch
ed Elia. Cosimo e Damiano: e i peli volano.
Finalmente il cristiano stanco della lungag-
ginC;, gridò all'ebreo con brusca cera:
Orsola, e sue compagne undicimila,
E toppa! gli strappò la barba intera.
— 2.L7 —
Ora il nostro vate trovandosi ad avere del
ben di Dio, decise di pigliar moglie: e non
potendosi valere degli occhi, fece come tutti
i ciechi: supplì con altri due sensi, e la tolse
grassa e di grata voce: salvochè ebbe poi a
dire che essa non corrispondeva all'olfatto,
come all'udito ed al tatto. E pure col solito
suo bon umore, traendo partito, invece d'in-
fastidirsene, della sudiceria che gli si coricava
accanto, la fece sovente argomento de' suoi
lepidi versi,- ed una volta tra le altre, can-
tando della cara metà, finiva in tal modo un
ottava :
Un giorno che lavossi alla Sardigna (1)
Fece sudicia 1' acqua insino a Sigiia.
Ma il pover uomo non avea da buttar via
nulla in genere di 1 indura. Il nome di Beco
Sudicio gli stava bene come il becco all'oca
e le corna al podestà. Fra le altre sue non
pulite consuetudini vi era quella di portar via
(1) La Sardigna è un luogo sotto le mura di Firenze sul
greto d'Arno dove si sotterrano le carogne degli animali.
Signa , castello distante 7 miglia da Firenze sul decliva
del Fiume.
— 248 —
dai desinari ciò che gli avanzava nel piatto,
al qual uso immodesto egli teneva una tasca
di cuojo, dove, come nel vaso di Pandora, vi
era ogni genere musicorum, — una vera sco-
della di cacciucco; un'olla x>odrida. Quindi
spesso a quella tasca si affacciava una triglia,
che rassomigliava la modesta damigella del
trecento al verone; o un capo di galletto, che
a male agguagliare, pareva un arguto predi-
catore in pulpito.
Questo sistema, che conveniva alla masse-
rizia di Beco, era per altro, motivo di pun-
genti assalti non solo per parte dei poeti rivali,
ma anche di molti uditori, che così si ricat-
tavano di qualche satiretta pungente. Ma
chi di spada uccide, ■perirà di spada, dice
il Vangelo; e qual asino dà in parele, tal
7nceve, aggiunge un pi-overbio nostro. Ciò av-
venne ad un bel giovine azzimato, di scarso
cervello e di più scarsa scarsella, uno dei
Lioni, come oggi li chiamano, o, come meglio
allora li chiamavano, Ganimedi. Costui aveva
spesso morso il poeta su quel modo d' insac-
care le pietanze, e n'era uscito alia pulita:
quando infine la recondita legge della vicenda
— 249 —
universale volle ch'egli cadesse nello stesso
peccato, con questo divario che in Reco Su-
dicio era divenuto un vezzo, laido se volete,
ma sopportato dalla gente che ne rideva; men-
tre che nel nostro zerbinotto parve, ed era,
uno sporco furtarello: e servi a bandirgli ad-
dosso una crociata di epigrammi, tra 1 quali
non mancarono certo quelli di Beco. Ecco come
passò l'avvenimento.
Questo giovine invitato ad un pranzo, per ri-
guardo ad una signora a cui professava la
qualità di cavalier servente, vista la cuccagna
cedette alla tentazione, ed intascò destramente
una coscia di cappone freddo, che faceva ve-
nire l'acquolina in bocca da lontano un miglio.
Finito il pasto, si alzarono i convitati da ta-
vola; e siccome era caldo grandissimo passa-
rono nell'attiguo giardinetto, tutto coperto di
ombre liete. Quella tal signora, volendo co-
glier fiori, cedette il ventaglio al rammentato
giovine; il quale, desideroso anch' esso di fare
un mazzetto, cacciò il ventaglio in tasca...
oimè I accanto alla coscia involata. La signora,
cessata la preda odorosa, richiese ad un tratto
il ventaglio, ed il cavalierino, avvezzo ad ub-
— 250 — -
bidire con prontezza, sbagliando da osso a osso
trasse fuori ìa coscia di cappone, e la presentò
con grazia al naso della dama. Ora consideri
il lettore la indignazione di questa, la confu-
sione del giovinotto, e le risa della brigata :
io non saprei descriver la scena co' suoi veri
colori.
A che vai sciorinando sifìTatte pappolate?
Paionti elleno cotai ciauciafruscole roba da
intrattenerci? — Non tanta muffa, messeri ono-
randissimi. Quando dei vostri Alessandri, e
Cesari, e simili omaccioni riferite con impor-
tanza le più tenui particolarità, tantoché or-
mai sappiamo come, dove e quando si ubria-
carono, e se dormirono la tal notte, e se eb-
bero la crudezza di stomaco; anch' io voglio
ridir qualche minuzia del mio eroe popolare:
e chi non la vuole la butti via; e a cui non
piace, mi rincari il fitto. Anzi tra certe, che
potrei ripescare nella memoria, vo raccontare
un' ultima storiella, che più direttamente ri-
guarda il signor Beco Sudicio.
Egli era stato invitato alle nozze dell' israe-
lita Chimichinchi nel ghetto di Firenze. Aveva
cantato tutto il giorno con gusto grande degli
- 251 -
iiditori : quando ad una chiusa di ottava parve
inciampare
Viva tutta la casa Chiraichinchi '.
esclamava con enfasi nel settimo verso per
due 0 tre volte, senzachè l'ultimo volesse ve-
nire, mentre la tiorba strimpellava invano :
Viva tutta la casa Chiraichinchi I
I circostanti sogghignavano, e sommessamente
mormoravano: il poeta dà in cenci. Final-
mente cessò la titubanza, e Beco, non trovan-
do altro compenso alla idea ed alla rima, già
concepite, le spiattellò come gli erano venute
alla prima:
Viva tutta la casa Chimichinchi,
Gloria ed onor dei circoncisi p.. .
Alla inopinata chiu&ura la sposa fece il viso
rosso come le ciliege ; la signora madre si
oscurò; al Rabbino per la prima volta cad-
dero gli occhiali dal naso; i cugini montati
in bestia minacciavano una strage. La confu-
sione ed il trambusto rammentarono la presa
— 252 —
di Gerusalemme. In quel critico momento la
prudenza di uno zio dello sposo briaco salvò
la capra e i cavoli: egli in fretta pagò il
poeta, e k> trasse fuori del quartiere, ed im-
boccandolo alla uscita, gli grido con voce soffo-
cata: Addio signor poeta; ringraziate Adonai
se non vi precipuo per le scale (1).
Ecco fatto f lo schizzo su Beco Sudicio è
finito^ e buon per me che ho tirato via men-
tre il Barbèra aspetta: d'altra parte il suo
decessit (voglio dire di Beco) non vai nulla.
Egli, come tre quarti del genere umano, ebbe
una malattia delle comuni, e forse campò un
mesetto di meno per aver chiamato il medico,
il quale, come tutti i ministri, vinse nello
zelo il suo principale.
Un' ultima parola alla memoria di Beco Su-
dicio la consacrerò asserendo, che il popolo
fiorentino lo ha sempre in bocca, e ne ripete
i frizzi e le rime. Questo amore costante al
fi) Questo è puramente un fatto accaduto a Domenico So-
migli. Or non vorremmo che da qualcuno si pensasse aver
voluto il Piovano Arlotto njettere con ciò in deriso gl'Israe-
liti; che, oltre ad essere alieno da si fatte intemperanze,
esso ha mostrato più volta di non essera un fazioso cieco
« di»s9nnato.
— 253 —
SUO nome é un elogio più bello di un'epigrafe
del Muzzi. Quindi mi sono doluto quando
in un giornaletto della città nostra vidi i ver-
sacci di un cotale esser paragonati a quelli
del Somigli;, quasi ei fosse poeta sotto la doz-
zina. Suppongo che l'autore di quello scritte-
rello non abbia conosciuto il valore di quel
Beco Sudicio, che mal forse sonava al suo
orecchio, e basta. Ma pur troppo oggigiorno
convicii deplorare la smania che si è impa-
dronita di alcuni moderni Italiani, nel ricer-
care il peggio 0 falsato o equivoco dei nostri
maggiori, sia pure la loro memoria gloriosa-
mente consacrata dalla istoria del mondo. È
ella questa carità patria? Io non voglio la
impudenza francese, che di un Lamartine, di
un Dumas, di un Janin ne fa degl' idoli, ma
nego che impuberi vanarelli, rosicando gli ar-
chivi, traggano fuori mendaci argomenti con-
tro un Piero Capponi e un Filippo Strozzi. Io
per me, adoperando le scarse forze, ho voluto
in cotal modo celebrare il mio eroe; e se qual-
cuno mi facesse il muso arcigno, io gli direi:
Domenico Somfgli fu uomo onesto — Si
elevò da un' umile condizione col solo ingegno
— 254 —
— Poetò con naturalezza e senza matti ar-
zigogoli — Fa hellumore senza essere imper-
tinente — Sojrrattuito non elite presunzione.
Di quanti si potrebbe asserire altrettanto il
primo di febbraio 1859 ?
Cece.
— ioo —
Epigrafe sulla tomba di BECO SUDCIO
Ci parrebbe di avere un grave debito coi let-
tori del Piovano se, dopo aver dato loro la Vita
del Somi^iii, non ponessimo qui per suo neces-
sario compimento 1' epigrafe che gli fu posta
sulla tomba dagli amici. Essa è nel primo
chiostro del Convento degli Angeli , a pian
terreno del quale dava Beco sudicio le sue
Accademie di poesia improvvisata.
A cTo a
nOMIXICO LAVRENTII F. SOMU^LIO
INTER ARCADES ADLECTO
ti'.I IVVKNTVTE INEVNTE TONSOR COMOEDVS ET CVLTOR P0E3IS yvIT
EXPLBTOQ LYSTRO AETATIS IV OCVLIS REPENTE ORBATUS
ET DEIN ALIENA LECTIONE EXPOLITVS
PROSATA CARMINA MEDITATVS EST
PROBATISSIMA EXTEMPORE FVDIT
LVDICRI PRAESERTIM ARGVMENTI
<JVAE NOVA IVCYNDITATE ARGVTIISQ FACETISSIMI SALIS ADSPRRSIT
VIX AN LXXVII M X D Vili DECESS PRID II) IVN MDCCCXXllI
AMICI VIRO PROBO RELIGIOSISSIiMO
IIEIC VBI AD PLVRES ANNOS VENAE DIVITIIS SVAE PEEICVLVM FECIT
POSVERVNT MEMORIAE CAVSSA
ATQ AD LAVDEM TVSCORVM QYI OB INGENIVM PROMPTVM FESTIVVMQVE
ET LINGVAE COPIA MOLLISSIMAB
IN SVBITIS VEESIBVS MAXIME SEMPBR ENITVERE.
— 256 -
PARRUCCHIERI
Il Parrucchiere ò una specialità sociale e
non somiglia al resto dei figli di Eva. Eva
non si pettinava, ma si vuole che un figlio di
Caino alzasse bottega di barbiere nelle vici-
nanze del Paradiso Terrestre. Questa notizia
però si perde nella nebbia della storia, molto
più che Mosè impose la barba ai suoi conna-
zionali e non si parlò più di parrucchieri
specialmente nel deserto. Per non pettinarsi
quella buona lana di Assalonne aveva i ca-
pelli così intricati, che restò appeso come
sapete ad un quercia: se portava la parrucca
non avrebbe avuto la disgrazia poco rimedia-
bile di essere ammazzato da Gioabbo. I Fili-
stei al conti'ario avevano i parrucchieri. Dalila
che rapò Sansone era figlia di un Parrucchiere
I Romani stettero 300 anni senza barbieri,
e i primi vennero a Roma dalla Sicilia al tem-
pò di Catone il censore. In seguito i barbieri
acquistarono credito e molti di essi divennero
potentissimi: Oliviero il Daino^ barbiere di Lui-
gi XI re di Francia, s' insinuò talmente nel-
l'animo di quel monarca, che dispose a sua
posta del regno.
Il Parrucchiere non è come gli altri artisti,
che per lo più patiscono del loro mestiere.
Difatti il calzolaio ha le scarpe rotte, il sarto
veste male, e il falegname è capace di non
avere imposte alle finestre. Il Parrucchiere
invece prima di acconciare il capo agli altri,
sacrifica il suo con ricercata diligenza, più
onesto in ciò del boja, che tira a ftir teste
rispettando sempre la sua.
Il Parrucchiere ha le mani morbide ed il
tratto cortesissimo. Egli saluta a nome tutti
i suoi avventori, e li riceve col maggior garbo
del mondo. Per iscemar la noja al paziente che
sta sotto, tra i colpi di rasoio e di pettine, gli
racconta le più vaghe storielle, e gli aneddoti
i più curiosi. Esso conosce tutto il vicinato, o
meglio, tutto il paese, e sa per filo e por segno
gl'intrighi, le risse, gli scandali; sian pure av-
venuti di notte. Non potresti avere un" indica-
17
— 258 —
zione di interessi, di persone e di case da aiìit-
tarsi meglio che dal Parrucchiere. Vuoisi anzi
da taluno che i parrucchieri generalmente si
prestino a portar bigliettini muschiati e inzuc-
cherate paroline, ma questa è pretta calunnia.
Se il fatto è avvenuto tra qualcuno di quelli
che vanno a pettinar le dame, tali singolarità
non debbono nuocere all' intero ceto rispetta-
bilissimo dei parrucchieri. Dico rispettabilis-
simo perché nessuno ò più virtuoso di un Par-
rucchiere. Ei si sacrifica tutto l'anno per gli
altri. Sta sempre in bottega e non partecipa di
nessun divertimento esterno. Qualunque arti-
giano la domenica si riposa, si riveste e va a
godersela a feste, a teatri, a lieti pranzi. Il
povero Parrucchiere, al contrario fatica più le
domeniche che gli altri giorni e sta sempre in
maniche di camicia. Per pochi soldi vi rade
la barba, vi assetta il crine, vi spazzola il
soprabito, il cappello, e a un bisogno vi leva
i calli: dal capo ai piedi vi ripulisce, vi liscia,
vi accomoda; e voi uscite dalle sue mani tra-
sformati in meglio, come a male uguagliare, la
terra rossa che si chiamò Adamo dalle mani
del Signore. E tutto questo deve fare il Par-
rucchiere con parole soavi, col sorriso alla
bocca, giacché un Parrucchiere non può mo-
strarsi burbero o mesto, quand'anche gli fosse
morta la moglie, quand'anche non avesse da
pagar la pigione — il martirio è completo,
l'abnegazione è totale.
Un solo conforto, una sola gloria sta a com-
pensare cotanti sacrifici, l'avere cioè in pieno
dominio la testa dell'avventore. Il Parruc-
chiere gli intride il viso maneggiandolo senza
misericordia, gii netta le labbra come a un
bambino imbrodolato di pappa, lo piglia per
il naso; gli mette le dita in bocca, e lo alza,
lo abbassa, lo piega, lo gira e rigira, quasi
proprio si trattasse di un fantoccio. Qualche
volta anche lo scortica e lo ferisce esclamando
con disinvoltura: non è niente. Questo trat-
tamento è dispotico, né vi è preferenza per
alcuno: non si guardane a conti né a mar-
chesi: quella seggiola è come la tomba; ugua
glia tutte le età e tutti i ceti. Il paziente poi en-
tra in uno stato di soggezione, e subisce una cor-
rente magnetica. Chiotto, chiotto, senza fiatare,
senza lamentarsi lascia agire il tiranno, as-
sai fortunato, se si alza colla gola sana.
~ 200 —
Finiremo dunque come abbiam cominciato,
asserendo che il parrucchiere è un essere sui
generis e non ha riscontro in natura, aggiun-
gendo poi che egli è sempre odoroso, buon
patriotta, qualche volta semi- letterato come
il mio, e gran leggitore, nelle ore di ozio, di
giornali e di opuscoli, su cui fa note, chiose
e commenti, specialmente il sabato sera al
pubblico insaponato.
Cece
£61 —
SAGOGE
La prima battaglia in campo aperto tra Ita-
liani e Austriaci fu quella di Sorto e Monte-
bello. Vi accorsero gli studenti di Padova, molti
artisti e altri veneti. L'Autore era con essi.
Durò molte ore. Il soverchio numero dei ne-
mici vinse. L'Autore fa degli ultimi a ritrarsi
con un amico trevigiano. Dopo una notte e un
giorno coi piedi feriti e sanguinosi si ridusse
a Vicenza, dove credevasi morto. Presa questa
città, tornò a Firenze col grado di ufflziale.
Fu impiegato al Governo di Livorno. Emigrò
lungamente. Tornato in patria dietro l'amnistia
fu per la terza volta incarcerato senza alcun
motivo, e quindi messo in domicilio coatto a
Pontassieve. Gli ottimi paesani lo accolsero
con amore fraterno. Questa l' ultima di sue
— 262 —
dolorose vicende politiche. — A nostra ri-
chiesta Ei dettava le seguenti poche parole :
A SO R I 0
10 vi saluto 0 colli di Sorio, dalla sventura
tì dalla gloria auspicati.
11 pellegrino, che dalla vostra balza si af-
faccia, allieta il guardo sulla verde pianura,
stesa dal placido Chiampo all' Adige sonante.
Sui vostri gioghi convenne, o colli augu-
rosi, la veneta gioventude a fronteggiare, la
prima volta in campo, il nemico straniero.
Furono notti di patimento e di tedio.
Impegnossi aitine ineguale poderosa la pu-
gna, che il sole illuminava dal suo oriente
all'occaso.
Ci oppresse il numero ma fu vittoria la
sconfitta.
Il sangue dei prodi, o colli di Sorio, impor-
porò le vostre glebe, né però foste maledetti
come di Gelboe i monti.
— 263 —
In voi la prima sfida venne gettata dell'au-
sonio valore.
Eppure la cronaca vi rammenta appena, e
il lascivo poeta tramuta la vostra storia nella
leggenda servile.
0 superstiti compagni della ben durata bat-
taglia, uniamoci insieme a un imperituro ri-
cordo.
Sorga sui colli di Sorio un cippo votivo, che
additi al mondo della libertà nostra l'aurora.
BSRATA-CORRIGE
pag.
verso
ove dice
leggasi
19
15
natio
natio
27
11
pioveva
spargeva
37
5
dagli
degli
77
1
atri
atrii
88
8
unite
unisco
97
6
oste turco
oste turca
114
■16
del folle strupo.
del folle strupo
135
12
voleva
vele a
137
6
pasticcer
pasticcier
189
1
Cilcope
Ciclope
>
19
variante
svariato
198
27
uffizio
ufizio
208
20
musaico
mosaico
144
7
innoltre
inoltre
»
8
appicca
appiccica
INDICE
Ragione dell'Opera Pag. 3
POEI-IE MUSICATE.
Aiìnina — Leggenda storica (sulFaria del Pesca-
tore) >. 9
La morte dei fratelli Bandiera — Canzone sto-
rica (sull'aria della « Vaga Clari »)..,» 17
Il ritrovamento di un'Amica — (sull'aria della
Rondinella) » 23
Abìidhalla — Romanza moresca (sull'aria « Mia
bella l'undici son sonate ») » 20
Lande a Maria di Maggio (sull'aria del coro della
S{ra.n'ievh <ii Paì-i all'amor degl'Angeli ») . . » 29
Lai'de a Maria Assunta (sull'aria, del coro dei
Lombardi « 0 Signor che dal tetto nat'io ») » 32
Giìdia Gentile (aria omonima) » 35
Lìti e Lei — (Coppiola erotica sull'aria « Quando
sarò Ingegnere >) » 37
Il Primo .4/j)oj'^ (sull'aria « Ti voglio bene assai) » 38
Il Montagnolo che va in Maremma (aria omonima) » 40
— -2CG —
Ersilia (sviiravia « Priro dell' Aìììoì" mio >•) . Ph;
I pregi del Porco di ritnpetto alla soriela (sul-
Faria delia « Clarina di Berchef »....»
Romanza alla sig. R. C. (sull'aria della « Clari/ui
di Berchet ») »
La Fame »
POESIE NON" MUSICATE.
Seguito della Parisina (ila Pyron con varianti. »
Alla Plebe »
Epitalai/Ho (in rime sdrucciole e p^a-itlnentl) . . »
L'Addio »
Altro Addio »
L' ulti/no giorno di Missoliingi »
Delirio »
Per la solenne festa del S. Chiodo a Colle
d'Elsa »
Verghereto (Romagna) »
Dio e Satana (Confutazione) »
Prognostico per il Capo d' Anno 1853 . . . ' »
Per le Reali no:ze della Princijìessa Margite-
rita col Principe U/nberto »
Al Principe Federigo di Prussia presente alle
Reali Nozze »
L'Addio della Sposa norella alla sua Cannerà . »
Ad -lina Madre »
Apologo »
Vita del Larliera »
Testamento del Lachcra »
L'Addio al Fiasco »
42
44
47
50
72
79
85
02
Olì
101
i«r,
109
112
lli3
12.-.
128
Uù
l:12
135
137
147
1.ÒJ
Ì67
PROSE.
Bcminisceìi^e notturne fiurenthic P-^g-
Cicalala sui Fegatelli, dettata da Cece e recitata
da SnccHiPXLiNO, Cherico del Piovano Ar-
lotto nell'ultima cena del Carnevale ...»
Lr Feste di Firen :e alla renìi.tarlel Br (dal Diario
di Cece) »
Le Mez-zecode, ossin. Il Castello della Contessa
di Cirillari
Lr Quattro Stagioni (alle «ole Donne) ...
Domenico Somigli detto Buco St'Dicio ...
I Parrucchieri
A Sorio (Reminiscenze di guerra) ,
lfi7
1%
203
225
232
238
256
261