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Full text of "Il piacere"

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IL 




ROMANZO' 



GABRIELE D'ANNUNZIO 



Settima Edizione. 





UNO 






FRATELLI TREVES, EDITOKl 

1894 



ì 



7^s 



pbóprietà letteraria. 

Riservad tutti i diritti. 



Tip. Fratelli Treves. 



PS 

a FRANCESCO PAOLO MICHETTl 



Questo libro j composto nella tua casa dal- 
l'ospite bene accetto, viene a te come un rendi- 
mento di grafie, come un ex-voto. 

Nella stanchezza della lunga e grave fatica, 
la tua presenza m'era fortificante e consolante 
come il mare. Nei disgusti che seguivano il do- 
loroso e capzioso artifizio dello stile, la limpida 
semplicità del tuo ragionamento m'era un esem- 
pio ed una emendazione. Ne' dubbii che segui- 
vano lo sforzo deWanalisi, non di rado un tuo 
aforisma profondo m'era di lume. 

A te che studii tutte le forme e tutte le meta- 
morfosi dello spirito come studii tutte le forme 
e tutte le metamorfosi delle cose, a te che in- 
tendi le leggi per cui si svolge l'interior vita del- 
l' uomo come intendi le leggi del disegno e del 
colore, a te che sei tanto acuto conoscitor di anime 
quanto grande artefice di pittura io debbo l'eser- 



\\'- 



-* .-^ '^ ■ 



— VI — 

ehio e io sviluppo della piU nobile tra le facoltà 
dell' ùìMìetto , debbo cioè l'abitudine dell'asser- 
vallone e debbo , in ispecie , il metodo. Io sono 
ora, come te, convinto che e* è per noi un solo 
Oijgetio di studii: la Vita. 

Siamo f in verità, assai lontani dal tempo vn 
cni, mentre tu nella galleria Sciarra eri intento 
a penetrare i segreti del Vinci e di Tiziano^ io 
ti rivolgeva un saluto di rime sospiranti 

alV Ideale che non ha tramonti^ 
alla Bellezza che non sa dolori f 

Ben, però, un voto di quel tempo s'è compiuto. 
Siam tornati insieme alla dolce patria, alla tua 
*^ casta casa. „ Non gli araz:^i medicei pendono 
a* le pareti, né convengono dame ai nostri deca- 
meroni, né i coppieri e i levrieri di Pciolo Ve- 
ronese girano intorno alle mense, né i frutti so- 
prannaturali empiono i vasellami che Galeazzo 
Maria Sforza ordinò a Maffeo di Olivate. Il no- 
stro desiderio è men superbo: e il nostro vivere 
è pia primitivo, forse anche piti omerico e pia 
eroico se valgono i pasti lungo il risonante mare, 
degni d'Ajace, che interrompono i digiuni lobo- 
rloBù 

Sorrido quando penso che questo libro, nel 
qtmìe io studio, con tristezza, tanta corruzione 
e tanta depravazione e tante sottilità e falsità e 
crudeltà vane, è stato scritto in mezzo alla sem- 
plice e serena pace della tua casa, fra li ultimi 
stornelli della messe e le prime pastorali dèlia 
neve, mentre insieme con le mie pagine cresceva- 
in cara vita d^l tuo figliuolo. 



V 



- VII — 

Certo, se nel mio libro è qualche pietà umana 
€ qualche bontà, rendo mercede al tio Jlgliuolo, 
Nessuna cosa intenerisce e solleva quanto lo spet- 
tacolo d'una vita che si schiude. Perfino lo spet- 
tacolo dell'aurora cede a quella meraviglia. 

Ecco, dunque, il volume. Se, leggendolo, l'oc- 
chio ti corra più oltre e veda tu Giorgio por- 
gerti le mani e dal tondo viso riderti, come nella 
divina strofe di Catullo, semihiante labello, in- 
terrompi la lettura. E le piccole calcagna rosee, 
d'innan:^i a te , premano le pagine dov'è rap- 
presentata tutta la miseria del Piacere; e quel 
premere inconsapevole sia un simbolo e un au- 
gurio. 

Ave, Giorgio. Amico e maestro, gran mercè. 

Dal Convento: mcondo Carmine, 1869, 



G. d. A 



{ 



IL PIACERE 




L'anno moriva, assai dolcemente. Il sole di 
San Silvestro spandeva non so che tepor ve- 
lato, mollissimo, aureo, quasi primaverile, nel 
ciel di Roma. Tutte le vie erano popolose come 
nelle domeniche di maggio. Su la Piazza Bar- 
berini, su la Piazza di Spagna una moltitudine 
di vetture passava in corsa traversando; e dalle 
due piazze il romorìo confuso e continuo, sa- 
lendo alla Trinità de' Monti, alla via Sistina, 
giungeva fin nelle stanze del palazzo Zuccari, 
■attenuato. 

Le stanze andavansi empiendo a poco a poco 
del profumo ch'esalavan ne'vasi i fiori freschi. 
Le rose folte e larghe stavano immerse in certe 
coppe dì cristallo che si levavan sottili da una 
specie di stelo dorato slargandosi in guisa d'un 
giglio adamantino , a similitudine di quelle che 
sorgon , dietro la Vergine nel tondo di Sandro 

Il Piacere. 1 



Bnuh^elli alla galleria Borghese. Nessuna altra 
(ni'ui;L dì coppa eguaglia in eleganza tal forma: 
[ finrì entro quella prigione diafana paion quasi 
spiriuializzarsi e meglio dare imagine di una 
ri/li-irtsa o amorosa offerta. 

Aiuirea Sperelli aspettava nelle sue stanze 
lurni dante. Tutte le cose a torno rivelavano in 
l'jtil una special cura d'amore. Il legno di gi- 
iM^ìiiV" ardeva nel caminetto e la piccola tavola 
iìvl \c era pronta, con tazze e sottocoppe in ma- 
jdljru di Castel Durante ornate d'istoriette mi- 
fi «Iruirtie da Luzio Dolci, antiche forme d'inimi- 
\ìì\i\]c grazia, ove sotto le figure erano scritti 
IN I nrattere corsivo a zàffara nera esametri 
«rnvidio. La luce entrava temperata dalle tende 
lit IM-Kxatello rosso a melagrane d'argento ric- 
r]iL a foglie e a motti. Come il sole pomeridiano 
fcIi^ j. i vetri , la trama fiorita delle tendine di 
[tizzi > si disegnava sul tappeto. 

L'iM'ologio della Trinità de'Monti suoiìù-Je tre 
e ì\\r/:io. Mancava mezz'ora. Andrea Sperelli si 
IcN n dal divano dov'era disteso e andò ad aprire 
unn iM\e finestre; poi diede alcuni passi nel- 
rMplKM'tamento; poi apri un lìÌ3ro, ne lesse qual- 
v\\v riga, lo richiuse; poi cercò intorno qualche 
cuAn. con lo sguardo dubitante. L'ansia dell' a- 
sfirttHZione lo pungeva cosi acutamente ch'egli 
aviH'.i bisogno di muoversi, di operare, di di- 
stiviire la pena interna con un atto materiale. 
Sì rjiiiiò verso il caminetto, prese le molle per 
l♦n^ vivare il fuoco, mise sul mucchio ardente 
lUi nuovo pezzo di ginepro. Il mucchio crollò; 
i <";irboni sfavillando rotolarono fin su la la- 
mi un di metallo che proteggeva il tappeto; la 



- 3 ~ 

fiamma si divise in tante piccolo lingue azzur- 
rognole che sparivano e riapparivano; i tizzi 
fumigarono. 

Allora ,sorse nello spinto deir aspettante un 
ricordo. Proprio innanzi a quel caminetto l'iena 
un tempo amava indugiare, prima di rivestirsi, 
dopo un' ora d' intimità. Ella aveva molt' arte 
neiraccumular gran pezzi di legno su gli alari. 
Prendeva le molle pesanti con ambo le mauì 
e rovesciava un po' indietro il capo ad evitar 
le faville. Il suo corpo sul tappeto, nell'atto un 
po' faticoso, per i movimenti de' muscoli e per 
l'ondeggiar delle ombre pareva sorridere da 
tutte le giunture, da tutte le pieghe, da tutti i 
cavi, soffuso d'un pallor d'ambra che richia- 
mava al pensiero la Danae del Correggio. Kd 
ella aveva a punto le estremità un po' corre g- 
gesche, le mani e i piedi piccoli e pieghevoli, 
quasi direi arborei come nelle statue di Dafne 
in sul principio primissimo della metamorfosi 
favoleggiata. 

A pena ella aveva compiuta l'opera, le legna 
conflagravano e rendevano un sùbito bagliore. 
Nella stanza quel caldo lume rossastro e il ge- 
lato crepuscolo entrante pe' vetri lottavano qual- 
che tempo. L'odore del ginepro arso dava al 
capo uno stordimento leggero. Elena pareva 
presa da una specie di follia infantile, alla vi- 
sta della vampa. Aveva l'abitudine, un po' cru- 
dele, di sfogliar sul tappeto tutti i fiori ch'eran 
ne' vasi, alla fine d'ogni convegno d' amore. 
Quando tornava nella stanza, dopo essersi ve- 
stita, mettendosi i guanti o cliiudendo un fer- 
maglio sorrideva in mezzo a quella devasta- 



- 4 — 

zione; e nulla eguagliava la grazia delV atto 
che ogni volta ella faceva sollevando un poco 
In, gonna ed avanzando prima un piede e poi 
Tel Uro perchè V amante chino legasse i nastri 
f1( Ila scarpa ancora disciolti. 

Il luogo non era quasi in nulla mutato. Da 
tulle le cose che Elena aveva guardate o toc- 
f^Mte sorgevano i ricordi in folla e le imagini 
del tempo lontano rivivevano tumultuariamente. 
Dnpo circa due anni, Elena stava per ri varcar 
([uolla soglia. Tra mezz'ora, certo, ella sarebbe 
M-'nuta, ella si sarebbe seduta in quella pol- 
truna, togliendosi il velo di su la faccia, un 
poco ansante, come una volta; ed avrebbe 
p:irlato. Tutte le cose avrebbero riudito la voce 
di lei, forse anche il riso di lei, dopo due anni. 

n gioi*no del gran commiato ,fn fi punto il 
venticinque di marzo del mille ottocento ottanta 
cìtique, fuori della Porta Pia, in una carrozza. 
La data era rimasta incancellabile nella me- 
inoria di Andrea. Egli ora , aspettando, poteva 
evocare tutti gli avvenimenti di quel giorno, 
con una lucidezza infallibile. La visione del 
pLiesaggio nomentano gli si apriva d'imianzi 
or-i [il una luce ideale, come uno di quei pae- 
saggi sognati in cui le cose paiono essere vi- 
sibili di lontano per un irradiamento che si 
prolunga dalle loro fornie. 

La carrozza chiusa scorreva con un romore 
eguale, al trotto: le muraglie delle antiche ville 
piiU'ìzie passavano d'innanzi agli sportelli, bian- 
castre, quasi oscillanti, con un movimento con- 
ti fino e dolce. Di tratto in tratto si presentava 
un gran cancello di ferro, a traverso il quale 



— 5 — 

vedevasi un sentiero fiancheggiato di alti bussi, 
un chiostro di verdura abitato da statue la- 
tine, o un lungo portico vegetale dove qua e 
là raggi dì sole ridevano pallidamente. 

Elena taceva, avvolta nell'ampio mantello di 
lontra, con un velo su la faccia, con le mani 
chiuse nel camoscio. Egli aspirava con delizia 
il sottile odore dì eliotropio esalante dalla pel- 
Uccia preziosa, mentre sentiva contro il suo 
braccio la forma del braccio di lei. Ambedue 
si credevano lontani dalli altri, soli; ma d'im- 
provviso passava la carrozza nera d'un prelato; 
un buttero a cavallo, o una torma di chie- 
rici violacei, o una mandra di bestiame. 

A mezzo chilometro dal ponte ella disse: 

— Scendiamo. 

Nella campagna la luce fredda e cliiara pa- 
reva un'acqua sorgiva; e, come li alberi al 
vento ondeggiavano , pareva per un' illusion 
visuale che Fonderggiamento si comunicasse a 
tutte le cose. 

Ella (iisse, stringendosi a lui e vacillando sul 
terreno aspro. 

— Io parto stasera. Questa è Tultima volta.... 
Poi tacque; poi di nuovo parlò, a intervalli, 

su la necessità della partenza:r-su la necessità 
della rottura, con un accento pieno di tristezza. 
Il vento furioso le rapiva le parole di su le 
labbra. Ella seguitava. Egli interruppe, pren- 
dendole la mano e con le dita cercando tra i 
bottoni la carne del polso: 

■^ Non più! Non più! 

Si avanzavano lottando contro le folate incal-. 
zanti. Ed egli, presso alla donna, in quella so- 



- 6 - 

litiidine alta e grave, s i senti, d'improvviso en- 
trar nell'anima come l'orgoglio d'una vita più 
libera, una sovrabbondanza di forze. 

— Non partire! Non partire! Io ti voglio an 
cora, sempre.... 

Le nudò il polso e insinuò le dita nella manica, 
tormentandole la pelle con un moto inquieto in 
cui era il desiderio di possessi maggiori. 

Ella gli volse uno di quelli sguardi che lo 
ubriacavan^~~rome calici di vino. Il ponte era 
da presso, rossastro, neirilluminazione del sole. 
Il fiume pareva immobile e metallico in tutta 
la lunghezza della sua sinuosità. I giunchi s'in- 
curvavano su la riva, e le acque urtavano leg- 
germente alcune pertiche infitte nella creta per 
reggere forse le lenze. 

Allora egli cominciò ad incitarla con 1 ricordi. 
Le parlava de' prlTnt"giorni, del ballo al palazzo 
Farnese, della caccia nella campagna del Di- 
vino Amore, delli incontri matutini nella piazza 
di Spagna lungo le vetrine delli orefici o per 
la via Sistina tranquilla e signorile, quando 
ella usciva dal palazzo Barberini seguita dalle 
ciociare che le ofl'erivano nei canestri le rose. 

— Ti ricordi ? Ti ricordi ? 

— Sì. 

— E quella sera de' fiori, in principio; quando 
io veiiai-xon tanti fiori.... Tu eri sola, a canto 
alla finestra: leggevi. Ti ricordi? 

— Sì, si. 

— Io entrai. Tu ti volgesti a pena; tu mi ac- 
cogliesti duramente. Che avevi ? Io non so. Po- 
sai_il mazzo sopra il tavolino e aspettai. Tu 
inco minci asti a parlare di cose iniìfìtfp-senza 



volontà e senza piacere. Io pensai, scorato: 
" Già ella non mi ama più! ^ Ma il profumo 
era grande: tutta la stanza già n'era piena. 
Io ti veggo ancora, quando afferrasti con le 
due mani il mazzo e dentro ci affoncfàstl tutta 
la faccia, aspirando. La faccia risollevata pa- 
reva esangue e li occhi parevano alterati come 
da una specie di ebrietà.... 

— Segui, segui! — disse Elena, con la voce 
fievole, china sul parapetto, incantata dal fa- 
scino delle acque correnti. 

— Poi, sul divano: ti ricordi? Io ti ricoprivo 
il petto, le braccia, la faccia, con i fiori, oppri- 
mendoti. Tu risorgevi continuamente, porgendo 
la bocca, la gola, le palpebre socchiuse. Fra la 
tua pelle e le mie labbra sentivo le foglie fredde 
e molli. Se io ti baciavo il collo, tu rabì)rivi- 
divi in tutto il corpo, e tendevi le mani per te- 
nermi lontano. Oh, allora.... Avevi la testa af- 
fondata nei cuscini, il petto nascosto dalle rose, 
le braccia nude sino al gomito; e nulla era più 
amoroso e più dolce che il piccolo tremito delle 
tue mani pallide su le mie tempie.... Ti ricordi? 

— SI. Segui! 

Egli seguiva, crescendo nella tenerezza. Ine- 
briato delle sue parole, egli quasi perdeva la 
-conscienza di ciò che diceva. Elena, con le spalle 
volte alla luce, andavasi chinando alFamante. 
Ambedue sentivano a traverso le vesti il con- 
tatto indeciso dei corpi. Sotto di loro, le acque 
del fiume passavano lente e fredde alla vista; i 
grandi giunchi sottili, come capigliature, vi si 
incurvavano entro ad ogni soffio e fluttuavano 
largamente. 



— 8 — 

Poi non parlarlo più; ma, guardandosi, sen- 
tivano nelli orecchi un roinore continuo che sì 
prolungava indefinitamente portando seco una 
parte dell'essere loro, come se qualche cosa 
di sonoro sfuggisse dair intimo del lor cer- 
vello e si spandesse ad empire tutta la campa- 
gna circostante. . 

Elena, sollevandosi, disse: 

— Andiamo. Ho sete. Dove si può chiedere 
acqua ? 

Si diressero allora verso l'osteria romanesca, 
passatoli ponte. Alcuni carrettieri staccavano 
i giumenti, imprecando ad alta voce. Il chiaror 
dell'occaso feriva il gruppo umano ed equino, 
con viva forza. 

Come i due entraroLìo, nella gente delFoste- 
ria non avvenne alcun moto di meraviglia. Tre 
o quattro uomini febricitanti stavano intorno 
a un braciere quadrato, taciturni e giallastri. . 
Un bovaro, di pel rosso, sonnecchiava in un 
angolo, tenendo ancora fra i denti la pipa spenta. 
Due giovinastri, scarni e bieclii, giocavano a 
carte, fissandosi nelli intervalli con uno sguardo 
pieno d'ardor bestiale. E l'ostessa, una femmina 
pingue, teneva fra le braccia un bambino, cul- 
landolo pesantemente. 

Mentre Elena beveva l'acqua nel bicchiere di 
vetro, la femmina le mostrava il bambino, la- 
mentandosi. 

— Guardate, signora mia! Guardate, signora 
mia! 

Tutte le membra della povera creatura erano 
di una magrezza miserevole; le labbra violacee 
erano coperte di punti bianchicci; l'interno della 



— 9 — 

bocca era coperto come di grumi lattosi. Pa- 
reva quasi che la vita fosse di già fuggita da 
quel piccolo corpo, lasciando una materia su 
cui ora le muffe vegetavano. 

— Sentite, signora mia, le mani come sono 
fredde. Non può più bere; non può più inghiot- 
tire; non può più dormire.... 

La femmina singhiozzava. Li uomini febrici- 
tanti guardavano con occhi pieni di una im- 
mensa prostj^zione. Ai singhiozzi i due giovi- 
nastri fecero un atto d'impazienza. 

~ Venite, venite! — disse Andrea ad Elena, 
prendendole il braccio, dopo aver lasciato sul 
tàvolo una moneta. E la trasse fuori. 

Insieme, tornarono versoitT)onte. Il corso 
deirAniene orà^'anSavasi accendendo ai fuochi 
dell'occaso. Una linea scintillante attraversava 
l'arco; e in lontananza le acque prendevano 
un color bruno ma più lucido, come se sopra 
vi galleggiassero chiazze d'olio o di bitume. 
La campagna accidentata, simile ad una immen- 
sità di rovine, aveva una general tinta violetta. 
Verso l'Urbe il cielo cresceva in rossore. 

— Povera creatura! — mormorò Elena con 
suono profondo di misericordia, stringendosi al 
braccio d'Andrea. 

lì vento imperversava. Una torma di cornac- 
chie passò nell'aria accesa, in alto, schiamaz- 
zando. ' • 

Allora, d'improvviso, una specie di esaltazione 
sentimentale prese l'anima di quei due, in cons- 
petto della solitudine. Pareva che qualche cosa 
di tragico e di eroico entrasse nella loro pas- 
sione. I culmini del sentimento fiammeggiarono 



- 10 -- 

sotto l'influenza del tramonto tumultuoso. Elena 
si arrestò. 

— Non posso più, — ella disse, ansando. 
La carrozza era ancora lontana, immobile, 

nel punto dove essi l'avevano lasciata. 

— Ancora un poco. Elena! Ancora un poco! 
Vuoi ch'io ti porti? 

Andrea, preso da un impeto lirico infrenabile, 
si abbandonò alle parole. 

— Perchè ella voleva partire? Perchè ella vo- 
leva spezzare l'incanto? I loro destini omai non 
erano legati per sempre? Egli aveva bisogno 
di lei per vivere, delli occhi , della voce , del 
pensiero di lei.... Egli era tutto penetrato da 
quell'amore; aveva tutto il sangue alterato come 
da un veleno, senza rimedio. Perchè ella voleva 
fuggire? Egli si sarebbe avviticchiato a lei, 
l'avrebbe prima soffocata sul suo petto. No, 
non poteva essere. Mai! Mai! — 

Elena ascoltava, a testa bassa, affaticata con- 
tro il vento, senza rispondere. Dopo un poco, 
ella sollevò il braccio per far cenno al coc- 
chiere di avanzarsi. I cavalli scalpitarono. 

— Fermatevi a Porta Pia, — gridò la signora, 
salendo nella carrozza insieme all'amante. 

E con un movimento subitaneo si offerse al 
desiderio di lui che le baciò la bocca, la fronte, 
i capelli, li occhi, la gola, avidamente, rapida- 
mente, senza più respirare. 

— Elena! Elena! 

Un vivo bagliore rossastro entrò nella car- 
rozza, riflesso dalle case color di mattone. Si 
avvicinava nella strada il trotto sonante di molti 
cavalli. 



— 11 — 

Elena, piegandosi su la spalla dell'amante con 
una immensa dolcezza di .sommessione, disse: 

— Addio, amore! Addio ! Addio I 

Come ella si sollevò, a destra e a sinistra 
passarono a gran trotto dieci o dodici cava- 
lieri scarlatti tornanti dalla caccia della volpe. 
Uno, il duca di Beffi, passando rasente, si curvò 
in arcione per guardare nello sportello. 

Andrea non parlò più. Egli sentiva ora tutto 
il suo essere mancare in un abbattimento in- 
finito. La puerile debolezza della sua natura, 
sedata la prima sollevazione , gli dava ora un 
bisogno di lacrime. Egli avrebbe voluto pie- 
garsi, umiliarsi, pregare, muovere la pietà della 
donna con le lacrime. Aveva la sensazione con- 
fusa e ottusa d'una vertigine; e un freddo sot- 
tile gli assaliva la nuca, gli penetrava la radice 
dei capelli. 

— Addio, — rigete Elena. 

Sotto Tarco dellaTPòrta Pia la carrozza si fer- 
mava, perchè egli discendesse. 

Così dunque, aspettando, Andrea rivedeva 
nella memoria quel giorno lontano; rivedeva 
tutti i gesti, riudiva tutte le parole. Che aveva 
fatto egli, a pena scomparsa la carrozza di 
Elena verso le Quattro Fontane? Nulla, in ve- 
rità, di straordinario. Anche allora, come sem- 
pre, a pena lontano l'oggetto immediato da cui il 
suo spirito traeva quella specie di esaltazione fa- 
tua, egli aveva riacquistato quasi d'un tratto la 
tranquillità, la conscienza della vita comune, 
l'equilibrio. Era salito su una vettura publica 
per tornare a casa; là s'era messo l'abito nero, 
come ai solito, non dimenticando alcuna parti- 



— 12 — 

colarità di eleganza; ed era andato a pranzo 
da sua cugina, come in ogiii altro mercoledì, 
al palazzo Roccagiovine. Tutte le cose dell'esi- 
stenza esteriore avevano su lui un gran potere 
d'oblio , lo occupavano , lo eccitavano al godi- 
mento rapido dei piaceri mondani. 

Quella sera, in fatti, il raccoglimento gli era 
venuto assai tardi, quando cioè rientrando nella 
sua casa aveva veduto brillare sopra un tavolo 
il piccolo pettine di tartaruga dimenticato da 
Elena due giorni innanzi. Allora, in compenso, 
tutta la notte, aveva sofferto, e con molti arti- 
fìci del pensiero aveva acuito il suo dolore. 

Ma il momento si approssimava. L' orologio 
della Trinità de' Monti suonò le tre e tre quarti. 
Egli pensò, con una trepidazione profonda: " Fra 
pochi minuti Elena sarà qui. Quale atto io farò 
accogliendola? Quali parole io le dirà?,, 

L'ansia in lui era verace e l'amore per quella 
donna era in lui rinato veracemente; ma la 
espressione verbale e plastica de' sentimenti in 
lui era sempre così artificiosa, cosi lontana 
dalla semplicità e dalla sincerità, che egli ri- 
correva per abitudine alla preparazione anche 
ne' più gravi commovimenti dell'animo. 

Cercò d'imaginare la scena; comjxise alcune 
frasi; scelse con li occhi intorno il luogo più 
propizio al colloquio. Poi anche si levò per ve- 
dere in uno specchio se il suo volto era pal- 
lido, se rispondeva alla circostanza. E il suo 
sguardo, nello specchio, si fermò alle tempie, 
all'attaccatura dei capelli, dove Elena allora 
soleva mettere un bacio delicato. Apri le lab- 
bra per mirare la perfetta lucentezza dei denti 



— 13 — 

e la freschezza delle gengive, ricordando clie 
-un tempo ad Elena piaceva in lui sopra tutto 
la bocca. La sua vanità di giovine viziato ed 
effeminato non trascurava mai nell'amore al- 
cun effetto di grazia o di forma. Egli sapeva, 
neiresercizio dell'amore, trarre dalla sua bel- 
lezza il maggior possibile godimento. Questa 
felice attitudine del corpo e questa acuta ri- 
cerca del piacere a punto gli cattivavano l'a- 
nimo delle donne. Egli aveva in so qualche cosa 
di Don Giovanni e di Cherubino: sapeva essere 
l'uomo d'una notte erculea e l'amante timido, 
candido, quasi verginale. La ragione del suo 
potere stava in questo: che, nell'arte d'amare, 
egli non aveva ripugnanza ad alcuna finzione, 
ad alcuna falsità, ad alcuna menzogna. Gran 
parte della sua forza era nella ipocrisia. 

"Quale atto io farò accogliendola? Quali pa- 
role io le dirò? „ Egli si smarriva, mentre i mi- 
nuti fuggivano. Egli non sapeva già con quali 
disposizioni Elena sarebbe venuta. 

L'aveva incontrata la mattina innanzi per la 
via de' Condotti, mentre ella guardava nelle ve- 
trine. Era tornata a Roma da pochissimi giorni, 
dopo una lunga assenza oscura. L'incontro im- 
provviso aveva dato ad ambedue una commo- 
zione viva; ma la publìcità della stradali aveva 
costretti ad un riserbo cortese, cerimonioso, 
quasi freddo. Egli le aveva detto, con un'aria 
grave, un po' triste, guardandola nelli occhi: — 
Ho tante cose da raccontarvi, Elena. Venite 
da me, domani? Nulla è mutato nel buen re- 
Uro. — Ella aveva risposto, semplicemente: 
— Bene; verrò. Aspettatemi alle quattro, circa. 



— Il — 

Ho anch'io qualche cosa da dirvi. Ora lascia- 
temi. — 

Ella aveva accettato subito l'invito, senza esi- 
tazione alcuna, senza metter patti, senza mo- 
strar di dare importanza alla cosa. Una tal 
prontezza aveva da prima suscitato in Andrea 
non so qual preoccupazione vaga. Sarebbe ella 
venuta come uu'amica o come un'amante? Sa- 
rebbe venuta a riallacciare l'amore o a rom- 
pere ogni speranza? In quei due anni che era 
mai accaduto nell'animo di lei? Andrea non 
sapeva; ma gli durava ancora la sensazione 
avuta dallo sguardo di lei, nella strada, quando 
egli erasi inchinato a salutarla. Era pur sem- 
pre il medesimo sguardo, cosi dolce, così pro- 
fondo, così lusinghevole, tra i lungliissimi cigli. 

Mancavano due o tre minuti all'ora. L'ansia 
dell'-aspettante c rebb e a tal punto ch'egli cre- 
deva di soffocare. Andò alla finestra, di nuovo, 
e guardò verso le scale della Trinità. Élena, un 
tempo, saliva per quelle scale ai convegni. Met- 
tendo il piede su l'ultimo gradino, si soffermava 
un istante; poi traversava rapida quel tratto 
di piazza ch'è d'innanzi alla casa dei Casteldel- 
flno. Si udiva il suo passo un poco ondeggiante 
risonare sul lastrico , se la piazza era silen- 
ziosa. 

L'orologio battè le quattro. Giungeva dalla 
piazza di Spagna e dal Pincio il romore delle 
vetture. Molta gente camminava, sotto gli al- 
beri, d'innanzi alla Villa Medici. Due donne sta- 
vano sul sedile di pietra, sotto la chiesa, a guar- 
dia di alcuni bimbi che correvano in torno 
l'obelisco. L'obelisco era tutto roseo, investito 



— 15 — 

dal sole declinante; e segnava un'ombra lunga, 
obliqua, un po' turchina. L'aria diveniva rigida, 
come più s'appressava il tramonto. La città, in 
fondo, si tingeva d'oro, contro un cielo palli- 
dissimo sul quale già i cipressi del monte Ma- 
rio si disegnavan neri. 

Andrea trasalì Vide un'ombra apparire in 
cima alla piccola scala che costeggia la casa 
dei Casteldclflno e discende su la piazzetta Mi- 
gnanelli. Non era Elena; ma una signora che 
voltò per la via Gregoriana, camminando adagio. 

" S'ella non venisse? „ dubitò, ritraendosi dalla 
finestra. E, nel 'ritrarsi dall' aria fredda, senti 
più molle il tepore della stanza, più acuto il 
profumo del ginepro e delle rose, più miste- 
riosa l'ombra delle tende e delle portiere. Pa- 
reva che in quel momento la stanza fosse tutta 
pronta ad accogliere la donna desiderata. Egli 
pensò alla sensazione che Elena avrebbe avuta 
entrando. Certo, ella sarebbe stata vinta da 
quella dolcezza così piena di memorie; avrebbe 
d' un tratto perduta ogni nozione della realità, 
del tempo; avrebbe creduto di trovarsi ad uno 
de' convegni abituali, di non aver mai interrotta 
quella pratica di voluttà, d'esser pur sempre la 
Elena d' una volta. Se il teatro dell' amore era 
immutato, perchè sarebbe mutato l'amore ? Certo, 
ella avrebbe sentita la profonda seduzione delle 
cose una volta pilette. 

Allora copaittciò neh' aspettante una nuova 
tortura. Gli spiriti acuiti dalla consuetudine della 
contemplazione fantastica e del sogno poetico 
danno alle cose un'anima sensibile e mutabile 
come l'anima umana; e leggono in ogni cosa, 



— 16 - 

nelle forme, ne' colori, ne' suoni, ne' profumi, 
un simbolo transparente, l'emblema d'un senti- 
mento o d'un pensiero; ed in ogni fenomeno, 
in ogni combinazion di fenomeni credono in- 
dovinare uno stato psichico, una significazione 
morale. Talvolta la visione è cosi lucida che 
produce in quelli spiriti un'angoscia: si sen- 
tono essi come soffocare dalla pienezza della' 
vita rivelata e si sbigottiscono de' loro stessi, 
fantasmi. 

Andrea vidfì nell' aspetto delle cose in torno 
riflessa l' ansietà sua; e come il suo desiderio 
si sperdeva inutilmente nell'attesa e i suoi nervi 
s'indebolivano, cosi parve a'iui che l'essenza 
direi quasi erotica delle cose anche vaporasse 
e si dissipasse inutilmente. Tutti quelli oggetti, 
in mezzo a' quali egli aveva tante volte amato 
e goduto e sofferto, avevano per lui acquistato 
qualche cosa della sua sensibilità. Non soltanto 
erano testimoni de' suoi amori, de' suoi piaceri, 
delle sue tristezze, ma eran partecipi. Nella sua 
memoria, ciascuna forma, ciascun colore ar- 
monizzava con una imagine muliebre, era una 
nota in un accordo di bellezza, era un elemento 
in una estasi di passione. Per la natura del 
suo gusto, egli ricercava nelli amori un gau- 
dio molteplice: il complicato diletto di tutti i 
sensi, r alta commozione intellettuale , gli ab- 
. bandoni del sentimento, gli impeti della bruta- 
lità. E poiché egli ricercava con arte, come un 
estetico, traeva naturalmente dal mondo delle 
cose molta parte della sua ebrezza. Questo de- 
licato istrione non comprendeva la comedia 
dell'amore senza gli scenarii. 



— 17 - 
Perciò la sua casa era un perfettissimo tea- 
tro; ed egli era un abilissimo apparecciiiatore. 
Ma nell'artificio quasi sempre egli metteva tutto 
sé; vi spendeva la riccliezza del suo spirito 
largamente; vi si obliava cosi che non di rado 
rimaneva ingannato dal suo stesso inganno 
insidiato dalla sua stessa insidia, ferito dalle 
sue stesse armi, a simiglianza d'un incantatore 
Il qual fosse preso nel cercliio stesso del suo 
incantesimo. 

Tutto, in torno, aveva assunto per lui quella 
inesprimibile apparenza di vita che acquistano 
ad esempio, gli arnesi sacri, le insegne d' unii 
religione, gli strumenti d'un culto, ogni figura 
su cui si accumuli la meditazione uinaira o 
da cui 1' imaginazione umana poggi a uin 
qualche ideale altezza. Come una fiala rende 
dopo lunghi anni il profumo dell'essenza che 
vi fu un giorno contenuta, cosi certi og'-etti 
conservavano pur qualche vaga parte dell'amore 
onde h aveva illuminati e penetrati quel fanta- 
stico amante. E a luì veniva da loro una inci- 
tazion. tanto forte ch'egli n'era turbato talvolta 
come dalla presenza d'un potere soprannaturale 

Pareva, in véro, ch'egli conoscesse direi quasi 
la virtualità afrodisiaca latente in ciascuno di 
quelli oggetti e la sentisse in certi momenti 
sprigionarsi e svolgersi e palpitare in torno a 
lui. Allora, s'egli era nelle braccia dell'amata 
dava a sé stesso ed al corpo ed all'anima di 
lei una di quelle supreme feste il cui solo ri- 
cordo basta a rischiarare una intiera vita. Ma 
s'egli era solo, un'angoscia grave lo stringeva 
un rammarico inesprimibile , al pensiero ciiè 

Il Piacere, 



y 



8 



— 18r- 

quel grande e raro apparato cVamore si perdeva 
inutilmente. 

Inutilmente! Nelle alte coppe fiorentine le 
rose, anch' esse aspettanti , esalavano tutta la 
intima lor dolcezza. Sul divano, alla parete, i 
versi ar?:entei in gloria della donna e del vino, 
frammisti cosi armoniosamente agli indefinibili 
colori serici nel tappeto persiano del XVI se- 
colo, scintillavano percossi dal tramonto, in un 
angolo schietto disegnato dalla finestra, e ren- 
de van più diafana Tombra vicina, propagavano 
un bagliore ai cuscini sottostanti. L'ombra, 
ovunque, era diafana e ricca, quasi direi ani- 
mata dalla vaga palpitazion luminosa che hanno 
i santuarii oscuri ov'ò un tesoro occulto. Il 
fuoco nel camino crepitava; e ciascuna delle 
sue fiamme era, secondo l'imagine di Percy 
Shelley, come una gemma disciolta in una 
luce sempre mobile. Pareva all'amante che ogni 
forma, che ogni colore, che ogni profumo ren- 
desse il più delicato flore della sua essenza, in 
quell'attimo. Ed ella non veniva! Ed ella non 
veniva! 

Sorse allora nella mente di lui, per la prima 
volta, il pensiero del marito. 

Elena non era più libera. Aveva rinunziato 
alla bella libertà della vedovanza, passando in 
seconde nozze con un gentiluomo d'Inghilterra, 
con un lord Humphrey Heathfleld, alcuni mesi 
dopo l'improvvisa partenza da Roma. Andrea 
in fatti si ricordava di aver visto l'annunzio 
del matrimonio in una cronaca mondana, nel- 
l'ottobre del mille ottocento ottanta cinque; e 
d'aver sentito fare su la nuova lady Helen 



— 19 — 

Pleathfleld una infinità di conienti per tutte le 
villeggiature di quelFautunno romano. Anche si 
ricordava di avere incontrato una diecina di 
volte, nel precedente inverno, quel lord Hum- 
phrey ai sabati della principessa Giustiniani- 
Bandini e nelle vendite publiche. Era un uomo 
di quarantanni, d'una biondezza cinerea, calvo 
su le tempie, quasi esangue, con due occhi 
chiari ed acuti, con una gran fronte sporgente 
solcata di vene. Il suo nome, Heathfleld, era 
ben quello del luogotenente generale che fu 
Teroe della celebre difesa di Gibilterra (1779-83), 
reso immortale anche dal pennello di Joshua 
Reynolds. 

Qual parte aveva quell'uomo nella vita di 
Elena? Da quali legami, oltre che dalle nozze, 
era Elena legata a colui ? Quali transformazioni 
aveva operato in lei il contatto materiale e spi- 
rituale del marito? 

Li enigmi sonaani-jd'un tratto neiranìmo di 
Andrea, tumultuariamente. In mezzo al tumulto, 
gli appapie— iietta e precisa V imaginc del con- 
nubio fisico di que'due; e il dolore fu così in- 
sopportabile ch'egli si levò col balzo istintivo 
d'un uomo il qual si senta d'improvviso fe- 
rire in un membro vitale. Attraversò la stanza, 
uscì neir anticamera, origliò alla porta ch'egli 
aveva lasciata socchiusa. Eran quasi le cinque 
meno un quarto. 

Dopo un poco, egli udì su per le scale un 
passo, un fruscio di vesti, un respiro affaticato. 
Certo, una donna saliva. Tutto il sangue gli si 
mosse con tal veemenza, che, snervato dalla 
lunga aspettazione, egli credeva di smarrire le 



— 20 - 

forze e di cadere. Ma pure udì il suono del 
piede feminile su li ultimi gractìm, un respiro 
più lungo, il passo sul pianerottolo, su la so- 
glia. Elena fìntrò. 

— Olì, Elena! Finalmente. 

Era in quelle parole cosi profonda l'espres- 
sione deir angoscia durata che alla donna ap- 
parve su le labbra un indefinibile sorriso, misto 
di misericordia e di piacere. Egli le prese la 
destra, ch'era senza guanto, traendola verso 
la stanza. Ella ansava ancora; ma aveva per 
tutto il volto diffusa una lieve fiamma, sotto 
il velo nero. 

— Perdonatemi, Andrea. Ma non ho potuto 
liberarmi prima d'ora. Tante visite... tanti bi- 
glietti da restituire.... Sono giornate faticose. 
Non ne posso più. Come fa caldo qui! Che 
profumo! 

Ella stava ancora in piedi, nel mezzo della 
stanza; un po' titubante e preoccupata, se bene 
parlasse rapida e leggera. Un mantello di panno 
Carmélite, con maniche nello stile dell'Impero 
tagliate dall'alto in larghi sgonfi, spianate e ab- 
bottonate al polso, con un immenso bavero di 
volpe azzurra per unica guarnitura, le copriva 
tutta la persona senza toglierle la grazia della 
snellezza. Ella guardava Andrea, con li occhi 
pieni di non so che sorriso tremulo che ne ve- 
lava l'acuta indagine. Disse: 

— Voi siete un poco mutato. Non saprei dirvi 
in che. Avete ora nella bocca, per esempio, 
qualche cosa di amaro ch'io non conosceva. 

Disse queste parole con un tono di famiglia- 
rità affettuosa. La voce di lei, risonando nella 



— 21 — 

stanza, dava ad Andrea un diletto cosi vivo 
ch'egli esclamò: 

— Parlate, Elena; parlate ancorai 
Ella r ise. E domand ò: 

— Perchè? 

Egli rispose, prendendole la mano: 

— Voi lo sapete. 

Ella ritrasse la mano; e guardò il giovine 
fin dentro li occhi. "^ 

— Io non so più nulla. 

— Voi siete dunque mutata? 

— Molto mutata. 

Già il " sentimento „ li traeva ambedue. La 
risposta di Elena chiariva d'un tratto il pro- 
blema* Andrea comprese; e, rapidamente ma 
precisamente, per un fenomeno d'intuizione non 
raro in certi spiriti esercitati all'analisi dell'es- 
sere interiore, intraxids^'attitudine morale della 
visitatrice e lo svolgimento della scena che 
dovea seguire. Egli però era già tutto invaso 
dalla malia di quella donna, come una volta. 
Inoltre, la curiosità lo pungeva forte. Disse: 

— Non sedete? 

— Sì, un momento. • 

— Là, su la poltrona. 

— Ah , la mia poltrona! — ella stava per 
dire , con un moto spontaneo, poiché l' aveva 
riconosciuta; ma si trattenne. 

Era una seggiola ampia e profonda, rico- 
perta d'un cuoio antico, sparso di chimere pal- 
lide a rilievo, in sul gusto di quello che copre 
le pareti d'una stanza nel palazzo Chigi. Il cuoio 
aveva preso quella tinta calda e opulenta che 
ricorda certi fondi di ritratti veneziani, o un 



— 22 — 

bel bronzo conservante a pena una traccia di 
doratura o una scaglia di tartaruga fina da 
cui trasparisca una foglia d'oro. Un gran cu- 
scino, tagliato in una dalmatica, d' un colore 
assai disfatto, di quel colore che i setaiuoli 
fiorentini chiamavano rosa di gruogo, rendeva 
molle la spalliera. 

Elena sedette. Posò sull'orlo della tavola da 
tè il guanto destro e il portabiglietti ch'era una 
sottile guaina -d'argento liscio con sopra incise 
due giarrettiere allacciate, recanti un motto. 
Quindi si tolse il velo, sollevando le l3raccia 
per iscioghere il nodo dietro la testa; e l'atto 
elegante destò qualche onda lucida nel vehuto: 
alle ascelteTTtmgo le maniche, lungo il busto. 
Poiché il calore del camino era soverchio, ella 
si fece schermo con la mano nuda che s'illu- 
minò come un alabastro rosato: li anelli nel 
gesto scintillarono. Ella disse: 

— Coprite il fuoco; vi prego. Brucia troppo. 

— Non vi piace più la fiamma? Ed eravate, 
un tempo, una salamandra! Questo camino è 
memore.... 

— Non movete le memorie, — ella inter- 
ruppe. — Coprite dunque il fuoco, e accendete 
un lume. Io farò il tè. 

— Non volete togliervi il mantello ? 

— No, perchè debbo andar via presto. È già 
tardi. 

— Ma soffocherete. 

Ella si levò, con un piccolo atto d'impazienza. 

— Aiutatemi, allora. 

Andrea sentì, nel toglierle il mantello, il pro- 
fumo di lei. Non era più quello d'una volta; 



j 



— 23 — 

ma era d'una tal bontà che gli giunse fino ai 
precordii. " 

— Avete un altro profumo, — egli disse, con 
un accento singolare. 

Ri spose ella, semplice mente : 

— SI. Vi piace ? 

Andrea, ancora tenendo il mantello fra le 
mani, affondò il volto nella pelliccia che ornava 
il collo e che più quindi era profumata dal con- 
tatto della carne e de* capelli di lei. Poi chiese : 

— Come si chiama? 
— - È senza nome. 

Ella di nuovo sedette su la poltrona, entrando 
nel chiaror della fiamma. Aveva un abito nero, 
tutto composto di merletti in mezzo a cui bril- 
lavano perline innumerevoli, nere e d'acciaio. 

Il crepuscolo moriva contro i vetri. Andrea 
accese su i candelabri di ferro certe candele 
attorte, di colore aranciato molto intenso. Poi 
trasse d'innanzi al caminetto il parafuoco. 

Ambedue, in quell'intervallo di silenzio, erano 
nell'animo perplessi. Elena non aveva la coii- 
scienza esatta del momento, nò la sicurezza di 
sé; pur tentando uno sforzo, non riusciva a 
riafferrare il suo proposito, a raccogliere ìe suo 
intenzioni, a riprendere la sua volontà. D'in- 
nanzi a quell'uomo a cui un tempo l'aveva 
stretta una cosi alta passione, in quel luogo dove 
ella aveva vissutola sua più ardente vita, sen- 
tiva a poco a poco tutti i pensieri vacillare, dis- 
solversi, dileguarsi. Omai il suo spirito stava per 
entrare in quello stato delizioso, direi quasi di 
fluidità sentimentale, in cui riceve ogni movi- 
mento, ogni attitudine, ogni forma dalle vicende 



— 24 — 

esterne, come un vapore aereo dalle mutazioni 
dell'atmosfera. Esitava, prima di abbandouarvisi. 

Andrea disse, piano, quasi umile: 

— Va bene, così? 

Ella gli sorrise, senza rispondere, poiché 
quelle parole le avevano dato un diletto inde- 
finibile, quasi un tremolìo di dolcezza a sommo 
del petto. Incominciò la sua opera delicata. 
Accese la lampada sotto il vaso dell'acqua; 
aprì la scatola di lacca , dov' era conservato il 
tè, e mise nella porcellana una quantità misu- 
rata d' aroma ; poi preparò due tazze. I suoi 
gesti erano lenti e un pocp irresoluti, come di 
chi operando abbia l'animo rivolto ad altro og- 
getto; le sue mani bianche e purissime ave- 
vano nel muoversi una leggerezza quasi di 
farfalle, non parendo toccare le cose ma a pena 
sfiorarle ; dai suoi gesti, dalle sue mani, da ogni 
lieve onduìamento del suo corpo usciva non so 
che tenue emanazion di piacere e andava a 
blandire il senso dell'amante. 

Andrea, seduto da presso, la guardava con 
li occhi un poco socchiusi, bevendo per le pu- 
pille il fascino voluttuoso che nasceva da lei. 
Era come se ogni moto divenisse per lui tan- 
gibile idealmente. Quale amante non ha pro- 
vato questo inesprimibile gaudio, in cui par 
quasi che la potenza sensitiva del tatto si af- 
fini così da avere la sensazione senza la im- 
mediata materialità del contatto? 

Ambedue tacevano. Elena s'era abbandonata 
sul cuscino : aspettava che 1' acqua bollisse. 
Guardando la fiamma azzurra della lampada, 
toglieva dalle dita li anelli, e se li rimetteva di 






— 25 — 

continuo, smarrita in un'apparenza di sogno. 
Non era un sogno^ ma come una rimembranza 
vaga, ondeggiante, confusa, fuggevole. Tutte le 
memorie dell'amor passato le risorgevano nello 
spirito, ma senza chiarezza: e le davano una 
impressione incerta ch'ella non sapeva se fosse 
un piacere o un dolore. Pareva come quando 
da molti fiori estinti, de' quali ciascuno ha per- 
duta ogni singolarità di colori e di effluvi, na- 
sce una comune esalazione in cui non è pos- 
sibile riconoscere i diversi elementi. Pareva 
ch'ella portasse in sé l'ultimo alito dei ricordi 
già spirati, l'ultima traccia delle gioie già scom- 
parse, l'ultimo risentimento della felicità già 
morta, qualclie cosa di simile a un vapor dub- 
bio da cui emergessero imagini senza nome, 
senza contorno, interrotte. Ella non sapeva so 
fosse un piacere o un dolore; ma a poco a poco 
quell'agitazion misteriosa, quella inquietudine 
indefinibile aumentavano e le gonfiavano il cuore 
di dolcezza e di amarezza. I presentimenti oscuri, 
i turbamenti occulti, i segreti rimpianti, i timori 
superstiziosi, le aspirazioni combattute, i dolori 
soffocati, i sogni travagliati, 1 desiderii non ap- 
pagati, tutti quei torbidi elementi che compone- 
vano l'interior vita di lei ora si rimescolavano 
e tempestavano. 
.Ella taceva, tutta raccolta in sé. Mentre il suo 
cuore quasi traboccava, ella godeva accumu- 
larvi ancora col silenzio la commozione. Par- 
lando, ella l'avrebbe dispersa. 

Il vaso dell'acqua incominciò a levare il bol- 
lore pianamente. 

Andrea su. la sedia bassa tenendo il gomito 



— 26 — 

poggiato al ginocchio e il mento nella palma, 
guardava ora la bella creatura con tale inten- 
sità ch'ella, pur non volgendosi, sentiva.su la 
sua persona quella persistenza e ne aveva quasi 
un vago malessere fisico. Andrea, guardandola, 
pensava: " Io Iio posseduta questa donna, un 
giorno. „ Egli ripeteva a sé stesso V afferma- 
zione, per convincersi; e faceva, per convin- 
cersi, uno sforzo mentale, richiamava alla me- 
moria una qualche attitudine di lei nel piacere, 
cercava di rivederla fra le sue braccia. La cer- 
tezza del possesso gli sfuggiva. Elena gli pareva 
una donna nuova, non mai gcduta, non mai 
stretta. 

Ella era, in verità, ancor più desiderabile 
che una volta. L'enigma quasi direi plastico 
della sua bellezza era ancor più oscuro e atti- 
rante. La sua testa dalla fronte breve, dal naso 
diritto, dal sopracciglio arcuato, d'un disegno 
cosi puro, così fermo, cosi antico , che pareva 
essere uscita dal cerchio d' una medaglia sira- 
cusana, aveva nelli occhi e nella bocca un sia- 
golar contrasto di espressione: queir espres- 
sion passionata, intensa, ambigua, sopraumana, 
che solo qualche moderno spirito, impregnato 
di tutta In profonda corruzione dell'arte, ha sa- 
puto infondere in tipi di donna immortali come 
Monna Lisa e Nelly 0' Brien. 

" Altri ora la possiede , „ pensava Andrea , 
guardandola. " Altre mani la toccano, altre lab- 
bra la baciano.,, E, mentre egli non giungeva 
a formar nella fantasia l'imagine dell'unione dì 
sé con lei, vedeva nuovamente in vece, con 
implacabile precisione, l'altra imagine. E una 



j 



— 27 — 

smania Tinvadeva, di sapere, di scoprire, d'in- 
terrogare, acutissima. 

Elena s'era chinata al tavolo, poiché il vapore 
fuggiva, per la commessura del coperchio, dal 
vaso bollente. Versò a pena un poco d' acqua 
sul tè; poi mise due pezzi di zucchero in una 
sola tazza; poi versò sul tè altra acqua; poi 
spense la fiamma azzurra. Ella fece tutto que- 
sto con una cura quasi tenera, ma senza mai 
volgersi ad Andrea. L'interno tumulto risolve- 
vasi ora in un intenerimento cosi molle ch'ella 
si sentiva chiudere la gola e inumidire li occhi; 
e non poteva resistere. Tanti pensieri contrarli, 
tante contrarie agitazioni e alterazioni dell' a- 
nimo si raccoglievano ora in una lacrima. 

Ella, per un gesto, urtò il portabiglietti d'ar- 
gento, che cadde sul tappeto. Andrea lo raccolse, 
e guardò le due giarrettiere incise. Portava 
ciascuna un motto sentimentale: From Dream- 
land — A stranger ìuVier; Dal Paese del So- 
gno — Straniera qui. 

Com'egli levava li occhi. Elena gli offerì la 
tazza fumante , con un sorriso un poco velato 
dalla lacrima. 

Vide^egli quel velo; e innanzi a quell'inaspet- 
tato segno di tenerezza Ju, invaso da un tale im- 
peto d'amore e di riconoscenza che posò la tazza, 
s'inginocchiò, p rese la mano d' Elena, sopra vi 
mise la bocca. 

— " Elena! Elena! 

Le parlava a voce bassa , in ginocchio , cosi 
da vicino che pareva volesse beverne l'alito., 
L'ardore era sincero, mentre le parole talvolta 
mentivano. — " Egli l'amava , l'aveva sempre 



' - 28 — 

amata, non aveva mai mai mai potuto dimen- 
ticarla! Aveva sentito, rincontrandola, tutta la 
sua passione insorgere con tal violenza che 
n'aveva avuto quasi terrore: una specie di t^- 
rore ansioso, come s'egli avesse intravisto, in un 
lampo, lo sconvolgimento di tutta la sua vita. „ 

— Tacete! Tacete! — disse Elena, con il volto 
atteggiato di dolore, pallidissima. 

Andrea seguitava , sempre in ginocchio , ac- 
cendendosi neir imaginazione del sentimento. 
— ^Egli aveva sentito trascinar via da lei, in 
quella fuga improvvisa, la maggiore e miglior 
parte di sé. Dopo, egli non sapeva dirle tutta la 
miseria dei suoi giorni, l'angoscia de' suoi rim- 
pianti, l'assidua implacabile divorante sofferenza 
interiore. La tristezza cresceva, rompendo ogni 
diga. Egli n'era sopraffatto. La tristezza era per 
lui in fondo a tutte le cose. La fuga del tempo 
gli era un supplizio insopportabile. Non tanto 
egli rimpiangeva i giorni felici quanto si doleva 
de' giorni che ora passavano inutilmente per la 
felicità. Quelli almeno gli avean lasciato un ri- 
cordo: questi gli lasciavano un rammarico pro- 
fondo, quasi un rimorso.... La sua vita si con- 
sumava in sé stessa, portando in sé la flamnia 
inestinguibile d'un sol desiderio, l'incurabile dis- 
gusto d'ogni altro godimento. Talvolta lo assali- 
vano impeti di cupidigia quasi rabbiosi, disperati 
ardori verso il piacere; ed era come una ri- 
bellion violenta del cuore non saziato, come 
un sussulto della speranza che non si rasse- 
gnava a morire. Talvolta anche gli pareva d'esser 
ridotto al nulla; e rabbrividiva innanzi ai grandi 
abissi vacui del suo essere: di tutto l'incendio 



— 29 — 

della sua giovinezza non gli restava che un 
pugno di cenere. Talvolta anche, a simiglianza 
d'uno di que' sogni che si dileguano su l'alba, 
tutto il suo passato, tutto il suo presente si dis- 
solvevano; si distaccavano dalla sua conscienza 
e cadevano, come una spoglia fragile, come una 
veste vana. Egli non si ricordava più di nulla, 
come un uomo escito da una lunga infermità, 
come un convalescente stupefatto. Egli al fine 
obliava;' sentiva Tanima sua entrar dolcemente 
nella morte.... Ma , d' improvviso , su da quella 
specie di tranquillità obliosa scaturiva un nuovo 
dolore e l'idolo abbattuto risorgeva più alto come 
un germe indistruttibile. Ella, ella era ridolo che 
seduceva in lui tutte le volontà del cuore, rom- 
peva in lui tutte le forze dell'intelletto, teneva in 
lui tutte le più segrete vie dell'anima chiuse ad 
ogni altro amore, ad ogni altro dolore, ad ogni 
altro sogno, per sempre, per sempre....,, 

Andrea mentiva; ma la sua eloquenza era 
cosi calda, la sua voce era cosi penetrante, il 
tócco delle sue mani era cosi amoroso, che 
Elena fu invasa da una infinita dolcezza* 

— Tacil — ella disse. — Io non debbo ascol- 
tarti; io non sono più tua; io non potrò essere 
tua più mai. Taci! Tacil 

— No, ascoltami. 

— Non voglio. Addio. Bisogna ch'io vada. 
Addio, Andrea. È già tardi, lasciami. 

Ella sviluppò la mano dalla stretta del gio- 
vine; e, superando ogni interno languore, fece^ 
atto di levarsi. 

— Perchè dunque sei venuta? ~ chiese egli, 
con la voce un po'roca, impedendole quell'atto. 



— 30 - 

Se bene la violenza fosse lievissima, ella cor- 
rugò i sopraccigli, ed esitò prima di rispondere. 

— Son venuta — ella rispose, con una certa 
lentezza misurata, guardando l'amante nelli oc- 
chi, — son venuta perchè tu m' hai chiamata. 
Per Tamore d'una volta, per il modo con cui 
quell'amore fu rotto, per il lungo silenzio oscuro 
della lontananza, io non avrei potuto senza du- 
rezza ricusare l'invito. E poi, io voleva dirti quel 
che t'iio detto: ch'io non sono più tua, che non 
potrò essere tua più mai. Voleva dirti questo, 
lealmente, per evitare a me e a te qualunque 
inganno doloroso, qualunque pericolo, qualun- 
que amarezza, nell'avvenire. Hai inteso? 

Andrea chinò il capo, quasi su le ginocchia 
di lei, in silenzio. Ella gli toccò i capelli, col 
gesto un tempo familiare. 

— E poi — seguitò , con una voce che mise 
a lui un brivido in tutte le fibre — e poi.... voleva 
dirti ch'io ti amo, ch'io ti amo non meno d'una 
volta, che ancora tu sei l'anima dell'anima mia, 
e che io voglio essere la tua sorella più cara, 
la tua amica più dolce. Hai inteso? 

Andrea non si mosse, Ella prendendo le tem- 
pie di lui fra le sue mani, gli sollevò la fronte; 
lo costrinse a guardarla nelli occhi. 

— Hai inteso ? — ripetè, con una voce anche 
più tenera e più sommessa. 

I suoi occhi, all'ombra de'lunghi cigli, pare- 
vano come suffusi d'un qualche olio purissimo 
e sottilissimo. La sua bocca , un poco aperta , 
aveva nel labbro superiore un piccolo tremito. 

-^ No; tu non mi amavi, tu non mi ami! — 
ruppe in fine Andrea, toghendosi dalle tempie 



j 



— 31 — 

le mani di lei e traendosi in dietro, poiché sen- 
tiva già nelle vene il fuoco insinuante ch'esa- 
lavano anche involontariamente quelle pupille 
e provava più acre il dolore d'aver perduto il 
possesso materiale della bellissima donna. — 
Tu non mi amavi! Tu, allora, avesti cuore d'uc- 
cidere l'amor tuo, d'improvviso, quasi a tradi- 
mento, mentre ti dava la sua ebrezza più forte. 
Tu mi fuggisti-^ tu mi abbandonasti , tu mi la- 
sciasti solo, sbigottito, tutto doloroso, a terra, 
mentre io era ancora accecato di promesse. Tu 
non mi amavi, tu non mi ami! Dopo una lonta- 
nanza cosi lunga, piena di misteri, muta e ine- 
sorabile; dopo una cosi lunga attesa, in cui ho 
consunto il flore della mia vita a nutrire una 
tristezza che m'era cara perchè mi veniva da 
te; dopo tanta felicità e dopo tanta sciagura, 
ecco, tu rientri in un luogo dove ogni cosa per 
noi custodisce un ricordo ancora vivo, e mi 
dici soavemente: " Io non sono più tua. Addio. „ 
Ah, tu non mi ami! 

— Ingrato! Ingrato! — esclamò Elena, ferita 
dalla voce quasi irosa del giovine. — Che sai 
tu di quel ch'è accaduto, di quel ch'io ho sof- 
ferto? Che sai? 

— Io non so nulla, io non voglio nulla sapere 
— rispose Andrea, duramente, involgendola 
d' uno sguardo un po' torbido , in fondo a cui 
tralucevano i suoi desideri! esasperati. — Io so 
che tu fosti mia, un giorno, tutta quanta, con 
un abbandono senza ritegno , con una voluttà 
senza misura, come non mai alcuna altra donna; 
e so che né il mio spirito nò la mia carne di- 
menticheranno mai quella ebrezza.... 



— 32 - 

— Taci! 

— Che fa a me la tua pietà di sorella? Tu, 
contro il tuo volere , me la offri guardandomi 
con occhi d'amante, toccandomi con mani mal 
sicure. Troppe volte ho veduto i tuoi occhi spen- 
gersi nel gaudio ; troppe volte le tue mani m'haii 
sentito rabbrividire. Io ti desidero. 

Incitato dalle sue stesse parole, egli la strinse 
forte ai polsi ed appressò la sua faccia a quella 
di lei cosi ch'ella ebbe in su la bocca il caldo 
alito. 

— Io ti desidero, come non mai — seguitò 
egli, cercando d'attirarla al suo bacio, circon- 
dandole con un braccio il busto. — Ricordati! 
Ricordati! 

Elena si levò respingendolo. Tremava tutta. 

— Non voglio. Intendi? 

Egli non intendeva. Si riavvicinava ancora, 
con le braccia tese, per prenderla: pallidissimo, 
risoluto. 

— Soffriresti tu, — gridò ella con la voce un 
po' soffocata, non potendo patire la violenza — 
soffriresti tu di spartire con altri il mio corpo! 

Ella aveva profferita quella domanda crudele, 
senza pensare. Ora, con li occhi molto aperti, 
guardava l'amante: ansiosa e quasi sbigottita, 
come chi per salvarsi abbia vibrato un colpo 
senza misurarne la forza, e tema di aver ferito 
troppo nel profondo. 

L'ardore di Andrea cadde d'un tratto. E gli si 
dipinse sul volto un dolor cosi grave che la 
donna n'ebbe al cuore una fitta. 

Andrea disse, dopo un intervallo di silenzio; 

— Addio. 



j 



In quella sola parola era raiiiarezza di tutto 
le altre parole ch'egli aveva ricacciate indietro. 
Elena rispose dolcemente: 

— Addio. Perdonami. 

Ambedue sentirono la necessità di chiudere, 
per quella sera, il colloquio periglioso. L'uno 
assunse una forma di cortesia esteriore quasi 
esagerata. L'altra diveime anche più dolce, quasi 
umile; e l'agitava un tremito incessante. 

Prese ella di su la sedia il suo mantello. An- 
drea l'aiutò, con maniere prerhurose. Come ella 
non giungeva a mettere un braccio in una ma- 
nica, Andrea la guidò, appena toccandola; quindi 
le porse il cappello e il velo. 

— Volete andare di là, allo specchio? 

— No, grazie. 

Ella andò verso la parete, a fianco del cami- 
netto, ove pendeva un piccolo specchio antico 
dalla cornice ornata di figure scolpite con uno 
stile cosi agile e franco che parevano, più tosto 
che nel legno, formate in un oro malleabile. Era 
un'assai leggiadra cosa, uscita certo dalle mani 
d'un delicato quattrocentista per una Mona Amor- 
rosisca o per una Laldomine. Molte volte, nel 
tempo felice. Elena s'era messo il velo d'innanzi 
a quella lastra offuscata e maculata che aveva 
apparenza d'un'acqua torba, un poco verdastra. 
Ora, si risovveniva. 

Quando vide la sua imagine apparire in quel 
fondo, ebbe un'impressione singolare. Un'onda 
di tristezza, più densa, le traversò lo spirito. Ma 
non parlò. 

Andrea la guardava, con occhi intenti. 

Come fu pronta, ella disse: 

TI Piacere. 3 



— 34 — 

— Sarà molto tardi. 

— Non molto. Saranno le sei, forse. 

— Io ho licenziata la mia carrozza — ella 
su^rgiLuise. — Vi sarei tanto grata se mi face- 
ste prendere una vettura chiusa. 

— Permettete ch'io vi lasci qui sola, un mo- 
meiilof II mio domestico è fuori. 

Elhi assenti. 

— Date voi stesso Tindirizzo al vetturino, vi 
pre^n: — Albergo del Quirinale. 

ìi^r^Vì USCÌ, chiudendo dietro di sé la porta della 
siuiiztu Ella rimase sola. 

Rabidamente, volse li occhi intorno, abbrac- 
ciò con uno sguardo indefinibile tutta la stanza, 
si \'evmò alle coppe dei fiori. Le pareti le sem- 
bravano più vaste, la vòlta le sembrava più 
ulta. Guardando, ella aveva la sensazione come 
d'un principio di vertigine. Non avvertiva più 
il jirtitiimo; ma certo l'aria doveva essere ar- 
dcnlc e grave come in una serra. L'imaginedi 
Aiairea le appariva in una specie di balenìo 
iu lei-mittente; le sonava nelli orecchi qualche 
oikIcI vaga della voce di lui. Stava ella per aver 
male? — Pure, che delizia chiudere li occhi e 
altbajidonarsi a quel languore! 

Seotendosi, andò verso la finestra, l'aprì, re- 
^\nvu il vento. Rianimata, si volse di nuovo alla 
stuiàza. Le fiamme pallide delle candele oscilla- 
vano agitando leggere ombre su le pareti. Il 
f auiìiio non aveva più vampa, ma i tizzoni il- 
luminavano in parte le figure sacre nel para- 
Uioco fatto d'un frammento di vetrata ecclesia- 
stica- La tazza di tè era rimasta su l'orlo del 
tavolo, fredda, intatta. Il cuscino della poltrona 



~ 35 — 

conservava ancora Timpronta del corpo ch'óra- 
visi affondato. Tutte le cose in torno esalavano 
una melancolia indistinta che affluiva e s'ad- 
densava al euor della donna. Il peso cresceva 
su quel debole cuore, diveniva un'oppressione 
dura, un affanno insopportabile. 

— Mio Dio! Mio Dio! 

Ella avrebbe voluto fuggire. Una folata di 
vento più viva gonfiò le tende , agitò le fiam- 
melle , sollevò un fruscio. Ella trasalì , con un 
brivido; e quasi involontariamente chiamò: 

— Andrea! 

La sua voce, quel nome, nel silenzio, le die- 
dero uno strano sussulto, come se la voce, il 
nome non fossero partiti dalla sua bocca. — 
Perchè Andrea indugiava? — Ella si mise in 
ascolto. Non giungeva che il romor sordo , 
cupo, confuso della vita urbana, nella sera di 
San Silvestro. Su la piazza della Trinità dei 
Monti non passava alcuna vettura. Come il 
vento a tratti soffiava forte, ella richiuse la fi- 
nestra: intravide la cima deirobelisco, nera sul 
cielo stellato. 

Forse Andrea non aveva trovata subito la vet- 
tura coperta, in piazza Barberini. Ella aspettò, 
seduta sul divano, cercando di quietare la folle 
agitazione, evitando di guardarsi nell'anima, for- 
zando la sua attenzione alle cose esteriori. At- 
tirarono i suoi occhi le figure vitree del para- 
fuoco, a pena illuminate dai tizzoni semispenti. 
Più sopra , su la sporgenza del caminetto , da 
una delle coppe cadevano le foglie d'una grande 
rosa bianca che si disfaceva a poco a poco, 
languida, molle, con qualche cosa di feminino, 



— 36 — 

direi quasi di carnale. Le foglie, concave, si po- 
savano delicatamente sul marmo, simili a falde 
di neve nella caduta. * 

'^ Quanto, allora, pareva soave alle dita quella 
neve odorante! „ ella pensò. "Tutte sfogliate, le 
rose conspargevano i tappeti, i divani, le se- 
die; ed ella rideva, felice, in mezzo alla deva- 
stazione; e ramante, felice, erale ai piedi.,, 

Ma udì fermarsi una carrozza d' innanzi alla 
l><>rta, nella strada; e si levò, scotendo la po- 
\Qva testa, come per cacciar via quella specie 
di ottusità che la fasciava. Sùbito dopo, rientrò 
Andrea, ansante. 

— Perdonatemi — - disse. — Ma, non avendo 
tmviito il portiere, sono sceso fino in piazza 
dì Spagna. La vettura è giù che aspetta. 

— Grazie — fece Elena guardandolo timida- 
mente a traverso il velo nero. 

R^^li era serio e pallido, ma calmo. 

— Mumps arriverà forse domani — soggiunse 
ella, con una voce tenue. — Vi scriverò un bi- 
glietto, per dirvi quando potrò vedervi. 

— Grazie — fece Andrea. 

— Addio, dunque — ella riprese, tendendogli 
la mano. 

^ Volete che vi accompagni fin giù alla 
strada? Non c'è nessuno. 

— Sì, accompagnatemi. 

Ella guardavasi a torno, un poco esitante. 

— Avete dimenticato nulla? — chiese Andrea* 
Ella guardò i fiori. Ma rispose: 

— Ah sì, il portabiglietti. 

Andrea corse a prenderlo sul tavolo del tè* 
Po!'gendolo a lei, disse: 



j 



— 37 — 

— A str anger hither! 

— No, my clear. A friend. 

Elena pronunziò questa risposta con la voce 
molto animata , vivacemente. Poi , d* un tratto, 
con un suo sorriso tra suf)pliclievole e lusinghé- 
vole , misto di temenza e di tenerezza , su cui 
tremolò l'orlo del velo che giungeva fino al lab- 
bro superiore lasciando tutta libera la bocca: 

— Gioe me a rose. 

Andrea andò a ciascun vaso; e tolse tutte le 
rose , stringendole in un gran fascio eli' egli a 
stento reggeva tra le mani. Alcune caddero, al- 
tre si sfogliarono. 

— Erano per voi , tutte — egli disse , senza 
guardare l'amata. 

Ed Elenà si volse per uscire, col capo chino, 
in silenzio, seguita da lui. 

Discesero le scale, sempre in silenzio. Egli le 
vedeva la nuca, così fresca e delicata, dove di 
sotto al nodo del velo i piccoli riccioli neri si 
mescolavano alla pelliccia cinerea. 

— Elena! — chiamò, a voce bassa, non po- 
tendo più vincere la struggente passione che gli 
gonfiava il cuore. 

Ella si rivolse, mettendosi l'indice su le labbra 
per indicargli di tacere , con un gesto dolente 
che pregava, mentre li occhi le lucevano. Affrettò 
il passo, salì nella vettura, si sentì posare su le 
ginocchia le rose. 

— Addio! Addio! 

E, come la vettura si mosse, ella s'abbando- 
nò al fondo, sopraffatta, rompendo in lacrime 
"Senza freno, straziando le rose con le povere 
mani convulse. 



^ 88 — 



IL 



Sotto il grigio diluvio democratico odierno, 
che molte belle cose e rare sommerge misera- 
mente, va anche a poco a poco scomparendo 
quella special classe di antica nobiltà italica, 
in cui era tenuta viva di generazione in gene- 
razione una certa tradizion familiare d'eletta 
cultura, d'eleganza e di arte. 

A questa classe, ch'io chiamerei arcadica per- 
chè rese a punto il suo più alto splendore nel- 
l'amabile vita del XVIII secolo, appartenevano 
gli Sperelli. L'urbanità, l'atticismo, l'amore delle 
delicatezze, la predilezione per gli studii insoliti, 
la curiosità estetica, la manìa archeologica, la 
galanteria raffinata erano nella casa degli Spe- 
relli qualità ereditarie. Un Alessandro Sperelli, 
nel 1466, portò a Federigo d'Aragona, figliuolo 
di Ferdinando re di Napoli e fratello d'Alfonso 
duca di Calabria, il codice in foglio contenente 
alcune poesie '' men rozze „ de' vecchi scrittori 



j 



- 39 — 

toscani, che Lorenzo de' Medici aveva promesso 
in Pisa nel '65; e quello stesso Alessandro scrisse 
per la morte della divina Simonetta, in coro con 
i dotti del suo tempo, una elegìa latina, malin- 
conica ed abbandonata a imitazion di Tibullo. 
Un altro Sperelli, Stefano, nel secolo medesimo, 
fu in Fiandra, in mezzo alla vita pomposa, alla 
preziosa eleganza, all'inaudito fasto borgognone; 
ed ivi rimase alla corte di Carlo il Temerario, 
imparentandosi con una famiglia fiamminga. 
Un figliuolo suo. Giusto, praticò la pittura sotto 
gli insegnamenti di Giovanni Gossaert; e in- 
sieme col maestro venne in Italia, al seguito di 
Filippo di Borgogna ambasciatore dell'impera- 
tor Massimiliano presso il papa Giulio II, nel 1508. 
Dimorò a Firenze, dove il principal ramo della 
sua stirpe continuava a fiorire; ed ebbe a se- 
condo maestro Piero di Cosimo, quel giocondo 
e facile pittore, forte ed armonioso colorista, 
che risuscitava liberamente col suo pennello le 
favole pagane. Questo Giusto^funon volgare arti- 
sta; ma c onsumò tutto il suo vigore in vani sforzi 
per conciliare la primitiva educazione gotica 
con il recente spirito del Rinascimento. Verso 
la seconda metà del secolo XVII la casata de- 
gli Sperelli si trasportò in Napoli. Ivi nel 1679 
un Bartolomeo Sperelli pubblicò un trattato astro- 
logico De Natioitatibus; nel 1720 un Giovanni 
Sperelli diede al teatro un'opera buffa intitolata 
La Faustina e poi una tragedia lirica intitolata 
Progne; nel 1756 un Carlo Sperelli stampò un 
libro di versi amatorii in cui molte classiche 
lascivie erano rimate con l'eleganza oraziana 
allora di moda. Miglior poeta fu Luigi, ed uomo 



— 40 — 

di squisita galanteria, alla corte del re lazza- 
rone e della regina Carolina. Verseggiò con un 
certo malinconico e gentile epicureismo, assai 
nitidamente; ed amò da fino amatore, ed ebbe 
avventure in copia, talune celebri, come quella 
con la marchesa di Bugnano che per gelosia 
s'avvelenò, e come quella con la contessa di 
Chesterfield che morta etica egli pianse in can- 
zoni, odi, sonetti ed elegie soavissime se bene 
un poco frondose. 

Il conte Andrea Sperelli-Fieschi d'Ugenta, 
unico erede, proseguiva la tradizion familiare. 
Egli era, in verità, Tideal tipo del giovine signore 
italiano nel XIX secolo, il legittimo campione 
d'una stirpe di gentiluomini e di artisti eleganti, 
l'ultimo discendente d'una razza intellettuale. 

Egli era, per così dire, tutto impregnato di 
arte. La sua adolescenza, nutrita di studii varii 
e profondi, parve prodigiosa. Egli altern ò, fino 
a' venti anni, le lunghe letture coi lunghi viaggi 
in compagnia del padre e potè compiere la sua 
straordinaria educazione estetica sotto la cura 
paterna, senza restrizioni e constrizioni di pe- 
dagoghi. Dal padre a punto ebbe il gusto delle 
cose d'arte, il culto passionato della bellezza, 
il paradossale disprezzo de' pregiudìzii, l'avidità 
del piacere. 

Questo padre, cresciuto in mezzo alli estremi 
splendori della corte borbonica, sapeva larga- 
mente vivere; aveva una scienza profonda della 
vita voluttuaria e insieme una certa inclina- 
zione byroniana al romanticismo fantastico. Lo 
stesso suo matrimonio era avvenuto in cir- 
costanze quasi tragiclie, dopo una furiosa pas- 



I 



— 41 — 

sione. Quindi egli aveva turbata e travagliata 
in tutti i modi la pace coniugale. Finalmente 
s'era diviso dalla moglie ed aveva sempre te- 
nuto seco il figliuolo, viaggiando con lui per 
tutta r Europa. 

L'educazione d'Andrea era dunque, per così 
dire, viva, cioè fatta non tanto su i libri quanto 
in conspetto delle realità umane. Lo spirito di 
lui non era soltanto corrotto dall'alta cultura 
ma anche dall'esperimento; e in lui la curiosità 
diveniva» più acuta come più si allargava la co- 
noscenza. Fin dal principio egli ftij)rodigo dì 
sé; poiché la grande forza sensitiva, ond'egli 
era dotato, non si stancava mai di fornire te- 
sori alle sue prodigalità. Ma l'espansion di quella 
sua forza era la distruzione in lui di un'altra 
forza, della /or^a morale che il padre stesso non 
aveva ritegno a deprimere. Ed egli non si ac- 
corgeva che la sua vita era la riduzion pro- 
gressiva delle sue facoltà, delle sue speranze, 
del suo piacere, quasi una progressiva rinunzia; 
e che il circolo gli si restringeva sempre più 
d'intorno, inesorabilmente se ben con lentezza. 

Il padre gli aveva dato, tra le altre, questa 
massima fondamentale : " Bisogna fare la pro- 
pria vita, come si fa un'opera d'arte. Bisogna 
che la vita d'un uomo d'intelletto sia opera di 
lui. La. superiorità vera é tutta qui. „ 

Anche, il padre ammoniva: " Bisogna conser- 
vare ad ogni costo intiera la libertà, fin nel- 
l'ebrezza. La regola dell'uomo d'intelletto, ec- 
cola: — Habere, non haberi. „ 

Anche, diceva: "Il rimpianto é il vano pa- 
scolo d'uno spirito disoccupato. Bisogna sopra 



— 42 — 

tutto evitare il rimpianto occupando sempre lo 
spirito con nuove sensazioni e con nuove ima- 
ginazioni, jj 

Ma queste massime volontarie^ che per Tam- 
biguità loro potevano anche essere interpretate 
come alti criterii morali, cadevano a punto in 
una natura involontaria, in un uomo, cioè, la 
cui potenza volitiva era debolissima. 

Un altro seme paterno aveva perfidamente 
fruttificato neiranimo di Andrea: il seme del 
sofisma. " 11 sofisma „ diceva quell'incauto edu- 
catore " è in fondo ad ogni piacere e ad ogni 
dolore umano. Acuire e moltiplicare i sofismi 
equivale dunque ad acuire e moltiplicare il pro- 
prio piacere o il proprio dolore. Forse, la scienza 
della vita sta neiroscurare ia verità. La parola 
è una cosa profonda, in cui per Tuomo d'intel- 
letto son nascoste inesauribili ricchezze. I Greci, 
artefici della parola, sono in fatti i più squi- 
siti goditori deirantichità. I sofisti fioriscono in 
maggior numero al secolo di Pericle, al secolo 
gaudioso. „ 

Un tal seme trovò nell'ingegno malsano del 
giovine un terreno propizio. A poco a poco, in 
Andrea la menzogna non tanto verso li altri 
quanto verso sé stesso divenne un abito cosi 
aderente alla conscienza ch'egli giunse a non 
poter mai essere interamente sincero e a non 
poter mai riprendere su sé stesso il libero do- 
minio. 

Dopo la morte immatura del padre, egli si 
trovò solo, a ventun anno, signore d'una for- 
tuna considerevole, distaccato dalla madre, in 
balìa delle sue passioni e de' suoi gusti. Rimase 



j 



— 43 — 

quindici mesi in Inghilterra. La madre passò in 
seconde nozze, con un amante antico. Ed egli 
venne a Roma, per predilezione. 

Roma era il suo grande amore: non la Roma 
dei Cesari ma la Roma dei Papi; non la Roma 
degli Archi, delle Terme, dei Fòri, ma la Roma 
delle Ville, delle Fontane, delle Chiese. Egli 
avrebbe dato tutto il Colosseo per la Villa Me- 
dici, il Campo Vaccino per la Piazza di Spagna, 
FArco di Tito per la Fontanella delle Tartarughe. 
La magnificenza principesca dei Colonna, dei 
Doria, dei Barberini l'attraeva assai più della 
ruinata grandiosità imperiale. E i! suo gran so- 
gno era di possedere un palazzo incoronato da 
Michelangelo e istoriato dai Caracci, come quello 
Farnese; una galleria piena di RafTaelli, di Ti- 
ziani, di Domenichini, come quella Borghese; 
una villa, come quella d'Alessandro Albani, dove 
i bussi profondi, il granito rosso d'Oriente, il 
marmo bianco di Luni, le statue della Grecia, 
le pitture del Rinascimento, le memorie stesse 
del luogo componessero un incanto in torno a 
un qualche suo superbo amore. In casa della 
marchesa d'Ateleta sua cugina, sopra un albo 
di confessioni mondane, accanto alla domanda 
" Che vorreste voi essere? „ egli aveva scritto 
^ Principe romano. „ 

Giunto a Roma in sul finir di settembre del 1884, 
stabili il suo home nel palazzo Zuccari, alla Tri- 
nità de' Monti, su quel dilettoso tepidario catto- 
lico dove l'ombra dell'obelisco di Pio VI segna 
la fuga delle Ore. Passò tutto il mese di otto- 
bre tra le cure degli addobbi; poi, quando le 
stanze furono ornate e pronte, ebbe nella nuova 



^ 44 — 

casa alcuni giorni d'invincibile tristezza. Era 
una estate di San Martino, una primavera de' 
morii, grave e soave, in cui Roma adagiavasi, 
tutta quanta d'oro come una città dell'Estremo 
Oriente, sotto un ciel quasi latteo, diafano come 
i cieli che si specchiano ne' mari australi. 

Quel languore dell'aria e della luce, ove tutte 
le cose parevano quasi perdere la loro realità 
e divenire immateriali, mettevano nel giovine 
una prostrazione infinita, un senso inesprimi- 
biie dt scontento, di sconforto, di solitudine, di 
vacuità, di nostalgia. Il malessere vago prove- 
niva farse anche dalla mutazione del clima, 
delle abitudini, dclli usi. L'anima converte in 
fenomeni psichici le impressioni dell'organismo 
mal dennite, a quella guisa che il sogno tras- 
forma secondo la sua natura gli incidenti del 
sonno* 

Certo egli ora entrava in un novello stadio. 
^ Avrebbe alfln trovato la donna e l'opera ca- 
paci d'impadronirsi del suo cuore e di divenire 
il suo scopo? — 'Non aveva dentro di sé la si- 
cure/.za della forza né il presentimento della 
gloria o della felicità. Tutto penetrato e imbe- 
vuto dì arte, non aveva ancora prodotto nes- 
suna opera notevole. Avido d'amore e di pia- 
cere, non aveva ancora interamente amato né 
aveva ancor mai goduto ingenuamente. Tortu- 
rato da un Ideale, non ne portava ancora ben 
flistiuta in cima de'pensieri l'imagine. Aborrendo 
dal dolore per natura e per educazione, era vul- 
nerabile in ogni parte, accessibile al dolore in 
ogni parte. 

Nel tumulto delle inclinazioni contradditorie 



— 45 — 

egli aveva smarrito ogni volontà ed ogni mo- 
ralità. La volontà, abdicando, aveva ceduto lo 
scettro agli istinti; il senso estetico aveva so- 
stituito il senso morale. Ma codesto senso este- 
tico a punto, sottilissimo e potentissimo e sem- 
pre attivo, gli manteneva nello spirito un certo 
equilibrio; cosichè si poteva dire che la sua 
vita fosse una continua lotta di forze contrarie 
chiusa ne' limiti d'un certo equilibrio. Li uomini 
d'intelletto, educati al culto della Bellezza, con- 
servano sempre, anche nelle peggiori deprava- 
zioni, una specie di ordine. La concezion della 
Bellezza è, dirò così, Tasse del loro essere in- 
teriore, in torno al quale tutte le loro passioni 
gravitano. 

Fluttuava ancora su quella tristezza il ricordo 
di Gostantia Landbrooke, vagamente, come un 
profumo svanito. L'amore di Conny era stato 
un assai fino amore; ed ella era una molto pia- 
cevole donna. Pareva una creatura di Thomas 
Lawrence; aveva in sé tutte le minute grazie 
feminine che son care a quel pittore dei falpalà, 
dei merletti, dei velluti, delli occhi luccicanti, 
delle bocche semiaperte; era una seconda in- 
carnazione della piccola contessa di Shaftesbury. 
Vivace, loquace, mobilissima, prodiga di dimi- 
nutivi infantili e di risa scampanellanti, facile 
alle tenerezze improvvise, alle malinconie su- 
bitanee, alle rapide ire, ella portava nell'amore 
molto movimento, molta varietà, molti capricci. 
La sua qualità più amabile era la freschezza, 
una freschezza tenace, continua, di tutte le ore. 
Quando si sveghava, dopo una notte di piacere, 
ella era tutta fragrante e monda come se uscisse 



— 46 — 

allora dal bagno. La figura di lei, in fatti, tor- 
nava nella memoria di Andrea specialmente con 
un' attitudine : con i capelli in parte sciolti sul 
collo e raccolti in parte al sommo del capo da 
un pettine fatto di greche d'oro; con l'iride delli 
occhi natante nel bianco, come una viola pal- 
lida nel latte; con la bocca aperta, rorida, tutta 
illuminata, da' denti ridenti nel sangue roseo 
delle gengive;- all' ombra delle cortine che dif- 
fondevano sul letto un albore tra glauco ed ar- 
genteo, simile alla luce d'un antro marittimo. 

Ma il cinguettio melodioso di Conny Land- 
broolce era passato su l'animo di Andrea come 
una di quelle musiche leggere che lascian per 
qualche tempo nella mente un ritornello. Più 
d'una volta ella gli aveva detto, in qualche sua 
malinconia vespertina, con li occhi velati di la- 
crime: ^^ Iknow you love me no^.... „ Egli, infatti, 
non l'amava, non n'era pago. Il suo ideale mu- 
liebre era men nordico. Idealmente, egli si sen- 
tiva attratto da una di quelle cortigiane del se- 
colo XVI che sembrano portar sul volto fion 
so qual velo magico, non so qual transparente 
maschera incantata, direi quasi un oscuro fa- 
scino notturno, il divino orrore della Notte. 

Incontrando la duchessa di Scerni, Donna 
Elena Muti, egli pensò: "Ecco la mia donna. „ 
Tutto il suo essere ebbe una sollevazione di 
gioia, nel presentimento del possesso. 

Fu il primo incontro in casa della marchesa 
d'Ateleta. Questa cugina d'Andrea nel palazzo 
Roccagiovine aveva saloni molto frequentati. 
Ella attraeva specialmente per la sua arguta 
giocondità, per la libertà de' suoi motti, per ri 



j 



— 47 — 

SUO infaticabile sorriso. I lineamenti gai del 
volto rammentavano certi profili feminini ne' di- 
segni del Moreau giovine, nelle vignette del 
Gravelot. Ne' modi, ne' gusti, nelle fogge del ve- 
stire ella aveva qualche cosa di pompadoure- 
sco , non senza una lieve affettazione , poiché 
era legata da una singoiar somiglianza alla 
favorita di Luigi XV. 

Il mercoledì d'ogni settimana Andrea Sperelli 
aveva un posto alla mensa della marchesa. Un 
martedì a sera, in un palco del teatro Valle, 
la marchesa gli aveva detto, ridendo: 

— Bada di non mancare, Andrea; domani. Ab- 
biamo tra gli invitati una persona interessante, 
mìzì fatale. Premunisciti però contro la malia.... 
Tu sei in un momento di debolezza. 

Egli le aveva risposto, ridendo: 

— Verrò inerme , se non ti dispiace , cu- 
gina; anzi in abito di vittima. È un abito di 
richiamo, che porto da molte sere; inutilmente, 
ahimè! 

— Il sacrificio è prossimo, cugino mio. 

— La vittima è pronta. 

La sera seguente, egli venne al palazzo Roc- 
cagiovine alcuni minuti prima dell'ora consueta, 
avendo una mirabile gardenia all'occhiello e 
una inquietudine vaga in fondo all'anima. Il 
suo coupé si fermò innanzi alla porta, perchè 
l'androne era già occupato da un'altra carrozza. 
Le livree, i cavalli, tutta la cerimonia che ac- 
compagnava la discesa della signora, avevano 
l'impronta della grande casata. Il conte intra- 
vide una figura alta e svelta , un'acconciatura 
tempestata di diamanti, un piccolo piede che si 



— 48- 

posò sul gradino. Poi, come anch'egli saliva la 
scala, vide la dama alle spalle. 

Ella saliva d'innanzi a lui, lentamente, molle- 
mente, con una specie di misura. Il mantello 
foderato d' una pelliccia nivea come la piuma 
de' cigni, non più retto dal fermaglio, le si ab- 
bandonava intorno al busto lasciando scoperte 
le spalle. Le spalle emergevano pallide come 
l'avorio polito, divise, da un solco morbido, con 
le scapule che nel perdersi dentro i merletti 
del busto avevano non so qual curva fuggevole, 
quale dolce declinazione di ali; e su dalle spalle 
svolgevasi agile e tondo il collo; e dalla nuca 
i capelli, come ravvolti in una spira, piegavano 
al sommo della testa e vi formavano un nodo, 
sotto il morso delle forcine gemmate. 

Queir armoniosa ascensione della dama sco- 
nosciuta dava alli occhi d'Andrea un diletto così 
vivo ch'egli si fermò un istante, sul primo pia- 
nerottolo, ad ammirare.^ Lo strascico faceva su 
i gradini un fruscio forte. Il servo camminava 
in dietro, non su i passi della sua signora lungo 
la guida di tappeto rosso, ma da un lato, lungo 
la parete, con una irreprensibile compostezza. Il 
contrasto tra quella magnifica creatura e quel 
rigido automa era assai bizzarro. Andrea sorrise. 

Nell'anticamera, mentre il servo prendeva il 
mantello, la dama gittò uno sguardo rapidissimo 
al giovine ch'entrava. Questi udì annunziare : 

— Sua Eccellenza la duchessa di Scerni 1 
Sùbito dopo: 

— Il signor conte Sperelli-Fieschi d'Ugenta! 
E gli piacque che il suo nome fosse pronun- 
ziato accanto al nome di quella donna. 



j 



- 49- . 

Nel salone erano già il marchese e la mar- 
chesa d' Ateleta , il barone e la baronessa d' I- 
sola, don Filippo del Monte. Il fuoco ardeva nel 
caminetto ; alcuni divani eran disposti nel rag- 
gio del calore; quattro musoe dalle larghe fo- 
glie venate di sanguigno si protendevano su le 
spalliere basse. 

La marchesa, facendosi incontro ai due so- 
praggiunti, disse con quel suo bel riso inestin- 
guibile : 

— Per l'amabiUtà del caso, non c*è più biso- 
gno di presentazione tra voi due. Cugino Spe- 
relli, inchinatevi alla divina Elena. 

Andrea s'inchinò profondamente. La duchessa 
gli offrì la mano, con un gesto di grazia, guar- 
dandolo nelli occhi. 

— Son molto lieta di vedervi, conte. Mi parlò 
tanto di voi, a Lucerna, Testate scorsa, un vo- 
stro amico : Giulio Musèllaro. Ero, confesso, un 
po' curiosa.... Musèllaro anche mi diede a leg- 
gere la rarissima vostra Facola d'Ermafrodito 
e mi regalò la vostra acquaforte del Sonno, una 
prova avanti lettera, un tesoro. Voi avete in me 
un'ammiratrice cordiale. Ricordatevi. 

Ella parlava con qualche pausa. Aveva la 
voce cosi insinuante che quasi dava la sensa- 
zione d'una carezza carnale; e aveva quello 
sguardo involontariamente amoroso e volut- 
tuoso che turba tutti li uomini e ne accende 
d'improvviso la brama. 

Un servo annunziò: 

— Il cavaliere Sakumi! 

Ed apparve l'ottavo ed ultimo commensale. 
Era un segretario della Legazione giapponese, 
Il Piacere» 4 



— 50 - 

pioeolo di statura, giallognolo, con i ponnelli 
spop^^enti, con li occhi lunghi ed obliqui, venati 
di sangue, su cui le palpebre battevano di con- 
tiiiuo. Aveva il corpo troppo grosso in para- 
j^on delle gambe troppo sottili; e camminava 
eon le punte de' piedi in dentro, come se una 
cintura gli stringesse forte le anche. Le falde 
della sua giubba erano troppo abondanti; i cal- 
zoni facevano una quantità di pieghe; la cra- 
vatta portava assai visibili i segni della mano 
inesperta. Egli pareva un daimio cavato fuori 
da una di quelle armature di ferreo e di lacca 
elje somiglian gusci di crostacei mostruosi e 
poi ficcato no' panni d'un tavoleggiante occi- 
dentale. Ma, pur nella sua goffaggine, aveva 
un'espressione arguta, una specie di finezza 
ironica agli angoli della bocca. 

A mezzo del salone, s'inchinò. Il gibus gli 
cadde di mano. 

La baronessa d'Isola, una bionda piccoletta, 
dalla fronte tutta coperta di riccioli, graziosa e 
sniorliosa come una giovine bertuccia, disse 
con la sua voce acuta: 
-^ Venite qua, Sakumi, qua, accanto a me! 
li cavaliere giapponese s'inoltrava reiterando 
i sorrisi e gli inchini. 

— Vedremo stasera la principessa Issé? — 
^^li domandò Donna Francesca d'Ateleta, che pia- 
ccvasì di raccogliere ne' suoi saloni i più tiz- 
zo rri esemplari delle colonie esotiche in Roma, 
per amor della varietà pittoresca. 

L* asiatico parlava una lingua barbarica, a 
pena intelligibile, mista d'inglese, di francese e 
d'italiano. 



— 51 — 

Tutti, a un punto, parlavano. Era quasi un 
coro, di mezzo a cui si levavano di tratto in 
tratto, come zampilli d'argento, le fresche risa 
della marchesa, 

— Io vi ho certo veduta, un'altra volta; non 
so più dove, non so più quando, ma vi ho certo 
veduta — diceva Andrea Sperelli alla duchessa, 
ritto in piedi d'innanzi a lei. — Su per le scale, 
mentre vi guardavo salire, nel fondo della mia 
memoria si risvegliava un ricordo indistinto, 
qualche cosa che prendeva forma seguendo il 
ritmo di quel vostro salire, come un'imagine 
nascente da un'aria di musica... Non son giunto 
ad aver limpido il ricordo; ma, quando vi siete 
voltata, ho sentito che il vostro profilo aveva 
una non dubbia rispondenza con quella imagine. 
Non poteva essere una divinazione; era dun- 
que un oscuro' fenomeno della memoria. Io vi 
ho certo veduta, un'altra volta. Chi sa! Forse in 
un sogno, forse in una creazione d'arte, forse 
anche in un diverso mondo, in una esistenza 
anteriore... 

Pronunziando queste ultime frasi troppo sen- 
timentali e chimeriche, egli rise apertamente 
come per prevenire un sorriso o incredulo o iro- 
nico della dama. Elena in vece rimase grave. 
" Ascoltava ella o pensava ad altro ? Accettava 
ella quella specie di discorsi o voleva con quella 
serietà prendersi gioco di lui ? Intendeva ella 
di secondare l'opera di seduzione iniziata da 
lui così sollecitamente o si chiudeva nella in- 
differenza e nel silenzio incurante? Era ella, 
in somma, una donna per lui espugnabile o 
no ? „ Andrea , perplesso , interrogava il mi- 



— 52 - 

stero. A quanti hanno V abitudine della sedu- 
zione , specialmente ai temerarii , è nota que^ 
sta perplessità che certe donne sollevano ta- 
cendo. 

Un servo apri la grande porta che dava nella 
sala da pranzo. 

La marchesa mise il suo braccio sotto quello 
di Don Filippo del Monte e diede l'esempio. Li 
altri seguirono. 

— Andiamo — disse Elena. 

Parve ad Andrea che ella gli si appoggiasse 
con un po' di abbandonò. " iVon era un'illusione 
del suo desiderio? Forse.,, Egli pendeva nel 
dubbio; ma, ad ogni attimo che passava, si sen- 
tiva più a dentro conquistare dalla maha dol- 
cissima; ad ogni attimo gli cresceva Tansietà 
di penetrare l'animo della donna. 

— Cugino, qui — disse Donna Francesca as- 
segnandogli il posto. 

Nella tavola ovale, egli stava tra il barone 
d'Isola e la duchessa di Scerni, avendo di fronte 
il cavaliere Sakumi. Il quale stava tra la baro- 
nessa d'Isola e Don Filippo del Monte. Il mar- 
chese e la marchesa occupavano i capì. Su la 
mensa le porcellane, le argenterie, i cristalli, i 
fiori scintillavano. 

Assai poche dame potevan gareggiare con la 
marchesa d'Ateleta nell'arte di dar pranzi. Ella 
metteva più cura nella preparazion di una mensa 
che in un abbigliamento. La squisitezza del suo 
gusto appariva in ogni cosa; ed ella era, in ve^ 
rità, l'arbitra delle eleganze conviviali. Le sue 
fantasie e le sue raffinatezze si propagavano per 
tutte le tavole della nobiltà quirite. Ella, a punto, 



- 53 - * 

in queirinverno aveva introdotta la moda delle 
catene di fiori sospese dalFun capo al l'altro, 
fra i grandi candelabri; ed anche la modadel- 
l'esilissimo vaso di Murano, latteo e cangiante 
come Topaie, con entro una sola orchidea, messo 
tra i varii bicchieri innanzi a ciascun convitato. 

-— Fior diabolico — disse Donna Elena Muti, 
prendendo il vaso di vetro e osservando da vi- 
cino Torcliidea sanguigna e difforme. 

Ella aveva la voce così ricca di suono che 
anche le parole più volgari e le frasi più co- 
muni parevano prendere su la sua bocca non 
so qual significato occulto, non so qual miste- 
rioso accento e qual grazia nuova. Alla guisa 
medesima il re frigio faceva d*oro quantunque 
cose ei toccasse con la mano. 

— Fiore simbolico, tra le vostre dita — mor- 
morò Andrea, guardando la dama che in quel- 
l'attitudine era sovrammirabile. 

La dama vestiva un tessuto d'un color ceru- 
leo assai pallido, sparso di punti d'argento, 
che brillava di sotto ai merletti antichi di Du- 
rano bianchi d'un bianco indefinibile, pendente 
un poco nel fulvo ma tanto poco che a pena 
pareva. Il flore, quasi innaturale, come gene- 
rato da un malefizio, ondeggiava in sul gambo, 
fuor di quel .fragile tubo che certo l'artefice 
avea foggiato con xm soffio in una gemma li- 
quefatta. 

— Ma io preferisco le rose — disse Elena, 
posando l'orchidea, con un atto di repulsione che 
faceva contrasto al suo precedente moto di cu- 
riosità. 

Poi si gettò nella conversazione generale. 



— 54 — 

Donna Francesca parlava deir uìlirao ricevi- 
mento all'ambasciata d'Austria. 

— Vedesti Madame de Cahen? — le chiese 
Elena. — Aveva un abito di tulle giallo tempe- 
stato di non so quanti colibrì con gli occhi di 
rubino. Una magnifica uccelliera danzante... E 
lady Ouless, la vedestjj Aveva una vesta di tar- 
latane bianca, tuttasparsa di alghe marine e 
di non so che pesci rossi, e su l'alghe e su i 
pesci una seconda vesta di tarlatane verde- 
mare. Non la vedesti? Un aquario di bellissimo 
effetto.... 

Ed ella, dopo le piccole maldicenze, rideva 
d'un riso cordiale che le dava un tremolìo alla 
parte inferiore del mento e alle narici. 

D'innanzi a quella volubilità incomprensibile, 
Andrea rimaneva ancor titubante. Quelle cose 
frivole o maligne uscivano dalle stesse labbra 
che allora allora, pronunziando una frase sem- 
plicissima, l'avevan turbato fin nel profondo; 
uscivano dalla stessa bocca che allora allora, 
tacendo, eragli parsa la bocca della Medusa di 
Leonardo, umano flore dell' anima divinizzato 
dalia fiamma della passione e dall'angoscia della 
morte. " Qual era dunque la vera essenza di 
quella creatura? Aveva ella percezione e con- 
scìenza della sua metamorfosi costante o era 
ella impenetrabile anche a sé stessa, rimanendo 
fuori del proprio mistero? Quanto nelle sue 
espressioni e manifestazioni entrava d'artificio e 
quanto di spontaneità? „ Il bisogno di conoscere 
lo pungeva anche fra la delizia in lui effusa dalla 
vicinanza della donna ch'egli incominciava ad 
amare. La trista consuetudine dell'analisi l'in- 



— 55 — 

citava pur sempre, gli impediva pur sempre 
di obliarsi; ma ogni tentativo era punito, come 
la curìó^tà di Psiche, dall'allontanamento del- 
l'amore, dall'offuscamento dell'oggetto vagheg- 
giato, dalla cessazion del piacere. " Non era 
meglio, in vece, abbandonarsi ingenuamente alla 
prima ineffabile dolcezza dell'amor che nasce- 
va?,, EgU vide Elena nell'atto di bagnare le labbra 
in un vino biondo come un miele liquido. Scelse 
. tra i bicchieri quello ove il servo aveva versato 
un egual vino; e bevve con Elena. Ambedue, 
nel tempo medesimo, posarono su la tovaglia 
il cristallo. La comunità dell'atto fece volgere 
l'una verso l'altro. E lo sguardo li accese am- 
bedue, più assai del sorso. 

— Non parlate? — chiosagli Elena, con un'af- 
fettazione di leggerezza, che le alterava un poco 
la voce. ^— Corre fama voi siate uno squisitis- 
simo parlatore.... Scuotetevi, dunque! 

— Ah, cugino, cugino! — esclamò Donna Fran- 
cesca, con un' aria di commiserazione , mentre 
Don Filippo del Monte le mormorava qualche 
cosa nell'orecchio. 

Andrea si mise a ridere. 

— Cavaliere Sakumi, noi slamo i taciturni. 
Scuotiamoci ! 

All'Asiatico scintillarono di malizia i lunghi 
occhi, ancor più rosseggianti su'l rossor fosco 
che i vini gli accendevano ai pomelli. Fino a 
quel moménto, egli aveva guardato la duchessa 
di Scerni, con l'espressione estatica d'un bonzo 
che sia nel conspetto della divinità. La sua larga 
faccia, che pareva uscita fuori da una pagina 
classica del gran flguratore umorista 0-kou-sai, 



— 56 - 

rosseggiava come una luna d*agosto, tra le ca- 
tene de' fiori. 

— Sakumi — soggiunse a bassa voce Andrea, 
chinandosi verso Elena — è innamorato. 

— Di chi? 

— Di voi. Non ve ne siete accorta** 

— No. 

-— Guardatelo. 

Elena si volse. E Tamorosa contemplazione 
del daimio travestito le cliiamò su le labbra 
un riso così aperto che quegli si sentì ferire e 
restò visibilmente umiliato. 

— Tenete — ella disse per compensarlo; e, 
spiccando dal festone una camelia bianca, la 
gittò airinviato del Sol Levante. — Trovate una 
similitudine, in mia lode. 

L'Asiatico portò la camelia alle labbra, con 
un gesto comico di divozione. 

— Ah, ah, Sakumi, — fece la piccola baro- 
nessa d'Isola — voi mi siete infedele! 

Egli balbettò qualclie parola, accendendosi an- 
che più nel volto. Tutti ridevano, liberamente, 
come se quello straniero fosse stato invitato a 
punto per dare alli altri argomento di gioco. E 
Andrea, ridendo, si volse alla Muti. 

Ella tenendo il capo sollevato, anzi piegato in 
dietro un poco, guardava il giovine furtiva- 
mente, di fra le palpebre socchiuse, con uno di 
quelli indescrivibili sguardi della donna, che 
paiono assorbire e quasi direi bevere dall'uom 
preferito tutto ciò che in lui è più amabile, più 
desiderabile, più godibile, tutto ciò che in lei 
ha destata quella istintiva esaltazion sessuale 
da cui ha principio la passione. I lunghissimi 



— 57 — 

cigli velavano l'iride inclinata all'angolo del- 
l'orbita; e il bianco nuotava come in una luce 
liquida, un po' azzurra; e un tremolìo quasi im- 
percettibile moveva la palpebra inferiore. Pa- 
reva che il raggio dello sguardo andasse alla 
bocca di Andrea, come alla cosa più dolce. 

Elena era presa, in fatti, da quella bocca. Pura 
di forma, accesa di colore, gonfia di sensua- 
lità, con un'espressione un po' crudele quando 
rimaneva serrata, quella bocca giovenile ri- 
cordava per una slngolar somiglianza il ri- 
tratto del gentiluomo incognito eh' è nella gal- 
leria Borghese, la profonda e misteriosa opera 
d'arte in cui le imaginazioni affascinate cre- 
detter ravvisare la figura del divino Cesare 
Borgia dipinta dal divino Sanzio. Quando le lab- 
bra si aprivano al riso, quell'espressione fug- 
giva; e 1 denti bianchi quadri, eguali, d'una 
straordinaria lucentezza, illuminavano una boc- 
ca tutta fresca e gioconda come quella d' un 
fanciullo. 

A pena Andrea si volse. Elena ritrasse lo 
sguardo; ma non così presto che il giovine non 
ne cogliesse il baleno. N' ebbe egli una gioia 
così forte che senti salirsi alle gote una fiamma. 
^ Ella mi vuole! Ella mi vuole!,, pensò, esul- 
tando, nella certezza d'aver già conquistata la 
rarissima creatura. Ed anche pensò: " È un pia- 
cere non mai provato, „ 

Ci sono certi sguardi di donna che 1' uomo 
amante non iscambierebbe con l'intero possesso 
del corpo di lei. Chi non ha veduto accendersi 
in un occhio limpido il fulgore della prima te- 
nerezza non sa la più alta delle felicità umane. 



— 58 — 

Dopo, nessun altro attimo di gioia eguaglierà 
quell'attimo. 

Elena domandò, mentre in torno la conver- 
sazione face vasi più viva: 

— Resterete a Roma tutto Tinverno? 

— Tutto Tinverno, e oltre — rispose Andrea, 
a cui quella semplice domanda parve chiudere 
una promessa d'amore. 

— Avete dunque una casa? 

— Casa Zuccari: domus aurea. 

— Alla Trinità de' Monti? Voi felice! 

— Perchè felice? 

— Perchè voi abitate in un luogo ch'io pre- 
diligo. 

— V'è raccolta, è vero?, come un'essenza in 
un vaso, tutta la sovrana dolcezza^ di Roma. 

— È vero! Tra l'obelisco della Triiiità e la co- 
lonna della Concezione è sospeso ex-voto ìì mio 
cuore cattolico e pagano. 

Ella rise di quella frase. Egli aveva pronto un 
madrigale intorno il cuor sospeso, ma non lo 
profferì; perchè gli spiaceva di prolungare il 
dialogo su quel tono falso e leggero e di disper- 
dere così l'intimo suo godimento. Tacque, 

Ella rimase un poco pensosa. Poi, di nuovo, 
si gittò nella conversazione generale, con una 
vivacità anche maggiore, profondendo i motti 
e le risa, facendo scintillare i suoi denti e le 
sue parole. Donna Francesca mordeva un poco 
la principessa di Ferentino, non senza finezza, 
accennando all'avventura lesbica di lei con Gio- 
vanella Daddi. 

— A proposito, la Ferentino annunzia per 
l'Epifania un'altra fiera di beneficenza — disse 



— 59 — 

il barone d'Isola. — Non ne sapete ancora 
nulla? 

— Io sono patronessa — rispose Elcna Muti. 

— Voi siete una patronessa preziosa — fece 
Don Filippo del Monte, un uomo quarantenne, 
quasi tutto calvo, sottile aguzzatore di epi- 
grammi, che portava sul volto una specie di 
maschera socratica in cui rocchio destro scin- 
tillava mobilissimo per mille diverse espressioni 
e il sinistro rimaneva sempre immobile e quasi 
vetrificato sotto la lente rotonda, come se Tuno 
servisse ppr esprimere e Taltro per vedere. — 
Nella fiera di maggio, riceveste una nuvola 
d'oro. 

— Ah, la fiera di maggio! Una follìa — esclamò 
la marchesa d'Ateleta. 

Come i servi venivan mescendo vin ghiac- 
ciato di Sciampagna, ella soggiunse: 

— Ti ricordi, Elena? I nostri banchi erano 
vicini. 

— Cinque luigi per sorso! Cinque luigi per 
morso! — si mise a gridare Don Filippo del 
Monte, imitando per gioco la voce di un ban- 
ditore. 

La Muti e TAteleta ridevano. 

— Già, già, è vero. Voi gittavate il bando, 
Filippo — disse Donna Francesca. — Peccato 
che tu non ci fossi, cugino mio! Per cinque 
luigi avresti mangiato un frutto segnato prima 
da' miei denti e per altri cinque luigi avresti be- 
vuto Cham.pagne nel concavo delle mani d'Elena. 

— Che scandalo! — interruppe la baronessa 
d'Isola, con una smorfletta d'orrore. 

— Ah, Mary! E tu non vendevi le sigarette 



— 60 — 

accese prima da te, e molto inumidite, per un 
luigi? — fece Donna Francesca, sempre ridendo. 
E Don Filippo: 

— Io vidi qualche cosa di meglio. Leonetto 
Lanza ottenne dalla contessa di Lùcoli, per non 
so quanto, un sigaro d'avana ch'ella aveva te- 
nuto sotto Tascella... 

— Ohibò! — interruppe di nuovo la piccola 
baronessa, comicamente. 

— Ogni opera di carità è santa — sentenziò 
la marchesa. — Io, a furia di morsi nelle frutta, 
misi insieme circa dugento luigi. 

— E voi? — chiese Andrea Sperelli alla Muti, 
sorridendo a mala pena. — E voi, con la vo- 
stra coppa carnale? 

— Io, dugento settanta. 

Così motteggiavano tutti, tranne il marchese. 
Questo Ateleta era un uomo già vecchio, af- 
flitto da una sordità incurabile, bene incerettato, 
dipinto d'un color biondastro, artefatto dal capo 
a' piedi. Pareva uno di quei personaggi finti che 
si vedono ne' gabinetti di figure in cera. Ogni 
tanto, quasi sempre male a- proposito, metteva 
fuori una specie di risolino secco che pareva 
lo stridore d'una macchinetta arrugginita -ch'egli 
avesse dentro il corpo. 

— Ma, a un certo punto, il prezzo del sorso 
arrivò a dieci luigi. Capite? — soggiunse Elena. 
— E all'ultimo quel matto di Galeazzo Secìnaro 
venne ad offrirmi un biglietto da cinquecento 
lire chiedendo in cambio ch'io m'asciugassi le 
mani alla sua barba bionda... 

Il finale del pranzo era, come sempre in casa 
d' Ateleta, splendidissimo; poiché il vero lusso 



— 61 — 

d'una mensa sta nel dessert Tutte quelle squi- 
site e rare cose dilettavano la vista, oltre il pa- 
lato, disposte con arte in piatti di cristallo guar- 
niti d'argento. I festoni intrecciati di camelie o 
di violette s'incurvavano tra i pampinosi can- 
delabri del XVIII secolo animati dai fauni e 
dalle ninfe. E i fauni e le ninfe e le altre leg- 
giadre forme di quella mitologia arcadica, e i 
Silvandri e le Filli e le Rosalinde animavan della 
lor tenerezza, su le tappezzerie delle pareti, un 
di que' chiari paesi citerei ch'esciron dalla fan- 
tasia d'Antonio Watteau. 

La leggera eccitazione erotica, che prende li 
spiriti al termine d'un pranzo ornato di donne 
e di fiori, rivelavasi nelle parole, rivelavasi no' 
ricordi di quella fiera di maggio ove le dame 
spinte da una emulazione ardente a raccogliere 
la maggior possibile somma nel loro ufficio di 
venditrici, avevano attirato i compratori con 
inaudite temerità. 

— Accettaste? — chiese Andrea Sperelli alla 
duchessa. 

— Sacrificai le mie mani alla Beneficenza — 
ella rispose. — Venticinque luigi di più! 

— Ali the perfumes of Arabia will noi sweeten 
this little hand,,.. 

Egli rideva, ripetendo le parole di Lady Mac- 
beth ma in fondo a lui era una soff'erenza con- 
fusa, un tormento non bene definito, che somi- 
gliava la gelosia. Gli appariva ora, all'improv- 
viso, quel non so che dì eccessivo e quasi direi 
di cortigianesco onde in qualche momento offu- 
scavasi la gran maniera della gentildonna. Da 
certi suoni della voce e del riso, da certi gesti, 



r 



— 62 — 

ria certe attitudini, da certi sguardi ella esalava, 
ffjpsiì involontariamente, un fascino troppo afro- 
disiaco. Ella dispensava con troppa facilità il go- 
dimento visuale delle sue grazie. Di tratto in 
tratto, alla vista di tutti, forse involontariamente, 
olla aveva una movenza o una posa o una 
espfcssione che nell'alcova avrebbe fatto fre- 
mere un amante. Ciascuno, guardandola, po- 
teva rapirle una scintilla di piacere, poteva in- 
volfjcrla d'imaginazioni impure, poteva indovi- 
narne le segrete carezze. Ella pareva creata, 
In verità, soltanto ad esercitare l'amore; — e 
]\'inu ch'ella respirava era sempre accesa dai 
desidorii sollevati in torno. 

"Quanti l'han posseduta ?„ pensò Andrea. 
** Quanti ricordi ella serba, della carne e del- 
r;ininia?„ 

11 cuore gli si gonfiava come d'un'onda ama- 
ra, hi fondo a cui pur sempre bolliva quella 
sua tirannica intolleranza d'ogni possesso im- 
Ifcr'liHto. E non sapeva distogliere li occhi dalle 
inojil d'Elena. 

In quelle mani incomparabili, morbide e bian- 
che, d'una transparenza ideale, segnate d'una 
tniìiiadi vene glauche a pena visibile; in quelle 
pabne un poco incavate e ombreggiate di rose, 
ove un chiromante avrebbe trovato oscuri in- 
trichL avevano bevuto dieci, quindici, venti uo- 
mini, l'un dopo l'altro, a prezzo. Egli vedeca le 
teste, di quelli uomini sconosciuti chinarsi e sug- 
i^ere il vino. Ma Galeazzo Secìnaro era uno de' 
suol amici: bello e gagliardo signore, imperial- 
mente barbato come un Lucio Vero , rivale te- 
mibile. 



— 63 — 

Allora, sotto T incitazione di quelle imaginl, 
la cupidigia gli crebbe così fiera e T invase 
una impazienza cosi tormentosa che il termine 
del pranzo gli pareva non giungesse più mai. 
" Io avrò da lei , in questa sera medesima , la 
promessa „ pensò. Dentro , lo pungeva un'an- 
sietà come di chi tema vedersi fuggire un bene 
a cui molti emuli mirano. E V incurabile e in- 
saziabile vanità gli rappresentava V ebrezza 
della vittoria. Certo , quanto più la cosa da un 
uom posseduta suscita nelli altri Y invidia e la 
brama, tanto più Tuomo ne gode e n'è superbo. 
In questo a punto è l'attrattivo delle donne di 
palco scenico. Quando tutto il teatro risona 
di applausi e fiammeggia di desiderii , quegli 
che solo riceve lo sguardo e il sorriso della 
diva si sente inebriare dall'orgoglio come da 
una tazza di vin troppo forte e smarrisce la 
ragione. 

— Tu che sei una innovatrice — diceva là 
Muti rivolgendosi a Donna Francesca, mentre 
bagnava le dita nell'acqua tepida d'un vaso di 
cristallo cizzurro orlato d'argento — dovresti ri- 
metter r uso del dare acqua alle mani col me- 
sciroba e col bacino antico, fuor di tavola. Que- 
sta modernità è brutta. Non vi pare, Sperelli? 

Donna Francesca si levò. Tutti la imitarono. 
Andrea offerse il braccio a Elena, inchinandosi, 
ed ella lo guardò, senza sorridere, mentre po- 
sava il braccio nudo su quello di lui lentamente. 
Le sue ultime parole erano state gaie e leg- 
gère; quello sguardo in vece era così grave 
e profondo che il giovine si sentì prendere l'a- 
nima. 



— 64 — 

— Andate — ella gli dijese — andate domani 
se[a al ballo dell'ambasciata di Francia? 

— E voi? — chiese à sua volta Andrea- 

— Io, si. 

— Io, sL 

Sorrisero, come due amanti. Ed ella soggiunse, 
mentile sedeva: 

— Sedete. 

Il divano era discosto dal caminetto, lungo la 
crKl:t del pianoforte che le pieghe ricche d*una 
stuflk celavano in parte. Una gru di bronzo, a 
uim estremità, reggeva nel becco levato un 
piatto sospeso a tre catenelle, come quel d'una 
hilaiicia; e il piatto conteneva un libro nuovo e 
una piccola sciabola giapponese, un tcaki-^ashi, 
ornalo di crisantemi d' argento nella guaina , 
nella guardia, neirelsa. 

Elena prese il libro ch'era a metà intonso ; 
lesse il titolo; poi lo ripose nel piatto che on- 
tle;2c;j:iò. La sciabola cadde. Come ella ed Andrea 
:si chinavano nel tempo medesimo per racco- 
glierla, le loro mani s'incontrarono. Ella, rial- 
zatasi, esaminò la bell'arma curiosamente; e la 
ieuue, mentre Andrea le parlava di quel nuovo 
libro di romanzo e s'insinuava in argomenti 
generali d'amore. 

— Perchè mai rimanete così lontano dal " gran 
pubblico?,, — gli domandò ella. — Avete giu- 
rato fedeltà ai " Venticinque Esemplari?,, 

— SI, per sempre. Anzi il mio sogno è 1' "Esem- 
plare Unico „ da offerire alla " Donna Unica. „ In 
una società democratica com'è la nostra, l'ar- 
te fi cse di prosa o di verso deve rinunziare ad 
ogni benefizio clie non sia di amore. Il lettor 



— 65 — 

vero non è già chi mi compra ma chi mi ama. 
il lettor vero è dunque la dama benevolente. Il 
lauro non ad altro serve che ad attirare il 
mirto.... 

— Mala gloria? / 

— La vera gloria è postuma, e quindi non go- 
dibile. Che importa a me d'avere, per esempio, 
cento lettori nell'isola dei Sardi ed anche dieci 
ad Empoli e cinque, mettiamo, ad Orvieto? E 
qual voluttà mi viene dall'essere conosciuto 
quanto il confettiere Tizio od il profumiere Caio ì 
Io, autore, andrò nel conspetto dei posteri ar- 
mato come potrò meglio; ma io, uomo, non de- 
sidero altra corona di trionfo che una.... di belle 
braccia ignude. 

Egli guardò le braccia di Elena, scoperte in- 
sino alla spalla. Erano cosi perfette neir ap- 
piccatura e nella forma che richiamavano la 
simihtudine flrenzuolesca del vaso antico " di 
mano di buon maestro „ e tali dovevano es- 
sere " quelle di Pallade quando era innanzi al 
pastore.,, Le dita vagavano su le cesellature 
deir arma ; e T unghie lucenti parevan conti- 
nuare la finezza delle gemme che distinguevano 
le dita. 

— Voi, se non erro , — disse Andrea , invol- 
gendo lei del suo sguardo come d'una fiamma, 
— dovete avere il corpo della Danae del Correg- 
gio. Lo sento, anzi, lo veggo, dalla forma delle 
vostre mani. 

— Oh, Sperelli! 

— Non imaginate voi dal flore la intera figura 
della pianta? Voi siete, certo, come la figlia 

Il Piacere. 5 



— 66 — 

d'Acrìsìo. che riceve la nuvola d'oro, non quella 
della Fiora di maggio, ohibò! Conoscete il qua- 
dro della Galleria Borghese? 

— Lo conosco. 

— Mi sono ingannato? 

— Basta, Sperelli : vi prego. 
~ Perchè? 

Ella tacque. Ornai ambedue sentivano avvici- 
narsi il cerchio che doveva chiuderli e strin- 
gerli insieme rapidamente. Né Tuna né l'altro 
aveva conscienza di quella rapidità. Dopo due 
o tre ore dal primo vedersi, già Tuna si dava 
all'altro, in ìspirito; e la scambievole dediziónb 
pareva naturale. 

Ella disse, dopo un intervallo, senza guar- 
darlo : 

— Siete molto giovine. Avete già molto amato? 
Egli rispase con un'altra domanda. 

— Credete voi che ci sia più nobiltà di animo 
e di arte ad imaginare in una sola unica donna 
tutto TEterno feminino, o pure che un uomo di 
spinti sottili ed intensi debba percorrere tutte 
le labbra che passano, come le noto d'un cla- 
vicembalo ideale, finché trovi l'Ut gaudioso? 

— Io non so. E voi? 

— Nò anche io so risolvere il gran dubbio 
sentimentale. Ma, per istinto, ho percorso il cla- 
vicembalo; e temo d'aver trovato l'Ut, a giudi- 
carne al meno dall'avvertimento interiore. 

— Temete ì 

— Je crains ce que f espère. 

Egli parlava con naturalezza quel linguaggio 
manierato, quasi estenuando nell'artifizio dello 
parole la forza del suo sentimento. Ed Elena si 



— 67 — 

sentiva dalla voce di lui prendere come In una 
rete e trarre fuor della vita che movevasi a 
torno. 

— Sua Eccellenza la principessa di Micigliano! 
— annunziava il servo. 

— Il signor conte di Gissi! 

— Madame Clirysoloras ! 

— Il signor marchese e la signora marchesa 
Massa d'Albe! 

I saloni si popolavano. Lunghi strascichi lu- 
centi passavano su'l tappeto purpureo; fuor de' 
busti constellati di diamanti, ricamati di perle, 
avvivati di fiori, emergevano le spalle nude; le 
capigliature scintillavano quasi tutte di que' me- 
ravigliosi gioielli ereditarli che fanno invidiata 
la nobiltà di Roma. 

— Sua Eccellenza la principessa di Ferentino ! 

— Sua Eccellenza il duca di Grimiti ! 

Già si formavano i diversi gruppi, i diversi 
focolari della malignità e della galanteria. Il 
gruppo maggiore , tutto composto di uomini , 
stava presso il pianoforte , in torno la du- 
chessa di Scerni eh' erasi levata in piedi per 
tener testa a quella specie d' assedio. La Fe- 
rentino si avvicinò a salutare V amica con un 
rimprovero. 

— Perchè non sei venuta oggi da Nini Santa- 
marta? Ti aspettavamo. 

Ella era alta e magra, con due strani occhi 
verdi che parevan lontani in fondo alle occhiaie 
oscure. Vestiva di nero , con una scollatura a 
punta sul petto e su le spalle; portava tra i 
capelli d'un biondo cinereo, una gran mezza- 
luna di brillanti, a simiglianza di Diana ; e agi- 



— 68-- 

tava un gran ventaglio di piume rosse , con 
gesti repentini. 

— Nini va stasera da Madame Van Huffel. 

— Anch' io andrò, più tardi , per un poco — 
disse la Muti. — La vedrò. 

— Oh, Ugenta, — fece la principessa, volgen- 
dosi ad Andrea, — vi cercavo per rammentarvi - 
il nostro appuntamento. Domani è giovedì. La 
vendita del cardinale Immenraet comincia do- 
mani , a mezzogiorno. Venite a prendermi al- 
l'una. 

— Non mancherò, principessa. 

— Bisogna ch'io porti via quel cristallo di 
ròcca ad ogni costo. 

— Avrete però qualche competitrice. 

— Chi ? 

— Mia cugina. 

— E poi ? 

— Me — disse la Muti. 

— Te ? Vedremo. 

I cavalieri in torno chiedevano schiarimenti. 

— Una contesa di dame del XIX secolo , per 
un vaso di cristallo di ròcca già apparteimto 
a Niccolò Niccoli ; sul qual vaso è intagliato il 
trojano Anchise che- sciogUe un de' calzari di 
Venere Afrodite — annunziò solennemente An- 
drea Sperelli. — Lo spettacolo è dato per gra- 
zia, domani, dopo la prima ora del pomeriggio, 
nelle sale delle vendite publiclie, in via Sistina. 
Contendono : la principessa di Ferentino, la du- 
chessa di Scerni, la marchesa d'Ateleta. 

Tutti ridevano, a quel bando. 

II Grimiti domandò : 

— Son lecite le scommesse? 



I 



— 69 — 

— La còte! Lacótel — si mise a garrire Don 
Filippo del Monte, imitando la voce stridula del 
bookmaker Stubbs.- 

La Ferentino col suo ventaglio rosso gli diede 
un colpo su la spalla. Ma la facezia parve buona. 
Le scommesse incominciarono. Come dal gruppo 
partivano risa e motti, a poco a poco altre dame 
e altri gentiluomini si avvicinarono per prender 
parte airilarità. La notizia della contesa si spar- 
geva rapidamente ; prendeva le proporzioni d'un 
avvenimento mondano; occupava tutti i belli 
spiriti. 

— Datemi il braccio e facciamo un giro — 
disse donna Elena Muti ad Andrea. 

Quando furono lontani dal gruppo, nel salone 
contiguo, Andrea stringendole il braccio mor- 
morò : 

— Grazie ! 

Ella si appoggiava a lui , soffermandosi di 
tratto in tratto per rispondere ai saluti. Pareva 
un poco stanca; ed era pallida come le perle 
delle sue collane. Ciascun giovine elegante le 
faceva un complimento volgare. 

— Questa stupidità mi soffoca — ella disse. 

Nel volgersi, vide Sakumi che la seguiva por- 
tando la camelia bianca airocchiello, in silenzio, 
con li occhi imbambolati, senza osare d' acco- 
starsi. Gli mandò un sorriso misericorde. 

— Povero Sakumi ! 

— V avete veduto ora soltanto ? — le chiese 
Andrea. 

— SI. 

— Quando eravamo seduti accanto al piano- 
forte, egli dal vano d'una finestra guardava con- 



- 70 - 

tlnuamente le vostre mani che giocavano con 
un' arma del suo paese destinata a tagliar le 
pagine d'un libro occidentale. 

— Dianzi ? 

— Già, dianzi. Forse egli pensava: " Dolce 
cosa far hara-kiri con quella piccola sciabola 
ornata di crisantemi che paion fiorire dalla lacca 
e dal ferro al tocco delle sue dita ! „ 

Ella non sorrise. Su la sua faccia era disceso 
un velo di tristezza e quasi di sofferenza; i 
suoi occhi parevano occupati da un'ombra più 
cupa, vagamente illuminati sotto la palpebra 
superiore, come dell'albor d'una lampada; un'e- 
spressione dolente le abbassava un poco li an- 
goli della bocca. Ella teneva il braccio destro 
abbandonato lungo la veste , reggendo nella 
mano il ventaglio e i guanti. Non porgeva più 
la mano ai salutatori e ai lusingatori ; né dava 
più ascolto ad alcuno. 

— Che avete, ora? — le chiese Andrea. 

— Nulla. Bisogna ch'io vada dalla Van Huf- 
fel. Conducetemi a salutare Francesca; e poi 
accompagnatemi fin giù, alla mia carrozza. 

Tornarono nel primo salone. Luigi GuUì , un 
giovine maestro venuto dalle natali Calabrie in 
cerca di fortuha, nero e crespo come un arabo, 
eseguiva con molta anima la sonata in do diesis 
minore di Ludovico Beethoven. La marchesa 
d' Ateleta , eh' era una sua proteggitrice, stava 
in piedi accanto al pianoforte, guardando la 
tastiera. A poco a poco la musica grave e soave 
prendeva tutti que' leggeri spiriti ne'suoi cerchi, 
come un gorgo tardo ma profondo. 

— Beethoven — disse Elena, con uà accento 



— 71 — 

quasi religioso, arrestandosi e sciogliendo il suo 
braccio da quello di Andrea. 

Ella cosi r imas e ad ascoltare, in piedi, presso 
una delle banane. Tenendo proteso il braccio 
sinistro , si metteva un guanto , con estrema 
lentezza. In queirattitudine l'arco delle sue reni 
appariva più svelto; tutta la figura, continuata 
dallo strascico, appariva più alta ed eretta; 
r ombra della pianta velava e quasi direi spi- 
ritualizzava il pallore della carne. Andrea la 
guardò. E le vesti, per lui, si confusero con la 
persona. 

" Ella sarà mia „ pensava, con una specie d'e- 
brietà, poiché la musica patetica gli aumentava 
r eccitamento. " Ella mi terrà fra le sue brac- 
cia, sul suo cuore! „ 

Imaginò di chinarsi e di posare la bocca su 
la spalla di lei. — Era fredda quella pelle dia- 
fana che sembrava un latte teimissimo attra- 
versato da una luce d'oro ? — Ebbe un brivido 
sottile; e socchiuse le palpebre, come per pro- 
lungarlo. Gli giungeva il profumo di lei, una 
emanazione indefinibile, fresca ma pur verti- 
ginosa come un vapore d'arómati. Tutto il suo 
essere insorgeva e tendeva con ismisurata vee- 
menza verso la stupenda creatura. Egli avrebbe 
voluto involgerla, attrarla entro di sé, suggerla, 
beveria, possederla in un qualche modo so- 
vrumano. 

Quasi constretta dal soverchiante desiderio 
del giovine, Elena si volse un poco; e gli sor- 
rise d'un sorriso cosi tenue, direi quasi così 
immateriale, che non parve espresso da un moto 
delle labbra, si bene da una irradiazione del- 



— 72 — 

l'anima per le labbra, mentre li occhi rimane- 
van tristi pur sempre, e come smarriti nella 
lontananza d'un sogno interiore. Eran veramente 
li occhi della Notte, cosi inviluppati d'ombra, 
quali per una Allegoria avrebbeli forse imagi- 
nati il Vinci dopo aver veduta in Milano Lu- 
crezia Crivelli. 

E neirattimo che durò il sorriso, Andrea si 
senti solo con lei, in mezzo alla moltitudine. Un 
orgoglio enorme gli gonfiava il cuore. 

Poiché Elena fece Tatto di mettersi l'altro 
guanto, egli la pregò sommesso: 

— No, non quello! 

Elena intese; e lasciò nuda la mano. 

Una speranza era in lui, di baciarle la mano, 
prima ch'ella partisse. D'improvviso, gli risorse 
nello spirito la visione della Fiera di maggio, 
quando gli uomini le bevevano nel concavo delle 
palme il vino. Di nuovo, un'acuta gelosia lo 
punse. 

— Ora, andiamo — ella disse, riprendendogli 
il braccio. 

Finita la sonata, le conversazioni si rianno- 
davano più vive. Il servo annunziò altri tre o 
quattro nomi, tra cui quello della principessa 
Issé che entrava con un piccolo passo incerto, 
vestita all'europea, sorridente dal volto ovale, 
candida e minuta come la figurina d'un netske. 
Un movimento di curiosità si propagò pe'l salone. 

— Addio, Francesca — disse Elena, prendendo 
congedo dall'Ateleta. — A domani. 

— Cosi presto? 

— Mi aspettano in casa Van Huffel. Ho pro- 
messo d'andare. 



— 73 — 

— Peccato I Canterà, ora, Mary Dyce. 

— Addio. A domani. 

— Prendi. E addio. Cugino amabile, accompa- 
gnatela. 

La marchesa le diede un mazzo di violette dop- 
pie; e si volse poi ad incontrar la principessa 
Issé, graziosamente. Mary Dyce, vestita di rosso, 
alta e ondeggiante come una fiamma, incomin- 
ciava a cantare. 

— Sono tanto stanca! — mormorò Elena, ap- 
poggiandoci ad Andrea. — Chiedete, vi prego, 
la mia pelliccia. 

Egli prese la pelliccia dal servo che glie la 
porgeva. Aiutando la dama a indossarla, '^le 
sfiorò l'omero con le dita; e sentì ch'ella rab- 
brividiva. Tutta l'anticamera era piena di val- 
letti in livree diverse, che s'inchinavano. La voce 
soprana di Mary Dyce portava le parole d'una 
romanza di Robert Schumann: " Ich kann*s nicht 
fassen, nicht glauben... „ 

Scendevano in silenzio. Il servo era andato 
innanzi per fare avanzare la carrozza fino a pie 
della scala. Udivasi rintronare lo scalpitìo de' 
cavalli sotto l'androne sonoro. Ad ogni scalino, 
Andrea sentiva il premer lieve del braccio di 
Elena che s'abbandonava un poco, tenendo il 
capo sollevato, anzi alquanto piega,to in dietro, 
con li occhi socchiusi. 

— Nel salire, vi seguiva la mia ammirazione 
sconosciuta. Nel discendere vi accompagna il 
mio amore, — le disse Andrea, sommessa-, 
mente, quasi umilmente, ponendo tra le ultime 
parole una pausa esitante. 

Ella non rispose. Ma portò alle nari il mazzo 



— 74 — 

delle viole ed aspirò il profumo. Nell'atto, Tarn- 
pia manica del mantello scivolò lungo il braccio, 
oltre il gomito. La vista di quella viva carne, 
uscente di fra la pelliccia come una massa di 
rose bianche fuor della neve, accese ancor più 
ne' sensi del giovine la brama, per la singoiar 
procacità che il nudo feminile acquista allor 
quando è mal celato da una veste folta e grave. 
Un piccolo fremito gli moveva le labbra; ed egli 
tratteneva a stento le parole desiose. 

Ma la carrozza era pronta a pie della scala, 
e il servo era allo sportello. 

~ Casa Van Huffel — ordinò la duchessa, 
montando, aiutata dal conte. 

Il servo s'inchinò, lasciando lo sportello; ed 
occupò il suo posto. I cavalli scalpitavano forte, 
levando faville. 

— Badate! — gridò Elena, tendendo al giovine 
la mano; e i suoi occhi e i suoi diamanti scin- 
tillavano neir ombra. 

" Essere con lei, là, nell'ombra e cercare con 
la bocca il suo collo fra la pelliccia profumata I „ 
Egli avrebbe voluto dirle: 

— Prendetemi con voi ! 
I cavalli scalpitavano. 

— Badate! — ripetè Elena. 

Egli 16 baciò la mano, premendo, come per 
lasciarle su la cute un'impronta di passione. 
Quindi chiuse lo sportello. E, al colpo, la car- 
rozza parti rapidamente, con un alto rimbombo 
per tutto l'androne, uscendo nel Fòro. 



— 75 



IIL 



Cosi ebbe principio l'avventura di Andrea Spe- 
relli con Donna Elena Muti. 

Il giorno dopo, le sale delle vendite publiche, 
in via Sistina, erano piene di gente elegante, 
venuta per assistere all'annunziata contesa. 

Pioveva forte. In quelle stanze umide e basse 
entrava una luce grigia; lungo le pareti erano 
disposti in ordine alcuni mobili di legno scol- 
pito e alcuni grandi trittici e dittici della scuola 
toscana del XIV secolo; quajjttro arazzi fiammin- 
ghi, rappresentanti la Storia di Narciso^ pende- 
vano fino a terra ; le majoliche metaurensi oc- 
cupavano due lunghi scafifali; le stoffe, per lo 
più ecclesiastiche, stavano o spiegate su le 
sedie o ammucchiate su i tavoli ; i cimelii più 
rari, li avorii, li smalti, i vetri, le gemme in- 
cise, le medaglie, le monete, i libri di preghiere, 
i codici miniati, li argenti lavorati erano rac- 
colti entro un'alta vetrina, dietro il banco dei 



— 76 — 

periti; un odor sin?:olare, prodotto dall'umidità 
del luogo e da quelle cose antiche, empiva 
l'aria. , 

Quando Andrea Sperelli entrò, accompagnando 
la principessa di Ferentino , ebbe un segreto 
tremito. Pensò: " Sarà già venuta? „ E i suoi 
occhi rapidamente la cercarono. 

Ella era già venuta, in fatti. Sedeva innanzi 
al banco, tra il cavaliere Dàvila e Don Filippo 
del Monte. Aveva posato su Torlo del banco i 
guanti e il manicotto di lontra da cui usciva 
fuori un mazzo di violette. Teneva tra le dita 
un quadretto d'argento, attribuito a Caradosso 
Foppa; e l'osservava con molta attenzione. Li 
oggetti passavano di mano in mano, lungo il 
banco; il perito ne faceva le lodi ad alta voce; 
le persone in piedi, dietro la fila delle sedie, si 
chinavano per guardare; quindi incominciava 
l'incanto. Le cifre si seguivano rapidamente. 
Ad ogni tratto, il perito gridava: 

— Si delibera! Si delibera! 

Qualche amatore, incitato dal grido, gittava 
una più alta cifra, guardando gli avversarli. Il 
perito gridava, con alzato il martello: 

— Uno! Due! Tre! 

E percoteva il banco. L'oggetto apparteneva 
all'ultimo offerente. Un mormorio si propagava 
in torno; poi di nuovo accendevasi la gara. Il 
cavaliere Dàvila, un gentiluomo napoletano che 
aveva forme gigantesche e maniere quasi fe- 
minee, celebre raccoglitore e conoscitor di majo- 
liche, dava il suo giudizio su ciascun pezzo im- 
portante. Tre, veramente, in quella vendita car- 
dinalizia, eran le cose "superiori,,: la Storia di 



— 77 — 

Narciso, la tazza di cristallo di rocca, e un elmo 
d'argento cesellato da Antonio del PoUajuolo, che 
la Signoria di Firenze donò al conte d'Urbino 
nel 1472, in ricompensa de' servigi da, lui resi 
nel tempo della presa di Volterra. 

— Ecco la principessa — disse Don Filippo 
del Monte alla Muti. 

La Muti si levò per salutare l'amica. 

— Di già sul campo! — esclamò la Ferentino. 

— Di già. 

— E Francesca? 

— Non è ancor giunta. 

Quattro o cinque, eleganti signori, il duca di 
Grimiti, Roberto Casteldieri, Ludovico Barbarisi, 
Giannetto Rùtolo, si appressarono. Altri soprav- 
venivano. Lo scroscio della pioggia copriva le 
parole. 

Donna Elena porse la mano allo Sperelli, fran- 
camente, come ad ognuno. Egli si senti, da 
quella stretta di mano, allontanare. Elena gli 
parve fredda e grave. Tutti i suoi sogni s'ag- 
ghiacciarono e precipitarono, in un attimo; i 
ricordi della sera innanzi si confusero; le spe- 
ranze si estinsero. Che aveva ella? Non era più 
la donna medesima. Vestiva una specie di lunga 
tunica di lontra e portava sul capo una specie 
di tòcco, anche di lontra. Aveva nell'espressione 
del volto qualche cosa di aspro e quasi di sprez- 
zante. 

— C'è ancora tempo, alla tazza — ella disse 
alla principessa; e si rimise a sedere. 

Ogni oggetto passava per le sue mani. Un 
Centauro intagliato in un sardonio, opera assai 
fina, forse proveniente dal disperso museo di 



— 78 — 

Lorenzo il Magnifico, la tentò. Ed ella prese 
parte alla gara. Comunicava la sua offerta al 
perito, a voce bassa , senza levare li occhi su 
di lui. A un certo punto, i competitori si arre- 
starono: ella ottenne la pietra, a buon prezzo. 

— Acquisto eccellente — disse Andrea Spe- 
' relli, che stava in piedi, dietro la sedia di lei. 

Elena non potè trattenere un lieve sussulto. 
Prese il sardonio e lo diede a vedere, levando 
la mano all'altezza della spalla, senza voltarsi. 
Era veramente un'assai bella cosa. 

— Potrebbe essere il Centauro che Donatello 
copiò — soggiunse Andrea. 

E nell'animo di lui, insieme con l'ammirazione 
per la cosa bella, sorse l'ammirazione per il 
nobile gusto della dama che ora la possedeva. 
"Ella è dunque, in tutto, una eletta y^y pensò. 
^ Quali piaceri può dare ella a un amante raf- 
finato ! „ Colei s' ingrandiva, nella sua imagina- 
zione; ma, ingrandendosi, sfuggi vagli. La gran 
sicurezza della sera innanzi mutavasi in una 
specie di scoraggiamento; e i dubbii primitivi 
risorgevano. Egli aveva troppo sognato, nella 
notte, a occhi aperti, nuotando in una felicità 
senza fine, mentre il ricordo d'un gesto, d'un 
sorriso, d'un' aria della testa, d'una piega del 
vestito lo prendeva e l' allacciava , come una 
rete. Ora, tutto quel mondo imaginario crollava 
miseramente al contatto della realità. Egli non 
aveva visto nelli occhi di Elena il singoiar sa - 
luto a cui aveva tanto pensato; egli non era 
stato distinto da lei, in mezzo agli altri, con nes- 
sun segno. " Perchè? „ Si sentiva umiliato. Tutta 
quella gente fatua, d'in torno, gli faceva ira; 



- To- 
gli facevano Ira quelle cose che attraevan Tat- 
tenzione dì lei; gli faceva ira Don Filippo del 
Monte che di tratto in tratto chinavasì verso 
di lei per mormorarlo forse qualche malignità. 
Sopravvenne l'Ateleta. La quale era, come sem- 
pre, allegra. Il suo riso, tra i signori che già 
l'attorniavano, fece volgere vivamente Don Fi- 
lippo. 

— La Trinità è perfetta — egli disse e si levò. 
Andrea occupò subito la sedia, accanto alla 

Muti. Come gli giunse alle nari il profumo sot- 
tile delle viole, mormorò: 

— Non sono quelle di ieri sera. 

— No — fece Elena, freddam'ente. 

Nella sua mobilità, ondeggiante e carezzante 
come Tonda, c'era sempre la minaccia del gelo 
inaspettato. Ella era soggetta a rigidità subita- 
nee. Andrea tacque, non comprendendo. 

— Si delibera! Si delibera! — gridava il perito. 
Le cifre salivano. La gara era ardente intorno 

l'elmo d'Antonio del Pollajuolo. Anche il cava- 
liere Dàvila entrava in lizza. Pareva che a poco 
a poco l'aria si riscaldasse e che il desiderio 
di quelle cose belle e rare prendesse tutti li spi- 
riti. La manìa si propagava, come un contagio. 
In quell'anno, a Roma, l'amore del bibelot e del 
bric-à-brac era giunto all'eccesso ; tutti i saloni 
della nobiltà e dell'alta borghesia erano ingom- 
bri di ^' curiosità „; ciascuna dama taghava i 
cuscini del suo divano in una pianeta o in un 
piviale e metteva le sue rose in un vaso di far- 
macia umbro o in una coppa di calcedonio. I 
luoghi delle vendite publiche erano un ritrovo 
preferito; e le vendite erano frequentissime. 



- 80 — 

Nelle ore pomeridiane del tè le signore, per ele- 
ganza, giungevano dicendo: " Vengo dalla ven- 
dita del pittore Campos. Molta animazione. Ma- 
gnifici i piatti arabo-ispani! Ho preso un giojello 
di Maria Leczìnska. Eccolo. „ 

— Si delibera! 

Le cifre salivano. Intorno al banco si accal- 
cavano li amatori. La gente elegante si dava 
ai bei parlari, fra le Natioità e le Annuncia;sioni 
giottesche. Le signore, fra quelFodore di muffa 
e di anticaglie, portavano il profumo delle loro 
pellicce e segnatamente quello delle violette, 
poiché tutti i manicotti contenevano un mazzo- 
lino secondo la moda leggiadra. Per kt presenza 
di tante persone, un tepore dilettolo diffondevasi 
neiraria, come in una umida cappella dove fos- 
sero molti fedeli. La pioggia seguitava a cro- 
sciar di fuori e la luce a dhnlnuire. Furono 
accese le fiammelle del gas; e i due diversi 
chiarori lottavano. 

— Uno! Due! Tre! 

Il colpo di martello diede il possesso dell'elmo 
fiorentino a lord Humphrey Heathfleld. L'incanto 
ricominciò di nuovo su piccoli oggetti, che pas- 
savano lungo il banco, di mano in mano. Elena 
li prendeva delicatamente, li osservava e li po- 
sava quindi innanzi ad Andrea, senza dir nulla. 
Erano smalti, avorii, orologi del XVIII secolo, 
gioielli d'oreficeria milanese del tempo di Ludo- 
vico il Moro, libri di preghiere scritti a lettere 
d'oro su pergamena colorita d'azzurro. Tra le 
dita ducali quelle preziose materie parevano 
acquistar pregio. Le piccole mani avevano tal- 
volta un leggero tremito al contatto delle cose 



- 81 — 

più desiderabili. Andrea guardava intentamente; 
e nella sua imaginazione egli trasmutava in una 
carezza ciascun moto di quelle mani. " Ma per- 
chè Elena posava ogni oggetto sul banco, in 
vece di porgerlo a lui?„ 

Egli prevenne il gesto di Elena, tendendo la 
niano. E da allora in poi li avorii, li smalti, i gio- 
ielli passarono dalle dita dell'amata in quelle del- 
l'amante, comunicando un indefinibile diletto. Pa- 
reva ch'entrasse in loro una particella dell'amo- 
roso fascino di quella donna, come entra nel ferro 
un poco della virtù d' una calamita. Era vera- 
mente una sensazione magnetica di diletto, una 
di quelle sensazioni acute e profonde che si 
provan quasi soltanto negli inizii di un amore 
e che non paiono avere né una sede fisica nò 
una sede spirituale, a simiglianza di tutte le al- 
tre, ma sì bene una sede in un elemento neutro 
del nostro essere, in un elemento quasi direi 
intermedio, di natura ignota, men semplice d*uno 
spirito, più sottile d'una forma, ove la passione 
si raccoglie come in un ricettacolo , onde la 
passione s'irradia come da un focolare. 

" È un piacere non mai provato, „ pensò An- 
drea Sperelli anche una volta. 

L'invadeva un leggero torpore e a poco a 
poco lo abbandonava la conscienza del luogo e 
del tempo. 

— Vi consiglio questo orologio — gli disse 
Elena, con uno sguardo di cui egli da prima 
non comprese la significazione. 

Era una piccola testa di morto scolpita nel- 
l'avorio con una straordinaria potenza d'imita- 
zione anatomica. Ciascuna mascella portava una 

Il Piacere* 6 



— 82 — 

fila di diamanti , e due rubini scintillavano in 
fondo alle occhiaie. Su la fronte era inciso un 
motto: RuiT hora; suToccipite, un altro motto: 
TiBi, HiPPOLYTA. Il cranio si apriva, come una 
scatola, se bene la commessura fosse quasi in- 
visibile. L'interior battito del congegno dava a 
quel teschiettò una inesprimibile apparenza di 
vita. Quel gioiello mortuario, offerta d'un arte- 
fice misterioso alla sua donna, aveva dovuto 
segnar le ore deir.ebrezza e col suo simbolo am- 
monire li spiriti amanti. 

In verità, non poteva il Piacere desiderare 
un più squisito e più incitante mìsurator del 
tempo. Andrea pensò: "Me lo consiglia élla per 
noi? „ E a quel pensiero tutte le speranze ri- 
nacquero e risorsero di tra l'incertezza, confu- 
samente. Egli si gittò nella gara, con una spe- 
cie d'entusiasmo. Gli rispondevano due o tre 
competitori accaniti, tra cui Giannetto Rùtolo 
che , avendo per amante Donna Ippolita Albó- 
nico , era attratto dall' inscrizione : Tmi , Hip- 

POLYTA. 

Dopo poco, rimasero soli a contendere, il Rù- 
tolo e lo Sperelli. Le cifre salivano oltre il prezzo 
reale dell'oggetto, mentre i periti sorridevano. 
A un certo punto, Giannetto Rùtolo non rispose 
più, vinto dalla ostinazione dell'avversario. 

— Si deliberal Si delibera! 

L'amante di Donna Ippolita, un poco pallido, 
gridò un'ultima cifra. Lo Sperelli aumentò. Ci 
fu un momento di silenzio. Il perito guardava 
i due competitori; quindi levò il martello, con 
lentezza, sempre guardando. 

— Unol Due! Tre! 



— 83 — 

La testa di morto rimase al conte d' Ugenta. 
Un mormorio si diffuse per la sala. Uno sprazzo 
di luce entrò per la vetrata e fece splendere i 
fondi aurei dei trittici, avvivò la fronte dolente 
d' una madonna senese e il cappellino grigio 
della principessa di Ferentino , coperto di sca- 
glie d'acciaio. 

— Quando la tazza? — chiese la principessa 
con impazienza. 

Li amici guardarono i cataloghi. Non c'era 
più speranza che la tazza del bizzarro umani- 
sta fiorentino andasse all'incanto in quel giorno. 
Per la molta concorrenza, la vendita procedeva 
lentamente. Rimaneva ancora un lungo elenco 
d'oggetti minuti, come cammei, monete, meda^ 
glie. Alcuiii antiquarii e il principe Stroganow 
si disputavano ogni pezzo. Tutti li aspettanti eb- 
bero una disillusione. La duchessa di Scerni si 
levò per andarsene. 

— Addio, Sperelli — disse. — A questa sera, 
forse. 

— Perchè dite " forse? „ 

— Mi sento tanto male. 

— Che avete mai? 

Ella, senza rispondere, si volse alli altri sa- 
lutando. Ma li altri seguivano il suo esempio; 
escivano insieme. I giovini signori motteggia- 
vano in torno il mancato spettacolo. La mar- 
chesa d'Ateleta rideva, ma la Ferentino pareva 
di pessimo umore. I servi che aspettavano nel 
corridoio, facevano avanzar le carrozze, come 
alla porta d'un teatro o d'una sala di concerti. 

— Non vieni dalla Miano? — domandò l'Ate- 
leta ad Elena. 



— 84 — 

— No; torno a casa. 

Ella aspettò, su Torlo del marciapiede, che il 
suo coupé s'avanzasse. La pioggia si disperdeva; 
tra larghe nuvole bianche scorgevasi qualche 
intervallo d'azzurro; una zona di raggi faceva 
luccicare il lastrico. E la signora, investita da 
quel chiaror tra biondo e roseo , nel mantello 
magnifico che scendeva con poche pieghe diritte 
e quasi simmetriche, era bellissima. Il sogno 
medesimo della sera innanzi sorse nello spirito 
di Andrea, quando egli intravide V interno del 
coupé tappezzato di raso come un boudoir^ dove 
luccicava il cilindro d'argento pieno d'acqua 
calda destinato a tener tiepidi i piccoli piedi du- 
cali. "Essere là, con lei, in quella intimità così 
raccolta, in quel tepore fatto dal suo alito, nel 
profumo delle violette appassite, intravedendo 
a pena da' cristalli appannati le vie coperte di 
fango, le case grige, la gente oscura! „ 

Ma ella inchinò lievemente il capo allo spor 
tello, senza sorridere; e la carrozza parti, verso 
il palazzo Barberini, lasciandogli nell'anima una 
vafca tristezza, uno scoramento indefinito. — 
Ella aveva detto " forse. „ Poteva dunque non 
venire al palazzo Farnese. E allora? 

Questo dubbio l'affliggeva. Il pensiero di non 
rivederla gli era insopportabile: tutte le ore pas- 
sate lontano da lei già gli pesavano. Egli chie- 
deva a sé stesso: " L'amo io dunque già tanto? „ 
Il suo spirito pareva chiuso in un cerchio, en- 
tro cui turbinavano confusamente tutti i fan- 
tasmi delle sensazioni avute nella presenza di 
quella donna. D'un tratto, emergevano della sua 
memoria, con una singolare esattezza, una frase 



— 85 — 

di lei, una intonazione di voce, un'attitudine, un 
movimento delli ocelli , la forma d' un divano 
sul quale ella sedeva, il finale della sonata del 
Beethoven , una nota di Mary Dyce , la figura 
del servo che stava allo sportello, una qualun- 
que particolarità, un qualunque frammento, ed 
oscuravano con la vivezza della loro imagine 
le cose della esistenza in corso, si sovrappone- 
vano alle cose presenti. Egli le parlava, mental- 
mente; le diceva, mentalmente, tutto quello 
che poi le avrebbe detto in realtà, ne' futuri 
colloqui. Prevedeva le scene, i casi, le vicende, 
tutto lo svolgimento dell'amore, secondo le sug- 
gestioni del suo desiderio. — In che modo si 
sarebbe ella data a lui, la prima volta? 

Mentre saliva le scale del palazzo Zuccari , 
per rientrare nel suo appartamento, gli bale- 
nava questo pensiero. — Ella, certo, sarebbe 
venuta là. La via Sistina, la via Gregoriana, la 
piazza della Trinità dei Monti, specialmente in 
certe ore, erano quasi deserte. La casa non era 
abitata che da stranieri. Ella avrebbe dunque 
potuto avventurarsi senza timori. Ma come at- 
tirarla? — La sua impazienza era tanta ch'egli 
avrebbe voluto poter dire: "Verrà domani! „ 

" Ella è libera „ pensò. " Non la tiene la vigi- 
lanza d'un marito. Nessuno può chiederle conto 
delle assenze anche lunghe, anche insolite. Ella 
è padrona d'ogni suo atto, sempre. „ Gli si pre- 
sentarono allo spirito, subitamente, interi giorni 
e intere notti di voluttà. Si guardò in torno , 
nella stanza calda, profonda, segreta; e quel 
lusso intenso e raffinato, tutto fatto di arte, gli 
piacque, per lei. Quell'aria aspettava il suo re- 



— 86 — 

spiro; quei tappeti chiedevano d'esser premuti 
dal suo piede; quei cuscini volevano Timpronta 
del suo corpo. 

" Ella amerà la mia casa „ pensò. " Amerà le 
cose ch'io amo. ^ Il pensiero gli dava una indi- 
cibile dolcezza; e gli pareva che già un'anima 
nuova, consapevole della imminente gioia, pal- 
pitasse sotto li alti soffitti. 

Chiese il tè al servo; e s'adagiò d'innanzi al 
caminetto, per meglio godere le finzioni della sua 
speranza. Trasse dall'astuccio il piccolo teschio 
gemmato e si mise ad esaminarlo attentamente. 
Al chiaror del fuoco l'esile dentatura adaman- 
tina brillava su l'avorio giallastro e i due rubini 
illuminavano l'ombra delle occhiaie. Sotto il cra- 
nio ponto risonava il battito incessante del tem- 
po. — RuiT HORA. — Quale artefice mai poteva 
avere avuta per una sua Ippolita quella superba 
e libera fantasia di morte, nel secolo in cui i 
maestri smaltisti ornavan di teneri idillii pasto- 
rali gli orioletti destinati a segnar pe' cicisbei 
Fora de' ritrovi ne' parchi del Watteau? La scol- 
tura rivelava una mano dotta, vigorosa, padrona 
d'uno stile proprio: era in tutto degna d'un quat- 
trocentista penetrante come il Verrocchio. 

'^ Vi consiglio questo orologio. „ Andrea sorri- 
deva un poco , ricordando le parole di Elena 
pronunziate in un modo così strano, dopo un 
cosi freddo silenzio. — Senza dubbio , dicendo 
quella frase , ella pensava all'amore : ella pen- 
sava ai prossimi convegni d'amore, senza dub- 
bio. Ma perchè poi, di nuovo, era diventata im- 
penetrabile? Perchè non s'era curata più di lui? 
Che aveva ella? — Andrea si smarrì nell'inda- 



— 87 -^ 

gine. Però l'aria calda, la mollezza della pol- 
trona, la luce discreta, le variazioni del fuoco, 
l'aroma del tè, tutte quelle sensazioni grate 
ricondussero il suo spirito agli errori dilet- 
tosi. Egli andava errando senza meta, come 
in un fantastico laberinto. In lui il pensiero as- 
sumeva talvolta la virtù 'dell'oppio: poteva ine- 
briarlo. 

— Mi permetto di ricordare al signor conte 
che per le sette è atteso in casa Doria — disse 
a voce bassa il servo, che aveva anche l'ufficio 
di rammentatore. — Tutto è preparato. 

Egli andò a vestirsi, nella camera ottago- 
nale ch'era, in verità, il più elegante e comodo 
spogliatoio desiderabile per un giovine signore 
moderno. Vestendosi, aveva una infinità di mi- 
nute cure della sua persona. Sopra un gran 
sarcofago romano, trasformato con molto gu- 
sto in una tavola per abbigliamento, erano dis- 
posti in ordine i fazzoletti di batista, i guanti 
da ballo, i portafogli, li astucci delle sigarette, 
le fiale delle essenze, e cinque o sei gardenie 
fresche in piccoli vasi di porcellana azzurra. 
Egli scelse un fazzoletto con le cifre bianche e 
ci versò due o tre gocce dìpao rosa; non preso 
alcuna gardenia perchè l'avrebbe trovata alla 
mensa di casa Doria; empì di sigarette russe 
un astuccio d'oro martellato, sottilissimo, ornato 
d'uno zaffiro su la sporgenza della molla, un po' 
curvo per aderire alla coscia nella tasca de' cal- 
zoni. Quindi uscì. 

In casa Doria, tra un discorso e l'altro, la 
duchessa Angelieri, a proposito del recente parto 
della Miano, disse: . 



- 88 — 

— Pare che Laura Miano e la Muti sieno in 
rotta. 

— Forse per Giorgio? — chiese un'altra dama, 
ridendo. 

— Si dice. È una storia incominciata a Lu- 
cerna, quest'estate.... 

— Ma Laura non era a Lucerna. 

— A punto. C'era suo marito.... 

— Credo che sia una malignità; null'altro — 
interruppe la contessa florentma, Donna Bianca 
Dolcebuono. — Giorgio è ora a Parigi. 

Andrea aveva udito, se bene al suo lato destro 
la loquace contessa Stamina l'occupasse di con- 
tinuo. Le parole della Dolcebuono non bastavano 
a lenirgli la puntura acutissima. Egli avrebbe 
voluto, al meno, sapere fino in fondo. Ma l'An- 
gelieri rinunziava a seguitare; e altre conver- 
sazioni si mescolavano fra i trionfi delle magne 
rose di Villa Pamphily. 

^ Chi era questo Giorgio? Forse l'ultimo amante 
di Elena? Ella aveva passata una parte dell'estate 
a Lucerna. Ella veniva di Parigi. Ella, nell'uscire 
dalla vendita, erasi rifiutata di andare in casa 
Miano. „ Nell'animo di Andrea le apparenze erano 
contro di lei tutte. Un desiderio atroce l'invase, 
di rivederla, di parlarle. L'invito al palazzo Far- 
nese era per le dieci ; alle dieci e mezzo egli si 
trovava già là, aspettando. 

Aspettò molto. Le sale si empivano rapida- 
mente; le danze incominciavano: nella galleria 
d'Annibale Caracci le semiddie quiriti lottavan 
di formosità con le Ariadne, con le Galatee, con 
le Aurore, con le Diane delli aff*resclii; le cop- 
pie turbinando esalavano profumi: le mani in- 



- 89 — 

guantate delle dame premevano la spalla dei 
cavalieri; le teste ingemmate si curvavano o si 
ergevano; certe boccile semiaperte brillavano 
come la porpora; certe spalle nude luccicavano 
sparse d'un velo d'umidore; certi seni parevano 
irrompere dal busto, sotto la veemenza del- 
l'ansia. 

— Non ballate, Sperelli? — chiese Gabriella 
Barbarisi, una fanciulla bruna come Yolioa spe- 
ciosa, mentre passava a braccio d'un danzatore, 
agitando con la mano il ventaglio e col sorriso 
un neo ch'ella aveva in una fossetta presso la 
bocca. 

— SI , più tardi — rispose Andrea. — Più 
tardi. 

Incurante delle presentazioni e dei saluti, egli 
sentiva crescere il suo tormento nell'attesa inu- 
tile; e girava di sala in sala alla ventura. Il 
" forse „ gli faceva temere ch'Elena non venisse. 
— E s'ella proprio non veniva? Quando l'avrebbe 
egli riveduta? — Passò Donna Bianca Dolce- 
bucmo; e, senza sapere perchè, egli le si mise a 
fianco dicendole molte frasi cortesi , provando 
quasi un poco di sollievo in compagnia di lei. 
Avrebbe voluto parlarle di Elena, interrogarla,, 
rassicurarsi. L'orchestra die principio a una ma- 
zurka assai molle; e la contessa fiorentina col 
suo cavaliere entrò nella danza. 

Allora Andrea si volse a un gruppo di gio- 
vini signori, che stava presso una porta. Eravi 
Ludovico Barbarisi, eravi il duca di Beffi, con 
Filippo del Gallo, con Gino Bomminaco. Guarda- 
vano le coppie girare e malignavano, un po' 
grossolanamente. Il Barbarisi raccontava d'aver 



— 90 — 

vedute ambedue le rotondità del petto alla con- 
tessa di Lùcoli, ballando il valzer, n Bomminaco 
domandò: 

— Ma come? 

— Provaci. Basta chinare gli occhi nel cor- 
sage. Ti assicuro che vale la pena.... 

— Avete badato alle ascelle di Madame Chry- 
soloras? Guardate! 

Il duca di Beffi mostrava una danzatrice che 
aveva in su la fronte bianca come il marmo 
di Luni un'accensione di chiome rosse, a simi- 
litudine d*una sacerdotessa d'Alma Tadema. Il 
suo busto era congiunto alli omeri da un sem- 
plice nastro, e si scorgevano sotto le ascelle 
due ciuffi rossastri troppo abondanti. 

Il Bomminaco si mise a ragionare dell'odor 
singolare che hanno le donne rosse. 

— Tu lo conosci bene, quell'odore — disse 
con malizia il Barbarisi. 

— Perchè! 

— La Micigliano.... 

Il giovine si compiacque manifestamente di 
sentir nominare una delle sue amanti. Non pro- 
testò, ma rise; poi volgendosi allo Sperelli: 

— Che hai stasera? Ti cercava tua cugina, 
un momento fa. Ora balla con mio fratello. 
Eccola. 

— Guarda! — esclamò Filippo del Gallo. — È 
tornata l'Albónico. Balla con Giannetto. 

— È tornata anche la Muti, da una settimana, 
— fece Ludovico. — Che bella creatura! 

— È qui? 

— Non l'ho veduta ancora. 

Andrea ebbe al cuore un sussulto, temendo 



— 91 — 

che da qualcuna di quelle bocche fosse per 
uscire una malignità anche contro di lei. Ma 
il passaggio della principessa Issé, a braccio 
del ministro di Danimarca, divagò li amici. Egli 
non di meno sentivasi spingere da una teme- 
raria curiosità a riallacciare il discorso sul nome 
dell'amata, per sapere, per iscoprire; ma non 
osò. La mazurka finiva; il gruppo disperdevasi. 
"Ella non viene! Ella non viene! „ L'inquietu- 
dine interiore gli cresceva cosi fieramente che 
egli pensò d'abbandonare le sale, poiché il con- 
tatto di quella folla eragli insoffribile. 

Volgendosi, vide apparire su l'ingresso della 
galleria la duchessa di Scerni a braccio del- 
l'ambasciatore di Francia. In un attimo, egli 
incontrò lo sguardo di lei; e li occhi d'ambe- 
due, in quell'attimo, parvero mescersi, pene- 
trarsi, beversi. Ambedue sentirono che l'uno 
cercava l'altra e l'altra l'uno; ambedue senti» 
rono, ad un punto, scendere su l'anima un si- 
lenzio, in mezzo a quel romore, e quasi direi 
aprirsi un abisso in cui tutto il mondo circo- 
stante scomparve sotto la forza d'un pensiero 
unico.; 

Ella s'avanzava nell'istoriata galleria del Ca- 
racci, dov'era minore la calca, portando un 
lungo strascico di broccato bianco che la se- 
guiva come un'onda grave sul pavimento. Cosi 
bianca e semplice, nel passare volgeva il capo 
ai molti saluti, mostrando un'aria di stanchezza, 
sorridendo con un piccolo sforzo visibile che 
le increspava li angoli della bocca, mentre li 
occhi sembravan più larghi sotto la fronte esan- 
gue. Non la fronte sola ma tutte le linee del 



— 92 — 

volto assumevano dairestremo pallore una te- 
nuità quasi direi psichica. Ella non era più né 
la donna seduta alla mensa degli Ateleta, né 
quella al banco delle vendite, né quella diritta 
un istante sul marciapiede della via Sistina. 
La sua bellezza aveva ora un'espressione di 
sovrana idealità, che meglio splendeva in mezzo 
alle altre dame accese in volto dalla danza, 
eccitate, troppo mobili, un po' convulse. Al- 
cuni uomini, guardandola, rimanevan pensosi. 
Ella metteva anche negli spìriti più ottusi o più 
fatui un turbamento, una Inquietudine, un'aspi- 
razione indefinibile. Chi aveva il cuor libero 
imaginava con un fremito profondo l'amore di 
lei; chi aveva un'amante provava un oscuro 
rammarico sognando una ebrezza sconosciuta, 
nel cuore non pago ; chi recava entro di sé la 
piaga d'una gelosia o d'un inganno aperta da 
un'altra donna, sentiva ben che avrebbe potuto 
guarire. 

Ella s'avanzava cosi, tra li omaggi, avvolta 
dallo sguardo delli uomini. All'estremità della 
galleria, si unì ad un gruppo di dame che par- 
lavano vivamente agitando i ventagli, sotto la 
pittura di Perseo e di Fineo impietrato. Eranvi 
la Ferentino, la Massa d'Albe, la marchesa 
Daddl-Tosinghi, la Dolcebuono. 

— Perchè così tardi? — le chiese quest'ultima* 

— Ho esitato molto, prima di venire, perchè 
non mi sento bene. 

— In fatti, sei pallida. 

— Credo che riavrò le nevralgìe alla faccia, 
come l'anno scorso. 

— Non sia mai! 



— 93 — 

— Guarda, Elena, Madame de la Boissière — 
disse Giovanella Daddi, con quella sua strana 
voce rauca. — Non sembra un cammello ve- 
stito da cardinale, con un parrucchino giallo? 

— Mademoiselle Vanloo stasera perde la te- 
sta per tuo cugino — disse la Massa d'Albe alla 
principessa, vedendo passare Sofia Vanloo a 
braccio di Ludovico Barbarisi. — L'ho sentita 
dianzi che supplicava, dopo un giro di polka, 
accanto a me: ^ Ludovic, ne Jaites plus ga en 
dartsant; je frissonne tonte... „ 

Le dame si misero a ridere in coro, tra Tagi- 
tazion de' ventagli. Giungevano dalle sale con- 
tigue le prime note d'un walzer unglierese. I 
cavalieri si presentarono. Andrea potè final- 
mente offerire il braccio ad Elena e trarla seco. 

— Aspettandovi, ho creduto di morirei Se voi 
non foste venuta, Elena, io vi avrei cercata 
ovunque. Quando vi ho vista entrare, ho trat- 
tenuto a stento un grido. Questa è la seconda 
sera eh' io vi vedo, ma mi par già di amarvi 
non so da che tempo. Il pensiero di voi, unico, 
incessante, è ora la vita della mia vita.... 

Egli proferiva le parole d'amore sommessa- 
mente, senza guardarla, tenendo li occhi fissi 
d'innanzi a sé; ed ella le ascoltava nella stessa 
attitudine, inipassibile in vista, quasi marmorea. 
Nella galleria rimanevano poche persone. Lungo 
le pareti, tra ì busti dei Cesari, i cristalli opa- 
chi de' lumi, in forma di gigli, versavano un 
chiarore eguale, non troppo forte. La profusione 
delle piante verdi e fiorite dava imagine di una 
serra suntuosa. Le onde della musica si pro- 
pagavano nell'aria calda, sotto le vòlte concave 



— 94 — 

e sonore, passando su tutta quella mitologia 
come un vento su un giardino opulento. 

— Mi amerete voi? — chiese il giovine. — 
Ditemi che mi amerete! 

Ella rispose, con lentezza: 

— Son venuta qui per voi soltanto. 

— Ditemi che mi amerete! — ripetè il gio- 
vine, sentendo tutto il sangue delle sue vene 
affluire al cuore come un torrente di gioia. 

Ella rispose: 

— Forse. 

E lo guardò con lo sguardo medesimo che 
la sera innanzi era a lui parso una divina pro- 
messa, con quell'indefinibile sguardo che quasi 
dava alla carne la sensazione del tocco amo- 
roso d'una mano. Poi ambedue tacquero ; ed 
ascoltarono ravviluppante musica della danza, 
che a tratti a tratti facevasi piana come un su- 
surro o levavasi come un turbine improvviso. 

— Volete che balliamo? — domandò Andrea, 
che dentro tremava al pensiero di tenerla fra 
le braccia. 

Ella esitò un poco. Quindi rispose: 

— No; non voglio. 

Vedendo entrare nella galleria la duchessa di 
Bugnara, sua zia materna, e la principessa Al- 
beroni con l'ambasciatrice di Francia, soggiunse: 

— Ora, siate prudente; lasciatemi. 

Ella gli tese la mano inguantata; e andò in 
contro alle tre dame, sola, con un passo ritmico 
e leggero. Dava una sovrana grazia alla sua 
persona e al suo passo il lungo strascico bianco, 
poiché l'ampiezza e la pesantezza del broccato 
contrastavano con l'esilità della cintura. Andrea, 



— 05 — 

^ seguendola con li occhi, ripeteva mentalmente 
? la frase di lei: ** Son venuta per voi soltanto. „ 
— Ella era pur cosi bella, per lui, per lui solo! — 
Subitamente, dal fondo del cuore gli sì levò 
un resto dell'amarezza che vi avevano messa 
le parole dell' Angelieri. L'orchestra lanciavasi 
con impeto in una ripresa. Ed egli non dimen 
ticò mai né quelle note, nò quell'improvisa an- 
goscia, né l'attitudine della donna, né lo spleii 
dor della stoffa trascinata, né una minifìia piega 
né una minima ombra, né alcuna particolarità 
di quel momento supremo. 



96 - 



V 



IV. 



Elena, dopo poco, aveva lasciato il palazzo 
Farnese quasi di nascosto, senza prender con- 
gedo né da Andrea ne da alcun altro. Era dun- 
que rimasta al ballo a pena mezz'ora. L'amante 
Taveva cercata per tutte le sale, a lungo e 
in vano. 

La mattina seguente, egli mandò un servo al 
palazzo Barberini per aver notizie di lei; e seppe 
ch'ella stava male. La sera andò di persona, 
sperando d'esser ricevuto ; ma una camerista 
gli disse che la signora soffriva molto e che non 
poteva veder nessuno. Il sabato, verso le cin- 
que del pomeriggio, tornò, sempre sperando. 

Egli usciva dalla casa Zuccari, a piedi. Era 
un tramonto paonazzo e cinereo, un po' lugu- 
bre, che a poco a poco si stendeva su Roma 
come un velario greve. Intorno alla fontana 
della piazza Barberini i fanali già ardevano, con 
fiammelle pallidissime, come ceri intorno a un 



— 97 — 

feretro; e il Tritone non gittava acqua, forse 
per causa d'un restauro o d'una pulitura. Veni- 
vano giù per la discesa carri tirati da due o da 
tre cavalli messi in fila e torme d'operai tor- 
nanti dalle opere nuove. Alcuni, allacciati per 
le braccia, si dondolavano cantando a squar- 
ciagola una canzone impudica. 

Egli si fermò, per lasciarli passare. Due o tre ^ 
di quelle figure rossastre e bieche gli rimasero 
impresse. Notò che un carrettiere aveva una 
mano fasciata e le fasce macchiate di sangue. 
Anche, notò un altro carrettiere in ginocchio 
sul carro, che aveva la faccia livida, le occhiaie 
cave, la bocca contratta, come un uomo attos- 
sicato. Le parole della canzone si mescevano 
ai gridi gutturali, ai colpi delle fruste, al romore 
delle ruote, al tintinnìo dei sonagli, alle ingiu- 
rie, alle bestemmie, alle aspre risa. 

La sua tristezza s'aggravò. Egli si trovava 
in una djsposizion di spirito strana. La sensi- 
bilità de' suoi nervi era così acuta che ogni mi- 
nima sensazione a lui data dalle cose esteriori 
pareva una ferita profonda. Mentre un pensiero 
fisso occupava e tormentava tutto il suo essere, 
egli aveva tutto il suo essere esposto alli urti 
della vita circostante. Contro ogni alienazione 
della mente ed ogni inerzia della volontà, i suoi 
sensi rimanevano vigili ed attivi; e di quell'at- 
tività egli aveva una conscienza non esatta. I 
gruppi delle sensazioni gli attraversavano d'im- 
provviso lo spirito, simili a grandi fantasmago- 
rie in una oscurità; e lo turbavano e sbigotti- 
vano. Le nuvole del tramonto, la forma del Tri- 
tone cupa in un cerchio dì fanali smorti, quella 

Il Piacere. 7 



discesa barbarica d'uomini bestiali e di giumenti 
enormi, quelle grida, quelle canzoni, quelle be- 
stemmie esasperavano la sua tristezza, gli su- 
scitavano nel cuore un timor vago, non so che 
presentimento tragico. 

Una carrozza chiusa usciva dal giardino. Egli 
vide chinarsi al cristallo un volto di donna, in 
atto di saluto; ma non lo riconobbe. Il palazzo 
levavasi d'innanzi a lui, ampio come una reg- 
gia; le vetrate del primo piano brillavano di 
riflessi violacei; su la sommità indugiava un 
bagliore fievole; dal vestibolo usciva un'altra 
carrozza chiusa. 

" Se potessi vederla 1 „ egli pensò, sofferman- 
dosi. Rallentava il passo, per prolungare l'incer- 
tezza e la speranza. Ella gli pareva assai lon- 
tana, quasi perduta, in quell'edifizio cosi vasto. 

La carrozza si fermò; e un signore mise il 
capo fuori dello sportello, chiamando: 

— Andrea! 

Era il duca di Grimiti, un parente 

— Vai dalla Scerni? — chiese colui con un 
sorriso fine. 

— Sì, — rispose Andrea — a prendere notizie. 
Tu sai, è malata. 

— Lo so. Vengo di là. Sta meglio. 

— Riceve? 

— Me, no. Ma potrà forse ricever te. 

E il Grimiti si mise a ridere maliziosamente, 
tra il fumo della sua sigaretta. 

— Non capisco — fece Andrea, serio. 

— Bada; si dice già che tu sia in favore. L'ho 
saputo iersera, in casa Pallavicini; da una tua 
amica: te lo giuro. 



^ 99 — 

Andrea fece un atto d'impazienza e si voltò 
per andarsene. 

— Borine chance! — gli gridò il duca. 
Andrea entrò sotto il portico. In fondo a lui, 

la vanità godeva di quella diceria già sorta. 
Egli ora si sentiva più sicuro, più leggero, quasi 
lieto, pieno d'un intimo compiacimento. Le pa- 
role del Grimiti gli avevano d'un tratto solle- 
vato gli spiriti, come un sorso d'un liquor cor- 
diale. Mentre saliva le scale, gli cresceva la 
speranza. Giunto avanti alla porta, aspettò' per 
contenere l'ansia. Suonò. 
Il servo lo riconobbe; e disse sùbito: 

— Se il signor Conte ha la bontà d'attendere 
un momento, vado ad avvertire Mademoiselle. 

Egli assentì; e si mise a passeggiare su e 
giù per la vasta anticamera ove gli pareva ri- 
percuotersi forte il tumulto del suo sangue. Le 
lanterne di ferro battuto illuminavano inegual- 
mente il cuoio delle pareti, le cassapanche scol- 
pite, i busti antichi su' piedestalli di broccatello. 
Sotto un baldacchino splendeva di ricami l'im- 
presa ducale: un liocorno d'oro in campo rosso. 
In mezzo a un tavolo, un piatto di bronzo era 
colmo di biglietti; e, gittandovi li occhi sopra, 
Andrea vide quello recente del Grimiti. ^ Bonne 
chance! „ Gli risonava ancor nelli orecchi l'au- 
gurio ironico. 

Mademoiselle apparve, dicendo : 

— La duchessa sta un poco meglio. Credo 
che il signor conte potrà passare, un momento. 
Venga, di grazia, con me. 

Ella era una donna di gioventù già sfiorita , 
più tosto sottile, vestita di nero, con due occhi 



— 100 — 

grigi che scintillavano singolarmente tra i falsi 
ricci biondicci. Aveva il passo e il gesto lievis- 
simi , quasi furtivi , come di chi abbia la con- 
suetudine di vivere intorno agli infermi o di 
attendere ad uffici delicati o di eseguire ordini 
in segretezza. 

— Venga, signor conte. 

Ella precedeva Andrea, lungo le stanze a pena 
rischiarate, su i tappeti folti che attenuavano 
ogni romore; e il giovine, pur nell'infrenabile 
tumulto del suo spirito , provava contro di lei 
un senso istintivo di repulsione, senza sapere 
perchè. 

Giunta innanzi a una porta che coprivano due 
bande di tappezzeria medicea orlate di velluto 
rosso, ella si fermò, dicendo : 

— Entro prima io, ad annunziarla. Attenda qui. 
Una voce di dentro, la voce di Elena, chiamò: 

— Cristina! 

Andrea si senti tremar le vene con tal furia 
a quel suono inaspettato , che pensò : " Ecco , 
ora vengo meno. „ Aveva come l'antiveggenza 
indistinta d'una qualche felicità soprannaturale, 
superante la sua aspettazione, avanzante i suoi 
sogni, soverchiante le sue forze. — Ella era là, 
oltre quella soglia. — Ogni nozione della rea- 
lità fuggiva dal suo spirito. Gli pareva d' a- 
vere, un tempo, pittoricamente o poeticamente 
imaginata una simile avventura d' amore , in 
quello stesso modo, con quello stesso appa- 
rato, con quello stesso fondo, con quello stesso 
mistero; e un altro , un suo personaggio ima- 
ginario, n'era l'eroe. Ora, per uno strano feno- 
meno fantastico, quella ideal finzione d'arte 



— 101 — 

confondevasi col caso reale; ed egli provava 
un senso inesprimibile di smarrimento. — Cia- 
scuna banda di arazzo recava una figura sim- 
bolica, li Silenzio e il Sonno, due efebi, svelti 
e lunghi quali avrebbe potuto disegnarli il Pri- 
maticcio bolognese, custodivano la porta. Ed 
egli, egli proprio, eravi d'innanzi, in attesa; ed 
oltre la soglia, forse nel letto, respirava la di- 
vina amante. — Egli credeva udire il respiro 
di lei nel palpito delle sue arterie. 

Mademoiselle uscì, al fine. Tenendo sollevato 
con la mano il grave tessuto , disse , a voce 
bassa, con un sorriso: 

— Può entrare. 

E si ritrasse. Andrea entrò. 

Ebbe, da prima, Timpressione d'un'aria assai 
calda , quasi soffocante ; senti neir aria V odor 
singolare del cloroformio ; scorse qualche cosa 
di rosso nell'ombra, il damasco rosso delle pa- 
reti , i cortinaggi del letto ; udì la voce stanca 
di Elena, che mormorava: 

— Vi ringrazio, Andrea , d' esser venuto. Sto 
meglio. 

Un poco esitando, poiché non vedeva distin- 
tamente le cose a quel lume fievole , s' avanzò 
fino al letto. 

Ella sorrideva, col capo affondato sui guan- 
ciali , supina , nella mezz' ombra. Una zona di 
lana bianca le fasciava la fronte e le gote, pas- 
sando di sotto al mento, come un soggólo mo- 
nacale ; né la pelle del volto era meu bianca 
di quella fascia. Li ango^ esterni delle palpe- 
bre si restringevano per la contrazion dolo- 
rosa dei nervi infiammati ; a intervalli la pai- . 



- 102 - 

pebra inferiore aveva un piccolo tremolio invo- 
lontario; e rocchio era umido, infinitamente 
soave, come velato da una lacrima che non po- 
tesse sgorgare, quasi implorante, fra i cigli che 
trepidavano. 

Una immensa tenerezza invase il cuore del 
giovine, quando la vide da presso. Elena trasse 
fuori una mano e gliela tese, con un gesto as- 
sai lento. Egli si chinò, quasi in ginocchio con- 
tro la proda del letto ; e si mise a coprir di 
baci rapidi e leggeri quella mano che ardeva, 
quel polso che batteva forte. 

— Elena! Elena! Mio amore! 

Elena aveva chiuso li occhi, come per gu- 
stare più intimamente il rivo di piacere che le 
saliva pe'l braccio e le si effondeva -a sommo 
del petto e le s'insinuava nelle fibre più segrete. 
Volgeva la mano, sotto la bocca di lui, per sen- 
tire i baci su la palma, sul dosso , tra le dita , 
intorno intorno al polso , su tutte le vene , in 
tutti i pori. 

— Basta! — mormorò, riaprendo li occhi; e 
con la mano che le parvo un po' intorpidita 
sfiorò i capelli d'Andrea. 

In quella carezza così tenue era tanto abban- 
dono che fu su l'anima di lui la foglia di rosa 
sul calice colmo. La passione traboccò. Gli tre- 
mavano le labbra, sotto 1' onda confusa di pa- 
role ch'egli non conosceva, eh' egli non proffe- 
riva. Aveva la sensazione violenta e divina 
come d' una vita che si dilatasse oltre le sue 
membra. 

— Che dolcezza! È vero? — disse Elena, som- 
messa, ripetendo quel gesto blando. E un bri- 



— 103 — 

vido visibilo le corse la persona, a traverso le 
coperte pesanti. 

Poiché Andrea fece Tatto di prenderle di nuovo 
la mano, ella pregava : 

— No.... Così, resta cosi I Mi piaci. 
Premendogli la tempia, lo costrinse a posare 

il capo su la sponda, per modo ch'egli sentiva 
contro una guancia la forma del ginocchio di 
lei. Lo guardò quindi ella un poco , pur sem- 
pre accarezzandogli i capelli; e con una voce 
morente di delizia, mentre le passava tra' cigli 
qualche cosa come un baleno bianco, soggiunse, 
allungando le parole: 

— Quanto mi piaci ! 

Un inesprimibile allettamento voluttuoso era 
neir apertura delle sue labbra, quando pronun- 
ziava la prima sillaba di quel verbo cosi liquido 
e sensuale in bocca a una donna. 

— Ancora ! — mormorò l'amante, i cui sensi 
languivano di passione, alla carezza delle dita, 
alla lusinga della voce di lei. — Ancorai Dim- 
mi! Parla! 

— Mi piaci — ripeteva Elena, vedendo ch'e- 
gli la guardava fiso nelle labbra e forse cono- 
scendo il fascino ch'ella emanava con quella 
parola. 

Poi tacquero ambedue. L'uno sentiva la pre- 
senza dell' altra fluire e mescersi nel suo san- 
gue , finché questo divenne la vita di lei e il 
sangue di lei la vita sua. Un silenzio profondo 
ingrandiva la stanza; il crocifisso di Guido 
Reni faceva religiosa l'ombra dei cortinaggi ; il 
remore dell'urbe giungeva come il murmure 
d'un flutto assai lontano. 



— 104 — 

Allora, con un movimento repentino, Elena 
si sollevò sul letto, strinse fra le due palme il 
capo del giovine, V attirò , gli alitò sul volto il 
suo desiderio, lo baciò, ricadde, gli sì offerse. 

Dopo , una immensa tristezza la invase ; la 
occupò roscura tristezza che è in fondo a tutte 
le felicità umane, come alla foce di tutti i fiunli 
è Tacqua amara. Ella, giacendo, teneva le brac- 
cia fuori della coperta abbandonate lungo i 
fianchi, le mani supine, quasi morte, agitate di 
tratto in tratto da un lieve sussulto; e guar- 
dava Andrea, con li occhi bene aperti, con uno 
sguardo continuo, immobile, intollerabile. A una 
a una, le lacrime incominciarono a sgorgare; 
e scendevano per le gote a una a una, silen- 
ziosamente. 

— Elena , che hai ? Dimmi : che hai ? — le 
chiese l'amante, prendendole i polsi, chinandosi 
a suggerle da i cigli le lacrime. 

Ella stringeva forte i denti e le labbra per 
contenere il singulto. 

— Nulla. Addio. Lasciami; ti prego! Mi ve- 
drai domani. Va. 

La sua voce e il suo gesto furono cosi sup- 
plichevoli che Andrea obbedì. 

— Addio — egli disse ; e la baciò in bocca , 
teneramente, provando il sapore delle stille 
salse , bagnandosi di quel caldo pianto. — Ad- 
dio. Amami ! Ricordati 1 

Gli parve, rivarcando la sogha, di udire die- 
tro di sé uno scoppio di singulti. Andò innanzi, 
un po'incerto, titubante come un uomo che ab- 
bia la vista malsicura. Gli persisteva nel sènso 
l'odore del cloroformio, simile a un vapore dV 



— 105 - 

brezza ; ma ad ogni passo qualche cosa d' in- 
timo gli sfuggiva, si disperdeva nelFaria; ed egli, 
per un istintivo impulso, avrebbe voluto restrin- 
gersi, chiudersi, invilupparsi, impedire quella 
dispersione. Le stanze erano deserte e mute, 
d'innanzi. A una porta, Mademoiselle comparve, 
senza alcun rumore di passi , senza alcun fru- 
scio di vesti, come un fentasma. 

— Di qua, signor conte. Ella non ritrova la via. 

Sorrideva in una maniera ambigua e irritante; 
e la curiosità rendeva più pungenti i suoi oc- 
chi grigi. Andrea non parlò. Di nuovo la pre- 
senza di quella donna gli era molesta, lo tur- 
bava, gli suscitava quasi un vago ribrezzo, gli 
faceva ira. 

A pena fu sotto il portico , respirò come un 
uomo liberato da un'angoscia; La fontana met- 
teva tra li alberi un chioccolìo sommesso, rom- 
pendo a tratti in uno strepito sonoro; tutto il 
cielo risfavillava di stelle che certe nuvole la- 
cere avvolgevano come in lunghe capigliature 
cineree o in vaste reti nere ; fra i colossi di 
pietra, a traverso i cancelli, apparivano e spa- 
rivano i fanali delle vetture in corsa; spande- 
vasi nell'aria fredda il soffio della vita urbana; 
le campane sonavano , da lungi e da presso. 
Egli aveva al fine la conscienza intera della 
sua felicità. 

Una felicità piena, obliosa, libera, sempre no- 
vella, tenne ambedue, dopo d'allora. La passione 
li avvolse, e li fece incuranti di tutto ciò che 
per ambedue non fosse un godimento imme- 
diato. Ambedue, mirabilmente formati nello spi- 
rito e nel corpo all' esercizio di tutti i più alti 



— 106 — 

e i più rari diletti, ricercavano senza tregua il 
Sommo, rinsuperablle, Tlnarrivabile ; e giunge- 
vano cosi oltre, che talvolta una oscura inquie- 
tudine li prendeva pur nel colmo dell' oblìo', 
quasi una voce d'ammonimento salisse dal fondo 
dell'esser loro ad avvertirli d'un ignoto castigo, 
d'un termine prossimo. Dalla stanchezza mede- 
sima il desiderio risorgeva più sottile , più te- 
merario , più imprudente ; come più s'inebria- 
vano, la chimera del loro cuore ingigantiva, 
s'agitava, generava nuovi sogni; parevano non 
trovar riposo che nello sforzo, come la fiamma 
non trova la vita che nella combustione. Tal- 
volta , una fonte di piacere inopinata aprivasi 
dentro di loro, come balza d'un tratto una polla 
viva sotto le calcagna d'un uomo che vada alla 
ventura per l'intrico d'un bosco ; ed essi vi be- 
vevano senza misura , finché non l' avevano 
esausta. Talvolta, l' anima , sotto l' influsso dei 
desiderii, per un singoiar fenomeno d'allucina- 
zione, produceva l'imagine ingannevole d'una 
esistenza più larga, più libera, più forte, " oltra- 
piacente,,; ed essi vi s'immergevano, vi gode- 
vano , vi respiravano come in una loro atmo- 
sfera natale. Le finezze e le delicatezze del sen- 
timento e dell'imaginazione succedevano alli 
eccessi della sensualità. 

Ambedue non avevano alcun ritegno alle mu- 
tue prodigalità della carne e dello spirito. Pro- 
vavano una gioia indicibile a lacerare tutti 1 
veli, a palesare tutti i segreti , a violare tutti i 
misteri, a possedersi fin nel profondo, a. pene- 
trarsi, a mescolarsi, a comporre un essere solo. 

— Che strano amore I — diceva Elena, ricor- 



— 107 — 

dando i primissimi giorni , il suo male , la ra- 
pida dedizione. — Mi sarei data a te la sera 
stessa ch'io ti vidi. 

Ella ne provava una specie d'orgoglio. E ra- 
mante diceva: 

— Quando udii, quella sera, annunziare il mio 
nome accanto al tuo, su la soglia, ebbi, non so 
perchè , la certezza che la mia vita era legata 
alla tua, per sempre ! 

Essi credevano quel che dicevano. Rilessero 
insieme l'elegìa romana del Goethe : '' Lass dich, 
Geliebte, nicht reun, dass du mir so scimeli dich 
ergeben /... Non ti pentire, o diletta, d'esserti così 
prontamente concessa ! Credimi , io di te non 
serbo alcun pensiero basso e impuro. Li strali 
d'Amore han vario effetto: li uni graffiano a 
pena, e del tossico che s'insinua il cuor soffre 
molt' anni ; bene pennuti e armati d' un ferro 
aguzzo e vivo, li altri penetrano nel midollo e 
subitamente infiammano il sangue. Ai tempi 
eroici, quando gli dei e le dee amavano, il de- 
sio seguiva lo sguardo , il godimento seguiva 
il desìo. Credi tu che la dea dell'Amore abbia 
a lungo meditato quando, sotto i boschetti d'Ida, 
Anchise un giorno le piacque? E la Luna? 
S'ella esitava , l' Aurora gelosa avrebbe presto 
risvegliato il bel pastore ! Ero vede Leandro in 
piena festa, e l'acceso amante si tuffa nell'onda 
notturna. Rea Silvia, la vergine regia, va ad at- 
tinger acqua nel Tevere e la ghermisce il dio... „ 

Come per il divino elegiopèo di Faustina, per 
essi Roma s'illuminava d'una luce novella. Ovun- 
que passavano , lasciavano una memoria d' a- 
more. Le chiese remote dell'Aventino: Santa 



> 108 - 

Sabina su le belle colonne di marmo pario, il 
gentil verziere di Santa Maria del Priorato, il 
campanile di Santa Maria in Cosmedin, simile 
a un vivo stelo roseo neir azzurro , conosce- 
vano il loro amore. Le ville dei cardinali e 
dei principi: la villa Pamphily, che si rimira 
nelle sue fonti e nel suo lago tutta graziata e 
molle, ove ogni boschetto par chiuda un nobile 
idìllio ed ove i balaustri lapidei e i fusti arborei 
gareggìan di frequenza; la villa Albani, fredda 
e muta come un chiostro, selva di marmi ef- 
figiati e museo di bussi centenarii, ove dai ve- 
stiboli e dai portici, per mezzo alle colonne di 
granito, le cariatidi e le erme, simboli d'immo- 
bilità, contemplano Timmutabile simetria del 
verde; e la villa Medici che pare una foresta di 
smeraldo ramificaiite in una luce soprannatu- 
rale; e la villa Ludovisi, un po' selvaggia, pro- 
fumata di viole, consacrata dalla presenza della 
Giunone cui Wolfgang adorò, ove in quel tempo 
i platani d'Oriente e i ciprèssi dell'Aurora, che 
parvero immortali, rabbrividivano nel presen- 
timento del mercato e della morte; tutte le ville 
gentilizie, sovrana gloria di Roma, conoscevano 
il loro amore. Le gallerie dei quadri e delle sta- 
tue: la sala borghesiana della Danae d'innanzi 
a cui Elena sorrideva quasi rivelata, e la sala 
delli specchi ove l'imagine di lei passava tra i 
putti di Ciro Ferri e le ghirlande di Mario de' 
Fiori; la camera dell'Eliodoro, prodigiosamente 
animata della più forte palpitazion di vita che 
il Sanzio abbia saputo infondere nell' inerzia 
d'una parete, e l'appartamento dei Borgia, ove 
la grande fantasia del Pinturicchio si svolge ia 



— 109 — 

un miracoloso tessuto d'istorie, di favole, di so- 
gni, di capricci, di artifizi e di ardiri; la stanza 
di Galatea, per ove si diffonde non so che pura 
freschezza e che serenità inestinguibile di luce, 
e il gabinetto delFErmafrodito, ove lo stupendo 
mostro, nato dalla voluttà d'una ninfa e d'un 
semidio, stende la sua forma ambigua tra il 
rifulgere delle pietre fini; tutte le solitarie sedi 
della Bellezza conoscevano il loro amore. 

Essi comprendevano l'alto grido del poeta: 
" Eine Weìt jswar bist Du, o Roml Tu sei un 
mondo, o Roma! Ma senza l'amore il mondo 
non sarebbe il mondo, Roma stessa non sa- 
rebbe Roma. „ E la scala della Trinità, glorifi- 
cata dalla lenta ascensione del Giorno, era la 
scala della Felicità, per l'ascensione della bel- 
lissima Elena Muti. 

Elena spesso piacevasi di salire per quei gra- 
dini al buen retiro del palazzo Zuccari. Saliva 
piano, seguendo l'ombra; ma l'anima sua cor- 
reva rapida alla cima. Ben molte ore gaudiose 
misurò il piccolo teschio d'avorio dedicato a 
Ippolita, che Elena talvolta accostava all'orec- 
chio con un gesto infantile, mentre premeva 
l'altra guancia sul petto dell'amante, per ascol- 
tare insieme la fuga delli attimi e il battito di 
quel cuore. Andrea le pareva sempre nuovo. 
Talvolta, ella rimaneva quasi attonita d'innanzi 
all'infaticabile vitalità di quello spirito e di quel 
corpo. Talvolta, le carezze di lui le strappavano 
un grido in cui esalavasi tutto il terribile spa- 
simo dell'essere sopraffatto dalla violenza della 
sensazione. Talvolta, fra le braccia di lui, la 
occupava una specie di torpore quasi direi veg- 



— 110 — 

gente, in cui ella credeva divenire, per la trans- 
fusione d'un' altra vita, una creatura diafana, 
leggera, fluida, penetrata <^'un elemento imma- 
teriale, purissima; mentre tutte le pulsazioni 
nella lor moltitudine le davano imagine del tre- 
milo innumerevole d'un mar calmo in estate. 
Anche, talvolta, fra le braccia, su'l petto di 
lui, dopo le carezze, ella sentiva dentro di sé 
la voluttà acquietarsi, agguagliarsi, addormen- 
tarsi, a similitudine di un'acqua estuante che 
a poco a poco si posi; ma se l'amato respirava 
più forte a pena a pena si moveva, ella sen- 
tiva di nuovo un'onda ineffabile attraversarla 
dal capo a' piedi, vibrare diminuendo, e in fine 
morire* Questa " spiritualizzazione „ del gaudio 
carnale, causata dalla perfetta affinità dei due 
corpi, era forse il più saliente tra i fenomeni 
deha loro passione. Elena, talvolta, aveva la- 
crime più dolci dei baci. 

E nei haci^ che dolcezza profonda! Ci sono 
bocche di donna le quali paiono accendere d'a- 
more il respiro che le apre. Le invermigli un 
sangue ricco più d'una porpora o le geli un pal- 
lor d'agoofa, le illumini la bontà d'un consenso 
o le oscuri un'ombra di disdegno, le dischiuda 
jl piacere o le torca la sofferenza, portano sem- 
pre in loro un enigma che turba li uomini in- 
tellettuali e li attira e li captiva. Un' assidua 
discordia tra l'espression delle labbra e quella 
delli ocelli genera il mistero; par che un'anima 
duplice vi SI riveli con diversa bellezza, lieta e 
triste, gelida e passionata, crudele e misericorde, 
umile e orgogliosa, ridente e irridente; e l'am- 
biguiu\ suscita l'inquietudine nello spirito che 



— Ili — 

si compiace delle cose oscure. Due quattrocen» 
Usti meditativi , perseguitori infaticabili d* un 
Ideale raro e superno, psicologi acutissimi a cui 
si debbon forse le più sottili analisi della fisio- 
nomia umana, immersi di contiimo nello studio 
e nella ricerca delle difficoltà più ardue e de' 
segreti più occulti, il Botticelli e il Vinci, com- 
presero e resero per vario modo nell'arte loro 
tutta rindefinibile seduzione di tali bocche. 

Ne' baci d' Elena era, in verità, per l'amato, 
l'elisire sublimissimo. Di tutte le mescolanze 
carnali quella pareva loro la più completa, la 
più appagante. Credevano, talvolta, che il vivo 
fiore delle loro anime si disfacesse premuto dal- 
le labbra, spargendo un succo di delizie per ogni 
vena insino al cuore; e, talvolta, avevano al 
cuore la sensazione illusoria come d'un frutto 
molle e roscido che vi si sciogliesse. Tanto era 
la congiunzion perfetta, che.runa forma sem- 
brava il naturai complemento dell'altra. Per pro- 
lungare il sorso, contenevano il respiro finché 
non si sentivan morire d'ambascia, mentre lo 
mani dell'una tremavan su le tempie dell'altro 
smarritamente. Un bacio li prostrava più d'un 
amplesso. Distaccati, si guardavano, con gli oc- 
chi fluttuanti in una nebbia torpida. Ed ella di- 
ceva, con la voce un po' roca, senza sorridere: 
— Moriremo. 

Talvolta, riverso, egli chiudeva le palpebre 
aspettando. Ella, che conosceva quell'artifizio, 
chinavasi sopra di lui con meditata lentezza, a 
baciarlo. Non sapeva l'amato dove avrebbe ri- 
cevuto quel bacio ch'egli, nella sua volontaria 
cecità, vagamente presentiva. In quel minuto 



•-^ 112 — 

d'aspettazione e d'incertezza, un'ansia indescri- 
vibile gli agitava tutte le membra, simile nel- 
l'intensità al raccapriccio d'un uomo bendato 
che sia sotto la minaccia d'un suggello di fuoco. 
Quando in fine le labbra lo toccavano, frenava 
a stento un grido. E la tortura di quel minuto 
gli piaceva; poiché non di rado la sofferenza fì- 
sica nell'amore attrae più della blandizia. Elena 
anche, per quel singolare spirito imitativo che 
spinge li amanti a rendere esattamente una ca- 
rezza, voleva provare. 

— Mi sembra — diceva ad occhi chiusi — che 
tutti i pori della mia pelle sieno come un mi- 
lione di piccole bocche anelanti alla tua, spa- 
simanti per essere elette, invidiose l'una del- 
l'altra.... 

Egli allora, per equità, si metteva a coprirla 
di baci rapidi e fìtti, trascorrendo tutto il bel 
corpo, non lasciando intatto alcun minimo spa- 
zio, non allentando la sua opera mai. Ella ri- 
deva, felice, sentendosi cingere come d'una ve- 
ste invisibile; rideva e gemeva, folle, sentendo 
la furia di lui imperversare; rideva e piangeva, 
perduta, non potendo più reggere al divorante 
ardore. Poi, con uno sforzo repentino, faceva 
prigione il collo di lui fra le sue braccia , l'al- 
lacciava con i suoi capelli, lo teneva, tutto pal- 
pitante, simile a una preda. Egli, stanco, era 
contento di cedere e di rimaner cosi preso in 
quei vincoli. Guardandolo, ella esclamava: 

— Come sei giovine! Come sei giovine! 

La giovinezza in lui, contro tutte le corruzioni, 
contro tutte le dispersioni, resisteva, persisteva, 
a somiglianza d'un metallo inalterabile, d'un aro- 



— 113 — 

ma indistruttibile* Lo splendor sincero della gio- 
vinezza era, a punto, la qualità sua più preziosa. 
Alla gran fiamma della passione, quanto in lui 
era più falso, più tristo, più arteflciato, più 
vano, si consumava come un rogo. Dopo la 
resoluzion delle forze, prodotta dall'abuso del- 
l'analisi e dairazion separata di tutte le sfere 
interiori, egli tornava ora all'unità delle forze, 
dell'azione, della vita; riconquistava la confi- 
denza e la spontaneità; amava e godeva giove- 
nilmente. Certi suoi abbandoni parevano d'un 
fanciullo inconsapevole ; certe sue fantasie erano 
piene di grazia, di freschezza e di ardire. 

—• Qualche volta — gli diceva Elena — lamia 
tenerezza per te si fa più delicata di quella d'un'a- 
mante. Io non so.... Diventa quasi materna. 

Andrea rideva, perchè ella era maggiore a pena 
di tre anni. 

— Qualche volta — egli diceva a lei — la co- 
munione del mio spirito col tuo mi par cosi ca- 
sta ch'io ti chiamerei sorella, baciandoti le mani. 

Queste fallaci purificazioni ed elevazioni del 
sentimento avvenivano sempre nei languidi in- 
tervalli del piacere, quando sul riposo della 
carne l'anima provava un bisogno vago d'idea- 
lità. Allora, anche, risorgevano nel giovine le 
idealità dell'arte ch'egli amava; e gli tumultua- 
vano neir intelletto tutte le forme un tempo 
cercate e contemplate, chiedendo di uscire; e 
le parole del monologo goethìano l' incitavano. 
" Che può sotto i tuoi occhi l' accesa natura? 
Che può la forma dell'arte in torno a te, se la 
passionata forza creatrice non t'empie l'anima 
e non affluisce alla punta delle tue dita, inces- 

n Fiacere. 8 



— 114 — 

san temente, per riprodurre? „ Il pensiero di dar 
gioia all'amante, con un verso numeroso o con 
una linea nobile, lo spinse all'opera. Egli scrisse 
La Simona; e fece le due acqueforti, dello Zo- 
diaco e della Taz:;a d* Alessandro. 

Eleggeva, nell'esercizio dell'arte, gli strumenti 
diffìcili, esatti, perfetti, incorruttibili : ,la metrica 
e l'incisione; e intendeva proseguire e rinnovare 
le forme tradizionali italiane, con severità, rial- 
lacciandosi ai poeti dello stil novo e ai pittori 
che precorrono il Rinascimento. Il suo spirito 
era essenzialmente formale. Più che il pensiero, 
amava l'espressione. I suoi saggi letterarli erano 
esercizii, giuochi, studii, ricerche, esperimenti 
tecnici, curiosità. Egli pensava, con Enrico Taine, 
fosse più difficile compor sei versi belli che vin- 
cere una battaglia in campo. La sua Favola di 
Ermafrodito imitava nella struttura la Favola 
di Orfeo del Poliziano; ed aveva strofe di straor- 
dinaria squisitezza, potenza" e musicalità spe- 
cialmente nei cori cantati da mostri di duplice 
natura: dai Centauri, dalle Sirene e dalle Sfingi. 
Questa sua nuova tragedia. La Simona, di 
breve misura, aveva un sapor singolarissimo. 
Se bene rimata nelli antichi modi toscani, pa- 
reva imaginata da un poeta inglese del secolo 
d'Elisabetta, sopra una novella del Decamerone; 
chiudeva in se qualche parte del dolce e strano 
incanto ch'è in certi drammi minori di Gu- 
glielmo Shakespeare. 

Il poeta segnò così la sua opera, nel fronte- 
spizio dell'Esemplare Unico: A. S. calcogra- 

PHUS AQUA FORTI Smi TIBI FECrr. 

Il rame l'attraeva più della carta; l'acido ni- 



— 115 — 

trico, più deirinchiostro ; il bulino, più della 
penna. Già uno de' suoi maggiori, Giusto Spe- 
relli, aveva esperimentata Tincisione. Alcune 
stampe di lui, eseguite intorno Tanno 1520, ri- 
velavano manifestamente Tinfluenza di Antonio 
Pollajuolo, per la profondità e quasi direi acer- 
bità del segno. Andrea praticava la maniera 
rembrandtesca a tratti liberi e la maniera nera 
prediletta dagli acquafortisti inglesi della scuola 
del Green, del Dixon, delTEarlom. Egli aveva 
formata la sua educazione su tutti li esemplari, 
aveva studiata partitamente la ricerca di cia- 
scuno intagliatore, aveva imparato da Alberto 
Durerò e dal Parmigianino, da Marc' Antonio e 
dall'Holbein, da Annibale Caracci e dal Mac-Ar- 
dell, da Guido e dal Callotta, dal Toschi e da 
Gerardo Audran; ma l'intendimento suo, d'in- 
nanzi al rame, era questo: rischiarare con li ef- 
fetti di luce del Rembrandt le eleganze di di- 
segno de' quattrocentisti fiorentini appartenenti 
alla seconda generazione come Sandro Botti- 
celli, Domenico Ghirlandajo e Filippino Lippi. 

I due rami recenti rappresentavano, in due 
episodii d'amore, due attitudini della bellezza 
d'Elena Muti ; e prendevano il titolo dalli acces- 
sorii. 

Tra le cose più preziose possedute da Andrea 
Sperelli era una coperta di seta fina, d'un co- 
lore azzurro disfatto, intorno a cui giravano i 
dodici segni dello Zodiaco in ricamo, con le de- 
nominazioni Aries, Taurus, Gemini, Cancer, 
Leo, Virgo, Libra, Scorpias, Àrcitenens, Caper, 
Amphora, Pisces a caratteri gotici. Il Sole tra- 
punto d'oro occupava il centro del cerchio; le 



^ 116 - 

figure delli animali, disegnate con uno stile un 
po' arcaico che ricordava quello de' musaici , ave- 
vano uno splendore straordinario; tutta quanta 
la stoffa pareva degna d'ammantare un talamo 
imperiale. Essa, in fatti, proveniva dal corredo 
di Bianca Maria Sforza, nipote di Ludovico il 
Moro; la quale andò sposa all'imperator Massi- 
miliano. 

La4mdità di Elena non poteva, in verità, avere 
una più ricca ammantatura. Talvolta, mentre 
Andrea stava nell'altra stanza, ella si svestiva 
in l'uria, si distendeva nel letto, sotto la coperta 
mirabile ; e chiamava forte l'amante. Ed a lui 
che accorreva ella dava imagine d'una diviniti 
avvolta in una zona di firmamento. Anche, tal- 
volta, volendo andare innanzi al camino, ella 
levavasi dal letto traendo seco la coperta. Fred- 
dolosa, si stringeva addosso la seta, con ambo 
le braccia; e camminava a piedi nudi, con passi 
brevi , per non implicarsi nelle pieghe abbon- 
danti. 11 Sole splendevale su la schiena, a tra- 
verso i capelli disciolti; lo Scorpione le pren- 
deva una mammella ; un gran lembo zodiacale 
strisciava dietro di lei, sul tappeto, trasportando 
le rose, s'ella le aveva già sparse. 

L' acquaforte rappresentava a punto Elena 
dormente sotto i segni celesti. La forma mu- 
liebre appariva secondata dalle pieghe della 
stoffa, col capo abbandonato un poco fuor della 
proda del letto, con i capelli pioventi fino a 
terra, con un braccio pendulo e l'altro posato 
lungo il fianco. Le parti non nascoste, ossia la 
faccia, il sommo del petto e le braccia erano 
luminosissime; e il bulino aveva reso con molta 



— 117 — 

potenza lo scintillìo dei ricami nella mezz'om- 
bra e il mistero dei simboli. Un alto levriere 
bianco, Famulus, fratel di quello che posa la 
testa su le ginocchia della contessa d'Arundel 
nel quadro di Pietro Paolo Rubens, tendeva il 
collo verso la signora, guatando, fermo su lo 
quattro zampe, disegnato con una felice ardi- 
tezza di scorcio. Il fondo della stanza era opu- 
lento e oscuro. 

L'altra acquaforte riferivasi al gran bacino 
d'argento che Elena Muti aveva ereditato da sua 
zìa Flaminia. 

Questo bacino era storico: e si chiamava la 
Tazza d'Alessandro. Fu donato alla principessa 
di Bisenti da Cesare Borgia prima ch'ei partisse 
per la terra di Francia a portare la bolla di di- 
vorzio e le dispense di matrimonio a Luigi XII; 
e doveva esser compreso fra le salmerie favo- 
lose che il Valentino portò seco nel suo ingresso 
a Chinon descritto dal signor di Brantòme. 11 
disegno delle figure che giravano a torno e di 
quelle che sorgevano dal margine delle due 
estremità, era attribuito al Sanzio. 

La tazza si chiamava di Alessandro perchè 
fu composta in memoria di quella prodigiosa a 
cui nei vasti conviti soleva prodigiosamente 
bere il Macedone. Stuoli di Sagittarii giravano 
intorno ai fianchi del vaso, con tesi li archi, 
tumultuando, nelle attitudini mirabili di quelli i 
quali Raffaello dipinse ignudi saettanti contro 
l'Erma nel fresco che sta nella sala borghesiana 
ornata da Giovan Francesco Bolognesi. Inse- 
guivano una gran Chimera che sorgeva su 
dall'orlo, come un'ansa, alla estremità del 



~ 118 — 

vaso, mentre dalla parte opposta balzava il gio- 
vine sagittario Bellerofonte con Tarco teso con- 
tro il mostro nato di Tifone. Li ornamenti della 
base e deirorlo erano d'una rara leggiadria. 
L' interno era dorato , come quel d' un ciborio. 
Il metallo era sonoro come uno strumento. Il 
peso era di trecento libbre. La forma tutta quanta 
era armoniosa. 

Spesso, per capriccio, Elena Muti prendeva in 
quella tazza il suo bagno mattutino. Ella vi si 
poteva bene immergere, se non distendere, con 
tutta la persona; e nulla, in verità, eguagliava 
la suprema grazia di quel corpo raccolto nel- 
l'acqua che la doratura tingeva d'un indescrivi- 
bile tenuità di riflessi, poicb.è il metallo non era 
argento ancora e l'oro moriva. 

Invaghito di tre forme diversamente eleganti, 
cioè della donna, della tazza e del veltro, l'acqua- 
fortista trovò una composizion di linee bellis- 
sima. La donna, ignuda, in piedi, entro il bacino, 
appoggiandosi con una mano su la sporgenza 
della Chimera e con l'altra su quella di Belle- 
rofonte, protendevasi innanzi ad irridere il cane 
che, piegato in arco su le zampe anteriori ab- 
bassate e su le posteriori diritte, a simiglianza 
di un felino quando spicca il salto, ergeva verso 
di lei il muso lungo e sottile come quel d'un 
luccio, argutamente. 

Non mai Andrea Sperelli aveva con più ar- 
dore goduta e sofferta l'intenta ansietà dell'ar- 
teflce in vigilare l'azion dell'acido cieca e irre- 
parabile; non mai aveva con più ardore acuita 
la pazienza nella sottilissima opera della punta 
secca su le asprezze dei passaggi. Egli era nato, 



— 119 — 

in verità calcografo, come Luca d'Olanda. Pos- 
sedeva una scienza mirabile (ch'era forse un 
raro senso) di tutte le minime particolarità di 
tempo e di grado le quali concorrono a infini- 
tamente variare sul rame Tefflcacia dell'acqua 
forte. Non la pratica , non la diligenza , non la 
intelligenza soltanto, ma specie quel natio senso 
quasi infallibile V avvertiva del momento giu- 
sto , deir attimo puntuale , in cui la corrosione 
giungeva a dare tal preciso valor d'ombra che 
neir intenzion dell' artefice doveva avere la 
stampa. E nel padroneggiar così spiritualmente 
quella energia bruta e quasi direi neirinfonderle 
uno spirito d'arte e nel sentire non so che oc- 
culta rispondenza di misura tra il battere del 
polso e il progressivo mordere dell'acido , era 
il suo inebriante orgoglio , la sua tormentosa 
gioia. 

Pareva ad Elena esser deificata dall'amante, 
come l'Isotta riminese nelle indistruttibili me- 
daglie che Sigismondo Malatesta fece coniare 
in gloria di lei. 

Ma ella, ne' giorni a punto in cui Andrea at- 
tendeva all'opera, diveniva triste e taciturna e 
sospirosa, quasi l'occupasse un'interna angoscia. 
Aveva, d'improvviso, effusioni di tenerezza cosi 
struggenti, miste di lacrime e di singhiozzi mal 
frenati, che il giovane rimaneva attonito, in so- 
spetto^ senza comprendere. 

Una sera, tornavano a cavallo, dall'Aventino, 
giù per la via di Santa Sabina, avendo ancora 
nelli occhi la gran visione dei palazzi imperiali 
incendiati dal tramonto, rossi di fiamma tra ì 
cipressi nerastri che penetrava una polvere 



— 120 — 

d'oro. Cavalcavano in silenzio, poiché la tristezza 
di Elena erasi comunicata all'amante. D'innanzi 
a Santa Sabina, questi fermò il baio, dicendo: 

— Ti ricordi? 

Alcune. galline, che beccavano in pace tra i 
ciuffi d'erba, si dispersero ai latrati di Famulus. 
Lo spiazzo, invaso dalle gramigne, era tranquillo 
e modesto come il sagrato d\m villajigio; mai 
muri avevano quella luminosità singolare che 
riflettesi dalli ediflzi di Roma " nell' ora di Ti- 
ziano. „ 

Elena anche sostò. 

— Come pare lontano, quel giorno! — disse, 
con un po' di tremito nella voce. 

In fatti, quella memoria si perdeva nel tempo 
indefinitamente, quasi che il loro amore durasse 
da molti mesi, da molti anni. Le parole di Elena 
avevan suscitato nell'animo di Andrea la strana 
illusione e , insieme , una inquietudine. Ella si 
mise a ricordare tutte le particolarità di quella 
visita, fatta in un pomeriggio di gennaio, sotto 
un sole primaverile. Si diffondeva nelle minu- 
zie, insistendo; e di tratto in tratto interrompe- 
vasi come chi segua, oltre le sue parole, un 
pensiero non espresso. Andrea credè sentire 
nella voce di lei il rimpianto. — Che rimpian- 
geva ella mai? Il loro amore non vedeva d'in- 
nanzi a sé giorni anche più dolci ? La primavera 
non teneva già Roma? — Egli, perplesso, quasi 
non l'ascoltava più. I cavalli scendevano, al 
passo, r uno a fianco dell'altro , talvolta respi- 
rando forte dalle froge o accostando i musi 
come per confidarsi un secreto. Famulus an- 
dava su e giù, in perpetua corsa. 



— 121 — 

— Ti ricordi, — seguitava Elena — ti ricordi 
di quel frate che ci venne ad aprire, quando 
sonammo la campanella? 

— Sì, si.... 

— Come ci guard ò stupefatto! Era piccolo 
piccolo, senza barba, tutto rugoso. Ci lasciò soli 
neiratrio, per andare a prendere le chiavi della 
chiesa; e tu mi baciasti. Ti ricordi? 

— Si. ""~~ 

— E tutti quei barili, neiratrio! E quell'odore 
di vino, mentre il frate ci spiegava le storie in- 
tagliate nella porta di cipresso! E poi, la Ma- 
donna del Rosario! Ti ricordi? La spiegazione ti 
fece ridere; e io sentendoti ridere, non potei fre- 
narmi ; e ridemmo tanto innanzi a quel pove- 
retto che si confuse e non agri più bocca né 
anche all'ultimo per dirti grazie.»'.' 

Dòpo un intervallo, ella riprese: 

— E a Sant'Alessio, quando tu non volevi la- 
sciarmi vedere la cupola pel buco della serra- 
tura! Come ridemmo, anche là! 

Tacque, di nuovo. Veniva su per la strada una 
compagnia d'uomini con una bara, seguitata da 
una carrozza publica, piena di parenti che pian- 
gevano. Il morto andava al cimitero degli Israe- 
liti. Era un funerale muto e freddo. Tutti quelli 
uomini, dal naso adunco e dalli occhi rapaci, si 
somigliavan tra loro come consanguinei. 

Afflijchè la compagnia passasse, i due cavalli 
si divisero, prendendo ciascuno un lato, rasente 
il muro; e li amanti si guardarono, al di sopra 
del morto, sentendo crescere la tristezza. 

Quando si riaccostarono, Andrea domandò: 

— Ma tu che hai? A che pensi? 



— 122 — 

Ella esitò, prima di rispondere. Teneva li occhi 
abbassati sul collo dell'animale, accarezzandolo 
col pomo del frustino, irresoluta e pallida. 

— A che pensi? — ripetè il giovine. 

— E bene, te lo dirò. Io parto mercoledì, non 
so per quanto tempo; forse per molto, per sem- 
pre; non so.... Quest'amore si rompe, per colpa 
mia; ma non mi chiedere come, non mi chie- 
dere perchè, non mi chiedere nulla: ti prego! 
Non potrei risponderti. 

Andrea la guardò, quasi incredulo. La cosa gli 
pareva così impossibile che non gli fece dolore. 

— Tu dici per gioco; è vero, Elena? 

Ella scosse la testa, negando, poiché le si era 
chiusa la gola; e subitamente spinse al trotto 
il cavallo. Dietro di loro, le campane di Santa 
Sabina e di Santa Prisca cominciarono a suo- 
nare, nel crepuscolo. Essi trottavano in silenzio, 
suscitando li echi sotto li archi, sotto i templi, 
nelle mine solitarie e vacue. Lasciarono a si- 
nistra San Giorgio in Velabro che aveva ancora 
un bagliore vermiglio sui mattoni del campa- 
nile, come nel giorno della felicità. Costeggia- 
rono il Foro romano, il Foro di Nerva, già oc- 
cupati da un'ombra azzurrognola, simile a quella 
de' ghiacciai nella notte. Si fermarono all'Arco 
dei Pantani, dove li attendevano gli staffieri e 
le carrozze. 

A pena fuor di sella. Elena tese, la mano ad 
Andrea, evitando di guardarlo nelli occhi. Pa- 
reva ch'ella avesse gran fretta di allontanarsi. 

— E bene? -- le chiese Andrea, aiutandola a 
montar nel legno. 

— A domani. Stasera, no. 



123 — 



V. 



11 commiato su la via Nomentana, quoWadieu 
au grand air voluto da Elena, non isciolse al- 
cuno de'dubbii clic Andrea aveva nell'animo. 
— Quali eran mai le cagioni occulte di quella 
partenza subitanea ? — In vano egli cercava di 
penetrare il mistero; i dubbii Topprimevano. 

Ne'primi giorni, gli assalti del dolore e del de- 
siderio furono cosi crudeli ch'egli credeva mo- 
rirne. La gelosìa, che dopo le prime apparite, 
erasi dileguata innanzi all'assiduo ardore di 
Elena, risorgeva in lui destata dalle imagi- 
nazioni impure ; e il sospetto, che un uomo po- 
tesse nascondersi in queir oscuro intrico , gli 
dava un tormento insopportabile. Talvolta, con- 
tro la donna lontana, l'invadeva una bassa ira, 
un rancore pien d'amarezza, e quasi un bisogno 
di vendetta, come s'ella lo avesse ingannato e 
tradito per abbandonarsi a un altro amante. 
Anche, talvolta credeva di non desiderarla più, 



— 124 — 

di non amarla più, di non averla mai amata; 
ed era in lui un fenomeno non nuovo questa 
cessazion momentanea d'un sentimento, questa 
specie di sincope spirituale che, per esempio, 
gli rendeva completamente estranea in mezzo a 
un ballo la donna diletta e gli permetteva d'assi- 
stere a un gajo pranzo un'ora dopo aver bevute 
le lacrime di lei. Ma quelli oblìi non duravano. 
La primavera romana fioriva con inaudita le- 
tìzia: la città di travertino e di mattone sorbiva 
la luce, come un'avida selva; le fontane papali 
si levavano in un cielo più diafano d'una gemma; 
la piazza di Spagna odorava come un roseto; 
e la Trinità de' Monti, in cima alla scala popo- 
lata dì putti, pareva un duomo d'oro. 

Alle incitazioni che gli venivano dalla nuova 
bellezza di Roma, quanto in lui rimaneva del 
fascino di quella donna, nel sangue e nell'anima, 
ravvivavasi e raccendevasi. Ed egli era turbato, 
fin ne) profondo, da invincibili angosce, da im- 
placabili tumulti, da indefinibili languori, che 
somigliavano un poco quelli della pubertà. Una 
sera, in casa Dolcebuono, dopo un tè, essendo 
rimasto ultimo nel salone tutto pieno di fiori e 
ancor vibrante d'una Cachoucha del Raff, egli 
parlò d'amore a Donna Bianca; e non se ne 
penti, né in quella sera né in séguito. 

La sua avventura con Elena Muti era omài 
notissima come, o prima o poi, o più o meno, 
nella società elegante di Roma e in ogni altra 
società son note tutte le avventure e tutte le 
flirtations. Le precauzioni non valgono. Cia- 
scuno ivi é così buon conoscitore della mìmica 
erotica, che gli basta sorprendere un gesto o 



— 125 — 

un'attitudine o uno sguardo per avere un si- / 
curo indizio, mentre li amanti, o coloro che son 
per divenir tali, non sospettano. Inoltre, ci sono 
in ogni società alcuni curiosi che fan profes- 
sione di scoprire e che vanno su le vestigia delli 
amori altrui con non minor perseveranza de' 
segugi in traccia di selvaggina. Essi sono sem- 
pre vigili e non paiono; colgono infallibilmente 
una parola mormorata, un sorriso tenue, un 
piccolo sussulto, un lieve rossore, un baleno 
d'occhi; ne' balli, nelle grandi feste, dove son 
più probabili le imprudenze, girano di continuo, 
sanno insinuarsi nel più fitto, con un'arte straor- 
dinaria, come nelle moltitudini i borsaiuoli; e 
l'orecchio è teso, a rapire un frammento di 
dialogo, l'occhio è pronto dietro il luccicor della 
lente, a notare una stretta, una languidezza, un 
fremito, la pression nervosa d'una mano femi- 
nea su la spalla d'un danzatore. 

Uù terribile segugio era, per esempio, Don 
Filippo del Monte, il commensale della mar- 
chesa d'Ateleta. Ma, in verità, Elena Muti non si 
preoccupava molto delle maldicenze mondane; 
e in questa sua ultima passione era giunta 
a temerità quasi folli. Ella copriva ogni ardi- 
mento con la sua bellezza, col suo lusso, col 
suo alto nome; e passava pur sempre inchinata, 
ammirata, adulata, per quella certa molle tolle- 
ranza c^e è una delle più amabili qualità del- 
l'aristocrazia quirite e che le viene forse a punto 
dall'abuso della mormorazione. 

Or dunque l'avventura aveva, d'un tratto, inal- 
zato Andrea Sperelli, in conspetto delle dame, 
à un alto grado di potere. Un'aura di favore 



— 126 — 

ravvolse; e la sua fortuna, in poco tempo, di- 
venne meravigliosa. Un fenomeno assai fre- 
quente, nelle società moderne, è il contagio del 
desiderio. Un uomo, che sia stato amato oa una 
donna di pregi singolari, eccita nelle altre Tima- 
ginazione; e ciascuna arde di possederlo, per 
vanità e per curiosità, a gara. Il fascino di Don 
Giovanni è più nella sua fama che nella sua 
persona. Inoltre, giovava allo Sperelli quel certo 
nome ch'egli aveva d'artista misterioso; ed 
erano rimasti celebri due sonetti, scritti nel- 
l'albo della principessa di Ferentino, ne' quali 
come in un dittico ambiguo egli aveva lodato 
una bocca diabolica e una bocca angelica, quella 
che perde le anime e quella che dice Ave. La 
gente volgare non imagina quali profondi e 
nuovi godimenti l'aureola della gloria, anche pal- 
lida o falsa, porti all'amore. Un amante oscuro, 
avesse anche la forza di Ercole e la bellezza d'Ip- 
polito e la grazia d'Ila, non mai potrà dare al 
l'amata le delizie che l'artista, forse inconsape- 
volmente, versa in abondanza nelli ambiziosi 
spiriti feminili. Gran dolcezza dev'essere per la 
vanità di una donna il poter dire: — In ciascuna 
lettera ch'egli mi scrive è forse la più pura 
fiamma del suo intelletto a cui mi riscalderò 
io sola; in ciascuna carezza egli perde una parte 
della sua volontà e della sua forza ; e i suoi più 
alti sogni di gloria cadono nelle pieghe della 
mia veste, ne' cerchi che segna il mio respiro! 
Andrea Sperelli non esitò un istante d'innanzi 
alle lusinghe. A quella specie di raccoglimento, 
prodotto in lui dal dominio unico di Elena, suc- 
cedeva ora il dissolvimento. Non più tenute dal- 



— 127 — 

l'ignea fascia che le stringeva ad unità, le sue 
forze tornavano al primitivo disordine. Non pò- ^ 
tendo più conformarsi, adeguarsi, assimilarsi a 
una superior forma dominatrice, l'anima sua, 
camaleontica, mutabile, fluida, virtuale si tras- 
formava, si difformava, prendeva tutte le forme. 
Egli passava dall'uno all'altro amore con incre 
rtibile leggerezza; vagheggiava nel tempo me- 
desimo diversi amori; tesseva, senza scrupolo, 
una gran trama d'inganni, di finzioni, di men- 
zogne, d'insidie, per raccogliere il maggior nu- 
mero di prede. L'abitudine della falsità gli ot- 
tundeva la conscìenza. Per la continua man- 
canza della riflessione, egli diveniva a poco a 
poco impenetrabile a sé stesso, rimaneva fuori 
del suo mistero. A poco a poco egli quasi ginn- * 
geva a non veder più la sua vita interiore, in 
quella guisa che l'emisfero esterno della terra 
non vede il sole pur essendogli legato indisso- 
lubilmente. Sempre vivo, spietatamente vivo, 
era in lui un istinto: l'istinto del distacco da 
tutto ciò che r attraeva senza avvincerlo. E 
la volontà, disutile come una spada di cattiva 
tempra, pendeva al fianco di un ebro o di un 
inerte. 

Il ricordo di Elena talvolta, risorgendo d'im- 
provviso, lo riempiva; ed egli o cercava di 
sottrarsi alle malinconìe del rimpianto o piace- 
vasi in vece rivivere nella imaginazione viziata 
l'eccessività di quella vita, per averne uno sti- 
molo ai nuovi amori. Ripeteva a se stesso le 
parole del lied: " Ricorda i giorni spenti! E metti 
su le labbra della seconda baci soavi quanto 
quelli che tu davi aWa prima, non ò gran tempo!',, 



— 128 — 

Ma già la seconda eragli uscita dairanima. Egli 
aveva parlato d* amore a Donna Bianca Dolce- 
buono, da principio senza quasi pensarci, istinti- 
vamente attratto forse per virtù di un indefinito 
riflesso che a colei veniva dall'essere amica di 
Elena. Forse germogliava il piccolo seme di sim- 
patia che avevan gittato in lui le parole della 
contessa fiorentina, al pranzo in casa Doria. Chi 
sa dire per qual misterioso procedere un qua- 
lunque contatto spirituale o materiale tra un 
uomo e una donna, anche insignificante, può 
generare ed alimentare in ambedue un senti- 
mento latente, inavvertito, insospettato, che dopo 
molto tempo le circostanze faranno emergere 
d'un tratto? È il fenomeno medesimo che noi 
riscontriamo nell'ordine intellettuale, quando il 
germe d'un pensiero o l'ombra d'una imagine, 
si ripresentano d'un tratto, dopo un lungo in- 
tervallo, per uno sviluppo inconsciente , elabo- 
rati in imagine compiuta, in pensiero complesso. 
Le medesime leggi governano tutte le attività 
del nostro essere; e le attività di cui noi slam 
consapevoli non sono che una parte delle no- 
stre attività. 

Donna Bianca Dolcebuono era l'ideai tipo della 
bellezza fiorentina, quale fu reso dal Ghirlan- 
daio nel ritratto di Giovanna Tornabuoni, ch'è 
in Santa Maria Novella. Aveva un chiaro volto 
ovale, la fronte larga alta e candida, la bocca 
mite, il naso un poco rilevato, li occhi di quel 
color tanè oscuro lodato dal Firenzuola. Pre- 
diligeva disporre i capelli con abbondanza su 
le tempie, fino a mezzo delle guance, alla fog- 
gia antica. Ben le conveniva il cognome, poi- 



— 129 — 

che ella portava nella vita mondana una bontà 
nativa, una grande indulgenza, una cortesia per 
tutti eguale, e una parlatura melodiosa. Era, in 
somma, una di quelle donne amabili, senza pro- 
fondità né di spirito né d'intelletto, un poco in- 
dolenti, che sembrano nate a vivere in piace- 
volezza e a cullarsi ne' discreti amori come li 
uccelli in su li alberi fiorenti. 

Quando udì le frasi di Andrea, ella esclamò, 
con un grazioso stupore: 

— Dimenticate Elena così presto? 

Poi, dopo alcuni giorni di graziose esitazioni, 
le piacque di cedere; e non di rado ella parlava 
d'Elena al giovine infedele, senza gelosia, can- 
didamente. 

— Ma perchè mai sarà partita prima del so- 
lito, quest'anno? — gli chiese una volta, sor- 
ridendo. 

— Io non so — - rispose Andrea, senza poter 
nascondere un po' d'impazienza e di amarezza. 

— Tutto, proprio, è finito? 

— Bianca, vi prego, parliamo di noi! — in- 
terruppe egli con la voce alterata, poiché quei 
discorsi lo turbavano e irritavano. 

Ella rimase un momento pensosa, come se 
volesse sciogliere un enigma; quindi sorrise 
scotendo la testa, come se rinunziasse, con 
una fugace ombra di malinconfa su li occhi. 

— Cosi é l'amore. 

E rese all'amante le carezze. 

Andrea, possedendola, possedeva in lei tutte 
le gentili donne fiorentine del quattrocento, alle 
quali cantava il Magnifico: 

Il Piacere. ^ 



— 130 — 

E* si vede in ogni lato 
Che '1 proverbio dice il vero, 
Che ciascun muta pensiero 
Come l'occhio è separato. 
Vedesi cambiare amore: 
Come rocchio sta di lunge, 
Così sta di lunge il core: 
Perchè appresso un altro il punge, 
Col qual tosto e* si congiunge 
Con piacere e con diletto... 

Allorché, nell'estate, ella era per partire, disse, 
prendendo congedo, senza nascondere la sua 
commozione gentile: 

— Io so che, quando ci rivedremo, voi non 
mi amerete più. Cosi è Tamore. Ma ricordatevi 
di un'amica! 

Egli non ramava. Pure, nelle giornate calde 
e tediose, certe molli cadenze della voce di lei 
gli tornavan nell'anima come la magìa d'una 
rima e gli suscitavano la visione d'un giardin 
fresco d'acque pe '1 quale ella andasse in com- 
pagnia d'altre donne sonando e cantando come 
in una vignetta del Sogno di Poi/filo, 

E Donna Bianca si dileguò. E vennero altre, 
talvolta in coppia: Barbarella Viti, la mascula, 
che aveva una superba testa di giovinetto, tutta 
quanta dorata e fulgente come certe teste giu- 
dee del Rembrandt; la contessa di Lùcoli, la 
dama delle turchesi, una Circe di Dosso Dossi, 
con due bellissimi occhi pieni di perfidia, va- 
rianti come i mari d'autunno, grigi, azzurri, 
verdi, indefinibili; Liliana Theed, una lady di 
ventidue anni, risplendente di quella prodigiosa 



— 131 — 

carnagione, connposta di luce, di rose e di latte, 
che han soltanto i babies delle grandi famiglie 
inglesi nelle tele del Reynolds, del Gainsborougli 
e del Lawrence; la marchesa Du Deffand, una 
bellezza del Direttorio, una Récamier, dal lungo 
e puro ovale, dal collo di cigno, dalle mammelle 
saglienti, dalle braccia bacchiche; Donna Isotta 
Cellesi, la dama delli smeraldi, che volgeva con 
una lenta maestà bovina la sua testa d'impera- 
trice tra lo scintillio delle enormi gemme ere- 
ditarie; la principessa Kalliwoda, la dama senza 
giojelli, che nella fragilità delle sue forme chiu- 
deva nervi d'acciajo per il piacere e su la ce- 
rea delicatezza de' suoi lineamenti apriva due 
voraci occhi leonini, li ocelli d'uno Scita. 

Ciascuno di questi amori portò a lui una de- 
gradazione novella; ciascuno l'inebriò d'una cat- 
tiva ebrezza, senza appagarlo; ciascuno gli in- 
segnò una qualche particolarità e sottilità del 
vizio a lui ancora ignota. Egli aveva in sé i 
germi di tutte le infezioni. Corrompendosi, cor- 
rompeva. La frode gli invescava l'anima, come 
d'una qualche materia viscida e fredda che ogni 
giorno divenisse più tenace. Il pervertimento 
de' sensi gli faceva ricercare e rilevare nelle 
sue amanti quel ch'era in loro men nobile e 
men puro. Una bassa curiosità lo spingeva a 
sceglier le donne che avevan peggior fama; un 
crudel gusto di contaminazione lo spingeva a 
sedurre le donne che avean fama migliore. Fra 
le braccia dell'una egli si ricordava d'una ca- 
rezza dell'altra, d'un modo di voluttà appreso 
dall'altra. Talvolta (e fu, in ispecie, quando la 
notizia delle seconde nozze di Elena Muti gli 



— 132 — 

riapri per qualche tempo la ferita) piacevasi di 
sovrapporre alla nudità presente la evocata nu- 
dità di Elena e di servirsi della forma reale come 
d'un appoggio sul qual godere la forma ideale. 
Nutriva l'imagine con uno sforzo intenso, fin- 
ché l'imaginazione giungeva a possedere l'om- 
bra quasi creata. 

Pur tuttavia egli non aveva culto per le me- 
morie dell'antica felicità. Talvolta, anzi, quelle 
gli davano un appiglio a una qualunque avven- 
tura. Nella galleria Borghese, per esempio, nella 
memore sala degli specchi, egli ottènne da Li- 
lian Theed la prima promessa; nella Villa Me- 
dici, su per la memore scala verde che conduce 
al Belvedere, egli intrecciò le sue dita alle lun- 
ghe dita d'Angélique Du Deffand; e il piccolo 
teschio d'avorio appartenuto al cardinale Im- 
menraet, il giojello mortuario segnato del nome 
d'una Ippolita oscura, gli suscitò il capriccio di 
tentare Donna Ippolita Albónico. 

Questa dama aveva nella sua persona una 
grande aria di nobiltà, somigliando un poco a 
Maria Maddalena d'Austria, moglie di Cosimo II 
de' Medici, nel ritratto di Giusto Suttermans, 
ch'è in Firenze, dai Corsini. Amava li abiti sun- 
tuosi, i broccati, i velluti, i merletti. I larghi col- 
lari medicei parevano la foggia meglio adatta 
a far risaltare la bellezza della sua testa superba. 

In una giornata di corse, su la tribuna, An- 
drea Sperelli voleva ottenere da Donna Ippolita 
ch'ella andasse la dimane al palazzo Zuccari 
per prendere il misterioso avorio dedicato a lei. 
Ella si schermiva, ondeggiando tra la prudenza 
e la curiosità. Ad ogni frase del giovine un po' 



— 133 — 

ardita, corrugava le sopracciglia mentre un sor- 
riso involontario le sforzava la bocca; e la sua 
testa, sotto il cappello ornato di piume bianche, 
sul fondo delVombrellino ornato di merletti bian- 
chi, era in un momento di singolare armonia. 

— TibU Hippolyta! Dunque venite? Io vi aspet- 
terò tutto il giorno, dalle due fino a sera. Va 
bene? 

— Ma siete pazzo? 

— Di che temete ? Io giuro alla Maestà Vostra 
di non toglierle né pure un guanto. Rimarrà 
seduta come in un trono, secondo il suo regal 
costume; e, anche prendendo una tazza di tè, 
potrà non posare lo scettro invisibile che porta 
sempre nella destra imperiosa. È concessa la 
grazia, a questi patti? 

— No. 

Ma ella sorrideva, poiché compiace vasi di 
sentir rilevare quell'aspetto di regalità eh' era 
la sua gloria. E Andrea Sperelli continuava a 
tentarla, sempre in tono di scherzo o di pre- 
ghiera, unendo alla seduzione della sua voce 
uno sguardo continuo, sottile, penetrante, quello 
sguardo indefinibile che seriibrava svestire le 
donne, vederle ignude a traverso le vesti, toc- 
carle su la pelle viva. 

— Non voglio che mi guardiate così — disse 
Donna Ippolita, quasi offesa, con un lieve rossore. 

Su la tribuna eran rimaste poche persone. Si- 
gnore e signori passeggiavano su l'erba, lungo 
lo steccato, o circondavano il cavallo vittorioso, 
o scommettevano coi publici scommettitori ur- 
lanti, sotto l'incostanza del sole che appariva e 
spariva fra i molli arcipelaghi delle nuvole. 



— 134 — 

— Scendiamo — ella soggiunse, non accor- 
gendosi delli occhi seguaci di Giannetto Rùtolo 
che stava appoggiato alla ringlyera della scala. 

Quando, per discendere, passarono d'innanzi 
a colui, lo Sperelli disse: 

— Addio, marchese, a poi. Correremo. 

Il Rùtolo s'inchinò profondamente a Donna 
Ippolita; e una sùbita fiamma gli colorò la fac- 
cia. Eragli parso di sentire nel saluto del conte 
una leggera irrisione. Rimase alla ringhiera, 
seguendo sempre con li ocelli la coppia nel re- 
cinto. Visibilmente, soffriva. 

— Rùtolo, alle vedette! — fecegli, con un riso 
malvagio, la contessa di Lùcoli passando a brac- 
cio di Don Filippo del Monte, giù per la scala 
di ferro. 

Egli sentì la punta nel mezzo del cuore. Donna 
Ippolita e il conte d'Ugenta, dopo essere giunti 
fin sotto la specola dei giudici, tornavano verso 
la tribuna. La dama teneva il bastone dell'om- 
brellino su la spalla, girandolo fra le dita: la 
cupola bianca le roteava dietro la testa, come 
un'aur-eola, e i molti merletti s'agitavano e si 
sollevavano incessantemente. Entro quel cer- 
chio mobile ella di tratto in tratto rideva alle 
parole del giovine; e ancora un lieve rossore 
tingeva la nobile pallidezza del suo volto. Di 
tratto in tratto, i due si soffermavano. 

Giannetto Rùtolo, fingendo di voler osservare 
i cavalli che entravano nella pista, volse il bi- 
nocolo su i due. Visìbilmente, gli tremavano le 
mani. Ogni sorriso, ogni gesto, ogni attitudine 
di Ippolita gli dava un atroce dolore. Quando 
abbassò il binocolo, egli era assai smorto. Aveva 



>. 



— 135 — 

sorpreso nelli occhi deiramata, che si posavano 
su lo SperelH, quello sguardo ch'egli ben cono- 
sceva poiché n' era stato, un tempo, illuminato 
di speranza. Gli parve che tutto minasse in 
torno a lui. Un lungo amore finiva , troncato 
da quello sguardo, irreparabilmente. Il sole non 
era più il sole; la vita non era più la vita. 

La tribuna si ripopolava rapidamente , già 
che il segnale della terza corsa era prossimo. 
Le dame salivano in piedi su i sedili. Un mor- 
morio correva lungo i gradi, simile a un vento 
sopra un giardino in pendìo. La campanella 
squillò. I cavalli partirono come un gruppo di 
saette. 

— Correrò in onor vostro, Donna Ippolita — 
disse Andrea Sperelli all'Albonico, prendendo 
congedo per andare a prepararsi alla seguente 
corsa, ch'era di gentiluomini. — Tibi, Hippolyta, 
sempert 

Ella gli strinse la mano, forte, per augurio, 
non pensando che anche Giannetto Rùtolo stava 
fra i contenditori. Quando vide, poco oltre. Fa- 
mante pallido scendere giù per la scala, Tinge- 
nua crudeltà deUIndifferenza le regnava nei 
belli occhi oscuri. Il vecchio amore le cadeva 
dall'anima, pari a una spoglia inerte, per l'in- 
vasione del nuovo. Ella non apparteneva più a 
quell'uomo; non gli era legata da nessun le- 
game. ' Non è concepibile come prontamente e 
intieramente rientri nel possesso del proprio 
cuore la donna che non ama più. 

" Egli me l'ha presa „ pensò colui, cammi- 
nando verso la tribuna del Jockey-club, su l'erba 
che parevagli s'affondasse sotto i suoi piedi 



— 136 — 

come un'arena. Davanti, a poca distanza, cam- 
minava Taltro, con un passo disinvolto e sicuro. 
La persona alta e snella, neir abito cìnerino, 
aveva quella particolare inimitabile eleganza 
che sol può dare il lignaggio* Egli fumava. 
Giannetto Rùtolo, venendo dietro, sentiva l'o- 
dore della sigaretta, ad ogni buffo di fumo; ed 
era per lui un fastidio insopportabile, un di- 
sgusto che gli saliva dalle viscere, come con- 
tro un veleno. 

Il duca di Beffi e Paolo Caligaro stavano su 
la soglia, già in assetto di corsa. Il duca si chi- 
nava su le gambe aperte, con un movimento 
ginnico, per provare l'elasticità de' suoi calzoni 
di pelle o la forza de' suoi ginocchi. Il piccolo 
Caligaro imprecava alla pioggia della notte, che 
aveva reso pesante il terreno. 

-- Ora — disse allo Sperelli — tu hai molte 
probabilità, con Michiag Mallecho, 

Giannetto Rùtolo udì quel presagio, ed ebbe 
al cuore una fitta. Egli riponeva nella vittoria 
una vaga speranza. Nella sua imaginazione ve- 
deva li efl'etti d'una corsa vinta e d'un duello 
fortunato, contro il nemico. Spogliandosi, ogni 
suo gesto tradiva la preoccupazione. 

— Ecco un uomo che, prima di montare a 
cavallo , vede aperta la sepoltura — disse il 
duca di Beffi, posandogli una mano su la spalla, 
con un atto comico. — Ecce homo novus. 

Andrea Sperelli, il quale in tal momento aveva 
gli spiriti gai, ruppe in un di que'suor franchi 
scoppi di risa, ch'erano la più seducente eff'u- 
sione della sua giovinezza. 

— Perchè ridete, voi? — gli chiese il Rùtolo, 



— 137 — 

pallidissimo, fuori di sé, fissandolo di sotto ai 
sopraccigli corrugati. 

— Mi pare — rispose lo Sperelli, senza tur- 
barsi — che voi mi parliate in un tono assai 
vivo, caro marchese. 

— E bene? 

— Pensate del mio riso quel che più vi piace. 

— Penso che è sciocco. 

Lo Sperelli balzò in piedi, fece un passo, e 
levò contro Giannetto Rùtolo il frustino. Paolo 
Caligaro giunse a trattenergli il braccio, per 
prodigio. Altre parole irruppero. Sopravvenne 
Don Marcantonio Spada; udì Talterco, e disse: 

— Basta, figliuoli. Sapete ambedue quel che 
dovrete fare domani. Ora, dovete correre. 

I due avversarii compirono la lor vestizione, 
in silenzio. Quindi uscirono. Già la notizia del 
litigio s'era sparsa nel recinto e saliva su per 
le tribune, ad accrescere T aspettazion della 
corsa. La contessa di Lùcoli, con raffinata per- 
fidia, la diede a Donna Ippolita Albónico. Que- 
sta, non lasciando trasparire alcun turbamento, 
disse : 

— Mi dispiace. Parevano amici. 

La dicerìa si diffondeva , transformandosi , 
per le belle bocche feminee. Intorno ai publici 
scommettitori ferveva la folla. Miehing Malle- 
cho , il cavallo del conte d' Ugenta , e Brum- 
mely il cavallo del marchese Rùtolo, erano i 
favoriti; venivano poi Satìrist del duca di Beffi 
e Carbonilla del conte Caligaro, l buoni cono- 
scidori però diffidavano de' due primi, pensando 
che la concitazion nervosa dei due cavalieri 
avrebbe certamente nociuto alla corsa. 



— 138 — 

Ma Andrea Sperelli era calmo, quasi allegro. 

Il sentimento della sua superiorità su l'avver- 
sario rassicurava; inoltre, quella tendenza ca- 
valleresca alle avventure perigliose, ereditata 
dal padre byroneggiante, gli faceva vedere il 
suo caso in una luce di gloria; e tutta la na- 
tiva generosità del suo sangue giovenile risve- 
glìavasi, d'innanzi al rischio. Donna Ippolita Al- 
bónico, d'un tratto, gli si levava in cima del- 
l'anima, più desiderabile e più bella. 

Egli andò in contro al suo cavallo, con il 
cuor palpitante, come in contro a un amico che 
gli portasse l'annunzio aspettato d'una fortuna. 
Gli palpò il muso, con dolcezza; e l'occhio del- 
l'animale, quell'occhio ove brillava tutta la no- 
biltà della razza per una inestinguibile fiamma, 
l'inebriò come lo sguardo magnetico di una 
donna. 

— Mallecho — mormorava, palpandolo — è 
una gran giornata! Dobbiamo vincere. 

Il suo trainer, un omuncolo rossiccio, fìg- 
gendo le pupille acute su li altri cavalli che 
passavano portati a mano dai palafrenieri, disse, 
con la voce ràuca : 

— No doubt 

Miching Mallecho esq. era un magnifico bajo, 
proveniente dalle scuderie del barone di Sou- 
beyran. Univa alla slanciata eleganza delle forme 
una potenza di reni straordinaria. Dal pelo lu- 
cido e fino, di sotto a cui apparivano gli intri- 
chi delle vene sul petto e su le cosce, pareva 
esalare quasi un fuoco vaporoso, tanto era l'ar- 
dore della sua vitalità. Fortissimo nel salto, 
aveva portato assai spesso nelle cacce il suo 



— 139 — 

signore, di là da tutti li ostacoli della campa- 
gna di Roma, su qualunque terreno, non rifiu- 
tandosi d'innanzi a una triplice filagna o d'in- 
nanzi a una maceria mai, sempre alla coda dei 
cani, intrepidamente. Un hop del cavaliere Fin- 
citava più d'un colpo di sperone; e una carezza 
lo faceva fremere. 

Prima di montare, Andrea esaminò attenta- 
mente tutta la bardatura, si assicurò d'ogni fib- 
bia e d'ogni cinghia; quindi balzò in sella, sor- 
ridendo. Il trainer dimostrò con un espressivo 
gesto la sua fiducia, guardando il padrone al- 
lontanarsi. 

Intorno alle tabelle delle quote persisteva la 
folla delli scommettitori. Andrea sentì su la sua 
persona tutti gli sguardi. Volse TT^^cchi alla tri- 
buna destra per vedere l'Albónico, ma non potè 
distinguer nulla tra la moltitudine delle dame. 
Salutò da presso Lilian Ttieed a cui eran ben 
noti i galoppi di Mallecho dietro le volpi e die- 
tro le chimere. La marchesa d'Ateleta fece da 
lontano un atto di rimprovero, poiché aveva 
saputo l'alterco. 

— Com'è quotato Mallecho? — - chiese egli a 
Ludovico Barbarisi. 

Andando al punto di partenza, egli pensava 
freddamente al metodo che avrebbe tenuto per 
vincere; e guardava i suoi tre competitori, che 
lo precedevano, calcolando la forza e la scienza 
di ciascuno. Paolo Caligaro era un demonio di 
malizia, rotto a tutte le furberie del mestiere, 
come nn jockey; ma Carbonilla, se bene veloce, 
era di poca resistenza. Il duca di Beffi, cava- 
liere d'alta scuola, che aveva vinto più d'un 



— 140 — 

match in Inghilterra, montava un animale d'u- 
mor diffìcile, che poteva rifiutarsi innanzi a 
qualche ostacolo. Giannetto Rùtolo in vece ne 
montava uno eccellente ed assai ben discipli- 
nato; ma se ben forte, egli era troppo impe- 
tuoso e prendeva parte a una corsa publica 
per la prima volta. Inoltre, doveva trovarsi in 
uno stato di nervosità terribile, come da molti 
segni appariva. 

Andrea pensava, guardandolo: "La mia vit- 
toria d'oggi influirà sul duello di domani, senza 
dubbio. Egli perderà la testa, certo, qui e là. 
Io debbo essere calmo, su tutt'e due i campi. „ 
Poi, anche, pensò: " Quale sarà Tanimo di Donna 
Ippolita? „ Gli parve che in torno ci fosse un 
silenzio insolito. Misurò con l'occhio la distanza 
fino alla prima siepe; notò su la pista un sasso 
luccicante; s'accorse d'essere osservato dal Rù- 
tolo ; ebbe un fremito per tutta la persona. 

La campanella diede il segnale; ma Brum- 
mei aveva già preso lo slancio ; e la partenza 
quindi, non essendo stata contemporanea, fu 
ritenuta non buona. Anche le seconda fu una 
falsa partenza, per colpa di BrummeL Lo Spe- 
relli e il duca di Beffi si sorrisero fuggevol- 
mente. 

La terza partenza fu valida. Brummel, sùbito, 
si staccò dal gruppo, radendo lo steccato. Li 
altri tre cavalli seguirono di pari, per un tratto; 
e saltarono la prima siepe, felicemente ; poi, la 
seconda. Ciascuno dei tre cavalieri faceva un 
gioco diverso. Il duca di Beffi cercava di man- 
tenersi nel gruppo perchè d'innanzi alli ostacoli 
Sailrid fosse instigato dall'esempio. Il Caligaro 



— 141 — 

moderava la foga di Carbonaia, a conservarle 
le forze per li ultimi cinquecento metri. An- 
drea Sperelli aumentava gradatamente la ve- 
locità, volendo incalzare il suo nemico in pros- 
simità dell'ostacolo più difficile. Poco dopo , in 
fatti, Mallecho avanzò i due compagni e si diede 
a serrare da presso Brummel. 

Il Rùtolo sentì dietro di sé il galoppo incal- 
zante, e fu preso da tale ansietà che non vide 
più nulla. Tutto alla vista gli si confuse, come 
s'egli fosse per perdere gli spiriti. Faceva uno 
sforzo immenso per tener piantati gli speroni 
nel ventre del cavallo; e lo sbigottiva il pen- 
siero che le forze lo abbandonassero. Aveva 
nelli orecchi un rombo continuo, e in mezzo 
al rombo udiva il grido breve e secco d'Andrea 
Sperelli. 

— Hop! Hop! 

Sensibilissimo alla voce più che ad ogni al- 
tra instigazione, Mallecho divorava l'intervallo 
di distanza, non era più che a tre o quattro 
metri da Brummel, stava per raggiungerlo, per 
superarlo. 

— Hop! 

Un'alta barriera attraversava la pista. Il Rù- 
tolo non la vide, poiché aveva smarrita ogni 
conscienza, conservando solo un furioso istinto 
di aderire all'animale e di spingerlo innanzi, 
alla ventura. Brummel saltò; ma, non coadiu- 
vato dal cavaliere, urtò le zampe posteriori e 
ricadde dall'altra parte così male che il cava- 
liere perse le staffe, pur restando in sella. Se- 
guitò tuttavia a correre. Andrea Sperelli teneva 
ora il primo posto; Giannetto Rùtolo, senza 



— 1 12 — 

aver ricuperate le staffe, veniva secondo, in- 
calzato da Paolo Caligaro; il duca di Beffi , 
avendo sofferto da Satirist un rifiuto, veniva 
ultimo. Passarono sotto le tribune, in quest'or- 
dine; udirono un clamore confuso, che si dileguò. 

Su le tribune, tutti li animi stavan sospesi 
neirattenzione. Alcuni indicavano ad alta voce 
le vicende della corsa. Ad ogni mutamento nel- 
Tordine dei cavalli, molte esclamazioni si leva- 
vano tra un lungo mormorio; e le dame ne 
avevano un fremito. Donna Ippolita Albónico, 
ritta in piedi sul sedile, appoggiandosi alle spalle 
del marito il quale era sotto di lei, guardava 
senza mai mutarsi, con una meravigliosa padro- 
nanza; se non che le labbra troppo chiuse e 
un leggerissimo increspamento della fronte po- 
tevan forse rivelare a un indagatore lo sforzo. 
A un certo punto, ritrasse dalle spalle del ma- 
rito le mani per tema di tradirsi con un qual- 
che involontario moto. 

— Sperelli ò caduto — annunziò a voce alta 
la contessa di Lùcoli. 

Mallecho, in fatti, saltando, aveva messo un 
piede in fallo su l'erba umida ed erasi piegato 
su le ginocchia, rialzandosi immediatamente. 
Andrea gli era passato dal collo, senza danno; 
e con una prontezza fulminea era tornato in 
sella, mentre il Rùtolo e il Caligaro sopraggiun- 
gevano. Brummel, se bene offeso alle zampe 
posteriori, faceva prodigi, per virtù del suo san- 
gue puro. Carbonilla in fine spiegava tutta la 
sua velocità, condotta con arte mirabile dal suo 
cavaliere. Mancavano circa ottocento metri alla 
mèta. 



— 143 — 

Lo Sperelli vide la vittoria fuggirgli; ma rac- 
colse tutti gli spiriti per riafferrarla. Teso su 
le staffe, curvo su la criniera, gittava di tratto 
in tratto quel grido breve, èsile, penetrante, che 
aveva tanto potere sul nobile animale. Mentre 
Brummel e Carbonaia, affaticati dal terreno pe- 
sante, perdevano vigore, Mallecho aumentava 
la veemenza del suo slancio, stava per ricon- 
quistare il suo posto, già sfiorava la vittoria 
con la fiamma delle sue narici. Dopo Tultimo 
ostacolo, avendo superato Brummel, raggiun- 
geva con la testa la spalla di Carbonilla. A 
circa cento metri dalla mèta, radeva lo steccato, 
avanti, avanti, lasciando tra sé e la morella del 
Caligaro lo spazio di dieci " lunghezze „. La 
campana squillò; un applauso risonò per tutte le 
tribune, come il crepitar sordo di una grandine ; 
un clamore si propagò nella folla su la prate- 
ria inondata dal sole. 

. Andrea Sperelli rientrando nel recinto pensava: 
"' La fortuna è con me, oggi. Sarà con me anche 
domani ?„ Sentendo venire a sé Taura del trionfo, 
ebbe contro Toscuro pericolo quasi una solle- 
vazione d'ira. Avrebbe voluto affrontarlo sùbito, 
in quello stesso giorno , in quella stessa ora, 
senza altro indugio , per godere una duplice 
vittoria e per mordere quindi al frutto che gli 
offeriva la mano di Donna Ippolita. Tutto il suo 
essere accende vasi d'un orgoglio selvaggio, al 
pensiero di posseder quella bianca e superba 
donna per diritto di conquista violenta. L' imagi- 
nazione gli fingeva un gaudio non mai provato, 
quasi direi una voluttà d'altri tempi, quando i 
gentiluomini scioglievano i capelli delle ama- 



— 144 — 

sie con mani omicide e carezzevoli , affondan- 
dovi la fronte ancora grondante per la fatica 
dell'abbattimento e la bocca ancora amara delle 
profferte ingiurie. Egli era invaso da quella ine- 
splicabile ebrezza che danno a certi uomini d'in- 
telletto Tesercizio della forza fìsica, resperi- 
mento del coraggio, la rivelazione della bruta- 
lità. Quel che in fondo a noi è rimasto della fe- 
rocia originale torna al sommo talvolta con una 
strana veemenza ed anche sotto la meschina 
gentilezza dell'abito moderno il nostro cuore 
talvolta si gonfia di non so che smania sangui- 
naria ed anela alla strage. Andrea Sperelli aspi- 
rava la calda ed acre esalazion del suo cavallo, 
pienamente, e nessuno di quanti delicati profumi 
egli aveva fin allora preferiti , nessuno aveva 
mai dato al suo senso un più acuto piacere. 

A pena smontò , fu accerchiato da amiche e 
da amici che si congratulavano. Miching Malle- 
cho, sfinito, tutto fumante e spumante, sbuffava 
protendendo il collo e scotendo le briglie. I suoi 
fianchi s'abbassavano e si sollevavano con un 
moto continuo, cosi forte che parevano scop- 
piare; i suoi muscoli sotto la pelle tremavano 
come le corde delli archi dopo lo scocco; i suoi 
occhi iniettati di sangue e dilatati avevano ora 
l'atrocttà di quelli d'una fiera; il suo pelo, ora 
interrotto da larghe chiazze più oscure, si apriva 
qua e là a spiga sotto i rivoli del sudore; la vi- 
brazione incessante di tutto il suo corpo faceva 
pena e tenerezza, come la sofferenza d'una crea- 
tura umana. 

— Poor fellowl — mormorò Lilian Theed. 

Andrea gli esaminò i ginocchi per veder se 



— 145 — 

la caduta li avesse offesi. Erano intatti. Altora, 
battendolo pianamente in sul collo, gli disse con 
un accento indefinibile di dolcezza: 

— Va, Mallecho, va. 

E lo riguardò allontanarsi. 

Poi, avendo lasciato Tabito di corsa, cercò di 
Ludovico Barbarisi e del barone di Santa Mar- 
glierita. 

Ambedue accettarono T incarico di assisterlo 
nella questione col marchese Rùtolo. Egli li 
pregò di sollecitare. 

— Stabilite, dentro questa sera, ogni cosa. Do- 
mani, airuna dopo mezzogiorno, io debbo es- 
sere già libero. Ma domattina lasciatemi dor- 
mire almeno fino alle nove. Io pranzo dalhi 
Ferentino; e passerò poi in casa Giustiniani; e 
poi, a ora tarda, al Circolo. Sapete dove tro- 
varmi. Grazie, e a rivederci, amici. 

Salì alla tribuna; ma evitò di avvicinarsi su- 
bito a Donna Ippolita. Sorrideva, sentendosi av- 
volgere dagli sguardi feminili. Molte belle mani 
si tendevano alni; molte belle voci lo chiama- 
vano familiarmente Andrea; alcune anzi lo chia- 
mavan cosi con una certa ostentazione. Le dame 
che avevano scommesso per lui gli dicevano la 
somma della loro vincita: dieci luigi, venti luigi* 
Altre gli domandarono, con curiosità: 

— Vi batterete? 

A lui pareva di aver raggiunto il culmine della 
gloria avventurosa in un sol giorno, meglio che 
il duca di Buckingham e il signor di Lauzun* 
Egli era uscito vincitore da una corsa eroica; 
aveva acquistata una nuova amante, magnìfica 
e serena come una dogaressa; aveva provo- 

Il Piacere. 10 



— 146 — 

cato un duello mortale; ed ora passava tran- 
quillo e cortese, né più né meno del solito, fra 
il sorriso di tali dame a cui egli conosceva al- 
tro che la grazia della bocca. Non poteva egli 
forse indicare di molte un vezzo segreto o una 
particolare abitudine di voluttà? Non vedeva 
egli , a traverso tutta quella chiara freschezza 
di stoffe primaverili, il neo biondo, simile a una 
piccola moneta d*oro, sul fianco sinistro disotta 
Cellesi; o il ventre incomparabile di Giulia Mo- 
ceto, polito come una coppa d'avorio, puro come 
quel d'una statua, per l'assenza perfetta d^ciò 
che nelle sculture e nelle pitture antiche rim- 
piangeva il poeta del Musée secret? Non udiva 
nella voce sonora di Barbarella Viti un'altra 
indefinibile voce che ripeteva di continuo una 
parola invereconda; o nell'ingenuo riso di Au- 
rora Seymour un altro indefinibile suono, rauco 
e gutturale , che ricordava un poco il rantolo 
dei gatti in su'focolari e il tubare delle tortore 
ne' boschi ? Non sapeva le squisite depravazioni 
della contessa di Lùcoli che s'inspirava su i li- 
bri erotici, su le pietre incise e su le miniature; 
o gli invincibili pudori di Francesca Daddi che 
ne' supremi aneliti, come un' agonizzante, invo- 
cava il nome di Dio? Quasi tutte le donne ch'egli 
aveva ingannato, o che lo avevano ingannato, 
erano là e gli sorridevano. 

— Ecco l'eroe ! — disse il marito dell' Albó- 
nico, tendendogU la mano, con amabilità inso- 
lita, e stringendogliela forte. 

~ Eroe da vero — aggiunse Donna Ippolita, 
col tono insignificante d'un complimento obbli- 
gato, parendo ignorare il dramma. 



— 147 — 

Lo Sperelli s'inchinò e passò oltre, perchè 
provava non so che imbarazzo d' innanzi a 
quella strana benevolenza del marito. Un so- 
spetto gli balenò nell'animo, che il marito gli 
fosse grato d' aver attaccato briga con r a- 
mante della moglie; e sorrise della viltà di 
quell'uomo. Come si volse, li occhi di Donna 
Ippolita s' incontrarono , si mescolarono con i 
suoi. 

Nel ritorno, dal mail-coach del principe di Fe- 
rentino vide fuggire verso Roma Giannetto Rù- 
tolo con un piccolo legno a due ruote, al trotto 
fìtto d'un gran roano ch'egli guidava chinato 
in avanti, tenendo la testa bassa e il sigaro tra 
i denti, senza curarsi delle guardie che gli in- 
timavano di mettersi nella fila. Roma, in fondo, 
si disegnava oscura sopra una zona di luce 
gialla come zolfo; e le statue in sommo della 
basilica di San Giovanni entro un elei di viola, 
fuor della zona, grandeggiavano. Allora ebbe 
Andrea la conscìenza intera del male ch'egli 
faceva soffrire a quell'anima. 

La sera, in casa Giustiniani, disse all'Albónico: 

— Riman dunque fermo che domani , dalle 
due alle cinque, io vi aspetterò. 

Ella voleva chiedergli: 

— Come? non vi battete, domani? 
Ma non osò. Rispose: 

— Ho promesso. 

Poco tempo dopo, si accostò ad Andrea il ma- 
rito, mettendoglisi a braccio con affettuosa pre- 
mura, per chiedergli notizie del duello. Egli era 
un uomo ancor giovine, biondo, elegante, con 
1 capelli molto radi, con l'occhio biancastro, con 



— 148 — 

ì due canini sporgenti fuor delle labbra. Aveva 
una leggera balbuzie. 

— Dunque? Dunque? Domani, eh? 

Andrea non sapeva vincere la ripugnanza; e 
teneva il braccio teso lungo il fianco, per dimo- 
strare che non amava quella familiarità. Come 
vide entrare il barone di Santa Margherita , si 
liberò dicendo: 

— Mi preme di parlare col Santa Margherita. 
Scusate, conte. 

Il barone l'accolse con queste parole: 

— Tutto è stabilito. 

— Bene. Per che ora? 

— Per le dieci e mezzo , alla Villa Sciarra, 
Spada e guanto di sala. A oltranza. 

Chi sono gli altri due? 

— Roberto Casteldieri e Carlo de Souza. Ci 
siamo sbrigati subito, evitando le formalità. 
Giannetto aveva già pronti i suoi. Abbiamo 
steso il verbale di scontro, al Circolo, senza di- 
scussione. Cerca di non andare a letto troppo 
tardi; mi raccomando. Tu devi essere Stanco. 

Per millanteria, uscendo di casa Giustiniani, 
Andrea andò al Circolo delle Cacce; e si mise 
a giocare cogli sportsmen napoletani. Verso le 
due il Santa Margherita lo sorprese, lo forzò 
ad abbandonare il tavolo, e volle ricondurlo a 
piedi fino al palazzo Zuccari. 

— Mio caro — ammoniva, in cammino — tu 
sei troppo temerario. In questi casi, un'impru- 
denza può esser fatale. Per conservarsi in- 
tatta la vigoria, un buono spadaccino deve 
avere a sé medesimo le cure che ha un buon 
tenore per conservarsi la voce* Il polso è de- 



licato quanto la laringe; le articolazioni delle 
gambe son delicate quanto le corde vocali. In- 
tendi? Il meccanismo si risente d'ogni mìnimo 
disordine; lo strumento si guasta, non obedi- 
sce più. Dopo una notte d'amore o di giuoco o 
di crapula, anche le stoccate di Camillo Agrippa 
non potrebbero andar diritte e le parate non po- 
trebbero essere né esatte né veloci. Ora, basta 
sbagliare d'un millimetro per prendersi tre pol- 
lici di ferro in corpo. 

Erano al principio della via de' Condotti; e ve- 
devano , al fondo , la piazza di Spagna illumi^ 
nata dalla piena luna, la scala biancheggiante, 
la Trinità de' Monti alta nell'azzurro soave. 

— Tu, certo — seguitò il barone — hai molti 
vantaggi su l'avversario: tra li altri, 11 sangue 
freddo e la pratica del terreno. T' ho veduto a 
Parigi contro il Gavaudan. Ti ricordi? Gran bel 
duello! Ti battesti come un dio. 

Andrea si mise a ridere di compiacenza. L'elo- 
gio di queir insigne duellatore gli gonfiava il 
cuore d'orgoglio, gli metteva nei nervi una so- 
vrabbondanza di forze. La sua mano, istintiva- 
mente, stringendo il bastone faceva atto di ri- 
petere il famoso colpo che trafìsse il braccio al 
marchese di Gavaudan il 12 dicembre del 1885. 

— Fu — egli disse — una " contro di terza „ 
e un ^ filo. „ 

E il barone riprese: 

— Giannetto Rùtolo , su la pedana , è un di- 
screto tiratore; sul terreno, è di primo impeto. 
S'è battuto una volta sola, con mio cugino Cas- 
sibile ; e n' è uscito male. Fa molto abuso di 
" uno, due „ e di " uno due, tre, „ attaccando. Ti 



— 150 — 

gioveranno gli " arresti in tempo „ e special- 
mente le *' inquartate „. Mio cugino, a punto, lo 
bucò con una "' inquartata „ netta , al secondo 
assalto. E tu sei un tempista forte. Abbi però 
rocchio sempre vigile, e cerca di conservar la 
misura. Sarà bene che tu non dimentichi d'avere 
a fronte un uomo a cui hai presa, dicono, ramante 
e su cui hai levato il frustino. 

Erano nella piazza di Spagna. La Barcaccia 
metteva un chioccolio roco ed umile, lucci- 
cando alla luna che vi si specchiava dall'alto 
della colonna cattolica. Quattro o cUique vet- 
ture pubhche stavano ferme, in fila, coi fa- 
nali accesi. Dalla via del Bàbuino giungeva un 
tintinno di sonagli e un romor sordo di passi, 
come d'un gregge in canmiino. 

A pie della scala, il barone s'accomiatò. 

— Addio, a domani. Verrò qualche minuto 
prima delle nove , con Ludovico. Tirerai due 
colpi, per scioglierti. Penseremo noi ad avvi- 
sare il medico. Va; dormi profondo. 

Andrea si mise su per la scala. Al primo ri- 
piano si soffermò, attirato dal tintinno dei so- 
nagli, che s'avvicinava. Veramente, egli si sen- 
tiva un po' stanco; e anche un po' triste, in 
fondo al cuore. Dopo la fierezza suscitatagli 
nel sangue da quel colloquio di scienza d'arme 
e dal ricordo della sua bravura, una specie 
d'inquietudine l'invadeva, non bene distinta, mi- 
sta di dubbio e di scontento. I nervi, troppo 
tesi in quella giornata violenta e torbida, gli si 
rilassavano ora, sotto la clemenza della notte 
primaverile. — Perchè, senza passione, per 
puro capriccio , per sola vanità , per sola prc-^ 



— 151 — 

potenza, erasi egli compiaciuto di sollevare un 
odio e di rendere dolorosa Tanima di un uomo? 
— 11 pensiero della orribile pena che certo do- 
veva affliggere il suo nemico, in una notte così 
dolce, gli mosse quasi un senso di pietà. Uima- 
gine di Elena gli traversò il cuore, in un ba- 
leno; gli tornarono nella mente le angosce du- 
rate un anno innanzi, quando egli Taveva per- 
duta, e le gelosie, e le collere, e gli sconforti 
inesprimibili. — Anche allora le notti erano 
chiare, tranquille, solcate di profumi; e come 
gli pesavano! — Aspirò l'aria, per ove sali- 
vano i flati delle rose fiorite ne' piccoli giar- 
dini laterali; e guardò giù nella piazza passare 
il gregge. 

La folta lana biancastra delle pecore agglo- 
merate procedeva con un fluttuamento continuo, 
accavallandosi, a similitudine d' un' acqua fan- 
gosa che inondasse il lastrico. Qualche belato 
tremulo mescevasi al tintinno; altri belati, più 
sottili, più timidi, rispondevano; i butteri gitta- 
vano di tratto in tratto un grido e distendevano 
le aste, cavalcando dietro e affianchi; la luna 
dava a quel passaggio d'armenti, per mezzo 
alla gran città addormentata, non so che mi- 
stero quasi di cosa veduta in sogno. 

Andrea si ricordò che in una notte serena di 
febbraio, uscendo da un ballo dell'ambasciata in- 
glese nella via Venti Settembre, egli ed Elena ave- 
vano incontrata una mandra;ela carrozza aveva 
dovuto fermarsi. Elena, china al cristallo, guar- 
dava le pecore passar rasente le ruote e indi- 
cava li agnelli più piccoli , con un' allegria in- 
fantile; ed egli teneva il suo viso accosto al 



— 152 — 

viso di lei, socchiudendo li occhi, ascoltando ]o 
scalpicelo, i belati, il tintinno. 

Perchè mai gli tornavano ora tutte quelle 
memorie di Elena? — Riprese a salire, lenta- 
mente. Sentì più grave, nel salire, la sua stan- 
chezza; i ginocchi gli si piegavano. Gli lampeg- 
giò d'improvviso il pensiero della morte. " S'io 
rimanessi ucciso? S'io ricevessi una cattiva 
ferita e n'avessi per tutta la vita un impedi- 
mento?,, La sua avidità di vivere e di godere 
si sollevò contro quel pensiero lugubre. Egli 
disse a sé medesimo : " Bisogna vincere. „ E vide 
tutti i vantaggi, ch'egli avrebbe avuti da que- 
st'altra vittoria: il prestigio della sua fortuna, 
la fama della sua prodezza, i baci di Donna Ip- 
polita, nuovi amori, nuovi godimenti, nuovi ca- 
pricci. 

Allora, dominando ogni agitazione , si mise a 
curare l'igiene della sua forza. Dormi fino a che 
non fu risvegliato dalla venuta dei due amici; 
prese la doccia consueta; fece distendere sul 
pavimento la striscia d'incerato; e invitò il Santa 
Margherita a tirar due "' cavazioni „ e quindi il 
Barbarisi a un breve assalto, durante il quale 
compì con esattezza parecchie azioni di tempo. 

— Ottimo pugno — disse il barone, congratu- 
landosi. 

Dopo l'assalto , lo Sperelli prese due tazze di 
tè e qualche biscotto leggero. Scelse un paio di 
calzoni larglii, un paio di scarpe comode e col 
tacco molto basso, una camicia poco inamidata; 
preparò il guanto, bagnandolo alquanto su la 
palma e spargendolo di pece greca in polvere: 
vi unì una stringa di cuoio per fermar l'elsa 



— 153 — 

al polso; esaminò la lama e la punta delle due 
spade; non dimenticò alcuna cautela, alcuna 
minuzia. 
Quando fu pronto, disse: 

— Andiamo. Sarà bene che ci troviamo sul 
terreno prima degli altri. Il medico? 

— Aspetta di là. 

Giù per le scale, egli incontrò il duca di Grì- 
miti che veniva anche da parte della marchesa 
d'Ateleta. 

— Vi seguirò nella villa, e porterò poi sù- 
bito la notizia a Francesca — disse il duca. 

Discesero tutti insieme. Il duca salì nel suo 
legnetto, salutando. Li altri salirono nella car- 
rozza coperta. Andrea non ostentava il buon 
umore, perchè i motti prima d'un duello grave 
gli parevano di pessimo gusto; ma era tran- 
quillissimo. Fumava, ascoltando il Santa Mar- 
gherita e il Barbarisi discutere, a proposito d'un 
recente caso avvenuto in terra di Francia, se 
fosse o non fosse lecito adoperar la mano si- 
nistra contro Tavversario. Di tratto in tratto, 
chinavasi allo sportello per guardar nella via. 

Roma splendeva, nel mattino di maggio, ab- 
bracciata dal sole. Lungo la corsa, una fontana 
illustrava del suo riso argenteo una piazzetta 
ancor nell'ombra; il portone d'un palazzo mo- 
strava il fondo d'un cortile ornato di portici e 
di statue; dall'architrave barocco d'una chiesa 
di travertino pendevano i paramenti del mese 
di Maria. Sul ponte apparve il Tevere lucido 
fuggente tra le case verdastre, verso l'isola di 
San Bartolomeo. Dopo un tratto di salita, ap- 
parve la città immensa, augusta, radiosa, irta 



— 154 — 

di campanili, di colonne e d'obelischi, incoro- 
nata di cupole e di rotonde, nettamente inta- 
gliata, come un'acropoli, nel pieno azzurro. 

— Ave, Roma. Moriturus te salutai — disse 
Andrea Sperelli, gittando il residuo della siga- 
retta, verso rUrbe. 

Poi soggiunse: 

— In verità, cari amici, un colpo di spada 
oggi mi seccherebbe. 

Erano nella Villa Sciarra, già per metà diso- 
norata dai fabricatori di case nuove; e passa- 
vano in un viale di lauri alti e snelli, tra due 
spalliere di rose. Il Santa Margherita, spor- 
gendosi fuor dello sportello, vide un'altra car- 
rozza, ferma sul piazzale, d'innanzi alla villa; 
e disse : 

— Ci aspettano già. 

Guardò l'orologio. Mancavano dieci minuti 
all'ora precisa. Fece fermare il legno; e insieme 
col testimone e col chirurgo si diresse verso 
gli avversarli. Andrea rimase nel viale, ad at- 
tendere. Mentalmente, si mise a svolgere al- 
cune azioni d'offesa e di difesa, ch'egli inten- 
deva eseguire con probabilità di esito; ma lo 
distraevano i vaghi miracoli della luce e del- 
l'ombra per l'intrico dei lauri. I suoi occhi er- 
ravano dietro le apparenze dei rami commossi 
dal vento mattutino, mentre il suo animo medi- 
tava la ferita; e li alberi, gentili come nelle 
amorose allegorie di Francesco Petrarca, gli 
facevano sospiri in sul capo ove regnava il 
pensiero del buon colpo. 

Sopraggiunse a chiamarlo il Barbarisi, di- 
cendo : 



— 155 — 

— Siamo pronti. Il custode ha aperto la villa. 
Abbiamo a disposizione le stanze terrene: una 
gran comodità. Vieni a spogliarti. 

Andrea lo segui. Mentre si spogliava, i due 
medici aprivano i loro astucci dove riscintilla- 
vano i piccoli strumenti d'acciajo. Uno era an- 
cor giovine, pallido, calvo, con le mani femi- 
nee, con la bocca un po' cruda, con un conti- 
nuo visibile attrito della mandibola inferiore 
sviluppata straordinariamente. L'altro era già 
maturo, fatticcio, sparso di lentiggini, con una 
folta barba rossastra, con un collo taurino. 
L'uno pareva la contraddizione fìsica dell'altro; 
e la lor diversità richiamava Tattenzion curiosa 
dello Sperelli. Preparavano, sopra un tavolo, 
le fasce e l'acqua fenicata per disinfettar le lame. 
L'odore dell'acido spandevasi nella stanza. 

Quando lo Sperelli fu in assetto, usci col suo 
testimone e con i medici, sul piazzale. Ancora 
una volta, lo spettacolo di Roma tra le palme 
attrasse i suoi sguardi e gli diede un gran pal- 
pito. L'impazienza l'invase. Egli avrebbe voluto 
già trovarsi in guardia e udire il comando del- 
l'attacco. Gli pareva d'aver nel pugno il colpo 
decisivo, la vittoria. 

— Pronto? — gli chiese il Santa Margherita, 
andandogli in contro. 

— Pronto. 

Il terreno scelto era a fianco della villa, nel^ 
l'ombra, sparso di fina ghiaja e battuto. Gian- 
netto Rùtolo stava già all'altra estremità, con 
Roberto Casteldieri e con Carlo de Souza. Cia- 
scuno aveva assunto un'aria grave, quasi so- 
lenne. I due avversarli furono posti l'uno di 



— 166 — 

fronte airaltro; e si guardarono. Il Santa Mar- 
gherita, che aveva il comando del combatti- 
mento, notò la camicia di Giannetto Rùtolo for- 
temente inamidata, troppo salda, con il colletto 
troppo alto; e fece osservar la cosa al Castel- 
dieri, ch'era il secondo. Questi parlò al suo 
primo; e lo Sperelli vide il nemico accendersi 
d'improvviso nel volto e con un gesto risoluto far 
Tatto di scamiciarsi. Egli, con tranquillità fredda, 
segui resempio; si rimboccò i pantaloni; prese 
dalle mani del Santa Margherita il guanto, la 
stringa e la spada; si armò con molta cura, e 
quindi agitò Tarma per accertarsi di averla bene 
impugnata. In quel moto, il bicipite emerse vi- 
sibilissimo, rivelando il lungo esercizio del brac- 
cio e Tacquisito vigore. 

Quando i due stesero le spade per prendere 
la misura, quella di Giannetto Rùtolo oscillava 
in un pugno convulso. Dopo Tammonimento 
d'uso intorno la lealtà, il barone di Santa Mar- 
gherita comandò con una voce squillante e 
virile: 

— Signori, in guardia! 

I due scesero in guardia nel tempo mede- 
simo, il Rùtolo battendo il piede, lo Sperelli inar- 
candosi con leggerezza. Il Rùtolo era di statura 
mediocre, assai smilzo, tutto nervi, con una fac- 
cia olivastra a cui davan fierezza le punte de' 
baffi rilevate e la piccola barba acuta in sul 
mento, alla maniera di Carlo I ne' ritratti del 
Van Dyck. Lo Sperelli era più alto, più slan- 
ciato, più composto, bellissimo nelTattitudine, 
fermo e tranquillo in un equilibrio di grazia e 
di forza, con in tutta la persona una sprezzatura 



-^ 157 — 

dì grande signore. L'uno guardava Taltro en- 
tro li occhi ; e ciascuno provava internamente 
un indefinibile brivido alla vista dell'altrui carne 
nuda contro cui appuntavasi la lama sottile. 
Nel silenzio, udivasi il mormorio fresco della 
fontana misto al fruscio del vento su per i ro- 
sai rampicanti ove le innumerevoli rose bian- 
che e gialle tremolavano. 

— A loro! — comandò il barone. 

Andrea Sperelli aspettava dal Rùtolo un at- 
tacco impetuoso ; ma colui non si mosse. Per 
un minuto, ambedue rimasero a studiarsi, senza 
avere il contatto del ferro, quasi immobili. Lo 
Sperelli, chinandosi ancor più su' garretti, in 
guardia bassa, si scoperse interamente, col por- 
tar la spada molto in terza; e provocò Fa v ver- 
sarlo, con l'insolenza delli occhi e col batter 
del piede. Il Rùtolo venne innanzi con una finta 
di botta diritta, accompagnandola con una voce, 
alla maniera di certi spadaccini siciliani; d'as- 
salto incominciò. 

Lo Sperelli non isviluppava alcuna azion de- 
cisa, limitandosi quasi sempre alle parate, co- 
strìngendo l'avversario a scoprire tutte le in- 
tenzioni, a esaurire tutti i mezzi, a svolgere 
tutte le varietà del suo gioco. Parava netto e 
veloce, senza ceder terreno, con una precision 
mirabile, come s'ei fosse su la pedana, in un'a- 
cademia di scherma, d'innanzi a un fioretto in- 
nocuo; mentre il Rùtolo attaccava con ardore, 
accompagnando ogni botta con un grido spento, 
simile a quello delli abbattitorl d'alberi in eser- 
citar l'accetta. 

— Alt! — comandò il Santa Margherita, a' cui 



— 158 — 

vigili occhi non isfuggiva alcun moto delle due 
lame. 
E si accostò al Rùtolo, dicendo: 

— Ella è toccato, se non erro. 

In fatti, colui aveva una scalfittura su Tanti- 
braccio, ma cosi lieve che non ci fu né men 
bisogno del taffetà. Alenava però; e la sua 
estrema pallidezza, cupa come un lividore, era 
un segno dell'ira contenuta. Lo Sperelli, sorri- 
dendo, disse a bassa voce al Barbarisi: 

— Conosco ora il mio uomo. Gli metterò un 
garofano sotto la mammella destra. Sta attento 
al secondo assalto. 

Poiché, senza badarci, egli posò a terra la 
punta della spada, il dottor calvo, quel della 
gran mandibola, venne a lui con la spugna im- 
bevuta d'acqua fenicata e disinfettò di nuovo 
la lama. 

— Per iddio! — mormorò Andrea al Barba- 
risi. — M'ha l'aria d'un jettatore. Questa lama 
si rompe. 

Un merlo si mise a fischiare tra li alberi. Ne' 
rosai qualche rosa sfogliavasi e disperdevasi 
ài vento. Alcune nuvole a mezz'aria salivano in 
contro al sole, rade, simili a velli di pecore; e 
si disfacevano in bioccoli; e a mano amano si 
dileguavano. 

— In guardia! 

Giannetto Rùtolo, conscio della sua inferio^ 
rità al paragon del nemico, risolse di lavorar 
sotto misura, alla disperata, e di rompere così 
ogni azion seguita dell'altro. Egli aveva da ciò 
la bassa statura e il corpo agile, èsile, flessi- 
bile, che offriva assai poco bersaglio ai colpi. 



— 159 — 

— A loro! 

Andrea Sperelli sapeva già che il Rùtolo sa- 
rebbesi avanzato in quel modo, con le solite 
Ante. Egli stava in guardia inarcato come una 
balestra pronta a scoccare, intento per scegliere 
il tempo. 

— Alt! -r- gridò il Santa Margherita. 

II petto del Rùtolo faceva un po' di sangue. 
La spada dell'avversario eragli penetrata sotto 
la mammella destra, ledendo i tessuti fin quasi 
alla costola. I medici accorsero. Ma il ferito 
disse sùbito al Casteldieri, con voce rude, in 
cui senti vasi un tremito di collera: 

— Non è nulla. Voglio seguitare. 

Egli si rifiutò di rientrar nella villa per la 
medicatura. Il dottor calvo, dopo avere spre- 
muto il piccolo fóro a pena sanguinante e dopo 
avergli fatta una lavanda antisettica, applicò 
un semplice pezzo di drappo; e disse: 

— Può seguitare. 

Il barone, per invito del Casteldieri, senza in- 
dugio comandò il terzo assalto. 

— In guardia ! 

Andrea Sperelli s'avvide del pericolo. Di fronte 
a lui il nemico, tutto raccolto su 1 garretti, quasi 
direi nascosto dietro la punta della sua lama, 
appariva risoluto a un supremo sforzo. Li oc- 
chi gli brillavano singolarmente e la coscia si- 
nistra, per l'eccessiva tension de' muscoli, gli 
tremava forte. Andrea questa volta, contro l'im- 
peto, si preparava a gittarsi da banda per ripe- 
tere il colpo decisivo del Casslbile, e il disco 
bianco del drappo sul petto ostile servivagli dì 
bersaglio. Egli ambiva rimettere ivi la stoccata 



— 160 — 

ma trovar lo spazio intercostale, non la costa. 
D'in torno, il silenzio pareva più profondo: 
tutti li astanti avevano conscienza della volontà 
niicidiale che animava que' due uomini ; e l'an- 
sietà li teneva, e li stringeva il pensiero di do- 
ver forse ricondurre a casa un morto o un mo- 
rente. Il sole, velato dalle pecorelle, spandeva 
Aina luce quasi lattea; le piante, orsi orno, 
stormivano; il merlo fischiava ancora, invi- 
sibile. 

— A loro! 

Il Rùtolo si precipitò sotto misura, con due 
giri di spada e con una botta in seconda. Lo 
Sperelli parò e rispose, facendo un passo in 
dietro. Il Rùtolo incalzava, furioso, con stoccate 
velocissime, quasi tutte basse, non accompa- 
gnandole più con i gridi. Lo Sperelli, senza scon- 
certarsi a quella furia, volendo evitare un in- 
contro, parava forte e rispondeva con tale acre- 
dine che ogni sua botta avrebbe potuto passar 
fuor fuora il nemico. La coscia del Rùtolo, presso 
l'inguine, sanguinava. 

— Alt! — tuonò il Santa Margherita quando 
se n'accorse. 

Ma in quell'attimo a punto lo Sperelli, facendo 
una parata di quarta bassa e non trovando il 
ferro avversario, ricevè in pieno torace un colpo; 
e cadde tramortito su le braccia del Barbarisi. 

— Ferita toracica, al quarto spazio interco- 
stale destro, penetrante in cavità, con lesione 
superficiale del polmone — annunziò nella stanza, 
quand'ebbe osservato, il chirurgo taurino. 



— J61 



VI. 



La convalescenza è una purificazione e un / 
rinascimento. Non mai il senso della vita è 
soave come dopo l'angoscia del male; e non mai 
r anima umana più inclina alla bontà e alla 
fede come dopo aver guardato nelli abissi della 
morte. Comprende V uomo , nel guarire , che il 
pensiero, il desiderio, la volontà, la conscienza 
della vita non sono la vita. Qualche cosa è in 
lui più vigile del pensiero, più continua del 
desiderio, più potente della volontà, più pro- 
fonda anche della conscienza ; ed è la sostanza, 
la natura dell* essere suo. Comprende egli che 
la sua vita reale è quella , dirò così , non vis- 
suta da lui; è il complesso delle sensazioni invo* 
lontane, spontanee, inconscienti, istintive; è l'at- 
tività armoniosa e misteriosa della vegetazione 
animale ; è Y impercettibile sviluppo di tutte le 
metamorfosi e di tutte le rinnovellazioni. Quella 
vita a punto in lui compie i miracoli della con- 

II Piacere, 11 



— 162 — 

valescenza : richiude le piaglie , ripara le per- 
dite , riallaccia le trame infrante , rammenda i 
tessuti lacerati, ristaura i congegni delli organi, 
rinfonde nelle vene la ricchezza del sangue, rian- 
noda su li occhi la benda dell'amore, rintrec- 
cia d' intorno al capo la corona de' sogni, riac- 
cende nel cuore la fiamma della speranza, ria- 
pre le ali alle chimei*e della fantasia. 

Dopo la mortale ferita, dopo una specie di 
lunga e lenta agonia, Andrea Sperelli ora a poco 
a poco rinasceva, quasi con un altro corpo e 
con un altro spirito, come un uomo nuovo, 
come una creatura uscita da un fresco bagno 
letèo, immemore e vacua. Parevagll d'essere 
entrato in una forma più elementare. Il passato 
per la sua memoria aveva una sola lontananza, 
come per la vista il cielo stellato è un campo 
eguale e diffuso se bene li astri sien diversa- 
mente distanti. I tumulti si pacificavano, il fango 
scendeva all'imo, l'anima face vasi monda; ed 
egli rientrava nel grembo della natura madre, 
sentivasi da lei maternamente infondere la bontà 
e la forza. 

Ospitato da sua cugina nella villa di Schifa- 
noja, Andrea Sperelli si riaffacciava all'esistenza 
in conspetto del mare. Poiché ancóra in noi 
la natura simpatica persiste e poiché la nostra 
vecchia anima abbracciata dalla grande anima 
naturale palpita ancora a tal contatto, il conva- 
lescente misurava il suo respiro sul largo e 
tranquillo respiro del mare, ergeva il suo corpo 
a similitudine de' validi alberi, serenava il suo 
pensiero alla serenità delli orizzonti. A poco a 
poco, in quelli ozii intenti e raccolti, il suo spi- 



— 1G3 — 

rito si stendeva, si svolgeva, si dispiegava, si 
sollevava dolcemente come l'erba premuta in 
su' sentieri; diveniva in fine verace, ingenuo, 
originale, libero, aperto alla pura conoscenza, 
disposto alla pura contemplazione; attirava in 
sé le cose, le concepiva come modalità del suo 
proprio essere, come forme della sua propria 
esistenza; si sentiva in fine penetrato dalla ve- 
rità che proclama V Oupanischad dei Veda : 
" Hce omnes creaturce in totum ego sum, etprce- 
ter me aliud ens non est „ Il gran soffio d'idea- 
lità che esalano i libri sacri indiani , studiati e 
amati un tempo, pareva lo sollevasse. E tor- 
nava a risplendergli singolarmente la formula 
sanscrita, chiamata Mahavakya cioè la Gran 
Parola: "Tat twamasi,,; che significa: ^Que- 
sta cosa vivente^ sei tu. „ 

Erano i giorni ultimi di agosto. Una quiete 
estatica teneva il mare; le acque avean tal 
transparenza che ripetevan con perfetta esat-. 
tezza qualunque imagine; l'estrema linea delle 
acque perdevasi nel cielo cosi che i due ele- 
menti parevano un elemento unico, impalpa- 
bile, innaturale. Il vasto anfiteatro dei colli, 
popolato d'olivi, d'aranci, di pini, di tutte le più 
nobili forme della vegetazione italica, abbrac- 
ciando quel silenzio, non era più una moltitu- 
dine di cose ma una cosa unica, sotto il co- 
mune sole. 

Il giovine, disteso all'ombra o addossato a un 
tronco o seduto su una pietra, credeva sentire 
in sé medesimo scorrere il fiume del tempo; 
con una specie di tranquillità catalettica, cre- 
deva sentir vivere nel suo petto l'intero mondo; 



— 164 — 

con una specie di religiosa ebrietà, credeva 
posseder Tinfìnito. Quel ch'ei provava era inef- 
fabile, non esprimibile né pur con le parole del 
mistico: ^ Io sono ammesso dalla natura nel 
più secreto delle sue divine sedi, alla sorgente 
della vita universa. Quivi io sorprendo la causa 
del moto e odo il primo canto delli esseri in 
tutta la sua freschezza. „ La vista a poco a poco 
mutàvaglisi in visione profonda e continua; ì 
rami delli alberi sul suo capo gli parevan sol- 
levare il cielo, ampliare l'azzurro, risplendere 
come corone d'immortali poeti; ed egli contem- 
plava ed ascoltava, respirando col mare e con 
la terra, placido come un dio. 

Dov'eran mai tutte le sue vanità e le sue cru- 
deltà e i suoi artifici e le sue menzogne? Dov'e- 
rano gli amori e gli inganni e i disinganni e i 
disgusti e le incurabili ripugnanze dopo il pia- 
cere? Dov'erano quelli immondi e rapidi amori 
che gli lasciavan nella bocca come la strana 
acidezza di un frutto tagliato con un coltello 
d'acciajo? EgU non si ricordava più di nulla. Il 
suo spirito avea fatto una grande renunziazione. 
Un altro principio di vita entrava in lui; qual- 
cuno entrava in lui, segreto, il quale sentiva la 
pace profondamente. Egli riposava, poiché non 
desiderava più. 

Il desiderio aveva abbandonato il suo regno; 
l'intelletto nell'attività seguiva libero le sue pro- 
prie leggi e rispecchiava il mondo oggettivo 
come un puro soggetto della conoscenza; le 
cose apparivano nella lor forma vera, nel lor 
vero colore, nella vera ed intera lor significa- 
zione e bellezza, precise, chiarissime; spariva 



— 165 — 

Ogni sentimento della persona. In questa tem- 
poranea morte del desiderio, in questa tempo- 
ranea assenza della memoria, in questa per- 
fetta oggettività della contemplazione a punto 
era la causa del non mai provato godimento. 

Die Sterne, die hegehrt man nicht, 
Man freut sich ihrer Pracht. 

" Le stelle, uom non le desidera, — ma gioi- 
sce del lor fulgore. „ Per la prima volta, in fatti, 
il giovine conobbe tutta l'armoniosa poesia not- 
turna de' cieli estivi. 

Erano le ultime notti d'agosto, senza luna. In- 
numerevole, nella profonda conca, palpitava la 
vita ardente delle constellazioni. Le Orse, il Ci- 
gno, Ercole , Boote , Cassiopea riscintillavano 
con un palpito cosi rapido e così forte che quasi 
parevano essersi appressati alla terra, essere 
entrati nell'atmosfera terrena. La Via Lattea 
svolge vasi come un regal fiume aereo, come un 
adunamento di riviere paradisiache, come una 
immensa correntia silenziosa che traesse nel suo 
" miro gurge „ una polvere di minerali siderei, 
passando sopra un àlveo di cristallo, tra falangi 
di fiori. Ad intervalli, meteore lucide rigavano 
l'aria immobile, con la discesa lievissima e ta- 
cita d'una goccia d'acqua su una lastra di dia- 
mante. Il respiro del mare, lento e solenne, ba- 
stava solo a misurare la tranquillità della notte, 
senza turbarla; e le pause eran più dolci del 
suono. 

Ma questo periodo di visioni, di astrazioni, dì 
intuizioni, di contemplazioni pure, questa spe- 



— 166 — 

eie di misticismo buddistico e quasi direi co- 
smogonico, fu brevissimo.' Le cause del raro 
fenomeno, oltre che nella natura plastica del 
giovine e nella sua attitudine alla oggettività, 
eran forse da ricercarsi nella singoiar tensione 
e nella estrema impressionabilità del suo si- 
stema nervoso cerebrale. A poco a poco, egli 
incominciò a riprender conscienza di sé stesso, 
a ritrovare il sentimento della sua persona, 
a rientrare nella sua corporeità primitiva. Un 
giorno, neirora meridiana, mentre la vita delle 
cose pareva sospesa, il grande e terribile silen- 
zio gli lasciò veder dentro, d'improvviso, abissi 
vertiginosi, bisogni inestinguibili, indistruttibili 
ricordi, cumuli di sofferenza e di rimpianto, 4utta 
la sua miseria d'un tempo, tutti i vestigi del 
suo vizio, tutti li avanzi delle sue passioni. 

Da quel giorno, una malinconia pacata ed 
eguale gli occupò l'anima; ed egli vide in ogni 
aspetto delle cose uno stato dell'anima sua. In 
vece di transmutarsi in altre forme di esistenza 
o di mettersi in altre condizioni di conscienza 
o di perdere l'esser suo particolare nella vita 
generale , ora egli presentava i fenomeni con- 
trarii, involgendosi d'una natura ch'era una 
concezion tutta soggettiva del suo intelletto. Il 
paesaggio divenne per lui un simbolo, un em- 
blema, un segno, una scorta che lo guidava a 
traverso il laberinto interiore. Segrete affinità 
egli scopriva tra la vita apparente delle cosce 
l'intima vita de' suoi desiderii e de' suoi ricordi. 
" To me — High mountains are a feeling. „ Come 
nel verso di Giorgio Byron le montagne, per lui 
erano un sentimento le marine. 



Chiare marine di settembre! — Il mare, calmo 
e innocente come un fanciullo addormentato , 
si distendeva sotto un cielo angelico di perla. 
Talvolta appariva tutto verde, del fino e pre- 
zioso verde d*una malachite; e, sopra, le piccole 
vele rosse somigliavano fiammelle erranti. Tal- 
volta appariva tutto azzurro , d'un azzurro in- 
tenso, quasi direi araldico, solcato di vene 
d'oro, come un lapislàzuli ; e, sopra, le vele isto- 
riate somigliavano una processione di stendardi 
e di gonfaloni e di palvesi cattolici. Anche, tal- 
volta prendeva un diffuso luccicore metallico, 
un color pallido di argento, misto del color ver- 
diccio d'un limone maturo, qualche cosa d'in- 
definibilmente strano e delicato; e, sopra, le 
vele erano pie ed innumerevoli come le ali de' 
cherubini ne' fondi delle ancóne giottesche. 

Il convalescente rinveniva sensazioni obliate 
della puerizia, quell'impression di freschezza che 
danno al sangue puerile li aliti del vento salso, 
quelli inesprimibili effetti che fanno le luci, le 
ombre, i colori, li odori delle acque su l'anima 
vergine. Il mare non soltanto era per lui una 
dehzia delli occhi, ma era una perenne onda 
di pace a cui si abbeveravano i suoi pensieri, 
una magica fonte di giovinezza in cui il suo 
corpo riprendeva la salute e il suo spirito la 
nobiltà. Il mare aveva per lui l'attrazion mi- 
steriosa d'una patria; ed egli vi si abbandonava 
con una confidenza filiale, come un figliuol de- 
bole nelle braccia d'un padre onnipossente. E ne 
riceveva conforto; poiché nessuno mai ha confi- 
dato il suo dolore, il suo desiderio, il suo so- 
gno al mare in vano. 



— 168 — 

Il mare aveva sempre per lui una parola pro- 
fonda, piena di rivelazioni subitanee, d'illumi- 
nazioni improvvise, di significazioni inaspettate. 
Gli scopriva nella segreta anima un'ulcera an- 
cor viva se ben nascosta e glie la faceva san- 
guinare ; ma il balsamo poi era più soave. Gli 
scoteva nel cuore una chimera dormente e glie 
la incitava cosi ch'ei ne sentisse di nuovo le 
unghie e il rostro; ma glie la uccideva poi e 
glie la seppelliva nel cuore per sempre. Gli sve- 
gliava nella memoria una ricordanza e glie l'av- 
vivava così ch'ei sofferisse tutta l'amarezza del 
rimpianto verso le cose irrimediabilmente fug- 
gite; ma gli prodigava poi la dolcezza d'un oblio 
senza fine. Nulla entro quell'anima rimaneva 
celato, al conspetto del gran consolatore. Alla 
guisa che una forte corrente elettrica rende lu- 
minosi i metalli e rivela la loro essenza dal 
color della loro fiamma, la virtù del mare illu- 
minava e rivelava tutte le potenze e le poten- 
zialità di quell'anima umana. 

In certe ore il convalescente, sotto l'assiduo 
dominio d'una tal virtù, sotto l'assiduo giogo 
d'un tal fascino, provava una specie di smarri- 
mento e quasi di sbigottimento, come se quel 
dominio e quel giogo fossero per la sua debo- 
lezza insostenibili. In certe ore aveva dal col- 
loquio incessante tra la sua anima e il mare 
un senso vago di prostrazione, come se quel 
gran verbo gli facesse troppa violenza all'an- 
gustia dell'intelletto avido di comprendere l'in- 
comprensibile. Una tristezza delle acque lo scon- 
volgeva come una sventura. 

Un giorno, egli si vide perduto. Vapori san- 



— 169 — 

guigni e maligni ardevano airorizzonte, gittando 
sprazzi di sangue e d'oro sul fosco delle acque; 
un viluppo di nuvoli paonazzi ergevasi da' va- 
pori, simile a una zuffa di centauri immani so- 
pra un vulcano in fiamme; e per quella luce 
tragica un corteo funebre di vele triangolari 
nereggiava su l'ultimo limite. Erano vele d'una 
tinta indescrivibile, sinistre come le insegne 
della morte ; segnate di croci e di figure tene- 
brose; parevano vele di navigli che portassero 
cadaveri di appestati a una qualche maledetta 
isola popolata di avvoltoi famelici. Un senso 
umano di terrore e di dolore incombeva su quel 
mare, un accasciamento d'agonia gravava su 
quell'aria. Il flotto sgorgante dalle ferite de' mo- 
stri azzuffati non restava mai, anzi cresceva 
in flumi che arrossavano le acque pec tutto lo 
spazio, sino alla sponda, facendosi qua e là vio- 
laceo e verdastro come per corruzione. Di tratto 
in tratto il viluppo crollava, i corpi si deforma- 
vano o si squarciavano, lembi sanguinosi pen- 
devano giù dal cratere o sparivano inghiottiti 
dall'abisso. Poi, dopo il gran crollo, rigenerati, 
i giganti balzavan di nuovo alla lotta, più atroci ; 
il cumulo si ricomponeva, più enorme; e rico- 
minciava la strage, più rossa, flnchè i combat- 
tenti rimanevan esangui tra la cenere del cre- 
puscolo, esanimi, disfatti, sul vulcano semi- 
spento. 

Pareva un episodio d'una qualche titanoma- 
chia primitiva, uno spettacolo eroico, visto, a 
traverso un lungo ordine di età, nel cielo della 
favola. Andrea, con l'animo sospeso, seguiva 
tutte le vicende. Abituato alle tranquille discese 



— 170 — 

deirombra, in quella declinazion serena delPe- 
state, ora si sentiva dall'insolito contrasto ri- 
scuotere e sollevare e intorbidare con una strana 
violenza. Da prima, fu come un'angoscia confusa, 
tumultuaria, piena di palpiti inconsapevoli. Af- 
fascinato dal tramonto bellicoso, egli non anche 
giungeva a veder chiaramente in sé medesimo. 
Ma, quando la cenere del crepuscolo piovve spe- 
gnendo ogni guerra e il mare sembrò un'im- 
mensa palude plumbea, egli credè udire nel- 
l'ombra il grido dell'anima sua, il grido d'altre 
anime. 

Era dentro di lui, come un cupo naufragio 
nell'ombra. Tante tante voci chiamavano al soc- 
corso, imploravano aiuto, imprecavano alla 
morte; voci note, voci ch'egli aveva un tempo 
ascoltate (voci di creature umane o di fantasmi?); 
ed ora non distingueva l'una dall'altra! Chiama- 
vano, imploravano, imprecavano inutilmente, 
sentendosi perire; s'affievolivano soffocate dal- 
l'onda vorace; divenivano deboli, lontane, inter- 
rotte, irriconoscibili; divenivano un gemito; s'e- 
stinguevano; non risorgevano più. 

Egli restava solo. Di tutta la sua giovinezza, 
di tutta la sua vita interiore, di tutte le sue idea- 
lità non restava nulla. Dentro di lui non re- 
stava che un freddo abisso vacuo ; d' intorno 
a lui, una natura impassibile, forte perenne di 
dolore per l'anima solitaria. Ogni speranza era 
spenta; ogni voce era muta; ogni àncora era 
rotta. A che vivere? 

Subitamente, l'imagine di Elena gli risorse 
nella memoria. Altre imagini di donne si so- 
vrapposero a quella, si confusero con quella, la 



— 171 — 

dispersero, si dispersero. Egli non riuscì a fer- 
marne alcuna. Tutte parevano sorridere, d'un 
sorriso nemico, nel dileguarsi; e tutte, nel dile- 
guarsi, parevano portar seco qualche cosa di lui. 
Che cosa? Egli non sapeva. Un avvilimento in- 
dicibile roppresse; lo gelò quasi un senso di 
vecchiezza; li occhi gli si empirono di lacrime. 
Una tragica ammonizione gli sonò nel cuore: 
" Troppo tardi! „ 

Le dolcezze recenti della pace e della malin-*^ 
conia gli sembrarono già lontane, gli sembra- 
rono un'illusion già fuggita; quasi gli sembra- 
rono essere state godute da un altro spirito, 
nuovo, straniero, entrato in lui e poi scomparso. 
Gli sembrò che il suo vecchio spirito non po- 
tesse più omai rinnovellarsi nò risollevarsi. 
Tutte le ferite, ch'egli senza ritegno aveva 
aperte nella dignità del suo essere interiore, 
sanguinarono. Tutte le degradazioni ch'egli 
senza ripugnanza aveva inflitte alla sua con- 
scienza, vennero fuori come macchie e si dila- 
tarono come una lebbra. Tutte le violazioni,' 
ch'egli senza pudore aveva fatte alle sue idea- 
lità, gli suscitarono un rimorso acuto, disperato, 
terribile, come se dentro di lui piangessero anime 
di sue figliuole a cui egli padre avesse tolta la 
verginità mentre dormivano sognando. 

Ed egli piangeva con loro; e gli sembrava 
che le sue lacrime non gli scendessero sul 
cuore come un balsamo ma gli rimbalzassero 
come sopra una materia viscida e fredda onde 
il cuor suo fosse fasciato. L'ambiguità, la simu- 
lazione, la falsità, l'ipocrisia, tutte le forme della 
menzogna e della frode nella vita del sentimento, 



— 172 — 

tutte aderivano al suo cuore come un vischio 
tenace. 

Egli aveva troppo mentito , aveva troppo in- 
gannato, s'era troppo abbassato. Un ribrezzo di 
sé e del suo vizio l'invase. — Vergogna! Ver- 
gogna! — La disonorante bruttura gli pareva 
indelebile; le piaghe gli parevano immedica- 
bili; gli pareva ch'egli dovesse portarne la 
nausea per sempre, per sempre, come un sup- 
plizio senza termine. — Vergogna! — Pian- 
geva, chino sul davanzale, abbandonato sotto il 
peso della sua miseria, affranto come un uomo 
che non veda salvezza; e non vedeva le stelle 
riscintillare a una a una sul suo povero capo, 
nella sera profonda. 

Al nuovo giorno egli ebbe un grato risveglio, 
un di que' freschi e limpidi risvegli che ha sol- 
tanto l'Adolescenza nelle sue primavere trion- 
fanti. Il mattino era una meraviglia; respirare 
il mattino era una beatitudine immensa. Tutte le 
cose vivevano nella felicità della luce; i colli pa- 
revano avvolti in un velario diafano d'argento, 
scossi da un agile fremito; il mare pareva at- 
traversato da riviere di latte , da fiumi di cri- 
stallo , da ruscelli di smeraldo , da mille vene 
che formavano come il mobile intrico d'un la- 
beriato liquido. Un senso di letizia nuziale e di 
grazia religiosa emanava dalla concordia del 
mare, del cielo e della terra. 

Egli respirava, guardava, ascoltava, un poco 
attonito. Nel sonno, la sua febbre era guarita. 
Egli aveva chiuso li occhi, nella notte, cullato 
dal coro delle acque come da una voce amica 
e fedele. Chi s'addormenta al suono di quella 



— 173 — 

voce ha un riposo pieno di riparatrice tranquil- 
lità. Né anche le parole della madre inducono 
un sonno così puro e così benefico al figliuolo 
che soff're. 

Guardava, ascoltava, muto, raccolto, intene- 
rito, lasciando entrare in so quell'onda di vita 
immortale. Non mai la musica sacra d'un alto 
maestro, un offtertorio di Giuseppe Haydn o un 
Te Deum di Volfango Mozart, gli aveva data la 
commozione che ora gli davano le semplici cam- 
pane delle chiese di lungi, salutanti Tascension 
del Giorno ne' cieli del Signore Uno e Trino. 
Egli sentiva il suo cuore colmarsi e traboccar 
di commozione. Qualche cosa come un sogno 
vago ma grande gli si levava su l'anima, qual- 
che cosa come un velo ondeggiante a traverso 
il quale splendesse il misterioso tesoro della 
felicità. Finora egli aveva sempre saputo quel 
che desiderava e non aveva quasi mai trovato 
piacere da desiderare invano. Ora, non poteva 
dire il suo desiderio; non sapeva. Ma, certo, 
la cosa desiderata doveva essere infinitamente 
soave, poiché era una soavità anche desiderarla. 

I versi della Chimera nel Re di Cipro, antichi 
versi, quasi obliati, gli ritornarono alla memo- 
ria, gli sonarono come una lusinga. 

"Vuoi tu pugnare? 
Uccidere? Veder fiumi di sangue? 
gran mucchi d*oro? greggi di captive 
femmine? schiavi? altre, altre prede? Vuoi 
tu far vivere un marmo? Ergere un tempio? 
Comporre un immortale inno? Vuoi (m'odi, 
giovine, m'odi) vuoi divinamente 
amare? „ 



— 174 — 

La Chimera gli ripeteva, nel cuor segreto, 
sommessa, con oscure pause: 

« M'odi, 
giovine, m*odi: vuoi divinamente 
amare? „ 

Egli un poco sorrise. E pensò: "Amare chi? 
TArte? una donna? quale donna? „ Elena gli ap- 
parve lontana, perduta, morta, non più sua; le 
altre gli apparvero anche più lontane, morte 
per sempre. Egli era libero, dunque. Perchè 
mai avrebbe di nuovo seguita una ricerca inu- 
tile e perigliosa? Era in fondo al suo cuore il 
desiderio di darsi , liberamente e per ricono- 
scenza, a un essere più alto e più puro. Ma 
dov'era questo essere? L'Ideale avvelena ogni 
possesso imperfetto; e nell'amore ogni possesso 
è imperfetto e ingannevole, ogni piacere è mi- 
sto di tristezza, ogni godimento è dimezzato, 
ogni gioia porta in sé un germe di sofferenza, 
ogni abbandono porta in sé un germe di dubbio ; 
ei dubbii guastano, contaminano, corrompono 
tutti i diletti come le Arpie rendevano imman- 
giabili tutti i cibi a Fineo. Perchè mai dunque 
avrebbe egli di nuovo stesa la mano all'albero 
della scienza? 

" The tree of knowledge has heen pluc¥d, — àlVs knoum, „ 

" L'albero della scienza è stato spogliato , — 
tutto è conosciuto, „ come canta Giorgio Byron 
nel Don Juan. In verità, per l'avvenire, la sua 
salute stava nella "«v>ajSe(a, „ cioè nella prudenza, 



— 175 — 

nella finezza, nella cautela, nella sagacità. Que- 
sto suo intendimento gli pareva bene espresso 
in un sonetto d*un poeta contemporaneo che, 
per certa affinità di gusti letterarii e comunanza 
di educazione estetica, egli prediligeva. 

Sarò come colui che si distende 
sotto l'ombra d'un grande albero carco, 
ornai sazio di trar balestra od arco; 
e in sul capo il maturo fnitto pende. 

Non ei scuote quel ramo, né protende 
la man, né veglia in su le prede a '1 varco. 
Giace; e raccoglie con un gesto parco 
i frutti che quel ramo a '1 suolo rende. 

Di tal soave polpa ei ne' 1 profondo 
non morde, a ricercar l'intima essenza, 
perchè teme l'amaro ; anzi la fiuta, 

poi sugge, con piacer limpido, senza 

avidità, né triste né giocondo. 

La sua favola breve è già compiuta. 

Ma la " ev>a/3eta, „ se può Valere ad escludere 
in parte dalla vita il dolore, esclude anche ogni 
alta idealità. La salute dunque stava in una 
specie di equilibrio goethiano tra un cauto e 
fine epicupeismo pratico e il culto profondo e 
appassionato dell'Arte. 

— L'Arte! L'Arte! — Ecco l'Amante fedele, 
sempre giovine, immortale; ecco la Fonte della 
gioia pura, vietata alle moltitudini, concessa 
alli eletti; ecco il prezioso Alimento che fa 
r uomo simile a un dio. Come aveva egli po- 
tuto bevere ad altre coppe dopo avere acco- 
state le labbra a quell'una? Come aveva egli pò- 



— 176 — 

luto ricercare altri gaudii dopo aver gustato 
il supremo? Come il suo spirito aveva potuto 
accogliere altre agitazioni dopo aver sentito in 
sé r indimenticabile tumulto della forza crea- 
trice? Come le sue mani avevan potuto oziare 
e lascivire su i corpi delle femmine dopo aver 
sentito erompere dalle dita una forma sostan- 
ziale? Come, in fine, i suoi sensi avean potuto 
indebolirsi e pervertirsi nella bassa lussuria 
dopo essere stati illuminati da una sensibilità 
che coglieva nelle apparenze le linee invisibili, 
percepiva Timpercettibile, indovinava i pensieri 
nascosti della Natura? 

Un improvviso entusiasmo T invase. In quel 
mattin religioso, egli voleva di nuovo inginoc- 
chiarsi all'altare e, secondo il verso del Goethe, 
leggere i suoi atti di divozione nella liturgia 
d'Omero. 

"Ma se la mia intelligenza fosse decaduta? 
Se la mia mano avesse perduta la prontezza? 
^ S*io non fossi più degno? „ A questo dubbio, Tas- 
salse uno sbigottimento così forte ch'egli, con 
una smania puerile, si mise a cercare qual po- 
tesse essere una prova immediata per aver la 
certezza che il suo era un irragionevole timore. 
Avrebbe voluto sùbito fare un esperimento reale: 
comporre una strofa difficile, disegnare una 
figura, incidere un rame, sciogliere un pro- 
blema di forme. E bene? E poi? Non sarebbe 
stato quello un esperimento fallace? La lenta 
decadenza dell'ingegno può anche essere in- 
consciente: qui sta il terribile. L'artista che a 
poco a poco perde le sue facoltà non si accorge 
della sua debolezza progressiva; poiché insieme 



— 177 — 

con la potenza di produrre e di riprodurre lo 
abbandona anche il giudizio critico, il criterio. 
Egli non distingue più i difetti dell'opera sua; 
non sa che la sua opera è cattiva o mediocre; 
s'illude; crede che il suo quadro, che la sua sta- 
tua, che il suo poema sieno nelle leggi dell'Arte 
mentre son fuori. Qui sta il terribile. L'artista 
colpito neir intelletto può non aver conscienza 
della propria imbecillità, come il pazzo non ha 
conscienza della propria aberrazione. E allora? 

Fu pel convalescente una specie di pànico. 
Egli si strinse le tempie fra le palme; e rimase 
alcuni istanti sotto l'urto di quel pensiero spa- 
ventevole, sotto l'orrore di quella minaccia, 
come annientato. — Meglio, meglio morire! — 
Non mai , come in quel momento , aveva sen- 
tito il divino pregio del dono; non mai , come 
in quel momento, la scintilla gli era parsa sa- 
cra. Tutto il suo essere tremava coji una strana 
violenza, al solo dubbio che quel dono potesse 
struggersi, che quella scintilla potesse spegnersi. 
— Meglio morire! 

Levò il capo; scosse da sé ogni inerzia; di- 
scese nel parco; camminò lentamente sotto gli 
alberi, non avendo un pensiero determinato. Un 
soffio leggero correva su le cime; a intervalli, 
le foglie si scompigliavano con un fruscio forte, 
come se per mezzo vi passasse una torma di 
scoiattoli; piccoli frammenti di cielo apparivano 
tra i rami , come occhi cerulei sotto palpebre 
verdi. In un luogo favorito , ch'era una specie 
di lueus minimo in signoria di una Erma qua- 
drifronte intenta a una quadruplice meditazione, 
egli sostò; e si mise a sedere su l'erba, con le 

Il Piacere. 12 



M 



— 178 — 

spalle appoggiate alla base del simulacro, con la 
faccia rivolta al mare. D'innanzi a lui, certi fusti, 
diritti e digradanti come le canne della fistola di 
Pane, secavano Toltramarino; in torno, li acanti 
aprivano con sovrana eleganza i cesti delle loro 
foglie, intagliate simetricamente come nel capi- 
tello di Callimaco. 

I versi di Salmace nella Favola d'Ermafrodito 
gli vennero alla memoria. 

" Nobili acanti, o voi ne le terrestri 

selve indizi di pace, alte corone, 

di pura forma; o voi, snelli canestri 

che il Silenzio con lieve man compone 

a raccogliere il fiore de' silvestri 

Sogni, qual mai virtù su '1 bel garzone 

versaste da le foglie oscura e dolce? 

Ei dorme, nudo; e il braccio il capo folce. „ 

Altri versi gli vennero alla memoria, altri an- 
cora, altri ancora, tumultuariamente. La sua 
anima si empi tutta d'una musica di rime e di 
sillabe ritmiche. Egli gioiva; quella spontanea 
improvvisa agitazion poetica gli dava un ine- 
sprimibile diletto. Egli ascoltava in sé mede- 
simo que' suoni, compiacendosi delle ricche ima- 
gini, delli epiteti esatti, delle metafore lucide, 
delle armonie ricercate, delle squisite combi- 
nazioni di iati e di dieresi, di tutte le più sottili 
raffinatezze che variavano il suo stile e la sua 
metrica, di tutti i misteriosi artifizii deirendeca- 
sillabo appresi dalli ammirabili poeti del XIV 
secolo e in ispecie dal Petrarca. La magia del 
verso gli soggiogò di nuovo lo spirito; e l'e- 
mistichio sentenziale d'un poeta contemporaneo 



|.. 



— 179 — 

gli sorrideva singolarmente. — ** Il Verso è 
tutto. „ 

Il verso è tutto. Nella imitazion della Natura 
nessuno istrumento d'arte e più vivo, agile, 
acuto, vario, moltiforme, plastico, obediente, sen- 
sibile, fedele. Più compatto del marmo, più mal- 
leabile della cera, più sottile d'un fluido, più vi- 
brante d'una corda, più luminoso d'una gemma, 
più fragrante d'un fiore, più tagliente d'una 
spada, più flessibile d'un virgulto, più carezze- 
vole d'un murmurc, più terribile d'un tuono, il 
verso è tutto e può tutto. Può rendere i mi- 
nimi mòti del sentimento e i minimi moti della 
sensazione; può definire l'indefinibile e dire l'inef- 
fabile; può abbracciare l'illimitato e penetrare 
l'abisso; può avere dimensioni d'eternità; può 
rappresentare il sopraumano, il soprannaturale, 
l'oltramirabile; può inebriare come un vino, 
rapire come un'estasi; può nel tempo medesimo 
possedere il nostro intelletto, il nostro spirito, 
il nostro corpo; può, in fine, raggiungere l'As- 
soluto. Un verso perfetto è assoluto, immuta- 
bile, immortale; tiene in sé le parole con la coe- 
renza d'un diamante; chiude il pensiero come 
in un cerchio preciso che nessuna forza mai 
riuscirà a rompere; diviene indipendente da ogni 
legame e da ogni dominio; non appartiene più 
all'artefice, ma è di tutti e di nessuno, come lo 
spazio, come la luce, come le cose immanenti 
e perpetue^ Un pensiero esattamente espresso 
in un verso perfetto è un pensiero che già esi- 
steva preformato nella oscura profondità della 
lingua. Estratto dal poeta, seguita ad esistere, 
nella conscienza delli uomini. Maggior poeta è 



— 180 — 

dunque colui che sa discoprire, disviluppare, 
estrarre un maggior numero di codeste prefor- 
mazioni ideali. Quando il poeta è prossimo alla 
scoperta d'uno di tali versi eterni, è avvertito 
da un divino torrente di gioja che gli invade 
d'improvviso tutto Tessere. 

Quale gioja è più forte ? — Andrea socchiuse- 
un poco li occhi, quasi per prolungare quel par- 
ticolar brivido ch'era in lui foriero della inspi- 
razione quando il suo spirito si disponeva al- 
l'opera d'arte, specialmente al poetare. Poi, pieno 
d'un diletto non mai provato, si mise a trovar 
rime con la èsile matita su le brevi pagine bian- 
che del taccuino. Gli vennero alla memoria i 
primi versi d'una canzone del Magnifico: 

Parton leggieri e pronti 
dal petto i miei pensieri... 

Quasi sempre, per incominciare a comporre, 
egli aveva bisogno d'una intonazione musicale 
datagli da un altro poeta; ed egli usava pren- 
derla quasi sempre dai verseggiatori antichi di 
Toscana. Un emistichio di Lapo Gianni, del Ca- 
valcanti, di Gino, del Petrarca, di Lorenzo de' 
Medici, il ricordo d'un gruppo di rime, la con* 
giunzione di due epiteti, una qualunque concor* 
danza di parole belle e bene sonanti, una qua- 
lunque frase numerosa bastava ad aprirgli la 
vena, a dargli, per cosi dire, il la, una nota 
che gli servisse di fondamento all'armonia della 
prima strofa. Era una specie di topica applicata 
non alla ricerca delli argomenti ma alla ricerca 
dei preludii. Il primo settenario mediceo gli of- 



— 181 — 

ferse in fatti la rima; ed egli vide distintamente 
tutto ciò elisegli voleva mostrare al suo imagi- 
narìo uditore in persona dell'Erma; e, insieme 
con la visione, nel tempo medesimo, si presentò 
spontaneamente al suo spirito la forma metrica 
in cui egli doveva versare, come un vino in una 
coppa, la poesia. Poiché quel suo sentimento 
poetico era duplice, o, meglio, nasceva da un 
contrasto, cioè dal contrasto fra Tabiezion pas- 
sata e la presente risurrezione, e poiché nel suo 
movimento lirico procedeva per elevazione, egli 
elesse il sonetto; la cui architettura consta di 
due ordini: del superiore rappresentato dalle 
due quartine e deirinferiore rappresentato dalle 
due terzine. Il pensiero e la passione dunque, 
dilatandosi nel primo ordine, si sarebber rac- 
colti, rinforzati, elevati nel secondo. La forma del 
sonetto, pur essendo meravighosamente bella 
e magnifica, è in qualche parte manchevole; 
perchè somiglia una figura con il busto troppo 
lungo e le gambe troppo corte. In fatti le due ^ 
terzine non soltanto sono in realtà più corte 
delle quartine, per numero di versi; ma anche 
sembrano più corte delle quartine, per quel che 
la terzina ha di rapido e di fluido nell'andatura 
sua in confronto alla lentezza e alla maestà 
della quartina. Quegli é migliore artefice, il quale 
sa coprire la mancanza; il quale, cioè, serbando 
alle terzine la imagine più precisa e più visi- 
bile e le parole più forti e più sonore, ottiene 
che le terzine grandeggino e armonizzino con 
le superiori strofe senza però nulla perdere della 
lor leggerezza e rapidità essenziali. I dipintori 
del Rinascimento sapevano equilibrare una in- 



- 182 — 

tìera figura con il semplice svolazzo d'un na- 
stro o d'un lembo o d'una piega. 

Andrea, nel comporre, studiava sé medesimo 
curiosamente. Non aveva fatto versi da gran 
tempo. Quell'intervallo d'ozio aveva nociuto alla 
sua abilità tecnica? Gli pareva che le rime, 
uscenti a mano a mano dal suo cervello, aves- 
sero un sapor nuovo. La consonanza gli veniva 
spontanea, senza ch'ei la cercasse; e i pensieri 
gli nascevano rimati. Poi, d'un tratto, un in- 
toppo arrestava il fluire; un verso gli si ribel- 
lava; tutto il resto gli si scomponeva come un 
musaico sconnesso; le sillabe lottavano contro 
la constrizion della misura; una parola musi- 
cale e luminosa, che gli piaceva, era esclusa 
dalla severità del ritmo ad onta d'ogni sforzo; 
da una rima nasceva un'idea nuova, inaspettata, 
a sedurlo, a distrarlo dall'idea primitiva; un 
epiteto, pur essendo giusto ed esatto, aveva un 
suono debole; la tanto cercata qualità, la coe- 
renza, mancava completamente; e la strofa era 
come una medaglia riuscita imperfetta per colpa 
d'un fonditore inesperto il qual non avesse sa- 
puto calcolare la quantità di metallo fuso ne- 
cessaria a riempirne il cavo. Egli, con acuta pa- 
zienza, rimetteva di nuovo nel crogiuolo il me- 
tallo; e ricominciava l'opera da capo. La strofe 
alla fine gli usciva intera e precisa; qualche 
verso, qua e là, aveva una certa asprezza pia- 
cente; a traverso le ondulazioni del ritmo ap- 
pariva evidentissima la simetrla; la ripetizion 
delle rime faceva una musica chiara, richia- 
mando allo spirito con l'accordo de' suoni l'ac- 
cordo de' pensieri e rafforzando con un legame 



— 183 - 

fisico il legame morale ; tutto il sonetto viveva 
e respirava come un organismo indipeildente, 
nell'unità. Per passare da un sonetto all'altro 
egli teneva una nota, come in musica la modu- 
lazione da un tono all'altro è preparata dall'ac- 
cordo di settima, nel qual si tiene la nota fonda- 
mentale per farne la dominante del nuovo tono. 

Cosi componeva, or rapido or lento, con un 
diletto non mai provato; e il luogo raccolto, in 
verità, pareva escito dalla fantasia d'un solita- 
rio egipane dedito ai carmi. 11 mare, mentre 
più cresceva il giorno, balenava fra i tronchi 
come nelli intercolunnii d'un portico di diaspro; 
li acanti corintii eran come le coronazioni ab- 
battute di quelle colonne arboree; nell'aria, 
glauca come l'ombra d'un antro lacustre, il sole 
gittava a quando a quando strali e anelli e di- 
schi d'oro. Certo, Alma Tadema avrebbe ivi ima- 
ginata una Saffo dal crin di viola, seduta sotto 
l'Erma di marmo, poetante su la lira di sette 
corde, in mezzo a un coro di fanciulle dal crin 
di fiamma pallide e intente a bevere dall'adonio 
la compiuta armonia di ciascuna strofe. 

Quando egli ebbe condotti a termine i quattro 
sonetti, trasse un respu'o e li recitò senza voce, 
con una enfasi interiore. L'apparente rottura 
del ritmo nel quinto verso dell'ultimo, causata 
dalla mancanza di un accento tonico e quindi 
d'una posa grave della ottava sillaba, gli parve 
efficace e la mantenne. Quindi scrisse i quattro 
sonetti su la base quadrangolare dell'Erma: su 
ogni faccia uno, in quest'ordine. 



- 184 — 



Ebma quadrata, le tue quattro fronti 
sanno mie novità meravigliose? 
Spirti, cantando, da le sedi ascose 
partono del mio cor leggieri e pronti. 

Il cor mio prode tutte impure fonti 
serrò, cacciò da sé tutt* altre cose 
impure, tutte fiamme obbrobriose 
domò, ruppe air assedio tutti i ponti. 

Spirti, cantando, salgono. Ben odo 
io rinno; e inestinguibile, possente, 
del periglio di me mi prende un riso. 

Pallido si ma come un re, io godo 
sentir nel core l'anima ridente, 
mentre il già vinto Mal rimiro fiso. 

II. 

L'anima ride li amor suoi lontani 
mentre fiso rimiro il Mal già vinto 
che in quei di foco intrichi aveami spinto 
come in boschi nudriti da vulcani. 

Or ne '1 gran cerchio de' dolori umani 
entra, novizia in veste di jacinto, 
dietro lasciando il falso laberinto 
ove i belli ruggian mostri pagani; 

Non più sfinge con unghie auree l'abbranca, 
non gorgone la fa pietra restare, 
non sirena per lunga ode l'incanta. 

Alta, in sommo del cerchio, un'assai bianoa 
donna, con atto di comunicare, 
tien fra le pure dita l'Ostia santa. 



185 — 



in. 



Ella fuor de V insidie e fuor de V ire 
e fuor de* danni, sta pacata e forte 
come colei che può fino a la morte 
sapere il Male, senza quel soffrire. 

— - voi clie fate tutti i venti aulire, 
che avete in signoria tutte le porte, 
io metto a' vostri piedi la mia sorte: 
Madonna, me '1 vogliate consentire ! 

Folgora ne la pura mano vostra 

quell'Ostia desiata, come un sole. 

Non vedrò dunque il gesto che consente? — 

Ed ella, eh' è henigna a chi si prostra, 
comunicando dice le parole: 

— Offerto t' è il tuo Ben, anzi è presente. 

IV. 

Io — dice — son l'innaturale Rosa 
generata dal sen de la Bellezza. 
Io son che infondo la suprema ehrezza. 
Io son colei che esalta e che riposa. 

Ara con pianti, Anima dolorosa, 
per mietere con canti d' allegrezza. 
Dopo un lungo dolor, la mia dolcezza 
passerà di dolcezza ogni altra cosa. 

— Tal sia, Madonna; e dal mio cor disgorghi 
gran sangue, e i fiumi scorrano su '1 mondo, 

e il dolore immortai pur gli rinnovi, 

e me stesso travolgano que' gorghi, 
me coprano ; ma veda io dal profondo 
la luce che a la invitta anima piovi. 

Die xn septbmbris mdccclxxxvi. 



— 186 — 



VII. 



Schifanoja sorgeva su la collina, nel punto 
in cui la catena , dopo aver seguito il litorale 
ed abbracciato il mare come in un anfiteatro, 
piegava verso l'interno e declinava alla pia- 
nura. Se bene edificata dal cardinale Alfonso 
Carafa d'Ateleta, nella seconda metà del XVIII 
secolo, la villa aveva nella sua architettura una 
certa purezza di stile. Formava un quadrilatero, 
alto di due piani, ove i portici si alternavano 
con li appartamenti ; e le aperture de' portici a 
punto davano all'ediflzio agilità ed eleganza, poi- 
ché le colonne e i pilastri jonici parevano dise- 
gnati e armonizzati dal Vignola. Era veramente 
un palazzo d'estate, aperto ai venti del mare. 
Dalla parte dei giardini, sul pendìo, un vestì- 
bolo metteva su una bella scala a due rami 
discendente in un ripiano limitato da balaustri 
di pietra come un vasto terrazzo e ornato di 
due fontane. Altre scale dalle estremità del 



— 187 — 

terrazzo si prolungavano giù per il pendio ar- 
restandosi ad altri ripiani sinché terminavano 
quasi sul mare e da questa inferiore area pre- 
sentavano alla vista una specie di settemplice 
serpeggiamento tra la verdura superba e tra i 
foltissimi rosai. Le meraviglie di Scliifanoja 
erano le rose e i cipressi. Le rose, di tutte le 
qualità , di tutte le stagioni , erano a bastanza 
pour en tirer nevf ou dix muyt^ d*eaue rose, 
come avrebbe detto il poeta del Vergier d'hon- 
neur. I cipressi, acuti ed oscuri, più jeratlci delle 
piramidi, più enigmatici delli obelisclii, non ce- 
devano né a quelli della Villa d*Este né a quelli 
della Villa Mondragone né a quanti altri simili gi- 
ganti grandeggiano nelle gloriate ville di Roma. 
La marchesa d*Ateleta soleva passare a Schi- 
fanoj> Testate e parte deirautunno; poiché ella, 
pur essendo tra le dame una delle più mon- 
dane, amava la campagna e la libertà campestre 
ed ospitare amici. Ella aveva usato ad Andrea 
infinite cure e premure , durante la malattia , 
come una sorella maggiore , quasi come una 
madre, senza stancarsi. Una profonda affezione 
la legava al cugino. Ella era per lui piena d'in- 
dulgenze e di perdoni; era un'amica buona e 
franca, capace di comprendere molte cose, 
pronta, sempre gaia, sempre arguta, a un 
tempo spiritosa e spirituale. Pur avendo var- 
cata da circa un anno la trentina, conservava 
una mirabile vivacità giovenile e una grande pia- 
cenza, poiché possedeva il segreto della signora 
di Pompadour, quella beante sans traits che può 
avvivarsi d'inaspettate grazie. Anche possedeva 
una virtù rara, quella che comunemente si 



— 188 — 

chiama '* il tatto. „ Un delicato genio feminile 
erale di guida infallibile. Nelle sue relazioni con 
innumerevoli conoscenti d'ambo i sessi, ella 
sapeva sempre, in ogni circostanza, come con- 
tenersi; e non commetteva mai errori, non pe- 
sava mai su la vita altrui, non veniva mai inop- 
portuna né diveniva mai importuna, faceva 
sempre a tempo ogni suo atto e diceva a tempo 
ogni sua parola. Il suo contegno verso Andrea, 
in questo periodo di convalescenza un po' strano 
e ineguale, non poteva essere, in verità, più 
squisito. Ella cercava in tutti i modi di non di- 
sturbarlo e di ottenere che nessuno lo distur- 
basse; gli lasciava pienissima libertà; mostrava 
di non accorgersi delle bizzarrie e delle malin- 
conie ; non V infastidiva mai con domande in- 
discrete; faceva si che la sua compagnia gli 
fosse leggera nelle ore obbligatorie; rinunziava 
perfino ai motti, in presenza di lui, per evitar- 
gli la fatica d'un sorriso forzato. 

Andrea, che comprendeva quella finezza, era 
riconoscente. 

Il 12 di settembre, dopo i sonetti dell'Erma, 
egli tornò a Schifanoja con una insolita letizia; 
incontrò Donna Francesca su la scala e le ba- 
ciò le mani, dicendole con un tono di gioco: 

— Cugina, ho trovato la Verità e la Via. 

— Alleluja! — fece Donna Francesca, levando 
le belle braccia rotonde. — Alleluja! 

Ed ella discese nei giardini e Andrea sali alle 
sue stanze, col cuor sollevato. • 

Dopo poco, egli udì battere leggermente al- 
l'uscio e la voce di Donna Francesca chiedere: 

— Posso entrare? 



— 189 - 

Ella entrò portando nella sopravveste e tra 
le braccia un gran fascio di rose rosee , bian- 
che, gialle, vermiglie, brune. Alcune, larghe e 
chiare , come quelle della Villa Pamphily , fre- 
schissime e tutte imperlate, avevano non so 
che di vitreo tra foglia e foglia; altre avevano 
petali densi e una dovizia di colore che faceva 
pensare alla celebrata magnificenza delle por- 
pore d'Ehsa e di Tiro; altre parevano pezzi di 
neve odorante e facevano venire una strana 
vogha di morderle e d'ingoiarle; altre erano di 
carne, veramente di carne, voluttuose come le 
più voluttuose forme d'un corpo di donna, con 
qualche sottile venatura. Le infinite gradazioni 
del rosso, dal cremisi violento al color disfatto 
della fragola matura, si mescevano alle più fini 
e quasi insensibili variazioni del bianco, dal 
candore della neve immacolata al colore inde- 
finibile del latte a pena munto, dell'ostia, della 
midolla d' una canna , dell'argento opaco , del- 
l'alabastro, dell'opale. 

— Oggi è festa — ella disse, ridendo ; e i fiori 
le coprivano il petto fin quasi alla gola. 

— Grazie! Grazie! Grazie! — ripeteva Andrea 
aiutandola a deporre il fascio sul tavolo, su i 
libri , su li albi , su le custodie de' disegni. — 
Rosa rosarumt 

Ella, poi che fu Ubera, adunò tutti i vasi sparsi 
per le stanze e si mise a riempirli di rose, com- 
ponendo tanti singoli mazzi con una scelta che 
rivelava in lei un gusto raro, il gusto della gran 
convitatrice. scegliendo e componendo, parlava 
di mille cose con quella sua gaia volubilità, 
quasi volesse compensarsi della parsimonia di 



— 190 — 

parole e dì risa usata fin allora con Andrea 
per riguardo alla malinconia taciturna di lui. 
Tra le altre cose, disse: 

— Il 15 avremo una bella ospite: Donna Ma- 
ria Ferres y Capdevila, la moglie del ministro 
plenipotenziario di Guatemala. La conosci? 

— Non mi pare. 

— In fatti, non la puoi conoscere. È tornata 
in Italia da pochi mesi; ma passerà T inverno 
prossimo a Roma, perchè il marito è destinato 
a quel posto. È una mia amica d'infanzia, molto 
cara. Siamo state insieme a Firenze , tre anni, 
all'Annunziata; ma è più giavine di me. 

— Americana? 

— No; italiana e di Siena, per giunta. Nasce 
di casa Bandinelli, 'battezzata con l'acqua della 
Fonte Gaja. Ma è più tosto malinconica, di na- 
tura; e tanto dolce. La storia del suo matrimo- 
nio, anche, è poco allegra. Quel Ferres non è 
simpatico punto. Hanno però una bambina ch'è 
un amore. Vedrai; pallida pallida, con tanti ca- 
pelli, con due occhi smisurati. Somiglia molto 
alla madre.... Guarda, Andrea, questa rosa, se 
non pare di velluto! E quest'altra? Me la man- 
gerei. Ma guarda, proprio, se non pare una 
Crema ideale. Che delizia! 

Ella seguitava a scegliere le rose e a parlare 
amabilmente. Un profumo pieno, inebriante come 
un vino di cent'/anni, saliva dal mucchio; al-r 
cune corolle si sfogliavano e si fermavano tra 
le pieghe della gonna di Donna Francesca; in- 
nanzi alla finestra, nel sole biondissimo, la 
punta cupa d' un cipresso accennava a pena. 
E nella memoria di Andrea cantava con insi- 



- 191 — 

stenza, come una frase musicale, un verso del 
Petrarca: 

" Così partìa le rose e le parole. „ 

Due mattine dopo, egli ofiferl in compenso 
alla marchesa d'Ateleta un sonetto curiosa- 
mente foggiato all'antica e manoscritto in una 
pergamena ornata con fregi in sul gusto di 
quelli che ridono nei messali d*Attavante e di 
Liberale da Verona. 

Schifanoja in Ferrara (oh gloria d^Este!). 
ove il Cossa emulò Cosimo Tura 
in trionfi dMddii su per le mura, 
non vide mai tanto gioconde feste. 

Tante rose portò ne la sua veste 
Mona Francesca all'ospite in pastura 
quante mai n'ebbe il Ciel per avventura, 
bianche angelelle, a cingervi le teste. 

Ella parlava ed iscegliea que' fiori 

con tal vaghezza ch'io pensai: — Non forse 

venne una Grazia per le vie del Sole? — 

Travidi, inebriato dalli odori. 

Un verso del Petrarca a l'aria sorse: 

" Così partìa le rose e le parole. „ 

Cosi Andrea cominciava a riavvicinarsi al- 
l'Arte, curiosamente esperimentandosi in pic- 
coli esercizii e in piccoli giuochi, ma ben me- 
ditando opere meno lievi. Molte ambizioni, che 
già un tempo l'avevano incitato, tornarono ad 
incitarlo; molti progetti d'un tempo gli si riaf- 
facciarono nello spirito modificati o completi; 



- 192 — 

molte antiche idee gli si ripresentarono sotto 
una luce nuova o più giusta; molte imagini, 
una volta a pena intraviste, gli brillarono chiare 
e nitide, senza ch'egli potesse rendersi conto di 
quel loro svolgimento. Pensieri subitanei insor- 
gevano dalle profondità misteriose della con- 
scienza e lo sorprendevano. Pareva che tutti 
i confusi elementi accumulati in fondo a lui, ora 
combinati con la disposizion particolare della 
volontà, si transformassero in pensieri con lo 
stesso processo per cui la digestione stomacale 
elabora i cibi e li cangia in sostanza del corpo. 

Egli intendeva trovare una forma di Poema 
moderno , questo inarrivabile sogno di molti 
poeti; e intendeva fare una lirica veramente 
moderna nel contenuto ma vestita di tutte le 
antiche eleganze, profonda e limpida, appas- 
sionata e pura, forte e composta. Inoltre va- 
gheggiava un libro d'arte sui Primitivi , su li 
artisti che precorrono la Rinascenza, e un libro 
d'analisi psicologica e letteraria su i poeti del 
dugento in gran parte ignorati. Un terzo libro 
avrebbe egli voluto scrivere sul Bernini, un 
grande studio di decadenza, aggruppando in- 
torno a quest'uomo straordinario che fu il fa- 
vorito di sei papi non soltanto tutta l'arte ma 
anche tutta la vita del suo secolo. Per ognuna 
di tali opere bisognavano, naturalmente, molti 
mesi, molte ricerche, molte fatiche, un alto ca- 
lore d' ingegno , una vasta capacità di coordi- 
nazione. 

In materia di disegno, egli intendeva illustrare 
con acque forti la terza e la quarta giornata del 
Decamerone, prendendo ad esempio quella Isto- 



— 193 — 

via di NcLstagio degli Onesti ove Sandro Botti- 
celli rivela tanta raffinatezza di gusto nella 
scienza del gruppo e delFespressione. Inoltre 
vagheggiava una serie di Sogni, di Capricci, di 
Grotteschi, di Costumi, di Favole, di Allegorie, 
di Fantasie, alla maniera volante del Callot ma 
con un ben diverso sentimento e un ben di- 
verso stile , per potersi liberamente abbando- 
nare a tutte le sue predilezioni , a tutte le sue 
imaginazioni, a tutte le sue più acute curiosità 
e più sfrenate temerità di disegnatore. 

Il 15 settembre, un mercoledì, giunse Tospite 
nuova. 

La marchesa andò, insieme con il suo primo- 
genito Ferdinando e con Andrea, ad incontrar 
l'amica nella prossima stazione di Rovigliano. 
Mentre il phoeton discendeva per la strada om- 
breggiata di alti pioppi , la marchesa parlava 
dell'amica ad Andrea con molta benevolenza. 

— Credo che ti piacerà — ella concluse. 
Poi si mise a ridere, come per un pensiero 

che le attraversasse lo spirito improvvisamente. 

— Perchè, rìdi? — le chiese Andrea. 

— Per un'analogìa. 

— Quale ? 

— Indovina. 

— Non so. 

— Ecco: pensavo a un altro annunzio di pre- 
sentazione e a un'altra presentazione ch'io ti 
feci, son quasi due anni, accompagnandola con 
una profezia allegra. Ti ricordi ? 

— Ah! 

— Rido perchè anche questa volta si tratta 
Il Piacere. ^^ 



— 194 — 

di una incognita e anche questa volta io sarei... 
l'auspice involontaria. 

— Ohibò. 

— Ma il caso è diverso, ossia è diverso il 
personaggio del possibile dramma. 

— Cioè ? 

— Maria è una turris eburnea. 

— Io sono ora un vas spirituale. 

— Guarda! Dimenticavo che tu hai finalmente 
trovato la Verità e la Via. " L'anima ride li 
amor suoi lontani... „ 

— Tu citi i miei versi? 

— Li so a memoria. 

— Che amabilità! 

— Del resto, caro cugino, queir " assai bianca 
donna „ con l'Ostia in mano m'è sospetta. M'ha 
tutta l'aria d'una forma fittizia, d'una stola senza 
corpo, che sia alla mercede di quella qualun- 
que anima d'angelo o di demonio intenzionata 
d'entrarci, di amministrarti la comunione e di 
farti '' il gesto che consente. ., 

— Sacrilegio! Sacrilegio! 

— Bada a te e fa ben la guardia alla stola 
e fa molti esorcismi... Ricasco nelle profezie! 
Proprio, le profezie sono una delle mie debolezze. 

— Siamo giunti, cugina. 

Ridevano ambedue. Entravano nella stazione, 
mancando pochi minuti all'arrivo del treno. Il 
dodicenne Ferdinando, un fanciullo malaticcio, 
portava un mazzo di rose per offerirlo a Donna 
Maria. Andrea, dopo quel dialogo, si sentiva al- 
legro, leggero, vivacissimo, quasi che d'un tratto 
fosse rientrato nella primiera vita di frivolezza 
e di fatuità: era una sensazione inesplicabile. Gli 



— 195 — 

pareva che qualche cosa come un soffio femi- 
neo, come una tentazione indefinita, gli attra- 
versasse lo spirito. Scelse dal mazzo di Ferdi- 
nando una rosa thea e se la mise airocchìello ; 
diede un'occhiata rapida al suo abbigliamento 
estivo ; si guardò con compiacenza le mani bene 
curate ch'eran divenute più sottili e più bianche 
nella malattia. Fece tutto questo senza rifles- 
sione, quasi per un istinto di vanità risveglia- 
tosi in lui d'un tratto. 

— Ecco il treno — disse Ferdinando. 

La marchesa si avanzò in contro alla ben ve- 
nuta; ch'era già allo sportello e salutava con la 
mano e accennava con la testa tutt'avvolta d'un 
gran velo color di perla coprente a metà il cap- 
pello di paglia nera. 

— Francesca! Francesca! — ella chiamava, 
con una effusione tenera di gioja. 

Quella voce fece su Andrea un' impression 
singolare; gli ricordò vagamente una voce co- 
nosciuta. Quale? 

Donna Maria discese con un atto rapido ed 
agile; e con un gesto pieno di grazia sollevò il 
velo fitto scoprendosi la bocca per baciare l'a- 
mica. Subito, per Andrea quella signora alta e 
ondulante sotto il mantello di viaggio e velata, 
di cui egli non vedeva che la bocca e il mento, 
ebbe una profonda seduzione. Tutto il suo es- 
sere, illuso in quei giorni da una parvenza di 
liberazione, era disposto ad accogliere il fascino 
dell' " eterno feminino. „ A pena smosse da un 
soffio di donna, le ceneri davano faville. 

— Maria, ti presento mio cugino, il conte An- 
dera Sperellì-Fieschi d'Ugenta. 



— 196 — 

Andrea s'inchinò. La bocca della signora si 
aperse ad un sorriso, che sembrò misterioso 
poiché la lucentezza del velo nascondeva il re- 
sto della faccia. 

Quindi la marchesa presentò Andrea a Don 
Manuel Ferres y Capdevila. Poi disse, accarez- 
zando i capelli della bimba che guardava il gio- 
vine con due dolci occhi attoniti: 

— Ecco Delfina. 

Nel phceton Andrea sedeva di fronte a Donna 
Maria e a fianco del marito. Ella non aveva an- 
cor svolto il velo; teneva su le ginocchia il 
mazzo di Ferdinando e di tratto in tratto lo por- 
tava alle nari, mentre rispondeva alle domande 
della marchesa. Andrea non s'era ingannato: 
nella voce di lei sonavano alcuni accenti della 
voce di Elena Muti, perfetti. Una curiosità im- 
paziente l'invase, di vedere il volto nascosto, 
l'espressione, il colore. 

— Manuel — diceva ella, discorrendo — par- 
tirà venerdì. Poi verrà a riprendermi, più tardi. 

— Molto tardi, speriamo, — s'augurò cordial- 
mente Donna Francesca. — Al meno fra un 
mese; è vero. Don Manuel? Anzi la miglior 
cosa sarebbe d'andar via tutti in un giorno. Noi 
resteremo a Schifanoja sino al primo di novem- 
bre, non più oltre. 

— Se la mamma non m'aspettasse , resterei 
volentieri con te. Ma ho promesso di trovarmi 
in tutti i modi a Siena pel 17 d'ottobre, ch'è il 
natalizio di Delfina. 

— Peccato! Il 20 d'ottobre c'è la festa delle 
donazioni a Rovigliano, tanto bella e strana. 

— Come fare? S'io mancassi, la mamma 



— 197 — 

n'avrebbe certo un gran dolore. Delfina è l'a- 
dorata... 

Il marito taceva: doveva essere di natura ta- 
citurno. Dì mezza taglia, un poco obeso, un pò* 
calvo, aveva la pelle d'un color singolare, d'un 
pallore tra verdognolo e violaceo, su cui il 
bianco dell'occhio nei movimenti dello sguardo 
spiccava come quel d'un occhio di smalto in 
certe teste di bronzo antiche. I baffi, neri, duri 
ed egualmente tagliati come i peli d'una spaz- 
zola, ombravano una cruda bocca sardonica. 
Egli pareva un uomo tutto irrigato di bile. Po- 
teva aver quarant'anni o poco più. Nella sua 
persona era qualche cosa di ibrido e di subdolo, 
che non isfuggiva a un osservatore; era quel- 
l'indeflnibile aspetto di viziosità che portano in 
loro le generazioni provenienti da un miscuglio 
di razze imbastardite, crescenti nella turbolenza. 

— Guarda, Delfina, gli aranci tutti fioriti! — 
esclamò Donna Maria stendendo la mano al 
passaggio per cogliere un rametto. 

La strada in fatti saliva tra due boschi d'a- 
grumi, in vicinanza di Schifanoja. Le piante 
eran così alte che facevano ombra. Un vento 
marino alitava e sospirava nell'ombra, carico 
d'un profumo che si poteva quasi bevere a sorsi 
come un'acqua refrigerante. 

Delfina aveva posate le ginocchia sul sedile 
e si sporgeva fuor della carrozza per afferrare 
i rami. La madre. la cingeva con un braccio 
per reggerla. 

— Bada! Bada! Puoi cadere. Aspetta un poco 
ch'io mi tolga il velo — ella disse. — Scusa, 
Francesca; aiutami. 



— 198 — 

E ci lino la testa verso Tamica per farsi di- 
stricare il velo dal cappello. In quell'atto il mazzo 
di rose le cadde a' piedi. Andrea fu pronto a 
raccoglierlo; e, nel rialzarsi a porgerlo, vide al 
fine rintero volto della signora scoperto. 

— Grazie — ella disse. 

Aveva un volto ovale , forse un poco troppo 
allungato, ma a pena a pena un poco, di quel- 
Taristocratico allungamento che nel XV secolo 
li artisti ricercatori d'eleganza esageravano. Ne' 
lineamenti delicati era quell'espression tenue di 
sofferenza e di stanchezza, che forma l'uniano 
incanto delle Vergini ne' tondi fiorentini del 
^ tempo di Cosimo. Un'ombra morbida, tenera, 
simile alla fusione di due tinte diafane, d*un 
violetto e d'un azzurro ideali, le circondava li 
occhi che volgevan l' iride lionata delli angeli 
bruni. I capelli le ingombravano la fì:'onte e le 
tempie, come una corona pesante; si accumu- 
lavano e si attortigliavano su la nuca. Le cioc- 
che, d'innanzi, avevan la densità e la forma dì 
quelle che coprono a guisa d'un casco la testa 
dell'Antinoo Farnese. Nulla superava la grazia 
d^lla finissima testa che pareva esser trava- 
gliata dalla profonda massa, come da un divino 
castigo. 

— Dio mio! — esclamò ella, provando a sol- 
levare con le mani il peso delle trecce constrette 
insieme sotto la paglia. — Ho tutta quanta la 
testa addolorata come se fossi rimasta sospesa 
pe' capelli un'ora. Non posso stare molto tempo 
senza scioglierli; mi affaticano troppo. È una 
schiavitù. 

— Ti ricordi, — chiese Donna Francesca — 



— 199 — 

in conservatorio, quando eravamo in tante a 
volerti pettinare? Succedevano gran liti, ogni 
giorno. Figurati, Andrea, che corse perfino il 
sangue ! Ah, non dimenticherò mai la scena tra 
Carlotta Fiordelise e Gabriella Vanni. Era una 
mania. Pettinar Maria Bandinelli era l'aspira- 
zione di tutte le educande, maggiori e minori. 
Il contagio si sparse per tutto il conservatorio; 
ne vennero proibizioni, ammonizioni, rigori, mi- 
nacce perfin di tonsura. Ti ricordi. Maria? Tutte 
le nostre anime erano allacciate da quel bel 
serpente nero che ti pendeva fino ai calcagni. 
Che pianti di passione, la notte! E quando Ga- 
briella Vanni, per gelosia, ti diede a tradimento 
una forbiciata? Proprio, Gabriella aveva per- 
duta la testa. Ti ricordi? 

Donna Maria sorrideva, d*un certo sorriso 
malinconico e quasi direi incantato come quel 
d'una persona die sogni. Nella sua bocca soc- 
chiusa il labbro di sopra avanzava un poco 
quel di sotto, ma cosi poco che a pena pareva, 
e li angoli si chinavano in giù dolenti e nel loro 
incavo lieve accoglievano un' ombra. Queste 
cose creavano un'espressione di tristezza e di 
bontà, ma temperata da quella fierezza che ri- 
vela Televazion morale di chi ha molto sofferto 
e saputo soffrire. 

Andrea pensò che in nessuna delle sue ami- 
che egli aveva posseduta una tal capigliatura, 
una cosi vasta selva e cosi tenebrosa, ove 
smarrirsi. La storia di tutte quelle fanciulle in- 
namorate d'una trecci i, accese di passione e di 
gelosia, smanianti di mettere il pettine e le dita 
nel vivo tesoro, gli parve un gentile e poetico 



— 200 — 

episodio di vita claustrale; e la chiomata nel- 
rimaginazione gli s'illuminò vagamente come 
Teroina d'una favola, come l'eroina d'una leg- 
genda cristiana in cui fosse descritta la puerì- 
zia d'una santa destinata a un martirio e a una 
glorificazione futura. Nel tempo medesimo, gli 
sorgeva nello spirito una finzione d'arte. Quanta 
ricchezza e varietà di linee avrebbe potuto dare 
al disegno d'una figura muliebre quella volu- 
bile e divisibile massa di capelli neri! 

Non erano, veramente, neri. Egli li guardava, 
il giorno dopo, a mensa, nel punto in cui il ri- 
verbero del sole li feriva. Avevano riflessi di 
viola cupi, di que' riflessi che ha la tinta del 
campeggio o anche talvolta l'acciajo provato 
dalla fiamma o anche certa specie di palissan- 
dro polito; e parevano aridi, per modo che pur 
nella lor compattezza i capelli rimanevan di- 
staccati Tuno dall'altro, penetrati d'aria, quasi 
direi respiranti. I tre luminosi e melodiosi epi- 
teti d'Alceo andavano a Donna Maria natural- 
mente. " \onUX' ayva [letltXòfistSs... „ — Ella parlava 
con finezza, mostrando uno spirito delicato e 
inchino alle cose dell'intelligenza, alle rarità del 
gusto, al piacere estetico. Possedeva la coltura 
abondante e varia, l'imaginazione sviluppata, la 
parola colorita di chi ha veduto molti paesi, ha 
vissuto in diversi climi, ha conosciuto genti di- 
verse. E Andrea sentiva un'aura esotica invol- 
gere la persona di lei, sentiva da lei partire una 
strana seduzione, un incanto composto dai fan- 
tasmi vaghi delle cose lontane ch'ella aveva 
guardate, delli spettacoli ch'ella ancora serbava 
nelli occhi, dei ricordi che le empivano l'anima. 



— 201 — 

Ed era un incanto indefinibile, inesprimibile; 
era come s'ella portasse nella sua persona una 
traccia della luce in cui erasi immersa, de' pro- 
fumi ch'ella aveva respirati, degli idiomi ch'ella 
aveva uditi; era come s'ella portasse in sé con- 
fuse, svanite, indistinte tutte le magie di que' 
paesi del Sole. 

La sera, nella gran sala che dava sul vesti- 
bolo, ella s'accostò al pianoforte e l'aperse per 
provarlo, dicendo: 

— Suoni ancora, tu, Francesca? 

— Oh, no — rispose la marchesa. — Ho smesso 
di studiare, da parecchi anni. Penso che la sem- 
plice audizione sìa una voluttà preferibile. Però 
mi do l'aria di proteggere l'arte ; e l'inverno in 
casa mia presiedo sempre a un po' di buona 
musica. È vero, Andrea? 

— Mia cugina è assai modesta. Donna Maria, 
È qualche cosa più che una protettrice; è una 
restauratrice del buon gusto. Proprio quest'anno, 
nel febbraio, in casa sua, per sua cura, sono 
stati eseguiti due quintetti, un quartetto e un 
trio del Boccherini e un quartetto del Cheru- 
bini: musica quasi in tutto dimenticata, ma am- 
mirabile e sempre giovine. Gli Adagio e i Mi- 
nuetti del Boccherini sono d'una freschezza de- 
liziosa ; i Finali soltanto mi paiono un poco in- 
vecchiati. Voi, certo, conoscete qualche cosa 
di lui... 

— Mi ricordo d'aver sentito un quintetto quat- 
tro o cinque anni fa, al Conservatorio di Bru- 
xelles; e mi parve magnifico, e poi nuovissimo, 
pieno d'episodi! inaspettati. Mi ricordo bene che 
in alcune parti il quintetto, per l'uso dell'uni- 



— 202 — 

soHO, si riduceva a un duo; ma gli effetti otte- 
nuti con la differenza dei timbri erano d'una fi- 
nezza straordinaria. Non ho ritrovato nulla di 
simile nelle altre composizioni strumentali. 

Ella parlava di musica con sottilità d'intendi- 
trice; e per rendere il sentimento, che una data 
composizione o Finterà arte di un dato maestro 
suscitava in lei, aveva espressioni ingegnose 
edimagini ardite. 

— Io ho eseguita ed ascoltata molta musica 
— diceva ella. — E di ogni Sinfonia, di ogni 
Sonata, di ogni Notturno, di ogni singolo pezzo 
in somma, conservo una imagine visibile, un'im- 
pressione di forma e di colore, una figura, un 
gruppo di figure, un paesaggio; tanto che tutti 
i miei pezzi prediletti portano un nome, secondo 
rimagine. Io ho, per esempio, la Sonata delle 
quaranta nuore di Priamo, il Notturno della 
Bella addormentata nel bosco, la Gavotta delle 
dame gialle, la Giga del Mulino, il Preludio 
della goccia d'acqua, e cosi via. 

Ella si mise a ridere, d'un tenue riso che su 
quella bocca afflitta aveva una indicibile grazia 
e sorprendeva come un baleno inatteso. 

— Ti ricordi, Francesca, in collegio, di quanti 
comenti in margine affliggemmo la musica di 
quel povero Chopin, del nostro divino Federico? 
Tu eri la mia complice. Un giorno mutammo 
tutti i titoli allo Schumann, con gravi discus- 
sioni; e tutti i titoli avevano una lunga nota 
esplicativa. Conservo ancora quelle carte , per 
memoria. Ora, quando risuono i Myrthen e le 
Alhumblàtter, tutte quelle significazioni miste- 
riose mi sono incomprensibili; la commozione 



j 



— 203 — 

e la visione sono assai diverse; ed è un Ano 
piacere questo, di poter paragonare il sentimento 
presente con il passato, la nuova imagine con 
Tantica. È un piacere simile a quello che si 
prova nel rileggere il proprio giornale; ma è 
forse più maliconico e più intenso. Il giornale 
in genere è la descrizione degli avvenimenti 
reali, la cronaca dei giorni felici e dei giorni 
tristi, la traccia grigia o rosea lasciata dalla 
vita che fugge; le note prese in margine d*un 
libro di musica, in giovinezza, sono in vece i 
frammenti del poema segreto d* un' anima che 
si schiude, sono le effusioni liriche delia nostra 
idealità intatta, sono la storia dei nostri so- 
gni. Che linguaggio! Che parole! Ti ricordi, 
Francesca? 

Ella parlava con piena confidenza, forse con 
una leggera esaltazione spirituale, come una 
donna che, lungamente oppressa dalla frequen- 
tazion forzata di gente inferiore o da uno spet- 
tacolo di volgarità, abbia il bisogno irresistibile 
di aprire il suo intelletto e il suo cuore a un 
soffio di vita più alta. Andrea l'ascoltava, pro- 
vando per lei un sentimento dolce che somi- 
gliava alla gratitudine. Gli pareva che ella, 
parlando di tah cose innanzi a lui e con lui, 
gli desse una prova gentile di benevolenza e 
quasi gli permettesse di avvicinarsi. Egli cre- 
deva intravedere lembi di quel mondo interiore 
non tanto pe '1 significato delle parole ch'ella 
diceva, quanto pe' suoni e per le modulazioni 
della voce. Di nuovo, egli riconosceva li accenti 
dell'aera. 

Era una voce ambigua, direi quasi bisessuale. 



— 204 — 

duplice, androgf nica ; di due timbri. Il timbro 
maschile, basso e un poco velato, s'ammorbi- 
diva, si chiariva, s'infemminiva talvolta con 
passaggi cosi armoniosi che Torecchio deirudi- 
tore n'aveva sorpresa e diletto a un tempo e 
perplessità. Come quando una musica passa dal 
tono minore al tono maggiore o come quando 
una musica trascorrendo in dissonanze dolo- 
rose torna dopo molte battute al tono fonda- 
mentale, così quella voce ad intervalli faceva 
il cangiamento. Il timbro feminile a punto ri- 
cordava Valtra. 

E il fenomeno era tanto singolare che bastava 
da solo ad occupare l'animo dell'uditore, indi- 
pendentemente dal senso delle parole. Le quali 
quanto più da un ritmo o da una modulazione 
acquistano di valor musicale, tanto più pèrdono 
di valor simbolico. L'animo in fatti, dopo qual- 
che minuto d'attenzione, si piegava al fascino 
misterioso; e rimaneva sospeso aspettando e 
desiderando la cadenza soave, come per una 
melodìa eseguita da uno strumento. 

— Cantate? — chiese Andrea alla signora > 
quasi con timidezza. 

— Un poco — ella rispose. 

— Canta, un poco — la pregò Donna Fran- 
cesca. 

— SI, — consenti ella, — ma a pena accen- 
nando , perchè proprio , da più d' un anno , ho 
perduta ogni forza. 

Nella stanza attigua. Don Manuel giocava col 
marchese d'Ateleta, senza romore, senza motto. 
Nella sala la luce si diffondeva a traverso un 
gran paralume giapponese, temperata e rossa. 



— 205 — 

Tra le colonne del vestibolo passava Tarla ma- 
rina e moveva di tratto in tratto le alte tende 
di Karamanieh recando il profumo dei giardini 
sottoposti. Nelli intercolunnii apparivano le cime 
dei cipressi nere, solide, come di ebano, sopra 
un cielo diafano, tutto palpitante di stelle. 

Donna Maria si mise al pianoforte, dicendo: 
• — Già che siamo neirantico accennerò una me- 
lodia del Paìsiello nella Nina pazza^ una cosa 
divina. 

Ella cantava, accompagnandosi. Nel fuoco del 
canto i due timbri della sua voce si fondevano 
come due metalli preziosi componendo un sol 
metallo sonoro, caldo, pieghevole, vibrante. La 
melodia del Paisiello, semplice, pura, spontanea, 
piena di soavità accorata e di alata tristezza, 
su un accompagnamento chiarissimo, sgor- 
gando dalla bella bocca afflitta s'inalzava con 
tal fiamma di passione che il convalescente, 
turbato fin nel profondo, senti passarsi per le 
vene le note a una a una, come se nel corpo 
il sangue gli si fosse arrestato ad ascoltare. Un 
gelo sottile gli prendeva le radici de' capelli ; 
ombre rapide e spesse gli cadevano su li oc- 
chi; Tansia gli premeva il respiro. E l'intensità 
della sensazione, ne' suoi nervi acuiti, era tanta 
ch'egli doveva fare uno sforzo per contenere 
uno scoppio di lacrime. 

— Oh, Maria mia! — esclamò Donna France- 
sca, baciando teneramente su i capelli la can- 
tatrice quando tacque. 

Andrea non parlò; rimase seduto nella pol- 
trona, con le spalle rivolte al lume, col viso in 
ombra- 



206 - 

— Ancorai — soggiunse Donna Francesca. 

Ella cantò ancora un'Arietta di Antonio Sa- 
lieri. Poi sonò una Toccata dì Leonardo Leo, 
una Gavotta del Rameau e una Giga di Seba- 
stiano Bach. Riviveva meravigliosamente sotto 
le sue dita la musica del XVIII secolo, così ma- 
linconica nelle arie dì danza; che paion compo- 
ste per esser danzate in un pomeriggio lan- 
guido d'una estate di San Martino, entro un 
parco abbandonato, tra fontane ammutolite, tra 
piedestalli senza statue, sopra un tappeto di 
rose morte, da coppie di amanti prossimi a non 
amar più. 



207 - 



Vili. 



— Gittatemi una treccia, ch'io salga! — gridò 
Andrea, ridendo, giù dal primo ripiano della 
scala, a Donna Maria che stava su la loggia 
contigua alle sue stanze, tra due colonne. 

Era di mattina. Ella stava al sole per farsi 
asciugare i capelli umidi che V ammantavano 
tutta quanta, come un velluto d'un bel violetto 
profondo, tra il quale appariva il pallore opaco 
della faccia. La tenda di tela, a metà sollevata, 
d'un vivo colore arancione, le metteva in sul 
capo il bel fregio nero del lembo nello stile de' 
fregi che girano intorno li antichi vasi greci 
della Campania; e, s'ella avesse avuto in torno 
le tempie corona di narcisi e da presso una 
di quelle grandi lire a nove corde che portano 
dipinta a encausto l'effigie d'Apollo e d'un le- 
vriere , certo sarebbe parsa un' alunna della 
scuola di Mitilene, una lirista lesbiaca in atto 
di riposo, ma quale avrebbe potuto imaginarla 
un prerafaelita. 



— 208 — 

— Voi gittatemi un madrigale — rispose ella, 
per gioco, ritraendosi alquanto. 

— Vado a scriverlo sul marmo d'un balau- 
stro, all'ultima terrazza, in vostro onore. Venite 
a leggerlo, quando sarete pronta, poi. 

Andrea seguitò a discendere lentamente le scale 
clie conducevano all'ultima terrazza. In quel mat- 
tino di settembre, l'anima gli si dilatava col re- 
spiro. Il giorno aveva una specie di santità; il 
mare pareva risplendere di luce propria, come 
se ne'fondi vivessero magiche sorgenti di raggi; 
tutte le cose erano penetrate di sole. 

Andrea discendeva, di tratto in tratto soffer- 
mandosi. Il pensiero che Donna Maria fosse ri- 
masta su la loggia a guardarlo gli dava un 
turbamento indefinito, gli metteva nel petto un 
palpito forte, quasi l'intimidiva, come s'ei fosse 
un giovinetto in sul primo amore. Provava una 
beatitudine ineffabile a respirare quella calda e 
limpida atmosfera ove respirava anch'ella, ove 
ìmmergevasi anche il corpo di lei. Un'onda im- 
mensa di tenerezza gli sgorgava dal cuore spar- 
gendosi su li alberi, su le pietre, sul mare, come 
su esseri amici e consapevoli. Egli era spinto 
come da un bisogno di adorazione sonmiessa, 
umile, pura; come da un bisogno di piegare i 
ginocchi e di con giungere le mani e di offe- 
rire quell'affetto vago e muto ch'egli non sa- 
peva qual fosse. Credeva sentir venire a sé la 
bontà delle cose e mescersi alla sua bontà e 
traboccare. — Dunque l'amo? — si chiese; e non 
osò di guardar dentro e di riflettere, poiché te- 
meva che queir incanto delicato si dileguasse 
e si disperdesse come un sogno d'un'alba. 



— 209 — 

— L'amo? Ed ella che pensa? E, s'ella vien 
sola, le dirò io che Tamo? — Godeva interro- 
gar sé medesimo e non rispondere e interrom- 
pere la risposta del cuore con una nuova do- 
manda e prolungare quella fluttuazione tormen- 
tosa e deliziosa a un tempo. — No, no, io non 
le dirò che Tamo. Ella è sopra tutte le altre. 

Si volse; e vide ancora, in sommo, nella log- 
gia, nel sole, la forma di lei, indistinta. Ella, 
forse, l'aveva seguito con li occhi e col pen- 
siero fin là giù, assiduamente. Per una curio- 
sità infantile egli pronunziò a voce chiara il 
nome, su la terrazza solitaria; lo ripetè due o 
tre volte, ascoltandosi. — Maria! Maria! — Nes- 
suna parola già mai, nessun nome eragli parso 
più soave, più melodioso, più carezzevole. E 
pensò che sarebbe stato felice s'ella gli avesse 
permesso di chiamarla semplicemente Maria, 
come una sorella. 

Quella creatura cosi spirituale ed eletta gli 
inspirava un senso di devozione e di sommes- 
sione, altissimo. Se gli avessero chiesto quale 
cosa sarebbegli stata più dolce, avrebbe rispo- 
sto con sincerità: — Obedirla. — Nessuna cosa 
gli avrebbe fatto dolore quanto l'esser da lei 
creduto un uomo comune. Da nessuna altra 
donna, quanto da lei, avrebbe voluto essere am- 
mirato, lodato, compreso nelle opere dell'intel- 
ligenza, nel gusto, nelle ricerche, nelle aspira- 
zioni d'arte, negh. ideali, nei sogni, nella parte 
più nobile del suo spirito e della sua vita. E 
l'ambizione sua più ardente era di riempirle il 
cuore. 

Già da dieci giorni ella viveva a Scliifanoja; 

TI Piac&>'e. 14 



— 210 — 

e in quei dieci giorni come interamente l'aveva 
ella conquistato! Le loro conversazioni, su le 
terrazze o su i sedili sparsi all'ombra o lungo 
i viali fiancheggiati dì rosai, duravano talvolta 
ore ed ore, mentre Delfina correva come una 
gazelletta tra gli avvolgimenti dell'agrumeto. 
Ella aveva nel conversare una fluidità mirabile; 
profondeva un tesoro d'osservazioni delicate 
e penetranti; rivelavasi talvolta con un candore 
pieno di grazia; in proposito de' suoi viaggi, 
talvolta con una sola frase pittoresca suscitava 
in Andrea larghe visioni di paesi e dì mari lon- 
tani. Ed egli poneva un'assidua cura nel mo- 
strare a lei il suo valore, la larghezza della sua 
cultura, la raffinatezza della sua educazione, la 
squisitezza della sua sensibilità; e un orgoglio 
enorme gli sollevò tutto l'essere quando ella 
gli disse con accento di verità, dopo la lettura 
della Favola d'Ermafrodito: 

— Nessuna musica mi ha inebriata come que- 
sto poema e nessuna statua mi ha data della 
bellezza un' impressione più armonica. Certi 
versi mi perseguitano senza tregua e mi per- 
seguiteranno per lunghissimo tempo, forse; 
tanto sono intensi. 

Egli ora, seduto su i balaustri, ripensava 
quelle parole. Donna Maria non era più nella 
loggia; anzi la tenda copriva tutto l'intercolun- 
nio. Sarebbe forse discesa tra poco. Doveva egli 
scriverle il madrigale, secondo la promessa ? 
Il piccolo supplizio del versificare a furia gli 
parve insofi'ribile, in quel grandioso e gaudioso 
giardino ove il sole di settembre faceva dischiu- 
dere una specie dì primavera soprannaturale. 



-r 211 — 

Perchè disperdere quella rara commozione in 
un giuoco affrettato di rime ? Perchè rimpiccio- 
lire quel vasto sentimento in un breve sospiro 
metrico? Risolse di mancare alla promessa; e 
restò seduto a guardare le vele sul limite estremo 
dell'acqua, che brillav.ano a simiglianza di fuo- 
chi soverchiantì il sole. 

Ma un'ansietà lo stringeva come più i minuti 
fuggivano; ed egli volgevasi tutti i minuti a 
vedere se in sommo della scala, tra le colonne 
del vestibolo, apparisse una forma feminile. — 
Era forse quello un ritrovo d'amore? Veniva 
forse quella donna in quel luogo a un collo- 
quio segreto ? Imaginava ella di lui quell'an- 
sietà ? 

— Eccola! — il cuore gli disse. Ed era. 

Era sola. Scendeva pianamente. Su la prima V 
terrazza, presso una delle fontane, si soflfermò. 
Andrea la seguiva con li occhi, sospeso, pro- 
vando ad ogni moto, ad ogni passo, ad ogni 
attitudine di lei una trepidazione come se il 
moto, il passo, l'attitudine avessero un signifi- 
cato, fossero un linguaggio. 

Ella si mise per quella successione di scale 
e di terrazze intramezzate d'alberi e di cespu- 
gli. La sua persona appariva e scompariva, ora 
tutta intera, ora dalla cintola in su, ora emer- 
gente con la testa fuor d'un rosajo. A volte l'in- 
trico dei rami la celava per un buon tratto: si 
vedeva soltanto nelli spazii più radi passare la 
sua veste oscura o brillare la paglia chiara del 
suo cappello. Come più si avvicinava, più ella 
face vasi lenta, indugiando per le siepi, arre- 
standosi a guardare i cipressi, inchinandosi a 



~ 212 -- 

raccogliere un pugno di foglie cadute. Dalla 
penultima terrazza salutò con la mano Andrea 
che aspettava ritto su Tultimo gradino; e gli 
gettò le foglie raccolte, che si sparpagliarono 
come uno sciame di farfalle, tremolando, rima- 
nendo qual più qual meno nell'aria, posandosi 
su la pietra con una mollezza di neve. 

— Ebbene? — chiese ella, a mezzo della branca. 
Andrea piegò le ginocchia sul gradino, levando 

le palme. 

— Nulla! — egli confessò. — Chiedo perdono; 
ma voi e il sole stamani empite i cieli di troppa 
dolcezza. Adoremus. 

La confessione era sincera e anche V adora- 
zione, se bene fatte ambedue con un'apparenza 
di gioco; e certo Donna Maria comprese quella 
sincerità, poiché arrossi un poco, dicendo con 
una singolare premura: 

— Alzatevi, alzatevi. 

Egli s' alzò. Ella gli tese la mano, soggiun- 
gendo: 

— Vi perdóno, perchè siete in convalescenza. 

Portava un abito d'uno strano color di rug- 
gine, d'un color di croco, disfatto, indefinìbile; 
d'uno di que' colori cosiddetti estetici che si tro- 
vano ne' quadri del divino Autunno , in quelli 
dei Primitivi, e in quelli di Dante Gabriele Ro- 
setti. La gonna componevasi di molte pieghe, 
diritte e regolari, che si partivano di sotto al 
braccio. Un largo nastro verdemare, del pallore 
d'una turchese malata, formava la cintura e 
cadeva con un solo grande cappio giù pe '1 
fianco. Le maniche ampie, molli, in fittissime 
pieghe all'appiccatura, si restringevano intorno 



— 213 — 

i polsi. Un altro nastro verdemare, ma sottile, 
cingeva il collo, annodato a sinistra con un pic- 
colo cappio. Un nastro anche eguale legava 
r estremità della prodigiosa treccia cadente di 
sotto a un cappello di paglia coronato d*una 
corona di giacinti simile a quella della Pandora 
d'Alma Tadema. Una grossa turchese della Per- 
sia, unico giojello, in forma d'uno scarabeo, 
incisa di caratteri come un talismano, fermava 
il collare sotto il mento. 

— Aspettiamo Delfina — ella disse. — Poi an- 
dremo fino al cancello della Cibele. Volete? 

Ella aveva pe '1 convalescente riguardi assai 
gentili. Andrea era ancora molto pallido e molto 
scarno , e li occhi gli si erano straordinaria- 
mente ingranditi in quella magrezza; e l'espres- 
sion sensuale della bocca un po' tumida faceva 
uno strano e attirante contrasto con la parte 
superiore del viso. 

— Sì — rispose. — Anzi vi son grato. 
Poi, dopo un poco di esitazione: 

— Mi permettete qualche silenzio, stamani ? 

— Perchè mi chiedete questo ? 

— Mi pare di iion aver la voce e di non sa- 
per dire nulla. Ma i silenzii, certe volte, possono 
essere gravi e infastidire e anche turbare se 
si prolungano. Per ciò vi chiedo se mi per- 
mettete di tacere durante il cammino , e d' a- 
scoltarvi. 

— Allora, taceremo insieme — disse ella, con 
un sorriso tenue. 

E guardò in alto, verso la villa, con una im- 
pazienza visibile. 

— Quanto tarda Delfina! 



— 214 

— Francesca s' era già levata , quando siete 
discesa? — domandò Andrea. 

— Oh, no! È d*una pigrizia incredibile.... Ecco 
Delfina. La vedete ? 

La bimba discendeva rapidamente, seguita 
dalla sua governante. Invisibile giù per le scale, 
riappariva su i terrazzi ch'ella attraversava 
correndo. I capelli disciolti le ondeggiavano per 
le spalle, nel vento della corsa, sotto una larga 
paglia coronata di papaveri. Quando fu all'ul- 
timo gradino, aperse le braccia verso la madre 
e la baciò tante volte su le guance. Poi disse : 

— Buon giorno, Andrea. 

E gli porse la fronte, con un atto infantile 
d'adorabile grazia. 

Era una creatura fragile e vibrante come uno 
strumento formato di materie sensibili. Le sue 
membra eran cosi delicate che parevan quasi 
non poter nascondere e né pur velare lo splen- 
dor dello spirito entro vivente, come una fiamma 
in una lampada preziosa, d' una vita intensa e 
dolce. 

— Amore! — susurrò la madre, guardandola 
con uno sguardo indescrivibile, nel quale esa- 
lavasi tutta la tenerezza dell'anima occupata da 
queir unico affetto. 

E Andrea ebbe dalla parola, dallo sguardo, 
dall' espressione , dalla carezza una specie di 
gelosìa, una specie di scoramento, come s'egli 
sentisse 1' anima di lei allontanarsi , sfuggirgli 
per sempre, divenire inaccessibile. 

La governante chiese licenza di risalire; ed 
essi presero il viale delli aranci. Delfina correva 
hnianzi , spingendo un suo cerchio ; e le sue 



— 215 — 

gambe diritte, strette nella calza nera, un po' 
lunghe dell'affilata lunghezza d'un disegno efe- 
bico, si movevano con ritmica agilità. 

— Mi sembrate un poltriste ora, — disse la 
senese al giovine — mentre dianzi, nello scen- 
dere, eravate lieto. Vi tormenta qualche pen- 
siero? non vi sentite bene? 

Ella chiedeva queste cose con una maniera 
quasi fraterna, grave e soave, persuadente alla 
confidenza. Una voglia timida, quasi una vaga 
tentazione, prese il convalescente, di mettere il 
suo braccio sotto il braccio della donna e di la- 
sciarsi condurre da lei in silenzio , per quel- 
la ombra, per quel profumo, su quel suolo con- 
sparso di zàgare, in quel sentiere che misura- 
vano i vecchi Termini vestiti di musco. Gli pa- 
reva quasi d'esser tornato ai primi giorni dopo 
la malattia, a quei giorni indimenticabili di lan- 
guore, di felicità, d'inconscienza; e d'aver biso- 
gno d' un appoggio amico, d' una guida affet- 
tuosa, d'un braccio familiare. Quel desiderio gli 
crebbe così che le parole gli salivano alle lab- 
bra spontaneamente per esprimerlo. Ma in vece 
rispose : 

— No , Donna Maria ; mi sento bene. Grazie. 
È il settembre che mi stordisce un poco... 

Ella lo guardò come se dubitasse della verità 
di quella risposta. Quindi, per evitare il silenzio 
dopo la frase evasiva, domandò: 

— Preferite, fra i mesi neutri, l'aprile o il set- 
tembre ? 

— Il settembre. È più feminino, più discreto, 
più misterióso. Pare una primavera veduta in 
un sogno. Tutte le piante, perdendo lentamente 



— 216 — 

Ica forza, perdono anche qualche parto della loro 
realità. Guardate il mare , là giù. Non dà ima- 
gine d'un'atmosfera più tosto che d'una massa 
d' acqua ? Mai, come nel settembre, le alleanze 
del cielo e del mare sono mistiche e profonde. E 
la terra? Non so perchè, guardando un paese, 
di questo tempo, penso sempre a una bella 
donna che abbia partorito e che si riposi in un 
letto bianco, sorridendo d'un sorriso attonito, 
pallido, inestinguibile. È un'impressione giusta? 
C'è qualche cosa dello stupore e della beatitu- 
dine puerperale in una campagna di settembre. 
• Erano quasi alla fine del sentiere. Certe erme 
aderivano a certi fusti così da formar con essi 
quasi un sol tronco, arboreo e lapideo; e i frutti 
numerosi , taluni già tutti d' oro, altri maculati 
d'oro e di verde, altri tutti verdi, pendevano in 
su le teste de' Termini che parean custodire al- 
beri intatti e intangibili, esserne i genii tutelari. 
— Perchè Andrea fu assalito da una inquietu- 
dine e da un'ansietà improvvise avvicinandosi 
al luogo dove, due settimane innanzi, aveva 
scritto i sonetti di liberazione? Perchè lottò fra 
il timore e la speranza ch'ella li scoprisse e li 
leggesse? Perchè alcuni di quei versi gli tor- 
narono alla memoria distaccati dagli altri, come 
rappresentando il suo sentimento presente , la 
sua aspirazione presente, il nuovo sogno ch'egli 
chiudeva nel cuore ? 

" voi che fate tutti i venti aulire, 
che avete in signoria tutte le porte, 
io metto a' vostri piedi la mia sorte: 
l^Iadouna, me'l vogliate consentire! ,. 



— 217 — 

Era vero! Era vero! Egli l'amava; egli le 
metteva a' piedi tutta V anima sua ; egli aveva 
un solo desiderio , umile e immenso : — esser 
terra sotto le vestigia di lei. — 

— Com' è bello, qui ! — esclamò Donna Maria, 
entrando nel dominio dell' Erma quadrifronte, 
nel paradiso delli acanti. — - Che odore strano! 

Si spandeva all' aria infatti un odore di mu- 
schio, come per la presenza invisibile d' un in- 
setto d'un rettile muschiato. L'ombra era mi- 
steriosa, e le linee di luce traversanti il fogliame 
già tocco dal mal d'autunno erano come raggi 
lunari traversanti 1 vetri istoriati d'una catte- 
drale. Un sentimento misto, pagano e cristiano, 
emanava dal luogo, come da una pittura mito- 
logica d'un quattrocentista pio. 

— Guardate, guardate Delfina! — ella sog- 
giunse, con nella voce la commozione dì chi 
vede una cosa di bellezza. 

Delfina aveva intrecciata ingegnosamente con 
ramoscelli d'arancio fioriti una ghirlanda; e, per 
una improvvisa fantasia infantile, ora voleva 
inghirlandarne la divinità di pietra. Ma, poiché 
non giungeva al sommo, si sforzava di riuscir 
nell'impresa alzandosi su le punte de' piedi, sol- 
levando il braccio , allungandosi come più po- 
teva; e la sua forma gracile, elegante e viva 
faceva contrasto con la forma rigida, quadrata 
e solenne del simulacro, come uno stelo di gi- 
glio a pie d'una quercia. Ogni sforzo era vano. 

Allora , sorridendo , le venne in soccorso la 
madre. Le prese dalle mani la ghirlanda e la 
posò su le quattro fronti pensose. Involontaria- 
mente, il suo sguardo cadde su le inscrizioni. 



— 218 — • 

— Chi ha scritto qui ? Voi ? — domandò ad 
Andrea, sorpresa e lieta. — Sì; è la vostra 
scrittura. 

E, sùbito, si mise in ginocchio su l'erba a leg- 
gere; curiosa, quasi avida. Per imitazione, Del- 
fina si chinò dietro la madre, cingendole il collo 
con le braccia e avanzando il viso contro una 
guancia di lei e cosi quasi coprendola. La ma- 
dre mormorava le rime. E quelle due figure 
muliebri, chine a pie dell'alta pietra ghirlandata, 
nella dubbia luce, tra li acanti simbolici , face- 
vano un componimento di linee e di colori tanto 
armonioso che il poeta per qualche istante restò 
sotto il dominio unico del godimento estetico e 
della pura ammirazione. 

Ma ancora Y oscura gelosia lo punse. Quella 
creatura sottile, così avviticchiata alla madre, 
così intimamente confusa con l'anima di lei, gli 
parve una nemica; gli parve un insormontabile 
ostacolo che s'inalzasse contro il suo amore, 
contro il suo desiderio, contro la sua speranza. 
Egli non era geloso del marito ed era geloso 
della figlia. Egli voleva possedere non il corpo 
ma l'anima, di quella donna; e possedere l'anima 
intera, con tutte le tenerezze, con tutte le gioje, 
con tutti i timori, con tutte le angosce, con tutti 
i sogni, con tutta quanta in somma la vita del- 
l'anima; e poter dire: — Io sono la vita della 
sua vita. 

La figlia, in vece, aveva quel possesso, in- 
contrastato, assoluto, continuo. Pareva che man- 
casse alla madre un elemento essenziale della 
sua esistenza , quando per poco l' adorata era 
lontana. Una transfigurazione subitanea avve- 



— 219 — 

niva nella sua faccia, visibilissima, quando dopo 
un'assenza breve ella riudiva la voce infantile. 
Talvolta, involontariamente, per una segreta ri- 
spondenza , quasi direi per legge d' un comun 
ritmo vitale, ella ripeteva il gesto della figlia, 
un sorriso, un'attitudine, un'aria del capo. Ella 
aveva talvolta, su la quiete o sul sonno filiale, 
momenti di contemplazione cosi intensa che pa- 
reva aver perduta la conscienza d' ogni altra 
cosa per divenir simile all'essere ch'ella con- 
templava. Quando ella rivolgeva la parola al- 
l'adorata, la parola era una carezza e la bocca 
perdeva ogni traccia di dolore. Quando ella ri- 
ceveva i baci, un tremito le agitava le labbra 
e li occhi le si empivano d'un gaudio indescri- 
vibile tra i cigli palpitanti, come li occhi d'una 
beata in assunzione. Quando ella conversava 
con altri o ascoltava, pareva di tratto in tratto 
aver come una sospension del pensiero improv- 
visa, come una momentanea assenza dello spi- 
rito; ed era per la figlia, per lei, sempre per lei. 

— Chi mai poteva rompere quella catena? Chi 
poteva conquistare una parte di quel cuore, an- 
che minima? — Andrea soffriva come d'una 
perdita irrimediabile, come d'una rinunzia ne- 
cessaria, come d'una speranza estinta. — An- 
che ora, anche ora, la figlia non toglieva a lui 
qualche cosa? 

Elia in fatti, per gioco, voleva costringer la 
madre a restare in ginocchio. Le si abbando- 
nava sopra e la premeva con le braccia intorno 
al collo, gridando fra le risa: 

— No, no, no; tu non ti alzerai. 

E, come la madre apriva la bocca per par- 



— 220 — 

lare, ella le metteva su la bocca le sue piccole 
mani per impedir che parlasse; e la faceva ri- 
dere; e poi la bendava con la treccia; e non 
voleva finire, accesa e inebriata dal gioco. 

Guardandola , Andrea aveva V impressione 
come s'ella con quelli atti scuotesse dalla ma- 
dre e devastasse e disperdesse tutto ciò che 
nello spirito di lei la lettura de* versi . aveva 
forse fatto fiorire. 

Quando finalmente Donna Maria riuscì a li- 
berarsi dalla dolce tìrannella, gli disse, leggen- 
dogli sul volto la contrarietà:. 

— Perdonatemi , Andrea. Delfina certe volte 
ha di queste follie. 

Quindi, con una mano leggera, ricompose le 
pieghe della gonna. Era soffusa d'una tenue 
fiamma sotto h occhi, e anche aveva il respiro 
un poco alenante. Soggiunse , sorridente d' un 
sorriso che in quella insolita animazione del 
sangue fu d'una luminosità singolare: 

— E perdonatela, in compenso del suo augu- 
rio inconsapevole; perchè ella dianzi ha avuta 
l'inspirazione di mettere una corona nuziale su 
la vostra poesia che canta una comunione nu- 
ziale. Il simbolo è un suggello dell'alleanza. 

— A Delfina e a voi, grazie — rispose Andrea 
che si sentiva chiamar da lei per la prima volta 
non col titolo gentilìzio ma col semplice nome. 

Quella familiarità inaspettata e le parole buone 
gli rimisero nell' animo la confidenza^ Delfina 
s'era allontanata per uno de' viali, correndo. 

— Questi versi dunque sono un documento 
spirituale — seguitò Donna Maria. — Me li da- 
rete, perchè io li consei*vi. 



— 221 — 

Egli voleva dirle: — Vengono a voi, oggi, na- 
turalmente. Sono vostri, parlano di voi, pre- 
gano voi. — Ma disse, in vece, semplicemente: 

— Ve li darò. 

Ripresero il cammino, verso la Cibele. Prima 
d'uscir dal dominio, Donna Maria si rivolse al- 
l'Erma, come se avesse udito un richiamo; e 
la sua fronte pareva piena di pensiero. Andrea 
le chiese, con umiltà: 

— Che pensate? 
Ella rispose: 

— Penso a voi. 

— Che pensate di me? 

— Penso alla vostra vita d'un tempo, ch'io 
non conosco. Avete molto sofferto? 

— Ho molto peccato. 

— E amato anche, molto? 

— Non so. Forse l'amore non è quale io l'ho 
provato. Forse io debbo ancora amare. Non so, 
veramente. 

Ella tacque. Camminarono, l'uno accanto al- 
l'altra, per un tratto. A destra del sentiere si 
levavano alti lauri, interrotti da un cipresso a 
intervalli eguali; e il mare or sì or no rideva 
in fondo, tra fogliami leggerissimi, azzurro come 
il fiore del lino. A sinistra, contro il rialto era 
una specie di parete, simile alla spalliera d'un 
lunghissimo sedile di pietra, portante in cima 
ripetuto per tutta la lunghezza lo scudo degli 
Ateleta e un alerione, alterni. A ciascuno scudo 
e a ciascuno alerione corrispondeva, più sotto, 
una maschera scolpita dalla cui bocca usciva 
una cannella d'acqua versandosi nelle vasche 
sottostanti che avean forma di sarcofaghi posti 



— 222 — 

Tuno accanto all'altro, ornate di storie mitolo- 
giche in basso rilievo. Le boccile dovevan esser 
cento, perchè il viale si chiamava delle Cento 
Fontane; ma alcune non versavano più, chiuse 
dal tempo, altre versavano a pena. Molti scudi 
erano infranti e il musco aveva coperta l'im- 
presa; molti alerioni eran decapitati ; le figure 
dei bassi rilievi apparivano tra il musco come 
pezzi d'argenterìa mal nascosti sotto un vecchio 
velluto lacerato. Nelle vasche, su l'acqua più 
limpida e più verde d'uno smeraldo, tremolava 
il capelvenere o galleggiava qualche foglia di 
rosa caduta dai cespugli di sopra; e le can- 
nelle superstiti facevano un canto roco e soave 
che correva su 'l romore del mare , come una 
melodia su l'accompagnamento. 

— Udite ? — chiese Donna Maria, sofferman- 
dosi, tendendo l'orecchio, presa all'incanto di 
quei suoni. — La musica dell' acqua amara e 
dell'acqua dolce! 

Ella stava in mezzo del sentiere, un po' china 
verso le fontane, attratta più dalla melodia, con 
l'indice sollevato verso la bocca nell'atto invo- 
lontario di chi teme sia turbata là sua ascolta- 
zione. Andrea, ch'era più presso alle vasche, la 
vedeva sorgere sopra un fondo di verdura gra- 
cile e gentile quale un pittore umbro avrebbe 
potuto metter dietro un'Annunciazione o una 
Natività. 

— Maria — mormorò il convalescente, che 
aveva il cuore gonfio di tenerezza. — Maria, 
Maria... 

Egli provava un'indicibile voluttà a mescere 
il nome di lei in quella musica delle acque. Ella 



— 223 — 

premè l'indice su la bocca, per indicargli di ta- 
cere; senza guardarlo. 

— Perdonatemi — egli disse, sopraffatto dalla 
commozione — ma io non reggo più. È Tanima 
miia che vi chiamai 

Una strana eccitazion sentimentale V avea 
vinto; tutte le sommità liriche del suo spirito 
s'erano accese e fiammeggiavano; Fora, la luce, 
il luogo, tutte le cose in torno gli suggerivano 
l'amore; dalli estremi limiti del mare in sino 
all'umile capelvenere delle fonti, per lui si di- 
segnava un sol circolo magico ; ed egli sentiva 
che il centro era quella donna. 

— Voi non saprete mai — soggiunse, con la 
voce sommessa, quasi temendo di offenderla 
— non saprete mai fino a qual punto la mia 
anima è vostra. 

Ella divenne anche più pallida, come se tutto 
tutto il sangue delle vene le si fosse raccolto 
sul cuore. Non disse nulla; evitò di guardarlo. 
Chiamò, con la voce un poco alterata: 

— Delfina! 

La figlia non rispose, perchè s' era forse in- 
ternata fra li alberi all'estremità del sentiere. 

— Delfina! — ripetè, più forte, con una spe- 
cie di sbigottimento. 

Nell'aspettazione, dopo il grido, si udivano le 
due acque cantare in un silenzio che pareva 
ingrandirsi. 

— Delfina! 

Un fruscio venne di tra i fogliami come pel 
passaggio d'un capriuolo; e là bimba sbucò dal 
folto dei lauri agilmente, portando tra le mani 
la paglia colma di piccoli frutti rossi che aveva 



— 224 — 

colti da un àlbatro. La fatica e la corsa V in- 
vermigliavano; molti pruni le restavano tra la 
lana della tunica; e qualche foglia le s'impigliava 
nella ribellion de* capelli. 
/ — Oh mamma, vieni, vieni meco! 

Ella voleva trascinare la madre a cogliere li 
altri frutti. 

— Là giù, ce n'è un bosco; tanti tanti tanti. 
Vieni meco, mamma; vieni! 

— No, amore; ti prego. È tardi. 

— Vieni! 

— Ma è tardi. 

— Vieni! Vieni! 

Donna Maria dalFinsistenza fu costretta a ce- 
dere e a farsi condurre per mano. 

— C'è una via per andare al bosco degli 
àlbatri , senza passare nel folto — disse An- 
drea. 

— Hai inteso. Delfina? C'è una via migliore. 
V — No, mamma. Vieni meco! 

Delfina la trasse tra li allòri selvatici, dalla 
parte del mare. Andrea seguiva; ed era felice 
di poter guardare liberamente d'innanzi a sé la 
figura dell'amata, dì poterla bevere con li oc- 
chi, dì poterne cogliere tutti i moti diversi e i 
ritmi sempre interrotti del passo sul pendio ine- 
guale, tra li ostacoli dei tronchi, tra li intralci 
dei virgulti, tra le resistenze dei rami. Ma men- 
tre i suoi occhi si pascevano di quelle cose, 
l'anima riteneva ^opra tutte le altre un'attitu- 
dine, un'espressione. — Oh il pallore, il pallore 
di dianzi, quando egli aveva profferite le parole 
sommesse! E il suono indefinibile di quella voce 
che chiamava Delfina! 



— 225 — ^ 

— È ancora lontano ? — chiese Donna Maria. 

— No, no, mamma. Ecco, già ci siamo. 
Una specie di timidezza invase il giovine, al 

termine del cammino. Non anche, dopo le pa- 
role, i suoi occhi s'erano incontrati con li oc- 
chi di lei. Che pensava ella? Che sentiva? Con 
quale sguardo l'avrebbe ella guardato? 

— Eccoci I — gridò la bimba. 

Il laureto in fatti andavasi diradando, il mare 
appariva più libero ; d'un tratto il bosco dei cor- 
bezzoli andracni rosseggiò come un bosco di 
coralli terrestri portanti alla sommità de' rami 
ampie ciocche di fiori. 

— Che meraviglia! — mormorò Donna Maria. 
Il bel bosco fioriva e fruttificava entro una 

insenatura ricurva come un ippodromo, pro- 
fonda e solatia, dove tutta la mitezza di quel 
lido raccoglievasi in delizia. I tronchi delli ar- 
busti, vermigli i più, taluni gialli, sorgevano 
svèlti portando grandi foglie lucide, verdi di so- 
pra e glauche di sotto, immobili nell'aria quieta. 
I grappoli floridi , simili a mazzi di mughetti , 
bianchi e rosei ed innumerevoli, pendevano 
dalle cime dei rami giovini; le bacche rosse e 
aranciate pendevano dalle cime de' rami vecchi. 
Ogni pianta n'era carica ; e la magnifica pompa 
dei fiori, dei frutti, delle foglie e delli steli dis- 
piegavasi, contro il vivo azzurro marino, con 
la intensità e la incredibilità d'un sogno, come 
ravanzo d'un orto favoloso. 

— Che meraviglia! 

Donna Maria entrava lentamente, non più te- 
nuta per mano da Delfina; che correva folle 
Il Piacere. 15 



— 226 — 

di gioja, avendo un solo desiderio: quel di spo- 
gliare tutto il bosco. 

— Mi perdonate? — osò dire Andrea. — Io 
non voleva offendervi. Anzi, vedendovi così in 
alto, così lontana da me, così pura, io pensava 
che non vi avrei mai mai parlato del mio se- 
greto, che non vi avrei mai chiesto un consenso 
né mai vi avrei attraversato il cammino. Da 
che vi ho conosciuta, ho molto sognato per voi, 
di giorno e di notte, ma senza una speranza e 
senza un fine. Io so che voi non mi amate e 
che non potete amarmi. E pure, credetemi, io 
rinunzieroi a tutte le promesse della vita per 
vivere in una piccola parte del vostro cuore.... 

Ella seguitava a camminare, lentamente, sotto 
i brillanti alberi che le stendevano in sul capo 
le ciocche pendule, i bianchi e. rosei grappoli 
delicati. 

— Credetemi, Maria, credetemi. Se ora mi di- 
cessero di abbandonare ogni vanità ed ogni or- 
goglio, ogni desiderio ed ogni ambizione, qua- 
lunque più caro ricordo del passato, qualunque 
più dolce lusinga del futuro, e di vivere unica- 
mente in voi e per voi, senza domani, senza 
jeri, senza alcun altro legame, senza alcuna al- 
tra preferenza, fuor del mondo, interamente per- 
duto nel vostro essere, per sempre, fino alla 
morte, io non esiterei, io non esiterei. Crede- 
temi. Voi mi avete guardato, parlato, e sorriso 
e risposto; voi vi siete seduta accanto a me, e 
avete taciuto e pensato; e avete vissuto, ac- 
canto a me, della vostra esistenza interiore, di 
quella invisibile e inaccessibile esistenza ch'io 
non conosco, ch'io non conoscerò mai; e la vo- 



— 227 — 

stra anima ha posseduta la mia fin nel profondo, 
senza mutarsi, senza pur saperlo, come il mare 
beve un fiume... Che vi fa il mio amore? Che 
vi fa l'amore? È una parola troppe volte profa- 
nata, un sentimento falsato troppe volte. Io non 
vi offro Tamore. Ma non accetterete voi l'umile 
tributo, di religione, che lo spirito volge a un 
essere più nobile e più alto? 

Ella seguitava a camminare, lentamente, col 
capo chino, pallidissima, esangue, verso un se- 
dile che stava su *1 limite del bosco riguardante 
la sponda. Come vi giunse, vi si piegò a sedere, 
con una specie di abbandono, in silenzio; e An- 
drea le si mise da presso, ancora parlandole. 

Il sedile era un gran semicerchio di marmo 
bianco, limitato per tutta la lunghezza da una 
spalliera, liscio, lucido, senz'altri ornamenti che 
una zampa di leone scolpita a ciascuna estre- 
mità in guisa di sostegno; e ricordava quelli 
antichi, su' quali nelle isole dell'Arcipelago e 
nella Magna Grecia e in Pompei le donne ozia- 
vano e ascoltavano lèggere i poeti, all'ombra 
delli oleandri, in conspetto del mare. Qui li àl- 
batri facevano ombra di fiori e di frutti, più 
che di foglie ; e li steli di corallo pe '1 contrasto 
del marmo parean più vivi. 

— Io amo tutte quelle cose che voi amate; 
voi possedete tutte quelle cose che io cerco. La 
pietà che mi venisse da voi mi sarebbe più cara 
della passione di qualunque altra. La vostra 
mano sul mio cuore farebbe, sento, germinare 
una seconda giovinezza, assai più pura della 
prima, assai più forte. Quell'eterno ondeggia- 
mento, ch'è la mia vita interiore, si riposerebbe 



— 228 — 

in voi; troverebbe in voi la calma e la sicurtà. 
Il mio spirito irrequieto e scontento, travagliato 
da attrazioni e da repulsioni e da gusti e da di- 
sgusti in continua guerra, eternamente, irrime- 
diabilmente solo, troverebbe nel vostro un rifu- 
gio contro il dubbio che contamina ogni idea- 
lità e abbatte ogni volere e scema ogni forza. 
Altri sono più infelici; ma io non so se ci sia 
stato al mondo uomo men felice di me. 

Egli faceva sue le parole d'Obermann. In quella 
specie d'ebrezza sentimentale, tutte le malinco- 
nie gli risalivano alle labbra; e il suono stesso 
della sua voce, umile e un po' tremante, gli au- 
mentava la commozione. 

— Io non oso dire i miei pensieri. Stando vi- 
cino a voi, in questi pochi giorni, da che vi co- 
— nosco, lio^vuto momenti d'oblio così pieno che 
quasi m'è parso di tornare ai primissimi tempi 
della convalescenza, quando viveva in me il 
sentimento profondo d'un'altra vita. Il passato, 
il futuro non erano più; anzi era come se l'uno 
non fosse mai stato e l'altro non dovesse mai 
essere. Il mondo era come un'illusione informe 
e oscura. Qualche cosa come un sogno vago 
ma grande mi si levava su l'anima: un velo 
ondeggiante, ora denso ora diafano, a traverso 
il quale or sì or no splendeva il tesoro intan- 
gibile della felicità. Che sapevate voi di me, in 
quei momenti? Forse, eravate lontana, con l'a- 
nima; assai assai lontanai Ma pure, la sola pre- 
senza vostra visibile bastava a darmi l'ebrezza; 
e io la sentiva fluire nelle mie vene, come un 
sangue, e invadere il mio spirito, come un sen- 
timento sovrumano. 



— 229 — 

Ella taceva, col capo eretto, immobile, con il 
busto sollevato, con le mani posate su le gi- 
nocchia, neir attitudine di chi sia tenuto desto 
da un. fiero sforzo di coraggio contro un lan- 
gnor che l'invada. Ma la sua bocca, Tespres- 
sion della sua bocca, in vano serrata con vio- 
lenza, tradiva una sorta di dolorosa voluttà. 

— Io non oso dire i miei pensieri. Maria, Ma- 
ria, mi perdonate voi ? Mi perdonate ? 

Due piccole mani, di dietro al sedile, si ste- 
sero a bendarla e una voce palpitante di gioja 
gridò : 

— Indovina! Indovina! 

Ella sorrise, abbandonata alla spalliera per- 
chè Delfina l'attirava tenendole le sue dita su 
le palpebre, e Andrea vide, lucidamente, con 
una strana chiarezza, quel sorriso lieve disper- 
dere su quella bocca tutto l'oscuro contrasto 
dell'espression primitiva, cancellar qualunque 
traccia che a lui potesse parere l'indizio d'un 
consentimento o d'una confessione, fugar qua- 
lunque ombra dubbia che potesse nell'anima di 
lui convertirsi in barlume di speranza. E restò 
come un uomo che sia ingannato da una coppa 
creduta quasi colma, la quale non offra che 
aria alla sua sete. 

— Indovina! 

La figlia copriva di baci forti e rapidi il capo 
della madre, con una specie di frenesia, forse 
un poco facendole male. 

— So chi sei, so chi sei — diceva la bendata. 
— Lasciami! 

— Che mi dai, se ti lascio? 

— Quello che vuoi. 



- 230 — 

— Voglio un giumento, per portarmi le alba- 
trelle a casa. Vieni a vedere quante! 

Girò il sedile e prese per mano la madre. 
Ella si levò con qualche fatica; e, poi che fu 
in piedi, battè più volte le palpebre come per 
togliersi dalla vista un barbaglio. Anche An- 
drea si levò. Seguirono ambedue Delfina. 

La terribile creatura aveva spogliato di frutti 
quasi la metà del bosco. Le piante basse non 
mostravano più su i rami una bacca. Ella s'era 
aiutata con una canna trovata chi sa dove e 
aveva fatta una raccolta prodigiosa, riunendo 
in fine tutte le albatrelle ad un sol mucchio che 
pareva un mucchio di carboni ardenti, per la 
intensità della tinta, sul suolo bruno. Ma le 
ciocche de* fiori non l'avevano attratta: pende- 
vano, bianche, rosee, giallette, quasi diafane, più 
delicate de' grappoli d'un'acacia, più gentili de' 
mughetti, immerse nella vaga luce come nella 
trasparenza d'un latte ambrato. 

— Oh, Delfina, Delfina ! — esclamò Donna Ma- 
ria, guardando quella devastazione. — Che hai 
fatto ? 

La bimba rideva, felice, d'innanzi alla pira- 
mide vermiglia. 

— Bisognerà bene che tu lasci qui ogni cosa. 

— No, no... 

Elia non voleva, dapprima. Poi ripensò; e disse 
quasi fra sé, con li occhi luccicanti: 

— Verrà la cerva a mangiare. 

Aveva, forse, veduto apparire la bella bestia, 
libera pel parco, in quelle vicinanze; e il pen- 
siero di aver radunato per lei il cibo l'appagò 
e le accese l'imaginazione già nudrita delle fa- 



— 231 — 

vole ove le cerve sono fate benigne e possenti 
che giacciono su cuscini di raso e bevono in 
coppe di zaflflro. Ella tacque, assorta, vedendo 
già forse la bella bestia bionda satollarsi d'al- 
batrelle, sotto le piante fiorite. 

— Andiamo — disse Donna Maria — eh' è 
tardi. 

Teneva Delfina per la mano, e camminava 
sotto le piante fiorite. Sul Umite del bosco si 
soffermò, a guardare il mare. 

Le acque, accogliendo i riflessi delle nuvole, 
davano apparenza d'una immensa stoffa di seta, 
morbida, fluida, cangiante, mossa in larghe pie- 
ghe ; e le nuvole, bianche e d'oro, Tuna divisa 
dall'altra ma emergenti da una comune zona, 
somigliavano statue criselefantine avvolte in 
veli tenui, alzate sopra un ponte senz'archi. 

In silenzio, Andrea spiccò da un àlbatro una 
ciocca che piegava il ramo col suo peso, tanto 
era folta; e la offerse a Donna Maria. Ella, nel 
prenderla, lo guardò; ma non aprì bocca. 

Si rimisero pe' sentieri. Delfina ora parlava, 
parlava, abondantemente, ripetendo senza fine 
le stesse cose, infatuata della cerva, mescolando 
le più strane fantasie, inventando lunghe storie 
monotone, confondendo una favola con l'altra, 
componendo intrichi ne' quah si smarriva ella 
stessa. Parlava, parlava, con una specie d'incon- 
scìenza, quasi che l'aria del mattino l'avesse ine- 
briata; e intorno a quella sua cerva chiamava 
figli e figlie di re, cenerentole, reginelle, maghi, 
mostri, tutti i personaggi de' regni imaginarii, in 
folla, in tumulto, come nella metamorfosi con- 
tinua d'un sogno. Parlava allo stesso modo che 



— 232 — 

un uccello gorgheggia, con modulazioni canore, 
talvolta con successioni di suoni che non eran 
parole, ne' quali esalavasi Tonda musicale già 
iniziata, come il fremito d'una corda nella pausa, 
quando in quello spirito infantile il legame tra 
il segno verbale e Tidea rimaneva interrotto. 

Li altri due non parlavano, né ascoltavano. 
Ma pareva loro che quella cantilena coprisse i 
lor pensieri, il murmurc de' lor pensieri, poiché 
pensando essi avevan Fimpressione come se 
qualche cosa di sonoro sfuggisse dall'intimo del 
lor cervello, qualche cosa che nel silenzio sa- 
rebbesi potuto fisicamente percepire; e, se Del- 
fina per poco taceva, provavano uno strano 
senso d'inquietudine e di sospensione, come se 
il silenzio dovesse rivelare e quasi direi denu- 
dare l'anima loro. 

Il viale delle Cento Fontane apparve in una 
prospettiva fuggente, ove li spilli e li specchi 
dell'acqua mettevano un fino luccichio vitreo, 
una mobile transparenza jalina. Un pavone, che 
stava posato su uno delli scudi , s' involò fa- 
cendo cadere nella vasca sottostante qualche 
rosa sfogliata. Andrea riconobbe, alcuni passi 
più in là, la vasca innanzi a cui Donna Maria 
gli aveva detto: — Udite? — 

Nel dominio dell'Erma l'odor del muschio non 
si sentiva più. L'Erma, cogitabonda sotto la 
ghirlanda, era tutta constellata dai raggi che 
penetravano tra li intervalli de' fogliami. I merli 
cantavano, rispondendosi. 

Delfina, presa da un nuovo capriccio, disse: 

— Mamma, rendimi la ghirlanda. 

— No, lasciamola lì. Perchè la rivuoi? 



— 233 — 

— Rendimela, che la porto a Muriella. 

— Muriella la guasterà. 

— Rendimela; ti prego! 

La madre guardò Andrea. Egli si avvicinò 
alla pietra, le tolse la ghirlanda e rese questa 
a Delfina. Ne' loro spiriti esaltati la supersti- 
zione, ch'è un delli oscuri turbamenti portati 
dall'amore anche nelle creature intellettuali, 
diede airinsigniflcante episodio la misteriosità 
di una allegoria. Parve loro che in quel sem- 
plice fatto si occultasse un simbolo. Non sapevan 
bene quale; ma ci pensavano. Un verso tor- 
mentava Andrea. 

" Non vedrò dunque il gesto che consente ?„ 

Un'ansia enorme gli premeva il cuore, come 
più s'avvicinava il termine del sentiere; ed egli 
avrebbe dato metà del suo sangue per una pa- 
rola della donna. Ma fu ella cento volte sul 
punto di parlare, e non parlò. 

— Guarda, mamma, là giù, Ferdinando, Mu- 
riella, Riccardo... — disse Delfina, scorgendo in 
fondo al sentiere i figli di Donna Francesca; e si 
spiccò a corsa, agitando la corona. — Muriella! 
Muriella I Muriella! 



234 



IX, 



Maria Ferres era sempre rimasta fedele al- 
l' abitudine giovenile di notar cotidianamente 
in un suo Giornale intimo i pensieri, le gioje, 
le tristezze, i sogni, le agitazioni, le aspirazioni, 
i rimpianti, le speranze, tutte le vicende della 
sua vita interiore, tutti li episodii della sua vita 
esterna, componendo quasi un Itinerario del- 
TAnima, ch'ella di tratto in tratto amava rileg- 
gere per averne una regola nel viaggio futuro 
e per ritrovar la traccia delle cose da gran 
tempo morte. 

Constretta dalle circostanze a ripiegarsi di 
continuo su sé medesima, sempre chiusa nella 
sua purità come in una torre d'avorio incorrut- 
tibile e inaccessibile, ella provava un sollievo e 
un conforto in quella specie di confessione co- 
tidiana affidata alla pagina bianca d'un libro 
segretissimo. Si lamentava de' suoi travagh , 



— 235 — 

s' abbandonava alle lacrime , cercava di pene- 
trare li enigmi del suo cuore, interrogava la 
sua conscienza, riprendeva coraggio dalla pre- 
ghiera, si ritemprava nella meditazione, allon- 
tanava da sé ogni debolezza ed ogni vana ima- 
gine, metteva il suo spirito nelle mani del Si- 
gnore. E tutte le pagine splendevano d'una co- 
mune luce, ossia di Verità. 



" 15 settembre 1886 {Schifanoja). — Come 'mi 
sento stanca! Il viaggio mi ha un poco affati- 
cata e quest'aria nuova del mare e della cam- 
pagna m'ha un poco stordita. Ho bisogno di ri- 
poso; e già mi par di pregustare la bontà del 
sonno e la dolcezza del risveglio di domani. Mi X' 
sveglierò in una casa amica, nella cordiale ospi- 
talità di Francesca, in questa Schifanoja che ha 
rose cosi belle e cipressi così grandi; e mi sve- 
glierò avendo innanzi a me qualche settimana 
di pace, venti giorni d'esistenza spirituale, forse 
più. Sono molto riconoscente a Francesca, del- 
l'invito. Rivedendola, ho riveduta una sorella. 
Quante mutazioni in me , e quanto profonde , 
dai belli anni fiorentini! 

Francesca, a proposito de' miei capelli, ricor- 
dava oggi le passioni e le malinconie di quel 
tempo, e Carlotta Fiordelise, e Gabriella Vanni, 
e tutta quella storia lontana che ora non mi 
par vissuta ma letta in un vecchio libro obliato 
vista in sogno. I capelli non son caduti, ma 
son_cadut£UÌ^. me ben altre cose più vive. Tanti 
capelli nel mio capo, tante spighe di dolore nel 
mio destino. 



— 236 — 

Ma perchè mi riprende la tristezza? E perchè 
le memorie mi danno pena? E perchè di tratto 
in tratto la mia rassegnazione è scossa? È inu- 
tile lamentarsi sopra una tomba; e il passato 
è come una tomba che non rende più i suoi 
morti. Dio mio, fa tu eh' io me ne ricordi una 
volta per sempre I 

Francesca è ancora giovine, e conserva an- 
cora quella sua bella e franca giovialità che in 
collegio aveva un fascino così strano sul mio 
spirito un po' oscuro. Ella ha una grande e rara 
virtù: è gaja, ma sa intendere i dolori altrui e 
sa anche lenirli con la sua misericordia con- 
sapevole. Ella è , sopra tutto , una donna in- 
tellettuale, una donna d' alti gusti, una dama 
perfetta, un'amica che non pesa. Si compiace 
forse un po'troppo dei motti e delle frasi acute, 
ma le sue saette hanno sempre la punta d'oro 
e son lanciate con una grazia inimitabile. Certo, 
fra quante signore mondane ì m conosc iute, 
ella è la più fine; fra le amiche, è la pre- 
diletta. 

I figli non le somigliano molto, non sono belli. 
Ma la bimba, Muriella, è assai gentile; ha un 
riso chiaro e gli occhi della madre. Ha fatto 
gli onori di casa a Delfina con una compitezza 
di piccola dama. Ella, certo, erediterà la "• gran 
maniera „ materna. 

Delfina sembra felice. Ha_e§]jlorata già la 
maggior parte del giardino, è anda ta giù fino al 
mare, è discesa per tutte le" scale; è venuta a 
raccontarmi le meraviglie, ansando, divorando 
le parole, con negli occhi una specie di bar- 
baglio. Ella ripeteva spesso il nome della nuova 



— 237 — 

amica: Muriella. È un grazioso nome, e su la 
sua bocca diventa più grazioso ancora. 

Dorme, profondamente. Quando i suoi occhi 
son chiusi, i cigli le fanno sul sommo della gota 
un'ombra lunga lunga. Si meraviglfava della 
lunghezza, stasera, il cugino dì Francesca e ri- 
peteva un verso di Guglielmo Shakespeare nella 
Tempesta, molto bello, su i cigli di Miranda. 

C'è troppo odore, qui. Delfina baj^iiluto-ch'io 
le lasciassi il mazzo delle rose accanto al letto, 
prima d'addormentarsi. Ma io, ora che dorme, 
lo toglierò e lo metterò su la loggia, al sereno. 

Sono stanca, e pure ho scritto tre o quattro 
pagine. Ho sonno, e pure vorrei prolungare la 
veglia per prolungare questo languore dell'a- 
nima indefinito, ondeggiante in non so che te- 
nerezza diff'usa fuori di me, intorno a me. Da 
tanto, da tanto tempo non avevo sentito un po' 
di benevolenza circondarmi! 

Francesca è molto buona, e io le sono molto 
riconoscente. 

/* H o por tato su la loggia il vaso delle rose; 
e son TìmasTa là qualche minuto ad ascoltare 
la notte, tenuta là dal rammarico di perdere 
nella cecità del sonno ore che passano sotto un 
cielo così bello. È strano l'accordo tra la voce 
delle fontane e la voce del mare. I cipressi, 
d'innanzi a me, parevano le colonne del firma- 
mento: le stelle brillavan proprio su le cime, le 
accendevano. 

Perchè di notte i profumi hanno nella loro 
ond^ qualche cosa che parla, hanno un signi- 
ficato, hanno un linguaggio? 

No, i fiori non dormono, di notte. 



- 238 — 

16 settembre. — Pomeriggio delizioso, passato 
quasi tutto a conversare con Francesca su le 
logge, su le terrazze, per i viali, in tutti i luoghi 
aperti di questa villa che pare edificata da un 
principe poeta per dimenticare un affanno. Il 
nome del palazzo ferrarese le convien perfet- 
tamente. 

Francesca mi ha fatto leggere un sonetto 
del conte Sperelli, scritto su pergamena: una 
inezia molto fine. Questo Sperelli è uno spi- 
rito eletto ed intenso. Stamani, a tavola, ha 
detto due o tre cose bellissime. Egli è convale- 
scente d*una ferita mortale avuta in un duello, 
a Roma, nello scorso maggio. Ha negli atti, nelle 
parole, nello sguardo quella specie d'abbandono 
affettuoso e delicato eh* è proprio de* convale- 
scenti, di quelli che sono usciti dalle mani della 
morte. Dev'essere molto giovine; ma deve aver 
molto vissuto, e d'una vita inquieta. Porta i segni 
della lotta. 

*% Serata deliziosa, di conversazione intima, di 
musica intima, dopo il pranzo. Io, forse, ho par- 
lato troppo; o, per lo meno, troppo caldamente. 
Ma Francesca mi ascoltava e mi secondava; e 
il conte Sperelli, anche. Uno de' più alti piaceri, 
nella conversazione non volgare, a punto è sen- 
tire che uno stesso grado di calore anima tutte 
le intelligenze presenti. Allora soltanto, le parole 
prendono il suono della sincerità e danno a chi 
le profferisce e a chi le ode il supremo diletto. 

Il cugino di Francesca è, in musica, un co- 
noscitore raffinato. Ama molto i maestri sette- 
centisti e in ìspecie, tra i compositori per cla- 
vicembalo, Domenico Scarlatti. Ma il suo più 



— 239 — 

ardente amore è Sebastiano Bach. Lo Chopin gli 
piace poco; il Beethoven gli penetra troppo a 
dentro e lo turba troppo. Nella musica sacra non 
trova da paragonare al Bach altri che il Mozart. 
Forse — egli ha detto — in nessuna messa la 
voce del soprannaturale giunge alla religiosità 
e alla terribilità a cui è giunto il Mozart nel 
Tuba mirum del Requiem. Non è vero che sia 
un greco, un platonico, un puro ricercatore della 
grazia, della bellezza, della serenità, chi ebbe 
cosi profondo il senso del soprannaturale da 
crear musicalmente il fantasma del commenda- 
tore e chi, creando Don Giovanni e Donna Anna, 
seppe spinger tant'oltre l'analisi dell'essere in- 
terno.... 

Egli ha detto queste parole ed altre, con quel 
singolare accento che hanno nel parlar d'arte 
gli uomini i quali sono di continuo assorti nella 
ricerca delle cose elevate e difficili. 

Poi, neirascol tarmi, aveva una strana espres- 
sione, come di stupore, e qualche volta d'ansietà. 
Io mi rivolgevo quasi sempre a Francesca, con 
gli occhi; e pure, sentivo lo sguardo di lui fìsso 
su di me con una insistenza che mi dava fastidio 
ma non mi offendeva. Egli dev' essere ancora 
malato, debole, in preda alla sua sensibilità. 
M'ha chiesto in fine: — Cantate? — allo stesso 
modo che m'avrebbe chiesto: — Mi amate? 

Ho cantato un'aria del Paisiello e una del Sa- 
lieri. Ho suonato un po' di settecento. Avevo la 
voce calda e la mano felice. 

Egli non mi h a fatto alcun elogio. È rimasto 
in silenzio. Perchè? 

Delfina dormiva già, quassù. Quando son sa- 



— 240 — 

lita a vederla, Tho trovata che dormiva ma con 
le ciglia umide come s'ella avesse pianto. Povero 
amore I Dorothy m* ha detto che la mia voce 
giungeva fin qui distintamente e che Delfina s'è 
scossa dal primo sopore e s'è messa a singhioz- 
zare e voleva discendere. 

Sempre, quando io canto, ella piange. 

Ora dorme; ma di tratto in tratto il suo re- 
spiro divien più vivo, somiglia un singhiozzo 
spento, e mette nel mio stesso respiro un af- 
fanno vago, quasi un bisogno di rispondere a 
quel singhiozzo inconscio, a quella pena che non 
s'è acquietata nel sonno. Povero amore! 

Chi suona, giù, il pianoforte? Qualcuno ac- 
cenna, con la sordina, la gavotta di Luigi Ra- 
meau, una gavotta piena di affascinante malin- 
conia, quella ch'io sonavo dianzi. Chi può essere? 
Francesca è risalita con me; è tardi. 

Mi sono affacciata alla loggia. La sala del ve- 
stibolo è buia; è chiara soltanto la sala attigua 
dove il Marchese e Manuel giocano ancora. 

La gavotta cessa. Qualcuno scende per la 
scala, nel giardino. 

Mio Dio, perchè son così attenta, cosi vigilante, 
così curiosa? Perchè i rumori mi scuotono così 
a dentro, questa notte ? 

Delfina si sveglia, mi chiama. 

17 settembre, — Stamani è partito Manuel. 
Siamo stati ad accompagnarlo fino alla stazione 
di Rovigliano. Verso il dieci di ottobre egli tor- 
nerà a prendermi; e andremo a Siena, da mia 
madre. Io e Delfina rimarremo a Siena proba- 
bilmente fino' all'anno nuovo: due o tre mesi. 



— 241 — 

Rivedrò la Loggia del Papa e la Fonte Gaja e 
il mio bel Duomo bianco e nero, la casa diletta 
della Beata Vergine Assunta, dove una parte 
dell'anima mia è ancora a pregare, accanto alla 
cappella Chigi, nel luogo che sa i miei ginocchi. 

Ho sempre lucida nella memoria Timagine 
del luogo; e quando tornerò m'inginocchierò 
nel punto preciso dove io soleva, esattamente, 
meglio che se ci fossero rimasti due cavi pro- 
fondi. E là ritroverò quella parte dell'anima mia 
a pregare ancora, sotto la vòlta azzurra con- 
stellata che si specchia nel marmo come un 
cielo notturno in un'acqua tranquilla. 

Nulla, certo, è mutato. Nella cappella preziosa, 
piena d'un' ombra palpitante, d'una oscurità ani* 
mata da' riflessi gemmei delle pietre, ardevano 
le lampade ; e la luce pareva raccogliersi tutta 
nel breve cerchio d'olio in cui si nutriva la 
fiammella, come in un topazio limpido. A poco 
a poco, sotto il mio sguardo intento, il marmo 
effigiato prendeva un pallor men freddo, quasi 
direi un tepore d'avorio; a poco a poco entrava 
nel marmo la pallida vita delle creature celesti, 
e nelle forme marmoree si diffondeva la vaga 
trasparenza d'una carne angelicale. 

Quanto era ardente e spontanea la mia pre- 
ghiera! S'io leggeva la Filotea di San Francesco, 
mi sembrava che le parole scendessero sul mio 
cuore come lacrime di miele, come stille di latte. 
S'io mi metteva in meditazione, mi sembrava di 
camminare per le vie segrete dell'anima come 
per un giardino di delizia ove gli usignuoli can- 
tassero su gli alberi fiorenti e le colombe tu- 
bassero in riva ai ruscelli della Grazia divina. 

Il Piacere. 16 



— 242 — 

La divozione m'infondeva una calma piena dì 
freschezza e di profumi, mi faceva dischiudere 
nel cuore le sante primavere dei Fioretti, m'in- 
ghirlandava di rose mistiche e di gigli sopran- 
naturali. E nella mia vecchia Siena, nella vec- 
chia città della Vergine, io udiva sopra tutte le 
voci i richiami delle campane. 

18 settembre. — Ora di tortura indefinibile. Mi 
par d'esser condannata a riappezzare, a riap- 
piccare, a riunire, a ricomporre i frammenti 
d'un sogno, del quale una parte sia per avve- 
rarsi confusamente fuori di me e l'altra si agiti 
confusamente in fondo al mio cuore. E m'affatico 
m' affatico, senza riescir mai a ricomporlo per 
intiero. 

19 settembre. — Altra tortura. Qualcuno mi 
cantò, gran tempo in dietro; e non terminò la 
sua canzone. Qualcuno ora mi canta, ripren- 
dendo la canzone dal punto in cui fu interrotta; 
ma da gran tempo io ho dimenticato il principio. 
E l'anima inquieta, mentre cerca di ricordar- 
sene per collegarlo al proseguimento, si smar- 
risce; e non ritrova gli antichi accenti né gode 
i nuovi. 

20 settembre. — Oggi, dopo la colazione, An- 
drea Sperelli ha fatto a me e a Francesca l'in- 
vito di andare a veder nelle sue stanze i disegni 
che gli giunsero jeri da Roma. 

Si può dire che tutta un'arte sia passata oggi 
sotto ì nostri occhi, tutta un'arte studiata e 
analizzata dalla matita d'un disegnatore. Ho 



— 243 — 

avuto un de' più intensi godimenti della mia 
vita. 

Questi disegni sono di mano dello Sperelli; 
sono i suoi studii, i suoi schizzi, i suoi appunti, 
i suoi ricordi presi qua e là in tutte le gallerie 
d'Europa; sono, dirò cosi, il suo breviario, un 
meraviglioso breviario nel quale ogni antico 
maestro ha la sua pagina suprema, la pagina 
ov'è compendiata la maniera, ove son notate 
le bellezze dell'opera più alte e più originali, 
ov'è colto il punctum saliens di tutta quanta la 
produzione. Scorrendo questa larga raccolta, 
io non soltanto mi son fatta un'idea precisa 
delle diverse scuole, dei diversi movimenti, delle 
diverse correnti, delle diverse influenze per cui 
si sviluppa la Pittura in una data regione; ma 
son penetrata neir intimo spirito, nella essenziale 
sostanza dell'arte d'ogni singolo pittore. Come 
profondamente ora comprendo, per esempio, 
il XIV e il XV secolo, i Trecentisti e i Quattro- 
centisti, i semplici i nobili i grandi Primitivi 1 

I disegni sono conservati in belle custodie di 
cuoio inciso con borchie e fermagli d'argento 
imitanti quelli dei messali. La varietà della tec- 
nica è ingegnosissima. Certi disegni, dal Rem- 
brandt, sono eseguiti su una specie di carta 
un po' rossastra, riscaldata con matita sangui- 
gna, acquerellata con bistro; e le luci son ri- 
levate con bianco a tempera. Certi altri disegni, 
dai maestri fiamminghi, sono eseguiti su una 
carta rugosa molto simile alla carta preparata 
per la pittura a olio, dove l'acquerello di bistro 
prende il carattere degli schizzi a bitume. Altri 
sono a matita sanguigna, a matita nera, a tre 



— 241 — 

matite con qualche tocco di pastello, acquerel- 
lati con bistro su tratti a penna, acquerellati 
con inchiostro di China, su carta bianca, su 
carta gialla, su carta grigia. Talvolta la matita 
sanguigna par che contenga porpora; la matita 
nera dà un segno vellutato; il bistro è caldo, 
fulvo, biondo, d'un color di tartaruga fina. 

Tutte queste particolarità le ho dal disegna- 
tore; provo uno strano piacere a ricordarle, a 
scriverle ; mi par d'essere inebriata di arte ; ho 
il cervello pieno di mille linee, di mille figure; 
e in mezzo al tumulto confuso vedo pur sem- 
pre le donne dei Primitivi , le indimenticabili 
teste delle Sante e delle Vergini, quelle che sor- 
ridevano alla mìa infanzia religiosa, nella vec- 
chia Siena, dai freschi di Taddeo e di Simone. 

Nessun capolavoro d'un'arte più avanzata e 
più raffinata lascia nell'animo un'impressione 
cosi forte, cosi durevole, cosi tenace. Quei lun- 
ghi corpi snelli come steli di gigli; quei colli 
sottili e reclinati; quelle fronti convesse e spor- 
genti; quelle bocche piene di sofiferenza e di 
affabilità; quelle mani (o Memling!) affilate, ce- 
ree, diafane come un'ostia, più significative di 
qualunque altro lineamento; e quei capelli rossi 
come il rame, fulvi come l'oro, biondi come il 
miele, quasi distinti a uno a uno dalla religiosa 
pazienza del pennello; e tutte quelle attitudini 
nobili e gravi o nel ricevere un flore da un an- 
gelo o nel posar le dita sopra un libro aperto 
o nel chinarsi verso l'infante o nel sostener su' 
ginocchi il corpo di Gesù o nel benedire o nel* 
l'agonizzare o nell'ascendere al Paradiso, tutte 
quelle cose pure, sincere e profonde inteneri- 



-- 245 — 

scono e impietosiscono fin nelPintimo spìrito; 
e s'imprimono per sempre nella memoria, come 
uno spettacolo di tristezza umana veduto nella 
realità della vita, nella realità della morte. 

A una a una, oggi, passavano le donne dei 
Primitivi, sotto i nostri occhi. Io e Francesca 
eravamo sedute in un divano basso, avendo 
d'innanzi a noi un gran leggio sul quale posava 
la custodia di cuojo con i disegni che il dise- 
gnatore, seduto in contro, svolgeva lentamente, 
cementando. Ad ogni tratto, io vedevo la sua 
niano prendere il foglio e posarlo su Taltra fac- 
cia della custodia con una delicatezza singolare. 
Perchè, ad ogni tratto, sentivo dentro di me un 
principio di brivido come se quella mano stesse 
per toccarmi? 

A un certo punto, trovando forse incomoda 
la sedia, egli s'è messo in ginocchio sul tap- 
peto e ha seguitato a svolgere. Parlando, si di- 
rigeva quasi sempre a me; e non aveva l'aria 
di ammaestrarmi ma di ragionare con una egual 
conoscitrice; e in fondo a me si moveva un 
poco di compiacenza, mista di riconoscenza. 
Quando io faceva una esclamazione di meravi- 
glia, egli mi guardava con un sorriso che an- 
cora ho presente e che non so definire. Due o 
tre volte Francesca ha appoggiato il braccio su 
la spalla di lui, con familiarità, senza badarci. 
Vedendo la testa del primogenito di Mosè, presa 
dal fresco di Sandro Botticelli nella Cappella 
Sistina , ella ha detto : — Ha un po' della tua 
aria, quando sei malinconico. — Vedendo la 
testa dell'arcangelo Michele, che è un frammento 
della Madonna dì Pavia, del Perugino, ella ha 



- 246 — 

detto: — Somiglia Giulia Moceto; è vero? — 
Egli non ha risposto; e ha voltato il foglio con 
minor lentezza. Allora ella ha soggiunto, ri- 
dendo: — Lungi le imagini del peccato! 

Questa Giulia Moceto è forse una donna che 
un tempo egli gjnò? Voltato il foglio, Jin prn- 
vato un incomprensibile desiderio di rivedere 
Y"Sfcangelo Michele, di esaminarlo con mag- 
giore attenzione. Era curiosità soltanto? 

Io non so. Non oso guardarmi dentro, nel se- 
greto; amo meglio indugiare, ingannando me 
stessa; non penso che o prima o poi tutte le 
terre vaghe cadono in dominio del Nemico; non 
ho il coraggio dì affrontare la lotta; son pusil- 
lanime. 

Intanto, Torà è dolce. Ho una imaginosa ecci- 
tazione intellettuale, come se avessi bevute 
molte tazze di tè forte. Non ho nessuna vo- 
lontà di coricarmi. La notte è tiepidissima, come 
in agosto; il cielo è chiaro ma velato, simile a 
un tessuto di perle; il mare ha una respira- 
zione lenta e sommessa, ma le fontane riem- 
piono le pause. La loggia m'attira. Sogniamo 
un poco! Quali sogni? 

Gli occhi delle Vergini e delle Sante mi per- 
seguitano. Vedo ancora quelli occhi cavi, lun- 
ghi e stretti, con le palpebre abbassate, di sotto 
a cui guardano con uno sguardo affascinante, 
mite come quel d'una colomba, un po' obliquo 
come quel d'una serpe. " Sii semplice come la 
colomba e prudente come la serpe,,, ha detto 
Gesù Cristo. 

Sii prudente. Prega, coricati e dormi. 



— 247 — 

21 settembre. — Ahimè, bisogna pur sempre 
ricominciar T opera dura, risalire Verta già sa- 
lita, riconquistare il suolo già conquistato, ri- 
combattere la battaglia già vinta! 

. 22 settembre. — Egli mi ha donato un. suo li- 
bro di poesia, La Favola d'Ermafrodito^ il ven- 
tunesimo dei venticinque soli esemplari, tirato 
su pergamena, con due prove del frontispizio 
avanti lettera. 

È una singolare opera, ove si chiude un senso 
misterioso e profondo, se bene T elemento mu- 
sicale prevalga trascinando lo spirito in una 
magia inaudita di suoni e avvolgendo i pen- 
sieri; che splendono come una polvere d'oro e 
di diamante in un fiume limpido. 

I cori dei Centauri, delle Sirene e delle Sfingi 
danno un turbamento indefinibile, svegliano nel- 
Torecchio e nell'anima una inquietudine e una 
curiosità non appagate, prodotte dal continuo 
contrasto d'un sentimento duplice, d'una aspi- 
razione duplice, della natura umana e della 
natura bestiale. Ma con qual purezza , e come 
visibile, rideal forma dell'Androgine si deli- 
nea tra gli agitati cori dei mostri! Nessuna 
musica mi ha inebriata come questo poema 
e nessuna statua mi ha data della bellezza 
un'impressione più armonica. Certi versi mi 
perseguitano senza tregua e mi perseguite- 
ranno per lunghissimo tempo , forse ; tanto 
sono intensi. 

^*^ Egli mi conquista l' intelletto e V anima , 
ogni giorno più, ogni ora più, senza tregua, con- 
tro la mia volontà, contro la mia resistenza. Le 



— 248 — 

sue parole, i suoi sguardi, i suoi gesti, i suoi 
minimi moti entrano nel mio cuore. 

23 settembre. — Quando parliamo insieme, tal- 
volta io sento che la sua voce è come 1' eco 
dell'anima mia. 

Accade talvolta che io mi senta spingere da 
un subitaneo fascino, da un'attrazione cieca, da 
una violenza irragionevole, verso una frase, 
verso una parola che potrebbe rivelare la mia 
debolezza. Mi salvo per prodigio; e viene allora 
un intervallo di silenzio, nel quale io sono agi- 
tata da un terribile tremito interiore. Se riprendo 
a parlare, io dico una cosa frivola e insignifi- 
cante, con un tono leggero; ma mi pare che 
una fiamma mi corra sotto la pelle del viso, 
quasi ch*io sia per arrossire. S'egli cogliesse 
quell'attimo per guardarmi risolutamente nelli 
occhi, sarei perduta. 

**^ Ho suonato molta musica, di Sebastiano 
Bach e di Roberto Schumann.. Egli stava seduto, 
come quella sera, alla mia destra, un poco in 
dietro, su la poltrona di cuojo. Di tratto in tratto, 
alla fine d'ogni pezzo, egli si levava e, chino 
alle mie spalle, sfogliava il libro per indicarmi 
un'altra Fuga, un altro Intermezzo, un altro Im- 
provviso. Quindi si metteva di nuovo a sedere; 
ed ascoltava, senza muoversi, profondamente 
assorto, con gli occhi fissi sopra di me, facen- 
domi sentire la sua presenza. 

Intendeva egli quanto di mio, del mio pen- 
siero, della mia tristezza, del mio essere intimo, 
passava nella musica altrui? 

^*„. " Musica, — chiave d'argento che apri la 



fontana delle lacrime, ove lo spirito beve finché 
la mente si smarrisce; soavissima tomba di 
mille timori, ove la loro madre, l'Inquietudine, 
simile a un fanciullo che dorma, giace sopita 
ne* fiori... „ Shelley. 

^*^ La notte è minacciosa. Un vento caldo e 
umido soffia nel giardino; e il fremito cupo si 
prolunga nell'oscurità, poi cade, poi ricomincia 
più forte. Le vette dei cipressi oscillano sotto 
un cielo quasi nero, dove le stelle appajono se- 
mispente. Una striscia di nuvole attraversa lo 
spazio, dall'uno all'altro orizzonte, frastagliata, 
contorta, più nera del cielo, simile alla capiglia- 
tura tragica di una Medusa. Il mare nell'oscu- 
rità è invisibile; ma singhiozza, come un im- 
menso e inconsolabile dolore, solo. 

Che è mai questo sbigottimento? Mi sembra 
che la notte mi ammonisca d'una sciagura pros- 
sima e che all'ammonizione risponda in fondo 
a me un rimorso indefinito. Il Preludio di Se- 
bastiano Bach ancora m'incalza; si mesce nel- 
l'anima mia con il fremito del vento e con il 
singhiozzo del mare. 

Non piangeva, dianzi, qualche cosa di me in 
quelle note? 

Qualcuno piangeva, gemeva, oppresso dall'an- 
goscia; qualcuno piangeva, gemeva, chiamava 
Dio, domandava il perdono, implorava l'aiuto, 
pregava con una preghiera che saliva al cielo 
come una fiamma. Chiamava ed era ascoltato, 
pregava ed era esaudito; riceveva la luce dal- 
l'alto, gittava gridi d'allegrezza, stringeva al 
fine la Verità e la Pace, si riposava nella cle- 
menza del Signore. 



- 250 — 

^♦^ Sempre, mia figlia mi conforta; e mi gua- 
risce da ogni febbre, come un balsamo sublime. 
Ella dorme, nell'ombra rischiarata dalla lam- 
pada che è mite come una luna. La sua faccia, 
bianca della fresca bianchezza d'una rosa bianca, 
quasi si sprofonda neir abbondanza de' capelli 
oscuri. Pare che il fino tessuto delle sue pal- 
pebre a pena a pena riesca a nascondere nel- 
l'interno gli occhi luminosi. Io mi piego su lei, 
la riguardo; e tutte le voci della notte si estin- 
guono, per me; e il silenzio per me non è mi- 
surato che dalla respirazione ritmica della sua 
vita. 

Ella sente la vicinanza della madre. Leva un 
braccio e lo lascia ricadere; sorride dalla bocca 
che si schiude come un fiore perlifero; e per 
un istante tra i cigli appare uno splendore si- 
mile air umido splendore argenteo della polpa 
d'un asfodelo. Come più la contemplo, diventa 
alla mia vista una creatura immateriale, un 
essere formato dell' elemento os dreams are 
made on. 

Perchè, a dare un' idea della sua bellezza e. 
della sua spiritualità, sorgono spontanee nella 
memoria imagini e parole di Guglielmo Sha- 
kespeare, di questo possente selvaggio atroce 
poeta che ha cosi melliflue labbra? 

Ella crescerà, nutrita e avvolta dalla fiamma 
del mio amore, del mio grande unico amore.... 

Oh Desdemona, Ofelia, Cordelia, Giulietta! Oh 
Titania! Oh Miranda! 

24 settembre. — Io non so prendere una riso- 
luzione, non so fare un proposito. Io mi abban- 



— 251 — 

dono un poco a questo nuovissimo sentimento, 
chiudendo gli occhi sul pericolo lontano, chiu- 
dendo gli orecchi alle ammonizioni savie della 
conscìenza, con il trepidante ardire di chi, per 
cogliere le violette, s'avventura su l'orlo d'un 
abisso in fondo a cui rugge un fiume vorace. 

Egli non saprà nulla dalla mia bocca; io non 
saprò nulla dalla sua. Le Anime saliranno in- 
sieme, un breve tratto, su per le colline del- 
l'Ideale, beveranno qualche sorso alle fonti pe- 
renni; quindi ciascuna riprenderà la sua via, 
con maggior confidenza, con minor sete. » 

^*^ Che tranquillità nell'aria, dopo il mezzo- 
giorno! Il mare ha il color bianco azzurrognolo 
latteo d'un opale, d'un vetro di Murano; ed 
è qua e là come un cristallo appannato da un 
alito. 

*** Leggo Percy Shelley, un poeta ch'egli 
ama, il divino Ariele che si nutre di luce e 
parla nella Ihigua degli Spiriti. È notte. Questa 
allegoria mi si leva d'innanzi visibile. 

" Una porta di cupo diamante sf spalanca sul 
gran cammino della vita da noi tutti esercitato, 
una caverna immensa e corrosa. In torno im- 
perversa una perpetua guerra di ombre, simili 
alle nuvole inquiete che s'affollano nella fendi- 
tura d'una qualche montagna scoscesa, perden- 
dosi in alto fra i turbini del cielo superiore. E 
molti passano con passo incurante, d'innanzi a 
quel portico, non sapendo che un'ombra segue 
i vestigi d'ogni passeggero insino al luogo ove 
i morti aspettano in pace il lor compagno no- 
vello. Altri però, mossi da un pensier più cu- 
rioso, si fermano a riguardare. Sono costoro 



— 252 — 

in esilissimo numero; ed ivi ben poco appren- 
dono, se non che ombre li seguono ovunque 
eglino vadano. „ 

Dietro di me, così da presso che quasi mi 
tocca, è rombra. Io la sento, che mi guarda; 
allo stesso modo che jeri, sonando, sentivo lo 
sguardo di lui, senza vederlo. 

25 settembre. — Mio Dio, mio Dio! 

Quando egli mi ha chiamata, con quella voce, 
con quel tremito, io ho creduto che il cuore mi 
si fosse disciolto nel petto e ch'io fossi per venir 
meno. — Voi non saprete mai — egli ha detto 
— non saprete mai fino a qual punto la mia 
anima è vostra. 

Eravamo nel viale delle fontane. Io ascoltavo 
le acque. Non ho visto più nulla; non ho udito 
più nulla; m' è parso che tutte le cose si allon- 
tanassero e che il suolo si affondasse e che si 
dileguasse con loro la mia vita. Ho fatto uno 
sforzo sovrumano; e m'è venuto alle labbra il 
nome di Delfina, e m'è venuto un impeto folle 
di correre a lei, di fuggire, di salvarmi. Ho gri- 
dato tre volte quel nome. Negli intervalli, il mio 
cuore non palpitava, i miei polsi non battevano, 
dalla mia bocca non usciva il respiro.... 

26 settembre. — È vero? Non è un inganno 
del mio spirito fuorviato? Ma perchè l'ora di 
jeri mi par cosi lontana, cosi irreale? 

Egli parlò, di nuovo, a lungo, standomi vicino, 
mentre io camminava sotto gli alberi, trasognata. 
Sotto quali alberi? Era come s'io camminassi 
nelle vie segrete dell'anima mia, tra fiori nati 



— 253 — 

dairanima mia, ascoltando le parole d'uno Spi- 
rito invisibile che un tempo si fosse nutrito del- 
Tanima mia. 

Odo ancora le parole soavi e tremende. 

Egli diceva: — Io rinunzierel a tutte le pro- 
mosse della vita per vivere in una piccola parte 
del vostro cuore.... 

Diceva: — ...fuor del mondo, interamente per- 
duto nel vostro essere, per sempre, fino alla 
morte.... 

Diceva: — La pietà che mi venisse da voi 
mi sarebbe più cara della passione di qualunque 
aiira.... 

— La sola vostra presenza bastava a darmi 
rebrezza. Io la sentiva fluire nelle mie vene, 
come un sangue, e invadere il mio spirito, come 
un sentimento sovrumano.... 

27 settembre. — Quando, sul limite del bosco, 
egli colse questo fiore e me Tofferse, non lo 
chiamai Vita della mia vita? 

Quando ripassammo pel viale delle fontane, 
d'innanzi a quella fontana, dove egli prima 
aveva parlato, non lo chiamai Vita della mia 
vita? 

Quando tolse la ghirlanda dall'Erma e la rese 
a mia figlia, non mi fece intendere che la Donna 
inalzata ne' versi era già decaduta, e che io sola, 
io sola ero la sua speranza? Ed io non lo chiamai 
Vita della mia vita? 

28 settembre. — Com' è stato lungo a venire, 
il raccoglimento! 

In tante ore, dopo quell'ora, ho lottato, ho 



— 254 — 

penato per rientrar nella mia vera conscienza, 
per veder le cose nella vera luce, per giudicare 
l'accaduto con fermo e calmo giudizio, per ri- 
solvere, per decidere, per riconoscere il dovere. 
Io sfuggivo a me- stessa; la mente si smarriva; 
la volontà si ripiegava; ogni sforzo era vano. 
Quasi per un istinto, evitavo di rimaner sola 
con lui, mi tenevo sempre vicina a Francesca 
e a mia figlia, o rimanevo qui nella stanza, 
come in un rifugio. Quando i miei occhi s'in- 
contravano con i suoi, mi pareva di legger ne' 
suoi una profonda e suppliclievole tristezza. Non 
sa egli quanto, quanto, quanto io l'ami? 

Non lo sa; non lo saprà mai. Cosi voglio. 
Debbo cosi. Coraggio! 

Mio Signore, aiutatemi voi. 

-^ 29 settembre. — Percliè h^ p ar^^t^ ? Perchè jia 
voluta rompere l'incanto del silenzio ove l'anima 
mia si cullava senza quasi rimorso e senza quasi 
paura? Perchè ha voluto strappare i veli vaghi 
dell'incertezza e mettermi in conspetto del suo 
amore svelato? Ormai non posso più indugiare, 
non posso più illudermi, né concedermi una 
mollezza, né abbandonarmi a un languore. Il 
pericolo é là, certo, aperto, manifesto; e m'attira 
con la vertigine, come un abisso. Un attimo di 
languore, di mollezza, e io sono perduta. 

^\ Io mi domando: — È un dolor sincero il 
mìo, é un sincero rammarico, per quella rive- 
lazione inattesa? Perchè penso sempre a quelle 
parole ? E perchè quando le ripeto in me stessa, 
un' onda ineffabile di voluttà mi attraversa ? E 
perchè un brivido mi corre per tutte le midolle. 



— 255 — 

se imagino che potrei udire altre parole, altre 
parole ancora? 

^% Un verso di Guglielmo Shakespeare, nel 
As you like it: 

« Who ever lov^dj that lov^d not at first sighf? „ 

Notte. — I moti del mio spirito prendono forma 
d'interrogazioni, di enigmi. Io interrogo di con- 
tinuo me stessa e non rispondo mai. Non ho 
avuto il coraggio di guardar proprio in fondo, 
di conoscere con esattezza il mio stato, di pren- 
dere una risoluzione veramente forte e leale. Io 
sono pusillanime, io sono vile; ho paura del 
dolore, voglio soffrire il meno possìbile; voglio 
ancora ondeggiare, temporeggiare, palliare, sal- 
varmi con sotterfugi, nascondermi, invece d'af- 
frontare a viso aperto la battaglia decisiva. 

Il fatto è questo: che io temo di rimaner sola 
con lui, d'aver con lui un colloquio grave, e 
che la mia vita qui è ridotta una continuazione 
di piccole astuzie, di piccoli ripieghi, di piccoli 
pretesti per evitare la sua compagnia. L'artifìcio 
è indegno di me. voglio assolutamente rinun- 
ziare a questo amore; ed egli udrà la mia pa- 
rola triste ma ferma. voglio accettarlo, nella 
sua purità; ed egli avrà il mio consenso spiri- 
tuale. 

Ora, io mi domando : — Che voglio ? Quale 
scelgo delle due vie? Rinunziare? Accettare? 

Mio Dio, mio Dio, rispondete voi per me, illu- 
minatemi voi! 

Rinunziare è omai come strappar con le mie 
unghie una parte viva del mio cuore. L'ango- 



— 256 — 

scia sarà suprema, lo spasimo passerà i limiti 
d'ogni sofferenza; ma l'eroismo, per la grazia 
di Dio, verrà coronato dalla rassegnazione, verrà 
premiato dalla divina dolcezza che segue ogni 
forte elevazion morale, ogni trionfo deir anima 
su la paura di soffrire. 

Rinunzierò. Mia figlia manterrà il possesso di 
tutto tutto il mio essere, di tutta tutta la mia 
vita. Questo è il dovere. 

" Ara con pianti, anima dolorosa, 
per mietere con canti d'allegrezza! „ 

30 settembre. — Scrivendo queste pagine, mi 
sento un poco più calma; riacquisto, al meno 
momentaneamente, un poco di equilibrio e con- 
sidero con maggior lucidità il mio infortunio e 
mi par che il cuore si alleggerisca come dopo 
una confessione* 

Oh, s'io potessi confessarmi! S'io potessi chie- 
dere consiglio e ajuto al mio vecchio amico, al 
mio vecchio consolatore! 

In queste turbolenze, mi sostiene più d'ogni 
altra cosa il pensiero ch'io rivedrò fra pochi 
giorni Don Luigi e che gli parlerò e che gli mo^- 
strerò tutte le m,ie piaghe, e gli scoprirò tutte 
le mie paure e gli chiederò un balsamo per tutti 
i miei mali, come un tempo; come quando la 
sua parola mite e profonda chiamava lacrime 
di tenerezza su' miei occhi che ancora non co- 
noscevano il sale amaro d'altre lacrime o l'ar- 
sione, ben più terribile, dell'aridità. 

Mi comprenderà egli ancora? Comprenderà le 
oscure angosce della donna allo stesso modo 



— 257 — 

che comprendeva le malinconie della fanciulla 
indefinite e fugaci? Rivedrò inchinarsi verso di 
me, in atto di misericordia e di compatimento, . 
la sua bella fronte incoronata di capelli bianchi, 
.illuminata di santità, pura come Tostia nel ci- 
borio, benedetta dalla mano del Signore ? 

*% Ho sonato, su l'organo della Cappella, 
musica di Sebastiano Bach e del Cherubini, 
dopo la messa. Ho sonato il preludio dell'al- 
tra sera. 

Qualcuno piangeva, gemeva, oppresso dal- 
Tangoscia; qualcuno piangeva, gemeva, chia- 
mava Dio, domandava il perdono, implorava 
l'aiuto, pregava con una preghiera che saliva al 
cielo come una fiamma. Chiamava ed era ascol- 
tato, pregava ed era esaudito; riceveva la luce 
dall'alto, gittava gridi d'allegrezza, stringeva al 
fine la Pace e la Verità, si riposava nella cle- 
menza del Signore. 

Quest'organo non è grande, la Cappella non è 
grande; e pure la mia anima s'è dilatata come 
in una basilica, s'è inalzata come in una cu- 
pola immensa, ha toccato il culmine dell'agugiia 
ideale ove splende il segno dei segni, nell'az- 
zurro paradisiaco, nell'etere sublime. 

Io penso ai massimi organi delle cattedrali 
massime, a quelli di Amburgo, di Strasburgo, 
di Siviglia, della badia di Weingarten, della badia 
di Subiaco, dei Benedettini in Catania, di Mon- 
tecassino, di San Dionigi. Qual voce, qual coro 
di voci, qual moltitudine di grida e di preghiere, 
qual canto e qual pianto di popoli eguaglia la 
terribilità e la soavità di questo prodigioso istru- 

// Piacei-e. 17 



— 258 — 

meato cristiano che può riunire in sé tutte le 
intonazioni da orecchio umano percettibili e le 
impercettibili ancora? 

Io sogno: — un Duomo solitario, immerso 
neir ombra, misterioso, nudo, simile alla pro- 
fondità d*un cratere spento che riceva dall'alto 
una luce siderale; e un'Anima ebra d'amore, 
ardente come quella di san Paolo, dolce come 
quella di san Giovanni, molteplice come mille 
anime in una, bisognosa d'esalar la sua ebrietà 
in una voce sopraumana; e un organo vasto 
come una foresta di legno e di metallo, che, 
come quel di San Sulpizio, abbia cinque tastiere, 
venti pedali, cento otto registri, più di settemila 
canne, tutti i suoni. 

"^ Notte. — In vano! In vano! Nessuna cosami 
calma; nessuna cosa mi dà un'ora, un minuto, 
un attimo di oblìo; nessuna cosa mai mi gua- 
rirà; nessun sogno della mia mento cancellerà 
il sogno del mio cuore. In vano! 

La mia angoscia è mortale. Io sento che il 
mio male è incurabile; il cuore mi duole come 
se proprio me l'avessero stretto, me l'avessero 
premuto, me l'avessero guasto per sempre; il 
dolore morale è così intenso che si cangia in 
dolore fisico, in uno spasimo atroce, insosteni- 
bile. Io sono esaltata, lo so; io sono in preda 
a una specie di foUìa; e non posso vincermi, 
non posso contenermi, non posso riprendere la 
mìa ragione; non posso, non posso. 

Questo è dunque l'amore? 

Egli è partito stamani, a cavallo, con un servo, 
senza eh' io l' abbia veduto. La mia mattina è 



- 259 - 

passata quasi tutta nella Cappella. Per r ora 
della colazione egli non è ritornato. La sua as- 
senza mi faceva soffrire così eh' io era stupita 
• deir acutezza di quel soffrire. Son venuta qui 
nella stanza ; per diminuir la pena , ho scritta 
una pagltia del Giornale, una pagina religiosa, 
riscaldandomi al ricordo della mia fede matu- 
tina; poi ho letto qualche brano délVE/npsychi' 
dion di Percy Shelley; poi son discesa nel parco 
a cercar di mia figlia. In tutti questi atti, il pen- 
' siero vivo di lui mi teneva, mi occupava, mi 
tormentava senza tregua. 

Quando ho riudita la sua voce , io era sulla 
prima terrazza. Egli parlava con Francesca, sul 
vestibolo. Francesca s' è affacciata, chiaman- 
domi dall'alto : — Vieni su. 

Risalendo la scala, sentivo che le ginocchia 
nri si piegavano. Salutandomi , egli mi ha tesa 
la mano ; e deve aver notato il tremito della 
mia perchè ho visto qualche cosa passargli 
nello sguardo, rapidamente. Ci siamo seduti su 
le lunghe sedie di paglia, nel vestibolo, rivolti 
al mare. Egli ha detto d' essere molto stanco ; 
e s'è messo a fumare, raccontando la sua ca- 
valcata. — Era giunto sino a Vicomìle , dove 
aveva fatto una sosta. 

— Vicomìle — ha detto — possiede tre me- 
raviglie: una phieta, una torre, e un ostenso- 
rio del quattrocento. Figuratevi una pineta tra 
il mare e il colle, tutta piena di stagni che 
moltipHcano il bosco air infinito ; un campa- 
nile di stil lombardo barbaro : che risale certo 
al XI secolo, uno stelo di pietra carico di si- 
rene, di paoni, di serpenti, di chimere, d'ippo- 



~ 2G0 - 

grifi, di mille mostri e di mille fiori ; e un osten- 
sorio d* argento dorato , smaltato , intagliato e 
cesellato, di foggia gotico-bizantina con un pre- 
sentimento della Rinascenza, opera del Gallucci, ' 
artefice quasi ignoto, eh' è un gran precursore 
di Benvenuto.... 

Egli si rivolgeva a me, parlando. È strano 
come io ricordo esattamente tutte le sue pa- 
role. Potrei scrivere per intera la sua conver- 
sazione , con le particolarità più insignificanti 
e minute ; se ci fosse un mezzo , potrei ripro- 
durre ogni modulazione della sua voce. 
~ Egli ci hajnostrato due o tre piccoli disegni 
a matita, sul suo taccuino. Poi l>€u^gguitato a 
parlare delle meraviglie di Vicomlle, con quel 
calore eh' egli ha quando parla di cose belle , 
con quell'entusiasmo d'arte, ch'è una delle sue 
più alte seduzioni. 

— Ho promesso al Canonico che sarei top- 
nato domenica. Andremo; è vero, Francesca? 
Bisogna che Donna Maria conosca Vicomìle. 

Oh, il mio nome su la sua bocca! Se ci fosse 
un modo, potrei riprodurre esattamente l'attitu- 
dine, r apertura delle sue labbra nel profferire 
ciascuna sillaba delle due parole: — Donna 
Maria. Ma non mai potrei esprimere la mia 
sensazione ; non potrei mai mai ridire tutto ciò 
che di sconosciuto, d'inopinato, d'insospettato 
si va risvegliando nel mio essere alla presenza 
di quell'uomo. 

Siamo rimasti là seduti, fino all'ora del pranzo. 
Francesca pareva, contro il suo solito, un poco 
malinconica. A un certo punto, il silenzio è ca- 
duto su noi, graveìmente. Ma tra lui e me è in- 



— 261 — 

cominciato un di qne' colloqui di sUensio^ ove 
Tanima esala Tlneffabile e intende il murmure 
dei pensieri. Egli mi diceva cose che mi face- 
vano languir di dolcezza sopra il cuscino : cose 
che la sua bocca non potrà mai ripetermi e il 
mio orecchio non potrà mai udire. 

D'innanzi, i cipressi immobili' leggeri alla vi- 
sta quasi fossero immersi in un etere subli- 
mante , accesi dal sole , parevano portare una 
fiamma alla sommità, come i torchi votivi. Il 
mare aveva il color verde d'una foglia d' aloe, 
e qua e là il color mavì d' una turcliina lique- 
fatta: una indescrivibile delicatezza di pallori, 
una diffusion di luce angelicata, ove ogni vela 
dava imagine d'un angelo che nuotasse. E la 
concordia dei profumi illanguiditi dairAutynno 
era come lo spirito e il sentimento di quello 
spettacolo pomeridiano. 

Oh morte serena di settembre I 

Anche questo mese è finito, è perduto, è ca- 
duto nell'abisso. Addio. 

Una tristezza immensa mi opprime. Quanta 
parte di me porta seco questa parte di tempo! 
Ho vissuto più in quindici giorni che in quin^ 
dici anni ; e mi sembra che nessuna delle mie 
lunghe settimane di dolore eguagli in acutezza 
di spasimo questa breve settimana di passione. 
Il cuore mi duole ; la testa mi si perde ; una 
cosa oscura e bruciante è in fondo a me, una 
cosa ch'è apparsa d'improvviso come un'infe- 
zione di morbo e che incomincia a contami- 
narmi il sangue e l'anima, contro ogni volontà, 
contro ogni rimedio: il Desiderio. 

Io n'ho vergogna e raccapriccio , come d' un 



— 262 — 

disonore, come"d*un sacrilegio, come d'una vio- 
lazione; io n'ho una paura disperata e folle, 
come d'un nemico fraudolento che a penetrar 
nella cittadella conosca vie da me stessa non 
conosciute. 

E intanto io veglio, nella notte ; e, scrivendo 
questa pagina nell' orgasmo in cui gli amanti 
scrivono le loro lettere d'amore, non odo il re- 
spiro di mia figlia che dorme. Ella dorme ip 
pace ; ella non sa quanto l'anima della madre 
sia lontana.... 

1 ottobre. — I miei occhi vedono in lui quel 
che prima non vedevano. Quando egli parla, 
io guardo la sua bocca; e l'attitudine e il co- 
lore bielle labbra mi occupano più che il suono 
e il significato delle parole. 

2 ottobre. — Oggi è sabato ; oggi è 1' ottavo 
giórno dal giorno indimenticabile — 25 set- 
tembre 1886. 

/^ Per un caso singolare, se bene io ora con 
eviti di trovarmi sola con lui , se bene anzi io 
desideri che venga il momento terribile ed 
eroico ; per un caso singolare, il momento non 
è venuto. 

Francesca è rimasta sempre con me, oggi. 
Stamani abbiamo fatto una cavalcata per la 
via di Rovigliano. E abbiamo passato il pome- 
riggio quasi tutto al pianoforte. Ella ha voluto 
eh' io le sonassi alcune danze del XVI secolo , 
poi la Sonata in fa diesis minore e la celebre 
Toccata di Muzio Clementi , poi due o tre €a- 
priccl di Domenico Scarlatti ; e ha voluto ch'io 



— 2G3 — 

le cantassi alcune partì dei Frauenìiehe di Ro- 
berto Schumann. Che contrasti! 

Francesca non è più gaja, conne una volta, 
com'era anche ai primi giorni della mia dimora 
qui. Spesso, ella è pensosa; quando ride, quando 
scherza , la sua gajezza mi sembra artifiziale. 
Le ho chiesto : — Hai qualche pensiero che ti 
tormenta? — Ella mi ha risposto, mostrando 
di meravigliarsi: — Perchè? — Io ho soggiunto: 
— Ti vedo un po' triste. — Ed ella : — Triste ? 
Oh no; t'inganni. — Ed ha riso, ma d'un riso 
involontariamente amaro. 

Questa cosa mi affligge e mi dà una inquietu- 
dine vaga. 

/^ Andremo dunque domani a Vicomlle, dopo 
mezzogiorno. Egli mi ha domandato : — Avre- 
ste forza di venire a cavallo ? A cavallo po- 
tremmo traversare tutta la pineta.... 

Poi anche mi ha detto : — Rileggete , tra le 
liriche dello Shelley a Jane, la Recollection. 

Dunque andremo a cavallo; verrà a cavallo 
anche Francesca. Gli altri, compresa Delfina, 
verranno in mail-eoadu 

In che disposizion di spirito strana mi trovo 
io stasera! Ho come un'ira sorda e acre in 
fondo al cuore, e non so perchè ; ho come una 
insofferenza di me e della mia vita e di tutto. 
L'eccìtazion nervosa è così forte che mi prende 
di tratto in tratto un pazzo impeto di gridare, 
di ficcarmi le unghie nella carne, di rompermi 
le dita contro la parete , di provocare un qua- 
lunque spasimo materiale per sottrarmi a que- 
sto insopportabile malessere interiore, a que- 
sto insopportabile affanno. Mi par d' avere un 



— 261 — 

nodo dì fuoco a sommo del petto, la gola chiusa 
da un singhiozzo che non vuole uscire, la testa 
vacua, ora fredda ora ardente; e di tratto in 
tratto mi sento attraversare da una specie d'an- 
sietà subitanea , da uno sbigottimento irragio- 
nevole che non riesco a respingere mai né a 
reprimere. E, a volte, a traverso il mio cervello 
guizzano imagini e pensieri involontarii che sor- 
gono chi sa da quali profondità dell' essere : 
imagini e pensieri indegni. E languo e vengo 
meno, come una che sia immersa in un amore 
allacciante ; e pur tuttavìa non è un piacere , 
non è un piacere! 

3 ottobre. — Com'è debole e misera l' anima 
nostra, senza difesa contro i risvegli e gU as- 
salti di quanto men nobile e men puro dorme 
nella oscurità della nostra vita inconsciente , 
neir abisso inesplorato ove i ciechi sogni na- 
scono dalle cieche sensazioni ! 

Un sogno può avvelenare un' anima ; un sol 
pensiero involontario può corrompere una vo- 
lontà. 

/* Andiamo a Vicomìle. Delfina è in letizia. 
La giornata è religiosa. Oggi è la festa di Ma- 
ria Vergine del Rosario. Coraggio, anima mia! 

4 ottobre. — Nessun coraggio. 

La giornata di jeri fu per me cosi piena di 
piccoli episodii e di grandi commozioni , così 
lieta e così triste, così stranamente agitata che 
io mi smarrisco nel ricordarla. E già tutti tutti 
gli altri ricordi impallidiscono e si dileguano 
innanzi ad un solo. 



— 265 — 

Dopo aver visitata la torre ed avere ammi- 
rato r ostensorio, ci accingemmo a ripartir da 
Vicomìle verso le cinque e mezzo. Francesca 
era stanca; e le piacque, più tosto che rimon- 
tare a cavallo, tornar col mail-coach. Noi se- 
guimmo per un tratto , cavalcando ora in die- 
tro ora ai lati. Di sul legno, Delfina e Muriella 
agitavano verso noi lunghe canne fiorite e ri- 
devano minacciandoci con i bei pennacchi vio- 
lacei. 

Era una sera tranquillissima, senza vento. 
Il sole stava per cadere dietro il colle di Rovi- 
gliano, in un cielo tutto rosato come un cielo 
dell'estremo Oriente. Rose rose rose piovevano 
da per tutto, lente, spesse, molli, a simiglianza 
d'una nevata in un'aurora. Quando il sole scom- 
parve, le rose si moltiplicarono, si diffusero fin 
quasi all'orizzonte opposto, perdendosi, scio- 
gliendosi in un azzurro chiarissimo , in un az- 
zurro argentino, indefinibile, simile a quello 
che s'incurva su le cime delle montagne co- 
perte di ghiacci. 

Era egli che di tratto in tratto mi diceva: — 
Guardate la torre di Vicomìle. Guardate la cu- 
pola di San Consalvo.... 

Quando la pineta fu in vista, egli mi chiese: 
— Attraversiamo? 

La strada maestra costeggiava il bosco, de- 
scrivendo una larga curva e avvicinandosi al 
mare, fin quasi sul lido, nella sommità dell'arco. 
Il bosco appariva già tutto cupo, d'un verde 
tenebroso, come se l'ombra si fosse accumu- 
lata su le chiome degli alberi lasciando ancor 
limpida l'aria superiore; ma, per entro, gli sta- 



- 2G6 — 

gni rlsplendcvano d'una luce intensa e profonda, 
come frammenti d*un cielo assai più puro di 
quello che si diffondeva sul nostro capo. 

Senza aspettare la mia risposta, egli disse a 
Francesca: 

— Noi attraversiamo la pineta. Ci ritroveremo 
su la strada, al ponte del Convito, dair altra 
parte. 

E trattenne il cavallo. 
- Perchè acconsentii? Perchè entrai con lui? 
Io aveva nélTi occhi una specie di abbaglia- 
mento; mi pareva d'essere sotto*^ T influenza 
d'una fascinazione confusa ; mi pareva che quel 
paesaggio, quella luce, quel fatto, tutta quella 
combinazione di circostanze non fossero per 
me nuovi ma già un tempo esistiti, quasi direi 
in una mia esistenza anteriore, ed ora riesi- 
stenti.... LMmpressione è inesprimibile. Mi pa- 
reva dunque che quell'ora, che quei momenti, 
essendo stati già da me vissuti, noh si svol- 
gessero fuori di me, indipendenti da me, ma 
mi appartenessero, ma avessero con la mia 
persona un legame naturale e indissolubile cosi 
ch'io non potessi sottrarmi a riviverli in quel 
dato modo ma dovessi anzi necessariamente 
riviverli. Io aveva chiarissimo il sentimento di 
questa necessità. L'inerzia della mia volontà 
era assoluta. Era come quando un fatto della 
vita ritorna in un sogno con quajche cosa di 
più della verità, e di diverso dalla verità* Non 
riesco né meno a rendere una minima parte 
di quel fenomeno straordinario. 

E una segreta rispondenza, un'affinità miste- 
riosa era tra l'anima mia e il paesaggio. L'ima* 



— 267 — 

gine del bosco nelle acque dc^li stagni pareva 
in fatti rimagine sognata della scena reale. Come 
nella poesia di Percy Shelley ciascuno stagno 
pareva essere un breve cielo che s' ingolfasse 
in un mondo sotterraneo; un firmamento di luce 
rosea, disteso su la terra oscura, più infinito 
deirinfinita notte e più puro del giorno; dove 
gli alberi si sviluppavano allo stesso modo che 
nell'aria superiore ma di forme e di tinte più 
perfetti che qualunque altro di quelli in quel 
luogo ondeggianti. E vedute soavi, quali non 
mai si videro nel nostro mondo di sopra, v'e- 
ran dipinte dall'amor dell'acque per la bella 
foresta; e tutta la lor profondità era pene- 
trata d'un chiarore elisio, d'un'atmosfera senza 
mutamento, d'un vespro più dolce che quel di 
sopra. 

Da che lontananza del tempo era venuta a 
noi quell'ora? 

Andavamo al passo, nel silenzio. I rari gridi 
d§lle gazze, l'andatura e il respiro dei cavalU 
non turbavano la tranquillità che pareva di mi- 
nuto in minuto farsi più grande e più magica. 

Perchè volle, egli rompere la magia da noi 
stessi generata? 

Egli pàrlò;..^i mi versò sul cuore un' onda 
di parole ardenti, folli, quasi insensate, che in 
quel silenzio degli alberi mi sbigottivano poiché 
prendevano qualche cosa dì non umano, qual- 
che cosa d'indefinibilmente strano e affascinante. 
Non fu- umile e sommesso come nel parco; non 
mi disse le sue speranze timide e scorate, le 
sue aspirazioni quasi mistiche, le sue tristezze 
jncurabili; non pregò, non implorò. Egli aveva 



— 268 — 

la voce della passione, audace e forte ; una voce 
ch*io non gli conosceva. 

— Voi mi amate, voi mi amate, voi non po- 
tete non amarmi t Ditemi che mi amate! 

Il suo cavallo camminava rasente al mio. Ed 
io mi sentivo da luì sfiorare; e credevo anche 
di sentire su la guancia il suo alito, Tardore 
delle sue parole; e credevo di venir meno per 
il grande orgasmo e di cadérgli fra le braccia. 

— Ditemi che mi amate! — egli ripeteva, 
ostinatamente, senza pietà. — Ditemi che mi 
amate ! 

Nella terribile esasperazione datami dalla sua 
voce incalzante, io credo che dissi, non so se 
con un grido o con un singulto, fuori di me: 

— Vi amo, vi amo, vi amo! 

E spinsi il cavallo di carriera per la via a 
pena tracciata nella densità de' tronchi, non sa- 
pendo che facessi. 

Egli mi seguiva gridandomi: 

— Maria, Maria, fermatevi! Vi farete male,... 
Non mi fermai ; non so come il mio cavallo 

evitò i tronchi ; non so come non caddi. Io non 
so ridire Timpressione che mi dava nella corsa 
la foresta cupa interrotta dalle larghe macchie 
lucenti degli stagni. Quando in fine uscii su la 
strada, alla parte opposta, presso il ponte del 
Convito, mi sembrò escire da un'allucinazione. 
Egli mi disse, con un po' di violenza: 

— Volevate uccìdervi? 

Udimmo il romore della carrozza avvicinarsi; 
e movemmo in contro. Egli voleva ancora par- 
larmi. 

— Tacete, vi prego; per pietà I — implorai, 



— 269 — 

poiché sentivo che non avrei potuto regger più 
oltre. 

Egli tacque. Poi, con una sicurezza die mi 
stupì, disse a Francesca: 

— Peccato che tu non sia venuta! Era un 
incanto.... 

E seguitò a parlare, francamente, semplice- 
mente, come se nulla fosse accaduto ; anzi con 
una certa gaiezza. E io gli ero grata della dis- 
simulazione che pareva mi salvasse, poiché 
certo, se avessi dovuto io parlare, mi sarei 
tradita; e il silenzio d'ambedue sarebbe stato 
forse per Francesca sospetto. 
. Incominciò, dopo qualche tempo, la sahta 
verso Schifanoja. Nella sera, che immensa ma- 
linconia! Il primo quarto della luna brillava in 
un ciel delicato, un pò* verde, ove i miei occhi, 
forse i miei occhi soltanto, vedevano ancora 
una lieve apparenza di roseo, del roseo che 
Illuminava gli stagni, là giù, nella foresta. 

5 ottobre. — Egli ora sa che io Tamo; lo sa 
dalla mia bocca. Io non ho più scampo che nella 
fuga. Ecco, dove SQiugiunta. 

Quando mi guarda, ha in fondo agli occhi un 
luccicore singolare che prima non aveva. Oggi, 
in un minuto in cui Francesca non era presente, 
mi ha presa la mano facendo Tatto di baciar- 
mela. Io son riuscita a ritrarla; ed ho^ visto le 
sue labbra agitate da un piccolo tremito; ho 
s orpres o su le sue labbra, in un attimo, quast 
direi la figura del bacio non iscoccato, un'atti- 
tudine che m' é rimasta nella memoria e non 
mi va più via, non mi va più via! 



— 270 — 

6 ottobre. — Il 25 di settembre , sul sedile 
di marmo , nel bosco degli àlbatri , egli *mi 
disse: — Io so clie voi non mi amate e non 
potete amarmi. — E il 3 di ottobre: — Voi 
mi amate , voi mi amate , voi non potete non 
amarmi. 

^** In presenza di Francesca, m'ha chiesto 
se gli permettevo di fare uno studio delle mie 
mani. Ho consentito. Incomincerà oggi. 

E io sono trepidante e ansiosa, come se do- 
vessi prestar le mie mani a una tortura «co- 
nosciuta. 

Notte. — È incominciata la lenta, soave, in- 
definibile tortura. 

Disegnava a matita nera e a matita sangui- 
gna. La mia mano destra posava sopra un pezzo 
di velluto. Sul tavolo era un vaso coreano, gial- 
lastro e maculato come la pelle d'un pitone; e 
nel vaso era un mazzo d'orchidee, di quei fiori 
grotteschi e multiformi che son la ricercata cu- 
riosità di Francesca. Talune, verdi, di quel verde, 
dirò così, animale che hanno certe locuste, pen- 
devano in forma di piccole urne etrusche, con 
il coperchio un po' sollevato. Altre portavano in 
cima a uno stelo d' argento un fiore a cinque 
petali con in mezzo un calicetto, giallo di den- 
tro e bianco di fuori. Altre portavano una pic- 
cola ampolla violacea e ai lati dell'ampolla due 
lunghi filamenti; e facevano pensare a un qual- 
che minuscolo re delle favole , assai gozzuto , 
con la barba divisa in due trecce alla foggia 
orientale. Altre in fine portavano una quantità 
di fiori gialli, simili ad angelette in veste lunga 



— 271 — 

librate a volo con le braccia alte e con l'au- 
reola dietro il capo. 

Io le guardava, quando mi pareva di non po- 
ter più sostenere il supplizio; e le loro forme 
rare mi occupavano un istante, mi suscitavano 
un ricordo fuggevole de' paesi originali, mi met- 
tevano nello spirito non so che momentaneo 
smarrimento. Egli disegnava, senza parlare; i 
suoi ocelli andavano di continuo dalle carte alle 
mie mani; poi, due o tre volte, si sono rivolti 
al vaso. A un certo punto, levandosi egli ha 
detto: 

— Perdonatemi. 

E h a pres o il vaso e Y hajnrtato lontano , 
sopra un altro tavolo; non so perché. 

Allora s' è messo a disegnare con maggior 
franchezza, come Hberato da un fastidio. 

Io non so dire quel clie i suoi occhi mi fa- 
cevano provarle. Mi pareva di non offrire alla 
sua indagine una mano nuda, sì bene una parte 
nuda dell'anima; e ch'egli me la penetrasse con 
lo sguardo sino al fondo, scoprendone tutti i 
più riposti segreti. Non mai io aveva avuto della 
mia mano un tal sentimento; non mai m' era 
parsa cosi viva, cosi espressiva, così intima- 
mente legata al mio cuore, così dipendente 
dalla mia interna esistenza, così rivelatrice. Me 
l'agitava una vibrazione impercettibile ma con- 
tinua, sotto l'influenza dello sguardo; e la vi- 
brazione si propagava in sino all'intimo del mio 
essere. Talvolta il fremito diveniva. più forte e 
visibile; e, s'egli guardava con troppa intensità, 
mi prendeva un moto istintivo di ritrarla; e tal- 
volta il moto era di pudore. 



— 272 — 

Talvolta egli rimaneva lungamente fiso, senza 
disegnare; ed io avevo Y impressione che egli 
bevesse per le pupille qualche cosa di me o che 
mi accarezzasse con una carezza più molle 
del velluto sul quale si posava la mia mano. 
Di tratto in tratto, mentre stava chino sul foglio 
ad infondere forse nella linea quel ch'egli aveva 
da me bevuto, un sorriso lievissimo gli passava 
su la bocca, ma così lieve che a pena io po- 
teva coglierlo. E quel sorriso, non so perchè, 
mi dava a sommo del petto un tremolìo di pia- 
cere. Ancora, due o tre volte, ho veduto riappa- 
rire su la sua bocca la figura del bacio. 
Di tratto in tratto, la curiosità mi vinceva; e io 
domandavo: — Ebbene? 

Francesca stava seduta al pianoforte, con le 
spalle rivolte a noi ; e toccava i tasti cercando 
di ricordarsi la Gavotta di Luigi Rameau, la 
Gavotta delle dame gialle, quella che ho tanto 
sonata e che rimarrà come la memoria musi- 
cale della mia villeggiatura a Schifanoja. Smor- 
zava le note col pedale; e s'interr*ompeva spesso. 
E le interruzioni delFaria a me familiare e delle 
cadenze , che l' orecchio compiva precorrendo , 
erano per me un'altra inquietudine. D'improv- 
viso, ella ha battuto forte un tasto, ripetuta- 
mente, come sotto Furto di un'impazienza ner- 
vosa; e s' è levata , ed è andata a chinarsi sul 
disegno. 

L'ho guardata. Ho compreso. 

Mancava ancora quest'amarezza. Dio mi ri- 
serbava all'ultimo la prova più crudele. Sia fatta 
la sua volontà. 



— 273 — 

7 ottobre. — Io non ho che un solo pensiero, 
un solo desiderio, un solo proposito: partire, 
partire, partire. 

Sono air estremo delle forze. Io languo, lo 
muojo del mio amore; e l'inaspettata rivelazione 
moltiplica le mie mortali tristezze. Che pensa 
ella di me ? Che crede ? Ella dunque lo ama ? 
E da quando ? Ed egli lo sa ? non ne ha pure 
un sospetto?... 

Mio Dio, mio Dio ! La ragione mi si smarrisce, 
le forze mi abbandonano; il senso della realtà 
mi sfugge. A intervalli il mìo dolore ha una 
pausa, simile alle pause degli uragani quando 
le furie degU elen\enti si equilibrano in una ter- 
ribile immobilità per irrompere poi con più vio- 
lenza: Io rimango in una specie di stupefazione, 
con la testa pesante, con le membra stanche e 
rotte come se qualcuno mi avesse battuta; e 
mentre il dolore si raccoglie per darmi un nuovo 
assalto, io non riesco a raccogliere la mia vo- 
lontà. 

Che pensa ella di me ? Che pensa? Che crede? 

Esser disconosciuta da lei, dalla mia amica 
migliore, da quella che m'è più cara, da quella 
a cui il mio cuore fu sempre aperto! È la su- 
prema amarezza; è la prova più crudele riser- 
bata da Dio a chi ha fatto del sacrificio la legge 
della sua vita. 

Bisogna che io le parli, prima di partire. Bi- 
sogna ch'ella sappia tutto da me, ch'io sappia 
tutto da lei. Questo è il dovere. 

Notte. — Ella, verso le cinque, m'ha proposto 
B Piacere, 18 



— 274 — 

una passeggiata in carrozza per la via di Rovi- 
gliano. Siamo andate sole, in una carrozza sco- 
perta. Io pensava, tremando : — Ora le parlerò. 
— Ma il tremito interno mi toglieva ogni co- 
raggio. Aspettava ella forse che io, parlassi? 
Non so. 

Siam rimaste a lungo taciturne, ascoltando il 
trotto eguale de' due cavalli, guardando gli al- 
beri e le siepi che limitavano la via. Di tratto 
in tratto, con una frase breve o con un cenno, 
ella mi faceva notare una particolarità del paese 
autunnale. 

Tutto Fumano incanto dell'Autunno si diffon- 
deva in quell'ora. I raggi obliqui del vespro ac- 
cendevano per la collina la sorda e armoniosa 
ricchezza dei fogliami prossimi a morire. Pe'l 
soffio costante del greco nella nuova luna, 
un'agonia precoce prende gli alberi delle terre 
litoranee. L'oro, l'ambra, il croco, il giallo di 
solfo, l'ocra, l'arancio, il bistro, il rame, il ver- 
demare, l'amaranto, il paonazzo, la porpora, le 
tinte più disfatte, le gradazioni più violente e più 
delicate si mescolavano in un accordo profondo 
che nessuna melodia di primavera passerà mai 
di dolcezza. 

Indicandomi un gruppo di robinie, ella ha 
detto: — Guarda se non sembrano fiorite! 

Già secche, biancheggiavano d'un bianco un 
po' roseo, come grandi mandorli di marzo, contro 
il cielo turchino che già pendeva nel cinerino. 

Dopo un intervallo di silenzio, ho detto io, 
per cominciare : — Manuel verrà, certo, sabato. 
Aspetto per domani il suo telegramma. E do- 
menica partiremo, col treno della mattina. Tu 



— 275 — 

sei stata tanto buona con me, in questi giorni ; 
io ti son tanto grata- 
La voce mi tremava, un poco; una immensa 
tenerezza mi gonfiava il cuore. Ella m*ha presa 
la mano e Tha tenuta nella sua, senza parlarmi, 
senza guardarmi. E slamo rimaste a lungo ta- 
citurne, tenendoci per mano. 

Ella m'ha chiesto: — Quanto tempo ti tratterrai 
da tua madre? 

Io le ho risposto : — Sino alla fin deiranno, 
spero ; e forse più. 

— Tanto tempo? 

Di nuovo, abbiamo taciuto. Sentivo già che 
non avrei avuto il coraggio di affrontare la 
spiegazione; ed anche sentivo ch'era men ne- 
cessaria, ora. Mi pareva ch'ella ora mi si riav- 
vicinasse, m'intendesse, mi riconoscesse, di- 
, ventasse la mia sorella buona. La mia tristezza 
attraeva la sua tristezza, come la luna attrae 
le acque del mare. 

— Ascolta — ella ha detto ; poiché veniva .un 
canto di donne del paese, un canto largo, spie- 
gato, religioso, come un canto gregoriano. 

Più oltre abbiam visto le cantatrici. Escivano 
da un campo di girasoli secchi, camminando 
in fila, come una teoria sacra. E i girasoU in 
cima ai lunghi steli sulfurei senza foglie por- 
tavano i larghi dischi non coronati di petali né 
carichi di semi, ma somiglianti nella lor nudità 
ad emblemi liturgici, a pallidi ostensorii d'oro. 

La mia commozione è cresciuta. Il canto 
dietro di noi si dileguava nella sera. Abbiamo 
attraversato Rovigliano dove già i lumi si ac- 
cendevano; poi Siam di nuovo uscite nella strada 



— 276 — 

maestra. Dietro di noi si dileguava 11 suono 
delle campane. Un vento umido correva nelle 
cime degli alberi che mettevano su la strada 
bianca un'ombra azzurrognola e nell'aria un'om- 
bra direi quasi liquida come in un'acqua. 

— Non hai freddo? — ella m'ha chiesto; e ha 
ordinato al lacchè di spiegare un plaid e al 
cocchiere di voltare i cavalli pel ritorno. 

Nel campanile di Rovigliano una campana 
rintoccava ancora, con larghi rintocchi, come 
per una solennità religiosa; e pareva propagare 
nel vento con Tonda del suono un'onda di gelo. 
]?er un sentimento concorde, noi ci sia mo strette 
runa contro l'altra, tirandoci la coperta su i gi- 
nocchi,' comunicandoci il brivido a vicenda. E 
la carrozza entrava nel borgo, al passo. 

— Che sarà quella campana? — ella ha mor- 
morato, con una voce che non pareva più 
la sua. 

Ho risposto: — Se non m'inganno, esce il 
Viatico... 

Più oltre, in fatti, abbiamo visto il prete en- 
trare in una porta mentre un chierico teneva 
sollevato l'ombrello e due altri tenevano le lan- 
terne accese, diritti contro gli stipiti, su la so- 
glia. In quella casa una sola finestra era illu- 
minata, la finestra del cristiano che agonizzava 
aspettando l'Olio Santo. Ombre tenui apparivano 
sul chiarore; si disegnava lievissimamente su 
quel rettangolo di luce gialla tutto il dramma 
silenzioso che si muove intorno a chi sta per 
entrare nella morte. 

Uno de' due servi ha chiesto a bassa voce, 
chinandosi un poco dall'alto : — Chi muore ? — 



— 277 — 

LlnteiTogato ha risposto un nome di donna, nel 
suo dialetto. 

E io avrei voluto attenuare il romor delle 
ruote su i ciottoli, avrei voluto rendere tacito 
il nostro passaggio in quel luogo ov' era per 
passare il soffio d'uno spirito. Francesca, certo, 
aveva lo stesso sentimento. 

La carrozza ha^^agginnta la strada di Schi- 
fanoja, riprendendo il trotto. La luna, cerchiata 
di aloni, splendeva come un opale in un latte 
diafano. Una catena di nuvole sorgeva dal mare 
e si svolgeva a poco a poco in forma di globi, 
come un fumo volubile. Il mare mosso copriva 
col suo rombo tutfi gli altri romori. Non mai, 
penso, una più grave tristezza strinse due anime. 

Io ho sentito su le mie gote fredde un tepore, 
e mi son rivolta a Francesca per vedere s'ella 
si fosse accorta che piangevo. Ho incontrati i 
suoi occhi pieni di pianto. E siam rimaste mute, 
runa accanto all' altra, con la bocca serrata, 
stringendoci le mani, sapendo di piangere per 
lui; e le lacrime scendevano a goccia a goccia, 
silenziosamente. 

In vicinanza di Schifanoja, io ho asciugate le 
mie; ella, le sue. Ciascuna nascondeva la pro- 
pria debolezza. 

Egli era, con Delfina, con Muriella e con Fer- 
dinando, ad attenderci nell'atrio. Perchè ho pro- 
vato ili fondo al cuore, verso di lui, un senso 
vago di diffidenza, come se un istinto mi av- 
vertisse d'un oscuro danno? Quali dolori mi ri- 
serba l'avvenire ? Potrò io sottrarmi alla pas- 
sione che m'attira abbacinandomi? 

Pure, quanto bene mi hanno fatto quelle poche 



— 278 — 

lacrime ! Mi sento meno oppressa, meno riarsa, 
più fidente. E provo una tenerezza indicibile nel 
ripetere da me sola TUltima Passeggiata, mentre 
Delfina dorme felice di tutti i folli baci che le 
ho dati nella faccia e mentre sorridono su' vetri 
le malinconie della luna che dianzi mi ha vista 
piangere. 

8 ottobre. — Questa notte ho dormito? Ho ve- 
gliato? Io non so dirlo. 

Oscuramente, a traverso il mio cervello, come 
ombre spesse, guizzavano terribili pensieri, ima- 
gini di dolore insostenibili; e il mio cuore aveva 
urti e sussulti improvvisi, e io mi ritrovava 
con gli occhi aperti nelle tenebre, senza sapere 
se uscivo da un -sogno o se fino allora ero stata 
desta a pensare o a imaginare. E questa specie 
di dubbio dormiveglia, assai più torturante del- 
rinsonnio durava, durava, durava. 

Nondimeno , quando ho udita la voce matu- 
tina di mia figlia chiamarmi, non ho risposto; 
ho finto di dormire profondamente, peTTimrle- 
varìnr, -per rimanere ancora là, per temporeg- 
giare, per allontanare ancora un poco da me 
l'inesorabile certezza delle realità necessarie. Le 
torture del pensiero e dell'imaginazione mi pa- 
revano pur sempre men crudeli delle torture 
imprevedibili che in questi due ultimi giorni mi 
prepara la vita. 

Dopo poco. Delfina è venuta in punta di piedi, 
trattenendo il respiro, a guardarmi ; e ha detto 
a Dorothy, con una voce mossa da un gentile 
tremito: — Come dorme! Non la svegliamo. 



— 279 — 

Notte, — Mi pare di non aver più una goccia 
di sangue nelle vene. Mentre salivo le scale mi 
pareva che, ad ogni sforzo per superare un 
gradino, il sangue e la vita mi fuggissero da 
tutte le vene- aperte. Sono debole come una mo- 
rente.... 

Coraggio, coraggio! Ancora poche ore riman- 
gono; Manuel giungerà domattina; partiremo 
domenica; lunedi saremo da mia madre. 

Ho reso, dianzi, a lui due o tre libri che mi 
aveva prestati. Nel libro di Percy Shelley, alla 
fine d' una strofa, ho inciso con V unghia due 
versi e ho messo un segnale visibile alla pagina. 
I versi dicono: 

" And forget me, for J can never 
Be thine! „ 

'' E dimenticami, perchè io non posso mai 
esser tua! „ 

9 ottobre, notte, — Tutto il giorno, tutto il 
giorno egli ha^_cercatii-Un momento per par- 
larmi. La sua sofferenza era manifesta. E tutto 
il giorno io ho cercato di .sfuggirgli^ perchè egli 
non mi gittasse nell'anima altri semi di dolore, 
di desiderio, di rimpianto, di rimorso. Ho vinto; 
sono stata forte ed eroica. Vi ringrazio, mio Dio! 

Questa è l'ultima notte. Domattina partiremo. 
Tutto sarà finito. 

Tutto sarà finito? Una voce mi parla, nel pro- 
fondo; e io non comprendo, ma so che mi parla 
di sciagure lontane, ignote e pure inevitabili, 
misteriose e pure inesecrabili come la morte. 



— 280 -^ 

L'avvenire è lugubre, come un campo pieno 
di fosse già scavate e pronte per ricevere ca- 
daveri ; e sul campo qua e là ardono pallidi 
fanali ch*io a pena scorgo ; e non so se ardano 
per attrarmi nel pericolo o per mostrarmi una 
via di salvezza. 

Ho riletto il Giornale, attentamente, lenta- 
mente , dal 15 di settembre , dal giorno eh' io 
giunsi. Quanta differenza da quella prima notte 
a quest'ultima ! 

Io scriveva: '' Mi sveglierò in una casa amica, 
nella cordiale ospitalità di Francesca, in que- 
sta Schifanoja che ha rose cosi belle e cipressi 
cosi grandi; e mi sveglierò avendo innanzi a 
me qualche settimana di pace, venti giorni d'e- 
sistenza spirituale, forse più.... „ Ahimè , dov' è 
andata la pace ? E le rose, cosi belle , perchè 
sono state anche cosi perfide? Troppo, forse, 
ho ajjerto il cuore ai profumi , incominciando 
da quella notte, su la loggia, mentre Delfina 
dormiva. Ora la luna d' ottobre allaga il cielo ; 
e io vedo a traverso i vetri le punte dei ci- 
pressi, nere e immutabili, che in quella notte 
toccavano le stelle. 

Una sola frase di quel preludio io posso ri- 
petere in questa fine trista. "Tanti capelli nel 
mio capo , tante spighe di dolore nel mio de- 
stino. „ Le spighe si moltiplicano, s'inalzano, 
ondeggiano come un mare; e non è anche 
estratto dalle miniere il ferro per foggiar la 
falce. 

10 parto. Che accadrà di lui, quando io sarò 
lontana? Che accadrà di Francesca? 

11 mutamento di Francesca è pur sempre in- 



— 281 — 

comprensibile , inesplicabile ; è un enigma che 
mi tortura e mi confonde. Ella lo ama ! E da 
quando? Ed egli lo sa? 

Anima mìa, confessa la nuova miseria. Un'al- 
tra infezione ti avvelena. Tu sei gelosa. 

Ma io son preparata ad ogni più atroce sof- 
ferenza; io so il martirio che mi aspetta; io so 
che i supplizi di questi giorni non son nulla al 
confronto dei supplizi prossimi, della terribile 
croce a cui i miei pensieri legheranno T anima 
mia per divorarla. Io son preparata. Chiedo sol- 
tanto una tregua, o Signore, una breve tregua 
per le ore che rimangono. Avrò bisogno di tutta 
la mia forza, domani. 

Come stranamente, nelle diverse vicende della 
vita, talvolta le circostanze esterne si rassomi- 
gliano, si riscontrano! Stasera, nella saia del 
vestibolo, mi pareva d'esser tornata alla sera 
del 16 settembre, quanto cantai e sonai; quando 
egli incominciò ad occuparmi. Anche stasera io 
sedeva al pianoforte, e la stessa luce cupa il- 
luminava la sala e nella stanza attigua Manuel 
e il Marchese giocavano; ed ho sonato la Ga- 
vetta delle dame gialle, quella che piace tanto 
a Francesca, quella che il 16 di settembre udii 
ripetere mentre vegliavo nelle prime vaghe in- 
quietudini notturne. 

Certe dame biondette, non più giovini ma a 
pena escite di giovinezza, vestite d'una smorta 
seta color d'un crisantemo giallo, la danzano 
con cavalieri adolescenti, vestiti di roseo, un po' 
svogliati; i quali portano nel cuore l' imagine 
d'altre donne più belle, la fiamma d'un nuovo 
desio. E la danzano in una sala troppo vasta, 



— 282 - 

che ha tutte le pareti coperte di specchi; la 
danzano sopra un pavimento intarsiato d'ama- 
ranto e di cedro, sotto un gran lampadario 
di cristallo dove le candele stanno per consu- 
marsi e non si consumano mai. E le dame hanno 
nelle bocche un poco appassite un sorriso tenue 
ma inestinguibile; e i cavalieri hanno negli occhi 
un tedio infinito. E un orinolo a pendolo segna 
sempre un'ora; e gli specchi ripetono ripetono 
ripetono sempre le stesse attitudini; e la Gavotta 
continua, continua, continua sempre dolce, sem- 
pre piana, sempre eguale, eternamente, come 
una pena. 

Quella malinconia m'attira. 

Non so perchè, la mia anima tende a quella 
forma di supplizio; è sedotta dalla perpetuità 
d' un dolore unico, dalla uniformità, dalla mo- 
notonia. Accetterebbe volentieri per tutta la vita 
una gravezza enorme, ma definita e immutabile, 
in vece della mutabilità, delle imprevedibili vi- 
cende, delle imprevedibili alternative. Pur es- 
sendo abituata alla sofferenza, ha paura dell'in- 
certo, teme le sorprese, teme gli urti improv- 
visi. Senza esitare un istante, in questa notte 
accetterebbe qualunque più grave condanna di 
dolore a patto d'essere assicurata contro gli 
ignoti agguati dell'avvenire. 

Mio Dio, mio Dio, da che mi viene una paura 
cosi cieca? Assicuratemi voi! Metto la mia anima 
nelle vostre mani. 

E ora basta questo tristo vaneggiare che pur 
troppo addensa l'angoscia in vece di alleviarla. 
Ma io so già che non potrò chiudere gli occhi 
se bene mi dolgano. 



— 283 — 

Egli, certo, non donne. Quando io sono ve- 
nuta su, egli, invitato, stava per prendere il po- 
sto del marchese al tavolo del giuoco, di fronte 
a mio marito. Giocano ancora? Forse egli pensa 
e soffre, giocando. Quali saranno i suoi pen- 
sieri? Quale sarà la sua sofferenza? 

Non ho sonno, non ho sonno. Vado su la log- 
gia. Voglio sapere se giocano ancora; o s'egli 
è tornato nelle sue stanze. Le sue finestre sono 
all'angolo, nel secondo piano. 

„,** La notte è lucida e umida. La sala del 
giuoco è illuminata; e io sg n rim ^a là, su la 
loggia, lungamente, a guardare in giù verso il 
chiarore che si rifletteva contro un cipresso 
mescendosi al chiarore della luna. Tremo tutta. 
Io non so ridire l'impressione quasi tragica che 
mi fanno quelle finestre illuminate, dietro le 
quali i due uomini giocano, l'uno di fronte al- 
l'altro, nel gran silenzio della notte a pena in- 
terrotto dai singhiozzi spenti del mare. E gio- 
cheranno forse fino all'alba, s'egli vorrà com- 
piacere la terribile passione di mio marito. Sa- 
remo in tre a vegliare fino all' alba, senza re- 
quie, per la passione. 

Ma che pensa egli? Qual'è la sua tortura? Io 
non so che darei, in questo momento, per po- 
terlo vedere, per poter restare fino all'alba a 
guardarlo, anche a traverso i vetri, nell'umidità 
della notte, tremando come tremo. I pensieri 
più folli mi balenano dentro e mi abbagliano, 
rapidi, confusi; ho come un principio di cattiva 
ebrezza; provo come una insti gazione sorda a 
far qualche cosa d'audace e d'irreparabile; sento 
come il fascino della perdizione. Mi toglierei. 



— 284 — 

sento, dal cuore questo peso enorme, mi toglie- 
rei dalla gola questo nodo che mi soffoca, se 
ora, nella notte, nel silenzio, con tutte le forze 
dell'anima io mi mettessi a gridare che l'amo, 
che ramo, che l'amo. „ 



— 285 — 



Alla partenza dei Ferres seguì dopo pochi 
giorni la partenza degli Ateleta e dello Sperelli 
per Roma. Donna Francesca volle abbreviare la 
sua villeggiatura a Schifanoja, contro il solito. 

Andrea, dopo una breve sosta a Napoli, giunse 
in Roma il 24 di ottobre' una domenica, con la 
prima gran pioggia mattutina d'autunno. Rien- 
trando nel suo appartamento della Casa Zuc- 
cari, nel prezioso' e delizioso baen retiro, proyii_ 
un piacere straordinario. Gli parve di ritrovare 
in quelle stanze qualche parte di sé, qualche 
cosa che gli mancava. Il luogo non era quasi 
in nulla mutato. Tutto, in torno, conservava 
ancora, per lui, quella inesprimibile apparenza 
di vita che acquistano gli oggetti materiali tra 
mezzo a cui l'uomo ha lungamente amato, so- 
gnato, goduto e sofferto. La vecchia Jenny e 
Terenzio avevano preso cura delle minime par- 
ticolarità; Stephen aveva preparato con alta 
squisitezza W comfort pel ritorno del signore. 



— 286 — 

Pioveva. Per qualche tempo, egli rimase con 
la fronte contro i vetri della finestra. a guar- 
dare la sua Roma, la grande città diletta, che 
appariva in fondo cinerea e qua e là argentea 
tra le rapide alternative della pioggia spinta e 
respinta dal capriccio del vento in un'atmosfera 
tutta egualmente grigia, ove ad intervalli si dif- 
fondeva un chiarore, sùbito dopo spegnendosi, 
come un sorridere fugace. La piazza della Tri- 
nità de' Monti era deserta, contemplata dall'obe- 
lisco solitario. Gli alberi del viale lungo il muro 
che congiunge la chiesa alla Villa Medici, si 
agitavano già seminudi, nerastri e rossastri al 
vento e alla pioggia. Il Pincio ancora vérdeg* 
giava, come un'isola in un lago nebbioso. 

Egli, guardando, non aveva un pensiero de- 
terminato ma un confuso viluppo di pensieri; 
e gli occupava l' anima un sentimento sover- 
chiante ogni altro: il pieno e vivace risveglio 
del suo vecchio amore per Roma, f^ev la dol- 
cissima Roma, per l'immensa augusta unica 
Roma, per la città delle città, per quella eh' è 
sempre giovine e sempre novella e sempre mi- 
steriosa, come il mare. 

Pioveva , pioveva. Su '1 Monte Mario il cielo 
si oscurava, le nuvole si addensavano, diven- 
tavano d' un color ceruleo cupo d' acqua rac- 
colta, si dilatavano verso il Gianicolo, si abbas- 
savano sul Vaticano. La cupola dì San Pietro 
toccava con la sommità quella enorme aduna- 
zione e pareva sostenerla, simile a una gigan- 
tesca pila di piombo. Tra le innumerevoli ri- 
ghe oblique dell' acqua si avanzava piano un 
vapore, a similitudine d'un velo tenuissimo che 



— 287 — 

passasse a traverso corde d'acciajo tese e con- 
tinuamente vibranti. La monotonìa del croscio 
non era interrotta da alcun altro strepito più 
vivo. 

— Che ora è? — chiese egli a Stephen, vol- 
gendosi. ' 

Erano le nove , circa. Egli si sentiva un po' 
stanco. Pensò di mettersi a dormire. Poi , an- 
che, pensò di non veder nessuno, nella gior- 
nata, e di passar la sera a casa in raccogli- 
mento. Ricominciava per lui la vita di città, la 
vita mondana. Egli voleva, prima di riprendere 
quel vecchio esercizio, darsi a una piccola me- 
ditazione e a una piccola preparazione, stabi- 
lire una regola, discutere seco medesimo qual 
dovesse essere la condotta futura. 

Ordinò a Stephen: 

— Se viene qualcuno a chiedere di me, dite- 
gli che non sono ancora tornato. Avvisate il 
portiere. Avvisate James che non ho più biso- 
di lui oggi ma che venga a prendere gli ordini 
questa sera. Fatemi preparare la colazione per 
le tre, leggerissima, e il pranzo per le nove. 
Niente altro. 

S'addormentò quasi sùbito. Alle due, il do- 
mestico lo svegliò; e gli annunziò che prima 
di mezzogiorno era venuto il duca ^ di Grimiti, 
avendo saputo dalla marchesa d'Ateleta il ri- 
torno. 

— Ebbene? 

— Il signor duca ha lasciato detto che sa- 
rebbe tornato prima di sera. 

— Piove ancora? Aprite interamente gli scuri. 
Non pioveva più. Il cielo s' era rischiarato. 



— 288 — 

Una zona di sole pallido entrò nella stanza, dif- 
fondendosi su r arazzo della Vergine col bam- 
bino Gesà e Stefano Sperelli, su Tantico arazzo 
che Giusto portò di Fiandra nel 1508. E li occhi 
di Andrea vagarono per le pareti , lentamente , 
riguardando le tappezzerie fini, le tinte armo- 
niose, le figure pie eh' erano state testimoni di 
tanti piaceri e avevano sorriso ai lieti risvegli 
ed anche avevan reso men tristi le vigilie del. 
ferito. Tutte quelle cose note ed amate parevano 
dargli un saluto. Egli le riguardava con un di- 
letto singolare. L' imagine di Donna Maria gli 
sorse nello spirito. 

Si sollevò un poco su i guanciali, accese una 
sigaretta, e sì mise a seguire il corso dei pen- 
sieri, con una specie di voluttà. Un benessere 
insolito gli occupava le membra, e lo spirito 
era in una felice disposizione. Egli mesceva le 
sue fantasie alle onde del fumo, in quella luce 
temperata ove i colori e le forme prendevano 
una vaghezza più blanda. 

Spontaneamente, i suoi pensieri non risali- 
vano verso i giorni scorsi ma andavano all'av- 
venire. — Egli avrebbe riveduta Donna Marini, 
fra due, fra tre mesi, chi sa?, forse anche as- 
sai prima; ed avrebbe allora riallacciato quel- 
l'amore che chiudeva per lui tante oscure pro- 
messe e tante segrete attrazioni. Sarebbe stato 
il vero secondo amore , con la profondità e la 
dolcezza e la tristezza d'un secondo amore. 
Donna Maria Ferres pareva essere, per un uomo 
d'intelletto, l'Amante Ideale, VAmie avec des han- 
e/ies^ secondo l'espressione di Carlo Baudelaire, 
la Consolatrix unica, quella che conforta e per- 



— 289 — 

dona sapendo perdonare. Certo, segnando nel 
libro dello Shelley i due versi dolenti, ella aveva 
dovuto in cuor suo ripetere altre parole; e, leg- 
gendo tutto intero il poema, aveva dovuto pian- 
gere come la Dama magnetica e pensar lunga- 
mente alla pietosa cura, alla miracolosa guari- 
gione. ^ I cari never be thine! ^^ Perche maif 
Con troppa angoscia di passione, quel giorno, 
nel bosco di Vicomile, ella aveva risposto: — 
Vi amo, vi amo, vi amo! 

Egli ancora udiva la voce di lei, Y indimenti- 
cabile voce. Ed Elena Muti gli enjxù- ne'pen- '- 
sieri, si avvicinò all'altra, si confuse con Tal- 
ira , evocata da quella voce; e a poco a poco 
gli volse i pensieri ad imagini di voluttà. Il letto 
dov'egli riposava e tutte le cose in torno, te- 
stimoni e complici delle ebrezze antiche, a poco 
a poco gli andavano suggerendo imagini di vo- 
luttà. Curiosamente, nella sua imaginazione egli 
cominciò a svestire la senese, ad involgerla del 
suo desiderio, a darle attitudini di abbandono, 
a vedersela tra le braccia , a goderla. Il pos- 
sesso materiale di quella donna cosi casta e 
cosi pura gli parve il più alto, il più nuovo, il 
più raro godimento a cui potesse egli giungere; 
e quella stanza gli parve il luogo più degno ad 
accogliere quel godimento, perchè avrebbe reso 
più acuto il singoiar sapore di profanazione e 
di sacrilegio che il segreto atto , secondo lui, 
doveva avere. 

La stanza era religiosa, come una cappella. 
V'erano riuftite quasi tutte le stoffe ecclesiasti- 
che da lui possedute e quasi tutti gli arazzi di 
soggetto sacro. Il letto sorgeva sopra un rialto 

Il Piacere. 19 



— 290 — 

di tre gradini, airombra d'un baldacchino di vel* 
luto controtagliato, veneziano, del secolo XVI, 
con fondo di argento dorato e con ornamenti 
d'un color rosso sbiadito a rilievi d'oro riccio; 
il quale in antico doveva essere un paramento 
sacro, poiché il disegno portava inscrizioni la- 
tine e i frutti del Sacrifizio: l'uva e le spiche. Un 
piccolo arazzo fiammingo, finissimo, intessuto 
d'oro di Cipro, raffigurante un'Annunciazione, 
copriva la testa del letto. Altri arazzi , con le 
armi gentilizie di casa Sperelli nell'ornato, co- 
privano le pareti, limitati alla parte superiore e 
alla parte inferiore da strisce in guisa di fregi 
su cui erano ricamate istorie della vita di Ma- 
ria Vergine e gesta di martiri, d'apostoli, di pro- 
feti. Un paliotto, raffigurante la Parabola delle 
vergini sagge e delle vergini folli, e due pezzi 
di pluviale componevano la tappezzeria del ca- 
minetto. Alcuni preziosi mobili di sacrestia, in 
legno scolpito, del secolo XV, compivano il pio 
addobbo, insieme con alcune majoliche di Luca 
della Robbia e con seggioloni ricoperti nella 
spalliera e nel piano da pezzi di dalmatiche 
raffiguranti i fatti della Creazione. Da per tutto 
poi, con un gusto pieno d'ingegnosità, erano 
adoperate a uso di ornamento e di comodo al- 
tre stoffe liturgiche : borse da calice, borse bat- 
tesimali, copricàlici, pianete, manipoli, stole, sto- 
loni, conopei. Su la tavola del caminetto, come 
su la tavola di un altare,, splendeva un gran 
trittico di Hans Memling, una Adorazione dei 
Magi, mettendo nella stanza la radiosità d'un 
capolavoro. 
In certe iscrizioni tessute ricorreva il nome 



— 291 ~ 

di Maria tra le parole della Salutazione Ange- 
lica; e in più parti la gran sigla M era ripetuta; 
in una, era anzi a ricamo di perle e di granati. 
— Entrando in questo luogo — pensava il deli- 
cato addobbatore — non crederà ella d'entrare 
nella sua Gloria? — E si compiacque a lungo y 
neir imaginar la istoria profana in mezzo alle 
istorie sacfe; e ancora una volta il senso este- 
tico e la raffinatezza della sensualità soverchia- 
rono e falsarono in lui il- sentimento schietto ed 
umano dell'amore. 

Stephen battè all'uscio, dicendo: 

— Mi permetto di avvertire il signor Conte che 
son già le tre. 

Andrea si levò; e passò nella camera ottago- 
nale, per abbigliarsi. Il sole entrava a traverso 
le tendine di merletto, facendo scintillare all'in- 
giro le mattonelle arabo ispané, gli innumerevoli ^ 
oggetti d'argento e di crìstallo, i bassi rilievi 
del sarcofago antico. Quei luccicori varii mette- 
vano^ nell'aria una mobile gaiezza. Egli si sentiva 
allegro, perfettamente guarito, pieno di vitalità. 
Il ritrovarsi nel suo home gli dava una letizia 
inesprimibile. Tutto ciò ch'era in lui più fatuo, 
più vano, più mondano, si risvegliava all'improv- 
viso. Pareva che le cose circonstanti avessero 
virtù di suscitare in lui l'uomo d'un tempo. La 
curiosità, l'elasticità, l'ubiquità spirituali riappa- 
rivano. Egh già incominciava ad aver bisogno 
dì espandersi, di rivedere amici, di rivedere ami- 
che, 'di godere. S'accorse d'aver molto appetito ; 
e ordinò al domestico di servirgli la colazione. 

Egh pranzava di rado a casa; ma, per le 
occasioni straordinarie, per qualche fino lury* 



— 292 — 

cheon d' amore o per qualche piccola cena ga- 
lante, aveva una camera ornata delle tappezze- 
rie napolitane d'alto liccio, del secolo XVIlI, che 
Carlo Sperelli ordinò al reale arazziere romano 
Pietro Duranti nel 1766, su disegni di Girolamo 
Storace. I sette pezzi delle pareti rappresenta- 
vano, con una certa copiosa magnificenza alla 
Rubens, episodii d'amori bacchici; e^le portiere, 
le sopraporte, le sopraflnestre rappresentavano 
frutta e fiori* Gli ori pallidi e fulvi, predominanti, 
e le carni periate e i cinabri e gli azzurri cupi 
facevano un accordo morbido e nudrito. 

— Quando tornerà il duca di Grimiti — disse 
egli al domestico — lo farete entrare. 

Anche là il sole, declinante verso Monte, Ma- 
rio, mandava raggi. Si udiva lo strepito delle 
carrozze su la piazza della Trinità de' Monti* Pa- 
reva che, dopo la pioggia, si fosse diffusa su 
Roma tutta la luminosa biondezza dell'ottobre 
romano. 

— Aprite le imposte, — disse al domestico. 
E lo strepito divenne più forte; entrò l' aria 

tepida; le tende ondeggiarono a pena. 

— Divina Roma! — egli pensò, guardando il 
cielo tra le alte tende. E una curiosità irresisti- 
bile lo trasse alla finestra. 

Roma appariva d'un color d'ardesia molto 
chiaro, con linee un po' indecise , come in una 
pittura dilavata, sotto un cielo di Claudio Lore- 
nese, umido e fresco, sparso di nuvole diafane in 
gruppi nobilissimi, che davano ai liberi intefvalli » 
una finezza indescrivibile, come i fiori dahno al 
verde una grazia nuova. Nelle lontananze, nelle 
alture estreme l'ardesia andavasi cangiando in 



— 293 — 

ametista. Liuif^lie e sottili zone di vapori attra- 
versavano i cipressi del Monte Mario, come ca- 
pigliature fluenti in un pettine di bronzo. Pros- 
simi, i pini del Monte Pincio alzavano li ombrelli 
dorati. Su la piazza Tobelisco di Pio VI pareva 
uno stelo d' àgata. Tutte le • cose prendevano 
un'apparenza più ricca, a quella ricca luce au- 
tunnale. 

— Divina Roma! 

Egli non sapeva saziarsi dello spettacolo. Guar- 
dò passare una torma di chierici rossi, di sotto 
alla chiesa; poi, la carrozza d'un prelato, nera, 
con due cavalli neri dalle code prolisse; poi, al- 
tre carrozze, scoperte, che portavano signore e 
bimbi. Riconobbe la principessa di Ferentino 
con Barbarella Viti; poi, la contessa di Lucoli 
che guidava due poneys seguita dal suo cane 
danese. Un soffio dell' antica vita gli passò su 
lo spirito e lo turbò e gli diede un'agitazione di 
desiderii indeterminati. 

Si ritrasse e si rimise a tavola. D'innanzi a lui 
il sole accendeva i cristalli e accendeva su la 
parete una saltazione di satiri intorno a un Si- 
leno. 

11 domestico annunziò: 

— Il signor duca con due altri signori. 

Ed entrarono il duca di Grimiti, Ludovico Bar- 
barisi e Giulio Muséllaro, mentre Andrea si le- 
vava per farsi loro in contro. Tutt' e tre , V un 
dopo l'altro, lo abbracciarono. 

— Giulio ! — esclamò lo Sperelli , rivedendo 
l'amico dopo due anni e più. — Da quanto sei 
a Roma? 

— Da una settimana. Volevo scriverti dgTschl- 



— 294 — 

fanoja, ma poi ho preferito aspettare che tu tor- 
nassi. Come stai? Ti trovo un po' dimagrato, ma 
bene. Soltanto qui a Roma ho saputo del tuo 
caso; altrimenti mi sarei partito dall' India per 
venirti ad assistere. Ai primi di maggio, mi tro- 
vavo in Padmavati, nel Bahar. Quante cose t'ho 
da raccontare! 

— E quante, anch'io! 

Si strinsero di nuovo le mani, cordialmente. 
Andrea pareva lietissimo. Questo Muséllaro gli 
era caro sopra tutti c:li altri amici, per la sua 
nobile intelligenza, per il suo spirito acuto, per 
la finezza della sua cultura. 

— Ruggero, Ludovico, sedete. Giulio, siedi qui. 

Egli offerse le sigarette, il tè, i liquori. La con- 
versazione si fece vivissima. Ruggero Grimiti 
e il Barbarisi davano le notizie di Roma, face- 
vano la piccola cronaca. Il fumo saliva nell'aria 
tingendosi ai raggi quasi orizzontali del sole; le 
tappezzerie s'armonizzavano in un color caldo 
e pastoso ; Paroma del tè si mesceva all'odor del 
tabacco. 

— T'ho portato un sacco di tè — disse il Mu- 
séllaro allo Sperelli — assai migliore di quello 
che beveva il tuo famoso Kien-Lung. 

— Ah, ti ricordi, a Londra, quando compone- 
vamo il tè, secondo la teoria poetica del grande 
Imperatore ? 

— Sai, — disse il Grimiti. — È a Roma Clara 
Green , la bionda. La vidi domenica per Villa 
Borghese. Mi riconobbe, mi salutò, e fece fer- 
mare la carrozza. Abita , per ora , all' albergo 
d'Europa, in piazza di Spagna. È ancora bella. Ti 
ricordi che passione ebbe per te e come ti per- 



— 295 — 

seguitò, quando tu eri innamorato della Land- 
brooke? Sùbito , mi chiese le tue notizie prima 
delle mie.... 

— La rivedrò volentieri. Ma si veste ancora 
di verde e si mette sul cappello i girasoli? 

— No, no. Ha abbandonato l' esteticismo per 
sempre , a quanto pare. S' è gettata alle piume. 
Domenica, portava un gran cappello alla Mont- 
pensier con una piuma favolosa. 

— Quest'anno — disse il Barbarisi — abbiamo 
una straordinaria abondanza di demi-mondaines. 
Ce ne sono tre o quattro a bastanza piacevoli. 
Giulia Arici ha un bellissimo corpo e le estre- 
mità discretamente signorili. È tornata anche la 
Silva, che jer l'altro il nostro amico Muséllaro 
conquistò con una pelle di pantera. È tornata 
Maria Fortuna, ma in rotta con Carlo de Souza 
che pel momento vien sostituito da Ruggero.... 

— La stagione è già dunque in flore? 

— Quest'anno, è precoce come non mai, per 
le peccatrici e per le impeccabili. 

— Quali delle impeccabili sono già a Roma? 

— Quasi tutte: la Moceto, la Viti, le due Daddi, 
la Micigliano, la Miano, la Massa d'Albe, la Lù- 
coli.... 

— La Lùcoli r ho veduta dianzi , dalla fine- 
stra. Guidava. Ho veduta anche tua cugina con 
la Viti. 

— Mia cugina è qui fino a domani. Domani 
tornerà a Frascati. Mercoledì darà una festa in 
villa, una specie di garden-party, alla maniera 
della principessa di Sagan. Non è prescritto il 
costume rigoroso, ma tutte le dame porteranno 
cappelli Louis XV o Directoire. Andremo. 



— 20G — 

— Tu per ora non ti moverai da Roma; è 
vero? — chiese il Grimiti allo Sperelli. 

— Rimarrò sino ai primissimi di novembre. 
Poi andrò in Francia per quindici giorni a ri- 
fornirmi di cavalli. E tornerò qui, verso la fin 
del mese. 

— À proposito, Leonetto Lanza vende Campo- 
morto — disse Ludovico. — Tu lo conosci : è un 
magnifico animale, e gran saltatore. Ti Qonver- 
rebbe. 

— Per quanto? 

\ — Per quindicimila, credo. 

— Vedremo. 

— Leonetto è prossimo alle nozze.' Sì è fidan- 
zato, in questa estate, a Aix-les-Bains, con la 
Ginosa. 

— Mi dimenticavo di dirti — fece il Muséllaro 
— che Galeazzo Seclnaro ti saluta. Siamo tor- 
nati insieme. Se ti raccontassi le gesta di Ga- 
leazzo, durante il viaggio! Ora è a Palermo, ma 
verrà a Roma in gennaio. 

— Ti saluta anche Gino Bommfnaco — ag- 
giunse il Barbarisi. 

— Ah, ah! — esclamò il duca, ridendo. — An- 
drea, bisogna che tu ti faccia raccontare da 
Gino la sua avventura con Donna Giulia Mo- 
ceto.... Tu sei al caso, io credo, di darci qual- 
che spiegazione in proposito. 

Anche Ludovico si mise a ridere. 

— So — disse Giulio Muséllaro — che qui a 
Roma hai fatto stragi meravigliose. Gratulor 
tibif 

— Ditemi , ditemi l' avventura -- sollecitava 
Andrea, curiosamente. 



- 297 — 

— Bisogna sentirla da Gino, per ridere. Tu 
conosci la mimica di Gino. Bisogna vedere la 
faccia ch'egli fa, quando arriva al punto culmi- 
nante. È un capolavoro! 

— La sentirò anche da lui — insisteva An- 
drea, punto dalla curiosità — ma accennami 
qualche cosa; ti prego. 

— Ecco, in due parole — consentì Ruggero 
Grimiti, posando sul tavolo la tazza, e accin- 
gendosi a raccontar la storiella, senza scrupoli 
e senza reticenze, con quella stupenda facilità 
con cui i giovini gentiluomini publicano i pec- 
cati delle loro e delle altrui dame. — Nella pri- 
mavera scorsa (non so se tu V abbia notato) 
Gino faceva a Donna Giulia una corte ardentis- 
sima, assai visibile. Alle Capannelle, la corte si 
mutò in ftirtation assai vivace. Donna Giulia 
era sul punto di capitolare; e Gino, al solito, 
era tutto in fiamme. L' occasione si presentò. 
Giovanni Moceto partì per Firenze, a portare i 
suoi cavalli slombati sul tur/ deWe Cascine. Una 
sera, una sera dei soliti mercoledì, anzi deirul- 
timo mercoledì, Gino pensò che il gran momento 
era giunto; e aspettò che tutti a uno a uno se 
ne andassero e che il salone rimanesse vuoto 
e ch'egli finalmente rimanesse solo, con lei.... 

— Qui — interruppe il Barbarisi — ci vor- 
rebbe ora Bomminaco. È inimitabile. Bisogna 
sentirgli fare, in napoletano, la descrizione del- 
Vambiente, e l'analisi del suo stato, e poi la ri- 
produzione del momento psicologico e del Jlsio- 
logico, com'egli dice, alla sua maniera. È d'una 
comicità irresistibile. 

— Dunque — seguitò Ruggero — dopo il prò- 



- 298 — 



Indio, che sentirai da lui, nel languore e nel 
Teccitazione erotica d'una. Jln de soirée, egli s'in- 
ginocchiò d'innanzi a Donna Giulia che stava 
seduta su una poltrona molto bassa, su una 
poltrona " imbottita di complicità „. Donna Giu- 
lia già naufragava nella dolcezza, difendendosi 
debolmente; e le mani di Gino divenivano sem- 
pre più temerarie, mentre ella già esalava il 
sospiro della dedizione.... Ahimè , dall' estrema 
temerità le mani si ritrassero con un moto istin- 
tivo come se avessero toccato la pelle d' una 
serpe, una cosa repugnante.... 

Andrea ruppe in uno scoppio dì risa cosi 
schietto che l'ilarità si propagò a tutti li amici. 
Egli aveva compreso, perchè sapeva. Ma Giulio 
Muséllaro disse, con gran premura, al Grimiti: 

— Spiegami! Spiegami! 

— Spiega tu — disse il Grimiti allo Sperelli. 

— Ecco — spiegò Andrea, ancora ridendo — 
conosci tii la più bella poesia di Teofìlo Gautier, 
il Musée secret? 

— dome barbe fémmine! — recitò il Mu- 
séllaro, ricordandosi. — E bene? 

— E bene , Giulia Moceto è una finissima 
bionda; ma se tu avessi la fortuna, che ti au- 
guro, di tirare le drap de la blonde qui dori, 
certo non troveresti, come Filippo di Borgogna, 
iltoson d'oro. E\\diè,&\(^ono, sans piume et sans 
duvet come i marmi di Paro che canta il Gautier. 

— Ah, una rarissima rarità che io apprezzo 
molto — disse il Muséllaro. 

— Una rarità che noi sappiamo apprezzare 
— ripetè Andrea. — Ma Gino Bommfnaco è un 
ingenuo, un semplice. 



n 



- S99 - 

— Ascolta, ascolta il resto — fece il Barbarisl. 

— Ah se ci fosse qui- l'eroe! — esclamò il 
duca di Grimiti. — La storiella in un'altra bocca 
perde tutto il sapore. Figurati dunque che la 
sorpresa fu tanta e tanta la confusione, da spe- 
gnere ogni fuoco. Gino dovette ritirarsi pruden- 
temente, per l'impossibilità assoluta d'andar più 
oltre. Te l'imagini ? T'imagini tu la terribile mor- 
tificazione d' un uomo che , essendo giunto ad 
ottener tutto , non può prender nulla ? Donna 
Giulia era verde; Gino fingeva di tender l'orec- 
chio ai rumori, per temporeggiare, sperando.... 
Ah, il racconto della ritirata è una meraviglia. 
Altro che Anabasi! Sentirai. 

— E Donna Giulia è poi diventata l'amante di 
Gino ? - — domandò Andrea. 

— Mai! Il povero Gino non mangerà mai di 
quel frutto; e credo che ne morrà di ramma- 
rico, cfi desiderio, di curiosità. Si sfoga a riderne, 
con gli amici; ma tu osservalo bene, quando 
racconta. Sotto la buffoneria c'è la passione. 

— . Bel soggetto per una novella — disse An- 
drea al Muséllaro. — Non ti pare? Una novella 
intitolata L'Ossesso.,.. Si potrebbe fare una cosa 
assai fine e intensa. L'uomo, continuamente oc- 
cupato, incalzato, angustiato dalla visione fan- 
tastica di quella rara forma ch'egli ha toccata 
e quindi imaginata ma non goduta né con li 
occhi vista, si consuma di passione a poco a 
poco e diventa folle. Egli non può togliersi dalle 
dita l'impressione di quel contatto; ma il primo 
ribrezzo istintivo gli si muta in un ardore ine- 
stinguibile.... Si potrebbe in somma, sul fondo 
reale, lavorar d'arte: ottener qualche cosa come 



— 300- 

iin racconto di un Hoffmann erotico, scritto con 
la precisione plastica d'un Flaubert, 

— Provati. 

— Chi sa! Del resto, io compiango il povero 
Gino. La Moceto ha, dicono, il più bel ventre 
della Cristianità.... 

— Mi piace quel " dicono „ — interruppe Rug- 
gero Grimiti. 

— ... il ventre d'una Pandora infeconda, una 
coppa d'avorio, uno scudo raggiante, speculum 
voluptatis; e il più perfetto ombelico che si co- 
nosca, un piccolo ombelico circonlflesso , come 
nelle terre cotte di Clodion, un puro suggello 
di grazia, un occhio cieco ma più splendido di 
un astro, voluptatis ocellus, da celebrarsi in un 
epigramma degno dell'antologia greca. 

Andrea si eccitava, in quei discorsi. Secon- 
dato dalli amici, entrò in un dialogo delle bel- 
lezze delle donne assai men castigato di tinello 
del Firenzuola. Si risvegliavano in lui, dopo la 
lunga astinenza, le sensualità antiche; ed egli 
parlava con un calore intimo e profondo, da 
gran conoscitor del nudo, compiacendosi delle 
parole più colorite, sottilizzando come un arti- 
sta e come un libertino. E, in verità, il dialogo 
di quei quattro giovini signori tra quelle dilet- 
tose tappezzerie bacchiche, se fosse stato rac- 
colto, avrebbe potuto ben essere il Breviarium 
arcanum della corruzione elegante in questa 
fine del XIX secolo. 

Il giorno moriva; ma l'aria era ancora pre- 
gna di luce, ritenendo la luce come una spu- 
gna ritiene V acqua. Si vedeva, per la finestra, 
all'orizzonte una striscia aranciata su cui i ci- 



iJ 



— 301 — 

pressi del Monte Mario si disegnavan netti come 
i denti d'un gran rastrello d'ebano. Si udivano 
di tratto in tratto 1 gridi delle cornacchie tra- 
svolanti in gruppi a riunirsi su i tetti della Villa 
Medici per discender poi nella Villa Borghese, 
nella piccola valle del* sonno. 

— Glie fai tu stasera? — chiese ad Andrea il 
Barbarisi. 

— Veramente, non so. 

— Vieni allora con noi. Per le otto abbiamo 
. un pranzo dai Doney, al Teatro Nazionale. Inau- 
guriamo il nuovo Restaurant, anzi i cabinets 
partlcaliers del nuovo Restaurant , dove al- 
meno non dovremo rassegnarci, dopo le ostri- 
che, allo scoprimento afrodisiaco della Giuditta 
e della Bagnante, come al caffè di Roma. Pepe 
academico su ostriche finte.... 

— Vieni con noi , vieni con noi — sollecitò 
Giulio Muséllaro. 

— Siamo noi tre — aggiunse il duca — con 
Giulia Arici, con la Silva e con Maria Fortuna. 
Ah, una bellissima idea! Vieni con Clara Green. 

— Bellissima idea! f— ripetè Ludovico. 

— E dove trovo io Clara Green? 

— All'Albergo d'Europa, qui accanto, in piazza 
di Spagna. Un tuo biglietto la renderà felice. Sii 
certo che lascerà qualunque impegno. 

Ad Andrea piacque la proposta. 
— Sarà megho — disse — ch'io vada a farle 
una visita. È probabile ch'ella sia rientrata. Non 
ti pare, Ruggero? 

— Vestiti, e usciamo sùbito. 

Uscirono. Clara Green era rientrata da poco 
all'albergo. Accolse Andrea con una gioja in- 



— 302 — 

fantile. Ella, certo, avrebbe preferito di pran- 
zar sola con lui; ma accettò Tinvito senza esi- 
tare; scrisse un biglietto per liberarsi da un im- 
pegno ^anteriore; mandò a un'amica la chiave 
d*un palco. Ella pareva felice. Si mise a raccon- 
targli una quantità di sue storie ^eìltimentali; 
gli fece una quantità di domande sentimentali; 
gli giurò ch'ella non aveva mai potuto dimen- 
ticarlo. Parlava, tenendo le mani di lui nelle sue. 

— / love you more than any words can say, 
Andrew.... 

Ella era ancor giovine. Con quel suo profilo 
puro e diritto, coronato dai capelli biondi, di- 
visi su la fronte in un'acconciatura bassa, pa- 
reva una bellezza greca in un Keepsake. Aveva 
una certa incipriatura estetica, lasciatagli dal- 
l'amor del poeta pittore Adolphus Jeckyll; il 
quale seguiva in poesia John Keats e in pittura 
THolman Hunt, componendo oscuri sonetti e 
dipingendo soggetti presi alla Vita nuova. Ella 
aveva " posato „ per una Sibylla palmi/era e 
per una Madonna del Giglio. Aveva anche " po- 
sato „, una volta innanzi ad Andrea, per uno 
studio dì testa da servire all'acquaforte dell'/sa- 
hetta nella novella del Boccaccio. Era dunque 
nobilitata dall'arte. Ma, in fondo, non posse- 
deva alcuna qualità spirituale; anzi, a lungo an- 
dare, la rendeva un po' stucchevole quel certo 
sentimentali?mo esaltato che non di rado s'in- 
contra nelle donne di piacere inglesi e che fa 
uno strano contrasto con le depravazioni della 
loro lascivia. 

— Who would flave thought we should stand 
again together, Andrew! 



— 303 — 

Dopo un'ora, Andrea la lasciò e risalì al pa- 
lazzo Zuccari, per la scaletta che dalla piazza 
Mignanelli porta alla Trinità. Giungeva alla sca- 
letta solitaria il rumore della città nella sera 
mite di ottobre. Le stelle riscintillavano in un cielo 
umido e terso. Di sotto alla casa dei Casteldel- 
flno , a traverso un piccolo cancello , le piante 
in un chiarore misterioso agitavano ombre va- 
ghe, senza un fruscio, come piante marine flut- 
tuanti in fondo a un aquario. Dalla casa, da una 
finestra con le tendine rosse illuminate, veniva 
il suono d'un pianoforte. Le campane della chiesa 
rintoccarono. Egli si senti d'improvviso pesare 
il cuore. Un ricordo di Donna Maria lo riempi, 
d'improvviso; e gli suscitò in confuso un senso 
di rammarico e quasi di pentimento. — Che fa- 
ceva ella in quell'ora? Pensava? Soffriva? — Con 
r imagine della senese gli si affacciò alla me- 
moria la vecchia città toscana: il Duomo bianco 
e nero, la Loggia, la Fonte. Una grave tristezza 
l'occupò. Gli parve che qualche cosa dal fondo 
del suo cuore si fosse involato; ed egli non sa- 
peva bene qual fosse , ma n' era afflitto come 
d'una perdita irrimediabile. 

Ripensò al proposito suo della mattina. — Una 
sera in solitudine, nella casa dove ella forse un 
giorno sarebbe venuta; una sera malinconica ma 
dolce, in compagnia dei ricordi e dei sogni, in 
compagnia dello spirito di lei; una sera di me- 
ditazione e di raccoglimento! — In verità, il pro- 
posito non poteva meglio esser tenuto. Egli 
stava per recarsi a un pranzo di amici e di 
donne; e, senza dubbio, avrebbe passata la notte 
con Clara Green. 



— 304 — 

Il pentimento gli fu cosi insoffribile» gli diede 
tale tortura, ch'egli si abbigliò con insolita pron- 
tezza, saltò nel coupé e si fece condurre all'al- 
bergo, prima deir ora. Trovò Clara già pronta. 
Le offerse un giro in coi/joé per le vie di Roma, 
durante il tempo che mancava alle otto. 

Passarono per la via del Babuino, intorno l'o- 
belisco nella piazza del Popolo, quindi su pel 
Corso e a destra per la via della Fontanella di 
Borghese; ritornarono per Montecitorio al Corso 
fino alla piazza di Venezia e quindi su al Tear- 
tro Nazionale. Clara cinguettava di continuo, e 
di tratto in tratto sì chinava verso il giovine 
per mettergli un mezzo bacio su l'angolo della 
bocca, coprendo l'atto furtivo con un ventaglio 
di piume bianche d'onde esciva un profumo di 
white-rose assai fine. Ma Andrea pareva non 
ascoltasse e all'atto di lei sorrideva a pena. 

— Che pensi? — le chiese ella, pronunciando 
le parole italiane con un poco d'incertezza ch'era 
una grazia. 

— Nulla, — rispose Andrea, prendendole una 
mano non ancora inguantata e guardando li 
anelli. 

— Chi lo sa! — sospirò ella, dando un'espres- 
sione singolare a que' tre monosillabi che le 
donne straniere imparano sùbito; ne' quali esse 
credono sia racchiusa tutta la malinconia del- 
l'amore italiano. — Chi lo sa! 

Poi soggiunse, con un accento quasi suppli- 
chevole: 

— Love me this evening, Andrew! 
Andrea le baciò un orecchio, le passò un 'brac- 
cio intorno al busto , le disse una quantità di 



— 305 — 

cose sciocche, cambiò umore. Il Corso era po- 
poloso, le vetrine splendevano, i venditori di 
giornali strillavano, vetture publiclie e signorili 
s'incrociavano col coupé, dalla piazza Colonna 
alla piazza di Venezia si spandeva tutta l'anima- 
zione serale della vita di Roma. 

Quando entrarono dai Doney, le otto erano 
passate di dieci minuti. Gli altri sei commensali 
erano già presenti. Andrea Sperelli salutò la com- 
pagnia e, portando per mano Clara Green, disse: 

— Ecce Miss Clara Green, anelila Domini, Si- 
bylla paìmifera, candida puella. 

— Ora prò nobis — risposero in coro il Mu- 
séllaro, il Barbarisi e il Grimiti. Le donne risero, 
ma senza capire. Clara sorrise; e, fuor del man- 
tello, appariva in abito bianco, semplice, corto, 
con una scollatura a punta sul petto e su le 
spalle, con un nastro verdemare su l'omero si- 
nistro, con due smeraldi alli orecchi, disinvolta 
sotto il triplice esame di Giulia Arici, di Bébé 
Silva e di Maria Fortuna. 

Il Muséllaro e il Grimiti la -conoscevano. Il 
Barbarisi le fu presentato. Andrea diceva: 

— Mercedes Silva, nominata Bébé, chicapero 
gaapa. 

— Maria Fortuna, la bella Talismano , che è 
una vera Fortuna publica... per questa Roma 
che ha la fortuna di possederla. 

Quindi, volgendosi al Barbarisi: 

— Fateci voi V onore di presentarci a quella 
dama, che, se non m'inganno, è la divina Giulia 
Farnese. 

— No: Arici — interruppe Giulia. 

— Chiedo perdóno, ma per crederlo ho biso- 
II Piacere. 20 



— 306 — 

f?no di raccop:licre tutta la mia buona fedo e di 
consultare il Pinturicchio nella Sala Quinta. 

Egli diceva queste sciocchezze senza ridere, 
dilettandosi ad empir di stupefazione o d'irrita 
zione la dolce ignoranza di quelle oche belle. 
Aveva, quando si trovava nel demi-monde, una 
sua maniera e un suo stile particolari. Per non 
annoiarsi, si metteva a compor frasi grottesche, 
a gittar paradossi enormi , atroci impertinenze 
dissimulate con Y ambiguità delle parole, sotti- 
gliezze incomprensibili, madrigali enigmatici, in 
una lingua originale, mista come un gergo, di 
mille sapori come un' olla podrida rabelesiana, 
carica di spezie forti e di polpe succulente. Nes- 
suno meglio di lui sapeva raccontare una no- 
velletta grassa, un aneddoto scandaloso, una 
gesta da Casanova. Nessuno , nella descrizione 
d'una cosa di voluttà, sapeva meglio di lui tro- 
vare la parola lubrica ma precisa e possente, 
la vera parola di carne e d'ossa, la frase piena 
di midolla sostanziale, la frase che vive e re- 
spira e palpita come la cosa di cui ritrae la forma, 
comunicando all'uditor degno un piacere duplice, 
un godimento non pur dell'intelletto ma dei sensi, 
una gioia simile in parte a quella che produ- 
cono certe pitture dei grandi maestri coloristi, 
impastate di porpora e di latte, bagnate come 
nella transparenza d'un'ambra liquida, impre- 
gnate d' un oro caldo e inestinguibilmente lu- 
minoso come un sangue immortale. 

— Chi è il Pinturicchio? — domandò Giulia 
Arici al Barbarisi. 

— Il Pinturicchio? — esclamò Andrea. — Un 
superficiale riquadratore di stanze, che qualche 



— 307 — 

tempo fa ebbe la fantasia di dipingervi sopra 
una porta, neir appartamento del papa. Non ci 
pensate più. È morto. 

— Ma come?... 

— Oh, in una maniera spaventevole! La mo- 
glie era l'amante d' un soldato di Perugia , che 
stava di guarnigione a Siena... Domaudatene a 
Ludovico. Egli sa tutto ; ma non ve n' ha mai 
parlato, per tema d'affliggervi. Bébé, ti avverto 
che il principe di Galles a tavola comincia a 
fumare tra il secondo e il terzo piatto; non prima. 
Tu anticipi alquanto. 

La Silva aveva accesa una sigaretta; e inghiot- 
tiva le ostriche mentre il fumo le usciva dalle 
narici. Ella somigliava un collegiale senza sesso, 
un piccolo ermafrodito vizioso: pallida, magra, 
con li occhi avvivati dalla febbre e dal carbone, 
con la bocca troppo rossa, con i capelli corti, 
lanosi, un po' ricci, che le coprivano la testa a 
guisa d'un caschetto d'astrakan. Teneva inca- 
strata neir occhiaia sinistra una lente rotonda; 
portava un alto solino inamidato , la cravatta 
bianca, il panciotto aperto, una giacca nera di 
tagho maschile, una gardenia all'occhiello, af- 
fettando le maniere d' un dandy , parlando con 
una voce rauca. E attirava, tentava, per quella 
impronta di vizio, di depravazione, di mostruo- 
sità, ch'era nel suo aspetto, nelle sue attitudini, 
nelle sue parole. Sai y pimìenta. 

Maria Fortuna in vece aveva il tipo un po' 
bovino, era una Madame de Parabère, tendente 
alla pinguedine. Come la bella amante del Reg- 
gente possedeva una carne bianca, d'una bian- 
chezza opaca e profonda, una di quelle carni in- 



- 308 — 

stancabili e insaziabili su cui Ercole avrebbe 
potuto compiere la sua impresa d'amore, la sua 
tredicesima fatica, senza sentirsi chieder tregua. 
E li occhi le nuotavano, molli viole, in un'om- 
bra alla Cremona e la bocca sempre socchiusa 
mostrava in un'ombra rosata un luccicor vago 
di madreperla, come una conchiglia socchiusa. 

Giulia Arici piaceva molto allo Sperelli , per 
quel suo color dorato, sul quale s'aprivano due 
lunghi occhi di velluto, d'un morbido velluto 
castagno che talvolta prendeva riflessi quasi 
fulvi. Il naso un po' carnoso e le labbra tumide, 
fresche, sanguigne, dure, le formavano nel basso 
del viso un'espressione d'aperta lascivia, resa 
ancor più vivace dall'irrequietudine della lingua. 
I canini, essendo troppo forti, le sollevavano li 
angoli della bocca; e , come li angoli così sol- 
levati si facevano arìdi o le davano forse un 
lieve fastidio , ella ad ogni tratto con la punta 
della lingua li inumidiva. E si vedeva ad ogni 
tratto scorrere per la chiostra dei denti quella 
punta, come la foglia bagnata d'una rosa grassa 
per una fila di piccole mandorle nude. 
• — Julia — disse Andrea Sperelli, guardandole 
la bocca — San Bernardino ha per voi in un suo 
sermone un epiteto meravighoso. E anche questo 
non sapete, voi! 

L'Arici si mise a ridere, d' un riso ebete ma 
bellissimo, che le scopriva un poco le gencive ; 
e nell'agitazione ilare usciva da lei un profumo 
più acuto come quando viene scosso un ce- 
spuglio. 

— Che mi date — soggiunse Andi*ea — che 
mi date in compenso se, estraendo dal sermone 



— 309 — 

del santo quella parola voluttuosa, come da un 
tesoro teologale una pietra afrodisiaca, io ve la 
offro? 

— - Non so — rispose l'Arici, sempre ridendo 
e tenendo tra le dita a bastanza fini e lunghette 
un bicchiere con vin di Chablis. — Quel che - 
volete. 

— Il sostantivo deiradjettivo. 

— Che dite? 

— Ne discorreremo. La parola è: linguatica. 
Messer Lodovico, aggiugnete alle vostre li- 
tanie questa appellazione : " Rosa linguatica, 
glabe nos. „ 

— Peccato — disse il Muséllaro — che tu non 
sia alla mensa di un duca del secolo XVI, tra una 
Violante e una Imperia, con Giulio Romano, con 
Pietro Aretino e con Marc'Antonio! 

La conversazione audavasi accendendo nei 
vini, nei vecchi vini di Francia, fluidi e ardenti, 
che danno ali e fiamme al verbo. Le majoliche 
non eran durantine, istoriate dal cavalier Ci- 
priano dei Piccolpasso, né le argenterie eran 
quelle milanesi di Ludovico il Moro; ma uè 
pure erano troppo volgari. Nel mezzo della ta- 
vola un vaso di cristallo, azzurro conteneva un 
gran mazzo di crisantemi gialli, bianchi, violacei, 
su cui si posavano li occhi malinconici di Clara 
Green. 

— Clara, — chiese Ruggero Grimiti, — siete 
triste? A che pensate? 

— A ma chimère! — rispose l'antica amante 
di Adolphus Jeckyll, sorridendo ; e chiuse il so- 
spiro nel cerchio d'un bicchiere colmo di Sciam- 
pagna. 



— 310 — 

Quel vino chiaro e brillante, che ha su le 
donne una virtù cosi pronta e cosi strana, già 
incominciava ad eccitare variamente i cervelli 
e le matrici di quelle quattro etàire ineguali, a 
risvegliare e a stimolare in loro il piccolo de- 
mone isterico e a farlo correre per tutti i loro 
nervi propagando la follia. Bébé Silva gittava 
motti orribili, ridendo d'un riso soffocato e con- 
vulso e quasi singhiozzante come quel d'una 
donna che sia per morir di solletico. Maria 
Fortuna schiacciava ìfondants col gomito nudo 
e li offeriva per niente, premendo poi su la 
bocca di Ruggero il gomito dolcificato. Giulia 
Arici, oppressa dai madrigali dello Sperelli, si 
turava li orecchi con le belle mani, abbando- 
nandosi alla spalliera; e la sua bocca, in quel- 
l'atto attirava i morsi come un frutto sugoso. 

— Hai mangiato mai — diceva il Barbarisi 
allo Sperelli — certe confetture di Costantinopoli, 
morbide come una pasta, fatte di bergamotto, 
di fiori d'arancio e di rose, che profumano l'alito 
per tutta la vita? La bocca di Giulia è una con- 
fettura orientale. 

— Ti prego, Ludovico — diceva lo Sperelli — 
lasciamela provare. Conquistami Clara Green e 
cedimi Giulia per una settimana. Clara anche 
ha un sapore originale: un giulebbe di violette 
di Parma tra due biscotti Peek-Frean alla vai- 
niglia.... 

— Attenti, signori! — gridò Bébé Silva, pren- 
dendo un fondant 

Ella aveva vista la piacevolezza di Maria For- 
tuna e aveva fatta la scommessa ginnica di 
mangiarsi un fondant sul suo proprio gomito 



- 311 — 

tirandoselo fin presso alle labbra. Per eseguire X 
il giuoco, si scopri il braccio : un braccio magro 
e pallido, sparso di lanugine scura; appiccicò 
il fondant alVosso acuto; e, stringendosi con la 
mano sinistra l'antibraccio destro e facendo 
forza, riuscì a vincere la scommessa, con Tabi- 
lità d'un clown, tra gli applausi. 

— E questo è niente — disse ella ricoprendosi 
la nudità spettrale* — Chicapero guapa; è vero, 
Musèllaro? 

Ed accese la decima sigaretta. 

L'odor del tabacco era così delizioso che tutti 
vollero fumarne. L'astuccio della Silva passò di 
mano in mano. Maria Fortuna lesse ad alta voce 
su l'argento smaltato dell'astuccio: 
— '' Quia nominor Bébé. „ 

Allora tutte desiderarono d' avere un motto, 
un'impresa da mettere su i fazzoletti, su la 
carta da lettere, su le camicie. La cosa parve 
loro molto aristocratica, sommamente elegante. 

— Chi mi trova un motto? — esclamò l'an- 
tica amante di Carlo de Souza. — Lo voglio 
latino. 

— Io — disse Andrea Sperelli. — - Eccolo: 
" Semper parata. „ 

— No. ■ 

— '' Diu saepe fortiter. „ 

— Che vuol dire ? 

— E che t'importa di saperlo? Basta che sia 
latino. Eccone un altro, magnifico: " Non timeo 
dona ferentes. „ 

— Mi piace poco. Non m'è nuovo.... 

— E allora, questo : " Rarae nates cum gur- 
gite vasto, „ 



— 312 — 

— È troppo comune. Lo leggo tante volte nelle 
cronache dei giornali.... 

Ludovico, Giulio, Ruggero ridevano in coro, 
sonoramente. Il fumo delle sigarettQ si spandeva 
su le teste formando leggeri nimbi azzurrognoli. 
A intervalli veniva dair orchestra del Teatro 
un'onda di suoni, nell'aria calala; e faceva can- 
tarellare Bébé. Clara Green sfogliava nel suo 
piatto i crisantemi, in silenzio, poiché il vin 
bianco e leggiere le si era convertito nelle vene 
in un languor triste. Per quelli che già la co- 
noscevano, un tal sentimentalismo bacchico 
non era nuovo; e il duca di Grimiti si divertiva 
a provocarne Teffusione. Ella non rispondeva, 
seguitando a sfogliare nel piatto i crisantemi e 
stringendo le labbra, quasi per trattenere il 
pianto. Come Andrea Sperelli si curava poco di 
lei e sì dava ad una pazza allegria di atti e di 
parole, meravigliando perfino i suoi compagni 
di piacere, ella disse con una voce suppliche- 
vole, tra il coro delle altre voci:' 

— Love me io-night, Andrew! 

E da allora in poi, quasi ad intervalli misu- 
rati, levando di sul piatto lo sguardo ceruleo, 
si mise a supphcare languidamente: 

— Love me to-night, Andrew ! 

— Oh che lagno ! — fece Maria Fortuna. — 
Ma che significa? Si sente male? 

Bebé Silva fumava, beveva bicchierini di vieux 
cognac e diceva cose enormi, con una vivacità 
artifiziale. Ma aveva, a quando a quando, mo- 
menti di stanchezza, di prostrazione, stranis- 
simi, ne' quali pareva che qualche cosa le ca- 
desse dal volto e che nella sua figura sfrontata 



— 313 — 

e oscena entrasse non so quaV piccola figura 
triste, miserevole, malata, pensierosa, più vec- 
chia, della vecchiezza d'una bertuccia tisica che 
si ritragga in fondo alla sua gabbia a tossire 
dopo aver fatto ridere la gente. Erano momenti 
fuggevoli. Ella si riscoteva per bere un altro 
sorso per dire un'altra enormità. 

E Clara Green a ripetere: 

— Love me to-nigìit, Andrew I 



314 - 



XI. 



Così, d'un balzo, Andrea Sperelli si rltuflfò nel 
Piacere. 

Per quindici giorni lo occuparono Giulia Arici 
e Clara Green. Poi partì per Parigi e per Lon- 
dra, in compagnia del Muséllaro. Tornò a Roma 
verso la metà di decembre; trovò la vita in- 
vernale già molto mossa; fu sùbito ripreso nel 
gran cerchio mondano. 

Ma egli non s* era mai trovato in una dispo- 
sìzion di spirito più inquieta, più incerta, più 
confusa; non aveva mai provato dentro di sé 
uno scontento più molesto, un malessere più 
importuno ; né mai aveva provato contro di se 
medesimo impeti d' ira e moti di disgusto più 
crudeli. Talvolta , in qualche stanca ora di so- 
litudine, egli si sentiva salire dalle profonde vi- 
scere Tamarezza, come una nausea improvvisa; 
e rimaneva là ad assaporarla, torpidamente, 
senza aver la forza di cacciarla fuori, con una 



— 315 — 

specie di rassegnazione cupa, come un malato 
che abbia perduta ogni fiducia di guarire e sia 
disposto a vivere del suo proprio male, a rac- 
cogliersi nella sua sofferenza, a profondarsi 
nella sua miseria mortale. Gli pareva che di 
nuovo l' antica lebbra gli si dilatasse per Y a- 
nima e di nuovo il cuore gU si vuotasse per 
non riempirsi più mai, come un otre forato, 
irreparabilmente. Il senso di questa vacuità, la 
certezza di questa irreparabilità gli movevano 
talvolta una specie di collera disperata e poi 
un disprezzo folle di sé medesimo, del suo vo- 
lere, delle ultime sue speranze, delli ultimi suoi 
sogni. Egli era giunto a un terribile momento, 
incalzato dalla vita inesorabile, dall'implacabile 
passione della vita; era giunto al momento su- 
premo della salvezza o della perdizione, al mo- 
mento decisivo in cui i grandi cuori rivelano 
tutta la loro forza e i piccoli cuori tutta la loro 
viltà. Egli si lasciò sopraffare; non ebbe il co- 
raggio di salvarsi con un atto volontario; pur 
essendo in balìa del dolore , ebbe paura d' un 
dolore più virile; pur essendo travagliato dal 
disgusto, ebbe paura di rinunziare a ciò che lo 
disgustava; pur avendo in sé vivo e spietato 
l' istinto del distacco dalle cose che più pare- 
vano attrarlo, ebbe paura di allontanarsi da 
quelle cose. Egli si lasciò abbattere; abdicò in- 
tieramente e per sempre alla sua volontà, alla 
sua energia , alla sua dignità interiore ; sacri- 
ficò per sempre quel che gli rimaneva di fede 
e d'idealità; si gittò nella vita, come in una 
grande avventura senza scopo, alla ricerca del 
godimento,, deiroccasione, dell' attimo felice, af- 



— 316 — 

fidandosi al destino, alle vicende del caso , al- 
l'accozzo fortuito delle cagioni. Ma, mentre egli 
credeva con questa specie di fatalismo cinico 
mettere un argine alla sofferenza e conquistare 
se non la calma almeno l'ottusità, in lui di 
continuo la sensibilità al dolore diveniva più 
acuta, le facoltà di soffrire si moltiplicavano, i 
bisogni e i disgusti aumentavano senza fine. 
Egli esperimentava ora la profonda verità delle 
parole che aveva dette un giorno a Maria Fer- 
res, in un momento di confidenza e di malinco- 
nia sentimentali: — Altri sono più infelici; ma 
io non so se ci sia stato al mondo uomo men 
felice di me. — Egli esperimentava ora la ve- 
rità di quelle parole dette in un momento as- 
sai dolce, quando gli illuminava T anima T illu- 
sione di una seconda giovinezza, il presenti- 
mento d'una nuova vita. 

E pure, quel giorno, parlando a quella crea- 
tura, egli era stato sincero come non mai; egli 
aveva espresso il suo pensiero con ingenuità 
e candore, come non mai. Perchè, in un soffio, 
tutto s'era dileguato, tutto era svanito? Perchè 
non aveva saputo egli nutrire quella fiamma 
nel suo cuore? Perchè non aveva saputo cu- 
stodire quella memoria e tenere quella fede? 
La sua legge era dunque la mutabilità; il suo 
spirito aveva l'inconsistenza d'un fluido; tutto 
in lui si trasformava e si difformava, senza 
tregua; la forza morale gli mancava intiera- 
mente; il suo essere morale si componeva di 
contraddizioni; l'unità, la semplicità, la sponta- 
neità gli sfuggivano ; a traverso il tumulto , la 
voce del dovere non gli giungeva più; la voce 



— 317 — 

del volere veniva soverchiata da quella degli 
istinti; la conscienza, come un astro senza luce 
propria, ad ogni tratto si eclissava. Tale era 
stato sempre; tale sarebbe stato sempre. Per- 
chè, dunque, combattere contro so medesimo? 
Cui bona f 

Ma a punto codesta lotta era una necessità 
della sua vita ; a punto codesta irrequietudine 
era una condizione essenziale della sua esi- 
stenza; a punto codesta sofferenza era una 
condanna a cui non avrebbe egli potuto sot- 
trarsi già mai. • 

Qualunque tentativo di analisi su sé mede- 
simo si risolveva in una maggiore incertezza, 
in una maggiore oscurità. Essendo egli intera- 
mente sfornito di forza sintetica, la sua analisi 
diveniva un crudele giuoco distruttore. E da 
un'ora di riflessione su sé medesimo egli usciva 
confuso, disfatto, disperato, perduto. 

Quando, la mattina del 30 dicembre, nella via 
dei Condotti, inaspettatamente, si rincontrò con 
Elena Muti, egli ebbe una commozione inespri- 
mibile, come d'innanzi al compiersi d'un fato 
meraviglioso, come se il riapparir di quella 
donna in quel momento tristissimo della sua 
vita avvenisse per virtù d' una predestinazione 
ed ella gli fosse inviata per soccorso ultimo o 
per ultimo danno nel naufragio oscuro. Il primo 
moto dell'anima sua fu di ricongiungersi a lei, 
dì riprenderla, di riconquistarla, di ripossederla 
tutta quanta, come un tempo , di rinnovare la 
passione antica con tutte le ebrezze e tutti gli 
j splendori. Il primo moto fu di giubilo e di spe- 
i ranza. Poi, senza indugio, risorsero la diffidenza 



/ 



— 318 — 

e il dubbio e la gelosìa; senza indugio, Toccupò 
la certezza che nessun prodigio mai avrebbe 
potuto risuscitare sol una minima parte della 
felicità morta , riprodurre sol un baleno dell' e- 
brezza spenta, sol un'ombra dell'illusione sparita. 

Ella era venuta, ella era venuta! Era rien- 
trata nel luogo dove ogni cosa per lei custo- 
diva un ricordo e aveva detto : — Io non sono 
più tua, non potrò essere tua più mai. — Aveva 
gridato, contro di lui: — Soffriresti tu di spar- 
tire con altri il mio corpo ? — Proprio , aveva 
osato gridar quelle parole, contro di lui, in quel 
luogo, in conspetto di quelle cose! 

Un dolore atroce, enorme, fatto di mille pun- 
ture l'una dall'altra distinte e l'una più dell'al- 
tra acute, lo tenne per qualche tempo e V esa- 
sperò. La passione lo riavvolse con mille fuochi, 
suscitandogli un inestinguibile ardore carnale 
per Quella donna non più sua , risvegliandogli 
nella memoria tutte le più minute particola- 
rità dei godimenti lontani , le imagini di tutte 
le carezze , di tutte le attitudini di lei nel pia- 
cere, di tutte le folli mescolanze che non sazia- 
vano né appagavano mai la loro brama di con- 
tinuo rinascente. E pur sempre, in ogni sua 
imaginazione, persisteva quella strana difficoltà 
a ricongiungere r Elena d' una volta all' Elena 
d'ora. Mentre i ricordi del possesso lo accen- 
devano e lo torturavano , la certezza del pos- 
sesso gli sfuggiva : TElena d'ora gli pareva una 
donna nuova, non mai goduta, non mai stretta 
11 desiderio gli diede tali spasimi ch'egli credè 
morirne. L'impurità l'infettò come un tossico. 

L'impurità, che allora la fiamma alata dell'a- 



— 319 — 

nima velava d'un velo sacro e circondava d'un 
mistero quasi divino, appariva ora senza il velo, 
senza il mistero della fiamma , come una la- 
scivia interamente carnale, come una libidine 
bassa. Ed egli sentiva che quel suo ardore non 
era r Amore e che non aveva più nulla di co- 
mune con l'Amore. Non era l'Amore. Ella gli 
aveva gridato : — Soffriresti tu di spartire con 
altri il mio corpo ? — E bene, sì, egli l'avrebbe 
sofferto ! 

Egli l'avrebbe presa, senza ripugnanza, così 
come veniva, contaminata dall'abbraccio di un 
altro; avrebbe messa la sua carezza su la ca- 
rezza di un altro; avrebbe premuto il suo bacio 
sul bacìo di un altro. 

Nulla più, nulla più, dunque, in lui rimaneva 
intatto. Anche il ricordo della grande passione 
si corrompeva miseramente, si bruttava, s'av- 
viliva, in lui. L'ultimo barlume di speranza era 
estinto. In fine, egli toccava il fondo, per non 
rialzarsi mai più. 

Ma una orribile smania l'invase, di atterrare, 
l'idolo che rimanevagli pur sempre alzato ed 
enigmatico d'innanzi. Con una cinica crudeltà 
egli si mise a scalzarlo, ad oscurarlo, a corro* 
derlo. L'analisi distruggitrice, ch'egli già aveva 
esperimentata su sé medesimo, gli servi contro 
di Elena. A tutte le interrogazioni del dubbio, che 
un tempo egli aveva voluto sfuggire, ora cercò 
una risposta; di tutti i sospetti, che un tempo 
apparivano e si dileguavano senza lasciar trac- 
cia, ora studiò l'origine, ritrovò la giustifica- 
zione, ottenne la conferma. Egli credeva di tro- 
vare un sollievo in questa disgraziata opera 



— 320 — 

d'abbattimento; e aumentava la sua sofiferenza, 
irritava il suo male, allargava le sue macchie. 
Quale era stata la cagion vera della partenza 
di Elena, nel marzo del 1885? — Molte dicerie 
eran corse in quel tempo e nel tempo del ma- 
trimonio di lei con Humphrey Heathfleld. La ve- 
rità era una sola. Egli la seppe da Giulio Mu- 
séllaro, per caso, in mezzo a chiacchiere incon- 
cludenti, una sera, uscendo da un teatro; e non 
ne dubitò. Donna Elena Muti era partita per af- 
fari di finanza, per combinare "un'operazione,, 
che doveva trarla da gravissimi imbarazzi pe- 
cuniarii causati dalla sua eccessiva prodigalità. 
Il matrimonio con lord Heathfleld Taveva sal- 
vata da una rovina. Questo Heathfleld, marchese 
di Mount Edgcumbe e conte di Bradford, posse- 
deva ricchezze considerevoli ed era alleato con 
la più alta nobiltà britanna. Donna Elena aveva 
saputo far le sue cose con molto accorgimento; 
aveva saputo escir dal pericolo con un'abilità 
straordinaria. Certo, i suoi tre anni di vedovanza 
pon parevano essere stati un casto intermezzo 
preparatorio alle seconde nozze. Non casto e né 
anche cauto. Ma, senza dubbio. Donna Elena era 
una gran donna.... 

— Ah, mio caro, una gran donna! — ripetè 
Giulio Muséllaro. — E tu lo sai bene. 

Andrea tacque. 

— Ma non ti consiglio di riavvicinarti — sog- 
giunse l'amico, gittando via la sigaretta che tra 
una chiacchiera e l'altra gli si era spenta. — 
Riaccendere un amore è come riaccendere una 
sigaretta. Il tabacco s'invelenisce; l'amore, an- 
che. Andiamo a prendere una tazza di tè dalla 



— 321 — 

Moceto? M'ha detto che si può andare da lei 
dopo il teatro: non è mai tardi. 

Erano sotto il palazzetto Borghese. 

— Va tu — disse Andrea. — Io torno a casa, 
a dormire. La caccia d'oggi m'ha un po' stan- 
cato. Salutami Donna Giulia. Comprends et 
prends. 

Il Muséllaro sali. Andrea seguitò giù per la 
Fontanella di Borghese e per i Condotti, verso 
la Trinità. Era una notte di gennajo frejlda e se- 
rena, una di quelle prodigiose notti jemali che 
fanno di Roma una città d'argento chiusa in una 
sfera di diamante. La luna piena, a mezzo del 
cielo, versava la triplice purezza della luce, del 
gelo e del silenzio. 

Egli camminava, sotto la luna, come un son- ^y 
nambulo, non avendo conscienza che del suo 
dolore. L'ultimo colpo era dato; l'idolo crollava; 
nulla più rimaneva su la gran rovina; tutto cosi 
finiva, per sempre. — Ella, dunque, veramente 
non l'aveva mai amato. Senza esitare, aveva 
troncato l'amore per provvedere a un dissesto. 
Senza esitare, aveva concluso un matrimonio 
utile. Ora, d'innanzi a lui, prendeva un'attitu- 
dine di martire, si avvolgeva in un velo di sposa 
inviolabile! — Un riso amaro gli saliva dal 
fondo; e poi una collera sorda gli si mosse con- 
tro la donna e l'accecò. I ricordi della passione 
non valsero. Tutte le cose di quel tempo gli ap- 
parvero come un solo inganno, enorme e cru- 
dele, come una sola menzogna; e quest'uomo 
che dell'inganno e della menzogna s'era fatto 
nella vita un abito, quest'uomo che aveva in- 
gannato e mentito tante volte, si sentì, al pen- 
II Piacere, 21 



— 322 — 

siero deiraltrui frode, offendere, sdegnare, dis- 
gustare come da una colpa imperdonabile, come 
da una mostruosità inescusabile, ed anche ine- 
splicabile. Egli non giungeva in fatti a spiegarsi 
come Elena avesse potuto commettere un tal 
delitto; e, pur non giungendovi, non le conce- 
deva alcuna giustificazione, non accoglieva il 
dubbio che una qualche altra segreta cagione 
l'avesse spinta alla fuga subitanea. Egli non sa- 
peva vedere che l'azione brutale, la bassezza, la 
volgarità: la volgarità, sopra tutto, cruda, aperta, 
odiosa, non attenuata da nessuna contingenza. 
In somma, si trattava di questo: una passione, 
che pareva sincera ed era giurata altissima, 
inestinguibile, veniva ad essere interrotta da un 
affar di denaro, da una utilità materiale, da un 
negozio. 

"Ingrato! Ingrato! Che sai tu di quel eh' è ac- 
caduto, di quel ch'io ho sofferto? Che sai?,, Le 
parole di Elena gli tornarono nella memoria, 
precise; tutte le parole di lei, dal principio alla 
fine del colloquio tenuto innanzi al caminetto, 
gli tornarono nella memoria: le parole di tene- 
rezza, le offerte di fraternità, tutte quelle frasi 
sentimentali. Ed egli ripensò anche alla lacrima 
che le avea velato li occhi, alle mutazioni del 
volto, al tremito, alla voce soffocata dell'addio 
quando egli le aveva posato su le ginocchia il 
fascio delle rose. — Perchè mai aveva ella con- 
sentito a venir nella casa? Perchè aveva voluto 
recitar quella parte, provocar quella scena, or- 
dire quel nuovo dramma o quella nuova come- 
dia? Perchè? 

Era giunto alla sommità della scala, nella 



— 323 — 

piazza deserta. La bellezza della notte gli diede, 
d'improvviso, un'aspirazione vaga ma affannosa 
verso un Bene sconosciuto; Timagine di Donna 
Maria gli attraversò lo spirito; il cuore gli pal- 
pitò forte, come all'urto d'un desiderio; gli ba- 
lenò il pensiero di tener le mani di Donna Maria 
nelle sue, di piegare sul cuor di lei la fronte e 
di sentirsi da lei consolare senza parole, pieto- 
samente. Quel bisogno di pietà, di rifugio, di com- 
pianto fu come l'ultimo tratto dell'anima che 
non si rassegnava a perire. Egli chinò il capo 
e rientrò nella casa, senza più volgersi a guar- 
dare la notte. 

Terenzio l'aspettava, nell'anticamera, e lo se- 
guì fin nella stanza da letto, dove il fuoco era 
acceso. Domandò: 

— Il signor Conte va a letto sùbito? 

— No, Terenzio. Portami il tè — rispose il si- 
gnore, sedendosi innanzi al camino e tendendo 
le palme verso la fiamma. 

Egli tremava, d'un piccolo tremito nervoso. 
Aveva pronunziate quelle parole con una strana 
dolcezza; aveva chiamato a nome il domestico; 
gli aveva dato del tu. 

— Ha freddo il signor Conte ? — domandò Te- 
renzio, con una premura affettuosa, incorag- 
giato dalla benevolenza del signore. 

E si chinò su gli alari a ravvivare il fuoco, 
aggiungendo altre legne. Egli era un vecchio 
servo di casa Sperelli; aveva servito il padre di 
Andrea per molti anni ; e la sua devozione pel 
giovine giungeva sino all'idolatria. Nessuna 
creatura umana gli pareva più bella, più nobile, 
più sacra. Egli apparteneva, in verità, a quella 



— 324 — 

ideal razza che fornisce i servi fedeli ai romanzi 
d'avventura o di sentimento. Ma, a differenza 
de' servi romanzeschi, parlava di rado, non dava 
consigli, non d'altro s'occupava che d'obedire. 

— Va bene così — disse Andrea, cercando di 
vincere il tremito convulso, accostandosi al 
fuoco. 

La presenza del vecchio, in quella cattiva ora, 
lo commoveva singolarmente. Era una commo- 
zione simile in parte alla debolezza che, in pre- 
senza d'una persona buona, prende gli uomini 
prima del suicidio. Non mai, come in quell'ora, 
il vecchio gU aveva suscitato il pensiero del pa- 
dre, la memoria del caro estinto, il rimpianto 
del grande amico perduto. Non mai, come in 
quell'ora, egli aveva provato il bisogno d'un 
conforto familiare, della voce e della mano pa- 
terna. Che avrebbe detto il padre se avesse ve- 
duto il figliuolo accasciato nell'orribile miseria? 
Come l'avrebbe sollevato? Con quale forza? 

Il suo pensiero andava al morto, con un im- 
menso rammarico. Ma non era in lui né men 
l'ombra del sospetto, che la causa remota della 
sua miseria fosse nel primo insegnamento pa- 
terno. 

Terenzio portò il tè. Quindi si mise a prepa- 
rare il letto, con lentezza, con una cura quasi 
feminile, emulando Jenny, non dimenticando 
nulla, sembrando voler assicurare al signore, 
fino al mattino, un riposo perfettissimo, un sonno 
imperturbabile. Andrea lo guardava, notandone 
ogni atto, con una commozione crescente, in 
fondo a cui era anche non so qual vago senso 
di pudore. Gli faceva male la bontà di quel veo 



— 325 — 

chio intorno a quel letto per ove eran passati 
tanti amori immondi ; gli pareva quasi ciie quelle 
mani senili rimescolassero tutte le impurità, in- 
consapevolmente. 

— Va a dormire , Terenzio — egli disse. — 
Non ho bisogno d'altro. 

Rimase solo, d' innanzi al fuoco, solo con l'a- 
nima sua, solo con la sua tristezza. Si levò, agi- 
tato dal tormento interiore, e si mise a percor- 
rere la stanza. L'incalzava la visione della testa 
di Elena sul guanciale scoperto del letto. Ad 
ogni tratto, quando giunto d'innanzi alla finestra 
si rivolgeva, credeva di vederla; e n'aveva un 
sussulto. I suoi nervi erano cosi estenuati che 
secondavano ogni disordine della fantasìa. L'al- 
lucinazione diveniva più intensa. Egli si fermò, 
nascose la faccia tra le palme, per contenere 
l'eccitamento. Poi tirò sul guanciale la coperta; 
e andò a risedersi. 

Gli sorse nello spirito un'altra imagine: Elena 
tra le braccia del marito: ancora una volta, con 
una esattezza implacabile. 

Egli ora conosceva meglio questo marito. Pro- 
prio in quella sera, al teatro, in un palco, egli 
era stato a lui presentato da Elena e 1' aveva 
osservato attentamente, minutamente, con acuta 
ricerca, come per averne qualche rivelazione, 
come per strappargli un segreto. Udiva ancora 
la voce di lui, una voce d'un timbro singolare, 
un po' stridula, che dava ad ogni principio di 
frase una intonazione interrogativa; e vedeva 
quelli occhi chiari chiari sotto la gran fronte 
convessa, quelli occhi che prendevano talvolta 
i riflessi morti d'un vetro o s'animavano d'un 



— 326 — 

bagliore indefinibile, simile un poco allo sguardo 
d'un maniaco. E vedeva anche quelle mani bian- 
chicce, molli, sparse d'una peluria biondissima, 
che avevano qualche cosa d'inverecondo in ogni 
loro moto, nel prendere il binocolo, nello spie- 
gare il fazzoletto, nel posarsi sul davanzale del 
palco, nello sfogliare il libretto dell'opera, in 
ogni loro moto : mani improntate di vizio, mani 
sàdiche, poiché tali forse dovevan esser quelle 
di certi personaggi del Sade. 
T Egli vedeva quelle mani toccare la nudità di 

Elena, contaminare il corpo bellissimo, tentare 
una lascivia curiosa.... Orrore! 

Il supplizio era insostenibile. Egli si levò, di 
nuovo; andò alla finestra, l' apri, rabbrividì al- 
l' aria fredda, si scosse. La Trinità de' Monti 
splendeva noli' azzurro , con lineamenti netti , 
come intagliata in un marmo a pena a pena 
roseo. Roma, sotto, aveva un luccicor cristal- 
lino, come una città scavata in un ghiacciajo. 

Quella quiete gelida e precisa gli ricondusse 
lo spirito alla realità, gli ridiede la conscienza 
vera del suo stato. Egli richiuse, e tornò a se- 
dersi. L'enigma di Elena lo attrasse ancora; le 
interrogazioni gli risorsero in tumulto, lo in- 
calzarono. Ma ebbe la forza di ordinarle, di coor- 
dinarle, di esaminarle a una a una, con una 
strana lucidità. Come più procedeva nell'analisi, 
più acquistava di lucidità; e di quella sua cru- 
dele psicologia godeva come d'una vendetta. In 
fine, gli pareva d'aver denudata un'anima, d'a- 
ver penetrato un mistero. Gli pareva, in fine, 
di possedere Elena assai più a dentro che non 
al tempo dell'ebrezza. 



— 327 — 

Chi era ella mai? 

Era uno spirito senza equilibrio in un corpo 
voluttuario. A similitudine di tutte le creature 
avide di piacere, ella aveva per fondamento del 
suo essere morale uno smisurato egoismo. La 
sua facoltà precipua, il suo asse intellettuale , 
per dir cosi, era V imaginazione : una imagina- 
zione romantica, nudrita di letture diverse, di- 
rettamente dipendente dalla matrice, continua- 
mente stimolata dall'isterismo. Possedendo una 
certa intelligenza, essendo stata educata nel 
lusso d'una casa romana principesca, in quel 
lusso papale fatto di arte e di storia, ella erasi 
velata d'una vaga incipriatura estetica, aveva 
acquistato un gusto elegante; ed avendo anche 
compreso il carattere della sua bellezza , ella 
cercava, con finissime simulazioni e con una 
mimica sapiente , di accrescerne la spiritualità, 
irraggiando una capziosa luce d'ideale. 

Ella portava quindi, nella comedia umana, 
elementi pericolosissimi; ed era occasion di 
mina e di disordine più che s' ella facesse pu- 
blica professione d'impudicizia. 

Sotto l'ardore della imaginazione, ogni suo ca- 
priccio prendeva un'apparenza patetica. Ella era 
la donna delle passioni fulminee, degli incendii 
improvvisi. Ella copriva di fiamme eteree i bi- 
sogni erotici della sua carne e sapeva transfor- 
mare in* alto sentimento un basso appetito.... 

Cosi, in questo modo, con questa ferocia, An- 
drea giudicava la donna un tempo adorata. Pro- 
cedeva, nel suo esame spietato, senza arrestarsi 
d' innanzi ad alcun ricordo più vivo. In fondo 
ad ogqi atto, a ogni manifestazione dell' amor 



— 328 — 

d'Elena trovava l'artifizio, lo studio, l'abilità, la 
mirabile disinvoltura nell' eseguire un tema di 
fantasia, nel recitare una parte dramatica, nel 
combinare una scena straordinaria. Egli non la- 
sciò intatto alcuno de' più memorabili episodii: 
né il primo incontro al pranzo di casa Ateleta, 
né la Vendita del cardinale Immenraet, né il 
ballo dell'ambasciata di Francia, né la dedizione 
improvvisa nella stanza rossa del palazzo Bar- 
berini, né il congedo su la via Nomentana nel 
tramonto di marzo. Quel magico vino che prima 
lo aveva inebriato ora gli pareva una mistura 
perfida. 

Ben però , in qualche punto , egli rimaneva 
perplesso, come se, penetrando nell'anima della 
donna , egli penetrasse nell' anima sua propria 
e ritrovasse la sua propria falsità nella falsità 
di lei; tanta era l'affinità delle due nature. E a 
poco a poco il disprezzo gli si mutò in una in- 
dulgenza ironica, poiché egli comprendeva. Com- 
prendeva tutto ciò che ritrovava in sé medesimo. 

Allora, con fredda chiarezza, defli)ì il suo in- 
tendimento. 

Tutte le particolarità del colloquio avvenuto 
nel giorno di San Silvestro, più d'una settimana 
innanzi, tutte gli tornarono alla memoria; ed 
egli si piacque a riconstruir la scena, con una 
specie di cinico sorriso interiore, senza più sde- 
gno, senza concitazione alcuna, sorridendo di 
Elena, sorridendo di sé medesimo. — Perché 
ella era venuta? Era venuta perché quel con- 
vegno inaspettato, con un antico amante, In un 
luogo noto, dopo due anni, le era parso stranOy 
aveva tentato il suo spirito avido di commo- 



— 329 — 

zioni rare, aveva tentata la sua fantasia e la 
sua curiosità. Ella voleva ora vedere a quali 
nuove situazioni e a quali nuove combinazioni 
di fatti l'avrebbe condotta questo giuoco singo- 
lare. L'attirava forse la novità di un amor pla- 
tonico con la persona medesima ch'era già stata 
oggetto d'una passion sensuale. Come sempre, 
ella erasi messa con un certo ardore all' ima- 
ginazione d'un tal sentimento; e poteva an- 
che darsi eh' ella credesse d' esser smcera e 
che da questa Imaginatà sincerità avesse tratto 
gli accenti di profonda tenerezza e le attitu- 
dini dolenti e le lacrime. Accadeva in lei un 
fenomeno a lui ben noto. Ella giungeva a 
creder verace e grave un moto dell'anima fit- 
tizio e fuggevole ; ella aveva , per dir cosi , 
r allucinazione sentimentale come altri ha l' al- 
lucinazione fìsica. Perdeva la conscienza della 
sua menzogna; e non sapeva più se si tro- 
vasse nel vero o nel falso, nella finzione o 
nella sincerità. 

Ora, questo a punto era lo stesso fenomeno 
morale che ripetevasi in lui di continuo. EgH 
dunque non poteva con giustizia accusarla. Ma, 
naturalmente, la scoperta toglieva a lui ogni 
speranza d'altro piacere che non fosse carnale. 
Oramai la diffidenza gli impediva qualunque 
dolcezza d'abbandono, qualunque ebrezza dello 
spirito. Ingannare una donna sicura e fedele, 
riscaldarsi a una grande fiamma suscitata con 
un baglior fallace, dominare un'anima con Tar- 
tiflzio, possederla tutta e farla vibrare come uno 
stromento, hàbere non haberi, può essere un 
alto diletto. Ma ingannare sapendo d'essere in- 



— 330 — 

gannato è una sciocca e sterile fatica , è un 
giuoco nojoso e inutile. 

Egli doveva dunque ottener che Elena rinun- 
ziasse all'idea di fraternizzare e gli tornasse fra 
le braccia come un tempo. Egli doveva ripren- 
dere il possesso materiale della bellissima donna, 
trarre dalla bellezza di lei il maggior possibile 
godimento, e quindi esserne per sempre liberato 
dalla sazietà. Ma in questa impresa conveniva 
usar prudenza e pazienza. Già nel primo collo- 
quio Tardor violento aveva fatto cattiva prova. 
Appariva manifesto ch'ella fondava il suo pro- 
getto di impeccabilità su la famosa frase: " Sof- 
friresti tu di spartire con altri il mio corpo ? „ 
La gran macchina platonica era mossa da que- 
sto santo orrore delle mescolanze. Poteva an- 
che darsi che, in fondo in fondo, questo orrore 
fosse sincero. Quasi tutte le donne d'amorosa 
vita, se giungono a concluder nozze, affettano 
ne' primi tempi del matrimonio una feroce pu- 
rità e si pongono a far professione di mogli ca- 
ste con leale proposito. Poteva quindi anche 
darsi che Elena fosse presa dal comune scru- 
polo. Nulla di peggio, allora, che assalirla di 
fronte e apertamente urtare la sua novella virtù. 
In vece, conveniva secondarla nelle aspirazioni 
spirituali, accettarla come " la sorella più cara, 
l'amica più dolce „, inebriarla dldeale, platoniz- 
zando con accortezza; e a poco a poco trarla 
dalla candida fraternità a un'amicizia volut- 
tuosa , e da un' amicizia voluttuosa alla total 
resa del corpo. Probabilmente queste transi- 
zioni sarebbero state rapidissime. Tutto dipen- 
deva dalla circostanza.... 



— 331 — 

Così ragionava Andrea Sperelli, d'innanzi al 
camino che aveva illuminata l'amante Elena 
ignuda, avvolta nel drappo dello Zodiaco, ridente 
tra le rose sparse. E l'occupava una stanchezza 
immensa, una stanchezza che non chiedeva il 
sonno, una stanchezza cosi vacua e sconsolata 
che quasi pareva un bisogno di morire; mentre" 
il fuoco spegnevasi in su gli alari e la bevanda 
freddavasi nella tazza. 

Ne' giorni che seguirono, egli invano aspettò 
il biglietto promesso'. " Vi scriverò un biglietto, 
per dirvi quando potrò vedervi. „ Elena dunque 
intendeva dargli un nuovo convegno. Ma dove? 
Ancora nella casa Zuccarl ? Avrebbe ella com- 
messa la seconda imprudenza ? L'incertezza gli 
dava torture indicibili. Egli passava tutte le sue 
ore a ricercare un qualunque mezzo per incon- 
trarlaj per vederla. Più d'una volta andò all'Al- 
bergo del Quirinale, con la speranza d'esser ri- 
cevuto, ma non la trovò mai. La rivide una 
sera col marito, con Mumps, com'ella diceva, 
di nuovo al teatro. Parlando di cose leggère, 
della musica, dei cantanti, delle dame, egli mise 
nel suo sguardo una tristezza supplichevole. 
Ella si mostrò molto preoccupata del suo ap- 
partamento: — rientrava nel palazzo Barberini, 
nel suo antico quartiere ma ampliato; ed era 
sempre con i tappezzieri a dare ordini, a di- 
sporre. 

— Rimarrete a Roma lungo tempo? — le chiese 
Andrea. 

— Sì — ella rispose. — Roma sarà la nostra 
residenza invernale. 

Poco dopo, soggiunse: 



— 332 — 

— Voi, veramente, potreste darci qualche con- 
siglio per raddobbo. Venite una di queste mat- 
tine al palazzo. Io ci son sempre tra le dieci e 
mezzogiorno. 

Egli profittò d'un momento in cui lord Heath- 
field parlava con Giulio Muséllaro, giunto al- 
lora allora nel palco; e chiese guardandola nelli 
occhi: 

— Domani? 

Ella rispose, con semplicità, come se non 
avesse badato all'accento di quella interroga- 
zione : 

— Tanto meglio. 

La mattina dopo, egli andò, verso le undici, 
a piedi, lungo la via Sistina, per la piazza Bar- 
berini e su per la salita. Era un cammino ben 
noto. Gli parve di ritrovare le impressioni d'una 
volta; ebbe un'illusione momentanea: il cuore 
gli si sollevò. La fontana del Bernini brillava 
singolarmente al sole,' come se i delfini, la con- 
chiglia e il Tritone fosser divenuti d' una ma- 
teria più diafana, non pietra e non ancor cri- 
stallo, per una metamorfosi interrotta. L'opero- 
sità della nuova Roma empiva di romore tutta 
la piazza e le vie prossime. Tra i carri e i giu- 
menti guizzavano i piccoli ciociari offrendo le 
viclette. 

Quando egli oltrepassò il cancello ed entrò 
nel giardino, sentendosi prendere da un tremito, 
pensò:— Ma l'amo io dunque ancora? Ancora 
la sogno? — Gli pareva che il tremito fosse 
quel d'una volta. Guardò il gran palazzo ra- 
diante e il suo spirito volò ai tempi in cui 
quella dimora, in certe albe fredde e nebbiose, 



— 333 — 

prendeva per luì un aspetto d'incanto. Erano i 
primissimi tempi della felicità: egli usciva caldo 
di baci, pieno della recente gioja; le campane 
della Trinità de' Monti, di Sant'Isidoro, de' Cap- 
puccini sonavano V Angelus nel crepuscolo, con- 
fusamente, come se fossero assai più lontane; 
all' angolo della via rosseggiavano i fuochi in- 
torno le caldaje dell'asfalto;, un gruppo di capre 
stava lungo il muro biancastro, sotto una casa 
addormentata; i gridi fiochi delli acquavitari si 
perdevano nella nebbia.... 

Egli sentì risalir dal profondo quelle sensa- 
zioni obliate; per un momento, si senti passar 
su l'anima un'onda dell'antico amore; per un 
momento provò ad imaginare che Elena fosse 
la Elena d'una volta e che le cose tristi non 
fossero vere e che la felicità seguitasse. Tutto 
l'ingannevole fermento cadde, a pena egli varcò 
la soglia e vide venire in contro il marchese 
di Mount Edgcumbe sorridente di quel suo sor- 
riso fine e un po' ambiguo. 

Allora incominciò il supplizio. 

Elena comparve, gli tese la mano con molta 
cordialità, innanzi al marito, dicendo : 

— Bravo Andrea! Ajutateci, ajutateci.... 

Ella era molto vivace, nelle parole, ne' gesti. 
Aveva un'aria molto giovenile. Portava una 
giacca di panno azzurro cupo, guarnita d'astra- 
kan nero su li orli, sul collo diritto e su le mani- 
che; e un cordoncino di lana faceva nell'astrakan 
un ricamo elegante, passandovi sopra intrec- 
ciato. Ella teneva una mano nella tasca, in atto 
grazioso; e con l'altra indicava le opere di tappez- 
zeria, i mobili, i quadri. Domandava consiglio. 



/ 



— 334 — 

— Dove mettereste voi questi due cassoni I 
Vedete: li ha trovati Mumps a Lucca. Le pit- 
ture sono del vostro Botticelli. Dove mettereste 
questi arazzi? 

Andrea riconobbe i quattro arazzi della Storia 
di Narcisso ch'erano alla Vendita del cardinale 
Immenraet. Guardò Elena, ma non incontrò li 
occhi di lei. Una irritazione sorda lo prese, 
contro di lei, contro il marito, contro quelli og- 
getti. Egli avrebbe voluto andarsene; ma gli 
convenne mettere in servigio dei cónjugi Heath- 
fìeld il suo buon gusto; gli convenne anche 
sofferire l' erudizione archeologica di Mumps, 
ch*era un collezionista ardente e che volle mo- 
strargli qualcuna delle sue raccolte. Egli rico- 
nobbe in una vetrina Telmo del Pollajuolo, e 
in un'altra la tazza di cristallo di rocca appar- 
tenuta a Niccolò Niccoli. La presenza di quella 
tazza in quel luogo lo. turbò stranamente, gli 
fece balenare allo spirito folli sospetti. Era 
dunque caduta in mano di lord Heathfìeld? 
Dopo la famosa contesa che non ebbe esito, 
nessuno più si occupò del cimelio, nessuno tornò 
alla Vendita, il giorno dopo; T eccitazione efi- 
mera languì, si spense, passò come tutto passa 
nella vita mondana; e il cristallo rimase al con- 
trasto dì altri. La cosa era naturalissima; ma 
in quel momento ad Andrea parve straordi- 
naria. 

Ad arte, egli si fermò d'innanzi alla vetrina e 
guardò molto la coppa preziosa dove la storia 
d'Anchise e di Venere scintillava come intagliata 
in un puro diamante. 

— Niccolò Niccoli — disse Elena, pronunziando 



— 335 — 

quel nome con un accento indefinibile in cui il 
giovine credè sentire un poco di malinconia. 

Il marito era passato nella stanza attigua per 
aprire un armario. 

— Ricordatevi! Ricordatevi! — mormorò An- 
drea, volgendosi. 

— Mi ricordo. 

— Quando dunque vi vedrò? 

— Chi sa! 

— Mi prometteste.... 

Ricomparve il Mount Edgcumbe. Passarono 
nell'altra stanza, seguitarono il giro. Ovunque i 
tappezzieri attendevano a stendere parati, ad 
alzar tende, a trasportar mobili. Andrea, ogni 
volta che l'amica gli chiedeva un consiglio, do- 
veva fare uno sforzo per rispondere, per vin- 
cere la mala voglia, per dominare Timpazienza. 
In un momento che il marito parlava con uno 
di quelli uomini, egli le disse, a bassa voce, 
mostrando chiaro il suo fastidio : 

— Perchè darmi questa tortura? Io sperava 
di trovarvi sola. 

A una porta, il cappellino di Elena urtò una 
portiera mal messa e si piegò tutto da un lato. 
Ella, ridendo, chiamò Mumps perchè le scio- 
gliesse il nodo del velo. E Andrea vide quelle 
mani odiose sciogliere il nodo su la nuca della 
desiderata, sfiorare i piccoli riccioli neri, quei ric- 
cioli vivi che un tempo sotto i baci rendevano 
un profumo misterioso, non paragonabile ad 
alcuno de' profumi conosciuti, ma più di tutti 
soave, più di tutti inebriante. 

Senza indugio, egli si congedò, affermando 
d'essere aspettato a colazione. 



— 336 — 



sr?^ 



— Noi verremo a star qui definitivamente il 
primo di febbrajo, martedì — gli disse Elena. 
— Allora sarete, spero, un nostro assiduo. 

Andrea s'inchinò. 

Avrebbe dato qualunque cosa per non toccare 
la mano di lord Heathfleld. Se ne andò pieno 
di rancore, di gelosia, di disgusto. 

La sera medesima, sul tardi, essendo capitato 
per caso al Circolo, dove non saliva da molto 
tempo, egli vide seduto a un tavolo di giuoco 
Don Manuel Ferres y Capdevila, il ministro del 
Guatemala. Lo salutò con premura; gli chiese, 
notizie di Donna Maria, di Delfina. 

— Sono ancora a Siena? Quando verranno? 
Il ministro, memore d'aver guadagnate alcune 

migliaja di lire giocando col giovine conte nel- 
Tultima notte di Schifanoja, rispose con grande 
cortesia alla premura. Egli aveva conosciuto 
Andrea Sperelli giocatore ammirabile, d'alto 
stile, perfetto. 

— Sono qui tutt'e due, da qualche giorno. 
Arrivarono lunedì. Maria è molto dispiacente di 
non aver trovata la marchesa d'Ateleta. Io credo 
che una vostra visita le sarà molto gradita. 
Stiamo nella via Nazionale. Eccovi l'indirizzo 
esatto. 

Gli diede un suo biglietto. Quindi si rimise 
al giuoco. Andrea si sentì chiamare dal duca 
di Beffi eh' era in un crocchio di altri gentil- 
uomini. 

— Perchè non sei venuto stamani a Cento 
Celle? — gli domandò il duca. 

— Avevo un altro appuntamento — rispose An- 
drea, senza pensarci, per una scusa qualunque. 



— 337 — 

Il duca sì mise a ridacchiare in coro con li 
altri amici. 

— Al palazzo Barberini ? 

— Potrebbe darsi. 

— Potrebbe darsi? T*ha visto entrare Lu- 
dovico.... 

— E tu dov' eri ? — chiese Andrea al Bar- 
barisi. 

— Da mia zia Saviano. 

— Ah! 

— Non so se tu abbia fatto miglior caccia — 
seguitò il duca di Beffi — ma noi abbiamo 
avuto un galoppo veloce di quarantadue minuti 
e due volpi. Giovedì, alle Tre Fontane. 

— Capisci ? Non alle Quattro... — ammoni, 
con la sua solita gravità comica, Gino Bom- 
minaco. 

Li amici risero, al motto; e il riso si propagò 
anche allo Sperelli. Non gli dispiaceva quella 
malignità. Anzi, ora a punto che mancava il 
fondamento, egli godeva che li amici credessero 
riannodata la sua relazione con Elena. Si volse 
a discorrere con Giulio Muséllaro sopravvenuto. 
Da alcune parole giuntegli airorecchio, s'accorse 
che nel crocchio si parlava di lord Heathfleld. 

— Io lo conobbi a Londra sei o sett' anni fa 
— diceva il duca di Beffi. — Era Lord of the 
Bedchamber del principe di Galles, mi pare.... 

Poi la voce s'abbassò. Il duca doveva raccon- 
tare cose enormi. All'orecchio d'Andrea, giunse, 
tra frammenti di frasi erotiche, due o tre volte 
il titolo vd'un giornale famoso nella storia degli 
scandali di Londra: Pali Mail Ga:sette.Eg\ì avrebbe 
voluto ascoltare: una terribile curiosità l'inva- 

II Piacere. 22 



— 338 — 

deva. Rivide neirimaginazione le mani di lord 
Heatlìfleld, quelle pallide mani, cosi espressive, 
cosi significative, cosi rivelatrici, indimentica- 
bili. Ma il Muséllaro seguitava a discorrere. Il 
Muséllaro gli disse : 

— Usciamo. Ti racconterò.... 

Giù perle scale incontrarono il conte Albonico 
che saliva. Era vestito a lutto per la morte 
di Donna Ippolita. Andrea si fermò: gli chiese 
qualche notizia del fatto doloroso. Egli aveva 
saputa la sventura, nel novembre, a Parigi, da 
Guido Montelatici, cugino di Donna Ippolita. 

— Ma fu un tifo? 

Il vedovo biondiccio e scolorito colse l'occa- 
sione per versar la sua pena. Egli portava in 
giro il suo dolore come un tempo aveva por- 
tato la bellezza della moglie. La balbuzie immi- 
seriva le sue parole afflitte: e pareva che li occhi 
biancastri gli si dovessero sgonfiare, come due 
bolle di siero, da un momento all'altro. 

Giulio Muséllaro, vedendo che l'elegia del ve- 
dovo andava un po' per le lunghe, sollecitò An- 
drea dicendogli: 

— Bada, ci faremo aspettar troppo. 
Andrea si licenziò, rimettendo a un prossimo 

incontro il séguito della commemorazione fune- 
bre. Ed uscì con Tamico. 

Le parole dell' Albonico gli avevano rinnovato 
quel sentimento singolare, misto d'un tormen- 
toso desiderio e poi d'una specie di compia- 
cenza , che a Parigi l' aveva per alcimi giorni 
occupato dopo la notizia della morte. In quei 
giorni l'imagine di Donna Ippolita, qua§i av- 
volta d'oblio, gli era apparsa, a traverso il tempo 



— 339 — 

della malattia e della convalescenza, a traverso 
tante altre vicende, a traverso Tamore di Donna 
Maria Ferres, molto lontana ma avvolta di non 
so che idealità. Egli aveva da lei ottenuto il 
consenso ; e , pur non essendo giunto a posse- 
derla, ne aveva tratto una delle più grandi 
ebrezze umane: l'ebrezza della vittoria sopra un 
rivale , d' una vittoria clamorosa , in conspetto 
della donna desiderata. In quei giorni, il desi- 
derio non potuto appagare gli era risorto; e, 
sotto l'impero dell' imaginazione , l'impossibilità 
di appagarlo gli aveva dato una inquietudine in- 
dicibile, qualche ora di vero supplizio. Poi, tra 
il desiderio e il rimpianto era nato un altro sen- 
timento, quasi di compiacenza, direi quasi d'ele- 
vazione lirica. Gli piaceva che la sua avventura 
terminasse cosi, per sempre. Quella donna non 
posseduta, pe'l cui acquisto egli era stato sul 
punto di rimanere ucciso, quella donna quasi 
sconosciuta gli si levava unica intatta su le 
cime dello spirito, nella divina idealità della 
morte. Tibi, Hippolyta, semper! 

— Dunque — raccontava Giulio Muséllaro — 
ella è venuta oggi, verso le due. 

Raccontava la resa di Giulia Moceto, con un 
certo entusiasmo, con molte particolarità intorno 
la rara e segreta bellezza della Pandora infe- 
conda. 

— Hai ragione. È una coppa d' avorio , uno 
scudo raggiante, speeulum voluptaiis.... 

In Andrea una certa lieve puntura provata 
alcuni giorni a dietro, nella notte di luna, dopo 
il teatro, quando l'amico era salito solo al pa- 
lazzetto Borghese, face vasi ora di nuovo sentire; 



J 



— 340 — 

mutavasi in un rincrescimento non bene defi- 
nito ma in fondo a cui si movevano forse, con- 
fuse con le memorie, la gelosia, l'invidia e quella 
suprema intolleranza egoistica e tirannica ch'era 
nella sua natura e che lo spingeva talvolta a 
desiderare quasi la distruzione d'una donna già 
preferita e goduta, affinchè ella non fosse più 
goduta da altri. Nessuno doveva bevere al bic- 
chiere dove aveva egli bevuto una volta. Il ri- 
cordo del suo passaggio doveva bastare a riem- 
piere una intera vita. Le amanti dovevano ri- 
maner fedeli in eterno alla sua infedeltà. Questo 
era il suo sogno orgoglioso. E poi gli spiaceva 
la publicazione, la divulgazione d'un segreto di 
bellezza. Certo, s'egli avesse posseduto il Disco- 
bolo di Mirone o il Doriforo di Policleto o la Ve- 
nere cnidia, la sua prima cura sarebbe stata di 
chiudere il capolavoro in un luogo inaccessibile 
e di goderne da solo, perchè il godimento altrui 
non diminuisse il suo proprio. E allora perchè 
egli medesimo aveva concorso a publìcare il 
segreto? Perchè egli medesimo aveva stimo- 
lato la curiosità dell'amico? Perchè egli me- 
desimo gli aveva fatto un augurio? La faci- 
lità stessa con cui quella donna s'era data gli 
metteva ira e disgusto, e anche un poco lo 
umiUava. 

— Ma dove andiamo? — chiese Giulio Musél- 
laro, fermandosi nella piazza di Venezia. 

In fondo ai varii moti dell' animo e ai varii 
pensieri Andrea manteneva l'agitazione in lui 
suscitata dall'incontro con Don Manuel Ferres, 
il pensiero di Donna Maria, un'imagine bale- 
nante. E a punto, in mezzo a quei contrasti mo- 



— 341 — 

mentanei, una sorta di ansietà lo traeva verso 
la casa di lei. 

— Io torno a casa — rispose. — Passiamo 
per la via Nazionale. Accompagnami. 

Da allora egli non ascoltò più le parole del- 
l' amico. Il pensiero di Donna Maria lo dominò 
tutto. Giunto d' innanzi al Teatro ebbe un mo- 
mento d'esitazione, non sapendo se scegliere il 
marciapiede di destra o quBl di sinistra. Egli 
voleva scoprire la casa leggendo i numeri dello 
porte. 

— Ma che hai? — gli chiese il Muséllaro. 

— Nulla. T'ascolto. 

Guardò un numero e calcolò che la casa do- 
veva essere a manca, non molto lontana, forse 
in vicinanza della Villa Aldobrandino I grandi 
pini della villa apparvero leggeri nel cielo stel- 
lato , poiché la notte era gelida ma serena; la 
Torre delle Milizie levava la sua mole quadrata, 
cupa fra le stelle; le palme, che crescono su le 
mura di Servio, al chiaror de' fanali dormivano 
immobili. 

Pochi numeri mancavano a raggiunger quello 
segnato sul biglietto di Don Manuel. Andrea tre- 
pidava come se Donna Maria fosse per venirgli 
in contro. La casa era, in fatti, vicina. Egli passò 
rasente il portone chiuso ; non potè tenersi dal 
guardare in su. 

— Ma che guardi? — gli chiese il Muséllaro. 

— Nulla. Dammi una sigaretta. Affrettiamo il 
passo, che. fa freddo. 

Percorsero la via Nazionale fino alle Quattro 
Fontane, in silenzio. La preoccupazione di An: 
drea era manifesta. L'amico gli disse: 



— 342 — 

— Tu cerio hai qualche cosa che ti tormenta 
E Andrea si sentiva il cuore così gonfio che 
fti sul punto di abbandonarsi alla confidenza. 
Ma si trattenne. Egli era ancora sotto l'impres- 
sione delle malignità udite al Circolo , del rac- 
conto di Giulio, di tutta quella indiscreta legge- 
rezza da lui stesso provocata, da lui stesso pro- 
fessata. L'assenza completa di mistero nell'av- 
ventura , la compiacenza vanitosa delli amanti 
nell'accogliere i motti e i sorrisi altrui, la cinica 
indifferenza con cui lì amanti d' un tempo lo- 
dano le qualità della donna a coloro che già 
sono su la via di goderle , e l' affettazione con 
cui quelli danno a questi i consigli per giunger 
meglio allo scopo, e la premura con cui questi 
danno a quelli i più minuti ragguagli su un 
primo convegno per sapere se la maniera tenuta 
ora dalla dama nel concedersi si riconfronti con 
quella tenuta altre volte, e le cessioni, e le con- 
cessioni, e le successioni , e in somma tutte le 
piccole e grandi viltà che accompagnano i dolci 
adulteri! mondani, gli parvero ridur l'amore una 
mescolanza insipidale immonda, una volgarità 
Ignobile, una prostituzion senza nome. Le me- 
morie di Schifanoja gli attraversavano l'anima, 
come profumi cordiah. La figura di Donna Ma- 
ria gli splendeva dentro con tal vivezza ch'egli 
n'era quasi attonito; e un'attitudine egli vedeva 
sopra le altre distinta, sopra le altre luminosa: 
l'attitudine di lei quando nel bosco di Vicomlle 
aveva pronunziata la parola ardente. Avrebbe 
egli riudita quella parola da quella bocca? Che 
aveva fatto ella, che aveva pensato, come aveva 
vissuto nel tempo della lontananza? L'agitazione 



— 343 — 

interiore gli cresceva ad ogni passo. Come fan- 
tasmagorie mobili e fuggevoli gli passavano 
nello spirito ft'ammenti di visioni: un lembo dì 
paesaggio , un lembo di mare , una scala tra i 
rosai, rinterno d'una stanza, tutti i luoghi ov'era 
nato un sentimento, ov'erasi effusa una dolcezza, 
ov' ella aveva sparso il fascino della sua per- 
sona. Ed egli provava un tremore intimo e pro- 
fondo a pensare che forse nel cuor di lei ancor 
viveva la passione, che forse ella aveva sofferto 
e pianto e forse anche sognato e sperato. Chi sa! 

— Ebbene? — disse Giulio Muséllaro. — Come 
vanno le cose con lady Heathfìeld? 

Scendevano giù per la via delle Quattro Fon- 
tane, erano d'innanzi al palazzo Barberini. A 
traverso i cancelli, tra i colossi di pietra, appa- 
riva il giardino oscuro animato da un mormo- 
rio fioco di acque, dominato dall' edifìzio bian- 
cheggiante ove il solo portico aveva ancora un 
lume. 

— Che dici? — domandò Andrea. 

— Come vanno le cose con Donna Elena? 
Andrea guardò il palazzo. Gli sembrò in quel 

momento, di sentirsi nel cuore una grande in- 
differenza, la morte vera del desiderio, la finale 
rinunzia; e trovò, per rispondere, una frase qua- 
lunque. 

— Seguo il consiglio. Non riaccendo la siga- 
retta.... 

' — E pure , vedi, questa volta forse varrebbe 
la pena. L'hai guardata bene? Mi pare più bella; 
mi pare, non so, che abbia qualche cosa di nuovo, 
inesprimibile.... Forse dico male a dir nuovo. È 
come divenuta più intensa, conservando tutto 



— 344 — 

il suo carattere dì bellezza; è in somma, dirò 
così, pia Elena deirElena di due o tre anni fa: 
^ essenzia quinta. ^ Sarà, forse, effetto della se- 
conda primavera; perchè credo eh' ella debba 
stare 11 11 per toccar la trentina. Non ti sembra? 
Andrea si sentì da queste parole pungere, di 
nuovo accendere. Nulla vale a ravvivare e ad 
esasperare il desiderio d'un uomo quanto l'udire 
da altri lodar la donna da lui troppo a lungo 
posseduta, o troppo a lungo vagheggiata in vano. 
Ci sono amori in agonia che si protraggono an- 
cora, per virtù dell'altrui invidia, dell'altrui am- 
mirazione; poiché l'amante disgustato o stanco 
teme di rinunziare al suo possesso o al suo as- 
sedio in favore della felicità di chi potrebbe suc- 
cedergli. 

— Non ti sembra? E poi, menelaizzare quel- 
rHeathfleld dovrebbe essere un gaudio straor- 
dinario. 

— Credo anch'io — disse Andrea, sforzandosi 
di prendere il tono frivolo dell'amico. — Ve- 
dremo. 



— 345 — 



XII. 



— Maria, lasciate a questo minuto la sua 
dolcezza, lasciate ch'io esprima tutto il mio 
pensiero! 

Ella si levò. Disse piano, senza sdegno, senza 
severità, con una commozione palese nella voce: 

— Perdonatemi. Io non posso ascoltarvi. Mi 
fate molto male. 

— Tacerò. Rimanete, Maria; vi prego. 

Di nuovo, ella sedette. Era come al tempo di 
Schifanoja. Nulla superava la grazia della finis- 
sima testa che pareva esser travagliata dalla pro- 
fonda massa de' capelli, come da un divino ca- 
stigo. Un'ombra morbida, tenera, simile alla fu- 
sione di due tinte diafane, d'un violetto e d'un 
azzurro ideali, le circondava li occhi che vol- 
gevan l'iride lionata delli angeli bruni. 

— Io non voleva — soggiunse Andrea, umil- 
mente — non voleva che ricordarvi le mie pa- 



— 346 — 

rolc d'un tempo, quelle che ascoltaste una mat- 
tina nel parco , sul sedile di marmo , sotto gli 
àlbatri, in un'ora indimenticabile per me e quasi 
sacra nella memoria... 

— Io le ricordo. 

— Ebbene, Maria, da quel tempo la mia mi- 
seria è divenuta più trista, più oscura, più cru- 
dele. Io non saprò mai dirvi tutte le mie sof- 
ferenze, tutte le mie abjezioni; non saprò mai 
dirvi quante volte la mia anima vi ha chiamata, 
credendo di morire; non saprò mai dirvi il bri- 
vido di felicità, la sollevazione di tutto il mio 
essere verso la speranza, se per un momento 
io osava pensare che il ricordo di me forse an- 
cora viveva nel vostro cuore. 

Egli parlava con l'accento medesimo di quella 
mattina lontana; pareva ripreso da quella me- 
desima ebrezza sentimisntale. Tutte le malinco- 
nìe gli risalivano alle labbra. Ed ella ascoltava, 
a capo chino, immobile, quasi nell'attitudine di 
quella volta ; e la sua bocca, l'espression della 
sua bocca, in vano serrata con violenza, come 
quella volta, tradiva una sorta di dolorosa voluttà. 

— Vi ricordate di Vicomlle? Vi ricordate del 
bosco, in quella sera d'ottobre, quando traver- 
sammo soli? 

Donna Maria accennò lievemente col capo, 
tome in atto d'assenso. 

— E della paiola che mi dlòefete ? — sog- 
giunse il giovine, più sommesso, ma con nella 
voce un'espressione intensa di pàssion conte- 
nuta, piegandosi verso di lei molto, come per 
giungere a guardarla nelli occhi ch'ella teneva 
àncora chini. 



— 347 — 

Ella li alzò, que' buoni pietosi dolenti occhi, 
su luì. 

— Di tutto io mi ricordo, — rispose, — di tutto, 
di tutto. Perchè dovrei nascondei^vi Tanìma mia? 
Voi siete uno spirito nobile e grande; ed io ho 
fede nella vostra generosità. Perchè dovrei con- 
durmi verso di voi come una donna volgare? 
Quella sera, non vi dissi che vi amavo? Io in- 
tendo nella vostra domanda un'altra domanda. 
Voi mi chiedete se ancora io vi ami. 

Ella esitò, un attimo. Le labbra le tremarono. 

— Vi amo. 

— Maria! 

— Ma voi dovete rinunziar per sempre al mio 
amore, voi dovete allontanarvi da mo; dovete 
essere nobile e grande, e generoso, risparmian- 
domi una lotta che mi fa paura. Io ho molto 
sofferto, Andrea, e saputo soffrire; ma il pen- 
siero di dover combattere contro di voi, di do- 
vermi difendere contro di voi, mi dà un terrore 
folle. Voi non sapete a costo di quali sacrifizi 
ero giunta ad ottenere la calma del cuore ; non 
sapete a quali alti e carissimi ideali ho rinun- 
ziato.... Poveri ideali! Sono diventata un'altra 
donna, perchè era necessario che io diventassi 
un' altra; sono diventata una donna comune, 
perchè così chiedeva il dovere. 

Ella aveva nella voce una malinconia grave 
e soave. 

— Incontrandovi, sentii d'un tratto risorgere in 
me i vecchi sogni , sentii rivivere l' anima an- 
tica; e ne' primi giorni mi abbandonai alla dol- 
cezza, chiudendo gli occhi sul pericolo lontano. 
Pensavo: — egli non saprà nulla dalla mia bocca; 



— 348 — 

lo non saprò nulla dalla sua. — Ero quasi senza 
rimorso, senza quasi paura. Ma voi parlaste; 
voi mi diceste parole che io non aveva udite 
mai; voi mi strappaste una confessione.... Il pe* 
ricolo m'apparve, certo, aperto, manifesto. E an- 
cora m'abbandonai a un sogno. Le vostre an- 
gosce mi stringevano, mi facevano una pena 
profonda. Pensavo : V impuro V ha macchiato ; 
s'io bastassi a purificarlo! Sarei felice d'esser 
l'olocausto della sua rinnovazione. — La vostra 
tristezza attirava la mia tristezza. Mi pareva 
che forse io non avrei saputo consolarvi ma 
che forse avreste provato un sollievo sentendo 
un' anima rispondere eternamente amen alle 
volontà del vostro dolore. 

Ella proferì queste ultime parole con tale ele- 
vazion spirituale in tutta la figura, che Andrea 
fu invaso da un'onda di gaudio quasi mistico ; 
e il suo unico desiderio, in quel momento, era 
di prenderle ambo le mani e d' esalare l'ineffa- 
bile ebrezza su quelle care delicate immacolate 
mani. 

— Non è possibile! Non è possibile! — ella se- 
guitò, scotendo la testa in • atto di rammarico. 
— Noi dobbiamo rinunziar per sempre a qua- 
lunque speranza. La vita è implacabile. Senza 
volere, voi distruggereste un'intera esistenza e 
forse non una sola.... 

— Maria, Maria, non dite queste cose! — in- 
terruppe il giovine, piegandosi ancora verso di 
lei, prendendole* una mano, senza impeto, ma 
con una specie di trepidazione supplichevole 
come se prima di compier l'atto egli aspettasse 
un segno di consenso. — Io farò quel che vor- 



— 349 — 

rete; io sarò umile e obediente; la mia unica 
aspirazione è d'obedirvi; il mio unico desiderio 
è di morire nel vostro nome. Rinunziare a voi 
è rinunziare alla salvezza, ricader per sempre 
nella rovina, non rialzarsi mai più. Io vi amo 
come nessuna parola umana potrà mai espri- 
mere. Ho bisogno di voi. Voi soltanto siete vera; 
voi siete la Verità che il mio spirito cerca. Il 
resto è vano ; il resto è nulla. Rinunziare a voi 
è come entrar nella morte. Ma se il sacrifizio 
di me vale a conservarvi la pace, io vi debbo 
il sacrifizio. Non temete, Maria. Io non vi farò 
alcun male. 

Egli teneva la mano di lei nella sua, ma senza 
premerla. La sua parola non aveva ardore ma 
era sommessa, scorata, accorante, piena d'una 
immensa prostrazione. E la pietà illudeva Ma- 
ria cosi ch'ella non ritrasse la mano e s'abban- 
donò per qualche minuto alla pura voluttà di 
quel contatto leggero. Era in lei una voluttà 
tanto sottile che quasi pareva non aver riper- 
cussione organica; era come se un fluido es- 
senziale le si partisse dall'intimo cuore e pel 
braccio le affluisse "alle dita e le si dilatasse 
oltre le dita con un'onda indefinitamente ar- 
moniosa. Quando Andrea tacque , certe parole 
proferite nel parco, nella mattina indimentica- 
bile, le tornarono alla memoria rianimate dal 
suon recente della voce di lui, mosse dalla 
nuova commozione: " La sola vostra presenza 
bastava a darmi l' ebrezza. Io la sentiva fluire 
nelle mie vene, come un sangue, e invadere il 
mio spirito, come un sentimento sovrumano.... „ 

Successe un intervallo di silenzio. Si udiva 



— 350 — 

di tratto in tratto il vento scuotere i vetri delle 
finestre. Giungeva col vento un clamore lon- 
tano, misto al rombo delle vetture. Entrava una 
luce fredda e limpida come un'acqua sorgiva; 
nelli angoli si raccoglieva Tombra, e fra le tende 
composte di tessuti dell'Estremo Oriente; luc- 
cicavano qua e là su i mobili le incrostazioni 
di giada, di avorio, di madreperla; un gran 
Buddha dorato appariva in fondo, sotto una 
musa paradisia(^.a. Quelle forme esotiche da- 
vano alla stanza un po' del loro mistero. 

— Ora, che pensate? — chiese Andrea. — Non 
pensate alla mia fine? 

Ella pareva assorta in un pensier dubitoso. 
Eia, in vista, irresoluta come se ascoltasse due 
voci interiori. 

— Io non so dirvi — ella rispose, passandosi 
la mano su la fronte con un gesto lieve — non 
so dirvi che strano presentimento mi opprima, 
da lungo tempo. Non so; ma io temo. 

Ella soggiunse, dopo una pausa: 

— Pensare che voi soff'rite, che voi slete ma- 
lato, povero amico, e che io non potrò alleviarvi 
la pena, che io vi mancherò nella vostra ora 
d'angoscia, che io non saprò se voi mi chia- 
merete.... Mio Dio! 

Ella aveva nella voce un tremito e una fie- 
volezza quasi di pianto, come se le si fosse 
chiusa la gola. Andrea teneva il capo chino, 
tacendo. 

— Pensare che la mia anima sempre vi se- 
guirà, sempre, e che non potrà mai mai con- 
fondersi con la vostra, non potrà mai da voi 
essere compresa.... Povero amore! 



— 351 — 

Ella aveva la voce piena di lacrime, la bocca 
atteggiata di dolore. 

— Non mi abbandonate! Non mi abbandonate! 
— proruppe il giovine, prendendole ambo le 
mani , quasi inginocchiandosi , in -preda a una 
grande esaltazione. — Io non vi chiederò nulla; 
non voglio da voi che la pietà. La pietà che 
mi venisse da voi mi sarebbe pi(i cara della 
passione di qualunque altra: voi lo sapete. Le 
vostre sole mani mi potranno guarire, mi po- 
tranno ricondurre alla vita, sollevare dalla bas- 
sezza, ridonare la fede, liberare da tutte le cat- 
tive cose che m' infettano e mi empiono d' or- 
rore. Care, care mani.... 

Egli si chinò a baciarle, vi tenne premuta la 
bocca. Socchiuse li occhi, in atto di somma dol- 
cezza, mentre diceva piano, cou un accento in- 
definibile : 

— Vi sento tremare. 

Ella si levò, tremante, smarrita, più pallida 
di quando, nella mattina memorabile, cammi- 
nava sotto i fiori. Il vento scoteva i vetri; 
giungeva un clamore come d' una moltitudine 
ammutinata. Quelle grida nel vento, che veni- 
vano dal Quirinale, le aumentarono Tagitazione. 

— Addio. Vi prego, Andrea; non rimanete più 
qui, mi vedrete un'altra volta, quando vorrete. 
Ma ora, addio. Vi prego! 

— Dove vi vedrò? 

— Al concerto, domani. Addio. 

Ella era tutta sconvolta, come se avesse com- 
messa una colpa. Lo accompagnò fino alla porta 
della stanza. Rimasta sola, esitò, non sapendo 
che fare, ancor tenuta dallo sbigottimento. Si 



— 352 — 

sentiva ardere le guance e le tempie, intorno 
ali! occhi, d*un ardore intenso, mentre pel resto 
del corpo rabbrividiva; ma su le mani l'impres- 
sione della bocca amata persisteva come un 
suggello, ed era un' impressione deliziosa, ed 
ella avrebbe voluto che fosse indelebile come 
un suggello divino. 

Guardò in giro. Nella stanza la luce dimi- 
nuiva, le forme si perdevano nella mezz'ombra, 
il gran Buddha raccoglieva nella sua doratura 
un chiaror singolare. Or si or no giungevano le 
grida. Ella andò verso una finestra, l'apri, sì 
sporse. Un vento gelido soffiava su la strada, 
ove già verso la piazza di Termini comincia- 
vano ad accendersi i fanali. In contro, li alberi 
della Villa Aldobrandini svettavano, a pena tinti 
d'un riflesso rossastro. Su la Torre delle Milizie 
pendeva una enorme nuvola paonazza, solitaria 
nel cielo. 

La sera le parve lùgubre. Ella si ritrasse; 
andò a sedersi nel luogo medesimo del collo- 
quio recente. — Perchè Delfina non tornava 
ancora ? — Avrebbe voluto evitare ogni rifles- 
sione, ogni meditazione; e pure non so che de- 
bolezza la tratteneva in quel luogo ove, pochi 
minuti innanzi, Andrea aveva respirato, aveva 
parlato, aveva esalato il suo amore e il suo 
dolore. Gli sforzi, i propositi, le contrizioni, le 
preghiere, le penitenze di quattro mesi si disper- 
devano, si disfacevano, diventavano inutili, in 
un attimo. Ella ricadeva, sentendosi forse più 
stanca, più vinta, senza volontà e senza potere 
contro i fenomeni morali che la sorprendevano, 
contro le sensazioni che la sconvolgevano ; e, 



i 



1^ I •^^ÌVE^■*>M ■■' ) 

mentre s'abbandonava all'angoscia e al lan- 
guore d' una conscienza in cui ogni coraggio 
veniva meno, le pareva che qualche cosa di lui 
fluttuasse nell'ombra della stanza e le avvol- 
gesse tutta la persona, d'una carezza infinita- 
mente soave. 

E, il giorno dopo, ella salì al Palazzo dei Sa- 
bini, con il cuor palpitante sotto un mazzo di 
violette. 

Andrea già era ad attenderla su la porta della 
sala. Stringendole la mano, le disse: 

— Grazie. 

La condusse a una sedia, le si mise accanto. 
Le disse : 

— Credevo di morire aspettandovi. Temevo 
che non veniste. Come vi son grato! 



— Jersera, tardi, io passati dalla vostra casa. 
Vidi un lume a una finestra, alla terza fine- 
stra verso il Quirinale. Non so che avrei dato 
per conoscere se voi eravate là:... 

Anche, le chiese: 

— Da chi avete avute quelle violette? 

— Da Delfina — ella rispose. 

— Vi ha raccontato Delfina il nostro incontro 
di stamani su la piazza di Spagna? 

— Sì; tutto. 

Il concerto incominciò con un Quartetto del 
Mendelssohn. La sala era già quasi interamente 
occupata. L'uditorio componevasi, in massima 
parte, di dame straniere; ed era un uditorio 
biondo, pieno di modestia nelli abiti, pieno di 
raccoglimento nelle attitudini, silenzioso e reli- . 
gioso come in un luogo pio. L'onda della mu- 
II Piacere. 23 



— 354 — 

sica passava su teste immobili, coperte di cap- 
pelli scuri, dilatandosi in una luce aurea, in 
una luce che fluiva dair alto, temperata dalle 
tendine gialle, schiarita dalle pareti bianche e 
nude. E la vecchia sala dei Filarmonici, dis- 
adorna, dove a pena rimaneva su Fegual can- 
dore qualche traccia d*un fregio e dove le mìsere 
portiere azzurre stavan per cadere, offriva ima- 
gine d'un luogo che fosse rimasto chiuso per un 
secolo e fosse stato riaperto proprio in quel 
giorno. Ma quel color di vecchiezza, queiraria 
di povertà, quella nudità delle pareti aggiunge- 
vano non so che strano sapore allo squisito 
diletto dell'udizione; e il diletto pareva più se- 
greto, più alto, più puro là dentro, per ragion 
d'un contrasto. Era. il 2 di febbrajo, un merco- 
ledì: in Montecitorio, il Parlamento disputava 
per il fatto di Dogali ; le vie e le piazze pros- 
sime rigurgitavano di popolo e di soldati. 

I ricordi musicali di Schìfanoja sorsero nello 
spirito de' due amaìiti; un riflesso di quell'au- 
tunno illuminò i loro pensieri. Al suono del 
Minuetto mendelsshoniano si svolgeva la vi- 
sione della villa maritima, della sala profumata 
dai giardini sottoposti, dove nelli intercolunnii 
del vestibolo si levavano le cime dei cipressi, 
si scorgevano le vele di fiamma su un lembo 
di mare sereno. 

Di tratto in tratto Andrea, chinandosi un poco 
verso la senese, le chiedeva piano: 

— Che pensate ? 

Ella rispondeva con un sorriso cosi tenue 
ch'egli a pena giungeva a coglierlo. 

— Vi ricordate del 23 settembre ? — ella disse. 



— 355 — 

Andrea non aveva ben distinto nella me- 
moria quel ricordo, ma assentì col capo. 

V Andante calmo e solenne, dominato da 
un'alta melodia patetica, dopo estesi sviluppi 
aveva uno scoppio di dolore. Il Finale insisteva 
in una certa monotonia ritmica, piena di stan- 
chezza. 

Ella disse: 

— Ora viene il vostro Bach. 

E ambedue, quando la musica ricominciò, 
provarono un bisogno istintivo di riavvicinarsi. 
I loro gomiti si sfioravano. Alla fine d'ogni 
tempo, Andrea si chinava verso di lei per legger 
nel programma eh' ella teneva spiegato fra le 
mani ; e, neir atto, le premeva il braccio, sen- 
tiva l'odore delle viole, le comunicava un bri- 
vido di delizia. V Adagio aveva una elevazion 
di canto cosi possente, saliva con tal volo alle 
sommità dell'estasi, con tal piena sicurezza al- 
largavasi neirinflnito, che parve la voce d'una 
creatura sopraumana la quale effondesse nel 
ritmo il giubilo d'una sua conquista immortale. 
Tutti gli spiriti erano trascinati dall'onda irre- 
sistibile. Quando la musica cessò, lo stesso fre- 
mito degU strumenti durò qualche minuto nel- 
l'uditorio. Un susurro corse da un capo all'altro 
della sala. L'applauso irruppe, dopo l'indugio, 
più vivo. 

I due si guardarono, con li occhi alterati, 
come se si distaccassero dopo un amplesso d'in- 
sostenibile piacere. La musica continuava; la 
luce della sala diveniva più discreta; un tepor 
dilettoso addolciva l'aria; intiepidite, le violette 
di Donna Maria esalavano un profumo più forte* 



— 356 — 

Andrea aveva quasi Tillusioiie d'essere solo con 
lei, poiché non vedeva d'innanzi a sé persone 
ch'egli conoscesse. 

Ma s'ingannava. In un intervallo, volgendosi, 
vide Elena Muti diritta in fondo alla sala, ac- 
compagnata dalla principessa di Ferentino. Sù- 
bito, il suo sguardo incontrò quel di lei. Da 
lontano, egli salutò. Gli parve di scorgere su le 
labbra di Elena un sorriso singolare. 

— Chi salutate? — chiese Donna Maria, anche 
volgendosi. — Chi sono quelle signore? 

— Lady Heathfleld e la principessa di Fe- 
rentino. 

Ella credè sentire nella voce di lui un turba- 
mento. 

— Qual'é la Ferentino? 

— La bionda. 

— L'altra è molto bella. 
Andrea tacque. 

— Ma è una inglese? — ella soggiunse. 

— No; é una romana; è la vedova del duca 
di Scerni, passata a lord Heathfleld in seconde 
nozze. 

— È molto bella. 

Andrea domandò, con premura ; 

— Ora, che soneranno ? 

— 11 Quartetto del Brahms, in do minore. 

— Lo conoscete? 

— No. 

— Il secondo tempo è meraviglioso. 

Per celare la sua inquietudine, egli parlava. 

— Quando vi vedrò, ancora? 

— Non so. 

— Domani ? 



. — 357 — 

Ella titubò. Pareva che le fosse discesa pel 
volto una lieve ombra. Rispose: 

— Domani, se ci sarà sole, verrò con Delfina 
su la piazza di Spagna, verso mezzogiorno. 

— E se il sole mancasse? 

— Sabato sera, andrò dalla contessa Star- 
nina.... 

La musica ricominciava. Il primo tempo espri- 
meva un lottar cupo e virile, pieno di vigore. La 
romanza esprimeva un ricordarsi desioso ma 
assai triste, e quindi un sollevarsi lento, incerto, 
debole, verso un'alba assai lontana. Una chiara 
frase melodica si svolgeva con profonde modu- 
lazioni. Era un sentimento assai diverso da quel 
che animava V Adagio dèi Bach; era più umano, 
più terreno, più elegiaco. Passava in quella mu- 
sica un soffio di Ludovico Beethoven. 

Andrea fu invaso da una così terribile ansia 
che temè di tradirsi. Tutta la dolcezza di prima 
gli si converti in amarezza. Egli non aveva la 
conscienza esatta di questo suo nuovo soffe- 
rire; non sapeva raccogliersi né dominarsi; on- 
deggiava perduto fra la duplice attrazion femi- 
nile e il fascino della musica, da nessuna delle 
tre forze penetrato; provava, dentro, un'impres- 
sione indefinibile, come d'un vuoto in cui riso- 
nassero di continuo grandi urti con un'eco do- 
lorosa; e il suo pensiero si spezzava in mille 
frammenti, si sconnetteva, si disfaceva; e le due 
imagini feminili si sovrapponevano, si confon- 
devano, si distruggevano a vicenda, senza ch'egli 
potesse giungere a separarle, senza ch'egli po- 
tesse giungere a definire il suo sentimento verso 
runa, il suo sentimento verso l'altra. E a fior 



— 358 — i 

di questa torbida sofferenza interiore si moveva 
l'inquietudine prodotta dalla immediata realità, 
dalle preoccupazioni, dirò così, pratiche. Non gli 
sfuggiva un leggero cambiamento nell'attitudine 
di Donna Maria verso di lui; e credeva sentire 
lo sguardo di Elena assiduo e fisso; e non giun- 
geva a trovare un modo di contenersi, non sa- 
peva se dovesse accompagnar Donna Maria nel- 
r uscir dalla sala o se dovesse avvicinarsi a 
Elena, né sapeva se quel caso gli avrebbe gio- 
vato nociuto presso Tuna e l'altra. 

— Io vado — disse Donna Maria levandosi, 
dopo la romanza. 

— Non aspettate la fine? 

— No; debbo essere a casa per le cinque. 

— Ricordatevi, domattina.... 
Ella gli tese la mano. Forse pel calore del- 

Taria chiusa, una lieve fiamma le avvivava la 
pallidezza. Un mantello di velluto, d'un color 
cupo di piombo, orlato d'una larga zona di chin- 
chilla, le copriva tutta la persona; e tra la pel- 
liccia cinerea le violette morivano squisitamente. 
Neil' uscire, ella camminava con sovrana ele- 
ganza, mentre qualcuna delle signore sedute vol- 
gevasi a guardarla. E per la prima volta Andrea 
vide in lei, nella donna spirituale, nella pura 
madonna senese, la dama di mondo. 

Il quartetto entrava nel terzo tempo. Poiché la 
luce diurna diminuiva, furono alzate le tendine 
gialle, come in una chiesa. Altre signore ab- 
bandonarono la sala. Sorgeva qua e là qualche 
bisbiglio. Cominciavano nell'uditorio la stan- 
chezza e la disattenzione, che son proprie della 
fine d'ogni concerto. Per uno di que' singolari 



— 359 — 

fenomeni d'elasticità e di volubilità repentini, 
Andrea provò un senso di sollievo, quasi gajo. 
Egli perse ogni preoccupazion sentimentale e 
passionale, d'un tratto; e l'avventura di piacere 
apparve sola alla sua vanità, alla sua viziosità, 
lucidamente. Egli pen^ clie Donna Maria, con- 
cedendogli quei cofivegni innocui, già aveva 
messo il piede su la dolce china in fondo a cui 
è il peccato inevitabile anche per le anime più 
vigili; pensò che forse un po' di gelosia avrebbe 
potuto spingere Elena a ricadérgli nelle braccia, 
e che quindi forse l'una avventura avrebbe aju- 
tata l'altra; pensò che forse a punto un vago 
timore, im presentimento geloso avevano affret- 
tato l'assenso di Donna Maria al prossimo con- 
vegno. Egli era dunque su la via di una du- 
plice conquista; e sorrise notando che in am- 
bedue le imprese la difficoltà si presentava sotto 
un medesimo aspetto. Egli doveva convertire 
in amanti due sorelle, cioè due che volevano 
presso di lui far profession di sorelle. Altre si- 
miglianze fra i due casi egli notò, sorridendo. 
— Quella voce! Com'erano strani nella voce di 
Donna Maria gU accenti d'Elena!— Gh balenò 
un pensiero folle. — Quella voce poteva esser 
per lui l'elemento d'un' opera d'imaginazione: 
in virtù d'una tale affinità egli poteva fondere 
le due bellezze per possederne una terza ima- 
ginaria, più complessa, più perfetta, più vera 
perchè ideale.... 

11 terzo tempo, eseguito con impeccabile stile, 
finiva tra gli applausi. Andrea si levò; si avvi- 
cino a Elena. 

— Oh, Ugenta, dove siete stato Ano ad ora? 



— 360 — 

— gli disse la principessa di Ferentino. — Au 
paijs da Tenclre? 

— E quell'incognita? — gli disse Elena, con 
un'aria leggera, odorando un mazzo di viole ti- 
rato fuori dal manicotto di martora. 

— È una grande amica di mia cugina: Donna 
Maria Ferres y Capdevila, moglie del nuovo mi- 
nistro di Guatemala — rispose Andrea, senza 
turbarsi. — Una bella creatura, assai fine. Era 
da Francesca, a Schifanoja, in settembre. 

— E Francesca? — interruppe Elena. — Non 
sapete quando tornerà? 

— Ho notizie sue, da San Remo, recenti. Fer- 
dinando migliora. Ma temo ch'ella dovrà tratte- 
nersi là qualche altro mese, forse più. 

— Che peccato! 

Il quartetto entrava nell'ultimo tèmpo, molto 
breve. Elena e la Ferentino avevano occupato 
due sedie, in fondo, lungo la parete, sotto il pal- 
lido specchio dove si rifletteva la sala malinco- 
nica. Elena ascoltava, con la testa china, fa- 
cendo scorrere tra le sue mani le estremità d'un 
lucido boa di martora. 

— Accompagnateci — ella disse, quando il 
concerto fu finito, allo Sperelli. 

Montando in carrozza, dopo la Ferentino, ella 
disse : 

— Montate anche voi. Lasciamo Eva al pa- 
lazzo Fiano. Vi poso poi dove volete. 

— Grazie. 

Lo Sperelli accettò. Uscendo nel Corso, la car- 
rozza fu costretta a procedere con lentezza per- 
chè tutta la via era ingombra di gente in tu- 
multo. Dalla piazza di Montecitorio, dalla piazza 



— 361 — 

Colonna venivano clamori e si propagavano 
come uno strepito di flutti, aumentavano, cade- 
vano, risorgevano, misti agli squilli delle trombe 
militari. La sedizione ingrossava, nella sera ci- 
nerea e fredda; l'orrore della strage lontana fa- 
ceva urlare la plebe; uomini in corsa, agitando 
gran fasci di fogli, fendevano la calca; emer- 
geva distinto su i clamori il nome d'Africa. 

— Per quattrocento bruti, morti brutalmente! 

— mormorò Andrea, ritirandosi dopo aver os- 
servato allo sportello. 

— Ma che dite? — esclamò la Ferentino. 

Su l'angolo del palazzo Chigi il tumulto sem- 
brava una zuffa. La carrozza fu costretta a fer- 
marsi. Elena si chinò per guardare; e il suo 
volto fuor dell'ombra illuminandosi al riflesso 
del fanale e alla luce del crepuscolo apparve 
d'una bianchezza quasi funeraria, d'una bian- 
chezza gelida e un po' livida, che risvegliò in 
Andrea il ricordo vago d'una testa veduta — non 
sapeva più quando, non sapeva più dove — in 
una galleria, in una cappella. 

— Eccoci — disse la principessa, poiché la 
carrozza era giunta finalmente al palazzo Fiano. 

— Addio dunque. Ci ritroveremo stasera dal- 
l'Angelieri. Addio, Ugenta. Venite domani a co- 
lazione da me? Troverete anche Elena, e la Viti 
e mio cugino. 

— L'ora? 

— Mezz'ora dopo mezzogiorno. 

— Va bene. Grazie. 

La principessa discese. Il servo aspettava un 
ordine. 

— Dove volete eh' io vi porti ? — domandò 



— 362 — 

Elena allo Sperelli che le si era già seduto ac- 
canto, nel posto dell'amica. 

— Far, far aicay.... 

— Su via, dite: a casa vostra? 

E senza aspettare altra risposta, ella ordinò: 

— Trinità de' Monti, palazzo Zuccari. 

Il servo richiuse lo sportello. La carrozza si 
mosse al trotto, voltò per la via Frattina, la- 
sciando dietro di sé la folla, le grida, i ro- 
mori. 

— Oh, Elena, dopo tanto.... — proruppe An- 
drea, chinandosi a guardare la desiderata che 
s'era raccolta nell'ombra, in fondo, come schiva 
d'un contatto. 

Il chiaror d'una vetrina, al passaggio, traversò 
l'ombra; ed egli vide che Elena sorrideva, bianca, 
d'un sorriso attirante. 

Sempre così sorridendo, ella si tolse dal collo 
con un gesto agile il lungo boa di martora e lo 
gittò intorno al collo di lui, in guisa d'un laccio. 
Pareva facesse per gioco. Ma con quel morbido 
laccio, profumato del profumo medesimo che 
Andrea aveva sentito nella volpe azzurra, ella 
attirò il giovine; gli offerse le labbra, senza par- 
lare. 

Ambedue le bocche si ricordarono delle an- 
tiche mescolanze, di quelle congiunzioni terribili 
e soavi che duravano fino all'ambascia e da- 
vano al cuore la sensazione illusoria come d'un 
frutto molle e roscido che vi si sciogliesse. Per 
prolungare il sorso, contenevano il respiro. La 
carrozza dalla via dei Due MaceUi sali per la 
via del Tritone, voltò nella via Sistina, si fermò 
al palazzo Zuccari. 



— 363 — 

Rapidamente, Elena respinse il giovine. Gli 
disse, con la voce un po' velsrta: 

— Discendi. Addio. 

— Quando verrai? 

— Chi sa! 

Il servo apri lo sportello. Andrea discese. La 
carrozza voltò di nuovo, per riprendere la via 
Sistina. Andrea, tutto ancor vibrante, con li oc- 
chi ancor fluttuanti in una nebbia torpida, guar- 
dava se apparisse dietro il vetro il volto di Elena; 
ma non vide nulla. La carrozza si allontanò. 

Risalendo le scale, egli pensava: — Al fine, 
ella si converte! — Gli rimaneva nel capo quasi 
un vapore d' ebrezza, gli rimaneva nella bocca 
il gusto del bacio, gli rimaneva nella pupilla il 
balen del sorriso con cui Elena gli aveva git- 
tate al collo quella specie di serpe rilucente e 
aulente. — E Donna Maria? — Egli, certo, do- 
veva alla senese l'inaspettata voluttà. Senz'alcun 
dubbio, in fondo air atto strano e fantastico di 
Elena era un principio di gelosìa. Temendo forse 
ch'egli le sfuggisse , ella aveva voluto legarlo, 
adescarlo , accendergli di nuovo la sete. — Mi 
ama? Non mi ama? — E che importava a lui 
saperlo? Che gli giovava? Ormai l'incanto era 
rotto. Nessun prodigio mai avrebbe potuto risu- 
scitare sol una minima parte della felicità morta. 
Conveniva a lui occuparsi della carne che era 
ancora divina. 

Si compiacque a lungo nel considerar l' av- 
ventura. Si compiacque , in ispecie , della ma- 
niera elegante e singolare con cui Elena aveva 
dato sapore al capriccio. E l'imagine del boa 
suscitò l'imagine della treccia di Donna Maria, 



— 364 — 

suscitò in confuso tutti gli amorosi sogni da lui 
sognati intorno a quella vasta capellatura ver- 
gine che un tempo faceva languir d' amore le 
educande nel monastero fiorentino. Di nuovo, 
egli mescolò i due desiderii; vagheggiò la dupli- 
cità del godimento; travide la terza Amante 
Ideale. 

Entrava in una disposizion di spirito riflessiva. 
Vestendosi per il pranzo, ripensava; — Jeri, 
una grande scena di passione, quasi con lacrime; 
oggi una piccola scena muta di sensualità. E a 
me pareva jeri d'essere sincero nel sentimento, 
come io era dianzi sincero nella sensazione. 
Inoltre, oggi stesso, un'ora prima del bacio d'E- 
lena, io avevo avuto un alto momento lirico 
accanto a Donna Maria. Dì tutto questo non ri- 
man traccia. Domani, certo, ricomincerò. Io sono 
camaleontico, chimerico, incoerente, inconsi- 
stente. Qualunque mio sforzo verso l'unità riu- 
scirà sempre vano. Bisogna omai ch'io mi ras- 
segni. La mia legge è in una parola: Nunc. Sia 
fatta la volontà della legge. 

Rise di sé medesimo. E da quell'ora ebbe prin- 
cipio la nuova fase della sua miseria morale. 

Senza alcun riguardo, senza alcun ritegno, 
senza alcun rimorso, egli si diede tutto a porre 
in opera le sue imaginazioni malsane. Per trarre 
Maria Ferres a cedergli, usò i più sottih artifìzii, 
i più delicati intrichi,^ illudendola a punto nelle 
cose dell' anima, nella spiritualità , nell'idealità, 
neir intima vita del cuore. Per proseguire con 
egual prestezza nell'acquisto della nuova amante 
e nel riacquisto dell'antica, per profittar d'ogni 
circostanza nell'una e nell'altra impresa, egli 



— 365 — 

andò incontro a una quantità dì contrattempi, 
d'impacci, di bizzarri casi; e ricorse, per uscirne, 
a una quantità di menzogne , di trovati , di ri- 
pieghi meschini, di sotterfugi degradanti, di 
bassi raggiri. La bontà, la fede, il candore di 
Donna Maria non lo soggiogavano. Egli aveva 
messo a fondamento della sua seduzione il ver- 
setto d'un salmo: " Asperges me hyssopo et man" 
dabor: lavabis me, et super nioem dealbabor.^^ 
I.a povera creatura credeva di salvare un'anima, 
di redimere un'intelligenza, di purificare con la 
sua purità un uomo macchiato; credeva ancor 
profondamente alle parole indimenticabili udite 
nel parco, in quella Epifania deirAmore, al con- 
spetto del mare, sotto li alberi floridi. E questa 
fede a punto la ristorava e la sollevava in 
mezzo alle lotte cristiane che di continuo si 
combattevano nella sua conscienza, la liberava 
dal sospetto, la inebriava d'una specie di misti- 
cismo voluttuoso in cui ella effondeva tesori di 
tenerezza, tutta l'onda raccolta de' suoi languori, 
il fior più dolce della sua vita. 

Per la prima volta, forse, Andrea Sperelli si 
trovava innanzi a una vera passione; per la 
prima volta si trovava innanzi a uno di quei 
grandi sentimenti feminili, rarissimi, che illu- 
minano d'un bello e terribile baleno il ciel gri- 
gio e mutevole delli amori umani. Egli non se 
ne curò. Divenne lo spietato carnefice di se 
stesso e della povera creatura. 

Ogni giorno un inganno, una viltà. 

Il giovedì, il 3 febbraio, su la piazza di Spagna, 
èecondola parola corsa al concerto, egli la in- 
contrò davanti alla mostra d'un orafo antiqua- 



— 36G — 

rio, con Delfina. A pena udì il saluto di lui, ella 
si volse; e una fiamma le tinse il pallore. Guar- 
darono insieme i gioielli del settecento, le fibbie 
e i diademi di strasy gli spilli e gli orologi di 
smalto, le tabacchiere d*oro, d'avorio, di tarta- 
ruga, tutte quelle minuterie d'un secolo morto, 
che in quella chiara. luce mattinale formavano 
una ricchezza armoniosa. D'in torno, i fiorai an- 
davano offerendo in canestri le giunchiglie gialle 
e bianche, le violette doppie, lunghi rami di 
mandorlo. Un fiato di primavera passava Del- 
l' aria. La colonna della Concezione saliva agile 
al sole, come uno stelo, con la Rosa mystica in 
sommo; la Barcaccia era carica di diamanti; 
la scala della Trinità slargava in letizia i suoi 
bracci verso la chiesa di Carlo VITI erta con le 
due torri in un azzurro annobilito da' nuvoli, in 
un cielo antico del Piranesi. 

— Che meraviglia! — esclamò Donna Maria. 
— Avete ragione d' esser tanto innamorato di 
Roma. 

— Oh, voi non la conoscete ancora! — le disse 
Andrea. — Io vorrei essere il vostro duca.... 

Ella sorrise. 

— .... compiere presso di voi, in questa pri- 
mavera, un vergiliato sentimentale. 

Ella sorrideva, con in tutta la persona un'ap- 
parenza men triste, men grave. Il suo abbiglia- 
mento di mattina aveva un'eleganza sobria ma 
rivelava la finissima ricerca d'un gusto educato 
alle cose dell'arte, alle delicatezze del colore. La 
sua giacca incrociata in forma di scialle , era 
d'un panno grigio pendente un poco nel verde; 
e una striscia di lontra ne ornava gli orli e su 



— 367 — 

la lontra correva un ricamo fatto d'un cordon- 
cino di seta. E la giacca si apriva su una sot- 
toveste anche di lontra. E come il taglio era 
d'eletto stile cosi l'accordo de' due toni, di quel- 
l'indescrivibile grigio e dì quel fulvo opulento, 
era una delizia delli occhi. 
Ella domandò: 

— Dove foste jer sera? 

Uscii dal concerto pochi minuti dopo di voi. 
Tornai a casa; e restai là, perchè mi parve che 
il vostro spirito fosse presente. Pensai molto. 
Non sentiste il mio pensiero? 

— No, non lo sentii. La mia sera fu cupa, non 
so perchè. Mi parve d'essere tanto sola! 

Passò la contessa di Lùcoli in un dog-cart 
guidando un roano. Passò, a piedi, Giulia Mo- 
ceto accompagnata da Giulio Muséllaro. Passò 
Donna Isotta Cellesi. 

Andrea salutava. Donna Maria gli chiedeva i 
nomi delle signore: quello della Moceto non le 
fu nuovo. Si rammentò del giorno in cui venne 
pronunziato da Francesca, innanzi all'arcangelo 
Michele del Perugino, quando Andrea sfogliava 
i suoi disegni nella stanza di Schifanoja; e se- 
gui con lo sguardo l'antica amante dell'amato. 
Un'inquietudine la strinse. Tutto ciò che legava 
Andrea alla vita anteriore le dava ombra. Ella 
avrebbe voluto che quella vita, a lei ignota, non 
fosse mai stata; avrebbe voluto interamente 
cancellarla dalla memoria di chi vi s' era im- 
merso con tanta avidità e n'era emerso con 
tanta stanchezza, con tanta perdita, con tanti 
mali. " Vivere unicamente in voi e per voi, 
senza domani, senza jeri , senza alcun altro le- 



— 368 — 

game , senza alcuna altra preferenza , fuor del 
mondo... ^ Erano le parole di lui. Oh sogno! 

E stringeva Andrea una diversa inquietudine. 
S'avvicinava V ora della colazione offerta dalla 
principessa di Ferentino. 

— Per dove siete diretta? — domandò. 

— Io e Delfina abbiamo preso tè e sandwiches 
dal Nazzarri, con T intenzione di godere il sole. 
Saliremo al Pincio e visiteremo forse la Villa 
Medici. Se volete farci compagnia.... 

Egli ondeggiò, dentro, penosamente. — Il Pin- 
cio, Villa Medici, in un pomeriggio di febbrajo, 
con lei! — Ma non poteva mancare all'invito; e 
lo tormentava anche la curiosità d'incontrare 
Elena dopo la scena della sera, poiché, se bene 
egli fosse andato in casa Angelieri, ella non vi 
era apparsa. Disse, con un'aria desolata: 

— Che sfortuna! Devo trovarmi a una cola- 
zione, fra un quarto d' ora. Accettai V invito, la 
settimana scorsa. Ma se avessi saputo, avrei po- 
tuto liberarmi da qualunque impegno. Che sfor- 
tuna! 

— Andatej non perdete tempo. Vi fareste 
aspettare.... 

Egli guardò l'oriolo. 

— Posso ancora accompagnarvi per un tratto. 

— Mamma — pregò Delfina — andiamo su 
per la scala. Andai su, jeri, con miss Dorothy. 
Se tu vedessi ! 

Come erano in vicinanza del Babuino, volta- 
rono per attraversare la piazza. Un fanciullo 
li seguiva pertinace nell' offrire un gran ramo 
di mandorlo che Andrea comprò e donò a Del- 
fina. Dalli alberghi uscivano signore bionde 



— 369 — 

con in mano il libro rosso del Baedeker; le pe- 
santi vetture a due cavalli s'incrociavano, con 
un luccichio metallico nei guaniimenti di voc* 
chia foggia; i fiorai sollevavano verso ìe stra- 
niere i canestri colmi, vociferando, a ^ara. 

— Promettetemi — disse Andrea a Donna 
Maria, ponendo il piede sul primo gradino — 
promettetemi che non entrerete nella Villa Me- 
dici senza di me. Oggi, rinunziate ; vi prego. 

Ella pareva occupata da un pensiero triste* 
Disse : 

— Rinunzierò. 

— Grazie. 

La scala d'Innanzi a loro levavasi in trionfo, 
emanando dalla pietra riscaldata un tepore mi- 
tissimo ; e la pietra aveva un coloi*c d'antica 
argenteria, simile a quel delle fontane di Seiii- 
fanoja. E Delfina precedeva correndo, col ramo 
fiorito, mentre nel vento della corsa qualche 
fragile foglia rosea s' involava come una far- 
falla. 

Un acuto rammarico punse il cuore del gio- 
vine. Gli apparvero tutte le dolcezze d'una pas- 
seggiata sentimentale pei sentieri medìcei, sotto 
i bossoli muti, in quella prima ora del pome- 
riggio. 

— Da chi andate ? — gli domandò Donna Ma- 
ria, dopo un intervallo di silenzio. 

— Dalla vecchia principessa Alberoni — ri- 
spose Andrea. — Tavola cattolica. 

Mentì anche una volta, poiché un istinto Tav- 
vertiva che forse il nome della Ferentino avrebbe 
suscitato in Donna Maria qualche sospetto. 
B Piacere, Sé 



— 370 — 

— Dunque, addio — ella soggiunse , porgen- 
dogli la mano. 

— No ; vengo fin su la piazza. Ho il mio le- 
gno che m'attende là. Guardate: quella è la mia 
casa. 

E le indicò il palazzo Zuccari , il buen retiro, 
inondato dal sole, che dava imagine d'una 
strana serra diventata opaca e bruna pel tempo. 

Donna Maria guardò. 

— Ora che la conoscete, non verrete qualche 
volta.... in ispirilo? 

— In i spirito, sempre. 

— Prima di sabato sera non i rivedrò I 

— Difflcihnente. 

Si salutarono. Ella, con Delfina, si mise pel 
viale arborato. Egli montò nel suo legno e s'al; 
lontanò per la via Gregoriana. 

Giuase dalla Ferentino con qualche minuto 
di ritardo. Si scusò. Elena era là col marito. 

La colazione fu servita in un' allegra sala 
tappezzata d'arazzi della fabbrica barberina rap- 
presentanti Bambocciate su lo stile di Pietro 
Loar. Fra quel bel Seicento grottesco incomin- 
ciò a scintillare e a scoppiettare un fuoco di 
maldicenza meraviglioso. Tutt'e tre le dame 
avevano lo spirito gaio e pronto. Barbarella 
Viti rideva del suo forte riso maschile , arro- 
vesciando un po'indietro la beila testa efebica; 
e i suoi occhi neri s' incontravano e si mesce- 
vano troppe volte con i verdi occhi della prin- 
cipessa. Elena motteggiava con una straordi- 
naria vivacità ; e sembrava ad Andrea cosi di- 
scosta, cosi estranea, cosi incurante ch'egli 
quasi dubitò: — Ma jersera fu un sogno ? — 



— 371 — 

Ludovico Barbarisi e il principe di Ferentino 
secondavano le dame. Il marchese di Mount 
Edgcumbe si prendeva cura d' annojare il suo 
giovine amico chiedendogli notizie intorno le 
prossime Vendite e parlandogli d'una rat-ìssiina 
edizione del romanzo d'Apulejo Metamorpha- 
seon da lui acquistata pochi giorni innanzi, per 
mille cinquecento venti lire: — Roma, lh'>\% in 
folio. Di tratto in tratto egli s'interrompeva per 
seguire un gesto di Barbarella; e passava ne' 
suoi occhi lo sguardo del maniaco e nelle sue 
mani odiose un tremito singolare. 

L'irritazione, il fastidio, l'insofferenza in An- 
drea arrivarono a tal punto ch'egli non riusciva 
più a dissimularli. 

— Ugenta, siete di malumore? — gli chiese 
lia Ferentino. 

— Un poco. È malato Miching Mallecho, 

E allora il Barbarisi lo annojò con molte do- 
mande su la malattia del cavallo. E poi il Mouut 
Edgcumbe ricominciò col Metamorphomon. E 
la Ferentino, ridendo: 

— Sai, Ludovico, jeri, al concerto del Quin- 
tetto , lo sorprendemmo in Jtirtation con una 
Incognita. 

— Già — fece Elena. 

— Una Incognita ? — esclamò Ludovico. 

— SI; ma forse tu ci potrai dare informa- 
zioni. È la moglie del nuovo ministro di Gua- 
temala. 

— Ah, ho capito. 

— Dunque? 

— Io, per ora, non conosco che il ministro* 
Lo vedo giocare al Circolo tutte le notti* 



— 372 — 

— Dite , Ugenta : è già stata ricevuta dalla 
Regina ? 

— Non so, principessa — rispose Andrea, con 
un po' d' impazienza nella voce. 

Quel cicaleccio gli diveniva insopportabile ; e 
la gajezza di Elena gli dava una orribile tor- 
tura, e la vicinanza del marito lo disgustava 
come non mai. Più che contro questi, egli aveva 
ira contro sé medesimo. In fondo alla sua ir- 
ritazione, movevasi un senso di rimpianto verso 
la felicità dianzi ricusata. Il suo cuore deluso 
e offeso dall'attitudine crudele di Elena, si ri- 
volgeva air altra con un acuto pentimento ; ed 
egli la vedeva pensosa , in un viale solitario , 
bella e nobile come non mai. 

La principessa si levò , tutti si levarono, per 
passare nel salone attiguo. Barbarella corse ad 
aprire il pianoforte che spariva sotto una vasta 
sclablacca di velluto rosso trapunta d'un oro 
opaco; e si mise a cantarellare la Tarentelle d\ 
Giorgio Bizet dedicata a Cristina Nilsson. Elena 
ed Eva si chinavano su di lei per leggere la 
pagina della musica, Ludovico stava in piedi, 
dietro a loro , fumando una sigaretta. Il prin- 
cipe era scomparso. 

Ma lord Heathfield non lasciava Andrea. L'a- 
veva tratto nel vano d' una finestra e gli par- 
lava di certe Coppette amatorie ui*baniesi da lui 
acquistate nella Vendita del cavalier Dàvila; e 
quella voce stridula, con quella stucchevole in- 
tonazione interrogativa, e que' gesti che indi- 
cavano le dimensioni delle coppette, e quello 
sguardo ora morto ora tagliente sotto la enor- 
me fronte convessa, e tutte in somma quelle 



— 373 — 

sembianze esose erano per Andrea un suppli- 
zio cosi fiero ch'egli stringeva i denti convulso 
conme un uomo sotto i ferri d'un chirurgo. 

Un solo desiderio l'occupava ornai : quel d'an- 
darsene. Egli pensava di correre al Pincio, spe- 
rava di ritrovare là Donna Maria, di condurla 
nella Villa Medici. Potevan esser le due. Egli 
vedeva dalla finestra il cornicione della casa 
in contro splendido di sole nel cielo azzurro. 
Volgendosi, vedeva al pianoforte il gruppo delle 
dame nel baglior vermìglio che un fascio di 
raggi suscitava dalla sciablacca. Al ba,gliore 
mescevasi il fumo leggero della sigaretta; e le 
ciarle e le risa si mescevano a qualche accordo 
che le dita di Barbarella cercavano a caso su 
i tasti. Ludovico parlò piano nell'orecchio di sua 
cugina; e la cugina comunicò forse la cosa 
alle amiche, poiché di nuovo fu uno scroscio 
chiaro e brillante come d' una collana disfilata 
su una guantiera d' argento. E Barbarella ri- 
prese V Allegretto del Bizet, sotto voce. 

— Tra la la..,. Le papillon s'est envolé.... Tra 
la la.... 

Andrea aspettava di cogliere il momento op- 
portuno per interrompere il discorso del Mount 
Edgcumbe e per quindi prender congedo. Ma 
il collezionista metteva fuori un séguito di pe- 
riodi legati r uno con l' altro , senza intervalli, 
senza pause. Una pausa avrebbe salvato il mar- 
tire, e non veniva ancora; e l'ansietà cresceva 
ad ogni attimo. 

— Oai! Le papillon s'est envolé.... OuH... Ah! 
ah! ah! ah! ah!.... 

Andrea guardò l'oriolo. 



- 374 — 

— Sono già le due I Perdonatemi , marchese.' 
Bisogna ch'io vada. 

E accostandosi al gruppo : 

— Perdonatemi, principessa. Alle due ho un 
consulto in scuderia coi veterinarii. 

Salutò in gran fretta. Elena gli diede a strin- 
gere la punta delle dita. Barbarella gli diede 
un fondant, dicendogli : 

— Portatelo al povero Miching da parte mia. 
Ludovico voleva accompagnarlo. 

— No ; resta. 

S'inchinò e use). Fece le scale in un baleno. 
Saltò nel suo legno, gridando al cocchiere: 

— Di corsa, al Pincio! 

Egli era invaso da un desiderio folle di ri- 
trovare Maria Ferres, dr ricuperare la felicità 
a cui dianzi aveva rinunziato. Il trotto fìtto de' 
suoi cavalli non gli sembrava a bastanza ve- 
loce. Guardava ansioso , per veder finalmente 
apparire la Trinità dei.Monti, lo stradone arbo- 
rato, i cancelli. 

La carrozza oltrepassò i cancelli. Egli ordinò 
al cocchiere di moderare il trotto e di girare 
per tutti i viali. Il cuore gli dava un balzo ogni 
volta che di lungi , tra li alberi, appariva una 
figura di donna; ma in vano. Su la spianata 
egli discese; prese i piccoli viali chiusi alle 
vetture, esplorando ogni angolo: in vano. Le 
persone dai sedili lo seguivano con li occhi, 
per curiosità, poiché la sua inquietudine era 
manifesta. 

Essendo la Villa Borghese aperta, il Pincio 
riposava tranquillo sotto quel sorriso languido 
dì febbrajo. Rare carrozze e rari pedoni inter- 



— 375 — 

rompevano la pace del monte. Li alberi ancor 
nudi, biancastri, taluni un po'violetti, ergevano 
le braccia in un cielo delicato , sparso di ra- 
gnateli finissimi che il vento strappava e di- 
struggeva col suo soffio. I pini , i cipressi , le 
altre piante sempre verdi assumevano un po' 
del comun pallore, sfumavano, si scolorivano, 
si fondevano nel comune accordo. La Viirichi 
de'tronchi, il frastaglio de' rami reudevauo più 
solenne l'uniformità delle enne. 

Non fluttuava forse ancora in quoìVaria qual- 
che cosa della tristezza di Donna Muria? Ap- 
poggiato al cancello della Villa Medici, Andrea 
rimase per alcuni minuti come oppresso da uu 
peso enorme. 

Eia vicenda continuò, ne'f^Morni vegnenti, 
con le medesime torture, con torture peggiori, 
con più crudeli menzogne» Per un fenniiieno 
non raro nell'aìjjezion morale dolli uuuiìni d'in- 
telletto, egli aveva ora una terribile lucidità di 
conscienza, una lucidità continua, senza, più 
oscurazioni, senza più eclissi, Hgli sapeva quel 
che faceva, e giudicava poi quel che aveva 
fatto. E in lui il disprezzo dì so stesso era pari 
all'ignavia della volontà. 

Ma le sue ineguaglianze a punto e le sue in- 
certezze e i suoi strani silenzìi e le sue strane 
effusioni e tutte in somma le singolarità di 
espressioni, che portava un tale stato d*auimo, 
accrescevano, incitavano la passionata miseri- 
cordia di Donna Maria. Ella lo vedeva soffrire e 
ne provava dolore e tenerezza; e pensava: — 
A poco a poco, io lo guarirò» — E a poco a 
poco, senza accorgersene, ella andava perdendo 



— 376 — 

la forza e piegando verso il desiderio dell' in- 
fermo. 

Ella piegava dolcemente. 

Nel salone della contessa Stamina, ebbe un 
indefinibile brivido quando senti su le sue spalle 
e su le sue braccia scoperte lo sguardo di An- 
drea. Per la prima volta Andrea la vedeva in 
abito di sera. Egli di lei conosceva soltanto il 
volto e le mani: ora, le spalle gli parvero di 
squisita forma ed anche le braccia, se bene 
forse un po' magre. 

Era ella vestita d'un broccato color d*avorio, 
misto di zibellino. Una sottile striscia di zibel- 
lino correva intorno la scollatura, dando alla 
carne una indescrivibile finezza; e la linea delle 
spalle dall' appiccatura del collo alli omeri ca- 
deva giù alquanto , aveva quella cadente gra- 
zia che è un segno d' aristocrazia fisica dive- 
imto omai rarissimo. Su i capelli copiosi, di- 
sposti in quella foggia che predilesse pe' suoi bu- 
sti il Verrocchio, non splendeva né una gemma 
né un fiore. 

In due o tre momenti opportuni , Andrea le 
mormorò parole d'ammirazione e di passione. 

— È la prima volta che noi ci vediamo '' nel 
mondo „ — le disse. — Mi date un guanto, per 
memoria ? 

— No. 

— Perché, Maria? 

— No, no; tacete. 

— Oh le vostre mani! Vi ricordate quando, a 
Schifanoja, le disegnai ? Mi pare che mi appar- 
tengano di diritto; mi pare che voi dobbiate 
concedermene il possesso, e che, di tutto il ve- 



— 377 — 

stro corpo, sieno le cose più intimamente ani- 
mate dall'anima vostra, le più spiritualizzate, 
quasi direi le più pure.... Mani di bontà, mani 
di perdono.... Come sarei felice di possedere al- 
meno un guanto: una larva, una p.arvenza della 
loro forma, una spoglia profumata dal loro pro- 
fumo!... Mi date un guanto, prima d'aiidarvejic? 

Ella non rispose più. Il colloquio fu iiitoj^rotto* 
Dopo qualche tempo, pregata, ella seùù al pia- 
noforte; si tolse i guanti, li posò sunegiJ:io, Le 
sue dita, fuor di quelle sottili f^^uaiue, apparvero 
bianchissime, lunghette, inanellato. Brillava di 
vivi fuochi su l'anulare sinistr(j un ^raiuie opale. 

Sonò le due Sonate-Fantasie del necthoven 
(op. 27). L'una, dedicata a Giuliella Guieciardi, 
esprimeva una rinunzia senza speranza, nar- 
rava il risveglio dopo un sogiio troppo a Ilhì^o 
sognato. L'altra fin dalle prinìe battute deWan- 
dante.ìn un ritmo soave e piLUio, accennava a 
un riposo dopo la tempesta; quiiiclì, passando 
per le irrequietudini del secondo tempo, aliar- 
gavasi in un adagio di luminosa serenità e fi- 
niva con un allegro vioace in cui era una sol- 
le vazion di coraggio e quasi un ardore, 

Andrea sentì che, in mezzo a queir uditorio 
intento, ella sonava sol per lui. Di tratto in 
tratto , i suoi occhi dalle dita della senatrice 
andavano ai lunghi guanti ohe pendevano di 
sul leggio conservando l'impronta di riuolle dita, 
conservando una inesprimibile gra?:ia nella pìc- 
cola apertura del polso ove dianzi appariva a 
pena a pena un po' della cute feniìnìlc. 

Donna Maria si levò, circondata d'elofji. Non 
riprese i guanti; s'allontanò. Invase allora An- 



— 378 — 

drea la tentazìon d' involarli. — Li aveva ella 
forse lasciati là per lui? — Ma egli ne voleva 
uno solo. Come diceva finamente un fino ama- 
tore, un par di guanti è tutt'altro che un guanto 
solo. 

Condotta di nuovo al pianoforte dairinsistenza 
della contessa Stamina, Donna Maria tolse dal 
leggfo i guanti e li posò airestremità della ta- 
stiera, neir ombra dell' angolo. Quindi sonò la 
gavotta di Luigi Rameau, la Gaootta delle dame 
gialle, V indimenticabile danza antica del Tedio 
e dell'Amore. "Certe dame bionde tte, non più 
giovini.... „ 

Andrea la guardava fiso, con un po' di trepi-' 
dazione. Quando ella si levò, prese un guanto 
solo. Lasciò l'altro nell'ombra, su la tastiera, 
per lui. 

Tre giorni dopo,' essendo Roma attonita sotto 
la neve, Andrea trovò a casa questo -biglietto: 
" Martedì, ore 2 pom. — Stasera , dalle undici 
a mezzanotte, mi aspetterete in una carrozza, 
d'innanzi al palazzo Barberini, fuori del can- 
cello. Se a mezzanotte non sarò ancora ap- 
parsa , potrete andarvene. — A stranger, „ Il 
biglietto aveva un tono romanzesco e misterioso. 
In verità, la marchesa di Mount Edgcumbe fa- 
ceva troppo abuso di carrozza nell'esercizio 
dell' amore. Era forse per un ricordo del 25 
marzo 1885 ? Voleva ella forse riprender r av- 
ventura nel modo medesimo con cui 1' aveva 
interrotta? E perchè quello str anger ì Andrea 
ne sorrise. Egli tornava allora allora da una 
visita a Donna Maria, da un'assai dolce visita; 
e il suo spirito inchinava più verso la senese 



— 379 — 

che verso V altra. Gli indugiavan neir orecchio 
le vaghe e gentili parole che la senese aveva 
dette guardando insieme con lui a traverso i 
vetri cader la neve mite come il fior del pesco 
o il fior del melo in su li alberi della Villa Al- 
dobrandini già illusi da un presentimento di 
stagion novella. Ma, prima d' uscir pel pranzo, 
diede ordini molto accurati a Stephen. 

Alle undici egli era d' innanzi al palazzo; e 
l'ansia e l'impazienza lo divx^ravano. La bizzar- 
ria del caso, lo spettacolo della notte nivale, il 
mistero, Tincertezza gli accendevano Timagina- 
zione, lo sollevavano dalla realità. 

Splendeva su Roma, in quella memorabile 
notte di febbrajo, un plenilunio favoloso, di non 
mai veduto lume. L*aria pareva impregnata 
come d'un latte immateriale; tutte le cose pa- 
revano esistere d'una esistenza di sogno, pare- 
vano imagini impalpabili come quelle d'una me- 
teora, parevan esser visibili di lungi per un ir- 
radiamento chimerico delle loro forme. La neve 
copriva tutte le verghe dei cancelli, nascondeva 
il ferro, componeva un'opera di ricamo più leg- 
gera e più gracile d'una filigrana, che i colossi 
ammantati di bianco sostenevano come le querci 
sostengono le tele dei ragni. Il giardino fioriva 
a similitudine d' una selva immobile di gigli 
enormi e difformi, congelato; era un orto pos- 
seduto da una incantazione lunatica, un esa- 
nime paradiso di Selene. Muta, solenne, pro- 
fonda, la casa dei Barberini occupava l'aria: 
tutti i rilievi grandeggiavano candidissimi git- 
tando un'ombra cerulea, diafana come una luce; 
e quei candori e quelle ombre sovrapponevano 



— 380 - 

alla vera architettura dell' edifizio il fantasma 
d*una prodigiosa architettura ariostèa. 

Chino a riguardare, l'aspettante sentiva sotto 
il fascino di quel miracolo che i fantasmi va- 
gheggiati dell'amore si risollevavano e le som- 
mità liriche del sentimento riscintillavano come 
le lance ghiacce dei cancelli alla luna. Ma egli 
non sapeva quale delle due donne avrebbe pre- 
ferita in quello scenario fantastico: se Elena 
Heathfield vestita di porpora o Maria Ferres 
vestita d'ermellino. E, come il suo spirito pia- 
cevasi d' indugiare nell' incertezza della prefe- 
renza, accadeva che nell'ansia dell'attesa si me- 
scessero e confondessero stranamente due an- 
sie, la reale per Elena, l'imaginaria per Maria. 

Un orologio suonò da presso, nel silenzio, con 
un suono chiaro e vibrante; e pareva come se 
qualche cosa di vitreo nell'aria s'incrinasse a 
ognun de' tocchi. L'orologio della Trinità de' 
Monti rispose all'appello; rispose l'orologio del 
Quirinale; altri orologi di lungi risposero, fiochi. 
Erano le undici e un quarto. 

Andrea guardò, aguzzando la vista, verso il 
portico. — Avrebbe ella osato attraversare a 
piedi il giardino ? — Pensò la figura di Elena 
tra il gran candore. Quella della senese risorse 
spontanea, oscurò l'altra, vinse il candore, can- 
dida super nivem. La notte di luna e di neve 
era dunque sotto il dominio di Maria Ferres, 
come sotto una invincibile influenza astrale. 
Dalla sovrana purità delle cose nasceva Tima- 
gine dell'amante pura, simbolicamente. La forza 
del Simbolo soggiogava lo spirito del poeta. 

Allora, sempre guardando se l'altra venisse, 



— 381 — 

egli si abbandonò al sogno che gli suggerivano 
le apparenze delle cose. 

Era un sogno poetico , quasi mistico. Egli 
aspettava Maria. Maria aveva eletta quella notte 
di soprannaturale bianchezza per immolar la 
sua propria bianchezza al desiderio di lui. Tutte 
le cose bianche in torno, consapevoli della 
grande immolazione, aspettavano per dire ave 
ed amen al passaggio della sorella. Il silenzio 
viveva. 

" Ecco , ella viene: incedit per lilla et super 
nivem. È avvolta neirermellino; porta i capelli 
constretti e nascosti in una fascia; il suo passo 
è più leggero della sua ombra; la luna e la 
neve sono men pallide di lei. Ave. 

" Un'ombra, cerulea come una luce che si 
tinga in uno zaffiro, Taccompagna. I gigli enormi 
e dififormi non s'inchinano, poiché il gelo li ha 
irrigiditi, poiché il gelo li ha fatti simili agli 
asfodilli che illuminavano i sentieri deir Ade. 
Ben però , come quelli de' paradisi cristiani , 
hanno una voce; dicono: — Amen. 

" Così sia. L' adorata va ad immolarsi. Così 
sia. Ella é già presso l'aspettante; fredda e muta, 
ma con occhi ardenti ed eloquenti. Ed egli prima 
le mani, le care mani che chiudono le piaghe 
e schiudono i sogni, bacia. Così sia. 

" Di qua, di là, si dileguano le Chiese alte su 
colonne a cui la neve illustra di volute e d'a- 
canti magici il fastigio. Si dileguano i Fòri pro- 
fondi, sepolti sotto la neve, immersi in un chia- 
rore azzurro, onde sorgono gli avanzi dei portici 
e degli archi verso la luna più inconsistenti 
delle lor medesime ombre. Si dileguano le fon- 



— 382 — 

tane, scolpite in rocce di cristallo, che versano 
non acqua ma luce. 

" Ed egli poi le labbra, le care labbra che non 
sanno le false parole, bacia. Cosi sia. Fuor della 
fascia discinta si effondono i capelli come un 
gran flutto oscuro, ove tutte sembran raccolte 
le tenebre notturne fugate dalla neve e dalla 
luna. Comis suis obumbrabit tibi et sub comis 
peccabit. Amen. ^ 

E Taltra non veniva! Nel silenzio e nella poe- 
sia cadevano di nuovo le ore degli uomini scoc- 
cate dalle torri e dai campanili di Roma. Qual- 
che vettura, senza alcuno strepito , discendeva 
per le Quattro Fontane verso la piazza o saliva 
a Santa Maria Maggiore faticosamente; e i fa- 
nali erano gialli come topazii nella chiarità. Pa- 
reva che, salendo la notte al colmo, la chiarità 
crescesse e diventasse più limpida. Le filigrane 
dei cancelli riscintillavano come se i ricami 
d'argento vi s'ingemmassero. Nel palazzo, grandi 
cerchi di luce abbagliante splendevano su le 
vetrate, a simiglianza di scudi adamantini. 

Andrea pensò : — Se ella non venisse ? — 

Quella strana onda di lirismo passatagli su 
lo spirito, nel nome di Maria, aveva coperta 
l'ansietà dell'attesa, aveva placata l'impazienza, 
aveva ingannato il desiderio. Per un attimo, il 
pensiero ch'ella non venisse gli sorrise. Poi di 
nuovo, più forte, lo punse il tormento dell'in- 
certezza e lo turbò Timagine della voluttà ch'e- 
gli avrebbe forse goduta là dentro, in quella 
specie di piccola alcova tiepida dove le rose 
esalavano un profumo tanto molle. E, come 
nel giorno di San Silvestro, il suo sofferire era 



— 383 — 

acuito da una vanità; poiché, sopra tutto, e^Vi 
si rammaricava che uno squisito apparato d'a- 
more andasse perduto senza effetto alcuno. 

Là dentro, il freddo era temperato dal calore 
continuo che esalavano i tubi di metallo pieni 
d'acqua bollente. Un fascio di rose bianche, ni- 
vee, lunari, posava su la tavoletta d'innanzi al 
sedile. Una pelle d'orso bianco teneva calde le 
ginocchia. La ricerca d'una specie di Symphonie 
en blanc majeur era manifesta in molte altre 
particolarità. Come il re Francesco I sul vetro 
della finestra, il conte d'Ugenta aveva inciso di 
sua mano sul vetro dello sportello un galante 
motto che, nell'appannatura fatta dall'alito, pa- 
reva brillare su una lastra di opale: 

Fvo amore curriculum 
Pro amore cubiculum. 

E per la terza volta le ore sonarono. Manca- 
vano a mezzanotte quindici minuti. L'aspetta- 
. zione durava da troppo tempo: Andrea si stan- 
cava e s'irritava. Nell'appartamento abitato da 
Elena, nelle finestre dell'ala sinistra non vede- 
vasi altro lume che quello esterno della luna. 
— Sarebbe dunque venuta? E in che modo? Di 
nascosto? con qual pretesto? Lord Heathfleld 
era, certo, a Roma. Come avrebbe ella giustifi- 
cata la sua assenza notturna? — Di nuovo, in- 
sorsero nell'animo dell'antico amante le acri cu- 
riosità intorno le relazioni che correvano tra 
Elena e il marito, intorno i loro legami conj*i- 
gali, intorno il loro modo di vivere in comune, 
nella medesima casa. Di nuovo, la gelosia lo 



— 384 — 

morse e la bramosia lo accese. Egli si ricordava 
delle allegre parole dette da Giulio Muséllaro, 
una sera, a proposito del marito; e si proponeva 
di prendere Elena ad ogni costo, per il diletto e 
per il dispetto. — Oh, s'ella fosse venuta! 

Una carrozza sopraggiunse ed entrò nel giar- 
dino. Egli si chinò a guardare; riconobbe i ca- 
valli d' Elena; intravide neir interno una figura 
di dama. La carrozza disparve sotto il portico. 
Egli restò dubitoso. — Tornava dunque di fuori? 
Sola? — Acuì lo sguardo verso il portico, in- 
tensamente. La carrozza usciva, per il giardino, 
nella strada, imboccando la via Rasella: era 
vuota. 

Mancavano due o tre minuti all'ora estrema; 
ed ella non veniva! L'ora sonò. Una terribile 
angoscia strinse il deluso. Ella non veniva! 

Non comprendendo egli le cause della impun- 
tualità di lei, le si rivolse contro; ebbe un moto 
di collera subitaneo; e gli balenò anche il pen- 
siero ch'ella avesse voluto infliggergli una umi- 
liazione, un castigo, o ch'ella avesse voluto to- 
gliersi un capriccio, esasperare un desiderio. 
Ordinò al cocchiere, pel portavoce: 

— Piazza del Quirinale, 
y Egli si lasciava attrarre da Maria Ferres; si 
abbandonava di nuovo al vago sentimento di 
tenerezza che, dopo la visita pomeridiana, gli 
aveva lasciato nell'anima un profumo e gli aveva 
suggerito pensieri e imagini di poesia. La delu- 
sione recente, ch'era per lui unp, prova del dis- 
amore e della malvagità di Elena, lo spingeva 
forte verso l'amore e la bontà della senese. Il 
rammarico per la bellissima notte perduta gli 



— 385 — 

aumentava, ma sotto il riflesso del so^no dianzi 
sognato. Ed era, in verità, una delle notti più 
belle che sien trascorse nel cielo di Roma; era 
uno di quelli spettacoli che opprimono d'una 
immensa tristezza lo spirito umano perchè so- 
verchiano ogni potenza ammirativa e sfuggono 
alla piena comprension deirintolletto. 

La piazza del Quirinale appariva tutta can- 
dida, ampliata dal candore, solitaria, raggiante 
come un'acropoli olimpica su l'Urbe silenziosa. 
Li ediflzii, in torno, grandeggiavano nel cielo 
aperto: l'alta porta papale del Bernini, nel pa- 
lazzo del Re, sormontata dalla loggia, illudeva 
la vista distaccandosi dalle mura* avanzandosi, 
isolandosi nellasua magnificenza (lìffonne. dando 
imagine d'un mausoleo scolpita* in un;i pietra 
siderea; i ricchi architravi del Fuga, nel palazzo 
della Consulta, sporgevano di su gli stipiti e di 
su le colonne transflgurati dalle strane adu na- 
zioni della neve. Divini, a mezzo deireguaì campo 
bianco, i colossi parevano sovrastare a tutte le 
cose. Le attitudini dei Dioscuri e dei cavalli s'al- 
largavano nella luce; le groppe ampie brillavano 
come ornate di gualdrappe geunnanti; brilla- 
vano li omeri e l'un braccio levato di ciascun 
semidio. E, sopra, di tra i cavalli, slaiiciavasi 
l'obelisco; e, sotto, aprivasi la tazza della ff in- 
tana; e lo zampillo e l'aguglia salivano alla luna 
come uno stelo di diamante e uno stelo di gra* 
nito. 

Una solennità augusta scendeva da) monu- 
mento. Roma, d'innanzi, si profondava in un si- 
lenzio quasi di morte, immobile, vacua, simile 
a una città addormentata da un potere fatale. 

Il Piacere. 25 



- 386 — 

Tutte le case, le chiese, le torri, tutte le selve 
confuse e miste dell'architettura pagana e cri- 
stiana biancheggiavano come una sola unica 
selva informe, tra i colli del Gianicolo e il Monte 
Mario perduti in un vapore argentino, lontanis- 
simi, d'una immaterialità inesprimibile, simili 
forse ad orizzonti d' un paesaggio selenico, che 
suscitavano nello spirito la visione d'un qual- 
che astro semispento abitato dai Mani. La cu- 
pola di San Pietro, luminosa d'un singolare az- 
zurro metallico nell'azzurro dell'aria, giganteg- 
giava prossima alla vista cosi che quasi pareva 
tangibile. E i due giovini Eroi cignlgeni, bellis- 
simi in quell'immenso candore come in un'apo- 
teosi della loro origine, parevano gli immortali 
Genii di Roma vigilanti sul sonno della città 
sacra. 

La carrozza rimase ferma d'innanzi alla reg- 
gia, lungo tempo. Di nuovo, il poeta seguiva il 
suo sogno inarrivabile. E Maria Ferres era vi- 
cina; forse anche vegliava, sognando; forse an- 
che sentiva gravare sul cuore tutta la gran- 
dezza della notte e ne moriva d'angoscia; inu- 
tilmente. 

La carrozza passò, piano, d'innanzi alla porta 
di Maria Ferres, ch'era chiusa, mentre in alto 
i vetri delle finestre rispecchiavano il plenilunio 
guardando li orti pénsili aldobrandini ove li al- 
beri sorgevano aerei prodigi. E il poeta gittò il 
fascio delle rose bianche su la neve, come un 
omaggio, d'innanzi alla porta di Maria Ferres. 



— 387--- 



xm. 



— Io vidi: indovinai.... Ero dietro i vetn, da 
tanto tempo. Non sapevo risolvermi ad andar- 
mene. Tutto quel bianco m' attillava,.*. Vidi la 
carrozza passare lentamente, nella neve. SentH 
che eravate voi, prima di vedervi pittar le rose. 
Nessuna parola mai potrà dirvi !a tenerezza 
delle mie lacrime. Piansi per voi, d'amore ; e 
piansi per le rose, di pietà. Povere rose! Mi pa- 
reva che dovessero vivere e soffrire e agoni 5^- 
zare, su la neve. Mi pareva, non so, che mi chia- 
massero, che si lamentassero, come creature 
abbandonate. Quando la vostra carrozza si al- 
lontanò, io mi affacciai per guardarle. Fui sul 
punto di scendere, giù nella stradn, a prenderle. 
Ma qualcuno era ancora fuori di casa; e il do- 
mestico era di là, nell'anticamera, clie aspet- 
tava. Pensai mille modi, ma non riuscii a tro- 
varne uno attuabile. Mi disperai,,,. Sorridete? 



— 388 — 

Proprio, io non so che follia mi prese. Stavo 
tutta attenta a spiare i passanti, con gli occhi 
pieni di lacrime. Se avessero calpestato le rose, 
mi avrebbero calpestato il cuore. Ed ero felice 
in quel supplizio; ero felice del vostro amore, 
del vostro atto delicato e appassionato, della vo- 
stra gentilezza, della vostra bontà.... Ero triste 
e felice, quando mi addormentai ; e le rose do- 
vevan esser già moribonde. Dopo qualche ora 
di sonno, mi svegliò il rumore delle pale sul la- 
strico. Spazzavano la neve, proprio d'innanzi alla 
nostra porta. Io rimasi in ascolto; e il rumore 
e le voci continuarono fin oltre l'alba, e mi fa 
cevano tanta malinconìa.... Povere rose ! Ma sa- 
ranno sempre vive nella mia memoria. Certi ri- 
cordi bastano a profumare un'anima per sem- 
pre.... Mi amate molto, Andrea? 
E, dopo un'esitazione : 

— Amate me sola ? Avete dimenticato il resto, 
interamente ? Sono miei tutti i vostri pensieri ? 

Ella palpitava e tremava. 

— Io soffro... della vostra vita anteriore, di 
quella ch'io non conosco; soifro dei vostri ri- 
cordi, di tutte le tracce che forse vi rimangono 
ancora nello spirito, di tutto ciò che in voi non 
potrò mai comprendere e mai possedere. Oh, 
s'io potessi darvi l'oblio d'ogni cosa! Odo con- 
tinuamente le vostre parole, Andrea, le prime 
prime parole. Credo che le udrò nell'istante della 
morte.... 

Ella palpitava e tremava, sotto Turto della 
passione soverchiatrice. 

— Io vi amo ogni giorno più, ogni giorno piùl 
Andrea la inebriò di parole soavi e profonde, 



— aso- 
la vinse d'ardore, le narrò^il sogno della notte 
nivale e il suo desiderio disperato e tutta la 
utile favola delle rose e molte altre imagina- 
zioni liriche. Gli pareva ch'ella fosse prossima 
ad abbandonarsi; vedeva li occhi di lei nuotare 
in qualche onda di languore più lunga; vedeva 
su la bocca dolente apparire quella inesprimi- 
bile contrattura che è come la dissimulazionG 
d'una tendenza fisica istintiva al bacio; e ve- 
deva le mani, quelle mani gracili e forti, mani 
d'arcangelo, fremere come le cordo d*uno stru- 
mento, esprimere lutto Vovixti^mo in ieri io. — 
Se oggi potrò rapirle anche un solo bacio fug- 
gevole — pensava — avrò di molto affrettato 
11 termine ch'io sospiro. 

Ma ella, consapevole del pericolo, si levò 
d'improvviso, chiedendo licenza; sonò il cam- 
panello, ordinò al domestico 11 tè e che pre- 
gasse Miss Dorotiiy di condur Delfina nel salone. 
Poi, volgendosi ad Andrea, un po' coavulsa: 

— È meglio così. Perdonateruu 

E da quel giorno evitò di l'ìceverlo hi giorni 
che non fossero, come il martedì e il sabato, di 
ricevimento comune. 

Ella però si lasciò guidare da lui in vane pe- 
regrinazioni a traverso la Roma dej^li Impera- 
tori e la Roma dei Papi. Il oergiliato quaresi- 
male si svolse nelle ville, nehe gallerìe, nello 
chiese, nelle mine» Dov'era passata Elena Muti 
passò Maria Ferres. Non di rado, le cose sug- 
gerivano al poeta le medesime effusioni di pa- 
role che Elena aveva già udite. Non di rado, 
un ricordo lo allontanava dalla realtà presente, 
lo turbava d'improvviso. 



— 390 — 

— A che pensate, ora ? — gli chiedeva Maria, 
guardandolo in fondo alle pupille, con un'ombra 
di sospetto. 

Ed egli rispondeva: 

— A voi, sempre a voi. Mi prende come una 
curiosità di guardarmi dentro per vedere se 
ancora mi rimanga qualche minima parte del- 
l'anima che non sia in possesso dell'anima vo- 
stra, qualche minima piega che non sia pene- 
trata dalla vostra luce. È come una esplora- 
zione interiore, che io faccio per voi, già che 
voi non potete farla. E bene. Maria, non ho più 
nulla omai da offerirvi. Siete neir assoluto do- 
minio di tutto il mio essere. Non mai, penso, 
una creatura umana è stata più intimamente 
posseduta da una creatura umana, in ispirito. 
Se la mia bocca si congiungesse alla vostra, 
avverrebbe la transfusione della mia vita nella 
vostra vita. Penso che morirei. 

Ella gli credeva, poiché la voce di lui dava 
alle parole la fiamma della verità. 

Un giorno erano sul Belvedere della Villa Me- 
dici: guardavano ne' larghi e cupi tetti di busso 
r oro del sole morire a poco a poco e la Villa 
Borghese ancor nuda sommergersi a poco a 
poco in un vapore violaceo. Maria disse, invasa 
da una subitanea tristezza: 

— Chi sa quante volte siete venuto qui, a 
sentirvi amare! 

Andrea rispose, con l'accento d'un uom tra- 
sognato: 

— Non so; non ricordo. Che dite mai? 

Ella tacque. Poi si levò, per leggere le inscri- 
zioni su i pilastri del tempietto. Erano, per lo 



— 391 — 

più, inscrizioni d'amanti, di novelli sposi, di con- 
templatori solitarii. 

Una portava, sotto una data e un nome di 
donna, un frammento del Pausias: 



Immer allein sind Liébende sich in der grositeti Versammlung; 
Aher sind eie Zweien, stelli auch der Dritie sich ein. 

ER. 

Amor, ja! 

Un'altra era la glorificazione di un nomo 
alato : 

A solis ortu usque ad occasum laudabile no- 
men Helles. 

Un'altra era una sospirevole quartina del Pe- 
trarca: 

Io amai sempre ed amo forte ancora, 
E son per amar più di giorno in gionio, 
Quel dolce loco ove piangendo tomo 
Spesse fiate quando Amor m'ao^iora. 

Un'altra pareva essere una leal dlciiìarflzioue, 
firmata da due leali amanti: 

Allora y no siempre. 

Tutte esprimevano un sentimento erotico, o 
triste o giocondo; cantavano le lodi d'una bella 
o rimpiangevano un bene remoto; narravano 
d'un bacio ardente o d'una estasi languida; rin- 
graziavano i vecchi bussi cortes i, indicavamo 
ai felici venturi una latebra, notavano hi singo- 
larità d'un tramonto contemplato- Chiunque, 



— 392 — 

sposo o amante, sotto il fascino femìnino, era 
stato preso da un entusiasmo lirico sul piccolo 
Belvedere solitario a cui conduce una scala di 
pietra coperta di velluto. Le mura parlavano. 
Una indefinibile malinconia emanava da quelle 
voci ignote d'amori morti, una malinconia quasi 
sepolcrale, come dalli epitaffi d'una cappella. 

D'un tratto. Maria si volse ad Andrea, di- 
cendo : 

— Ci siete anche voi. 

Egli rispose, guardandola, con l'accento me- 
desimo di dianzi: 

— Non so; non ricordo. Non ricordo più nulla. 
Vi amo. 

Ella lesse. Ed era, scritto di mano d'Andrea, 
un epigramma del Goethe, un distico, quello che 
incomincia: "Sa^e, wie lebst dufy, — Rispondi, 
come vivi tu? — "/c/i lebe! ^^ — Io vivo! E, se 
pur cento e cento secoli mi fosser dati, io m'au- 
gurerei soltanto che domani fosse come oggi. 
— Sotto era una data: Biè ultima februarii 1885; 
e un nome: Helena Amyclcea. 

Ella disse: 

— Andiamo. 

Il tetto di busso pioveva tenebre su la scala 
di pietra coperta di velluto. EgU chiese: 

— Volete appoggiarvi ? 
Ella rispose; 

— No; grazie. 

Discesero in silenzio, pianamente. Ad ambedue 
pesava il cuore. 
Dopo un intervallo, ella disse: 

— Eravate felice, due anni fa. 

Ed egli, con una ostinazione meditata: 



— 393 — 

— Non so; non ricordo. 

Il bosco era misterioso, in un crepuscolo 
verde. I tronchi e i rami sorgevano con intriclii 
e viluppi serpentini. Qualche foglia luccicava 
come un occhio di smeraldo, neirombra 

Dopo un intervallo, ella soggiunse: 

— Chi era quella Elena? 

— Non so; non ricordo. Non ricordo più nulla* 
Vi amo. Amo voi sola. Penso per voi sola. Vìvo 
per voi sola. Non so più nulla; non ricordo più 
nulla; non desidero più nulla, oltre il vostro 
amore. Nessun filo più mi lega alla vita d'un 
tempo. Sono ora fuor del mondo, intera nieuto 
perduto nel vostro essere. Io aoiio nel vostro 
sangue e nella vostra anima; io mi se/ito in 
ogni palpito delle vostre arterie; io non vi tocco 
e pure mi mescolo con voi come se vi tenessi 
di continuo tra le mie braccia, su la mia bocca, 
sul mio cuore. Io vi amo e voi mi amate; e 
questo dura da secoli , durerà nei secoli , per 
sempre. Accanto a voi, pensando a voi, vivendo 
di voi, ho il sentimento deirinlìnilo, il sentimetito 
dell'eterno. Io vi amo e voi mi amate. Non so 
altro; non ricordo altro.... 

Egli le versava su la tristezza e sul sospetto 
un'onda di eloquenza infiammata e dolco» Ella 
ascoltava, diritta innanzi ai balaustri dell'ampia 
terrazza che si apre sul limite del bosco. 

— Ed è vero? Ed è vero ? — ripeteva ella con 
una voce spenta eh' era come Feco affievolita 
d'un grido dell'anima interno, — Ed è vero? 

— È vero. Maria; e questo soltanto é vero. 
Tutto il resto è un sogno. Io vi amo e voi niL 
amate. E voi mi possedete come io vi posseggo. 



— 394 — 

Io vi so così profondamente mia ahe non vi 
chiedo carezze, non vi chiedo alcuna prova d'a- 
more. Aspetto. Mi è caro, sopra ogni cosa, obe- 
dirvi. Io non vi chiedo carezze; ma le sento 
nella vostra voce, nel vostro sguardo, nelle 
vostre attitudini, ne' vostri minimi gesti. Tutto 
ciò che parte da voi è per me inebriante come 
un bacio ; e io non so, sfiorandovi la mano, se 
sia più forte la voluttà de' miei sensi o la sol- 
levazione del mio spirito. 

Egli posò la sua mano su la mano di lei, lie- 
vemente. Ella tremò, sedotta, provando un de- 
siderio folle di piegarsi verso di lui, dì offrirgli 
in fine le labbra, il bacio, tutta sé stessa. Le 
parve (poiché ella dava fede alle parole di An- 
drea), le parve che per tale atto ella lo avrebbe 
legato a sé con l'ultimo nodo, con un nodo in- 
dissolubile. Ella credeva di venir meno, di strug- 
gersi, di morire. Era come se tutti i tumulti 
della passione già sofferta le gonfiassero il 
cuore, aumentassero il tumulto della passione 
presente. Era come se rivivessero in quell'at- 
timo tutte le commozioni trascorse da che ella 
aveva conosciuto quell'uomo. Le rose di Schi- 
fanoja rifiorivano tra i lauri e i bussi della Villa 
Medici. 

— Io aspetto, Maria. Non vi chiedo nulla. Man- 
tengo le mie promesse. Io aspetto l'ora suprema. 
Sento che verrà , poiché la forza dell' amore è 
invincibile. E sparirà in voi ogni timore, ogni 
terrore; e la comunione dei corpi vi sembrerà 
pura come la comunione delle anime, poiché 
sono egualmente pure tutte le fiamme.... 

Egli le premeva, con la mano senza guanto, 



— 395 — 

la mano inguantata. Il p:iardino pareva deserÈo, 
Dal palazzo deirAcademia non giungeva alcun 
romore, alcuna voce. Si udiva cliiaro nel silenzio 
il chioccolio della fontana a mezzo dello spiazzo; 
i viali si prolungavano verso il Pincio diritti, 
come chiusi fra due pareti di bronzo su cui 
non anche moriva la doratura del vespro; Tini- 
mobilità di tutte le forme dava imagine d'uji 
labirinto impietrato: le cime delle carme acqua- 
tiche intorno la vasca erano immobili nell^arra 
come le statue. 

— Mi sembra — disse la senese, socchiudendo 
i cigli — di trovarmi su una terrazza di Schi- 
fanoja, lontana lontana da Roma, sola... con te. 
Chiudo gli occhi, veggo il mare. 

Ella vedeva dal suo a«iore e dal silenzio na- 
scere un gran sogno e dilatarsi nel tramonto* 
Ella tacque, sotto lo sguardo di Andrea; e un 
poco sorrise. Ella aveva detto : con te! Pronun- 
ziando quelle due sillabe , ella aveva chiuso li 
occhi: e la bocca era parsa più luminosa, qurisl 
che vi si fosse raccolto anche lo splendor ce- 
lato dalle pàlpebre e dai cigli. 

— Mi sembra che tutte queste cose non j^ieno 
fuori di me, ma che tu le abbia create neiranima 
mia, per la mia gioia. Ho questa illusione in me, 
profonda, ogni volta che io sono innanzi a uno 
spettacolo di bellezza e che tu mi sei vicino. 

Ella parlava lentamente , con qualche pausa, 
come se la sua voce fosse Teco tarda di un'al- 
tra voce inaudibile. Per ciò le sue parole ave- 
vano un singolare accento , acquistavano un 
suono misterioso, parevano venire dalle più se- 
grete profondità delTessere; non erano il comun 



— 396 — 

simbolo imperfetto, erano un'espressione intensa 
più viva, trascendente, d'un significato più vasto. 

" Dalle sue labbra, come da un giacinto pieno 
d'una rugiada di miele, cade a goccia a goccia 
un murmurc liquido, clie fa morir di passione 
i sensi, dolce come le pause della musica pla- 
netaria udita neir estasi. „ Il poeta ricordava i 
versi di Percy Shelley. Egli li ripetè a Maria, 
sentendosi conquistare dalla commozione di ìeU 
penetrare dal fascino dell' ora, esaltare dall'ap- 
parenza delle cose. Un tremito lo prese, quando 
egli era per rivolgerle il tu mistico. 

— Io non era mai giunto, in nessun più alto 
sogno del mio spirito, a ideare quest'altezza. Tu 
ti levi sopra tutte le mie idealità, tu splendi so- 
pra tutti gli splendori del mio pensiero, tu m'il- 
lumini d'una luce che è quasi per me insoste- 
nibile.... 

Ella stava diritta, innanzi ai balaustri, con le 
mani posate su la pietra, con la testa alzata, 
più pallida di quando, nella mattina memorabile, 
camminava sotto i fiori. Le lacrime le empivano 
li occhi socchiusi , le rilucevano tra i cigli ; e 
sogguardando innanzi a so, ella vedeva il cielo 
farsi roseo, a traverso il velo del pianto. 

Era, nel cielo, una pioggia di rose, come quando 
nella sera d'ottobre il sole moriva dietro il colle 
di Rovigliano accendendo gli stagni per la pi- 
neta di Vicomile. "Rose rose rose piovevano 
da per tutto, lente, spesse, molli, a simiglianza 
d' una nevata in un' auròra. „ La Villa Medici, 
eternamente verde e senza fiori, riceveva su le 
cime delle sue rigide mura arboree i molli pe- 
tali innumerevoli caduti dai giardini celesti. 



— 397 - 

Ella si volse, per discendere. Andrea la segui. 
Camminarono in silenzio verso la scala; guar- 
darono il bosco che si stendeva fra la terrazza 
e il Belvedere. Pareva che il chiarore si fer- 
masse sul limite, dove sorgono le due erme 
custodi, e non potesse rompere la tenebra; pa- 
reva che quelli alberi rameggiassero in un*altra 
atmosfera o in un'acqua cupa, in un fondo ma- 
rino, simili a vegetazioni oceaniche. 

Ella fu invasa da una sùbita paura; si affrettò 
verso la scala, discese cinque o sei gradini; si 
arrestò, smarrita, palpitante, udendo nel silenzio 
il battito delle sue arterie dilatarsi come uno 
strepito enorme. La Villa era scomparsa; la scala 
era serrata fra due pareti, umida, grigia, rotta 
dall'erbe, triste come quella d'una carcere sot- 
terranea. Ella vide Andrea piegarsi verso di lei, 
con un atto improvviso, per baciarla in bocca. 

— No, no, Andrea... No! 

Egli tendeva le mani per trattenerla, per co- 
stringerla. 

— No! • 

Perdutamente, ella gli prese una mano, se la 
trasse alle labbra; la baciò due, tre volte, per- 
dutamente. Poi si mise a correre giù per la scala, 
verso la porta, come folle. 

— Maria! Maria! fermatevi! 

Si ritrovarono Tuna di fronte airaltro, innanzi 
alla porta chiusa, pallidi, ausanti, scossi da un 
terribile tremito, guardandosi nelli ocelli niutatj, 
avendo nelli orecchi il rombo del loro sangue, 
credendo di soffocare. E nel tempo medesimo, 
con un impeto concorde, si strinsero, si bacia- 
rono. 



— 398 — 

Ella disse, temendo di venir meno, appoggian- 
dosi alla porta , con un gesto di suprema pre- 
ghiera: 

— Non più... Io muoio. 

Rimasero un minuto, Tuna di fronte all'altro, 
senza toccarsi. Pareva che tutto 'il silenzio della 
Villa gravasse su loro , in quel luogo angusto 
cinto d'alti muri, simile a una tomba scoperta. 
Si udiva distinto il gracchiare basso e interrotto 
dei corvi che si raccoglievano su i tetti del pa- 
lazzo o traversavano il cielo. Di nuovo, un 
senso strano di paura occupò il cuore della donna. 
Ella gittò in alto , alla sommità dei muri , uno 
sguardo sbigottito. Facendosi forza, disse: 

''— Ora, possiamo uscire.... Potete aprire. 
E la sua mano s'incontrò con quella di Andrea 
sul saliscendi, nella furia incalzante. 

E, come ella passò rasente le due colonne di 
granito,^ sotto il gelsomino senza fiori, Andrea 

disse: 

— Guarda! Il gelsomino fiorisce. 

Ella non si volse, ma sorrise; e il sorriso era 
assai triste , pieno dell' ombre che metteva in 
quell'anima il riapparir subitaneo del nome in- 
scritto sul Belvedere. E, mentre ella camminava 
per il viale misterioso sentendo tutto il suo 
sangue alterato dal bacio, un'implacabile ango- 
scia le incideva nel cuore quel nome, quel nome! 



— 399 



XIV. 



Il marchese di Mount Edgciimbe, aprendo fi 
grande armario segreto , la biblioteca arcana, 
diceva allo Sperelli: 

— Voi dovreste disegnarmi i ftìnnagli. Il vo- 
lume è in-4, datato da Lampsaco come Les 
Aphrodiies del Nerciat : 1731 Gli intagli mi pajoiio 
finissimi. Giudicatene. 

Egli porse allo Sperelli il libro raro. Era inti- 
tolato Gerveth — De Concuìntii — - libri tres, or- 
nato di vignette voluttuose. 

— Questa figura è molto importante — sog^ 
giunse, indicando col dito una delle vignette, che 
rappresentava un congiungimento di corpi inde- 
scrivibile. È una cosa nuova che io non cono- 
sceva ancora. Nessuno dei miei scrittori erotici 
ne fa menzione... 

Seguitava a parlare, discutendo alcune parti- 
colarità, seguendo le linee dei disegno con quel 



h 



— 400 - n 

dito bianchìccio sparso di peli su la prima fa- 
lange e terminato da un' unghia acuta , lucida, 
un po' livida come l'unghia dei quadrumani. Le 
sue parole penetravano nell'orecchio dello Spe- 
relli con uno stridore atroce. 

— Questa edizione olandese di Petronio è ma- 
gnifica. E questo è V Erotopaegnion stampato a 
Parigi nel 1798. Conoscete il poema attribuito a 
John Wilkes, Art essay on womanf Eccone una 
edizione del 1763. 

La raccolta era ricchissima. Comprendeva 
tutta la letteratura pantagruelica e rococò di 
Francia: le priapée, le fantasie scatologiche, le 
monacologie, gli elogi burleschi, i catechismi, 
gli idillii, i romanzi, i poemi dalla Pipe cassée 
del Vadé alle Liaisons dangereuses, dall' Arétin 
d'AugusUn Carradie alle Tourterelles de Zdmis, 
dalla Descouverture du style impudique al Fau- 
blas. Comprendeva quanto di più raffinato e di 
più infame l'ingegno umano ha prodotto nei se- 
coli per comento dell'antico inno sacro al dio 
di Lampsaco: Salve, sanate pater. 

Il collezionista prendeva i libfi dalle file del- 
l'armario, e li mostrava al giovine amico, par- 
lando di continuo. Le sue mani oscene si face- 
vano carezzevoli intorno i libri osceni rilegati in 
cuoi ed in tessuti di pregio. Ad ogni tratto sorri- 
deva sottilmente. E gli passava nelli occhi grigi 
il baleno della follia, sotto la enorme fronte con- 
vessa. 

— Posseggo anche la edizione principe degli 
Epigrammi di Marziale, quella di Venezia, fatta 
da Vindelino di Spira, in-folio. Eccola. Ed ecco 
il Beau, il traduttore di Marziale, il comentatore 



— 401 — 

delle famose trecento ottanta due oscenità. Come 
vi sembrano le rilegature? I fermagli sono d'un 
maestro. Questa composizione di priapi è di 
grande stile. 

Lo Sperelli ascoltava e guardava, con una 
specie di stupore che a poco a poco andavasì 
mutando in orrore e in dolore. I suoi occhi ad 
ogni momento erano attirati da un ritratto d'E- 
lena, che pendeva alla parete, sul damasco 
rosso. 

— È il ritratto di Elena, dipinto daSir Frede* 
rick Leighton. Ma guardate qui, tutto il Sade! 
Le roman philosophique, La philosophie dans 
le boudoir , Les crimes de l'amour, Les mal- 
heurs de la vertu.,.. Voi, certo, non conoscete 
questa edizione. È fatta per conto mìo da Hé- 
rissey, con caratteri elzeviriani del XVIII se- 
colo, su carta delle Manifatture imperiali del 
Giappone, in soli cento venti cinque esemplari. 
Il divino marchese meritava questa f^^loria, I 
frontespizii, i titoli, le iniziali, tutti i tv^^x rac- 
colgono quanto di più squisito noi conosciamo 
in materia d'iconografia erotica. Guardate 1 fer^ 
magli ! 

Le rilegature dei volumi erano mirabilL Una 
pelle di pescecane, rugosa ed aspra come quella 
che avvolge l'elsa delle sciabole giapponesi, co- 
priva le due facce e il dorso; i fermagli e le 
borchie erano d'un bronzo assai ricco d'argento, 
opere, di cesello elegantissime, che ricordavano 
i più bei lavori in ferro del secolo XVI. 

— L'autore, Francis Redgrave, è morto in un 
manicomio. Era un giovine di genio. Io pos- 
seggo tutti i suoi studii. Ve li mostrerò. 

Il Piacete. 2tJ 



J' 



— 402 — 

n collezionista s'accendeva. Egli usci per an- 
dare a prendere Talbo dei disegni di Francis 
Redgrave, nella stanza contigua: Il suo passo 
era un po' saltellante e mal sicuro, come d'un 
uomo che abbia in sé un principio di paralisi, 
una malattìa spinale incipiente; il suo busto ri- 
maneva rigido, non assecondando il moto delle 
gambe, simile al busto d'un automa. 
' Andrea Sperelli lo segui con lo sguardo, fin 
su la soglia, inquieto. Rimasto solo, fu preso da 
una terribile angoscia. La stanza^ tappezzata di 
damasco rosso cupo, come la stanza dove Elena 
due anni innanzi erasi data a lui, gli parve al- 
lora tragica e lugubre. Forse quelle erano le 
tappezzerie medesime che avevano udite le pa- 
role di Elena: — Mi piaci! — L'armario aperto 
lasciava vedere le file dei libri osceni, le rile- 
gature bizzarre impresse di simboli fallici. Alla 
parete pendeva il ritratto di Lady Heathfield ac- 
canto a unai copia della Nelly O* Brien di Joshua 
Reynolds. Ambedue le creature, dal fondo della 
tela, guardavano con la stessa intensità pene- 
trante, con lo stesso ardor di passione, con la 
stessa fiamma di desiderio sensuale, con la 
stessa prodigiosa eloquenza; ambedue avevano 
la bocca ambigua, enigmatica, sibillina, la bocca 
delle infaticabili ed inesorabili bevitrici d'anime; 
e avevano ambedue la fronte marmorea, imma- 
colata, lucente d'una perpetua purità. 

— Povero Redgrave! — disse Lord Heath- 
field, rientrando con la custodia dei disegni tra 
le mani. — Senza dubbio, egli era un genio. 
Nessuna fantasia erotica supera la sua. Guar- 
date!... Guardate!... Che stile! Nessuno artista 



— 403 — 

io penso, nello studio della fisionomia umana 
si avvicina alla profondità e all'acutezza a cui 
è giunto questo Redgrave nello studio del phal- 
lus. Guardate! 

Egli si allontanò un istante per andare a ri- 
chiudere l'uscio. Poi tornò verso il tavolo, presso 
la finestra; e si mise a sfogliare la raccolta, sotto 
li occhi dello Sperelli, parlando di continuo, in- 
dicando con r unghia scimiesca, affilata come 
un'arma, le particolarità di ciascuna figura. 

Egli parlava nella sua lingua, dando ad ogni 
principio di frase una intonazione interrogativa 
e ad ogni fine una cadenza eguale, stucchevole. 
Certe parole laceravano l'orecchio di Andrea 
come un suono aspro di ferri raschiati, come 
lo stridore d'una lama d'acciajo a contrasto 
d'una lastra di cristallo. 

E i disegni del defunto Francis Redgrave pas- 
savano. 

Erano spaventevoli; parevano il sogno d'un 
becchino torturato dalla satinasi; si svolgevano 
come una paurosa danza macabra e priapica; 
rappresentavano cento variazioni d'un sol mo- 
tivo, cento episodii d'un solo dramma. E le dra- 
matis personae erano due: un priapo e uno sche- 
letro, un phallus e un rictus. 

— Questa è la pagina " superiore „ — esclamò 
il marchese di Mount Edgcumbe, indicando l'ul- 
timo disegno, su cui in quel punto scendeva a 
traverso 1 vetri della finestra un sorriso tenue 
di sole. 

Era, in fatti, una composizione di straordina- 
ria potenza fantastica: una danza di scheletri 
muliebri, in un del notturno, guidata da una 



— 404 — 

Morte flrtgellatrìce. Su la faccia impudica della 
luna correva una nuvola nera, mostruosa, di- 
sepnata con un vigore e un'abilità degni della 
matita d*0-Kou-sai ; Tattitudine della tetra cori- 
fea, Tespression del suo teschio dalle orbite va- 
cue erano improntate d'una vitalità mirabile, 
d'una spirante realità non mai raggiunta da al- 
cun altro artefice nella figurazione della Morte; 
e tutta (luella sicinnide grottesca di scheletri 
slogati in gonne discinte, sotto le minacce della 
sferza, rivelava la tremenda febbre che aveva 
preso la mano del disegnatore, la tremenda fol- 
lia che aveva preso il suo cervello. 

— Ecco il libro che ha inspirato questo capo- 
lavoro a Francis Redgrave. Un gran libro!... Il 
più raro tra i rarissimi.... Non conoscete voi 
Daniel Maclisius? 

Lord Heathfield porse allo Sperelli il trattato 
De verheratione amatoria. Si accendeva sempre 
più, ragionando di piaceri crudeli. Le tempie 
calve gli s'invermigliavano e le vene della fronte 
gli si gonfiavano e la bocca gli s'increspava, un 
po' convulsa, ad ogni tratto. E le mani, le mani 
odiose, gestivano con gesti brevi ma concitati, 
mentre i gomiti rimanevano rigidi, d'una rigi- 
dezza paralitica. La bestia immonda, laida, fe- 
roce appariva in lui, senza più veli. Nell'imagi- 
nazione dello Sperelli sorgevano tutti gli orrori 
del libertinaggio inglese: le gesta dell'Armata 
Nera, della black army, su pe' marciapiedi di 
Londra ; la caccia implacabile alle " vergini 
verdi,,; i lupanari di West-End, della Halfousn 
Street; Ut case eleganti di Anna Rosemberg, 
della Jefferies; le camere segrete, ermetiche, im- 



— 405 — 

bottìte dal pavimento al soffitto, ove s^t smor- 
zano l- gridi acuti che la tortura strappa alle 
vittime.... 

— Mumps! Mumps! Siete soloì 

Era la voce di Elena. Ella batteva piaao a uà 
delli usci. 

— Mumps! 

Andrea trasalì: tutto il sangue gli fece velo 
alli occhi, gli accese là fronte, gli mise nel li 
orecchi un rombo, come se una vertìgine im- 
provvisa stesse per coglierlo. Un'insurrezione 
tii brutalità lo sconvolse; gli attraversò lo spi- 
rito, nella luce d'un lampo, una visione oscena; 
gli passò nel cervello oscuramente un pensier 
criminoso; Tagitò per un attimo non so die 
smania sanguinaria. In mezzo al turbamento 
portato in lui da quei libri, da quelle figure, 
dalle parole di quell'uomo, risaliva su dalle cie- 
che profondità dell'essere lo stesso impeto istin* 
tivo che già egli aveva provato im giorno, sul 
campo delle corse, dopo la vittoria contro il Rù- 
tolo, tra le esalazioni acri del cavallo fumante. 
Il fantasma d'un delitto d'amore lo tentò e sì di- 
leguò, rapidissimo, nella luce d'un lampo : uccì- 
dere quell'uomo, prendere quella donna per vie- 
lenza, appagare cosi la terribile cupidigia car- 
nale, poi uccidersi. 

— Non sono solo — disse il marito, seimi 
aprire l'uscio. — Fra qualche minuto pnti'ò con- 
durvi nel salone il conte Sperelli che è qui 
con me. 

Egli ripose nell'armario il trattato di Daniel 
Maclisius; chiuse la custodia dei disegni di Fran- 
cis Redgrave e la portò nella stanza contigua 



— 406 - 

Andrea avrebbe dato qualunque prezzo per 
sottrarsi al supplizio che l'aspettava ed era at- 
tratto da quel supplizio, nel tempo medesimo. 
Il suo sguardo , anche una volta, si levò alla 
parete rossa, verso il cupo quadro ove brillava 
la faccia esangue di Elena dagli occhi seguaci, 
dalla bocca di sibilla. Un fascino acuto e con- 
tinuo emanava da quella immobilità imperiosa. 
Quel pallore unico dominava tragicamente tutta 
la rossa ombra della stanza. Ed egli senti, an- 
che una volta, che la sua trista passione era 
immedicabile. 

Un'angoscia disperata Tassalse. — Non avrebbe 
egli dunque mai più posseduta quella carne? 
Era ella dunque risoluta a non cedergli? Ed 
egli avrebbe per sempre nutrita in sé la fiamma 
del desiderio insoddisfatto? — L'eccitazion pro- 
dotta in lui dai libri di Lord Heathfìeld ina- 
spriva la sofferenza, rinfocolava la febbre. Era 
nel suo spirito un confuso tumulto d' imagini 
erotiche: la nudità di Elena entrava nei gruppi 
infami delle vignette incise dal Coiny, prendeva 
attitudini di piacere già note al passato amore, 
si piegava ad attitudini nuove, si offeriva alla 
lascivia bestiale del marito. Orrore! Orrore! 

— Volete che andiamo di là ? — chiese il ma- 
rito, ricomparendo su la soglia, ben ricompo- 
sto e tranquillo. — Mi disegnerete dunque i fer- 
magli pel mio Gervetius? 

Andrea rispose: 

— Mi proverò. 

Egli non poteva reprimere il tremito interno. 
Nel salone, Elena lo guardò curiosamente, con 
un sorriso irritante. 



— 407 - 

— Che facevate, di là? — ella gli chiese, pur 
sempre sorridendo al modo mede ?^ imo. 

— Vostro marito mi mostrava cimclii. 

— Ah! 

Ella aveva la bocca sardonica, una cert'aria 
beffarda, un'irrision palese nella voce. Si ada- 
giò sopra un largo divano coperto d\m tappeto 
di Bouckara amaranto su cui lan^E^uivano i cu- 
scini pallidi e su' cuscini le palme d'oro smorto. 
Si adagiò in un'attitudine molle, guardando An- 
drea di tra i lusinghevoli cigli, con quelli oc- 
chi che parevano come suffusi d' un qualche 
olio purissimo e sottilissimo. E si mise a par- 
lare di cose mondane, ma con una voce che 
penetrava fin neirintime vene del giovine, come 
un fuoco invisibile. 

Due o tre volte Andrea sorprese lo sguardo 
scintillante di Lord Heathfleld fìsso su la mo- 
glie: uno sguardo che gli parve carico di tutto 
le impurità e le infamie dianzi rimescolate. Quasi 
ad ogni frase, Elena rideva, d'un riso irridente, 
con una strana facilità, non turbata dalla brama 
di que' due uomini che s'erano accesi ìnsioaiG 
su le figure dei libri osceni. Ancor :ì, il pensi or 
criminoso attraversò lo spirito di Andrea, nella 
luce d'un lampo. Tutte le fibre gli tremarono. 

Quando Lord Heathfield si levò ed use), egli 
proruppe, con la voce roca, afferrandole un 
polso, avvicinandosi a lei così da sfiorarla con 
Valito veemente: 

— Io perdo la ragione.... Io divento folle,.» 
Ho bisogno di te. Elena.... Ti voglio,.». 

Ella liberò il polso, con un gesto superbo. Poi 
disse, con una terribile freddezza: 



- 408 — 

— Vi farò dare da mio marito venti franchi. 
Uscendo di qui, potrete sodisfarvi. - 

Lo Sperelli balzò in piedi, livido. 
Lord Heathfleld rientrando chiese: 

— Ve ne andate già? Che avete mai? 

E sorrise del giovine amico, poiché egli co- 
nosceva gli effetti de' suoi libri. 

Lo Sperelli s'inchinò. Elena gli offerse la mano, 
senza scomporsi. Il marchese lo accompagnò 
fin su la soglia, dicendogli piano: 

— Vi raccomando il mio Gervetius. 

Come fu sotto il portico, Andrea vide avan- 
zarsi pel viale una carrozza. Un signore dalla 
gran barba bionda si affacciò allo sportello, sa- 
lutando. Era Galeazzo Secinaro. 

Subitamente, gli sorse nello spirito il ricordo 
della Fiera di Maggio con l'episodio della somma 
offerta da Galeazzo per ottenere che Elena Muti 
asciugasse alla barba le belle dita bagnate di 
Sciampagna. Affrettò il passo, usci nella strada: 
aveva la sensazione ottusa e confusa come d'un 
romore assordante che sfuggisse dall'intimo del 
suo cervello. 

Era un pomeriggio della fine d'aprile, caldo 
e umido. Il sole appariva e spariva tra i nuvoli 
fioccosi e pigri. L'accidia dello scirocco teneva 
Roma. 

Sul marciapiede della via Sistina, egli scorse 
d'innanzi a sé una signora che camminava len- 
tamente verso la Trinità. Riconobbe Donna Ma- 
ria Ferres. Guardò l'orologio: erano, infatti, circa 
le cinque; mancavano pochi minuti all'ora abi- 
tuale del ritrovo. Maria, certo, andava al pa- 
lazzo Zuccari. 



— 409 — 

Egli affrettò il passo per raggiungerla. Quando 
fu da presso, la chiamò a nome: 

— Maria! 

Ella ebbe un sussulto. 

— Come qui? Io salivo da te. Sono le cinque. 

— Manca qualche minuto. Io correvo ad aspet* 
tarti. Perdonami. 

— Che hai ? Sei molto pallido, tutto alterato.». 
Di dove vieni? 

Ella corrugò 1 sopraccigli, fissandolo, a tra* 
verso il velo. 

— Dalla scuderia — rispose Andrea, soste- 
nendo lo sguardo, senza arrossire, come scegli 
non avesse più sangue. — Un cavallo , ciie 
m'era assai caro, s'è rovinato un ginoccliio per 
colpa del yoc/c^^. Domenica non potrà quindi 
prender parte al Derby. La cosa mi fa pena ed 
ira. Perdonami. Ho indugiato senza accorger- 
mene. Ma alle cinque manca qualche mhjuto»., 

— Bene. Addio. Me ne vado. 

Erano su la piazza della Trinità. Ella sì sof- 
fermò per congedarsi, tendendogli la niano. Le 
durava ancora tra i sopraccigli una piega. In 
mezzo alla sua gran dolcezza, talvolta ella aveva 
insofferenze quasi aspre e movimenti altieri che 
la trasfiguravano. 

— No, Maria. Vieni. Sii dolce. Io vado su, ad 
aspettarti. Tu arriva fino ai cancelli del Pineìo 
e torna in dietro. Vuoi? 

L'orologio della Trinità de' Monti suonò lo 
cinque. 

— Senti? — soggiunse Andrea. 

Ella disse, dopo una leggera esitazione : 

— Verrò. 



— 410 - 

— Grazie. Ti amo. 

— Ti amo. 

Si sepaiarono. 

Donna Maria seguitò il suo cammino ; travei'sò 
la piazza, entrò nel viale arborato. Sul suo capo, 
a intervalli, lungo la muraglia, il soffio languido 
dello scirocco suscitava nelli alberi verdi un 
murmurc. Nel tepore umido dell' aria fluivano 
rare onde di profumo e svanivano. Le nuvole 
parevano più basse; certi stormi di rondini 
quasi radevano il suolo. E pure, in quella sner- 
vante gravezza era qualche cosa di molle che 
ammolliva il cuor passionato della senese. 

Da che ella aveva ceduto al desiderio di An- 
drea, il suo cuore si agitava in una felicità sol- 
cata d'inquietudini profonde; tutto il suo san- 
gue cristiano s'accendeva alle voluttà della pas- 
sione non mai provate e s'agghiacciava agli 
sbigottimenti della colpa. La sua passione era 
altissima, soverchiante, immensa; cosi fiera che 
spesso per lunghe ore le toglieva la memoria 
della figlia. Ella giungeva ad obliare Delfina, 
talvolta; a trascurarla! Ed aveva poi subitanei 
ritorni di rimorso, di pentimento, di tenerezza, 
in cui ella copriva di baci e di lacrime la testa 
della figlia attonita, singhiozzando con un do- 
lor disperato, come sopra la testa d'una morta. 

Tutto il suo essere s'affinava alla fiamma, si 
assottigliava, si acuiva, acquistava una sensi- 
bilità prodigiosa, una specie di lucidità oltra- 
veggente, una facoltà divinatoria che le dava 
strane torture. Quasi ad ogni inganno di An- 
drea, ella si sentiva passare un'ombra su l'a- 
nima, provava una inquietudine indefinita che 



— 411 — 

talvolta addensandosi prendeva forma <\\ìu so- 
spetto. E il sospetto la mordeva, le rendeva 
amari i baci, acre ogni carezza, Anche non si 
dileguava sotto gli Impeti e gli ardori deir in- 
comprensibile amante. 

Ella era gelosa. La gelosia era ii suo spasimo 
implacabile, la gelosia, non pur del presente, 
ma del passato. Per quella crudeltà che le per- 
sone gelose hanno contro sé stesse, ella avrebbe 
voluto lèggere nella memoria di Andrea, sco- 
prirne tutti i ricordi, vedere tutte le tracce se- 
gnate dalle antiche amanti, sapere, sapere. La 
domanda che più spesso le correva alle labbra, 
quando Andrea taceva, era questa: — A che 
pensi? — E mentre ella profferiva le tre parole, 
inevitabilmente l'ombra le passava nelH occhi 
e su Tanima, inevitabilmente un rtutto di tri- 
stezza le si levava dal cuore. 

Anche quel giorno, airimprovviso sopra^rgìuii- 
gere di Andrea, non aveva ella avuto in fondo 
a sé un istintivo moto di sospetto ì Anzi un 
pensier lucido orale balenato nello spìnto: il 
pensiero che Andrea venisse dalla casa di Lady 
Heathfield, dal palazzo Barberini. 

Ella sapeva che Andrea era stato ramante 
di quella donna, sapeva che quella donna st 
chiamava Elena, sapeva in fine clic quella ora 
la Elena dell'inscrizione. " Ich lebe!... „ Il distico 
del Goethe le squillava forte sul cuore. Quel 
grido lirico le dava la misura deiranior d*An- 
dreaper la bellissima donna. Egli doveva averla 
immensamente amata! 

Camminando sotto li alberi, ella ricordava 
l'apparizione di Elena nella sala del coiieertn, 



— 412 — 

al palazzo de' Sabini, e il turbamento mal dissi- 
mulato deir antico amante. Ricordava la terri- 
bile commozione che l'aveva presa una sera, a 
una festa delFambasciata d* Austria, quando la 
contessa Stamina le aveva detto, al passaggio 
di Elena : — Ti piace la Heathfleld ? È stata una 
gran fiamma del nostro amico Sperelli, e credo 
che sia ancora. 

"Credo clie sia ancora.,, Quante torture per 
quella frase! Ella aveva seguita con li occhi la 
gran rivale, di continuo, in mezzo alla folla ele- 
gante; e più d'una volta il suo sguardo erasi 
incontrato con quel di lei, ed ella ne aveva avuto 
un brivido indefinibile. Poi, nella sera medesima, 
presentate Tuna all'altra dalla baronessadiBoeck- 
horst , in mezzo alla folla , avevano scambiato I 
un semplice inchino della testa. E il tacito in- i 
chino erasi ripetuto in séguito, nelle assai rare 
volte che Donna Maria Ferres y Capdevila aveva 
attraversato un salone mondano. 

Perchè i dubbii , sopiti o spenti sotto l' onda 
delle ebrezze, risorgevano con tanta veemenza? 
Perchè ella non riusciva a reprimerli^ ad allon- 
tanarli? Perchè in fondo a lei si agitavano , ad 
ogni piccolo urto dell'imaginazione, tutte quelle 
sconosciute inquietudini? 

Camminando sotto li alberi, ella sentiva cre- 
scere l'afifanno. Il suo cuore non era pago; il so- 
gno levatosi dal suo cuore — nella nlattina mi- 
stica, sotto li alberi floridi, in conspetto del mare 
— non s'era avverato. La parte più pura e più 
bella di quell'amore era rimasta là , nel bosco 
solitariOf nella selva simbolicia che fiorisce e 
fruttifica perpetuamente contemplando l'Infinito, i 



— 413 — 

Ella si soffermò , d' innanzi al parapetto che 
guarda San Sebastianello. I vecchissimi elei, 
d'una verdura così cupa die quasi pareva nera, 
protendevano su la fontana un tetto arteflciato, 
senza vita. I tronchi portavano ampie ferite, ri- 
colmate con la calce e col mattone , come le 
aperture d'una muraglia. — Oh giovini àlbatri 
raggianti e spiranti nella luce ! — L'acqua gron- 
dando dalla superior tazza di granito nel bacino 
sottoposto metteva uno scoppio di gemiti, a in- 
tervalli, come un cuore che si riempia d'ango- 
scia e poi trabocchi in pianto. — Oh melodìa 
delle Cento Fontane, pe'l viale de' lauri! — La 
città giaceva estinta, come sepolta dalla cenere 
d'un vulcano invisibile, silenziosa e funerea come 
una città disfatta da una pestilenza, enorme, in- 
forme, dominata dalla Cupola che le sorgeva dal 
grembo come una nube. — Oh mare! Oh mare 
sereno ! 

Ella sentiva crescere l'affanno. Un'oscura mi- 
naccia veniva a lei dalle cose. La occupò quel 
medesimo senso di timore che già ella aveva 
provato più d'una volta. Sul suo spirito cristiano 
balenò il pensiero del castigo. 

E tuttavia ella rabbrividì nel più profondo del 
suo essere al pensiero che l'amante l'aspet- 
tava; al pensiero dei baci, delle carezze, delle 
folli parole, ella senti il suo sangue infiam- 
marsi , la sua anima languire. Il brivido della 
passione vinse il brivido del timor divino. Ed 
ella si mosse verso la casa dell' amante , tre- 
pida, sconvolta, come.se andasse a un primo 
ritrovo. 

— Oh, finalmente! — esclamò Andrea, acco- 



— 414 — 

gliendola fra le sue braccia , bevendole V alito 
dalla bocca affannata. 

Poi, prendendole una mano e premendosela 
al petto: 

— Sentimi il cuore. Se tu indugiavi ancor un 
minuto, mi si rompeva. 

Ella mise la guancia nel luogo della mano. 
Egli le baciò la nuca. 

— Senti? 

— Sì; mi parla. 

— Che ti dice? 

— Che non mi ami. 

— Che ti dice? — ripetè il giovine, morden- 
dola alla nuca, impedendole di sollevarsi. 

Ella rise. 

— Che mi ami. 

Ella si tolse il mantello, il cappello, i guanti. 
Andò a odorare i fiori di lilla bianchi che em- 
pivano le alte coppe fiorentine, quelle del tondo 
borghesiano. Aveva su i tappeti un passo di 
straordinaria leggerezza; e nulla era più soave 
deir atto con cui ella affondava il viso tra le 
ciocche delicate. 

-- Prendi, — ella disse, recidendo co'i denti 
una cima e tenendola in bocca, fuor delle labbra. 

— No; io prenderò dalla tua bocca un altro 
flore, men bianco ma più saporoso.... 

Si baciarono , a lungo , a lungo , in mezzo al 
profumo. 

Egli disse, con la voce un po' mutata, traen- 
dola: 

— Vieni, di là. 

— No, Andrea; è tardi. Oggi, no. Restiamo qui. 
Io ti farò il tè ; tu mi farai tante carezze buone. 



~ 415 — 

Ella gli prese le mani, intrecciò le sue dita a 
quelle di lui. 

— Non so che ho. Mi sento il cuore coe^l 
gonfio di tenerezza che quasi piangerei. 

Le sue parole tremavano ; i suoi occhi s'ìjiu- 
midivano. 

— Se potessi non lasciarti , restare qui tutta 
la sera! 

Un'accorazione profonda le suggeriva accenti 
d'indefinibile malinconia. 

— Pensare che tu non saprai mai tutto ttiltn 
il mio amore! Pensare che io non saprò niii il 
tuo! Mi ami tu? Dimmelo, dimmelo seni}nf\ 
cento volte, mille volte, senza stancarti. Mi umii 

— Non lo sai forse? 

— Non lo so. 

Ella profferì queste parole con una voce (auto 
sommessa che Andrea le udì a pena. 

— Maria! 

Ella piegò il capo sul petto di lui, in silenzio; 
appoggiò la fronte, quasi aspettando ch'egli pur- 
lasse, per ascoltarlo. 

Egli guardò quel povero capo reclinato suite 
il peso del presentimento; senti il premei* leg- 
gero di quella fronte nobile e triste sul suo 
petto indurito dalla menzogna, fasciato di fnìsìtiK 
Una commozione angosciosa lo strinse; una 
misericordia umana di quella sofferenza uiiiaim 
gli chiuse la gola. E quel buon moto deirnnintu 
si risolse in parole che mentivano, diede il fi li- 
mito della sincerità a parole che mentiva) h k 

— Tu non lo sail... Hai parlato piano; il snT 
fio ti si è spento su le labbra; qualche cos;t ut 
fondo a te s'è levata contro quel che dìcevtj 



— 41G — 

tutti tutti ì ricordi del nostro amore si son le- 
vati contro quel che dicevi. Tu non sai che io 
ti amo!... 

Ella rimaneva china, ascoltando, palpitando 
forte, riconoscendo, credendo riconoscere nella 
voce commossa del giovine il suono vero della 
passione, Tinebriante suono ch'ella credeva ini- 
mitabile. Ed egli le parlava quasi air orecchio, 
nel silenzio della stanza, mettendogli sul collo 
un soffio caldo, con pause più dolci delle parole. 

— Avere un pensiero unico, assiduo, di tutte 
Tore, di tutti gli attimi;... non concepire altra 
felicità che quella, sovrumana, irraggiata dalla 
sola tua presenza su Tessere mio;... vivere tutto 
il giorno nell'aspettazione inquieta, furiosa, ter- 
ribile, del momento in cui ti rivedrò;... nutrire 
l'imagine delle tue carezze, quando sei par- 
tita, e di nuovo possederti in un'ombra quasi 
creata;... sentirti, quando io dormo, sentirti, sul 
mio cuore, viva, reale, palpabile, mescolata al 
mio sangue , mescolata scila mia vita;... e cre- 
dere in te soltanto, giurare in te soltanto, riporre 
in te soltanto la mia fede , la mia forza, il mio 
orgoglio, tutto il mio mondo, tutto quel che so- 
gno, e tutto quel che spero.... 

Ella alzò la faccia rigata di lacrime. Egli tac- 
que, arrestandole con le labbj'a le stille tiepide 
su le gote. Ella lacrimava e sorrideva, metten- 
dogli le dita tremule ne' capelli,' smarritamente, 
singhiozzando : 

— Anima, anima mia! 

Egli la fece sedere; le si inginocchiò ai piedi, ' 
non lasciando di baciarla su le pàlpebre. A un 
tratto , ebbe un sussulto. Aveva sentito su 1q j 



— 417 — 

labbra palpitare rapidamente 1 lunghi cigli di lei, 
a similitudine di un'ala irrequieta. Era una ca- 
rezza strana che dava un piacere insostenibile; 
era lina carezza che Elena un tempo soleva fare 
ridendo, più volte di séguito, costringendo l'a- 
mante al piccolo spasimo nervoso della velli- 
cazione ; e Maria l'aveva appresa da lui, e spesso 
egli sotto una tal carezza aveva potuto evocare 
l'imagine dell'aera. 

Al sussulto, Maria sorrise. E, come le indu- 
giava ancora una lacrima lucida tra i cigli, 
ella disse: 

— Bevi anche questa I 

E, come egli bevve, ella rise, inconsapevole. 
Ella esciva dal pianto quasi lieta, rassicurata, 
piena di grazie. 

— Ti farò il tè — disse. 

— No; rimani qui, seduta. 

Egli s'accendeva, vedendola sul divano, tra i 
cuscini. Avvenne , nel suo spirito , una sùbita 
sovrapposizione dell'imagirie d'Elena. 

— Lasciami alzare! — pregò Maria, liberando 
il busto da una stretta. — Voglio che tu beva 
il mio tè. Sentirai. Il profumo t' arriverà all'a- 
nima. 

Parlava d'un tè prezioso, giuntole da Calcutta, 
eh' ella aveva donato ad Andrea il giorno in- 
nanzi. 

Si alzò e andò a sedersi su la seggiola di 
cuoio dalle Chimere, dove ancora moriva squi- 
sitamente il color '' rosa di gruogo „ dell'antica 
dalmatica. Su la piccola tavola ancora brilla- 
vano le majoliche fini di Castel Durante. 

Nel compier l' opera , ella diceva tante cose 

Il Piacere. 27 



— 418 — 

gentili; espandeva la sua bontà e la sua tene- 
rezza con un pieno abbandono; godeva ingenua- 
mente di quella cara intimità segreta, in quella 
stanza tranquilla , in mezzo a quel lusso raffi- 
nato. Dietro di lei , come dietro la Vergine nel 
tondo di Sandro Botticelli , sorgevano le coppe 
di cristallo coronate dalle ciocche di lilla bian- 
che;^ e le sue mani d'arcangelo si movevano 
tra le istoriette mitologiche di Luzio Dolci e li 
esametri d'Ovidio. 

— A che pensi? — chiese ella ad Andrea che 
le stava vicino, seduto sul tappeto, con la testa 
appoggiata contro un bracciuolo della seggiola. 

— Ti ascolto. Parla ancora! 

— Non più. 

— Parla! Dimmi tante cose, tante cose.... 

— Quali cose? 

— Quelle che sai tu sola. 

Egli faceva cullare dalla voce di lei Tango- 
scia che gli veniva dall'a^^ra; faceva animare 
dalla voce di lei la figura AoìValtra. 

— Senti ? — esclamò Maria, versando su le 
foglie aromatiche l'acqua bollente. 

Un profumo acuto si spandeva nell'aria, col 
vapore. Andrea l'aspirò. Poi disse, chiudendo gli 
occhi, rovesciando in dietro il capo: 

— Baciami. 

E, a pena ebbe il contatto delle labbra, tra- 
salì tanto forte che Maria ne fu sorpresa. 

Ella versò in una tazza la bevanda e glie la 
offerse, con un sorriso misterioso. 

— Bada. C'è un filtro. 
Egli rifiutò l'offerta. 

— Non voglio bere a quella tazza. 



— 419 — 

— Perchè? 

— Dammi tu.... da bere. 

— Ma come? 

— Cosi. Prendi un sorso e non inghiottire. 

— Scotta troppo ancora. 

Ella rideva, a quel capriccio dell'amante. Egli 
era un po' convulso, pallidissimo, con lo sguardo 
alterato. Aspettarono che il tè si freddasse. Ad 
ogni momento, Maria accostava le labbra ai- 
Torlo della tazza per provare; poi rideva, d'un 
piccolo riso fresco che non pareva suo. 

— Ora, si può bere — annunziò. 

— Ora, prendi un bel sorso. Cosi. 

Ella teneva le labbra serrate, per contenere 
il sorso; ma le ridevano i grandi occhi a cui 
le lacrime recenti avevan dato maggior fulgore. 

— Ora, versa, a poco a poco. 

Egli trasse nel bacio, suggendo, tutto il sorso. 
Come sentiva mancarsi il respiro, ella solleci- 
tava il lento bevitore stringendogli le tempie. 

— Dio mio! Tu mi volevi soffocare. 
S'abbandonò sul cuscino, quasi per riposarsi, 

languida, felice. 

— Che sapore aveva? Tu m'hai bevuta anche 
l'anima. Sono tutta vuota. 

Egli era rimasto pensoso, con lo sguardo 
Asso. 

— A che pensi? — gli chiese Maria, di nuovo, 
sollevandosi a un tratto, posandogli un dito nel 
mezzo della fronte, quasi per fermare il pensiero 
invisibile. 

— A nulla — rispose. — Non pensavo. Se- 
guivo dentro di me gli effetti del filtro.... 

Allora ella anche volle provare. Bevve da lui 



— 420 — 

con delizia. Poi esclamò, premendosi una mano 
sul cuore e mettendo un lungo respiro: 

— Quanto mi piace! 

Andrea tremò. Non era quello lo stesso ac- 
cento di Elena nella sera della dedizione ? Non 
erano le stesse parole? Egli le guardava la 
bocca. 

— Ripeti. 

— Che cosa? ' 

— Quello che hai detto. 

— Perchè ? 

— È una parola tanto dolce, quando tu la 
pronunzii... Tu non puoi intendere... Ripeti. 

Ella sorrideva, inconsapevole, un po' tur- 
bata dallo sguardo singolare dell'amante, quasi 
timida. 

— Ebbene... mi piace! 

— Ed io ? . 

— Come? 

— Ed io... a te...? 

Ella, perplessa, guardava l'amante che le si 
torceva ai piedi , convulso , neir aspettazione 
della parola ch'egli voleva strapparle. 

— Ed io? 

— Ah! Tu... mi piaci. 

— Così, così... Ripeti. Ancorai 

Ella consentiva, inconsapevole. Egli provava 
uno spasimo ed una voluttà indefinibili. . 

— Perchè chiudi gli occhi? — chiese ella, non 
in sospetto, ma a fin che egli le esprimesse la 
sua sensazione. 

— Per morire. 

Egli posò la testa su le ginocchia di lei, ri- 
manendo qualche minuto in quell'attitudine, si- 



— 421 — 

lenzioso, oscuro. Ella gli accarezzava piano ì 
capelli, le tempie, la fronte ove, sotto la carezza, 
si moveva un pensiero infame. D'in torno a 
loro, la stanza immergevasi nell'ombra, a poco 
a poco; fluttuava il profumo commisto dei fiori 
e della bevanda; le forme si confondevano in 
una sola apparenza armonica e ricca, senza 
realità. 
Dopo un intervallo. Maria disse: 

— Levati, amore. Bisogna che io ti lasci. È 
tardi. 

Egli si levò, pregando: 

— Resta con me un altro momento, fino al- 
l'Ave Maria. 

E la trasse di nuovo a sedere sul divano, 
dove i cuscini luccicavano nell'ombra. Nel l'om- 
bra egli la distese con un moto repentino, le 
strinse il capo, coprendole di baci la faccia. Il 
suo ardore era quasi iroso. Egli imagi n ava di 
stringere il capo délV altra, e imaginava quel 
capo macchiato dalle labbra del marito; e non 
ne aveva ribrezzo ma ne aveva anzi un desi- 
derio più selvaggio. Dai fondi più bassi deH'i- 
stinto gli risalivano nella conscienza tutte le tor- 
bide sensazioni avute in cospetto di quel Tu omo; 
gli risalivano al cuore tutte le oscenità p le 
brutture, come un'onda di fango rimescolata; e 
tutte quelle vili cose passavano nei baci su le 
guance, su la fronte, su i capelli, sul collo, su 
la bocca di Maria. 

— No; lasciami! — ella gridò liberandosi dalla 
stretta con uno sforzo. 

E corse, verso la tavola del tè, ad accendere 
le candele. 



— 422 — 

— Siate savio — ella soggiunse, un poco affan- 
nata, ravviandosi, con una gentile aria di cruccio. 

Egli era rimasto sul divano e la guardava, 

muto. 

Ella andò verso la parete, a fianco del cami- 
netto, ove pendeva il piccolo specchio di Mona 
Amorrosisca. Si mise il cappello e il velo, in- 
nanzi a quella lastra offuscata che aveva ap- 
parenza d'un' acqua torba, un poco verdastra. 

— Come mi' dispiace di lasciarti, stasera!... 
Stasera più delle altre volte... — mormorò, op- 
pressa dalla malinconia dell'ora. 

Nella stanza il lume violaceo del crepuscolo 
pugnava col lume delle candele. La tazza di tè 
era su l'orlo della tavola, fredda, diminuita dei 
due sorsi. In sommo delle alte coppe di cri- 
stallo i fiori di lilla parevano p^iù bianchi. 11 
cuscino della poltrona conservava ancora l'im- 
pronta del corpo ch'eravisi affondato. 

La campana della Trinità de' Monti cominciò 
a sonare. 

— Dio mio, com'è tardi! Ajutami a mettermi 
il mantello — fece la povera creatura, tornando 
verso Andrea. 

Egli la strinse di nuovo fra le braccia, la 
stese, la copri di baci furiosi, ciecamente, per- 
dutamente, con un divorante ardore, senza par- 
lare, soffocandole il gemito su la bocca, soffo- 
cando su la bocca di lei un impeto che gli 
veniva, quasi invincibile, di gridare il nome di 
Elena. E sul corpo della inconsapevole consumò 
l'orribile sacrilegio. 

Rimasero qualche minuto avvinti. Ella disse, 
con la voce spenta ed. ebra: 



f 



— 423 -- 

— Tu ti prendi la mia vita! 

Ella era felice di queirappassionata veemenza. 
Ella disse: 

— Anima, anima mia, tutta tutta mìa! 
Disse, felice: 

— Ti sento battere il cuore... tanto forte, tanto 
forte ! 

Poi disse, con un sospiro: 

— Lasciami alzare. Bisogna ch'io vada, 
Andrea era bianco e stravolto come un omicida. 

— Che hai? — gli chiese ella tenerameìile- 
• Egh volle sorriderle. Rispose: 

— Non avevo mai provata una commozione 
cosi profonda. Credevo di morire. 

Si volse a una delle coppe, tolse il fascio dei 
fiori, e Tofferse a Maria, accompagnandola verso 
la porta, quasi sollecitandola a partirsi^ poiclrà 
ogni gesto, ogni sguardo, ogni parola di lei 
gli dava mio strazio insostenibile. 

— Addio, amore. Sognami! — diss^i la puv^era 
creatura, dalla soglia, con la sua tcEìcro/zn su- 
prema. 



- 424 



XV, 



La mattina del 20 maggio, Andrea Sperelli ri- 
saliva il Corso inondato dal sole, quando si senti 
chiamare, innanzi al portone del Circolo. 

Stava sul marciapiede un crocchio di gentil- 
uomini amici, godendo il passaggio delle signore 
e malignando. C'era Giulio Muséllaro, con Lu- 
dovico Barbarisi, con il duca di Grimiti, con 
Galeazzo Secinaro; c'era Gino Bomminaco ; c'era 
qualche altro. 

— Non sai il fatto di stanotte? — gli domandò 
11 Barbarisi. 

— No. Quale fatto? 

— Don Manuel Ferres, il ministro dèi Guate- 
mala.... 

— Ebbene? 

— È stato sorpreso, in pieno giuoco, mentre 
barava. 

Lo Sperelli si dominò, quantunque alcuno de' 



— 425 — 

gentiluomini lo guardasse con una certa curio- 
sità maliziosa. 

— E come? 

— Galeazzo era presente, anzi giocava allo 
stesso tavolo. 

Il principe Seclnaro si mise a raccontare le 
particolarità. 

Andrea Sperelli non affettò Tindifferenza. Ascol- 
tava anzi con un'aria attenta e grave. Disse, 
in fine: 

— Mi dispiace molto. 

Rimase pochi altri minuti nel crocchio; salutò 
quindi gli amici, per andarsene. 

— Che via fai? — gli domandò il Seclnaro* 

— Torno a casa. 

— Ti accompagno per un tratto. 

S'incamminarono in giù, verso la via de' Con- 
dotti. Il Corso era un lietissimo fiume di sule, 
dalla piazza di Venezia alla piazza del Popolo. 
Le signore, in chiari abbigliamenti primaverili, 
passavano lungo le vetrine scintillanti. Passò 
la principessa di Ferentino con Barbarella Viti, 
sotto una cupola di merletto. Passò Bianca Dol- 
cebuono. Passò la giovine sposa di Leone tio 
Lanza. 

— Lo conoscevi tu, quel Ferres? — domandò 
Galeazzo allo Sperelli ch'era taciturno. 

— Sì; lo conobbi l'anno scorso, di settembre, 
a Schifanoja, da mia cugina Ateleta. La moglie 
è una grande amica di Francesca. Perciò il 
fatto mi dispiace molto. Bisognerebbe cercare 
di dargli la minor possibile publicità. Tu mi 
renderesti un servigio, ajutandomi.... 

Galeazzo si profferse con premura cordiale. 



— 426 — 

— Credo — egli disse — che lo scandalo in 
parte sarebbe evitato se il ministro presentasse 
le dimissioni al suo Governo, ma senza indu- 
gio, come gli è stato ingiunto dal presidente del 
Circolo. Il ministro in vece si rifiuta. Stanotte 
aveva un'attitudine di persona offesa; alzava 
la voce. E le prove erano là! Bisognerebbe per- 
suaderlo.... 

Seguitarono a parlare del fatto, camminando. 
Lo Sperelli era grato al Seclnaro, della premura 
cordiale. Il Secfnaro era predisposto, da quella 
intimità, alle confidenze amichevoli. 

Su Tangolo della via de' Condotti, scorsero la 
signora di Mount Edgcumbe che seguiva il mar- 
ciapiede sinistro, lungo le vetrine giapponesi, 
con quella sua andatura molle e ritmica e af- 
fascinante. 

— Donna Elena — disse Galeazzo. 
Ambedue la guardarono; ambedue sentirono 

il fascino di quell'incesso. Ma lo sguardo di An- 
drea penetrò le vesti, vide le forme note, il dorso 
divino. 

Quando la raggiunsero, la salutarono insieme; 
e passarono oltre. Ora essi non potevano guar- 
darla ed erano guardati. E fu per Andrea un 
supplizio nuovissimo quel camminare a fianco 
d'un rivale, sotto li occhi della donna agognata, 
pensando che i terribili occhi si dilettavano forse 
d'un confronto. Egli medesimo si paragonò, men- 
talmente, al Secinaro. 

Costui aveva il tipo bovino d'un Lucio Vero 
biondo e cerulo; e gli rosseggiava tra la copia 
magnifica dell'oro una bocca di nessuna signi- 
ficazione spirituale, ma bella. Era alto, quadrato. 



— 427 — 

vigoroso, d*una eleganza non fine ma disin- 
volta. 

— Ebbene? — gli domandò Andrea, spinto al- 
l'audacia da una invincibile smania. — È a buon 
punto l'avventura? 

Egli sapeva di poter parlare in quel modo a 
queir uomo. 

Galeazzo gli si volse con un'aria tra attonita 
e indagatrice, poiché non s'aspettava da lui una 
simile domanda e tanto meno in un tono così 
frivolo, cosi perfettamente calmo. Andrea sor- 
rideva. 

— Ah, da quanto tempo dura il mio assedio ! 
— rispose il principe barbato. — Da tempo im- 
memorabile, a varie riprese, e sempre senza 
fortuna. Arrivavo sempre troppo tardi: qual- 
cuno m'aveva già preceduto neirespugnazione. 
Ma non mi son mai perduto d'animo. Ero con- 
vinto che, o prima o poi, sarebbe venuto il mio 
turno. Atte/idre pour atteindre. In fatti.... 

— Dunque? 

— Lady Heathfleld m'è più benigna della du- 
chessa di Scerni. Avrò, io spero, l'ambitissimo 
onore d'essere inscritto dopo te, nella lista.... 

Égli ruppe in un riso un po' grosso, mostrando 
la dentatura candida. 

— Credo che le mie gesta indiane, divulgate 
da Giulio Muséllaro, abbiano aggiunto alla mia 
barba qualche filo eroico d'irresistibile virtù. 

— Oh, ma la tua barba in questi giorni deve 
fremere di ricordi.... 

— Di quali ricordi? 

— Di ricordi bacchici. 

— Non capisco. 



— 428 — 

— Come! Tu dimentichi la famosa fiera di 
maggio deir ottantaquattro T 

— Oli, guarda! Mi ci fai pensare. Cadrebbe in 
questi giorni il terzo anniversario.... Tu però 
non c'eri. E chi t'ha raccontato?... 

— Vuoi saper troppo, mio caro. 

— Dimmelo; ti prego. 

— Pensa più tosto a valerti deiranniversario 
con abilità; e dammi presto notizie. 

— Quando ci vedremo! 

— Quando ti piace. 

— Pranza con me stasera, al Circolo, verso 
le otto. Così potremo poi occuparci insieme del- 
Taltra faccenda. 

— Va bene. Addio, Barbadoro. Corri! 

Si separarono nella piazza di Spagna, a pie 
della scala; e, come Elena attraversava la piazza 
dirigendosi verso la via de' Due Macelli per sa- 
lire alle Quattro Fontane, il Seclnaro la rag- 
giunse e l'accompagnò. 

Andrea, dopo lo sforzo della dissimulazione, 
si sentiva pesare il cuore su per la scala, orri- 
bilmente. Credeva di non poterlo trascinare alla 
sommità. Ma egli era sicuro omai che, in sé- 
guito, il Seclnaro gli avrebbe tutto confidato; e 
quasi gli pareva d'aver ottenuto un vantaggio! 
Per una specie dì ubriachezza, per una specie 
di follia datagli dall'eccesso della sofferenza, egli 
andava ciecamente in contro a torture nuove 
e sempre più crudeli e sempre più insensate, 
aggravando e complicando in mille modi le con- 
dizioni del suo spirito, passando di perverti- 
mento in pervertimento, di aberrazione in aber- 
razione, di atrocità in atrocità, senza potersi più 



— 429 — 

arrestare, senza avere un attimo di sosta nella 
caduta vertiginosa. Egli era divorato cofne da 
una febbre inestinguibile che facesse schiudere 
col suo calore nelli oscuri abissi dell'essere 
tutti i germi delle abiezioni umane. Ogni pen- 
siero, ogni sentimento portava la macchia. Egli 
era tutto una piaga. 

E pure, l'inganno medesimo lo legava forte 
alla donna ingannata. Il suo spirito erasi così 
stranamente adattato alla mostruosa comedia 
che quasi non concepiva più altro modo di pia- 
cere, altro modo di dolore. Quella incarnazione 
di una donna in un'altra non era più un atto 
di passione esasperata ma era un'abitudine di 
vizio e quindi un bisogno imperioso, una neces- 
sità. E ristrumento inconsapevole di quel vizio 
era divenuto quindi per lui necessario come il 
vizio medesimo. Per un fenomeno di deprava- 
zion sensuale, egli era quasi giunto a credere 
che il real possesso di Elena non gli avrebbe 
dato il godimento acuto e raro datogli da quel 
possesso imaginario. Egli era quasi giunto a 
non poter più separare, nell'idea di voluttà, le 
due donne. E come pensava diminuita la vo- 
luttà nel possesso reale dell'una, cosi anche 
sentiva tutti i suoi nervi ottusi quando per una 
stanchezza dell'imaginazione, egli trovavasi in- 
nanzi alla forma reale immediata dell'altra. 

Perciò egli non resse al pensiero che Maria 
dalla mina di Don Manuel Ferres gli fosse tolta. 

Quando verso sera Maria venne, egli sùbito 
s'accorse che la povera creatura ignorava an- 
cora la sua disgrazia. Ma, il giorno dopo, ella 
venne ansante, sconvolta, pallida come una 



— 430 — 

morta; e gli singhiozzò tra le braccia, nascon- 
dendo 41 viso: 

— Tu sai?... 

La notizia s'era sparsa. Lo scandalo era ine- 
vitabile; la mina era irrimediabile. Seguirono 
giorni di supplizio disperati; in cui Maria, rima- 
sta solo dopo la partenza precipitosa del baro, 
abbandonata dalle poche amiche, assaltata dai 
creditori innumerevoli di suo marito, perduta 
in mezzo alle formalità legali dei sequestri, in 
mezzo alli uscieri e alli usurai e ad altra gente 
vile, diede prova di una eroica fierezza ma senza 
riuscire a salvarsi dal crollo finale che schiac- 
ciò ogni speranza. 

Ed ella non volle dall'amante alcun ajuto, ella 
non parlò mai del suo martirio all'amante che le 
rimproverava la brevità delle visite d^amore; 
non si lamentò mai; seppe ancora trovare per 
lui un sorriso men triste; seppe ancora obedire 
ai capricci, concedere appassionatamente il suo 
corpo alle contaminazioni, effondere sul capo del 
carnefice le più calde tenerezze dell'anima sua. 

Tutto, in torno a lei, cadeva. Il castigo era 
piombato improvviso. I presentimenti dicevano 
il vero! 

Ed ella non si rammaricò di aver ceduto al- 
l'amante, non si pentì d'essersi data a lui con 
tanto abbandono, non rimpianse la sua purità 
perduta. Ella ebbe un solo dolore, più forte 
d'ogni rimorso e d'ogni paura, più forte d'ogni 
altro dolore; e fu al pensiero di doversi allon- 
tanare, di dover partire, di doversi dividere dal- 
l'uomo ch'era per lei la vita della vita. 

— Io morirò, amico mio. Vado a morire lon- 



— 431 — 

tana da te, sola sola. Tu non mi chiuderai gli 
occhi.... 

Ella gli parlava della sua fine con un sorriso 
profondo, pieno di certezza rassegnata. Andrea 
le faceva balenare ancora un'illusion di spe- 
ranza, le gettava nel cuore il seme d'un sogno, 
iì seme d'una sofferenza futura! 

— Io non ti lascerò morire. Tu sarai ancora 
mia, per lungo tempo. Il nostro amore avrà an- 
cora giorni felici.... 

Egli le parlava d'un prossimo avvenire. — Si 
sarebbe stabilito a Firenze; di là sarebbe andato 
spesso a Siena, sotto pretesto di studii; si sa- 
rebbe trattenuto a Siena mesi intieri, copiando 
qualche antica pittura, ricercando qualche an- 
tica cronaca. Il loro amore misterioso avrebbe 
avuto un nido nascosto, in una via deserta, o 
fuori delle mura, nella campagna, in una villa 
ornata di majoliche robbiesche, circondata d'un 
verziere. Ella avrebbe saputo trovare urfora 
per lui. Qualche volta anche sarebbe venuta a 
Firenze per una settimana, per una gran setti- 
mana di felicità. Avrebbero portato il loro idillio 
su la collina di Fiesole, in un settembre mite 
come un aprile; e i cipressi di Montughi sa- 
rebbero stati clementi come i cipressi di Schi- 
fanoja. 

— Fosse vero ! Fosse vero! — sospirava Maria. 

— Non mi credi? 

— SI, ti credo; ma il cuore mi dice che tutte que- 
ste cose, troppo dolci, non esci ranno dal sogno. 

Ella voleva che Andrea la reggesse a lungo 
su le braccia; e rimaneva appoggiata contro il 
petto di lui, senza parlare, raccoghepdosi tutta, 



— 432 — 

come per nascondersi, col movimento e col bri- 
vido d*una persona malata o d'una persona mi- 
nacciata che abbia bisogno di protezione. Chie- 
deva ad Andrea carezze spirituali, quelle che nel 
suo linguaggio intimo ella chiamava " carezze 
buone „, quelle che la intenerivano e le davano 
lacrime di struggimento più soavi di qualun- 
que piacere. Non sapeva comprendere come in 
quei momenti di suprema spiritualità, in quelle 
ultime ore dolorose della passione , in quelle 
ore di addio , V amante non fosse pago di ba- 
ciarle le mani. 

Ella pregava, quasi ferita dal crudo desiderio 
di Andrea: 

— No, amore ! Mi sembra che tu sia più vi- 
cino a me, più stretto a me, più confuso con il 
mio essere, quando mi ti siedi accanto, quando 
mi prendi le mani, quando mi guardi in fondo 
agli occhi, quando mi dici le cose che tu solo 
sai dire. Mi sembra che le altre carezze ci al- 
lontanino, che mettano tra me e te non so 
quale ombra.... Non so veramente rendere il 
mio pensiero.... Le altre carezze mi lasciano poi 
tanto triste, tanto tanto triste.... non so.... e 
stanca, d'una stanchezza tanto cattiva! 

Ella pregava , umile , sommessa, temendo di 
dispiacergli. Ella non faceva che evocare me- 
morie, memorie, memorie, passate, recenti, con 
le particolarità più minute, ricordandosi dei ge- 
sti più lievi, delle parole più fuggevoli, di tutti 
i piccoli fatti più insignificanti, che per lei ave- 
vano avuto un significato. Il suo cuore tornava 
con maggior frequenza ai primissimi giorni di 
Schifanoja. 






— 433 — 

— Ti ricordi ? Ti ricordi t 

E le lacrime d'improvviso le empivano li oc- 
chi abbattuti. 

Una sera, Andrea le domandò, pensando al 
marito : 

— Da clie io ti conosco, tu sei stata sempre 
tutta mia? 

— Sempre. 

— Non ti chiedo deiranìma.... 

— Taci I Sempre tutta tua. 

Ed egli , che in questo non aveva creduto a 
nessuna delle sue amanti adultere, le credette; 
non ebbe né pur Tombra d'un dubbio su la ve- 
rità ch'ella affermava. 

Le credette; perchè, pur contaminandola e 
ingannandola senza ritegno , egli sapeva d' es- 
sere amato da un alto e nobile spirito, egli sa- 
peva omai di trovarsi innanzi a una grande e 
terribile passione, egli aveva omai conscienza 
di quella grandezza come della propria viltà.. 
Egli sapeva, egli sapeva d'essere immensa- 
mente amato; e talvolta, nelle furie delle sue 
imaginazioni, giungeva perfino a mordere la 
bocca della dolce creatura per non gridare un 
nome che gli risaliva con invincibile impeto 
alla gola; e la buona e dolente bocca sangui- 
nava in un sorriso inconscio, dicendo : 

— Anche così, tu non mi fai male. 
Mancavano all'addio pochissimi giorni. Miss 

Dorothy aveva condotto Delfina a Siena ed era 
tornata per ajutare la signora nelli ultimi più 
gravi fastidii e per accompagnarla nel viaggio. 
A Siena, in casa della madre, la verità non era 
nota. Anche Delfina non conosceva nulla. Maria 
Il Piacere. 28 



-- 434 - 

s'era limitata a mandar la notizia d'un richianno 
improvviso che Manuel aveva avuto dal suo 
Governo. E s'apparecchiava a partire; s'appa- 
recchiava a lasciare le stanze, piene di cose di- 
lette, in mano dei periti pubblici che già avevano 
scritto l'inventario e avevano stabilita la data 
dell'incanto : — 20 giugno, lunedì, alle dieci del 
mattino. 

La sera del 9 giugno, sul punto di separarsi 
da Andrea, ella cercava un suo guanto smar- 
rito. Nel cercare, ella vide sopra un tavolo il 
libro di Percy Bisshe Shelley, il medesimo vo- 
lume che Andrea le aveva prestato al tempo di 
Schifanoja, il volume in cui ella aveva letto la 
RecoUeciion prima della gita, a Vicomìle, il caro 
e triste volume in cui ella aveva segnato con 
l'unghia i due versi: 



iQl 



" And forget me, for J can never 
Be tkine! „ 

Ella lo prese, con una commozione visibile^ 
lo sfogliò; trovò la pagina, i segni dell'unghia, 
i due versi. 

— Never l — mormorò, scotendo il capo. — 
Ti ricordi? E son passati otto mesi a pena! 

Restò un poco pensosa; sfogliò ancora il libro; 
lesse qualche altro verso. 

— È il nostro poeta — soggiunse. — Quante 
volte m' hai promesso di condurmi al Cimitero 
inglese! Ti ricordi? Dovevamo portare i fiori 
al sepolcro.... Vuoi che andiamo ? Conducimi 
prima ch'io parta. Sarà l'ultima passeggiata. 

Egli disse : 



— 435 — 

— Andiamo domani. 

Andarono, quando il sole era già sul decli- 
nare. Nella carrozza coperta, ella teneva su le 
ginocchia un fascio di rose. Passarono di sotto 
all'Aventino arborato. Intravidero i navigli ca- 
richi di vin siciliano ancorati nel porto di Ripa 
grande. 

In viQinanza del chnitero, discesero; percor- 
sero un tratto a piedi, fino al cancello, taciturni. 
Maria sentiva in fondo air anima ch'ella non 
andava soltanto a portar fiori sul sepolcro d'un 
poeta ma che andava a piangere, in quel luogo 
di morte, • qualche cosa di sé, irreparabilmente 
perduta. Il frammento di Percy, letto nella notte, 
neir insonnio, le risonava in fondo all' anima, 
mentre guardava i cipressi alti nel cielo, oltre 
la muraglia imbiancata. 

" La Morte è qui, e la Morte è là; da per tutto 
la Morte è all'opera; intorno a noi, in noi, sopra 
di noi, sotto di noi è la Morte ; e noi non siamo 
che Morte. 

" La Morte ha messo la sua impronta e il suo 
suggello su tutto ciò che noi siamo, e su tutto 
ciò che sentiamo e su tutto ciò che conosciamo 
e temiamo. 

" Da prima muojono i nostri piaceri, e quindi 
le nostre speranze, e quindi i nostri timori; e 
quando tutto ciò è morto, la polvere chiama la 
polvere e noi anche moriamo. 

" Tutte le cose che noi amiamo ed abbiam 
care come noi stessi devono dileguarsi e perire. 
Tale è il nostro crudele destino. L'amore, l'a- 
more medesimo morirebbe, se tutto il resto non 
morisse.... „ 



— 436 — 

Varcando la soglia, ella mise il suo braccio 
sotto quello di Andrea, presa da un piccolo 
brivido. 

11 cimitero era solitario. Alcuni giardinieri da- 
vano acqua alle piante, lungo la muraglia, fa- 
cendo oscillare Tinafflatojo con un movimento 
continuo ed eguale, in silenzio. I cipressi funebri 
s'inalzavano diritti ed immobili nell'aria: sol- 
tanto le loro cime, fatte d'oro dal sole, avevano 
y un leggero tremito. Tra i fusti rigidi e verda- 
stri, come di pietra tiburtina, sorgevano le tombe 
bianche, le lapidi quadrate, le colonne spezzate, 
le urne, le arche. Dalla cupa mole dei cipressi 
scendevano un'ombra misteriosa e una pace 
religiosa e quasi una dolcezza umana, come 
dal duro sasso scende un'acqua limpida e be- 
nefica. Quella regolarità costante delle forme 
arboree e quel candor modesto del marmo se- 
polcrale davano all'anima un senso di riposo 
grave e soave. Ma in mezzo ai tronchi allineati 
come le canne sonore d'un organo e in mezzo 
alle lapidi, li oleandri ondeggiavano con grazia, 
tutti invermigliati di fresche ciocche fiorite; i 
rosai si sfogliavano ad ogni fiato di vento , 
spargendo su l'erba la loro neve odorante; li 
eucalipti inchinavano le pallide capellature che 
or si or no parevano argentee; i salici versa- 
vano su le croci e su le corone il loro pianto 
molle; i cacti qua e là mostravano i magni- 
fici grappoli bianchi simili a sciami dormienti 
di farfalle o a manipoli di rare piume. E il si- 
lenzio era interrotto a quando a quando dal 
grido di qualche uccello disperso. 

Andrea disse, indicando il sommo dell'altura: 



— 437 — 

— 'Il sepolcro del poeta è lassù, in vicinanza 
di quella rovina, a sinistra, sotto Tultimo tor- 
rione. 

Maria si sciolse da lui, per salire su pei sen- 
tieri angusti, tra le siepi basse di mirto. Ella 
andava innanzi, e ramante la seguiva. Ella aveva 
il passo un poco stanco; si soffermava ad ogni 
tratto; ad ogni tratto si volgeva in dietro per 
sorridere all'amante. Era vestita di nero; por- 
tava un velo nero sul viso, che le giungeva fino 
al labbro superiore; e il suo sorriso tenue tre- 
molava sotto Torlo nero, si ombrava come 
d'un' ombra di lutto. Il suo mento ovale era più 
bianco e più puro delle rose cli'ella portava in 
mano. 

Accadde che, mentre ella si volgeva, una 
rosa si sfogliò. Andrea si chinò a raccogliere 
le foglie sul sentiero, innanzi a' piedi di lei. Ella 
lo guardava. Egli posò i ginocchi a terra, di- 
cendo: 

— Adorata! 

Un ricordo sorse a lei nello spirito, evidente 
come una visione. 

— Ti ricordi — ella disse — quella mattina, 
a Schifanoja, quando io ti gettai un pugno di 
foglie, dalla penultima terrazza? Tu t'inginoc- 
chiasti sul gradino, mentre io discendevo.... Quei 
giorni, non so, mi paiono tanto vicini e tanto 
lontani! Mi pare d'averli vissuti jeri, d'averli 
vissuti un secolo fa. Ma forse li ho sognati? 

Giunsero, tra le siepi basse di mirto, fino al- 
Tultimo torrione a sinistra dov'è il sepolcro del 
poeta e del Trelawny. Il gelsomino, che s'ar- 
rampica per l'antica rovina, era fiorito; ma delle 



— 438 — 

viole non rimaneva clie la folta verdura.' Le 
cime dei cipressi giungevano alla linea dello 
sguardo e tremolavano illuminate più vivamente 
dair estremo rossor del sole che tramontava 
dietro la nera croce del Monte Testacelo. Una 
nuvola violacea, orlata d'oro ardente, navigava 
in alto verso l'Aventino. 

" Qui sono due amici, le cui vite furono le- 
gate. Che anche la loro memoria viva insieme, 
ora ch'essi giacciono sotto la tomba; e che 
l'ossa loro non sieno divise, poiché i loro due 
cuori nella vita facevano un- cuor solo: for 
their two hearts in life were single hearted ! „ 

Maria ripetè l'ultimo verso. Poi disse ad An- 
drea, mossa da un pènsier delicato: 

— Scioglimi il velo. 

E gli si appressò arrovesciando un poco il capo 
perchè egli le sciogliesse ri nodo su la nuca. 
Le dita di lui le toccavano i capelli, i meravi- 
ghosi capelli che, quando erano sparsi, parevano 
vivere come una foresta, di una vita profonda 
e dolce; all'ombra de' quah egli aveva tante 
volte assaporata la voluttà de' suoi inganni e 
tante volte evocata un' imagine perfida. Ella 
disse: 

— Grazie. 

E si tolse il velo di su la faccia, guardando 
Andrea con occhi un poco abbagliati. Ella ap- 
pariva molto bella. Il cerchio intorno le oc- 
chiaie era più cupo q. più cavo , ma le pupille 
brillavano d'un fuoco più penetrante. Le cioc- 
che dense de' capelU aderivano . alle tempie , 
crime ciocche di giacinti bruni, un po' violetti. 
Il tjiczzo della fronte, scoperto, libero, splen- 



— 439 — 

deva nel contrasto, d'un candor quasi lunare. 
Tutti i lineamenti s'erano affinati, avevano per- 
duto qualche parte della loro materialità, alla 
fiamma assidua dell'amore e del dolore. 

Ella avvolse al velo nero gli steli delle rose, 
annodò le estremità con molta cura; poi aspirò 
il profumo, quasi affondando il viso nel fascio. 
E poi depose il fascio .su la semplice pietra 
ov'era inciso il nome del poeta. E il suo gesto 
ebbe una indefinibile espressione, che Andrea 
non potè comprendere. 

Seguitarono innanzi per cercare la tomba di 
John Keats, del poeta d'Endymion. 

Andrea le domandò, soffermandosi a riguar- 
dare in dietro, verso il torrione: 

— Come le hai avute, quelle rose? 

Ella gli sorrise ancora, ma con li occhi umidi. 

— Sono le tue, quelle della notte di neve, ri- 
fiorite stanotte. Non ci credi ? 

Si levava il vento della sera; e il cielo, die- 
tro la collina, era tutto d'un color diffuso d'oro 
in mezzo a cui la nuvola discioglievasi come 
consunta da un rogo. I cipressi in ordine, su 
quel campo di luce, erano più grandiosi e più 
mistici, tutti penetrati di raggi e vibranti nei 
culmini acuti. La statua di Psiche in cima al 
viale medio, aveva assunto un pallore di carne. 
Li oleandri sorgevano in fondo come mobili 
cupole di porpora. Su la piramide di Cestio sa- 
liva la luna crescente, per un ciel glauco e pro- 
fondo come l'acqua d'un golfo in quiete. 

Essi discesero, lungo il viale medio, fino al 
cancello. I giardinieri ancora davan acqua alle 
piante, sotto la muraglia, facendo oscillare l'inaf- 



— 440 — 

flatojo con un movimento continuo ed eguale, 
ìù silenzio. Due altri uomini, tenendo per 1 lembi 
una coltre mortuaria di velluto e d'argento, la 
sbattevano forte; e la polvere metteva un luc- 
cichio spandendosi. Giungeva dall'Aventino un 
suono di campane. 

Maria si strinse al braccio dell'amante, non 
reggendo più all'angoscia, sentendosi ad ogni 
passo mancare il suolo, credendo di lasciare 
su la via tutto il suo sangue. E, a pena fu nella 
carrozza, ruppe in lacrime disperate, singhioz- 
zando su la spalla dell'amante: 

— Io muoio. 

Ma ella non moriva E sarebbe stato meglio, 
per lei, s'ella fosse morta. 

Due giorni dopo, Andrea faceva colazione in 
compagnia di Galeazzo Secinaro, a un tavolo 
del Caffè di Roma. Era una mattinata calda. Il 
Caffè era quasi deserto, immerso nell'ombra e 
nel tedio. I servi sonnecchiavano, tra il ronzìo 
delle mosche. 

— Dunque — raccontava il principe barba- 
tolo, — sapendo che a lei piace di darsi in cir- 
costanze straordinarie e bizzarre, osai.... 

Raccontava, crudamente, il modo audacissimo 
con cui aveva potuto prendere Lady Heathfleld; 
raccontava - senza scrupoli e senza reticenze , 
non tralasciando alcuna particolarità, lodando 
la bontà dell'acquisto al conoscitore. Egli s'in- 
terrompeva, di tratto in tratto, per mettere il 
coltello in un pezzo di carne succulenta e san- 
guinante, che fumigava, o per vuotare un bic- 
chiere di vin rosso. La. sanità e la forza ema- 
navano da ogni sua attitudine. 



~ 411 ~ 

* Andrea Sperelli accese una sigaretta. Ad onta 
de' conati , egli non riesciva a inghiottire il 
cibo, ft vincere la ripugnanza dello stomaco agi- 
tato in sommo da un orribile tremolio. Quando 
il Seclnaro gli versava il vino, egli beveva in- 
sieme il vino e il tossico. 

A un certo punto , il principe, se bene fosse 
assai poco sottile, ebbe un dubbio; guardò Tan- 
ti co amante di Etena. Questi non dava, oltre la 
disappetenza, altro segno esteriore di turba- 
mento; gìttava all'aria, con pacatezza, i nuvoli 
dì fumo e sorrideva del solito suo sorriso un 
po' ironico al narratore giocondo. 
Il principe disse: 

— Oggi ella verrà da me, per la prima volta. 

— Oggi? A casa tua? 

— SI. 

— È un mese eccellente questo, a Roma, per 
. Vamore. Dalle tre alle sei pomeridiane ogni 

baen retiro nasconde una coppia.... 

— Infatti — interruppe Galeazzo — ella verrà 
alle tre. 

Ambedue guardaron l'orologio. Andrea chiese: 

— Vogliamo andarcene ? 

— Andiamo — rispose Galeazzo , levandosi. 
— Faremo la via Condotti insieme. Io vado per 
fiori al Babuino. Dimmi tu, che sai: quali fiori 
preferisce ? 

Andrea si mise a ridere; e gli venne alle lab- 
bra un motto atroce. Ma disse, incurantemente: 

— Le rose, una volta. 

D'innanzi alla Barcaccia, si separarono. 
La piazza di Spagna, in quell'ora, aveva già 
una deserta apparenza estiva. Alcuni operai re- 

28* 



— 442 — 

stauravano un condotto; e un cumulo di terrà, 
disseccato dal sole,' levavasi in turbini- di pol- 
vere ai soffli caldi del vento. La scala della Tri- 
nità splendeva bianca e deserta. 

Andrea salì , piano piano , soffermandosi ad 
ogni due o tre gradini, come se trascinasse un 
peso enorme. Rientrò nella sua casa; restò nella 
sua stania, sul letto, fino alle due e tre quarti. 
Alle due e tre quarti usci. Prese la via Sistina, 
seguitò per le Quattro Fontane , oltrepassò il 
palazzo Barberini; si arrestò poco discosto, in- 
nanzi alli scaffali d' un venditore di libri vecchi, 
aspettando le tre. 11 venditore, un omuncolo tutto 
rugoso e pelloso comQ una testuggine decre- 
pita, gli offerse i libri. Sceglieva i suoi migliori 
volumi, a uno a uno, e glie li metteva sotto li 
occhi, parlando con una voce nasale d'insop- 
portabile monotonìa. Mancavano pochi minuti 
alle tre. Andrea guardava i titoli dei libri e vi- 
gilava i cancelli del palazzo e udiva la voce del 
librajo confusamente, in mezzo al fragore delle 
sue vene. 

Una donna uscì dai cancelli, discese pel mar- 
ciapiede verso la piazza, montò in una vettura 
publica, si allontanò per la via del Tritone. 

Andrea discese dietro di lei; prese di nuovo 
la via Sistina; rientrò nella sua casa. Aspettò 
che venisse Maria. Gittato sul letto, si mantenne 
così immobile che pareva non soffrisse più. 

Alle cinque,. giunse Maria. 

EUa disse, ansante : 

— Sai ? Io posso rimanere con te, tutta la sera, 
tutta la notte, fino a domattina. 

Ella disse: 



• • 

— Questa sarà la prima e rultima nòtte d'a- 
more! Io parto martedì. 

Ella gli singhiozzò su la bocca, tremando forte; 
stringendoglisì forte contro la persona: 

— Fa che io non veda domani ! Fammi morire! 
Guardahdolo nella faccia disfatta, gli domandò: 

— Tu soffrì ? Anche tu... pensi che non ci ri- 
vedremo più mai? 

, Egli provava una difficoltà immensa a parlarle, 
a risponderle. Aveva la lingua torpida, gli nian- 
cavano le parole. Provava un bisogno istintivo 
di nascondere la faccia, di sottrarsi allo sguardo, 
di sfuggire alle domande. Non seppe consolarla^ 
non seppe illuderla. Rispose, con una voce sof- 
focata, irriconoscibile : 

— Taci. 

Le si raccolse ai piedi ; restò lungo tempo con 
la testa sul grembo di lei, senza parlare. Ella 
gli teneva le mani su le tempie, sentendogli la 
pulsazione delle arterie ineguale e veemente, 
sentendolo soffrire. Ed ella stessa non soffriva 
più del suo proprio dolore, ma soffriva ora del 
dolore di lui, soltanto del dolore di lui. 

Egli si levò; le prese le mani; la trasse nel- 
l'altra stanza. Ella obed). 

Nel letto, smarrita, sbigottita, innanzi al cupo 
ardore del forsennato, ella gridava: 

— Ma che hai ? Ma che hai ? 

Ella voleva guardarlo nelli occhi, conoscere 
quella follìa; ed egli nascondeva il viso, perdu- 
tamente, nel seno , nel collo, ne' capelli di lei, 
ne' guanciali. 

A un tratto, ella gli si svincolò dalle braccia, 
con una terribile espressione d' orrore in tutte 



— 444 — 

quante le membra, più bianca de' guanciali, sfi- 
gurata più clie s'ella fosse allora allora balzata 
di tra le braccia della Morte. 

Quel nome ! Quel nome! Ella aveva udito quel 
nome ! 

Un gran silenzio Je vuotò l'anima. Le si apri, 
dentro, un di quelli abissi in cui tutto il mondo 
sembra scomparire all'urto d'un pensiero unico. 
Ella non udiva più altro; ella non udiva più 
nulla. Andrea gridava, supplicava, si disperava 
in vano. 

Ella non udiva. Una specie d'istinto la guidò 
negli atti. Ella trovò gli abiti; sì vestì. 

Andrea singhiozzava sul letto, demente. S'ac- 
corse ch'ella usciva dalla stanza. 

— Maria ! Maria ! 
Ascoltò. 

— Maria! 

Gli giunse il romore della porta che si ri- 
chiuse. 



— 445 ~ 



xvr. 



La mattina del 20 Giugno , I unedl , alle dieci, 
incominciò la publica vendita delle tappezzerie 
e dei mobili appartenuti a S. E. il Ministro pie- 
nipotenziario del Guatemala. 

Era una mattina ardente. Già Testate fiam- 
meggiava su Roma. Per la via Nazionale cor- 
revano su e giù, di continuo, i tramways, tirati 
da cavalli che portavano certi strani cappucci 
bianchi contro il sole. Lunghe file di carri ca- 
richi ingombravano la linea delle rotaje. Nella 
luce cruda, tra le mura coperte d'avvisi multi- 
colori come d'una lebbra, gli squilli delle cor- 
nette si mescevano allo schiocco delle fruste, 
alli urli dei carrettieri. 

Andrea, prima di risolversi a varcare la soglia 
di quella casa, vagò pe' marciapiedi , alla ven- 
tura, lungo tempo, provando una orribile stan- 
chezza, una stanchezza così vacua e disperata 
che quasi pareva un bisogno fisico di morire. 



— 446 — 

Quando vide uscir dalla porta su la strada un 
facchino con un mobile su le spalle, si rlsolsie. 
Entrò, sali le scale rapidamente; udì, dal piane- 
rottolo, la voce del perito. 

— Si delibera! 

Il banco dell'incanto era nella stanza più am- 
pia, nella stanza del Buddha. In torno, s'affolla 
vano i compratori. Erano, per la maggior parte, 
negozianti, rivenditori di mobili usati, rigattieri: 
gente bassa. Poiché d'estate mancavano gli ama- 
tori , i rigattieri accorrevano , sicuri d' ottenere 
oggetti preziosi a prezzo vile. Un cattivo odore 
si spandeva nell'aria calda, emanato da quelli 
uomini impuri. 

— Si delibera! 

Andrea soffocava. Girò per le altre stanze, ove 
restavano soltanto le tappezzerie su le pareti e 
le tende e le portiere, essendo quasi tutte le sup- 
pellettili radunate nel luogo dell' asta. Se bene 
premesse un denso tappeto, egli udiva risonare 
il suo passo , distintamente , come se le vòlte 
fossero piene di echi. 

Trovò una camera semicircolare. Le mura 
erano d'un rosso profondo, nel quale brillavano 
disseminati alcuni guizzi d'oro; e davano ima- 
gine d'un tempio e d'un sepolcro; davano ima- 
gine d'un rifugio triste e mistico, fatto per pre- 
gare e per morire. Dalle finestre aperte entrava 
la luce cruda, come una violazione; apparivano 
li alberi della Villa Aldobrandini. 

Egli ritornò nella sala del perito. Senti di nuovo 
il lezzo. Volgendosi, vide in un angolo la prin- 
cipessa di Ferentino con Barbarella Viti. Le sa- 
lutò, avvicinandosi. 



— 447 — 

— Ebbene, Ugenta, che avete comprato? 

— Nulla. 

— Nulla? Io credevo, in vece, che voi aveste 
comprato tutto. 

— Perchè mai? 

— Era una mia idea... romantica. 

La principessa si mise a ridere. Barbarella la 
imitò. 

— Noi ce ne andiamo. Non è possibile ri- 
maner qui, con questo profumo. Addio, Ugenta. 
Consolatevi. 

Andrea s' accostò al banco. Il perito lo rico- 
nobbe. 

— Desidera qualche cosa il signor conte? 
Egli rispose: 

— Vedrò. 

La vendita procedeva rapidamente. Egli guar- 
dava intorno a sé le facce dei rigattieri, si sen- 
tiva toccare da quei gomiti , da quei piedi ; si 
sentiva sfiorare da quelli aliti. La nausea gli 
chiuse la gola» 

— Uno! Due! Tre! 

Il colpo del martello gli sonava sul cuore, 
gli dava un urto doloroso alle tempie. 

Egli comprò il Buddlia,un grande armario qual- 
che majolica, qualche stoffa. A un certo punto 
udì come un suono di voci e di risa feminili, 
un fruscio di vesti feminili, verso T uscio. Si 
volse. Vide entrare Galeazzo Seclnaro con la mar- 
chesa di Mount Edgcumbe, e poi la contessa di 
Lucoli , Gino Bomminaco , Giovannella Daddi. 
Quei gentiluomini e quelle dame parlavano e 
ridevano forte. 

Egli cercò di nascondersi, di rimpicciolirsi, tra 




— 448 — 

la rolla che assediava il banco. Tremava, al pen- 
siero d'essere scoperto. Le voci, le risa gli giun- 
gevano di sopra le fronti sudate della folla, nel 
calor soffocante. Per ventura, dopo alcuni mi- 
nuti, i gai visitatori se ne andarono. 

Egli si aprì un varco tra i corpi agglomerati, 
vincendo il ribrezzo, facendo uno sforzo enorme 
per non venir meno. Aveva la sensazione, in 
bocca, come d'un sapore indicibilmente amaro 
e nauseoso che gli montasse su dal dissolvi- 
mento del suo cuore. Gli pareva d'escire, dai 
contatti di tutti quegli sconosciuti, come infetto 
di mali oscuri e immedicabili. La tortura fisica 
e l'angoscia morale si mescolavano. 

Quando egli fu nella strada, alla luce cruda, 
ebbe un po' di vertigine. Con un passo mal si- 
curo, si mise in cerca -d'una carrozza. La trovò 
su la piazza del Quirinale; si fece condurre al 
palazzo Zuccari. 

Ma, verso sera, una invincibile smania l'in- 
vase, di rivedere le stanze disabitate. Salì, di 
nuovo, quelle scale; entrò col pretesto di chie- 
dere se gli avevano i facchini portato i mobili 
al palazzo. 

Un uomo rispose: 

— Li portano proprio in questo momento. Ella 
dovrebbe averli incontrati, signor conte. 

Nelle stanze non rimaneva quasi più nulla. 
Dalle finestre prive di tende entrava lo splen- 
dore rossastro del tramonto, entravano tutti gli 
strepiti della via sottoposta. Alcuni uomini stac- 
cavano ancora qualche tappezzeria da,lle pareti, 
scoprendo il parato di carta a fiorami volgari, 
su cui erano visibili qua e là i buchi e gli strappi. 



— 449 — 

Alcuni altri toglievano i tappeti e li arrotolavano, 
suscitando un polverio denso che riluceva ne' 
raggi. Un di costoro canticcliiava una canzone 
impudica. E il polverìo misto al fumo delle pipe 
sì levava sino al soffitto. 

Andrea fuggì. 

Nella piazza del Quirinale, d'innanzi alla reg- 
gia, sonava una fanfara. Le larghe onde di 
quella musica metallica si propagavano per 
l'incendio dell'aria. L'obelisco, la fontana, i co- 
lossi grandeggiavano in mezzo al rossore e si 
imporporavano come penetrati d' una fiamma 
impalpabile. Roma immensa, dominata da una 
battaglia di nuvoli , pareva illuminare il cielo. 

Andrea fuggì , quasi folle. Prese la via del 
Quirinale, discese per le Quattro Fontane, ra- 
sentò i cancelli del palazzo Barberini che man- 
dava dalle vetrate baleni; giunse al palazzo 
Zuccari. 

I facchini scaricavano i mobili da un carretto, 
vociando. Alcuni di costoro portavano già l'ar- 
mario su per la scala, faticosamente. 

Egli entrò. Come l'armario occupava tutta la 
larghezza, egli non potè passare oltre. Seguì, 
piano piano , di gradino in gradino , fin dentro 
la casa. 

Francavilla al Mare: luglio-dicembre 1888. 




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