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Presented to the
LIBRARY ofthe
UNIVERSITY OF TORONTO
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the estate of
GIORGIO BANDINI
IL PRINCIPE,
E
DISCORSI SOPRA LA PRIMA DECA
DI TITO LIVIO.
IL PRINCIPE,
E
DISCORSI SOPRA LA PRIMA DECA
DI TITO LIVIO,
DI IVlCCOIiÒ ]fIA€HlAVEIiIil:
premessevi le considerazioni
DEI. PROF. AIWDREA ZAMBELLI
SUL I-IBKO DEL PRINCIPE.
FIRENZE.
SUCCESSORI LE MONNIER.
1880.
JeRARy
APR191995
^f/?SITYOf^
N^.
AVVEIITIME.MO DKLL' EDlTOUi:.
Nel condurre le presente edizione, vollesi compiacere
al desiderio che oggi si mostra e al consiglio che vien dato
da molti, di ricondurre i classici scrittori a quella primi-
genia sincerità di lezione, da cui troppo si allontanarono,
0 per negligenza ò per arbitrari sistemi, gli editori del 17"
e 18° secolo, e in parte ancora del nostro.
A tal fine volemmo riscontrate dihgentemente queste
opere politiche del Segretario Fiorentino colle due famige-
rate e pregevolissime edizioni di A. Biado; cioè quanto al
Principe, Roma 1531, e quanto ai Discorsi, ivi 1532; alle
quali abbiamo quasi sempre data la preferenza.
Si ebbe oltracciò sotto gli ocelli un esemplare della
cosi detta Testina (1550), con correzioni a penna, appar-
tenente alla Biblioteca del Marchese Gino Capponi ; e ven-
nero assai di frequente consultate le impressioni di Fila-
delfia (Livorno) 1796, e quella d'Italia (Firenze) 1813; alla
prima delle quali presiedette, com'è noto, il Poggiali; e
all'altra Reginaldo Tanzini e Francesco Tassi.
Non si è lasciato nelle occorrenze di consultare qual-
che altra edizione.
Questo lavoro di pazientissima diligenza venne da noi
affidato al signor F.-L. Pohdori, il quale a giustificare il
metodo da sé tenuto per conciliare il suo proprio genio e
le convinzioni colla comodità degli odierni lettori, fece an-
cora le brevissime note che si leggono a pie di pagina.
Infine , perchè non mancasse agli studiosi una guida che
loro aprisse le riposte intenzioni del Principe, ci piacque pre-
mettere le Considerazioni del prof. Andrea Zambelli , di cui
Giovan-Battista Niccolini ebbe a dire : « Meritano di esser lette
» le profonde considerazioni che sul libro del Principe scrisse
» il celebre prof. Andrea Zambelli, il quale desumendo la ra-
» gione e lo scopo di quest' opera dall'indole del Machiavelli
» e da quella de' suoi tempi, pose fine alle antiche e mo-
» derne dispute insorte fra coloro che del Segretario Fioren-
» tino trascorrono nel biasimo o nella lode. »
F. Lk ìMonmku.
SUL LIBRO DEL PRINCIPE,
CONSIDERAZIONI
DEL PROF. ANDREA ZAMDELLI.
Preiper gli alleri e sollevar gì' imbelli
Fur r arti lor.
Tasso.
Per ciò che si riferisce ai libri dell' i4r/e della guerra, ai Discorsi
sopra Tito Livio , alle Storie fiorentine, alle Commedie ed alle Poe-
sie, Machiavelli fu giudicato abbastanza da critici autorevoli; ma non
si può dir lo stesso del Libro del Principe, intorno a cui così calde
quistioni agitaronsi e si agitano tuttavia, che le menti rimangono
nell'incertezza. Alberico Gentile, Wicquefort, Rou.sseau ed Alfieri il
lodarono; Giusto Lipsio, Artaud, Macauley l'ammirarono, ma non
senza mescolare il biasimo all'ammirazione; Federico il Grande,
Voltaire, Dugald Stewart il biasimarono soprammodo. Molti, che
tampoco non l' avean letto, veri telegrafi dell' altrui opinione, i quali
la ripetono e la trasmettono senza comprenderne il senso, furono
dei più acerbi fra i suoi detrattori. Un padre Lucchesini giunse per-
fino a pubblicare uno scritto sulle sciocchezze eh' egli pretendeva di
avere scoperte nelle opere di Machiavelli.
In mezzo a siffatte discrepanze, io non dubito di affermare che
nissuno, ch'io mi sappia, riguardò il libro di cui si tratta nel suo
vero aspetto. Alcuni han preteso dimostrare, che quivi egli non par-
lasse da senno, ma solo per far la satira dei tiranni, di cui abbondava
la sua età, e che col fingere di dar lezioni ai principi ne abbia date di
grandi ai popoli, svelando le perfidie e le malvagità di quelli: ma co-
desta opinione incontra parecchie gravi diliìcollà. La famosa lettera
della villa di San Casciano, dovè Machiavelli espone schiettamente
al suo più fidalo amico, cui nulla taceva, il modo e il fine da lui
propostosi, e quella di Biagio Bonaccorsi, suo famigliarissimo, a
Pandolfo Bellucci, m'inducono a credere aver egli scritto di buona
fede il libro: Ginguené e l' Artaud pensano lo stesso. Poi, se tali
fossero stale in realtà le sue mire, vi sì sarebbe opposta la medesima
vili CONSIDERAZIONI
raffinatezza de' suoi precelli, più acconci ad islruire un principe clic
a smascherarlo in faccia del popolo , e da essere compresi anzi da
quello che da queslo. Poi, qual prova adducono della loro asserzione
codesll scrillori ? L'essersi Machiavelli nei Discorsi mostralo assai
diverso da ciò che appare nel Principe. Eppure nei primi si trovano
non poche massime del fare di quelle che si leggono nel secondo;
come a dire sulla necessità d'esser temuto ma non odialo, del be-
neficare o spegnere, del fare un principe ogni cosa nuova in una
città o provincia presa, sul non sapere gli uomini essere al tulio tri-
sti o al tutto buoni, sull'effetto che scusa il fallo, e simili. Anzi, ve-
nendo il Segretario fiorentino al discutervi , < se le promesse siano
sempre da osservarsi o no, conchiude : « Di ciò è largamente dispu-
tato da noi nel nostro trattato del Principe; però al presente lo tace-
remo : » e dove parla del riscontrare il modo del procedere suo coi
tempi,' non cita egli evidentemente queir istcsso trattalo, in cui dice
presso a poco il medesimo? Le quali analogie e citazioni dimostrano
a occhi vegnenti, ch'egli non cangiò natura nò apparenza, come vor-
rebbero certuni , e sempre francamente espose quel che pensasse e
di principi e di repubbliche. Ciò fece in codeste due opere, ciò nelle
Storie^ ciò ne' minori suoi scritti, insino nelle sue lettere.
Molto meno posso concedere ad alcuni altri, ch'egli mirasse a
rendere odiosa la casa Medici, scrivendo ad un tiranno ciò che dee
piacere ad un tiranno, a fine di farlo andare, se poteva , di sponla-
nca volontà in precipizio. Oltre le dette ragioni, ed oltreché Lorenza
non era uomo da lasciarsi allucinare come (iiacomo II con Sunder-
land, in ogni lettera di Machiavelli, segnatamente in quelle scritte a
Francesco Vetlori ed al Guicciardini, si scorge la evidente, schietta
e continua brama d'essere da quei signori impiegato, e di divenire
un' altra volta sotto il loro dominio un uom del potere. Non che dessn
sia stata in quel libro il suo solo intento, come pur crede qualcuno : ^
le soprascritte citazioni e massime uguali dimostrano il contrario;
ma certo pur vi entrava in qualche parte il desiderio d' un impiego.
Che il Segretario avesse contro il duca d'Urbino quella torta inten-
zione, alcuni Fiorentini l'asserirono al cardinal Polo, e questi il cre-
dette: ma io credo invece, che quegli astuti volessero con lale
sutlerfugio scusare in qualche guisa alla lor foggia repubblicana il pro-
prio'concittadino appresso il buon prelato, che odiava i tiranni, e
non sapea darsi pace di quel libro. Se cosi non fosse, come mai il
* Discorsi, lib. Ili , cap. 42,
2 Lib. III,cap. 9.
5 L' autore d' un articolo critiro dilla Pane rie Paris.
SUL LIBRO DEL PUINCIPE. IX
Varchi, contemporaneo del Segretario, avrebbe potuto scrivere nelle
sue Storie, che « quegli indirizzò a Lorenzo il sua Principe, perchè
si facesse signore assoluto di Firenze, e che dopo il rivolgimento dello
Stato (cioè dopo la cacciala dei Medici) tentò di spegnere codesta sua
opera, non essendo ancora stampala? » S' egli avesse inteso di far
con essa la satira dei tiranni e di esporre il suo principe al pugnale
dei repubblicani, certamente, anziché cercare di spegnerla, se ne sa-
rebbe gloriato fra un popolo che sognava un' altra volta l' antica li-
bertà. Ma, perciocché le sue intenzioni erano assai diverse, e cia-
scuno il sapeva, egli che aveva insegnato come convien variare coi
tempi, e oltracciò vedeva i Fiorentini aver sì grosso animo contro la
signoria pallesca, tra per seguire le proprie massime, e, diremo an-
cora, per paura, voleva spegnere quel libro. V ha chi aft'erma, aver
egli due volle congiuralo contro i Medici, ma parecchi pur v'hanno
che affermano il contrario; ed io, per la verità, pensando, come non
se n' ebbero che dei sospetti , e quali massime egli abbia manifestale
nei Discorsi in proposilo dell'accomodarsi ai tempi e dell'esser con-
tenli a vivere sotto quell'imperio che dalla sorte ci è slato preposto,
credo, che se Machiavelli ne fu sospettato, in realtà non congiurasse
giammai. Quanto egli dice nel capitolo delle congiure, dichiara evi-
dentemente per qual motivo lo scrivesse, e che ne pensasse.
Stimano certi altri che il Segretario abbia tallo della politica
un'arte di frodi e di perfidie, perchè fondò le sue esperienze e i
suoi precetti sulla condotta dei piccoli principi italiani del secolo XV,
i quali, sprovvisti di milizie e di finanze in «n dominio angusto,
aveano d' uopo di ricorrere all' astuzia ed al tradimento per mante-
nersi in islalo. Ma nel libro del Principe, segnatamente nel capi-
tolo XVIllj in cui parla dell' osservar la fede, non propone egli ad
esempio Ferdinando il Cattolico, che pur non era sovrano di angu-
sto dominio? L' errore è manifest» ; ma più strano ancora mi sembra
quello àèW Antimachiavello , il quale, sia che fosse scritto da Fede-
rigo il Grande o dà Voltaire, non è degno al certo né del vincitore
di Rosbach né dell' autor di Zaira : vi si vorrebbe fare di Machia-
velli un filosofo del secolo XVllI, con quella mistura di astrattezze
filantropiche e di irreligione che ne era il distintivo carattere. A fine
di apprezzar rettamente la condotta d' un uomo antico, è necessario
guardarsi da codesta via storta e fallace. Colle idee, colle massime
dell'età presente si giudicarono uomini e popoli, che, sotto l'in-
fluenza di età e di circostanze diversissime, dovevano naturalmente
avere altre massime ed altre idee. Perciò Gregorio VII, il quale in
secoli d'oppressione, di scandalo e di anarchia, si delle con forle
animo ad accrescere V autorità pontificia, non per altro che per pò-
X CONSIDERAZIONI
ter quindi senza alcun ostacolo rifornnare ia disciplina ecclesiaslica
già tanto degenerala, sembrò un ambizioso a chi lo considerava corno
un papa dell' età nostra. Si suppose un line politico dove altro non
si dovea scorgere che un Gne religioso, richiesto dalle necessità di
tempi duri e scorretti. Per ciò stesso in un altro stato di cose, agli
occhi di simili giudici Machiavelli è uno scellerato, un mostro d'ini-
quità. Ma chi sappia trasportarsi col pensiero nel tempo in c\iì visse,
lo trova un politico quale lo portava l'età, non peggiore né mi-
gliore di quella ; un profondo conoscitore dei disordini che vi domi-
navano ; il quale adattò i suoi consigli a circostanze che certamente
egli non avea fatte nascere né consigliale, anzi in più luoghi le con-
danna e deplora. Viveva in un secolo dei più corrotti e dei più ab-
bondanti di esempi di slealtà, di bassezza e di scelleraggine. L'ini-
micizia politica era un odio individuale ; nessun politico di que'tempi
facevasi coscienza d'una violazione di fede che gli fosse per esser
giovevole. Gli uomini grandi chiamavano vergogna il perdere, non
l'acquistar con inganno; il tenersi in fede col suo avversario sarebbe
parso un atto di debolezza, quando potea tornare in acconcio il di-
venire spergiuro"; ed in cambio di compiangere un principe il quale
per soverchia fiducia avesse perduto il trono e la vita, si derideva
Lì sua dappocaggine. In siffatti tempi il politico non dava consigli so-
pra cose da farsi, ma sopra cose fatte , che non lasciavano all' ambi-
zioso altra facoltà che quella di scegliere fra due tristi partiti. Che
altro fecero Ferdinando il Cattolico e Luigi XI ? Che altro consigliò
il Segretario fìorenlino ? Egli pertanto non era né un ipocrita, né
uno scellerato ; era un politico del Quattrocento, che volle far la pit-
tura del suo secolo, pieno di atroci e cupi tiranni e di pubblici mis-
fatti , il quale non reputossi offeso da un libro che lo ritraeva al na-
turale ; un politico, che sarebbesi assai maravigliato che altri si
maravigliasse della sua condotta. « // mondo che ne circonda^ dice
Bentham, e quello la cui opinione ci serve di regola e di principio: »
né la virtù eroica, che sa sollevarsi sulle abitudini del suo tempo,
poteva esser propria d' un politico di quel secolo.
l'er altra parto , osservando -come tra mezzo a codesti precetti
Machiavelli consigli altresì al suo principe ora di avere armi nazio-
nali anziché straniere, ora di assicurare e promuovere l' agricoltura,
il commercio e l' industria, d'onorare gli uomini eccellenti in cia-
scun'arte, e di dare esempio d'umanilà e di munificenza, ora la
parsimonia a fine di scemare i publici aggravii, ora l' equità di que-
sti, e come disapprovi in ogni caso le confiscazioni e il tener divise
in parli le terre soggette ; sono indotto a credere ch'egli veramente
non mirasse ad istruire un tiranno , quale ce lo rappresenia Arislo-
SUL LIBRO DEL PRINCIPE. XI
Iole. * Che anzi alcuni avvertimenti del capitolo 14 sembrarono al-
l'Artaud così morali e salutari, che non dubitò di pareggiarli a quelli
di Bossuet e di Fénélon. Ben mi accorgo che qui taluno dirà, essere
però egoista il principe di Machiavelli , e consigliarglisi le sopra-
scritte cose perchè, risultando ogni di lui forza dal popolo, il suo
maggiore interesse richiede che quello sia prospero , numeroso , for-
midabile ; ma per me rispondono Aristotele e Rousseau. 1 tiranni
sanno bene, essi dicono, come il loro interesse personale ricerca in-
vece che il popolo sia debole e miserabile, sicché non possa mai loro
resistere. Certo, supponendosi i sudditi sempre perfettamente som-
messi, l'interesse di quelli richiederebbe in tal caso, che il popolo
fosse polente, acciò, essendo codesta potenza la loro propria, li
rendesse formidabili allo straniero; ma, soggiungono, siccome que-
sto interesse non è che subordinalo, e i due supposti sono incompa-
tibili , è naturai cosa che i tiranni diano sempre la preferenza a
quella massima che riesce loro immediatamente utile. Ora un prin-
cipe il quale, seguendo i consigli di Machiavelli, preferisca le armi
nazionali alle straniere, e venga con ciò a manifestare una nobile
confidenza nei propri sudditi ; un principe che, secondo quei consi-
gli, onori gli uomini eccellenti, rimuova dai cittadini le discordie,
ne incoraggi l'industria, ne moderi e distribuisca equamente le im-
poste, si astenga dall' applicarne le sostanze al fisco, e si dimostri
umano e liberale, tutto il contrario insomma di ciò che dicono i due
ricordati scrittori ; codesto principe, anziché procurare la povertà, la
reciproca diffidenza, la debolezza e l'avvilimento del popolo, ne pro-
cura la ricchezza, la concordia e la potenza. Non tanto che un sif-
fatto principe sia un tiranno, egli è co' suoi sudditi un buon mo-
narca, il quale ne promuove la prosperità. Se poi, operando in que-
sta guisa, il principe identifica i suoi interessi con quelli dei cittadini,
egli viene a fare ciò che consiglia la vera politica, consistendo ap-
punto in quella identità l'unità dello Stato, onde nasce per virtù di
tante forze associate una immensa forza. Come dunque si può affer-
mare che Machiavelli istruisca un tiranno ?
Ma d'altra parte, in parecchie cose il principe machiavellico sente
eziandio del tiranno. Laonde, se già non si voglia supporre che il
Segretario cadesse in una mostruosa contraddizione con sé mede-
simo,^ convien pensare che i suoi terribili artificii si riferissero a
^ Questa è pure l'opinione di qualcuno. Vedi la delta Prefazione alle Opere
di Niccolò Machiavelli nell' edizione d' Italia i819.
^ Quest' apparente contraddizione fu sempre avvertita dall' Artaud (Machia-
yd, son genie et ses crrcnrs); ma egli non volle scioglierne il problema. L'au-
tore d' un articolo critico della lìevuc de Paris credette liovarnc la soluziouc
Xn CONSIDERAZIOrHI
singolari circostanze e ad uno stato particolare «li persone, piulto-
slocbè air universale : a dimostrare la qual cosa ho io inoltre più
d' una prova. Era quello il tempo, che tra mezzo alle fazioni del po-
polo e della nobiltà erano sorte in Italia, dove piccole dove grandi
signorie, quali pel favor popolare, quali per quello dei nobili o dei
papi 0 dei Cesari, quali per l'effetto d'una usurpazione. Così sorsero
infatti gli Estensi, i Visconti, i Medici, gli Scaligeri, i Gonzaga, ed
altrettali potenti famiglie. La generale debolezza ed i continui sub-
bugli dei municipii resero necessaria la prevalenza di esse : le quali
però, non tanto cbe fossero sicure nei dominii loro, avevano a lot-
tare continuamente ora con una licenziosa e matta plebe, ora con al-
tre signorie che tentavano di soverchiarle, ora coi nobili castellani o
popolani: ma, generalmente parlando, perciocché riesce assai più
facile il soddisfare chi non vuol essere oppresso che chi vuole oppri-
mere, erano favorevoli al popolo anziché ai grandi; e quand'anche
non fossero sórte col favore di quello, ne pigliavano facilmente e po-
liticamente la protezione, come pure osservò il Segretario. Tiranni-
che furono la più parte, ma sotto la loro tirannia il popolo trovava
quasi dappertutto sicurezza e quiete, e un polente ostacolo la super-
bia dei grandi. Le memorie di quel tempo ce ne danno parecchie
prove, le quali ricevono maggior conferma dall'essere state quasi
tutte aristocratiche le congiure contro i signori. In questa età di pas-
saggio dallo scompartimento dei poteri all'unità monarchica, olà de-
plorabile, come furono esaran sempre lutti i tempi transitivi da uno
stato sociale all'altro, principali fini della politica erano deprimere i
baroni, i grandi, i signorotti, sollevare i cittadini, nel quali per la
detta ragione poteasi avere maggior Oducia, ed introdurre, per
quanto lo concedevano le circostanze, una centralità di poteri, pre-
cipuo elemento della forza politica, dell'ordine pubblico e della pace
comune. Pei quali due rispetti la condotta dei principi italiani d'al-
lora non differiva da quella di Luigi XI, di Ferdinando il Cattolico,
di Arrigo VII; più che ogni altro gli somigliava Cesare Borgia, il tipo
di Machiavelli, e Egli uvea racconcia la Romagna ^ unitala e ridonala
in pace e in fede ; e il popolo divenne affaionato alla sua potema,
ncll' inilolc vertatile Hi Machiavelli, ligia ai vari potenti per Tjvrriic denaro
ed iinpicglii. Ma, concesso ancora ch'ei fosse di tal natura , ciò spicghcrcl»l)e
le conlraddizioni fra i principii d'opere diverse, non fra quelli d' un'opera
istessa. Oltre di che , già vedemmo che -nelle diverse opere non cangiò prin-
cipii, anzi nei Discorsi citò due volte il libro del Principe; il che non avreblie
fatto, te avesse voluto esser piaggialor del potere , e non altro. Gli adulatori
sogliono rinnegare se stessi col variare delle circostanze ; ma il Segretario pro-
cedette altrimenti: onde convicn riferire 'ad altra fonte originaria le sue ap-
parenti contraddizioni.
SUL LIBRO DEL PRINCIPE. XIII
e coli fidente di quella, » dice il Segretario .< E il Romagnosi 2 afferma
« che il passare sotto il duca Valentino fu per molte città un vero
guadagno, e solo per certe case potenti uno sterminio. » Vero è clie
parecchi dei potenti ch'egli sterminò, non erano feudatari simili
in tutto a quelli di Francia ; erano signori assoluti di feudi della
Santa Sede , e quindi più facili ad esserne spodestati : ma e i lini e il
bisogno sociale ne erano uguali.
Senonchè l'autore d'un celebre articolo intitolato : Machiavelli
ed il suo secolo, impresso, or fanno in circa dieci anni, nella Rivi-
sta d' Edimburgo ,^ ne ragiona in maniera assai diversa; Osserva egli
che, dove negli altri paesi europei una classe numerosa e potente
conculcava il popolo, e contrabbilanciava il poter del governo; in
Italia, attese le franchigie municipali concesse già dai Romani, man-
tenute per la debolezza dei governi stranieri che vi si avvicendarono,
confermale da Ottone imperatore, favorite ed accresciute dalle lun-
ghe discordie fra l' impero e il sacerdozio , e vittoriose pei soccorsi
dei papi e della parte guelfa, l'influenza dei nobili feudali era ben
poca cosa : i quali, eccetto il regno di Napoli e lo Slato della Chiesa,
aveano terminato col confondersi a poco a poco insieme col popolo;
e se in alcune parli conservavano un potere, già non erano piccioli
sovrani, ma grandi cittadini, che, invece di agguerrire i castelli sulle
montagne, rabbellivano i palazzi sulla publica piazza: segnatamente
la Lombardia e la Toscana, attraverso a tulli i loro rivolgimenti,
avevano conservato un tale carattere. Talché, mentre gli annali della
Francia e dell' Inghilterra non offrivano che scene di barbarie, d'igno-
ranza e di miserie, il commercio, le scienze e le arti, insomma lutto
ciò che contribuisce agli agi ed ai piaceri della vita sociale, ricom-
parve allora in Italia, e vi fece luminosi progressi. Ma, com'egli poi
soggiunge, una decrepitezza affrettala fu il risultamento d'una ma-
turila troppo primaticcia : le sedentarie abitudini mercantili, che ri-
chieggono un intervento continuo, resero insopportabili le fatiche
della guerra; quindi l'uso d'arrolare soldati mercenari divenne ge-
nerale in Italia quando era ancora sconosciuto nelle altre contrade.
Diche procedellero parecchie conseguenze : l'una, che combattendo
fra loro mercenari con mercenari, i quali non aveano ne interessi né
sentimenii opposti, anzi uniformi per la comune professione, si guer-
reggiava quasi senza far sangue; la seconda, che, a differenza degli
altri popoli, fra cui, come beljicosi che erano, faceasi indispensa-
' Nel cap. 17 del Principe.
' Dell' indole e elei fattori dell' incivilimento.
3 Ne fu slampata una traduzione ntW Indicatore Lombardo all'anno 1830.
L'nulore è Macauley.
XIV CONSIDERAZIOM
bile il valore, presso gl'Italiani questo avea cessato d'appartenere
al numero delle virtù, come avvenne in Grecia al tempo dei Romani;
onde le terre loro rimasero senza difesa contro i Francesi, gli Sviz-
zeri e gli Aragonesi ; la terza, clie perciò appunto si originarono fra
le nazioni due moralità diversissime: nella maggior parte d' Europa,
un' indole violenta ed altera che aveva in discredito la frode e l'ipo-
crisia ; in Italia, la dissimulazione, l'inganno, le vie coperte, le cru-
deltà provocate da fredde e profonde meditazioni, avute in onore "non
meno che l' elevatezza dell' ingegno , V amor di patria , ed un ragio-
nalo coraggio. Pertanto, egli conchiude, Machiavelli in altro non
peccò che nell'avere adottate alcune massime, allora generalmente
abbracciate, e nell'averle esposte con maggior forza e in un ordine
più luminoso che non abbian fatto gli altri scrittori dell'età sua.
Tale a un dipresso è il costrutto di quel ragionamento; il quale,
se fosse vero in tutto, porrebbe ad ogni modo tra la malvagità di
Machiavelli e quella de' suoi contemporanei il divario che è da chi la
metta in atto a chi abbia l'impudenza d' insegnarla pubblicamente e
metodicamente. Ma in quelle considerazioni , peraltro assai dotte ed
ingegnose, io trovo una mescolanza di vero e di falso. L' Italia, nel-
l'epoca di cui parliamo, era ben lontana dall' offrire agli sguardi nel
politico un solo stato di cose. Da un lato l'aristocrazia ereditaria,
dall' altro la democrazia ; qui un principato ereditario , là un princi-
pato elettivo; dove una feudalità con una signoria assoluta, dove un
reggimento feudale simile a quelli di Francia e di Spagna: tali erano
le diverse condizioni politiche in cui trovavasi. E, ciò che riusciva
ancor più singolare, diverse erano le sorti delle forme istcsso di go-
verno nei diversi paesi ; perocché l'aristocrazia ereditaria, che face»
prosperare Venezia , teneva in continui tumulti Genova ; e mentre
Milano sotto gli Sforza fioriva di belle arti, di lettere, di popolazione
e di ricchezza, parecchie città della Romagna languivano nella mise-
ria sotto i principi che vi d(»minavano. Per conseguenza, il ridurre
tutta r Italia in un solo dominio era al certo una delle più malagevoli
imprese che mai potessero venire nelle menti dei politici; e, se es-
ser poteva, ciò non avrebbe potuto effettuarsi che da un principe il
quale, divenuto signoi^ d'uno Slato esteso e potente, avesse prima
compressi i nemici interni, incusso un durevol timore negli esterni,
e quindi prendesse le mosse alla della impresa. Che Machiavelli ab^
bia avuto in animo d' indurvi il suo principe, non è da dubitare)
conforme si raccoglie dall' ultimo capitolo del libro che esaminiamoli
ma perchè il disegno sortisse il bramato effetto e non fosse solo un^
desiderio, conveniva ch'egli ne preparasse i fondamenti. Or quale]
era lo Stato che a tal line doveva, secondo lui, essere occupalo e ri*
SUL LIBRO DEL PniNClPE. XV
formato dal suo principe? I suoi pruiagonislì ce lo dimostrano: quello
di cui erasi insignorito e a cui aspirava Cesare Borgia, quello che pos-
sedeva e che agognava Lorenzo de' Medici, li primo , in compagnia
di papa Alessandro, dominava la Romagna, Terra di Roma, una
parte della Toscana, e la voleva tutta; il secondo, appoggiandosi
alla potenza di Leone X, occupava Urbino, Firenze ed altre città, ed
il papa suo zio già coloriva i suoi vasti disegni d'impadronirsi di
tulli i feudi pontifìcii ed anche del regno di Napoli, come abbiamo da
Guicciardini. Pertanto il primo fondamento, e quindi il teatro della
politica machiavellica, erano la Romagna, lo Stato Ecclesiastico, il
regno di Napoli e la Toscana. La grandezza dei Borgia e poi quella
dei Medici formavano la regola, il tipo de' suoi pensieri; secondo
che dimostrano e il contesto del Libro del Principe, e la stessa na-
tura di quell'intelletto, grande bensì, ma più fatto per osservazioni
pratiche che non per astratte teorie. Voleva innanzi tutto assicurare
al suo regio allievo un vasto dominio in Italia; voleva che quegli con
armi proprie, non mercenarie, non ausiliarie, non miste, si creasse
al pari del Valentino una potenza propria ; voleva che contro gli
esterni e gli interni ostacoli al pari del Valentino procedesse, cioè
con astuzia coi potenti, con severa giustizia coi deboli, e quindi ad
ultimo pensasse alla grande impresa.
Quali avessero ad esserne gli ostacoli esterni, e qual politica
l'osse costretto a seguir l'ambizioso con essi, il vedemmo nel parlare
di quella perfida età. Quanto poi agli interni , pur troppo il novello
Stato, che occuparono o agognarono quei principi e quei papi, ab-
bondava d'una condizione di gente che conculcava il popolo e con-
trabbilanciava il poter del governo; e se in alcune parti la nobiltà
era s'caduta dell'antico grado, già non ne veniva che fosse confusa
insieme col popolo e divenuta una nobiltà cittadina. Giusta le parole
istesse di Machiavelli:* a Gentiluomini sono chiamali quelli, che
oziosi vivono dei proventi delle loro possessioni abbondantemente, senui
avere alcuna cura o di coltivare o d' alcun' altra necessaria fatica a
vivere. Questi tali sono perniziosi in ogni provincia; ma più perni-
ìtiosi sono quelli che, oltre alle predelle fortune, comandano a ca-
stelli ed hanno sudditi che ubbidiscono loro. Di queste due sorta d'uà-
mini ne sono pieni il regno di Napoli, Terra di Roma, la Romagna e
In Lombardia : tali generaùoni d' uomini sono nemiche d' ogni ci-
vili à, per l'eccessiva loro ambizione e corruttela, che le leggi non
bastano a frenare. » E in altro luogo egli cosi ragiona : 3 « La Romn-
gna, innanù che in quella fossero spenti da papa Alessandro VI quei
* Nel lil). I , cap. 55, dei Discorsi,
* Nel lib, 111, ciji. 29, dei jDiicorù'
b
XVI CONSIDERAZIOM
signori che la comandavano, era un esempio d'ogni scelleratissima
vita , perchè quivi si vedeva per og^ii leggiera cagione seguire ucci-
sioni e rapine grandissime. Il che nasceva dalla tristiiia di que' prin-
cipi, non dalla natura trista degli uomini , come loro dicevano; per-
chè, sendo que' principi poveri e volendo vivere da ricchi, erano
fonati volgersi a molte rapine, e quelle per vari modi usare : e , tra
le altre disoneste vie che tenevano , facevano leggi e proibivano alcuna
aiione; dipoi erano i primi che davano cagione della inosservama di
esse, né mai punivano gli inosservanti, se non poi quando vedevano
essere incorsi assai in simile pregiudicio; ed allora si voltavano alla
puniiione, non per telo della legge fatta, ma per cupidità di riscuo-
tere la pena. Donde nascevano molti inconvenienti, e soprattutto que-
sto, che ipopoli si impoverivano e non si correggevano ; e quelli che
erano impoveriti «' ingegnavano contro i meno polenti di loro preva-
lersi. » € / feudatari ed i piccoli principi della Romagna , dice Ro-
scoe, laceravano da lungo tempo la Stato della Chiesa ; sostenevansi
colle rapine, ed erano il terrore di tutta l'Italia. Le discordie e le
contese che segnalarono quest'epoca, panno essere paragonate ai com-
battimenti delle bestie feroci, in cui r animale più furioso e più forte
distrugge tutti gli altri. » Il quale sialo di cuse, eccello forse la si-
gnoria assolula d'alcuni feudaiari, non era dissimile da quello in cui
trovavansi la Francia e la Spagna per cagione della fenda liià : ma
danni ancor maggiori apporlava e al governo ed al popoli la nobiltà
feudale della Terra di Kuma. I Colonna e gli Orsini coi numerosi
aderenti loro,* polenli pei molli feudi e caslelli, potenti altresì, per-
chè, condoUieri di ventura com'erano, disponevano d'una (]uanlità
di milizie, e, come dice il Segretario, avevano in mano tutte le armi
d' Italia , quanto solleciti deirnffezione de' soldati, tanto infesti alle
campagne, ai villaggi ed a chi vi abitava, raro era che per 1* cITeilo
di continue guerre civili e della militare licenza non gli mettessero a
ruba, e non vi recassero la morte e la distruzione ; sicché tra per
questo motivo, e pel continuo timore delle misere popolazioni, le
terre o venivano abbandonate, o rimanevano pressoché incolte, o
diventavano un deserto pieno di paludi pestilenziali. * Colali effetti
partorivano le fazioni e la prepotenza di quei castellani , peggiori ai
certo di quanti oe avesse qualunque altro paese d' Europa. Vero è,
che dessi e i signori della Romagna dai Borgia e da Giulio li rice-
vettero una terribile scossa, onde il governo papale cominciò a sa-
lirne in maggior potenza ; ma ne andrebbe assai errato chi credesse
* I Savclli , ì Conti , i Santacroce , ec.
8 Vcggasi Sisinondi , Storia delle Repubbliche Italiane del medio evo,
tomo 13.
k
SUL LIBRO DEL PRLXCIPE. XVII
che quindi le loro violenze cessassero. In Perugia, in Urbino, in
Fermo, in tutta la Marca d'Ancona e nei dintorni, continuò la loro
tirannia ai tempi di Leone, il quale talora si vide costretto ad usare
contro di essi le arti machiavelliche.^ Nella Terra di Roma, sotto il
medesimo pontefice e sotto Clemente, erano ancora potenti e non di
rado infesti gli Orsini e i Colonna , la cui grandezza, come c'informa
Guicciardini, a fu sempre depressione ed inquietudine dei pontefici. »
E convien dire infatti che i piccioli tiranni e i feudatari dessero tut-
tavia assai che fare alla corte pontificia, perchè un trattalo fra Leone
e il redi Francia, giusta il predetto istorico, conteneva la capitola-
zione, che il re dovesse aiutarlo contro ai sudditi ed ai feudatari
della Sedia Apostolica : « condizione appartenente allo stabilimento
delle cose possedute dalla Chiesa : » soggiunge il medesimo scrittore.
Condottieri di fanti e di cavalli, non meno che si facessero 1 padri
loro, ne imitavano la feroce licenza: che anzi anche nelle età poste-
riori codesti feudatari non si rimisero delle iniquità loro, ricoverando
nelle proprie terre i banditi, proteggendo le bande dei masnadieri,
e talor anco ponendosene alla testa ; sicché a stento riuscì a stre-
marne, non a distruggerne il mal seme, la fiera giustizia di Sisto V.
Insomma ne Lorenzo de' Medici, il principe di Machiavelli, avrebbe
regnato in Romagna, ne papa Leone avrebbe potuto sostenerlo, se
non si distruggeva codesta corrotta e perniciosa razza, nemica d'ogni
civiltà, e ch'era l'effettiva peste, non che dello Stato Ecclesiastico,
di tutta l'Italia, come anche disse a Machiavelli il duca Valentino.
L' autore dell' articolo dice bensì che lo Stato della Chiesa si acco-
stava a quello delle grandi monarchie d'Europa; ma non ne osserva
tutti gli effetti, nò tampoco avverte che codesti feudatari della
Santa Sede erano appunto quelli con cui ebbe che fare il duca pre-
detto, che il Segretario propone per esempio al suo principe. II tipo
da lui trascelto, ch'egli non dubita mai d'allegare, e della cui ca-
duta spesse volte si duole, mi pare che ci possa dare a divedere dove
avesse la mira, e di che tenore fosse quella politica che su tal mo-
dello aveva formata. Molto aveva fatto Cesare Borgia ; ma restava
ancor mollo da fare a Lorenzo, se pur voleva eseguire il gran dise-
gno a cui Machiavelli lo esorlava : senza di ciò il suo principato sa-
rebbe slato sempre da meno e degli interni ostacoli e degli esterni.
La feudalità napoletana non differiva, come anche dice l'autor
dell'articolo, dalla francese e spdgnuola : e, per ciò che si riferisce
alla Toscana, vero è che i nobili vivevano nelle città, ma non per
questo erano confusi insieme col popolo. Perchè fossero una no-
billà cittadina, sarebbe sialo mestieri che ed i nobili ed il popolo
i Si veda il Muratori negli annali d' Italia.
XVIII CONSIDERAZIONI
avessero nvuto nella cosiiiuzioiie dello Slato un comune ordinamen-
to. In tal caso vi sì avrebbe potuto aprire una libera concorrenza
alle cariche, conforme faceasi nell'antica Roma ; e le slesse dissen-
sioni fra i nobili e la plebe sarebbero slate un utile conlrapponi-
mento, una guarentigia, un principio a migliori leggi, a più sal<li
ordini politici, come anche osservò Machiavelli.' Ma l'origine dello
due condizioni di gente era nelle repubbliche italiane assai diversa.
La conquista aveva originala la nobiltà feudale, posseditrice delle
terre, e di cui era tanto grande la potenza, che, come ci informa il
Segretario, gli ordini e i modi civili a frenarla non bastavano; 2 dal
traffico e dall'industria riconoscevano la loro maggioranza i popolani:
rappresentavan quelli la proprietà rurale, queslì le manifatture ed il
commercio: e se le antiche famiglie fiorentine furono poi coslrellc
ad abbandonare i propri castelli, ed esercitarono anch'esse la mer-
catura; e se , spente in decorso di tempo o cacciate o represse que-
ste, le discordie vi sì ridussero tra popolo e plebe; i nobili popolani,
sorti dalla ricchezza mercantile e dalle occupate magistrature, si det-
tero ben presto ad imitare i feudali colie condotte de' soldati, colle
molte aderenze e coll'aiulo d' esteri signori e baroni. II fallo loro e
non la legge ren-^leali potenti; e, per usar le parole di Machiavelli,'
« ne sorgevano tali difficollà, che la Repubblica non paté mai riardi'
narsi. » In un'età nella quale la libertà civile era ben poca cosa, in
municipii che governavansi a caso, si cercava di contrabbilanciare le
prerogative baronesche 0 dei popolani grandi con quelle dei collegi
delle arti ; e le une e le altre, e le slesse arti fra loro, slavano in per-
petua guerra, o sorda 0 aperta, come si legge nelle Storie fiorentine.
Chi bene avverta alle repubbliche italiane di allora, piultostochè unu
stato regolare, legittimato dalla tranquilla e soddisfacente convi-
venza , erano esse un risullamcnto di corpi morali che a privilegi o
concessi o usurpati opponevano altri privilegi di egual natura: ma
senza l'unità degli interessi , delle opere e dell' eHetlo fmale, come
può progredire una società?* Il desiderio di soverchiare eccitava I
grandi; eccitava i plebei quello di non essere soverchiati. In Firenze
«bbero questi piìi volte il disopra; ma, siccome non moveali l'amor
della pairia e delle leggi, bensì l'odio della parie avversa, vollero
poi soverchiar^ anch'essi : quindi gli odii coperti e le reazioni, e Le
riforme, dice il Segretario, ' furono fatte non a soddisfazione del ben
« Nel lil». I , cap. 4 e 6 , dei Discorsi.
8 Nel lib. Ili delle Storip forentine.
3 Nel lil). I , cap. 49 , dei Discorsi.
♦ Anche il celebre Guizol e di questo parere nelle sue Lccons sur la Civi'
fisation europcenne, all'ari. Comninnes.
* Nel Discorso sulla Bi/orma di Firenze.
SUL LIBRO DEL PRINCIPE. XIX
comune, ma a corrohoraùone e sicurtà della parte; la quale sicurtà
non si è anche trovata, per esservi sempre stala una parte malcon-
tenta, la quale fu un gagliardissimo istrurnento a chi ha desiderato
variare. » Cercarono i Medici d'acquietare le cose: ma che può un
governo di clienlela , con poche anni, colla sola autorilà del nome, e
perciò debole, contro gP interni ed esterni assalti? Dall' un canto
yvean essi a temere il volubile elemento popolare, istigalo ed aggi-
ralo dai nobili e dai falsi profeti; dall'altro l'ira di essi nobili che
solo taceva quando eron deboli: repressa negli Albizzi, risorgeva essa
infalli nei F'azzi, poi faceva negli Strozzi le ultime prove. Si fa dun-
(jiie manifesto che nella slessa democratica Firenze, e la nobiltà feu-
dataria e la popolana non fu jmai confusa insieme col popolo, né mai
ciitadina : la lotta, che allora si scorgeva in altre parti tra i feuda-
tari, il popolo ed i principi, palese quivi appariva fra i polenti popo-
l;ini, successi ai feudali, la plebe, e la casa Medici. I nomi non dif-
ferenziano le cose: perpelue discordie vi dominavano, le quali erano
I)rincipalmente mantenute da quei grandi, nemici d'una famiglia già
loro eguale , che sosteneva la moltitudine, ed a cui per conseguenza ,
come scrive Hallam, « non venne mai meno l'amor della plebe. »
« Non v'era costituito un timore agli uomini grandi che non potes-
sero far sètte, le quali sono la rovina d' uno Stato: » dice Io slesso
Machiavelli,* e contrappone al governo di Firenze quello di Venezia,
che teneva gli uomini polenti a freno." Aveasi ancor qui bisogno
d'una mano regia, che facesse tacere quelle discordie per sempre;
e la trovarono i Fiorentini nel granduca Cosimo, sostenuto dall'in-
fluenza spagnola. Se poi codesta influenza riuscì di grave pregiudi-
zio all'Italia e vi spense ogni virtù, non n'ebbero colpa i principi!
machiavellici, i quali certo non miravano a costituirvi un principato
spagnolo, ma bensì uno che italiano fosse. In somma, nelle sopra-
scritte parti d'Italia erano codesti grandi un perpetuo seme di dis-
cordie, di fazioni e di pubblici mali; erano una e forse la maggiore
di queWe piaghe infistulile che accenna il Segretario. 0 feudatari che
fossero, o signoroni, o per altro titolo potenti, tendevano a sover-
chiare ei principi e il popolo, ed erano naturali nemici d'ogni vi-
ver civile, il precipuo ostacolo a constiUiire un principe. Conveniva a
questo usare astuzia coi grandi, deprimendo la nobiltà di fallo per
crearne poi una di diritto; usare severa giustizia col popolo, per po-
ter divenirgli umano e benefico in appresso. Così le leggi si sareb-
* Nel Discorso stilla Riforma di Firenze.
- Nel lib. I, cap. 41), dei Discorsi. Vedi anche il liL. Ili delle Storie fio-
rentine.
XX CONSIDERAZIOM
bero ordinale secondo il ben pubblico, non secondo l'ambizione di
pochi; e la le;;p;e avrebbe comandalo e non ruomo, come pur vo-
leva il Segrelario. Per mala sorle dell'Italia, deslinaia allora a pas-
sare da sialo callivo in peggiore, anzi pessimo; e io Firenze sollo
Cosimo e don Francesco, e in Lombardia e nel regno di Napoli , l'in-
fluenza spagnola fece prevalere invece i privilegi dei pochi al pub-
blico bene; onde comandò l'uomo, e non la legge. Dove il Segrelario
consigliava dì promovere il commercio, questo venne dislrullo;
dov'egli voleva che alle armi mercenarie sollenirassero le nazionali,
in cui si fonda la vera polenza degli Slati, sollenlrarono le spagnole,
che , congiuntesi alle mercenarie, resero quesle ancor peggiori di
prima, come dimostra Guicciardini, e recarono all'Italia l'estrema
desolazione, segnatamente col sacco di Prato e con quello di Roma.
Ben meglio per mia fé' sarebbe stato l'ascoltare invece i consigli di
Machiavelli!
• Non so poi come l'autore dell'articolo potrebbe provare che di
là dall'Alpi la guerra, quantunque fosse un mestiere, non era però
un mercimonio, e che l'uso d'arrolare soldati mercenari divenne
generale in Italia quando era ancora sconosciuto nelle altre contrade.
Hobertson* osserva che i re di Francia, considerato che nelle guerre
cogli Inglesi gli eserciti fe^jdali mostraronsi inetti all'attacco ed alla
difesa delle città • dei castelli, tra per questo motivo e per ollcncre
la forza permanente ed effettiva che occorreva in quelle prolungale
contese, assoldarono numerose bande mercenarie, levate tulvolia
fra i propri sudditi, tale altra in stranieri paesi; il quale esempio fu
^oi imitato dagli altri regni europei. Lo stesso Carlo Vili, quando
passò in Italia, aveva nel proprio esercito un buon numero di mer-
cenari svizzeri ed italiani. Che anzi, a dir vero, l'uso di siffatte armi
di là dall'Alpi e dal mare è molto più antico ch'io non accenno. As-
serisce Ilaliam' che se ne ha memoria sin dai tempi di Canuto il
Grande. Ne stipendiarono in Inghilterra Guglielmo il Conquistatore,
Guglielmo il Rosso e il re Giovanni, in Francia Filippo Augusto; ed
anche nella celebre ballaglia di Crécy combattevano molli mercenari
italiani. Furono codeste armi un intermedio tra la feudalità e la cen-
tralità dei poteri; perchè, come si disse e come avverte anche Hai-
lam, chi aveva denaro era certo d'aver guerrieri più sicuri e fermi
che non fossero i nazionali; e perchè, conforme soggiunge il mede-
simo scrittore, se pur talora riescivano licenziosi o di manchevoi
bravura, l'illimitata devozione, ancor più che il coraggio e la disci-
plina, gli rendeva accetti ai principi, i quali d'altra parte polcan le-
* Storia di Carlo V imperatore.
^ L' Europa nel medio etv.
SUL LIBRO DEL PRINCIPE. XXI
mere a ragione l'indipendenle spirilo d'un esercito feudale. Ne queste
osservazioni erano sfuggile ai contemporanei di Machiavelli: assai
prima di Hallain e di Robertson aveale falle Guicciardini; il quale
soprappiù osservava: « Che perciò appunto molli re aveano alleso a
disarmare ed alienare i popoli dagli eserciù militari; onde i Francesi^
non confidando più della virtù dei fanti propri, si conducevano timi-
damente alla guerra, se nell'esercito loro non era qualche banda di
Svizzeri. » *
Senonchè si risponderà, che se l'uso di siffatte armi- erasi ab
antico introdotto anche ollremonti, l'Italia ne differiva in ciò, che
codesto uso vi era generalmente adottato e da principi e da repub-
bliche, e quindi vi si guerreggiava quasi senza far sangue; di che fa
pur fede Machiavelli nelle Storie fiorentine e nel Principe. Ma, la-
sciando anche slare ciò che del sangue sparsovi dice in contrario
l'Ammirato, e la grave armatura d'allora che assicurava dalle ferite,
n'eran forse cagione le abitudini mercantili, come vorrebbe l'autore
dell'articolo? 11 Piemonte, lo Slato Pontifìcio, il regno di Napoli,
aveano anch'essi i loro mercenari, quantunque fossero feudali; feu-
dalissimoera il terzo di que'dominii,che pur rimase senza difesa con-
tro le armi francesi ed aragonesi. Oltre di che, per la verità, quando
si pensa ai Veneziani che furono gl'Inglesi del Medio Evo, ai Geno-
vesi e ai Pisani, deditissimi alla mercatura, i quali col valore dell'armi
loro occuparono Costantinopoli, la Morea, Candia, Scio, la Crimea,
la Corsica e la Sardegna, tenendo fronte agl'Infedeli, e combatten-
dosi gli uni gli altri con orrenda furia in tante guerre marittime; non
si può credere che il commercio riduca al meno le virtù militari.
« Queste guerre, dice Hallam, messe a ragguaglio coi fatti guerre-
schi della medesima età, sono veramente più splendide e più sangui-
nose, e dimostrano uguale arie e bravura. » Hanno abitudini seden-
tarie gli agricoli avvezzi ad un tranquillo genere di vita ed a veder
vicini e pronti i ritorni dei capitali; e quinci è che alla loro confidente
natura tulli i governi son buoni, purch'essi siano tranquilli. Ma la
vita del negoziante è piena di pericoli, di movimento e di attività;
desto il tengono sull'andamento degli affari pubblici le sue vaste,
lente e lontane intraprese; ogni accidente politico lo interessa, e di
frequente lo agi,ta e lo turba: e tali erano effettivamenlre Ira il se-
colo XV e il XVI i Toscani ed altri popoli d'Italia: ora per impeto
licenzioso prorompevano a sanguinosi fatti, ora per paura tacevano,
ma sempre stavano in orecchi ed in sentore. Perchè vi si fosse effet-
tuala la decrepitezza che l'autor dell'articolo accenna, e ch'egli non
dubita di pareggiare a quella dei Greci del tempo romano, sarebbe
* Lib. II, cap. 5, delle Storie,
XXII CONSIDERAZIONI
Sialo mestieri, che codesti popoli, al pari dell'antica Grecia, avessero
pia percorsi tutti i fjradi della loro civiltà, o che oramai sicuri da
interne ed esterne offese, avessero al pari dei Veneziani del secolo
scorso abbandonalo il commercio per darsi all'agiata ed oziosa vita
del patrizio proprietario , che , riposandosi in su l'inceria fede d'un
agente, stima arte meccanica tutto ciò che non gli ricordi le sue pos-
sessioni e il fasto e la vanagloria. In tale stato dì cose, fruito d'una
lunga non mai inierrolia e torpida pace , col cessare dell' antago-
nismo delle passioni e della lotta delle idee, che per la legge essen-
ziale dei due contrari mantiene l'ordine generale e la vita degli enti
fisici e morali, sarebbevi cessato, come in Venezia cessò, quanto di
vitalità, di lumi e di virtù vi fosse slato dapprima. Per lo contrario,
le repubbliche italiane dell'eia di Machiavelli non erano giunte che
al primo passo dell'incivilimento, cioè a quello delle Lettere e delle
Arti, e dei primi studi dell'antica sapienza; il che congiunto al mo-
vimento industriale e mercantile, ricordato di sopra, veniva a pro-
durre Il primitivo fiore della moderna civiltà europea.^ E se la fu-
nesta influenza spagnola, spegnitrice d'ogni lume e d'ogni virtù, col
pervertire il buon gusto, le idee e le tendenze degl'Italiani, e col
distoglierli dalle abitudini industriali dei padri loro, per sosliluir-
vene di oziose, fastose e ridicole, non avesse arrestato e reso retro-
grado quel primo passo, ai fiori d'una sì bella e promettente pri-
mavera sarebbero successi i frutti. Dagli avvenimenti del 1530, e non
da una maturità primaticcia, provenne la decre()ilezza affrettata delle
repubbliche e degli altri Stati d'Italia. D'altra parie, se le repubbli-
che e gli stati che precedettero quell'influenza, non faceansi una
vera guerra, né tampoco stavano in pace: e come l'avrebber potuto
fra quelle emule signorie, fra i timori, gli odii, i pericoli, le reazioni
e le perpetue discordie? e // passaggio ad un viver molle e codardo,
dice Romagnosi, non conveniva ai (empi: sarebbe slato troppo preci-
pitoso ed inconciliabile con altri fatti di quella età. »
E veramente, coloro che congiurarono contro Galeazzo Sforza e
contro Lorenzo e Giuliano de'MedicI (come si legge nelle Storie fio-
rentine) ^se furono empi e traditori, non manifestarono meno un vio-
lento coraggio; il quale anzi accostavasi a temerità, considerato il
luogo in cui eseguirono quelle congiure, l'estremo pericolo a cui si
esponevano, e gli ostacoli che doveansi superare per condurle a fine.
• Se mai , dice il Segretario,* i« alcuna faccenda si ricerca l'animo
grande e fermo , e nella vita e nella morte per molte esperienze riso-
* Hallam chiama la (ine del secolo XV « aureo mallino della italiana
sapienza. •»
' Kelle morie.
SUL LIIÌRO DIiL PRINCIPE. XXIII
luto, è necessario averlo in questa, dove si è assai veduto agli uomini
nell'armi esperti e nel sangue intrisi l'animo mancare. » Quindi ap-
pare se un Italiano di qua' tempi scansava i pericoli con un accor-
j,'imento pusillanime, secondo che vorrebbe l'autor dell'articolo.
Aperte, violenti ingiurie furono queste, non segrete e timide. La ge-
nerosa franchezza di Lorenzo de' Medici , il quale per salvare il suo
popolo dai mali d'una guerra ch'era fatta a lui solo, va egli stesso
a trattar della pace in Napoli, rimettendosi nelle braccia d'un perso-
nale e potente nemico; le resistenze di Pisa, di Firenze e di Siena;
papa Giulio II assai più guerriero che pontefice; e la grande audacia
di Piero Capponi , che innanzi agli occhi d' un re di Francia , già
vittorioso e con tanto esercito pieno di feroci nazioni, straccia gli
immoderali capitoli che proponevansi alla sua patria; bastano, io
credo, a fornirci di chiarire, che fra gl'Italiani di quella età non
erano cosa nuova né strana ì caratteri alteri e violenti. Non so se il
re Carlo nella sua feudale Francia avesse veduti esempi simili a
quello dell'impetuoso ed audace Fiorentino. Certo egli, alla lesta del
lìore della feudalità francese, pur tremò fra quel popolo di mercanti,
come abbiamo da Guicciardini, lo già non dirò che in Italia si
abbondasse allora di virtù rr.ilitare : leggo in autori gravissimi il
contrario; ma ne anche posso indurmi a credere che vi fosse spenta.
La disfida di Barletta, per cui la vanità di Francia fu costretta a chia-
marsi vinta dal valore italiano ; le Bande Nere di Giovanni de'Medici,
chiaro esempio di forte ed agguerrita milizia, per cui, come dice il
prefato istorico , apparve molto la ferocia e la virtù del capitano ed
il valore dei fanti italiani; Gian Giacopo de'Medici, e gli altri capi-
tani di ventura, un Alberico da Barbiano, un Iacopo dal Verme, i
Bracceschi, gli Sforzeschi, i quali con eserciti italici formarono una
nuova scuola militare, che, al dire- dell' inglese Hallam, tolse il lume
ad ogni altra di fuori , ne sono evidente e gloriosa prova. Mercenarie
ma italiane erano codeste armi , che ristorarono fra noi l' arte della
guerra, già invilita per le armi mercenarie d'Ing4)ilterra, di Bretta-
gna e di Provenza. « Se coloro fossero stati duci d'un dato Stato,
avrebbero giovato alla consolidazione d'Italia, » dice Romagnosi.
Il mercimonio della milizia, generalizzato in Italia, non era un
peccato di popoli, ma di principi e di repubbliche. I primi lo intro-
dussero per gelosia del popolo, di cui volevano soifocare la libertà,
e dei nobili che ricusavano di piegare il collo ad un loro eguale; le
seconde, o pel tiaiore di far sorgere un tiranno, siccome appar
chiaro in Firenze, o per la politica di non accordar comandi di terra
ad un patrizio in un governo, nel quale il nome collettivo doveva' es-
ser tutto ed ogni nome individuale esser nulla : il che accadeva in
XXIV C0?iSIDERAZ10NI
Venezia. Ma senz'armi proprie, senz'armi cilladine non può sussi-
itSlere una sicura indipendenza; e quindi procedeitero i mali enormi
della passala di Carlo ViU, e gli altri che poi avvennero in così lunga
serie. E a ciò avvertiva il Segretario quando scriveva: « Chi disse,
che di questo eran cagione i peccati nostri, diceva il vero ; ma non
erano già quelli che credeva; e perchè gli erano peccati di principi ,
ne hanno patito la pena ancora loro. * • E nell' ultimo rapitolo del
Principe più chiaramente il dimostra con queste parole : « In Ilaìia
non. manca materia da introdurvi ogni forma. Qui è virtù grande nelle
membra, quando la non mancasse nei capi. Specchiatevi nei duelli e
nei congressi dei pochi, quanto gli Italiani siano superiori con le fone:
ma , come si viene agli eserciti ; non compariscono , e tulio procede,
dalla deboleua dei capi. > Né differentemente ne pensava 11 gran
Consatvo, quando poco prima della disfida di Barletta fu udito dire: ^
e Che se Italia era da pochi anni in qua slata corsa da eserciti fo-
restieri, erane stata cagione non altro che la imprudema de' suoi prin-
cipi, i quali, per battere V un l'altro, l'armi straniere chiamale
aveano. > in conclusione, la pace, l'ignavia, la debolezza italiana di
quella età, erano soltanto un'apparenza che nascondeva una ben di-
versa realtà, come dimostravano le occasioni : era un fuoco sotto la
cenere, un vulcano latente, da cui a quando a quando uscivano
fiamme a manifestarlo. La gioventù della nazione appariva in quello
discordie, in quel movimento industriale e mercantile, nel progresso
delle lettere, delle arti e della ricchezza, il quale dalle spesse guerre
e dai civili risorgimenti non era arrestato nò rilardato; nei tanti fuor-
usciti politici, nelle fiere ed indomile indoli dcirAlviano, di Colombo,
degli Strozzi, di Zanobi Buondclmonti, di Luigi Alamanni, di Buo-
narroti, di Francesco Ferruccio, e nel fervido e manesco Benvenuto
(Sellini. Qual partito non he avrebbe cavato un principe, il quale,
superati gli ostacoli interni ed esterni , e raccolte con altri ordini po>
litici in un medesimo corpo sociale tante forze fìsiche e morali, che
disgregate o non riuscivano ad alcun bene o riuscivano a male, avesse
formato dell* Italia una sola nazione, una sola monarchia! Ciò pur
bramava il Segretario: ^ ma la trista influenza spagnola già già stava
per convertirvi il coraggio in viltà, l'industria in rovinosa indolenza,
io povertà la ricchezza, in decrepitezza e morte la gioventù. *
' Nel cap. i 2 del Principe.
• Vedi Guicciardini nelle Storie.
• Kel cap. 26 del Principe.
• La sola Toscana potè rialzarsi da un'oppressione di 60 anni, quando prr
opera, di Ferdinando granduca , cominciò a sottrarsi da quell' inlluenza : le altre
parti d'Italia vi soggiacquero assai più tempo.
I
SUL LIBRO DEL PRINCIPE, XXV
Vero è d'altra parte, clie a siffatte qualità pur troppo si accom-
pagnavano l'astuzia, l'ipocrisia e la frode; né da questo lato io so
dar torto all'autore dell'articolo. Ma egli erra poi soprammodo quando
afferma, che codesta moralità fosse propria esclusivamente degli Ita-
liani. Le memorie di que' tempi gliene danno una solenne mentila.
Ferdinando il Cattolico, quegli che pose fine al dominio dei Mori in
Ispagna, che la ridusse alla sua prisca unità , e promosse la scoperta
dell'America, fu altresì uno dei principi più falsi e più perfidi del-
l'età sua. Nella sua gloriosa corte le promesse erano un laccio, un
giuoco i giuramenti, un nome vano la fede; e così poco v' erano in
discredito la frode e l'ipocrisia, ch'egli stesso fu udito gloriarsi
d'avere ingannato più di dieci volte Luigi XH re di Francia. Il gran
Consalvo, educato a codesta scuola, non sdegnò di accoppiare al
suo alto valore le arti della perfidia; e ben ne dette un saggio quando
fece partire il duca di Calabria per la Spagna dopo aver giurato sul-
r Ostia Sacra eh' egli potrebbe ritirarsi dove bene gli paresse , e
quando abbracciò il Valentino prima di farlo ritener prigioniero. Noti
sono i veneficii di Riccardo III, i fraudolenti intrighi di Luigi XI, il
quale, come ben dice Hallam , se non fu l'inventore, fu certo il col-
tivatore più insigne di siffatta insidiosa destrezza. Ed anche Luigi XII
non fece forse un turpe traffico delle alleanze ? Gli stessi Borgia, le
cui colpe furono però esagerate, eran pure una famiglia spagnola.
Tant' è : la slealtà d'oltrementi uguagliava quella d'un Francesco
Sforza, d'un Lodovico il Moro, seppure non la superava; che anzi,
non che gli Italiani fossero altrui maestri del mancar di fede, poteano
apprenderlo dagli stranieri, siccome fece alla corte d'Aragona il
Guicciardini; per soprammercato traditi essi furono ben più che tra-
ditori. Ne sono una chiara prova la casa reale di Napoli, tradita da
Francia e da Spagna coll'inìquo trattato di Granata; Lodovico il Moro
abbandonato dagli Svizzeri; i Bresciani, indotti dal cardinale di Sion
a congiurare contro i Francesi , e poi da lui derelitti ed esposti al ri-
sentimento di Gastone di Foix. Tutto ciò mi pare che basti a per-
suadere, che le crudeltà provocate da fredde e profonde meditazioni,
e gli inganni e i tradimenti, erano propri così dello Spagnolo, del
Francese e dello Svizzero, come dell'Italiano. « Troppo coceva agli
stranieri di dover confessare negli Italiani la superiorità dell' intelli-
genza e della dottrina: quindi la rappresentarono come un vantaggio
necessariamente congiunto alla dissimulazione ed alla perfidia; ed ar-
rogandosi la palma del valore e della lealtà, lasciarono a quelli con dis-
prezzo il merito dell' accortezza e dell'astuzia. » Così dice Sismondi,
e dimostra come la mala fede degli stranieri non fu mai pareggiata
in quel tempo dai più diffamali politici dell' Italia. Era questa in-
XXVI CONSIDERAZIONI
somma una tendenza universale dell'età; e la superstizione del Medio
Evo, come avea prima sanliGcala la violenza, santificava adesso le
perfide macchinazioni. *
Or venendo a considerare donde provenisse codesta moralità,
di que'lempi{jeneralmente seguila in Europa, mi sembra dì trovarlo
nella reciproca debolezza dei baroni, dei municjpii, dei signori e dei
principi d' allora , congiunta alla decadenza della feudalità. Dove per
l'ordinario il potente è generoso e franco, il debole che pur voglia
ingrandirsi, raro k che non mescoli alla forza l'astuzia; altrimenti
con molta probabilità vi rovinerebbe sotto, e La perfìdia, la memo-
gna, i tradimenti, furono sempre il retaggio d'un'ambiiione sfornila di
prevalenti poteri , » dice Romagnosi.' Quando il Segretario scrisse :
• un principe deve esser volpe e leone : coloro che stanno semplice-
mente in sul leone non se ne intendono: » volle alludere alle condi-
zioni ed al conseguente procedere degli statuali di codesta età. La
lotta che variamente durava e imperversava tra quelle quattro po-
tenze, le indeboliva tutte quante. La nobiltà feudale, sì temuta e sì
gloriosa ne' suoi violenti principi! e nei tempi cavallereschi, ora per
r incremento dei comuni , per le introdotte artiglierie e per la pro-
gressiva potenza dei principi, o era depressa o avea perduta non poca
parte della sua maggioranza. Le milizie mercenarie e poi le nazio-
nali che già principiavano ad introdursi in qualche parte, soppian-
tando ed avvilendo le baronesche, aveano fatto perdere al patto feu-
dale, cioè alla fedeltà del servigio, la virtù primitiva; quella che
insieme collo spirito cavalleresco avea pur sostenuta la scadente lealtà
del Medio Evo. * I municipii eransi dove più dove meno arricchiti
ed armati, ma non poteano stare senza sospetto o dei nobili feudali,
o di quelli ch'erano sorti sulle rovine di questi, o dei piccoli signori
che rimpiazzavano i feudatari e ne imitavano i soprusi. Ed i principi
trovavano alle lor mire d'ingrandimento , di consolidazione e di cen-
tralità, tre forti ostacoli ora nei grandi, ora nel popolo, ora nelle pic-
cole signorie, di cui segnatamente abbondava l' Italia. Quindi veniva
con necessaria conseguenza il procedere detto di sopra : aiutavansi
il comun di Firenze e le altre repubbliche italiane coi loro Sccorlì
* L'autore dell'articolo della Bevne de Paris, gi'a mentovalo, confessa
anch' egli, che codesti erano viii dell' eia e non d'un paese; ma poi soggiun-
ge, che l'Italia se n'era fatta maestra agli altri Stati: il che io nego, ed
evidente ne è la ragione.
- Fattori dell' incivilimento»
5 Questa verità fu assai bene dimostrala da Hallam e da Cibrario , com' è
da vedersi al cap. V dell' Europa nel medio evo ì e al li!). I dcH' Economia
politica del medio e\'0.
li
SUL LIBRO DEL PRINCIPE. XXVII
oratori, che non si facevano coscienza dì mancar di fedeqnando oc-
corresse; cogli incanni e colle crudeltà usale a tempo procacciavano
di sbarazzarsi dei baroni e signorotti, loro perpetui nemici, papa
Alessandro e Cesare Borgia : simil condotta teneano coi castellani
d'Aragona e coi feudatari di Francia, Ferdinando il Cattolico e
Luigi XI; ed anche Arrigo VII, re d'Inghilterra, se non usò le arti
della perfidia , certo mostrossi assai artificioso nel preconcetto dise-
gno di soUevare sulla depressione della nobiltà inglese la prerogativa
reale.' Dovunque, insomma, uguali cause inducevano per diversi ri-
spetti ad uguali espedienti; ad esser volpe e leone.
Ma intanto, singolare e strana appariva veramente la condizione
dei tempi. Per la naturai legge del progresso, alla quale obbediscono
lutti gli enti e fisici e morali, la società, dove T incivilimento già
cominciava più o meno a produrre i suoi frutti , stanca dell'anarchia
feudale, delle risse civili e di tanti piccioli tiranni, abbisognava d'uno
stato sicuro e potente , a cui pure tanti ostacoli si attraversavano, e
quello dell'ambizione dei grandi era il maggiore. Decaduti come po-
tenza , eran costoro ancor terribili come opposizione ; né le vie di
correzione e di transazione poteano praticarsi con gente predomi-
nata da furti passioni e da forti interessi divergenti, e in una età
dove pur mancavano tanti elementi di civiltà e di moralità pubblica.
V impresa di abbatterli per sempre e di costituire una forza centrale
ed inconcussa, all'ombra della quale potessero gli Stali prosperare
ed ingrandirsi , era il bisogno dell' età ; perchè senza di quella non
avrebbe potuto esservi concordia civile, non pubblica quiete, né in-
dustria; quindi , né ricchezza, né civiltà. Orchi poteva soddisfare in
Italia ad un tale bisogno? Non certo i municipii, giacché i governi
democratici per la naturai diffidenza del popolo non hanno mai
un' energica podestà esecutrice ; ed oltracciò troppo deboli erano fra
tante forze nemiche, troppo esposti alle gare ed ai tumulti civili,
perchè fossero atti alla grande opera delta rigenerazione sociale. '
* Il cardinale Ximenes , che fra lo splendore della porpora e della gran-
dezza spagnola seppe conservare 1* austerità monastica , nella sua celelìre reg-
genza di Spagna fece anch' egli lo slesso. Vedi Robertson , Storia del Regno di
Carlo V imperatore , lib. I.
2 « Le vecchie libertà europee, dice Gaizot {Leeoni sur la Civilisation
europèenne ) , non avcano potuto dare alla società ne la sicurezza ne il pro-
gresso che pure costituiscono la vita sociale. Ogni sistema che non procacci
1' ordine nel presente e il movinnento verso l' avvenire , è vìsioso e bentosto
abbandonalo. Tali erano le repubbliche del secolo XV. Cercaronsi que'due
elementi in altri principii ed in altri m»zi, cioè in un sistema mena perico-
loso e meno popolare, il quale, anziché allargare, restringesse il cerchio deUe
insliluzioni. « . .^. k • • .» .^i» •"> ■ •
XXVIII CONSIDERAZIONI
Solo il poteva 1* energia, l'atiìviià, la costanza d'un potere indivi-
duale, che non scorj^endo osiaculi alla risoluta sua volontà, non
guardasse a destra nò a manca, e procedesse immiiiabile verso un
sol fine. Con le milizie di cui dis[»oneva, e con una provalenza sui
nobili, sui signorotti e sul popolo, la quale già si manifestava pel
precedente increaieuio di essa e per la decadenza di quelli, il prin-
cipato parca destinato a compiere la dispotica ma salutare e neces-
saria impresa. La forza legale non bastava contro inveterate prero-
gative ed usurpati poteri: conveniva ricorrere a mezzi straordinari e
terribili, se già non si voleva che le piaghe inpslolite * de^jli Stati si
incancherissero, e Finché i potenti non siano disarmati e posti nel-
V impossibilità di sottrarsi alle leggi, dice Romagnosi; * ^m/ié il po-
polo non sia alimentalo e sicuro, finché V amminislranone non sia
forte e moderata , sarà assolutamente impossibile di evitare or più or
meno le orride scene riferite dagli annalntt italiani. Coloro che aveano
la confideniM dei signori e sedevano net loro consigli, non ignoravano
non potere esistere fona signorile sema l'unione delle forxe singolari,
e che V unione di queste fnr%e viene operata soltanto dui tornaconto
comune; ma adorando il simulacro del potere, lo credettero un essere
necessario , al quale sagri ficar si dovesse ogni altra regola comune, ono-
rando soltanto la riuscita. Questa piega politica non era prodotta né
da ignofama, né dal rifiuto di eque leggi, ma dal bisogno d'una fona
accentrala e prevalente, che difendesse le persone, le cose e le civili
tnslituiioni. Il movimento ascendente era promosso dall'energia vitale
del popolo, e limitato o rintuaatv dai privilegi che non si erano pò-
tuti abolire. Qurst' ultima opera, la più ardua e la più indispensabile
di tutte, fu ridotta quasi a termine dulia possnma del principato , col
quale i potenti venivano in conflitto, nell'atto che per parte dei citta-
dini SI promoveva per quanto era possibile l'agricoltura, l'industria,
il commercio, le scienie e le lettere. Non é questa una congettura, ma
unfatlo.^* Vere e sapienti parole, le quali al tutto si combinano
con quanto io ne penso. Tanl' è : v' hanno nel corso dei secoli al-
cune condizioni sociali di così rea natura, che non si può rimediare
ad un male fuorché con un altro male. Talvolta le circostanze non
pur muovono, ma strascinano. Quul è il nocchiero che col getto
delle merci salvi in una tempesta il rimanente , tal era un principe
del secolo XV; e come, a giudizio di Sismondi e di Guizoi , era ne-
cessario ai corrottissimo ed invecchiato mondo romano che la bar-
■*'
' Espressioni di Machiavelli.
' Meli' opera dei FaUori dell' incivilimento , quando parla delle Signorie
italiane dei secoli XIV e XV.
SUL LIBRO DEL PRINCIPE. XXlX
barìe settentrionale il ringiovanisse, così nel tempo di cui par-
liamo, per una diversa ma non men trista faialiià, era mestieri
clie un Borgia o un Medici, un Ferdinando, un Luigi, adopras-
sero i loro terribili artilicii, per liberare il progresso sociale dalle pa-
stoie in cui trova vasi miseramente condotto, e gli dessero quello
sciolto andamento che la progressiva natura delle cose impeiiosa-
menle richiede. « L'Italia, come il resto dell' Europa , dice il pre-
lodato Guizot, dovea passare per mezzo ad una centralità dispotica
che ne avrebbe fatto un popolo , e V avrebbe resa indipendente dallo
straniero : » ed anche il dispotismo è necessario per quelle riforme
sociali che non possano essere secondate da una matura civiltà.'
Ora, in sififatte circostanze, qual altra mira dovéa proporsi il Se-
gretario fìorentino, se non era quella voluta dalla condizione de' suoi
tempi, che nissuno conobbe al pari di lui? Codesta politica che
stava per produrre una rivoluzione sociale, parmi che, se non sem-
pre'Cdi che vedremo le ragioni più sotto), certo nel libro di cui par-
liamo ed in altre scritture venisse pur consigliata da Machiavelli. In
una delle sue lettere a Francesco Vettori esorta egli i principi « a
fare della cittadinanza un medesimo corpo , sicché tutti non ricono-
scano che un solo sovrano , » e ricorda « la grande affezione del popolo
al duca Valentino, ottenuta nel modo ricordato di sopra ; le opere del
quale, egli dice, io imiterei sempre quando fossi un principe nuovo, i»
Nel capitolo 3 del Principe consiglia l'occupatore d'uno Slato «a
farsi cupo e difensore dei minori potenti, ed ingegnarsi d'indebolire t
più potenti di quello; » e dopo alcune altre parole soggiunge : « faciU
mente può coh le forze sue e con il favore dei minori potenti abbassar
quelli che sono potenti, per rimanere in tutto arbitro di quella proviti'^
cm.-Nel capitolo 7 di esso libro, dopo aver detto che learmr d'Ita-
lia erano nelle mani degli Orsini, dei Colonnesi e dei loro seguaci ,
dimostra com'era necessario a Cesare Borgia il turbare quegli or-
dini e il disordinare gli Stali di coloro: il che egli fece col disper-
dere quelli di casa Colonna , poi coir indebolire gli Orsini, guada-
gnandosi gli aderenti loro, appresso collo spegnerli Insieme coi loro
partigiani a Sinigaglia: in seguilo a che occupò la Romagna, e tro-
vandola essere stala comandata da • signori impotenti, i quali piuttosto
aveano spogliati i loro sudditi che corretti, e dato loro più materia di
disunione che d'unione; tanto che quella provincia era tutta piena
di latrodnìi, di brighe, e d' ogni altra ragione d' insolenza ; giudicò
fosse necessario , a volerla ridurre pacifica ed ubbidiente al braccio
* Ne a1)l)isognò infatti la Russia j e forse ne aliblsognerà l'Oriente.
2 Ciò pure aUenna e dimostra nel cap. 40, lib. 1, dei JJiscorsi saltt
Deche di Tito Livio.
XXX CONSIDERAZIONI
regio , darle un buon governo . ... e si guadagnò tutti i popoli, per
avere incomincialo a gustare il ben essere loro. » Ora gli Orsini, iCo-
lonnesi e i loro aderenti, che altro erano che i baroni e i signorotti
dello Stato Ecclesiastico, vivendo i quali, come già si vide, Tltalia
non poteva. aver pace? t Chi dunque, egli conchiude, giudica neces-
sario nel suo principato nuovo assicurarsi degli inimici^ guadagnarsi
amici, farsi amare e temere dai popoli, spegnere quelli che ti possono
0 debbono offendere, innovare con nuovi modi gli ordini antichi , es-
sere severo e grato , magnanimo e liberale , non può trovare più fre-
schi esempi che le a%ioni di costui. > E quali infatti furono quelli
eh' egli depresse e eh* ci sollevò ?
Nel capitolo 9 il Segretario ci signiflca evidentemente Io stalo
di cose in cui erano allora molte città italiche; dove, come afferma ,
trovavansi due umori diversi , i grandi desiderosi di comandare e di
opprimere il popolo, e questo desideroso di non essere oppresso.
Onde nasceva che talvolta, vedendo i grandi non poter resistere al
popolo, cominciavano a voltare la riputazione ad uno di loro, e lo fa-
cevano principe, per poter poi sotto P ombra sua sfogare il loro ap-
petito; e tal altra il popolo voltava la riputazione ad un solo, ve-
dendo non poter resistere ai grandi, e lo faceva principe, per essere
con Tautorità sua difeso. Nella quale alternativa, di cui si era veduto
più d*un esempio, egli consiglia il principe nuovo ad occupare il
principato col favore del popolo, anziché con quello dei grandi; e se
anche divenga principe col favore dei grandi, cercare innanzi ad ogni
altra cosa di guadagnarsi il popolo: e fra le varie e savio ragioni che
De adduce e che vi si possono vedere, giova qui ricordar questa,
che non si può con onestà soddisfare ai grandi e senza ingiuria d'ai-
tri, ma sibbene al popolo; perchè quello del popolo è più onesto fine
che quello dei grandi, volendo questi opprimere e quello non essere
oppresso. Sembra che Machiavelli non vedesse altra via per sedare
quei diversi umori, fuorché un principato, il quale si fondi sul-
l'amore del popolo e sulla depressione dei grandi; come fecero ap-
punto i Gonzaga, i Medici, gli Estensi,'! Borgia, sotto i quali tutti,
ed anche sotto gli iniqui fra essi, il popolo prosperava. Nel cerchio
fatale dove, secondo lui, si rigirano le umane società, la licenza
loro, se già non volevano divenir suddite d'uno stalo vicino, aveva
necessariamente a rifuyjgire sotto l'ombra del principato. 11 quale
cerchio, se veramente non si eOfetlua, a buon conto Machiavelli così
pensava. *
La sopraddetta mira si manifesta ancor più nel capitolo il , in
cui ricercando il Segretario, donde venisse che la Chiesa nel tempo-
< nel lib. I, cap. 2, dei DiscorsL
StJL LIBRO DEL PR^CIPE. ^XXI
rate fosse venuta a tanta grandezza, che, dove da Alessandro indie-
tro i potentati italiani, anzi ogni barone o signore, quanto al tem-
porale la stimava poco, allora un re di Francia ne tremava, ci avverte
« che i di lei nemici a tenerla bassa servivansi dei baroni di Roma,
cioè degli Orsini e Colonnesi, i quali, stando coli' armi in mano in
sugli occhi del ponleficey tenevano il pontificalo debole ed infermo. »
E soggiunge: « benché sorgesse qualche volta un papa animoso, come
fu Sisto, pure la fortuna o il sapere non lo potè mai disobbligare da
queste incomodità; onde le forze temporali del papa erano poco sti-
mate in Italia. Sorse dipoi Alessandro VI, il quale coli' istrumento
del duca Valentino fece tutte le cose ch'io ho discorse di sopra; e ben-
ché l'intento suo non fosse di far grande la Chiesa ma il duca,, non-
dimeno ciò che fece tornò a grandez^ia della Chiesa, la quale dopo la
sua morte, spento il duca, fu erede delle fatiche sue. Venne dipoi
papa Giulio,, e trovò la Chiesa grande, avendo tutta la Romagna, ed
essendo spenti tutti i baroni di Roma, e per le battiture di Alessandro
annullate tutte le fazioni. » E seguita mostrare, come quindi ad
esso papa Giulio sì aperse la vìa ad accrescere di denari e di do-
minio la potenza ecclesiastica. Or lo domando: e non par qui dì ve-
dere un altro Luigi XI, il quale 'coir indebolire i grandi, e poi spe-
gnerli 0 deprimerli, fece quello che fu fatto da papa Alessandro?
Certo, questi il faceva per ingrandire la propria famiglia piuttosto-
ìhè la Chiesa; ma Luigi il facea forse per la mira generosa del bene
■della nazione francese, o pel bene proprio, perla propria ambizione?
Il flne immediato d'ambedue fu l'egoismo; ma da siffatto egoismo
sorse a nuova vita il regno di Francia , come principiò a sorgerne lo
Stato Ecclesiastico, poiché ne furono battuti i baroni, i quali, come
dice il Giovio, erano chiamali ceppi dei Pontefici.* Senonchè, come
già si disse, il mal seme non ne fu tolto: le insolenze baronesche e
le piccole tirannidi ripullularono a guisa dell'idra, le cui leste non
poteano esser tutte troncate che dal principe di Machiavelli; il quale,
giusta le cose dette, non avrebbe mai potuto mandare ad effetto
l'impresa ideata dal Segretario, se prima non troncava tutte quelle
teste.
E là dove pure nel libro istesso Machiavelli esorta il principe a
fondare la sua potenza in su l'armi proprie, impossibili ad aversi
* La setitenzd d* Adamo Smitb , che le mire più personali ed ignobili
hanno partoriti gli effetti più salutari , mi sembra profondamente vera , e che
sparga molta luce sul presente argomento. Oltre la prova eh' egli ne adduce
nel lusso de' feudatari che ne diminuì la prepotenza, io soggiungerei: e i
comuni dell' Inghilterra non debbono forse la loro franchigia e l' esistenza al
bisogno che aveano i re dei loro sussidi? — Bene il dimoiUò Hailam.
e*
XXXII CONSIDERAZIONI
senza una centralità di poteri e senza formare, collo spejrnere la pre-
potenza dei Grandi o feudali o condoUien di milizie, una tanieria cit-
tadina, eh' è la nazione dei campi; là dove lo consi};lia a farsi amare
dai pop')li anziché a maniener fazioni e fortezze, a balere i pochi e
aver dalla sua l'universale; e quando propone T esempio di Ferdi-
nando il Cattolico, tanto nemico ai baroni, sopra i quali, come dice,
acquistò riputazione ed imperio; quando biasima il re di Nupoli ed il
duca di Milano, perchè non procacciarono di avere amici i popoli ed
assicurarsi dei grandi; non manifesta ej? li i medesimi principii? In
conclusione, il contesto del libro del Principe c\ fa palese il pensiero
di ridurre in atto il disegno dei principi di quella età , coir abbassare
la fortuna dei grandi, col rendere docile, unito e soddisfatto il po-
polo, e col procurare allo Stato una potenza centrale.
Senonchè i pensieri di Machiavelli non furon sempre monarchici:
nel Discorso sulla riforma di Fireme e in parecchi capitoli dei Dis-
corsi sopra Tito Livio egli manifesta eziandio una tendenza repub-
blicana, segnatamente per ciò che concerne la sua patria. Né tampoco
si può dire che fosse contrario in lutto ai gentiluomini; perocché,
se dair un canto afferma quivi < « che in Romagna , in Terra di Roma,
nel regno di Napoli e nella Lombardia essi eran nemici d' ogni civiltà,
onde vi bisognava una mano regia che ponesse freno alla loro eccessiva
corruttela; > per altra parte asserisce pure' < che colui il quale , dove
sia assai egualità , voglia fare un regno , non lo potrà mai fare, se non
trae di quella equalità molli d'animo ambizioso e inquieto, e quelli fa
gentiluomini in fatto, donando loro castelli e possessioni; acciò posto
in meiM di loro , mediante quelli mantenga la sua potenza , ed essi me-
iiante quello la loro ambiiione. »
Ricercando or dunque il motivo di codeste varietà del Segretario,
per cui ora apparve fautore di principali, ora di repubbliche, ora volle
deprimere i gentiluomini castellani, ora introdurli, io stimo di tro-
varlo nella slessa natura della di lui politica. Per poco che uno si dia
ad osservarne le azioni e gli scritti, si accorge di leggieri, eh* egli
era V uomo delle circostanze, il quale variava col variare di quelle;
ma , non che il suo vario procedere nascesse da debole o volubile in-
gegno o da turpe egoismo , egli lo reputava richiesto dall' utile pub-
blico, e in esso riponeva la maggiore virtù politica. Rideva degli uo-
mini speculativi, i quali sognan repubbliche e principati che non si
sono mai visti né conosciuti: voleva andar dietro alla verità effettuale
della cosa piuttostochè all' immaginazione di essa, e non lasciare
quello che si fa per quello che si dovrebbe fare: affermava, essere
* Nel lib. I, cap. 65, dei Discorsi,
t Ibidem.
I
SUL LIBRO DEL PRINCIPE. XXXUI
mollo discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere: coi due
opposti est'iìipi di Pier Soderini e di pupa Giulio II diinosiiava che
a voler sempre avere buona fortuna , conviene riscontrare il modo del
procedere suo coi tempi. * PerUmto queste istesse raj;ioni, che nel
Principe gli fecero vari;ire i consij^li secondo che si tratti d' un prin-
cipato ereditario o misto o nuovo al tulio, e che anche nei Discorsi
lo indussero a cangiare il tenore ne' suoi precetti colcangiarsi degli
accidenti, queste istesse lo mossero alle varieià di cui parliamo. Se-
gretario qual fu, per tanti anni e con tanto zrlo, d'una repubblica
democratica, egli ebbe per l' ordinario una tendenza repubblicana;
ma non sì, che giusla gli esposti principii il variare delle circostanze
non la variasse. Nel tempo della sua legazione a Cesare Borgia, gli
parve che quest'uomo, il quale a tristi qualità univa mollo valore,
molta perizia politica e fermezza, tra pel sostegno dell'armi francesi
e delle ecclesiastiche , e pel concorso di favorevoli congiunture, fosse
il solo che potesse ridune l' Italia sotto una sola signoria , e purgarla
dalle vecchie magagne di quei baroni , di que' piccoli signori o li-
ranni, di quelle perpetue fazioni, e, quando che fosse, liberarla al-
tresì dalle scorrerie e dominazioni straniere. Il contesto della detta
Legazione e del libro del Principe ^ mi pare che ci chiarisca, essere
a Machiavelli o prima o poi entrato nell' animo codesto pensiero, e
che egli vi abbia per qualche tempo fatto su fondamento: massime
il capitolo settimo e il ventesimosesto il danno a diveder chiaramente.
Che quello poi fosse il disegno del Valentino, non può rimanerci in
forse, considerato quanta fosse la dì lui ambizione, quanta la po-
tenza, e quali Stati agognasse l' anno islesso che morì papa Alessan-
dro. Basti il dire, che questi avea già proposto al sacro collegio di
conferirgli il titolo di re. Ma V esser morto suo padre nel tempo eh' ei
purè trova vasi malato a morte, fu la rovina sua; al che allude il Se-
gretario in un luogo di quel capitolo dove esorta il suo principe a
farsi capo della redenzione d' Italia: • benché ^ egli dice , in fino a qui
si sia mostro qualche spiracolo in qualcuno, da poter giudicare che
fosse ordinato da Dio, nientedimeno si è visto dappoi, che nel più alto
corso delle albioni sue è slato dalla fortuna reprobato: » le quali pa-
role forniscono di manifestarci qual fosse l' intendimento e di Ma-
chiavelli e di Cesare Borgia.
Mancalo questo spiraglio, e non vedendone alcun altro, Machia-
velli riprese i consueti pensieri repubblicani. Poi, quando i Medici
furono rimessi in istato, e tanto prosperarono nella prosperità di papa
* Vedi il Principe, cap. ib e altrove j i Discorsi, lili. Ili, cap. 9.
2 Vedi inoltre il Discorso Del modo di tratiare i popoli della Val (tt
Chiana,
XXXIV CONSIDERAZIONI
Leone, gli parve di scorgere un allro raggio di speranza dapprima in
Giuliano, appresso in Lorenzo, duca d'Urbino; il quale, già imparen-
talo colla Casa reale di Francia e divenuto signore di Firenze, erasi
dato ad ambiziosi disegni e ad ardile speranze; e, come dice Roscoe,<
< si supponeva, e forse non sema ragione, che col soccorso di Leone X
e del monarca francese intendesse impadronirsi di Siena e di Lucca ,
ed unendo a questi Stati il ducato d' Urbino è lo Stato pure di Firen-
%e , stabilir per tal modo un dominio esleso dall' una all' altra costa
d' Italia. B Io dubito eh' egli vi avesse T altitudine del Borgia; ma ad
ogni modo, ne pareggiava la vastità delle mire d' ingrandimento; e
se fosse vissuto più a lungo, e papa Leone lo avesse secondato , chi
sa s'ei non vi sarebbe riuscito? Certo, il Segretario non ne dispe-
rava in quell' auge della fortuna pallesca ; e ben Io dimostra nel
preallegalo capìtolo,' dove effettivamente esorta Lorenzo alla grande
Impresa ed a seguire l'esempio del Valentino. L'Arlaud non crede a
quella esortazione, affermando che molte volle il pensiero non va
così lontano come le parole; che Lorenzo, pel suo mal fermo stato di
Firenze e per la corta vita dei pontefici , non polea concepire un sif-
fatto disegno; e che Machiavelli, alla (ine, avea mandato a quel
principe il suo libro n^n per divolgarlo, ma per lui solo, e non per
altro che per averne un impiego. Ma io per Io contrario ho multe
prove a credere che quivi egli facesse da vero. Prima cosa, parec-
chie delle difficoltà che aveva papa Alessandro a voler far grande il
Duca suo figliuolo, cioè di non poterlo farsignore d'alcuno Stato che
non fosse Stato di Chiesa , e dell' essere alcune città di questo sotto la
protezione del Veneziani, non le aveano papa Leone e Lorenzo: lo
Stalo di Firenze costituiva per sé medesimo un potente dominio, e
la generosità dì Leone verso i nemici della sua famiglia gli aveva af-
fezionali gli animi dei Fiorentini; giovine era il ponlelice e potente
per gli acquisti di papa Giulio , ai quali egli aggiunse Urbino , Modena
e Reggio; e già, come abbiamo da Guicciardini e da Roscoe, me-
diante l'alleanza francese avea fallo disegno sopra Ferrara, Parma e
Piacenza, sopra tutta la Toscana e sul Regno di Napoli; né fu lon-
tano dal pensare a liberar l' Italia dalla dominazione straniera. Ben-
ché interrotto dalle circostanze, manifesto appariva in lui a quando
a quando anche il pensiero di ingrandire la propria famiglia ; ^ tal-
< iftor/a del Pontifcato di Leone X.
■ Ventesimosesto.
' La tenerezza che Leone avea mostrata per promuovere l'avanzamento
del di lui nipote, e i modi dispendiosi e pericolosi ai quali avea ricorso
per questo fine, sono pure dichiarati da Roscoe. Vedi la Storia del Pontif-
calo di Liont X. Vedi ancha il Muratori, Àtmali d' Italia, anno i514.
SUL LIBRO DEL PRINCIPE XXXV
che, se pur contradisse talora ì vasti concelti di Lorenzo, sembra
che noi facesse per altro, se non perchè i tempi non ne erano per
anco maturi. In breve, l'impresa non appariva superiore alle forze
dei Medici: voglioso erane il nipote, non alieno lo zio; molte parole
ovunque ne correvano: qual maraviglia che Machiavelli la giudicasse
probabile? Il desiderio di veder sorgere chi guarisse l' Italia dalle sue
piaghe infistolite , e vi ponesse fine agli stranieri insulti , desiderio di
Dante, di Petrarca e di parecchi altri, non era per ancora estinto fra
gl'Italiani dalla dominazione spagnola: papa Giulio II, che il nutriva
con ardente animo, fece il potere per mandarlo ad esecuzione, e noi
depose che con la vita; ed anche l'Ariosto * ne dà dei barlumi: or
come poteva esservi straniero il Segretario , che nel trattare e di sto-
ria e di politica e di guerra non sapea mai dimenticarsi la gloria e
la grandezza romana , sospirando il ritorno di que' tempi in cui l' Ita
lia, anziché riceverla, dava legge al mondo? Il gran principio della
centralità, senza di cui uno Stato non può né prosperare né soste
nersi a lungo, non era ignoto a quel robusto intelletto, come appare
da parecchie delle sue scritture; e quando nei Discorsi afferma * « che
alcuna provincia non è mai unita a felice , se la non viene tutta al-
l' obbedienza d' una repubblica a d' un principe , cnm' è avvenuto alla
Francia ed alla Spagna, » e sì duole « che l' Italia non sia in quel me-
desimo termine , » dimostra evidentemente eh' egli le desiderava un
principe del fare di Ferdinando il Cattolico; di Ximenes e di Luigi XI.
E la sua Arte della Guerra, in cui non meno che nel Principe e nei
Discorsi egli esorta i governi ad avere armi proprie e buone fanterie,
non rivela forse in lui la speranza di suscitare un futuro conquista-
tore italiano che soggiogasse tutti gli Stati d' Italia e la liberasse dalle
invasioni straniere ? « Qualunque di quelli che tengon oggi Stati in
Italia, egli vi dice,' prima entrerà per questa via , fia prima che al-
cun altro'signore di questa provincia . . . Essa par nata per risuscitare
le cose morte, come s'è visto della poesia, della pittura e della scul-
tura . . . interverrà a questo Stato come al regno dei Macedoni sotto
Filippo e sotto il figliuolo. » Lo stesso calore persuasivo del celebre
capitolo che andiamo esaminando, calore il quale non poteva essere
infuso nell'animo che da un vero e forte sentire, sempre più ci con-
vince di quanto asserisco; e ce ne fa por giù ogni dubbiezza il vedere
proposto ad esempio del principe nuovo, eh' ei volea formare in Lo-
renzo, il duca Yaleniino; il quale, come si vede e come dice il Se-
* E Gianantonio Flamminio , e Polidoro Vergilio nel libro De Prodigiist
dedicato a Francesco Maria, duca d'Urbioo.
2 Lib. I, cap. 12.
» In fine.
XXXVl CONSIDERAZIONI
greiario, avrebbe redenta l' Italia , se non lo avesse reprobato la for-
tuna. Codesto esemplare aveva insieme con papa Alessandro princi-
piata e quasi condutla a fine in Romagna V impresa di Luigi e di
Ferdinando.*
Ma, quandacol mancar di Lorenzo mancò ancor questo secondo
spiraglio per la redenzione italica, altri concetti dovettero natural-
mente entrare nella mente di Machiavelli. Per la morte di quel prin-
cipe, il pontefice trova vasi il solo maschio legittimo della discendenza
di Cosimo; e, conforme osserva il Segretario istessu nei Discorsi,* « la
Chiesa, che teneva imperio temporale in Italia, non era si potente né
di tal virtù, che ne potesse occupare il restante: » e di fatto, se un
papa esser poteva in istalo di procacciare ad un Aglio, ad un nipote
il dominio dell' Italia , secondo che fu visto per F esempio di Alessan-
dro VI , non pare che il potesse acquistare per sé: « /a dignità pontifi-
cia, come avverte Roscoe, era difficilmente compatibile coli' assumione
e coli eterciiio d' un tal potere. » Ditrerenii circostanze suscitarono
adunque in Machiavelli differenti pensieri.- Nulla essendo più ormai
del pensare z ridurre V Italia sotto una sola signoria, le cure e le
sollecitudini di lui concentraronsi tutte nuovamente in Firenze; e pa-
rendogli di trovarvi una grande equalità, com'egli pur dice, sicché
facilmente vi si potesse costituire una repubblica, nel Discorso sulla
Riforma di Fireme, ch'egli compose ad istanza di Leone X, lo Irò-
viam pendere manifestamente io animo repubblicano, t Essendo ve-
nuta, egli dice, la cosa in termine, com'è per la morte del Duca
(cioè di Lorenzo de* Medici) , si ha da ragionare di nuovi modi di go-
verni ; > e più sotto: • quanto ni principato, io non la discorrerò par-
ticolarmente, si per le difficoltà che vi sarebbero a farlo, si per esser
mancato l' istrumento (il Duca predetto): » ne divei*so egli si m(»s(ra
in alcuni capitoli dei Discorsi. Che fusse in Firenze tanta eqiialiià da
potervi inlrudur facilmente un viver civile, secondo che atTerma il
Segretario, io ne dubito forte, giusta quello che ne dissi di supra;
anzi, a dir vero, egli stesso, nel capitolo cinquantesiinoquinto del
libro primo dei Discorsi, mi pare che venga a contraddire quanto in
tale proposito avea detto nel capìtolo quarantesimonono e nel /dis-
corso sulla Riforma di Firenie, dove parla del predominio che avea-
no le parti in essa città, le quali iniprdivanla dell'avere uno stato
che potesse veramente chiamarsi repubblica : il che io pure dimostrai
* Il celebre Ranke , nella sua Critica di alcuni storici moderni, opina an-
ch' egli che il pensiero di Machiavelli fosse quello di salvar i' Italia mediante
il vigoroso dominio di un sol uomo; e che perciò coa6dossi in Lorenzo dei
Medici , di fiero e risoluto carattere.
S Mei Uh. 1, cap. 13.
SUL LIBRO DEL PRINCIPE. XXXVil
nel luogo accennalo. Ma ciò sia dello così per iransito: baslimi che
Machiavelli a seconda delle circostanze ora fu ordinalore di princi-
pali, ora di repuhbliche. S'io m;»l non mi appungo , era in lui un'al-
lernazione di amore per la repubblica , e di amore per l' indijiendenza
italica da effettuarsi per mezzo dell' unità monarchica ; gli avveni-
menti risvej^liavano or questo affetto or quello; ora sorgeagli in
mente il fatai cerchio delle umane cose, ora ripij,'liava le abitudini re-
pubblicane. L'ondeggiar che faceano allora le ciilà italiche in scam-
biamenti repubblicani e monarchici, effettua vasi pure nelle considera-
zioni pratiche del Segretario: egli era in lutto un riflesso de' suoi
tempi. Oa ragione o a Iorio, questa fu insomma la maniera da lui
costantemente seguila, il variare a norma delle circostanze: maniera
non dissimulata, ma fatta aperlamenie palese a chiunque la legga:
ond' è, che altri forse potrà dire aver esso seguita una falsa via,
ma non mai provare che cangiasse natura ne apparenza.
Per (juello poi che concerne i gentiluomini, le sue massime non
lasciano di esser conformi e alla sana politica ed alla condizione dei
tempi. Voleva egli il principe nuovo fare un regno dove fosse assai
eqiialiià, com'era a dire in Firenze? ' Per comprimervi la tendenza
repubblicana , propria di siffatta equajità, massimamente in quei riot-
tosi «empi, era necessario il costituirvi una nobiltà. A fine di impe-
dire l'urto ed il conflitto dei due principii monarchico e popolare,
che sarebbe avvenuto qu;dora fossero stati in cospetto 1' uno dell' al-
tro, doveasi effeiluare codesto gradualo passaggio dal principe al po-
polo, onde se ne rendesse insensibile la disparità, e ad un tempo si-
cura la forza monarchica mediante l' appoggio delle classi intermedie.
Gli stati dispotici, che son privi d' una graduazione sociale , van sog-
getti perciò a quelle terribili sommosse, in cui si passa dal muto e
cieco <d)bedire alla licenza, dalla venerazione alla rivolta; come di-
mostrano le storie orientali, piene di sanguinosi ed atroci falli. S'ag-
giunge, che la nobiltà interessa i grandi alla stabilità del governo,
da cui emanano ed a cui sono essenzialmente inerenti le loro pre-
rogative : e, come dice il Segretario, ^ « un principe solo , spogliato di
nobiltà, non può sostenere il pondo del principato; ond' è necessario
che tra lui e /' universale aia un me^^^o che l' aiuti sostenerlo. » S' ag-
giunge, che giusta il mentovato cenno di esso Machiavelli, ' a cui
Consuonano le sentenze di Condorcel e di Bentham,*» l' insti turione
della nobiltà ereditaria è un ottimo meno per addormentare V inquie-
* Secondo il parere di Machiavelli.
2 Nel Discorso sulla Bifornia di Firenze.
' Nei Discorsi , lil). I, cap 55.
* Traile des récompenses : e si noli , che essi non erano aristocratici.
XXXVIII CONSIDERAZIONI
tudine febbrile e le perpetue gelosie da cui sono tormentati gli uomini
quando tutti si risguardano come uguali ; e la certeaa di vedersi ri-
spettato è un preservativo contro quella vanità irrequieta ed ombrosa
che dovunque scorge V insulto o suppone il dixpreao ; passione impla-
cabile che col male che fa si vendica del dolore che soffre. » Se altri
poi mi domandi, perchè fn cambio dei nobili di dignità e di ripiiia-
zione, cóm' erano allora i Veneziani e prima i Romani, Machiavelli
proponga quivi i nobili feudali , che non piacciono né debbon piacere
ai polìtici odierni, risponderò, ch'egli giudicava propri quelli d'una
repubblica, questi d' un principato;* il quale, secondo eh' egli avvisa
nel Principe, dee fondarsi in sul Umore anziché sull'amore dei po-
poli,' onde gli fa d' uopo una gran forza , qual è il soccorso d' una
nobiltà castellana; la quale, a dir vero, potea farse sembrar neces-
saria con un popolo di tendenze repubblicane e licenziose, in un tempo
che il principato non avea per anco acquistale le forze che poi acqui-
stò col mezzo delle regolari imposte e della centralità delle leggi e
cogli eserciti stanziali. ' Per la stessa ragione, anche il Boterò consi-
gliò un simile provvedimento. Credevasi, che i principati senza di
quella fossero quasi corpi senz' ossa e nervi. ♦ L' età ricercava ciò che
in un' altra età sarebbe parso improvvido ; e ciò avrebbe pur fatto
Lorenzo in Firenze, se pel mancare di lui non vi fosse mancato l' istru-
mento a farvi un principato.
Per altra parte, qualora si avessero a riordinare provincie, come
la Romagna, la Terra di Roma e il regno di Napoli, in cui , al dire
del Segretario, trovavasi gran copia di gentiluomini, nemici d' ogni
civiltà, e dei quali era tanta la materia corrotta, che le leggi non ba»
stavano a frenarla,^ bisognava far ciò che furon costretti a fare pnpa
Alessandro e Cesare Borgia; i quali cogli artifìci! ricordati di sopra,
purgarono in panie i dominii loro di codesta eccessiva ambiiione e cor-
ruttela, supplendo con quelli alla manchevolezza delle leggi. Indarno
si obbietterebbe che il Segretario in questo luogo si mostra avverso
ai castellani, dove neir altro vuole che siano favoriti dal principe
nuovo. I gentiluomini del primo caso venivano creati dal principe
islesso, quelli del secondo aveano avuto origine da usurpazioni an-
tiche, e, per usare le parole istesse di Machiavelli, t non per graiia
del signore, ma per antichità di sangue tenevano quel grado. » 1 primi
« Vedi il lib. I, cap. 55, dei DUcorH.
»Cap. 17.
' Vedi la mia Opera, Delle Differenze polilichefra i popoli antichi e mo-
derni, parte prima , La guerra j nella condasione.
* Parole del Bolero.
5 Nel Ub. I, cap. l^, dei Discorsi.
I
SUL LIBRO DEL PRINCIPE. XXXIX
pertanto non aveano altre prerogative fuorché (pielle concesse dalle
leygi, quindi le necessarie e non più; i secondi, come usurpatori
che erano, ne avevano di soverchie, per cui erano divenuti prepo-
tenti ed altrettanti sovrani nelle terre loro:* e, dove quelli, rico-
noscendo il loro legale principio dal principato, erano interessati alla
sua conservazione; questi, avendo un principio illegale ed opposto,
agognavano anzi la distruzione d' ogni sovranità centrale che troppo
ne attraversava gli ambiziosi e corrotti appetiti. Hallant ^ dimostra
che la nobiltà primitiva, eccetto l'inglese, non che derivasse da con-
cessioni sovrane, si poteva chiamar creata da sé medesima; e che la
nobilià creata in appresso dai re, concorse a scemare la forza e V in-
dipendenza di quella. Gli uni per conseguenza doveano essere ono-
rati , gli altri o spenti o abbassati , per fondar poi sulla rovina loro
un'altra nobiltà che moderata e legale fosse: il che per avventura
avrebbe fatto il duca Valentino, se avesse avuto miglior sorte: e
quindi si comprende, perchè Machiavelli, se in parecchi luoghi vuole
che si«no o rovinati o depressi i grandi, in altri pur vuole che siano
onorati : la diversità delle circostanze inducevalo a dare diversi
consigli, come anche si vide in effetto. Che se egli (come è la
taccia di alcuni) pensava forse un po' troppo all'utile del principe e
troppo poco a quello del popolo, non convien mai dimenticarsi che
i politici di quel tempo non ignoravano il gran principio del torna-
conto comune, ma credettero necessario il fare dapprima il bene del
re, perchè questo, acquistate che avesse contro i pubblici nemici
baslevoli forze, potesse fare il bene del popolo.
Ma, per conseguire un tal line, doveasi poi consigliare ai principi
il mancare della data fede, l'ingannare, l'aggirare gli uomini? Un
tale consiglio si legge effettivamente nel capitolo decimottavo del
Principe, ' il quale perciò divenne l'oggetto d»'lle più calde decla-
mazioni contro il Machiavelli, Dico pertanto, che non è né sarà mai
mia intenzione di giustihcare codesto consiglio, corUrario alle mas-
sime inalterabili della morale privata e pubblica: ma dove, lasciando
da un canto i clamori, propri delle menti superticiali, si voglia guar-
dar la cosa un po' più al minuto, credo si verrà a conoscere, che se
il Segretario è degno di biasimo, non ne merita tanto quanto gliene
danno i suoi detrattori. La sua è una (|uestione non assoluta di ra-
gione civile, ma relativa di necessità peculiari. Consentaneo alla sua
professione politica, di sopra esposta, egli parla della condona da
tenersi nei vari casi e nelle varie condizioni ; quindi ancora di quella
* Vedi la Storia delle Fepubbliche Italiane di Sismondi , tomo 13,
* L* Europa nel medio evo»
5 Ed anche nel libro II, ciip. 13, dti Discorsi. . . . <
d
XL CONSIDERAZIONI
d' an principe nuovo in tempi difficili e malvagi. In fatti, si raccoglie
dallo slesso libro del Principe, e da altri lesti dichiarativi delle sue
vere intenzioni, ch'egli varia i suoi consigli col variare dei principali.
Ai principi ereditari, o d' uno Stato già stabilito e fermo, propone ad
esempio la giustizia, l'umanità e la virtù di Marco Aurelio impera-
tore; e quanto ai principi nuovi, premette la massima, eh' è lodevole
in un principe il mantener la fede e vivere con integrità e non con
astuiia : soggiunge, che converrebbe esser buono se tutti gli uomini
il fossero, ma siccome p^r esperiema de' nostri tempi (i quali già si
vide di che natura fossero) essi sono tristi, e non osserverebbero la fe-
de, cosi il prirtcipe nuovo che voglia mantenere il suo stato dee saper
talora non osservarla quando bisogna, parer leale, ma non esserlo sem-
pre. Ponendo adunque avvertenza a questo lesto, ed osservando
eziandio, come il medesimo autore dice espressamente altrove, e che
non ti dee partirsi dal bene potendo, ma solo necessitato — che la ma-
lignità dei tempi impedisce di fare il bene — che sarebbe lodevolissimo
l'esser buono — che conviene guardarsi da tutti i viii; ma ch'egli scrive
a chi l'intende, cioè fra tanti che non son buoni * — che ad un principe
(cioè del secolo decimoquinto) fa d'uopo talora entrare nella via del
male — e che è meglio esser privato che principe con tanta rovina degli
uomini: » mi sembra se ne possa dedurre, che il Segretario già non
intese di lodare la slealtà, da lui chiamata un male ed un vizio, ma
volle adattare i consigli alle circostanze dell'eia sua, ch'egli non avea
fatte nascere né consigliate, e che anzi condannava e deplorava,
come si scorge nei testi preallogati. Da questo lato io trovo in lui
non un moralista o un giurista, ma piuttosto uno storico, uno stati-
stico ; il quale, lasciando slare le verità morali che, come dissi, sono
inalterabili, parla per modo di eccezione ed in ipotesi di questa poco
intelligibile umana natura, e delle cagioni per cui i principi nuovi o
si mantenevano nel principato o ne trabocca vano, giusta le cose dette;
e quasi mi parche dica al suo principe nuovo : < Assai meglio sarebbe
che tu non fossi a queste condiiioni ; ma se pur vi ti trovi , sappi
che, qualora tu non faccia com' io ti dico , ci rovinerai sotto. • Rela-
tivamente agli affari esterni, già vedemmo che all'ambizioso non
rimaneva altra facoltà che quella di scegliere fra due tristi partiti; e
in ordine agl'interni, vedemmo pure a che inducesse gli statuali di
quella età la lor comune debolezza in tanto disordin sociale, e Pur
troppo confessar dobbiamo, dice Romagnosi,' la mancama d'un po-
tere politico che fosse abbastanta forte per proteggere l' ordine civile ;
* Vedi anche il cap. 45 del Principe.
2 Nei Fattori dell' Incivilimento ^ quando parla dtìHe Signorìe italiane dei
lecoU XIV e XV,
SUL LIBRO DEL PHI^CIPE. XU
onde coloro che aveano la confidenza dei signori e sedevano nei loro
consigli, sentivano la necessità di supplire alla forata mancante col-
l'astinia; e questa piega politica non era prodottane da ignoranza né
dal rifiuto di eque leggi , ma dal bisogno d' una [or%a accentrata e
prevalente. » Non polendosi conseguir l'intento in altra maniera, la
polìtica si limitava ad esporre le massime generali per giungervi e
mantenervisi.
So bene che i moralisti dimostrano ragionevolmente, non po-
ter essere un argomento a giustidcazione del mancar di fede, la pre-
sunzione che tutti gli uomini siano sleali ; perchè questa sarebbe
un'ingiuria all'umanità, e d'altronde per tal forma ogni promessa po-
trebb' esser violata : ma , torno a dirlo, il Segretario in questo luogo
non vuol fare il moralista che si rivolge a tutti gli uomini; egli parla
ad un principe nuovo de' suoi tempi, il quale, come pur dice, e
spesso necessitato , per mantenere lo slato , operare contro la fede ; e
bisogna che abbia un animo disposto a volgersi secondo che i venti e le
variazioni della fortuna gli comandano: ed allega gli esempi di papa
Alessandro e di Ferdinando il Cattolico. Anziché dell' intera umanità,
intese adunque parlare di coloro coi quali ebbero che fare ì principi
nuovi dell'età sua, e i due ricordati sovrani che in codesta loro im-
presa del tòr di mezzo o di reprimere la prepotenza baronesca o ca-
stellana, faceauo al certo una gran novità nei dominii loro. I princìpi
del suo secolo, i baroni , i signorotti e simili altri, erano gli uomini
di cui egli qui evidentemente afferma, che non avrebbero osservala
la fede; il che si concilia colla descrizione che poi ne fece nei Dis-
corsi^ e con quanto io pure osservai dì sopra in proposito degli sta-
tuali tutti di quella corrottissima età, in cui gli inganni e le frodi
erano non solo ordinari, ma, secondo i casi, e apprezzali e lodati.
Con simil gente, eh' io non dubiterei di paragonare ai ladri, agli as-
sassini, dobbiamo noi maravigliarci se per propria guarentigia si
opponeva l' inganno all' inganno? « Lo statista ^ dice a questo propo-
silo il Marlens,* dee regolare la propria condotta secondo quella di
coloro coi quali egli entra in un negoziato : se gli trova leali e schietti,
deve esser tale anch' egli ; ma qualora impieghino V astuzia , egli è
pienamente autorizzato a valersi delle medesime armi: e a torto si
biasimerebbe un negoziatore che fosse costretto ad operare in tal forma
da chi cerca d' ingannarlo , perchè il conseguire il suo fine è quanto
v' ha d'essenziale in lui. *
Non dissimulo l'obiezione di alcuni. Quando, essi dicono, con-
chìuso che siasi un patto, un trattato, si abbiano indizi e prove ma-
nifeste, che l'altro contraente non sìa per osservare la fede, si pu(>
* Guide dìplomatique f etc.
XLII CONS'.DERAZIOM
avere nn giusto titolo per non altenergliela ; ma non già quando gl'in-
dizi siano anteriori e non posteriori al contralto, come avverrebbe
del pirata, del ladro e di altrettali persone; giacché soggiungono, e
perchè dunque, nonosianli quelle antecedenze, patteggiaste coh
loro? Se non vi foste li dato, non avreste pattuito con essi. La lot'
n^alvagia vita dee bensì distogliervi dal venir seco ai patti; ma,
ronchiusi che gli abbiate, se essi non vi diano cagione di fondalo ti-
more, voi non avete il diritto di mancare ad essi della data parola.
Assai severa è questa morale, né lutti i trattatisti la spingono tant' ol-
tre: ma io, lasciando la questione indecisa, voglio considerar le cose
neir aspetto in cui dovea considerarle il Segretario, Mi si dica per-
tanto: nei tristi tempi che allora correvano, quei gentiluomini ca-
stellani di Napoli, della Terra di Roma e della Romagna, quei grandi
fiorentini che con le sètte rovinavano lo Stato, quei signori che aveano
occupati i feudi della Chiesa, gerite, come pur dice il Segretario, ec-
cessivamente ambiziosa e corrotta, perniciosa in ogni provincia,
nemica d' «)gnl civiltà, un esempio d'ogni scelleratissima vita, che
per ogni leggiera cagione commetteva uccisioni e rapine grandissime,
per cui I popoli s' impoverivano e depravavano; gente che per conse-
guenza opponeva un continuo ostacolo alla civile concordia, alla cen-
tralità , ed alla tranquilla e soddisfacente convivenza, non eran forse
allrellanii pubblici oeniici ? Come già si vide nel testo preallegato
di Romagnosi, e come dice il Segretario istesso in quel capitolo,
pur mentovato, dei Discorsi, non v'era nò poier politico né legge che
fosse sufficiente a frenire tanta materia corrotta ed a proleggere 1* or-
dine pubblico; onde non basiamlo la forza ledale, non bastando le
ordmarie vie della giustizia, conveniva supplirvi con T astuzia. Ciò
stesso fu udito dire anche Leon X in proposito del Baglioni, se dob-
bìain credere all'Anonimo padovano, citato dal Muratori.' Quale
altro mezzo rimaneva infatti alla società per la propria conservazione,
che è pure la prima legge di quella? I terrbini della ragion di stato
non debbono essi dilatarsi in proporzione di codesta legge? Non fe-
cero forse di pii"» Pier Gradenigo colla serrata del maggior Consi-
glio, Bonaparte col diciotto brumale? Se fosse lecito mescolare le
cose sacre colle profane, direi pure: che altro fece Giuditta? Per la
necess là evidente del comun bene, per guarentirsi e salvarsi dal*
l'altrui perfìdie e malvagità , non per farne, la ragione di stati» è non
solo un diritto, ma si un'obbligazione naturale e indispensabile. Le
frodi e gl'inganni, come asserisce anche Arislolile, hanno talora
sovvertiti gli stati. Perchè non si ha da impedire e stornare cdesti
mali, e salvare la società coi mezzi istessi con cui si vorrebbe ro-
* Annali d' Italia.
J
I
SUL LIBRO DEL PRINCIPE. ^LIII
vinaria ? II volere con simil gente operare altrimenti , è talvolta un
voler tradire e perdere lo Sialo.
« Se alcuno, dice lo Slellìni , * cerchi di conseguire ciò che a
buon dritto se gli debba e che dall' altrui iniquità gli sia impedito,
convengono e i giuristi e i più severi filosofi, non essere interdetto
l' aiutarsi della menzogna a quel fine : e di fatto, sarebbe in filoso fi.a
assurdo il dire , che non sia lecito l'opprimere più sicuramente cogli
inganni colui che non ingiustamente possa esseve ucciso da noi con
maggiore pericolo: imperciocché l'inganno non si oppone più della
forza alla ragione naturale, qualora tendano ambedue a perturbare i
sociali diritti; e, se nel difendere e pretender questi, la forza è giudi-
cata onesta , non può essere disonesto V inganno al medesimo fine im-
piegato. » Tanto asserisce l'autorevole moralista; ed a conferma della
sua sentenza allega un passo della Ciropedia, dove il padre di Ciro
dice al fio[liuolo, che così dee fare il nemico contro il nemico; ed un
altro luogo di Senufonle, in cui non altrimenti consiglia il filosofo,
anzi pare che in tale proposito reputi migliore l'inganno. Ora, co-
desti occupatori delle ragioni della Chiesa, codesti castellani o grandi
0 baroni, di cui parla il Segretario, non erano essi ribelli e malvagi,
che, postisi colle violenze loro al di sopra della legge , toglievano ai
cittadini la personale e reale sicurezza, ed impedivano allo Stato ogni
viver civile? E questi, che venivano dalla loro iniquità impediti, non
eran forse i più sacri diritti dell' uomo e della società, la cui con-
servazione è non pure concessa ma comandata dalia stessa natura?
Se questa vuole il fine, dee quindi volerne i mezzi, e giustificare an-
che l'astuzia, se altri non ne rimangano a conseguirlo, fuorché la
forza 0 r inganno. ^ La società deve essere dagli estremi pericoli sal-
vata ad ogni costo, ed in modo pronto ed eflìcace; altrimenti nena-
scon due mali, la mancanza dei beni che non si ottengono, e le pub-
bliche sventure che si vanno di di in dì accumulando: sicché, qualora
in così tristi ed imperiose circostanze, che non ammettono trans-
azione né ritardo, sorga un astuto potente che in un modo o neir al-
tro sia in istato di salvarla, io per me credo che giuridicamente il
possa: egli é un nocchiero, che, potendo ei solo salvar la nave da
una tempesta, si arroga quell'imperio che gli dà il pericolo della co-
mune sicurezza. Il poter sociale ora fu l' effetto della natura, ora della
fortuna, ora dell'arte; ma dove soddisfaccia allo scopo di effettuare
una tranquilla e felice convivenza, i cittadini hanno il dovere di uni-
* Etilica.
2 Pensava lo stesso anche Eorico Luden in un suo molto notalnle arti-
olo sulla traduzione di Rehl)Crg del Libro del Principe. (Vedi lenaische
Algem. Litlerature Zeilung: 1810, p. 81 e seg,)
XLIV CONStDERAZlONt
formarvi gl'interessi e le opere, perchè appunto Io legittima qnel con-
seguito scopo e r essenziale socialità, senza di cui gli uomini non
potrebbero perfezionarsi né tampoco conservarsi: * ma per giungere
inque'tempi perversi a codesto slato di cose, erano appunto neces-
sari i terribili artifici consigliati da Machiavelli, giaccliè non v'era
altra via per uscire da queir intricato e infame labirinto, in cui i
malvagi aveano avviluppata la società, e II principe, dice il coscien-
zioso Montaigne,' se mai un'urgente circostama ed il bisogno dello
stato lo inducano a mancar di fede , e lo gettino fuori del suo dovere
ordinario, deve attribuire questa necessità a un colpo della verga di-
vina. Non è questo un viiio, avendo egli abbandonata la propria ra-
gione ad una più universale e potente ragione ; ella è una sventura di
ehi ti trova agretto fra due estremi: sono rari e pericolosi esempi,
eccetioni inferme alle nostre regole naturali, e bisogna cedervi. Nis-
suna utilità privata è degna che si faccia una tal forxa alla nostra co-
scienxa , ma ti la pubblica , qualar sia evidentissima ed importan-
tissima. » ^
lo non aggiungo altre parole sa qnesto geloso argomento , in cui
per una parte ci sta sugli occhi la necessità politica, per V altra ci
trattiene la santità dei patti e della data fede. L'animo mio in sì
grave dubbio propende a quest'ultima; ma in conseguenza delle cose
dette, io mi credo in diritto di osservare ad un tempo, non essere
stala la politica di Machiavelli al tutto iniqua e scellerata, come vor-
rebbero i suoi detrattori. Altro è il lodare, altro il parlare di neces-
sità politica: « Non ii può chiamar virtù il tradire, l'essere senta
fede ; ma se del male è lecito dire bene , sono codeste axioni straor-
dinarie, che, accusandole il fatto, l'effetto le scusa. » Così dice e
ripete il Segretario e nel Principe e nei Discorsi. Cosi pure in quel
lesto dove dimostra gli inconvenienti delle milizie mercenarie e dei
capitani di ventura, ne accenna come conseguenza probabile di essi
la necessità politica, per cui il senato veneziano trasse con lusin-
ghiere parole il conte di Carmagnuola a Venezia , e poi lo ammazzò.
Sono circostanze da evitare possibilmente; ma quando un principe o
fatalmente o spontaneamente vi sia incorso, ne nasce di necessità un
male cagionato da un altro male. In ciò ini par si racchiuda la somma
della politica machiavellica.
Ciò quanto ai grandi e ai prepotenti: rispetto al popolo, potea
bastare, come si vide, la forza legale. Ma codesta forza doveva es-
sere eccessiva? Pare che Machiavelli cosi consigli nel capitolo de-
* Sa qaesta verità , ch'io tocco appena^tono da vederti le teorie di Roma*
gnosi , di Gaizot , di Aacillon, ec.
« Etsaù.
fetJL LIBRO DKL PRINCIPE. XLV
cìmoseltinio ; dove agitando la questione, se torni meglio l'esser
temuto 0 amato, premette che si vorrebbe essere l'uno e l'altro, e
che ami ciascun principe dee desiderare di esser tenuto pietoso e non
crudele; ma soggiunge, che ad un principe nuovo è impossibile fug-
gire il nome di crudele, per essere gli Slati nuovi pieni di pericoli, e
perchè gli uomini (cioè a dire quelli del suo tempo) sono general-
mente ingrati, simulatori e riottosi, talché convien tenerli colla paura
della pena.* Senonchè troviam qui pure una questione relativa di
necessità peculiari. In una età nella quale, come si disse, l'anar-
chia e i baroni e i signorotti di città e di castelli aveano pervertito
ogni viver civile, il popolo manteneva naturalmente in se i vestigi
dei passati disordini. Peggiore ancora della popolare licenza , la tiran-
nia degrada ad un tempo e chi la esercita e chi la soffre; essa fa tra-
lignare il carattere nazionale e lo corrompe, come dimostrarono i
Greci, oppressi già lungamente dal dispotismo ottomano, e come
sempre dimostrano in sulle prime gli schiavi emancipati. Or dove non
basti l'obbedienza volontaria, non ha forse da supplire la forzata in
proporzione del difetto di quella? Non è egli miglior partito l'esser
crudele con pochi esempi, che il lasciare con una mal inlesa pietà che
i malvagi offendano l'universale? Certo, a questa nostra civiltà non
piace il nome di crudele; ma quando io leggo pur nel medesimo ca-
pitolo, che in ogni caso il principe non dee procedere contro il san-
gue di alcuno, se non quando vi sia giustificaTsione conveniente e ma-
nifesta ; che deve astenersi dalla roba d' altri , esser grave al credere
ed al muoversi, non farsi paura da sé stesso, e condursi in modo
temperato con prudenza ed umanità, per forma che la troppa confi-
derà non lo faccia incauto e la troppa diffidenza intollerabile, e in
somma sia temuto ma non odiato; sono tentato a credere che Ma-
chiavelli intendesse consigliare una crudeltà che però non eccedesse
i termini del giusto, e che a miglior dritto chiamerebbesi severità.
Ben era crudele affatto il governo di Robespierre; ma questa di cui
parlo, sembrami invece una dura giustizia, fondata sulla necessità
sociale. Sono queste le crudeltà che altrove egli chiama bene usale; '
crudeltà che poi si convertono in maggiore utilità dei sudditi ; cru-
deltà più di nome che di fatti. In conclusione: astuzia coi polenti,
severa giustizia col popolo, indi magnanimità e liberalità nella con-
seguente potenza : ecco la divisa del Segretario.
Ma un'altra taccia è data a Machiavelli; quel fondarsi e tomaia
sempre sugli esempi dei Borgia. Or io non gli loderò, né tampoco
gli approverò; né Io stesso Machiavelli gli lodò né gli approvò in ogni
< Mi semLra che talor anco , Machiavelli giudicaste ^li altri tempi l
dai «ttoi. '4
XLVt CONSlDERAZiONt
sao scrino , come appare dalla sua Legatione a papa Giulio II e dai
Decennali. Pure la severa imparzialità della storia non potrà mai ne-
gare, che o per studio di parte contro una famij»lia che si era in-
nalzata sulla rovina di tante case potenti e piene di aderenze , o per
la naturale propensione a supporre altri delitti in chi realmente ne
commise parecchi, o perchè in quei corrottissimi tempi in cui si
teneva possibile anzi probabile quanto di più atroce e nefando imma-
ginar sì potesse, la perfìdia dell'età non scomp;4gnava.si dagli scrit-
tori ; i vizi ed i misfatti dì papa Alessandro e del Valentino siano
stati esagerati dal Poniano, dal Sannazzaru, da Guido Postumo, dal
Guicciardini, dal Giovio, e dair infame Burcardo;' il quale ultimo
non pertanto (e questo valga contro Guicciardini ) tace dei supposti
amori incestuosi di quel ponteGce, né accenna ch'egli morisse di
veleno, preparato per altri.» Alessandro era un principe non diverso
dagli altri principi del suo tempo: abusò dell' eminente sua dignità,
servendosi della potenza spirituale per favorire interessi temporali;
ma altri papi di codesta età non fecero forse altrettanto?' Se molto
egli operò per T elevazione della sua casa, e per far giungere suo
figlio al grado di principe sovrano in Italia, si può imputare lo
stesso a Clemente VII e a Paolo III, con questo soprappiù, che il
nipote del primo e il IIkIìo del secondo di questi due papi se somi-
gliarono il Gglio di Alessandro nei vizi e nella malvagità e fors' anco
il superarono, erano ben lungi dal pareggiarne i talenti militari e
pulitici. In un tempo che con insigne perfìdia Ferdinando il Cattolico
e Luigi XII dividevansi il regno di Napoli cacciandone una reale fa-
miglia generalmente amala e rispettata in Italia, e con cui Tuno di
essi aveva una stretta parentela, il papa potea credersi autorizzato
a far perire alcuni baroni del suo stato, perfidi ed insolenti condot-
tieri di truppe mercenarie, amati da queste perchè ne favorivano la
licenza, ma odiati dal popolo, che sotto la loro signoria non era,
come si vide, giammai sicuro né delle sostanze, né della propria
industria, né delle persone, e Roma non godette mai di lunga quiete,
finché il papa non acquistò for%e bastanti da frenare la violenta di
quelle turbolenti fazioni dei Colonna e degli Orsini, » dice a ragione
il dotto Cibrario. * Que* signori , que' principi di Romagna o spode-
< Non parlo At\ Tommasi e del Gordon , perchè gli credo inferiori alla
critica; il primo h un Gregorio Leti senza ingegno, il secondo quasi non fa
che copiare il Tommasi.
S Raffaele di Volterra e il Muratori dimostrano la morte di papa Alei-
•andrò essere succeduta per fehbre tehana.
' Giulio II e Leone X.
* Storia dell' Economia politica del medio evit.
SUL LIÈRO DEL PRINCIPE. XlVII
stati 0 sterminati da lui e dal fi}»liuolo, erano anch'essi feudatari e
vicari suoi, che per la maggior parie aveano acquistali i loro prin-
cipali coi mezzi di cui egli si valse contro di loro, e che, come pure
si osservò, con le uccisioni e con le rapine vessavano e depravavano
i loro sudditi;* e, se taluni ^ prolessero le lettere, già non protes-
sero ciò che un sovrano dee principalmente proleggere. Secondo
che raccolgo dalle memorie dell'età, il loro mal governo era l'éffelto
deir angustia e povertà dei dominii loro, e della mancanza d'una
centralità, da cui nasce appunto la ricchezza e la forza degli stati,
ed alla quale aspiravano ì Borgia. Già vedemmo che da Alessandro
in poi i papi cominciarono a fare una miglior figura nel mondo come
principi secolari: al che dove si aggiunga, che tutti' si accordano
ad attribuirgli un coraggio superiore agli avvenimenti, e una mira-
bile eloquenza e destrezza nel trattare gli aflfari ; che seppe governare
il popolo, ristabilire nel suo regno la pubblica sicurezza, visitando
egli stesso più volte le prigioni, e facendo punire ben sovente i
ladri e gli assassini con tutta la severità delle leggi; che per le sue
provvisioni la carestia, che desolava il rimanente d' Italia, in tutto
il tempo del suo pontiOcato non si fece sentire ne' suoi stati; e che
eziandio le arti, le lettere e l'archiginnasio romano trovarono in lui
un liberale e costante protettore ; si fornirà di convincersi , che
Alessandro, se non fu un buon papa (che certamente noi fu), ne an-
che fu il peggiore dei papi, com'è la pubblica opinione; e che se
egli con una mano atterrava i prepotenti, assicurava con l'altra e
beneficava i popoli.* In materia di storiche indagini io non inclinerei
gran fallo a citare l'autorità di Voltaire, di cui è nota la parzialità
e la poca coscienza slorica; ma sulla bocca d' uno scrittore tanto ne-
mico ai papi, una difesa d'uno di questi mi pare che per quella
stessa parzialità divenga preziosa e da non trascurarsi. Ora egli in
un ragionanienlo sulla morie di Enrico IV re di Francia, venendo
per incidenza a parlare di alcuna di quelle enormità che si appon-
gono a papa Alessandro, cosi apostrofa contro il Guicciardini: « tu
hai ingannata l' Europa, e fosti ingannato tu stesso dalla tua passione:
* Vedi Machiavelli nei Discorsi al luogo citalo Veggasi anche il Krauts ,
e il Coqueo, il quale dimostra come i Protestanti aggravarono non poco i
falli di Casa Borgia : — sempre esagera o travede- 1' amor di setta.
' I Montefeltro, i Varano, te.
' Segnatamente Raffaele di Volterra, il Panvìnio, il Naiiclefo e il Mo-
naldeschi. Quest'ultimo lo rhiama: - magnanimo, generoso e prudente, w
Può vedersi anche Roscoe , Storia del pontifcato di Leon X.
♦ In Alexandre (ut de Jnnibala lAvins scribit) aquahant vitia virUites,
dice il mentovato Raffaele di Volterra; e il Coqueo dice de' suoi nemici:
vitia notant, non dignitatem insectanlur.
XLVm CONSIDERAZIONI
odiavi il papa, e troppo credesti all'odio tuo, e agli altri viù e misfatti
di quello. •
A coloro poi t che chiamano il duca ValenlìDO un mostro , os-
serverò che codesto mostro seppe introdurre il primo in Italia
rusan7.a dì anni nazionali, che certo non sembra confarsi alla natu-
rai diffidenza d'un tiranno; seppe colla militare perizia, con un co-
raggio e con una politica che tengono del miracolo , fondare uno
stato che poteva essere il propugnacolo, la salvezza degl' Italiani, e
prevenirne le ulteriori sciagure: < e quantunque abbia regnato per
breve tempo, pur seppe far gustare in Romagna i vantaggi del suo
governo ; lalmentechè, siccome dovette confessare lo stesso Guic-
ciardini, nemico dei Borgia, e anche dopo la caduta del Valentino
quella provincia stava quieta ed inclinata alla divoiione sua , avendo
per esperiema conosciuto, quanto fosse più tollerabile stato a quella
regione il servire tutta insieme sotto un signore solo e potente, che
quando ciascuna di quelle città stava sotto un principe particolare, il
quale né per la sua deboleita gli poteva difendere , né per la povertà
beneficare; piuttosto, non gli bastando le sue piccole entrate a sosten-
tarsi, fosse costretto a opprimergli. Ricordavansi ancora gli uomini,
egli prosegue, che per V autorità e grande*ia sua, e per l' ammini-
ttraiione sincera della giustiiia , era stalo tranquillo quel paese dai
tumulti delle parti, dai quali prima soleva esser vessato continua-
mente; con le quali opere t'avea fatti benevoli gli animi dei popoli,
similmente coi benefiii fatti a molti di loro; onde né l'esempio degli
altri che si ribellavano, né la memoria degli antichi signori gli alie-
nava dal Valentino. » Queste lodi che la forza della verità strappò
di bocca a chi avrebbe desiderato di fare il contrario, sono una
prova manifesta di quanto io già dimostrai; cioè che il governo di
codesto tipo del Machiavelli era pur quello che richiedevano i guasti
suoi tempi. Ma odasi un altro scrittore, di ben diversa tempera, e
che non fu mai V apologista dei tiranni, e Cesare Borgia , dice Sis-
monài,* ottimamente conosceva ciò che poteva formare la felicità
de' suoi sudditi: manteneva inviolabile la pubblica sicureaa; chiun-
que si segnalasse aveva in lui un illuminato protettore; gli uomini
d' arme trovavano avamamento negli eserciti e nelle fartene , e lauto
pensioni e beneficii i letterati. Insomma lo stato prosperava, e nes-
sun Romagnolo poteva sema timore figurarsi il ritorno dei piccoli an-
* Forte, dice MacauTey, sarebbe stato il salvatore dell'Italia, il solo
capace di difendere l' indipcndeata del suo paese.
• Siimma ceqtiitate popnlor regebat , miitta tiibditonim prcbalione : àict
di Cesare Borgia Raffaele di Volterra.
SUL LIBRO DEL PRINCIPE. XLIX
tìchi signori. » • Non dobbiamo adunque negar fede a Machiavelli
quando affei-ma « che il Borgia aveva racconcia la Romagna, unitala
e ridottala in pace ed in fede, e che si guadagnò tutti i popoli], per
avere incominciato a gustare il ben essere loro ; » ne tampoco si vuol
quindi ricusar credenza allo stesso Valentino, allorché nel suo celebre
colloquio con Giiidobaldo da Montefeltro, riportato da Bernardino
Baldi, dopo molle parole soggiunge: « che io non sia tiranno (come
da' miei nemici per tutto si va dicendo) io non voglio altro testimonio
che le città della Romagna , le quali sotto il mio governo hanno co-
minciato a conoscere quella tranquillità e quella pace che noti aveano
neppur sognata , non che goduta, per l' addietro. * E veramente non
so se Urbino siasi trovalo in miglior condizione sotto il gran Guido-
baldo, cui mancavano gli elementi di potenza e di ricchezza, ricor-
dati da Guicciardini. Del resto, costui e i Varano furono buoni e va-
lorosi principi; ma gli altri, che prima del Borgia dominavano la
Romagna, meritavano o tutti o quasi tutti l'orrendo fine che fecero,
e alcuni il confessarono essi medesimi poco innanzi la morte. In
breve, le cose battevano tra l'opprimere e 1' essere oppressi, fra il
togliere la vita a un pugno di ribaldi, e la miseria dell'universale. Tali
insidie e da tali potenti e facinorosi nemici erano tese al Duca da
ogni lato, che, indugiando egli, lo avrebbero finalmente ucciso.
Avendo l' animo grande e la sua intenzione alta , cioè d' occupare
l'Italia desolata e sconvolta, non poteva operare altrimenti. Bene è
il vero ancora, ch'egli fu il commettitore dì parecchie iniquità, e
che nelle sfrenale sue voglie non perdonava a persona; ma, torno
a dirlo, gli altri principi del suo tempo non furono migliori di lui:
era egli un iniquo, ma un iniquo, sotto il cui reggimento prospe-
rava il popolo. La rigenerazione popolare fu nel suo nascere inter-
rotta dalla di lui caduta; quindi nella memoria dei più non ne rima-
sero che gli iniqui principii, scompagnati dal fine che si stava per
ottenerne: assai men fortunato della duca) casa Medici, la quale col
fine ottenuto da Ferdinando I e dai suoi discendenti fece dimenticare
i principii!
Or conchiudendo dico: se Luigi XI non fu migliore del Valen-
tino, e non pertanto si disse di lui, che fu un principe severo ma
fece un gran bene alla sua nazione, chi sa se forse non sarebbesi
detto lo slesso di Cesare Borgia, dov'egli e la sua casa avessero do-
minato lungamente in Romagna? I Romagnoli al certo lo amavano
più che i Francesi non amasser Luigi. Se a preparare il regno di
Luigi XII e di Francesco 1 furono necessarie le arti del principe
accennalo, secondochò dimostrai più sopra, dovrem noi biasiraarlq
♦ 4i»c|»§ Mw|ler dice, che 0tìytrq6 etto umaoilà e con giusti^i^.
l CONSIDERAZIONI
al tutto? Se altri fuori dei Luigi e dei Borgia non avrebbero potuto
impiegarle « perchè a tal uopo richiedeasi appunto quella (reuienda
indole d'uumini , non veniva ad essere la condotta luro una neces-
sità politica? lo non voglio deciderlo; ma ben dirò che, posto da
un lato il gran disordine sociale che quindi fu tolto, e dall'altro il
mezzo per cui lo si tolse, ne viene assai scemalo l'orrore di quesi'uU
timo. DeplorabiI cosa è al certo, che vi si dovesse ricorrere por la
tristissima condizione dei tempi; ma per le incuncepihili coninuii
zioni dell' umana natura, trovansi nelle storie alcuni problemi sociali
sì difficili ed ardui, che non gli può sciogliere pienamente né la Ulo*
sofla né la politica.'
* Non si appartiene al mio assunto di parlare di Lucrezia Borgia , dflla
«piale il cosrieniioto Roscoe ba latta una lunga e ragionata apologia, dimo-
strando la falsità di quanto le apposero i poeti napoletani, il Burrardo e il
Guicciardini. Certuni , a cui sembra che piaccia il ctedcr prohalnle quanto
di laido e di nefando spacciarono gli storici ed ì satirici , trovano nel di lei
celebre apologista anzi un retore che un critico; ma, oltreché in quella ape-
logia rgli adduce dei fatti e non dei 6ori retlorici, i me basta 1' argumrnto
dedotto -alla condotta di Lucrezia , poi eh* essa divenne duchessa di Ferrara.
Una donna che per parecchi anni seppe inspirare al gentilissimo Pietro Bembo
un amore , che ( come affermano il ,Gualteruzzi , 1' Oitrocchi e il Mattuc-
chelli j non offese mai le leggi dell' onore , e poi si cangio m reciproca stima
ed amicizia ; una donna che fu la protettrice e l' amica del Trissino e di
Aldo Manuzio, chiarissimi ambedue per dottrina e per onestà di costumi ;
che fu ottima moglie di Alfonso, ed ottima madre di Ercole d'Kste , da loro
•mata ed apprezzata 6no alla morte; non poteva esser stata una Taide. Di
cotali metamorfosi non si videro ne in Poppea, o'e in Teodora, ne in llianca Cap-
pello, aè io altre siflàtle L'età, diue taluno a questo proposito, è un buon mi.ssio-
Dario; ma lasciando anche slare che scarsi, incerti e spregevoli sono pur
sempre i frutti di codesta, che Montaigne chiama a ragione, virtù catarrosa
e vile, provegnenle da sazietà e dai troppi anni anziché da pura o miglio-
rala coscienza, Lucrezia quando sali sul trono di Ferrara era ancor giovane ,
era ancora la più liella principessa del suo tempo. Chi inai leggendo quelle
■uè lettere che ci furono conservate , quelle che tanti uomini illustri le scris-
sero da tante parti d'Italia, e le poesie e le opere che le furono intitolate,
eziandio da chi pur non aveva alcun interesse ad adularla, testimonianze tutte
de' suoi molti e rari prrgi , i t]u»\i , al dire de' più imparziali scrittori ne for-
mavano una saggia e colta principessa ; chi mai può indursi a credere cb' ella
fosse ad un tempo la figlia , la spos» e la nuora di Alessandro , e che avesse
presieduto alle orgie oscene descritte da BurcardoT Considerato pertanto,
quale sia stata per confessione di ogni coscienziato storico la di lei viia nel-
l'epoca di cui parliamo; considerato , inoltre, che niuna delle colpe anterior-
mente appostele fu mai prosata in modo irrefragabile : io non temo di pec-
care in soverchia simpatia, se affi-rmo che quelle sono piulloslo da attribuirsi
alla tristissima natura de* suoi tempi , in cui regnavano la menzogna e la ca-
lunnia . e i quili, licrnzio<>i>>imi essendo, rrndeano crrdiliili le accuse che
furie Dol sarebbero stale iu altra età. — Finga Villor IIujjo di Lucrezia Bor-
I
SUL LIBRO DEL PRINCIPE. LI
Per buona sorte, già molti e molli anni finirono tra noi que' tem-
pi, né più ritorneranno. Subentrata alle divisioni feudali, ai signo-
rotti ed alle popolari fazioni, l'unità e la centralità degli Stali; suc-
cessi alle licenziose milizie baronesche e mercenarie, gli eserciti
nazionali, disciplinati e permanenti, le regolari imposte agl'incerti
tributi; e venuti per la crescente civiltà in miglior cognizione dei lor
veri interessi i governanti e i governati; la politica è oramai stabi-
lita sulle gran basi della potenza armata , della ricchezza nazionale e
della giustizia, e la felicità dei popoli è divenuta il desiderio , il bi-
sogno e r interesse medesimo dei governi potenti e perciò generosi :
i quali sanno inoltre, quale elemento sia della loro poleuza la con-
cordia civile, l'unione degl'interessi e quindi delle opere, e il pro-
sperare delle rendile private, da cui derivano le pubbliche. Dato an-
cora che ciò non fosse, dato che fra tanti sovrani non d'altro
solleciti che del bene dei popoli, il quale si accomuna col loro pro-
prio, sorgesse un principe del fare di quelli dell'età machiavellica
(il che è al tutto improbabile), come potrebb'egli seguire i precetti
del capitolo decimottavo in un tempo che l'opinion pubblica, frutto
anch'essa dell'odierno incivilimento, è un tribunale terribile pel po-
vero e pel ricco, pel debole e pel polente; e che il credito pubblico,
da cui nasce la necessità della pubblica confidenza, è uno dei preci-
pui elementi degli stati? Invece di mantenersi in isialo, egli ci rovi-
nerebbe sono : il contrario appunto di ciò che quivi insegna il Ma-
chiavelli. Dirò più: né tampoco gioverebbero i di lui artificii in una
civiltà così universalmente sparsa; lalmentechè, se il grande politico
vivesse in questa età nostra, sì civile e sì cólta, terrebbe al certo
luit'altra via. Né solo in ordine alle cose accennale sarebbero odier-
namente inopportuni i consigli di Machiavelli ; che altri pur se ne
leggono, contrari alle massime politiche comunemente ricevute dai
moderni. Le sue soverchie lodi alla parsimonia ed alla miseria dello
spendere, dimostrano non aver esso conosciuti i vantaggi d'un mo-
deralo lusso, che crea nuove produzioni col creare nuovi bisogni, e
fa progredire l'agricoltura mediante le muliiplicate ricerche delle ma-
nifatture e del commercio : quando afferma , esser ricchi i popoli
dal cui paese non escono denari, e dove sempre entrano e sono por-
tali denari, dà a divedere ch'egli adotta il sistema mercantile, am-
plialo poi da Colberl, e che ignora l'avvilimento del contante a causa
della sovrabbondanza, e il conseguente alzamento dei prezzi delle al-
tre derrate, che tanto nuoce al commercio: là dove dice, che i go-
gia quel che gli piace. Concesso, anzi necessario ai poeti è il fingere; ne mai
tanto riescono quanto allora che fingono. Ma la severa storia , come fa giustizia
dei malvagi, cosi dee pur farla delle malvage calunnie, :, ^
Ln CONSIDERAZIONI
verni ben regolali hanno cànove pubbliche da mr>n«*iare , da bere e
da ardere per un anno, non si accorj^e, che una mal intesa carila
può ingenerare nei poveri la infingardaggine, la quale divien poi ca-
gione d' un aumento sempre crescente di povertà; e che quella sola
è una saggia e salutare beneficenza, la quale, anziché un pane pre-
cario, procaccia al povero uno slabile ed onoralo lavoro.
D'altra parie però, non posso fare che non aggiunga con
Giuslo l-ipsio, avere allresì il Segretario Fiorenlino parecchi pen-
sieri fundamenlali, propri di tulli i tempi e di tulli i paesi. La
massima t che sempre una mula%ione di governo lascia lo addentel'
Iato per l'edificaiione dell'altra; • massima la cui verilà efTelluale
fu pur troppo dimostrata nei dì della memoria nosira, sembra am-
monire i popoli dell'enorme danno che risulta ad essi dalle rivo-
luzioni violente: quella e che le leggi si ordinano secondo ti ben pub-
blico, non secondo l' ambinone di pochi; » e T altra • che acciò le
imposte siano uguali , conviene che la legge e non l' uomo le distri-
buisca; » paiono alluiiere ai tanti disordini degli amichi calasti e ca-
richi publdici levati arbilrariamente, e quindi iniquiimenie, e quasi
indicare il modo per cui P(»mpeo Neri ins(ìlu\ fra noi un censo le-
giilimo, ed una giusta e regolare maniera d'imposte: la contrarietà
ch'egli mostra verso le coniìscazìoni, ne onora il cuore e riniellelto:
allor che dire e che i beneficn si debbono fare a poco a poco, acciò
si assaporino meglio, » ci oà per l'economia delle ricompense un ol*
timo precetto, il quale non è sempre osservalo; un altro ne dà d'im-
mensa applicazione quando afferma: e si trova questo nell'ordine delle
cose, che mai si cerca fuggire un inconveniente che non si incorra in
un altro; ma la prudenza consiste in saper conoscere le qualità de-
gV intonvenienti t prendere il manco Insto per buono. > Ma più di
tutti (che soverchio sarebbe il volerli registrar qui ad uno ad uno)
io trovo degno di molta lode il seguente ammaeslramenlo, citalo al*
irove.: t Essere più conveniente andar dietro alla verità effettuale
della cosa che all' immaginaxione di essa, » e che molti si sono immagi-
nati repubbliche e principati , che non si sono mai visti né conosciuti
essere in vero; » e e ch'egli è molto discosto da come si vive a come si
dovrebbe vivere, » Colali parole di uno che per la conlinna lezione
delle cose del mondo, e per la lunga pratica delle corti e degli affari
pubblici erasi tanto profondato in queste materie, non doveano mai
essere dimenticate: ma, pur troppo, e nella età di Machiavelli e nelle
posteriori, o non le Cimobbero o non le curarono gli ulopisli ; e pur
troppo, in tempi a noi vicini trovaron costoro chi prestò ad essi cre-
denza, onde sorsero siffatte costituzioni di stali e siffatti ordini po-
litici f che essendo ìd soverchia discordanza cogli effettivi bisogni so*
SUL LIBRO DEL PRINCIPE. LUI
ciali, non poteano reggersi , e crollavano da so medesimi tra inflnite
sventure |)ubbliche e private. Di codesti utopisti, i quali in ogni cosa
ricercan l'ottimo senza pensare che talvolta esso è nemico del bene,
non è penuria anche al dì d'oggi. Or possa, dunque, imprimersi bene
addentro nella loro memoria quel salutare avviso d'un grand' uomo,
il quale peccò, è vero, ma forse più per colpa de' suoi tempi che per
la propria, e che a ogni modo fu il rappresentante della politica di
due secoli, ed è pure il primo storico e il primo prosatore italiano.
ILLUSTRAZIONI.
A pag. XVII e XLix.
Una prova ancor maggiore del mio assunto è il Proemio delle
Effemeridi del Ponlifìcalo di Sisto Quinto, inserito due anni fa nel-
V Archivio Storico Italiano;* dove infatti si legge, che lo Stalo
Ecclesiastico prima di quel pontefice « vedeva tutte le cose sì
private sì pubbliche in precipizio e in rovina. » E veramente è
un quadro codesto, sopra cui l'occhio non può fermarsi senza
spavento e raccapriccio. Or quali erano gli autori di tanta miseria?
1 castellani, i baroni, i signorotti; quelli di cui parlo a carte dicias-
sette; quelli cui avrebbero sterminati o abbattuti i Borgia, se il Va-
lentino avesse mantenuta e consolidata la sua potenza. Vero è che,
come quivi si accenna, vi porse occasione anche « l'indole fiacca di
papa Gregorio XIII, divenuto più debole per vecchiezza d'oltre ot-
tani'anni; » ma è pure fuor di dubbio, che il don>inio papale,
benché salito dopo Alessandro VI in maggiore potenza, nondimeno
sotto Leone X, Clemente Vii ed altri papi, ebbe assai che fare con
codesti piccioli tiranni , ancora potenti ed infesli, ancora feroci e li-
cenziosi. Ciò ch'io ne dico nel testo, e il Minatori ^ e il Sismondi *
dimostrano abbastanza la continuazionedi quel disordine. Era un'idra,
che andava rimettendo le sue teste, perchè l'uomo tremendo che
accennai di sopra , troppo presto venuto in basso da tanta altezza ,
1 PuLLlicato da G. P. Vieusseux in Firenze. — Vedi Appendice N. 8,
pag. 343.
2 jénnali d'Italia, passim.
5 Storia delle Repubbliche Italiane del medio ct-o, tomo 13.
LIV . CONSIDERAZIONI
non avea potuto troncarle tutte; e perchè i successori di papa Ales-
sandro, 0 non avendone i Uilenli e l'energia , o distraiti dalla poli-
tica esterna, o non seppero o non vollero seguire le arti dei Borgia,
le sole che potessero frenare tanta materia corrotta, e proteggere l'or-
dine pubblico in un tempo che non vi bastavano le ordinarie vie
della giustizia, come a lungo dimostro nel presente Scritto: arti ter-
ribili, ma giustilicate dalla necessità politica; arti richieste dall' im-
perioso bisogno d'una forza concentrata e prevalente, e dal dovere
di disarmare i prepotenti e porli nell' impossibilità di sottrarsi alle
leggi , onde il popolo ottenesse la sicurezza necessaria per pros|»e-
rare Dell' industria e nella civiltà: in breve, lo scopo di ogni civile
consorzio, fuor del quale diviene ingiusto ogni governo. Se invece
di avvilupparsi in leghe e guerre con monarchi assai più potenti di
loro, dalle quali non trassero che pochi vantaggi e molli danni e
umiliazioni, avessero i papi proseguila l'impresa interrutta dei Bor-
gia, 0 il Valentino avesse più lungo tempo regnato in Romagna e
avuti successori che l'imitassero; ed essa e il vicino Stato Rom;ino
sarebbero andati di bene in meglio nella pace e felicità di cui, come
attestano e Guicciardini e Machiavelli e Sismondi, già godevano i po«
poli sotto il di lui governo e sotto quello di papa Alessandro; si sa-
rebbero evitate le calamità da cui furono afflitte parecchie genera-
zioni d'uomini per lo spazio di oltre un secolo; né si sarebbe veduta
la casa Orsini, e tante altre a lei aderenti, farsi protettrici di infami
banditi e masnadieri, e turbar con essi ogni diritto, ogni cosa pri-
vata e pubblica, profana e sacra ; né i Aeri casi di Vittoria Accoram-
buoni avrebbero spaventala l'Italia. Il conseguir queireATetto e l'evi-
tare que' mali enormi, per mia fé, avrebbero più giovalo all' uma-
Dilà ed all'onore del lemporal dominio dei papi, che non tulle quelle
leglre e guerre, e, dirò pure, che non luiti quei soniuosi editici e
musei della metropoli pontiRcia. Il primo dovere della sovranità,
senza l'adempinicnio del quale vien meno ogni suo diritto, è il pro-
curare ai sudditi la tranquilla e soddisfacente convivenza. Che giova
il resto senza di questa? Perciò appunto papa Sisto si dette ad eser-
citare quella sua famosa giustizia, che parve ai male informali so-
verchiamente fiera e crudele; ma le Effemeridi del Gualtieri dimo-
strano che era necessaria.' Il Muratori ne'suoi Annali, parlando di
codesta mala rana di banditi e malviventi, non dubita di soggiun-
gere: e molle storielle si contavano allora delle loro crudeltà e fur-
* Effemeridi del pontificato di Sisto Quinto t icrilte in latino <la Guido
GiuUieri da San Ginesio , che ti conservano inedite in un Codice della ricca
Colletione Capponi. Finora non ne fu pul>I)licato che il Proemio. Vedi U delta
Appendice, N. 8, dth' Archivio Storico Italiano t p»g- 343.
SUL LIBRO DEL PRINCIPE. LV
berie, e si spacciano anche oggidì per cose nuove dai cantimbanchi; »
e, dopo aver narrate parecchie ch'egli chiama manifeste crudeltà,
lascia che i lettori Taccian qui le loro riflessioni, e e vuol passare a rac-
contar cose allegre e sicuramente gloriose al pontefice Sisto. » * Bella
maniera invero di levarsi d'impaccio! Così egli pur fece in altre gravi
questioni ch'io non dico. Questa bruita lacuna può essere riempiuta
dalle mie Consideraùonisul Libro del Principe di Machiavelli, e da quel
brano delle Effemeridi del Gualtieri pubblicato dal benemerito Vieus-
seux. Nessuno dopo di essi dirà che le enormezze ed astuzie di quei
banditi erano novelle di cerretani.
A pag. XIX.
Nel capitolo terzo del Libro del Principe , dove Machiavelli si la-
gna che Luigi XII avesse diviso il Regno di Napoli con Ferdinando
di Aragona, e messo così in Italia un forestiere potentissimo, egli dà
bensì qualche barlume del costui futuro ingrandimento: ma in un
tempo che Carlo Quinto non era ancora salito sul trono né dell' Im-
pero Germanico né delle Spagne, e che l' Italia era ancora contrastala
tra i Francesi, gli Spagnuoli, i Veneziani e la Chiesa, e prima delle
grandi prove e vicende di Francesco I, come potea prevedersi la
preponderanza spagnuola in Italia? Quel Libro fu scritto nel 1513;*
nel qual anno in Ispagna regnava tuttavia Ferdinando, gelosissimo
della propria autorità che a stento divideva coli' erede di Isabella,
Massimiliano in Germania, e Carlo era per anco un fanciullo : e al-
lorché questi successe ai suoi potenti avoli, essendo scomparso ogni
spiraglio per l'italica indipendenza, Machiavelli avea già deposti i pen-
sieri monarchici , com' io dimostro a carte trentasei. Vana essendo
oramai ogni cura, vano ogni pensiero di ridurre l'Italia sotto una
sola Signoria, le cure di lui eransi riconcentrate tutte in Firenze; in
quella sua nobil patria, di cui la morte, sopravvenutagli nel 1527,
gli tolse vedere gli ultimi sforzi repubblicani e la miserabil caduta,
che fu pure il principio della universale decadenza italiana.
A pag. XXII.
Prima del secolo decimosettimo, i nobili fiorentini , veneziani e
lombardi ^ non sdegnavano il commercio ed il lavoro : ma da indi in
* Vedi Jnnali d' Italia , ali* anno 1586.
3 Come appare dalla famosa leUera a Francesco Vettori, in data de' dieci
di decemLre lóiiJ.
3 Vedi Pecchio, Storta dell' Economia politica in Italia t lotroduxione. —
lVi considerazioni
poi l'influenza preponderante della Spajfna, donde e manifatture e
traffichi erano gran tempo in bando, introdusse per tuiia Italia In-
sieme colle sue foggia i pregiudizi aristocratici, e quello che da lei
ebbe il nome di ozio spagnuido, che reputavano ogni industria, per
quanto utile ed onorevole fosse, un' arte meccanica. Le quali scioc-
che opinioni ed abitudini lasciaronvi sì lunghi e profondi vestigi,
che ancor dopo la decadenza di codesta monarchia , ancor dopo le
felici riforme dì Maria Teresa e di Giuseppe Angusti , ancor dopo i
fiiosoQ e gli economisti del secolo decìmotlavo e le scosse della ri-
voluzione francese, ne rimase fra noi qualche traccia. Quanto non
stentarono a prendervi stabii piede le grandi intraprese nurcanlili ,
le società anonime, le strade ferrate, gli studi economici! Si suuie
attribuirlo al vivere sedentario d'un popolo agricola, il quale, av-
vezzo ad una limitata ed unif<»rme sfera di azione, ai più o men
presti proventi, ed alla materiale loro certezza, non è, come dicono,
di sua natura disposto ad aspettare i lenti ritorni dei capitali ed
Illa fiducia nel cretliio. Ma eran tali i nostri maggiori prima della
dominatiune spagnuola T Combinavano essi la coltivazione d'un ter-
mo fertilissimo con qnclla dell* industria e della mercatura. Non la
fecundità del suolo, non I* agricoltura , ma quella trista influenza
produsse e mantenne lungamente in Italia un'avversione airaitività
industriale.
A pag. XXX e Lli.
Se Napoleone avesse o meglio compresi o avuti maggiormente
a memoria o più apprezzati i consigli di Macliiavelli,' segnata-
niente nei capitoli 3, 7 e 9 del Principe, e 26, 37 e 40 del li-
bro primo dei Disconi, forse non sarebbe caduto dal trono. Riso-
luto ed audacissimo in guerra, in politica, < pigliò talora certe vie
del mezzo che gli furono dannosissime: » < le ofl'ese che faceva, non
eran fatte in modo che non temessero la vendetta: » f cercò di
avere amici coloro che non gli potevano essere amici: te non s;«pcva
indursi, egli uomo nuovo, a fare ogni cosa nuova con nuovi uo-
mini, > « i quali riconoscendo lo stalo da lui, e non avendo altro
appoggio, in lui solo si fidassero. » Insomma, o non seppe o non
volle essere V uomo prudente di Machiavelli: il quale (mi perdonino
quelle grandi anime di Fouché e di Talleyrand) di queste cose in-
Verri, Memorie ttoriche, pag. 63-64-93 e Mg., dovt cita il decreto del Collegio
dei GiareconsulU di Milaoo, del ià93, che escluse i commercianti dalla noLiilà.
Emo era il solo corpo municipale che poteste provarla.
4 Eppure lo avea commeotato.
iiUL LIBRO DEL PRINCIPE. tVlI
tendevasi assai più che i politici di Francia , coni* egli pur disse a
quel vanaglorioso Cardinal di Roano,' che per l'uzzolo di divenir
papa fece il diavolo e peggio: eppure, benché passasse per gran po-
litico, non vi riuscì. Qual fortuna per Napoleone, se alle virtù mi-
litari di Francia avesse accompagnata la civil prudenza italiana!
A pag. XXXVI.
Entrava egli nell'animo di Machiavelli, che ad effettuare l'ita-
liana unità monarchica, di cui parla nei libro del Principe, fosse
necessaria l'abolizione del dominio temporale dei papi? Ciò ch'ei ne
disse al Cardinal di Roano, ^ e il capitolo duodecimo del libro primo
dei Discorsi, non ne lasciano alcun dubbio; e in quello istesso del
Principe, al capitolo undecimo, non si vede chiaro, se nel parlare
della sicurezza e felicità dei principati ecclesiastici egli facesse da
burla 0 da vero , se un encomio o non piuttosto una satira , come
anche fece in altre materie consimili. Ma, d'altra parie, i suoi due
spiragli per la redenzione d'Italia, chi erano? figlio l'uno, l'altro
nipote di un p:ipa. Da chi doveano essere indirizzati e sostenuti
nell'ardua impresa? da due papi. La temporale podestà dei ponte-
fici, un principato mantenuto dagli ordini anliquali della religione, erdi
il primo fondamento a sollevare e costituire il suo principe. Or io
domando altresì: e, costituito ch'ei fosse come voleva il Segretario,
ne avrebbe il papale dominio veduto sempre di buona voglia l' in-
grandimento e la potenza? Secondo ciò che si legge in quel capitolo
dei Discorsi, sarebbe avvenuto il contrario. « La cagione che l'Ita-
lia non abbia anch' ella, come la Francia e la Spagna, un principe
che la governi, è, diceva egli, solamente la Chiesa: il che tiene
questa nostra provincia divisa, ed è cagione della rovina nostra; »'
con quel che segue. Contradiceva dunque Machiavelli a sé mede-
simo? Lo crederà un lettore superficiale; ma chi attentamente lo
esamini e maturamente lo intenda nelle varie sue opere, troverà
quella contradizione piuttosto apparente che reale. Era l'Autor nostro,
com' io pur dimostrai a carte xxxii e xxxiif, l' uomo delle circostanze,
11 quale variava col variare di quelle; e con esempi antichi e nuovi
dimostrava, dovere gli uomini riscontrare il modo del proceder loro
coi tenjpi, e secondo questi mutare ordine nel maneggiarsi.* Amava
* Giorgio d* Amboise, arcivescovo di Roaao. Vedi il tap, 3 del liLro
del Principe.
a Vedi ibidem.
3 Discorsi, libro I, cap. 42,
* Vedi ibidem , lib. Ili, cap. 9. — Lo stesso dice nel lib. I delle Istorie
fiorentine.
LVIII CONSIDERAZrONI
e disamava, voleva e disvoleva la persona e la cosa Istessa, secon*
dochè i tempi consigliassero di far l'uno o l'altro. In quelle s^ mu-
tabili sorli d'Italia diveniva in lui costanza il mutar pensiero. All'io*
dipendenza italiana, finché se ne mostrava qualche spiraglio in
alcuno, avrebbe sagrificata la libertà di Firenze, che prediligeva pur
tanto quando cessava quello spiraglio. Gli avvenimenti risvegiìavan-
gli or questo affetto or quello; * ma tutto era pel maggior bene della
sua patria e dell' Italia.^ In sino a tanto che il duca Valentino gli
parve acconcio alla redenzione italica, lo amò ed apprezzò; poi,
quando riprovollo la fortuna, più non curossi di lui, perchè avea
cessato di essere un opportuno strumento al suo favorito disegno
ìnonarchico ed italico.* Cosi pure nel presente caso piaceagll l'ele-
mento ecclesiastico per innalzare il suo ideato edilizio d'un principe
italiano; e se mai questo avesse avuto luogo, lo stesso amore della
italica unità ed indipendenza lo avrebbe indotto a consigliare Ce-
sare Borgia 0 Lorenzo a spezzare lo stromenlo di cui si erano
valsi nelle prime lor mosse , a lòr di mezzo il papale dominio tem-
porale, che, come dice,* e era cagione che l'Italia non potesse
venir tutta sotto un capo. » * Cosi fa la politica che sappia e vo-
glia, comunque siasi, accomodarsi alle circost.inze, erit^scire a ogni
modo nell'intento suo; non come fece il gonfaloniere Sederini, che
perciò appunto rovinò sé e la sua patria.* Essa muove il cattolico
Carlo Quinto ' a far assediare da sfrenali luterani in Castel Sani' An-
* Vedi il testo a carte xxxri e xxxvit.
* m Manlrnere l'indipendenEa fra le hurratrbedi quelle guerre, era per gli
Slati italiani difficile impresa. InMacliiavelli noi vediamo lo sfurzo di procacciare
un tale bene6cio alla sua patria Firenie, ansi ,p<>tsil>ilmente, a tutta l'Italia. Noi
dolibiamo riconoscere in lui un verace amor di patria L'unita dell'Italia e
l'ultimo scopo de' suoi desideri!... » Vedi Ver Furst des Ntccolò Machiavtlli,
uebersetit and eingefeilet von Dr. Karl Riedel, 1S41 ; nel quale anno appunto ia
pultLlicava le mie Consideratiom.
* Come dimostra nella sua prima Legazione alla Corte di Roma, quando
già le cose del Valentino « andavano ali* ingiù, ed egli sdrucciolava nell'avello.»
Lo stesso fa nei Decennali. Era colui già « riprovato dalla fortuna , •» non piìi
m ordinato da Dio per la redenzione italica. •
* Lib. I, cap. 13, dei Discorsi.
' Per tal modo si può conciliare il mìo pensiero con quello del mentovato
Riedel, a pag. 38-39 della sua EinlelUmg alla traduzione del Principe j «eb-
bene, a dir vero, egli trascorra un po' troppo, e vegga in Machiavelli troppo
più che non comportava il suo secolo.
6 Vedi il lib III, cap. 9 dei Discorsi.
' « Che libri di leligione leggesse questo monarca, non vel saprei dire.
Di questa sfigurata religione viene accusato anche Cosimo I de' Medici gran-
duca di Fireuxe, » dice il Muratori, Annali d' Italia: kn. i540.
SUL LIBRO DEL PRINCIPE. LlX
gelo quel papa istesso, da cui poi prende riverentemente in Bologna
la corona ferrea e i' imperiale ; induce ad allearsi co' Turchi e cogli
eretici, contro i cristiani e i cattolici, Francesco I re di Francia, ze-
lante persecutore dell'eresia; consiglia Napoleone a giovarsi di Pio
Settimo per convalidare la sua assunzione al trono, e poi a privarlo
di tutto ciò che contrasta a' suoi ambiziosi disegni : né con queste sì
opposte maniere di procedere i famosi monarchi contradicevano a
sé stessi, siccome quelli che con diversi mezzi servivano ad un
fine solo, alla politica loro; politica interessata, la quale rispettava
la religione e il capo di essa quando vi trovava il suo vantaggio, e
non la curava nel contrario caso. E quanti altri prìncipi e repubbliche
non la seguirono?* dove almeno quella di Machiavelli mirava ad un
nobile e generoso fine, l'indipendenza italiana, per cui, come egli dice,
« giusta è la guerra, e son pietose le armi.» 'Dalle quali considerazioni
provengono due corollari assai degni di nota: l'uno, che il politico
nostro, rispettivamente alla Chiesa, anziché contradire, era pur sem-
pre consenziente a sé slesso; l'altro, che andrebbe assai errato chi
sospettasse per ciò in lui un riformatore religioso,' Nei vari suoi
scritti non appare alcuna traccia delle dottrine di Lutero e di Cal-
vino, quantunque già germogliassero al suo tempo, e preparassero
gli animi alla rivoluzione religiosa che stavasi per effettuare o per
tentarla; il che poi avvenne quando eravi disposto il terreno, come
sempre accade di ogni rivoluzione qualsiasi. * Era egli un politico
pratico, non un filosofo, molto meno un teologo; e nella religione
non trovava che un mezzo per ottenere un fine politico, conforme
chiaro si vede nei capitoli H e 21 del Principe e nei capitoli il e
seguenti del lib. I dei Discorsi: ed io mi rendo certo, che se egli
fosse nato un mezzo secolo più tardi, allorché la Riforma andava
già propagandosi,^ anziché entrare in controversie religiose di cui
< Segnatamente con le scambiate religioni per l'acquisto d'un trono o per
UB regio parentado.
2 cap. 26 del Principe. *
5 Come par che creda G.-C. Gervinus (ffist Schrijìen , pag. i 39). Anche
nel capitolo primo del HI). Ili dei Discorsi ,\k dove parla degli ordini religiosi di
San Francesco e di San Domenico, i quali, come dice, « ritirarono la nostra reli-
• gione verso il suo principio, »» altro egli non ebhc in animo che di fare una mor-
dace salirà dei prelati e capi di essa religione, come pur fece nel cap. 5 del lib. II
dei delti Discorsi, e nel cap. II del Principe.
* Vedi il mio Discòrso : Del/e cause da cui derivarono parecchie altera-
zioni nelle storie antiche, inserito nel tomo 13 del Giornale dell' I. R. Istituto
Lombardo.
* Efficacemente in Germania, nel Norie, nella Svizzera e nei Paesi Bassi;
con inutili tentativi in Frapcia ed in Italia.
LX CONSIDERAZIONI
ben poco cura vasi, avrebbe calcolalo, quale delle religiose credenze
meglio servisse ai politici suoi fini, e là si sarebbe gellato, dove
avesse veduto un util maggiore: avrebbe faito quello che pur
fecero i principi del secolo decimosesto; de' quali alcuni abbraccia-
rono le nuove dottrine, che ne estendevano l'autorità e ne arric-
chivan l'erario colla primazia religiosa e collo spoglio delle chiese
e dei conventi; altri le perseguitarono, perchè temevano, non forse
i novatori religiosi diventassero novatori politici: motivi l'uno e l'al-
tro del rapido incremento dell'eresia, delle guerre religiose di Carlo
Quinto, delle barbare leggi di Francesco I contro gii eretici, degli
orrori delle due Leghe in Francia, e dell'atroce Inquisizione spa-
gnuola.' Pei principi di quel tempo fu questa una quistione viepiù
di interessi politici che di coscienza:^ età corrotta ed incredula,
in cui allo stesso caltolicismo pel ravvedimento e la naturale rea-
zione, pel salutare Concilio di Trento e per la migliorata disciplina
ecclesiastica, che ne furono la conseguenza, giovò forse la stessa
eresia.
e Lutero, dice il preallegato Riedel,' con un po' meno di teo*
logia e con un po' più di politica, avrebbe potuto diventare per la Ger-
mania ciò che Machiavelli si sforzava di essere per l'Italia; ma egli
commise i' imperdonabile errore di annodare a interessi particolari
il distacco d' una chiesa tedesca , e così perdette di vista il grande
pensiero della patria. Non ,mai stanco dal predicare contro il Gran
Turco, rimanevasi muto contro gli interni nemici della grandezza e
felicità della Germania: uomo senz'anima per risvegliare il senli-^
* Ferdinando d'Aragona , fondatore della Inquisiiione di Spagna, nella cui
corte, com'io pur dissi a carte xxv, •• le promesse erano un larcio. un giuoco i
giuramenti, un nome vano la fede, •• ed al quale allude con misteriose parole il
Segretario nel e. 18 del Principe j Filippo 11, promotore inderesso di quel tri-
bunale , eppur nemico di Sisto Quinto e di Paolo IV , pontefici ; il Cardinal di
Lorena, capo della Lega Cattolica, che tiene coi principi tedeschi occulte prati-
che per rendere luterana la Francia e divenirne egli il patriarca ; Caterina de'Me-
dici, la quale benché fautrice del cattolicismo, scrive al barone des Adrels, che
•• te a distruggere l'autorità dei Guisa non gli bastavano i cattolici, armasse pure
contro di essi gli ugonotti : • questi e gli altri esempi già ricordati , dimostrano
evidentemente la verità del mio asserto Vedi a m.-iggiore illustrazione il Saggio
Isterico di Eugenio Alberi sulla Vita di Caterina de' Medici, alle pagine 60 e
456; e la Bevue des Deiix MondeSy T. XI V, nouvelle sèrie ^ pag. 6>)0 et suiv.
' « Ce n'est pas, à proprement parler, une affaire de religion , mais une
affaire politique; » scriveva all'ugonotto barone dei Adreta la cattolica Cate-
rina. « Par quelque voie que ce fùt, » soggiungeva essa, « pour le lervice
de Dieu. la de'livrance du roi et de la reine, et conservation de son e'tat. •
£ fu orribilmente obbedita. Vedi Revtie des Deitx Mondes , al tomo citato.
' Ibidem , pagina 40.
f
SUL LIBRO DEL PRINCIPE. LXI
mento nazionale. Slava in poter di Lutero lo scongiurare le tempe-
ste e le indicibili sciagure della guerra dei trent'anni, di cui potè
vedere egli stesso a' suoi giorni i lampi precursori, e quelle altresì,
che hanno ancor da venire sulla nostra cara patria. » Piacemi ve-
ramente di vedere questo dotto e generoso Alemanno giustificare
le dottrine del nostro grande politico, e comprenderlo assai più che
non l'abbian compreso parecchi letterati italiani:* credo anch'io,
che Luiero fece male di teologizzare senza modo; ma non so, se il
famoso riformatore avrebbe potuto « essere per la Germania ciò che
Machiavelli si sforzava di essere per l'Italia. » Il potentissimo e
dispotico Carlo Quinto, quel solo che potesse allora effettuarvi il
disegno della unità monarchica, non avrebbe avuto né la pazienza
ne il bisogno di ascoltare le libere parole dell'audace frate di Eisle-
ben: il sentimento nazionale che anima odiernamente i popoli te-
deschi, mal poteva essere suscitalo in quelle masse peranco rozze
ed ignoranti, viepiù alte a seguire il riottoso sarto di Leida o la mistica
parola d'un nuovo predicante, che ad intendere un politico o un filo-
sofo; e il solo tentarlo gli avrebbe inimicati que' principi, l'aiuto
dei quali eragli indispensabile per sostenere la sua riforma e salvare
la propria persona contro la potenza imperiale e pontificia. Che sa-
rebbe avvenuto di Lutero e della sua dottrina senza codesto aiuto?
Se il principe di Machiavelli dovea generalizzare ed unire per otte-
nere il suo intento, alla dottrina luterana conveniva lo speci;dizzare
ed il dividere per diminuire le forze de' suoi avversari e propagarsi
al sicuro.
* Che ancor quando yoglion fare il Blosofo o il politico non sanno uscire
dei termini della rettorica: eppur noa mancano di ammiratori!
IL PIUNCIPE,
NICCOLÒ MACHIAVELLI
AL MAGNIFICO LORENZO
DI PIERO DE MEDICI.
Sogliono il più, delle volle coloro che desiderano acquisl'are
grazia appresso un Principe, (arsegli innanzi con quelle cose
che intra le loro abbino più, care, o delle quali vegghino lui più
duellarsi : donde si vede molle volle esser loro presentali cavalli,
arme, drappi d' oro, pietre preziose, e simili ornamenti, degni
della grandezza di quelli. Desiderando io, adunque, offerirmi
alla Vostra Magnificenza con qualche testimone della servitù mia
verso di quella, non ho trovalo intra la mia suppellettile cosa,
quale io abbi più cara o tanto slimi quanto la cognizione delle
azioni degli uomini grandi, imparata da me con una lunga espe-
rienza delle cose moderne, ed una continova lezione delle anti-
che : la quale avendo io con gran diligenza lungamente escogitata
ed esaminala, ed ora in uno piccolo volume ridotta, mando alla
Magnificenza Vostra. E benché io giudichi questa opera inde-
gna della presenza di quella, nondimeno confido assai, che per
sua umanità gli debba essere accetta ; consideralo che da me
non gli possa essere fatto maggior dono , che darle facullà a po-
ter in brevissimo tempo intendere lutto quello che io in tanti
anni , e con tanti miei disagi e pericoli, ho conosciuto ad inteso:
la quale opera io non ho ornala né ripiena di clausole ampie, o
di parole ampullose o magnifiche, o di qualunque altro lenoci-
nio 0 ornamento estrinseco, con li quali molli sogliono le lor
cose descrivere ed ornare ; perchè io ho voluto o che veruna ì
cosa la onori, o che solamente la verità della materia e la gra- ì
vita del soggetto la faccia grata. Né voglio sia riputala presun- [
zione, se uno uomo di basso ed infimo sialo ardisce discorrere
e regolare i governi de' Principi : perchè cosi come coloro che
disegnano i paesi, si pongono bassi nel piano a considerare la
natura de' monti e de luoghi ahi, e per considerare quella de*
bassi si pongono alti sopra i monti; similmenle a conoscer bene
la natura de' popoli, bisogna esser principe; ed a conoscer bene
quella de' Principi, conviene esser popolare. Pigli adunque Vo^
slra Magnificenza questo piccolo dono con quello animo che io
lo mando : il quale se da quella fia diligentemente considerato
e lello, vi conoscerà dentro un estremo mio desiderio, che lei
pervenga a quella grandezza che la fortuna e le altre sue qua-
lità le promettono. E se Vostra Magnificenza dallo apice della
sua altezza qualche volta volgerà gli occhi in questi luoghi bassi,
conoscerà quanto indegnamente io sopporti una grande e con-
linova malignità di fortuna.
IL PRINCIPE.
Cap. 1. — Quante siano le specie de* principali,
e con quali modi si acquistino.
Tulli gli stati, latti i dominii che hanno avuto ed hanno
imperio sopra gli uomini , sono stati e sono o repubbliche o
principati. I principali sono, o ereditari, de' quali il sangue
del loro signore ne sia slato lungo tentìpo Principe ; o e* sono
nuovi. I nuovi, o sono nuovi lutti, come fu Milano a Fran-
cesco Sforza; o sono come membri aggiunti allo slato ere-
ditario del Principe che gli acquista, come è il regno di Na-
poli al re di Spagna. Sono questi dominii cosi acquistati, o
consueti a vivere sello un Principe, o usi ad esser liberi; ed
acquislansi o con Tarmi d'altri o con le proprie, o per
fortuna o per virtù.
Cap. n. — De* principati ereditari.
Io lascerò indietro il ragionare delle repubbliche, per-
chè altra volta ne ragionai a lungo. Vollerommi solo al prin-
cipato, e anderò, nel rilessero queste orditure di sopra, dis-
putando come questi principali si possono governare e
mantenere. Dico adunque, che nelli siali ereditari, e^ assue-
falli al sangue del loro Principe, sono assai minori didìcultà
a mantenerli, che ne' nuovi : perchè basta solo non trapas-
sar l'ordine de' suoi antenati, e dipoi temporeggiare con
gli accidenti ; in modo che se lai Principe è di ordinaria in-
dustria, sempre si manlerrà nel suo stato, se non è una
strasordinaria ed eccessiva forza che ne lo priva ; e privalo
che ne sia, quanlunche * di sinistro abbia Toccupatore, lo
* Cosi neir edizione del Biado; e qui significa : per tjnanlo poco.
4*
B IL PRl^CIPE.
racquisterà. Noi abbiamo in Italia per esempio il duca di Fer-
rara, il quale non ha retto agli assalti de' Viniziani neir84,
né a quelli di papa Giulio nel 10, per altre cationi che per
essere antiquato in quel dominio. Perchè il Principe naturale
ha minori cagioni e minori necessità di offendere ; donde
conviene che sia più amato: e se slrasordinari vizi non lo
fanno odiare, è ragionevole che naturalmente sia ben voluto
da' suoi, e nell'antichità e continuazione del domìnio sono
spente le memorie e le cagioni delle innovazioni ; perchè
sempre una mutazione lascia lo addentellato per la ediGca-
zione dell'altra.
Cap. III. — De* principati misli.
Ma nel principato nuovo consiistono le didlcultà. £ prima,
se non è tutto nuovo, ma come membro che si può chia-
mare tutto insieme quasi misto, le variazioni sue nascono
in prima da una naturai difflcultà, quale è in tutti li princi-
pati nuovi: perchè gli uomini mutano volentieri signore,
credendo mes^liorare; e questa credenza gli fa pigliar l'arme
contro a chi regge: di che s'ingannano, perchè veggono
poi per esperienza aver peggiorato. Il che depende da un'al-
tra necessità naturale ed ordinaria, quale fa che sempre
bisogna offendere quelli di chi si diventa nuovo Principe, e
con gente d'arme, e con infìnite altre ingiurie che si tira
dietro il nuovo acquisto. Dimodoché ti trovi aver inimici
(ulti quelli che tu hai offesi in occupare quel principato ; e
non ti puoi mantenere amici quelli che vi l'hanno messo,
per non li potere satisfare in quel modo che si erano pre-
supposto, e per non poter tu usare contro di loro medicine
forti, essendo loro obbligato; perchè sempre, ancora che uno
sia fortissimo in sa gli eserciti, ha bisogno del favore de'pro-
vinciali ad entrare in una provincia. Per queste ragioni
Luigi XII re di Francia occupò subilo Alitano, e subito lo
perde ; e bastarono a torgliene la prima volta le forze pro-
prie di Lodovico: perchè quelli popoli che gli avevano af)erle
le porle, trovandosi ingannali della opinione loro e di quel
futuro bene che s'avevano presupposto» non potevano sop-
IL PRINCIPE. 7
portare i fastidii del nuovo Principe. È ben vero che acqui-
standosi poi la seconda volta i paesi ribellali, si perdono con
pili ditTicultà ; perchè il signore presa occasione dalla ribel-
lione, è meno respcttivo ad assicurarsi con punire i delin-
quenti, chiarire i sospetti, provvedersi nelle parti più de-
boli, in modo che se a far perdere Milano a Francia bastò
la prima volta un duca Lodovico che romoreggiasse in
su' confini; a farlo dipoi perdere la seconda, gli bisognò avere
contro il mondo lutto, e che gli eserciti suoi fossero spenti,
e cacciati d'Italia; il che nacque dalle cagioni sopraddette.
Nondimeno, e la prima e la seconda volla gli fu tolto. Le
cagioni universali della prima si sono discorse ; resta ora a
vedere quelle della seconda, e dire che rimedi egli ave-
va, e quali ci può avere uno che fosse ne' termini suoi, per
potersi meglio mantenere nello acquistato, che non fece il
re di Francia. Dico, pertanto, che questi stali i quali acqui-
standosi si aggiungono a uno stato antico di quello che gli
acquista, o sono della medesima provincia e della medesima
lingua, o non sono. Quando siano, è facilità grande a tener-
gli, massimamente quando non siano usi a vivere liberi; e
a possedergli securamente, basta avere spenta la linea de) <
Principe che li dominava; perchè nelle altre cose, mante- j
nendosi loro le condizioni vecchie, e non vi essendo disfor-
mità di costumi, gli uomini si vivono quietamente: come si
è visto che ha fatto la Borgogna, la Brettagna, la Guasco-
gna e la Normandia, che tanto tempo sono state con Fran-
cia; e benché vi sia qualche disformità di lingua, nondi-
meno i costumi sono simili, e possonsi tra loro facilmente
comportare: e a chi le acquista, volendole tenere, bisogna ,
aver duoi rispetti: l'uno che il sangue del loro Principe)
antico si spenga; l'altro di non alterare né loro leggi né\
loro dazi ; talmenteché in brevissimo tempo diventa con il
loro principato aulico lutto un corpo. Ma quando si acqui-
stano slati in una provincia disforme di lingua , di costumi
e d'ordini, qui sono le dilTicultà, e qui bisogna avere gran
fortuna e grande industria a tenerli : ed uno de* maggiori
rimedi e più vivi sarebbe, che la persopA di chi gli acquista
,Yi andasse ad abitare. Questo farebbe più sicura e più dura-
8 IL PRINCIPE.
bile quella possessione : come ha fatto il Turco di Grecia ;
il quale con tutti gli altri ordini osservati da lui per tenere
quello stato, se non vi fosse ito ad abitare, non era possi-
bile che lo tenesse. Perchè standovi, si vejigono nascere i
disordini, e presto vi si può rimediare ; non vi stando, s' in-
tendono quando sono grandi, e non vi è più rimedio. Non
è, oltre a questo, la provincia spogliata da'Iuoi otTìciali, satis-
fannosi i sudditi del ricorso propinquo al Principe : donde
hanno più cagione di amarlo, volendo essere buoni; e vo-
lendo essere altrimenti , di temerlo. Chi degli esterni vo-
lesse assaltare quello stato, vi ha più rispetto ; tantoché abi-
tandovi, Io può con grandissima difllcultà perdere. 1/ altro
miglior rimedio è mandare colonie in uno o in duoi luoghi,
che siano quasi le chiavi * di quello slato ; perchè è neces-
sario o far questo, o tenervi assai gente d'arme e fanterie.
Nelle colonie non spende molto il Principe, e senza sua
spesa, o poca, ve le manda e tiene: e solamente ofTendo
coloro a chi toglie li campi e le case per darle a* nuovi abi-
tatori, che sono una minima parte di quello stato: e quelli
che egli offende, rimanendo dispersi e poveri, non gli pos-
sono mai nuocere: e tutti gli altri rimangono da una parte
non offesi, e per questo si quietano facilmente; dall'altra
paurosi di non errare, perchè non intervenisse loro corno
a quelli che sono stati spogliati. Conchiudo che queste co-
lonie non costano, sono più fedeli, ofTendono meno: e gli
offesi, essendo poveri e dispersi, non possono nuocere,
come ho detto. Perchè si ha a notare, che gli uomini si
debbono o vezzeggiare o spegnere ; perchè si vendicano
delle leggieri offese; delle gravi non possono : sicché l'offesa
che si fa all'uomo, deve essere in modo che la non tema
la vendetta. Ma lenendovi, in cambio di colonie, gente d'ar-
me, si spende più assai, avendo a consumare nella guardia
j tutte l'entrate di quello stato; in modo che l'acquislato gli
j torna in perdila, ed offende mollo più, perchè nuoce a tutto
( quello slato, tramutando con gli alloggiamenti il suo cscr*
* llMS.Laufenziano, seguito quasi che in tutto nella edltioat Jcl ISI3,
ha : siert9 (Jaàsi compedi.
IL PRKNCIPE. * 9
cito : del qual disagio ognuno ne sente, e ciascuno li di-
venta nimico, e sono inimici che gli posson nuocere,
rimanendo battuti in casa loro. Da ogni parte, dunque, questa
guardia è inutile, come quella delle colonie è utile. Debbe
ancora chi è in una provincia disformo, come è detto, farsi
capo e difensore de* vicini minori potenti, ed ingegnarsi
d' indebolire i più potenti di quella, e guardare che per ac-
cidente alcuno non vi entri «no forestiere non meno po-
tente di lui : e sempre interverrà che vi sarà messo da
coloro che saranno in quella malcontenti, o per troppa am-
bizione 0 per paura ; come si vide già che gli Etoli missero
li Romani in Grecia; ed in ogni altra provincia che loro
entrarono, vi furon messi dai provinciali. E l'ordine della
cosa è, che subito che un forestiere potente entra in una
provincia, tutti quelli che sono in essa men potenti gli
aderiscono, mossi da una invidia che hanno contro a chi è
stato potente sopra di loro: tantoché, rispetto a questi mi-
nori potenti, egli non ha a durare fatica alcuna a guada-^
guarii, perchè subito tutti insieme volentieri fanno massa
con lo stato che egli vi ha acquistato. Ha solamente a pen-
sare che non piglino troppe forze e troppa autorità ; e facil-
mente può con le forze sue e col favor loro abbassare
quelli che sono potenti, per rimanere in tutto arbitro di quella
provincia. E chi non governerà bene questa parte, perderà
presto quello che ara acquistato; e mentre cheto terrà, vi ara
dentro infinite ditlìcultà e fastidi. I Romani, nelle provincie
che pigliarono, osservaron bene queste parti ; e mandarono
le colonie, intrattennero i men potenti, senza crescer loro
potenza; abbassarono li potenti, e non vi lasciaron prendere
l'iputazione a' polenti forestieri. E voglio mi basti solo la pro-
vincia di Grecia per esempio. Furono intrattenuti da loro gli
Achei e gli Etoli, fu abbassato il regno do' Macedoni, funne
cacciato Antioco: né mai li meriti degli Achei o degli Etoli
fecero che permettesser loro accrescere alcuno stato, né le
persuasioni di Filippo gì* indussero mai ad essergli amici
senza sbassar}o, né la potenza di Antioco potè fare gli con-
sentissero che tenesse in quella provincia alcuno stato. Per-
chè i Romani ferono in questi casi quello che lutti i Principi
40- IL PRI^XIPE.
savi debbon fare: li quali non solamente hanno aver ri-
goardo alli scandoli presenti, ma alli fuluri, ed a quelli con
ogni industria riparare; perchè prevedendosi discosto, facil-
mente vi si può rimediare; ma aspellando che li s'appres-
sino, la medicina non è più a tempo, perchè la malattia è di-
venuta incurabile : ed interviene di questa come dicono i
medici della elica, che nel principio suo è facile a curare, e
dilTicile a conoscere; ma nel corso del tempo, non l'avendo
Inel principio conosciuta né medicala, diventa facile a co-
Doscere, e difTìcile a curare. Così interviene nelle cose dello
stato: perchè conoscendo discosto (il che non è dato se non
a an prudente) i mali che nascono in quello, si guariscon
presto; ma quando, per non gli aver conosciuti, si lascino
crescere in modo che ognuno li conosce, non vi è più rime-
dio. Però i Romani vedendo discosto gl'inconvenienti, li ri-
mediarono sempre, e non gli lasciaron mai seguire per fug-
Igire una guerra; perchè sapevano che la guerra non si lieva,
ma si differisce con vantaggio d'altri: perù volsero fare con
Filippo ed Antioco guerra in Grecia, per non l'avere a fare
con loro in Italia ; e potevano per allora fuggire l'una e l'al-
tra t il che non volsero ; né piacque mai loro quello che tutto
di é in bocca de* savi de' nostri tempi, godere li heifiefìcii del
tempo ; ma bene quello della virtù e prudenza loro : perchè
il tempo si caccia innan7.i ozni cosa, e può condurre seco
bene come male, male come bene. Ma torniamo a Francia,
ed esaminiamo se delle cose dette ne ha fatto alcuna : e par-
lerò di Luigi, e non di Carlo, come di colui del quale, per
aver tenuto più lunga possessione in Italia, si sono meglio
visti li suoi andamenti; e vedrete come egli ha fatto il con-
trario di quelle cose che sì debbono fare per tenere uno stato
disforme. 11 re Luigi fu messo in Italia dall'ambizione de' Vi-
niziani, che volsero guadagnarsi mezzo lo stato di Lombardia
per quella venula. Io non voglio biasimare questa venuta o
partito preso dal re; perchè volendo cominciare a mettere
un piede in Italia, e non avendo in questa provincia amici,
anzi essendoli, per li portamenti del re Carlo, serrale tulle lo
porle, fu forzato prendere quelle amicizie che poteva: e sa-
rebbeli riuscito il pensiero ben presto, quando negli altri ma-
IL PRINCIPE. iì
ncggi non avesse fatto errore alcuno. Acquistata, adunque, il
re la Lombardia, si riguadagnò subito quella reputazione che
li aveva tolta Carlo; Genova cedette; i Fiorentini gli diventa-
rono amici; marchese di Mantova, duca di Ferrara, Befitivogli,
madonna di Furlì, signore di Faenza, di Pesaro, di Rimino,
di Camerino, di Piombino, Lucchesi, Pisani, Sanesi, ognuno
se li fece incontro per esser suo amico. Ed allora poterono
considerare li Viniziani la temerità del partito preso da loro;
i quali, per acquistar due terre in Lombardia, fecero signore 1
il re di duoi terzi d' Italia. Consideri ora uno con quanta po-
ca difficullà poteva il re tenere in Italia la sua reputazione,
se egli avesse osservate le regole sopraddette, e tenuti securi
0 difesi tutti quelli amici suoi, li quali, per esser gran nu- f
mero, e deboli, e paurosi chi della Chiesa, chi de' Viniziani, i
erano sempre necessitati a star seco, e per il mezzo loro pò- !
teva facilmente assicurarsi di chi ci restava grande. Ma egli
non prima fu in Milano, che fece il contrario, dando aiuto a
papa Alessandro perchè egli occupasse la Homasna. Né si
accorse, con questa deliberazione, che faceva sé debole, to-
gliendosi li amici, e quelli che se li erano gettati in grembo;
e la Chiesa grande, aggiugnendo allo spirituale, che gli ék
tanta autorità, tanto temporale. E fatto un primo errore, fu
costretto a seguitare; intantochè, per por fine all'ambizione
di Alessandro, e perché noa divenisse signor di Toscana,
gli fu forza venire in Italia. E non gli bastò aver fatto grande
la Chiesa, e toltisi gli amici, che per volere il regno di Na-
poli, lo divise con il re di Spagna; e dove lui era prima ar-
bitro d'Italia, vi messe un compagno, acciocché gli ambi-
ziosi di quella provincia e malcontenti di lui avessero dove
ricorrere; e dove poteva lasciare in quello regno un re suo
pensionario, egli ne lo trasse, per mettervi uno che potesse
cacciare lui. ]& cosa veramente molto naturale e ordinaria [
desiderare di acqu stare; e sempre quando gli uomini lo fanno \
che possine, ne saranno laudati e non biasimati: ma quando '
non possono, e vogliono farlo in ogni modo, qui è il biasimo e
l'errore. Se Francia, adunque, con le sue forze poteva assaltare
Napoli, doveva farlo: se non poteva, non doveva dividerlo.
E se la divisioqe che fece con Viniziani di Lombardia, me-
12 IL PRINCIPE.
rito scasa, per aver con quella messo il pie in Italia; questa
merita biasimo, per non esser scusalo da quella necessità.
Aveva, adunque, Luigi fatto questi cinque errori: spenti i mi-
nori polenti ; accresciuto in Italia potenza a un potente ; mosso
in quella uno forestiere potentissimo; non venuto ad abitarvi ;
non vi messo colonie. Li quali errori ancora, vivendo lui,
I potevano non rolTendere, se non avesse fattoli sesto, di tórre
Io stalo a'Viniziani : perchè, quando non avesse fatto grande
Ila Chiesa, né messo in Italia Spagna, era ben ragionevole
e necessario abbassarli ; ma avendo presi quelli primi par-
tili, non doveva mai consentire alla rovina loro: perchè es-
sendo quelli potenti, arebbono sempre tenuti ^li altri disco-
sto dalla impresa di Lombardia ; si perchè i Viniziani non
vi arebhero consentito, senza diventarne signori loro ; si
perchè gli altri non arebbero voluto tòria a Francia per
darla a loro, e andarli ad urtare ambedui ifon arebbono avuto
animo. E se alcon dicesse : il re Luigi cede ad Alessandro
la Komagna, ed a Spagna il Regno, per fuggire una guerra;
rispondo, con le ragioni dette di sopra, che non si debba mai
' lasciar seguire un disordine per fuggire una guerra ; per-
, cbè ella non si fugge, ma si differisce a tuo disavvantaggio.
) E se alcuni altri allegassero la fede che il re aveva dato
al papa, di far per lui quella impresa, per la risoluzione del
suo matrimonio e per il cappello di Hoano ; rispondo ron
quello che per me dì sotto si dirà circa la fede dei principi,
e come si debba osservare. Ha perduto, adunque, il re
Luigi la Lombardia per non avere osservalo alcuno di quelli
termini osservati da altri che hanno preso provincie, e vo-
lutele tenere. Né è miracolo alcuno questo, ma molto ragio-
nevole ed ordinario. E di questa materia parlai a Nantes con
Roano, quando il Valentino, che cosi volgarmente era chia-
malo Cesare Borgia tìglio di papa Alessandro, occupava
Ila Romagna: perchè, dicendomi il cardinale Roano che
I gr Italiani non s'intendevano della guerra, io risposi che
. i Francesi non s'intendevano dello stato; perchè, inlenden-
i dosene , non lascerebbono venire la Chiesa in tanta gran-
dezza. E per esperienza jìì è visto, che la grandezza in Ita-
lia di quella I e di Spagna, è stala causata da Francia; e la
IL PRINCIPE, 13
rovina sna è proceduta da loro. Di che si cava una regola
generale, quale non mai o raro falla, che chi è cagione che
«no diventi potente, rovina : perchè quella potenza è cau-
sata da colui o con industria o con forza ; e 1' una e V altra
di queste due è sospetta a chi è divenuto potente.
Gap. IV. — Perchè il regno di Dario da Alessandro occu'
paté, non si ribellò dalli successori di Alessandro dopo la
morte sua.
Considerate le difficoltà le quali si hanno in (enere
uno stato acquistato di nuovo, potrebbe alcuno maravigliarsi,
donde nacque che Alessandro Magno diventò signore del-
l'Asia in pochi anni, e non l'avendo appena occupala, mori;
donde pareva ragionevole che tutto quello stalo si ribellassi :
nondimeno li successori suoi se lo mantennero, e non eb-
bono a tenerselo altra difficultà che quella che infra loro
medesimi, per propria ambizione, nacque. Rispondo, come ì
principati de' quali si ha memoria, si trovano governati in
duoi modi diversi : o per un Principe, e lutti gli altri servi, i
quali come ministri, per grazia e concessione sua, aiutano go-
vernare quel regno ; o per un Principe e per baroni, i quali
non per grazia del signore, ma per antichità di sangue ten-
gono qugl grado. Questi tali baroni hanno stati e sudditi pro-
pri, li quali gli riconoscono per signori, ed hanno in loro
naturale atTezione. Quelli stati che si governano per un Prin-
cipe e per servi, hanno il loro Principe con più autorità;
perchè in tutta la sua provincia non è alcuno che riconosca
per superiore se non lui; e se ubbidiscono alcuno altro, lo
fanno come a ministro e ufficiale, e non gli portano particulare
amore. Gli esempi di queste due diversità di governi sono,
ne* nostri tempi, il Turco e il re di Francia. Tutta la monar-
chia del Turco è governata da un signore; gli altri sono
suoi servi: e distinguendo il suo regno in sangiacchi, vi
manda diversi amministratori, e gli muta e varia come pare
a lui. Ma il re di Francia è posto in mezzo d' una moltitudine
antica di signori riconosciuti da' loro sudditi, ed amati da
quelli; hanno le loro preminenzie; né le può il re tórre loro
i4 IL PRINCIPE.
senza suo pericolo. Chi considera, adunque, l'uno e l'altro di
questi stati, troverà ditTicullà nell* acquistare Io stalo del
Turco ; ma vinto che sia, è facilità grande a tenerlo. Le ca-
gioni delle ditTicuità in potere occupare il regno del Turco,
sono per non potere Toccupatore esser chiamato da' prin-
cipi di quel regno, né sperare con la rebellione di quelli
ch'egli ha d'intorno poter facilitare la sua impresa: il che na-
sce dall^ ragioni sopraddette. Perchè, essendogli lutti schiavi
ed obbligati, si possono con più dilìlcultà corrompere ;e quando
bene si corroiùpessino, se ne può sperare poco utile, non po-
lendo quelli tirarsi dietro i populi per le ragioni assegnale.
Onde, a chi assalta il Turco è necessario pensare di averlo a
trovare unito, e li conviene sperare più nelle forze proprie
che ne'disordini d'altri: ma Tinto che fusse, e rotto alla cam-
pagna in modo che non possa rifare eserciti, non s' ha da
dabilare d'altro che del sangue del Principe; il quale spento,
non resta alcuno di chi s'abbia a temere, non avendo gli
altri credito con i popoli: e come il vincitore avanti la vit-
toria non poteva sperare in loro, cosi non debbe depo quella
temere di loro. 11 contrario interviene ne' regni governali
come è quello di Francia, perchè con facilità puoi entrarvi,
guadagnandoti alcuno barone del regno; perchè sempre si
trova dei malcontenti, e di quelli che desiderano innovare.
Costoro, per le ragioni delle, li possono aprir la via a quello
stato, e facilitarli la vittoria : la quale da poi a volerli man-
tenere, si lira dietro infìnile difllcultà, e con quelli che ti
hanno aiutato, e con quelli che tu hai oppressi. Né ti basta
spegnere il sansiue del Principe; perchè vi rimangono quelli
signori, che si fanno capi delle nuove alterazioni ; e non li po-
lendo contentare né spegnere, perdi quello stato qualunque
volta venga l'occasione. Ora, se voi considerrete di qual na-
tura di governi era quello di Dario, lo troverete simile al regno
del Turco: e però ad Alessandro fu necessario prima urlarlo
tutto e lòrgli la campagna; dopo la qual vittoria essendo Dario
morto, rimase ad Alessandro quello stato securo per le ra-
gioni sopra discorse. E li suoi successori, se fussino stati
uniti, se lo potevano godere oziosi: né in quel regno nac-
quero altri tumulti, che quelli che loro propri su^citaroau.
I
IL PRINCIPE. d5
Ma gli stati ordinati come quello di Francia, è impossibile
possedergli con tanta quiete. Di qui nacquero le spesse re-
bellioni di Spagna, di Francia e di Grecia da*Ronaani, per
li spessi princi[)ali che erano in quelli stati: de' quali mentre
che durò la memoria, sempre furono i Romani incerti di
quella possessione; ma spenta la memoria di quelli, con la
potenza e diuturnità dell' imperio ne diventarono securi pos-
sessori. E poterono dipoi anche quelli, combattendo ira loro,
ciascuno tirarsi dietro parte di quelle provincie, secondo
l'autorità vi aveva preso dentro ; e quelle per essere il san-
gue del loro antico signore spento, non riconoscevan altri
che i Romani. Considerando adunque queste cose, non si ma-
raviglierà alcuno della facilità che ebbe Alessandro a tenere
Io stato d'Asia, e delle diflìcultà che hanno avuto gli altri a ,
conservare l'acquistato; come Pirro e molli altri: il che non 1
è accaduto dalla poca o molta virtù del vincitore, ma dalla 1
disformità del suggello. ^
Gap. V. — In che modo siano da governare le cillà o primi'
pali, quali prima che occupali fussino, vitevano con le loro
leggi.
Quando quelli stati che s* acquistano , come è detto, sono
consueti a vìvere con le loro leggi e in libertà, a volerli
tenere ci sono tre modi. Il primo è rovinarli; l'altro an-
darvi ad abitare personalmente; il terzo lasciargli vivere
con le sue leggi, tirandone una pensione, e creandovi den-
tro uno slato di pochi, che te lo conservino amico. Perchè,
essendo quello stato creato da quel Principe, sa che non può
slare senza l'amicizia e potenza sua, e ha da fare il tutto
per mantenerlo: e più facilmente si tiene una città usa a vi-
vere libera con il mezzo de' suoi cittadini, che in alcuno al-
tro modo, volendola preservare. Sonoci per esempio gli Spar-
tani e li Romani. Gli Spartani tennero Atene e Tebe crean-
dovi uno slato di pochi: nientedimeno le perderonp. I
Romani per tenere Capua, Carlaaine e Numanzia, le disfe-
cero, e non le perderono. Volsero tenere la Grecia quasi come
la tennero gli Spartani , facendola libera e lasciandole le sue
m IL PRINCIPE.
leggi ; e non saccesse loro: in modochè furono costrelti dis-
fare molle cillà di quella provincia, per tenerla ; perchè in
verità non ci è modo sicuro a possederle, altro che la rovina.
E chi diviene padrone di una città cotìsuela a vivere Ubera,
e non la disfaccia, aspetti di essere disfatto da quella; per-
chè sempre ha per refugio nella rebellione il nome della li-
bertà, e gli ordinf antichi suoi, li quali né per lunghezza di
tempo né per beneGcii mai si scordano : e per cosa si fac-
cia o 8i provvegga, se non si disuniscono o dissipano gli
abitatori, non si dimentica quel nome né quelli ordini,
ma subito in ogni accidente vi si ricorre ; come fé Pisa
dopo tanti anni * che ella era stata posta in servitù da' Fio-
rentini. Ma quando le città o le provincie sono use a vivere
sotto un Principe, e quel sangue sia spento; essendo da una
parte use ad ubbidire, dall'altra non avendo il Principe
vecchÌo7 farne uno infra loro non s'accordano; vivere li-
beri non sanno: dimodoché sono più tardi a pigliar l'armi,
e con più facilità se li può un Principe guadagnare, e assicu-
rarsi di loro. &la nelle repubbliche è maggior vita, maggior
odio, più desiderio di vendetta; nèffli lascia né può lasciare
riposare la memoria dell'antica libertà: talché la più sicura
via è spegnerle, o abitarvi.
Cip. vi. — De* principati nuovi, che con le proprie armi ,
e virtù t* cuquiitano.
Non si maravigli alcuno se nel parlar che io farò de* prin-
cipati al tutto nuovi e di Principe e di slato, io addurrò gran-
dissimi esempi: perché, camminando gli uomini quasi sempre
per le vie battute da altri, e procedendo nelle aziorii loro*
con le imitazioni, né si polendo le vie d'altri al tutto tenere,
né alla virtù di quelli che tu imiti aggiugnere; debbo un uomo
prudente entrare sempre per vie battute da uomini grandi,
e quelli che sono stali eccellentissimi imitare, acciocché se
la sua virtù non v'arriva, almeno ne renda qualche odore;
e far come gli arcieri prudenti , a* quali parendo il luogo
dove disegnano ferire troppo lontano, e conoscendo fino a
' U MS. LaureiuiaQo 1 1' edizione del iSlZtdopo cento anni.
IL PRINCIPE. il
quanto arriva la virtù del loro arco, pongono la mira assai
più allo che il luogo destinato, non per aggiugnere con la
loro forza o freccia a tanta altezza, ma per potere con l'aiuto
di si alla mira pervenire al disegno loro. Dico, adunque, che
ne'principati in tutto nuovi, dove sia un nuovo Principe, si
trova più o meno difiìcultà a mantenerli, secondo che più
o meno virtuoso è colui che gli acquista. E perchè questo
evento di diventar di privato Principe presuppone o virtù
o fortuna, pare che l' una o l' altra di queste due cose miti-
ghino in parte molte ditfìcultà. Nondimeno, colui che è stato |
manco in su la fortuna, s' è mantenuto più. Genera ancora ^ *
facilità l'esser il Principe costretto, per non aver altri
stati, venirvi personalmente ad abitare. Ma per venire a
quelli che per propria virtù, e non per fortuna, son diven-
tati Principi; dico che li più eccellenti sono Moisè, Ciro, Ko-
mulo, Teseo e simili. E benché di Moisè non si debba ra-
gionare, essendo stato un mer^ esecutore delle cose che gli
erano ordinate da Dio; pure merita di essere ammirato
solamente' per quella grazia che lo faceva degno di parlare
con Dio. Ma considerando Giro, e gli altri che hanno acqui-
stalo o fondato regni, si troveranno tutti mirabili: e se si
considereranno le azioni ed ordini loro particulari, non par-
ranno differenti da quelli di Moisè, benché egli ebbe si grag
[yrecettore. Ed esaminando le azioni e vita loro, nonsi ve-
drà^clie quelli avessino allro dalla fortuna che l'occasione, *
la quale delle loro materia di potervi introdurre quella forma .^Cii.i
che a lor parse; e senza quella occasione la virtù dell'animo '
loro si saria spenta; e senza quella virtù l'occasione sarebbe ^
venuta invano. Era, adunque, necessario a Moisè trovare il
popolo d'Isdrael in Egitto schiavo, e oppresso dagli Egizi,-
acciocché quelli per uscire di servitù si disponessino a se-
guirlo. Conveniva che Romulonon capesse in Alba, e fusse
stato esposto al nascer suo, a voler che diventasse re di
Roma, e fondatore di quella patria. Bisognava che Ciro tro-
vasse i Persi malcontenti dell'imperio de' Medi, e li Medi
molli ed effeminati per lunga pace. Non poteva Teseo dimo-
strareTSTsua virtù, se non trovava gli Ateniesi dispersi.
Queste occasioni, pertanto, feciono questi uomini felici; e Tee-
i^ IL PRINCIPE.
cellenle virtù loro fé quella occasione esser conosciuta:
donde la loro patria ne fu nobilitata, e diventò felicissima.
Quelli i quali per vie virtuose, simili a costoro, diventano Prin-
cipi, acquistano il principato con ditTicuItà, ma con facilità
lo tengono: e le ditlìcultà che hanno nell'acquislare il prin-
cipato, nascono in parte da' nuovi ordini e modi che sono
forzati introdurre per fondar lo stato loro e la loro sicurtà.
E debbesi considerare come non è cosa più diffìcile a trat-
tare, né più dubbia a riuscire, nò più pericolosa a maneg-
giare, che farsi capo ad introdurre nuovi ordini. Perchè Tin-
trodutlore ha per nimici tutti coloro che degli ordini vecchi
fanno bene; e tepidi difensori tutti quelli che degli ordini
nuovi farebbono bene: la qoal tepidezza nasce parte per
paura degli avversari, che hanno le leggi in benefìcio loro;
parte dalla incredulità degli uomini, i quali non credono in
verità una cosa nuova, se non ne veggono nata esperienza
ferma. Donde nasce che qualunque volta quelli che sono ni-
mici hanno occasione d'assaltare, lo fanno parzialmente; *
e quelli altri difendono lepidamente, in modochè insieme
con loro si pendila. È necessario pertanto, volendo discor-
rere bene questa parte, esaminare se questi innovatori stanno
per lor medesimi, o se dependano da altri: cioè, se per con-
durre l'opera loro bisogna che preghino, ovvero possono
forzare. Nel primo caso, capitan sempre male, e non condu-
cono cosa alcuna; ma quando dependono da loro propri, e
posson forzare, allora è che rare volte periclitano. Di qui
nacque che lutti li profeti armati vlnsono, e li disarmati ro-
vinarono: perchè, olirà le cose dette, la natura de' popoli è
varia; ed è facile a persuadere loro una cosa, ma è diffìcile
fermarfì in quella persuasione. E però conviene essere or-
dinalo in modo, che quando non credono più , si possa far
loro credere per forza. Moisè, Ciro, Teseo e Romulo non
arebbono possulo fare osservar lungamente le loro costitu-
zioni, se fussero stati disarmali: come ne' nostri tempi in-
tervenne a frate Girolamo Savonarola, il quale rovinò ne'suoi
ordini nuovi, come la moltitudine cominciò a non credergli;
' Cio^, con pauiooe e ferocia da faziosi (signiiìcazioDe omeua nel Vocako*
tari). U Laurentiano e l' edizione del 1S13 biono : partigianamente,
1
IL t>RlNClt»È. 19
e lai non aveva il modo da tenere fermi quelli che avevano
credulo, né a far credere i discredenti. Però questi tali hanno
nel condursi gran dilTicuUà, e tutti i loro pericoli sono tra
via, e conviene che con la virtù li superino: ma superati
che gli hanno, e che cominciano ad essere in venerazione,
avendo spenti quelli che di sua qualità gli avevano invidia,
rimangono potenti, sicuri, onorati e felici. A si alti esempi
io voglio aggiugnere un esempio minore; ma bene ara qual-
che proporzione con quelli, e voglio mi basti per lutti gli
altri simili: e questo è lerone Siracusano. Costui dì privato
diventò Principe di Siracusa, né ancor lui conobbe altro
dalla fortuna che l'occasione; perché essendo i Siracusani
oppressi, l'elessono per loro capitano, donde meritò d'es-
ser fatto lor Principe: e fu di tanta virtù ancora in privala
fortuna, che chi ne scrive, dice che niente gli mancava a
regnare, eccetto il regno. Costui spense la milizia vecchia,
ordinò la nuova, lasciò le amicizie antiche, prese delie nuove j
e. come ebbe amicizie e soldati che fossero suoi, potette in
su lai fondamento edificare ogni edifìcio: tantoché lui durò
assai fatica in acquistare, e poca in mantenere.
Cap. vii. — De*principali nuovi, che con forze d'altri e per
fortuna s'acquistano.
Coloro i quali solamente per fortuna diventano di pri-
vali Principi, con poca fatica diventano, ma con assai si man-
tengono: e non hanno difficullà alcuna tra via, perché vi vo-
lano; ma tutte le diflìcultà nascono da poi vi sono posti.
E questi tali sono quelli a chi è concesso alcuno stalo
o per danari, o per grazia di chi lo concede: come inter-
venne a molti in Grecia, nelle città di Ionia e deirEIIcsponlo,
dove furon fatti Principi da Dario, acciò le tenessero per
sua sicurtà e gloria; come erano ancora fatti quelli impera-
dori, che di privati, per corruzione de'soldali, pervenivano
allo imperio. Questi stanno semplicemente in su la voluntà
e fortuna di chi gli ha fatti grandi, che sono due cose vola-^
bilissime ed instabilì; e non sanno e non posson tenere quel
grado: non sanno, perché se non è uomo di grande ingegno
20 IL PRINCIPE.
e virlù, non è ragionevole che, essendo sempre vissuto in
privala fortuna, sappia comatidare; non possono, perchè non
hanno forze che gli possino essere amiche e fedeli. Dipoi,
gli stali che vengono subilo , come tutte le altre cose
della natura che nascono e crescon presto, non possono
avere le radici e corrispondenzie loro, in modo che il primo
tempo avverso non le spenga; se già quelli tali, come è detto,
che st in un subito son diventati Principi, non sono di
tanta virtù, che quello che la fortuna ha messo loro in
grembo, sappino subito prepararsi a conservare; e quelli
fondamenti che gli altri hanno fatti avanti che diven-
tino Principi, gli faccino poi. Io voglio all'uno e l'al-
tro dì questi modi, circa il diventar Principe per virtù
o per fortuna , addurre duoi esempi slati ne' di della
memoria nostra: questi sono Francesco Sforza, e Cesare
Borgia. Francesco , per li debili mezzi e con una gran
virtù, di privato diventò duca di Milano; e quello che con
mille affanni aveva acquistato, con poca fatica mantenne.
]Dairallra parte. Cesare Borgia, chiamato dal vulgo duca Va-
lentino, acquistò lo stalo con la fortuna del padre, e con
quella lo perdette; nonostante che per lui s'usasse ogni
opera, e facessinsi tutte quelle cose che per un prudente e
virtuoso uomo si dovevau fare, per metter le radici. sue in
quelli stali che l' armi e fortuna d' altri gli aveva concessi.
Perchè, come di sopra si disse, chi non fa i fondamenti
prima, gli potrebbe con una gran virlù fare dipoi; ancor-
ché si faccino con disagio dell'architettore, e perìcolo dello
cdiGzio. Se, adunque, si considerrà tutti i progressi del duca,
si vedrà quanto lui avesse fallo gran fondamenti alla fu-
tura potCLza; li quali non giudico superfluo discorrere, per-
chè io non saprei quali precetti mi dar migliori a un Prin-
cipe nuovo, che lo esempio delle azioni sue: e se gli ordini
suoi non gli giovarono, non fu sua colpa, perchè nacque da
una slrasordinaria ed estrema malignità di fortuna. Aveva
Alessandro VI nel voler far grande il duca suo tiglio assai
diflicullà presenti e future. Prima, non vedeva via di polcrio
far signore d'alcuno stato che non fosse stalo di Chiesa ; e vol-
gendosi a lòr quel della Chiesa, sapeva che il duca di Milai
It PRINCIPE. Si
ei Viniziani non gliel consentlrebbono, perchè Faenza e Ri-
mino eran già sotto la protezione de'Viniziani. Vedeva, oltre a
questo, l'armi d'Italia, e quelle in spezie di chi si fusse possuto
servire, esser nelle mani di coloro che dovevan temere la
grandezza del papa: e però non se ne poteva fidare, essendo
tutte negli Orsini e Colonnesi , e loro segnaci. Era, dun-
que, necessario che si turbassero quelli ordini , e disordinare
gli stati d' Italia, per potersi insignorire securamente di parte
di quelli: il che gli fu facile, perchè trovò Viniziani che^
mossi da altre cagioni , s' eran vòlti a far ripassare i Fran-
cesi in Italia; il che non solamente non contradisse, ma
fece più facile con la resoluzione del matrimonio antico del
re Luigi. Passò, adunque, il re in Italia con lo aiuto de' Vini-
ziani e consenso d'Alessandro; né prima fu in Milano, che il
papa ebbe da lui gente per l'impresa di Romagna, la quale gli
fu consentita per la reputazione del re. Acquistata, adunque,
il duca la Romagna, e battuti i Colonnesi , volendo mante-
nere quella e procedere più avanti , l' impedivano due cose:
r una r armi sue, che non gli parevano fedeli; l'altra la vo-
lontà di Francia: cioè temeva che l'armi Orsine, delle quali
si era servito , non gli mancassero sotto, e non solamente
gì' impedissero l'acquistare, ma gli togliessero l'acquistato;
e che il re ancora non gli facesse il simile. Degli Orsini
n'ebbe un riscontro quando, dopo la espugnazione di Faenza,
assaltò Bologna, che gli vide andar freddi in quello assalto.
E circa il re, cognobbe l'animo suo quando, preso il ducato
d'Urbipo, assaltò la Toscana, dalla quale impresa il re Io
fece desìstere : ondechè il duca deliberò non dependere più
dalla fortuna ed armi d'altri. E la prima cosa, indebolì le
parti Orsine e Colonnesi in Roma , perchè tutti gli aderenti
loro che fussino gentiluomini, si guadagnò, facendoli suoi
gentiluomini; e dando loro gran provvisioni, gli onorò, se-
condo lor qualità , di condotte e di governi , in modo che
in pochi mesi negli animi loro l'atTezìone delle parli si spense,
e tutta si volse nel duca. Dopo questo, aspettò l* occasione
di spegnere gli Orsini, avendo dispersi quelli di casa Colonna:
la quale gli venne bene, e lui l'usò meglio; perchè, avve-
dutisi gli Orsini tardi che la grandezza del duca e della
22 IL PRINCIPE.
Chiesa era la lor roina, fecero ana dieta alla Magione nel Pe-
rugino. Da quella nacque la rebellione d'Urbino, eli tumulli
di Romagna, ed infìnili pericoli del duca, li quali superò
tutti con l'aiuto de' Francesi : e ritornatoli la repulazione, né
si fidando di Francia 'né d' altre forze esterne , per non le
avere a cimentare, si -volse agringannì; e seppe tanto dissi-
mulare l'animo suo, che gli Orsini, mediante il signor
-[ *Pavolo, 8i riconciliarono seco; con il quale il duca non mancò
d'ogni ragione d'officio per assicurarlo, dandoli veste, da-
nari e cavalli; tanto che la simplicilà loro gli condusse a
Sinigaglia nelle sue mani. Spenti, adunque, questi capi, e ri-
dotti li partigiani loro amici sooi, aveva il duca gittalo assai
buoni fondamenti alla potenza sua, avendo tutta la Romagna
con il ducato d' Urbino , e guadagnatosi tutti quelli popoli
per avere incominciato a gustare il ben essere loro. E per-
chè questa parte è degni di notizia , e da essere imitata da
altri, non voglio lasciarla indietro. Preso che ebbe il duca
la Romagna, trovandola essere stala comandata da signori
impotenti, quali più presto avevano spogliato i loro sudditi
che correttoli , e dato loro più materia di disunione che di
ooione; tanto che quella provincia era piena di latrocini!, di
brighe e d'ogni altra sorte d'insolenza; giudicò necessario,
a volerla ridurre pacifica ed obbediente al braccio regio,
darle un buon governo. Però vi prepose messcr Remiro
d'Orco, uomo crudele ed espedito; al quale dette pienissima
potestà. Costui in breve tempo la ridusse pacifica ed unita, con
grandissima reputazione. Dipoi giudicò il duca non essere a
proposito si eccessiva autorità, perchè dubitava non diven-
tasse odiosa; e preposevi un giudizio civile nel mezzo della
provincia, con un presidente eccellentissimo, dove ogni
città aveva l'avvocato suo. E perchè conosceva le rieorosità
passate avergli generato qualche odio, per purgar gli animi
di quelli popoli, e guadagnarseli in tutto, volse mostrare
che se crudeltà alcuna era seguita, non era nata da lui, ma
j dall'acerba natura del ministro. E preso sopra questo occa-
sione, lo fece mettere una mattina in duoi pezzi a Cesena in
su la piazza, con un pezzo di legno ed un collello sangui no^^o
a canto. La ferocità del quale spettacolo fece quelli popoli
IL PRINCIPE. 23
un (erapo rimanere satisfalli e slupidi. Ma torniamo donde
noi partimmo. Dico che trovandosi il duca assai potente ,
ed in parte assicuralo de* presenti pericoli , per essersi ar-
mato a suo modo, ed avere in buona parte spente quelle
armi che vicine Io potevano otTendere; li restava , volendo
procedere con l'acquisto, il rispetto di Francia, perchè co-
nosceva che dal re, il quale tardi s'era avveduto dell' er-
ror suo, non gli sarebbe sopportato. E cominciò per questo
a cercare amicizie puove, e vacillar con Francia, nella ve-
nuta che fecero i Francesi verso il regno di Napoli contro
alii Spagnuoli che assediavano Gaeta. £ l'animo suo era di
assicurarsi di loro; il che gli saria presto riuscito, se Ales-
sandro viveva. E queéti furono i governi suoi circa le cose
presenti. Ma quanto alle future, lui aveva da dubitare in prima
che un nuovo successore alla Chiesa non gli fusse amico, e
cercasse tòrgiì quello che Alessandro gli aveva dato: e pensò
farlo in quattro modi. Prima, con spegnere tutti i sangui di
quelli signori che lui aveva spogliato, per tórre al papa
quelle occasioni. Secondo, con guadagnarsi tulli i gentiluo-
mini di Roma per poter con quelli, come è dello, tenere il
papa in freno. Terzo, con ridurre il Collegio più suo che po-
teva. Quarto, con acquistar tanto imperio avanti che il papa
morisse, che potesse per sé medesimo resistere ad un primo
impelo. Di queste quattro cose alla morte d'Alessandro ne
aveva condotte tre ; la quarta aveva quasi per condotta. Per-
chè, de' signori spogliali ne ammazzò quanti ne potè aggiu-
gnere, e pochissimi si salvarono; i gentiluomini Romani
s' aveva guadagnalo; e nel Collegio aveva grandissima parie.
E quanto al nuovo acquisto , aveva disegnato diventar si-
gnore di Toscana, e possedeva già Perugia e Piombino, e di
Pisa aveva presa la protezione. E come non avessi avuto
aver rispetto a Francia (che non gliene aveva d' avere più ,
per esser già i Francesi spogliati del regno di Napoli dagli
Spagnuoli , in forma che ciascun di loro era necessitalo di
comperar l'amicizia sua), saltava in Pisa. Dopo questo,
Lucca e Siena cedeva subito, parte per invidia de' Fiorentini,
e parie per paura; i Fiorentini non avevan rimedio: il che
se li fusse riuscito (che gli riusciva V anno medesimo che
24 IL PRINCIPE.
Alessandro mori), s'acquistava (ante forze e (anta reputa-
zione, che per sé stesso si sarebbe retto, senza dependere
dalla Tortana o forza d'altri, ma solo dalla potenza e virtù
sua. Ma Alessandro mori dopo cinque anni ch'egli aveva
incominciato a trarre fuori la spada. Lasciollo con lo stato
di Romagna solamente assolidato, con tutti gli altri in aria,
intra duoi potentissimi eserciti inimici, ammalato a morte.
Ed era nel duca tanta ferocia e tanta virtù, e si ben cono-
sceva come gli uomini s'abbino a guadagnare o perdere, e
(ante erao validi li fondamenti che in si poco tempo s'aveva
fatti ; che se non avesse avuto quelli eserciti addosso, o fusse
stato sano , sarebbe retto a ogni diftìcullà. E che li fonda-
menti suoi fussino bnoni^ si vide, che la Romagna l'aspettò
più d'un mese; in Roma, ancora che meizo morto, stette
secare; e benché i Bastioni , Vitelli ed Orsini venissero in
Roma, non cbbon séguito contro di lui. Potè fare, se non
chi esli foUe, almeno che non fusse papa chi egli non vo-
leva^ Ila te nella morte di Alessandro fusse slato sano, ogni
cosa gli era facile. E lui mi disse, ne* di che fu creato Giu-
lio li, che aveva pensato a tutto quello che potesse nascere
morendo il padre, e a lutto aveva trovato rimedio; eccetto
che non pensò mai, in sa la sua morte, di stare ancof lui
per morire. Raccolte, adanqoe, tutte queste azioni del duca ,
non saprei riprenderlo ; anzi mi pare, come io ho fatto , di
proporlo ad imitare a tutti coloro che per fortuna e con
r armi d' altri sono saliti all' imperio. Perché lui avendo
r animo grande, e la soa intenzione alta, non si poteva go-
▼ernare altrimenti ; e solo si oppose sili suoi disegni la bre-
vità della vita d' Ale.«sandro, f la sua infìrmità. Chi, adun-
que, giudica necessario nel aio principato nuovo assicurarsi
degl'inimici, guadagnarsi amici, vincere o per forza o per
fraude , farsi amare e temer da' popoli , seguire e riverire
da' soldati, spegner quelli che li possono o debbono offen-
dere, innovare eoo nuovi modi gli ordini antichi, esser
severo e grato, magnanimo e liberale, spegnere la milizia
infedele, creare della nuova, mantenersi le amicizie de' re
e delli principi, in modo che li abbino a beneficare con gra-
zia 0 ad otTeodere con rispetto; non può trovare più freschi
IL PRIKCIPE. 20
esempi che le azioni di costui. Solamente si può accusarlo
nella creazione di (ìiulio II, nella quale lui ebbe mala ele-
zione: perchè, come è detto, non potendo fare un papa a
suo modo, poteva tenere che uno non fusse papa ; e non de-
veva acconsentir mai al papato di quelli cardinali che lui
avesse offesi, o che, diventati pontefici, avessino ad aver
paura di lui. Perchè gli uomini offendono 0 per paura o per
odio. Quelli che lui aveva offesi, erano, tra gli altri. San Pie-
tro ad Vincula, Colonna, San Giorgio, Ascanio. Tutti gli altri,
assunti al pontificalo, avevan da temerlo, eccello Uoano e
gli Spagnuoli : questi per congiunzione e obbligo ; quello per
potenza, avendo congiunto seco il regno di Francia. Per-
tanto il duca, innanzi ad ogni cosa, deveva creare papa uno
Spagnuolo; e non potendo, dovea consentire che fusse Roano,
e non San Pietro ad Vincula. E chi crede che ne' personaggi
grandi i beneficii nuovi faccino dimenticare V ingiurìe vec-
chie, s'inganna. Errò, adunque, il duca in questa elezione, e
fu cagione dell'ultima rovina sua
Gap. Vili. — Di quelli che per scelleratezze sono pervenuli
al principato.
Ma perchè di privato si diventa ancora in duoi modi
Principe (il che non sì può al lutto 0 alla fortuna 0 alla virtù
attribuire), non mi pare da lasciarli indietro: ancora che
dell'ano si possa più diffusamente ragionare dove si trat-
tasse delle repubbliche. Questi sono, quando o per qualche
via scellerata e nefaria s'ascende al principato; o quando
uno privato cittadino con il favore degli altri suoi cittadini
diventa Principe della sua patria. E parlando del primo
modo, si mostrerà con duoi esempi, l* uno amico, T ailro
moderno, senza entrare allrimenli ne' meriti di questa parte,
perchè giudico che bastino a chi fusse necessitato imitargli.
Agatocle Siciliano, non solo di privata ma d'infima ed
abietta fortuna, divenne re di Siracusa. Costui nato di un
orciolaio, tenne sempre, per i gradi della sua fortuna, vita
scellerata. Nondimanco, accompagnò le sue scelleratezze con
tanta virtù d'animo e di corpo, che vellosi alla milizia, per
3
26 IL PRINCirE.
li gradi di quella pervenne ad esser pretore di Siracusa.
Nel qual grado essendo cosliluilo, ed avendo deliberalo vo-
lere diventar Principe, e tenere con violenza e senza ob-
bligo d' altri quello che d'accordo gli era stalo concesso ; ed
avuto dì questo suo disegno intelligenza con Amilcare car-
taginese, il quale con gli eserciti militava in Sicilia; con-
gregò una mattina il popolo e il senato di Siracusa, come
se egli avessi avuto a deliberare cose pertinenti alla repub-
blica, e, ad un cenno ordinato, fece da' suoi soldati uccidere
tutti li senatori e li più ricchi del popolo: li quali morti, oc-
cupò e tenne il principato di quella città, senza alcuna con-
troversia civile. E benché dai Cartaginesi fosse due volte
rotto, e ultimamente assediato, non solamente potè difen-
dere la sua città, ma lasciata parte della sua gente alla di-
fesa di quella, con l'altre assaltò l'Affrica, e in breve
tempo liberò Siracusa dall'assedio, e condusse i Cartaginesi
in estrema necessità: i quali furono necessitati ad accordarsi
con quello, a essere contenti della possessione dell' Affrica,
e ad Agatocle lasciar la Sicilia. Chi considerasse, adunque,
le azioni e virtù di costui, non vcdria cose, o poche, le quali
possa attribuire alla fortuna : concìossiachè, come di sopra é
detto, non per favore d'alcuno, ma per li gradi della mi-
lizia, quali con mille disagi e pericoli si aveva guadagnato,
pervenisse al priocipato, e quello dipoi con tanti animosi
partiti e pericolosi mantenesse. Non si può chiamare ancora
virtù ammazzare li suoi cittadini, tradir gli amici, essere
lenza fede, senza pietà, senza religione; li quali modi pos-
sono fare acquistare imperio, ma non gloria. Perchè, se si
considerasse la virtù di Agatocle nell' entrare e nell' uscire
de' pericoli, e la grandezza dell'animo suo nel sopportare e
superare le cose avverse, non sì vede perchè egli abbi ad
esser tenuto inferiore a qual si sia eccellentissimo capitano.
Nondimanco, la sua efferata crudeltà ed inumanità, con infi-
nite scelleratezze, non consentono che sia tra li eccellentis-
simi uomini celebrato. Non si può, adunque, attribuire alla
fortuna o alla virtù quello che senza 1' una e l' altra fu da
lui conseguito. Ne* tempi nostri, regnante Alessandro VI,
Olìverotto da Fermo, essendo più anni addietro rimasu
IL PRINCIPE. 2/
piccolo, fu da un suo zio materno, chiamalo Giovanni Fo-
gliani, allevalo, e ne* primi tempi della sua gioventù dato a
militare sotto Favolo Vitelli, acciocché ripieno di quella di-
sciplina pervenisse a qualche grado eccellente di milizia.
Morto dipoi Favolo, militò sotto Vitellozzo suo fratello; ed
in brevissimo tempo, per essere ingegnoso, e della persona
e dell'animo gagliardo, diventò de' primi uomini* della sua
milizia. Ma parendogli cosa servile lo stare con altri, pensò,
con l'aiuto d'alcuni cittadini di Fermo, a* quali era più
cara la servitù che la libertà della loro patria, e con il fa-
vore vitellesco, d'occupare Fermo; e scrisse a Giovan
Fogliani, come, essendo stato più anni fuor di casa, voleva
venire a veder lui e la sua città, e in qualche parte rico-
noscere il suo patrimonio. E perchè non s' era affaticato
per altro che per acquistar onore, acciocché i suoi cittadini
vedessino come non aveva speso il tempo invano, voleva
venire onorevolmente, ed accompagnato da cento cavalli di
suoi amici e servidori, e pregavalo che fusse contento ordi-
nare che da* Firmani fusse ricevuto onoratamente; il che
non solamente tornava onore a lui, ma a sé proprio, es-
sendo suo allievo. Non mancò, pertanto, Giovanni d'alcuno
olTicio debito verso il nipote; e fattolo ricevere onoratamente
da' Firmani, alloggiò nelle case sue: dove, passato alcun
giorno, ed atteso a ordinar quello che alla sua futura scel-
leratezza era necessario, fece un convito solennissirao, dove
invitò Giovan Fogliani, e tutti li primi uomini di Fermo.
Ed avuto che ebbero fine le vivande, e tutti gli altri in-
trattenimenti che in simili conviti si fanno, Oliverolto ad
arte mosse certi ragionamenti gravi, parlando della gran-
dezza di papa Alessandro e di Cesare suo figlio, e del-
l'imprese loro; alli quali ragionamenti rispondendo Gio-
vanni e gli altri, egli a un tratto si rizzò, dicendo quelle
essere cose da parlarne in più segreto luogo, e ritirossi in
una camera, dove Giovanni e lutti gli altri cittadini gli an-
darono dietro. Né prima furon posti a sedere , che de' luo-
ghi segreti di quella usciron soldati, che ammazzarono
Giovanni e tutti gli altri. Dopo il quale omicidio, montò Oli-
* Il MS. Laurcnziano e l'edizione del 18iU: diventò il primo nomo.
^S IL PRINCIPE.
verodo a cavallo, e corse la (erra, ed assediò nel palazzo
il supremo magistrato; tanlo che per paura faron coslrelli
ubbidirlo, e fermare un governo, del quale si fece Principe.
E morti lutti quelli che per essere nìalconlenli lo potevano
offendere , si corroborò con. nuovi ordini civili e militari; in
modo che, in spar.io d'uno anno che (enne il principato, non
solamente lui era sicuro nella città di Fermo, ma era di-
ventalo formidabile a lutti li suoi vicini : e sarebbe stata la
sua espugnazione diflìcile, come quella di Agalocle, se non
si fusse lasciato ingannare da Cesare Borgia, quando a Si-
nisaglia, come di sopra si disse, prese gli Orsini e Vitelli;
dove preso anfor lui, un anno dopo il commesso patricidio,
fu, insieme con Vitellozzo, il quale aveva avuto maestro
delle virtù e scelleratezze sue, strangolnto. Potrebbe alcuno
dubitare, dónde nascesse che Agatocle ed alcuno simile, dopo
infìniti tradimenti e crudeltà, potette vivere lungamente si-
curo nella sua patria, e difendersi dagl* inimici esterni, e
da* suoi cittadini non sii fu inai conspirato centra: concios-
siacbé molti altri mediante la crudeltà non abbino mai pos-
snto ancora ne' tempi pacifici mantenere lo stato, non che
ne' tempi dubbiosi di guerra. Credo che questo avvenga dalle
crudeltà male o bene usate. Bene osate si possono chiamar
quelle (se del male è lecito dir bene) che si fanno una sol
volta per necessità dell'assicurarsi, e dipoi non vi s'in-
siste dentro, ma si converliscono in più utilità de' sudditi
che si può. Le male usate son quelle, quali, ancora ehe da
principio sian poche, crescono piuttosto col tempo che le
si spenghino. Coloro che osserveranno quel primo modo,
possono con Dio e con gli nomini avere allo stato loro qual-
che rimedio; come ebbe Agatocle. Quelli altri, è impossibile
che si mantenghino. Onde è da notare, che nel pigliare uno
stato, debba l'occupatore d'esso discorrere e far tutte le
crudeltà in un tratto, e per non avere a ritornarvi ogni
di, e per potere non le innovando assicurare gli uomini, e
guadagnarseli con beneficarli. Chi fa altrimente o per timi-
dità o per mal consiglio, è sempre necessitato tenere il col-
tello in mano, né mai si può fondare sopra i suoi sudditi;
non si potendo quelli, per le continue e fresche ingiurie, assi-
IL PBINCIPE. 29
curar di lui. Perchè le ingiurie si debbono fare tulle insieme,
acciocché, assaporandosi meno, offendino meno: li benefìcii
si debbono fare a poco a poco, acciocché si assaporino me-
glio. E deve, sopra luUo, un Principe vivere con li suoi sud-
diti in modo, che nissuno accidente o di male o di bene lo^
abbia a far variare: perché venendo per li tempi avversi la
necessità, tu non sei a tempo al male ; ed il bene che tu fai
non ti giova, perchè è giudicalo forzalo, e non grado alcuno
ne riporti.
Gap. IX. — Del principalo civile
Ma venendo all'altra parte quando un Principe citta-
dino, non per scelleratezza o altra intollerabii violenza,
ma col favore degli altri suoi cittadini diventa Principe
della sua patria; il quale si può chiamare principato civile,
né al pervenirvi è necessario o lutla virtù, o tutta fortuna,
ma più presto un' astuzia fortunata: dico che s' ascende a que-
sto principato o col favore del popolo, o col favore de* grandi.
Perché in ogni città si trovano questi duoi umori diversi ; e
nascono da questo, che il popolo desidera non esser coman-
dato né oppresso da' grandi, e i grandi desiderano coman-
dare ed opprimere il popolo ; e da questi duoi appetiti diversi
surge nelle città uno de' tre elTetti, o principato, o libertà,
o licenza. 11 principato è causato o dal popolo, o da* grandi,
secondo che 1' una o 1* altra di queste parti n'ha 1' occa-
sione; perché vedendo i grandi non poter resistere al popolo,
cominciano a voltare la riputazione ad un di loro, e lo
fanno Principe per poter sollo l'ombra sua sfogare l'appe-
tito loro. Il popolo ancora volta la riputazione a un solo,
vedendo non poter resistere alti grandi, e lo fa Principe per
essere con l'autorità sua difeso. Colui che viene al princi-
pato con l'aiuto de' grandi, si mantiene con più difTicultà,
che quello che diventa con l'aiuto del popolo; perché si
trova Principe con di molti intorno che a loro pare essere
eguali a lui, e per questo non gli può né maneggiare né
comandare a suo modo. Ma colui che arriva al principato
col favor popolare, vi si trova solo, ed ha intorno o ncs-
3'
30 IL PRinciPE.
sano o pochissimi che non sieno parati ad ubbidire. Oltre
a questo, non si può con onestà satisfare a' srandi, e senza
ingiuria d'altri; ma sibbeneal popolo: perchè quello del po-
polo è più onesto fine che quel de* grandi, volendo questi
opprimere, e quello non esser oppresso. Acgiungesi nncora,
che del popolo inimico il Principe non si può mai assicurare,
per essere troppi: de' grandi si può assicurare, per esser
pochi. Il pegsio che possa aspettare un rrinci|>e dal popolo
inimico, é Tessere abbandonato da lui: ma da' grandi ini-
mici, non solo debbe temer di essere abbandonato, ma che
ancor loro gli ?enghino contro; perchè, essendo in quelli
più vedere e più astuzia, avaniano sempre tempo per sal-
varsi, e cercano gradi con qaello che sperano che vinca. È
necessitato ancora il Principe vivere sempre con qoel me-
desimo popolo; ma può ben fare senza quelli medesimi
grandi, potendo farne e <1isfarne ogni di, e tórre e dare,
quando gli piace, reputazione loro. E per chiarir meglio
questa parte, dico, come i grandi si debbono considerare in
dooi modi principalmente : cioè, o si governano in modo col
proceder loro che si obblisano in lutto alla tua fortuna, o no :
quelli che s'obbligano, o non sieno rapaci, si debbono ono-
rare ed amare; quelli che non s'obbligano, s' hanno a con-
siderare in dooi modi : o fanno questo per posillanimilà e
difetto natorale d* animo; ed allora li debbi servir di loro,
e di quelli massime che sono di buon consìglio, perchè
nelle prosperit«i le ne onori, e nelle avversità non hiri da
temere : ma quando non si obbligano ad arte e per cagione
ambiziosa, è segno come e* pensano più a sé che a le; e da
quelli si deve il Prìncipe guardare, e tenergli come se fos-
sero scoperti inimici, perchè sempre nelle avversità l'aiole-
ranno rovinare. Debbe, pertanto, ano che diventa Principe
per favore del popolo, mantenerselo amico ; il che gli fia fa-
cile, non domandando lai se non di non essere oppresso:
ma uno che, contro il popolo, diventi Principe col favore
de' grandi, deve innanzi a ogni altra cosa cercare di gua-
dagnarsi il popolo ; il the gli fìa facile quando pigli la pro-
lezione sua. E perchè gli uomini quando hanno bene da chi
credono aver male, si obbligano più al bcnefìcatore loro ;
IL PRINCIPE. 31
diventa il popolo suddito più suo benivolo, che se si fusse
condotto al principato per li suoi favori: e puosselo il Prin-
cipe guadagnare in molti modi, li quali perché variano se-
condo il suggetlo, non se ne può dar certa regola; però
si lasceranno indietro. Conchiuderò solo, che ad un Principe
è necessario avere il popolo amico; altrimente, non ha nelle
avversità rimedio. Nabide, Principe degli Spartani, sostenne
r ossidione di tutta Grecia , e d' uno esercito romano
vittoriosissimo ; e difese contro a quelli la patria sua e il
suo slato; e gli bastò solo, sopravvenendo il pericolo, assi-
curarsi di pochi : che se egli avesse avuto il popolo inimico,
questo non gli bastava. E non sia alcuno che repugni a que-
sta mia opinione con quel proverbio trito, che chi fonda in
sul popolo, fonda in sul fango : perchè quello è vero quando
un cittadino privato vi fa su fondamento, e dassi ad inten-
dere che il popolo lo liberi quando esso fussi oppresso da-
gl' inimici 0 da' magistrati ; in questo caso si potrebbe tro-
vare spesso ingannato, come intervenne in Roma a* Gracchi,
ed in Firenze a messer Giorgio Scali. Ma essendo un Prin-
cipe quello che sopra vi si fondi, che possa comandare, e
sia un uomo di cuore, né si sbigottisca nelle avversità, e
non manchi delle altre preparazióni, e tenga con l'animo e
ordini suoi animato l'universale; non si troverà ingannato
da lui, e gli parrà aver fatti i suoi fondamenti buoni. So-
gliono questi principati periclitare quando sono per salire
dall'ordine civile allo assoluto; perché questi principi o co-
mandano per loro medesimi, o per mezzo di magistrati.
Nell'ultimo caso, è più debile e più pericoloso lo stalo loro,
perché egli stanno al lutto con la volontà di quelli cittadini
che sono preposti a' magistrati ; li quali, massimamente
ne' tempi avversi, gli possono tórre con facilità grande Io
stato, o con fargli contro o col non l'ubbidire: e il Prin-
cipe non è a tempo ne' pericoli a pigliare l'autorità asso-
luta, perchè li cittadini e sudditi che sogliono avere li co-
mandamenti da' magistrati, non sono in quelli frangenti per
ubbidire a' suoi, ed ara sempre ne* tempi dubbi penuria di
chi si possa fidare. Perchè sirail Principe non può fondarsi
sopra quello che vede ne' tempi quieti, quando i cittadini
32 IL PRINCIPE.
hanno bisogno dello sialo: perchè allora ofrnano corre, ognuno
promette, e ciascuno vuol morire per lui quando la morte
è discosto ; ma ne' tempi avversi, quando lo stato ha bisosnn
de* cittadini, allora se ne trova pochi. E tanto più è questa
esperienza pericolosa, quanto la non si può fare se non una
volta. Però, un Principe savio deve pensare un modo per il
quale li suoi cittadini, sempre, ed in ogni modo e qual'tà di
tempo, abbino bisogno dello stalo di lai; e sempre poi gli
saranno fedeli.
Ckp. X. — In chf modo le forze di lutti t ffincipalt
$i delibino misurare.
Tonviene avere, neir esaminare le qualità di questi
principali,, an* altra consideratione : cioè se un Principe ha
lanlo sialo, che poan, bisognando, per té nedeaimo reggersi;
ovvero ne ha sempre Decessila della difeMioiM d* altri. B per
chiarir meglio questa parte, dico, come io giudico potersi
coloro rcKsere per sé medesimi, che possono o per abbon-
daotia d'uomini o di denari mellere insieme an esercito
giaslo, e fare ana giemala con qoalanqae gli viene assal-
tare: e cosi giudico, coloro aver sempre necessità d'altri,
che non possono comparire contro gl'inimici in campagna,
ma sono necessitali rifusnirsi dentro alle mura, e guardar
quelle. Nel primo caso s'è discorso, e per 1* avvenire diremo
quello che ne occorre. Nel secondo caso non si può dire al-
tro, salvo che confortare tali Principi a munire e fortificare
la terra propria ; e del paese non tenere alcun conto. E qua-
lunque ara ben fortificala la sua terra, e circa gli altri go-
verni coi sudditi si sia maneggiato come di sopra è detto,
e di sotto si diri ; sari sempre assaltato con gran rispetto :
(>crchè gli uomini son sempre inimici delle imprese dove si
vegga difficoltà ; né si può veder facilità asfaltando uno che
abbi la sua terra gagliarda, e non sia odiato dal popolo. Le
città d'Alamagna sono libéralissime, hanno poco contado,
ed obbediscono all'imperadore quando le vogliono, e non
temono né quello né altro polente che rabbino intorno:
l»ercbé le sono in rooio fortificate, che ciascuno pensa l.i
IL PRINCIPE. 33
espugnazione di esse dovere esser tediosa e difiìcile; perchè
tulle hanno fossi e mura convenienti , hanno artiglieria a
sufficienza, e tengono serapre nelle canove pubbliche da
mangiare e da bere e da ardere per un anno. Oltre a
questo, per poter tenere la plebe pasciuta, e senza perdita
del pubblico, hanno serapre in comune per un anno da poter
dar loro da lavorare in quelli esercizi che siano il nervo e
la vita di quella città, e dell'industria de' quali la plebe si
pasca: tengono ancora gli esercizi militari in repulazione, e
sopra questo hanno molli ordini a mantenerli. Un Principe,
adunque, che abbia una città forte, e non si facci odiare, non
può essere assaltato; e se pur -^ssi, chi l'assaltassi se ne
partirebbe con vergogna: perchè le cose del mondo sono si
varie , che egli è quasi impossibile che uno possi con gli
eserciti stare un anno ozioso a campeggiarlo. E chi repli-
casse : se il popolo ara le sue possessioni fuora , e veggale
ardere, non ara pazienza; e il lungo assedio e la carità pro-
pria gli farà sdimenticare il Principe: rispondo, che un Prin-
cipe potente ed animoso supererà sempre quelle difficullà,
dando ora speranza a' sudditi che il male non sia lungo, ora
timore della crudeltà del nimico, ora assicurandosi con de-
strezza di quelli che gli paressono troppo arditi. Oltre a que-
sto, il nimico deve ragionevolmente ardere e rovinare il
paese loro in su la giunta sua, e ne' tempi quando gli animi
degli uomini sono ancora caldi, e volonterosi alla difesa; e
però, tanto meno il Principe deve dubitare, perchè dopo
qualche giorno che gli animi sono raffreddi , sono di già
fatti i danni, son ricevuti i mali, e non v' è più rimedio:
ed allora tanto più si vengono ad unire col loro Principe ,
parendo che esso abbia con loro obbligo, essendo slate loro
arse le case e rovinate le possessioni per la difesa sua. E la
natura degli uomini è cosi obbligarsi per li beneficii che
essi fanno, come per quelli che essi ricevono. On^e, se si
considera bene lutto, non fia diffìcile a un Principe pru-
dente tenere prima e poi fermi gli animi de* suoi cittadini
nella ossidione, quando non gli manchi da vivere, né da di-
fendersi.
34 IL PRINCIPE.
Gap. XI. — De' principali ecclesiaslici.
Restaci solamente al presente a ragionare de' principali
ecclesiastici ; circ' a' quali tutte le difQcultà sono avanti che
si possegghino, perchè s' acquistano o per virtù o per for-
tuna, e senza 1' una e l'altra si mantengono; perchè sono
sostentati dagli ordini anticali nella religione, quali sono tulli
tanto potenti , e dì qualità che tengono i loro Principi in
stato, in qualunque modo si procedino e vivino. Costoro
soli hanno stato e non Io difendono, hanno sudditi e non
gli governano ; e gli slati, per essere indifesi, non sono loro
tolti ; e li sudditi, per non essere governati, non se ne curano,
né pensano né possono alienarsi da loro. Solo, adunque, que-
sti principati sono sicuri e felici. Ma essendo quelli retti da
cagioni superiori, alle quali la mente umana non aggiugne,
lascerò il parlarne ; perchè , essendo esaltali e mantenuti da
Dio, sarebbe ufficio d' uomo presuntuoso e temerario il dis-
correrne. Nondimanco, se alcuno mi ricercasse donde viene
che la Chiesa nel temporale sia venula a tanta grandezza ;
conciossiaché da Alessandro indietro i potentati Italiani , e
non solamente quelli che si chiamano potentati , ma ogni
barone e signore, benché minimo, quanto al temporale la
slimava poco; ed ora un re di Francia ne trema ; e l'ha po-
tuto cavare d'Italia, e rovinare i Vintziani : ancoraché ciò
nolo sia, non mi pare superfluo ridurlo in qualche parte
alla memoria. Avanti che Carlo re di Francia passassi in
Italia, era questa provincia sotto l'imperio del papa, Vini-
ziani, re di Napoli, duca di Milano e Fiorentini. Questi po-
tentati avevano ad avere due cure principali: Tuna, che un
forestiero non entrassi in Italia con Tarmi; l'altra, che
nessuno di loro occupasse più stato. Quelli a chi s'aveva
più cura , erano il papa e Viniziani. Ed a tenere indietro i
Viniziani, bisognava l'unione di lutti gli altri, come fu nella
difesa di Ferrara; e a tener basso il papa , si servivano dei ba-
roni di Roma: li quali essendo divisi in due fazioni , Orsini
e Colonnesi, sempre v'era cagione di scandoli tra loro; e
stando con l'armi in mano in su gli occhi del pontefice,
\
IL PRINCIPE. 35
tenevano il pontificalo debole ed infermo. E benché sorgessi
qualche volta un papa animoso, come fu Sisto; pure la for-
tuna o il sapere non lo potè mai disobbligare da queste in-
comodità. E la brevità della vita loro ne era cagione; per-
chè in dieci anni che, ragguagliato, viveva un papa, a fatica
che potessi sbassare T una delle fazioni: e se, per modo di
parlare, l'uno aveva quasi spenti 1 Colonnesi, surgeva un
altro inimico agli Orsini, che gli faceva risurgere, e non era |
a tempo a spegnerli. Questo faceva che le forze temporali j
del papa erano poco stimate in Italia. Sorse dipoi Alessan-
dro VI, il quale, di tulli li pontefici che sono slati mai, mo-
strò quanto un papa e con il danaio e con le forze si po-
teva prevalere; e fece, con V istrumenlo del duca Valentino,
e con l'occasione della passata de' Francesi, tutte quelle
cose che io ho discorso di sopra nelle azioni del duca. E
benché l'intento suo non fusse il far grande la Chiesa, ma
il duca ; nondimeno ciò che fece , tornò a grandezza della ;
Chiesa, la quale dopo la sua morte, spento il duca, fu erede /
delle fatiche sue. Venne dipoi papa Giulio, e trovò la Chiesa
grande, avendo tutta la Romagna, ed essendo spenti tutti
li baroni di Roma, e, per le battiture d'Alessandro, annul-
late quelle fazioni ; e trovò ancorala via aperta al modo del-
l' accumulare denari , non mai più usitato da Alessandro
indietro. Le quali cose Giulio non solamente seguitò, ma ac-
crebbe; e pensò guadagnarsi Bologna, e spegnere i Vini-
ziani, e cacciare i Francesi d' Italia : e tulle queste imprese ,
gli riuscirono; e con tanta più sua laude, quanto fece ogni 1
cosa per accrescere la. Chiesa, e non alcun privato. Man- J
tenne ancora le parti Orsine e Colonnesi in quelli termini
che le trovò ; e benché tra loro fossi qualche capo da fare
alterazione, nientedimeno due cose gli ha tenuti fermi: l'una
la grandezza della Chiesa, che gli sbigottisce; l'altra, il non
aver loro cardinali, quali sono origine de' tumulti tra loro:
né mai staranno quiete queste parti qualunque volta abbino
cardinali, perchè questi nutriscono in Roma e fuori le parli,
e quelli baroni sono forzati a difenderle; e cosi dall'ambi-
zione de' prelati nascono le discordie e tumulti tra'baroni.
Ila trovalo, adunque, la sanlilà di papa Leone questo ponli-
36 IL PRIKCIPE.
y,< ficaio polend'ssiroo : del quale si spera che, se quelli lo fe-
jff ^fi^-tìero grande con l' armi , esso con la bonlà ed infinite allre
,miMt sue virtù lo farà grandissimo e venerando.
J Gap. XII. — Quante siano le spezie della milizia.
e de' soldali mercenari.
Avendo discorso particolarmente tutte le qualità di
quelli principati, de'quali nel principio proposi di ragionare ,
e considerato in qualche parte le cagioni del bene e del male
esser loro , e monstri i modi con li quali molli han cerco
d' acquistargli ; mi resta ora discorrere generalmente l' of-
fese e difese che in ciascuno dei prenominali possono acca-
dere. Noi abbiamo detto di sopra*, come ad un Principe è
necesario avere li suoi fondamenti buoni ; altrimenti , di
necessità conviene che rovini. I principali fondamenti che
abbino lutti gli stati, così nuovi come vecchi o misti, sono
le buone leggi e le buone armi: e perchè non posson essere
buone leggi dove non sono buone armi , e dove sono buone
armi conviene che siano buone leggi , io lascerò indietro
il ragionare delle leggi, e parlerò dell'armi. Dico, adunque,
che Tarmi con le quali un Principe difende il suo stato , o
le sono proprie, o le sono mercenarie, o ausiliari, o misle.
Le mercenarie ed ausiliari sono inutili e pericolose : e se
uno tiene lo slato suo fondato in su l'armi mercenarie, non
starà mai fermo né sicuro ; perchè le sono disunite , ambi-
ziose e senza disciplina, infedeli, gagliarde tra gli amici,
Ira li nimici vili ; non hanno timore di Dio, non fede con
gli uomini, e tanto si differisce la rovina quanto si. difiTc-
risce r assalto; e nella pace sei spogliato da loro , nella
guerra da'nimici. La cagione di questo è, che non hanno altro
amore né altra cagione che le tenga in campo , che un poco
di stipendio; il quale non è sufficiente a fare ch'elli veglino
morire per te. Vogliono ben essere tuoi soldali mentre che
tu non fai guerra; ma come la guerra viene, o fuggirsi o
andarsene. La qual cosa deverei durar poca fatica a persua-
dere, perché la rovina d'Italia non è ora causata da altra
cosa, che per essere in spazio di molti anni riposatasi in su
f
IL l'KlKClPE. 37
r arQìi mercenarie : le quali fecion già per qualcuno qual-
che progresso, e parevan gagliarde infra loro; ma come
venne il forestiere, elle mostrarono quello che l'erano. Onde-
che a Carlo re di Francia fu lecito pigliare Italia col gesso:
e chi diceva che ne erano cagione i peccati nostri, diceva
il vero; ma non erano già quelli che credeva, ma questi
eh' io ho narrato. E perchè gli erano peccati di Principi, nej
hanno patito la pena ancora loro. Io voglio dimostrar me-
glio la infelicità dì queste armi. I capitani mercenari o sono
uomini eccellenti, o no: se sono, non te ne puoi fidare, per-
chè sempre aspireranno alla grandezza propria, o con 1' oppri-
mere te che li sei padrone, o con l'opprimere altri fuor
della tua intenzione; ma se non è il capitano virtuoso, ti
rovina per l' ordinario. E se si risponde che qualunque ara
l'arme in mano, farà questo medesimo, o mercenario o no;
replicherei, come l' armi hanno ad essere adoperate o da un
Principe, o da una repubblica : il Principe deve andare in
persona a far lui l'officio del capitano; la repubblica ha
da mandare ì suoi cittadini : e quando ne manda uno cho
non riesca valente, debbe cambiarlo; e quando sia, tenerlo
con le leggi che non passi il segno. E per esperienza si vede,
i Principi soli e le repubbliche armate far progressi gran-
dissimi, e l'armi mercenarie non fare mai se non danno: e
con più difficultà viene all' ubbidienza d' un suo cittadino Ìi<^^i^ f^
una repubblica armata d'armi proprie, che una armata .^/V^
d'armi forestiere. Sterono Roma e Sparla molti secoli ar- ^ ^t*^*
mate e libere. I Svizzeri sono armatissimì e liberissimi.* .^
Dell'armi mercenarie antiche, per esempio ci sono li Carla- '*' ^>
ginesi ; li quali furono per essere oppressi da' lor soldati -^'^ '^ ^
mercenari, finita la prima guerra coi Romani, ancoraché i ' ' '^^
Cartaginesi avessero per capitani loro propri cittadini. Filippo
Macedone fu fatto da'Tebani, dopo la morte di Epaminonda,
capitano della lor gente ; e tolse loro dopo la vittoria la li-
bertà. I Milanesi, morto il duca Filippo, soldarono France-
* L' ecUz. del Biado ha libéralissimi : il che avrebbe riscontro anche nel
cap. X, ove è detto : le città d' Alemagna sono libéralissime. Se non che , tra la
liberta delle città anseatiche o d' altre della Germania, e quella de' cantoni Sviz-
zeri , era non lieve la diOercnza. Si rifletta al divario che anc' oggi passa tra i
popoli veramente liberi, e (j[ueUi che godono istituzioni più o nìcuo liberali.
4
38 IL PRLNCIPE
SCO Sforza contro a'Viniziani, il quale, superali gì* inimici a
Caravaggio, si congiunse con loro per opprimere i Milanesi
suoi padroni. Sforza suo padre, essendo soldato della regina
Giovanna di Napoli, la lasciò in un tratto disarmata; onde
lei, per non perdere il regno, fu costretta gittarsi in grembo
al re d' Aragona. E se i Viniziani e Fiorentini hanno ac-
cresciuto per r addietro lo imperio loro con queste armi, e
li loro capitani non se ne sono però fatti Principi, ma gli
hanno difesi; rispondo che gli Fiorentini in questo caso sono
stati favoriti daHa sorte: perchè de'capitani virtuosi, li quali
potevano temere, alcuni non hanno vinto; alcuni hanno
avuto opposizioni; altri hanno vòlto l'ambizione loro altrove.
Quello che non vinse, fu Giovanni Acuto, del quale, non vin-
cendo, non si polea conoscer la fede; ma ognuno confes-
serà, che, vincendo, stavano ì Fiorentini a sua discrezione.
Sforza ebbe sempre i Bracceschi contrari, che guardarono
Tnn l'altro. Francesco volse l'ambizione sua in f.ombar-
dia ; Braccio contro la Chiesa e il regno di Napoli. Ma ve-
gniamo a quello che è seguito poco tempo fa. Fecero i Fio-
rentini Paolo Vitelli loro capitano, uomo prudentissimo, e che
di privata forUina aveva preso riputazione grandissima. Se
costui espugnava Pisa, nessuno sarà che nieghi come e' conve-
niva a' Fiorentini star seco ; perchè, se fosse diventato sol-
dato de' lor nemici, non avevan rimedio; e tenendolo, ave-
vano ad ubbidirlo. 1 Viniziani, se si considera i progressi
loro, si vedrà quelli sicuramente e gloriosamente avere ope-
ralo mentre che fecion guerra i loro propri T che fu avanti
che si volgessino con l'imprese in terra, dove con li gentil-
uomini e con la plebe armata operarono virtuosamente : ma
come cominciarono a combattere in terra, lasciarono questa
virtù, e seguitarono i costumi d'Italia. E nel principio del-
lo augumento loro in terra, per non vi avere molto stato, e per
essere in gran riputazione, non avevano da temere mollo
de' loro capitani; ma come essi ampliarono, che fu sotto il
Carmignuola, ebbono un saggio di questo errore : perchè,
vedutolo virtuosissimo, battuto che ebbero sotto il suo go-
verno il duca di Milano, e conoscendo dall'altra parte
come egli era freddo nella guerra, giudicarono non poter
IL PRINCIPE. 89
più vincere con lui, perchè non volevano né potean licen-
ziarlo, per non perder ciò che aveano acquistato; onde-
che furono necessitali, per assicurarsi, di aramazzarlo. Hanno
dipoi avuto per loro capitano Bartolommeo da Bergamo, Ro-
berto da San Severino, conte di Pitigliano, e simili ; con 11
quali avevano da temere della perdila, non del guadagno
loro: come intervenne dipoi a Vaila, dove in una giornata
perderon quello che in ottocento anni con tante fatiche
avevano acquistalo ; perchè da queste armi nascono solo i
lenti, tardi e deboli acquisti, e le subite e miracolose per-
dile. E perchè io son venuto con questi esempi in Italia,
la quale è stala. governata già molti anni dall'armi merce-
narie, le voglio discorrere più da allo, acciocché vedute
le origini e progressi di esse, si possano meglio correggere.
Avete da intendere, come, tosto che in questi ultimi tempi
lo imperio cominciò ad essere ributtato d'Italia, e che il
papa nel temporale vi prese più riputazione, si divise la Ita-
lia in più stali: perchè molle delle città grosse presono
l'armi contro i loro nobili, li quali prima favoriti dall' ira-
peradore le tenevano oppresse, e la Chiesa le favoriva per
darsi riputazione nel temporale ; di molte altre i loro citta-
dini ne diventarono Principi. Ondechè, essendo venuta l'Ita-
lia quasi in mano della Chiesa, e di qualche repubblica,
ed essendo quelli preti e quelli altri cittadini ^ usi a non
conoscer arme, incominciarono a soldare forestieri. Il pri-
mo che dette riputazione a questa milizia, fu Alberigo da
Conio, ^ romagnuolo. Dalla disciplina di costui discese, tra gli
altri, Braccio e Sforza, che ne'lor tempi furono arbitri
d'Italia. Dopo questi, vennero tulli gli altri che fino a' no-
* Così, mollo meglio che Cardinali, nella ediz. del Biado, nella Testina e
in quella del 1SÌ3.
2 Pare che nessun altro editore si accorgesse prima di noi dell' errata le-
zione da Como: cosa invero da maravigh'arsene , in quanto che tutti sanno non
esser Como tra le città di Romagna, ma sì di Lombardia. Alberigo da Bar-
biano, celebre istitutore della Compagnia di San Giorgio, e delle armi nazio-
nali (se si riguardi a'tempi^ assai benemerito, ebbe altresì , per una fra le terre
possedute dalla sua stirpe, il soprannome di Cntiio, o da Conio. E di questa con-
tea, o castello (oggi distrutto), fa menzione lo stesso Dante, ove scrive, nel XIV
del Purgatorio: Ben fa Bagnacaval che non rijìglia, E mal fa Qastrocaro , e
peggio Conio , C/ie difg/iar lai conti più s' impiglia
40 IL« PRINCIPE.
stri tempi hanno governale 1* armi d' Italia : ed il fine delle
loro virtù è stato, che quella è stata corsa da Carlo, predala
da Luigi, sforzata da Ferrando, e vituperala da' Svizzeri.
L'ordine che loro hanno tenuto, è slato, prima, per dare
riputazione a loro propri, aver tolto riputazione alle fanterie.
Feciono questo perchè essendo senza slato, e in su l'indu-
stria, f pochi fanti non davano loro riputazione, e li assai
non potevano nutrire; e però si ridussero a' cavalli, dove
con numero sopportabile erano nutriti e onorati : ed erano
ridotte le cose in termine , che in un esercito di venti-
mila soldati, non si trovavano duemila fanti. Avevano, olire
a questo, usato ogni industria per levar via a sé ed a' soldati
la fatica e la paura, non s'ammazzando nelle zuffe, ma pi-
gliandosi prigioni e senza taglia. Non traevano di notte alle
terre ; quelli delie terre non traevano di notte alle tende ;
non facevano intorno al campo né steccato né fossa, non
campeggiavano il verno. E tutte queste cose erano permesse
ne' loro ordini militari, e trovale da loro per fuggire, come
è detto, e la fatica e i pericoli: tanto che essi hanno con-
dotta Italia schiava e vitui)erata.
Cap. XIII. — De' soldati auii7iart, misti e propri.
L'armi ausiliarie, che sono le altre armi inalili, tono
quando si chiama un potente, che con le armi sue ti venga
ad aiutare e difendere : come fece ne' prossimi tempi papa
Giulio, il quale avendo visto nell' impresa di Ferrara la
trista prova delle sue armi mercenarie, si volse alle ausi-
liarie, e convenne con Ferrando re di Spagna, che con le
sue genti ed eserciti dovesse aiutarlo. Queste armi possono
essere utili e buone per lor medesime, ma sono per chi le
chiama sempre dannose; perché perdendo rimani disfallo,
e jfjncendo resti loro prigione. E ancora che di questi esempi
ne sien piene l'antiche Félorie, nondiroanco io non mi vo-
glio partire da questo esempio di papa Giulio II, quale é an-
cor fresco; il partito del quale non potè essere manco con-
siderato, per volere Ferrara, metlendosi tulio nelle mani
d' un forestiero. Ma la sua buona fortuna fece nascere una
j
IL PRINCIPE. 41
terza causa , acciò non cogliesse il frullo della sua mala
elezione: perchè, essendo gli ausiliari suoi rolli a Ravenna,
e surgendo i Svizzeri che cacciarono i vincilori fuor d'ogni
opinione e sua e d'altri, venne a non rimanere prigione
degl'inimici essendo fugali, né degli ausiliari suoi avendo
vinlo con allre armi che con le loro. I Fiorentini, essendo al
lutto disarmali, condussero diecimila Francesi a Pisa per
espugnarla ; per il qual parlilo portarono più pericolo che in
qualunque tempo de' travagli loro. Lo iraperadore di Costan-
tinopoli, per opporsi alli suoi vicini, misse in Grecia dieci-
mila Turchi, li quali, finita la guerra, non se ne volsero
partire , il che fu principio della servitù della Grecia con
gl'infedeli. Colui, adunque, che vuole non poter vincere, si
vaglia di queste armi, perchè sono molto più pericolose che
le mercenarie; perchè in queste è la rovina falla, son tulle
unite, tutte vòlte all' obbedienza di altri : ma nelle merce-
narie, ad offenderti, vinto ch'elle hanno, bisogna più tempo
e migliore occasione, non essendo tutte un corpo, ed essendo
trovale e pagale da te; nelle quali un terzo che tu facci capo,
non può pigliare subito tanta autorità che t'offenda. In somma,
nelle mercenarie è più pericolosa la ignavia e pigrizia al com*
battere; nelle ausiliarie, la virtù. Un Principe, pertanto, savio
sempre ha fuggito queste armi, e vòllosi alle proprie; e vo-
luto piuttosto perdere con le sue, che vincere con l'altrui,
giudicando non vera vittoria quella che con le armi d'altri
si acquistasse. Io non dubiterò mai di allegare Cesare Bor-
gia e le sue azioni. Questo duca entrò in Romagna con le
armi ausiliarie, conducendovi tulle genti francesi, e con
quelle prese Imola e Furlì : ma non li parendo poi tali armi
sicure, si volse alle mercenarie, giudicando in quelle manco
pericolo, e soldo gli Orsini e Vitelli; le quali poi nel maneggiare
trovando dubbie, infedeli e pericolose, le spense, e volsesi alle
proprie. E puossì facilmente vedere che differenza è tra l'una
e l'altra di queste armi, considerato che differenza fu dalla
riputazione del duca quando aveva i Francesi soli, e quando
aveva gli Orsini e Vitelli, e quando rimase con gli soldati suoi
e sopra di sé stesso, e si troverà sempre accresciuta; né mai
fu stimalo assai se non quando ciascun vedde ch'egli era
42 IL PRINCIPE.
,^, ÌDlero possessore delle sue armi. Io non mi volevo partire
^'A dagli esempi italiani e freschi ; pure non voglio lasciare in-
r dietro lerone Siracusano, essendo uno de' sopra nominati
da me. Costui, come di già dissi, fatto dalli Siracusani capo
degli eserciti, conobbe subito quella milizia mercenaria
non essere utile, per essere conduttori fatti come li nostri
Italiani; e parendogli non li poter tenere né lasciare, li
fece lutti tagliare a pezzi; dipoi fece guerra con l'armi sue,
> e non con l' altrui. Voglio ancora ridurre a memoria una
figura del Testamento Vecchio fatta a questo proposito. Of-
^ ferendosi David a Saul d'andare a combattere con Golia
provocatore Glisteo, Saul, per dargli animo, l'armò dell'armi
sue; le quali come David ebbe indosso, ricusò dicendo con
ù ^' quelle non si poter ben valere di sé stesso ; e però voleva
r trovare il nimico con la sua fromba e con il suo coltello.
n io somma, l'armi d'altri, o le ti cascan di dosso, o le ti
^ pesano, o le ti slriogono. Carlo VII, padre del re Luigi XI,
^ "' avendo con la sua fortuna e virtù liberala Francia dagl'In-
hA^^ ghilesi, conobbe questa necessità d'armarsi d'armi pro-
fj^ prie, ed ordinò nel suo regno l' ordinanze delle genti d' arme
T^L e delle fanterie. Dipoi il re Luigi suo figliuolo spense quella
B«^ ' de' fanti, e cominciò a soldare Svizzeri: il quale errore se-
guitato dagli altri, è, come si vede ora in fatto, cagione
de' pericoli di quel regno. Perchè, avendo dato reputazione
a'Sviizeri, ha invilito (olle l'armi sue; perchè le fanterie ha
spente in tutto, e le sue genti d'armi ha obbligale all'armi
d'altri; perchè essendo assuefalli « militare eoo Sviizeri,
non par loro di poter vincere senza essi. Di qui nasce che
li Francesi contro a' Svizzeri non bastano, e senza Sviz-
zeri contro ad altri non provano. Sono, adunque, stali gli
eserciti di Francia misti, parte mercenari e parte propri:
le quali armi tulle insieme son molto migliori che le sem-
plici mercenarie o le semplici ausiliarie, e molto inferiori
alle proprie. E basii l'esempio detto, perché il regno di
Francia sarebbe insuperabile, se l'ordine di Carlo era ac-
cresciuto o preservalo. Ala la poca prudenza degli uomini
comincia una cosa, che per sapere allora di buono non ma-
^^ j Difesta il veleno che v'é sotto ; come io dissi di sopra delle
IL PRINCIPE. 43
febbri eliche. Pertanto, se colui che è in un principato, non
conosce i mali se non quando nascono, non è veramente
savio; e questo è dato a pochi. E se si considerasse la prima
rovina dell'imperio romano, si troverà essere slato solo il I ^^
cominciare a soldare Goti; perchè da quel principio co- '^
minciarono ad enervare le forze dell' imperio romano ; e
tulla quella virtù che si levava da lui, si dava a loro. Con-
chiudo adunque, che senza avere armi proprie, nessun prin-
cipato è securo; anzi è tutto obbligato alla fortuna, non
avendo virtù che nell' avversità lo difenda. E fu sempre opi- ^
nione e sentenzia degli uomini savi, che niente sia cosi in-
fermo ed instabile come è la fama della potenza non fon-
data nelle forze proprie. E 1' armi proprie son quelle che
sono composte di sudditi, o di cittadini, o di creati tuoi:
tutte r altre sono o mercenarie , o ausiliarie. E il modo ad
ordinare l'arme proprie sarà facile a trovare, se si discor-
reranno gli ordini sopra nominati da me; e se si vedrà come
Filippo padre di Alessandro Magno, e come molte repubbli-
che e Principi si sono armati ed ordinati : a' quali ordini io
mi rimetto al tutto.
Gap. XIV. — Quello che al Principe si appartenga
circa la milizia.
Deve, adunque, un Principe non avere altro oggetto né
altro pensiero, né prendere cosa alcuna per sua arte, fuora
della guerra, ed ordini e disciplina di essa; perché quella è
sola arte che si aspetta a chi comanda; ed è di tanta virtù,
che non solo mantiene quelli che son nati principi , ma
molte volte fa gli uomini di privata fortuna salire a quél
grado. E, per contrario, si vede, che quando i Principi hanno
pensato più alle delicatezze che all'armi, hanno perso lo
stalo loro. E la prima cagione che li fa perdere quello , è il
dìsprezzar questa arte; e la cagione che te lo fa acquistare,
è r essere professo di questa arte. Francesco Sforza, per es-
sere armato, diventò , di privato, duca di Milano; e li figli ,
per fuggir le fatiche e i disagi dell'armi, di duchi, diven-
tarono privali. Perchè intra le altre cagioni di male che far-
44 IL PRINCIPE.
reca l'esser disarmalo, ti fa contennendo: la quale è una
di quelle infamie, delle quali il Principe si debbe guardare;
come di sotto si dirà. Perchè da uno armalo a un disarmalo
non è proporzione alcuna ; e la ragione non vuole che chi è
armalo ubbidisca volenlieri a chi è disarmalo, e che il dis-
armalo stia securo intra i servilori armati. Perchè , essendo
nell'uno sdegno, e nell'allro sospetto, non è possibile ope-
rino bene insieme. E però, un Principe che della milizia non
s' intende, oltre all'allre infelicità, come è detto, non può
essere stimalo da' suoi soldati, né fidarsi di loro. Non deve,
pertanto, mai levare il pensiero da questo esercizio della
guerra ; e nella pace vi si deve più esercitare che nella
guerra: il che può fare in duoi modi; l'uno con l'opere,
r altro con la mente. E quanto all'opere, deve, oltre al tener
bene ordinati ed esercitali li suoi , star sempre in su le caccio ,
e mediante quelle assuefare il corpo a' disagi; e parte impa-
rar la natura de' siti, e conoscere come surgono i monti,
come imboccano le valli, come giacciano i piani, ed inten-
dere la natura de' fiumi e delle paludi ; ed in questo porre
grandissima cura. La qual cognizione è utile in duoi modi.
Prima, s'impara a conoscere il suo paese, e può meglio in-
tendere le difese di esso. Dipoi, mediante la cognizione e
pratica dì quelli siti, con facilità comprende un altro silo
che di nuovo gli sia necessario speculare : perchè li poggi ,
le valli, e piani e fiumi e paludi che sono, per modo di dire, in
Toscana, hanno con quelli dell'altre provincie certa simili-
tudine; talché dalla cognizione del silo d'una provincia,
si può facilmente venire alla cognizione dell'altre. E quel
Principe che manca di questa perizia, manca della prima
parte che vuol avere un capitano; perchè questa insegna
trovare il nimico, pigliare gli alloggiamenti, condurre gli
eserciti, ordinare le giornate, campeggiar le terre con tuo
vantaggio. Filopomene, Principe degli Achei, intra l'altre
laudi che dagli scrittori gli sono date, è che ne' tempi della
pace non pensava mai se non a' modi della guerra; e quando
era in campagna con gli amici, spesso si fermava e ragio-
nava con quelli: Se gli nimici fussero in su quel colle, e noi
ci trovassimo qui col nostro esercito, chi di noiarebbe van-
IL PRINCIPE. 45
taggio? come sicuramente si potrebbe ire a trovargli ser-
vando gli ordini? se noi volessimo ritirarci, come aremmo
a fare? se loro si ritirasseno, come aremmo a seguirli? E
proponeva loro, andando, tutti i casi che in un esercito pos-
sono occorrere; intendeva l'opinion loro, diceva la sua,
corroboravala con le ragioni : talché per queste continue
cogitazioni non poteva mai , guidando gli eserciti , nascere
accidente alcuno, che egli non vi avesse il rimedio. Ma
quanto all'esercizio della mente, deve il Principe leggere le
istorie, ed in quelle considerare le azioni degli uomini ec-
cellenti; vedere come si sono governati nelle guerre; esa-
minare le cagioni delle vittorie e perdile loro, per potere
queste fuggire, quelle imitare; e sopra lutto , fare come ha
fatto per l' addietro qualche uomo eccellente, che ha preso
ad imitare se alcuno è stato innanzi a lui lodato e glorioso ,
e di quello ha tenuto sempre i gesti ed azioni appresso di
sé: come si dice che Alessandro Magno imitava Achille, Ce-
sare Alessandro, Scipione Ciro. E qualunque legge la vita di
Ciro sopradetlo scritta da Senofonte, riconosce dipoi nella vita
di Scipione, quanto quella imitazione gli fu di gloria, e quanto
nella castità, affabilità, umanità e liberalità, Scipione si con-
formassi con quelle- cose che di Ciro sono da Senofonte
scritte. Questi simili modi deve osservare un Principe savio ,
né mai ne' tempi pacifici stare ozioso; ma con industria farne
capitale, per potersene valere nelle avversità, acciocché,
quando si muta la fortuna, lo trovi parato a resistere alli
suoi colpi.
Cap. XV. — Delle cose rnedianle le quali gli uomini ,
e massimamenle i Principi, sono laudali o viluperali.
Resta ora a vedere quali devono essere i modi e go-
verni d' un Principe con li sudditi e con li amici. E perchè
io so che molli di questo hanno scritto , dubito scrivendone
ancor io non esser tenuto presuntuoso, partendomi, massime
nel disputare questa materia, dagli ordini degli altri. Ma
essendo l'intento mio scriver cosa utile a chi l'intende,
m'è parso più conveniente andar dietro alla verità effel-
46 IL PRINCIPE.
I (oale delia cosa , che air immaginazione di essa : e molti si
' sono immaginali repubbliche e principali che non si sono
mai visli né conosciuti essere in vero; perchè egli è tanto dis-
costo da come si vive a come si doverria vivere, che colui che
lascia quello che si fa per quello che si doverria Tare, impara
piuttosto la rovina che la presei razione sua : perchè un uomo
che voglia fare in tutte le parli professione di buono, conviene
che rovini infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario
ad un Principe, volendosi mantenere, imparare a potere esser
U^ non booDO, ed osarlo e non usarlo secondo la necessità. La-
(#A^, sciando, adunque, indietro le cose circa un Principe immagi-
j^ naie, e discorrendo quelle che son vere ; dico che lutti gli
À^ Qomioi, quando se ne parla, e massime i Principi, per esser
* ^/ posti più allo, son notali di alcuna di queste qualità che ar-
, ' recano loro o biasimo o laude : e questo è che alcuno é le-
U^ nolo liberale, alcuno misero, u8l^ldo un tcrfliine toscano
^j \\ (perchè avaro in nostra lingua è ancor colui che per ra-
pina desidera d'avere; misero chiamiamo quello che troppo
si astiene dall' usare il suo); alcuno è tenuto donatore, alcuno
L^ . rapace; alcuno crudele, alcuno pietoso; l'uno fedifrago,
.*](«* l'altro fedele; l'uno effeminato e pusillanime, l'altro feroce
^t ed animoso; Tono umano, l'altro superbo; l'uno lascivo,
^' V altro casto ; l' uno intero, l' altro astuto; l'uno duro, l'altro
facile; Tono grave, l'altro leggiere; l'uno religioso, l'altro
incredulo; e simili. Io so che ciascuno confesserà, che sa-
rebbe laudabilissima cosa , un Principe * trovarsi , di lutto
le sopraddette qualità, quelle che sono tenute buone : ma
perchè non si possono avere, né interamente osservare, per
le condizioni umane che non lo consentono, gli è necessario
essere tanto prudente, che sappia fuggir l' infamia di quelli
, vizi che gli lorrebbono lo stato, e da quelli che non gliene
tolgano, guardarsi, se egli è possibile; ma non potendovi, si
può con minor rispello lasciar andare. Ed ancora non si
V f^' ^^^^ ^' incorrere nell' infamia di quelli vizi , senza i quali
f j?' possa difficilmente salvare lo stalo: perchè, se si considera
ben tutto, si troverà qualche cosa che parrà virtù, e se-
' Così in tutte le edìzioDÌ da noi vedate. Srmbra però certo doversi leg-
gere t in tm Principe.
t
IL P1UNCI.PE. 47
guendola sarebbe la rovina sua; e qualcun' altra che parrà
vizio, e seguendola ne resulta la sicurtà, ed il ben es-
sere suo.
Gap. XVI. — Della liberalUà e miseria.
Cominciandomi, adunque, dalle prime soprascritte quali-
tà, dico come sarebbe bene esser tenuto liberale: nondimanco
la liberalità usata in modo che tu non sia temuto, li of-
fende; perchè se la si usa virtuosamente e come la si deve
usare, la non fia conosciuta, e non ti cadrà l'infamia del
suo contrario. E però, a volersi mantenere infra gli uomini il
nome del liberale, è neceipario non lasciare indietro alcuna
qualità di sontuosità : talmenlechè sempre un Principe così
fatto consumerà in simili opere tutte le sue facultà ; e sarà
necessitato alla fine, s' egli si vorrà mantenere il nome del
liberale, gravare i popoli estrasordinariamente , ed esser
fiscale, e far tutte quelle cose che si posson fare per avere
danari. Il che comincia a farlo odioso con li sudditi, e poco
stimar da ciascuno, diventando povero; in modochè, avendo
con questa sua liberalità otTeso molti e premiato pochi ,
sente ogni primo disagio, e periclita in qualunque primo pe-
ricolo; il che conoscendo lui, e volendosene ritrarre, incorre
subito neir infamia del misero. Un Principe, adunque , non
potendo usare questa virtù del liberale senza suo danno, in
modo che la sia conosciuta; deve, s' egli è prudente, non si
curare del nome del misero: perchè con il tempo sarà tenuto
sempre più liberale, veggendo che con la sua parsimonia le
sue intrate gli bastano, può difendersi da chi gli fa guerra,
può far imprese senza gravare i popoli ; lalmentechè viene
a usare la liberalità a lutti quelli a chi non toglie, che sono
infiniti ; e miseria a lutti coloro a chi non dà, che sono po-
chi. Ne' nostri tempi noi non abbiam visto fare gran cose
se non a quelli che sono stali tenuti miseri ; gli altri essere
spenti. Papa Giulio II , come si fu servito del nome di libe-
rale per aggiugnere al papato, non pensò poi a mantener-
selo, per poter far guerra al re di Francia: ed ha fatto tante
guerre senza porre un dazio estraordinario, perchè alle su-
48 ' IL PUIKCIPE.
perflue spese ha somministralo la lunga sua parsimonia. Il
re di Spagna presente, se fusse tenuto liberale, non arebbe fatlo
né vinto tante imprese. Pertanto, un Principe deve sJimar
poco, per non avere a rubare i sudditi, per poter difendersi,
per non diventare povero e contennendo , per non essere
forzato diventar rapace , d' incorrere nel nome di misero ;
perchè questo è uno di quelli vizi che lo fanno resnare. E se
alcun dicesse ; Cesare con la liberalità pervenne all'imperio; e
molti altri per essere stati ed esser tenuti liberali, sono
venufi a gradi grandissimi ; rispondo : o tu se' Principe
fallo , 0 tu se' in via di acquistarlo. Nel primo caso , questa
liberalità è dannosa ; nel secondo, è ben necessario esser te-
nuto liberale : e Cesare era un di quelli che voleva perve-
nire al principato di Roma; ma se poi che vi fu venuto , fusso
sopravvissuto e non si fusse temperato da quelle spese,
arebbe distrutto quell'imperio. E se alcuno replicasse: molli
sono stali Principi, e con gli eserciti hanno fatto gran cose ,
che sono stati tenuti libéralissimi ; ti rispondo : o il Principe
spende del suo e de' suoi sudditi , o di quel d' altri. Nel
primo caso, deve esser parco ; nel secondo, non deve lasciar
indietro parte alcuna di liberalità. K quel Principe che va
con gli eserciti, che si pasce di prede, di sacchi e di la-
glie, e maneggia quel d'altri, gli è necessaria questa libera-
lità: altrimenti, non sarebbe seguilo da' soldati. E di quello
che non è tuo o de' tuoi sudditi, si può essere più largo do-
natore, come fu Ciro, .Cesare e Alessandro; perchè lo «pen-
dere quel d'altri non toglie riputazione, ma le ne aggiugne:
solamente lo spendere il tuo è quello che li nuoce. E non c'è
cosa che consumi sé stessa quanto la liberalità : la quale
mentre che tu l'usi, perdi la facultà di usarla , e diventi o
povero e contennendo ; o per fuggire la povertà , rapace e.
odioso. E in tra tulle le cose da che un Principe si debbo guar-
dare, è l'esser contennendo e odioso; e la liberalità all'una
e l'altra di queste cose li conduce. Pertanto, è più sapiente
tenersi il nome di misero, che partorisce una infamia senza
odio; che, per volere il nome di liberale, incorrere per neccs-
p. ~ 8ilà nel nome di rapace, che.parlorisce una infamia con odio.
,*'^ ^>,c f^^ ^"
r^^'^ Im.ì
IL PRINCIPE. 49
Gap. XVII. ~ Della crudeltà e clemenzia,
e s' egli è meglio essere amalo o lemulo.
Descendendo appresso alle altre qualità preallegate,
dico che cìascan Principe deve desiderar d* essere tenuto
pietoso, e non crudele. Nondimanco, deve avvertire di non
usar raale questa pietà. Era tenuto Cesare Borgia crudele;
nondimanco quella sua crudeltà aveva racconcia la Roma-
gna, unitola e ridottola in pace e in fede. 11 che se si consi-
derrà bene, si vedrà quello essere slato molto più pietoso
che il popolo fìorenlino, il quale, per fuggire nome di cru-
dele, lasciò distruggere Pistoia. Deve, pertanto, un Principe
non si curar dell' infamia di crudele, per tenere i sudditi
suoi uniti ed in fede: perchè con pochissimi esempi sarà
più pietoso che quelli li quali, per troppa pietà, lasciano se-
guire i disordini, onde nanchino occisioni o rapine; perchè
queste sogliono offendere una università intera; e quelle ese-
cuzioni che vengono dal Principe, offendono un pafticulare.
E intra lutti ì Principi, al Principe nuovo è impossibile fug-
gire il nome di crudele, per essere gli stali nuovi pieni di
pericoli. Onde Virgilio, per la bocca di Didone, escusa Tina-^.
manilà dei suo regno per essere quello nuovo, dicendo:
Bes dura , et regni novitas me talia cogitnt
Moliri , et latejines custode tueri.
Nondimeno, deve esser grave al credere ed al muoversi, /
né si deve far paura da sé stesso; e procedere in modo lem- \
perato con prudenza ed umanità, che la troppa confidenza |
non lo faccia incauto, e la troppa ditfìdenza non lo renda
inlollerabile. Nasce da questo una disputa: «'eiyW é meglio
essere amalo che temuto^ o lemulo che amalo. Rispondesi, che
si vorrebbe essere l'uno e l'altro; ma perché gli è diHìcile
che gli stiano insieme, é mollo più picuro l'esser temuto che \
amato, quando s'abbi a mancare dell* un de' duoi. Perchè j
degli uomini si può dir questo generalmente, che sieno in- \
grati, volubili, simulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi di \
guadagno: e mentre fai lor bene, sono tulli tuoi, ti offeri-
scono il sangue, la roba, la vita, ed i figli, come di sopra
5
.^0 tL PRINCIPE.
dissi, qnando il bisosno è discosto: ma qnando li si appres-
sa, si rivoltano. E quel Principe che si è tulio fondalo in
su le parole loro, trovandosi nudo d' altrf preparamenti,
rovina; perchè T amicizie che si acquistano con il prezzo, e
non con grandezza e nobilita d'animo, si meritano, ma le
non s' hantio, ed a* tempi non si possono spendere. E gli uo-
mini hanno men rispello d'offendere uno che si facci amare,
che ano che si facci temere: perchè l'amore è tenuto da un
vinculo d' obbligo, il quale, per esser gli uomini tristi, da
ogni occasione di propria utilità è rotto; ma il timore è te-
nuto da una paura di pena, che non abbandona mai. Deve,
nondimeno, il Principe farsi temere in modo, che se non
acquista' l'amore, e* fuscR l'odio; perchè può molto bene
stare insieme esser temalo ò%ntìtì odiato: il che farà sempre
che si astenga dalla robb.i de' soci cittadini e de'suoi saddili,
e dalle donne loro. K quando pure gli bisounas^e procedere
contro al sancoe di qualcuno, farlo quando vi sia giuslifìdi-
zione conveniente e causa manifesta: ma sopraltulto aste-
nersi dalla robba d'altri; perchè gli uomini dimenticano più
presto la morte del padre, che la perdita del patrimonio.
Dipoi, le cagioni del tdrrc la robba non mancano mai; e sem-
pre colui che comincia a vivere con rapina, trova cagion
d* occupare quel d'altri: e, per avverso, contro al sangue sono
più rare e mancano più presto. Ma quando il Principe è con
gli eserciti, ed ha in governo moltitudine di soldati, allora
è al tutto necessario non si curar del nome di erodete;
perché senza questo nome non si tiene un esercito onito,
né disposto ad alcuna fazione. Intra le mirabili azioni di An-
nibale si connumera questa, che avendo un esercito gros-
sissimo, misto d'intinile generazioni d'uomini, condotto a
militare in terre d'altri, non vi surgesse mai una dissen-
sione, né infra loro né contro il Principe, cosi nella tri.sla
come nella sua buona fortuna. Il che non potè nascere da
altro che da quella sua inumana crudeltà; la quale insieme
con infìn^le sue virtù Io fece sempre nel cospetto de' suoi
soldati venerando e terribile; e senza quella l'altre sue virtù
a far quello effello non gli bastavano. £ gli scrittori poco
considerali 'dall'una parte ammirano queste sue azioni, e
I
IL PRINCIPE. ^1
dair altra dannano la principal cagione d* esse. E che sia il
vero che l'altre sue virtù non gli sarieno bastale, si può
considerare in Scipione (rarissimo non solamente ne' tempi
suoi, ma in tutla la memoria delle cose che si sanno), dal
quale gli eserciti suoi in Ispagna si ribellarono: il che non
nacque da altro che dalla sua troppa pietà, la quale aveva
dato a' suoi soldati più licenza che alla disciplina militare
non si conveniva. La qual cosa gli fu da Fabio Massimo nel
senato rimproverata, chiamandolo corruttore della romana
milizia. I Locrensi essendo stati da un legalo di Scipione
distrutti, non furono da lui vendicati, né l'insolenza di quel
legato corretta, nascendo lutto da quella sua natura facile:
tairaentechè, volendolo alcuno in senato escusare, disse come \
egli erano molti uomini che sapevano meglio non errare,
che correggere gli errori d'altri. La qual natura arebbe con
il tempo violato la fama e la gloria di Scipione, se egli avesse
con essa perseverato nell* imperio ; ma vivendo sotto il go-
verno del senato, questa sua qualità dannosa non solamente
si nascose, ma gli fu a giuria. Gonchiudo, adunque, tornando
all'esser temuto ed amato, che amando gli uomini a posta /
loro, e temendo a posta del Principe, deve un Principe savio '
fondarsi in su quello che è suo, non in su quello che è d'ai- /
tri: deve solamente ingegnarsi di fuggir l'odio, come è
dello.
Gap. XVIIL — In che modo i Principi debbono osservare
la fede.
Quanto sìa laudabile in uti Principe mantenére la fede
e vivere con integrità, e non con astuzia, ciascono lo itf*
tende. Nondimeno, si vede per esperienza ne' nostri tempi,
quelli Principi aver fallo gran cose, che della fede hanno
tenuto poco conto, e che hanno saputo con aslM/ia assirare
i^ervelli degli uomini, ed alla fine hanno superato quelli
che si sono fondati in su la lealtà. Dovete, adunque, sapere
come sono due generazioni di combattere; l'una con le leggi,
l'altra con le forze: quel primo modo è degli uomini, quel
secondo è delle bestie; ma perchè il primo spesse volle non
52 IL PRINCIPE.
basta, bisogna ricorrere al secondo. Perfanto a un Prin-
cipo è necessario saper bene usare la beslia e V uomo. Que-
sta r>arle è stata insegnata a' Principi coperiaroenle dai^li
^ .antichi scrittori, i quali scrivono come Achille e molli altri
V di quelli Principi antichi furono dati a nutrire a Chirone
kJ*'A' ^^^^^^^^^ c^^ ^^^0 '^ s"^ disciplina gli custodisse: il che
. jf non vool dir altro l'aver per precettore un mezzo bestia
'^ ^ ' e mezzo uomo, se non che bisogna ad un Principe sapere
yt/'^ osare T una e T altra natura , e 1' una senza l'altra non è
M durabile. Essendo, adunque, un Principe necessitHto saper
bene osare la bestia, dehbe di quelle pigliare la volpe e il
leone; perchè il leone non si difende da* lacci, la volpe non
si defende da' lupi. Bisogna, adunque, essere volpe a cono-
scere i lacci, e lione a sbigottire i lupi. Coloro che stanno
7 templiceraenle in sol leone, non se ne intendono. Non può,
pertanto, on sìcnor pnidente né debbe osservar la fede,
quando tale osservaniia gli tornì contro, e che sono spente
le cagioni che la feciono promettere. E se gli uomini fossero
I lotti buoni, questo precetto non saria buono; ma perché
•on tristi, e non 1' os«erverebbono a le, tu ancora non l'hai
I da osservare a loro. Né mai a un Principe mancarono ca-
gioni legittime di colorare l' inosservanza. Di questo se ne
potrien dare infiniti esempi moderni, e mostrare quante
paci, quante promesse sieno siale fatte irrite e vane per la
isfedelità de' Principi: ed a quello che ha saputo meulio
/ asar la volpe, è meglio successo. Ma è necessario questa
natora sa(»erla ben colorire, ed essere gran simulatore e
, dissimulatore: e sono tanto semplici gli uomini, e tanto oh-
I bediscono alle necessità presenti, che colai che inganna,
troverà sèmpre chi si lascerà ingannare, lo non voglio de-
gli esempi freschi tacerne uno. Alessandro VI non fece mai
altro che ingannar uomini, né mai pensò ad altro, e tro-
Yò soggetto da poterlo fare; e non fu mai uomo che avesse
maggiore eflìcacia in asseverare, e che con maggiori giura-
menti aflfermasse una cosa, e che l'osservasse meno: non-
dimanco gli succederono sempre gl'inganni, perché cono-
sceva bene questa parte del mondo. A un Principe, adunque,
non è necessario avere tolte le soprascritte qualità; ma è
ben necessario parer d* averle. Anzi, ardirò di dir qnesto,
che avendole ed osservandole sempre, sono dannose; e pa- / ^ [v^*
rendo d'averle, sono utili: come parer pietoso , fedele,*^ • Jt'(
amano, religioso, intero, ed essere; ma stare in modo edì-p-c*^*^
ficaio con l'animo, che bisognando non essere, lu possi e sappi f* ^< t
mutare il contrario. Ed bassi da intender questo, che un Prin- , <. ^
cipe, e massime un Principe nuovo, non può osservare tutte r' /
quelle cose per le quali gli uomini son tenuti buoni, essendo
spesso necessitato per mantener lo stato, operare contro alla
fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla reli-
gione. E però, bisogna che egli abbia uno animo disposto a
volgersi secondo che i venti e le variazioni della fortuna gli
comandano; e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene,
potendo, ma sapere entrare nel male, necessitato. Deve, adun-
que, avere un Principe gran cura che non gli esca mai di
bocca una cosa che non sia piena delle soprascritte cinque
qualità; e paia, a vederlo e adirlo, lutto pietà, tutto fede, lutto
integrità, tutto umanità, lutto religione. E non è cosa più ne-
cessaria a parer d'avere che questa ultima qualità: perchè gli
nomini, in universale, giudicano più agli occhi che alle mani;
perchè tocca a vedere a ciascuno, a sentire a pochi. Ognun
vede qualche tu pari, pochi sentono quel che tu sei; e quelli
pochi non ardiscono opporsi alla opinione de' molli, che ab-
bino la maestà dello slato che gli difenda ; e nelle azioni di
tutti gli uomini, e massime de' Principi, dove non è giudi-
ciò da reclamare,* si guarda al fine. Facci, adunque, un
Principe conto di vivere' e mantenere lo stato: i mezzi sa-
ranno sempre giudicati onorevoli, e da ciascuno lodali; per-
chè il vulgo ne va sempre preso con quello che pare, e con
lo evento della cosa: e nel mondo non è se non vulgo, e gli
pochi han loco quando gli assai non hanno dove appog-
giarsi. Alcun Principe di questi tempi, il quale non è bene
nominare, non predica mai altro che pace e fede; e dell' una
e dell' altra è inimicissimo; e V una e 1' altra quando
* Cosi nell' edizione del Biado. In tutte T altre da noi vedute : a c/a' re*
damare.
2 L' edizione del Biado omette qui conto. Il MS. Laurenziano, e 1* edizione
dèi i813, invece di vivere, hanno vincere.
^ IL ptimciPÉ.
e' r avesse osservata , gli arebbe più volte tolto lo stato e la
reputazione.
Gap. XIX. — Che si debbe fuggire lo essere disprezzalo
e odialo.
Ma perchè circa le qualità dì che di sopra sì fa men-
zione, io ho parlato delle più importanti; l'altre voglio dis-
correre brevemente sotto queste generalità, che il Principe
pensi, come di sopra in parte è detto, di fuggire quelle cose
che lo faccino odioso o conlennendo;e qualunque volta fuggirà
questo, ara adempito le parti sue, e non troverà nell' altre in-
famie pericolo alcuno. Odioso lo fa sopratutto, come io dissi,
r esser rapace ed usurpatore della roba e delle donne de' sud-
diti: di che si deve astenere; e qualunque volta alla univer-
] sita degli nomini non si toglie né robba nò onore^ vivono
I contenti, e solo s' ha a combattere con l' ambizione dì pochi,
\ la quale in molti modi e con facilità si raffrena. Contennendo
lo fa lo esser teoolo vario, leggiero, effeminato, pusillanimo,
irresoluto: di che on Principe si deve guardare come da uno
scoglio, ed ingegnarsi che nelle azioni sue si riconosca gran*
dczza, animosità, gravità, fortezza; e circa i maneggi pri-
vali de' sudditi, volere che la sua sentenzia sia irrevocabile,
e si mantenga in tale opinione, che alcuno non pensi né ad
ingannarlo né ad aggirarlo. Quel Principe che dà di sé que-
sta opinione, è riputato assai; e contro a chi è riputato assai,
con difOcultàsi congiura; e con diflìcultàè assaltato, purché
s'intenda che sia eccellente e riverito da' suoi. Perché un
Principe deve aver due paure; una dentro per conto de' sud-
I diti; l'altra di fuori per conto de' potenti esterni. Da questa
si difende con le buone armi e buoni amici; e sempre se ara
buone armi, ara buòni amici; e sempre staranno ferme le
cose di dentro, quando stien ferme quelle di fuora, se già
le non fussero perturbate da una congiura; e quando pur
quelle di fuora movessero, se egli sarà ordinato, e vissuto come
io ho detto, sempre quando non s'abbandoni, sosterrà ogni
impeto, come dissi che fece Nabide spartano. Ma circa i sud-
diti, quando le cose di fuora non muovino, s'ha da temere
ìl principe. 55
che non congiurino segretamente: del che il Prìncipe si as-
sicura assai, fuggendo Tessere odiato e disprezzato; e te-
nendosi ìl popolo satisfatto di lui; ìl che è necessario conse-
guire, come di sopra si disse a lungo. Ed uno de' più polenti
rimedi che abbia un Principe contro le congiure, è non es-
sere odiato o disprezzato dall'universale: perchè sempre chi
congiura crede con la morte del Principe satisfare al popolo;
ma quando ei creda ofTenderlo, non piglia animo a prender
simil partito, perchè le ditlìcultà che sono dalla parte de' con-
giuranti, sono infmite. Per isperienza si vede molte essere
state le congiure, e poche aver avuto buon fine; perchè chi
consìura non può esserselo, né può prender compagnia se
non di quelli che creda essere malcontenti; e subito che a
un malcontento tu hai scoperto l'animo tuo, gli dai mate-
ria a contentarsi, perchè manifestandolo, lui, ne può sperare
ogni comodità: talraentechè, veggendo il guadagno fermo da
questa parte, e dall' altra reggendolo dubbio e pieno di pe-
ricolo, convien bene oche sia raro amico, o che sia al tutto
ostinato inimico del Principe ad osservarti la fede. £ per ri^
durre la cosa in brevi termini, dico: che dalla parte del con-
giurante non è se non paura, gelosia, sospetto di pena che
Io sbigottisce; ma dalla parte del Principe è la maestà del
principato, le leggi, le difese degli amici e dello stato che
lo defendono: talmentechè, aggiunto a tutte queste cose la
benivolenza popolare, è impossibile che alcun sia si teme-
rario che congiuri. Perchè, per l'ordinario, dove un congiu-
rante ha da temere innanzi alla esecuzione del male; in
questo caso debbe temere ancor dapoi, avendo per nimico il
popolo, seguilo l'eccesso, né potendo per questo sperare ri-
fugio alcuno. Dì questa materia se ne potria dare infiniti
esempi, ma voglio solo esser contento d'uno, seguito alla
memoria de' nostri padri. Messer Annibale Bentivogli, avolo
del presente messer Annibale, che era Principe in Bologna,
essendo da'Canneschi che gli congiurarono contro ammaz-
zato, né rimanendo di lui altri che messer Giovanni, quale
era in fasce; subito dopo tale omicidio, si levò il popolo, ed
ammazzò tutti i Canneschi. Il che nacque dalla benevolenza
popolare che la casa de' Bentivogli aveva in quei tempi in
o6 IL t>RINCIPe.
Bolosna: la qaale fa tanta, che non vi restando alcnno che
potessi, morto Annibale, reggere Io slato, ed avendo indi-
zio come in Firenze era uno nato de' Bentivogli, che si te-
neva (ino allora figlio di nn fabbro, vennero i Bolognesi per
quello in Firenze e li dettono il governo di quella città;
la quale fu governata da lui fino a tanto che messer Gio-
vanni pervenne in età conveniente al governo. Conchiudo,
adunqiie, che nn Principe deve tenere delle congiure poco
conio, quando il popolo gli sia benivolo; ma quando gli sia
inimico, ed abbilo in odio, deve temere d'ogni cosa e di
ognuno. E gli stati bene ordinali, e li Principi savi hanno
con ogni dil genza pensato di non far cadere in disperazione
i grandi, e di satisfare al popolo e tenerlo contento; perchè
questa è una delle più importanti materie che abbi un Prin*
cipe. Intra i regni bene ordinati e governati a' nostri (empi
è quel di Francia, ed in esso si trovano infinite costitu-
xionì buone, donde ne depende la libertà e sicurtà del re;
delle quali la prima è il parlamento e la sua autorità: per-
ché quello che ordinò quel regno, conoscendo Tambizion
de' potenti e la insolenza loro, e giudicando esser necessa-
rio loro un freno in bocca che gli correggesse; e dall'altra
parte conoscendo l'odio dell' universale contro i grandi, fon-
dato in su la paura, e volendo assicurarli; non volse che
questa fosse parlicular cura del re, per tórli quel carico che
e' potessi avere con i grandi favorendo i popolari, e con i
popolari favorendo i grandi; e però costituì un giudice terzo,
che fusse quello che, senza carico del re, badesse i grandi,
e favorisse i minori. Né po(è essere questo ordine migliore,
né più prudente, né maggior cagione di sicurtà del re e
del regno. Di che si può trarre nn altro notabile, che li
Principi debbono le cose di carico metter sopra d'altri, e
le cose di grazia a sé medesimi.* Di nuovo conchiudo,
che un Principe deve stimare i grandi, ma non si far
odiare dal popolo. Parrebbe forse a molli , che considerata
la vita e morte di molti imperadori romani, fussino esempi
• Le cdicioni del iSl 3 e del 1819 ! ^e cose di carico fare amministrare ad
aìtrtf e quelle di grazie a lor medesimi. La Testina, colla editione del Poggiali,
invecp di «mmjn£jfrafv, pongono sttmminlstrare e somministrare.
IL PRINCIPE. , 87
Contrari a questa mia opinione; trovando alcuno esser vis-
suto sempre egregiamenle, e mostro gran virtù d'animo,
nondimeno aver perso l' imperio; ovvero essere stato morto
da'suoi, che gli hanno congiurato contro. Volendo, adunque,
rispondere a queste obiezioni, discorrerò le qualità d'alcuni
imperadori, mostrando la cagione della lor rovina, non dis-
forme da quello che da me s'è addotto; e parte metterò
in considerazione quelle cose che sono notabili a chi legge
le azioni di quelli tempi. E voglio mi basti pigliar tutti
quelli imperadori che succederono nell'imperio da Marco
filosofo a Massimino: li quali furono Marco, Commodo suo
figlio, Pertinace, Giuliano, Severo, Antonino, Caracalla
suo figlio, Macrino, Eliogabalo, Alessandro e Massimino.
Ed è prima da notare, che dove negli altri principati si ha
solo a contendere con l'ambizione de' grandi ed insolenza
de' popoli, gl'imperadori romani avevano una terza diflRcultà,
d'avere a sopportare la crudeltà e avarizia de' soldati: la qual
cosa era si difficile, che la fu cagione della rovina di molli,
sendo difficile satisfare a' soldati ed a' popoli; perchè i popoli
amano la quiete, e per questo amano i Principi modesti;
e li soldati amano il Principe d'animo militare, e che sia
insolente e crudele e rapace. Le quali cose volevano che egli
esercitassi ne' popoli , per poter avere duplicato stipendio,
e sfogar la loro avarizia e crudeltà: donde ne nacque che
quefii imperadori che per natura o per arte non avevano ri- )
putazione tale che con quella tenessero l'uno e l'altro iii(
freno, sempre rovinavano; e li più di loro, massime quelli
che come uomini nuovi venivano al principato, conosciuta la
difficultà di questi duoi diversi umori, si volgevano a satis-
fare a' soldati, slimando poco lo ingiuriare il popolo. Il qual
partito era necessario: perchè, non potendo i Principi man-
care di non essere odiati da qualcuno, si debhon prima sfor-
zare di non essere odiati dairuniversità; e quando non pos- ,
sono conseguir questo, si debbono ingegnere con ogni inda- |
stria fuggir l' odio di quelle università che sono più potenti. »
E però quelli imperadori che per novità avevano bisogno di
favori estraordinari, aderivano a' soldati più volentieri che
alti popoli: il che tornava loro nondimeno utile o no, se-
58 IL PRINCIPE.
condo che quel PrÌDcipe si sapeva mantenere riputalo con lo-
ro. Da queste cagioni sopraddette, nacque che Marco, Perti-
nace ed Alessandro, essendo tutti di modesta vita , amatori
della giustizia, inimici della crudeltà, umani e benigni, eb-
bero tutti, da Marco in fuora, tristo fine: Marco solo visse e
mori onoratissimo, perché lui succede all'imperio per ragion
d'eredità, e non aveva a riconoscer quello né dai soldati nò
dai popoli ; dipoi , essendo accompagnalo da molte virili che lo
facevano venerando, tenne sempre che visse l'uno ordine
e r altro dentro a suoi termini , e non fu mai né odiato
De disprezzato. Ma Pertinace fu creato imperadore contro
alla voglia de' soldati; li quali essendo usi a vivere licenzio»
samcnle sotto Commodo, non poterono sopportare quella vita
onesta alla quale Pertinace gli voleva ridurre: onde aven-
dosi creato odio, ed a questo odio aggiunto dispregio per l'es-
ser vecchio, rovinò ne' primi principi! della sua amministra-
zione. Onde si deve notare, che l'odio s'acquista cosi me-
diante le buone opere, come le triste: e però, com'io dissi
l di sopra, volendo un Principe mantenere lo slato, é spesso
forzato a non esser buono; perchè, quando quella universi-
tà, o popolo o soldati o grandi che sieno, delia quale tu
giudichi per mantenerti aver bisogno, è corrotta, li convien
seguire l'umor suo, e satisfarle; e allora le buone opere ti
^ ^'^ sono inimiche. Ma vegnamo ad Alessandro ; il qual fu di
^^««««4411 latita bontà, che intra l'altre lode che gli sono attribuite, é che
i quattordici anni che tenne l'imperio, non fu mai morto
da lui nessuno ingiudicato: nondimanco, essendo tenuto efle-
.. minato, ed uomo che si lasciasse governar dalla madre, e
^**^ per questo venuto in dispregio, conspirò contro di lui l'eser-
cito, ed ammazzollo. Discorrendo ora, peropposito, le qualità
di Coraraodo, di Severo, di Antonino, di Cariicalla e di
Massimino, gli troverete crudelissimi e rapacissimi; li quali,
1 per satisfare a' soldati, non perdonarono a nessuna qualità
; d'ingiuria che ne' popoli si potessi commettere; e tulli, ec-
I cello Severo, ebbero tristo fine: perché in Severo fu tanta vir-
tù, che mantenendosi i soldati amici, ancorché i popoli fus-
seroda lui gravali, potè sempre regnare felicemente; perchè
quelle sue virtù lo facevano nel cospetto de'soldati e de'po-
r
IL PRINCIPE. 59
poli SÌ mirabile , che questi rimanevano in un certo modo at-
toniti e stupidi, e quelli altri reverenti e satisfatti. E perchè
le azioni di costui furono grandi in un Principe nuovo, io vo-
glio mostrar brevemente quanto egli seppe ben usare la
persona della volpe e del leone; le quali nature dico, come
di sopra, esser necessarie ad imitare a un Principe. Cono-
sciuta Severo la ignavia di Giuliano imperadore, persuase al
suo esercito, del quale era in Schiavonia capitano, ch'egli
era bene andare a Roma a vendicar la morte di Pertinace,
il quale era stato morto dalla guardia imperiale ; * e sotto
questo colore, senza mostrar di aspirare all' imperio, mosse
l'esercito contro a Roma, e fu prima in Italia che si sapesse
la sua partita. Arrivato a Roma, fu dal senato per timore
eletto imperadore, e morto Giuliano. Restavano a Severo, dopo
questo principio, due difTìcultà a volersi insignorire di tutto
lo slato: r una in Asia, dove Nigro, capo degli eserciti asiatici,
s' era fatto chiamare imperadore; l'altra in ponente, di Albi-
no, il quale ancora lui aspirava all'imperio. E perchè giu-
dicava pericoloso scoprirsi inimico a tutti a duoi, deliberò di
assaltar iNitjro, e inj^annare Albino; al quale scrisse, come
essendo dal senato eletto imperadore, voleva partecipare
quella dignità con lui; e mandògli il titolo di Cesare, e per
deliberazione del senato se lo augiunse collet;a: le quali cose
furono accettale da Albino per vere. Ma poiché Severo ebbe
vinto e morto Nigro, e pacate le cose orientali, ritornatosi a
Roma, si querelò in senato di Albino, che, come poco cono-
scente de' benelìcii ricevuti da lui, aveva a tradimento cerco
d' aramazzarlo, e per questo era necessitato andare a punire
la sua ingratitudine. Dipoi andò a trovarlo in Francia, e gli
tolse lo stato e la vita. Chi esaminerà, adunque, tritamente
le azioni di costui, lo troverà un ferocissimo leone e un'astu-
tissima volpe; e vedrà quello temuto e reverito da ciascuno,
e dagli eserciti non odialo; e non si maraviglierà se lui, uomo
nuovo, ara possuto tenere tanto imperio, perchè la sua gran-
dissima reputazione lo difese sempre da quell'odio che i po-
poli per le sue rapine avevano possuto concipere. Ma Anlo-
1 II MS. Laurenziano e l'edizione del 1813; il quale dai soldati preto-
riani era stato morto.
:**H** ~
>*■-
60 IL PRINCIPE.
nino 800 figlioolo fa ancor lai eccellentissimo, ed aveva
in sé parli* che lo facevano aromirabile nel cospetto de' po-
poli e grato assoldati; perchè era uomo militare, sop-
porlantissimo d'ogni fatica, disprezzalore d'ogni cibo deli-
cato e d'ogni altra molliiie: la qual cosa lo faceva amare da
1 '^ ' (otti gli eserciti. Nondimeno , la sua ferocia e crudeltà fa
tanta e ai inaodila, per avere dopo molte Decisioni* parti-
colari morto gran parie del popolo di Roma e tatto quel
d'Alessandria, che diventò odiosissimo a tutto il mondo, e
!t#^'^v. cominciò a esser temuto da quelli ancora ch'egli aveva in-
I torno; in modo che fojimmaxzalo da od centurione in mezzo
del suo esercito. Dove è da~notare, che queste simili morii,
le quali seguitano per delihera/ione di un animo deliberalo
# e ostinato, non si possono da' Principi eviiare, perchó eia-
*£/.\iu I senno che non si curi dì morire lo può fare; ma deve bene
, I il Principe temerne meno . perchè le sono rarissime. Deve solo
(^ K*^- jtaardarsi di non fare inniuria grave ad alcuno di coloro de'
^K\ quali si serve, e eh' esli ha d'intorno al servizio del suo prin-
'^. • cipalo: come aveva fallo Antonino, il quale aveva morto con-
y^,|U^4^'tomeliosaraente an fratello di quel centurione, e lui ogni
giorno minacciava, e nientedimeno lo teneva alla guardia
del suo corpo; il che era partito temerario e da rovinarvi ,
come gì' intervenne. Ma vegniamo a Commodo, al quale era
facilità grande tener l'imperio, per averlo ereditario, es-
tendo fìsliuol di Marco, e solo gli bastava seguir le vesti-
gia del padre, ed a' popoli ed a* soldati arebbe satisfatto; ma
essendo d'animo crudele e bestiale, per poter usare la sua
rapacità ne' popoli, si volse ad intrattenere gli eserciti e far-
gli licenziosi: dall'altra parte, non tenendo la sua «tisnìtà, de-
scendendo spesso nelli teatri a combattere co' gladiatori, e
facendo altre cose vilissime e poco degne della maieslà impe-
'^ fiale, diventò contennendo nel cospetto de' soldati; ed essendo
odiato da una parle,e dall'altra disprezzato, fu conspirato con-
tro di lui, e morto. Restaci a narrare le qualità di Massimino.
Costui fu uomo bellicosissimo; ed essendo gli eserciti infasti-
* Cofi oell' edirione Romana La romane Inionc è t/tt ancor Ini nomo ec-
cellenti f timo, ed a\-eva in jte pnHi ecee/tnttiMtime,
* Alcune rrpuUte stampe hanno: ocemMtomt. 0
IL PRINCIPE. 6i
diti dalla mollizie d'Alessandro, del quale è di sopra dis-
corso, morto lui, Io elessero ali* imperio. Il quale non mollo
tempo possedette, perchè due cose lo fecero odioso e conten-
nendo; runa l'esser lui vilissimo, per aver guardate le pe-
core in Tracia (la qual cosa era per tutto notissima, e gli fa-
ceva una gran dedignazione nel cospetto di ciascuno); l'altra
perchè avendo, nell'ingresso nel suo principato, difrerilol'an»
dare a Roma ed entrare nella possessione della sedia impe-
riale, aveva dato opinione di crudelissimo, avendo per li
suoi prefetti in Roma, e in qualunque luogo dell'imperio,
esercitato molte crudeltà. A tal che, commosso tutto il mondo
dallo sdegno per la viltà del suo sangue, e, dall'altra parte,
dall'odio per paura della sua ferocia, prima l'Affrica, di-
poi il senato, con tutto il popolo di Roma e tutta l'Italia, gli
cospirò contro: al che si aggiunse il suo proprio esercito; il
quale, campegsiando Aquileia e trovando diflìcullà nella espu-
gnazione, infastidito della crudeltà sua, e per vedergli tanti
inimici temendolo meno, lo ammazzò. Io non voglio ragionare
né di Eliogabalo, né di Macrin^nè di Giuliano, i quali per
essere al lutto contennendi si spensero subito: ma verrò alla
conclusione di questo discordo, e dico che li Principi de'noslri
tempi hanno meno questa diflìcuUà di satisfare estraordinaria-
mente a'soMati ne'governi loro; perchè, nonostante che s'abbi
da avere a quelli qualche considerazione, pure si risolve
presto, per non aver alcuno di questi Principi eserciti insie-
me che sieno inveterati con lì governi ed amministrazioni
delle Provincie, come erano gli eserciti dell' imperio roma-
no: e però, se allora era necessario satisfare a' soldati più
che a'popolì, era perchè i soldati potevano più che i po-
poli; ora è più necessario a tutti i Principi, eccetto che al
Turco ed al Snidano, satisfare a'popoli che a'soldali, perchè
i popoli possono più che quelli. Di che lo ne eccettuo il Tur-
co, tenendo sempre quello intorno dodicimila fanti e quin-
dicimila cavalli, da'quali depende la sicurtà e la fortezza del
suo regno; ed è necessario che, posposto ogni altro risp«Kto
de' popoli, se gli mantenga amici. Simile è il regno del
Soldano; quale essendo tutto in mano de' soldati, conviene
che ancora lui , senza rispetto de' popoli , se gli mantenga ami-
62 IL PRINCIPE.
ci. Ed avete a notare, che questo stato del Soldano è disforme
da tutti gli altri principati, perchè euli è simile al pontifi-
cato cristiano, il quale non si può chiamare ne principalo
ereditario, né principato nuovo; perché non i tìi;li del Prin-
cipe mono rimansiono eredi e signori, ma colui che è eletto
a quel grado da coloro che ne hanno autorità. Ed essendo
questo ordine anticalo, non si può chiamare principato nuo-
vo, perchè in quello non sono alcune di quelle dilìicullà che
sono ne' nuovi; perchè, sebbene il Principe è nuovo, gli or-
dini di quello stalo sono vecchi, e ordinali a riceverlo come
se russe loro signore ereditario. Ma tornando alla materia
nostra, dico, che qualunque considererà al sopraddetto dis-
corso, vedrà o l'odio o il dispregio essere stato causa della
rovina di quelli imperadori prenominati; e conoscerà ancora
donde nacque, che parte di loro procedendo in un modo e
parte al contrario, in qualunque di quelli uno ebbe felice e
gli altri infelice (ine: perchè a Pertinace ed Alessandro, per
essere Principi nuovi, fu inutile e dannoso il voler imitare
Marco, che era nel principato erediiario; e similmente a Ca-
racalla, Commodo e Massiniino, essere stala cosa perniziosa
imitar Severo, per non avere avuto tanta virtù che bastassi
a seguitare le vestigia sue. Pertanlo, un Princi|)e nuovo in un
principato non può imitare le dizioni di Marco, né ancora
è necessario imitare quelle di Severo; ma deve pigliare di
Severo quelle parti che per fondare il suo stalo son neces-
sarie, e da Marco quelle che sono convenienti e gloriose a
conservare uno stalo, che sia di già stabilito e fermo.
Cap. XX. — Se le fortezze, e moìU altre cose che spesse volle
i Principi (anno, sono utili o dannate.
Alcuni Principi, per tenere securamenle lo stalo, hanno
disarmato i lor «odditi; alcuni altri hanno tenute divise in
parti le terre sugsetle; alcuni allri hanno nutrito inimicizie
contro a sé medesimi ; alcuni altri si sono vòlti a guadagnarsi
quelli che gli erano sospetti nel principio del suo slato; al-
cuni hanno edificato fortezze: alcuni le hanno rovinale e di-
strulle. E benché di tutte queste «ose non si possa dare de-
terminata sentenzia, se non si vieue#' particulari di quelli
IL PRINCIPE. 63
stati dove s* avessi da pigliare alcuna simile deliberazione ;
nondimeno io parlerò in quel modo largo che la nlateria per
sé medesima sopporta. Non fu mai, adunque, che un Principe
nuovo disarmasse i suoi sudditi; anzi, quando ^li ha trovalo
disarmati, gli ha sempre armati: perchè armandosi, quelle
armi diventano tue, diventano fedeli quelli che li sono so-
spetti, e quelli che erano fedeli si mantengono, e di sudditi
si fanno tuoi partigiani. E perchè lutti i sudditi non si
possono armare, quando si benefichino quelli che tu armi,
con gli altri si può far più a sicurtà: e quella diversità del
procedere che conoscono in loro, gli fa tuoi obbligali; quelli
altri li scusano, giudicando esser necessario quelli aver più
merito che hanno più pericolo e più obbligo. Ma quando tu
gli disarmi, tu incominci ad olTeudergli, e mostri che tu
abbi in loro ditlìdenza, o per viltà o per poca fede : e V una
e l'altra di queste opinioni concipe odio contro di te. E per-
chè tu non puoi star disarmato, conviene che li volli alla
milizia mercenaria, della quale di sopra abbiam detto quale
sia ; e quando ella fusse buona, non può esser tanta che ti
defenda da' nimici potenti, e da' sudditi sospetti. Però, come
io ho detto, un Principe nuovo in un nuovo principato sem-
pre vi ha ordinato l'armi. Di questi esempi son piene le isto-
rie. Ma quando un Principe acquista uno stato nuovo che
come membro s'aggiunga al suo vecchio, allora è necessa-
rio disarmare quello stato , eccetto quelli che nello acqui-
starlo si sono per te scoperti; e questi ancora, col tempo
ed occasioni, bisogna render molli ed etfeminati; ed ordi-
narsi in modo, che tutte l'armi del tuo stalo sieno in quelli
soldati tuoi propri, che nello stalo tuo antico vivono appresso
di le. Solevano gli antichi nostri, e quelli che erano stimali
savi, dire come era necessario tener Pistoia con le parli
e Pisa con le fortezze ; e per questo nutrivano in qualche
terra lor suddita le diflferenze, per possederla più facilmente.
Questo in quelli tempi che Italia era in un certo modo bilan-
ciala, doveva esser ben fatto; ma non mi pare si possa
dar oggi per precetto: perchè io non credo che le divisioni
falle ^ faccino mai bene alcuno; anzi é necessario quando il
* Fatte h nella Bladiana, nella Testina e io più altre edizioni j e forse è da
64 IL PRINCIPE.
nimico s'accosta, che le città divise si perdino subito, per-
[ che sempre la parte più deb. le s' accosterà alle forze esler-
I ne, e l'altra non potrà reseere. I Vinìxiani, mossi, corn'io
credo, dalle ragioni sopraddette, nutrivano le sètte guelfe e
ghibelline nelle città loro suddite ; e benché non le lascias-
sero mai venire al sangue, pure nutrivan fra loro questi
dispareri, acciocché occupati quelli cittadini in quelle loro
dilTerenzie, non si movessero contro di loro. Il che, come si
▼idde, non tornò poi loro a proposito; perché essendo rotti a
Vaila, sahilo una parte di quelle prese ardire, e tolsono loro
tutto lo slato. Arsuiscono, pertanto, simili modi debolezza del
Principe: perchè in un principato sasliardo mai si permette-
ranno tali divisioni, perché le fanno solo profitto a tempo di
pace, potendosi mediante quelle più facilmente maneggiare
i sudditi; ma venendo la suerra, mostra simil ordine la fal-
lacia sua. Senza dubbio li Principi diventano srandi quando
•operano le difllrultà e le opposizioni che son fatte loro ; e
però la fortuna, massime quando vuole far grande un Prin-
cipe nuovo, il quale ha maggior necessità d'acquistare ripu-
taiione che uno ereditario, gli fa nascere de' nemici e gli fa
fare delle imprese contro, acciocché quello abbia caaione di
toperarle, e su per quella sciila che gli hanno pòrta i ne-
Bici saoi, salir più allo. E però molti eiudicano che un Prin-
^ cipe savio, quando s'abbia l'occasione, deve nutrirsi con
aalQzia qualche inimiciiia; acciocché, oppressa quella, ne se-
guili massior sua srande'za. Hanno i Principi, e special-
mente quelli che son nuovi, trovato più fede e più utilità in
quelli uomini che nel principio del loro stato sono tenuti
sospetli , che in quelli che nel principio erano confidenti.
Pandolfo Petruccì, principe di Siena, reggeva lo stato suo più
con quelli che li furono sospetti, che con eli altri. Ma di questa
cosa non si può parlare largamente, perché ella varia secondo
il subbietto: solo dirò questo, che quelli uomini che nel prin-
cipio d'un principale erano slati inimici, se sono di qualità
chea mantenersi al»bìno bisogno d'appoggio, sempre il Prin-
cipe con facilità grandissima se li potrà guadagnare ; e loro
intendersi per fatte al arte , procurate II Co<lke Laareuiaoo pero le^e : che l«
dtviticmitfmcutmo mmi ce
It t>RlNClt>E. 68
ma£;giormen(e son forzati a servirlo con fede, quanto cono-
scono esser loro più necessario cancellare con l'opere quella
opinione sinistra che si aveva di loro: e cosi il Principe ne
trae sempre più utilità, che di coloro i quali servendolo con ■
troppa sicurtà, stracurano le cose sue. E poiché la noateria lo j
ricerca, non voglio lasciare indietro il ricordare a un Prin-
cipe che ha preso uno stato di nuovo mediante i favori in-
trinsechi di quello, che consideri bene qual cagione abbi
mosso quelli che V hanno favorito, a favorirlo; e se ella non
è aCTezione naturale verso di quello, ma fusse solo perchè
quelli non si contentavano di quello stato, con fatica e diffi-
cultà grande se gli potrà mantenere amici, perchè e' fia im-
possibile che lui possa contentarli. E discorrendo bene, con
quelli esempi che dalle cose antiche e moderne si traggono,
la cagione di questo; vedrà esser molto più facile il guada-
gnarsi amici quelli uomini che dello stato innanzi si conten-
tavano, e però erano suoi inimici, che quelli i quali, per non
se ne contentare, gli diventarono amici, e favorironlo ad oc-
cuparlo. È stata consuetudine de' Principi, per poter tenere
più sicuramente lo stato loro, edificare fortezze, che sieno
briglia e freno di quelli che disegnassino fare lor contro, ed
Cvere un refugio sicuro da un primo impeto. Io lodo questo
ìiodo, perchè gli è usitato anticamente. Nondiraanco, messer
Niccolò Vitelli, ne' tempi nostri, s' è visto disfare due fortezze
in Città di Castello, per tener quello stato. Guid' Ubaldo, duca
d' Urbino, ritornato nel suo stato, donde da Cesare Borgia era
stato cacciato, rovinò da' fondamenti tutte le fortezze di quella
provincia, e giudicò senza quelle di avere a riperdeie più dif-
ficilmente quello stato. I Bentivogli, ritornati in Bologna, usa-
rono simil termine. Sono, adunque, le fortezze utili o no se-
condo li tempi; e se ti fanno bene in una parte, t'olTendono
in un' altra. E puossi discorrere questa parte così. Quel Prin- |
cipe che ha più paura de' popoli che de' forestieri, deve far (
le fortezze ; ma quello che ha più paura de' forestieri che ^
de' popoli, deve lasciarle indietro. Alla casa Sforzesca ha
fatto e farà più guerra il castel di Milano, che ve lo edificò
Francesco Sforza, che alcun altro disordine di quello stato.
Però, la miglior fortezza che sia, è non esser odiato da'popo- /
a* \
66 a PRINCIPE.
li: perchè, ancora che tu abbi le fortezze, e il popolo li abbi
in odio, le non ti salvano; perchè non mancano mai a' po-
poli, preso che egli hanno Tarmi, forestieri che gli soccorri-
ne. Ne' tempi nostri non si vede che quelle abbin fatto pro-
fìtto ad alcun Principe, se non alla contessa di Forlì quando
fa morto il conte Girolamo suo consorte ; perchè mediante
quella potè fuggire l'impeto popolare, ed aspettare il soccorso
di Milano, e ricuperare lo slato; e li tempi stavano allora in
modo, che il forestiero non poteva soccorrere il popolo. Ma
dipoi valsone ancor poco a lei, quando Cesare Borgia ras<ial'
tò, e che il popolo, inimico suo, si congiunse col forestiero.
Pertanto, ed allora e prima saria stato più securo a lei non
essere odiala dal popolo, che aver le fortezze. Considerate,
adunque, queste cose, io loderò chi farà fortezze, e chi non
le farà; e biasimerò qualunque, fidandosi di quelle, stimerà
poco lo esser odialo da' popoli.
Gap. XXI. — Come ii debba governare un Principe
per acquitlarti ripulazione.
Nessuna cosa fa tanto slimar un Principe, quanto fanno
le grandi imprese, e il dar di sé esempli rari. Noi abbiamo
nei nostri tempi Ferrando re di Aragona, presente re di Spa-
gna. Costui si può chiamare quasi Principe nuovo, perchè
d' un re debile è diventato per fama e per gloria il primo re
de' Cristiani ; e se considererete le azioni sue, le troverete
tulle grandissime, e qualcuna straordinaria. Egli nel princi-
pio del suo regno assaltò la Granata, e quella impresa fu il
fondamento dello stalo suo. In prima ei la fece ozioso, e
senza sospetto di essere impedito: tenne occupali in quella
gli animi de' baroni di Casliglia, li quali pensando a quella
guerra, non pensavano ad innovare; e lui acquistava in que-
sto mezzo riputazione ed imperio sopra di loro , che non se
ne accorgevano. Potè nutrire con danari della Chiesa e de'po-
poli gli eserciti, e con quella guerra lunga fare fondamento
alla milizia sua; la quale dipoi lo ha onoralo. Olirà questo,
per poter iii tra prende re maggiori imprese, servendosi sem-
pre della religione, si volse a una pietosa crudeltà, cacciando
ÌL PRLNClPfi. 6l
è spogliando il suo regno de' Marrani : né può esser questo
esempio più miserabile né più raro. Assaltò sotto questo me-
desimo pretesto V Affrica , fece l' impresa d' Italia , ha ulti-
mamente assaltato la Francia; e cosi sempre ordito cose
grandi, le quali hanno sempre tenuto sospesi ed ammirati gli
animi de' sudditi, ed occupati nello evento d'esse. E sono
nate queste sue azioni in modo l'una dall'altra, che non
hanno dato mai spazio agli uomini di poter quietare ed ope-
rargli contro. Giova assai ancora a un Principe dare di sé '
esempi rari circa il governo di dentro , simili a quelli che si
narrano di messer Bernabò di Milano, quando s' ha l'occa-
sione di qualcuno che operi qualche cosa straordinaria o in
bene o in male nella vita civile ; e pigliar un mo4o circa
il premiarlo o punirlo, di che s' abbi a parlare assai. £ so-
prattutto, un Principe si debbe ingegnare dare di sé in ogni
sua azione fama di grande ed eccellente. È ancora stimato
un Principe quando egli è vero amico e vero inimico ; cioè
quando, senza alcun rispetto, si scuopre in favor d' alcuno
contro un altro : il qual partito fia sempre più utile che star | " :
neutrale; perchè, se duoi potenti tuoi vicini vengono alle 1
mani, o essi sono di qualità che vincendo un di quelli tu abbi i
da temere del vincitore, o no. In qualunque di questi duoi '
casi, ti sarà sempre più utile Io scoprirti, e far buona guer- i
ra ; perchè, nel primo caso, se tu non ti scuopri, sarai sempre ' n ^ ^'
preda di chi vince, con piacere e salisfazione di colui, che è » /• 7 .
stato vinto, e non arai ragione né cosa alcuna che ti difenda Kl^^-
né che ti riceva. Perchè, chi vince non vuole amici sospetti, ^
e che nelle avversità non T aiutino; chi perde non ti riceve,
per non aver tu voluto con 1* armi in mano correre la for-
tuna sua. Era passato Antioco in Grecia, messovi dagli Etoli
per cacciarne i Romani. Mandò Antioco oratori agli Achei,
che erano amici de' Romani, a confortargli a star di mezzo;
e dall' altra parte i Romani gli persuadevano a pigliar l'ar- *
mi per loro. Venne questa cosa a diliberarsi nel concilio
degli Achei, dove il legato d'Antioco gli persuadeva a stare
neutrali ; a che il legato romano rispose: Quanto alla parte
che si dice essere ottimo ed utilissimo allo stato vostro il non
v'intromettere nella guerra nostra, niente vi è più centra-
65? IL PRlNCirE.
rio; imperocché non vi ci inlromeltendo, senza grazia e senza
ripalazione alcuna, reslerete premio del vincitore. E sempre
inlerverrà che quello che non ti é amico li richiederà della
neutralità, e quello che ti è amico ti ricercherà che ti scuo-
pra con l'armi. E li Princìpi mal resoluti, per fuggire i pre-
senti pericoli, seguono il più delle volle quella via neutrale,
ed il più delle volle rovinano. Ma quando il Principe si scuo-
pre gagliardamente in favor d' una parte, se colui con chi
tu aderisci vince, ancoraché sia polente e che tu rimangn a
sua discrezione, egli ha teco obbligo, e vi é contratto l'amo-
re: e gli uomini non sono mai si disonesti, che con tanto
esempio d' ingratitudine ti opprimessero. Dipoi, le vittori©
non solfo mai si prospere, che il vincitore non abbia ad
avere qualche rispetto, e massime alla giustizia. Ma se quello
con il quale tu aderisci perde, la se' ricevuto da lui; e men-
tre che può t'aiuta, e diventi compagno d' una fortuna che
può resurgere. Nel secondo caso, quando quelli che combat-
tono insieme sono di qualità che tu non abbia da temere di
quel che vince, tanto più é gran prudenza lo aderire: per-
ché tu vai alla rovina d'uno con l'aiuto di chi lo dovrebbe
salvare, se fussi savio ; e vincendo, rimane alla tua discrezio-
ne, ed é impossibile che con 1' aiuto tuo non vinca. E qui ò
da notare, che un Principe deve avvertire di non for mai com-
pagnia con uno più potente di sé per offendere altri, se non
quando la necessità lo strigne, come di sopra si dice: perchè,
vincendo lui, tu rimani a sua discrezione; e li Principi deb-
bon fuggire quanto possono lo stare a discrezione d' altri. I
Vinizìani si accompagnarono con Francia contro al duca di
Milano, e potevan fuggire di non far quella compagnia, di
che ne risultò la rovina loro. Ma quando non si può fuggir-
la, come intervenne a' Fiorentini quando il papa e Spagna
andarono con gli eserciti ad assaltare la Lombardia, allora
vi deve il Principe aderire per le sopraddette ragioni. Né
creda mai alcuno stato poter pigliare partili sicuri, anzi pensi
d'avere a prenderli tolti dubbii; perchè si trova questo nel-
r ordine delle cose, che mai non si cerca fuggire uno inconve-
niente, che non s' incorra in un altro: ma la prudenza con-
siste in saper conoscere le qualità degl'inconvenienti, e
IL PRINCIPE. 69
prendere il manco tristo per buono. Deve ancora un Principe
moslrarsi amatore delle virtù, ed onorare gli eccellenti in
ciascuna arte. Appresso, deve animare li suoi cittadini di po-
ter quietamente esercitare gli esercizi loro, e nella mercanzia
e nell'agricoltura ed in ogni altro esercizio degli uomini,
acciocché quello non si astenga d' ornare le sue possessioni
per timore che non gli sieno tolte, e quell'altro di aprire un
traffico per paura delle taglie ; ma deve preparare premii a
chi vuol fare queste cose, ed a qualunque pensa in qualun-
que modo d' ampliare la sua città o il suo stato. Deve, oltre
a questo, ne' tempi convenienti dell' anno tenere occupati li
popoli con feste e spettacoli : e perchè ogni città è divisa o in
arti 0 in tribù, deve tener conto di quelle università, adu-
narsi con loro qualche volta, dare di sé esempio d* umanità
e magnificenza; tenendo nondimeno sempre ferma la maie-
stà della dignità sua , perchè questo non si vuole mai che
manchi in cosa alcuna.
Gap. XXII. — Delli segretari de' Principi.
•
Non è di poca importanzia a un Principe la elezione
de' ministri ; li quali sono buoni o no, secondo la prudenza
del Principe. £ la prima coniettura che si fa d' un signore e
del cervel suo, è veder gli uomini che lui ha d'intorno; e
quando sono sutTicienti e fedeli, sempre si può riputarlo sa-
vio, perchè ha saputo conoscergli sufficienti, e mantenerseli
fedeli. Ma quando siano altrimenti, sempre si può fare non
buon giudizio di lui ; perchè il primo errore eh' e' fa, lo fa
in questa elezione. Non era alcuno che conoscesse messer An-
tonio da Venafro per ministro di Pandolfo Petrucci principe
di Siena, che non giudicasse Pandolfo essere prudenlissimo
uomo, avendo quello per suo ministro. £ perchè sono di tre
generazioni cervelli; l'uno intende per sé, l'altro intende
quanto da altri gli è mostro, il terzo non intende né per sé
stesso né per dimostrazione d'altri: quel primo è eccellen-
tissimo, il secondo eccellente, il terzo inutile: conveniva
pertanto di necessità, che se Pandolfo non era nel primo
grado, fusse nel secondo; perchè ogni volta che uno ha il
70 IL PKINCIPK.
giadicio di conoscere il bene ed il male che un fa e dice ,
ancoraché da sé non abbia invenzione, conosce le opere tri-
ste e le buone del ministro, e quelle esalta e leallre correij;-
ge; ed il ministro non può sperar d' ingannarlo, e mantiensi
buono. Ma come un Principe possa conoscere il ministro, ci
è questo modo che non falla mai. Quando tu vedi il ministro
pensar più a sé che a te, e che in tutte le azioni vi ricerca
l'utile suo, questo tale cosi fatto mai non fia buon ministro,
né mai te ne potrai tìdare ; perché quello che ha lo stato
d' uno in mano, non deve mai pensare a sé, ma al Principe, e
non gli ricordar mai cosa che non appartenga a lui. £ dal>
l'altra parte, il Principe, per mantenerlo buono, deve pen-
sare al ministro, onorandolo, facendolo ricco, obbligandose-
lo , participandogli izli onori e carichi ; acciocché li assai
onori , le assai ricchezze concessegli, siano causa che egli non
desideri altri onori e ricchezze; egli assai carichi gli faccino
temere le mutazioni, conoscendo non potere reggersi seii/.a
lui. Quando, adunque, i Principi e li ministri sono cosi fatti,
possono confidare l'uno dell' altro; quando allrimeoti, il fine
sarà tempre dannoso, o. per l'uno o per l'altro.
Gap. XXllI. — Come si debbino fugjire gli adulatori.
Non voglio lasciare indietro un capo importante, ed un
errore dal quale i Principi con diflìcultà si difendono, se
DOG anno prudcntissimi, o se non hanno buona elezione. £
questo é quello deuli adulatori; delli quali le corti son pie-
De, perché gli uomini si compiacciono tanto nelle cose lor
proprie ed in modo vi s' incannano, che con diflìcultà si di-
fendono da questa peste; ed a volersene difendere, si porta
pericolo di non diventare contennemio. Perché, non ci é altro
modo a guardarsi dalle adulazioni, se non che gli uomini in-
tendino che non l'oflendono a dirli il vero: ma quando cia-
scuno può dirti il vero, ti manca la reverenzia. Purlanto, un
I Principe prudente deve tenere un terzo modo, eleggendo nel
suo slato uomini savi ; e solo a quelli deve dare libero arbi-
trio a parlargli la verità, e di quelle cose sole che lui do-
manda, e non d'altro: ma deve domandargli d' ogni cosa.
IL PniKClPK. 71
e udire le opinioni loro, dipoi deliberare da èè a sno modo:
e con questi consiizli, e con ciascun di loro portarsi in modo,
che ognuno conosca che quanto più liberamente si parlerà ,
tanto più gli sarà accetto; fuori di quelli, non voler udire
alcuno , andar dietro alla cosa deliberata , ed essere ostinato
nelle deliberazioni sue. Chi fa altrimenti, o precipita per gli
adulatori, o si muta spesso per la variazione de' pareri; di
che ne nasce la poca estimazione sua. Io voglio a questo
proposito addurre un esempio moderno. Pre' Luca, uomo di
Massimiliano, presente imperadore, parlando di sua maiestà
disse, come non si consigliava con persona, e non faceva
mai d'alcuna cosa a suo modo: il che nasceva dal tenere
contrario termine al sopraddetto. Perchè l'imperadore è uomo
segreto, non comunica li suoi disegni con persona, non ne
piglia parere: ma come, nel mettergli ad effetto, s'incomin-
ciano a conoscere e scoprire, gì' incominciano ad esser con-
tradetti da coloro che egli ha d'intorno; e quello, come facile,
se ne stoglie. Di qui nasce che quelle cose che fa l' un giorno,
distrugge l'altro; e che non s'intenda mai quel che vegli
o disegui fare; e che sopra le sue deliberazioni non si può
fondare. Un Principe, pertanto, debbe consigliarsi sempre; ma
quando lui vuole, e non quando altri vuole; anzi debbo tórre
r animo a ciascuno di consigliarlo d' alcuna cosa se non gliene
domanda: ma lui deve ben essere largo domandatore, e di-
poi circa le cose domandate paziente auditore del vero; anzi,
intendendo che alcuno per qualche rispello non gliene dica,
turbarsene. E. perchè alcuni stimano che alcun Principe il
quale dà di sé opinione di prudente, sia così tenuto non per
sua natura, ma per li buoni consigli che lui ha d'intorno,
senza dubbio s' ingannano : perche questa non falla mai, ed
è regola generale, che un Principe il quale non sia savio
per sé stesso, non può essere consigliato bene; se già a sorte
non si rimettesse in un solo che al tutto lo governasse, che
fussi uomo prudentissimo. In questo caso, potrà bene esser
ben governato, ma durerebbe poco, perchè quel governatore
in breve tempo gli terrebbe lo slato; ma consigliandosi con
più d'uno, un Principe che non sia savio non ara mai uniti
consigli, "® s^P*"^ P®*" sé slesso unirgli. Dei consiglieri, eia-
72 IL PRINCIPE.
scano penserà alla proprietà saa, ed egli non li saprà né cor-
reggere né conoscere. E non si possono trovare altrimcnli ,
perchè s\\ uomini sempre ti riusciranno tristi, se da una
necessità non sono fatti buoni. Però si conchiude, che li buoni
consigli, da qualunque venghino, conviene naschino dnlla
prudenza del Principe ; e non la prudenza del Principe da'
buoni consigli.
Cap. XXIV. — Perchè i principi d' Ilalia abbino perduto
i loro siali.
Le cose sopraddette, osservale prndentemenle, fanno pa-
rere on Principe nuovo, antico; e lo rendono subito più sicuro
e più fermo nello stato, che se vi fosse anlicato «lentro. Per-
ché un Principe nuovo é molto più osservalo nelle sue azio-
ni, che uno ereditario; e quando le son conosciute virtuose,
gi guadasnano molto più gli uomini, e molto più gli obbli-
gano, che il sangue antico: perchè gli uomini sono mollo più
presi dalle cose predenti che dalle passate ; e quando nelle
presenti ei trovano il bene, vi si eodono e non cercano altro;
anzi pigliano ogni difesa per lui, quando il Principe non man-
chi nelle altre cose a sé medesimo. E cosi ara duplicata gloria
di aver dato principio a uno principato nuovo, ed ornatolo e
corroboratolo di buone lessi, di buone armi, di buoni amici
e di buoni esempi ; rome quello ara duplicala versogna, che
è nato Principe, e per sua poca prudenza l'ha perduto. E se
si considera quelli signori che in Italia hanno perduto Io
stato ne' nostri tempi, come il re di Napoli, duca di Milano,
ed altri ; si troverà in loro, prima, un comune difetlo quanto
all'armi, per le cagioni che di sopra a lungo si sono discor-
se; dipoi si tedrà alcun di loro » che avrà avuti inimici i
popoli, 0 se ara avuto amico il popolo, non si sarà saputo
assicurare de* grandi: perchè senza questi difelli non si per-
dono gli slati che abbino lauti nervi che possino tenere un
esercito alla campagna. Filippo Macedone, non il padre di
Alessandro magno, ma quello che fu da Tito Quinzio vinlo.
aveva non mollo stalo, respollo alla grandoz^a de' Romani e
di Grecia che lo assaltò: nientedimeno, per esser uomo mi-
IL PRINCIPE. 73
lilare, e che sapeva intrattenere i popoli, ed assicurarsi
de' grandi, sostenne più anni la guerra contro di quelli; e se
alla fine perde il dominio di qualche città, gli rimase nondi-
manco il regno. Pertanto, questi nostri Principi, i quali dimolti
anni erano stati nel loro principato, per averlo dipoi perso,
non accusino la fortuna, ma la ignavia loro: perchè non avendo
mai ne' tempi quieti pensato che possino mutarsi (il che è
comune difetto degli uomini, non far conto nella bonaccia
della tempesta), quando poi vennero i tempi avversi, pensa-
rono a fuggirsi, non a defendersi ; e sperarono che i popoli
infastiditi per la insolenza de' vincitori, gli richiamassero.il
qual partito, quando mancano gli altri, è buono; ma è ben
male aver lasciato gli altri rimedii per quello, perchè non si
vorrebbe mai cadere per credere poi trovare chi ti ricolga.
11 che 0 non avviene, o se egli avviene, non è con tua si-
curtà, per essere quella difesa suta* vile, e non dependere
da te; e quelle difese solamente sono buone, certe e durabili,
che dependoDO da te proprio e dalla virtù tua.
Gap. XXV. — - Quanto possa nelle umane cose la fortuna,
e in che modo se gli possa ostare.
Non mi è incognito come molti hanno avuto ed hanno
opinione, che le cose del mondo sieno in modo governate
dalla fortuna e da Dio, che gli uomini con la prudenza loro
non possino correggerle, anzi non vi abbino rimedio alcuno;
e per questo potrebbono giudicare che non fusse da insudare
molto nelle cose, ma lasciarsi governare dalla sorte. Questa
opinione è suta più creduta ne' nostri tempi, per la varia-
zion grande delle cose che si son viste e veggonsi ogni di,
fuor d' ogni umana coniettura. AI che pensando io qualche
volta, sono in qualche parte inchinato nella opinione loro.
Nondimanco, perchè il nostro libero arbitrio non sia spento
giudico potere esser vero che la fortuna sia arbitra della
metà delle azioni nostre, ma che ancora ella ne lasci gover-
nare l'altra metà, o poco meno, a noi. Ed assomiglio quella
ad un fiume rovinoso, che quando e' s' adira, allaga i piani,
' L'edizione del Biado ha, erroneamente, suas quella del 1SÌ3, stala.
7
74 IL PKINCIPE.
rovina gli arbori e gli edifici, lieva da questa parie terreno
ponendolo a quell'altra; ciascono gli fugge davanti, ognun
cede al suo furore, senza potervi ostare; e benché sia così
fatto, non resta però che gli uomini, quando sono tempi quieti,
non vi possino fare provvedimenti e con ripari e con ar-
gini, in modochè crescendo poi, o egli anderebbc per un ca-
nale, 0 r impeto suo non sarebbe si licenzioso né si dannoso.
f Similmente interviene della fortuna ; la quale dimostra la sua
potenza dove non è ordinala virtù a resistere, e quivi volta
i suoi impeti dove la sa che non son fatti gli argini né i
ripari a tenerla. E se voi considererete ritalia,cheéla sedo
di queste variazioni, e quella che ha dato loro il moto, ve-
drete esser una campagna senza argini e senza alcun ripa-
ro. Che se la fussi riparata da conveniente virtù, come é la
Magna, la Spagna e la Francia, questa inondazione non
avrebbe fatto le variazioni grandi che Tha, o la non ci sa-
rebbe venuta. E questo voglio basti aver detto quanto alVop-
porsi alla fortuna in universale. Ma restringendomi più al
parliculare, dico come si vede oggi questo Principe felicitare,
e domani rovinare, senza vederli aver mutato natura o
qualità alcuna. Il che credo nasca, prima , dalle cagioni che si
sono lungamente per lo addietro trascorse;* cioè che quel
Principe che s'appoggia tutto in su la fortuna, rovina come
quella varia. Credo ancora che sia felice quello, il modo del
cui procedere si riscontra con la qualità de' tempi ; e simil-
mente sia infelice quello, dal cui procedere si discordano ì
tempi. Perchè si vede gli uomini, nelle cose che li conducono
al Gne, quale ciascuno ha innanzi, cioè gloria e ricchezze,
procedervi variamente ; l'uno con respetli, V altro con impe-
to ; r uno per violenza , l' altro per arte ; V uno con pazienza ,
r altro col suo contrario : e ciascuno con questi diversi modi
vi può pervenire. E vedesi ancora duoi rispettivi, l' uno per-
venire al suo disegno, l'altro no; e similmente duoi egual-
mente felicitare con diversi studi, essendo l'uno respet-
ti vo, l'altro impetuoso: il che non nasce da altro se non da
qualità di tempi, che si conformino o no col procedere loro.
Di qui nasce quello ho detto, che duoi diversamente operan-
* Il MS. Laurensiano e 1' cdixiooe del 1813: discorse.
IL PRINCIPE. iO
do, sorliscano il medesimo effello ; e duoi egualmente ope-
rando, l'uno si conduce al suo fine, T altro no. Da questo
ancora dipende la variazione del bene : perchè, se a uno che
si governa con rispetto e pazienza, i tempi e le cose girano
in modo che il governo suo sia buono, esso viene felicitando;
ma se li tempi e le cose si mutano, egli rovina, perchè non
muta modo di procedere. Né si trova uomo si prudente che
si sappi accordare a questo ; si perchè non si può deviare
da quello a che la natura ci inchina; si ancora perchè avendo
uno sempre prosperato camminando per una via, non si può
persuadere che sia bene partirsi da quella ; e però l' uomo
respettivo , quando gli è tempo di venire all' impeto , non lo sa
fare, donde egli rovina; che se si mutasse natura con lì
tempi e con le cose, non si muterebbe fortuna. Papa Giulio li
procedette in ogni sua azione impetuosamente, e trovò tanto
i tempi e le cose conformi a quel suo modo di procedere,
che sempre sorti felice fine. Considerate la prima impresa
che fece di Bologna, vivendo ancora messer Giovanni Ben-
tivogli. I Viniziani non se ne contentavano, il re di Spagna
similmente con Francia aveva ragionamento di tale impresa ;
e lui nondimanco, con la sua ferocità ed impeto, si mosse per-
sonalmente a quella espedizione : la quale mossa fece star
sospesi e fermi e Spagna e i Viniziani; quelli per paura,
queir altro per il desiderio di ricuperare tutto il regno di
Napoli: e dall'altra parte si tirò dietro il re di Francia, per-
chè vedutolo quel re mosso, e desiderando farselo amico per
abbassare i Viniziani, giudicò non poterli negare le sue
genti senza ingiuriarlo manifestamente. Condusse, adunque,
Giulio con la sua mossa impetuosa quello che mai altro pon-
tefice con tutta r umana prudenza avria condotto: perchè, se
egli aspettava di partirsi da Roma con le conclusioni ferme
e tutte le cose ordinate, come qualunque altro pontefice
arebbe fatto, mai non gli riusciva. Perchè il re di Francia
avria trovate mille scuse, e gli altri gli arebbero p;esso
mille paure. Io voglio lasciare slare le altre sue azioni, che
tulle sono slate simili, e tutte gli sono successe bene; e la
brevità della vita non gli ha lasciato sentire il contrario:
perchè, se fossero sopravvenuti tempi che fusse bisognalo
76 IL PRINCIPE.
procedere con respelti, ne seguiva la sua rovina,, perchè mai
non arebbe deviato da quelli modi, acquali la natura lo in-
chinava. Conchiudo, adunque, che variando la fortuna, e gli
uomini stando nei loro modi ostinati, sono felici mentre
concordano insieme; e come discordano, sono infelici. Io
giudico ben questo, che sia meglio esser impetuoso che re-
spelti vo ; perchè la fortuna è donna, ed è necessario, volen-
dola tener sotto, batterla ed urtarla: e si vede che la si lascia
più vincere da questi, che da quelli che freddamente proce-
dono. E però sempre, come donna, è amica de' giovani,
perchè sono meno respettivi) più feroci, e con più audacia la
comandano.
CiP. XXVI. — Esorlaxtone a liberare V lUiUa da' barbari
Considerato, adunque, tutte le cose di sopra discorse, e
pensando meco medesimo se al presente in Italia correvano
tempi da onorare un Principe nuovo, e se ci era materia che
dessi occasione a uno prudente e virtuoso a introdurvi nuova
forma che facesse onore a lai, e bene alla università degli
uomini di quella; mi pare concorrine tante cose in benefìcio
d' uno Principe nuovo, che non so qual mai tempo fussi più
allo a questo. E se, come io dissi, era necessario, volendo
vedere la virtù diBloisè, che il popolo d'Israel fosse schiavo
in Egitto; ed a conoscere la grandezza e Io animo di Ciro,
che i Persi fussero oppressi da' Medi; e ad illustrare la ec-
cellenzia di Teseo, che gli Ateniesi fussero dispersi : così al
presente, volendo conoscere la virtù d'uno spirilo italiano,
era necessario che l'Italia si conducesse ne' termini presen-
ti, e che la fusse più schiava che gli Ebrei, più serva che
i Persi, più dispersa che gli Ateniesi; senza capo, senz'or-
dine; battuta, spogliata, lacera, corsa ; ed avesse sopportalo
d'ogni sorta rovine. E benché insino a qui si sia mostro
qualche spiraculo in qualcuno, da poter giudicare che fusse
ordinato da Dio per sua redenzione ; nientedimanco si è vi-
sto come dipoi, nel più alto corso delle azioni sue, è slato dalla
fortuna reprobato: in modo che, rimasa come senza vita,
aspetta qual possa esser qiiello che sani le sue ferite, e
IL PRINCIPE. i /
ponga Gne alle direpzioni e a' sacchi di Lombardia, alle espi-
lazioni e taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca da
quelle sue piaghe già per il lungo tempo infistolite. Yedesi
come la prega Dio che le mandi qualcuno che la redima da
queste crudeltà ed insolenzie barbare. Vedesi ancora tutta pro-
na' e disposta a seguire una bandiera, purché ci sìa alcuno che
la pìgli. Né si vede al presente che ella possa sperare, altra che
la illustre casa vostra potersi fare capo di questa redenzione,
sendo questa dalla sua virtù e fortuna tanto suta esaltata, e da
Dio e dalla Chiesa, della quale tiene ora il principato, favorita.^
E questo non vi sarà' molto difficile, se vi recherete innanzi
le azioni e vite de' soprannominati. E benché quelli uomini
siano rari e maravigliosi, nondimeno furono uomini, ed ebbe
ciascuno di loro minore occasione che la presente ; perchè
r impresa loro non fu più giusta di questa, né più facile; né
fu Dio più a loro amico che a voi. Qui è giustizia grande;
perché quella guerra é giusta che gli è necessaria ; e quelle
armi sono pietose, dove non si spera in altro che in elle.
Qui è disposizione grandissima; né può essere, dove è grande
disposizione, grande difficultà, pur che quella pigli delti or-
dini di coloro che io vi ho proposto per mira. Oltre a que-
sto, qui si veggono estraordinari senza esempio condotti da
Dio : il mare s' è aperto, una nube vi ha scorto il cammino,
la pietra ha versato l'acque, qui è piovuto la manna, ogni
cosa è concorsa nella vostra grandezza ; il rimanente dovete
far voi. Dio non vuole far ogni cosa, per non ci tórre il li-
bero arbitrio, e parte di quella gloria che tocca a noi. E non
è maraviglia se alcuno de' prenominati Italiani non ha pos-
suto fare quello che si può sperare facci la illustre casa vo-
stra; e se in tante revoluzioni d' Italia, ed in tanti maneggi
di guerra, e' pare sempre che in quella la virtù militare sia
spenta : perchè questo nasce che gli ordini antichi di quella
* Il MS. Laurenziano e l'edizione del 1813 : pronta.
* Cosi nella Romana. Nelle altre edizioni , e nella Testina che qui rico-
piamo, questo periodo leggesi come appresso: Ne si vede al presente in quale la
possa più sperare che nella illustre casa vostra, la quale con la sua virtù et/or-
Ulna (favorita da Dio et dalla Chiesa, della quale è hora Principe) possa/arsi
capo di questa redentione.
3 II MS. Laurenziano e la stampa del iS13: // che non vi fa.
r
78 IL PRINCIPE.
non erano buoni, e non ci è salo alcuno che n'abbi sapulo
Irovare de' nuovi. Nessuna cosa fa (anto onore a un uomo
che di nuovo 8urga, quanto fanno le nuove le<?gi e nuovi
ordini trovali da lui. Queste cose, quando sono ben fondate
ed abbino in loro grandezza, lo fanno reverendo e mirabile;
ed in Italia non manca materia da introdurvi ogni forma.
Qui è virtù grande nelle membra, quando ella non mancasse
ne' capi. Specchiatevi nelli duelli e nei congressi de' pochi,
quanto gl'Ilaliani siano superiori con le forze, con la de-
strezza, con l'ingegno. Ma come si viene agli eserciti, non
compariscono: e tutto procede dalla debolezza de' capi; per-
chè quelli che sanno, non sono ubbidienti;* ed a ciascuno par
sapere, non ci essendo inGno a qui suto alcuno che si sia
rilevato tanto, e per virtù e per fortuna, che gli altri cedino.
Di qui nasce che in tanto tempo, in tante guerre (atte nei
passati venti anni, quando gli è stato un esercito tutto ita-
liano, sempre ha fatto mala prova : di che è leslimone prima
il Taro, dipoi Alessandria, Capaa, Genova, Vaila, Bologna,
Meslri. Volendo, dunque, la illustre casa vostra seguitare quelli
eccellenti nomini che redimerono le Provincie loro, è ne-
cessario innanzi a tolte le altre cose, come vero fondamento
d*ognì impresa, provvedersi d'armi proprie, perchè non si
può avere nò più Gdi, né più veri, né migliori soldati. E
benché ciascuno di essi sia buono, tutti insieme diventeranno
migliori, quando si vedranno comandare da loro Principe,
e da quello onorare e intrattenere. È necessario, pertanto ^
prepararsi a questo armi, per potersi con virtù italiana di-
fendere dagli esterni. £ benché la fanteria svizzera e spa-
gnuola sia stimata terribile, nondiroanco in ambedue è di-
fetto, per il quale un ordine terzo potrebbe non solamente
opporsi loro, ma confidare di superargli. Perchè gli Spa-
gnnoli non possono sostenere ì cavalli, e gli Svizzeri hanno
ad aver paura de' fanti, quando gli riscontrino nel combat-
tere ostinati come loro. Donde si è veduto, e vedrassi per
esperienza, gli Spagnuoli non poter sostenere una cavalleria
francese, e gli Svizzeri essere rovinali da una fanteria spa-
gnuola. E benché di quest'ultimo non se ne sia vista incera
* L* edùione del Biado ha obcditi.
IL PUINCIPE. 71)
esperienza, nientedimeno se ne è veduto un saggio nella gior-
nata di Ravenna, quando le fanterie spagnuole si aCfronta-
rono con le battaglie tedesche, le quali servano il medesimo
ordine che i Svizzeri: dove gli Spagnuoli, con l'agilità del
corpo e aiuti de' loco brocchieri, erano entrati tra le picche
loro sotto, e stavano securi a ofTendergli, senza che li Te-
deschi vi avessino remedio; e se non fussi la cavalleria che
gli urtò, gli arebbono consumati lutti. Puossi, adunque, co-
nosciuto il difetto dell'una e dell'altra di queste fanterie,
ordinarne una di nuovo, la quale resista a' cavalli, e non
abbi paura de* fanti: il che lo farà non la generazione delle
armi, ma la variazione degli ordini. * E queste sono di quelle
cose che di nuovo ordinate, danno riputazione e grandezza
a uno Principe nuovo. Non si deve, adunque, lasciar passare
questa occasione, acciocché la Italia vegga dopo tanto tempo
apparire un suo redentore. Né posso esprimere con quale
amore ei fussi ricevuto in tutte quelle provincie che hanno
patito per queste illuvioni esterne; con qual sete di vendetta,
con che ostinata fede, con che pietà, con che lacrime. Quali
porte se gli serrerebbono? quali popoli gli negherebbono la
obbedienza? quale invidia se gli opporrebbe? quale Italiano
gli negherebbe l' ossequio? A ognuno puzza questo barbaro
DOMINIO. Pigli, adunque, la illustre casa vostra questo assunto
con quello animo e con quelle speranze che si pigliano 1* im-
prese giuste, acciocché sotto la sua insegna e questa patria ne
sia nobilitata, e sotto i suoi auspicii si verifichi quel detto
del Petrarca :
Virtù coDira furore
Prenderà l'arme; e fij '1 comLattcr corto;
Che l'antico valor,',
Neil' italici cor non è ancor morto.
< Con notaLile diversità di concetto, ha qui la Bladiana : /o^rtrà Ingenera-
tione de l'armi y et la i'ariatione degli ordini.
DISCORSI
SOPRA ■..% PRIMA DECA DI T. lilTlO.
NICCOLO MACHIAVELLI
A ZANOBI BUOÌVDELMOKTI E COSIMO RUCELLAI
SALUTE.
lo vi mando un presente, il quale se non corrisponde agli
obblighi che io ho con voi, è tale senza dubbio, quale ha potuto
Niccolò Machiavelli mandarvi maggiore. Perchè in quello io ho
espresso quanto io so, e quanto io ho imparalo per una lunga
pratica e conlinova lezione delle cose del mondo. E non polendo
né voi né altri disiderare da me più, non vi potete dolere se io
non vi ho donato più. Bene vi può increscere della povertà dello
ingegno mio, quando siano queste mie narrazioni povere ; e
della fallacia del giudizio , quando io in molte parti, discorrendo,
m' inganni. Il che essendo, non so quale di noi si abbia ad esser
meno obbligato aW altro; o io a voi, che mi avete forzato a seri'
vere quello eh' io mai per me medesimo non arci scritto; o voi
a me, quando scrivendo non abbi soddisfatto. Pigliate, adun-
que, questo in quello modo che si pigliano tutte le cose degli ami-
ci; dove si considera più sempre la intenzione di chi manda, che
le qualità della cosa che è mandata. E crediate che in questo
in ho una satis fazione , quando io penso che, sebbene io mi fussi
ingannalo in molle sue circostanze , in questa sola so eh' io non
ho preso errore, di avere eletti voi, ai quali sopra tutti gli altri
questi miei Discorsi indirizzi: sì perchè, facendo questo, mi
pare aver mostro qualche gratitudine de' benefizii ricevuti : sì
perchè e* mi pare esser uscito fuora dell' uso comune di coloro
che scrivono, i quali sogliono sempre le loro opere a qualche
Principe indirizzare; e, accecati dall' ambizione e dall'avarizia,
laudano quello di tutte le virtuose qualitadi, quando di ogni
84
vituperevole parie doverrebhono biasimarlo. Onde io, per non in-
correre in questo errore, ho elelli non quelli che sono Principi,
ma quelli che per le infinite buone parli loro merilerebhono
di essere ; né quelli che polrebbono di gradi, di onori e di ric-
chezze riempiermi, ma quelli che, non polendo, vorrcbbono farlo.
Perchè gli uomini, volendo giudicare dirittamente, hanno a sli-
mare quelli che sono, non quelli che possono esser liberali; e
cosi quelli che sanno, non quelli che, senza sapere, possono go-
vernare un regno. E gli scrittori laudano più lerone Siracu-
sano quando egli era privalo, che Perse Macedone quando egli
era re: perchè a lerone a esser Principe non mancava altro che
il principato; quell'altro non aveva parte alcuna di re, altro
che il regno. Godeteci, pertanto, quel bene o quel rfiale che voi
medesimi avete voluto: e se voi starete in questo errore, che
queste mie oppinioni vi siano grate, non mancherò di seguire il
retto della istoria, secondo che nel principio vi promisi. Valete.
DEI DISCORSI
IiIBRO PRuno.
*Ancorachè,perla invida natura depili nomini, sia sempre
slato pericoloso il ritrovare modi ed ordini nuovi, quanto il
cercare acque e terre incognite, per essere quelli più pronti
a biasimare che a laudare le azioni d'altri ; nondimeno, spinto
da quel naturale desiderio che fu sempre in me di operare,
•senza alcun rispetto, quelle cose che io creda rechino comune
benefìzio a ciascuno, ho deliberalo entrare per una via, la
quale, non essendo stata per ancora da alcuno pesta, se la
mi arrecherà fastidio e diffìcullà, mi potrebbe ancora arre-
care premio, mediante quelli che umanamente di queste mie
fatiche considerassero. E se V ingegno povero, la poca espe-
rienza delle cose presenti, la debole notizia delle antiche,
faranno questo mio conato difettivo e di non molta utilità;
daranno almeno la via ad alcuno, che con più virtù, più di-
scorso e giudizio, potrà a questa mia intenzione satisfare: il
che se non mi arrecherà laude, non mi dovrebbe partorire
biasimo. E quando io considero quanto onore si attribuisca
all'anlichità, e come molte volle, lasciando andare molli al-
tri esempi, un frammento d'una antica slatua sia stalo com-|
peralo gran prezzo, per averlo appresso di sé, onorarne la'
sua casa, poterlo fare imitare da coloro che di quella arte si
dilettano; e come quelli poi con ogni industria si sforzano in
tulle le loro opere rappresentarlo: e veagendo, dall'altro
canto, le virtuosissime operazioni che le istorie ci mostrano,
che sono slate operale da regni e da repubbliche antiche,
' Questo principio, sino alla seg.lin. 17, manca nell' ediz. del Biado (1531),
rosi come nella Testina; le quali invece comi>}ciano: Considerando io guanto
honore si attribuisca all' antichità ec,
s
86 DEI DISCORSI
dai re, capilani, ciUadini, datori di leggi, ed altri che si
sono per la loro patria atTaticali, esser più presto ammirate
che imitale; anzi in tanto da ciascuno in ogni parte fussito,
che di quella antica virtù non ci è rimaso alcun scsno: non
posso fare che insieme non me ne maravigli e dolga; e tanto
più, quanto io veggio nelle difTerenze che intra i cittadini ci-
vilmente nascono, o nelle malattie nelle quali gli uomini in-
corrono, essersi sempre ricorso a quelli giudìcii o a quelli
rimedii che dagli antichi sono stati giudicati o ordinati. Per-
che le leggi civili non sono altro che scntenzie date dagli
antichi iurcconsulli, le quali, ridotte in ordine, a* presenti
nostri iareconsulli giudicare insegnano; né ancora la medi-
cina è altro che esperienzia falla dagli antichi medici, sopra
la quale fondano i modici presenti li loro giudicii. Nondimeno,
nello ordinare le repubbliche, nel mantenere gli slati, nel
governare i regni, ncll'ordinsire la milizia ed amministrar la
guerra, nel giudicare i sudditi, nello accrescere lo impe-
rio, non si trova né principi, né repubbliche, né capilani,
né cittadini che agli esempi degli antichi ricorra.' Il che mi
persuado che nasca non lauto dalla debolezza nella quale
la presente educazione ha condotto il mondo, o da quel male
che uno ambizioso ozio ha fatto a molte provincie e città
cristiane, quanto dal non avere vera cognizione delle isto-
rie, per non Irarne, legaendole, quel senso, né gustare di
loro quel sapore che le hanno in sé. Donde nasce che infi-
niti che leggono, pigliano piacere di udire quella varietà
delli accidenti che in esse si contengono, senza pensare al-
triroenle d'imitarle, giudicando la imitazione non solo dilli-
Cile ma impossibile: come se il cielo, il sole, gli elementi,
gli uomini fossero variali di moto, d'ordine e di potenza, da
quello ch'egli erano anticamente. Volendo, pertanto, trarre
gli uomini di questo errore, ho giudicato necessario scrivere
sopra tutti quelli libri di Tito Livio che dalla malignità de'
• La dfslnenwi del singolare, adoperata qui invece del plurale, segaitando
forse l'uso del popolo, o procedente fori' anche dalla omissione del segno che
suole nei MSS. indicare la 6nale no, indusse i posteriori editori , non esclusi
quelli della Testina, a correggere: «è principe, ne repubblica ^ ne capitano,
ne cittadino.
LIBRO PRIMO. 87
tempi non ci sono stati interrotti, quello che io, secondo le
anliclie e moderne cose, giudicherò esser necessario per mag-
giore inlelligenzia d'essi; acciocché coloro che questi miei
Discorsi leggeranno, possino trarne quella utilità per la
quale si debbe ricercare la cognizione della istoria. E benché
questa impresa sia diffìcile, nondimeno, aiutato da coloro
che mi hanno ad entrare sotto a questo peso confortalo,
credo portarlo in modo, che ad un altro resterà breve cam-
mino a condurlo al luogo destinalo.
Gap. I. — Quali siano siali universalmente i principii
di qualunque città , e quale fosse quello di Roma.
Coloro che leggeranno qual principio fosse quello della
città di Roma, e da quali legislatori e come ordinato, non
si maraviglieranno* che l;inta virtù si sia per più secoli man-
tenuta in quella città; e che dipoi ne sia nato quello imperio,
al quale quella Repubblica aggiunse. E volendo discorrere
prima il nascimento suo, dico che tutte le città sono edificale
o dagli uomini natii del luogo dove le si edificano, o dai fo-
restieri. Il primo caso occorre quando agli abitatori dispersi
in molle e piccole parti non par vivere sicuri, non potendo
ciascuna per sé, e per il sito e per il piccol numero, resi-
slere all'impelo di chi le assaltasse; e ad unirsi per. loro
difensione, venendo il nemico, non sono a tempo; o quando
fussero, converrebbe loro lasciare abbandonali molti de'loro
ridotti, e cosi verrebbero ad esser subita preda dei loro ne-
mici: talmente che, per fuggire questi pericoli, mossi o da
loro medesimi, o da alcuno che sia infra di loro di maggior
autorità, si ristringono ad abitar insieme in luogo eletto da
loro, più comodo a vivere e più facile a difendere. Di que^
sle, infra molle altre, sono slate Atene e Vinegia. La prima,
sotto Tautorità di Teseo, fu per simili cagioni dalli abitatori
dispersi edificata; l'altra, sendosi molli popoli ridotti in certe
isoletle che erano nella punta del mare Adriatico, per fug-
gire quelle guerre che ogni dì, per lo avvenimento di nuovi
barbari, dopo la declinazione dello imperio romano, nasce-
1 La Bladiaaa : non si maraviglierà.
88 DEI DISCORSI
vano in Italia, cominciarono infra loro, senza altro prìncipe
particolare che gli ordinassi, a vivere sotto quelle leggi che
parvono loro più alte a mantenerli. II che successe loro fc^li-
cernente per il lungo ozio che il sito dette loro, non avendo
quel mare uscita, e non avendo quelli popoli che afUiggevano
Italia, navigi da poterli infestare: talché ogni picciolo prin-
cipio li potè fare venire a quella grandezza nella quale sono.
Il secondo caso, quando da genti forestiere è edificata una
città, nasce o da uomini liberi, o che dipendano da altri:
come sono le colonie mandale o da una repubblica o da un
principe, per isgravare le loro (erre d'abitatori, o per difesa
di quel paese che, di nuovo acquistato, vogliono sicuramente
e senza spesa mantenersi; delle quali città il Popolo romano
ne ediGcù assai, e per lutto l'imperio suo: ovvero le sono
edificate da un principe, non per abitarvi, ma per sua gloria;
come la città di Alessandria da Alessandro. E per non avere
queste cittadi la loro origine libera, rade volte occorre che
le facciano progressi* grandi, e possinsi intra i capi dei regni
numerare. Simile a queste fu l'edificazione di Firenze, per-
ché (o edificala da' soldati di Siila, o, a caso, dagli abitatori
dei monti di Fiesole, i quali, confidatisi in quella lunga pace
che sotto Ottaviano narque nel mondo, si ridussero ad abi-
tare nel piano sopra Arno) si edificò sotto l'imperio romano;
né potette, ne'principii suoi, fare altri augamenti che quelli
che per cortesia del principe li erano concessi. Sono liberi
li edificatori delle cittadi, quando alcuni popoli, o sotto un
principe o da per sé, sono costretti, o per morbo o per fame
o per guerra, a abbandonare il paese patrio, e cercarsi nuova
sede: questi tali, o egli abitano le cittadi che e'irovano ne'
paesi ch'egli acquistano, come fece Moisè; o ne edificano di
nuovo, come fé Enea. In questo caso è dove si conosce la
virtù dello edificatore, e la fortuna dello edificato: la quale
è più 0 meno meravigliosa, secondo che più o meno è vir-
tuoso colui che ne é slato principio. La virtù del quale si
conosce in duoi modi: il primo é nella elezione del sito;
l'altro nella ordinazione delle leggi. E perché gli uomini
operano o per necessità o per elezione; e perchè si vede
< L'edU. di Roma hàprocutt.
LifeRo Plinio. 89
quivi esser maggiore virtù dove la elezione ha meno aulo- .
rilà; è da considerare se sarebbe meglio eleggere, per la edì- ]
ficazione delle citladi, luoghi sterili, acciocché gli uomini, \
costretti ad industriarsi, meno occupati dall'ozio, vivessino \
più uniti, avendo , per la povertà del sito, minore cagione di
discordie; come intervenne in Raugia, e in molte altre cit-
ladi in simili luoghi edificate: la quale elezione sarebbe senza
dubbio più savia e più utile, quando gli uomini fossero. con-
tenti a vivere del loro, e non volessino cercare di comandare
altrui. Pertanto, non potendo gli uomini assicurarsi se non j
con la potenza, è necessario fuggire quesla sterilità del I
paese, e porsi in luoghi fertilissimi; dove, polendo per la
uberlà del sito ampliare, possa e difendersi da chi l'assal-
tasse, e opprimere qualunque alla grandezza sua si oppo-
nesse. E quanto a quell'ozio che le arrecasse il sito, si debba
ordinare che a quelle necessiladi le leggi la coslringhino,
che 'l sito non la costringesse; ed imitare quelli che sono stati
savi, ed hanno abitato in paesi amenissimi e fertilissimi, e
atti a produrre uomini oziosi ed inabili ad ogni virtuoso
esercizio: che, per ovviare a quelli danni i quali l'amenità /
del paese, mediante l'ozio, arebbero causati, hanno posto unai
necessità di esercizio a quelli che avevano a essere soldati ; \
di qualità che, per tale ordine, vi. sono diventati migliori
soldati che in quelli paesi i quali naturalmente sono slati
aspri e sterili. Intra i quali fu il regno degli Egizi, che non
ostante che il paese sia amenissimo, tanto potette quella ne-
cessità ordinata dalle leggi, che vi nacquero uomini eccel- |
lentissimi; e se li nomi loro non fussino dalla antichità ^
spenti, si vedrebbe come meriterebbero più laude che Ales- '
Sandro Magno, e molti altri de' quali ancora è la memoria
fresca. E chi avesse consideralo il regno del Soldano, e l'or-
dine de'Mammaluchi, e di quella loro milizia, avanti che da
Salì, Gran Turco, fosse stata spenta ; arebbe veduto in quello
molli esercizi circa i soldati, ed arebbe in fatto conosciuto
quanto essi temevano quell'ozio a che la benignità del paese
gli poteva condurre, se non vi avcssino con leggi fortissime
ovviato. Dico, adunque, essere più prudente elezione porsi in
luogo fertile^ quando quella fertilità con le leggi infra' debili '
90 bEl DISCORSI
termini si restringe. Ad Alessandro Magno, volendo edificare
una città per sua gloria, venne Dinocrate architetto, e gli
mostrò come ei la poteva fare sopra il monte Albo; il quale
luogo, oltre allo esser forte, potrebbe ridursi in modo che a
quella città si darebbe forma umana; il che sarebbe cosa
meravigliosa e rara, e degna della sua grandezza: e doman-
dandolo Alessandro di quello che quelli abitatori viverebbo-
no, rispose, non ci avere pensato: di che quello si rise, e
lasciato stare quel monte, edificò Alessandria, dove gli abi-
tatori avessero a stare volentieri per la grassezza del paese,
e per la comodità del mare e del Nilo. Chi esaminerà, adun-
que, la edificazione di Roma, se si prenderà Enea per suo
primo progenitore, sarà di quelle cittadi edificate da' fore-
stieri ; se Romolo, di quelle edificate dagli uomini natii del
luogo; ed in qualunche modo, la vedrà avere principio libe-
ro, senza dependere da alcuno: vedrà ancora, come di sotto
si dirà, a quante necessitadi le leggi fatte da Romolo, Nu-
ma, e gli altri, la costringessino; talmente che la fertilità del
sito, la comodità del mare, le spesse vittorie, la grandezza
dello imperio, non la poterono per molti secoli corrompere,
e la mantennero piena di tante virtù, di quante mai fusse
alcun' altra repubblica ornata. E perchè le cose operate da
lei, e che sono da Tito Livio celebrate, sono seguile o per
pubblico 0 per privato consiglio, o dentro o fuori della cil-
tade, io comincerò a discorrere sopra quelle cose occorse
dentro, e per consiglio pubblico, le quali degne di maggiore
annotazione giudicherò, aggiungendovi (atto quello che da
loro dependessi: con i quali Discorsi questo primo libro,
ovvero questa prima parte, si terminerà.
Gap. il — • Di quante spezie sono le repuhblichet e di quale
fu la Repubblica Romana.
Io voglio porre da parte il ragionare di quelle cittadi
che hanno avuto il loro principio sottoposto ad altri; e par-
lerò di quelle che hanno avuto il principio lontano da ogni
servitù esterna, ma si sono subito governate per loro arbi-
trio, 0 come repubbliche o come principato: le quali hanno
I
,
ilfeRO PRllflÒ. 8i
avuto, come diversi principii, diverse leggi ed ordini. Perchè
ad alcune, o nel principio d'esse, o dopo non mollo tempo,
sono slate date da un solo le leggi, e ad un tratto; come
quelle che furono date da Licurgo agli Spartani: alcune le
hanno avute a caso, ed in più volle, e secondo li accidenti^
come Roma. Talché, felice si può chiamare quella repubbli»
ca, la quale sortisce uno uomo si prudente, che le dia leggi
ordinale in modo, che senza avere bisogno di correggerle,
possa vivere sicuramente sotto quelle. E si vede che Sparta
le osservò più che ottocento anni senza corromperle, o senza
alcuno tumulto pericoloso: e, pel contrario, tiene qualche
grado d'infelicità quella città, che, non si sendo abbattuta ad
uno ordinatore prudente, è necessitala da sé medesima rior-
dinarsi: e di queste ancora è più infelice quella che è più
discosto dall'ordine; e quella è più discosto, che con suoi
ordini é al tutto fuori del dritto cammino, che la possi con-
durre al perfetto e vero fine: perché quelle che sono in que-
sto grado, è quasi impossibile che per qualche accidente si
rassettino. Quelle altre che, se le non hanno l'ordine per-
fetto, hanno preso il principio buono, e atto a diventare
migliori,' pò sono per la occorrenza delli accidenti diventare
perfette. Ma fia ben vero questo, che mai non si ordineranno
senza pericolo; perchè li assai uomini non si accordano mai
ad una legge nuova che riguardi uno nuovo ordine nella
città, se non è mostro loro da ana necessità che bisogni
farlo; e non potendo venire questa necessità senza pericolo,
è facil cosa che quella repubbUca rovini, avanti che la si
sia condotta a una perfezione d'ordine. Di che ne (à fede
appieno la repubblica di Firenze, la quale fu dallo accidente
d'Arezzo, nel II, riordinata, e da quel di Prato, nel XII,.disor-
dinata. Volendo, adunque, discorrere quali furono li ordini
della città di Roma, e quali accidenti alla sua perfezione la
condussero; dico, come alcuni che hanno scritto delle repub-
bliche, dicono essere in quelle uno de' tre stati, chiamati da
loro Principato, d'Ottimati e Popolare; e come coloro che or-
dinano una città, debbono volgersi ad uno di questi, secondo
pare loro più a proposito. Alcuni altri, e secondo la oppinlone
f La Bla diana ha migliore»
9^ DEI DISCORSI
di molti più sari, hanno oppinione che siano di sei ragioni
governi; delli quali Ire ne siano pessimi; tre altri siano buoni
in loro medesimi, ma si facili a corrompersi, che vengono
ancora essi ad essere perniziosi. Quelli che sono buoni, sono
i soprascritti tre: quelli che sono rei, sono Ire altri, i quali
da questi tre dependono; e ciascuno d'essi è in modo simile
a quello che gli è propinquo, che facilmente saltano dall'uno
all'altro: perchè il Principato facilmente diventa tirannico;
li Oitìmati con facilità diventano stato di pochi; il Popolare
senza diffìcuKà in licenzioso si converte. Talmente che, se
ano ordinatore di repubblica ordina in ana città uno di quelli
(restati, ve lo ordina per poco tempo; perchè nessuno ri-
medio può farvi, a far che non sdruccioli nel suo contrario,
per la similitudine che ha in questo caso la virtù ed il vizio.
Nacquono queste variazioni di governi a caso intra li uomini:
perchè nel principio del mondo, sendo li abitatori rari, vis-
sono un tempo disperati, a similitudine delle bestie; dipoi,
multiplicando la generazione, si ragunorno insieme, e, per
potersi mculio difendere, cominciorno a riguardare fra loro
quello che fusse più robusto e di roagsiore cuore, e fecionlo
come capo, e lo obedivano. Da questo nacque la cognizione
delle cose oneste e buone, difTerenli dalle pemiziose e ree:
perchè, vciigcndo che se uno noceva al suo benefattore, ne
veniva odio e compas<iione intra gli uomini, biasimandoli in-
grati ed onorando quelli che fussero grati, e pensando an-
Cora che quelle medesime ingiurie potevano esser fatte a
loro; per fuzgire simile male, sì riducevano a fare leggi, or-
dinare punizioni a chi centra facesse: donde venne la co-
gnizione della giustizia. La qual cosa faceva che avendo dipoi
ad eleggere un principe, non andavano dietro al più ga-
gliardo, ma a quello che fussi più prudente e più giusto. Ma
come dipoi si cominciò a fare il principe per successione, e
non per elezioite, subito cominciorno li eredi a degene-
rare dai loro antichi; e lasciando l'opere virtuose, pensa-
vano che i principi non avessero a fare altro che superare
li altri di sontuosità e di lascivia e d*ogni altra qualità
deliziosa: in modo che, cominciando il principe ad essere
odiato, e per tale odio a temere, e passando tosto dal ti-
LIBRO PRIMO. 93
more all' offese, ne nasceva presto una tirannide. Da questo
nacquero appresso i principii delle rovine, e delle conspira-
zioni e congiure centra i principi ; non fatte da coloro che
fussero o timidi o deboli, ma da coloro che per generosità,
grandezza d'animo, ricchezza e nobiltà, avanzavano gli
altrj; i quali non potevano sopportare la inonesta vita di quel
principe. La moltitudine, adunque, seguendo l'autorità di
questi potenti, si armava contra al principe, e quello spento,
ubbidiva loro come a suoi liberatori. E quelli, avendo in odio
il nome d'uno solo capo, constituivano di loro medesimi un ,
governo; e nel principio, avendo rispetto alla passata tiran- \
nidO; si governavano secondo le leggi ordinate da loro, r
posponendo ogni loro comodo alla comune utilità ; e le cose 1
private e le pubbliche con somma dili'genzia governavano e |
conservavano. Venuta dipoi questa amministrazione ai loro /
figliuoli, i quali, * non conoscendo la variazione della fortuna, ,
non avendo mai provato il male, e non volendo stare cou-
tenti alla civile equalità, ma rivoltisi alla avarizia, alla am-
bizione, alla usurpazione delle donne, feciono che d'uno go-
verno d'Ottimati diventassi un governo di pochi, senza avere
rispetto ad alcuna civiltà : tal che in breve tempo intervenne
loro come al tiranno ; perché infastidita da* loro governi la
moltitudine, si fé ministra di qualunque disegnassi in alcun
modo offendere quelli governatori ; e cosi si levò presto al-
cuno che, con l'aiuto della moltitudine, li spense. Ed essendo
ancora fresca la memoria del principe e delle ingiurie ri-
cevute da quello, avendo disfatto lo stato de' pochi e non
volendo rifare quel del principe, si volsero allo stato popo-
lare; e quello ordinarono in modo, che né i pochi potenti,
né uno principe vi avesse alcuna autorità. E perchè tutti gli
stati nel principio hanno qualche reverenza, si mantenne
questo slato popolare un poco, ma non mollo, massime spenta
che fu quella generazione che l'aveva ordinato; perchè su- ^
bito si venne alla licenzia, dove non si temevano né li uomini \
privati né i pubblici ; di qualità che, vivendo ciascuno a suo \
modo, si facevano ogni dì mille ingiurie: talché, costretti per
* A volere che il senso non rimanesse in sospeso, dovrebbe leggersi onesti
0 costoro.
94 DEI DISCORSI
necessità, o per saggeslione d' alcuno buono uomo, o per
fuggire tale licenzia, si rilorna di nuovo al principato ; e da
quello, di grado in grado, si riviene verso la licenzia, ne' modi
e per le cagioni dette. E questo è il cerchio nel quale gi-
rando tutte le repubbliche si sono governate, e si gover-
nano: ma rade volle ritornano ne' soveroi medesimi; per-
chè quasi nessuna repubblica può essere di tanta vita, che
possa passare molle volte per queste mutazioni, e rimanere
in piede. Ma bene interviene che, nel travagliare, una repub-
blica, mancandoli sempre consiglio e forze, diventa suddita
d'uno stalo propìnquo, che sia meglio ordinato di lei : ma
dato che questo non fusse, sarebbe alla una repubblica a
rigirarsi infinito tempo in questi governi. Dico, adunque, che
tutti i detti modi sono pestiferi, per la brevità della vita che
è ne* Ire buoni, e per la malignità che è ne' tre rei. Talché,
avendo quelli che prudentemente ordinano leggi, conosciuto
questo difetto, fuggendo ciascuno di questi modi per se
stesso, n'elessero uno che pafticipnsse di tulli, giudicandolo
più fermo e più stabile; perchè l'uno guarda l'altro, scudo in
una medesima città il Principato, li Oilimnti, ed il Governo
Popolare. Intra quelli che hanno per simili consliluzioni
meritalo più laude, è Licur::o; il quale ordinò in modo le sue
leggi in Sparla, che dando le parli sue ai He, agli Ottimati
e al Popolo, fece uno stalo che durò più che ottocento anni,
con somma |ju<le sua, e quiete di quella città. Al contrario
intervenne a Solone, il quale ordinò le leggi in Alene; che
per ordinarvi solo lo slato popolare, lo fece di si breve vita,
che avanti morisse vi vide nata la tirannide di Pisislrato: e
benché dipoi anni quaranta ne fussero cacciati gli suoi eredi,
e ritornasse Atene in libertà, perché la riprese lo slato po-
polare, secondo gli ordini di Solone; non lo tenne più che
cento anni, ancora che per mantenerlo facesse molte con-
sliluzioni, per le quali si reprimeva la insolenzia de' grandi
e la licenzia dell'universale, le quali non furon da Solone
considerate: nientedimeno, perchè la non le mescolò con la
potenzia del Principato e con quella delli Ottimati, visse
Atene, a rispetto di Sparta, brevissimo tempo. Ma vegniamo
a Koma; la quale nonoslante che non avesse uno Licurgo
LICRO PRIMO. 95
che la ordinasse in modo, nel principio, che la pofesse vìvere
lungo lampo libera, nondimeno furon lanti gli accidenti che
in quella nacquero, per la disunione che era inlra la Plebe
ed il Senato, che quello che non aveva fatto uno ordinatore,
lo fece il caso. Perchè, se Roma non sorti la prima fortuna,
sortì la seconda ; perchè i primi ordini se furono defettivi,
nondimeno non deviarono dalia diritta via che li potesse
condurre alla perfezione. Perchè Romolo e lutti gli altri Re
fecero molte e buone le^^gi, conformi ancora al vivere libero:
ma perchè il fine loro fu fondare un regno e non una repub-
blica, quando quella città rimase libera, vi mancavano molte
cose che era necessario ordinare in favore della libertà, le
quali non erano state da quelli Re ordinate. E avvegnaché
quelli suoi Re perdessero l'imperio per le casioni e modi
discorsi ; nondimeno quelli che li cacciarono, ordinandovi su- |-
bito duoi Consoli, che stessino nel luogo del Re, vennero a|
cacciare di Roma il nome, e non la potestà regia: làiche, I
essendo in quella Repubblica i Consoli ed il Senato, veniva
solo ad esser mista di due qualità delle Ire soprascritte;
cioè di Principato e di Ottimati. Reslavali solo a dare luogo
al Governo Popolare : onde, essendo diventala la Nobiltà ro-
mana insolente per le casioni che di sotto si diranno, si
levò il Popolo contro di quella; talché, per non perdere il
tutto, fu costretta concedere al Popolo la sua parte; e, dall'al-
tra parte, il Senato e i Consoli reslassino con lar»ta autorità,
che potessino tenere in quella Repubblica il grado loro. E
così nacque la creazione de' Tribuni della plebe ; dopo la
quuie creazione venne a essere più stabilito lo stato di quella
Repubblica, avendovi tutte le tre qualità di governo la parte
^spa. E tanto li fu fiivorevole la fortuna, che benché si pas-
sasse dal governo de' Re e delti Ollimali al Popolo, per quelli
medesimi gradi e per quelle medesime caiiioni che di sojjra si
sono discorse; nondimeno non si tolse mai, per dare autorità
alli Ottimati, lotta V autorità alle qualità regie; né si diminuì
l'autorità in tutto alli Ottimati, per darla al Po[)(»Io ; ma ri-
manendo mista, fece una reiìubhlica perfetta: alla quale per-
fezione venne per la disunione della plebe e del Senato, come
nei duoi prossimi seguenti capitoli largarpeiUe si dimostrerà.
96 DEI DISCORSI
Cap. III. — Quali accidenti facemno creare in Koma i Tribuni
della plebe ; il che fece la Repubblica più per fella.
Come dimostrano talli coloro che ragionano del vivere
civile, e come ne è piena di esempi ogni istoria, é necessa»
rio a chi dispone una repubblica, ed ordina leggi in qaella,
presupporre tutti gli uomini essere cattivi, e che li abbino
sempre ad usare la malignità dello animo loro, qualunche
volta ne abbino libera occasione: e quando alcuna malignità
sta occulta un tempo, procede da una occulta cagione, che,
per non si essere veduta esperienza del contrario, non si co-
nosce; ma la fa poi scoprire * il tempo, il quale dicono essere
padre d'ogni verità. Pareva che fusse in Roma intra la Plebe
ed il Senato, cacciati i Tarquini, una unione grandissima;
e che i Nobili avessino deposta quella loro superbia, e rus-
sino diventati d'animo popolare, e sopportabili da qualunche,
ancora che infimo. Stelle nascoso questo insanno, né se ne
vide la cagione, infino che i Tarquini vissono; de' quali te-
mendo la Nobiltà, ed avendo paura che la Plebe mal Iraltala
non si accostasse loro, si portava umanamente con quella:
ma come prima furono morti i Tarquini, e che a' Nobili fu
la paura fuggita, cominciarono a sputare contfa alla Plebe
quel veleno che si avevano tenuto nel petto, ed in tutti i
modi che potevano la otTendevano: la qual cosa fa testimo-
nianza a quello che di sopra ho detto, che gli uomini non
operano mai nulla bene, se non per necessità; ma dove la
elezione abbonda, e che vi si può usare licenzia, si riempie
subilo ogni cosa di confusione e di disordine. Però si dice
che la fame e la povertà fa gli uomini industriosi, e le
leggi gli fanno buoni. E dove una cosa per sé medesima
senza la leege opera bene, non è necessaria la legse; ma
quando quella buona consuetudine manca, è sùbito la legge
necessaria. Però, mancati i Tarquini, che con la paura di
loro tenevano la Nobiltà a freno, convenne pensare a uno
lìuuvo ordine che facessi quel medesimo eflTetto che face-
vano i Tarquini quando erano vivi. E però, dopo molle con-
* La Bladiana : scoperire.
LIBRO PRIMO. 97
fusioni, roraori e pericoli di scandali, che nacquero intra la
Plebe e la Nobiltà, si venne per sicurtà della Plebe alla crea-
zione de'Tribuni; e quelli ordinarono con (ante preminenze
e tanta riputazione, che polessino essere sempre di poi
mezzi intra la Plebe e il Senato, e ovviare alla insolenzia
de' Nobili.
Gap. IV. — Che la disunione della Plebe e del Senato romano
fece libera e polente quella Repubblica.
Io non voglio mancare di discorrere sopra questi tu-
multi che furono in Roma dalla morte de'Tarquini alla crea-
zione de'Tribuni; e di poi alcune cose contro la oppinione di
molli che dicono, Roma esser slata una repubblica tumul-
tuaria, e piena di tanta confusione, che se la buona fortuna
e la virlù militare non avesse supplito a'ioro difetti, sarebbe
stata inferiore ad ogni altra repubblica. Io non posso negare
che la fortuna e la milizia non fussero cagioni dell'imperio
romano; ma e'mi pare bene, che costoro non si avvegghino,
che dove è buona milizia, conviene che sia buono ordine, e
rade volle anco occorre che non vi sia buona fortuna. Ma
vegnamo alli allri particolari di quella città. Io dico che co-
loro che dannano i tumulti intra i Nobili e la Plebe, mi pare
che biasimino quelle cose che furono prima cagione di te-
nere libera Roma ; e che considerino più a' romori ed alle
grida che di tali tumulti nascevano, che a'buoni effetti che
quelli partorivano: e che non considerino come e' sono in
ogni repubblica duci umori diversi, quello del popolo, e
quello de'grandi; e come tulle le leggi che si fanno in fa-
vore della libertà, nascono dalla disunione loro, come facil-
mente si può vedere essere segiiilo in Roma: perchè da'Tar-
quini ai Gracchi, che furono più di trecento anni, i tumulti
di Roma rade volte partorivano esilio, radissimo sangue.
Né si possono, per tanto, giudicare questi tumulti nocivi, né [
una repubblica divisa, che in lanlo tempo per le sue diffe-
renze non mandò in esilio più che olio o dieci cittadini, e
ne aramazzò pochissimi, e non molti ancora condennò in
danari. Né si può chiamare in alcun modo, con ragione, una
08 DEI DISCORSI
repubblica inordinata, dove siano tanti esempi di virtù; per-
chè li baoni esempi nascono dalla buona educazione; la buona
educazione dalle buone leggi; e le buone leggi da quelli lu-
mulli che molli inconsideralamenle dannano: perchè chi
esaminerà bene il fìne d'essi, non troverà ch'egli abbino
partorito alcuno esilio o violenza in disfavore del comune
bene, ma leggi ed ordini in benefìzio della pubblica libertà.
E se alcuno dicesse: i modi erano straordinari, e quasi eflTc-
rati, vedere il Popolo insieme gridare contra il Senato, il
Senato contra il Popolo, correre tumultuariamente per le
strade, serrare le botteghe, partirsi tutta la Plebe di Roma,
le quali tutte cose spaventano, non che altro, chi legge;
dico come ogni città debbe avere i suoi modi con i quali il
popolo possa sfogare l'ambizione sua, e massime quelle
cittadi che nelle cose importanti si vogliono valere del po-
polo: intra le quali la città di Roma aveva questo modo, che
quando quel Popolo voleva ottenere una legge , o e' faceva
alcuna delle predette cose, o e* non voleva dare il nome per
andare alla guerra, tanto che a placarlo bisognava in qual-
che parte satisfarli. E i desiderii de' popoli liberi, rade
volte sono peroiziosi alla libertà, perchè e' nascono o da
essere oppressi, o da suspìzione di avere a essere oppressi.
E quando queste oppinìoni fussero false, e* vi è il rimedio
delle concioni, che surga qualche uomo da bene, che, orando,
dimostri loro come e* s' ingannano: e li popoli, come dice
Tullio, benché siano ignoranti, sono capaci della verità, e
facilmente cedono, quando da uomo degno di fede è detto
loro il vero. Debbesi, adunque, più parcamente biasimare
il governo romano, e considerare che tanti buoni cfTelti
qnanti uscivano di quella repubblica, non erano causati se
non da ottimo cagioni. E se i tumulti furono cagione della
creazione de' Tribuni, meritano somma laude; perchè, olire
al dare la parte sua all'amministrazione popolare, furono
constituili per guardia della libertà romana, come nel se-
guente capitolo si mostrerà.
LIBRO PRIMO. 99
Cap. V. — Dove più securamenie si ponga la guardia della
libertà, o nel Popolo a ne' Grandi; e quali hanno mag-
giore cagione di lumuUuare, o chi vuole acquistare o chi
vuole mantenere.
Quelli che prudentemente hanno constiluìla una repub-
blica, intra le più necessarie cose ordinale da loro, è stalo
consliluire una guardia alla libertà: e secondo che questa
è bene collocala, dura più o meno quel vivere libero. E per-
chè in ogni repubblica sono uomini grandi e popolari, si è
dubitato nelle mani di quali sia meglio collocala della guar-
dia. Ed appresso i Lacedemoni, e, ne'noslri tempi, appresso
de* Viniziani, la è stata messa nelle mani de* Nobili; ma
appresso de' Romani fu messa nelle mani della Plebe. Per
tanto, è necessario esaminare, quale di queste repubbliche
avesse migliore elezione. E se si andassi dietro alle ragioni,
ci è che dire da ogni parte: ma se si esaminassi il fine loro,
si piglierebbe la parie de' Nobili, per aver avuta la libertà
di Sparla e di Vinegia più lunga vita che quella di Roma.
E venendo alle ragioni, dico, pigliando prima la parte de'Ro- \
mani, come e' si debbe mettere in guardia coloro d' una co-
sa, che hanno meno appelilo di usurparla. E senza dubbio, i
se si considera il fine de' nobili e delli ignobili, si vedrà in
quelli desiderio grande di dominare, ed in questi solo de-
siderio di non essere dominati; e, per conseguente, maggiore
volontà di vivere liberi, polendo meno sperare d'usurparla
che non possono li grandi: talché, essendo i popolani pre-
posti a guardia d'una libertà, è ragionevole ne abbino più
cura; e non la potendo occupare loro, non permeltino che
altri la occupi. Dall'altra parte, chi difende l'ordine spar-
tano e veneto, dice che coloro che mettono la guardia in
mano de' polenti, fanno due opere buone: l' una, che satis-
fanno più all'ambizione di coloro che avendo più parie nella
repubblica, per avere questo bastone in mano, hanno ca-
gione di contentarsi più; l'allra, che lievano una qualità di
autorità dagli animi inquieti della plebe, che è cagione d'in-
finite dissensioni e scandali in una repubblica, e alta a ri-
iOO DEI DISCORSI
durre la nobiltà a qualche disperazione, che col tempo faccia
] callivi efletli. E ne danno per esempio la medesima Roma,
che per avere i Tribuni della plebe questa autorità nelle
mani, non bastò loro aver un Consolo pleheio, che gli vol-
lono avere ambedue. Da questo, e'vollono la Censura, il Pre-
tore, e tulli li altri gradi dell'imperio della città: nò basiò
loro questo, che menati dal medesimo furore, corainciorno
poi, col tempo, a adorare quelli uomini che vedevano atti a
battere la Nobiltà; donde nacque la potenza di Mario, e la
roTina di Roma. E veramente, chi discorresse bene V una
rosa e 1* altra, potrebbe stare dubbio, quale da lui fosse
eletto per guardia di tale libertà, non sa|>endo quale qualità
d'uomini sia più nociva in una repubblica, o quella che de-
sidera acquistare quello che non ha, o quella che desidera
mantenere Tenore già acquistato. Ed in fine, chi sottilmente
esaminerà lutto, ne farà questa conclusione: o tu ragioni
d'una repubblica che vogli fare uno imperio, come Roma;
o d'una che li basti mantenersi. Nel primo caso, i^li è ne-
cessario fare ogni cosa come Roma; nel secondo, può imitare
Vinegla e Sparla per quelle cagioni, e come nel seguente
capitolo si dirà. Ma, per tornare a discorrere quali uomini
siano in una repubblica più nocivi, o quelli che desiderano
d'acquistare, o quelli che temono di perdere lo acquistato;
dico che, sendo fatto Marco Mcnennio dittatore, e Marco
Fulvio maestro de* cavalli, tutti duoi plebei, per ricercare
certe congiure che si erano fatte in Capeva contro a Roma,
fu dato ancora loro autorità dal Popolo di potere ricercare
chi in Roma per ambizione e modi straordinari s'ingegnasse
di venire al consolato, ed agli altri onori della città. E pa-
rendo alla Nobiltà, che tale autorità fusse data al Dittatore
contro a lei, sparsero per Roma, che non i nobili erano
quelli che cercavano gli onori per ambizione e modi straor-
dinari, ma gl'isnobili, i quali, non confidatisi nel sangue e
nella virtù loro, cercavano per vie straordinarie venire a
quelli gradi; e particolarmente accusavano il Dittatore. E
•tanto fu potente questa accusa, che Slcnennio, fatta una con-
clone e dolutosi delle calunnie dategli da'Nobili, depose la
dittatura, e sottomessesi al giudizio che di lui fussi fatto dal
LlliilO PRIMO. 401
Popolo ; e dipoi, agitala la causa sua, ne fu assoluto : dove si
disputò assai, quale sia più ara!)izioso, o quel che vuole man-
tenere 0 quel che vuole acquistare ; perché facilmente l'uno
e l'altro appetito può essere cagione di tumulti grandissimi.
Pur nondimeno, il più delle volte sono causati da chi pos-
siede, perchè la paura del perdere genera in loro le mede-
sime voglie che sono in quelli che desiderano acquistare ;
perchè non_ji»re agli uomini possedere sicuramente quello
che l'uomo ha, se non si acquista di nuovo dell'altro. E di
più~vrè, che possedendo molto, possono con maggior po-
tenzia e maggiore moto fare alterazione. Ed ancora vi è di
più, cheli loro scorretti e ambiziosi portamenti accendono
ne' petti di chi non possiede voglia di possedere, o per ven-
dicarsi contro di loro spogliandoli, o per potere ancora loro
entrare in quella ricchezza e in quelli onori che veggono
essere male usati dagli altri.
Cap. VF. — Se in Roma si poteva ordinare uno stalo che togliesse
via le inimicizie intra il Popolo ed il Senato.
'.'>3o.j 'ti
Noi abbiamo discorsi di sopra gli effetti che facevano le
controversie intra il Popolo ed il Senato. Ora, sendo quelle se-
guitale in fino al tempo de'Gracchi, dove furono cagione della
rovina del vivere libero, potrebbe alcuno desiderare che
Roma avesse fatti gli effetti grandi che la fece, senza che
in quella fussino tali inimicizie. Però mi è parso cosa degna
di considerazione, vedere se in Roma si poteva ordinare
uno slato che togliesse via dette controversie. Ed a volere
esaminare questo, è necessario ricorrere a quelle repubbli-
che le quali senza tante inimicizie e tumulti sono state
lungamente libere, e vedere quale stato era il loro, e se si
poteva introdurre in Roma. In esempio tra li antichi ci è
Sparta, tra i moderni Vinegia, stale da me di sopra nomi-
nale. Sparla fece uno Re, con un picciolo Senato, che la go-
vernasse. Vinegia non ha diviso il governo con i nomi; ma,
sotto una appellazione, lutti quelli che possono avere ammi-
nistrazione si chiamano Gentiluomini. II quale modo lo dette
il caso, più che la prudenza di chi delle loro le leggi : perchè.
i02 DEI DISCORSI
seodosi rìdoUi in su quelli scogli dove è ora quella cillà, per
le cagioni delle di sopra, molli abilalori ; come furon cre-
sciuti in tanto numero, che a volere vivere insieme biso-
gnasse loro far leggi, ordinorono una forma di governo; e
convenendo spesso insieme ne' consigli a deliberare della
città, quando parve loro essere tanti che fussero a sufficienza
ad un vivere politico, * chiusone la via a tulli quelli altri
che vi venissino ad abitare di nuovo, di potere convenire
ne' loro governi ; e, col tempo, trovandosi in quel luogo assai
abitatori fuori del governo, per dare riputazione a quelli che
governavano, gli chiamarono Gentiluomini, e gli altri Po-
polani. Potette questo modo nascere e mantenersi senza tu-
multo, perchè quando e' nacque, qualunque allora abitava in
Yinegia fu fallo del governo, di modo che nessuno si poteva
dolere ; ' quelli che dipoi vi vennero ad abitare, trovando lo
stato fermo e terminalo, non avevano cagione né comodità dì
fare (amulto. La cagione non v' era, perchè non era stalo loro
tolto cosa alcuna: la comodità non v'era, perchè chi reg-
geva gli teneva in freno, e non gli adoperava in cose dove
e' potessino pigliare autorità. Oltre di questo, quelli che dipoi
venoono ad abitare Yinegia, non sono stati molti, e di tanto
numero, che vi sia disproporzione da chi gli governa a loro
che sono governati ; perchè il numero de' Gentiluomini o egli
è eguale a loro, o egli è superiore: sicché, per queste cagioni,
Yinegia polette ordinare quello stato, e mantenerlo unito.
Sparta, come ho detto, essendo governala da un Ke e da
uno stretto Senato, potette mantenersi cosi lungo tempo,
perchè essendo in Sparla pochi abitatori, ed avendo tolta la
via a chi vi venisse ad abitare, ed avendo prese le leggi di
Licurgo con reputazione, le quali osservando, levavano via
tutte le cagioni de' tumulti, poterono vivere uniti lungo
tempo : perchè Licurgo con le sue leggi fece in Sparta più
equalità di sustanze, e meno equalità di grado; perchè quivi
era una eguale povertà, ed i plebei erano manco ambiziosi,
perché i gradi della città si distendevano in pochi cittadini,
* Mcn bene la Testina, e più altre edizioni: pubblico.
' Il Machiavelli sembra scambiare la primitiva aristocraxia dei Veneti col
più rtcenle e maraNigtioso allo politico, che si chiamo Serrala del gran Consiglio.
LIDRO PRIMO. iOo
ed erano tenuti discosto dalla plebe, né gli nobili col trat-
targli male dettero mai loro desiderio di avergli. Questo
nacque dai Re spartani, i quali essendo collocati in quel prin-
cipato e posti in mezzo di quella nobiltà, non avevano mag-
giore rimedio a tenere fermo la loro degnila, che tenere la
plebe difesa da ogni ingiuria: il che faceva che la plebe non
temeva, e non desiderava imperio ; e non avendo imperio né
temendo, era levata via la gara che la potessi avere con la
nobiltà, e la cagione de' tumulti; e poterono vivere uniti
lungo tempo. Ma due cose principali causarono questa unio-
ne : runa esser pochi gli abitatori di Sparta, e per questo
poterono esser governali da pochi; l'altra, che non accet-
tando forestieri nella loro repubblica, non avevano occasione
né di corrompersi, né di crescere in tanto che la fusse in-
sopportabile a quelli pochi che la governavano. Considerando
adunque tutte queste cose, si vede come a' legislatori di
Roma era necessario fare una delle due cose, a volere che ,
Roma stessi quieta come le sopraddette repubbliche: o non %^4*^ ^
adoperare la plebe in guerra, come i Viniziani ; o non aprire , y. /^
la via a' forestieri, come gli Spartani. E loro feceno 1' una e
l'altra; il che dette alla plebe forza ed augumento, ed infi-
nite occasioni di tumultuare. £ se lo stato romano veniva ad
essere più quieto, ne seguiva questo inconveniente, ch'egli w^'
era anco più debile, perchè gli si troncava la via di potere '"^
venire a quella grandezza dove ei pervenne: in modo che -^ r^
volendo Roma levare le cagioni de' tumulti, levava anco y<v
le cagioni dello ampliare. Ed in tutte le cose umane si vede \ <
questo, chi le esaminerà bene: che non si può mai cancel- / ^*^zi
lare uno inconveniente, che non ne surga un altro. Per tanto, {. C**^
se tu vuoi fare un popolo numeroso ed armalo per potere £^
fare un grande imperio, lo fai di qualità che tu non lo puoi *^ . e
poi * maneggiare a tuo modo: se tu lo mantieni o piccolo o it#i^
disarmalo per potere maneggiarlo, se egli acquista dominio, , \^,
non lo puoi tenere, o diventa sì vile, che tu sei preda di qua- ^'
lunche ti assalta. E però, in ogni nostra deliberazione si ti*^^
debbe considerare dove sono meno inconvenienti, e pigliare ^ ^v^
quello per migliore partito: perché tutto netto, lutto senza j . / ,x
< Cosi , ni; può essere arbitrio di editori , nella Bladiana. Nelle altre : dopo, .,| Jt * ^
J^^y^
i04 DEI DISCORSI
sospello non si Irova mai. Poteva, adunque, Roma a similitu-
dine di Sparta fare un Principe a vita, fare un Senato |.ic-
colo; raa non poteva, come quella, non crescere il numero
de' cittadini suoi, volendo fare un grande imperio: il che
faceva che il Re a vita ed il picciol numero del Senato,
quanto alla unione, gli sarebbe giovato poco. Se alcuno vo-
lesse, per tanto, ordinare una repubblica di nuovo, arebbe a
esaminare se volesse ch'ella ampliasse, come Homa, di do-
minio e di potenza, ovvero ch'ella stesse dentro a brevi ter-
mini. Nel primo caso, è necessario ordinarla come Roma, e
dare luogo a' tumulti e alle dissensioni universali, il meglio
che si può; perchè senza gran numero di uomini, e bene
armali, non mai una repubblica potrà crescere, o se la cre-
scerà, mantenersi. Nel secondo caso, la puoi ordinare come
Sparta e come Vinegia : ma perchè l' ampliare è il veleno di
simili repubbliche, debbe, in latti quelli modi che si può,
chi le ordina proibire loro lo acquistare; perchè tali acquisti
fondati sopra una repubblica debole, sono al tutto la rovina
803. Come intervenne a Sparta ed a Vinegia: delle quali la
prima avendosi sottomessa quasi tutta la Grecia, mostrò in
su ano minimo accidente il debole fondamento suo; perchè,
seguita la ribellione di Tebe, causala da Pelopida, ribellan-
dosi l'altre ciltadi, rovinò al tallo quella repubblica. Simil-
roenle Vinegia, avendo occupato gran parte d'Italia, e la
maggior parte non con guerra ma con danari e con astu-
zia, come la ebbe a fare prova delle forze sue, perdette in
^a giornata ogni cosa. Crederei bene, che a fare una repub-
blica che durasse lungo lempo, fossi il miglior modo ordi-
narla dentro come Sparta o come Vinegia; porla in luo2[0
forte, e di tale potenza, che nessuno credesse poterla subito
opprimere; e dall'altra parie, non fussi si grande, chela
fussi formidabile a' vicini: e cosi potrebbe lungamente go-
dersi il suo stato. Perchè, per due cagioni si fa guerra ad una
repubblica : l' una per diventarne signore, l'altra per paura
eh' ella non li occupi. Queste due cagioni il sopraddetto modo
quasi in lutto toglie via; perchè, se la è difficile ad espugnarsi,
come io la presuppongo, sendo bene ordinata alla difesa,
rade volle accadcrà, o non mai, che uno possa fare disegno
LIBRO PRIMO. iOo
d'acquistarla Se la si sjarà inlra i (ermini suoi, e veggasi
per esperienza, che in lei non sia ambizione, non occorrerà
mai che uno per paura di sé gli faccia guerra : e (anlo più
sarebbe questo, se e' fusse in lei constituzione o legge
che le proibisse l'ampliare. E senza dubbio credo, che po-
tendosi tenere la cosa bilanciata in questo modo, che e' sa-
rebbe il vero vivere politico, e la vera quiete di una città.
Ma sendo tutte le cose degli uomini in moto, e non polendo
slare salde, conviene che le saglino o che le scendine; e (i^|
ijiolte cose che la ragione non t' induce, t'induce la neces-
£Uà: talmente che, avendo ordinata una repubblica alta a
mantenersi non ampliando, e la necessità la conducesse ad (
ampliare, si verrebbe a torre via i fondamenti suoi, ed a j
farla rovinare più presto. Cosi, dall'altra parte, quando il '
Cielo le fusse sì benigno, che la non avesse a fare guerra,
ne nascerebbe che l' ozio la farebbe o effeminata o divisa ;
le quali due cose insieme, o ciascuna per sé, sarebbono ca-
gione della sua rovina. Pertanto, non si potendo, come io
credo, bilanciare questa cosa, né mantenere questa via del
mezzo a punto; bisogna, nello ordinare la repubblica, pen-
sare alla parte più onorevole; ed ordinarla in modo, che
quando pure la necessità la inducesse ad ampliare, ella po-
tesse quello ch'ella avesse occupato, conservare. E, per tor-
nare al primo ragionamento, credo che sia necessario se-
guire V ordine romano, e non quello dell' altre repubbliche ;
perchè trovare un modo, mezzo infra l'uno e l'altro,' non credo
si possa: e quelle inimicizie che intra il popolo ed il senato
nascessino, tollerarle, pigliandole per uno inconveniente ne-
cessario a pervenire alla romana grandezza. Perchè, oltre al-
l'altre ragioni allegale dove si dimostra l'autorità tribuni-
zia essere stala necessaria per la guardia della libertà , si
può facilmente considerare il benefizio che fa nelle repub-
bliche l'autorità dello accusare, la quale era inlra gli altri
commessa a' Tribuni ; come nel seguente capitolo si dis-
correrà.
* Prendiamo dalla Testina cjuc&la |iuiiUiazione, per cui la voce ìiiczzo riceve
la forza <1i avverLio.
103 DEI DISCORSI
\
Gap. vii. — Quanto siano necessarie in una Repubblica
le accuse per mantenere la libertà.
A coloro che in una cillà sono preposti per guardia della
Mia libertà, non si può dare autorità più utile e necessaria,
quanto è quella di poterd accusare i cittadini al popolo, o a
qualunque magistrato o consiglio, quando che peccassìno in
alcuna cosa centra allo stato libero. Questo ordine fa duoi
enettt utilissimi ad una repubblica. Il primo è che i cittadini,
per paura di non essere accusati, non tentano cose centra
allo stato; e tentandole, sono incontinente e senza rispetto
oppressi. V altro è che si dà via onde sfogare a quelli umo-
ri che crescono nelle cittadi, in qualunque modo, centra a
qualunque cittadino : e quando questi umori non hanno onde
sfogarsi ordinariamente, ricorrono a' modi straordinari,
che fanno rovinare in tutto una repubblica. E non è cesa
che faccia tanto slabile e ferma una repubblica, quanto or-
dinare quella in modo, che l'alterazione di questi umori che
la agitano, abbia una via da sfogarsi ordinata dalie leggi. U
che si può per molti esempi dimostrare, e massime per quello
che adduce Tito Livio di Coriolano, dove ei dice, che essendo
irritata centra alla Plebe la Nobiltà romana, per parerle che
la Plebe avesse troppa autorità mediante la creazione de' Tri-
buni che la difendevano; ed essendo lloma, come avviene,
venuta in penuria grande di vettovaglie, ed avendo il Se-
nato mandalo per grani in Sicilia; Coriolano, nimico alla fa-
zione popolare, consigliò come egli era venuto il tempo da
potere gastigare la Plebe, e tòrte quella autorità che ella si
aveva acquistata, e in pregiudizio della Nobiltà presa,* le-
nendola arfamata, e non li distribuendo il frumento: la qual
sentenza sondo venula alti orecchi del Popolo, venne in tanta
indegnazione centra a Coriolano, che allo uscire del Senalo
lo arebbero lumultuariamenle morto, se gli Tribuni non
l'avessero citalo a comparire a difendere la causa sua. So-
pra il quale accidente, si nota quello che di sopra si è del-
lo, quanto sia utile e necessario che le repubbliche, con le
* Con l)revilà che poco toglie al conceUo, ha l'eclii. del Biado: quella au-
torità che ella si aveva in pregiudizio della nobiltà presa.
LIBUO PUIMO. iOl
leggi loro, diano onde sfogarsi all'ira che concepe la univer-
salità conlra a uno cittadino: perchè quando questi modi or-
dinari non vi siano, si ricorre agli estraordinari; e senza
dubbio questi fanno molto peggiori effetti che non fanno
quelli. Perchè, se ordinariamente uno cittadino è oppresso,
ancora che li fosse fatto torto, ne seguita o poco o nessuno
disordine in la repubblica : perchè la esecuzione sJ fa senza
forze private, e senza forze forestiere, che sono quelle che
rovinano il vivere libero ; ma si fa con forze ed ordini pub-
blici, che hanno i termini loro particulari, né trascendono a \
cosa che rovini la repubblica. E quanto a corroborare questa /
oppinione con gli esempi, voglio che degli antichi mi basti
questo di Coriolano; sopra il quale ciascuno consideri, quanto
male saria resultato alla repubblica romana, se tumultuaria-
mente ei fussi slato morto : perchè ne nasceva offesa da pri-
vati a privati, la quale offesa genera paura; la paura cerca di-
fesa ; per la difesa si procacciano i partigiani ; dai partigiani
nascono le parti nelle cittadi; dalle parti la rovina di quelle.
Ma sendosi governata la cosa mediante chi ne aveva autori-
tà, si vennero a lór via tutti quelli mali che ne potevano
nascere governandola con autorità privata. Noi avemo visto
ne' nostri tempi, quale novità ha fatto alla repubblica di Fi-
renze non potere la moltitudine sfogare l'animo suo ordina-
riamente conlra a un suo cittadino; come accadde nel tempo
di Francesco Valori, che era come principe della città: il
quale essendo giudicato ambizioso da molli, e uomo che vo-
lesse con la sua audacia e animosità trascendere il vivere
civile ; e non essendo nella repubblica via a poterli resistere
se non con una setta contraria alla sua; ne nacque che non
avendo paura quello, se non di modi straordinari, si comin-
ciò a fare fautori che lo difendessino : dall' altra parte, quelli
che lo oppugnavano non avendo via ordinaria a reprimerlo,
pensarono alle vie straordinarie : intanto che si venne alle
armi. E dove, quando per l'ordinario si fosse potuto oppor-
seli, sarebbe la sua autorità spenta con suo danno solo; aven-
dosi a spegnere per lo straordinario, seguì con danno non
solamente suo, ma di molti altri nobili cittadini. Potrebbesi
ancora allegare, a fortificazione della soprascritta conclusio-
108 BEI DISCORSI
ne, r accidente seguilo por in Firenze sopra Piero Soderini;
il quale al tulio segui per non essere in quella repubblica
alcuno modo di accuse contra alla ambizione de' potenti cit-
tadini : perchè lo accusare un potente a otto giudici in una
repubblica, non basta : bisogna che i giudici siano assai, per-
chè pochi sempre fanno a modo de' pochi. Tantoché, se tali
modi vi fussono stati, o i cittadini lo arebbono accusato,
vivendo egli male; e per lai mezzo, senza far venire l'eser-
cito spagnuolo, arebbono sfogalo l'animo loro: o non vi-
vendo male, non arebbono avuto ardire operarli contra, per
paura di non essere accusali essi : e cosi sarebbe da ogni parie
cessato quello appetito che fu cagione di scandalo. Tanto che
si può conchiudere questo, che qualunque volla si vede che
le forze esterne siano chiamale da una parie d'uomini che
vivono in una città, si può credere nasca da' cattivi ordini
dì quella, per non esser, deniro a quello cerchio, ordine da
potere senza modi istraordinari sfogare i maligni umori che
nascono nelli uomini : a che si provvede al lutto con ordi-
narvi le accuse alli assai giudici, e dare riputazione a quel*
le. Li quali modi furono in Roma si bene ordinali, che in
tante dissensioni della Plebe e del Senato, mai o il Sonalo
o la Plebe o alcuno particolare ciltadino non disegnò va*
tersi di forze esterne ; perchè avendo il rimedio in casa, non
erano necessitali andare per quello fuori. E benché gli esempi
soprascritti siano assai sufllcienti a provarlo, nondimeno ne
voglio addurre un altro, recitato da Tito Livio nella sua isto-
ria : il quale riferisce come, sondo sialo in Chiusi, città in
quelli tempi nobilissima in Toscana , da uno Lucumone vio-
lata una sorella di Arunle, e non polendo Arunte vendicarsi
per la potenza del violatore, se n'andò a trovare i Franciosi,
che allora regnavano in quello luogo che oggi si chiama
Lombardia ; e quelli confortò a venire con armata mano a
Chiusi, mostrando loro come con loro olile lo potevano ven-
dicare della ingiuria ricevuta: che se Arunte avesse veduto
potersi vendicare con i modi della città, non arebbe cerco. le
forze barbare. Ma come queste accuse sono utili in una re-
pubblica, cosi sono inutili e dannose le calunnie; come nel
capilolo seguente discorreremo.
LI DUO PRIMO. . 409
Gap. VIU. ~ Quanto le accuse sono ulili alle repubbliche,
tanto sono perniziose le calunnie.
Non ostante che la virtù di Furio Caramillo, poi eh' egli
ebbe libera Roma dalla oppressione de' Franciosi, avesse
fallo che tulli i cittadini romani, senza parer loro tòrsi repu-
tazione 0 grado, cedevano a quello ; nondimeno Manlio Ca-
pitolino non poteva sopportare che gli fusse attribuito tanto
onore e tanta gloria ; parendogli, quanto alla salute di Roma,
per avere salvalo il Campidoglio, aver meritalo quanto Cam-
mino; e quanto all' altre belliche laudi, non essere inferiore
a lui. Di modo che, carico d'invidia, non polendo quietarsi
per la gloria di quello, e veggendo non potere seminare dis-
cordia infra i Padri, si volse alla Plebe, seminando varie op-
pinioni sinistre intra quella. E intra l'altre cose che diceva, era
come il tesoro il quale si era adunato insieme per dare ai
Franciosi, e poi non dato loro, era stalo usurpalo da privali
cittadini ; e quando si riavesse, si poteva convertirlo in pub-
blica utilità, alleggerendo la Plebe da' tributi, o da qualche
privalo debito. Queste parole poterono assai nella Plebe ; tal-
ché cominciò avere concorso, ed a fare a sua posta tumulti
assai nella città: la qual cosa dispiacendo al Senato, e paren-
dogli di momento e pericolosa, creò uno Dittatore, perchè
ci riconoscesse questo caso, e frenasse lo impelo di Manlio.
Onde che subilo il Dittatore lo fece citare, e condussonsi in
pubblico all'incontro l'uno dell'altro; il Dittatore in mezzo
de' Nobili, e Manlio in mezzo della Plebe. Fu domandalo
Manlio che dovesse dire, appresso a chi fusse questo tesoro
che ei diceva, perchè ne era così desideroso il Senato d'inten-
derlo come la Plebe ; a che Manlio non rispondeva particu-
larmenle; ma, andando fuggendo, ' diceva come non era ne-
cessario dire loro quello che e' si capevano : tanto che il
Dittatore Io fece mettere in carcere. È da notare per questo
testo, quanto siano nelle città libere, ed in ogni altro modo
di vivere, detestabili le calunnie; e come, per reprimerle, si
* "Parecchie tShloni: sfuggendo. S'intende pur sempre per lo rispondere
in modo di eludere la domanda.
40
HO ♦ DEI DISCORSI
debbe non perdonare a ordine alcuno che vi faccia a propo-
silo. Né può essere migliore ordine a lòrle via, che aprire
assai luoghi alle accuse; perchè quanto le accuse giovano alle
C éf<*^*^ repubbliche, tanto le calunnie nuocono : e dall' altra parte, è
f^y^i^ questa differenza, che le calunnie non hanno bisogno di le-
^^ stiroone, né di alcuno altro parliculare riscontro a provarle,
* ^ in modo che ciascuno da ciascuno può essere calunniato ; ma
*^**'^^" non può già essere accusato , avendo le accuse bisogno di
riscontri veri, e di circostanze, che mostrino la verità del-
Ì l'accusa. Accusansi gli uomini a' magistrati, a' popoli, a' con-
sigli ; calunniansi per le piazze e per le logge. Usasi più
questa calunnia dove si usa meno l'accusa, e dove le cillù
sono meno ordinate a riceverle. Però, uno ordinatore d' una
repubblica debbe ordinare che si possa in quella accusare
ogni cittadino, senza alcuna paura o senza alcuno sospetto ;
e fatto questo e bene osservato, debbe punire acremente i
calunniatori : i quali non si possono dolere quando siano pu-
niti, avendo i luoghi aperti a udire le accuse di colui che gli
avesse per le logge calunnialo. E dove non è bene ordinata
questa parte, seguitano sempre disordini grandi : perchè lo
calunnie irritano, e non castigano i cittadini; e gli irritati
pensano dì valersi, odiando più presto, * che temendo le cose
che si dicono centra a loro. Qucsla parte, come è detto, era
bene ordinala in Roma ; ed è stala sempre male ordinata
nella nostra città di Firenze. E come a Roma qucslo ordine
fece molto bene, a Firenze questo disordine fece molto male.
E chi legge le istorie di questa città, vedrà quante calunnio
sono state in ogni tempo date a' suoi cittadini che si sono
adoperati nelle cose importanti di quella. Dell' uno dicevano,
ch'egli aveva rubati danari al Comune; dell'altro, che non
aveva vinto una impresa per essere slato corrotto; e che
lueir altro per sua ambizione aveva fatto il tale e tale incon-
veniente. Del che ne nasceva che da ogni parie ne surgeva
odio: donde si veniva alla divisione; dalla divisione alle
sètte; dalle sètte alla rovina. Che se fusse stalo in Firenze
ordine d'accusare i cittadini, e punire i calunniatori, non
seguivano infìnili scandali che sono seguili : perchè quelli
' Cioè, i detrattori o calunnialorL
LlBFxO PRIMO. ili
cilladinì, o condennali o assoluti che fussino, non arebhono
polulo nuocere alla cillà ; e sarebbono stali accusali meno
assai che non ne erano calunniali, non si polendo, come ho
dello, accusare come calunniare ciascuno. Ed inlra l'altre cose
di che si è valuto alcuno cittadino per venire alla grandezza
sua, sono state queste calunnie: le quali venendo conlra
a' cittadini polenti che allo appetito suo si opponevano, fa-
cevano assai per quello ; perchè, pigliando la parte del Popo-
lo, e confirmandolo nella mala oppinione ch'egli aveva di
loro, se lo fece amico. E'benchè se ne potesse addurre as-
sai esempi, voglio essere contento solo d' uno. Era lo eser-
cito fiorentino a campo a Lucca, comandato da racsser
Giovanni Guicciardini, commissario di quello.. Vollono o i
cattivi suoi governi, o la cattiva sua fortuna, che la espu-
gnazione di quella cillà non seguisse. Pur, comunque il caso
stesse, ne fu incolpato messer Giovanni, dicendo com'egli
era slato corrotto da' Lucchesi : la quale calunnia sendo fa-
vorita da* nimici suoi, condusse messer Giovanni quasi in
ultima disperazione. E benché, per giustificarsi, ei si volessi
mettere nelle mani del Capitano; nondimeno non sì potette
mai giustificare, per non essere modi in quella repubblica
da poterlo fare. Di che ne nacque assai sdegno inlra li amici
di messer Giovanni, che erano la maggior parte delti uo-
mini grandi; ed infra coloro che desideravano fare novità in
Firenze. La quiU cosa, e per queste e per altre simili ca-
gioni, tanto crebbe, che ne segui la rovina di quella repub-
blica. Era dunque Manlio Capitolino calunniatore, e non
accusatore; ed i Romani mostrarono in questo caso appunto,
come i calunniatori si debbono punire. Perchè si debbo far-
gli diventare accusatori; e quando l' accusa si riscontri vera,
o premiarli, o non punirli: ma quando la non si riscontri
vera, punirli, come fu punito Manlio.
Cap. IX. — -Come egli è necessario esser solo a volere ordinare
una repubblica di nuovo, o al tulio fuori delli antichi
suoi ordini riformarla,
E' parrà forse ad alcuno, che io sia Iroppo trascorso den-
tro nella istoria romana, non avendo fallo alcuna menzione
n2 DEI DISCORSI
ancora degli ordinatori di quella Rejubblica, né di quelli
ordini che o alla religione o alla milizia riguardassero. E
però, non volendo lenere più séspesi gli animi di coloro
che sopra quesla parie * volessin* intendere alcune cose; di-
co, come molli per avventura giudicheranno dì cattivo
esempio, che ano fondatore d' un vivere civile, quale fu
Romolo, abbia prima morto un suo fratello, dipoi consen-
tito alla morte di Tito Tazio Sabino, eletto da lui compa-
gno nel regno; giudicando per questo, che gli suoi cittadini
potessero con l'autorità del loro principe, per ambizione o
desiderio di comandare, oflTendcre quelli che alla loro auto-
rità si opponessino. La quale oppinione sarebbe vera, quando
non si considerasse che fìne V avesse indotto a fare tal omi-
cidio. E debbesi pigliare questo per una regola generale: che
non mai o di rado occorre che alcuna repubblica o regno
sia da principio ordinato bene, o al lutto di nuovo fuori
dell! ordini vecchi riformalo, se non è ordinato da uno ;
anzi è necessario che uno solo sia quello che dia il modo,
e dalla cui mente dependa qualunque simile ordinazione.
Però, uno prudente ordinatore d'una repubblica, e che abbia
questo animo di volere giovare non a sé ma al bene co-
mune, non alla sua propria successione ma alla comune
patria, debbe ingegnarsi di avere l'autorità solo; nò mai
Jl^ ^ c^ ano ingegno savio riprenderà alcuno di alcuna azione islraor-
ì\[ \ dinaria, che per ordinare un regno o conslituire una re-
' i ' I pubblica osasse. Conviene bcnc,^che, accusandolo il fatto,
A I lo efTetlo lo scusi ; e quando sia buono, comò quello di Ro-
r moTo, sempre lo scuserà: perchè colui che 6 violento per
r^ guastare, non quello che é per racconciare, si debbe ri-
I v'^f prendere. Debbe bene in tanto esser prudente e virtuoso,
^ j che quella autorità che si ha presa, non la lasci ereditaria
' i|^ ad un altro: perchè, essendo gli uomini più proni ' al male
fi^i^ ' che al bene, potrebbe il suo successore usare ambiziosamente
^ V^^ " quello che da lui virtuosamente fosse stato usato. Olire di
\ji^*^ questo, se uno è atto ad ordinare, non è la cosa ordinala
v^t < Cosi la Romaoa e l'cdii del 1813. La Tellina e il Poggiali: queste
^tJSA^ par//.
V^ S CoM anche Tedi», del 1813. La Testina, e molte altre: pronti.
LIBRO PUlMO. 413
per durare mollo, quando la rimanga sopra le spalle d' uno ;
ma si bene, quando la rimane alla cura di molli, e chea
molli slia il manlencrla. Perchè, cosi come molli non sono
alli ad ordinare una cosa, per non conoscere il bene di
quella, causalo dalle diverse oppinioni che sono fra loro;
cosi conosciuto che lo hanno, non si accordano a lasciarlo
K che Romolo fusse di quelli che nella morie del fralello
e del compagno merilasse scusa; e che quello che fece, /tiW^
fusse n^g il bene comune, e non per ambizione propria ; lo ] x)^
dimostra lo avere quello subilo ordinalo uno Senalo, con il '^ J^
quale si consigliasse, e secondo l'oppinione del quale delibo- pjf
Tiìsse. E chi considera bene l' autorità che Romolo si ri-^( e/Jl/^
serbò, vedrà non se ne essere riserbata alcun' altra che
comandare alli eserciti quando si era deliberata la guerra,/-^
e di ragunare il Senalo. li che si vide poi, quando Roma
divenne libera per la cacciala de'Tarquini; dove da' Ro-
mani non fu innovalo alcun ordine dello antico, se non
che in luogo d'uno Re perpetuo, fussero duoi Consoli an-
nuali: il che Icslifica, lutti gli ordini primi di quella cillà
essere siali più conformi ad uno vivere civile e libero, che
ad uno assoluto e tirannico.* Polrebb2si dare in corrobora-
zione delle cose sopraddette infinili esempi; come Moisè,
Licurgo, Solone, ed altri fondatori di regni e di repubbli-
che, i quali poterono, per aversi attribuito un'autorità, for-
mare leggi a proposito del bene comune: ma gli voglio la-
sciare indietro, come cosa nota. Addurronne solamente uno,
non si celebre, ma da considerarsi per coloro che deside-
rassero essere di buone leggi ordinatori: il quale è, che
desiderando A^ide re di Sparla ridurre gli Spartani intra
quelli termini che le leggi di Licurgo gli avessero rinchiu-
si, parendoli che por esserne in parie deviali, la sua città
avesse perduto assai di quella antica virlù, e, per conse-
guente, di forze e d'imperio; fu ne' suoi primi principii
ammazzato dalli Efori spartani, come uomo che volesse
occupare la tirannide. Ma succedendo dopo lui nel regno
Cleomene, e nascendogli il medesimo desiderio per gli ri-
cordi e scrini ch'egli aveva trovati di Agide, dove si ve-
deva quale era la mente ed intenzione sua, conobbe non
<0*
Ili DEI DISCORSI
potere fare questo bene alla sua patria se non divenlava
' solo di autorità; parendogli, per l'ambizione degli uomini,
non potere fare utile a molli centra alla voglia di pochi :
) e presa occasione conveniente, fece ammazzare lutti gli
Efori, e qualunque altro gli potesse contrastare; dipoi rin-
novò in lutto le leggi di Licurgo. La quale deliberazione
era alla a fare risuscitare Sparla, e dare a Cleoracne quella
reputazione che ebbe Licurgo, se non fusse slato la potenza
de* Macedoni, e la debolezza delle altre repubbliche greche.
Perchè, essendo dopo tale ordine assaltato da' Macedoni, e
trovandosi per sé stesso inferiore di forze, e non avendo
a chi rifuggire, fu vinto; e restò quel suo disegno, quan-
tunque giusto e laudabile, imperfetto. Considerato adunque
tutte queste cose, conchiudo, come a ordinare una repub-
blica è necessario essere solo; e Romolo per la morte di
Remo e di Tazio meritare iscusa , e non biasmo.
Gap. X. — Quanto sono laudabili i fondatori d' una repubblica
0 d* uno regno, tanto quelli d' una tirannide inno vitu-
perabili.
Intra tutti gli uomini laudati, sono i laudatissìmì quelli
che sono stati capi e ordinatori delle relisìoni. Appresso di-
poi, quelli che hanno fondalo o repubbliche o regni. Dopo
costoro, sono celebri quelli che, preposti alli csercili, hanno
ampliato o il regno loro, o quello della patria. A questi si
aggiungono gli uomini litterali; e perchè questi sono di più
ragioni, sono celebrati ciascuno d'essi secondo il grado suo.
A qualunque altro uomo, il numero de' quali è infinito, si
attribuisce qualche parte di laude, la quale gli arreca l'arte
e l'esercizio suo. Sono per lo contrario infami e dctcslaliili
gli uomini destrullori delle religioni, dissipatori de* regni
e delle repubbliche, inimici delle virtù, delle lettere, e
d'ogni altra arte che arrechi utilità ed onore alla umana ge-
nerazione; come sono gli empii e violenti, gl'ignoranti, gli
oziosi, i vili, e i dappochi. E nessuno sarà mai si pazzo o si
savio, sì Iristo o si buono, che, propostosli la elezione delle
due qualità d'uomini, non laudi quella che è da laudare, e
LIIÌKO PRIMO. 115
biasrai quella che è da biasmare : nienlediraeno, dipoi, quasi
tulli, ingannali da un falso bene e da una falsa gloria, sì la-
sciano andare, o volunlariamenle o ignoranlemenle, ne'gradi
di coloro che raerilano più biasimo che laude; e polendo
fare, con perpetuo loro onore, o una repubblica o un regno,
si volgono alla tirannide : né si avveggono per questo par-
tito quanta fama, quanta gloria, quanto onore, sicurtà,
quiete, con satisfazione d'animo, e'fuggono; e in quanta in-
famia, vituperio, biasimo, pericolo e inquietudine incorro-
no. Ed è impossibile che quelli che in stalo privato vivono
in una repubblica, o che per fortuna o virtù ne diventano
principi, se leggessino l'istorie, e delle memorie delle anti-
che cose facessino capitale, che non volessero quelli tali
privati, vivere nella loro patria piuttosto Scipioni che Cesari;
e quelli che sono principi, piuttosto Agesilai, Timoleoni e
Dioni, che Nabidi, Falari e Dionisi: perchè vedrebbono
questi essere sommamente vituperali, e quelli eccessiva-
mente laudali. Vedrebbono ancora come Timoleone e gli al-
tri non ebbero nella patria loro meno autorità che si aves-
sino Dionisio e Falari, ma vedrebbono di lunga avervi avuto
più sicurtà. Né sia alcuno che si inganni per la gloria di Ce-
sare, sentendolo, massime, celebrare dagli scritlori: perchè
questi che lo laudano, sono corrotti dalla fortuna sua, e
spauriti dalla lunghezza dello imperio, il quale reggendosi
sotto quel nome, non permetteva che gli scrittori parlassero
liberamente di lui. Ma chi vuole conoscere quello che gli
scritlori liberi ne direbbono, vegga quello che dicono di Ca
mina. E tanto è più detestabile Cesare, quanto più è da bia
simare quello che ha fallo, che quello che ha voluto fare un
male. Vegga ancora con quante laudi celebrano Bruto; tal-
ché, non potendo biasimare quello per la sua potenza, e' ce-
lebrano il nemico suo. Consideri ancora quello eh' è diven-
talo principe in una repubblica, quante laudi, poiché Roma
fu diventata imperio, meritarono più quelli imperadori che
vissero sotto le leggi e come principi buoni, che quelli che
vissero al contrario : e vedrà come a Tito, Nerva, Traiano,
Adriano, Antonino e Marco, non erano necessari i soldati
pretoriani né la moltitudine delle legioni a difenderli, per-
■.:.,S
HO DEI DISCORSI
che i costami loro, la benìvolcnza del Popolo, lo amoro del
Sonalo gli difendeva. Vedrà ancora come a Caligola, Ne-
rone, Yilellio, ed a (anli altri scellerati imperadori, non ba-
starono gli eserciti orientali ed occidentali a salvarli contra a
quelli nemici , che li loro rei costumi, la loro malvagia vita
aveva loro generati. E se la istoria di costoro fusse ben con-
siderata, sarebbe assai ammaestramento a qualunque prin-
cipe, a mostrargli la via della gloria o del biasroo, e della
sicurtà o del timore suo. Perchè, di ventisei imperadori che
furono da Cesare a Massimino, sedici ne furono ammazzati,
dieci morirono ordinariamente ; e se di quelli che furono
morii ve ne fu alcuno buono, come Galba e Pertinace, fu
. , morto da quella corruzione che lo antecessore suo avevala-
^ sciata ne' soldati. E se Ira quelli che morirono ordinaria-
• ^-*, ménte ve ne fu alcuno scellerato, come Severo, nacque da
una sua grandissima fortuna e virtù ; le quali due cose pochi
uomini accompagnano. Vedrà ancora, per la lezione di que-
sta istoria, come sì può ordinare un regno buono: perchè
lutti gì* imperadori che succederono all' imperio per eredità,
eccetto Tilo, furono callivi ; quelli che per adozione, furono
lutti buoni, come furono quei cinque da Nerva a Marco: e
come l'imperio cadde negli credi, ei ritornò nella sua ro-
vina. Pongasi, adunque, innanzi un principe i tempi da Nerva
a Marco, e conferiscagli con quelli che erano stati prima
e che furono poi; e dipoi elegga in quali volesse essere nato,
o a quali volesse essere preposto. Perchè in quelli governali
da' buoni, vedrà un principe sicuro in mezzo de' suoi sicuri
cittadini, ripieno di pace e di giustizia il mondo: vedrà il
Senato con la sua autorità, i masistrati con i suoi onori ;
f godersi i cittadini ricchi le loro ricchezze; la nobilita e la
virtù esaltata: vedrà ogni quiete, ed ogni bene ; e, dall'altra
0"*^ parte, ogni rancore, ogni licenza , corruzione e ambizione
|t^- V » spenta: vedrà i tempi aurei, dove ciascuno può tenere e di-
fendere quella opinione che vuole. Vedrà, in fine, trionfare
1*^ il mondo ; pieno di riverenza e di gloria il principe, d'amore
N . e di sicurità i popoli. Se considererà, dipoi, tritamente i tempi
^ degli altri imperadori, gli vedrà atroci per le guerre, dis-
cordi per le sedizioni, nella pace e nella guerra crudeli:
LIBRO PRIMO. ili
tanli principi morii col ferro, lanle guerre civili, (ante
eslerne; l'Italia offlilla, e piena di nuovi inforlunii ; r^i-
nale e saccheggiale le cillà di quella. Vedrà Roma arsa, il
Campidoglio da' suoi cilladini disfallo, desolali gli antichi è J^ifJi^
templi, corrotte le cerimonie, ripiene le cillà di adullerii: ^ ^ \
vedrà il mare pieno di esilii, gli sco^lj^pjcnMIjangue. Ve- ^ ir
drà in Roma seguire innumerabili crudelladi ; e la nobiltà, '^ ^ vJ!
le ricchezze, gli onori, e sopra lutto la virtù essere imputata /
a peccato capitale. Vedrà premiare li accusatori, essere cor-
rotti i servi contro al signore, i liberi * contro al padrone; e
quelli a chi fussero mancati i nemici, essere oppressi dagli
amici. E conoscerà allora benissimo quanti obblighi Roma, / ^saia# ^
Italia, e il mondo_abbia con JCesare. E senza dubbio, se / ^,
e' sarà nato d uomo, si sbigottirà da ogni imitazione dei /**^ ♦
tempi cattivi, e accendcrassi d'uno immenso desiderio di «it Jr^
seguire i buoni. E veramente, cercando un principe la gloria *\, j|
del mondo, doverrebbe desiderare di possedere una città cor- ^/ f^ >
A rolla, non per guastarla in tutto come Cesare, ma per rior- ... ijf^
, dinari^ come Romolo. E veramente i cieli non possono dare / y , V *
aìTi uomini maggiore occasione di gloria, né li uomini la ijjn •
'^r possono maggiore desiderare. E se a volere ordinare bene/^ lA*'
. una cillà, si avesse di necessità a deporre il principale, me- /^ /
riterebbe quello che non la ordinasse, per non cadere di
quel grado, qualche scusa: ma polendosi tenere il principato
ed ordinarla, non si merita scusa alcuna. E in somma, consi-
derino quelli a chi i cieli danno tale occasione, come sono
loro proposte due vie: 1' una che gli fa vivere sicuri, e dopo la
morte gli rende gloriosi; 1' altra gli fa vivere in conlinove an-
gustie, e dopo la morie lasciare di sé una sempiterna infamia.
Cap. XI. — Della religione de' lìomani.
Ancora che Roma avesse il primo suo ordinatore Ro-
molo, e che da quello abbi a riconoscere come figliuola il
* L* etliz. (tei 1813 lia , non so con qual fontlamrnlo, liberti. Padrone iniò
qui inlcndcrsi come atlo|)crato nel senso di palrono.
iiS DEI DISCORSI
nascimento e la educazione sua; nondimeno, giudicando i
cieli che gli ordini di lioraolo non bastavano a tanto impe-
rio, messone nel petto del Senato romano di eleggere Numa
Pompilio per successore a Romolo, acciocché quelle cose che
da lui fossero state lasciate indietro, fossero da Numa or-
dinate. 11 quale trovando un popolo ferocissimo, e volendolo
ridurre nelle ubbidienze civili con le arti della pace, si volse
Ialla religione, come cosa al lutto necessaria a volere man-
tenere una civilità; e la costituì in modo, che per più secoli
non fa mai tanto timore di Dio quanto in quella Repubblica:
il che facilitò qualunque impresa che il Senato o quelli
grandi uomini romani disegnassero fare. E chi discorrerà
infinite azioni, e del popolo di Roma tutto insieme, e di
molti de* Romani di per sé, vedrà come quelli cittadini te-
mevano più assai rompere il giuramento che le leggi ; come
coloro che stimavano più la potenza di Dio, che quella de-
j gli uomini: come si vede manifestamente per gli esempi di
I Scipione e di Manlio Torquato. Perchè, dopo la rotta che An-
nibale aveva dato a' Romani a Canne, molti cittadini si
erano adunali insieme, e sbigottiti e paurosi * si erano conve-
nuti abbandonare l'Italia, e girsene in Sicilia: il che sen-
tendo Scipione, gli andò a trovare, e col ferro ignudo in
mano gli costrinse a giurare di non abbandonare la patria.
Lucio Manlio, padre di Tito Manlio, che fu di()oi chiamato
Torquato, era sialo accusato da Marco Pomponio, Tribuno
della plebe; ed innanzi che venissi il di del giudizio, Tito
andò a trovare Marco, e minacciando d'ammazzarlo se non
giurava di levare l'accusa al padre, lo costrinse al giura-
mento; e quello, per timore avendo giurato, sii levò l'ac-
cusa. E così quelli cittadini i quali l'amore delia patria e lo
leggi di quella non ritenevano in Ilalia, vi furon ritenuti da
. uno giuramento che furono forzati a pigliare ; e quel Tribuno
^ <tfj, i*^ pQgg jjjj pflrie r odio che egli aveva col padre, la ingiuria che
i^^f^ gli aveva fatta il figliuolo, e l'onore suo, per ubbidire al
• * 0t«^- giuramento preso: il che non nacque da altro, che da quella
t^ è^'^\ * L' edii. del Biado legge : sbigottiti ilcl/a patria j e 1' esemplare della Tr-
/V**' *''"' ^^ "*'' consultato, ci offre, a penna però, la stessa variante. E facile clic il
^« J Machiavelli avesse scritto : sbigottiti della paura.
LIBRO PRIMO. liO
religione die Numa aveva inlrodolla in quella cillà. E ve-
desi, chi considera bene le istorie romane, quanto serviva la
religione a comandare agli eserciti, a riunire la Plebe, a
mantenere gli uomini buoni, a fare vergognare li tristi.
Talché, se si avesse a dispulare a quale principe Roma fusse
più obbligala, o a Romolo o a Numa, credo più tosto Nu-
ma otterrebbe il primo grado: perchè dove è religione, fa-
cilmente si possono introdurre l' armi ; e dove sono 1' armi e
non religione, con dilTicultà si può introdurre quella. E si
vede che a Romolo per ordinare il Senato, e per fare altri
ordini civili e militari, non gli fu necessario dell'autorità di
Dio; ma fu bene necessario a Numa, il quale simulò di avere
congresso con una Ninfa, la quale lo consigliava di quoUo
ch'egli avessi a consigliare il popolo: e tutto nasceva per-
chè voleva mettere ordini nuovi ed inusitati in quella città, e
dubitava che la sua autorità non bastasse. E veramente, mai
non fu alcuno ordinatore di leggi straordinarie in uno po-
polo, che non ricorresse a Dio ; perchè altrimenle non sa-
rebbero accettate: perchè sono molti beni conosciuti da uno
prudente, i quali non hanno in sé ragioni evidenti da poter-
gli persuadere ad altri. Però gli uomini savi, che vogliono
tórre questa difilcultà, ricorrono a Dio. Così fece Licurgo,
cosi Solone, cosi molti altri che hanno avuto il medesimo
fine di loro. Ammirando, adunque, il Popob romano la bontà
e la prudenza sua, cedeva ad ogni sua deliberazione. Ben
è vero che Tessere quelli tempi pieni di religione, e quelli
uomini, con i quali egli aveva a travagliare, grossi, gli det-
lono facilità grande a conseguire i disegni suoi, potendo im-
primere in loro facilmente qualunche nuova forma. E senza
dubbio, chi volesse ne' presenti tempi fare una repubblica,
più facilità troverebbe negli uomini montanari, dove non è
alcuna civililà, che in quelli che sono usi a vivere nelle città,
dove la cìvilità è corrotta : ed uno scultore trarrà più facil-
mente una bella statua d' uno marmo rozzo, che d'uno male
abbozzato d' altrui. Considerato adunque tutto, conchiudo
che la religione introdotta da Numa fu intra le prime cagioni
della felicità di quella città : perchè quella causò buoni or-
dini; i buoni ordini fanno buona fortuna; e dalla buona for-
120 DEI DISCOUSI
(una nacquero i felici saccessi delle imprese. E come la os-
servanza del culto divino è cagione della grandezza delle
repubbliche, cosi il dispregio di quella è cagione della rovina
d'esse. Perchè, dove manca il Umore di Dio, conviene che
0 quel regno rovini, o che sia sostenuto dal timore d'un
principe che supplisca a' difetti della religione. E perchè i
principi sono di corta vita, conviene che quel regno manchi
presto, secondo che manca la virtù d' esso. Donde nasce
^ che i regni i quali dependono solo dalla virtù d'uno uomo,
i sono poco durabili, perchè quella virtù manca con la vita di
I quello ; e rade volle accade che la sia rinfrescata con la suc-
cessione, come prudentemente Dante dice:
Rade volte discende per li rami
L'umana probitate; e questo vuole
Quel che la dà, perchè da lui si chiami.
Non è, adunque, la salale di una repabblica o d'uno regno
avere uno principe che prudentemente governi mentre vive ;
ma uno che l'ordini in modo, che, morendo ancora, la si man-
tenga. E benché agli uomini rozzi più facilmente si persuade
uno ordine o una oppinione nuova, non è per questo impossi-
bile persuaderla ancora agli uomini civili, e che si presumono
non essere rozzi. Al popolo di Firenze non pare essere né
ignorante né rozzo: nondimanco da frale Girolamo Savona-
ì rola fu persuaso che parlava con Dio. Io non voglio giudi-
' care s'egli era vero o no, perché d'un tanto uomo se ne
i debbe parlare con reverenza : ma io dico bene, che infiniti Io
credevano, senza avere visto cosa nessuna istraordinaria da
farlo loro credere; perchè la vita sua, la dottrina, il soggetto
che prese,. erano sulTìzienli a fargli prestare fede. Non sia,
pertanto, nessuno che si sbigottisca di non potere conseguire
quello che è stato conseguito da altri; perchè gli uomini,
come nella Prefazione nostra si disse, nacquero, vissero e
morirono sempre con un medesimo ordine.
LIBRO PRIMO. 421
Cap. XII. — Di quanta importanza sia tenere conto della re-
ligione, e come la Italia per esserne mancata mediante la
Chiesa romana, è rovinala.
Quelli principi , o quelle repubbliche , le quali si vo-
gliono mantenere incorrolle, hanno sopra ogni altra cosa a
mantenere incorrotte le cerimonie della religione, e tenerle
sempre nella loro venerazione; perchè nissuno maggiore in-
dizio si puole avere della rovina d'una provincia, che ve-
dere dispregiato il culto divino. Questo è facile a intendere,
conosciuto .che si è in su che sia fondata la religione dove
r uomo è nato; perchè ogni religione ha il fondamento della
vita sua in su qualche principale ordine suo. La vita della
religione gentile era fondata sopra i responsi delti oracoli,
e sopra la setta delli arioli e delli aruspici: tutte le altre
loro cerimonie, sacrifici!, riti, dependevano da questi; per-
chè loro facilmente credevano che quello Dio che ti poteva
predire il tuo futuro bene o il tuo futuro male, te lo potessi
ancora concedere. Di qui nascevano i tempii, di qui i sacri-
ficii, di qui le supplicazioni, ed ogni altra cerimonia in
venerarli : perchè l'oracolo di Delo, il tempio di Giove Am-
mone, ed altri celebri oracoli, tenevano il mondo in ammi-
razione, e devoto. Come costoro cominciarono dipoi a par-
lare a modo de' polenti, e questa falsità si fu scoperta ne'
popoli, divennero gli uomini increduli, ed atti a perturbare
ogni ordine buono. Debbono, adunque, i Principi d'una repub-
blica o d' un regno, i fondamenti della religione che loro ten-
gono, mantenerli; e fatto questo, sarà loro facil cosa a man-
tenere la loro repubblica religiosa, e, per conseguente, buona
ed unita. E debbono, tutte le cose che nascono in favore di
quella, come che le giudicassino false, favorirle ed accre-
scerle; e tanto più lo debbono fare, quanto più prudenti
sono, e guanto più conoscitori delle cose naturali. E perchè
questo modo è stato osservato dagli uomini savi, ne è nata
l'oppinione dei miracoli, che si celebrano nelle religioni
eziandio false: perchè i prudenti gli aumentano, da qua-
lunche principio e' si nascano ; e l' autorità loro dà poi a
11
d23 DEI DISCORSI
quelli fede appresso a qualunque. Di questi miracoli ne fu a
Roma assai; e intra gli altri fu, che saccheggiando i soldati
romani la città de' Veienti, alcuni di loro entrarono nel tcm-
r pio di Giunone, ed accostandosi alla immagine di quella, e
\ dicendole vis venire Romarriy parve ad alcuno vedere che la
\ accennasse; ad alcun altro, che ella dicesse di sì. Perchè.
^ sendo quelli uomini ripieni di religione (il che dimostra
Tito Livio, perchè nell'entrare nel tempio, vi entrarono senza
tumulto, tutti devoti e pieni di reverenza), parve loro udire
quella risposta che alla domanda loro per avventura si ave-
vano presupposta: la quale oppinione e credulità, da Cam-
■Dillo e dagli altri principi della città fu al tutto favorita ed
accresciuta. La quale religione se ne* Principi della repub-
blica cristiana si fussc mantenuta, secondo che dal datore
d'essa ne fu ordinato, sarebbero gli slati e le repubbliche
cristiane più unite e più felici assai ch'elle non sono. Né si
può fare altra maggiore conieltura della declinazione d'essa,
quanto è vedere come quelli popoli che sono più propinqui
\alla Chiesa romana, capo della religione nostra, hanno
{meno religione. E chi considerasse i fondamenti suoi, e ve-
desse l'aso presente quanto è diverso da quelli, giudiche-
] rebbe esser propinquo, senza dubbio, o la rovina o il flagello.
: E perchè sono alcuni d' oppinione, che 'I ben essere delle
cofec d' Italia dipende dalla Chiesa di Roma, * voglio contro
ad essa discorrere quelle ragioni che mi occorrono : e ne al-
legherò due poicniissime, le quali, secondo me, non hanno
repugnanza. La prima é, che per gli esempi rei di quella
corte, questa provincia ha perduto ogni divozione ed ogni
religione: il che si tira dietro infiniti inconvenienti e infi-
niti disordini; perchè, cosi come dove è religione si presup-
pone ogni bene, cosi dove ella manca si presuppone il con-
trario. Abbiamo, adunque, con la Chiesa e con i preti noi
' Da questo luogo tino al leguente perìodo Questo e che la Chiesa, l'edìx.
Romana compeodia , e muta quasi in apologia la gravissima inrolpazione , cosi :
forse SI patria dire il contrario, avendo rispetto però a quelli che in essa Chiesa
Romana non servano tutti quelli precetti che debbono servare» anzi vengono ad
adulterare li tanti et catolici inxtituti, li quali sono stati osservali. Et olir a
questo ee. Ma ti noti cb* essa lascia interamente sussistere , dalla voce nostra
(provincia} in fuori, la seconda e non meno terribile accusa.
LIBRO PRIMO. 423
llaliani qaeslo primo obbligo, d'essere diventati senza reli-
gione e cattivi: ma ne abbiamo ancora un maggiore, il
quale è cagione della rovina nostra. Questo è che la Chiesa
ha tenuto e tiene questa nostra provincia divisa. E vera-
mente, alcuna provincia non fu mai unita o felice, se la non
viene tutta alla obedienza d' una repubblica o d' uno prin-
cipe, come è avvenuto alla Francia ed alla Spagna. E la ca-
gione che la Italia non sia in quel medesimo termine, né
abbia anch' ella o una repubblica o uno principe che la go-
verni, è solamente la Chiesa: perchè, avendovi abitato e le-
rjuto imperio temporale, non è stata sì potente né di tal
virtù, che T abbia potuto occupare il restante d'Italia, e far-
sene principe; e non ostata, dall'altra parte, si debile, che,
per paura di non perdere il dominio delle cose temporali, la.
non abbi potuto convocare uno potente che la difenda centra
a quello che in Italia fusse diventato troppo potènte: come
si è veduto anticamente per assai esperienze, quando me-
diante Carlo Magno la ne cacciò i Lombardi, ch'erano già
quasi re di tutta Italia; e quando ne* tempi nostri ella tolse
la potenza a' Veneziani con l' aiuto di Francia ; dipoi ne cac-
ciò 1 Franciosi con l'aiuto de'Svizzeri. Non essendo, dunque,
stata la Chiesa potente da potere occupare l'Italia, né avendo
permesso che un altro la occupi, è stala cagione che la non
è potuta venire sotto un capo ; ma è stata sotto più principi
e signori, da' quali è nata tanta disunione e tanta debolezza,
che la si è condotta ad essere slata preda, non solamente
di Barbari potenti, ma di qualunque l'assalta. Di che noi
altri Italiani abbiamo obbligo con la Chiesa, e non con al-
tri. E chi ne volesse per esperienza certa vedere più pronta
la verità, bisognerebbe che fusse di tanta potenza, che man-
dasse ad abitare la corte romana, con l'autorità che l'ha in
Italia, in le terre de'Svizzeri; i quali oggi sono quelli soli
popoli che vivono, e quanto alla religione e quanto agli or-
dini militari, secondo gli antichi: e vedrebbe che in'poco
tempo farebbero più disordine in quella provincia i costumi
tristi di quella corte, che qualunche altro accidente che in
qualunche tempo vi potessi surgere.
Ì^À DEI DISCORSI
Gap. XIII. — Come i Romani si servirono della religione per or-
dinare la ciuà, e per seguire le loro imprese o fermare i (u-
mulli.
Ei non mi pare fuor di psoposilo addurre alcuno csiMn-
pìo dove i Romani si servirono della religione per riordinare
la ciUà, e per seguire l'imprese loro; e quantunque in
Tilo Livio ne siano molli, nondimeno voglio essere conlento
a quesli. Avendo crealo il Popolo romano i Tribuni, di poic-
sia consolare, e, fuorché uno, lulli plebei; ed essendo oc
corso quello anno peste e fame, e venuti certi prodigii ; uso-
rono questa occasione i Nobili nella nuova creazione de* Tri-
buni, dicendo che li Dii erano adirali per aver Roma male
usata la maestà del suo imperio, e che non era altro rime-
dio a placare gli Dii, che ridurre la elezione de'Tribuni nel
luogo suo: di che nacque che la Plebe, sbigottita da questa
religione, creò i Tribuni tutti nobili. Vedesì ancora nella
espugnazione della città de'Veienti, come i capiiani degli
eserciti si valevano della religione per tenergli disposti ad
una impresa : che essendo il lago Albano, quello anno, crc-
scialo mirabilmente, ed essendo i soldati romani inTasliditi
per la lunga ossidione, e volendo tornarsene a Roma, tro-
varono i Romani, come Apollo e certi altri responsi dice-
vano che quell'anno si espugnerebbe la ciltà de'Veienti,
che si derivasse il lago Albano : la qual cosa fece ai soldati
sopportare i fastidi della guerra e delia ossidione, presi da
questa speranza di espugnare la terra ; e slettono contenti a
seguire la impresa, tanto che Cammillo fatto Dittatore cspu-
. gnò delta città, dopo dieci anni che l'era stata assediata. E
1 cosi la religione, usata bene, giovò e per la espugnazione di
^ quella città, e per la restituzione dei Tribuni nella Nobillà :
che senza detto mezzo diflìcilmente si sarebbe condotto e
I r uno e r altro. Non voglio mancare di addurre a questo pro-
posito un altro esempio. Erano naii in Roma assai tumulti
per cagione di Terentillo Tribuno, volendo lui promulgare
certa legge, per le cagioni che di sotto nel suo luogo si di-
ranno; e tra i primi rimedi che vi usò la Nobillà, fu la rcli-
LIBRO PRIMO. l25
gione : della quale si servirono in duo modi. Nel primo fe-
cero vedere i libri Sibillini, e rispondere, come alla città,
mediante la civile sedizione, soprastavano quello anno peri-
coli di non perdere la libertà : la qual cosa, ancora che fusse
scoperta da' Tribuni, nondimeno messe tanto terrore ne' petti
della Plebe, che la ralTreddò nel seguirli. L'altro modo fu,
che avendo uno Appio Erdonio, con una moltitudine di
sbanditi e di servi, in numero di quattromila uomini, occu-
pato di nelle il Campidoglio, in tanto che si poteva temere,
«hesegli Equi ed i Volsci, perpetui nemici al nome romano,
ne fossero venuti a Roma, la arebbono espugnata; e non
cessando i Tribuni per questo di insistere nella pertinacia
loro di promulgare la legge Terentilla, dicendo che quello
insulto era fittizio e non vero : uscì fuori del Senato uno Pu-
blio Rubezio, cittadino grave e di autorità, con parole parje
amorevoli, pajte minaccianti, mostrandoli i pericoli della
cìTlàT^ la intempestiva domanda loro; tarlo che e' con-
strinse la Plebe a giurare di non si partire d^Ua voglia del
Consolo: onde che la Plebe obediente, per forza ricuperò il
Campidoglio. Ma essendo in tale espugnazione morto Publio
Valerio consolo, subito fu rifallo cor'.solo Tito Quinzio; il
quale per non lasciare riposare la ì?lebe, né darle spazio a
ripensare ?.lla legge Terentilla, le comandò s'uscissi di
Roma per andare conira a* Volsci, dicer?do che per quel giu-
ramento aveva fatto di non abbandonare il Consolo, era ob-
bligata a seguirlo; a che i Tribuni si opponevano, dicendo
come quel giuramento s'era dato al Consolo morto, e non a
lui. Nondimeno Tito Livio mostra, come la Plebe per paura
della religione volle più presto obedire al Consolo, che cre-
dere a' Tribuni ; dicendo in favore della antica religione que-
ste parole: Nondum Iicec, quoe nunc lerelscoculum.neijUgcnlia
Deùm venerai, nec inlerprctando sibi quisque jw^jurandum et
le(jes aplas faciebal. Per la qual cosa dubitando i Tribuni di
non perdere allora tutta la lor degnila,* sì accordarono col
Consolo di stare alla obedienza di quello ; e che per uno anno
non si ragionasse della legge Terentilla, ci i Consoli per uno
anno non potessero trarre fuori la Plebe alla guerra. E cosi
* Male ncH'ciliz. ilei DuUaii, e nella Testina: /a loro libertà.
Il*
1:26 DEI DISCORSI
la religione fece al Senato vincere quella difficuUà, che
senza essa mai non arebbe vinto.
Cap. XIV. — / lìomani inlerprelavano gli auspicii secondo (a
necessilà, e con la prudenza mostravano di osservare la
religione, quando forzali non V osservavano ; e se alcuno
lemerariamenle la dispregiava, lo punivano.
Non solamente gli aagarii, come di sopra si è discorso,
erano il fondamento in buona parte dell' antica religione de'
Gentili, ma ancora erano quelli che erano cagione del bene
essere della Repubblica romana. Donde i Romani ne avevano
più cura che di alcuno altro ordine di quella; ed usavangli
ne' cornili consolari, nel principiare le imprese, nel Irar
fuori gli eaerctli, nel fare le giornate, ed in ogni azione loro
importante, o civile o militare ; né mai sarebbono iti ad una
espedizione, che non avessino persuaso ai soldati che gli Dei
promcllevaoQ loro la vittoria. Ed infra gli altri auspicii, ave-
vano negli eseri: ili ccrli ordini di aruspici, * che e'chiamavano
Pollarli : e qualunque volta eglino ordinavano di fare la gior-
nata col nemico, volevano che i Pollarii facessino i loro au-
spicii ; e beccando i poMi, combattevano con buono augu io;
non beccando, si asteneva^no dalU xofla. Nondimeno, quando
la ragione mostrava loro una cosa «fofersi fare, non ostante
che gli auspicii fossero avversi, la facevano in ogni modo;
ma rivoltavanla con termini e modi tanto attamente, che non
paresse che la facessino con dispregio della religione: il
quale termine fu usalo da Papirìo consolo in una zuffa che
fece importantissima coi Sanniti, dopo la quale restorno in
lutto deboli ed afflitti. Perchè, sendo Papirio in su' campi
rincontro ai Sanniti, e parendogli avere nella zuffa la vitto-
ria certa, e volendo per questo fare la giornata, comandò ai
Pollarii che facessino i loro auspicii ; ma non beccando i poi*
li, e veggendo il principe de' Pollarii la gran disposizione
* Le edicipni che d servono di riscontro hanno tnlte » /ra gli altri ariupi-
cii (o aruspici) avevano .. certi ordini di atispiciii e quella del Biado ambedue
le volte: aitspicii. La nostra correzione non ba, ci $eni)>ra , bisogno di essere
giu&liGcala.
LIBRO PRIMO. d27
dello esercito di comballere, e la oppinione che era nel capi-
Uino ed in tulli i soldati di vincere, per non tórre occasione
di bene operare a quello esercito, riferi al Consolo come gli
auspicii procedevano bene: talché Papirio ordinando le squa-
dre, ed essendo da alcuni de' Pollarii dello a certi soldati, i
polli non aver beccalo, quelli lo dissono a Spurio Papirio
nipote del Consolo ; e quello riferendolo al Consolo, rispose
subilo, ch'egli adendesse a fare l'ofiTizio suo bene, e che
quanto a lui ed allo esercito gli auspicii erano retti ; e se il
Pollarlo aveva detto le bugie, ritornerebbono in pregiudicio
suo. E perchè lo effetto corrispondesse al pronostico, comandò
ai legali che consliluissino i Pollarii nella prima fronte della
zuffa. Onde nacque che, andando conlra ai nemioi, sendo da
un soldato romano tratto uno dardo, a caso ammazzò il prin-
cipe de' Pollarii : la qual cosa udita il Console, disse come
ogni cosa procedeva bene, e col favore degli Dii ; perchè Io
esercito con la morte di quel bugiardo si era purgato da ogni
colpa, e da ogni ira che quelli avessino preso conlra di lui.
E cesi, col sapere bene accomodare i disegni suoi agli auspi-
cii, prese parlilo di azzuffarsi, sen ',a che quello esercito si
avvedesse che in alcuna parte quello avesse negletti gli or-
dini della loro religione. Al coptrario fece Appio Pulcro in
Sicilia, nella prima gwe.rra punica: che volendo azzuffarsi
con l'esercito cartaginese, fece fare gli auspicii a' Pollarii; e
referendogli quelli, come i polli non beccavano, disse: veggìa-
mo se volessero bere ; e gli fece gitlare in mare. Donde che,
azzuffandosi, perdette la giornata : di che egli ne fu a Roma
condennato, e Papirio onorato: non tanto per aver l'uno vinto
e l'altro perduto,' quanto per aver l'uno fallo conlra agli
auspicii prudentemente e l' altro temerariamente. Né ad al-
tro fine tendeva questo modo dello aruspicare, che di fare i
soldati confidenlemenle ire alla zuffa; dalla quale confidenza
quasi sempre nasce la vittoria. La qual cosa fu non solamente
usata dai Romani, ma dalli esterni: di che mi pare di ad-
durre uno esempio nel seguente capitolo.
* Così nella Romana. Nelle allre: l' uno perduto e V allrò vinto.
1^8 I>G1 DISCORSI
Gap. XV. — Come t Sannili , per estremo rimedio alle cose
loro affline, rieorsono alla religione.
Avendo i Sanniti avole più rolle dai Romani, ed o^.
sendo slati per oltiroo diblralti in Toscana, e morti ì loto
eserciti e gli loro capitani ; ed «$scndo stali vinti i loro com-
pagni, come Toscani, Franciosi ed Umbri; nee mii , n^ ex»
Icmit virUfUi jam tiare p^leranl : (amen hello non «(fMlilkaiiI,
adeo ne infeliciler quidem defensa liberlatis Ictdrbat, ti vinci,
quam non Untare vicloriam» malebant. Onde deliberarono far-
ultima pfjva: e perchè ei sapevano che a voler vincere
era necessario indarre ostinazione necli animi de* soldati, e
che a indarla non v' era mislinr mezzo che la religione ;
pensarono di ripeCefa «so antico loro sacrifìcio, mediante
Ovio Faccio, lora aaetffdote. Il qaale ordinarono in questa
Torma : che, fallo il sacrifìcio solenne, e fatto intra le vittime
morte e gli ailari i cesi giurare tatti i capi dello esercito
di non abbandonare mai la lufla, citarono i soldati ad ano
ad ano; ed intra qaelli altari, nel mezzodì più centurioni con
le spade nude in mano, gli facevano prima giurare che non
ridirebbono tota ebt vedessino o sontissino ; dipoi, con parole
esecrabili e versi pieni di apavea(o« gli facevano giurare e
promettere agli Dii, d'eaiere presti dove gli imperadori gli
comandassino, e di non si fogsire mai dalla zu(T^, e d'am-
mazzare qualunque vedessino che si fuggisse : la qual cosa
non osservata, tornasse sopra il capo della sua famiglia e
della soa stirpe. Ed essendo sbigottiti alcuni di loro, non vo-
lendo giurare, subito da* loro centurioni erano morti ; talché
gli altri che succedevano poi, impauriti dalla ferocità dello
spettacolo, giurarono tutti. E per fare questo loro assembra-
mento più magnifìco, scodo quarantnmiia uomini, ne vesti-
rono la metà di paoni bianchi, con creste e pennacchi sopra
le celale ; e cosi ordinati si posero presso ad Aquilonia. Con*
Ira a costoro venne Papirìo; il quale, nel confori^ire i suoi sol*
dati, disse: Aon enim eritlas vulnera fncere^ et pietà atque
aurata scula Iransire romanum pileum. E per debilitare la op-
pinionc che avevano i suoi soldati de'nemici per il giuramcnlu
LIBRO PRIMO. 129
preso, disse che quello era "per essere loro a timore, non a for-
tezza; perchè in quel medesimo tempo avevano avere paura
de'ciltadini, degli Dii, e de'nimici. E venuti al conflitto, fu-
rono superali i Sanniti; perchè la virtù romana, ed il timore
conceputo per le passate rotte, superò qualunque ostinazione
ei potessino avere presa per virtù della religione e per il
giuramento preso. Nondimeno si vede come a loro non parve
potere avere altro rifugio, né tentare altro rimedio a poter
pigliare speranza di ricuperare la perduta virtù. Il che testi-
fica appieno, quanta confidenza si possa avere mediante la
religione bene usata. E benché questa parte piuttosto, per
avventura, si richiederebbe esser posta intra le cose estrinse-
che; nondimeno, dependendo da uno ordine de'più importanti
della Repubblica di Roma, mi é parso da commetterlo in
questo luogo, per non dividere questa materia, ed averci a
ritornare più volte.
Gap. XVI. — Un popolo uso a vivere soUo un principe^ se
per qualche accidente diventa Ubero, con di jficuUà mantiene
la libertà.
Quanta difficultà sia ad uno popolo uso a vivere sotto
un principe, preservare dipoi la libertà, se per alcuno acci-
dente l'acquista, come l'acquistò Roma dopo la cacciata de'
Tarquini; lo dimostrano infiniti esenip' che si leggono nelle
memorie delle auliche istorie. E tale dillìcollà è ragionevo-
le; perchè quel popolo è non altrimenti che uno animale bru-
to, il quale, ancora che di feroce natura e silvestre, sia stalo
nudrilo sempre in carcere ed in servitù, che dipoi lasciato a
sorte in una campagna libero, non essendo uso a pascersi,
né sappiendo le latebre dove si abbia a rifuggire, diventa
preda del primo che cerca rincalenarlo. Questo medesima
interviene ad uno popolo, il quale sondo uso a vivere sotto
ì governi d'altri, non sappiendo ragionare né delle difese o
offese pubbliche, non cognoscendo i principi né essendo co-
nosciuto da loro, ritorna presto sotto un giogo, il quale il
più delle volte è più grave che quello che per poco innanzi *
* La Blailiana : c/ie pocr innanzi
J30 DEI DISCORSI
si aveva levalo d'in su 'I collo: e trovasi in queste diflìcullà,
ancora che la materia non sia in tulio corrotta; perchè in *
t uno popolo dove in lutto è entrata la corruzione, non può,
non che picciol tempo, ma punto vivere libero, come di
solto si discorrerà: e però ì ragionamenti nostri sono di
quelli popoli dove la corruzione non sia ampliala assai, e
dove sia più del buono cfie dèi gu;r5Tò7^ggiurig:esi alla so-
prascritta, un'altra diflìcullà; la quate è, che lo sialo che
diventa libero, si fa partigiani nemici, e non partigiani
amici. Partigiani nemici gli diventano tutti coloro che dello
slato tirannico si prevalevano, pascendosi delle ricchezze
del principe; a'quali sendo tolta la facultà del valersi, non
possono vivere contenti, e sono forzali ciascuno di tentare
I di riassumere la tirannide, per ritornare neir autorità loro.
Non si acquista, come ho dello, partigiani amici; [)crchè il
vivere libero propone onori e prcmii, medianti alcune oneste
e determinate cagioni, e fuori di quelle non premia ne onora
t^ L alcuno; ^ quando uno ha quelli onori e quelli utili che gli
M^ I pare meritare, non confessa avere obbligo con coloro che lo
rimunerano. Oltre a questo, quella comune utilità che del
vivere libero si trae, non è da alcuno, mentre che ella si
possiede, conosciuta: la quale è di potere godere liberamente
le cose sue senza alcuno sospetto, non dubitare dell'onore
delle donne, di quel de* figliuoli, non temere di sé; perchè
nissuno confesserà mai aver obbligo con uno che non l'of-
fenda. Però, come di sopra si dice, viene ad avere lo stalo
libero e che di nuovo surge, partigiani nemici, e non parti-
giani amici. E volendo rimediare a questi inconvenienti, e a
quegli disordini che le soprascritte diflìcullà si arrechereb-
/ f bono seco, non ci è più potente rimedio, né più valido, né
più sano, né più necessario, che ammazzare i figliuoli di
Bruto: i quali, come l'istoria mostra, non furono indotti,
insieme con altri gioveni romani, a congiurare contra alla
patria per altro, se non perché non si potevano valere
f straordinariamente sotto i Consoli, come sotto i Re; in modo
che la libertà di quel popolo pareva che fosse diventata la
loro servitù. E chi prende a governare una moltitudine, o
' Questo in , di tulle le cdiziooi , è , chi Lene vi guardi , apposticelo.
Jif
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1
LIBRO PRIMO. i31
per vìa dì libertà o per vìa dì principato, e non si assicura
di coloro che a quell'ordine nuovo sono nemici, fa uno slato
di poca vita. Vero è ch'io giudico infelici quelli principi,
che per assicurare lo stalo loro hanno a tenere vie straordi-
narie, avendo per nenaici la moltitudine: perchè quello che
ha per nemici i pochi, facilmente, e senza molti scandali, si
assicura; ma chi ha per nemico l'universale, non si assicura
mai; e quanta più crudeltà usa, tanto diventa più debole il
suo principalo. Talché il maggior rimedio che si abbia, è J
cercare di farsi il popolo amico. E benché questo discorso
sia disforme dal soprascritto, parlando qui d* un principe e
quivi d'una repubblica ; nondimeno, per non avere a tornare
più in su questa materia, ne voglio parlare brevemente.
Volendo, pertanto, un prìncipe guadagnarsi un popolo che gli
fusse nemico, parlando di quelli principi che sono diventati
della loro patria tiranni; dico ch'ei debba esaminare prima
quello che il popolo desidera, e troverà sempre ch'ei desi-
dera due cose: l'una vendicarsi contro a coloro che sono
cagione che sia servo; l'altra di riavere la sua libertà. Al
primo desiderio il principe può satisfare in tutto, al secondo
in parte. Quanto al primo, ce n'é lo esempio appunto. Clear-
co, tiranno di Eraclea, sendo in esilio, occorse che, per
controversia venuta intra il popolo e gli ottimati dì Eraclea,
* veggendosi gli ottimati inferiori, si volsono a favorire Clear-
co, e congiuratisi seco lo missono, centra alla disposizione
popolare, in Eraclea, e tolsono la libertà al popolo. In modo
che, trovandosi Clearco intra la insolenzia degli ottimati, i
quali non poteva in alcun modo né contentare né corregge-
re, e la rabbia de'popolari, che non potevano sopportare lo
avere perduta la libertà, deliberò ad un tratto liberarsi dal
fastidio de'grandi , e guadagnarsi il popolo. E presa sopra
questo conveniente occasione, tagliò a pezzi tutti gli ottimati,
con una estrema satisfazione de' popolari. E così egli per
questa vìa satisfece ad una delle voglie che hanno i popoli,
cioè di vendicarsi. Ma quanto all'altro popolare desiderio di
riavere la sua libertà, non potendo il principe satisfargli,
* Qui la Bladiana ripete superfluamente il che, secondo il vezzo, in specie,
del secolo XV , nel quale il nostro Autore era nato.
iS'ì DEI DISCORSI
debbe esaminare quali cagioni sono quelle che gli fanno de-
siderare d'essere liberi; e Iroverà che una piccola parie di
loro desidera d'essere libera per comandare; ma talli gli al-
tri, che sono infiniti, desiderano la libertà per vivere securi
Perchè in tutte le repubbliche, in qualunque modo ordinate,
ai gradi del comandare non aggiungono mai quaranta o cin-
quanta cittadini: e perchè questo è piccolo numero, è facil
cosa assicurarsene, o con levargli via, o con far lor parte
di tanti onori, che secondo le condizioni loro essi abbino in
buoua parte a contentarsi. Quelli altri, ai quali basta vivere
securi, si satisfanno facilmente, facendo ordini e leggi, dove
insieme con la potenza sua si comprenda la sicurità univer-
sale. E quando uno principe faccia questo, e che il popolo
vegga che per accidente nessuno ei non rompa tali legtti,
comincerà in breve tempo a vivere securo e conlento. In
esempio ci è il regno di Francia, il quale non vive securo
l>er altro, che per essersi quelli re obbligali ad infinite leg-
gi, nelle quali si comprende la securtà di lutti i suoi popoli.
E chi ordinò quello stalo, volle che quelli Re, dell'arme e
del danaio facessino a loro modo, ma che d'ogni altra cosa
non ne potessino altrimenti disporre che le leggi si ordinas-
sino. Quello principe, adunque, o quella repubblica che non
si assicura nel principio dello slato suo, conviene che si as-
sicuri nella prima occasione, come fecero i Romani. Chi
lascia passare quella, si pente tardi di non aver fallo quello
che doveva fare. Scndo, pertanto, il popolo romano ancora
non corrotto quando ei recuperò la libertà, potette mante-
nerla, morti i figliuoli di Bruto e spenti i Tarquini, con
tulli quelli rimedi ed ordini che altra volta si sono discorsi.
Ma se fusse stato quei popolo corrotto, né in Roma né altrove
si trovano ^ rimedi validi a mantenerla; come nel seguente
capitolo mostreremo.
* Coti la Romana e la Testina ; le altre : si trovavano. Logiramenle però
ne 1* ano ne l' allro soddisfa ; e sarebbe convenuto scrivere t oè io Roma ti tro-
vavano, ne allrore si trovano; o: troverebbero.
LIBRO PRIMO. 133
Gap. XVII. — Uno popolo corrotto, venuto in libertà, si può
con difficoltà grandissima mantenere Ubero.
Io giudico che gli era necessario, o che i Re si eslin-
guessino in Roma, o che Roma in brevissimo lempo div«-,., •'
nissi debole, e di nessuno valore: perchè, considerando a
quanta corruzione erano venuti quelli Re, se fussero segui-
tati cosi due o tre successioni, e che quella corruzione che
era in loro, si fussi cominciata a distendere per le membra;
come le membra fussino state corrotte, era impossibile mai
più riformarla. Ma perdendo il capo quando il busto era in-
tero, poterono facilmente ridursi a vivere liberi ed ordinati.
E debbesi presupporre per cosa verissima, che una città
corrotta che vive sotto un principe, ancora che quel principe
con tutta la sua stirpe si spenga, mai non si può ridurre li-
bera; anzi conviene che 1' un principe spenga l'altro: e senza
creazione d'un nuovo signore non si posa mai, se già la
bontà d'uno, insieme con la virtij, non la tenessi libera; ma
durerà tanto quella libertà, quanto durerà la vita di quello:
come intervenne a Siracusa di Dione e diTimoleone, la virtù
de' quali in diversi tempi, mentre vissero, (enne libera quella
città; morti che furono, si ritornò nell'antica tirannide. Ma
non si vede il più forte esempio che quello di Roma ; la quale
cacciali i Tarquini, potette subito prendere e mantenere
quella libertà : ma morto Cesare, morto Caligula, morto ^Q'ÌAh^^
, rone, spenta tutta la stirpe cesarea, non potette mai, non ,^ tt A
solamente mantenere, ma pure dare principio alia libertà.r ' ^
Né tanta diversità di evento in una medesima città nacque '»' ^
da altro, se non da non essere ne' tempi de' Tarquini il Po-
polo romano ancora corrotto ; ed in questi ultimi tempi essere \^^^^^^
corrottissimo. Perchè allora, a mantenerlo saldo e disposto a
fuggire i Re, bastò solo farlo giurare che non consentirebbe
mai che a Roma alcuno regnasse; e negli altri tempi, non
bastò r autorità e severità di Bruto, con tutte le legioni orien-
tali, a tenerlo disposto a volere mantenersi quella libertà
che esso, a similitudine del primo Bruto, gli aveva renduta. Il / t^
che nacque da quella corruzione che le parti mariane ave- "yj
134 DEI DISCORSI
vano messa nel popolo ; delle quali essendo capo Cesare,
potede accecare quella molliludine, ch'ella non conobbe il
giogo che da sé medesima si metteva in sul collo. E benché
questo esempio di Roma sia da preporre a qualunque al-
tro esempio, nondimeno voglio a questo proposito addurre
innanzi popoli conosciuti ne' nostri tempi. Pertanto dico,
f che nessuno accidente, benché grave e violento, potrebbe
redurre mai Milano o Napoli libere, per essere quelle mem-
bra tutte corrotte. Il che si vide dopo la morte di Filippo
' Visconti ; che volendosi ridurre Milano alla libertà, non po-
tette e non seppe mantenerla. Però, fu felicità grande quella
di Roma, che questi Re diventassero corrotti presto, acciò
ne fussino cacciati, ed innanzi che la loro corruzione fussc
passata nelle viscere di quella città : la quale incorruzione *
fu cagione che gì' infiniti tumulti che furono in Roma,
avendo gli uomini il fine buono, non noccrono, anzi giova-
rono alla Repubblica. E si può fare questa conclusione, che
dove la materia non è corrotta, i tumulti ed altri scandali
non nuocono: dove la ó corrotta, le leggi bene ordinate non
giovano, se già le non son mosse da uno che con una estre-
ma forza lo facci osservare, tanto che la materia diventi buo-
if^f,j^ na. Il che non so se sie * mai intervenuto, o se fusse possi-
bile ch'egli intervenisse: perché e' si vede, come poco di
sopra dissi, che una città venuta in declinazione per corru-
zione di materia, se mai occorre che la si levi, occorre per
, la virtù d'uno uomo eh' è vivo allora, non per la virtù del-
. lo universale che sostenga gli ordini buoni ; e subilo che quel
f*^ \ tale é morto, la si ritorna nel suo pristino abito : come inter-
venne a Tebe, la quale per la virtù di Epaminonda, mentre
lui visse, potette tenere forma di repubblica e di imperio;
ma morto quello, la si ritornò ne' primi disordini suoi. La
cagione è, che non può essere un uomo di tanta vita, che 'I
tempo basti ad avvezzare bene una città lungo tempo male
* La comune delle stampe h» corruzione: T emenda opporlunissima e neces-
saria vedesi nella sola edit. del i813.
S Tutte le edixioni hanno, non bene, al mio credttt : ti i j cbe quando
fosse lezione sincera , com' è coilrullo inusilalo , avrebbe per corrispondente di
sotto : s' intervenisse.
ì
I
LIBRO PRIMO. 135
avvezza. E se uno d'una lunghissima vita, o due successioni
virtuose continove non la dispongono; come una manca di
loro, come di sopra è dello, subilo rovina, se già con molti
pericoli e molto sangue e' non la facesse rinascere. Perchè
tale corruzione e poca attitudine alla vita libera, nasce da una
inequalità che è in quella città; e volendola ridurre equale,
è necessario usare grandissimi estraordinari; i quali pochi
sanno o vogliono usare, come in altro luogo più particolar-
mente si dirà.
Gap. XVIII. — In che modo nelle cillà corrotte si potesse man-
tenere uno stalo libero, essendovi; o non essendovi, ordì-
narvelo.
Io credo che non sia fuori di proposito, né disforme dal
soprascritto discorso, considerare se in una città corrotta si
può mantenere lo stato libero, sendovi; o quando e* non vi
fusse, se vi si può ordinare. Sopra la qual cosa dico, come
gli è molto dilììcile fare o l'uno o l'altro: e benché sia quasi
impossibile darne regola, perché sarebbe necessario proce-
dere secondo i gradi della corruzione; nondimanco, essendo
bene ragionare d'ogni cosa, non voglio lasciare questa in-
dietro. E presuppongo* una cillà corrottissima, donde verrò
ad accrescere più tale dilTicultà; perchè non si trovano jiè
leggi né ordini che bastino a frenare una universale corru-
zione. Perchè, così come gli buoni costumi, per mantenersi,
iranno bisogno delle leggi; cosi le leggi, per osservarsi, hanno
bisogno de'buoni costumi. Oltre di questo, gli ordini e le leggi
fatte in una repubblica nel nascimento suo, quando erano
gli uomini buoni, non sono dipoi più a proposilo, divenuti
che sono tristi. E se le leggi secondo gli accidenti in una
città variano, non variano mai, o rade volte, gli ordini suoi:
il che fa che le nuove leggi non bastano, perché gli ordini,
che stanno saldi, le corrompono. E per dare ad intendere
meglio questa parte, dico come in Roma era l'ordine del
governo, o vero dello stalo; e le leggi dipoi, che con i ma-
gistrati frenavano i cittadini. L'ordine dello slato era l'auto-
* Cosi la Bladiaiia; le altre: prcstipjorrò.
J36 DEI DISCORSI
rilà del Popolo, del Senato, dei Tribani, dei Consoli, il modo
di chiedere e del creare i magistrali, ed il modo di fare le
leggi. Questi ordini poco o nulla variarono nelli accidenli.
Variarono le leggi che frenavano i cittadini; come fu la legge
degli adullcrii, la suntuaria, quella della ambizione, e molle
altre; secondo che di mano in mano i cittadini diventavano
corrotti. Ma tenendo fermi gli ordinr dello stalo, che nella
corruzione non erano più buoni, quelle leggi che si rinno-
vavano, non bastavano a mantenere gli uomini buoni; ma
sarebbono bene giovate, se con la innovazione delle leggi si
russerò rimutati gli ordini. E che sia il vero che tali ordini
nella città corrotta non fussero buoni, e* sì vede espresso in
due capi principali. Quanto al creare i magistrati e le leggi,
non dava il Popolo romano il consolato, e gli altri primi
gradi della città, se non a quelli che lo dimandavano. Que-
sto ordine fu nel principio buono, perchè e* non gli doman-
davano se non quelli cittadini che se ne giudicavano degni,
ed averne la repulsa era ignominioso; si che, per esserne
gfudicai] degni, ciascuno operava bene. Diventò questo modo,
poi, nella città corrotta pcmiziosissimo; perchè non quelli
che avevano più virtù, ma quelli che avevano più potenza,
domandavano i magistrati; e gl'impotenti, comecché virtuosi,
se ne astenevano di domandargli per paura. Vennesi a questo
inconveniente, non ad un tratto, ma per i mezzi, come si
cade in tutti gli nitri inconvenienti: perchè avendo i Romani
domata l'AtTrica e l'Asia, e ridotta quasi tutta la Grecia a
sua obidienza, erano divenuti sicuri della libertà loro, nò
pareva loro avere più nimici che dovessero fare loro paura.
Questa securtà e questa debolezza de'nemici fece che il Po-
polo romano, nel dare il consolato, non riguardava più la vir-
tù, ma la grazia; tirando a quel grado quelli che meglio sa-
pevano intrattenere gli uomini, non quelli che sapevano
meglio vincere i nemici: dipoi da quelli che avevano più gra-
zia, discesero a dargli a quelli che avevano più potenza;
talché i buoni, per difetto di tale ordine, ne rimasero al tutto
esclusi. Poteva uno Tribuno, e qualunque altro cittadino,
proporre al Popolo una legge; sopra la quale ogni cittadino
poteva parlare, o in favore o incontro, innanzi che la si de-
LIBRO PRIMO. ì'Sl
liberasse. Era queslo ordine buono, quando i ciUadini erano
buoni; perchè scinj^re fu bene, che ciascuno che intende uno
bene per il pubblico, Io possa proporre; ed è bene che cia-
scuno sopra quello possa dire l'oppinione sua, acciocché il
Popolo, inleso ciascuno, possa poi eleggere il meglio. Ma di-
veniali i ciUadini caltivi , divenlò tale ordine pessimo; per-
chè solo i polenti proponevano leggi , non per la comune li-
bertà, ma per la potenza loro; e contra a quelle non poteva
parlare alcuno per paura di quelli: talché il Popolo veniva o
ingannato o sforzato a deliberare la sua rovina. Era necessa-
^rìoTpérianto, a volere che Roma nella corruzione si mante-
nesse libera, che, cosi come aveva nel processo del vivere ^ ,
suo falle nuove leggi, l'avesse fatti nuovi ordini: perché allri,^*'^'^ ^
ordini e modi di vivere si debbe ordiriafé in uno soggetto cai- I/vl. • /^
iivo, che in un buono; né può essere la forma simile in una ^, jc/JU
materia al tutto contraria. Ma perchè questi ordini, o e'si 1 ^
hanno a rinnovare tutti ad un tratto, scoperti che sono non'^
esser più buoni, o a poco a poco, in prima che si conoschino •'"***
per ciascuno; dico che T una e l'altra di queste due cose è
quasi impossibile. Perchè, a volergli rinnovare a poco a poco,
conviene che ne sia cagione uno prudente, che veggia questo
inconveniente assai discosto, e quando e' nasce. Di questi
tali è facilissima cosa * che in una città non ne surga mai
nessuno : e quando pure ve ne surgesse , non potrebbe per-
suadere mai ad altrui quello che egli proprio intendesse ;
perchè gli uomini usi a vivere in un modo, non lo vogliono
variare; e tanto più non veggendo il male in viso, ma avendo
ad essere loro mostro per conietlure . Quanto ad innovare
questi ordini ad un tratto, quando ciascuno conosce che non
sono buoni, dico che questa inutilità , che facilmente si co-
nosce, è dilTicile a ricorreggerla : perchè a fare questo, non
basta usare termini ordinari, essendo i modi ordinari catti-
vi ; ma è necessario venire allo istraordinario , come è alla
violenza ed all'armi, e diventare innanzi ad ogni cosa prin-
cipe di quella città, e poterne disporre a suo modo. E perchè
il riordinare una cillà al vivere politico presuppone uno uomo
* La Romana soltanto ci offre la seguente interpunzione : questo inconvc-
nicnlc assai discosto: et quando e' nasce di questi tali? e facilissima co iO- ce.
-Il"
i38 DEI DISCORSI
buono, ed il diventare per violenza principe di una repubblica
presuppone un uomo caUivo ; per questo si troverà cbe ra-
dissime volte accaggia , che uno uomo buono voglia diventare
principe per vie cattive, ancoraché il fine suo fosse buono;
e che uno reo divenuto principe, voslia operare bene , e che
gli caggia mai nell'animo usare quella autorità bene , che esU
ha male acquistata. Da tutte le soprascritte cose nasce la diffì-
cuUà, o impossibilità, che è nelle città corrotte, a mantenervi
una repubblica, o a crearvela di nuovo. E quando pure la
vi si avesse a creare o a mantenere , sarebbe necessario
ridurla più verso lo slato regio, che verso lo sialo popolare ;
acciocché quelli uomini i quali dalle leggi, per la loro inso-
lenzia, non possono essere corretti, Tussero da una podestà
quasi regia io qualche modo frenati. Ed a volergli fare per
altra via diventare buoni , sarebbe o crudelissima impresa,
o al (atto impossibile ; come io dissi di sopra che fece Cleo-
mene: il quale se, per essere solo, ammazzò gli Efori; e se
Romolo, per le medesime cagioni, ammazzò il fratello e Tito
Tazio Sabino, e dipoi usarono bene quella loro autorità;
nondimeno si debbe avvertire che l'uno e l'altro di costoro
non avevano il soggetto di quella corruzione macchiato della
quale in questo capitolo ragioniamo, e però poterono volere,
e volendo, colorire il disegno loro.
Cap. XIX. — Dopo uno eccellente principe si può mnnlrncrc
un principe debole ; ma dopo un debole, non si può con un
allro debole mantenere alcun regno.
Considerato la virtù ed il modo del procedere di Romo-
lo, Numa, e di Tulio, i primi tre Re romani^ si vede come
Roma sorti una fortuna grandissima, avendo il primo Re fe-
rocissimo e bellicoso, l'altro quieto e religioso, il terzo si
mite di ferocia a Romolo, e più amatore della guerra che
della pace. Perché in Roma era necessario che sorgesse
ne' primi principii suoi un ordinatore del vivere civile, ma
era bene poi necessario che gli altri Re ripigliassero la virtù
di Romolo ; altrimenti , quella città sarebbe diventala clTe-
minata, e preda dc'suoi vicini. Donde si può notare, che uno
LIBRO PRIMO. 430
successore non di (anta virtù quanto il primo , può mante-
nere uno slato per la virtù di colui che V ha retto innanzi ,
e si può godere le sue fatiche: ma s' egli avviene o che sia
di lunga vita, o che dopo lui non sorga un altro che ripigli
la virtù di quel primo, è necessitato quel regno a rovinare.
Così, per il contrario, se due, l'uno dopo l'altro, sono di gran
virtù, si vede spesso che fanno cose grandissime, e che ne
vanno con la fama in fino al cielo. Davil , senza dubbio , fu
un uomo per arme, per dottrina, per giudizio eccellentissi-
mo ; e fu tanta la sua virtù, che, avendo vinti ed abbattuti
tutti i suoi vicini, lasciò a Salomone suo figliuolo un regno
pacifico: quale egli si potette con le arti della pace, e non delia
guerra, conservare; e si potette godere felicemente la virtù
di suo padre. Ma non potette già lasciarlo a Roboan suo fi-
gliuolo ; il quale non essendo per virtù simile allo avolo, né
per fortuna simile al padre , rimase con fatica erede della
sesta parte del regno. Baisit, sultan de' Turchi , ancora che
fosse più amatore della pace che della guerra, potette godersi
le fatiche di Maometto suo padre; il quale avendo, come Da-
vil, battuti i suoi vicini, gli lasciò un regno fermo, e da
poterlo con V arte della pace facilmente conservare. Ma se il
figliuolo suo Salì, presente signore, fusse stalo simile al pa-
dre, e non all'avolo, quel regno rovinava: ma e' si vede co-
stui essere per superare la gloria dell'avolo. Dico pertanto
con questi esempi, che dopo uno eccellente principe si può
mantenere un principe debole; ma dopo un debole non si
può con un altro debole mantenere alcun regno, se già e' non
fusse come quello di Francia, che gli ordini suoi antichi lo
mantenessero: e quelli principi sono deboli, che non stanno
in su la guerra. Conchiudo pertanto con questo discorso, che
la virtù di Romolo fu tanta, che la potette dare spazio a
Numa Pompilio di potere molti anni con 1' arte della pace
reggere Roma: ma dopo lui successe Tulio, il quale per la
sua ferocia riprese la reputazione di Romolo: dopo il quale
venne Anco, in modo dalla natura dotalo, che poteva usare
la pace, e sopportare la guerra. E prima si dirizzò a volere
tenere la via della pace; ma subito conobbe come i vicini ,
giudicandolo ctTeminato , lo stimavano poco: laimetite che
i40 Di:i Disconsi
pensò che , a voler mantenere Roma , bisognava volgersi
alla guerra, e somigliare Romolo, e non Numa. Da qucslo
piglino esempio tutti i principi che tengono slato , che chi so-
migheràNuma, lo terrà o non terrà, secondo che i tempi
o la fortuna gli girerà sotto: ma chi somiglierà Romolo , e
fìa come esso armato di prudenza e d'armi, lo terrà in ogni
modo , se da una ostinata ed eccessiva forza non gli è tolto.
E certamente si può stimare, che se Roma sortiva per terzo
suo Re un uomo che non sapesse con le armi renderle la
sua reputazione, non arebbe mai poi , o con grandissima
diffìcultà, potuto pigliare piede, né fare quelli etTetli ch'ella
fece. E cosi, in mentre ch'ella visse sotto i Re, la portò questi
pericoli di rovinare soUo un Re o debole o tristo.
Cip. XX. — Due continove succestioni di prìncipi virtuosi
fanno grandi e/felli; e come le tepubbUche bene ordinale
hanno di necessità virtuose successioni : e però gli acquisti
ed augumenti loro sono grandi.
Poi che Roma ebbe cacciati i Re, mnncò di quelli pe-
ricoli i quali di sopra sono detti che la portava, succedendo
in lei uno Re o debole o tristo. Perchè la somma dello im-
perio si ridusse ne' Consoli, i quali non per eredità o per in-
ganni o per ambizione violenta , ma per sntTragi liberi
venivano a quello imperio, ed erano sempre uomini eccel-
lentissimi : de' quali godendosi Roma la virtù e la fortuna
di tempo in tempo, potette venire a quella sua ultima gran-
dezza in altrettanti anni, che la era stala sotto i Re. Perché
si vede, come due continove successioni di principi virtuosi
sono sudìzienti ad acquistare il mondo : come furono Fi-
lippo di Macedonia ed Alessandro Ma?no. Il che tanto più
debbe fare una repubblica, avendo il modo dello eleggere
non solamente due successioni, ma infìniti principi virtuo-
sissimi, che sono V uno dell' altro successori : la quale vir-
tuosa successione fìa sempre in ogni repubblica bene or-
dinala.
LIBRO PUIJIO. i41
Gap. XXI. — Quanto biasimo merili quel principe e quella
repubblica che manca d'armi proprie.
Debbono i presenti principi e le moderne repubbliche,
le quali circa le difese ed offese mancano di soldati propri,
vergognarsi di loro medesime; e pensare, con lo esempio di
Tulio, tale difello essere non per mancamento d'uomini atti
alla milizia, ma per colpa loro, che non hanno sapulo fare i
loro uomini militari. Perchè Tulio, sendo slata Roma in pace
quaranta anni, non trovò, succedendo lui nel regno, uomo
che fusse stato mai alla guerra: nondimeno, disegnando lui
fare guerra, non pensò di valersi né di Sanniti, né di Tosca-
ni, né di altri che fussero consueti slare nell'armi; ma deli-
berò, come uomo prudenlissimo, di valersi de' suoi. E fu
tanta la sua virtù, che in un tratto sotto il suo governo gli
potè fare soldati eccellentissimi. Ed è più vero che alcuna
altra verità, che se dove sono uomini non sono soldati, na-
sce per difetto del principe, e non per altro difetto o di sito
o di natura: di che ce n'è uno esempio freschissimo. Perchè
ognuno sa, come ne' prossimi tempi il Re d'Inghilterra as-
saltò il regno di Francia, nò prese altri soldati che i popoli
suoi; e per essere stato quel regno più che trenta anni senza
far guerra, non aveva nò soldato né capitano che avesse mai
militato: nondimeno, ei non dubitò con quelli assaltare uno
regno pieno di capitani e di buoni eserciti, i quali erano
slati continovamente sotto l'armi nelle guerre d' Italia. Tulio
nacque da essere quel Re prudente uomo, e quel regno bene
ordinalo; il quale nel tempo della pace non intermette gli
ordini della guerra. Pelopida ed Epaminonda tebani, poiché
gli ebbero libera Tebe, e trattola dalla servitù dello imperio
sparlano; trovandosi in una città usa a servire, ed in mezzo
di popoli effeminati; non dubitarono, tanta era la virtù loro!
di ridurgli sotto l'armi, e con quelli andare a trovare alla
campagna gli eserciti spartani, e vincergli: e chi ne scrive,
dice come questi due in breve tempo mostrarono, che non
solamente in Lacedemonia nascevano gli uomini di guerra,
ma in ogni altra parte dove nascessino uomini, pure che si
\
142 DEI DISCORSI
trovasse chi li sapesse indirizzare alla milizia, come si vede
che Tulio seppe indirizzare i Romani. E Virgilio non pò-
Irebbe meglio esprimere questa oppinione, né con altre pa-
role mostrare di aderirsi a quella, dove dice:
Detidesqite movebit
TiJIiu in arma viros.
Gap. XX II. — Quello che sia da notare nel caso dei
tre Orazi romani, e dei ire Curiazi albani.
Tulio, re di Roma, e Mezio, re di Alba, convennero che
quel popolo Tusse signore dell'aUro, di cui i soprascritti tre
uomini vincessero. Furono morti tutti i Curiazi albani, restò
vivo uno degli Grazi romani; e per questo, restò Mezio, re
albano, con il suo popolo, soggetto ai Romani. E tornando
quello Orazio vincitore in Roma, e scontrando una sua so-
rella, che era ad uno de* tre Curiazi morti maritala, che
piangeva la morte del marito; l'ammazzò. Donde quello Ora-
zio per questo fallo fu messo in giudizio, e dopo molle dis-
pute fu libero, più per li prieghi del padre, che per li suoi
meriti. Dove sono da notare tre cose: una, che mai non si
dehbe con parte delle sue forze arrischiare tutta la sua for-
tuna; r altra, che non mai in una città bene ordinata li de-
meriti con li meriti si ricompensano; la terza, che non mai
sono i partili savi, dove si debba o possa dubitare della inos-
servanza. Perché, gl'importa tanto a una città lo essere ser-
va, che mai non si doveva credere che alcuno di quelli Re
0 di quelli Popoli stessero contenti che ire loro cittadini gli
avessino sottomessi; come si vide che volle fare Mezio: jl
quale, benché subito dopo la vittoria de' Romani si confes-
sassi vinto, e promettessi la obedienza a Tulio; nondimeno
nella prima espedizione che gli ebbono a convenire con-
tra i Veienti, si vide come ei cercò d'ingannarlo; come
quello che tardi s' era avveduto della temerità del partito
preso da lui. E perchè di questo terzo notabile se n'è par-
lalo assai, parleremo solo degli altri due ne' seguenti duoi
capitoli.
LIBUO PRIMO. 143
Cap. XXIII. -- Che non si debhe meUere a pericolo tutta la
fortuna e non tulle le forze ; e per questo, spesso il guardare
i passi è dannoso.
Non fu mai giudicalo parlilo savio mellere a pericolo
lulla la fortuna tua, e non tulle le forze. Questo si fa in più
modi. L*uno è facendo come Tulio e Mezio, quando e' com-
raissono la forluna tutta della patria loro, e la virtù di tanti
uomini quanti avea 1' uno e l' altro di costoro negli eserciti
suoi, alla virtù e forluna di tre de' loro cittadini, che veniva
ad essere una mìnima parte delle forze di ciascuno di loro.
Né si avvidono, come per questo parlilo lulla la fatica che
avevano durala i loro antecessori nell' ordinare la repubhli-
ca, per farla vivere lungamente libera e per fare i suoi
cittadini difensori della loro libertà, era quasi che suta va-
na, stando nella potenza di sì pochi a perderla. La qualcosa
da quelli Re non potè esser peggio considerala. Cadesi an-
cora in questo inconveniente quasi sempre per coloro, che,
venendo il nemico, disegnano di tenere i luoghi difficili, e
guardare i passi : perchè quasi sempre questa deliberazione
sarà dannosa, se già in quello luogo difficile comodamente
tu non potessi tenere tutte le forze lue. In questo caso, tale
parlilo é da prendere; ma sendo il luogo aspro, e non vi
polendo tenere tutte le forze lue, il parlilo è dannoso. Que-
sto mi fa giudicare cosi lo esempio di coloro che, essendo
assaltali da un nemico potente, ed essendo il paese loro cir-
condalo da' monti e luoghi alpestri, non hanno mai tentalo
di combattere il nemico in su' passi e in su' monti, ma sono
ìli a incontrarlo di là da essi ; o, quando non hanno voluto
far questo. Io hanno aspetlalo dentro a essi monti, in luo-
ghi benigni e non alpestri. E la cagione ne è suta la preal-
legala: perchè, non si polendo condurre alla guardia de' luo-
ghi alpestri molli uomini, si per non vi potere vivere lungo
lempo, sì per essere i luoghi stretti e capaci di pochi ; non
è possibile sostenere un nemico, che venga grosso ad urtar-
li : ed al nimico è facile il venire grosso, perchè la intenzione
sua è passare, e non fermarsi ; ed a chi V aspella è impossi-
i44 DEI DISCORSI
bile aspcilarlo grosso, avendo ad alloggiarsi per più tempo,
non sapendo quando il nemico voglia passare in luoghi, co-
ro'io ho dello, slrelli e sterili. Perdendo, adunque, quel passo
che tu ti avevi presupposto tenere, e nel quale i tuoi popoli
e lo esercito tuo confidava, entra il più delle volle ne' po-
poli e nel residuo delle genti tue tanto terrore, che senza
potere esperimenlare la virtù di esse, rimani perdente; e così
vieni ad avere perduta (ulta la tua fortuna con parte delle
lue forze. Ciascuno sa con quanta ditTicultà Annibale pas-
sasse Talpi che dividono la Lombardia dalla Francia, e con
quanta ditTicullà passasse quelle che dividono la Lombardia
dalla Toscana : nondimeno i Romani 1* aspettarono prima in
sul Tesino, e dipoi nel piano d'Arezzo: e vollon più tosto,
che il loro esercito fusse consumato dal nemico nelli luoghi
dove poteva vincere, che condurlo su per l'alpi ad esser
destrutto dalla malignità del silo. E chi leggerà sensata-
mente tulle le istorie, troverà pochissimi virtuosi capitani
aver tentato di tenere simili passi, e per le ragioni delle, e
perchè e' non si possono chiudere ' tutti ; sendo i monti corno
campagne, ed avendo non solamente le vie consuete e fre-
quentate, ma molte altre, le quali se non sono note a' fore-
stieri, sono note a' paesani ; con l'aiuto de' quali sempre sarai
condotto in qualunque luogo, contra alla voglia di chi ti si
oppone. Di che se ne può addurre ano freschissimo esempio,
nel 1515. Quando Francesco re di Francia disegnava passare
in Italia per la recuperazione dello stato di Lombardia, il
maggiore fondamento che facevano coloro eh' erano alla sua
impresa contrarli, era che gli Svizzeri lo terrebbono a' passi
in su' monti. E, come per esperienza poi si vide, quel loro
fondamento restò vano: perchè, lascialo quel Ucda parte due
o tre luoghi guardali da loro, se ne venne per un'altra via
incognita ; e fu prima in Italia, e loro appresso, che lo ave^
sino presentilo. Talché loro isbigollili si ritirarono in Mi-
lano, e tulli i popoli di Lombardia si aderirono alle genti
franciose ; sendo mancati di quella oppinione avevano, che i
Franciosi dovessino essere tenuti in su' monti.
' La Bladiana: dividere ; per errore nato da affinila di lettere la più per*
fetta* Invece di campagne f le altre ediaioni baaoo campagna.
LIBRO PRIMO. 145
Gap. X'XIV. — Le repubbliche bene ordinate consliluiscono
premii e pene a' loro cilladinif né compensano mai l'uno con
V altro.
Erano stati i meriti di Orazio grandissimi, avendo con
la sua virtù vinti i Curiazi. Era stato il fallo suo atroce,
avendo morto la sorella : nondimeno dispiacque tanto tale
omicidio ai Romani, che lo condussero a disputare della
vita, non ostante che gli meriti suoi fossero tanto grandi e
si freschi. La qual cosa a chi superficialmente la conside-
rasse, parrebbe uno esempio d'ingratitudine popolare: non-
dimeno chi la esaminerà meglio, e con migliore considera-
zione ricercherà quali debbono essere gli ordini delle repub-
bliche, biasimerà quel popolo più tosto per averlo assoluto,
che per averlo voluto condennare. E la ragione è questa, che
nessuna repubblica bene ordinata, non mai cancellò i de-
menti con gli meriti de'suoi cittadini; ma avendo ordinati
i premii ad una buona opera e le pene ad una cattiva, ed
avendo premiato uno per aver bene operato, se quel mede-
simo opera dipoi male, lo gastiga, senza avere riguardo al-
cuno alle sue buone opere. E quando questi ordini sono bene
osservali, una città vive libera molto tempo; altrimenti, sem-
pre rovinerà presto. Perchè, se ad un cittadino che abbia fatto
qualche egregia opera per la città, si aggiugne, oltre alla ri-
putazione che quella cosa gli arreca, una audacia e confidenza
di potere, senza temer pena, fare qualche^péra non buona;
diventerà in brieve tempo tanto insolente, che si risolverà
ogni civilità. È ben necessario, volendo che sia temuta la
pena per le triste opere, osservare i premii per le buone;
come si vede che fece Roma. E benché una repubblica sia
povera, e possa dare poco, debbe di quel poco non astener-
si; perchè sempre ogni piccolo dono, dato ad alcuno per ri-
compenso ' di bene ancora che grande, sarà stimato, da chi
Io riceve, onorevole e grandissimo. È notissima la istoria di
Orazio Code, e quella di Muzio Scevola: come l'uno soslen-
* Questa desìnenea , di cui non mancsoo esempi anche dello stesso Ma-
chiavelli, è geli' edixioae Romana.
146 DEI DISCORSI
ne i nemici sopra un ponte, tanto che si tagliasse: I*aUro si
arse la mano, avendo erralo, volendo ammazzare Porsena,
re delli Toscani. A costoro per queste due opere tanto egre-
gie, fu donato dal pubblico due staiora di terra per ciascuno.
È nota ancora la istoria di Manlio Capitolino. A costui, per
aver salvato il Campidoglio da'Gaili che vi erano a campo,
fu dato da quelli che insieme con lui vi erano assediati den-
tro, una piccola misura di farina. Il quale premio, secondo
la fortuna che allora correva in Roma, fu grande; e di qua-
lità che, mosso poi Manlio o da invidia o dalla sua cattiva
natura, a far nascere sedizione in Roma, e cercando guada-
gnarsi il popolo, fu, senza rispetto alcuno de'suoi meriti,
gittato precipite da quello Campidoglio ch'egli prima, con
tanta sua gloria, aveva salvo.
Gap. XXV. — Chi vuole riformare uno sialo anlico in una
cillà libera t rilenga almeno l'ombra desmodi anlichi.
Colai che desidera o che vuole riformare uno slato
d*ona città, a volere che sia accetto, e poterlo con satisfa-
zione di ciascuno mantenere, é necessitato a ritenere l'om-
bra almanco de* modi antichi, acciò che a' popoli non paia
avere mutato ordine, ancora che in fatto gli ordini nuovi
fussero al lutto alieni dai passati; perchè lo universale degli
uomini si pasce così di quel che pare, come di quello che
é; anzi molte volte si muovono più per le cose che paiono,
che per quelle che sono. Per questa cagione i Homani, co-
noscendo nel principio del loro vivere libero questa necessi-
tà, avendo in cambio d'un Re creati duoi Consoli, non vol-
lono ch'egli avessino più che dodici littori, per non passare
il numero di quelli che ministravano ai Re. Oitra di que-
sto, facendosi in Roma uno sacrifizio anniversario, il quale
non poteva esser fatto se non dalla persona del Re; e vo-
lendo i Romani che quel popolo non avesse a desiderare per
la assenzia degli Re alcuna cosa dell'antiche; creorono un
capo di detto sacrificio, il quale loro chiamorono Re Sacrifi-
colo, e lo sottomessone al sommo Sacerdote: lalraentechò
quel popolo per questa via venne a satisfarsi di quel sacri*
LIBRO PRIMO. 447
tìzio, e non avere mai cagione, per mancamento dì esso, di
desiderare la tornala dei Re. E questo si debbe osservare da
tutti coloro che vogliono scancellare ano antico vivere in
una città, e ridurla ad uno vivere nuovo e libero. Perchè al-
terando le cose nuove le menti degli uomini, ti debbi inge-
gnare che quelle alterazioni rilenghino più dell' antico sia
possibile; e se i magistrati variano e di numero e d' auto-
rità e di tempo dagli antichi, che almeno ritenghino il no-
me. E questo, come ho detto, debbe osservare colui che vuole
ordinare una potenza assoluta, o per via di repubblica o di
regno: ma quello che vuol fare una potestà assoluta, quale
dagli autori è chiamala tirannide, debbe rinnovare ogni cosa,
come nel seguente capitolo si d'irà.
Gap. XXVI. Un principe nuovo, in una cillà o provincia
presa da lui, debbe fare ogni cosa nuova.
Qualunque diventa principe o d* una città o d' uno sta-
to, e tanto più quando i fondamenti suoi fussino deboli, e
non si volga o per via di regno o di repubblica alla vita ci-
vile; il megliore rimedio che egli abbia a tenere quel princi-
pato, è, sendo egli nuovo principe, fare ogni cosa di nuovo
in quello stalo: come è, nelle città fare nuovi governi con
nuovi nomi, con nuove autorità, con nuovi uomini; fare i
poveri ricchi, come fece Davit quando ei diventò re: qui
esurienles implevit bonis^ et diviles dimisit inanes; edificare ol-
irà di questo nuove città, disfare delle fatte, ^ cambiare gli
abitatori da un luogo ad un altro; ed in somma, non lasciare
cosa ninna intatta in quella provincia, e che non vi sia né
grado, né ordine, né stalo, né ricchezza, che chi la tiene
non la riconosca da te; e pigliare per sua mira Filippo di
Macedonia, padre di Alessandro, il quale con questi modi,
di piccolo re, diventò principe di Grecia. E chi scrive di lui,
dice che tramutava gli uomini di provincia in provincia,
come i mandriani tramutano le mandrie loro. Sono questi
modi crudelissimi, e nemici d'ogni vivere, non solamente
cristiano, ma umano; e debbegli qualunque uomo fuggire, e
< Cosi la Bladiana. Le altre edizioni t delle vecchie.
148 DEI DISCORSI
volere piollosto vivere privato, che re con (anta rovina de-
gli uomini: nondimeno, colui che non vuole pigliare quella
prima via del bene, quando si voglia mantenere, conviene
che entri in questo male. Ma gli uomini pigliano certe vie
del mezzo, che sono dannosissime; perchè non sanno essere
né tutti buoni né lutti cattivi: come nel seguente capitolo
per esempio si mostrerà.
Cip. XXVII. — Sanno rarissime volle gli uomini
essere al lutto tristi o al tutto buoni.
Papa Giulio secondo, andando nel' 1505 a Bologna per
cacciare di quello stato la casa de'Bentivogli, la quale aveva
tenuto il principato di quella città cento anni, voleva an-
cora trarre Giovampa^olo Baglioni di Perugia, della quale
era tiranno, come quello che aveva congiurato centra a tutti
gli tiranni che occupavano le terre della Chiesa. E perve-
nuto presso a Perugia con questo animo e deliberazione nota
a ciascuno, non aspettò di entrare in quella città con lo
esercito suo che lo guardasse, ma vi entrò disarmato, non
ostante vi fusse dentro Giovampagolo con genti assai, quali
per difesa di sé aveva ragunate. Sicché, portato da quel fu-
rore con il quale governava tutte le cose, con la semplice
sua guardia si rimesse nelle mani del nemico; il quale dipoi
ne menò seco, lasciando un governadore in quella città, che
rendesse ragione per la Chiesa. Fu notata dagli uomini pru-
denti che col papa erano, la temerità del papa e la viltà
di Giovampagolo; né potevano slimare donde si venisse che
quello non avesse, con sua per()elua fama, oppresso ad un
tratto il nemico suo, e sé arricchito di preda, sendo col papa
tutti li cardinali, con tutte le lor delizie. Né si poteva cre-
dere si fusse astenuto o per bontà, o per conscienza che lo
ritenesse; perché in un petto d'un uomo facinoroso, che si
I teneva la sorella, che aveva morti i cugini ed i nepoti per
l regnare, non poteva scendere alcuno pietoso rispetto: ma si
\ conchiuse, che gli uomini non sanno essere onorevolmente
[tristi, o perfettamente buoni; e come una tristizia ha in sé
' grandezza, o è in alcuna parte generosa, eglino non vi sanno
LIBRO PRIMO. 149
entrare. Così Giovampagolo, il quale non stimava essere in-
cesto e pubblico parricida, non seppe, o, a dir meglio, non
ardi, avendone giusta occasione, fare una impresa, dove
ciascuno avesse ammirato l'animo suo, e avesse di sé la-
sciato memoria eterna; sendo il primo che avesse dimostro ai
prelati , quanto sia da stimar poco chi vive e regna come loro ;
ed avesse fatto una cosa, la cui grandezza avesse superato
ogni infamia, ogni pericolo, che da quella potesse dependere.
Cap. XXVIII. — Per qual cagione i Romani furono
meno ingrati agli loro ciUadini che gli Ateniesi.
Qualunque legge le cose fatte dalle repubbliche, troverà
in tutte qualche spezie di ingratitudine centra a* suoi citta-
dini ; ma ne troverà meno in Roma che in Atene, e per av-
ventura in qualunque altra repubblica. E ricercando la ca-
gione dì questo, parlando di Roma e di Atene, credo
accadesse perchè i Romani avevano meno cagione di so-
spettare dei' suoi cittadini, che gli Ateniesi. Perchè a Roma,
ragionando di lei dalla cacciata dei Re infine a Siila e Ma-
rio, non fu mai tolta la libertà da alcuno suo cittadino ; in
modo che in lei non era grande cagione di sospettare di
loro, e, per conseguente, di offendergli inconsideratamente.
Intervenne bene ad Atene il contrario : perchè, sendole tolta
la libertà da Pisistrato nel suo più florido tempo , e sotto uno
inganno di bontà; come prima la diventò poi libera, ricor-
dandosi delle ingiurie ricevute e della passata servitù, di-
ventò acerrima vendicatrice non solamente degli errori, ma
dell'ombra degli errori de' suoi cittadini. Di qui nacque
l'esilio e la morte di tanti eccellenti uomini; di qui l'or-
dine dello ostracismo, ed ogni altra violenza che centra i suoi
ottimati in vari tempi da quella città fu fatta. Ed è veris-
simo quello che dicono questi scrittori della civiltà : che ì
popoli mordono più fieramente poi eh' egli hanno recuperala
la libertà, che poi che l'hanno conservata. Chi considerrà,*
* Più volte troviamo nell'edizione Romana Considera , dove le altre hanno
considererà. 12 nota, d'altra parte, a lutti l'antica e tnscanissima inflessione
considerràf che stimiamo esser la vera voce tra le due, per diversa cagione
alterate nelle stampe.
13»
i^ b£l blSCOR^t
adanqae, qoanto è dello, non biasimerà in questo Atene, né
lauderà Roma ; ma ne accuserà solo la necessità , per la di-
versità degli accidenti che in queste città nacquero. Perchè
si vedrà, chi considererà le cose sottilmente, che se a Roma
fosse suta tolta la libertà come a Atene, non sarebbe siala
Roma più pia verso i suoi cittadini, che si fusse quella. Di
che si può f^re verissima coniettura per quello che occorse,
dopo la cacciata dei Re,contraa Collatino ed a Publio Valerio:
de' quali il primo, ancora che si trovasse a liberate Roma,
fu mandalo in esilio non per altra cagione che per tenere
il nome de'Tarquinii; l'altro, avendo solo dato di sèsospetlo
per edificare una casa in sul monte Celio, fu ancora per es-
sere fatto esule. Talché si può stimare, veduto quanto Roma
fu in questi due sospettosa e severa, che l' arebbe usala la in-
gratitudine come Atene, se da' suoi cittadini, come quella
De' primi tempi ed innanzi allo augumento suo, fus:^e stata
ingiuriata. E per non avere a tornare più sopra questa ma-
teria della ingratitudine, oe dirò quello ne occorrerà nel se-
gueole capitolo.
Gap. XXIX. — Quale sia più ingrato, o un popolo,
o un principe.
Egli mi pare, a proposito della soprascrìtta materia, da
discorrere quale usi con macgiori esempi questa ingratitu-
dine, o un popolo, o un principe. E per disputare meglio
questa parte, dico, come questo vizio della ingratitudine na-
sce o dalla avarizia, odal sospetto. Perché, quando o un po-
polo o un principe ha mandato fuori un suo capitano in
una espedizione importante, dove quel capitano, vincendola,
ne abbia acquistata assai gloria ; quel principe o quel popolo
è tenuto allo incontro a premiarlo : e se, in cambio di premio,
o ei Io disonora o ei l'otTende, mosso dalla avarizia, non
volendo, ritenuto da questa cupidità, satisfarli ; fa uno er-
rore che non ha scusa, anzi si lira dietro ana infamia eter-
na. Pure si trovano molti principi che ci peccano. E Corne-
lio Tacito dice, con questa sentenzia, la cagione: Proclivius
est injurio!, quam beneficio vicem exsolvere, quia gratta oneri.
tlijllO PRIMO. Ì8Ì
ullio in queslu hahelur. Ma quando ei non Io premia, o, a dii
meglio, l'offende, non mosso da avarizia, ma da sospetto;
allora merita, e il popolo e il principe, qualche scusa. E di
queste ingratitudini usale perlai cagione, se ne legge assai:
perchè quello capitano il quale virtuosamente ha acquistato
uno imperio al suo signore, superando i nemici, e riempiendo
sé di gloria e gli suoi soldati di ricchezze; di necessità, e
con i soldati suoi, e con i nemici, e coi sudditi propri di
quel principe acquista tanta reputazione, che quella vittoria
non può sapere di buono a quel signore che lo ha mandato.
E perchè la natura degli uomini è ambiziosa e sospettosa, e
non sa porre modo a nissuna sua fortuna, è impossibile che
quel sospetto che subito nasce nel principe dopo la vittoria
di quel suo capitano, non sia da quel medesimo accresciuto
per qualche suo modo o termine usalo insolentemente. Tal-
ché il principe non può pensare ad altro che assicurarsene;
e per fare questo, pensa o di farlo morire, o di tòrgli la re-
putazione, che egli* si ha guadagnata nel suo esercito e ne'
suoi popoli ; e con ogni industria mostrare che quella vitto-
ria è nata non per la virtù di quello, ma per fortuna, o per
viltà dei nemici, o per prudenza degli altri capitani che sono
stali seco in tale fazione. Poiché Vespasiano, sendo in Giu-
dea, fu dichiarato dal suo esercito imperadore, Antonio Pri-
mo, che si trovava con un altro esercito in Illiria, prese le
parli sue, e ne venne in Italia conlra a Vitellio il quale re-
gnava a Roma, e virtuosissimamente ruppe due eserciti Vi-
telliani, e occupò Roma; talché Muziano, mandato da Vespa-
siano, trovò per la virtù d'Antonio acquistalo il tutto, e vinta
ogni ditTicullà. Il premio che Antonio ne riportò, fu che Mu-
ziano gli tolse subito la ubidienza dello esercito, e a poco a
poco lo ridusse in Roma senza alcuna autorità: talché Anto-
nio ne andò a trovare Vespasiano, il quale era ancora in Asia;
dal quale fu in modo ricevuto, che, in breve tempo, ridotto
in nessun grado, quasi disperalo mori. E di questi esempi
ne sono piene le istorie. Ne' nostri tempi, ciascuno che al
presente vive, sa con quanta industria e virtù Consalvo Fer-
rante, militando nel regno di Napoli conlra a' Franciosi per
' C/ie egli manca nella Romana; ne, per me, la credo omissione.
i5^ DEI DISCORSI
Ferrando re di Ragona, conquistasse e vincesse quel regno;
e come, per premio di vittoria , ne riporlo che Ferrando si
parli da Ragona, e venato a Napoli, in prima gli levò la obe-
dienza delle genti d'arme, e dipoi gli tolse le forteize, ed
appresso Io menò seco in Spagna; dove poco tempo poi,
inonoralo, mori. È tanto, dunque, naturale questo sospetto
ne* principi, che non se ne possono difendere; ed è im|>ossi-
biie eh* egli usino gratitudine a quelli che con vittoria hanno
fatto sotto le insegne loro grandi acquisti. E da quello che
non si difende un principe, non è miracolo, né cosa degna
di maggior considerazione, se un popolo non se ne difendo.
Perché, avendo una città che vive libera, duoi fini, 1* uno
lo acquistare, Taltro il mantenersi libera ; conviene che nel-
r una cosa e nell'altra per troppo amore erri. Quanto agli
errori nello acquistare, se ne dirà nel luogo suo. Quanto agli
errori per mantenersi libera, sono, intra gli altri, questi: di
offendere quei cittadini che la doverrebbe premiare; aver
sospetto di quelli in cui si doverrebbe confidare. E benchò
questi modi in una repubblica venuta alla corruzione siano
cagione di grandi mali , e che molte volte piuttosto la viene
alla tirannide, come intervenne a Roma di Cesare, che per
forza si tolse quello che la ingratitudine gli negava ; nondi-
meno in una repubblica non corrotta sono cagione di gran
beni, e fanno che la ne vive libera più, mantenendosi per
paura di punizione gli uomini migliori, e meno ambiziosi.
Vero è che infra tutti i popoli che mai ebbero imperio, per
le cagioni di sopra discorse, Roma fu la meno ingrata : per-
chè della sua ingratitudine si può dire che non ci sia altro
esempio che quello di Scipione; perché Corìolano e Cammillo
fumo fatti esuli per ingiuria che l'uno e l'altro aveva fatto
^lla Plebe. Ma all' uno non fu perdonato, per aversi sempre
risbrbato contra al Popolo l'animo nemico; l'altro non sola-
mente fu richiamato, ma per tutto il tempo della sua vita
adorato come principe. Ma la ingratitudine usata a Scipione
nacque da un sospetto che i cittadini cominciorno avere di
lui, che degli altri non s'era avuto: il quale nacque dalia
grandezza del nemico che Scipione aveva vinto ; dalla repu-
tazione che gli aveva data la vittoria di si lunga e pericolosa
LIBRO PRIMO. 453
gaerra ; dalla celerità di essa ; dai favori che la gioventù, la
prudenza, e le altre sue memorabili virtuti gli acquistavano.
Le quali cose furono tante, che, non che altro, i magistrati
di Roma temevano della sua autorità : la qual cosa spiaceva
agli uomini savi, come cosa inconsueta in Roma. E parve
tanto straordinario il vivere suo, che Catone Prisco, riputato
santo, fu il primo a fargli contra ; e a dire che una città non
si poteva chiamare libera, dove era un cittadino che fusse
temuto dai magistrati. Talché, se il popolo di Roma segui in i
questo caso la opinione di Catone, merita quella scusa che
di sopra ho detto meritare quelli popoli e quelli principi che
per sospetto sono ingrati. Conchiudendo adunque questo di-
scorso, dico, che usandosi questo vizio della ingratitudine o
per avarizia o per sospetto, si vedrà come i popoli non mai
per r avarizia la usorno , e per sospetto assai manco che i
principi, avendo meno cagione di sospettare: come di sotto
si dirà.
Cap, XXX, — Quali modi debbe usare un principe o una
repubblica per fuggire questo vizio della ingratitudine ; e
quali quel capitano o quel cittadino per non essere op-
presso da quella.
Un principe, per fuggire questa necessità di avere a vi-
vere con sospetto, o esser ingrato, debbe personalmente
andare nelle espedizioni; come facevano nel principio quelli
imperadori romani, come fa ne' tempi nostri il Turco, e
come hanno fatto e fanno quelli che sono virtuosi. Perchè,
vìncendo, la gloria e lo acquisto è tutto loro; e quando non
vi sono, sondo la gloria d'altrui, non pare loro potere usare
quello acquisto, s'ei non spengono in altrui quella gloria
che loro non hanno saputo guadagnarsi, e diventare ingrati
ed ingiusti: e senza dubbio, è maggiore la loro perdita, che
il guadagno. Ma quando, o per negligenza o per poca pru-
denza, e'si rimangono a casa oziosi, e mandano un capitano;
io non ho che precetto dar loro altro, che quello che per lor
medesimi si sanno. Ma dico bene a quel capitano, giudicando /
io che non possa fuggire i morsi della ingratitudine, che faccia l
454 DEI DISCORSI
[ ona delle dae cose : o sabito dopo la vittoria lasci lo esercito,
\ e rimettasi nelle mani del suo principe, guardandosi da ogni
I atto insolente o ambizioso ; acciocché quello , spoglialo d'ogni
l sospetto, abbia cagione o di premiarlo o di non lo offendere:
\ o, quando questo non gli paia di fare, prenda animosamente
'la parte contraria, e tenga tutti quelli modi per li quali
\ creda che quello acquisto sia suo proprio e non del principe
suo, facendosi benivoli i soldati ed i sudditi ; e faccia nuove
; amicizie coi vicini, occupi con li suoi uomini le fortezze,
/corrompa i principi del suo esercito, e di quelli che non può
corrompere si assicuri; e per questi modi cerchi di punire il
^fluo signore di quella ingratitudine che esso gli userebbe.
/Altre vie non ci sono : ma, come di sopra si disse, gli uomini
/non sanno essere né al tutto tristi, né al tutto buoni ; esem-
;pre interviene che, subito dopo la vittoria, lasciare lo eser-
cito non vogliono, portarsi modestamente non possono, usare
\lermini violenti e che abbino in sé l'onorevole, non sanno;
(talché, stando ambigui , intra quella loro dimora ed ambiguità,
'^sono oppressi. Quanto ad una repubblica, volendo fuggire
questo vizio dello ingrato, non si può dare il medesimo ri-
medio che al principe; cioè che vadia, e non mandi, nelle
espedizioni sue, sendo necessitate ' a mandare un suo cit-
tadino. Conviene, pertanto, che per rimedio io le dia, che
la tenga i medesimi modi che tenne la repubblica romana, ad
esser meno ingrata che l'altre: il che nacque dai modi del
suo governo. Perché, adoperandosi tutta la città, e gli no-
bili e gli ignobili, nella guerra, surgeva sempre in Roma in
ogni età tanti uomini virtuosi, ed ornati di varie vittorie , che
il popolo non avea cagione di dubitare di alcuno di loro, sendo
assai, e guardando l'uno l'altro. E in tanto si mantenevano
interi, e respettivi di non dare ombra di alcuna ambizione,
né cagione al popolo, come ambiziosi, d'olTcndergli ; che ve-
nendo alla dittatura, quello maggior gloria ne riportava, che
più tosto la deponeva. E cosi, non potendo simili modi gene-
rare sospetto, non generavano ingratitudine. In modo che,
una repubblica che non voglia avere cagione d'essere ingraia,
' Coti, con relaxiooe piutlotto logica che grammaticale, odia Bladiaaa
t nella Testina. 1 moderni editori corrcM^ro , aenaa bitogoo t necessitata.
LIBRO PRIMO. ioo
si debbe governare come Roraa ; e uno cittadino che voglia
fuggire quelli suoi morsi, debbe osservare i termini osservati
dai cittadini romani.
Gap. XXXI. — Che i capitani romani per errore commessa
non furono mai islraordinariamenle puniti; né furono mai
ancora punili quando, per la ignoranza loro o Irisli par-
tili presi da loro, ne fussino seguiti danni alla repubblica.
I Romani, non solamente, come di sopra avemo discor-
so, furono manco ingrati che l'altre repubbliche, ma furono
ancora più pii e più respettivi nella punizione de' loro Capi-
tani degli eserciti, che alcune altre. Perchè, se il loro errore
fusse stato per malizia, e' lo gastigavano umanamente; se
gli era per ignoranza, non che lo punissino, e' lo premia-
vano, ed onoravano. Questo modo del procedere era bene
consideralo da loro: perchè e' giudicavano che fusse di tanta
importanza a quelli che governavano gli eserciti loro, lo
avere l'animo libero ed espedito', e senza altri estrinsechi ri-
spetti nel pigliare i partiti, che non volevano aggiugnere ad
una cosa per sé stessa dilTicile e pericolosa, nuove difficultà /
e pericoli; pensando che aggiugnendoveli, nessuno potesse (
essere che operasse mai virtuosamente. Verbigrazia, e' man-
davano uno esercito in Grecia centra a Filippo di Macedonia,
0 in Italia contra ad Annibale, o contra a quelli popoli che
vinsono prima. Era questo capitano che era preposto a tale
espedizione , angustiato da tutte quelle cure che sì arrecavano
dietro quelle faccende, le quali sono gravi e importantissime.
Ora, se a tali cure si fussino aggiunti più^ esempi di Romani
ch'eglino avessino crucifissi o altrimenti morti quelli che
avessino perdute le giornale, egli era impossibile che quello
capitano intra tanti sospetti potesse deliberare strenuamente.
Però, giudicando essi che a questi tali fusse assai pena la igno- [
minia dello avere perduto, non gli voUono con altra maggior /
pena sbigottire. Uno esempio ci è, quanto allo errore com- •
messo non per ignoranza. Erano Sergio e Virginio a campo
aVeio, ciascuno preposti ad una parte dello esercito; de'quali
* Della Testina e della Romana. Nelle altre : tali.
156 DEI DISCORSI.
Sergio era ali* incontro donde potevano venire i Toscani, e
Virginio dairallrn parie. Occorse che sondo assaltalo Sergio
dai Falisci e da altri popoli, sopportò d'essere rollo e fusaio
prima che mandare per aiuto a Virginio. E dall'altra parte,
Virginio aspellando che si amiliasse, volle piuttosto vedere
il disonore della patria sua, e la rovina di quello esercito,
che soccorrerlo. Caso veramente essemplare e tristo, * e da
fare non buona conietlura della Repubblica romana, se
l'uno e l'altro non fussero stati saslìgali. Vero è che, dove
un'altra repubblicagli arebbe puniti di pena capitale, quella
gli punì in danari. Il che nacque non perchè i peccali loro
non merilassino maggior punizione, ma perchè gli Romani
vollono in questo caso, per le razioni già delle, mantenere
gli antichi costumi loro. E quanto agli errori per ignoranza,
non ci è il più bell'esempio che quello di Varrone: per la
(emerita del quale scndo rolli i Romani a Canne da An-
nibale, dove quella Repubblica portò pericolo della sua
libertà; nondimeno, perchè vi fu ignoranza e non malizia,
non solamente non Io gastigorno ma lo onororno, e gli
andò incontro nella tornata sua in Roma (ulto l'Ordine
senatorio: e non lo polendo ringraziare della zulTa, Io rin-
graziorono eh* egli era tornato in Roma, e non sì era di-
8perato delle cose romane. Quando Papirio Cursore voleva
fare morire Fabio, per avere conlra al suo comandamento
combattuto coi Sanniti; intra le altre ragioni che dal padre
di Fabio erano assegnate conlra alla ostinazione del Diltalore,
era che il Popolo romano in alcuna perdila de' suoi Capitani
non aveva fatto mai quello che Papirio nella vittoria vo-
leva fare.
Cap. XXXH. — Una repubblica o uno principe non debbe
differire a beneficare gli uomini nelle sue nccessilali.
Ancora che ai Romani succedesse felicemente essere li-
berali al Popolo, sopravvenendo il pericolo, quando Porsena
* Lezionr ilei Blacìo, adottata giudiziosamente anrhe dagli editori de] 1813.
CoìtTo a' quali esemplare , preso in cattiva parte, non piacque , mutarono (comq
-embra) d'ail>ilrio: malvagio, e degno d' ester notato-
I
LIBRO l'iUMO. i57
venne ad assaltare Roma per rìmellere i Tarquinii; dove il
Senato dubitando della Plebe, che non volesse piuttosto ac-
cettare i Re che sostenere la guerra, per assicurarsene la
sgravò delle gabelle del sale, e d' ogni gravezza; dicendo
come i poveri assai operavano in benefizio pubblico se ei
nutrivano i loro figliuoli; e che per questo benefizio quel Po-
polo si esponesse a sopportare ossidione, fame e guerra:
non sia alcuno che, confidatosi in questo esempio, differisca
ne'terapi de' pericoli a guadagnarsi il Popolo; perchè mai gli
riuscirà quello che riusci ai Romani. Perchè lo universale
giudicherà non avere quel bene da te, ma dagli avversari
tuoi; e dovendo temere che, passata la necessità, tu ritolga
loro quello che hai forzatamente loro dato, non ara leco ob-
bligo alcuno. E la cagione perchè ai Romani tornò bene
questo partito, fu perchè lo slato era nuovo, e non per an-
cora fermo; ed aveva veduto quel Popolo, come innanzi si
erano fatte leggi in benefizio suo, come quella della appel-
lagione alla Plebe; in modo che ei potette persuadersi che
quel bene gli era fatto, non era tanto causato dalla venuta
dei nemici, quanto dalla disposizione del Senato in benefi-
carli. Oltre di questo, la memoria dei Re era fresca; dai quali
erano stati in molti modi vilipesi ed ingiuriati. E perchè simili
cagioni accaggiono rade volte, occorrerà ancora rade volle
che simili remedi giovino. Però, debbe qualunque tiene sta-
lo, cosi repubblica come principe, considerare innanzi, quali
(empi gli possono venire addosso contrari, e di quali uomini
ne* tempi avversi si può avere di bisogno; e dipoi vivere con
loro in quel modo che giudica, sopravvegnenle qualunque
caso, essere necessitalo vivere. E quello che altrimenti si
governa, o principe o repubblica, e massime un principe;
e poi in sul fallo crede, quando il pericolo sopravviene, coi
benefizi riguadagnarsi gli uomini; se ne inganna: perchè
non solamente con se ne assicura, ma accelera la sua ro-
vina.
i4
lo8 DEI DISCORSI
Gap. XXXIII. — Quando uno inconvenienle è cresciuto o in
uno sialo o conlra ad uno sialo, è più salutifero parlilo
Icmporcggiarlo che urlarh.
Crescendola Repubblica romana in reputazione, forze ed
imperio, i vicini,! quali prima non avevano pensjalo quanto
( quella nuova Repubblica potesse arrecare loro di danno, co-
( minciorno, ma lardi, a conoscere lo errore loro; e volendo
rimediare a quello che prima non avevano rimediato, con-
spirorno be^njQjaranta^^o^oli con tra a Roma: donde i Ro-
mani, intra gli altri rimedi solili finsi da loro negli urgenti
pericoli, si volsono a creare il Dittatore; cioè dare potestà
ad un uomo che senxa alcuna consulta potesse deliberare, e
senza alcuna appellagione potesse eseguire le suo delibera-
zioni. Il quale rimedio come allora fu utile, e fu cagione che
vincessero gì' imminenti pericoli, cosi fu sempre utilissimo
in tutti quelli accidenti che, nello augumenlo dello imperio,
in qualunque tempo surgessino contro alla Repubblica. Sopra
il quale accidente è da discorrere prima, come quando uno in-
conveniente che surga, o in una repubblica o centra ad una
repubblica, causalo da cagione intrinseca o estrinseca, e
diventalo tanto grande che e' cominci a far paura a cifiscuno;
è mollo più sicuro partilo tcmi;oreggiarsi con quello, che
tentare di estinguerlo. Perchè, quasi sempre coloro che ten-
tano di ammorzarlo, fanno le sue forze maggiori, e fanno
accelerare quel male che da quello si suspettava. £ di questi
simili accidenti ne nasce nella repubblica più spesso per ca-
gione intrinseca, che estrinseca: dove molte volte, o e' si
lascia pigliare ad uno cittadino più forze che non è ragione-
vole, 0 e' si comincia a corrompere una legge, la quale è il
nervo e la vita del vivere libero; e lasciasi trascorrere que-
sto errore in tanto, che gli è più dannoso parlilo il volervi
rimediare, che lasciarlo seguire. £ tanto più è difTicile il co-
noscere questi inconvenienti quando e' nascono, quanto
e' pare più naturale agli uomini favorire sempre i principii
delle cose. E (ali favori possono, più che in alcuna altra cosa,
nelle opere che paiono che abbino in bè qualche virtù, e
LIBRO PRIMO. 159
siano operale da' giovani: perchè se in una repubblica sì vede
surgere un giovane nobile, quale abbia in sé virlù islraor-
dinaria, tulli gli occhi de' cittadini si cominciano a voltare
verso di lui, e concorrono senza alcuno rispetto ad onorar-
lo; in modo che, se in quello è punto d' ambizione, accozzati
i favori che gli dà la naiura e questo accidente, viene su-
bito in luogo, che quando i cittadini si avveggono dell'errore •
loro, hanno pochi rimedi ad ovviarvi; e volendo quelli tanti 1
ch'egli hanno, operarli, non fanno altro che accelerare la
potenza sua. Di questo se ne potrebbe addurre assai esempi,
ma io ne voglio dare solamente uno della città nostra. Cosi- a
mo de' Medici, dal quale la casa de' Medici in ia nostra città j
ebbe il principio della sua grandezza, venne in tanta repu- |
lazione col favore che gli dette la sua prudenza e la igno- \
ranza degli altri cittadini, che ei cominciò a fare paura allo \
slato; in modo che gli altri cittadini giudicavano 1' offenderlo
pericoloso, ed il lasciarlo stare cosa pericolosissima. Ma vi-
vendo in quei tempi Niccolò da lizzano, il quale nelle cose
civili era tenuto uomo espertissimo, ed avendo ftilto il primo
errore di non conoscere i pericoli che dalla reputazione di
Cosimo potevano nascere; mentre che visse, non permesse
inai che si facesse il secondo, cioè che si tentasse di volerlo
spegnere, giudicando tale tentazione essere al tutto la rovina
dello stato loro; come si vide in fatto che fu, dopo la sua
morte: perchè, non osservando quelli cittadini che rimasono,
questo suo consiglio, si feciono forti contra a Cosimo, e lo
cacciorno da Firenze. Donde ne nacque che la sua parte,
per questa ingiuria risentitasi, poco dipoi lo chiamò, e lo fece
principe della repubblica: al quale grado senza quella mani-
festa opposizione non sarebbe mai polulò ascendere. Questo
medesimo intervenne a Roma con Cesare; che favorita da
Pompeioe dagli altri quella sua virtù, si convertì poco dipoi
quel favore in paura: di che fa testimonio Cicerone, dicendo
che Pompeio aveva tardi cominciato a temer Cesare. La
qual paura fece che pensorono ai rimedi ; e gli rimedi che
feciono, accelerorno la rovina della loro Repubblica. Dico
adunque, che dipoi che gli è didìcile conoscere questi mali
quando e'surgono, causala questa dillìcultà da uno inganno
160 DEr DISCORSI
che (i fanno le cose in principio; è più savio partito il (era-
poreggiarle poiché le ai conoscono, che l'oppugnarle: perchè
r temporeggiandole, o per lormedesinaesi spengono, o almeno
1 il mate si differisce in più lungo tempo. E in tulle le cose
\ debbono aprir gli occhi i principi che disegnano cancellarle,
o alle forze ed impelo loro opporsi; di non dare loro, in cam-
bio di detrimento, augumento; e credendo sospingere una
cosa, tirarsela dietro, ovvero soffocare una pianta con annaf-
fiarla. Ma si debbe considerare bene le forze del malore, e
quando li vedi sutlìziente a sanarlo, metterviti senza rispet-
to: altrimenti, lasciarlo slare, né in alcun modo tentarlo.
Perchè interverrebbe, come di sopra si discorre, e come in-
tervenne avvicini di Uoma: ai quali, poiché Roma era cre-
sciuta in tanta potenza, era più salutifero con gli modi della
( pace cercare di placarla e ritenerla addietro, che coi modi
della guerra farla pensare a nuovi ordini e nuove difese.
r Perchè quella loro congiura non fece altro che farli più uni-
.11, più gagliardi, e pensare a modi nuovi, medianli i quali
«in più breve tempo ampliorono la potenza loro. Intra' quali
fu la creazione del Dittatore; per lo quale nuovo ordine non
solamente supcrorono gli imminenti pericoli, ma fu cagione
di ovviare a infiniti mali, ne' quali senza quello rimedio
quella Repubblica sar-ebbe incorsa.
Cap. \Wi\. — L' auloriià dillaloria fece bene, e non danno,
alla repubblica romana: e come le autorità che i cittadini
si tolgono, non quelle che sono loro dai suffragi liberi date,
sono alla vita civile perniciose,
E' sono slati dannati da alcuno scrittore quelli Romani
che trovorono in quella città il modo di creare il Dittatore,
come cosa che fusse cagione, col tempo, della tirannide di
Roma; allegando, come il primo tiranno che fusse in quella
.città, la comandò sotto questo titolo dittatorio; dicendo che
se non vi fusse stalo questo, Cesare non arebbe potuto sotto
alcuno titolo pubblico adonestare la sua tirannide. La qual
)cosa non fu bene da colui che tenne questa opinione esami-
nala, e fu fuori d' ogni ragione creduta. Perchè, e' non fu il
LIBRO PRIMO. ^Gl
nome né il grado del DiUatore che facesse serva Roma, raa
fu r autorità presa dai citladini per la diuturnità dello impe-
rio: e se in Roma fusse mancalo il nome dittatorio, ne areb-
hon preso un altro; perchè e* sono le forze che facilmente j
s'acquistano i nomi, non i nomi le forze. E si vedde che 'I j
Dittatore, mentre che fu dato secondo gli ordini pubblici, e
non per autorità propria, fece sempre bene alla città. Per-
chè e' nuocono alle repubbliche i magistrati che si fanno e
r autoritali che si danno per vie isiraordinarie; non quelle
che vengono per vie ordinarie: come si vede che segui in
Roma in tanto progresso di tempo, che mai alcuno Dittatore
fece se non bene alla Repubblica. Di che ce ne sono ragioni
evidentissime. Prima, perchè a volere che un cittadino
possa offendere, e pigliarsi autorità islraordinaria, conviene
eh' egli abbia molte qualità le quali in una repubblica non
corrotta non può mai avere: perchè gli bisogna essere ric-
chissimo, ed avere assai aderenti e partigiani, i quali non
può avere dove le leggi si osservano; e quando pure ve gli
avesse, simili uomini sono in modo formidabili, che i suffragi
liberi non concorrono in quelli. Oltra di questo, il Dittatore [
era fatto a tempo, e non in perpetuo, e per ovviare solamente a \
quella cagione mediante la quale era creato; e la sua auto- ■
rità si estendeva in potere deliberare per se stesso circa i modi
di quello urgente pericolo, e fare ogni cosa senza consulla, e
punire ciascuno senza appellagione: ma non poteva far cosa
che fusse in diminuzione dello stalo; come sarebbe stalo
tórre autorità al Senato o al Popolo, disfare gli ordini vecchi
della città, e farne de' nuovi. In modo che, raccozzato il breve
tempo della sua dittatura, e l'autorità limitata che egli ave-
va, ed il popolo romano non corrotto; era impossibile ch'egli
uscisse de' termini suoi, e nocesse alla città: e per espe-
rienza si vede che sempre mai giovò. E veramente, infra gli
altri ordini romani, questo è uno che merita esser conside-
rato, e connumeralo infra quelli che furono cagione della i
grandezza di tanto imperio; perchè senza un simile ordine '
le città con ditfìcuUà usciranno degli accidenti istraordinari: ;
perchè gli ordini consueti nelle repubbliche * hanno il moto i
' La ciadiana e la Testina aggiungono a questo luogo un die, il «[naie,
11*
Iij2 DEI Disconsi
lardo (non potendo alcuno consiglio né alcuno magislralo
per se slesso operare ogni cosa, ma avendo in molle cose
bisogno r uno dell' allro), e perchè nel raccozzare insieme
quesli voleri va lempo, sono i rimedi loro pericolosissimi,
quando egli hanno a rimediare a una cosa che non aspelli
lempo. E però le repubbliche debbono inlra'loro ordini avere
un simile modo: e la Repubblica veneziana. Iti quale intra le
moderne repubbliche è eccellente, ha riservalo autorità a
pochi cittadini, che ne' bisogni urgenti, senza maggiore con-
sulla, tulli d'accordo possine deliberare. Perchè quando in
una repubblica manca un simil modo, è necessario, o ser-
vando gli ordini rovinare,© per non rovinare rompergli. Ed
in una repubblica non vorrebbe mai accader cosa, che eòi
modi estraordinari s' avesse a governare. Perchè, ancora che
il modo istraordinario per allora facesse bene, nondimeno lo
esempio fa male; perchè si mette una usanza di rompere gli
'# /*^ (ordini per bene, che poi sello quel colore si rompono por
t^Jk^A ( male. Talché mai (ìa perfetta una repubblica , se con le leggi
*^.'8ue non ha provvisto a lutto, e ad ogni accidente posto il ri-
j'* medio, e dalo il modo a governarlo. E però, conchiudendo,
jL*m^ dico che quelle repubbliche le quali negli urgenti pericoli
^ / non hanno rifugio o al Dittatore o a simili aulorilati, scm-
**" •' pre ne' gravi accidenti* rovineranno. È da notare in questo
^ nuovo ordine , il modo dello eleggerlo, quanto dai Romani fu
saviamente provvisto. Perchè, sondo la creazione del Ditta-
tore con qualche vergogna dei Consoli, avendo, di capi della
città, a venire sotto una ubidicnza come gli altri; e presup-
ponendo che di questo avesse a nascere isdegno fra i citta-
dini; vollono che l'autorità dello eleggerlo fusse nei Consoli:
pensando che quando l'accidente venisse, che Roma avesse
bisogno di questa regia potestà, e' lo avessino a fare volen-
lieri; e facendolo loro, che dolessi lor meno. Perchè le fe-
Ìritc ed ogni allro male che l'uomo si fa da sé spontaneamente
e per elezione, dolgono di gran lunga meno, che quelle che
al mio rre(Icre, intralcia , auzichc rendere più spedila la sintassi. Noi credemmo
piuUo&to di poter supplire un' e congiuntiva tra il primo e il secondo ;jcrc/r«
alla fine della parentesi: e il nostro modo di costruire il periodo, in tulle le
edizioni malconcio, ci siamo ingegnali di darlo ad intendere colla punluazionc.
LIBUO PRIMO. 1C,'>
li sono falle da altri. Ancora che poi negli ullimi lempi i Ro-
mani usassino, in cambio del Diltalore, di dare lale aulorilà
al Console, con quesle parole: Vidcal Consul, ne Respublica
quid delrimenti captai. E per tornare alla maleria nostra,
conchiudo, come i vicini di Roma cercando opprimergli, gli
feciono ordinare, non solamente a potersi difendere, ma a
potere, con più forza, più consiglio e più aulorilà, offender
loro.
Cap. XXXV. — La cagione perchè in Roma la creazione del
decemvirato fu nociva alla liberlà di quella repubblica ,
non ostante che fosse creato per- suffragi pubblichi e liberi.
E' pare contrario a quel che di sopra è discorso;' che
quella aulorilà che si occupa con violenza, non quella eh' è
data con gli suffragi, nuoce alle repubbliche; la elezione dei
dieci cittadini creali dal Popolo romano per fare le leggi in
Roma: i quali ne divenlorno col tempo tiranni, e senza al-
cun rispetto occuporno la libertà di quella. Dove si debbe
considerare i modi del dare l'autorità, ed il tempo perchè
la si dà. E quando e* si dia autorità libera, col lempo lungo,
chiamando il tempo lungo un anno, o più; semine fìa perico-
losa, e farà gli effetti o buoni o tristi, secondo che fieno tri-
sti o buoni coloro a chi la sarà data. E se si considera l'au-
torità che ebbero i Dieci, e quella che avevano i Diltalori, si
vedrà senza comparazione quella dei Dieci maggiore. Perchè,
crealo il Diltalore, rimanevano i Tribuni, i Consoli, il Se-
nato, con la loro autorità; né il Dittatore la poteva tórre lo-
ro: e s'egli avesse potuto privare uno del consolato, uno del
senato, ei non poteva annullare l'ordine senatorio, e faro
nuove leggi. In modo che il Senato, i Consoli, ed i Tribuni,
restando con 1' aulorilà loro, venivano ad esser come sua
guardia, a farlo non uscire della via diritla. Ma nella crea-
zione dei Dieci occorse lutto il contrario: perchè gli annul-
lorno i Consoli ed i Tribuni, dettone loro aulorilà di tare leggi,
ed ogni altra cosa, come il Popolo romano. Talché, trovan-
dosi soli, senza Consoli, senza Tribuni, senza appellagione al
* Abbiasi, in questo luogo, per sollialcso: cioè.
Ulì DEI DISCORSI
Popolo; e per quesfo non venendo ad avere chi osservas-
scgli,' ci poterono, il secondo anno, mossi dall' ambizione
di Appio, divenlare insolenti. E per questo si debbo no(aro,
che quando e* si è dello che una autorità data da'sufTraui
liberi, non offese mai alcuna repubblica; si presuppone che
un popolo non si conduca mai a darla, se non con le debite
circonstanzie, e ne'debili tempi: ma quando, o per essere in-
gannato, o per qualche altra cagione che lo accecasse, e' si
conducesse a darla imprudeoleroente, e nel modo che M Po-
polo romano la dette a' Dieci, gl'interverria sempre come
a quello. Questo si prova facilmente, considerando quali ca-
gioni mantenessero i DiUalori buoni, e quali facessero i Dieci
cattivi; e considerando ancora, come hanno fatto quelle re-
pubbliche che sono stale tenute bene ordinale, nel dare l'au-
torità per lungo tempo; come davano gli Spartani agli loro
Ke, ecome danno i Veneziani ai loro Duci: perchè si vedrà,
all'ano ed alPaltro modo di costoro esser poste guardie, che
facevano che i Re non potevano usare male quella autorità.
Né giova, in questo caso, che la materia non sia corrotta;
perchè una autorità assoluta, in brevissimo tempo corrompe
la materia, e si fa amici e partigiani. Né gli nuoce o esser
f)Ovcro, 0 non avere parenti : perchè le ricchezze, ed ogni al-
tro favore subitogli corre dietro: come particolarraenle nella
cre.»zione de'dclli Dieci discorreremo.*
Cap. XXXVI. ~ Non debbono i cillaìini che hanno avuti
{ magjiori onori, sitcgnarsi de* minori.
Avevano i Romani fatti Marco Fabio e G. Manilio con-
soli, e vinta una gloriosissima giornata contra a' Veienli e
gli Elrusci; nella quale fu morto Quinto Fabio, fratello del
consolo, quale lo anno davanti era stato consolo. Dove si
debhe considerare , quarito gli ordini di quella città erano atti
a farla grande; e quanto le altre repubbliche che si disco-
* La comune delle tdixìcmi: f;fi assentisse s la Romana, con errore evi-
dente: osservagli. È prolialtile che T Autore scrivesse osservargli j modo eliUico
il quale soUinlendereMie potesse, o dovesse.
2 Di ciò infalli torna a parlare nel seg. rap. XL : ond'c per lo meno
c«|UÌvoca la lezione della BlaJiaua e della Testina : discórrtmo.
i
LIBRO PRIMO. 105
Stano dai modi suoi, s'ingannano. Perchè, ancora che i Ro-
mani fussino amatori grandi della gloria, nondimeno non sii
raavano cosa disonorevole ubbidire ora a chi altra volta essi
avevano comandato, e trovarsi a servire in quello esercito
del quale erano stati principi. Il quale costume è contrario
alia oppinione, ordini e modi de' cittadini de' tempi nostri:
ed in Vinegia è ancora questo errore, che uno cittadino f
avendo avuto un grado grande, si vergogni di accettare uno \
minore; e la città gli consente che se ne possa discostare. ■
La qual cosa, quando fusse onorevole per il privato, è al
tutto inutile per il pubblico. Perchè più speranza debbe
avere una repubblica, e più conQdare in uno cittadino che
da un grado grande scenda a governare uno minore, che in
quello che da uno minore salga a governare un maggiore.
Perchè a costui non può ragionevolmente credere, se non li
vede nomini intorno, i quali siano di tanta riverenza o di
tanta virtù, che la novità di colui possa essere con il censi- ,
glie ed autorità loro moderata. E quando in Roma fusse stata
la consuetudine quale in Vinegia, e nell'altre repubbliche e
regni moderni, che chi era stato una volta Consolo, non vo-
lesse mai più andare negli eserciti se non Consolo; ne sareb-
bono nate infinite cose in disfavore del viver libero; e per gli
errori che arebbono fatti gli uomini nuovi, e per 1' ambizione
che loro arebbono potuto usare meglio, non avendo uomini
intorno, nel cospetto de* quali ei temessino errare; e così
sarebbero venuti ad essere più sciolti: il che sarebbe tornato
tutto in detrimento pubblico.
Cap. XXXVII. — Quali scandali partorì in Roma la legge
agraria: e come fare una legge in una repubblica che ris-
guardi assai indietro, e sia cbnlra ad una consuetudine
antica della città, è scandólosissimo.
Egli è sentenza degli antichi scrittori, come gli uomini /
sogliono affliggersi nel male e stuccarsi nel bene; e come f
dall' una e dall' altra di queste due passioni nascono i me-
desimi efletti. Perchè, qualunque volta è tolto agli uomini il f
combattere per necessità, combattono per ambizione: la quale
IGQ DEI DISCORSI
è lanlo potente ne' pelli amani, che mai» a qualunque grado
si salgano, gli abbandona. La cagione è, perchè la natura
ha creali gli uomini in modo, che possono desiderare ogni
cosa, e non possono conseguire ogni cosa: talché, essendo
sempre maggiore il desiderio che la polenza dello acquistare,
\ oe risulla la mala conlenlezza di quello che si possiede, e la
poca satisfazione di esso. Da questo nasco il variare della
fortuna loro: perchè desiderando gli uomini, parte di avere
più, parie temendo di non perdere lo acquistalo, si viene alle
inimicizie ed alla guerra ; dalla quale nasce la rovina di quella
provincia, e la esaltazione di queir altra. Questo discorso ho
fallo, perchè alla Plebe romana non bastò assicurarsi de' No-
bili per la creazione de' Tribuni, al quale desiderio fu con-
slrctla per necessità; che lei subilo, ollenulo quello, cominciò
a combaltere per ambizione, e volere con la Nobiltà dividere
gli onori e le sustanzc, come cosa stimata più dagli aomini.
Da questo nacque il morbo che partorì. In contenzione della
legge agraria, ed infine fu causa c|e|Ia distruzione della Re-
pubblica romana. E perchè le repubbliche bone ordinale
hanno a tenere ricco il pubblico, e li loro cittadini poveri;
convenne che fosse nella città di Roma difetto in questa
legge: la quale o non fosse fatta nel principio in modo che
la non si avesse ogni di a rilrallare; o che la si diiTerisse
tanto in farla, che fosse scandoloso il riguardarsi indietro;
0 sendo ordinata bene da prima, era stala poi dall' uso cor-
rotta: talché, in qualunque modo si fosse, mai non si parlò
l di questa legge in Roma, che quella città non andasse sot-
( losopra. Aveva questa legge duoi capi principali. Per 1' uno
si disponeva che non si potesse possedere per alcun citta-
dino pi(i che tanti iugeri di terra; per l'altro, che i campi
di che si privavano i niioici, si dividessino intra il popolo ro-
mano. Veniva pertanio a fare di duoi sorte offese ai Nobili:
perchè quelli che possedevano più beni * non permelleva la
legge (quali erano ta maggior parte de' Nobili), ne avevano
ad esser privi; e divedendosi intra la Plebe i beni de' nimici,
si toglieva a quelli la via dello arricchire. Sicché, venendo
* Molti cdilori (io credo) qtrf" aggiunsero chej rammoJcrnando , non
facendo più bello il discorso.
LIBRO PRIMO. 4C7
ad essere queste offese centra ad uomini polenti , e che pa-
reva loro, contrastandola,' difendere il pubblico; qualunque
volta, com'è detto, si ricordava, andava sottosopra quella
città: ed i Nobili con pazienza ed industriala temporeggiava-
no, o con Irar fuora un esercito, o Che a quel Tribuno che
la proponeva si opponesse uno altro Tribuno; o talvolta ce-
derne parte; ovvero mandare una colonia in quel luogo che
si avesse a distribuire: come intervenne del contado di An-
zio, per il quale surgendo questa disputa della legge, si mandò
in quel luogo una colonia tratta di Roma, alla quale si con-
segnasse fletto contado. Dove Tito Livio usa un termine no-
tabile, dicendo che condifflcultà si trovò in Roma chi desse
il nome per ire in detta colonia: tanto era quella Plebe più
pronta a volere desiderare le cose in Roma, che a possederle
in Anzio! Andò questo umore di questa legge cosi travaglian-
dosi un tempo, tanto che i Romani cominciarono a condurre
le loro armi nelle estreme parli di Italia, o fuori di Italia;
dopo al qual tempo parve che la restasse. Il che nacque
perchè i campi che possedevano i nimici di Roma essendo
discosti dagli occhi della Plebe, ed in luogo dove non gli era
facile il coltivargli, veniva meno ad esserne desiderosa: ed
ancora i Romani erano meno punitori de' loro nemici in si-
mil modo; e quando pure spogliavano alcuna terra del suo
contado, vi distribuivano colonie. Tanto che per tali cagioni
questa legge slette come addormentata infino a' Gracchi:
da' quali essendo poi svegliala, rovinò al lutto la libertà ro-
mana; perchè la trovò raddoppiala la potenza de' suoi av-
versari, e si accese per questo tanto odio intra la Plebe ed
il Senato, che si venne all'armi ed al sangue, fuor d'ogni
modo e costume civile. Talché, non polendo i pubblici magi-
strati rimediarvi, né sperando più alcuna delle fazioni in
quelli, si ricorse a' rimedi privati, e ciascuna delle parti
pensò di farsi un capo che la difendesse. Pervenne in que-
sto scandolo e disordine la Plebe, e volse la sua riputazione
a Mario, tanto che la lo fece quattro volte Consolo; ed in tanto
* Riferisce , logicamente , alla legge. Quegli editori che ciò non intesero ,
rassettarono: contrastandole. E che [)oi, senza questa più lontana relazione,
reggerebbe il verbo si ricordava?
iCyS DEI DISCORSI
continuò con pochi inlervalli il suo consolalo, che si polellc
per se stesso far Consolo tre altre volte. Conlra alla qual
peste non avendo la Nobiltà alcuno rimedio, si volse a favo-
rir Siila; e fatto quello capo della parte sua, vennero alle
guerre civili; e dopo mollo sangue e variar di fortuna, ri-
mase superiore la Nobiltà. llìBuscilorono poi questi umori a
tempo di Cesare e di Pompeo; perchè, fallosi Cesare capo
della parie di Mario, e Pompeo di quella di Siila, venendo
alle mani rimase superiore Cesare: il quale fu primo tiranno
in Roma; talché mai fu poi lìbera quella città. Tale, adunque,
principio e Gne ebbe la legge agraria. E benché noi mo-
strassimo altrove, come le inimicizie di Roma intra il Senato
e la Plebe mantenessero libera Roma, per nascerne da quelle
leggi in favore della libertà; e per questo paia disforme a tale
conclusione il fine di questa legge agraria; dico come, per
questo, io non mi rimuovo da tale oppinione: perchè egli è
tanta V ambizione de* grandi, che se per varie vie ed in vari
modi la non è in una città sbattuta, tosto riduce quella città
alla rovina sua. In modo che, se la contenzione della legge
agraria penò trecento anni a fare Roma serva, si sarebbe
condotta, per avventura, mollo più tosto in servitù, quando la
Plebe, e con questa legge e con altri suoi appetiti, non avesse
sempre frenalo la ambizione de'Nobili. Vedesi per questo an-
cora, quanto gli uomini stimano più la roba che gli onori.
Perchè la Nobiltà romana sempre negli onori cede senza
scandali istraordinari alla Plebe; ma come si venne alla ro-
ba, fu tenta là ostinazione sua nel difenderla, che la Plebe
ricorse, per isfogare l' appetito suo , a quelli istraordinari che
di sopra si discorrono. Del quale disordine furono motori i
Gracchi; de' quali si debbe laudare più la intenzione che la
prudenza. Perchè, a voler levar via uno disordine cresciuto
in una repubblica, e per questo fare una legge che riguardi
assai indietro, è partito male consideralo; e, come di sopra
largamente si discorse, non si fa altro che accelerare quel
male a che quel disordine ti conduce: ma temporeggiandolo,
0 il male viene più tardo, o per se medesimo col tempo,
avanti che venga al fine suo, si spegne.
LIBRO PRIMO. i69
Gap. XXXVIII. — Le repubbliche deboli sono male risolute y
e non si sanno deliberare ; e se le pigliano mai alcuno par^
tito, nasce piii da necessità che da elezione.
Essendo in Roma una gravissima pestilenza, e parendo
per questo agli Volsci ed agli Equi che fusse venuto il tempo
di potere oppressar Roma; fatti questi due popoli uno grossis-
simo esercito, assaltorono gli Latini e gliErnici;e guastando
il loro paese, furono constrelti gli Latini e gli Ernici farlo in-
tendere a Roma, e pregare che fussero difesi da' Romani:
ai quali, sendo i Romani gravati dal morbo, risposero che
pigliassero partito di difendersi da loro medesimi e con le
loro armi, perchè essi non li potevano difendere. Dove si
conosce la generosità e prudenza di quel Senato, e come
sempre in ogni fortuna volle essere quello che fusse. principe
delle deliberazioni che avessero a pigliare 1 suoi; né si ver- r
gognò mai deliberare una cosa che fusse contraria al suo \
modo di vivere o ad altre deliberazioni fatte da lui, quando
la necessità gliene comandava. Questo dico perchè altre volte i
il medesimo Senato aveva vietato ai detti popoli l'armarsi e '
difendersi: talché ad un Senato meno prudente di questo,
sarebbe parso cadere del grado suo a concedere loro tale di-
fensione. Ma quello sempre giudicò le cose come si debbono i
giudicare, e sempre prese il meno reo partito per migliore:
perchè male gli sapeva non potere difendere i suoi sudditi; (
male gli sapeva che si armassino senza loro, per le ragioni '
dette, e per molte altre che si intendono: nondimeno, cono-
scendo che si sarebbono armati, per necessità, a ogni mo-
do, avendo il nimico addosso; prese la parte onorevole, e
volle che quello che gli avevano a fare, lo facessino con li-
cenzia sua, acciocché avendo disubbidito per necessità, non
si avvezzassino a disubbidire per elezione. E benché questo
paia partito che da ciascuna repubblica dovesse esser preso;
nientedimeno le repubbliche deboli e male consigliale non
gli sanno pigliare, né si sanno onorare di simili necessità.
Aveva il duca Valentino presa Faenza, e fatto calare Bolo-
gna agli accordi suoi. Dipoi, volendosene tornare a Roma per
15
170 DEI DISCORSI
la Toscana, mandò in Firenze uno suo uomo a domandare il
passo per sé e per il suo esercito. Consullossi in Firenze
come si avesse a governare questa cosa, né fu mai consi-
glialo per alcuno di concedergliene. In che non si segui il
modo romano: perché, sendo il Duca armatissimo, ed i Fio-
rentini in modo disarmali che non gli potevano vietare il
passare, era mollo più onore loro, che paresse che passasse
con permissione di quelli, che a forza; perchè, dove vi fu al
lutto il loro vituperio, sarebbe stato in parte minore quando
r avessero governata altrimenti. Ma la più cattiva parte che
abbino le repubbliche deboli, è essere irresolute; in modo
che lutti i parliti che le pigliano, gli pigliano per forza; e se
vien loro fatto alcuno bene, lo fanno forzalo, e non per pru-
denza loro, lo voglio dare di questo duoi altri esempi , occorsi
ne' tempi nostri nello stalo della nostra città, 'nel millecin-
quecento. Ripreso cfie il re Luigi Xll di Francia ebbe Milano,
desideroso di rendergli ' Pisa, per aver cinquanta mila duca-
ti che gli erano stati promessi da' Fiorentini dopo tale re-
stituzione, mandò gli suoi eserciti verso Pisa, capitanati da
( monsignor Beaumonle; benché francese, nondimanco uomo
\ ÌD cui i Fiorentini assai confidavano. Condussesi questo eser-
(cilo e questo capitano intra Cascina e Pisa, per andare a com-
battere le mora; dove dimorando alcuno giorno per ordinarsi
alla espugnazione, vennero oratori Pisani a Beaumonle, e
gli otTeriroHo di dare la città allo esercito francese con que-
sti palli: che, sotto la fede del re, promettesse non la mettere
in mano de' Fiorentini, prima che dopo quattro mesi, il quel
partito fu dai Fiorentini al tutto rifiutato, in modo che si se-
guì nello andarvi a campo, e partissene' con vergogna. Né
fu rifiutato il parlilo per altra cagione, che per diffidare della
fede del re; come quelli che per debolezza di consiglio si
erano per forza messi nelle mani sue: e dall'altra parie, non
se ne fidavano, né vedevano quanto era meglio che il re
* La Romaoa pone qni paolo, leggendo t della nostra città. Aet MD.
ripreso ec
S L'ediiione stessa t rendervi. lotendasi, reodere alla nostra cittàr^oauti
nominata.
' Vale a dire, se ne partì; comspondente all'altro, si segià. La Testina
però legge > partirsene.
I
LIBRO PRIMO. Ì7Ì
potesse rendere loro Pisa sendovi dentro, e non la rendendo
scoprire l'animo suo, che non la avendo, poterla loro pro-
mellere, e loro essere forzati comperare quelle promesse.
Talché mollo più utilmente arebbono fatto a consentire che
Beaumonle l'avesse, sotto qualunque promessa, presa: come
se ne vide la esperienza dipoi nel 1502, che essendosi ribel-
lalo Arezzo, venne a* soccorsi de' Fiorentini mandato dal
re di Francia monsignor Imbalt con gente francese; il qual
giunto propinquo ad Arezzo, dopo poco tempo cominciò a pra-
ticare accordo con gli Aretini, i quali sotto certa fede volevano
dare la terra, a similitudine de'Pisani. Fu riGutato in Firenze
tale partito; il che veggendo monsignor Imbalt, è parendo-
gli come i Fiorentini se ne intendessino poco, cominciò a
tenere le pratiche dello accordo da sé, senza participazione
de' Commessari: tanto che e' lo conchiuse a suo modo, e
sotto quello con le sue genti se ne entrò in Arezzo, facendo
intendere a* Fiorentini come egli erano matti , e non si in-
tendevano delie cose del mondo: che se volevano Arezzo, lo
facessino intendere al re, il quale lo poteva dar loro molto
meglio, avendo le sue genti in quella città, che fuori. Non
si reslava in Firenze di lacerare e biasimare detto Imbalt;
né si restò mai, infino a tanto che si conobbe che se Beaa-
monle fusse stato simile a Imbalt, si sarebbe avuto Pisa
come Arezzo. E cosi, per tornare a proposito, le repubbliche
irresolute non pigliano mai partiti buoni, se non per forza,
perchè la debolezza loro non le lascia mai deliberare dove è
alcuno dubbio; e se quel dubbio non è cancellato da una vio-
lenza che le sospinga, stanno sempre mai sospese.
Gap. XXXIX. — In diversi popoli si veggono spesso
% medesimi accidenli.
E' si conosce facilmente per chi considera le cose pre-
senti e le antiche, come in tutte le città ed in tutti i popoli
sono quelli medesimi desideri! e quelli medesimi umori, e
come vi furono sempre: in modo che gli è facil cosa a chi
esamina con diligenza le cose passale, prevedere in ogni re-
pubblica le future, e farvi quelli rimedi che dagli antichi
172 DEI DISCORSI
sono stati osati; o non ne trovando degli usati, pensarne
de' nuovi, per la similitudine degli accidenti. Ma perchè que-
ste considerazioni sono neglette, o non inlese da chi lesge;
o se le sono intese, non sono conosciute da chi governa; ne
seguita che sempre sono i medesimi scandali in ogni tempo.
Avendo la città di Firenze, dopo il 94, perduto parte dello im-
perio suo, come Pisa ed altre terre, fu necessitata a fare guer-
ra a coloro che le occupavano. E perchè chi le occupava era
; potente, ne seguiva che si spendeva assai nella guerra, senza
alcun frutto: dallo spendere assai ne risultava assai gravezze;
dalle gravezze, infinite querele del popolo: e perchè questa
guerra era amministrata da uno magistrato di dieci cittadini
che si chiamavano i Dieci della guerra, l'universale comin-
ciò a recarselo in dispetto, come quello che fusse cagione e
della guerra e delle spese di essa; e cominciò a persuadersi
che tolto via detto magistrato, fusse tolto via la guerra:
tanto che avendosi a rifare, non se gli fecero gli scambi; e
lasciatosi spirare, si commisero le azioni sue alla Signoria.
Laqual deliberazione fu tanto perniziosa, che non solamente
non levò la guerra, come lo universale si persuadeva; ma
tolto via quelli uomini che con prudenza la amministravano,
; ne segai tanto disordine, che, oltre a Pisa, si perde Arezzo
e molti altri luoghi: in modo che, ravvedutosi il popolo dello
r. errore suo, e come la cagione del male era la febbre e non
; il medico, rifece il magistrato de' Dicci. Questo medesimo
( amore si levò in Roma centra al nome de' Consoli: perchè,
I veggendo quello Popolo nascere l' una guerra dall' altra, e
non poter mai riposarsi; dove e' dovevano pensare che la
nascesse dalla ambizione de' vicini che gli volevano opprime-
re; pensavano nascesse dall' ambizione de' Nobili, che non
polendo dentro in Roma gastigar la Plebe difesa dalla pote-
stà tribunizia, la volevano condurre fuori di Roma sotto i
Consoli, per opprimerla dove non aveva aiuto alcuno. E
pensarono per questo, che fusse necessario o levar via i
, Consoli, o regolare in modo la loro potestà, che e' non aves-
sino autorità sopra il popolo, né fuori né in casa. Il primo
che tentò questa legge, fu uno Terentillo tribuno; il quale
proponeva che si dovessero creare cinque uomini che do^
Libro primo* 173
vessino considerare la potenza de* Consoli, e limitarla. Il
che alterò assai la Nobiltà, parendoli che la maiestà dell* im-
perio fusse al tutto declinata, talché alla Nobiltà non restasse
più alcuno grado in quella Repubblica. Fu nondimeno tanta
la ostinazione de* Tribuni, che il nome consolare si spense;
e furono in fine conlenti, dopo qualche altro ordine, piutto-
sto creare Tribuni con potestà consolare, che i Consoli:
tanto avevano più in odio il nome che la autorità loro. E
cosi seguitorno lungo tempo, infino che, conosciuto lo errore
loro, come i Fiorentini rilornorno ai Dieci, cosi loro ri-
creorno i Consoli.
Gap. XL.-'La creazione del decemvirato in Roma, e quello
che in essa è da notare: dove si considera, intra molte altre
cose, come si può salvare per simile accidente, o appressare
una repubblica.
Volendo discorrere particolarmente sopra gli accidenti
che nacquero in Roma per la creazione del decemvirato,
non mi pare soperchio narrare prima lutto quello che segui
per simile creazione, e dipoi disputare quelle parli che sono
in esse azioni notabili: le quali sono molte, e di grande
considerazione, cosi per coloro che vogliono mantenere una
repubblica libera, come per quelli che disegnassino som-
metterla. Perchè in tale discorso si vedranno molli errori
fatti dal Senato e dalia Plebe in disfavore delia libertà; e
molti errori fatti da Appio, capo del decemvirato, in disfa-
vore di quella tirannide che egli si aveva presupposto sta-
bilire* in Roma. Dopo molte disputazioni e contenzioni se-
guite intra il Popolo e la Nobiltà per formare nuove leggi
in Roma, per le quah e' si stabilisse più la libertà di quello
stato; mandarono, d'accordo, Spurio Postumio con duoi altri
cittadini ad Atene per gli essempi di quelle leggi che Solone
détte a quella città, acciocché sopra quelle potessero fondare
le leggi romane. Andati e tornati costoro, si venne alla crea-
zione degli uomini ch'avessino ad esaminare e fermare dette
^ Così nella Testina. L*edicion« del Biado t presuposto stabile i le altre i
ài stabilire. ... ,. , , , . ,
i6*
i7i DEI DISCORSI
leggi; e creorno dieci ciUadini per ano anno, tra i quali
fu creato Appio Claudio, uomo sagace ed inquieto. E perchè
e'potessino senza alcuno rispetto creare tali leggi, si leva-
rono di Roma tutti gli altri magistrati, ed in particolare i
Tribuni ed i Consoli, e levossi lo appello al Popolo; in modo
che tale magistrato veniva ad essere al tutto principe di Ro-
ma. Appresso ad Appio si ridusse tutta l'autorità degli altri
suoi compagni, per gli favori che gli faceva la Plebe: perchè
egli s'era fatto in modo popolare con le dimostrazioni, che
pareva meraviglia eh' egli avesse preso si presto una nuova
natura e uno nuovo ingegno, essendo stalo tenuto innanzi
a questo tempo un crudele persecutore della Plebe. Gover-
naronsi questi Dieci assai civilmente, non tenendo più che
dodici littori, i quali andavano davanti a quello ch'era in-
fra loro preposto. E bench'egli avessino l'autorità assoluta,
nondimeno avendosi a punire un cittadino romano per omi-
cidio, ' lo citorno nel cons|)etto del Popolo, e da quello lo
fecero giudicare. Scrissero le loro leggi in dieci (avole, ed
avanti che le confìrmasscro, le messone in pubblico, accioc-
ché ciascuno le potesse leggere e dispularle; acciocché si
conoscesse se vi era alcuno difetto, per poterle innanti alla
conQrmazione loro emendare. Fece, in su questo, Appio na-
scere un remore per Roma, che se a questo dieci tavole se
n'aggiungessino due altre, si darebbe a quelle la loro per-
fezione; talché questa oppinione dette occasione al Popolo di
rifare i Dieci per uno altro anno: a che il Popolo si accordò
volentieri; si perchè i Consoli non si rifacessino; sì perché
speravano loro potere stare senza Tribuni, sendo loro giudici
delle cause, come di sopra si disse. Preso, 'adunque, partito
di rifargli, tutta la Nobiltà si mosse a cercare questi onori,
ed intra i primi era Appio; ed usava tanta amanita verso la
Plebe nel domandarla, che la cominciò ad essere sospetta
a suoi compagni: credebanl enim haud graluUam in tanta
superbia comilatem fore. E dubitando di opporsegli aperta-
mente, diliberarono farlo con arte; e benché e' fusse minore
di tempo di tutti, dettone a lui autorità di proporre i futuri
Dieci al popolo, credendo eh' egli osservasse i termini degli
' "Là Bhdiaoa soIUnto : per omicida.
ilBUO t>KlMO. i*l^
altri di non proporre se medesimo, sendo cosa inusitata e
ignominiosa in Roma. lUe vero impelimenlum prò occasione
arripuit;e nominò sé intra i primi, con meraviglia e dispia-
cere di tutti i Nobili: nominò poi nove altri al suo proposito.
La qual nuova creazione fatta per uno altro anno, cominciò
a mostrare al Popolo ed alla Nobiltà lo error suo. Perchè su-
bilo Appio: finem fecU ferendud alienw personce; e cominciò a
mostrare la innata sua superbia, ed in pochi di riempiè di
suoi costumi i suoi compagni. £ per isbigottire il Popolo ed
il Senato, in scambio di dodici littori, ne feciono cento venti.
Slette ia paura eguale qualche giorno; ma cominciarono poi
ad intrattenere il Senalo,e battere la Plebe: e s'alcuno battuto
dall'uno, appellava all'altro, era peggio trattato nell'appella-
gione che nella prima causa. In modo che la Plebe, cono-
sciuto lo errore suo, cominciò piena di afOizione a riguardare
in viso ì Nobili, el inde liberlalis captare auram, unde servilu-
lem limendo, in eum slalum rempublicarn adduxeranl. E alia
Nobiltà era grata questa loro afflizione, ut ipsi^ la:dio prcB-
seniium, Conmles desiderarenl. Vennero i di che termina-
vano l'anno: le due tavole delle leggi erano fatte, ma non
pubblicate. Da questo i Dieci presono occasione di continovare
nel magistrato, e comincìorono a tenere con violenza lo
slato, e farsi satelliti della gioventù nobile, alla quale da-
vano i beni di quelli che loro condannavano. Quihus donis
Juventus corrumpebatur , et malebat licenliam suam, quam om-
nium liberlatem. Nacque in questo tempo, che i Sabini ed i
Volsci mossero guerra a' Romani: in su la qual paura co-
minciarono i Dieci a vedere la debolezza dello stato loro;
perchè senza il Senato non potevano ordinarcla guerra, e
ragunando il Senato pareva loro perdere lo stato. Pure, ne-
cessitati, presono questo ultimo partito; e ragunati i Senatori
insieme, molti de' Senatori parlarono contro alla superbia
de' Dieci, ed in particolare Valerio ed Orazio: e la autorità
loro si sarebbe al tutto spenta, se non che il Senato, per in-
vidia della Plebe, non volle mostrare 1* autorità sua, pensando
che se i Dieci deponevano il magistrato voluntarii, che po-
tesse essere che i Tribuni della plebe non si rifacessero.
Dehberossi adunque la guerra; uscissi fuori con due eserciti
ì% DEI DISCORSt
guidati da parte di detti Dieci; Appio rimase a governare la
città. Donde nacque che si innamorò di Virginia, e che vo-
lendola tórre per forza, il padre Virginio, per liberarla,
r ammazzò: donde seguirono ì tumulti di Roma e degli
eserciti; i quali ridottisi insieme con il rimanente della
Plebe romana, se ne andarono nel Monte Sacro, dove stet-
tero tanto che i Dieci deposono il magistrato, e che furono
creati i Tribuni ed i Consoli, e ridotta Roma nella forma
della antica sua libertà. Notasi, adunque, per questo testo,
in prima esser nato in Roma questo inconveniente di creare
questa tirannide, per quelle medesime cagioni che na-
scono la maggiore parte delle tirannidi nelle città: e questo
/ è da troppo desiderio del popolo d' esser libero, e da troppo
) desiderio de' nobili di comandare. E quando e' non conven-
gono a fare una legge in favore della libertà, ma gettasi
qualcuna delle parti a favorire uno, allora è che subito la
tirannide surge.' Convennono il Popolo ed i Nobili di Roma
I a creare i, Dieci, e òrearli con tanta autorità, per desiderio
' che ciascuna delle parti aveva, T una di spegnere il nome
consolare, l'altra il tribunizio. Creali che furono, parendo
alla Plebe che Appio fusse diventato popolare e battesse la
^ Nobiltà, si volse il Popolo a favorirlo. E quando on popolo
si conduce a far questo errore di dare riputazione ad uno
perchè balta quelli che egli ha in odio, e che quello uno sia
savio, sempre interverrà che diventerà tiranno di quella
città. Perchè egli attenderà, insieme con il favore del popolo,
( a spegnere la nobiltà; e non si volterà mai alla oppressione
' del popolo, se non quando ei 1' ara spenta; nel qual tempo
conosciutosi il popolo essere servo, non abbi dove rifuggire.
, Questo modo hanno tenuto tutti coloro che hanno fondato
' tirannidi in le repubbliche : e se questo modo avesse tenuto
Appio, quella sua tirannide avrebbe preso più vita, e non sa-
rebbe mancata si presto. Ma ei fece tutto il contrario, né si
potette governare più imprudentemente; che per tenere la
tirannide, e* si fece inimico di coloro che glie l'avevano data
e che gliene potevano mantenere, ed amico di quelli che
non erano concorsi a dargliene e che non gliene arebbono
V potuta mantenere; e perdessi coloro che gli erano amici, e
f
m LIBRO PRIMO. in
cercò di avere amici quelli che non gli potevano essere ami-
ci. Perchè, ancora che i nobili desiderino tiranneggiare,
quella parte della nobiltà che si truova fuori della tirannide,
è sempre inimica al tiranno; né quello se la può mai guada-
gnare tutta, per l'ambizione grande e grande avarizia che è
in lei, non potendo il tiranno avere né tante ricchezze né
tanti onori, che a tutta satisfaccia. E cosi Appio, lasciando
il Popolo ed accostandosi a' Nobili, fece uno errore eviden-
tissimo, e per le ragioni dette di sopra, e perché a volere
con violenza tenere una cosa, bisogna che sia più potente
chi sforza, che chi è sforzato. Donde nasce che quelli tiranni
che hanno amico lo universale ed inimici i grandi, sono più
sicuri; per essere la loro violenza sostenuta da maggior for-
ze, che quella di coloro che hanno per inimico il popolo ed
amica la nobiltà. Perché con quello favore bastano a conser-
varsi le forze intrinseche; come bastorno a Nabide tiranno
di Sparta, quando tutta Grecia ed.il popolo romano lo assal-
tò: il quale assicuratosi di pochi nobili, avendo amico il po-
polo, con quello si difese; il che non arebbe potuto fare
avendolo inimico. In quello altro grado, per aver pochi amici
dentro, non bastano le forze intrìnseche, ma gli conviene
cercare di fuora. Ed hanno ad essere di tre sorti : V una sa-
telliti forestieri, che ti guardino la persona; l'altra armare
il contado, che faccia queirofllzio che arebbe a fare la plebe;
la terza aderirsi co' vicini polenti, che ti difendine. C4hi
tiene questi modi e gli osserva bene, ancora eh' egli avesse
per inimico il popolo, potrebbe in qualche modo salvarsi.
Ma Appio non poteva far questo di guadagnarsi il contado-,
sendo una medesima cosa il contado e Roma ; e quel che
poteva fare, non seppe: talmente che rovinò ne' primi prin-
cipii suoi. Fecero il Senato ed il Popolo in questa creazione
del decemvirato errori grandissimi: perchè ancora che di
sopra si dica, in quel discorso che si fa del Dittatore, che
•quelli magistrati che si fanno da per loro, non quelli che fa il
popolo, sono nocivi alla libertà ; nondimeno il popolo debbo,
quando egli ordina i magistrati, fargli in modo che gli ab-
bino avere qualche rispetto a diventare tristi. E dove e' si
debbe proporre loro guardia per mantenergli buoni , i Ro-
Cxm
i78 DEI DISCORSI
mani la levorono, facendolo solo magistrato in Roma, ed
annullando tulli gli altri, per la eccessiva voglia (come di
sopra dicemmo) che il Senato aveva di spegnere i Tribuni,
e la Plebe di spegnere i Consoli; la quale gli accecò in mo-
do, che concorsono in tale disordine. Perchè gli uomini,
come diceva il re Ferrando, spesso fanno come certi minori
uccelli di rapina; ne* quali è tanto desiderio di conseguire la
loro preda, a che la natura gli incita, che non sentono un
altro maggior uccello che sia loro sopra per ammazzargli.
IConoscesi, adunque, per questo discorso, come nel principio
I proposi, lo errore del Popolo romano, volendo salvare la li-
bertà; e gli errori di Appio, volendo occupare la tirannide.
Gap. XLI. — Sahare dalla umilia alla superbia^ dalia pietà
alla crudellà, ienza debili mezzi^ è cosa imprudente ed
inulile.
Oltre agli altri termini male usati da Appio per mante-
nere la tirannide, non fu di poco momento saltare troppo
presto da una qualità ad un'altra. Pefchè la astuzia sua nello
ingannare la Plebe, simulando d'essere uomo popolare, fu
bene usata ; furono ancora bene usali i termini che tenne
perchè i Dieci si avessino a rifare ; fu ancora bene usata
quella audacia di creare se stesso contro alla oppinione delia
Nobiltà; fu bene usato creare colleghi a suo proposito: ma
non fu già bene usalo, come egli ebbe fatto questo, secondo
che di sopra dico, mutare in un subilo natura; e di amico,
mostrarsi nimico alla Plebe; di umano, superbo; di facile,
diffìcile; e farlo tanto presto, che senza scusa veruna ogni
uomo avesse a conoscer la fallacia dello animo suo. Perchè chi
è paruto buono un tempo, e vuole a suo proposito diventar
tristo, lo debbo fare per gli debiti mezzi; ed in modo con-
durvisi con le occasioni, che innanzi che la diversa nalura
ti tolga de'favori vecchi, la te ne abbia dati tanti de^li nuovi,
che tu non venga a diminuire la tua autorità: altrimenti, tro-
^ yandoli scoperto e senza amici, rovini. . '
LIBRO PRIMO. 479
Gap. XLIl. — Quanto gli uomini facilmente si possono
corrompere.
Notasi ancora in questa materia del decemvirato, quanto
facilmente gli uomini si corrompono, e fannosi diventare di
contraria natura, ancora che buoni e bene educati ; consi-
derando quanto quella gioventù che Appio si aveva eletta (
intorno, cominciò ad essere amica delia tirannide per uno j
poco d' utilità che gliene conseguiva ; e come Quinto Fabio,
uno del numero de' secondi Dieci, sendo uomo ottimo, ac-
cecato da un poco di ambizione, e persuaso dalla malignità
di Appio, mutò i suoi buoni costumi in pessimi, e diventò
simile a lui. Il che esaminato bene, farà tanto più pronti i
legislatori delle repubbliche o de' regni a frenare gli appe-
titi umani, e tórre loro ogni speranza di potere impune
errare.
Gap. XLllI. — Quelli che combattono per la gloria propria,
sono buoni e fedeli soldati.
Gonsiderasi ancora per il soprascritto trattato, quanta
differenza è da uno esercito contento e che combalte per ^
la gloria sua, a quello che è male disposto e che combatte .
per la ambizione d' altri. Perchè, dove gli eserciti romani so-
levano sempre essere vittoriosi sotto i Consoli, sotto i De-
cemviri sempre perderono. Da questo essempio si può cono-
scere parte' delle cagioni della inutilità de' soldati'mercenarii; j
i quali non hanno altra cagione che li tenga fermi, che un /
poco di stipendio che tu dai loro. La qual cagione non è né '
può essere bastante a fargli fedeli, né tanto tuoi amici, che
veglino morire per te. Perché in quelli eserciti che non è
una alTezione verso di quello per chi e* combattono, che gii
facci diventare suoi partigiani, non mai vi potrà essere tanta
virtù che basti a resistere ad uno nimico un poco virtuo-
so. E perché questo amore non può nascere, né questa gara,
* La Romana ha irt^ parte; ne, certo, ajiurdamcnte , ove conoscere inten-
dasi per giudicar*.
480 DEI DISCORSI
da altro che da'sodditi tooi; è necessario a volere tenere
uno 8(atOf a volere mantenere ana repubblica o uno regno,
armarsi de' sudditi suoi: come si vede che hanno fallo lutti
quelli che con gli eserciti hann« Ikiti grandi progressi. A\e-
vano gli eserciti romani sotto i Dieci quella modcsima virtù:
ma perchè in loro non era quella medesima disposizione,
non facevano gli asitati loro effetti. Ma come prima il ma-
gistrato de' Dieci fa spento, e che loro come liberi comin-
ciorno a militare, ritornò io loro il medesimo animo ; e per
conseguente, le loro imprese avevano il loro Gne felice» le*
condo la antica consuetudine loro.
Gap. XfJV. — Una molUludin* tenta capo, è inutih: e non
ti dcbbe wìinacciare priWM, § poi chièdere V aulorilà,
£ra la Plebe romana per lo accidente di Virginia ridotta
armala nel Monte Sacro. Mandò il Senato suoi ambasciadorì
a dimandare con quale autorità egli avevano abbandonali i
loro capitani, e ridottisi nel Monte. E tanta era stimata Tau-
loriti del Senato, che non avendo la Plebe intra loro capi,
Diano si ardiva a rispondere. E Tito Livio dice, che e' non
mancava loro materia a rispondere, ma mancava loro chi
facesse la risposta. La qual cosa dimonstra appunto la inuti-
lità d* una moltitudine senza capo. Il qual disordine fu cono-
sciato da Virginio, e per suo ordine si creò venti Tribuni
mililari, che fussero loro capo a rispondere e convenire col
Senato. Ed avendo chiesto che si mandasse loro Valerio ed
Orazio, a' quali loro direbbono la voglia loro, non vi volsone
andare se prima i Dieci non deponevano il magistrato : ed
arrivati sopra il Monte dove era la Plebe, fa domandalo
loro da quella, che volevano che si creassero i Tribuni della
plebe, e che si avesse ad appellare al Popolo da ogni magi»
strato, e che si dessino loro tutti i Dieci, che gli volevano
ardere vivi. Laudarono Valerio ed Orazio le prime loro
domande; biasimorono T ultima come impia, dicendo: Crude-
lilalem damnalis, in crudeUlalem ruilis ; e consigliarongli che
dovessino lasciare il fare menzione de* Dieci, e ch'epli at-
lendessioo a pigliare l'autorità e potesCà loro: dipoi non
LIBRO PRIMO. ^81
mancherebbe loro modo a satisfarsi. Dove apertamente si
conosce quanta sluUizia e poca prudenza è domandare una >
cosa, e dire prima: io voglio far male con essa; perchè non 1
si debbo mostrare l'animo suo, ma vuoisi cercare d'ottenere \
quel suo desiderio in ognijQodo. Perchè e' basta a diman- i ^
dare a uno le armi,^enza dire: io li voglio ammazzare con j t *
esse ; polendo poi che tu hai V arme in mano , satisfare allo
appetito luo.
Gap. XLV. — È cosa di malo essempìo non osservare una legge
fatta , e massime dallo autore d' essa : e rinfrescare ogni dì
nuove ingiurie in una città , è a chi la governa danno-
sissimo.
Seguito lo accordo, e ridotta Roma in la antica sua for-
ma, Virginio citò Appio innanzi al Popolo a difendere la sua
causa. Quello comparse accompagnato da molli Nobili. Vir-
ginio comandò che fusse messo in prigione. Cominciò Appio
a gridare, ed appellare al Popolo. Virginio diceva che non
era degno di avere quella appellagione che egli aveva distrut-
ta , ed avere per difensore quel Popolo che egli aveva ofTeso,
Appio replicava, come e' non aveano a violare quella ap-
pellagione eh' egli avevano con tanto desiderio ordinata.
Pertanto egli fu incarcerato, ed avanti al di del giudizio am-
mazzò se stesso. E benché la scellerata vita di Appio meritasse
ogni supplicio, nondimeno fu cosa poco civile violare le leggi,
e tanto più quella che era fatta allora. Perchè io non credo
che sia cosa di più cattivo essempio in una repubblica, che
fare una legge e non la osservare; e tanto più, quanto la *
non è osservata da chi 1' ha falla. Essendo Firenze , dopò ^
il XCIV, stata riordinata nel suo stato con l'aiuto di frate
Girolamo Savonarola, gli scritti del quale mostrano la dot-
trina, la prudenza, la virtù dello animo suo; ed avendo intra
l'altre constituzioni per assicurare i cittadini, fatto fare una
legge, che si potesse appellare al popolo dalle sentenze che,
per caso di stato, gli Otto e la Signoria dessino; la qual
legge persuase' più tempo, e con diflìcullà grandissima otten-
* Cioè , il Savonarola.
i6
182 DEI DISCORSI
ne: occorse che, poco dopo la confirmazione d'essa , furono
condennali a morte dalla Signoria per conto di stalo cinque
cittadini; e volendo quelli appellare, non furono lasciati, e
non fu osservala la legge. Il che tolse più riputazione a quel
frate, che nessun altro accidente : perchè, se quella appella-
gione era utile, ei doveva farla osservare; s'ella non era
utile, non doveva farla vincere. E tanto più fu notalo questo
accidente, quanto che il frate in tante predicazioni che fece
poi che fu rolla questa legge, non mai o dannò chi 1' aveva
rotta, o lo scusò; come quello che dannare non voleva,
come cosa che gli tornava a proposito; e scusare non la po-
teva. Il che avendo scoperto l' animo suo ambizioso e parti-
giano, gli tolse riputazione, e dettegli assai carico. Offende
ancora uno stato assai, rinfrescare ogni dì nello animo de'tuoi
cittadini nuovi umori, per nuove ingiurìe che a questo e
quello si facciano: come intervenne a Roma dopo il decem-
virato. Perchè tutti i Dieci, ed altri cittadini, in diversi tempi
furono accusati e condennati: in modo che gli era uno spa-
vento grandissimo io tutta la Nobiltà, giudicando che e' non
si avesse mai a porre fine a simili condennagìoni, fìno a tanto
che tutta la Nobiltà non fosse distrutta. Ed arebbe generalo
in quella città grande inconveniente, se da Marco Duellio
tribuno non vi fusse stato provveduto; il qual fece uno edit-
to, che per uno anno non fusse lecito ad alcuno citare o ac-
cusare alcuno cittadino romano: il che rassicurò tutta la No-
biltà. Dove si vede quanto sia dannoso ad una repubblica o
ad un principe, tenere con le conlinove pene ed offese sospesi
e paurosi gli animi de' sudditi. E senza dubbio, non si può
tenere il più pernicioso ordine: perchè gli uomini che comin-
ciano a dubitare di avere a capitar male, in ogni modo
si assicurano ne' pericoli, e diventano più audaci, e meno
rispettivi a tentare cose nuove. Però è necessario, o non
oìlendere mai alcuno, o fare le offese ad un tratto; e dipoi
rassicurare gli uomini, e dare loro cagione di quietare e
fermare V animo.
LIBRO PRIMO. d83
Gap. XLVl. — Gli uomini salgono da una ambizione ad
un' altra ; e prima si cerca non essere offeso, dipoi di offen-
dere altrui.
Avendo il Popolo romano ricuperata la libertà, ritornato
nel suo primo grado, ed in tanto maggiore , quanto si erano
fatte dimolle leggi nuove in corroborazione della sua poten-
za; pareva ragionevole che Roma qualche volta quietasse.
Nondimeno, per esperienza si vide il contrario; pìerchè ogni
di vi surgeva nuovi tumulti e nuove discordie. E perchè
Tito Livio prudentissimamente rende la ragione donde que-
sto nasceva, non mi pare se non a proposilo riferire appunto
le sue parole, dove dice che sempre o il Popolo o la Nobiltà
insuperbiva, quando l'altro si umìhava; e stando la Plebe
quieta intra i termini suoi, cominciarono i giovani nobili ad
ingiuriarla; ed i Tribuni vi potevano fare pochi rimedi , per-
chè ancora loro erano violati. La Nobiltà, dall'altra parte,
ancora che gli paresse che la sua gioventù fusse troppo fe-
roce, nondimeno aveva a caro che avendosi a trapassare il
modo, lo Irapassassino i suoi, e non la Plebe. E così il de-
siderio di difendere la libertà faceva che ciascuno tanto si
prevaleva, eh' egli oppressava l'altro. E 1' ordine di questi
accidenti è, che mentre che gli uomini cercano di non te-
mere, cominciano a far temere altrui ; e quella ingiuria
ch'egli scacciano da loro, la pongono sopra un altro: come
se fusse necessario olTendere , o essere offeso. Vedesi , per
questo, in quale mpdo, fra gli altri , le repubbliche si risol-
vono; e in che modo gli uomini salgono da una ambizione ad
un'altra, e come quella sentenza salustiana posta in bocca
di Cesare, è' verissima: quod omnia mala exempla bonis iniliis
orlasunl. Cercano, come di sopra è detto, quelli cittadini
che ambiziosamente vivono in una repubblica, la prima cosa
di non potere essere offesi, non solamente dai privati, ma
eziam da' magistrali: cercano, per potere fare questo, ami-
cizie; e quelle acquistano per vie in apparenza oneste, o
con sovvenire di danari, o con difendergli da' polenti: e per-
* L' edizione del Biado : era.
184 DEI DISCuRSI
che qaeslo pare virlaoso , s'ingaona facilmente ciascuno, e
per questo non vi si pone rimedio; intanfo che egli senza
ostacolo perseverando, diventa di qualità, che i privati cit-
tadini ne hanno paura, ed i magistrali gli hanno rispetto. E
quando egli è salito a questo grado, e non si sia prima
ovviato alla sua grandezza, viene ad essere in termine,
che volerlo urlare è pericolosissimo , per le ragioni che io
dissi di sopra del pericolo che è nello urtare ano incon-
veniente che abbi dì già fatto augumento in una città: tanto
che la cosa si riduce ih termine, che bisogna o cercare di
spegnerlo con pericolo di una subita rovina; o lasciandolo
fare, entrare in una servitù manifesta, se morte o qualche
accidente non le ne libera. Perchè, venato a* soprascritti ter-
mini, che i cittadini ed i magistrati abbino paura ad offen-
der lai e gli amici suoi, non dura dipoi molta fatica a fare
ehe giudichino ed ofTendino a suo modo. Donde una repub-
blica intra gli ordini suoi debbe avere questo, di vegghiare
che i sooi cittadini sotto ombra di bene non possino far ma-
le; e ch'egli abbino quella riputazione che giovi, e non nuoca,
■Ila libertà: come nel suo luogo da noi sarà disputato.
Ca». ICLVII.— Gli uomini, ancora che ti injannino ne*g€nerali,
nei parlieolari non ti ingannano.
Essendosi il Popolo romano, come di sopra si dice, re-
cato a noia il nome consolare, e volendo che potessino esser
fatti Consoli uomini plebei, o che fosse limitata la loro au-
torità; la Nobiltà, per non deonestare l'autorità consolare né
eoo Tana né eoo l' altra cosa , prese una via di mezzo , e fu
contenta che si creatfioo quattro Tribuni con potestà con-
solare, i quali potesaino etiere cosi plebei come nobili. Fu
contenta a questo la Plebe, parendogli spegnere il consolato,
ed avere io questo sommo grado la parte sua. Nacquene di
questo uo caso notabile : che venendosi alla creazione di
questi Tribuni, e potendosi creare tutti plebei, furono dal
Popolo romano creati tutti nobili. Onde Tito Livio dice que-
ste parole: Quorum comiliorum ecentu9 docuil , aliot animo»
inconlenlione Uberlalis el honoris, alios secundum deposila
LIBRO PRIMO. ìSo
ccrlamina in incorruplo judicio esse. Ed esaminando donde
possa procedere questo, credo proceda che gli uomini nelle
cose generali s'ingannano assai, nelle particolari non tanto.
Pareva generalmente alla Plebe romana di meritare il con-
solato, per avere più parte in la città, per portare più peri-
colo nelle guerre, per esser quella che con le braccia sue
manteneva Roma libera , e la faceva polente. E parendogli,
come é detto, questo suo desiderio ragionevole, volse otte-
nere questa autorità in ogni modo. Ma come la ebbe a fare
giudizio degli uomini suoi particolarmente, conobbe la de-
bolezza di quelli, e giudicò che nessuno di loro meritasse
quello che tutta insieme gli pareva meritare. Talché vergo-
gnatasi di loro, ricorse a quelli che lo meritavano. Della
quale deliberazione meravigliandosi meritamente Tito Livio,
dice queste parole: Hanc modesliam, cequilalemque , et allUu-
dinem animi, ubi nunc in uno inveneris, qugb tuncpopuU uni-
versi fuil? In corroborazione di questo, se ne può addurre
uno altro notabile essempio, seguito in Capeva da poi che An- .
nibale ebbe rotti i Romani a Canne; per la qual rotta sendo
tutta sollevata Italia, Capeva stava ancora per tumultuare,
per r odio eh* era intra il Popolo ed il Senato : e trovandosi ih
quel tempo nel supremo magistrato Pacuvio Calano, e cono-
scendo il pericolo che portava quella città di tumultuare,
disegnò con suo grado riconciliare la Plebe con la Nobiltà;
e fatto questo pensiero, fece ragunare il Senato, e narrò
loro rodio che '1 popolo aveva centra di loro, ed i pericoli
che portavano di essere ammazzati da quello, e data la città
ad Annibale, sendo le cose de' Romani afflitte: dipoi sog-
giunse, ohe se volevano lasciare governare questa cosa a lui,
farebbe in modo che si unirebbono insieme; ma gli voleva
serrare dentro al palazzo, e eoi fare potestà al popolo di po-
tergli gastigare, salvargli. Cederono a questa sua oppinione i
Senatori, e quello chiamò il Popolo a conclone, avendo rin-
chiuso in palazzo il Senato; e disse com* egli era venuto il
tempo di potere domare la superbia della Nobiltà, e vendi-
carsi delle ingiurie ricevute da quella, avendogli rinchiusi
tutti sotto la sua custodia: ma perchè credeva che loro non
Yolessìno che la loro città rimanesse senza governo, era
-16'
186 DEI DISCORSI •
necessario, volendo aramazzare i Senatori vecchi, crearne
de' nuovi. E per tanto aveva messo tutti gli nomi degli Se-
natori in una borsa, e comincerebbe a trargli in loro pre-
senza; ed egli farebbe i tratti di mano in mano morire, come
prima loro avessino trovato il successore. E cominciato a
trarne uno, fu al nome di quello levato un romore grandissi-
mo, chiamandolo nomo superbo, crudele ed arrogante: e
chiedendo Pacuvio che facessino lo scambio, si racchetò
latta la concione; e dopo alquanto spazio, fu nominato uno
della plebe; al nome del quale chi cominciò a fischiare, chi
a ridere, chi a dirne male in uno modo, e chi in un altro:
e cosi seguitando di mano in mano, tulli quelli che furono
nominati, gli giudicavano indegni del grado senatorio. In
modo che Pacuvio, presa sopra questo occasione, disse: Poi-
ché voi giudicate che questa città stia male senza Senato,
ed a fare gli scambi a' Senatori vecchi non vi accordate, io
penso che sia bene che voi vi riconciliate insieme; perché
questa paura in la quale ì Senatori sono slati, gli ara fatti
in modo raumiliarc, che quella umanità che voi cercavate
altrove, troverete' in loro. Ed accordatisi a questo, ne segui
la unione di questo ordine ; e quello inganno in che egli erano
si scoperse, come e'furono constretti venire a'particolari. In-
gannansi, oltra di questo, i popoli generalmente nel giudicare
le cose e gli accidenti di esse; le quali dipoi si conoscono
particolarmente, si avveggono di tale inganno. Dopo il 1494,'
sendo stati i principi della città cacciali da Firenze, e non
vi essendo alcuno governo ordinato, ma piuttosto una certa
licenza ambiziosa, ed andando le cose pubbliche di male in
peggio; molti popolari veggiendo la rovina della città, e non
ne intendendo altra cagione, ne accusavano la ambiziose di
qualche potente che nutrisse i disordini, per poter fare uno
slato a suo proposito, e tórre loro la libertà: e stavano que-
sti tali per le logge e per le piazze, dicendo male di molli
cittadini, e minacciandoli che se mai si trovassero de' Si-
gnori, scoprirebbono questo loro inganno, e gli gasligarcbbo-
* La Romana ha , eoa idiotismo e secondo prononzia del tempo, i-oi ccr'
cavi, e troverrete.
3 Slranamente ncll' edizione del Poggiali : Dopo il 1514>
LIBRO PRIMO. 187
no. Occorreva spesso che de' simili ne ascendeva al supremo
magistrato; e come egli era salito in quel luogo, e che e' ve-
deva le cose più dappresso, conosceva i disordini donde '
nascevano, ed i pericoli che soprastavano, e la difficullà del \
rimediarvi. E veduto cornei tempi e non gli uomini, causa- ■
vano il disordine, diventava subito d'un altro animo, e
d'un' altra fatta; perchè la cognizione delle cose particolari /
gli toglieva via quello inganno che nel considerare general- ^
mente si aveva presupposto. Dimodoché, quelli che lo avevano
prima, quando era privato, sentito parlare, e vedutolo poi
nel supremo magistrato stare quieto, credevano che nasces-
se, non per più vera cognizione delle cose, ma perchè fusse
stato aggirato e corrotto dai grandi. Ed accadendo questo a
molti uomini, e molte volte, ne nacque tra loro un pro-
verbio che diceva: Costoro hanno uno animo in piazza, ed
uno in palazzo. Considerando, dunque, tutto quello si è dis-
corso, si vede come e' si può fare tosto aprire gli occhi
a'popoli, trovando modo, veggendo che uno generale gl'ingan-
na, ch'egli abbino a descendere a* particolari; come fece
Pacuvio in Capeva, ed il Senato in Roma. Credo ancora, che
si poésa conchiudere, che mai un uomo prudente non debbe
1^ fuggire il giudizio popolare nelle cose particolari, circa le
f distribuzioni de' gradi e delle dignità: perchè solo in questo
il popolo non si inganna; e se si inganna qualche volta, , fia si
raro, che s* inganneranno più volte i pochi uomini cheaves-
sino a fare simili distribuzioni. Né mi pare superfluo mostrare
nel seguente capitolo, Perdine che teneva il Senato per is-
gannare * il popolo nelle distribuzioni sue.
Cap. XLVllI. — Chi vuole che uno magistrato non sia
dato ad un vile o ad un tristo, lo facci domandare o ad
un troppo vile e troppo tristo, o ad uno troppo nobile e
troppo buono.
Quando il Senato dubitava che i Tribuni con potestà
consolare non fussino fatti d' uomini plebei, teneva uno
* Cosi , e assai Lene, al mio credere, la Bladiana, e l'edizione del 1813. Le
altre : ingannare.
^88 DEI DISCORSI
de' duoi modi: o egli faceva domandare ai più riputati uomini
di Roma; o veramente, peri debiti mezzi, corrompeva qual-
che plebeio sordido ed ignobilissimo, che mescolati * con i ple-
bei che, di mi<;Iior qualità, per l'ordinario lo domandavano,
anche loro lo domandassino. Questo ultimo modo faceva che
la Plebe si vergognava a darlo; quel primo faceva che la si
vergognava a tòrio. Il che lutto torna a proposito del prece-
dente discorso, dove si mostra che il popolo se s'inganna
de* generali, de* particolari non s* inganna.
Cap. XLIX. — Se quelle città che hanno avuto il principio
libero, come Romat hanno difficultà a trovare leggi che le
tnanlenghino; quelle che lo hanno immediate servo, ne hanno
quasi una impostibilità.
Quanto sia diffìcile, nello ordinare una repubblica, prov-
vedere a tutte quelle leggi che la mantenghino libera, lo
dimostra assai bene il processo della Repubblica romana:
dove non ostante che fussino ordinate di molto leggi da
Romolo prima, dipoi da Nuroa, da Tulio Ostilio o Servio,
ed ultimamente dai dieci cittadini creali a simile opera ; non-
dimeno sempre nel maneggiare quella città si scoprivano
nuove necessiti, ed era necessario creare nuovi ordini: come
intervenne quando crearono i Censori, i quali furono uno di
quelli provvedimenti che aiutarono tenere ' Roma libera,
quel tempo ehc la visse in libertà. Perchè, diventati arbitri
de' costumi di Roma, furono cagione potissima che i Romani
diflerissino più a corrompersi. Feciono bene nel principio della
creazione di tal magistrato uno errore, creando quello per
cinque anni; ma, dipoi non molto tempo, fu corretto dalla pru-
denza di Mamerco dittatore, il qual per nuova legge ridusse
detto magistrato a diciotto mesi. Il che i Censori che veg-
ghiavano, ebbono tanto per male, che privorno Mamerco
del senato: la qual cosa e dalla Plebe e dai Padri fu assai
* L'cdùionc del 1813, e quella del Poggiali: mc/coZafo. Pedantesca cor-
rexiooe.
' Così nella Romana; nelle altre: « tenere. Certo io non >o se T Autore
■ctÌTesse o non iscrivetse quell'a: ben so che oM è necessario.
LIBRO PRIMO. 489
biasimala. E perchè la istoria non mostra che Mamerco so
ne potesse difendere, conviene o che Io istorico sia difettivo,
o gli ordini di Roma in questa parte non buoni: perché non
è bene che una repubblica sia in modo ordinala, che un
cittadino per promulgare una legge conforme al vivere libero,
ne possa essere senza alcuno rimedio offeso. Ma tornando at
principio di questo discorso, dico che si debbe, per la crea-
zione di questo nuovo magistrato, considerare, che se quelle
città che hanno avuto il principio loro libero, e che per se
medesimo si è retto, * come Roma, hanno dilTicultà grande a
trovar leggi buone per mantenerle libere; non è meraviglia
che quelle città che hanno avuto il principio loro immediale
servo, abbino, non che difficultà, ma impossibilità ad or-
dinarsi mai in modo che le possino vivere civilmente e
quietamente. Come si vede che è intervenuto alla città di
Firenze; la quale, per avere avuto il principio suo sottoposto
allo imperio romano, ed essendo vivuta sempre sotto governo
d'altri, stette un tempo soggetta, e senza pensare a se me-
desima: dipoi, venula la occasione di respirare, cominciò a
fare suoi ordini; i quali sendo mescolati con gli antichi,
che erano tristi, non poterono. essere buoni: e così è ita ma-
neggiandosi per dugento anni che si ha di vera memoria,
senza avere mai avuto stato per il quale ella possa vera-
mente essere chiamata repubblica. E queste difficultà che
sono state in lei, sono state sempre in tutte quelle città che
hanno avuto i principii simili a lei. E benché molte volte,
per suffragi pubblici e liberi, si sia dato ampia autorità a po-
chi cittadini di potere riformarla; non pertanto mai l'hanno
ordinata a comune utilità, ma sempre a proposito della parte
loro: il che ha fatto non ordine, ma maggiore disordine in
quella città. E per venire a qualche essempio particolare,
dico come intra le altre cose che si hanno a considerare da
uno ordinatore d'una repubblica, è esaminare nelle mani . J^^
di quali uomini ei ponga l'autorità del sangue centra de' suoi ^^^^\v
cittadini. Questo era bene ordinalo in Roma, perchè e' si /^'t*^^*^
poteva appellare al Popolo ordinariamente: e se pure fusse
occorsa cosa importante, dove il differire la esecuzione me-
* Male nella Testina, e in altre edizioni : rotto, ì M^ .
/Vk< i^^^^*^>^^'
190 DEI DISCORSI
dianle la appellagione fusse pericoloso, avevano il refugio
del Ditlatore, il quale eseguiva immediate; al qual rimedio
non rifuggivano mai, se non per necessità. Ma Firenze, e
r altre città nate nel modo di lei, sendo serve, avevano que-
sta autorità collocata in un forestiero, il quale mandato dal
principe faceva tale utTizio. Quando dipoi vennuno in libertà,
mantennero questa autorità in un forestiero, il quale chia-
mavano Capitano: il che, per potere essere facilmente cor-
rotto da'cittadini potenti, era cosa perniciosissima. Ma dipoi,
mutandosi per la mutazione degli stati questo ordine, creorno
otto cittadini che facessino l'ulTizio di quel Capitano. Il
quale ordine, di cattivo, diventò pessimo, per le cagioni che
altre volte sono dette; che ì pochi furono sempre ministri
de' pochi, e de' più potenti. Da che si è guardata la città di
Vinegia; la quale ha dieci cittadini, che senza appello pos-
sono punire ogni cittadino. E perchè e'noo bastercbbono a
punire i potenti, ancora che ne avessino autorità, vi hanno
constilaito le Quarantie:ed| più, hanno voluto che il Consi-
glio de' Pregai, che è il Consiglio maggiore, possa gastigargli;
in modo che non vi mancando lo accusatore, non vi manca il
giudice a tener gli uomini potenti a freno. Non é adunque
meraviglia, reggendo come in Roma, ordinata da se mede-
sima e da tanti uomini prudenti, surgevauo ogni di nuovo
cagioni perle quali si aveva a fare nuovi ordini in favore del
viver libero; se nell' altre città che hanno più disordinato
principio, vi surgano tali dilTIcullà, che le non si possino
riordinar mai.
Cap. L. — Non dehbe uno consiglio o uno magislralo potere
fermare le osion» della ciuà.
Erano consoli in Roma Tito Quinzio Cincinnalo e Gneo
Giulio Mento, i quali sendo disuniti, avevano ferme tutte le
azioni di quella Repubblica. Il che veggendo il Senato, gli
confortava a creare il Dittatore, per fare quello che per le
discordie loro non poteva fare. Ma i Consoli discordando
in ogni altra cosa, solo in questo erano d'accordo, di non
voler creare il Dittatore. Tanto che il Senato, non avendo
J
LIBRO PIUMO. J91
altro rimedio, ricorse allo aiuto de'Tribuni; i quali, con V au-
torità del Senato, sforzarono i Consoli ad ubbidire. Dove si
ha a notare, in prima, la utilità del tribunato; il quale non
era solo utile a frenare l'ambizione che i potenti usavano
contra alla Plebe, ma quella ancora ch'egli usavano infra loro: .
r altra, che mai si debba ordinare in una città, che i pochi
possino tenere alcuna deliberazione di quelle che ordinaria-
mente sono necessarie a mantenere la repubblica. Yerbi-
grazia, se tu dai una autorità ad uno consiglio di fare una
distribuzione di onori e d' utile, o ad uno magistrato di am-
ministrare una faccenda; conviene o imporgli una necessità
perchè ei l'abbia a fare in ogni modo; o ordinare, quando
non la voglia fare egli, che la possa e debba fare un altro :
altrimenti, questo ordine sarebbe difettivo e pericoloso; come
si vedeva che era in Roma, se alla ostinazione di quelli
Consoli non si poteva opporre l'autorità de'Tribuni. Nella Re-
pubblica veneziana il Consiglio grande distribuisce gli onori
e gli utili. Occorreva alle volte che l'universalità, per isde-/
gno o per qualche falsa suggestione, non creava i succes-j
sori ai magistrati della città, ed a quelli che fuori ammini-
stravano lo imperio loro. Il che era disordine grandissimo :
perchè in un tratto , e le terre suddite e la città propria
mancavano de' suoi legittimi giudici; né si poteva ottenere
cosa alcuna, se quella universalità di quel Consiglio non si
satisfaceva, o non s'ingannava. Ed avrebbe ridotta questo
inconveniente quella città a mal termine , se dagli cittadini
prudenti non vi si fusse provveduto: 1 quali, presa occasione
conveniente, fecero una legge , che tutti 1 magistrati che sono
0 fussino dentro e fuori della città, mai vacassero, se non
quando fussino fatti gli scambi ed i successori loro. E così si
tolse la comodità a quel Consiglio di potere, con pericolo delfa
repubblica, fermare le azioni pubbliche.
Cap. li. — Una repubblica o uno principe debbe mostrare di fare
per liberalità quello che la necessità lo constringe.
Gli uomini prudenti si fanno grado sempre delle cose ,
in ogni loro azione, ancora che la necessità gli constringesse
19^ DEI DISCORSI
a farle in ogni modo. Questa prudenza fu usala bene dal Se-
nato romano, quando ei deliberò che si desse lo stipendio del
pubblico agli uomini che militavano, essendo consueti mili-
tare del loro proprio. Ma veggendo il Senato come in quel
modo non si poteva fare lungamente guerra , e per questo
non potendo né assediare terre, né condarre gli eserciti dis-
costo; e giudicando essere necessario poter fare l'uno e
l'altro; deliberò che si dessino detti stipendi: ma lo feciono
in modo che si fecero grado di quello a che la necessità
gli conslringeva; e fu tanto accetto alla Plebe questo presen-
i le, che Roma andò sottosopra per la allegrezza , parendole
1 ODO benefizio grande, quale mai speravano di avere, e quale
mai per loro medesimi arebbono cerco. E benché i Tribuni
s'ingegnassero di cancellare questo grado, mostrando corno
' ella era cosa che agsravava, non alleggeriva, la Plebe, sendo
necessario porre i tributi per pagare questo stipendio; nien-
tedimeno non potevano fare (aoto che la Plebe non lo avesse
accetto: il che fu ancora augumentato dal Senato per il
modo che distribuivano i tributi ; perché i più gravi ed i
maggiori furono quelli ch'e'posono alla Nobiltà, e gli primi
che furono pagati.
Cap. Lll. — À reprimere la insolenza di uno che lurga m una
repubblica polenie, non vt è più tecuro e meno tcandoloso
nuHio, che preoccuparli quelle vie per le quali €* vitnt a
quella polensa.
Vedesi per il soprascritto discorso, quanto credilo acqui-
staste la Nobiltà con la Plebe per le dimostrazioni fatte in
benefìzio suo, si del stipendio ordinalo, si ancora del modo
del porre i tributi. Nel quale ordine se la Nobiltà si fosse
mantenuta , si sarebbe levalo via ogni tumulto in quella
città, e sarebbesi tolto ai Tribuni quéTcredìlo che egli ave-
vano con la Plebe, e, per conseguente, quella autorità. E ve-
ramente, non si può in una repubblica, e massime in quelle
che sono corrotte, con miglior modo, meno scandaloso e
più facile, opporsi alla ambizione di alcuno cittadino, che
preoccuparli quelle vie, per le quali si vede che esso cam-
LIBRO PRIMO. 193
mina per arrivare al grado che disegna. Il qual modo se
fusse stalo usato contra a Cosimo de' Medici, sarebbe slato
miglior parlilo assai per gli suoi avversari, che cacciarlo da
Firenze: perchè, se quelli cittadini che gareggiavano seco
avessino preso lo stile suo di favorire il popolo, gli venivano
senza tumulto e senza violenza a trarre di mano quelle ar- m^I
me di che egli si valeva più. Piero Soderini si aveva fatto puA^
ripuTàzione nella città di Firenze con questo solo di favorire r9^A
l'universale: il che nello universale gli dava riputazione, /
come amatore della libertà della città. E veramente, a quelli ^
cittadini che portavano invidia alla grandezza sua, era mollo (>^^ ^
più facile, ed era cosa mollo più onesta, meno pericolosa, e ^^t I
meno dannosa per la repubblica, preoccupargli quelle vie' *'^
con le quali si faceva grande, che volere contrapporsegli ,
acciocché con la rovina sua rovinasse tutto il resto della f' i'*^
repubblica: perché, se gli avessero levale di mano quelle .j|^^ (;
armi con le quali si faceva gagliardo (il che potevano fare .,.
facilmente), arebbono potuto in lutti i consigli, e in tutte le ^'^/
deliberazioni pubbliche, opporsegli senza sospetto, e senza A ^♦^
rispetto alcuno. E se alcuno replicasse, che se i cittadini
che odiavano Piero, feciono errore a non gli preoccupare le
vie con le quali ei si guadagnava riputazione nel popolo ,
Piero ancora venne a fare errore, a non preoccupare quelle
vie per le quali quelli suoi avversari lo facevano temere; di'*
che Piero merita scusa, si perchè gli era diffìcile il farlo, sì
perchè le non erano oneste a lui : imperocché le vìe con le
quali era otfeso, erano il favorire i Medici; con li quali favori
essi lo battevano, e alla fine lo rovinorno. Non poteva, per-
tanto, Piero onestamente pigliare questa parte, per non po-
tere distruggere con buona fama quella libertà alla quale egli
era stato preposto a guardia : dipoi, non potendo questi favori
farsi segreti e ad uno tratto, erano per Piero pericolosissimi;
perchè comunche ei si fusse scoperto amico de' Medici, sa-
rebbe diventato sospetto ed odioso al popolo : donde ai nimici
suoi nasceva mollo più comodità di opprimerlo, che non
avevano prima. Debbono, pertanto, gli uomini in ogni partito
< Tutte le edizioni hanno di chey lasciando così il periodo senza risolu-
zione.
17
VH DEI DISCORSI
considerare i dlfcltì ed i perìcoli dì quello ^ e non gli |>ren-
dere, qunndo vi sia più del pericoloso che dell' ulile; non-
ostante che ne fusse stala data sentenza conforme alla deli-
herazion loro. Perché , facendo altrimenti , in questo caso
interverrebbe a quelli come intervenne a Tullio; il quale vo-
lendo tórre i favori a Marc* Antonio, gliene accrebbe. Perchè,
sondo Marc' Antonio stato giudicato inimico del Senato, ed
avendo quello grande esercito insieme adunato, in* buona
parte, dei soldati che avevano seguitalo la parte di Cesare;
Tullio, per (órcli questi soldati, confortò il Senato a dare ri-
putazione ad Ottaviano, e mandarlo con lo esercito e con i
Consoli contra a Marc' Antonio: allegando, che subito che ì
soldati che seguitavano Marc'Antonio, sentissino il nome di
Ottaviano nipote di Cesare, e che si faceva chiamar Cesare,
lascerebbono quello, e si accosterebbono a costui ; e cosi re-
ttalo Marc' Antonio ignudo di favorì, sarebbe facile lo oppri-
lucrlo. La qual cosa riusci tutta al contrario; perchè ^Marc'An-
(onio sì guadagnò Ottaviano; e lasciato Tullio ed il Senato,
si accostò a lui. La qual cosa fu al tutto la deslruzione della
parte degli Ottimali. Il che era facile a conicttnrare : né si
doveva credere quel che si persuase Tullio, ma tener sempre
conto di quel nome che con tanta gloria aveva spenti i ni-
roici suoi, ed acquistatosi il principato in Roma; né si dovca
credere mai potere, o da suoi credi o da suoi fautori, avere
cosa che fosse conforme al nome ' libero.
Caf. lui. — Il popolo molle volte desidera la rovina tua, in-
gannalo da una falsa spezie di bene: e come le grandi spe-
ranze e gagliarde promesse facilmenle lo muovono.
Espugnala che fu la città de' Veienti, entrò nel Popolo
romano una oppinione, che fusse cosa utile per la città di
Roma, che la metà de' Romani andasse ad abitare a Veìo;
argomentando che, per essere quella città ricca di contado,
piena di edifizii e propìnqua a Roma , si poteva arricchire
* Così ancora nella Testina; oè io il perchè nelle più moderae leggasi di.
Cosi in tutte le edisioni ; non senza sospetto però , chi di tali initeria
conoscasi , che 1' Autore avesse scritto t'n-er
LIBRO PRIMO. 495
la raelà de'cilladini romani, e non lurLare per la propin-
quità del silo nessuna azione civile. La qual cosa parve al
Senato ed a' più savi Romani tanto inutile e tanto dannosa,
che liberamente dicevano, essere piuttosto per patire la mor-
te, che consentire ad una tale deliberazione. In modo che,
venendo questa cosa in disputa, si accese tanto la Plebe cen-
tra al Senato, che si sarebbe venuto alle armi ed al sangue,
se il Senato non si fosse fatto scudo di alcuni vecchi e sti-
mati cittadini ; la riverenza de' quali frenò la Plebe, che la
non procede più avanti con la sua insolenza. Qui si hanno
a notare due cose. La prima, che *1 popolo molle volte, in-
gannato da una falsa immagine di bene, desidera la rovina
sua; e se non gli è fatto capace, come quello sia male, e
quale sia il bene, da alcuno in chi esso abbia fede, si pone
in le repubbliche * infìniti pericoli e danni. £ quando la sorte
fa che il popolo non abbi fede in alcuno, come qualche volta
occorre, sendo stato ingannato per lo addietro o dalle cose
0 dagli uomini ; si viene alla rovina di necessità. £ Dante
dice a questo proposito, nel discorso suo che fa De Monarchia,
che il popolo molte volte grida viva la sua morte , e muoia
la sua vita. Da questa incredulità nasce, che qualche volta
in le repubbliche i buoni partiti non si pigliano: come di
sopra si disse de' Veneziani, quando assaltali da tanti inimici
non poterono prendere partito di guadagnarsene alcuno con
la restituzione delle cose lolle ad altri (per le quali era mosso
loro la guerra, e fatta la congiura de' principi loro contro) ,
avanti che la rovina venisse. Pertanto, considerando quello
che è facile o quello che è diffìcile persuadere ad un popolo,
si può fare questa distinzione: o quel che tu hai a persua-
dere rappresenta in prima fronte guadagno, o perdila; o
veramente pare partilo animoso, o vile: e quando nelle cose
che si mettono innanzi al popolo, si vede guadagno, an-
cora che vi sia nascosto sotto perdila ; e quando e' paia
animoso , ancora che vi sia nascosto sotto la rovina della
repubblica, sempre sarà facile persuaderlo alla moltitudi-
ne: e cosi tìa sempre dilTicile persuadere quelli partili
* La comune delle stampe : in la repubblica.
196 BEI DISCORSI
dove apparisce o viltà ' o perdila , ancoraché vi fusse na-
scosto sotto salute e guadagno. Questo che io ho detto, si
conferma con infiniti esempi, romani e forestieri, moderni
ed antichi. Perchè da questo nacque la malvagia opinione
che surse in Roma di Fahio Massimo, il quale non poteva
persuadere al Popolo romano, che fusse utile a quella Repub*
blica procedere lentamente in quella guerra , e sostenere
senza azzuffarsi l'impeto di Annibale; perchè quei Popolo
giudicava questo partito vile, e non vi vedeva dentro quella
Qlililà vi era ; né Fabio aveva ragioni bastanti a dimostrarla
loro: e tanto sono i popoli accecati in queste oppinioni gagliar-
de, che benché il Popolo romano avesse fallo quello errore
di dare autorità al Maestro de'cavalli di Fabio di potersi az-
zuffare, ancora che Fabio non volesse ; e che per tale auto-
rità il campo romano fusse per esser rotto, se Fabio con la
saa prudenza non vi rimediava ; non gli bastò questa espe-
. rienza, che fece dipoi consolo Varrone, non per altri suoi
meriti che per avere, per tutte le piazze e tutti i luoshi pub-
blici di Roma, promesso di rompere Annibale, qualunque
▼olla gliene fosse data autorità. Di che ne nacque la zoflTa e
rotta di Canne, e presso che la rovina di Roma. Io voglio
addurre a questo proposito ancora uno altro essempio romano.
Era stalo Annibale in Italia otto o dieci anni, aveva ripieno
di occisione de' Romani tutta questa provincia, quando venne
in Senato Marco Centenio Penula, nomo vilissimo (nondi-
manco aveva avuto qualche grado nella milizia), ed ofTersegli,
che se gli davano autorità di potere fare esercito di uomini
volontari in qualunche luogo volesse in Italia, ei darebbe
loro, in brevissimo tempo, preso o morto Annibale. Al Senato
parve la domanda di costui temeraria ; nondimeno ei pen-
sando che s'ella se gli negasse, e nel popolo si fusse dipoi
saputa la sua chiesta, che non ne nascesse qualche tumulto^
invidia e mal grado contro all' ordine senatorio, gliene con-
cessono: volendo più tosto mettere a pericolo tutti coloro
che lo seguitassino, che fare surgere nuovi sdegni nel Po-
polo; sappiendo quanto simile partilo fusse per essere accetto,
e quanto fusse diflìcile il dissuaderlo. Andò, adunque, costui
' Male nella Teslina, e tirila ec^izione Jel Poggiili: nlilila.
i
LIBRO PRIMO. 497
con una moltitudine inordinata ed incomposita a trovare
Annibale; e non gli fu prima giunto all'incontro, che fu
con tutti quelli che lo seguitavano rotto e morto. In Grecia,
nella città di Atene, non potette mai Nicia, uomo gravissimo
e prudentissimo , persuadere a quel popolo, che non fusse
bene andare ad assaltare Sicilia: talché, presa quella delibe-
razione contra alla voglia de' savi, ne seguì al tutto la ro-
vina di Atene. Scipione quando fu fatto consolo, e che desi-
derava la provincia di Affrica, promettendo al tutto la rovina
di Cartagine; a che* non si accordando il Senato per la sen-
tenza di Fabio Massimo, minacciò di proporla nel Popolo,
come quello che conosceva benissimo quanto simili delibera-
zioni piaccino a' popoli. Potrebbesi a questo proposito dare
esempi della nostra città: come fu quando messere Ercole
Bentivogli, governadore delle genti fiorentine, insieme con
Antonio Giacoraini, poiché ebbono rotto Bartolommeo d'Al-
viano a San Vincenti, andarono a campo a Pisa; la qual im-
presa fu deliberata dal popolo in su le promesse gagliarde
di messer Ercole, ancora che molti savi cittadini la biasi-
massero: nondimeno non vi ebbero rimedio, spinti da quella
universale volunlà, la qual era fondata in su le promesse
gagliarde del governadore. Dico, adunque, come non è la più
facile via a fare rovinare una repubblica dove il popolo
abbia autorità, che metterla in imprese gagliarde: perché,
dove il popolo sia di alcuno momento, sempre fieno accettate;
né vi ara, chi sarà d'altra oppinione, alcuno rimedio. Ma se
di questo nasce la rovina della città, ne nasce ancora , e più
spesso, la rovina particolare de' cittadini che sono preposti
a simili imprese : perchè, avendosi il popolo presupposto la
vittoria, come e' viene la perdita, non ne accusa né la for-
tuna, né la impotenza di chi ha governato, ma la tristizia e
la ignoranza sua ; e quello il più delle volte o ammazza, o
imprigiona, o confina : come intervenne a infiniti capitani
Cartaginesi, ed a molti Ateniesi. Né giova loro alcuna vittoria
che per lo addietro avessino avuta, perchè tutto la presente
perdita cancella : come intervenne ad Antonio Giacomini
nostro, il quale non avendo espugnata Pisa, come il popolo
* Inlenùi, noti come alla quale, ma come a lai cosa j e il senso corrcri.
17'
198 DEI DISCORSI
si aveva presupposto ed egli promesso , venne in tenia dis-
grazia popolare , che non ostante infinite sue buone opere
passate, visse più per umanità di coloro che ne avevano au-
torità, che per alcun' altra cagione che noi popolo lo di-
fendesse.
Gap. LW,— Quanta autorità abbia uno uomo grande a frenare
una moltitudine concitata.
Il secondo notabile sopra il testo nel superiore capitolo
allegato, è, che veruna cosa è tanto atta a frenare una mol-
titudine concitata, quanto è la riverenza di qualche uomo
grave e di autorità, che se le faccia incontro; né senza ca^
gione dice Virgilio:
Ttim pieimU gravem ac meritis ti forte vinim qttem
Conspexere , sileni, arrectisqiie murtbus adstant.
Per tanto, quello che è proposto a uno esercito, o quello che
si trova in una città, dove nascesse tumulto , debbe rappre-
sentarsi in su quello con maggior grazia e più onorevol-
mente che può, mettendosi intorno le insegne di quel grado
che tiene, per farsi più reverendo. Era, pochi anni sono ,
Firenze diviso * in due fazioni. Fratesche ed Arrabbiate, che
cosi si chiamavano; e venendo all'arme, ed essendo superati
i Frateschi, intra i quali era PagolantonioSoderini, assai in
quelli tempi riputato cittadino; ed andandogli in quelli tumulti
il popolo armato a casa per saccheggiarla; messer Francesco
suo fratello, allora vescovo di Volterra, ed oggi cardinale, si
trovava' a sorte in casa: il quale, subito sentito il romore
e veduta la turba, messosi i più onorevoli panni indosso,edi
sopra il rocchetto episcopale, si fece incontro a quelli armati,
e con la persona e con le parole gli fermò; la qual cosa fu per
tutta la città per molti giorni notata e celebrata. Conchiudo,
adunque, come e'non è il più fermo né il più necessario rime-
* I Fiorentini toglion fare il nome della lor patria del genere matcolioo.
« Gli è por bello (dirà un uomo del popolo) questo Firenze I » Al che non La-
darono gli editori toscani della Tetlioa, il Poggiali ed altri, che correggono
dit>isa.
' La Testina e il Poggiali : // lrot>i.
LIBRO PRIBIO. 199
dio a frenare una moltitudine concilala, che la presenza d'uno
uomo che per presenza paia e sia reverendo. Vedesi, adun-
que, per tornare al preallegalo lesto, con quanta ostinazione
la Plebe romana accettava quel parlilo d'andare aVeio, per-
chè lo giudicava utile, né vi conosceva sotto il danno vi era ;
e come nascendone assai tumulti, ne sarebbero * nali scanda-
li, se il Senato con uomini gravi e pieni di riverenza non
avesse frenato il loro furore.
Gap. LV. — Quanlo facilmente si conduchino le cose in quella
cillà dove la moUiludine non è corrolla: e che dove è
equalità, non si può fare principato; e dove la non è, non
si può fare repubblica.
Ancora che di sopra si sia discorso assai quello sia da
temere o sperare delle città corrotte; nondimeno non mi
pare fuori di proposito considerare una deliberazione del
Senato circa il voto che Cammillo aveva fatto di dare la
decima parte ad Apoiline della preda de' Veienti: la qual
preda sendo venuta nelle mani delia Plebe romana, né se ne
polendo altrimenti riveder conto, fece il Senato uno editto ,
che ciascuno dovesse rappresentare al pubblico la decima
parte di quello gli aveva predalo. E benché tale deliberazione
non avesse luogo, avendo dipoi il Senato preso altro modo,
e per altra via satisfatto ad Apolline in satisfazione della
Plebe; nondimeno si vede per tali , deliberazioni quanto quel
Senato confidasse nella bontà di quella, e come e' giudicava
che nessuno fusse per non rappresentare appunto tutto quello
che per tale editto gli era comandalo. E dall'altra parte
si vede, come la Plebe non pensò di fraudare in alcuna parte
lo edillo con il dare meno che non doveva , ma di liberarsi
da quello con il mostrarne aperte indignazioni. Questo essem-
pio, con molti altri che di sopra si sono addotti, mostrano
quanta bontà e quanta religione fusse in quel Popolo, e
quanlo bene fusse da sperare di lui. E veramente, dove non
è questa bontà, non si può sperare nulla di bene; come non
si può sperare nelle provincia che in questi tempi si veggono
* La Romana : sarebbe.
200 DEI DISCORSI
\ corroUe: come é la Italia sopra (atte le altre; ed ancora la
' Francia e la Spagna di tale corruzione ritengono parte. E se in
' qaelle provincie non si vede tanti disordini quanti nascono in
Italia ogni di, deriva non tanto dalla bontà de'popoli, la quale
in baona parte è mancata ; quanto dallo avere uno re che gli
I mantiene uniti , non solamente perla virtù sua, ma per Tor-
\ dine di quelli regni, che ancora non sono guasti. Vedesi bene
I nella provincia della Magna, questa bontà e queslaxeI|gjone
ancora in queTTì popoli esser grande ; la qual fa che molte
repubbliche vi vìvono libere, ed in modo osservano le loro
leggi» che nessuno di fuori né di dentro ardisce occuparle.
E che sia vero che in loro regni buona parte di quella antica
bontà , io ne voglio dare uno cssempio simile a questo detto
di sopra del Senato e della Plebe romana. Usano quelle repub-
bliche, quando gli occorre loro bisogno di avere a spendere
alcuna quantità di danari per conto pubblico , che quelli
magistrati o consigli che ne hanno autorità, ponghinoa tutti
gli abitanti della città uno per cento, o dua , di quello che
ciascuno ha di valsente. E fatta tale deliberazione secondo
l'ordine della terra, si rappresenta ciascuno dinanzi agli ese-
cutori di tale imposta; e, preso prima il giuramento di pagare
la conveniente somma , getta in una cassa a ciò deputata
quello che secondo la conscienza sua gli pare dover pagare:
del qual pagamento non è testimonio alcuno, se non quello
che paga. Donde si può conietturare, quanta bontà e quanta
religione sia ancora in quelli uomini. E debbesi stimare che
ciascuno paghi la vera somma : perchè, quando la non si pa-
. gasse, non gitterebbe la imposizione quella quantità che loro
disegnassero secondo le antiche che fussino usitale riscuo-
\ tersi ; e non gittando, si conoscerebbe la fraude; e conoscen-
dosi, arebbon preso altro modo che questo. La quale bontà è
tanto più da ammirare in questi tempi , quanto ella è più
rara: anzi si vede essere rimasa sola in quella provincia. Il
che nasce da due cose: Puna, non avere avuti commerzi
grandi co' vicini ; perchè né quelli sono iti a casa loro , né
(essi sono iti a casa altrui ; perché sono stati contenti di quelli
beni, e vivere di quelli cibi, vestire di quelle lane che dà il
paese: d' onde è stata tolta via la cagione d'ogni conversa-
LIBRO PRIMO. 201
zione, ed il principio di ogni corrullela; perchè non hanno
possuto pigliare i coslumi né franciosi né spagnuoli né
italiani, le quali nazioni tutte insieme sono la corrultela del
mondo. V altra cagione è, che quelle repubbliche dove si è
mantenuto il vivere politico ed incorrotto, non sopportano che
alcuno loro cittadino né sia, né viva ad uso di gentiluomo:
anzi mantengono infra loro una pari cqualilà, ed a quelli si-
gnori e gentiluomini che sono in quella provincia, sono ini- j
micissimi ; e se per caso alcuni pervengono loro nelle mani,
come principi* di corruttela e cagione di ogni scandalo, gli
ammazzano. E per chiarire questo nome di gentiluomini
quale e' sia , dico che gentiluomini sono chiamati quelli I
che ociosi vivono de* proventi delle loro possessioni ab- i
bondantemente, senza avere alcuna cura o dì coltivare, J
0 di alcuna altra necessaria fatica a vivere. Questi tali sono |
perniciosi in ogni repubblica ed in ogni provincia ; ma '
più perniciosi sono quelli che, oltre alle predette fortune,
comandano a castella, ed hanno sudditi che ubbidiscono a
loro. Di queste due sorti di uomini ne sono pieni il regno di
Napoli, terra di Roma, la Romagna e la Lombardia. Di qui
nasce che in quelle provincie non è mai stata alcuna repub-
blica , né alcuno vivere politico ; perché tali generazioni
di uomini sono al tutto nemici d'ogni civiltà. Ed a volere in
Provincie fatte in simil modo introdurre una repubblica, non
sarebbe possibile: ma a volerle riordinare, se alcuno ne fusse
arbitro, non arebbe altra via che farvi un regno. La ragione
è questa, che dove è tanto la materia corrotta che le leggi
non bastino a frenarla , vi bisogna ordinare insieme co»
quelle maggior forza; la quale è una mano regia, che con la
potenza assoluta ed eccessiva ponga freno alla eccessiva
ambizione *e corruttela de' potenti. Verificasi questa ragione
con lo esempio di Toscana : dove si veae in poco spazio di
terreno stale longamente tre repubbliche, Firenze, Siena e
Lucca ; e le altre città di quella provincia essere in modo ser-
ve, che, con l'animo e con 1' ordine, si vede o che le man-
* Così nella Romana e nella Testina, la quale, a meglio fuggir l*equivoro
scrive Principi. Pare che non intendessero 1' ardita locuzione ((lu'gli editori che,
posero principii e principj.
202 DEI DISCORSI
tengono, o che le vorrebbono mantenere la loro libertà.
Tutto è nato per non essere in quella provincia alcun si-
gnore di castella, e nessuno o pochissimi gentiluomini; ma
esservi tanta equalilà, che facilmente da uno uomo prudente,
e che delle antiche civilità avesse cognizione, vi si introdur-
rebbe un viver civile. Ma lo infortunio suo è stato tantt*
grande, che infìno a questi tempi non ha sorlilo alcuno uomo
che lo abbia potuto o saputo fare. Trassi * adunque di questo
discorso questa conclusione : che colui che vuole fare dove
sono assai gentiluomini una repubblica, non la può fare se
prima non gli spegne lutti : e che colui che dove è assai
equalità vuole fare uno regno o uno principato, non lo potrà
mai fare se non trae di quella equalilà molli di animo am-
bizioso ed inquieto, e quelli fa gentiluomini io fatto, e non
in nome, donando loro castella e possessioni, e dando loro
favore di suslanze e d'uomini; acciocché, posto in mezzo di
loro, mediante quelli mantenga la sua potenza; ed essi, me-
.diante quello, la loro ambizione; e gli altri siano constretti a
«IQpporlare quel giogo che la forza, e non altro mai, può far
^ Sopportare loro. Ed essendo per questa via proporzione da
chi sforza a chi è sforzato, stanno fermi gli uomini ciascuno
nello ordine loro. £ perchè il fare d'una provincia alla ad
essere regno una repubblica, e d'una atta ad essere repub-
blica farne un regno, é materia da uno uomo che per cervello
e per autorità sia raro; sono slati molli che Io hanno voluto
fare, e pochi che lo abbino saputo condurre. Perché la gran-
dezza della cosa parte sbigottisce gli uomini, parte in modo
gli 'mpedisce, che ne' primi principii mancano. Credo che a
questa mia oppinione, che dove sono gentiluomini non si possa
ordinare repubblica, parrà contraria la esperienza della Repub-
blica veneziana, nella quale non usano avere aUuno grado
se non coloro che sono gentiluomini. A che si risponde, come
questo essempio non ci fa alcuna oppugnazione, perchè i gen-
tiluomini in quella Repubblica sono più in nome che in fatto;
perchè loro non hanno grandi entrale di possessioni, sondo
* La «ola edizione del Poggiali, tra le consuìlate da noi, ha Traesi. Gli
amatori, o persuasi della necessità d* innovare nella nostra ortografìa, avreb-
bero qui posto Tra'ssi o Trassi.
LIBRO PRIMO. 293
le loro ricchezze grandi fondale in sulla mercanzia e cose
mobili ; e di più, nessuno di loro tiene castella, o ha alcuna
iurisdizione sopra gli uomini : ma quel nome di gentiluomo in
loro è nome di degnila e di riputazione, senza essere fondato
sopra alcuna di quelle cose che fa che nell'altre città si
chiamano i gentiluomini. E come le altre repubbliche hanno
tulle le loro divisioni sotto vari nomi, cosi Vinegia si divide /
in gentiluomini e popolari ; e vogliono che quelli abbino,
ovvero possino avere, tulli gli onori ; quelli altri ne sieno ai '
lutto esclusi. Il che non fa disordine in quella terra, per le
ragioni altra voKa dette. Couslituisca, adunque, liTia repub- |
blica colui dóve è, o è falla una grande equalilà; ed all' in- 1
contro ordini un principato dove è grande inequalità : altri-f
menti farà cosa senza proporzione, e poco durabile.
Gap". LVI. — Innanzi che segnino i grandi accidenti in una
cillà 0 in una provincia, vengono segni che gli pronostica-
no, 0 uomini che gli predicono. *
Donde e' si nasca io non so, ma si vede per gli antichi
e per gli moderni essempi, che mai non venne alcuno grave
accidente in una città o in una provincia, che non sia sta- ,• ^ j' ^
to, 0 da indovini o da revelazioni o da prodigi, o da altri i \f^r*
segni celesti, predetto. E per non mi disccslare da casa nel ./i**^^
provare questo, sa ciascuno quanto da frate Girolamo Savo- f^j^ySh^
narola fusse predella innanzi la venula del re Carlo Vili f^,; /> '
di Francia in Italia; e come, olirà di questo, per tulla Toscana ly/^
ci riiccp nccpr cpnfllA in arin ts vpHiifp apnli H'nrrnp. ennrji • 4."(
\J^
si disse esser sentite in aria e vedute genti d'arme, sopra * JKI^
Arezzo, che si azzotfavano insieme. Sa ciascuno olirà di que- ^ . '
sto, come avanti la morte di Lorenzo de' siedici vecchio fu
percosso il duomo nella sua più alla parte con una saetta
celeste, con rovina grandissima di quello edifìzio. Sa ciascuno
ancora, come poco innanzi che Piero Sederini, quale era stalo
fallo gonfaloniere* a vita dal popolo fiorentino, fusse cacciato
e privo del suo grado, fu il palazzo medesimamente da un ful-
gore percosso. Potrebbesi, oltra di questo, addurre pie essem-
* La Bladiana: ConfaUnteri, •
204 HGI DISCORSI
pi, i quali per fuggire il tedio lascerò.* Narrerò solo quello che
Tito Livio dice, innanzi alla venuta de' Franciosi in Roma :
cioè, come uno Marco Cedizio plebeio, riferì al Senato avere
udito di mezza notte, passando per la Via nuova, una voce
maggiore che umana, la quale Io ammoniva che riferisse ai
magistrati, come i Franciosi venivano a Roma. La cagione di
questo credo sia da essere discorsa ed interpretata da uomo
che abbia notizia delle cose naturali e soprannaturali: il che
non abbiamo noi. Pure, potrebbe essere che, sendo questo
aere, come vuole alcuno filosofo, pieno d'intelligenze; le
quali ' per naturale virtù prevedendo le cose future, ed avendo
^ ^ ;U compassione agli uomini, acciò si possino preparare alle di-
fese, gli avvertiscono con simili segni. Pure, comunche si
•^^y^T sia, si vede cosi essere la vcrilA ; e che sempre dopo tali ac-
^ 01^1^^ cidenti sopravvengono cose istraordinarie e nuove alle pro-
jI^ v/»^ ciocie.
M^* Gap. LVn. -- La plebe insieme i gagliarda, di per sé
^;(U^ i^ ^ è debole.
//
co
Erano molli Romani , sendo seguila per la passata de*
Franciosi la rovina della lor patria, andati ad abitare a Veio,
contra alla conslitqzione ed ordine del Senato : il quale, per
rimediare a questo disordine, comandò per i suoi editti pub-
blici che ciascuno, infra certo tempo e sotto certe pene, tor-
nasse ad abitare a Roma. De* quali editti, da prima per co-
loro contra a chi e' venivano, si fu fatto beffe; dipoi, quando
si appressò il tempo dello ubbidire, tutti ubbidirono. E Tito
f Livio dice queste parole :*£x ferocibus unioersis, singuli metu
I tuo obedientet fuere, E veramente, non si può mostrare me-
glio la natura d'una moltitudine in questa parte, che si di-
, mostri in questo testo. Perchè la moltitudine è audace nel
parlare molte volte contra alle deliberazioni del loro princi-
j\4) . '>e ; dipoi, come veggono la pena in viso, non si fidando l'uno
* Cosi,c«o maggiore soddisfaziooc dell* orecchio , nella Romana. L« al-
tre: lascio.
' Ltqiiafi, relativo, colla ibria (come notai anche a pag- i97) del dimo-
aralivo queste.
LIBRO PRIMO. 205
dell' allro, corrono ad ubbidire. Talcbè si vede cerio, che di
quel che si dica uno popolo circa la mala o buona disposizion
sua, si debhe tenere non gran conto, quando tu sia ordinalo
in modo da poterlo mantenere, s'egli è ben disposto; s'egli
è mal disposto, da poter provvedere che non ti ofTenda. Que-
sto s'intende per quelle male disposizioni che hanno i popoli ,
nate da qualunque altra cagione, che o per avere perduto la
libertà, o il loro principe slato amalo da loro , e che ancora
sia vivo ; perchè le male disposizioni che nascono da queste
cagioni, sono sopra ogni cosa formidabili, e che hanno biso- 1
gno di grandi rimedi a frenarle: l'altre sue indisposizioni |
fieno facili , quando ei non abbia capi a chi rifuggire. Perché
non ci è cosa, dalFun canto, più formidabile che una moltitu-
dine sciolta e senza capo; e, dall'altra parte, non è cosa più
debole: perchè, quantunque ella abbi l'armi in mano, fia
facile ridurla, purché tu abbi ridotto da potere fuggire il
primo impelo; perché quando gli animi sono un poco raf-
freddi, e che ciascuno vede di aversi a tornare a casa sua,
cominciano a dubitare di loro medesimi , e pensare alla sa-
lute loro, 0 con fuggirsi o con l'accordarsi. Però una molti-
tudine così concitala, volendo fuggire questi pericoli, ha
subito a fare infra sé medesima un capo che la corregga ,
tenghila unita e pensi alla sua difesa; come fece la Plebe
romana, quando dopo la morte di Virginia si parti da Roma ,
e per salvarsi feciono infra loro venti Tribuni: e non facendo a> v
questo, interviene loro sempre quel che dice Tito Livio nelle ^^ *^
soprascritte parole, che tulli insieme sono gagliardi; e quando tJ Jf^
ciascuno poi comincia a pensare al proprio pericolo, diventa ^
vile e debole. r^
Gap. LVIII. — La moìHludine è più savia, e più costante
che un principe.
Nessuna cosa essere più vana e più inconstante che la
moltitudine: cosi Tito Livio nostro, come tutti gli altri isto-
rici affermano. Perchè spesso occorre, nel narrare le azioni
degli uòmini, vedere la moltitudine avere condannalo alcuno
a morte, e quel medesimo di poi pianto e sommamente dQ-
206 DEI DISCORSI
sideralo: come si vede avere fatto il Popolo romano di Man-
f Ilo Capilolino, il quale avendo condennato a morie, sorama-
' mente dipoi desiderava. E le parole dello autore son queste :
\ Populum brevi, poslcaquam ab eo periculum nullumeraltdesi-
^ derium eim lenuil. Ed altrove, quando mostra gli accidenti
che nacquero in Siracusa dopo la morte di Girolamo nipote
di lerone, dice: Hdtc nalura muUUudinis esl:autumHHer ter-
vii, aul superbe dominalur. lo non so se io mi prenderò una
provincia dura, e piena di tanta ditTicultà, che mi convenga
o abbandonarla con vergogna, o seguirla con carico; volendo
difendere una cosa , la quale, come ho detto, da tutti gli
scrittori è accasata. Ma ,corounche si sia, io non giudico nò
giudicherò mai essere difetto difendere alcune oppinioni con
le ragioni, senza volervi usare o la autorità o la forza. Dico
adunque, come di quello difetto di che accusano gli scrittori
la moltitudine, se ne possono accusare tutti gli uomini par-
ticolarmente, e massime i principi; perchè ciascuno che non
sia regolato dalle le^gi, farebbe quelli medesimi errori che la
moltitudine sciolta. E questo si può conoscere facilmente, per-
V che e' sono e sono stati assai principi, e de'buoni e de'savi ne
/ sono stati pochi : io dico de' principi che hanno potuto rompere
quel freno che gli può coi reggere; intra i quali non sono que-
gli re che nascevano in Egitto, quando in quella antichissima
antichità si governava quella provincia con le leggi ; né
quelli che nascevano in Sparta; né quelli chea' nostri tempi
nascono in Francia: il quale regno é moderato più dalle leg-
gi, che alcuno altro regno di che ne' nostri tempi si abbi
notizia. E questi re che nascono sotto tali constituzioni, non
sono da mettere in quel numero, donde si abbia a considerare
la natura di ciascuno uomo per sé, e vedere se egli è simile
alla moltitudine: perchè a rincontro loro si dehbe porre una
moltitudine medesimamente regolata dalle leggi come sono
loro; e si troverà in lei essere quella medesima bontà che
noi veggiamo essere in quelli, e vedrassi quella né superba-
mente dominare né umilmente servire: come era il Popolo
romano, il quale mentre durò la Kepubhlica incorrotta , non
/ servi mai umilmente né mai dominò superbamente ; anzi
con li suoi ordini e magistrati tenne il grado suo onorevoi-
LIBRO PRIMO. 207
mente. E quando era necessario insurgere contra a uno po-
tente, lo faceva; come si vede in Manlio, ne' Dieci, ed in
altri che cercorno opprimerla: e quando era necessario
ubbidire a'Ditlalori ed a' Consoli per la salute pubblica. Io
faceva. E se il Popolo romano desiderava Manlio Capitolino
morto, non è meraviglia ; perchè e' desiderava le sue virtù ,
le quali erano stale tali, che la memoria di esse recava
compassione a ciascuno ; ed arebbono avuto forza di fare
quel medesimo effelto in un principe , perchè 1' è sentenza
di tutti li scrittori, come la virtù si lauda e si ammira an-
cora negli inimici suoi: e se Manlio, infra tanto desiderio,
fusse risuscitato , il Popolo di Roma arebbe dato di lui il
medesimo giudizio, come ei fece, tratto che lo ebbe di pri-
gione, che poco di poi lo condennò a morte; nonostante che
si vegga di* principi tenuti savi, i quali hanno fatto morire
qualche persona, e poi sommamente desideratala: come Ales-
sandro, Clito, ed altri suoi amici ; ed Erode , Marianne. Ma
quello che lo isterico nostro dice della natura della moltitu-
dine, non dicedi quella che è regolala dalle leggi, come era
la romana; ma della sciolta , come era la siracusana: la quale
fece quelli errori che fanno gli uomini infuriati e sciolti ,
come fece Alessandro magno, ed Erode, ne' casi. detti. Però
non è più da incolpare la natura della moltitudine che de'
principi, perchè tutti egualmente errano, quando tutti senza
rispetto possono errare. Di che, oltre a quello che ho detto, ci
sono assai essempi, ed intra gli imperadori romani, ed intra gli
altri tiranni e principi; dove si vede tanta incostanza e tanta
variazione di vita, quanta mai non si trovasse in alcuna
moltitudine. Conchiudo, adunque, contra^ alla comune oppi-
nione, la qual dice come i popoli, quando sono principi, sono
varii, mutabili, ingrati; affermando che in loro non sono
altrimenle questi peccali che si siano ne* principi particolari.
Ed accusando alcuni ì popoli ed i principi insieme, potrebbe
dire il vero; ma traendone i principi, s'inganna: perchè un
popolo che comanda e sia bene ordinato, sarà slabile, pru-
dente e grato non altrimenti che un principe, o meglio che
* Altre edizioni : de'j e : dei.
' La Bladiana : olire.
208 DEI DISCORSI
an principe, eziandio stimalo savio: e dall' allra parie, un
principe sciolto dalle lpgzi,sarà inoralo , vario ed iinpnulenle
più che ano popolo. E * che la variazione del procedere loro
nasce non dalla nalara diversa , perchè in tutti è ad un mo-
do: e se vi è vanlagsio di bene, è nel popolo; ma dallo avere
più o meno rispetto alle leggi, dentro alle quali l'uno e l'al-
tro vive. E chi considcrrà • il Popolo romano, lo vedrà essere
sfato per quattrocento anni iniiniro del nome regio, ed ama-
tore della gloria e del bene cornane della saa patria: vedrà tanti
essempi u<:ali da lui, che testimoniano Tuna cosa e l' altra. B
se alcuno mi allegasse la ingratitudine ch'egli usò conira a
Scipione, rispondo quello che di sopra lunsamente si discorso
in questa materia, dove si mostrò i popoli essere meno in-
grati de' principi. Bla quanto alla prudenza ed alla stabilità ,
dico, come ano popolo è più prudente, più slabile e di mi-
glior giadicio che an principe. E non senza cagione ai asso-
iniglia la voce d*an popolo a quella di Dio: perchè si vede
una oppinione nniversale fare ctrelli meravigliosi ne* prono-
stichi suoi; talché pare che per occulta virtù e* prevegga il
suo male ed il suo bene. Quanto al giudicare le cose , si vede
rarissime volte, quando egli ode due concionanti che tondino
in diverse pafU« quando e* sono di egual virtù, che non pigli
la oppinione migliore, e che non sia capace di quella verità
ch'egli ode. E se nelle cose gagliarde, o che paiano utili,
come di sopra si dice, egli erra; molle volle erra ancora un
prìncipe nelle soe proprie passioni, le quali sono molte più
che quelle de' popoli. Vedesi ancora , nelle sue elezioni al
macistrati, fare di lunga migliore elezioneche uno principe;
né mai si persuaderà ad un popolo, che sia bene tirare alla
degnila ano uomo infame e di corrotti costumi: il che facil-
mente e per mille vie si persuade ad un principe. Vedesi
un popolo cominciare ad avere in orrore una cosa , e molli
secoli stare in quella oppinione : il che non si vede in uno
principe. E dell* una e dell'altra di queste due cose voglio mi
basti per testimone il Popolo romano: il quale, in tante cen-
tinaia d'anni, in tante elezioni di Consoli e di Tribuni, non
* Àbliiati per ripdnto il «etlto di lopri , eonchiiuto.
* Anche qui U Romana: considera Vedi la noia [>o»«a a pag. 149,
LIBRO PR1510. ^09
fece quattro elezioni di che quello si avesse a pentire. Ed eb-
be, come ho detto, tanto in odio il nome regio, che nessuno
obbligo di alcuno suo cittadino, che tentasse quel nome,
potette fargli fuggire le debile pene. Vedesi, oltra di questo,
le città dove i popoli sono principi, fare in brevissimo tempo
augumenti eccessivi, e molto maggiori che quelle che sempre
sono state sotto un principe: come fece Roma dopo la cacciala
de' re, ed Alene da poi che la si liberò da Pisistrato. Il che non ,
può nascere da altro, se non che sono migliori governi quelli !
de' popoli che quelli de' principi. Né voglio che si opponga a
questa mia oppìnione lutto quello che lo isterico nostro ne dice
nel preallegalo lesto, ed in qualunque altro; perchè, se si dis- •
correranno tutti i disordini de* popoli, lutti i disordini de' prin-
cipi, tutte le glorie de' popoli, tutte quelle de'principi, si vedrà
il popolo di bontà e di gloria essere di lunga superiore. E se i
principi sono superiori a' popoli nello ordinare leggi, formare
vite civili, ordinare statuti ed ordini nuovi; i popoli sono tanto
superiori nel mantenere le cose ordinale, ch'egli aggiungono
senza dubbio alla gloria di coloro che l'ordinano. Ed in som-
ma, per epilogare questa materia, dico come hanno duralo
assai gli stati de'principi, hanno duralo assai gli stali delle
repubbliche, e 1' uno e l' altro ha avuto bisogno d'essere re-
gelato dalle leggi: perchè un principe che può fare ciò che j
vuole, è pazzo; un popolo che può fare ciò che vuole, non è I
savio. Se, adunque, si ragionerà d*un principe obbligalo alle'
leggi, e d'un popolo incatenato da quelle, si vedrà più virtù
nel popolo che nel principe: se si ragionerà dell'uno e del-
l' altro sciolto, si vedrà meno errori nel popolo che nel prin- r
cipe; e quelli minori, ed aranno maggiori rimedi. Perchè i
ad un popolo licenzioso e tumultuario, gli può da un uomo '
buono esser parlato , e facilmente può essere ridotto nella
via buona: ad un principe cattivo non è alcuno che possa par-
lare, né vi è altro rimedio che il ferro. Da che si può far
coniellura della importanza della malattia dell' uno e dell'ai- *^ ^
Irò: che se a curare la malattia del popolo bastano le parole,
ed a quella del principe bisogna il ferro, non slira maTal- M» ^*^^
cuno che non giudichi , che dove bisogna maggior cura , ^ |UiC«<
siano maggiori errori. Quando un popolo è bene sciolto, non „.* y
21Ò
1)E1 DISCORSI
si temono le pazzie che quello fa , né si ha paura del mal
presente, ma di quello che ne può nascere, potendo nascere
io fra tanta confusione un tiranno. Ala ne* principi Insti inter-
viene il contrario : che si teme il male presente, e nel futuro
si spera; persuadendosi gli uomini che la sua cattiva vita
possa far surgere una libertà. Sì che vedete la dilTerenza
dell* uno e dell' altro, la quale è quanto dalle cose che sono,
a quelle che hanno ad essere. Le crudeltà della moltitudine
sono centra a chi ci temono che occupi il ben comune: quelle
d' un princif>e sono contra a chi ei temono che occupi il
bene proprio. Ma la oppinione contra ai popoli nasce perchè
de' popoli ciascuno dice male senza paura e liberamente, an-
cora mentre che regnano : de' principi si parla sempre con
mille paure e miHe rispetti. Né mi pare fuor di proposito ,
poiché questa materia mi vi tira, disputare nel seguente ca-
pitolo di quali confederazioni altri si possa più fidare; o di
quelle fatte con una repubblica , o di quelle fatte con un
principe.
Gap. LIX.— Di quali confederazioni, o lega, altri si può più
fidare; o di quella falla con una rcpublica, o di quella
falla con uno principe.
Perchè ciascuno di occorre che V uno prìncipe con l'al-
tro, o runa repubblica con l'altra, fanno lega ed amiciiit
insieme; ed ancora similmente si contrae confederazione
ed accordo intra una repubblica ed uno principe; mi pare di
esaminare qual fede è pia stabile, e di quale si debba te-
nere più conto, 0 di quella d'una repubblica, o di quella
d' uno principe. Io, esaminando tutto, credo che in molli casi
e' siano simili, ed in alcuni vi sia qualche disformità. Credo
per tanto, che gli accordi fatti per forza non ti saranno né
da un principe né dà una repubblica osservati ; credo che
quando la paura dello stalo venga, l'uno e l'altro, per i^on
lo perdere, ti romperà la fede, e ti userà ingratitudine.
Demetrio, quel che fu chiamato espugnttore delle cittadi,
aveva fatto agli Ateniesi infiniti beneficii: occorse dipoi, che
eeado rollo da' suoi inimici, e rifuggendosi in Alene^ come
Libro primo. èli
in città amica ed a lui obbligata, non fu ricevuto da quella:
il che gli dolse assai più che non aveva fatto la perdita
delle genti e dello esercito suo. Pompeio, rotto che fu daf
Cesare in Tessaglia, si rifuggì in Egitto a Tolomeo, il quale
era per lo addietro da lui slato rimesso nel regno ; e lu da
lui morto. Le quali cose si vede che ebbero le medesime
cagioni : nondimeno fu più umanità usata e meno ingiuria
dalla repubblica, che dal principe. Dove è, pertanto, la paura, \
si troverà in fatto la medesima fede. E se si troverà o una '
repubblica o uno principe, che per osservarti la fede aspelli
di rovinare, può nascere questo ancora da simili cagioni.
E quanto al principe, può mollo bene occorrere che egli sia
amico d'un principe potente, che se bene non ha occasione
allora di difenderlo, ei può sperare che col lempo e' lo re-
stituisca nel principato suo; o veramente che, avendolo se-
guito come partigiano, ei non creda trovare né fede né ac-
cordi con il nimico di quello. Di questa sorte sono stati
quelli principi del reame di Najtoli che hanno seguite le
parti franciose. E quanto alle repubbliche, fu di questa sorte
Sagunto in Ispagna, che aspellò la rovina per seguire le
parli romane ; e di questa Firenze, per seguire nel 1512 le
parli franoiose. E credo, computata ogni cosa, che in questi
casi, dove è il pericolo urgente, si troverà qualche stabi-
lità più nelle repubbliche, che ne' principi. Perchè, sebbene
le repubbliche avessino quel medesimo animo e quella me-
desima voglia che un principe, lo avere il molo loro tardo,
farà che le porranno * sempre più a risolversi che il prin-
cipe, e per questo porranno più a rompere la fede di lui.
Romponsi le confederazioni per lo utile. In questo le re-
pubbliche sono di lunga più osservanti degli accordi, che i
principi. E polrebbesi addurre essempi , dove uno mìnimo
utile ha fallo rompere la fede ad uno principe, e dove una
grande utilità non ha fatto rompere la fede ad una repub-
blica: come fu quello partilo che propose Temistocle agli Alc-
Tiiesi, a' quali nella conciono disse che aveva uno consiglio
* L* edizione di Roma , cosi qui come nella linea seguente, lia Berranno: il
cbe dìi indizio che 1* Autore scrivesse colle abbreviazioni iisale in quel tetnpo,
peneranno, 'pWt^ ^
212 DEI Disconsi
da fare alla loro patria grande utìlilà; ma non lo poteva
dire per non lo scoprire, perchè scoprendolo si toglieva la
'occasione del farlo. Onde il popolo dì Alene elesse Aristide,
al quale si comunicasse la cosa, e secondo dipoi che paresse
a lui se ne deliherasse : al quale Temistocle mostrò come
r armala di tutta Grecia , ancora che stesse sotto la fede
loro, era in lato che facilmente si poteva guadagnare o di-
struggere; il che faceva gli Ateniesi al tutto arbitri di quella
provincia. Donde Aristide riferì al popolo, il partito di Te-
1 mislocle esser utilissimo, ma disonestissimo: per la qual
cosa il popolo al tutto lo ricusò. Il che non arebhe fatto Fi-
' lippe Macedone, e gli altri principi che più utile hanno
cerco e più guadagnato con il rompere la fede , che con
veruno altro modo. Quanto a rompere i patti per qualche
cagione di inosservanza , di questo io non parlo come di
cosa ordinaria ; ma parlo di quelli che si rompono per ca-
gioni istraordinarie: dove io credo, per le cose dette, che il
popolo facci minori errori che il principe, e per questo si
possa fidar più di lui che del principe.
«
Gap. LX. — Come il comoìalo e qualunque allro magistrato
in Roma si dava senza rispetto di età.
E' si vede per T ordine della istoria, come la Repubblica
romana, poiché M consolato venne nella Plebe, concesse
quello ai suoi cittadini senza rispetto di età o di sangue;
ancora che il rispetto della eia mai non fussc in Roma, ma
sempre si andò a trovare la virtù, o in giovane o in vecchio
che la fusse. II che si vede per il testimone di Valerio Corvino,
che fu fatto Consolo nelli ventitré anni : e Valerio detto, par-
lando ai suoi soldati, disse come il consolalo eral prcemium
virtulis, non sangniniìt. La qual cosa se fu Lene considerala
o no, sarebbe da disputare assai. É quanto al sangue, fu
concesso questo per necessità : e quella necessità che fu in
Roma, sarebbe in osni città che volesse fare gli elTiftti che
fece Roma , come allra volta si è detto: perchè e' non si può
dare agli uomini disagio senza premio, nò si può tórre la
speranza di conseguire il premio senza pericolo. li-però a
LIBRO PRIMO. 21»^
buona ora convenne che la Plebe avesse speranza di avere
il consolato; e di questa speranza si nutrì un tempo senza
averlo. Di poi non bastò la speranza, che e' convenne che
si venisse allo effetto. Ma la città che non adopera la sua
plebe ad alcuna cosa gloriosa, la può trattare a suo modo,
come altrove si disputò: ma quella che vuole fare quel che
fé Roma, non ha a fare questa distinzione. E dato che cosi
sia, quella del tempo non ha replica; anzi è necessaria:
perchè nello eleggere uno giovane in uno grado che abbi bi-
sogno d'una prudenza di vecchio, conviene, avendovelo* ad
eleggere la moltitudine, che a quel grado lo facci pervenire
qualche sua nobilissima azione. E quando un giovane è di
tanta virtù , che si sia fatto in qualche cosa notabile cono-
scere ; sarebbe cosa dannosissima che la città non se ne
potesse valere allora, e che la avesse ad aspettare che fusse
invecchiato con lui quel vigore dell'animo,^ quella pron-
tezza, della quale in quella età la patria sua si poteva va-
lere: come si valse Roma di Valerio Corvino, di Scipione,
^ di Pompeio, e di molti altri che trionfarono giovanissimi.
* Così nella Romana ; nelle altre : avendolo.
2 Qui le moderne edizioni suppliscono e.
' E qui la Bladiana frappone un e , il quale non leggesi nella Testina.
^14 DEI DISCORSI
lilBRO $iECO\DO.
Laudano sempre gli aomini, ma non sempre ragione-
volmente, gli antichi tempi, egli presenti accusano: ed in
modo sono delle cose passate partigiani, che non solamente
celebrano quelle eladi che di loro sono siate, per la me-
moria che ne hanno lasciala gli acrittori, conosciute; ma
quelle ancora che, aeodo già vecchi, fi ricordano nella loro
giotaneiia avere vedute. E quando quesla loro oppinione sia
falsa, come il pia delle volte è, mi persuado varie essere
le cagioni che a questo Inganno gli conducono. E la primi
eredo aia, che delle cose antiche non s* intenda al tulio la
venti ; e che di quelle il più delle volle si nasconda quelle
cose ch*e recherehhono a quelli tempi infamia; e quelle al-
tre che possono partorire loro sloria, si rendino magnifiche
ed amplissime. Però che i più degli acrillori in modo alla
fortuna de* vincitori ubbidi<icono , che per fare le loro vit-
torie sloriose, non solamente accrescono quello che da loro
è virtuosamente operalo, ma ancora le azioni de* nimici in
modo illustrano , che qualunque nasce dipoi in qualunque
delle due Provincie, o nella vittoriosa o nella vinla, ha ca-
gione di maravicliarsi di quelli uomini e dì quelli tempi ,
ed è forzato sommamente Inudarjili ed amargli. Olirà di
r questo, odiando gli uomini le cose o per timore o per in-
Tidia, vengono ad essere spente due potentissime casioni
'dell'odio nelh cose passate, non ti polendo quelle offendere,
e non ti dando cagione d* invidiarle. Ma al contrario inter-
viene di quelle cose che si maneggiano e veggono; le quali,
per la intera cognizione di esse, non ti essendo in alcuna
I parte nascoste, e conoscendo in quelle insieme con il bene
\ molle altre cose che ti dispiacciono, tei forzato giudicarle
LIBRO SECONDO. 215
alle antiche molto inferiori, ancora che in verità le presenti
molto più di quelle di gloria e di fama meritassero: ragio-
nando non delle cose pertinenti alle arti, le quali hanno
tanta chiarezza in sé, che i tempi possono tórre o dar loro
poco più gloria che per loro medesime si meritino ; ma par-
lando di quelle pertinenti alla vita e costumi degli uomini,
delle quali non se ne veggono sì chiari testimoni. Replico,
pertanto, essere vera quella consuetudine del laudare e bia-
simare soprascritta ; ma non essere già sempre vero che
si erri nel farlo. Perchè qualche volta è necessario che giu-
dichino la verità ; perchè essendo le cose umane sempre
in molo, 0 le salgono, ò le scendono. E vedesi una città o
una provincia essere ordinata al vivere polìtico * da qual-
che uomo eccellènte; ed, un tempo, per la virtù di quello
ordinatore, andare sempre in augumento verso il meglio.
Chi nasce allora in tale stato, ed ei laudi più li antichi
tempi che i moderni, s* inganna; ed è causato il suo in-
ganno da quelle cose che di sopra si sono dette. Ma coloro
che nascono dipoi, in (Quella città o provìncia, che gli è
venuto il tempo che la scende verso la parte più rea,* al-
lora non s'ingannano. E pensando io come queste cose prò- [
cedine, giudico il mondo sempre essere stato ad un mede- (
Simo modo, ed in quello esser stato tanto di buono quanto (
di tristo ; ma variare questo tristo e questo buono di provin- ^
eia in provincia : come si vede per quello si ha notizia di
quelli regni antichi che variavano dall'uno all'altro perla
variazione de' costumi; ma il mondo restava quel medesimo.
Solo vi era questa difTerenza, che dove quello aveva prima
collocata la sua virtù in Assiria, la collocò in Media, dipoi
in Persia, tanto che la ne venne in Italia ed a Roma: e se
dopo lo imperio romano non è seguito imperio che sia du-
ralo, né dove il mondo abbia ritenuta la sua virtù insieme;
si vede nondimeno essere sparsa in di molte nazioni dove
si viveva virtuosamente; come era il regno de' Franchi, il
regno de* Turchi, quel del Soldano ; ed oggi i popoli della
Magna; e prima quella sella Saracina che fece tante gran
* Così , e cerio assai meglio, nella Romana. Nelle altre '.pubblico.
S Xtà Bladiaiia &uIlaulo: ria.
216 DEI DISCORSI
cose, ed occupò tanto mondo, poiché la distrusse lo imperio
romano orientale. In tutte queste provincie, adunque, poiché
i Romani rovinorono, ed in tutte queste sètte è stata quella
virtù, ed è ancora in alcuna parte di esse, che si desidera,
e che con vera laude 8i lauda. E chi nasce in quelle , e
lauda i tempi passali più che i presenti, si potrebbe ingan-
nare; ma chi nasce in Italia ed in Grecia, e non sia dive-
nuto o in Italia oltramontano o in Grecia turco, ha ragione
di. biasimare i tempi suoi, e laudare gli altri: perchè in
iqaeUi fi sono assai cose che gli fanno meravigliosi ; in
questi non è cosa alcuna che gli ricomperi da ogni estrema
miseria, infamia e vituperio: dove. non è osservanza di re-
^ligione, non di leggi, non di milizia; ma sono maculati
d'ogni ragione bruttura. K tanto sono questi vizi più dete-
stabili, quanto ei sono più in coloro che seggono prò tri-
banali, comandano a ciascuno, e vogliono essere adorati.
Ma tornando al ragionamento nostro, dico che se il giudi-
ciò degli uomini è corrotto in giudicare quale sia migliore ,
o il secolo presente o l'antico, in quelle coso dove per l'an-
tichità ei non ha possuto avere perfetta cognizione come
egli ha de' suoi tempi ; non doverrebbe corrompersi ne' vec-
chi nel giudicare i tempi della gioventù e vecchiezza loro,
avendo quelli e questi egualmente conosciuti e visti. La
qual cosa sarebbe vera , se gli uomini per tutti i tempi
della lor vita fossero del medesimo giudizio, ed avessero
quelli medesimi appetiti: ma variando quelli, ancora che i
tempi non variino,* non possono parere agli uomini quelli
medesimi, avendo altri appetiti, altri diletti, altre conside-
razioni nella vecchiezza, che nella gioventù. Perchè, man-
cando gli uomini quando li invecchiano di forze , e cre-
scendo di giudizio e di prudenza ; è necessario che quelle
cose che in gioventù parevano loro sopportabili e buone, rie-
schino poi invecchiando insopportabili e cattive ; e dove
quelli ne doverrebbono accusare il giudirio loro, ne accu-
sano i tempi. Sendo, oltra di questo, gli appetiti umani insa-
ziabili, perchè hanno dalia natura di potere e voler deside*
4 La Teslioa e il Poggiali: variano j V tdiziont del 1S13 t varino.
LIBRO SECONDO. 217
rare ogni cosa, e dalla fortuna di polere conseguirne * poche ;
ne risulta conlinuanaenle una mala conlentezza nelle menti
umane, ed un fastidio delle cose che si posseggono: il che
fa biasimare 1 presenti tempi, laudare i passati, e desiderare
i futuri; ancora che a fare questo non fussino mossi da alcuna
ragionevole cagione. Non so, adunque, se io meriterò d'es-
sere numerato tra quelli che si ingannano, se in questi mia
discorsi io lauderò troppo 1 tempi degli antichi Romani , e
biasimerò i nostri. E veramente , se la virtù che allora re-
gnava, ed il vizio che ora regna, non fussino più chiari chCj
il sole, andrei col parlare più rattenulo, dubitando non in-
correre in quello inganno di che io accuso alcuni. Ma es-
sendo la cosa sì manifesta che ciascuno la vede , sarò ani-
moso in dire manifestamente quello che intenderò di quelli
e di questi tempi; acciocché gli animi de' giovani che que-
sti mia scritti leggeranno, possino fuggire questi, e prepa-
rarsi ad imitar quegli, qualunque volta la fortuna ne dessi
loro occasione. Perchè gli è offizio di uomo buono, quel bene
che per la malignità de' tempi e della fortuna tu non hai
potuto operare, insegnarlo ad altri, acciocché sendone molti
capaci, alcuno di quelli, più amalo dal Cielo, possa operarlo.
Ed avendo ne* discorsi del superior libro parlato delle deli-
berazioni fatte da' Romani pertinenti al di dentro della città,
in questo parleremo di quelle, che '1 Popolo romano fece
pertinenti allo augumenlo dello imperio suo.
Cap; I. — Quale fa più cagione dello imperio che acquislorono
i Romani, o la virlù, o la fortuna.
Molti hanno avuta oppinione, intra ì quali é Plutarco,
gravissimo scrittore, che 'l Popolo romano nello acquistare
lo imperio fusse più favorito dalla fortuna che dalla virlù.
Ed intra le altre ragioni che ne adduce, dice che per confes-
sione di quel popolo si dimostra, quello avere riconosciute
dalla fortuna tulle le sue vittorie, avendo quello edificati
più templi alla Fortuna, che ad alcun altro Dio. E pare che
a questa oppinione si accosti Livio; perchè rade volle é che
* JNon bene , ne senza ({ualcbc abbaglio , la Romana : conseguitare.
19
2i8 »EI DISCORSI
facci pc^rlare ad alcuno Romano , dove ci racconli della
virtù, che non vi aggiunga la fortuna. La qual cosa io non
voglio confessare in alcun modo, né credo ancora si possa
sostenere. Perchè, se non si è trovato mai repubblica che
abbi falli i progressi che Roma, è nato che * non sì è trovala
mai repubblica che sia stata ordinala a potere acquistare
come Roma. Perchè la virtù degli eserciti gli feciono acqui-
stare lo imperio; e l'ordine del procedere, ed il modo suo
proprio, e trovalo dal suo primo legislatore, gli fece man-
tenere lo acquistalo: come di sotto largamente in più discorsi
si narrerà. Dicono costoro, che non avere mai accozzale due
potentissime guerre in uno medesimo tempo, fu fortuna e
non virtù del Popolo romano ; perchè e' non ebbero guerra
con i Latini, se non quando egli ebbero non tanto battuti
i Sanniti, quanto che la guerra fu da' Romani falla in difon-
sionc di quelli; non combatterono con i Toscani, se prima
non ebbero soggiogali i Latini , ed enervati con le spesse
rotte quasi in tutto i Sanniti : che se due di queste potente
Intere si fussero, quando erano fresche, accozzale insieme,
senza dubbio si può facilmente conìetturare che ne sarebbe
seguito la rovina della romana Repubblica. Ma , coraunchc
questa cosa nascesse, mai non intervenne che eglino avessino
due potentissime guerre in un medesimo tempo: anzi parve
sempre, o nel nascere dell'una, l'altra si spes^nesse; o nel
spegnersi dell'una, l'altra nascesse. Il che si può facilmente
federe per l'ordine delle guerre falle da loro: perchè, la-
sciando stare quelle che feciono prima che Roma fusse presa
dai Franciosi, si vede che mentre che combnllerno con gli
Equi e con i Volsci, mai, mentre questi popoli furono po-
tenti, non si levarono conlra di loro altre genli. Dorai costoro,
nacaue la guerra conlra ai Sanniti; e benché innanzi che
finisse tal guerra, i popoli Ialini si ribellassero da'Komani;
nondimeno quando tale ribellione segui, i Sanniti erano in
lega con Roma, e con il loro esercito aiulorono i Romani
domare la insolenza Ialina. I quali domi, risurse la guerra
di Sannio. Battute per molle rotte date a' Sanniti le loro
* È nato perchè, o, da ciò che. Gli editori della Testina, e il Pog-
giali , che non intesero questo passo , emendarono : r nolo.
LIBRO SECONDO. 219
forze, nacque la guerra de* Toscani ; la qua! coraposla, si
rilevarono di nuovo i Sanniti per la passala di Pirro in Ita-
lia. 11 quale come fu ribattuto, e rimandato in Grecia, ap-
piccarono la prima guerra con 1 Cartaginesi: né prima fu
tal guerra finita, che tutti i Franciosi, e di là e di qua dal-
l'Alpi, congiurarono contra ai Uomani; tanto che intra Popo-
lonia e Pisa, dove è oggi la torre a San Vincenti, furono con
massima strage superati. Finita questa guerra, per ispazio
di venti anni ebbero guerra di non molta importanza ; per-
ché non combatterono con altri che con i Liguri, e con quel
rimanente de' Franciosi che era in Lombardia. E cosi stet-
tero tanto che nacque la seconda guerra cartaginese, la
qual per sedici anni tenne occupata Italia. Finita questa
con massima gloria, nacque la guerra macedonica; la quale
fini!a, venne quella d'Antioco e d'Asia. Dopo la qual vitto-
ria, non res <> in tutto il mondo né principe né repubblica
che, di per sé, o tutti insieme, si potessero opporre alle
forze romane. Ma innanzi a quella ultima vittoria, chi con-
siderrà l'ordina di queste guerre, ed il modo del proce-
dere loro, vedrà dentro mescolate con la fortuna una virtù
e prudenza grandissima. Talché, chi esaminasse la cagione
di tale fortuna, la ritroverebbe facilmente: perchè gli è cosa
certissima, che come un principe e un popolo viene in tanta
riputazione, che ciascuno principe e popolo vicino abbia di
per sé paura ad assaltarlo, e ne tema, sempre interverrà
che ciascuno di essi mai lo assalterà, se non necessitato;
in modo che e' sarà quasi come nella elezione di quel po-
lente, far guerra con quale di quelli suoi vicini gli parrà, e
gli altri con la sua industria quietare. I quali, parte rispetto
alla potenza sua, parte ingannati da quei modi che egli terrà
per addormentargli, si quietano facilmente; e gli altri potenti
che sono discosto, e che non hanno commerzio seco, curano
la cosa come cosa longinqua, e che non appartenga loro. Nel
quale errore stanno tanto che questo incendio venga loro
presso: il quale venuto, non hanno rimedio a spegnerlo se
non con le forze proprie ; le quali dipoi non bastano, sendo
colui diventalo potentissimo. Io voglio lasciare andare, come
i Sanniti stellerò a vedere vincere dal Popolo romano i Yolsci
f*-
"220 DEI DISCORSI.
e gli Equi; e per non essere troppo prolisso, mi farò da' Car-
taginesi: ì qiali erano di gran potenza e dì grande estima-
zione qaando i Romani combattevano con i Sanniti e con i
Toscani ; perchè di già tenevano tutta V Affrica, tenevano la
Sardigna e la Sicilia, avevano dominio in parte della Spa-
gna. La quale potenza loro, insieme con V esser discosto ne'
conGni dal Popolo romano, fece che non pensarono mai
di assaltare quello, né di soccorrere ì Sanniti e Toscani:
anzi fecero come si fa nelle cose che crescono, più tosto in
lor favore collegandosi con quelli, e cercando l'amicizia lo-
ro. Né si avviddono prima dell'errore fatto, che i Romani,
domi tutti i popoli mezzi infra loro ed i Cartaginesi, comincia-
rono a combattere insieme dello imperio di Sicilia e di Spa-
gna- Intervenne questo medesimo a* Franciosi che a' Carta-
ginesi, e cosi a Filippo re de* Macedoni, ' e ad Antioco; e
ciascuno di loro credea, mentre che il Popolo romano era
occupato con l' altro, che queir altro lo superasse, ed essere
a tempo, o con pace o con guerra, difendersi da lui. In modo
che io credo che la fortuna che ebbono in questa parte i Ro-
mani, r arcbbono tutti quelli principi che procedessero comò
i Romani, e fusscro di quella medesima virtù che loro. Sa*
rebbcci da mostrare a questo proposito il modo tenuto dal
Popolo romano nello entrare nelle provincie d'altri, se nel
nostro trattato de* principati non ne avessimo parlato a lungo;
perché in quello questa materia è ditTusamcnte dispulala. Dirò
80I0 questo brevemente, come sempre s'ingegnarono avere
nelle provincie nuove qualche amico che fosse scala o porla a
salirvi ©entrarvi, 0 mezzo a tenerla : comò si vede che per
il mezzo de*Capovani entrarono in Sannio, de'Camertini in
Toscana, de'Mamertini in Sicilia, de*Saguntini in Spagna,
di Massinissa in Affrica, degli Etoli in Grecia , di Eumene
ed altri principi in Asia, de'Massiliensi e dclli Edui in
Francia. E cosi non mancarono mai di simili appoggi, per
potere facilitare le imprese loro, e nello acquislare le pro-
vincie e nel tenerle. Il che quelli popoli che osserveranno ,
vedranno avere meno bisogno della fortuna, che quelli che
ne saranno non buoni osservatori. E perché ciascuno possa
< La Testina e il Poggiati , di Macedonia.
LIBRO SECONDO. 221
meglio conoscere, quanto polè* più la virlù che la fortuna
loro ad acquistare quello imperio ; noi discorreremo nel se-
guente capitolo di che qualità furono quelli popoli con i quali
egli ebbero a combattere, e quanto erano ostinati a difendere
la loro libertà.
Cap. II. — Con quali popoli i Romani ebbero a combàUerCj
e come oslinalamente quelli difendevano la loro libertà.
Nessuna cosa fece più faticoso a' Romani superare i popoli
d'intorno, e parte delle provincie discosto, quanto lo amore
che in quelli tempi molli popoli avevano alla libertà ; la
quale tanto ostinatamente difendevano, che mai se non da
una eccessiva virtù sarebbono stati soggiogati. Perchè, per
molti essempi si conosce a quali pericoli si mei lessino per
mantenere o ricuperare quella ; quali vendette e' facessino
contra a coloro che Tavessino loro occupata. Conoscesi an-
cora nelle lezioni delle istorie, quali danni i popoli e le citlà^
ricevine per la servitù. E dove in questi tempi ci è solo una
provincia la quale si possa dire che abbia in sé città libere,
ne' tempi antichi in tutte le provincie erano assai popoli libe-
rissimi. Vedesi come in quelli tempi de* quali noi parliamo al
presente, in Italia, dall'Alpi che dividono ora la Toscana dalla
Lombardia, insinoalla punta d' Italia, erano molti popoli li-
beri ; com'erano i Toscani, i Romani, i Sanniti, e molti al-
tri popoli che in quel resto d' Italia abitavano. Né si ragiona
mai che vi fusse alcuno re, fuora di quelli che regnarono in
Roma, e Porsena re di Toscana ; la stirpe del quale come si
estinguesse, non ne parla la istoria. Ma si vede bene, come in
quelli tempi che i Romani andarono a campo a Velo, la To-
scana era libera: e tanto si godea della sua libertà, e tanto
odiava il nome del principe, che avendo fatto i Veienti per
loro difensione un re in Veio, e domandando aiuto a* Toscani
contra ai Romani; quelli, dopo molle consulte fatte, delibera-
rono di non dare aiuto a' Veienti, infino a tanto che vives-
sino sotto *1 re ; giudicando non esser bene difendere la pa-
• Nella Romana e nella Testina: possa, F or sechh l'Autore avea srritlo
possi.
i9*
222 DEI DISCORSI
tria di coloro che l'avevano di già soUomessa ad altrui. E
facii cosa è conoscere donde nasca ne* popoli questa alTozione
del vivere libero; perchè si vede per esperienza, le cittadi
non avere mai amplialo né di domìnio né di ricchezza, se
non mentre son state in libertà. E veramente meravigliosa
cosa è a considerare, a qunnta grandezza venne Atene per
ispazio di cento anni, poiché la si liberò dalla tirannide di
Pisislralo. Ma sopra tutto meravigliosissima cosa é a consi-
derare, a quanta grandezza venne Roma, poiché la si liberò
da' suoi Re. La cagione è facile ad intendere; perché non il
bene particolare, ma il bene comune è quello che fa grandi
le città. E senza dubbio, questo bene comune non é osser-
vato se non nelle repubbliche; perché lutto quello che fa a
proposito suo, si eseguisce; e quantunque e' torni in danno
di questo o dì quello privato, e' sono tanti quelli per chi detto
bene fa, che lo possono tirare innanzi centra alla disposi-
zione di quelli pochi che ne fussino oppressi. Al contrario
interviene quando vi è uno principe ; dove il più delle volte
rqaello che fa per lui, offende la città ; e quello che fa per la
città, otfende lui. Dimodoché, subito che nasce una tirannide
sopra un viver libero, il manco male che ne resulti a quelle
città, è non andare più innanzi, né crescere più in potenza
0 in ricchezze; ma il più delle volte, anzi sempre, interviene
loro, che le tornano indietro. E se la sorte facesse che vi
surgesse un tiranno virtuoso, il quale per animo e per virtù
d'arme ampliasse il dominio suo, non ne risulterebbe alcuna
utilità a quella repubblica, ma a lui proprio: perché e' non
può onorare nessuno di quelli cittadini che siano valenti e
buoni, che egli tiranneggia, non volendo avere ad avere so-
spetto di loro. Non può ancora le città che egli acquista, sot-
tometterle 0 farle tributarie a quella città di che egli è ti-
. ranno : perché il farla potente non fa per lui ; ma per lui fa
jtenere lo stato disgiunto, e che ciascuna terra e ciascuna
[provincia riconosca lui. Talché di suoi acquisti, solo egli ne
proGtla, e non la sua patria. E chi volesse confermare quesla
oppinione con infinite allre ragioni, legga Senofonte nel suo
trattato che fa De Tirannide. Non é meraviglia adunque, che
gli antichi popoli con tanto odio perscguitassino 1 tiranni, ed
LIBUO SECONDO. 2f>3
amassino il vivere libero, e che il nome delia libertà fusse
tanto slimato da loro : come intervenne quando Girolamo ni-
pote di lerone siracusano fu morto in Siracusa, che venendo
le novelle della sua morte in nel suo esercito, che non era
molto lontano da Siracusa, cominciò prima a tumultuare, e
pigliare l'armi contra agli ucciditori di quello; ma come ei
senti che in Siracusa si gridava libertà, allettato da quel
nome, si quietò tutto, pose giù l'ira contra a' tirannicidi,!
e pensò come in quella città si potesse ordinare un viver li-'
bero. Non è meraviglia ancora, che i popoli faccino vendette
ìstraordinarie centra a quelli che gli hanno occupata la li-
bertà. Di che ci sono stati assai esempi, de* quali ne intendo
referire solo uno, seguito in Corcira, città di Grecia, ne' tempi
della guerra peloponnesiaca ; dove sendo divisa quella pro-
vincia in due fazioni, delle quali l'una seguitava gli Ateniesi,
r altra gli Spartani, ne nasceva che di molte città, che erano
infra loro divise, l'una parte seguiva l'amicizia di Sparta,
r altra di Atene : ed essendo occorso che nella delta città pre-
yalessino i nobili, e togliessino la libertà al popolo, ì popolari
per mezzo degli Ateniesi ripresero le forze, e posto le mani
addosso a tutta la nobiltà, gli rinchiusero in una prigione
capace di tutti loro ; donde gli traevano ad otto o dieci per
volta, sotto titolo di mandargli in esilio in diverse parti, e
quelli con molti crudeli essempi facevano morire. Di che sen-
dosi quelli che restavano accorti, deliberarono, in quanto era
a loro possibile, fuggire quella morte ignominiosa; ed arma»
tisi di quello potevano, combattendo con quelli vi volevano
entrare, la entrata della prigione difendevano : di modo che
il popolo, a questo remore fatto concorso, scoperse la parie
superiore di quel luogo, e quelli con quelle rovine suffocor-
no. Seguirono ancora in detta provincia molti altri simili
casi orrendi e notabili; talché si vede esser vero, che con
maggioro impeto si vendica una libertà che ti è suta tolta,
che quella che ti è voluta tórre. Pensando dunque donde
possa nascere, che in quelli tempi antichi, i popoli fussero
più amatori della libertà che in questi; credo nasca da quella
medesima cagione che fa ora gli uomini manco forti: la quale
credo sia la diversità della educazione nostra dalla antica,
^224 DEI Disconsi
fondata nella divcrsilà della religione nostra dalla antica.
Perchè avendoci la nostra religione mostra la verità e la vera
via, ci fa slimare meno l'onore del mondo: onde i gentili
slimandolo assai, ed avendo posto in quello il sommo bene,
erano nelle azioni loro più feroci. Il che si può considerare
da molle loro constituzioni, cominciandosi dalia magnificenza
de'sacrifìcii loro, alla umilila de' nostri; dove è qualche pompa
più dilicata che magnifica, ma nessuna azione feroce o ga-
gliarda. Quivi * non mancava la pompa né la magnificenza
delle cerimonie, ma vi si aggiungeva l'azione del sacrifìcio
pieno di sangue e di ferocia, ammazzandovisi moltitudine
di animali : il quale aspetto sendo terribile, rendeva gli uo-
mini simili a lui. La religione antica, oltre di questo, non
beatificava se non gli uomini pieni di mondana gloria ; come
erano capitani di eserciti, e principi di repubbliche. La no-
stra religione ha glorificalo più gli uomini umili e contem-
plativi, che gli attivi. Ha dipoi posto il sommo bene nella
umilila, abiezione, nello dispregio delle cose umane: quell'al-
tra lo poneva nella grandezza dello animo, nella fortezza del
corpo, ed in tulle le altre cose atte a fare gli uomini forlissi-
r mi. E se la religione nostra richiede che abbi in le fortezza,
jxuole che tu sia atto a patire più che a fare una cosa forte.
(Questo modo di vivere, adunque, pare che abbi renduto il
mondo debole, e datolo in preda agli uomini scellerati; i
quali sicuramente lo possono maneggiare, veggendo come
la università 'degli uomini, per andare in paradiso, pensa più
a sopportare le sue battiture, che a vendicarle. E benché paia
che si sia eCeminalo il mondo, e disarmalo il Cielo, nasce
più senza dubbio dalla viltà degli uomini, che hanno intcr-
^ prelato la nostra religione secondo l'ozio, e non secondo la
)virtù. Perchè, se considerassino come la permette la esalta-
zione e la difesa della patria, vedrebbono come la vuole che
noi r amiamo ed onoriamo, e prepariamoci ad esser tali che
noi la possiamo difendere. Fanno adunque queste educazioni,
e sì false interpretazioni, che nel mondo non si vede tante
repubbliche quante si vedeva anticamente ; né, per conse-
♦ La Romana: Qui.
' Cosi nella Bladiana In lullc le altre: universalità. >
LIBUO SECONDO. 225
guenle, si vede ne' popoli tanlo amore alla libertà quanto allo-
ra: ancora che io creda piuUoslo essere cagione di questo, che
Io imperio romano con le sue arme e sua grandezza spense
tutte le repubbliche e tutti i viveri civili. E benché poi tal im-
perio si sia risoluto, non si sono potute le città ancora rimet-
tere insieme né riordinare alla vita civile, se non in pochissimi
luoghi di quello imperio. Pure, comunche si fusse, i Romani
in ogni minima parte del mondo trovarono una congiura di
repubbliche armatissime, ed ostinatissime alla difesa della
libertà loro.TTche mostra che '1 Popolo romano senza una
rara ed estrema virtù mai non le arebbe potute superare. E
per darne essempio di qualche membro, voglio mi bastilo es-
serapio de' Sanniti: i quali pare cosa mirabile, e Tito Livio* lo
confessa, che fussero si polenti, e l'arme loro si valide, che
potessero infino al tempo di Papirio Cursore consolo, figliuolo
del primo Papirio, resistere a' Romani (che fu uno spazio di
XLVI anni), dopo tante rotte, rovine di terre, e tante stragi
ricevute nel paese loro; massime veduto ora quel paese dove
erano tante cittadi e tanti uomini, esser quasi che disabitato;
ed allora vi era tanto ordine e tanta forza, ch'egli era insu-
perabile, se da una virtù romana non fusse stato assaltato.
E facil cosa è considerare donde nasceva quello ordine, e
donde proceda questo disordine; perché tutta viene dal viver
libero allora, ed ora dal viver servo. Perchè tutte le terre e le
Provincie che vivono libere in ogni parte, come di sopra dis-
si, fanno i progressi grandissimi. Perchè quivi si vede mag-
giori popoli, per essere i matrimoni più liberi, e più deside-
rabili dagli uomini: perchè ciascuno procrea volentieri quelli
figliuoli che crede potere nutrire, non dubitando che il pa-
trimonio gli sia tolto; che e' conosce non solamente che na-
scono liberi e non schiavi, ma che possono mediante la virtù
loro diventare principi. Veggonvisi le ricchezze multiplicare
in maggiore numero, e quelle che vengono dalla cultura
quelle che vengono dalle arti. Perchè ciascuno volentieri
multiplica in quella cosa, e cerca di acquistare quei beni.
are (
* Slr;ma aller.izione vctlcsi qui nella Testina, e nell'edizione del Pog-
giali, che legjjono: l' essempio de' Sanniti , il quale pare cosa mirabile. E
2' ilo Livio ce.
226 Dtl DISCORSI ^
che crede acquislalì potersi godere. Onde ne nasce che gli
uomini a gara pensano ai privati ed a' pubblici comodi; e Tuno
e r altro viene meravigliosamente a crescere. Il contrario di
tutte queste cose segue in quelli paesi che vivono servi ; e
tanto più mancano del consueto bene, quanto è più dura In
servitù. E di tutte le servitù dure, quella è durissima che ti
sottomette ad una repubblica: Tuna, perchè la è più durabile,
e manco si può sperare d'uscirne; ' l'altra, perchè il fìne della
' repubblica è enervare ed indebolire, per accrescere il Corpo
suo, tutti gli altri corpi. 11 che non fa un principe che ti
sottometta, quando quel principe non sia qualche principe
barbaro, destrutlore de* paesi, e dissipatore di tutte le civiltà
degli uomini, come sono i principi orientali. Ma s'egli ha in
sé ordini umani ed ordinari, il più delle volte ama le città sue
soggette egualmente, ed a loro lascia l'arti tutte, e quasi
lutti gli ordini antichi. Talché, se le non possono crescerò
come libere, elle non rovinano anche come serve ; intenden*
dosi della servitù in quale vengono le città servendo ad un
forestiero, perchè di quella d'uno loro cittadino ne parlai di
sopra. Chi considerrà, adunque, tutto quello che si è detto,
non si meraviglierà della potenza che i Sanniti avevano
sendo liberi, e della debolezza in che e' vennero poi ser-
vendo: e Tito Livio ne fa fede in più luoghi, e massime nella
guerra d'Annibale, dove ei mostra che essendo i Sanniti
oppressi da una legione d'uomini che era in Nola, mando-
rono oratori ad Annibale, a predarlo che gli soccorresse; i
quali nel parlar loro dissono, che avevano per cento anni
combattuto con i Romani con i propri loro soldati e propri
loro capitani, e molte volte avevano sostenuto duoi eserciti
consolari e duoi consoli; e che allora a tanta bassezza erano
venuti, che non ' si potevano a pena difendere da una piccola
legione romana che era in Nola.
* La Romana soltanto : sperarne d' tiscire.
' Dal Biado in fuori , gli editori sopprimono non.
LIDRO SECONDO. 227
Gap. in. — Roma divenne grande cillà rovinando le cillà cir-
convicine, e ricevendo i foreslieri facilmenle a* suoi onori.
Crescil inlerea Roma Alba: ruinis. Quelli che disegnano
che una città faccia grande imperio, si debbono con ogni in-
dustria ingegnare di farla piena di abitatori ; perchè senza
questa abbondanza di uomini, mai non riuscirà di fare grande
una città. Questo si fa in duoi modi; per amore, e per forza.
Per amore, tenendole vie aperte e secure a' forestieri che di-
segnassero venire ad abitare in quella, acciocché ciascuno
vi abiti volentieri: per forza, disfacendo le città vicine, e
mandando gli abitatori di quelle ad abitare nella tua città.
Il che fu tanto osservato in Roma, che nel tempo del sesto
Re in Roma abitavano ottantamila uomini da portare armi.
Perchè i Romani voUono fare ad uso del buono cultivatore; il \
quale, perchè una pianta ingrossi, e possa produrre e mata- j
rare i frutti suoi, gli taglia i primi rami che la mette, ac- |
ciocché, rimasa quella virtù nel piede di quella pianta, possino
col tempo nascervi più verdi e più fruttiferi. E che questo
modo tenuto per ampliare e fare imperio, fosse necessario e
buono, lo dimostra lo essempio di Sparla e di Atene: le quali
essendo due repubbliche armalissime, ed ordinale di ottimo
leggi, nondimeno non si condussono alla grandezza dello im-
perio romano; e Roma pareva più tumultuaria, e non tanto
bene ordinata quanto quelle. Di che non se ne può addurre
altra cagione, che la preallegala: perchè Roma, per avere
ingrossato per quelle due vie il corpo della sua città, potette
di già mettere in arme dugentottantamila uomini ; e Sparla
ed Atene non passarono mai ventimila per ciascuna. II che
nacque, non da essere il sito di Roma più benigno che quello
di coloro, ma solamente da diverso modo di procedere. Per-
chè Licurgo, fondatore della repubblica spartana, conside-
rando nessuna cosa potere più facilmente risolvere le sue
leggi che la commistione di nuovi abitatori, fece ogni cosa
perchè i forestieri non avessino a conversarvi : ed , oltre al non
gli ricevere ne' matrimoni, alla civiltà, ed alle altre conver-
sazioni che fanno convenire gli uomini insieme, ordinò che
238 DEI DISCORSI
in quella sua repubblica si spendesse raoncle di cuoio, per
lòr via a ciascuno il desiderio di venirvi per portarvi mer-
canzie, o portarvi alcuna arie; di qualilà che quella cillà non
potette mai ingrossare di abitatori. E perchè tutte le azioni no-
stre imitano la natura, non è possibile né naturale che uno
pedale sottile sostenga un ramo grosso. Però una repubblica
piccola non può occupare città né regni che siano più validi
né più grossi di lei; e se pure gli occupa, gì' interviene come
a quello albero che avesse più grosso il ramo che 'I piede ,
che sostenendolo con fatica, ogni piccolo vento lo fiacca: come
si vede che intervenne a Sparta, la quale avendo occupate
lulte le città di Grecia, non prima se gli ribellò Tebe, che
tutte l'altre cittadi se gli ribellarono, e rimase il pedale solo
senza rami. Il che non potette intervenire a Roma, avendo
il pie si crosso, che qualunque ramo poteva facilmente soste-
nere. Questo modo adunque di procedere, insieme con gli
altri che di sotto si diranno, fece Roma grande e potentissi*
ma. Il che dimostra Tito Livio in due parole, quando disse:
Cresca inlerea Roma Alba ruinis.
Gap. IV. — Le repuhhìiche hanno tenuti tre modi circa
lo ampliare.
Chi ha osservalo le antiche istorie, (ruova come le repub-
bliche hanno tre modi circa lo ampliare. L'uno é stato quello
che osscrvorono i Toscani antichi, di essere una lega di più
repubbliche insieme, dove non sia alcuna che avanzi l'altra
né di autorità né di grado; e nello acquislarc, farsi l'altre
città compagne, in simil modo come in questo tempo fanno
ì Svizzeri, e come ne' tempi antichi feciono in Grecia gli
Achei e gli Etoli. E perché gli Romani feciono assai guerra
con i Toscani, per mostrar meglio la qualilà di questo primo
modo, mi distenderò in dare notizia di loro particolarmente.
In Italia, innanzi allo imperio romano, furono i Toscani per
mare e per terra potentissimi: e benché delle cose loro non
j ce ne sia particolare istoria, pure c'è qualche poco di me-
I moria, e qualche segno della grandezza loro ; e si sa come
e' mandarono una colonia in su '1 mare di sopra, la quale
LIBRO SECONDO. 229
chiamarono Adria, che fu sì nobile, che la dette nome a quel
mare che ancora i Latini chiamano Adriatico. Intendesi
ancora, come le loro arme furono ubbidite dal Tevere per
infino a' pie dell'Alpi , che ora cingono il grosso di Italia ; non
ostante che dugenlo anni innanzi che i Romani crescessino
in molte forze, delti Toscani perderono lo imperio di quel
paese che oggi si chiama la Lombardia; la quale provincia fu
occupata da' Franciosi: i quali mossi o da necessità, o dalla
dolcezza dei frutti, e massime del vino, vennono in Italia
sotto Belloveso loro duce; e rotti e cacciati i provinciali, si
posono in quel luogo, dove edificarono di molte cittadi, e
quella provincia chiamarono Gallia, dal nome che tenevano
allora; la quale tennono fino che da* Romani fussero domi.
Vivevano, adunque, i Toscani con quella equalità, e procede-
vano nello ampliare in quel primo modo che di sopra si dice:
e furono dodici città, tra le quali era Chiusi, Velo, Fiesole,
Arezzo, Volterra, e simili: i quali per via di lega governa-
vano lo imperio loro; né poterono uscir d'Italia con gli acqui-
sti; e di quella ancora rimase intatta gran parte, per le ca-
gioni che di sotto si diranno. L'altro modo è farsi compagni;
non tanto però che non li rimanga il grado del comandare, la
sedia dello imperio, ed il titolo delle imprese: il quale modo
fu osservato da' Romani. Il terzo modo è farsi immediate sud-
diti, e non compagni; come fecero gli Spartani e gli Ateniesi.
De' quali tre modi, questo ultimo è al tutto inutile; come e* si
vide che fu nelle sopraddette due repubbliche: le quali non
rovinarono per altro, se non per avere acquistato quel domi-
nio che le non potevano tenere. Perchè, pigliar cura di avere
a governare città con violenza, massime quelle che fussono
consuete a viver libere, è una cosa difficile e faticosa. E se
tu non sei armato, e grosso d'armi, non le puoi né coman-
dare, né reggere. Ed a voler esser così fatto, è necessario
farsi compagni che li aiutino* ingrossare la tua città di po-
polo. E perchè queste due città non feciono né l'uno né l'al-
tro, il modo del procedere loro fu inutile. E perchè Roma,
* Male la Testina,, con altr^ edizioni, non però ({uella del 1813, pon-
gono 9 (juesto luogo una virgola.
230 DEI DISCORSI.
(ro, però salse a tanta eccessiva potenza. E perchè la è stala
sola a vivere cosi , è siala ancora sola a diventar lanlo po-
lente: perchè, avendosi ella falli di raolli compasni per lulla
Italia, i quali in di molte cose con eguali lesgi vivevano se-
co ; e dall' allro canto, come di sopra è dello, sendosi riser-
vato sempre la sedia dello imperio ed il tilolodel comandare;
questi suoi compasni venivano, che non se ne avvedevano,
con le fatiche e con il sangue loro a soggiogar sé slessi. Per-
chè, come cominciorono a uscire con gli eserciti di Italia, e
ridarre i resni in provincie, e farsi suggelli coloro che per
esser consueti a vivere sotto i Re, non si curavano d'esser
soggetti; ed avendo governadori romani, ed essendo stati
Vinti da eserciti con il titolo romano;* non riconoscevano per
superiore altro che Roma. Di modo che quelli compagni di
Roma che erano in Italia, si trovarono in un tratto cinti da'
sudditi romani, ed oppressi da una srossissima città come era
Roma; e quando e' si avviddono dello inganno sotto il quale
erano vissuti, non furono a tempo a rimediarvi: tanta auto-
rità aveva presa Roma con le provincie esterne, e tanta forza
si trovava in seno, avendo la sua città grossissima ed arma-
tìssima. E benché quelli suoi compagni, per vendicarsi delle
ingiurie, gli consiurassino contra, furono in poco tempo per-
ditori della guerra, peggiorando le loro condizioni ; perchè
di compagni, diventarono ancora loro sudditi. Questo modo
di procedere, come è detto, è stalo solo osservalo da' Roma-
ni: né può tenere allro modo una repubblica che voglia am-
pliare; perchè la esperienza non te ne ha mostro nessuno più
certo o più vero. Il modo prcallegalo delle leghe, come vi-
verono i Toscani, gli Achei e gli Eloli, e come oggi vivono
i Svizzeri, é dopo a quello de' Romani il miglior modo; per-
chè non si potendo con quello ampliare assai, ne seguitano
duoi beni: l'uno, che facilmente non ti tiri guerra addosso;
l'altro, che quel tanto che tu pigli, lo tieni facilmente. La
cagione del non potere ampliare, è lo essere una repubblica
disgiunta, e posta in varie sedi: il che fa che difTicilmenle
possono consultare e deliberare. Fa ancora che non sono de-
siderosi di dominare: perchè essendo molle comunità a parli-
* Sottintendi , costoro , o codesti regni o popoli.
LIBRO SECONDO. 23 i
cipare di quel dominio, non istimano tanto tale acquisto,!
quanto fa una repubblica sola, che spera di goderselo tutto./
Governansi, olirà di questo, per concilio, e conviene che siano
più tardi ad ogni deliberazione, che quelli che abitano den-
tro ad un medesimo cerchio. Vedesi ancora per esperienza,
che simile modo di procedere ha un termine fisso, il quale non
ci è essempio che mostri che si sia trapassato: e questo è di
aggiugnere a dodici o quattordici comunità; dipoi, non cer-
care di andare più avanti : perchè sendo giunti al grado che
par loro potersi difendere da ciascuno, non cercano maggiore
dominio; si perchè la necessità non gli stringe di avere più
potenza; si per non conoscere utile negli acquisti, per le ca-
gioni dette di sopra. Perché gli arebbono a fare una delle
due cose; o seguitare di farsi compagni, e questa moltitu-
dine farebbe confusione; o gli arebbono a farsi sudditi: e
perchè e' veggono in questo ditlìcultà, e non molto utile nel
tenergli, non lo stimano. Pertanto, quando e' sono venuti a
tanto numero che paia loro vivere sicuri, si voltano a due
cose: runa a ricevere raccomandati, e pigliare prolezioni ; e
per questi mezzi trarre da ogni parte danari, i quali facil-
menle intra loro si possono distribuire: 1' altra è militare per/
altrui, e pigliar stipendio da questo e da quello principe chet
per sue imprese gli solda ; come si vede che ftinno oggi i\
Svizzeri, e come si legge che facevano i preallegati. Di ch& \
n'è testimone Tito Livio, dove dice che, venendo a parla-
mento Filippo re di Macedonia con Tito Quinzio Fiaraminio,
e ragionando d' accordo alla presenza d' un pretore degli
Etoli; in * venendo a parole detto pretore con Filippo, gli fu
da quello rimproveralo la avarizia e la infidelità, dicendo che »
gli Etoli non si vergognavano militare con uno, e poi man- j
dare loro uomini ancora al servigio del nimico; talché molte
volle intra duoi contrari eserciti si vedevano le insegne di Eto-
lia. Conoscesi, pertanto, come questo modo di procedere per
leghe, è stato sempre simile, ed ha fatto simili etTelti. Vedesi
ancora, che quel modo di fare sudditi è stalo sempre debole,
ed avere fallo piccoli profitti; e quando pure egli hanno pas-
sato il modo, essere rovinati tosto. E se questo modo di fare
* L* edizione del Biado : et.
232 DEI DISCORSI
suddili è inutile nelle repubbliche armate, in quelle che sono
r disarmate è inulilissimo: come sono slsfle ne' nostri tempi le
repubbliche di Italia. Conoscasi, pertanto, essere vero modo
quello che tennono i Romani; il quale è tanto più mirabile,
quanto e' non ce n'era innanzi a Roma essempio, e dopo Roma
DOD è slato alcuno che gli abbi imitati. E quanto alle leghe, si
trovano solo i Svizzeri e la lega di Svevia che gli imita. E, come
nel fine di questa materia si dirà, tanti ordini osservati da Ro-
ma, cosi pertinenti alle cose di dentro come a quello di fuora,
non sono ne' presenti nostri tempi non solamente imitati, ma
non n'è tenuto alcuno conto; giudicandoli alcuni non veri,
alcuni impossibili, alcuni non a proposito ed inutili; tanto
I che standoci con questa ignoranza, siamo preda di qualun-
que ha voluto correre questa provincia. E quando la imi-
tazione de' Romani paresse dilììcile, non doverrebbe parere
cosi quella degli antichi Toscani, massime a' presenti Tosca-
ni. Perchè, se quelli non poterono, per le cagioni dette, fare
uno imperio simile a quel di Roma, poterono acquistare in
Italia quella potenza che quel modo del procedere concesse
loro. Il che Tu per un gran tempo securo, con somma gloria
d'imperio e d'arme, e massima laude di costumi e di reli-
gione. La qual potenza e gloria fu prima diminuita da' Fran-
ciosi, dipoi spenta da' Romani; e fu tanto spenta, che ancora
che duemila anni fa, la potenza de' Toscani fusse grande, al
^ presente non ce n' è quasi memoria. La qual cosa mi ha fatto
pensare donde nasca questa oblivione delle cose : come nel
seguente capitolo si discorrerà.
Cip. V.— Che la variazione delle sèlle e delle lingue, infieme
con V accidenle de' diluvi o delle pesli, spegne la memoria
deUe cose.
A quelli filosofi che hanno voluto che '1 mondo sia stato
eterno, credo che si potesse replicare, che se tanta antichità
fusse vera, e' sarebbe ragionevole che ci fusse memoria di
più che cinque mila anni ; quando e' non si vedesse come
. queste memorie de' tempi per diverse cagioni si spengano:
delle quali parte vengono dagli uomini » parte dal cielo.
LIBRO SECONDO.
^33
Quelle che vengono dagli uomini, sono le variazioni delle
sèlle e delle lingue. Perchè quando surge una sella nuova,
cioè una religione nuova, il primo studio suo è, per darsi re-
pulazìone, eslinguere la vecchia ; e quando egli occorre che gli
ordinatori della nuova sella siano di lingua diversa, la spen-
gono facilmente. La qual cosa si conosce considerando i mo-
di che ha tenuti la religione cristiana contra alla sella gen-
tile; la quale ha cancellali tulli gli ordini, tulle le ceremonie j ^
di quella , e spenta ogni memoria di quella antica teologia. * ^^^r
Vero è che non gli è riuscito spegnere in tulio la notizia ù/tti^v^i
delle cose fatte dagli uomini eccellenti di quella: il che è nato -/*i>
per avere quella mantenuta la lingua Ialina ; il che fecero .
forzatamente, avendo a scrivere questa legge nuova con es- ^ v^
sa. Perchè, se l'avessino potuta scrivere con nuova lingua, '.^4'*^
consideralo le altre persecuzioni gli feciono, non ci sarebbe ri- ^ liff-y
cordo alcuno delle cose passale. E chi legge i modi tenuti da y^.
San Gregorio, e dagli altri capi della religione cristiana, ve-
drà con quanta ostinazione e' perseguitarono tulle le memo-
rie antiche, ardendo l'opere de' poeti e delti istorici, minan-
do le immagini , e guastando ogni altra cosa che rendesse
alcun segno della antichità. Talché, se a questa persecuzione
egli avessino aggiunto una nuova lingua, si sarebbe veduto
in brevissimo tempo ogni cosa dimenticare. È da credere ,
pertanto, che quello che ha voluto fare la religione cristiana
contra alla setta gentile, la gentile abbi fatto centra a quella
che era innanzi a lei. E perchè queste sèlle in cinque o in
seimila anni variarono due o tre volle, si perde ' la memoria
delle cose fatte innanzi a quel tempo. E se pure ne resta al-
cun segno, si considera come cosa favolosa, e non è prestalo
loro fede: come interviene alla istoria di Diodoro Siculo, che
benché e' renda ragione di quaranta o cinquanta mila anni,
nondimeno è riputata, come io credo che sia, cosa mendace.
Quanto alle cause che vengono dal ci^lp, sono quelle che
^ La Bladianà soltanto: perche queste sette in cinque o sei mila anni variano
due o tre volle ^ si perde la inenioria ec. Quando cosi avesse da leggersi, il
teorema del Machiavelli s3rebl)e più ar-lilo di tutte le degnila pensate dal
Vico : se non che sorge però iinportunamenle il sospetto che il teorema sia ualu
da un'abbreviazione m^^iot^s? Q,^a tm acceotQ oi^csso pel manosCiiliQ. ,
234 DÈI DISCORSI
spengono la amana generazione, e ridacono a pochi gli abi-
talori di parie del mondo. E questo viene o per peste o per
farne o per una inondazione d'acque: e la più importante è
questa ultima, sì perchè la è più universale, si perchè quelli
che si salvano sono nomini tutti montanari e rozzi, i quali non
avendo notizia di alcuna antichità, non la possono lasciare
a' posteri. E se infra loro si salvasse alcuno che ne avesse no-
tizia, per farsi riputazione e nome, la nasconde, e la per-
verte a suo modo; talché ne resta solo a' successori quanto
ei ne ha voluto scrivere, e non altro. E che queste inonda-
va \ zioni, pesti e fami vcn^hino, non credo sia da dubitarne; si
perchè ne sono piene tutte le istorie, si perchè si vede que-
sto effetto della oblivione delle cose, si perchè e' pare rai?io-
nevole che sia: perchè la natura, come ne* corpi semplici,
quando vi è ragunalo assai materia superflua, muove per sé
medesima molte volle, e fa una purgazione, la qnale è saluto
di quel corpo; cosi interviene in questo corpo misto della u-
\ mana generazione, che quando tutte le provincie sono ripiene
di abitatori, in modo che non possono vivere, né possono an-
dare altrove, per esser occupati e pieni tutti i luoghi; e quan-
do la astuzia e malignità umana è venuta dove la può venire,
conviene di necessità che il mondo si purghi per uno de' tre
modi; acciocché gli nomini essendo divenuti pochi e battuti,
vivano più comodamente, e diventino migliori. Era adunque,
come di sopra è detto, già la Toscana potente, piena di re-
ligione e di virtù; aveva i suoi costumi e la sua lingua pa-
tria: il che tutto è stato spento dalla potenza romana. Tal-
ché, come si è dello, di lei oe rimane solo la memoria del
nome.
Cap. vi. — Come t Romani procedevano nel fare la guerra.
Avendo discorso come i Romani procedevano nello am-
pliare, discorreremo ora come e' procedevano nel fare la guer-
ra; ed in ogni loro azione si vedrà con quanta prudenza ei di-
Yiarono dal modo universale degli altri, per facilitarsi la via
a venire a una suprema grandezza. La intenzione di chi fa
guerra per elezione) o vero per ambizione, ò acquistare e
LIBRO SECONDO. ^35
ilìanicncre lo acquisiate; e procedere in modo con essa, che
l'arricchisca e non impoverisca il paese e la patria sua. È
necessario dunque, e nello acquistare e nel mantenere, pen-
sare di non spendere ; anzi far ogni cosa con utilità del pub-
blico suo. Chi vuol fare tutte queste cose, conviene che ten-
ga lo stile e modo romano : il quale fu in prima di fare le
guerre, come dicono i Franciosi, corte e grosse; perchè, ve- ,- '
nendo in campagna con eserciti grossi, tutte le guerre eh' e-^il^p
gli ebbono co' Latini, Sanniti e Toscani, le espedirono in iaA^^^
brevissimo tempo. E se si noteranno tutte quelle che feciono ^S^
dal principio di Roma infino alla ossidione de' Veienti, tutte
si vedranno espedìte, quale in sei, quale in dieci, quale in
venti di. Perchè l'uso loro era questo: subito che era scoperta
la guerra, egli uscivano fuori con gli eserciti all' incontro del
nimico, e subito facevano la giornata. La quale vinta, i nimici,
perchè non fosse guasto loro il contado alTatto, venivano alle
condizioni ; ed i Romani gli condennavano in terreni: i quali
terreni gli convertivano in privati comodi o gli consegnavano
ad una colonia; la quale posta in su le frontiere di coloro, ve-
niva ad esser guardia de' confini romani, con utile di essi
coloni, che avevano quelli campi, e con utile del pubblico di
Roma, che senza spesa teneva quella guardia. Né poteva que-
sto modo esser più securo, o più forte, o più utile: perchè
mentre che i nimici non erano in su i campi, quella guardia
bastava: come e' fussino usciti fuori grossi per opprimere
quella colonia, ancora i Romani uscivano fuori grossi, e ve- ,
nivano a giornata con quelli; e fatta e vinta la giornata, im- I
ponendo loro più gravi condizioni, si tornavano in casa. Cosi '
venivano ad acquistare di mano in mano riputazione sopra di
loro, e forze in sé medesimi. E questo modo vennono tenendo
infino che mutorno modo di procedere in guerra : il che fa
dopo la ossidione de' Veienti ; dove, per potere fare guerra lun-
gamente, gli ordinarono di pagare i soldati, che prima, per
non essere necessario, essendo le guerre brevi, non gli pa-
gavano. E benché i Romani dessino il soldo, e che per virtù
di questo ei potessino fare le guerre più lunghe, e per farle
più discosto la necessità gli tenesse più in su' campi; nondi-
meno non variarono mai dal primo ordine di finirle presto, '
^36 DEI mscoRst
secondo il luogo ed il tempo; né variarono mai dal mandare
le colonie. Perchè nel primo ordine gli (enne, circa il fare
le guerre brevi, olirà il loro naturale uso, l'ambizione de'
Consoli; i quali avendo a slare un anno, e di quello anno sei
mesi alle stanze, volevano fìnire la guerra per trionfare. Nel
mandare le colonie, gli (enne l'utile, e la comodità grande
che ne risultava. Variarono bene alquanto circa le prede,
delle quali non erano cosi liberali come erano stali prima; si
perchè e* non pareva loro tanto necessario, avendo i sol-
dati lo slipendio; si perchè essendo le prede mag^iori, dise-
gnavano d'ingrassare di quelle in modo il pubblico; che non
fussino constretti a fare le imprese con (ribu(i della ci((à. Il
quale ordine in poco (empo fece il loro erario ricchissimo.
Questi duoi modi, adunque, e circa il distribuire la preda, e
circa il mandar le colonie, feciono che Boma arricchiva della
guerra; dove gli altri principi e repubbliche non savie ne
impoveriscono. E ridusse la cosa in termine, che ad un Con-
solo non pareva poter trionfare, se non portava col suo trion-
fo assai oro ed argen(o , e d'ogni altra sorte preda, nello
erario. Cosi i Romani con i soprascritti termini, e con il fi-
nire le guerre preslo, sendo contenti con lunghezza strac-
care i nemici, e con rotte e con le scorrerie e con accordi a
loro avvantaggi, diventarono sempre più ricchi e più polenti.
Gap. vii. — Quanto terreno i Romani davano per colono.
Quanto terreno i Romani distribuissino per colono,
credo sia molto diflìcile trovarne la verità. Perchè io credo
ne dessino più o manco, secondo i luoghi dove e' mandavano
le colonie. E giudicasi che ad ogni modo ed in ogni luogo la
distribuzione fusse parca: prima, per poter mandare più uo-
mini, sendo quelli dipulati per guardia di quel paese; dipoi
perchè vivendo loro poveri a casa, non era ragionevole che
volessino che i loro uomini abbondassino troppo fuora. E
Tito Livio dice, come pireso Veio e' vi mandorno una colo-
nia, e distribuirono a ciascuno tre iugeri e selle once di ter-
ra; che sono al modo noslro * Perché,
' JLactina di tulle ]. edùiooi.
ì
LIBRO SECONDO. ^37
oltre alle còse èoprascrille, e* giudicavano che non lo assai
terreno, ma il bene colli vaio bastasse. È necessario bene,
che tutta la colonia abbi campi pubblici dove ciascuno possa
pascere il suo bestiame, e selve dove prendere del legname
per ardere ; senza le quali cose non può una colonia ordi-
narsi.
Gap. vi ir. — La eaqione perchè i popoli si partono da* luoghi
palrii, ed inondano il paese allrui.
Poiché di sopra si è ragionato del modo nel procedere
della * guerra osservato da' Romani, e come i Toscani furono
assaltati da' Franciosi; non mi pare alieno dalla materia dis-
correre, come e' si fanno di due generazioni guerre. L'una
è fatta per ambizione de' principi o delle repubbliche , che
cercano di propagare lo ijnperio; come furono le guerre che
fece Alessandro Magno, e quelle che feciono i Romani , e
quelle che fanno ciascuno di, l'una ^potenza con l'altra. Le
quali guerre sono pericolose , ma non cacciano al lutto gli
abitatori d'una provincia; perchè e* basta al vincitore solo la
ubbidienza de'popoli, e il più delle volte gli lascia vivere con
le loro leggi, e sempre con le loro case, e ne' loro beni. L'al-
tra generazione di guerra è, quando un popolo intero con
tutte le sue famìglie si lieva d'uno luogo, necessitato o dalla
fame o dalla guerra, e va a cercare nuova sede e nuova pro-
vincia; non per comandarla, come quelli di sopra, ma per
possederla tutta particolarmente, e cacciarne o ammazzare gli
abitatori antichi di quella. Questa guerra è crudelissima e
paventosissima. E di queste guerre ragiona Saluslio nel fine
dell' lugurtino, quando .dice che vinto iugurta, si senti il
moto de' Franciosi che venivano in Italia: dove e' dice che '1
Popolo romano con tutte le altre genti combattè solamente
per chi dovesse comandare, ma con i Franciosi si combattè
sempre per la salute di ciascuno. Perchè ad un principe o una
repubblica che assalta una provincia, basta spegnere solo co-
loro che comandano; ma a queste populazioni conviene spe-
* L* edizione del Biado : nella.
' Male nella Testina , e nelle moderne cdiaioni : ciascuno deli' una»
23$ DEI DISCORSI
I gnere ciascuno, perchè vogliono vivere di quello che a1(ri vi-
veva. I Romani ebbero Ire di quelite guerre pericolosissime.
La prima fu quella quando Roma fu presa, la quale fu occu-
pala da quei Franciosi che avevano tolto, come di sopra si
disse, la Lombardia a' Toscani, e fattone loro sedia; della
quale T. Livio ne allega dae cagioni: la prima, come di so-
pra si disse, che furono allettati dalla dolcezza delle fruite, e
del vino di Italia, delle quali mancavano in Francia; la se-
conda che, essendo quel regno francioso moltiplicalo in lauto
di uomini, che non vi si potevano più nutrire, giudicarono i
principi di quelli luoghi, che fosse necessario che una parie
di loro andasse a cercare nuova terra ; e fatta tale delibera-
xione, elessono per capitani di quelli che si avevano a par-
tire, Belloveso e Sicoveso, duoi re de'Frnnciosi: de' quali
Bellovcso venne in Italia, e Sicoveso passò in Ispagna. Dalia-
passata del quale Belloveso nacque la occupazione di Lombar-
dia, e quindi la guerra che prima i Franciosi fecero a Roma.
Dopo questa, fu quella che fecero dopo la prima guerra carta-
ginese, quando Ira Piombino e Pisa ammazzarono più che
dugenlomila Franciosi. La terza fu quando i Todcschi e Cimbri
vennero in Ilalia: i quali avendo vinti più eserciti romani,
furono vinti da Mario. Vinsero adunque i Koroani queste tre
guerre pericolosissime. Né era necessario minore virlù a vin-
cerle; perchè si vede poi, come la virlù romana mancò, e che
quelle arme perderono il loro antico valore, fu quello impe-
rio deslrutto da simili popoli: i quali furono Goti, Vandali,
e simili, che occuparono tulio lo imperio occidenlale. Escono
\ tali popoli de* paesi loro, come di sopra si disse, cacciali dalla
nccessilà : e la necessità nasce o dalla fame, o da una guerra
ed oppressione che ne' paesi propri è loro falla ; laiche e' sono
consiretti cercare nuove (erre. E questi tali, o e' sono grande
numero; ed allora con violenza entrano ne* paesi alimi,
ammazzano gli abitatori, posseggono i loro beni, fanno uno
nuovo regno, molano il nome della provincia: come fece
Moisè, e quelli popoli che occuparono lo imperio romano. Per-
chè questi nomi nuovi che sono nella Ilali^a e nelle allre Pro-
vincie, non nascono da altro che da essere siale nomale
cosi da' nuovi occupalori: come è la Lombardia, che si chia-
LIBRO SECONDO. 239
raava Gallia Cisalpina: la Francia si chiamava Gallia Trans-
alpina, ed ora è nominala da' Franchi, che cosi si chiama-
vano quelli popoli che la occuparono: la Schiavonia si chia-
mava llliria , l'Ungheria Pannonia, l'Inghillerra Brilannia:
e molle altre provincie che hanno mutato nome, le quali sa-
rebbe tedioso raccontare. Moisè ancora chiamò Giudea quella
parte di Soria occupata da lui. E perchè io ho detto di sopra,
che qualche volta tali popoli sono cacciati della propria sede
per guerra, donde sono constretti cercare nuove terre; ne vo-
glio addurre lo essempio de'Maurusii, popoli.anticamente in
Soria: i quali, sentendo venire i popoli ebraici, e giudicando
non poter loro resistere, pensarono essere meglio salvare loro
medesimi, e lasciare il paese proprio, che per volere sal-
vare quello, perdere ancora loro; e levatisi con loro famiglie,
se ne andarono in Affrica, dove posero la loro sedia, caccian-
do via quelli abitatori che in quelli luoghi trovarono. £ così
quelli che non avevano potuto difendere il loro paese, po-
terono occupare quello d'altrui. E Procopio, che scrive la
guerra che fece Belisario co' Vandali occupalori della Affrica,
riferisce aver letto lettere scritte in certe colonne ne' luoghi
dove questi Maurusii abitavano, le quali dicevano: Nos Mau-
rusii, qui fugimus a [ade Jem lalronis filii Navas. Dove ap-
parisce la cagione della partila loro di Soria. Sono, pertanto,
questi popoli formidolosissimi, sendo cacciati da una ultima
necessità; e s'egli non riscontrano buone armi, non saranno
mai sostenuti. Ma quando quelli che sono constretli abbando-
nare la loro patria non sono molti, non sono sì pericolosi
come quelli popoli di chi si è ragionato; perchè non possono
usare tanla violenza , ma conviene loro con arte occupare
qualche luogo, e, occupatolo, manlenervisi per via di amici e
di confederati: come si vede che fece Enea, Bidone, i Mas-
siliesi e simili; i quali lutti, per consentimento de' vicini,
dove e' posorno, * poterono manlenervisi. Escono i popoli gros-
si, e sono usciti quasi tutti de' paesi di Scizia; * luoghi freddi
e poveri: dove, per essere assai uomini, ed il paese di qualità
* Cosi (non posano j colla comune), con giudiaio egregio, l'cdàione
del 1813.
* Male nella Bladiana : Soria.
240 ' DEI DISCORSI
da non gli potere nutrire, sono forzali uscire, avendo molte
cose che gli cacciano, e nessuna che gli ritenga. E se da
cinquecento anni in qua, non è occorso che alcuni di questi
popoli abbino inondato alcuno paese, è nato per più cagioni.
La prima , la grande evacuazione che fece quel paese nella
declinazione dello imperio; donde uscirono più di trenta po-
polazioni. La seconda è che la Magna e V Ungheria, * donde
ancora uscivano di queste genti, hanno ora il loro paese bo-
nificato in modo, che vi possono vivere agiatamente; talché
non sono necessitati di mutare luogo. Dall'altra parte, sondo
loro uomini bellicosissimi, sono come uno bastione a tenere
che gli Sciti, i quali con loro confinano, non presumino di
potere vincergli o passargli. E spesse volte occorrono movi-
menti grandissimi da' Tartari, che sono dipoi ààuVi Ungheri
e da quelli di Polonia sostenuti; e spesso si gloriano, che se
non fussino Tarme loro, la Italia e la Chiesa arcbbe molte
volle sentilo il peso degli eserciti tartari. E questo voglio ba-
sti quanto a' prcfali popoli.
Gap. IX. — Quali cagioni comunemente faccino nascere le.guerre
intra i polenti.
La cagione che fece nascere guerra intra i Romani ed i
Sanniti , che erano stati in lega gran tempo, è una cagione
comune che nasce infra tutti i principati polenti. La qual ca-
gione o la viene a caso, o la è fatta nascere da colui che desi-
dera muovere la guerra. Quella che nacque intra i Romani ed
i Sanniti, fu a caso: perchè la intenzione de' Sanniti non fu,
muovendo guerra a'Sidicini, e dipoi a' Campani , muoverla
ai Romani. Ma sendo i Campani oppressati , e ricorrendo a
Roma fuora della oppinione de' Romani e de' Sanniti, furono
forzati, dandosi i Campani ai Romani, come cosa loro difen-
dergli, e pigliare quella guerra che a loro parve non potere
con loro onore fuggire. Perchè e' pareva bene a' Romani ra-
gionevole non potere difendere i Campani come amici, con-
tra ai Sanniti amici, ma pareva ben loro vergogna non gli
difendere come sudditi, ovvero raccomandati; giudicando,
' S nule ^ui pare : ia Inghilterra.
UBIIO SECONDO. 241
quando e' non avessino presa (ai difesa, tórre la via a (ulti
quelli che disegnassino venire sotto la potestà loro. Ed
avendo Roma per fine lo imperio e la gloria, e non la quiete,
non poteva ricusare questa impresa. Questa medesima cagio-
ne dette principio alla prima guerra contra a* Cartaginesi, per
la difensione che i Romani presono de' Messinesi in Sicilia :
la quale fu ancora a caso. Ma non fu già a caso dipoi la se-
conda guerra che nacque infra loro ; perchè Annibale capi-
tano Cartaginese assaltò i Saguntini amici de' Romani in
Ispagna , non per offendere quelli , ma per muovere l' arme ro-
mane, ed avere occasione di combatterli, e passare in Italia.
Questo modo nello appiccare nuove guerre è stato sempre
consueto intra i potenti, e che si hanno e della fede, e d'altro
qualche rispetto. Perche, se io voglio fare guerra con uno prin-
cipe, ed infra noi siano fermi capitoli per un gran tempo os-
servati, con altra giustificazione e con altro colore assalterò
io un suo amico che lui proprio; sappiendo massime, che nello
assaltare Io amico, o ei si risentirà, ed io arò l'intento mio di
fargli guerra ; o non si risentendo, si scuoprirà la debolezza o
la infidelità sua di non difendere un suo raccomandato. E l'una
e r altra di queste due cose è per tòrgli riputazione, e per
fare più facili 1 disegni miei. Debbesi notare, adunque, e per
la dedizione de'Campani, circa il muovere guerra, quanto di
sopra si è detto; e di più, qual rimedio abbia una città che
non si possa per sé stessa difendere, e veglisi difendere in
ogni modo da quel che 1' assalta: il quale è darsi liberamente
a quello che tu disegni che ti difenda ; come feciono i Capo-
vani ai Romani, ed ì Fiorentini al re Roberto di Napoli: il
quale non gli volendo difendere come amici, gli difese poi
come sudditi contra alle forze di Caslruccio da Lucca, che
gli opprimeva.
Cap. X. — I danari non sono il nervo della guerra, secondo che
è la comune oppinione.
Perchè ciascuno può cominciare una guerra a sua posta,
ma non finirla, debbo uno principe, avanti che prenda una im-
presa, misurare le forze sue, e secondo quelle governarsi. M«i
242 DEI DISCORSI
debbe avere (anta prudenza , che delle sue forze ei non s'in-
ganni ; ed oc;ni volta s* ingannerà, quando le misuri o dai da-
nari , 0 dal sito, o dalla benivolenza degli uomini , mancando
dall' altra parte d' arme proprie. Perchè le cose predelle li ac-
crescono bene le forze, ma le non le ne danno; e per sé me-
desime sono nulla; e non giovano alcuna cosa senza l'arme
fedeli. Perchè i danari assai, non ti bastano senza quelle; non
ti giova la fortezza del paese ; e la fede, e benivolenza degli
uomini non dura, perchè questi non ti possono essere fedeli,
non gli potendo difendere. Ogni monte, ogni Iago, ogni luogo
inaccessibile diventa piano, dove i forti difensori mancano. I
danari ancora non solo non ti difendono, ma ti fanno predare
più presto. Né può essere più falsa quella comune oppinione
che dice che i danari sono il nervo della guerra. La quale
sentenza è detta* da Quinto Curzio nella guerra che fu intra
Antipatro macedone e il re spartano: dove narra, che per di-
fetto di danari il re di Sparta fu necessitato azzuffarsi , e fu
rotto; che se ei differiva la zuffa pochi giorni, veniva la nuo-
va in Grecia della morte di Alessandro, donde e' sarebbe ri-
maso vincitore senza combattere. Ma mancandogli i danari,
e dubitando che Io esercito suo per difetto di quelli non lo
abbandonasse, fu conslrctto tentare la fortuna della zuffa: tal-
ché Quinto Curzio per questa cagione afferma, i danari essere
il nervo della guerra. La qual sentenza è allegata ogni gior-
no, e da' princìpi non tanto prudenti che basti, seguitata. Per-
chè, fondatisi sopra quella, credono che basti loro a difen-
dersi avere tesoro assai , e non pensano che se '1 tesoro ba-
stasse a vincere, che Dario arebbe vinto Alessandro, i Greci
arebbon vinti i Romani; ne' nostri tempi il duca Carlo arebbe
vinti i Svizzeri; e pochi giorni sono , il Papa ed i Fiorentini in-
sieme non arebbono avuta difficullà in vincere Francesco
Maria, nipote di papa Giulio li, nella guerra di Urbino. Ma
tutti i soprannominati furono vinti da coloro che non il da-
naro, ma i buoni soldati stimano essere il nervo della guerra.
Intra le altre cose che Creso re di Lidia mostrò a Solone ate-
niese, fu uno tesoro innumerabile; e domandando quel che ali
pareva della potenza sua, gli rispose Solone, che per quello
* La Bladiana soltanto : è Hata.
LIBRO SECONDO. 243
non lo giudicava più potente ; perchè la guerra si faceva col
ferro e non con V oro, e che poteva venire uno che avesse più
ferro di lui, e tòrgfiene. Oltr' a questo, quando, dopo la morte
di Alessandro Magno, una moltitudine di Franciosi passò in
Grecia, e poi in Asia; e mandando i Franciosi oratoti al re
di Macedonia per trattare certo accordo; quel re, per mo-
strare la potenza sua e per sbigottirli, mostrò loro oro ed ar-
gento assai : donde quelli Franciosi che di già avevano come
ferma la pace, la ruppono; tanto desiderio in loro crebbe di
iòrgli quell'oro: e cosi fu quel re spogliato per quella cosa
che egli aveva per sua difesa accumulata. IVeniziani, pochi
anni sono, avendo ancora lo erario loro pieno di tesoro, per-
derono lutto lo stato , senza potere essere difesi da quello. Dico
pertanto, non l'oro, come grida la comune (opinione, essere
il nervo della guerra, ma i buoni soldati : perchè l' oro non è
sutfiziente a trovare i buoni soldati, ma i buoni soldati son ben
sulTìzienti a trovare 1' oro. Ai Romani, s'egli avessero voluto
fare la guerra più con i danari che con il ferro, non sarebbe
bastato avere tutto il tesoro del mondo, considerato le grandi
imprese che feciono, e le difficultà che vi ebbono dentro. Ma
facendo le loro guerre con il ferro, non patirono mai carestia
dell'oro; perchè da quelli che li temevano era portato l'oro*
infino ne' campi. E se quel re sparlano per carestia di da-
nari ebbe a tentare la fortuna della zutTa, intervenne a lui
quello, per conto de' danari, che molte volte è intervenuto
per altre cagioni: perchè si è veduto che, mancando ad uno
esercito le vettovaglie, ed essendo necessitati o a morire di
fame o azzuffarsi, si piglia il partito sempre di azzuffarsi,
per essere più onorevole, e dove la fortuna ti può in qualche
modo favorire. Ancora è intervenuto molte volte, che veg-
gendo uno capitano al suo esercito nimico venire soccorso, gli
conviene o azzuffarsi con quello e tentare la fortuna della
zuffa; o aspettando ch'egli ingrossi, avere a combattere in
ogni modo, con mille suoi disavvantaggi. Ancora si è visto
(come intervenne ad Asdrubale quando nella Marca fu assal-
tato da Claudio Nerone, insieme con l'altro Consolo romano),
che un capitano che è necessitalo o a fuggirsi o a combatte-
* L' edizione 'lei Biado ha qui ^OfO.
244 DEI DISCORSI
re, come* sempre elegge il combattere; parendogli in questo
partito, ancora che dubbiosissimo, potere vincere; ed in quello
altro, avere a perdere in ogni modo. Sono, adunque, molte
necessitati che fanno a uno capitano fuor della sua intenzione
pigliare partito di azzuflfarsi; intra le quali qualche volta può
essere la carestia de'danari: né per questo si debbono i danari
giudicare essere il nervo della guerra, più che le altre cose
che inducono gli uomini a simile necessità. Non è, adunque,
replicandolo di nuovo, l'oro il nervo della guerra; ma i buoni
soldati. Son bene necessari i danari in secondo luogo, ma é
una necessità che i soldati buoni per sé medesimi la vinco-
no; perchè è impossibile che a' buoni soldati manchino i da-
nari, come che i danari per loro medesimi truovino i buoni
soldati. Mostra questo che noi diciamo essere vero, ogni iBto-
ria in mille luoghi; non ostante che Pericle consigliasse gli
Ateniesi a fare guerra con lutto il Peloponneso, mostrando che
e' poteva^no vincere quella guerra con la industria e con la
forza del danaio. E benché in (ale guerra gli Ateniesi prò-
sperassino qualche volta, in ultimo la perderono ; e valson
più il consiglio e gli buoni soldati di Sparla, che la industria
ed il danaio di Alene. Ma Tito Livio è di questa oppinione
più vero testimone che alcuno altro, dove discorrendo, se Ales-
sandro Magno fusse venuto in Italia , s* cali avesse vinto i Ro-
mani, mostra esser tre cose necessarie nella guerra; assai
! soldati e buoni, capitani prudenti, e buona fortuna: dove esa-
minando quali o i Romani o Alessandro prevalcssino in que-
ste cose, fa dipoi la sua conclusione senza ricordare mai i
danari. Doverono i Capovani, quando furono richiesti da' Si-
dicini che prendcssino Tarme per loro centra ai Sanniti, mi-
surare la potenza loro dai danari, e non dai soldati: perché,
preso ch'egli ebbero partito di aiutarli, dopo due rotte furo-
no constretli farsi tributari de'Romani, se si vollono salvare.
* La Romana ha : che nn capitano e necessitato o a fuggirsi o a combat-
tere ^ et come sempre elegge ec. Potremmo forse creder sincera la mancanza dtl
che ma non così l' aggiunta dell' et.
LIBRO SECONDO. 245
Gap. XI. — Non è partilo prudente fare amicizia con un principe
che abbia più oppinione che forze.
Volendo Tito Livio mostrare Io errore de' Sidicinì a
fidarsi dello aiuto de' Campani , e lo errore de' Campani a
credere potergli difendere, non lo potrebbe dire con più vive
parole, dicendo: Campani magis nomen in auxilium Sidicino-
rum, quam vires ad praisidium altulerunt. Dove si debbe no-
tare, che le leghe si fanno co' principi che non abbino o
comodità di aiutarti per la distanzia del sito, o forze di farlo
per suo disordine o altra sua cagione , arrecano più famn
che aiuto a coloro che se ne fidano : come intervenne ne' di
nostri a' Fiorentini, quando, nel 1479, il papa ed il re di
Napoli gli assaltarono ; che essendo amici del re di Francia,
-trassono di quella amicizia magis nomen, quam praesidium :
come interverrebbe ancora a quel principe, che confidatosi
di Massimiliano imperatore, facesse qualche impresa; perchè
questa è una di quelle amicizie che arrecherebbe a chi la
• facesse magis nomen , quam prcesidium, come si dice in que-
sto testo che arrecò quella de'Capovani ai Sidicini. Erra-
rono, adunque, in questa parte i Capovani, per parere loro
avere più forze che non avevano. E cosi fa la poca prudenza
delti uomini qualche volta, che non sappiendo né potendo
difendere sé medesimi, vogliono prendere imprese di difen-
dere altrui : come fecero ancora 1 Tarentini, i quali, sendo gli
eserciti romani allo incontro dello esercito de* Sanniti, man-
dorono ambasciadori al Consolo romano, a fargli intendere
come ei volevano pace intra quelli duoi popoli, e come erano
per fare guerra contra a quello che dalla pace si discostas-
se; talché il Consolo, ridendosi di questa proposta, alla pre-
senza di detti ambasciadori fece sonare a battaglia, ed al suo
esercito comandò che andasse a trovare il nimico, mostrando
ai Tarentini con l' opera, e non con le parole, di che risposta
essi erano degni. Ed avendo nel presente capitolo ragionato
dei partiti che pigliano i principi al contrario per la (Jifesa
d' altrui, voglio nel seguente parlare di quelli che si pigliano
per la difesa propria.
" 21'
246 DEI DISCORSI
Gap. XII. — S*eglì è meglio, temendo di essere assalUUo,
inferire, o aspellart la guerra.
Io ho sentito da aomini assai pratichi nelle cose della
guerra qualche volta disputare, se sono daoi principi quasi
di eguali forze, se quello più gagliardo abbi bandito la guerra
contra a quello altro, quale sia miglior partito per l'altro; o
aspettare il nimico dentro ai conBni suoi, o andarlo a tro-
vare in casa, ed assaltare lui: e ne ho sentito addurre ra-
gioni da ogni parte. E chi difende lo andare assaltare altrui,
ne allega il consiglio che Creso dette a Ciro, quando arrivato
in su* confini de' Massagcli per fare lor guerra, la lor re-
gina Tamiri gli mandò a dire, che eleggesse quale dc'duoi
partili volesse; o entrare nel regno suo, dove essa lo aspette-
rebbe ; o volesse che ella venisse a trovar lui. E venuta la
cosa in disputazione. Creso, contra alla oppinione degli altri,
disse che si andasse a trovar lei ; allegando che se egli la
vincesse discosto al suo regno, che non gli terrebbe il regno,
perchè ella arebbe tempo a rifarsi; ma se la vincesse dentro
a' suoi confini , potrebbe seguirla in su la fuga , e non le dando
spazio a rifarsi , tórli lo stalo. Allegane ancora il consiglio che
dette Annibale ad Antioco, quando quel re disegnava fare
guerra ai Romani : dove ei mostrò come i Romani non si
potevano vìncere se non in Italia, perchè quivi altri si po-
teva valere delle arme e delle ricchezze e degli amici loro ;
chi gli combatteva fuora d' Italia, e lasciava loro la Italia li-
bera, lasciava loro quella fonte, che mai li mancava * vita a
somministrare forze dove bisogna; e conchiuse che ai Romani
si poteva prima tórre Roma che lo imperio ; prima la Italia
che le altre provincie. Allega ancora Agatocle, che non po-
tendo sostenere la guerra di casa, assaltò i Cartaginesi che
gliene facevano, e gli ridusse a domandare pace. Allega Sci-
pione, che per levare la guerra d' Italia, assaltò la AflTrica.
Chi parla al contrario dice, che chi vuole fare capitare male
uno nimico, lo discosli da casa. Allegane gli Ateniesi, che
mentre che feciono la guerra comoda alla casa loro , resta-
* l* Testifta e T celinone del 181d: manca.
LIBRO SECONDO. 247
rono superiori; e come si discoslarono, ed andarono con gli
eserciti in Sicilia, perderono la libertà. Allega le favole poe-
tiche, dove si mostra che Anteo, re di Libia, assaltalo da
Ercole Egizio, fu insuperabile mentre che lo aspellò dentro
a' confini del suo regno; ma come e' se ne discosto per astu-
zia di Ercole, perde lo stalo e la vita. Onde è dato luogo
alla favola di Anteo, che sondo in terra ripigliava le forze
da sua madre che era la Terra ; e che Ercole avvedutosi di
questo, lo levò in allo, e discoslollo dalla terra. Allegane an-
cora i giudizi moderni. Ciascuno sa come Ferrando re di
Napoli fu ne' suoi tempi tenuto uno savissimo principe : e
venendola fama, duoi anni avanti la sua morte, come il re
di Francia Carlo Vili voleva venire ad assaltarlo , avendo
fatte assai preparazioni, ammalò; e venendo a morte, intra
gli altri ricordi che lasciò ad Alfonso suo figliuolo, fu che egli
aspettasse il nimico dentro al regno ; e per cosa del mondo
non traesse forze fuori dello slato suo, ma lo aspettasse den-
tro ai suoi confini tutto intero : il che non fu osservato da
quello ; ma mandato uno esercito in Romagna, senza com-'
battere perde quello, e lo slato. Le ragioni che , oltre alle
cose delle, da ogni parte si adducono, sono: che chi assalta
viene con maggiore animo che chi aspetta, il che fa più
confidente lo esercito: toglie, olirà di questo, molle comodità
al nimico di potersi valere delle sue cose , non si polendo
valere di quei sudditi che sieno saccheggiati ; e per avere il
nimico in casa, è constrelto il signore avere più rispetto a
trarre da loro danari ed affaticargli: sicché e' viene a seccare
quella fonte, come dice Annibale, che fa che colui può sos-
tenere la guerra. Oltre di questo, isuoi soldati, per trovarsi
ne' paesi d'altrui, sono più necessitati a combattere; e quella
necessilà fa virtù, come più volte abbiamo detto. Dall'altra
parte si dice: come aspettando il nimico, si aspetta con assai
vantaggio, perchè senza disagio alcuno tu puoi dare a quello
molti disagi di vettovaglia, e d'ogni altra cosa che abbia bi-
sogno uno esercito: puoi meglio impedirli i disegni suoi,
per la notizia del paese che tu hai più di lui : puoi con più
forze incontrarlo, per poterle facilmente tutte unire, ma
non potere già tutte discostarle da casa: puoi sondo rollo ri-
248 DEI DISCORSI
farli facilmente ; sì perchè del tuo esercito se ne salverà
assai, per avere i lifogì propinqui; si perchè il supplemento
non ha a venire discosto : tanto che tu vieni arrischiare
tutte le forze, e non tutta la fortuna; e discostandoti, arrischi
tutta la fortuna, e non tutte le forze. Ed alcuni sono stati
che per indebolire meglio il suo nimico, Io lasciano entrare
parecchie giornale in su il paese loro, e pigliare assai terre;
acciò che, lasciando i presidii in tutte, indebolisca il suo eser-
cito, e possinlo dipoi combattere più facilmente. Ma, per dire
ora io quello che io ne intendo, io credo che si abbia a fare
questa distinzione: o io ho il mio paese armato, come i Ro-
mani, o come hanno i Svizzeri ; o io Tho disarmalo', come
avevano i Cartaginesi, o come l'hanno i re di Francia e
gli Italiani. In questo caso, si debbe tenere il nimico discosto
a casa ; perchè sendo la tua virtù nel danaio e non negli
Qomini, qualunque volta ti è impedita la via di quello, tu sci
spaccialo ; né cosa veruna le lo impedisce quanto la guerra
di casa. In essempi ci sono i Cartaginesi ; i quali mentre che
ebbero la casa loro libera , poterono con le rendile fare
guerra con i Romani; e quando la avevano assaltala, non
potevano resistere ad Agalocle. I Fiorentini non avevano
rimedio alcuno con Caslruccio signore di Lucca, perchè ei
faceva loro la guerra in casa ; tanto che gli ebbero a darsi,
per essere difesi, al re Roberto di Napoli. Ma morto Caslruc-
cio, quelli medesimi Fiorentini ebbero animo di assaltare il
duca di Milano in casa, ed operare di tòrgli il regno: tanta
virtù mostrarono nelle guerre longinque, e tanta viltà nelle
propinque. Ma quando i regni sono armati, come era armala
Roma e come sono i Svizzeri, sono più difficili a vincere
quanto più ti appressi loro : perchè questi corpi possono
unire più forze a resistere ad uno impelo, che non possono
ad assaltare altrui. Né mi muove in questo caso V autorità
di Annibale, perchè la passione e l'utile suo gli faceva cosi
dire ad Antioco. Perchè, sei Romani avessino avute in tanto
spazio di tempo quelle tre rotte in Francia ch'egli ebbero
in Italia da Annibale, senza dubbio erano spacciati: perchè
non si sarebbono valuti de' residui degli eserciti, come si
valsono in Italia; non arebbono avuto a rifarsi quelle corno-
LIBRO SECONDO. 249
dita; né potevano con quelle forze resistere al nimico, che
poterono. Non si trova che, per assaltare una provincia, loro^
raandassino mai fuora eserciti che passassino cinquantamila
persone; ma per difendere la casa ne misono in arme centra
ai Franciosi, dopo la prima guerra punica, diciolto centinaia
di migliaia. Né arebbono potuto poi romper quelli in Lombar-
dia, come gli ruppono in Toscana; perchè centra a tanto
numero di nimici non arebbono potuto condurre tante forze
si discosto, né combattergli con quella comodità. 1 Cimbri
ruppono uno esercito romano in la Magna, né vi ebbono i
Romani rimedio. Ma come egli arrivorono in Italia, e che
poterono mettere tutte le loro forze insieme, gli spacciarono.
1 Svizzeri è facile vincergli fuori di casa, dove e' non pos-
sono mandare più che un trenta o quarantamila uomini; ma
vincergli in casa, dove e' ne posspno raccozzare centomila,
è difficilissimo. Conchiuggo adunque di nuovo, che quel prin-
cipe che ha i suoi popoli armali ed ordinati alla guerra , aspetti
sempre in casa una guerra potente e pericolosa, e non la
vadia a rincontrare: ma quello che ha i suoi sudditi disar- *- ^
mali, ed il paese inusitato della * guerra, se la discosti sempre . .•
da casa il più che può. E così V uno e l' altro, ciascuno nel ' v-***
suo grado, si difenderà meglio. (>>4-c|*^
Gap. XIII. — Che si viene di bassa a gran fortuna più con
la f rande, che con la forza.
Io slimo essere cosa verissima, che rado, o non mai, in- ^,$4
tervenga che gli uomini di piccola fortuna venghino a gradi *^'*'**^
grandi, senza la forza e senza la fraude; purché quel grado {^*%^^
al quale altri é pervenuto, non ti sia 0 donato, o lasciato per y ?
eredità.Né credo sì truovi mai che la forza sola basti, ma si ! '
troverà bene che la fraude sola basterà : come chiaro vedrà
colui che leggerà la. vita dì Filippo di Macedonia, quella di
Agatocle siciliano, e di molti altri simili, che d'infima ov-
* L' edizione Romana : Non si trova per assaltare una provìncia che
/oro j- e quella del Ì813: Non si trova che per assaltare una provincia , che
loro.
* Cosi la Romana. Le al» re edizioni: alla. *
250 DEI DISCORSI
vero di bassa fortuna, sono pervenali o a regno o ad imperi
grandissimi. Mostra Senofonte, nella sua vita di Ciro, questa
necessità dello ingannare; considerato che la prima {spedi-
zione che fa fare a Ciro contra il re di Armenia, è piena di
fraude, e come con inganno, e non con forza, gli fa occupare
il suo regno ; e non conchiude altro per tale azione, se non
che ad un principe che voglia fare gran cose, è necessario
imparare a ingannare. Fagli, oltra di questo, ingannare Cias
sare, re de'Medi, suo zio materno, in più modi; senza la quale
fraude mostra che Ciro non poteva pervenire a quella gran-
dezza che venne. Né credo che si truovi mai alcuno consti-
(uito in bassa fortuna, pervenuto a grande imperio solo con
la forza aperta ed ingenuamente, ma si bene solo con la frau-
de : come fece Giovanni Galeazzo per lòr lo stalo e lo imperio
di Lombardia a messcr Bernabò suo zio. E quel che sono ne-
cessitati fare i principi ne'principii degli augnmenti loro, sono
ancora necessitate a fare le repubbliche, inGno che le sieno
diventate potenti, e che basti la forza sola. E perchè Roma
(enne in ogni parte, o per sorte o per elezione, tutti i modi
necessari a venire a grandezza, non mancò ancora di questo.
Né potè usare, nel principio, il maggiore inganno, che pigliare
il modo di sopra discorso da noi, di farsi compagni; perchè
sotto questo nome se li fece servi: come furono i Latini, ed al-
tri popoli air intorno. Perchè prima si valse dell'arme loro in
domare i popoli convicini, e pigliare la riputazione dello stato:
dipoi, domatogli, venne in tanto augumento, che la poteva
battere ciascuno. Ed i Latini non si avviddono mai di essere
al tutto servi, se non poi che viddono dare due rotte ai San-
niti, e costrettigli ad accordo. La quale vittoria, come ella ac-
crebbe gran riputazione ai Romani coi principi longinqui, che
mediante quella sentirono il nome romano e non l' armi; cosi
generò invidia e sospetto in quelli che vedevano e sentivano
l'armi, intra i quali furono i Latini. E tanto potè questa invi-
dia e questo timore, che non solo i Latini, ma le colonie che
essi avevano in Lazio, insieme con i Campani, slati pocoin-
nanti diTesi, congiurarono contra al nome romano. £ mòssono
questa guerra i Latini nel modo che si dice di sopra che si
muovono la maggior parte delle guerre, assaltando non
LIBRO SECONDO. 251
Romani, ma difendendo i Sidicini centra ai Sanniti; a' quali
i Sanniti facevano guerra con licenza de' Romani. E che sia
vero che i Latini si movessino per avere conosciuto questo
inganno, lo dimostra Tito Livio nella bocca di Annio Setino
pretore latino, il quale nel consiglio loro disse queste pa-
role: Nam, si eliam nunc sub umbra foìderis cequi servilulem
pali possumus eie. Vedasi pertanto i Romani ne' primi augu-
raenti loro non essere mancati eziam della fraude; la quale
fu sempre necessaria ad usare a coloro che di piccoli. prin-
cipii vogliono a sublimi gradi salire : la quale è meno vitu-
perabile quanto è più coperta, come fu questa de' Romani.
Gap. XIV. — Ingannansi molle volte gli uomini, credendo con
la umilila vincere la superbia.
Vedesi molte volte come la umilila non solamente non
giova, ma nuoce, massimamente usandola con gli uomini in-
solenti, che, o per invidia o per altra cagione, hanno concello
odio teco. Di che ne fa fede lo isterico nostro in questa cagione
di guerra intra i Romani ed i Latini. Perchè, dolendosi i San-
niti con i Romani che i Latini gli avevano assaltati, i Ro-
mani non vollono proibire ai Latini tal guerra, desiderando
non gli irritare ; il che non solamente non gli irritò, ma gli
fece diventare più animosi centra a loro, e si scopersono più
presto inimici. Di che ne fanno fede le parole usate dal pre-
falo Annio pretore latino nel medesimo concilio, dove dice:
Tenlaslis palienliam negando mililem : quis dubitai exarsisse
eos ? Perlulerunt tamen hunc dolorem. Exercilus nos parare
adversus Samniles faideralos suos audierunt, nec moverunl se
ab urbe, linde hoec illis tanta modestia, nisi a conscienlia vi-
rium, el noslrarum, et suarum? Conoscesi, pertanto, chiaris-
simo per questo testo, quanto la pazienza de' Romani ac-
crebbe l'arroganza de' Latini. E però, mai uno principe
debbe volere mancare del grado suo , e non debbe mai
lasciare alcuna cosa d' accordo, volendola lasciare onore-
volmente, se non quando e' la può, o e' si crede che la
possa tenere: perchè gli è meglio quasi sempre, sendosi
condotta la cosa in termine che tu non la possa lasciare nel
252 DEI DISCORSI
modo deUo, lasciarsela lòrre con le forze, che con la paura
delle forze. Perchè, se la la lasci con la paura, lo fai per
levarli la guerra, ed il più delle volle non te la lievi: perchè
colui a chi lu arai con una viltà scoperta concesso quella,
non starà saldo, ma li vorrà lòrre delle altre cose, e si ac-
cenderà «più centra dì le, stimandoli meno; e dall'altra parie,
in tuo favore troverai i difensori più freddi, parendo loro
che lu sia o debole, q vile: ma se lu, subilo scoperta la vo-
glia dello avversario, prepari le forze, ancoraché le siano
inferiori a lui, quello li comincia a stimare; slimanti più gli
altri principi allo intorno ; ed a tale viene voglia di aiutarli,
sendo in su l'arme, che abbandonandoli non ti aiuterebbe mai.
Questo si intende quando tu abbia uno inimico ; ma quando
ne avessi più, rendere delle cose che lu possedessi ad alcuno
di loro per riguadagnarselo, ancoraché fusse di già scoperta
la guerra, e per smembrarlo dagfi altri confederali tuoi ini-
mici, fia sempre partilo prudente.
Cap. XV. — Gli siali deboli sempre fieno ambigui nel risolversi:
e sempre le deliberazioni lente sono nocive.
In questa medesima materia, ed in questi medesimi prin-
cipi! di guerra intra i Latini ed ì Romani , si può notare come
in ogni consulta è bene venire allo individuo di quello che
si ha a deliberare, e non stare sempre in ambiguo, né in su
lo incerto della cosa. II che si vede manifesto nella consulla
che feciono i Latini, quando e' pensavano alienarsi da'Romani.
Perchè avendo presentito questo cattivo umore che ne'popoli
latini era entrato, i Romani, per certificarsi della cosa, e per
vedere se potevano senza mettere mano all'arme riguada-
gnarsi quelli popoli, fecero loro intendere, come e'mandasscro
a Roma otto cittadini, perchè avevano a consultare con loro.
1 Latini inleso questo, ed avendo conscienza di molte cose
falle centra alla voglia de'Romani, feciono consiglio per or-
dinare chi dovesse ire a Roma, e dargli commissione di
quello ch'egli avesse a dire. E stando nel consiglio in quesla
dispula, Annio loro pretore disse queste parole: Ad summam
rerum nastrar um perlinere arbilror, ut cogiletis magis, quid
LIBRO SECONDO. 253
agendum nobis, quam quid loquendum siL Facile erit, eocpli-
calis consiliis, accommodare rebus verba. Sono, senza dubbio,
queste parole verissime, e debbono essere da ogni principe
e da ogni repubblica gustale: perchè nella ambiguità e nella
incertiludine di quello che altri voglia fare, non si sanno
accomodare le parole; ma fermo una volta l'animo, e deli-
berato quello sia da eseguire, è facil cosa trovarvi le parole.
Io ho notato questa parte più volentieri, quanto io ho molte
volle conosciuto tale ambiguità avere nociuto alle pubbliche
azioni, con danno e con vergogna della repubblica nostra.
E sempre mai avverrà, che ne- partiti dubbii, e dove bisogni
animo a deliberargli, sarà questa ambiguità, quando abbino
ad esser consigliati e deliberati da uomini deboli. Non sono
meno nocive ancora le deliberazioni lente e tarde, che am-
bigue; massime quelle che si hanno a deliberare in favore
dì alcuno amico : perchè con la lentezza loro non si aiuta
persona, e nuocesi a sé medesimo. Queste deliberazioni cosi
fatte precedono o da debolezza di animo e di forze , o da
malignità di coloro che hanno a deliberare; i quali, mossi
dalla passion propria di volere rovinare lo stato o adempire
qualche suo desiderio, non lasciano seguire la deliberazione,
ma la impediscono e la attraversano. Perchè i buoni cittadi-
ni, ancoraché vegg.iinouna foga popolare voltarsi alla parie
perniciosa,* mai impediranno il deliberare , massime di quelle
cose che non aspettano tempo. Morto che fu Girolamo tiranno
in Siracusa, essendo la guerra grande intra i Cartaginesi ed i
llomani, vennono i Siracusani in disputa se dovevano seguire
l'amicizia romana o la cartaginese. E tanto era lo ardore delle
parti, che la cosa stava ambigua, né se ne prendeva alcuno
partito; insino a tanto che Apollonide, uno de* primi in Si-
racusa, con una sua orazione piena di prudenza, mostrò
come non era da biasimate chi teneva Toppinione di aderirsi
ai Romani , né quelli che volevano seguire la parte cartagi-
nese ; ma era bene da detestare quella ambiguità e tardità
di pigliare il partilo, perchè vedeva al tutto in tale ambi-
guità la rovina della repubblica; ma preso che si fusse il
partito, qualunque e'si fusse, si poteva sperare qualche bene.
' Cosi nelle cdiiioiii del 1531 e 18 11^. Nelle ììlrt : pericolosa.
22
2o4 DEI DISCORSI
Né potrebbe mosirare più Tito Livio che si faccia in questa
parie, il danno che si (ira dietro lo slare sospeso. Dimostralo
ancora in questo caso de' Latini: perchè, sendo i Latini ri>
cerchi da loro d'aiuto contra i Romani, differirono tanto a
deliberarlo, che quando eglino erano usciti appunto fuora
della porla con la gente per dare loro soccorso, venne la
nuova i Latini essere rotti. Donde Milonio loro pretore disse:
Questo poco della via ci costerà assai col Popolo romano.
Perchè, se si deliberavano prima o di aiutare o di non aiu-
tare i Latini, non gli aiutando, ei non irritavano i Uomnni;
aiutandogli, essendo l'aiuto in tempo, potevano con la ag-
giunta delle loro forze fargli vincere: ma differendo, veni-
vano a perdere in ogni modo, come intervenne loro. E se i
Fiorentini avessino notalo questo testo, non arebbono avuto
co' Franciosi né tanti danni né (ante noie, quante ebbono
nella passata del re Luigi di Francia XII, che fece in Italia
contra a Lodovico duca di Milano. Perchè, trattando il re tale
passata, ricercò i Fiorentini d'accordo: e gli oratori che erano
appresso al re, accordarono con lai che gli stessine neutrali,
e che il re venendo in Italia gli avesse a mantenere nello
stato e ricevere in protezione : e dette tempo un mese alla
città a ratificarlo. Fu differita tale ratificazione da chi per
poca prudenza favoriva le cose di Lodovico: intanlochè, il re
già sendo iti su la vi((oria, e volendo poi i Fiorcnlini ratifi-
care, non fu la ratificazione accettata; come quello che co-
nobbe i Fiorentini essere venuti forzati, e non voluntari nella
amicizia sua. 11 che costò alla città di Firenze assai danari,
e fu per perdere lo stalo: come poi altra volta per simile
causa li intervenne. E tanto più fu dannabile quel partito,
perché non 'si servi ancora il duca Lodovico ; il quale se
avesse vinto, arebbe mostri molti più segni di inimicizia
centra ai Fiorentini, che non fece il re. E benché del male
che nasce alle repubbliche di questa debolezza se ne sia di
sopra in uno altro capitolo discorso; nondimeno, avendone di
nuovo occasione per un nuovo accidente, ho voluto repli-
carne; * parendomi, massime, materia che debba esser dalle
repubbliche simili alla nostra notata.
* Lì Bljduna : replicare.
LIBRO SECONDO. 255
Gap. XVI. — Quanto i soldati ne' nostri tempi si disformino
dalli antichi ordini.
La più importanle giornata che fu mai falla in alcuna
guerra con alcuna nazione dal Popolo romano, fu questa che
ei fece con i popoli latini, nel consolalo di Torquato e di De-
cio. Perchè ogni ragione vuole , che cosi come i Latini per
averla perduta diventarono servi, così sarebbono stati servì
ì Romani, quando non la avessino vinta. E di questa oppinione
è Tito Livio ; perchè in ogni parte fa gli eserciti pari di or-
dine, di virtù, di ostinazione e di numero: solo vi fa difife-
renza, che i capi dello esercito romano furono più virtuosi
che quelli dello esercito latino. Vedesi ancora come nel ma-
neggio di questa giornata nacquero duoi accidenti non prima
nati, e che dipoi hanno rari esempi: che de'duoi Consoli, per
tenere fermi gli animi de' soldati, ed ubbidienti al coman-
damento loro, e diliberati al combattere, V uno ammazzò sé
slesso, e l'altro il figliuolo. La parità, che Tito Livio dice es-
sere in questi eserciti, era che, per avere militato gran tempo
insieme, erano pari di lingua, d'ordine e d'arme: perchè
nello ordinare la zuffa tenevano uno modo medesimo; e gli or-
dini ed i capi degli ordini avevano medesimi* nomi. Era dun-
que necessario, sendo di pari forze e di pari virtù, che na-
scesse qualche cosa istraordinaria, che fermasse e facesse più
ostinali gli animi dell'uno che dell' altro: nella quale ostina-
zione consiste, come altre volte si è dello, la vittoria; perchè
mentre che la dura ne* petti di quelli che combattono, mai
non danno volta gli eserciti. E perchè la durasse più ne'petli
de' Romani che de' Latini, parte la sorte, parte la virtù de'
Consoli fece nascere, che Torquato ebbe ad ammazzare il
figliuolo, e Decio sé slesso. Mostra Tito Livio, nel mostrare
questa parililà^ di forze, lutto l'ordine che tenevano i Romani
nelli eserciti e nelle zuffe. Il quale esplicando egli largamen-
te, non replicherò altrimenti ; ma solo discorrerò quello che io
* tii'ci'ano i medesimi , è soltanto nell'edizione del 1813.
2 Gli editori del 1813, non avendo trovato nella Crusca questo vocabolo,
fi credettero abilitati a riformarlo, e scrissero /JAtr/YÀ.
256 Dtl DISCORSI
vi giudico notabile, e quello che per essere negletto da tutti i
capitani di questi tempi, ha fatto negli eserciti e nelle zuOTe di
molti disordini. Dico, adunque, che per il testo di Livio si rac-
coglie , come lo esercito romano aveva tre divisioni principali,
le quali toscanamente si possono chiamare tre schiere; e nomi-
navano la prima astati, la seconda principi, la terza triarii: o
ciascuna di queste aveva i suoi cavalli. Nello ordinare una zuf-
fa, ei mettevano gli astati innanzi; nel secondo luogo, per di-
ritto, dietro alle spalle di quelli, ponevano i principi ; nel terzo,
pure nel medesimo filo, collocavano i triarii. I cavalli di tutti
questi ordini gli ponevano a destra ed a sinistra di queste tre
battaglie ; le schiere de' quali cavalli, dalla forma loro e dal
luogo, si chiamavano atee, perchè parevano come due alie di
quel corpo. Ordinavano la prima schiera delti astati, che era
nella fronte, serrala in modo insieme che la potesse spigno-
ra e sostenere il nimico. La seconda schiera de' principi ,
perchè non era la prima a combattere, ma bene le conveniva
soccorrere alla prima quando fusse battuta o urtata, non la
facevano stretta, ma mantenevano i suoi ordini radi, e di
qualità che la potesse ricevere in sé senza disordinarsi la pri-
ma, qualunque volta, spinta dal nimico, fusse necessitata riti-
rarsi. La terza schiera de' triarii aveva ancora gli ordini più
radi che la seconda, per potere ricevere in sé, bisognando, le
due prime schiere de* principi e degli astati. Collocate, dun-
que, queste schiere in questa forma, appiccavano la zuffa: e
se gli astati erano sforzati o vinti, si ritiravano nella radila
degli ordini de' principi ; e tutti insieme uniti, fatto di due
schiere nn corpo, rappiccavano la zuffa: se questi ancora
erano ributtati e sforzati, si ritiravano tutti nella radila degli
ordini de'triarii ; e tutte tre le schiere diventate un corpo,
rinnovavano la zuffa : dove essendo superati , per non avere
più da rifarsi, perdevano la giornata. E perchè ogni volta
che questa ultima schiera de'triarii si adoperava, lo esercito
era in pericolo, ne nacque quel proverbio: Resredacla est ad
Iriarios; che ad uso toscano vuol dire : Noi abbiamo messo
r ultima posta. I capitani dei nostri tempi, come egli hanno
abbandonato tutti gli altri ordini, e della antica disciplina ei
pon ne osservano parte alcuna, cosi hanno abbandonata questa
LIBRO SECONDO. 257
parte, la quale non è di poca importanza: perchè chi si or-
dina da* potersi nelle giornate rifare tre volte, ha ad avere
tre volte inimica la fortuna a volere perdere, ed ha ad avere
per iscontro una virtù che sia atta tre volle a vincerlo. Ma
chi non sta se non in su '1 primo urto, come stanno oggi gli
eserciti cristiani, può facilmente perdere; perchè ogni disor-
dine, ogni mezzana virtù gli può tórre la vittoria. Quello che
fa agli eserciti nostri mancare di potersi rifare tre volte, è
10 avere perduto il modo di ricevere V una schiera neir altra.
11 che nasce perchè al presente s' ordinano le giornate con
uno di questi duoi disordini: o eì mettono le loro schiere a
spalle runa dell'altra, e fanno la loro battaglia larga per
traverso, e sottile per diritto; il che la fa più debole, per aver
poco dal petto alle schiene. E quando pure, per farla più forte,
ei riducono le schiere per il verso de' Romani, se la prima
fronte è rotta, non avendo ordine di essere ricevuta dalla se-
conda, s'ingarbugliano insieme tutte, e rompono sé medesi-
me: perchè se quella dinanzi è spinta, ella urta la seconda;
se la seconda sì vuol far innanzi, ella è impedita dalla pri-
ma : donde che, urtando la prima la seconda, e la seconda la
terza, ne nasce tanta confusione, che spesso uno minimo ac-
cidente rovina uno esercito. Gli eserciti spagnuoli e franciosi
nella zuCfa di Ravenna, dove mori monsignor de Fois capi-
tano delle genti di Francia (la quale fu, secondo i nostri tem-
pi, assai bene combattuta giornata), s' ordinarono con uno de'
soprascritti modi; cioè che l' uno e l' altro esercito venne con
tutte le sue genti ordinate a spalle: in modo che non veni-
vano avere né 1' uno né l'altro se non una fronte, ed erano
assai più per il traverso che per il diritto. E questo avviene
loro sempre dove egli hanno la campagna grande, come gli
avevano a Ravenna: perchè, conoscendo il disordine che fan-
no nel ritirarsi, mettendosi per un filo, lo fuggono quando e*
possono col fare la fronte larga, com'è detto; ma quando il
paese gli ristringe, si stanno nel disordine soprascritto, senza
pensare il rimedio. Con questo medesimo disordine cavalcano
per il paese inimico, o se e'predano, o se e'fanno altro maneg-
gio di guerra. Ed a Santo Regolo in quel di Pisa, ed altrove,
* La Bladiana soltanto : ili.
258 DEI DISCORSI
dove i Fiorenlini furono rolli da'Pisani ne'lempi della guerra
che fu Ira i Fiorenlini e quella cillà, per la sua ribellione
dopo la passata di Carlo re di Francia in Italia, non nacque
(al rovina d'altronde, che dalla cavalleria amica; la quale
sendo davanti e ributtala da'nimici, percosse nella fanteria
fiorentina, e quella ruppe: donde lutto il restante delle genti
dierono volta: e messer Ciriaco * dal Borgo, capo antico delle
fanterie fiorentine, haatrermato alla presenza mia molle vol-
te, non essere mai stalo rotto se non dalla cavalleria degli
amici. 1 Svizzeri, che sono i maestri delle moderne guerre,
quando ei militano coi Franciosi, sopra tulle le cose hanno
cura di mettersi in lato, che la cavalleria amica, se fusse ri-
buttata, non gli urli. £ benché queste cose paiano facili ad in-
tendere, e facilissime a farsi; nondimeno non si è trovato an-
cora alcuno de' nostri contemporanei capitani, che gli antichi
ordini imiti, e gli moderni corregga. £ benché gli abbino
accora loro tripartito lo esercito, chiamando V una parte an-
liguardo, l'altra battaglia e l'altra retroguardo; non se ne
servono ad allro che a comandargli nelli alloggiamenti : mn
nello adoperargli, rade volle è, come di sopra é detto, che a
tulli quesU corpi non faccino correre una medesima fortuna.
E perché molli, per scusare la ignoranza loro, allegano che
la violenza delle artiglierie non patisce che in questi tempi si
usino molli ordini de gli antichi, voglio disputare nel seguente
capitolo questa materia, ed esaminare se le artiglierie impe-
discono che non si possa usare l'antica virtù.
Cip. XVII. — Quanlo si debbino slimare dagli eitercili ne' pie -
senti tempi le artiglierie; e se quella oppinione, clie se ne ha
in universale, è vera.
Considerando io, oltre alle cose soprascritte, quante zuffe
campali (chiamate ne* nostri tempi, con vocabolo francioso,
' TuUe le stampe hanno Criaco. Avremmo fatto , anche per mero Luon
senso, una si naturale correzione: ma il eh. direttore del Giornale militare to-
scano (cav. F. Dragomanni) ci fa pur sapere che il conetlabile Ciriaco del Borgo a
S. Sepolcro era della famiglia de' Palamidessi.
LIBRO SECONDO. 259
giornate, e dagl'Italiani fatti d'arme) furono fatte dai Romani
in diversi tempi; mi è venuto in considerazione la oppinione
universale di molti, che vuole che se in quelli tempi fussìno
state le artiglierie, non sarebbe stato lecito a' Romani, né si
facile, pigliare le provincie ; farsi tributari i popoli, come e'
feciono;nè arebbono in alcuno modo fatti si gagliardi acquisti.
Dicono ancora, che mediante questi instrumenti de' fuochi, gli
uomini non possono usare né mostrare la virtù loro, come e'
potevano anticamente. E soggiungono una terza cosa: che si
viene con più diflìcultà alle giornate che non si veniva al-
lora, né vi si può tenere dentro quegli ordini di quelli tempi;
talché la guerra si ridurrà col tempo in su le artiglierie. £
giudicando non fuora di proposito disputare se tali oppinioni
sono vere, e quanto le artiglierie abbino cresciuto o diminuito
di forze agli eserciti, e se le tolgano o danno occasione ai
buoni capitani di operare virtuosamente ; comincerò a parlare
quanto alla prima loro oppinione : che gli eserciti antichi ro-
mani non arebbono fatto gli acquisti che feciono, se le arti-
glierie fussino state. Sopra che, rispondendo, dico: come e' si
fa guerra o per difendersi, o per offendere ; donde si ha pri-
ma ad esaminare a quale di questi duoi modi di guerra le
faccino più utile, o più danno. E benché sia che dire da ogni
parte, nondimeno io credo che senza comparazione faccino
più danno a chi si difende, che a chi otTende. La ragione
che io ne dico é, che quel che si difende, o egli è dentro
a una terra, o egli é in su' campi dentro ad un steccato.
S'egli è dentro ad una terra, o questa terra è piccola,
come sono la maggior parte delle fortezze, o la è grande :
nel primo caso, chi si difende è al tutto perduto, perchè
l'impelo delle artiglierie é tale, che non trova muro, ancora-
ché grossissimo, che in pochi giorni ei non abbatta; e se
chi é dentro non ha buoni spazi da *■ ritirarsi e con fossi e con
ripari, si perde; né può sostenere l'impeto del nimico che
volesse dipoi entrare per la rottura del muro, né a questo gli
giova artiglieria che avesse: perché questa é una massima,
che dove gli uomini in frotta e con impelo possono andare,
le artiglierie non gli sostengono. Però i furori oltramontani
< La Romana soltanto : di.
260 DEI DISCORSI
nella difesa delle terre non sono sostenati : son bene soste-
nuti gli assalti italiani, i quali non in frotta, ma spicciolati si
conducono alle battaglie, le quali loro, pet nome molto pro-
prio, chiamano scaramucce. E questi che vanno con questo
disordine e questa freddezza ad una rottura d* un muro dove
sia artiglierie, vanno ad una manifesta morte, e contra a
loro le artiglierie vagliono : ma quelli che in frotta conden-
sati, e che l'uno spinge l'altro, vengono ad una rottura, se
non sono sostenuti o da fossi o da ripari, entrano in ogni
luogo, e le artiglierie non gli tengono; e se ne muore qual-
cane, non possono essere tanti che gì' impedischino la vitto*
ria. Questo esser vero, si è conosciuto in molte espugnazioni
fatte dagli oltramontani in Italia, e massime in quella dì
Brescia : perchè, sendosi quella terra ribellala da' Franciosi,
e lenendosi ancora per il Re di Francia la fortezza, ave-
vano i Veneziani, per sostenere l' impelo che da quella po-
tesse venire nella terra, munita tutta la strada di artiglie-
rie che dalla fortezza alla città scendeva, e postane a fronte
e ne' fianchi, ed in ogni altro luogo opportuno. Delle quali
monsignor di Fois non fece alcuno conto; anzi quello con il
suo squadrone, disceso a piede, passando per il mezzo di
quelle, occupò la città, né per quelle sì sentì ch'egli avesse
ricevuto alcuno memorabile danno. Talché, chi si difende in
una terra piccola, come è detto, e truovisì le mura in terra,
e non abbia spazio di ritirarsi con ì ripari e con fossi, ed ab-
biasi a fidare in su le artiglierie, si perde subito. Se tu di-
fendi una terra grande, e che tu abbia comodità di ritirarti,
sono nondimanco senza comparazione più utili le artiglierie a
chi è di fuori, che a chi è dentro. Prima, perchè a volere che
una artiglieria nuoca a quelli che sono di fuora, tu sei neces-
sitato levarti con essa dal piano della terra; perchè, sLnndo
in sul piano, ogni poco di argine e di riparo che il nimico
faccia, rimane sicuro, e tu non gli puoi nuocere. Tanto che
avendoti ad alzare, e tirarti sul corridoio delle mura, o in
qualunque modo levarti da terra, tu ti tiri dietro due diflì-
cullà: la prima, che non puoi condurvi artiglierìa della gros-
sezza e della potenza che può trarre colui di fuora, non si
potendo ne' piccoli spazi maneggiare le cose grandi; l'altra,
I
LIBRO SECONDO. 261
che quando bene tu ve la potessi condurre, tu non puoi fare
quelli ripari fedeli e sicuri, per salvare della arliglieria, che
possono fare quelli di fuora, essendo in su '1 terreno, ed
avendo quelle comodità e quello spazio che loro medesimi vo-
gliono : talmentechè, gli è impossibile a chi difende una terra,
tenere le artiglierie ne' luoghi alti, quando quelli che son di
fuora abbino assai artiglierie e potenti ; e se egli hanno a
venire con essa ne' luoghi bassi, ella diventa in buona parte
inutile, come è dello. Talché la difesa della città si ha a ri-
durre a difenderla con le braccia, come anticamente si fa-
ceva, e con la artiglieria minuta: di che se sì trae un poco
di utilità rispetto a quella arliglieria minuta, se ne cava in-
comodità che contrappesa alla comodità della artiglieria; per-
che, rispetto a quella, si riducono le mura delle terre, basse
e quasi sotterrale ne' fossi: talché, com'è' sì viene alle batta-
glie di mano, o per essere battute le mura o per esser ri-
pieni i fossi, ha chi è dentro molti più disavvantaggi che non
aveva allora. E però, come di sopra sì disse, giovano questi
instrumenti mollo più a chi campeggia le terre, che a chi è
campeggialo. Quanto alla terza cosa, di ridursi in uno campo
dentro ad uno steccato per non fare giornata, se non a tua
comodità 0 vantaggio; dico che in questa parte tu non hai più
rimedio ordinariamente a difenderli di non combattere, che
si avessino gli antichi; e qualche volta, per conto delle arti-
glierie, hai maggiore disavvantaggio. Perché, se il nimico ti
giunge addosso, ed abbia un poco di vantaggio del paese,
come può facilmente intervenire; e Iruovisi più allo di te; o
che nello arrivare suo tu non abbi ancora fatti i tuoi argini,
e copertoti bene con quelli; subilo, e senza che tu abbi alcun
rimedio, ti disalloggia, e sei forzato uscire delle fortezze tue,
e venire alla zufla. Il che intervenne agli Spagnuoli nella gior-
nata di Ravenna; i quali essendosi muniti tra il fìume del Ron-
co ed uno argine , per non lo avere tirato tanto alto che bastas-
se, e per avere i Franciosi un poco il vantaggio del terreno,
furono conslrelti dalle artiglierie uscire delle fortezze loro, e
venire alla zutfa. Ma dato, come il più delle volte debbe es-
sere, che il luogo che tu avessi preso con il campo fusse più
'eminente che gli altri all'incontro, e che gli argini fussino
2b2 DEI DISCORSI
baoni e sicuri, (ale che, medianle il sito e l' allre (uè prepa-
razioni, il nimico non ardisse di assaltarli; si verrà in questo
caso a quelli modi che anticamente si veniva, quando uno
era con il suo esercito in lato da non potere essere otTeso : i
quali sono, correre il paese, pigliare o campeggiare le terre
lue amiche, impedirti le vettovaglie; tanto che tu sarai for-
zalo da qualche necessità a disalloggiare, e venire a gior-
nata; dove le artiglierie, come di sotto si dirà, non operano
molto. Considerato, adunque, di quali ragioni guerre feciono
i Romani, e veggendo come ei feciono quasi tutte le lor
guerre per otTendere altrui, e non per difender loro; si vedrà,
quando sieno vere le cose dette dì sopra, come quelli areb-
bono avuto più vantaggio, e più presto arebbono fatto i loro
acquisti, se le fussino state in quelli tempi. Quanto alla se-
conda cosa, che gli uomini non possono mostrare la virtù
loro, come ei potevano anticamente, mediante la artiglieria;
dico ch'egli è vero, che dove gli uomini spicciolati si hanno
a mostrare, eh' e' portano più pericoli che allora, quando
avessino a scalare una terra, o fare simili assalti, dove gli uo-
mini non ristretti insieme , ma di per sé l' uno dall' altro aves-
sino a comparire. È vero ancora, che gli capitani e capi degli
eserciti stanno sottoposti più al pericolo della morte che allo-
ra, potendo esser aggiunti con le artiglierie in ogni luogo; nò
giova loro lo essere nelle ultime squadre, e muniti di uomini
fortissimi. Nondimeno si vede che l'uno e l'altro di questi
duoi pericoli fanno rade volte danni isiraordinari: perchè le
terre munite bene non si scalano, né si va con assalti de-
boli ad assaltarle; ma, a volerle espugnare, si riduce la cosa
ad una ossidione, come anticamente si faceva. Ed in quelle
che pure per assalto si espugnano, non sono molto * maggiori
i pericoli che allora : perchè non mancavano anche in quel
tempo a chi difendeva le terre, cose da trarre; le quali se
non erano si furiose, facevano, quanto all'ammazzare gli uo-
mini, il simile effetto. Quanto alla morte de' capitani e de' con-
dottieri, ce ne sono, in ventiquattro anni che sono siate le
guerre ne' prossimi tempi in Italia, meno esempi, che non
era in dieci anni di tempo appresso agli antichi. Perché, dal
* La Romana : molti.
LIBRO SECONDO. 263
conte Lodovico della Mirandola, che morì a Ferrara quando
i Veniziani pochi anni sono assaltarono quello stato, ed il
Duca di Neniors, che mori alla Cirignuola, in fuori; non è oc-
corso che d'artiglierie ne sia morto alcuno; perchè monsignor
di Pois a Ravenna morì di ferro, e non di fuoco. Tanto che, se
gli uomini non dimostrano particolarmente la loro virtù, na-
sce non dalle artiglierie, ma dai cattivi ordini, e dalla de-
bolezza degli eserciti; i quali, mancando di virtù nel tutto,
non la possono dimostrare nella parte. Quanto alla terza cosa
della da costoro, che non si possa venire alle mani, e che
la guerra si condorrà tutta in su l'arliglieriei dico questa
oppinione essere al tutto falsa ; e cosi Ga sempre tenuta da
coloro che secondo l'antica virtù vorranno adoperare gli
eserciti loro. Perchè, chi vuole fare uno esercito buono, gli
conviene, con esercizi * o finti o veri, assuefare gli uomini
suoi ad accostarsi al nimico, e venire con lui al menare della
spada, e al pigliarsi per il petto; e si debbe fondare più in
su le fanterie che in su' cavagli, per le ragioni che di sotto
si diranno. E quando si fondi in su 1 fanti ed in su i modi
predetti, diventano al tutto le artiglierie inutili; perchè con
più facilità le fanterie nello accostarsi al nimico, possono fug-
gire il colpo delle artiglierie, che non potevano anticamente
fuggire l'impeto degli elefanti, de' carri falcati, e d'altri
riscontri inusitati, che le fanterie romane riscontrarono;
contra ai quali sempre trovarono il rimedio: e tanto più fa-
cilmente lo arebbono trovato contra a queste, quanto egli
è più breve il tempo nel quale le artiglierie li possono nuo-
cere, che non era quello nel quale potevano nuocere gli ele-
fanti ed i carri. Perchè quelli nel mezzo della zuffa ti dis-
ordinavano;^ queste solo innanzi alla zuffa ti 'mpediècono: il
quale impedimento facilmente le fanterie fuggono, o con an-
dare coperte dalla natura del silo, o con abbassarsi in su
la terra quando le tirano. Il che anche per esperienza si è
visto non essere necessario, massime per difendersi dalle ar-
tiglierie grosse; le quali non si possono in modo bilanciare,
* Male , e con omissione di una lettera', nelle antiche edizioni : eserciti ed
esser CI ti,
8 La Testina e le altre: ti disordinano.
264 DEI DISCORSI
0 che se le vanno alle le non ti Iruovino, o che se le vanno
basse le non ti arrivino. Venuti poi gli eserciti alle mani,
questo è più chiaro che la luce, che né le grosse né le pic-
cole ti possono poi offendere : perchè, se quello che ha 1* ar-
tiglierie é davanti, diventa tuo prigione; s'egli è dietro, egli
offende prima l'amico che te; a spalle ancora non li può
ferire in modo che tu non lo possa ire a trovare, e ne vie-
ne a seguitare l' effetto detto. Né questo ha molta disputa ;
perchè se ne è visto l'essempio de'Svizzeri, i quali a Novara,
nel 1513, senza artiglierie e senza cavagli, andarono a tro-
vare lo esercito francioso munito di artiglierie dentro alle
fortezze sue, e lo ruppono senza aver alcuno impedimento da
quelle. E la ragione è, oltre alle cose dette di sopra, che
l'artiglieria ha bisogno d'essere guardata, a volere che la
operi, o da mura o da fossi o da argini; e come gli manca
una di queste guardie, ella è prigione, o la diventa inuti-
le: come gli interviene quando la si ha a difendere con gli
uomini ; il che gli interviene nelle giornate e zuffe campa-
li. Per Ganco le non si possono adoperare, se non in quel
modo che adoperavano gli antichi gli instrumcnti da trarre ;
che gli mettevano fuori delle squadre, perchè ei comhnt-
tessino fuori delti ordini ; ed ogni volta che o da cavalleria
o da altri erano spinti, il refugio loro era dentro * alle le-
gioni. Chi altrimenti ne fa conto, non la intende bene, e
fidasi sopra una cosa che facilmente lo può ingannare. E se
il Turco, mediante l'artiglieria, centra al Sofi ed il Soldano
ha avuto vittoria, è nato non per altra virtù dì quella, che
per lo spavento che lo inusitato remore messe nella caval-
leria loro. Conchiuggo pertanto, venendo al fine di questo
discorso, l'artiglieria essere utile in uno esercito quando vi
sia mescolata l'antica virtù ; ma senza quella, contra a uno
esercito virtuoso è inutilissima.
Lir.RO SECONDO. 265
Cap. XVIII. — Come per l'aulorìlà de' Romani, e per lo essempio
della anlica milizia, si debbe slimare più le fanterie che i
cavagli.
E' si può per molte ragioni e per molli essempi dimo-
strare chiaramente, quanto i Romani in tutte le militari
azioni stimassino più la milizia a pie che a cavallo, e so-
pra quella fondassino tutti i disegni delle forze loro: come
si vede per molti essempi, ed infra gli altri, quando si azzuffa-
rono con i Latini appresso il lago Regillo ; dove già essendo
inclinato lo esercito romano, per soccorrere ai suoi fecero
discendere degli uomini da cavallo a piede, e per quella via,
rinnovata la zulTa, ebbono la vittoria. Dove si vede manife-
stamente , i Romani avere più confidato in loro essendo a
piede, che mantenendoli a cavallo. Questo medesimo ter-
mine usarono in molte altre zuffe, e sempre lo trovarono
ottimo rimedio in gli loro pericoli. Né si opponga a questo
la oppinione di Annibale, il quale veggendo in la giornata
di Canne, che i Consoli avevano fatto discendere a pie gli
loro cavalieri, facendosi beffe di simile partito, disse: Quam
malìem vinclos mihi Iraderenl cquiles ; cioè : io arei più caro
che me gli dessino legati. La quale oppinione ancoraché la
sia stata in bocca d'un uomo eccellentissimo, nondimeno,
se si ha a ire dietro alla autorità, si debbe più credere ad
una Repubblica romana, e a tanti Capitani eccellentissimi
che furono in quella, che ad uno solo Annibale: ancoraché
senza le autorità ce ne siano ragioni manifeste. Perchè l'uo-
mo a piede può andare in molti luoghi, dove non può an-
dare il cavallo; puossi insegnarli servare l'ordine, e tur-
bato che fusse, come e' lo abbia a riassumere: a' cavagli è
diiTicile fare servare l* ordine , ed impossibile , turbati che
sono, riordinargli. Oltra di questo, si trova, come negli uo-
mini, de' cavagli che hanno poco animo, e dì quelli che ne
hanno assai: e molte volte interviene che un cavallo ani-
moso è cavalcato da uno uomo vile, ed uno cavallo vile da
uno animoso; ed in qualunque modo che segua questa dispa
rità, ne nasce inutilità e disordine. Possono le fanterie or-
2.?
266 OfiI DiSCOHSl.
dinate facilmente rompere i cavagli, e difficilmente esser
rotte da quelli. La quale oppinionc è corroborata, oltre a molti
essempì antichi e moderni, dalla autorità di coloro che dan-
no delle cose civili regola: dove mostrano come in prima
le guerre si cominciarono a fare con i cavagli, perchè non era
ancora l'ordine delle fanterie; ma come queste si ordina-
rono , si conobbe subito quanto loro erano più utili , che
quelli. Non è per questo però che i cavalli non siano neces-
sari negli eserciti , e per fare scoperte , e per scorrere a
predare i paesi, per seguitare ì nimici quando ei sono in
fuga, e per essere ancora in parte una opposizione ai cavagli
degli avversari: ma il fondamento e il nervo dello esercito,
e quello che si debbe più stimare, debbono essere le fante-
rie. Ed infra i peccati de' principi italiani , che hanno fatto
Italia serva de' forestieri, non ci è il maggiore, che avere te-
nuto poco conto di questo ordine, ed avere vólto tutta la loro
cura alla milizia a cavallo. Il quale disordine è nato per la
malignità de' capi, e per la ignoranza di coloro che tenevano
stato. Perchè essendosi ridotta la milizia italiana , da' ven-
ticinque anni indietro, in uomini che non avevano stalo,
ma erano come capitani di ventura, pensorono subito come
potessino mantenersi la riputazione stando armati loro, e
disarmati i principi. E perchè uno numero grosso di fanti
non poteva loro essere continuamente pagato, e non avendo
sudditi da poter valersene, ed ano piccolo numero non dava
loro riputazione, si volsono a tenere cavagli: perchè dugcnlo
o trecento cavalli che erano pagati ad uno condottiero, * lo
mantenevano riputato; ed il pagamento non era tale, che da-
gli uomini che tenevano stato non potesse essere adempiuto.
E perchè questo seguisse più facilmente, e per mantenersi
più in riputazione, levarono tutta l'atTezione e la riputazione
da' fanti, e ridussonla in quelli loro cavalli: e in tanto creb-
bono questo disordine, che in qualunque grossissimo eser-
cito era una minima parte di fanteria. La quale usanza fece
in modo debole, insieme con molti altri disordini che si
mescolarono con quella, questa milizia italiana, che questa
provincia è stata facilmente calpestata da tutti gli oltraraon-
* La Bla diana t eondoUiert-
LIBRO SECONDO. 267
lani. Mostrasi più apertaraenle questo errore, di stimare più
i cavalli che le fanterie, per uno altro essempio romano. Era-
no i llomani a campo a Sora, ed essendo usciti fuori della
terra una lurma di cavalli per assaltare il campo, se gli
fece all'incontro il Maestro de* cavalli romano con la sua
cavalleria , e datosi di petto , la sorte dette che nel primo
scontro i capi dell'uno e dell'altro esercito morirono; e re-
stati gli altri senza governo, e durando nondimeno la zuflTa,
i Romani per superare più facilmente Io inimico, scesono a
piede, e conslrinsono i cavalieri nimici, se si vollono difen-
dere, a fare il simile: e con tutto questo, i Romani ne ri-
portarono la vittoria. Non può esser questo essempio mag-
giore in dimostrare quanto sia più virtù nelle fanterie che
ne' cavagli: perchè se nelle altre fazioni i Consoli facevano
discendere i cavalieri romani, era per soccorrere alle fan-
terie che pativano, e che avevano bisogno di aiuto; ma in
questo luogo e'discesono, non per soccorrere alle fanterie
né per combattere con uomini a pie de*nimici, ma combat-
tendo a cavallo co' cavalli, giudicarono, non potendo supe-
rargli a cavallo, potere scendendo più facilmente vincergli.
Io voglio adunque conchiudere, che una fanteria ordinata
non possa senza grandissima diflìcultà esser superala, se non
da una altra fanteria. Crasso e Marc' Antonio romani cor-
sono per il dominio de' Parti molte giornate con pochissimi
cavalli ed assai fanteria, ed all' incontro avevano innumera-
bili cavalli de' Parti. Crasso vi rimase con parte dello eser-
cito morto. Marc' Antonio virtuosamente si salvò. Nondi-
manco, in queste afflizioni romane si vede quanto le fanterie
prevalevano ai cavalli: perchè essendo in un paese largo,
dove i monti son radi, ed i fiumi radissimi, le marine lon-
ginque, e discosto da ogni comodità; nondimanco Marc* An-
tonio, al giudicio de* Parti medesimi, virtuosamente si salvò;
né mai ebbero * ardire tutla la cavalleria partica tentare gli
ordini dello esercito suo. Se Crasso vi rimase, chi leggerà
bene le sue azioni, vedrà come e* vi fu piuttosto ingannato
* Lezione della Bladiana, più sincera al mio credere, della sofisticata r ebbe.
La stessa osservazione avrei potuto fare poco innanzi alla voce cahcsta^ dove
le altre hanno calpestata j ed altre non poche, le quali ometto per brevità.
268 DEI DISCORSI
che forzalo: né mai, in tulli i suoi disordini, i Parti ardirono
di urtarlo; anzi sempre andando costeggiandolo, * ed impe-
dendogli le vettovaglie, promettendogli e non gli osservando,
lo condussono ad una estrema miseria. Io crederei avere a
durare più fatica in persuadere quanto la virtù delle fan-
terie è più potente che quella de' cavalli, se non ci fussino
assai moderni essempi che ne rendono testimonianza pienis-
sima. E' si è veduto novemila Svizzeri a Novara, da noi
di sopra allegata, ' andare ad affrontare diecimila cavalli ed
altrettanti fanti, e vincergli: perchè i cavalli, non li pote-
vano offendere : i fanti, per esser gente in buona parte gua-
scona e male ordinata, stimavano poco. Videsi di poi ven-
liseimila Svizzeri andare a trovare sopra Milano Francesco
re di Francia, che aveva seco ventimila cavalli, quaranta-
mila fanti, e cento carra d'artiglieria; e se non vinsono
la giornata come a Novara, combatterono due giorni vir-
tuosamente; e dipoi, rotti che furono, la metà di loro si sal-
varono. Presunse Marco Regolo Attilio , non solo con la
fanteria sua sostenere i cavalli, ma gli elefanti; e se il di-
segno non gli riuscì, non fu però che la virtù della sua
fanteria non fusse tanta, che ei non confidasse tanto in lei
che credesse superare quella dimenila. Replico, pertanto, che
a voler superare i fanti ordinati, è necessario opporre loro
fanti meglio ordinati di quelli: altrimenti, si va ad una per-
dita manifesta. Ne' tempi di Filippo Visconti, duca di Milano,
sccsono in Lombardia circa sedicimila Svizzeri : donde il
Duca avendo per capitano allora il Garmignuola, lo mandò
*con circa mille cavalli e pochi fanti allo incontro loro. Co*
stui non sappiendo l'ordine del combatter loro, ne andò ad
incontrargli con i suoi cavalli, presumendo poterli' subito
rompere. Ma trovatogli immobili, avendo perduti molli do'
suoi uomini, si ritirò: ed essendo valentissimo uomo, e sap-
piendo negli accidenti nuovi pigliare nuovi parlili, riTaltosi
' CmI tutte le ediiiooi { e la Romana toltanto : eonstringendolo.
' Così nella Bladiana ; e può riferire a Novara , ouia all' esempio delle
cose ivi accadute. Cionondimeno , nelle altre edizioni si legge : allegati.
• La Romana ha poterlo j che polrebUe, benché noa senza sforzo, rife-
rirsi ad ordine.
LIBRO SECONDO. 269
dì gente gli andò a trovare; e venuto loro all'incontro, fece
smontare a pie latte le sue genti d'arme, e fallo testa di
quelle alle sue fanterie, andò ad investire i Svizzeri. I quali
non ebbono alcun rimedio: perchè, sendo le genti d'arme
del Carmignuola a pie e bene armate, poterono facilmente
entrare infra gli ordini de' Svizzeri, senza patire alcuna le-
sione; ed entrati tra questi, poterono facilmente offendergli:
talché di lutto il numero di quelli, ne rimase quella parte
viva, che per umanità del Carmignuola fu conservala. Io
credo che molti conoschino questa differenza di virtù che
è intra l'uno e l'altro di questi ordini: ma è tanta la infe-
licità di questi tempi, che né gli essempi antichi né i mo-
derni, né la confessione dello errore é sufficiente a fare che
i moderni principi si ravvegghino; e pensino che a volere
rendere riputazione alla milizia d' una provincia o d' uno
slato, sia necessario risuscitare questi ordini, tenergli ap-
presso, dar loro riputazione, dar loro vita, acciocché a lui
e vita e riputazione rendino. E come e'diviano da questi
modi, cosi diviano dagli altri modi delti di sopra: onde ne
nasce che gli acquisti sono a danno, non a grandezza d'uno
stato, come di sotto si dirà.
Cai». XIX. — Che gli acquisii nelle repubbliche non bene ordì'
naie, e che secondo la romana virtù non procedono, sono a
rovina, non a esaltazione d'esse.
Queste contrarie oppinioni alla verità, fondale in su'mali
essempi che da questi nostri corrotti secoli sono stati intro-
dotti, fanno che gli uomini non pensano a diviare dai con-
sueti modi. Quando si sarebbe potuto persuadere a uno Ita-
liano da trenta anni in dietro, che diecimila fanti polessino
assaltare in un piano diecimila cavalli ed altrettanti fanti, e
con quelli non solamente combattere, ma vincergli; comesi
vede per lo essempio da noi più volle allegalo, a Novara? E
benché le istorie ne siano piene, tamen non ci arebbero
prestato fede; e se ci a vessino prestalo fede, arebbero dello
che in questi tempi s'arma meglio, e che una squadra d'uo-
mini d'arme sarebbe atta ad urlare uno scoglio, non che una
23'
270 DEI DISCORSI
fanteria: e cosi con queste false scase corrompevano il giu-
dizio loro; né arebbero consideralo, che Lucullo con pochi
fanti ruppe cento cinquantamila cavalli di Tigrane; e che tra
quelli cavalieri era una sorte di cavalleria simile al tutto agli
uomini d'arme nostri: e cosi questa fallacia è stata scoperta
dallo essempìo delle genti oltramontane. E come e' si vede
per quello esser vero, quanto alla fanteria , quello che nelle
istorie si narra; cosi doverrebbero credere esser veri ed utili
lutti gli altri ordini antichi. E quando questo fnsse credulo,
le repubbliche ed i principi errerebbero meno; sariano più
forti ad opporsi ad uno impeto che venisse loro addosso; non
spererebbero nella fuga; e quelli che avessino nelle mani un
vivere civile, lo saperebbero meglio indirizzare, o per la via
dello ampliare, o per la via del mantenere; e crederebbero
che lo accrescere la città sua d'abitatori, farsi compagni e
non sudditi, mandare colonie a guardare i paesi acquistati,
fer capitale delle prede, domare il nimico con le scorrerie e
con le giornate e non con lo ossidioni, tenere ricco il pub-
blico, povero il privalo, mantenere con sommo studio li eser-
cizi militari, sono le vie a fare grande una repubblica, ed ac-
quistare imperio. E quando questo modo dello ampliare non
gli piacesse, penserebbe che gli acquisti per ogni altra via
sono la rovina delle repubbliche» e porrebbe freno ad ogni
ambizione; regolando bene la sua città dentro con le leggi e
co* costumi, proibendogli l'acquistare e solo pensando a di-
fendersi, e le difese tenere ordinate bene: come fanno le re-
pubbliche della Magna, le quali in questi modi vivono e sono
vivute libero un tempo. Nondimeno, come altra volta dissi
quando discorsi la differenza che era da ordinarsi per acqui-
stare a ordinarsi per mantenere; ò Impossibile che ad una
repubblica riesca lo stare quieta, e godersi la sua libertà e
gli pochi confini: perchè, se lei non molesterà altrui, sarà
moleslata ella; e dallo essere molestata le nascerà la voglia
e la necessità dello acquistare; e quando non avesse il ni-
mico fuora, lo troverebbe in casa: come pare necessario in-
tervenga a lotte le grandi cittadi. E se le repubbliche della
Magna possono vivere loro in quel modo, ed hanno potuto
durare un tempo; nasce da certe condizioni che sono in quel
LIBRO SECO?\^DO. 271
paese, le quali non sono altrove, senza le quali non potreb-
bero tenere sirail modo di vivere. Era quella parte della Ma-
gna di che io parlo, sottoposta allo imperio romano come la
Francia e la Spagna: ma venuto dipoi in declinazione l' im-
perio, e ridottosi il titolo di tale imperio in quella provincia,
cominciarono quelle cittadi più potenti, secondo la viltà o
necessità degl' imperadori, a farsi libere, ricomperandosi
dallo imperio, con riservargli un piccolo censo annuario;
tanto che, a poco a poco, tutte quelle cittadi che erano imme-
diate dello imperadore, e non erano soggette ad alcuno prin-
cipe, si sono in simil modo ricomperate. Occorse in questi
medesimi tempi che queste cittadi si ricomperavano, che
certe comunità sottoposte al duca d'Austria si ribellarono da
lui; tra le quali fu Filiborgo, e Svizzeri, e simili; le quali
prosperando nel principio, pigliarono a poco a poco tanto
augumento, che, non che e* sieno tornati sotto il giogo d'Au-
stria, sono in timore a tutti i loro vicini: e questi sono quelli
che si chiamano Svizzeri. È, adunque, questa provincia' com-
partita in Svizzeri, repubbliche (che chiamano terre franche),
principi, ed imperadore. E la cagione che, intra tante diversità
di vivere, non vi nascono, o, se le vi nascono, non vi durano
molto le guerre, è quel segno dell' imperadore; il quale, av-
venga che non abbi forze, nondimeno ha fra loro tanta ri-
putazione, ch'egli è uno loro conciliatore, e con l'autorità
sua, interponendosi come mezzano, spegne subito ogni scan-
dalo. E le maggiori e le più lunghe guerre vi siano slate,
sono quelle che sono seguile intra i Svizzeri ed il duca d'Au-
stria: e benché da molti anni in qua io imperadore ed il duca
d'Austria sia una cosa medesima, non pertanto non ha mai
potuto superare l'audacia dei Svizzeri, dove non è mai stato
modo d'accordo, se non per forza. Né il resto della Magna
gli ha pòrti molti aiuti; si perchè le comunità non sanno of-
fendere chi vuole vivere libero come loro; si perchè quelli
principi, parte non possono per esser poveri, parte non vo-
gliono per avere invidia alla potenza sua. Possono vivere, adun-
que, quelle comunità contente del piccolo loro dominio, per
non avere cagione, rispetto all'autorità imperiale, di diside-
* Cioè r Allcmagna , o Germania.
272 DEI DISCORSI
rark) maggiore: possono vivere onile dentro alle mura loro,
per aver il nimico propinquo, e che piglierebbe l'occasione
d'occuparle, qualunque volta le discordassino. Che se quella
provincia fusse condizionata altrimenti, converrebbe loro
cercare d'ampliare e rompere quella loro quiete. E perchè
altrove non sono tali condizioni, non si può prendere questo
modo di vivere; e bisogna o ampliare per via di leghe, o
ampliare come i Romani. E chi si governa altrimenti, cerca
non la sua vita, ma la sua morte e rovina: perchè in mille
modi e per molte cagioni gli acquisti sono dannosi ; perchè
gli sta molto bene insieme ^ acquistare imperio, e non forze;
e chi acquista imperio e non forze insieme, conviene che
rovini. Non può acquistare forze chi impoverisce nelle guer-
re, ancora che sia vittorioso; che ei mette più che non trac
degli acquisti: come hanno fatto i Veniziani ed i Fiorentini, i
quali sono slati mollo più deboli, quando l'uno aveva la Lom-
bardia e l'altro la Toscana, che non erano quando l'uno era
conlento del mare, e l'altro di sei miglia di confìni. Perchè
lutto è nato da avere voluto acquistare, e non avere saputo
pigliare il modo e tanto più meritano biasimo, quanto egli
hanno meno scusa, avendo veduto il modo hanno tenuto i
Romani, ed avendo potuto seguitare il loro cssempio, quando
i Romani, senza alcuno essempio, per la prudenza loro, da
loro medesimi lo seppono trovare. Fanno, olirà di questo, gli
acquisti qualche volta non mediocre danno ad ogni bene ordi-
nata repubblica, quando e'si acquista una città o una provin-
cia piena di delizie, dove si può pigliare di quelli costumi per
la conversazione che si ha con quelli: come intervenne ado-
rna, prima, nello acquisto di Capova; e dipoi, ad Annibale
E se Capova fusse slata più longinqua. dalla città, che^ lo
errore de' soldati non avesse avuto il rimedio propinquo; o
che Roma fusse stata in alcuna parte corrotta; era senza
dubbio quello acquisto la rovina della Repubblica romana. E
Tito Livio fa fede di questo con queste parole: Jam lune mi-
< Nessuna edizione offre varianti a questo passo; il quale è da intendersi ;
molto facilmente vanno insieme queste due cose ; cioè lo acquietare imperio , r
non acquistare forze.
* Che ha qui la forza di laiche, sicché: onde invano gli editori della Te-
stina ed altri emendarono : e che.
LIBRO SECONDO. 273
nime salubris mililari disciplinas Capua, inslrumenlum omnium
voluplalum, delinilos mililum animos averlil a memoria pa-
trioe. E veramente, simili cillà o provincie si vendicano con-
Ira al vincitore senza zuffa e senza sangue ; perchè, riempien-
doli de' suoi tristi costumi, gli espongono ad essere vinti da
qualunque gli assalta. E luvenale non potrebbe meglio, nelle
sue satire, aver considerata questa parte, dicendo: che nei
petti romani per gli acquisti delle terre peregrine erano in-
trati i costumi peregrini; ed in cambio di parsimonia e di al-
tre eccellentissime virtù, gula et luxuria incubuit, viclumque
ulciscilur orbem. Se, adunque, l'acquistare fu per esser per-
nizioso ai Romani nei tempi che quelli con tanta prudenza e
tanta virtù procedevano, che sarà adunque a quelli che dis-
costo dai modi loro procedono? e che, oltre agli altri errori
che fanno, di che se ne è di sopra discorso assai, si vagliono
dei soldati o mercenari o ausiliari? Donde ne risulta loro
spesso quei danni di che nel seguente capitolo si farà men-
zione.
Gap. XX. — Quale pericolo porli quel principe o quella repub-
blica che si vale della milizia ausiliare o mercenaria.
Se io non avessi lungamente trattato in altra mia opera,
quanto sia inutile la milizia mercenaria ed ausiliare, e quanto
utile la propria, io mi distenderei in questo discorso assai
più che non farò; ma avendone altrove parlato a lungo, sarò
in questa parte brieve. Né mi è paruio in tutto da passarla,
avendo trovato in Tito Livio, quanto ai soldati ausiliari, sì
largo essempio ; perchè i soldati ausiliari sono quelli che un
principe o una repubblica manda, capitanati e pagati da lei,
in tuo aiuto. E venendo al testo di Tito Livio,dico che, avendo
i Romani, in diversi luoghi, rotti due eserciti de' Sanniti con
li eserciti loro, i quali avevano mandati al soccorso de'Ca-
povani ; e per questo liberi i Capovani da quella guerra che
i Sanniti facevano loro ; e volendo ritornare verso Roma; ed*
acciò che i Capovani, spogliati di presidio, non diventassino di
nuovo preda dei Sanniti ; lasciarono due legioni nel paese di
* Lezione della Romana. Le altre omettono ed.
274 DEI DISCORSI
Capeva, che gli difendesse. Le quali legioni marcendo nel-
l'ozio, cominciarono a duellarsi in quello; lanlo che, dimen-
ticala la palria e la riverenza del Senato, pensarono di pren-
dere l'armi, ed insignorirsi di quel paese che loro con la
loro virtù avevano difeso, parendo loro che gli abitatori non
fussino degni di possedere quelli beni che non sapevano di-
fendere. La qual cosa presentita, fu dai Romani oppressa e
corretta: come, dove noi parleremo delle congiure, largamente
si mostrerà. Dico pertanto di nuovo, come di tulle l'altre
qualità di soldati, gli ausiliari sono i più dannosi. Perchè in
essi quel principe o quella repubblica che gli adopera in suo
aiuto, non ha autorità alcuna, ma vi ha solo l'autorilà colui
che li manda. Perchè i soldati ausiliari sono quelli che li
sono mandati da un principe, come ho detto, sotto suoi ca-
pitani, sotto sue insegne e pagati da lui: come fu questo
esercito che i Romani mandarono a Capova. Questi tali sol-
dati, vinto ch'eglino hanno, il più delle volle predano cosi
colui che gli ha condotti, come colui centra a chi e' sono
condotti; e lo fanno o per malignità del principe che gli
manda, o per ambizion loro. E benché la intenzione de' Ro-
mani non fusse di rompere l'accordo e le convenzioni che
avevano falle coi Capovani ; nondimeno la facilità che pa-
reva a quelli soldati di opprimergli fu tanta, che gli polcKe
persuadere a pensare di tórre ai Capovani la terra e lo sla-
to. Polrebbesi di questo dare assai essempi ; ma voglio mi
basti questo, e quello dei Regini, ai quali fu tolto la vita o la
terra da una legione che i Romani vi avevano messa in guar-
dia. Debbe, adunque, un principe e una repubblica pigliare
prima ogni altro parlilo, che ricorrere a condurre nello slato
suo per sua difesa genti ausiliarie, quando ei s'abbia a fidare
sopra quelle; perchè ogni patto, ogni convenzione, ancora
che dura, ch'egli ara col nemico, gli sarà più leggieri che
tal parlilo. E se si leggeranno bene le cose passate, e discor-
rerannosi lo presenti, si troverà, per uno che n'abbia avuto
buon fìne, intìniti esser rimasi ingannali. Ed uno principe
o una repubblica ambiziosa non può avere la maggiore oc-
casione di occupare una città o una provincia, che esser
richiesto che mandi gli eserciti suoi alla difesa di quella.
LIBRO SECONDO. 275
Pertanto, colui che è tanto ambizioso che, non solamente |
per difendersi ma per oCfendere altri, chiama simili, aiuti,'
cerca d'acquistare quello che non può tenere, e che da quello
che gliene * acquista gli può facilmente esser tolto. Ma l'am-
bizione dell'uomo è tanto ^ grande, che per cavarsi una pre-
sente voglia, non pensa al male che è in brieve tempo per
risultargliene. Né lo muovono gli antichi essempi, così in
questo come nell' altre cose discorse ; perchè, se e' fussino
mossi da quelli, vedrebbero come quanto più si mostrala li-
beralità coi vicini, e d'essere più alieno da occupargli, tanto
più ti si gettano in grembo: come di sotto, per lo essempio
de'Capovani, si dirà.
Gap. XXI. — Il primo Pretore che i Romani mandarono in
alcun luogo, fu a Capova, dopo quatlrocenlo anni che co-
minciarono a far guerra.
Quanto i Romani nel modo del procedere loro circa
l'acquistare fossero diCferenti da quelli che ne' presenti tempi
ampliano la iurisdizione loro, si è assai di sopra discorso; e
come e' lasciavano quelle terre, che non disfacevano, vivere
con le leggi loro, eziandio quelle che non come compagne,
ma come soggette si arrendevano loro ; ed in esse non lascia-
vano alcun segno d'imperio per il Popolo romano, ma l'ob-
bligavano ad alcune condizioni, le quali osservando, le man-
tenevano nello stato e dignità loro. E conoscesi questi modi
esser stati osservati infine che gli uscirono d'Italia, e che
cominciarono a ridurre i regni e gli stati in provincie. Di
questo ne è chiarissimo essempio, che il primo Pretore che
fusse mandato da loro in alcun luogo, fu a Capeva : il quale
vi mandarono, non per loro ambizione, ma perchè e' ne fu-
rono ricerchi dai Capovani ; i quali, essendo intra loro discor-
dia, giudicarono esser necessario avere dentro nella città un
cittadino romano che gli riordinasse e riunisse. Da questo
essempio gli Anziati mossi, e constrelti dalla medesima ne-
cessità, domandarono ancora loro un Prefetto ; e Tito Livio
* La Romana , qui e in altri luoghi! gti ne,
• La stessa edizion» : tanta.
276 DEI DISCOUSI
dice ìd su questo accidente, ed in su questo nuovo modo
d'imperare, quod jam non solum arma, scdjura romana pol-
lebanl. Vedesi, pertanto, quanto questo modofacililòraugu-
mento romano. Perchè quelle città, massime, che sono use
a viver libere, o consuete governarsi per suoi provinciali, con
altra quiete stanno contente sotto uno dominio che non veg-
gono, ancora ch'egli avesse in sé qualche gravezza , che sotto
quello che veggendo ogni giorno, pare loro che ogni giorno
sia rimproverata loro la servitù. Appresso, ne seguita un al-
tro bene per il principe: che non avendo i suoi ministri ir
mano i giudizi, ed i magistrali che civilmente o criminal-
mente rendono ragione in quelle cìttadi, non può nascere
mal sentenza con carico o infamia del principe ; e vengono
per questa via a mancare molte cagioni di calunnia e d'odio
verso di quello. E che questo sia il vero, oltre agli antichi
essempi che se ne potrehbono addurre, ce n'é uno esscmpio
fresco in Italia. Perchè, come ciascuno sa, sendo Genova stata
più volle occupata da' Franciosi, sempre quel re, eccetto che
ne' presenti tempi, vi ha mandalo un governatore francioso
che in suo nome la governi. Al presente solo, non per ele-
zione del re, ma perchè cosi ha ordinato la necessità, ha
lascialo governarsi quella città per sé medesima, e da un
governatore genovese. E senza dubbio , chi ricercasse quali
di questi duoi modi rechi più sicurtà al re dell'imperio d
essa, e più contentezza a quelli popolari, senza dubbio ap-
proverebbe questo ultimo modo. Oltra di questo, gli uomini
tanto più li si gettano in grembo, quanto più lu pari alieno
dallo occupargli ; e tanto meno li temono per conto della
loro libertà, quanto più sei umano e domestico con loro. Que-
sta dimestichezza e liberalità fece i Capovani correre a chie-
dere il Pretore ai Romani : che se dai Romani si fusse mostro
una minima voglia di mandarvelo, subito * sarebbono in-
gelositi, e si sarebbono discoslali da loro. Ma che bisogna
ire per gli essempi a Capeva ed a Roma, avendone in Fi-
renze ed in Toscana? Ciascuno sa quanto tempo è che la
città di Pistoia venne volontariamente solto l'imperio fioren-
lino. Ciascuno ancora sa quanta inimicizia è stata intra i
* Le edizioni posteriori al lò32 aggiungooo, inutilmente, si.
I
r
LIBRO SECONDO. 277
Fiorentini, ed i Pisani, Lucchesi e Sanesi: e questa diversità
d' animo non è naia perchè i Pistoiesi non prezzino la loro
libertà come gli altri, e non si giudichino da quanto gli altri;
ma per essersi i Fiorentini portati con loro sempre come fra-
telli, e con gli altri come nimici. Questo ha fatto che i Pi-
stoiesi sono corsi volontari sotto l'imperio loro: gli altri
hanno fatto e fanno ogni forza per non vi pervenire. E senza
dubbio, i Fiorentini se, o per vie di leghe odi aiuto, avessero
dimesticali e non inselvatichiti i suoi vfcini, a quest'ora sa-
rebbero signori di Toscana. Non è per questo che io giudichi
che non si abbia ad operare l'armi e le forze; ma si debbono
riservare in ultimo luogo, dove e quando gli altri modi non
bastino.
Gap. XXII. — Quanto siano false molte volle le oppinioni
degli uomini nel giudicare le cose grandi.
Quanto siano false molte volte le oppinioni degli uomini,
r hanno visto e veggono coloro che si trovano testimoni
delle loro deliberazioni: le quali molte volte, se non sono
deliberate da uomini eccellenti, sono contrarie ad ogni ve-
rità. E perchè gli eccellenti uomini nelle repubbliche corrot-
te, nei tempi quieti massime, e per invìdia e per altre am-
biziose cagioni, sono inimicati ; si va dietro a quello che da
uno comune inganno è giudicato bene, o da uomini che più
presto vogliono i favori che il bene dell' universale, è messo
innanzi. Il quale inganno dipoi si scuopre nei tempi avversi,
e per necessità si rifugge a quelli che nei tempi quieti erano
come dimenticati: come nel suo luogo in questa parte appieno
si discorrerà. Nascono ancora certi accidenti, dove facilmente
sono ingannati gli uomini che non hanno grande isperienza
delle cose, avendo in sé quello accidente che nasce molli ve-
risimili , atti a far credere quello che gli uomini sopra tal
caso si persuadono. Queste cose si sono dette per quello che
Numicio pretore, poiché i Latihi furono rolli dai Homani,
persuase loro; e per quello che pochi anni sono si credeva
per molti, quando Francesco I re di Francia venne all'ac-
qsislo di Milano, che era difeso dai Svizzeri. Dico pertanto,
84
■^78 DEI dìscobsi
che, essendo modo Lai^i XII, e succedendo nel resno di
Francia Francesco d'Ansolem, e desiderando resliluire al
regno il ducalo di Milano, sialo pociti anni innanzi occupalo
dai Svizzeri mediante il conforto di Papa Giulio II, deside-
/^ava aver aiuli in Italia che «li facilitassero V impresa ; ed
oltre ai Veniziani, che il re Luisi s'aveva rÌ!:uadasnati, ten-
tava i Fiorentini e papa Leone X; parendogli la sua impresa
più facile qualunque volta s'avesse rigua<lasnati costoro,
per essere le genti dèi re di Spagna in Lombardia, ed altre
forze dello iraperadore in Verona. Non cede Papa Leone alle
voglie del re, ma fu persuaso da quelli che lo consigliava-
no (secondo si disse), si stesse neulrale, mnslrandonli in
questo partito consistere la vittoria certa : perchè per la Chiesa
non si faceva avere polenti in Italia né il re né i Sviizeri ;
ma volendola ridurre nell'antica libertà, era necessario li-
berarla dalla servitù dell' uno e dell' altro. E perchè vincere
r uno e l'altro, o di per sé o lutti due insieme, non era |)os-
sibile; conveniva che superassino l'uno l'altro, e che la
Chiesa con gli amici suoi urtasse quello poi che rimanesse
vincitore. Ed era ira|)0ssihile trovare inisliore occa>ione che
la presente, sendo l'uno e l'altro in su' campi, ed avendo
il Papa le. sue forze ad ordine da potere ra[>prcsenlarsi in
sui confini di Lomhardia , e propinquo all'uno e l'altro
esercito, sotto colore di voler guardare le cose sue, e quivi
tanto stare che venissero alla giornata ; la quale ragionevol-
mente, sendo l'uno e l'altro esercito virtuoso, doverrehhe
esser sanguinosa per tulle due le parti, e lasciare in modo
debilitato il vincitore, che fosse al Papa fa( ile assaltarlo e
romperlo: e cosi verrebbe con sua «loria a rimanere signore
di Lombardia, ed arbitro di tutla Italia. E quanto questa oppi-
nione fosse falsa, si vide per lo evento della cosa: perchè,
sendo dopo una lunga zufTa suti superati i Svizzeri, non che
le genti del Papa e di Spa;2na presumessero assaltare i vin-
citori, ma si prc{)arar()no alla fuga; la quale ancora non sa-
rebbe loro giovata, se non fusse stato o la umanità o la fred-
dezza del re, che non cercò la seconda vittoria, ma gli ba^tò
fare accordo con la Chiesa. Ha questa opf)inione certe ragioni
che discosto paiono vere, ma sono al lutto aliene dalla veri-
LIBRO SECONDO. ^79
là. Perchè, rade volle accade che '1 vincitore perda assai
suoi soldati: perchè de' vincitori rie muore nella zuffa, non
nella fuga; e nello ardore del comballere, quando gli uonaini
hanno volto il viso l'uno all'altro, ne cade pochi, raassime
perchè la dura poco lempo il più delle volle; e quando pur
durasse assai tempo, e de' vincitori ne morisse assai, è lanla
la riputazione che si tira dietro la vitloria, ed il terrore che
la porta seco, che di lunga avanza il danno che per la morie
de'suoi soldati avesse sopporlalo. Talché, se uno esercito il qua-
le, in su la oppinione che e' fosse debililalo, andasse a tro-
varlo, si troverebbe ingannato; se già non fusse l'esercito tale,
che d'ogni tempo, e innanli alla vittoria e poi, potesse com-
ballerlo. In questo caso e' polrebbe, secondo la sua forluna e
virtù, vincere e perdere; ma quello che si lusse azzuffato
prima, ed avesse vinto, arebbe piuttosto vantaggio dall' altro.
Il che si conosce certo per la esperienza de' Latini, e perla
fallacia che Numizio pretore prese, e per il danno che ne ri-
portorno quelli popoli che gli crederono: il quale, vinto che
i Romani ebbero i Latini, gridava per tutto il paese di La-
zio, che allora era tempo assaltare i Romani debilitati per
la zuffa avevano fatta con loro ; e che solo appresso i Romani
era rimaso il nome della vittoria , ma tutti gli altri danni
avevano sopportali come se fussino stali vinti ; e che ogni
poco di forza che di nuovo gli assaltasse, era per spacciargli.
Donde quelli popoli che gli crederono, fecero nuovo esercito,
e subito furono rolli, e patirono quel danno che patiranno
sempre coloro che terranno simili oppinioni.*
Cap. XXllI. — Quanto i tìomani nel giudicare i suddili per
alcuno accidenle che necessitasse lai giudizio, fuggivano
la via del mezzo.
Jam Latto is slalus erat rerum ul ncque, pacem, ncque
hellum pali possenl. Di tulli gli stati infelici, è infelicissimo
quello d' un principe o d' una rejìubblica che è ridotto in ter-
mine che non può riq^evere la pace, o sostenere la guerra : a
che si riducono quelli che sono dalle condizioni della pace
■ • L'edizione del Biado} simile oppinione.
280
DEI DISCORSI
troppo offesi ; e dall' altro canlo, volendo far guerra, convien
loro o gillarsi in preda di chi gli aiuti, o rimanere preda del
nimico. Ed a lutti questi termini si viene per cattivi consi^^li
e cattivi partiti, da non avere misuralo bene le forze sue,
come di sopra si disse. Perché quella repubblica o quel prin-
cipe che bene le misurasse, con diflScultà si condurrebbe nel
termine si condussono i Latini: i quali quando non dovevano
accofdare con i Romani, accordarono; e quando non dove-
vano rompere loro guerra, la nippono: e cosi seppono fare
in modo, che la inimicizia ed amicizia dei Romani fu loro
ugualmente dannosa. Erano, adunque, vinti i Latini ed al
(ulto afflitti, prima da Manlio Torquato, e dipoi da Camraillo:
il quale avendogli costretti a darsi e rimettersi nelle braccia
de' Romani, ed avendo messo la guardia per tutte le terre
di Lazio, e preso da tulle gli stalichi ; tornalo in Roma, riferì
al Senato come tutto Lazio era nelle mani del Popolo romano.
E perché questo giudizio è notabile, e merita d'essere os-
servalo , per poterlo imitare quando simili occasioni sono
date a' principi, io voglio addurre le parole di Livio poste ia
bocca di Cammillo ; le quali fanno fede e del modo che i Ro-
mani tennono in ampliare, e come ne' giudizi di stato sempre
fuggirono la via del mezzo, e si volsono agli estremi: perchè
un governo non é altro che tenere in modo i sudditi, che
non ti possano o debbano offendere. Questo si fa o con assi-
curarsene in tutto, togliendo loro ogni via da nuocerti; o
con beneficargli in modo, che non sia ragionevole ch'eglino
abbino a desiderare di mutar fortuna. Il che lutto si com-
prende, e prima per la proposta di Cammillo, e poi per il
giudizio dato 'dd Senato sopra quella. Le parole sue furono
queste : Dii immorlales ita voi polenles hujui conùlii feceruni,
u( tii Lalium, an non tit , in veslra manu posuerinL Ilaqui
pacem vobts, quod ad Lalinoi allinei, parare in perpeluum, tei
sctviendo , vel ignoicendo pnleslis. Vullit crudeliler connuìere
in dedilos, victosque? licei delere omne Lalium. Vullis, esemplo
majorum, ampere rem romarmm, viclos in civilalem accij.irndo?
materia crtteendi per summam gloriam suppedital. Certe id
firmissimum imperium est, quo obedienles gaudenl. lUorum
igilur animot, dum expeciaUone slupenl, teu pana, seu bene-
LIBRO SECONDO. ^8l
fido prcEoccupari oporlet. A questa proposfa successe la deli
berazione del Sanalo: la quale fu, secondo le parole del Con-
solo,che recatosi innanzi, terra per terra, tulli quelli eh* erano
di momento, o gli beneficarono o gli spensono; facendo ai
beneficati esenzioni, privilegi, donando loro la città, e da
ogni parte assicurandogli; di quelli altri disfecero le terre j
raandaronvi colonie, ridussongli in Roma, dissiparongli tal-
mente che con l'arme e con il consiglio non potevano più nuo-
cere. Né usorno mai la via neutrale in quelli, come ho detto,
di momento. Questo giudizio debbono i princìpi imitare. A
questo dovevano accostarsi i Fiorentini, quando nel 1502 si
ribellò Arezzo, e tutta la Val di Chiana: il che se avessino fat-
to, arebbero assicurato l'imperio loro, e fatta grandissima la
città di Firenze, e datogli quelli campi che per vivere gli
mancano. * Ma loro usarono quella via del mezzo, la quale
è perniziosissima nel giudicare gli uomini ; e parie degli
Aretini ne conflnarono, parte ne condennarono; a tutti tol-
sono gli onori e gli loro antichi gradi nella città; e lasciarono
la città intera. £se alcuno cittadino nelle diliberazioni consi-
gliava che Arezzo si disfacesse ; a quelli che pareva esser
più savi, dicevano come sarebbe poco onore della repubblica
disfarla, perchè parrebbe che Firenze mancasse di forze di
tenerla. Le quali ragioni sono di quelle che paiono e non
sono vere; perchè con questa medesima ragione non si
arebbe ad ammazzare uno parricida, uno scellerato e scan-
daloso, sendo vergogna di quel principe mostrare di non aver
forze da poter frenare uno uomo solo. E non veggono questi
tali che hanno simili oppinioni, come gli uomini particolar-
mente, ed una città tutta insieme pecca talvolta contra ad
uno slato, che per esempio agli altri, per sicurtà di sé, non
ha altro rimedio un principe che spengerla. E l'onore con-
siste nel sapere e potere castigarla; non nel polere con mille
pericoli tenerla: perchè quel principe che non castiga chi
erra, in modo che non possa più errare, è tenuto o ignoranta
o vile. Questo giudizio che i Romani dettero, quanto sia neces-
sario si conferma ancora per la sentenza che dettero de' Pri- *
* Male nelle edizioni del Poggiali e del ISlJi: gli mancavano. Inlcndé
ognuno da che avesse origine <][uesta arbitraria correzione.
24' •
282 DEI DISCORSI
vernati. Dove «i debbe, per il (eslo dì Livio, notare dno coso:
runa, quello che di Mpra^i dice, che i sudditi si dehhono o
bcncGcare o spensere: TaUra, quanto la senorosilà deir^ni-
mo, quanto il parlare il vero cìovi, quando o-li è dello nel
con»pello desìi uomini prudenti. Era racnnalo il Sonalo ro-
mano per siodicare de' Pri vernati, i quali sondosi rilicllnli,
erano di poi per fona ritornali sotto la obhtdienza mtnnnn.
Erano mandati dal popolo di Priverno molli cittadini per
impetrare perdono dal Senato; ed essendo venuti al con-
spello di quello, fa dello ad un di loro da un do' Sonatori,
^iiaai pantam meritot Prirtruaiet cemertL Al quale il Pri-
vernale rispose: Eam, quttm merentur qui m liberiali dignnx
emamf. Al quale il Consolo replicò: Quid ii pm*>'>
mut robU , qualem noi ptetm tvbiicum hmòitumt
A che quello rispose : Sé binmm dfderitis, el fid^lrm ei perpc-
tuam ; ii mdam, haué éiuturmam. Donde la più savia parte del
SeOTto, ancora che nolli te ■*allenissino, disse : a mmdiriur
rocem el Ubtri «C wiri ; nte credi poite iUum poputmm, a^ '
minem, denéqmt in ea eondiùnne cujmi emm paniieal, ti-
quam meeem tit , mansurum. Ibi paeem e»te fidam , %tìn re
luwarii paceiti tinU naqìu «o loco ubi serriiulem etse velini.
(idem iperundam €ut. Ed in ta %w»le parole, deliberorno
che i Privernati fositro cittadini romani, e de'prìvilegi dell.i
civilità rIì onorarono, dicendo: fo« demum qui nihil praler-
quam de liberiate cogilant, dijnot tue, qui Romani finnl. Tanto
piacque agli animi generosi questa vera e generosa rispeala :
perchè ogni altra risposta sarebbe stala bugiarda e vile. K
coloro che credono desìi nomini altrimenti, maaaimodi quelli
che aono osi o ad essere o a parere loro oMere liberi, ie n' in-
gannano; e aolto questo inganno pigliano partiti non boom por
sé, e da non aatisfare a loro. Di che nascono le spesse ribel-
lioni, e le rovine degli slati. Ila per tornare al discorso no<.iro ,
conchiodo, e per questo e per quello siudizio dato dai Latini]
quando si ha a giudicare cittadi potenti, e che sono oi
vivere libere, conviene o spesnerle o carezzarle; altrimenti,
ogni giudizio è vano. E debbesi fuggir al tutto la via del
mezzo, la quale è pemizìosa, come lo fu a' Sanniti qiiandt
avevano rinchiuso i Romani alle forche Caudine; quando noa
LIBRO SECONDO. 283
volleno * segoire il parere di quel vecchio, che consigliò che i
Romani si lasciassero andare onorali, o che s'ammazzassero
tutti ; ma pigliando una via di mezzo disitrmandogli e metten-
dogli sotto ii gioqo, gli lasciarono andare pieni d'ignominia
e di sdegno. Talché poco dipoi conobbero con lor danno la
sentenza di quel vecchio essere stata utile, e la loro dili-
berazione dannosa ; come nel suo luogo più appieno si dis-
correrà.
Cap. XXIV. — Le fortezze generalmente sono molto
più dannose che utili.
Parrà forse a questi savi *de*nostri tempi cosa non bene
considerata, che i Romani nel volere assicurarsi dei popoli di
Lazio e della città di Priverno, non pensassino di edificarvi
qualche fortezza, la qual fusse un freno a tenergli in fede;
sondo, massime, un detto in Firenze, allegato da' nostri savi,
che Pisa e l'altre simili città si debbono tenere con le for-
tezze. E veramente, se i Romani fussino stati fatti come loro,
egli arebbero pensato di edificarle ; ma perchè egli erano
d'altra virtù, d'altro giudizio, d'altra potenza, e* non le edi-
ficarono. E mentre che Roma visse libera, e che la segui gli
ordini suoi e le sue virtuose constituzioni, mai n'edificò per
tenere o città o provincie; ma salvò bene alcune delle edifi-
cale. Donde veduto il modo del procedere de' Romani in
questa parie, e quello de' principi de' nostri tempi, mi pare
da mettere in considerazione, se gli è bene edificare fortezze,
se le fanno danno o utile a quello che l'edifica. Debbesi ,
adunque , considerare come le fortezze si fanno o per di-
fendersi da' nimici, o per difendersi da' soggetti. Nel primo
caso le non sono necessarie; nel secondo dannose. E comin-
ciando a render ragione perchè nel secondo caso le siano
dannose, dico che quel principe o quella repubblica che ha
paura de' suoi sudditi e della ribellione loro, prima conviene
che tal paura nasca da odio che abbiano i suoi sudditi seco;
l'odio, da' mali suoi portamenti; i mali portamenti nascono
* Cosi ancora nella Testina.
? Nella edizione del Poggiali , non so il perchè: a questi dotti.
làS-i DEI DISCORSI
o da poler credere (ener<?Ii con forza, o da poca prudenza di
chi gli governa : ed una delle cose che fa credere potergli
forzare, è l'avere loro addosso le fortezze; perchè i mali Iral-
tamenli, che sono cagione dell'odio, nascono in buona parte
per avere quel principe, o quella repubblica, le fortezze: le
quali, quando sia vero questo, di gran lunga sono più nocive
che utili Perchè in prima, come è detto, le ti fanno essere più
audace e più violento nei sudditi; dipoi, non ci è quella sicurtà
che lo (i |)er8uadi: perchè tutte le forze, tutte le violenze che si
usano per tenere un popolo, sono nulla eccetto che due; o che
tu abbia sempre da mettere in campagna un buono esercito,
come avevano i Romani; o che gli dissipi, spenga, disordini,
disgiunga, in modo che non possine convenire ad ofTenderli.
Perchè se tu gì' impoverisci, spolialit arma tupersunl: se tu
gli disarmi, furor arma mini$lral: se tu ammazzi i capi, e
gli altri segui d'ingiuriare, rinascono i capi, come quelli del-
l'idra: se tu fai le fortezze, le sono utili ne' tempi di pace,
perchè ti danno più animo a far loro male; ma ne' tempi di
guerra sono inutilissime, perchè le sono assaltate dal nimico
e da'sudditi, né è possibile che le faccino resistenza ed all' uno
ed all'altro. E se mai furono disutili, sono ne' tempi nostri
rispetto alle artiglierie; per il furore delle quali i luoghi pic-
coli, e dove altri non si possa ritirare con li ripari, è impos-
sibile difendere, come di sopra discorremmo. Io voglio questa
materia disputarla più tritamente. 0 tu principe, vuoi con que-
ste fortezze tenere in freno il popolo della tua città; o tu prin-
cipe, 0 tu repubblica, vuoi frenare una città occupata per guer-
ra. Io mi voglio voltare al principe, e gli dico: che tal fortezza
per tenere in freno i suoi cittadini non può essere più inutile
di quello ch'ella è, per le cagioni dette dì sopra; perchè la ti
fa più pronto e men rispettivo ad oppressargli ; e quella
oppressione gli fa sì esposti alla tua rovina, e gli accende in
modo, che quella fortezza che ne è cagione, non ti può poi
difendere. Tanto che un principe savio e buono, per mante-
nersi buono, per non dare cagione né ardire a' figliuoli di
diventare tristi, mai non farà fortezza, acciocché quelli non
in su le fortezze , ma in su la benivolenza degli uomini si
fondino. E se il conte Francesco Sforza, diventato duca di
LIBRO SECONDO. 285
Milano, fu riputato savio, e nondimeno fece in Milano una
fortezza ; dico che in questo caso ei non fu savio, e l'effetto
ha dimostro, come tal fortezza fu a danno, e non a sicurtà
de'suoi eredi. Perchè giudicando mediante quella viver sicuri;
e potere offendere gli cittadini e sudditi loro, non perdonarono
ad alcuna generazione di violenza; talché diventali sopra
modo odiosi, perderono quello slato come prima il nimico gli
assaltò: né quella fortezza gli difese, né fece loro nella guerra
utile alcuno, e nella pace avea loro fatto danno assai. Per-
ché se non avessino avuto quella, e se per poca prudenza
avessino maneggiati agramente i loro cittadini , arebbero
scoperto il pericolo più presto, e sarebbonsene ritirali; ed
arebbero poi potuto più animosamente resistere all'impeto
francioso co' sudditi amici senza fortezza, che con quelli inSK
mici con la fortezza: le quali non ti giovano in alcuna parte;
perchè, o le si perdono per fraudo di chi le guardar, o per
violenza di chi l' assalta, o per fame. E se tu vuoi che le li
giovino, e ti aiutino a ricuperare uno stato perduto, dove ti
sia solo rimase la fortezza; ti conviene avere uno esercito, con
il quale tu possa assaltare colui che t'ha cacciato: e quando
tu abbia questo. esercito, tu rìaresti lo stato in ogni modo,
eziandio che la fortezza non vi fusse; e tanto più facilmente,
quanto gli uomini ti lussino più amici che non ti erano aven-
dogli mal trattali per l' orgoglio della fortezza. £ per ispe-
rienza s'è visto, come questa fortezza di Milano, né agli Sfor-
zeschi né a'Franciosi, ne'terapi avversi dell'uno e dell'altro,
non ha fatto a alcuno di loro utile alcuno; anzr a tutti ha
recato danni e rovine assai, non avendo pensato mediante
quella a più onesto modo di tenere quello stato. Guido Ubaldo
duca di Urbino, figliuolo di Federigo, che fu ne' suoi tempi
tanto stimato capitano, sondo cacciato da Cesare Borgia, fi-
gliuolo di papa Alessandro VI, dello slato; come dipoi, per uno
accidente nato, vi ritornò, fece rovinare tutte le fortezze che
erano in quella provincia, giudicandole dannose. Perché,
sendo quello amalo dagli uomini, per rispetto di loro non le
voleva; e per conto de'nimici, vedeva non !e poter difen-
dere, avendo quelle bisogno d'uno esercito in campagna,
che le difendesse : talché si volse a rovinarle. Papa lulio,
286 DEI DISCORSI
cacciati i Bentivoeli di Bologna, fece in quella città una for-
tezza; e dipoi faceva assnssinare quel popolo da un suo go-
vernatore : talché quel popolo si ribellò, e subilo perde la
fortezza; e così non gli giovò la fortezza e T offese, intanto
che portandosi altrimenti, gli arebk>e giovato. Niccolò da Ca-
stello, padre de* Vitelli, tornato nella sua patria donde era
esule, subito disfece due fortezze vi aveva edifìcale papa
Sisto IV, gia<licando, non la Tortezza, ma la benivolenza del
popolo l'avesse a tenere io quello stato. Ma di tutti gli altri
esaempi il più fresco, il più notabile in osni parte, ed atto a
mostrare la inutilità dello edificarle e l'utilità del disfarle, ò
quello di Genova, seguito ne' prossimi tempi. Ciascuno sa
come, nel 1507, Genova si ribellò da Luigi \ll re di Francia,
il qoale venne personalmente e con tutte le forze sue a rac-
qoistarla; e ricuperata che l'ebbe, fece una fortezza, fortis-
sima di tutte l'altre delle quali al presente si avesse notizia:
perchè era per sito e per ogni altra circonstanza inespugnabi-
le, posta in so ona ponta di colle che si distende nel mare,
chiamalo dai Genovesi Codefa; e per que>to batteva tutto il
porlo, e gran parte della terra di Genova. Occorse poi, nel
1512, che sendo cacciale le aenli franciose d'Iialia, Genova,
iionoatanle la fortezza, si ribellò; e pre«e lo stato di quella Ot-
taviano Pregoso, il quale con ogni industria, in termine di
sedici mesi, per fame la espugnò. E ciascuno credeva e da
molti n' era consigliato, che la conservasse per suo rifugio in
ogni accidente; ma esso, come prudentissimo, conoscendo che
non le fortezze, ma la volontà denti uomini mantenevano i
principi in slato, la rovinò. E cosi, sen/.a fondare lo slato suo
In su la fortezza, ma in su la virtù e prudenza sua, lo ha te-
noto e tiene. E dove a variare lo sialo di Genova solevano
bastare mille fanti, gli avversari suoi 1' hanno assaltato con
diecimila, e non l'hanno potuto oflendere. Vedesi adunque per
questo, come il disfare la fortezza non ha offeso Ottaviano, ed
il farla non difese il re di Francia. Perché, quando e'fmtelte
venire in Italia con l' esercito, e' potette ricuperare Genova,
non vi avendo fortezza; ma quando e' non palette venire in
Italia con l'esercito, e' non poteite tenere Genova, avendovi
la fortezza. Fu, adunque, di spesa ai re il farla, e vergognoso
LIBKO SECONDO. ' 287
il perderla; a Oltaviano glorioso il racquìslarìa, ed utile il
rovinarla. Ma vegnamo alle repubbliche che fanno le fortezze
non nella patria, ma nelle terre che le aoquislano Ed a mo-
strare questa fallacia, quando e' non bastasse l'essenapio detto
di Francia e di Genova, voglio mi basti Firenze e Pisa: dove
i Fiorentini fecero le fortezze per tenere quella città; e non
conobbero che una città stata sempre inimica del nome Go-
rentino, vissuta libera, e che ha alla ribellione per rifugio la
libertà, era necessario, volendola tenere, osservare il modo
romano ; o farsela compagna, o disfarla. Perchè la virtù delle
fortezze si vidde nella venuta del re Carlo: al quale si dettone
o per poca fede di chi le guardava, o per timore di maggior
male : dove, se le non fussino state, i Fiorentini non arebbero
fondato il potere tenere Pisa sopra quelle, e quel re non areb-
be potuto per quella via privare i Fiorentini di quella città;
e gli modi con li quali si fussi mantenuta fino a quel tempo,
sarebbero slati per avventura sufTìcienti a conservarla, *e senza
dubbio non arebbero fallo più cattiva pruova che le fortezze.
Conchiudo dunque, che per tenere la patria propria, la for-
tezza è dannosa; per tenere le terre che si acquistano, le for-
tezze sono inutili: e voglio mi basti l'autorità de' Romani, i
quali nelle terre che volevano tenere con violenza, smurava-
no, e non muravano. E chi contra quesla oppinione n'allegassi
negli antichi tempi Taranto, e ne' moderni Brescia, i quali
luoghi mediante le fortezze furono ricuperati dalla ribellione
dei sudditi; ris()ondo che alla ricuperazione diTaranlo, in capo
d'uno anno, fu mandato Fabio Massimo con tulio Io esercito,
il quale sarebbe stato alto a ricuperarlo eziandio se non vi
fusse statarla fortezza; e se Fabio usò quella via, quando la
non vi fusse slata, n'arebbe usata un' altra, che arebbe fallo
il medesimo tffetlo. Ed io non so di che utilità sia una for-
tezza che. a renderti la terra, abbia bisogno, per la ricupera-
zione d' essa, d' uno esercito consolare, e d' un Fabio Massimo
per capilano. E che i Romani l'avessino ripresa in ogni mo-
do, si vide per l'esserapio di Capova;dove non era fortezza,
e per virtù dello esercito la riacquistarono. Ma vegnamo a
Brescia. Dico, come rade volle occorre quello che è occorso
* La Bladiana:*«^cienW conservarla.
288 DEI DISCORSI
in qoella ribellione, che la forfeiia che rimane nelle forze
Ine, sendo rìheilala la lerra, abbia uno esercilo grosso e pro-
pinquo, com'era qael de' Franciosi: perchè, essendo monsi-
gnor di Fois, capitano del re, con Tesercilo a Bologna, intesa
la perdila di Brescia, senza dilTerire ne andò a quella volln,
ed in Ire giorni arrivalo a Brescia , per la fortezza riebbe la
terra. Ebbe, pertanto, ancora la fortezza di Brescia, a vojere
che la giovasse, bisogno d'un monsignor di Fois, e d'un osor-
eilo francioso che in Ire di la soccorreste. Si che ressom|>ìn
di qaeslo, all'incontro deali esscmpi contrari, non basta: |>er-
chè-MMi fortezze sono slate, nelle guerre de' nostri tempi,
prete e riprese con la medesima fortuna che si è ripresa e
preM la campagna, non solamente in Lombardia* ma in Ro-
maina, nel regno dì Napoli, e per lolle le parli d'Italia. Ma,
quanto allo edilìcar fortezze per difendersi da'nimici di fuo*
ra, dico che le non sono necessarie a quelli popoli né a
quelli roani che hanno buoni eserciti ; ed a quelli che non
hanno buoni eserciti, anno inutili: perchè i Suoni eserciti
genia le fortezze tono soIDcienli a difenderti ; le fortezze
aeoià i buoni eserciti non ti possono difendere. E questo si
ve4e per isfierienza di quelli che sono slati e nei goYerni
e nell'altre cose tenuti eccellenti ; come si vede dei Romani
e degli Spartani: che se ì Romani non edificavano fortezze,
gli Spartani non solamente si astenevano da quelle, ma non
permettevano d'aver mora alla loro città; perchè volevano
che la virtù dell'uomo |>articolare, non altro difensivo, gli
difendesse. Dondeché, essendo domandalo uno Sparlano da
ano Ateniese, se le mura d' Atene gli parevano t>elle, gli
rispose: Si, se le fussino abitate da donne. Quel principe,
adunque, che abbi buoni eserciti, quando in sulle marine
alla fronte dello 'stato suo abbia qualche fortezza che poast
qealche di sostenere !• inimico infino che sia a ordine, sa-
rebbe qualche volta cosa utile, ma la non è necessaria. Ma
quando il principe non ha buono esercito, avere le fortezze
per il sao stalo, o alle frontiere, gli sono o dannose o inu-
tili: dannose, perchè facilmente le perde, e perdute gli fan-
no guerra; o se por le fussino si forti che 'I nimico non
le potesse occupare, sono lasciate indietro dallo esercito ni<
LIBRO SECONDO. 289
mico, e vensono ad essere di nessuno fruito; perchè i buoni
eserciti, quando non hanno gagliardissimo riscontro, entra-
no ne'paesi niraici senza rispetto di città o di fortezza che
si lascino indietro; come si vede nelle antiche istorie, e come
si vede fece Francesco Maria, il quale ne' prossimi tempi
per assaltare Urbino si lasciò indietro dieci città niraiche,
senza alcuno rispetto. Quel principe, adunque, che può
fare buono esercito, può fare senza edificare fortezza; quello
che non ha l'esercito buono, non debbe edificare. Debbe
bene afforzare la città dove abita, e tenerla munita, e ben
d sposti i cittadini di quella, per poter sostenere tanto un im-
peto nimico, 0 che accordo, o che aiuto esterno lo liberi. Tutti
gli altri disegni sono di spesa ne' tempi di pace, ed inutili
ne' tempi di guerra. E così, chi considererà tutlo quello ho
detto, conoscerà i Romani, come savi in ogni altro loro or-
dine, cosi furono prudenti in questo giudizio dei Latini e
de'Privernati; dove, non pensando a fortezze, con più vir»
tuosi modi e più savi se ne assicurarono.
Gap. XXV. — Che lo assaltare una cillà disunila , per occu-
parla mediante la sua disunione ^ è parlilo contrario.
Era tanta disunione nella Repubblica romana intra la
Plebe e la Nobiltà, che i Veienti insieme con gli Etrusci, me-
diante tale disunione, pensarono potere estinguere il nome
romano. Ed avendo fatto esercito, e corso sopra i campi di
Roma, mandò il Senato loro contra Gn. Manlio e M. Fabio;
ì quali avendo condotto il loro esercito propinquo allo eser-
cito de' Veienti, non cessavano i Veienti, e con assalti e
con obbrobri, offendere e vituperare il nome romano: e fa
tanta la loro temerità ed insolenza, che i Romani di disu-
niti diventarono uniti; e venendo alla zuffa, gli ruppono
vinsono. Vedesi pertanto, quanto gli uomini s' iniiannano,
come di sopra discorremmo, nel pisliare de' partiti; e come
molle volte credono guadagnare una cosa, e la perdono.
Credettono i Veienti assaltando i Romani disuniti, vincergli;
e quello assalto fu casione della unione di quelli, e della
rovina loro. Perchè la cagione della disunione delle repub-
25
290 DEI DISCORSI
bliche il più delle volte è l'ozio e la pace: la casione della
unione è la paura e la guerra. E però, se i Veienli fussino
stati savi, eglino arebbono quanto più disunita vedevano
Roma, tanto più tenuta da loro la guerra discosto, e con
l'arti della pace cerco d'oppressargli. Il modo è cercare di
diventare confidente di quella città eh* è disunita; ed infìno
che non vengono all'arme, come arbitro, maneggiarsi intra
le parti. Venendo all'arme, dare lenti favori alla parte più
debole; si per tenergli più in su la guerra, e fargli consu-
mare; sì perchè le assai forze non gii facessero tutti du-
bitare che tu volessi opprimergli, e diventar loro principe.
E quando questa parte è governata bene, interverrà quasi
sempre che l'ara quel Gne che tu hai presupposto. La città
di Pistoia, come in altro discorso e ad altro proposilo dissi,
non venne alla Repubblica di Firenze con altra arte che
con questa; (>erchè, sendo quella divisa, e favorendo i Fio-
rentini or r una parte or l'altra, senza carico dell'una e
dell'altra, la condussono in termine, che, stracca di quel
suo vivere tumultuoso, venne spontaneamente a gittarsi nelle
braccia di Firenze. La città di Siena non ha mai mutato
slato col favore de' Fiorentini, se non quando i favori sono
stati deboli e pochi. Perché, quando e'sono stati assai e ga-
gliardi, hanno fatto quella città unita alla difesa di quello
stato che regge. Io voglio aggiungere ai soprascritti un altro
esscmpio. Filippo Visconti, duca di Milano, più volte mosse
guerra ai Fiorentini, fondatosi sopra le disunioni loro, e
sempre ne rimase perdente; talché gli ebbe a dire, dolen-
dosi delle sue imprese, come le pazzie de'Fiorentini gli ave-
vano fatto spendere inutilmente due milioni d'oro. Restaro-
no, adunque, come di sopra si dice, ingannati i Veleni i e gli
Toscani da questa oppinione, e furono alfine in una giornata
superati dai Romani. E cosi per lo avvenire ne resterà in-
gannato qualunque per simile via e per simile cagione ere-
derà oppressare un popolo.
LIBRO SECONDO.
S9!
Cap. XXVI. — Il vilipendio e V improperio genera odiojconlra
a coloro che V usano, senza alcuna loro uUlità.
Io credo che sia una delle grandi prudenze che usino gli
uomini, astenersi o dal minacciare, o dallo ingiuriare alcuno
con le parole : perchè V una cosa e 1* altra non tolgono forze
al nimico; ma l'una lo fa più cauto; l' altra gli fa avere mag-
giore odio contra di te, e pensare con maggiore industria di
offenderti. Vedesi questo pèrle essempio de*Veienti, de' quali
nel capitolo superiore si è discorso ; i quali alla ingiuria della
guerra aggiunsono, contra ai Romani, l'obbrobrio delle
parole: dal quale ogni capitano prudente debbe fare astenere
i suoi soldati; perchè le son cose che infiammano ed accen-
dono il nimico alla vendetta, ed in nessuna parte lo impedi-
scono, come è detto, alla offesa; tanto che le sono tutte
arme che vengono contra a te. Di che ne seguì già uno
essempio notabile in Asia : dove Gabade, capitano de' Persi,
essendo stato a campo ad Amida più tempo, ed avendo di-
liberato, stracco dal tedio della ossidione, partirsi; levandosi
già col campo, quelli della terra venuti tutti in su le mura,
insuperbiti della vittoria, non perdonarono a nessuna qualità
d' ingiuria, vituperando, accusando, rimproverando la viltà e
la poltroneria del nimico. Da che Gabade irritato, mutò consi-
glio; e ritornato alla ossidione, tanta fu la indegnazione della
ingiuria, che in pochi giorni gli prese e saccheggiò. E questo
medesimo intervenne a' Veienti : a' quali, com'è detto, non
bastando il far guerra a' Romani, ancora con le parole gli
vituperarono; ed andando infino in su lo steccato del campo a
dir loro ingiuria, gl'irritarono molto più con le parole che con
r arme : e quelli soldati che prima combattevano mal volentie-
ri, costrinsero i Consoli ad appiccare la zuffa; talché i Veienti
portarono la pena, come gli antedelti, della contumacia loro.
Hanno adunque i buoni principi di esercito, ed i buoni go-
vernatori di repubblica, a far ogni opportuno rimedio, che
queste ingiurie e rimproveri non si usino o nella città o
nello esercito suo, né infra loro, né contra al nimico: perchè
usali contra al nimico, ne nascono gli inconvenienti sopra-
292 DEI DISCORSI
scrini; infra loro, farebbono peggio non vi si riparando, come
vi hanno * sempre gli oomini prudenti riparato. Avendo le
legioni romane stale lasciate a Capova congiorala c*olra a*
Capovani, come nel suo luoso si narrerà : ed esMndone di
qoe<»la congiara naia una sediiione, la quale fu poi da Vale-
n9 Cervino quietala ; intra * all'altre cooalitutìoaì che nella
CMVtntione si fecero, ordinarono pen« gravittiae • eoloro
che improverassino mai ad alcun di qnpili soldati tale aedi-
lione. Tiberio Gracco fatto, nella suorra di Annibale, capitano
sopra certo numero di serri che i Romani, per carestia d* uo-
mini , avevano armati : ordinò, intra le prime cose, pena capi-
tale a qualunque rimproverasse la servitù di alcano di loro.
Tanto fu slimato dai Romani, come di sopra s*è dello, rosa
dannosa il vilipendere sii uomini, ed il rimproverare loro
altana vergogna ; perché non è cosa che accenda tanto sii
animi loro, né seneri Bagfiorc sdegno, o da vero • da beffo
che ai dica: Kam fàtttim tuiperm, ^mm^b mimUm m mro
f, flcrfm tui wiemormm rtlimqumnL
Càr. IIVII. -^ Ai rrineiffi « rrpuhblichi prudenU Mot htt-
tlmn vénetn; ptrcàé U pia étlU voUe qmmio mm ktMi, ti
Lo osare parole contra al nimico poco onorevoli, nasce
il pia delle volte da una infirma che ti dà o la vittoria o
la falsa speranta della vittoria ; la quale falsa speranta fa ali
nomini non solamente errare nel dire, ma ancora nello
operare. Perché •qoeela tperania, quando la entra ne' pelli
desìi oomini, fa loro potaare il sesno; e perdere il più delle
volte quella occasione d' avere on bene certo , sfierando
d'avere on mastio incerto. E perché questo é on termine
che merita consideraxione, insannandocisi dentro gli uomini
molto spesso, e con danno dello stato loro ; e' mi pare da di-
delitfS.^
parUu mh tcriua fm
LlBtlO SECONDO. 203
mostrarlo particolarmente con essempi antichi e moderni,
non si potendo con le ragioni così distintamente dimostrare.
Annibale, poi ch'egli ebbe rotti i Romani a Canne, mandò
suoi oratori a Cartagine a significare la vittoria, e chiedere
sussidi. Disputossi nel senato di quello s' avesse a fare. Con-
sigliava Annone, un vecchio e prudente cittadino cartagi-
nese, che si usasse questa vittoria saviamente in far pace
coi Romani, polendola avere con condizioni oneste avendo
vinto; e non s'aspettasse d'averla a fare dopo la perdita:
perchè la intenzione de' Cartaginesi doveva essere, mostrare
ai Romani come e' bastavano a combattergli; ed avendosene
avuto vittoria, non si cercasse di perderla per la speranza
d'una maggiore. Non fu preso questo parlilo; ma fu bene poi
dal senato cartaginese conosciuto savio, quando l'occasione
fu perduta. Avendo Alessandro Magno già preso lutto l'orien-
te, la repubblica di Tiro, nobile in quelli tempi e potente
per avere la loro città in acqua come i Veniziani, veduta la
grandezza d'Alessandro, gli mandarono oratori a dirgli, co-
me volevano essere suoi buoni servitori e dargli quella ub-
bidienza voleva, ma che non erano già per accettare né lui
né le sue genti nella terra; donde sdegnato Alessandro che
una città gli volesse chiudere quelle porte che tutto il mondo
gli aveva aperte, gli ributtò, e non accettate le condizioni
loro, vi mandò a campo. Era la terra in acqua, e benissimo
di vettovaglie e d'altre munizioni necessarie alla difesa mu-
nita: tanto che Alessandro dopo quattro mesi s'avvide, che
una città gli toglieva quel lempo alla sua gloria che non gli
avevano tolti molti altri acquisti ; e diliberò di tentare 1' ac-
cordo, e concedere loro quello che per loro medesimi ave-
vano domandato. Ma quelli di Tiro insuperbiti, non sola-
mente non volsero accettare l'accordo, ma amm jzzarono chi
venne a praticarlo. Di che Alessandro sdegnato, con tanla
forza si mise alla espugnazione, che la prese e disfece, ed
ammazzò e fece schiavi gli uomini. Venne, nel 1312, uno eser-
cito spagnuolo in su '1 dominio fiorentino per rimettere i
Medici in Firenze, e taslìeggiare la città, condotti da* cittadi-
ni d'entro,* i quale avevano dato loro speranza, che subilo fus-
* Tutte le edizioni hanno dentro s ma qui è certo da intendersi di quei
25'
^ù
DEI DISCORSI
sero in sa *ì dominio fiorentino, piglierebbono l'arme in loro
favore; ed essendo entrali nel piano, e non si scoprendo al-
cano, ed avendo carestia di vettovaglie, tentarono raccordo:
di che insuperbito il popolo di Firenze, non lo accettò ; donde
ne nacque la perdila di Prato, e la rovina di quello slato. Non
possono, pertanto, i principi che sono assaltali Tar il roag8Ìorc
errore, quando 1* assalto é fatto da uomini di gran lunga più
potenti di loro, che ricusare ogni accordo, massime quando
gli è otTerto: perchè non sarà mai otTcrto si basso, che non
vi sia dentro in qualche parte il bene essere di colui che lo
accetta, e ti sarà parte della sua vittoria. Perchè e* doveva
bastare al popolo di Tiro, che Alessandro accettasse quelle
condizioni che egli aveva prima rifiutate: ed era assai vittoria
la loro,quando con Tarmi in mano avevano fatto condescendere
un tanto uomo alla voglia loro. Doveva bastare ancora al popolo
fiorentino, e gli era assai vittoria, se lo esercito spagnuolo
cedeva a qualcuna dejle voglie di quello, e le sue non adem-
pieva tutte: perchè la intenzione di quello esercilo era molare
lo slato in Firenze, e levarlo dalla devozione di Francia, e
trarre da luì danari. Quando di Ire cose e' ne avesse avute
due, che aon I* ultime; ed al popolo ne fosse restala una,
che era la conservazione dello stalo suo ; ci aveva dentro
ciascano qualche onore e qualche satisfazione: né si doveva
il popolo curare delle due cose, rimanendo vivo; né doveva,
quando bene egli avesse veduta maggiore vittoria, e quasi
certa, voler mettere quella in alcuna parte a discrezione
della fortuna, andandone l'ultima posta sua: la quale qua-
lunque prudente mai arrischierà se non necessitato. Annibale
partito d' Italia, dove era slato sedici anni glorioso, richia-
mato da' suoi Cartaginesi a soccorrere la patria, trovò rotto
Asdnibale e Siface; trovò perduto 11 regno di Nomidia ; ri-
stretta Cartagine intra i termini delle sue mura, alla quale
non restava altro rifugio, che esso e l'esercito suo : e cono-
scendo come quella era l'ultima posta della sua patria, non
volle prima metterla a rischio, ch'egli ebbe tentalo ogni al-
ciiudioi ^t udbt ietOxm «Ih dttk eraao paniali dei Medici; ia coatnppo»(a
ed «sgiunu ai loro Mgaici e perdo foonucitL
LlfeRO SECONDO. ^98
Irò rimedio; e non si vergognò di domandare la pace, giu-
dicando se alcuno rimedio aveva la sua pàtria, era in quella,
e non nella guerra: quale sendogli poi negata, non volle
mancare, dovendo perdere, di combattere; giudicando potere
pur vincere; o perdendo, perdere gloriosamente. E se Anni-
bale, il quale era tanto virtuoso ed aveva il suo esercito
intero, cercò prima la pace che la zuffa, quando ei vide che
perdendo quella, la sua patria diveniva serva; che debbe
fare un altro di manco virtù e di manco isperienza di lui?
Ma gli uomini fanno questo errore: che non sanno porre
termini alle speranze loro, ed in su quelle fondandosi, senza
misurarsi altrimenti, rovinano.
Gap. XXVIII. — Quanto sia pericoloso ad una repubblica o ad
uno principe non vendicare una ingiuria falla conlra al
pubblico, 0 conlra al privato.
Quello che facciano fare agli uomini gli sdegni, facil-
m8nte si conosce per quello che avvenne ai Romani, quando
e' mandarono i tre Fabì oratori ai Franciosi, che erano venuti
ad assaltare la Toscana, ed in particolare Chiusi. Perchè
avendo mandato il popolo di Chiusi per aiuto a Roma, i Ro-
mani mandarono ambasciadori a' Franciosi, che in nome del
Popolo romano significassero a quelli, si astenessino di far
guerra ai Toscani. I quali oratori, sendo in su '1 luogo, e
più atti a fare che a dire, venendo i Franciosi e i Toscani
alla zuffa, si misero intra i primi a combattere centra a quelli:
onde ne nacque che essendo conosciuti da loro, tutto Io sde-
gno che avevano centra a' Toscani, volsero centra ai Roma-
ni. 11 quale sdegno diventò maggiore, perchè avendo i Fran-
ciosi per loro ambasciatori fatto querela con il Senato ro-
mano di tale ingiuria, e domandalo che in satisfazione del
danno fussino dati loro i soprascritti Fabi; non solamenle
non furono consegnati loro, o in altro modo castigati; ma
venendo i comizi , furono fatti Tribuni con potestà conso-
lare. Talché, veggendo i Franciosi quelli onorati che dovevano
esser puniti, ripresone tutto esser fatto in loro dispregio ed
ignominia; ed accesi d*ira e di sdegno, vennero ad assaltare
. '• DEI DISCORSI
Roma, e qoella presero, eccello il Campidoglio. La quale
rovina nacque a' Romani solo per la inosservanza delln gin-
stizia; perchè avendo peccalo i loro ambasciatori ' eonira jux
genlium, e dovendo esser gaslisati, forono onorali. Però è
da considerare quanto 08 ni repubblica ed ogni principe debbo
tenere conto di fare simile ingiuria, non solamente conlra
ad una ani>crsalilà, ma ancora contra ad uno particolare.
Perchè, se ano uomo è offeso grandemente o dal pubblico o
dal privato, e noo sia vendicato secondo la salisfaiioiit sm;
se e* vive in una repubblica, cerca ancora con la rovina di
quella vendicarsi; se e' vive tolto un principe, ed abbia in
sé alcuna generosità, non si acquieta mai, in fino che in
qualunque modo si vendichi conlra di lui, ancora che etili vi
^i^redesse dentro il tuo propìo male. Per verificare questo,
non ci è il più bello né il più vero essempio che quello di
Filippo di Macedonia, padre di Alessandro. Aveva costui in
la ma carta Paotania, siovine bollo e nobile, del quale era
toMMorala Aliala, ano de* primi «lomini che foase pratao a
Filippo; ed avendolo più volle ricerco che doveaaa cooaaiilir-
gli, e trovandolo alieno da simili cote, deliberò di avara con
inganno e per forza quello che per altro verso vedeva non
polare avere. * £ fatto un solenaa oaavila, sai
nia e Bolli altri nobili baroni convaiiiiera,faee,|
fa pieno di vivande e di vino, prendere Pausania; e condot-
tolo allo stretto, non aotemeate per fona sfogò la saa Ubidi-
ne, ma ancora, per magfiece ignominia. Io fece da aialll degli
altri in simile modo vituperare. Della quale ingiuria Paoaa*
nia si dolse più volte con Filippo; il quale avendolo tenalo
un tempo in sperante di vendicarlo, non solamente non lo
vendicò, ma prepose Alialo al governo d'una provincia di
Grecia. Donde Pausania, vedendo il suo nimico onorato, e
DOS gastigato, volse tutto lo sdegno soo noo contra a quello
cbe gli aveva fatto ingiuria, ma contra a Filippo che non
r aveva vendicato: ed una mattina solenne, in so le nozze
della figliuola di Filippo OBaritala ad Alessandro di Epiro,
andando Filippo al tempio a celebrarle, io oteiio di dae
* Malt nella Trstioa e nflla «dmoM ad Pof^i il Itr*
' Le cdinooi aou^cltc tralMÓaM aver».
LIBRO SECONDO. 297
Alessandri, genero e figliuolo, l'ammazzò. Il quale essempio
è molto simile a quello de' Romani, notabile a qualunque
governa: che mai non debba tanto poco stimare un uomo,
che e' creda, aggiungendo ingiuria sopra ingiuria, che colui
che è ingiurialo non pensi di vendicarsi con ogni suo peri-
colo e parlicolar danno.
Cap. XXIX. — La fortuna accieca gli animi degli uomini,
quando la non vuole che quelli si opponghino a* disegni
suoi.
Se e' si considerrà bene come procedono le cose uma-
ne, si vedrà molte volle nascere cose e venire accidenti a'
quali i cieli al tutto non hanno voluto che si provvegga. E
quando questo eh* io dico intervenne a Roma, dove era tanta
virtù, tanta religione e tanto ordine; non è meraviglia
che gli intervenga molto più spesso in una città o in una
provincia che manchi delle cose sopradelle. E perché que-
sto luogo è notabile assai a dimostrare la potenza del cielo
sopra le cose umane, Tito Livio largamente e con parole
elTìcacissime lo dimostra; dicendo come, volendo il cielo a
qualche fine , che i Romani conoscessono la potenza sua, fece
prima errare quelli Fabi che andarono oratori a' Franciosi,
e mediante 1' opera loro gli concitò a far guerra a Roma: di-
poi ordinò, che per reprimere quella guerra, non si facesse
in Roma cosa alcuna degna del Popolo romano; avendo prima
ordinalo che Camillo, il quale poteva essere solo unico rimedio
a tanto male, fusse mandato in esilio ad Ardea ; dipoi venen-
do ì Franciosi verso Roma, coloro che per rimediare allo im-
pelo de' Volsci, ed altri finitimi loro inimici, avevano creato
molte volte un Dillalore, venendo i Franciosi non lo crearo-
no. Ancora nel fare la elezione de' soldati, la feciono debole, e
senza alcuna islraordinaria diligenza; e furono tanto pigri a
pigliare l'arme, che a fatica furono a tempo a scontrare i
Franciosi sopra il fiume d'Allia, discosto a Roma dieci miglia.
Qui i Tribuni posero il loro campo, senza alcuna consueta di-
ligenza ; non provvedendo il luogo prima, non si circondando
con fossa e con steccalo, non usando alcuno rimedio umano
298 DEI DISCORSI
o divino; e nello ordinare la zuffa, fecero gli ordini rari e de-
boli : in modo che né i soldati né i capitani fecero cosa degna
della romana disciplina. Combattessi poi senza alcuno san-
gue; perchè e' fuggirono prima che fussino assaltati, e la
maggior parte se ne andò a Velo, l'altra si ritirò a Koma; i
quali senza entrare altrimenti nelle case loro, se ne entra-
rono in Campidoglio: in modo che il Senato, senza pensare
di difender Roma, non chiuse, non che altro, le porle; e
parte se ne fuggi, parte con gli altri se ne entrarono in
Campidoglio. Pure, nel difender quello usarono qualche or-
bine non tumultuario ; perché e' non lo aggravarono di genti
inutili ; messonvi lutti i frumenti che poterono, acciocché
polessino sopportare l'ossidione; e della turba inutile de^ vec-
chi e delle donne e de' fanciulli , la maggior parte se ne
fuggi nelle terre circun vicine, il rimanente restò in Uoma
in preda de' Franciosi. Talché, chi avesse letto le cose fatte da
quel popolo lanli anni innanzi, e leggesse dipoi quelli lem*
pi, non potrebbe a nessun modo credere che fusse stalo un
medesimo popolo. E detto che Tito Livio ha tutti i soprad-
detti disordini, conchiude dicendo: Adeo ohccBcal animos for-
luna, cum vim iuam ingruenlem refringi non vuU. Né può es-
sere più vera questa conclusione: onde gli uomini che vivono
ordinariamente nelle grandi avversità o prosperità, meritano
manco laude o manco biasimo. Perché il più delie volte si
vedrà quelli ad una rovina e ad una grandezza esser siali
condotti da una comodità erande che gli hanno fatto i cieli,
dandogli occasione, o togliendoli di potere operare virtuosa-
mente. Fa bene la fortuna questo, che la elegge uno uomo,
quando la voglia condurre cose grandi, di tanto spirito e
di tanta virtù, che e' conosca quelle occasioni che la gli
porge. Cosi medesimamente, quando la voglia condurre
grandi rovine, la vi prepone uomini che aiutino quella rovi-
na. £ se alcuno fusse che vi potesse ostare, o la lo ammaz-
za, o la lo priva di tutte le facultà da potere operare alcun
bene. Conoscesi questo' benissimo per questo testo, come la
fortuna per far maggiore Koma, e condurla a quella gran-
' Cosi nella BomaiUj ed i lezione, al parer mio, più «incera. Kelle al-
tre leggcsi quello, f < » 1 ; • > ff
LIBRO StCONDO. 299
dezza venne, giudicò fusse necessario batterla (come a lungo
nel principio del seguente libro discorreremo), ma non volle
già in tutto rovinarla. E per questo si vede che la fece esu-
lare, e non morire, Caramillo; fece pigliare Roriia, e non il
Campidoglio; ordinò che i Romani, per riparare Roma, non
pensassino alcuna cosa buona; per difendere il Campidoglio,
non mancarono di alcuno buono ordine. Fece, perchè Roma
fusse presa, che la maggior parte de' soldati che furono rotti
ad Allia, se n'andarono a Veio; e cosi, per la difesa della
città di Roma, tagliò tutte le vie. E nell' ordinar questo,
preparò ogni cosa alla sua ricuperazione; avendo condotto
uno esercito romano intero a Veio, e Cammillo ad Ardea, da
poter fare grossa testa, sotto un capitano non maculato d'al-
cuna ignominia per la perdita, ed intero nella sua riputa-
zione, per la ricuperazione della patria sua. Sarebbeci da ad-
durre in confirmazione delle cose dette qualche essempio mo-
derno ; ma per non gli giudicare necessari, potendo questo
a qualunque satisfare, gli lascerò indietro. Affermo bene di
nuovo, questo essere verissimo, secondo che per tutte 1* isto-
rie si vede, che gli uomini possono secondare la fortuna e
non opporsegli; possono tessere gli orditi suoi, e non rom-
pergli. Debbono bene non si abbandonare mai ; perchè non
sappiendo il fine suo, ed andando quella per vie traverse ed
incognite, hanno sempre a sperare, e sperando non si ab-
bandonare, in qualunque fortuna ed in qualunque travaglio
si trovino.
Cap. XXX. — Le repubbliche e gli principi verarhente polenti
non comperano l amicizie con danari , ma con la virtù e
con la riputazione delle forze.
Erano i Romani assediati nel Campidoglio, ed ancoraché
gli aspetlassino il soccorso da Veio e da Cammillo, sendo
cacciati dalla fame, vennono a composizione con i Franciosi
di ricomperarsi certa* quantità d'oro; e sopra tale con-
venzione pesandosi di già l'oro, sopravvenne Cammillo con
* Così , colla del Biado , aticorà la Testio^i. iPotst per ainor di cbiarezsa, fu
nelle posteriori aggiunto ^ón cbrta Co,
300 DEI DISCORSI
l'esercito sno: il che fece, dice lo istorico, la foHana, m(
Romani auro redempli non vivermi. La qual cosa non sola-
rnenle è notabile in questa parte, ma eziana nel processo
delle azioni di questa Repubblica; dove si vede che mai acqui-
starono terre con danari, mai feciono pace con danari, ina
sempre con la virtù delle armi : il che non credo sia mai in-
tervenuto ad alcuna altra repubblica. Ed intra gli altri segni
per i quali si conosce la potenza d'uno slato, è vedere come
e' vive con gli vicini suoi. E quando e' si governa in modo
che i vicini, per averlo amico, siano suoi pensionar!, allora è
certo segno che quello stato è potente: ma quando detti vici-
ni, ancoraché inferiori a lui, trassono da quello danari,
allora è segno grande di debolezza di quello. Legshinsi tutte
le istorie romane, e vedrete come i Massiliensi, gli Edui,
Rodiani, lerone siracusano, Eumene e Massinissa regi, i
quali tulli erano vicini ai confini dello imperio romano, per
avere l'amicizia di- quello, concorrevano a spese ed a Irilmli
ne' bisosnì d'esso, non cercando da lui altro premio che
Io essere difesi. Al contrario si vedrà negli slati deboli: e
cominciandosi dal nostro di Firenze, ne' tempi passati, nella
sua maggior riputazione, non era signorotto in Romagna
che non avesse da quello provvisione ; e di più la dava ai
Perugini, ai Castellani, e a tutti gli altri suoi vicini. Che se
questa città fusse stata armata e gagliarda, sarebbe lutto ilo
per contrario ; perchè tutti, per avere la protezione di essa*
arebbero dato danari a lei, e cerco non di vendere la loro
amicizia, ma di comperare la sua. Né sono in questa viltà
vissuti soli i Fiorentini, ma i Viniziani, ed il re di Francia,
il quale, con uno tanto reuno, vive tributario de' Svizzeri, e
del re d' Inshillerra. Il che lutto nasce dallo avere disarmati
i popoli suoi, ed avere piuttosto voluto, quel re e gli altri
pren<»iiiinati. godersi un presente utile di potere saccheggiare
i popoli, e fusgire uno immaginalo piuttosto che vero |)eri-
colo, che fare cose che gli Hssicunno, e faccino i loro slati
felici in perpetuo. Il quale disordine se partorisce qualche
tempo qualche quiete, è cagione col tempo di necessità, di
danni e rovine irrimediabili. E sarebbe lungo raccontare
quante volte i Fiorentini, Veniziaoi, e questo regno, si sono
LIBRO SECONDO. 301
ricomperati in su le guerre; e quante volte si sono sotto-
messi ad una ignominia, che* i Romani furono una sola
volta per sottomettersi. Sarebbe lungo raccontare quante
terre i Fiorentini e Veneziani hanno comperate: di che si è
veduto poi il disordine, e come le cose che si acquistano con
Toro, non si sanno difendere col ferro. Osservarono i Ro-
mani questa generosità e questo modo di vivere, mentre che
vissono liberi; ma poiché egli entrarono sotto gli imperadori,
e che gli imperadori cominciarono ad esser cattivi, ed amare
più l'ombra che il sole, cominciarono ancora essi a ricom-
perarsi, ora dai Parti, ora dai Germani, ora da altri popoli
convicini: il che fu principio della rovina di tanto imperio.
Procedevano,pertanto, simili inconvenienti dallo avere disar-
mati i suoi popoli : di che ne resulta un altro maggiore, che
quanto il nimico più ti s'appressa, tanto ti trova più debole.
Perchè chi vive ne' modi detti di sopra, tratta male quelli
sudditi che sono dentro all' imperio suo, per avere uomini ben
disposti a tenere il nimico discosto. Da questo nasce, che per
tenerlo più discosto, ei dà provvisione a questi signori e
popoli che sono propinqui ai confini suoi. Donde nasce che
questi stati cosi fatti fanno un poco di resistenza in sui con-
fini, ma come il nimico gli ha passati, ei non hanno rime-
dio alcuno. E non si avveggono, come questo modo del loro
procedere è contra ad ogni buono ordine. Perchè il cuore e
le parti vitali d'un corpo si hanno a tenere armale, e non
l'estremità d'esso; perchè senza quelle si vive, ed offeso
quello si muore : e questi stati tengono il cuore disarmalo, e
le mani e li piedi armati. Quello che abbia fatto questo dis-
ordine a Firenze, si è veduto, e vedesi ogni di: che come
uno esercito passa i confini, e che gli entrano' propinquo al
cuore, non ritrova più alcuno rimedio. De' Veneziani si vidde
pochi anni sono la medesima pruova; e se la loro città non
era fasciata dall'acque, se ne sarebbe veduto il fine. Questa
isperienza non si è vista sì spesso in Francia, per essere
* La sola edizione del Poggiali : a che.
3 Così nella Bladiana ; accordato cioè il plurale entrano, col collettivo «jer-
cilo,o sottinteso nemici. Gli editori di schizzinosa grammatica impressero: e
eh' egli entra.
2G
302 DEI DISCORSI
quello SI gran regno, eh* egli ha pochi nimici superiori. Non-
dimeno,quando sili Inghilesi, nel 1513, assaltarono quel resno,
tremò tutta quella provincia; ed il re medesimo, e ciascuno
altro, giudicava che una rolla sola gli potesse tórre lo stato. Ai
Romani interveniva il contrario; perchè quanto più il nimico
si appressava a Roma, tanto più trovava quella città potente
a resìstergli. E si vidde nella venuta d'Annibale in Italia,
che dopo (re rotte, e dopo tante morti di capitani e di sol-
dati, ci poterono non solo sostenere il nimico, ma vincere
la guerra. Tutto nacque dallo avere bene armato il cuore, e
delle estremità tenere* poco conto. Perchè il fondamento dello
slato suo era il popolo di Roma, il nome latino, e l'altre
terre compagne in Italia, e le loro colonie; donde e' traevano
tanti soldati, che furono sutTi/.ienli con quelli a combattere,
e tenere il mondo. E che sia vero, si vede per la domanda
che fere Annone cartaginese a quelli oratori d'Annibale dopo
la rotta di Canne: i qnalr avendo maanificato le cose fatte
da Annibale, furono domandati da Annone, se del |)opolo
romano alcuno era venuto a domandiir pace, e se del nome
latino e delle colonie alcuna terra si era ribellata dai Roma-
ni ; e negando quelli l'una e l'altra cosa, replicò Annone:
Questa guerra è ancora intera come prima. Vedesi, ()ertan(o,
e per questo discorso, e per quello che più volle abbiamo
altrove detto, quanta diversità sia dal modo del procedere
delle repubbliche presenti, a quello delle antiche. Vedesi an-
cora per questo ogni di miracolose perdite e miracolosi ac-
quisti. Perchè, dove gli uomini hanno poca virtù, la fortuna
dimostra assai la potenza sua; e perchè la è varia, variano
le repubbliche, egli slati spesso; e varieranno sempre, infino
che non sorga qualcuno che sia dell' antichità tanto amatore,
che la regoli in modo, che la non abbi cagione di dimostrare
ad ogni girare di sole quanto ella puote.
Gap. XXXI. — Quanto sia pericoloso credere agli sbandili.
E' non mi pare fuori di proposito ragionare, intra questi
altri discorsi, quanto sia cosa pericolosa credere a quelli che
* La Testina e le moderne : tenuto.
\
LIBRO SECONDO. 303
sono cacciati della patria sua, essendo cose che ciascuno di
si lianno a praticare da coloro che len2;ono slati; polendo,
massime, dimostrare qneslo con uno memorabile esserapio
detto da Tito Livio nelle sue istorie, ancora che sia fuora di
proposito suo. Quando Alessandro Magtìo i)assò con l'eser-
cito suo in Asia, Alessandro di Epiro, cognato e zio di quel-
lo, venne con genti in Italia, chiamato dagli sbanditi Luca-
ni, i quali gli detlono speranza che potrebbe medianti loro
occupare tutta quella provincia. Donde che quello, sotto la fede
e speranza loro, venuto in Italia, fu morto da quelli; sendo
loro promesso la ritornata nella patria dai loro cittadini, se lo
ammazzavano. Debbesi considerare pertanto, quanto sia vana
e la fede e le promesse di quelli che si trovano privi della
loro patria. Perchè, quanto alla fede, si ha ad estimare che
qualunque volta possono per altri mezzi che per li tuoi rien-
trare nella patria loro, che lasceranno le ed accosterannosi
ad altri, nonostante qualunque promessa ti avessino fatta. £
quanto alla vana promessa e speranza, egli è tanta la voglia
estrema che è in loro di ritornare in casa, che e'creilono
naturalmente molte cose che sono false, e molte ad arte ne
aggiungono : talché, tra quello che credono e quello che di-
cono di credere, li riempiono di speranza; lalmentechè fon-
datoti in su quella, tu fai una spesa in vano, o tu fai una
impresa dove tu rovini, lo voijlio peressemjjio mi basti Ales-
sandro predetto, e di più Temistocle ateniese; il quale es-
sendo fatto ribello, se ne fuggi in Asia a Dario, dove gli pro-
misse tanto, quando ei volesse assaltare la Creda, che Dario
si volse alia impresa. Le quali promesse non gli potendo poi
Temistocle osservare, o per vergogna o per tema di suppli-
cio, avvelenò se stesso. E se questo errore fu fatto da Temi-
stocle, uomo eccellentissimo, si debbe stimare che tanto più
vi errino coloro che, per minor virtù, si lasceranno più tirare
dalla voglia e dalla passione loro. Debbe, adunque, un prin-
ci|ie andare adagio a pigliare im|)rese sopra la relazione d'un
confinalo, perchè il più delle volte se ne resta o con vergo-
gna o con danno gravissimo. E perchè ancora rade volto
riesce il pialiare le terre di furto, e per intelligenza che-al-
tri avesse in quelle, non mi pare fuor di proposilo discorrerne
304 DEI DISCORSI
nel sèguenle capitolo ; aggiungendovi con quanti modi i Ro-
mani le acquistavano. *
Gap. XXXII. — In quanti modi i Romani occupavano
le terre.
Essendo i Romani (ulti vòlti alla guerra, fecero sempre
mai quella con ogni vantaggio, e quanto alla spesa , e quanto
ad ogni altra cosa clie in essa si ricerca. Da questo nacque
che si guardarono dal pigliare le (erre per ossidione; perchè
giudicavano questo modo di tanta spesa e di tanto scomodo,
che superasse di gran lunga la utilità che dello acquisto si po-
tesse trarre: e per questo i^ensarono che fosse meglio e più
utile soggiogare le terre per ogni allro modo che assediando-
le : donde in tante guerre ed in tanti anni ci sono pochissimi
essempi di ossidioni fatte da loro. 1 modi, adunque, con i quali
gli acquistavano le città, erano o per espugnazione, o per
dedizione. La espugnazione era o per forza e per violenza
aperta, o per forza mescolala con fraudo. La violenza aperta
era o con assalto, senza percuotere le mìira (il che loro chia-
mavano aggredi urbem corona^ perchè con tulio l'esercito
circondavano la città, e da tulle le parti la combattevano ; e
molte volte riuscì loro che in uno assalto pigliarono una cit-
tà, ancora che grossissima, come quando Scipione prese
Cartagine nuova in Ispagna): o, quando questo assalto non
bastava, si dirizzavano a rompere le mura con arieti, o con
altre loro macchine belliche: o e' facevano una cava, e per
quella entravano nella città (nel qual modo presono la città
de' Veienli) : o, per essere eguali a quelli che difendevano le
mura, facevano torri di legname, o facevano argini di terra
appoggiati alle mura di fuori, per venire all'altezza di esse
^topra quelli. Contra a questi assalti, chi difendeva le terre,
nel primo caso circa lo essere assaltato intorno intorno,' por-
tava più subito pericolo, ed avea più dubbi rimedi: perchè bi-
sognandoli io ogni loco avere assai difensori, o quelli eh' egli
* Nelle stampe più antiche t i* acquistavano.
' La Teslioa, colle moderne, non ripete l'avverbio, che cosi duplicato
dipÌDge la cosa, e risponde assai meglio al liviano termine coroni.
I
LIBRO SECONDO. S05
aveva non erano tanti che potessero o supplire per tolto, o
cambiarsi; o se potevano, non erano tutti di eguale animo a
resistere, e da una parte che fusse inclinata la zuffa, si perde-
vano tulli. Però occorse, come io ho dello, che molle volle
queslo modo ebbe felice successo. Ma quando non riusciva al
primo, non lo rilenlavano mollo, per esser modo pericoloso
per lo esercito: perchè difendendosi in tanto spazio, reslava
per tulio debile a polere resistere ad una eruzione che quelli
di dentro avessino falla, ed anche si disordinavano e strac-
cavano i soldati; ma per una volta ed allo improvviso tenta-
vano tal modo. Quanto alla rottura delle mura, si oppone-
vano, come ne* presenti lempi, con ripari. E per resistere alle
cave, facevano una contraccava, e per quella si opponevano
al nimico, 0 con le armi o con altri ingegni: intra i quali era
queslo, che egli empivano dogli di penne, nelle quali appic-
cavano il fuoco, ed accesi gli mettevano nella cava, i quali
con il fumo e con il puzzo impedivano l'entrata a' nimici. E
se con le torri gli assaltavano, s* ingegnavano con il fuoco
rovinarle. E quanto agli argini di terra, rompevano il muro
da basso, dove l'argine s'appoggiava, tirando dentro la terra
che quelli di fuori vi ammontavano; talché ponendosi di fuori
la terra, e levandosi di dentro, veniva a non crescere l'ar-
gine. Questi modi di espugnazione non si possono lungamente
tentare: ma bisogna o levarsi da campo, e cercare per altri
modi vincere la guerra; come fece Scipione, quando entrato
in Affrica, avendo assaltato Ulica e non gli riuscendo pi-
gliarla, si levò dal campo, e cercò di rompere gli eserciti car-
taginesi: ovvero volgersi alla ossidione; come feciono a Veio,
Gapova, Cartagine e lerusalem e simili terre, che per os-
sidione occuparono. Quanto allo acquistare le terre per vio-
lenza furtiva, occorre come intervenne di Palepoli, che per
trattato di quelli di dentro 1 Romani la occuparono. Di questa
sorte espugnazione dai Romani e da altri ne sono stale tentate
molte, e poche ne sono riuscite: la ragione è che ogni minimo
impedimento rompe il disegno, e gli impedimenti vengono
facilmente. Perchè, o la congiura si scuopre innanzi che si
Venga ali* atto: e scuopresi non con molla difflcnllà, si per
la infedelilà di coloro con chi la è comunicata, si per la difiì-
26*
306 1)EI DISCORSI
colla del praticarla, avendo a convenire con nimici, e con
chi non ci è lecito, se non sotto qualche colore, parlare. Ma
quando la congiura non si scoprisse nel maneggiarla , vi
surgono poi nel metterla in atto mille difficullà. Perchè, ose
tu vieni innanzi al tempo disegnato, o se tu vieni dopo, si
guasta ogni cosa: se si lieva un rumore furtivo, come l' oche
del Campidoglio: se si rompe uno online consueto: ogni mi-
nimo errore ed ogni minima fallacia che si piulia, rovina
la impresa. Asgiungonsi a questo le tenebre della notte; le
quali mettono più paura a chi travaglia in quelle rose peri-
colose. Ed essendo la maggior pai te degli uomini che si con-
ducono a simili imprese, inesperti del sito del paese e de'
luoghi, dove ei sono menati, si confondono, inviliscono, ed
implicano per ogni minimo e fortuito, accidente; ed ogni im-
inazine falsa è per fargli mellere in volla Né si trovò mai
alcuno che fusse più felice in queste espedizioni fraudolente *
e notturne, che Aralo Sicioneo; il quale quanto valeva in
queste, tanto nelle diurne ed aperte fazioni era pusillanime:
il che 8i può giudicare fusse più toslo per una occulta virtù
che era in loi, che perchè in quelle naturalmente dovesse
essere più felicità. Di questi modi, adunque, se ne praticano
assai, pochi se ne conducono alla pruova, e pochissimi ne rie-
scono. Quanto allo acquistare le terre per dedizione, o le si
danno volontarie, o forzate. La volontà nasce o per qualche
necessità estrinseca che gli costringo a rifuggirlisi sotto:
come fece Capeva ai Romani ; o per dìsiderio di esser go-
vernali bene, sendo allettati dal' governo buono che quel
prìncipe tiene in coloro che se gli sono volontari rimessi in
grembo; come ferono i Rodiani, i Massilìensi ed altri simili
cittadini, che si dettone al Popolo romano. Quanto alla dedi-
zione forzala, o tale forza nasce da una lunga ossidione, come
di sopra si è detto; o la nasce da una continua oppressione
di correrie, depredazioni,' ed altri mali trallamenli, i quali
volendo fuggire, una città si arrende. Di tutti i modi detti, i
< La Teslioa e le moderne del 1813 e del Poggiali: fraxidolenU.
' La Romana, con modo fiorentinesco, ed etempio in e*sa non mfrequen-
le : da il.
' Fuorché nella del Biado t di predaùonl.
Libro secondo. 3Ò7
Bomani usarono più questo ullinpo che nessuno; ed allesono
più che quallrocenlo cinquanta anni a straccare i vicini con
le rotte e con le scorrerie, e pigliare mediani! gli accordi
riputazione sopra di loro, come altre volte abhiarao discorso.
E sopra tal modo si fondarono sempre, ancora che gli len-
tassino tulli ; ma negli altri trovarono cose o pericolose o
inutili. Perchè nella ossidioneé la lunghezza e la spesa; nella
espugnazione, dubbio e pericolo; nelle congiure, la incertilu-
dine. E viddono che con una rotta d'esercito inimico acquista-
vano un regno in un giorno; e nel pigliare per ossidione una
cillà ostinata, consumavano molti anni, «
: ì kìVììii
Gap. XXXIII. -^ Come i Romani davano àgli loro capitani
degli esercili le commissioni libere.
Io stimo che sia da considerare, leggendo questa liviana
istoria, volendone far profitlo, tulli i modi del procedere dei
Popolo e Senato romano. E infra l'altre cose che meritano
considerazione, sono: vedere con quale autorità ei manda-
vano fuori i loro Consoli, Dittatori ed altri Capitani degli
eserciti ; de' quali si vede l' autorità essere stata grandissi-
ma, ed il Senato non si riservare altro che l'autorità di
muovere nuove guerre, e di confirmare le paci ; e tutte l'al-
tre cose rimetteva nell'arbitrio e potestà del Consolo. Perchè,
deliberala ch'era dal Popolo e dal Senato una guerra, ver-
bigrazia contra ai Latini, lutto il reslo rimeltevano nell'ar-
bitrio del Consolo; il quale poteva o fare una giornata o non
la fare, e campeggiare questa o quell'altra terra, come a
lui pareva. Le quali cose si verificano per molli essempi, e
massime per quello che occorse in una {spedizione contra
ai Toscani. Perchè, avendo Fabio Consolo vinto quelli presso
a Sutri, e disegnando con l'esercito dipoi passare la selva
Cimìna, ed andare in Toscana; non solamente non si consi-
gliò col Senato, ma non gli ne delle alcuna notizia, ancora
che la guerra fosse per aversi a fare in paese nuovo, dubbio
e pericoloso. Il che si testifica ancora per la dilibcrazione
che all' incontro di questo fu fatta dal Senato: il quale avendo
inteso la vittoria che Fabio aveva avuta, e dubitando che
308 DEI DISCORSI
qaello non pigliasse partito di passare per le dette selve in
Toscana, giudicando che fosse bene non tentare quella guerra
e correre quel pericolo, mandò a Fabio due Legali a fargli
intendere non passasse in Toscana ; i quali arrivarono che
vi era già passato, ed aveva avuta la vittoria, ed in cambio
di impeditori della guerra, tornarono ambasciadori dello ac-
quisto e della gloria avuta. E chi considera bene questo ter»
mine, io vedrà prudentissimamente usato; perchè, se il Senato
avesse voluto che un Consolo procedesse nella guerra di mano
in mano, secondo che quello gli commetteva, lo faceva meno
circunspetto e più lento; perchè non gli sarebbe parutoche la
gloria della vittoria fusse tutta sua, ma che ne participasse
il Senato, con il consiglio del quale ei si fusse governato.
Oltra di questo, il Senato si obbligava a voler consigliare una
cosa che non se ne poteva intendere; perchè, nonostante che
in quello fussino tutti uomini esercitatissimi nella guerra,
nondimeno non essendo in sul luo^o, e non sappiendo infì-
nili particolari che sono necessari sapere a voler consigliar
bene, arebbono, consigliando, fatti infiniti errori. E per
questo e' volevano che 'l'Consolo per sé facesse, e che la
gloria fusse tutta sua; lo amore della quale giudicavano che
fusse freno e regola a farlo operar bene. Questa parte si è
più volentieri notata da me, perchè io veggio che le repub*
bliche de' presenti tempi, come è la Veneziana e Fiorentina,
la intendono altrimenti; e se gli loro capitani, provveditori
o commissari hanno a piantare una artiglieria, lo vogliono
intendere, e consigliare. Il quale modo merita quella laude
che meritano gli altri, i quali tulli insieme l' hanno condoUe
ne' termini che al presente si (ruovano.
iC«4»»-'
S09
UBRO TERZO.
C;^p. I. — ^ volere che una setta o una repubblica viva lun-
gamente, è necessario ritirarla spesso verso il suo prin-
cipio.
Egli è cosa verissima, come tutte le cose del mondo
hanno il termine della vita loro. Ma quelle vanno tutto il
corso che è loro ordinato dal cielo generalmente, che* non dis-
ordinano il corpo loro, ma tengonlo in modo ordinato, o che
non altera, o s'egli altera, è a salute, e non a danno suo.
E perchè io parlo de* corpi misti, come sono le repubbliche
e le sèlle, dico che quelle alterazioni sono a salute, che le
riducono verso i principii loro. E però quelle sono meglio or-
dinate, ed hanno più lunga vita, che medianti gli ordini suoi
si possono spesso rinnovare; ovvero che per accidente, fuori
di detto ordine, vengono a detta rinnovazione. Ed è cosa più
chiara che la luce, che non si rinnovando questi corpi, non
durano. Il modo del rinnovargli è, come è detto, ridurgli
verso i principii suoi. Perchè tutti 1 principii delle sètte, e
delle repubbliche, e dei regni, conviene che abbino in sé qual-
che bontà, mediante la quale ripiglino la prima riputazione,
ed il primo auguraento loro. E perchè nel processo del tempo
quella bontà si corrompe, se non interviene cosa che la ri-
duca al segno, ammazza di necessità quel corpo. E questi
dottori di medicina dicono, parlando dei corpi degli uomini,
quod quolidie aggregatur aliquid, qund quandoque indiget cura-
liane. Questa riduzione verso il principio, parlando delle re*
pubbliche, si fa o per accidente estrinseco, o per prudenza
intrinseca. Quanto al primo, si vede come gli era necessa-
* Cioèt vanno generalmente tutto il corso ec. quelle le quali non disor-
dinano ec*
310 DEI DISCORSI
rio che Roma fusse presa dai Franciosi, a volere che la ri-
nascesse; e rinascendo, ripigliasse nuova vila e nuova virtù;
e ripigliasse la osservanza della religione e della giustizia, le
quali in lei cominciavano a macularsi. Il che benissimo si
comprende per l' istoria di Livio, dove ci mostra che nel (rar
fuori l'esercito centra ai Franciosi, e nel creare i Tribuni coA
potestà consolare, non osservarono alcuna religiosa cerimo-
nia. Cosi medesimamente, non solamente non privarono i tre
Fabi i quali conlra jus genlium avevano combattuto contra
i Franciosi, ma gli crearono Tribuni. E debbesi facilmente
presupporre, che dell'altre constituzioni buone ordinate da
Romolo, e da quelli altri principi prudenti, si cominciasse a
tenere meno conto che non era ragionetole e necessario a te-
nere il vivere libero. Venne, adunque, questa battitura estrin-
seca, acciocché lutti gli ordini di quella città sì ripigliassero;
e si mostrasse a quel popolo, non solamente essere necessa-
rio mantenere la religione e la giustizia, ma ancora stimare
i suoi buoni cittadini, e far più conto della loro virtù, che di
quelli comodi che e' paresse loro mancare mediante 1' opere
loro. Il che si vede che successe appunto; perchè, subito ri-
presa Roma, rinnovarono tutti gli ordini dell'antica religione
loro ; punirono quelli Fabi che avevano combattuto conlra
jus genlium ; ed appresso stimarono tanto la virtù e bontà di
Cammino, che posposto, il Senato e gli altri, ogni invidia, ri-
mettevano in lui lutto il pondo di quella Re(iubblica. È ne-
cessario adunque, come è detto, che gli uomini che vivono
insieme in qualunque ordine, spesso si- riconoschino, o per
questi accidenti estrinsechi o per gli intrinsechi. E quanto
a questi, conviene che nasca o da una legge la quale spesso
rivegga il conto agli uomini che sono in quel corpo; o vera-
mente da uno uomo buono che nasca fra loro, il quale con gli
suoi essempi e con le sue opere virtuose faccia il medesimo
effetto che l'ordine. Surge, adunque, questo bene nelle repub-
bliche, o per virtù d'un uomo o per virtù d'uno ordine. E
quanto a questo ultimo, gli ordini che ritirarono la Repub-
blica romana verso il suo principio, furono i Tribuni della
plebe, i (censori, e tutte l'altre leggi che venivano conlra
ali' ambizione ed alla insolenza degli uomini. I quali ordini
II
LIBRO TERZO. 311
hanno bisogno d'esser falli vivi dalla virtù d'un cilladino,
il quale animosamenle concorra ad eseguirli centra alla po-
tenza di quelli che gli trapassano. Delle quali esecuzioni, in-
nanzi alla presa di Roma dai Franciósi, furon nolabili, la
morte de'fmliuoli di Bruto, la morie de' dieci cittadini,
quella di Melio Frumenlario : dopo la presa di Roma, fu la
morte di Manlio Capitolino, la morie del figliuolo di Manlio
Torquato, la esecuzione di Papirio Cursore centra a Fabio
suo maestro de' Cavalieri, la accusa degli Scipioni. Le quali
cose, perchè erano eccessive e nolabili, qualunque volta ne
nasceva una, facevano uli uomini ritirare verso il segno: e
quando le cominciarono ad esser più rare, cominciarono an-
cora a dare più spazio agli uomini di corrompersi , e farsi
con magiiiore pericolo e più tumulto. Perchè dall' una all'al-
tra di simili esecuzioni non vorrebl)e passare, il più, dieci an-
ni: perchè, passalo questo tempo, gli uomini cominciano a
variare co* cosiumi, e trapassare le leagi; e se non nasce
Cosa per la quale si riduca loro a memoria la pena, e ritmo-
visi negli animi loro la paura, concorrono tosto tanti delin-
quenti, che non si possono più punire senza pericolo. Dice-
vano, a questo proposito, quelli che hanno governato lo stato
di Firenze dal 1434 infino al 1494, come egli era necessario
ripigliare ogni cinque anni lo stato; altrimenti, era diflìcile
mantenerlo: e chiamavano ripigliare lo sialo, mettere quel
terrore e quella paura negli uomini che vi avevano messo
nel pigliarlo, avendo in quel tempo battuti quelli che aveva-
no, secondo quel modo di vivere, male operato. Ma come di
quella battitura la memoria si spegne , gli uomini prendono
ardire di tentare cose nuove, e di dir male; e però è neces-
sario provvedervi, ritirando quello verso i suoi principii. Na-
sce ancora questo riliramenlo delle repubbliche versò il loro
principio dalle semplici ' virtù d'un uomo, senza dipendere
da alcuna legge che li stimoli ad alcuna esecuzione: nondi-
manco sono di lauta riputazione e di tanto essempio, che gli
uomini buoni disiderano imitarle, e gli tristi si vergognano
a tenere vita contraria a quelle. Quelli che in Roma partico-
larmente feciono questi buoni effetti, furono Orazio Code,
I L) }lpmap9 solUoto ; dalla semplice virtù^
3i2 DEI DISCORSI
Scevola, Fabrizio, i duoi Deci, Rejjolo Attilio, ed alcuni al-
tri; i quali con i loro essempì rari e virtuosi facevano in Roma
quasi il medesimo eflTelto che si facessino le leggi e gli ordi>
ni. E se le esecuzioni seprascrille, insieme con questi partico-
lari essempi, fussìno almeno seguite ogni dieci anni in quella
città, ne seguiva di necessità che la non si sarebbe mai cor-
rotta: ma * come e* cominciarono a diradare Tuna e l'altra dì
queste due cose, cominciarono a moltiplicare le corruzioni.
Perchè dopo Marco Regolo non vi si vidde alcun simile essem-
pio: e benché in Roma surgessino i duoi Catoni, fu tanta di-
stanza da quello a loro, ed intra loro dall' uno all' altro, e ri-
masono si soli, che non potetlono con ^W essempi buoni fare
alcuna buona opera; e massime l'ultimo Catone, il quale
trovando in buona parte la città corrotta , non potette con
lo essempio suo fare che i cittadini diventassino migliori. E
questo basti quanto alle repubbliche. Ma quanto alle sètte,
si vede ancora queste rinnovazioni essere necessarie per
lo essempio della nostra religione; la quale se non fusse slata
ritirala verso il suo principio da San Francesco e da San Do-
menico, sarebbe al tutto spenta. Perchè questi, con la pover-
tà e con r essempio della vita di Cristo, la ridussono nella
mente desìi uomini, che già vi era spenta: e furono si po-
tenti gli ordini loro nuovi, ch'ei sono cagione che la diso-
nestà de* prelati e de' capi della religione non la rovini; vi-
vendo ancora poveramente, ed avendo tanto credilo nelle
confessioni con i popoli e nelle predicazioni, che e' danno
loro ad intendere come egli è male a dir male del male, e
che sia bene vivere sotto l'obbidienza loro, e se fanno er-
rori, lasciargli gastigare a Dio: e cosi quelli fanno il peggio
che possono, perchè non temono quella punizione che non
vesigono e non credono. Ha, adunque, questa rinnovazione
mantenuto, e mantiene questa religione. Hanno ancora i re-
gni bisogno di rinnovarsi, e ridurre le leggi di quelli verso
il suo principio. E si vede quanto buono etfelto fa questa parte
nel regno di Francia; il quale regno vive sotto le leggi e
sotto gli ordini più che alcuno altro resno. Delle quali leggi
ed ordini ne sono mantenitori i parlamenti, e massime quel
* La Testina e l' edixione del Poggiali omettono ma.
LIBRO TERZO. 313
di Parigi : le quali sono da lui rinnovate qualunque volta e'fa
una esecuzione contra ad uno principe di quel regno, e che ei
condanna il Re nelle'sue sentenze. Ed infino a qui si è man-
tenuto per essere slato uno ostinato esecutore contra a quella
nobiltà: ma qualunque volta e'ne lasciasse alcuna impunita,
e che le venissino a muKiplicare, senza dubbio ne nasce-
rebbe o che le si arebbono a correggere con disordine gran-
de, o che quel regno si risolverebbe. Conchiudesi, pertanto,
non esser cosa più necessaria in un vivere comune, o setta
o regno o repubblica che sia, che rendergli quella riputa-
zione eh* eoli aveva ne'principii suoi; ed ingegnarsi che
siano 0 gli ordini buoni o i buoni uomini che faccino que-
sto effetto, e non l'abbia a fare una forza estrinseca. Perchè,
ancora che qualche volta la sia ottimo rimedio, come fu a
Roma, ella è tanto pericolosa, che non è in modo alcuno da
desiderarla. E per dimostrare a qualunque, quanto le azioni
degli uomini particolari facessino grande Roma, e causassino
in quella città molti buoni effetti, verrò alla narrazione e dis-
corso di quelli: intra i termini de'quali questo terzo libro ed
ultima parie di questa prima Deca si conchiuderà. E benché
le azioni degli Re fussino grandi e notabili, nondimeno, di-
chiarandole la istoria diffusamente, le lasceremo indietro; né
parleremo altrimenti di loro, eccetto che di alcuna cosa che
avessino operata appartenente alli loro privati comodi; e co-
mincierenci da Rrulo, padre della romana libertà.
Gap. II. — Come gli è cosa sapientissima simulare in tempo
la pazzia.
Non fu alcuno mai tanto prudente, né tanto stimato sa-
vio, per alcuna sua egregia operazione, quanto merita d'es-
ser tenuto lunio Bruto nella sua simulazione della stullizia.
Ed ancora che Tilo Livio non esprima altro che una cagione
che lo inducesse a tale simulazione, quale fu di potere più
sicuramente vivere, e mantenere il patrimonio suo; nondi-
manco, considerato il suo modo di procedere, si può cre-
dere che simulasse ancora questo per essere manco osserva-
to, ed avere più comodità di opprimere i Re e di liberare
27
314 DEI DISCORSI
la saa patria, qaalanqae volta gliene fusse data occasione.
E che pensasse a questo, si vide, prima, nello interpretare
l'oracolo di Apolline, qaando simulò cadere per baciare la
(erra, giudicando per quello aver favorevoli gli Dii ai pen-
sieri suoi; e dipoi, quando sopra la morta Lucrezia, intra
il padre ed il marito ed altri parenti di lei, ei fu il primo
a Irarle il coltello dalla ferita, e far giurare ai circonstanli,
che mai sopporterebbono che per lo avvenire alcuno re-
gnasse in Roma. Dallo essempio di costui hanno ad impa-
rare tatti coloro che sono malcontenti d'uno principe, e
debbono prima misurare e pesare le forze loro; e se sono
si potenti che possino scoprirsi suoi nimici e fargli aper-
tamente guerra, debbono entrare per questa via, come man-
co pericolosa e più onorevole. Ma se sono di qualità che a
fargli guerra aperta le forze loro non bastino, debbono con
ogni industria cercare di farsegli amici; ed a questo effetto,
entrare per tutte quelle vie che giudicano esser necessarie,
seguendo i piaceri suoi, e pigliando diletto di tutte quelle
cose che veggono quello dilettarsi. Questa dimestichezzn,
prima, ti fa vivere sicuro; e, senza portare alcun pericolo,
ti fa godere la buona fortuna di quel principe insieme con
esso lui, e ti arreca ogni comodità di satisfare all'animo
tuo. Vero è che alcuni dicono che si vorrebbe con gli prin-
cipi non stare si presso che la rovina loro ti coprisse, né
si discosto che rovinando quelli tu non fussi a tempo a sa-
lire sopra la rovina loro: la qual via del mezzo sarebbe la
più vera, quando si potesse conservare; ma perchè io credo
che sia impossìbile, conviene ridursi ai duoi modi sopra-
scritti, cioè di allargarsi o di stringersi con loro. Chi fa
altrimenti, e sia uomo per le qualità sue notabile, vive in
continovo pericolo. Né basta dire: io non mi curo d'alcuna
cosa, non desidero né onori né utili, io mi voglio vivere
quietamente e senza hriea; perchè queste scuse sono udite
e non accettate: né possono gli uomini che hanno qualità,
eleggere lo starsi, quando bene lo eleggessino veramente
e senza alcuna ambizione, perché non è loro creduto; tal-
ché se si vogliono star loro, non sono lasciali stare da al-
tri. GoQvieo^ ^dup(|ue f9re il pazzo, come Bruto; ed ass^j
LIBRO TERZO. 315
si fa il matto, laudando, parlando, veggendo, faccendo cose
centra all'animo tuo, per compiacere al principe. E poiché
noi abbiamo parlato della prudenza di questo uomo per ri-
cuperare la libertà di Roma, parleremo ora della sua seve-
rità in mantenerla.
Gap. III. — Come egli è necessario, a voler mantenere una li-
bertà acquistala di nuovo, ammazzare i figliuoli di Bruto.
Non fu meno necessaria che utile la severità di Bruto
nel mantenere in Roma quella libertà che egli vi aveva
acquistala ; la quale è di un essempio raro in tutte le memo-
rie delle cose: vedere il padre sedere prò tribunali, e non
solamente condennare i suoi Ggliuoli a morte, ma esser
presente alla morte loro. E sempre si conoscerà questo per
coloro che le cose antiche leggeranno : come dopo una mu-
tazione di stato, o da repubblica in tirannide o da tiran-
nide in repubblica, è necessaria una esecuzione memorabile
conlra a'nimici delle condizioni presenti. E chi piglia una
tirannide e non ammazza Bruto, e chi fa uno stato libe-
ro e non ammazza i Ggliuoli di Bruto, si mantiene poco
tempo. E perchè di sopra è discorso questo luogo largamente,
mi rimetto a quello che allora se ne disse : solo ci addurrò
uno essempio stato ne' dì nostri, e nella nostra patria memo-
rabile. E questo è Piero Soderini, il quale si credeva con
la pazienza e bontà sua superare quello appetito che era ne'tl-
gliuoli di Bruto di ritornare sotto un altro governo, e se ne
ingannò. E benché quello, per la sua prudenza, conoscesse
questa necessità ; e che la sorte e la ambizione di quelli che
Io urtavano, gli desse occasione a spegnerli; nondimeno non
volse mai l'animo a farlo. Perchè., oltre al credere di potere
con la pazienza e con la bontà estinguere ì mali umori, e
con i premi verso qualcuno consumare qualche sua inimici-
zia ; giudicava (e molte volle ne fece con gli amici fede) che
a volere gagliardamente urlare le sue opposizioni, e battere
i suoi avversari, gli bisognava pigliare straordinaria auto-
rità, e rompere con le leggi la civile equnlità: la qual cosa,
ancora che dipoi non fusse da lui usata tirannicamente ^
316 DEI DISCORSI
arebbe tanto sbigottito T universale, che non sarebbe mai
poi concorso dopo la morte di quello a rifare un gonfalo-
niere a YÌla ; il quale ordine egli giudicava fusse bene augu-
mentare e mantenere. Il quale rispetto era savio e buono:
nondimeno, e' non si debbo mai lasciare scorrere un male ri-
speito ad un bene, quando quel bene facilmente possa es-
sere da quel male oppressalo. E doveva credere che, aven-
dosi a giudicare l'opere sue e la intenzione sua dal fine,
quando la fortuna e la vita lo avesse accompagnato, che po-
teva certificare ciascuno, come quello aveva fatto, era per
salute della patria, e non per ambizione* sua; e poteva rego-
lare le cose in modo, che un suo successore non potesse
fare per male quello che egli avesse fatto per bene. Ma Io
ingannò la prima oppinione, non conoscendo che la mali-
gnità non è doma da tempo, né placala da alcun dono. Tanto
che, per non sapere somigliare Bruto, ei perde, insieme con
la patria sua, lo stalo e la riputazione. E come egli è cosa
difficile salvare uno slato libero, cosi è difficile salvarne un
regio ; come nel seguente capitolo si mostrerà.
Cap. IV. — Non vive sicuro un principe in un principato,
mentre vivono coloro che ne sono stali spogliati.
La morte dì Tarqninio Prisco caasafa dai fìeiiuoli di
Anco, e la morte di Servio Tulio causata da Tarquinio
Superbo, mostra quanto difficile sia e pericoloso spogliar
uno del regno, e quello lasciare vivo, ancora che cercasse
con meriti guadagnarselo. E vedesi come Tarquinio Prisco
fu ingannalo da parergli possedere quel regno giuridica-
mente, essendosli stato dato dal Popolo, e confermato dal
Senato: né credette che nei figliuoli di Anco potesse tanto lo
sdegno, che non avessino a contentarsi di quello che si con-
tentava tutta Roma. E Servio Tullio s' ingannò, credendo
poiere con nuovi meriti guadagnarsi i figliuoli di Tarquinio.
Dimodoché, quanto al primo, si può avvertire ogni principe,
che non viva mai sicuro del suo principato, finché vivono
* La Testina e le moderne t e non /f umbUione. Ì/Ult poi la Romana tra*
mata il seguente e in et. " "' ''
LIBRO TERZO. 317
coloro che ne sono stati spogliali. Quanto al secondo, si può
ricordare ad ogni potente, che mai le ingiurie vecchie non
furono cancellale da'benefizii nuovi; e tanto meno, quanto
il benefizio nuovo è minore che non è stata l' ingiuria. E
senza dubbio, Servio Tullio fu poco prudente a credere che
i figliuoli di Tarquinio fussino pazienti ad esser generi di
colui di chi e* giudicavano dovere essere re. E questo ap-
petito del regnare è tanto grande, che non solamente entra
nei petti di coloro a chi s'aspetta il regno, ma di quelli a
chi non s'aspetta: come fu nella moglie di Tarquinio gio-
vine, figliuola di Servio; la quale, mossa da questa rabbia,
centra ogni pietà paterna, mosse il marito centra al padre a
tòrgli la vita ed il regno: tanto stimava più essere regina,
che figliuola di rei Se, adunque, Tarquinio Prisco e Servio
Tulio perdettono il regno per non si sapere assicurare di
coloro a chi ei l'avevano usurpalo, Tarquinio Superbo lo
perde per non osservare gli ordini degli antichi re: come
nel seguente capitolo si mostrerà.
Cap. V. — Quello che fa perdere uno regno ad uno re
che sia ereditario di quello.
Avendo Tarquinio Superbo morto Servio Tulio, e di lui
non rimanendo eredi, veniva a possedere il regno sicura-
mente, non avendo a temere di quelle cose che avevano of-
feso i suoi antecessori. E benché il modo dell* occupare il re-
gno fusse stalo islraordinario ed odioso; nondimeno, quando
egli avesse osservalo gli antichi ordini degli altri Re, sarebbe
stato comportalo, né si sarebbe concitato il Senato e la Plebe
centra di lui per tòrgli lo slato. Non fu, adunque, costui cac-
ciato per aver Sesto suo figliuolo stuprata Lucrezia, ma per
aver rotte le leggi del. regno, e governatolo tirannicamente;
avendo tolto al Senato ogni autorità, e ridottola a sé pro|)rioj
e quelle faccende che nei luoghi pubblici con salisfazione
del Senato romano si facevano, le ridusse a fare nel palazzo
suo con carico ed invidia sua: talché in breve tempo egli
spogliò Roma di tutta quella libertà ch'ella aveva sotto gli
altri Re mantenuta. Né gli bastò farsi* nimici y Padri, che si
318 DEI DISCORSt
concitò ancora contra la Plebe, affaticandola in cose mecca-
niche, e tutte aliene da quello a che 1' avevano adoperata ' i
suoi antecessori: laiche, avendo ripiena Roma di essempi cru-
deli e superbi, aveva disposti già gli animi di tutti i Romani
alla ribellione, qualunque volta ne avessino occasione. E se
Io accidente di Lucrezia non fusse venuto, come prima ne
fusse nato un altro, arebbe partorito il medesimo efTetto.
Perchè, se Tarquinio fusse vissuto come gli altri Re, e Sesto
suo figliuolo avesse fatto quello errore, sarebbero Bruto e
Collatino ricorsi a Tarquinio per la vendetta contra a Sesto,
e non al Popolo romano. Sappino adunque i principi, come
a quella ora e' cominciano a perdere lo stalo, ch'ei comin-
ciano a rompere le leggi, e quelli modi e quelle consuetu-
dini che sono antiche, e sotto le quali gli uomini lungo
tempo sono vìvali. E se privali ch'ei sono dello stalo, e'di-
venlassino mai lanlo prudenti, che conoscessino con quanta
facilità i principali si lenghino da coloro che saviamente si
consigliano; dorrebbe mollo più loro tal perdita, ed a mag-
giore pena si condannerebbono, che da altri fussino condan-
nati. Perché egli è molto più facile essere amalo da' buoni
che dai cattivi, ed ubbidire alle leggi che volere comandare
loro. E volendo intendere il modo avessino a tenere a fare
questo, noD hanno a durare altra fatica che pigliare per loro
specchio la vita dei principi buoni ; come sarebbe Timuleone
Corintio, Aralo Sicioneo, e simili: nella vita de' quali ei
troveranno tanta sicurità e tanla salisfazione di chi regge e
di chi è retto, che doverrebbe venirgli voglia di imitargli,
potendo facilmente, per le ragioni dette, farlo. Perché gli uo-
mini, quando sono governati bene, non cercano né vogliono
altra libertà : come intervenne ai popoli governati dai duoi
prenominali; che gli costrinsono ad essere principi mentre
che vissono, ancora che da quelli più volte fusse tentalo di
ridursi in vita privata. E perché in questo, e ne' duoi ante-
cedenti capitoli, si é ragionalo degli umori concitati contra
a' principi, e delle congiure fatte dai figliuoli di Bruto con-
tra alla patria, e di quelle falle centra a Tarquinio Prisco
' Nella Bladiana, eoa offe|a noo del senso ma della forma grammaticale :
gli avevano adoperati*
LIBRO TERZO. 5Ì9
ed a Servio Tulio; non mi pare cosa fuori di proposito, nel
seguente capitolo, parlarne difTusaraente, sendo materia de-
gna di essere notata dai prìncipi e dai privati.
Cap. vi. — Delle congiure.
E' non mi è parso da lasciare indietro il ragionare delle
congiure, essendo cosa tanto pericolosa ai principi ed ai
privali ; perchè si vede per quelle molti più principi aver
perduta la vita e Io stato, che per guerra aperta. Perchè il
poter fare aperta guerra con un principe, è conceduto a po-
chi; il potergli congiurar centra, è conceduto a ciascuno.
Dall'altra parte, gli uomini privali non entrano* in impresa
più pericolosa né più temeraria di questa; perchè la è diflBcile
e pericolosissima in ogni sua parte. Donde ne nasce, che
molle se ne tentano, e pochissime hanno il fine desiderato.
Acciocché, adunque, 1 principi imparino a guardarsi da questi
pericoli, e che i privati più timidamente vi si meltino; anzi
imparino ad esser contenti a vivere sotto quello imperio
che dalla sorte è stato loro preposto ; io ne parlerò dilTusa-
mente, non lasciando indietro alcun caso notabile in docu-
mento dell'uno e dell' altro. E veramente, quella sentenza
di Cornelio Tacito è aurea, che dice: che gli uomini hanno
ad onorare le cose passate, ed ubbidire alle presenti ; e deb-
bono desiderare ì buoni principi, e comunque si siano fatti
tollerargli. E veramente, chi fa altrimenti, il più delle volte
rovina sé, e la sua patria. Dobbiamo adunque, entrando
nella materia, considerare prima centra a chi si fanno le
congiure; e troveremo farsi o centra alla patria, o centra
ad uno principe : delle quali due voglio che al presente ra-
gioniamo ; perchè di quelle che si fanno per dare una terra
ai nimici che la assediano, o che abbino per qualunque ca-
gione similitudine con questa, se n* è parlato di sopra a suf-
ficienza. E tratteremo in questa prima parte di quelle cen-
tra al principe, e prima esamineremo le cagioni di esser le
quali sono molte ; ma una ne è importantissima più che tutte
l'altre. E questa è l'essere odiato dall'universale; perchè
quel principe che si è concitalo questo universale odio, è
< Le edizioni antiche, e il Poggiali: intrano* i-
320 D£l DISCORSI
ragionevole che abbi de* particolari ì qaali da Ini siano stati
più offesi, e che desiderino vendicarsi. Questo desiderio
é accresciuto loro da quella mala disposizione universale,
che vengono essergli concitata centra. Debbo, adunque, un
principe fuggire questi carichi pubblici : e come egli abbia
a fare a fuggirli, avendone altrove trattato, non ne voglio
parlare qui ; perché euardandosi da questo, le semplici offese
particolari gli faranno meno guerra. L'ana, perché si ris-
contra rade volte in uomini che stimino tanto una ingiu-
ria, che 8i meltino a tanto pericolo per vendicarla; l'altra,
che quando pur ei fussino d'animo e di potenza da farlo,
sono ritenuti da quella henivolenza universale, che veggono
avere ad ano principe. Le ingiurie, conviene che siano nella
roba, nel sangue, o nell'onore. Di quelle del sangue sono
più pericolose le minacce che la esecuzione; anzi, le minacce
sono pericolosissime, e nella esecuzione non vi é pericolo
alcuno : perché chi è morto, non può pensare alla vendetta;
quelli che rimangono vivi, il più delle volte ne lasciano il
pensiero al morto. Ma colui che é minaccialo, e che si vede
constretto da ona necessità o di fare o di patire, diventa un
uomo pericolosissimo per il principe: come nel suo luogo
particolarmente diremo. Fuora di queste necessità, la roba e
l'onore sono quelle due cose che offendono più gli uomini che
alcun' altra offesa, e dalle quali il principe si debbe guar-
dare: perché e' non può mai spogliare uno tanto, che non
gli resti un coltello da vendicarsi : non può mai tanto dis-
onorare uno, che non gli r<ìsti un animo ostinato alla ven-
detta. E degli onori che si tolgono agli uomini, quello delle
donne importa più : dopo questo, il vilipendio della sua per-
sona. Questo armò Pausania centra a Fdippo di Macedonia;
questo ha armato molti altri corrtra a molti altri principi : e nei
nostri tempi lulio Colanti non si mosse a congiurare centra
Pandolfo tiranno di Siena, se non per avergli quello data
e poi tolta per moglie una sua figliuola ; come nel suo luogo
diremo. La maggior cagione che fece che i Pazzi congiura-
rono centra a' Medici, fu l'eredità di Giovanni Bonromei, '
* Questo antico modo di tcrìrere , conservato , per gran maraviglia , in tutte
^'ediùoni, ci dimostra l'origine del cognome Borromeo, o Borromei.
i
LIBRO TERZO. 35Ì
la quale fu loro tolta per ordine di quelli. Un'altra cagione
ci è, e grandissima, che fa gli uomini congiurare conlra al
principe ; la quale è il disiderio di liberare la patria siala da
quello occupala. Questa cagione mosse Bruto e Cassio cen-
tra a Cesare; questa ha mosso molti altri contro ai Falari,
Dionisi, ed altri occupatori della patria loro, ^è può da que-
sto umore alcuno tiranno guardarsi, se non con diporre la
tirannide. E perchè non si (ruova alcuno che faccia questo,
si truovano pochi che non capitino male; donde nacque quel
verso di luvenale:
Ad gmerum Cereris sine ccede et vulnere palici
Descendunt reges, et sicca morte tiranni.
I pericoli che si portano, come io dissi di sopra, nelle con-
giure, sono grandi, portandosi per tutti i tempi ; perché in
tali casi sì corre pericolo nel maneggiarli, nello eseguirli,
ed eseguiti che sono. Quelli che congiurano, o e' sono uno,
0 e' sono più. Uno non sì può dire che sia congiura, ma è
una ferma disposizione naia in un uomo d'ammazzare il
principe. Questo solo dei tre pericoli che sì corrono nelle
congiure, manca del primo; perchè innanzi alla esecuzione
non porta alcun perìcolo, non avendo altri il suo segreto,
né portando pericolo che torni il disegno suo all'orecchie
del principe. Questa diliberazione cosiffatta può cadere in
qualunque uomo, di qualunque sorte, piccolo, grande, no-
bile, ignobile, famigliare e non famigliare al principe; per-
chè ad ognuno è lecito qualche volta parlargli; ed a chi è
lecito parlare, è lecito sfogare l'animo suo. Pausania, del
quale altre volte si è parlalo, ammazzò Filippo di Macedo-
nia che andava al tempio, con mille armati dintorno, ed in
mezzo intra il figliuolo ed il genero : ma costui fu nobile o
cognito al principe. Uno Spagnuolo povero ed abietto, dette
una coltellata in su '1 collo al re Ferrante, re * di Spagna: non
fu la ferita mortale, ma per questo si vidde che colui ebbe
animo e comodità a farlo. Uno dervis, sacerdote turchese©,
trasse d' una scimilarra a Baisit, padre del presente Turco:
non lo Teri, ma ebbe pur animo e comodità a volerlo fare. Di
* I moderni, scaiKUleuati della ripetiiùoney correwerot al r» Ferrando
di Spagna,
32Ì DEI DISCORSI
««•
questi animi falli cosi, se ne Iruovano, credo , assai che lo
vorrebbono fare, perchè nel volere non è pena né pericolo
alcuno ; ma pochi che lo faccino. Ma di quelli che lo fanno,
pochissimi * 0 nessuno che non siano ammazzali in sul fallo:
però non si Iruova chi voglia andare ad una certa morte. Ma
lasciamo andare queste uniche volontà, e veniamo alle con-
giure intra i più. Dico, trovarsi nelle istorie, tutte le congiure
esser fatte da uomini grandi, o famieliarissimi del prini^ipe:
perché gli altri, se non sono matti affatto, non possono congiu-
rare; perché gli uomini deboli, e non famigliari al principe,
mancano dì lutte quelle speranze e di tutte quelle comodità
che si richiede alla esecuzione d*una congiura. Prima, gli uo-
mini deboli non possono trovare riscontro di chi tenga lor
fede; perchè uno non può consentire alla volontà loro, sotto
alcuna di quelle speranze che fa entrare gli uomini ne* peri-
coli grandi ; in modo che, come e' si sono allargati in due
o in tre persone, e* trovano lo accusatore e rovinano: ma
quando pure ei fussino tanto felici che mancassìno dì questo
accusatore, sono nella esecuzione intorniati da tale difTiculià,
per non aver l'entrala facile al princi|)e, che rIì è impos-
sibile che in essa esecuzione ei non rovinino. Perchè, se
gli uomini grandi, e che hanno l'entrata facile, sono op-
pressi da quelle ditìlcultà che di sotto si diranno, conviene
che in costoro quelle ditììcullà senza fine creschino. Pertanto
gli uomini (perchè dove ne va la vita e la roba non sono al
tutto insani) quando si veggono deboli, se ne guardano; e
quando egli hanno a noia un principe, attendono a biastem-
marlo, * ed aspettano che quelli che hanno mai^giore qualità
di loro, gli vendichino. E se pure si trovasse che alcuno di
questi simili avesse tentato qualche cosa, si debbe laudare
in loro la intenzione, e non la prudenza. Vedasi, pertanto,
quelli che hanno congiurato, essere slati tutti uomini grandi,
o famigliari del principe; de' quali molti hanno congiurato,
mossi cosi da' troppi benefìzii, come dalle troppe ingiurie:
come fu Perennio centra a Commodo, Plauziano conlra a
Severo, Seiano conlra a Tiberio. Costoro tulli furono dai
* Cootinua a reggere il verbo di sopra ; se ne tntovano.
' Cosi nella Bladiana e nella Testina.
LIBRO TERZO. 323
loro imperadori constituiti in tanta ricchezza, onore e grado,
che non pareva che mancasse loro alla perfezione della po-
tenza altro che l' imperio; e di questo non volendo mancare,
si missono a coni;iurare centra al principe : ed ebbono le
loro congiure tutte quel fine che meritava la loro ingratitudi-
ne; ancora che di queste simili ne* tempi più freschi ne avesse
buon fine quella di Iacopo d'Appiano centra a messer Piero
Gambacorti, principe di Pisa : il quale Iacopo, allevalo e nu-
trito e fatto riputato da luì, gli tolse poi lo stato. Fu di que-
ste quella del Coppola, ne' nostri tempi, centra al re Ferrando
d'Aragona ; il quale Coppola venuto a tanta grandezza che
non gli pareva gli mancasse se non il regno, per volere
ancóra quello, perde la vita. E veramente, se alcuna congiura
centra a' principi fatta da uomini grandi dovesse avere buon
fine, doverrebbe essere questa ; essendo fatta da un altro re,
si può dire, e da chi ha tanta comodità di adempire il suo
desiderio: ma quella cupidità del dominare che gli accieca,
gli accieca ancora nel maneggiare questa impresa; perchè,
se sapessino fare questa cattività con prudenza, sarebbe
impossibile non riuscisse loro. Debbo, adunque, un principe
che si vuole guardare dalle congiure, temere più coloro a
chi egli ha fatto troppi piaceri, che quelli a chi gli avesse
fatte troppe ingiurie. Perchè questi mancano di comodità,
quelli ne abbondano; e la voglia è simile-, perchè gli è così
grande o maggiore il disiderio del dominare, che non è
quello della vendetta. Debbono, pertanto, dare tanta autorità
agli loro amici, che da quella al principato sia qualche in-
tervallo, e che vi sia in mezzo qualche cosa da disiderare:
altrimenti, sarà cosa rara se non interverrà loro come ai
princìpi soprascritti. Ma torniamo all'ordine nostro. Dico,
che avendo ad esser quelli che congiurano uomini grandi, e
che abbino l'adito facile al prìncipe, si ha a discorrere i
successi dì queste loro imprese quali siano slati, e ve<lere
la cagione che gli ha fatti essere felici, ed infelici. E come
io dissi di sopra, ci si trovano dentro in tre tempi, pericoli;
prima, in su 'l fatto, e poi. Però se ne trovano |)oche che
abbiano buono esilo, perchè gli è impossibile quasi pas-
§£(rgli tutu fejiceipeate. £ comipclando a discorrere i peri-
SIA DEI DISCORSI
coli di prima, che sono i più importanti ; dico, come e' biso-
gna essere mollo prudente, ed avere una gran sorte, che nel
maneggiare una congiura la non si scuopra. E si scuoprono
o per relazione, o per conietlura. La relazione nasce da tro-
vare poca fede, o poca prudenza, negli uomini con chi tu la
comunichi. La poca fede si trova facilmente, perchè tu non
puoi comunicarla se non eoo tuoi fidali, che per tuo amore
si mettino alla morte, o con uomini che siano malcontenti
del principe. DeTidati se ne potrebbe trovare uno o due; ma
come tu ti distendi io molti, è impossibile gli Iruovi: dif>oi,
e' bisogna bene che la benevolenza che ti portano sia grande,
a volere che non paia loro maggiore il pericolo e la paura
della pena. Dipoi gli uomini s* ingannano il più delle volte
dello amore che lo giudichi che on uomo ti porti, né te ne
puoi mai assicurare, se (o non ne fai esperienza: e farne
esperienza in questo è pericolosissimo: e sebbene ne avessi
fatto esperienza in qualche altra cosa pericolosa dove e' li
fussono stati fedeli, non puoi da quella fede misurare questa,
passando questa di gran lunga ogni altra qualità di pericolo.
Se misuri la fede dalla mala contentezza che uno abbia del
principe, in questo lo ti puoi facilmente ingannare: perché
subilo che lo hai manifestato a quel malcontento l'animo
tuo, tu gU dai materia di contentarsi, e convien bene o che
l'odio sia grande, o che l'autorità tua sia grandissima a
mantenerlo in Tede. Di qui nasce che assai ne sono riTeiate,
eQ oppresse ne' primi principii loro ; e che quando una è
stata infra molti oomini segreta longo tempo, é tenuta cosa
Diiracolosa: come fa quella di Pisone centra a Nerone, e
ne' nostri tempi quella de' Pazzi centra a Lorenzo e Giuliano
de' Medici; delle quali erano consapevoli più che cinquanta
nomini, e condussonsi alla esecuzione a scoprirsi. Quanto a
scoprirsi per poca prudenza, nasce quando uno congiurato ne
parla poco cauto, in modo che un servo o altra terza persona
intenda; come intervenne ai fmliuoli di Bruto, che nel ma-
neggiare la cosa con i legati di Tarquinìo, furono intesi da un
servo, che gli accusò : ovvero quando per leggerezza ti viene
comunicata adonna o a fanciullo che tu ami,o a simile leggieri
persona; come fece Dinne, uno de' congiurati conFilota centra
LIBRO TERZO. 325
ad AlessandroMagno,ilqualecomunicò la congiura aNìcomaco
fanciullo amato da lui, il quale subito lo disse a Ciballìno suo
fratello, e Ciballino al re. Quanto a scoprirsi per conieltura, ce
n'è in essempio la congiura Pisoniana contra a Nerone; nella
qualeScevino, uno de'congiurati, il di dinanzi ch'egli aveva ad
ammazzare Nerone, fece testamento, ordinò che Melichio' suo
liberto facesse arrotare un suo pugnale vecchio e rugginoso,
liberò tutti i suoi servi e dette loro danari, fece ordinare fa-
sciature da legare ferite: per le quali conietlure accertatosi Me-
lichio della cosa, lo accusò a Nerone. Fu preso Scovino, e con
lui Natale, un altro congiurato, i quali erano stati veduti
parlare a lungo e di segreto insieme il dì davanti; e non si
accordando del ragionamento avuto, furono forzati a confes-
sare il vero; talché la congiura fu scoperta, con rovina di
tutti i congiurati. Da queste cagioni dello scoprire le con-
giure è impossibile guardarsi, che per malizia, per impru-
denza 0 per leggerezza, la non si scuopra, qualunque volta
i conscii d'essa passano il numero di tre o di quattro. E
come e' ne è preso più che uno, è impossibile non riscon-
trarla, perchè due non possono esser convenuti insieme di
tutti i ragionamenti loro. Quando e' sia preso solo uno che
sia uomo forte, può egli con la fortezza dello animo tacere i
congiurati; ma conviene che i congiurati non abbino meno
animo di lui a star saldi, e non si scoprire con la fuga: per-
che da una parte che l'animo manca, o da chi è sostenuta
o da chi è libero, la congiura è scoperta. Ed è raro lo essem-
pio addotto da Tito Livio nella congiura fatta contra a Giro-
lamo re di Siracusa; dove, sendo Teodoro uno de' congiurati
preso, celò con una virtù grande lutti i congiurati, ed ac-
cusò gli amici del re; e dall'altra parte, tutti i congiurati
confidarono tanto nella virtù di Teodoro, che nessuno si partì
di Siracusa, o fece alcuno segno di timore. Passasi, adun-
que, per tutti questi pericoli nel maneggiare una congiura
innanzi che si venga alla esecuzione d'essa: i quali volendo
fuggire, ci sono questi rimedi. 11 primo ed il più vero, ^ anzi
* Le antiche edizioni, qui e di sotto: Milichio.
3 Cosi nella Bladiana e nella Testina. Le del Poggiali e del 1813: Il primo
e il più sicuro,
28
326 DEI DISCORSI
a dir meglio, onico, è non dare tempo ai congiurati di accu-
sarli; e perciò* comunicare loro la cosa quando tu la vuoi
fare, e non prima: quelli che hanno fatto cosi, fusgono a\*
certo i pericoli che sono nel praticarla, e il più delie volle
gli altri; anzi hanno tutte avuto felice fine: e qualunque
prudente arebbe comodità di governarsi in questo modo. Io
voglio che mi basti addurre due essempi. Neleraalo, non po-
tendo sopportare la tirannide di Aristotimo tiranno di Epiro,
ragunò in casa sua molti parenti ed amici, e confortatogli a
liberare la patria, alcuni di loro chiesono tempo a delibe-
rarsi ed ordinarsi; donde Nelemato fece a'suoi servi serrare
la casa, ed a quelli che esso aveva chiamati, disse: 0 voi
giurerete di andare ora a fare questa esecuzione, o io vi darò
tutti prigioni ad Aristotimo. Dalle quali parole mossi coloro,
giurarono; ed andati senza intermissione di tempo, felice-
menle l'ordine di Nelemato ese^iuirono. Avendo un Mago,
per inganno, occupato il regno de' Persi, ed avendo Orla-
no, uoo de* grandi uomini dei regno, intesa e scopertala
fraude, lo conferì con sei altri principi di quello slato, di-
cendo come esli era da vendicare il regno dalla tirannide di
quel Mago; e domandando alcuno di loro tempo, * si levò
Dario, uno- de'sei chiamati da Orlano, e disse: 0 noi andre-
mo ora a far questa esecuzione, o io vi andrò ad accusar tutti.
E cosi d'accordo levatisi, senza dar tempo ad alcuno di pen-
tirsi, eseguirono felicemente' i disegni loro. Simile a questi
duoi essempi ancora è il modo che gli Eloli tennero ad
animazzare Nabide, tiranno spartano; i qu;ili mandarono
Alessameno loro cittadino, con trenta cavalli e dusenlo fanti,
a Nabide, sotto colore di mandargli aiuto; ed il segreto so-
lamente comunicarono ad Alessameno; ed asti altri iro(>osnno
che lo ubbidis<iino in ogni e qualunque cosa, sotto pena di
esilio. Andò costui in S)>arla, e non comunicò mai la com-
missione sua se non quando ei la volle eseguire: donde gli
riusci d' ammazzarlo. Costoro, adunque, per questi modi
hanno fuggiti quelli pericoli che si portano nel maneggiare
* Manca nella Romana perciò, eh' è io tuUe le altre.
* Male nella Te»tina , e nelle moderne edizioni : ii tempo.
' Co^f e meglio , nelU Rowaa^. I<« «lire t)«imo facilmcnti.
LIBRO TERZO. 327
le congiare; e chi imiterà loro, sempre gli fuggirà. E che
ciascuno possa fare come loro, io ne voglio jdare Io essempio
di Pisone, preallegalo di sopra. Era Pisone grandissimo e ri-
pulalissimo uomo, e famigliare di Nerone, e in chi egli con-
fidava assai. Andava Nerone ne'suoi orli spesso a mangiare
seco. Poteva, adunque, Pisone farsi amici uomini d'animo, di
cuore, e di disposizione alti ad una tale esecuzione (il che ad
uno uomo grande è facilissimo); e quando Nerone fusse sialo
ne'suoi orti, comunicare loro la cosa, e con parole conve-
nienti inanimirli a far quello che loro non avevano tempo a
ricusare, e che era impossibile che non riuscisse. E cosi, se
si esamineranno tutte l'altre, si troverà poche non esser
potute contjursi nel medesimo modo: ma gli uomini per lo or-
dinario poco, intendenti delle azioni del mondo, spesso fanno
errori grandissimi, e tanto maggiori in quelle che hanno più
dello istraordinario, come é questa. Debbesi, adunque, non
comunicare mai la cosa se non necessitalo ed in sul fatto; e
se pure la vuoi comunicare, comunicala ad un solo, del quale
abbi fallo lunghissima isperienza, o che sia mosso dalle me-
desime cagioni che tu. Trovarne uno cosi fatto è mollo più fa-
cile che trovarne più, e per questo vi è meno pericolo; dipoi,
quando pure ei ti ingannasse, vi è qualche rimedio a difen-
dersi, che non é dove siano congiurali assai: perchè da al-
cuno prudente' ho sentito dire che con uno si può parlare
ogni cosa, perchè tanto vale, se tu non ti lasci condurre a
scrivere di tua mano, il si dell'uno quanto il no dell'altro;
e dallo scrivere ciascuno debbe guardarsi come da uno sco-
glio, perchè non è cosa che più facilmente ti convinca, che
lo scrino di tua mano. Plauziano volendo fare ammazzare
Severo imperadore ed Antonino suo figliuolo, commise la
cosa a Saturnino tribuno; il quale volendo accusarlo e non
ubbidirlo, e dubitando che venendo alla accusa non fusse più
creduto a Plauziano che a lui, gli chiese una cedola di sua
mano, che facesse fede di questa commissione; la quale Plau-
ziano, accecalo dalla ambizione, gli fece: donde segui che fu
dal tribuno accusalo e convinto; e senza quella cedola, e
* Cosi nella Bladiana e in quella del 1813 ; ma nelle altre: da alcuni pnt-
denti.
^ ¥\
328 DEI DISCORSI
certi altri contrassegni, sarebbe slato Plauziano superiore:
tanto audacemente negava. Truovasi, adunque, nella accusa
d'uno qualche rimedio, quando tu non puoi esser da una
scrittura, o altri contrassegni, convinto: da che uno si debbc
guardare. Era nella congiura Pisoniana una femmina chia-
mata Epicari, stala per lo addietro amica di Nerone; la quale
giudicando che fusse a proposito mettere tra i congiurati uno
capitano di alcune triremi che Nerone teneva per sua guar-
dia, gli comunicò la congiura, ma non i congiurati. Donde,
rompendogli quel capitano la fede ed accusandola a Nerone,
fu tanta l'audacia di Epicari nel negarlo, che Nerone, limnso
confuso, non la condennò. Sono, adunque, nel comunicare la
cosa ad un solo due pericoli: rane, che non ti accusi in pruo-
va; l'altro, che non ti accusi convinto e constrctlo dalla pena,
sendo egli preso per qualche sospetto o per qualche indizio
avuto di lai. Ma nell' ano o nell' altro di questi duoi peri-
coli é qualche rimedio, potendosi nesare 1' uno allegandone
l'odio che colui avesse leco, e negare l'alti'o allegandone la
forza che lo costringesse a dire le bugie. È, adunque, pru-
denza non comunicare la cosa a nessuno, ma fare secondo
quelli essempi soprascritti; o quando pure la comunichi, non
passare uno, dove se è qualche più pericolo, * ve n'é meno
assai che comunicarla con molti. Propinquo a questo modo
è quando una necessità ti costringa a fare quello al prin-
cipe che tu vedi che '1 principe vorrebbe fare a te, la quale
sia tanto grande che non ti dia tempo se non a pensare d'as-^
sicurarti. Questa necessità conduce quasi sempre la cosa al
fìne desiderato: ed à provarlo voglio bastino duoi essempi.
Aveva Commodo, imperadore, Leto ed Eletto, capi de* sol-
dati pretoriani, intra i primi amicf^ famigliari suoi, ed aveva
Marzia intra le sue prime concubine ed amiche; e perchè
egli era da costoro qualche volta ripreso de' modi con i quali
maculava la persona sua e lo imperio, deliberò di fargli mo-
rire, e scrisse in su una lista: Marzia, Leto ed Eletto,
ed alcuni altri che voleva la notte seguente far morire; e
questa lista messe sotto il capezzale del suo letto. Ed essendo
• Cosi tulle le stampe: ma sembra da correggerti: dovt /*« />«r« qual-
che pericolo.
LIBRO TERZO. 3^9
ito a lavarsi, an fanciullo favorito di lui scherzando per ca-
mera e su pel letto, gli venne trovata questa lista, ed
ascendo fuora con essa in mano, riscontrò Marzia; la quale
gliene tolse, e lettola, e veduto il contenuto d'essa, subito
mandò per Leto ed Eletto ; e conosciuto tutti tre il pericolo
in quale erano, diliherarono prevenire; e, senza metter tempo
in mezzo, la notte seguente ammazzarono Coramodo. Era
Antonino Caracalla, imperadore, con gli eserciti suoi in Me-
sopotamia, ed aveva per suo prefetto Macrino, uomo più ci-
vile che armigero ; q, come avviene che i principi non buoni
temono sempre che altri non operi centra di loro quello che
par loro meritare, scrisse Antonino a Materniano suo amico
a Uoma, che inlendesse dagli astrologi, se gli era alcuno che
aspirasse allo impefio, e gliene avvisasse. Donde Materniano
gli riscrisse, come Macrino era quello che vi aspirava; e
pervenuta la lettera, prima alle mani di Macrino che dello
imperadore, e per quella conosciuta la necessità o d'ammaz-
zare lui prima che nuova lettera venisse da Roma, o di mo-
rire, commise a Marziale centurione, suo fidato, ed a chi
Antonino aveva morto pochi giorni innanzi un fratello,
che lo ammazzasse : il che fu eseguito da lui felicemente.
Vedesi, adunque, che questa necessità che non dà tempo,
fa quasi quel medesimo etTelto che '1 modo da me sopraddetto
che tenne Nelemato di Epiro. Vedesi ancora quello che io
dissi quasi nel principio di questo discorso, come le minacce
offendono più gli principi, e sono cagione di più efficaci con-
giure che le offese: da che un principe si debbo guardare;
perchè gli uomini si hanno o a carezzare, o assicurarsi di
loro, e non gli ridurre mai in termine che gli abbino a pen-
sare che bisogni loro o morire, o far morire altrui. Quanto ai
pericoli che si corrono in su la esecuzione, nascono questi
0 da variare l'ordine, o da mancare l'animo a colui che ese-
guisce, 0 da errore che lo esecutore faccia per poca pruden-
za, 0 per non dar perfezione alla cosa, rimanendo vivi parte
di quelli che si disegnavano ammazzare. Dico, adunque, come
e' non è cosa alcuna che faccia tanto sturbo o impedimento
a tutte le azioni degli uomini, quanto è in uno instante, senza
aver tempo, avere a variare un ordine, e pervertirlo da quelb
SS'
330 DEI Disconst
che si era ordinato prima. E se questa variazione fa disor-
dine in cosa alcuna, lo fa nelle cose della guerra, ed in cose
simili a quelle di che noi parliamo; perchè in tali azioni non
è cosa tanto necessaria a fare, quanto che gli uomini fer-
mino gli animi loro ad esesuire quella parie che tocca loro :
e se gli uomini hanno vòlto la fantasia per più giorni ad un
modo e ad uno ordine, e quello subito varii, è impossibile che
non si perturbino tutti, e non rovini ogni cosa; in modo
ch'egli è roe;^lio assai eseguire una cosa secondo T ordine
dato, ancora che vi si vegga qualche inconveniente, che non
è, per voler cancellare quello, entrare in mille inconvenienti.
Questo interviene quando e* non si ha tempo a riordinarsi;
perché quando si ha lemfio, si può 1* uomo governare a suo
modo. La congiura de' Pazzi contra a Lorenzo e Giuliano
de' Medici, è nota. L' ordine dato era, che dessino desinare
al cardinale di San Giorgio, ed a quel desinare ammazzargli:
dove si era distribuito chi aveva a ammazzargli, chi aveva a
pigliare il palazzo, e chi correre la città e chiamare il po-
polo alla libertà. Accadde* che essendo nella chiesa cattedrale
in Firenze i Pazzi, ì Medici ed il Cardinale ad uno otilzio
solenne, s'intese come Giuliano la mattina non vi desinava:
il che fece chei congiurati s'adunarono insieme, e quello
che gli avevano a far in casa i Medici, diliberarono di farlo
in chiesa. Il che venne a perturbare lutto l'ordine; perché
Giovambalista da Monlesecco non volle concorrere all'omi-
cidio, dicendo non lo volere fare in chiesa : talché gli ebbono
a mutare nuovi ministri in ogni azione; ì quali, non avendo
tempo a fermare l'animo, feciono tali errori, che in essa
esecuzione furono oppressi. Manca l'animo a chi eseguisce,
o per riverenta, o per propria viltà dello esecutore. È tanta
la maestà e la riverenza che si tira dietro la presenza d'uno
principe, ch'egli é facil cosa o che mitighi o ch'egli sbigot-
tisca uno esecutore. A Mario, essendo preso da'Minturnesi,
fu mandato uno servo che lo ammazzasse; il quale spaven-
tato dalla presenza di quello uomo e dalla memoria del nome
suo, divenuto vile, perde 'ogni forza ad ucciderlo. E seque-
' La Testiiu e 1* edizione del Poggiali , qui e io altri luoghi : Accadi,
t Cosi nella Romana. Le altre leggono t dif^entà vUe,eperdi,
sta potenza è in uno uomo legalo e prigione, ed aflfogato in la
mala fortuna; quanto si può temere che la sia maggiore in
un principe sciolto, con la maestà degli ornamenti, della
pompa e della comitiva sua? talché ti può questa pompa
spaventare, o vero con qualche graia accoglienza raumiliare.
Congiurarono alcuni conlra a Sìlalce re di Tracia ; deputa-
rono il dì della esecuzione; convennono al luogo deputalo,
dov'era il principe; nessuno di loro si mosse per offenderlo:
tanto che si partirono senza aver tentalo alcuna cosa e senza
sapere quello che se gli avesse impediti ; ed incolpavano l'uno
l'altro. Caddono in tale errore più volle; tantoché scopertasi
la congiura, portarono pena di quel male che poterono e non
volleno fare. Congiurarono conlra Alfonso duca di Ferrara
due suoi fratelli, ed usarono mezzano Giennes prete e can-
tore del duca ; il quale più volte, a loro richiesta, condusse il
duca fra loro, talché gli avevano arbitrio di ammazzarlo.
Nuiidimeno, mai nessuno di loro non ardi di farlo; tantoché,
scoperti, portarono la pena della cattività e poca prudenza
loro. Questa negligenza non potette nascere da altro, se non
che convenne o che la presenza gli sbigottisse o che qual-
che umanità del principe gli umiliasse. Nasce in tali esecu-
zioni inconveniente o errore per poca prudenza, o per poco
animo ; perché l'una e l'altra di queste due cose ti 'nvasa, e,
portalo da quella confusione di cervello, ti fa dire e fare
quello che tu non debbi. E che gli uomini invasino e si con-
fondino, non Io può meglio dimostrare Tito Livio quando
descrive d'AIessameno elolo, quando ei volse ammazzare
Nabide spartano, di che abbiamo di sopra parlato ; che, ve-
nuto il tempo della esecuzione, scoperto che egli ebbe a'suoi
quello che s'aveva a fare, dice Tito Livio queste parole:
CoUeijit et ipse animum, confusum lantcB cogilalione rei. Perchè
gli è impossibile ch'alcuno, ancora che di animo fermo, ed
uso alla morte degli uomini e ad operare il ferro, non si
confonda. Però si debbe eleggere uomini sperimentati in tali
maneggi, ed a nessun altro credere, ancora che tenuto ani-
mosissimo. Perchè, dello animo nelle cose grandi, senza
avere fatto isperienza, non sia alcuno che se ne prometta
posa certa. Può, adunque, questa confusione o farti cascare
33^ DEI DISCORSI
rarmì di mano, o farli dire cose che faccino il medesimo
efiello. F^ucilla, sorella di Commodo ordinò cheQuinziano lo
ammazzasse. Costui aspettò Commodo nella entrata dello an-
fiteatro, e con un pugnale ignudo accostandosegli» gridò : Que-
sto li manda il Senato: le quali parole fecero che fu prima
preso ch'egli avesse calato il braccio per ferire. Messer An-
tonio da Volterra, diputalo, come di sapra si disse, ad am-
mazzare Lorenzo de' Medici, nello accosiarsegli, disse: Ah
traditore! la qual voce fu la salute di Lorenzo, e la rovina di
quella congiura. Può non si dare perfezione alla cosa, quando
si congiura centra ad un capo, per le cagioni dette: ma fa-
cilmente non se le dà perfezione quando si congiura centra
a due capi ; anzi è tanto difTlcile, che gli è quasi impossibile
che la riesca. Perchè fare una simile azione in un medesimo
tempo in diversi luoshi, ó quasi impossibile; perché in di-
versi tempi non si può fare, non volendo che l'una guasti l'al-
tra. In modo che, se il congiurare conlra ad un principe è
cosa dubbia , pericolosa e poco prudente ; congiurare contra
a due, è al lutto vana e leggieri. E se non fusse la rive-
renza dello isterico, io non crederei mai che fusse possibile
quello che Erodiano dice di Plauziano, quando ei commise
a Saturnino centurione, che egli solo ammazzasse Severo ed
Antonino, abitanti in diversi luoghi : perché la é cosa tanto
discosto dal ragionevole, che altro che questa autorità non
me lo farebbe credere. Congiurarono certi giovani ateniesi
contra a Diocle ed Ippia, tiranni di Atene. Ammazzarono
Diocle; ed Ippia che rimase, lo vendicò. Chione e Leonide,
eraclensi e discepoli di Piatone, conuiurarono contra a Calcareo
e Satiro, tiranni: ammazzarono Clearco; e Satiro che restò
vivo, lo vendicò. Ai Pazzi, più volte da noi allegati, non suc-
cesse di ammazzare se non Giuliano. In modo che, di simili
congiure contra a più capi se ne debbe astenere ciascuno,
perché non si fa bene né a sé né alla patria né ad alcu-
no: anzi quelli che rimangono, diventano più insopporta-
bili e più acerbi; come sa Firenze, Atene ed Eraclea,
state da me preallegate. È vero che la congiura che Pelo-
pida fece per liberare Tebe sua patria, ebbe tulle le diflì-
cultà; nondimeno ebbe felicissimo fine: perchè Pelopida
LIBRO TERZO. m' ^33
non solamente congiaró contra a due tiranni, ma conlra a
dieci ; non solamente non era confidente e non gli era fo-
cile l'entrata ai tiranni, ma era ribello: nondimeno ei potè
venire in Tebe, aramazzare 1 tiranni, e liberare la patria.
Pur nondimeno fece tulio, con V aiuto d* uno Cariote, consi-
gliere * de' tiranni, dal quale ebbe l' entrata facile alla esecu-
zione sua.Non sia alcuno, nondimeno, che pigli lo esserapio da
cosini: perchè cotae la fu impresa impossibile, e cosa mara-
vigliosa a riuscire, così fu ed è tenuta dagli scrittori i quali
la celebrano, come cosa rara, e quasi senza essempio. Può
essere interrotta tale esecuzione da una falsa immaginazio-
ne, 0 da uno accidente improvviso che nasca in su 'l fatto. La
mattina che Bruto e gli altri congiurati volevano ammazzare
Cesare, accadde che quello parlò a lungo con Gneo Popilio
Lenate, uno de* congiurati; e vedendo gli altri questo lungo
parlamento, dubitarono che detto Popilio non rivelasse a
Cesare la congiura. Furono per tentare d'ammazzare Cesare
quivi, e non aspettare che fusse in Senato; ed arebbonlo
fatto, se non che il ragionamento fini, e visto non fare a
Cesare moto alcuno straordinario, si rassicurarono. Sono
queste false immaginazioni da considerarle, ed avervi con
prudenza rispetto; e tanto più, quanto egli è facile ad aver-
le. Perchè chi ha la sua conscienza macchiata, facilmente
crede che si parli di lui : puossi sentire una parola delta ad
un altro fine, che li faccia perturbare l'animo, e credere che
la sia delta sopra il caso tuo; e farli o con la fuga scoprire
la congiura da te, o confondere l'azione con accelerarla
fuora di tempo. E questo tanto più facilmente nasce, quanto*
ei sono molli ad esser conscii della congiura. Quanto agli ac-
cidenti, perchè sono insperali, non si può se non con gli
essempi mostrargli, e fare gli uomini cauti secondo quelli,
lulio Belanti da Siena, del quale di sopra abbiamo fallo
menzione, per lo sdegno aveva contra a Pandolfo, che gli
aveva tolta la figliuola che prima gli aveva data per mo-
glie, deliberò d'ammazzarlo, ed elesse questo tempo. Andava
Pandolfo quasi ogni giorno a visitare un suo parente infermo,
* La Bladiana soltanto t con^i^'/Zer/. i^,
3 Inutilmente emendano gli editori del 1813 : quando, •"*■
334 . DEI DISCORSI
e nello andarvi passava dalle case di lulio. Costui adunque
veduto questo, ordinò d'avere i suoi congiurali in casa ad
ordine per aoimazzare Pandolfo nel passare; e messisi den-
tro air uscio armati, teneva uno alla feneslra, che, passando
Pandolfo, quando ei fusse stato presso all' uscio, facesse un
cenno. Accadde che venendo Pandolfo, ed avendo fatto colui
il cenno, riscontrò uno amico che lo Termo; ed alcuni di
quelli che erano con lui , vennero a trascorrere innanli, e
veduto e sentito il romore d*arme, scopersono Tazguato; in
lAodo che Pandolfo si salvò, e lulio coi compagni s' eh-
bono a fusgire di Siena. Impedì quello accidente di quello
scontro quella azione, e fece a lulio rovinare la sua im-
presa. Ai quali accidenti, perché ei sono rari, non si può
fare alcuno rimedio. È ben necessario esaminare lutti quelli
che possono nascere, e rimediarvi. Restaci, al presente, solo
a disputare de' pericoli che si corrono dopo la esecuzione : i
quali sono solamente ano; e questo è, quando e' rimane al-
cuno che \endichi il principe morto. Possono rimanere, adun-
que, suoi fratelli, o suoi fiuliuoli, o altri aderenti, a chi
8* aspetti il principato; e possono rimanere o per tua negli-
genza, 0 per le cagioni delle di sopra, che faccino questa
vendetta: come intervenne a Giovannandrea da Lampognano,
il quale, insieme con i sani congiurati, avendo morto il duca
di Milano, ed essendo rimase uno suo figliuolo e due suoi
fratelli, furono a tempo a vendicare il morto. E veramente,
in questi casi i congiurali sono scusati, perchè non ci hanno
rimedio; ma quando ei ne rimane vivo alcuno per poca pru-
denza, 0 per loro nesligenza, allora è che non meritano scusa.
Ammazzarono alcuni congiurati Forlivesi il conte Girolamo
loro signore, presono la moglie, ed i suoi figliuoli, che erano
piccoli; e non parendo loro poter vivere sicuri se non si in-
signorivano della fortezza, e non volendo il castellano darla
loro. Madonna Caterina (che cosi si chiamava la conles.<a)
promise a* congiurati, se la lasciavano entrare in quella, di
farla consegnare loro, e che ritenessino appresso di loro i
suoi figliuoli per islatichi. Costoro scilo questa fede ve la la-
sciarono entrare; la quale come fu dentro, dalle mura rim-
proverò loro la morte del marito, e minacciògli d' ogni qua-
LIBRO TERZO. 335
lilà di vendetta. E per raoslrare che de' suoi figliuoli non si
curava, moslrò loro le membra genitali, dicendo che aveva
ancora il modo a rifarne. Così costoro, scarsi di consiglio e
tardi avvedutisi del loro errore, con uno perpetuo esilio pati-
rono pene della poca prudenza loro. Ma di tutti i pericoli
che possono dopo la esecuzione avvenire, non ci è il più
cerio, né quello che sia più da temere, che quando il popolo
è amico del principe che tu bai morto : perchè a questo i
congiurati non hanno rimedio alcuno, perchè e' non sé ne
possono mai assicurare. In essempio ci è Cesare, il quale per
avere il popolo di Roma amico, fu vendicato da lui; perchè
avendo cacciati i congiurati di Roma, fu cagione che furono
lutti in vari tempi e in vari luoghi ammazzali. Le congiure
che sì fanno centra alla patria sono meno pericolose per
coloro che le fanno, che non sono quelle che si fanno centra
ai principi: perchè nel maneggiarle vi- sono meno pericoli
che" in quelle; nello eseguirle vi sono quelli medesimi; dopo
la esecuzione, non ve n'é alcuno. Nel maneggiarle non vi è
pericoli molli: perchè un cittadino può ordinarsi alla potenza
senza manifestare l'animo e disegno suo ad alcuno; e se
quelli suoi ordini non gli sono ìnlerrolti, seguire felicemente
l'impresa sua; se eli sono interrotti con qualche legge,
aspettar (empo, ed entrare [ler altra via. Questo s'intende
in una repubblica dove è qualche parte di corruzione ; per-
chè in una non corrotta, non vi avendo tuono nessuno prin-
cipio cattivo, non possono cadere in un suo cittadino questi
pensieri. Possono, adunque, i cittadini per molli mezzi e
molle vie aspirare al principato, dove eì non portano peri-
colo d'essere oppressi: si perchè le repubbliche sono più
tarde che uno principe, dubitano meno, e per questo sono
manco caute; si perchè hanno più rispello ai loro cilladini
grandi, e per questo quelli sono più audaci, e più animosi a
far loro centra. Ciascuno ha letto la congiura di Caldina
scritta da Salustio, e sa come poi cbe la congiura fu scoper-
ta, Caldina non solamente slette in Roma, ma venne in
Senato, e disse villania al Senato ed al i.onsolo: tanto era il
rispello che quella cillà aveva ai suoi cittadini. E parlilo
che fu di Mowa, e ch'e^jU era di già in su gli eserciti, non
336 DEI DISCORSI.
si sarebbe preso Len(oIo e quelli allri, se non sì fussero
avaJe lellere di lormano che gli accusavano manifeslamente.
Annone, grandissimo ciUadino in Cartagine, aspirando alla
tirannide, aveva ordinato nelle nozze d* una sua figliuola
di avvelenare tutto il Senato, e dipoi farsi principe. Questa
cosa intesasi, non vi fece il Senato altra provvisione che
d*ona legge, la quale poneva termine alle spese de' con-
viti e delle nozze: tanto fu il rispetto che gli ebbero allo
qualità sue. È ben vero, cbe nello eseguire una congiura
contra alla patria, vi è più ditlìcultà e maggiori pericoli;
perché rade volte è che bastino le tue forze proprie conspi-
rando contra a tanti ; e ciascuno non è principe d' uno eser-
cito, come era Cesare o Agatocle o Cleomene, e simili, che
hanno ad un tratto e coI^la forza occupata la patria. Perchò
a simili è la via assai facile, ed assai sicura; ma gli altri
che non hanno tante aggiunte di forze, conviene che faccino
la cosa 0 con incanno ed arte, o con forze forestiere. Quanto
alio inganno ed all'arte, avendo Pisistralo ateniese vinti i
Mcgarensi, e per questo acquistata grazia nel popolo, usci
una mattina fuori ferito, dicendo che la nobiltà per invidia
r aveva ingiuriato, e domandò di poter menare armati seco
per guardia soa. Da questa autorità facilmente salse a tanta
grandezia, che diventò tiranno d'Ateoe. Pandolfo Peirucci
tornò con altri fuoruscili in Siena, e gli fu data la guardia
della piazza in governo , come cosa meccanica , e che gli
altri rifiutarono; nondimanco quelli armali, con il tempo, gli
dierono tanta riputazione, che in poco tempo ne diventa
principe. Molli altri hanno tenute altre industrie ed altri
modi, e con ispazìodi tempo e senza pericolo vi si sono con-
dotti. Quelli che con forza loro, o con eserciti esterni, hanno
congiurato per occupare la patria, hanno avuti vari eventi,
secondo la fortuna. Catilina preallesato vi rovinò sott<^. An-
none, di chi di sopra facemmo menzione, non essendo riu-
scito il veleno, armò di suoi partigiani molte migliaia di
persone, e loro ed eglino furono morti. Alcuni primi cilladini
di Tebe per farsi tiranni chiamarono in aiuto uno esercito
sparlano, e presono la tirannide di quella città. Tanto che,
esaminate tulle le congiure falle contra alla palria, non ne
1
LIBRO TERZO. 337
troverai alcnna, o poclie, che nel maneggiarle siano oppres-
se; raa tutte o sono riuscite, o sono rovinate nella esecuzio-
ne. Eseguite che le sono, ancora non portano altri pericoli ,
che si porti la natura del principato in sé : perchè divenuto
che uno è tiranno, hai suoi naturali ed ordinari pericoli che
gli arreca la tirannide, alli quali non ha altri rimedi che di
sopra si siano discorsi. Questo è quanto mi è occorso scri-
vere delle congiure ; e se io ho ragionato di quelle che si fanno
con il ferro, e non col veleno, nasce che l'hanno tutte un me-
desimo ordine. Vero è che quelle del veleno sono più pericolo-
se, per esser più incerte : perché non si ha comodità per ognu-
no ; e bisogna conferirlo con chi la ha: e questa necessità del
conferire ti fa pericolo. Dipoi , per molte cagioni, un beverag-
gio di veleno non può* esser mortale: come intervenne a
quelli che ammazzarono Commodo, che, avendo quello ribut-
tato il veleno che gli avevano dato, furono forzali a strango-
larlo, se volleno che morisse. Non hanno, perlarito, i principi
il maggiore nimico che la congiura ; perché fatta che è una
congiura loro centra, o la gli ammazza, o la gli infama. Per-
chè, se la riesce, e' muoiono; se la si scopre, e loro ammaz-
zino i congiurati, si crede sempre che la sia stata invenzione
di quel principe, per isfogare l'avarizia e la crudellà sua
centra al sangue ed alla roba di quelli ch'egli ha morti. Non
voglio però mancare di avvertire quel principe o quella re-
pubblica conlraa chi fusse congiurato, che abbino avverten-
za, quando una congiura si manifesta loro, innanzi che fac-
cino impresa di vendicarla, di cercare ed intendere molto
bene la qualità di essa, e misurino bene le condizioni de'
congiurati e le loro ; e quando la truovino grossa e polente,
non la scuoprino mai, infino a tanto che si siano preparati
con forze sutTìcienti ad opprimerla : altrimenti facendo, sco-
prirebbono la loro rovina. Però debbono con ogni industria
dissimularla, perchè i congiurati vegcendosi scoperti, cac-
ciati da necessità, operano senza rispetto. In essempio ci sono
ì Romani ; ì quali avendo lasciate due legioni di soldati a
guardia de'Capovani contra ai Sanniti, come altrove dicem-
mo, congiurarono quelli capi delle legioni insieme di oppri-
* Cosi le stampe. Meglio però sarebbe: prtò non essere,
. S9
338 i»EI DISCORSI
merci Capovanirla qiial cosa inlesasi a Roma, commessone
a Rulilio nuovo consolo che vi provvedesse; il quale, per
addormentare i consiurali , pubblicò come il Senato aveva
raffermo le stanze alle legioni capovane. Il che credendosi
quelli soldati, e parendo loro aver tempo ad eseguire il di-
segno loro, non cercarono di accelerare la cosa; e così stel-
lone infino che cominciarono a vedere che il Consolo gli sepa-
rava Pano dair altro: la qual cosa generato in loro sospetto,
fece che si scopersono, e mandarono ad esecuzione la voglia
loro. Né può essere questo maggiore essem pio nell'una e nel-
l'altra parte: perchè per questo si vede, quanto gli uomini
sono lenti nelle cose dove ei credono avere tempo; e quanto
ei sono presti dove la necessità gli caccia. Né può uno prin-
cipe o una repubblica che vuole differire lo scoprire una
congiura a suo vanlaegio, usare termine misliore che ofTe-
rire di pros^Troo occasione con ar4e ai congiurati, acciocché
aspettando quella, o parendo loro aver tempo, diano tempo
a quello o a quella a castigargli. Chi ha fatto altrimenti,
ha acceleralo la sua rovina : come fece il duca di Atene, e
Guglielmo de' Pazzi. Il duca, diventato (iranno di Firenze,
ed inten<lenfio essergli congiurato centra, fece, senza esa-
minare altrimenti la cosa, pigliare uno deVoneiurati : il
che fece subito pigliare Tarmi asti altri, e lòrgli lo slato.
Guglielmo, sendo commessario in Val di Chiana nel 1501, ed
avendo inteso come in Arezzo era congiura in favore de' Vi-
telli per tórre quella terra ai Fiorentini, subilo se ne andò in
quella città, e senza pensare alle forze de* congiurali e alle
sue, e senza prepararsi di ' alcuna forza , con il consiglio del
Vescovo suo figliuolo, fece piallare uno de'conaiurall : dof»o
la qunl presura, gli altri sub te presone l'armi, e tolseno la
terra ai Fiorentini; e (iualielmo, di commessario, diventò
prigione. Ma quando le congiure sono deboli, si possono e
debbono senza ris|)elto op|»rimere. Non è ancora da imitare
in alcun modo duci termini usati, quasi contrari l'uno al-
l'altro, l'ano dal prenominato duca d'Atene; il quale, per
mostrare di credere d'avere la l)enivolenza de'cilladini (io-
renlini, fece morire uno che gli manifestò una congiura:
* Men Lene alccrU» k TcsUm C il Poggiali : ad.
LIBRO TERZO. 339
r altro da Dione siracusano; il quale, per tentare Tanimo di
alcuno ch'egli aveva a sospetto, consenti a Callippo, nel
quale ei confidava , che mostrasse di fargli una congiura
contra. E tutti due questi capitarono male: perchè l'uno tolse
l'animo agli accusatori, e dettelo a chi volse congiurare:
l'altro dette la via facile alla morte sua, anzi fu egli proprio
capo della sua congiura; come per isperienza g!i intervenne,
perchè Callippo potendo senza rispetto praticare contra a
Dione, praticò tanto, che gli tolse lo stato e la vita.
Gap. vii. — Donde nasce che le mulazioni dalla libertà alla
serviiù, e dalla servitù alla libertà, alcuna n' è senza san-
gue , alcuna n' è piena.
Dubiterà forse -alcuno donde nasca che molte mutazioni
che si fanno dalla vita libera alla tirannica, e per contrario,
alcuna se ne faccia con sangue, alcuna senza ; perche, come
per le istorie si comprende, in simili variazioni alcuna volta
sono stali morti infiniti uomini, alcuna volta non è stato in*
giurialo alcuno : come intervenne nella mutazione che fece
Roma dai He ai Consoli, dove non furono cacciati altri che
i Tarquini, fuora della offensione di qualunque altro. Il che
dipende da questo: perchè quello slato che si muta, nacque
con violenza, o non;* e perchè quando e'nasce con violenza,
conviene nasca con ingiuria di molti, è necessario poi, nella
rovina sua, che gl'ingiuriali si vogliono vendicare; e da que-
sto disiderio di vendetta nasce il sangue e la morte degli
uomini. Ma quando quello stato è causato da uno comune con*'
senso di una universalità che lo ha fatto grande, non ha ca-
gione poi, quando rovina detta universalità, dì offendere al-
tri che il capo. E di questa sorte fu lo slato di Roma, e la
cacciata de'Tarquini; come fu ancora in Firenze lo slato de*
Medici, che poi nelle rovine loro nel l4U4,non furono offesi
altri che loro. E cosi tali mutazioni non vengono ad esser
molto pericolose : ma son bene pericolosissime quelle che
sono fatte da quelli che si hanno a vendicare ; le quali furono
sempre mai di sorte, da fare, non che altro, sbigottire chi
* Corregge l'edizione del 13: o no.
340 DEI DISCORSI
le legge. E perchè di questi essempi ne son piene l'Istorie,
io le voglio lasciare indietro.
Gap. Vili. — Chi vuole alterare una repubblica ,
debbe considerare il soggello di quella,
E' si è di sopra* discorso, come an tristo citiadino non può
male operare in una repubblica che non sia corrotta: la quale
conclusione si fortifica, oltre alle ragioni che allora si dis-
sono, con l'essempio di Spurio Cassio e di Manlio Capitolino.
Il quale Spurio sendo uomo ambizioso, e volendo pigliare
autorità islraordinaria in Roma, e guadagnarsi la Plebe con
il fargli molti benefìzi , come era di vendergli quelli campi
che i Romani avevano tolti alli Ernici; fu scoperta dai Padri
questa sua ambizione, ed in tanto recata a sospetto, che par-
lando egli al Popolo, ed ofTerendo di dargli quelli danari che
8* erano ritratti de' grani che il pubblico aveva fatti venire
di Sicilia, al tutto gli recusò, parendo a quello che Spurio
volesse dare loro il pregio della loro libertà. Ma se tal Popolo
fusse stato corrotto, non arebbe recusalo detto prezzo, e gli
arebbe aperta alla tirannide quella via che gli chiuse. Fa
mollo maggiore essempio di questo, Manlio Capitolino; per-
ché mediante costui si vede quanta virtù d'animo e di corpo,
quante buone opere fatte in favore della patria, cancella di-
poi una brutta cupidità di regnare : la quale , come si vede ,
nacque in costui per la invidia che lui aveva degli onori erano
fatti a Cammìllo; evenne in tanta cecità di mente, che non
pensando al modo del vivere della città, non esaminando il
soggetto quale esso aveva , non atto a ricevere ancora trista
forma, si mise a fare tumulti in Roma contra al Senato, e
centra alle le2gi patrie. Dove si conosce la perfezione di quella
città, e la bontà della materia sua: perchè nel caso suo nes-
suno della Nobiltà, ancora che fussino acerrimi difensori l'uno
dell'altro, si mos^e a favorirlo ; nessuno de' parenti fece im-
presa in suo favore: e con gli allri accusati solevano compa-
rire sordidati, vestili dì nero, tulli mesti, per cattare mise-
* Cosi, colla Bladiau e la del 13, molto meglio che eolla Testina f £" W
sopra j o col Poggiali t Essi sopra.
LIBRO TERZO. 341
ricordia in favore dello accusato; e con Manlio non se ne vide
alcuno. 1 Tribuni della plebe, che solevano sempre favorire
le cose che pareva venissino in benefizio del Popolo; e quanto
erano più contra ai Nobili, tanto più le tiravano innanzi; in
questo caso si unirono coi Nobili, per opprimere una co-
mune peste. Il Popolo di Roma, disiderosissimo dello utile
proprio, ed amatore delle cose che venivano conira alla No-
biltà, avvenga che facesse a Manlio assai favori; nondimeno,
come i Tribuni lo citarono, e che rimessono la causa sua al
giudizio del Popolo, quel Popolo, diventato di difensore giu-
dice, senza rispetto alcuno lo condennò a morte. Pertanto io
non credo che sia essempio in questa istoria più atto a mo-
strare la bontà di tutti gli ordini di quella Repubblica, quanto
è questo; veggendo che nessuno di quella città si mosse a
difendere un cittadino pieno d'ogni virtù, e che pubblica-
mente e privatamente aveva fatte moltissime opere laudabili.
Perchè in tutti loro potè più T amore della patria, che nes-
suno altro rispetto; e considerarono molto più ai pericoli pre-
sentì che da lui dipendevano, che ai meriti passati: tanto
che con la morte sua e' si liberarono. E Tito Livio dice: Hunc
exilum hahuit vir, nisi in libera civilale nalus essel, memora'
hilis. Dove sono da considerare due cose: 1' una, che per altri
modi s' ha a cercare gloria in una città corrotta, che in una
che ancora viva politicamente; l'altra (che è quasi quel me-
desimo che la prima), che gli uomini nel proceder loro, e
tanto più nelle azioni grandi, debbono considerare i tempi,
ed accomodarsi a quelli. E coloro che, per cattiva elezione o
per naturale inclinazione, si discordano dai tempi, vivono il
più delle volte infelici, ed hanno cattivo esilo l'azioni loro;
al contrario 1* hanno quelli che si concordano col tempo. E
senza dubbio, per le parole preallegate dello istorico si può
conchiudere, che se Manlio fusse nato ne' tempi di Mario e
di Siila, dove già la materia era corrotta e dove esso arebbe
potuto imprimere la forma dell'ambizione sua, arebbe avuti
quelli medesimi séguiti e successi che Mario e Siila, e gli
altri poi, che dopo loro alla tirannide aspirarono. Così mede-
simamente, se Siila e Mario fussino stali ne'lempi di Manho,
sarebbero slati intra le prime loro imprese oppressi. Perchè
29*
34^ t>E1 DISCORSt
on aomo pnò bene cominciare con snoi modi e con suoi (ri-
sii termini a corrompere un popolo di una ciltà, ma gli è
impossibile che la vila d'uno basii a corromperla in modo
che egli medesimo ne possa Irar frullo: e quando bene
e'fusse possibile con lunschézza di tempo che lo facesse, sa-
rebbe impossibile quanto al modo del procedere desìi uomi-
ni, che sono impazienti, e non possono lungamente dilTetire
una loro passione. Appresso, s' incannano nelle cose loro, ed
in quelle, massime, che disiderano assai; talché, o per poca
pazienza o per incannarsene, entrerebbero in impresa con-
tra a tempo, e capiterebbero male. Però è bisogno, a voler
pigliare autorità in una repubblica e mettervi (risia forma,
trovare la materia disordinala dal tempo, e che a poco a po-
co, e di generazione in generazione, si sia condona al disor-
dine: la quale vi si conduce di necessità, quan<lo la non sia,
come di sopra si discorse, spesso rinfrescata di buoni essem-
pi, o con nuove leggi ritirala verso i principii suoi. Sarebbe,
adunque, stato Manlio un uomo raro e memorabile, se fusse
nato in una città corrotta. E però debbono i cittadini che
nelle repubbliche fanno alcuna impresa o in favore della li-
bertà o in favore della tirannide, considerare il soggetto
che eglino hanno, e giudicare da quello la diflTicultà delle
imprese loro. Perchè tanto è dilTIcile e pericoloso voler fare
libero un popolo che voglia viver servo, quanto è voler fare
servo un popolo che voglia viver libero. E perchè di sopra
si dice, che gli uomini nello operare debbono considerare la
qualità de' tempi e procedere secondo quelli, ne parleremo
a lungo nel segaenle capitolo.
Cap. IX. — Come contiene tariare coi tempi, JM,
volendo sempre aver buona fortuna. r
lo ho considerato più volte come la cagione della trista
e della buona fortuna degli uomini è riscontrare il modo del
procedere suo coi tempi: perchè e' si vede che gli uomini
nell'opere loro procedono alcuni con impelo, alcuni con ri-
spetto e con cauzione. E perchè neli' uno e ncll' altro di que-
sti modi si passano i termini convenienti , non si polendo
1
tlBRO TERZO. 543
osservare la vera via, nell' uno e nell' altro si erra. Ma quello
viene ad .errar meno, ed avere la fortuna prospera, che ris-
contra, come io ho dello, con il suo modo il tempo, e sem-
pre mai si procede, secondo li sforza la natura. Ciascuno sa
come Fabio Massimo procedeva con Io esercito suo rispettiva-
mente e cautamente, discosto da ogni impeto e da ogni auda-
cia romana : e la buona fortuna fece, che questo suo modo
riscontrò bene coi tempi. Perché, sendo venuto Annibale
in Italia giovine, e con una fortuna fresca: ed avendo già
rotto il popolo romano due volle ; ed essendo quella repub-
blica priva quasi della sua buona milizia, e sbigottita; non
potette sortire miglior fortuna, che avere un capitano il
qnale, con la sua tardil.i e cauzione, tenesse a bada il nimico.
Nò ancora Fabio potette riscontrare lem()i più convenienti ai
modi suoi: di che nacque che fu slorioso. E. che Fabio facesse
questo per natura e non per elezione, si vede, che volendo
Scipione passare in Affrica con quelli eserciti per ultimare
la guerra, Fabio la conlradisse assai, come quello che non
si poteva spiccare dai suoi modi e dalla consuetudine sua;
laiche, se fusse stalo a lui, Annibale sarebbe ancora in Italia,
come quello che non si avvedeva che gli erano mutali i
tempi, e che bisognava mutar modo di guerra. E se Fabio
fusse stato re di Roma, poteva facilmente perdere quella
guerra; perchè non arebbe saputo variare col procedere suo,
secondo che variavano i tempi : ma sendo nato in una repub-
blica dove erano diversi cittadini e diversi umori, come la
ebbe Fabio, che fu ottimo ne' tempi debili a sostenere la
guerra, cosi ebbe poi Scipione ne' tempi alti a vincerla. Di
qui nasce, che una repubblica ha maggior vita, ed ha più
lungamente buona fortuna, che un principato; perchè la può
meglio accomodarsi alla diversità deMemporali, per la di-
versità de' cittadini che sono in quella, che non può un prin-
cipe. Perchè un uomo che sia consueto a procedere in un
modo, non si mula mai, come è detto; e conviene di neces-
sità, quando si mutano i tempi disformi a quel suo modo,
che rovini. Piero Soderini, altre volte preallegato, procedeva
in tulle le cose sue con umanità e pazienza. Prosperò egli e
la sua patria mentre che i tempi furono conformi al modo
3i4 DEI blSCORSt
del proceder sao: ma corae vennero dipoi tempi dove bi-
sognava rompere la pazienza e T umilila, non lo seppe fare;
talché insieme con la sua patria rovinò. Papa lulio il pro-
cedette in lotto il tempo del suo pontifìcato con impeto é con
furia; e perchè i tempi T accompagnarono bene, gli riusci-
rono le sue imprese tutte. Ma se fussero venuti altri tempi
che avessero ricerco altro consiglio, di necessità rovinava ;
perchè non arebbe mutato né modo né ordine nel maneg-
giarsi. E che noi non ci possiamo mutare, ne sono cagione
due cose: 1* una, che noi non ci possiamo opporre a quello a
che e' inclina la natura ; V altra , che avendo uno con un modo
di procedere prosperalo assai, non è possibile persuadergli che
possa far bene a procedere altrimenti : donde ne nasce che
in uno uomo la fortuna varia, perché ella varia i tempi, ed
egli non varia i modi. Nascene ancora la rovina della città,
per non si variare gli ordini delle repubbliche co' tempi ;
come lungamente di sopra discorremmo: ma sono pii'i tarde,
perché le penano più a variare, perchè bisogna che venghino
tempi che commovino tutta la repubblica ; a che on solo col
variare il modo del procedere non basta. E perché noi ab-
biamo fatto menzione di Fabio Massimo che tenne a bada
Annibale, mi pare da discorrere nel capitolo seguente, se un
capitano, volendo far la giornata in ogni modo col nimico,
può essere impedito da quello, che non la faccia.
,^ Cap. X. — Che un capitano non può fuggire la giornata,
quando V avversario la vuol fare in ogni modo.
Cneus Suìpiliut Diclalor adversus Gallos bellum Irahe-
bai, nolens te fortuna committere adversus hoslem, quem
Umpus deleriorem in difs, et locus alienus, faceret. Quando
e*seguita * uno errore dove lutti gli uomini o la maggior parte
s'ingannino, io non credo che sia male molle volle ripro-
varlo. Pertanto, ancora che io abbia di sopra più volle mostro,
quanto le azioni circa le cose grandi siano disformi a quelle
' Cosi nella Bladianai e cemlira nascere da un errore della Testina (i se-
guito, corretto a penna, nclb copia di che mi serto, segnila) la leiione delle
moderne : è seguito.
LIBRO TERZO. 345
degli antichi (empi, nondimeno non mi par superfluo al pre-
sente replicarlo. Perchè, se in alcuna parte si devia dagli an-
tichi ordini, si devia massime neHe azioni militari, dove al
presente non è osservata alcuna di quelle cose che dagli an-
tichi erano stimale assai. Ed è nato questo inconveniente,
perchè le repubbliche ed i principi hanno imposta questa cu-
ra ad altrui; e per fuggire i pericoli, si sono discoslati da que-
sto esercizio: e se pure si vede qualche volla un re de'tempi
nostri andare in persona, non si crede però, che da lui
nascano altri modi che meritino più laude. Perchè quello
esercìzio, quando pure Io fanno, lo fanno a pompa, e non
per alcuna altra laudabile cagione. Pure, questi fanno minori
errori rivedendo i loro eserciti qualche volta in viso, le-
nendo appresso di loro il titolo dell' imperio, che non fanno
le repubbliche, e massime le italiane; le quali, fidandosi
d'altrui, né s'intendendo in alcuna cosa di quello che appar-
tenga alla guerra; e dall'altro canto, volendo, per parere
d'essere loro il principe, diliberare, fanno in tale dilibe-
razione mille errori. E benché d' alcuno ne ebbi discorso al-
trove, voglio al presente non ne tacere uno importantissimo.
Quando questi principi ociosi , o repubbliche effeminate,
mandano fuori un loro capitano, la più savia commissione
che paia loro darli, è quando gì' impongono, che per alcun
modo non ^ venga a giornata, anzi sopra ogni cosa si guardi
dalla zuffa; e parendo loro in questo imitare la prudenza di
Fabio Massimo, che diCTerendo il combattere salvò lo slato
a' Romani, non intendono chela maggiore parte delle volle
questa commissione è nulla o è dannosa. Perché si debbe pi-
gliare questa conclusione : che un capitano che voglia slare
alla campagna, non può fuggire la giornata qualunche volla
il nimico la vuole fare in ogni modo. E non è altro questa
commissione che dire: fa la giornata a posta del nimico, e
non a tua. Perchè a volere slare in campagna, e non far la
giornata, non ci è altro rimedio sicuro che porsi cinquanta
miglia almeno discosto al nimico; e dipoi tenere buone spie,
che venendo quello verso di te, tu abbi tempo a discostarli.
* Manca nella Romana il non: con che il Machiavelli furnirebbcci un duo*
vo esempio di alcuno adoperato nel senso di ninno.
346 DEI DISCORSI
Uno altro partito ci è; rinchiudersi in ana città: e Tuno e
r altro di questi due parlili è dannosissimo. Nel primo si la-
scia in preda il paese suo al nimico; ed uno principe valente
vorrà più toslo tentare la Tortuna dolla zufTa, che allungare
la guerra con tanto danno de' sudditi. Nel secondo partito è
la perdita manifesta ; perché conviene che, riducendoti con
uno esercito in una città, tu venga ad essere assedialo, ed in
poco tempo patir fame, e venire a dedizione. Talché fuggire
la giornata per queste due vie, é dannosissimo. Il modo che
(enne Fabio Massimo di stare ne* luoghi forti, é buono quando
tu hai sì virtuoso esercito, che il nimco non abbia ardire di
venirti a trovare dentro a' tuoi vantaggi. Né si può dire che
Fabio fuggisse la giornata, ma più (oiito che la volesse fare
a suo vantaitgio. Perchè se Annibale fusse ito a trovarlo,
Fabio Farebbe aspellalo, e fatto giornata seco: ma Annibale
non ardi mai di combattere con lui a modo di quello. Tanto
che la giornata fu fognila cosi da Annibale, come da Fabio:
ma se uno di loro V avesse voluta fare in ogni modo, l'altro
non vi aveva se non uno de* tre rimedi; cioè * i due soprad-
detti, o fuguirsi. Che questo eh* io dico sia vero, si vede
manifestamente con mille essempi, e massime nella guerra
chei Romani fecìonocon Filippo di Macedonia, padre di Per*
se: perché Filippo sendo assallatodai Romani, deliberò non
venire alla zufTa; e per non vi venire, volle fare prima come
aveva fatto Fabio Massimo in Italia ; e si pose col suo eser-
cito sopra la sommità d*un monte, dove si alTorzò as'^ai, giu-
dicando che i Romani non avessero ardire d'andare a tro-
varlo. Ma andativi e combattutolo, lo cacciarono di quel
monte; ed egli non potendo resistere, si fuggi con la masuior
parte delle genti. E quel che lo salvò, che non fu consumalo
in tutto, fu la iniquità del paese, qual fece che i Romani
non poterono seguirlo. Filippo, adunque, non volendo azzuf-
farsi, ed essendosi posto con il campo presso ai Rutnani, si
ebbe a fuggire; ed avendo conosciuto per questa esperienza,
come non volendo combattere, non gli bastava stare sopra i
monti, e nelle terre non volendo rinchiudersi , diliherò pi-
gliare l'aliro modo» di stare discosto molle miglia al campo
* Kella Bbdiaaa manca ei0Ì.
LIBRO TEUZO^ 347
romano. Donde, se i Romani erano in nna provincia, ei se
ne- andava nell'altra ; e cosi sempre donde i Romani parti-
vano, esso entrava. E veggendo, al fine, come nello allungare
la guerra per questa via, le sue condizioni peggioravano, e
che i suoi sosgetli ora da lui ora dai nimici erano oppressi,
diliberò di tentare la fortuna della zufTa; e cosi venne coi
Romani ad una giornata giusta. È utile adunque non cora-
baliere, quando gli eserciti hanno queste condizioni che
aveva l'esercito di Fabio, e che ora ha quello di Caio Sul-
■pizio : cioè avere uno esercito si buono, che il nimico non ar-
disca venirti a trovare dentro alle fortezze tue ; e che il ni-
mico sia in casa tua senza avere preso molto pie , dove eì
patisca necessità del vivere. Ed è in questo caso il partito
utile, per le ragioni che dice Tito Livio: nolens se foriuncB
commitlere adversus hoslem, quem tempus deleriorem in dies,
el locus alienusy facerel. Ma in osni altro termine non si può
fuggire la giornata, se non con tuo disonore e pericolo. Per-
che fuggirsi, come fece Filippo, è come essere rotto ; e con
più vergogna, quanto meno s'è fatto prova della tua virtù. E
se a lui riusci salvarsi, non riuscirebbe ad un altro che non
fusse aiutato dal paese come ei^li. Che Annibale non fusse
maestro di guerra, nessuno mai non lo dirà; ed essendo al-
lo 'ncontro di Scipione in AlTrica, s'ecli avesse veduto van-
taggio in allungare la guerra, ei farebbe fallo; e per avven-
tura, sendo lui buon capitano, ed avendo buono esercito, lo
arebbe potuto fare , come fece Fabio in Italia : ma non
l'avendo fallo, si debhe credere che qualche cagione impor-
tante lo movesse. Perchè un principe che abbi uno esercito
messo insieme, e vegga che per difetto di danari o di amici
ei non può tenere lungamente tale esercito, è mallo al tulio
se non lenta la fortuna innanzi che tale esercito si abbia a
risolvere: perché aspellando, ei perde al certo; tentando, po-
trebbe vincere. Un'altra cosa ci è ancora da stimare assai:
la quale è, che si debbo, eziandio perdendo, volere acqui-
star gloria; e più gloria si ha ad esser vinto per forza, che
per altro inconveniente che t'abbia fatto [lerdere. Sì che An-
nibale do\eva essere constretto da queste necessità. E dall'al-
tro canto, Scipione, quando Annibale avesse differita [a gior-
348 DEI DISCORSI
nata, e non gli fusse bastato l'animo andarlo a trovare ne'
laoghi forti, non f)ativa, per aver di già vinto Siface, e acqui-
state tante terre in AtTrica, che vi poteva slare sicuro e con
comodità come in Italia. Il che non interveniva ad Annibale,
quando era air incontro di Fabio; né a questi Franciosi, che
erano airincontro di Sulpizio. Tanto meno ancora può fag*
gire la giornata colui che con V esercito assalta il paese al-
trui ; perchè, se e' vuole entrare nel paese del nimico, gli
conviene, quando il nimico se gli facci incontro, azzufTarsi se-
co; e se si pone a campo ad una terra, si obbliga tanto più
alla zuffa : come ne' tempi nostri intervenne al duca Carlo
di Borgogna, che sendo a campo a Moratto, terra de* Sviz-
zeri, fu da* Svizzeri assaltato e rotto; e come intervenne al-
l'esercito di Francia, che campeggiando Novara» l fu mede*
simamente da' Svizzeri rotto.
Cap. XI. — Che chi ha a fare con attai, ancora che tia
inferiore, purché posta toslenere i primi impeli, vince.
La potenza de' Tribuni della plebe nella città di Roma
fa grande, e fu necessaria, come molte volle da noi è stato
discorso; perchè altrimenti, non si sarebbe potuto por freno
all'ambitione della Nobiltà, la quale areblie mollo tempo
innanzi corrotta quella Repubblica, che la non si corruppe.
Nondimeno, perchè in ogni cosa, come altre volte si è detto,
è nascoso qualche proprio male, che fa surgere nuovi acci-
denti, è necessario a questi con nuovi ordini provvedere. Es-
sendo, pertanto, divenuta l'autorità tribunizia insolente, e
formidabile alla Nobiltà ed a tutta Roma, e' ne sarebbe nato
qualche inconveniente dannoso alla libertà romana , se da
Appio Claudio non fusse sialo mostro il modo con il quale
si avevano a difendere centra all'ambizione de'Triboni : il
quale fu che trovarono sempre infra loro qualcuno che fusse o
pauroso, o corruttibile, o amatore del comun bene; talmcn-
lechè lo disponevano ad opporsi alla volontà di quelli altri ,
che volessino tirare innanzi alcuna diliberazione centra alla
volontà del Senalo. Il quale rimedio fa an grande tempera-
* La comune delle edizioaix a Novara,
LIBRO TEUZO. . 349
mento a lanla aulorilà, e per molli lampi giovò a Roma. La
qual cosa m'ha fallo considerare, che qualunque volta e' sono
molli potenti uniti centra ad un altro potente, ancora che
lutti insieme siano molto più potenti di quello, nondimanco
si debbe sempre sperare più in quello solo e meno gagliardo,
che in quelli assai, ancoraché gagliardissimi. Perchè, la-
sciando stare tutte quelle cose delle quali uno solo si può
più che molli prevalere (che sono inOnite), sempre occorrerà
questo: che potrà, usando un poco d'industria, disunire gli
assai; e quel corpo ch'era gagliardo, far debole. Io non vo-
glio in questo addurre antichi essempì, che ce ne sarebbono
assai; ma voglio mi bastino i moderni, seguiti ne' tempi no-
stri. Congiurò nel 1484 tutta Italia contra a' Viniziani ; e
poiché loro al lutto erano persi, e non potevano slare più
con P esercito in campagna, corruppono il signor Lodovico
che governava Milano; e per tale corruzione feciono ano ac-
cordo, nel quale non solamente riebbono le terre perse, ma
usurparono parte dello slato di Ferrara. E così coloro che
perdevano nella guerra, restarono superiori nella pace. Po-
chi anni sono congiurò contra a Francia tutto il mondo: non-
dimeno, avanti che si vedesse il fine della guerra, Spagna si
ribellò da' confederali, e fece accordo seco; in modo che gli
altri confederali furono costretti poco dipoi ad accordarsi
ancora essi. Talché, senza dubbio, si debbe sempre mai fare
giudizio, quando e' si vede una guerra mossa da molti contra
ad uno, che quello uno abbia a restar superiore, quando sia
di tale virtù, che possa sostenere i primi impeti, e col tem-
poreggiarsi aspettare tempo. Perché quando e' non fussecosì,
porterebbe mille pericoli : come intervenne ai Viniziani nel-
l'otto, i quali se avessero potuto temporeggiare con lo eser-
cito francioso, ed avere tempo a guadagnarsi alcuni di quelli
che gli erano collegati contra, arebbono fuggita quella rovi-
na ; ma non avendo virtuose armi da potere temporeggiare
il nimico, e per questo non avendo avuto tempo a separarne
alcuno, rovinarono. Perchè si viddc che il papa, riavuto ch'egli
ebbe le cose sue, si fece loro amico; e così Spagna: e mollo
volentieri l'uno e l'altro diquesli due principi arebbono salvalo
loro lo slato di Lombardia centra a Francia, per non Io fare si
30
350 DEI DISCORSI
grande in Italia» se gli avessino poluto. Potevano, adunqae, i
Yiniziani dare parte per salvare il resto : il che se loro aves-
sino fatto in tempo che paresse che la non fusse stata necessi-
tà, ed innanzi ai moli della guerra, era savissimo partito; ma
in su' moli era vituperoso, e per avventura di poco profitto.
Ma innanzi a lati moli, pochi in Vinegia de' cittadini pote-
vano vedere il pericolo, pochissimi vedere il rimedio, e nes-
suno consigliarlo. Ma, per tornare al principio di questo dis-
corso,conchiudo:che cosi come ilSenalo romano ebbe rimedio
per la salute della palria conlra all'ambizione de' Tribuni,
per essere molti; cosi ara rimedio qualunque principe che sia
assaltato da molli, qualunque volta ei sappia con prudenza
usare termini convenienti a disunirgli.
Gap. XII. — Come un capitano prudente dehbe imporre ogni
neetuilà M eombaltere ai tuoi soldati , e a quelli delti ni-
mici tórlo.
Altre volte abbiamo discorso quanto sia utile alle ama-
ne azioni la necessità, ed a qual gloria siano sutc condotte
da quella; e come da alcuni morali filosofi è stalo scritto, le
mani e la lingua degli uomini, due nobilissimi inslrumcnti a
nobilitarlo, non arcbbero operato perfettamente, né con-
dotte l'opere umane a quella altezza si veggono condotte,
se dalla necessità non fusscro spinte. Sendo conosciuto,
adunque, dagli antichi capitani degli eserciti la virlù di tal
necessità, e quanto per quella gli animi de' soldati diven-
tavano ostinali al combattere ; facevano ogni* opera perchè i
soldati loro fussino costretti da quella. E dall'altra parte, usa-
vano ogni industria, perchè gli nimici se ne liberassino: e
per questo molle volle apersono al nimico quella via che
loro gli potevano chiudere; ed a' suoi soldati propri chiusono
quella che potevano lasciare aperta. Quello, adunque, che di-
sidera o che una città si difenda ostinatamente, o che uno
esercilo in campagna oslinalaraenle combalta, debbo, sopra
ogni altra cosa, ingegnarsi di mettere ne' pelli di chi ha a
combattere, tale necessità. Onde, un capitano prudente, che
avesse ad andare ad una espugnazione d'una citta, debbe
LIBRO TERZO. 351
misurare la facilità o la difficollà dell'espugnarla dal cono-
scere e considerare quale necessità costrìnga gli abitatori di
quella a difendersi: e quando vi trovi assai necessità che gli
costringa alia difesa, giudichi la ispugnazione difficile; al-
trimenti, la giudichi facile. Di qui nasce che le terre dopo la
ribellione sono più difficili ad acquistare, che le non sono
nel primo acquisto : perchè nel principio non avendo cagione
di temer di pena, per non avere offeso, si arrendono facil-
mente; ma parendo loro, sendosi dipoi ribellate, avere offeso,
e per questo temendo la pena, diventano difficili ad essere
ispugnate. Nasce ancora tale ostinazione dai naturali odii
che hanno i principi vicini e repubbliche vicine 1* uno con
l'altro: il che procede da ambizione di dominare, e gelosia
del loro stato, massimamente se le sono repubbliche, come
interviene in Toscana ; la quale gara e contenzione ha fatto e
farà sempre difficile la espugnazione l'una dell'altra. Pertanto,
chi considerrà bene i vicini della città di Firenze ed i vi-
cini della città di Vinegia, non si meraviglierà, come molti
fanno, che Firenze abbia più speso nelle guerre, ed acqui-
stato meno di Vinegia: perchè lutto nasce da non avere avuto
i Viniziani le terre vicine si ostinate alla difesa, quanto ha
avuto Firenze ; per esser state tutte le ciltadi finitime a Vi-
negia use a vivere sotto un principe, e non libere ; e quelli
che sono consueti a servire, stimano molte volte poco
il mutare padrone, anzi molte volte lo desiderano. Talché
Vinegia, benché abbia avuti i vicini più potenti che Firen-
ze, per avere trovate le terre meno ostinate, le ha potute
più tosto vincere, che non ha fatto quella sendo circundata
da tutte città libere. Debbo adunque un capitano, per tornare
al primo discorso, quando egli assalta una terra, con ogni
diligenza ingegnarsi di levare a' difensori di quella tale ne-
cessità, e per conseguenza tale ostinazione; promettendo
perdono, se gli hanno paura della pena;»e se gli avessino
paura della libertà, mostrare di non andare contra al co-
mune bene, ma contra a pochi ambiziosi della città : la quale
cosa molte volte ha facilitato l'imprese e l'espugnazioni delle
terre. E benché simili colori siano facilmente conosciuti, e
massime dagli uomini prudenti; nondimeno vi sono spesso
3o2 DEI DISCORSI
ingannati i popoli, i quali, copidi della presente pace, chiug-
gono gli occhi a qualunque altro laccio che sotto le larghe
promesse si tendesse. E per questa via infinite città sono di-
ventate serve: come intervenne a Firenze nei prossimi tem-
pi ; e come intervenne a Crasso ed allo esercito suo, il quale
ancora che conoscesse le vane promesse de' Parti, le quali
erano fatte per tòr via la necessità ai suoi soldati del difen-
dersi, nondimanco non potette tenerli ostinati, accecati dalle
otTerte della pace che erano fatte loro dai loro nimìci : come
si vede particolarmente leggendo la vita di quello. Dico per-
tanto, che avendo i Sanniti, fuora della convenzione dello
accordo, per l'ambizione di pochi corso e predato sopra i
campi de* confederati Romani ; ed avendo dipoi mandati
ambasciadori a Roma a chieder pace, oflTercndo di restituire
le cose predale, e di dare prigioni gli autori de' tumulti e
della preda ; furono ributtati dai Romani : e ritornati a Snn-
nio senza speranza d'accordo, Claudio Ponzio, capitano al-
lora dello esercito de' Sanniti, con una sua notabile orazione
mostrò, come i Romani volevano in ogni modo guerra ; e
benché per loro si desiderasse la pace, la necessità gli faceva
seguire la guerra ; dicendo queste parole : Juslum est bellum ;
quibus ncccssarium, et pia arma, quihus nisi in armis spa est :
sopra la qual necessità egli fondò con gli suoi soldati la spe-
ranza della vittoria. Eper non avere a tornare più sopra questa
materia, mi pare da addurviquelliessempi romani che sono più
degni d'annotazione. EraCaioManilio con lo esercito all'incon-
tro dei Veienti; ed essendo parte dello esercito veicntano en-
trato dentro agli steccati di Manilio, corse Manilio con una
banda al soccorso di quelli ; e perchè i Veienti non potessino
salvarsi, occupò tutti gli aditi del campo : donde veggendosi
i Veienti rinchiusi, cominciarono a combattere con tanta
rabbia, ch'egli ammazzarono Manilio; ed arebbcro tutto il
resto dei Romani oppressi, se dalla prudenza d'uno Tribuno
non fosse stato loro aperta la via ad andarsene. Dove si ve-
de, come mentre la necessità costrinse i Veienti a combat-
tere, e* combatterono ferocissimamente; ma quando videro
aperta la via, pensarono più a fuggire che a combattere.
Erano entrali i Volsci e gli Equi con gli eserciti loro ne' con-
LIBRO TERZO. 353
fini romani. Mandossi loro airincontro i Consoli. Talché, nel
travagliare la zuffa, Io esercito dei Volsci, del quale era capo
Vetlio Mescio, si trovò ad un tratto rinchiuso intra gli stec-
cati suoi occupati dai Romani, e l'altro esercito romano; e
veggendo come gli bisognava o morire, o farsi la via col
ferro, disse ai suoi soldati queste parole: Ile mecum; non
murus nec valium, armali armalis ohslant; virlule pares,
qucB uUimum ac maximum lelum esl^ necessitale superiores
esiis. Sì che questa necessità è chiamata da Tito Livio uUi-
mum ac maximum telum. Caramillo, prudentissimo di tutti i
Capitani romani, sendo già dentro nella città dei Veienti con
il suo esercito, per facilitare il pigliare quella, e tórre ai
nimici una ultima necessità di difendersi, comandò, in modo
che i Veienti udirono, che nessuno oCfendesse quelli che
fussino disarmati; talché, gittate l'armi in terra, si prese
quella città quasi senza sangue. Il quale modo fu dipoi da
molti capitani osservalo.
Cap. XIII. — Dove sia più da confidare, o in uno buono capi-
tano che abbia V esercito debole, o in uno buono esercito
che abbia il capitano debole.
Essendo diventato Coriolano esule di Roma, se ne andò
ai Volsci, dove contratto uno essercito per vendicarsi contra
ai suoi cittadini, se ne venne a Roma ; donde dipoi si partì,
più per pietà della sua madre, che per le forze dei Romani.
Sopra il quale luogo Tito Livio dice, essersi per questo cono-
sciuto, come la Repubblica romana crebbe più per la virtù
dei Capitani, che de* soldati; considerato come i Volsci per
lo addietro erano stati vinti, e solo poi avevano vinto che
Coriolano fu loro Capitano. E benché Livio tenga tale oppi-
nione, nondimeno si vede in molti luoghi della sua istoria la
virtù de' soldati senza capitano aver fatto meravigliose pruo-
ve, ed esser stati più ordinati e più feroci dopo la morte
de' Consoli loro, che innanzi che morissino: come occorse
nello esercito* che i Romani avevano in Ispagna sotto gli
Scipioni; il quale j morti i duoi capitani, potè con la virtù
sua non solamente salvare sé stesso, ma vincere il nimico,
30*
354 E>E^l DISCORSI
e conservare quella provincia alla Repubblica. Talché, discor-
rendo tulio, si Iroverà molli essempi, dove solo la virlù dei
soldali ara vinto la giornata; e molli altri, dove solo la virlù
dei capitani ara fallo il medesimo efletlo : in modo che si
può giudicare, V uno abbia bisogno dell' altro, e 1* altro del-
l'uno. Èccì bene da considerare prima, qual sia più da te-
mere, o d' ano buono esercito male capitanalo, o d'uno buono
capitano accompagnalo da cattivo esercito. E seguendo in
questo Toppinione di Cesare, si debbo stimare poco l'uno
e r altro. Perchè andando egli in Ispagna contra ad Afra-
nio e Pelreio, che avevano un buono esercito, disse che
gli stimava poco quia ibal ad exercilum sine ducet mo-
strando la debolezza dei capitani. Al contrario, quando
andò in Tessaglia contra Pompeo, disse: Vado ad duccm sine
exercilu. Puossi considerare un' altra cosa : a quale è più fa-
cile, 0 ad uno buono capitano fare un buono esercito, o ad uno
buono esercito fare un buono capitano. Sopra che dico, che
(ale questione pare decisa; perchè più facilmente molti buoni
troveranno o instruiranno uno, tanto che diventi buono, che
non Tara uno molli. Lucullo, quando fu mandato contra a
Mitridate, era al tutto inesperto della guerra; nondimanco
quel buono esercito, dove erano assai ottimi capi, lo feciono
tosto un buon capitano. Armarono i Romani, per difello
d' uomini, assai servi, e gli dierono ad esercitare a Sempro-
nio Gracco, il quale in poco tempo fece un buon esercito.
Pelopida ed Epaminonda, come altrove dicemmo, poich' egli
ebbero tratta Tebe loro patria della servitù degli Spartani,
in poco tempo feciono de' contadini lebani soldati ottimi, che
poterono non solamente sostenere la milizia spartana, ma
vìncerla. Si che la cosa è pari, perchè 1' uno buono può tro-
vare r altro. Nondimeno un esercito buono senza capo buono
suole diventare insolente e pericoloso; come diventò l'eser-
cito di Macedonia dopo la morte di Alessandro, e come erano
i soldati veterani nelle guerre civili. Tanto che io credo che
sia più da conGdare assai in uno capitano che abbi tempo a
instruirte uomini e comodità di armargli, che in uno eser-
cito insolente, con uno capo tumultuario fallo da lui. Però è
da duplicare la gloria e la laude a quelli rapiiani che non
I
LIBRO TRRZO. 355
solamente hanno avolo a vincere il nimico, ma prima che
venghino alle mani con quello, è convenuto loro inslruire
l'esercito loro, e farlo buono: perchè in questi si mostra
doppia virtù, e tanto rara, che se tale fatica fusse stata data
a molti, ne sarebbero stimati e riputati meno assai jche non
sono.
Gap. XIV. — Le invenzioni nuove che appariscono nel mezzo
della zuffa, e le voci nuove che si odono, * quali e/felli
faccino.
Di quanto momento sia ne' conflitti e nelle zuffe un nuo-
vo accidente che nasca per cosa che di nuovo si vegga o
oda, si dimostra in assai luoghi, e massime per questo essem-
pio che occorse nella zuffa che i Romani fecero coi Volsci;
dove Quinzio veggendo inclinare uno de' corni del suo eser-
cito, cominciò a gridare forte, che gli stessine saldi, perchè
l'altro corno dello esercito era vittorioso: con la qual parola,
avendo dato animo a' suoi e sbigottimento a'nimici, vinse.
E &e tali voci in uno esercito bene ordinato fanno effelti
grandi, in uno tumultuario e male ordinato gli fanno gran-
dissimi, perchè al lutto è mosso da simil vento. Ione voglio
addurre uno essempio notabile occorso ne' nostri tempi. Era
la città di Perugia pochi anni sono divisa in due parti, Oddi
e Baglioni. Questi regnavano; quelli altri erano esuli: i quali
avendo, medianti loro amici, ragunato esercito, e ridottisi in
alcuna loro terra propinqua a Perugia con il favore della
parte; una notte entrarono in quella città, e senza essere
scoperti, se ne venivano per pigliare la piazza. E perchè
quella città in su tutti i canti delle vie ha catene che la ten-
gono sbarrala, avevano le genti oddesche davanti uno che
con una mazza ferrata rompeva i serrami di quelle, accioc-
ché i cavalli potessero passare; e restandogli a rompere solo
quella che sboccava in piazza, ed essendo già levalo il re-
more all'armi, ed essendo colui che rompeva oppresso
dalla turba che gli veniva dietro, né polendo per questo
alzare bene le braccia per rompere, per potersi maneg-
* La Romana soltanlo : odino.
336 DEI DISCORSI
giare, gli venne dello: Fatevi indietro: la qual voce an-
dando di grado in grado dicendo addietro, cominciò a
far fuggire gli ultimi, e di mano in mano gli altri, con
tanta furia, che per loro medesimi si ruppono ; e cosi restò
vano il disegno degli Oddi, per cagione di si debole acci-
dente. Dove è da considerare, che non tanto gli ordini in
uno esercito sono necessari per potere ordinatamente com-
battere, quanto perchè ogni minimo accidente non ti disor-
dini. Perchè, non per altro le moltitudini popolari sono disu-
tili per la guerra, se non perchè ogni rumore, ogni voce,
ogni strepito gli altera, e fagli fuggire. E però un buon
capitano intra gli altri suoi ordini debbe ordinare chi sono
quelli che abbino a pigliare la sua voce e rimetterla ad altri,
ed assuefare i suoi soldati che non credino se non a quelli
suoi capì, che non dichino se non quel che da lui è com-
messo ; perchè non osservala bene questa parte, si è visto
molle volte avere falli disordini grandissimi. Quanto al ve-
dere cose nuove, debbe ogni capitano ingegnarsi di farne
apparire alcuna, mentre che gli eserciti sono alle mani, che
dia animo agli suoi e tolgalo agli nimici; perchè intra gli. ac-
cidenti che ti diano la vittoria, questo è etlìcacissimo. Di che
se ne può addurre per testimone Caio Sulpizio dittatore ro-
mano ; il quale venendo a giornata con ì Franciosi, armò
tulli i saccomanni e gente vile del campo ; e quelli falli sa-
lire sopra i muli ed altri somieri con armi ed insegne da pa-
rere gente a cavallo , gli mise dietro a un colle, e comandò
che ad un segno dato, nel tempo che la zuffa fusse più ga-
gliarda, si scoprissero e mostrassinsi a' nimici. La qual cosa
cosi ordinala e fatta, delle tanto terrore ai Franciosi, che
perderono la giornata. E però un buon capitano debbe fare
due cose: V una di vedere con alcune di queste nuove inven-
zioni di sbigottire il nimico; l'altra distare preparalo che es-
sendo falle dal nimico centra di lui, le possa scoprire, e far-
gliene tornar vane : come fece il re d' India a Semiramis; la
quale veggendo come quel re aveva buon numero d'elefanti,
per sbigottirlo, e per mostrargli che ancora essa n'era co-
piosa, ne formò assai con cuoia di bufali e dì vacche, e
quelli messi sopra i cammelli, gli mandò davanti; ma cono-
LIBRO TERZO. 357
scìuto dal re* l'inganno, gli tornò non solanaente quel suo
disegno vano, ma dannoso. Era Mamerco dittatore centra
a'Fidenati, i quali, per isbigoltire lo esercito romano, ordi-
narono che in sull'ardore della zufla uscisse fuora di Fidene
numero di soldati con fuochi in sulle lance, acciocché i Ro-
mani occupali dalla novità della cosa, rompessino intra loro
gli ordini. Sopra che è da notare, che quando tali invenzioni
hanno più del vero che del finto, si può bene allora rappre-
sentarle agli uomini, perchè avendo assai del gagliardo, non
si può scoprire cosi presto la debolezza loro: ma quando
l'hanno più del finto che del vero, è bene o non le fare, o
facendole tenerle discosto, di qualità che le non possine es-
sere così presto scoperte; come fece Caio Sulpizio de'mulat-
lieri. Perchè quando vi è dentro debolezza, appressandosi, le
si scuoprono tosto, e ti fanno danno, e non favore; come
feciono gli elefanti a Semiramis, e a'Fidenati i fuochi: i quali
benché nel princìpio turbassino un poco l'esercito; nondi-
meno come e' sopravvenne il Dittatore, e cominciò a sgri-
dargli, dicendo che non si vergognavano a fuggire il fumo
come le pecchie, e che dovessino rivoltarsi a loro, gridando:
Suis flammis delele Fidenas, quas veslris beneficiis placare non
poluisHs; tornò quello trovato ai Fidenati inutile, e restarono
perditori della zuCfa.
^AP. XV. — Come uno e non molli siano preposti ad uno
esercito, e come i più comandatori offendono.
Essendosi ribellati i Fidenati, ed avendo morto quella
colonia che i Romani avevano mandata in Fidene, crearono i
Romani, per rimediare a questo insulle, quattro Tribuni con
poleslà consolare; de' quali lasciatone uno alla guardia di
Roma, ne mandarono tre centra ai Fidenati ed i Veienti: i
quali per esser divisi intra loro e disuniti, ne riportarono
disonore, e non danno. Perchè del disonore, ne furono ca-
gione loro; del non ricevere danno, ne fu cagione la virtù
de'soldati. Donde i Romani, veggendo questo disordine, ricor-
* La Bladiaua : i cameli , e: da il re j romanismo il primo, vcrisimilmente
inlrodolto dallo stampatore; e l'altro (come altrove avvertimmo) fiorentinismo.
358 DEI DISCORSI
83no alla creazione del Dittatore, acciocché un solo riordi-
nasse quello che tre avevano disordinato. Donde si conosce
la inutilità di molti comandatori in uno esercito, o in una
terra che s'abbia a difendere; e Tito Livio non lo può più
chiaramente dire che con le infrascritte parole: Trcs Tribuni
poieslale consulari documento fuere, quam plurium imperium
bello inulUe essel; lendendo ad sua quisque contilia, cum alii
aliud viderelurj aperuerunl ad occasionem locum hosli. E ben-
ché questo sia assai essempio a provare il disordine che fanno
nella guerra i più comandatori, ne voglio addurre alcuno
altro, e moderno ed antico, per maggiore dichiarazione.
Nel 1500, dopo la ripresa che fece il re di Francia Luigi XII
di Milano, mandò le sue genti a Pisa per restituirla ai Fio-
rentini; dove furono mandali commessari Giovambatista Ri-
dolfi e Luca d'Antonio degli Albizi.B perchè Giovambatista
era aomo di riputazione, é di più tempo, Luca lasciava al
lutto governare ogni cosa a lui: e se egli non dimostrava la
sua ambizione con opporsegli, la dimostrava col tacere, e
con lo stracurarc e vilipendere ogni cosa in modo, che non
aiutava le azioni del campo né coli' opere né col consiglio,
come se fusse slato uomo di nessuno momento. Ma si vidde
poi lutto il contrario quando Giovambatista, per certo acci-
dente seguito, se n'ebbe a tornare a Firenze; dove Luca, ri-
masto solo, dimostrò quanto con l'animo, con la industria e
con il consiglio valeva: le quali tutte cose mentre vi fu la
compagnia erano perdute. Voglio di nuovo addurre in con-
fìrmazione di questo le parole di Tito Livio; il quale refe-
rendo come essendo mandato dai Romani conlra agli Equi
Quinzio ed Agrippa suo collega , Agrippa volle che tutta
l'amministrazione della guerra fusse appresso a Quinzio, e' ^
dice: Saluberrimum in adminislralione magnarum rerum est,
summam imperii apud unum esse. Il che è contrario a quello
che oggi fanno queste nostre repubbliche e principi, di man-
dare ne' luoghi, per ministrargli meglio, più d'un corames-
sario, e più d'un capo: il che fa una inestimabile confusione.
E se si cercasse la cagione della rovina degli eserciti italiani
* TaUe le eduiooi qoi haano l' e coogiuntiva. La qaal confessione facciami
perdonare l'arLitrio.
LIBRO TERZO. 359
e franciosi ne' nostri tempi, si troverebbe la polissinaa ca-
gione esssere stata questa. E puossi conchiudere veramente,
come gli è meglio mandare in una espedizione un uomo
solo di comunale prudenza, che duoi valentissimi uomini in-
sieme tìon la medesima autorità.
Cap. XVI. — Che la vera virlù si va ne* tempi diffìcili a tro-
vare; e ne' tempi facili non gli uomini virtuosi, ma quelli
che per ricchezze o per parentado prevagliono, hanno più
grazia.
Egli fu sempre, e sempre sarà, che gli uomini grandi e
rari in una repubblica nei tempi pacifichi sono negletti; per-
chè per la invidia che s' ha tirato dietro la riputazione che la
virtù d' essi ha dato loro, si truova in tali tempi assai citta-
dini che vogliono, non che esser loro eguali, ma esser loro
superiori. E di questo n'è un luogo buono in Tucidide islo-
rico greco; il quale mostra come sondo la repubblica ateniese
rimasa superiore in la guerra peloponnesiaca, ed avendo
frenato r orgoglio degli Spartani, e quasi sottomessa tutta la
Grecia, salse in tanta riputazione, che la disegnò d' occupare
la Sicilia. Venne questa impresa in disputa in Atene. Alci-
biade e qualche altro cittadino consigliavano che la si faces-
se, come quelli che pensando poco al bene pubblico, pensa-
vano ali* onor loro, disegnando esser capi di tale impresa. Ma
Nicia, che era il primo intra i riputati d'Atene, la dissua-
deva ; e la maggior ragione che nel concionare al popolo,
perchè gli fusse prestato fede, adducesse, fu questa: che
consigliando esso che non si facesse questa guerra, ei con-
sigliava cosa che non faceva per lui ; perchè stando Atene
in pace, sapeva come v'erano infiniti cittadini che gli vole-
vano andare innanzi ; ma facendosi guerra, sapeva che nes-
suno cittadino gli sarebbe superiore, o eguale. Vedesi, pertan-
to, come nelle repubbliche è questo disordine, di fare poca
stima de' valentuomini ne' tempi quieti. La qual cosa gli fa
indegnare in due modi : 1' uno pei* vedersi mancar del grado
loro; l'altro per vedersi fare compagni e superiori uomini
indegni, e di manco sufficienza di loro. Il quale disordine
nelle repubbliche ha causato di molle rovine ; perchè quelli
360 DEI DISCORSI
cilladini che immerilamente sì ves;gono sprezzare, e cono-
scono che e' ne sono cagione i lempi facili e non pericolosi,
s' ingegnano di turbargli, movendo nuove guerre in pregiudi-
zio della repubblica. E pensando quali potessino essere i
rimedi , ce ne trovo due : 1' uno , manlenere i cittadini jfeveri,
acciocché con le ricchezze senza virtù non potessino corrom-
pere né loro né altri ; 1* altro , di ordinarsi in modo alla guerra,
che sempre sì potesse far guerra, e sempre s'avesse bisogno di
cittadini riputati, come fé Roma ne' suoi primi tempi. Perchè
tenendo fuori quella città sempre eserciti, sempre v' era luogo
alla virtù degli uomini ; né si poteva tórre il grado ad uno
che lo meritasse, e darlo ad uno altro che non lo meritasse.
Perchè se pure lo faceva qualche volta per errore, o per
provare, oe seguiva tosto tanto suo disordine e pericolo, che
la ritornava subito nella vera via. Ma le altre repubbliche
che non sono ordinate come quella, e che fanno solo guerra
quando la necessità le conslringe, non si possono difendere
da lale inconveniente: anzi sempre vi correranno dentro; e
sempre ne nascerà disordine, quando quel cittadino negletto
e virtuoso, sia vendicativo, ed abbia nella città qualche ripu-
tazione e aderenza.' E se la città di Roma un tempo se ne
difeso, a quella ancora, poiché la ebbe vinto Cartagine ed
Antioco (come altrove si disse), non temendo più di guerra,
pareva poter commettere gli eserciti a qualunque la voleva;
non riguardando tanto alla virtù, quanto alle altre qualità
che gli dessino grazia nel popolo. Perchè si vede che Paulo
Emilio ebbe più volte la repulsa nel consolato, né fu prima
fatto Consolo che surgesse la guerra macedonica ; la quale
giudicandosi pericolosa, di consenso di tutta la città fu com-
messa a lui. Sendo nella città nostra di Firenze seguile dopo
il 1494 di molte guerre, ed avendo fatto i cittadini fiorentini
tutti una cattiva pruova, si riscontrò la città, a sorte, in uno
che mostrò in che maniera s'aveva a comandare agli eserciti;
il quale fu Antonio Giacomìni : e mentre che si ebbe a far
guerre pericolose, tutta 1' ambizione degli altri cittadini ces-
• La Romana a questo luogo e malamente viziala per omisiione di una pa-
rola, e difetti di puntuazione, leggendo: et adherenta, et la città di lioma un
tempo se ne difese. A quella ce.
LIBRO TliUZO. 361
SO, e nella elezione del Comoiessario e capo degli eserciti
non aveva competitore alcuno; raa come s'ebbe a fare una
guerra dove non era dubbio alcuno, ed assai onore e grado,
ci vi trovò tanti competitori, che avendosi ad eleggere tre
Commessari per campeggiar Pisa, fu lascialo indietro. E
benché e' non si vedesse evidentemente che male ne seguisse
al pubblico per non v'avere mandato Antonio, nondimeno
se ne potette fare facilissima coniettura ; perchè non avendo
più i Pisani da difendersi né da vivere, se vi fusse stato An-
tonio, sarebbero slati tanto innanzi stretti, che si sarebbero
dati a discrezione de' Fiorentini. Ma sendo loro assediali da
capi che non sapevano né stringerli né sforzarli, furono tanto
intrattenuti, che la città di Firenze gli comperò, dove la gli
poteva avere a forza. Convenne che tale sdegno potesse assai
in Antonio; e bisognava che fusse bene paziente e buono, a
non disiderare di vendicarsene o con la rovina della città,
potendo, o con l'ingiuria d'alcuno particolare cittadino: da.
che si debbe una repubblica guardare ; come nel seguente
capitolo si discorrerà.
Gap. XVII. — Che non si offenda uno, e poi quel medesimo
si mandi in amminislrazione e governo d'importanza.
Debbe una repubblica assai considerare di non preporre
alcuno ad alcuna importante amministrazione, al quale sia
stato fallo da altri alcuna notabile ingiuria. Claudio Nerone,
il quale si parli dallo esercito che lui aveva a fronte ad An-
nibale, e con parte d' esso n' andò nella Marca a trovare
r altro Consolo per combattere con Asdrubale avanti che
si congiungesse con Annibale ; s' era trovato per Io addietro
in Ispagna a fronte d.' Asdrubale, ed avendolo serrato in
luogo con lo esercito, che bisognava o che Asdrubale com-
battesse con suo disavvantaggio 0 si morisse di fame, fu
da Asdrubale astutamente tanto intrattenuto con certe pra-
tiche d'accordo, che gli usci di sotto, e tolsegli quella oc-
casione d'oppressarlo. La qual cosa saputa a Roma, gli delle
carico grande appresso al Senato ed al Popolo, e di lui fu
parlato inonestamente per tutta quella città, non senza suo
31
362 DEI DISCORSI
grande disonore ed isdegno. Ma sendo poi fililo Consolo, e
mandato all' incontro d'Annibale, prese il soprascrillo par-
tilo: il quale fu pericolosissimo; talmente che Roma stello
tutta dubbia e sollevata, infìno a tanto che vennono le nuove
della rolla d' Asdrubale. Ed essendo domandalo poi Claudio
per qual cagione avesse preso si pericoloso parlilo, dove
senza una estrema necessità egli aveva giocata ' quasi la li-
bertà di Roma; rispose che T aveva fallo perchè sapeva
ohe, se gli riusciva, riacquistava quella gloria che s'aveva
perduta in Ispagna ; e se non gli riusciva, e che ' questo suo
partito avesse avuto contrario fìne, sapeva come ei si ven-
dicava contra a quella città ed a quelli cittadini che l'ave-
vano tanto ingratamente ed indiscretamente olTeso. E quando
queste passioni di tali oflTese possono tanto in an cittadino
romano, e in quelli tempi che Roma ancora era incorrotta,
si debbo pensare quanto elle possino in un cittadino d' una
pitta che non sia fatta come era allora quella. E perchè a si-
mili disordini che nascono nelle repubbliche non si può d.irc
certo rimedio, ne seguila che gli è impossibile ordinare una
repubblica perpetua, perchè per mille inopinate vie si causa
la sua rovina.
Cap. XVIII. — Nessuna cosa è più degna d' un capUano,
che prf sentire i parlili del nimico.
Diceva Epaminonda tebano, nessuna cosa esser più ne-
cessaria e più utile ad un capitano, che conoscere le dili-
berazioni e partiti del nimico. E perchè tale cognizione è
diflTicile, merita tanto più laude quello che adopera in modo
che le coniellura. E non tanto è diffìcile intendere gli dise-
gni del nimico, ch'egli è qualche volta diffìcile intendere le
azioni sue ; e non tanto le azioni sue che per lui si fanno
discosto, quantt) le presenti e le propinque. Perchè molle
volte è accaduto, che sendo durata una zulTa infìno a notte,
' La Bladiana, con forma del tempo, giucata; ma gli editori della Tetti-
na, essendo il secolo più innoìlralo , correggevano giocata.
3 Così la Romana e 1* edizione del 1813. Inutilmente fu per altri emenda-
to : ì se.
1
LIBRO TERZO. 363
chi ha vinto crede aver perduto, e chi ha perduto crede
aver vinto. 11 quale errore ha fatto diliberare cose contrarie
alla salute di colui che ha diliberato : come intervenne a
Bruto e Cassio, i quali per questo errore perderono la guerra ;
perchè, avendo vinto Bruto dal corno suo, credette Cassio
che aveva perduto, che tutto l'esercito fusse rotto; e dispe-
ratosi per questo errore della salute, amnaazzò se stesso.
Nei nostri tempi, nella giornata che fece in Lombardia a
Santa Cecilia Francesco re di Francia con i Svizzeri, soprav-
venendo la notte, credetteno quella parte dei Svizzeri che
erano rimasti interi aver vinto, non sappiendo di quelli
che erano stati rotti e morti : il quale errore fece che loro
medesimi non si salvarono, aspettando di ricombattere * la
mattina con tanto loro disavvantaggio ; e fecero ancora er-
rare, e per tale errore presso che rovinare, l'esercito del
papa e di Spagna, il quale in su la falsa nuova della vittoria
passò il Po, e se procedeva troppo innanzi, restava prigione
de' Franciosi che erano vittoriosi. Questo simile errore oc-
corse ne' campi romani e in quelli delli Equi. Dove, sendo
Sempronio consolo con l'esercito all'incontro degli nimici,
ed appiccandosi la zuffa, si travagliò quella giornata infino a
sera con varia fortuna dell'uno e dell'altro: e venula la
notte, sendo l'uno e l'altro esercito mezzo rotto, non ri-
tornò alcuno di loro ne' suoi alloggiamenti ; anzi ciascuno si
ritrasse ne' prossimi colli, dove credevano esser più sicuri;
e l'esercito romano si divise in due parti : 1' una n' andò col
Consolo, l'altra con un Tempanio centurione, per la virtù
del quale l' esercito romano quel giorno non era stalo rotto
interamente. Venuta la mattina, il Consolo romano senza
intendere altro de' nimici si tirò verso Roma ; il simile fece
l'esercito degli Equi: perchè ciascuno di questi credeva che
il nimico avesse vinto, e però ciascuno si ritrasse senza cu-
rare di lasciare i suoi alloggiamenti in preda. Accadde che
Tempanio, ch'era col resto dello esercito romano, ritiran-
dosi ancora esso, intese da certi feriti degli Equi, come i
capitani loro s'erano partili, ed avevano abbandonali gli al-
* Così , molto a proposito , nella Romana e in quella del i3 j ne so perchè
nelle altre leggasi cowArt</ere. .' *
364 DRi Disconsi
loggiamenti : donde che egli, in sa questa nuova, se ne enirù
negli alloggiamenli romani, e salvògli : e dipoi saccheggiò
quelli degli Equi, e se ne tornò a Roma vittorioso. La qual
Tittoria,come si vede, consistè solo in chi prima di loro in-
lete i disordini del nimico. Dove « debbe considerare, come
e' poò spesso occorrere che i dooi esercili cbe siano a fronte
r ano deir «Uro, siano nel medesimo disordine, e patischino
le medesime necessità ; e cbe quello resti poi vincitore che ò
il primo a intendere le necessità dell* altro, lo voglio dare di
qoestoonoessempio domestico e moderno. Nel 1498, quando
i Fiorentini avevano ono esercito grosso in quel di Pisa, e
slringevaoo forte quella città ; della quale * avendo prtM i Vi-
niziaoi la protezione, non vnfgendo altro nodo a salvarla,
dillberarono di divertire qnallt Sterra, asMilando da un'al-
tra banda il dominio di Firenze; e fatto onn ateraito potente,
entrarono per la Val di La mona , ed oecoparono il borgo di
llarradi, ed assediarono la ròcca di Castiglione, che è in
ani eolie di anpra. 11 che sentendo i Fiorentini , diliberarono
■otaafur llarradi, e non diminuire le foree avevano in
quel di Pisa; e fatte nuove fanterie, ed ordinate nuove genti
a cavallo, le mandarono a quella volta: delle qoali ne fa-
reno capi' Iacopo quarto d* Appiano signore di Piombino, ed
il conte Rinoccio da Marciano. 8endosi, adunque, condotte
queste genti in sol colle aopra llarradi, si levarono i ni-
Bici di 'ntorno a Castiglione, e ridossonsi tulli nel borgo:
ed essendo stalo Tono e l'altro di questi due eserciti a
fronte qualche giorno, pativa l'uno e l'altro assai di vetto-
vaglie, e d'ogni altra cosa necessaria: e non avendo ardire
l'uno d'affrontare l'altro, né sappiendo i disordini l'uno
dell* altro , diliberarono in una sera medesima 1* uno e l' al-
tro * di levare gli alloggiamenti la mattina vegnente, e ri-
tirarsi in dietro; il Vioiziano verso Berzighella e Faenza, il
Fiorentino verso Casaglia e il 11 ugello. Venula adunque la
mattina, ed avendo ciascuno de'campi cominciato ad avviare
i suoi impedimenti ; a caso una donna si parti dal borgo di
< E qui pare deìfm qnmU , la Ttcc cbe di esim , di qnellm.
' Queste parole in tma strm medesimm t nm» « /' mttrt ,
■ella Testina e in altre edicioai; rimcske io «jaclla d«J It^lS.
i
LIBRO TERZO. 3G5
Marradi, e venne verso il campo fiorentino, secura perla
vecchiezza e per la povertà, disiderosa di vedere certi suoi
che erano in quel campo: dalla quale intendendo i capitani
delle genti fiorentine, come il campo viniziano partiva, si
fecero in su questa nuova gagliardi; e mutato consiglio,
come se gli avessino disalloggiati i nimici, ne andarono so-
pra di loro, e scrissero a Firenze avergli ributtati, e vinta
la guerra. La quel vittoria non nacque da altro, che dallo
avere inteso prima dei nemici come e' se ne andavano: la
quale notizia se fusse prima venuta dall'altra parte, arebbe
fatto centra ai nostri il medesimo effetto.
Cap. XIX. — Se a reggere una moUiludine è più necessario
lo ossequio che la pena.
Era la Repubblica romana sollevata per le inimicizie
de'Nobili e deTlebei: nondimeno, soprastando loro la guerra,
mandarono fuori con gli eserciti Quinzio ed Appio Claudio.
Appio, per essere crudele e rozzo nel comandare, fu male
ubbidito da' suoi ; tanto che quasi rotto si fuggi della sua pro-
vincia. Quinzio, per esser benigno e di umano ingegno,
ebbe i suoi soldati ubbidienti, e riportonne la vittoria. Donde
e' pare che sia meglio, a governare una moltitudine, essere
umano che superbo, pietoso che crudele. Nondimeno, Corne-
lio Tacito, al quale molti altri scrittori acconsentono, in una
sua sentenza conchiude il contrario, quando dice: * In mullù
ludine regendà plus poena, quam ohsequium valel. E conside-
rando come si possa salvare 1* una e l' altra di queste oppi-
nioni, dico: o che tu hai a reggere uomini che ti sono per
ror<linario compagni,© uomini che ti sono sempre soggetti.
Quando ti sono compagni, non si può interamente usare la
pena, né quella severità di che ragiona Cornelio: e perchè
la Plebe romana aveva in Roma eguale imperio con la No-
biltà, non poteva uno che ne diventava principe a tempo,
con crudeltà e rozzezza maneggiarla. E molte volte si vide
che miglior frutto feciono i Capitani romani che si facevano
* Mone sbaglio di tipografo, ne arLitrio (s'io men conosco) di editore,
quel che qui leggesi nella Bladiana : quando ait,
3i*
366 DEI DISCORSI
amare dagli eserciti, e che con ossequio gli maneggiavano,
che quelli che si facevano straordinariamente temere ; se
già e' non erano accompagnali da una eccessiva virtù, come
fu Manlio Torquato. Ma chi comanda ai sudditi, de' quali
ragiona Cornelio, acciocché non diventino insolenti, e che
per troppa tua facilità non li calpestino, debbo volgersi più
tosto alla pena che allo ossequio. Ma questa ancora debbo
esser in modo moderata, che si fugga l'odio; perchè farsi
odiare non torna mai bene ad alcuno principe. Il modo del
fuggirlo è lasciar stare la roba de' sudditi: perchè del san-
gue, quando non vi sia sotto ascosa la rapina, nessuno prin-
cipe ne è disideroso se non necessitato, e questa necessità
viene rare volte; ma sendovi mescolata la rapina, viene
sempre, né mancano mai le cagioni ed il disiderio di spar^
gerle : come in altro trattato sopra questa materia s' è larga-
mente discorso. Meritò, adunque, più laude Quinzio che Ap-
pio ; e la sentenza di Cornelio dentro ai termini suoi, e non
ne' casi osservati da Appio, merita d'essere approvata. E
perchè noi abbiamo parlato della pena e dello ossequio, non
mi pare superfluo mostrare, come uno essempio d' umanità
potè appresso ai Faliscì più che l'armi.
Gap. XX. — Uno essempio d' umanilà appresso ai Falisci
polene più d' ogni forza romana.
Essendo Cammillo con Tesercito intorno alia città de'Fa-
lisci, e quella assediando, un maestro di scuola de' più no-
bili fanciulli di quella città, pensando di gratificarsi Cam-
millo ed il Popolo romano, sotto colore di esercizio uscendo
con quelli fuora della ciltà, gli condusse tutti nel campo
innanzi a Cammillo, e, presentatigli, disse, come medianli
loro quella terra si darebbe nelle sue mani. Il quale presente
non solamente non fu accettato da Cammillo, ma fatto spo-
gliare quel maestro, e legatogli le mani di dietro, e dato a
ciascuno di quelli fanciulli una verga in mano, lo fece da
quelli con di molle battiture accompagnare nella terra. La qual
cosa inlesa da quelli cittadini, piacque tanto loro 1' umanità
ed integrità di Cammillo^ che senza voler più difendersi, di-
LIBRO TERZO. 367
liberarono di dargli la terra. Dove *■ è da considerare, con
questo vero essempio, quanto qualche volta possa più nelli
animi degli uomini un alto umano e pieno di carità, che
un atto feroce e violento ; e come molle volle quelle Pro-
vincie e quelle città che le armi, grinstrumenti bellici ed
ogni altra umana forza non ha potuto aprire, uno essempio
di umanità e di pietà, di castilà o dì liberalità, ha aperte. Di
che ne sono nelle istorie, olire a questo, molti altri essempi.
E vedesi come 1' armi romane non potevano cacciare Pirro
d'Italia, e ne lo cacciò la liberalità di Fabrizio, quando li
manifestò l' olTerta che aveva falla ai Romani quel suo fami-
gliare, d' avvelenarlo. Vedesi ancora, come a Scipione Affri-
cano non delle tanta riputazione in Ispagna la espugnazione
di Cartagine nuova, quanto gli delle quello essempio di ca-
stilà, d'aver rendula la moglie giovine, bella, ed intatta al
suo marito ; la fama della quale azione gli fece amica tutta
r Ispagna.^ Vedesi ancora, questa parte quanto la sia disi-
derata dai popoli negli uomini grandi, e quanto sia laudata
dagli scrittori ; e da quelli che descrivono la vita dei prin-
cipi, e da quelli che ordinano come debbono vivere. Intra i
quali Senofonte s* aflTalica assai in dimostrare quanti onori,
quante vittorie, ' quanta buona fama arrecasse a Ciro l'essere
umano ed affabile; e non dare alcun essempio di sé né di su-
perbo, né di crudele, né di lussurioso, né di nessuno altro
vizio che macchi la vita degli uomini. Pur nondimeno, veg-
gendo Annibale con modi contrari a questi avere conseguilo
gran fama e grandi vittorie, mi pare da discorrere nel se-
guente capitolo, donde questo nacque.
(-AP. XXI. — Donde nacque che Annibale con diverso modo di
procedere da Scipione, fece quelli medesimi effelli in Italia
che quello in Ispagna.
Io stimo che alcuni si potrebbono meravigliare veg-
gendo qualche capitano, nonostante ch'egli abbia tenuta
* La Testina e il Poggiali: Donde.
2 Così ancora nella Testina ; ma nelle moderne : la Spagna,
' La Bladiana soltanto: quanta vittoria.
368 DEI DISCORSI
contraria ?ia, aver nondimeno falli simili eflelli a coloro
che sono tìssuIì nel modo soprascritto: (alche pare che hi
cagione delle vittorie non dipenda dalle predelle cause; anzi
pare che quelli modi non ti rechino né più forza nò più
fortana, potendosi per contrari modi acquistare gloria e ri-
putazione. E per non mi partire dagli uomini soprascritti, e
per chiarir meglio quello che io ho voluto dire ; dico come
e' si vede Scipione entrare in Ispagna, e con quella sua
umanità e pietà subito farti amica quella provincia, e ado-
rare ed ammirare dai popoli. Vedesi, all'incontro, entrare An-
nibale in Italia, e con modi (otti contrari, cioè con violenza
e crudeltà e rapina ed ogni ragione d'infedeltà, fare il me-
desimo efletlo che aveva fatto Scipione in Ispagoa; perchè ad
Annibale si rìbellarooo tutte le città d'ItaUa, tatti i popoli
lo seguirono. E pensando donde questa cosa possa nascere,
ci si veggono dentro più ragioni. La prima è, che gli uomini
sono disiderosì di cose nuove ; in tanto che cosi desiderano
il pia delle volle novità quelli che stanno bene, come quelli
che stanno male : perchè, come altra volta si disM, ed è il
vero, eli uomini si stuccano nel bene, e nel male s'afflig-
gono. Fa, adunque, questo disiderio aprire le porte a ciascuno
che in una provincia si fa capo d' una innovazione ; e s' egli
è forestiero, gli eorrono dietro; s*egli è provinciale, gli sono
intorno, augumcntanlo e iavorìaeoalo: lalnenlechè, in qua-
lunque modo che egli proceda, gli rietee il far* pregressi
grandi in quelli luoghi. Oltre a questo, gli uomini sono s; riti
da due cose principali; o dallo amore, o dal timore: t.iti ii<
eosl gli comanda chi si fa amare, come colui che si fa te-
mere; anzi, il più delle volte è seguito ed ubbidito più chi si
fa temere , che chi si fa amare. Importa , pertanto , poco ad un
capitano, per qualunche di queste vìe ei si cammini, pur-
ché sia uomo virtuoso, e che quella virtù lo faccia riputato
intra gli uomini. Perchè, quando la è grande, come la fu in
Annibale ed in Scipione, ella cancella tutti quelli errori
che si fanno per farsi troppo amare, o per farsi troppo te-
mere. Perchè dell' uno e dell' altro di questi duoi modi pos-
sono nascere inconvenienti grandi, ed atti a far rovinare
un principe: perchè colui che troppo disidera esser amato.
LIBRO TERZO. ,360
Ogni poco che si parie dalla vera via, diventa disprezza-
bile: quell'altro cha disidera troppo d'esser temuto, ogni
poco ch'egli eccede il modo, diventa odioso. E tenere la via
del mezzo, non si può appunto, perchè la nostra natura
non ce !o consente: ma è necessario queste cose che ecce-
dono mitigare con una eccessiva viriù, come faceva Anni-
bale e Scipione. Nondimeno si vede* come l'uno e l'altro
furono otTesi da questi loro modi * di vivere , e cosi furono
essaltati. La essaltazione di lutti due s'è detta. La offesa quanto
a Scipione fu, che gli suoi soldati in Ispagna se gli ribellarono',
insieme «on parie degli suoi amici: la qual cosa non nacque
da altro che da non lo temere; perchè gli uomini sono tanto
inquieti, che ogni poco di porla che si apra loro all'ambi-
zione, dimenticano subito ogni amore ch'egli avessero po-
sto al principe per la umanità sua; come fecero i soldati ed
amici predetti: tanto che Scipione, per rimediare a questo
inconveniente, fu conslrelto usare parte di quella crudeltà
che egli aveva fuggita. Quanto ad Annibale, non ci è essem-
pio alcuno particolare, dove quella sua crudeltà e poca fede
gli nocesse : ma si può bene presupporre che Napoli, e molte
altre terre che stettero in fede del Popolo romano , stessero
per paura di quella. Vedesi bene questo, che quel suo modo
di vivere impio, lo fece più odioso al Popolo romano, che al-
cuno altro nimico che avesse mai quella Repubblica: in modo
che dove a Pirro, mentre che egli era con Io esercito in Ita-
lia, manifestarono quello che lo voleva avvelenare, ad An-
nibale mai, ancora che disarmalo e disperso, perdonarono,
tanto che lo feciono morire. Nacquero, dunque, ad Annibale
per essere tenuto impio erompitore di fede e crudele queste
incomodità; ma gliene risultò all'incontro una comodità
grandissima, la quale è ammirata da tulli gli scrittori: che
nel suo esercito, ancoraché composto di varie generazioni
d'uomini, non nacque mai alcuna dissensione, né infra loro
medesimi , né coiitra di lui. Il che non potette derivare da
altro, che dal terrore che nasceva dalla persona sua: il
quale era tanto grande , mescolato con la riputazione che
* La Romana r si vide.
* Le altre : da questo toro modo.
370 DEI DISCORSI
gli dava la sua Tìrlù, che teneva gli Moi soldati quieti ed
uniti. Conchiodo, adanqae, come e* non importa molto in
qoal modo an capitano ai proceda , parche in caao sia virtù
grasde, che condisca bene l'ooo e V altro modo di vivere:
perchè, coom è dello. Dell'ano e nell'altro è difetto e peri-
colo, qoaado da ana virtà ialraordinaria non sia corretto. E
•• Annibale e Scipione, Tono con cose laodabili, l'altro con
dclMtahili , feciono il medesimo effetto ; non mi pare da la-
•ciM' iodielro il discorrere ancora di daoi cittadini romani,
cIm MMtfairoBo eoo diversi modi, ma latti duo! laudabili ,
ana MedMima gloria.
Cap XXII.— Com* In durtsm et èhnH^ IVprfw iff , • Vmmmmi*
éi r«lcr«i CorriNo acqminà • timemm ftl «MÌMImi flirto.
B* tofoao in Roma in •« medesimo tempo dot capìlani
eccellenti, Manlio Torquato • Valtfto GorviM« i ^attt di
pari virlò, di pari trioni e gloria, tlmaa ia lli«a; a ala-
aeano di lora, in quinto s* appartaMTa al aHaico, eoa pari
?inà r arqai«l«ronn : ma quanto a* appartanava af li atardli
ad agi* intratienimenli de' soldati, divenlMimaaaata piaga»
deroBo: perchè Manlio con ogni generationa di tavarìlò,
santa ioIsroMilara ai saoi soldali o fatica a paaa , gli c^
naodava : Valafio, daQ' altra parla, aaa agal aadaalanutoa
MMaa, a péeaa d' una famigliare dimaslichatta ff latralla-
■an. farahè ai vede, che per aver l'ubbidieata dai aaMali,
r aaa aaMaattò il figliuolo , e l' altro non offese mai alenna
NoadisMno, in tanta diversilA di procedere, ciascaae faca il
medesimo frutto, a eoaira a'aiaiiei, ed in fa vare della llapiib»
Miaà a aao. Perchè nessaao saldato non mal a daltaMé la
talli, a si ribellò da loro, o f a ia alcuna parta dlaaMpasla
dalla voRlia di qnelli : quantunque gì* imperii di Maaia ÉM*
sino si aspri , che lutti gli altri imperli cIm imsJataaa II
moda, erano chiamati oMniMiM iwtperia. Dove è da csaside»
rare prima, donde nacque cha MaaKa fa eastratla ptaaa-
dere si rigidamente ; 1* altro , daada avvanae aha Vaiarlo
potette procedere si ooMnameote; 1* altro, qual cagioaa fé
che questi diversi modi facesfero il madesirao effeila; ad in
LIBRO TERZO. 371
ultimo, quale sia di loro meglio e più utile imitare. Se al-
cuno considera bene la natura di Manlio dall'ora che Tito
Livio ne comincia a far menzione, Io vedrà uomo fortis-
simo, pietoso verso il padre e verso la patria, e reverentis-
simo a' suoi maggiori. Queste cose si conoscono dalla morte
di quel Francioso; dalia difesa del padre contra al Tribuno;
e come avanti ch'egli andasse alla zutfa del Francioso, ei
n' andò al Consolo con queste parole : Injusm tuo adversus
linslem nunquam pngnabOy non si cerlam vicloriam vìdeam.
Venendo, adunque, un uomo così fatto a grado che comandi,
desidera dì trovare tutti gli uomini simili a sé; e l'animo suo
forte gli fa comandare cose forti ; e quel medesimo, coman-
date che le sono, vuole si osservino. Ed è una regola veris-
sima, che quando si comanda cose aspre, conviene con
asprezza farle osservare ; altrimenti , te ne troveresti in-
gannato. Dove è da notare, che a voler essere ubbidito, è
necessario saper comandare: e coloro sanno comandare, che
fanno comparazione della qualità loro a quelle dì chi ha a
ubbidire; e quando vi vegghino proporzione, allora coman-
dino; quando sproporzione, se ne astenghino. E però diceva
un uomo prudente, che a tenere una repubblica con violenza,
conveniva fusse proporzione da chi sforzava a quel ch'era
sforzato. E qualunque volta questa proporzione v'era, si
poteva credere che quella violenza fusse durabile: ma quando
il violentato era più forte del violentante, si poteva dubitare
che ogni giorno quella violenza cessasse. Ma tornando al
discorso nostro, dico che a comandare le cose forti, conviene
esser forte; e quello che è di questa fortezza e che le coman-
da, non può poi con dolcezza farle osservare. Ma chi non é
di questa fortezza d'animo, si debbe guardare dagl' imperii
istraordinari, e negli ordinari può usare la sua umanità :
perché le punizioni ordinarie non sono imputate al prin-
cipe, ma alle leggi ed agli ordini. Debbesi, adunque, credere
che Manlio fosse costretto procedere si rigidamente dagli
istraordinari suoi imperii, ai quali lo inclinava la sua natura:
i quali sono utili in una repubblica , perchè e' riducono gli
ordini di quella verso il principio loro, e nella sua antica
virtù. E se una repubblica fusse si felice , eh' ella avesse
372 DKI DISCORSI
spesso, come di sopra dicemmo, chi con lo essempio suo le
rinnovasse le leggi ; e non solo la ritenesse che.la non cor-
resse alla rovina, ma la ritirasse* indietro; la sarebbe per-
petua. Sì che Manlio fu uno di quelli che con 1* asprezza
de' suoi impcrii ritenne la disciplina militare in Roma, con-
stretto prima dalla natura sua, dipoi dal desiderio che aveva
s' osservasse quello che il suo naturale appetito gli aveva
fatto ordinare. Dall'altro canto, Valerio potette procedere
umanamente, come colui a cui bastava s'osservassino lo
cose consuete osservarsi negli eserciti romani. La qual con-
suetudine, perchè era buona, bastava ad onorarlo, e non
era faticosa ad osservarla, e non necessitava Valerio a pu-
nire i transgressori : si perché e' non ve n'erano; si perchè
quando e' ve ne fussino stati, imputavano, come è dello, la
punizione loro agli ordini, e non alla crudeltà del principe.
In modo che, Valerio poteva famascere da lui ogni umanità,
dalla quale ei potesse acquistare grado con i soldati , e la
contentezza loro. Donde nacque, che avendo V uno e l'altro
la medesima ubbidienza, poterono, diversamente operando,
fare il medesimo effetto. Possono quelli che volessero imitar
costoro, cadere in quelli vìzi di dispregio e d'odio che io
dico dì sopra d'Annibale e di Scipione : il che si fugge con
una virtù eccessiva che sia in te, e non altrimenti. Resta
ora considerare quale di questi modi dì procedere sia più
laudabile. 11 che credo sia disputabile, perchè gli scrittori
lodano 1' un modo e l' altro. Nondimeno, quelli che scrivono
come un principe s'abbia a governare, si accostano più a
Valerio che a Manlio; e Senofonte, preallegato da me, dando
di molti essempi della umanità dì Ciro, si conforma assai con
quello che dice di Valerio Tito Livio. Perchè, sendo fatto
Consolo contra i Sanniti , e venendo il dì che doveva com-
battere, parlò ai suoi soldati con quella umanità con la
quale eì si governava ; e dopo tal parlare , Tito Livio dice
queste parole : Non alias milili familiarior dux full, inler in-
fimos milUum omnia haud gravale munia obeundo. In ludo
pralerea mililari, cum vclocilalis viriumque inler se aquales
cerlamina ineunt, comiler facilis vincere ac vinci, vullu eodem;
* La TestÌDa e le moderne : ritraesse.
ì
LIBFxO TERZO. 373
nec quemquam aspernari parem qui se offerrel; faclis benignus
prò re; diclis, haud minus liberlalis aliencB, quam sucb digni-
latis memor ; et (quo nihil popularius est) quibus arlibus pe-
tierat magislralus , iisdem gerebat. Parla medesimamente di
Manlio Tito Livio onorevolmente, mostrando che la sua se-
verità nella morte del figliuolo fece tanto ubbidiente 1' eser-
cito al Consolo, che fu cagione della vittoria che il Popolc
romano ebbe contra ai Latini; ed in tanto procede in lau-
darlo, che dopo tal vittoria, descritto ch'egli ha tutto l'ordine
di quella zuffa, e mostri tutti i pericoli che '1 Popolo romano
vi corse, e le dilTicuItà che vi furono a vincere, fa questa
conclusione : che solo la virtù di Manlio dette quella vittoria
ai Romani. E facendo comparazione delle forze dell' uno e
dell' altro esercito , afferma come quella parte arebbe vinto
che avesse avuto per Consolo Manlio ; talché , considerato
lutto quello che gli scrittori ne parlano, sarebbe difficile giu-
dicarne. Nondimeno, per non lasciare questa parte indecisa,
dico, come in un cittadino che viva sotto le leggi d' una re-
pubblica, credo sia più laudabile e meno pericoloso il proce-
dere di Manlio : perché questo modo tutto è in favore del
pubblico, e non risguarda in alcuna parte all'ambizione
privata ; perchè per tale modo non si può acquistare parti-
giani, mostrandosi sempre aspro a ciascuno, ed amando
solo il ben comune; perchè chi fa questo, non s'acquista
particolari amici , quali noi chiamiamo , come di sopra si
disse, partigiani. Talmentechè, simil modo di procedere non
può esser più utile né più desiderabile * in una repubblica ;
non mancando in quello 1' utilità pubblica, e non vi potendo
essere alcun sospetto della potenza privala. Ma nel modo
di procedere di Valerio è il contrario : perché se bene in
quanto al pubblico si fanno i medesimi elTetti, nondimeno vi
surgono molte dubitazioni , per la particolar benivolenza
che colui s'acquista con i soldati, da fare in un lungo im-
perio cattivi effetli contra alla libertà. E se in Publicola
questi cattivi effetti non nacquero, ne fu cagione non essere
ancora gli animi dei Romani corrotti, e quello non esser
' Cosi la Bladiana. Le altre hanno, con significazione cb* io confesso di noo
^ intendere , in aulore del 500 : considerabile,
32
374 DEI Disconsi
stato tantamente e conlino?amente al governo loro. Ma se
noi abbiamo a considerare un principe, come considera Se-
Dofonle, noi ci accosteremo al tolto a Valerio, e lasce-
remo Manlio ; perchè on principe debbe cercare nei soldati
e Dei saddiU 1* abbidienxa e 1* amore. L* ubbidienza gli dà
lo essere 08fer?atore degli ordini, Tesser tenuto virtuoso:
lo amore gli di Tatrabilità, l'umanità, la pietà, e quell'al-
tre parti che erano in Valerio, e che Senofonte scrive essere
stale in Ciro. Perché lo essere un principe ben voluto par-
ticolarmente, ed avere lo esercito suo partigiano, si conforma
con tutte r altre parti dello stalo suo : ma in un cittadino
che abbia l'esercito suo partigiano, non si conforma già
questa parte con V altre sue parti, che 1* hanno a far vivere
sotto le leggi, ed ubbidire ai magistrali. Leggesi intra le cose
antiche della Repubblica vinitiana , come essendo le galee
vinitiane (ornate in Vinegia, e venendo certa diflerenta in-
tra quelli delle galee ed il popolo, donde si venne al tumulto
ed air armi ; né si potendo la cosa quietare ni per forza di
ministri, ni per reverenza de* cittadini, ni timore di maf(i-
fttrati ; subito che a quelli marinari apparve innanzi on gentil-
uomo * che era Tanno davanti stato Capitano loro, per amore
di quello si partirono, e lasciarono la tulTa. La quel obbi-
dienza generò (anta sospizione al Senato, che poco tempo
dipoi i Viniziani, o per prigione o per morte, se ne assicu-
rarono. Conchiudo pertanto, il procedere di Valerio essere
utile in uno principe, e pernizioso io un cittadino; non sola-
roenle alla patria, ma a si: a lei, perchò quelli modi prepa-
rano la via alla tirannide; a si, perchè in sospettando* la sua
città del modo del procedere suo, i costretta assicurarsene
con suo danno. E così, per il contrario, atTcrmoil procc<lcro
di Manlio in un principe esser dannoso, ed in uno cittadino
utile, e massime alla patria: ed ancora rare volte oflrcn<!e; se
già questo odio che ti (ira dietro la tua severità , non è ac-
cresciuto da sospetto che l'altre tue virtù per la gran riputa-
zione ti arrecassino : come di sotto di Cammillo si discorrerà.
< L* rsempUrc cIm mi i pret^iHc «l«Ik Testina, ba «rnUo a pcMM lul
margine: M. Ptetr» Lvrtémm:
* AcUa Bladiaaa e «crillo mm
LIBRO TERZO. 375
Gap. XXIII. — Per qual cagione Cammillo fusse caccialo
di Roma.
Noi abbianao conchiuso di sopra, come* procedendo come
Valerio, si nuoce alla patria ed a sé; e procedendo come
Manlio, si giova alla patria, e nuocesi qualche volta a sé. 11
che si pruova assai bene per lo essempio di Cammillo, il quale
nel procedere suo simigliava più tosto Manlio che Valerio.
Donde Tito Livio,'parlando di lui, dice, come ejus virlulem mi-
liles oderanl, el mirabanlur. Quello che lo faceva tenere me-
raviglioso, era la sollicitudine, la prudenza, la grandezza del-
l'animo, il buon ordine che lui servava nello adoperarsi, e
nel comandare agli eserciti: quello che lo faceva odiare, era
essere più severo nel gastigargli, che liberale nel rimunerar-
gli. E Tito Livio ne adduce di questo odio queste cagioni: la
prima , che i danari che si trassero de* beni dei Veienti che
si venderono, esso gli applicò al pubblico, e non gli divise
con la preda: l'altra, che nel trionfo ei fece tirare il suo carro
trionfale da quattro cavagli bianchi, dove essi dissero che per
superbia ei s'era voluto agguagliare al Sole: la terza, che fece
voto di dare ad Apolline la decima parte della preda dei
Veienti, la quale, volendo satisfare al voto, s'aveva a trarre
dalle mani dei soldati che V avevano di già occupata. Dove
si notano bene e facilmente quelle cose che fanno un prin-
cipe odioso appresso il popolo; delle quali la principale è pri-
varlo d' uno utile. La qual cosa è di importanza assai ; perchè
le cose che hanno in sé utilità, quando l'uomo n' è privo,
non le dimentica mai, ed ogni minima necessità te ne fa ri-
cordare; e perché le necessità vengono ogni giorno, tu tene
ricordi ogni giorno. L'altra cosa è lo apparire superbo ed en-
fiato; il che non può essere più odioso ai popoli, e massime
ai liberi. E benché da quella superbia e da quel fasto non
ne nascesse loro alcuna incomodità, nondimeno hanno in odio
chi r usa: da che un principe si debbo guardare come da uno
* Cosila Bladiana; onde sembra correzione di schizzinosi, per la prossimilk
di altri come, il che supplito nelle altre edizioni.
376 DEI DISCORSI
scoglio ; perchè tirarsi odio addosso senza suo proOUo, è al
tulio parlilo temerario e poco prudente. ^
Gap. XXIV. — La prolungasione degV imperii fece serva Roma.
Se si considera bene il procedere della Repubblica romana*
si vedrà due cose essere sfate cagione della resoluzione di
quella Repubblica :r una furono le contenzioni che nacquero
dalla legge agraria; l'altra la prolungazione degli impcrii: le
quali cose se fussino state conosciute bene da principio, e
fallivi debili rimedi, sarebbe sialo il viver libero più lun-
go, e per avventura più quieto. E benché, quanto alla pro-
lungazione dello imperio, non si vegga che in Roma nascesse
mai alcuno tumulto; nondimeno si vedde in fallo,quanto noce
alla città quella autorità che i cittadini per tali diliberazioni
presono. £ se gli altri cittadini a chi era prorogato il magi
strato, russino stati savi e buoni come fu Lucio Quinzio,
non si sarebbe incorso in questo inconveniente. La bontà del
quale è d'ano essempio notabile; perchè, sendosi fatto intra la
IMcbe ed il Senato convenzione d'accordo, ed avendo la Plebe
prolungato io ano anno l'imperio ai Tribuni, giudicandogli
atti a poter resistere airambizione dei Nobili, volle il Senato,
per gara della Plebe e per non parere da meno di lei, pro-
lungare il consolato a Lucio Quinzio : il qoale al tutto negò
questa dilibcrazionc, dicendo che i cattivi cssempi si volevano
cercare di spegnergli, non di accrescergli con uno altro più
cattivo essempio; e volle si facessino nuovi Consoli. La qunl
bontà e prudenza se fusse stala in lutti i cittadini romani,
non arebbe lasciala introdurre quella consuetudine di pro-
lungare i magistrati, e da quella non si sarebbe venuto alla
prolungazione delti imperii : la qual cosa, col tempo, rovinò
quella Repubblica. Il primo a chi fu prorogato l'imperio, fu
Publio Filone; il quale essendo a campo alla città di Palcpo-
li, e venendo la Gne del suo consolato, e parendo al Senato
ch'egli avesse in mano quella vittoria, non gli mandarono
il successore, ma lo fecero Proconsolo ; talché fu il primo
* Malamente errò la Testina stampando et prudenlt : sbaglio cbt il Pog*
fiali volle forse emendare scrivendo ed imprudente.
LIBRO TERZO. 377
Proconsolo. La qual cosa, ancora che mossa dal Senato per
iilililà pubblica, fu quella che con il tempo fece serva Roma.
Perchè, quanto più i Romani si discostaron con le armi,
tanto più pareva loro tale prorogazione necessaria, e più
r usarono. La qual cosa fece due inconvenienti : 1* uno che
meno numero <li uomini si esercitarono negl' imperii ; e si
venne per questo a ristringere la reputazione in pochi: l'al-
tro, che stando un cittadino assai tempo comandatore d'uno
esercito, se lo guadagnava, e facevaselo partigiano; perchè
quello esercito col tempo dimenticava il Senato, e ricono-
sceva quello capo. Per questo Siila e Mario poterono trovare
soldati che centra al bene pubblico gli seguitassino : per que-
sto Cesare potette occupare la patria. Che se mai i Romani
non avessino prolungati i magistrati e gli imperii, se non ve-
nivano sì tosto a tanta potenza, e se russino stati più tardi gli
acquisti loro, sarebbero ancora venuti più tardi nella servitù.
Gap. XXV. — Della povertà di Cincinnato, e di molli
cittadini romani.
Noi abbiamo ragionato altrove, come la più ulil cosa che
si ordini in un viver libero è che si mantenghino 1 cittadini
poveri. E benché in Roma non apparisca quale ordine fusse
quello che facesse questo eflfetto, avendo, massime, la legge
agraria avuta tanta oppugnazione; nondimeno per esperienza
si vidde, che dopo quattrocento anni che Roma era stata edifi-
cata, v'era una grandissima povertà; né si può credere che al-
tro ordine maggiore facesse questo effetto, che vedere come
perla povertà non t'era impedita la via a qualunque grado ed
a qualunque onore, e come s* andava a trovare la virtù in
qualunque casa l'abitasse. Il qual modo di vivere faceva manco
disiderabili le ricchezze. Questo si vede manifesto; perchè
essendo Minuzie consolo assediato con lo esercito suo dagli
Equi, si empiè di paura Roma, che quello esercito non si
perdesse; tanto che ricorsero a creare il Dittatore, ultimo
rimedio nelle loro cose aflQilte. E crearono Lucio Quinzio
Cincinnato, il quale allora si trovava nella sua piccola villa,
la quale lavorava di sua mano. La ^ual cosa con parole au-
32*
378 DEI DISCORSI
ree è celebrala da Tito Livio, dicendo: Opera precium esl
audire, qui omnia prce diviUis humana spernunl, neqtie honori
magno locum, ncque virluli pulanl esse, nisi effuse afjluanl opcs.
Arava Cincinnalo la sua piccola villa, la quale non trapas-
sava il termine di quattro iugeri, quando da Roma vennero
i Legati del Senato a signifìcarli la elezione delia sua ditta-
tara, ed a mostrarli in quale pericolo si trovava la romana
Repubblica. Egli, presa la sua toga, venuto in Roma e ragù-
nato ano esercito, n'andò a liberar Minuiio ; ed avendo rotti
e spogliali i nimici, e liberato quello, non volle che T eser-
cito assedialo fusse partecipe delia preda, dicendogli queste
parole : Io non voglio che tu participi della preda di coloro
de' quali lu sei sialo per essere preda i— e privò Minaiio del
consolalo, e fecelo Legalo, dicendogli : Starai tanlo in que-
sto grado, che ta impari a sapere essere Consolo. Aveva fallo
soo Maestro de* cavalli Lucio Tarquinio, il quale per la po-
vertà militava a piede. Notasi, come é detto, 1* onore che si
faceva in Roma alla povertà ; e come ad uno uomo buono e
valente, quale era CiocioDato, quattro iugeri di terra basta-
vano a Dolrirlo. La quale povertà si vede come era ancora
nei tempi di Marco Regolo; forche seiido in Affrica con gli
eserciti, domandò licenzia al Senato per poter tornare a cu-
stodire la soa villa, la quale gli era guasta da* suoi lavora-
tori. Dove ti vede due cose notabilissime : l' ona, la povertà,
e come vi ilavaoo dentro contenti, e come bastava a quelli
cittadini trarre della guerra onore, e 1* utile tutto lasciavano
al pubblico. Perchè, s'egli avessero pensato d'arricchire della
guerra, gli sarebbe dato poca briga' che i suoi campi fussino
stati guasti. L'altra é, considerare la generosità dell'animo
di quelli cittadini, i quali preposti ad ano esercito, saliva la
grandezza dell'animo loro sopra ogni principe; non slima-
?ano i re, non le repubbliche; non gli sbigottiva né spaven-
tava cosa alcuna ; e tornati dipoi privati, diventavano parchi,
umili, curatori delle piccole facoltà loro, ubbidienti ai magi-
strati, reverenti alli loro maggiori: talché pare impossibile
che ano medesimo animo patisca tanta mutazione. Durò
' Modo a coktmire insolito, nu non ismentito da vetiioa delle cootulute
ediùooL For«c però rAotorc «Tcra «criUo hmrebbe diUo ce
LIBRO TERZO. 379
questa povertà ancora insino ai tempi di Paulo Emilio, che
furono quasi gli ultimi felici tempi di quella Repubblica, dove
un cittadino che col trionfo suo arricchì Roma, nondimeno
mantenne povero sé. E cotanto si stimava ancora la povertà,
che Paulo nell' onorare chi s'era portato bene nella guerra,
donò a un suo genero una tazza d' ariento, il quale fu il pri-
mo ariento che fusse nella sua casa. E potrebbesi con un
lungo parlare mostrare quanti migliori frutti produca la po-
vertà che la ricchezza, e come l' una ha onorato le città, le
Provincie, le sètte; e l'altra 1' ha rovinate; se questa male-
ria non fusse stala molle volte da altri uomini celebrata.
Gap. XXVI. — Come per cagione di femmine si rovina
uno stalo.
Nacque nella città d'Ardea intra i patrizi e i plebei una
sedizione per cagione d' un parentado, dove avendosi a ma-
ritare una femmina erede, la domandarono parimente un
plebeo ed un nobile; e non avendo quella padre, i tutori la
volevano congiugnere al plebeo, la madre al nobile: di che
nacque tanto tumulto, che si venne all'armi ; dove tutta la
Nobiltà s'armò in favore del nobile, e tutta la Plebe in favore
del plebeo. Talché essendo superata la Plebe, s'uscì d'Ardea,
e mandò ai Volsci per aiuto : i Nobili mandarono a Roma.
Furono prima i Volsci, e giunti intorno ad Ardea, s'accam-
parono. Sopravvennero i Romani, e rinchiusono i Volsci infra
la terra e loro ; tanto che gli costrinsono, essendo stretti dalla
fame, a darsi a discrezione. Ed entrati i Romani in Ardea, e
morti tutti 1 capi della sedizione, composono le cose di quella
città. Sono in questo testo più cose da notare. Prima si vede,
come le donne sono stale cagioni di molte rovine, ed hanno
fatti gran danni a quelli che governano una città, ed hanno
causato di molte divisioni in quella: e, come si è veduto in
questa nostra istoria, l' eccesso fallo contra a Lucrezia tolse
lo stato ai Tarquini ; queir altro fatto centra a Virginia privò
i Dieci dell'autorità loro. Ed Aristotele intra le prime cose che
mette della rovina dei tiranni, é V avere ingiuriato altrui per
conto di donne, o con stuprarle, o con violarle, o corrom-
pere ì matrimoni; come di questa parte, nel capitolo dove noi
380 DEI DISCORSI
(rattammo delle congiure, largamente si parlò. Dico adun-
que, come i principi assoluti ed i governatori delle repub-
bliche non hanno a tenere poco conto di questa parte; ma
debbono considerare i disordini che per tale accidente pos-
sono nascere, e rimediarvi in tempo che il rimedio non sia
con danno e vituperio dello slato loro o della loro repubbli-
ca: come intervenne agli Ardeali, i quali per avere lascialo
crescere quella gara intra i loro cittadini, si condussono a di-
vidersi infra loro; e volendo riunirsi, ebbono a mandare per
soccorsi esterni : il che è un gran principio d' una propinqua
servitù. Ma vegniamo all'altro notabile del modo deP riunire
le città, del quale nel futuro capitolo parleremo.
Cap. XX vii. — Come e* it ha a unire una cUlà divisa ; e come
quella oppinione non è vera, che a tenere le città bisogna
tenerle disunite.
Per lo essempio dei Consoli romani che riconciliarono
insieme gli Ardeati, si nota il modo come si debbe comporre
una città divisa : il quale non è altro, né altrimenti si debbe
medicare, che ammazzare i capi de' tumulti. Perchè gli è
necessario pigliare uno de' tre modi : o ammazzargli, come
fecero costoro; o rimuovergli della città; o far loro far pace
insieme, sotto obblighi di non si offendere. Di questi tre modi,
questo ultimo è più dannoso, men certo, e più inutile. Per-
chè gli è impossibile, dove sia corso assai sangue, o altre
simili ingiurie, che una pace fatta per forza duri, riveggen-
dosi ogni di insieme in viso ; ed è diflìcile che si astenghino
dallo ingiuriare l'uno l'altro, potendo nascere inTra loro
ogni di, per la conversazione, nuove cagioni di querele. Sopra
che non si può dare il migliore essempio che la città di Pi-
sloia. Era divisa quella città, come è ancora, quindici anni
sono, in Panciatichi e Cancellieri; ma allora era in sull'ar-
me, ed oggi rha posate. E dopo molle dispule infra loro, ven-
nero al sangue, alla rovina delle case, al predarsi la roba,
e ad ogni altro termine di nimico. Ed i Fiorentini, che gli
avevano a comporre , sempre vi usarono quel terzo modo ; e
* La Testina , colle moderae: di.
LIBRO TERZO. 381
sempre ne nacquero maggiori tumuUì, e maggiori scandali:
tanto che, stracchi, si venne al secondo modo, di rimuovere i
capi delle parti; de* quali alcuni messono in prigione, alcuni
altri confinarono in vari luoghi: tanto che l'accordo fatto
potette stare, ed è stato infino a oggi. Ma" senza dubbio più
sicuro saria stato il primo. Ma perchè simili esecuzioni hanno
il grande ed il generoso, una repubblica debole non le sa fa-
re, ed ènne tanto discosto, che a fatica la si conduce al ri-
medio secondo. E questi sono di quelli errori che io dissi nel
principio, che fanno i principi dei nostri tempi, che hanno
a giudicare le cose grandi; perchè doverebbono voler vedere,
come sì sono governati coloro che hanno avuto a giudicare
anticamente simili casi. Ma la debolezza de* presenti uomini,
causata dalla debole educazione loro e dalla poca notizia
delle cose, fa che si giudichino * i giudizi antichi parte inu-
mani , parte impossibili. Ed hanno certe loro moderne oppi-
nioni discoste al tutto dal vero ; com' è quella che dicevano
i savi della nostra città, un tempo è : che bisognava tener Pi-
sloia con le parli, e Pisa con le forlezze; e non s' avveggono,
quanto 1' una e 1' altra di queste due cose è inutile. Io vo-
glio lasciare le fortezze, perchè di sopra ne parlammo a lun-
go ; e voglio discorrere la inutilità che si trae dal tenere le
terre, che tu hai in governo, divise. In prima, è impossibile
che tu ti mantenga tutte due quelle parti amiche ^ o principe
o repubblica che le governi. Perchè dalla natura è dato agli
uomini pigliar parte in qualunque cosa divisa, e piacergli
più questa che quella. Talché, avendo una parte di quella
terra malconlenta, fa che la prima guerra che viene, tu la
perdi ; ^ perchè gli è impossibile guardare una città che ab-
bia i nimici fuori e dentro. Se la è una repubblica che la
governi, non ci è il più bel modo a far cattivi i tuoi cittadi-
ni ed a far dividere la tua città, che avere in governo una
città divisa ; perchè ciascuna parte cerca d'aver favori, cia-
scuna si fa amici con varie corruttele: talché ne nasce due
* La Bladiana : gttidìcano.
3 Male la Romana, colla Testina: antiche} e nella seconda, aggiungendo
all' ertore l' arbitrio ! in quelle ec.
5 Le suddette edizioni : te la perdi.
382 DEI DISCOBSI
grandissimi inconvenicnd ; Tuno, che lu non le gli fai mai
amici, per non gli poter governar bene, variando il governo
spesso, ora con l'uno, ora con T altro amore; l'altro, che tale
stadio dì parte divide di necessitala taa repubblica. Ed il Bion-
do, parlando dei Fiorentini e de'PistoIesi, ne fa fede, dicendo:
Mentre che t Fiorentini disegnavano di riunir Pistoia, divùiono
ti medesimi. Pertanto, si può facilmente considerare il male
che da questa divisione nasca. Nel 1501, qaando si perde ;
Arezzo, e tatto Val di Tevere e Val di Chiana, occupatoci
dai Vitelli e dal duca Valentino, venne un monsi(;nor di
Lant, mandato dal re di Francia a fare restituire ai Fioren-
tini tutte quelle terre perdute; e trovando Lant io ogni ca-
stello uomini che, nel visitarlo» dicevano che erano della parte
di Marzocco, biasimò assai questa divisiooe: dicendo» che so
io Francia ono di quelli sudditi del re dicesse d'essere iMla
parte del re, sarebbe gastigato, perchè tal voce non signifi-
cherebbe altro, se non che in quella terra fusse gente nimica
del re; e quel re Tuole che le terre tutte siano sue amiche,
unite, e sema parli. Ma tutti questi mo<li e queste oppinioni
diverse dalla verità, nascono dalla debolezza di chi sono si-
goorì; i quali, veggendo di non poter tenere gli stati con forza
e eoo virtù, si voltano a simili industrie : le quali qualche volta
nei tempi quieti giovano qualche cosa; ma come e* vengono
l'avversità ed i tempi forti, le mostrano la fallacia loro.
Ckf. XXVIIl. — Che ti debbe por menU alU open de* citta-
dini, perchè molle volte tolto un'opera pia ti neueonde
un principio di tirannide.
Essendo la città di Roma aggravata dalla fame, e noa
bastando le provvisioni pubbliche a cessarla, pre<^c animo
UDO Spurio Melio, essendo assai ricco.secondo quelli tempi,
di far provvisione di frumento privatamente, e pascerne
con suo grado la Plebe. Per la qual cosa egli ebbe tanlo con-
corso di popolo in suo favore, che 'I Senato pensando all'io-
conveniente che di quella sua liberalità poteva nascere, per
opprimerla avanti che la fiigliasse più forze, gli creò nn Dit-
tatore addosso, e fecelo morire. Qui è da notare, come molle
LIBRO TERÌiO. 383
volte r opere che paiono pie e da non le potere ragionevol-
mente dannare, diventano crudeli, e per una repubblica
sono pericolosissime, quando non siano a buon'ora corrette.
E per discorrere questa cosa più particolarmente, dico che
una repubblica senza cittadini riputali non può stare, né può
governarsi in alcun modo bene. Dall' altro canto, la riputa-
zione de' cittadini è cagione della tirannide delle repubbliche.
E volendo regolare questa cosa, bisogna talmente ordinarsi,
che i cittadini sieno riputati di riputazione che giovi, e non
nuoca, alia città ed alla libertà di quella. E però si debbo
esaminare i modF con i quali ei pigliano riputazione ; che
sono in effetto due: o pubblici o privati. I modi pubblici sono,
quando uno consigliando bene, e operando meglio in benefi-
zio comune, acquista riputazione. A questo onore si debbe
aprire la via ai cittadini, e proporre premi ed ai consigli ed
all'opere, talché se n'abbino ad onorare e satisfare. E
quando queste riputazioni prese per queste vie, siano schiette
e semplici, non saranno mai pericolose: ma quando le sono
prese per vie private, che è l'alljo modo preallegato, sono
pericolosissime ed in tutto nocive. Le vie private sono, fa-
cendo benefìzio a questo ed a quell'altro privato, con pre-
stargli danari, maritargli le figliuole, difendendolo dai ma-
gistrati, e facendogli simili privati favori, 1 quali si fanno gli
uomini partigiani, e danno animo a chi è cosi favorito di
poter corrompere il pubblico, e sforzar le leggi. Debbe, per-
tanto, una repubblica bene ordinata aprire le vie, come è
detto, a chi cerca favori per vie pubbliche , e chiuderle a
chi li cerca per vie private ; come si vede che fece Roma
perchè in premio di chi operava bene per il pubblico, ordinò
i trionfi, e tutti gli altri onori che la dava ai suoi cittadini;
ed in danno di chi sotto vari colori per vie private cercava
di farsi grande, ordinò l'accuse; e quando queste non ba-
stassero, per essere accecato il popolo da una spezie di falso
bene , ordinò il Dittatore, il quale con il braccio regio facesse
tornare dentro al segno chi ne fusse uscito, come la fece per
punir Spurio Melio. Ed una che di queste cose si lasci im-
punita, é atta a rovinare una repubblica; perchè difficilmente
con quello essempio si riduce dipoi in la vera via.
38i DEI. DISCORSI
Gap. XXIX. — Che gli peccali dei pt^U nascono
dai principL
Non si dolghino ì principi d* alcuno peccalo che faccino
i popoli ch'egli abbiano in governo; perchè lali peccali
conviene che naschino o per sua negligenza, o per esser
ini macchiato * di simili errori. E chi discorrerà i popoli che
nei nostri tempi sono stati tenati pieni di ruberie e di simili
peccali, vedrà che sarà al lutto nato da quelli che gli gover-
navano, che erano di simile natura. La Romagna, innanzi
che in quella fossero spenti da papa Alessandro VI quelli
signori che la comaodavano, era uno e^sempio d*ogni sc' il(>-
ratissima vita, perchè quivi si vedeva per ogni leggiere < .1
giooe tegaireoccisioni e rapine grandissime. Il che nascevi
dalla IrìsUzia dì quei prìncipi; non dalla natura trista degli
uomioi, come loro dicevano. Perchè sendo quelli principi
poveri, e volendo vivere da ricchi, erano forzati volgerai a
molle rapine, e quelle per vari modi usare. Ed intra I* altre
disoneste vie che e* tenevano, facevano leggi, e proibivano
alcona azione ; dipoi erano i primi che davano cagione della
inosservanza d*eaie, né mai punivano gli inosservanti, se
non poi quando cedevano esser incorsi assai in ainile
pregiudizio ; ed allora si voltavano alla punizione , non per
zelo della legge fatta, ma per cupidità di riscuoter la pena.
Donde nascevano molti inconvenienti , e sopra tutto que-
sto: che i popoli si impoverivano, e non si correggeva-
no ; e quelli che erano impoverìli , a' ingegnavano con-
tra ai meno polenti di loro prevalersi. Donde sorgevano
tutti questi mali che di sopra si dicono, de' quali era ra-
gione il principe. E che questo sia vero , lo mostra Tilo
Livio quando ei narra che portando i Legati romani il dono
della preda dei Veienli ad Apolline, furono presi dai corsari
di Lipari in Sicilia, e condotti in quella terra: ed inteso Ti-
masiteo loro principe che dono era questo, dove egli ar:
e chi lo mandava, si portò, quantunque nato a Lipari, '
* Coti DclU migliMi ■«■■■■i. QBdb tolUDlo M PaggUtf il miti ài cor.
reggere : per Ur* megUgm»ut0 0 ptr 9sser lor* mmcchimU,
LIBRO TERZO. 385
uomo romano, e mostrò al popolo quanto era impio occupare
simll dono; lanlo che, con il consenso dell'universale, ne la-
sciò andare i Legati con tutte le cose loro. E le parole dello
islorico sono queste: TimasUheus muUitudinem religione im-
flevil, qucB semper regenli est similìs. E Lorenzo dei Medici, a
confirmazione di questa sentenza, dice:
E quel che fa il signor, fanno poi molli j
Che nel signor son tutti gli occhi vólti.
Gap. XXX. — Ad uno ciltadino che voglia nella sua repub-
blica far di sua autorità alcuna opera buona, è necessario
prima spegnere l* invidia: e come, venendo il nimico, s'ha
a ordinare la difesa rf' una cillà.
Intendendo il Senato romano come la Toscana tutta
aveva fatto nuovo deletto per venire a' danni di Roma ; e
come i Latini e gli Ernici, stati per lo addietro amici del
Popolo romano, s'erano accostati coi Volsci , perpetui ni-
mici di Roma ; giudicò questa guerra dovere esser perico-
losa. E trovandosi Ciammillo tribuno di potestà consolare ,
pensò che si potesse fare senza creare il Dittatore, quando
gli altri Tribuni suoi colleghi ^ volessino cedergli la somma
dello imperio. Il che delti Tribuni fecero volontariamente :
Nec quicquam (dice Tito Livio) de majeslale sua delraclum
credebant, quod majeslali ejus concessissenl. Onde Gammillo,
presa a parole questa ubbidienza, comandò che si scrives-
sino tre eserciti. Del primo volse esser capo lui, per ire
contra 1 Toscani. Del secondo fece capo Quinto Servilio , il
quale volle stesse propinquo a Roma, per ostare ai Latini
ed agli Ernici, se si movessino. Al terzo esercito prepose
Lucio Quinzio, il quale ^ scrisse per tenere guardata la città,
e difese le porte e la curia, in ogni caso che nascesse. Oltre
a questo ordinò che Orazio, uno de' suoi colleghi, provve-
desse l'arme, ed il frumento, e l'altre cose che richieggono
i tempi della guerra. Prepose Cornelio, ancora suo collega,
al Senato ed al pubblico consiglio, acciocché potesse censir
* La Romana soltanto , qui e dodici righe appresso : collegi.
- Cioè , il quale esercito.
33
386 DEI BISCORSI
gliare le azioni che giornalmente s* avevano a fare ed ese-
guire. In questo modo furono quelli Tribuni, in quelli temi»i,
per la salute della patria disposti a comandare e ad ubbi-
dire. Notasi per questo lesto, quello che faccia uno uomo
buono è savio, e di quanto bene sia cagione, e quanto utile
ci possi fare alla sua patria, quando, mediante la sua bontà
e virtù, egli ha spenta T invidia; la quale è molle volle ca-
gione che gli uomini non possono operar bene , non per-
mettendo delta invidia che gli abbino quella autorità la
quale è necessaria avere nelle cose d'importanza. Spegnesì
questa invidia in duoi modi : o per qualche accidente forte
e difTicile, dove ciascuno veggendosi perire, posposta ogni
ambizione, corre volontariamente ad ubbidire a colui che
crede che con la sua virtù lo possa liberare: come inter-
venne a (^amraillo; il quale avendo dato di sé tanti saggi
d* uomo eccellentissimo, ed essendo slato (re volte Ditta-
tore, ed avendo amministralo sempre quel grado ad utile
pubblico, e non a propria utilità, aveva fallo che gli uomini
non temevano della grandezza sua; e per esser tanto grande
e tanto riputato, non slimavano cosa vergognosa essere in-
feriore ' a lui. E però dice Tito Livio saviamente quelle pa-
role: Kee quicquam ec. In un altro modo si spegne l'invidia,
quando o per violenza o per ordine naturale muoiono coloro
che sona stati tuoi concorrenti nel venire a qualche ripula-
zione ed a qualche grandezza; i quali veggendoti riputato più
di loro, è impossibile che mai acquieschino, e stiano pa-
zienti. £ quando sono uomini che siano usi a vivere in una
città corrotta , dove la educazione non abbia fatto in loro
alcuna bontà, è impossibile che per accidente alcuno mai si
ridichino; e per ottenere la voglia loro, e satisfare alla
loro perversità d'animo, sarebbero contenti vedere la rovina
della loro patria. A vincer questa invidia non ci è altro
rimedio che la morie di coloro che l'hanno; e quando la
fortuna è tanto propizia a quell'uomo virtuoso, che si
muoiano ordinariamente , diventa senza scandalo glorioso,
quando senza ostacolo e senza offesa ei può mostrare la sua
virtù : ma quando ei non abbi questa ventura, gli conviene
* L'edizione del 1813 è sola a correggere: inferiori.
UDRÒ TERZO. ^87.
pensare per ogni via lòrsegli dinanzi; e prima che ei facci
cosa alcuna, gli bisogna tenere modi eh' éi vinca questa dif-
ficullà. E chi legge la Bibbia sensatamente, vedrà Moisè es-
sere stalo sforzato, a volere che le sue leggi e gli suoi ordini
andassero innanzi, ad ammazzare infiniti uomini, i quali,
non mossi da altro che da invidia, si opponevano a' disegni
suoi. Questa necessità conosceva benissimo frale Girolamo
Savonarola; conoscevala ancora Pietro Soderini, gonfaloniere
di Firenze. L'uno non potette vincerla, per non avere auto-
rità a poterlo fare (che fu il frate), e per non essere inteso
bene da coloro che lo seguitavano, che ne arebbono avuto
autorità. Nondimeno per lui non rimase, e le sue prediche
sono piene d'accuse dei savi del mondo, e di invettive con-
tro a loro; perchè chiamava così questi invidi, e quelli che
si opponevano agli ordini suoi. Quell'altro credeva col tempo,
con la bontà, con la fortuna sua, con beneficarne alcuno, spe-
gner questa invidia; vedendosi d'assai fresca età, e con
tanti nuovi favori che gli arrecava il modo del suo proce-
dere , che credeva poter superare quelli tanti che per invi-
dia se gli opponevano, senza alcuno scandalo, violenza e
tumulto: e non sapeva che '1 tempo non si può aspettare, la
bontà non basta, la fortuna varia, e la malignità non trova
dono che la plachi. Tanto che V uno e l' altro di questi duo
rovinarono, e la rovina loro fu causata da non aver sapulo
o potuto vincere questa invidia. L'altro notabile è l'ordine
che Cammino dette dentro e fuori per la salute di Roma. E
veramente, non senza cagione gli istorici buoni, com'è que-
sto nostro, mettono particolarmente e distintamente certi
casi , acciocché i posteri imparino come gli abbino in si-
mili accidenti a difendersi. E debbesi in questo testo notare,
che non è la più pericolosa né la più inutile difesa , che
quella che si fa lumuUuariamente e senza ordine. E questo
si mostra per quello terzo esercito che Cammillo fece seri*
vere per lasciarlo in Roma a guardia della città : perché
molti arebbono giudicalo e giudicberebbono questa parie su-
perflua, sendo quel popolo per l'ordinario armalo e belli-
coso; e per questo, che non gli bisognasse di scriverlo altri-
mente, ma bastasse furio armare quando il bisogno venisse.
388 DEI DISCORSI
Ma Cammillo, e qoalunche fusse savio come era osso, la
giudica altrimenle ; perchè non permeile mai che una moUi-
tudine pigli l'arme, se non con certo ordine e cerio modo.
E però, in sa questo esseropio, uno ohe sia preposto a guar-
dia d'ana città, debhe fuggire come uno scoglio il fare ar-
mare gli nomini tumulluosamente ; ma debbe prima avere
scrini e scelti quelli che voglia s'armino, chi gli abbino
a ubbidire^ dove a convenire, dove andare: ed a quelli che
non sono scrini , comandate che stiano ciascuno alle case sue
a guardia di quelle. Coloro che terranno questo ordine in
una città assaltata, facilmente si potranno difendere: chi
farà altrimenti, non imiterà Cammillo, e non si difenderà.
Cap. XXXf. — Le Pfpubbliehe forti e gli uomini eccelìmli
ritengono in ojni fortuna il medesimo animo e la loro me-
desima dignità.
Inlra Tallrc magnifiche cose che il nostro istorico fa dire
e fare a Cammillo, per mostrare come debbe esser fatto
un nomo eccellente, gli mette in bocca queste parole: AVr
mihi diclntura animos fedi, nee exilium ademil. Per le quali
parole sì vede, come gli uomini grandi sono sempre in ogni
fortuna quelli medesimi; e se la varia, ora con esaltargli
ora con opprimergli, quelli non variano, ma tengono sem-
pre l'animo fermo, ed in tal modo congiunto eoo il modo
del vivere loro, che facilmente si conosce per ciascuno, la
fortuna non aver potenza sopra di loro. Altrimenti si gover-
nano gli uomini deboli; perche invaniscono ed inebriano
ttella buona fortuna, attribuendo lutto il bene che gli hanno
a quelle virtù che non conobbero mai. D' onde nasce che
diventano insopportabili ed odiosi a tulli coloro che gli hanno
intorno. Da che poi dipende la subila variazione della sorte ;
la quale come veggono in viso, caggiono subito nell'altro di*
fello, e diventano vili ed abietti. Di qui nasce che i prìncipi
cosi fatti pensano nella avversità più a fuggirsi che a difen-
dersi , come quelli che per aver male usala la buona for-
tuna, sono ad ogni difesa impreparati. Questa virtù, e que-
sto vizio, ch'io dico trovarsi in uno uomo solo, si trova
LIBRO TERZO. 389
ancora in una repubblica : ed in essempìo ci sono i Romani,
ed i Viniziani. Quelli primi, nessuna cattiva sorte gli fece mai
divenire abietti, né nessuna buona fortuna gli fece mai es-
sere insolenti ; come si vidde manifestamente dopo la rotta
ch'egli ebbono a Canne, e dopo la vittoria ch'egli ebbono
centra ad Antioco; perchè per quella rotta, ancora che gra-
vissima per esser stata la terza, non invilirono mai; e
mandarono fuori eserciti ; non volleno riscattare i loro pri-
gioni centra agli ordini loro; non mandarono ad Annibale
0 a Cartagine a chiedere pace : ma, lasciate stare tutte queste
cose abiette indietro, pensarono sempre alla guerra; ar-
mando, per carestia d'uomini, i vecchi ed i servi loro. La
qual cosa conosciuta da Annone cartaginese, come di sopra
si disse, mostrò a quel Senato quanto poco conto s'aveva a
tenere della rotta di Canne. E così si vidde come i tempi dif-
ficili non gli sbigottirono, né gli renderono umili. Dall'altra
parie, i tempi prosperi non gli fecero insolenti : perché man-
dando Antioco oratori a Scipione a chiedere accordo, avanti
che fussino venuti alla giornata, e ch'egH avesse perduto,
Scipione gli dette certe condizioni della pace; quali erano
che si ritirasse dentro alla Siria, ed il resto lasciasse nello
arbitrio de* Romani. Il quale accordo ricusando Antioco, e
venendo alla giornata, e perdendola, rimandò ambasciadori
a Scipione, con commissione che pigliassero tutte quelle
condizioni erano date loro dal vincitore: ai quali non pro-
pose altri patti che quelli s'avesse oiTerti innanzi che vin-
cesse; soggiungendo queste parole: Quod Romani, si vm-
cunlur, non minuunlur animis ; nec si vincunt , insolescere
solent. Al contrario appunto di questo s' è veduto fare ai Vi-
niziani : i quali nella buona fortuna, parendo loro aversela
guadagnata con quella virtù che non avevano, erano venuti
a tanta insolenza, che chiamavano il re di Francia figliuolo
di San Marco ; non stimavano la Chiesa ; non capivano in
modo alcuno in Italia; e avevansi presupposto nell'animo
d'aver a fare una monarchia simile alla romana. Dipoi, come
la buona sorte gli abbandonò, e ch'egli ebbero una mezza
rotta a Vaila dal re di Francia, perderono non solamente
tutto lo stato loro per ribellione, ma buona parte ne dettero
33*
300 DEI DISCORSI
ed al papa eii al re di Spagna per TÌUà ed abiezione d' ani-
mo; ed in (an(o invilirono, che mandarono amhasciadorì al-
lo imperadore a farsi Iribalari ; e scrissono al papa IcUcrc
piene di viUà, e di sommissione per muoverlo a compassione.
Alla quale infelicilà pervennero in quattro giorni, e dopo
una metta rotta : perchè avendo combattuto il loro esercito,
nel ritirarsi venne a combattere ed essere oppresso circa la
metà; in modo che, T noo de* provveditori che si salvò, ar-
rivò a Verona eoo più di venticinqaemila aoldali, intra piò
e cavallo. ' Talmenlechè, se a Vinegia e negli ordini loro fussa
stata alcuna qualità di virtù, facilmente si potevano rifare,
e dimostrare di nuovo il viso alla fortuna ed essere a tempo
o a vincere, o a perdere pia gloriotamente, o ad avere ac-
corda più onorevole. Ma la viltà dell'animo loro, caasata
dalla qualità de' loro ordioi eoa buoni nelle cose della guer-
ra, gli fece ad un trailo perdere lo stato e 1* animo. E sem*
pre iolenrerrà eeal a qealenqee ti geteroi come loro. Pefobò
divealare teeelenle mUa beane fortuna ed ebielle
celUfe» Mtee dal mo(Ìp del proceder tuo, e delle ede-
ceiieoe nelle feele la sei nudrìto : la quale quando è debole
• ?eoa, li rende simile e sé: quando è siala altrimenti , li
rende ancora d* un* altra sorte; e fecendoii migliore conosci-
tore del mondo, li fa meno rallegrale del bene, e nene rei-
tristare del mele. E quello che si dice d* un solo, si dice di
molti che vivono in una repubblica medesima; i quali si fanno
di quella perfctiooe, che ba il modo del vivere di quella. E
benché altra volta si sia detto, come il fondamenta di tutti
gli stati è la buona miliiia ; e come dove non é questa, non
possono oasere né leggi buone né alcuna altra cosa buona ;
non mi paresnperflee replicarlo: perchè ad ogni punto nel
leggere questa istoria si vedo apparire questa necessilà ; e si
vede come la militia non puole esaere buona, ee la non è
eeercitata ; e come la non si può esercitare, se la non è com-
posta di luoi sudditi. Perchè sempre non si sta in guerra, nò
si può slarvi; però conviene pelerle esercitare a tempo di
pace : e con altri che con suddili non si può fare questo eser-
cizio, rispetto alla spesa. Era CaamiUo andato, come di sopra
' Sole il Poetali : Irm pit e « cmfmif:
LIBRO TERZO. 391
dicemmo, con 1' esercito contra ai Toscani ; ed avendo i suoi
soldati veduto la grandezza dello esercito dei nimici, s'erano
tutti sbigottiti, parendo loro essere tanto inferiori da non
poter sostenere l'impelo di quelli. E pervenendo questa mala
disposizione del campo agli orecchi di Cammillo, si mostrò
t'uora, ed andando parlando per il campo a questi ed a quelli
soldati, trasse loro del capo quella oppinione ; e nell'ultimo,
senza ordinare altrimenti il campo, disse: Quod quisque di-
dicil, aul consuevU, faciet. E chi considererà bene questo
termine, e le parole disse loro, per inanimarli a ire contro
ai nimici, considererà conie e' non si poteva né dire né far
fare alcuna di quelle cose ad uno esercito che prima non
fusse stato ordinalo ed esercitato ed in pace ed in guerra.
Perchè di quelli soldati che non hanno imparato a far cosa
alcuna, non può un capitano fidarsi, e credere che faccino
alcuna cosa che stia bene; e se gli comandasse un nuovo An-
nibale, vi rovinerebbe sotto. Perchè, non polendo un capi-
tano essere mentre si fa la giornata in ogni parte, se non ha
prima in ogni parte ordinato di potere avere uomini che ab-
bino lo spirito suo, e bene gli ordini ed i modi * del procedere
suo, conviene di necessità che ci rovini. Se, adunque, una
città sarà armata ed ordinala come Roma ; e che ogni di ai
suoi cittadini, ed in particolare ed in pubblico, tocchi a fare
isperienza e della virtù loro, e della potenza della fortuna;
interverrà sempre che in ogni condizione di lempo e' siano
del medesimo animo, e manterranno la medesima loro de-
gnila : ma quando e' siano ^ disarmali, e che si appoggeranno
solo alli impeti della fortuna, e non alla propria virtù, varie-
ranno col variare di quella, e daranno sempre di loro quello
essempio che hanno dato i Viniziani,
Gap. XXXII. — Quali modi hanno tenuti alcuni a turbare
una pace.
Essendosi ribellate dal Popolo romano Circei e Velilre,
due sue colonie, sotto speranza d'esser difese dai Latini; ed
essendo dipoi vinli i Latini, C! mancando di quelle speranze;
* La Testina colle moderne: e il modo.
2 LaRomana sollanlo:^rtno.
3D2 DEI DISCORSI
consigliavano assai cilladini che si dovesse mandare a Roma
oratori a raccomandarsi al Senato: il qual partito fu turbalo
da coloro che erano stati autori della ribellione, i quali te-
mevano che tutta la pena non si voltasse sopra le teste loro.
E per tòr via ogni ragionamento di pace, incitarono la mol-
titudine ad armarsi, ed a correr sopra i confini romani. E
veramente, quando alcuno vuole o che uno popolo o un prin-
cipe levi al tutto r animo da on accordo, non ci è altro modo
più vero né più stabile, che fargli usare qualche grave scel-
leratezza contra a colui con il quale tu non vuoi che l'ac-
cordo si faccia : perchè sempre lo terrà discosto quella paura
di quella pena che a lui parrà per Io errore commesso aver
meritala. Dopo la prima guerra che i Cartaginesi ebbono coi
Romani, quelli soldati qhe dai Cartaginesi erano stati ado-
perati in quella guerra in Sicilia ed in Sardigna, fatta che
fu la pace, se ne andarono in AflTrica ; dove non essendo sa-
tisfatti del loro stipendio, mossono l'armi contra ai Cartagi-
nesi; e fatti di loro due capi. Malo e S|>endio, occuparono
molte terre ai Cartaginesi, e molte ne saccheggiarono. I Car-
taginesi, per tentare prima ogni altra via che la zuffa, man-
darono a quelli ambasciadore Asdrubale loro cittadino, il
quale pensavano avesse alcuna autorità con quelli, essendo
slato per lo addietro lor capitano. Ed arrivato costui, e vo-
lendo Spendio e Mato obbligare tutti quelli soldati a non
sperare d'aver mai più pace coi Cartaginesi, e per questo
obbligarli alla guerra; persuadono loro, ch'egli era meglio
ammazzare costui, con tutti i cittadini cartaginesi, quali erano
appresso loro prigioni. Donde, non solamente gli ammazza-
rono, ma con mille supplizi in prima gli straziarono; ag-
giungendo a questa scelleratézza uno editto, che tutti i Car-
taginesi che per lo avvenire si pigliassino, si dovessino in
simil modo occidere. La qual diliberazione ed esecuzione fece
quello esercito crudele ed ostinato contra ai Cartaginesi.
Gap. XXX ih. — Egli è necessario, a voler vincere una giornata,
fare C esercito confidente ed infra loro, e con il capitano.
A volere che uno esercito vinca una giornata , è necessa-
rio farlo conlìdcnle, in modo che creda dovere in ogni modo
LIBRO TERZO. 393
vincere. Le cose che lo fanno confidente sono : che sia arnaalo
ed ordinalo bene; conoschinsi l'uno l'altro. Né può nascer
questa confidenza o questo ordine, se non in quelli soldati
che sono nati e vissuti insieme. Conviene che '1 capitano sia
slimato, di qualità che confidino nella prudenza sua: e sem-
pre confideranno, quando lo vegghino ordinalo, sollecito ed
animoso, e che tenga bene e con riputazione la maestà del
grado suo: e sempre la manterrà, quando gli punisca degli
errori, e non gli affalichi invano; osservi loro le promesse ;
mostri facile la via del vincere ; quelle cose che discosto po-
lessino mostrare i pericoli, le nasconda, le alleggerisca. Le
quali cose osservate bene, sono cagione grande che l'esercito
confida, e confidando vince. Usavano i Romani di far pigliare
agli eserciti loro questa confidenza per via di religione; donde
nasceva, che con gli augurii ed auspizii creavano i Consoli,
facevano il deletlo, partivano con li eserciti, e venivano alla
giornata : e senza aver fatto alcuna di queste cose, non mai
arebbe un buon capitano e savio tentata alcuna fazione, giu-
dicando d'averla potuta perdere facilmente, se i suoi soldati
non avessero prima inteso gli dii essere dalla parte loro. E
quando alcuno Consolo, o altro loro capitano, avesse combat-
tuto conlra agli auspizii, Farebbero punito ; come e* punirono
Claudio Fulcro. E benché questa parte in tulle l' istorie ro-
mane si conosca, nondimeno si pruova più certo per le parole
che Livio usa nella bocca di A ppio Claudio ; il quale, dolendosi
col popolo della insolenza de' Tribuni della plebe, e mostrando
che medianti quelli, gli auspizii e l'altre cose pertinenti alla
religione si corrompevano, dice così: Eludant nunc licei re-
Ugionem. Quid enim interest, si pulii non pascenlur, si ex ca-
vea lardius exierìnl, si occinuerit avis? Parva sunt hcec ; sed
parva isla non conlemnendo, majores nostri, maximam hanc
Rempublicam fecerunt. Perchè in queste cose piccole è quella
forza di tenere uniti e confidenti i soldati : la qual cosa è
prima cagione d'ogni vittoria. Nondimanco, conviene con
queste cose sia accompagnala la virtù : altrimenti, le non
vagliono. I Prenestini, avendo contra ai Romani fuori il
loro esercito, se n'andarono ad alloggiare in sul fiume
d'Allia, luogo dove i Romani furono vinti da' Franciosi ; il
394 DEI DISCORSI
che fecero per meder fidocia nei loro soldati, e s1>igoUire i
Romani per la Torlana del luogo. E benciiè questo loro par-
lilo russe probabile, per quelle ragioni che di sopra sì sono
discorse ; nientedimeno il fine delU cosa mostrò, che U vera
virtù non leme ogni minimo accid— le. 11 che V istorico be-
nissimo dice con qoeata parole, io bocca poale «lei Dillalore,
che parla cosi al aoellaealro de* cavagli : Vidn Uè, fortuna i7/os
frtlot ad Àlliam conudUu; al (m, frelut armis an(mi$qm9,ifUmit
acùuu Perchè ana vera virtù, nn ordine buono, una
presa da tante vittorie, non si può con cose di poco
Ito apesnere ; né aoa cosa vana la Jor pamra» né uu
disordine gli offende : cene si vede ' certe, che eaaeode due
Manli! consoli centra ai Volsci, per aver mandalo temeraria-
roenle parte del campo a predare, ne segai che io un tempo
e qnelii che erano iti, e quelli che erano rimaati, si trovarono
aaaediati ; dal quel pericolo non la prodenta dei Conaoli, ma
la virtù de' propri aoldaii gli liberò. Dove Tito Livio dice
f «eale parole : ÈtUUutn, eiiam iint rettore, iiabUù virlu» Imlaln
esl. Ken veglio lasciare iodici ro uo lernine osalo da Fabio,
entralo di Aoevo con T esercito in Toscaoa, per farlo
giudicando quella lai fidansa esser più neccssa-
fia per averlo condotto in paese Beove, • centra a oiroici
nuovi: c!ie,p4r!abdo acanti la tuffa ai soldati, e detto cb' ebbe
molle ragioni, roedianle le quali e* potevano sperare la vil-
loria, disse che potrebbe ancora loro dire certe cose booM, e
dove e* vedrcbbooo la vittoria certa, se non fusse perieolMo
il isanifeslarle. Ilqual modo come fu saviamenle oaalOi eosà
merita d' essere imitalo.
Csr. X\HV. » QuaU fmma • toee o oppimkme fm 9k$ U
popofo cnmineia a farorire un eillédino : e te ei Hitlrlbui'
uè • magUlrati con magjior prudenza che un principe.
Altra volta parlammo come Tito Manlio, che fu poi dello
Torquato, salvò Lucio Manlio sno padre da ona accosa ebc
eli aveva f^lla Marco Pomponio Iribnno dalli plebe. E ben
che il modo del sslvarlo fosse alqnanf vialenio od isira i i
* Aììntiuioni. Piét.oHéJe.
LIBRO TERZO. 395
nario, nondimeno quella filiale pietà verso del padre fa tanto
grata all'universale, che non solamente non ne fu ripreso,
ma avendosi a fare i Tribuni delle legioni, fu fatto Tito Manlio
nel secondo luogo. Per il quale successo, credo che sia bene
considerare il modo che tiene il popolo a giudicare gli uomini
nelle distribuzioni sue; e che per quello noi veggiamo, s*»
egli è vero quanto di sopra si conchiase, che il popolo sia
migliore distributore che un principe. Dico, adunque, come il
popolo nel suo distribuire va dietro a quello che si dice d'uno
per pubblica voce e fama, quando per sue opere note non lo
conosce altrimenti; o per presunzione o oppinione che s* ha di
lui. Le quali due cose sono causate o dai padri di quelli tali,
che per esser stati grandi uomini e valenti nelle città, si
crede che i figliuoli debbino esser simili a loro, infino a
tanto che per l' opere di quelli non s' intende il contrario ; o
la è causala dai modi che tiene quello di chi si parla. I modi
migliori che si possono tenere, sono: avere compagnia d'uo-
mini gravi, di buoni costumi, e riputati savi da ciascuno. E
perchè nessuno indizio si può aver maggiore d'un uomo, cho
le compagnie con quali egli usa; meritamente uno che usa
con compagnia onesta, acquista buon nome, perchè è im-
possibile che non abbia qualche similitudine con quella. * O
veramente s'acquista questa pubblica fama per qualche
azione istraordinaria e notabile, ancora che privata, la quale
ti sia riuscita onorevolmente. E di tutte tre queste cose che
danno nel principio buona riputazione ad uno, nessuna la dà
maggiore che questa ultima : perchè quella prima de' parenti
e de' padri è si fallace, che gli uomini vi vanno a rilento;
ed in poco si consuma", quando la virtù propria di colui che
ha ad essere giudicalo non l'accompagna. La seconda che ti
fa conoscere per via delle pratiche lue, è miglior della pri-
ma, ma è molto inferiore alla terza ; perchè, infino a tanto
che non si vede qualche segno che nasca da te, sta la ripu-
tazione tua fondata in su l' oppinione, la quale è facilissima a
cancellarla. Ma quella terza, essendo principiata e fondata in
su l'opere lue, li dà nel principio tanto nome, che bisogna
1 L' dizione del LI.kIo : (7«c//c.
396 DEI DISCORSI
bene che tu operi poi molte cose contrarie a questo, ' volendo
annullarla. Debbono, adunque, gli uomini che nascono in una
repubblica pigliare questo verso, ed ingegnarsi con qualche
operazione istraordinaria cominciare a rilevarsi. 11 che molli
a Roma in gioventù feciono o con il promulgare una legge
che venisse in comune utilità ; o con accusare qualche po-
tente cittadino come trasgressore delle leggi ; o col fare simili
cose notabili e nuove, di che s'avesse a parlare. Né sola-
mente sono necessarie simili cose per cominciare a darsi ri-
putazione, ma sono ancora necessarie per mantenerla ed
accrescerla. Ed a voler fare questo, bisogna rinnovarle; come
per lutto il tempo della sua vita fece Tito Manlio: perchè, di-
feso ch'egli ebbe il padre tanto virtuosamente e straordina-
riamente, e per questa azione presa la prima reputazione sua,
dopo certi anni combatto con quel Francioso, e morto gli trasse
quella collana d*oro che gli dette il nome di Torquato. Non
bastò questo, che dipoi, già in età matura, ammazzò il figliuolo
per aver combattuto senza licenza, ancora ch'egli avesse su-
perato il nimico. Le quali Ire azioni allora gli dellono più
nome e per tutti i secoli lo fanno più celebre, che non lo
fece alcuno Irìonfo, alcuna vittoria, di che egli fu ornalo
quanto alcuno altro Romano. E la cagione è perchè in quelle
vittorie Manlio ebbe moltissimi simili ; in queste particolari
azioni n'ebbe o pochissimi o nessuno. A Scipione maijgiore
non arrecarono tanta gloria tutti i suoi trionfi, quanto gli
dette l'avere, ancora giovinetto, in sul Tesino difeso il padre;
e l'aver, dopo la rotta di Canne, animosamente con la spada
sguainata fatto giurare più gioveni romani, che ei non ab-
bandonerebbono Italia, comedi già intra loro avevano dilibe-
ralo : le quali due azioni furono princìpio alla riputazione
sua, e gli fecero scala ai trionfi della Spagna e dell' Affrica.
La quale oppinione da lui fu ancora accresciuta, quando ei ri-
mandò la figliuola al padre e la moglie al marito in Ispagna.
Questo modo del procedere non è necessario solamente a
quelli cittadini che vogliono acquistar fama per ottenere
gli onori nella loro repubblica, ma è ancora necessario ai
principi per mantenersi la riputazione nel principato loro:
* La nede&ima : nntsU,
LIBRO TIÌUZO. 307
perchè nessuna cosa 2;^ ^> tanto stimare, quanto dare di sé
rari eserapi con qualche fatto o detlo raro, conforme al bene
comune, il quale mostri il signore 0 magnanimo o liberale
o giusto, e che sia tale che si riduca come in proverbio intra
i suoi soggetti. Ma, per tornare donde noi cominciammo que-
sto discorso, dico come il popolo quando ei comincia a dare
un grado ad un suo cilladino, fondandosi sopra quelle tre
cagioni soprascritte, non si fonda male; ma quando poi gli
assai esserapi de' buoni portamenti d' uno lo fanno più noto,
si fonda meglio, perchè in tal caso non può essere che quasi
mai s' inganni. Io parlo solamente di quelli gradi che si
danno agli uomini nel principio, avanti che per ferma ispe-
rienza siano conosciuti, o che passano da una azione ad
unaltra dissimile: dove, e quanto alla falsa oppinione, e quanto
alla corruzione, sempre fanno minori errori che i principi.
E perchè e' può essere che i popoli s'ingannerebbono della
fama, della oppinione e delle opere d'uno uomo, stimandole
maggiori che in verità non sono ; il che non interverrebbe
ad uno principe, perchè gli sarebbe detto, e sarebbe avver-
tilo da chi lo consigliasse ; perchè ancora i popoli non man-
chino di questi consigli, i buoni ordinatori delle repubbliche
hanno ordinato, che, avendosi a creare i supremi gradi nelle
ciltà, dove fusse pericoloso mettervi uomini insuffizienti, e
veggendosi la voglia popolare esser diritta a creare alcuna
che fusse insuffizienle, sia lecito ad ogni cittadino, e gli sia
imputato a gloria, di pubblicare nelle concioni i difetti di
quello, acciocché il popolo, non mancando della sua cono-
scenza, possa meglio giudicare. E che questo si usasse a
Roma, ne rende testimonio la orazione di Fabio Massimo, la
quale ei fece al Popolo nella seconda guerra punica, quando
nella creazione dei Consoli i favori si volgevano a creare
Tito Oltacilio; e giudicandolo Fabio insuflìziente a governare
in quelli tempi il consolato, gli parlò contra, mostrando la
insulTizienza sua; tantoché gli tolse quel grado, e volse i fa-
vori del Popolo a chi più lo meritava che lui. Giudicano, adun-
que, i popoli nella elezione a' magistrati secondo quei con-
trassegni che degli uomini si possono aver più veri; e quando
ei possono esser consigliati come i principi, errano meno
34
398 DK» DISCORSI.
che i principi : e qacl cidadino che voglia cominciare ad
avere i favori del popolo, debbe con qualche fallo notabile,
come fece Tito Manlio, guadagnarseli.
CàP. XXXV. — Quali pencoli si portino nel farsi capo a con-
sigliare una cosa; e quanto ella ha più dello straordinario,
maggiori pericoli vi si corrono.
Quanto sia cosa pericolosa farsi capo d' una cosa nuova
che appartenga a molti, e quanto sia difTìcile a trattarla ed
a condurla; e condotta, a mantenerla, sarebbe troppo lunga
e troppo alta materia a discorrerla: però, riserbandolo a luogo
più conveniente, parlerò solo di quelli pericoli che portano i
cittadini, o quelli che consigliano uno principe a farsi capo
d' una deliberazione grave ed importante, in modo che tutto
il consiglio d'essa sia imputalo a lui. Perchè, giudicando gli
uomini le cose dal Cne, tutto il male che ne risulta, s'imputa
all'autore del consiglio; e se ne risulta bene, ne è commen-
dalo: ma di lunga il premio non contrappcsa il danno. 11 pre-
sente Sultan Sali, detto Gran Turco, essendosi preparato
(secondo che ne riferiscono alcuni che vengono de' suoi paesi)
di fare l'impresa di Seria e di Egitto, fu confortato da un suo
Bascià, quale ei teneva ai confini di Persia, d'andare centra
al Soft: dal quale consiglio mosso, andò con esercito grossissi-
mo a quella impresa; ed arrivando in paese larghissimo, dove
sono assai deserti e le fiumare rade,' e trovandovi quelle dif-
(ìcultà che già fecero rovinare molli eserciti romani, fu in
modo oppressalo da quelle, che vi perde per fame e per pe-
ste, ancora che nella guerra fusse superiore, gran parte delle
sue genti: talché irato contro all'autore del consiglio, l'am-
mazzò. Leggesi, assai cittadini stati confortatori d'una impre-
sa, e per avere avuto quella tristo fine, essere stali mandati
in esilio. Fecionsi capi alcani cittadini romani , che si facesse,
in Roma il Consolo plebeo. Occorse che il primo che usci
fuori con gli eserciti, fu rotto ; onde a quelli consigliatori sa-
rebbe avvenuto qualche danno, se non fusse slata tanto ga-
gliarda quella parte, in onore della quale tale diliberazionc
* Credo errore nella Bladiana , per iicarabio di lettere :Jìunia(e rare.
LIBRO TERZO. 399
era venuta. È cosa adunque certissima, che quelli che con-
sigliano una repubblica, e quelli che consigliano un principe,
sono posti intra queste angustie, che se non consigliano le cose
che paiono loro utili, o per la città o per il principe, senza
rispetto, ei mancano dell' ufTizio loro; se le consigliano, egli
entrano nel pericolo della vita e dello stato : essendo tutti gli
uomini in questo ciechi, di giudicare i buoni e cattivi consi-
gli dal fine. E pensando in che modo ei polessino fuggire o
questa infamia o questo pericolo, non ci veggo altra via
che pigliar le cose moderatamente, e non ne prendere al-
cuna per sua impresa, e dire l'oppinione sua senza passione,
e senza passione con modestia difenderla: in modo che, se
la città 0 il principe la segue, che la segua volontario,' e
non paia che vi venga tirato dalla tua importunità. Quando
tu faccia così, non è ragionevole che un principe ed un popolo
del tuo consiglio ti voglia male, non essendo seguito centra
alla voglia di molti: perchè quivi si porta pericolo dove molti
hanno contradetto, i quali poi nello infelice fine concorrono
a farti rovinare. E se in questo caso si manca di quella glo-
ria che si acquista nell' esser solo centra molti a consigliare
una cosa, quando ella sortisce buon fine, ci sono al rincon-
tro due beni : il primo, di mancare del pericolo; il secondo,
che se tu consigli una cosa modestamente, e per la contra-
dìzione il tuo consiglio non sia preso, e per il consiglio d'al-
trui ne seguiti qualche rovina, ne risulta a te grandissima
gloria. E benché la gloria che s'acquista de' mali che abbia o
la tua città o il tuo principe, non si possa godere, nondi-
meno è da tenerne qualche conto. Altro consiglio non credo
si possa dare agli uomini in questa parte: perchè consiglian-
dogli che lacessino, e non dicessino l'oppinione loro, sarebbe
cosa inutile alla repubblica o ai loro principi, e non fuggi»
rebbono il pericolo ; perchè in poco tempo diventerebbono
sospetti : e ancora potrebbe loro intervenire come a quelli
amici di Perse re dei Macedoni, il quale essendo stato rotto
da Paulo Emilio, e fuggendosi con pochi amici, accadde che
nel replicar le cose passate, uno di loro cominciò a dire a
Terse molti errori fatti da lui , che erano stali cagione della
* L* eiUzione del Poggiali i volontariamente.
400 DEI Disconsr.
sua rovina: al quale Per^e rivòllosi, disse: Traditore, si che
(u hai indugiato a dirmelo ora eh' io non ho più rimedio ; e
sopra queste parole, di sua mano l'ammazzò. E così colui
portò la pena d' essere stalo cheto quando ei doveva parla-
re, e d'aver parlato quando ei doveva tacere; né fuggi il pe-
rìcolo per non avere dato il consiglio. Però credo che sia da
tenere ed osservare i termini soprascritti.
Gap. XXXVI. — La cagione perchè i Francioai sono siali e
sono ancora giudicali nelle zuffe da principio più che uo-
mini, e dipoi meno che femmine,
La ferocità di quel Francioso che provocava qualunque
Romano appresso al fiume Aniene a combatter seco, dipoi la
zuffa fatta intra lui e Tito Manlio, mi fa ricordare di quello
che Tito Livio più volte dice, che i Franciosi sono nel principio
della zutTa più che uomini, e nel successo di combaitcre rie-
scono poi meno che femmine. E pensando donde questo na-
sca, si crede per molli che sia la natura loro cosi fatta: il
che credo sia vero; ma non è per questo, che questa loro na-
tura che gli fa feroci nel principio, non si potesse in modo
con l'arte ordinare, che la gli mantenesse feroci infino nel-
r ultimo. Ed a voler provare questo, dico come e* sono di
Ire ragioni eserciti : V uno dove è furore ed ordine; perchè
dall'ordine nasce il furore e la virtù» come era quello dei Ro-
mani : perchè si vede in tutte l'istorie, che in quello esercito
era uno ordine buono, che v' aveva introdotto una disciplina
militare per luiigo tempo. Perchè in uno esercito bene ordi-
nalo, nessuno debl)C fare alcuna opera se non regolato : e si
troverà per questo, che nello esercito romano, dal quale,
avendo egli vinto il mondo, debbono prendere essempio lutti
gli altri eserciti, non si mangiava, non si dormiva, non si
roercalava, non si faceva alcuna azione o militare o dome-
stica senza l'ordine del consolo. Perchè quelli eserciti che
fanno altrimenti, non sono veri eserciti; e se* fanno al-
cuna pruova, la fanno per furore e per impeto, non per virtù.
Ma dove è la virtù ordinata , usa il furore suo coi modi e
* Qui tulle le edizioni , all' infuori «Iella Rom.ina , tramcllono ne.
LIBRO TEBZO. 401
co'lempi ; né diflìcuUà veruna lo invilisce, né gli fa mancare
r animo : perchè gli ordini buoni gli rinfrescano T animo ed il
furore, nutriti dalla speranza del vincere; la quale mai non
manca, infino a tanto che gli ordini stanno saldi. Al contra-
rio interviene in quelli eserciti dove è furore e non ordine,,
come erano i franciosi : i quali tuttavia nel combattere man-
cavano; perchè non riuscendo loro col primo impeto vince-
re, e non essendo sostenuto da una virtù ordinata quello loro
furore nel quale egli speravano, né avendo fuori di quello
cosa in la quale ei confidassino, come quello era raffreddo,
mancavano. Al contrario i Romani , dubitando meno dei pe-
ricoli per gli ordini loro buoni, non diffidando della vittoria,
fermi ed ostinati combattevano col medesimo animo e con la
medesima virtù nel fine che nel principio : anzi, agitati dal-
l'arme, sempre s'accendevano. La terza qualità d'eserciti è,
dove non è furore naturale, né ordine accidentale: come sono
gli eserciti nostri italiani de' nostri tempi, i quali sono al
lutto inutili ; e se non si abbattono ad uno esercito che per \
qualche accidente si fugga, mai non vinceranno. E senza ad-
durne altri esseropi , si vede ciascuno di come ei fanno proove
di non avere alcuna virtù. E perchè con il testimonio di Tito
Livio ciascuno intenda come debbe esser fatta la buona
milizia, e come è fatta la rea; io voglio addurre le parole di
Papirio Cursore, quando ei voleva punire Fabio maestro de'
cavalli, quando disse: Nemo hominum, nemo Deorum verecun-
diam habeat; non edicla imperatorum, non auspicia observen-
tur : Bine commealu, vagì mililes in pacalo, in hoslico errent;
immcmores sacramenli, se ubi velint exauclorcnt ; infrequenlia
deseranl signa; ncque conveniant ad ediclum^ nec discernanl
interdiu, nocle ; ocquo, iniquo loco, jussu, injussu imperaloris
pugnenl ; et non signa , non ordines scrvent : lalrocìnii modo,
ccBca et forluila, prò solemni el sacrala mililià sii. Puossi per
questo testo, adunque, facilmente vedere, se la milizia de' no-
stri tempi è cieca e fortuita, o sacrata e solenne; e quanto le
manca ad esser simile a quella che si può chiamar milizir ;
e quanto ella è discosto da essere furiosa ed ordinata come
la romana, o furiosa solo come la franciosa.
34"
402 DEI DISCORSI.
»
Gap. XXXVII. — Se le piccole ballaglie innanzi alla giornata
sono necessarie^ e come si debbe fare a conoscere un nimico
nuovo, volendo fuggire quelle.
£' pare che nelle azioni degli aoroìni, come altre volle *
abbiamo discorso, si Iruovi , olire all' allre didìcullà, nel voler
condurre la cosa alla sua perfezione, che sempre propinquo
al bene sia qualche male, il quale con quel bene sì facilmente
nasce, che pare impossibile poter mancare dell'uno volendo
r altro. E questo si vede in tutte le cose che gli uomini ope-
rano. £ però s'acquista il bene con ditlìcultà, se dalla fortuna
tu non se' aiutalo in modo, che ella con la sua forza vinca
questo ordinario e naturale inconveniente. Di questo mi ha
fatto ricordare la zuOa di Manlio Torquato e del Francioso,
dove Tito Livio dice: Tanti ea dimicalio ad universi belli even-
lum momenti fuit, ut Gallorum exercitus, relictis trepide ca-
slris, in Tiburtem agrum, mox in Campaniam transieril.
Perché io considero dall' on canto, che od buon capitano
debbe fuggire al lutto di operare alcuna cosa che, essendo di
poco momento, possa fare caltivi etTetti nel suo esercito: per-
chè cominciare una zufla dove non si operino tutte le forze
e vi si arrischi tutta la fortuna, è cosa al tutto temeraria;
come io dissi di sopra, quando io dannai il guardare de' pas-
si. Dall'altra parte, io considero come i capitani savi, quando
ei vengono all' incontro d'un nuovo nimico, e che sia ripu-
talo, ei sono necessitali, prima che venghino alla giornata,
far provare con leggieri zutTc ai loro soldati tali nimici ; ac-
ciocché cominciandogli a conoscere e maneggiare, pcrdino
quel terrore che la fama e la riputazione aveva dato loro. £
questa parte in un capitano é importantissima; perchè ella ha
in sé quasi una necessità che li costringe a farla, parendoti
andare ad una manifesta perdita, senza aver prima fatto
con piccole isperienze deporre ai tuoi soldati <}aelIo terrore
che la riputazione del nimico aveva messo negli animi loro.
Fu Valerio Corvino mandato dai Romani con gli eserciti con-
Ira ai Sanniti, nuovi nimici, e che per lo addietro mai non
' L* cdizìoDe del Bludo : altra volta.
ì
LIBRO TERZO. 403
avevano provale Tarme l'ano dell' allro; dove dice Tito Li-
vio , che Valerio fece fare ai Romani coi Sanniti alcune
leggieri zuffe : Ne eos novum bellum, ne novus hoslis lerrerel.
Nondimeno è pericolo grandissimo, che restando i tuoi soIt
dati in quelle battaglie vinti, la paura e la viltà non cresca
loro, e ne conseguitino contrari eflelti ai disegni tuoi ; cioè
che tu gli sbigottisca, avendo disegnato d'assicurarli: tanto
che questa è una di quelle cose che ha il male si propinquo
al bene, e tanto sono congiunti insieme, che gli è facil cosa
prendere l'uno credendo pigliar l'altro. Sopra che io dico, che
un buon capitano debbe osservare con ogni diligenza, che
non surga alcuna cosa che per alcuno accidente possa tórre
r animo all' esercito suo. Quello che gli può tórre 1' animo è
cominciare a perdere ; e però si debbe guardare dalle zutfe
piccole, e non le permettere se non con grandissimo van-
taggio, e con certa speranza di vittoria: non debbe fare im-
presa di guardar passi, dove non possa tenere lutto l'esercito
suo: non debbe guardare terre, se non quelle che perdendole
di necessità ne seguisse la rovina sua ; e quelle che guarda,
ordinarsi in modo, e con le guardie d'esse e con l'esercito,
che trattandosi della espugnazione di esse, ei possa adope*
rare tulle le forze sue ; l' altre debbe lasciare indifese. Per-
chè ogni volta che si perde una cosa che si abbandoni, e
l'esercito sia ancora insieme, e' non si perde la riputazione
della guerra, né la speranza di vincerla: ma quando si perde
una tosa che tu hai disegnala difendere, e ciascuno crede
che tu la difenda, allora è il danno e la perdita; ed hai quasi,
come i Franciosi, con una cosa di piccolo momento perduta la
guerra. Filippo di Macedonia padre di Perse, uomo militare
e di gran condizione ne' tempi suoi, essendo assaltato dai
Romani, assai de' suoi paesi, ì quali ei giudicava non po-
tere guardare, abbandonò e guastò: come quello che, per es-
sere prudente, giudicava più pernizioso perdere la riputazione
col non potere difendere quello che si metteva a difendere,
che lasciandolo in preda al nimico, perderlo come cosa ne-
gletta. I Komani, quando dopo la rotta di Canne le cose loro
erano afflitte, negarono a molti loro raccomandali e sudditi
li aiuti, commellendo loro che si difendessino il meglio pò-
404 DEI DISCORSI
lessino. I quali parlili sono migliori assai, che pigliare dife-
se, e poi non le difendere: perchè in questo parlilo si perde
amici e forze; in quello, amici solo. Ma tornando alle piccole
zuffe, dico che se pure un capitano è coslrello per la novità
del nimico far qualche zuffa, dehhe farla con tanto suo van-
taggio, che non vi sia alcun pericolo di perderla : o vera-
mente far come Mario (il che è migliore partilo), il quale
andando conlra ai Cimbri, popoli ferocissimi, che venivano
a predare Italia, e venendo con ano spavento grande per la
ferocità e moltitudine loro, e per avere di già vinto uno eser-
cito romano; giudicò Mario esser necessario, innanzi che
venisse alla zuffa, operare alcuna cosa per la quale l'eser-
cito suo deponesse quel terrore che la paura del nimico ali
aveva dato; e, come prudentissimo capitano, più che una volta
collocò l'esercito suo in luoso donde i Cimbri con l'esercito
loro dovessino passare. E cosi, dentro alle fortezze del suo
campo, volle che i suoi soldati gli vedessino, ed assuefaces-
sino gli occhi alla vista di quello nimico ; acciocché, vedendo
una mollitudine inordinata, piena di impedimenti, con arme
inolili, e parte disarmati, si rassicarassino, e diventassino
disidcrosi delia zuffa. Il quale parlilo come fu da Mario sa-
viamente preso, cosi dagli altri debbo essere diligentemente
imitalo, per non incorrere in quelli pericoli che io di sopra
dico, e non avere a fare come i Franciosi, qui ob rem parvi
ponderis trepidi, in Tiburlem agrum et in Campaniam trans-
ierunt. E perchè noi abbiamo allegato in questo discorso
Valerio Corvino, voglio, medianli le parole sue, nel seguente
capitolo, come debbo esser fatto un capitano dimostrare.
Gap. XXXVIII. — Come dcbhe eaer fallo un capitano
nel quale i' e$ercilo tuo possa confidare.
Era, come di sopra dicemmo, Valerio Corvino con l'eser-
cito centra ai Sanniti , nuovi nimici del Popolo romano : donde
che, per assicurare i suoi soldati, e per fargli conoscere i ni
mici, fece fare ai suoi certe legì^ieri zuffe; né gli bastando
questo, volle avanti alla giornata parlar loro, e mostrò con
ogni efficacia , quanto e* dovevano stimare poco tali nimici,
LIBRO TERZO. 40?)
allegando la virtù de' suoi soldali, e la propria. Dove si può
notare, per le parole che Livio gli fa dire, come debbe essere
fatto un capitano in chi l'esercito abbia a confidare; le quali
parole sono queste: Tum eliam inlueri cujus duclu auspicioque
ineunda pugna sii : ulrum qui audiendus damlaxal magnificus
adhorlalor sii, verhis lanlum ferox, operum mililarium expers;
an qui, el ipse tela Iractare, procedere anle signa, versari me-
dia in mole pugnce sciai. Facla mea, non dicla vos milites se-
qui volo; nec disciplinam modo, sed exemplum eliam a me pe-
tere, qui hac dexlra mihi Ires consulalus, summam'que laudem
peperL Le quali parole considerate bene, insegnano a qualun-
que, come ei debbe procedere a voler tenere il grado del capi-
tano : e quello che sarà fatto altrimenti, troverà, con il tempo,
quel grado, quando per fortuna o per ambizione vi sia condot-
to, tórgli e non dargli riputazione; perchè non i titoli illustrano
gli uomini, ma gli uomini i titoli. Debbesi ancora dal prin-
cipio di questo discorso considerare, che se i capitani grandi
hanno usato termini istraordinari a fermare gli animi d' uno
esercito veterano quando coi niraici inconsueti debbe affron-
tarsi ; quanto maggiormente si abbia ad usare V industria
quando si comandi uno esercito nuovo, che non abbia mai ve-
duto il nimico in viso. Perchè, se lo inusiialo nimico allo eser-
cito vecchio dà terrore, tanto magqiormente lo debbe dare
ogni nimico ad uno esercito nuovo. Pure, s* è veduto molte
volte dai buoni capitani tutte queste dilTicultà con somma pru-
denza esser vinte : come fece quel Gracco romano, ed Epa-
minonda tebano, de' quali altra volta abbiamo parlato, che
con eserciti nuovi vinsOno eserciti veterani ed esercitatissi-
mi. I modi che tenevano, erano: parecchi mesi esercitargli in
battaglie finte; assuefargli alla ubbidienza ed all'ordine: e da
quelli dipoi, con massima confidenza, nella vera zulTa gli ado-
peravano. Non si debbe, adunque, diffidare alcuno uomo mili-
tare di non poter fare buoni eserciti, quando non gli manchi
uomini; perchè quel principe che abbonda d'uomini e manca
di soldati, debbe solamente, non della viltà degli uomini, ma
della sua pigrizia e poca prudenza dolersi.
406 DEI DISCORSI
Gap. XXXIX. — Che un capitano debbe esser conoscUore dei sili.
Intra V allre cose che sono necessarie ad un capilano
d' eserciti, é la cognizione dei siti e de' paesi ; perchè senza
quesla cognizione generale e particolare, un capilano d' eser-
citi non può bene operare alcuna cosa. E perchè tulle le
scienze vogliono pratica a voler perfetlamenle possederle,
questa è una che ricerca pratica grandissima. Quesla prati-
ca, ovvero questa particolare cognizione, s'acquista più me-
dianti le cacce, che per verun altro esercizio. Però gli anti-
chi scrittori dicono, che quelli eroi che governarono nel loro
tempo il mondo, si nutrirono nelle selve e nelle cacce; per-
chè la caccia, oltre a questa cognizione, li insegna infinito
cose che sono nella guerra necessarie. E Senoronte, nella vita
di Ciro, mostra che andando Ciro ad assaltare il re d'Arme-
nia, nel divisare quella fazione, ricordò a quelli suoi, che
quesla non era altro che una di quello cacce le quali molte
volle avevano fatte seco. E ricordava a quelli che mandava
in aguato in su i monti, che gli erano simili a quelli ch'an-
davano a tendere le reti in su i gioghi ; ed a quelli che scor-
revano per il piano, che erano simili a quelli che andavano a
levare dal suo covile la fera, acciocché, cacciata, desse nelle
reti. Questo si dice per mostrare come le cacce, secondo che
Senofonte appruova, sono una immagine d' una guerra: e per
Questo agli uomini grandi tale eserci&io è onorevole e neces-
sario. Non si può ancora imparare questa cognizione de' paesi
in altro comodo modo, che per via di caccia ; perchè la cac-
cia fa a colui che l'usa, sapere come sta parlicolarraenlo
quel paese dove ei l'esercita. E fatto che uno s'è familiare
bene una regione, con facilità comprende poi tulli i paesi
nuovi ; perchè ogni paese ed ogni membro di quelli hanno
insieme qualche conformila, in modo che dalla cognizione
d'uno facilmente si passa alla cognizione dell'altro. Ma chi
non ne ha ancora bene pratico uno, con di(ricollà,anzi non mai
se non con un lungo tempo, può conoscer l'altro. E chi ha
questa pratica, in un voltar d'occhio sa come giace quel pia-
no, come surge quel monte, dove arriva quella valle, e tulle
LIBRO TERZO. 407
l'altre simili cose, di che ei ha per lo addietro fallo una fer-
ma scienza. E che queslo sia vero, ce Io moslra Tilo Livio
con lo essempio di Publio Decio;il quale essendo Tribuno de'
soldati nello esercito che Cornelio consolo conduceva centra
ai Sanniti, ed essendosi il Consolo ridotto in una valle, dove
l'esercito dei Romani poteva dai Sanniti esser rinchiuso, e
vedendosi in tanto pericolo, disse al Consolo: Vides (u, Àule
Co'rneli, cacumen illud supra hoslem ? arx illa est sjpei salutis-
que noslroB, si eam {quoniam cosci reliquere Samniles) impigre
capimus. Ed innanzi a queste parole dette da Decio, Tito Li-
vio dice : Publius Decius , Iribunus mililum , unum edilum in
sallu collem, imminenlem hoslium caslris, adilu arduum impe-
dito agmini, expedilis haud difficilem. Donde, essendo stalo
mandato sopra esso dal Consolo con tremila soldati, ed avendo
salvo l'esercito romano; e disegnando, venendo la notte, di
partirsi, e salvare ancora sé ed i suoi soldati, gli fa djre que-
ste parole: Ile mecum, ut dum lucis aliquid superest, quibus
locis hostes prcesidia ponant, qua pateal hinc exilus, explore-
mus. Hcec omnia sagulo militari amiclus, ne ducem circuire
hostes notarent y perluslravit. Chi considererà, adunque, tutto
questo testo, vedrà quanto sia utile e necessario ad un capitano
sapere la natura de' paesi : perchè se Decio non gli avesse
sapuli e conosciuti, non arebbe potuto giudicare qual utile
faceva pigliare quel colle allo esercito Romano ; né arebbe
potuto conoscere di discosto, se quel colle era accessibile o
no; e condotto che si fu poi sopra esso, volendosene partire
per ritornare al Consolo, avendo inimici intorno, non arebbe
dal discosto potuto speculare le vie dello andarsene, e li luoghi
guardati dai nimici. Tanto che, dì necessità conveniva, che
Decio avesse tale cognizione perfetta: la qual fece che con
il pigliare quel colle, ei salvò l'esercito romano; dipoi seppe,
sendo assedialo , trovare la via a salvare sé , e quelli che erano
stali seco.
Cap. XL. — Come usare la fraude nel maneggiare I(i guerra
è cosa gloriosa.
Ancoraché usare la fraude in ogni azione sia detestabi-
le, nondiraanco nel maneggiar la guerra è cosa laudabile e
408 DEI Disconsi >
gloriosa ; e parimente è laudato colui che con fraude supera
il nimico, come quello che M supera con le forze. E vedasi
questo per il (giudizio che ne fanno coloro che scrivono lo
vite degli uomini grandi, i quali lodano Annibale, e gli altri
che sono stali notabilissimi in simili modi di procedere. Di
che per leggersi assai essempi, non ne replicherò alcuno. Dirò
solo questo, che io non intendo quella fraude essere gloriosa,
che ti fa rompere la fede data ed i patti falli ; perchè que-
sta, ancora che la li acquisti qualche volta slato e regno,
come di sopra si discorse, la non li acquisterà mai gloria.
Ma parlo di quella fraude che si usa con quel nimico che
non si fida di te, e che consìste proprio nel manesgiare la
guerra: come fu quella d'Annibale, quando in sul lago di
Perugia simulò la fuga per rinchiudere il Consolo e lo esercito
romano; e quando, per uscire di mano di Fabio Massimo, ac-
cese le.corna dello armento suo. Alle quali fraudi fu simile
questa che usò Ponzio capitano dei Sanniti, per rinchiudere
l'esercilo romano dentro alle forche Caudine: il quale avendo
messo lo esercito suo a ridosso dei monti, mandò più suoi
•oldali sotto vesti di pastori con assai armento per il piano ;
i quali sendo presi dai Romani, e domandali dove era l'eser-
cilo dei Sanniti, convennero lotti, secondo l* ordine dato da
Ponzio, a dire come egli era allo assedio di Nocera. La qual
cosa creduta dai Consoli, fece ch'ei si rinchiusero dentro ai
balzi caudini ; dove entrali, furono subito assediati dni San-
niti. E sarebbe stala questa vittoria, avuta per fraude, glorio-
sissima a Ponzio, se egli avesse seguitali i consigli del padre;
il quale voleva che i Romani o si salvassino liberamente, o
si aromazzassino tulli, e che non si pigliasse la via del mcz-
fo, qua neque amieos parai, neque inimicot lollU. La qual
via fu sempre perniziosa nelle cose di slato ; come di sopra
in allro luogo si discorse.
Cap. XLL — Che la palria si debbe difendere o con ignominia
0 con gloria; ed in qualunque modo è ben difesa.
Era, come di sopra s'è detto, il Consolo e l' esercito ro-
mano assedialo dai Sanniti : i quali avendo proposto ai Ro-
LIBRO TERZO. 400
mani condizioni ignominiosissime; come era , volergli met-
tere soUo il giogo, e disarmali mandargli a Roma: e per
questo stando i Consoli come attoniti, e tutto l'esercito di-
sperato; Lucio Lentolo legato romano disse, che non gli
pareva che fusse da fuggire qualunque partito per salvare la
patria: perchè, consistendo la vita di Roma nella vita di quello
esercito, gli pareva da salvarlo in ogni modo; e che la pa-
tria è ben difesa in qualunque modo la si difende, o con
ignominia o con gloria: perchè salvandosi quello esercito,
Roma era a tempo a cancellare l'ignominia; non si sal-
vando, ancora che gloriosamente morisse, era perduta Roma
e la libertà sua. E cosi fu seguitato il suo consiglio. La qual
cosa merita d'esser notata ed osservala da qualunque citta-
dino si Iruova a consigliare la patria sua: perchè dove si di-
libera al tutto della salute della patria, non vi debbe cadere
alcuna considerazione né di giusto né di ingiusto, né di pie-
toso, né di crudele, né di laudabile, né di ignominioso; anzi,
posposto ogni altro rispetto, seguire al lutto quel partito che
li salvi la vita, e mantenghile la libertà. La qualcosa è
imitata con i detti e con ì fatti dai Franciosi, per difendere la
maestà del loro re e la potenza del loro regno; perchè nes-
suna voce odono più impazientemente che quella che dicesse:
il tal partilo è ignominioso per il re ; perché dicono che il
loro re non può patire vergogna in qualunque sua dilibera-
zione, 0 in buona o in avversa fortuna: perchè se perde o
se vince, lutto dicono esser cosa da re.
Gap. XLIL — Che le promesse falle per forza, non, si debbono
osservare.
Tornati i Consoli con l'esercito disarmato e con la ri-
levuta ignominia a Roma, il primo che in Senato disse che
la pace fatta a Caudo non si doveva osservare, fu il consolo
Spurio Postumio; dicendo, come il Popolo romano non era
obbligato, ma ch'egli era bene obbligalo esso, e gli altri
che avevano promessola pace: e però il Popolo volendosi li-
berare da ogni obbligo, aveva a dar prigione nelle mani dei
Sanniti lui, e tutti gli altri che l'avevano promessa. E con
35
410 DEI DISCORSI
lanla ostinazione (enne questa conclusione, che il Sonalo
ne fu contento; e mandando prigioni lui e gli altri in San-
nio, protestarono ai Sanniti, la pace non valere. £ tanto fu
in questo caso a Postumio favorevole la fortuna, che i Siin-
nili non lo ritennero; e ritornato in Roma, fu Postumio ap-
presso ai Romani più glorioso per a\ere perduto, che non
fu Ponzio appresso ai Sanniti per aver vinto. Dove sono da
notare due cose: Tuna, che in qualunque azione si può ac-
quistar gloria , perchè nella vittoria s'acquista ordinaria-
mente; nella perdita s'acquista o col mostrare tal perdila
non esser venula per tua colpa, o per far subito qualche
azione virtuosa che la cancelli: V altra è, che non è vergo-
gnoso non osservare quelle promesse che li sono slate falle
promettere per forza ; e sempre le promesse forzate che
riguardano * il pubblico, quando e* manchi la forza , si rom-
peranno, e Ga senza vergogna di chi le rompe. Di che si
leggono in tutte T istorie vari cssempi,c ciascuno di nc'pro-
scnli tempi se ne veggono. E non solamcnle non si osser-
vano inlra i principi le promesse forzate, quando c'manca la
forza; ma non si osservano ancora tulle Tallre promesse,
quando e' mancano le cagioni che Io fanno promcUere.il
che se è cosa laudabile o no , o se da un principe si debbono
osservare simili modi o no, largamente è dispulalo da noi nel
nostro trattalo del Principe: però al presente lo taceremo.
Gap. XLIII. — Che gli uomini che nascono in una provincia,
m osietxano per tulli i lempi quasi quella medesima nalura.
Sogliono dire gli uomini prudenti, e non a caso né ìm-
mcritamenlc, che chi vuol veder quello che ha ad essere,
consideri quello che è stalo ; perchè tulle le cose del mondo,
in ogni tempo, hanno il proprio riscontro con gli antichi
tempi. Il che nasce perchè essendo quelle operale dagli uo-
mini, che hanno ed ebbero sempre le medesime passioni,
conviene di necessità che le sorlìschino il medesimo elTclto.
Vero è, che le sono l'opere loro ora in questa provincia più
< Erroneamente la Bladiana: rtggumrdmndoj pare ioditio dir l'Autore
scrivesse raggiiardano. , *
LIBRO TERZO. , 411
virtuose che in quella, ed in quella più che in questa , se-
condo la forma delia educazione nella quale quelli popoli
hanno preso il modo del viver loro. Fa ancora facililà il
conoscere le cose future per le passate; vedere una nazione
lungo tempo tonerei medesimi costumi, essendo oconlinova-
raente avara, o continovamente fraudolenta, o avere alcun al-
tro simile vizio o virtù. E chi leggerà le cose passate della
nostra città di Firenze, e considererà ancora quelle che sono
ne' prossimi tempi occorse, troverà i popoli tedeschi e fran-
ciosi pieni d'avarizia, di superbia, di ferocia e di infedelità;
perchè tutte queste quattro cose in diversi tempi hanno of-
feso molto la nostra città. E quanto alla poca fede, ognuno
sa quante volte si delle danari al re Carlo Vili, ed egli pro-
metteva rendere le fortezze di Pisa, e non mai le rendè. In
che quel re mostrò la poca fede, e la assai avarizia sua. Ma
lasciamo andare queste cose fresche. Ciascuno può avere in-
teso quello che segui nella guerra che fece il popolo fioren-
tino centra ai Visconti duchi di Milano; che essendo Firenze
privo degli altri espedienti, pensò di condurre l'imperadore
in Italia, il quale con la riputazione e forze sue assaltasse la
Lombardia. Promise l' imperadore venire con assai gente, e
far quella guerra contra ai Visconti, e difendere Firenze
dalla potenza loro, quando i Fiorentini glidcssino centomila
ducali per levarsi, e centomila poi che fusse in Italia. Ai
quali patti consentirono i Fiorentini; e pagatogli i primi da-
nari, e dipoi i secondi, giunto che fu a Verona, se ne tornò
indietro senza operare alcuna cosa, causando esser restato
da quelli che non avevano osservato le convenzioni erano
fra loro. In modo che, se Firenze non fusse stata o constretla
dalla necessità o vinta dalla passione , ed avesse letti e co-
nosciuti gli antichi costumi de' barbari, non sarebbe stata
né questa né molle altre volte ingannata da loro; essendo
loro stali sempre a un modo , ed avendo in ogni parte e
con ognuno usati i medesimi termini. Come e* si vede eh' e'
fecero anticamente ai Toscani ; i quali essendo oppressi dai
Romani , per essere stati da loro più volte messi in fuga e
rotti; e veggendomedianli lelor forze non poter resistere al-
l' impeto di quelli; convennero con i Franciosi che di qua dal-
412 nn Disconsi
r Alpi abilavano in Ilalia, di dar loro somma di danari, e clic
tassino obbligati congiognere gli eserciti con loro . a] andare
conlra ai Romani: donde ne segui che i Franri* ì da
nari, non volleno dipoi pigliare l'arme per loro. iverli
avoli non per far guerra coi loro nimici, ma perchè s'aste*
neMÌoo di predare il paese toscano. E così i popoli toscani,
per raftrixia e poca fede dei Franciosi, rimasono ad un tratto
privi de* loro danari, e degli «ioti che gli speravano da quel-
li. Talché si vede per qvedoessempio dei Toscani antichi, e
per quello de' Fiorentini, I Franciosi avere usati i medesimi
termini; e per queslo facilmente si può conietlarare, qaanto
I principi si posaooo ftdaft di loro.
Caf. XLIV. — B'ttonifne con Vimptlo t con t audacie molto
tolte quello che con modi ordinari non ti oUerrehbe mai,
Batendo i Sanniti assaltali dallo esercito di Roma , e
B0« polendo con V esercito loro alare alla canpegna a petto
ai BooMoi, diliberarono, laiciale foardaìe le terre in San-
nio, di passare rnn tulio l'esercito loro in Toscana, la quale
era in (riegoa coi Romani ; e vedere per tal passala , se
ci potevano con la pre<cnza dello esercito loro indurre i To-
acani a ripigliar 1* arme ; il che avevano negato ai loro aro-
tasciadori. B sei parlare che feciono i Sanniti ai Toscani,
nel mostrar, massime, qual cagione gli aveva indotti a pi>
gliar renne, usarono un termine notabile, dove dissono:
BMIma, f«otf pax terrienlibut grarior, quam liberii bellitm
essai. B cosi, parte con le persuasioni, parte con la presenza
dello esercito loro, gli indussooo a pigliar 1* arine. Dove è da
notare, che quando un principe disidera d'ottenere una
cosa da un altro, dcbbe, se l'occasione lo patisce, non gli
dare spatio a dilibcrarsi, e fare in modo ch'ei vegga la ne-
cessiti della presta diliberazione ; la quale é quando colui
che è domandato vede che dal negare o dal differire ne na-
sca una subita e pericolosa indegnazlone. Questo termine a'é
veduto bene osare nei nostri tempi da papa folio con i
Franciosi, e da monsignor di Fois capitano del re di Francia
col marchese di Mantova: perchè papa lulio volendo cac-
LIBRO TEPiZO. 413
ciare ì Benlìvogli di Bologna, e giudicando per questo aver
bisogno delle forze franciose, e che i Viniziani slessino neu-
trali; ed avendone ricerco l'uno el'allro, e traendo da loro
risposta dubbia e varia; diliberò col non dare lor tempo far
venire 1' uno e l' altro nella sentenza sua: e partitosi da Roma
con quelle tante genti ch*ei potò raccozzare, n'andò verso
Bologna, ed a'Viniziani mandò a dire che stessino neutrali,
ed al re di Francia che gli mandasse le forze. Talché, rima-
nendo tulli ristretti dal poco spazio di tempo, e veggendo
come nel papa doveva nascere una manifcsla imlegnazione
dilTerendo o negando, cederono alle voglie sue; ed il re gli
mandò aiuto, ed i Viniziani si stettono neutrali. Monsignor di
Fois, ancora, essendo con l'esercito in Bologna, ed avendo
inlesa la ribellione di Brescia, e volendo ire alla ricupera-
zione di qtiella, aveva due vie; I' una per il dominio del re,
lunga e tediosa; l'altra brieve per il dominio di Mantova: e
non solamente era necessitalo passare per il dominio di quel
marchese, ma gli conveniva entrare per certe chiuse intra
paludi e laghi, di che è piena quella regione, le quali con
fortezze ed altri modi erano serrale e guardate da lui. Onde
che Fois, diliberalo d'andare per la più corta, e per vincere
ogni dilTicullà né dar tempo al marchese a dilibcrarsi, ad
un trailo mòsse le sue genti per quella via, ed al marchese
signiGcò gli mandasse le chiavi di quel passo. Talché il mar-
chese, occupato da questa subila diliberazione, gli mandò le
chiavi: le quali mai gli arebbe mandale se Fais più lepida-
mente si fusse governalo, essendo quel marchese in lega
col papa e coi Viniziani, ed avendo un suo figliuolo nelle
mani del papa; le quali cose gli davano molle oneste scuse
a negarle. ' Ma assalalo dal subilo parlilo, per le cagioni che
di sopra si dicopo, le concesse. Così feciono i Toscani coi
Sanniti, avendo per la presenza dell'esercito di Sannio preso
quelle arme che gli * avevano negalo per altri tempi pi-
gliare.
* Il Poggiali e l'eilizione del 4813: fl «eg'ar^.
2 J^'ediiioiii anledcUe: eh' eg/inojh Testina: ch'egli.
35'
414 DO DISCORSI
Gap. XLY. — Qual sia migìiitr piuiUo neUe giornale, o toslr-
neri V imptf éf NÓRÙrt ; « «o«(cfiM(o iirf«rytf, MMp éop-
prima ctm ^«rM mml\ar(ji\\. ^
é
Erano Decio e Fabio, consoli romani, con due escrcili
air incontro degli eaercili dei Sanniti e dei Toscani; e ve-
nendo alla toffa ed alla giornata inaiene, è da Miare in lai
faiione, qoaie di doe diversi nmli di procedere tenuti dai
» dnt e— tnli fH ailliirt. Perché Perlo con ogni impelo e
CM ogai ano Um» «mllò il nimico; Fabio solamonte !• aos-
tenne, giudicando rataflto ItdWeaatre pia ntlle, riserbando
r impelo Mo Mirollimo, qoando il nimico «vcMe perdilo il
primo artfift del combattere, e cooio noi dieioao, In «m
foga. Doto ii Todo, por il socaaiao d4|| coM, cbo a FoMo
rioacl Bollo Meglio lldiatgno cbo a Ooelo: il qoalo ti tlraecò
nei primi impeti; in modo cbe, vedendo la banda ava piollo*
sto in volta cbe altrimenti, per acquistare eoo la Mori
gloria alla quale con la vittoria non aveva pelalo
gore, ad imitacione del padre tacfiOcd ae alette per le ro.
mane legioni. La qoal coea ialeaa da Fabio, per non acqui -
ftlarc manco onoro vivendo, elM t'avesse il suo collafi
acquistato morcn«1o, epioM* innanii tolte quelle foqpe clio
s'aveva a tale gKetsitA flaervate; «iondc no riporl* ooa
ftlicissima vittoria. Di qui al vede che 'I modo del procedere
di Fabio é più sicuro e piò irnHabile.
Càp. XI. VI. — Dondi naacf ck» unm fami j tu m una cuia
tìem «n frmpe I widfrtail cottumi.
E* pare che non aolamenle l' ona città dall' allra ahhi
certi mo<Ji ed instituti diversi, e procrei uomini o piA duri o
pia eOeminati, ma nella medesima citti ti vede tal diflérenia
etser nelle famiglie 1' una dall* altra. 11 che si riscontra et-
8ere vero io ogni città, e nella città di Roma te no lafgoso
assai essempi: perché e' ti vede i Maolii eft<>ere alati dori ed
ostinati, i Publicoli uomini l>eni^ni ed amalorì del popolo,
gli Appli ambiziosi e nimlci della Plebe: e cosi molle altre
LIBRO TERZO. 415
famiglie avere avute ciascuna le qualità sue spartite dall' al-
tre. La qual cosa non può nascere solamente dal sangue,
perchè e* conviene ch'eivarii mediante la diversità dei ma-
trimonii; ma è necessario venga dalla diversa educazione
che ha una famiglia dall' altra. Perchè gì' importa assai che un
giovanetto dai teneri anni cominci a sentir dire bene o male
d'una cosa; perchè conviene che di necessità ne faccia im-
pressione, e da quella poi regoli il modo del procedere in
tutti i tempi della vita sua. E se questo non fosse, sarebbe
impossibile che tutti gli Appli avessino avuto la medesima
voglia, e fussino stati agitati dalle medesime passioni, come
nota Tito Livio in molti di loro: e per ultimo, essendo uno
di loro falto Censore, ed avendo il suo collega alla fine de'
diciotto mesi, come ne disponeva la legge, deposto il magi-
strato. Appio non lo volle deporre, dicendo che lo poteva
tenere cinque anni secondo la prima legge ordinata dai Cen-
sori. E benché sopra questo se ne facessero assai concioni ,
e se ne generassino assai tumulti, non pertanto ci fu mai
rimedio che volesse deporlo, centra alla volontà del Popolo
e della maggior parte del Senato. E chi leggerà 1' orazione
che gli fece centra Publio Sempronio tribuno della plebe, vi
noterà tutte V insolenze appiane, e tutte le bontà ed umanità
usate da infiniti cittadini per ubbidire alle leggi ed agli au-
spicii della loro patria.
Gap. XLVIL — Che un buon ciltadino per amor della patria
debbe dimenlicare V ingiurie privale.
Era Manlio consolo con l'esercito centra ai Sanniti; ed
essendo stato in una zuDTa ferito, e per questo portando le
genti sue pericolo, giudicò il Senato esser necessario man-
darvi Papirio Cursore dittatore, per supplire* ai difetti del
Consolo. Ed essendo necessario che '1 Dittatore fusse nomi-
nato da Fabio, il quale era con gli eserciti in Toscana; e
dubitando, per essergli nimico, che non volesse nominarlo;
gli mandarono i Senatori due ambasciadori a pregarlo, che,
posti da parte gli privati odii, dovesse per benefizio pubblico
* Cosi ucUa Bladiana e nella Testina.
416 l»t( DtM^unsi
nominarlo. Il che Fabio fece, mosso dalla carità della palrin;
ancora che col lacere e con molli altri modi facesse scialo
' - '-!o «omioazione gli prtMMne. Dai qvaledtèbono pigliare
io ludi quelli, diie €creaa« d*ctteft ItnuU buoni
, uUadioi.
Cap. XLVIILr- Qtitmio «i rtét fmn «no errort fremii td
•u ìdmieà, fi MW crtéen rW vi tm toU^
BfltMido rimato Polfio Legato oello ctercilo cIm i im-
mani a?e?ano te Tofeaaa, per eeacr ite il CoMote peralewie
cerimonie a Roma; i Tosca oi, per vedere m potevano tTere
quello alla tratta, paaani nn afnato propteqoo ai campi ro-
mani, e maniaroao alcnni tnldali eoa vnalo di paateri con
assai armento, e ali fectaiM taiiira alla vi«ia dello esor ti >
romano: i qoali cosi InifMlili ai acco«laronn slloaleetalo !• i
n «adt il Infiala eNrafigliandoai di qnesta loro pre-
MS fH ptfMdo f»fi«Mvate» Uano modo eh* agli
te Dramte; • aaal raalè il diaan» ^' Toaeani rollo.
Q«i ai p«è comodamcate notare, cIm m capiteM di aaereiii
noa deMm prealar teda ad «no crrara cka aridealeiBante si
%esga fare al nimiro: perchè «ampra vi sarà aotto frafMte.
non aeodo ragionavate ehe gli nomini aiano tanto. incauti.
Ila spamn il daahtarla dal t incere accaca gli animi degli uo-
mini, che non vcaeono aHro eha quello pare facci per tero.
I Vrancioti adendo vinti i loaaai ad Allia, a vaatada a
Roma, e trovando le porte aperte q. senta guardia, aletlern
lutto qoel giorno e la notte tenia entrarvi, temendo di frau-
de, e aoa potendo cradara thè fcaaa tenia viltà e tenia poco
coaaiflte aa' palli rooMai, che sii abbandonas«ino la palria.
Qaaada aal fiat a*aadè per gli Fiorentini a Pita a campo,
Alteaao del Mutolo, cittadino pisano, si trovava prifiaaa dei
Piataalini, e promise che s* eali era libero, darebbe aaa parla
di Pisa air esercito fiorenlioo. Fo costui libero. Dipoi, per
pralicara te coaa, venne molle Tolte a partera coi a|aadali
de*co«mittan; a veniva aoa di aaaaatte, m» tcapartet ad
accompagnato dt* Pisani ; i quali bsctava da perle, qaaadn
parlava coi Fiorcntiol Taimcniechè ti ledeva contellararc
LIDRO TERZO. 417
il SUO animo doppio; perchè non era ragionevole, se la pra-
tica fusse stala fedele, ch'egli l'avesse trattala sì alla scoper-
ta. Ma il disiderio che s'aveva d'aver Pisa, accecò in modo
i Fiorentini , che condottisi con l' ordine suo alla porta a Luc-
ca, vi lasciarono più loro capi ed altre genti con disonore
loro, per il tradimento doppio che fece detto Alfonso.
Gap. XLIX. — Una repubblica, a volerla manlenere libera, ha
ciascuno di bisogno di nuovi provvedimenti ; e per quali
merili Quinto Fabio fu chiamalo Massimo.
Edi necessità, come altre volte s*é dello, che ciascuno
dì in una città grande naschino accidenti che abbino biso-
gno del medico; e secondo che gli importano più, conviene
trovare il medico più savio. E se in alcune città nacquero
mai simili accidenti, nacquero in Roma e slrani ed insperati;
come fu quello quando e' parve che tutte le donne romane
avessino congiuralo contra ai loro mariti d'ammazzargli:
tante se ne trovò che gli avevano avvelenati , e tante eh' ave-
vano preparato il veleno per avvelenargli. Come fu ancora
quella congiura de' Baccanali, che si scoprì nel tempo della
guerra macedonica, dove erano già inviluppati molti* mi-
gliaia d'uomini e di donne; e se la non si scopriva, sarebbe
stata pericolosa per quella città; o seppure i Romani non
fussino stati consueti a gasligare le moltitudini degli uomini
erranti: perchè, quando e' non si vedesse per altri infiniti
segni la grandezza di quella Repubblica, e la potenza delle
esecuzioni sue, si vede per la qualità della pena che la im-
poneva a chi errava. Né dubitò far morire per via di giusti-
zia una legione intera per volta, ed una città tutla; e di
confinare otto o diecimila uomini con condizioni straordina-
rie, da non essere osservate da un solo, non che da tanti:
come intervenne a quelli soldati che infelicemenle avevano
combattuto a Canne, i quali confinò in Sicilia, e impose loro
che non albergassino in terre, e che mangiassino ritti. Ma
di tulle l'altre esecuzioni era terribile il decimare gli eser-
* Cosi nella Bladiana e nella Testina. Nelle moilerue sollanlo è la Hcsiucuza
femminile inyiliqypate molte.
41S I>^I DISCORSI
citi, dove a sorte da tulio uno escrcilo era morlo d'ogni dieci
uno. Né si polcva a gasligare una molliludine trovare più
spaventevole punizione di questa. Perchè quando una molli-
ludine erra, dove non sia l'autore certo, tulli non si possono
gastfgare, per esser troppi; punirne parte e parte lasciare
impuniti, si farebbe torto a quelli che si puniésino, e gli im-
puniti arebbono animo di errare un'altra volta. Ma ammaz-
zare la decima parte a sorte, quando tulli la meritano, chi
è punito si duole della sòrte; chi non è punito, ha paura
che un'altra volta non tocchi a lai, e guardasi di errare. Fu-
rono punite, adunque, le venefiche e le baccanali secondo
che meritavano i peccati loro. R benché questi morbi in una
repubblica faccino cattivi elTctti, non sono a morte, perché
sempre quasi s* ha tempo a correggerli: ma non s' ha già
tempo in quelli che riguardano lo stato, i quali se non sono
da un prudente corretti, rovinano la città. Erano in Roma,
per la liberalità che i Romani usavano di donare la civilità
a' forestieri , nate tante genti nuove, che le cominciavano
avere tanta parte ne'sulTragi, che '1 governo cominciava a
variare, e partivasi da quelle cose e da quelli uomini dove
era consueto andare. Dì che accorgendosi Quinto Fabio che
era Censore, mr^ssc tutto queste genti nuove da chi dipen-
deva questo disordine sotto quattro Tribù, acciocché non
polcssino, ridotle in si piccioli spati,* corrompere tutta
Roma. Fu questa cosa ben conosciula da Fabio, e postovi
senza «Iterazione conveniente rimedio; il quale fu tanlo ac-
cetto a quella civilità,* che meritò d'esser chiamalo Mas-
simo.
' La Tellina, colle moderne : /« ti picco!» tpazio.
' Nel nostro esemplare della Teslioa, è tcriUo a penna qui dirimpcUo:
città.
FL^fi.
419
irVDICK DEL VOLIJIE.
Avvcrliniento tlell'Edilore Pag. v
Sul Libro del Principe, Considerazioni del prof. Andrea Zimbelli. . . . vii-lxi
IL. PIUMCIPE.
Niccolò Macliiavelli al Magnifico Lorenzo di Piero de' Medici. 3
Capitolo I. Quante siano le specie de' principati , e con quali modi si
acquistino. 5
— IL- De' principati ereditari ivi
— HI. De' principati misti G
• — IV. Perchè il regno di Dario da Alessandro occupato, non si ri-
bellò dalli successori di Alessandro dopo la morte sua. . . 43
— V. In che modo siano da governare le città o principati, quali,
prima che occupati fussino , vivevano con le loro leggi. . . i5
— VI. De'principati nnovi, che con le proprie armi e virtù s'acqui-
stano -IG
— VII. De'principati nuovi, che con forze d'altri e per fortuna
s'acquistano id
— Vili. Di quelli che per scelleratezze sono pervenuti al principato. 25
— IX. Del principato civile 29
— X. In che modo le forze di tutti i principali si delibino nìisurare. 32
— Xf. De'principati ecclesiastici 3't
— XII. Quante siano le spezie della milizia, e de' soldati mercenari. . 36
— XIII De' soldati ausiliari, misti e propri 40
— XIV. Quello che al Principe si appartenga circa la milizia 43
— XV. Delle cose mediante le quali gli uomini, e massimamente i
Principi , sono laudali o vituperati Ah
— XVI. Della liberalità e miseria.' 47
— XVII. Della crudeltà e clemcuzia, e s'egli è meglio essere amato
o temuto 49
— XVIII. In che modo i Principi delrbiano, osservare la ftie 51
— XIX. Che si debbe fuggire lo essere disprezzalo e odiato 64
— XX. Se le fortezze, e molte altre cose che spesse volte i Principi
fanno, sono utili o dannose 62
— XXI. Come si debba governare un Principe per acquistarsi riputa-
zione 66
— XXII DcUi segretari de' Piincipi 61)
— XXIII. Come si debbino fuggire gli adulatori 70
— XXIV. Perchè i Principi d'Italia abbino perduto i loro stati 72
— XXV. Quanto possa nelle umane cose la fortuna , e in chq modo se
gli possa ostare jt /, . , 73
— XXVI. Esortazione a liberare l' Italia «'>' barbari 76
420 KNDICE.
DI TITO LIVIO.
Kicrolù MachuTclli a Zanobi Booodelmonti a Cosimo Rucelhi salute. Pag S3
LIBRO rniMo.
Caf. I. Quali siano siati aniversalmeDle i friocipii di qualunque città,
e quale foste quello di Roma. 87
— II. Di quante sptsie tono le rrpuMilirlie , e di quale fu la 'Rrpuli- «
blira Romana 90
— III. Quali accidenti racessino creare in Roma i Tri Inini' della plebe;
il che fece la Repubblica più perfetta t ■ • • ^^
— IV. Che la disunione della Plebe e del Senato rodano fece libera e
potente quella Repubblica. 97
— V. Dove più seruramente si ponga la guardia della fllttrtà, 9 nel
Popolo o ne* Grandi j t quali hanno maggiore cagione di
tumultuare, o chi vuole acquistare o chi vuole mantenere. . . 90
— VI. Se in Roma ti poteva ordinare uno ttato che toglieue «ia le
inimicitie intra il Popolo ed il Senato ^ • ■ . 101
— VII. Quanto siano necessarie in una repubblica le accuse per man-
tenere la libertà 100
— VIII. Quanto le accuse sono ulilt alle repubbliche, tanto aono
pernitiose le calunnie 100
— IX. Come egli è neceuario esser solo a Tolerc ordinare una repul»-
blica di nuovo, o al tulio fuqfi dclli antichi suoi ordini
riformarhl. 1 II
— "X. Quanto sono laudabili i fondatori d' una repubblica o d' uno
regno, tanto quelli d'una tirannide sono vituperabili. . . 114
— "Xl. Della religione de* Romani ' 117
— XII. Di quanta importanca sia tenere conto della religione, e coma
la Italia per esserne mancata mediante la Chiesa romana, è
roxinata 131
— XIII. Come i Romani si servirono della religione per ordinare la cillii,
e perseguire le loro imprese e fermare i tumulti 131
— XIV. I Romani Interpretavano gli auspicii secondo la necessità, e con
la prudenca mostravano di osservare la religione, quando
fonati no* 1* ostervavano ; e se alcuno temerariamente la
dispregiava. Io punivano 126
— XV. Come i Sanniti, per estremo rimedio alle cose loro afflitte, ri-
corsono alla religione 138
— XVI. Un popolo uso a vivere sotto un principe, te per qualche acci-
dente diventa libero, con dilHcuUà mantiene la libertà 129
INDICE. 421
Cap. XVII. Uno popolo corrotto , venuto in liberta , si può con difficoltà
grandissima mantenere libero Pag. 133
— XVIII. In che modo nelle città corrotte si potesse mantenere uno stato
libero , essendovi; o non essendovi , ordinarvelo i3;>
— XIX. Dopo un eccellente principe si può mantenere un principe
debole; ma dopo un debole, non si può con un altro
debole mantenere alcun regno 138
— XX. Due continove successioni di principi virtuosi fanno grandi ef-
fetti ; e come le repubbliche bene ordinate hanno di ne-
cessità virtuose successioni : e però gli acquisti ed augu-
menti loro sono grandi 14C'
— XXI. Quanto biasimo meriti quel principe e quella repubblica che
. manca d'armi proprie 141
— XXII. Quello che sia da notare nel caso dei tre Orazi romani, e dei
tre Curiazi albani i'iìi
— XXIII. Che non si debbe mettere a pericolo tutta la fortuna e non tutte
le forze ; e per questo , spesso il guardare i passi è dan-
noso 143
— XXIV. Le repubbliche bene ordinate constituiscono premii e pene a'
loro cittadini , ne compensano mai V uno con l'altro. . . 145
— XXV. Chi vuole riformare uno stato antico in una città libera, riten-
ga almeno 1' ombra de' modi antichi 146
— XXVI. Un principe nuovo, in una città o provincia presa da lui, debbe
fare ogni cosa nuova 147
— XXVII. Sanno rarissime volte gli uomini essere al tutto tristi o al tutto
buoni • ■. . 14S
— XXVIII. Per qual cagione i Romani furono meno ingrati agli loro citta-
dini che gli Ateniesi 44y
— XXIX. Quale sia più ingrato, o un popolo , o un principe 150
— XXX. Quali modi debbe usare un principe o una repubblica per fug-
gire questo vizio della ingratitudine ; e quali quel capitano
o quel cittadino per non essere oppresso da quella. . . . 153
— XXXI. Che i capitani romani per errore commesso non furono mai
islraordinariamente puniti; ne furono mai ancora puniti
quando , per la ignoranza loro o tristi partiti presi da
loro , ne fussino segniti danni alla repubblica 455
— XXXII. Una repubblica o un principe non debbe differire a beneficare
gli uomini nelle sue necessitati Ì5G
— XXXIII. Quando uno inconveniente è cresciuto o in uno stato o contra
ad uno stato , è più salutifero partito temporeggiarlo che
urtarlo 158
— XXXIV. L'autorità dittatoria fece bene, e non danno, alla repub-
blica romana : e come le autorità che i cittadini si tol-
gono, non quelle che sono loro dai suffragi liberi date,
sono alla vita civile perniciose 100
— XXXV. La cagione perchè in Roma la creazione del decemvirato fu
nociva alla libertà-di quella repubblica, non ostante che
fosse creato per suffragi pubblichi e liberi 163
— XXXVI. Non debbono i cittadini che hanno avuti i m,iggiori onori,
sdegnarsi de' minori 1G4
3G
432 ixoiCK.
«M k^ft ia «■ iif ■Ulìn ce* iiì^pmII mhì imètt-
k iiMililiiii|-|i tif! 163
_ XXXTIIL Le npaHliiti 4AA mm Mali tMihm t M« « smim 4t>
lihcnrc<*« M II fiff^mm ■■■ ilrwn fitlito, MMt
piè*i«iiiwrt«>i<»ilwlm Ili
— XXXHL la «ma pafali tà iifgii ipMM i ■iÌiiìmì ■imìiIì. . . 171
CHM ii MkMivara mi
— iii 111 m
— XU. Sdlm Mb aaiitit ••■ m iiHi, 4«lli piMk db craMlk,
wi4Aìli— ii.»c<M iH|i itoli di i—lii^. . . . 47S
-*> XMt Qwl»tli—i rilftiTlB àiiawi iifHfWi I7>
>- XUIL Q«ii «èc «MAMtaM f« b glwMpMfni.MMkMirf t
XJiMliili. ivi
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-^ 1I.VI. OH— irtai libili a«— 'MiW»»«fJ — •■ltwi»ftì— «i
CCfCt MA MMW MNi^^ 9^0k A flBMsMW iHWt. • • • • 1*4
— XLVII. Oli MàM, «««ta «te tilif ■■ ii t'filiiill. Ma p«IÀ.
«•bfi M« « ii^HBIll Iti
— XLYIU. CM«MbiktaMa^bMl* M« M 4M«aJ M«il««W
M Mito, I» toié ^mmbJém • «I m Uff» vib •
•Mff» Mgi«, • ai «M lr«rr* **^*'* * Mfr» ^mmw . f 17
yUX. •• ^Mlt «ìnk ckc Um» t*«l* d praHÉfi» hUr», MM
1m« , kMM Mbaiik • IMMra bfil «k« b MMlM-
^ÉÌM| ^mI« dM I* kMM IMMAM NT*». M IkMM
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MiHiddbcitU. Ito
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k«Aa^nÌfeaAtbMMM«Ufo<MUii^ Iti
— Ut k tipilMiii b liiilii I 4t «M <kt •«§• ia MM WfHli
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•Mtto ifMb 4i IrtMi • CMM b pmdà if wmi t
-> UV. QaMU Mlad[> aUéa «m aMia fiwii > twaaw aM awl.
— LV. QawCa fu ila mi ti ruiirtm b cmc ■■ <|adb tkA
émm b aHllilaiiM awècaffaltt: tdM4»««« c^a»>
M.MM M paè bn ftmófm»; 9 étm b bm k,aM
Ift
INDICE. 4-23
Gap. LVI. lunauzi che seguino i grandi accidenti in una città o in una pro-
vincia , vengono segni che gli pronosticano , o uomini che
gli predicono Pag. 203
. — LVII La plebe insieme è gagliarda, di per se è debole 204
— LVIII. La moltitudine è più savia, e più costante che vai principe.. . . 205
— ■ LIX. Di quali confederazioni , o lega , altri si può più fidare; o di
quella fatta con una repubblica, o di quella fatta con uno
principe 210
— LX, Come il consolato e qualunque altro magistrato in Roma si dava
fcnza rispetto di età 212
£.inBO (SECONDO.
Cap. L Quale fu più cagione dello imperio che acquistorono i Romani,
o la virtù, o la fortuna 217
— II. Con quali popoli i Romani ebbero a combattere, e come ostina-
tamente quelli difendevano la loro libertà 221
— IIL Roma divenne grande città rovinando le città circonvicine , e
ricevendo i forestieri facilmente a' suoi onori 227
— IV. Le repubbliche hanno tenuti tre modi circa lo ampliare 22S
— V. Che la variazione delle sètte e delle lingue, insieme con l'acci-
dente de' diluvi o delle pesti, spegne la memoria delle cose. 232
— VI. Come i Romani procedevano nel fare la guerra 234
VII. Quanto terreno i Romani davano per colono 236
— Vili. La cagione perchè i popoli si partono da' luoghi palrii, ed inon-
dano il paese altrui 237
.— IX. Quali cagioni comunemente faccino nascere le guerre intra i
potenti 240
— X. I danari non sono il nervo della guerra , secondo che è la co-
mune oppinione 241
— XI. Non è partito prudente Care amicizia con un priqcipe che abbia
più oppinione che forze 245
— XII. S'egli è meglio, temendo di essere assaltato, inferire, o aspettare
la guerra 246
— XIII. Che si viene di bassa a gran fortuna più con la fraude , che eoa
la forza . 249
— XIV. Ingannansi molte volte gli uomini , credendo con la umiltà vin-
cere la superbia 251
— XV. Gli slati deboli sempre fieno ambigui nel risolversi : e sempre
le deliberazioni lente sono nocive 252
— ' XVI. Quanto i soldati de' nostri tempi si disformino dalli antichi or-
dini 255
— XVII. Quanto si debbino stimare dagli eserciti ne'presenti tempi le ar-
tiglierie; e se quella oppinione, che se ne ha in univer-
sale, è vera 258
— XVIII. Come per l'autorità de' Romani, e per lo essempio della antica
milizia, si debbe stimare più le fanterie che i cavagli. . . '. 265
— XIX. Che gli acquisti nelle repubbliche non bene ordinate, e che se-
condo la romana virtù non procedono, sono a rovina, non
a esaltazione d'esse 269
424 INDICE.
Gap. XX. Quale' pericolo porli quel principe o quella rcpuLLlica che »i
vale della milizia ausiliare o merceoaria Pag. 273
— XXI. Il primo Pretore che i Romani mandarono in alcun luogo, fu
a Capova , dopo quattrocento anni che cominciarono • far
guerra 275
— XXII. Quanto siano false molle volte le oppinioni degli uomini nel
giudicare le cose grandi 577
— > XXUI. Quanto i Romani nel giudicare i sudditi per alcuno accidente
che necessitaue tal giudizio , fuggivano la via del metto. . 379
— XXIV. Le fortette generalmente sono molto più dannose che utili. . . 2S3
— XXV. Cbc lo assaltare una città disunita , per occuparla mediaott la
sua disunione , è partito contrario 980
— XXVI. Il vilipendio e l'improperio genera odio contra a coloro che
l'usano, senta alcuna loro utilità Udì
— XXVII. Ai principi e repubbliche prudenti debbe Lattari vincere; per-
chè il più delle volte quando non basti, si perde. S9t
— XXVIII. Quanto sia pericoloso ad una repubblica o ad uno principe non
vendicare una ingiuria fatta cootra al pubblico « o eoo*
ira al privato S95
— XXIX. La fortuna accieca gli animi degli uomini, quando la non mole
che quelli si oppooghino a' disegni suoi. S97
— XXX. Le repubbliche e gli principi veramente potenti non compe-
rano l'amicitie con danari, ma con la virtù e con la ri*
putatiooc delle forte. 29i>
— XXXI. Quanto sia pericoloso credere agli sbanditi 'ÒOi
— XXXII. In quanti modi i Romani occupavano le terre 304
— XXXIII. Come i Romani davano agli loro capitani degli eserciti le
commissioni libere , 807
LIBRO TESSO.
CAriToLo I. A volA-e che una tetta o una repobblica viva luogimeote , è
necessario ritirarla spesso verso il suo principio 309
— il. Come gli è cosa sapientissima simulare in tempo la pattia. . . . 313
— III. Come egli è necessario, a voler mantenere una libertà acqui-
stata di nuo%-o, ammazzare i figliuoli di Bruto 315
— IV. Non vive sicuro un principe in un principato, mentre vivono
coloro che ne sono stati spogliati 316
— V. Quello che fa perdere uno regno ad uno re che aia ereditsrio
di quello 317
— VL Delle congiure 3iU
~ VII. Donde nasce che le mutazioni dalla libertà alla servitù, e dalia
servitù alla liliertà , alcuna n'è senza sangue, alcuna n'è
piena 339
•y ; VIII. Chi vuole alterare una repubblica, debbe considerare il soggetto
di quella 340
— IX. Come conviene variare coi tempi , volendo sempre aver buona
fortuna 343
— X. Che un capitano non può fuggire la giornata, quando l'avver-
sario la vuol fare in ogni modo 344
INDICE. 425
Gap. XI. Che chi La a fare con assai, ancora che sia inferiore, purché
possa sostenere i primi impeti, vince Pag. 348
— XII. Come un capitano prudente debbe imporre ogni necessità di
combattere ai supi soldati, e a quelli delli nimici tórla . . 350
— XIII. Dove sia più da con6dare, o in uno buono capitano che abbia
l'esercito debole, o in uno buono esercito che abbia il ca-
]^itano debole 353
— XIV. Le invenzioni nuove che appariscono nel mezzo della zuffa, e
le voci nuove che si odono, quali effetti faccino 355
— XV. Come uno e non molti siano preposti ad uno esercito , e come i
più comandatori offendono 357
— XVI. Che la vera virtù si va ne' tempi difficili a trovare ; e ne' tempi
facili non gli uomini virtuosi , ma quelli che per ricchezze
o per parentado prevagliono, hanno più grazia. . ..... 359
— XVII. Che non si offenda uno, e poi quel medesimo si mandi in
amministrazione e governo d' importanza 361
— XVIII. Nessuna cosa è più degna d' un capitano, che presentire i par-
titi del nimico 362
— XIX. Se a reggere una moltitudine è più necessario lo ossequio che
la pena 865
— XX. Uno essempio d'umanità appresso ai Falisci potette più d'ogni
forza romana 366
— XXI, Donde nacque che Annibale con diverso modo di procedere da
Scipione, fece quelli medesimi effetti in Italia che quello in
Ispagna 367
— XXII. Come la durezza di Manlio Torquato , e l' umanità di Valerio
Corvino acquistò a ciascuno la medesima gloria 370
— XXIII. Per quale cagione Cammillo fusse cacciato di Roma 375
— XXIV. La prolungazione degl* imperii fece serva Roma 376
— XXV. Della povertà di Cincinnato , e di molli cittadini romani. . . . 377
— XXVI. Come per cagione di femmine si rovina uno stato. 379
— XXVII. Come e' si ha a unire una città divisa; e come quella oppi-
nione non è vera, che a tenere le città bisogna tenerle
^ disunite 380
— XXVIII. Che si debbe por mente alle opere de' cittadini , perchè rrtolte
volte sotto un'opera pia si nasconde un principio di ti*
rannide 382
— XXIX. Che gli peccati dei popoli nascono dai principi 384
— XXX. Ad uno cittadino che voglia nella sua repubblica far di sua auto-
rità alcuna opera buona, è necessario prima spegnere l'in-
vidia: e come, venendo il nimico, s'ha a ordinare la
difesa d'una città 3S5
— XXXI. Le repubbliche forti e gli uomini eccellenti ritengono in ogni
fortuna il medesimo animo e la loro medesima dignità. . . 388
— XXXII. Quali modi hanno tenuti alcuni a turbare una pace 31)1
— XXXIII. Egli è necessario, a voler vincere una giornata, fare l'esercito
conBdente ed infra loro, e con il capitano 302
— XXXIV. Quale fama o voce o oppinione fa che il popolo comincia a fa-
vorire un cittadino : e se ei distribuisce i magistrati con
maggiore prudenza che un principe 394
426 INDICE.
Cap. XXXV. Quali pericoli &i portino nel tarii cjpo a consigliare una
cosa; e quanto ella ha più dello straordinario, mag-
giori pericoli ri si corrono Pag. 398
— XXXVI. La cagione perchè i Franciosi sono stali e sono ancora giu-
dicati nelle tufle da principio più che uomini, e di-
poi meno che femmine, 400
— XXXVII. Se le piccole battaglie innanzi alla gioroala sono uecestarie,
e come si debbe fare a coooscere uo nimico nuovo,
volendo fuggire quelle 403
— XXXVIII. Come debbe esser fatto un capitano nel quale Tesercito tuo
possa confidare 404
— XXXIX. Che un capitano debbe esser conoscitore dei siti 406
— XL. Coaie usare la fraude nel maneggiare la guerra è cosa glo-
riosa 407
— XLI. Che ]a patria si debbe dilendcre o con ignominia o con glo-
ria : ed in qualunque modo e beo difesa 408
— XLII. Che le promesse fatte per fona , non si debbono osservare. . . 409
— - XLIir. Che gli uomini che nascono in una provincia, osservano per
tutti i tempi quasi quella medesima natura 410
— XLIV. E' ti ottiene con 1* impeto e con l'audacia molte volle quello
che con modi ordinari non si otterrebbe mai 412
— XLV. Qual sia miglior partito nelle giornate, o sostenere V impeto
de'nimici, e sostenuto urtargli; ovvero dapprima con
furia assaltargli 414
— XLVI. Donde nasce che una famiglia in una città tiene un tempo
i medesimi costumi ivi
-^ XLVII. Che un buon cittadino per amore della patria debbe di-
menticare l'ingiurie private 415
— XLVIII. Quando si vede fare uno errore grande ad un nimico , si
debbe credere che vi sia sotto inganno 416
•» XLIX. Una repubblica , a volerla mantenere libera , ha ciascuno
di bisogno di nuovi provvedimenti ; e per quali meriti
Quinto Fabio fu chiamato Massimo 417
s