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Full text of "Il principe, e discorsi sopra la prima deca di Tito Livio"

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rmura    k.4voi 

Presented  to  the 

LIBRARY  ofthe 

UNIVERSITY  OF  TORONTO 

front 

the  estate  of 

GIORGIO  BANDINI 


IL  PRINCIPE, 

E 

DISCORSI  SOPRA  LA  PRIMA  DECA 


DI  TITO   LIVIO. 


IL  PRINCIPE, 

E 

DISCORSI  SOPRA  LA  PRIMA  DECA 

DI  TITO  LIVIO, 
DI    IVlCCOIiÒ    ]fIA€HlAVEIiIil: 


premessevi  le  considerazioni 
DEI.     PROF.     AIWDREA     ZAMBELLI 

SUL     I-IBKO     DEL     PRINCIPE. 


FIRENZE. 

SUCCESSORI   LE  MONNIER. 

1880. 


JeRARy 
APR191995 


^f/?SITYOf^ 


N^. 


AVVEIITIME.MO   DKLL'  EDlTOUi:. 


Nel  condurre  le  presente  edizione,  vollesi  compiacere 
al  desiderio  che  oggi  si  mostra  e  al  consiglio  che  vien  dato 
da  molti,  di  ricondurre  i  classici  scrittori  a  quella  primi- 
genia sincerità  di  lezione,  da  cui  troppo  si  allontanarono, 
0  per  negligenza  ò  per  arbitrari  sistemi,  gli  editori  del  17" 
e  18°  secolo,  e  in  parte  ancora  del  nostro. 

A  tal  fine  volemmo  riscontrate  dihgentemente  queste 
opere  politiche  del  Segretario  Fiorentino  colle  due  famige- 
rate e  pregevolissime  edizioni  di  A.  Biado;  cioè  quanto  al 
Principe,  Roma  1531,  e  quanto  ai  Discorsi,  ivi  1532;  alle 
quali  abbiamo  quasi  sempre  data  la  preferenza. 

Si  ebbe  oltracciò  sotto  gli  ocelli  un  esemplare  della 
cosi  detta  Testina  (1550),  con  correzioni  a  penna,  appar- 
tenente alla  Biblioteca  del  Marchese  Gino  Capponi  ;  e  ven- 
nero assai  di  frequente  consultate  le  impressioni  di  Fila- 
delfia (Livorno)  1796,  e  quella  d'Italia  (Firenze)  1813;  alla 
prima  delle  quali  presiedette,  com'è  noto,  il  Poggiali;  e 
all'altra  Reginaldo  Tanzini  e  Francesco  Tassi. 

Non  si  è  lasciato  nelle  occorrenze  di  consultare  qual- 
che altra  edizione. 

Questo  lavoro  di  pazientissima  diligenza  venne  da  noi 
affidato  al  signor  F.-L.  Pohdori,  il  quale  a  giustificare  il 
metodo  da  sé  tenuto  per  conciliare  il  suo  proprio  genio  e 
le  convinzioni  colla  comodità  degli  odierni  lettori,  fece  an- 
cora   le  brevissime   note  che  si  leggono  a  pie  di  pagina. 


Infine ,  perchè  non  mancasse  agli  studiosi  una  guida  che 
loro  aprisse  le  riposte  intenzioni  del  Principe,  ci  piacque  pre- 
mettere le  Considerazioni  del  prof.  Andrea  Zambelli ,  di  cui 
Giovan-Battista  Niccolini  ebbe  a  dire  :  «  Meritano  di  esser  lette 
»  le  profonde  considerazioni  che  sul  libro  del  Principe  scrisse 
»  il  celebre  prof.  Andrea  Zambelli,  il  quale  desumendo  la  ra- 
»  gione  e  lo  scopo  di  quest'  opera  dall'indole  del  Machiavelli 
»  e  da  quella  de' suoi  tempi,  pose  fine  alle  antiche  e  mo- 
»  derne  dispute  insorte  fra  coloro  che  del  Segretario  Fioren- 
»  tino  trascorrono  nel  biasimo  o  nella  lode.   » 

F.  Lk  ìMonmku. 


SUL    LIBRO    DEL   PRINCIPE, 

CONSIDERAZIONI 

DEL  PROF.   ANDREA   ZAMDELLI. 


Preiper  gli  alleri  e  sollevar  gì'  imbelli 
Fur  r  arti  lor. 

Tasso. 


Per  ciò  che  si  riferisce  ai  libri  dell' i4r/e  della  guerra,  ai  Discorsi 
sopra  Tito  Livio ,  alle  Storie  fiorentine,  alle  Commedie  ed  alle  Poe- 
sie,  Machiavelli  fu  giudicato  abbastanza  da  critici  autorevoli;  ma  non 
si  può  dir  lo  stesso  del  Libro  del  Principe,  intorno  a  cui  così  calde 
quistioni  agitaronsi  e  si  agitano  tuttavia,  che  le  menti  rimangono 
nell'incertezza.  Alberico  Gentile,  Wicquefort,  Rou.sseau  ed  Alfieri  il 
lodarono;  Giusto  Lipsio,  Artaud,  Macauley  l'ammirarono,  ma  non 
senza  mescolare  il  biasimo  all'ammirazione;  Federico  il  Grande, 
Voltaire,  Dugald  Stewart  il  biasimarono  soprammodo.  Molti,  che 
tampoco  non  l' avean  letto,  veri  telegrafi  dell'  altrui  opinione,  i  quali 
la  ripetono  e  la  trasmettono  senza  comprenderne  il  senso,  furono 
dei  più  acerbi  fra  i  suoi  detrattori.  Un  padre  Lucchesini  giunse  per- 
fino a  pubblicare  uno  scritto  sulle  sciocchezze  eh'  egli  pretendeva  di 
avere  scoperte  nelle  opere  di  Machiavelli. 

In  mezzo  a  siffatte  discrepanze,  io  non  dubito  di  affermare  che 
nissuno,  ch'io  mi  sappia,  riguardò  il  libro  di  cui  si  tratta  nel  suo 
vero  aspetto.  Alcuni  han  preteso  dimostrare,  che  quivi  egli  non  par- 
lasse da  senno,  ma  solo  per  far  la  satira  dei  tiranni,  di  cui  abbondava 
la  sua  età,  e  che  col  fingere  di  dar  lezioni  ai  principi  ne  abbia  date  di 
grandi  ai  popoli,  svelando  le  perfidie  e  le  malvagità  di  quelli:  ma  co- 
desta opinione  incontra  parecchie  gravi  diliìcollà.  La  famosa  lettera 
della  villa  di  San  Casciano,  dovè  Machiavelli  espone  schiettamente 
al  suo  più  fidalo  amico,  cui  nulla  taceva,  il  modo  e  il  fine  da  lui 
propostosi,  e  quella  di  Biagio  Bonaccorsi,  suo  famigliarissimo,  a 
Pandolfo  Bellucci,  m'inducono  a  credere  aver  egli  scritto  di  buona 
fede  il  libro:  Ginguené  e  l' Artaud  pensano  lo  stesso.  Poi,  se  tali 
fossero  stale  in  realtà  le  sue  mire,  vi  sì  sarebbe  opposta  la  medesima 


vili  CONSIDERAZIONI 

raffinatezza  de' suoi  precelli,  più  acconci  ad  islruire  un  principe  clic 
a  smascherarlo  in  faccia  del  popolo  ,  e  da  essere  compresi  anzi  da 
quello  che  da  queslo.  Poi,  qual  prova  adducono  della  loro  asserzione 
codesll  scrillori  ?  L'essersi  Machiavelli  nei  Discorsi  mostralo  assai 
diverso  da  ciò  che  appare  nel  Principe.  Eppure  nei  primi  si  trovano 
non  poche  massime  del  fare  di  quelle  che  si  leggono  nel  secondo; 
come  a  dire  sulla  necessità  d'esser  temuto  ma  non  odialo,  del  be- 
neficare o  spegnere,  del  fare  un  principe  ogni  cosa  nuova  in  una 
città  o  provincia  presa,  sul  non  sapere  gli  uomini  essere  al  tulio  tri- 
sti o  al  tutto  buoni,  sull'effetto  che  scusa  il  fallo,  e  simili.  Anzi,  ve- 
nendo il  Segretario  fiorentino  al  discutervi ,  <  se  le  promesse  siano 
sempre  da  osservarsi  o  no,  conchiude  :  «  Di  ciò  è  largamente  dispu- 
tato da  noi  nel  nostro  trattato  del  Principe;  però  al  presente  lo  tace- 
remo :  »  e  dove  parla  del  riscontrare  il  modo  del  procedere  suo  coi 
tempi,'  non  cita  egli  evidentemente  queir istcsso  trattalo,  in  cui  dice 
presso  a  poco  il  medesimo?  Le  quali  analogie  e  citazioni  dimostrano 
a  occhi  vegnenti,  ch'egli  non  cangiò  natura  nò  apparenza,  come  vor- 
rebbero certuni ,  e  sempre  francamente  espose  quel  che  pensasse  e 
di  principi  e  di  repubbliche.  Ciò  fece  in  codeste  due  opere,  ciò  nelle 
Storie^  ciò  ne' minori  suoi  scritti,  insino  nelle  sue  lettere. 

Molto  meno  posso  concedere  ad  alcuni  altri,  ch'egli  mirasse  a 
rendere  odiosa  la  casa  Medici,  scrivendo  ad  un  tiranno  ciò  che  dee 
piacere  ad  un  tiranno,  a  fine  di  farlo  andare,  se  poteva  ,  di  sponla- 
nca  volontà  in  precipizio.  Oltre  le  dette  ragioni,  ed  oltreché  Lorenza 
non  era  uomo  da  lasciarsi  allucinare  come  (iiacomo  II  con  Sunder- 
land,  in  ogni  lettera  di  Machiavelli,  segnatamente  in  quelle  scritte  a 
Francesco  Vetlori  ed  al  Guicciardini,  si  scorge  la  evidente,  schietta 
e  continua  brama  d'essere  da  quei  signori  impiegato,  e  di  divenire 
un'  altra  volta  sotto  il  loro  dominio  un  uom  del  potere.  Non  che  dessn 
sia  stata  in  quel  libro  il  suo  solo  intento,  come  pur  crede  qualcuno  :  ^ 
le  soprascritte  citazioni  e  massime  uguali  dimostrano  il  contrario; 
ma  certo  pur  vi  entrava  in  qualche  parte  il  desiderio  d'  un  impiego. 
Che  il  Segretario  avesse  contro  il  duca  d'Urbino  quella  torta  inten- 
zione, alcuni  Fiorentini  l'asserirono  al  cardinal  Polo,  e  questi  il  cre- 
dette: ma  io  credo  invece,  che  quegli  astuti  volessero  con  lale 
sutlerfugio  scusare  in  qualche  guisa  alla  lor  foggia  repubblicana  il  pro- 
prio'concittadino  appresso  il  buon  prelato,  che  odiava  i  tiranni,  e 
non  sapea  darsi  pace  di  quel  libro.  Se  cosi  non  fosse,  come  mai  il 

*  Discorsi,  lib.  Ili ,  cap.  42, 

2  Lib.  III,cap.  9. 

5  L'  autore  d'  un  articolo  critiro  dilla  Pane  rie  Paris. 


SUL   LIBRO    DEL   PUINCIPE.  IX 

Varchi,  contemporaneo  del  Segretario,  avrebbe  potuto  scrivere  nelle 
sue  Storie,  che  «  quegli  indirizzò  a  Lorenzo  il  sua  Principe,  perchè 
si  facesse  signore  assoluto  di  Firenze,  e  che  dopo  il  rivolgimento  dello 
Stato  (cioè  dopo  la  cacciala  dei  Medici)  tentò  di  spegnere  codesta  sua 
opera,  non  essendo  ancora  stampala?  »  S'  egli  avesse  inteso  di  far 
con  essa  la  satira  dei  tiranni  e  di  esporre  il  suo  principe  al  pugnale 
dei  repubblicani,  certamente,  anziché  cercare  di  spegnerla,  se  ne  sa- 
rebbe gloriato  fra  un  popolo  che  sognava  un'  altra  volta  l' antica  li- 
bertà. Ma,  perciocché  le  sue  intenzioni  erano  assai  diverse,  e  cia- 
scuno il  sapeva,  egli  che  aveva  insegnato  come  convien  variare  coi 
tempi,  e  oltracciò  vedeva  i  Fiorentini  aver  sì  grosso  animo  contro  la 
signoria  pallesca,  tra  per  seguire  le  proprie  massime,  e,  diremo  an- 
cora, per  paura,  voleva  spegnere  quel  libro.  V  ha  chi  aft'erma,  aver 
egli  due  volle  congiuralo  contro  i  Medici,  ma  parecchi  pur  v'hanno 
che  affermano  il  contrario;  ed  io,  per  la  verità,  pensando,  come  non 
se  n'  ebbero  che  dei  sospetti ,  e  quali  massime  egli  abbia  manifestale 
nei  Discorsi  in  proposilo  dell'accomodarsi  ai  tempi  e  dell'esser  con- 
tenli  a  vivere  sotto  quell'imperio  che  dalla  sorte  ci  è  slato  preposto, 
credo,  che  se  Machiavelli  ne  fu  sospettato,  in  realtà  non  congiurasse 
giammai.  Quanto  egli  dice  nel  capitolo  delle  congiure,  dichiara  evi- 
dentemente per  qual  motivo  lo  scrivesse,  e  che  ne  pensasse. 

Stimano  certi  altri  che  il  Segretario  abbia  tallo  della  politica 
un'arte  di  frodi  e  di  perfidie,  perchè  fondò  le  sue  esperienze  e  i 
suoi  precetti  sulla  condotta  dei  piccoli  principi  italiani  del  secolo  XV, 
i  quali,  sprovvisti  di  milizie  e  di  finanze  in  «n  dominio  angusto, 
aveano  d'  uopo  di  ricorrere  all'  astuzia  ed  al  tradimento  per  mante- 
nersi in  islalo.  Ma  nel  libro  del  Principe,  segnatamente  nel  capi- 
tolo XVIllj  in  cui  parla  dell'  osservar  la  fede,  non  propone  egli  ad 
esempio  Ferdinando  il  Cattolico,  che  pur  non  era  sovrano  di  angu- 
sto dominio?  L' errore  è  manifest»  ;  ma  più  strano  ancora  mi  sembra 
quello  àèW  Antimachiavello ,  il  quale,  sia  che  fosse  scritto  da  Fede- 
rigo il  Grande  o  dà  Voltaire,  non  è  degno  al  certo  né  del  vincitore 
di  Rosbach  né  dell'  autor  di  Zaira  :  vi  si  vorrebbe  fare  di  Machia- 
velli un  filosofo  del  secolo  XVllI,  con  quella  mistura  di  astrattezze 
filantropiche  e  di  irreligione  che  ne  era  il  distintivo  carattere.  A  fine 
di  apprezzar  rettamente  la  condotta  d'  un  uomo  antico,  è  necessario 
guardarsi  da  codesta  via  storta  e  fallace.  Colle  idee,  colle  massime 
dell'età  presente  si  giudicarono  uomini  e  popoli,  che,  sotto  l'in- 
fluenza di  età  e  di  circostanze  diversissime,  dovevano  naturalmente 
avere  altre  massime  ed  altre  idee.  Perciò  Gregorio  VII,  il  quale  in 
secoli  d'oppressione,  di  scandalo  e  di  anarchia,  si  delle  con  forle 
animo  ad  accrescere  V  autorità  pontificia,  non  per  altro  che  per  pò- 


X  CONSIDERAZIONI 

ter  quindi  senza  alcun  ostacolo  rifornnare  ia  disciplina  ecclesiaslica 
già  tanto  degenerala,  sembrò  un  ambizioso  a  chi  lo  considerava  corno 
un  papa  dell'  età  nostra.  Si  suppose  un  line  politico  dove  altro  non 
si  dovea  scorgere  che  un  Gne  religioso,  richiesto  dalle  necessità  di 
tempi  duri  e  scorretti.  Per  ciò  stesso  in  un  altro  stato  di  cose,  agli 
occhi  di  simili  giudici  Machiavelli  è  uno  scellerato,  un  mostro  d'ini- 
quità. Ma  chi  sappia  trasportarsi  col  pensiero  nel  tempo  in  c\iì  visse, 
lo  trova  un  politico  quale  lo  portava  l'età,  non  peggiore  né  mi- 
gliore di  quella  ;  un  profondo  conoscitore  dei  disordini  che  vi  domi- 
navano ;  il  quale  adattò  i  suoi  consigli  a  circostanze  che  certamente 
egli  non  avea  fatte  nascere  né  consigliale,  anzi  in  più  luoghi  le  con- 
danna e  deplora.  Viveva  in  un  secolo  dei  più  corrotti  e  dei  più  ab- 
bondanti di  esempi  di  slealtà,  di  bassezza  e  di  scelleraggine.  L'ini- 
micizia politica  era  un  odio  individuale  ;  nessun  politico  di  que'tempi 
facevasi  coscienza  d'una  violazione  di  fede  che  gli  fosse  per  esser 
giovevole.  Gli  uomini  grandi  chiamavano  vergogna  il  perdere,  non 
l'acquistar  con  inganno;  il  tenersi  in  fede  col  suo  avversario  sarebbe 
parso  un  atto  di  debolezza,  quando  potea  tornare  in  acconcio  il  di- 
venire spergiuro";  ed  in  cambio  di  compiangere  un  principe  il  quale 
per  soverchia  fiducia  avesse  perduto  il  trono  e  la  vita,  si  derideva 
Lì  sua  dappocaggine.  In  siffatti  tempi  il  politico  non  dava  consigli  so- 
pra cose  da  farsi,  ma  sopra  cose  fatte ,  che  non  lasciavano  all'  ambi- 
zioso altra  facoltà  che  quella  di  scegliere  fra  due  tristi  partiti.  Che 
altro  fecero  Ferdinando  il  Cattolico  e  Luigi  XI  ?  Che  altro  consigliò 
il  Segretario  fìorenlino  ?  Egli  pertanto  non  era  né  un  ipocrita,  né 
uno  scellerato  ;  era  un  politico  del  Quattrocento,  che  volle  far  la  pit- 
tura del  suo  secolo,  pieno  di  atroci  e  cupi  tiranni  e  di  pubblici  mis- 
fatti ,  il  quale  non  reputossi  offeso  da  un  libro  che  lo  ritraeva  al  na- 
turale ;  un  politico,  che  sarebbesi  assai  maravigliato  che  altri  si 
maravigliasse  della  sua  condotta.  «  //  mondo  che  ne  circonda^  dice 
Bentham,  e  quello  la  cui  opinione  ci  serve  di  regola  e  di  principio:  » 
né  la  virtù  eroica,  che  sa  sollevarsi  sulle  abitudini  del  suo  tempo, 
poteva  esser  propria  d'  un  politico  di  quel  secolo. 

l'er  altra  parto ,  osservando  -come  tra  mezzo  a  codesti  precetti 
Machiavelli  consigli  altresì  al  suo  principe  ora  di  avere  armi  nazio- 
nali anziché  straniere,  ora  di  assicurare  e  promuovere  l' agricoltura, 
il  commercio  e  l' industria,  d'onorare  gli  uomini  eccellenti  in  cia- 
scun'arte,  e  di  dare  esempio  d'umanilà  e  di  munificenza,  ora  la 
parsimonia  a  fine  di  scemare  i  publici  aggravii,  ora  l' equità  di  que- 
sti, e  come  disapprovi  in  ogni  caso  le  confiscazioni  e  il  tener  divise 
in  parli  le  terre  soggette  ;  sono  indotto  a  credere  ch'egli  veramente 
non  mirasse  ad  istruire  un  tiranno ,  quale  ce  lo  rappresenia  Arislo- 


SUL   LIBRO   DEL   PRINCIPE.  XI 

Iole.  *  Che  anzi  alcuni  avvertimenti  del  capitolo  14  sembrarono  al- 
l'Artaud  così  morali  e  salutari,  che  non  dubitò  di  pareggiarli  a  quelli 
di  Bossuet  e  di  Fénélon.  Ben  mi  accorgo  che  qui  taluno  dirà,  essere 
però  egoista  il  principe  di  Machiavelli ,  e  consigliarglisi  le  sopra- 
scritte cose  perchè,  risultando  ogni  di  lui  forza  dal  popolo,  il  suo 
maggiore  interesse  richiede  che  quello  sia  prospero ,  numeroso ,  for- 
midabile ;  ma  per  me  rispondono  Aristotele  e  Rousseau.  1  tiranni 
sanno  bene,  essi  dicono,  come  il  loro  interesse  personale  ricerca  in- 
vece che  il  popolo  sia  debole  e  miserabile,  sicché  non  possa  mai  loro 
resistere.  Certo,  supponendosi  i  sudditi  sempre  perfettamente  som- 
messi, l'interesse  di  quelli  richiederebbe  in  tal  caso,  che  il  popolo 
fosse  polente,  acciò,  essendo  codesta  potenza  la  loro  propria,  li 
rendesse  formidabili  allo  straniero;  ma,  soggiungono,  siccome  que- 
sto interesse  non  è  che  subordinalo,  e  i  due  supposti  sono  incompa- 
tibili ,  è  naturai  cosa  che  i  tiranni  diano  sempre  la  preferenza  a 
quella  massima  che  riesce  loro  immediatamente  utile.  Ora  un  prin- 
cipe il  quale,  seguendo  i  consigli  di  Machiavelli,  preferisca  le  armi 
nazionali  alle  straniere,  e  venga  con  ciò  a  manifestare  una  nobile 
confidenza  nei  propri  sudditi  ;  un  principe  che,  secondo  quei  consi- 
gli, onori  gli  uomini  eccellenti,  rimuova  dai  cittadini  le  discordie, 
ne  incoraggi  l'industria,  ne  moderi  e  distribuisca  equamente  le  im- 
poste, si  astenga  dall' applicarne  le  sostanze  al  fisco,  e  si  dimostri 
umano  e  liberale,  tutto  il  contrario  insomma  di  ciò  che  dicono  i  due 
ricordati  scrittori  ;  codesto  principe,  anziché  procurare  la  povertà,  la 
reciproca  diffidenza,  la  debolezza  e  l'avvilimento  del  popolo,  ne  pro- 
cura la  ricchezza,  la  concordia  e  la  potenza.  Non  tanto  che  un  sif- 
fatto principe  sia  un  tiranno,  egli  è  co' suoi  sudditi  un  buon  mo- 
narca, il  quale  ne  promuove  la  prosperità.  Se  poi,  operando  in  que- 
sta guisa,  il  principe  identifica  i  suoi  interessi  con  quelli  dei  cittadini, 
egli  viene  a  fare  ciò  che  consiglia  la  vera  politica,  consistendo  ap- 
punto in  quella  identità  l'unità  dello  Stato,  onde  nasce  per  virtù  di 
tante  forze  associate  una  immensa  forza.  Come  dunque  si  può  affer- 
mare che  Machiavelli  istruisca  un  tiranno  ? 

Ma  d'altra  parte,  in  parecchie  cose  il  principe  machiavellico  sente 
eziandio  del  tiranno.  Laonde,  se  già  non  si  voglia  supporre  che  il 
Segretario  cadesse  in  una  mostruosa  contraddizione  con  sé  mede- 
simo,^ convien  pensare  che  i  suoi  terribili  artificii  si  riferissero  a 

^  Questa  è  pure  l'opinione  di  qualcuno.  Vedi  la  delta  Prefazione  alle  Opere 
di  Niccolò  Machiavelli  nell'  edizione  d' Italia  i819. 

^  Quest'  apparente  contraddizione  fu  sempre  avvertita  dall' Artaud  (Machia- 
yd,  son  genie  et  ses  crrcnrs);  ma  egli  non  volle  scioglierne  il  problema.  L'au- 
tore d'  un  articolo  critico  della  lìevuc  de  Paris  credette  liovarnc  la  soluziouc 


Xn  CONSIDERAZIOrHI 

singolari  circostanze  e  ad  uno  stato  particolare  «li  persone,  piulto- 
slocbè  air  universale  :  a  dimostrare  la  qual  cosa  ho  io  inoltre  più 
d'  una  prova.  Era  quello  il  tempo,  che  tra  mezzo  alle  fazioni  del  po- 
polo e  della  nobiltà  erano  sorte  in  Italia,  dove  piccole  dove  grandi 
signorie,  quali  pel  favor  popolare,  quali  per  quello  dei  nobili  o  dei 
papi  0  dei  Cesari,  quali  per  l'effetto  d'una  usurpazione.  Così  sorsero 
infatti  gli  Estensi,  i  Visconti,  i  Medici,  gli  Scaligeri,  i  Gonzaga,  ed 
altrettali  potenti  famiglie.  La  generale  debolezza  ed  i  continui  sub- 
bugli dei  municipii  resero  necessaria  la  prevalenza  di  esse  :  le  quali 
però,  non  tanto  cbe  fossero  sicure  nei  dominii  loro,  avevano  a  lot- 
tare continuamente  ora  con  una  licenziosa  e  matta  plebe,  ora  con  al- 
tre signorie  che  tentavano  di  soverchiarle,  ora  coi  nobili  castellani  o 
popolani:  ma,  generalmente  parlando,  perciocché  riesce  assai  più 
facile  il  soddisfare  chi  non  vuol  essere  oppresso  che  chi  vuole  oppri- 
mere, erano  favorevoli  al  popolo  anziché  ai  grandi;  e  quand'anche 
non  fossero  sórte  col  favore  di  quello,  ne  pigliavano  facilmente  e  po- 
liticamente la  protezione,  come  pure  osservò  il  Segretario.  Tiranni- 
che furono  la  più  parte,  ma  sotto  la  loro  tirannia  il  popolo  trovava 
quasi  dappertutto  sicurezza  e  quiete,  e  un  polente  ostacolo  la  super- 
bia dei  grandi.  Le  memorie  di  quel  tempo  ce  ne  danno  parecchie 
prove,  le  quali  ricevono  maggior  conferma  dall'essere  state  quasi 
tutte  aristocratiche  le  congiure  contro  i  signori.  In  questa  età  di  pas- 
saggio dallo  scompartimento  dei  poteri  all'unità  monarchica,  olà  de- 
plorabile, come  furono  esaran  sempre  lutti  i  tempi  transitivi  da  uno 
stato  sociale  all'altro,  principali  fini  della  politica  erano  deprimere  i 
baroni,  i  grandi,  i  signorotti,  sollevare  i  cittadini,  nel  quali  per  la 
detta  ragione  poteasi  avere  maggior  Oducia,  ed  introdurre,  per 
quanto  lo  concedevano  le  circostanze,  una  centralità  di  poteri,  pre- 
cipuo elemento  della  forza  politica,  dell'ordine  pubblico  e  della  pace 
comune.  Pei  quali  due  rispetti  la  condotta  dei  principi  italiani  d'al- 
lora non  differiva  da  quella  di  Luigi  XI,  di  Ferdinando  il  Cattolico, 
di  Arrigo  VII;  più  che  ogni  altro  gli  somigliava  Cesare  Borgia,  il  tipo 
di  Machiavelli,  e  Egli  uvea  racconcia  la  Romagna ^  unitala  e  ridonala 
in  pace  e  in  fede  ;  e  il  popolo  divenne  affaionato  alla  sua  potema, 

ncll' inilolc  vertatile  Hi  Machiavelli,  ligia  ai  vari  potenti  per  Tjvrriic  denaro 
ed  iinpicglii.  Ma,  concesso  ancora  ch'ei  fosse  di  tal  natura ,  ciò  spicghcrcl»l)e 
le  conlraddizioni  fra  i  principii  d'opere  diverse,  non  fra  quelli  d' un'opera 
istessa.  Oltre  di  che ,  già  vedemmo  che  -nelle  diverse  opere  non  cangiò  prin- 
cipii, anzi  nei  Discorsi  citò  due  volte  il  libro  del  Principe;  il  che  non  avreblie 
fatto,  te  avesse  voluto  esser  piaggialor  del  potere ,  e  non  altro.  Gli  adulatori 
sogliono  rinnegare  se  stessi  col  variare  delle  circostanze  ;  ma  il  Segretario  pro- 
cedette altrimenti:  onde  convicn  riferire 'ad  altra  fonte  originaria  le  sue  ap- 
parenti contraddizioni. 


SUL   LIBRO   DEL   PRINCIPE.  XIII 

e  coli  fidente  di  quella,  »  dice  il  Segretario  .<  E  il  Romagnosi  2  afferma 
«  che  il  passare  sotto  il  duca  Valentino  fu  per  molte  città  un  vero 
guadagno,  e  solo  per  certe  case  potenti  uno  sterminio.  »  Vero  è  clie 
parecchi  dei  potenti  ch'egli  sterminò,  non  erano  feudatari  simili 
in  tutto  a  quelli  di  Francia  ;  erano  signori  assoluti  di  feudi  della 
Santa  Sede ,  e  quindi  più  facili  ad  esserne  spodestati  :  ma  e  i  lini  e  il 
bisogno  sociale  ne  erano  uguali. 

Senonchè  l'autore  d'un  celebre  articolo  intitolato  :  Machiavelli 
ed  il  suo  secolo,  impresso,  or  fanno  in  circa  dieci  anni,  nella  Rivi- 
sta d' Edimburgo  ,^  ne  ragiona  in  maniera  assai  diversa;  Osserva  egli 
che,  dove  negli  altri  paesi  europei  una  classe  numerosa  e  potente 
conculcava  il  popolo,  e  contrabbilanciava  il  poter  del  governo;  in 
Italia,  attese  le  franchigie  municipali  concesse  già  dai  Romani,  man- 
tenute per  la  debolezza  dei  governi  stranieri  che  vi  si  avvicendarono, 
confermale  da  Ottone  imperatore,  favorite  ed  accresciute  dalle  lun- 
ghe discordie  fra  l' impero  e  il  sacerdozio ,  e  vittoriose  pei  soccorsi 
dei  papi  e  della  parte  guelfa,  l'influenza  dei  nobili  feudali  era  ben 
poca  cosa  :  i  quali,  eccetto  il  regno  di  Napoli  e  lo  Slato  della  Chiesa, 
aveano  terminato  col  confondersi  a  poco  a  poco  insieme  col  popolo; 
e  se  in  alcune  parli  conservavano  un  potere,  già  non  erano  piccioli 
sovrani,  ma  grandi  cittadini,  che,  invece  di  agguerrire  i  castelli  sulle 
montagne,  rabbellivano  i  palazzi  sulla  publica  piazza:  segnatamente 
la  Lombardia  e  la  Toscana,  attraverso  a  tulli  i  loro  rivolgimenti, 
avevano  conservato  un  tale  carattere.  Talché,  mentre  gli  annali  della 
Francia  e  dell'  Inghilterra  non  offrivano  che  scene  di  barbarie,  d'igno- 
ranza e  di  miserie,  il  commercio,  le  scienze  e  le  arti,  insomma  lutto 
ciò  che  contribuisce  agli  agi  ed  ai  piaceri  della  vita  sociale,  ricom- 
parve allora  in  Italia,  e  vi  fece  luminosi  progressi.  Ma,  com'egli  poi 
soggiunge,  una  decrepitezza  affrettala  fu  il  risultamento  d'una  ma- 
turila troppo  primaticcia  :  le  sedentarie  abitudini  mercantili,  che  ri- 
chieggono un  intervento  continuo,  resero  insopportabili  le  fatiche 
della  guerra;  quindi  l'uso  d'arrolare  soldati  mercenari  divenne  ge- 
nerale in  Italia  quando  era  ancora  sconosciuto  nelle  altre  contrade. 
Diche  procedellero  parecchie  conseguenze  :  l'una,  che  combattendo 
fra  loro  mercenari  con  mercenari,  i  quali  non  aveano  ne  interessi  né 
sentimenii  opposti,  anzi  uniformi  per  la  comune  professione,  si  guer- 
reggiava quasi  senza  far  sangue;  la  seconda,  che,  a  differenza  degli 
altri  popoli,  fra  cui,  come  beljicosi  che  erano,  faceasi  indispensa- 

'  Nel  cap.  17  del  Principe. 
'  Dell'  indole  e  elei  fattori  dell'  incivilimento. 

3  Ne  fu  slampata  una  traduzione  ntW  Indicatore  Lombardo  all'anno  1830. 
L'nulore  è  Macauley. 


XIV  CONSIDERAZIOM 

bile  il  valore,  presso  gl'Italiani  questo  avea  cessato  d'appartenere 
al  numero  delle  virtù,  come  avvenne  in  Grecia  al  tempo  dei  Romani; 
onde  le  terre  loro  rimasero  senza  difesa  contro  i  Francesi,  gli  Sviz- 
zeri e  gli  Aragonesi  ;  la  terza,  clie  perciò  appunto  si  originarono  fra 
le  nazioni  due  moralità  diversissime:  nella  maggior  parte  d'  Europa, 
un'  indole  violenta  ed  altera  che  aveva  in  discredito  la  frode  e  l'ipo- 
crisia ;  in  Italia,  la  dissimulazione,  l'inganno,  le  vie  coperte,  le  cru- 
deltà provocate  da  fredde  e  profonde  meditazioni,  avute  in  onore  "non 
meno  che  l' elevatezza  dell'  ingegno ,  V  amor  di  patria ,  ed  un  ragio- 
nalo coraggio.  Pertanto,  egli  conchiude,  Machiavelli  in  altro  non 
peccò  che  nell'avere  adottate  alcune  massime,  allora  generalmente 
abbracciate,  e  nell'averle  esposte  con  maggior  forza  e  in  un  ordine 
più  luminoso  che  non  abbian  fatto  gli  altri  scrittori  dell'età  sua. 

Tale  a  un  dipresso  è  il  costrutto  di  quel  ragionamento;  il  quale, 
se  fosse  vero  in  tutto,  porrebbe  ad  ogni  modo  tra  la  malvagità  di 
Machiavelli  e  quella  de' suoi  contemporanei  il  divario  che  è  da  chi  la 
metta  in  atto  a  chi  abbia  l'impudenza  d' insegnarla  pubblicamente  e 
metodicamente.  Ma  in  quelle  considerazioni ,  peraltro  assai  dotte  ed 
ingegnose,  io  trovo  una  mescolanza  di  vero  e  di  falso.  L' Italia,  nel- 
l'epoca di  cui  parliamo,  era  ben  lontana  dall' offrire  agli  sguardi  nel 
politico  un  solo  stato  di  cose.  Da  un  lato  l'aristocrazia  ereditaria, 
dall'  altro  la  democrazia  ;  qui  un  principato  ereditario  ,  là  un  princi- 
pato elettivo;  dove  una  feudalità  con  una  signoria  assoluta,  dove  un 
reggimento  feudale  simile  a  quelli  di  Francia  e  di  Spagna:  tali  erano 
le  diverse  condizioni  politiche  in  cui  trovavasi.  E,  ciò  che  riusciva 
ancor  più  singolare,  diverse  erano  le  sorti  delle  forme  istcsso di  go- 
verno nei  diversi  paesi  ;  perocché  l'aristocrazia  ereditaria,  che  face» 
prosperare  Venezia ,  teneva  in  continui  tumulti  Genova  ;  e  mentre 
Milano  sotto  gli  Sforza  fioriva  di  belle  arti,  di  lettere,  di  popolazione 
e  di  ricchezza,  parecchie  città  della  Romagna  languivano  nella  mise- 
ria sotto  i  principi  che  vi  d(»minavano.  Per  conseguenza,  il  ridurre 
tutta  r  Italia  in  un  solo  dominio  era  al  certo  una  delle  più  malagevoli 
imprese  che  mai  potessero  venire  nelle  menti  dei  politici;  e,  se  es- 
ser poteva,  ciò  non  avrebbe  potuto  effettuarsi  che  da  un  principe  il 
quale,  divenuto  signoi^  d'uno  Slato  esteso  e  potente,  avesse  prima 
compressi  i  nemici  interni,  incusso  un  durevol  timore  negli  esterni, 
e  quindi  prendesse  le  mosse  alla  della  impresa.  Che  Machiavelli  ab^ 
bia  avuto  in  animo  d' indurvi  il  suo  principe,  non  è  da  dubitare) 
conforme  si  raccoglie  dall'  ultimo  capitolo  del  libro  che  esaminiamoli 
ma  perchè  il  disegno  sortisse  il  bramato  effetto  e  non  fosse  solo  un^ 
desiderio,  conveniva  ch'egli  ne  preparasse  i  fondamenti.  Or  quale] 
era  lo  Stato  che  a  tal  line  doveva,  secondo  lui,  essere  occupalo  e  ri* 


SUL    LIBRO    DEL   PniNClPE.  XV 

formato  dal  suo  principe?  I  suoi  pruiagonislì  ce  lo  dimostrano:  quello 
di  cui  erasi  insignorito  e  a  cui  aspirava  Cesare  Borgia,  quello  che  pos- 
sedeva e  che  agognava  Lorenzo  de' Medici,  li  primo  ,  in  compagnia 
di  papa  Alessandro,  dominava  la  Romagna,  Terra  di  Roma,  una 
parte  della  Toscana,  e  la  voleva  tutta;  il  secondo,  appoggiandosi 
alla  potenza  di  Leone  X,  occupava  Urbino,  Firenze  ed  altre  città,  ed 
il  papa  suo  zio  già  coloriva  i  suoi  vasti  disegni  d'impadronirsi  di 
tulli  i  feudi  pontifìcii  ed  anche  del  regno  di  Napoli,  come  abbiamo  da 
Guicciardini.  Pertanto  il  primo  fondamento,  e  quindi  il  teatro  della 
politica  machiavellica,  erano  la  Romagna,  lo  Stato  Ecclesiastico,  il 
regno  di  Napoli  e  la  Toscana.  La  grandezza  dei  Borgia  e  poi  quella 
dei  Medici  formavano  la  regola,  il  tipo  de' suoi  pensieri;  secondo 
che  dimostrano  e  il  contesto  del  Libro  del  Principe,  e  la  stessa  na- 
tura di  quell'intelletto,  grande  bensì,  ma  più  fatto  per  osservazioni 
pratiche  che  non  per  astratte  teorie.  Voleva  innanzi  tutto  assicurare 
al  suo  regio  allievo  un  vasto  dominio  in  Italia;  voleva  che  quegli  con 
armi  proprie,  non  mercenarie,  non  ausiliarie,  non  miste,  si  creasse 
al  pari  del  Valentino  una  potenza  propria  ;  voleva  che  contro  gli 
esterni  e  gli  interni  ostacoli  al  pari  del  Valentino  procedesse,  cioè 
con  astuzia  coi  potenti,  con  severa  giustizia  coi  deboli,  e  quindi  ad 
ultimo  pensasse  alla  grande  impresa. 

Quali  avessero  ad  esserne  gli  ostacoli  esterni,  e  qual  politica 
l'osse  costretto  a  seguir  l'ambizioso  con  essi,  il  vedemmo  nel  parlare 
di  quella  perfida  età.  Quanto  poi  agli  interni ,  pur  troppo  il  novello 
Stato,  che  occuparono  o  agognarono  quei  principi  e  quei  papi,  ab- 
bondava d'una  condizione  di  gente  che  conculcava  il  popolo  e  con- 
trabbilanciava il  poter  del  governo;  e  se  in  alcune  parti  la  nobiltà 
era  s'caduta  dell'antico  grado,  già  non  ne  veniva  che  fosse  confusa 
insieme  col  popolo  e  divenuta  una  nobiltà  cittadina.  Giusta  le  parole 
istesse  di  Machiavelli:*  a  Gentiluomini  sono  chiamali  quelli,  che 
oziosi  vivono  dei  proventi  delle  loro  possessioni  abbondantemente,  senui 
avere  alcuna  cura  o  di  coltivare  o  d'  alcun'  altra  necessaria  fatica  a 
vivere.  Questi  tali  sono  perniziosi  in  ogni  provincia;  ma  più  perni- 
ìtiosi  sono  quelli  che,  oltre  alle  predelle  fortune,  comandano  a  ca- 
stelli  ed  hanno  sudditi  che  ubbidiscono  loro.  Di  queste  due  sorta  d'uà- 
mini  ne  sono  pieni  il  regno  di  Napoli,  Terra  di  Roma,  la  Romagna  e 
In  Lombardia  :  tali  generaùoni  d'  uomini  sono  nemiche  d' ogni  ci- 
vili à,  per  l'eccessiva  loro  ambizione  e  corruttela,  che  le  leggi  non 
bastano  a  frenare.  »  E  in  altro  luogo  egli  cosi  ragiona  :  3  «  La  Romn- 
gna,  innanù  che  in  quella  fossero  spenti  da  papa  Alessandro  VI  quei 

*  Nel  lil).  I ,  cap.  55,  dei  Discorsi, 

*  Nel  lib,  111,  ciji.  29,  dei  jDiicorù' 

b 


XVI  CONSIDERAZIOM 

signori  che  la  comandavano,  era  un  esempio  d'ogni  scelleratissima 
vita ,  perchè  quivi  si  vedeva  per  og^ii  leggiera  cagione  seguire  ucci- 
sioni e  rapine  grandissime.  Il  che  nasceva  dalla  tristiiia  di  que' prin- 
cipi, non  dalla  natura  trista  degli  uomini ,  come  loro  dicevano;  per- 
chè, sendo  que' principi  poveri  e  volendo  vivere  da  ricchi,  erano 
fonati  volgersi  a  molte  rapine,  e  quelle  per  vari  modi  usare  :  e ,  tra 
le  altre  disoneste  vie  che  tenevano  ,  facevano  leggi  e  proibivano  alcuna 
aiione;  dipoi  erano  i  primi  che  davano  cagione  della  inosservama  di 
esse,  né  mai  punivano  gli  inosservanti,  se  non  poi  quando  vedevano 
essere  incorsi  assai  in  simile  pregiudicio;  ed  allora  si  voltavano  alla 
puniiione,  non  per  telo  della  legge  fatta,  ma  per  cupidità  di  riscuo- 
tere la  pena.  Donde  nascevano  molti  inconvenienti,  e  soprattutto  que- 
sto, che  ipopoli  si  impoverivano  e  non  si  correggevano  ;  e  quelli  che 
erano  impoveriti  «'  ingegnavano  contro  i  meno  polenti  di  loro  preva- 
lersi. »  €  /  feudatari  ed  i  piccoli  principi  della  Romagna ,  dice  Ro- 
scoe,  laceravano  da  lungo  tempo  la  Stato  della  Chiesa  ;  sostenevansi 
colle  rapine,  ed  erano  il  terrore  di  tutta  l'Italia.  Le  discordie  e  le 
contese  che  segnalarono  quest'epoca,  panno  essere  paragonate  ai  com- 
battimenti delle  bestie  feroci,  in  cui  r animale  più  furioso  e  più  forte 
distrugge  tutti  gli  altri.  »  Il  quale  sialo  di  cuse,  eccello  forse  la  si- 
gnoria assolula  d'alcuni  feudaiari,  non  era  dissimile  da  quello  in  cui 
trovavansi  la  Francia  e  la  Spagna  per  cagione  della  fenda liià  :  ma 
danni  ancor  maggiori  apporlava  e  al  governo  ed  al  popoli  la  nobiltà 
feudale  della  Terra  di  Kuma.  I  Colonna  e  gli  Orsini  coi  numerosi 
aderenti  loro,*  polenli  pei  molli  feudi  e  caslelli,  potenti  altresì,  per- 
chè, condoUieri  di  ventura  com'erano,  disponevano  d'una  (]uanlità 
di  milizie,  e,  come  dice  il  Segretario,  avevano  in  mano  tutte  le  armi 
d' Italia  ,  quanto  solleciti  deirnffezione  de'  soldati,  tanto  infesti  alle 
campagne,  ai  villaggi  ed  a  chi  vi  abitava,  raro  era  che  per  1*  cITeilo 
di  continue  guerre  civili  e  della  militare  licenza  non  gli  mettessero  a 
ruba,  e  non  vi  recassero  la  morte  e  la  distruzione  ;  sicché  tra  per 
questo  motivo,  e  pel  continuo  timore  delle  misere  popolazioni,  le 
terre  o  venivano  abbandonate,  o  rimanevano  pressoché  incolte,  o 
diventavano  un  deserto  pieno  di  paludi  pestilenziali.  *  Colali  effetti 
partorivano  le  fazioni  e  la  prepotenza  di  quei  castellani ,  peggiori  ai 
certo  di  quanti  oe  avesse  qualunque  altro  paese  d'  Europa.  Vero  è, 
che  dessi  e  i  signori  della  Romagna  dai  Borgia  e  da  Giulio  li  rice- 
vettero una  terribile  scossa,  onde  il  governo  papale  cominciò  a  sa- 
lirne in  maggior  potenza  ;  ma  ne  andrebbe  assai  errato  chi  credesse 

*  I  Savclli ,  ì  Conti ,  i  Santacroce ,  ec. 

8  Vcggasi  Sisinondi ,  Storia  delle  Repubbliche  Italiane  del  medio  evo, 
tomo  13. 


k 


SUL   LIBRO   DEL   PRLXCIPE.  XVII 

che  quindi  le  loro  violenze  cessassero.  In  Perugia,  in  Urbino,  in 
Fermo,  in  tutta  la  Marca  d'Ancona  e  nei  dintorni,  continuò  la  loro 
tirannia  ai  tempi  di  Leone,  il  quale  talora  si  vide  costretto  ad  usare 
contro  di  essi  le  arti  machiavelliche.^  Nella  Terra  di  Roma,  sotto  il 
medesimo  pontefice  e  sotto  Clemente,  erano  ancora  potenti  e  non  di 
rado  infesti  gli  Orsini  e  i  Colonna ,  la  cui  grandezza,  come  c'informa 
Guicciardini,  a  fu  sempre  depressione  ed  inquietudine  dei  pontefici.  » 
E  convien  dire  infatti  che  i  piccioli  tiranni  e  i  feudatari  dessero  tut- 
tavia assai  che  fare  alla  corte  pontificia,  perchè  un  trattalo  fra  Leone 
e  il  redi  Francia,  giusta  il  predetto  istorico,  conteneva  la  capitola- 
zione, che  il  re  dovesse  aiutarlo  contro  ai  sudditi  ed  ai  feudatari 
della  Sedia  Apostolica  :  «  condizione  appartenente  allo  stabilimento 
delle  cose  possedute  dalla  Chiesa  :  »  soggiunge  il  medesimo  scrittore. 
Condottieri  di  fanti  e  di  cavalli,  non  meno  che  si  facessero  1  padri 
loro,  ne  imitavano  la  feroce  licenza:  che  anzi  anche  nelle  età  poste- 
riori codesti  feudatari  non  si  rimisero  delle  iniquità  loro,  ricoverando 
nelle  proprie  terre  i  banditi,  proteggendo  le  bande  dei  masnadieri, 
e  talor  anco  ponendosene  alla  testa  ;  sicché  a  stento  riuscì  a  stre- 
marne, non  a  distruggerne  il  mal  seme,  la  fiera  giustizia  di  Sisto  V. 
Insomma  ne  Lorenzo  de' Medici,  il  principe  di  Machiavelli,  avrebbe 
regnato  in  Romagna,  ne  papa  Leone  avrebbe  potuto  sostenerlo,  se 
non  si  distruggeva  codesta  corrotta  e  perniciosa  razza,  nemica  d'ogni 
civiltà,  e  ch'era  l'effettiva  peste,  non  che  dello  Stato  Ecclesiastico, 
di  tutta  l'Italia,  come  anche  disse  a  Machiavelli  il  duca  Valentino. 
L' autore  dell'  articolo  dice  bensì  che  lo  Stato  della  Chiesa  si  acco- 
stava a  quello  delle  grandi  monarchie  d'Europa;  ma  non  ne  osserva 
tutti  gli  effetti,  nò  tampoco  avverte  che  codesti  feudatari  della 
Santa  Sede  erano  appunto  quelli  con  cui  ebbe  che  fare  il  duca  pre- 
detto, che  il  Segretario  propone  per  esempio  al  suo  principe.  II  tipo 
da  lui  trascelto,  ch'egli  non  dubita  mai  d'allegare,  e  della  cui  ca- 
duta spesse  volte  si  duole,  mi  pare  che  ci  possa  dare  a  divedere  dove 
avesse  la  mira,  e  di  che  tenore  fosse  quella  politica  che  su  tal  mo- 
dello aveva  formata.  Molto  aveva  fatto  Cesare  Borgia  ;  ma  restava 
ancor  mollo  da  fare  a  Lorenzo,  se  pur  voleva  eseguire  il  gran  dise- 
gno a  cui  Machiavelli  lo  esorlava  :  senza  di  ciò  il  suo  principato  sa- 
rebbe slato  sempre  da  meno  e  degli  interni  ostacoli  e  degli  esterni. 
La  feudalità  napoletana  non  differiva,  come  anche  dice  l'autor 
dell'articolo,  dalla  francese  e  spdgnuola  :  e,  per  ciò  che  si  riferisce 
alla  Toscana,  vero  è  che  i  nobili  vivevano  nelle  città,  ma  non  per 
questo  erano  confusi  insieme  col  popolo.  Perchè  fossero  una  no- 
billà  cittadina,  sarebbe  sialo  mestieri  che  ed  i  nobili  ed  il  popolo 

i  Si  veda  il  Muratori  negli  annali  d' Italia. 


XVIII  CONSIDERAZIONI 

avessero  nvuto  nella  cosiiiuzioiie  dello  Slato  un  comune  ordinamen- 
to. In  tal  caso  vi  sì  avrebbe  potuto  aprire  una  libera  concorrenza 
alle  cariche,  conforme  faceasi  nell'antica  Roma  ;  e  le  slesse  dissen- 
sioni fra  i  nobili  e  la  plebe  sarebbero  slate  un  utile  conlrapponi- 
mento,  una  guarentigia,  un  principio  a  migliori  leggi,  a  più  sal<li 
ordini  politici,  come  anche  osservò  Machiavelli.'  Ma  l'origine  dello 
due  condizioni  di  gente  era  nelle  repubbliche  italiane  assai  diversa. 
La  conquista  aveva  originala  la  nobiltà  feudale,  posseditrice  delle 
terre,  e  di  cui  era  tanto  grande  la  potenza,  che,  come  ci  informa  il 
Segretario,  gli  ordini  e  i  modi  civili  a  frenarla  non  bastavano;  2  dal 
traffico  e  dall'industria  riconoscevano  la  loro  maggioranza  i  popolani: 
rappresentavan  quelli  la  proprietà  rurale,  queslì  le  manifatture  ed  il 
commercio:  e  se  le  antiche  famiglie  fiorentine  furono  poi  coslrellc 
ad  abbandonare  i  propri  castelli,  ed  esercitarono  anch'esse  la  mer- 
catura; e  se ,  spente  in  decorso  di  tempo  o  cacciate  o  represse  que- 
ste, le  discordie  vi  sì  ridussero  tra  popolo  e  plebe;  i  nobili  popolani, 
sorti  dalla  ricchezza  mercantile  e  dalle  occupate  magistrature,  si  det- 
tero ben  presto  ad  imitare  i  feudali  colie  condotte  de'  soldati,  colle 
molte  aderenze  e  coll'aiulo  d' esteri  signori  e  baroni.  II  fallo  loro  e 
non  la  legge  ren-^leali  potenti;  e,  per  usar  le  parole  di  Machiavelli,' 
«  ne  sorgevano  tali  difficollà,  che  la  Repubblica  non  paté  mai  riardi' 
narsi.  »  In  un'età  nella  quale  la  libertà  civile  era  ben  poca  cosa,  in 
municipii  che  governavansi  a  caso,  si  cercava  di  contrabbilanciare  le 
prerogative  baronesche  0  dei  popolani  grandi  con  quelle  dei  collegi 
delle  arti  ;  e  le  une  e  le  altre,  e  le  slesse  arti  fra  loro,  slavano  in  per- 
petua guerra,  o  sorda  0  aperta,  come  si  legge  nelle  Storie  fiorentine. 
Chi  bene  avverta  alle  repubbliche  italiane  di  allora,  piultostochè  unu 
stato  regolare,  legittimato  dalla  tranquilla  e  soddisfacente  convi- 
venza ,  erano  esse  un  risullamcnto  di  corpi  morali  che  a  privilegi  o 
concessi  o  usurpati  opponevano  altri  privilegi  di  egual  natura:  ma 
senza  l'unità  degli  interessi ,  delle  opere  e  dell' eHetlo  fmale,  come 
può  progredire  una  società?*  Il  desiderio  di  soverchiare  eccitava  I 
grandi;  eccitava  i  plebei  quello  di  non  essere  soverchiati.  In  Firenze 
«bbero  questi  piìi  volte  il  disopra;  ma,  siccome  non  moveali  l'amor 
della  pairia  e  delle  leggi,  bensì  l'odio  della  parie  avversa,  vollero 
poi  soverchiar^  anch'essi  :  quindi  gli  odii  coperti  e  le  reazioni,  e  Le 
riforme,  dice  il  Segretario,  '  furono  fatte  non  a  soddisfazione  del  ben 

«  Nel  lil».  I ,  cap.  4  e  6  ,  dei  Discorsi. 

8  Nel  lib.  Ili  delle  Storip  forentine. 

3  Nel  lil).  I ,  cap.  49  ,  dei  Discorsi. 

♦  Anche  il  celebre  Guizol  e  di  questo  parere  nelle  sue  Lccons  sur  la  Civi' 
fisation  europcenne,  all'ari.  Comninnes. 

*  Nel  Discorso  sulla  Bi/orma  di  Firenze. 


SUL  LIBRO   DEL   PRINCIPE.  XIX 

comune,  ma  a  corrohoraùone  e  sicurtà  della  parte;  la  quale  sicurtà 
non  si  è  anche  trovata,  per  esservi  sempre  stala  una  parte  malcon- 
tenta, la  quale  fu  un  gagliardissimo  istrurnento  a  chi  ha  desiderato 
variare.  »  Cercarono  i  Medici  d'acquietare  le  cose:  ma  che  può  un 
governo  di  clienlela ,  con  poche  anni,  colla  sola  autorilà  del  nome,  e 
perciò  debole,  contro  gP  interni  ed  esterni  assalti?  Dall' un  canto 
yvean  essi  a  temere  il  volubile  elemento  popolare,  istigalo  ed  aggi- 
ralo dai  nobili  e  dai  falsi  profeti;  dall'altro  l'ira  di  essi  nobili  che 
solo  taceva  quando  eron  deboli:  repressa  negli  Albizzi,  risorgeva  essa 
infalli  nei  F'azzi,  poi  faceva  negli  Strozzi  le  ultime  prove.  Si  fa  dun- 
(jiie  manifesto  che  nella  slessa  democratica  Firenze,  e  la  nobiltà  feu- 
dataria e  la  popolana  non  fu  jmai  confusa  insieme  col  popolo,  né  mai 
ciitadina  :  la  lotta,  che  allora  si  scorgeva  in  altre  parti  tra  i  feuda- 
tari, il  popolo  ed  i  principi,  palese  quivi  appariva  fra  i  polenti  popo- 
l;ini,  successi  ai  feudali,  la  plebe,  e  la  casa  Medici.  I  nomi  non  dif- 
ferenziano le  cose:  perpelue  discordie  vi  dominavano,  le  quali  erano 
I)rincipalmente  mantenute  da  quei  grandi,  nemici  d'una  famiglia  già 
loro  eguale ,  che  sosteneva  la  moltitudine,  ed  a  cui  per  conseguenza , 
come  scrive  Hallam,  «  non  venne  mai  meno  l'amor  della  plebe.  » 
«  Non  v'era  costituito  un  timore  agli  uomini  grandi  che  non  potes- 
sero far  sètte,  le  quali  sono  la  rovina  d' uno  Stato:  »  dice  Io  slesso 
Machiavelli,*  e  contrappone  al  governo  di  Firenze  quello  di  Venezia, 
che  teneva  gli  uomini  polenti  a  freno."  Aveasi  ancor  qui  bisogno 
d'una  mano  regia,  che  facesse  tacere  quelle  discordie  per  sempre; 
e  la  trovarono  i  Fiorentini  nel  granduca  Cosimo,  sostenuto  dall'in- 
fluenza spagnola.  Se  poi  codesta  influenza  riuscì  di  grave  pregiudi- 
zio all'Italia  e  vi  spense  ogni  virtù,  non  n'ebbero  colpa  i  principi! 
machiavellici,  i  quali  certo  non  miravano  a  costituirvi  un  principato 
spagnolo,  ma  bensì  uno  che  italiano  fosse.  In  somma,  nelle  sopra- 
scritte parti  d'Italia  erano  codesti  grandi  un  perpetuo  seme  di  dis- 
cordie, di  fazioni  e  di  pubblici  mali;  erano  una  e  forse  la  maggiore 
di  queWe  piaghe  infistulile  che  accenna  il  Segretario.  0  feudatari  che 
fossero,  o  signoroni,  o  per  altro  titolo  potenti,  tendevano  a  sover- 
chiare ei  principi  e  il  popolo,  ed  erano  naturali  nemici  d'ogni  vi- 
ver civile,  il  precipuo  ostacolo  a  constiUiire  un  principe.  Conveniva  a 
questo  usare  astuzia  coi  grandi,  deprimendo  la  nobiltà  di  fallo  per 
crearne  poi  una  di  diritto;  usare  severa  giustizia  col  popolo,  per  po- 
ter divenirgli  umano  e  benefico  in  appresso.  Così  le  leggi  si  sareb- 


*  Nel  Discorso  stilla  Riforma  di  Firenze. 

-  Nel  lib.  I,  cap.  41),  dei  Discorsi.  Vedi  anche  il  liL.  Ili  delle  Storie  fio- 
rentine. 


XX  CONSIDERAZIOM 

bero  ordinale  secondo  il  ben  pubblico,  non  secondo  l'ambizione  di 
pochi;  e  la  le;;p;e  avrebbe  comandalo  e  non  ruomo,  come  pur  vo- 
leva il  Segrelario.  Per  mala  sorle  dell'Italia,  deslinaia  allora  a  pas- 
sare da  sialo  callivo  in  peggiore,  anzi  pessimo;  e  io  Firenze  sollo 
Cosimo  e  don  Francesco,  e  in  Lombardia  e  nel  regno  di  Napoli ,  l'in- 
fluenza spagnola  fece  prevalere  invece  i  privilegi  dei  pochi  al  pub- 
blico bene;  onde  comandò  l'uomo,  e  non  la  legge.  Dove  il  Segrelario 
consigliava  dì  promovere  il  commercio,  questo  venne  dislrullo; 
dov'egli  voleva  che  alle  armi  mercenarie  sollenirassero  le  nazionali, 
in  cui  si  fonda  la  vera  polenza  degli  Slati,  sollenlrarono  le  spagnole, 
che ,  congiuntesi  alle  mercenarie,  resero  quesle  ancor  peggiori  di 
prima,  come  dimostra  Guicciardini,  e  recarono  all'Italia  l'estrema 
desolazione,  segnatamente  col  sacco  di  Prato  e  con  quello  di  Roma. 
Ben  meglio  per  mia  fé' sarebbe  stato  l'ascoltare  invece  i  consigli  di 
Machiavelli! 

•  Non  so  poi  come  l'autore  dell'articolo  potrebbe  provare  che  di 
là  dall'Alpi  la  guerra,  quantunque  fosse  un  mestiere,  non  era  però 
un  mercimonio,  e  che  l'uso  d'arrolare  soldati  mercenari  divenne 
generale  in  Italia  quando  era  ancora  sconosciuto  nelle  altre  contrade. 
Hobertson*  osserva  che  i  re  di  Francia,  considerato  che  nelle  guerre 
cogli  Inglesi  gli  eserciti  fe^jdali  mostraronsi  inetti  all'attacco  ed  alla 
difesa  delle  città  •  dei  castelli,  tra  per  questo  motivo  e  per  ollcncre 
la  forza  permanente  ed  effettiva  che  occorreva  in  quelle  prolungale 
contese,  assoldarono  numerose  bande  mercenarie,  levate  tulvolia 
fra  i  propri  sudditi,  tale  altra  in  stranieri  paesi;  il  quale  esempio  fu 
^oi  imitato  dagli  altri  regni  europei.  Lo  stesso  Carlo  Vili,  quando 
passò  in  Italia,  aveva  nel  proprio  esercito  un  buon  numero  di  mer- 
cenari svizzeri  ed  italiani.  Che  anzi,  a  dir  vero,  l'uso  di  siffatte  armi 
di  là  dall'Alpi  e  dal  mare  è  molto  più  antico  ch'io  non  accenno.  As- 
serisce Ilaliam'  che  se  ne  ha  memoria  sin  dai  tempi  di  Canuto  il 
Grande.  Ne  stipendiarono  in  Inghilterra  Guglielmo  il  Conquistatore, 
Guglielmo  il  Rosso  e  il  re  Giovanni,  in  Francia  Filippo  Augusto;  ed 
anche  nella  celebre  ballaglia  di  Crécy  combattevano  molli  mercenari 
italiani.  Furono  codeste  armi  un  intermedio  tra  la  feudalità  e  la  cen- 
tralità dei  poteri;  perchè,  come  si  disse  e  come  avverte  anche  Hai- 
lam,  chi  aveva  denaro  era  certo  d'aver  guerrieri  più  sicuri  e  fermi 
che  non  fossero  i  nazionali;  e  perchè,  conforme  soggiunge  il  mede- 
simo scrittore,  se  pur  talora  riescivano  licenziosi  o  di  manchevoi 
bravura,  l'illimitata  devozione,  ancor  più  che  il  coraggio  e  la  disci- 
plina, gli  rendeva  accetti  ai  principi,  i  quali  d'altra  parte  polcan  le- 

*  Storia  di  Carlo  V  imperatore. 
^  L' Europa  nel  medio  etv. 


SUL   LIBRO    DEL   PRINCIPE.  XXI 

mere  a  ragione  l'indipendenle  spirilo  d'un  esercito  feudale.  Ne  queste 
osservazioni  erano  sfuggile  ai  contemporanei  di  Machiavelli:  assai 
prima  di  Hallain  e  di  Robertson  aveale  falle  Guicciardini;  il  quale 
soprappiù  osservava:  «  Che  perciò  appunto  molli  re  aveano  alleso  a 
disarmare  ed  alienare  i  popoli  dagli  eserciù  militari;  onde  i  Francesi^ 
non  confidando  più  della  virtù  dei  fanti  propri,  si  conducevano  timi- 
damente alla  guerra,  se  nell'esercito  loro  non  era  qualche  banda  di 
Svizzeri.  »  * 

Senonchè  si  risponderà,  che  se  l'uso  di  siffatte  armi-  erasi  ab 
antico  introdotto  anche  ollremonti,  l'Italia  ne  differiva  in  ciò,  che 
codesto  uso  vi  era  generalmente  adottato  e  da  principi  e  da  repub- 
bliche, e  quindi  vi  si  guerreggiava  quasi  senza  far  sangue;  di  che  fa 
pur  fede  Machiavelli  nelle  Storie  fiorentine  e  nel  Principe.  Ma,  la- 
sciando anche  slare  ciò  che  del  sangue  sparsovi  dice  in  contrario 
l'Ammirato,  e  la  grave  armatura  d'allora  che  assicurava  dalle  ferite, 
n'eran  forse  cagione  le  abitudini  mercantili,  come  vorrebbe  l'autore 
dell'articolo?  11  Piemonte,  lo  Slato  Pontifìcio,  il  regno  di  Napoli, 
aveano  anch'essi  i  loro  mercenari,  quantunque  fossero  feudali;  feu- 
dalissimoera  il  terzo  di  que'dominii,che  pur  rimase  senza  difesa  con- 
tro le  armi  francesi  ed  aragonesi.  Oltre  di  che,  per  la  verità,  quando 
si  pensa  ai  Veneziani  che  furono  gl'Inglesi  del  Medio  Evo,  ai  Geno- 
vesi e  ai  Pisani,  deditissimi  alla  mercatura,  i  quali  col  valore  dell'armi 
loro  occuparono  Costantinopoli,  la  Morea,  Candia,  Scio,  la  Crimea, 
la  Corsica  e  la  Sardegna,  tenendo  fronte  agl'Infedeli,  e  combatten- 
dosi gli  uni  gli  altri  con  orrenda  furia  in  tante  guerre  marittime;  non 
si  può  credere  che  il  commercio  riduca  al  meno  le  virtù  militari. 
«  Queste  guerre,  dice  Hallam,  messe  a  ragguaglio  coi  fatti  guerre- 
schi della  medesima  età,  sono  veramente  più  splendide  e  più  sangui- 
nose, e  dimostrano  uguale  arie  e  bravura.  »  Hanno  abitudini  seden- 
tarie gli  agricoli  avvezzi  ad  un  tranquillo  genere  di  vita  ed  a  veder 
vicini  e  pronti  i  ritorni  dei  capitali;  e  quinci  è  che  alla  loro  confidente 
natura  tulli  i  governi  son  buoni,  purch'essi  siano  tranquilli.  Ma  la 
vita  del  negoziante  è  piena  di  pericoli,  di  movimento  e  di  attività; 
desto  il  tengono  sull'andamento  degli  affari  pubblici  le  sue  vaste, 
lente  e  lontane  intraprese;  ogni  accidente  politico  lo  interessa,  e  di 
frequente  lo  agi,ta  e  lo  turba:  e  tali  erano  effettivamenlre  Ira  il  se- 
colo XV  e  il  XVI  i  Toscani  ed  altri  popoli  d'Italia:  ora  per  impeto 
licenzioso  prorompevano  a  sanguinosi  fatti,  ora  per  paura  tacevano, 
ma  sempre  stavano  in  orecchi  ed  in  sentore.  Perchè  vi  si  fosse  effet- 
tuala la  decrepitezza  che  l'autor  dell'articolo  accenna,  e  ch'egli  non 
dubita  di  pareggiare  a  quella  dei  Greci  del  tempo  romano,  sarebbe 

*  Lib.  II,  cap.  5,  delle  Storie, 


XXII  CONSIDERAZIONI 

Sialo  mestieri,  che  codesti  popoli,  al  pari  dell'antica  Grecia,  avessero 
pia  percorsi  tutti  i  fjradi  della  loro  civiltà,  o  che  oramai  sicuri  da 
interne  ed  esterne  offese,  avessero  al  pari  dei  Veneziani  del  secolo 
scorso  abbandonalo  il  commercio  per  darsi  all'agiata  ed  oziosa  vita 
del  patrizio  proprietario ,  che ,  riposandosi  in  su  l'inceria  fede  d'un 
agente,  stima  arte  meccanica  tutto  ciò  che  non  gli  ricordi  le  sue  pos- 
sessioni e  il  fasto  e  la  vanagloria.  In  tale  stato  dì  cose,  fruito  d'una 
lunga  non  mai  inierrolia  e  torpida  pace ,  col  cessare  dell'  antago- 
nismo delle  passioni  e  della  lotta  delle  idee,  che  per  la  legge  essen- 
ziale dei  due  contrari  mantiene  l'ordine  generale  e  la  vita  degli  enti 
fisici  e  morali,  sarebbevi  cessato,  come  in  Venezia  cessò,  quanto  di 
vitalità,  di  lumi  e  di  virtù  vi  fosse  slato  dapprima.  Per  lo  contrario, 
le  repubbliche  italiane  dell'eia  di  Machiavelli  non  erano  giunte  che 
al  primo  passo  dell'incivilimento,  cioè  a  quello  delle  Lettere  e  delle 
Arti,  e  dei  primi  studi  dell'antica  sapienza;  il  che  congiunto  al  mo- 
vimento industriale  e  mercantile,  ricordato  di  sopra,  veniva  a  pro- 
durre Il  primitivo  fiore  della  moderna  civiltà  europea.^  E  se  la  fu- 
nesta influenza  spagnola,  spegnitrice  d'ogni  lume  e  d'ogni  virtù,  col 
pervertire  il  buon  gusto,  le  idee  e  le  tendenze  degl'Italiani,  e  col 
distoglierli  dalle  abitudini  industriali  dei  padri  loro,  per  sosliluir- 
vene  di  oziose,  fastose  e  ridicole,  non  avesse  arrestato  e  reso  retro- 
grado quel  primo  passo,  ai  fiori  d'una  sì  bella  e  promettente  pri- 
mavera sarebbero  successi  i  frutti.  Dagli  avvenimenti  del  1530,  e  non 
da  una  maturità  primaticcia,  provenne  la  decre()ilezza  affrettata  delle 
repubbliche  e  degli  altri  Stati  d'Italia.  D'altra  parie,  se  le  repubbli- 
che e  gli  stati  che  precedettero  quell'influenza,  non  faceansi  una 
vera  guerra,  né  tampoco  stavano  in  pace:  e  come  l'avrebber  potuto 
fra  quelle  emule  signorie,  fra  i  timori,  gli  odii,  i  pericoli,  le  reazioni 
e  le  perpetue  discordie?  e  //  passaggio  ad  un  viver  molle  e  codardo, 
dice  Romagnosi,  non  conveniva  ai  (empi:  sarebbe  slato  troppo  preci- 
pitoso  ed  inconciliabile  con  altri  fatti  di  quella  età.  » 

E  veramente,  coloro  che  congiurarono  contro  Galeazzo  Sforza  e 
contro  Lorenzo  e  Giuliano  de'MedicI  (come  si  legge  nelle  Storie  fio- 
rentine) ^se  furono  empi  e  traditori,  non  manifestarono  meno  un  vio- 
lento coraggio;  il  quale  anzi  accostavasi  a  temerità,  considerato  il 
luogo  in  cui  eseguirono  quelle  congiure,  l'estremo  pericolo  a  cui  si 
esponevano,  e  gli  ostacoli  che  doveansi  superare  per  condurle  a  fine. 
•  Se  mai ,  dice  il  Segretario,*  i«  alcuna  faccenda  si  ricerca  l'animo 
grande  e  fermo ,  e  nella  vita  e  nella  morte  per  molte  esperienze  riso- 

*  Hallam  chiama  la  (ine  del  secolo  XV  «  aureo  mallino  della  italiana 
sapienza.  •» 

'  Kelle  morie. 


SUL    LIIÌRO    DIiL    PRINCIPE.  XXIII 

luto,  è  necessario  averlo  in  questa,  dove  si  è  assai  veduto  agli  uomini 
nell'armi  esperti  e  nel  sangue  intrisi  l'animo  mancare.  »  Quindi  ap- 
pare se  un  Italiano  di  qua' tempi  scansava  i  pericoli  con  un  accor- 
j,'imento  pusillanime,  secondo  che  vorrebbe  l'autor  dell'articolo. 
Aperte,  violenti  ingiurie  furono  queste,  non  segrete  e  timide.  La  ge- 
nerosa franchezza  di  Lorenzo  de' Medici ,  il  quale  per  salvare  il  suo 
popolo  dai  mali  d'una  guerra  ch'era  fatta  a  lui  solo,  va  egli  stesso 
a  trattar  della  pace  in  Napoli,  rimettendosi  nelle  braccia  d'un  perso- 
nale e  potente  nemico;  le  resistenze  di  Pisa,  di  Firenze  e  di  Siena; 
papa  Giulio  II  assai  più  guerriero  che  pontefice;  e  la  grande  audacia 
di  Piero  Capponi ,  che  innanzi  agli  occhi  d'  un  re  di  Francia ,  già 
vittorioso  e  con  tanto  esercito  pieno  di  feroci  nazioni,  straccia  gli 
immoderali  capitoli  che  proponevansi  alla  sua  patria;  bastano,  io 
credo,  a  fornirci  di  chiarire,  che  fra  gl'Italiani  di  quella  età  non 
erano  cosa  nuova  né  strana  ì  caratteri  alteri  e  violenti.  Non  so  se  il 
re  Carlo  nella  sua  feudale  Francia  avesse  veduti  esempi  simili  a 
quello  dell'impetuoso  ed  audace  Fiorentino.  Certo  egli,  alla  lesta  del 
lìore  della  feudalità  francese,  pur  tremò  fra  quel  popolo  di  mercanti, 
come  abbiamo  da  Guicciardini,  lo  già  non  dirò  che  in  Italia  si 
abbondasse  allora  di  virtù  rr.ilitare  :  leggo  in  autori  gravissimi  il 
contrario;  ma  ne  anche  posso  indurmi  a  credere  che  vi  fosse  spenta. 
La  disfida  di  Barletta,  per  cui  la  vanità  di  Francia  fu  costretta  a  chia- 
marsi vinta  dal  valore  italiano  ;  le  Bande  Nere  di  Giovanni  de'Medici, 
chiaro  esempio  di  forte  ed  agguerrita  milizia,  per  cui,  come  dice  il 
prefato  istorico ,  apparve  molto  la  ferocia  e  la  virtù  del  capitano  ed 
il  valore  dei  fanti  italiani;  Gian  Giacopo  de'Medici,  e  gli  altri  capi- 
tani di  ventura,  un  Alberico  da  Barbiano,  un  Iacopo  dal  Verme,  i 
Bracceschi,  gli  Sforzeschi,  i  quali  con  eserciti  italici  formarono  una 
nuova  scuola  militare,  che,  al  dire- dell' inglese  Hallam,  tolse  il  lume 
ad  ogni  altra  di  fuori ,  ne  sono  evidente  e  gloriosa  prova.  Mercenarie 
ma  italiane  erano  codeste  armi ,  che  ristorarono  fra  noi  l' arte  della 
guerra,  già  invilita  per  le  armi  mercenarie  d'Ing4)ilterra,  di  Bretta- 
gna e  di  Provenza.  «  Se  coloro  fossero  stati  duci  d'un  dato  Stato, 
avrebbero  giovato  alla  consolidazione  d'Italia,  »  dice  Romagnosi. 

Il  mercimonio  della  milizia,  generalizzato  in  Italia,  non  era  un 
peccato  di  popoli,  ma  di  principi  e  di  repubbliche.  I  primi  lo  intro- 
dussero per  gelosia  del  popolo,  di  cui  volevano  soifocare  la  libertà, 
e  dei  nobili  che  ricusavano  di  piegare  il  collo  ad  un  loro  eguale;  le 
seconde,  o  pel  tiaiore  di  far  sorgere  un  tiranno,  siccome  appar 
chiaro  in  Firenze,  o  per  la  politica  di  non  accordar  comandi  di  terra 
ad  un  patrizio  in  un  governo,  nel  quale  il  nome  collettivo  doveva'  es- 
ser tutto  ed  ogni  nome  individuale  esser  nulla  :  il  che  accadeva  in 


XXIV  C0?iSIDERAZ10NI 

Venezia.  Ma  senz'armi  proprie,  senz'armi  cilladine  non  può  sussi- 
itSlere  una  sicura  indipendenza;  e  quindi  procedeitero  i  mali  enormi 
della  passala  di  Carlo  ViU,  e  gli  altri  che  poi  avvennero  in  così  lunga 
serie.  E  a  ciò  avvertiva  il  Segretario  quando  scriveva:  «  Chi  disse, 
che  di  questo  eran  cagione  i  peccati  nostri,  diceva  il  vero  ;  ma  non 
erano  già  quelli  che  credeva;  e  perchè  gli  erano  peccati  di  principi , 
ne  hanno  patito  la  pena  ancora  loro.  *  •  E  nell'  ultimo  rapitolo  del 
Principe  più  chiaramente  il  dimostra  con  queste  parole  :  «  In  Ilaìia 
non.  manca  materia  da  introdurvi  ogni  forma.  Qui  è  virtù  grande  nelle 
membra,  quando  la  non  mancasse  nei  capi.  Specchiatevi  nei  duelli  e 
nei  congressi  dei  pochi,  quanto  gli  Italiani  siano  superiori  con  le  fone: 
ma ,  come  si  viene  agli  eserciti  ;  non  compariscono ,  e  tulio  procede, 
dalla  deboleua  dei  capi.  >  Né  differentemente  ne  pensava  11  gran 
Consatvo,  quando  poco  prima  della  disfida  di  Barletta  fu  udito  dire:  ^ 
e  Che  se  Italia  era  da  pochi  anni  in  qua  slata  corsa  da  eserciti  fo- 
restieri, erane  stata  cagione  non  altro  che  la  imprudema  de' suoi  prin- 
cipi, i  quali,  per  battere  V un  l'altro,  l'armi  straniere  chiamale 
aveano.  >  in  conclusione,  la  pace,  l'ignavia,  la  debolezza  italiana  di 
quella  età,  erano  soltanto  un'apparenza  che  nascondeva  una  ben  di- 
versa realtà,  come  dimostravano  le  occasioni  :  era  un  fuoco  sotto  la 
cenere,  un  vulcano  latente,  da  cui  a  quando  a  quando  uscivano 
fiamme  a  manifestarlo.  La  gioventù  della  nazione  appariva  in  quello 
discordie,  in  quel  movimento  industriale  e  mercantile,  nel  progresso 
delle  lettere,  delle  arti  e  della  ricchezza,  il  quale  dalle  spesse  guerre 
e  dai  civili  risorgimenti  non  era  arrestato  nò  rilardato;  nei  tanti  fuor- 
usciti politici,  nelle  fiere  ed  indomile  indoli  dcirAlviano,  di  Colombo, 
degli  Strozzi,  di  Zanobi  Buondclmonti,  di  Luigi  Alamanni,  di  Buo- 
narroti, di  Francesco  Ferruccio,  e  nel  fervido  e  manesco  Benvenuto 
(Sellini.  Qual  partito  non  he  avrebbe  cavato  un  principe,  il  quale, 
superati  gli  ostacoli  interni  ed  esterni ,  e  raccolte  con  altri  ordini  po> 
litici  in  un  medesimo  corpo  sociale  tante  forze  fìsiche  e  morali,  che 
disgregate  o  non  riuscivano  ad  alcun  bene  o  riuscivano  a  male,  avesse 
formato  dell*  Italia  una  sola  nazione,  una  sola  monarchia!  Ciò  pur 
bramava  il  Segretario:  ^  ma  la  trista  influenza  spagnola  già  già  stava 
per  convertirvi  il  coraggio  in  viltà,  l'industria  in  rovinosa  indolenza, 
io  povertà  la  ricchezza,  in  decrepitezza  e  morte  la  gioventù.  * 

'  Nel  cap.  i  2  del  Principe. 

•  Vedi  Guicciardini  nelle  Storie. 

•  Kel  cap.  26  del  Principe. 

•  La  sola  Toscana  potè  rialzarsi  da  un'oppressione  di  60  anni,  quando  prr 
opera,  di  Ferdinando  granduca  ,  cominciò  a  sottrarsi  da  quell'  inlluenza  :  le  altre 
parti  d'Italia  vi  soggiacquero  assai  più  tempo. 


I 


SUL   LIBRO    DEL    PRINCIPE,  XXV 

Vero  è  d'altra  parte,  clie  a  siffatte  qualità  pur  troppo  si  accom- 
pagnavano l'astuzia,  l'ipocrisia  e  la  frode;  né  da  questo  lato  io  so 
dar  torto  all'autore  dell'articolo.  Ma  egli  erra  poi  soprammodo  quando 
afferma,  che  codesta  moralità  fosse  propria  esclusivamente  degli  Ita- 
liani. Le  memorie  di  que'  tempi  gliene  danno  una  solenne  mentila. 
Ferdinando  il  Cattolico,  quegli  che  pose  fine  al  dominio  dei  Mori  in 
Ispagna,  che  la  ridusse  alla  sua  prisca  unità  ,  e  promosse  la  scoperta 
dell'America,  fu  altresì  uno  dei  principi  più  falsi  e  più  perfidi  del- 
l'età sua.  Nella  sua  gloriosa  corte  le  promesse  erano  un  laccio,  un 
giuoco  i  giuramenti,  un  nome  vano  la  fede;  e  così  poco  v' erano  in 
discredito  la  frode  e  l'ipocrisia,  ch'egli  stesso  fu  udito  gloriarsi 
d'avere  ingannato  più  di  dieci  volte  Luigi  XH  re  di  Francia.  Il  gran 
Consalvo,  educato  a  codesta  scuola,  non  sdegnò  di  accoppiare  al 
suo  alto  valore  le  arti  della  perfidia;  e  ben  ne  dette  un  saggio  quando 
fece  partire  il  duca  di  Calabria  per  la  Spagna  dopo  aver  giurato  sul- 
r  Ostia  Sacra  eh'  egli  potrebbe  ritirarsi  dove  bene  gli  paresse ,  e 
quando  abbracciò  il  Valentino  prima  di  farlo  ritener  prigioniero.  Noti 
sono  i  veneficii  di  Riccardo  III,  i  fraudolenti  intrighi  di  Luigi  XI,  il 
quale,  come  ben  dice  Hallam  ,  se  non  fu  l'inventore,  fu  certo  il  col- 
tivatore più  insigne  di  siffatta  insidiosa  destrezza.  Ed  anche  Luigi  XII 
non  fece  forse  un  turpe  traffico  delle  alleanze  ?  Gli  stessi  Borgia,  le 
cui  colpe  furono  però  esagerate,  eran  pure  una  famiglia  spagnola. 
Tant' è  :  la  slealtà  d'oltrementi  uguagliava  quella  d'un  Francesco 
Sforza,  d'un  Lodovico  il  Moro,  seppure  non  la  superava;  che  anzi, 
non  che  gli  Italiani  fossero  altrui  maestri  del  mancar  di  fede,  poteano 
apprenderlo  dagli  stranieri,  siccome  fece  alla  corte  d'Aragona  il 
Guicciardini;  per  soprammercato  traditi  essi  furono  ben  più  che  tra- 
ditori. Ne  sono  una  chiara  prova  la  casa  reale  di  Napoli,  tradita  da 
Francia  e  da  Spagna  coll'inìquo  trattato  di  Granata;  Lodovico  il  Moro 
abbandonato  dagli  Svizzeri;  i  Bresciani,  indotti  dal  cardinale  di  Sion 
a  congiurare  contro  i  Francesi ,  e  poi  da  lui  derelitti  ed  esposti  al  ri- 
sentimento di  Gastone  di  Foix.  Tutto  ciò  mi  pare  che  basti  a  per- 
suadere, che  le  crudeltà  provocate  da  fredde  e  profonde  meditazioni, 
e  gli  inganni  e  i  tradimenti,  erano  propri  così  dello  Spagnolo,  del 
Francese  e  dello  Svizzero,  come  dell'Italiano.  «  Troppo  coceva  agli 
stranieri  di  dover  confessare  negli  Italiani  la  superiorità  dell'  intelli- 
genza e  della  dottrina:  quindi  la  rappresentarono  come  un  vantaggio 
necessariamente  congiunto  alla  dissimulazione  ed  alla  perfidia;  ed  ar- 
rogandosi la  palma  del  valore  e  della  lealtà,  lasciarono  a  quelli  con  dis- 
prezzo il  merito  dell'  accortezza  e  dell'astuzia.  »  Così  dice  Sismondi, 
e  dimostra  come  la  mala  fede  degli  stranieri  non  fu  mai  pareggiata 
in  quel  tempo  dai  più  diffamali  politici  dell'  Italia.  Era  questa  in- 


XXVI  CONSIDERAZIONI 

somma  una  tendenza  universale  dell'età;  e  la  superstizione  del  Medio 
Evo,  come  avea  prima  sanliGcala  la  violenza,  santificava  adesso  le 
perfide  macchinazioni.  * 

Or  venendo  a  considerare  donde  provenisse  codesta  moralità, 
di  que'lempi{jeneralmente  seguila  in  Europa,  mi  sembra  dì  trovarlo 
nella  reciproca  debolezza  dei  baroni,  dei  municjpii,  dei  signori  e  dei 
principi  d' allora ,  congiunta  alla  decadenza  della  feudalità.  Dove  per 
l'ordinario  il  potente  è  generoso  e  franco,  il  debole  che  pur  voglia 
ingrandirsi,  raro  k  che  non  mescoli  alla  forza  l'astuzia;  altrimenti 
con  molta  probabilità  vi  rovinerebbe  sotto,  e  La  perfìdia,  la  memo- 
gna,  i  tradimenti,  furono  sempre  il  retaggio  d'un'ambiiione  sfornila  di 
prevalenti  poteri ,  »  dice  Romagnosi.'  Quando  il  Segretario  scrisse  : 
•  un  principe  deve  esser  volpe  e  leone  :  coloro  che  stanno  semplice- 
mente in  sul  leone  non  se  ne  intendono:  »  volle  alludere  alle  condi- 
zioni ed  al  conseguente  procedere  degli  statuali  di  codesta  età.  La 
lotta  che  variamente  durava  e  imperversava  tra  quelle  quattro  po- 
tenze, le  indeboliva  tutte  quante.  La  nobiltà  feudale,  sì  temuta  e  sì 
gloriosa  ne'  suoi  violenti  principi!  e  nei  tempi  cavallereschi,  ora  per 
r  incremento  dei  comuni ,  per  le  introdotte  artiglierie  e  per  la  pro- 
gressiva potenza  dei  principi,  o  era  depressa  o  avea  perduta  non  poca 
parte  della  sua  maggioranza.  Le  milizie  mercenarie  e  poi  le  nazio- 
nali che  già  principiavano  ad  introdursi  in  qualche  parte,  soppian- 
tando ed  avvilendo  le  baronesche,  aveano  fatto  perdere  al  patto  feu- 
dale, cioè  alla  fedeltà  del  servigio,  la  virtù  primitiva;  quella  che 
insieme  collo  spirito  cavalleresco  avea  pur  sostenuta  la  scadente  lealtà 
del  Medio  Evo.  *  I  municipii  eransi  dove  più  dove  meno  arricchiti 
ed  armati,  ma  non  poteano  stare  senza  sospetto  o  dei  nobili  feudali, 
o  di  quelli  ch'erano  sorti  sulle  rovine  di  questi,  o  dei  piccoli  signori 
che  rimpiazzavano  i  feudatari  e  ne  imitavano  i  soprusi.  Ed  i  principi 
trovavano  alle  lor  mire  d'ingrandimento  ,  di  consolidazione  e  di  cen- 
tralità, tre  forti  ostacoli  ora  nei  grandi,  ora  nel  popolo,  ora  nelle  pic- 
cole signorie,  di  cui  segnatamente  abbondava  l' Italia.  Quindi  veniva 
con  necessaria  conseguenza  il  procedere  detto  di  sopra  :  aiutavansi 
il  comun  di  Firenze  e  le  altre  repubbliche  italiane  coi  loro  Sccorlì 

*  L'autore  dell'articolo  della  Bevne  de  Paris,  gi'a  mentovalo,  confessa 
anch' egli,  che  codesti  erano  viii  dell'  eia  e  non  d'un  paese;  ma  poi  soggiun- 
ge, che  l'Italia  se  n'era  fatta  maestra  agli  altri  Stati:  il  che  io  nego,  ed 
evidente  ne  è  la  ragione. 

-  Fattori  dell'  incivilimento» 

5  Questa  verità  fu  assai  bene  dimostrala  da  Hallam  e  da  Cibrario ,  com'  è 
da  vedersi  al  cap.  V  dell'  Europa  nel  medio  evo  ì  e  al  li!).  I  dcH'  Economia 
politica  del  medio  e\'0. 


li 


SUL  LIBRO   DEL   PRINCIPE.  XXVII 

oratori,  che  non  si  facevano  coscienza  dì  mancar  di  fedeqnando  oc- 
corresse; cogli  incanni  e  colle  crudeltà  usale  a  tempo  procacciavano 
di  sbarazzarsi  dei  baroni  e  signorotti,  loro  perpetui  nemici,  papa 
Alessandro  e  Cesare  Borgia  :  simil  condotta  teneano  coi  castellani 
d'Aragona  e  coi  feudatari  di  Francia,  Ferdinando  il  Cattolico  e 
Luigi  XI;  ed  anche  Arrigo  VII,  re  d'Inghilterra,  se  non  usò  le  arti 
della  perfidia ,  certo  mostrossi  assai  artificioso  nel  preconcetto  dise- 
gno di  soUevare  sulla  depressione  della  nobiltà  inglese  la  prerogativa 
reale.'  Dovunque,  insomma,  uguali  cause  inducevano  per  diversi  ri- 
spetti ad  uguali  espedienti;  ad  esser  volpe  e  leone. 

Ma  intanto,  singolare  e  strana  appariva  veramente  la  condizione 
dei  tempi.  Per  la  naturai  legge  del  progresso,  alla  quale  obbediscono 
lutti  gli  enti  e  fisici  e  morali,  la  società,  dove  T  incivilimento  già 
cominciava  più  o  meno  a  produrre  i  suoi  frutti ,  stanca  dell'anarchia 
feudale,  delle  risse  civili  e  di  tanti  piccioli  tiranni,  abbisognava  d'uno 
stato  sicuro  e  potente ,  a  cui  pure  tanti  ostacoli  si  attraversavano,  e 
quello  dell'ambizione  dei  grandi  era  il  maggiore.  Decaduti  come  po- 
tenza ,  eran  costoro  ancor  terribili  come  opposizione  ;  né  le  vie  di 
correzione  e  di  transazione  poteano  praticarsi  con  gente  predomi- 
nata da  furti  passioni  e  da  forti  interessi  divergenti,  e  in  una  età 
dove  pur  mancavano  tanti  elementi  di  civiltà  e  di  moralità  pubblica. 
V  impresa  di  abbatterli  per  sempre  e  di  costituire  una  forza  centrale 
ed  inconcussa,  all'ombra  della  quale  potessero  gli  Stali  prosperare 
ed  ingrandirsi ,  era  il  bisogno  dell'  età  ;  perchè  senza  di  quella  non 
avrebbe  potuto  esservi  concordia  civile,  non  pubblica  quiete,  né  in- 
dustria; quindi ,  né  ricchezza,  né  civiltà.  Orchi  poteva  soddisfare  in 
Italia  ad  un  tale  bisogno?  Non  certo  i  municipii,  giacché  i  governi 
democratici  per  la  naturai  diffidenza  del  popolo  non  hanno  mai 
un'  energica  podestà  esecutrice  ;  ed  oltracciò  troppo  deboli  erano  fra 
tante  forze  nemiche,  troppo  esposti  alle  gare  ed  ai  tumulti  civili, 
perchè  fossero  atti  alla  grande  opera  delta  rigenerazione  sociale.  ' 

*  Il  cardinale  Ximenes ,  che  fra  lo  splendore  della  porpora  e  della  gran- 
dezza spagnola  seppe  conservare  1*  austerità  monastica ,  nella  sua  celelìre  reg- 
genza di  Spagna  fece  anch'  egli  lo  slesso.  Vedi  Robertson  ,  Storia  del  Regno  di 
Carlo  V  imperatore  ,  lib.  I. 

2  «  Le  vecchie  libertà  europee,  dice  Gaizot  {Leeoni  sur  la  Civilisation 
europèenne  ) ,  non  avcano  potuto  dare  alla  società  ne  la  sicurezza  ne  il  pro- 
gresso che  pure  costituiscono  la  vita  sociale.  Ogni  sistema  che  non  procacci 
1'  ordine  nel  presente  e  il  movinnento  verso  l'  avvenire ,  è  vìsioso  e  bentosto 
abbandonalo.  Tali  erano  le  repubbliche  del  secolo  XV.  Cercaronsi  que'due 
elementi  in  altri  principii  ed  in  altri  m»zi,  cioè  in  un  sistema  mena  perico- 
loso e  meno  popolare,  il  quale,  anziché  allargare,  restringesse  il  cerchio  deUe 
insliluzioni.  «  .  .^.  k  •  • .»  .^i»  •">  ■    • 


XXVIII  CONSIDERAZIONI 

Solo  il  poteva  1* energia,  l'atiìviià,  la  costanza  d'un  potere  indivi- 
duale, che  non  scorj^endo  osiaculi  alla  risoluta  sua  volontà,  non 
guardasse  a  destra  nò  a  manca,  e  procedesse  immiiiabile  verso  un 
sol  fine.  Con  le  milizie  di  cui  dis[»oneva,  e  con  una  provalenza  sui 
nobili,  sui  signorotti  e  sul  popolo,  la  quale  già  si  manifestava  pel 
precedente  increaieuio  di  essa  e  per  la  decadenza  di  quelli,  il  prin- 
cipato parca  destinato  a  compiere  la  dispotica  ma  salutare  e  neces- 
saria impresa.  La  forza  legale  non  bastava  contro  inveterate  prero- 
gative ed  usurpati  poteri:  conveniva  ricorrere  a  mezzi  straordinari  e 
terribili,  se  già  non  si  voleva  che  le  piaghe  inpslolite  *  de^jli  Stati  si 
incancherissero,  e  Finché  i  potenti  non  siano  disarmati  e  posti  nel- 
V  impossibilità  di  sottrarsi  alle  leggi,  dice  Romagnosi;  *  ^m/ié  il  po- 
polo non  sia  alimentalo  e  sicuro,  finché  V amminislranone  non  sia 
forte  e  moderata  ,  sarà  assolutamente  impossibile  di  evitare  or  più  or 
meno  le  orride  scene  riferite  dagli  annalntt  italiani.  Coloro  che  aveano 
la  confideniM  dei  signori  e  sedevano  net  loro  consigli,  non  ignoravano 
non  potere  esistere  fona  signorile  sema  l'unione  delle  forxe  singolari, 
e  che  V  unione  di  queste  fnr%e  viene  operata  soltanto  dui  tornaconto 
comune;  ma  adorando  il  simulacro  del  potere,  lo  credettero  un  essere 
necessario ,  al  quale  sagri ficar  si  dovesse  ogni  altra  regola  comune,  ono- 
rando soltanto  la  riuscita.  Questa  piega  politica  non  era  prodotta  né 
da  ignofama,  né  dal  rifiuto  di  eque  leggi,  ma  dal  bisogno  d'una  fona 
accentrala  e  prevalente,  che  difendesse  le  persone,  le  cose  e  le  civili 
tnslituiioni.  Il  movimento  ascendente  era  promosso  dall'energia  vitale 
del  popolo,  e  limitato  o  rintuaatv  dai  privilegi  che  non  si  erano  pò- 
tuti  abolire.  Qurst'  ultima  opera,  la  più  ardua  e  la  più  indispensabile 
di  tutte,  fu  ridotta  quasi  a  termine  dulia  possnma  del  principato  ,  col 
quale  i  potenti  venivano  in  conflitto,  nell'atto  che  per  parte  dei  citta- 
dini SI  promoveva  per  quanto  era  possibile  l'agricoltura,  l'industria, 
il  commercio,  le  scienie  e  le  lettere.  Non  é  questa  una  congettura,  ma 
unfatlo.^*  Vere  e  sapienti  parole,  le  quali  al  tutto  si  combinano 
con  quanto  io  ne  penso.  Tanl'  è  :  v'  hanno  nel  corso  dei  secoli  al- 
cune condizioni  sociali  di  così  rea  natura,  che  non  si  può  rimediare 
ad  un  male  fuorché  con  un  altro  male.  Talvolta  le  circostanze  non 
pur  muovono,  ma  strascinano.  Quul  è  il  nocchiero  che  col  getto 
delle  merci  salvi  in  una  tempesta  il  rimanente  ,  tal  era  un  principe 
del  secolo  XV;  e  come,  a  giudizio  di  Sismondi  e  di  Guizoi ,  era  ne- 
cessario ai  corrottissimo  ed  invecchiato  mondo  romano  che  la  bar- 
■*' 

'  Espressioni  di  Machiavelli. 

'  Meli'  opera  dei  FaUori  dell'  incivilimento ,  quando  parla  delle  Signorie 
italiane  dei  secoli  XIV  e  XV. 


SUL  LIBRO   DEL   PRINCIPE.  XXlX 

barìe  settentrionale  il  ringiovanisse,  così  nel  tempo  di  cui  par- 
liamo, per  una  diversa  ma  non  men  trista  faialiià,  era  mestieri 
clie  un  Borgia  o  un  Medici,  un  Ferdinando,  un  Luigi,  adopras- 
sero  i  loro  terribili  artilicii,  per  liberare  il  progresso  sociale  dalle  pa- 
stoie in  cui  trova  vasi  miseramente  condotto,  e  gli  dessero  quello 
sciolto  andamento  che  la  progressiva  natura  delle  cose  impeiiosa- 
menle  richiede.  «  L'Italia,  come  il  resto  dell'  Europa ,  dice  il  pre- 
lodato Guizot,  dovea  passare  per  mezzo  ad  una  centralità  dispotica 
che  ne  avrebbe  fatto  un  popolo  ,  e  V  avrebbe  resa  indipendente  dallo 
straniero  :  »  ed  anche  il  dispotismo  è  necessario  per  quelle  riforme 
sociali  che  non  possano  essere  secondate  da  una  matura  civiltà.' 

Ora,  in  sififatte  circostanze,  qual  altra  mira  dovéa  proporsi  il  Se- 
gretario fìorentino,  se  non  era  quella  voluta  dalla  condizione  de'  suoi 
tempi,  che  nissuno  conobbe  al  pari  di  lui?  Codesta  politica  che 
stava  per  produrre  una  rivoluzione  sociale,  parmi  che,  se  non  sem- 
pre'Cdi  che  vedremo  le  ragioni  più  sotto),  certo  nel  libro  di  cui  par- 
liamo ed  in  altre  scritture  venisse  pur  consigliata  da  Machiavelli.  In 
una  delle  sue  lettere  a  Francesco  Vettori  esorta  egli  i  principi  «  a 
fare  della  cittadinanza  un  medesimo  corpo  ,  sicché  tutti  non  ricono- 
scano che  un  solo  sovrano ,  »  e  ricorda  «  la  grande  affezione  del  popolo 
al  duca  Valentino,  ottenuta  nel  modo  ricordato  di  sopra  ;  le  opere  del 
quale,  egli  dice,  io  imiterei  sempre  quando  fossi  un  principe  nuovo,  i» 
Nel  capitolo  3  del  Principe  consiglia  l'occupatore  d'uno  Slato  «a 
farsi  cupo  e  difensore  dei  minori  potenti,  ed  ingegnarsi  d'indebolire  t 
più  potenti  di  quello;  »  e  dopo  alcune  altre  parole  soggiunge  :  «  faciU 
mente  può  coh  le  forze  sue  e  con  il  favore  dei  minori  potenti  abbassar 
quelli  che  sono  potenti,  per  rimanere  in  tutto  arbitro  di  quella  proviti'^ 
cm.-Nel  capitolo  7  di  esso  libro,  dopo  aver  detto  che  learmr  d'Ita- 
lia erano  nelle  mani  degli  Orsini,  dei  Colonnesi  e  dei  loro  seguaci , 
dimostra  com'era  necessario  a  Cesare  Borgia  il  turbare  quegli  or- 
dini e  il  disordinare  gli  Stali  di  coloro:  il  che  egli  fece  col  disper- 
dere quelli  di  casa  Colonna ,  poi  coir  indebolire  gli  Orsini,  guada- 
gnandosi gli  aderenti  loro,  appresso  collo  spegnerli  Insieme  coi  loro 
partigiani  a  Sinigaglia:  in  seguilo  a  che  occupò  la  Romagna,  e  tro- 
vandola essere  stala  comandata  da  •  signori  impotenti, i  quali  piuttosto 
aveano  spogliati  i  loro  sudditi  che  corretti,  e  dato  loro  più  materia  di 
disunione  che  d'unione;  tanto  che  quella  provincia  era  tutta  piena 
di  latrodnìi,  di  brighe,  e  d'  ogni  altra  ragione  d' insolenza  ;  giudicò 
fosse  necessario ,  a  volerla  ridurre  pacifica  ed  ubbidiente  al  braccio 

*  Ne  a1)l)isognò  infatti  la  Russia  j  e  forse  ne  aliblsognerà  l'Oriente. 
2  Ciò  pure  aUenna   e   dimostra  nel  cap.  40,  lib.  1,  dei  JJiscorsi  saltt 
Deche  di  Tito  Livio. 


XXX  CONSIDERAZIONI 

regio ,  darle  un  buon  governo  .  ...  e  si  guadagnò  tutti  i  popoli,  per 
avere  incomincialo  a  gustare  il  ben  essere  loro.  »  Ora  gli  Orsini,  iCo- 
lonnesi  e  i  loro  aderenti,  che  altro  erano  che  i  baroni  e  i  signorotti 
dello  Stato  Ecclesiastico,  vivendo  i  quali,  come  già  si  vide,  Tltalia 
non  poteva. aver  pace?  t  Chi  dunque,  egli  conchiude,  giudica  neces- 
sario nel  suo  principato  nuovo  assicurarsi  degli  inimici^  guadagnarsi 
amici,  farsi  amare  e  temere  dai  popoli,  spegnere  quelli  che  ti  possono 
0  debbono  offendere,  innovare  con  nuovi  modi  gli  ordini  antichi ,  es- 
sere severo  e  grato  ,  magnanimo  e  liberale  ,  non  può  trovare  più  fre- 
schi esempi  che  le  a%ioni  di  costui.  >  E  quali  infatti  furono  quelli 
eh'  egli  depresse  e  eh*  ci  sollevò  ? 

Nel  capitolo  9  il  Segretario  ci  signiflca  evidentemente  Io  stalo 
di  cose  in  cui  erano  allora  molte  città  italiche;  dove,  come  afferma  , 
trovavansi  due  umori  diversi  ,  i  grandi  desiderosi  di  comandare  e  di 
opprimere  il  popolo,  e  questo  desideroso  di  non  essere  oppresso. 
Onde  nasceva  che  talvolta,  vedendo  i  grandi  non  poter  resistere  al 
popolo,  cominciavano  a  voltare  la  riputazione  ad  uno  di  loro,  e  lo  fa- 
cevano principe,  per  poter  poi  sotto  P  ombra  sua  sfogare  il  loro  ap- 
petito; e  tal  altra  il  popolo  voltava  la  riputazione  ad  un  solo,  ve- 
dendo non  poter  resistere  ai  grandi,  e  lo  faceva  principe,  per  essere 
con  Tautorità  sua  difeso.  Nella  quale  alternativa,  di  cui  si  era  veduto 
più  d*un  esempio,  egli  consiglia  il  principe  nuovo  ad  occupare  il 
principato  col  favore  del  popolo,  anziché  con  quello  dei  grandi;  e  se 
anche  divenga  principe  col  favore  dei  grandi,  cercare  innanzi  ad  ogni 
altra  cosa  di  guadagnarsi  il  popolo:  e  fra  le  varie  e  savio  ragioni  che 
De  adduce  e  che  vi  si  possono  vedere,  giova  qui  ricordar  questa, 
che  non  si  può  con  onestà  soddisfare  ai  grandi  e  senza  ingiuria  d'ai- 
tri,  ma  sibbene  al  popolo;  perchè  quello  del  popolo  è  più  onesto  fine 
che  quello  dei  grandi,  volendo  questi  opprimere  e  quello  non  essere 
oppresso.  Sembra  che  Machiavelli  non  vedesse  altra  via  per  sedare 
quei  diversi  umori,  fuorché  un  principato,  il  quale  si  fondi  sul- 
l'amore del  popolo  e  sulla  depressione  dei  grandi;  come  fecero  ap- 
punto i  Gonzaga,  i  Medici,  gli  Estensi,'!  Borgia,  sotto  i quali  tutti, 
ed  anche  sotto  gli  iniqui  fra  essi,  il  popolo  prosperava.  Nel  cerchio 
fatale  dove,  secondo  lui,  si  rigirano  le  umane  società,  la  licenza 
loro,  se  già  non  volevano  divenir  suddite  d'uno  stalo  vicino,  aveva 
necessariamente  a  rifuyjgire  sotto  l'ombra  del  principato.  11  quale 
cerchio,  se  veramente  non  si  eOfetlua,  a  buon  conto  Machiavelli  così 
pensava.  * 

La  sopraddetta  mira  si  manifesta  ancor  più  nel  capitolo  il ,  in 
cui  ricercando  il  Segretario,  donde  venisse  che  la  Chiesa  nel  tempo- 
<  nel  lib.  I,  cap.  2,  dei  DiscorsL 


StJL  LIBRO  DEL  PR^CIPE.  ^XXI 

rate  fosse  venuta  a  tanta  grandezza,  che,  dove  da  Alessandro  indie- 
tro i  potentati  italiani,  anzi  ogni  barone  o  signore,  quanto  al  tem- 
porale la  stimava  poco,  allora  un  re  di  Francia  ne  tremava,  ci  avverte 
«  che  i  di  lei  nemici  a  tenerla  bassa  servivansi  dei  baroni  di  Roma, 
cioè  degli  Orsini  e  Colonnesi,  i  quali,  stando  coli' armi  in  mano  in 
sugli  occhi  del  ponleficey  tenevano  il  pontificalo  debole  ed  infermo.  » 
E  soggiunge:  «  benché  sorgesse  qualche  volta  un  papa  animoso,  come 
fu  Sisto,  pure  la  fortuna  o  il  sapere  non  lo  potè  mai  disobbligare  da 
queste  incomodità;  onde  le  forze  temporali  del  papa  erano  poco  sti- 
mate in  Italia.  Sorse  dipoi  Alessandro  VI,  il  quale  coli' istrumento 
del  duca  Valentino  fece  tutte  le  cose  ch'io  ho  discorse  di  sopra;  e  ben- 
ché l'intento  suo  non  fosse  di  far  grande  la  Chiesa  ma  il  duca,,  non- 
dimeno ciò  che  fece  tornò  a  grandez^ia  della  Chiesa,  la  quale  dopo  la 
sua  morte,  spento  il  duca,  fu  erede  delle  fatiche  sue.  Venne  dipoi 
papa  Giulio,,  e  trovò  la  Chiesa  grande,  avendo  tutta  la  Romagna,  ed 
essendo  spenti  tutti  i  baroni  di  Roma,  e  per  le  battiture  di  Alessandro 
annullate  tutte  le  fazioni.  »  E  seguita  mostrare,  come  quindi  ad 
esso  papa  Giulio  sì  aperse  la  vìa  ad  accrescere  di  denari  e  di  do- 
minio la  potenza  ecclesiastica.  Or  lo  domando:  e  non  par  qui  dì  ve- 
dere un  altro  Luigi  XI,  il  quale  'coir  indebolire  i  grandi,  e  poi  spe- 
gnerli 0  deprimerli,  fece  quello  che  fu  fatto  da  papa  Alessandro? 
Certo,  questi  il  faceva  per  ingrandire  la  propria  famiglia  piuttosto- 
ìhè  la  Chiesa;  ma  Luigi  il  facea  forse  per  la  mira  generosa  del  bene 
■della  nazione  francese,  o  pel  bene  proprio,  perla  propria  ambizione? 
Il  flne  immediato  d'ambedue  fu  l'egoismo;  ma  da  siffatto  egoismo 
sorse  a  nuova  vita  il  regno  di  Francia ,  come  principiò  a  sorgerne  lo 
Stato  Ecclesiastico,  poiché  ne  furono  battuti  i  baroni,  i  quali,  come 
dice  il  Giovio,  erano  chiamali  ceppi  dei  Pontefici.*  Senonchè,  come 
già  si  disse,  il  mal  seme  non  ne  fu  tolto:  le  insolenze  baronesche  e 
le  piccole  tirannidi  ripullularono  a  guisa  dell'idra,  le  cui  leste  non 
poteano  esser  tutte  troncate  che  dal  principe  di  Machiavelli;  il  quale, 
giusta  le  cose  dette,  non  avrebbe  mai  potuto  mandare  ad  effetto 
l'impresa  ideata  dal  Segretario,  se  prima  non  troncava  tutte  quelle 
teste. 

E  là  dove  pure  nel  libro  istesso  Machiavelli  esorta  il  principe  a 
fondare  la  sua  potenza  in  su  l'armi  proprie,  impossibili  ad  aversi 

*  La  setitenzd  d*  Adamo  Smitb ,  che  le  mire  più  personali  ed  ignobili 
hanno  partoriti  gli  effetti  più  salutari ,  mi  sembra  profondamente  vera ,  e  che 
sparga  molta  luce  sul  presente  argomento.  Oltre  la  prova  eh'  egli  ne  adduce 
nel  lusso  de' feudatari  che  ne  diminuì  la  prepotenza,  io  soggiungerei:  e  i 
comuni  dell'  Inghilterra  non  debbono  forse  la  loro  franchigia  e  l' esistenza  al 
bisogno  che  aveano  i  re  dei  loro  sussidi?  —  Bene  il  dimoiUò  Hailam. 

e* 


XXXII  CONSIDERAZIONI 

senza  una  centralità  di  poteri  e  senza  formare,  collo  spejrnere  la  pre- 
potenza dei  Grandi  o  feudali  o  condoUien  di  milizie,  una  tanieria  cit- 
tadina, eh'  è  la  nazione  dei  campi;  là  dove  lo  consi};lia  a  farsi  amare 
dai  pop')li  anziché  a  maniener  fazioni  e  fortezze,  a  balere  i  pochi  e 
aver  dalla  sua  l'universale;  e  quando  propone  T esempio  di  Ferdi- 
nando il  Cattolico,  tanto  nemico  ai  baroni,  sopra  i  quali,  come  dice, 
acquistò  riputazione  ed  imperio;  quando  biasima  il  re  di  Nupoli  ed  il 
duca  di  Milano,  perchè  non  procacciarono  di  avere  amici  i  popoli  ed 
assicurarsi  dei  grandi;  non  manifesta  ej? li  i  medesimi  principii?  In 
conclusione,  il  contesto  del  libro  del  Principe  c\  fa  palese  il  pensiero 
di  ridurre  in  atto  il  disegno  dei  principi  di  quella  età  ,  coir  abbassare 
la  fortuna  dei  grandi,  col  rendere  docile,  unito  e  soddisfatto  il  po- 
polo, e  col  procurare  allo  Stato  una  potenza  centrale. 

Senonchè  i  pensieri  di  Machiavelli  non  furon  sempre  monarchici: 
nel  Discorso  sulla  riforma  di  Fireme  e  in  parecchi  capitoli  dei  Dis- 
corsi sopra  Tito  Livio  egli  manifesta  eziandio  una  tendenza  repub- 
blicana, segnatamente  per  ciò  che  concerne  la  sua  patria.  Né  tampoco 
si  può  dire  che  fosse  contrario  in  lutto  ai  gentiluomini;  perocché, 
se  dair  un  canto  afferma  quivi  <  «  che  in  Romagna  ,  in  Terra  di  Roma, 
nel  regno  di  Napoli  e  nella  Lombardia  essi  eran  nemici  d'  ogni  civiltà, 
onde  vi  bisognava  una  mano  regia  che  ponesse  freno  alla  loro  eccessiva 
corruttela;  >  per  altra  parte  asserisce  pure'  <  che  colui  il  quale ,  dove 
sia  assai  egualità ,  voglia  fare  un  regno ,  non  lo  potrà  mai  fare,  se  non 
trae  di  quella  equalità  molli  d'animo  ambizioso  e  inquieto,  e  quelli  fa 
gentiluomini  in  fatto,  donando  loro  castelli  e  possessioni;  acciò  posto 
in  meiM  di  loro ,  mediante  quelli  mantenga  la  sua  potenza ,  ed  essi  me- 
iiante  quello  la  loro  ambiiione.  » 

Ricercando  or  dunque  il  motivo  di  codeste  varietà  del  Segretario, 
per  cui  ora  apparve  fautore  di  principali,  ora  di  repubbliche,  ora  volle 
deprimere  i  gentiluomini  castellani,  ora  introdurli,  io  stimo  di  tro- 
varlo nella  slessa  natura  della  di  lui  politica.  Per  poco  che  uno  si  dia 
ad  osservarne  le  azioni  e  gli  scritti,  si  accorge  di  leggieri,  eh*  egli 
era  V  uomo  delle  circostanze,  il  quale  variava  col  variare  di  quelle; 
ma ,  non  che  il  suo  vario  procedere  nascesse  da  debole  o  volubile  in- 
gegno o  da  turpe  egoismo ,  egli  lo  reputava  richiesto  dall'  utile  pub- 
blico, e  in  esso  riponeva  la  maggiore  virtù  politica.  Rideva  degli  uo- 
mini speculativi,  i  quali  sognan  repubbliche  e  principati  che  non  si 
sono  mai  visti  né  conosciuti:  voleva  andar  dietro  alla  verità  effettuale 
della  cosa  piuttostochè  all'  immaginazione  di  essa,  e  non  lasciare 
quello  che  si  fa  per  quello  che  si  dovrebbe  fare:  affermava,  essere 

*  Nel  lib.  I,  cap.  65,  dei  Discorsi, 
t  Ibidem. 


I 


SUL  LIBRO   DEL   PRINCIPE.  XXXUI 

mollo  discosto  da  come  si  vive  a  come  si  dovrebbe  vivere:  coi  due 
opposti  est'iìipi  di  Pier  Soderini  e  di  pupa  Giulio  II  diinosiiava  che 
a  voler  sempre  avere  buona  fortuna ,  conviene  riscontrare  il  modo  del 
procedere  suo  coi  tempi.  *  PerUmto  queste  istesse  raj;ioni,  che  nel 
Principe  gli  fecero  vari;ire  i  consij^li  secondo  che  si  tratti  d'  un  prin- 
cipato ereditario  o  misto  o  nuovo  al  tulio,  e  che  anche  nei  Discorsi 
lo  indussero  a  cangiare  il  tenore  ne' suoi  precetti  colcangiarsi  degli 
accidenti,  queste  istesse  lo  mossero  alle  varieià  di  cui  parliamo.  Se- 
gretario qual  fu,  per  tanti  anni  e  con  tanto  zrlo,  d'una  repubblica 
democratica,  egli  ebbe  per  l'  ordinario  una  tendenza  repubblicana; 
ma  non  sì,  che  giusla  gli  esposti  principii  il  variare  delle  circostanze 
non  la  variasse.  Nel  tempo  della  sua  legazione  a  Cesare  Borgia,  gli 
parve  che  quest'uomo,  il  quale  a  tristi  qualità  univa  mollo  valore, 
molta  perizia  politica  e  fermezza,  tra  pel  sostegno  dell'armi  francesi 
e  delle  ecclesiastiche  ,  e  pel  concorso  di  favorevoli  congiunture,  fosse 
il  solo  che  potesse  ridune  l' Italia  sotto  una  sola  signoria ,  e  purgarla 
dalle  vecchie  magagne  di  quei  baroni ,  di  que'  piccoli  signori  o  li- 
ranni,  di  quelle  perpetue  fazioni,  e,  quando  che  fosse,  liberarla  al- 
tresì dalle  scorrerie  e  dominazioni  straniere.  Il  contesto  della  detta 
Legazione  e  del  libro  del  Principe  ^  mi  pare  che  ci  chiarisca,  essere 
a  Machiavelli  o  prima  o  poi  entrato  nell'  animo  codesto  pensiero,  e 
che  egli  vi  abbia  per  qualche  tempo  fatto  su  fondamento:  massime 
il  capitolo  settimo  e  il  ventesimosesto  il  danno  a  diveder  chiaramente. 
Che  quello  poi  fosse  il  disegno  del  Valentino,  non  può  rimanerci  in 
forse,  considerato  quanta  fosse  la  dì  lui  ambizione,  quanta  la  po- 
tenza, e  quali  Stati  agognasse  l' anno  islesso  che  morì  papa  Alessan- 
dro. Basti  il  dire,  che  questi  avea  già  proposto  al  sacro  collegio  di 
conferirgli  il  titolo  di  re.  Ma  V  esser  morto  suo  padre  nel  tempo  eh'  ei 
purè  trova  vasi  malato  a  morte,  fu  la  rovina  sua;  al  che  allude  il  Se- 
gretario in  un  luogo  di  quel  capitolo  dove  esorta  il  suo  principe  a 
farsi  capo  della  redenzione  d' Italia:  •  benché ^  egli  dice ,  in  fino  a  qui 
si  sia  mostro  qualche  spiracolo  in  qualcuno,  da  poter  giudicare  che 
fosse  ordinato  da  Dio,  nientedimeno  si  è  visto  dappoi,  che  nel  più  alto 
corso  delle  albioni  sue  è  slato  dalla  fortuna  reprobato:  »  le  quali  pa- 
role forniscono  di  manifestarci  qual  fosse  l' intendimento  e  di  Ma- 
chiavelli e  di  Cesare  Borgia. 

Mancalo  questo  spiraglio,  e  non  vedendone  alcun  altro,  Machia- 
velli riprese  i  consueti  pensieri  repubblicani.  Poi,  quando  i  Medici 
furono  rimessi  in  istato,  e  tanto  prosperarono  nella  prosperità  di  papa 

*  Vedi  il  Principe,  cap.  ib  e  altrove  j  i  Discorsi,  lili.  Ili,  cap.  9. 
2  Vedi  inoltre  il  Discorso  Del  modo  di  tratiare  i  popoli  della  Val  (tt 
Chiana, 


XXXIV  CONSIDERAZIONI 

Leone,  gli  parve  di  scorgere  un  allro  raggio  di  speranza  dapprima  in 
Giuliano,  appresso  in  Lorenzo,  duca  d'Urbino;  il  quale,  già  imparen- 
talo colla  Casa  reale  di  Francia  e  divenuto  signore  di  Firenze,  erasi 
dato  ad  ambiziosi  disegni  e  ad  ardile  speranze;  e,  come  dice  Roscoe,< 
<  si  supponeva,  e  forse  non  sema  ragione,  che  col  soccorso  di  Leone  X 
e  del  monarca  francese  intendesse  impadronirsi  di  Siena  e  di  Lucca , 
ed  unendo  a  questi  Stati  il  ducato  d'  Urbino  è  lo  Stato  pure  di  Firen- 
%e  ,  stabilir  per  tal  modo  un  dominio  esleso  dall'  una  all'  altra  costa 
d' Italia.  B  Io  dubito  eh'  egli  vi  avesse  T altitudine  del  Borgia;  ma  ad 
ogni  modo,  ne  pareggiava  la  vastità  delle  mire  d' ingrandimento;  e 
se  fosse  vissuto  più  a  lungo,  e  papa  Leone  lo  avesse  secondato  ,  chi 
sa  s'ei  non  vi  sarebbe  riuscito?  Certo,  il  Segretario  non  ne  dispe- 
rava in  quell'  auge  della  fortuna  pallesca  ;  e  ben  Io  dimostra  nel 
preallegalo  capìtolo,'  dove  effettivamente  esorta  Lorenzo  alla  grande 
Impresa  ed  a  seguire  l'esempio  del  Valentino.  L'Arlaud  non  crede  a 
quella  esortazione,  affermando  che  molte  volle  il  pensiero  non  va 
così  lontano  come  le  parole;  che  Lorenzo,  pel  suo  mal  fermo  stato  di 
Firenze  e  per  la  corta  vita  dei  pontefici ,  non  polea  concepire  un  sif- 
fatto disegno;  e  che  Machiavelli,  alla  (ine,  avea  mandato  a  quel 
principe  il  suo  libro  n^n  per  divolgarlo,  ma  per  lui  solo,  e  non  per 
altro  che  per  averne  un  impiego.  Ma  io  per  Io  contrario  ho  multe 
prove  a  credere  che  quivi  egli  facesse  da  vero.  Prima  cosa,  parec- 
chie delle  difficoltà  che  aveva  papa  Alessandro  a  voler  far  grande  il 
Duca  suo  figliuolo,  cioè  di  non  poterlo  farsignore  d'alcuno  Stato  che 
non  fosse  Stato  di  Chiesa ,  e  dell'  essere  alcune  città  di  questo  sotto  la 
protezione  del  Veneziani,  non  le  aveano  papa  Leone  e  Lorenzo:  lo 
Stalo  di  Firenze  costituiva  per  sé  medesimo  un  potente  dominio,  e 
la  generosità  dì  Leone  verso  i  nemici  della  sua  famiglia  gli  aveva  af- 
fezionali gli  animi  dei  Fiorentini;  giovine  era  il  ponlelice  e  potente 
per  gli  acquisti  di  papa  Giulio ,  ai  quali  egli  aggiunse  Urbino ,  Modena 
e  Reggio;  e  già,  come  abbiamo  da  Guicciardini  e  da  Roscoe,  me- 
diante l'alleanza  francese  avea  fallo  disegno  sopra  Ferrara,  Parma  e 
Piacenza,  sopra  tutta  la  Toscana  e  sul  Regno  di  Napoli;  né  fu  lon- 
tano dal  pensare  a  liberar  l' Italia  dalla  dominazione  straniera.  Ben- 
ché interrotto  dalle  circostanze,  manifesto  appariva  in  lui  a  quando 
a  quando  anche  il  pensiero  di  ingrandire  la  propria  famiglia  ;  ^  tal- 

<  iftor/a  del  Pontifcato  di  Leone  X. 

■  Ventesimosesto. 

'  La  tenerezza  che  Leone  avea  mostrata  per  promuovere  l'avanzamento 
del  di  lui  nipote,  e  i  modi  dispendiosi  e  pericolosi  ai  quali  avea  ricorso 
per  questo  fine,  sono  pure  dichiarati  da  Roscoe.  Vedi  la  Storia  del  Pontif- 
calo  di  Liont  X.  Vedi  ancha  il  Muratori,  Àtmali  d' Italia,  anno  i514. 


SUL  LIBRO   DEL   PRINCIPE  XXXV 

che,  se  pur  contradisse  talora  ì  vasti  concelti  di  Lorenzo,  sembra 
che  noi  facesse  per  altro,  se  non  perchè  i  tempi  non  ne  erano  per 
anco  maturi.  In  breve,  l'impresa  non  appariva  superiore  alle  forze 
dei  Medici:  voglioso  erane  il  nipote,  non  alieno  lo  zio;  molte  parole 
ovunque  ne  correvano:  qual  maraviglia  che  Machiavelli  la  giudicasse 
probabile?  Il  desiderio  di  veder  sorgere  chi  guarisse  l' Italia  dalle  sue 
piaghe  infistolite ,  e  vi  ponesse  fine  agli  stranieri  insulti ,  desiderio  di 
Dante,  di  Petrarca  e  di  parecchi  altri,  non  era  per  ancora  estinto  fra 
gl'Italiani  dalla  dominazione  spagnola:  papa  Giulio  II,  che  il  nutriva 
con  ardente  animo,  fece  il  potere  per  mandarlo  ad  esecuzione,  e  noi 
depose  che  con  la  vita;  ed  anche  l'Ariosto  *  ne  dà  dei  barlumi:  or 
come  poteva  esservi  straniero  il  Segretario ,  che  nel  trattare  e  di  sto- 
ria e  di  politica  e  di  guerra  non  sapea  mai  dimenticarsi  la  gloria  e 
la  grandezza  romana  ,  sospirando  il  ritorno  di  que'  tempi  in  cui  l' Ita 
lia,  anziché  riceverla,  dava  legge  al  mondo?  Il  gran  principio  della 
centralità,  senza  di  cui  uno  Stato  non  può  né  prosperare  né  soste 
nersi  a  lungo,  non  era  ignoto  a  quel  robusto  intelletto,  come  appare 
da  parecchie  delle  sue  scritture;  e  quando  nei  Discorsi  afferma  *  «  che 
alcuna  provincia  non  è  mai  unita  a  felice ,  se  la  non  viene  tutta  al- 
l' obbedienza  d'  una  repubblica  a  d' un  principe ,  cnm'  è  avvenuto  alla 
Francia  ed  alla  Spagna,  »  e  sì  duole  «  che  l' Italia  non  sia  in  quel  me- 
desimo termine ,  »  dimostra  evidentemente  eh'  egli  le  desiderava  un 
principe  del  fare  di  Ferdinando  il  Cattolico;  di  Ximenes  e  di  Luigi  XI. 
E  la  sua  Arte  della  Guerra,  in  cui  non  meno  che  nel  Principe  e  nei 
Discorsi  egli  esorta  i  governi  ad  avere  armi  proprie  e  buone  fanterie, 
non  rivela  forse  in  lui  la  speranza  di  suscitare  un  futuro  conquista- 
tore italiano  che  soggiogasse  tutti  gli  Stati  d' Italia  e  la  liberasse  dalle 
invasioni  straniere  ?  «  Qualunque  di  quelli  che  tengon  oggi  Stati  in 
Italia,  egli  vi  dice,'  prima  entrerà  per  questa  via ,  fia  prima  che  al- 
cun altro'signore  di  questa  provincia  .  .  .  Essa  par  nata  per  risuscitare 
le  cose  morte,  come  s'è  visto  della  poesia,  della  pittura  e  della  scul- 
tura .  .  .  interverrà  a  questo  Stato  come  al  regno  dei  Macedoni  sotto 
Filippo  e  sotto  il  figliuolo.  »  Lo  stesso  calore  persuasivo  del  celebre 
capitolo  che  andiamo  esaminando,  calore  il  quale  non  poteva  essere 
infuso  nell'animo  che  da  un  vero  e  forte  sentire,  sempre  più  ci  con- 
vince di  quanto  asserisco;  e  ce  ne  fa  por  giù  ogni  dubbiezza  il  vedere 
proposto  ad  esempio  del  principe  nuovo,  eh'  ei  volea  formare  in  Lo- 
renzo, il  duca  Yaleniino;  il  quale,  come  si  vede  e  come  dice  il  Se- 

*  E  Gianantonio  Flamminio ,  e  Polidoro  Vergilio  nel  libro  De  Prodigiist 
dedicato  a  Francesco  Maria,  duca  d'Urbioo. 
2  Lib.  I,  cap.  12. 
»  In  fine. 


XXXVl  CONSIDERAZIONI 

greiario,  avrebbe  redenta  l' Italia  ,  se  non  lo  avesse  reprobato  la  for- 
tuna. Codesto  esemplare  aveva  insieme  con  papa  Alessandro  princi- 
piata e  quasi  condutla  a  fine  in  Romagna  V  impresa  di  Luigi  e  di 
Ferdinando.* 

Ma,  quandacol  mancar  di  Lorenzo  mancò  ancor  questo  secondo 
spiraglio  per  la  redenzione  italica,  altri  concetti  dovettero  natural- 
mente entrare  nella  mente  di  Machiavelli.  Per  la  morte  di  quel  prin- 
cipe, il  pontefice  trova  vasi  il  solo  maschio  legittimo  della  discendenza 
di  Cosimo;  e,  conforme  osserva  il  Segretario  istessu  nei  Discorsi,*  «  la 
Chiesa,  che  teneva  imperio  temporale  in  Italia,  non  era  si  potente  né 
di  tal  virtù,  che  ne  potesse  occupare  il  restante:  »  e  di  fatto,  se  un 
papa  esser  poteva  in  istalo  di  procacciare  ad  un  Aglio,  ad  un  nipote 
il  dominio  dell'  Italia ,  secondo  che  fu  visto  per  F  esempio  di  Alessan- 
dro VI ,  non  pare  che  il  potesse  acquistare  per  sé:  «  /a  dignità  pontifi- 
cia, come  avverte  Roscoe,  era  difficilmente  compatibile  coli' assumione 
e  coli eterciiio  d'  un  tal  potere.  »  Ditrerenii  circostanze  suscitarono 
adunque  in  Machiavelli  differenti  pensieri.-  Nulla  essendo  più  ormai 
del  pensare  z  ridurre  V  Italia  sotto  una  sola  signoria,  le  cure  e  le 
sollecitudini  di  lui  concentraronsi  tutte  nuovamente  in  Firenze;  e  pa- 
rendogli di  trovarvi  una  grande  equalità,  com'egli  pur  dice,  sicché 
facilmente  vi  si  potesse  costituire  una  repubblica,  nel  Discorso  sulla 
Riforma  di  Fireme,  ch'egli  compose  ad  istanza  di  Leone  X,  lo  Irò- 
viam  pendere  manifestamente  io  animo  repubblicano,  t  Essendo  ve- 
nuta,  egli  dice,  la  cosa  in  termine,  com'è  per  la  morte  del  Duca 
(cioè  di  Lorenzo  de*  Medici) ,  si  ha  da  ragionare  di  nuovi  modi  di  go- 
verni ;  >  e  più  sotto:  •  quanto  ni  principato,  io  non  la  discorrerò  par- 
ticolarmente, si  per  le  difficoltà  che  vi  sarebbero  a  farlo,  si  per  esser 
mancato  l' istrumento  (il  Duca  predetto):  »  ne  divei*so  egli  si  m(»s(ra 
in  alcuni  capitoli  dei  Discorsi.  Che  fusse  in  Firenze  tanta  eqiialiià  da 
potervi  inlrudur  facilmente  un  viver  civile,  secondo  che  atTerma  il 
Segretario,  io  ne  dubito  forte,  giusta  quello  che  ne  dissi  di  supra; 
anzi,  a  dir  vero,  egli  stesso,  nel  capitolo  cinquantesiinoquinto  del 
libro  primo  dei  Discorsi,  mi  pare  che  venga  a  contraddire  quanto  in 
tale  proposito  avea  detto  nel  capìtolo  quarantesimonono  e  nel  /dis- 
corso sulla  Riforma  di  Firenie,  dove  parla  del  predominio  che  avea- 
no  le  parti  in  essa  città,  le  quali  iniprdivanla  dell'avere  uno  stato 
che  potesse  veramente  chiamarsi  repubblica  :  il  che  io  pure  dimostrai 

*  Il  celebre  Ranke ,  nella  sua  Critica  di  alcuni  storici  moderni,  opina  an- 
ch' egli  che  il  pensiero  di  Machiavelli  fosse  quello  di  salvar  i'  Italia  mediante 
il  vigoroso  dominio  di  un  sol  uomo;  e  che  perciò  coa6dossi  in  Lorenzo  dei 
Medici ,  di  fiero  e  risoluto  carattere. 

S  Mei  Uh.  1,  cap.  13. 


SUL  LIBRO  DEL   PRINCIPE.  XXXVil 

nel  luogo  accennalo.  Ma  ciò  sia  dello  così  per  iransito:  baslimi  che 
Machiavelli  a  seconda  delle  circostanze  ora  fu  ordinalore  di  princi- 
pali, ora  di  repuhbliche.  S'io  m;»l  non  mi  appungo ,  era  in  lui  un'al- 
lernazione  di  amore  per  la  repubblica ,  e  di  amore  per  l' indijiendenza 
italica  da  effettuarsi  per  mezzo  dell'  unità  monarchica  ;  gli  avveni- 
menti risvej^liavano  or  questo  affetto  or  quello;  ora  sorgeagli  in 
mente  il  fatai  cerchio  delle  umane  cose,  ora  ripij,'liava  le  abitudini  re- 
pubblicane. L'ondeggiar  che  faceano  allora  le  ciilà  italiche  in  scam- 
biamenti repubblicani  e  monarchici,  effettua  vasi  pure  nelle  considera- 
zioni pratiche  del  Segretario:  egli  era  in  lutto  un  riflesso  de' suoi 
tempi.  Oa  ragione  o  a  Iorio,  questa  fu  insomma  la  maniera  da  lui 
costantemente  seguila,  il  variare  a  norma  delle  circostanze:  maniera 
non  dissimulata,  ma  fatta  aperlamenie  palese  a  chiunque  la  legga: 
ond'  è,  che  altri  forse  potrà  dire  aver  esso  seguita  una  falsa  via, 
ma  non  mai  provare  che  cangiasse  natura  ne  apparenza. 

Per  (juello  poi  che  concerne  i  gentiluomini,  le  sue  massime  non 
lasciano  di  esser  conformi  e  alla  sana  politica  ed  alla  condizione  dei 
tempi.  Voleva  egli  il  principe  nuovo  fare  un  regno  dove  fosse  assai 
eqiialiià,  com'era  a  dire  in  Firenze?  '  Per  comprimervi  la  tendenza 
repubblicana  ,  propria  di  siffatta  equajità,  massimamente  in  quei  riot- 
tosi «empi,  era  necessario  il  costituirvi  una  nobiltà.  A  fine  di  impe- 
dire l'urto  ed  il  conflitto  dei  due  principii  monarchico  e  popolare, 
che  sarebbe  avvenuto  qu;dora  fossero  stati  in  cospetto  1'  uno  dell'  al- 
tro, doveasi  effeiluare  codesto  gradualo  passaggio  dal  principe  al  po- 
polo, onde  se  ne  rendesse  insensibile  la  disparità,  e  ad  un  tempo  si- 
cura la  forza  monarchica  mediante  l' appoggio  delle  classi  intermedie. 
Gli  stati  dispotici,  che  son  privi  d'  una  graduazione  sociale ,  van  sog- 
getti perciò  a  quelle  terribili  sommosse,  in  cui  si  passa  dal  muto  e 
cieco  <d)bedire  alla  licenza,  dalla  venerazione  alla  rivolta;  come  di- 
mostrano le  storie  orientali,  piene  di  sanguinosi  ed  atroci  falli.  S'ag- 
giunge, che  la  nobiltà  interessa  i  grandi  alla  stabilità  del  governo, 
da  cui  emanano  ed  a  cui  sono  essenzialmente  inerenti  le  loro  pre- 
rogative :  e,  come  dice  il  Segretario, ^  «  un  principe  solo ,  spogliato  di 
nobiltà,  non  può  sostenere  il  pondo  del  principato;  ond' è  necessario 
che  tra  lui  e  /'  universale  aia  un  me^^^o  che  l'  aiuti  sostenerlo.  »  S'  ag- 
giunge, che  giusta  il  mentovato  cenno  di  esso  Machiavelli,  '  a  cui 
Consuonano  le  sentenze  di  Condorcel  e  di  Bentham,*»  l' insti  turione 
della  nobiltà  ereditaria  è  un  ottimo  meno  per  addormentare  V  inquie- 

*  Secondo  il  parere  di  Machiavelli. 

2  Nel  Discorso  sulla  Bifornia  di  Firenze. 
'  Nei  Discorsi ,  lil).  I,  cap    55. 

*  Traile  des  récompenses  :  e  si  noli ,  che  essi  non  erano  aristocratici. 


XXXVIII  CONSIDERAZIONI 

tudine  febbrile  e  le  perpetue  gelosie  da  cui  sono  tormentati  gli  uomini 
quando  tutti  si  risguardano  come  uguali  ;  e  la  certeaa  di  vedersi  ri- 
spettato è  un  preservativo  contro  quella  vanità  irrequieta  ed  ombrosa 
che  dovunque  scorge  V  insulto  o  suppone  il  dixpreao  ;  passione  impla- 
cabile che  col  male  che  fa  si  vendica  del  dolore  che  soffre.  »  Se  altri 
poi  mi  domandi,  perchè  fn  cambio  dei  nobili  di  dignità  e  di  ripiiia- 
zione,  cóm'  erano  allora  i  Veneziani  e  prima  i  Romani,  Machiavelli 
proponga  quivi  i  nobili  feudali ,  che  non  piacciono  né  debbon  piacere 
ai  polìtici  odierni,  risponderò,  ch'egli  giudicava  propri  quelli  d'una 
repubblica,  questi  d'  un  principato;*  il  quale,  secondo  eh'  egli  avvisa 
nel  Principe,  dee  fondarsi  in  sul  Umore  anziché  sull'amore  dei  po- 
poli,' onde  gli  fa  d'  uopo  una  gran  forza  ,  qual  è  il  soccorso  d'  una 
nobiltà  castellana;  la  quale,  a  dir  vero,  potea  farse  sembrar  neces- 
saria con  un  popolo  di  tendenze  repubblicane  e  licenziose,  in  un  tempo 
che  il  principato  non  avea  per  anco  acquistale  le  forze  che  poi  acqui- 
stò col  mezzo  delle  regolari  imposte  e  della  centralità  delle  leggi  e 
cogli  eserciti  stanziali.  '  Per  la  stessa  ragione,  anche  il  Boterò  consi- 
gliò un  simile  provvedimento.  Credevasi,  che  i  principati  senza  di 
quella  fossero  quasi  corpi  senz'  ossa  e  nervi.  ♦  L' età  ricercava  ciò  che 
in  un'  altra  età  sarebbe  parso  improvvido  ;  e  ciò  avrebbe  pur  fatto 
Lorenzo  in  Firenze,  se  pel  mancare  di  lui  non  vi  fosse  mancato  l' istru- 
mento  a  farvi  un  principato. 

Per  altra  parte,  qualora  si  avessero  a  riordinare  provincie,  come 
la  Romagna, la  Terra  di  Roma  e  il  regno  di  Napoli,  in  cui ,  al  dire 
del  Segretario,  trovavasi  gran  copia  di  gentiluomini,  nemici  d' ogni 
civiltà,  e  dei  quali  era  tanta  la  materia  corrotta,  che  le  leggi  non  ba» 
stavano  a  frenarla,^  bisognava  far  ciò  che  furon  costretti  a  fare  pnpa 
Alessandro  e  Cesare  Borgia;  i  quali  cogli  artifìci!  ricordati  di  sopra, 
purgarono  in  panie  i  dominii  loro  di  codesta  eccessiva  ambiiione  e  cor- 
ruttela, supplendo  con  quelli  alla  manchevolezza  delle  leggi.  Indarno 
si  obbietterebbe  che  il  Segretario  in  questo  luogo  si  mostra  avverso 
ai  castellani,  dove  neir  altro  vuole  che  siano  favoriti  dal  principe 
nuovo.  I  gentiluomini  del  primo  caso  venivano  creati  dal  principe 
islesso,  quelli  del  secondo  aveano  avuto  origine  da  usurpazioni  an- 
tiche, e,  per  usare  le  parole  istesse  di  Machiavelli,  t  non  per  graiia 
del  signore,  ma  per  antichità  di  sangue  tenevano  quel  grado.  »  1  primi 

«  Vedi  il  lib.  I,  cap.  55,  dei  DUcorH. 
»Cap.  17. 

'  Vedi  la  mia  Opera,  Delle  Differenze  polilichefra  i  popoli  antichi  e  mo- 
derni, parte  prima  ,  La  guerra  j  nella  condasione. 
*  Parole  del  Bolero. 
5  Nel  Ub.  I,  cap.  l^,  dei  Discorsi. 


I 


SUL  LIBRO   DEL  PRINCIPE.  XXXIX 

pertanto  non  aveano  altre  prerogative  fuorché  (pielle  concesse  dalle 
leygi,  quindi  le  necessarie  e  non  più;  i  secondi,  come  usurpatori 
che  erano,  ne  avevano  di  soverchie,  per  cui  erano  divenuti  prepo- 
tenti ed  altrettanti  sovrani  nelle  terre  loro:*  e,  dove  quelli,  rico- 
noscendo il  loro  legale  principio  dal  principato,  erano  interessati  alla 
sua  conservazione;  questi,  avendo  un  principio  illegale  ed  opposto, 
agognavano  anzi  la  distruzione  d' ogni  sovranità  centrale  che  troppo 
ne  attraversava  gli  ambiziosi  e  corrotti  appetiti.  Hallant  ^  dimostra 
che  la  nobiltà  primitiva,  eccetto  l'inglese,  non  che  derivasse  da  con- 
cessioni sovrane,  si  poteva  chiamar  creata  da  sé  medesima;  e  che  la 
nobilià  creata  in  appresso  dai  re,  concorse  a  scemare  la  forza  e  V  in- 
dipendenza di  quella.  Gli  uni  per  conseguenza  doveano  essere  ono- 
rati ,  gli  altri  o  spenti  o  abbassati ,  per  fondar  poi  sulla  rovina  loro 
un'altra  nobiltà  che  moderata  e  legale  fosse:  il  che  per  avventura 
avrebbe  fatto  il  duca  Valentino,  se  avesse  avuto  miglior  sorte:  e 
quindi  si  comprende,  perchè  Machiavelli,  se  in  parecchi  luoghi  vuole 
che  si«no  o  rovinati  o  depressi  i  grandi,  in  altri  pur  vuole  che  siano 
onorati  :  la  diversità  delle  circostanze  inducevalo  a  dare  diversi 
consigli,  come  anche  si  vide  in  effetto.  Che  se  egli  (come  è  la 
taccia  di  alcuni)  pensava  forse  un  po' troppo  all'utile  del  principe  e 
troppo  poco  a  quello  del  popolo,  non  convien  mai  dimenticarsi  che 
i  politici  di  quel  tempo  non  ignoravano  il  gran  principio  del  torna- 
conto comune,  ma  credettero  necessario  il  fare  dapprima  il  bene  del 
re,  perchè  questo,  acquistate  che  avesse  contro  i  pubblici  nemici 
baslevoli  forze,  potesse  fare  il  bene  del  popolo. 

Ma,  per  conseguire  un  tal  line,  doveasi  poi  consigliare  ai  principi 
il  mancare  della  data  fede,  l'ingannare,  l'aggirare  gli  uomini?  Un 
tale  consiglio  si  legge  effettivamente  nel  capitolo  decimottavo  del 
Principe,  '  il  quale  perciò  divenne  l'oggetto  d»'lle  più  calde  decla- 
mazioni contro  il  Machiavelli,  Dico  pertanto,  che  non  è  né  sarà  mai 
mia  intenzione  di  giustihcare  codesto  consiglio,  corUrario  alle  mas- 
sime inalterabili  della  morale  privata  e  pubblica:  ma  dove,  lasciando 
da  un  canto  i  clamori,  propri  delle  menti  superticiali,  si  voglia  guar- 
dar la  cosa  un  po'  più  al  minuto,  credo  si  verrà  a  conoscere,  che  se 
il  Segretario  è  degno  di  biasimo,  non  ne  merita  tanto  quanto  gliene 
danno  i  suoi  detrattori.  La  sua  è  una  (|uestione  non  assoluta  di  ra- 
gione civile,  ma  relativa  di  necessità  peculiari.  Consentaneo  alla  sua 
professione  politica,  di  sopra  esposta,  egli  parla  della  condona  da 
tenersi  nei  vari  casi  e  nelle  varie  condizioni  ;  quindi  ancora  di  quella 

*  Vedi  la  Storia  delle  Fepubbliche  Italiane  di  Sismondi ,  tomo  13, 

*  L*  Europa  nel  medio  evo» 

5  Ed  anche  nel  libro  II,  ciip.  13,  dti  Discorsi.  .      .  .     < 

d 


XL  CONSIDERAZIONI 

d' an  principe  nuovo  in  tempi  difficili  e  malvagi.  In  fatti,  si  raccoglie 
dallo  slesso  libro  del  Principe,  e  da  altri  lesti  dichiarativi  delle  sue 
vere  intenzioni,  ch'egli  varia  i  suoi  consigli  col  variare  dei  principali. 
Ai  principi  ereditari,  o  d' uno  Stato  già  stabilito  e  fermo,  propone  ad 
esempio  la  giustizia,  l'umanità  e  la  virtù  di  Marco  Aurelio  impera- 
tore; e  quanto  ai  principi  nuovi,  premette  la  massima,  eh' è  lodevole 
in  un  principe  il  mantener  la  fede  e  vivere  con  integrità  e  non  con 
astuiia  :  soggiunge,  che  converrebbe  esser  buono  se  tutti  gli  uomini 
il  fossero,  ma  siccome  p^r  esperiema  de'  nostri  tempi  (i  quali  già  si 
vide  di  che  natura  fossero)  essi  sono  tristi,  e  non  osserverebbero  la  fe- 
de, cosi  il  prirtcipe  nuovo  che  voglia  mantenere  il  suo  stato  dee  saper 
talora  non  osservarla  quando  bisogna,  parer  leale,  ma  non  esserlo  sem- 
pre. Ponendo  adunque  avvertenza  a  questo  lesto,  ed  osservando 
eziandio,  come  il  medesimo  autore  dice  espressamente  altrove,  e  che 
non  ti  dee  partirsi  dal  bene  potendo,  ma  solo  necessitato — che  la  ma- 
lignità dei  tempi  impedisce  di  fare  il  bene  —  che  sarebbe  lodevolissimo 
l'esser  buono — che  conviene  guardarsi  da  tutti  i  viii;  ma  ch'egli  scrive 
a  chi  l'intende,  cioè  fra  tanti  che  non  son  buoni  * — che  ad  un  principe 
(cioè  del  secolo  decimoquinto)  fa  d'uopo  talora  entrare  nella  via  del 
male — e  che  è  meglio  esser  privato  che  principe  con  tanta  rovina  degli 
uomini:  »  mi  sembra  se  ne  possa  dedurre,  che  il  Segretario  già  non 
intese  di  lodare  la  slealtà,  da  lui  chiamata  un  male  ed  un  vizio,  ma 
volle  adattare  i  consigli  alle  circostanze  dell'eia  sua,  ch'egli  non  avea 
fatte  nascere  né  consigliate,  e  che  anzi  condannava  e  deplorava, 
come  si  scorge  nei  testi  preallogati.  Da  questo  lato  io  trovo  in  lui 
non  un  moralista  o  un  giurista,  ma  piuttosto  uno  storico,  uno  stati- 
stico ;  il  quale,  lasciando  slare  le  verità  morali  che,  come  dissi,  sono 
inalterabili,  parla  per  modo  di  eccezione  ed  in  ipotesi  di  questa  poco 
intelligibile  umana  natura,  e  delle  cagioni  per  cui  i  principi  nuovi  o 
si  mantenevano  nel  principato  o  ne  trabocca  vano,  giusta  le  cose  dette; 
e  quasi  mi  parche  dica  al  suo  principe  nuovo  :  <  Assai  meglio  sarebbe 
che  tu  non  fossi  a  queste  condiiioni  ;  ma  se  pur  vi  ti  trovi ,  sappi 
che,  qualora  tu  non  faccia  com'  io  ti  dico ,  ci  rovinerai  sotto.  •  Rela- 
tivamente agli  affari  esterni,  già  vedemmo  che  all'ambizioso  non 
rimaneva  altra  facoltà  che  quella  di  scegliere  fra  due  tristi  partiti;  e 
in  ordine  agl'interni,  vedemmo  pure  a  che  inducesse  gli  statuali  di 
quella  età  la  lor  comune  debolezza  in  tanto  disordin  sociale,  e  Pur 
troppo  confessar  dobbiamo,  dice  Romagnosi,'  la  mancama  d'un  po- 
tere politico  che  fosse  abbastanta  forte  per  proteggere  l' ordine  civile  ; 

*  Vedi  anche  il  cap.  45  del  Principe. 

2  Nei  Fattori  dell'  Incivilimento  ^  quando  parla  dtìHe  Signorìe  italiane  dei 
lecoU  XIV  e  XV, 


SUL  LIBRO   DEL   PHI^CIPE.  XU 

onde  coloro  che  aveano  la  confidenza  dei  signori  e  sedevano  nei  loro 
consigli,  sentivano  la  necessità  di  supplire  alla  forata  mancante  col- 
l'astinia;  e  questa  piega  politica  non  era  prodottane  da  ignoranza  né 
dal  rifiuto  di  eque  leggi ,  ma  dal  bisogno  d'  una  [or%a  accentrata  e 
prevalente.  »  Non  polendosi  conseguir  l'intento  in  altra  maniera,  la 
polìtica  si  limitava  ad  esporre  le  massime  generali  per  giungervi  e 
mantenervisi. 

So  bene  che  i  moralisti  dimostrano  ragionevolmente,  non  po- 
ter essere  un  argomento  a  giustidcazione  del  mancar  di  fede,  la  pre- 
sunzione che  tutti  gli  uomini  siano  sleali  ;  perchè  questa  sarebbe 
un'ingiuria  all'umanità,  e  d'altronde  per  tal  forma  ogni  promessa  po- 
trebb' esser  violata  :  ma ,  torno  a  dirlo,  il  Segretario  in  questo  luogo 
non  vuol  fare  il  moralista  che  si  rivolge  a  tutti  gli  uomini;  egli  parla 
ad  un  principe  nuovo  de' suoi  tempi,  il  quale,  come  pur  dice,  e 
spesso  necessitato  ,  per  mantenere  lo  slato ,  operare  contro  la  fede  ;  e 
bisogna  che  abbia  un  animo  disposto  a  volgersi  secondo  che  i  venti  e  le 
variazioni  della  fortuna  gli  comandano:  ed  allega  gli  esempi  di  papa 
Alessandro  e  di  Ferdinando  il  Cattolico.  Anziché  dell'  intera  umanità, 
intese  adunque  parlare  di  coloro  coi  quali  ebbero  che  fare  ì  principi 
nuovi  dell'età  sua,  e  i  due  ricordati  sovrani  che  in  codesta  loro  im- 
presa del  tòr  di  mezzo  o  di  reprimere  la  prepotenza  baronesca  o  ca- 
stellana, faceauo  al  certo  una  gran  novità  nei  dominii  loro.  I  princìpi 
del  suo  secolo,  i  baroni ,  i  signorotti  e  simili  altri,  erano  gli  uomini 
di  cui  egli  qui  evidentemente  afferma,  che  non  avrebbero  osservala 
la  fede;  il  che  si  concilia  colla  descrizione  che  poi  ne  fece  nei  Dis- 
corsi^ e  con  quanto  io  pure  osservai  dì  sopra  in  proposito  degli  sta- 
tuali tutti  di  quella  corrottissima  età,  in  cui  gli  inganni  e  le  frodi 
erano  non  solo  ordinari,  ma,  secondo  i  casi,  e  apprezzali  e  lodati. 
Con  simil  gente,  eh'  io  non  dubiterei  di  paragonare  ai  ladri,  agli  as- 
sassini, dobbiamo  noi  maravigliarci  se  per  propria  guarentigia  si 
opponeva  l' inganno  all'  inganno?  «  Lo  statista ^  dice  a  questo  propo- 
silo il  Marlens,*  dee  regolare  la  propria  condotta  secondo  quella  di 
coloro  coi  quali  egli  entra  in  un  negoziato  :  se  gli  trova  leali  e  schietti, 
deve  esser  tale  anch'  egli  ;  ma  qualora  impieghino  V  astuzia  ,  egli  è 
pienamente  autorizzato  a  valersi  delle  medesime  armi:  e  a  torto  si 
biasimerebbe  un  negoziatore  che  fosse  costretto  ad  operare  in  tal  forma 
da  chi  cerca  d' ingannarlo ,  perchè  il  conseguire  il  suo  fine  è  quanto 
v' ha  d'essenziale  in  lui.  * 

Non  dissimulo  l'obiezione  di  alcuni.  Quando,  essi  dicono,  con- 
chìuso  che  siasi  un  patto,  un  trattato,  si  abbiano  indizi  e  prove  ma- 
nifeste, che  l'altro  contraente  non  sìa  per  osservare  la  fede,  si  pu(> 

*  Guide  dìplomatique  f  etc. 


XLII  CONS'.DERAZIOM 

avere  nn  giusto  titolo  per  non  altenergliela  ;  ma  non  già  quando  gl'in- 
dizi siano  anteriori  e  non  posteriori  al  contralto,  come  avverrebbe 
del  pirata,  del  ladro  e  di  altrettali  persone;  giacché  soggiungono, e 
perchè  dunque,  nonosianli  quelle  antecedenze,  patteggiaste  coh 
loro?  Se  non  vi  foste  li  dato,  non  avreste  pattuito  con  essi.  La  lot' 
n^alvagia  vita  dee  bensì  distogliervi  dal  venir  seco  ai  patti;  ma, 
ronchiusi  che  gli  abbiate,  se  essi  non  vi  diano  cagione  di  fondalo  ti- 
more, voi  non  avete  il  diritto  di  mancare  ad  essi  della  data  parola. 
Assai  severa  è  questa  morale,  né  lutti  i  trattatisti  la  spingono  tant'  ol- 
tre: ma  io,  lasciando  la  questione  indecisa,  voglio  considerar  le  cose 
neir  aspetto  in  cui  dovea  considerarle  il  Segretario,  Mi  si  dica  per- 
tanto: nei  tristi  tempi  che  allora  correvano,  quei  gentiluomini  ca- 
stellani di  Napoli,  della  Terra  di  Roma  e  della  Romagna,  quei  grandi 
fiorentini  che  con  le  sètte  rovinavano  lo  Stato,  quei  signori  che  aveano 
occupati  i  feudi  della  Chiesa,  gerite,  come  pur  dice  il  Segretario,  ec- 
cessivamente ambiziosa  e  corrotta,  perniciosa  in  ogni  provincia, 
nemica  d' «)gnl  civiltà,  un  esempio  d'ogni  scelleratissima  vita,  che 
per  ogni  leggiera  cagione  commetteva  uccisioni  e  rapine  grandissime, 
per  cui  I  popoli  s' impoverivano  e  depravavano;  gente  che  per  conse- 
guenza opponeva  un  continuo  ostacolo  alla  civile  concordia,  alla  cen- 
tralità ,  ed  alla  tranquilla  e  soddisfacente  convivenza,  non  eran  forse 
allrellanii  pubblici  oeniici  ?  Come  già  si  vide  nel  testo  preallegato 
di  Romagnosi,  e  come  dice  il  Segretario  istesso  in  quel  capitolo, 
pur  mentovato,  dei  Discorsi,  non  v'era  nò  poier  politico  né  legge  che 
fosse  sufficiente  a  frenire  tanta  materia  corrotta  ed  a  proleggere  1*  or- 
dine pubblico;  onde  non  basiamlo  la  forza  ledale,  non  bastando  le 
ordmarie  vie  della  giustizia,  conveniva  supplirvi  con  T astuzia.  Ciò 
stesso  fu  udito  dire  anche  Leon  X  in  proposito  del  Baglioni,  se  dob- 
bìain  credere  all'Anonimo  padovano,  citato  dal  Muratori.'  Quale 
altro  mezzo  rimaneva  infatti  alla  società  per  la  propria  conservazione, 
che  è  pure  la  prima  legge  di  quella?  I  terrbini  della  ragion  di  stato 
non  debbono  essi  dilatarsi  in  proporzione  di  codesta  legge?  Non  fe- 
cero forse  di  pii"»  Pier  Gradenigo  colla  serrata  del  maggior  Consi- 
glio, Bonaparte  col  diciotto  brumale?  Se  fosse  lecito  mescolare  le 
cose  sacre  colle  profane,  direi  pure:  che  altro  fece  Giuditta?  Per  la 
necess  là  evidente  del  comun  bene,  per  guarentirsi  e  salvarsi  dal* 
l'altrui  perfìdie  e  malvagità ,  non  per  farne,  la  ragione  di  stati»  è  non 
solo  un  diritto,  ma  si  un'obbligazione  naturale  e  indispensabile.  Le 
frodi  e  gl'inganni,  come  asserisce  anche  Arislolile,  hanno  talora 
sovvertiti  gli  stati.  Perchè  non  si  ha  da  impedire  e  stornare  cdesti 
mali,  e  salvare  la  società  coi  mezzi  istessi  con  cui  si  vorrebbe  ro- 

*  Annali  d' Italia. 


J 


I 


SUL  LIBRO  DEL  PRINCIPE.  ^LIII 

vinaria  ?  II  volere  con  simil  gente  operare  altrimenti ,  è  talvolta  un 
voler  tradire  e  perdere  lo  Sialo. 

«  Se  alcuno,  dice  lo  Slellìni ,  *  cerchi  di  conseguire  ciò  che  a 
buon  dritto  se  gli  debba  e  che  dall'  altrui  iniquità  gli  sia  impedito, 
convengono  e  i  giuristi  e  i  più  severi  filosofi,  non  essere  interdetto 
l' aiutarsi  della  menzogna  a  quel  fine  :  e  di  fatto,  sarebbe  in  filoso fi.a 
assurdo  il  dire ,  che  non  sia  lecito  l'opprimere  più  sicuramente  cogli 
inganni  colui  che  non  ingiustamente  possa  esseve  ucciso  da  noi  con 
maggiore  pericolo:  imperciocché  l'inganno  non  si  oppone  più  della 
forza  alla  ragione  naturale,  qualora  tendano  ambedue  a  perturbare  i 
sociali  diritti;  e,  se  nel  difendere  e  pretender  questi,  la  forza  è  giudi- 
cata onesta ,  non  può  essere  disonesto  V  inganno  al  medesimo  fine  im- 
piegato. »  Tanto  asserisce  l'autorevole  moralista;  ed  a  conferma  della 
sua  sentenza  allega  un  passo  della  Ciropedia,  dove  il  padre  di  Ciro 
dice  al  fio[liuolo,  che  così  dee  fare  il  nemico  contro  il  nemico;  ed  un 
altro  luogo  di  Senufonle,  in  cui  non  altrimenti  consiglia  il  filosofo, 
anzi  pare  che  in  tale  proposito  reputi  migliore  l'inganno.  Ora,  co- 
desti occupatori  delle  ragioni  della  Chiesa,  codesti  castellani  o  grandi 
0  baroni,  di  cui  parla  il  Segretario,  non  erano  essi  ribelli  e  malvagi, 
che,  postisi  colle  violenze  loro  al  di  sopra  della  legge ,  toglievano  ai 
cittadini  la  personale  e  reale  sicurezza,  ed  impedivano  allo  Stato  ogni 
viver  civile?  E  questi,  che  venivano  dalla  loro  iniquità  impediti,  non 
eran  forse  i  più  sacri  diritti  dell' uomo  e  della  società,  la  cui  con- 
servazione è  non  pure  concessa  ma  comandata  dalia  stessa  natura? 
Se  questa  vuole  il  fine,  dee  quindi  volerne  i  mezzi,  e  giustificare  an- 
che l'astuzia,  se  altri  non  ne  rimangano  a  conseguirlo,  fuorché  la 
forza  0  r  inganno.  ^  La  società  deve  essere  dagli  estremi  pericoli  sal- 
vata ad  ogni  costo,  ed  in  modo  pronto  ed  eflìcace;  altrimenti  nena- 
scon  due  mali,  la  mancanza  dei  beni  che  non  si  ottengono,  e  le  pub- 
bliche sventure  che  si  vanno  di  di  in  dì  accumulando:  sicché,  qualora 
in  così  tristi  ed  imperiose  circostanze,  che  non  ammettono  trans- 
azione né  ritardo,  sorga  un  astuto  potente  che  in  un  modo  o  neir  al- 
tro sia  in  istato  di  salvarla,  io  per  me  credo  che  giuridicamente  il 
possa:  egli  é  un  nocchiero,  che,  potendo  ei  solo  salvar  la  nave  da 
una  tempesta,  si  arroga  quell'imperio  che  gli  dà  il  pericolo  della  co- 
mune sicurezza.  Il  poter  sociale  ora  fu  l' effetto  della  natura,  ora  della 
fortuna,  ora  dell'arte;  ma  dove  soddisfaccia  allo  scopo  di  effettuare 
una  tranquilla  e  felice  convivenza,  i  cittadini  hanno  il  dovere  di  uni- 

*  Etilica. 

2  Pensava  lo  stesso  anche  Eorico  Luden  in  un  suo  molto  notalnle  arti- 
olo  sulla  traduzione  di  Rehl)Crg  del  Libro  del  Principe.  (Vedi  lenaische 
Algem.  Litlerature  Zeilung:  1810,  p.  81  e  seg,) 


XLIV  CONStDERAZlONt 

formarvi  gl'interessi  e  le  opere,  perchè  appunto  Io  legittima  qnel  con- 
seguito scopo  e  r  essenziale  socialità,  senza  di  cui  gli  uomini  non 
potrebbero  perfezionarsi  né  tampoco  conservarsi:  *  ma  per  giungere 
inque'tempi  perversi  a  codesto  slato  di  cose,  erano  appunto  neces- 
sari i  terribili  artifici  consigliati  da  Machiavelli,  giaccliè  non  v'era 
altra  via  per  uscire  da  queir  intricato  e  infame  labirinto,  in  cui  i 
malvagi  aveano  avviluppata  la  società,  e  II  principe,  dice  il  coscien- 
zioso Montaigne,'  se  mai  un'urgente  circostama  ed  il  bisogno  dello 
stato  lo  inducano  a  mancar  di  fede ,  e  lo  gettino  fuori  del  suo  dovere 
ordinario,  deve  attribuire  questa  necessità  a  un  colpo  della  verga  di- 
vina. Non  è  questo  un  viiio,  avendo  egli  abbandonata  la  propria  ra- 
gione ad  una  più  universale  e  potente  ragione  ;  ella  è  una  sventura  di 
ehi  ti  trova  agretto  fra  due  estremi:  sono  rari  e  pericolosi  esempi, 
eccetioni  inferme  alle  nostre  regole  naturali,  e  bisogna  cedervi.  Nis- 
suna  utilità  privata  è  degna  che  si  faccia  una  tal  forxa  alla  nostra  co- 
scienxa ,  ma  ti  la  pubblica ,  qualar  sia  evidentissima  ed  importan- 
tissima. »  ^ 

lo  non  aggiungo  altre  parole  sa  qnesto  geloso  argomento ,  in  cui 
per  una  parte  ci  sta  sugli  occhi  la  necessità  politica,  per  V  altra  ci 
trattiene  la  santità  dei  patti  e  della  data  fede.  L'animo  mio  in  sì 
grave  dubbio  propende  a  quest'ultima;  ma  in  conseguenza  delle  cose 
dette,  io  mi  credo  in  diritto  di  osservare  ad  un  tempo,  non  essere 
stala  la  politica  di  Machiavelli  al  tutto  iniqua  e  scellerata,  come  vor- 
rebbero i  suoi  detrattori.  Altro  è  il  lodare,  altro  il  parlare  di  neces- 
sità politica:  «  Non  ii  può  chiamar  virtù  il  tradire,  l'essere  senta 
fede  ;  ma  se  del  male  è  lecito  dire  bene ,  sono  codeste  axioni  straor- 
dinarie, che,  accusandole  il  fatto,  l'effetto  le  scusa.  »  Così  dice  e 
ripete  il  Segretario  e  nel  Principe  e  nei  Discorsi.  Cosi  pure  in  quel 
lesto  dove  dimostra  gli  inconvenienti  delle  milizie  mercenarie  e  dei 
capitani  di  ventura,  ne  accenna  come  conseguenza  probabile  di  essi 
la  necessità  politica,  per  cui  il  senato  veneziano  trasse  con  lusin- 
ghiere parole  il  conte  di  Carmagnuola  a  Venezia ,  e  poi  lo  ammazzò. 
Sono  circostanze  da  evitare  possibilmente;  ma  quando  un  principe  o 
fatalmente  o  spontaneamente  vi  sia  incorso,  ne  nasce  di  necessità  un 
male  cagionato  da  un  altro  male.  In  ciò  ini  par  si  racchiuda  la  somma 
della  politica  machiavellica. 

Ciò  quanto  ai  grandi  e  ai  prepotenti:  rispetto  al  popolo,  potea 
bastare,  come  si  vide,  la  forza  legale.  Ma  codesta  forza  doveva  es- 
sere eccessiva?  Pare  che  Machiavelli  cosi  consigli  nel  capitolo  de- 

*  Sa  qaesta  verità ,  ch'io  tocco  appena^tono  da  vederti  le  teorie  di  Roma* 
gnosi ,  di  Gaizot ,  di  Aacillon,  ec. 
«  Etsaù. 


fetJL   LIBRO    DKL    PRINCIPE.  XLV 

cìmoseltinio ;  dove  agitando  la  questione,  se  torni  meglio  l'esser 
temuto  0  amato,  premette  che  si  vorrebbe  essere  l'uno  e  l'altro,  e 
che  ami  ciascun  principe  dee  desiderare  di  esser  tenuto  pietoso  e  non 
crudele;  ma  soggiunge,  che  ad  un  principe  nuovo  è  impossibile  fug- 
gire il  nome  di  crudele,  per  essere  gli  Slati  nuovi  pieni  di  pericoli,  e 
perchè  gli  uomini  (cioè  a  dire  quelli  del  suo  tempo)  sono  general- 
mente ingrati,  simulatori  e  riottosi,  talché  convien  tenerli  colla  paura 
della  pena.*  Senonchè  troviam  qui  pure  una  questione  relativa  di 
necessità  peculiari.  In  una  età  nella  quale,  come  si  disse,  l'anar- 
chia e  i  baroni  e  i  signorotti  di  città  e  di  castelli  aveano  pervertito 
ogni  viver  civile,  il  popolo  manteneva  naturalmente  in  se  i  vestigi 
dei  passati  disordini.  Peggiore  ancora  della  popolare  licenza ,  la  tiran- 
nia degrada  ad  un  tempo  e  chi  la  esercita  e  chi  la  soffre;  essa  fa  tra- 
lignare il  carattere  nazionale  e  lo  corrompe,  come  dimostrarono  i 
Greci,  oppressi  già  lungamente  dal  dispotismo  ottomano,   e  come 
sempre  dimostrano  in  sulle  prime  gli  schiavi  emancipati.  Or  dove  non 
basti  l'obbedienza  volontaria,  non  ha  forse  da  supplire  la  forzata  in 
proporzione  del  difetto  di  quella?  Non  è  egli  miglior  partito  l'esser 
crudele  con  pochi  esempi,  che  il  lasciare  con  una  mal  inlesa  pietà  che 
i  malvagi  offendano  l'universale?  Certo,  a  questa  nostra  civiltà  non 
piace  il  nome  di  crudele;  ma  quando  io  leggo  pur  nel  medesimo  ca- 
pitolo, che  in  ogni  caso  il  principe  non  dee  procedere  contro  il  san- 
gue di  alcuno,  se  non  quando  vi  sia  giustificaTsione  conveniente  e  ma- 
nifesta ;  che  deve  astenersi  dalla  roba  d' altri ,  esser  grave  al  credere 
ed  al  muoversi,  non  farsi  paura  da  sé  stesso,  e  condursi  in  modo 
temperato  con  prudenza  ed  umanità,  per  forma  che  la  troppa  confi- 
derà non  lo  faccia  incauto  e  la  troppa  diffidenza  intollerabile,  e  in 
somma  sia  temuto  ma  non  odiato;  sono  tentato  a  credere  che  Ma- 
chiavelli intendesse  consigliare  una  crudeltà  che  però  non  eccedesse 
i  termini  del  giusto,  e  che  a  miglior  dritto  chiamerebbesi  severità. 
Ben  era  crudele  affatto  il  governo  di  Robespierre;  ma  questa  di  cui 
parlo,  sembrami  invece  una  dura  giustizia,  fondata  sulla  necessità 
sociale.  Sono  queste  le  crudeltà  che  altrove  egli  chiama  bene  usale;    ' 
crudeltà  che  poi  si  convertono  in  maggiore  utilità  dei  sudditi  ;  cru- 
deltà più  di  nome  che  di  fatti.  In  conclusione:  astuzia  coi  polenti, 
severa  giustizia  col  popolo,  indi  magnanimità  e  liberalità  nella  con- 
seguente potenza  :  ecco  la  divisa  del  Segretario. 

Ma  un'altra  taccia  è  data  a  Machiavelli;  quel  fondarsi  e  tomaia 
sempre  sugli  esempi  dei  Borgia.  Or  io  non  gli  loderò,  né  tampoco 
gli  approverò;  né  Io  stesso  Machiavelli  gli  lodò  né  gli  approvò  in  ogni 

<  Mi  semLra   che   talor    anco ,  Machiavelli   giudicaste    ^li   altri  tempi     l 
dai  «ttoi.  '4 


XLVt  CONSlDERAZiONt 

sao  scrino ,  come  appare  dalla  sua  Legatione  a  papa  Giulio  II  e  dai 
Decennali.  Pure  la  severa  imparzialità  della  storia  non  potrà  mai  ne- 
gare, che  o  per  studio  di  parte  contro  una  famij»lia  che  si  era  in- 
nalzata sulla  rovina  di  tante  case  potenti  e  piene  di  aderenze ,  o  per 
la  naturale  propensione  a  supporre  altri  delitti  in  chi  realmente  ne 
commise  parecchi,  o  perchè  in  quei  corrottissimi  tempi  in  cui  si 
teneva  possibile  anzi  probabile  quanto  di  più  atroce  e  nefando  imma- 
ginar sì  potesse,  la  perfìdia  dell'età  non  scomp;4gnava.si  dagli  scrit- 
tori ;  i  vizi  ed  i  misfatti  dì  papa  Alessandro  e  del  Valentino  siano 
stati  esagerati  dal  Poniano,  dal  Sannazzaru,  da  Guido  Postumo,  dal 
Guicciardini,  dal  Giovio,  e  dair  infame  Burcardo;'  il  quale  ultimo 
non  pertanto  (e  questo  valga  contro  Guicciardini  )  tace  dei  supposti 
amori  incestuosi  di  quel  ponteGce,  né  accenna  ch'egli  morisse  di 
veleno,  preparato  per  altri.»  Alessandro  era  un  principe  non  diverso 
dagli  altri  principi  del  suo  tempo:  abusò  dell' eminente  sua  dignità, 
servendosi  della  potenza  spirituale  per  favorire  interessi  temporali; 
ma  altri  papi  di  codesta  età  non  fecero  forse  altrettanto?'  Se  molto 
egli  operò  per  T elevazione  della  sua  casa,  e  per  far  giungere  suo 
figlio  al  grado  di  principe  sovrano  in  Italia,  si  può  imputare  lo 
stesso  a  Clemente  VII  e  a  Paolo  III,  con  questo  soprappiù,  che  il 
nipote  del  primo  e  il  IIkIìo  del  secondo  di  questi  due  papi  se  somi- 
gliarono il  Gglio  di  Alessandro  nei  vizi  e  nella  malvagità  e  fors'  anco 
il  superarono,  erano  ben  lungi  dal  pareggiarne  i  talenti  militari  e 
pulitici.  In  un  tempo  che  con  insigne  perfìdia  Ferdinando  il  Cattolico 
e  Luigi  XII  dividevansi  il  regno  di  Napoli  cacciandone  una  reale  fa- 
miglia generalmente  amala  e  rispettata  in  Italia,  e  con  cui  Tuno  di 
essi  aveva  una  stretta  parentela,  il  papa  potea  credersi  autorizzato 
a  far  perire  alcuni  baroni  del  suo  stato,  perfidi  ed  insolenti  condot- 
tieri di  truppe  mercenarie,  amati  da  queste  perchè  ne  favorivano  la 
licenza,  ma  odiati  dal  popolo,  che  sotto  la  loro  signoria  non  era, 
come  si  vide,  giammai  sicuro  né  delle  sostanze,  né  della  propria 
industria,  né  delle  persone,  e  Roma  non  godette  mai  di  lunga  quiete, 
finché  il  papa  non  acquistò  for%e  bastanti  da  frenare  la  violenta  di 
quelle  turbolenti  fazioni  dei  Colonna  e  degli  Orsini,  »  dice  a  ragione 
il  dotto  Cibrario.  *  Que*  signori ,  que'  principi  di  Romagna  o  spode- 

<  Non  parlo  At\  Tommasi  e  del  Gordon ,  perchè  gli  credo  inferiori  alla 
critica;  il  primo  h  un  Gregorio  Leti  senza  ingegno,  il  secondo  quasi  non  fa 
che  copiare  il  Tommasi. 

S  Raffaele  di  Volterra  e  il  Muratori  dimostrano  la  morte  di  papa  Alei- 
•andrò  essere  succeduta  per  fehbre  tehana. 

'  Giulio  II  e  Leone  X. 

*  Storia  dell'  Economia  politica  del  medio  evit. 


SUL  LIÈRO  DEL  PRINCIPE.  XlVII 

stati  0  sterminati  da  lui  e  dal  fi}»liuolo,  erano  anch'essi  feudatari  e 
vicari  suoi,  che  per  la  maggior  parie  aveano  acquistali  i  loro  prin- 
cipali coi  mezzi  di  cui  egli  si  valse  contro  di  loro,  e  che,  come  pure 
si  osservò,  con  le  uccisioni  e  con  le  rapine  vessavano  e  depravavano 
i  loro  sudditi;*  e,  se  taluni ^  prolessero  le  lettere,  già  non  protes- 
sero ciò  che  un  sovrano  dee  principalmente  proleggere.  Secondo 
che  raccolgo  dalle  memorie  dell'età,  il  loro  mal  governo  era  l'éffelto 
deir angustia  e  povertà  dei  dominii  loro,  e  della  mancanza  d'una 
centralità,  da  cui  nasce  appunto  la  ricchezza  e  la  forza  degli  stati, 
ed  alla  quale  aspiravano  ì  Borgia.  Già  vedemmo  che  da  Alessandro 
in  poi  i  papi  cominciarono  a  fare  una  miglior  figura  nel  mondo  come 
principi  secolari:  al  che  dove  si  aggiunga,  che  tutti'  si  accordano 
ad  attribuirgli  un  coraggio  superiore  agli  avvenimenti,  e  una  mira- 
bile eloquenza  e  destrezza  nel  trattare  gli  aflfari  ;  che  seppe  governare 
il  popolo,  ristabilire  nel  suo  regno  la  pubblica  sicurezza,  visitando 
egli  stesso  più  volte  le  prigioni,  e  facendo  punire  ben  sovente  i 
ladri  e  gli  assassini  con  tutta  la  severità  delle  leggi;  che  per  le  sue 
provvisioni  la  carestia,  che  desolava  il  rimanente  d' Italia,  in  tutto 
il  tempo  del  suo  pontiOcato  non  si  fece  sentire  ne' suoi  stati;  e  che 
eziandio  le  arti,  le  lettere  e  l'archiginnasio  romano  trovarono  in  lui 
un  liberale  e  costante  protettore  ;  si  fornirà  di  convincersi ,  che 
Alessandro,  se  non  fu  un  buon  papa  (che  certamente  noi  fu),  ne  an- 
che fu  il  peggiore  dei  papi,  com'è  la  pubblica  opinione;  e  che  se 
egli  con  una  mano  atterrava  i  prepotenti,  assicurava  con  l'altra  e 
beneficava  i  popoli.*  In  materia  di  storiche  indagini  io  non  inclinerei 
gran  fallo  a  citare  l'autorità  di  Voltaire,  di  cui  è  nota  la  parzialità 
e  la  poca  coscienza  slorica;  ma  sulla  bocca  d' uno  scrittore  tanto  ne- 
mico ai  papi,  una  difesa  d'uno  di  questi  mi  pare  che  per  quella 
stessa  parzialità  divenga  preziosa  e  da  non  trascurarsi.  Ora  egli  in 
un  ragionanienlo  sulla  morie  di  Enrico  IV  re  di  Francia,  venendo 
per  incidenza  a  parlare  di  alcuna  di  quelle  enormità  che  si  appon- 
gono a  papa  Alessandro,  cosi  apostrofa  contro  il  Guicciardini:  «  tu 
hai  ingannata  l' Europa,  e  fosti  ingannato  tu  stesso  dalla  tua  passione: 

*  Vedi  Machiavelli  nei  Discorsi  al  luogo  citalo  Veggasi  anche  il  Krauts , 
e  il  Coqueo,  il  quale  dimostra  come  i  Protestanti  aggravarono  non  poco  i 
falli  di  Casa  Borgia  :  —  sempre  esagera  o  travede- 1'  amor  di  setta. 

'  I  Montefeltro,  i  Varano,  te. 

'  Segnatamente  Raffaele  di  Volterra,  il  Panvìnio,  il  Naiiclefo  e  il  Mo- 
naldeschi.  Quest'ultimo  lo  rhiama:  -  magnanimo,  generoso  e  prudente,  w 
Può  vedersi  anche  Roscoe  ,  Storia  del  pontifcato  di  Leon  X. 

♦  In  Alexandre  (ut  de  Jnnibala  lAvins  scribit)  aquahant  vitia  virUites, 
dice  il  mentovato  Raffaele  di  Volterra;  e  il  Coqueo  dice  de' suoi  nemici: 
vitia  notant,  non  dignitatem  insectanlur. 


XLVm  CONSIDERAZIONI 

odiavi  il  papa,  e  troppo  credesti  all'odio  tuo,  e  agli  altri  viù  e  misfatti 
di  quello.  • 

A  coloro  poi  t  che  chiamano  il  duca  ValenlìDO  un  mostro ,  os- 
serverò che  codesto  mostro  seppe  introdurre  il  primo  in  Italia 
rusan7.a  dì  anni  nazionali,  che  certo  non  sembra  confarsi  alla  natu- 
rai diffidenza  d'un  tiranno;  seppe  colla  militare  perizia,  con  un  co- 
raggio e  con  una  politica  che  tengono  del  miracolo ,  fondare  uno 
stato  che  poteva  essere  il  propugnacolo,  la  salvezza  degl'  Italiani,  e 
prevenirne  le  ulteriori  sciagure:  <  e  quantunque  abbia  regnato  per 
breve  tempo,  pur  seppe  far  gustare  in  Romagna  i  vantaggi  del  suo 
governo  ;  lalmentechè,  siccome  dovette  confessare  lo  stesso  Guic- 
ciardini, nemico  dei  Borgia,  e  anche  dopo  la  caduta  del  Valentino 
quella  provincia  stava  quieta  ed  inclinata  alla  divoiione  sua ,  avendo 
per  esperiema  conosciuto,  quanto  fosse  più  tollerabile  stato  a  quella 
regione  il  servire  tutta  insieme  sotto  un  signore  solo  e  potente,  che 
quando  ciascuna  di  quelle  città  stava  sotto  un  principe  particolare,  il 
quale  né  per  la  sua  deboleita  gli  poteva  difendere ,  né  per  la  povertà 
beneficare;  piuttosto,  non  gli  bastando  le  sue  piccole  entrate  a  sosten- 
tarsi, fosse  costretto  a  opprimergli.  Ricordavansi  ancora  gli  uomini, 
egli  prosegue,  che  per  V  autorità  e  grande*ia  sua,  e  per  l' ammini- 
ttraiione  sincera  della  giustiiia ,  era  stalo  tranquillo  quel  paese  dai 
tumulti  delle  parti,  dai  quali  prima  soleva  esser  vessato  continua- 
mente; con  le  quali  opere  t'avea  fatti  benevoli  gli  animi  dei  popoli, 
similmente  coi  benefiii  fatti  a  molti  di  loro;  onde  né  l'esempio  degli 
altri  che  si  ribellavano,  né  la  memoria  degli  antichi  signori  gli  alie- 
nava dal  Valentino.  »  Queste  lodi  che  la  forza  della  verità  strappò 
di  bocca  a  chi  avrebbe  desiderato  di  fare  il  contrario,  sono  una 
prova  manifesta  di  quanto  io  già  dimostrai;  cioè  che  il  governo  di 
codesto  tipo  del  Machiavelli  era  pur  quello  che  richiedevano  i  guasti 
suoi  tempi.  Ma  odasi  un  altro  scrittore,  di  ben  diversa  tempera,  e 
che  non  fu  mai  V  apologista  dei  tiranni,  e  Cesare  Borgia ,  dice  Sis- 
monài,*  ottimamente  conosceva  ciò  che  poteva  formare  la  felicità 
de' suoi  sudditi:  manteneva  inviolabile  la  pubblica  sicureaa;  chiun- 
que si  segnalasse  aveva  in  lui  un  illuminato  protettore;  gli  uomini 
d' arme  trovavano  avamamento  negli  eserciti  e  nelle  fartene ,  e  lauto 
pensioni  e  beneficii  i  letterati.  Insomma  lo  stato  prosperava,  e  nes- 
sun Romagnolo  poteva  sema  timore  figurarsi  il  ritorno  dei  piccoli  an- 


*  Forte,  dice    MacauTey,  sarebbe   stato   il   salvatore  dell'Italia,  il  solo 
capace  di  difendere  l' indipcndeata  del  suo  paese. 

•  Siimma  ceqtiitate  popnlor  regebat ,  miitta  tiibditonim  prcbalione  :  àict 
di  Cesare  Borgia  Raffaele  di  Volterra. 


SUL  LIBRO  DEL  PRINCIPE.  XLIX 

tìchi  signori.  »  •  Non  dobbiamo  adunque  negar  fede  a  Machiavelli 
quando  affei-ma  «  che  il  Borgia  aveva  racconcia  la  Romagna,  unitala 
e  ridottala  in  pace  ed  in  fede,  e  che  si  guadagnò  tutti  i  popoli],  per 
avere  incominciato  a  gustare  il  ben  essere  loro  ;  »  ne  tampoco  si  vuol 
quindi  ricusar  credenza  allo  stesso  Valentino,  allorché  nel  suo  celebre 
colloquio  con  Giiidobaldo  da  Montefeltro,  riportato  da  Bernardino 
Baldi,  dopo  molle  parole  soggiunge:  «  che  io  non  sia  tiranno  (come 
da'  miei  nemici  per  tutto  si  va  dicendo)  io  non  voglio  altro  testimonio 
che  le  città  della  Romagna ,  le  quali  sotto  il  mio  governo  hanno  co- 
minciato a  conoscere  quella  tranquillità  e  quella  pace  che  noti  aveano 
neppur sognata ,  non  che  goduta,  per  l' addietro.  *  E  veramente  non 
so  se  Urbino  siasi  trovalo  in  miglior  condizione  sotto  il  gran  Guido- 
baldo,  cui  mancavano  gli  elementi  di  potenza  e  di  ricchezza,  ricor- 
dati da  Guicciardini.  Del  resto,  costui  e  i  Varano  furono  buoni  e  va- 
lorosi principi;  ma  gli  altri,  che  prima  del  Borgia  dominavano  la 
Romagna,  meritavano  o  tutti  o  quasi  tutti  l'orrendo  fine  che  fecero, 
e  alcuni  il  confessarono  essi  medesimi  poco  innanzi  la  morte.  In 
breve,  le  cose  battevano  tra  l'opprimere  e  1'  essere  oppressi,  fra  il 
togliere  la  vita  a  un  pugno  di  ribaldi,  e  la  miseria  dell'universale.  Tali 
insidie  e  da  tali  potenti  e  facinorosi  nemici  erano  tese  al  Duca  da 
ogni  lato,  che,  indugiando  egli,  lo  avrebbero  finalmente  ucciso. 
Avendo  l' animo  grande  e  la  sua  intenzione  alta ,  cioè  d' occupare 
l'Italia  desolata  e  sconvolta,  non  poteva  operare  altrimenti.  Bene  è 
il  vero  ancora,  ch'egli  fu  il  commettitore  dì  parecchie  iniquità,  e 
che  nelle  sfrenale  sue  voglie  non  perdonava  a  persona;  ma,  torno 
a  dirlo,  gli  altri  principi  del  suo  tempo  non  furono  migliori  di  lui: 
era  egli  un  iniquo,  ma  un  iniquo,  sotto  il  cui  reggimento  prospe- 
rava il  popolo.  La  rigenerazione  popolare  fu  nel  suo  nascere  inter- 
rotta dalla  di  lui  caduta;  quindi  nella  memoria  dei  più  non  ne  rima- 
sero che  gli  iniqui  principii,  scompagnati  dal  fine  che  si  stava  per 
ottenerne:  assai  men  fortunato  della  duca)  casa  Medici,  la  quale  col 
fine  ottenuto  da  Ferdinando  I  e  dai  suoi  discendenti  fece  dimenticare 
i  principii! 

Or  conchiudendo  dico:  se  Luigi  XI  non  fu  migliore  del  Valen- 
tino, e  non  pertanto  si  disse  di  lui,  che  fu  un  principe  severo  ma 
fece  un  gran  bene  alla  sua  nazione,  chi  sa  se  forse  non  sarebbesi 
detto  lo  slesso  di  Cesare  Borgia,  dov'egli  e  la  sua  casa  avessero  do- 
minato lungamente  in  Romagna?  I  Romagnoli  al  certo  lo  amavano 
più  che  i  Francesi  non  amasser  Luigi.  Se  a  preparare  il  regno  di 
Luigi  XII  e  di  Francesco  1  furono  necessarie  le  arti  del  principe 
accennalo,  secondochò  dimostrai  più  sopra,  dovrem  noi  biasiraarlq 
♦  4i»c|»§  Mw|ler  dice,  che  0tìytrq6  etto  umaoilà  e  con  giusti^i^. 


l  CONSIDERAZIONI 

al  tutto?  Se  altri  fuori  dei  Luigi  e  dei  Borgia  non  avrebbero  potuto 
impiegarle  «  perchè  a  tal  uopo  richiedeasi  appunto  quella  (reuienda 
indole  d'uumini ,  non  veniva  ad  essere  la  condotta  luro  una  neces- 
sità politica?  lo  non  voglio  deciderlo;  ma  ben  dirò  che,  posto  da 
un  lato  il  gran  disordine  sociale  che  quindi  fu  tolto,  e  dall'altro  il 
mezzo  per  cui  lo  si  tolse,  ne  viene  assai  scemalo  l'orrore  di  quesi'uU 
timo.  DeplorabiI  cosa  è  al  certo,  che  vi  si  dovesse  ricorrere  por  la 
tristissima  condizione  dei  tempi;  ma  per  le  incuncepihili  coninuii 
zioni  dell'  umana  natura,  trovansi  nelle  storie  alcuni  problemi  sociali 
sì  difficili  ed  ardui,  che  non  gli  può  sciogliere  pienamente  né  la  Ulo* 
sofla  né  la  politica.' 

*  Non  si  appartiene  al  mio  assunto  di  parlare  di  Lucrezia  Borgia ,  dflla 
«piale  il  cosrieniioto  Roscoe  ba  latta  una  lunga  e  ragionata  apologia,  dimo- 
strando la  falsità  di  quanto  le  apposero  i  poeti  napoletani,  il  Burrardo  e  il 
Guicciardini.  Certuni ,  a  cui  sembra  che  piaccia  il  ctedcr  prohalnle  quanto 
di  laido  e  di  nefando  spacciarono  gli  storici  ed  ì  satirici ,  trovano  nel  di  lei 
celebre  apologista  anzi  un  retore  che  un  critico;  ma,  oltreché  in  quella  ape- 
logia  rgli  adduce  dei  fatti  e  non  dei  6ori  retlorici,  i  me  basta  1' argumrnto 
dedotto  -alla  condotta  di  Lucrezia ,  poi  eh* essa  divenne  duchessa  di  Ferrara. 
Una  donna  che  per  parecchi  anni  seppe  inspirare  al  gentilissimo  Pietro  Bembo 
un  amore ,  che  (  come  affermano  il  ,Gualteruzzi ,  1'  Oitrocchi  e  il  Mattuc- 
chelli  j  non  offese  mai  le  leggi  dell'  onore  ,  e  poi  si  cangio  m  reciproca  stima 
ed  amicizia  ;  una  donna  che  fu  la  protettrice  e  l' amica  del  Trissino  e  di 
Aldo  Manuzio,  chiarissimi  ambedue  per  dottrina  e  per  onestà  di  costumi  ; 
che  fu  ottima  moglie  di  Alfonso,  ed  ottima  madre  di  Ercole  d'Kste ,  da  loro 
•mata  ed  apprezzata  6no  alla  morte;  non  poteva  esser  stata  una  Taide.  Di 
cotali  metamorfosi  non  si  videro  ne  in  Poppea,  o'e  in  Teodora,  ne  in  llianca  Cap- 
pello, aè  io  altre  siflàtle  L'età,  diue  taluno  a  questo  proposito,  è  un  buon  mi.ssio- 
Dario;  ma  lasciando  anche  slare  che  scarsi,  incerti  e  spregevoli  sono  pur 
sempre  i  frutti  di  codesta,  che  Montaigne  chiama  a  ragione,  virtù  catarrosa 
e  vile,  provegnenle  da  sazietà  e  dai  troppi  anni  anziché  da  pura  o  miglio- 
rala coscienza,  Lucrezia  quando  sali  sul  trono  di  Ferrara  era  ancor  giovane , 
era  ancora  la  più  liella  principessa  del  suo  tempo.  Chi  inai  leggendo  quelle 
■uè  lettere  che  ci  furono  conservate ,  quelle  che  tanti  uomini  illustri  le  scris- 
sero da  tante  parti  d'Italia,  e  le  poesie  e  le  opere  che  le  furono  intitolate, 
eziandio  da  chi  pur  non  aveva  alcun  interesse  ad  adularla,  testimonianze  tutte 
de'  suoi  molti  e  rari  prrgi ,  i  t]u»\i ,  al  dire  de'  più  imparziali  scrittori  ne  for- 
mavano una  saggia  e  colta  principessa  ;  chi  mai  può  indursi  a  credere  cb'  ella 
fosse  ad  un  tempo  la  figlia ,  la  spos»  e  la  nuora  di  Alessandro ,  e  che  avesse 
presieduto  alle  orgie  oscene  descritte  da  BurcardoT  Considerato  pertanto, 
quale  sia  stata  per  confessione  di  ogni  coscienziato  storico  la  di  lei  viia  nel- 
l'epoca  di  cui  parliamo;  considerato ,  inoltre,  che  niuna  delle  colpe  anterior- 
mente appostele  fu  mai  prosata  in  modo  irrefragabile  :  io  non  temo  di  pec- 
care in  soverchia  simpatia,  se  affi-rmo  che  quelle  sono  piulloslo  da  attribuirsi 
alla  tristissima  natura  de*  suoi  tempi ,  in  cui  regnavano  la  menzogna  e  la  ca- 
lunnia .  e  i  quili,  licrnzio<>i>>imi  essendo,  rrndeano  crrdiliili  le  accuse  che 
furie  Dol  sarebbero  stale  iu  altra  età.  —  Finga  Villor  IIujjo  di  Lucrezia  Bor- 


I 


SUL  LIBRO   DEL  PRINCIPE.  LI 

Per  buona  sorte,  già  molti  e  molli  anni  finirono  tra  noi  que' tem- 
pi, né  più  ritorneranno.  Subentrata  alle  divisioni  feudali,  ai  signo- 
rotti ed  alle  popolari  fazioni,  l'unità  e  la  centralità  degli  Stali;  suc- 
cessi alle  licenziose  milizie  baronesche  e  mercenarie,  gli  eserciti 
nazionali,  disciplinati  e  permanenti,  le  regolari  imposte  agl'incerti 
tributi;  e  venuti  per  la  crescente  civiltà  in  miglior  cognizione  dei  lor 
veri  interessi  i  governanti  e  i  governati;  la  politica  è  oramai  stabi- 
lita sulle  gran  basi  della  potenza  armata ,  della  ricchezza  nazionale  e 
della  giustizia,  e  la  felicità  dei  popoli  è  divenuta  il  desiderio ,  il  bi- 
sogno e  r  interesse  medesimo  dei  governi  potenti  e  perciò  generosi  : 
i  quali  sanno  inoltre,  quale  elemento  sia  della  loro  poleuza  la  con- 
cordia civile,  l'unione  degl'interessi  e  quindi  delle  opere,  e  il  pro- 
sperare delle  rendile  private,  da  cui  derivano  le  pubbliche.  Dato  an- 
cora che  ciò  non  fosse,  dato  che  fra  tanti  sovrani  non  d'altro 
solleciti  che  del  bene  dei  popoli,  il  quale  si  accomuna  col  loro  pro- 
prio, sorgesse  un  principe  del  fare  di  quelli  dell'età  machiavellica 
(il  che  è  al  tutto  improbabile),  come  potrebb'egli  seguire  i  precetti 
del  capitolo  decimottavo  in  un  tempo  che  l'opinion  pubblica,  frutto 
anch'essa  dell'odierno  incivilimento,  è  un  tribunale  terribile  pel  po- 
vero e  pel  ricco,  pel  debole  e  pel  polente;  e  che  il  credito  pubblico, 
da  cui  nasce  la  necessità  della  pubblica  confidenza,  è  uno  dei  preci- 
pui elementi  degli  stati?  Invece  di  mantenersi  in  isialo,  egli  ci  rovi- 
nerebbe sono  :  il  contrario  appunto  di  ciò  che  quivi  insegna  il  Ma- 
chiavelli. Dirò  più:  né  tampoco  gioverebbero  i  di  lui  artificii  in  una 
civiltà  così  universalmente  sparsa;  lalmentechè,  se  il  grande  politico 
vivesse  in  questa  età  nostra,  sì  civile  e  sì  cólta,  terrebbe  al  certo 
luit'altra  via.  Né  solo  in  ordine  alle  cose  accennale  sarebbero  odier- 
namente inopportuni  i  consigli  di  Machiavelli  ;  che  altri  pur  se  ne 
leggono,  contrari  alle  massime  politiche  comunemente  ricevute  dai 
moderni.  Le  sue  soverchie  lodi  alla  parsimonia  ed  alla  miseria  dello 
spendere,  dimostrano  non  aver  esso  conosciuti  i  vantaggi  d'un  mo- 
deralo lusso,  che  crea  nuove  produzioni  col  creare  nuovi  bisogni,  e 
fa  progredire  l'agricoltura  mediante  le  muliiplicate  ricerche  delle  ma- 
nifatture e  del  commercio  :  quando  afferma ,  esser  ricchi  i  popoli 
dal  cui  paese  non  escono  denari,  e  dove  sempre  entrano  e  sono  por- 
tali denari,  dà  a  divedere  ch'egli  adotta  il  sistema  mercantile,  am- 
plialo poi  da  Colberl,  e  che  ignora  l'avvilimento  del  contante  a  causa 
della  sovrabbondanza,  e  il  conseguente  alzamento  dei  prezzi  delle  al- 
tre derrate,  che  tanto  nuoce  al  commercio:  là  dove  dice,  che  i  go- 

gia  quel  che  gli  piace.  Concesso,  anzi  necessario  ai  poeti  è  il  fingere;  ne  mai 
tanto  riescono  quanto  allora  che  fingono.  Ma  la  severa  storia ,  come  fa  giustizia 
dei  malvagi,  cosi  dee  pur  farla  delle  malvage  calunnie,  :,    ^ 


Ln  CONSIDERAZIONI 

verni  ben  regolali  hanno  cànove  pubbliche  da  mr>n«*iare ,  da  bere  e 
da  ardere  per  un  anno,  non  si  accorj^e,  che  una  mal  intesa  carila 
può  ingenerare  nei  poveri  la  infingardaggine,  la  quale  divien  poi  ca- 
gione d'  un  aumento  sempre  crescente  di  povertà;  e  che  quella  sola 
è  una  saggia  e  salutare  beneficenza,  la  quale,  anziché  un  pane  pre- 
cario, procaccia  al  povero  uno  slabile  ed  onoralo  lavoro. 

D'altra  parie  però,  non  posso  fare  che  non  aggiunga  con 
Giuslo  l-ipsio,  avere  allresì  il  Segretario  Fiorenlino  parecchi  pen- 
sieri fundamenlali,  propri  di  tulli  i  tempi  e  di  tulli  i  paesi.  La 
massima  t  che  sempre  una  mula%ione  di  governo  lascia  lo  addentel' 
Iato  per  l'edificaiione  dell'altra;  •  massima  la  cui  verilà  efTelluale 
fu  pur  troppo  dimostrata  nei  dì  della  memoria  nosira,  sembra  am- 
monire i  popoli  dell'enorme  danno  che  risulta  ad  essi  dalle  rivo- 
luzioni violente:  quella  e  che  le  leggi  si  ordinano  secondo  ti  ben  pub- 
blico, non  secondo  l' ambinone  di  pochi;  »  e  T altra  •  che  acciò  le 
imposte  siano  uguali ,  conviene  che  la  legge  e  non  l' uomo  le  distri- 
buisca; »  paiono  alluiiere  ai  tanti  disordini  degli  amichi  calasti  e  ca- 
richi publdici  levati  arbilrariamente,  e  quindi  iniquiimenie,  e  quasi 
indicare  il  modo  per  cui  P(»mpeo  Neri  ins(ìlu\  fra  noi  un  censo  le- 
giilimo,  ed  una  giusta  e  regolare  maniera  d'imposte:  la  contrarietà 
ch'egli  mostra  verso  le  coniìscazìoni,  ne  onora  il  cuore  e  riniellelto: 
allor  che  dire  e  che  i  beneficn  si  debbono  fare  a  poco  a  poco,  acciò 
si  assaporino  meglio,  »  ci  oà  per  l'economia  delle  ricompense  un  ol* 
timo  precetto,  il  quale  non  è  sempre  osservalo;  un  altro  ne  dà  d'im- 
mensa applicazione  quando  afferma:  e  si  trova  questo  nell'ordine  delle 
cose,  che  mai  si  cerca  fuggire  un  inconveniente  che  non  si  incorra  in 
un  altro;  ma  la  prudenza  consiste  in  saper  conoscere  le  qualità  de- 
gV  intonvenienti  t  prendere  il  manco  Insto  per  buono.  >  Ma  più  di 
tutti  (che  soverchio  sarebbe  il  volerli  registrar  qui  ad  uno  ad  uno) 
io  trovo  degno  di  molta  lode  il  seguente  ammaeslramenlo,  citalo  al* 
irove.:  t  Essere  più  conveniente  andar  dietro  alla  verità  effettuale 
della  cosa  che  all' immaginaxione  di  essa,  »  e  che  molti  si  sono  immagi- 
nati repubbliche  e  principati ,  che  non  si  sono  mai  visti  né  conosciuti 
essere  in  vero;  »  e  e  ch'egli  è  molto  discosto  da  come  si  vive  a  come  si 
dovrebbe  vivere,  »  Colali  parole  di  uno  che  per  la  conlinna  lezione 
delle  cose  del  mondo,  e  per  la  lunga  pratica  delle  corti  e  degli  affari 
pubblici  erasi  tanto  profondato  in  queste  materie,  non  doveano  mai 
essere  dimenticate:  ma,  pur  troppo,  e  nella  età  di  Machiavelli  e  nelle 
posteriori,  o  non  le  Cimobbero  o  non  le  curarono  gli  ulopisli  ;  e  pur 
troppo,  in  tempi  a  noi  vicini  trovaron  costoro  chi  prestò  ad  essi  cre- 
denza, onde  sorsero  siffatte  costituzioni  di  stali  e  siffatti  ordini  po- 
litici f  che  essendo  ìd  soverchia  discordanza  cogli  effettivi  bisogni  so* 


SUL  LIBRO  DEL  PRINCIPE.  LUI 

ciali,  non  poteano  reggersi ,  e  crollavano  da  so  medesimi  tra  inflnite 
sventure  |)ubbliche  e  private.  Di  codesti  utopisti,  i  quali  in  ogni  cosa 
ricercan  l'ottimo  senza  pensare  che  talvolta  esso  è  nemico  del  bene, 
non  è  penuria  anche  al  dì  d'oggi.  Or  possa,  dunque,  imprimersi  bene 
addentro  nella  loro  memoria  quel  salutare  avviso  d'un  grand' uomo, 
il  quale  peccò,  è  vero,  ma  forse  più  per  colpa  de' suoi  tempi  che  per 
la  propria,  e  che  a  ogni  modo  fu  il  rappresentante  della  politica  di 
due  secoli,  ed  è  pure  il  primo  storico  e  il  primo  prosatore  italiano. 


ILLUSTRAZIONI. 


A  pag.  XVII  e  XLix. 

Una  prova  ancor  maggiore  del  mio  assunto  è  il  Proemio  delle 
Effemeridi  del  Ponlifìcalo  di  Sisto  Quinto,  inserito  due  anni  fa  nel- 
V  Archivio  Storico  Italiano;*  dove  infatti  si  legge,  che  lo  Stalo 
Ecclesiastico  prima  di  quel  pontefice  «  vedeva  tutte  le  cose  sì 
private  sì  pubbliche  in  precipizio  e  in  rovina.  »  E  veramente  è 
un  quadro  codesto,  sopra  cui  l'occhio  non  può  fermarsi  senza 
spavento  e  raccapriccio.  Or  quali  erano  gli  autori  di  tanta  miseria? 
1  castellani,  i  baroni,  i  signorotti;  quelli  di  cui  parlo  a  carte  dicias- 
sette; quelli  cui  avrebbero  sterminati  o  abbattuti  i  Borgia,  se  il  Va- 
lentino avesse  mantenuta  e  consolidata  la  sua  potenza.  Vero  è  che, 
come  quivi  si  accenna,  vi  porse  occasione  anche  «  l'indole  fiacca  di 
papa  Gregorio  XIII,  divenuto  più  debole  per  vecchiezza  d'oltre  ot- 
tani'anni;  »  ma  è  pure  fuor  di  dubbio,  che  il  don>inio  papale, 
benché  salito  dopo  Alessandro  VI  in  maggiore  potenza,  nondimeno 
sotto  Leone  X,  Clemente  Vii  ed  altri  papi,  ebbe  assai  che  fare  con 
codesti  piccioli  tiranni ,  ancora  potenti  ed  infesli,  ancora  feroci  e  li- 
cenziosi. Ciò  ch'io  ne  dico  nel  testo,  e  il  Minatori  ^  e  il  Sismondi  * 
dimostrano  abbastanza  la  continuazionedi  quel  disordine.  Era  un'idra, 
che  andava  rimettendo  le  sue  teste,  perchè  l'uomo  tremendo  che 
accennai  di  sopra ,  troppo  presto  venuto  in  basso  da  tanta  altezza , 

1  PuLLlicato  da  G.  P.  Vieusseux  in  Firenze.  —  Vedi  Appendice  N.  8, 
pag.  343. 

2  jénnali  d'Italia,  passim. 

5  Storia  delle  Repubbliche  Italiane  del  medio  ct-o,  tomo  13. 


LIV  .  CONSIDERAZIONI 

non  avea  potuto  troncarle  tutte;  e  perchè  i  successori  di  papa  Ales- 
sandro, 0  non  avendone  i  Uilenli  e  l'energia  ,  o  distraiti  dalla  poli- 
tica esterna,  o  non  seppero  o  non  vollero  seguire  le  arti  dei  Borgia, 
le  sole  che  potessero  frenare  tanta  materia  corrotta,  e  proteggere  l'or- 
dine pubblico  in  un  tempo  che  non  vi  bastavano  le  ordinarie  vie 
della  giustizia,  come  a  lungo  dimostro  nel  presente  Scritto:  arti  ter- 
ribili, ma  giustilicate  dalla  necessità  politica;  arti  richieste  dall'  im- 
perioso bisogno  d'una  forza  concentrata  e  prevalente,  e  dal  dovere 
di  disarmare  i  prepotenti  e  porli  nell'  impossibilità  di  sottrarsi  alle 
leggi ,  onde  il  popolo  ottenesse  la  sicurezza  necessaria  per  pros|»e- 
rare  Dell' industria  e  nella  civiltà:  in  breve,  lo  scopo  di  ogni  civile 
consorzio,  fuor  del  quale  diviene  ingiusto  ogni  governo.  Se  invece 
di  avvilupparsi  in  leghe  e  guerre  con  monarchi  assai  più  potenti  di 
loro,  dalle  quali  non  trassero  che  pochi  vantaggi  e  molli  danni  e 
umiliazioni,  avessero  i  papi  proseguila  l'impresa  interrutta  dei  Bor- 
gia, 0  il  Valentino  avesse  più  lungo  tempo  regnato  in  Romagna  e 
avuti  successori  che  l'imitassero;  ed  essa  e  il  vicino  Stato  Rom;ino 
sarebbero  andati  di  bene  in  meglio  nella  pace  e  felicità  di  cui,  come 
attestano  e  Guicciardini  e  Machiavelli  e  Sismondi,  già  godevano  i  po« 
poli  sotto  il  di  lui  governo  e  sotto  quello  di  papa  Alessandro;  si  sa- 
rebbero evitate  le  calamità  da  cui  furono  afflitte  parecchie  genera- 
zioni d'uomini  per  lo  spazio  di  oltre  un  secolo;  né  si  sarebbe  veduta 
la  casa  Orsini,  e  tante  altre  a  lei  aderenti,  farsi  protettrici  di  infami 
banditi  e  masnadieri,  e  turbar  con  essi  ogni  diritto,  ogni  cosa  pri- 
vata e  pubblica,  profana  e  sacra  ;  né  i  Aeri  casi  di  Vittoria  Accoram- 
buoni  avrebbero  spaventala  l'Italia.  Il  conseguir  queireATetto  e  l'evi- 
tare que' mali  enormi,  per  mia  fé,  avrebbero  più  giovalo  all' uma- 
Dilà  ed  all'onore  del  lemporal  dominio  dei  papi,  che  non  tulle  quelle 
leglre  e  guerre,  e,  dirò  pure,  che  non  luiti  quei  soniuosi  editici  e 
musei  della  metropoli  pontiRcia.  Il  primo  dovere  della  sovranità, 
senza  l'adempinicnio  del  quale  vien  meno  ogni  suo  diritto,  è  il  pro- 
curare ai  sudditi  la  tranquilla  e  soddisfacente  convivenza.  Che  giova 
il  resto  senza  di  questa?  Perciò  appunto  papa  Sisto  si  dette  ad  eser- 
citare quella  sua  famosa  giustizia,  che  parve  ai  male  informali  so- 
verchiamente fiera  e  crudele;  ma  le  Effemeridi  del  Gualtieri  dimo- 
strano che  era  necessaria.'  Il  Muratori  ne'suoi  Annali,  parlando  di 
codesta  mala  rana  di  banditi  e  malviventi,  non  dubita  di  soggiun- 
gere: e  molle  storielle  si  contavano  allora  delle  loro  crudeltà  e  fur- 

*  Effemeridi  del  pontificato  di  Sisto  Quinto  t  icrilte  in  latino  <la  Guido 
GiuUieri  da  San  Ginesio ,  che  ti  conservano  inedite  in  un  Codice  della  ricca 
Colletione  Capponi.  Finora  non  ne  fu  pul>I)licato  che  il  Proemio.  Vedi  U  delta 
Appendice,  N.  8,  dth'  Archivio  Storico  Italiano t  p»g-  343. 


SUL  LIBRO  DEL  PRINCIPE.  LV 

berie,  e  si  spacciano  anche  oggidì  per  cose  nuove  dai  cantimbanchi;  » 
e,  dopo  aver  narrate  parecchie  ch'egli  chiama  manifeste  crudeltà, 
lascia  che  i  lettori  Taccian  qui  le  loro  riflessioni,  e  e  vuol  passare  a  rac- 
contar cose  allegre  e  sicuramente  gloriose  al  pontefice  Sisto.  »  *  Bella 
maniera  invero  di  levarsi  d'impaccio!  Così  egli  pur  fece  in  altre  gravi 
questioni  ch'io  non  dico.  Questa  bruita  lacuna  può  essere  riempiuta 
dalle  mie  Consideraùonisul  Libro  del  Principe  di  Machiavelli,  e  da  quel 
brano  delle  Effemeridi  del  Gualtieri  pubblicato  dal  benemerito  Vieus- 
seux.  Nessuno  dopo  di  essi  dirà  che  le  enormezze  ed  astuzie  di  quei 
banditi  erano  novelle  di  cerretani. 

A  pag.  XIX. 

Nel  capitolo  terzo  del  Libro  del  Principe ,  dove  Machiavelli  si  la- 
gna che  Luigi  XII  avesse  diviso  il  Regno  di  Napoli  con  Ferdinando 
di  Aragona,  e  messo  così  in  Italia  un  forestiere  potentissimo,  egli  dà 
bensì  qualche  barlume  del  costui  futuro  ingrandimento:  ma  in  un 
tempo  che  Carlo  Quinto  non  era  ancora  salito  sul  trono  né  dell'  Im- 
pero Germanico  né  delle  Spagne,  e  che  l' Italia  era  ancora  contrastala 
tra  i  Francesi,  gli  Spagnuoli,  i  Veneziani  e  la  Chiesa,  e  prima  delle 
grandi  prove  e  vicende  di  Francesco  I,  come  potea  prevedersi  la 
preponderanza  spagnuola  in  Italia?  Quel  Libro  fu  scritto  nel  1513;* 
nel  qual  anno  in  Ispagna  regnava  tuttavia  Ferdinando,  gelosissimo 
della  propria  autorità  che  a  stento  divideva  coli' erede  di  Isabella, 
Massimiliano  in  Germania,  e  Carlo  era  per  anco  un  fanciullo  :  e  al- 
lorché questi  successe  ai  suoi  potenti  avoli,  essendo  scomparso  ogni 
spiraglio  per  l'italica  indipendenza,  Machiavelli  avea  già  deposti  i  pen- 
sieri monarchici ,  com'  io  dimostro  a  carte  trentasei.  Vana  essendo 
oramai  ogni  cura,  vano  ogni  pensiero  di  ridurre  l'Italia  sotto  una 
sola  Signoria,  le  cure  di  lui  eransi  riconcentrate  tutte  in  Firenze;  in 
quella  sua  nobil  patria,  di  cui  la  morte,  sopravvenutagli  nel  1527, 
gli  tolse  vedere  gli  ultimi  sforzi  repubblicani  e  la  miserabil  caduta, 
che  fu  pure  il  principio  della  universale  decadenza  italiana. 

A  pag.  XXII. 

Prima  del  secolo  decimosettimo,  i  nobili  fiorentini ,  veneziani  e 
lombardi  ^  non  sdegnavano  il  commercio  ed  il  lavoro  :  ma  da  indi  in 

*  Vedi  Jnnali  d' Italia ,  ali*  anno  1586. 

3  Come  appare  dalla  famosa  leUera  a  Francesco  Vettori,  in  data  de'  dieci 
di  decemLre  lóiiJ. 

3  Vedi  Pecchio,  Storta  dell' Economia  politica  in  Italia  t  lotroduxione. — 


lVi  considerazioni 

poi  l'influenza  preponderante  della  Spajfna,  donde  e  manifatture  e 
traffichi  erano  gran  tempo  in  bando,  introdusse  per  tuiia  Italia  In- 
sieme colle  sue  foggia  i  pregiudizi  aristocratici,  e  quello  che  da  lei 
ebbe  il  nome  di  ozio  spagnuido,  che  reputavano  ogni  industria,  per 
quanto  utile  ed  onorevole  fosse,  un'  arte  meccanica.  Le  quali  scioc- 
che opinioni  ed  abitudini  lasciaronvi  sì  lunghi  e  profondi  vestigi, 
che  ancor  dopo  la  decadenza  di  codesta  monarchia ,  ancor  dopo  le 
felici  riforme  dì  Maria  Teresa  e  di  Giuseppe  Angusti ,  ancor  dopo  i 
fiiosoQ  e  gli  economisti  del  secolo  decìmotlavo  e  le  scosse  della  ri- 
voluzione francese,  ne  rimase  fra  noi  qualche  traccia.  Quanto  non 
stentarono  a  prendervi  stabii  piede  le  grandi  intraprese  nurcanlili , 
le  società  anonime,  le  strade  ferrate,  gli  studi  economici!  Si  suuie 
attribuirlo  al  vivere  sedentario  d'un  popolo  agricola,  il  quale,  av- 
vezzo ad  una  limitata  ed  unif<»rme  sfera  di  azione,  ai  più  o  men 
presti  proventi,  ed  alla  materiale  loro  certezza,  non  è,  come  dicono, 
di  sua  natura  disposto  ad  aspettare  i  lenti  ritorni  dei  capitali  ed 
Illa  fiducia  nel  cretliio.  Ma  eran  tali  i  nostri  maggiori  prima  della 
dominatiune  spagnuola T  Combinavano  essi  la  coltivazione  d'un  ter- 
mo fertilissimo  con  qnclla  dell*  industria  e  della  mercatura.  Non  la 
fecundità  del  suolo,  non  I* agricoltura ,  ma  quella  trista  influenza 
produsse  e  mantenne  lungamente  in  Italia  un'avversione  airaitività 
industriale. 

A  pag.  XXX  e  Lli. 

Se  Napoleone  avesse  o  meglio  compresi  o  avuti  maggiormente 
a  memoria  o  più  apprezzati  i  consigli  di  Macliiavelli,'  segnata- 
niente  nei  capitoli  3,  7  e  9  del  Principe,  e  26,  37  e  40  del  li- 
bro primo  dei  Disconi,  forse  non  sarebbe  caduto  dal  trono.  Riso- 
luto ed  audacissimo  in  guerra,  in  politica,  <  pigliò  talora  certe  vie 
del  mezzo  che  gli  furono  dannosissime:  »  <  le  ofl'ese  che  faceva,  non 
eran  fatte  in  modo  che  non  temessero  la  vendetta:  »  f  cercò  di 
avere  amici  coloro  che  non  gli  potevano  essere  amici:  te  non  s;«pcva 
indursi,  egli  uomo  nuovo,  a  fare  ogni  cosa  nuova  con  nuovi  uo- 
mini, >  «  i  quali  riconoscendo  lo  stalo  da  lui,  e  non  avendo  altro 
appoggio,  in  lui  solo  si  fidassero.  »  Insomma,  o  non  seppe  o  non 
volle  essere  V  uomo  prudente  di  Machiavelli:  il  quale  (mi  perdonino 
quelle  grandi  anime  di  Fouché  e  di  Talleyrand)  di  queste  cose  in- 

Verri,  Memorie  ttoriche,  pag.  63-64-93  e  Mg.,  dovt  cita  il  decreto  del  Collegio 
dei  GiareconsulU  di  Milaoo,  del  ià93,  che  escluse  i  commercianti  dalla  noLiilà. 
Emo  era  il  solo  corpo  municipale  che  poteste  provarla. 
4  Eppure  lo  avea  commeotato. 


iiUL  LIBRO  DEL  PRINCIPE.  tVlI 

tendevasi  assai  più  che  i  politici  di  Francia ,  coni*  egli  pur  disse  a 
quel  vanaglorioso  Cardinal  di  Roano,'  che  per  l'uzzolo  di  divenir 
papa  fece  il  diavolo  e  peggio:  eppure,  benché  passasse  per  gran  po- 
litico, non  vi  riuscì.  Qual  fortuna  per  Napoleone,  se  alle  virtù  mi- 
litari di  Francia  avesse  accompagnata  la  civil  prudenza  italiana! 

A  pag.  XXXVI. 

Entrava  egli  nell'animo  di  Machiavelli,  che  ad  effettuare  l'ita- 
liana unità  monarchica,  di  cui  parla  nei  libro  del  Principe,  fosse 
necessaria  l'abolizione  del  dominio  temporale  dei  papi?  Ciò  ch'ei  ne 
disse  al  Cardinal  di  Roano, ^  e  il  capitolo  duodecimo  del  libro  primo 
dei  Discorsi,  non  ne  lasciano  alcun  dubbio;  e  in  quello  istesso  del 
Principe,  al  capitolo  undecimo,  non  si  vede  chiaro,  se  nel  parlare 
della  sicurezza  e  felicità  dei  principati  ecclesiastici  egli  facesse  da 
burla  0  da  vero ,  se  un  encomio  o  non  piuttosto  una  satira ,  come 
anche  fece  in  altre  materie  consimili.  Ma,  d'altra  parie,  i  suoi  due 
spiragli  per  la  redenzione  d'Italia,  chi  erano?  figlio  l'uno,  l'altro 
nipote  di  un  p:ipa.  Da  chi  doveano  essere  indirizzati  e  sostenuti 
nell'ardua  impresa?  da  due  papi.  La  temporale  podestà  dei  ponte- 
fici, un  principato  mantenuto  dagli  ordini  anliquali  della  religione,  erdi 
il  primo  fondamento  a  sollevare  e  costituire  il  suo  principe.  Or  io 
domando  altresì:  e,  costituito  ch'ei  fosse  come  voleva  il  Segretario, 
ne  avrebbe  il  papale  dominio  veduto  sempre  di  buona  voglia  l' in- 
grandimento e  la  potenza?  Secondo  ciò  che  si  legge  in  quel  capitolo 
dei  Discorsi,  sarebbe  avvenuto  il  contrario.  «  La  cagione  che  l'Ita- 
lia non  abbia  anch' ella,  come  la  Francia  e  la  Spagna,  un  principe 
che  la  governi,  è,  diceva  egli,  solamente  la  Chiesa:  il  che  tiene 
questa  nostra  provincia  divisa,  ed  è  cagione  della  rovina  nostra;  »' 
con  quel  che  segue.  Contradiceva  dunque  Machiavelli  a  sé  mede- 
simo? Lo  crederà  un  lettore  superficiale;  ma  chi  attentamente  lo 
esamini  e  maturamente  lo  intenda  nelle  varie  sue  opere,  troverà 
quella  contradizione  piuttosto  apparente  che  reale.  Era  l'Autor  nostro, 
com' io  pur  dimostrai  a  carte  xxxii  e  xxxiif,  l' uomo  delle  circostanze, 
11  quale  variava  col  variare  di  quelle;  e  con  esempi  antichi  e  nuovi 
dimostrava,  dovere  gli  uomini  riscontrare  il  modo  del  proceder  loro 
coi  tenjpi,  e  secondo  questi  mutare  ordine  nel  maneggiarsi.*  Amava 

*  Giorgio  d*  Amboise,  arcivescovo  di  Roaao.  Vedi  il  tap,  3  del  liLro 
del  Principe. 

a  Vedi  ibidem. 

3  Discorsi,  libro  I,  cap.  42, 

*  Vedi  ibidem ,  lib.  Ili,  cap.  9.  —  Lo  stesso  dice  nel  lib.  I  delle  Istorie 
fiorentine. 


LVIII  CONSIDERAZrONI 

e  disamava,  voleva  e  disvoleva  la  persona  e  la  cosa  Istessa,  secon* 
dochè  i  tempi  consigliassero  di  far  l'uno  o  l'altro.  In  quelle  s^  mu- 
tabili sorli  d'Italia  diveniva  in  lui  costanza  il  mutar  pensiero.  All'io* 
dipendenza  italiana,  finché  se  ne  mostrava  qualche  spiraglio  in 
alcuno,  avrebbe  sagrificata  la  libertà  di  Firenze,  che  prediligeva  pur 
tanto  quando  cessava  quello  spiraglio.  Gli  avvenimenti  risvegiìavan- 
gli  or  questo  affetto  or  quello;  *  ma  tutto  era  pel  maggior  bene  della 
sua  patria  e  dell'  Italia.^  In  sino  a  tanto  che  il  duca  Valentino  gli 
parve  acconcio  alla  redenzione  italica,  lo  amò  ed  apprezzò;  poi, 
quando  riprovollo  la  fortuna,  più  non  curossi  di  lui,  perchè  avea 
cessato  di  essere  un  opportuno  strumento  al  suo  favorito  disegno 
ìnonarchico  ed  italico.*  Cosi  pure  nel  presente  caso  piaceagll  l'ele- 
mento ecclesiastico  per  innalzare  il  suo  ideato  edilizio  d'un  principe 
italiano;  e  se  mai  questo  avesse  avuto  luogo,  lo  stesso  amore  della 
italica  unità  ed  indipendenza  lo  avrebbe  indotto  a  consigliare  Ce- 
sare Borgia  0  Lorenzo  a  spezzare  lo  stromenlo  di  cui  si  erano 
valsi  nelle  prime  lor  mosse ,  a  lòr  di  mezzo  il  papale  dominio  tem- 
porale, che,  come  dice,*  e  era  cagione  che  l'Italia  non  potesse 
venir  tutta  sotto  un  capo.  »  *  Cosi  fa  la  politica  che  sappia  e  vo- 
glia, comunque  siasi,  accomodarsi  alle  circost.inze,  erit^scire  a  ogni 
modo  nell'intento  suo;  non  come  fece  il  gonfaloniere  Sederini,  che 
perciò  appunto  rovinò  sé  e  la  sua  patria.*  Essa  muove  il  cattolico 
Carlo  Quinto  '  a  far  assediare  da  sfrenali  luterani  in  Castel  Sani'  An- 

*  Vedi  il  testo  a  carte  xxxri  e  xxxvit. 

*  m  Manlrnere  l'indipendenEa  fra  le  hurratrbedi  quelle  guerre,  era  per  gli 
Slati  italiani  difficile  impresa.  InMacliiavelli  noi  vediamo  lo  sfurzo  di  procacciare 
un  tale  bene6cio  alla  sua  patria  Firenie,  ansi  ,p<>tsil>ilmente,  a  tutta  l'Italia.  Noi 

dolibiamo  riconoscere  in  lui  un  verace  amor  di  patria L'unita  dell'Italia  e 

l'ultimo  scopo  de'  suoi  desideri!...  »  Vedi  Ver  Furst  des  Ntccolò  Machiavtlli, 
uebersetit  and  eingefeilet  von  Dr.  Karl  Riedel,  1S41  ;  nel  quale  anno  appunto  ia 
pultLlicava  le  mie  Consideratiom. 

*  Come  dimostra  nella  sua  prima  Legazione  alla  Corte  di  Roma,  quando 
già  le  cose  del  Valentino  «  andavano  ali*  ingiù,  ed  egli  sdrucciolava  nell'avello.» 
Lo  stesso  fa  nei  Decennali.  Era  colui  già  «  riprovato  dalla  fortuna ,  •»  non  piìi 
m  ordinato  da  Dio  per  la  redenzione  italica.  • 

*  Lib.  I,  cap.  13,  dei  Discorsi. 

'  Per  tal  modo  si  può  conciliare  il  mìo  pensiero  con  quello  del  mentovato 
Riedel,  a  pag.  38-39  della  sua  EinlelUmg  alla  traduzione  del  Principe j  «eb- 
bene, a  dir  vero,  egli  trascorra  un  po' troppo,  e  vegga  in  Machiavelli  troppo 
più  che  non  comportava  il  suo  secolo. 

6  Vedi  il  lib    III,  cap.  9  dei   Discorsi. 

'  «  Che  libri  di  leligione  leggesse  questo  monarca,  non  vel  saprei  dire. 
Di  questa  sfigurata  religione  viene  accusato  anche  Cosimo  I  de' Medici  gran- 
duca di  Fireuxe,  »  dice  il  Muratori,  Annali  d' Italia: kn.  i540. 


SUL   LIBRO   DEL  PRINCIPE.  LlX 

gelo  quel  papa  istesso,  da  cui  poi  prende  riverentemente  in  Bologna 
la  corona  ferrea  e  i'  imperiale  ;  induce  ad  allearsi  co'  Turchi  e  cogli 
eretici,  contro  i  cristiani  e  i  cattolici,  Francesco  I  re  di  Francia,  ze- 
lante persecutore  dell'eresia;  consiglia  Napoleone  a  giovarsi  di  Pio 
Settimo  per  convalidare  la  sua  assunzione  al  trono,  e  poi  a  privarlo 
di  tutto  ciò  che  contrasta  a' suoi  ambiziosi  disegni  :  né  con  queste  sì 
opposte  maniere  di  procedere  i  famosi  monarchi  contradicevano  a 
sé  stessi,  siccome  quelli  che  con  diversi  mezzi  servivano  ad  un 
fine  solo,  alla  politica  loro;  politica  interessata,  la  quale  rispettava 
la  religione  e  il  capo  di  essa  quando  vi  trovava  il  suo  vantaggio,  e 
non  la  curava  nel  contrario  caso.  E  quanti  altri  prìncipi  e  repubbliche 
non  la  seguirono?*  dove  almeno  quella  di  Machiavelli  mirava  ad  un 
nobile  e  generoso  fine,  l'indipendenza  italiana,  per  cui,  come  egli  dice, 
«  giusta  è  la  guerra,  e  son  pietose  le  armi.» 'Dalle  quali  considerazioni 
provengono  due  corollari  assai  degni  di  nota:  l'uno,  che  il  politico 
nostro,  rispettivamente  alla  Chiesa,  anziché  contradire,  era  pur  sem- 
pre consenziente  a  sé  slesso;  l'altro,  che  andrebbe  assai  errato  chi 
sospettasse  per  ciò  in  lui  un  riformatore  religioso,'  Nei  vari  suoi 
scritti  non  appare  alcuna  traccia  delle  dottrine  di  Lutero  e  di  Cal- 
vino, quantunque  già  germogliassero  al  suo  tempo,  e  preparassero 
gli  animi  alla  rivoluzione  religiosa  che  stavasi  per  effettuare  o  per 
tentarla;  il  che  poi  avvenne  quando  eravi  disposto  il  terreno,  come 
sempre  accade  di  ogni  rivoluzione  qualsiasi.  *  Era  egli  un  politico 
pratico,  non  un  filosofo,  molto  meno  un  teologo;  e  nella  religione 
non  trovava  che  un  mezzo  per  ottenere  un  fine  politico,  conforme 
chiaro  si  vede  nei  capitoli  H  e  21  del  Principe  e  nei  capitoli  il  e 
seguenti  del  lib.  I  dei  Discorsi:  ed  io  mi  rendo  certo,  che  se  egli 
fosse  nato  un  mezzo  secolo  più  tardi,  allorché  la  Riforma  andava 
già  propagandosi,^  anziché  entrare  in  controversie  religiose  di  cui 

<  Segnatamente  con  le  scambiate  religioni  per  l'acquisto  d'un  trono  o  per 
UB  regio  parentado. 

2  cap.  26  del  Principe.  * 

5  Come  par  che  creda  G.-C.  Gervinus  (ffist  Schrijìen ,  pag.  i  39).  Anche 
nel  capitolo  primo  del  HI).  Ili  dei  Discorsi  ,\k  dove  parla  degli  ordini  religiosi  di 
San  Francesco  e  di  San  Domenico,  i  quali,  come  dice,  «  ritirarono  la  nostra  reli- 
•  gione  verso  il  suo  principio,  »»  altro  egli  non  ebhc  in  animo  che  di  fare  una  mor- 
dace salirà  dei  prelati  e  capi  di  essa  religione,  come  pur  fece  nel  cap.  5  del  lib.  II 
dei  delti  Discorsi,  e  nel  cap.  II  del  Principe. 

*  Vedi  il  mio  Discòrso  :  Del/e  cause  da  cui  derivarono  parecchie  altera- 
zioni nelle  storie  antiche,  inserito  nel  tomo  13  del  Giornale  dell'  I.  R.  Istituto 
Lombardo. 

*  Efficacemente  in  Germania,  nel  Norie,  nella  Svizzera  e  nei  Paesi  Bassi; 
con  inutili  tentativi  in  Frapcia  ed  in  Italia. 


LX  CONSIDERAZIONI 

ben  poco  cura  vasi,  avrebbe  calcolalo,  quale  delle  religiose  credenze 
meglio  servisse  ai  politici  suoi  fini,  e  là  si  sarebbe  gellato,  dove 
avesse  veduto  un  util  maggiore:  avrebbe  faito  quello  che  pur 
fecero  i  principi  del  secolo  decimosesto;  de' quali  alcuni  abbraccia- 
rono le  nuove  dottrine,  che  ne  estendevano  l'autorità  e  ne  arric- 
chivan  l'erario  colla  primazia  religiosa  e  collo  spoglio  delle  chiese 
e  dei  conventi;  altri  le  perseguitarono,  perchè  temevano,  non  forse 
i  novatori  religiosi  diventassero  novatori  politici:  motivi  l'uno  e  l'al- 
tro del  rapido  incremento  dell'eresia,  delle  guerre  religiose  di  Carlo 
Quinto,  delle  barbare  leggi  di  Francesco  I  contro  gii  eretici,  degli 
orrori  delle  due  Leghe  in  Francia,  e  dell'atroce  Inquisizione  spa- 
gnuola.'  Pei  principi  di  quel  tempo  fu  questa  una  quistione  viepiù 
di  interessi  politici  che  di  coscienza:^  età  corrotta  ed  incredula, 
in  cui  allo  stesso  caltolicismo  pel  ravvedimento  e  la  naturale  rea- 
zione, pel  salutare  Concilio  di  Trento  e  per  la  migliorata  disciplina 
ecclesiastica,  che  ne  furono  la  conseguenza,  giovò  forse  la  stessa 
eresia. 

e  Lutero,  dice  il  preallegato  Riedel,'  con  un  po' meno  di  teo* 
logia  e  con  un  po' più  di  politica,  avrebbe  potuto  diventare  per  la  Ger- 
mania ciò  che  Machiavelli  si  sforzava  di  essere  per  l'Italia;  ma  egli 
commise  i'  imperdonabile  errore  di  annodare  a  interessi  particolari 
il  distacco  d'  una  chiesa  tedesca ,  e  così  perdette  di  vista  il  grande 
pensiero  della  patria.  Non  ,mai  stanco  dal  predicare  contro  il  Gran 
Turco,  rimanevasi  muto  contro  gli  interni  nemici  della  grandezza  e 
felicità  della  Germania:  uomo  senz'anima  per  risvegliare  il  senli-^ 

*  Ferdinando  d'Aragona ,  fondatore  della  Inquisiiione  di  Spagna,  nella  cui 
corte,  com'io  pur  dissi  a  carte  xxv,  ••  le  promesse  erano  un  larcio.  un  giuoco  i 
giuramenti,  un  nome  vano  la  fede,  ••  ed  al  quale  allude  con  misteriose  parole  il 
Segretario  nel  e.  18  del  Principe  j  Filippo  11,  promotore  inderesso  di  quel  tri- 
bunale ,  eppur  nemico  di  Sisto  Quinto  e  di  Paolo  IV  ,  pontefici  ;  il  Cardinal  di 
Lorena,  capo  della  Lega  Cattolica,  che  tiene  coi  principi  tedeschi  occulte  prati- 
che per  rendere  luterana  la  Francia  e  divenirne  egli  il  patriarca  ;  Caterina  de'Me- 
dici,  la  quale  benché  fautrice  del  cattolicismo,  scrive  al  barone  des  Adrels,  che 
••  te  a  distruggere  l'autorità  dei  Guisa  non  gli  bastavano  i  cattolici, armasse  pure 
contro  di  essi  gli  ugonotti  :  •  questi  e  gli  altri  esempi  già  ricordati ,  dimostrano 
evidentemente  la  verità  del  mio  asserto  Vedi  a  m.-iggiore  illustrazione  il  Saggio 
Isterico  di  Eugenio  Alberi  sulla  Vita  di  Caterina  de' Medici,  alle  pagine  60  e 
456;  e  la  Bevue  des  Deiix  MondeSy  T.  XI V,  nouvelle  sèrie ^  pag.  6>)0  et  suiv. 

'  «  Ce  n'est  pas,  à  proprement  parler,  une  affaire  de  religion  ,  mais  une 
affaire  politique;  »  scriveva  all'ugonotto  barone  dei  Adreta  la  cattolica  Cate- 
rina. «  Par  quelque  voie  que  ce  fùt,  »  soggiungeva  essa,  «  pour  le  lervice 
de  Dieu.  la  de'livrance  du  roi  et  de  la  reine,  et  conservation  de  son  e'tat.  • 
£  fu  orribilmente  obbedita.  Vedi  Revtie  des  Deitx  Mondes ,  al  tomo  citato. 

'  Ibidem  ,  pagina  40. 


f 


SUL   LIBRO   DEL    PRINCIPE.  LXI 

mento  nazionale.  Slava  in  poter  di  Lutero  lo  scongiurare  le  tempe- 
ste e  le  indicibili  sciagure  della  guerra  dei  trent'anni,  di  cui  potè 
vedere  egli  stesso  a'  suoi  giorni  i  lampi  precursori,  e  quelle  altresì, 
che  hanno  ancor  da  venire  sulla  nostra  cara  patria.  »  Piacemi  ve- 
ramente di  vedere  questo  dotto  e  generoso  Alemanno  giustificare 
le  dottrine  del  nostro  grande  politico,  e  comprenderlo  assai  più  che 
non  l'abbian  compreso  parecchi  letterati  italiani:*  credo  anch'io, 
che  Luiero  fece  male  di  teologizzare  senza  modo;  ma  non  so,  se  il 
famoso  riformatore  avrebbe  potuto  «  essere  per  la  Germania  ciò  che 
Machiavelli  si  sforzava  di  essere  per  l'Italia.  »  Il  potentissimo  e 
dispotico  Carlo  Quinto,  quel  solo  che  potesse  allora  effettuarvi  il 
disegno  della  unità  monarchica,  non  avrebbe  avuto  né  la  pazienza 
ne  il  bisogno  di  ascoltare  le  libere  parole  dell'audace  frate  di  Eisle- 
ben:  il  sentimento  nazionale  che  anima  odiernamente  i  popoli  te- 
deschi, mal  poteva  essere  suscitalo  in  quelle  masse  peranco  rozze 
ed  ignoranti, viepiù  alte  a  seguire  il  riottoso  sarto  di  Leida  o  la  mistica 
parola  d'un  nuovo  predicante,  che  ad  intendere  un  politico  o  un  filo- 
sofo; e  il  solo  tentarlo  gli  avrebbe  inimicati  que' principi,  l'aiuto 
dei  quali  eragli  indispensabile  per  sostenere  la  sua  riforma  e  salvare 
la  propria  persona  contro  la  potenza  imperiale  e  pontificia.  Che  sa- 
rebbe avvenuto  di  Lutero  e  della  sua  dottrina  senza  codesto  aiuto? 
Se  il  principe  di  Machiavelli  dovea  generalizzare  ed  unire  per  otte- 
nere il  suo  intento,  alla  dottrina  luterana  conveniva  lo  speci;dizzare 
ed  il  dividere  per  diminuire  le  forze  de' suoi  avversari  e  propagarsi 
al  sicuro. 


*  Che  ancor  quando  yoglion  fare  il  Blosofo  o  il  politico  non  sanno  uscire 
dei  termini  della  rettorica:  eppur  noa  mancano  di  ammiratori! 


IL   PIUNCIPE, 


NICCOLÒ  MACHIAVELLI 
AL    MAGNIFICO    LORENZO 


DI  PIERO  DE  MEDICI. 


Sogliono  il  più,  delle  volle  coloro  che  desiderano  acquisl'are 
grazia  appresso  un  Principe,  (arsegli  innanzi  con  quelle  cose 
che  intra  le  loro  abbino  più,  care,  o  delle  quali  vegghino  lui  più 
duellarsi  :  donde  si  vede  molle  volle  esser  loro  presentali  cavalli, 
arme,  drappi  d' oro,  pietre  preziose,  e  simili  ornamenti,  degni 
della  grandezza  di  quelli.  Desiderando  io,  adunque,  offerirmi 
alla  Vostra  Magnificenza  con  qualche  testimone  della  servitù  mia 
verso  di  quella,  non  ho  trovalo  intra  la  mia  suppellettile  cosa, 
quale  io  abbi  più  cara  o  tanto  slimi  quanto  la  cognizione  delle 
azioni  degli  uomini  grandi,  imparata  da  me  con  una  lunga  espe- 
rienza delle  cose  moderne,  ed  una  continova  lezione  delle  anti- 
che :  la  quale  avendo  io  con  gran  diligenza  lungamente  escogitata 
ed  esaminala,  ed  ora  in  uno  piccolo  volume  ridotta,  mando  alla 
Magnificenza  Vostra.  E  benché  io  giudichi  questa  opera  inde- 
gna della  presenza  di  quella,  nondimeno  confido  assai,  che  per 
sua  umanità  gli  debba  essere  accetta  ;  consideralo  che  da  me 
non  gli  possa  essere  fatto  maggior  dono ,  che  darle  facullà  a  po- 
ter in  brevissimo  tempo  intendere  lutto  quello  che  io  in  tanti 
anni ,  e  con  tanti  miei  disagi  e  pericoli,  ho  conosciuto  ad  inteso: 
la  quale  opera  io  non  ho  ornala  né  ripiena  di  clausole  ampie,  o 
di  parole  ampullose  o  magnifiche,  o  di  qualunque  altro  lenoci- 
nio  0  ornamento  estrinseco,  con  li  quali  molli  sogliono  le  lor 
cose  descrivere  ed  ornare  ;  perchè  io  ho  voluto  o  che  veruna  ì 
cosa  la  onori,  o  che  solamente  la  verità  della  materia  e  la  gra-  ì 
vita  del  soggetto  la  faccia  grata.  Né  voglio  sia  riputala  presun-  [ 


zione,  se  uno  uomo  di  basso  ed  infimo  sialo  ardisce  discorrere 
e  regolare  i  governi  de'  Principi  :  perchè  cosi  come  coloro  che 
disegnano  i  paesi,  si  pongono  bassi  nel  piano  a  considerare  la 
natura  de'  monti  e  de  luoghi  ahi,  e  per  considerare  quella  de* 
bassi  si  pongono  alti  sopra  i  monti;  similmenle  a  conoscer  bene 
la  natura  de' popoli,  bisogna  esser  principe;  ed  a  conoscer  bene 
quella  de'  Principi,  conviene  esser  popolare.  Pigli  adunque  Vo^ 
slra  Magnificenza  questo  piccolo  dono  con  quello  animo  che  io 
lo  mando  :  il  quale  se  da  quella  fia  diligentemente  considerato 
e  lello,  vi  conoscerà  dentro  un  estremo  mio  desiderio,  che  lei 
pervenga  a  quella  grandezza  che  la  fortuna  e  le  altre  sue  qua- 
lità le  promettono.  E  se  Vostra  Magnificenza  dallo  apice  della 
sua  altezza  qualche  volta  volgerà  gli  occhi  in  questi  luoghi  bassi, 
conoscerà  quanto  indegnamente  io  sopporti  una  grande  e  con- 
linova  malignità  di  fortuna. 


IL   PRINCIPE. 


Cap.  1.  —  Quante  siano  le  specie  de*  principali, 
e  con  quali  modi  si  acquistino. 

Tulli  gli  stati,  latti  i  dominii  che  hanno  avuto  ed  hanno 
imperio  sopra  gli  uomini ,  sono  stati  e  sono  o  repubbliche  o 
principati.  I  principali  sono,  o  ereditari,  de' quali  il  sangue 
del  loro  signore  ne  sia  slato  lungo  tentìpo  Principe  ;  o  e*  sono 
nuovi.  I  nuovi,  o  sono  nuovi  lutti,  come  fu  Milano  a  Fran- 
cesco Sforza;  o  sono  come  membri  aggiunti  allo  slato  ere- 
ditario del  Principe  che  gli  acquista,  come  è  il  regno  di  Na- 
poli al  re  di  Spagna.  Sono  questi  dominii  cosi  acquistati,  o 
consueti  a  vivere  sello  un  Principe,  o  usi  ad  esser  liberi;  ed 
acquislansi  o  con  Tarmi  d'altri  o  con  le  proprie,  o  per 
fortuna  o  per  virtù. 

Cap.  n.  —  De*  principati  ereditari. 

Io  lascerò  indietro  il  ragionare  delle  repubbliche,  per- 
chè altra  volta  ne  ragionai  a  lungo.  Vollerommi  solo  al  prin- 
cipato, e  anderò,  nel  rilessero  queste  orditure  di  sopra,  dis- 
putando come  questi  principali  si  possono  governare  e 
mantenere.  Dico  adunque,  che  nelli  siali  ereditari,  e^  assue- 
falli al  sangue  del  loro  Principe,  sono  assai  minori  didìcultà 
a  mantenerli,  che  ne' nuovi  :  perchè  basta  solo  non  trapas- 
sar l'ordine  de' suoi  antenati,  e  dipoi  temporeggiare  con 
gli  accidenti  ;  in  modo  che  se  lai  Principe  è  di  ordinaria  in- 
dustria, sempre  si  manlerrà  nel  suo  stato,  se  non  è  una 
strasordinaria  ed  eccessiva  forza  che  ne  lo  priva  ;  e  privalo 
che  ne  sia,  quanlunche  *  di  sinistro  abbia  Toccupatore,  lo 

*  Cosi  neir edizione  del  Biado;  e  qui  significa  :  per  tjnanlo  poco. 

4* 


B  IL   PRl^CIPE. 

racquisterà.  Noi  abbiamo  in  Italia  per  esempio  il  duca  di  Fer- 
rara, il  quale  non  ha  retto  agli  assalti  de' Viniziani  neir84, 
né  a  quelli  di  papa  Giulio  nel  10,  per  altre  cationi  che  per 
essere  antiquato  in  quel  dominio.  Perchè  il  Principe  naturale 
ha  minori  cagioni  e  minori  necessità  di  offendere  ;  donde 
conviene  che  sia  più  amato:  e  se  slrasordinari  vizi  non  lo 
fanno  odiare,  è  ragionevole  che  naturalmente  sia  ben  voluto 
da' suoi,  e  nell'antichità  e  continuazione  del  domìnio  sono 
spente  le  memorie  e  le  cagioni  delle  innovazioni  ;  perchè 
sempre  una  mutazione  lascia  lo  addentellato  per  la  ediGca- 
zione  dell'altra. 

Cap.  III.  —  De*  principati  misli. 

Ma  nel  principato  nuovo  consiistono  le  didlcultà.  £  prima, 
se  non  è  tutto  nuovo,  ma  come  membro  che  si  può  chia- 
mare tutto  insieme  quasi  misto,  le  variazioni  sue  nascono 
in  prima  da  una  naturai  difflcultà,  quale  è  in  tutti  li  princi- 
pati nuovi:  perchè  gli  uomini  mutano  volentieri  signore, 
credendo  mes^liorare;  e  questa  credenza  gli  fa  pigliar  l'arme 
contro  a  chi  regge:  di  che  s'ingannano,  perchè  veggono 
poi  per  esperienza  aver  peggiorato.  Il  che  depende  da  un'al- 
tra necessità  naturale  ed  ordinaria,  quale  fa  che  sempre 
bisogna  offendere  quelli  di  chi  si  diventa  nuovo  Principe,  e 
con  gente  d'arme,  e  con  infìnite  altre  ingiurie  che  si  tira 
dietro  il  nuovo  acquisto.  Dimodoché  ti  trovi  aver  inimici 
(ulti  quelli  che  tu  hai  offesi  in  occupare  quel  principato  ;  e 
non  ti  puoi  mantenere  amici  quelli  che  vi  l'hanno  messo, 
per  non  li  potere  satisfare  in  quel  modo  che  si  erano  pre- 
supposto, e  per  non  poter  tu  usare  contro  di  loro  medicine 
forti,  essendo  loro  obbligato;  perchè  sempre,  ancora  che  uno 
sia  fortissimo  in  sa  gli  eserciti,  ha  bisogno  del  favore  de'pro- 
vinciali  ad  entrare  in  una  provincia.  Per  queste  ragioni 
Luigi  XII  re  di  Francia  occupò  subilo  Alitano,  e  subito  lo 
perde  ;  e  bastarono  a  torgliene  la  prima  volta  le  forze  pro- 
prie di  Lodovico:  perchè  quelli  popoli  che  gli  avevano af)erle 
le  porle,  trovandosi  ingannali  della  opinione  loro  e  di  quel 
futuro  bene  che  s'avevano  presupposto»  non  potevano  sop- 


IL  PRINCIPE.  7 

portare  i  fastidii  del  nuovo  Principe.  È  ben  vero  che  acqui- 
standosi poi  la  seconda  volta  i  paesi  ribellali,  si  perdono  con 
pili  ditTicultà  ;  perchè  il  signore  presa  occasione  dalla  ribel- 
lione, è  meno  respcttivo  ad  assicurarsi  con  punire  i  delin- 
quenti, chiarire  i  sospetti,  provvedersi  nelle  parti  più  de- 
boli, in  modo  che  se  a  far  perdere  Milano  a  Francia  bastò 
la  prima  volta  un  duca  Lodovico  che  romoreggiasse  in 
su'  confini;  a  farlo  dipoi  perdere  la  seconda,  gli  bisognò  avere 
contro  il  mondo  lutto,  e  che  gli  eserciti  suoi  fossero  spenti, 
e  cacciati  d'Italia;  il  che  nacque  dalle  cagioni  sopraddette. 
Nondimeno,  e  la  prima  e  la  seconda  volla  gli  fu  tolto.  Le 
cagioni  universali  della  prima  si  sono  discorse  ;  resta  ora  a 
vedere  quelle  della  seconda,  e  dire  che  rimedi  egli  ave- 
va, e  quali  ci  può  avere  uno  che  fosse  ne'  termini  suoi,  per 
potersi  meglio  mantenere  nello  acquistato,  che  non  fece  il 
re  di  Francia.  Dico,  pertanto,  che  questi  stali  i  quali  acqui- 
standosi si  aggiungono  a  uno  stato  antico  di  quello  che  gli 
acquista,  o  sono  della  medesima  provincia  e  della  medesima 
lingua,  o  non  sono.  Quando  siano,  è  facilità  grande  a  tener- 
gli, massimamente  quando  non  siano  usi  a  vivere  liberi;  e 
a  possedergli  securamente,  basta  avere  spenta  la  linea  de)  < 
Principe  che  li  dominava;  perchè  nelle  altre  cose,  mante-  j 
nendosi  loro  le  condizioni  vecchie,  e  non  vi  essendo  disfor- 
mità di  costumi,  gli  uomini  si  vivono  quietamente:  come  si 
è  visto  che  ha  fatto  la  Borgogna,  la  Brettagna,  la  Guasco- 
gna e  la  Normandia,  che  tanto  tempo  sono  state  con  Fran- 
cia; e  benché  vi  sia  qualche  disformità  di  lingua,  nondi- 
meno i  costumi  sono  simili,  e  possonsi  tra  loro  facilmente 
comportare:  e  a  chi  le  acquista,  volendole  tenere,  bisogna  , 
aver  duoi  rispetti:  l'uno  che  il  sangue  del  loro  Principe) 
antico  si  spenga;  l'altro  di  non  alterare  né  loro  leggi  né\ 
loro  dazi  ;  talmenteché  in  brevissimo  tempo  diventa  con  il 
loro  principato  aulico  lutto  un  corpo.  Ma  quando  si  acqui- 
stano slati  in  una  provincia  disforme  di  lingua ,  di  costumi 
e  d'ordini,  qui  sono  le  dilTicultà,  e  qui  bisogna  avere  gran 
fortuna  e  grande  industria  a  tenerli  :  ed  uno  de*  maggiori 
rimedi  e  più  vivi  sarebbe,  che  la  persopA  di  chi  gli  acquista 
,Yi  andasse  ad  abitare.  Questo  farebbe  più  sicura  e  più  dura- 


8  IL   PRINCIPE. 

bile  quella  possessione  :  come  ha  fatto  il  Turco  di  Grecia  ; 
il  quale  con  tutti  gli  altri  ordini  osservati  da  lui  per  tenere 
quello  stato,  se  non  vi  fosse  ito  ad  abitare,  non  era  possi- 
bile che  lo  tenesse.  Perchè  standovi,  si  vejigono  nascere  i 
disordini,  e  presto  vi  si  può  rimediare  ;  non  vi  stando,  s' in- 
tendono quando  sono  grandi,  e  non  vi  è  più  rimedio.  Non 
è,  oltre  a  questo,  la  provincia  spogliata  da'Iuoi  otTìciali,  satis- 
fannosi  i  sudditi  del  ricorso  propinquo  al  Principe  :  donde 
hanno  più  cagione  di  amarlo,  volendo  essere  buoni;  e  vo- 
lendo essere  altrimenti ,  di  temerlo.  Chi  degli  esterni  vo- 
lesse assaltare  quello  stato,  vi  ha  più  rispetto  ;  tantoché  abi- 
tandovi, Io  può  con  grandissima  difllcultà  perdere.  1/ altro 
miglior  rimedio  è  mandare  colonie  in  uno  o  in  duoi  luoghi, 
che  siano  quasi  le  chiavi  *  di  quello  slato  ;  perchè  è  neces- 
sario o  far  questo,  o  tenervi  assai  gente  d'arme  e  fanterie. 
Nelle  colonie  non  spende  molto  il  Principe,  e  senza  sua 
spesa,  o  poca,  ve  le  manda  e  tiene:  e  solamente  ofTendo 
coloro  a  chi  toglie  li  campi  e  le  case  per  darle  a*  nuovi  abi- 
tatori, che  sono  una  minima  parte  di  quello  stato:  e  quelli 
che  egli  offende,  rimanendo  dispersi  e  poveri,  non  gli  pos- 
sono mai  nuocere:  e  tutti  gli  altri  rimangono  da  una  parte 
non  offesi,  e  per  questo  si  quietano  facilmente;  dall'altra 
paurosi  di  non  errare,  perchè  non  intervenisse  loro  corno 
a  quelli  che  sono  stati  spogliati.  Conchiudo  che  queste  co- 
lonie non  costano,  sono  più  fedeli,  ofTendono  meno:  e  gli 
offesi,  essendo  poveri  e  dispersi,  non  possono  nuocere, 
come  ho  detto.  Perchè  si  ha  a  notare,  che  gli  uomini  si 
debbono  o  vezzeggiare  o  spegnere  ;  perchè  si  vendicano 
delle  leggieri  offese;  delle  gravi  non  possono  :  sicché  l'offesa 
che  si  fa  all'uomo,  deve  essere  in  modo  che  la  non  tema 
la  vendetta.  Ma  lenendovi,  in  cambio  di  colonie,  gente  d'ar- 
me, si  spende  più  assai,  avendo  a  consumare  nella  guardia 
j  tutte  l'entrate  di  quello  stato;  in  modo  che  l'acquislato  gli 
j  torna  in  perdila,  ed  offende  mollo  più,  perchè  nuoce  a  tutto 
(  quello  slato,  tramutando  con  gli  alloggiamenti  il  suo  cscr* 


*  llMS.Laufenziano,  seguito  quasi  che  in  tutto  nella  edltioat  Jcl  ISI3, 
ha  :  siert9  (Jaàsi  compedi. 


IL   PRKNCIPE.  *  9 

cito  :  del  qual  disagio  ognuno  ne  sente,  e  ciascuno  li  di- 
venta nimico,  e  sono  inimici  che  gli  posson  nuocere, 
rimanendo  battuti  in  casa  loro.  Da  ogni  parte,  dunque,  questa 
guardia  è  inutile,  come  quella  delle  colonie  è  utile.  Debbe 
ancora  chi  è  in  una  provincia  disformo,  come  è  detto,  farsi 
capo  e  difensore  de*  vicini  minori  potenti,  ed  ingegnarsi 
d'  indebolire  i  più  potenti  di  quella,  e  guardare  che  per  ac- 
cidente alcuno  non  vi  entri  «no  forestiere  non  meno  po- 
tente di  lui  :  e  sempre  interverrà  che  vi  sarà  messo  da 
coloro  che  saranno  in  quella  malcontenti,  o  per  troppa  am- 
bizione 0  per  paura  ;  come  si  vide  già  che  gli  Etoli  missero 
li  Romani  in  Grecia;  ed  in  ogni  altra  provincia  che  loro 
entrarono,  vi  furon  messi  dai  provinciali.  E  l'ordine  della 
cosa  è,  che  subito  che  un  forestiere  potente  entra  in  una 
provincia,  tutti  quelli  che  sono  in  essa  men  potenti  gli 
aderiscono,  mossi  da  una  invidia  che  hanno  contro  a  chi  è 
stato  potente  sopra  di  loro:  tantoché,  rispetto  a  questi  mi- 
nori potenti,  egli  non  ha  a  durare  fatica  alcuna  a  guada-^ 
guarii,  perchè  subito  tutti  insieme  volentieri  fanno  massa 
con  lo  stato  che  egli  vi  ha  acquistato.  Ha  solamente  a  pen- 
sare che  non  piglino  troppe  forze  e  troppa  autorità  ;  e  facil- 
mente può  con  le  forze  sue  e  col  favor  loro  abbassare 
quelli  che  sono  potenti,  per  rimanere  in  tutto  arbitro  di  quella 
provincia.  E  chi  non  governerà  bene  questa  parte,  perderà 
presto  quello  che  ara  acquistato;  e  mentre  cheto  terrà,  vi  ara 
dentro  infinite  ditlìcultà  e  fastidi.  I  Romani,  nelle  provincie 
che  pigliarono,  osservaron  bene  queste  parti  ;  e  mandarono 
le  colonie,  intrattennero  i  men  potenti,  senza  crescer  loro 
potenza;  abbassarono  li  potenti,  e  non  vi  lasciaron  prendere 
l'iputazione  a' polenti  forestieri.  E  voglio  mi  basti  solo  la  pro- 
vincia di  Grecia  per  esempio.  Furono  intrattenuti  da  loro  gli 
Achei  e  gli  Etoli,  fu  abbassato  il  regno  do'  Macedoni,  funne 
cacciato  Antioco:  né  mai  li  meriti  degli  Achei  o  degli  Etoli 
fecero  che  permettesser  loro  accrescere  alcuno  stato,  né  le 
persuasioni  di  Filippo  gì*  indussero  mai  ad  essergli  amici 
senza  sbassar}o,  né  la  potenza  di  Antioco  potè  fare  gli  con- 
sentissero che  tenesse  in  quella  provincia  alcuno  stato.  Per- 
chè i  Romani  ferono  in  questi  casi  quello  che  lutti  i  Principi 


40-  IL  PRI^XIPE. 

savi  debbon  fare:  li  quali  non  solamente  hanno  aver  ri- 
goardo  alli  scandoli  presenti,  ma  alli  fuluri,  ed  a  quelli  con 
ogni  industria  riparare;  perchè  prevedendosi  discosto,  facil- 
mente vi  si  può  rimediare;  ma  aspellando  che  li  s'appres- 
sino, la  medicina  non  è  più  a  tempo,  perchè  la  malattia  è  di- 
venuta incurabile  :  ed  interviene  di  questa  come  dicono  i 
medici  della  elica,  che  nel  principio  suo  è  facile  a  curare,  e 
dilTicile  a  conoscere;  ma  nel  corso  del  tempo,  non  l'avendo 
Inel  principio  conosciuta  né  medicala,  diventa  facile  a  co- 
Doscere,  e  difTìcile  a  curare.  Così  interviene  nelle  cose  dello 
stato:  perchè  conoscendo  discosto  (il  che  non  è  dato  se  non 
a  an  prudente)  i  mali  che  nascono  in  quello,  si  guariscon 
presto;  ma  quando,  per  non  gli  aver  conosciuti,  si  lascino 
crescere  in  modo  che  ognuno  li  conosce,  non  vi  è  più  rime- 
dio. Però  i  Romani  vedendo  discosto  gl'inconvenienti,  li  ri- 
mediarono sempre,  e  non  gli  lasciaron  mai  seguire  per  fug- 
Igire  una  guerra;  perchè  sapevano  che  la  guerra  non  si  lieva, 
ma  si  differisce  con  vantaggio  d'altri:  perù  volsero  fare  con 
Filippo  ed  Antioco  guerra  in  Grecia,  per  non  l'avere  a  fare 
con  loro  in  Italia  ;  e  potevano  per  allora  fuggire  l'una  e  l'al- 
tra t  il  che  non  volsero  ;  né  piacque  mai  loro  quello  che  tutto 
di  é  in  bocca  de* savi  de' nostri  tempi,  godere  li  heifiefìcii  del 
tempo  ;  ma  bene  quello  della  virtù  e  prudenza  loro  :  perchè 
il  tempo  si  caccia  innan7.i  ozni  cosa,  e  può  condurre  seco 
bene  come  male,  male  come  bene.  Ma  torniamo  a  Francia, 
ed  esaminiamo  se  delle  cose  dette  ne  ha  fatto  alcuna  :  e  par- 
lerò di  Luigi,  e  non  di  Carlo,  come  di  colui  del  quale,  per 
aver  tenuto  più  lunga  possessione  in  Italia,  si  sono  meglio 
visti  li  suoi  andamenti;  e  vedrete  come  egli  ha  fatto  il  con- 
trario di  quelle  cose  che  sì  debbono  fare  per  tenere  uno  stato 
disforme.  11  re  Luigi  fu  messo  in  Italia  dall'ambizione  de' Vi- 
niziani,  che  volsero  guadagnarsi  mezzo  lo  stato  di  Lombardia 
per  quella  venula.  Io  non  voglio  biasimare  questa  venuta  o 
partito  preso  dal  re;  perchè  volendo  cominciare  a  mettere 
un  piede  in  Italia,  e  non  avendo  in  questa  provincia  amici, 
anzi  essendoli,  per  li  portamenti  del  re  Carlo,  serrale  tulle  lo 
porle,  fu  forzato  prendere  quelle  amicizie  che  poteva:  e  sa- 
rebbeli  riuscito  il  pensiero  ben  presto,  quando  negli  altri  ma- 


IL   PRINCIPE.  iì 

ncggi  non  avesse  fatto  errore  alcuno.  Acquistata,  adunque,  il 
re  la  Lombardia,  si  riguadagnò  subito  quella  reputazione  che 
li  aveva  tolta  Carlo;  Genova  cedette;  i  Fiorentini  gli  diventa- 
rono amici;  marchese  di  Mantova, duca  di  Ferrara, Befitivogli, 
madonna  di  Furlì,  signore  di  Faenza,  di  Pesaro,  di  Rimino, 
di  Camerino,  di  Piombino,  Lucchesi,  Pisani,  Sanesi,  ognuno 
se  li  fece  incontro  per  esser  suo  amico.  Ed  allora  poterono 
considerare  li  Viniziani  la  temerità  del  partito  preso  da  loro; 
i  quali,  per  acquistar  due  terre  in  Lombardia,  fecero  signore  1 
il  re  di  duoi  terzi  d'  Italia.  Consideri  ora  uno  con  quanta  po- 
ca difficullà  poteva  il  re  tenere  in  Italia  la  sua  reputazione, 
se  egli  avesse  osservate  le  regole  sopraddette,  e  tenuti  securi 
0  difesi  tutti  quelli  amici  suoi,  li  quali,  per  esser  gran  nu- f 
mero,  e  deboli,  e  paurosi  chi  della  Chiesa,  chi  de' Viniziani,  i 
erano  sempre  necessitati  a  star  seco,  e  per  il  mezzo  loro  pò-  ! 
teva  facilmente  assicurarsi  di  chi  ci  restava  grande.  Ma  egli 
non  prima  fu  in  Milano,  che  fece  il  contrario,  dando  aiuto  a 
papa  Alessandro  perchè  egli  occupasse  la  Homasna.  Né  si 
accorse,  con  questa  deliberazione,  che  faceva  sé  debole,  to- 
gliendosi li  amici,  e  quelli  che  se  li  erano  gettati  in  grembo; 
e  la  Chiesa  grande,  aggiugnendo  allo  spirituale,  che  gli  ék 
tanta  autorità,  tanto  temporale.  E  fatto  un  primo  errore,  fu 
costretto  a  seguitare;  intantochè,  per  por  fine  all'ambizione 
di  Alessandro,  e  perché  noa  divenisse  signor  di  Toscana, 
gli  fu  forza  venire  in  Italia.  E  non  gli  bastò  aver  fatto  grande 
la  Chiesa,  e  toltisi  gli  amici,  che  per  volere  il  regno  di  Na- 
poli, lo  divise  con  il  re  di  Spagna;  e  dove  lui  era  prima  ar- 
bitro d'Italia,  vi  messe  un  compagno,  acciocché  gli  ambi- 
ziosi di  quella  provincia  e  malcontenti  di  lui  avessero  dove 
ricorrere;  e  dove  poteva  lasciare  in  quello  regno  un  re  suo 
pensionario,  egli  ne  lo  trasse,  per  mettervi  uno  che  potesse 
cacciare  lui.  ]&  cosa  veramente  molto  naturale  e  ordinaria  [ 
desiderare  di  acqu  stare;  e  sempre  quando  gli  uomini  lo  fanno  \ 
che  possine,  ne  saranno  laudati  e  non  biasimati:  ma  quando  ' 
non  possono,  e  vogliono  farlo  in  ogni  modo,  qui  è  il  biasimo  e 
l'errore.  Se  Francia,  adunque,  con  le  sue  forze  poteva  assaltare 
Napoli,  doveva  farlo:  se  non  poteva,  non  doveva  dividerlo. 
E  se  la  divisioqe  che  fece  con  Viniziani  di  Lombardia,  me- 


12  IL    PRINCIPE. 

rito  scasa,  per  aver  con  quella  messo  il  pie  in  Italia;  questa 
merita  biasimo,  per  non  esser  scusalo  da  quella  necessità. 
Aveva,  adunque,  Luigi  fatto  questi  cinque  errori:  spenti  i  mi- 
nori polenti  ;  accresciuto  in  Italia  potenza  a  un  potente  ;  mosso 
in  quella  uno  forestiere  potentissimo;  non  venuto  ad  abitarvi  ; 
non  vi  messo  colonie.  Li  quali  errori  ancora,  vivendo  lui, 
I  potevano  non  rolTendere,  se  non  avesse  fattoli  sesto,  di  tórre 
Io  stalo  a'Viniziani  :  perchè,  quando  non  avesse  fatto  grande 

Ila  Chiesa,  né  messo  in  Italia  Spagna,  era  ben  ragionevole 
e  necessario  abbassarli  ;  ma  avendo  presi  quelli  primi  par- 
tili, non  doveva  mai  consentire  alla  rovina  loro:  perchè  es- 
sendo quelli  potenti,  arebbono  sempre  tenuti  ^li  altri  disco- 
sto dalla  impresa  di  Lombardia  ;  si  perchè  i  Viniziani  non 
vi  arebhero  consentito,   senza  diventarne  signori   loro  ;   si 
perchè  gli  altri   non  arebbero  voluto  tòria   a  Francia   per 
darla  a  loro,  e  andarli  ad  urtare  ambedui  ifon  arebbono  avuto 
animo.  E  se  alcon  dicesse  :  il  re  Luigi  cede  ad  Alessandro 
la  Komagna,  ed  a  Spagna  il  Regno,  per  fuggire  una  guerra; 
rispondo,  con  le  ragioni  dette  di  sopra,  che  non  si  debba  mai 
'  lasciar  seguire  un  disordine  per  fuggire  una  guerra  ;  per- 
,  cbè  ella  non  si  fugge,  ma  si  differisce  a  tuo  disavvantaggio. 
)  E  se  alcuni  altri  allegassero  la  fede  che  il  re  aveva  dato 
al  papa,  di  far  per  lui  quella  impresa,  per  la  risoluzione  del 
suo  matrimonio  e  per  il  cappello  di  Hoano  ;   rispondo  ron 
quello  che  per  me  dì  sotto  si  dirà  circa  la  fede  dei  principi, 
e  come  si  debba  osservare.  Ha  perduto,    adunque,    il    re 
Luigi  la  Lombardia  per  non  avere  osservalo  alcuno  di  quelli 
termini  osservati  da  altri  che  hanno  preso  provincie,  e  vo- 
lutele tenere.  Né  è  miracolo  alcuno  questo,  ma  molto  ragio- 
nevole ed  ordinario.  E  di  questa  materia  parlai  a  Nantes  con 
Roano,  quando  il  Valentino,  che  cosi  volgarmente  era  chia- 
malo Cesare  Borgia    tìglio  di  papa  Alessandro,  occupava 
Ila    Romagna:   perchè,   dicendomi  il  cardinale  Roano   che 
I  gr  Italiani  non  s'intendevano  della  guerra,  io  risposi   che 
.  i  Francesi  non  s'intendevano  dello  stato;  perchè,  inlenden- 
i  dosene ,  non  lascerebbono  venire  la  Chiesa  in  tanta  gran- 
dezza. E  per  esperienza  jìì  è  visto,  che  la  grandezza  in  Ita- 
lia di  quella I  e  di  Spagna,  è  stala  causata  da  Francia;  e  la 


IL  PRINCIPE,  13 

rovina  sna  è  proceduta  da  loro.  Di  che  si  cava  una  regola 
generale,  quale  non  mai  o  raro  falla,  che  chi  è  cagione  che 
«no  diventi  potente,  rovina  :  perchè  quella  potenza  è  cau- 
sata da  colui  o  con  industria  o  con  forza  ;  e  1'  una  e  V  altra 
di  queste  due  è  sospetta  a  chi  è  divenuto  potente. 

Gap.  IV.  —  Perchè  il  regno  di  Dario  da  Alessandro  occu' 
paté,  non  si  ribellò  dalli  successori  di  Alessandro  dopo  la 
morte  sua. 

Considerate  le  difficoltà  le  quali  si  hanno  in  (enere 
uno  stato  acquistato  di  nuovo,  potrebbe  alcuno  maravigliarsi, 
donde  nacque  che  Alessandro  Magno  diventò  signore  del- 
l'Asia in  pochi  anni,  e  non  l'avendo  appena  occupala,  mori; 
donde  pareva  ragionevole  che  tutto  quello  stalo  si  ribellassi  : 
nondimeno  li  successori  suoi  se  lo  mantennero,  e  non  eb- 
bono  a  tenerselo  altra  difficultà  che  quella  che  infra  loro 
medesimi,  per  propria  ambizione,  nacque.  Rispondo,  come  ì 
principati  de' quali  si  ha  memoria,  si  trovano  governati  in 
duoi  modi  diversi  :  o  per  un  Principe,  e  lutti  gli  altri  servi,  i 
quali  come  ministri,  per  grazia  e  concessione  sua,  aiutano  go- 
vernare quel  regno  ;  o  per  un  Principe  e  per  baroni,  i  quali 
non  per  grazia  del  signore,  ma  per  antichità  di  sangue  ten- 
gono qugl  grado.  Questi  tali  baroni  hanno  stati  e  sudditi  pro- 
pri, li  quali  gli  riconoscono  per  signori,  ed  hanno  in  loro 
naturale  atTezione.  Quelli  stati  che  si  governano  per  un  Prin- 
cipe e  per  servi,  hanno  il  loro  Principe  con  più  autorità; 
perchè  in  tutta  la  sua  provincia  non  è  alcuno  che  riconosca 
per  superiore  se  non  lui;  e  se  ubbidiscono  alcuno  altro,  lo 
fanno  come  a  ministro  e  ufficiale,  e  non  gli  portano  particulare 
amore.  Gli  esempi  di  queste  due  diversità  di  governi  sono, 
ne*  nostri  tempi,  il  Turco  e  il  re  di  Francia.  Tutta  la  monar- 
chia del  Turco  è  governata  da  un  signore;  gli  altri  sono 
suoi  servi:  e  distinguendo  il  suo  regno  in  sangiacchi,  vi 
manda  diversi  amministratori,  e  gli  muta  e  varia  come  pare 
a  lui.  Ma  il  re  di  Francia  è  posto  in  mezzo  d'  una  moltitudine 
antica  di  signori  riconosciuti  da' loro  sudditi,  ed  amati  da 
quelli;  hanno  le  loro  preminenzie;  né  le  può  il  re  tórre  loro 


i4  IL   PRINCIPE. 

senza  suo  pericolo.  Chi  considera,  adunque,  l'uno  e  l'altro  di 
questi  stati,  troverà  ditTicullà  nell* acquistare  Io  stalo  del 
Turco  ;  ma  vinto  che  sia,  è  facilità  grande  a  tenerlo.  Le  ca- 
gioni delle  ditTicuità  in  potere  occupare  il  regno  del  Turco, 
sono  per  non  potere  Toccupatore  esser  chiamato  da' prin- 
cipi di  quel  regno,  né  sperare  con  la  rebellione  di  quelli 
ch'egli  ha  d'intorno  poter  facilitare  la  sua  impresa:  il  che  na- 
sce dall^  ragioni  sopraddette.  Perchè,  essendogli  lutti  schiavi 
ed  obbligati, si  possono  con  più  dilìlcultà  corrompere ;e  quando 
bene  si  corroiùpessino,  se  ne  può  sperare  poco  utile,  non  po- 
lendo quelli  tirarsi  dietro  i  populi  per  le  ragioni  assegnale. 
Onde,  a  chi  assalta  il  Turco  è  necessario  pensare  di  averlo  a 
trovare  unito,  e  li  conviene  sperare  più  nelle  forze  proprie 
che  ne'disordini  d'altri:  ma  Tinto  che  fusse,  e  rotto  alla  cam- 
pagna in  modo  che  non  possa  rifare  eserciti,  non  s' ha  da 
dabilare  d'altro  che  del  sangue  del  Principe;  il  quale  spento, 
non  resta  alcuno  di  chi  s'abbia  a  temere,  non  avendo  gli 
altri  credito  con  i  popoli:  e  come  il  vincitore  avanti  la  vit- 
toria non  poteva  sperare  in  loro,  cosi  non  debbe  depo  quella 
temere  di  loro.  11  contrario  interviene  ne'  regni  governali 
come  è  quello  di  Francia,  perchè  con  facilità  puoi  entrarvi, 
guadagnandoti  alcuno  barone  del  regno;  perchè  sempre  si 
trova  dei  malcontenti,  e  di  quelli  che  desiderano  innovare. 
Costoro,  per  le  ragioni  delle,  li  possono  aprir  la  via  a  quello 
stato,  e  facilitarli  la  vittoria  :  la  quale  da  poi  a  volerli  man- 
tenere, si  lira  dietro  infìnile  difllcultà,  e  con  quelli  che  ti 
hanno  aiutato,  e  con  quelli  che  tu  hai  oppressi.  Né  ti  basta 
spegnere  il  sansiue  del  Principe;  perchè  vi  rimangono  quelli 
signori,  che  si  fanno  capi  delle  nuove  alterazioni  ;  e  non  li  po- 
lendo contentare  né  spegnere,  perdi  quello  stato  qualunque 
volta  venga  l'occasione.  Ora,  se  voi  considerrete  di  qual  na- 
tura di  governi  era  quello  di  Dario,  lo  troverete  simile  al  regno 
del  Turco:  e  però  ad  Alessandro  fu  necessario  prima  urlarlo 
tutto  e  lòrgli  la  campagna;  dopo  la  qual  vittoria  essendo  Dario 
morto,  rimase  ad  Alessandro  quello  stato  securo  per  le  ra- 
gioni sopra  discorse.  E  li  suoi  successori,  se  fussino  stati 
uniti,  se  lo  potevano  godere  oziosi:  né  in  quel  regno  nac- 
quero altri  tumulti,  che  quelli  che  loro  propri  su^citaroau. 


I 


IL    PRINCIPE.  d5 

Ma  gli  stati  ordinati  come  quello  di  Francia,  è  impossibile 
possedergli  con  tanta  quiete.  Di  qui  nacquero  le  spesse  re- 
bellioni  di  Spagna,  di  Francia  e  di  Grecia  da*Ronaani,  per 
li  spessi  princi[)ali  che  erano  in  quelli  stati:  de' quali  mentre 
che  durò  la  memoria,  sempre  furono  i  Romani  incerti  di 
quella  possessione;  ma  spenta  la  memoria  di  quelli,  con  la 
potenza  e  diuturnità  dell'  imperio  ne  diventarono  securi  pos- 
sessori. E  poterono  dipoi  anche  quelli,  combattendo  ira  loro, 
ciascuno  tirarsi  dietro  parte  di  quelle  provincie,  secondo 
l'autorità  vi  aveva  preso  dentro  ;  e  quelle  per  essere  il  san- 
gue del  loro  antico  signore  spento,  non  riconoscevan  altri 
che  i  Romani.  Considerando  adunque  queste  cose,  non  si  ma- 
raviglierà  alcuno  della  facilità  che  ebbe  Alessandro  a  tenere 
Io  stato  d'Asia,  e  delle  diflìcultà  che  hanno  avuto  gli  altri  a  , 
conservare  l'acquistato;  come  Pirro  e  molli  altri:  il  che  non  1 
è  accaduto  dalla  poca  o  molta  virtù  del  vincitore,  ma  dalla  1 
disformità  del  suggello.  ^ 

Gap.  V.  —  In  che  modo  siano  da  governare  le  cillà  o  primi' 
pali,  quali  prima  che  occupali  fussino,  vitevano  con  le  loro 
leggi. 

Quando  quelli  stati  che  s*  acquistano ,  come  è  detto,  sono 
consueti  a  vìvere  con  le  loro  leggi  e  in  libertà,  a  volerli 
tenere  ci  sono  tre  modi.  Il  primo  è  rovinarli;  l'altro  an- 
darvi ad  abitare  personalmente;  il  terzo  lasciargli  vivere 
con  le  sue  leggi,  tirandone  una  pensione,  e  creandovi  den- 
tro uno  slato  di  pochi,  che  te  lo  conservino  amico.  Perchè, 
essendo  quello  stato  creato  da  quel  Principe,  sa  che  non  può 
slare  senza  l'amicizia  e  potenza  sua,  e  ha  da  fare  il  tutto 
per  mantenerlo:  e  più  facilmente  si  tiene  una  città  usa  a  vi- 
vere libera  con  il  mezzo  de' suoi  cittadini,  che  in  alcuno  al- 
tro modo,  volendola  preservare.  Sonoci  per  esempio  gli  Spar- 
tani e  li  Romani.  Gli  Spartani  tennero  Atene  e  Tebe  crean- 
dovi uno  slato  di  pochi:  nientedimeno  le  perderonp.  I 
Romani  per  tenere  Capua,  Carlaaine  e  Numanzia,  le  disfe- 
cero, e  non  le  perderono.  Volsero  tenere  la  Grecia  quasi  come 
la  tennero  gli  Spartani ,  facendola  libera  e  lasciandole  le  sue 


m  IL    PRINCIPE. 

leggi  ;  e  non  saccesse  loro:  in  modochè  furono  costrelti  dis- 
fare molle  cillà  di  quella  provincia,  per  tenerla  ;  perchè  in 
verità  non  ci  è  modo  sicuro  a  possederle,  altro  che  la  rovina. 
E  chi  diviene  padrone  di  una  città  cotìsuela  a  vivere  Ubera, 
e  non  la  disfaccia,  aspetti  di  essere  disfatto  da  quella;  per- 
chè sempre  ha  per  refugio  nella  rebellione  il  nome  della  li- 
bertà, e  gli  ordinf  antichi  suoi,  li  quali  né  per  lunghezza  di 
tempo  né  per  beneGcii  mai  si  scordano  :  e  per  cosa  si  fac- 
cia o  8i  provvegga,  se  non  si  disuniscono  o  dissipano  gli 
abitatori,  non  si  dimentica  quel  nome  né  quelli  ordini, 
ma  subito  in  ogni  accidente  vi  si  ricorre  ;  come  fé  Pisa 
dopo  tanti  anni  *  che  ella  era  stata  posta  in  servitù  da'  Fio- 
rentini. Ma  quando  le  città  o  le  provincie  sono  use  a  vivere 
sotto  un  Principe,  e  quel  sangue  sia  spento;  essendo  da  una 
parte  use  ad  ubbidire,  dall'altra  non  avendo  il  Principe 
vecchÌo7  farne  uno  infra  loro  non  s'accordano;  vivere  li- 
beri non  sanno:  dimodoché  sono  più  tardi  a  pigliar  l'armi, 
e  con  più  facilità  se  li  può  un  Principe  guadagnare,  e  assicu- 
rarsi di  loro.  &la  nelle  repubbliche  è  maggior  vita,  maggior 
odio,  più  desiderio  di  vendetta;  nèffli  lascia  né  può  lasciare 
riposare  la  memoria  dell'antica  libertà:  talché  la  più  sicura 
via  è  spegnerle,  o  abitarvi. 

Cip.  vi.  —  De* principati  nuovi,  che  con  le  proprie  armi , 
e  virtù  t*  cuquiitano. 

Non  si  maravigli  alcuno  se  nel  parlar  che  io  farò  de*  prin- 
cipati al  tutto  nuovi  e  di  Principe  e  di  slato,  io  addurrò  gran- 
dissimi esempi:  perché,  camminando  gli  uomini  quasi  sempre 
per  le  vie  battute  da  altri,  e  procedendo  nelle  aziorii  loro* 
con  le  imitazioni,  né  si  polendo  le  vie  d'altri  al  tutto  tenere, 
né  alla  virtù  di  quelli  che  tu  imiti  aggiugnere;  debbo  un  uomo 
prudente  entrare  sempre  per  vie  battute  da  uomini  grandi, 
e  quelli  che  sono  stali  eccellentissimi  imitare,  acciocché  se 
la  sua  virtù  non  v'arriva,  almeno  ne  renda  qualche  odore; 
e  far  come  gli  arcieri  prudenti ,  a*  quali  parendo  il  luogo 
dove  disegnano  ferire  troppo  lontano,  e  conoscendo  fino  a 

'  U  MS.  LaureiuiaQo  1 1' edizione  del  iSlZtdopo  cento  anni. 


IL  PRINCIPE.  il 

quanto  arriva  la  virtù  del  loro  arco,  pongono  la  mira  assai 
più  allo  che  il  luogo  destinato,  non  per  aggiugnere  con  la 
loro  forza  o  freccia  a  tanta  altezza,  ma  per  potere  con  l'aiuto 
di  si  alla  mira  pervenire  al  disegno  loro.  Dico,  adunque,  che 
ne'principati  in  tutto  nuovi,  dove  sia  un  nuovo  Principe,  si 
trova  più  o  meno  difiìcultà  a  mantenerli,  secondo  che  più 
o  meno  virtuoso  è  colui  che  gli  acquista.  E  perchè  questo 
evento  di  diventar  di  privato  Principe  presuppone  o  virtù 
o  fortuna,  pare  che  l' una  o  l' altra  di  queste  due  cose  miti- 
ghino in  parte  molte  ditfìcultà.  Nondimeno,  colui  che  è  stato  | 
manco  in  su  la  fortuna,  s'  è  mantenuto  più.  Genera  ancora  ^  * 
facilità  l'esser  il  Principe  costretto,  per  non  aver  altri 
stati,  venirvi  personalmente  ad  abitare.  Ma  per  venire  a 
quelli  che  per  propria  virtù,  e  non  per  fortuna,  son  diven- 
tati Principi;  dico  che  li  più  eccellenti  sono  Moisè,  Ciro,  Ko- 
mulo,  Teseo  e  simili.  E  benché  di  Moisè  non  si  debba  ra- 
gionare, essendo  stato  un  mer^  esecutore  delle  cose  che  gli 
erano  ordinate  da  Dio;  pure  merita  di  essere  ammirato 
solamente' per  quella  grazia  che  lo  faceva  degno  di  parlare 
con  Dio.  Ma  considerando  Giro,  e  gli  altri  che  hanno  acqui- 
stalo o  fondato  regni,  si  troveranno  tutti  mirabili:  e  se  si 
considereranno  le  azioni  ed  ordini  loro  particulari,  non  par- 
ranno differenti  da  quelli  di  Moisè,  benché  egli  ebbe  si  grag 
[yrecettore.  Ed  esaminando  le  azioni  e  vita  loro,  nonsi  ve- 
drà^clie  quelli  avessino  allro  dalla  fortuna  che  l'occasione,  * 
la  quale  delle  loro  materia  di  potervi  introdurre  quella  forma  .^Cii.i 
che  a  lor  parse;  e  senza  quella  occasione  la  virtù  dell'animo  ' 

loro  si  saria  spenta;  e  senza  quella  virtù  l'occasione  sarebbe  ^ 
venuta  invano.  Era,  adunque,  necessario  a  Moisè  trovare  il 
popolo  d'Isdrael  in  Egitto  schiavo,  e  oppresso  dagli  Egizi,- 
acciocché  quelli  per  uscire  di  servitù  si  disponessino  a  se- 
guirlo. Conveniva  che  Romulonon  capesse  in  Alba,  e  fusse 
stato  esposto  al  nascer  suo,  a  voler  che  diventasse  re  di 
Roma,  e  fondatore  di  quella  patria.  Bisognava  che  Ciro  tro- 
vasse i  Persi  malcontenti  dell'imperio  de' Medi,  e  li  Medi 
molli  ed  effeminati  per  lunga  pace.  Non  poteva  Teseo  dimo- 
strareTSTsua  virtù,  se  non  trovava  gli  Ateniesi  dispersi. 
Queste  occasioni,  pertanto,  feciono  questi  uomini  felici;  e  Tee- 


i^  IL   PRINCIPE. 

cellenle  virtù  loro  fé  quella  occasione  esser  conosciuta: 
donde  la  loro  patria  ne  fu  nobilitata,  e  diventò  felicissima. 
Quelli  i  quali  per  vie  virtuose,  simili  a  costoro,  diventano  Prin- 
cipi, acquistano  il  principato  con  ditTicuItà,  ma  con  facilità 
lo  tengono:  e  le  ditlìcultà  che  hanno  nell'acquislare  il  prin- 
cipato, nascono  in  parte  da'  nuovi  ordini  e  modi  che  sono 
forzati  introdurre  per  fondar  lo  stato  loro  e  la  loro  sicurtà. 
E  debbesi  considerare  come  non  è  cosa  più  diffìcile  a  trat- 
tare, né  più  dubbia  a  riuscire,  nò  più  pericolosa  a  maneg- 
giare, che  farsi  capo  ad  introdurre  nuovi  ordini.  Perchè  Tin- 
trodutlore  ha  per  nimici  tutti  coloro  che  degli  ordini  vecchi 
fanno  bene;  e  tepidi  difensori  tutti  quelli  che  degli  ordini 
nuovi  farebbono  bene:  la  qoal  tepidezza  nasce  parte  per 
paura  degli  avversari,  che  hanno  le  leggi  in  benefìcio  loro; 
parte  dalla  incredulità  degli  uomini,  i  quali  non  credono  in 
verità  una  cosa  nuova,  se  non  ne  veggono  nata  esperienza 
ferma.  Donde  nasce  che  qualunque  volta  quelli  che  sono  ni- 
mici hanno  occasione  d'assaltare,  lo  fanno  parzialmente;  * 
e  quelli  altri  difendono  lepidamente,  in  modochè  insieme 
con  loro  si  pendila.  È  necessario  pertanto,  volendo  discor- 
rere bene  questa  parte,  esaminare  se  questi  innovatori  stanno 
per  lor  medesimi,  o  se  dependano  da  altri:  cioè,  se  per  con- 
durre l'opera  loro  bisogna  che  preghino,  ovvero  possono 
forzare.  Nel  primo  caso,  capitan  sempre  male,  e  non  condu- 
cono cosa  alcuna;  ma  quando  dependono  da  loro  propri,  e 
posson  forzare,  allora  è  che  rare  volte  periclitano.  Di  qui 
nacque  che  lutti  li  profeti  armati  vlnsono,  e  li  disarmati  ro- 
vinarono: perchè,  olirà  le  cose  dette,  la  natura  de' popoli  è 
varia;  ed  è  facile  a  persuadere  loro  una  cosa,  ma  è  diffìcile 
fermarfì  in  quella  persuasione.  E  però  conviene  essere  or- 
dinalo in  modo,  che  quando  non  credono  più ,  si  possa  far 
loro  credere  per  forza.  Moisè,  Ciro,  Teseo  e  Romulo  non 
arebbono  possulo  fare  osservar  lungamente  le  loro  costitu- 
zioni, se  fussero  stati  disarmali:  come  ne' nostri  tempi  in- 
tervenne a  frate  Girolamo  Savonarola,  il  quale  rovinò  ne'suoi 
ordini  nuovi,  come  la  moltitudine  cominciò  a  non  credergli; 

'  Cio^,  con  pauiooe  e  ferocia  da  faziosi  (signiiìcazioDe  omeua  nel  Vocako* 
tari).  U  Laurentiano  e  l' edizione  del  1S13  biono  :  partigianamente, 


1 


IL  t>RlNClt»È.  19 

e  lai  non  aveva  il  modo  da  tenere  fermi  quelli  che  avevano 
credulo,  né  a  far  credere  i  discredenti.  Però  questi  tali  hanno 
nel  condursi  gran  dilTicuUà,  e  tutti  i  loro  pericoli  sono  tra 
via,  e  conviene  che  con  la  virtù  li  superino:  ma  superati 
che  gli  hanno,  e  che  cominciano  ad  essere  in  venerazione, 
avendo  spenti  quelli  che  di  sua  qualità  gli  avevano  invidia, 
rimangono  potenti,  sicuri,  onorati  e  felici.  A  si  alti  esempi 
io  voglio  aggiugnere  un  esempio  minore;  ma  bene  ara  qual- 
che proporzione  con  quelli,  e  voglio  mi  basti  per  lutti  gli 
altri  simili:  e  questo  è  lerone  Siracusano.  Costui  dì  privato 
diventò  Principe  di  Siracusa,  né  ancor  lui  conobbe  altro 
dalla  fortuna  che  l'occasione;  perché  essendo  i  Siracusani 
oppressi,  l'elessono  per  loro  capitano,  donde  meritò  d'es- 
ser fatto  lor  Principe:  e  fu  di  tanta  virtù  ancora  in  privala 
fortuna,  che  chi  ne  scrive,  dice  che  niente  gli  mancava  a 
regnare,  eccetto  il  regno.  Costui  spense  la  milizia  vecchia, 
ordinò  la  nuova,  lasciò  le  amicizie  antiche,  prese  delie  nuove  j 
e. come  ebbe  amicizie  e  soldati  che  fossero  suoi,  potette  in 
su  lai  fondamento  edificare  ogni  edifìcio:  tantoché  lui  durò 
assai  fatica  in  acquistare,  e  poca  in  mantenere. 

Cap.  vii.  —  De*principali  nuovi,  che  con  forze  d'altri  e  per 
fortuna  s'acquistano. 

Coloro  i  quali  solamente  per  fortuna  diventano  di  pri- 
vali Principi,  con  poca  fatica  diventano,  ma  con  assai  si  man- 
tengono: e  non  hanno  difficullà  alcuna  tra  via,  perché  vi  vo- 
lano; ma  tutte  le  diflìcultà  nascono  da  poi  vi  sono  posti. 
E  questi  tali  sono  quelli  a  chi  è  concesso  alcuno  stalo 
o  per  danari,  o  per  grazia  di  chi  lo  concede:  come  inter- 
venne a  molti  in  Grecia,  nelle  città  di  Ionia  e  deirEIIcsponlo, 
dove  furon  fatti  Principi  da  Dario,  acciò  le  tenessero  per 
sua  sicurtà  e  gloria;  come  erano  ancora  fatti  quelli  impera- 
dori,  che  di  privati,  per  corruzione  de'soldali,  pervenivano 
allo  imperio.  Questi  stanno  semplicemente  in  su  la  voluntà 
e  fortuna  di  chi  gli  ha  fatti  grandi,  che  sono  due  cose  vola-^ 
bilissime  ed  instabilì;  e  non  sanno  e  non  posson  tenere  quel 
grado:  non  sanno,  perché  se  non  è  uomo  di  grande  ingegno 


20  IL  PRINCIPE. 

e  virlù,  non  è  ragionevole  che,  essendo  sempre  vissuto  in 
privala  fortuna,  sappia  comatidare;  non  possono,  perchè  non 
hanno  forze  che  gli  possino  essere  amiche  e  fedeli.  Dipoi, 
gli  stali  che  vengono  subilo ,  come  tutte  le  altre  cose 
della  natura  che  nascono  e  crescon  presto,  non  possono 
avere  le  radici  e  corrispondenzie  loro,  in  modo  che  il  primo 
tempo  avverso  non  le  spenga;  se  già  quelli  tali,  come  è  detto, 
che  st  in  un  subito  son  diventati  Principi,  non  sono  di 
tanta  virtù,  che  quello  che  la  fortuna  ha  messo  loro  in 
grembo,  sappino  subito  prepararsi  a  conservare;  e  quelli 
fondamenti  che  gli  altri  hanno  fatti  avanti  che  diven- 
tino Principi,  gli  faccino  poi.  Io  voglio  all'uno  e  l'al- 
tro dì  questi  modi,  circa  il  diventar  Principe  per  virtù 
o  per  fortuna ,  addurre  duoi  esempi  slati  ne'  di  della 
memoria  nostra:  questi  sono  Francesco  Sforza,  e  Cesare 
Borgia.  Francesco ,  per  li  debili  mezzi  e  con  una  gran 
virtù,  di  privato  diventò  duca  di  Milano;  e  quello  che  con 
mille  affanni  aveva  acquistato,  con  poca  fatica  mantenne. 
]Dairallra  parte.  Cesare  Borgia,  chiamato  dal  vulgo  duca  Va- 
lentino, acquistò  lo  stalo  con  la  fortuna  del  padre,  e  con 
quella  lo  perdette;  nonostante  che  per  lui  s'usasse  ogni 
opera,  e  facessinsi  tutte  quelle  cose  che  per  un  prudente  e 
virtuoso  uomo  si  dovevau  fare,  per  metter  le  radici. sue  in 
quelli  stali  che  l' armi  e  fortuna  d' altri  gli  aveva  concessi. 
Perchè,  come  di  sopra  si  disse,  chi  non  fa  i  fondamenti 
prima,  gli  potrebbe  con  una  gran  virlù  fare  dipoi;  ancor- 
ché si  faccino  con  disagio  dell'architettore,  e  perìcolo  dello 
cdiGzio.  Se,  adunque,  si  considerrà  tutti  i  progressi  del  duca, 
si  vedrà  quanto  lui  avesse  fallo  gran  fondamenti  alla  fu- 
tura potCLza;  li  quali  non  giudico  superfluo  discorrere,  per- 
chè io  non  saprei  quali  precetti  mi  dar  migliori  a  un  Prin- 
cipe nuovo,  che  lo  esempio  delle  azioni  sue:  e  se  gli  ordini 
suoi  non  gli  giovarono,  non  fu  sua  colpa,  perchè  nacque  da 
una  slrasordinaria  ed  estrema  malignità  di  fortuna.  Aveva 
Alessandro  VI  nel  voler  far  grande  il  duca  suo  tiglio  assai 
diflicullà  presenti  e  future.  Prima,  non  vedeva  via  di  polcrio 
far  signore  d'alcuno  stato  che  non  fosse  stalo  di  Chiesa  ;  e  vol- 
gendosi a  lòr  quel  della  Chiesa,  sapeva  che  il  duca  di  Milai 


It  PRINCIPE.  Si 

ei  Viniziani  non  gliel  consentlrebbono,  perchè  Faenza  e  Ri- 
mino eran  già  sotto  la  protezione  de'Viniziani.  Vedeva,  oltre  a 
questo,  l'armi  d'Italia, e  quelle  in  spezie  di  chi  si  fusse  possuto 
servire,  esser  nelle  mani  di  coloro  che  dovevan  temere  la 
grandezza  del  papa:  e  però  non  se  ne  poteva  fidare,  essendo 
tutte  negli  Orsini  e  Colonnesi ,  e  loro  segnaci.  Era,  dun- 
que, necessario  che  si  turbassero  quelli  ordini ,  e  disordinare 
gli  stati  d' Italia,  per  potersi  insignorire  securamente  di  parte 
di  quelli:  il  che  gli  fu  facile,  perchè  trovò  Viniziani  che^ 
mossi  da  altre  cagioni ,  s' eran  vòlti  a  far  ripassare  i  Fran- 
cesi in  Italia;  il  che  non  solamente  non  contradisse,  ma 
fece  più  facile  con  la  resoluzione  del  matrimonio  antico  del 
re  Luigi.  Passò,  adunque,  il  re  in  Italia  con  lo  aiuto  de' Vini- 
ziani e  consenso  d'Alessandro;  né  prima  fu  in  Milano,  che  il 
papa  ebbe  da  lui  gente  per  l'impresa  di  Romagna,  la  quale  gli 
fu  consentita  per  la  reputazione  del  re.  Acquistata,  adunque, 
il  duca  la  Romagna,  e  battuti  i  Colonnesi ,  volendo  mante- 
nere quella  e  procedere  più  avanti ,  l' impedivano  due  cose: 
r  una  r  armi  sue,  che  non  gli  parevano  fedeli;  l'altra  la  vo- 
lontà di  Francia:  cioè  temeva  che  l'armi  Orsine,  delle  quali 
si  era  servito ,  non  gli  mancassero  sotto,  e  non  solamente 
gì' impedissero  l'acquistare,  ma  gli  togliessero  l'acquistato; 
e  che  il  re  ancora  non  gli  facesse  il  simile.  Degli  Orsini 
n'ebbe  un  riscontro  quando,  dopo  la  espugnazione  di  Faenza, 
assaltò  Bologna,  che  gli  vide  andar  freddi  in  quello  assalto. 
E  circa  il  re,  cognobbe  l'animo  suo  quando,  preso  il  ducato 
d'Urbipo,  assaltò  la  Toscana,  dalla  quale  impresa  il  re  Io 
fece  desìstere  :  ondechè  il  duca  deliberò  non  dependere  più 
dalla  fortuna  ed  armi  d'altri.  E  la  prima  cosa,  indebolì  le 
parti  Orsine  e  Colonnesi  in  Roma  ,  perchè  tutti  gli  aderenti 
loro  che  fussino  gentiluomini,  si  guadagnò,  facendoli  suoi 
gentiluomini;  e  dando  loro  gran  provvisioni,  gli  onorò,  se- 
condo lor  qualità  ,  di  condotte  e  di  governi ,  in  modo  che 
in  pochi  mesi  negli  animi  loro  l'atTezìone  delle  parli  si  spense, 
e  tutta  si  volse  nel  duca.  Dopo  questo,  aspettò  l*  occasione 
di  spegnere  gli  Orsini,  avendo  dispersi  quelli  di  casa  Colonna: 
la  quale  gli  venne  bene,  e  lui  l'usò  meglio;  perchè,  avve- 
dutisi gli  Orsini  tardi  che  la  grandezza  del  duca  e  della 


22  IL  PRINCIPE. 

Chiesa  era  la  lor  roina,  fecero  ana  dieta  alla  Magione  nel  Pe- 
rugino. Da  quella  nacque  la  rebellione  d'Urbino, eli  tumulli 
di  Romagna,  ed  infìnili  pericoli  del  duca,  li  quali  superò 
tutti  con  l'aiuto  de'  Francesi  :  e  ritornatoli  la  repulazione,  né 
si  fidando  di  Francia  'né  d' altre  forze  esterne ,  per  non  le 
avere  a  cimentare,  si -volse  agringannì;  e  seppe  tanto  dissi- 
mulare l'animo  suo,   che   gli   Orsini,    mediante  il  signor 

-[  *Pavolo,  8i  riconciliarono  seco;  con  il  quale  il  duca  non  mancò 
d'ogni  ragione  d'officio  per  assicurarlo,  dandoli  veste,  da- 
nari e  cavalli;  tanto  che  la  simplicilà  loro  gli  condusse  a 
Sinigaglia  nelle  sue  mani.  Spenti,  adunque,  questi  capi,  e  ri- 
dotti li  partigiani  loro  amici  sooi,  aveva  il  duca  gittalo  assai 
buoni  fondamenti  alla  potenza  sua,  avendo  tutta  la  Romagna 
con  il  ducato  d' Urbino ,  e  guadagnatosi  tutti  quelli  popoli 
per  avere  incominciato  a  gustare  il  ben  essere  loro.  E  per- 
chè questa  parte  è  degni  di  notizia  ,  e  da  essere  imitata  da 
altri,  non  voglio  lasciarla  indietro.  Preso  che  ebbe  il  duca 
la  Romagna,  trovandola  essere  stala  comandata  da  signori 
impotenti,  quali  più  presto  avevano  spogliato  i  loro  sudditi 
che  correttoli ,  e  dato  loro  più  materia  di  disunione  che  di 
ooione;  tanto  che  quella  provincia  era  piena  di  latrocini!,  di 
brighe  e  d'ogni  altra  sorte  d'insolenza;  giudicò  necessario, 
a  volerla  ridurre  pacifica  ed  obbediente  al  braccio  regio, 
darle  un  buon  governo.  Però  vi  prepose  messcr  Remiro 
d'Orco,  uomo  crudele  ed  espedito;  al  quale  dette  pienissima 
potestà.  Costui  in  breve  tempo  la  ridusse  pacifica  ed  unita,  con 
grandissima  reputazione.  Dipoi  giudicò  il  duca  non  essere  a 
proposito  si  eccessiva  autorità,  perchè  dubitava  non  diven- 
tasse odiosa;  e  preposevi  un  giudizio  civile  nel  mezzo  della 
provincia,  con  un  presidente  eccellentissimo,  dove  ogni 
città  aveva  l'avvocato  suo.  E  perchè  conosceva  le  rieorosità 
passate  avergli  generato  qualche  odio,  per  purgar  gli  animi 
di  quelli  popoli,  e  guadagnarseli  in  tutto,  volse  mostrare 
che  se  crudeltà  alcuna  era  seguita,  non  era  nata  da  lui,  ma 

j  dall'acerba  natura  del  ministro.  E  preso  sopra  questo  occa- 
sione, lo  fece  mettere  una  mattina  in  duoi  pezzi  a  Cesena  in 
su  la  piazza,  con  un  pezzo  di  legno  ed  un  collello  sangui no^^o 
a  canto.  La  ferocità  del  quale  spettacolo  fece  quelli  popoli 


IL  PRINCIPE.  23 

un  (erapo  rimanere  satisfalli  e  slupidi.  Ma  torniamo  donde 
noi  partimmo.  Dico  che  trovandosi  il  duca  assai  potente  , 
ed  in  parte  assicuralo  de*  presenti  pericoli  ,  per  essersi  ar- 
mato a  suo  modo,  ed  avere  in  buona  parte  spente  quelle 
armi  che  vicine  Io  potevano  otTendere;  li  restava  ,  volendo 
procedere  con  l'acquisto,  il  rispetto  di  Francia,  perchè  co- 
nosceva che  dal  re,  il  quale  tardi  s'era  avveduto  dell' er- 
ror  suo,  non  gli  sarebbe  sopportato.  E  cominciò  per  questo 
a  cercare  amicizie  puove,  e  vacillar  con  Francia,  nella  ve- 
nuta che  fecero  i  Francesi  verso  il  regno  di  Napoli  contro 
alii  Spagnuoli  che  assediavano  Gaeta.  £  l'animo  suo  era  di 
assicurarsi  di  loro;  il  che  gli  saria  presto  riuscito,  se  Ales- 
sandro viveva.  E  queéti  furono  i  governi  suoi  circa  le  cose 
presenti.  Ma  quanto  alle  future,  lui  aveva  da  dubitare  in  prima 
che  un  nuovo  successore  alla  Chiesa  non  gli  fusse  amico,  e 
cercasse  tòrgiì  quello  che  Alessandro  gli  aveva  dato:  e  pensò 
farlo  in  quattro  modi.  Prima,  con  spegnere  tutti i  sangui  di 
quelli  signori  che  lui  aveva  spogliato,  per  tórre  al  papa 
quelle  occasioni.  Secondo,  con  guadagnarsi  tulli  i  gentiluo- 
mini di  Roma  per  poter  con  quelli,  come  è  dello,  tenere  il 
papa  in  freno.  Terzo,  con  ridurre  il  Collegio  più  suo  che  po- 
teva. Quarto,  con  acquistar  tanto  imperio  avanti  che  il  papa 
morisse,  che  potesse  per  sé  medesimo  resistere  ad  un  primo 
impelo.  Di  queste  quattro  cose  alla  morte  d'Alessandro  ne 
aveva  condotte  tre  ;  la  quarta  aveva  quasi  per  condotta.  Per- 
chè, de' signori  spogliali  ne  ammazzò  quanti  ne  potè  aggiu- 
gnere,  e  pochissimi  si  salvarono;  i  gentiluomini  Romani 
s' aveva  guadagnalo;  e  nel  Collegio  aveva  grandissima  parie. 
E  quanto  al  nuovo  acquisto  ,  aveva  disegnato  diventar  si- 
gnore di  Toscana,  e  possedeva  già  Perugia  e  Piombino,  e  di 
Pisa  aveva  presa  la  protezione.  E  come  non  avessi  avuto 
aver  rispetto  a  Francia  (che  non  gliene  aveva  d'  avere  più , 
per  esser  già  i  Francesi  spogliati  del  regno  di  Napoli  dagli 
Spagnuoli ,  in  forma  che  ciascun  di  loro  era  necessitalo  di 
comperar  l'amicizia  sua),  saltava  in  Pisa.  Dopo  questo, 
Lucca  e  Siena  cedeva  subito,  parte  per  invidia  de'  Fiorentini, 
e  parie  per  paura;  i  Fiorentini  non  avevan  rimedio:  il  che 
se  li  fusse  riuscito  (che  gli  riusciva  V  anno  medesimo  che 


24  IL  PRINCIPE. 

Alessandro  mori),  s'acquistava  (ante  forze  e  (anta  reputa- 
zione, che  per  sé  stesso  si  sarebbe  retto,  senza  dependere 
dalla  Tortana  o  forza  d'altri,  ma  solo  dalla  potenza  e  virtù 
sua.  Ma  Alessandro  mori  dopo  cinque  anni  ch'egli  aveva 
incominciato  a  trarre  fuori  la  spada.  Lasciollo  con  lo  stato 
di  Romagna  solamente  assolidato,  con  tutti  gli  altri  in  aria, 
intra  duoi  potentissimi  eserciti  inimici,  ammalato  a  morte. 
Ed  era  nel  duca  tanta  ferocia  e  tanta  virtù,  e  si  ben  cono- 
sceva  come  gli  uomini  s'abbino  a  guadagnare  o  perdere,  e 
(ante  erao  validi  li  fondamenti  che  in  si  poco  tempo  s'aveva 
fatti  ;  che  se  non  avesse  avuto  quelli  eserciti  addosso,  o  fusse 
stato  sano ,  sarebbe  retto  a  ogni  diftìcullà.  E  che  li  fonda- 
menti suoi  fussino  bnoni^  si  vide,  che  la  Romagna  l'aspettò 
più  d'un  mese;  in  Roma,  ancora  che  meizo  morto,  stette 
secare;  e  benché  i  Bastioni ,  Vitelli  ed  Orsini  venissero  in 
Roma,  non  cbbon  séguito  contro  di  lui.  Potè  fare,  se  non 
chi  esli  foUe,  almeno  che  non  fusse  papa  chi  egli  non  vo- 
leva^ Ila  te  nella  morte  di  Alessandro  fusse  slato  sano,  ogni 
cosa  gli  era  facile.  E  lui  mi  disse,  ne*  di  che  fu  creato  Giu- 
lio li,  che  aveva  pensato  a  tutto  quello  che  potesse  nascere 
morendo  il  padre,  e  a  lutto  aveva  trovato  rimedio;  eccetto 
che  non  pensò  mai,  in  sa  la  sua  morte,  di  stare  ancof  lui 
per  morire.  Raccolte,  adanqoe,  tutte  queste  azioni  del  duca , 
non  saprei  riprenderlo  ;  anzi  mi  pare,  come  io  ho  fatto  ,  di 
proporlo  ad  imitare  a  tutti  coloro  che  per  fortuna  e  con 
r  armi  d'  altri  sono  saliti  all'  imperio.  Perché  lui  avendo 
r  animo  grande,  e  la  soa  intenzione  alta,  non  si  poteva  go- 
▼ernare  altrimenti  ;  e  solo  si  oppose  sili  suoi  disegni  la  bre- 
vità della  vita  d'  Ale.«sandro,  f  la  sua  infìrmità.  Chi,  adun- 
que, giudica  necessario  nel  aio  principato  nuovo  assicurarsi 
degl'inimici,  guadagnarsi  amici,  vincere  o  per  forza  o  per 
fraude ,  farsi  amare  e  temer  da'  popoli ,  seguire  e  riverire 
da'  soldati,  spegner  quelli  che  li  possono  o  debbono  offen- 
dere, innovare  eoo  nuovi  modi  gli  ordini  antichi,  esser 
severo  e  grato,  magnanimo  e  liberale,  spegnere  la  milizia 
infedele,  creare  della  nuova,  mantenersi  le  amicizie  de' re 
e  delli  principi,  in  modo  che  li  abbino  a  beneficare  con  gra- 
zia 0  ad  otTeodere  con  rispetto;  non  può  trovare  più  freschi 


IL   PRIKCIPE.  20 

esempi  che  le  azioni  di  costui.  Solamente  si  può  accusarlo 
nella  creazione  di  (ìiulio  II,  nella  quale  lui  ebbe  mala  ele- 
zione: perchè,  come  è  detto,  non  potendo  fare  un  papa  a 
suo  modo,  poteva  tenere  che  uno  non  fusse  papa  ;  e  non  de- 
veva  acconsentir  mai  al  papato  di  quelli  cardinali  che  lui 
avesse  offesi,  o  che,  diventati  pontefici,  avessino  ad  aver 
paura  di  lui.  Perchè  gli  uomini  offendono  0  per  paura  o  per 
odio.  Quelli  che  lui  aveva  offesi,  erano,  tra  gli  altri.  San  Pie- 
tro ad  Vincula,  Colonna,  San  Giorgio,  Ascanio.  Tutti  gli  altri, 
assunti  al  pontificalo,  avevan  da  temerlo,  eccello  Uoano  e 
gli  Spagnuoli  :  questi  per  congiunzione  e  obbligo  ;  quello  per 
potenza,  avendo  congiunto  seco  il  regno  di  Francia.  Per- 
tanto il  duca,  innanzi  ad  ogni  cosa,  deveva  creare  papa  uno 
Spagnuolo;  e  non  potendo,  dovea  consentire  che  fusse  Roano, 
e  non  San  Pietro  ad  Vincula.  E  chi  crede  che  ne' personaggi 
grandi  i  beneficii  nuovi  faccino  dimenticare  V  ingiurìe  vec- 
chie, s'inganna.  Errò,  adunque,  il  duca  in  questa  elezione,  e 
fu  cagione  dell'ultima  rovina  sua 

Gap.  Vili. —  Di  quelli  che  per  scelleratezze  sono  pervenuli 
al  principato. 

Ma  perchè  di  privato  si  diventa  ancora  in  duoi  modi 
Principe  (il  che  non  sì  può  al  lutto  0  alla  fortuna  0  alla  virtù 
attribuire),  non  mi  pare  da  lasciarli  indietro:  ancora  che 
dell'ano  si  possa  più  diffusamente  ragionare  dove  si  trat- 
tasse delle  repubbliche.  Questi  sono,  quando  o  per  qualche 
via  scellerata  e  nefaria  s'ascende  al  principato;  o  quando 
uno  privato  cittadino  con  il  favore  degli  altri  suoi  cittadini 
diventa  Principe  della  sua  patria.  E  parlando  del  primo 
modo,  si  mostrerà  con  duoi  esempi,  l*  uno  amico,  T  ailro 
moderno,  senza  entrare  allrimenli  ne'  meriti  di  questa  parte, 
perchè  giudico  che  bastino  a  chi  fusse  necessitato  imitargli. 
Agatocle  Siciliano,  non  solo  di  privata  ma  d'infima  ed 
abietta  fortuna,  divenne  re  di  Siracusa.  Costui  nato  di  un 
orciolaio,  tenne  sempre,  per  i  gradi  della  sua  fortuna,  vita 
scellerata.  Nondimanco,  accompagnò  le  sue  scelleratezze  con 
tanta  virtù  d'animo  e  di  corpo,  che  vellosi  alla  milizia,  per 

3 


26  IL  PRINCirE. 

li  gradi  di  quella  pervenne  ad  esser  pretore  di  Siracusa. 
Nel  qual  grado  essendo  cosliluilo,  ed  avendo  deliberalo  vo- 
lere diventar  Principe,  e  tenere  con  violenza  e  senza  ob- 
bligo d'  altri  quello  che  d'accordo  gli  era  stalo  concesso  ;  ed 
avuto  dì  questo  suo  disegno  intelligenza  con  Amilcare  car- 
taginese, il  quale  con  gli  eserciti  militava  in  Sicilia;  con- 
gregò una  mattina  il  popolo  e  il  senato  di  Siracusa,  come 
se  egli  avessi  avuto  a  deliberare  cose  pertinenti  alla  repub- 
blica, e,  ad  un  cenno  ordinato,  fece  da' suoi  soldati  uccidere 
tutti  li  senatori  e  li  più  ricchi  del  popolo:  li  quali  morti,  oc- 
cupò e  tenne  il  principato  di  quella  città,  senza  alcuna  con- 
troversia civile.  E  benché  dai  Cartaginesi  fosse  due  volte 
rotto,  e  ultimamente  assediato,  non  solamente  potè  difen- 
dere la  sua  città,  ma  lasciata  parte  della  sua  gente  alla  di- 
fesa di  quella,  con  l'altre  assaltò  l'Affrica,  e  in  breve 
tempo  liberò  Siracusa  dall'assedio,  e  condusse  i  Cartaginesi 
in  estrema  necessità:  i  quali  furono  necessitati  ad  accordarsi 
con  quello,  a  essere  contenti  della  possessione  dell' Affrica, 
e  ad  Agatocle  lasciar  la  Sicilia.  Chi  considerasse,  adunque, 
le  azioni  e  virtù  di  costui,  non  vcdria  cose,  o  poche,  le  quali 
possa  attribuire  alla  fortuna  :  concìossiachè,  come  di  sopra  é 
detto,  non  per  favore  d'alcuno,  ma  per  li  gradi  della  mi- 
lizia, quali  con  mille  disagi  e  pericoli  si  aveva  guadagnato, 
pervenisse  al  priocipato,  e  quello  dipoi  con  tanti  animosi 
partiti  e  pericolosi  mantenesse.  Non  si  può  chiamare  ancora 
virtù  ammazzare  li  suoi  cittadini,  tradir  gli  amici,  essere 
lenza  fede,  senza  pietà,  senza  religione;  li  quali  modi  pos- 
sono fare  acquistare  imperio,  ma  non  gloria.  Perchè,  se  si 
considerasse  la  virtù  di  Agatocle  nell'  entrare  e  nell'  uscire 
de'  pericoli,  e  la  grandezza  dell'animo  suo  nel  sopportare  e 
superare  le  cose  avverse,  non  sì  vede  perchè  egli  abbi  ad 
esser  tenuto  inferiore  a  qual  si  sia  eccellentissimo  capitano. 
Nondimanco,  la  sua  efferata  crudeltà  ed  inumanità,  con  infi- 
nite scelleratezze,  non  consentono  che  sia  tra  li  eccellentis- 
simi uomini  celebrato.  Non  si  può,  adunque,  attribuire  alla 
fortuna  o  alla  virtù  quello  che  senza  1'  una  e  l' altra  fu  da 
lui  conseguito.  Ne*  tempi  nostri,  regnante  Alessandro  VI, 
Olìverotto   da   Fermo,  essendo    più    anni    addietro  rimasu 


IL  PRINCIPE.  2/ 

piccolo,  fu  da  un  suo  zio  materno,  chiamalo  Giovanni  Fo- 
gliani,  allevalo,  e  ne*  primi  tempi  della  sua  gioventù  dato  a 
militare  sotto  Favolo  Vitelli,  acciocché  ripieno  di  quella  di- 
sciplina pervenisse  a  qualche  grado  eccellente  di  milizia. 
Morto  dipoi  Favolo,  militò  sotto  Vitellozzo  suo  fratello;  ed 
in  brevissimo  tempo,  per  essere  ingegnoso,  e  della  persona 
e  dell'animo  gagliardo,  diventò  de' primi  uomini*  della  sua 
milizia.  Ma  parendogli  cosa  servile  lo  stare  con  altri,  pensò, 
con  l'aiuto  d'alcuni  cittadini  di  Fermo,  a*  quali  era  più 
cara  la  servitù  che  la  libertà  della  loro  patria,  e  con  il  fa- 
vore vitellesco,  d'occupare  Fermo;  e  scrisse  a  Giovan 
Fogliani,  come,  essendo  stato  più  anni  fuor  di  casa,  voleva 
venire  a  veder  lui  e  la  sua  città,  e  in  qualche  parte  rico- 
noscere il  suo  patrimonio.  E  perchè  non  s'  era  affaticato 
per  altro  che  per  acquistar  onore,  acciocché  i  suoi  cittadini 
vedessino  come  non  aveva  speso  il  tempo  invano,  voleva 
venire  onorevolmente,  ed  accompagnato  da  cento  cavalli  di 
suoi  amici  e  servidori,  e  pregavalo  che  fusse  contento  ordi- 
nare che  da*  Firmani  fusse  ricevuto  onoratamente;  il  che 
non  solamente  tornava  onore  a  lui,  ma  a  sé  proprio,  es- 
sendo suo  allievo.  Non  mancò,  pertanto,  Giovanni  d'alcuno 
olTicio  debito  verso  il  nipote;  e  fattolo  ricevere  onoratamente 
da' Firmani,  alloggiò  nelle  case  sue:  dove,  passato  alcun 
giorno,  ed  atteso  a  ordinar  quello  che  alla  sua  futura  scel- 
leratezza era  necessario,  fece  un  convito  solennissirao,  dove 
invitò  Giovan  Fogliani,  e  tutti  li  primi  uomini  di  Fermo. 
Ed  avuto  che  ebbero  fine  le  vivande,  e  tutti  gli  altri  in- 
trattenimenti che  in  simili  conviti  si  fanno,  Oliverolto  ad 
arte  mosse  certi  ragionamenti  gravi,  parlando  della  gran- 
dezza di  papa  Alessandro  e  di  Cesare  suo  figlio,  e  del- 
l'imprese  loro;  alli  quali  ragionamenti  rispondendo  Gio- 
vanni e  gli  altri,  egli  a  un  tratto  si  rizzò,  dicendo  quelle 
essere  cose  da  parlarne  in  più  segreto  luogo,  e  ritirossi  in 
una  camera,  dove  Giovanni  e  lutti  gli  altri  cittadini  gli  an- 
darono dietro.  Né  prima  furon  posti  a  sedere ,  che  de'  luo- 
ghi segreti  di  quella  usciron  soldati,  che  ammazzarono 
Giovanni  e  tutti  gli  altri.  Dopo  il  quale  omicidio,  montò  Oli- 

*  Il  MS.  Laurcnziano  e  l'edizione  del  18iU:  diventò  il  primo  nomo. 


^S  IL   PRINCIPE. 

verodo  a  cavallo,  e  corse  la  (erra,  ed  assediò  nel  palazzo 
il  supremo  magistrato;  tanlo  che  per  paura  faron  coslrelli 
ubbidirlo,  e  fermare  un  governo,  del  quale  si  fece  Principe. 
E  morti  lutti  quelli  che  per  essere  nìalconlenli  lo  potevano 
offendere ,  si  corroborò  con. nuovi  ordini  civili  e  militari;  in 
modo  che,  in  spar.io  d'uno  anno  che  (enne  il  principato,  non 
solamente  lui  era  sicuro  nella  città  di  Fermo,  ma  era  di- 
ventalo formidabile  a  lutti  li  suoi  vicini  :  e  sarebbe  stata  la 
sua  espugnazione  diflìcile,  come  quella  di  Agalocle,  se  non 
si  fusse  lasciato  ingannare  da  Cesare  Borgia,  quando  a  Si- 
nisaglia,  come  di  sopra  si  disse,  prese  gli  Orsini  e  Vitelli; 
dove  preso  anfor  lui,  un  anno  dopo  il  commesso  patricidio, 
fu,  insieme  con  Vitellozzo,  il  quale  aveva  avuto  maestro 
delle  virtù  e  scelleratezze  sue,  strangolnto.  Potrebbe  alcuno 
dubitare,  dónde  nascesse  che  Agatocle  ed  alcuno  simile,  dopo 
infìniti  tradimenti  e  crudeltà,  potette  vivere  lungamente  si- 
curo nella  sua  patria,  e  difendersi  dagl*  inimici  esterni,  e 
da* suoi  cittadini  non  sii  fu  inai  conspirato  centra:  concios- 
siacbé  molti  altri  mediante  la  crudeltà  non  abbino  mai  pos- 
snto  ancora  ne' tempi  pacifici  mantenere  lo  stato,  non  che 
ne'  tempi  dubbiosi  di  guerra.  Credo  che  questo  avvenga  dalle 
crudeltà  male  o  bene  usate.  Bene  osate  si  possono  chiamar 
quelle  (se  del  male  è  lecito  dir  bene)  che  si  fanno  una  sol 
volta  per  necessità  dell'assicurarsi,  e  dipoi  non  vi  s'in- 
siste dentro,  ma  si  converliscono  in  più  utilità  de' sudditi 
che  si  può.  Le  male  usate  son  quelle,  quali,  ancora  ehe  da 
principio  sian  poche,  crescono  piuttosto  col  tempo  che  le 
si  spenghino.  Coloro  che  osserveranno  quel  primo  modo, 
possono  con  Dio  e  con  gli  nomini  avere  allo  stato  loro  qual- 
che rimedio;  come  ebbe  Agatocle.  Quelli  altri,  è  impossibile 
che  si  mantenghino.  Onde  è  da  notare,  che  nel  pigliare  uno 
stato,  debba  l'occupatore  d'esso  discorrere  e  far  tutte  le 
crudeltà  in  un  tratto,  e  per  non  avere  a  ritornarvi  ogni 
di,  e  per  potere  non  le  innovando  assicurare  gli  uomini,  e 
guadagnarseli  con  beneficarli.  Chi  fa  altrimente  o  per  timi- 
dità o  per  mal  consiglio,  è  sempre  necessitato  tenere  il  col- 
tello in  mano,  né  mai  si  può  fondare  sopra  i  suoi  sudditi; 
non  si  potendo  quelli,  per  le  continue  e  fresche  ingiurie,  assi- 


IL  PBINCIPE.  29 

curar  di  lui.  Perchè  le  ingiurie  si  debbono  fare  tulle  insieme, 
acciocché,  assaporandosi  meno,  offendino  meno:  li  benefìcii 
si  debbono  fare  a  poco  a  poco,  acciocché  si  assaporino  me- 
glio. E  deve,  sopra  luUo,  un  Principe  vivere  con  li  suoi  sud- 
diti in  modo,  che  nissuno  accidente  o  di  male  o  di  bene  lo^ 
abbia  a  far  variare:  perché  venendo  per  li  tempi  avversi  la 
necessità,  tu  non  sei  a  tempo  al  male  ;  ed  il  bene  che  tu  fai 
non  ti  giova,  perchè  è  giudicalo  forzalo,  e  non  grado  alcuno 
ne  riporti. 

Gap.  IX.  —  Del  principalo  civile 

Ma  venendo  all'altra  parte  quando  un  Principe  citta- 
dino, non  per  scelleratezza  o  altra  intollerabii  violenza, 
ma  col  favore  degli  altri  suoi  cittadini  diventa  Principe 
della  sua  patria;  il  quale  si  può  chiamare  principato  civile, 
né  al  pervenirvi  è  necessario  o  lutla  virtù,  o  tutta  fortuna, 
ma  più  presto  un'  astuzia  fortunata:  dico  che  s' ascende  a  que- 
sto principato  o  col  favore  del  popolo,  o  col  favore  de*  grandi. 
Perché  in  ogni  città  si  trovano  questi  duoi  umori  diversi  ;  e 
nascono  da  questo,  che  il  popolo  desidera  non  esser  coman- 
dato né  oppresso  da' grandi,  e  i  grandi  desiderano  coman- 
dare ed  opprimere  il  popolo  ;  e  da  questi  duoi  appetiti  diversi 
surge  nelle  città  uno  de' tre  elTetti,  o  principato,  o  libertà, 
o  licenza.  11  principato  è  causato  o  dal  popolo,  o  da*  grandi, 
secondo  che  1' una  o  1*  altra  di  queste  parti  n'ha  1' occa- 
sione; perché  vedendo  i  grandi  non  poter  resistere  al  popolo, 
cominciano  a  voltare  la  riputazione  ad  un  di  loro,  e  lo 
fanno  Principe  per  poter  sollo  l'ombra  sua  sfogare  l'appe- 
tito loro.  Il  popolo  ancora  volta  la  riputazione  a  un  solo, 
vedendo  non  poter  resistere  alti  grandi,  e  lo  fa  Principe  per 
essere  con  l'autorità  sua  difeso.  Colui  che  viene  al  princi- 
pato con  l'aiuto  de' grandi,  si  mantiene  con  più  difTicultà, 
che  quello  che  diventa  con  l'aiuto  del  popolo;  perché  si 
trova  Principe  con  di  molti  intorno  che  a  loro  pare  essere 
eguali  a  lui,  e  per  questo  non  gli  può  né  maneggiare  né 
comandare  a  suo  modo.  Ma  colui  che  arriva  al  principato 
col  favor  popolare,  vi  si  trova  solo,  ed  ha   intorno  o  ncs- 

3' 


30  IL  PRinciPE. 

sano  o  pochissimi  che  non  sieno  parati  ad  ubbidire.  Oltre 
a  questo,  non  si  può  con  onestà  satisfare  a'  srandi,  e  senza 
ingiuria  d'altri;  ma  sibbeneal  popolo:  perchè  quello  del  po- 
polo è  più  onesto  fine  che  quel  de* grandi,  volendo  questi 
opprimere,  e  quello  non  esser  oppresso.  Acgiungesi  nncora, 
che  del  popolo  inimico  il  Principe  non  si  può  mai  assicurare, 
per  essere  troppi:  de' grandi  si  può  assicurare,  per  esser 
pochi.  Il  pegsio  che  possa  aspettare  un  rrinci|>e  dal  popolo 
inimico,  é  Tessere  abbandonato  da  lui:  ma  da' grandi  ini- 
mici, non  solo  debbe  temer  di  essere  abbandonato,  ma  che 
ancor  loro  gli  ?enghino  contro;  perchè,  essendo  in  quelli 
più  vedere  e  più  astuzia,  avaniano  sempre  tempo  per  sal- 
varsi, e  cercano  gradi  con  qaello  che  sperano  che  vinca.  È 
necessitato  ancora  il  Principe  vivere  sempre  con  qoel  me- 
desimo popolo;  ma  può  ben  fare  senza  quelli  medesimi 
grandi,  potendo  farne  e  <1isfarne  ogni  di,  e  tórre  e  dare, 
quando  gli  piace,  reputazione  loro.  E  per  chiarir  meglio 
questa  parte,  dico,  come  i  grandi  si  debbono  considerare  in 
dooi  modi  principalmente  :  cioè,  o  si  governano  in  modo  col 
proceder  loro  che  si  obblisano  in  lutto  alla  tua  fortuna,  o  no  : 
quelli  che  s'obbligano,  o  non  sieno  rapaci,  si  debbono  ono- 
rare ed  amare;  quelli  che  non  s'obbligano,  s' hanno  a  con- 
siderare in  dooi  modi  :  o  fanno  questo  per  posillanimilà  e 
difetto  natorale  d* animo;  ed  allora  li  debbi  servir  di  loro, 
e  di  quelli  massime  che  sono  di  buon  consìglio,  perchè 
nelle  prosperit«i  le  ne  onori,  e  nelle  avversità  non  hiri  da 
temere  :  ma  quando  non  si  obbligano  ad  arte  e  per  cagione 
ambiziosa,  è  segno  come  e*  pensano  più  a  sé  che  a  le;  e  da 
quelli  si  deve  il  Prìncipe  guardare,  e  tenergli  come  se  fos- 
sero scoperti  inimici,  perchè  sempre  nelle  avversità  l'aiole- 
ranno  rovinare.  Debbe,  pertanto,  ano  che  diventa  Principe 
per  favore  del  popolo,  mantenerselo  amico  ;  il  che  gli  fia  fa- 
cile, non  domandando  lai  se  non  di  non  essere  oppresso: 
ma  uno  che,  contro  il  popolo,  diventi  Principe  col  favore 
de' grandi,  deve  innanzi  a  ogni  altra  cosa  cercare  di  gua- 
dagnarsi il  popolo  ;  il  the  gli  fìa  facile  quando  pigli  la  pro- 
lezione sua.  E  perchè  gli  uomini  quando  hanno  bene  da  chi 
credono  aver  male,  si  obbligano  più  al  bcnefìcatore  loro  ; 


IL   PRINCIPE.  31 

diventa  il  popolo  suddito  più  suo  benivolo,  che  se  si  fusse 
condotto  al  principato  per  li  suoi  favori:  e  puosselo  il  Prin- 
cipe guadagnare  in  molti  modi,  li  quali  perché  variano  se- 
condo il  suggetlo,  non  se  ne  può  dar  certa  regola;  però 
si  lasceranno  indietro.  Conchiuderò  solo,  che  ad  un  Principe 
è  necessario  avere  il  popolo  amico;  altrimente,  non  ha  nelle 
avversità  rimedio.  Nabide,  Principe  degli  Spartani,  sostenne 
r  ossidione  di  tutta  Grecia ,  e  d'  uno  esercito  romano 
vittoriosissimo  ;  e  difese  contro  a  quelli  la  patria  sua  e  il 
suo  slato;  e  gli  bastò  solo,  sopravvenendo  il  pericolo,  assi- 
curarsi di  pochi  :  che  se  egli  avesse  avuto  il  popolo  inimico, 
questo  non  gli  bastava.  E  non  sia  alcuno  che  repugni  a  que- 
sta mia  opinione  con  quel  proverbio  trito,  che  chi  fonda  in 
sul  popolo,  fonda  in  sul  fango  :  perchè  quello  è  vero  quando 
un  cittadino  privato  vi  fa  su  fondamento,  e  dassi  ad  inten- 
dere che  il  popolo  lo  liberi  quando  esso  fussi  oppresso  da- 
gl' inimici  0  da' magistrati  ;  in  questo  caso  si  potrebbe  tro- 
vare spesso  ingannato,  come  intervenne  in  Roma  a*  Gracchi, 
ed  in  Firenze  a  messer  Giorgio  Scali.  Ma  essendo  un  Prin- 
cipe quello  che  sopra  vi  si  fondi,  che  possa  comandare,  e 
sia  un  uomo  di  cuore,  né  si  sbigottisca  nelle  avversità,  e 
non  manchi  delle  altre  preparazióni,  e  tenga  con  l'animo  e 
ordini  suoi  animato  l'universale;  non  si  troverà  ingannato 
da  lui,  e  gli  parrà  aver  fatti  i  suoi  fondamenti  buoni.  So- 
gliono questi  principati  periclitare  quando  sono  per  salire 
dall'ordine  civile  allo  assoluto;  perché  questi  principi  o  co- 
mandano per  loro  medesimi,  o  per  mezzo  di  magistrati. 
Nell'ultimo  caso,  è  più  debile  e  più  pericoloso  lo  stalo  loro, 
perché  egli  stanno  al  lutto  con  la  volontà  di  quelli  cittadini 
che  sono  preposti  a' magistrati  ;  li  quali,  massimamente 
ne' tempi  avversi,  gli  possono  tórre  con  facilità  grande  Io 
stato,  o  con  fargli  contro  o  col  non  l'ubbidire:  e  il  Prin- 
cipe non  è  a  tempo  ne'  pericoli  a  pigliare  l'autorità  asso- 
luta, perchè  li  cittadini  e  sudditi  che  sogliono  avere  li  co- 
mandamenti da' magistrati,  non  sono  in  quelli  frangenti  per 
ubbidire  a' suoi,  ed  ara  sempre  ne*  tempi  dubbi  penuria  di 
chi  si  possa  fidare.  Perchè  sirail  Principe  non  può  fondarsi 
sopra  quello  che  vede  ne' tempi  quieti,  quando  i  cittadini 


32  IL    PRINCIPE. 

hanno  bisogno  dello  sialo:  perchè  allora  ofrnano  corre,  ognuno 
promette,  e  ciascuno  vuol  morire  per  lui  quando  la  morte 
è  discosto  ;  ma  ne'  tempi  avversi,  quando  lo  stato  ha  bisosnn 
de*  cittadini,  allora  se  ne  trova  pochi.  E  tanto  più  è  questa 
esperienza  pericolosa,  quanto  la  non  si  può  fare  se  non  una 
volta.  Però,  un  Principe  savio  deve  pensare  un  modo  per  il 
quale  li  suoi  cittadini,  sempre,  ed  in  ogni  modo  e  qual'tà  di 
tempo,  abbino  bisogno  dello  stalo  di  lai;  e  sempre  poi  gli 
saranno  fedeli. 

Ckp.  X.  —  In  chf  modo  le  forze  di  lutti  t  ffincipalt 
$i  delibino  misurare. 

Tonviene  avere,  neir  esaminare  le  qualità  di  questi 
principali,,  an*  altra  consideratione  :  cioè  se  un  Principe  ha 
lanlo  sialo,  che  poan,  bisognando,  per  té  nedeaimo  reggersi; 
ovvero  ne  ha  sempre  Decessila  della  difeMioiM  d*  altri.  B  per 
chiarir  meglio  questa  parte,  dico,  come  io  giudico  potersi 
coloro  rcKsere  per  sé  medesimi,  che  possono  o  per  abbon- 
daotia  d'uomini  o  di  denari  mellere  insieme  an  esercito 
giaslo,  e  fare  ana  giemala  con  qoalanqae  gli  viene  assal- 
tare: e  cosi  giudico,  coloro  aver  sempre  necessità  d'altri, 
che  non  possono  comparire  contro  gl'inimici  in  campagna, 
ma  sono  necessitali  rifusnirsi  dentro  alle  mura,  e  guardar 
quelle.  Nel  primo  caso  s'è  discorso,  e  per  1*  avvenire  diremo 
quello  che  ne  occorre.  Nel  secondo  caso  non  si  può  dire  al- 
tro, salvo  che  confortare  tali  Principi  a  munire  e  fortificare 
la  terra  propria  ;  e  del  paese  non  tenere  alcun  conto.  E  qua- 
lunque ara  ben  fortificala  la  sua  terra,  e  circa  gli  altri  go- 
verni coi  sudditi  si  sia  maneggiato  come  di  sopra  è  detto, 
e  di  sotto  si  diri  ;  sari  sempre  assaltato  con  gran  rispetto  : 
(>crchè  gli  uomini  son  sempre  inimici  delle  imprese  dove  si 
vegga  difficoltà  ;  né  si  può  veder  facilità  asfaltando  uno  che 
abbi  la  sua  terra  gagliarda,  e  non  sia  odiato  dal  popolo.  Le 
città  d'Alamagna  sono  libéralissime,  hanno  poco  contado, 
ed  obbediscono  all'imperadore  quando  le  vogliono,  e  non 
temono  né  quello  né  altro  polente  che  rabbino  intorno: 
l»ercbé  le  sono  in  rooio  fortificate,  che  ciascuno  pensa  l.i 


IL   PRINCIPE.  33 

espugnazione  di  esse  dovere  esser  tediosa  e  difiìcile;  perchè 
tulle  hanno  fossi  e  mura  convenienti ,  hanno  artiglieria  a 
sufficienza,  e  tengono  serapre  nelle  canove  pubbliche  da 
mangiare  e  da  bere  e  da  ardere  per  un  anno.  Oltre  a 
questo,  per  poter  tenere  la  plebe  pasciuta,  e  senza  perdita 
del  pubblico,  hanno  serapre  in  comune  per  un  anno  da  poter 
dar  loro  da  lavorare  in  quelli  esercizi  che  siano  il  nervo  e 
la  vita  di  quella  città,  e  dell'industria  de' quali  la  plebe  si 
pasca:  tengono  ancora  gli  esercizi  militari  in  repulazione,  e 
sopra  questo  hanno  molli  ordini  a  mantenerli.  Un  Principe, 
adunque,  che  abbia  una  città  forte,  e  non  si  facci  odiare,  non 
può  essere  assaltato;  e  se  pur  -^ssi,  chi  l'assaltassi  se  ne 
partirebbe  con  vergogna:  perchè  le  cose  del  mondo  sono  si 
varie  ,  che  egli  è  quasi  impossibile  che  uno  possi  con  gli 
eserciti  stare  un  anno  ozioso  a  campeggiarlo.  E  chi  repli- 
casse :  se  il  popolo  ara  le  sue  possessioni  fuora  ,  e  veggale 
ardere,  non  ara  pazienza;  e  il  lungo  assedio  e  la  carità  pro- 
pria gli  farà  sdimenticare  il  Principe:  rispondo,  che  un  Prin- 
cipe potente  ed  animoso  supererà  sempre  quelle  difficullà, 
dando  ora  speranza  a' sudditi  che  il  male  non  sia  lungo,  ora 
timore  della  crudeltà  del  nimico,  ora  assicurandosi  con  de- 
strezza di  quelli  che  gli  paressono  troppo  arditi.  Oltre  a  que- 
sto, il  nimico  deve  ragionevolmente  ardere  e  rovinare  il 
paese  loro  in  su  la  giunta  sua,  e  ne'  tempi  quando  gli  animi 
degli  uomini  sono  ancora  caldi,  e  volonterosi  alla  difesa;  e 
però,  tanto  meno  il  Principe  deve  dubitare,  perchè  dopo 
qualche  giorno  che  gli  animi  sono  raffreddi ,  sono  di  già 
fatti  i  danni,  son  ricevuti  i  mali,  e  non  v' è  più  rimedio: 
ed  allora  tanto  più  si  vengono  ad  unire  col  loro  Principe , 
parendo  che  esso  abbia  con  loro  obbligo,  essendo  slate  loro 
arse  le  case  e  rovinate  le  possessioni  per  la  difesa  sua.  E  la 
natura  degli  uomini  è  cosi  obbligarsi  per  li  beneficii  che 
essi  fanno,  come  per  quelli  che  essi  ricevono.  On^e,  se  si 
considera  bene  lutto,  non  fia  diffìcile  a  un  Principe  pru- 
dente tenere  prima  e  poi  fermi  gli  animi  de*  suoi  cittadini 
nella  ossidione,  quando  non  gli  manchi  da  vivere,  né  da  di- 
fendersi. 


34  IL   PRINCIPE. 

Gap.  XI.  —  De'  principali  ecclesiaslici. 

Restaci  solamente  al  presente  a  ragionare  de' principali 
ecclesiastici  ;  circ'  a'  quali  tutte  le  difQcultà  sono  avanti  che 
si  possegghino,  perchè  s'  acquistano  o  per  virtù  o  per  for- 
tuna, e  senza  1' una  e  l'altra  si  mantengono;  perchè  sono 
sostentati  dagli  ordini  anticali  nella  religione,  quali  sono  tulli 
tanto  potenti ,  e  dì  qualità  che  tengono  i  loro  Principi  in 
stato,  in  qualunque  modo  si  procedino  e  vivino.  Costoro 
soli  hanno  stato  e  non  Io  difendono,  hanno  sudditi  e  non 
gli  governano  ;  e  gli  slati,  per  essere  indifesi,  non  sono  loro 
tolti  ;  e  li  sudditi,  per  non  essere  governati,  non  se  ne  curano, 
né  pensano  né  possono  alienarsi  da  loro.  Solo,  adunque,  que- 
sti principati  sono  sicuri  e  felici.  Ma  essendo  quelli  retti  da 
cagioni  superiori,  alle  quali  la  mente  umana  non  aggiugne, 
lascerò  il  parlarne  ;  perchè ,  essendo  esaltali  e  mantenuti  da 
Dio,  sarebbe  ufficio  d'  uomo  presuntuoso  e  temerario  il  dis- 
correrne. Nondimanco,  se  alcuno  mi  ricercasse  donde  viene 
che  la  Chiesa  nel  temporale  sia  venula  a  tanta  grandezza  ; 
conciossiaché  da  Alessandro  indietro  i  potentati  Italiani ,  e 
non  solamente  quelli  che  si  chiamano  potentati ,  ma  ogni 
barone  e  signore,  benché  minimo,  quanto  al  temporale  la 
slimava  poco;  ed  ora  un  re  di  Francia  ne  trema  ;  e  l'ha  po- 
tuto cavare  d'Italia,  e  rovinare  i  Vintziani  :  ancoraché  ciò 
nolo  sia,  non  mi  pare  superfluo  ridurlo  in  qualche  parte 
alla  memoria.  Avanti  che  Carlo  re  di  Francia  passassi  in 
Italia,  era  questa  provincia  sotto  l'imperio  del  papa,  Vini- 
ziani,  re  di  Napoli,  duca  di  Milano  e  Fiorentini.  Questi  po- 
tentati avevano  ad  avere  due  cure  principali:  Tuna,  che  un 
forestiero  non  entrassi  in  Italia  con  Tarmi;  l'altra,  che 
nessuno  di  loro  occupasse  più  stato.  Quelli  a  chi  s'aveva 
più  cura ,  erano  il  papa  e  Viniziani.  Ed  a  tenere  indietro  i 
Viniziani,  bisognava  l'unione  di  lutti  gli  altri,  come  fu  nella 
difesa  di  Ferrara;  e  a  tener  basso  il  papa ,  si  servivano  dei  ba- 
roni di  Roma:  li  quali  essendo  divisi  in  due  fazioni ,  Orsini 
e  Colonnesi,  sempre  v'era  cagione  di  scandoli  tra  loro;  e 
stando  con  l'armi  in  mano  in  su  gli  occhi  del   pontefice, 


\ 


IL   PRINCIPE.  35 

tenevano  il  pontificalo  debole  ed  infermo.  E  benché  sorgessi 
qualche  volta  un  papa  animoso,  come  fu  Sisto;  pure  la  for- 
tuna o  il  sapere  non  lo  potè  mai  disobbligare  da  queste  in- 
comodità. E  la  brevità  della  vita  loro  ne  era  cagione;  per- 
chè in  dieci  anni  che,  ragguagliato,  viveva  un  papa,  a  fatica 
che  potessi  sbassare  T  una  delle  fazioni:  e  se,  per  modo  di 
parlare,  l'uno  aveva  quasi  spenti  1  Colonnesi,  surgeva  un 
altro  inimico  agli  Orsini,  che  gli  faceva  risurgere,  e  non  era  | 
a  tempo  a  spegnerli.  Questo  faceva  che  le  forze  temporali  j 
del  papa  erano  poco  stimate  in  Italia.  Sorse  dipoi  Alessan- 
dro VI,  il  quale,  di  tulli  li  pontefici  che  sono  slati  mai,  mo- 
strò quanto  un  papa  e  con  il  danaio  e  con  le  forze  si  po- 
teva prevalere;  e  fece,  con  V  istrumenlo  del  duca  Valentino, 
e  con  l'occasione  della  passata  de' Francesi,  tutte  quelle 
cose  che  io  ho  discorso  di  sopra  nelle  azioni  del  duca.  E 
benché  l'intento  suo  non  fusse  il  far  grande  la  Chiesa,  ma 
il  duca  ;  nondimeno  ciò  che  fece  ,  tornò  a  grandezza  della  ; 
Chiesa,  la  quale  dopo  la  sua  morte,  spento  il  duca,  fu  erede  / 
delle  fatiche  sue.  Venne  dipoi  papa  Giulio,  e  trovò  la  Chiesa 
grande,  avendo  tutta  la  Romagna,  ed  essendo  spenti  tutti 
li  baroni  di  Roma,  e,  per  le  battiture  d'Alessandro,  annul- 
late quelle  fazioni  ;  e  trovò  ancorala  via  aperta  al  modo  del- 
l' accumulare  denari ,  non  mai  più  usitato  da  Alessandro 
indietro.  Le  quali  cose  Giulio  non  solamente  seguitò,  ma  ac- 
crebbe; e  pensò  guadagnarsi  Bologna,  e  spegnere  i  Vini- 
ziani,  e  cacciare  i  Francesi  d'  Italia  :  e  tulle  queste  imprese  , 
gli  riuscirono;  e  con  tanta  più  sua  laude,  quanto  fece  ogni  1 
cosa  per  accrescere  la.  Chiesa,  e  non  alcun  privato.  Man-  J 
tenne  ancora  le  parti  Orsine  e  Colonnesi  in  quelli  termini 
che  le  trovò  ;  e  benché  tra  loro  fossi  qualche  capo  da  fare 
alterazione,  nientedimeno  due  cose  gli  ha  tenuti  fermi:  l'una 
la  grandezza  della  Chiesa,  che  gli  sbigottisce;  l'altra,  il  non 
aver  loro  cardinali,  quali  sono  origine  de'  tumulti  tra  loro: 
né  mai  staranno  quiete  queste  parti  qualunque  volta  abbino 
cardinali,  perchè  questi  nutriscono  in  Roma  e  fuori  le  parli, 
e  quelli  baroni  sono  forzati  a  difenderle;  e  cosi  dall'ambi- 
zione de'  prelati  nascono  le  discordie  e  tumulti  tra'baroni. 
Ila  trovalo,  adunque,  la  sanlilà  di  papa  Leone  questo  ponli- 


36  IL   PRIKCIPE. 


y,<  ficaio  polend'ssiroo  :  del  quale  si  spera  che,  se  quelli  lo  fe- 
jff  ^fi^-tìero  grande  con  l'  armi ,  esso  con  la  bonlà  ed  infinite  allre 
,miMt  sue  virtù  lo  farà  grandissimo  e  venerando. 


J  Gap.  XII.  —  Quante  siano  le  spezie  della  milizia. 


e  de'  soldali  mercenari. 


Avendo  discorso  particolarmente  tutte  le  qualità  di 
quelli  principati,  de'quali  nel  principio  proposi  di  ragionare  , 
e  considerato  in  qualche  parte  le  cagioni  del  bene  e  del  male 
esser  loro  ,  e  monstri  i  modi  con  li  quali  molli  han  cerco 
d'  acquistargli  ;  mi  resta  ora  discorrere  generalmente  l'  of- 
fese e  difese  che  in  ciascuno  dei  prenominali  possono  acca- 
dere. Noi  abbiamo  detto  di  sopra*,  come  ad  un  Principe  è 
necesario  avere  li  suoi  fondamenti  buoni  ;  altrimenti ,  di 
necessità  conviene  che  rovini.  I  principali  fondamenti  che 
abbino  lutti  gli  stati,  così  nuovi  come  vecchi  o  misti,  sono 
le  buone  leggi  e  le  buone  armi:  e  perchè  non  posson  essere 
buone  leggi  dove  non  sono  buone  armi ,  e  dove  sono  buone 
armi  conviene  che  siano  buone  leggi ,  io  lascerò  indietro 
il  ragionare  delle  leggi,  e  parlerò  dell'armi.  Dico,  adunque, 
che  Tarmi  con  le  quali  un  Principe  difende  il  suo  stato  ,  o 
le  sono  proprie,  o  le  sono  mercenarie,  o  ausiliari,  o  misle. 
Le  mercenarie  ed  ausiliari  sono  inutili  e  pericolose  :  e  se 
uno  tiene  lo  slato  suo  fondato  in  su  l'armi  mercenarie,  non 
starà  mai  fermo  né  sicuro  ;  perchè  le  sono  disunite  ,  ambi- 
ziose e  senza  disciplina,  infedeli,  gagliarde  tra  gli  amici, 
Ira  li  nimici  vili  ;  non  hanno  timore  di  Dio,  non  fede  con 
gli  uomini,  e  tanto  si  differisce  la  rovina  quanto  si.  difiTc- 
risce  r  assalto;  e  nella  pace  sei  spogliato  da  loro  ,  nella 
guerra  da'nimici.  La  cagione  di  questo  è,  che  non  hanno  altro 
amore  né  altra  cagione  che  le  tenga  in  campo  ,  che  un  poco 
di  stipendio;  il  quale  non  è  sufficiente  a  fare  ch'elli  veglino 
morire  per  te.  Vogliono  ben  essere  tuoi  soldali  mentre  che 
tu  non  fai  guerra;  ma  come  la  guerra  viene,  o  fuggirsi  o 
andarsene.  La  qual  cosa  deverei  durar  poca  fatica  a  persua- 
dere, perché  la  rovina  d'Italia  non  è  ora  causata  da  altra 
cosa,  che  per  essere  in  spazio  di  molti  anni  riposatasi  in  su 


f 


IL   l'KlKClPE.  37 

r  arQìi  mercenarie  :  le  quali  fecion  già   per  qualcuno  qual- 
che progresso,  e  parevan  gagliarde   infra  loro;  ma    come 
venne  il  forestiere,  elle  mostrarono  quello  che  l'erano.  Onde- 
che  a  Carlo  re  di  Francia  fu  lecito  pigliare  Italia  col  gesso: 
e  chi  diceva  che  ne  erano  cagione  i  peccati  nostri,  diceva 
il  vero;  ma  non  erano  già  quelli  che  credeva,  ma  questi 
eh'  io  ho  narrato.  E  perchè  gli  erano  peccati  di  Principi,  nej 
hanno  patito  la  pena  ancora  loro.  Io  voglio  dimostrar  me- 
glio la  infelicità  dì  queste  armi.  I  capitani  mercenari  o  sono 
uomini  eccellenti,  o  no:  se  sono,  non  te  ne  puoi  fidare,  per- 
chè sempre  aspireranno  alla  grandezza  propria,  o  con  1'  oppri- 
mere te  che    li  sei    padrone,  o  con  l'opprimere  altri  fuor 
della  tua  intenzione;  ma  se  non  è  il  capitano  virtuoso,  ti 
rovina  per  l' ordinario.  E  se  si  risponde  che  qualunque  ara 
l'arme  in  mano,  farà  questo  medesimo,  o  mercenario  o  no; 
replicherei,  come  l' armi  hanno  ad  essere  adoperate  o  da  un 
Principe,  o  da  una  repubblica  :  il  Principe  deve  andare  in 
persona  a  far  lui    l'officio  del  capitano;   la  repubblica    ha 
da  mandare  ì  suoi  cittadini  :  e  quando  ne  manda  uno  cho 
non  riesca  valente,  debbe  cambiarlo;  e  quando  sia,  tenerlo 
con  le  leggi  che  non  passi  il  segno.  E  per  esperienza  si  vede, 
i  Principi  soli  e  le  repubbliche  armate  far  progressi  gran- 
dissimi, e  l'armi  mercenarie  non  fare  mai  se  non  danno:  e 
con  più  difficultà  viene  all'  ubbidienza  d'  un  suo  cittadino  Ìi<^^i^  f^ 
una   repubblica  armata  d'armi  proprie,   che   una   armata      .^/V^ 
d'armi  forestiere.  Sterono  Roma  e  Sparla  molti  secoli  ar-      ^  ^t*^* 
mate  e  libere.  I  Svizzeri  sono  armatissimì  e  liberissimi.*         .^ 
Dell'armi  mercenarie  antiche,  per  esempio  ci  sono  li  Carla-      '*'  ^> 
ginesi  ;   li   quali  furono  per  essere  oppressi   da'  lor  soldati  -^'^  '^    ^ 
mercenari,  finita  la  prima  guerra  coi  Romani,  ancoraché  i    '  '  '^^ 
Cartaginesi  avessero  per  capitani  loro  propri  cittadini.  Filippo 
Macedone  fu  fatto  da'Tebani,  dopo  la  morte  di  Epaminonda, 
capitano  della  lor  gente  ;  e  tolse  loro  dopo  la  vittoria  la  li- 
bertà. I  Milanesi,  morto  il  duca  Filippo,  soldarono  France- 

*  L' ecUz.  del  Biado  ha  libéralissimi  :  il  che  avrebbe  riscontro  anche  nel 
cap.  X,  ove  è  detto  :  le  città  d' Alemagna  sono  libéralissime.  Se  non  che ,  tra  la 
liberta  delle  città  anseatiche  o  d'  altre  della  Germania,  e  quella  de'  cantoni  Sviz- 
zeri ,  era  non  lieve  la  diOercnza.  Si  rifletta  al  divario  che  anc'  oggi  passa  tra  i 
popoli  veramente  liberi,  e  (j[ueUi  che  godono  istituzioni  più  o  nìcuo  liberali. 

4 


38  IL    PRLNCIPE 

SCO  Sforza  contro  a'Viniziani,  il  quale,  superali  gì*  inimici  a 
Caravaggio,  si  congiunse  con  loro  per  opprimere  i  Milanesi 
suoi  padroni.  Sforza  suo  padre,  essendo  soldato  della  regina 
Giovanna  di  Napoli,  la  lasciò  in  un  tratto  disarmata;  onde 
lei,  per  non  perdere  il  regno,  fu  costretta  gittarsi  in  grembo 
al  re  d'  Aragona.  E  se  i  Viniziani  e  Fiorentini  hanno  ac- 
cresciuto per  r addietro  lo  imperio  loro  con  queste  armi,  e 
li  loro  capitani  non  se  ne  sono  però  fatti  Principi,  ma  gli 
hanno  difesi;  rispondo  che  gli  Fiorentini  in  questo  caso  sono 
stati  favoriti  daHa  sorte:  perchè  de'capitani  virtuosi,  li  quali 
potevano  temere,  alcuni  non  hanno  vinto;  alcuni  hanno 
avuto  opposizioni;  altri  hanno  vòlto  l'ambizione  loro  altrove. 
Quello  che  non  vinse,  fu  Giovanni  Acuto,  del  quale,  non  vin- 
cendo, non  si  polea  conoscer  la  fede;  ma  ognuno  confes- 
serà, che,  vincendo,  stavano  ì  Fiorentini  a  sua  discrezione. 
Sforza  ebbe  sempre  i  Bracceschi  contrari,  che  guardarono 
Tnn  l'altro.  Francesco  volse  l'ambizione  sua  in  f.ombar- 
dia  ;  Braccio  contro  la  Chiesa  e  il  regno  di  Napoli.  Ma  ve- 
gniamo  a  quello  che  è  seguito  poco  tempo  fa.  Fecero  i  Fio- 
rentini Paolo  Vitelli  loro  capitano,  uomo  prudentissimo,  e  che 
di  privata  forUina  aveva  preso  riputazione  grandissima.  Se 
costui  espugnava  Pisa,  nessuno  sarà  che  nieghi  come  e'  conve- 
niva a'  Fiorentini  star  seco  ;  perchè,  se  fosse  diventato  sol- 
dato de'  lor  nemici,  non  avevan  rimedio;  e  tenendolo,  ave- 
vano ad  ubbidirlo.  1  Viniziani,  se  si  considera  i  progressi 
loro,  si  vedrà  quelli  sicuramente  e  gloriosamente  avere  ope- 
ralo mentre  che  fecion  guerra  i  loro  propri T  che  fu  avanti 
che  si  volgessino  con  l'imprese  in  terra,  dove  con  li  gentil- 
uomini e  con  la  plebe  armata  operarono  virtuosamente  :  ma 
come  cominciarono  a  combattere  in  terra,  lasciarono  questa 
virtù,  e  seguitarono  i  costumi  d'Italia.  E  nel  principio  del- 
lo augumento  loro  in  terra,  per  non  vi  avere  molto  stato,  e  per 
essere  in  gran  riputazione,  non  avevano  da  temere  mollo 
de'  loro  capitani;  ma  come  essi  ampliarono,  che  fu  sotto  il 
Carmignuola,  ebbono  un  saggio  di  questo  errore  :  perchè, 
vedutolo  virtuosissimo,  battuto  che  ebbero  sotto  il  suo  go- 
verno il  duca  di  Milano,  e  conoscendo  dall'altra  parte 
come  egli  era  freddo  nella  guerra,   giudicarono  non  poter 


IL  PRINCIPE.  89 

più  vincere  con  lui,  perchè  non  volevano  né  potean  licen- 
ziarlo, per  non  perder  ciò  che  aveano  acquistato;  onde- 
che  furono  necessitali,  per  assicurarsi,  di  aramazzarlo.  Hanno 
dipoi  avuto  per  loro  capitano  Bartolommeo  da  Bergamo,  Ro- 
berto da  San  Severino,  conte  di  Pitigliano,  e  simili  ;  con  11 
quali  avevano  da  temere  della  perdila,  non  del  guadagno 
loro:  come  intervenne  dipoi  a  Vaila,  dove  in  una  giornata 
perderon  quello  che  in  ottocento  anni  con  tante  fatiche 
avevano  acquistalo  ;  perchè  da  queste  armi  nascono  solo  i 
lenti,  tardi  e  deboli  acquisti,  e  le  subite  e  miracolose  per- 
dile. E  perchè  io  son  venuto  con  questi  esempi  in  Italia, 
la  quale  è  stala. governata  già  molti  anni  dall'armi  merce- 
narie, le  voglio  discorrere  più  da  allo,  acciocché  vedute 
le  origini  e  progressi  di  esse,  si  possano  meglio  correggere. 
Avete  da  intendere,  come,  tosto  che  in  questi  ultimi  tempi 
lo  imperio  cominciò  ad  essere  ributtato  d'Italia,  e  che  il 
papa  nel  temporale  vi  prese  più  riputazione,  si  divise  la  Ita- 
lia in  più  stali:  perchè  molle  delle  città  grosse  presono 
l'armi  contro  i  loro  nobili,  li  quali  prima  favoriti  dall' ira- 
peradore  le  tenevano  oppresse,  e  la  Chiesa  le  favoriva  per 
darsi  riputazione  nel  temporale  ;  di  molte  altre  i  loro  citta- 
dini ne  diventarono  Principi. Ondechè,  essendo  venuta  l'Ita- 
lia quasi  in  mano  della  Chiesa,  e  di  qualche  repubblica, 
ed  essendo  quelli  preti  e  quelli  altri  cittadini  ^  usi  a  non 
conoscer  arme,  incominciarono  a  soldare  forestieri.  Il  pri- 
mo che  dette  riputazione  a  questa  milizia,  fu  Alberigo  da 
Conio, ^  romagnuolo.  Dalla  disciplina  di  costui  discese,  tra  gli 
altri,  Braccio  e  Sforza,  che  ne'lor  tempi  furono  arbitri 
d'Italia.  Dopo  questi,  vennero  tulli  gli  altri  che  fino  a' no- 

*  Così,  mollo  meglio  che  Cardinali,  nella  ediz.  del  Biado,  nella  Testina  e 
in  quella  del  1SÌ3. 

2  Pare  che  nessun  altro  editore  si  accorgesse  prima  di  noi  dell' errata  le- 
zione da  Como:  cosa  invero  da  maravigh'arsene ,  in  quanto  che  tutti  sanno  non 
esser  Como  tra  le  città  di  Romagna,  ma  sì  di  Lombardia.  Alberigo  da  Bar- 
biano,  celebre  istitutore  della  Compagnia  di  San  Giorgio,  e  delle  armi  nazio- 
nali (se  si  riguardi  a'tempi^  assai  benemerito,  ebbe  altresì ,  per  una  fra  le  terre 
possedute  dalla  sua  stirpe,  il  soprannome  di  Cntiio,  o  da  Conio.  E  di  questa  con- 
tea, o  castello  (oggi  distrutto),  fa  menzione  lo  stesso  Dante,  ove  scrive,  nel  XIV 
del  Purgatorio:  Ben  fa  Bagnacaval  che  non  rijìglia,  E  mal  fa  Qastrocaro ,  e 
peggio  Conio ,  C/ie  difg/iar  lai  conti  più  s'  impiglia 


40  IL«  PRINCIPE. 

stri  tempi  hanno  governale  1*  armi  d' Italia  :  ed  il  fine  delle 
loro  virtù  è  stato,  che  quella  è  stata  corsa  da  Carlo,  predala 
da  Luigi,  sforzata  da  Ferrando,  e  vituperala  da' Svizzeri. 
L'ordine  che  loro  hanno  tenuto,  è  slato,  prima,  per  dare 
riputazione  a  loro  propri,  aver  tolto  riputazione  alle  fanterie. 
Feciono  questo  perchè  essendo  senza  slato,  e  in  su  l'indu- 
stria, f  pochi  fanti  non  davano  loro  riputazione,  e  li  assai 
non  potevano  nutrire;  e  però  si  ridussero  a' cavalli,  dove 
con  numero  sopportabile  erano  nutriti  e  onorati  :  ed  erano 
ridotte  le  cose  in  termine ,  che  in  un  esercito  di  venti- 
mila soldati,  non  si  trovavano  duemila  fanti.  Avevano,  olire 
a  questo,  usato  ogni  industria  per  levar  via  a  sé  ed  a' soldati 
la  fatica  e  la  paura,  non  s'ammazzando  nelle  zuffe,  ma  pi- 
gliandosi prigioni  e  senza  taglia.  Non  traevano  di  notte  alle 
terre  ;  quelli  delie  terre  non  traevano  di  notte  alle  tende  ; 
non  facevano  intorno  al  campo  né  steccato  né  fossa,  non 
campeggiavano  il  verno.  E  tutte  queste  cose  erano  permesse 
ne' loro  ordini  militari,  e  trovale  da  loro  per  fuggire,  come 
è  detto,  e  la  fatica  e  i  pericoli:  tanto  che  essi  hanno  con- 
dotta Italia  schiava  e  vitui)erata. 

Cap.  XIII.  —  De'  soldati  auii7iart,  misti  e  propri. 

L'armi  ausiliarie,  che  sono  le  altre  armi  inalili,  tono 
quando  si  chiama  un  potente,  che  con  le  armi  sue  ti  venga 
ad  aiutare  e  difendere  :  come  fece  ne'  prossimi  tempi  papa 
Giulio,  il  quale  avendo  visto  nell'  impresa  di  Ferrara  la 
trista  prova  delle  sue  armi  mercenarie,  si  volse  alle  ausi- 
liarie, e  convenne  con  Ferrando  re  di  Spagna,  che  con  le 
sue  genti  ed  eserciti  dovesse  aiutarlo.  Queste  armi  possono 
essere  utili  e  buone  per  lor  medesime,  ma  sono  per  chi  le 
chiama  sempre  dannose;  perché  perdendo  rimani  disfallo, 
e  jfjncendo  resti  loro  prigione.  E  ancora  che  di  questi  esempi 
ne  sien  piene  l'antiche  Félorie,  nondiroanco  io  non  mi  vo- 
glio partire  da  questo  esempio  di  papa  Giulio  II,  quale  é  an- 
cor fresco;  il  partito  del  quale  non  potè  essere  manco  con- 
siderato, per  volere  Ferrara,  metlendosi  tulio  nelle  mani 
d'  un   forestiero.  Ma  la  sua  buona  fortuna  fece  nascere  una 


j 


IL   PRINCIPE.  41 

terza  causa ,  acciò  non  cogliesse  il  frullo  della  sua  mala 
elezione:  perchè,  essendo  gli  ausiliari  suoi  rolli  a  Ravenna, 
e  surgendo  i  Svizzeri  che  cacciarono  i  vincilori  fuor  d'ogni 
opinione  e  sua  e  d'altri,  venne  a  non  rimanere  prigione 
degl'inimici  essendo  fugali,  né  degli  ausiliari  suoi  avendo 
vinlo  con  allre  armi  che  con  le  loro.  I  Fiorentini,  essendo  al 
lutto  disarmali,  condussero  diecimila  Francesi  a  Pisa  per 
espugnarla  ;  per  il  qual  parlilo  portarono  più  pericolo  che  in 
qualunque  tempo  de'  travagli  loro.  Lo  iraperadore  di  Costan- 
tinopoli, per  opporsi  alli  suoi  vicini,  misse  in  Grecia  dieci- 
mila Turchi,  li  quali,  finita  la  guerra,  non  se  ne  volsero 
partire ,  il  che  fu  principio  della  servitù  della  Grecia  con 
gl'infedeli.  Colui,  adunque,  che  vuole  non  poter  vincere,  si 
vaglia  di  queste  armi,  perchè  sono  molto  più  pericolose  che 
le  mercenarie;  perchè  in  queste  è  la  rovina  falla,  son  tulle 
unite,  tutte  vòlte  all'  obbedienza  di  altri  :  ma  nelle  merce- 
narie, ad  offenderti,  vinto  ch'elle  hanno,  bisogna  più  tempo 
e  migliore  occasione,  non  essendo  tutte  un  corpo,  ed  essendo 
trovale  e  pagale  da  te;  nelle  quali  un  terzo  che  tu  facci  capo, 
non  può  pigliare  subito  tanta  autorità  che  t'offenda.  In  somma, 
nelle  mercenarie  è  più  pericolosa  la  ignavia  e  pigrizia  al  com* 
battere;  nelle  ausiliarie,  la  virtù.  Un  Principe,  pertanto,  savio 
sempre  ha  fuggito  queste  armi,  e  vòllosi  alle  proprie;  e  vo- 
luto piuttosto  perdere  con  le  sue,  che  vincere  con  l'altrui, 
giudicando  non  vera  vittoria  quella  che  con  le  armi  d'altri 
si  acquistasse.  Io  non  dubiterò  mai  di  allegare  Cesare  Bor- 
gia e  le  sue  azioni.  Questo  duca  entrò  in  Romagna  con  le 
armi  ausiliarie,  conducendovi  tulle  genti  francesi,  e  con 
quelle  prese  Imola  e  Furlì  :  ma  non  li  parendo  poi  tali  armi 
sicure,  si  volse  alle  mercenarie,  giudicando  in  quelle  manco 
pericolo,  e  soldo  gli  Orsini  e  Vitelli;  le  quali  poi  nel  maneggiare 
trovando  dubbie,  infedeli  e  pericolose,  le  spense,  e  volsesi  alle 
proprie.  E  puossì  facilmente  vedere  che  differenza  è  tra  l'una 
e  l'altra  di  queste  armi,  considerato  che  differenza  fu  dalla 
riputazione  del  duca  quando  aveva  i  Francesi  soli,  e  quando 
aveva  gli  Orsini  e  Vitelli,  e  quando  rimase  con  gli  soldati  suoi 
e  sopra  di  sé  stesso,  e  si  troverà  sempre  accresciuta;  né  mai 
fu  stimalo  assai  se  non  quando  ciascun  vedde  ch'egli  era 


42  IL   PRINCIPE. 

,^,      ÌDlero  possessore  delle  sue  armi.  Io  non  mi  volevo  partire 
^'A     dagli  esempi  italiani  e  freschi  ;  pure  non  voglio  lasciare  in- 

r    dietro  lerone  Siracusano,   essendo  uno  de' sopra   nominati 
da  me.  Costui,  come  di  già  dissi,  fatto  dalli  Siracusani  capo 
degli   eserciti,   conobbe   subito  quella  milizia    mercenaria 
non  essere  utile,  per  essere  conduttori  fatti  come  li  nostri 
Italiani;   e   parendogli  non  li  poter  tenere  né  lasciare,    li 
fece  lutti  tagliare  a  pezzi;  dipoi  fece  guerra  con  l'armi  sue, 
>    e  non  con  l' altrui.  Voglio  ancora  ridurre  a    memoria  una 
figura  del  Testamento  Vecchio  fatta  a  questo  proposito.  Of- 
^    ferendosi  David  a  Saul   d'andare  a  combattere   con   Golia 
provocatore  Glisteo,  Saul,  per  dargli  animo,  l'armò  dell'armi 
sue;  le  quali  come  David  ebbe  indosso,  ricusò  dicendo  con 
ù  ^'    quelle  non  si  poter  ben  valere  di  sé  stesso  ;  e  però  voleva 
r       trovare  il  nimico  con  la  sua   fromba  e  con  il  suo  coltello. 
n      io  somma,  l'armi  d'altri,  o  le  ti  cascan  di  dosso,  o  le  ti 
^       pesano,  o  le  ti  slriogono.  Carlo  VII,  padre  del  re  Luigi  XI, 
^  "'    avendo  con  la  sua  fortuna  e  virtù  liberala  Francia  dagl'In- 
hA^^    ghilesi,   conobbe  questa    necessità  d'armarsi   d'armi  pro- 
fj^     prie,  ed  ordinò  nel  suo  regno  l' ordinanze  delle  genti  d' arme 
T^L    e  delle  fanterie.  Dipoi  il  re  Luigi  suo  figliuolo  spense  quella 
B«^     '  de' fanti,  e  cominciò  a  soldare  Svizzeri:  il  quale  errore  se- 
guitato dagli  altri,  è,  come  si  vede  ora  in  fatto,  cagione 
de' pericoli  di  quel  regno.  Perchè,  avendo  dato  reputazione 
a'Sviizeri,  ha  invilito  (olle  l'armi  sue;  perchè  le  fanterie  ha 
spente  in  tutto,  e  le  sue  genti  d'armi  ha  obbligale  all'armi 
d'altri;  perchè  essendo  assuefalli  «  militare  eoo  Sviizeri, 
non  par  loro  di  poter  vincere  senza  essi.  Di  qui  nasce  che 
li  Francesi   contro  a' Svizzeri  non  bastano,  e  senza    Sviz- 
zeri  contro  ad  altri  non  provano.  Sono,  adunque,  stali  gli 
eserciti  di  Francia  misti,  parte  mercenari  e    parte  propri: 
le  quali  armi  tulle  insieme  son  molto  migliori  che  le  sem- 
plici mercenarie  o  le  semplici   ausiliarie,  e  molto  inferiori 
alle  proprie.  E  basii  l'esempio    detto,   perché  il  regno    di 
Francia  sarebbe  insuperabile,  se  l'ordine  di  Carlo  era  ac- 
cresciuto o  preservalo.  Ala  la    poca  prudenza  degli  uomini 
comincia  una  cosa,  che  per  sapere  allora  di  buono  non  ma- 
^^    j  Difesta  il  veleno  che  v'é  sotto  ;  come  io  dissi  di  sopra  delle 


IL   PRINCIPE.  43 

febbri  eliche.  Pertanto,  se  colui  che  è  in  un  principato,  non 
conosce  i  mali  se  non  quando  nascono,  non  è  veramente 
savio;  e  questo  è  dato  a  pochi.  E  se  si  considerasse  la  prima 
rovina  dell'imperio  romano,  si  troverà  essere  slato  solo  il  I  ^^ 
cominciare  a  soldare  Goti;  perchè  da  quel  principio  co- '^ 
minciarono  ad  enervare  le  forze  dell'  imperio  romano  ;  e 
tulla  quella  virtù  che  si  levava  da  lui,  si  dava  a  loro.  Con- 
chiudo adunque,  che  senza  avere  armi  proprie,  nessun  prin- 
cipato è  securo;  anzi  è  tutto  obbligato  alla  fortuna,  non 
avendo  virtù  che  nell'  avversità  lo  difenda.  E  fu  sempre  opi-  ^ 
nione  e  sentenzia  degli  uomini  savi,  che  niente  sia  cosi  in- 
fermo ed  instabile  come  è  la  fama  della  potenza  non  fon- 
data nelle  forze  proprie.  E  1'  armi  proprie  son  quelle  che 
sono  composte  di  sudditi,  o  di  cittadini,  o  di  creati  tuoi: 
tutte  r  altre  sono  o  mercenarie ,  o  ausiliarie.  E  il  modo  ad 
ordinare  l'arme  proprie  sarà  facile  a  trovare,  se  si  discor- 
reranno gli  ordini  sopra  nominati  da  me;  e  se  si  vedrà  come 
Filippo  padre  di  Alessandro  Magno,  e  come  molte  repubbli- 
che e  Principi  si  sono  armati  ed  ordinati  :  a'  quali  ordini  io 
mi  rimetto  al  tutto. 

Gap.  XIV.  —  Quello  che  al  Principe  si  appartenga 
circa  la  milizia. 


Deve,  adunque,  un  Principe  non  avere  altro  oggetto  né 
altro  pensiero,  né  prendere  cosa  alcuna  per  sua  arte,  fuora 
della  guerra,  ed  ordini  e  disciplina  di  essa;  perché  quella  è 
sola  arte  che  si  aspetta  a  chi  comanda;  ed  è  di  tanta  virtù, 
che  non  solo  mantiene  quelli  che  son  nati  principi ,  ma 
molte  volte  fa  gli  uomini  di  privata  fortuna  salire  a  quél 
grado.  E,  per  contrario,  si  vede,  che  quando  i  Principi  hanno 
pensato  più  alle  delicatezze  che  all'armi,  hanno  perso  lo 
stalo  loro.  E  la  prima  cagione  che  li  fa  perdere  quello ,  è  il 
dìsprezzar  questa  arte;  e  la  cagione  che  te  lo  fa  acquistare, 
è  r  essere  professo  di  questa  arte.  Francesco  Sforza,  per  es- 
sere armato,  diventò ,  di  privato,  duca  di  Milano;  e  li  figli , 
per  fuggir  le  fatiche  e  i  disagi  dell'armi,  di  duchi,  diven- 
tarono privali.  Perchè  intra  le  altre  cagioni  di  male  che  far- 


44  IL    PRINCIPE. 

reca  l'esser  disarmalo,  ti  fa  contennendo:  la  quale  è  una 
di  quelle  infamie,  delle  quali  il  Principe  si  debbe  guardare; 
come  di  sotto  si  dirà.  Perchè  da  uno  armalo  a  un  disarmalo 
non  è  proporzione  alcuna  ;  e  la  ragione  non  vuole  che  chi  è 
armalo  ubbidisca  volenlieri  a  chi  è  disarmalo,  e  che  il  dis- 
armalo stia  securo  intra  i  servilori  armati.  Perchè  ,  essendo 
nell'uno  sdegno,  e  nell'allro  sospetto,  non  è  possibile  ope- 
rino bene  insieme.  E  però,  un  Principe  che  della  milizia  non 
s'  intende,  oltre  all'allre  infelicità,  come  è  detto,  non  può 
essere  stimalo  da' suoi  soldati,  né  fidarsi  di  loro.  Non  deve, 
pertanto,  mai  levare  il  pensiero  da  questo  esercizio  della 
guerra  ;  e  nella  pace  vi  si  deve  più  esercitare  che  nella 
guerra:  il  che  può  fare  in  duoi  modi;  l'uno  con  l'opere, 
r  altro  con  la  mente.  E  quanto  all'opere,  deve,  oltre  al  tener 
bene  ordinati  ed  esercitali  li  suoi ,  star  sempre  in  su  le  caccio  , 
e  mediante  quelle  assuefare  il  corpo  a'  disagi;  e  parte  impa- 
rar la  natura  de' siti,  e  conoscere  come  surgono  i  monti, 
come  imboccano  le  valli,  come  giacciano  i  piani,  ed  inten- 
dere la  natura  de'  fiumi  e  delle  paludi  ;  ed  in  questo  porre 
grandissima  cura.  La  qual  cognizione  è  utile  in  duoi  modi. 
Prima,  s'impara  a  conoscere  il  suo  paese,  e  può  meglio  in- 
tendere le  difese  di  esso.  Dipoi,  mediante  la  cognizione  e 
pratica  dì  quelli  siti,  con  facilità  comprende  un  altro  silo 
che  di  nuovo  gli  sia  necessario  speculare  :  perchè  li  poggi  , 
le  valli,  e  piani  e  fiumi  e  paludi  che  sono, per  modo  di  dire,  in 
Toscana,  hanno  con  quelli  dell'altre  provincie  certa  simili- 
tudine; talché  dalla  cognizione  del  silo  d'una  provincia, 
si  può  facilmente  venire  alla  cognizione  dell'altre.  E  quel 
Principe  che  manca  di  questa  perizia,  manca  della  prima 
parte  che  vuol  avere  un  capitano;  perchè  questa  insegna 
trovare  il  nimico,  pigliare  gli  alloggiamenti,  condurre  gli 
eserciti,  ordinare  le  giornate,  campeggiar  le  terre  con  tuo 
vantaggio.  Filopomene,  Principe  degli  Achei,  intra  l'altre 
laudi  che  dagli  scrittori  gli  sono  date,  è  che  ne'  tempi  della 
pace  non  pensava  mai  se  non  a'  modi  della  guerra;  e  quando 
era  in  campagna  con  gli  amici,  spesso  si  fermava  e  ragio- 
nava con  quelli:  Se  gli  nimici  fussero  in  su  quel  colle,  e  noi 
ci  trovassimo  qui  col  nostro  esercito,  chi  di  noiarebbe  van- 


IL   PRINCIPE.  45 

taggio?  come  sicuramente  si  potrebbe  ire  a  trovargli  ser- 
vando gli  ordini?  se  noi  volessimo  ritirarci,  come  aremmo 
a  fare?  se  loro  si  ritirasseno,  come  aremmo  a  seguirli?  E 
proponeva  loro,  andando,  tutti  i  casi  che  in  un  esercito  pos- 
sono occorrere;  intendeva  l'opinion  loro,  diceva  la  sua, 
corroboravala  con  le  ragioni  :  talché  per  queste  continue 
cogitazioni  non  poteva  mai ,  guidando  gli  eserciti  ,  nascere 
accidente  alcuno,  che  egli  non  vi  avesse  il  rimedio.  Ma 
quanto  all'esercizio  della  mente,  deve  il  Principe  leggere  le 
istorie,  ed  in  quelle  considerare  le  azioni  degli  uomini  ec- 
cellenti; vedere  come  si  sono  governati  nelle  guerre;  esa- 
minare le  cagioni  delle  vittorie  e  perdile  loro,  per  potere 
queste  fuggire,  quelle  imitare;  e  sopra  lutto ,  fare  come  ha 
fatto  per  l' addietro  qualche  uomo  eccellente,  che  ha  preso 
ad  imitare  se  alcuno  è  stato  innanzi  a  lui  lodato  e  glorioso , 
e  di  quello  ha  tenuto  sempre  i  gesti  ed  azioni  appresso  di 
sé:  come  si  dice  che  Alessandro  Magno  imitava  Achille,  Ce- 
sare Alessandro,  Scipione  Ciro.  E  qualunque  legge  la  vita  di 
Ciro  sopradetlo  scritta  da  Senofonte,  riconosce  dipoi  nella  vita 
di  Scipione, quanto  quella  imitazione  gli  fu  di  gloria,  e  quanto 
nella  castità,  affabilità,  umanità  e  liberalità,  Scipione  si  con- 
formassi con  quelle-  cose  che  di  Ciro  sono  da  Senofonte 
scritte.  Questi  simili  modi  deve  osservare  un  Principe  savio , 
né  mai  ne'  tempi  pacifici  stare  ozioso;  ma  con  industria  farne 
capitale,  per  potersene  valere  nelle  avversità,  acciocché, 
quando  si  muta  la  fortuna,  lo  trovi  parato  a  resistere  alli 
suoi  colpi. 

Cap.  XV.  —  Delle   cose   rnedianle    le    quali   gli   uomini , 
e  massimamenle  i  Principi,  sono  laudali  o  viluperali. 

Resta  ora  a  vedere  quali  devono  essere  i  modi  e  go- 
verni d'  un  Principe  con  li  sudditi  e  con  li  amici.  E  perchè 
io  so  che  molli  di  questo  hanno  scritto  ,  dubito  scrivendone 
ancor  io  non  esser  tenuto  presuntuoso,  partendomi,  massime 
nel  disputare  questa  materia,  dagli  ordini  degli  altri.  Ma 
essendo  l'intento  mio  scriver  cosa  utile  a  chi  l'intende, 
m'è  parso  più  conveniente  andar  dietro   alla   verità  effel- 


46  IL    PRINCIPE. 

I   (oale  delia  cosa ,  che  air  immaginazione  di  essa  :  e  molti  si 
'   sono  immaginali  repubbliche  e   principali  che  non  si  sono 
mai  visli  né  conosciuti  essere  in  vero;  perchè  egli  è  tanto  dis- 
costo da  come  si  vive  a  come  si  doverria  vivere,  che  colui  che 
lascia  quello  che  si  fa  per  quello  che  si  doverria  Tare,  impara 
piuttosto  la  rovina  che  la  presei razione  sua  :  perchè  un  uomo 
che  voglia  fare  in  tutte  le  parli  professione  di  buono,  conviene 
che  rovini  infra  tanti  che  non  sono  buoni.  Onde  è  necessario 
ad  un  Principe,  volendosi  mantenere,  imparare  a  potere  esser 
U^        non  booDO,  ed  osarlo  e  non  usarlo  secondo  la  necessità.  La- 
(#A^,      sciando,  adunque,  indietro  le  cose  circa  un  Principe  immagi- 
j^        naie,  e  discorrendo  quelle  che  son  vere  ;  dico  che  lutti  gli 
À^      Qomioi,  quando  se  ne  parla,  e  massime  i  Principi,  per  esser 
*   ^/  posti  più  allo,  son  notali  di  alcuna  di  queste  qualità  che  ar- 
,  '  recano  loro  o  biasimo  o  laude  :  e  questo  è  che  alcuno  é  le- 

U^      nolo  liberale,  alcuno  misero,  u8l^ldo  un   tcrfliine   toscano 
^j  \\    (perchè  avaro  in  nostra  lingua  è  ancor  colui  che  per  ra- 
pina desidera  d'avere;  misero  chiamiamo  quello  che  troppo 
si  astiene  dall' usare  il  suo);  alcuno  è  tenuto  donatore,  alcuno 
L^  .      rapace;  alcuno  crudele,   alcuno   pietoso;  l'uno  fedifrago, 
.*](«*       l'altro  fedele;  l'uno  effeminato  e  pusillanime,  l'altro  feroce 
^t       ed  animoso;  Tono  umano,  l'altro  superbo;  l'uno  lascivo, 
^'  V  altro  casto  ;  l' uno  intero,  l' altro  astuto;  l'uno  duro,  l'altro 

facile;  Tono  grave,  l'altro  leggiere;  l'uno  religioso,  l'altro 
incredulo;  e  simili.  Io  so  che  ciascuno  confesserà,  che  sa- 
rebbe laudabilissima  cosa ,  un  Principe  *  trovarsi ,  di  lutto 
le  sopraddette  qualità,  quelle  che  sono  tenute  buone  :  ma 
perchè  non  si  possono  avere,  né  interamente  osservare,  per 
le  condizioni  umane  che  non  lo  consentono,  gli  è  necessario 
essere  tanto  prudente,  che  sappia  fuggir  l' infamia  di  quelli 
,    vizi  che  gli  lorrebbono  lo  stato,  e  da  quelli  che  non  gliene 
tolgano,  guardarsi,  se  egli  è  possibile;  ma  non  potendovi,  si 
può  con  minor  rispello  lasciar  andare.    Ed  ancora  non  si 
V  f^'  ^^^^  ^'  incorrere  nell'  infamia  di  quelli  vizi ,  senza  i  quali 
f  j?'    possa  difficilmente  salvare  lo  stalo:  perchè,  se  si  considera 
ben  tutto,  si  troverà   qualche  cosa  che  parrà  virtù,  e  se- 

'  Così  in  tutte  le  edìzioDÌ  da  noi  vedate.  Srmbra  però  certo  doversi  leg- 
gere t  in  tm  Principe. 


t 


IL   P1UNCI.PE.  47 

guendola  sarebbe  la  rovina  sua;  e  qualcun' altra  che  parrà 
vizio,  e  seguendola  ne  resulta  la  sicurtà,  ed  il  ben  es- 
sere suo. 

Gap.  XVI.  —  Della  liberalUà  e  miseria. 

Cominciandomi,  adunque,  dalle  prime  soprascritte  quali- 
tà, dico  come  sarebbe  bene  esser  tenuto  liberale:  nondimanco 
la  liberalità  usata  in  modo  che  tu  non  sia  temuto,  li  of- 
fende; perchè  se  la  si  usa  virtuosamente  e  come  la  si  deve 
usare,  la  non  fia  conosciuta,  e  non  ti  cadrà  l'infamia  del 
suo  contrario.  E  però,  a  volersi  mantenere  infra  gli  uomini  il 
nome  del  liberale,  è  neceipario  non  lasciare  indietro  alcuna 
qualità  di  sontuosità  :  talmenlechè  sempre  un  Principe  così 
fatto  consumerà  in  simili  opere  tutte  le  sue  facultà  ;  e  sarà 
necessitato  alla  fine,  s'  egli  si  vorrà  mantenere  il  nome  del 
liberale,  gravare  i  popoli  estrasordinariamente  ,  ed  esser 
fiscale,  e  far  tutte  quelle  cose  che  si  posson  fare  per  avere 
danari.  Il  che  comincia  a  farlo  odioso  con  li  sudditi,  e  poco 
stimar  da  ciascuno,  diventando  povero;  in  modochè,  avendo 
con  questa  sua  liberalità  otTeso  molti  e  premiato  pochi , 
sente  ogni  primo  disagio,  e  periclita  in  qualunque  primo  pe- 
ricolo; il  che  conoscendo  lui,  e  volendosene  ritrarre,  incorre 
subito  neir  infamia  del  misero.  Un  Principe,  adunque  ,  non 
potendo  usare  questa  virtù  del  liberale  senza  suo  danno,  in 
modo  che  la  sia  conosciuta;  deve,  s'  egli  è  prudente,  non  si 
curare  del  nome  del  misero:  perchè  con  il  tempo  sarà  tenuto 
sempre  più  liberale,  veggendo  che  con  la  sua  parsimonia  le 
sue  intrate  gli  bastano,  può  difendersi  da  chi  gli  fa  guerra, 
può  far  imprese  senza  gravare  i  popoli  ;  lalmentechè  viene 
a  usare  la  liberalità  a  lutti  quelli  a  chi  non  toglie,  che  sono 
infiniti  ;  e  miseria  a  lutti  coloro  a  chi  non  dà,  che  sono  po- 
chi. Ne'  nostri  tempi  noi  non  abbiam  visto  fare  gran  cose 
se  non  a  quelli  che  sono  stali  tenuti  miseri  ;  gli  altri  essere 
spenti.  Papa  Giulio  II ,  come  si  fu  servito  del  nome  di  libe- 
rale per  aggiugnere  al  papato,  non  pensò  poi  a  mantener- 
selo, per  poter  far  guerra  al  re  di  Francia:  ed  ha  fatto  tante 
guerre  senza  porre  un  dazio  estraordinario,  perchè  alle  su- 


48     '  IL   PUIKCIPE. 

perflue  spese  ha  somministralo  la  lunga  sua  parsimonia.  Il 
re  di  Spagna  presente,  se  fusse  tenuto  liberale,  non  arebbe  fatlo 
né  vinto  tante  imprese.  Pertanto,  un  Principe  deve  sJimar 
poco,  per  non  avere  a  rubare  i  sudditi,  per  poter  difendersi, 
per  non  diventare  povero  e  contennendo  ,  per  non  essere 
forzato  diventar  rapace  ,  d'  incorrere  nel  nome  di  misero  ; 
perchè  questo  è  uno  di  quelli  vizi  che  lo  fanno  resnare.  E  se 
alcun  dicesse  ;  Cesare  con  la  liberalità  pervenne  all'imperio;  e 
molti  altri  per  essere  stati  ed  esser  tenuti  liberali,  sono 
venufi  a  gradi  grandissimi  ;  rispondo  :  o  tu  se'  Principe 
fallo  ,  0  tu  se'  in  via  di  acquistarlo.  Nel  primo  caso ,  questa 
liberalità  è  dannosa  ;  nel  secondo,  è  ben  necessario  esser  te- 
nuto liberale  :  e  Cesare  era  un  di  quelli  che  voleva  perve- 
nire al  principato  di  Roma;  ma  se  poi  che  vi  fu  venuto  ,  fusso 
sopravvissuto  e  non  si  fusse  temperato  da  quelle  spese, 
arebbe  distrutto  quell'imperio.  E  se  alcuno  replicasse:  molli 
sono  stali  Principi,  e  con  gli  eserciti  hanno  fatto  gran  cose , 
che  sono  stati  tenuti  libéralissimi  ;  ti  rispondo  :  o  il  Principe 
spende  del  suo  e  de'  suoi  sudditi ,  o  di  quel  d'  altri.  Nel 
primo  caso,  deve  esser  parco  ;  nel  secondo,  non  deve  lasciar 
indietro  parte  alcuna  di  liberalità.  K  quel  Principe  che  va 
con  gli  eserciti,  che  si  pasce  di  prede,  di  sacchi  e  di  la- 
glie,  e  maneggia  quel  d'altri,  gli  è  necessaria  questa  libera- 
lità: altrimenti,  non  sarebbe  seguilo  da' soldati.  E  di  quello 
che  non  è  tuo  o  de'  tuoi  sudditi,  si  può  essere  più  largo  do- 
natore, come  fu  Ciro,  .Cesare  e  Alessandro;  perchè  lo  «pen- 
dere quel  d'altri  non  toglie  riputazione,  ma  le  ne  aggiugne: 
solamente  lo  spendere  il  tuo  è  quello  che  li  nuoce.  E  non  c'è 
cosa  che  consumi  sé  stessa  quanto  la  liberalità  :  la  quale 
mentre  che  tu  l'usi,  perdi  la  facultà  di  usarla  ,  e  diventi  o 
povero  e  contennendo  ;  o  per  fuggire  la  povertà  ,  rapace  e. 
odioso.  E  in  tra  tulle  le  cose  da  che  un  Principe  si  debbo  guar- 
dare, è  l'esser  contennendo  e  odioso;  e  la  liberalità  all'una 
e  l'altra  di  queste  cose  li  conduce.  Pertanto,  è  più  sapiente 
tenersi  il  nome  di  misero,  che  partorisce  una  infamia  senza 
odio;  che, per  volere  il  nome  di  liberale,  incorrere  per  neccs- 
p.  ~   8ilà  nel  nome  di  rapace, che.parlorisce  una  infamia  con  odio. 

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r^^'^  Im.ì 


IL   PRINCIPE.  49 

Gap.  XVII.  ~  Della  crudeltà  e  clemenzia, 
e  s' egli  è  meglio  essere  amalo  o  lemulo. 

Descendendo  appresso  alle  altre  qualità  preallegate, 
dico  che  cìascan  Principe  deve  desiderar  d*  essere  tenuto 
pietoso,  e  non  crudele.  Nondimanco,  deve  avvertire  di  non 
usar  raale  questa  pietà.  Era  tenuto  Cesare  Borgia  crudele; 
nondimanco  quella  sua  crudeltà  aveva  racconcia  la  Roma- 
gna, unitola  e  ridottola  in  pace  e  in  fede.  11  che  se  si  consi- 
derrà  bene,  si  vedrà  quello  essere  slato  molto  più  pietoso 
che  il  popolo  fìorenlino,  il  quale,  per  fuggire  nome  di  cru- 
dele, lasciò  distruggere  Pistoia.  Deve,  pertanto,  un  Principe 
non  si  curar  dell'  infamia  di  crudele,  per  tenere  i  sudditi 
suoi  uniti  ed  in  fede:  perchè  con  pochissimi  esempi  sarà 
più  pietoso  che  quelli  li  quali,  per  troppa  pietà,  lasciano  se- 
guire i  disordini,  onde  nanchino  occisioni  o  rapine;  perchè 
queste  sogliono  offendere  una  università  intera;  e  quelle  ese- 
cuzioni che  vengono  dal  Principe,  offendono  un  pafticulare. 
E  intra  lutti  ì  Principi,  al  Principe  nuovo  è  impossibile  fug- 
gire il  nome  di  crudele,  per  essere  gli  stali  nuovi  pieni  di 
pericoli.  Onde  Virgilio,  per  la  bocca  di  Didone,  escusa  Tina-^. 
manilà  dei  suo  regno  per  essere  quello  nuovo,  dicendo: 

Bes  dura ,  et  regni  novitas  me  talia  cogitnt 
Moliri ,  et  latejines  custode  tueri. 

Nondimeno,  deve  esser  grave  al  credere  ed  al  muoversi,  / 
né  si  deve  far  paura  da  sé  stesso;  e  procedere  in  modo  lem-  \ 
perato  con  prudenza  ed   umanità,  che  la  troppa  confidenza  | 
non  lo  faccia  incauto,  e  la  troppa  ditfìdenza  non  lo  renda 
inlollerabile.  Nasce  da  questo  una    disputa:  «'eiyW  é  meglio 
essere  amalo  che  temuto^  o  lemulo  che  amalo.  Rispondesi,  che 
si  vorrebbe  essere  l'uno  e  l'altro;  ma  perché  gli  è  diHìcile 
che  gli  stiano  insieme,  é  mollo  più  picuro  l'esser  temuto  che  \ 
amato,  quando  s'abbi  a  mancare  dell*  un  de' duoi.  Perchè    j 
degli  uomini  si  può  dir  questo  generalmente,  che  sieno  in-    \ 
grati,  volubili,   simulatori,   fuggitori   de' pericoli,   cupidi  di     \ 
guadagno:  e   mentre  fai  lor  bene,  sono  tulli    tuoi,  ti  offeri- 
scono il  sangue,  la  roba,  la  vita,  ed  i  figli,  come  di  sopra 

5 


.^0  tL   PRINCIPE. 

dissi,  qnando  il  bisosno  è  discosto:  ma  qnando  li  si  appres- 
sa, si  rivoltano.  E  quel  Principe  che  si  è  tulio  fondalo  in 
su  le  parole  loro,  trovandosi  nudo  d' altrf  preparamenti, 
rovina;  perchè  T amicizie  che  si  acquistano  con  il  prezzo,  e 
non  con  grandezza  e  nobilita  d'animo,  si  meritano,  ma  le 
non  s' hantio,  ed  a*  tempi  non  si  possono  spendere.  E  gli  uo- 
mini hanno  men  rispello  d'offendere  uno  che  si  facci  amare, 
che  ano  che  si  facci  temere:  perchè  l'amore  è  tenuto  da  un 
vinculo  d' obbligo,  il  quale,  per  esser  gli  uomini  tristi,  da 
ogni  occasione  di  propria  utilità  è  rotto;  ma  il  timore  è  te- 
nuto da  una  paura  di  pena,  che  non  abbandona  mai.  Deve, 
nondimeno,  il  Principe  farsi  temere  in  modo,  che  se  non 
acquista'  l'amore,  e*  fuscR  l'odio;  perchè  può  molto  bene 
stare  insieme  esser  temalo  ò%ntìtì  odiato:  il  che  farà  sempre 
che  si  astenga  dalla  robb.i  de'  soci  cittadini  e  de'suoi  saddili, 
e  dalle  donne  loro.  K  quando  pure  gli  bisounas^e  procedere 
contro  al  sancoe  di  qualcuno,  farlo  quando  vi  sia  giuslifìdi- 
zione  conveniente  e  causa  manifesta:  ma  sopraltulto  aste- 
nersi dalla  robba  d'altri;  perchè  gli  uomini  dimenticano  più 
presto  la  morte  del  padre,  che  la  perdita  del  patrimonio. 
Dipoi,  le  cagioni  del  tdrrc  la  robba  non  mancano  mai;  e  sem- 
pre colui  che  comincia  a  vivere  con  rapina,  trova  cagion 
d*  occupare  quel  d'altri:  e,  per  avverso,  contro  al  sangue  sono 
più  rare  e  mancano  più  presto.  Ma  quando  il  Principe  è  con 
gli  eserciti,  ed  ha  in  governo  moltitudine  di  soldati,  allora 
è  al  tutto  necessario  non  si  curar  del  nome  di  erodete; 
perché  senza  questo  nome  non  si  tiene  un  esercito  onito, 
né  disposto  ad  alcuna  fazione.  Intra  le  mirabili  azioni  di  An- 
nibale si  connumera  questa,  che  avendo  un  esercito  gros- 
sissimo,  misto  d'intinile  generazioni  d'uomini,  condotto  a 
militare  in  terre  d'altri,  non  vi  surgesse  mai  una  dissen- 
sione, né  infra  loro  né  contro  il  Principe,  cosi  nella  tri.sla 
come  nella  sua  buona  fortuna.  Il  che  non  potè  nascere  da 
altro  che  da  quella  sua  inumana  crudeltà;  la  quale  insieme 
con  infìn^le  sue  virtù  Io  fece  sempre  nel  cospetto  de'  suoi 
soldati  venerando  e  terribile;  e  senza  quella  l'altre  sue  virtù 
a  far  quello  effello  non  gli  bastavano.  £  gli  scrittori  poco 
considerali  'dall'una  parte  ammirano  queste  sue  azioni,  e 


I 


IL  PRINCIPE.  ^1 

dair  altra  dannano  la  principal  cagione  d*  esse.  E  che  sia  il 
vero  che  l'altre  sue  virtù  non  gli  sarieno  bastale,  si  può 
considerare  in  Scipione  (rarissimo  non  solamente  ne'  tempi 
suoi,  ma  in  tutla  la  memoria  delle  cose  che  si  sanno),  dal 
quale  gli  eserciti  suoi  in  Ispagna  si  ribellarono:  il  che  non 
nacque  da  altro  che  dalla  sua  troppa  pietà,  la  quale  aveva 
dato  a' suoi  soldati  più  licenza  che  alla  disciplina  militare 
non  si  conveniva.  La  qual  cosa  gli  fu  da  Fabio  Massimo  nel 
senato  rimproverata,  chiamandolo  corruttore  della  romana 
milizia.  I  Locrensi  essendo  stati  da  un  legalo  di  Scipione 
distrutti,  non  furono  da  lui  vendicati,  né  l'insolenza  di  quel 
legato  corretta,  nascendo  lutto  da  quella  sua  natura  facile: 
tairaentechè,  volendolo  alcuno  in  senato  escusare,  disse  come  \ 
egli  erano  molti  uomini  che  sapevano  meglio  non  errare, 
che  correggere  gli  errori  d'altri.  La  qual  natura  arebbe  con 
il  tempo  violato  la  fama  e  la  gloria  di  Scipione,  se  egli  avesse 
con  essa  perseverato  nell*  imperio  ;  ma  vivendo  sotto  il  go- 
verno del  senato,  questa  sua  qualità  dannosa  non  solamente 
si  nascose,  ma  gli  fu  a  giuria.  Gonchiudo,  adunque,  tornando 
all'esser  temuto  ed  amato,  che  amando  gli  uomini  a  posta  / 
loro,  e  temendo  a  posta  del  Principe,  deve  un  Principe  savio  ' 
fondarsi  in  su  quello  che  è  suo,  non  in  su  quello  che  è  d'ai-  / 
tri:  deve  solamente  ingegnarsi  di  fuggir  l'odio,  come  è 
dello. 

Gap.  XVIIL  —  In  che  modo  i  Principi  debbono  osservare 
la  fede. 

Quanto  sìa  laudabile  in  uti  Principe  mantenére  la  fede 
e  vivere  con  integrità,  e  non  con  astuzia,  ciascono  lo  itf* 
tende.  Nondimeno,  si  vede  per  esperienza  ne' nostri  tempi, 
quelli  Principi  aver  fallo  gran  cose,  che  della  fede  hanno 
tenuto  poco  conto,  e  che  hanno  saputo  con  aslM/ia  assirare 
i^ervelli  degli  uomini,  ed  alla  fine  hanno  superato  quelli 
che  si  sono  fondati  in  su  la  lealtà.  Dovete,  adunque,  sapere 
come  sono  due  generazioni  di  combattere;  l'una  con  le  leggi, 
l'altra  con  le  forze:  quel  primo  modo  è  degli  uomini,  quel 
secondo  è  delle  bestie;  ma  perchè  il  primo  spesse  volle  non 


52  IL   PRINCIPE. 

basta,  bisogna  ricorrere  al  secondo.  Perfanto  a  un  Prin- 
cipo  è  necessario  saper  bene  usare  la  beslia  e  V  uomo.  Que- 
sta r>arle  è  stata  insegnata  a'  Principi  coperiaroenle   dai^li 
^     .antichi  scrittori,  i  quali  scrivono  come  Achille  e  molli  altri 
V     di  quelli   Principi  antichi  furono   dati   a  nutrire  a  Chirone 
kJ*'A'  ^^^^^^^^^  c^^  ^^^0  '^   s"^  disciplina  gli  custodisse:  il  che 
.  jf       non  vool  dir  altro  l'aver  per  precettore  un  mezzo  bestia 
'^  ^  '      e  mezzo  uomo,  se  non  che  bisogna  ad  un   Principe  sapere 
yt/'^     osare  T  una  e  T  altra  natura  ,  e  1' una  senza  l'altra  non  è 
M  durabile.  Essendo,  adunque,  un  Principe  necessitHto  saper 

bene  osare  la  bestia,  dehbe  di  quelle  pigliare  la  volpe  e  il 
leone;  perchè  il  leone  non  si  difende  da*  lacci,  la  volpe  non 
si  defende  da' lupi.  Bisogna,  adunque,  essere  volpe  a  cono- 
scere i  lacci,  e  lione  a  sbigottire  i  lupi.  Coloro  che  stanno 
7  templiceraenle  in  sol  leone,  non  se  ne  intendono.  Non  può, 
pertanto,   on  sìcnor   pnidente  né  debbe  osservar  la  fede, 
quando  tale  osservaniia  gli  tornì  contro,  e  che  sono  spente 
le  cagioni  che  la  feciono  promettere.  E  se  gli  uomini  fossero 
I  lotti  buoni,  questo  precetto  non  saria  buono;  ma    perché 
•on  tristi,  e  non  1' os«erverebbono  a  le,  tu  ancora  non  l'hai 
I  da  osservare  a  loro.  Né  mai  a  un  Principe  mancarono  ca- 
gioni legittime  di  colorare  l' inosservanza.  Di  questo  se  ne 
potrien  dare  infiniti   esempi   moderni,  e  mostrare   quante 
paci,  quante  promesse  sieno  siale  fatte  irrite  e  vane  per  la 
isfedelità  de' Principi:  ed  a  quello   che  ha    saputo   meulio 
/  asar  la  volpe,  è  meglio  successo.  Ma  è  necessario  questa 
natora  sa(»erla  ben   colorire,  ed   essere  gran  simulatore  e 
,   dissimulatore:  e  sono  tanto  semplici  gli  uomini,  e  tanto  oh- 
I   bediscono  alle  necessità  presenti,  che  colai  che  inganna, 
troverà  sèmpre  chi  si  lascerà  ingannare,  lo  non  voglio  de- 
gli esempi  freschi  tacerne  uno.  Alessandro  VI  non  fece  mai 
altro  che  ingannar  uomini,  né  mai   pensò  ad  altro,  e  tro- 
Yò  soggetto  da  poterlo  fare;  e  non  fu  mai  uomo  che  avesse 
maggiore  eflìcacia  in  asseverare,  e  che  con  maggiori  giura- 
menti aflfermasse  una  cosa,  e  che  l'osservasse  meno:  non- 
dimanco  gli  succederono  sempre  gl'inganni,   perché  cono- 
sceva bene  questa  parte  del  mondo.  A  un  Principe,  adunque, 
non  è  necessario  avere  tolte  le  soprascritte  qualità;   ma  è 


ben  necessario  parer  d*  averle.  Anzi,  ardirò  di  dir  qnesto, 
che  avendole  ed  osservandole  sempre,  sono  dannose;  e  pa-  /  ^  [v^* 
rendo  d'averle,  sono  utili:  come  parer  pietoso ,  fedele,*^  •  Jt'( 
amano,  religioso,  intero,  ed  essere;  ma  stare  in  modo  edì-p-c*^*^ 
ficaio  con  l'animo,  che  bisognando  non  essere,  lu  possi  e  sappi  f*  ^<  t 
mutare  il  contrario.  Ed  bassi  da  intender  questo,  che  un  Prin-  ,  <.  ^ 
cipe,  e  massime  un  Principe  nuovo,  non  può  osservare  tutte  r'  / 
quelle  cose  per  le  quali  gli  uomini  son  tenuti  buoni,  essendo 
spesso  necessitato  per  mantener  lo  stato,  operare  contro  alla 
fede,  contro  alla  carità,  contro  alla  umanità,  contro  alla  reli- 
gione. E  però,  bisogna  che  egli  abbia  uno  animo  disposto  a 
volgersi  secondo  che  i  venti  e  le  variazioni  della  fortuna  gli 
comandano;  e,  come  di  sopra  dissi,  non  partirsi  dal  bene, 
potendo,  ma  sapere  entrare  nel  male,  necessitato.  Deve,  adun- 
que, avere  un  Principe  gran  cura  che  non  gli  esca  mai  di 
bocca  una  cosa  che  non  sia  piena  delle  soprascritte  cinque 
qualità;  e  paia,  a  vederlo  e  adirlo,  lutto  pietà,  tutto  fede,  lutto 
integrità,  tutto  umanità,  lutto  religione.  E  non  è  cosa  più  ne- 
cessaria a  parer  d'avere  che  questa  ultima  qualità:  perchè  gli 
nomini,  in  universale,  giudicano  più  agli  occhi  che  alle  mani; 
perchè  tocca  a  vedere  a  ciascuno,  a  sentire  a  pochi.  Ognun 
vede  qualche  tu  pari,  pochi  sentono  quel  che  tu  sei;  e  quelli 
pochi  non  ardiscono  opporsi  alla  opinione  de' molli,  che  ab- 
bino la  maestà  dello  slato  che  gli  difenda  ;  e  nelle  azioni  di 
tutti  gli  uomini,  e  massime  de' Principi,  dove  non  è  giudi- 
ciò  da  reclamare,*  si  guarda  al  fine.  Facci,  adunque,  un 
Principe  conto  di  vivere'  e  mantenere  lo  stato:  i  mezzi  sa- 
ranno sempre  giudicati  onorevoli,  e  da  ciascuno  lodali;  per- 
chè il  vulgo  ne  va  sempre  preso  con  quello  che  pare,  e  con 
lo  evento  della  cosa:  e  nel  mondo  non  è  se  non  vulgo,  e  gli 
pochi  han  loco  quando  gli  assai  non  hanno  dove  appog- 
giarsi. Alcun  Principe  di  questi  tempi,  il  quale  non  è  bene 
nominare,  non  predica  mai  altro  che  pace  e  fede;  e  dell'  una 
e   dell'  altra   è  inimicissimo;   e  V  una  e  1'  altra  quando 

*  Cosi  nell' edizione  del  Biado.  In  tutte  T  altre  da  noi  vedute  :  a  c/a' re* 
damare. 

2  L' edizione  del  Biado  omette  qui  conto.  Il  MS.  Laurenziano,  e  1*  edizione 
dèi  i813, invece  di  vivere,  hanno  vincere. 


^  IL  ptimciPÉ. 

e'  r  avesse  osservata ,  gli  arebbe  più  volte  tolto  lo  stato  e  la 
reputazione. 

Gap.  XIX.  —  Che  si  debbe  fuggire  lo  essere  disprezzalo 
e  odialo. 

Ma  perchè  circa  le  qualità  dì  che  di  sopra  sì  fa  men- 
zione, io  ho  parlato  delle  più  importanti;  l'altre  voglio  dis- 
correre brevemente  sotto  queste  generalità,  che  il  Principe 
pensi,  come  di  sopra  in  parte  è  detto,  di  fuggire  quelle  cose 
che  lo  faccino  odioso  o  conlennendo;e  qualunque  volta  fuggirà 
questo,  ara  adempito  le  parti  sue,  e  non  troverà  nell'  altre  in- 
famie pericolo  alcuno.  Odioso  lo  fa  sopratutto,  come  io  dissi, 
r  esser  rapace  ed  usurpatore  della  roba  e  delle  donne  de' sud- 
diti: di  che  si  deve  astenere;  e  qualunque  volta  alla  univer- 
]  sita  degli  nomini  non  si  toglie  né  robba  nò  onore^  vivono 
I  contenti,  e  solo  s' ha  a  combattere  con  l' ambizione  dì  pochi, 
\  la  quale  in  molti  modi  e  con  facilità  si  raffrena.  Contennendo 
lo  fa  lo  esser  teoolo  vario,  leggiero,  effeminato,  pusillanimo, 
irresoluto:  di  che  on  Principe  si  deve  guardare  come  da  uno 
scoglio,  ed  ingegnarsi  che  nelle  azioni  sue  si  riconosca  gran* 
dczza,  animosità,  gravità,  fortezza;  e  circa  i  maneggi  pri- 
vali de' sudditi,  volere  che  la  sua  sentenzia  sia  irrevocabile, 
e  si  mantenga  in  tale  opinione,  che  alcuno  non  pensi  né  ad 
ingannarlo  né  ad  aggirarlo.  Quel  Principe  che  dà  di  sé  que- 
sta opinione,  è  riputato  assai;  e  contro  a  chi  è  riputato  assai, 
con  difOcultàsi  congiura;  e  con  diflìcultàè  assaltato,  purché 
s'intenda  che  sia  eccellente  e  riverito  da' suoi.  Perché  un 
Principe  deve  aver  due  paure;  una  dentro  per  conto  de'  sud- 
I  diti;  l'altra  di  fuori  per  conto  de'  potenti  esterni.  Da  questa 
si  difende  con  le  buone  armi  e  buoni  amici;  e  sempre  se  ara 
buone  armi,  ara  buòni  amici;  e  sempre  staranno  ferme  le 
cose  di  dentro,  quando  stien  ferme  quelle  di  fuora,  se  già 
le  non  fussero  perturbate  da  una  congiura;  e  quando  pur 
quelle  di  fuora  movessero,  se  egli  sarà  ordinato,  e  vissuto  come 
io  ho  detto, sempre  quando  non  s'abbandoni,  sosterrà  ogni 
impeto,  come  dissi  che  fece  Nabide  spartano.  Ma  circa  i  sud- 
diti, quando  le  cose  di  fuora  non  muovino,  s'ha  da  temere 


ìl  principe.  55 

che  non  congiurino  segretamente:  del  che  il  Prìncipe  si  as- 
sicura assai,  fuggendo  Tessere  odiato  e  disprezzato;  e  te- 
nendosi ìl  popolo  satisfatto  di  lui;  ìl  che  è  necessario  conse- 
guire, come  di  sopra  si  disse  a  lungo.  Ed  uno  de'  più  polenti 
rimedi  che  abbia  un  Principe  contro  le  congiure,  è  non  es- 
sere odiato  o  disprezzato  dall'universale:  perchè  sempre  chi 
congiura  crede  con  la  morte  del  Principe  satisfare  al  popolo; 
ma  quando  ei  creda  ofTenderlo,  non  piglia  animo  a  prender 
simil  partito,  perchè  le  ditlìcultà  che  sono  dalla  parte  de'  con- 
giuranti, sono  infmite.  Per  isperienza  si  vede  molte  essere 
state  le  congiure,  e  poche  aver  avuto  buon  fine;  perchè  chi 
consìura  non  può  esserselo,  né  può  prender  compagnia  se 
non  di  quelli  che  creda  essere  malcontenti;  e  subito  che  a 
un  malcontento  tu  hai  scoperto  l'animo  tuo,  gli  dai  mate- 
ria a  contentarsi,  perchè  manifestandolo,  lui,  ne  può  sperare 
ogni  comodità:  talraentechè,  veggendo  il  guadagno  fermo  da 
questa  parte,  e  dall'  altra  reggendolo  dubbio  e  pieno  di  pe- 
ricolo, convien  bene  oche  sia  raro  amico,  o  che  sia  al  tutto 
ostinato  inimico  del  Principe  ad  osservarti  la  fede.  £  per  ri^ 
durre  la  cosa  in  brevi  termini,  dico:  che  dalla  parte  del  con- 
giurante non  è  se  non  paura,  gelosia,  sospetto  di  pena  che 
Io  sbigottisce;  ma  dalla  parte  del  Principe  è  la  maestà  del 
principato,  le  leggi,  le  difese  degli  amici  e  dello  stato  che 
lo  defendono:  talmentechè,  aggiunto  a  tutte  queste  cose  la 
benivolenza  popolare,  è  impossibile  che  alcun  sia  si  teme- 
rario che  congiuri.  Perchè,  per  l'ordinario,  dove  un  congiu- 
rante ha  da  temere  innanzi  alla  esecuzione  del  male;  in 
questo  caso  debbe  temere  ancor  dapoi,  avendo  per  nimico  il 
popolo,  seguilo  l'eccesso,  né  potendo  per  questo  sperare  ri- 
fugio alcuno.  Dì  questa  materia  se  ne  potria  dare  infiniti 
esempi,  ma  voglio  solo  esser  contento  d'uno,  seguito  alla 
memoria  de' nostri  padri.  Messer  Annibale  Bentivogli,  avolo 
del  presente  messer  Annibale,  che  era  Principe  in  Bologna, 
essendo  da'Canneschi  che  gli  congiurarono  contro  ammaz- 
zato, né  rimanendo  di  lui  altri  che  messer  Giovanni,  quale 
era  in  fasce;  subito  dopo  tale  omicidio,  si  levò  il  popolo,  ed 
ammazzò  tutti  i  Canneschi.  Il  che  nacque  dalla  benevolenza 
popolare  che  la  casa  de' Bentivogli  aveva  in  quei  tempi  in 


o6  IL   t>RINCIPe. 

Bolosna:  la  qaale  fa  tanta,  che  non  vi  restando  alcnno  che 
potessi,  morto  Annibale,  reggere  Io  slato,  ed  avendo  indi- 
zio come  in  Firenze  era  uno  nato  de'  Bentivogli,  che  si  te- 
neva (ino  allora  figlio  di  nn  fabbro,  vennero  i  Bolognesi  per 
quello  in  Firenze  e  li  dettono  il  governo  di  quella  città; 
la  quale  fu  governata  da  lui  fino  a  tanto  che  messer  Gio- 
vanni pervenne  in  età  conveniente  al  governo.  Conchiudo, 
adunqiie,  che  nn  Principe  deve  tenere  delle  congiure  poco 
conio,  quando  il  popolo  gli  sia  benivolo;  ma  quando  gli  sia 
inimico,  ed  abbilo  in  odio,  deve  temere  d'ogni  cosa  e  di 
ognuno.  E  gli  stati  bene  ordinali,  e  li  Principi  savi  hanno 
con  ogni  dil  genza  pensato  di  non  far  cadere  in  disperazione 
i  grandi,  e  di  satisfare  al  popolo  e  tenerlo  contento;  perchè 
questa  è  una  delle  più  importanti  materie  che  abbi  un  Prin* 
cipe.  Intra  i  regni  bene  ordinati  e  governati  a'  nostri  (empi 
è  quel  di  Francia,  ed  in  esso  si  trovano  infinite  costitu- 
xionì  buone,  donde  ne  depende  la  libertà  e  sicurtà  del  re; 
delle  quali  la  prima  è  il  parlamento  e  la  sua  autorità:  per- 
ché quello  che  ordinò  quel  regno,  conoscendo  Tambizion 
de'  potenti  e  la  insolenza  loro,  e  giudicando  esser  necessa- 
rio loro  un  freno  in  bocca  che  gli  correggesse;  e  dall'altra 
parte  conoscendo  l'odio  dell'  universale  contro  i  grandi,  fon- 
dato in  su  la  paura,  e  volendo  assicurarli;  non  volse  che 
questa  fosse  parlicular  cura  del  re,  per  tórli  quel  carico  che 
e' potessi  avere  con  i  grandi  favorendo  i  popolari,  e  con  i 
popolari  favorendo  i  grandi;  e  però  costituì  un  giudice  terzo, 
che  fusse  quello  che,  senza  carico  del  re,  badesse  i  grandi, 
e  favorisse  i  minori.  Né  po(è  essere  questo  ordine  migliore, 
né  più  prudente,  né  maggior  cagione  di  sicurtà  del  re  e 
del  regno.  Di  che  si  può  trarre  nn  altro  notabile,  che  li 
Principi  debbono  le  cose  di  carico  metter  sopra  d'altri,  e 
le  cose  di  grazia  a  sé  medesimi.*  Di  nuovo  conchiudo, 
che  un  Principe  deve  stimare  i  grandi,  ma  non  si  far 
odiare  dal  popolo.  Parrebbe  forse  a  molli ,  che  considerata 
la  vita  e  morte  di  molti  imperadori  romani,  fussino  esempi 

•  Le  cdicioni  del  iSl  3  e  del  1819  !  ^e  cose  di  carico  fare  amministrare  ad 
aìtrtf  e  quelle  di  grazie  a  lor  medesimi.  La  Testina,  colla  editione  del  Poggiali, 
invecp  di  «mmjn£jfrafv,  pongono  sttmminlstrare  e  somministrare. 


IL  PRINCIPE.  ,  87 

Contrari  a  questa  mia  opinione;  trovando  alcuno  esser  vis- 
suto sempre  egregiamenle,  e  mostro  gran  virtù  d'animo, 
nondimeno  aver  perso  l' imperio;  ovvero  essere  stato  morto 
da'suoi,  che  gli  hanno  congiurato  contro.  Volendo,  adunque, 
rispondere  a  queste  obiezioni,  discorrerò  le  qualità  d'alcuni 
imperadori,  mostrando  la  cagione  della  lor  rovina,  non  dis- 
forme da  quello  che  da  me  s'è  addotto;  e  parte  metterò 
in  considerazione  quelle  cose  che  sono  notabili  a  chi  legge 
le  azioni  di  quelli  tempi.  E  voglio  mi  basti  pigliar  tutti 
quelli  imperadori  che  succederono  nell'imperio  da  Marco 
filosofo  a  Massimino:  li  quali  furono  Marco,  Commodo  suo 
figlio,  Pertinace,  Giuliano,  Severo,  Antonino,  Caracalla 
suo  figlio,  Macrino,  Eliogabalo,  Alessandro  e  Massimino. 
Ed  è  prima  da  notare,  che  dove  negli  altri  principati  si  ha 
solo  a  contendere  con  l'ambizione  de' grandi  ed  insolenza 
de' popoli,  gl'imperadori  romani  avevano  una  terza  diflRcultà, 
d'avere  a  sopportare  la  crudeltà  e  avarizia  de' soldati:  la  qual 
cosa  era  si  difficile,  che  la  fu  cagione  della  rovina  di  molli, 
sendo  difficile  satisfare  a' soldati  ed  a' popoli;  perchè  i  popoli 
amano  la  quiete,  e  per  questo  amano  i  Principi  modesti; 
e  li  soldati  amano  il  Principe  d'animo  militare,  e  che  sia 
insolente  e  crudele  e  rapace.  Le  quali  cose  volevano  che  egli 
esercitassi  ne' popoli ,  per  poter  avere  duplicato  stipendio, 
e  sfogar  la  loro  avarizia  e  crudeltà:  donde  ne  nacque  che 
quefii  imperadori  che  per  natura  o  per  arte  non  avevano  ri-  ) 
putazione  tale  che  con  quella  tenessero  l'uno  e  l'altro  iii( 
freno,  sempre  rovinavano;  e  li  più  di  loro,  massime  quelli 
che  come  uomini  nuovi  venivano  al  principato,  conosciuta  la 
difficultà  di  questi  duoi  diversi  umori,  si  volgevano  a  satis- 
fare a' soldati,  slimando  poco  lo  ingiuriare  il  popolo.  Il  qual 
partito  era  necessario:  perchè,  non  potendo  i  Principi  man- 
care di  non  essere  odiati  da  qualcuno,  si  debhon  prima  sfor- 
zare di  non  essere  odiati  dairuniversità;  e  quando  non  pos-  , 
sono  conseguir  questo,  si  debbono  ingegnere  con  ogni  inda-  | 
stria  fuggir  l' odio  di  quelle  università  che  sono  più  potenti.  » 
E  però  quelli  imperadori  che  per  novità  avevano  bisogno  di 
favori  estraordinari,  aderivano  a' soldati  più  volentieri  che 
alti  popoli:  il  che  tornava  loro  nondimeno  utile  o  no,  se- 


58  IL  PRINCIPE. 

condo  che  quel  PrÌDcipe  si  sapeva  mantenere  riputalo  con  lo- 
ro. Da  queste  cagioni  sopraddette,  nacque  che  Marco,  Perti- 
nace ed  Alessandro,  essendo  tutti  di  modesta  vita ,  amatori 
della  giustizia,  inimici  della  crudeltà,  umani  e  benigni,  eb- 
bero tutti,  da  Marco  in  fuora,  tristo  fine:  Marco  solo  visse  e 
mori  onoratissimo,  perché  lui  succede  all'imperio  per  ragion 
d'eredità,  e  non  aveva  a  riconoscer  quello  né  dai  soldati  nò 
dai  popoli  ;  dipoi ,  essendo  accompagnalo  da  molte  virili  che  lo 
facevano  venerando,  tenne  sempre  che  visse  l'uno  ordine 
e  r  altro  dentro  a  suoi  termini ,  e  non  fu  mai  né  odiato 
De  disprezzato.  Ma  Pertinace  fu  creato  imperadore  contro 
alla  voglia  de' soldati;  li  quali  essendo  usi  a  vivere  licenzio» 
samcnle  sotto  Commodo,  non  poterono  sopportare  quella  vita 
onesta  alla  quale  Pertinace  gli  voleva  ridurre:  onde  aven- 
dosi creato  odio,  ed  a  questo  odio  aggiunto  dispregio  per  l'es- 
ser vecchio,  rovinò  ne'  primi  principi!  della  sua  amministra- 
zione. Onde  si  deve  notare,  che  l'odio  s'acquista  cosi  me- 
diante le  buone  opere,  come  le  triste:  e  però,  com'io  dissi 
l  di  sopra,  volendo  un  Principe  mantenere  lo  slato,  é  spesso 
forzato  a  non  esser  buono;  perchè,  quando  quella  universi- 
tà, o  popolo  o  soldati  o  grandi  che  sieno,  delia  quale  tu 
giudichi  per  mantenerti  aver  bisogno,  è  corrotta,  li  convien 
seguire  l'umor  suo,  e  satisfarle;  e  allora  le  buone  opere  ti 
^  ^'^  sono  inimiche.  Ma  vegnamo  ad  Alessandro  ;  il  qual  fu  di 
^^««««4411  latita  bontà,  che  intra  l'altre  lode  che  gli  sono  attribuite,  é  che 
i  quattordici  anni  che  tenne  l'imperio,  non  fu  mai  morto 
da  lui  nessuno  ingiudicato:  nondimanco,  essendo  tenuto efle- 
..  minato,  ed  uomo  che  si  lasciasse  governar  dalla  madre,  e 
^**^  per  questo  venuto  in  dispregio,  conspirò  contro  di  lui  l'eser- 

cito, ed  ammazzollo.  Discorrendo  ora,  peropposito,  le  qualità 
di  Coraraodo,  di  Severo,  di  Antonino,  di  Cariicalla  e  di 
Massimino,  gli  troverete  crudelissimi  e  rapacissimi; li  quali, 
1    per  satisfare  a' soldati,  non  perdonarono  a  nessuna  qualità 
;  d'ingiuria  che  ne' popoli  si  potessi  commettere;  e  tulli,  ec- 
I    cello  Severo,  ebbero  tristo  fine:  perché  in  Severo  fu  tanta  vir- 
tù, che  mantenendosi  i  soldati  amici,  ancorché  i  popoli  fus- 
seroda  lui  gravali,  potè  sempre  regnare  felicemente;  perchè 
quelle  sue  virtù  lo  facevano  nel  cospetto  de'soldati  e  de'po- 


r 


IL  PRINCIPE.  59 

poli  SÌ  mirabile ,  che  questi  rimanevano  in  un  certo  modo  at- 
toniti e  stupidi,  e  quelli  altri  reverenti  e  satisfatti.  E  perchè 
le  azioni  di  costui  furono  grandi  in  un  Principe  nuovo,  io  vo- 
glio mostrar  brevemente  quanto  egli  seppe  ben  usare  la 
persona  della  volpe  e  del  leone;  le  quali  nature  dico,  come 
di  sopra,  esser  necessarie  ad  imitare  a  un  Principe.  Cono- 
sciuta Severo  la  ignavia  di  Giuliano  imperadore,  persuase  al 
suo  esercito,  del  quale  era  in  Schiavonia  capitano,  ch'egli 
era  bene  andare  a  Roma  a  vendicar  la  morte  di  Pertinace, 
il  quale  era  stato  morto  dalla  guardia  imperiale  ;  *  e  sotto 
questo  colore,  senza  mostrar  di  aspirare  all' imperio,  mosse 
l'esercito  contro  a  Roma,  e  fu  prima  in  Italia  che  si  sapesse 
la  sua  partita.  Arrivato  a  Roma,  fu  dal  senato  per  timore 
eletto  imperadore,  e  morto  Giuliano.  Restavano  a  Severo, dopo 
questo  principio,  due  difTìcultà  a  volersi  insignorire  di  tutto 
lo  slato:  r  una  in  Asia,  dove  Nigro,  capo  degli  eserciti  asiatici, 
s'  era  fatto  chiamare  imperadore;  l'altra  in  ponente,  di  Albi- 
no, il  quale  ancora  lui  aspirava  all'imperio.  E  perchè  giu- 
dicava pericoloso  scoprirsi  inimico  a  tutti  a  duoi,  deliberò  di 
assaltar  iNitjro,  e  inj^annare  Albino;  al  quale  scrisse,  come 
essendo  dal  senato  eletto  imperadore,  voleva  partecipare 
quella  dignità  con  lui;  e  mandògli  il  titolo  di  Cesare,  e  per 
deliberazione  del  senato  se  lo  augiunse  collet;a:  le  quali  cose 
furono  accettale  da  Albino  per  vere.  Ma  poiché  Severo  ebbe 
vinto  e  morto  Nigro,  e  pacate  le  cose  orientali,  ritornatosi  a 
Roma, si  querelò  in  senato  di  Albino,  che,  come  poco  cono- 
scente de'  benelìcii  ricevuti  da  lui,  aveva  a  tradimento  cerco 
d'  aramazzarlo,  e  per  questo  era  necessitato  andare  a  punire 
la  sua  ingratitudine.  Dipoi  andò  a  trovarlo  in  Francia,  e  gli 
tolse  lo  stato  e  la  vita.  Chi  esaminerà,  adunque,  tritamente 
le  azioni  di  costui,  lo  troverà  un  ferocissimo  leone  e  un'astu- 
tissima volpe;  e  vedrà  quello  temuto  e  reverito  da  ciascuno, 
e  dagli  eserciti  non  odialo;  e  non  si  maraviglierà  se  lui,  uomo 
nuovo,  ara  possuto  tenere  tanto  imperio,  perchè  la  sua  gran- 
dissima reputazione  lo  difese  sempre  da  quell'odio  che  i  po- 
poli per  le  sue  rapine  avevano  possuto  concipere.  Ma  Anlo- 

1  II  MS.  Laurenziano  e  l'edizione  del  1813;  il  quale  dai  soldati  preto- 
riani era  stato  morto. 


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60  IL  PRINCIPE. 

nino  800  figlioolo  fa  ancor  lai  eccellentissimo,  ed  aveva 
in  sé  parli*  che  lo  facevano  aromirabile  nel  cospetto  de' po- 
poli e  grato  assoldati;  perchè  era  uomo  militare,  sop- 
porlantissimo  d'ogni  fatica,  disprezzalore  d'ogni  cibo  deli- 
cato e  d'ogni  altra  molliiie:  la  qual  cosa  lo  faceva  amare  da 
1  '^  '  (otti  gli  eserciti.  Nondimeno ,  la  sua  ferocia  e  crudeltà  fa 
tanta  e  ai  inaodila,  per  avere  dopo  molte  Decisioni*  parti- 
colari morto  gran  parie  del  popolo  di  Roma  e  tatto  quel 
d'Alessandria,  che  diventò  odiosissimo  a  tutto  il  mondo,  e 

!t#^'^v.  cominciò  a  esser  temuto  da  quelli  ancora  ch'egli  aveva  in- 

I  torno;  in  modo  che  fojimmaxzalo  da  od  centurione  in  mezzo 

del  suo  esercito.  Dove  è  da~notare,  che  queste  simili  morii, 

le  quali  seguitano  per  delihera/ione  di  un  animo  deliberalo 

#         e  ostinato,  non  si  possono  da' Principi  eviiare,  perchó  eia- 

*£/.\iu  I  senno  che  non  si  curi  dì  morire  lo  può  fare;  ma  deve  bene 
,        I  il  Principe  temerne  meno .  perchè  le  sono  rarissime.  Deve  solo 

(^  K*^-   jtaardarsi  di  non  fare  inniuria  grave  ad  alcuno  di  coloro  de' 

^K\  quali  si  serve,  e  eh'  esli  ha  d'intorno  al  servizio  del  suo  prin- 

'^.  •  cipalo:  come  aveva  fallo  Antonino,  il  quale  aveva  morto  con- 

y^,|U^4^'tomeliosaraente  an  fratello  di  quel  centurione,  e  lui  ogni 
giorno  minacciava,  e  nientedimeno  lo  teneva  alla  guardia 
del  suo  corpo;  il  che  era  partito  temerario  e  da  rovinarvi , 
come  gì' intervenne.  Ma  vegniamo  a  Commodo,  al  quale  era 
facilità  grande  tener  l'imperio,  per  averlo  ereditario,  es- 
tendo fìsliuol  di  Marco,  e  solo  gli  bastava  seguir  le  vesti- 
gia del  padre,  ed  a' popoli  ed  a* soldati  arebbe  satisfatto;  ma 
essendo  d'animo  crudele  e  bestiale,  per  poter  usare  la  sua 
rapacità  ne' popoli,  si  volse  ad  intrattenere  gli  eserciti  e  far- 
gli licenziosi:  dall'altra  parte,  non  tenendo  la  sua  «tisnìtà,  de- 
scendendo spesso  nelli  teatri  a  combattere  co' gladiatori,  e 
facendo  altre  cose  vilissime  e  poco  degne  della  maieslà  impe- 
'^  fiale,  diventò  contennendo  nel  cospetto  de' soldati;  ed  essendo 
odiato  da  una  parle,e  dall'altra  disprezzato,  fu  conspirato  con- 
tro di  lui,  e  morto.  Restaci  a  narrare  le  qualità  di  Massimino. 
Costui  fu  uomo  bellicosissimo;  ed  essendo  gli  eserciti  infasti- 

*  Cofi  oell'  edirione  Romana  La  romane  Inionc  è  t/tt  ancor  Ini  nomo  ec- 
cellenti f  timo,  ed  a\-eva  in  jte  pnHi  ecee/tnttiMtime, 

*  Alcune  rrpuUte  stampe  hanno:  ocemMtomt.  0 


IL  PRINCIPE.  6i 

diti  dalla  mollizie  d'Alessandro,  del  quale  è  di  sopra  dis- 
corso, morto  lui,  Io  elessero  ali*  imperio.  Il  quale  non  mollo 
tempo  possedette,  perchè  due  cose  lo  fecero  odioso  e  conten- 
nendo; runa  l'esser  lui  vilissimo,  per  aver  guardate  le  pe- 
core in  Tracia  (la  qual  cosa  era  per  tutto  notissima,  e  gli  fa- 
ceva una  gran  dedignazione  nel  cospetto  di  ciascuno);  l'altra 
perchè  avendo,  nell'ingresso  nel  suo  principato,  difrerilol'an» 
dare  a  Roma  ed  entrare  nella  possessione  della  sedia  impe- 
riale, aveva  dato  opinione  di  crudelissimo,  avendo  per  li 
suoi  prefetti  in  Roma,  e  in  qualunque  luogo  dell'imperio, 
esercitato  molte  crudeltà.  A  tal  che,  commosso  tutto  il  mondo 
dallo  sdegno  per  la  viltà  del  suo  sangue,  e,  dall'altra  parte, 
dall'odio  per  paura  della  sua  ferocia,  prima  l'Affrica,  di- 
poi il  senato,  con  tutto  il  popolo  di  Roma  e  tutta  l'Italia,  gli 
cospirò  contro:  al  che  si  aggiunse  il  suo  proprio  esercito;  il 
quale,  campegsiando  Aquileia  e  trovando  diflìcullà  nella  espu- 
gnazione, infastidito  della  crudeltà  sua,  e  per  vedergli  tanti 
inimici  temendolo  meno,  lo  ammazzò.  Io  non  voglio  ragionare 
né  di  Eliogabalo,  né  di  Macrin^nè  di  Giuliano,  i  quali  per 
essere  al  lutto  contennendi  si  spensero  subito:  ma  verrò  alla 
conclusione  di  questo  discordo,  e  dico  che  li  Principi  de'noslri 
tempi  hanno  meno  questa  diflìcuUà  di  satisfare  estraordinaria- 
mente a'soMati  ne'governi  loro;  perchè,  nonostante  che  s'abbi 
da  avere  a  quelli  qualche  considerazione,  pure  si  risolve 
presto,  per  non  aver  alcuno  di  questi  Principi  eserciti  insie- 
me che  sieno  inveterati  con  lì  governi  ed  amministrazioni 
delle  Provincie,  come  erano  gli  eserciti  dell'  imperio  roma- 
no: e  però,  se  allora  era  necessario  satisfare  a' soldati  più 
che  a'popolì,  era  perchè  i  soldati  potevano  più  che  i  po- 
poli; ora  è  più  necessario  a  tutti  i  Principi,  eccetto  che  al 
Turco  ed  al  Snidano,  satisfare  a'popoli  che  a'soldali,  perchè 
i  popoli  possono  più  che  quelli.  Di  che  lo  ne  eccettuo  il  Tur- 
co, tenendo  sempre  quello  intorno  dodicimila  fanti  e  quin- 
dicimila cavalli,  da'quali  depende  la  sicurtà  e  la  fortezza  del 
suo  regno;  ed  è  necessario  che,  posposto  ogni  altro  risp«Kto 
de' popoli,  se  gli  mantenga  amici.  Simile  è  il  regno  del 
Soldano;  quale  essendo  tutto  in  mano  de'  soldati,  conviene 
che  ancora  lui ,  senza  rispetto  de'  popoli ,  se  gli  mantenga  ami- 


62  IL  PRINCIPE. 

ci.  Ed  avete  a  notare,  che  questo  stato  del  Soldano  è  disforme 
da  tutti  gli  altri  principati,  perchè  euli  è  simile  al  pontifi- 
cato cristiano,  il  quale  non  si  può  chiamare  ne  principalo 
ereditario,  né  principato  nuovo;  perché  non  i  tìi;li  del  Prin- 
cipe mono  rimansiono  eredi  e  signori,  ma  colui  che  è  eletto 
a  quel  grado  da  coloro  che  ne  hanno  autorità.  Ed  essendo 
questo  ordine  anticalo,  non  si  può  chiamare  principato  nuo- 
vo, perchè  in  quello  non  sono  alcune  di  quelle  dilìicullà  che 
sono  ne' nuovi;  perchè,  sebbene  il  Principe  è  nuovo,  gli  or- 
dini di  quello  stalo  sono  vecchi,  e  ordinali  a  riceverlo  come 
se  russe  loro  signore  ereditario.  Ma  tornando  alla  materia 
nostra,  dico,  che  qualunque  considererà  al  sopraddetto  dis- 
corso, vedrà  o  l'odio  o  il  dispregio  essere  stato  causa  della 
rovina  di  quelli  imperadori  prenominati;  e  conoscerà  ancora 
donde  nacque,  che  parte  di  loro  procedendo  in  un  modo  e 
parte  al  contrario,  in  qualunque  di  quelli  uno  ebbe  felice  e 
gli  altri  infelice  (ine:  perchè  a  Pertinace  ed  Alessandro,  per 
essere  Principi  nuovi,  fu  inutile  e  dannoso  il  voler  imitare 
Marco,  che  era  nel  principato  erediiario;  e  similmente  a  Ca- 
racalla,  Commodo  e  Massiniino,  essere  stala  cosa  perniziosa 
imitar  Severo,  per  non  avere  avuto  tanta  virtù  che  bastassi 
a  seguitare  le  vestigia  sue.  Pertanlo,  un  Princi|)e  nuovo  in  un 
principato  non  può  imitare  le  dizioni  di  Marco,  né  ancora 
è  necessario  imitare  quelle  di  Severo;  ma  deve  pigliare  di 
Severo  quelle  parti  che  per  fondare  il  suo  stalo  son  neces- 
sarie, e  da  Marco  quelle  che  sono  convenienti  e  gloriose  a 
conservare  uno  stalo,  che  sia  di  già  stabilito  e  fermo. 

Cap.  XX. —  Se  le  fortezze,  e  moìU  altre  cose  che  spesse  volle 
i  Principi  (anno,  sono  utili  o  dannate. 

Alcuni  Principi,  per  tenere  securamenle  lo  stalo,  hanno 
disarmato  i  lor  «odditi;  alcuni  altri  hanno  tenute  divise  in 
parti  le  terre  sugsetle;  alcuni  allri  hanno  nutrito  inimicizie 
contro  a  sé  medesimi  ;  alcuni  altri  si  sono  vòlti  a  guadagnarsi 
quelli  che  gli  erano  sospetti  nel  principio  del  suo  slato;  al- 
cuni hanno  edificato  fortezze:  alcuni  le  hanno  rovinale  e  di- 
strulle. E  benché  di  tutte  queste  «ose  non  si  possa  dare  de- 
terminata sentenzia,  se  non  si  vieue#' particulari  di  quelli 


IL  PRINCIPE.  63 

stati  dove  s*  avessi  da  pigliare  alcuna  simile  deliberazione  ; 
nondimeno  io  parlerò  in  quel  modo  largo  che  la  nlateria  per 
sé  medesima  sopporta.  Non  fu  mai,  adunque,  che  un  Principe 
nuovo  disarmasse  i  suoi  sudditi;  anzi,  quando  ^li  ha  trovalo 
disarmati,  gli  ha  sempre  armati:  perchè  armandosi,  quelle 
armi  diventano  tue,  diventano  fedeli  quelli  che  li  sono  so- 
spetti, e  quelli  che  erano  fedeli  si  mantengono,  e  di  sudditi 
si  fanno  tuoi  partigiani.  E  perchè  lutti  i  sudditi  non  si 
possono  armare,  quando  si  benefichino  quelli  che  tu  armi, 
con  gli  altri  si  può  far  più  a  sicurtà:  e  quella  diversità  del 
procedere  che  conoscono  in  loro,  gli  fa  tuoi  obbligali;  quelli 
altri  li  scusano,  giudicando  esser  necessario  quelli  aver  più 
merito  che  hanno  più  pericolo  e  più  obbligo.  Ma  quando  tu 
gli  disarmi,  tu  incominci  ad  olTeudergli,  e  mostri  che  tu 
abbi  in  loro  ditlìdenza,  o  per  viltà  o  per  poca  fede  :  e  V  una 
e  l'altra  di  queste  opinioni  concipe  odio  contro  di  te.  E  per- 
chè tu  non  puoi  star  disarmato,  conviene  che  li  volli  alla 
milizia  mercenaria,  della  quale  di  sopra  abbiam  detto  quale 
sia  ;  e  quando  ella  fusse  buona,  non  può  esser  tanta  che  ti 
defenda  da' nimici  potenti,  e  da' sudditi  sospetti.  Però,  come 
io  ho  detto,  un  Principe  nuovo  in  un  nuovo  principato  sem- 
pre vi  ha  ordinato  l'armi.  Di  questi  esempi  son  piene  le  isto- 
rie. Ma  quando  un  Principe  acquista  uno  stato  nuovo  che 
come  membro  s'aggiunga  al  suo  vecchio,  allora  è  necessa- 
rio disarmare  quello  stato ,  eccetto  quelli  che  nello  acqui- 
starlo si  sono  per  te  scoperti;  e  questi  ancora,  col  tempo 
ed  occasioni,  bisogna  render  molli  ed  etfeminati;  ed  ordi- 
narsi in  modo,  che  tutte  l'armi  del  tuo  stalo  sieno  in  quelli 
soldati  tuoi  propri,  che  nello  stalo  tuo  antico  vivono  appresso 
di  le.  Solevano  gli  antichi  nostri,  e  quelli  che  erano  stimali 
savi,  dire  come  era  necessario  tener  Pistoia  con  le  parli 
e  Pisa  con  le  fortezze  ;  e  per  questo  nutrivano  in  qualche 
terra  lor  suddita  le  diflferenze,  per  possederla  più  facilmente. 
Questo  in  quelli  tempi  che  Italia  era  in  un  certo  modo  bilan- 
ciala, doveva  esser  ben  fatto;  ma  non  mi  pare  si  possa 
dar  oggi  per  precetto:  perchè  io  non  credo  che  le  divisioni 
falle ^  faccino  mai  bene  alcuno;  anzi  é  necessario  quando  il 

*  Fatte  h  nella  Bladiana,  nella  Testina  e  io  più  altre  edizioni  j  e  forse  è  da 


64  IL   PRINCIPE. 

nimico  s'accosta,  che  le  città  divise  si  perdino  subito,  per- 
[  che  sempre  la  parte  più  deb. le  s'  accosterà  alle  forze  esler- 
I  ne,  e  l'altra  non  potrà  reseere.  I  Vinìxiani,  mossi,  corn'io 
credo,  dalle  ragioni  sopraddette,  nutrivano  le  sètte  guelfe  e 
ghibelline  nelle  città  loro  suddite  ;  e  benché  non  le  lascias- 
sero mai  venire  al  sangue,  pure  nutrivan  fra  loro  questi 
dispareri,  acciocché  occupati  quelli  cittadini  in  quelle  loro 
dilTerenzie,  non  si  movessero  contro  di  loro.  Il  che,  come  si 
▼idde,  non  tornò  poi  loro  a  proposito;  perché  essendo  rotti  a 
Vaila,  sahilo  una  parte  di  quelle  prese  ardire,  e  tolsono  loro 
tutto  lo  slato.  Arsuiscono,  pertanto,  simili  modi  debolezza  del 
Principe:  perchè  in  un  principato  sasliardo  mai  si  permette- 
ranno tali  divisioni,  perché  le  fanno  solo  profitto  a  tempo  di 
pace,  potendosi  mediante  quelle  più  facilmente  maneggiare 
i  sudditi;  ma  venendo  la  suerra,  mostra  simil  ordine  la  fal- 
lacia sua.  Senza  dubbio  li  Principi  diventano  srandi  quando 
•operano  le  difllrultà  e  le  opposizioni  che  son  fatte  loro  ;  e 
però  la  fortuna,  massime  quando  vuole  far  grande  un  Prin- 
cipe nuovo,  il  quale  ha  maggior  necessità  d'acquistare  ripu- 
taiione  che  uno  ereditario,  gli  fa  nascere  de'  nemici  e  gli  fa 
fare  delle  imprese  contro,  acciocché  quello  abbia  caaione  di 
toperarle,  e  su  per  quella  sciila  che  gli  hanno  pòrta  i  ne- 
Bici  saoi,  salir  più  allo.  E  però  molti  eiudicano  che  un  Prin- 
^  cipe  savio,  quando  s'abbia  l'occasione,  deve  nutrirsi  con 
aalQzia  qualche  inimiciiia;  acciocché,  oppressa  quella,  ne  se- 
guili massior  sua  srande'za.  Hanno  i  Principi,  e  special- 
mente quelli  che  son  nuovi,  trovato  più  fede  e  più  utilità  in 
quelli  uomini  che  nel  principio  del  loro  stato  sono  tenuti 
sospetli ,  che  in  quelli  che  nel  principio  erano  confidenti. 
Pandolfo  Petruccì,  principe  di  Siena,  reggeva  lo  stato  suo  più 
con  quelli  che  li  furono  sospetti,  che  con  eli  altri.  Ma  di  questa 
cosa  non  si  può  parlare  largamente,  perché  ella  varia  secondo 
il  subbietto:  solo  dirò  questo,  che  quelli  uomini  che  nel  prin- 
cipio d'un  principale  erano  slati  inimici,  se  sono  di  qualità 
chea  mantenersi  al»bìno  bisogno  d'appoggio,  sempre  il  Prin- 
cipe con  facilità  grandissima  se  li  potrà  guadagnare  ;  e  loro 

intendersi  per  fatte  al  arte  ,  procurate  II  Co<lke  Laareuiaoo  pero  le^e  :  che  l« 
dtviticmitfmcutmo  mmi  ce 


It  t>RlNClt>E.  68 

ma£;giormen(e  son  forzati  a  servirlo  con  fede,  quanto  cono- 
scono esser  loro  più  necessario  cancellare  con  l'opere  quella 
opinione  sinistra  che  si  aveva  di  loro:  e  cosi  il  Principe  ne 
trae  sempre  più  utilità,  che  di  coloro  i  quali  servendolo  con  ■ 
troppa  sicurtà,  stracurano  le  cose  sue.  E  poiché  la  noateria  lo  j 
ricerca,  non  voglio  lasciare  indietro  il  ricordare  a  un  Prin- 
cipe che  ha  preso  uno  stato  di  nuovo  mediante  i  favori  in- 
trinsechi di  quello,  che  consideri  bene  qual  cagione  abbi 
mosso  quelli  che  V  hanno  favorito,  a  favorirlo;  e  se  ella  non 
è  aCTezione  naturale  verso  di  quello,  ma  fusse  solo  perchè 
quelli  non  si  contentavano  di  quello  stato,  con  fatica  e  diffi- 
cultà  grande  se  gli  potrà  mantenere  amici,  perchè  e' fia  im- 
possibile che  lui  possa  contentarli.  E  discorrendo  bene,  con 
quelli  esempi  che  dalle  cose  antiche  e  moderne  si  traggono, 
la  cagione  di  questo;  vedrà  esser  molto  più  facile  il  guada- 
gnarsi amici  quelli  uomini  che  dello  stato  innanzi  si  conten- 
tavano, e  però  erano  suoi  inimici,  che  quelli  i  quali,  per  non 
se  ne  contentare,  gli  diventarono  amici,  e  favorironlo  ad  oc- 
cuparlo. È  stata  consuetudine  de'  Principi,  per  poter  tenere 
più  sicuramente  lo  stato  loro,  edificare  fortezze,  che  sieno 
briglia  e  freno  di  quelli  che  disegnassino  fare  lor  contro,  ed 
Cvere  un  refugio  sicuro  da  un  primo  impeto.  Io  lodo  questo 
ìiodo,  perchè  gli  è  usitato  anticamente.  Nondiraanco,  messer 
Niccolò  Vitelli,  ne'  tempi  nostri,  s' è  visto  disfare  due  fortezze 
in  Città  di  Castello,  per  tener  quello  stato.  Guid'  Ubaldo,  duca 
d' Urbino,  ritornato  nel  suo  stato,  donde  da  Cesare  Borgia  era 
stato  cacciato,  rovinò  da' fondamenti  tutte  le  fortezze  di  quella 
provincia,  e  giudicò  senza  quelle  di  avere  a  riperdeie  più  dif- 
ficilmente quello  stato.  I  Bentivogli,  ritornati  in  Bologna,  usa- 
rono simil  termine.  Sono,  adunque,  le  fortezze  utili  o  no  se- 
condo li  tempi;  e  se  ti  fanno  bene  in  una  parte,  t'olTendono 
in  un'  altra.  E  puossi  discorrere  questa  parte  così.  Quel  Prin-  | 
cipe  che  ha  più  paura  de' popoli  che  de' forestieri,  deve  far  ( 
le  fortezze  ;  ma  quello  che  ha  più  paura  de'  forestieri  che  ^ 
de'  popoli,  deve  lasciarle  indietro.  Alla  casa  Sforzesca  ha 
fatto  e  farà  più  guerra  il  castel  di  Milano,  che  ve  lo  edificò 
Francesco  Sforza,  che  alcun  altro  disordine  di  quello  stato. 
Però,  la  miglior  fortezza  che  sia,  è  non  esser  odiato  da'popo-  / 

a*  \ 


66  a  PRINCIPE. 

li:  perchè,  ancora  che  tu  abbi  le  fortezze,  e  il  popolo  li  abbi 
in  odio,  le  non  ti  salvano;  perchè  non  mancano  mai  a'  po- 
poli, preso  che  egli  hanno  Tarmi,  forestieri  che  gli  soccorri- 
ne. Ne'  tempi  nostri  non  si  vede  che  quelle  abbin  fatto  pro- 
fìtto ad  alcun  Principe,  se  non  alla  contessa  di  Forlì  quando 
fa  morto  il  conte  Girolamo  suo  consorte  ;  perchè  mediante 
quella  potè  fuggire  l'impeto  popolare,  ed  aspettare  il  soccorso 
di  Milano,  e  ricuperare  lo  slato;  e  li  tempi  stavano  allora  in 
modo,  che  il  forestiero  non  poteva  soccorrere  il  popolo.  Ma 
dipoi  valsone  ancor  poco  a  lei,  quando  Cesare  Borgia  ras<ial' 
tò,  e  che  il  popolo,  inimico  suo,  si  congiunse  col  forestiero. 
Pertanto,  ed  allora  e  prima  saria  stato  più  securo  a  lei  non 
essere  odiala  dal  popolo,  che  aver  le  fortezze.  Considerate, 
adunque,  queste  cose,  io  loderò  chi  farà  fortezze,  e  chi  non 
le  farà;  e  biasimerò  qualunque,  fidandosi  di  quelle,  stimerà 
poco  lo  esser  odialo  da'  popoli. 

Gap.  XXI. —  Come  ii  debba  governare  un  Principe 
per  acquitlarti  ripulazione. 

Nessuna  cosa  fa  tanto  slimar  un  Principe,  quanto  fanno 
le  grandi  imprese,  e  il  dar  di  sé  esempli  rari.  Noi  abbiamo 
nei  nostri  tempi  Ferrando  re  di  Aragona,  presente  re  di  Spa- 
gna. Costui  si  può  chiamare  quasi  Principe  nuovo,  perchè 
d' un  re  debile  è  diventato  per  fama  e  per  gloria  il  primo  re 
de' Cristiani  ;  e  se  considererete  le  azioni  sue,  le  troverete 
tulle  grandissime,  e  qualcuna  straordinaria.  Egli  nel  princi- 
pio del  suo  regno  assaltò  la  Granata,  e  quella  impresa  fu  il 
fondamento  dello  stalo  suo.  In  prima  ei  la  fece  ozioso,  e 
senza  sospetto  di  essere  impedito:  tenne  occupali  in  quella 
gli  animi  de' baroni  di  Casliglia,  li  quali  pensando  a  quella 
guerra,  non  pensavano  ad  innovare;  e  lui  acquistava  in  que- 
sto mezzo  riputazione  ed  imperio  sopra  di  loro ,  che  non  se 
ne  accorgevano.  Potè  nutrire  con  danari  della  Chiesa  e  de'po- 
poli  gli  eserciti,  e  con  quella  guerra  lunga  fare  fondamento 
alla  milizia  sua;  la  quale  dipoi  lo  ha  onoralo.  Olirà  questo, 
per  poter  iii  tra  prende  re  maggiori  imprese,  servendosi  sem- 
pre della  religione,  si  volse  a  una  pietosa  crudeltà,  cacciando 


ÌL   PRLNClPfi.  6l 

è  spogliando  il  suo  regno  de'  Marrani  :  né  può  esser  questo 
esempio  più  miserabile  né  più  raro.  Assaltò  sotto  questo  me- 
desimo pretesto  V  Affrica  ,  fece  l' impresa  d' Italia ,  ha  ulti- 
mamente assaltato  la  Francia;   e   cosi  sempre   ordito  cose 
grandi,  le  quali  hanno  sempre  tenuto  sospesi  ed  ammirati  gli 
animi  de' sudditi,  ed  occupati  nello  evento  d'esse.  E  sono 
nate  queste  sue  azioni  in  modo  l'una  dall'altra,  che  non 
hanno  dato  mai  spazio  agli  uomini  di  poter  quietare  ed  ope- 
rargli contro.  Giova  assai  ancora  a  un  Principe  dare  di  sé  ' 
esempi  rari  circa  il  governo  di  dentro  ,  simili  a  quelli  che  si 
narrano  di  messer  Bernabò  di  Milano,  quando  s'  ha  l'occa- 
sione di  qualcuno  che  operi  qualche  cosa  straordinaria  o  in 
bene  o  in  male  nella  vita  civile  ;  e  pigliar  un  mo4o  circa 
il  premiarlo  o  punirlo,  di  che  s'  abbi  a  parlare  assai.  £  so- 
prattutto, un  Principe  si  debbe  ingegnare  dare  di  sé  in  ogni 
sua  azione  fama  di  grande  ed  eccellente.  È  ancora  stimato 
un  Principe  quando  egli  è  vero  amico  e  vero  inimico  ;  cioè 
quando,  senza  alcun  rispetto,  si  scuopre  in  favor  d' alcuno 
contro  un  altro  :  il  qual  partito  fia  sempre  più  utile  che  star  |       "       : 
neutrale;  perchè,  se  duoi  potenti  tuoi  vicini  vengono  alle    1 
mani,  o  essi  sono  di  qualità  che  vincendo  un  di  quelli  tu  abbi    i 
da  temere  del  vincitore,  o  no.  In  qualunque  di  questi  duoi    ' 
casi,  ti  sarà  sempre  più  utile  Io  scoprirti,  e  far  buona  guer-   i 
ra  ;  perchè,  nel  primo  caso,  se  tu  non  ti  scuopri,  sarai  sempre  '    n    ^  ^' 
preda  di  chi  vince,  con  piacere  e  salisfazione  di  colui,  che  è  »  /•  7    . 
stato  vinto,  e  non  arai  ragione  né  cosa  alcuna  che  ti  difenda       Kl^^- 
né  che  ti  riceva.  Perchè,  chi  vince  non  vuole  amici  sospetti,     ^ 
e  che  nelle  avversità  non  T aiutino;  chi  perde  non  ti  riceve, 
per  non  aver  tu  voluto  con  1*  armi  in  mano  correre  la  for- 
tuna sua.  Era  passato  Antioco  in  Grecia,  messovi  dagli  Etoli 
per  cacciarne  i  Romani.  Mandò  Antioco  oratori  agli  Achei, 
che  erano  amici  de'  Romani,  a  confortargli  a  star  di  mezzo; 
e  dall'  altra  parte  i  Romani  gli  persuadevano  a  pigliar  l'ar-            * 
mi  per  loro.   Venne  questa  cosa  a  diliberarsi  nel  concilio 
degli  Achei,  dove  il  legato  d'Antioco  gli  persuadeva  a  stare 
neutrali  ;  a  che  il  legato  romano  rispose:  Quanto  alla  parte 
che  si  dice  essere  ottimo  ed  utilissimo  allo  stato  vostro  il  non 
v'intromettere  nella  guerra  nostra,  niente  vi  è  più  centra- 


65?  IL   PRlNCirE. 

rio;  imperocché  non  vi  ci  inlromeltendo,  senza  grazia  e  senza 
ripalazione  alcuna,  reslerete  premio  del  vincitore.  E  sempre 
inlerverrà  che  quello  che  non  ti  é  amico  li  richiederà  della 
neutralità,  e  quello  che  ti  è  amico  ti  ricercherà  che  ti  scuo- 
pra  con  l'armi.  E  li  Princìpi  mal  resoluti,  per  fuggire  i  pre- 
senti pericoli,  seguono  il  più  delle  volle  quella  via  neutrale, 
ed  il  più  delle  volle  rovinano.  Ma  quando  il  Principe  si  scuo- 
pre  gagliardamente  in  favor  d'  una  parte,  se  colui  con  chi 
tu  aderisci  vince,  ancoraché  sia  polente  e  che  tu  rimangn  a 
sua  discrezione,  egli  ha  teco  obbligo,  e  vi  é  contratto  l'amo- 
re: e  gli  uomini  non  sono  mai  si  disonesti,  che  con  tanto 
esempio  d'  ingratitudine  ti  opprimessero.  Dipoi,  le  vittori© 
non  solfo  mai  si  prospere,  che  il  vincitore  non  abbia  ad 
avere  qualche  rispetto,  e  massime  alla  giustizia.  Ma  se  quello 
con  il  quale  tu  aderisci  perde,  la  se' ricevuto  da  lui;  e  men- 
tre che  può  t'aiuta,  e  diventi  compagno  d'  una  fortuna  che 
può  resurgere.  Nel  secondo  caso,  quando  quelli  che  combat- 
tono insieme  sono  di  qualità  che  tu  non  abbia  da  temere  di 
quel  che  vince,  tanto  più  é  gran  prudenza  lo  aderire:  per- 
ché tu  vai  alla  rovina  d'uno  con  l'aiuto  di  chi  lo  dovrebbe 
salvare,  se  fussi  savio  ;  e  vincendo,  rimane  alla  tua  discrezio- 
ne, ed  é  impossibile  che  con  1'  aiuto  tuo  non  vinca.  E  qui  ò 
da  notare,  che  un  Principe  deve  avvertire  di  non  for  mai  com- 
pagnia con  uno  più  potente  di  sé  per  offendere  altri,  se  non 
quando  la  necessità  lo  strigne,  come  di  sopra  si  dice:  perchè, 
vincendo  lui,  tu  rimani  a  sua  discrezione;  e  li  Principi  deb- 
bon  fuggire  quanto  possono  lo  stare  a  discrezione  d' altri.  I 
Vinizìani  si  accompagnarono  con  Francia  contro  al  duca  di 
Milano,  e  potevan  fuggire  di  non  far  quella  compagnia,  di 
che  ne  risultò  la  rovina  loro.  Ma  quando  non  si  può  fuggir- 
la, come  intervenne  a'  Fiorentini  quando  il  papa  e  Spagna 
andarono  con  gli  eserciti  ad  assaltare  la  Lombardia,  allora 
vi  deve  il  Principe  aderire  per  le  sopraddette  ragioni.  Né 
creda  mai  alcuno  stato  poter  pigliare  partili  sicuri,  anzi  pensi 
d'avere  a  prenderli  tolti  dubbii;  perchè  si  trova  questo  nel- 
r  ordine  delle  cose,  che  mai  non  si  cerca  fuggire  uno  inconve- 
niente, che  non  s' incorra  in  un  altro:  ma  la  prudenza  con- 
siste in  saper  conoscere   le   qualità   degl'inconvenienti,  e 


IL   PRINCIPE.  69 

prendere  il  manco  tristo  per  buono.  Deve  ancora  un  Principe 
moslrarsi  amatore  delle  virtù,  ed  onorare  gli  eccellenti  in 
ciascuna  arte.  Appresso,  deve  animare  li  suoi  cittadini  di  po- 
ter quietamente  esercitare  gli  esercizi  loro,  e  nella  mercanzia 
e  nell'agricoltura  ed  in  ogni  altro  esercizio  degli  uomini, 
acciocché  quello  non  si  astenga  d' ornare  le  sue  possessioni 
per  timore  che  non  gli  sieno  tolte,  e  quell'altro  di  aprire  un 
traffico  per  paura  delle  taglie  ;  ma  deve  preparare  premii  a 
chi  vuol  fare  queste  cose,  ed  a  qualunque  pensa  in  qualun- 
que modo  d'  ampliare  la  sua  città  o  il  suo  stato.  Deve,  oltre 
a  questo,  ne'  tempi  convenienti  dell'  anno  tenere  occupati  li 
popoli  con  feste  e  spettacoli  :  e  perchè  ogni  città  è  divisa  o  in 
arti  0  in  tribù,  deve  tener  conto  di  quelle  università,  adu- 
narsi con  loro  qualche  volta,  dare  di  sé  esempio  d*  umanità 
e  magnificenza;  tenendo  nondimeno  sempre  ferma  la  maie- 
stà  della  dignità  sua  ,  perchè  questo  non  si  vuole  mai  che 
manchi  in  cosa  alcuna. 

Gap.  XXII.  —  Delli  segretari  de'  Principi. 

• 

Non  è  di  poca  importanzia  a  un  Principe  la  elezione 
de'  ministri  ;  li  quali  sono  buoni  o  no,  secondo  la  prudenza 
del  Principe.  £  la  prima  coniettura  che  si  fa  d'  un  signore  e 
del  cervel  suo,  è  veder  gli  uomini  che  lui  ha  d'intorno;  e 
quando  sono  sutTicienti  e  fedeli,  sempre  si  può  riputarlo  sa- 
vio, perchè  ha  saputo  conoscergli  sufficienti,  e  mantenerseli 
fedeli.  Ma  quando  siano  altrimenti,  sempre  si  può  fare  non 
buon  giudizio  di  lui  ;  perchè  il  primo  errore  eh'  e'  fa,  lo  fa 
in  questa  elezione.  Non  era  alcuno  che  conoscesse  messer  An- 
tonio da  Venafro  per  ministro  di  Pandolfo  Petrucci  principe 
di  Siena,  che  non  giudicasse  Pandolfo  essere  prudenlissimo 
uomo,  avendo  quello  per  suo  ministro.  £  perchè  sono  di  tre 
generazioni  cervelli;  l'uno  intende  per  sé,  l'altro  intende 
quanto  da  altri  gli  è  mostro,  il  terzo  non  intende  né  per  sé 
stesso  né  per  dimostrazione  d'altri:  quel  primo  è  eccellen- 
tissimo, il  secondo  eccellente,  il  terzo  inutile:  conveniva 
pertanto  di  necessità,  che  se  Pandolfo  non  era  nel  primo 
grado,  fusse  nel  secondo;  perchè  ogni  volta  che  uno  ha  il 


70  IL    PKINCIPK. 

giadicio  di  conoscere  il  bene  ed  il  male  che  un  fa  e  dice , 
ancoraché  da  sé  non  abbia  invenzione,  conosce  le  opere  tri- 
ste e  le  buone  del  ministro,  e  quelle  esalta  e  leallre  correij;- 
ge;  ed  il  ministro  non  può  sperar  d' ingannarlo,  e  mantiensi 
buono.  Ma  come  un  Principe  possa  conoscere  il  ministro,  ci 
è  questo  modo  che  non  falla  mai.  Quando  tu  vedi  il  ministro 
pensar  più  a  sé  che  a  te,  e  che  in  tutte  le  azioni  vi  ricerca 
l'utile  suo,  questo  tale  cosi  fatto  mai  non  fia  buon  ministro, 
né  mai  te  ne  potrai  tìdare  ;  perché  quello  che  ha  lo  stato 
d' uno  in  mano,  non  deve  mai  pensare  a  sé,  ma  al  Principe,  e 
non  gli  ricordar  mai  cosa  che  non  appartenga  a  lui.  £  dal> 
l'altra  parte,  il  Principe,  per  mantenerlo  buono,  deve  pen- 
sare al  ministro,  onorandolo,  facendolo  ricco,  obbligandose- 
lo ,  participandogli  izli  onori  e  carichi  ;  acciocché  li  assai 
onori ,  le  assai  ricchezze  concessegli,  siano  causa  che  egli  non 
desideri  altri  onori  e  ricchezze;  egli  assai  carichi  gli  faccino 
temere  le  mutazioni,  conoscendo  non  potere  reggersi  seii/.a 
lui.  Quando,  adunque,  i  Principi  e  li  ministri  sono  cosi  fatti, 
possono  confidare  l'uno  dell'  altro;  quando  allrimeoti,  il  fine 
sarà  tempre  dannoso,  o.  per  l'uno  o  per  l'altro. 

Gap.  XXllI.  —  Come  si  debbino  fugjire  gli  adulatori. 

Non  voglio  lasciare  indietro  un  capo  importante,  ed  un 
errore  dal  quale  i  Principi  con  diflìcultà  si  difendono,  se 
DOG  anno  prudcntissimi,  o  se  non  hanno  buona  elezione.  £ 
questo  é  quello  deuli  adulatori;  delli  quali  le  corti  son  pie- 
De,  perché  gli  uomini  si  compiacciono  tanto  nelle  cose  lor 
proprie  ed  in  modo  vi  s' incannano,  che  con  diflìcultà  si  di- 
fendono da  questa  peste;  ed  a  volersene  difendere,  si  porta 
pericolo  di  non  diventare  contennemio.  Perché,  non  ci  é  altro 
modo  a  guardarsi  dalle  adulazioni,  se  non  che  gli  uomini  in- 
tendino  che  non  l'oflendono  a  dirli  il  vero:  ma  quando  cia- 
scuno può  dirti  il  vero,  ti  manca  la  reverenzia.  Purlanto,  un 
I  Principe  prudente  deve  tenere  un  terzo  modo,  eleggendo  nel 
suo  slato  uomini  savi  ;  e  solo  a  quelli  deve  dare  libero  arbi- 
trio a  parlargli  la  verità,  e  di  quelle  cose  sole  che  lui  do- 
manda, e  non  d'altro:  ma  deve  domandargli  d'  ogni  cosa. 


IL   PniKClPK.  71 

e  udire  le  opinioni  loro,  dipoi  deliberare  da  èè  a  sno  modo: 
e  con  questi  consiizli,  e  con  ciascun  di  loro  portarsi  in  modo, 
che  ognuno  conosca  che  quanto  più  liberamente  si  parlerà , 
tanto  più  gli  sarà  accetto;  fuori  di  quelli,  non  voler  udire 
alcuno ,  andar  dietro  alla  cosa  deliberata ,  ed  essere  ostinato 
nelle  deliberazioni  sue.  Chi  fa  altrimenti,  o  precipita  per  gli 
adulatori,  o  si  muta  spesso  per  la  variazione  de' pareri;  di 
che  ne  nasce  la  poca  estimazione  sua.  Io  voglio  a  questo 
proposito  addurre  un  esempio  moderno.  Pre'  Luca,  uomo  di 
Massimiliano,  presente  imperadore,  parlando  di  sua  maiestà 
disse,  come  non  si  consigliava  con  persona,  e  non  faceva 
mai  d'alcuna  cosa  a  suo  modo:  il  che  nasceva  dal  tenere 
contrario  termine  al  sopraddetto.  Perchè  l'imperadore  è  uomo 
segreto,  non  comunica  li  suoi  disegni  con  persona,  non  ne 
piglia  parere:  ma  come,  nel  mettergli  ad  effetto,  s'incomin- 
ciano a  conoscere  e  scoprire,  gì' incominciano  ad  esser  con- 
tradetti  da  coloro  che  egli  ha  d'intorno;  e  quello,  come  facile, 
se  ne  stoglie.  Di  qui  nasce  che  quelle  cose  che  fa  l' un  giorno, 
distrugge  l'altro;  e  che  non  s'intenda  mai  quel  che  vegli 
o  disegui  fare;  e  che  sopra  le  sue  deliberazioni  non  si  può 
fondare.  Un  Principe,  pertanto,  debbe  consigliarsi  sempre;  ma 
quando  lui  vuole,  e  non  quando  altri  vuole;  anzi  debbo  tórre 
r  animo  a  ciascuno  di  consigliarlo  d'  alcuna  cosa  se  non  gliene 
domanda:  ma  lui  deve  ben  essere  largo  domandatore,  e  di- 
poi circa  le  cose  domandate  paziente  auditore  del  vero;  anzi, 
intendendo  che  alcuno  per  qualche  rispello  non  gliene  dica, 
turbarsene.  E. perchè  alcuni  stimano  che  alcun  Principe  il 
quale  dà  di  sé  opinione  di  prudente,  sia  così  tenuto  non  per 
sua  natura,  ma  per  li  buoni  consigli  che  lui  ha  d'intorno, 
senza  dubbio  s' ingannano  :  perche  questa  non  falla  mai,  ed 
è  regola  generale,  che  un  Principe  il  quale  non  sia  savio 
per  sé  stesso,  non  può  essere  consigliato  bene;  se  già  a  sorte 
non  si  rimettesse  in  un  solo  che  al  tutto  lo  governasse,  che 
fussi  uomo  prudentissimo.  In  questo  caso,  potrà  bene  esser 
ben  governato,  ma  durerebbe  poco,  perchè  quel  governatore 
in  breve  tempo  gli  terrebbe  lo  slato;  ma  consigliandosi  con 
più  d'uno,  un  Principe  che  non  sia  savio  non  ara  mai  uniti 
consigli,  "®  s^P*"^  P®*"  sé  slesso  unirgli.  Dei  consiglieri,  eia- 


72  IL  PRINCIPE. 

scano  penserà  alla  proprietà  saa,  ed  egli  non  li  saprà  né  cor- 
reggere né  conoscere.  E  non  si  possono  trovare  altrimcnli , 
perchè  s\\  uomini  sempre  ti  riusciranno  tristi,  se  da  una 
necessità  non  sono  fatti  buoni.  Però  si  conchiude,  che  li  buoni 
consigli,  da  qualunque  venghino,  conviene  naschino  dnlla 
prudenza  del  Principe  ;  e  non  la  prudenza  del  Principe  da' 
buoni  consigli. 

Cap.  XXIV.  —  Perchè  i  principi  d' Ilalia  abbino  perduto 
i  loro  siali. 

Le  cose  sopraddette,  osservale  prndentemenle,  fanno  pa- 
rere on  Principe  nuovo,  antico;  e  lo  rendono  subito  più  sicuro 
e  più  fermo  nello  stato,  che  se  vi  fosse  anlicato  «lentro.  Per- 
ché un  Principe  nuovo  é  molto  più  osservalo  nelle  sue  azio- 
ni, che  uno  ereditario;  e  quando  le  son  conosciute  virtuose, 
gi  guadasnano  molto  più  gli  uomini,  e  molto  più  gli  obbli- 
gano, che  il  sangue  antico:  perchè  gli  uomini  sono  mollo  più 
presi  dalle  cose  predenti  che  dalle  passate  ;  e  quando  nelle 
presenti  ei  trovano  il  bene,  vi  si  eodono  e  non  cercano  altro; 
anzi  pigliano  ogni  difesa  per  lui,  quando  il  Principe  non  man- 
chi nelle  altre  cose  a  sé  medesimo.  E  cosi  ara  duplicata  gloria 
di  aver  dato  principio  a  uno  principato  nuovo,  ed  ornatolo  e 
corroboratolo  di  buone  lessi,  di  buone  armi,  di  buoni  amici 
e  di  buoni  esempi  ;  rome  quello  ara  duplicala  versogna,  che 
è  nato  Principe,  e  per  sua  poca  prudenza  l'ha  perduto.  E  se 
si  considera  quelli  signori  che  in  Italia  hanno  perduto  Io 
stato  ne' nostri  tempi,  come  il  re  di  Napoli,  duca  di  Milano, 
ed  altri  ;  si  troverà  in  loro,  prima,  un  comune  difetlo  quanto 
all'armi,  per  le  cagioni  che  di  sopra  a  lungo  si  sono  discor- 
se; dipoi  si  tedrà  alcun  di  loro  »  che  avrà  avuti  inimici  i 
popoli,  0  se  ara  avuto  amico  il  popolo,  non  si  sarà  saputo 
assicurare  de*  grandi:  perchè  senza  questi  difelli  non  si  per- 
dono gli  slati  che  abbino  lauti  nervi  che  possino  tenere  un 
esercito  alla  campagna.  Filippo  Macedone,  non  il  padre  di 
Alessandro  magno,  ma  quello  che  fu  da  Tito  Quinzio  vinlo. 
aveva  non  mollo  stalo,  respollo  alla  grandoz^a  de' Romani  e 
di  Grecia  che  lo  assaltò:  nientedimeno,  per  esser  uomo  mi- 


IL  PRINCIPE.  73 

lilare,  e  che  sapeva  intrattenere  i  popoli,  ed  assicurarsi 
de' grandi,  sostenne  più  anni  la  guerra  contro  di  quelli;  e  se 
alla  fine  perde  il  dominio  di  qualche  città,  gli  rimase  nondi- 
manco  il  regno.  Pertanto,  questi  nostri  Principi,  i  quali  dimolti 
anni  erano  stati  nel  loro  principato,  per  averlo  dipoi  perso, 
non  accusino  la  fortuna,  ma  la  ignavia  loro:  perchè  non  avendo 
mai  ne' tempi  quieti  pensato  che  possino  mutarsi  (il  che  è 
comune  difetto  degli  uomini,  non  far  conto  nella  bonaccia 
della  tempesta),  quando  poi  vennero  i  tempi  avversi,  pensa- 
rono a  fuggirsi,  non  a  defendersi  ;  e  sperarono  che  i  popoli 
infastiditi  per  la  insolenza  de' vincitori,  gli  richiamassero.il 
qual  partito,  quando  mancano  gli  altri,  è  buono;  ma  è  ben 
male  aver  lasciato  gli  altri  rimedii  per  quello,  perchè  non  si 
vorrebbe  mai  cadere  per  credere  poi  trovare  chi  ti  ricolga. 
11  che  0  non  avviene,  o  se  egli  avviene,  non  è  con  tua  si- 
curtà, per  essere  quella  difesa  suta*  vile,  e  non  dependere 
da  te;  e  quelle  difese  solamente  sono  buone,  certe  e  durabili, 
che  dependoDO  da  te  proprio  e  dalla  virtù  tua. 

Gap.  XXV.  — -  Quanto  possa  nelle  umane  cose  la  fortuna, 
e  in  che  modo  se  gli  possa  ostare. 

Non  mi  è  incognito  come  molti  hanno  avuto  ed  hanno 
opinione,  che  le  cose  del  mondo  sieno  in  modo  governate 
dalla  fortuna  e  da  Dio,  che  gli  uomini  con  la  prudenza  loro 
non  possino  correggerle,  anzi  non  vi  abbino  rimedio  alcuno; 
e  per  questo  potrebbono  giudicare  che  non  fusse  da  insudare 
molto  nelle  cose,  ma  lasciarsi  governare  dalla  sorte.  Questa 
opinione  è  suta  più  creduta  ne' nostri  tempi,  per  la  varia- 
zion  grande  delle  cose  che  si  son  viste  e  veggonsi  ogni  di, 
fuor  d' ogni  umana  coniettura.  AI  che  pensando  io  qualche 
volta,  sono  in  qualche  parte  inchinato  nella  opinione  loro. 
Nondimanco,  perchè  il  nostro  libero  arbitrio  non  sia  spento 
giudico  potere  esser  vero  che  la  fortuna  sia  arbitra  della 
metà  delle  azioni  nostre,  ma  che  ancora  ella  ne  lasci  gover- 
nare l'altra  metà,  o  poco  meno,  a  noi. Ed  assomiglio  quella 
ad  un  fiume  rovinoso,  che  quando  e'  s' adira,  allaga  i  piani, 

'  L'edizione  del  Biado  ha,  erroneamente,  suas  quella  del  1SÌ3,  stala. 

7 


74  IL    PKINCIPE. 

rovina  gli  arbori  e  gli  edifici,  lieva  da  questa  parie  terreno 
ponendolo  a  quell'altra;  ciascono  gli  fugge  davanti,  ognun 
cede  al  suo  furore,  senza  potervi  ostare;  e  benché  sia  così 
fatto,  non  resta  però  che  gli  uomini,  quando  sono  tempi  quieti, 
non  vi  possino  fare  provvedimenti  e  con  ripari  e  con  ar- 
gini, in  modochè  crescendo  poi,  o  egli  anderebbc  per  un  ca- 
nale, 0  r  impeto  suo  non  sarebbe  si  licenzioso  né  si  dannoso. 
f  Similmente  interviene  della  fortuna  ;  la  quale  dimostra  la  sua 
potenza  dove  non  è  ordinala  virtù  a  resistere,  e  quivi  volta 
i  suoi  impeti  dove  la  sa  che  non  son  fatti  gli  argini  né  i 
ripari  a  tenerla.  E  se  voi  considererete  ritalia,cheéla  sedo 
di  queste  variazioni,  e  quella  che  ha  dato  loro  il  moto,  ve- 
drete esser  una  campagna  senza  argini  e  senza  alcun  ripa- 
ro. Che  se  la  fussi  riparata  da  conveniente  virtù,  come  é  la 
Magna,  la  Spagna  e  la  Francia,  questa  inondazione  non 
avrebbe  fatto  le  variazioni  grandi  che  Tha,  o  la  non  ci  sa- 
rebbe venuta.  E  questo  voglio  basti  aver  detto  quanto  alVop- 
porsi  alla  fortuna  in  universale.  Ma  restringendomi  più  al 
parliculare,  dico  come  si  vede  oggi  questo  Principe  felicitare, 
e  domani  rovinare,  senza  vederli  aver  mutato  natura  o 
qualità  alcuna.  Il  che  credo  nasca,  prima ,  dalle  cagioni  che  si 
sono  lungamente  per  lo  addietro  trascorse;*  cioè  che  quel 
Principe  che  s'appoggia  tutto  in  su  la  fortuna,  rovina  come 
quella  varia.  Credo  ancora  che  sia  felice  quello,  il  modo  del 
cui  procedere  si  riscontra  con  la  qualità  de'  tempi  ;  e  simil- 
mente sia  infelice  quello,  dal  cui  procedere  si  discordano  ì 
tempi.  Perchè  si  vede  gli  uomini,  nelle  cose  che  li  conducono 
al  Gne,  quale  ciascuno  ha  innanzi,  cioè  gloria  e  ricchezze, 
procedervi  variamente  ;  l'uno  con  respetli,  V  altro  con  impe- 
to ;  r  uno  per  violenza ,  l' altro  per  arte  ;  V  uno  con  pazienza , 
r  altro  col  suo  contrario  :  e  ciascuno  con  questi  diversi  modi 
vi  può  pervenire.  E  vedesi  ancora  duoi  rispettivi,  l' uno  per- 
venire al  suo  disegno,  l'altro  no;  e  similmente  duoi  egual- 
mente felicitare  con  diversi  studi,  essendo  l'uno  respet- 
ti vo,  l'altro  impetuoso:  il  che  non  nasce  da  altro  se  non  da 
qualità  di  tempi,  che  si  conformino  o  no  col  procedere  loro. 
Di  qui  nasce  quello  ho  detto,  che  duoi  diversamente  operan- 

*  Il  MS.  Laurensiano  e  1' cdixiooe  del  1813:  discorse. 


IL   PRINCIPE.  iO 

do,  sorliscano  il  medesimo  effello  ;  e  duoi  egualmente  ope- 
rando, l'uno  si  conduce  al  suo  fine,  T altro  no.  Da  questo 
ancora  dipende  la  variazione  del  bene  :  perchè,  se  a  uno  che 
si  governa  con  rispetto  e  pazienza,  i  tempi  e  le  cose  girano 
in  modo  che  il  governo  suo  sia  buono,  esso  viene  felicitando; 
ma  se  li  tempi  e  le  cose  si  mutano,  egli  rovina,  perchè  non 
muta  modo  di  procedere.  Né  si  trova  uomo  si  prudente  che 
si  sappi  accordare  a  questo  ;  si  perchè  non  si  può  deviare 
da  quello  a  che  la  natura  ci  inchina;  si  ancora  perchè  avendo 
uno  sempre  prosperato  camminando  per  una  via,  non  si  può 
persuadere  che  sia  bene  partirsi  da  quella  ;  e  però  l' uomo 
respettivo ,  quando  gli  è  tempo  di  venire  all'  impeto ,  non  lo  sa 
fare,  donde  egli  rovina;  che  se  si  mutasse  natura  con  lì 
tempi  e  con  le  cose,  non  si  muterebbe  fortuna.  Papa  Giulio  li 
procedette  in  ogni  sua  azione  impetuosamente,  e  trovò  tanto 
i  tempi  e  le  cose  conformi  a  quel  suo  modo  di  procedere, 
che  sempre  sorti  felice  fine.  Considerate  la  prima  impresa 
che  fece  di  Bologna,  vivendo  ancora  messer  Giovanni  Ben- 
tivogli.  I  Viniziani  non  se  ne  contentavano,  il  re  di  Spagna 
similmente  con  Francia  aveva  ragionamento  di  tale  impresa  ; 
e  lui  nondimanco,  con  la  sua  ferocità  ed  impeto,  si  mosse  per- 
sonalmente a  quella  espedizione  :  la  quale  mossa  fece  star 
sospesi  e  fermi  e  Spagna  e  i  Viniziani;  quelli  per  paura, 
queir  altro  per  il  desiderio  di  ricuperare  tutto  il  regno  di 
Napoli:  e  dall'altra  parte  si  tirò  dietro  il  re  di  Francia,  per- 
chè vedutolo  quel  re  mosso,  e  desiderando  farselo  amico  per 
abbassare  i  Viniziani,  giudicò  non  poterli  negare  le  sue 
genti  senza  ingiuriarlo  manifestamente.  Condusse,  adunque, 
Giulio  con  la  sua  mossa  impetuosa  quello  che  mai  altro  pon- 
tefice con  tutta  r  umana  prudenza  avria  condotto:  perchè,  se 
egli  aspettava  di  partirsi  da  Roma  con  le  conclusioni  ferme 
e  tutte  le  cose  ordinate,  come  qualunque  altro  pontefice 
arebbe  fatto,  mai  non  gli  riusciva.  Perchè  il  re  di  Francia 
avria  trovate  mille  scuse,  e  gli  altri  gli  arebbero  p;esso 
mille  paure.  Io  voglio  lasciare  slare  le  altre  sue  azioni,  che 
tulle  sono  slate  simili,  e  tutte  gli  sono  successe  bene;  e  la 
brevità  della  vita  non  gli  ha  lasciato  sentire  il  contrario: 
perchè,  se  fossero  sopravvenuti  tempi  che  fusse  bisognalo 


76  IL   PRINCIPE. 

procedere  con  respelti,  ne  seguiva  la  sua  rovina,,  perchè  mai 
non  arebbe  deviato  da  quelli  modi,  acquali  la  natura  lo  in- 
chinava. Conchiudo,  adunque,  che  variando  la  fortuna,  e  gli 
uomini  stando  nei  loro  modi  ostinati,  sono  felici  mentre 
concordano  insieme;  e  come  discordano,  sono  infelici.  Io 
giudico  ben  questo,  che  sia  meglio  esser  impetuoso  che  re- 
spelti vo  ;  perchè  la  fortuna  è  donna,  ed  è  necessario,  volen- 
dola tener  sotto,  batterla  ed  urtarla:  e  si  vede  che  la  si  lascia 
più  vincere  da  questi,  che  da  quelli  che  freddamente  proce- 
dono. E  però  sempre,  come  donna,  è  amica  de' giovani, 
perchè  sono  meno  respettivi)  più  feroci,  e  con  più  audacia  la 
comandano. 

CiP.  XXVI.  —  Esorlaxtone  a  liberare  V  lUiUa  da' barbari 

Considerato,  adunque,  tutte  le  cose  di  sopra  discorse,  e 
pensando  meco  medesimo  se  al  presente  in  Italia  correvano 
tempi  da  onorare  un  Principe  nuovo,  e  se  ci  era  materia  che 
dessi  occasione  a  uno  prudente  e  virtuoso  a  introdurvi  nuova 
forma  che  facesse  onore  a  lai,  e  bene  alla  università  degli 
uomini  di  quella;  mi  pare  concorrine  tante  cose  in  benefìcio 
d'  uno  Principe  nuovo,  che  non  so  qual  mai  tempo  fussi  più 
allo  a  questo.  E  se,  come  io  dissi,  era  necessario,  volendo 
vedere  la  virtù  diBloisè,  che  il  popolo  d'Israel  fosse  schiavo 
in  Egitto;  ed  a  conoscere  la  grandezza  e  Io  animo  di  Ciro, 
che  i  Persi  fussero  oppressi  da' Medi;  e  ad  illustrare  la  ec- 
cellenzia  di  Teseo,  che  gli  Ateniesi  fussero  dispersi  :  così  al 
presente,  volendo  conoscere  la  virtù  d'uno  spirilo  italiano, 
era  necessario  che  l'Italia  si  conducesse  ne' termini  presen- 
ti, e  che  la  fusse  più  schiava  che  gli  Ebrei,  più  serva  che 
i  Persi,  più  dispersa  che  gli  Ateniesi;  senza  capo,  senz'or- 
dine; battuta,  spogliata,  lacera, corsa  ;  ed  avesse  sopportalo 
d'ogni  sorta  rovine.  E  benché  insino  a  qui  si  sia  mostro 
qualche  spiraculo  in  qualcuno,  da  poter  giudicare  che  fusse 
ordinato  da  Dio  per  sua  redenzione  ;  nientedimanco  si  è  vi- 
sto come  dipoi,  nel  più  alto  corso  delle  azioni  sue,  è  slato  dalla 
fortuna  reprobato:  in  modo  che,  rimasa  come  senza  vita, 
aspetta  qual  possa  esser  qiiello   che   sani  le  sue  ferite,  e 


IL   PRINCIPE.  i  / 

ponga  Gne  alle  direpzioni  e  a'  sacchi  di  Lombardia,  alle  espi- 
lazioni e  taglie  del  Reame  e  di  Toscana,  e  la  guarisca  da 
quelle  sue  piaghe  già  per  il  lungo  tempo  infistolite.  Yedesi 
come  la  prega  Dio  che  le  mandi  qualcuno  che  la  redima  da 
queste  crudeltà  ed  insolenzie  barbare.  Vedesi  ancora  tutta  pro- 
na' e  disposta  a  seguire  una  bandiera,  purché  ci  sìa  alcuno  che 
la  pìgli.  Né  si  vede  al  presente  che  ella  possa  sperare,  altra  che 
la  illustre  casa  vostra  potersi  fare  capo  di  questa  redenzione, 
sendo  questa  dalla  sua  virtù  e  fortuna  tanto  suta  esaltata,  e  da 
Dio  e  dalla  Chiesa,  della  quale  tiene  ora  il  principato,  favorita.^ 
E  questo  non  vi  sarà'  molto  difficile,  se  vi  recherete  innanzi 
le  azioni  e  vite  de' soprannominati.  E  benché  quelli  uomini 
siano  rari  e  maravigliosi,  nondimeno  furono  uomini,  ed  ebbe 
ciascuno  di  loro  minore  occasione  che  la  presente  ;  perchè 
r  impresa  loro  non  fu  più  giusta  di  questa,  né  più  facile;  né 
fu  Dio  più  a  loro  amico  che  a  voi.  Qui  è  giustizia  grande; 
perché  quella  guerra  é  giusta  che  gli  è  necessaria  ;  e  quelle 
armi  sono  pietose,  dove  non  si  spera  in  altro  che  in  elle. 
Qui  è  disposizione  grandissima;  né  può  essere,  dove  è  grande 
disposizione,  grande  difficultà,  pur  che  quella  pigli  delti  or- 
dini di  coloro  che  io  vi  ho  proposto  per  mira.  Oltre  a  que- 
sto, qui  si  veggono  estraordinari  senza  esempio  condotti  da 
Dio  :  il  mare  s'  è  aperto,  una  nube  vi  ha  scorto  il  cammino, 
la  pietra  ha  versato  l'acque,  qui  è  piovuto  la  manna,  ogni 
cosa  è  concorsa  nella  vostra  grandezza  ;  il  rimanente  dovete 
far  voi.  Dio  non  vuole  far  ogni  cosa,  per  non  ci  tórre  il  li- 
bero arbitrio,  e  parte  di  quella  gloria  che  tocca  a  noi.  E  non 
è  maraviglia  se  alcuno  de'  prenominati  Italiani  non  ha  pos- 
suto  fare  quello  che  si  può  sperare  facci  la  illustre  casa  vo- 
stra; e  se  in  tante  revoluzioni  d' Italia,  ed  in  tanti  maneggi 
di  guerra,  e'  pare  sempre  che  in  quella  la  virtù  militare  sia 
spenta  :  perchè  questo  nasce  che  gli  ordini  antichi  di  quella 

*  Il  MS.  Laurenziano  e  l'edizione  del  1813  :  pronta. 

*  Cosi  nella  Romana.  Nelle  altre  edizioni ,  e  nella  Testina  che  qui  rico- 
piamo, questo  periodo  leggesi  come  appresso:  Ne  si  vede  al  presente  in  quale  la 
possa  più  sperare  che  nella  illustre  casa  vostra,  la  quale  con  la  sua  virtù  et/or- 
Ulna  (favorita  da  Dio  et  dalla  Chiesa,  della  quale  è  hora  Principe)  possa/arsi 
capo  di  questa  redentione. 

3  II  MS.  Laurenziano  e  la  stampa  del  iS13:  //  che  non  vi  fa. 

r 


78  IL   PRINCIPE. 

non  erano  buoni,  e  non  ci  è  salo  alcuno  che  n'abbi  sapulo 
Irovare  de'  nuovi.  Nessuna  cosa  fa  (anto  onore  a  un  uomo 
che  di  nuovo  8urga,  quanto  fanno  le  nuove  le<?gi  e  nuovi 
ordini  trovali  da  lui.  Queste  cose,  quando  sono  ben  fondate 
ed  abbino  in  loro  grandezza,  lo  fanno  reverendo  e  mirabile; 
ed  in  Italia  non  manca  materia  da  introdurvi  ogni  forma. 
Qui  è  virtù  grande  nelle  membra,  quando  ella  non  mancasse 
ne' capi.  Specchiatevi  nelli  duelli  e  nei  congressi  de' pochi, 
quanto  gl'Ilaliani  siano  superiori  con  le  forze,  con  la  de- 
strezza, con  l'ingegno.  Ma  come  si  viene  agli  eserciti,  non 
compariscono:  e  tutto  procede  dalla  debolezza  de' capi;  per- 
chè quelli  che  sanno,  non  sono  ubbidienti;*  ed  a  ciascuno  par 
sapere,  non  ci  essendo  inGno  a  qui  suto  alcuno  che  si  sia 
rilevato  tanto,  e  per  virtù  e  per  fortuna, che  gli  altri  cedino. 
Di  qui  nasce  che  in  tanto  tempo,  in  tante  guerre  (atte  nei 
passati  venti  anni,  quando  gli  è  stato  un  esercito  tutto  ita- 
liano, sempre  ha  fatto  mala  prova  :  di  che  è  leslimone  prima 
il  Taro,  dipoi  Alessandria,  Capaa,  Genova,  Vaila,  Bologna, 
Meslri. Volendo,  dunque, la  illustre  casa  vostra  seguitare  quelli 
eccellenti  nomini  che  redimerono  le  Provincie  loro,  è  ne- 
cessario innanzi  a  tolte  le  altre  cose,  come  vero  fondamento 
d*ognì  impresa,  provvedersi  d'armi  proprie,  perchè  non  si 
può  avere  nò  più  Gdi,  né  più  veri,  né  migliori  soldati.  E 
benché  ciascuno  di  essi  sia  buono,  tutti  insieme  diventeranno 
migliori,  quando  si  vedranno  comandare  da  loro  Principe, 
e  da  quello  onorare  e  intrattenere.  È  necessario,  pertanto ^ 
prepararsi  a  questo  armi,  per  potersi  con  virtù  italiana  di- 
fendere dagli  esterni.  £  benché  la  fanteria  svizzera  e  spa- 
gnuola  sia  stimata  terribile,  nondiroanco  in  ambedue  è  di- 
fetto, per  il  quale  un  ordine  terzo  potrebbe  non  solamente 
opporsi  loro,  ma  confidare  di  superargli.  Perchè  gli  Spa- 
gnnoli  non  possono  sostenere  ì  cavalli,  e  gli  Svizzeri  hanno 
ad  aver  paura  de'  fanti,  quando  gli  riscontrino  nel  combat- 
tere ostinati  come  loro.  Donde  si  è  veduto,  e  vedrassi  per 
esperienza,  gli  Spagnuoli  non  poter  sostenere  una  cavalleria 
francese,  e  gli  Svizzeri  essere  rovinali  da  una  fanteria  spa- 
gnuola.  E  benché  di  quest'ultimo  non  se  ne  sia  vista  incera 

*  L*  edùione  del  Biado  ha  obcditi. 


IL   PUINCIPE.  71) 

esperienza,  nientedimeno  se  ne  è  veduto  un  saggio  nella  gior- 
nata di  Ravenna,  quando  le  fanterie  spagnuole  si  aCfronta- 
rono  con  le  battaglie  tedesche,  le  quali  servano  il  medesimo 
ordine  che  i  Svizzeri:  dove  gli  Spagnuoli,  con  l'agilità  del 
corpo  e  aiuti  de' loco  brocchieri,  erano  entrati  tra  le  picche 
loro  sotto,  e  stavano  securi  a  ofTendergli,  senza  che  li  Te- 
deschi vi  avessino  remedio;  e  se  non  fussi  la  cavalleria  che 
gli  urtò,  gli  arebbono  consumati  lutti.  Puossi,  adunque,  co- 
nosciuto il  difetto  dell'una  e  dell'altra  di  queste  fanterie, 
ordinarne  una  di  nuovo,  la  quale  resista  a' cavalli,  e  non 
abbi  paura  de*  fanti:  il  che  lo  farà  non  la  generazione  delle 
armi,  ma  la  variazione  degli  ordini.  *  E  queste  sono  di  quelle 
cose  che  di  nuovo  ordinate,  danno  riputazione  e  grandezza 
a  uno  Principe  nuovo.  Non  si  deve,  adunque,  lasciar  passare 
questa  occasione,  acciocché  la  Italia  vegga  dopo  tanto  tempo 
apparire  un  suo  redentore.  Né  posso  esprimere  con  quale 
amore  ei  fussi  ricevuto  in  tutte  quelle  provincie  che  hanno 
patito  per  queste  illuvioni  esterne;  con  qual  sete  di  vendetta, 
con  che  ostinata  fede,  con  che  pietà,  con  che  lacrime.  Quali 
porte  se  gli  serrerebbono?  quali  popoli  gli  negherebbono  la 
obbedienza?  quale  invidia  se  gli  opporrebbe?  quale  Italiano 
gli  negherebbe  l' ossequio?  A  ognuno  puzza  questo  barbaro 
DOMINIO.  Pigli,  adunque,  la  illustre  casa  vostra  questo  assunto 
con  quello  animo  e  con  quelle  speranze  che  si  pigliano  1*  im- 
prese giuste,  acciocché  sotto  la  sua  insegna  e  questa  patria  ne 
sia  nobilitata,  e  sotto  i  suoi  auspicii  si  verifichi  quel  detto 
del  Petrarca  : 

Virtù  coDira  furore 

Prenderà  l'arme;  e  fij  '1  comLattcr  corto; 

Che  l'antico  valor,', 

Neil'  italici  cor  non  è  ancor  morto. 


<  Con  notaLile  diversità  di  concetto, ha  qui  la  Bladiana : /o^rtrà  Ingenera- 
tione  de  l'armi  y  et  la  i'ariatione  degli  ordini. 


DISCORSI 


SOPRA    ■..%    PRIMA    DECA    DI    T.    lilTlO. 


NICCOLO  MACHIAVELLI 

A  ZANOBI  BUOÌVDELMOKTI  E  COSIMO  RUCELLAI 


SALUTE. 


lo  vi  mando  un  presente,  il  quale  se  non  corrisponde  agli 
obblighi  che  io  ho  con  voi,  è  tale  senza  dubbio,  quale  ha  potuto 
Niccolò  Machiavelli  mandarvi  maggiore.  Perchè  in  quello  io  ho 
espresso  quanto  io  so,  e  quanto  io  ho  imparalo  per  una  lunga 
pratica  e  conlinova  lezione  delle  cose  del  mondo.  E  non  polendo 
né  voi  né  altri  disiderare  da  me  più,  non  vi  potete  dolere  se  io 
non  vi  ho  donato  più.  Bene  vi  può  increscere  della  povertà  dello 
ingegno  mio,  quando  siano  queste  mie  narrazioni  povere  ;  e 
della  fallacia  del  giudizio ,  quando  io  in  molte  parti,  discorrendo, 
m' inganni.  Il  che  essendo,  non  so  quale  di  noi  si  abbia  ad  esser 
meno  obbligato  aW  altro;  o  io  a  voi,  che  mi  avete  forzato  a  seri' 
vere  quello  eh' io  mai  per  me  medesimo  non  arci  scritto;  o  voi 
a  me,  quando  scrivendo  non  abbi  soddisfatto.  Pigliate,  adun- 
que, questo  in  quello  modo  che  si  pigliano  tutte  le  cose  degli  ami- 
ci; dove  si  considera  più  sempre  la  intenzione  di  chi  manda,  che 
le  qualità  della  cosa  che  è  mandata.  E  crediate  che  in  questo 
in  ho  una  satis fazione ,  quando  io  penso  che,  sebbene  io  mi  fussi 
ingannalo  in  molle  sue  circostanze ,  in  questa  sola  so  eh'  io  non 
ho  preso  errore,  di  avere  eletti  voi,  ai  quali  sopra  tutti  gli  altri 
questi  miei  Discorsi  indirizzi:  sì  perchè,  facendo  questo,  mi 
pare  aver  mostro  qualche  gratitudine  de'  benefizii  ricevuti  :  sì 
perchè  e*  mi  pare  esser  uscito  fuora  dell'  uso  comune  di  coloro 
che  scrivono,  i  quali  sogliono  sempre  le  loro  opere  a  qualche 
Principe  indirizzare;  e,  accecati  dall'  ambizione  e  dall'avarizia, 
laudano  quello  di  tutte  le  virtuose  qualitadi,  quando  di  ogni 


84 

vituperevole  parie  doverrebhono  biasimarlo.  Onde  io,  per  non  in- 
correre in  questo  errore,  ho  elelli  non  quelli  che  sono  Principi, 
ma  quelli  che  per  le  infinite  buone  parli  loro  merilerebhono 
di  essere  ;  né  quelli  che  polrebbono  di  gradi,  di  onori  e  di  ric- 
chezze riempiermi,  ma  quelli  che,  non  polendo,  vorrcbbono  farlo. 
Perchè  gli  uomini,  volendo  giudicare  dirittamente,  hanno  a  sli- 
mare quelli  che  sono,  non  quelli  che  possono  esser  liberali;  e 
cosi  quelli  che  sanno,  non  quelli  che,  senza  sapere,  possono  go- 
vernare un  regno.  E  gli  scrittori  laudano  più  lerone  Siracu- 
sano quando  egli  era  privalo,  che  Perse  Macedone  quando  egli 
era  re:  perchè  a  lerone  a  esser  Principe  non  mancava  altro  che 
il  principato;  quell'altro  non  aveva  parte  alcuna  di  re,  altro 
che  il  regno.  Godeteci,  pertanto,  quel  bene  o  quel  rfiale  che  voi 
medesimi  avete  voluto:  e  se  voi  starete  in  questo  errore,  che 
queste  mie  oppinioni  vi  siano  grate,  non  mancherò  di  seguire  il 
retto  della  istoria,  secondo  che  nel  principio  vi  promisi.  Valete. 


DEI    DISCORSI 

IiIBRO  PRuno. 


*Ancorachè,perla  invida  natura  depili  nomini,  sia  sempre 
slato  pericoloso  il  ritrovare  modi  ed  ordini  nuovi,  quanto  il 
cercare  acque  e  terre  incognite,  per  essere  quelli  più  pronti 
a  biasimare  che  a  laudare  le  azioni  d'altri  ;  nondimeno,  spinto 
da  quel  naturale  desiderio  che  fu  sempre  in  me  di  operare, 
•senza  alcun  rispetto,  quelle  cose  che  io  creda  rechino  comune 
benefìzio  a  ciascuno,  ho  deliberalo  entrare  per  una  via,  la 
quale,  non  essendo  stata  per  ancora  da  alcuno  pesta,  se  la 
mi  arrecherà  fastidio  e  diffìcullà,  mi  potrebbe  ancora  arre- 
care premio,  mediante  quelli  che  umanamente  di  queste  mie 
fatiche  considerassero.  E  se  V  ingegno  povero,  la  poca  espe- 
rienza delle  cose  presenti,  la  debole  notizia  delle  antiche, 
faranno  questo  mio  conato  difettivo  e  di  non  molta  utilità; 
daranno  almeno  la  via  ad  alcuno,  che  con  più  virtù,  più  di- 
scorso e  giudizio,  potrà  a  questa  mia  intenzione  satisfare:  il 
che  se  non  mi  arrecherà  laude,  non  mi  dovrebbe  partorire 
biasimo.  E  quando  io  considero  quanto  onore  si  attribuisca 
all'anlichità,  e  come  molte  volle,  lasciando  andare  molli  al- 
tri esempi,  un  frammento  d'una  antica  slatua  sia  stalo  com-| 
peralo  gran  prezzo,  per  averlo  appresso  di  sé,  onorarne  la' 
sua  casa,  poterlo  fare  imitare  da  coloro  che  di  quella  arte  si 
dilettano;  e  come  quelli  poi  con  ogni  industria  si  sforzano  in 
tulle  le  loro  opere  rappresentarlo:  e  veagendo,  dall'altro 
canto,  le  virtuosissime  operazioni  che  le  istorie  ci  mostrano, 
che  sono  slate  operale  da  regni  e  da  repubbliche  antiche, 

'  Questo  principio,  sino  alla  seg.lin.  17,  manca  nell' ediz.  del  Biado  (1531), 
rosi  come  nella  Testina;  le  quali  invece  comi>}ciano:  Considerando  io  guanto 
honore  si  attribuisca  all'  antichità  ec, 

s 


86  DEI   DISCORSI 

dai  re,  capilani,  ciUadini,  datori  di  leggi,  ed  altri  che  si 
sono  per  la  loro  patria  atTaticali,  esser  più  presto  ammirate 
che  imitale;  anzi  in  tanto  da  ciascuno  in  ogni  parte  fussito, 
che  di  quella  antica  virtù  non  ci  è  rimaso  alcun  scsno:  non 
posso  fare  che  insieme  non  me  ne  maravigli  e  dolga;  e  tanto 
più,  quanto  io  veggio  nelle  difTerenze  che  intra  i  cittadini  ci- 
vilmente nascono,  o  nelle  malattie  nelle  quali  gli  uomini  in- 
corrono, essersi  sempre  ricorso  a  quelli  giudìcii  o  a  quelli 
rimedii  che  dagli  antichi  sono  stati  giudicati  o  ordinati.  Per- 
che le  leggi  civili  non  sono  altro  che  scntenzie  date  dagli 
antichi  iurcconsulli,  le  quali,  ridotte  in  ordine,  a*  presenti 
nostri  iareconsulli  giudicare  insegnano;  né  ancora  la  medi- 
cina è  altro  che  esperienzia  falla  dagli  antichi  medici,  sopra 
la  quale  fondano  i  modici  presenti  li  loro  giudicii.  Nondimeno, 
nello  ordinare  le  repubbliche,  nel  mantenere  gli  slati,  nel 
governare  i  regni,  ncll'ordinsire  la  milizia  ed  amministrar  la 
guerra,  nel  giudicare  i  sudditi,  nello  accrescere  lo  impe- 
rio, non  si  trova  né  principi,  né  repubbliche,  né  capilani, 
né  cittadini  che  agli  esempi  degli  antichi  ricorra.'  Il  che  mi 
persuado  che  nasca  non  lauto  dalla  debolezza  nella  quale 
la  presente  educazione  ha  condotto  il  mondo,  o  da  quel  male 
che  uno  ambizioso  ozio  ha  fatto  a  molte  provincie  e  città 
cristiane,  quanto  dal  non  avere  vera  cognizione  delle  isto- 
rie,  per  non  Irarne,  legaendole,  quel  senso,  né  gustare  di 
loro  quel  sapore  che  le  hanno  in  sé.  Donde  nasce  che  infi- 
niti che  leggono,  pigliano  piacere  di  udire  quella  varietà 
delli  accidenti  che  in  esse  si  contengono,  senza  pensare  al- 
triroenle  d'imitarle,  giudicando  la  imitazione  non  solo  dilli- 
Cile  ma  impossibile:  come  se  il  cielo,  il  sole,  gli  elementi, 
gli  uomini  fossero  variali  di  moto,  d'ordine  e  di  potenza,  da 
quello  ch'egli  erano  anticamente.  Volendo,  pertanto,  trarre 
gli  uomini  di  questo  errore,  ho  giudicato  necessario  scrivere 
sopra  tutti  quelli  libri  di  Tito  Livio  che  dalla  malignità  de' 

•  La  dfslnenwi  del  singolare,  adoperata  qui  invece  del  plurale,  segaitando 
forse  l'uso  del  popolo,  o  procedente  fori' anche  dalla  omissione  del  segno  che 
suole  nei  MSS.  indicare  la  6nale  no,  indusse  i  posteriori  editori ,  non  esclusi 
quelli  della  Testina,  a  correggere:  «è  principe,  ne  repubblica ^  ne  capitano, 
ne  cittadino. 


LIBRO  PRIMO.  87 

tempi  non  ci  sono  stati  interrotti,  quello  che  io,  secondo  le 
anliclie  e  moderne  cose,  giudicherò  esser  necessario  per  mag- 
giore inlelligenzia  d'essi;  acciocché  coloro  che  questi  miei 
Discorsi  leggeranno,  possino  trarne  quella  utilità  per  la 
quale  si  debbe  ricercare  la  cognizione  della  istoria.  E  benché 
questa  impresa  sia  diffìcile,  nondimeno,  aiutato  da  coloro 
che  mi  hanno  ad  entrare  sotto  a  questo  peso  confortalo, 
credo  portarlo  in  modo,  che  ad  un  altro  resterà  breve  cam- 
mino a  condurlo  al  luogo  destinalo. 

Gap.  I.  —  Quali  siano  siali  universalmente  i  principii 
di  qualunque  città ,  e  quale  fosse  quello  di  Roma. 

Coloro  che  leggeranno  qual  principio  fosse  quello  della 
città  di  Roma,  e  da  quali  legislatori  e  come  ordinato,  non 
si  maraviglieranno*  che  l;inta  virtù  si  sia  per  più  secoli  man- 
tenuta in  quella  città;  e  che  dipoi  ne  sia  nato  quello  imperio, 
al  quale  quella  Repubblica  aggiunse.  E  volendo  discorrere 
prima  il  nascimento  suo,  dico  che  tutte  le  città  sono  edificale 
o  dagli  uomini  natii  del  luogo  dove  le  si  edificano,  o  dai  fo- 
restieri. Il  primo  caso  occorre  quando  agli  abitatori  dispersi 
in  molle  e  piccole  parti  non  par  vivere  sicuri,  non  potendo 
ciascuna  per  sé,  e  per  il  sito  e  per  il  piccol  numero,  resi- 
slere  all'impelo  di  chi  le  assaltasse;  e  ad  unirsi  per.  loro 
difensione,  venendo  il  nemico,  non  sono  a  tempo;  o  quando 
fussero,  converrebbe  loro  lasciare  abbandonali  molti  de'loro 
ridotti,  e  cosi  verrebbero  ad  esser  subita  preda  dei  loro  ne- 
mici: talmente  che,  per  fuggire  questi  pericoli,  mossi  o  da 
loro  medesimi,  o  da  alcuno  che  sia  infra  di  loro  di  maggior 
autorità,  si  ristringono  ad  abitar  insieme  in  luogo  eletto  da 
loro,  più  comodo  a  vivere  e  più  facile  a  difendere.  Di  que^ 
sle,  infra  molle  altre,  sono  slate  Atene  e  Vinegia.  La  prima, 
sotto  Tautorità  di  Teseo,  fu  per  simili  cagioni  dalli  abitatori 
dispersi  edificata;  l'altra,  sendosi  molli  popoli  ridotti  in  certe 
isoletle  che  erano  nella  punta  del  mare  Adriatico,  per  fug- 
gire quelle  guerre  che  ogni  dì,  per  lo  avvenimento  di  nuovi 
barbari,  dopo  la  declinazione  dello  imperio  romano,  nasce- 

1  La  Bladiaaa  :  non  si  maraviglierà. 


88  DEI  DISCORSI 

vano  in  Italia,  cominciarono  infra  loro,  senza  altro  prìncipe 
particolare  che  gli  ordinassi,  a  vivere  sotto  quelle  leggi  che 
parvono  loro  più  alte  a  mantenerli.  II  che  successe  loro  fc^li- 
cernente  per  il  lungo  ozio  che  il  sito  dette  loro,  non  avendo 
quel  mare  uscita,  e  non  avendo  quelli  popoli  che  afUiggevano 
Italia,  navigi  da  poterli  infestare:  talché  ogni  picciolo  prin- 
cipio li  potè  fare  venire  a  quella  grandezza  nella  quale  sono. 
Il  secondo  caso,  quando  da  genti  forestiere  è  edificata  una 
città,  nasce  o  da  uomini  liberi,  o  che  dipendano  da  altri: 
come  sono  le  colonie  mandale  o  da  una  repubblica  o  da  un 
principe,  per  isgravare  le  loro  (erre  d'abitatori,  o  per  difesa 
di  quel  paese  che,  di  nuovo  acquistato,  vogliono  sicuramente 
e  senza  spesa  mantenersi;  delle  quali  città  il  Popolo  romano 
ne  ediGcù  assai,  e  per  lutto  l'imperio  suo:  ovvero  le  sono 
edificate  da  un  principe,  non  per  abitarvi,  ma  per  sua  gloria; 
come  la  città  di  Alessandria  da  Alessandro.  E  per  non  avere 
queste  cittadi  la  loro  origine  libera,  rade  volte  occorre  che 
le  facciano  progressi*  grandi,  e  possinsi  intra  i  capi  dei  regni 
numerare.  Simile  a  queste  fu  l'edificazione  di  Firenze,  per- 
ché (o  edificala  da' soldati  di  Siila,  o,  a  caso,  dagli  abitatori 
dei  monti  di  Fiesole,  i  quali,  confidatisi  in  quella  lunga  pace 
che  sotto  Ottaviano  narque  nel  mondo,  si  ridussero  ad  abi- 
tare nel  piano  sopra  Arno)  si  edificò  sotto  l'imperio  romano; 
né  potette,  ne'principii  suoi,  fare  altri  augamenti  che  quelli 
che  per  cortesia  del  principe  li  erano  concessi.  Sono  liberi 
li  edificatori  delle  cittadi,  quando  alcuni  popoli,  o  sotto  un 
principe  o  da  per  sé,  sono  costretti,  o  per  morbo  o  per  fame 
o  per  guerra,  a  abbandonare  il  paese  patrio,  e  cercarsi  nuova 
sede:  questi  tali,  o  egli  abitano  le  cittadi  che  e'irovano  ne' 
paesi  ch'egli  acquistano,  come  fece  Moisè;  o  ne  edificano  di 
nuovo,  come  fé  Enea.  In  questo  caso  è  dove  si  conosce  la 
virtù  dello  edificatore,  e  la  fortuna  dello  edificato:  la  quale 
è  più  0  meno  meravigliosa,  secondo  che  più  o  meno  è  vir- 
tuoso colui  che  ne  é  slato  principio.  La  virtù  del  quale  si 
conosce  in  duoi  modi:  il  primo  é  nella  elezione  del  sito; 
l'altro  nella  ordinazione  delle  leggi.  E  perché  gli  uomini 
operano  o  per  necessità  o  per  elezione;  e  perchè  si  vede 

<  L'edU.  di  Roma  hàprocutt. 


LifeRo  Plinio.  89 

quivi  esser  maggiore  virtù  dove  la  elezione  ha  meno  aulo-  . 
rilà;  è  da  considerare  se  sarebbe  meglio  eleggere,  per  la  edì-  ] 
ficazione  delle  citladi,  luoghi  sterili,  acciocché  gli  uomini,   \ 
costretti  ad  industriarsi,  meno  occupati  dall'ozio,  vivessino   \ 
più  uniti,  avendo ,  per  la  povertà  del  sito,  minore  cagione  di 
discordie;  come  intervenne  in  Raugia,  e  in  molte  altre  cit- 
ladi in  simili  luoghi  edificate:  la  quale  elezione  sarebbe  senza 
dubbio  più  savia  e  più  utile,  quando  gli  uomini  fossero. con- 
tenti a  vivere  del  loro,  e  non  volessino  cercare  di  comandare 
altrui.  Pertanto,  non  potendo  gli  uomini  assicurarsi  se  non  j 
con  la   potenza,  è  necessario   fuggire  quesla  sterilità  del  I 
paese,  e  porsi  in  luoghi  fertilissimi;  dove,  polendo  per  la 
uberlà  del  sito  ampliare,  possa  e  difendersi  da  chi  l'assal- 
tasse, e  opprimere  qualunque  alla  grandezza  sua  si  oppo- 
nesse. E  quanto  a  quell'ozio  che  le  arrecasse  il  sito,  si  debba 
ordinare  che  a  quelle  necessiladi  le  leggi  la  coslringhino, 
che  'l  sito  non  la  costringesse;  ed  imitare  quelli  che  sono  stati 
savi,  ed  hanno  abitato  in  paesi  amenissimi  e  fertilissimi,  e 
atti  a  produrre  uomini  oziosi  ed  inabili  ad  ogni  virtuoso 
esercizio:  che,  per  ovviare  a  quelli  danni  i  quali  l'amenità  / 
del  paese,  mediante  l'ozio,  arebbero  causati,  hanno  posto  unai 
necessità  di  esercizio  a  quelli  che  avevano  a  essere  soldati  ;  \ 
di  qualità  che,  per  tale  ordine,  vi.  sono  diventati  migliori 
soldati  che  in  quelli  paesi  i  quali  naturalmente  sono  slati 
aspri  e  sterili.  Intra  i  quali  fu  il  regno  degli  Egizi,  che  non 
ostante  che  il  paese  sia  amenissimo,  tanto  potette  quella  ne- 
cessità ordinata  dalle  leggi,  che  vi  nacquero  uomini  eccel-   | 
lentissimi;  e  se  li  nomi  loro   non   fussino  dalla  antichità    ^ 
spenti,  si  vedrebbe  come  meriterebbero  più  laude  che  Ales-    ' 
Sandro  Magno,  e  molti  altri  de' quali  ancora  è  la  memoria 
fresca.  E  chi  avesse  consideralo  il  regno  del  Soldano,  e  l'or- 
dine de'Mammaluchi,  e  di  quella  loro  milizia,  avanti  che  da 
Salì,  Gran  Turco,  fosse  stata  spenta  ;  arebbe  veduto  in  quello 
molli  esercizi  circa  i  soldati,  ed  arebbe  in  fatto  conosciuto 
quanto  essi  temevano  quell'ozio  a  che  la  benignità  del  paese 
gli  poteva  condurre,  se  non  vi  avcssino  con  leggi  fortissime 
ovviato.  Dico,  adunque,  essere  più  prudente  elezione  porsi  in 
luogo  fertile^  quando  quella  fertilità  con  le  leggi  infra'  debili  ' 


90  bEl  DISCORSI 

termini  si  restringe.  Ad  Alessandro  Magno,  volendo  edificare 
una  città  per  sua  gloria,  venne  Dinocrate  architetto,  e  gli 
mostrò  come  ei  la  poteva  fare  sopra  il  monte  Albo;  il  quale 
luogo,  oltre  allo  esser  forte,  potrebbe  ridursi  in  modo  che  a 
quella  città  si  darebbe  forma  umana;  il  che  sarebbe  cosa 
meravigliosa  e  rara,  e  degna  della  sua  grandezza:  e  doman- 
dandolo Alessandro  di  quello  che  quelli  abitatori  viverebbo- 
no,  rispose,  non  ci  avere  pensato:  di  che  quello  si  rise,  e 
lasciato  stare  quel  monte,  edificò  Alessandria,  dove  gli  abi- 
tatori avessero  a  stare  volentieri  per  la  grassezza  del  paese, 
e  per  la  comodità  del  mare  e  del  Nilo.  Chi  esaminerà,  adun- 
que, la  edificazione  di  Roma,  se  si  prenderà  Enea  per  suo 
primo  progenitore,  sarà  di  quelle  cittadi  edificate  da' fore- 
stieri ;  se  Romolo,  di  quelle  edificate  dagli  uomini  natii  del 
luogo;  ed  in  qualunche  modo,  la  vedrà  avere  principio  libe- 
ro, senza  dependere  da  alcuno:  vedrà  ancora,  come  di  sotto 
si  dirà,  a  quante  necessitadi  le  leggi  fatte  da  Romolo,  Nu- 
ma,  e  gli  altri,  la  costringessino;  talmente  che  la  fertilità  del 
sito,  la  comodità  del  mare,  le  spesse  vittorie,  la  grandezza 
dello  imperio,  non  la  poterono  per  molti  secoli  corrompere, 
e  la  mantennero  piena  di  tante  virtù,  di  quante  mai  fusse 
alcun' altra  repubblica  ornata.  E  perchè  le  cose  operate  da 
lei,  e  che  sono  da  Tito  Livio  celebrate,  sono  seguile  o  per 
pubblico  0  per  privato  consiglio,  o  dentro  o  fuori  della  cil- 
tade,  io  comincerò  a  discorrere  sopra  quelle  cose  occorse 
dentro,  e  per  consiglio  pubblico,  le  quali  degne  di  maggiore 
annotazione  giudicherò,  aggiungendovi  (atto  quello  che  da 
loro  dependessi:  con  i  quali  Discorsi  questo  primo  libro, 
ovvero  questa  prima  parte,  si  terminerà. 

Gap.  il  — •  Di  quante  spezie  sono  le  repuhblichet  e  di  quale 
fu  la  Repubblica  Romana. 

Io  voglio  porre  da  parte  il  ragionare  di  quelle  cittadi 
che  hanno  avuto  il  loro  principio  sottoposto  ad  altri;  e  par- 
lerò di  quelle  che  hanno  avuto  il  principio  lontano  da  ogni 
servitù  esterna,  ma  si  sono  subito  governate  per  loro  arbi- 
trio,  0  come  repubbliche  o  come  principato:  le  quali  hanno 


I 


, 


ilfeRO  PRllflÒ.  8i 

avuto,  come  diversi  principii,  diverse  leggi  ed  ordini.  Perchè 
ad  alcune,  o  nel  principio  d'esse,  o  dopo  non  mollo  tempo, 
sono  slate  date  da  un  solo  le  leggi,  e  ad  un  tratto;  come 
quelle  che  furono  date  da  Licurgo  agli  Spartani:  alcune  le 
hanno  avute  a  caso,  ed  in  più  volle,  e  secondo  li  accidenti^ 
come  Roma.  Talché,  felice  si  può  chiamare  quella  repubbli» 
ca,  la  quale  sortisce  uno  uomo  si  prudente,  che  le  dia  leggi 
ordinale  in  modo,  che  senza  avere  bisogno  di  correggerle, 
possa  vivere  sicuramente  sotto  quelle.  E  si  vede  che  Sparta 
le  osservò  più  che  ottocento  anni  senza  corromperle,  o  senza 
alcuno  tumulto  pericoloso:  e,  pel  contrario,  tiene  qualche 
grado  d'infelicità  quella  città,  che,  non  si  sendo  abbattuta  ad 
uno  ordinatore  prudente,  è  necessitala  da  sé  medesima  rior- 
dinarsi: e  di  queste  ancora  è  più  infelice  quella  che  è  più 
discosto  dall'ordine;  e  quella  è  più  discosto,  che  con  suoi 
ordini  é  al  tutto  fuori  del  dritto  cammino,  che  la  possi  con- 
durre al  perfetto  e  vero  fine:  perché  quelle  che  sono  in  que- 
sto grado,  è  quasi  impossibile  che  per  qualche  accidente  si 
rassettino.  Quelle  altre  che,  se  le  non  hanno  l'ordine  per- 
fetto, hanno  preso  il  principio  buono,  e  atto  a  diventare 
migliori,'  pò  sono  per  la  occorrenza  delli  accidenti  diventare 
perfette.  Ma  fia  ben  vero  questo,  che  mai  non  si  ordineranno 
senza  pericolo;  perchè  li  assai  uomini  non  si  accordano  mai 
ad  una  legge  nuova  che  riguardi  uno  nuovo  ordine  nella 
città,  se  non  è  mostro  loro  da  ana  necessità  che  bisogni 
farlo;  e  non  potendo  venire  questa  necessità  senza  pericolo, 
è  facil  cosa  che  quella  repubbUca  rovini,  avanti  che  la  si 
sia  condotta  a  una  perfezione  d'ordine.  Di  che  ne  (à  fede 
appieno  la  repubblica  di  Firenze,  la  quale  fu  dallo  accidente 
d'Arezzo,  nel  II,  riordinata,  e  da  quel  di  Prato,  nel  XII,.disor- 
dinata.  Volendo,  adunque,  discorrere  quali  furono  li  ordini 
della  città  di  Roma,  e  quali  accidenti  alla  sua  perfezione  la 
condussero;  dico,  come  alcuni  che  hanno  scritto  delle  repub- 
bliche, dicono  essere  in  quelle  uno  de' tre  stati,  chiamati  da 
loro  Principato,  d'Ottimati  e  Popolare;  e  come  coloro  che  or- 
dinano una  città,  debbono  volgersi  ad  uno  di  questi,  secondo 
pare  loro  più  a  proposito.  Alcuni  altri,  e  secondo  la  oppinlone 

f  La  Bla  diana  ha  migliore» 


9^  DEI  DISCORSI 

di  molti  più  sari,  hanno  oppinione  che  siano  di  sei  ragioni 
governi;  delli  quali  Ire  ne  siano  pessimi;  tre  altri  siano  buoni 
in  loro  medesimi,  ma  si  facili  a  corrompersi,  che  vengono 
ancora  essi  ad  essere  perniziosi.  Quelli  che  sono  buoni,  sono 
i  soprascritti  tre:  quelli  che  sono  rei,  sono  Ire  altri,  i  quali 
da  questi  tre  dependono;  e  ciascuno  d'essi  è  in  modo  simile 
a  quello  che  gli  è  propinquo,  che  facilmente  saltano  dall'uno 
all'altro:  perchè  il  Principato  facilmente  diventa  tirannico; 
li  Oitìmati  con  facilità  diventano  stato  di  pochi;  il  Popolare 
senza  diffìcuKà  in  licenzioso  si  converte.  Talmente  che,  se 
ano  ordinatore  di  repubblica  ordina  in  ana  città  uno  di  quelli 
(restati,  ve  lo  ordina  per  poco  tempo;  perchè  nessuno  ri- 
medio può  farvi,  a  far  che  non  sdruccioli  nel  suo  contrario, 
per  la  similitudine  che  ha  in  questo  caso  la  virtù  ed  il  vizio. 
Nacquono  queste  variazioni  di  governi  a  caso  intra  li  uomini: 
perchè  nel  principio  del  mondo,  sendo  li  abitatori  rari,  vis- 
sono  un  tempo  disperati,  a  similitudine  delle  bestie;  dipoi, 
multiplicando  la  generazione,  si  ragunorno  insieme,  e,  per 
potersi  mculio  difendere,  cominciorno  a  riguardare  fra  loro 
quello  che  fusse  più  robusto  e  di  roagsiore  cuore,  e  fecionlo 
come  capo,  e  lo  obedivano.  Da  questo  nacque  la  cognizione 
delle  cose  oneste  e  buone,  difTerenli  dalle  pemiziose  e  ree: 
perchè,  vciigcndo  che  se  uno  noceva  al  suo  benefattore,  ne 
veniva  odio  e  compas<iione  intra  gli  uomini,  biasimandoli  in- 
grati ed  onorando  quelli  che  fussero  grati,  e  pensando  an- 
Cora  che  quelle  medesime  ingiurie  potevano  esser  fatte  a 
loro;  per  fuzgire  simile  male,  sì  riducevano  a  fare  leggi,  or- 
dinare punizioni  a  chi  centra  facesse:  donde  venne  la  co- 
gnizione della  giustizia.  La  qual  cosa  faceva  che  avendo  dipoi 
ad  eleggere  un  principe,  non  andavano  dietro  al  più  ga- 
gliardo, ma  a  quello  che  fussi  più  prudente  e  più  giusto.  Ma 
come  dipoi  si  cominciò  a  fare  il  principe  per  successione,  e 
non  per  elezioite,  subito  cominciorno  li  eredi  a  degene- 
rare dai  loro  antichi;  e  lasciando  l'opere  virtuose,  pensa- 
vano che  i  principi  non  avessero  a  fare  altro  che  superare 
li  altri  di  sontuosità  e  di  lascivia  e  d*ogni  altra  qualità 
deliziosa:  in  modo  che,  cominciando  il  principe  ad  essere 
odiato,  e  per  tale  odio  a  temere,  e  passando  tosto  dal  ti- 


LIBRO    PRIMO.  93 

more  all' offese,  ne  nasceva  presto  una  tirannide.  Da  questo 
nacquero  appresso  i  principii  delle  rovine,  e  delle  conspira- 
zioni  e  congiure  centra  i  principi  ;  non  fatte  da  coloro  che 
fussero  o  timidi  o  deboli,  ma  da  coloro  che  per  generosità, 
grandezza  d'animo,  ricchezza  e    nobiltà,   avanzavano   gli 
altrj;  i  quali  non  potevano  sopportare  la  inonesta  vita  di  quel 
principe.  La  moltitudine,  adunque,  seguendo  l'autorità  di 
questi  potenti,  si  armava  contra  al  principe,  e  quello  spento, 
ubbidiva  loro  come  a  suoi  liberatori.  E  quelli,  avendo  in  odio 
il  nome  d'uno  solo  capo,  constituivano  di  loro  medesimi  un  , 
governo;  e  nel  principio,  avendo  rispetto  alla  passata  tiran-  \ 
nidO;  si  governavano   secondo  le  leggi  ordinate  da  loro,    r 
posponendo  ogni  loro  comodo  alla  comune  utilità  ;  e  le  cose    1 
private  e  le  pubbliche  con  somma  dili'genzia  governavano  e    | 
conservavano.  Venuta  dipoi  questa  amministrazione  ai  loro    / 
figliuoli,  i  quali,  *  non  conoscendo  la  variazione  della  fortuna,    , 
non  avendo  mai  provato  il  male,  e  non  volendo  stare  cou- 
tenti alla  civile  equalità,  ma  rivoltisi  alla  avarizia,  alla  am- 
bizione, alla  usurpazione  delle  donne,  feciono  che  d'uno  go- 
verno d'Ottimati  diventassi  un  governo  di  pochi,  senza  avere 
rispetto  ad  alcuna  civiltà  :  tal  che  in  breve  tempo  intervenne 
loro  come  al  tiranno  ;  perché  infastidita  da*  loro  governi  la 
moltitudine,  si  fé  ministra  di  qualunque  disegnassi  in  alcun 
modo  offendere  quelli  governatori  ;  e  cosi  si  levò  presto  al- 
cuno che,  con  l'aiuto  della  moltitudine,  li  spense.  Ed  essendo 
ancora  fresca  la  memoria  del  principe  e  delle  ingiurie  ri- 
cevute da  quello,  avendo  disfatto  lo  stato  de' pochi  e  non 
volendo  rifare  quel  del  principe,  si  volsero  allo  stato  popo- 
lare; e  quello  ordinarono  in  modo,  che  né  i  pochi  potenti, 
né  uno  principe  vi  avesse  alcuna  autorità.  E  perchè  tutti  gli 
stati  nel  principio  hanno  qualche  reverenza,  si  mantenne 
questo  slato  popolare  un  poco,  ma  non  mollo,  massime  spenta 
che  fu  quella  generazione  che  l'aveva  ordinato;  perchè  su-     ^ 
bito  si  venne  alla  licenzia,  dove  non  si  temevano  né  li  uomini     \ 
privati  né  i  pubblici  ;  di  qualità  che,  vivendo  ciascuno  a  suo      \ 
modo,  si  facevano  ogni  dì  mille  ingiurie:  talché,  costretti  per 

*  A  volere  che  il  senso  non  rimanesse  in  sospeso,  dovrebbe  leggersi  onesti 
0  costoro. 


94  DEI    DISCORSI 

necessità,  o  per  saggeslione  d'  alcuno  buono  uomo,  o  per 
fuggire  tale  licenzia,  si  rilorna  di  nuovo  al  principato  ;  e  da 
quello,  di  grado  in  grado,  si  riviene  verso  la  licenzia,  ne'  modi 
e  per  le  cagioni  dette.  E  questo  è  il  cerchio  nel  quale  gi- 
rando tutte  le  repubbliche  si  sono  governate,  e  si  gover- 
nano: ma  rade  volle  ritornano  ne' soveroi  medesimi;  per- 
chè quasi  nessuna  repubblica  può  essere  di  tanta  vita,  che 
possa  passare  molle  volte  per  queste  mutazioni,  e  rimanere 
in  piede.  Ma  bene  interviene  che,  nel  travagliare,  una  repub- 
blica, mancandoli  sempre  consiglio  e  forze,  diventa  suddita 
d'uno  stalo  propìnquo,  che  sia  meglio  ordinato  di  lei  :  ma 
dato  che  questo  non  fusse,  sarebbe  alla  una  repubblica  a 
rigirarsi  infinito  tempo  in  questi  governi.  Dico,  adunque,  che 
tutti  i  detti  modi  sono  pestiferi,  per  la  brevità  della  vita  che 
è  ne*  Ire  buoni,  e  per  la  malignità  che  è  ne'  tre  rei.  Talché, 
avendo  quelli  che  prudentemente  ordinano  leggi,  conosciuto 
questo  difetto,  fuggendo  ciascuno  di  questi  modi  per  se 
stesso,  n'elessero  uno  che  pafticipnsse  di  tulli,  giudicandolo 
più  fermo  e  più  stabile;  perchè  l'uno  guarda  l'altro,  scudo  in 
una  medesima  città  il  Principato,  li  Oilimnti,  ed  il  Governo 
Popolare.  Intra  quelli  che  hanno  per  simili  consliluzioni 
meritalo  più  laude,  è  Licur::o;  il  quale  ordinò  in  modo  le  sue 
leggi  in  Sparla,  che  dando  le  parli  sue  ai  He,  agli  Ottimati 
e  al  Popolo,  fece  uno  stalo  che  durò  più  che  ottocento  anni, 
con  somma  |ju<le  sua,  e  quiete  di  quella  città.  Al  contrario 
intervenne  a  Solone,  il  quale  ordinò  le  leggi  in  Alene;  che 
per  ordinarvi  solo  lo  slato  popolare,  lo  fece  di  si  breve  vita, 
che  avanti  morisse  vi  vide  nata  la  tirannide  di  Pisislrato:  e 
benché  dipoi  anni  quaranta  ne  fussero  cacciati  gli  suoi  eredi, 
e  ritornasse  Atene  in  libertà,  perché  la  riprese  lo  slato  po- 
polare, secondo  gli  ordini  di  Solone;  non  lo  tenne  più  che 
cento  anni,  ancora  che  per  mantenerlo  facesse  molte  con- 
sliluzioni, per  le  quali  si  reprimeva  la  insolenzia  de' grandi 
e  la  licenzia  dell'universale,  le  quali  non  furon  da  Solone 
considerate:  nientedimeno,  perchè  la  non  le  mescolò  con  la 
potenzia  del  Principato  e  con  quella  delli  Ottimati,  visse 
Atene,  a  rispetto  di  Sparta,  brevissimo  tempo.  Ma  vegniamo 
a  Koma;  la  quale  nonoslante  che  non  avesse  uno  Licurgo 


LICRO    PRIMO.  95 

che  la  ordinasse  in  modo,  nel  principio,  che  la  pofesse  vìvere 
lungo  lampo  libera,  nondimeno  furon  lanti  gli  accidenti  che 
in  quella  nacquero,  per  la  disunione  che  era  inlra  la  Plebe 
ed  il  Senato,  che  quello  che  non  aveva  fatto  uno  ordinatore, 
lo  fece  il  caso.  Perchè,  se  Roma  non  sorti  la  prima  fortuna, 
sortì  la  seconda  ;  perchè  i  primi  ordini  se  furono  defettivi, 
nondimeno  non  deviarono  dalia  diritta  via  che  li  potesse 
condurre  alla  perfezione.  Perchè  Romolo  e  lutti  gli  altri  Re 
fecero  molte  e  buone  le^^gi,  conformi  ancora  al  vivere  libero: 
ma  perchè  il  fine  loro  fu  fondare  un  regno  e  non  una  repub- 
blica, quando  quella  città  rimase  libera,  vi  mancavano  molte 
cose  che  era  necessario  ordinare  in  favore  della  libertà,  le 
quali  non  erano  state  da  quelli  Re  ordinate.  E  avvegnaché 
quelli  suoi  Re  perdessero  l'imperio  per  le  casioni  e  modi 
discorsi  ;  nondimeno  quelli  che  li  cacciarono,  ordinandovi  su-  |- 
bito  duoi  Consoli,  che  stessino  nel  luogo  del  Re,  vennero  a| 
cacciare  di  Roma  il  nome,  e  non  la  potestà  regia:  làiche,  I 
essendo  in  quella  Repubblica  i  Consoli  ed  il  Senato,  veniva 
solo  ad  esser  mista  di  due  qualità  delle  Ire  soprascritte; 
cioè  di  Principato  e  di  Ottimati.  Reslavali  solo  a  dare  luogo 
al  Governo  Popolare  :  onde,  essendo  diventala  la  Nobiltà  ro- 
mana insolente  per  le  casioni  che  di  sotto  si  diranno,  si 
levò  il  Popolo  contro  di  quella;  talché,  per  non  perdere  il 
tutto,  fu  costretta  concedere  al  Popolo  la  sua  parte;  e,  dall'al- 
tra parte,  il  Senato  e  i  Consoli  reslassino  con  lar»ta  autorità, 
che  potessino  tenere  in  quella  Repubblica  il  grado  loro.  E 
così  nacque  la  creazione  de'  Tribuni  della  plebe  ;  dopo  la 
quuie  creazione  venne  a  essere  più  stabilito  lo  stato  di  quella 
Repubblica,  avendovi  tutte  le  tre  qualità  di  governo  la  parte 
^spa.  E  tanto  li  fu  fiivorevole  la  fortuna,  che  benché  si  pas- 
sasse dal  governo  de'  Re  e  delti  Ollimali  al  Popolo,  per  quelli 
medesimi  gradi  e  per  quelle  medesime  caiiioni  che  di  sojjra  si 
sono  discorse;  nondimeno  non  si  tolse  mai,  per  dare  autorità 
alli  Ottimati,  lotta  V  autorità  alle  qualità  regie;  né  si  diminuì 
l'autorità  in  tutto  alli  Ottimati,  per  darla  al  Po[)(»Io  ;  ma  ri- 
manendo mista,  fece  una  reiìubhlica  perfetta:  alla  quale  per- 
fezione venne  per  la  disunione  della  plebe  e  del  Senato,  come 
nei  duoi  prossimi  seguenti  capitoli  largarpeiUe  si  dimostrerà. 


96  DEI  DISCORSI 

Cap.  III.  —  Quali  accidenti  facemno  creare  in  Koma  i  Tribuni 
della  plebe  ;  il  che  fece  la  Repubblica  più  per  fella. 

Come  dimostrano  talli  coloro  che  ragionano  del  vivere 
civile,  e  come  ne  è  piena  di  esempi  ogni  istoria,  é  necessa» 
rio  a  chi  dispone  una  repubblica,  ed  ordina  leggi  in  qaella, 
presupporre  tutti  gli  uomini  essere  cattivi,  e  che  li  abbino 
sempre  ad  usare  la  malignità  dello  animo  loro,  qualunche 
volta  ne  abbino  libera  occasione:  e  quando  alcuna  malignità 
sta  occulta  un  tempo,  procede  da  una  occulta  cagione,  che, 
per  non  si  essere  veduta  esperienza  del  contrario,  non  si  co- 
nosce; ma  la  fa  poi  scoprire  *  il  tempo,  il  quale  dicono  essere 
padre  d'ogni  verità.  Pareva  che  fusse  in  Roma  intra  la  Plebe 
ed  il  Senato,  cacciati  i  Tarquini,  una  unione  grandissima; 
e  che  i  Nobili  avessino  deposta  quella  loro  superbia,  e  rus- 
sino diventati  d'animo  popolare,  e  sopportabili  da  qualunche, 
ancora  che  infimo.  Stelle  nascoso  questo  insanno,  né  se  ne 
vide  la  cagione,  infino  che  i  Tarquini  vissono;  de' quali  te- 
mendo la  Nobiltà,  ed  avendo  paura  che  la  Plebe  mal  Iraltala 
non  si  accostasse  loro,  si  portava  umanamente  con  quella: 
ma  come  prima  furono  morti  i  Tarquini,  e  che  a' Nobili  fu 
la  paura  fuggita,  cominciarono  a  sputare  contfa  alla  Plebe 
quel  veleno  che  si  avevano  tenuto  nel  petto,  ed  in  tutti  i 
modi  che  potevano  la  otTendevano:  la  qual  cosa  fa  testimo- 
nianza a  quello  che  di  sopra  ho  detto,  che  gli  uomini  non 
operano  mai  nulla  bene,  se  non  per  necessità;  ma  dove  la 
elezione  abbonda,  e  che  vi  si  può  usare  licenzia,  si  riempie 
subilo  ogni  cosa  di  confusione  e  di  disordine.  Però  si  dice 
che  la  fame  e  la  povertà  fa  gli  uomini  industriosi,  e  le 
leggi  gli  fanno  buoni.  E  dove  una  cosa  per  sé  medesima 
senza  la  leege  opera  bene,  non  è  necessaria  la  legse;  ma 
quando  quella  buona  consuetudine  manca,  è  sùbito  la  legge 
necessaria.  Però,  mancati  i  Tarquini,  che  con  la  paura  di 
loro  tenevano  la  Nobiltà  a  freno,  convenne  pensare  a  uno 
lìuuvo  ordine  che  facessi  quel  medesimo  eflTetto  che  face- 
vano  i  Tarquini  quando  erano  vivi.  E  però,  dopo  molle  con- 

*  La  Bladiana  :  scoperire. 


LIBRO   PRIMO.  97 

fusioni,  roraori  e  pericoli  di  scandali,  che  nacquero  intra  la 
Plebe  e  la  Nobiltà,  si  venne  per  sicurtà  della  Plebe  alla  crea- 
zione de'Tribuni;  e  quelli  ordinarono  con  (ante  preminenze 
e  tanta  riputazione,  che  polessino  essere  sempre  di  poi 
mezzi  intra  la  Plebe  e  il  Senato,  e  ovviare  alla  insolenzia 
de' Nobili. 

Gap.  IV.  —  Che  la  disunione  della  Plebe  e  del  Senato  romano 
fece  libera  e  polente  quella  Repubblica. 

Io  non  voglio  mancare  di  discorrere  sopra  questi  tu- 
multi che  furono  in  Roma  dalla  morte  de'Tarquini  alla  crea- 
zione de'Tribuni;  e  di  poi  alcune  cose  contro  la  oppinione  di 
molli  che  dicono,  Roma  esser  slata  una  repubblica  tumul- 
tuaria, e  piena  di  tanta  confusione,  che  se  la  buona  fortuna 
e  la  virlù  militare  non  avesse  supplito  a'ioro  difetti,  sarebbe 
stata  inferiore  ad  ogni  altra  repubblica.  Io  non  posso  negare 
che  la  fortuna  e  la  milizia  non  fussero  cagioni  dell'imperio 
romano;  ma  e'mi  pare  bene,  che  costoro  non  si  avvegghino, 
che  dove  è  buona  milizia,  conviene  che  sia  buono  ordine,  e 
rade  volle  anco  occorre  che  non  vi  sia  buona  fortuna.  Ma 
vegnamo  alli  allri  particolari  di  quella  città.  Io  dico  che  co- 
loro che  dannano  i  tumulti  intra  i  Nobili  e  la  Plebe,  mi  pare 
che  biasimino  quelle  cose  che  furono  prima  cagione  di  te- 
nere libera  Roma  ;  e  che  considerino  più  a'  romori  ed  alle 
grida  che  di  tali  tumulti  nascevano,  che  a'buoni  effetti  che 
quelli  partorivano:  e  che  non  considerino  come  e' sono  in 
ogni  repubblica  duci  umori  diversi,  quello  del  popolo,  e 
quello  de'grandi;  e  come  tulle  le  leggi  che  si  fanno  in  fa- 
vore della  libertà,  nascono  dalla  disunione  loro,  come  facil- 
mente si  può  vedere  essere  segiiilo  in  Roma:  perchè  da'Tar- 
quini  ai  Gracchi,  che  furono  più  di  trecento  anni,  i  tumulti 
di  Roma  rade  volte  partorivano  esilio,  radissimo  sangue. 
Né  si  possono,  per  tanto,  giudicare  questi  tumulti  nocivi,  né  [ 
una  repubblica  divisa,  che  in  lanlo  tempo  per  le  sue  diffe- 
renze non  mandò  in  esilio  più  che  olio  o  dieci  cittadini,  e 
ne  aramazzò  pochissimi,  e  non  molti  ancora  condennò  in 
danari.  Né  si  può  chiamare  in  alcun  modo,  con  ragione,  una 


08  DEI  DISCORSI 

repubblica  inordinata,  dove  siano  tanti  esempi  di  virtù;  per- 
chè li  baoni  esempi  nascono  dalla  buona  educazione;  la  buona 
educazione  dalle  buone  leggi;  e  le  buone  leggi  da  quelli  lu- 
mulli  che  molli  inconsideralamenle  dannano:  perchè  chi 
esaminerà  bene  il  fìne  d'essi,  non  troverà  ch'egli  abbino 
partorito  alcuno  esilio  o  violenza  in  disfavore  del  comune 
bene,  ma  leggi  ed  ordini  in  benefìzio  della  pubblica  libertà. 
E  se  alcuno  dicesse:  i  modi  erano  straordinari,  e  quasi  eflTc- 
rati,  vedere  il  Popolo  insieme  gridare  contra  il  Senato,  il 
Senato  contra  il  Popolo,  correre  tumultuariamente  per  le 
strade,  serrare  le  botteghe,  partirsi  tutta  la  Plebe  di  Roma, 
le  quali  tutte  cose  spaventano,  non  che  altro,  chi  legge; 
dico  come  ogni  città  debbe  avere  i  suoi  modi  con  i  quali  il 
popolo  possa  sfogare  l'ambizione  sua,  e  massime  quelle 
cittadi  che  nelle  cose  importanti  si  vogliono  valere  del  po- 
polo: intra  le  quali  la  città  di  Roma  aveva  questo  modo,  che 
quando  quel  Popolo  voleva  ottenere  una  legge ,  o  e'  faceva 
alcuna  delle  predette  cose,  o  e* non  voleva  dare  il  nome  per 
andare  alla  guerra,  tanto  che  a  placarlo  bisognava  in  qual- 
che parte  satisfarli.  E  i  desiderii  de' popoli  liberi,  rade 
volte  sono  peroiziosi  alla  libertà,  perchè  e' nascono  o  da 
essere  oppressi,  o  da  suspìzione  di  avere  a  essere  oppressi. 
E  quando  queste  oppinìoni  fussero  false,  e*  vi  è  il  rimedio 
delle  concioni,  che  surga  qualche  uomo  da  bene,  che,  orando, 
dimostri  loro  come  e*  s' ingannano:  e  li  popoli,  come  dice 
Tullio,  benché  siano  ignoranti,  sono  capaci  della  verità,  e 
facilmente  cedono,  quando  da  uomo  degno  di  fede  è  detto 
loro  il  vero.  Debbesi,  adunque,  più  parcamente  biasimare 
il  governo  romano,  e  considerare  che  tanti  buoni  cfTelti 
qnanti  uscivano  di  quella  repubblica,  non  erano  causati  se 
non  da  ottimo  cagioni.  E  se  i  tumulti  furono  cagione  della 
creazione  de' Tribuni,  meritano  somma  laude;  perchè,  olire 
al  dare  la  parte  sua  all'amministrazione  popolare,  furono 
constituili  per  guardia  della  libertà  romana,  come  nel  se- 
guente capitolo  si  mostrerà. 


LIBRO   PRIMO.  99 

Cap.  V.  —  Dove  più  securamenie  si  ponga  la  guardia  della 
libertà,  o  nel  Popolo  a  ne'  Grandi;  e  quali  hanno  mag- 
giore cagione  di  lumuUuare,  o  chi  vuole  acquistare  o  chi 
vuole  mantenere. 

Quelli  che  prudentemente  hanno  constiluìla  una  repub- 
blica, intra  le  più  necessarie  cose  ordinale  da  loro,  è  stalo 
consliluire  una  guardia  alla  libertà:  e  secondo  che  questa 
è  bene  collocala,  dura  più  o  meno  quel  vivere  libero.  E  per- 
chè in  ogni  repubblica  sono  uomini  grandi  e  popolari,  si  è 
dubitato  nelle  mani  di  quali  sia  meglio  collocala  della  guar- 
dia. Ed  appresso  i  Lacedemoni,  e,  ne'noslri  tempi,  appresso 
de* Viniziani,  la  è  stata  messa  nelle  mani  de* Nobili;  ma 
appresso  de' Romani  fu  messa  nelle  mani  della  Plebe.  Per 
tanto,  è  necessario  esaminare,  quale  di  queste  repubbliche 
avesse  migliore  elezione.  E  se  si  andassi  dietro  alle  ragioni, 
ci  è  che  dire  da  ogni  parte:  ma  se  si  esaminassi  il  fine  loro, 
si  piglierebbe  la  parie  de' Nobili,  per  aver  avuta  la  libertà 
di  Sparla  e  di  Vinegia  più  lunga  vita  che  quella  di  Roma. 
E  venendo  alle  ragioni,  dico,  pigliando  prima  la  parte  de'Ro-  \ 
mani,  come  e'  si  debbe  mettere  in  guardia  coloro  d'  una  co- 
sa, che  hanno  meno  appelilo  di  usurparla.  E  senza  dubbio,  i 
se  si  considera  il  fine  de' nobili  e  delli  ignobili,  si  vedrà  in 
quelli  desiderio  grande  di  dominare,  ed  in  questi  solo  de- 
siderio di  non  essere  dominati;  e,  per  conseguente,  maggiore 
volontà  di  vivere  liberi,  polendo  meno  sperare  d'usurparla 
che  non  possono  li  grandi:  talché,  essendo  i  popolani  pre- 
posti a  guardia  d'una  libertà,  è  ragionevole  ne  abbino  più 
cura;  e  non  la  potendo  occupare  loro,  non  permeltino  che 
altri  la  occupi.  Dall'altra  parte,  chi  difende  l'ordine  spar- 
tano e  veneto,  dice  che  coloro  che  mettono  la  guardia  in 
mano  de' polenti,  fanno  due  opere  buone:  l' una,  che  satis- 
fanno più  all'ambizione  di  coloro  che  avendo  più  parie  nella 
repubblica,  per  avere  questo  bastone  in  mano,  hanno  ca- 
gione di  contentarsi  più;  l'allra,  che  lievano  una  qualità  di 
autorità  dagli  animi  inquieti  della  plebe,  che  è  cagione  d'in- 
finite dissensioni  e  scandali  in  una  repubblica,  e  alta  a  ri- 


iOO  DEI  DISCORSI 

durre  la  nobiltà  a  qualche  disperazione,  che  col  tempo  faccia 
]  callivi  efletli.  E  ne  danno  per  esempio  la  medesima  Roma, 
che  per  avere  i  Tribuni  della  plebe  questa  autorità  nelle 
mani,  non  bastò  loro  aver  un  Consolo  pleheio,  che  gli  vol- 
lono  avere  ambedue.  Da  questo,  e'vollono  la  Censura,  il  Pre- 
tore, e  tulli  li  altri  gradi  dell'imperio  della  città:  nò  basiò 
loro  questo,  che  menati  dal  medesimo  furore,  corainciorno 
poi,  col  tempo,  a  adorare  quelli  uomini  che  vedevano  atti  a 
battere  la  Nobiltà;  donde  nacque  la  potenza  di  Mario,  e  la 
roTina  di  Roma.  E  veramente,  chi  discorresse  bene  V  una 
rosa  e  1*  altra,  potrebbe  stare  dubbio,  quale  da  lui  fosse 
eletto  per  guardia  di  tale  libertà,  non  sa|>endo  quale  qualità 
d'uomini  sia  più  nociva  in  una  repubblica,  o  quella  che  de- 
sidera acquistare  quello  che  non  ha,  o  quella  che  desidera 
mantenere  Tenore  già  acquistato.  Ed  in  fine,  chi  sottilmente 
esaminerà  lutto,  ne  farà  questa  conclusione:  o  tu  ragioni 
d'una  repubblica  che  vogli  fare  uno  imperio,  come  Roma; 
o  d'una  che  li  basti  mantenersi.  Nel  primo  caso,  i^li  è  ne- 
cessario fare  ogni  cosa  come  Roma;  nel  secondo,  può  imitare 
Vinegla  e  Sparla  per  quelle  cagioni,  e  come  nel  seguente 
capitolo  si  dirà.  Ma,  per  tornare  a  discorrere  quali  uomini 
siano  in  una  repubblica  più  nocivi,  o  quelli  che  desiderano 
d'acquistare,  o  quelli  che  temono  di  perdere  lo  acquistato; 
dico  che,  sendo  fatto  Marco  Mcnennio  dittatore,  e  Marco 
Fulvio  maestro  de* cavalli,  tutti  duoi  plebei,  per  ricercare 
certe  congiure  che  si  erano  fatte  in  Capeva  contro  a  Roma, 
fu  dato  ancora  loro  autorità  dal  Popolo  di  potere  ricercare 
chi  in  Roma  per  ambizione  e  modi  straordinari  s'ingegnasse 
di  venire  al  consolato,  ed  agli  altri  onori  della  città.  E  pa- 
rendo alla  Nobiltà,  che  tale  autorità  fusse  data  al  Dittatore 
contro  a  lei,  sparsero  per  Roma,  che  non  i  nobili  erano 
quelli  che  cercavano  gli  onori  per  ambizione  e  modi  straor- 
dinari, ma  gl'isnobili,  i  quali,  non  confidatisi  nel  sangue  e 
nella  virtù  loro,  cercavano  per  vie  straordinarie  venire  a 
quelli  gradi;  e  particolarmente  accusavano  il  Dittatore.  E 
•tanto  fu  potente  questa  accusa,  che  Slcnennio,  fatta  una  con- 
clone  e  dolutosi  delle  calunnie  dategli  da'Nobili,  depose  la 
dittatura,  e  sottomessesi  al  giudizio  che  di  lui  fussi  fatto  dal 


LlliilO   PRIMO.  401 

Popolo  ;  e  dipoi,  agitala  la  causa  sua,  ne  fu  assoluto  :  dove  si 
disputò  assai,  quale  sia  più  ara!)izioso,  o  quel  che  vuole  man- 
tenere 0  quel  che  vuole  acquistare  ;  perché  facilmente  l'uno 
e  l'altro  appetito  può  essere  cagione  di  tumulti  grandissimi. 
Pur  nondimeno,  il  più  delle  volte  sono  causati  da  chi  pos- 
siede, perchè  la  paura  del  perdere  genera  in  loro  le  mede- 
sime voglie  che  sono  in  quelli  che  desiderano  acquistare  ; 
perchè  non_ji»re  agli  uomini  possedere  sicuramente  quello 
che  l'uomo  ha,  se  non  si  acquista  di  nuovo  dell'altro.  E  di 
più~vrè,  che  possedendo  molto,  possono  con  maggior  po- 
tenzia e  maggiore  moto  fare  alterazione.  Ed  ancora  vi  è  di 
più,  cheli  loro  scorretti  e  ambiziosi  portamenti  accendono 
ne' petti  di  chi  non  possiede  voglia  di  possedere,  o  per  ven- 
dicarsi contro  di  loro  spogliandoli,  o  per  potere  ancora  loro 
entrare  in  quella  ricchezza  e  in  quelli  onori  che  veggono 
essere  male  usati  dagli  altri. 

Cap.  VF. —  Se  in  Roma  si  poteva  ordinare  uno  stalo  che  togliesse 

via  le  inimicizie  intra  il  Popolo  ed  il  Senato. 

'.'>3o.j  'ti 

Noi  abbiamo  discorsi  di  sopra  gli  effetti  che  facevano  le 
controversie  intra  il  Popolo  ed  il  Senato.  Ora,  sendo  quelle  se- 
guitale in  fino  al  tempo  de'Gracchi,  dove  furono  cagione  della 
rovina  del  vivere  libero,  potrebbe  alcuno  desiderare  che 
Roma  avesse  fatti  gli  effetti  grandi  che  la  fece,  senza  che 
in  quella  fussino  tali  inimicizie.  Però  mi  è  parso  cosa  degna 
di  considerazione,  vedere  se  in  Roma  si  poteva  ordinare 
uno  slato  che  togliesse  via  dette  controversie.  Ed  a  volere 
esaminare  questo,  è  necessario  ricorrere  a  quelle  repubbli- 
che le  quali  senza  tante  inimicizie  e  tumulti  sono  state 
lungamente  libere,  e  vedere  quale  stato  era  il  loro,  e  se  si 
poteva  introdurre  in  Roma.  In  esempio  tra  li  antichi  ci  è 
Sparta,  tra  i  moderni  Vinegia,  stale  da  me  di  sopra  nomi- 
nale. Sparla  fece  uno  Re,  con  un  picciolo  Senato,  che  la  go- 
vernasse. Vinegia  non  ha  diviso  il  governo  con  i  nomi;  ma, 
sotto  una  appellazione,  lutti  quelli  che  possono  avere  ammi- 
nistrazione si  chiamano  Gentiluomini.  II  quale  modo  lo  dette 
il  caso,  più  che  la  prudenza  di  chi  delle  loro  le  leggi  :  perchè. 


i02  DEI   DISCORSI 

seodosi  rìdoUi  in  su  quelli  scogli  dove  è  ora  quella  cillà,  per 
le  cagioni  delle  di  sopra,  molli  abilalori  ;  come  furon  cre- 
sciuti in  tanto  numero,  che  a  volere  vivere  insieme  biso- 
gnasse loro  far  leggi,  ordinorono  una  forma  di  governo;  e 
convenendo  spesso  insieme  ne' consigli  a  deliberare  della 
città,  quando  parve  loro  essere  tanti  che  fussero  a  sufficienza 
ad  un  vivere  politico,  *  chiusone  la  via  a  tulli  quelli  altri 
che  vi  venissino  ad  abitare  di  nuovo,  di  potere  convenire 
ne'  loro  governi  ;  e,  col  tempo,  trovandosi  in  quel  luogo  assai 
abitatori  fuori  del  governo,  per  dare  riputazione  a  quelli  che 
governavano,  gli  chiamarono  Gentiluomini,  e  gli  altri  Po- 
polani. Potette  questo  modo  nascere  e  mantenersi  senza  tu- 
multo, perchè  quando  e' nacque,  qualunque  allora  abitava  in 
Yinegia  fu  fallo  del  governo,  di  modo  che  nessuno  si  poteva 
dolere  ;  '  quelli  che  dipoi  vi  vennero  ad  abitare,  trovando  lo 
stato  fermo  e  terminalo,  non  avevano  cagione  né  comodità  dì 
fare  (amulto.  La  cagione  non  v'  era,  perchè  non  era  stalo  loro 
tolto  cosa  alcuna:  la  comodità  non  v'era,  perchè  chi  reg- 
geva gli  teneva  in  freno,  e  non  gli  adoperava  in  cose  dove 
e'  potessino  pigliare  autorità.  Oltre  di  questo,  quelli  che  dipoi 
venoono  ad  abitare  Yinegia,  non  sono  stati  molti,  e  di  tanto 
numero,  che  vi  sia  disproporzione  da  chi  gli  governa  a  loro 
che  sono  governati  ;  perchè  il  numero  de'  Gentiluomini  o  egli 
è  eguale  a  loro,  o  egli  è  superiore:  sicché,  per  queste  cagioni, 
Yinegia  polette  ordinare  quello  stato,  e  mantenerlo  unito. 
Sparta,  come  ho  detto,  essendo  governala  da  un  Ke  e  da 
uno  stretto  Senato,  potette  mantenersi  cosi  lungo  tempo, 
perchè  essendo  in  Sparla  pochi  abitatori,  ed  avendo  tolta  la 
via  a  chi  vi  venisse  ad  abitare,  ed  avendo  prese  le  leggi  di 
Licurgo  con  reputazione,  le  quali  osservando,  levavano  via 
tutte  le  cagioni  de' tumulti,  poterono  vivere  uniti  lungo 
tempo  :  perchè  Licurgo  con  le  sue  leggi  fece  in  Sparta  più 
equalità  di  sustanze,  e  meno  equalità  di  grado;  perchè  quivi 
era  una  eguale  povertà,  ed  i  plebei  erano  manco  ambiziosi, 
perché  i  gradi  della  città  si  distendevano  in  pochi  cittadini, 

*  Mcn  bene  la  Testina,  e  più  altre  edizioni:  pubblico. 
'  Il  Machiavelli  sembra  scambiare  la  primitiva  aristocraxia  dei  Veneti  col 
più  rtcenle  e  maraNigtioso  allo  politico,  che  si  chiamo  Serrala  del  gran  Consiglio. 


LIDRO    PRIMO.  iOo 

ed  erano  tenuti  discosto  dalla  plebe,  né  gli  nobili  col  trat- 
targli male  dettero  mai  loro  desiderio  di  avergli.  Questo 
nacque  dai  Re  spartani,  i  quali  essendo  collocati  in  quel  prin- 
cipato e  posti  in  mezzo  di  quella  nobiltà,  non  avevano  mag- 
giore rimedio  a  tenere  fermo  la  loro  degnila,  che  tenere  la 
plebe  difesa  da  ogni  ingiuria:  il  che  faceva  che  la  plebe  non 
temeva,  e  non  desiderava  imperio  ;  e  non  avendo  imperio  né 
temendo,  era  levata  via  la  gara  che  la  potessi  avere  con  la 
nobiltà,  e  la  cagione  de' tumulti;  e  poterono  vivere  uniti 
lungo  tempo.  Ma  due  cose  principali  causarono  questa  unio- 
ne :  runa  esser  pochi  gli  abitatori  di  Sparta,  e  per  questo 
poterono  esser  governali  da  pochi;  l'altra,  che  non  accet- 
tando forestieri  nella  loro  repubblica,  non  avevano  occasione 
né  di  corrompersi,  né  di  crescere  in  tanto  che  la  fusse  in- 
sopportabile a  quelli  pochi  che  la  governavano.  Considerando 
adunque  tutte  queste  cose,  si  vede  come  a' legislatori  di 
Roma  era  necessario  fare  una  delle  due  cose,  a  volere  che  , 

Roma  stessi  quieta  come  le  sopraddette  repubbliche:  o  non      %^4*^  ^ 
adoperare  la  plebe  in  guerra,  come  i  Viniziani  ;  o  non  aprire    ,    y.  /^ 
la  via  a'  forestieri,  come  gli  Spartani.  E  loro  feceno  1'  una  e 
l'altra;  il  che  dette  alla  plebe  forza  ed  augumento,  ed  infi- 
nite occasioni  di  tumultuare.  £  se  lo  stato  romano  veniva  ad 
essere  più  quieto,  ne  seguiva  questo  inconveniente,  ch'egli        w^' 
era  anco  più  debile,  perchè  gli  si  troncava  la  via  di  potere      '"^ 
venire  a  quella  grandezza  dove  ei  pervenne:  in  modo  che     -^  r^ 
volendo   Roma   levare  le  cagioni  de'  tumulti,  levava  anco        y<v 
le  cagioni  dello  ampliare.  Ed  in  tutte  le  cose  umane  si  vede    \    < 
questo,  chi  le  esaminerà  bene:  che  non  si  può  mai  cancel-  /  ^*^zi 
lare  uno  inconveniente,  che  non  ne  surga  un  altro.  Per  tanto,     {.  C**^ 
se  tu  vuoi  fare  un  popolo  numeroso  ed  armalo  per  potere        £^ 
fare  un  grande  imperio,  lo  fai  di  qualità  che  tu  non  lo  puoi    *^   .  e 
poi  *  maneggiare  a  tuo  modo:  se  tu  lo  mantieni  o  piccolo  o    it#i^ 
disarmalo  per  potere  maneggiarlo,  se  egli  acquista  dominio,   ,      \^, 
non  lo  puoi  tenere,  o  diventa  sì  vile,  che  tu  sei  preda  di  qua-  ^' 
lunche   ti   assalta.  E  però,  in  ogni  nostra  deliberazione  si     ti*^^ 
debbe  considerare  dove  sono  meno  inconvenienti,  e  pigliare    ^  ^v^ 
quello  per  migliore  partito:  perché  tutto  netto,  lutto  senza     j    .  / ,x 

<  Cosi ,  ni;  può  essere  arbitrio  di  editori ,  nella  Bladiana.  Nelle  altre  :  dopo,  .,|  Jt   *  ^ 


J^^y^ 


i04  DEI   DISCORSI 

sospello  non  si  Irova  mai.  Poteva,  adunque,  Roma  a  similitu- 
dine di  Sparta  fare  un  Principe  a  vita,  fare  un  Senato  |.ic- 
colo;  raa  non  poteva,  come  quella,  non  crescere  il  numero 
de' cittadini  suoi,  volendo  fare  un  grande  imperio:  il  che 
faceva  che  il  Re  a  vita  ed  il  picciol  numero  del  Senato, 
quanto  alla  unione,  gli  sarebbe  giovato  poco.  Se  alcuno  vo- 
lesse, per  tanto,  ordinare  una  repubblica  di  nuovo,  arebbe  a 
esaminare  se  volesse  ch'ella  ampliasse,  come  Homa,  di  do- 
minio e  di  potenza,  ovvero  ch'ella  stesse  dentro  a  brevi  ter- 
mini. Nel  primo  caso,  è  necessario  ordinarla  come  Roma,  e 
dare  luogo  a' tumulti  e  alle  dissensioni  universali,  il  meglio 
che  si  può;  perchè  senza  gran  numero  di  uomini,  e  bene 
armali,  non  mai  una  repubblica  potrà  crescere,  o  se  la  cre- 
scerà, mantenersi.  Nel  secondo  caso,  la  puoi  ordinare  come 
Sparta  e  come  Vinegia  :  ma  perchè  l' ampliare  è  il  veleno  di 
simili  repubbliche,  debbe,  in  latti  quelli  modi  che  si  può, 
chi  le  ordina  proibire  loro  lo  acquistare;  perchè  tali  acquisti 
fondati  sopra  una  repubblica  debole,  sono  al  tutto  la  rovina 
803.  Come  intervenne  a  Sparta  ed  a  Vinegia:  delle  quali  la 
prima  avendosi  sottomessa  quasi  tutta  la  Grecia,  mostrò  in 
su  ano  minimo  accidente  il  debole  fondamento  suo;  perchè, 
seguita  la  ribellione  di  Tebe,  causala  da  Pelopida,  ribellan- 
dosi l'altre  ciltadi,  rovinò  al  tallo  quella  repubblica.  Simil- 
roenle  Vinegia,  avendo  occupato  gran  parte  d'Italia,  e  la 
maggior  parte  non  con  guerra  ma  con  danari  e  con  astu- 
zia, come  la  ebbe  a  fare  prova  delle  forze  sue,  perdette  in 
^a  giornata  ogni  cosa.  Crederei  bene,  che  a  fare  una  repub- 
blica che  durasse  lungo  lempo,  fossi  il  miglior  modo  ordi- 
narla dentro  come  Sparta  o  come  Vinegia;  porla  in  luo2[0 
forte,  e  di  tale  potenza,  che  nessuno  credesse  poterla  subito 
opprimere;  e  dall'altra  parie,  non  fussi  si  grande,  chela 
fussi  formidabile  a' vicini:  e  cosi  potrebbe  lungamente  go- 
dersi il  suo  stato.  Perchè,  per  due  cagioni  si  fa  guerra  ad  una 
repubblica  :  l'  una  per  diventarne  signore,  l'altra  per  paura 
eh'  ella  non  li  occupi.  Queste  due  cagioni  il  sopraddetto  modo 
quasi  in  lutto  toglie  via;  perchè,  se  la  è  difficile  ad  espugnarsi, 
come  io  la  presuppongo,  sendo  bene  ordinata  alla  difesa, 
rade  volle  accadcrà,  o  non  mai,  che  uno  possa  fare  disegno 


LIBRO  PRIMO.  iOo 

d'acquistarla  Se  la  si  sjarà  inlra  i  (ermini  suoi,  e  veggasi 
per  esperienza,  che  in  lei  non  sia  ambizione,  non  occorrerà 
mai  che  uno  per  paura  di  sé  gli  faccia  guerra  :  e  (anlo  più 
sarebbe  questo,  se  e' fusse  in  lei  constituzione  o  legge 
che  le  proibisse  l'ampliare.  E  senza  dubbio  credo,  che  po- 
tendosi tenere  la  cosa  bilanciata  in  questo  modo,  che  e' sa- 
rebbe il  vero  vivere  politico,  e  la  vera  quiete  di  una  città. 
Ma  sendo  tutte  le  cose  degli  uomini  in  moto,  e  non  polendo 
slare  salde,  conviene  che  le  saglino  o  che  le  scendine;  e  (i^| 
ijiolte  cose  che  la  ragione  non  t' induce,  t'induce  la  neces- 
£Uà:  talmente  che,  avendo  ordinata  una  repubblica  alta  a 
mantenersi  non  ampliando,  e  la  necessità  la  conducesse  ad  ( 
ampliare,  si  verrebbe  a  torre  via  i  fondamenti  suoi,  ed  a  j 
farla  rovinare  più  presto.  Cosi,  dall'altra  parte,  quando  il  ' 
Cielo  le  fusse  sì  benigno,  che  la  non  avesse  a  fare  guerra, 
ne  nascerebbe  che  l' ozio  la  farebbe  o  effeminata  o  divisa  ; 
le  quali  due  cose  insieme,  o  ciascuna  per  sé,  sarebbono  ca- 
gione della  sua  rovina.  Pertanto,  non  si  potendo,  come  io 
credo,  bilanciare  questa  cosa,  né  mantenere  questa  via  del 
mezzo  a  punto;  bisogna,  nello  ordinare  la  repubblica,  pen- 
sare alla  parte  più  onorevole;  ed  ordinarla  in  modo,  che 
quando  pure  la  necessità  la  inducesse  ad  ampliare,  ella  po- 
tesse quello  ch'ella  avesse  occupato,  conservare. E,  per  tor- 
nare al  primo  ragionamento,  credo  che  sia  necessario  se- 
guire V  ordine  romano,  e  non  quello  dell'  altre  repubbliche  ; 
perchè  trovare  un  modo, mezzo  infra  l'uno  e  l'altro,'  non  credo 
si  possa:  e  quelle  inimicizie  che  intra  il  popolo  ed  il  senato 
nascessino,  tollerarle,  pigliandole  per  uno  inconveniente  ne- 
cessario a  pervenire  alla  romana  grandezza.  Perchè,  oltre  al- 
l'altre  ragioni  allegale  dove  si  dimostra  l'autorità  tribuni- 
zia essere  stala  necessaria  per  la  guardia  della  libertà  ,  si 
può  facilmente  considerare  il  benefizio  che  fa  nelle  repub- 
bliche l'autorità  dello  accusare,  la  quale  era  inlra  gli  altri 
commessa  a'  Tribuni  ;  come  nel  seguente  capitolo  si  dis- 
correrà. 


*  Prendiamo  dalla  Testina  cjuc&la  |iuiiUiazione,  per  cui  la  voce  ìiiczzo  riceve 
la  forza  <1i  avverLio. 


103  DEI  DISCORSI 

\ 
Gap.  vii.  —  Quanto  siano  necessarie  in  una  Repubblica 
le  accuse  per  mantenere  la  libertà. 

A  coloro  che  in  una  cillà  sono  preposti  per  guardia  della 
Mia  libertà,  non  si  può  dare  autorità  più  utile  e  necessaria, 
quanto  è  quella  di  poterd  accusare  i  cittadini  al  popolo,  o  a 
qualunque  magistrato  o  consiglio,  quando  che  peccassìno  in 
alcuna  cosa  centra  allo  stato  libero.  Questo  ordine  fa  duoi 
enettt  utilissimi  ad  una  repubblica.  Il  primo  è  che  i  cittadini, 
per  paura  di  non  essere  accusati,  non  tentano  cose  centra 
allo  stato;  e  tentandole,  sono  incontinente  e  senza  rispetto 
oppressi.  V  altro  è  che  si  dà  via  onde  sfogare  a  quelli  umo- 
ri che  crescono  nelle  cittadi,  in  qualunque  modo,  centra  a 
qualunque  cittadino  :  e  quando  questi  umori  non  hanno  onde 
sfogarsi  ordinariamente,  ricorrono  a'  modi  straordinari, 
che  fanno  rovinare  in  tutto  una  repubblica.  E  non  è  cesa 
che  faccia  tanto  slabile  e  ferma  una  repubblica,  quanto  or- 
dinare quella  in  modo,  che  l'alterazione  di  questi  umori  che 
la  agitano,  abbia  una  via  da  sfogarsi  ordinata  dalie  leggi.  U 
che  si  può  per  molti  esempi  dimostrare,  e  massime  per  quello 
che  adduce  Tito  Livio  di  Coriolano,  dove  ei  dice,  che  essendo 
irritata  centra  alla  Plebe  la  Nobiltà  romana,  per  parerle  che 
la  Plebe  avesse  troppa  autorità  mediante  la  creazione  de' Tri- 
buni che  la  difendevano;  ed  essendo  lloma,  come  avviene, 
venuta  in  penuria  grande  di  vettovaglie,  ed  avendo  il  Se- 
nato mandalo  per  grani  in  Sicilia;  Coriolano,  nimico  alla  fa- 
zione popolare,  consigliò  come  egli  era  venuto  il  tempo  da 
potere  gastigare  la  Plebe,  e  tòrte  quella  autorità  che  ella  si 
aveva  acquistata,  e  in  pregiudizio  della  Nobiltà  presa,*  le- 
nendola arfamata,  e  non  li  distribuendo  il  frumento:  la  qual 
sentenza  sondo  venula  alti  orecchi  del  Popolo,  venne  in  tanta 
indegnazione  centra  a  Coriolano,  che  allo  uscire  del  Senalo 
lo  arebbero  lumultuariamenle  morto,  se  gli  Tribuni  non 
l'avessero  citalo  a  comparire  a  difendere  la  causa  sua.  So- 
pra il  quale  accidente,  si  nota  quello  che  di  sopra  si  è  del- 
lo, quanto  sia  utile  e  necessario  che  le  repubbliche,  con  le 

*  Con  l)revilà  che  poco  toglie  al  conceUo,  ha  l'eclii.  del  Biado:  quella  au- 
torità che  ella  si  aveva  in  pregiudizio  della  nobiltà  presa. 


LIBUO   PUIMO.  iOl 

leggi  loro,  diano  onde  sfogarsi  all'ira  che  concepe  la  univer- 
salità conlra  a  uno  cittadino:  perchè  quando  questi  modi  or- 
dinari non  vi  siano,  si  ricorre  agli  estraordinari;  e  senza 
dubbio  questi  fanno  molto  peggiori  effetti  che  non  fanno 
quelli.  Perchè,  se  ordinariamente  uno  cittadino  è  oppresso, 
ancora  che  li  fosse  fatto  torto,  ne  seguita  o  poco  o  nessuno 
disordine  in  la  repubblica  :  perchè  la  esecuzione  sJ  fa  senza 
forze  private,  e  senza  forze  forestiere,  che  sono  quelle  che 
rovinano  il  vivere  libero  ;  ma  si  fa  con  forze  ed  ordini  pub- 
blici, che  hanno  i  termini  loro  particulari,  né  trascendono  a  \ 
cosa  che  rovini  la  repubblica.  E  quanto  a  corroborare  questa  / 
oppinione  con  gli  esempi,  voglio  che  degli  antichi  mi  basti 
questo  di  Coriolano;  sopra  il  quale  ciascuno  consideri,  quanto 
male  saria  resultato  alla  repubblica  romana,  se  tumultuaria- 
mente ei  fussi  slato  morto  :  perchè  ne  nasceva  offesa  da  pri- 
vati a  privati,  la  quale  offesa  genera  paura;  la  paura  cerca  di- 
fesa ;  per  la  difesa  si  procacciano  i  partigiani  ;  dai  partigiani 
nascono  le  parti  nelle  cittadi;  dalle  parti  la  rovina  di  quelle. 
Ma  sendosi  governata  la  cosa  mediante  chi  ne  aveva  autori- 
tà, si  vennero  a  lór  via  tutti  quelli  mali  che  ne  potevano 
nascere  governandola  con  autorità  privata.  Noi  avemo  visto 
ne'  nostri  tempi,  quale  novità  ha  fatto  alla  repubblica  di  Fi- 
renze non  potere  la  moltitudine  sfogare  l'animo  suo  ordina- 
riamente conlra  a  un  suo  cittadino;  come  accadde  nel  tempo 
di  Francesco  Valori,  che  era  come  principe  della  città:  il 
quale  essendo  giudicato  ambizioso  da  molli,  e  uomo  che  vo- 
lesse con  la  sua  audacia  e  animosità  trascendere  il  vivere 
civile  ;  e  non  essendo  nella  repubblica  via  a  poterli  resistere 
se  non  con  una  setta  contraria  alla  sua;  ne  nacque  che  non 
avendo  paura  quello,  se  non  di  modi  straordinari,  si  comin- 
ciò a  fare  fautori  che  lo  difendessino  :  dall'  altra  parte,  quelli 
che  lo  oppugnavano  non  avendo  via  ordinaria  a  reprimerlo, 
pensarono  alle  vie  straordinarie  :  intanto  che  si  venne  alle 
armi.  E  dove,  quando  per  l'ordinario  si  fosse  potuto  oppor- 
seli,  sarebbe  la  sua  autorità  spenta  con  suo  danno  solo;  aven- 
dosi a  spegnere  per  lo  straordinario,  seguì  con  danno  non 
solamente  suo,  ma  di  molti  altri  nobili  cittadini.  Potrebbesi 
ancora  allegare,  a  fortificazione  della  soprascritta  conclusio- 


108  BEI   DISCORSI 

ne,  r  accidente  seguilo  por  in  Firenze  sopra  Piero  Soderini; 
il  quale  al  tulio  segui  per  non  essere  in  quella  repubblica 
alcuno  modo  di  accuse  contra  alla  ambizione  de'  potenti  cit- 
tadini :  perchè  lo  accusare  un  potente  a  otto  giudici  in  una 
repubblica,  non  basta  :  bisogna  che  i  giudici  siano  assai,  per- 
chè pochi  sempre  fanno  a  modo  de'  pochi. Tantoché,  se  tali 
modi  vi  fussono  stati,  o  i  cittadini  lo  arebbono  accusato, 
vivendo  egli  male;  e  per  lai  mezzo,  senza  far  venire  l'eser- 
cito spagnuolo,  arebbono  sfogalo  l'animo  loro:  o  non  vi- 
vendo male,  non  arebbono  avuto  ardire  operarli  contra,  per 
paura  di  non  essere  accusali  essi  :  e  cosi  sarebbe  da  ogni  parie 
cessato  quello  appetito  che  fu  cagione  di  scandalo.  Tanto  che 
si  può  conchiudere  questo,  che  qualunque  volla  si  vede  che 
le  forze  esterne  siano  chiamale  da  una  parie  d'uomini  che 
vivono  in  una  città,  si  può  credere  nasca  da' cattivi  ordini 
dì  quella,  per  non  esser,  deniro  a  quello  cerchio,  ordine  da 
potere  senza  modi  istraordinari  sfogare  i  maligni  umori  che 
nascono  nelli  uomini  :  a  che  si  provvede  al  lutto  con  ordi- 
narvi le  accuse  alli  assai  giudici,  e  dare  riputazione  a  quel* 
le.  Li  quali  modi  furono  in  Roma  si  bene  ordinali,  che  in 
tante  dissensioni  della  Plebe  e  del  Senato,  mai  o  il  Sonalo 
o  la  Plebe  o  alcuno  particolare  ciltadino  non  disegnò  va* 
tersi  di  forze  esterne  ;  perchè  avendo  il  rimedio  in  casa,  non 
erano  necessitali  andare  per  quello  fuori.  E  benché  gli  esempi 
soprascritti  siano  assai  sufllcienti  a  provarlo,  nondimeno  ne 
voglio  addurre  un  altro,  recitato  da  Tito  Livio  nella  sua  isto- 
ria :  il  quale  riferisce  come,  sondo  sialo  in  Chiusi,  città  in 
quelli  tempi  nobilissima  in  Toscana ,  da  uno  Lucumone  vio- 
lata una  sorella  di  Arunle,  e  non  polendo  Arunte  vendicarsi 
per  la  potenza  del  violatore,  se  n'andò  a  trovare  i  Franciosi, 
che  allora  regnavano  in  quello  luogo  che  oggi  si  chiama 
Lombardia  ;  e  quelli  confortò  a  venire  con  armata  mano  a 
Chiusi,  mostrando  loro  come  con  loro  olile  lo  potevano  ven- 
dicare della  ingiuria  ricevuta:  che  se  Arunte  avesse  veduto 
potersi  vendicare  con  i  modi  della  città,  non  arebbe  cerco. le 
forze  barbare.  Ma  come  queste  accuse  sono  utili  in  una  re- 
pubblica, cosi  sono  inutili  e  dannose  le  calunnie;  come  nel 
capilolo  seguente  discorreremo. 


LI  DUO    PRIMO.  .  409 

Gap.  VIU.  ~  Quanto  le  accuse  sono  ulili  alle  repubbliche, 
tanto  sono  perniziose  le  calunnie. 

Non  ostante  che  la  virtù  di  Furio  Caramillo,  poi  eh'  egli 
ebbe  libera  Roma  dalla  oppressione  de'  Franciosi,  avesse 
fallo  che  tulli  i  cittadini  romani,  senza  parer  loro  tòrsi  repu- 
tazione 0  grado,  cedevano  a  quello  ;  nondimeno  Manlio  Ca- 
pitolino non  poteva  sopportare  che  gli  fusse  attribuito  tanto 
onore  e  tanta  gloria  ;  parendogli,  quanto  alla  salute  di  Roma, 
per  avere  salvalo  il  Campidoglio,  aver  meritalo  quanto  Cam- 
mino; e  quanto  all' altre  belliche  laudi,  non  essere  inferiore 
a  lui.  Di  modo  che,  carico  d'invidia,  non  polendo  quietarsi 
per  la  gloria  di  quello,  e  veggendo  non  potere  seminare  dis- 
cordia infra  i  Padri,  si  volse  alla  Plebe,  seminando  varie  op- 
pinioni  sinistre  intra  quella. E  intra  l'altre  cose  che  diceva,  era 
come  il  tesoro  il  quale  si  era  adunato  insieme  per  dare  ai 
Franciosi,  e  poi  non  dato  loro,  era  stalo  usurpalo  da  privali 
cittadini  ;  e  quando  si  riavesse,  si  poteva  convertirlo  in  pub- 
blica utilità,  alleggerendo  la  Plebe  da' tributi,  o  da  qualche 
privalo  debito.  Queste  parole  poterono  assai  nella  Plebe  ;  tal- 
ché cominciò  avere  concorso,  ed  a  fare  a  sua  posta  tumulti 
assai  nella  città:  la  qual  cosa  dispiacendo  al  Senato,  e  paren- 
dogli di  momento  e  pericolosa,  creò  uno  Dittatore,  perchè 
ci  riconoscesse  questo  caso,  e  frenasse  lo  impelo  di  Manlio. 
Onde  che  subilo  il  Dittatore  lo  fece  citare,  e  condussonsi  in 
pubblico  all'incontro  l'uno  dell'altro;  il  Dittatore  in  mezzo 
de' Nobili,  e  Manlio  in  mezzo  della  Plebe.  Fu  domandalo 
Manlio  che  dovesse  dire,  appresso  a  chi  fusse  questo  tesoro 
che  ei  diceva,  perchè  ne  era  così  desideroso  il  Senato  d'inten- 
derlo come  la  Plebe  ;  a  che  Manlio  non  rispondeva  particu- 
larmenle;  ma,  andando  fuggendo,  '  diceva  come  non  era  ne- 
cessario dire  loro  quello  che  e'  si  capevano  :  tanto  che  il 
Dittatore  Io  fece  mettere  in  carcere.  È  da  notare  per  questo 
testo,  quanto  siano  nelle  città  libere,  ed  in  ogni  altro  modo 
di  vivere,  detestabili  le  calunnie;  e  come,  per  reprimerle,  si 

*  "Parecchie  tShloni:  sfuggendo.  S'intende  pur  sempre  per  lo  rispondere 
in  modo  di  eludere  la  domanda. 

40 


HO  ♦  DEI   DISCORSI 

debbe  non  perdonare  a  ordine  alcuno  che  vi  faccia  a  propo- 
silo. Né  può  essere  migliore  ordine  a  lòrle  via,  che  aprire 
assai  luoghi  alle  accuse;  perchè  quanto  le  accuse  giovano  alle 
C  éf<*^*^  repubbliche,  tanto  le  calunnie  nuocono  :  e  dall'  altra  parte,  è 
f^y^i^      questa  differenza,  che  le  calunnie  non  hanno  bisogno  di  le- 
^^  stiroone,  né  di  alcuno  altro  parliculare  riscontro  a  provarle, 
*  ^  in  modo  che  ciascuno  da  ciascuno  può  essere  calunniato  ;  ma 
*^**'^^"  non  può  già  essere  accusato ,  avendo  le  accuse  bisogno  di 
riscontri  veri,  e  di  circostanze,  che  mostrino  la  verità  del- 

Ì  l'accusa.  Accusansi  gli  uomini  a' magistrati,  a' popoli,  a' con- 
sigli ;  calunniansi  per  le  piazze  e  per  le  logge.  Usasi  più 
questa  calunnia  dove  si  usa  meno  l'accusa,  e  dove  le  cillù 
sono  meno  ordinate  a  riceverle.  Però,  uno  ordinatore  d'  una 
repubblica  debbe  ordinare  che  si  possa  in  quella  accusare 
ogni  cittadino,  senza  alcuna  paura  o  senza  alcuno  sospetto  ; 
e  fatto  questo  e  bene  osservato,  debbe  punire  acremente  i 
calunniatori  :  i  quali  non  si  possono  dolere  quando  siano  pu- 
niti, avendo  i  luoghi  aperti  a  udire  le  accuse  di  colui  che  gli 
avesse  per  le  logge  calunnialo.  E  dove  non  è  bene  ordinata 
questa  parte,  seguitano  sempre  disordini  grandi  :  perchè  lo 
calunnie  irritano,  e  non  castigano  i  cittadini;  e  gli  irritati 
pensano  dì  valersi,  odiando  più  presto,  *  che  temendo  le  cose 
che  si  dicono  centra  a  loro.  Qucsla  parte,  come  è  detto,  era 
bene  ordinala  in  Roma  ;  ed  è  stala  sempre  male  ordinata 
nella  nostra  città  di  Firenze.  E  come  a  Roma  qucslo  ordine 
fece  molto  bene,  a  Firenze  questo  disordine  fece  molto  male. 
E  chi  legge  le  istorie  di  questa  città,  vedrà  quante  calunnio 
sono  state  in  ogni  tempo  date  a' suoi  cittadini  che  si  sono 
adoperati  nelle  cose  importanti  di  quella.  Dell'  uno  dicevano, 
ch'egli  aveva  rubati  danari  al  Comune;  dell'altro,  che  non 
aveva  vinto  una  impresa  per  essere  slato  corrotto;  e  che 
lueir  altro  per  sua  ambizione  aveva  fatto  il  tale  e  tale  incon- 
veniente. Del  che  ne  nasceva  che  da  ogni  parie  ne  surgeva 
odio:  donde  si  veniva  alla  divisione;  dalla  divisione  alle 
sètte;  dalle  sètte  alla  rovina.  Che  se  fusse  stalo  in  Firenze 
ordine  d'accusare  i  cittadini,  e  punire  i  calunniatori,  non 
seguivano  infìnili  scandali  che  sono  seguili  :  perchè  quelli 

'  Cioè,  i  detrattori  o  calunnialorL 


LlBFxO    PRIMO.  ili 

cilladinì,  o  condennali  o  assoluti  che  fussino,  non  arebhono 
polulo  nuocere  alla  cillà  ;  e  sarebbono  stali  accusali  meno 
assai  che  non  ne  erano  calunniali,  non  si  polendo,  come  ho 
dello,  accusare  come  calunniare  ciascuno.  Ed  inlra  l'altre  cose 
di  che  si  è  valuto  alcuno  cittadino  per  venire  alla  grandezza 
sua,  sono  state  queste  calunnie:  le  quali  venendo  conlra 
a' cittadini  polenti  che  allo  appetito  suo  si  opponevano,  fa- 
cevano assai  per  quello  ;  perchè,  pigliando  la  parte  del  Popo- 
lo, e  confirmandolo  nella  mala  oppinione  ch'egli  aveva  di 
loro,  se  lo  fece  amico.  E'benchè  se  ne  potesse  addurre  as- 
sai esempi,  voglio  essere  contento  solo  d'  uno.  Era  lo  eser- 
cito fiorentino  a  campo  a  Lucca,  comandato  da  racsser 
Giovanni  Guicciardini,  commissario  di  quello..  Vollono  o  i 
cattivi  suoi  governi,  o  la  cattiva  sua  fortuna,  che  la  espu- 
gnazione di  quella  cillà  non  seguisse.  Pur,  comunque  il  caso 
stesse,  ne  fu  incolpato  messer  Giovanni,  dicendo  com'egli 
era  slato  corrotto  da'  Lucchesi  :  la  quale  calunnia  sendo  fa- 
vorita da*  nimici  suoi,  condusse  messer  Giovanni  quasi  in 
ultima  disperazione.  E  benché,  per  giustificarsi,  ei  si  volessi 
mettere  nelle  mani  del  Capitano;  nondimeno  non  sì  potette 
mai  giustificare,  per  non  essere  modi  in  quella  repubblica 
da  poterlo  fare.  Di  che  ne  nacque  assai  sdegno  inlra  li  amici 
di  messer  Giovanni,  che  erano  la  maggior  parte  delti  uo- 
mini grandi;  ed  infra  coloro  che  desideravano  fare  novità  in 
Firenze.  La  quiU  cosa,  e  per  queste  e  per  altre  simili  ca- 
gioni, tanto  crebbe,  che  ne  segui  la  rovina  di  quella  repub- 
blica. Era  dunque  Manlio  Capitolino  calunniatore,  e  non 
accusatore;  ed  i  Romani  mostrarono  in  questo  caso  appunto, 
come  i  calunniatori  si  debbono  punire.  Perchè  si  debbo  far- 
gli diventare  accusatori;  e  quando  l' accusa  si  riscontri  vera, 
o  premiarli,  o  non  punirli:  ma  quando  la  non  si  riscontri 
vera,  punirli,  come  fu  punito  Manlio. 

Cap.  IX. — -Come  egli  è  necessario  esser  solo  a  volere  ordinare 
una  repubblica  di  nuovo,  o  al  tulio  fuori  delli  antichi 
suoi  ordini  riformarla, 

E'  parrà  forse  ad  alcuno,  che  io  sia  Iroppo  trascorso  den- 
tro nella  istoria  romana,  non  avendo  fallo  alcuna  menzione 


n2  DEI   DISCORSI 

ancora  degli  ordinatori  di  quella  Rejubblica,  né  di  quelli 
ordini  che  o  alla  religione  o  alla  milizia  riguardassero.  E 
però,  non  volendo  lenere  più  séspesi  gli  animi  di  coloro 
che  sopra  quesla  parie  *  volessin*  intendere  alcune  cose;  di- 
co, come  molli  per  avventura  giudicheranno  dì  cattivo 
esempio,  che  ano  fondatore  d'  un  vivere  civile,  quale  fu 
Romolo,  abbia  prima  morto  un  suo  fratello,  dipoi  consen- 
tito alla  morte  di  Tito  Tazio  Sabino,  eletto  da  lui  compa- 
gno nel  regno;  giudicando  per  questo,  che  gli  suoi  cittadini 
potessero  con  l'autorità  del  loro  principe,  per  ambizione  o 
desiderio  di  comandare,  oflTendcre  quelli  che  alla  loro  auto- 
rità si  opponessino.  La  quale  oppinione  sarebbe  vera,  quando 
non  si  considerasse  che  fìne  V  avesse  indotto  a  fare  tal  omi- 
cidio. E  debbesi  pigliare  questo  per  una  regola  generale:  che 
non  mai  o  di  rado  occorre  che  alcuna  repubblica  o  regno 
sia  da  principio  ordinato  bene,  o  al  lutto  di  nuovo  fuori 
dell!  ordini  vecchi  riformalo,  se  non  è  ordinato  da  uno  ; 
anzi  è  necessario  che  uno  solo  sia  quello  che  dia  il  modo, 
e  dalla  cui  mente  dependa  qualunque  simile  ordinazione. 
Però,  uno  prudente  ordinatore  d'una  repubblica,  e  che  abbia 
questo  animo  di  volere  giovare  non  a  sé  ma  al  bene  co- 
mune, non  alla  sua  propria  successione  ma  alla  comune 
patria,  debbe  ingegnarsi  di  avere  l'autorità  solo;  nò  mai 
Jl^  ^  c^  ano  ingegno  savio  riprenderà  alcuno  di  alcuna  azione  islraor- 
ì\[  \  dinaria,  che  per  ordinare  un  regno  o  conslituire  una  re- 
'  i  '  I  pubblica  osasse.  Conviene  bcnc,^che,  accusandolo  il  fatto, 
A  I  lo  efTetlo  lo  scusi  ;  e  quando  sia  buono,  comò  quello  di  Ro- 
r  moTo,  sempre  lo  scuserà:  perchè  colui  che  6  violento  per 

r^  guastare,  non  quello  che  é  per  racconciare,  si  debbe  ri- 
I  v'^f  prendere.  Debbe  bene  in  tanto  esser  prudente  e  virtuoso, 
^  j  che  quella  autorità  che  si  ha  presa,  non  la  lasci  ereditaria 

'      i|^    ad  un  altro:  perchè,  essendo  gli  uomini  più  proni  '  al  male 
fi^i^    '     che  al  bene,  potrebbe  il  suo  successore  usare  ambiziosamente 
^ V^^  "  quello  che  da  lui  virtuosamente  fosse  stato  usato.  Olire  di 
\ji^*^    questo,  se  uno  è  atto  ad  ordinare,  non  è  la  cosa  ordinala 

v^t  <  Cosi  la  Romaoa  e  l'cdii    del  1813.  La  Tellina  e  il  Poggiali:  queste 

^tJSA^      par//. 

V^  S  CoM  anche  Tedi»,  del  1813.  La  Testina,  e  molte  altre:  pronti. 


LIBRO    PUlMO.  413 

per  durare  mollo,  quando  la  rimanga  sopra  le  spalle  d'  uno  ; 
ma  si  bene,  quando  la  rimane  alla  cura  di  molli,  e  chea 
molli  slia  il  manlencrla.  Perchè,  cosi  come  molli  non  sono 
alli  ad  ordinare  una  cosa,  per  non  conoscere  il  bene  di 
quella,  causalo  dalle  diverse  oppinioni  che  sono  fra  loro; 
cosi  conosciuto  che  lo  hanno,  non  si  accordano  a  lasciarlo 
K  che  Romolo  fusse  di  quelli  che  nella  morie  del  fralello 
e  del  compagno  merilasse  scusa;  e  che  quello  che  fece,  /tiW^ 
fusse  n^g  il  bene  comune,  e  non  per  ambizione  propria  ;  lo  ] x)^ 
dimostra  lo  avere  quello  subilo  ordinalo  uno  Senalo,  con  il  '^  J^ 
quale  si  consigliasse,  e  secondo  l'oppinione  del  quale  delibo-  pjf 
Tiìsse.  E  chi  considera  bene  l' autorità  che  Romolo  si  ri-^(  e/Jl/^ 
serbò,  vedrà  non  se  ne  essere  riserbata  alcun' altra  che 
comandare  alli  eserciti  quando  si  era  deliberata  la  guerra,/-^ 
e  di  ragunare  il  Senalo.  li  che  si  vide  poi,  quando  Roma 
divenne  libera  per  la  cacciala  de'Tarquini;  dove  da' Ro- 
mani non  fu  innovalo  alcun  ordine  dello  antico,  se  non 
che  in  luogo  d'uno  Re  perpetuo,  fussero  duoi  Consoli  an- 
nuali: il  che  Icslifica,  lutti  gli  ordini  primi  di  quella  cillà 
essere  siali  più  conformi  ad  uno  vivere  civile  e  libero,  che 
ad  uno  assoluto  e  tirannico.*  Polrebb2si  dare  in  corrobora- 
zione delle  cose  sopraddette  infinili  esempi;  come  Moisè, 
Licurgo,  Solone,  ed  altri  fondatori  di  regni  e  di  repubbli- 
che, i  quali  poterono,  per  aversi  attribuito  un'autorità,  for- 
mare leggi  a  proposito  del  bene  comune:  ma  gli  voglio  la- 
sciare indietro,  come  cosa  nota.  Addurronne  solamente  uno, 
non  si  celebre,  ma  da  considerarsi  per  coloro  che  deside- 
rassero essere  di  buone  leggi  ordinatori:  il  quale  è,  che 
desiderando  A^ide  re  di  Sparla  ridurre  gli  Spartani  intra 
quelli  termini  che  le  leggi  di  Licurgo  gli  avessero  rinchiu- 
si, parendoli  che  por  esserne  in  parie  deviali,  la  sua  città 
avesse  perduto  assai  di  quella  antica  virlù,  e,  per  conse- 
guente, di  forze  e  d'imperio;  fu  ne' suoi  primi  principii 
ammazzato  dalli  Efori  spartani,  come  uomo  che  volesse 
occupare  la  tirannide.  Ma  succedendo  dopo  lui  nel  regno 
Cleomene,  e  nascendogli  il  medesimo  desiderio  per  gli  ri- 
cordi e  scrini  ch'egli  aveva  trovati  di  Agide,  dove  si  ve- 
deva quale  era  la  mente  ed  intenzione  sua,  conobbe    non 

<0* 


Ili  DEI    DISCORSI 

potere  fare  questo  bene  alla  sua  patria  se  non  divenlava 
'  solo  di  autorità;  parendogli,  per  l'ambizione  degli  uomini, 
non  potere  fare  utile  a  molli  centra  alla  voglia  di  pochi  : 
)  e  presa  occasione  conveniente,  fece  ammazzare  lutti  gli 
Efori,  e  qualunque  altro  gli  potesse  contrastare;  dipoi  rin- 
novò in  lutto  le  leggi  di  Licurgo.  La  quale  deliberazione 
era  alla  a  fare  risuscitare  Sparla,  e  dare  a  Cleoracne  quella 
reputazione  che  ebbe  Licurgo,  se  non  fusse  slato  la  potenza 
de* Macedoni,  e  la  debolezza  delle  altre  repubbliche  greche. 
Perchè,  essendo  dopo  tale  ordine  assaltato  da' Macedoni,  e 
trovandosi  per  sé  stesso  inferiore  di  forze,  e  non  avendo 
a  chi  rifuggire,  fu  vinto;  e  restò  quel  suo  disegno,  quan- 
tunque giusto  e  laudabile,  imperfetto.  Considerato  adunque 
tutte  queste  cose,  conchiudo,  come  a  ordinare  una  repub- 
blica è  necessario  essere  solo;  e  Romolo  per  la  morte  di 
Remo  e  di  Tazio  meritare  iscusa ,  e  non  biasmo. 

Gap.  X.  —  Quanto  sono  laudabili  i  fondatori  d' una  repubblica 
0  d*  uno  regno,  tanto  quelli  d' una  tirannide  inno  vitu- 
perabili. 

Intra  tutti  gli  uomini  laudati,  sono  i  laudatissìmì  quelli 
che  sono  stati  capi  e  ordinatori  delle  relisìoni.  Appresso  di- 
poi, quelli  che  hanno  fondalo  o  repubbliche  o  regni.  Dopo 
costoro,  sono  celebri  quelli  che,  preposti  alli  csercili,  hanno 
ampliato  o  il  regno  loro,  o  quello  della  patria.  A  questi  si 
aggiungono  gli  uomini  litterali;  e  perchè  questi  sono  di  più 
ragioni,  sono  celebrati  ciascuno  d'essi  secondo  il  grado  suo. 
A  qualunque  altro  uomo,  il  numero  de' quali  è  infinito,  si 
attribuisce  qualche  parte  di  laude,  la  quale  gli  arreca  l'arte 
e  l'esercizio  suo.  Sono  per  lo  contrario  infami  e  dctcslaliili 
gli  uomini  destrullori  delle  religioni,  dissipatori  de*  regni 
e  delle  repubbliche,  inimici  delle  virtù,  delle  lettere,  e 
d'ogni  altra  arte  che  arrechi  utilità  ed  onore  alla  umana  ge- 
nerazione; come  sono  gli  empii  e  violenti,  gl'ignoranti,  gli 
oziosi,  i  vili,  e  i  dappochi.  E  nessuno  sarà  mai  si  pazzo  o  si 
savio,  sì  Iristo  o  si  buono,  che,  propostosli  la  elezione  delle 
due  qualità  d'uomini,  non  laudi  quella  che  è  da  laudare,  e 


LIIÌKO    PRIMO.  115 

biasrai  quella  che  è  da  biasmare  :  nienlediraeno,  dipoi,  quasi 
tulli,  ingannali  da  un  falso  bene  e  da  una  falsa  gloria,  sì  la- 
sciano andare,  o  volunlariamenle  o  ignoranlemenle,  ne'gradi 
di  coloro  che  raerilano  più  biasimo  che  laude;  e  polendo 
fare,  con  perpetuo  loro  onore,  o  una  repubblica  o  un  regno, 
si  volgono  alla  tirannide  :  né  si  avveggono  per  questo  par- 
tito quanta  fama,  quanta  gloria,  quanto  onore,  sicurtà, 
quiete, con  satisfazione  d'animo,  e'fuggono;  e  in  quanta  in- 
famia, vituperio,  biasimo,  pericolo  e  inquietudine  incorro- 
no. Ed  è  impossibile  che  quelli  che  in  stalo  privato  vivono 
in  una  repubblica,  o  che  per  fortuna  o  virtù  ne  diventano 
principi,  se  leggessino  l'istorie,  e  delle  memorie  delle  anti- 
che cose  facessino  capitale,  che  non  volessero  quelli  tali 
privati,  vivere  nella  loro  patria  piuttosto  Scipioni  che  Cesari; 
e  quelli  che  sono  principi,  piuttosto  Agesilai,  Timoleoni  e 
Dioni,  che  Nabidi,  Falari  e  Dionisi:  perchè  vedrebbono 
questi  essere  sommamente  vituperali,  e  quelli  eccessiva- 
mente laudali.  Vedrebbono  ancora  come  Timoleone  e  gli  al- 
tri non  ebbero  nella  patria  loro  meno  autorità  che  si  aves- 
sino  Dionisio  e  Falari,  ma  vedrebbono  di  lunga  avervi  avuto 
più  sicurtà.  Né  sia  alcuno  che  si  inganni  per  la  gloria  di  Ce- 
sare, sentendolo,  massime,  celebrare  dagli  scritlori:  perchè 
questi  che  lo  laudano,  sono  corrotti  dalla  fortuna  sua,  e 
spauriti  dalla  lunghezza  dello  imperio,  il  quale  reggendosi 
sotto  quel  nome,  non  permetteva  che  gli  scrittori  parlassero 
liberamente  di  lui.  Ma  chi  vuole  conoscere  quello  che  gli 
scritlori  liberi  ne  direbbono,  vegga  quello  che  dicono  di  Ca 
mina.  E  tanto  è  più  detestabile  Cesare,  quanto  più  è  da  bia 
simare  quello  che  ha  fallo,  che  quello  che  ha  voluto  fare  un 
male.  Vegga  ancora  con  quante  laudi  celebrano  Bruto;  tal- 
ché, non  potendo  biasimare  quello  per  la  sua  potenza,  e' ce- 
lebrano il  nemico  suo.  Consideri  ancora  quello  eh'  è  diven- 
talo principe  in  una  repubblica,  quante  laudi,  poiché  Roma 
fu  diventata  imperio,  meritarono  più  quelli  imperadori  che 
vissero  sotto  le  leggi  e  come  principi  buoni,  che  quelli  che 
vissero  al  contrario  :  e  vedrà  come  a  Tito,  Nerva,  Traiano, 
Adriano,  Antonino  e  Marco,  non  erano  necessari  i  soldati 
pretoriani  né  la  moltitudine  delle  legioni  a  difenderli,  per- 


■.:.,S 


HO  DEI   DISCORSI 

che  i  costami  loro,  la  benìvolcnza  del  Popolo,  lo  amoro  del 
Sonalo  gli  difendeva.  Vedrà  ancora  come  a  Caligola,  Ne- 
rone, Yilellio,  ed  a  (anli  altri  scellerati  imperadori,  non  ba- 
starono gli  eserciti  orientali  ed  occidentali  a  salvarli  contra  a 
quelli  nemici ,  che  li  loro  rei  costumi,  la  loro  malvagia  vita 
aveva  loro  generati.  E  se  la  istoria  di  costoro  fusse  ben  con- 
siderata, sarebbe  assai  ammaestramento  a  qualunque  prin- 
cipe, a  mostrargli  la  via  della  gloria  o  del  biasroo,  e  della 
sicurtà  o  del  timore  suo.  Perchè,  di  ventisei  imperadori  che 
furono  da  Cesare  a  Massimino,  sedici  ne  furono  ammazzati, 
dieci  morirono  ordinariamente  ;  e  se  di  quelli  che  furono 
morii  ve  ne  fu  alcuno  buono,  come  Galba  e  Pertinace,  fu 
.     ,     morto  da  quella  corruzione  che  lo  antecessore  suo  avevala- 

^  sciata  ne' soldati.  E  se  Ira  quelli  che  morirono   ordinaria- 

•  ^-*,  ménte  ve  ne  fu  alcuno  scellerato,  come  Severo,  nacque  da 
una  sua  grandissima  fortuna  e  virtù  ;  le  quali  due  cose  pochi 
uomini  accompagnano.  Vedrà  ancora,  per  la  lezione  di  que- 
sta istoria,  come  sì  può  ordinare  un  regno  buono:  perchè 
lutti  gì*  imperadori  che  succederono  all'  imperio  per  eredità, 
eccetto  Tilo,  furono  callivi  ;  quelli  che  per  adozione,  furono 
lutti  buoni,  come  furono  quei  cinque  da  Nerva  a  Marco:  e 
come  l'imperio  cadde  negli  credi,  ei  ritornò  nella  sua  ro- 
vina. Pongasi,  adunque,  innanzi  un  principe  i  tempi  da  Nerva 
a  Marco,  e  conferiscagli  con  quelli  che  erano  stati  prima 
e  che  furono  poi;  e  dipoi  elegga  in  quali  volesse  essere  nato, 
o  a  quali  volesse  essere  preposto.  Perchè  in  quelli  governali 
da' buoni,  vedrà  un  principe  sicuro  in  mezzo  de' suoi  sicuri 
cittadini,  ripieno  di  pace  e  di  giustizia  il  mondo:  vedrà  il 
Senato  con  la  sua  autorità,  i  masistrati  con  i  suoi  onori  ; 
f  godersi  i  cittadini  ricchi  le  loro  ricchezze;  la  nobilita  e  la 

virtù  esaltata:  vedrà  ogni  quiete,  ed  ogni  bene  ;  e,  dall'altra 
0"*^       parte,  ogni  rancore,  ogni  licenza  ,  corruzione  e  ambizione 

|t^- V  »  spenta:  vedrà  i  tempi  aurei,  dove  ciascuno  può  tenere  e  di- 
fendere quella  opinione  che  vuole.  Vedrà,  in  fine,  trionfare 
1*^  il  mondo  ;  pieno  di  riverenza  e  di  gloria  il  principe,  d'amore 
N     .        e  di  sicurità  i  popoli.  Se  considererà,  dipoi,  tritamente  i  tempi 

^  degli  altri  imperadori,  gli  vedrà  atroci  per  le  guerre,  dis- 

cordi per  le  sedizioni,  nella  pace  e  nella  guerra  crudeli: 


LIBRO   PRIMO.  ili 

tanli  principi  morii   col   ferro,  lanle   guerre   civili,    (ante 
eslerne;  l'Italia  offlilla,  e  piena  di  nuovi  inforlunii ;  r^i- 
nale  e  saccheggiale  le  cillà  di  quella.  Vedrà  Roma  arsa,  il 
Campidoglio  da'  suoi  cilladini  disfallo,  desolali  gli  antichi    è  J^ifJi^ 
templi,  corrotte  le  cerimonie,  ripiene  le  cillà  di  adullerii:    ^     ^   \ 
vedrà  il  mare  pieno  di  esilii,  gli  sco^lj^pjcnMIjangue.  Ve-  ^  ir 
drà  in  Roma  seguire  innumerabili  crudelladi  ;  e  la  nobiltà,     '^  ^  vJ! 
le  ricchezze,  gli  onori,  e  sopra  lutto  la  virtù  essere  imputata  / 
a  peccato  capitale.  Vedrà  premiare  li  accusatori,  essere  cor- 
rotti i  servi  contro  al  signore,  i  liberi  *  contro  al  padrone;  e 
quelli  a  chi  fussero  mancati  i  nemici,  essere  oppressi  dagli 
amici.  E  conoscerà  allora  benissimo  quanti  obblighi  Roma,    /  ^saia#  ^ 
Italia,  e   il   mondo_abbia  con  JCesare.  E  senza  dubbio,  se  /    ^, 

e' sarà  nato  d  uomo,  si    sbigottirà  da  ogni  imitazione  dei /**^  ♦ 
tempi  cattivi,  e  accendcrassi  d'uno  immenso  desiderio  di  «it  Jr^ 
seguire  i  buoni.  E  veramente,  cercando  un  principe  la  gloria    *\,  j| 

del  mondo,  doverrebbe  desiderare  di  possedere  una  città  cor-  ^/  f^    > 
A    rolla,  non  per  guastarla  in  tutto  come  Cesare,  ma  per  rior-  ...  ijf^ 
,   dinari^  come  Romolo.  E  veramente  i  cieli  non  possono  dare  /  y  ,   V  * 

aìTi   uomini   maggiore  occasione  di  gloria,  né  li  uomini  la  ijjn     • 
'^r  possono  maggiore  desiderare.  E  se  a  volere  ordinare  bene/^     lA*' 
.  una  cillà,  si  avesse  di  necessità  a  deporre  il  principale,  me-  /^   / 
riterebbe  quello  che  non  la  ordinasse,   per  non  cadere  di 
quel  grado,  qualche  scusa:  ma  polendosi  tenere  il  principato 
ed  ordinarla,  non  si  merita  scusa  alcuna.  E  in  somma,  consi- 
derino quelli  a  chi  i  cieli  danno  tale  occasione,  come  sono 
loro  proposte  due  vie:  1'  una  che  gli  fa  vivere  sicuri,  e  dopo  la 
morte  gli  rende  gloriosi;  1'  altra  gli  fa  vivere  in  conlinove  an- 
gustie, e  dopo  la  morie  lasciare  di  sé  una  sempiterna  infamia. 


Cap.  XI. —  Della  religione  de'  lìomani. 

Ancora  che  Roma  avesse  il  primo  suo  ordinatore  Ro- 
molo, e  che  da  quello  abbi  a  riconoscere  come  figliuola  il 


*  L*  etliz.  (tei  1813  lia  ,  non  so  con  qual  fontlamrnlo,  liberti.  Padrone  iniò 
qui  inlcndcrsi  come  atlo|)crato  nel  senso  di  palrono. 


iiS  DEI   DISCORSI 

nascimento  e  la  educazione  sua;  nondimeno,  giudicando  i 
cieli  che  gli  ordini  di  lioraolo  non  bastavano  a  tanto  impe- 
rio, messone  nel  petto  del  Senato  romano  di  eleggere  Numa 
Pompilio  per  successore  a  Romolo,  acciocché  quelle  cose  che 
da  lui  fossero  state  lasciate  indietro,  fossero  da  Numa  or- 
dinate. 11  quale  trovando  un  popolo  ferocissimo,  e  volendolo 
ridurre  nelle  ubbidienze  civili  con  le  arti  della  pace,  si  volse 

Ialla  religione,  come  cosa  al  lutto  necessaria  a  volere  man- 
tenere una  civilità;  e  la  costituì  in  modo,  che  per  più  secoli 
non  fa  mai  tanto  timore  di  Dio  quanto  in  quella  Repubblica: 
il   che    facilitò    qualunque    impresa  che  il  Senato  o  quelli 
grandi  uomini  romani  disegnassero  fare.  E  chi  discorrerà 
infinite  azioni,  e  del  popolo  di  Roma  tutto  insieme,  e  di 
molti  de*  Romani  di  per  sé,  vedrà  come  quelli  cittadini  te- 
mevano più  assai  rompere  il  giuramento  che  le  leggi  ;  come 
coloro  che  stimavano  più  la  potenza  di  Dio,  che  quella  de- 
j  gli  uomini:  come  si  vede  manifestamente  per  gli  esempi  di 
I  Scipione  e  di  Manlio  Torquato.  Perchè,  dopo  la  rotta  che  An- 
nibale  aveva    dato   a'  Romani  a  Canne,  molti  cittadini  si 
erano  adunali  insieme,  e  sbigottiti  e  paurosi  *  si  erano  conve- 
nuti abbandonare  l'Italia,  e  girsene  in  Sicilia:  il  che  sen- 
tendo Scipione,  gli  andò  a  trovare,  e  col  ferro  ignudo  in 
mano  gli  costrinse  a  giurare  di  non  abbandonare  la  patria. 
Lucio  Manlio,  padre  di  Tito  Manlio,  che  fu  di()oi  chiamato 
Torquato,  era  sialo  accusato  da  Marco  Pomponio,  Tribuno 
della  plebe;  ed  innanzi  che  venissi  il  di  del  giudizio,  Tito 
andò  a  trovare  Marco,  e  minacciando  d'ammazzarlo  se  non 
giurava  di  levare  l'accusa  al  padre,  lo  costrinse  al  giura- 
mento; e  quello,  per  timore  avendo  giurato,  sii  levò  l'ac- 
cusa. E  così  quelli  cittadini  i  quali  l'amore  delia  patria  e  lo 
leggi  di  quella  non  ritenevano  in  Ilalia,  vi  furon  ritenuti  da 
.       uno  giuramento  che  furono  forzati  a  pigliare  ;  e  quel  Tribuno 
^  <tfj,  i*^  pQgg  jjjj  pflrie  r  odio  che  egli  aveva  col  padre,  la  ingiuria  che 
i^^f^       gli  aveva  fatta  il  figliuolo,  e  l'onore  suo,  per  ubbidire  al 
•  *    0t«^-  giuramento  preso:  il  che  non  nacque  da  altro,  che  da  quella 

t^  è^'^\  *  L'  edii.  del  Biado  legge  :  sbigottiti  ilcl/a  patria  j  e  1'  esemplare  della  Tr- 

/V**'  *''"'  ^^  "*''  consultato,  ci  offre,  a  penna  però,  la  stessa  variante.  E  facile  clic  il 
^«  J  Machiavelli  avesse  scritto  :  sbigottiti  della  paura. 


LIBRO    PRIMO.  liO 

religione  die  Numa  aveva  inlrodolla  in  quella  cillà.  E  ve- 
desi,  chi  considera  bene  le  istorie  romane,  quanto  serviva  la 
religione  a  comandare  agli  eserciti,  a  riunire  la  Plebe,  a 
mantenere  gli  uomini  buoni,  a  fare  vergognare  li  tristi. 
Talché,  se  si  avesse  a  dispulare  a  quale  principe  Roma  fusse 
più  obbligala,  o  a  Romolo  o  a  Numa,  credo  più  tosto  Nu- 
ma otterrebbe  il  primo  grado:  perchè  dove  è  religione,  fa- 
cilmente si  possono  introdurre  l'  armi  ;  e  dove  sono  1'  armi  e 
non  religione,  con  dilTicultà  si  può  introdurre  quella.  E  si 
vede  che  a  Romolo  per  ordinare  il  Senato,  e  per  fare  altri 
ordini  civili  e  militari,  non  gli  fu  necessario  dell'autorità  di 
Dio;  ma  fu  bene  necessario  a  Numa,  il  quale  simulò  di  avere 
congresso  con  una  Ninfa,  la  quale  lo  consigliava  di  quoUo 
ch'egli  avessi  a  consigliare  il  popolo:  e  tutto  nasceva  per- 
chè voleva  mettere  ordini  nuovi  ed  inusitati  in  quella  città,  e 
dubitava  che  la  sua  autorità  non  bastasse.  E  veramente,  mai 
non  fu  alcuno  ordinatore  di  leggi  straordinarie  in  uno  po- 
polo, che  non  ricorresse  a  Dio  ;  perchè  altrimenle  non  sa- 
rebbero accettate:  perchè  sono  molti  beni  conosciuti  da  uno 
prudente,  i  quali  non  hanno  in  sé  ragioni  evidenti  da  poter- 
gli persuadere  ad  altri.  Però  gli  uomini  savi,  che  vogliono 
tórre  questa  difilcultà,  ricorrono  a  Dio.  Così  fece  Licurgo, 
cosi  Solone,  cosi  molti  altri  che  hanno  avuto  il  medesimo 
fine  di  loro.  Ammirando,  adunque,  il  Popob  romano  la  bontà 
e  la  prudenza  sua,  cedeva  ad  ogni  sua  deliberazione.  Ben 
è  vero  che  Tessere  quelli  tempi  pieni  di  religione,  e  quelli 
uomini,  con  i  quali  egli  aveva  a  travagliare,  grossi,  gli  det- 
lono  facilità  grande  a  conseguire  i  disegni  suoi,  potendo  im- 
primere in  loro  facilmente  qualunche  nuova  forma.  E  senza 
dubbio,  chi  volesse  ne' presenti  tempi  fare  una  repubblica, 
più  facilità  troverebbe  negli  uomini  montanari,  dove  non  è 
alcuna  civililà,  che  in  quelli  che  sono  usi  a  vivere  nelle  città, 
dove  la  cìvilità  è  corrotta  :  ed  uno  scultore  trarrà  più  facil- 
mente una  bella  statua  d'  uno  marmo  rozzo,  che  d'uno  male 
abbozzato  d'  altrui.  Considerato  adunque  tutto,  conchiudo 
che  la  religione  introdotta  da  Numa  fu  intra  le  prime  cagioni 
della  felicità  di  quella  città  :  perchè  quella  causò  buoni  or- 
dini; i  buoni  ordini  fanno  buona  fortuna;  e  dalla  buona  for- 


120  DEI   DISCOUSI 

(una  nacquero  i  felici  saccessi  delle  imprese.  E  come  la  os- 
servanza del  culto  divino  è  cagione  della  grandezza  delle 
repubbliche,  cosi  il  dispregio  di  quella  è  cagione  della  rovina 
d'esse.  Perchè,  dove  manca  il  Umore  di  Dio,  conviene  che 
0  quel  regno  rovini,  o  che  sia  sostenuto  dal  timore  d'un 
principe  che  supplisca  a' difetti  della  religione.  E  perchè  i 
principi  sono  di  corta  vita,  conviene  che  quel  regno  manchi 
presto,  secondo   che    manca  la  virtù  d'  esso.  Donde  nasce 
^  che  i  regni  i  quali  dependono  solo  dalla  virtù  d'uno  uomo, 
i  sono  poco  durabili,  perchè  quella  virtù  manca  con  la  vita  di 
I  quello  ;  e  rade  volle  accade  che  la  sia  rinfrescata  con  la  suc- 
cessione, come  prudentemente  Dante  dice: 

Rade  volte  discende  per  li  rami 

L'umana  probitate;  e  questo  vuole 
Quel  che  la  dà,  perchè  da  lui  si  chiami. 

Non  è,  adunque,  la  salale  di  una  repabblica  o  d'uno  regno 
avere  uno  principe  che  prudentemente  governi  mentre  vive  ; 
ma  uno  che  l'ordini  in  modo,  che,  morendo  ancora,  la  si  man- 
tenga. E  benché  agli  uomini  rozzi  più  facilmente  si  persuade 
uno  ordine  o  una  oppinione  nuova,  non  è  per  questo  impossi- 
bile persuaderla  ancora  agli  uomini  civili,  e  che  si  presumono 
non  essere  rozzi.  Al  popolo  di  Firenze  non  pare  essere  né 
ignorante  né  rozzo:  nondimanco  da  frale  Girolamo  Savona- 
ì  rola  fu  persuaso  che  parlava  con  Dio.  Io  non  voglio  giudi- 
'  care  s'egli  era  vero  o  no,  perché  d'un  tanto  uomo  se  ne 
i  debbe  parlare  con  reverenza  :  ma  io  dico  bene,  che  infiniti  Io 
credevano,  senza  avere  visto  cosa  nessuna  istraordinaria  da 
farlo  loro  credere;  perchè  la  vita  sua, la  dottrina,  il  soggetto 
che  prese,. erano  sulTìzienli  a  fargli  prestare  fede.  Non  sia, 
pertanto,  nessuno  che  si  sbigottisca  di  non  potere  conseguire 
quello  che  è  stato  conseguito  da  altri;  perchè  gli  uomini, 
come  nella  Prefazione  nostra  si  disse,  nacquero,  vissero  e 
morirono  sempre  con  un  medesimo  ordine. 


LIBRO    PRIMO.  421 

Cap.  XII.  —  Di  quanta  importanza  sia  tenere  conto  della  re- 
ligione, e  come  la  Italia  per  esserne  mancata  mediante  la 
Chiesa  romana,  è  rovinala. 

Quelli  principi ,  o  quelle  repubbliche ,  le  quali  si  vo- 
gliono mantenere  incorrolle,  hanno  sopra  ogni  altra  cosa  a 
mantenere  incorrotte  le  cerimonie  della  religione,  e  tenerle 
sempre  nella  loro  venerazione;  perchè  nissuno  maggiore  in- 
dizio si  puole  avere  della  rovina  d'una  provincia,  che  ve- 
dere dispregiato  il  culto  divino.  Questo  è  facile  a  intendere, 
conosciuto  .che  si  è  in  su  che  sia  fondata  la  religione  dove 
r  uomo  è  nato;  perchè  ogni  religione  ha  il  fondamento  della 
vita  sua  in  su  qualche  principale  ordine  suo.  La  vita  della 
religione  gentile  era  fondata  sopra  i  responsi  delti  oracoli, 
e  sopra  la  setta  delli  arioli  e  delli  aruspici:  tutte  le  altre 
loro  cerimonie,  sacrifici!,  riti,  dependevano  da  questi;  per- 
chè loro  facilmente  credevano  che  quello  Dio  che  ti  poteva 
predire  il  tuo  futuro  bene  o  il  tuo  futuro  male,  te  lo  potessi 
ancora  concedere.  Di  qui  nascevano  i  tempii,  di  qui  i  sacri- 
ficii,  di  qui  le  supplicazioni,  ed  ogni  altra  cerimonia  in 
venerarli  :  perchè  l'oracolo  di  Delo,  il  tempio  di  Giove  Am- 
mone,  ed  altri  celebri  oracoli,  tenevano  il  mondo  in  ammi- 
razione, e  devoto.  Come  costoro  cominciarono  dipoi  a  par- 
lare a  modo  de' polenti,  e  questa  falsità  si  fu  scoperta  ne' 
popoli,  divennero  gli  uomini  increduli,  ed  atti  a  perturbare 
ogni  ordine  buono.  Debbono,  adunque,  i  Principi  d'una  repub- 
blica o  d'  un  regno,  i  fondamenti  della  religione  che  loro  ten- 
gono, mantenerli;  e  fatto  questo,  sarà  loro  facil  cosa  a  man- 
tenere la  loro  repubblica  religiosa,  e,  per  conseguente,  buona 
ed  unita.  E  debbono,  tutte  le  cose  che  nascono  in  favore  di 
quella,  come  che  le  giudicassino  false,  favorirle  ed  accre- 
scerle; e  tanto  più  lo  debbono  fare,  quanto  più  prudenti 
sono,  e  guanto  più  conoscitori  delle  cose  naturali.  E  perchè 
questo  modo  è  stato  osservato  dagli  uomini  savi,  ne  è  nata 
l'oppinione  dei  miracoli,  che  si  celebrano  nelle  religioni 
eziandio  false:  perchè  i  prudenti  gli  aumentano,  da  qua- 
lunche  principio  e'  si  nascano  ;  e  l' autorità  loro  dà  poi  a 

11 


d23  DEI   DISCORSI 

quelli  fede  appresso  a  qualunque.  Di  questi  miracoli  ne  fu  a 
Roma  assai;  e  intra  gli  altri  fu,  che  saccheggiando  i  soldati 
romani  la  città  de'  Veienti,  alcuni  di  loro  entrarono  nel  tcm- 
r    pio  di  Giunone,  ed  accostandosi  alla  immagine  di  quella,  e 
\   dicendole  vis  venire  Romarriy  parve  ad  alcuno  vedere  che  la 
\   accennasse;  ad  alcun  altro,  che  ella  dicesse  di  sì.  Perchè. 
^  sendo   quelli   uomini    ripieni  di  religione  (il  che  dimostra 
Tito  Livio,  perchè  nell'entrare  nel  tempio,  vi  entrarono  senza 
tumulto,  tutti  devoti  e  pieni  di  reverenza),  parve  loro  udire 
quella  risposta  che  alla  domanda  loro  per  avventura  si  ave- 
vano presupposta:  la  quale  oppinione  e  credulità,  da  Cam- 
■Dillo  e  dagli  altri  principi  della  città  fu  al  tutto  favorita  ed 
accresciuta.  La  quale  religione  se  ne*  Principi  della  repub- 
blica cristiana  si  fussc  mantenuta,  secondo  che  dal  datore 
d'essa  ne  fu  ordinato,  sarebbero  gli  slati  e  le  repubbliche 
cristiane  più  unite  e  più  felici  assai  ch'elle  non  sono.  Né  si 
può  fare  altra  maggiore  conieltura  della  declinazione  d'essa, 
quanto  è  vedere  come  quelli  popoli  che  sono  più  propinqui 
\alla   Chiesa   romana,  capo  della   religione   nostra,   hanno 
{meno  religione.  E  chi  considerasse  i  fondamenti  suoi,  e  ve- 
desse l'aso  presente  quanto  è  diverso  da  quelli,  giudiche- 
]  rebbe  esser  propinquo,  senza  dubbio,  o  la  rovina  o  il  flagello. 
:  E  perchè  sono  alcuni  d' oppinione,  che 'I  ben  essere  delle 
cofec  d' Italia  dipende  dalla  Chiesa  di  Roma,  *  voglio  contro 
ad  essa  discorrere  quelle  ragioni  che  mi  occorrono  :  e  ne  al- 
legherò due  poicniissime,  le  quali,  secondo  me,  non  hanno 
repugnanza.  La  prima  é,  che  per  gli  esempi  rei  di  quella 
corte,  questa  provincia  ha  perduto  ogni  divozione  ed  ogni 
religione:  il  che  si  tira  dietro  infiniti  inconvenienti  e  infi- 
niti  disordini;  perchè,  cosi  come  dove  è  religione  si  presup- 
pone ogni  bene,  cosi  dove  ella  manca  si  presuppone  il  con- 
trario. Abbiamo,  adunque,  con  la  Chiesa  e  con  i  preti  noi 

'  Da  questo  luogo  tino  al  leguente  perìodo  Questo  e  che  la  Chiesa,  l'edìx. 
Romana  compeodia ,  e  muta  quasi  in  apologia  la  gravissima  inrolpazione ,  cosi  : 
forse  SI  patria  dire  il  contrario,  avendo  rispetto  però  a  quelli  che  in  essa  Chiesa 
Romana  non  servano  tutti  quelli  precetti  che  debbono  servare»  anzi  vengono  ad 
adulterare  li  tanti  et  catolici  inxtituti,  li  quali  sono  stati  osservali.  Et  olir  a 
questo  ee.  Ma  ti  noti  cb*  essa  lascia  interamente  sussistere ,  dalla  voce  nostra 
(provincia}  in  fuori,  la  seconda  e  non  meno  terribile  accusa. 


LIBRO   PRIMO.  423 

llaliani  qaeslo  primo  obbligo,  d'essere  diventati  senza  reli- 
gione e  cattivi:  ma  ne  abbiamo  ancora  un  maggiore,  il 
quale  è  cagione  della  rovina  nostra.  Questo  è  che  la  Chiesa 
ha  tenuto  e  tiene  questa  nostra  provincia  divisa.  E  vera- 
mente, alcuna  provincia  non  fu  mai  unita  o  felice,  se  la  non 
viene  tutta  alla  obedienza  d' una  repubblica  o  d'  uno  prin- 
cipe, come  è  avvenuto  alla  Francia  ed  alla  Spagna.  E  la  ca- 
gione che  la  Italia  non  sia  in  quel  medesimo  termine,  né 
abbia  anch' ella  o  una  repubblica  o  uno  principe  che  la  go- 
verni, è  solamente  la  Chiesa:  perchè,  avendovi  abitato  e  le- 
rjuto  imperio  temporale,  non  è  stata  sì  potente  né  di  tal 
virtù,  che  T  abbia  potuto  occupare  il  restante  d'Italia,  e  far- 
sene principe;  e  non  ostata,  dall'altra  parte,  si  debile,  che, 
per  paura  di  non  perdere  il  dominio  delle  cose  temporali,  la. 
non  abbi  potuto  convocare  uno  potente  che  la  difenda  centra 
a  quello  che  in  Italia  fusse  diventato  troppo  potènte:  come 
si  è  veduto  anticamente  per  assai  esperienze,  quando  me- 
diante Carlo  Magno  la  ne  cacciò  i  Lombardi,  ch'erano  già 
quasi  re  di  tutta  Italia;  e  quando  ne*  tempi  nostri  ella  tolse 
la  potenza  a'  Veneziani  con  l' aiuto  di  Francia  ;  dipoi  ne  cac- 
ciò 1  Franciosi  con  l'aiuto  de'Svizzeri.  Non  essendo,  dunque, 
stata  la  Chiesa  potente  da  potere  occupare  l'Italia,  né  avendo 
permesso  che  un  altro  la  occupi,  è  stala  cagione  che  la  non 
è  potuta  venire  sotto  un  capo  ;  ma  è  stata  sotto  più  principi 
e  signori,  da' quali  è  nata  tanta  disunione  e  tanta  debolezza, 
che  la  si  è  condotta  ad  essere  slata  preda,  non  solamente 
di  Barbari  potenti,  ma  di  qualunque  l'assalta.  Di  che  noi 
altri  Italiani  abbiamo  obbligo  con  la  Chiesa,  e  non  con  al- 
tri. E  chi  ne  volesse  per  esperienza  certa  vedere  più  pronta 
la  verità,  bisognerebbe  che  fusse  di  tanta  potenza,  che  man- 
dasse ad  abitare  la  corte  romana,  con  l'autorità  che  l'ha  in 
Italia,  in  le  terre  de'Svizzeri;  i  quali  oggi  sono  quelli  soli 
popoli  che  vivono,  e  quanto  alla  religione  e  quanto  agli  or- 
dini militari,  secondo  gli  antichi:  e  vedrebbe  che  in'poco 
tempo  farebbero  più  disordine  in  quella  provincia  i  costumi 
tristi  di  quella  corte,  che  qualunche  altro  accidente  che  in 
qualunche  tempo  vi  potessi  surgere. 


Ì^À  DEI  DISCORSI 

Gap.  XIII.  —  Come  i  Romani  si  servirono  della  religione  per  or- 
dinare la  ciuà,  e  per  seguire  le  loro  imprese  o  fermare  i  (u- 
mulli. 

Ei  non  mi  pare  fuor  di  psoposilo  addurre  alcuno  csiMn- 
pìo  dove  i  Romani  si  servirono  della  religione  per  riordinare 
la  ciUà,  e  per  seguire  l'imprese  loro;  e  quantunque  in 
Tilo  Livio  ne  siano  molli,  nondimeno  voglio  essere  conlento 
a  quesli.  Avendo  crealo  il  Popolo  romano  i  Tribuni,  di  poic- 
sia  consolare,  e,  fuorché  uno,  lulli  plebei;  ed  essendo  oc 
corso  quello  anno  peste  e  fame,  e  venuti  certi  prodigii  ;  uso- 
rono  questa  occasione  i  Nobili  nella  nuova  creazione  de* Tri- 
buni, dicendo  che  li  Dii  erano  adirali  per  aver  Roma  male 
usata  la  maestà  del  suo  imperio,  e  che  non  era  altro  rime- 
dio a  placare  gli  Dii,  che  ridurre  la  elezione  de'Tribuni  nel 
luogo  suo:  di  che  nacque  che  la  Plebe,  sbigottita  da  questa 
religione,  creò  i  Tribuni  tutti  nobili.  Vedesì  ancora  nella 
espugnazione  della  città  de'Veienti,  come  i  capiiani  degli 
eserciti  si  valevano  della  religione  per  tenergli  disposti  ad 
una  impresa  :  che  essendo  il  lago  Albano,  quello  anno,  crc- 
scialo  mirabilmente,  ed  essendo  i  soldati  romani  inTasliditi 
per  la  lunga  ossidione,  e  volendo  tornarsene  a  Roma,  tro- 
varono i  Romani,  come  Apollo  e  certi  altri  responsi  dice- 
vano che  quell'anno  si  espugnerebbe  la  ciltà  de'Veienti, 
che  si  derivasse  il  lago  Albano  :  la  qual  cosa  fece  ai  soldati 
sopportare  i  fastidi  della  guerra  e  delia  ossidione,  presi  da 
questa  speranza  di  espugnare  la  terra  ;  e  slettono  contenti  a 
seguire  la  impresa,  tanto  che  Cammillo  fatto  Dittatore  cspu- 
.  gnò  delta  città,  dopo  dieci  anni  che  l'era  stata  assediata.  E 
1  cosi  la  religione,  usata  bene,  giovò  e  per  la  espugnazione  di 
^  quella  città,  e  per  la  restituzione  dei  Tribuni  nella  Nobillà  : 
che  senza  detto  mezzo  diflìcilmente  si  sarebbe  condotto  e 
I  r  uno  e  r  altro.  Non  voglio  mancare  di  addurre  a  questo  pro- 
posito un  altro  esempio.  Erano  naii  in  Roma  assai  tumulti 
per  cagione  di  Terentillo  Tribuno,  volendo  lui  promulgare 
certa  legge,  per  le  cagioni  che  di  sotto  nel  suo  luogo  si  di- 
ranno; e  tra  i  primi  rimedi  che  vi  usò  la  Nobillà,  fu  la  rcli- 


LIBRO   PRIMO.  l25 

gione  :  della  quale  si  servirono  in  duo  modi.  Nel  primo  fe- 
cero vedere  i  libri  Sibillini,  e  rispondere,  come  alla  città, 
mediante  la  civile  sedizione,  soprastavano  quello  anno  peri- 
coli di  non  perdere  la  libertà  :  la  qual  cosa,  ancora  che  fusse 
scoperta  da'  Tribuni,  nondimeno  messe  tanto  terrore  ne'  petti 
della  Plebe,  che  la  ralTreddò  nel  seguirli.  L'altro  modo  fu, 
che  avendo  uno  Appio  Erdonio,  con  una  moltitudine  di 
sbanditi  e  di  servi,  in  numero  di  quattromila  uomini,  occu- 
pato di  nelle  il  Campidoglio,  in  tanto  che  si  poteva  temere, 
«hesegli  Equi  ed  i  Volsci,  perpetui  nemici  al  nome  romano, 
ne  fossero  venuti  a  Roma,  la  arebbono  espugnata;  e  non 
cessando  i  Tribuni  per  questo  di  insistere  nella  pertinacia 
loro  di  promulgare  la  legge  Terentilla,  dicendo  che  quello 
insulto  era  fittizio  e  non  vero  :  uscì  fuori  del  Senato  uno  Pu- 
blio Rubezio,  cittadino  grave  e  di  autorità,  con  parole  parje 
amorevoli,  pajte  minaccianti,  mostrandoli  i  pericoli  della 
cìTlàT^  la  intempestiva  domanda  loro;  tarlo  che  e'  con- 
strinse la  Plebe  a  giurare  di  non  si  partire  d^Ua  voglia  del 
Consolo:  onde  che  la  Plebe  obediente,  per  forza  ricuperò  il 
Campidoglio.  Ma  essendo  in  tale  espugnazione  morto  Publio 
Valerio  consolo,  subito  fu  rifallo  cor'.solo  Tito  Quinzio;  il 
quale  per  non  lasciare  riposare  la  ì?lebe,  né  darle  spazio  a 
ripensare  ?.lla  legge  Terentilla,  le  comandò  s'uscissi  di 
Roma  per  andare  conira  a*  Volsci,  dicer?do  che  per  quel  giu- 
ramento aveva  fatto  di  non  abbandonare  il  Consolo,  era  ob- 
bligata a  seguirlo;  a  che  i  Tribuni  si  opponevano,  dicendo 
come  quel  giuramento  s'era  dato  al  Consolo  morto,  e  non  a 
lui.  Nondimeno  Tito  Livio  mostra,  come  la  Plebe  per  paura 
della  religione  volle  più  presto  obedire  al  Consolo,  che  cre- 
dere a' Tribuni  ;  dicendo  in  favore  della  antica  religione  que- 
ste parole:  Nondum  Iicec,  quoe  nunc  lerelscoculum.neijUgcnlia 
Deùm  venerai,  nec  inlerprctando  sibi  quisque  jw^jurandum  et 
le(jes  aplas  faciebal.  Per  la  qual  cosa  dubitando  i  Tribuni  di 
non  perdere  allora  tutta  la  lor  degnila,*  sì  accordarono  col 
Consolo  di  stare  alla  obedienza  di  quello  ;  e  che  per  uno  anno 
non  si  ragionasse  della  legge  Terentilla,  ci  i  Consoli  per  uno 
anno  non  potessero  trarre  fuori  la  Plebe  alla  guerra.  E  cosi 

*  Male  ncH'ciliz.  ilei  DuUaii,  e  nella  Testina:  /a  loro  libertà. 

Il* 


1:26  DEI    DISCORSI 

la  religione  fece  al  Senato   vincere   quella   difficuUà,    che 
senza  essa  mai  non  arebbe  vinto. 

Cap.  XIV.  —  /  lìomani  inlerprelavano  gli  auspicii  secondo  (a 
necessilà,  e  con  la  prudenza  mostravano  di  osservare  la 
religione,  quando  forzali  non  V  osservavano  ;  e  se  alcuno 
lemerariamenle  la  dispregiava,  lo  punivano. 

Non  solamente  gli  aagarii,  come  di  sopra  si  è  discorso, 
erano  il  fondamento  in  buona  parte  dell'  antica  religione  de' 
Gentili,  ma  ancora  erano  quelli  che  erano  cagione  del  bene 
essere  della  Repubblica  romana.  Donde  i  Romani  ne  avevano 
più  cura  che  di  alcuno  altro  ordine  di  quella;  ed  usavangli 
ne' cornili  consolari,  nel  principiare  le  imprese,  nel  Irar 
fuori  gli  eaerctli,  nel  fare  le  giornate,  ed  in  ogni  azione  loro 
importante,  o  civile  o  militare  ;  né  mai  sarebbono  iti  ad  una 
espedizione,  che  non  avessino  persuaso  ai  soldati  che  gli  Dei 
promcllevaoQ  loro  la  vittoria.  Ed  infra  gli  altri  auspicii,  ave- 
vano negli  eseri: ili  ccrli  ordini  di  aruspici, *  che  e'chiamavano 
Pollarli  :  e  qualunque  volta  eglino  ordinavano  di  fare  la  gior- 
nata col  nemico,  volevano  che  i  Pollarii  facessino  i  loro  au- 
spicii ;  e  beccando  i  poMi,  combattevano  con  buono  augu  io; 
non  beccando,  si  asteneva^no  dalU  xofla.  Nondimeno,  quando 
la  ragione  mostrava  loro  una  cosa  «fofersi  fare,  non  ostante 
che  gli  auspicii  fossero  avversi,  la  facevano  in  ogni  modo; 
ma  rivoltavanla  con  termini  e  modi  tanto  attamente,  che  non 
paresse  che  la  facessino  con  dispregio  della  religione:  il 
quale  termine  fu  usalo  da  Papirìo  consolo  in  una  zuffa  che 
fece  importantissima  coi  Sanniti,  dopo  la  quale  restorno  in 
lutto  deboli  ed  afflitti.  Perchè,  sendo  Papirio  in  su'  campi 
rincontro  ai  Sanniti,  e  parendogli  avere  nella  zuffa  la  vitto- 
ria certa,  e  volendo  per  questo  fare  la  giornata,  comandò  ai 
Pollarii  che  facessino  i  loro  auspicii  ;  ma  non  beccando  i  poi* 
li,  e  veggendo  il  principe  de'  Pollarii  la  gran  disposizione 

*  Le  edicipni  che  d  servono  di  riscontro  hanno  tnlte  »  /ra  gli  altri  ariupi- 
cii  (o  aruspici)  avevano  ..  certi  ordini  di  atispiciii  e  quella  del  Biado  ambedue 
le  volte:  aitspicii.  La  nostra  correzione  non  ba,  ci  $eni)>ra ,  bisogno  di  essere 
giu&liGcala. 


LIBRO    PRIMO.  d27 

dello  esercito  di  comballere,  e  la  oppinione  che  era  nel  capi- 
Uino  ed  in  tulli  i  soldati  di  vincere,  per  non  tórre  occasione 
di  bene  operare  a  quello  esercito,  riferi  al  Consolo  come  gli 
auspicii  procedevano  bene:  talché  Papirio  ordinando  le  squa- 
dre, ed  essendo  da  alcuni  de'  Pollarii  dello  a  certi  soldati,  i 
polli  non  aver  beccalo,  quelli  lo  dissono  a  Spurio  Papirio 
nipote  del  Consolo  ;  e  quello  riferendolo  al  Consolo,  rispose 
subilo,  ch'egli  adendesse  a  fare  l'ofiTizio  suo  bene,  e  che 
quanto  a  lui  ed  allo  esercito  gli  auspicii  erano  retti  ;  e  se  il 
Pollarlo  aveva  detto  le  bugie,  ritornerebbono  in  pregiudicio 
suo.  E  perchè  lo  effetto  corrispondesse  al  pronostico,  comandò 
ai  legali  che  consliluissino  i  Pollarii  nella  prima  fronte  della 
zuffa.  Onde  nacque  che,  andando  conlra  ai  nemioi,  sendo  da 
un  soldato  romano  tratto  uno  dardo,  a  caso  ammazzò  il  prin- 
cipe de' Pollarii  :  la  qual  cosa  udita  il  Console,  disse  come 
ogni  cosa  procedeva  bene,  e  col  favore  degli  Dii  ;  perchè  Io 
esercito  con  la  morte  di  quel  bugiardo  si  era  purgato  da  ogni 
colpa,  e  da  ogni  ira  che  quelli  avessino  preso  conlra  di  lui. 
E  cesi,  col  sapere  bene  accomodare  i  disegni  suoi  agli  auspi- 
cii, prese  parlilo  di  azzuffarsi,  sen ',a  che  quello  esercito  si 
avvedesse  che  in  alcuna  parte  quello  avesse  negletti  gli  or- 
dini della  loro  religione.  Al  coptrario  fece  Appio  Pulcro  in 
Sicilia,  nella  prima  gwe.rra  punica:  che  volendo  azzuffarsi 
con  l'esercito  cartaginese,  fece  fare  gli  auspicii  a' Pollarii;  e 
referendogli  quelli,  come  i  polli  non  beccavano,  disse:  veggìa- 
mo  se  volessero  bere  ;  e  gli  fece  gitlare  in  mare.  Donde  che, 
azzuffandosi,  perdette  la  giornata  :  di  che  egli  ne  fu  a  Roma 
condennato,  e  Papirio  onorato:  non  tanto  per  aver  l'uno  vinto 
e  l'altro  perduto,'  quanto  per  aver  l'uno  fallo  conlra  agli 
auspicii  prudentemente  e  l'  altro  temerariamente.  Né  ad  al- 
tro fine  tendeva  questo  modo  dello  aruspicare,  che  di  fare  i 
soldati  confidenlemenle  ire  alla  zuffa;  dalla  quale  confidenza 
quasi  sempre  nasce  la  vittoria.  La  qual  cosa  fu  non  solamente 
usata  dai  Romani,  ma  dalli  esterni:  di  che  mi  pare  di  ad- 
durre uno  esempio  nel  seguente  capitolo. 

*  Così  nella  Romana.  Nelle  allre:  l' uno  perduto  e  V  allrò  vinto. 


1^8  I>G1   DISCORSI 

Gap.  XV.  —  Come  t  Sannili ,  per  estremo  rimedio  alle  cose 
loro  affline,  rieorsono  alla  religione. 

Avendo  i  Sanniti  avole  più  rolle  dai  Romani,  ed  o^. 
sendo  slati  per  oltiroo  diblralti  in  Toscana,  e  morti  ì  loto 
eserciti  e  gli  loro  capitani  ;  ed  «$scndo  stali  vinti  i  loro  com- 
pagni, come  Toscani,  Franciosi  ed  Umbri;  nee  mii ,  n^  ex» 
Icmit  virUfUi  jam  tiare  p^leranl  :  (amen  hello  non  «(fMlilkaiiI, 
adeo  ne  infeliciler  quidem  defensa  liberlatis  Ictdrbat,  ti  vinci, 
quam  non  Untare  vicloriam»  malebant.  Onde  deliberarono  far- 
ultima  pfjva:  e  perchè  ei  sapevano  che  a  voler  vincere 
era  necessario  indarre  ostinazione  necli  animi  de* soldati,  e 
che  a  indarla  non  v'  era  mislinr  mezzo  che  la  religione  ; 
pensarono  di  ripeCefa  «so  antico  loro  sacrifìcio,  mediante 
Ovio  Faccio,  lora  aaetffdote.  Il  qaale  ordinarono  in  questa 
Torma  :  che,  fallo  il  sacrifìcio  solenne,  e  fatto  intra  le  vittime 
morte  e  gli  ailari  i  cesi  giurare  tatti  i  capi  dello  esercito 
di  non  abbandonare  mai  la  lufla,  citarono  i  soldati  ad  ano 
ad  ano;  ed  intra  qaelli  altari,  nel  mezzodì  più  centurioni  con 
le  spade  nude  in  mano,  gli  facevano  prima  giurare  che  non 
ridirebbono  tota  ebt  vedessino  o  sontissino  ;  dipoi,  con  parole 
esecrabili  e  versi  pieni  di  apavea(o«  gli  facevano  giurare  e 
promettere  agli  Dii,  d'eaiere  presti  dove  gli  imperadori  gli 
comandassino,  e  di  non  si  fogsire  mai  dalla  zu(T^,  e  d'am- 
mazzare qualunque  vedessino  che  si  fuggisse  :  la  qual  cosa 
non  osservata,  tornasse  sopra  il  capo  della  sua  famiglia  e 
della  soa  stirpe.  Ed  essendo  sbigottiti  alcuni  di  loro,  non  vo- 
lendo giurare,  subito  da*  loro  centurioni  erano  morti  ;  talché 
gli  altri  che  succedevano  poi,  impauriti  dalla  ferocità  dello 
spettacolo,  giurarono  tutti.  E  per  fare  questo  loro  assembra- 
mento più  magnifìco,  scodo  quarantnmiia  uomini,  ne  vesti- 
rono la  metà  di  paoni  bianchi,  con  creste  e  pennacchi  sopra 
le  celale  ;  e  cosi  ordinati  si  posero  presso  ad  Aquilonia.  Con* 
Ira  a  costoro  venne  Papirìo;  il  quale,  nel  confori^ire  i  suoi  sol* 
dati,  disse:  Aon  enim  eritlas  vulnera  fncere^  et  pietà  atque 
aurata  scula  Iransire  romanum  pileum.  E  per  debilitare  la  op- 
pinionc  che  avevano  i  suoi  soldati  de'nemici  per  il  giuramcnlu 


LIBRO   PRIMO.  129 

preso,  disse  che  quello  era  "per  essere  loro  a  timore,  non  a  for- 
tezza; perchè  in  quel  medesimo  tempo  avevano  avere  paura 
de'ciltadini,  degli  Dii,  e  de'nimici.  E  venuti  al  conflitto,  fu- 
rono superali  i  Sanniti;  perchè  la  virtù  romana,  ed  il  timore 
conceputo  per  le  passate  rotte,  superò  qualunque  ostinazione 
ei  potessino  avere  presa  per  virtù  della  religione  e  per  il 
giuramento  preso.  Nondimeno  si  vede  come  a  loro  non  parve 
potere  avere  altro  rifugio,  né  tentare  altro  rimedio  a  poter 
pigliare  speranza  di  ricuperare  la  perduta  virtù.  Il  che  testi- 
fica appieno,  quanta  confidenza  si  possa  avere  mediante  la 
religione  bene  usata.  E  benché  questa  parte  piuttosto,  per 
avventura,  si  richiederebbe  esser  posta  intra  le  cose  estrinse- 
che; nondimeno,  dependendo  da  uno  ordine  de'più  importanti 
della  Repubblica  di  Roma,  mi  é  parso  da  commetterlo  in 
questo  luogo,  per  non  dividere  questa  materia,  ed  averci  a 
ritornare  più  volte. 

Gap.  XVI.  —  Un  popolo  uso  a  vivere  soUo  un  principe^  se 
per  qualche  accidente  diventa  Ubero,  con  di jficuUà  mantiene 
la  libertà. 

Quanta  difficultà  sia  ad  uno  popolo  uso  a  vivere  sotto 
un  principe,  preservare  dipoi  la  libertà,  se  per  alcuno  acci- 
dente l'acquista,  come  l'acquistò  Roma  dopo  la  cacciata  de' 
Tarquini;  lo  dimostrano  infiniti  esenip'  che  si  leggono  nelle 
memorie  delle  auliche  istorie.  E  tale  dillìcollà  è  ragionevo- 
le; perchè  quel  popolo  è  non  altrimenti  che  uno  animale  bru- 
to, il  quale,  ancora  che  di  feroce  natura  e  silvestre,  sia  stalo 
nudrilo  sempre  in  carcere  ed  in  servitù,  che  dipoi  lasciato  a 
sorte  in  una  campagna  libero,  non  essendo  uso  a  pascersi, 
né  sappiendo  le  latebre  dove  si  abbia  a  rifuggire,  diventa 
preda  del  primo  che  cerca  rincalenarlo.  Questo  medesima 
interviene  ad  uno  popolo,  il  quale  sondo  uso  a  vivere  sotto 
ì  governi  d'altri,  non  sappiendo  ragionare  né  delle  difese  o 
offese  pubbliche,  non  cognoscendo  i  principi  né  essendo  co- 
nosciuto da  loro,  ritorna  presto  sotto  un  giogo,  il  quale  il 
più  delle  volte  è  più  grave  che  quello  che  per  poco  innanzi  * 

*  La  Blailiana  :  c/ie  pocr  innanzi 


J30  DEI  DISCORSI 

si  aveva  levalo  d'in  su  'I  collo:  e  trovasi  in  queste  diflìcullà, 
ancora  che  la  materia  non  sia  in  tulio  corrotta;  perchè  in  * 
t  uno  popolo  dove  in  lutto  è  entrata  la  corruzione,  non  può, 
non  che  picciol  tempo,  ma  punto  vivere  libero,  come  di 
solto  si  discorrerà:  e  però  ì  ragionamenti  nostri  sono  di 
quelli  popoli  dove  la  corruzione  non  sia  ampliala  assai,  e 
dove  sia  più  del  buono  cfie  dèi  gu;r5Tò7^ggiurig:esi  alla  so- 
prascritta, un'altra  diflìcullà;  la  quate  è,  che  lo  sialo  che 
diventa  libero,  si  fa  partigiani  nemici,  e  non  partigiani 
amici.  Partigiani  nemici  gli  diventano  tutti  coloro  che  dello 
slato  tirannico  si  prevalevano,  pascendosi  delle  ricchezze 
del  principe;  a'quali  sendo  tolta  la  facultà  del  valersi,  non 
possono  vivere  contenti,  e  sono  forzali  ciascuno  di  tentare 
I  di  riassumere  la  tirannide,  per  ritornare  neir  autorità  loro. 
Non  si  acquista,  come  ho  dello,  partigiani  amici;  [)crchè  il 
vivere  libero  propone  onori  e  prcmii,  medianti  alcune  oneste 
e  determinate  cagioni,  e  fuori  di  quelle  non  premia  ne  onora 
t^  L    alcuno;  ^  quando  uno  ha  quelli  onori  e  quelli  utili  che  gli 

M^  I  pare  meritare,  non  confessa  avere  obbligo  con  coloro  che  lo 
rimunerano.  Oltre  a  questo,  quella  comune  utilità  che  del 
vivere  libero  si  trae,  non  è  da  alcuno,  mentre  che  ella  si 
possiede,  conosciuta:  la  quale  è  di  potere  godere  liberamente 
le  cose  sue  senza  alcuno  sospetto,  non  dubitare  dell'onore 
delle  donne,  di  quel  de*  figliuoli,  non  temere  di  sé;  perchè 
nissuno  confesserà  mai  aver  obbligo  con  uno  che  non  l'of- 
fenda. Però,  come  di  sopra  si  dice,  viene  ad  avere  lo  stalo 
libero  e  che  di  nuovo  surge,  partigiani  nemici,  e  non  parti- 
giani amici.  E  volendo  rimediare  a  questi  inconvenienti,  e  a 
quegli  disordini  che  le  soprascritte  diflìcullà  si  arrechereb- 

/  f  bono  seco,  non  ci  è  più  potente  rimedio,  né  più  valido,  né 

più  sano,  né  più  necessario,  che  ammazzare  i  figliuoli  di 
Bruto:  i  quali,  come  l'istoria  mostra,  non  furono  indotti, 
insieme  con  altri  gioveni  romani,  a  congiurare  contra  alla 
patria  per  altro,  se  non  perché  non  si  potevano  valere 
f  straordinariamente  sotto  i  Consoli,  come  sotto  i  Re;  in  modo 
che  la  libertà  di  quel  popolo  pareva  che  fosse  diventata  la 
loro  servitù.  E  chi  prende  a  governare  una  moltitudine,  o 

'  Questo  in ,  di  tulle  le  cdiziooi ,  è ,  chi  Lene  vi  guardi ,  apposticelo. 


Jif 


^'- 


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1 


LIBRO   PRIMO.  i31 

per  vìa  dì  libertà  o  per  vìa  dì  principato,  e  non  si  assicura 
di  coloro  che  a  quell'ordine  nuovo  sono  nemici,  fa  uno  slato 
di  poca  vita.  Vero  è  ch'io  giudico  infelici  quelli  principi, 
che  per  assicurare  lo  stalo  loro  hanno  a  tenere  vie  straordi- 
narie, avendo  per  nenaici  la  moltitudine:  perchè  quello  che 
ha  per  nemici  i  pochi,  facilmente,  e  senza  molti  scandali,  si 
assicura;  ma  chi  ha  per  nemico  l'universale,  non  si  assicura 
mai;  e  quanta  più  crudeltà  usa,  tanto  diventa  più  debole  il 
suo  principalo.  Talché  il  maggior  rimedio  che  si  abbia,  è  J 
cercare  di  farsi  il  popolo  amico.  E  benché  questo  discorso 
sia  disforme  dal  soprascritto,  parlando  qui  d*  un  principe  e 
quivi  d'una  repubblica  ;  nondimeno,  per  non  avere  a  tornare 
più  in  su  questa  materia,  ne  voglio  parlare  brevemente. 
Volendo,  pertanto,  un  prìncipe  guadagnarsi  un  popolo  che  gli 
fusse  nemico,  parlando  di  quelli  principi  che  sono  diventati 
della  loro  patria  tiranni;  dico  ch'ei  debba  esaminare  prima 
quello  che  il  popolo  desidera,  e  troverà  sempre  ch'ei  desi- 
dera due  cose:  l'una  vendicarsi  contro  a  coloro  che  sono 
cagione  che  sia  servo;  l'altra  di  riavere  la  sua  libertà.  Al 
primo  desiderio  il  principe  può  satisfare  in  tutto,  al  secondo 
in  parte.  Quanto  al  primo,  ce  n'é  lo  esempio  appunto.  Clear- 
co,  tiranno  di  Eraclea,  sendo  in  esilio,  occorse  che,  per 
controversia  venuta  intra  il  popolo  e  gli  ottimati  dì  Eraclea, 
*  veggendosi  gli  ottimati  inferiori,  si  volsono  a  favorire  Clear- 
co,  e  congiuratisi  seco  lo  missono,  centra  alla  disposizione 
popolare,  in  Eraclea,  e  tolsono  la  libertà  al  popolo.  In  modo 
che,  trovandosi  Clearco  intra  la  insolenzia  degli  ottimati,  i 
quali  non  poteva  in  alcun  modo  né  contentare  né  corregge- 
re, e  la  rabbia  de'popolari,  che  non  potevano  sopportare  lo 
avere  perduta  la  libertà,  deliberò  ad  un  tratto  liberarsi  dal 
fastidio  de'grandi ,  e  guadagnarsi  il  popolo.  E  presa  sopra 
questo  conveniente  occasione,  tagliò  a  pezzi  tutti  gli  ottimati, 
con  una  estrema  satisfazione  de'  popolari.  E  così  egli  per 
questa  vìa  satisfece  ad  una  delle  voglie  che  hanno  i  popoli, 
cioè  di  vendicarsi.  Ma  quanto  all'altro  popolare  desiderio  di 
riavere  la  sua  libertà,  non  potendo  il  principe  satisfargli, 

*  Qui  la  Bladiana  ripete  superfluamente  il  che,  secondo  il  vezzo,  in  specie, 
del  secolo  XV ,  nel  quale  il  nostro  Autore  era  nato. 


iS'ì  DEI   DISCORSI 

debbe  esaminare  quali  cagioni  sono  quelle  che  gli  fanno  de- 
siderare d'essere  liberi;  e  Iroverà  che  una  piccola  parie  di 
loro  desidera  d'essere  libera  per  comandare;  ma  talli  gli  al- 
tri, che  sono  infiniti,  desiderano  la  libertà  per  vivere  securi 
Perchè  in  tutte  le  repubbliche,  in  qualunque  modo  ordinate, 
ai  gradi  del  comandare  non  aggiungono  mai  quaranta  o  cin- 
quanta cittadini:  e  perchè  questo  è  piccolo  numero,  è  facil 
cosa  assicurarsene,  o  con  levargli  via,  o  con  far  lor  parte 
di  tanti  onori,  che  secondo  le  condizioni  loro  essi  abbino  in 
buoua  parte  a  contentarsi.  Quelli  altri,  ai  quali  basta  vivere 
securi,  si  satisfanno  facilmente,  facendo  ordini  e  leggi,  dove 
insieme  con  la  potenza  sua  si  comprenda  la  sicurità  univer- 
sale. E  quando  uno  principe  faccia  questo,  e  che  il  popolo 
vegga  che  per  accidente  nessuno  ei  non  rompa  tali  legtti, 
comincerà  in  breve  tempo  a  vivere  securo  e  conlento.  In 
esempio  ci  è  il  regno  di  Francia,  il  quale  non  vive  securo 
l>er  altro,  che  per  essersi  quelli  re  obbligali  ad  infinite  leg- 
gi, nelle  quali  si  comprende  la  securtà  di  lutti  i  suoi  popoli. 
E  chi  ordinò  quello  stalo,  volle  che  quelli  Re,  dell'arme  e 
del  danaio  facessino  a  loro  modo,  ma  che  d'ogni  altra  cosa 
non  ne  potessino  altrimenti  disporre  che  le  leggi  si  ordinas- 
sino.  Quello  principe,  adunque,  o  quella  repubblica  che  non 
si  assicura  nel  principio  dello  slato  suo,  conviene  che  si  as- 
sicuri nella  prima  occasione,  come  fecero  i  Romani.  Chi 
lascia  passare  quella,  si  pente  tardi  di  non  aver  fallo  quello 
che  doveva  fare.  Scndo,  pertanto,  il  popolo  romano  ancora 
non  corrotto  quando  ei  recuperò  la  libertà,  potette  mante- 
nerla, morti  i  figliuoli  di  Bruto  e  spenti  i  Tarquini,  con 
tulli  quelli  rimedi  ed  ordini  che  altra  volta  si  sono  discorsi. 
Ma  se  fusse  stato  quei  popolo  corrotto,  né  in  Roma  né  altrove 
si  trovano  ^  rimedi  validi  a  mantenerla;  come  nel  seguente 
capitolo  mostreremo. 

*  Coti  la  Romana  e  la  Testina  ;  le  altre  :  si  trovavano.  Logiramenle  però 
ne  1*  ano  ne  l' allro  soddisfa  ;  e  sarebbe  convenuto  scrivere  t  oè  io  Roma  ti  tro- 
vavano,  ne  allrore  si  trovano;  o:  troverebbero. 


LIBRO    PRIMO.  133 

Gap.  XVII.  —  Uno  popolo  corrotto,  venuto  in  libertà,  si  può 
con  difficoltà  grandissima  mantenere  Ubero. 

Io  giudico  che  gli  era  necessario,  o  che  i  Re  si  eslin- 
guessino  in  Roma,  o  che  Roma  in  brevissimo  lempo  div«-,.,  •' 
nissi  debole,  e  di  nessuno  valore:  perchè,  considerando  a 
quanta  corruzione  erano  venuti  quelli  Re,  se  fussero  segui- 
tati cosi  due  o  tre  successioni,  e  che  quella  corruzione  che 
era  in  loro,  si  fussi  cominciata  a  distendere  per  le  membra; 
come  le  membra  fussino  state  corrotte,  era  impossibile  mai 
più  riformarla.  Ma  perdendo  il  capo  quando  il  busto  era  in- 
tero, poterono  facilmente  ridursi  a  vivere  liberi  ed  ordinati. 
E   debbesi   presupporre   per  cosa  verissima,  che  una  città 
corrotta  che  vive  sotto  un  principe,  ancora  che  quel  principe 
con  tutta  la  sua  stirpe  si  spenga,  mai  non  si  può  ridurre  li- 
bera; anzi  conviene  che  1'  un  principe  spenga  l'altro:  e  senza 
creazione  d'un   nuovo  signore  non  si  posa  mai,  se  già  la 
bontà  d'uno,  insieme  con  la  virtij,  non  la  tenessi  libera;  ma 
durerà  tanto  quella  libertà,  quanto  durerà  la  vita  di  quello: 
come  intervenne  a  Siracusa  di  Dione  e  diTimoleone,  la  virtù 
de' quali  in  diversi  tempi,  mentre  vissero,  (enne  libera  quella 
città;  morti  che  furono,  si  ritornò  nell'antica  tirannide.  Ma 
non  si  vede  il  più  forte  esempio  che  quello  di  Roma  ;  la  quale 
cacciali   i  Tarquini,    potette  subito  prendere  e  mantenere 
quella  libertà  :  ma  morto  Cesare,  morto  Caligula,  morto  ^Q'ÌAh^^ 
,  rone,  spenta  tutta  la  stirpe  cesarea,  non  potette  mai,  non     ,^  tt  A 
solamente  mantenere,  ma  pure  dare  principio  alia  libertà.r    '     ^ 
Né  tanta  diversità  di  evento  in  una  medesima  città  nacque  '»'       ^ 
da  altro,  se  non  da  non  essere  ne'  tempi  de'  Tarquini  il  Po- 
polo romano  ancora  corrotto  ;  ed  in  questi  ultimi  tempi  essere  \^^^^^^ 
corrottissimo.  Perchè  allora,  a  mantenerlo  saldo  e  disposto  a 
fuggire  i  Re,  bastò  solo  farlo  giurare  che  non  consentirebbe 
mai  che  a  Roma  alcuno  regnasse;  e  negli  altri  tempi,  non 
bastò  r  autorità  e  severità  di  Bruto,  con  tutte  le  legioni  orien- 
tali, a  tenerlo  disposto  a  volere  mantenersi  quella  libertà 
che  esso,  a  similitudine  del  primo  Bruto,  gli  aveva  renduta.  Il     /    t^ 
che  nacque  da  quella  corruzione  che  le  parti  mariane  ave-        "yj 


134  DEI    DISCORSI 

vano  messa  nel  popolo  ;  delle  quali  essendo  capo  Cesare, 
potede  accecare  quella  molliludine,  ch'ella  non  conobbe  il 
giogo  che  da  sé  medesima  si  metteva  in  sul  collo.  E  benché 
questo  esempio  di  Roma  sia  da  preporre  a  qualunque  al- 
tro esempio,  nondimeno  voglio  a  questo  proposito  addurre 
innanzi  popoli  conosciuti  ne'  nostri  tempi.    Pertanto  dico, 

f  che  nessuno  accidente,  benché  grave  e  violento,  potrebbe 
redurre  mai  Milano  o  Napoli  libere,  per  essere  quelle  mem- 
bra tutte  corrotte.  Il  che  si  vide  dopo  la  morte  di  Filippo 

'  Visconti  ;  che  volendosi  ridurre  Milano  alla  libertà,  non  po- 
tette e  non  seppe  mantenerla.  Però,  fu  felicità  grande  quella 
di  Roma,  che  questi  Re  diventassero  corrotti  presto,  acciò 
ne  fussino  cacciati,  ed  innanzi  che  la  loro  corruzione  fussc 
passata  nelle  viscere  di  quella  città  :  la  quale  incorruzione  * 
fu  cagione  che  gì' infiniti  tumulti  che  furono  in  Roma, 
avendo  gli  uomini  il  fine  buono,  non  noccrono,  anzi  giova- 
rono alla  Repubblica.  E  si  può  fare  questa  conclusione,  che 
dove  la  materia  non  è  corrotta,  i  tumulti  ed  altri  scandali 
non  nuocono:  dove  la  ó  corrotta,  le  leggi  bene  ordinate  non 
giovano,  se  già  le  non  son  mosse  da  uno  che  con  una  estre- 
ma forza  lo  facci  osservare,  tanto  che  la  materia  diventi  buo- 
if^f,j^  na.  Il  che  non  so  se  sie  *  mai  intervenuto,  o  se  fusse  possi- 
bile ch'egli  intervenisse:  perché  e' si  vede,  come  poco  di 
sopra  dissi,  che  una  città  venuta  in  declinazione  per  corru- 
zione di  materia,  se  mai  occorre  che  la  si  levi,  occorre  per 

,  la  virtù  d'uno  uomo  eh' è  vivo  allora,  non  per  la  virtù  del- 

.  lo  universale  che  sostenga  gli  ordini  buoni  ;  e  subilo  che  quel 
f*^  \  tale  é  morto,  la  si  ritorna  nel  suo  pristino  abito  :  come  inter- 
venne a  Tebe,  la  quale  per  la  virtù  di  Epaminonda,  mentre 
lui  visse,  potette  tenere  forma  di  repubblica  e  di  imperio; 
ma  morto  quello,  la  si  ritornò  ne'  primi  disordini  suoi.  La 
cagione  è,  che  non  può  essere  un  uomo  di  tanta  vita,  che  'I 
tempo  basti  ad  avvezzare  bene  una  città  lungo  tempo  male 

*  La  comune  delle  stampe  h»  corruzione:  T  emenda  opporlunissima  e  neces- 
saria vedesi  nella  sola  edit.  del  i813. 

S  Tutte  le  edixioni  hanno,  non  bene,  al  mio  credttt :  ti i  j  cbe  quando 
fosse  lezione  sincera ,  com'  è  coilrullo  inusilalo ,  avrebbe  per  corrispondente  di 
sotto  :  s' intervenisse. 


ì 


I 


LIBRO    PRIMO.  135 

avvezza.  E  se  uno  d'una  lunghissima  vita,  o  due  successioni 
virtuose  continove  non  la  dispongono;  come  una  manca  di 
loro,  come  di  sopra  è  dello,  subilo  rovina,  se  già  con  molti 
pericoli  e  molto  sangue  e'  non  la  facesse  rinascere.  Perchè 
tale  corruzione  e  poca  attitudine  alla  vita  libera,  nasce  da  una 
inequalità  che  è  in  quella  città;  e  volendola  ridurre  equale, 
è  necessario  usare  grandissimi  estraordinari;  i  quali  pochi 
sanno  o  vogliono  usare,  come  in  altro  luogo  più  particolar- 
mente si  dirà. 

Gap.  XVIII.  —  In  che  modo  nelle  cillà  corrotte  si  potesse  man- 
tenere uno  stalo  libero,  essendovi;  o  non  essendovi,  ordì- 
narvelo. 

Io  credo  che  non  sia  fuori  di  proposito,  né  disforme  dal 
soprascritto  discorso,  considerare  se  in  una  città  corrotta  si 
può  mantenere  lo  stato  libero,  sendovi;  o  quando  e*  non  vi 
fusse,  se  vi  si  può  ordinare.  Sopra  la  qual  cosa  dico,  come 
gli  è  molto  dilììcile  fare  o  l'uno  o  l'altro:  e  benché  sia  quasi 
impossibile  darne  regola,  perché  sarebbe  necessario  proce- 
dere secondo  i  gradi  della  corruzione;  nondimanco,  essendo 
bene  ragionare  d'ogni  cosa,  non  voglio  lasciare  questa  in- 
dietro. E  presuppongo*  una  cillà  corrottissima,  donde  verrò 
ad  accrescere  più  tale  dilTicultà;  perchè  non  si  trovano  jiè 
leggi  né  ordini  che  bastino  a  frenare  una  universale  corru- 
zione. Perchè,  così  come  gli  buoni  costumi,  per  mantenersi, 
iranno  bisogno  delle  leggi;  cosi  le  leggi,  per  osservarsi,  hanno 
bisogno  de'buoni  costumi.  Oltre  di  questo,  gli  ordini  e  le  leggi 
fatte  in  una  repubblica  nel  nascimento  suo,  quando  erano 
gli  uomini  buoni,  non  sono  dipoi  più  a  proposilo,  divenuti 
che  sono  tristi.  E  se  le  leggi  secondo  gli  accidenti  in  una 
città  variano,  non  variano  mai,  o  rade  volte,  gli  ordini  suoi: 
il  che  fa  che  le  nuove  leggi  non  bastano,  perché  gli  ordini, 
che  stanno  saldi,  le  corrompono.  E  per  dare  ad  intendere 
meglio  questa  parte,  dico  come  in  Roma  era  l'ordine  del 
governo,  o  vero  dello  stalo;  e  le  leggi  dipoi,  che  con  i  ma- 
gistrati frenavano  i  cittadini.  L'ordine  dello  slato  era  l'auto- 

*  Cosi  la  Bladiaiia;  le  altre:  prcstipjorrò. 


J36  DEI  DISCORSI 

rilà  del  Popolo,  del  Senato,  dei  Tribani,  dei  Consoli,  il  modo 
di  chiedere  e  del  creare  i  magistrali,  ed  il  modo  di  fare  le 
leggi.  Questi  ordini  poco  o  nulla  variarono  nelli  accidenli. 
Variarono  le  leggi  che  frenavano  i  cittadini;  come  fu  la  legge 
degli  adullcrii,  la  suntuaria,  quella  della  ambizione,  e  molle 
altre;  secondo  che  di  mano  in  mano  i  cittadini  diventavano 
corrotti.  Ma  tenendo  fermi  gli  ordinr  dello  stalo,  che  nella 
corruzione  non  erano  più  buoni,  quelle  leggi  che  si  rinno- 
vavano,  non  bastavano  a  mantenere  gli  uomini  buoni;  ma 
sarebbono  bene  giovate,  se  con  la  innovazione  delle  leggi  si 
russerò  rimutati  gli  ordini.  E  che  sia  il  vero  che  tali  ordini 
nella  città  corrotta  non  fussero  buoni,  e*  sì  vede  espresso  in 
due  capi  principali.  Quanto  al  creare  i  magistrati  e  le  leggi, 
non  dava  il  Popolo  romano  il  consolato,  e  gli  altri  primi 
gradi  della  città,  se  non  a  quelli  che  lo  dimandavano.  Que- 
sto ordine  fu  nel  principio  buono,  perchè  e*  non  gli  doman- 
davano se  non  quelli  cittadini  che  se  ne  giudicavano  degni, 
ed  averne  la  repulsa  era  ignominioso;  si  che,  per  esserne 
gfudicai]  degni,  ciascuno  operava  bene.  Diventò  questo  modo, 
poi,  nella  città  corrotta  pcmiziosissimo;  perchè  non  quelli 
che  avevano  più  virtù,  ma  quelli  che  avevano  più  potenza, 
domandavano  i  magistrati;  e  gl'impotenti,  comecché  virtuosi, 
se  ne  astenevano  di  domandargli  per  paura.  Vennesi  a  questo 
inconveniente,  non  ad  un  tratto,  ma  per  i  mezzi,  come  si 
cade  in  tutti  gli  nitri  inconvenienti:  perchè  avendo  i  Romani 
domata  l'AtTrica  e  l'Asia,  e  ridotta  quasi  tutta  la  Grecia  a 
sua  obidienza,  erano  divenuti  sicuri  della  libertà  loro,  nò 
pareva  loro  avere  più  nimici  che  dovessero  fare  loro  paura. 
Questa  securtà  e  questa  debolezza  de'nemici  fece  che  il  Po- 
polo romano,  nel  dare  il  consolato,  non  riguardava  più  la  vir- 
tù, ma  la  grazia;  tirando  a  quel  grado  quelli  che  meglio  sa- 
pevano intrattenere  gli  uomini,  non  quelli  che  sapevano 
meglio  vincere  i  nemici:  dipoi  da  quelli  che  avevano  più  gra- 
zia, discesero  a  dargli  a  quelli  che  avevano  più  potenza; 
talché  i  buoni,  per  difetto  di  tale  ordine,  ne  rimasero  al  tutto 
esclusi.  Poteva  uno  Tribuno,  e  qualunque  altro  cittadino, 
proporre  al  Popolo  una  legge;  sopra  la  quale  ogni  cittadino 
poteva  parlare,  o  in  favore  o  incontro,  innanzi  che  la  si  de- 


LIBRO   PRIMO.  ì'Sl 

liberasse.  Era  queslo  ordine  buono,  quando  i  ciUadini  erano 
buoni;  perchè  scinj^re  fu  bene,  che  ciascuno  che  intende  uno 
bene  per  il  pubblico,  Io  possa  proporre;  ed  è  bene  che  cia- 
scuno sopra  quello  possa  dire  l'oppinione  sua,  acciocché  il 
Popolo,  inleso  ciascuno,  possa  poi  eleggere  il  meglio.  Ma  di- 
veniali  i  ciUadini  caltivi ,  divenlò  tale  ordine  pessimo;  per- 
chè solo  i  polenti  proponevano  leggi ,  non  per  la  comune  li- 
bertà, ma  per  la  potenza  loro;  e  contra  a  quelle  non  poteva 
parlare  alcuno  per  paura  di  quelli:  talché  il  Popolo  veniva  o 
ingannato  o  sforzato  a  deliberare  la  sua  rovina.  Era  necessa- 
^rìoTpérianto,  a  volere  che  Roma  nella  corruzione  si  mante- 
nesse libera,  che,  cosi  come  aveva  nel  processo  del  vivere  ^  , 
suo  falle  nuove  leggi,  l'avesse  fatti  nuovi  ordini:  perché  allri,^*'^'^  ^ 
ordini  e  modi  di  vivere  si  debbe  ordiriafé  in  uno  soggetto  cai-  I/vl.  •  /^ 
iivo,  che  in  un  buono;  né  può  essere  la  forma  simile  in  una  ^,  jc/JU 
materia  al  tutto  contraria.  Ma  perchè  questi  ordini,  o  e'si  1  ^ 
hanno  a  rinnovare  tutti  ad  un  tratto,  scoperti  che  sono  non'^ 
esser  più  buoni,  o  a  poco  a  poco,  in  prima  che  si  conoschino  •'"*** 
per  ciascuno;  dico  che  T  una  e  l'altra  di  queste  due  cose  è 
quasi  impossibile.  Perchè,  a  volergli  rinnovare  a  poco  a  poco, 
conviene  che  ne  sia  cagione  uno  prudente,  che  veggia  questo 
inconveniente  assai  discosto,  e  quando  e'  nasce.  Di  questi 
tali  è  facilissima  cosa  *  che  in  una  città  non  ne  surga  mai 
nessuno  :  e  quando  pure  ve  ne  surgesse ,  non  potrebbe  per- 
suadere mai  ad  altrui  quello  che  egli  proprio  intendesse  ; 
perchè  gli  uomini  usi  a  vivere  in  un  modo,  non  lo  vogliono 
variare;  e  tanto  più  non  veggendo  il  male  in  viso,  ma  avendo 
ad  essere  loro  mostro  per  conietlure .  Quanto  ad  innovare 
questi  ordini  ad  un  tratto,  quando  ciascuno  conosce  che  non 
sono  buoni,  dico  che  questa  inutilità ,  che  facilmente  si  co- 
nosce, è  dilTicile  a  ricorreggerla  :  perchè  a  fare  questo,  non 
basta  usare  termini  ordinari,  essendo  i  modi  ordinari  catti- 
vi ;  ma  è  necessario  venire  allo  istraordinario ,  come  è  alla 
violenza  ed  all'armi,  e  diventare  innanzi  ad  ogni  cosa  prin- 
cipe di  quella  città,  e  poterne  disporre  a  suo  modo.  E  perchè 
il  riordinare  una  cillà  al  vivere  politico  presuppone  uno  uomo 

*  La  Romana  soltanto  ci  offre  la  seguente  interpunzione  :  questo  inconvc- 
nicnlc  assai  discosto:  et  quando  e'  nasce  di  questi  tali?  e  facilissima  co  iO-  ce. 

-Il" 


i38  DEI    DISCORSI 

buono, ed  il  diventare  per  violenza  principe  di  una  repubblica 
presuppone  un  uomo  caUivo  ;  per  questo  si  troverà  cbe  ra- 
dissime volte  accaggia ,  che  uno  uomo  buono  voglia  diventare 
principe  per  vie  cattive,  ancoraché  il  fine  suo  fosse  buono; 
e  che  uno  reo  divenuto  principe,  voslia  operare  bene  ,  e  che 
gli  caggia  mai  nell'animo  usare  quella  autorità  bene ,  che  esU 
ha  male  acquistata.  Da  tutte  le  soprascritte  cose  nasce  la  diffì- 
cuUà,  o  impossibilità,  che  è  nelle  città  corrotte,  a  mantenervi 
una  repubblica,  o  a  crearvela  di  nuovo.  E  quando  pure  la 
vi  si  avesse  a  creare  o  a  mantenere ,  sarebbe  necessario 
ridurla  più  verso  lo  slato  regio,  che  verso  lo  sialo  popolare  ; 
acciocché  quelli  uomini  i  quali  dalle  leggi,  per  la  loro  inso- 
lenzia,  non  possono  essere  corretti,  Tussero  da  una  podestà 
quasi  regia  io  qualche  modo  frenati.  Ed  a  volergli  fare  per 
altra  via  diventare  buoni ,  sarebbe  o  crudelissima  impresa, 
o  al  (atto  impossibile  ;  come  io  dissi  di  sopra  che  fece  Cleo- 
mene:  il  quale  se,  per  essere  solo,  ammazzò  gli  Efori;  e  se 
Romolo,  per  le  medesime  cagioni,  ammazzò  il  fratello  e  Tito 
Tazio  Sabino,  e  dipoi  usarono  bene  quella  loro  autorità; 
nondimeno  si  debbe  avvertire  che  l'uno  e  l'altro  di  costoro 
non  avevano  il  soggetto  di  quella  corruzione  macchiato  della 
quale  in  questo  capitolo  ragioniamo,  e  però  poterono  volere, 
e  volendo,  colorire  il  disegno  loro. 

Cap.  XIX.  —  Dopo  uno  eccellente  principe  si  può  mnnlrncrc 
un  principe  debole  ;  ma  dopo  un  debole,  non  si  può  con  un 
allro  debole  mantenere  alcun  regno. 

Considerato  la  virtù  ed  il  modo  del  procedere  di  Romo- 
lo, Numa,  e  di  Tulio,  i  primi  tre  Re  romani^  si  vede  come 
Roma  sorti  una  fortuna  grandissima,  avendo  il  primo  Re  fe- 
rocissimo e  bellicoso,  l'altro  quieto  e  religioso,  il  terzo  si 
mite  di  ferocia  a  Romolo,  e  più  amatore  della  guerra  che 
della  pace.  Perché  in  Roma  era  necessario  che  sorgesse 
ne'  primi  principii  suoi  un  ordinatore  del  vivere  civile,  ma 
era  bene  poi  necessario  che  gli  altri  Re  ripigliassero  la  virtù 
di  Romolo  ;  altrimenti ,  quella  città  sarebbe  diventala  clTe- 
minata,  e  preda  dc'suoi  vicini.  Donde  si  può  notare,  che  uno 


LIBRO   PRIMO.  430 

successore  non  di  (anta  virtù  quanto  il  primo  ,  può  mante- 
nere uno  slato  per  la  virtù  di  colui  che  V  ha  retto  innanzi , 
e  si  può  godere  le  sue  fatiche:  ma  s'  egli  avviene  o  che  sia 
di  lunga  vita,  o  che  dopo  lui  non  sorga  un  altro  che  ripigli 
la  virtù  di  quel  primo,  è  necessitato  quel  regno  a  rovinare. 
Così,  per  il  contrario,  se  due,  l'uno  dopo  l'altro,  sono  di  gran 
virtù,  si  vede  spesso  che  fanno  cose  grandissime,  e  che  ne 
vanno  con  la  fama  in  fino  al  cielo.  Davil ,  senza  dubbio  ,  fu 
un  uomo  per  arme,  per  dottrina,  per  giudizio  eccellentissi- 
mo ;  e  fu  tanta  la  sua  virtù,  che,  avendo  vinti  ed  abbattuti 
tutti  i  suoi  vicini,  lasciò  a  Salomone  suo  figliuolo  un  regno 
pacifico:  quale  egli  si  potette  con  le  arti  della  pace,  e  non  delia 
guerra,  conservare;  e  si  potette  godere  felicemente  la  virtù 
di  suo  padre.  Ma  non  potette  già  lasciarlo  a  Roboan  suo  fi- 
gliuolo ;  il  quale  non  essendo  per  virtù  simile  allo  avolo,  né 
per  fortuna  simile  al  padre ,  rimase  con  fatica  erede  della 
sesta  parte  del  regno.  Baisit,  sultan  de' Turchi ,  ancora  che 
fosse  più  amatore  della  pace  che  della  guerra,  potette  godersi 
le  fatiche  di  Maometto  suo  padre;  il  quale  avendo,  come  Da- 
vil, battuti  i  suoi  vicini,  gli  lasciò  un  regno  fermo,  e  da 
poterlo  con  V  arte  della  pace  facilmente  conservare.  Ma  se  il 
figliuolo  suo  Salì,  presente  signore,  fusse  stalo  simile  al  pa- 
dre, e  non  all'avolo,  quel  regno  rovinava:  ma  e' si  vede  co- 
stui essere  per  superare  la  gloria  dell'avolo.  Dico  pertanto 
con  questi  esempi,  che  dopo  uno  eccellente  principe  si  può 
mantenere  un  principe  debole;  ma  dopo  un  debole  non  si 
può  con  un  altro  debole  mantenere  alcun  regno,  se  già  e'  non 
fusse  come  quello  di  Francia,  che  gli  ordini  suoi  antichi  lo 
mantenessero:  e  quelli  principi  sono  deboli,  che  non  stanno 
in  su  la  guerra.  Conchiudo  pertanto  con  questo  discorso,  che 
la  virtù  di  Romolo  fu  tanta,  che  la  potette  dare  spazio  a 
Numa  Pompilio  di  potere  molti  anni  con  1'  arte  della  pace 
reggere  Roma:  ma  dopo  lui  successe  Tulio,  il  quale  per  la 
sua  ferocia  riprese  la  reputazione  di  Romolo:  dopo  il  quale 
venne  Anco,  in  modo  dalla  natura  dotalo,  che  poteva  usare 
la  pace,  e  sopportare  la  guerra.  E  prima  si  dirizzò  a  volere 
tenere  la  via  della  pace;  ma  subito  conobbe  come  i  vicini  , 
giudicandolo  ctTeminato  ,  lo  stimavano  poco:  laimetite  che 


i40  Di:i  Disconsi 

pensò  che ,  a  voler  mantenere  Roma ,  bisognava  volgersi 
alla  guerra,  e  somigliare  Romolo,  e  non  Numa.  Da  qucslo 
piglino  esempio  tutti  i  principi  che  tengono  slato ,  che  chi  so- 
migheràNuma,  lo  terrà  o  non  terrà,  secondo  che  i  tempi 
o  la  fortuna  gli  girerà  sotto:  ma  chi  somiglierà  Romolo ,  e 
fìa  come  esso  armato  di  prudenza  e  d'armi,  lo  terrà  in  ogni 
modo ,  se  da  una  ostinata  ed  eccessiva  forza  non  gli  è  tolto. 
E  certamente  si  può  stimare,  che  se  Roma  sortiva  per  terzo 
suo  Re  un  uomo  che  non  sapesse  con  le  armi  renderle  la 
sua  reputazione,  non  arebbe  mai  poi ,  o  con  grandissima 
diffìcultà,  potuto  pigliare  piede,  né  fare  quelli  etTetli  ch'ella 
fece.  E  cosi,  in  mentre  ch'ella  visse  sotto  i  Re,  la  portò  questi 
pericoli  di  rovinare  soUo  un  Re  o  debole  o  tristo. 

Cip.  XX.  —  Due  continove  succestioni  di  prìncipi  virtuosi 
fanno  grandi  e/felli;  e  come  le  tepubbUche  bene  ordinale 
hanno  di  necessità  virtuose  successioni  :  e  però  gli  acquisti 
ed  augumenti  loro  sono  grandi. 

Poi  che  Roma  ebbe  cacciati  i  Re,  mnncò  di  quelli  pe- 
ricoli i  quali  di  sopra  sono  detti  che  la  portava,  succedendo 
in  lei  uno  Re  o  debole  o  tristo.  Perchè  la  somma  dello  im- 
perio si  ridusse  ne' Consoli,  i  quali  non  per  eredità  o  per  in- 
ganni o  per  ambizione  violenta  ,  ma  per  sntTragi  liberi 
venivano  a  quello  imperio,  ed  erano  sempre  uomini  eccel- 
lentissimi :  de'  quali  godendosi  Roma  la  virtù  e  la  fortuna 
di  tempo  in  tempo,  potette  venire  a  quella  sua  ultima  gran- 
dezza in  altrettanti  anni,  che  la  era  stala  sotto  i  Re.  Perché 
si  vede,  come  due  continove  successioni  di  principi  virtuosi 
sono  sudìzienti  ad  acquistare  il  mondo  :  come  furono  Fi- 
lippo di  Macedonia  ed  Alessandro  Ma?no.  Il  che  tanto  più 
debbe  fare  una  repubblica,  avendo  il  modo  dello  eleggere 
non  solamente  due  successioni,  ma  infìniti  principi  virtuo- 
sissimi, che  sono  V  uno  dell'  altro  successori  :  la  quale  vir- 
tuosa successione  fìa  sempre  in  ogni  repubblica  bene  or- 
dinala. 


LIBRO    PUIJIO.  i41 

Gap.  XXI.  —  Quanto  biasimo  merili  quel  principe  e  quella 
repubblica  che  manca  d'armi  proprie. 

Debbono  i  presenti  principi  e  le  moderne  repubbliche, 
le  quali  circa  le  difese  ed  offese  mancano  di  soldati  propri, 
vergognarsi  di  loro  medesime;  e  pensare,  con  lo  esempio  di 
Tulio,  tale  difello  essere  non  per  mancamento  d'uomini  atti 
alla  milizia,  ma  per  colpa  loro,  che  non  hanno  sapulo  fare  i 
loro  uomini  militari.  Perchè  Tulio,  sendo  slata  Roma  in  pace 
quaranta  anni,  non  trovò,  succedendo  lui  nel  regno,  uomo 
che  fusse  stato  mai  alla  guerra:  nondimeno,  disegnando  lui 
fare  guerra,  non  pensò  di  valersi  né  di  Sanniti,  né  di  Tosca- 
ni, né  di  altri  che  fussero  consueti  slare  nell'armi;  ma  deli- 
berò, come  uomo  prudenlissimo,  di  valersi  de' suoi.  E  fu 
tanta  la  sua  virtù,  che  in  un  tratto  sotto  il  suo  governo  gli 
potè  fare  soldati  eccellentissimi.  Ed  è  più  vero  che  alcuna 
altra  verità,  che  se  dove  sono  uomini  non  sono  soldati,  na- 
sce per  difetto  del  principe,  e  non  per  altro  difetto  o  di  sito 
o  di  natura:  di  che  ce  n'è  uno  esempio  freschissimo.  Perchè 
ognuno  sa,  come  ne' prossimi  tempi  il  Re  d'Inghilterra  as- 
saltò il  regno  di  Francia,  nò  prese  altri  soldati  che  i  popoli 
suoi;  e  per  essere  stato  quel  regno  più  che  trenta  anni  senza 
far  guerra,  non  aveva  nò  soldato  né  capitano  che  avesse  mai 
militato:  nondimeno,  ei  non  dubitò  con  quelli  assaltare  uno 
regno  pieno  di  capitani  e  di  buoni  eserciti,  i  quali  erano 
slati  continovamente  sotto  l'armi  nelle  guerre  d' Italia.  Tulio 
nacque  da  essere  quel  Re  prudente  uomo,  e  quel  regno  bene 
ordinalo;  il  quale  nel  tempo  della  pace  non  intermette  gli 
ordini  della  guerra.  Pelopida  ed  Epaminonda  tebani,  poiché 
gli  ebbero  libera  Tebe,  e  trattola  dalla  servitù  dello  imperio 
sparlano;  trovandosi  in  una  città  usa  a  servire,  ed  in  mezzo 
di  popoli  effeminati;  non  dubitarono,  tanta  era  la  virtù  loro! 
di  ridurgli  sotto  l'armi,  e  con  quelli  andare  a  trovare  alla 
campagna  gli  eserciti  spartani,  e  vincergli:  e  chi  ne  scrive, 
dice  come  questi  due  in  breve  tempo  mostrarono,  che  non 
solamente  in  Lacedemonia  nascevano  gli  uomini  di  guerra, 
ma  in  ogni  altra  parte  dove  nascessino  uomini,  pure  che  si 


\ 


142  DEI   DISCORSI 

trovasse  chi  li  sapesse  indirizzare  alla  milizia,  come  si  vede 
che  Tulio  seppe  indirizzare  i  Romani.  E  Virgilio  non  pò- 
Irebbe  meglio  esprimere  questa  oppinione,  né  con  altre  pa- 
role mostrare  di  aderirsi  a  quella,  dove  dice: 

Detidesqite  movebit 
TiJIiu  in  arma  viros. 


Gap.  XX II.  —  Quello  che  sia  da  notare  nel  caso  dei 
tre  Orazi  romani,  e  dei  ire  Curiazi  albani. 

Tulio,  re  di  Roma,  e  Mezio,  re  di  Alba,  convennero  che 
quel  popolo  Tusse  signore  dell'aUro,  di  cui  i  soprascritti  tre 
uomini  vincessero.  Furono  morti  tutti  i  Curiazi  albani,  restò 
vivo  uno  degli  Grazi  romani;  e  per  questo,  restò  Mezio,  re 
albano,  con  il  suo  popolo,  soggetto  ai  Romani.  E  tornando 
quello  Orazio  vincitore  in  Roma,  e  scontrando  una  sua  so- 
rella, che  era  ad  uno  de*  tre  Curiazi  morti  maritala,  che 
piangeva  la  morte  del  marito;  l'ammazzò.  Donde  quello  Ora- 
zio per  questo  fallo  fu  messo  in  giudizio,  e  dopo  molle  dis- 
pute fu  libero,  più  per  li  prieghi  del  padre,  che  per  li  suoi 
meriti.  Dove  sono  da  notare  tre  cose:  una,  che  mai  non  si 
dehbe  con  parte  delle  sue  forze  arrischiare  tutta  la  sua  for- 
tuna; r  altra,  che  non  mai  in  una  città  bene  ordinata  li  de- 
meriti con  li  meriti  si  ricompensano;  la  terza,  che  non  mai 
sono  i  partili  savi,  dove  si  debba  o  possa  dubitare  della  inos- 
servanza. Perché,  gl'importa  tanto  a  una  città  lo  essere  ser- 
va, che  mai  non  si  doveva  credere  che  alcuno  di  quelli  Re 
0  di  quelli  Popoli  stessero  contenti  che  ire  loro  cittadini  gli 
avessino  sottomessi;  come  si  vide  che  volle  fare  Mezio:  jl 
quale,  benché  subito  dopo  la  vittoria  de'  Romani  si  confes- 
sassi vinto,  e  promettessi  la  obedienza  a  Tulio;  nondimeno 
nella  prima  espedizione  che  gli  ebbono  a  convenire  con- 
tra  i  Veienti,  si  vide  come  ei  cercò  d'ingannarlo;  come 
quello  che  tardi  s'  era  avveduto  della  temerità  del  partito 
preso  da  lui.  E  perchè  di  questo  terzo  notabile  se  n'è  par- 
lalo assai,  parleremo  solo  degli  altri  due  ne' seguenti  duoi 
capitoli. 


LIBUO    PRIMO.  143 


Cap.  XXIII.  --  Che  non  si  debhe  meUere  a  pericolo  tutta  la 
fortuna  e  non  tulle  le  forze  ;  e  per  questo,  spesso  il  guardare 
i  passi  è  dannoso. 

Non  fu  mai  giudicalo  parlilo  savio  mellere  a  pericolo 
lulla  la  fortuna  tua,  e  non  tulle  le  forze.  Questo  si  fa  in  più 
modi.  L*uno  è  facendo  come  Tulio  e  Mezio,  quando  e'  com- 
raissono  la  forluna  tutta  della  patria  loro,  e  la  virtù  di  tanti 
uomini  quanti  avea  1'  uno  e  l' altro  di  costoro  negli  eserciti 
suoi,  alla  virtù  e  forluna  di  tre  de' loro  cittadini,  che  veniva 
ad  essere  una  mìnima  parte  delle  forze  di  ciascuno  di  loro. 
Né  si  avvidono,  come  per  questo  parlilo  lulla  la  fatica  che 
avevano  durala  i  loro  antecessori  nell' ordinare  la  repubhli- 
ca,  per  farla  vivere  lungamente  libera  e  per  fare  i  suoi 
cittadini  difensori  della  loro  libertà,  era  quasi  che  suta  va- 
na, stando  nella  potenza  di  sì  pochi  a  perderla.  La  qualcosa 
da  quelli  Re  non  potè  esser  peggio  considerala.  Cadesi  an- 
cora in  questo  inconveniente  quasi  sempre  per  coloro,  che, 
venendo  il  nemico,  disegnano  di  tenere  i  luoghi  difficili,  e 
guardare  i  passi  :  perchè  quasi  sempre  questa  deliberazione 
sarà  dannosa,  se  già  in  quello  luogo  difficile  comodamente 
tu  non  potessi  tenere  tutte  le  forze  lue.  In  questo  caso,  tale 
parlilo  é  da  prendere;  ma  sendo  il  luogo  aspro,  e  non  vi 
polendo  tenere  tutte  le  forze  lue,  il  parlilo  è  dannoso.  Que- 
sto mi  fa  giudicare  cosi  lo  esempio  di  coloro  che,  essendo 
assaltali  da  un  nemico  potente,  ed  essendo  il  paese  loro  cir- 
condalo da' monti  e  luoghi  alpestri,  non  hanno  mai  tentalo 
di  combattere  il  nemico  in  su'  passi  e  in  su' monti,  ma  sono 
ìli  a  incontrarlo  di  là  da  essi  ;  o,  quando  non  hanno  voluto 
far  questo.  Io  hanno  aspetlalo  dentro  a  essi  monti,  in  luo- 
ghi benigni  e  non  alpestri.  E  la  cagione  ne  è  suta  la  preal- 
legala: perchè,  non  si  polendo  condurre  alla  guardia  de' luo- 
ghi alpestri  molli  uomini,  si  per  non  vi  potere  vivere  lungo 
lempo,  sì  per  essere  i  luoghi  stretti  e  capaci  di  pochi  ;  non 
è  possibile  sostenere  un  nemico,  che  venga  grosso  ad  urtar- 
li :  ed  al  nimico  è  facile  il  venire  grosso,  perchè  la  intenzione 
sua  è  passare,  e  non  fermarsi  ;  ed  a  chi  V  aspella  è  impossi- 


i44  DEI    DISCORSI 

bile  aspcilarlo  grosso,  avendo  ad  alloggiarsi  per  più  tempo, 
non  sapendo  quando  il  nemico  voglia  passare  in  luoghi,  co- 
ro'io  ho  dello,  slrelli  e  sterili.  Perdendo,  adunque,  quel  passo 
che  tu  ti  avevi  presupposto  tenere,  e  nel  quale  i  tuoi  popoli 
e  lo  esercito  tuo  confidava,  entra  il  più  delle  volle  ne' po- 
poli e  nel  residuo  delle  genti  tue  tanto  terrore,  che  senza 
potere  esperimenlare  la  virtù  di  esse,  rimani  perdente;  e  così 
vieni  ad  avere  perduta  (ulta  la  tua  fortuna  con  parte  delle 
lue  forze.  Ciascuno  sa  con  quanta  ditTicultà  Annibale  pas- 
sasse Talpi  che  dividono  la  Lombardia  dalla  Francia,  e  con 
quanta  ditTicullà  passasse  quelle  che  dividono  la  Lombardia 
dalla  Toscana  :  nondimeno  i  Romani  1*  aspettarono  prima  in 
sul  Tesino,  e  dipoi  nel  piano  d'Arezzo:  e  vollon  più  tosto, 
che  il  loro  esercito  fusse  consumato  dal  nemico  nelli  luoghi 
dove  poteva  vincere,  che  condurlo  su  per  l'alpi  ad  esser 
destrutto  dalla  malignità  del  silo.  E  chi  leggerà  sensata- 
mente tulle  le  istorie,  troverà  pochissimi  virtuosi  capitani 
aver  tentato  di  tenere  simili  passi,  e  per  le  ragioni  delle,  e 
perchè  e'  non  si  possono  chiudere  '  tutti  ;  sendo  i  monti  corno 
campagne,  ed  avendo  non  solamente  le  vie  consuete  e  fre- 
quentate, ma  molte  altre,  le  quali  se  non  sono  note  a' fore- 
stieri, sono  note  a' paesani  ;  con  l'aiuto  de' quali  sempre  sarai 
condotto  in  qualunque  luogo,  contra  alla  voglia  di  chi  ti  si 
oppone.  Di  che  se  ne  può  addurre  ano  freschissimo  esempio, 
nel  1515.  Quando  Francesco  re  di  Francia  disegnava  passare 
in  Italia  per  la  recuperazione  dello  stato  di  Lombardia,  il 
maggiore  fondamento  che  facevano  coloro  eh'  erano  alla  sua 
impresa  contrarli,  era  che  gli  Svizzeri  lo  terrebbono  a'  passi 
in  su' monti.  E,  come  per  esperienza  poi  si  vide,  quel  loro 
fondamento  restò  vano:  perchè,  lascialo  quel  Ucda  parte  due 
o  tre  luoghi  guardali  da  loro,  se  ne  venne  per  un'altra  via 
incognita  ;  e  fu  prima  in  Italia,  e  loro  appresso,  che  lo  ave^ 
sino  presentilo.  Talché  loro  isbigollili  si  ritirarono  in  Mi- 
lano, e  tulli  i  popoli  di  Lombardia  si  aderirono  alle  genti 
franciose  ;  sendo  mancati  di  quella  oppinione  avevano,  che  i 
Franciosi  dovessino  essere  tenuti  in  su'  monti. 

'  La  Bladiana:  dividere  ;  per  errore  nato  da  affinila  di  lettere  la  più  per* 
fetta*  Invece  di  campagne f  le  altre  ediaioni  baaoo  campagna. 


LIBRO   PRIMO.  145 

Gap.  X'XIV.  —  Le  repubbliche  bene  ordinate  consliluiscono 
premii  e  pene  a' loro  cilladinif  né  compensano  mai  l'uno  con 
V  altro. 

Erano  stati  i  meriti  di  Orazio  grandissimi,  avendo  con 
la  sua  virtù  vinti  i  Curiazi.  Era  stato  il  fallo  suo  atroce, 
avendo  morto  la  sorella  :  nondimeno  dispiacque  tanto  tale 
omicidio  ai  Romani,  che  lo  condussero  a  disputare  della 
vita,  non  ostante  che  gli  meriti  suoi  fossero  tanto  grandi  e 
si  freschi.  La  qual  cosa  a  chi  superficialmente  la  conside- 
rasse, parrebbe  uno  esempio  d'ingratitudine  popolare:  non- 
dimeno chi  la  esaminerà  meglio,  e  con  migliore  considera- 
zione ricercherà  quali  debbono  essere  gli  ordini  delle  repub- 
bliche, biasimerà  quel  popolo  più  tosto  per  averlo  assoluto, 
che  per  averlo  voluto  condennare.  E  la  ragione  è  questa,  che 
nessuna  repubblica  bene  ordinata,  non  mai  cancellò  i  de- 
menti con  gli  meriti  de'suoi  cittadini;  ma  avendo  ordinati 
i  premii  ad  una  buona  opera  e  le  pene  ad  una  cattiva,  ed 
avendo  premiato  uno  per  aver  bene  operato,  se  quel  mede- 
simo opera  dipoi  male,  lo  gastiga,  senza  avere  riguardo  al- 
cuno alle  sue  buone  opere.  E  quando  questi  ordini  sono  bene 
osservali,  una  città  vive  libera  molto  tempo;  altrimenti,  sem- 
pre rovinerà  presto.  Perchè,  se  ad  un  cittadino  che  abbia  fatto 
qualche  egregia  opera  per  la  città,  si  aggiugne,  oltre  alla  ri- 
putazione che  quella  cosa  gli  arreca,  una  audacia  e  confidenza 
di  potere,  senza  temer  pena,  fare  qualche^péra  non  buona; 
diventerà  in  brieve  tempo  tanto  insolente,  che  si  risolverà 
ogni  civilità.  È  ben  necessario,  volendo  che  sia  temuta  la 
pena  per  le  triste  opere,  osservare  i  premii  per  le  buone; 
come  si  vede  che  fece  Roma.  E  benché  una  repubblica  sia 
povera,  e  possa  dare  poco,  debbe  di  quel  poco  non  astener- 
si; perchè  sempre  ogni  piccolo  dono,  dato  ad  alcuno  per  ri- 
compenso '  di  bene  ancora  che  grande,  sarà  stimato,  da  chi 
Io  riceve,  onorevole  e  grandissimo.  È  notissima  la  istoria  di 
Orazio  Code,  e  quella  di  Muzio  Scevola:  come  l'uno  soslen- 

*  Questa  desìnenea ,  di  cui  non  mancsoo  esempi  anche  dello  stesso  Ma- 
chiavelli, è  geli' edixioae  Romana. 


146  DEI  DISCORSI 

ne  i  nemici  sopra  un  ponte,  tanto  che  si  tagliasse:  I*aUro  si 
arse  la  mano,  avendo  erralo,  volendo  ammazzare  Porsena, 
re  delli  Toscani.  A  costoro  per  queste  due  opere  tanto  egre- 
gie, fu  donato  dal  pubblico  due  staiora  di  terra  per  ciascuno. 
È  nota  ancora  la  istoria  di  Manlio  Capitolino.  A  costui,  per 
aver  salvato  il  Campidoglio  da'Gaili  che  vi  erano  a  campo, 
fu  dato  da  quelli  che  insieme  con  lui  vi  erano  assediati  den- 
tro, una  piccola  misura  di  farina.  Il  quale  premio,  secondo 
la  fortuna  che  allora  correva  in  Roma,  fu  grande;  e  di  qua- 
lità che,  mosso  poi  Manlio  o  da  invidia  o  dalla  sua  cattiva 
natura,  a  far  nascere  sedizione  in  Roma,  e  cercando  guada- 
gnarsi il  popolo,  fu,  senza  rispetto  alcuno  de'suoi  meriti, 
gittato  precipite  da  quello  Campidoglio  ch'egli  prima,  con 
tanta  sua  gloria,  aveva  salvo. 

Gap.  XXV.  —  Chi  vuole  riformare  uno  sialo  anlico  in  una 
cillà  libera t  rilenga  almeno  l'ombra  desmodi  anlichi. 

Colai  che  desidera  o  che  vuole  riformare  uno  slato 
d*ona  città,  a  volere  che  sia  accetto,  e  poterlo  con  satisfa- 
zione  di  ciascuno  mantenere,  é  necessitato  a  ritenere  l'om- 
bra almanco  de* modi  antichi,  acciò  che  a' popoli  non  paia 
avere  mutato  ordine,  ancora  che  in  fatto  gli  ordini  nuovi 
fussero  al  lutto  alieni  dai  passati;  perchè  lo  universale  degli 
uomini  si  pasce  così  di  quel  che  pare,  come  di  quello  che 
é;  anzi  molte  volte  si  muovono  più  per  le  cose  che  paiono, 
che  per  quelle  che  sono.  Per  questa  cagione  i  Homani,  co- 
noscendo nel  principio  del  loro  vivere  libero  questa  necessi- 
tà, avendo  in  cambio  d'un  Re  creati  duoi  Consoli,  non  vol- 
lono  ch'egli  avessino  più  che  dodici  littori,  per  non  passare 
il  numero  di  quelli  che  ministravano  ai  Re.  Oitra  di  que- 
sto, facendosi  in  Roma  uno  sacrifizio  anniversario,  il  quale 
non  poteva  esser  fatto  se  non  dalla  persona  del  Re;  e  vo- 
lendo i  Romani  che  quel  popolo  non  avesse  a  desiderare  per 
la  assenzia  degli  Re  alcuna  cosa  dell'antiche;  creorono  un 
capo  di  detto  sacrificio,  il  quale  loro  chiamorono  Re  Sacrifi- 
colo,  e  lo  sottomessone  al  sommo  Sacerdote:  lalraentechò 
quel  popolo  per  questa  via  venne  a  satisfarsi  di  quel  sacri* 


LIBRO    PRIMO.  447 

tìzio,  e  non  avere  mai  cagione,  per  mancamento  dì  esso,  di 
desiderare  la  tornala  dei  Re.  E  questo  si  debbe  osservare  da 
tutti  coloro  che  vogliono  scancellare  ano  antico  vivere  in 
una  città,  e  ridurla  ad  uno  vivere  nuovo  e  libero.  Perchè  al- 
terando le  cose  nuove  le  menti  degli  uomini,  ti  debbi  inge- 
gnare  che  quelle  alterazioni  rilenghino  più  dell'  antico  sia 
possibile;  e  se  i  magistrati  variano  e  di  numero  e  d'  auto- 
rità e  di  tempo  dagli  antichi,  che  almeno  ritenghino  il  no- 
me. E  questo,  come  ho  detto,  debbe  osservare  colui  che  vuole 
ordinare  una  potenza  assoluta,  o  per  via  di  repubblica  o  di 
regno:  ma  quello  che  vuol  fare  una  potestà  assoluta,  quale 
dagli  autori  è  chiamala  tirannide,  debbe  rinnovare  ogni  cosa, 
come  nel  seguente  capitolo  si  d'irà. 

Gap.  XXVI.  Un  principe  nuovo,  in  una  cillà  o  provincia 
presa  da  lui,  debbe  fare  ogni  cosa  nuova. 

Qualunque  diventa  principe  o  d*  una  città  o  d' uno  sta- 
to, e  tanto  più  quando  i  fondamenti  suoi  fussino  deboli,  e 
non  si  volga  o  per  via  di  regno  o  di  repubblica  alla  vita  ci- 
vile; il  megliore  rimedio  che  egli  abbia  a  tenere  quel  princi- 
pato, è,  sendo  egli  nuovo  principe,  fare  ogni  cosa  di  nuovo 
in  quello  stalo:  come  è,  nelle  città  fare  nuovi  governi  con 
nuovi  nomi,  con  nuove  autorità,  con  nuovi  uomini;  fare  i 
poveri  ricchi,  come  fece  Davit  quando  ei  diventò  re:  qui 
esurienles  implevit  bonis^  et  diviles  dimisit  inanes;  edificare  ol- 
irà di  questo  nuove  città,  disfare  delle  fatte,  ^  cambiare  gli 
abitatori  da  un  luogo  ad  un  altro;  ed  in  somma,  non  lasciare 
cosa  ninna  intatta  in  quella  provincia,  e  che  non  vi  sia  né 
grado,  né  ordine,  né  stalo,  né  ricchezza,  che  chi  la  tiene 
non  la  riconosca  da  te;  e  pigliare  per  sua  mira  Filippo  di 
Macedonia,  padre  di  Alessandro,  il  quale  con  questi  modi, 
di  piccolo  re,  diventò  principe  di  Grecia.  E  chi  scrive  di  lui, 
dice  che  tramutava  gli  uomini  di  provincia  in  provincia, 
come  i  mandriani  tramutano  le  mandrie  loro.  Sono  questi 
modi  crudelissimi,  e  nemici  d'ogni  vivere,  non  solamente 
cristiano,  ma  umano;  e  debbegli  qualunque  uomo  fuggire,  e 

<  Cosi  la  Bladiana.  Le  altre  edizioni  t  delle  vecchie. 


148  DEI   DISCORSI 

volere  piollosto  vivere  privato,  che  re  con  (anta  rovina  de- 
gli uomini:  nondimeno,  colui  che  non  vuole  pigliare  quella 
prima  via  del  bene,  quando  si  voglia  mantenere,  conviene 
che  entri  in  questo  male.  Ma  gli  uomini  pigliano  certe  vie 
del  mezzo,  che  sono  dannosissime;  perchè  non  sanno  essere 
né  tutti  buoni  né  lutti  cattivi:  come  nel  seguente  capitolo 
per  esempio  si  mostrerà. 

Cip.  XXVII.  —  Sanno  rarissime  volle  gli  uomini 
essere  al  lutto  tristi  o  al  tutto  buoni. 

Papa  Giulio  secondo,  andando  nel' 1505  a  Bologna  per 
cacciare  di  quello  stato  la  casa  de'Bentivogli,  la  quale  aveva 
tenuto  il  principato  di  quella  città  cento  anni,  voleva  an- 
cora trarre  Giovampa^olo  Baglioni  di  Perugia,  della  quale 
era  tiranno,  come  quello  che  aveva  congiurato  centra  a  tutti 
gli  tiranni  che  occupavano  le  terre  della  Chiesa.  E  perve- 
nuto presso  a  Perugia  con  questo  animo  e  deliberazione  nota 
a  ciascuno,  non  aspettò  di  entrare  in  quella  città  con  lo 
esercito  suo  che  lo  guardasse,  ma  vi  entrò  disarmato,  non 
ostante  vi  fusse  dentro  Giovampagolo  con  genti  assai,  quali 
per  difesa  di  sé  aveva  ragunate.  Sicché,  portato  da  quel  fu- 
rore con  il  quale  governava  tutte  le  cose,  con  la  semplice 
sua  guardia  si  rimesse  nelle  mani  del  nemico;  il  quale  dipoi 
ne  menò  seco,  lasciando  un  governadore  in  quella  città,  che 
rendesse  ragione  per  la  Chiesa.  Fu  notata  dagli  uomini  pru- 
denti che  col  papa  erano,  la  temerità  del  papa  e  la  viltà 
di  Giovampagolo;  né  potevano  slimare  donde  si  venisse  che 
quello  non  avesse,  con  sua  per()elua  fama,  oppresso  ad  un 
tratto  il  nemico  suo,  e  sé  arricchito  di  preda,  sendo  col  papa 
tutti  li  cardinali,  con  tutte  le  lor  delizie.  Né  si  poteva  cre- 
dere si  fusse  astenuto  o  per  bontà,  o  per  conscienza  che  lo 
ritenesse;  perché  in  un  petto  d'un  uomo  facinoroso,  che  si 
I  teneva  la  sorella,  che  aveva  morti  i  cugini  ed  i  nepoti  per 
l  regnare,  non  poteva  scendere  alcuno  pietoso  rispetto:  ma  si 
\  conchiuse,  che  gli  uomini  non  sanno  essere  onorevolmente 
[tristi,  o  perfettamente  buoni;  e  come  una  tristizia  ha  in  sé 
'  grandezza,  o  è  in  alcuna  parte  generosa,  eglino  non  vi  sanno 


LIBRO   PRIMO.  149 

entrare.  Così  Giovampagolo,  il  quale  non  stimava  essere  in- 
cesto e  pubblico  parricida,  non  seppe,  o,  a  dir  meglio,  non 
ardi,  avendone  giusta  occasione,  fare  una  impresa,  dove 
ciascuno  avesse  ammirato  l'animo  suo,  e  avesse  di  sé  la- 
sciato memoria  eterna;  sendo  il  primo  che  avesse  dimostro  ai 
prelati ,  quanto  sia  da  stimar  poco  chi  vive  e  regna  come  loro  ; 
ed  avesse  fatto  una  cosa,  la  cui  grandezza  avesse  superato 
ogni  infamia,  ogni  pericolo,  che  da  quella  potesse  dependere. 

Cap.  XXVIII.  —  Per  qual  cagione  i  Romani  furono 
meno  ingrati  agli  loro  ciUadini  che  gli  Ateniesi. 

Qualunque  legge  le  cose  fatte  dalle  repubbliche,  troverà 
in  tutte  qualche  spezie  di  ingratitudine  centra  a*  suoi  citta- 
dini ;  ma  ne  troverà  meno  in  Roma  che  in  Atene,  e  per  av- 
ventura in  qualunque  altra  repubblica.  E  ricercando  la  ca- 
gione dì  questo,  parlando  di  Roma  e  di  Atene,  credo 
accadesse  perchè  i  Romani  avevano  meno  cagione  di  so- 
spettare dei' suoi  cittadini,  che  gli  Ateniesi.  Perchè  a  Roma, 
ragionando  di  lei  dalla  cacciata  dei  Re  infine  a  Siila  e  Ma- 
rio, non  fu  mai  tolta  la  libertà  da  alcuno  suo  cittadino  ;  in 
modo  che  in  lei  non  era  grande  cagione  di  sospettare  di 
loro,  e,  per  conseguente,  di  offendergli  inconsideratamente. 
Intervenne  bene  ad  Atene  il  contrario  :  perchè,  sendole  tolta 
la  libertà  da  Pisistrato  nel  suo  più  florido  tempo ,  e  sotto  uno 
inganno  di  bontà;  come  prima  la  diventò  poi  libera,  ricor- 
dandosi delle  ingiurie  ricevute  e  della  passata  servitù,  di- 
ventò acerrima  vendicatrice  non  solamente  degli  errori,  ma 
dell'ombra  degli  errori  de' suoi  cittadini.  Di  qui  nacque 
l'esilio  e  la  morte  di  tanti  eccellenti  uomini;  di  qui  l'or- 
dine dello  ostracismo,  ed  ogni  altra  violenza  che  centra  i  suoi 
ottimati  in  vari  tempi  da  quella  città  fu  fatta.  Ed  è  veris- 
simo quello  che  dicono  questi  scrittori  della  civiltà  :  che  ì 
popoli  mordono  più  fieramente  poi  eh'  egli  hanno  recuperala 
la  libertà,  che  poi  che  l'hanno  conservata. Chi  considerrà,* 

*  Più  volte  troviamo  nell'edizione  Romana  Considera  ,  dove  le  altre  hanno 
considererà.  12  nota,  d'altra  parte,  a  lutti  l'antica  e  tnscanissima  inflessione 
considerràf  che  stimiamo  esser  la  vera  voce  tra  le  due,  per  diversa  cagione 
alterate  nelle  stampe. 

13» 


i^  b£l  blSCOR^t 

adanqae,  qoanto  è  dello,  non  biasimerà  in  questo  Atene,  né 
lauderà  Roma  ;  ma  ne  accuserà  solo  la  necessità ,  per  la  di- 
versità degli  accidenti  che  in  queste  città  nacquero.  Perchè 
si  vedrà,  chi  considererà  le  cose  sottilmente,  che  se  a  Roma 
fosse  suta  tolta  la  libertà  come  a  Atene,  non  sarebbe  siala 
Roma  più  pia  verso  i  suoi  cittadini,  che  si  fusse  quella.  Di 
che  si  può  f^re  verissima  coniettura  per  quello  che  occorse, 
dopo  la  cacciata  dei  Re,contraa  Collatino  ed  a  Publio  Valerio: 
de' quali  il  primo,  ancora  che  si  trovasse  a  liberate  Roma, 
fu  mandalo  in  esilio  non  per  altra  cagione  che  per  tenere 
il  nome  de'Tarquinii;  l'altro,  avendo  solo  dato  di  sèsospetlo 
per  edificare  una  casa  in  sul  monte  Celio,  fu  ancora  per  es- 
sere fatto  esule.  Talché  si  può  stimare,  veduto  quanto  Roma 
fu  in  questi  due  sospettosa  e  severa,  che  l' arebbe  usala  la  in- 
gratitudine come  Atene,  se  da' suoi  cittadini,  come  quella 
De' primi  tempi  ed  innanzi  allo  augumento  suo,  fus:^e  stata 
ingiuriata.  E  per  non  avere  a  tornare  più  sopra  questa  ma- 
teria della  ingratitudine,  oe  dirò  quello  ne  occorrerà  nel  se- 
gueole  capitolo. 

Gap.  XXIX.  —  Quale  sia  più  ingrato,  o  un  popolo, 
o  un  principe. 

Egli  mi  pare,  a  proposito  della  soprascrìtta  materia,  da 
discorrere  quale  usi  con  macgiori  esempi  questa  ingratitu- 
dine, o  un  popolo,  o  un  principe.  E  per  disputare  meglio 
questa  parte,  dico,  come  questo  vizio  della  ingratitudine  na- 
sce o  dalla  avarizia,  odal  sospetto.  Perché,  quando  o  un  po- 
polo o  un  principe  ha  mandato  fuori  un  suo  capitano  in 
una  espedizione  importante,  dove  quel  capitano,  vincendola, 
ne  abbia  acquistata  assai  gloria  ;  quel  principe  o  quel  popolo 
è  tenuto  allo  incontro  a  premiarlo  :  e  se,  in  cambio  di  premio, 
o  ei  Io  disonora  o  ei  l'otTende,  mosso  dalla  avarizia,  non 
volendo,  ritenuto  da  questa  cupidità,  satisfarli  ;  fa  uno  er- 
rore che  non  ha  scusa,  anzi  si  lira  dietro  ana  infamia  eter- 
na. Pure  si  trovano  molti  principi  che  ci  peccano.  E  Corne- 
lio Tacito  dice,  con  questa  sentenzia,  la  cagione:  Proclivius 
est  injurio!,  quam  beneficio  vicem  exsolvere,  quia  gratta  oneri. 


tlijllO  PRIMO.  Ì8Ì 

ullio  in  queslu  hahelur.  Ma  quando  ei  non  Io  premia,  o,  a  dii 
meglio,  l'offende,  non  mosso  da  avarizia,  ma  da  sospetto; 
allora  merita,  e  il  popolo  e  il  principe,  qualche  scusa.  E  di 
queste  ingratitudini  usale  perlai  cagione,  se  ne  legge  assai: 
perchè  quello  capitano  il  quale  virtuosamente  ha  acquistato 
uno  imperio  al  suo  signore,  superando  i  nemici,  e  riempiendo 
sé  di  gloria  e  gli  suoi  soldati  di  ricchezze;  di  necessità,  e 
con  i  soldati  suoi,  e  con  i  nemici,  e  coi  sudditi  propri  di 
quel  principe  acquista  tanta  reputazione,  che  quella  vittoria 
non  può  sapere  di  buono  a  quel  signore  che  lo  ha  mandato. 
E  perchè  la  natura  degli  uomini  è  ambiziosa  e  sospettosa,  e 
non  sa  porre  modo  a  nissuna  sua  fortuna,  è  impossibile  che 
quel  sospetto  che  subito  nasce  nel  principe  dopo  la  vittoria 
di  quel  suo  capitano,  non  sia  da  quel  medesimo  accresciuto 
per  qualche  suo  modo  o  termine  usalo  insolentemente.  Tal- 
ché il  principe  non  può  pensare  ad  altro  che  assicurarsene; 
e  per  fare  questo,  pensa  o  di  farlo  morire,  o  di  tòrgli  la  re- 
putazione, che  egli*  si  ha  guadagnata  nel  suo  esercito  e  ne' 
suoi  popoli  ;  e  con  ogni  industria  mostrare  che  quella  vitto- 
ria è  nata  non  per  la  virtù  di  quello,  ma  per  fortuna,  o  per 
viltà  dei  nemici,  o  per  prudenza  degli  altri  capitani  che  sono 
stali  seco  in  tale  fazione.  Poiché  Vespasiano,  sendo  in  Giu- 
dea, fu  dichiarato  dal  suo  esercito  imperadore,  Antonio  Pri- 
mo, che  si  trovava  con  un  altro  esercito  in  Illiria,  prese  le 
parli  sue,  e  ne  venne  in  Italia  conlra  a  Vitellio  il  quale  re- 
gnava a  Roma,  e  virtuosissimamente  ruppe  due  eserciti  Vi- 
telliani,  e  occupò  Roma;  talché  Muziano,  mandato  da  Vespa- 
siano, trovò  per  la  virtù  d'Antonio  acquistalo  il  tutto,  e  vinta 
ogni  ditTicullà.  Il  premio  che  Antonio  ne  riportò,  fu  che  Mu- 
ziano gli  tolse  subito  la  ubidienza  dello  esercito,  e  a  poco  a 
poco  lo  ridusse  in  Roma  senza  alcuna  autorità:  talché  Anto- 
nio ne  andò  a  trovare  Vespasiano,  il  quale  era  ancora  in  Asia; 
dal  quale  fu  in  modo  ricevuto,  che,  in  breve  tempo,  ridotto 
in  nessun  grado,  quasi  disperalo  mori.  E  di  questi  esempi 
ne  sono  piene  le  istorie.  Ne' nostri  tempi,  ciascuno  che  al 
presente  vive,  sa  con  quanta  industria  e  virtù  Consalvo  Fer- 
rante, militando  nel  regno  di  Napoli  conlra  a'  Franciosi  per 

'  C/ie  egli  manca  nella  Romana;  ne,  per  me,  la  credo  omissione. 


i5^  DEI   DISCORSI 

Ferrando  re  di  Ragona,  conquistasse  e  vincesse  quel  regno; 
e  come,  per  premio  di  vittoria ,  ne  riporlo  che  Ferrando  si 
parli  da  Ragona,  e  venato  a  Napoli,  in  prima  gli  levò  la  obe- 
dienza  delle  genti  d'arme,  e  dipoi  gli  tolse  le  forteize,  ed 
appresso  Io  menò  seco  in  Spagna;  dove  poco  tempo  poi, 
inonoralo,  mori.  È  tanto,  dunque,  naturale  questo  sospetto 
ne* principi, che  non  se  ne  possono  difendere;  ed  è  im|>ossi- 
biie  eh*  egli  usino  gratitudine  a  quelli  che  con  vittoria  hanno 
fatto  sotto  le  insegne  loro  grandi  acquisti.  E  da  quello  che 
non  si  difende  un  principe,  non  è  miracolo,  né  cosa  degna 
di  maggior  considerazione,  se  un  popolo  non  se  ne  difendo. 
Perché,  avendo  una  città  che  vive  libera,  duoi  fini,  1*  uno 
lo  acquistare,  Taltro  il  mantenersi  libera  ;  conviene  che  nel- 
r una  cosa  e  nell'altra  per  troppo  amore  erri.  Quanto  agli 
errori  nello  acquistare,  se  ne  dirà  nel  luogo  suo.  Quanto  agli 
errori  per  mantenersi  libera,  sono,  intra  gli  altri,  questi:  di 
offendere  quei  cittadini  che  la  doverrebbe  premiare;  aver 
sospetto  di  quelli  in  cui  si  doverrebbe  confidare.  E  benchò 
questi  modi  in  una  repubblica  venuta  alla  corruzione  siano 
cagione  di  grandi  mali ,  e  che  molte  volte  piuttosto  la  viene 
alla  tirannide,  come  intervenne  a  Roma  di  Cesare,  che  per 
forza  si  tolse  quello  che  la  ingratitudine  gli  negava  ;  nondi- 
meno in  una  repubblica  non  corrotta  sono  cagione  di  gran 
beni,  e  fanno  che  la  ne  vive  libera  più,  mantenendosi  per 
paura  di  punizione  gli  uomini  migliori,  e  meno  ambiziosi. 
Vero  è  che  infra  tutti  i  popoli  che  mai  ebbero  imperio,  per 
le  cagioni  di  sopra  discorse,  Roma  fu  la  meno  ingrata  :  per- 
chè della  sua  ingratitudine  si  può  dire  che  non  ci  sia  altro 
esempio  che  quello  di  Scipione;  perché  Corìolano  e  Cammillo 
fumo  fatti  esuli  per  ingiuria  che  l'uno  e  l'altro  aveva  fatto 
^lla  Plebe.  Ma  all'  uno  non  fu  perdonato,  per  aversi  sempre 
risbrbato  contra  al  Popolo  l'animo  nemico;  l'altro  non  sola- 
mente fu  richiamato,  ma  per  tutto  il  tempo  della  sua  vita 
adorato  come  principe.  Ma  la  ingratitudine  usata  a  Scipione 
nacque  da  un  sospetto  che  i  cittadini  cominciorno  avere  di 
lui,  che  degli  altri  non  s'era  avuto:  il  quale  nacque  dalia 
grandezza  del  nemico  che  Scipione  aveva  vinto  ;  dalla  repu- 
tazione che  gli  aveva  data  la  vittoria  di  si  lunga  e  pericolosa 


LIBRO   PRIMO.  453 

gaerra  ;  dalla  celerità  di  essa  ;  dai  favori  che  la  gioventù,  la 
prudenza,  e  le  altre  sue  memorabili  virtuti  gli  acquistavano. 
Le  quali  cose  furono  tante,  che,  non  che  altro,  i  magistrati 
di  Roma  temevano  della  sua  autorità  :  la  qual  cosa  spiaceva 
agli  uomini  savi,  come  cosa  inconsueta  in  Roma.  E  parve 
tanto  straordinario  il  vivere  suo,  che  Catone  Prisco,  riputato 
santo,  fu  il  primo  a  fargli  contra  ;  e  a  dire  che  una  città  non 
si  poteva  chiamare  libera,  dove  era  un  cittadino  che  fusse 
temuto  dai  magistrati.  Talché,  se  il  popolo  di  Roma  segui  in  i 
questo  caso  la  opinione  di  Catone,  merita  quella  scusa  che 
di  sopra  ho  detto  meritare  quelli  popoli  e  quelli  principi  che 
per  sospetto  sono  ingrati.  Conchiudendo  adunque  questo  di- 
scorso, dico,  che  usandosi  questo  vizio  della  ingratitudine  o 
per  avarizia  o  per  sospetto,  si  vedrà  come  i  popoli  non  mai 
per  r  avarizia  la  usorno ,  e  per  sospetto  assai  manco  che  i 
principi,  avendo  meno  cagione  di  sospettare:  come  di  sotto 
si  dirà. 

Cap,  XXX,  —  Quali  modi  debbe  usare  un  principe  o  una 
repubblica  per  fuggire  questo  vizio  della  ingratitudine  ;  e 
quali  quel  capitano  o  quel  cittadino  per  non  essere  op- 
presso da  quella. 

Un  principe,  per  fuggire  questa  necessità  di  avere  a  vi- 
vere con  sospetto,  o  esser  ingrato,  debbe  personalmente 
andare  nelle  espedizioni;  come  facevano  nel  principio  quelli 
imperadori  romani,  come  fa  ne' tempi  nostri  il  Turco,  e 
come  hanno  fatto  e  fanno  quelli  che  sono  virtuosi.  Perchè, 
vìncendo,  la  gloria  e  lo  acquisto  è  tutto  loro;  e  quando  non 
vi  sono,  sondo  la  gloria  d'altrui,  non  pare  loro  potere  usare 
quello  acquisto,  s'ei  non  spengono  in  altrui  quella  gloria 
che  loro  non  hanno  saputo  guadagnarsi,  e  diventare  ingrati 
ed  ingiusti:  e  senza  dubbio,  è  maggiore  la  loro  perdita,  che 
il  guadagno.  Ma  quando,  o  per  negligenza  o  per  poca  pru- 
denza, e'si  rimangono  a  casa  oziosi,  e  mandano  un  capitano; 
io  non  ho  che  precetto  dar  loro  altro,  che  quello  che  per  lor 
medesimi  si  sanno.  Ma  dico  bene  a  quel  capitano,  giudicando  / 
io  che  non  possa  fuggire  i  morsi  della  ingratitudine,  che  faccia  l 


454  DEI  DISCORSI 

[    ona  delle  dae  cose  :  o  sabito  dopo  la  vittoria  lasci  lo  esercito, 
\  e  rimettasi  nelle  mani  del  suo  principe,  guardandosi  da  ogni 
I  atto  insolente  o  ambizioso  ;  acciocché  quello ,  spoglialo  d'ogni 
l  sospetto,  abbia  cagione  o  di  premiarlo  o  di  non  lo  offendere: 
\  o,  quando  questo  non  gli  paia  di  fare,  prenda  animosamente 
'la  parte  contraria,  e  tenga   tutti  quelli   modi   per  li  quali 
\  creda  che  quello  acquisto  sia  suo  proprio  e  non  del  principe 
suo,  facendosi  benivoli  i  soldati  ed  i  sudditi  ;  e  faccia  nuove 
;  amicizie  coi  vicini,  occupi  con  li  suoi  uomini  le   fortezze, 
/corrompa  i  principi  del  suo  esercito,  e  di  quelli  che  non  può 
corrompere  si  assicuri;  e  per  questi  modi  cerchi  di  punire  il 
^fluo  signore  di  quella  ingratitudine  che  esso  gli  userebbe. 
/Altre  vie  non  ci  sono  :  ma,  come  di  sopra  si  disse,  gli  uomini 
/non  sanno  essere  né  al  tutto  tristi,  né  al  tutto  buoni  ;  esem- 
;pre  interviene  che,  subito  dopo  la  vittoria,  lasciare  lo  eser- 
cito non  vogliono,  portarsi  modestamente  non  possono,  usare 
\lermini  violenti  e  che  abbino  in  sé  l'onorevole,  non  sanno; 
(talché,  stando  ambigui ,  intra  quella  loro  dimora  ed  ambiguità, 
'^sono  oppressi.  Quanto  ad  una  repubblica,  volendo  fuggire 
questo  vizio  dello  ingrato,  non  si  può  dare  il  medesimo  ri- 
medio che  al  principe;  cioè  che  vadia,  e  non  mandi,  nelle 
espedizioni  sue,  sendo  necessitate  '  a  mandare  un  suo  cit- 
tadino. Conviene,  pertanto,  che  per  rimedio  io  le  dia,  che 
la  tenga  i  medesimi  modi  che  tenne  la  repubblica  romana,  ad 
esser  meno  ingrata  che  l'altre:  il  che  nacque  dai  modi  del 
suo  governo.  Perché,  adoperandosi  tutta  la  città,  e  gli  no- 
bili e  gli  ignobili,  nella  guerra,  surgeva  sempre  in  Roma  in 
ogni  età  tanti  uomini  virtuosi,  ed  ornati  di  varie  vittorie ,  che 
il  popolo  non  avea  cagione  di  dubitare  di  alcuno  di  loro,  sendo 
assai,  e  guardando  l'uno  l'altro.  E  in  tanto  si  mantenevano 
interi,  e  respettivi  di  non  dare  ombra  di  alcuna  ambizione, 
né  cagione  al  popolo,  come  ambiziosi,  d'olTcndergli  ;  che  ve- 
nendo alla  dittatura,  quello  maggior  gloria  ne  riportava,  che 
più  tosto  la  deponeva.  E  cosi,  non  potendo  simili  modi  gene- 
rare sospetto,  non  generavano  ingratitudine.  In  modo  che, 
una  repubblica  che  non  voglia  avere  cagione  d'essere  ingraia, 

'  Coti,  con  relaxiooe  piutlotto  logica  che  grammaticale,  odia  Bladiaaa 
t  nella  Testina.  1  moderni  editori  corrcM^ro ,  aenaa  bitogoo  t  necessitata. 


LIBRO   PRIMO.  ioo 

si  debbe  governare  come  Roraa  ;  e  uno  cittadino  che  voglia 
fuggire  quelli  suoi  morsi,  debbe  osservare  i  termini  osservati 
dai  cittadini  romani. 

Gap.  XXXI.  —  Che  i  capitani  romani  per  errore  commessa 
non  furono  mai  islraordinariamenle  puniti;  né  furono  mai 
ancora  punili  quando,  per  la  ignoranza  loro  o  Irisli  par- 
tili presi  da  loro,  ne  fussino  seguiti  danni  alla  repubblica. 

I  Romani,  non  solamente,  come  di  sopra  avemo  discor- 
so, furono  manco  ingrati  che  l'altre  repubbliche,  ma  furono 
ancora  più  pii  e  più  respettivi  nella  punizione  de'  loro  Capi- 
tani degli  eserciti,  che  alcune  altre.  Perchè,  se  il  loro  errore 
fusse  stato  per  malizia,  e' lo  gastigavano  umanamente;  se 
gli  era  per  ignoranza,  non  che  lo  punissino,  e'  lo  premia- 
vano, ed  onoravano.  Questo  modo  del  procedere  era  bene 
consideralo  da  loro:  perchè  e' giudicavano  che  fusse  di  tanta 
importanza  a  quelli  che  governavano  gli  eserciti  loro,  lo 
avere  l'animo  libero  ed  espedito',  e  senza  altri  estrinsechi  ri- 
spetti nel  pigliare  i  partiti,  che  non  volevano  aggiugnere  ad 
una  cosa  per  sé  stessa  dilTicile  e  pericolosa,  nuove  difficultà  / 
e  pericoli;  pensando  che  aggiugnendoveli,  nessuno  potesse  ( 
essere  che  operasse  mai  virtuosamente.  Verbigrazia,  e'  man- 
davano uno  esercito  in  Grecia  centra  a  Filippo  di  Macedonia, 
0  in  Italia  contra  ad  Annibale,  o  contra  a  quelli  popoli  che 
vinsono  prima.  Era  questo  capitano  che  era  preposto  a  tale 
espedizione ,  angustiato  da  tutte  quelle  cure  che  sì  arrecavano 
dietro  quelle  faccende,  le  quali  sono  gravi  e  importantissime. 
Ora,  se  a  tali  cure  si  fussino  aggiunti  più^  esempi  di  Romani 
ch'eglino  avessino  crucifissi  o  altrimenti  morti  quelli  che 
avessino  perdute  le  giornale,  egli  era  impossibile  che  quello 
capitano  intra  tanti  sospetti  potesse  deliberare  strenuamente. 
Però,  giudicando  essi  che  a  questi  tali  fusse  assai  pena  la  igno-  [ 
minia  dello  avere  perduto,  non  gli  voUono  con  altra  maggior  / 
pena  sbigottire.  Uno  esempio  ci  è,  quanto  allo  errore  com-  • 
messo  non  per  ignoranza.  Erano  Sergio  e  Virginio  a  campo 
aVeio,  ciascuno  preposti  ad  una  parte  dello  esercito;  de'quali 

*  Della  Testina  e  della  Romana.  Nelle  altre  :  tali. 


156  DEI   DISCORSI. 

Sergio  era  ali*  incontro  donde  potevano  venire  i  Toscani,  e 
Virginio  dairallrn  parie.  Occorse  che  sondo  assaltalo  Sergio 
dai  Falisci  e  da  altri  popoli,  sopportò  d'essere  rollo  e  fusaio 
prima  che  mandare  per  aiuto  a  Virginio.  E  dall'altra  parte, 
Virginio  aspellando  che  si  amiliasse,  volle  piuttosto  vedere 
il  disonore  della  patria  sua,  e  la  rovina  di  quello  esercito, 
che  soccorrerlo.  Caso  veramente  essemplare  e  tristo,  *  e  da 
fare  non  buona  conietlura  della  Repubblica  romana,  se 
l'uno  e  l'altro  non  fussero  stati  saslìgali.  Vero  è  che,  dove 
un'altra  repubblicagli  arebbe  puniti  di  pena  capitale,  quella 
gli  punì  in  danari.  Il  che  nacque  non  perchè  i  peccali  loro 
non  merilassino  maggior  punizione,  ma  perchè  gli  Romani 
vollono  in  questo  caso,  per  le  razioni  già  delle,  mantenere 
gli  antichi  costumi  loro.  E  quanto  agli  errori  per  ignoranza, 
non  ci  è  il  più  bell'esempio  che  quello  di  Varrone:  per  la 
(emerita  del  quale  scndo  rolli  i  Romani  a  Canne  da  An- 
nibale, dove  quella  Repubblica  portò  pericolo  della  sua 
libertà;  nondimeno,  perchè  vi  fu  ignoranza  e  non  malizia, 
non  solamente  non  Io  gastigorno  ma  lo  onororno,  e  gli 
andò  incontro  nella  tornata  sua  in  Roma  (ulto  l'Ordine 
senatorio:  e  non  lo  polendo  ringraziare  della  zulTa,  Io  rin- 
graziorono  eh*  egli  era  tornato  in  Roma,  e  non  sì  era  di- 
8perato  delle  cose  romane.  Quando  Papirio  Cursore  voleva 
fare  morire  Fabio,  per  avere  conlra  al  suo  comandamento 
combattuto  coi  Sanniti;  intra  le  altre  ragioni  che  dal  padre 
di  Fabio  erano  assegnate  conlra  alla  ostinazione  del  Diltalore, 
era  che  il  Popolo  romano  in  alcuna  perdila  de' suoi  Capitani 
non  aveva  fatto  mai  quello  che  Papirio  nella  vittoria  vo- 
leva fare. 

Cap.   XXXH.  —  Una  repubblica  o  uno  principe  non  debbe 
differire  a  beneficare  gli  uomini  nelle  sue  nccessilali. 

Ancora  che  ai  Romani  succedesse  felicemente  essere  li- 
berali al  Popolo,  sopravvenendo  il  pericolo,  quando  Porsena 

*  Lezionr  ilei  Blacìo,  adottata  giudiziosamente  anrhe  dagli  editori  de]  1813. 
CoìtTo  a' quali  esemplare ,  preso  in  cattiva  parte,  non  piacque ,  mutarono  (comq 
-embra)  d'ail>ilrio:  malvagio,  e  degno  d' ester  notato- 


I 


LIBRO    l'iUMO.  i57 

venne  ad  assaltare  Roma  per  rìmellere  i  Tarquinii;  dove  il 
Senato  dubitando  della  Plebe,  che  non  volesse  piuttosto  ac- 
cettare i  Re  che  sostenere  la  guerra,  per  assicurarsene  la 
sgravò  delle  gabelle  del  sale,  e  d' ogni  gravezza;  dicendo 
come  i  poveri  assai  operavano  in  benefizio  pubblico  se  ei 
nutrivano  i  loro  figliuoli;  e  che  per  questo  benefizio  quel  Po- 
polo si  esponesse  a  sopportare  ossidione,  fame  e  guerra: 
non  sia  alcuno  che,  confidatosi  in  questo  esempio,  differisca 
ne'terapi  de'  pericoli  a  guadagnarsi  il  Popolo;  perchè  mai  gli 
riuscirà  quello  che  riusci  ai  Romani.  Perchè  lo  universale 
giudicherà  non  avere  quel  bene  da  te,  ma  dagli  avversari 
tuoi;  e  dovendo  temere  che,  passata  la  necessità,  tu  ritolga 
loro  quello  che  hai  forzatamente  loro  dato,  non  ara  leco  ob- 
bligo alcuno.  E  la  cagione  perchè  ai  Romani  tornò  bene 
questo  partito,  fu  perchè  lo  slato  era  nuovo,  e  non  per  an- 
cora fermo;  ed  aveva  veduto  quel  Popolo,  come  innanzi  si 
erano  fatte  leggi  in  benefizio  suo,  come  quella  della  appel- 
lagione  alla  Plebe;  in  modo  che  ei  potette  persuadersi  che 
quel  bene  gli  era  fatto,  non  era  tanto  causato  dalla  venuta 
dei  nemici,  quanto  dalla  disposizione  del  Senato  in  benefi- 
carli. Oltre  di  questo,  la  memoria  dei  Re  era  fresca;  dai  quali 
erano  stati  in  molti  modi  vilipesi  ed  ingiuriati.  E  perchè  simili 
cagioni  accaggiono  rade  volte,  occorrerà  ancora  rade  volle 
che  simili  remedi  giovino.  Però,  debbe  qualunque  tiene  sta- 
lo, cosi  repubblica  come  principe,  considerare  innanzi,  quali 
(empi  gli  possono  venire  addosso  contrari,  e  di  quali  uomini 
ne*  tempi  avversi  si  può  avere  di  bisogno;  e  dipoi  vivere  con 
loro  in  quel  modo  che  giudica,  sopravvegnenle  qualunque 
caso,  essere  necessitalo  vivere.  E  quello  che  altrimenti  si 
governa,  o  principe  o  repubblica,  e  massime  un  principe; 
e  poi  in  sul  fallo  crede,  quando  il  pericolo  sopravviene,  coi 
benefizi  riguadagnarsi  gli  uomini;  se  ne  inganna:  perchè 
non  solamente  con  se  ne  assicura,  ma  accelera  la  sua  ro- 
vina. 


i4 


lo8  DEI    DISCORSI 

Gap.  XXXIII.  —  Quando  uno  inconvenienle  è  cresciuto  o  in 
uno  sialo  o  conlra  ad  uno  sialo,  è  più  salutifero  parlilo 
Icmporcggiarlo  che  urlarh. 

Crescendola  Repubblica  romana  in  reputazione,  forze  ed 
imperio,  i  vicini,!  quali  prima  non  avevano  pensjalo  quanto 
(  quella  nuova  Repubblica  potesse  arrecare  loro  di  danno,  co- 
(  minciorno,  ma  lardi,  a  conoscere  lo  errore  loro;  e  volendo 
rimediare  a  quello  che  prima  non  avevano  rimediato,  con- 
spirorno  be^njQjaranta^^o^oli  con  tra  a  Roma:  donde  i  Ro- 
mani, intra  gli  altri  rimedi  solili  finsi  da  loro  negli  urgenti 
pericoli,  si  volsono  a  creare  il  Dittatore;  cioè  dare  potestà 
ad  un  uomo  che  senxa  alcuna  consulta  potesse  deliberare,  e 
senza  alcuna  appellagione  potesse  eseguire  le  suo  delibera- 
zioni. Il  quale  rimedio  come  allora  fu  utile,  e  fu  cagione  che 
vincessero  gì' imminenti  pericoli,  cosi  fu  sempre  utilissimo 
in  tutti  quelli  accidenti  che,  nello  augumenlo  dello  imperio, 
in  qualunque  tempo  surgessino  contro  alla  Repubblica.  Sopra 
il  quale  accidente  è  da  discorrere  prima,  come  quando  uno  in- 
conveniente che  surga,  o  in  una  repubblica  o  centra  ad  una 
repubblica,  causalo  da  cagione  intrinseca  o  estrinseca,  e 
diventalo  tanto  grande  che  e'  cominci  a  far  paura  a  cifiscuno; 
è  mollo  più  sicuro  partilo  tcmi;oreggiarsi  con  quello,  che 
tentare  di  estinguerlo.  Perchè,  quasi  sempre  coloro  che  ten- 
tano di  ammorzarlo,  fanno  le  sue  forze  maggiori,  e  fanno 
accelerare  quel  male  che  da  quello  si  suspettava.  £  di  questi 
simili  accidenti  ne  nasce  nella  repubblica  più  spesso  per  ca- 
gione intrinseca,  che  estrinseca:  dove  molte  volte,  o  e' si 
lascia  pigliare  ad  uno  cittadino  più  forze  che  non  è  ragione- 
vole, 0  e' si  comincia  a  corrompere  una  legge,  la  quale  è  il 
nervo  e  la  vita  del  vivere  libero;  e  lasciasi  trascorrere  que- 
sto errore  in  tanto,  che  gli  è  più  dannoso  parlilo  il  volervi 
rimediare,  che  lasciarlo  seguire.  £  tanto  più  è  difTicile  il  co- 
noscere questi  inconvenienti  quando  e'  nascono,  quanto 
e'  pare  più  naturale  agli  uomini  favorire  sempre  i  principii 
delle  cose.  E  (ali  favori  possono,  più  che  in  alcuna  altra  cosa, 
nelle  opere  che  paiono  che  abbino  in  bè  qualche  virtù,  e 


LIBRO    PRIMO.  159 

siano  operale  da' giovani:  perchè  se  in  una  repubblica  sì  vede 
surgere  un  giovane  nobile,  quale  abbia  in  sé  virlù  islraor- 
dinaria,  tulli  gli  occhi  de' cittadini  si  cominciano  a  voltare 
verso  di  lui,  e  concorrono  senza  alcuno  rispetto  ad  onorar- 
lo; in  modo  che,  se  in  quello  è  punto  d' ambizione,  accozzati 
i  favori  che  gli  dà  la  naiura  e  questo  accidente,  viene  su- 
bito in  luogo,  che  quando  i  cittadini  si  avveggono  dell'errore  • 
loro,  hanno  pochi  rimedi  ad  ovviarvi;  e  volendo  quelli  tanti  1 
ch'egli  hanno,  operarli,  non  fanno  altro  che  accelerare  la 
potenza  sua.  Di  questo  se  ne  potrebbe  addurre  assai  esempi, 
ma  io  ne  voglio  dare  solamente  uno  della  città  nostra.  Cosi-  a 
mo  de' Medici,  dal  quale  la  casa  de' Medici  in  ia  nostra  città  j 
ebbe  il  principio  della  sua  grandezza,  venne  in  tanta  repu-  | 
lazione  col  favore  che  gli  dette  la  sua  prudenza  e  la  igno-  \ 
ranza  degli  altri  cittadini,  che  ei  cominciò  a  fare  paura  allo  \ 
slato;  in  modo  che  gli  altri  cittadini  giudicavano  1'  offenderlo 
pericoloso,  ed  il  lasciarlo  stare  cosa  pericolosissima.  Ma  vi- 
vendo in  quei  tempi  Niccolò  da  lizzano,  il  quale  nelle  cose 
civili  era  tenuto  uomo  espertissimo,  ed  avendo  ftilto  il  primo 
errore  di  non  conoscere  i  pericoli  che  dalla  reputazione  di 
Cosimo  potevano  nascere;  mentre  che  visse,  non  permesse 
inai  che  si  facesse  il  secondo,  cioè  che  si  tentasse  di  volerlo 
spegnere,  giudicando  tale  tentazione  essere  al  tutto  la  rovina 
dello  stato  loro;  come  si  vide  in  fatto  che  fu,  dopo  la  sua 
morte:  perchè,  non  osservando  quelli  cittadini  che  rimasono, 
questo  suo  consiglio,  si  feciono  forti  contra  a  Cosimo,  e  lo 
cacciorno  da  Firenze.  Donde  ne  nacque  che  la  sua  parte, 
per  questa  ingiuria  risentitasi,  poco  dipoi  lo  chiamò,  e  lo  fece 
principe  della  repubblica:  al  quale  grado  senza  quella  mani- 
festa opposizione  non  sarebbe  mai  polulò  ascendere.  Questo 
medesimo  intervenne  a  Roma  con  Cesare;  che  favorita  da 
Pompeioe  dagli  altri  quella  sua  virtù,  si  convertì  poco  dipoi 
quel  favore  in  paura:  di  che  fa  testimonio  Cicerone,  dicendo 
che  Pompeio  aveva  tardi  cominciato  a  temer  Cesare.  La 
qual  paura  fece  che  pensorono  ai  rimedi  ;  e  gli  rimedi  che 
feciono,  accelerorno  la  rovina  della  loro  Repubblica.  Dico 
adunque,  che  dipoi  che  gli  è  didìcile  conoscere  questi  mali 
quando  e'surgono,  causala  questa  dillìcultà  da  uno  inganno 


160  DEr   DISCORSI 

che  (i  fanno  le  cose  in  principio;  è  più  savio  partito  il  (era- 
poreggiarle poiché  le  ai  conoscono,  che  l'oppugnarle:  perchè 
r temporeggiandole,  o  per  lormedesinaesi  spengono,  o  almeno 
1  il  mate  si  differisce  in  più  lungo  tempo.  E  in  tulle  le  cose 
\  debbono  aprir  gli  occhi  i  principi  che  disegnano  cancellarle, 
o  alle  forze  ed  impelo  loro  opporsi;  di  non  dare  loro,  in  cam- 
bio di  detrimento,  augumento;  e   credendo  sospingere  una 
cosa,  tirarsela  dietro,  ovvero  soffocare  una  pianta  con  annaf- 
fiarla. Ma  si  debbe  considerare  bene  le  forze  del  malore,  e 
quando  li  vedi  sutlìziente  a  sanarlo,  metterviti  senza  rispet- 
to: altrimenti,  lasciarlo  slare,  né  in  alcun  modo  tentarlo. 
Perchè  interverrebbe,  come  di  sopra  si  discorre,  e  come  in- 
tervenne avvicini  di  Uoma:  ai  quali,  poiché  Roma  era  cre- 
sciuta in  tanta  potenza, era  più  salutifero  con  gli  modi  della 
(  pace  cercare  di  placarla  e   ritenerla  addietro,  che  coi  modi 
della  guerra  farla  pensare  a  nuovi  ordini  e  nuove  difese. 
r  Perchè  quella  loro  congiura  non  fece  altro  che  farli  più  uni- 
.11,  più  gagliardi,  e  pensare  a  modi  nuovi,  medianli  i  quali 
«in  più  breve  tempo  ampliorono  la  potenza  loro.  Intra' quali 
fu  la  creazione  del  Dittatore;  per  lo  quale  nuovo  ordine  non 
solamente  supcrorono  gli  imminenti  pericoli,  ma  fu  cagione 
di  ovviare  a  infiniti  mali,  ne' quali  senza  quello  rimedio 
quella  Repubblica  sar-ebbe  incorsa. 

Cap.  \Wi\.  —  L'  auloriià  dillaloria  fece  bene,  e  non  danno, 
alla  repubblica  romana:  e  come  le  autorità  che  i  cittadini 
si  tolgono,  non  quelle  che  sono  loro  dai  suffragi  liberi  date, 
sono  alla  vita  civile  perniciose, 

E' sono  slati  dannati  da  alcuno  scrittore  quelli  Romani 
che  trovorono  in  quella  città  il  modo  di  creare  il  Dittatore, 
come  cosa  che  fusse  cagione,  col  tempo,  della  tirannide  di 
Roma;  allegando,  come  il  primo  tiranno  che  fusse  in  quella 

.città,  la  comandò  sotto  questo  titolo  dittatorio;  dicendo  che 
se  non  vi  fusse  stalo  questo,  Cesare  non  arebbe  potuto  sotto 
alcuno  titolo   pubblico  adonestare  la  sua   tirannide.  La  qual 

)cosa  non  fu  bene  da  colui  che  tenne  questa  opinione  esami- 
nala, e  fu  fuori  d'  ogni  ragione  creduta.  Perchè,  e'  non  fu  il 


LIBRO   PRIMO.  ^Gl 

nome  né  il  grado  del  DiUatore  che  facesse  serva  Roma,  raa 
fu  r autorità  presa  dai  citladini  per  la  diuturnità  dello  impe- 
rio: e  se  in  Roma  fusse  mancalo  il  nome  dittatorio,  ne  areb- 
hon  preso  un  altro;  perchè  e* sono  le  forze  che  facilmente  j 
s'acquistano  i  nomi,  non  i  nomi  le  forze.  E  si  vedde  che  'I  j 
Dittatore,  mentre  che  fu  dato  secondo  gli  ordini  pubblici,  e 
non  per  autorità  propria,  fece  sempre  bene  alla  città.  Per- 
chè e' nuocono  alle  repubbliche  i  magistrati  che  si  fanno  e 
r  autoritali  che  si  danno  per  vie  isiraordinarie;  non  quelle 
che  vengono  per  vie  ordinarie:  come  si  vede  che  segui  in 
Roma  in  tanto  progresso  di  tempo,  che  mai  alcuno  Dittatore 
fece  se  non  bene  alla  Repubblica.  Di  che  ce  ne  sono  ragioni 
evidentissime.   Prima,   perchè   a  volere  che  un  cittadino 
possa  offendere,  e  pigliarsi  autorità  islraordinaria,  conviene 
eh'  egli  abbia  molte  qualità   le  quali  in  una  repubblica  non 
corrotta  non  può  mai  avere:  perchè  gli  bisogna  essere  ric- 
chissimo, ed  avere  assai  aderenti  e  partigiani,  i  quali  non 
può  avere  dove  le  leggi  si  osservano;  e  quando  pure  ve  gli 
avesse,  simili  uomini  sono  in  modo  formidabili,  che  i  suffragi 
liberi  non  concorrono  in  quelli.  Oltra  di  questo,  il  Dittatore  [ 
era  fatto  a  tempo,  e  non  in  perpetuo,  e  per  ovviare  solamente  a  \ 
quella  cagione  mediante  la  quale  era  creato;  e  la  sua  auto-  ■ 
rità  si  estendeva  in  potere  deliberare  per  se  stesso  circa  i  modi 
di  quello  urgente  pericolo,  e  fare  ogni  cosa  senza  consulla,  e 
punire  ciascuno  senza  appellagione:  ma  non  poteva  far  cosa 
che  fusse  in  diminuzione  dello   stalo;  come  sarebbe  stalo 
tórre  autorità  al  Senato  o  al  Popolo,  disfare  gli  ordini  vecchi 
della  città,  e  farne  de'  nuovi.  In  modo  che,  raccozzato  il  breve 
tempo  della  sua  dittatura,  e  l'autorità  limitata  che  egli  ave- 
va, ed  il  popolo  romano  non  corrotto;  era  impossibile  ch'egli 
uscisse  de' termini  suoi,  e   nocesse  alla  città:  e  per  espe- 
rienza si  vede  che  sempre  mai  giovò.  E  veramente,  infra  gli 
altri  ordini  romani,  questo  è  uno  che  merita  esser  conside- 
rato, e  connumeralo  infra  quelli  che  furono  cagione  della   i 
grandezza  di  tanto  imperio;  perchè  senza  un  simile  ordine  ' 
le  città  con  ditfìcuUà  usciranno  degli  accidenti  istraordinari:   ; 
perchè  gli  ordini  consueti  nelle  repubbliche  *  hanno  il  moto  i 

'  La  ciadiana  e  la  Testina  aggiungono  a  questo  luogo  un  die,  il  «[naie, 

11* 


Iij2  DEI  Disconsi 

lardo  (non   potendo  alcuno  consiglio  né  alcuno  magislralo 
per  se  slesso  operare  ogni  cosa,  ma  avendo  in  molle  cose 
bisogno  r  uno  dell' allro),  e  perchè  nel  raccozzare  insieme 
quesli  voleri   va  lempo,  sono  i  rimedi  loro  pericolosissimi, 
quando  egli  hanno  a  rimediare  a  una  cosa  che  non  aspelli 
lempo.  E  però  le  repubbliche  debbono  inlra'loro  ordini  avere 
un  simile  modo:  e  la  Repubblica  veneziana.  Iti  quale  intra  le 
moderne  repubbliche  è  eccellente,  ha  riservalo  autorità  a 
pochi  cittadini,  che  ne' bisogni  urgenti,  senza  maggiore  con- 
sulla, tulli  d'accordo  possine  deliberare.  Perchè  quando  in 
una  repubblica  manca  un  simil  modo,  è  necessario,  o  ser- 
vando gli  ordini  rovinare,©  per  non  rovinare  rompergli.  Ed 
in  una  repubblica  non  vorrebbe  mai  accader  cosa,  che  eòi 
modi  estraordinari  s' avesse  a  governare.  Perchè,  ancora  che 
il  modo  istraordinario  per  allora  facesse  bene,  nondimeno  lo 
esempio  fa  male;  perchè  si  mette  una  usanza  di  rompere  gli 
'# /*^  (ordini  per  bene,  che  poi  sello  quel  colore  si  rompono  por 
t^Jk^A  (  male.  Talché  mai  (ìa  perfetta  una  repubblica ,  se  con  le  leggi 
*^.'8ue  non  ha  provvisto  a  lutto,  e  ad  ogni  accidente  posto  il  ri- 
j'*        medio,  e  dalo  il  modo  a  governarlo.  E  però,  conchiudendo, 
jL*m^    dico  che  quelle  repubbliche    le  quali  negli  urgenti  pericoli 
^  /      non  hanno  rifugio  o  al  Dittatore  o  a  simili  aulorilati,  scm- 
**"  •'     pre  ne'  gravi  accidenti*  rovineranno.  È  da  notare  in  questo 
^  nuovo  ordine ,  il  modo  dello  eleggerlo,  quanto  dai  Romani  fu 

saviamente  provvisto.  Perchè,  sondo  la  creazione  del  Ditta- 
tore con  qualche  vergogna  dei  Consoli,  avendo,  di  capi  della 
città,  a  venire  sotto  una  ubidicnza  come  gli  altri;  e  presup- 
ponendo che  di  questo  avesse  a  nascere  isdegno  fra  i  citta- 
dini; vollono  che  l'autorità  dello  eleggerlo  fusse  nei  Consoli: 
pensando  che  quando  l'accidente  venisse,  che  Roma  avesse 
bisogno  di  questa  regia  potestà,  e' lo  avessino  a  fare  volen- 
lieri;  e  facendolo  loro,  che  dolessi  lor  meno.  Perchè  le  fe- 

Ìritc  ed  ogni  allro  male  che  l'uomo  si  fa  da  sé  spontaneamente 
e  per  elezione,  dolgono  di  gran  lunga  meno,  che  quelle  che 

al  mio  rre(Icre,  intralcia  ,  auzichc  rendere  più  spedila  la  sintassi.  Noi  credemmo 
piuUo&to  di  poter  supplire  un' e  congiuntiva  tra  il  primo  e  il  secondo  ;jcrc/r« 
alla  fine  della  parentesi:  e  il  nostro  modo  di  costruire  il  periodo,  in  tulle  le 
edizioni  malconcio,  ci  siamo  ingegnali  di  darlo  ad  intendere  colla  punluazionc. 


LIBUO    PRIMO.  1C,'> 

li  sono  falle  da  altri.  Ancora  che  poi  negli  ullimi  lempi  i  Ro- 
mani usassino,  in  cambio  del  Diltalore,  di  dare  lale  aulorilà 
al  Console,  con  quesle  parole:  Vidcal  Consul,  ne  Respublica 
quid  delrimenti  captai.  E  per  tornare  alla  maleria  nostra, 
conchiudo,  come  i  vicini  di  Roma  cercando  opprimergli,  gli 
feciono  ordinare,  non  solamente  a  potersi  difendere,  ma  a 
potere,  con  più  forza,  più  consiglio  e  più  aulorilà,  offender 
loro. 

Cap.  XXXV.  —  La  cagione  perchè  in  Roma  la  creazione  del 
decemvirato  fu  nociva  alla  liberlà  di  quella  repubblica , 
non  ostante  che  fosse  creato  per- suffragi  pubblichi  e  liberi. 

E' pare  contrario  a  quel  che  di  sopra  è  discorso;'  che 
quella  aulorilà  che  si  occupa  con  violenza,  non  quella  eh' è 
data  con  gli  suffragi,  nuoce  alle  repubbliche;  la  elezione  dei 
dieci  cittadini  creali  dal  Popolo  romano  per  fare  le  leggi  in 
Roma:  i  quali  ne  divenlorno  col  tempo  tiranni,  e  senza  al- 
cun rispetto  occuporno  la  libertà  di  quella.  Dove  si  debbe 
considerare  i  modi  del  dare  l'autorità,  ed  il  tempo  perchè 
la  si  dà.  E  quando  e*  si  dia  autorità  libera,  col  lempo  lungo, 
chiamando  il  tempo  lungo  un  anno,  o  più;  semine  fìa  perico- 
losa, e  farà  gli  effetti  o  buoni  o  tristi,  secondo  che  fieno  tri- 
sti o  buoni  coloro  a  chi  la  sarà  data.  E  se  si  considera  l'au- 
torità che  ebbero  i  Dieci,  e  quella  che  avevano  i  Diltalori,  si 
vedrà  senza  comparazione  quella  dei  Dieci  maggiore.  Perchè, 
crealo  il  Diltalore,  rimanevano  i  Tribuni,  i  Consoli,  il  Se- 
nato, con  la  loro  autorità;  né  il  Dittatore  la  poteva  tórre  lo- 
ro: e  s'egli  avesse  potuto  privare  uno  del  consolato,  uno  del 
senato,  ei  non  poteva  annullare  l'ordine  senatorio,  e  faro 
nuove  leggi.  In  modo  che  il  Senato,  i  Consoli,  ed  i  Tribuni, 
restando  con  1' aulorilà  loro,  venivano  ad  esser  come  sua 
guardia,  a  farlo  non  uscire  della  via  diritla.  Ma  nella  crea- 
zione dei  Dieci  occorse  lutto  il  contrario:  perchè  gli  annul- 
lorno  i  Consoli  ed  i  Tribuni,  dettone  loro  aulorilà  di  tare  leggi, 
ed  ogni  altra  cosa,  come  il  Popolo  romano.  Talché,  trovan- 
dosi soli,  senza  Consoli,  senza  Tribuni,  senza  appellagione  al 

*  Abbiasi,  in  questo  luogo,  per  sollialcso:  cioè. 


Ulì  DEI    DISCORSI 

Popolo;  e  per  quesfo  non  venendo  ad  avere  chi  osservas- 
scgli,'  ci  poterono,  il  secondo  anno,  mossi  dall' ambizione 
di  Appio,  divenlare  insolenti.  E  per  questo  si  debbo  no(aro, 
che  quando  e*  si  è  dello  che  una  autorità  data  da'sufTraui 
liberi,  non  offese  mai  alcuna  repubblica;  si  presuppone  che 
un  popolo  non  si  conduca  mai  a  darla,  se  non  con  le  debite 
circonstanzie,  e  ne'debili  tempi:  ma  quando,  o  per  essere  in- 
gannato, o  per  qualche  altra  cagione  che  lo  accecasse,  e' si 
conducesse  a  darla  imprudeoleroente,  e  nel  modo  che  M  Po- 
polo romano  la  dette  a' Dieci,  gl'interverria  sempre  come 
a  quello.  Questo  si  prova  facilmente,  considerando  quali  ca- 
gioni mantenessero  i  DiUalori  buoni,  e  quali  facessero  i  Dieci 
cattivi;  e  considerando  ancora,  come  hanno  fatto  quelle  re- 
pubbliche che  sono  stale  tenute  bene  ordinale,  nel  dare  l'au- 
torità per  lungo  tempo;  come  davano  gli  Spartani  agli  loro 
Ke,  ecome  danno  i  Veneziani  ai  loro  Duci:  perchè  si  vedrà, 
all'ano  ed  alPaltro  modo  di  costoro  esser  poste  guardie,  che 
facevano  che  i  Re  non  potevano  usare  male  quella  autorità. 
Né  giova,  in  questo  caso,  che  la  materia  non  sia  corrotta; 
perchè  una  autorità  assoluta,  in  brevissimo  tempo  corrompe 
la  materia,  e  si  fa  amici  e  partigiani.  Né  gli  nuoce  o  esser 
f)Ovcro,  0  non  avere  parenti  :  perchè  le  ricchezze,  ed  ogni  al- 
tro favore  subitogli  corre  dietro:  come  particolarraenle  nella 
cre.»zione  de'dclli  Dieci  discorreremo.* 

Cap.   XXXVI.  ~  Non  debbono  i  cillaìini  che   hanno  avuti 
{  magjiori  onori,  sitcgnarsi  de*  minori. 

Avevano  i  Romani  fatti  Marco  Fabio  e  G.  Manilio  con- 
soli, e  vinta  una  gloriosissima  giornata  contra  a'  Veienli  e 
gli  Elrusci;  nella  quale  fu  morto  Quinto  Fabio,  fratello  del 
consolo,  quale  lo  anno  davanti  era  stato  consolo.  Dove  si 
debhe  considerare  ,  quarito  gli  ordini  di  quella  città  erano  atti 
a  farla  grande;  e  quanto  le  altre  repubbliche  che  si  disco- 

*  La  comune  delle  tdixìcmi:  f;fi  assentisse s  la  Romana,  con  errore  evi- 
dente: osservagli.  È  prolialtile  che  T  Autore  scrivesse  osservargli  j  modo  eliUico 
il  quale  soUinlendereMie  potesse,  o  dovesse. 

2  Di  ciò  infalli  torna  a  parlare  nel  seg.  rap.  XL  :  ond'c  per  lo  meno 
c«|UÌvoca  la  lezione  della  BlaJiaua  e  della  Testina  :  discórrtmo. 

i 


LIBRO   PRIMO.  105 

Stano  dai  modi  suoi,  s'ingannano.  Perchè,  ancora  che  i  Ro- 
mani fussino  amatori  grandi  della  gloria,  nondimeno  non  sii 
raavano  cosa  disonorevole  ubbidire  ora  a  chi  altra  volta  essi 
avevano  comandato,  e  trovarsi  a  servire  in  quello  esercito 
del  quale  erano  stati  principi.  Il  quale  costume  è  contrario 
alia  oppinione,  ordini  e  modi  de' cittadini  de' tempi  nostri: 
ed  in  Vinegia  è  ancora  questo  errore,  che  uno  cittadino  f 
avendo  avuto  un  grado  grande,  si  vergogni  di  accettare  uno  \ 
minore;  e  la  città  gli  consente  che  se  ne  possa  discostare.  ■ 
La  qual  cosa,  quando  fusse  onorevole  per  il  privato,  è  al 
tutto  inutile  per  il  pubblico.  Perchè  più  speranza  debbe 
avere  una  repubblica,  e  più  conQdare  in  uno  cittadino  che 
da  un  grado  grande  scenda  a  governare  uno  minore,  che  in 
quello  che  da  uno  minore  salga  a  governare  un  maggiore. 
Perchè  a  costui  non  può  ragionevolmente  credere,  se  non  li 
vede  nomini  intorno,  i  quali  siano  di  tanta  riverenza  o  di 
tanta  virtù,  che  la  novità  di  colui  possa  essere  con  il  censi-  , 
glie  ed  autorità  loro  moderata.  E  quando  in  Roma  fusse  stata 
la  consuetudine  quale  in  Vinegia,  e  nell'altre  repubbliche  e 
regni  moderni,  che  chi  era  stato  una  volta  Consolo,  non  vo- 
lesse mai  più  andare  negli  eserciti  se  non  Consolo;  ne  sareb- 
bono  nate  infinite  cose  in  disfavore  del  viver  libero;  e  per  gli 
errori  che  arebbono  fatti  gli  uomini  nuovi,  e  per  1'  ambizione 
che  loro  arebbono  potuto  usare  meglio,  non  avendo  uomini 
intorno,  nel  cospetto  de* quali  ei  temessino  errare;  e  così 
sarebbero  venuti  ad  essere  più  sciolti:  il  che  sarebbe  tornato 
tutto  in  detrimento  pubblico. 

Cap.  XXXVII.  —  Quali  scandali  partorì  in  Roma  la  legge 
agraria:  e  come  fare  una  legge  in  una  repubblica  che  ris- 
guardi assai  indietro,  e  sia  cbnlra  ad  una  consuetudine 
antica  della  città,  è  scandólosissimo. 

Egli  è  sentenza  degli  antichi  scrittori,  come  gli  uomini  / 
sogliono  affliggersi  nel  male  e  stuccarsi  nel  bene;  e  come  f 
dall'  una  e  dall'  altra  di  queste  due  passioni  nascono  i  me- 
desimi efletti.  Perchè,  qualunque  volta  è  tolto  agli  uomini  il  f 
combattere  per  necessità,  combattono  per  ambizione:  la  quale 


IGQ  DEI   DISCORSI 

è  lanlo  potente  ne' pelli  amani,  che  mai»  a  qualunque  grado 
si  salgano,  gli  abbandona.  La  cagione  è,  perchè  la  natura 
ha  creali  gli  uomini  in  modo,  che  possono  desiderare  ogni 
cosa,  e  non  possono  conseguire  ogni  cosa:  talché,  essendo 
sempre  maggiore  il  desiderio  che  la  polenza  dello  acquistare, 
\  oe  risulla  la  mala  conlenlezza  di  quello  che  si  possiede,  e  la 
poca  satisfazione  di  esso.  Da  questo  nasco  il  variare  della 
fortuna  loro:  perchè  desiderando  gli  uomini,  parte  di  avere 
più,  parie  temendo  di  non  perdere  lo  acquistalo,  si  viene  alle 
inimicizie  ed  alla  guerra  ;  dalla  quale  nasce  la  rovina  di  quella 
provincia,  e  la  esaltazione  di  queir  altra.  Questo  discorso  ho 
fallo,  perchè  alla  Plebe  romana  non  bastò  assicurarsi  de' No- 
bili per  la  creazione  de' Tribuni,  al  quale  desiderio  fu  con- 
slrctla  per  necessità;  che  lei  subilo,  ollenulo  quello,  cominciò 
a  combaltere  per  ambizione,  e  volere  con  la  Nobiltà  dividere 
gli  onori  e  le  sustanzc,  come  cosa  stimata  più  dagli  aomini. 
Da  questo  nacque  il  morbo  che  partorì.  In  contenzione  della 
legge  agraria,  ed  infine  fu  causa  c|e|Ia  distruzione  della  Re- 
pubblica romana.  E  perchè  le  repubbliche  bone  ordinale 
hanno  a  tenere  ricco  il  pubblico,  e  li  loro  cittadini  poveri; 
convenne  che  fosse  nella  città  di  Roma  difetto  in  questa 
legge:  la  quale  o  non  fosse  fatta  nel  principio  in  modo  che 
la  non  si  avesse  ogni  di  a  rilrallare;  o  che  la  si  diiTerisse 
tanto  in  farla,  che  fosse  scandoloso  il  riguardarsi  indietro; 
0  sendo  ordinata  bene  da  prima,  era  stala  poi  dall'  uso  cor- 
rotta: talché,  in  qualunque  modo  si  fosse,  mai  non  si  parlò 
l  di  questa  legge  in  Roma,  che  quella  città  non  andasse  sot- 
(  losopra.  Aveva  questa  legge  duoi  capi  principali.  Per  1'  uno 
si  disponeva  che  non  si  potesse  possedere  per  alcun  citta- 
dino pi(i  che  tanti  iugeri  di  terra;  per  l'altro,  che  i  campi 
di  che  si  privavano  i  niioici,  si  dividessino  intra  il  popolo  ro- 
mano. Veniva  pertanio  a  fare  di  duoi  sorte  offese  ai  Nobili: 
perchè  quelli  che  possedevano  più  beni  *  non  permelleva  la 
legge  (quali  erano  ta  maggior  parte  de' Nobili),  ne  avevano 
ad  esser  privi;  e  divedendosi  intra  la  Plebe  i  beni  de'  nimici, 
si  toglieva  a  quelli  la  via  dello  arricchire.  Sicché,  venendo 

*  Molti  cdilori  (io    credo)   qtrf"  aggiunsero   chej  rammoJcrnando ,    non 
facendo  più  bello  il  discorso. 


LIBRO    PRIMO.  4C7 

ad  essere  queste  offese  centra  ad  uomini  polenti ,  e  che  pa- 
reva loro,  contrastandola,'  difendere  il  pubblico;  qualunque 
volta,  com'è  detto,  si  ricordava,  andava  sottosopra  quella 
città:  ed  i  Nobili  con  pazienza  ed  industriala  temporeggiava- 
no, o  con  Irar  fuora  un  esercito,  o  Che  a  quel  Tribuno  che 
la  proponeva  si  opponesse  uno  altro  Tribuno;  o  talvolta  ce- 
derne parte;  ovvero  mandare  una  colonia  in  quel  luogo  che 
si  avesse  a  distribuire:  come  intervenne  del  contado  di  An- 
zio, per  il  quale  surgendo  questa  disputa  della  legge,  si  mandò 
in  quel  luogo  una  colonia  tratta  di  Roma,  alla  quale  si  con- 
segnasse fletto  contado.  Dove  Tito  Livio  usa  un  termine  no- 
tabile, dicendo  che  condifflcultà  si  trovò  in  Roma  chi  desse 
il  nome  per  ire  in  detta  colonia:  tanto  era  quella  Plebe  più 
pronta  a  volere  desiderare  le  cose  in  Roma,  che  a  possederle 
in  Anzio!  Andò  questo  umore  di  questa  legge  cosi  travaglian- 
dosi un  tempo,  tanto  che  i  Romani  cominciarono  a  condurre 
le  loro  armi  nelle  estreme  parli  di  Italia,  o  fuori  di  Italia; 
dopo  al  qual  tempo  parve  che  la  restasse.  Il  che  nacque 
perchè  i  campi  che  possedevano  i  nimici  di  Roma  essendo 
discosti  dagli  occhi  della  Plebe,  ed  in  luogo  dove  non  gli  era 
facile  il  coltivargli,  veniva  meno  ad  esserne  desiderosa:  ed 
ancora  i  Romani  erano  meno  punitori  de'  loro  nemici  in  si- 
mil  modo;  e  quando  pure  spogliavano  alcuna  terra  del  suo 
contado,  vi  distribuivano  colonie.  Tanto  che  per  tali  cagioni 
questa  legge  slette  come  addormentata  infino  a' Gracchi: 
da' quali  essendo  poi  svegliala,  rovinò  al  lutto  la  libertà  ro- 
mana; perchè  la  trovò  raddoppiala  la  potenza  de' suoi  av- 
versari, e  si  accese  per  questo  tanto  odio  intra  la  Plebe  ed 
il  Senato,  che  si  venne  all'armi  ed  al  sangue,  fuor  d'ogni 
modo  e  costume  civile.  Talché,  non  polendo  i  pubblici  magi- 
strati rimediarvi,  né  sperando  più  alcuna  delle  fazioni  in 
quelli,  si  ricorse  a' rimedi  privati,  e  ciascuna  delle  parti 
pensò  di  farsi  un  capo  che  la  difendesse.  Pervenne  in  que- 
sto scandolo  e  disordine  la  Plebe,  e  volse  la  sua  riputazione 
a  Mario,  tanto  che  la  lo  fece  quattro  volte  Consolo;  ed  in  tanto 

*  Riferisce ,  logicamente ,  alla  legge.  Quegli  editori  che  ciò  non  intesero , 
rassettarono:  contrastandole.  E  che  [)oi,  senza  questa  più  lontana  relazione, 
reggerebbe  il  verbo  si  ricordava? 


iCyS  DEI   DISCORSI 

continuò  con  pochi  inlervalli  il  suo  consolalo,  che  si  polellc 
per  se  stesso  far  Consolo  tre  altre  volte.  Conlra  alla  qual 
peste  non  avendo  la  Nobiltà  alcuno  rimedio,  si  volse  a  favo- 
rir Siila;  e  fatto  quello  capo  della  parte  sua,  vennero  alle 
guerre  civili;  e  dopo  mollo  sangue  e  variar  di  fortuna,  ri- 
mase superiore  la  Nobiltà.  llìBuscilorono  poi  questi  umori  a 
tempo  di  Cesare  e  di  Pompeo;  perchè,  fallosi  Cesare  capo 
della  parie  di  Mario,  e  Pompeo  di  quella  di  Siila,  venendo 
alle  mani  rimase  superiore  Cesare:  il  quale  fu  primo  tiranno 
in  Roma;  talché  mai  fu  poi  lìbera  quella  città.  Tale,  adunque, 
principio  e  Gne  ebbe  la  legge  agraria.  E  benché  noi  mo- 
strassimo altrove,  come  le  inimicizie  di  Roma  intra  il  Senato 
e  la  Plebe  mantenessero  libera  Roma,  per  nascerne  da  quelle 
leggi  in  favore  della  libertà;  e  per  questo  paia  disforme  a  tale 
conclusione  il  fine  di  questa  legge  agraria;  dico  come,  per 
questo,  io  non  mi  rimuovo  da  tale  oppinione:  perchè  egli  è 
tanta  V  ambizione  de*  grandi,  che  se  per  varie  vie  ed  in  vari 
modi  la  non  è  in  una  città  sbattuta,  tosto  riduce  quella  città 
alla  rovina  sua.  In  modo  che,  se  la  contenzione  della  legge 
agraria  penò  trecento  anni  a  fare  Roma  serva,  si  sarebbe 
condotta,  per  avventura,  mollo  più  tosto  in  servitù,  quando  la 
Plebe,  e  con  questa  legge  e  con  altri  suoi  appetiti,  non  avesse 
sempre  frenalo  la  ambizione  de'Nobili.  Vedesi  per  questo  an- 
cora, quanto  gli  uomini  stimano  più  la  roba  che  gli  onori. 
Perchè  la  Nobiltà  romana  sempre  negli  onori  cede  senza 
scandali  istraordinari  alla  Plebe;  ma  come  si  venne  alla  ro- 
ba, fu  tenta  là  ostinazione  sua  nel  difenderla,  che  la  Plebe 
ricorse,  per  isfogare  l' appetito  suo ,  a  quelli  istraordinari  che 
di  sopra  si  discorrono.  Del  quale  disordine  furono  motori  i 
Gracchi;  de' quali  si  debbe  laudare  più  la  intenzione  che  la 
prudenza.  Perchè,  a  voler  levar  via  uno  disordine  cresciuto 
in  una  repubblica,  e  per  questo  fare  una  legge  che  riguardi 
assai  indietro,  è  partito  male  consideralo;  e,  come  di  sopra 
largamente  si  discorse,  non  si  fa  altro  che  accelerare  quel 
male  a  che  quel  disordine  ti  conduce:  ma  temporeggiandolo, 
0  il  male  viene  più  tardo,  o  per  se  medesimo  col  tempo, 
avanti  che  venga  al  fine  suo,  si  spegne. 


LIBRO  PRIMO.  i69 

Gap.  XXXVIII. —  Le  repubbliche  deboli  sono  male  risolute  y 
e  non  si  sanno  deliberare  ;  e  se  le  pigliano  mai  alcuno  par^ 
tito,  nasce  piii  da  necessità  che  da  elezione. 

Essendo  in  Roma  una  gravissima  pestilenza,  e  parendo 
per  questo  agli  Volsci  ed  agli  Equi  che  fusse  venuto  il  tempo 
di  potere  oppressar  Roma;  fatti  questi  due  popoli  uno  grossis- 
simo  esercito,  assaltorono  gli  Latini  e  gliErnici;e  guastando 
il  loro  paese,  furono  constrelti  gli  Latini  e  gli  Ernici  farlo  in- 
tendere a  Roma,  e  pregare  che  fussero  difesi  da' Romani: 
ai  quali,  sendo  i  Romani  gravati  dal  morbo,  risposero  che 
pigliassero  partito  di  difendersi  da  loro  medesimi  e  con  le 
loro  armi,  perchè  essi  non  li  potevano  difendere.  Dove  si 
conosce  la  generosità  e  prudenza  di  quel  Senato,  e  come 
sempre  in  ogni  fortuna  volle  essere  quello  che  fusse.  principe 
delle  deliberazioni  che  avessero  a  pigliare  1  suoi;  né  si  ver-  r 
gognò  mai  deliberare   una  cosa  che  fusse  contraria  al  suo   \ 
modo  di  vivere  o  ad  altre  deliberazioni  fatte  da  lui,  quando 
la  necessità  gliene  comandava.  Questo  dico  perchè  altre  volte    i 
il  medesimo  Senato  aveva  vietato  ai  detti  popoli  l'armarsi  e    ' 
difendersi:  talché  ad  un  Senato  meno   prudente  di  questo, 
sarebbe  parso  cadere  del  grado  suo  a  concedere  loro  tale  di- 
fensione.  Ma  quello  sempre  giudicò  le  cose  come  si  debbono  i 
giudicare,  e  sempre  prese  il  meno  reo  partito  per  migliore: 
perchè  male  gli  sapeva  non  potere  difendere  i  suoi  sudditi;   ( 
male  gli  sapeva  che  si  armassino  senza  loro,  per  le  ragioni   ' 
dette,  e  per  molte  altre  che  si  intendono:  nondimeno,  cono- 
scendo che  si  sarebbono  armati,  per  necessità,  a  ogni  mo- 
do, avendo  il  nimico  addosso;  prese  la  parte  onorevole,  e 
volle  che  quello  che  gli  avevano  a  fare,  lo  facessino  con  li- 
cenzia sua,  acciocché  avendo  disubbidito  per  necessità,  non 
si  avvezzassino  a  disubbidire  per  elezione.  E  benché  questo 
paia  partito  che  da  ciascuna  repubblica  dovesse  esser  preso; 
nientedimeno  le  repubbliche  deboli  e  male  consigliale  non 
gli  sanno  pigliare,  né  si  sanno  onorare  di  simili  necessità. 
Aveva  il  duca  Valentino  presa  Faenza,  e  fatto  calare  Bolo- 
gna  agli  accordi  suoi.  Dipoi,  volendosene  tornare  a  Roma  per 

15 


170  DEI   DISCORSI 

la  Toscana,  mandò  in  Firenze  uno  suo  uomo  a  domandare  il 
passo  per  sé  e  per  il  suo  esercito.  Consullossi  in  Firenze 
come  si  avesse  a  governare  questa  cosa,  né  fu  mai  consi- 
glialo per  alcuno  di  concedergliene.  In  che  non  si  segui  il 
modo  romano:  perché,  sendo  il  Duca  armatissimo,  ed  i  Fio- 
rentini in  modo  disarmali  che  non  gli  potevano  vietare  il 
passare,  era  mollo  più  onore  loro,  che  paresse  che  passasse 
con  permissione  di  quelli,  che  a  forza;  perchè,  dove  vi  fu  al 
lutto  il  loro  vituperio,  sarebbe  stato  in  parte  minore  quando 
r  avessero  governata  altrimenti.  Ma  la  più  cattiva  parte  che 
abbino  le  repubbliche  deboli,  è  essere  irresolute;  in  modo 
che  lutti  i  parliti  che  le  pigliano,  gli  pigliano  per  forza; e  se 
vien  loro  fatto  alcuno  bene,  lo  fanno  forzalo,  e  non  per  pru- 
denza loro,  lo  voglio  dare  di  questo  duoi  altri  esempi ,  occorsi 
ne' tempi  nostri  nello  stalo  della  nostra  città, 'nel  millecin- 
quecento. Ripreso  cfie  il  re  Luigi  Xll  di  Francia  ebbe  Milano, 
desideroso  di  rendergli '  Pisa,  per  aver  cinquanta  mila  duca- 
ti che  gli  erano  stati  promessi  da'  Fiorentini  dopo  tale  re- 
stituzione, mandò  gli  suoi  eserciti  verso  Pisa,  capitanati  da 
(  monsignor  Beaumonle;  benché  francese,  nondimanco  uomo 
\  ÌD  cui  i  Fiorentini  assai  confidavano.  Condussesi  questo  eser- 
(cilo  e  questo  capitano  intra  Cascina  e  Pisa,  per  andare  a  com- 
battere le  mora;  dove  dimorando  alcuno  giorno  per  ordinarsi 
alla  espugnazione,  vennero  oratori  Pisani  a  Beaumonle,  e 
gli  otTeriroHo  di  dare  la  città  allo  esercito  francese  con  que- 
sti palli:  che,  sotto  la  fede  del  re,  promettesse  non  la  mettere 
in  mano  de' Fiorentini,  prima  che  dopo  quattro  mesi,  il  quel 
partito  fu  dai  Fiorentini  al  tutto  rifiutato,  in  modo  che  si  se- 
guì nello  andarvi  a  campo,  e  partissene'  con  vergogna.  Né 
fu  rifiutato  il  parlilo  per  altra  cagione,  che  per  diffidare  della 
fede  del  re;  come  quelli  che  per  debolezza  di  consiglio  si 
erano  per  forza  messi  nelle  mani  sue:  e  dall'altra  parie,  non 
se  ne  fidavano,  né  vedevano  quanto  era  meglio  che  il  re 

*  La  Romaoa  pone  qni  paolo,  leggendo  t  della  nostra  città.  Aet  MD. 
ripreso  ec 

S  L'ediiione  stessa  t  rendervi.  lotendasi,  reodere  alla  nostra  cittàr^oauti 
nominata. 

'  Vale  a  dire,  se  ne  partì;  comspondente  all'altro,  si segià.  La  Testina 
però  legge  >  partirsene. 


I 


LIBRO   PRIMO.  Ì7Ì 

potesse  rendere  loro  Pisa  sendovi  dentro,  e  non  la  rendendo 
scoprire  l'animo  suo,  che  non  la  avendo,  poterla  loro  pro- 
mellere,  e  loro  essere  forzati  comperare  quelle  promesse. 
Talché  mollo  più  utilmente  arebbono  fatto  a  consentire  che 
Beaumonle  l'avesse,  sotto  qualunque  promessa,  presa:  come 
se  ne  vide  la  esperienza  dipoi  nel  1502,  che  essendosi  ribel- 
lalo Arezzo,  venne  a*  soccorsi  de' Fiorentini  mandato  dal 
re  di  Francia  monsignor  Imbalt  con  gente  francese;  il  qual 
giunto  propinquo  ad  Arezzo,  dopo  poco  tempo  cominciò  a  pra- 
ticare accordo  con  gli  Aretini,  i  quali  sotto  certa  fede  volevano 
dare  la  terra,  a  similitudine  de'Pisani.  Fu  riGutato  in  Firenze 
tale  partito;  il  che  veggendo  monsignor  Imbalt,  è  parendo- 
gli come  i  Fiorentini  se  ne  intendessino  poco,  cominciò  a 
tenere  le  pratiche  dello  accordo  da  sé,  senza  participazione 
de'  Commessari:  tanto  che  e'  lo  conchiuse  a  suo  modo,  e 
sotto  quello  con  le  sue  genti  se  ne  entrò  in  Arezzo,  facendo 
intendere  a*  Fiorentini  come  egli  erano  matti ,  e  non  si  in- 
tendevano delie  cose  del  mondo:  che  se  volevano  Arezzo,  lo 
facessino  intendere  al  re,  il  quale  lo  poteva  dar  loro  molto 
meglio,  avendo  le  sue  genti  in  quella  città,  che  fuori.  Non 
si  reslava  in  Firenze  di  lacerare  e  biasimare  detto  Imbalt; 
né  si  restò  mai,  infino  a  tanto  che  si  conobbe  che  se  Beaa- 
monle  fusse  stato  simile  a  Imbalt,  si  sarebbe  avuto  Pisa 
come  Arezzo.  E  cosi,  per  tornare  a  proposito,  le  repubbliche 
irresolute  non  pigliano  mai  partiti  buoni,  se  non  per  forza, 
perchè  la  debolezza  loro  non  le  lascia  mai  deliberare  dove  è 
alcuno  dubbio;  e  se  quel  dubbio  non  è  cancellato  da  una  vio- 
lenza che  le  sospinga,  stanno  sempre  mai  sospese. 

Gap.  XXXIX.  —  In  diversi  popoli  si  veggono  spesso 
%  medesimi  accidenli. 

E'  si  conosce  facilmente  per  chi  considera  le  cose  pre- 
senti e  le  antiche,  come  in  tutte  le  città  ed  in  tutti  i  popoli 
sono  quelli  medesimi  desideri!  e  quelli  medesimi  umori,  e 
come  vi  furono  sempre:  in  modo  che  gli  è  facil  cosa  a  chi 
esamina  con  diligenza  le  cose  passale,  prevedere  in  ogni  re- 
pubblica le  future,  e  farvi  quelli  rimedi  che  dagli  antichi 


172  DEI  DISCORSI 

sono  stati  osati;  o  non  ne  trovando  degli  usati,  pensarne 
de'  nuovi,  per  la  similitudine  degli  accidenti.  Ma  perchè  que- 
ste considerazioni  sono  neglette,  o  non  inlese  da  chi  lesge; 
o  se  le  sono  intese,  non  sono  conosciute  da  chi  governa;  ne 
seguita  che  sempre  sono  i  medesimi  scandali  in  ogni  tempo. 
Avendo  la  città  di  Firenze,  dopo  il  94,  perduto  parte  dello  im- 
perio suo,  come  Pisa  ed  altre  terre,  fu  necessitata  a  fare  guer- 
ra  a  coloro  che  le  occupavano.  E  perchè  chi  le  occupava  era 
;  potente,  ne  seguiva  che  si  spendeva  assai  nella  guerra,  senza 
alcun  frutto:  dallo  spendere  assai  ne  risultava  assai  gravezze; 
dalle  gravezze,  infinite  querele  del  popolo:  e  perchè  questa 
guerra  era  amministrata  da  uno  magistrato  di  dieci  cittadini 
che  si  chiamavano  i  Dieci  della  guerra,  l'universale  comin- 
ciò a  recarselo  in  dispetto,  come  quello  che  fusse  cagione  e 
della  guerra  e  delle  spese  di  essa;  e  cominciò  a  persuadersi 
che  tolto  via  detto  magistrato,  fusse  tolto  via  la  guerra: 
tanto  che  avendosi  a  rifare,  non  se  gli  fecero  gli  scambi;  e 
lasciatosi  spirare,  si  commisero  le  azioni  sue  alla  Signoria. 
Laqual  deliberazione  fu  tanto  perniziosa,  che  non  solamente 
non  levò  la  guerra,  come  lo  universale  si  persuadeva;  ma 
tolto  via  quelli  uomini  che  con  prudenza  la  amministravano, 
;  ne  segai  tanto  disordine,  che,  oltre  a  Pisa,  si  perde  Arezzo 
e  molti  altri  luoghi:  in  modo  che,  ravvedutosi  il  popolo  dello 
r.  errore  suo,  e  come  la  cagione  del  male  era  la  febbre  e  non 
;  il  medico,  rifece  il  magistrato  de'  Dicci.  Questo  medesimo 
(  amore  si  levò  in  Roma  centra  al  nome  de' Consoli:  perchè, 
I  veggendo  quello  Popolo  nascere  l' una  guerra  dall'  altra,  e 
non  poter  mai  riposarsi;  dove  e' dovevano  pensare  che  la 
nascesse  dalla  ambizione  de' vicini  che  gli  volevano  opprime- 
re; pensavano  nascesse  dall'  ambizione  de'  Nobili,  che  non 
polendo  dentro  in  Roma  gastigar  la  Plebe  difesa  dalla  pote- 
stà tribunizia,  la  volevano  condurre  fuori  di  Roma  sotto  i 
Consoli,  per  opprimerla  dove  non  aveva  aiuto  alcuno.  E 
pensarono  per  questo,  che  fusse  necessario  o  levar  via  i 
,  Consoli,  o  regolare  in  modo  la  loro  potestà,  che  e'  non  aves- 
sino  autorità  sopra  il  popolo,  né  fuori  né  in  casa.  Il  primo 
che  tentò  questa  legge,  fu  uno  Terentillo  tribuno;  il  quale 
proponeva  che  si  dovessero  creare  cinque  uomini  che  do^ 


Libro  primo*  173 

vessino  considerare  la  potenza  de*  Consoli,  e  limitarla.  Il 
che  alterò  assai  la  Nobiltà,  parendoli  che  la  maiestà  dell*  im- 
perio fusse  al  tutto  declinata,  talché  alla  Nobiltà  non  restasse 
più  alcuno  grado  in  quella  Repubblica.  Fu  nondimeno  tanta 
la  ostinazione  de*  Tribuni,  che  il  nome  consolare  si  spense; 
e  furono  in  fine  conlenti,  dopo  qualche  altro  ordine,  piutto- 
sto creare  Tribuni  con  potestà  consolare,  che  i  Consoli: 
tanto  avevano  più  in  odio  il  nome  che  la  autorità  loro.  E 
cosi  seguitorno lungo  tempo,  infino  che,  conosciuto  lo  errore 
loro,  come  i  Fiorentini  rilornorno  ai  Dieci,  cosi  loro  ri- 
creorno  i  Consoli. 

Gap.  XL.-'La  creazione  del  decemvirato  in  Roma,  e  quello 
che  in  essa  è  da  notare:  dove  si  considera,  intra  molte  altre 
cose,  come  si  può  salvare  per  simile  accidente,  o  appressare 
una  repubblica. 

Volendo  discorrere  particolarmente  sopra  gli  accidenti 
che  nacquero  in  Roma  per  la  creazione  del  decemvirato, 
non  mi  pare  soperchio  narrare  prima  lutto  quello  che  segui 
per  simile  creazione,  e  dipoi  disputare  quelle  parli  che  sono 
in  esse  azioni  notabili:  le  quali  sono  molte,  e  di  grande 
considerazione,  cosi  per  coloro  che  vogliono  mantenere  una 
repubblica  libera,  come  per  quelli  che  disegnassino  som- 
metterla.  Perchè  in  tale  discorso  si  vedranno  molli  errori 
fatti  dal  Senato  e  dalia  Plebe  in  disfavore  delia  libertà;  e 
molti  errori  fatti  da  Appio,  capo  del  decemvirato,  in  disfa- 
vore di  quella  tirannide  che  egli  si  aveva  presupposto  sta- 
bilire* in  Roma.  Dopo  molte  disputazioni  e  contenzioni  se- 
guite intra  il  Popolo  e  la  Nobiltà  per  formare  nuove  leggi 
in  Roma,  per  le  quah  e' si  stabilisse  più  la  libertà  di  quello 
stato; mandarono, d'accordo,  Spurio  Postumio  con  duoi  altri 
cittadini  ad  Atene  per  gli  essempi  di  quelle  leggi  che  Solone 
détte  a  quella  città,  acciocché  sopra  quelle  potessero  fondare 
le  leggi  romane.  Andati  e  tornati  costoro,  si  venne  alla  crea- 
zione degli  uomini  ch'avessino  ad  esaminare  e  fermare  dette 

^  Così  nella  Testina.  L*edicion«  del  Biado  t  presuposto  stabile i  le  altre  i 
ài  stabilire.  ...  ,.  ,    ,  ,     .  , 

i6* 


i7i  DEI    DISCORSI 

leggi;  e  creorno  dieci  ciUadini  per  ano  anno,  tra  i  quali 
fu  creato  Appio  Claudio,  uomo  sagace  ed  inquieto.  E  perchè 
e'potessino  senza  alcuno  rispetto  creare  tali  leggi,  si  leva- 
rono di  Roma  tutti  gli  altri  magistrati,  ed  in  particolare  i 
Tribuni  ed  i  Consoli,  e  levossi  lo  appello  al  Popolo;  in  modo 
che  tale  magistrato  veniva  ad  essere  al  tutto  principe  di  Ro- 
ma. Appresso  ad  Appio  si  ridusse  tutta  l'autorità  degli  altri 
suoi  compagni,  per  gli  favori  che  gli  faceva  la  Plebe:  perchè 
egli  s'era  fatto  in  modo  popolare  con  le  dimostrazioni,  che 
pareva  meraviglia  eh'  egli  avesse  preso  si  presto  una  nuova 
natura  e  uno  nuovo  ingegno,  essendo  stalo  tenuto  innanzi 
a  questo  tempo  un  crudele  persecutore  della  Plebe.  Gover- 
naronsi  questi  Dieci  assai  civilmente,  non  tenendo  più  che 
dodici  littori,  i  quali  andavano  davanti  a  quello  ch'era  in- 
fra loro  preposto.  E  bench'egli  avessino  l'autorità  assoluta, 
nondimeno  avendosi  a  punire  un  cittadino  romano  per  omi- 
cidio, '  lo  citorno  nel  cons|)etto  del  Popolo,  e  da  quello  lo 
fecero  giudicare.  Scrissero  le  loro  leggi  in  dieci  (avole,  ed 
avanti  che  le  confìrmasscro,  le  messone  in  pubblico,  accioc- 
ché ciascuno  le  potesse  leggere  e  dispularle;  acciocché  si 
conoscesse  se  vi  era  alcuno  difetto,  per  poterle  innanti  alla 
conQrmazione  loro  emendare.  Fece,  in  su  questo,  Appio  na- 
scere un  remore  per  Roma,  che  se  a  questo  dieci  tavole  se 
n'aggiungessino  due  altre,  si  darebbe  a  quelle  la  loro  per- 
fezione; talché  questa  oppinione  dette  occasione  al  Popolo  di 
rifare  i  Dieci  per  uno  altro  anno:  a  che  il  Popolo  si  accordò 
volentieri;  si  perchè  i  Consoli  non  si  rifacessino;  sì  perché 
speravano  loro  potere  stare  senza  Tribuni,  sendo  loro  giudici 
delle  cause,  come  di  sopra  si  disse.  Preso, 'adunque,  partito 
di  rifargli,  tutta  la  Nobiltà  si  mosse  a  cercare  questi  onori, 
ed  intra  i  primi  era  Appio;  ed  usava  tanta  amanita  verso  la 
Plebe  nel  domandarla,  che  la  cominciò  ad  essere  sospetta 
a  suoi  compagni:  credebanl  enim  haud  graluUam  in  tanta 
superbia  comilatem  fore.  E  dubitando  di  opporsegli  aperta- 
mente, diliberarono  farlo  con  arte;  e  benché  e'  fusse  minore 
di  tempo  di  tutti,  dettone  a  lui  autorità  di  proporre  i  futuri 
Dieci  al  popolo,  credendo  eh'  egli  osservasse  i  termini  degli 

'  "Là  Bhdiaoa  soIUnto  :  per  omicida. 


ilBUO   t>KlMO.  i*l^ 

altri  di  non  proporre  se  medesimo,  sendo  cosa  inusitata  e 
ignominiosa  in  Roma.  lUe  vero  impelimenlum  prò  occasione 
arripuit;e  nominò  sé  intra  i  primi,  con  meraviglia  e  dispia- 
cere di  tutti  i  Nobili:  nominò  poi  nove  altri  al  suo  proposito. 
La  qual  nuova  creazione  fatta  per  uno  altro  anno,  cominciò 
a  mostrare  al  Popolo  ed  alla  Nobiltà  lo  error  suo.  Perchè  su- 
bilo Appio:  finem  fecU  ferendud  alienw  personce;  e  cominciò  a 
mostrare  la  innata  sua  superbia,  ed  in  pochi  di  riempiè  di 
suoi  costumi  i  suoi  compagni.  £  per  isbigottire  il  Popolo  ed 
il  Senato,  in  scambio  di  dodici  littori,  ne  feciono  cento  venti. 
Slette  ia  paura  eguale  qualche  giorno;  ma  cominciarono  poi 
ad  intrattenere  il  Senalo,e  battere  la  Plebe:  e  s'alcuno  battuto 
dall'uno,  appellava  all'altro,  era  peggio  trattato  nell'appella- 
gione  che  nella  prima  causa.  In  modo  che  la  Plebe,  cono- 
sciuto lo  errore  suo,  cominciò  piena  di  afOizione  a  riguardare 
in  viso  ì  Nobili,  el  inde  liberlalis  captare  auram,  unde  servilu- 
lem  limendo,  in  eum  slalum  rempublicarn  adduxeranl.  E  alia 
Nobiltà  era  grata  questa  loro  afflizione,  ut  ipsi^  la:dio  prcB- 
seniium,  Conmles  desiderarenl.  Vennero  i  di  che  termina- 
vano l'anno:  le  due  tavole  delle  leggi  erano  fatte,  ma  non 
pubblicate.  Da  questo  i  Dieci  presono  occasione  di  continovare 
nel  magistrato,  e  comincìorono  a  tenere  con  violenza  lo 
slato,  e  farsi  satelliti  della  gioventù  nobile,  alla  quale  da- 
vano i  beni  di  quelli  che  loro  condannavano.  Quihus  donis 
Juventus  corrumpebatur ,  et  malebat  licenliam  suam,  quam  om- 
nium liberlatem.  Nacque  in  questo  tempo,  che  i  Sabini  ed  i 
Volsci  mossero  guerra  a' Romani:  in  su  la  qual  paura  co- 
minciarono i  Dieci  a  vedere  la  debolezza  dello  stato  loro; 
perchè  senza  il  Senato  non  potevano  ordinarcla  guerra,  e 
ragunando  il  Senato  pareva  loro  perdere  lo  stato.  Pure,  ne- 
cessitati, presono  questo  ultimo  partito;  e  ragunati  i  Senatori 
insieme,  molti  de'  Senatori  parlarono  contro  alla  superbia 
de' Dieci,  ed  in  particolare  Valerio  ed  Orazio:  e  la  autorità 
loro  si  sarebbe  al  tutto  spenta,  se  non  che  il  Senato,  per  in- 
vidia della  Plebe,  non  volle  mostrare  1* autorità  sua,  pensando 
che  se  i  Dieci  deponevano  il  magistrato  voluntarii,  che  po- 
tesse essere  che  i  Tribuni  della  plebe  non  si  rifacessero. 
Dehberossi  adunque  la  guerra;  uscissi  fuori  con  due  eserciti 


ì%  DEI  DISCORSt 

guidati  da  parte  di  detti  Dieci;  Appio  rimase  a  governare  la 
città.  Donde  nacque  che  si  innamorò  di  Virginia,  e  che  vo- 
lendola tórre  per  forza,  il  padre  Virginio,  per  liberarla, 
r ammazzò:   donde   seguirono  ì  tumulti    di  Roma  e  degli 
eserciti;  i  quali  ridottisi   insieme  con  il   rimanente   della 
Plebe  romana,  se  ne  andarono  nel  Monte  Sacro,  dove  stet- 
tero tanto  che  i  Dieci  deposono  il  magistrato,  e  che  furono 
creati  i  Tribuni  ed  i  Consoli,  e  ridotta  Roma  nella  forma 
della  antica  sua  libertà.  Notasi,  adunque,  per  questo  testo, 
in  prima  esser  nato  in  Roma  questo  inconveniente  di  creare 
questa    tirannide,    per   quelle  medesime    cagioni   che   na- 
scono la  maggiore  parte  delle  tirannidi  nelle  città:  e  questo 
/  è  da  troppo  desiderio  del  popolo  d'  esser  libero,  e  da  troppo 
)   desiderio  de'  nobili  di  comandare.  E  quando  e'  non  conven- 
gono a  fare  una  legge  in   favore  della   libertà,  ma  gettasi 
qualcuna  delle  parti  a  favorire  uno,  allora  è  che  subito  la 
tirannide  surge.'  Convennono  il  Popolo  ed  i  Nobili  di  Roma 
I  a  creare  i, Dieci,  e  òrearli  con  tanta  autorità,  per  desiderio 
'  che  ciascuna  delle  parti  aveva,  T  una  di  spegnere  il  nome 
consolare,  l'altra  il  tribunizio.  Creali  che  furono,  parendo 
alla  Plebe  che  Appio  fusse  diventato  popolare  e  battesse  la 
^  Nobiltà,  si  volse  il  Popolo  a  favorirlo.  E  quando  on  popolo 
si  conduce  a  far  questo  errore  di  dare  riputazione  ad  uno 
perchè  balta  quelli  che  egli  ha  in  odio,  e  che  quello  uno  sia 
savio,  sempre   interverrà  che  diventerà  tiranno  di  quella 
città.  Perchè  egli  attenderà,  insieme  con  il  favore  del  popolo, 
(  a  spegnere  la  nobiltà;  e  non  si  volterà  mai  alla  oppressione 
'  del  popolo,  se  non  quando  ei  1'  ara  spenta;  nel  qual  tempo 
conosciutosi  il  popolo  essere  servo,  non  abbi  dove  rifuggire. 
,   Questo  modo  hanno  tenuto   tutti  coloro  che  hanno  fondato 
'  tirannidi  in  le  repubbliche  :  e  se  questo  modo  avesse  tenuto 
Appio,  quella  sua  tirannide  avrebbe  preso  più  vita,  e  non  sa- 
rebbe mancata  si  presto.  Ma  ei  fece  tutto  il  contrario,  né  si 
potette  governare  più  imprudentemente;  che  per  tenere  la 
tirannide,  e*  si  fece  inimico  di  coloro  che  glie  l'avevano  data 
e  che  gliene  potevano  mantenere,  ed  amico  di  quelli  che 
non  erano  concorsi  a  dargliene  e  che  non  gliene  arebbono 
V potuta  mantenere;  e  perdessi  coloro  che  gli  erano  amici,  e 


f 


m  LIBRO  PRIMO.  in 

cercò  di  avere  amici  quelli  che  non  gli  potevano  essere  ami- 
ci. Perchè,  ancora  che  i  nobili  desiderino  tiranneggiare, 
quella  parte  della  nobiltà  che  si  truova  fuori  della  tirannide, 
è  sempre  inimica  al  tiranno;  né  quello  se  la  può  mai  guada- 
gnare tutta,  per  l'ambizione  grande  e  grande  avarizia  che  è 
in  lei,  non  potendo  il  tiranno  avere  né  tante  ricchezze  né 
tanti  onori,  che  a  tutta  satisfaccia.  E  cosi  Appio,  lasciando 
il  Popolo  ed  accostandosi  a' Nobili,  fece  uno  errore  eviden- 
tissimo, e  per  le  ragioni  dette  di  sopra,  e  perché  a  volere 
con  violenza  tenere  una  cosa,  bisogna  che  sia  più  potente 
chi  sforza,  che  chi  è  sforzato.  Donde  nasce  che  quelli  tiranni 
che  hanno  amico  lo  universale  ed  inimici  i  grandi,  sono  più 
sicuri;  per  essere  la  loro  violenza  sostenuta  da  maggior  for- 
ze, che  quella  di  coloro  che  hanno  per  inimico  il  popolo  ed 
amica  la  nobiltà.  Perché  con  quello  favore  bastano  a  conser- 
varsi le  forze  intrinseche;  come  bastorno  a  Nabide  tiranno 
di  Sparta,  quando  tutta  Grecia  ed.il  popolo  romano  lo  assal- 
tò: il  quale  assicuratosi  di  pochi  nobili,  avendo  amico  il  po- 
polo, con  quello  si  difese;  il  che  non  arebbe  potuto  fare 
avendolo  inimico.  In  quello  altro  grado,  per  aver  pochi  amici 
dentro,  non  bastano  le  forze  intrìnseche,  ma  gli  conviene 
cercare  di  fuora.  Ed  hanno  ad  essere  di  tre  sorti  :  V  una  sa- 
telliti forestieri,  che  ti  guardino  la  persona;  l'altra  armare 
il  contado,  che  faccia queirofllzio che  arebbe  a  fare  la  plebe; 
la  terza  aderirsi  co'  vicini  polenti,  che  ti  difendine.  C4hi 
tiene  questi  modi  e  gli  osserva  bene,  ancora  eh'  egli  avesse 
per  inimico  il  popolo,  potrebbe  in  qualche  modo  salvarsi. 
Ma  Appio  non  poteva  far  questo  di  guadagnarsi  il  contado-, 
sendo  una  medesima  cosa  il  contado  e  Roma  ;  e  quel  che 
poteva  fare,  non  seppe:  talmente  che  rovinò  ne' primi  prin- 
cipii  suoi.  Fecero  il  Senato  ed  il  Popolo  in  questa  creazione 
del  decemvirato  errori  grandissimi:  perchè  ancora  che  di 
sopra  si  dica,  in  quel  discorso  che  si  fa  del  Dittatore,  che 
•quelli  magistrati  che  si  fanno  da  per  loro,  non  quelli  che  fa  il 
popolo,  sono  nocivi  alla  libertà  ;  nondimeno  il  popolo  debbo, 
quando  egli  ordina  i  magistrati,  fargli  in  modo  che  gli  ab- 
bino avere  qualche  rispetto  a  diventare  tristi.  E  dove  e' si 
debbe  proporre  loro  guardia  per  mantenergli  buoni ,  i  Ro- 


Cxm 


i78  DEI    DISCORSI 

mani  la  levorono,  facendolo  solo  magistrato  in  Roma,  ed 
annullando  tulli  gli  altri,  per  la  eccessiva  voglia  (come  di 
sopra  dicemmo)  che  il  Senato  aveva  di  spegnere  i  Tribuni, 
e  la  Plebe  di  spegnere  i  Consoli;  la  quale  gli  accecò  in  mo- 
do, che  concorsono  in  tale  disordine.  Perchè  gli  uomini, 
come  diceva  il  re  Ferrando,  spesso  fanno  come  certi  minori 
uccelli  di  rapina;  ne*  quali  è  tanto  desiderio  di  conseguire  la 
loro  preda,  a  che  la  natura  gli  incita,  che  non  sentono  un 
altro  maggior  uccello  che  sia  loro  sopra  per  ammazzargli. 
IConoscesi,  adunque,  per  questo  discorso,  come  nel  principio 
I  proposi,  lo  errore  del  Popolo  romano,  volendo  salvare  la  li- 
bertà; e  gli  errori  di  Appio,  volendo  occupare  la  tirannide. 

Gap.  XLI.  —  Sahare  dalla  umilia  alla  superbia^  dalia  pietà 
alla  crudellà,  ienza  debili  mezzi^  è  cosa  imprudente  ed 
inulile. 

Oltre  agli  altri  termini  male  usati  da  Appio  per  mante- 
nere  la  tirannide,  non  fu  di  poco  momento  saltare  troppo 
presto  da  una  qualità  ad  un'altra.  Pefchè  la  astuzia  sua  nello 
ingannare  la  Plebe,  simulando  d'essere  uomo  popolare,  fu 
bene  usata  ;  furono  ancora  bene  usali  i  termini  che  tenne 
perchè  i  Dieci  si  avessino  a  rifare  ;  fu  ancora  bene  usata 
quella  audacia  di  creare  se  stesso  contro  alla  oppinione  delia 
Nobiltà;  fu  bene  usato  creare  colleghi  a  suo  proposito:  ma 
non  fu  già  bene  usalo,  come  egli  ebbe  fatto  questo,  secondo 
che  di  sopra  dico,  mutare  in  un  subilo  natura;  e  di  amico, 
mostrarsi  nimico  alla  Plebe;  di  umano,  superbo;  di  facile, 
diffìcile;  e  farlo  tanto  presto,  che  senza  scusa  veruna  ogni 
uomo  avesse  a  conoscer  la  fallacia  dello  animo  suo.  Perchè  chi 
è  paruto  buono  un  tempo,  e  vuole  a  suo  proposito  diventar 
tristo,  lo  debbo  fare  per  gli  debiti  mezzi;  ed  in  modo  con- 
durvisi  con  le  occasioni,  che  innanzi  che  la  diversa  nalura 
ti  tolga  de'favori  vecchi,  la  te  ne  abbia  dati  tanti  de^li  nuovi, 
che  tu  non  venga  a  diminuire  la  tua  autorità:  altrimenti,  tro- 
^      yandoli  scoperto  e  senza  amici,  rovini.  .  ' 


LIBRO   PRIMO.  479 

Gap.  XLIl.  —  Quanto  gli  uomini  facilmente  si  possono 
corrompere. 

Notasi  ancora  in  questa  materia  del  decemvirato,  quanto 
facilmente  gli  uomini  si  corrompono,  e  fannosi  diventare  di 
contraria  natura,  ancora  che  buoni  e  bene  educati  ;  consi- 
derando quanto  quella  gioventù  che  Appio  si  aveva  eletta  ( 
intorno,  cominciò  ad  essere  amica  delia  tirannide  per  uno  j 
poco  d'  utilità  che  gliene  conseguiva  ;  e  come  Quinto  Fabio, 
uno  del  numero  de' secondi  Dieci,  sendo  uomo  ottimo,  ac- 
cecato da  un  poco  di  ambizione,  e  persuaso  dalla  malignità 
di  Appio,  mutò  i  suoi  buoni  costumi  in  pessimi,  e  diventò 
simile  a  lui.  Il  che  esaminato  bene,  farà  tanto  più  pronti  i 
legislatori  delle  repubbliche  o  de' regni  a  frenare  gli  appe- 
titi umani,  e  tórre  loro  ogni  speranza  di  potere  impune 
errare. 

Gap.  XLllI.  —  Quelli  che  combattono  per  la  gloria  propria, 
sono  buoni  e  fedeli  soldati. 

Gonsiderasi  ancora  per  il  soprascritto  trattato,  quanta 
differenza  è  da  uno  esercito  contento  e  che  combalte   per  ^ 
la  gloria  sua,  a  quello  che  è  male  disposto  e  che  combatte  . 
per  la  ambizione  d' altri.  Perchè,  dove  gli  eserciti  romani  so- 
levano sempre  essere  vittoriosi  sotto  i  Consoli,  sotto  i  De- 
cemviri sempre  perderono.  Da  questo  essempio  si  può  cono- 
scere parte'  delle  cagioni  della  inutilità  de' soldati'mercenarii;   j 
i  quali  non  hanno  altra  cagione  che  li  tenga  fermi,  che  un  / 
poco  di  stipendio  che  tu  dai  loro.  La  qual  cagione  non  è  né  ' 
può  essere  bastante  a  fargli  fedeli,  né  tanto  tuoi  amici,  che 
veglino  morire  per  te.  Perché  in  quelli  eserciti  che  non  è 
una  alTezione  verso  di  quello  per  chi  e*  combattono,  che  gii 
facci  diventare  suoi  partigiani,  non  mai  vi  potrà  essere  tanta 
virtù  che  basti  a  resistere  ad  uno  nimico  un  poco  virtuo- 
so. E  perché  questo  amore  non  può  nascere,  né  questa  gara, 

*  La  Romana  ha  irt^ parte;  ne,  certo,  ajiurdamcnte ,  ove  conoscere  inten- 
dasi  per  giudicar*. 


480  DEI  DISCORSI 

da  altro  che  da'sodditi  tooi;  è  necessario  a  volere  tenere 
uno  8(atOf  a  volere  mantenere  ana  repubblica  o  uno  regno, 
armarsi  de' sudditi  suoi:  come  si  vede  che  hanno  fallo  lutti 
quelli  che  con  gli  eserciti  hann«  Ikiti  grandi  progressi.  A\e- 
vano  gli  eserciti  romani  sotto  i  Dieci  quella  modcsima  virtù: 
ma  perchè  in  loro  non  era  quella  medesima  disposizione, 
non  facevano  gli  asitati  loro  effetti.  Ma  come  prima  il  ma- 
gistrato de' Dieci  fa  spento,  e  che  loro  come  liberi  comin- 
ciorno  a  militare,  ritornò  io  loro  il  medesimo  animo  ;  e  per 
conseguente,  le  loro  imprese  avevano  il  loro  Gne  felice»  le* 
condo  la  antica  consuetudine  loro. 

Gap.  XfJV.  —  Una  molUludin*  tenta  capo,  è  inutih:  e  non 
ti  dcbbe  wìinacciare  priWM,  §  poi  chièdere  V  aulorilà, 

£ra  la  Plebe  romana  per  lo  accidente  di  Virginia  ridotta 
armala  nel  Monte  Sacro.  Mandò  il  Senato  suoi  ambasciadorì 
a  dimandare  con  quale  autorità  egli  avevano  abbandonali  i 
loro  capitani,  e  ridottisi  nel  Monte.  E  tanta  era  stimata  Tau- 
loriti  del  Senato,  che  non  avendo  la  Plebe  intra  loro  capi, 
Diano  si  ardiva  a  rispondere.  E  Tito  Livio  dice,  che  e'  non 
mancava  loro  materia  a  rispondere,  ma  mancava  loro  chi 
facesse  la  risposta.  La  qual  cosa  dimonstra  appunto  la  inuti- 
lità d*  una  moltitudine  senza  capo.  Il  qual  disordine  fu  cono- 
sciato  da  Virginio,  e  per  suo  ordine  si  creò  venti  Tribuni 
mililari,  che  fussero  loro  capo  a  rispondere  e  convenire  col 
Senato.  Ed  avendo  chiesto  che  si  mandasse  loro  Valerio  ed 
Orazio,  a' quali  loro  direbbono  la  voglia  loro,  non  vi  volsone 
andare  se  prima  i  Dieci  non  deponevano  il  magistrato  :  ed 
arrivati  sopra  il  Monte  dove  era  la  Plebe,  fa  domandalo 
loro  da  quella,  che  volevano  che  si  creassero  i  Tribuni  della 
plebe,  e  che  si  avesse  ad  appellare  al  Popolo  da  ogni  magi» 
strato,  e  che  si  dessino  loro  tutti  i  Dieci,  che  gli  volevano 
ardere  vivi.  Laudarono  Valerio  ed  Orazio  le  prime  loro 
domande;  biasimorono  T ultima  come  impia,  dicendo:  Crude- 
lilalem  damnalis,  in  crudeUlalem  ruilis  ;  e  consigliarongli  che 
dovessino  lasciare  il  fare  menzione  de*  Dieci,  e  ch'epli  at- 
lendessioo  a  pigliare  l'autorità  e  potesCà  loro:   dipoi  non 


LIBRO   PRIMO.  ^81 

mancherebbe  loro  modo  a  satisfarsi.  Dove  apertamente  si 
conosce  quanta  sluUizia  e  poca  prudenza  è  domandare  una   > 
cosa,  e  dire  prima:  io  voglio  far  male  con  essa;  perchè  non    1 
si  debbo  mostrare  l'animo  suo,  ma  vuoisi  cercare  d'ottenere  \ 
quel  suo  desiderio  in  ognijQodo.  Perchè  e'  basta  a  diman-  i    ^ 
dare  a  uno  le  armi,^enza  dire:  io  li  voglio  ammazzare  con  j    t  * 
esse  ;  polendo  poi  che  tu  hai  V  arme  in  mano  ,  satisfare  allo 
appetito  luo. 

Gap.  XLV.  —  È  cosa  di  malo  essempìo  non  osservare  una  legge 
fatta  ,  e  massime  dallo  autore  d' essa  :  e  rinfrescare  ogni  dì 
nuove  ingiurie  in  una  città ,  è  a  chi  la  governa  danno- 
sissimo. 

Seguito  lo  accordo,  e  ridotta  Roma  in  la  antica  sua  for- 
ma, Virginio  citò  Appio  innanzi  al  Popolo  a  difendere  la  sua 
causa.  Quello  comparse  accompagnato  da  molli  Nobili.  Vir- 
ginio comandò  che  fusse  messo  in  prigione.  Cominciò  Appio 
a  gridare,  ed  appellare  al  Popolo.  Virginio  diceva  che  non 
era  degno  di  avere  quella  appellagione  che  egli  aveva  distrut- 
ta ,  ed  avere  per  difensore  quel  Popolo  che  egli  aveva  ofTeso, 
Appio  replicava,  come  e'  non  aveano  a  violare  quella  ap- 
pellagione eh'  egli  avevano  con  tanto  desiderio  ordinata. 
Pertanto  egli  fu  incarcerato,  ed  avanti  al  di  del  giudizio  am- 
mazzò se  stesso.  E  benché  la  scellerata  vita  di  Appio  meritasse 
ogni  supplicio,  nondimeno  fu  cosa  poco  civile  violare  le  leggi, 
e  tanto  più  quella  che  era  fatta  allora.  Perchè  io  non  credo 
che  sia  cosa  di  più  cattivo  essempio  in  una  repubblica,  che 
fare  una  legge  e  non  la  osservare;  e  tanto  più,  quanto  la  * 
non  è  osservata  da  chi  1'  ha  falla.  Essendo  Firenze ,  dopò  ^ 
il  XCIV,  stata  riordinata  nel  suo  stato  con  l'aiuto  di  frate 
Girolamo  Savonarola,  gli  scritti  del  quale  mostrano  la  dot- 
trina, la  prudenza,  la  virtù  dello  animo  suo;  ed  avendo  intra 
l'altre  constituzioni  per  assicurare  i  cittadini,  fatto  fare  una 
legge,  che  si  potesse  appellare  al  popolo  dalle  sentenze  che, 
per  caso  di  stato,  gli  Otto  e  la  Signoria  dessino;  la  qual 
legge  persuase'  più  tempo,  e  con  diflìcullà  grandissima  otten- 

*  Cioè ,  il  Savonarola. 

i6 


182  DEI   DISCORSI 

ne:  occorse  che,  poco  dopo  la  confirmazione  d'essa  ,  furono 
condennali  a  morte  dalla  Signoria  per  conto  di  stalo  cinque 
cittadini;  e  volendo  quelli  appellare,  non  furono  lasciati,  e 
non  fu  osservala  la  legge.  Il  che  tolse  più  riputazione  a  quel 
frate,  che  nessun  altro  accidente  :  perchè,  se  quella  appella- 
gione  era  utile,  ei  doveva  farla  osservare;  s'ella  non  era 
utile,  non  doveva  farla  vincere.  E  tanto  più  fu  notalo  questo 
accidente,  quanto  che  il  frate  in  tante  predicazioni  che  fece 
poi  che  fu  rolla  questa  legge,  non  mai  o  dannò  chi  1'  aveva 
rotta,  o  lo  scusò;  come  quello  che  dannare  non  voleva, 
come  cosa  che  gli  tornava  a  proposito;  e  scusare  non  la  po- 
teva. Il  che  avendo  scoperto  l' animo  suo  ambizioso  e  parti- 
giano, gli  tolse  riputazione,  e  dettegli  assai  carico.  Offende 
ancora  uno  stato  assai,  rinfrescare  ogni  dì  nello  animo  de'tuoi 
cittadini  nuovi  umori,  per  nuove  ingiurìe  che  a  questo  e 
quello  si  facciano:  come  intervenne  a  Roma  dopo  il  decem- 
virato. Perchè  tutti  i  Dieci,  ed  altri  cittadini,  in  diversi  tempi 
furono  accusati  e  condennati:  in  modo  che  gli  era  uno  spa- 
vento grandissimo  io  tutta  la  Nobiltà,  giudicando  che  e' non 
si  avesse  mai  a  porre  fine  a  simili  condennagìoni,  fìno  a  tanto 
che  tutta  la  Nobiltà  non  fosse  distrutta.  Ed  arebbe  generalo 
in  quella  città  grande  inconveniente,  se  da  Marco  Duellio 
tribuno  non  vi  fusse  stato  provveduto;  il  qual  fece  uno  edit- 
to, che  per  uno  anno  non  fusse  lecito  ad  alcuno  citare  o  ac- 
cusare alcuno  cittadino  romano:  il  che  rassicurò  tutta  la  No- 
biltà. Dove  si  vede  quanto  sia  dannoso  ad  una  repubblica  o 
ad  un  principe,  tenere  con  le  conlinove  pene  ed  offese  sospesi 
e  paurosi  gli  animi  de'  sudditi.  E  senza  dubbio,  non  si  può 
tenere  il  più  pernicioso  ordine:  perchè  gli  uomini  che  comin- 
ciano a  dubitare  di  avere  a  capitar  male,  in  ogni  modo 
si  assicurano  ne' pericoli,  e  diventano  più  audaci,  e  meno 
rispettivi  a  tentare  cose  nuove.  Però  è  necessario,  o  non 
oìlendere  mai  alcuno,  o  fare  le  offese  ad  un  tratto;  e  dipoi 
rassicurare  gli  uomini,  e  dare  loro  cagione  di  quietare  e 
fermare  V  animo. 


LIBRO   PRIMO.  d83 

Gap.  XLVl.  —  Gli  uomini  salgono  da  una  ambizione  ad 
un'  altra  ;  e  prima  si  cerca  non  essere  offeso,  dipoi  di  offen- 
dere altrui. 

Avendo  il  Popolo  romano  ricuperata  la  libertà,  ritornato 
nel  suo  primo  grado,  ed  in  tanto  maggiore  ,  quanto  si  erano 
fatte  dimolle  leggi  nuove  in  corroborazione  della  sua  poten- 
za; pareva  ragionevole  che  Roma  qualche  volta  quietasse. 
Nondimeno,  per  esperienza  si  vide  il  contrario;  pìerchè  ogni 
di  vi  surgeva  nuovi  tumulti  e  nuove  discordie.  E  perchè 
Tito  Livio  prudentissimamente  rende  la  ragione  donde  que- 
sto nasceva,  non  mi  pare  se  non  a  proposilo  riferire  appunto 
le  sue  parole,  dove  dice  che  sempre  o  il  Popolo  o  la  Nobiltà 
insuperbiva,  quando  l'altro  si  umìhava;  e  stando  la  Plebe 
quieta  intra  i  termini  suoi,  cominciarono  i  giovani  nobili  ad 
ingiuriarla;  ed  i  Tribuni  vi  potevano  fare  pochi  rimedi ,  per- 
chè ancora  loro  erano  violati.  La  Nobiltà,  dall'altra  parte, 
ancora  che  gli  paresse  che  la  sua  gioventù  fusse  troppo  fe- 
roce, nondimeno  aveva  a  caro  che  avendosi  a  trapassare  il 
modo,  lo  Irapassassino  i  suoi,  e  non  la  Plebe.  E  così  il  de- 
siderio di  difendere  la  libertà  faceva  che  ciascuno  tanto  si 
prevaleva,  eh'  egli  oppressava  l'altro.  E  1'  ordine  di  questi 
accidenti  è,  che  mentre  che  gli  uomini  cercano  di  non  te- 
mere, cominciano  a  far  temere  altrui  ;  e  quella  ingiuria 
ch'egli  scacciano  da  loro,  la  pongono  sopra  un  altro:  come 
se  fusse  necessario  olTendere  ,  o  essere  offeso.  Vedesi ,  per 
questo,  in  quale  mpdo,  fra  gli  altri ,  le  repubbliche  si  risol- 
vono; e  in  che  modo  gli  uomini  salgono  da  una  ambizione  ad 
un'altra,  e  come  quella  sentenza  salustiana  posta  in  bocca 
di  Cesare,  è'  verissima:  quod  omnia  mala  exempla  bonis  iniliis 
orlasunl.  Cercano,  come  di  sopra  è  detto,  quelli  cittadini 
che  ambiziosamente  vivono  in  una  repubblica,  la  prima  cosa 
di  non  potere  essere  offesi,  non  solamente  dai  privati,  ma 
eziam  da' magistrali:  cercano,  per  potere  fare  questo,  ami- 
cizie; e  quelle  acquistano  per  vie  in  apparenza  oneste,  o 
con  sovvenire  di  danari,  o  con  difendergli  da'  polenti:  e  per- 

*  L'  edizione  del  Biado  :  era. 


184  DEI    DISCuRSI 

che  qaeslo  pare  virlaoso ,  s'ingaona  facilmente  ciascuno,  e 
per  questo  non  vi  si  pone  rimedio;  intanfo  che  egli  senza 
ostacolo  perseverando,  diventa  di  qualità,  che  i  privati  cit- 
tadini ne  hanno  paura,  ed  i  magistrali  gli  hanno  rispetto.  E 
quando  egli  è  salito  a  questo  grado,  e  non  si  sia  prima 
ovviato  alla  sua  grandezza,  viene  ad  essere  in  termine, 
che  volerlo  urlare  è  pericolosissimo ,  per  le  ragioni  che  io 
dissi  di  sopra  del  pericolo  che  è  nello  urtare  ano  incon- 
veniente che  abbi  dì  già  fatto  augumento  in  una  città:  tanto 
che  la  cosa  si  riduce  ih  termine,  che  bisogna  o  cercare  di 
spegnerlo  con  pericolo  di  una  subita  rovina;  o  lasciandolo 
fare,  entrare  in  una  servitù  manifesta,  se  morte  o  qualche 
accidente  non  le  ne  libera.  Perchè,  venato  a*  soprascritti  ter- 
mini, che  i  cittadini  ed  i  magistrati  abbino  paura  ad  offen- 
der lai  e  gli  amici  suoi,  non  dura  dipoi  molta  fatica  a  fare 
ehe  giudichino  ed  ofTendino  a  suo  modo.  Donde  una  repub- 
blica intra  gli  ordini  suoi  debbe  avere  questo,  di  vegghiare 
che  i  sooi  cittadini  sotto  ombra  di  bene  non  possino  far  ma- 
le; e  ch'egli  abbino  quella  riputazione  che  giovi,  e  non  nuoca, 
■Ila  libertà:  come  nel  suo  luogo  da  noi  sarà  disputato. 

Ca».  ICLVII.—  Gli  uomini,  ancora  che  ti  injannino  ne*g€nerali, 
nei  parlieolari  non  ti  ingannano. 

Essendosi  il  Popolo  romano,  come  di  sopra  si  dice,  re- 
cato a  noia  il  nome  consolare,  e  volendo  che  potessino  esser 
fatti  Consoli  uomini  plebei,  o  che  fosse  limitata  la  loro  au- 
torità; la  Nobiltà,  per  non  deonestare  l'autorità  consolare  né 
eoo  Tana  né  eoo  l' altra  cosa ,  prese  una  via  di  mezzo ,  e  fu 
contenta  che  si  creatfioo  quattro  Tribuni  con  potestà  con- 
solare, i  quali  potesaino  etiere  cosi  plebei  come  nobili.  Fu 
contenta  a  questo  la  Plebe,  parendogli  spegnere  il  consolato, 
ed  avere  io  questo  sommo  grado  la  parte  sua.  Nacquene  di 
questo  uo  caso  notabile  :  che  venendosi  alla  creazione  di 
questi  Tribuni,  e  potendosi  creare  tutti  plebei,  furono  dal 
Popolo  romano  creati  tutti  nobili.  Onde  Tito  Livio  dice  que- 
ste parole:  Quorum  comiliorum  ecentu9  docuil ,  aliot  animo» 
inconlenlione  Uberlalis  el  honoris,  alios  secundum  deposila 


LIBRO    PRIMO.  ìSo 

ccrlamina  in  incorruplo  judicio  esse.  Ed  esaminando  donde 
possa  procedere  questo,  credo  proceda  che  gli  uomini  nelle 
cose  generali  s'ingannano  assai,  nelle  particolari  non  tanto. 
Pareva  generalmente  alla  Plebe  romana  di  meritare  il  con- 
solato, per  avere  più  parte  in  la  città,  per  portare  più  peri- 
colo nelle  guerre,  per  esser  quella  che  con  le  braccia  sue 
manteneva  Roma  libera ,  e  la  faceva  polente.  E  parendogli, 
come  é  detto,  questo  suo  desiderio  ragionevole,  volse  otte- 
nere questa  autorità  in  ogni  modo.  Ma  come  la  ebbe  a  fare 
giudizio  degli  uomini  suoi  particolarmente,  conobbe  la  de- 
bolezza di  quelli,  e  giudicò  che  nessuno  di  loro  meritasse 
quello  che  tutta  insieme  gli  pareva  meritare.  Talché  vergo- 
gnatasi di  loro,  ricorse  a  quelli  che  lo  meritavano.  Della 
quale  deliberazione  meravigliandosi  meritamente  Tito  Livio, 
dice  queste  parole:  Hanc  modesliam,  cequilalemque ,  et  allUu- 
dinem  animi,  ubi  nunc  in  uno  inveneris,  qugb  tuncpopuU  uni- 
versi fuil?  In  corroborazione  di  questo,  se  ne  può  addurre 
uno  altro  notabile  essempio,  seguito  in  Capeva  da  poi  che  An- . 
nibale  ebbe  rotti  i  Romani  a  Canne;  per  la  qual  rotta  sendo 
tutta  sollevata  Italia,  Capeva  stava  ancora  per  tumultuare, 
per  r  odio  eh*  era  intra  il  Popolo  ed  il  Senato  :  e  trovandosi  ih 
quel  tempo  nel  supremo  magistrato  Pacuvio  Calano,  e  cono- 
scendo il  pericolo  che  portava  quella  città  di  tumultuare, 
disegnò  con  suo  grado  riconciliare  la  Plebe  con  la  Nobiltà; 
e  fatto  questo  pensiero,  fece  ragunare  il  Senato,  e  narrò 
loro  rodio  che  '1  popolo  aveva  centra  di  loro,  ed  i  pericoli 
che  portavano  di  essere  ammazzati  da  quello,  e  data  la  città 
ad  Annibale,  sendo  le  cose  de' Romani  afflitte:  dipoi  sog- 
giunse, ohe  se  volevano  lasciare  governare  questa  cosa  a  lui, 
farebbe  in  modo  che  si  unirebbono  insieme;  ma  gli  voleva 
serrare  dentro  al  palazzo,  e  eoi  fare  potestà  al  popolo  di  po- 
tergli gastigare,  salvargli.  Cederono  a  questa  sua  oppinione  i 
Senatori,  e  quello  chiamò  il  Popolo  a  conclone,  avendo  rin- 
chiuso in  palazzo  il  Senato;  e  disse  com*  egli  era  venuto  il 
tempo  di  potere  domare  la  superbia  della  Nobiltà,  e  vendi- 
carsi delle  ingiurie  ricevute  da  quella,  avendogli  rinchiusi 
tutti  sotto  la  sua  custodia:  ma  perchè  credeva  che  loro  non 
Yolessìno  che   la  loro   città  rimanesse  senza  governo,  era 

-16' 


186  DEI   DISCORSI  • 

necessario,  volendo  aramazzare  i  Senatori  vecchi,  crearne 
de'  nuovi.  E  per  tanto  aveva  messo  tutti  gli  nomi  degli  Se- 
natori in  una  borsa,  e  comincerebbe  a  trargli  in  loro  pre- 
senza; ed  egli  farebbe  i  tratti  di  mano  in  mano  morire,  come 
prima  loro  avessino  trovato  il  successore.  E  cominciato  a 
trarne  uno,  fu  al  nome  di  quello  levato  un  romore  grandissi- 
mo, chiamandolo  nomo  superbo,  crudele  ed  arrogante:  e 
chiedendo  Pacuvio  che  facessino  lo  scambio,  si  racchetò 
latta  la  concione;  e  dopo  alquanto  spazio,  fu  nominato  uno 
della  plebe;  al  nome  del  quale  chi  cominciò  a  fischiare,  chi 
a  ridere,  chi  a  dirne  male  in  uno  modo,  e  chi  in  un  altro: 
e  cosi  seguitando  di  mano  in  mano,  tulli  quelli  che  furono 
nominati,  gli  giudicavano  indegni  del  grado  senatorio.  In 
modo  che  Pacuvio,  presa  sopra  questo  occasione,  disse:  Poi- 
ché voi  giudicate  che  questa  città  stia  male  senza  Senato, 
ed  a  fare  gli  scambi  a'  Senatori  vecchi  non  vi  accordate,  io 
penso  che  sia  bene  che  voi  vi  riconciliate  insieme;  perché 
questa  paura  in  la  quale  ì  Senatori  sono  slati,  gli  ara  fatti 
in  modo  raumiliarc,  che  quella  umanità  che  voi  cercavate 
altrove,  troverete'  in  loro.  Ed  accordatisi  a  questo,  ne  segui 
la  unione  di  questo  ordine  ;  e  quello  inganno  in  che  egli  erano 
si  scoperse,  come  e'furono  constretti  venire  a'particolari.  In- 
gannansi,  oltra  di  questo,  i  popoli  generalmente  nel  giudicare 
le  cose  e  gli  accidenti  di  esse;  le  quali  dipoi  si  conoscono 
particolarmente,  si  avveggono  di  tale  inganno.  Dopo  il  1494,' 
sendo  stati  i  principi  della  città  cacciali  da  Firenze,  e  non 
vi  essendo  alcuno  governo  ordinato,  ma  piuttosto  una  certa 
licenza  ambiziosa,  ed  andando  le  cose  pubbliche  di  male  in 
peggio;  molti  popolari  veggiendo  la  rovina  della  città,  e  non 
ne  intendendo  altra  cagione,  ne  accusavano  la  ambiziose  di 
qualche  potente  che  nutrisse  i  disordini,  per  poter  fare  uno 
slato  a  suo  proposito,  e  tórre  loro  la  libertà:  e  stavano  que- 
sti tali  per  le  logge  e  per  le  piazze,  dicendo  male  di  molli 
cittadini,  e  minacciandoli  che  se  mai  si  trovassero  de' Si- 
gnori, scoprirebbono  questo  loro  inganno,  e  gli  gasligarcbbo- 

*  La  Romana  ha ,  eoa  idiotismo  e  secondo  prononzia  del  tempo,  i-oi  ccr' 
cavi,  e  troverrete. 

3  Slranamente  ncll'  edizione  del  Poggiali  :  Dopo  il  1514> 


LIBRO    PRIMO.  187 

no.  Occorreva  spesso  che  de' simili  ne  ascendeva  al  supremo 
magistrato;  e  come  egli  era  salito  in  quel  luogo,  e  che  e'  ve- 
deva le  cose  più  dappresso,  conosceva  i  disordini  donde  ' 
nascevano,  ed  i  pericoli  che  soprastavano,  e  la  difficullà  del  \ 
rimediarvi.  E  veduto  cornei  tempi  e  non  gli  uomini,  causa-   ■ 
vano  il  disordine,  diventava  subito  d'un  altro  animo,   e 
d'un' altra  fatta;  perchè  la  cognizione  delle  cose  particolari  / 
gli  toglieva  via  quello  inganno  che  nel  considerare  general-  ^ 
mente  si  aveva  presupposto.  Dimodoché, quelli  che  lo  avevano 
prima,  quando  era  privato,  sentito  parlare,  e  vedutolo  poi 
nel  supremo  magistrato  stare  quieto,  credevano  che  nasces- 
se, non  per  più  vera  cognizione  delle  cose,  ma  perchè  fusse 
stato  aggirato  e  corrotto  dai  grandi.  Ed  accadendo  questo  a 
molti  uomini,  e  molte  volte,  ne  nacque   tra   loro  un  pro- 
verbio che  diceva:  Costoro  hanno  uno  animo  in  piazza,  ed 
uno  in  palazzo.  Considerando,  dunque,  tutto  quello  si  è  dis- 
corso, si  vede  come  e' si  può   fare  tosto  aprire  gli  occhi 
a'popoli,  trovando  modo,  veggendo  che  uno  generale  gl'ingan- 
na,  ch'egli  abbino  a  descendere   a* particolari;  come  fece 
Pacuvio  in  Capeva,  ed  il  Senato  in  Roma.  Credo  ancora,  che 
si  poésa  conchiudere,  che  mai  un  uomo  prudente  non  debbe 

1^  fuggire  il  giudizio  popolare  nelle  cose  particolari,  circa  le 
f  distribuzioni  de'  gradi  e  delle  dignità:  perchè  solo  in  questo 
il  popolo  non  si  inganna;  e  se  si  inganna  qualche  volta, ,  fia  si 
raro,  che  s*  inganneranno  più  volte  i  pochi  uomini  cheaves- 
sino  a  fare  simili  distribuzioni.  Né  mi  pare  superfluo  mostrare 
nel  seguente  capitolo,  Perdine  che  teneva  il  Senato  per  is- 
gannare  *  il  popolo  nelle  distribuzioni  sue. 

Cap.  XLVllI.  —  Chi  vuole  che  uno  magistrato  non  sia 
dato  ad  un  vile  o  ad  un  tristo,  lo  facci  domandare  o  ad 
un  troppo  vile  e  troppo  tristo,  o  ad  uno  troppo  nobile  e 
troppo  buono. 

Quando  il  Senato  dubitava  che  i  Tribuni  con  potestà 
consolare  non  fussino  fatti   d'  uomini  plebei,   teneva  uno 

*  Cosi ,  e  assai  Lene,  al  mio  credere,  la  Bladiana,  e  l'edizione  del  1813.  Le 
altre  :  ingannare. 


^88  DEI   DISCORSI 

de'  duoi  modi:  o  egli  faceva  domandare  ai  più  riputati  uomini 
di  Roma;  o  veramente,  peri  debiti  mezzi,  corrompeva  qual- 
che plebeio  sordido  ed  ignobilissimo,  che  mescolati  *  con  i  ple- 
bei che,  di  mi<;Iior  qualità,  per  l'ordinario  lo  domandavano, 
anche  loro  lo  domandassino.  Questo  ultimo  modo  faceva  che 
la  Plebe  si  vergognava  a  darlo;  quel  primo  faceva  che  la  si 
vergognava  a  tòrio.  Il  che  lutto  torna  a  proposito  del  prece- 
dente discorso,  dove  si  mostra  che  il  popolo  se  s'inganna 
de*  generali,  de*  particolari  non  s*  inganna. 

Cap.  XLIX.  —  Se  quelle  città  che  hanno  avuto  il  principio 
libero,  come  Romat  hanno  difficultà  a  trovare  leggi  che  le 
tnanlenghino;  quelle  che  lo  hanno  immediate  servo,  ne  hanno 
quasi  una  impostibilità. 

Quanto  sia  diffìcile,  nello  ordinare  una  repubblica,  prov- 
vedere a  tutte  quelle  leggi  che  la  mantenghino  libera,  lo 
dimostra  assai  bene  il  processo  della  Repubblica  romana: 
dove  non  ostante  che  fussino  ordinate  di  molto  leggi  da 
Romolo  prima,  dipoi  da  Nuroa,  da  Tulio  Ostilio  o  Servio, 
ed  ultimamente  dai  dieci  cittadini  creali  a  simile  opera  ;  non- 
dimeno sempre  nel  maneggiare  quella  città  si  scoprivano 
nuove  necessiti,  ed  era  necessario  creare  nuovi  ordini:  come 
intervenne  quando  crearono  i  Censori,  i  quali  furono  uno  di 
quelli  provvedimenti  che  aiutarono  tenere  '  Roma  libera, 
quel  tempo  ehc  la  visse  in  libertà.  Perchè,  diventati  arbitri 
de' costumi  di  Roma,  furono  cagione  potissima  che  i  Romani 
diflerissino  più  a  corrompersi.  Feciono  bene  nel  principio  della 
creazione  di  tal  magistrato  uno  errore,  creando  quello  per 
cinque  anni;  ma,  dipoi  non  molto  tempo,  fu  corretto  dalla  pru- 
denza di  Mamerco  dittatore,  il  qual  per  nuova  legge  ridusse 
detto  magistrato  a  diciotto  mesi.  Il  che  i  Censori  che  veg- 
ghiavano,  ebbono  tanto  per  male,  che  privorno  Mamerco 
del  senato:  la  qual  cosa  e  dalla  Plebe  e  dai  Padri  fu  assai 

*  L'cdùionc  del  1813,  e  quella  del  Poggiali:  mc/coZafo.  Pedantesca  cor- 
rexiooe. 

'  Così  nella  Romana;  nelle  altre:  «  tenere.  Certo  io  non  >o  se  T Autore 
■ctÌTesse  o  non  iscrivetse  quell'a:  ben  so  che  oM  è  necessario. 


LIBRO   PRIMO.  489 

biasimala.  E  perchè  la  istoria  non  mostra  che  Mamerco  so 
ne  potesse  difendere,  conviene  o  che  Io  istorico  sia  difettivo, 
o  gli  ordini  di  Roma  in  questa  parte  non  buoni:  perché  non 
è  bene  che  una  repubblica  sia  in  modo  ordinala,  che  un 
cittadino  per  promulgare  una  legge  conforme  al  vivere  libero, 
ne  possa  essere  senza  alcuno  rimedio  offeso.  Ma  tornando  at 
principio  di  questo  discorso, dico  che  si  debbe,  per  la  crea- 
zione di  questo  nuovo  magistrato,  considerare,  che  se  quelle 
città  che  hanno  avuto  il  principio  loro  libero,  e  che  per  se 
medesimo  si  è  retto,  *  come  Roma,  hanno  dilTicultà  grande  a 
trovar  leggi  buone  per  mantenerle  libere;  non  è  meraviglia 
che  quelle  città  che  hanno  avuto  il  principio  loro  immediale 
servo,  abbino,  non  che  difficultà,  ma  impossibilità  ad  or- 
dinarsi mai  in  modo  che  le  possino  vivere  civilmente  e 
quietamente.  Come  si  vede  che  è  intervenuto  alla  città  di 
Firenze;  la  quale,  per  avere  avuto  il  principio  suo  sottoposto 
allo  imperio  romano,  ed  essendo  vivuta  sempre  sotto  governo 
d'altri,  stette  un  tempo  soggetta,  e  senza  pensare  a  se  me- 
desima: dipoi,  venula  la  occasione  di  respirare,  cominciò  a 
fare  suoi  ordini;  i  quali  sendo  mescolati  con  gli  antichi, 
che  erano  tristi,  non  poterono. essere  buoni:  e  così  è  ita  ma- 
neggiandosi per  dugento  anni  che  si  ha  di  vera  memoria, 
senza  avere  mai  avuto  stato  per  il  quale  ella  possa  vera- 
mente essere  chiamata  repubblica.  E  queste  difficultà  che 
sono  state  in  lei,  sono  state  sempre  in  tutte  quelle  città  che 
hanno  avuto  i  principii  simili  a  lei.  E  benché  molte  volte, 
per  suffragi  pubblici  e  liberi,  si  sia  dato  ampia  autorità  a  po- 
chi cittadini  di  potere  riformarla;  non  pertanto  mai  l'hanno 
ordinata  a  comune  utilità,  ma  sempre  a  proposito  della  parte 
loro:  il  che  ha  fatto  non  ordine,  ma  maggiore  disordine  in 
quella  città.  E  per  venire  a  qualche  essempio  particolare, 
dico  come  intra  le  altre  cose  che  si  hanno  a  considerare  da 
uno  ordinatore  d'una  repubblica,  è  esaminare  nelle  mani  .  J^^ 
di  quali  uomini  ei  ponga  l'autorità  del  sangue  centra  de' suoi  ^^^^\v 
cittadini.  Questo  era  bene  ordinalo  in  Roma,  perchè  e' si  /^'t*^^*^ 
poteva  appellare  al  Popolo  ordinariamente:  e  se  pure  fusse 
occorsa  cosa  importante,  dove  il  differire  la  esecuzione  me- 

*  Male  nella  Testina,  e  in  altre  edizioni  :  rotto,  ì  M^    . 


/Vk<  i^^^^*^>^^' 


190  DEI    DISCORSI 

dianle  la  appellagione  fusse  pericoloso,  avevano  il  refugio 
del  Ditlatore,  il  quale  eseguiva  immediate;  al  qual  rimedio 
non  rifuggivano  mai,  se  non  per  necessità.  Ma  Firenze,  e 
r  altre  città  nate  nel  modo  di  lei,  sendo  serve,  avevano  que- 
sta autorità  collocata  in  un  forestiero,  il  quale  mandato  dal 
principe  faceva  tale  utTizio.  Quando  dipoi  vennuno  in  libertà, 
mantennero  questa  autorità  in  un  forestiero,  il  quale  chia- 
mavano Capitano:  il  che,  per  potere  essere  facilmente  cor- 
rotto da'cittadini  potenti,  era  cosa  perniciosissima.  Ma  dipoi, 
mutandosi  per  la  mutazione  degli  stati  questo  ordine,  creorno 
otto  cittadini  che  facessino  l'ulTizio  di  quel  Capitano.  Il 
quale  ordine,  di  cattivo,  diventò  pessimo,  per  le  cagioni  che 
altre  volte  sono  dette;  che  ì  pochi  furono  sempre  ministri 
de' pochi,  e  de'  più  potenti.  Da  che  si  è  guardata  la  città  di 
Vinegia;  la  quale  ha  dieci  cittadini,  che  senza  appello  pos- 
sono punire  ogni  cittadino.  E  perchè  e'noo  bastercbbono  a 
punire  i  potenti,  ancora  che  ne  avessino  autorità,  vi  hanno 
constilaito  le  Quarantie:ed|  più,  hanno  voluto  che  il  Consi- 
glio de' Pregai,  che  è  il  Consiglio  maggiore,  possa  gastigargli; 
in  modo  che  non  vi  mancando  lo  accusatore,  non  vi  manca  il 
giudice  a  tener  gli  uomini  potenti  a  freno.  Non  é  adunque 
meraviglia,  reggendo  come  in  Roma,  ordinata  da  se  mede- 
sima e  da  tanti  uomini  prudenti,  surgevauo  ogni  di  nuovo 
cagioni  perle  quali  si  aveva  a  fare  nuovi  ordini  in  favore  del 
viver  libero;  se  nell'  altre  città  che  hanno  più  disordinato 
principio,  vi  surgano  tali  dilTIcullà,  che  le  non  si  possino 
riordinar  mai. 

Cap.  L.  —  Non  dehbe  uno  consiglio  o  uno  magislralo  potere 
fermare  le  osion»  della  ciuà. 

Erano  consoli  in  Roma  Tito  Quinzio  Cincinnalo  e  Gneo 
Giulio  Mento,  i  quali  sendo  disuniti,  avevano  ferme  tutte  le 
azioni  di  quella  Repubblica.  Il  che  veggendo  il  Senato,  gli 
confortava  a  creare  il  Dittatore,  per  fare  quello  che  per  le 
discordie  loro  non  poteva  fare.  Ma  i  Consoli  discordando 
in  ogni  altra  cosa,  solo  in  questo  erano  d'accordo,  di  non 
voler  creare  il  Dittatore.  Tanto  che  il  Senato,  non  avendo 


J 


LIBRO    PIUMO.  J91 

altro  rimedio,  ricorse  allo  aiuto  de'Tribuni;  i  quali,  con  V  au- 
torità del  Senato,  sforzarono  i  Consoli  ad  ubbidire.  Dove  si 
ha  a  notare,  in  prima,  la  utilità  del  tribunato;  il  quale  non 
era  solo  utile  a  frenare  l'ambizione  che  i  potenti  usavano 
contra  alla  Plebe, ma  quella  ancora  ch'egli  usavano  infra  loro:  . 
r  altra,  che  mai  si  debba  ordinare  in  una  città,  che  i  pochi 
possino  tenere  alcuna  deliberazione  di  quelle  che  ordinaria- 
mente sono  necessarie  a  mantenere  la  repubblica.  Yerbi- 
grazia,  se  tu  dai  una  autorità  ad  uno  consiglio  di  fare  una 
distribuzione  di  onori  e  d' utile,  o  ad  uno  magistrato  di  am- 
ministrare una  faccenda;  conviene  o  imporgli  una  necessità 
perchè  ei  l'abbia  a  fare  in  ogni  modo;  o  ordinare,  quando 
non  la  voglia  fare  egli,  che  la  possa  e  debba  fare  un  altro  : 
altrimenti,  questo  ordine  sarebbe  difettivo  e  pericoloso;  come 
si  vedeva  che  era  in  Roma,  se  alla  ostinazione  di  quelli 
Consoli  non  si  poteva  opporre  l'autorità  de'Tribuni.  Nella  Re- 
pubblica veneziana  il  Consiglio  grande  distribuisce  gli  onori 
e  gli  utili.  Occorreva  alle  volte  che  l'universalità,  per  isde-/ 
gno  o  per  qualche  falsa  suggestione,  non  creava  i  succes-j 
sori  ai  magistrati  della  città,  ed  a  quelli  che  fuori  ammini- 
stravano lo  imperio  loro.  Il  che  era  disordine  grandissimo  : 
perchè  in  un  tratto  ,  e  le  terre  suddite  e  la  città  propria 
mancavano  de' suoi  legittimi  giudici;  né  si  poteva  ottenere 
cosa  alcuna,  se  quella  universalità  di  quel  Consiglio  non  si 
satisfaceva,  o  non  s'ingannava.  Ed  avrebbe  ridotta  questo 
inconveniente  quella  città  a  mal  termine ,  se  dagli  cittadini 
prudenti  non  vi  si  fusse  provveduto:  1  quali,  presa  occasione 
conveniente,  fecero  una  legge  ,  che  tutti  1  magistrati  che  sono 
0  fussino  dentro  e  fuori  della  città,  mai  vacassero,  se  non 
quando  fussino  fatti  gli  scambi  ed  i  successori  loro.  E  così  si 
tolse  la  comodità  a  quel  Consiglio  di  potere,  con  pericolo  delfa 
repubblica,  fermare  le  azioni  pubbliche. 

Cap.  li. —  Una  repubblica  o  uno  principe  debbe  mostrare  di  fare 
per  liberalità  quello  che  la  necessità  lo  constringe. 

Gli  uomini  prudenti  si  fanno  grado  sempre  delle  cose , 
in  ogni  loro  azione,  ancora  che  la  necessità  gli  constringesse 


19^  DEI   DISCORSI 

a  farle  in  ogni  modo.  Questa  prudenza  fu  usala  bene  dal  Se- 
nato romano,  quando  ei  deliberò  che  si  desse  lo  stipendio  del 
pubblico  agli  uomini  che  militavano,  essendo  consueti  mili- 
tare del  loro  proprio.  Ma  veggendo  il  Senato  come  in  quel 
modo  non  si  poteva  fare  lungamente  guerra ,  e  per  questo 
non  potendo  né  assediare  terre,  né  condarre  gli  eserciti  dis- 
costo; e  giudicando  essere  necessario  poter  fare  l'uno  e 
l'altro;  deliberò  che  si  dessino  detti  stipendi:  ma  lo  feciono 
in  modo  che  si  fecero  grado  di  quello  a  che  la  necessità 
gli  conslringeva;  e  fu  tanto  accetto  alla  Plebe  questo  presen- 
i  le,  che  Roma  andò  sottosopra  per  la  allegrezza  ,  parendole 
1  ODO  benefizio  grande,  quale  mai  speravano  di  avere,  e  quale 
mai  per  loro  medesimi  arebbono  cerco.  E  benché  i  Tribuni 
s'ingegnassero  di  cancellare  questo  grado,  mostrando  corno 
'  ella  era  cosa  che  agsravava,  non  alleggeriva,  la  Plebe,  sendo 
necessario  porre  i  tributi  per  pagare  questo  stipendio;  nien- 
tedimeno non  potevano  fare  (aoto  che  la  Plebe  non  lo  avesse 
accetto:  il  che  fu  ancora  augumentato  dal  Senato  per  il 
modo  che  distribuivano  i  tributi  ;  perché  i  più  gravi  ed  i 
maggiori  furono  quelli  ch'e'posono  alla  Nobiltà,  e  gli  primi 
che  furono  pagati. 

Cap.  Lll.  —  À  reprimere  la  insolenza  di  uno  che  lurga  m  una 
repubblica  polenie,  non  vt  è  più  tecuro  e  meno  tcandoloso 
nuHio,  che  preoccuparli  quelle  vie  per  le  quali  €*  vitnt  a 
quella  polensa. 

Vedesi  per  il  soprascritto  discorso,  quanto  credilo  acqui- 
staste la  Nobiltà  con  la  Plebe  per  le  dimostrazioni  fatte  in 
benefìzio  suo,  si  del  stipendio  ordinalo,  si  ancora  del  modo 
del  porre  i  tributi.  Nel  quale  ordine  se  la  Nobiltà  si  fosse 
mantenuta ,  si  sarebbe  levalo  via  ogni  tumulto  in  quella 
città,  e  sarebbesi  tolto  ai  Tribuni  quéTcredìlo  che  egli  ave- 
vano con  la  Plebe,  e,  per  conseguente,  quella  autorità.  E  ve- 
ramente, non  si  può  in  una  repubblica,  e  massime  in  quelle 
che  sono  corrotte,  con  miglior  modo,  meno  scandaloso  e 
più  facile,  opporsi  alla  ambizione  di  alcuno  cittadino,  che 
preoccuparli  quelle  vie,  per  le  quali  si  vede  che  esso  cam- 


LIBRO    PRIMO.  193 

mina  per  arrivare  al  grado  che  disegna.  Il  qual  modo  se 
fusse  stalo  usato  contra  a  Cosimo  de'  Medici,  sarebbe  slato 
miglior  parlilo  assai  per  gli  suoi  avversari,  che  cacciarlo  da 
Firenze:  perchè,  se  quelli  cittadini  che  gareggiavano  seco 
avessino  preso  lo  stile  suo  di  favorire  il  popolo,  gli  venivano 
senza  tumulto  e  senza  violenza  a  trarre  di  mano  quelle  ar-  m^I 
me  di  che  egli  si  valeva  più.  Piero  Soderini  si  aveva  fatto  puA^ 
ripuTàzione  nella  città  di  Firenze  con  questo  solo  di  favorire  r9^A 
l'universale:  il  che  nello  universale  gli  dava  riputazione,  / 

come  amatore  della  libertà  della  città.  E  veramente,  a  quelli  ^ 
cittadini  che  portavano  invidia  alla  grandezza  sua,  era  mollo  (>^^  ^ 
più  facile,  ed  era  cosa  mollo  più  onesta,  meno  pericolosa,  e  ^^t  I 
meno  dannosa  per  la  repubblica,  preoccupargli  quelle  vie'     *'^ 
con  le  quali  si  faceva  grande,  che  volere  contrapporsegli , 
acciocché  con  la  rovina  sua  rovinasse  tutto  il  resto  della  f' i'*^ 
repubblica:  perché,  se  gli  avessero  levale  di  mano  quelle  .j|^^ (; 
armi  con  le  quali  si  faceva  gagliardo  (il  che  potevano  fare     .,. 
facilmente),  arebbono  potuto  in  lutti  i  consigli,  e  in  tutte  le  ^'^/ 
deliberazioni  pubbliche,  opporsegli  senza  sospetto,  e  senza  A  ^♦^ 
rispetto  alcuno.  E  se  alcuno  replicasse,  che  se  i  cittadini 
che  odiavano  Piero,  feciono  errore  a  non  gli  preoccupare  le 
vie  con  le  quali  ei  si  guadagnava  riputazione  nel  popolo , 
Piero  ancora  venne  a  fare  errore,  a  non  preoccupare  quelle 
vie  per  le  quali  quelli  suoi  avversari  lo  facevano  temere;  di'* 
che  Piero  merita  scusa,  si  perchè  gli  era  diffìcile  il  farlo,  sì 
perchè  le  non  erano  oneste  a  lui  :  imperocché  le  vìe  con  le 
quali  era  otfeso,  erano  il  favorire  i  Medici;  con  li  quali  favori 
essi  lo  battevano,  e  alla  fine  lo  rovinorno.  Non  poteva,  per- 
tanto, Piero  onestamente  pigliare  questa  parte,  per  non  po- 
tere distruggere  con  buona  fama  quella  libertà  alla  quale  egli 
era  stato  preposto  a  guardia  :  dipoi,  non  potendo  questi  favori 
farsi  segreti  e  ad  uno  tratto,  erano  per  Piero  pericolosissimi; 
perchè  comunche  ei  si  fusse  scoperto  amico  de' Medici,  sa- 
rebbe diventato  sospetto  ed  odioso  al  popolo  :  donde  ai  nimici 
suoi  nasceva  mollo  più  comodità  di  opprimerlo,  che  non 
avevano  prima.  Debbono,  pertanto,  gli  uomini  in  ogni  partito 

<  Tutte  le  edizioni  hanno  di  chey  lasciando  così  il  periodo  senza  risolu- 
zione. 

17 


VH  DEI    DISCORSI 

considerare  i  dlfcltì  ed  i  perìcoli  dì  quello  ^  e  non  gli  |>ren- 
dere,  qunndo  vi  sia  più  del  pericoloso  che  dell' ulile;  non- 
ostante che  ne  fusse  stala  data  sentenza  conforme  alla  deli- 
herazion  loro.  Perché ,  facendo  altrimenti ,  in  questo  caso 
interverrebbe  a  quelli  come  intervenne  a  Tullio;  il  quale  vo- 
lendo tórre  i  favori  a  Marc*  Antonio,  gliene  accrebbe.  Perchè, 
sondo  Marc' Antonio  stato  giudicato  inimico  del  Senato,  ed 
avendo  quello  grande  esercito  insieme  adunato,  in*  buona 
parte,  dei  soldati  che  avevano  seguitalo  la  parte  di  Cesare; 
Tullio,  per  (órcli  questi  soldati,  confortò  il  Senato  a  dare  ri- 
putazione ad  Ottaviano,  e  mandarlo  con  lo  esercito  e  con  i 
Consoli  contra  a  Marc' Antonio:  allegando,  che  subito  che  ì 
soldati  che  seguitavano  Marc'Antonio,  sentissino  il  nome  di 
Ottaviano  nipote  di  Cesare,  e  che  si  faceva  chiamar  Cesare, 
lascerebbono  quello,  e  si  accosterebbono  a  costui  ;  e  cosi  re- 
ttalo Marc'  Antonio  ignudo  di  favorì,  sarebbe  facile  lo  oppri- 
lucrlo.  La  qual  cosa  riusci  tutta  al  contrario;  perchè  ^Marc'An- 
(onio  sì  guadagnò  Ottaviano;  e  lasciato  Tullio  ed  il  Senato, 
si  accostò  a  lui.  La  qual  cosa  fu  al  tutto  la  deslruzione  della 
parte  degli  Ottimali.  Il  che  era  facile  a  conicttnrare  :  né  si 
doveva  credere  quel  che  si  persuase  Tullio,  ma  tener  sempre 
conto  di  quel  nome  che  con  tanta  gloria  aveva  spenti  i  ni- 
roici  suoi,  ed  acquistatosi  il  principato  in  Roma;  né  si  dovca 
credere  mai  potere,  o  da  suoi  credi  o  da  suoi  fautori,  avere 
cosa  che  fosse  conforme  al  nome  '  libero. 

Caf.  lui.  —  Il  popolo  molle  volte  desidera  la  rovina  tua,  in- 
gannalo da  una  falsa  spezie  di  bene:  e  come  le  grandi  spe- 
ranze e  gagliarde  promesse  facilmenle  lo  muovono. 

Espugnala  che  fu  la  città  de'  Veienti,  entrò  nel  Popolo 
romano  una  oppinione,  che  fusse  cosa  utile  per  la  città  di 
Roma,  che  la  metà  de' Romani  andasse  ad  abitare  a  Veìo; 
argomentando  che,  per  essere  quella  città  ricca  di  contado, 
piena  di  edifizii  e  propìnqua  a  Roma ,  si  poteva  arricchire 

*  Così  ancora  nella  Testina;  oè  io  il  perchè  nelle  più  moderae  leggasi  di. 
Cosi  in  tutte  le  edisioni  ;  non  senza  sospetto  però ,  chi  di  tali  initeria 
conoscasi ,  che  1'  Autore  avesse  scritto  t'n-er 


LIBRO    PRIMO.  495 

la  raelà  de'cilladini  romani,  e  non  lurLare  per  la  propin- 
quità del  silo  nessuna  azione  civile.  La  qual  cosa  parve  al 
Senato  ed  a'  più  savi  Romani  tanto  inutile  e  tanto  dannosa, 
che  liberamente  dicevano,  essere  piuttosto  per  patire  la  mor- 
te, che  consentire  ad  una  tale  deliberazione.  In  modo  che, 
venendo  questa  cosa  in  disputa,  si  accese  tanto  la  Plebe  cen- 
tra al  Senato,  che  si  sarebbe  venuto  alle  armi  ed  al  sangue, 
se  il  Senato  non  si  fosse  fatto  scudo  di  alcuni  vecchi  e  sti- 
mati cittadini  ;  la  riverenza  de' quali  frenò  la  Plebe,  che  la 
non  procede  più  avanti  con  la  sua  insolenza.  Qui  si  hanno 
a  notare  due  cose.  La  prima,  che  *1  popolo  molle  volte,  in- 
gannato da  una  falsa  immagine  di  bene,  desidera  la  rovina 
sua;  e  se  non  gli  è  fatto  capace,  come  quello  sia  male,  e 
quale  sia  il  bene,  da  alcuno  in  chi  esso  abbia  fede,  si  pone 
in  le  repubbliche  *  infìniti  pericoli  e  danni.  £  quando  la  sorte 
fa  che  il  popolo  non  abbi  fede  in  alcuno,  come  qualche  volta 
occorre,  sendo  stato  ingannato  per  lo  addietro  o  dalle  cose 
0  dagli  uomini  ;  si  viene  alla  rovina  di  necessità.  £  Dante 
dice  a  questo  proposito,  nel  discorso  suo  che  fa  De  Monarchia, 
che  il  popolo  molte  volte  grida  viva  la  sua  morte ,  e  muoia 
la  sua  vita.  Da  questa  incredulità  nasce,  che  qualche  volta 
in  le  repubbliche  i  buoni  partiti  non  si  pigliano:  come  di 
sopra  si  disse  de'  Veneziani,  quando  assaltali  da  tanti  inimici 
non  poterono  prendere  partito  di  guadagnarsene  alcuno  con 
la  restituzione  delle  cose  lolle  ad  altri  (per  le  quali  era  mosso 
loro  la  guerra,  e  fatta  la  congiura  de' principi  loro  contro) , 
avanti  che  la  rovina  venisse.  Pertanto,  considerando  quello 
che  è  facile  o  quello  che  è  diffìcile  persuadere  ad  un  popolo, 
si  può  fare  questa  distinzione:  o  quel  che  tu  hai  a  persua- 
dere rappresenta  in  prima  fronte  guadagno,  o  perdila;  o 
veramente  pare  partilo  animoso,  o  vile:  e  quando  nelle  cose 
che  si  mettono  innanzi  al  popolo,  si  vede  guadagno,  an- 
cora che  vi  sia  nascosto  sotto  perdila  ;  e  quando  e'  paia 
animoso ,  ancora  che  vi  sia  nascosto  sotto  la  rovina  della 
repubblica,  sempre  sarà  facile  persuaderlo  alla  moltitudi- 
ne: e   cosi  tìa   sempre    dilTicile   persuadere   quelli   partili 

*  La  comune  delle  stampe  :  in  la  repubblica. 


196  BEI   DISCORSI 

dove  apparisce  o  viltà  '  o  perdila ,  ancoraché  vi  fusse  na- 
scosto sotto  salute  e  guadagno.  Questo  che  io  ho  detto,  si 
conferma  con  infiniti  esempi,  romani  e  forestieri,  moderni 
ed  antichi.  Perchè  da  questo  nacque  la  malvagia  opinione 
che  surse  in  Roma  di  Fahio  Massimo,  il  quale  non  poteva 
persuadere  al  Popolo  romano,  che  fusse  utile  a  quella  Repub* 
blica  procedere  lentamente  in  quella  guerra  ,  e  sostenere 
senza  azzuffarsi  l'impeto  di  Annibale;  perchè  quei  Popolo 
giudicava  questo  partito  vile,  e  non  vi  vedeva  dentro  quella 
Qlililà  vi  era  ;  né  Fabio  aveva  ragioni  bastanti  a  dimostrarla 
loro:  e  tanto  sono  i  popoli  accecati  in  queste  oppinioni  gagliar- 
de, che  benché  il  Popolo  romano  avesse  fallo  quello  errore 
di  dare  autorità  al  Maestro  de'cavalli  di  Fabio  di  potersi  az- 
zuffare,  ancora  che  Fabio  non  volesse  ;  e  che  per  tale  auto- 
rità il  campo  romano  fusse  per  esser  rotto,  se  Fabio  con  la 
saa  prudenza  non  vi  rimediava  ;  non  gli  bastò  questa  espe- 
.  rienza,  che  fece  dipoi  consolo  Varrone,  non  per  altri  suoi 
meriti  che  per  avere,  per  tutte  le  piazze  e  tutti  i  luoshi  pub- 
blici di  Roma,  promesso  di  rompere  Annibale,  qualunque 
▼olla  gliene  fosse  data  autorità.  Di  che  ne  nacque  la  zoflTa  e 
rotta  di  Canne,  e  presso  che  la  rovina  di  Roma.  Io  voglio 
addurre  a  questo  proposito  ancora  uno  altro  essempio  romano. 
Era  stalo  Annibale  in  Italia  otto  o  dieci  anni,  aveva  ripieno 
di  occisione  de' Romani  tutta  questa  provincia,  quando  venne 
in  Senato  Marco  Centenio  Penula,  nomo  vilissimo  (nondi- 
manco  aveva  avuto  qualche  grado  nella  milizia),  ed  ofTersegli, 
che  se  gli  davano  autorità  di  potere  fare  esercito  di  uomini 
volontari  in  qualunche  luogo  volesse  in  Italia,  ei  darebbe 
loro,  in  brevissimo  tempo,  preso  o  morto  Annibale.  Al  Senato 
parve  la  domanda  di  costui  temeraria  ;  nondimeno  ei  pen- 
sando che  s'ella  se  gli  negasse,  e  nel  popolo  si  fusse  dipoi 
saputa  la  sua  chiesta,  che  non  ne  nascesse  qualche  tumulto^ 
invidia  e  mal  grado  contro  all'  ordine  senatorio,  gliene  con- 
cessono:  volendo  più  tosto  mettere  a  pericolo  tutti  coloro 
che  lo  seguitassino,  che  fare  surgere  nuovi  sdegni  nel  Po- 
polo; sappiendo  quanto  simile  partilo  fusse  per  essere  accetto, 
e  quanto  fusse  diflìcile  il  dissuaderlo.  Andò,  adunque,  costui 

'  Male  nella  Teslina,  e  tirila  ec^izione  Jel  Poggiili:  nlilila. 


i 


LIBRO   PRIMO.  497 

con  una  moltitudine  inordinata  ed  incomposita  a  trovare 
Annibale;  e  non  gli  fu  prima  giunto  all'incontro,  che  fu 
con  tutti  quelli  che  lo  seguitavano  rotto  e  morto.  In  Grecia, 
nella  città  di  Atene,  non  potette  mai  Nicia,  uomo  gravissimo 
e  prudentissimo ,  persuadere  a  quel  popolo,  che  non  fusse 
bene  andare  ad  assaltare  Sicilia:  talché,  presa  quella  delibe- 
razione contra  alla  voglia  de' savi,  ne  seguì  al  tutto  la  ro- 
vina di  Atene.  Scipione  quando  fu  fatto  consolo,  e  che  desi- 
derava la  provincia  di  Affrica,  promettendo  al  tutto  la  rovina 
di  Cartagine;  a  che*  non  si  accordando  il  Senato  per  la  sen- 
tenza di  Fabio  Massimo,  minacciò  di  proporla  nel  Popolo, 
come  quello  che  conosceva  benissimo  quanto  simili  delibera- 
zioni piaccino  a'  popoli.  Potrebbesi  a  questo  proposito  dare 
esempi  della  nostra  città:  come  fu  quando  messere  Ercole 
Bentivogli,  governadore  delle  genti  fiorentine,  insieme  con 
Antonio  Giacoraini,  poiché  ebbono  rotto  Bartolommeo  d'Al- 
viano  a  San  Vincenti,  andarono  a  campo  a  Pisa;  la  qual  im- 
presa fu  deliberata  dal  popolo  in  su  le  promesse  gagliarde 
di  messer  Ercole,  ancora  che  molti  savi  cittadini  la  biasi- 
massero: nondimeno  non  vi  ebbero  rimedio,  spinti  da  quella 
universale  volunlà,  la  qual  era  fondata  in  su  le  promesse 
gagliarde  del  governadore.  Dico,  adunque,  come  non  è  la  più 
facile  via  a  fare  rovinare  una  repubblica  dove  il  popolo 
abbia  autorità,  che  metterla  in  imprese  gagliarde:  perché, 
dove  il  popolo  sia  di  alcuno  momento,  sempre  fieno  accettate; 
né  vi  ara,  chi  sarà  d'altra  oppinione,  alcuno  rimedio.  Ma  se 
di  questo  nasce  la  rovina  della  città,  ne  nasce  ancora ,  e  più 
spesso,  la  rovina  particolare  de'  cittadini  che  sono  preposti 
a  simili  imprese  :  perchè,  avendosi  il  popolo  presupposto  la 
vittoria,  come  e'  viene  la  perdita,  non  ne  accusa  né  la  for- 
tuna, né  la  impotenza  di  chi  ha  governato,  ma  la  tristizia  e 
la  ignoranza  sua  ;  e  quello  il  più  delle  volte  o  ammazza,  o 
imprigiona,  o  confina  :  come  intervenne  a  infiniti  capitani 
Cartaginesi,  ed  a  molti  Ateniesi.  Né  giova  loro  alcuna  vittoria 
che  per  lo  addietro  avessino  avuta,  perchè  tutto  la  presente 
perdita  cancella  :  come  intervenne  ad  Antonio  Giacomini 
nostro,  il  quale  non  avendo  espugnata  Pisa,  come  il  popolo 

*  Inlenùi,  noti  come  alla  quale,  ma  come  a  lai  cosa  j  e  il  senso  corrcri. 

17' 


198  DEI   DISCORSI 

si  aveva  presupposto  ed  egli  promesso  ,  venne  in  tenia  dis- 
grazia popolare ,  che  non  ostante  infinite  sue  buone  opere 
passate,  visse  più  per  umanità  di  coloro  che  ne  avevano  au- 
torità, che  per  alcun' altra  cagione  che  noi  popolo  lo  di- 
fendesse. 

Gap.  LW,— Quanta  autorità  abbia  uno  uomo  grande  a  frenare 
una  moltitudine  concitata. 

Il  secondo  notabile  sopra  il  testo  nel  superiore  capitolo 
allegato,  è,  che  veruna  cosa  è  tanto  atta  a  frenare  una  mol- 
titudine concitata,  quanto  è  la  riverenza  di  qualche  uomo 
grave  e  di  autorità,  che  se  le  faccia  incontro;  né  senza  ca^ 
gione  dice  Virgilio: 

Ttim  pieimU  gravem  ac  meritis  ti  forte  vinim  qttem 
Conspexere  ,  sileni,  arrectisqiie  murtbus  adstant. 

Per  tanto,  quello  che  è  proposto  a  uno  esercito, o  quello  che 
si  trova  in  una  città,  dove  nascesse  tumulto ,  debbe  rappre- 
sentarsi in  su  quello  con  maggior  grazia  e  più  onorevol- 
mente che  può,  mettendosi  intorno  le  insegne  di  quel  grado 
che  tiene,  per  farsi  più  reverendo.  Era,  pochi  anni  sono  , 
Firenze  diviso  *  in  due  fazioni.  Fratesche  ed  Arrabbiate,  che 
cosi  si  chiamavano;  e  venendo  all'arme,  ed  essendo  superati 
i  Frateschi,  intra  i  quali  era  PagolantonioSoderini,  assai  in 
quelli  tempi  riputato  cittadino;  ed  andandogli  in  quelli  tumulti 
il  popolo  armato  a  casa  per  saccheggiarla;  messer  Francesco 
suo  fratello,  allora  vescovo  di  Volterra,  ed  oggi  cardinale,  si 
trovava'  a  sorte  in  casa:  il  quale,  subito  sentito  il  romore 
e  veduta  la  turba,  messosi  i  più  onorevoli  panni  indosso,edi 
sopra  il  rocchetto  episcopale,  si  fece  incontro  a  quelli  armati, 
e  con  la  persona  e  con  le  parole  gli  fermò;  la  qual  cosa  fu  per 
tutta  la  città  per  molti  giorni  notata  e  celebrata.  Conchiudo, 
adunque,  come  e'non  è  il  più  fermo  né  il  più  necessario  rime- 

*  I  Fiorentini  toglion  fare  il  nome  della  lor  patria  del  genere  matcolioo. 
«  Gli  è  por  bello  (dirà  un  uomo  del  popolo)  questo  Firenze  I  »  Al  che  non  La- 
darono  gli  editori  toscani  della  Tetlioa,  il  Poggiali  ed  altri,  che  correggono 
dit>isa. 

'  La  Testina  e  il  Poggiali  :  //  lrot>i. 


LIBRO   PRIBIO.  199 

dio  a  frenare  una  moltitudine  concilala,  che  la  presenza  d'uno 
uomo  che  per  presenza  paia  e  sia  reverendo.  Vedesi,  adun- 
que, per  tornare  al  preallegalo  lesto,  con  quanta  ostinazione 
la  Plebe  romana  accettava  quel  parlilo  d'andare  aVeio,  per- 
chè lo  giudicava  utile,  né  vi  conosceva  sotto  il  danno  vi  era  ; 
e  come  nascendone  assai  tumulti,  ne  sarebbero  *  nali  scanda- 
li, se  il  Senato  con  uomini  gravi  e  pieni  di  riverenza  non 
avesse  frenato  il  loro  furore. 

Gap.  LV.  —  Quanlo  facilmente  si  conduchino  le  cose  in  quella 
cillà  dove  la  moUiludine  non  è  corrolla:  e  che  dove  è 
equalità,  non  si  può  fare  principato;  e  dove  la  non  è,  non 
si  può  fare  repubblica. 

Ancora  che  di  sopra  si  sia  discorso  assai  quello  sia  da 
temere  o  sperare  delle  città  corrotte;  nondimeno  non  mi 
pare  fuori  di  proposito  considerare  una  deliberazione  del 
Senato  circa  il  voto  che  Cammillo  aveva  fatto  di  dare  la 
decima  parte  ad  Apoiline  della  preda  de'  Veienti:  la  qual 
preda  sendo  venuta  nelle  mani  delia  Plebe  romana,  né  se  ne 
polendo  altrimenti  riveder  conto,  fece  il  Senato  uno  editto , 
che  ciascuno  dovesse  rappresentare  al  pubblico  la  decima 
parte  di  quello  gli  aveva  predalo.  E  benché  tale  deliberazione 
non  avesse  luogo,  avendo  dipoi  il  Senato  preso  altro  modo, 
e  per  altra  via  satisfatto  ad  Apolline  in  satisfazione  della 
Plebe;  nondimeno  si  vede  per  tali , deliberazioni  quanto  quel 
Senato  confidasse  nella  bontà  di  quella,  e  come  e' giudicava 
che  nessuno  fusse  per  non  rappresentare  appunto  tutto  quello 
che  per  tale  editto  gli  era  comandalo.  E  dall'altra  parte 
si  vede,  come  la  Plebe  non  pensò  di  fraudare  in  alcuna  parte 
lo  edillo  con  il  dare  meno  che  non  doveva  ,  ma  di  liberarsi 
da  quello  con  il  mostrarne  aperte  indignazioni.  Questo  essem- 
pio,  con  molti  altri  che  di  sopra  si  sono  addotti,  mostrano 
quanta  bontà  e  quanta  religione  fusse  in  quel  Popolo,  e 
quanlo  bene  fusse  da  sperare  di  lui.  E  veramente,  dove  non 
è  questa  bontà, non  si  può  sperare  nulla  di  bene;  come  non 
si  può  sperare  nelle  provincia  che  in  questi  tempi  si  veggono 

*  La  Romana  :  sarebbe. 


200  DEI   DISCORSI 

\  corroUe:  come  é  la  Italia  sopra  (atte  le  altre;  ed  ancora  la 
'  Francia  e  la  Spagna  di  tale  corruzione  ritengono  parte.  E  se  in 
'  qaelle  provincie  non  si  vede  tanti  disordini  quanti  nascono  in 
Italia  ogni  di,  deriva  non  tanto  dalla  bontà  de'popoli,  la  quale 
in  baona  parte  è  mancata  ;  quanto  dallo  avere  uno  re  che  gli 
I  mantiene  uniti ,  non  solamente  perla  virtù  sua,  ma  per  Tor- 
\  dine  di  quelli  regni,  che  ancora  non  sono  guasti.  Vedesi  bene 
I  nella  provincia  della  Magna,  questa  bontà  e  queslaxeI|gjone 
ancora  in  queTTì  popoli  esser  grande  ;  la  qual  fa  che  molte 
repubbliche  vi  vìvono  libere,  ed  in  modo  osservano  le  loro 
leggi»  che  nessuno  di  fuori  né  di  dentro  ardisce  occuparle. 
E  che  sia  vero  che  in  loro  regni  buona  parte  di  quella  antica 
bontà ,  io  ne  voglio  dare  uno  cssempio  simile  a  questo  detto 
di  sopra  del  Senato  e  della  Plebe  romana.  Usano  quelle  repub- 
bliche,  quando  gli  occorre  loro  bisogno  di  avere  a  spendere 
alcuna  quantità  di  danari  per  conto  pubblico  ,   che   quelli 
magistrati  o  consigli  che  ne  hanno  autorità,  ponghinoa  tutti 
gli  abitanti  della  città  uno  per  cento,  o  dua  ,  di  quello  che 
ciascuno  ha  di  valsente.  E  fatta  tale  deliberazione  secondo 
l'ordine  della  terra,  si  rappresenta  ciascuno  dinanzi  agli  ese- 
cutori di  tale  imposta;  e,  preso  prima  il  giuramento  di  pagare 
la  conveniente  somma  ,  getta  in  una  cassa  a  ciò  deputata 
quello  che  secondo  la  conscienza  sua  gli  pare  dover  pagare: 
del  qual  pagamento  non  è  testimonio  alcuno,  se  non  quello 
che  paga.  Donde  si  può  conietturare,  quanta  bontà  e  quanta 
religione  sia  ancora  in  quelli  uomini.  E  debbesi  stimare  che 
ciascuno  paghi  la  vera  somma  :  perchè,  quando  la  non  si  pa- 
.   gasse,  non  gitterebbe  la  imposizione  quella  quantità  che  loro 
disegnassero  secondo  le  antiche  che  fussino  usitale  riscuo- 
\  tersi  ;  e  non  gittando,  si  conoscerebbe  la  fraude;  e  conoscen- 
dosi, arebbon  preso  altro  modo  che  questo.  La  quale  bontà  è 
tanto  più  da  ammirare  in  questi  tempi ,  quanto  ella  è  più 
rara:  anzi  si  vede  essere  rimasa  sola  in  quella  provincia.  Il 
che  nasce  da  due  cose:  Puna,  non  avere  avuti  commerzi 
grandi  co'  vicini  ;  perchè  né  quelli  sono  iti  a  casa  loro ,  né 

(essi  sono  iti  a  casa  altrui  ;  perché  sono  stati  contenti  di  quelli 
beni,  e  vivere  di  quelli  cibi,  vestire  di  quelle  lane  che  dà  il 
paese:  d'  onde  è  stata  tolta  via  la  cagione  d'ogni  conversa- 


LIBRO   PRIMO.  201 

zione,  ed  il  principio  di  ogni  corrullela;  perchè  non  hanno 
possuto  pigliare  i  coslumi  né  franciosi  né  spagnuoli  né 
italiani,  le  quali  nazioni  tutte  insieme  sono  la  corrultela  del 
mondo.  V  altra  cagione  è,  che  quelle  repubbliche  dove  si  è 
mantenuto  il  vivere  politico  ed  incorrotto,  non  sopportano  che 
alcuno  loro  cittadino  né  sia,  né  viva  ad  uso  di  gentiluomo: 
anzi  mantengono  infra  loro  una  pari  cqualilà,  ed  a  quelli  si- 
gnori e  gentiluomini  che  sono  in  quella  provincia,  sono  ini-  j 
micissimi  ;  e  se  per  caso  alcuni  pervengono  loro  nelle  mani, 
come  principi*  di  corruttela  e  cagione  di  ogni  scandalo,  gli 
ammazzano.  E  per  chiarire  questo  nome  di  gentiluomini 
quale  e'  sia  ,  dico  che  gentiluomini  sono  chiamati  quelli  I 
che  ociosi  vivono  de*  proventi  delle  loro  possessioni  ab-  i 
bondantemente,  senza  avere  alcuna  cura  o  dì  coltivare,  J 
0  di  alcuna  altra  necessaria  fatica  a  vivere.  Questi  tali  sono  | 
perniciosi  in  ogni  repubblica  ed  in  ogni  provincia  ;  ma  ' 
più  perniciosi  sono  quelli  che,  oltre  alle  predette  fortune, 
comandano  a  castella,  ed  hanno  sudditi  che  ubbidiscono  a 
loro.  Di  queste  due  sorti  di  uomini  ne  sono  pieni  il  regno  di 
Napoli,  terra  di  Roma,  la  Romagna  e  la  Lombardia.  Di  qui 
nasce  che  in  quelle  provincie  non  è  mai  stata  alcuna  repub- 
blica ,  né  alcuno  vivere  politico  ;  perché  tali  generazioni 
di  uomini  sono  al  tutto  nemici  d'ogni  civiltà.  Ed  a  volere  in 
Provincie  fatte  in  simil  modo  introdurre  una  repubblica,  non 
sarebbe  possibile:  ma  a  volerle  riordinare,  se  alcuno  ne  fusse 
arbitro,  non  arebbe  altra  via  che  farvi  un  regno.  La  ragione 
è  questa,  che  dove  è  tanto  la  materia  corrotta  che  le  leggi 
non  bastino  a  frenarla ,  vi  bisogna  ordinare  insieme  co» 
quelle  maggior  forza;  la  quale  è  una  mano  regia,  che  con  la 
potenza  assoluta  ed  eccessiva  ponga  freno  alla  eccessiva 
ambizione *e  corruttela  de' potenti.  Verificasi  questa  ragione 
con  lo  esempio  di  Toscana  :  dove  si  veae  in  poco  spazio  di 
terreno  stale  longamente  tre  repubbliche,  Firenze,  Siena  e 
Lucca  ;  e  le  altre  città  di  quella  provincia  essere  in  modo  ser- 
ve, che,  con  l'animo  e  con  1'  ordine,  si  vede  o  che  le  man- 

*  Così  nella  Romana  e  nella  Testina,  la  quale,  a  meglio  fuggir  l*equivoro 
scrive  Principi.  Pare  che  non  intendessero  1'  ardita  locuzione  ((lu'gli  editori  che, 
posero  principii  e  principj. 


202  DEI   DISCORSI 

tengono,  o  che  le  vorrebbono  mantenere  la  loro  libertà. 
Tutto  è  nato  per  non  essere  in  quella  provincia  alcun  si- 
gnore di  castella,  e  nessuno  o  pochissimi  gentiluomini;  ma 
esservi  tanta  equalilà,  che  facilmente  da  uno  uomo  prudente, 
e  che  delle  antiche  civilità  avesse  cognizione,  vi  si  introdur- 
rebbe un  viver  civile.  Ma  lo  infortunio  suo  è  stato  tantt* 
grande,  che  infìno  a  questi  tempi  non  ha  sorlilo  alcuno  uomo 
che  lo  abbia  potuto  o  saputo  fare.  Trassi  *  adunque  di  questo 
discorso  questa  conclusione  :  che  colui  che  vuole  fare  dove 
sono  assai  gentiluomini  una  repubblica,  non  la  può  fare  se 
prima  non  gli  spegne  lutti  :  e  che  colui  che  dove  è  assai 
equalità  vuole  fare  uno  regno  o  uno  principato,  non  lo  potrà 
mai  fare  se  non  trae  di  quella  equalilà  molli  di  animo  am- 
bizioso ed  inquieto,  e  quelli  fa  gentiluomini  io  fatto,  e  non 
in  nome,  donando  loro  castella  e  possessioni,  e  dando  loro 
favore  di  suslanze  e  d'uomini;  acciocché,  posto  in  mezzo  di 
loro,  mediante  quelli  mantenga  la  sua  potenza;  ed  essi,  me- 
.diante  quello,  la  loro  ambizione;  e  gli  altri  siano  constretti  a 
«IQpporlare  quel  giogo  che  la  forza,  e  non  altro  mai,  può  far 
^  Sopportare  loro.  Ed  essendo  per  questa  via  proporzione  da 
chi  sforza  a  chi  è  sforzato,  stanno  fermi  gli  uomini  ciascuno 
nello  ordine  loro.  £  perchè  il  fare  d'una  provincia  alla  ad 
essere  regno  una  repubblica,  e  d'una  atta  ad  essere  repub- 
blica farne  un  regno,  é  materia  da  uno  uomo  che  per  cervello 
e  per  autorità  sia  raro;  sono  slati  molli  che  Io  hanno  voluto 
fare,  e  pochi  che  lo  abbino  saputo  condurre.  Perché  la  gran- 
dezza della  cosa  parte  sbigottisce  gli  uomini,  parte  in  modo 
gli  'mpedisce,  che  ne'  primi  principii  mancano.  Credo  che  a 
questa  mia  oppinione,  che  dove  sono  gentiluomini  non  si  possa 
ordinare  repubblica,  parrà  contraria  la  esperienza  della  Repub- 
blica veneziana,  nella  quale  non  usano  avere  aUuno  grado 
se  non  coloro  che  sono  gentiluomini.  A  che  si  risponde,  come 
questo  essempio  non  ci  fa  alcuna  oppugnazione,  perchè  i  gen- 
tiluomini in  quella  Repubblica  sono  più  in  nome  che  in  fatto; 
perchè  loro  non  hanno  grandi  entrale  di  possessioni,  sondo 

*  La  «ola  edizione  del  Poggiali,  tra  le  consuìlate  da  noi,  ha  Traesi.  Gli 
amatori,  o  persuasi  della  necessità  d*  innovare  nella  nostra  ortografìa,  avreb- 
bero qui  posto  Tra'ssi  o  Trassi. 


LIBRO    PRIMO.  293 

le  loro  ricchezze  grandi  fondale  in  sulla  mercanzia  e  cose 
mobili  ;  e  di  più,  nessuno  di  loro  tiene  castella,  o  ha  alcuna 
iurisdizione  sopra  gli  uomini  :  ma  quel  nome  di  gentiluomo  in 
loro  è  nome  di  degnila  e  di  riputazione,  senza  essere  fondato 
sopra  alcuna  di  quelle  cose  che  fa  che  nell'altre  città  si 
chiamano  i  gentiluomini.  E  come  le  altre  repubbliche  hanno 
tulle  le  loro  divisioni  sotto  vari  nomi,  cosi  Vinegia  si  divide  / 
in  gentiluomini  e  popolari  ;  e  vogliono  che  quelli  abbino, 
ovvero  possino  avere,  tulli  gli  onori  ;  quelli  altri  ne  sieno  ai  ' 
lutto  esclusi.  Il  che  non  fa  disordine  in  quella  terra,  per  le 
ragioni  altra  voKa  dette.  Couslituisca,  adunque,  liTia  repub- | 
blica  colui  dóve  è,  o  è  falla  una  grande  equalilà;  ed  all' in- 1 
contro  ordini  un  principato  dove  è  grande  inequalità  :  altri-f 
menti  farà  cosa  senza  proporzione,  e  poco  durabile. 


Gap".  LVI. —  Innanzi  che  segnino  i  grandi  accidenti  in  una 
cillà  0  in  una  provincia,  vengono  segni  che  gli  pronostica- 
no,  0  uomini  che  gli  predicono.  * 

Donde  e' si  nasca  io  non  so,  ma  si  vede  per  gli  antichi 
e  per  gli  moderni  essempi,  che  mai  non  venne  alcuno  grave 

accidente  in  una  città  o  in  una  provincia,  che  non  sia  sta-  ,•  ^    j'  ^ 

to,  0  da  indovini  o  da  revelazioni  o  da  prodigi,  o  da  altri  i  \f^r* 

segni  celesti,  predetto.  E  per  non  mi  disccslare  da  casa  nel  ./i**^^ 

provare  questo,  sa  ciascuno  quanto  da  frate  Girolamo  Savo-  f^j^ySh^ 

narola  fusse  predella  innanzi  la  venula  del  re  Carlo  Vili  f^,;      />  ' 

di  Francia  in  Italia;  e  come,  olirà  di  questo,  per  tulla  Toscana  ly/^ 

ci    riiccp   nccpr   cpnfllA    in    arin   ts   vpHiifp    apnli    H'nrrnp.    ennrji     •     4."( 


\J^ 


si  disse  esser  sentite  in  aria  e  vedute  genti  d'arme,  sopra  *  JKI^ 
Arezzo,  che  si  azzotfavano  insieme.  Sa  ciascuno  olirà  di  que-  ^  .  ' 
sto,  come  avanti  la  morte  di  Lorenzo  de' siedici  vecchio  fu 
percosso  il  duomo  nella  sua  più  alla  parte  con  una  saetta 
celeste,  con  rovina  grandissima  di  quello  edifìzio.  Sa  ciascuno 
ancora,  come  poco  innanzi  che  Piero  Sederini,  quale  era  stalo 
fallo  gonfaloniere*  a  vita  dal  popolo  fiorentino,  fusse  cacciato 
e  privo  del  suo  grado,  fu  il  palazzo  medesimamente  da  un  ful- 
gore percosso.  Potrebbesi,  oltra  di  questo,  addurre  pie  essem- 

*  La  Bladiana:  ConfaUnteri,  • 


204  HGI    DISCORSI 

pi,  i  quali  per  fuggire  il  tedio  lascerò.*  Narrerò  solo  quello  che 
Tito  Livio  dice,  innanzi  alla  venuta  de'  Franciosi  in  Roma  : 
cioè,  come  uno  Marco  Cedizio  plebeio,  riferì  al  Senato  avere 
udito  di  mezza  notte,  passando  per  la  Via  nuova,  una  voce 
maggiore  che  umana,  la  quale  Io  ammoniva  che  riferisse  ai 
magistrati,  come  i  Franciosi  venivano  a  Roma.  La  cagione  di 
questo  credo  sia  da  essere  discorsa  ed  interpretata  da  uomo 
che  abbia  notizia  delle  cose  naturali  e  soprannaturali:  il  che 
non  abbiamo  noi.  Pure,  potrebbe  essere  che,  sendo  questo 
aere,  come  vuole  alcuno  filosofo,   pieno  d'intelligenze;  le 
quali  '  per  naturale  virtù  prevedendo  le  cose  future,  ed  avendo 
^  ^  ;U  compassione  agli  uomini,  acciò  si  possino  preparare  alle  di- 
fese, gli  avvertiscono  con  simili  segni.  Pure,  comunche  si 
•^^y^T  sia,  si  vede  cosi  essere  la  vcrilA  ;  e  che  sempre  dopo  tali  ac- 
^  01^1^^  cidenti  sopravvengono  cose  istraordinarie  e  nuove  alle  pro- 
jI^  v/»^  ciocie. 

M^*  Gap.  LVn.  --  La  plebe  insieme  i  gagliarda,  di  per  sé 

^;(U^  i^  ^  è  debole. 


// 


co 


Erano  molli  Romani ,  sendo  seguila  per  la  passata  de* 
Franciosi  la  rovina  della  lor  patria,  andati  ad  abitare  a  Veio, 
contra  alla  conslitqzione  ed  ordine  del  Senato  :  il  quale,  per 
rimediare  a  questo  disordine,  comandò  per  i  suoi  editti  pub- 
blici che  ciascuno,  infra  certo  tempo  e  sotto  certe  pene,  tor- 
nasse ad  abitare  a  Roma.  De* quali  editti,  da  prima  per  co- 
loro contra  a  chi  e'  venivano,  si  fu  fatto  beffe;  dipoi,  quando 
si  appressò  il  tempo  dello  ubbidire,  tutti  ubbidirono.  E  Tito 
f  Livio  dice  queste  parole  :*£x  ferocibus  unioersis,  singuli  metu 
I  tuo  obedientet  fuere,  E  veramente,  non  si  può  mostrare  me- 
glio la  natura  d'una  moltitudine  in  questa  parte,  che  si  di- 
,  mostri  in  questo  testo.  Perchè  la  moltitudine  è  audace  nel 
parlare  molte  volte  contra  alle  deliberazioni  del  loro  princi- 


j\4)  .         '>e  ;  dipoi,  come  veggono  la  pena  in  viso,  non  si  fidando  l'uno 

*  Cosi,c«o  maggiore  soddisfaziooc  dell* orecchio ,  nella  Romana.  L«  al- 
tre: lascio. 

'  Ltqiiafi,  relativo,  colla  ibria  (come  notai  anche  a  pag-  i97)  del  dimo- 
aralivo  queste. 


LIBRO    PRIMO.  205 

dell'  allro,  corrono  ad  ubbidire.  Talcbè  si  vede  cerio,  che  di 
quel  che  si  dica  uno  popolo  circa  la  mala  o  buona  disposizion 
sua,  si  debhe  tenere  non  gran  conto,  quando  tu  sia  ordinalo 
in  modo  da  poterlo  mantenere,  s'egli  è  ben  disposto;  s'egli 
è  mal  disposto,  da  poter  provvedere  che  non  ti  ofTenda. Que- 
sto s'intende  per  quelle  male  disposizioni  che  hanno  i  popoli , 
nate  da  qualunque  altra  cagione,  che  o  per  avere  perduto  la 
libertà,  o  il  loro  principe  slato  amalo  da  loro ,  e  che  ancora 
sia  vivo  ;  perchè  le  male  disposizioni  che  nascono  da  queste 
cagioni,  sono  sopra  ogni  cosa  formidabili,  e  che  hanno  biso-  1 
gno  di  grandi  rimedi  a  frenarle:  l'altre  sue  indisposizioni  | 
fieno  facili ,  quando  ei  non  abbia  capi  a  chi  rifuggire.  Perché 
non  ci  è  cosa,  dalFun  canto,  più  formidabile  che  una  moltitu- 
dine sciolta  e  senza  capo; e,  dall'altra  parte,  non  è  cosa  più 
debole:  perchè,  quantunque  ella  abbi  l'armi  in  mano,  fia 
facile  ridurla,  purché  tu  abbi  ridotto  da  potere  fuggire  il 
primo  impelo;  perché  quando  gli  animi  sono  un  poco  raf- 
freddi, e  che  ciascuno  vede  di  aversi  a  tornare  a  casa  sua, 
cominciano  a  dubitare  di  loro  medesimi ,  e  pensare  alla  sa- 
lute loro,  0  con  fuggirsi  o  con  l'accordarsi.  Però  una  molti- 
tudine così  concitala,  volendo  fuggire  questi  pericoli,  ha 
subito  a  fare  infra  sé  medesima  un  capo  che  la  corregga , 
tenghila  unita  e  pensi  alla  sua  difesa;  come  fece  la  Plebe 
romana,  quando  dopo  la  morte  di  Virginia  si  parti  da  Roma , 
e  per  salvarsi  feciono  infra  loro  venti  Tribuni:  e  non  facendo  a>  v 
questo,  interviene  loro  sempre  quel  che  dice  Tito  Livio  nelle  ^^  *^ 
soprascritte  parole, che  tulli  insieme  sono  gagliardi;  e  quando  tJ Jf^ 
ciascuno  poi  comincia  a  pensare  al  proprio  pericolo,  diventa  ^ 

vile  e  debole.  r^ 

Gap.  LVIII. — La  moìHludine  è  più  savia,  e  più  costante 
che  un  principe. 

Nessuna  cosa  essere  più  vana  e  più  inconstante  che  la 
moltitudine:  cosi  Tito  Livio  nostro,  come  tutti  gli  altri  isto- 
rici affermano.  Perchè  spesso  occorre,  nel  narrare  le  azioni 
degli  uòmini,  vedere  la  moltitudine  avere  condannalo  alcuno 
a  morte,  e  quel  medesimo  di  poi  pianto  e  sommamente  dQ- 


206  DEI   DISCORSI 

sideralo:  come  si  vede  avere  fatto  il  Popolo  romano  di  Man- 
f  Ilo  Capilolino,  il  quale  avendo condennato  a  morie,  sorama- 
'  mente  dipoi  desiderava.  E  le  parole  dello  autore  son  queste  : 
\  Populum  brevi,  poslcaquam  ab  eo  periculum  nullumeraltdesi- 
^  derium  eim  lenuil.  Ed  altrove,  quando  mostra  gli  accidenti 
che  nacquero  in  Siracusa  dopo  la  morte  di  Girolamo  nipote 
di  lerone,  dice:  Hdtc  nalura  muUUudinis  esl:autumHHer  ter- 
vii,  aul  superbe  dominalur.  lo  non  so  se  io  mi  prenderò  una 
provincia  dura,  e  piena  di  tanta  ditTicultà,  che  mi  convenga 
o  abbandonarla  con  vergogna,  o  seguirla  con  carico;  volendo 
difendere  una  cosa  ,  la  quale,  come  ho  detto,  da  tutti  gli 
scrittori  è  accasata.  Ma  ,corounche  si  sia,  io  non  giudico  nò 
giudicherò  mai  essere  difetto  difendere  alcune  oppinioni  con 
le  ragioni,  senza  volervi  usare  o  la  autorità  o  la  forza.  Dico 
adunque,  come  di  quello  difetto  di  che  accusano  gli  scrittori 
la  moltitudine,  se  ne  possono  accusare  tutti  gli  uomini  par- 
ticolarmente, e  massime  i  principi;  perchè  ciascuno  che  non 
sia  regolato  dalle  le^gi,  farebbe  quelli  medesimi  errori  che  la 
moltitudine  sciolta.  E  questo  si  può  conoscere  facilmente,  per- 
V  che  e'  sono  e  sono  stati  assai  principi,  e  de'buoni  e  de'savi  ne 
/  sono  stati  pochi  :  io  dico  de' principi  che  hanno  potuto  rompere 
quel  freno  che  gli  può  coi  reggere;  intra  i  quali  non  sono  que- 
gli re  che  nascevano  in  Egitto,  quando  in  quella  antichissima 
antichità  si  governava  quella  provincia  con  le  leggi  ;  né 
quelli  che  nascevano  in  Sparta;  né  quelli  chea'  nostri  tempi 
nascono  in  Francia:  il  quale  regno  é  moderato  più  dalle  leg- 
gi, che  alcuno  altro  regno  di  che  ne' nostri  tempi  si  abbi 
notizia.  E  questi  re  che  nascono  sotto  tali  constituzioni,  non 
sono  da  mettere  in  quel  numero,  donde  si  abbia  a  considerare 
la  natura  di  ciascuno  uomo  per  sé,  e  vedere  se  egli  è  simile 
alla  moltitudine:  perchè  a  rincontro  loro  si  dehbe  porre  una 
moltitudine  medesimamente  regolata  dalle  leggi  come  sono 
loro;  e  si  troverà  in  lei  essere  quella  medesima  bontà  che 
noi  veggiamo  essere  in  quelli,  e  vedrassi  quella  né  superba- 
mente dominare  né  umilmente  servire:  come  era  il  Popolo 
romano,  il  quale  mentre  durò  la  Kepubhlica  incorrotta  ,  non 
/  servi  mai  umilmente  né  mai  dominò  superbamente  ;  anzi 
con  li  suoi  ordini  e  magistrati  tenne  il  grado  suo  onorevoi- 


LIBRO    PRIMO.  207 

mente.  E  quando  era  necessario  insurgere  contra  a  uno  po- 
tente, lo  faceva;  come  si  vede  in  Manlio,  ne'  Dieci,  ed  in 
altri  che  cercorno  opprimerla:  e  quando  era  necessario 
ubbidire  a'Ditlalori  ed  a'  Consoli  per  la  salute  pubblica.  Io 
faceva.  E  se  il  Popolo  romano  desiderava  Manlio  Capitolino 
morto,  non  è  meraviglia  ;  perchè  e' desiderava  le  sue  virtù  , 
le  quali  erano  stale  tali,  che  la  memoria  di  esse  recava 
compassione  a  ciascuno  ;  ed  arebbono  avuto  forza  di  fare 
quel  medesimo  effelto  in  un  principe ,  perchè  1'  è  sentenza 
di  tutti  li  scrittori,  come  la  virtù  si  lauda  e  si  ammira  an- 
cora negli  inimici  suoi:  e  se  Manlio,  infra  tanto  desiderio, 
fusse  risuscitato ,  il  Popolo  di  Roma  arebbe  dato  di  lui  il 
medesimo  giudizio,  come  ei  fece,  tratto  che  lo  ebbe  di  pri- 
gione, che  poco  di  poi  lo  condennò  a  morte;  nonostante  che 
si  vegga  di*  principi  tenuti  savi,  i  quali  hanno  fatto  morire 
qualche  persona,  e  poi  sommamente  desideratala:  come  Ales- 
sandro, Clito,  ed  altri  suoi  amici  ;  ed  Erode  ,  Marianne.  Ma 
quello  che  lo  isterico  nostro  dice  della  natura  della  moltitu- 
dine, non  dicedi  quella  che  è  regolala  dalle  leggi,  come  era 
la  romana;  ma  della  sciolta ,  come  era  la  siracusana:  la  quale 
fece  quelli  errori  che  fanno  gli  uomini  infuriati  e  sciolti  , 
come  fece  Alessandro  magno,  ed  Erode,  ne' casi. detti.  Però 
non  è  più  da  incolpare  la  natura  della  moltitudine  che  de' 
principi,  perchè  tutti  egualmente  errano,  quando  tutti  senza 
rispetto  possono  errare.  Di  che,  oltre  a  quello  che  ho  detto,  ci 
sono  assai  essempi, ed  intra  gli  imperadori  romani,  ed  intra  gli 
altri  tiranni  e  principi;  dove  si  vede  tanta  incostanza  e  tanta 
variazione  di  vita,  quanta  mai  non  si  trovasse  in  alcuna 
moltitudine.  Conchiudo,  adunque,  contra^  alla  comune  oppi- 
nione,  la  qual  dice  come  i  popoli,  quando  sono  principi,  sono 
varii,  mutabili,  ingrati;  affermando  che  in  loro  non  sono 
altrimenle  questi  peccali  che  si  siano  ne*  principi  particolari. 
Ed  accusando  alcuni  ì  popoli  ed  i  principi  insieme,  potrebbe 
dire  il  vero;  ma  traendone  i  principi,  s'inganna:  perchè  un 
popolo  che  comanda  e  sia  bene  ordinato,  sarà  slabile,  pru- 
dente e  grato  non  altrimenti  che  un  principe,  o  meglio  che 

*  Altre  edizioni  :  de'j  e  :  dei. 
'  La  Bladiana  :  olire. 


208  DEI   DISCORSI 

an  principe,  eziandio  stimalo  savio:  e  dall' allra  parie,  un 
principe  sciolto  dalle  lpgzi,sarà  inoralo  ,  vario  ed  iinpnulenle 
più  che  ano  popolo.  E  *  che  la  variazione  del  procedere  loro 
nasce  non  dalla  nalara  diversa  ,  perchè  in  tutti  è  ad  un  mo- 
do: e  se  vi  è  vanlagsio  di  bene,  è  nel  popolo;  ma  dallo  avere 
più  o  meno  rispetto  alle  leggi,  dentro  alle  quali  l'uno  e  l'al- 
tro vive.  E  chi  considcrrà  •  il  Popolo  romano,  lo  vedrà  essere 
sfato  per  quattrocento  anni  iniiniro  del  nome  regio,  ed  ama- 
tore della  gloria  e  del  bene  cornane  della  saa  patria:  vedrà  tanti 
essempi  u<:ali  da  lui,  che  testimoniano  Tuna  cosa  e  l' altra.  B 
se  alcuno  mi  allegasse  la  ingratitudine  ch'egli  usò  conira  a 
Scipione,  rispondo  quello  che  di  sopra  lunsamente  si  discorso 
in  questa  materia,  dove  si  mostrò  i  popoli  essere  meno  in- 
grati de' principi.  Bla  quanto  alla  prudenza  ed  alla  stabilità , 
dico,  come  ano  popolo  è  più  prudente,  più  slabile  e  di  mi- 
glior giadicio  che  an  principe.  E  non  senza  cagione  ai  asso- 
iniglia  la  voce  d*an  popolo  a  quella  di  Dio:  perchè  si  vede 
una  oppinione  nniversale  fare  ctrelli  meravigliosi  ne*  prono- 
stichi suoi;  talché  pare  che  per  occulta  virtù  e* prevegga  il 
suo  male  ed  il  suo  bene.  Quanto  al  giudicare  le  cose ,  si  vede 
rarissime  volte,  quando  egli  ode  due  concionanti  che  tondino 
in  diverse  pafU«  quando  e*  sono  di  egual  virtù,  che  non  pigli 
la  oppinione  migliore,  e  che  non  sia  capace  di  quella  verità 
ch'egli  ode.  E  se  nelle  cose  gagliarde,  o  che  paiano  utili, 
come  di  sopra  si  dice,  egli  erra;  molle  volle  erra  ancora  un 
prìncipe  nelle  soe  proprie  passioni,  le  quali  sono  molte  più 
che  quelle  de'  popoli.  Vedesi  ancora ,  nelle  sue  elezioni  al 
macistrati,  fare  di  lunga  migliore  elezioneche  uno  principe; 
né  mai  si  persuaderà  ad  un  popolo,  che  sia  bene  tirare  alla 
degnila  ano  uomo  infame  e  di  corrotti  costumi:  il  che  facil- 
mente  e  per  mille  vie  si  persuade  ad  un  principe.  Vedesi 
un  popolo  cominciare  ad  avere  in  orrore  una  cosa ,  e  molli 
secoli  stare  in  quella  oppinione  :  il  che  non  si  vede  in  uno 
principe.  E  dell*  una  e  dell'altra  di  queste  due  cose  voglio  mi 
basti  per  testimone  il  Popolo  romano:  il  quale,  in  tante  cen- 
tinaia d'anni,  in  tante  elezioni  di  Consoli  e  di  Tribuni,  non 

*  Àbliiati  per  ripdnto  il  «etlto  di  lopri ,  eonchiiuto. 

*  Anche  qui  U  Romana:  considera   Vedi  la  noia  [>o»«a  a  pag.  149, 


LIBRO   PR1510.  ^09 

fece  quattro  elezioni  di  che  quello  si  avesse  a  pentire.  Ed  eb- 
be, come  ho  detto,  tanto  in  odio  il  nome  regio,  che  nessuno 
obbligo  di  alcuno  suo  cittadino,  che  tentasse   quel   nome, 
potette  fargli  fuggire  le  debile  pene.  Vedesi,  oltra  di  questo, 
le  città  dove  i  popoli  sono  principi,  fare  in  brevissimo  tempo 
augumenti  eccessivi,  e  molto  maggiori  che  quelle  che  sempre 
sono  state  sotto  un  principe:  come  fece  Roma  dopo  la  cacciala 
de'  re,  ed  Alene  da  poi  che  la  si  liberò  da  Pisistrato.  Il  che  non  , 
può  nascere  da  altro,  se  non  che  sono  migliori  governi  quelli  ! 
de'  popoli  che  quelli  de'  principi.  Né  voglio  che  si  opponga  a 
questa  mia  oppìnione  lutto  quello  che  lo  isterico  nostro  ne  dice 
nel  preallegalo  lesto,  ed  in  qualunque  altro;  perchè,  se  si  dis-  • 
correranno  tutti  i  disordini  de*  popoli,  lutti  i  disordini  de' prin- 
cipi, tutte  le  glorie  de'  popoli,  tutte  quelle  de'principi,  si  vedrà 
il  popolo  di  bontà  e  di  gloria  essere  di  lunga  superiore.  E  se  i 
principi  sono  superiori  a' popoli  nello  ordinare  leggi,  formare 
vite  civili,  ordinare  statuti  ed  ordini  nuovi;  i  popoli  sono  tanto 
superiori  nel  mantenere  le  cose  ordinale,  ch'egli  aggiungono 
senza  dubbio  alla  gloria  di  coloro  che  l'ordinano.  Ed  in  som- 
ma, per  epilogare  questa  materia,  dico  come  hanno  duralo 
assai  gli  stati  de'principi,  hanno  duralo  assai  gli  stali  delle 
repubbliche,  e  1'  uno  e  l' altro  ha  avuto  bisogno  d'essere  re- 
gelato  dalle  leggi:  perchè  un  principe  che  può  fare  ciò  che  j 
vuole,  è  pazzo;  un  popolo  che  può  fare  ciò  che  vuole,  non  è  I 
savio.  Se,  adunque,  si  ragionerà  d*un  principe  obbligalo  alle' 
leggi,  e  d'un  popolo  incatenato  da  quelle,  si  vedrà  più  virtù 
nel  popolo  che  nel  principe:  se  si  ragionerà  dell'uno  e  del- 
l' altro  sciolto,  si  vedrà  meno  errori  nel  popolo  che  nel  prin-  r 
cipe;  e  quelli  minori,  ed  aranno  maggiori  rimedi.  Perchè   i 
ad  un  popolo  licenzioso  e  tumultuario,  gli  può  da  un  uomo    ' 
buono  esser  parlato  ,  e  facilmente  può  essere  ridotto  nella 
via  buona:  ad  un  principe  cattivo  non  è  alcuno  che  possa  par- 
lare, né  vi  è  altro  rimedio  che  il  ferro.  Da  che  si  può  far 
coniellura  della  importanza  della  malattia  dell' uno  e  dell'ai-  *^  ^ 
Irò:  che  se  a  curare  la  malattia  del  popolo  bastano  le  parole, 
ed  a  quella  del  principe  bisogna  il  ferro,  non  slira  maTal-  M»  ^*^^ 
cuno  che  non    giudichi ,  che  dove  bisogna    maggior  cura ,  ^   |UiC«< 
siano  maggiori  errori.  Quando  un  popolo  è  bene  sciolto,  non  „.*  y 


21Ò 


1)E1  DISCORSI 


si  temono  le  pazzie  che  quello  fa ,  né  si  ha  paura  del  mal 
presente,  ma  di  quello  che  ne  può  nascere,  potendo  nascere 
io  fra  tanta  confusione  un  tiranno.  Ala  ne*  principi  Insti  inter- 
viene il  contrario  :  che  si  teme  il  male  presente,  e  nel  futuro 
si  spera;  persuadendosi  gli  uomini  che  la  sua  cattiva  vita 
possa  far  surgere  una  libertà.  Sì  che  vedete  la  dilTerenza 
dell*  uno  e  dell'  altro,  la  quale  è  quanto  dalle  cose  che  sono, 
a  quelle  che  hanno  ad  essere.  Le  crudeltà  della  moltitudine 
sono  centra  a  chi  ci  temono  che  occupi  il  ben  comune:  quelle 
d' un  princif>e  sono  contra  a  chi  ei  temono  che  occupi  il 
bene  proprio.  Ma  la  oppinione  contra  ai  popoli  nasce  perchè 
de' popoli  ciascuno  dice  male  senza  paura  e  liberamente,  an- 
cora mentre  che  regnano  :  de'  principi  si  parla  sempre  con 
mille  paure  e  miHe  rispetti.  Né  mi  pare  fuor  di  proposito , 
poiché  questa  materia  mi  vi  tira,  disputare  nel  seguente  ca- 
pitolo di  quali  confederazioni  altri  si  possa  più  fidare;  o  di 
quelle  fatte  con  una  repubblica ,  o  di  quelle  fatte  con  un 
principe. 

Gap.  LIX.—  Di  quali  confederazioni,  o  lega,  altri  si  può  più 
fidare;  o  di  quella  falla  con  una  rcpublica,  o  di  quella 
falla  con  uno  principe. 


Perchè  ciascuno  di  occorre  che  V  uno  prìncipe  con  l'al- 
tro, o  runa  repubblica  con  l'altra,  fanno  lega  ed  amiciiit 
insieme;  ed  ancora  similmente  si  contrae  confederazione 
ed  accordo  intra  una  repubblica  ed  uno  principe;  mi  pare  di 
esaminare  qual  fede  è  pia  stabile,  e  di  quale  si  debba  te- 
nere più  conto,  0  di  quella  d'una  repubblica,  o  di  quella 
d' uno  principe.  Io,  esaminando  tutto,  credo  che  in  molli  casi 
e'  siano  simili,  ed  in  alcuni  vi  sia  qualche  disformità.  Credo 
per  tanto,  che  gli  accordi  fatti  per  forza  non  ti  saranno  né 
da  un  principe  né  dà  una  repubblica  osservati  ;  credo  che 
quando  la  paura  dello  stalo  venga,  l'uno  e  l'altro,  per  i^on 
lo  perdere,  ti  romperà  la  fede,  e  ti  userà  ingratitudine. 
Demetrio,  quel  che  fu  chiamato  espugnttore  delle  cittadi, 
aveva  fatto  agli  Ateniesi  infiniti  beneficii:  occorse  dipoi,  che 
eeado  rollo  da' suoi  inimici,  e  rifuggendosi  in  Alene^  come 


Libro  primo.  èli 

in  città  amica  ed  a  lui  obbligata,  non  fu  ricevuto  da  quella: 
il  che  gli  dolse  assai  più  che  non  aveva  fatto  la  perdita 
delle  genti  e  dello  esercito  suo.  Pompeio,  rotto  che  fu  daf 
Cesare  in  Tessaglia,  si  rifuggì  in  Egitto  a  Tolomeo,  il  quale 
era  per  lo  addietro  da  lui  slato  rimesso  nel  regno  ;  e  lu  da 
lui  morto.  Le  quali  cose  si  vede  che  ebbero  le  medesime 
cagioni  :  nondimeno  fu  più  umanità  usata  e  meno  ingiuria 
dalla  repubblica,  che  dal  principe.  Dove  è,  pertanto,  la  paura,  \ 
si  troverà  in  fatto  la  medesima  fede.  E  se  si  troverà  o  una  ' 
repubblica  o  uno  principe,  che  per  osservarti  la  fede  aspelli 
di  rovinare,  può  nascere  questo  ancora  da  simili  cagioni. 
E  quanto  al  principe,  può  mollo  bene  occorrere  che  egli  sia 
amico  d'un  principe  potente,  che  se  bene  non  ha  occasione 
allora  di  difenderlo,  ei  può  sperare  che  col  lempo  e' lo  re- 
stituisca nel  principato  suo;  o  veramente  che,  avendolo  se- 
guito come  partigiano,  ei  non  creda  trovare  né  fede  né  ac- 
cordi con  il  nimico  di  quello.  Di  questa  sorte  sono  stati 
quelli  principi  del  reame  di  Najtoli  che  hanno  seguite  le 
parti  franciose.  E  quanto  alle  repubbliche,  fu  di  questa  sorte 
Sagunto  in  Ispagna,  che  aspellò  la  rovina  per  seguire  le 
parli  romane  ;  e  di  questa  Firenze,  per  seguire  nel  1512  le 
parli  franoiose.  E  credo,  computata  ogni  cosa,  che  in  questi 
casi,  dove  è  il  pericolo  urgente,  si  troverà  qualche  stabi- 
lità più  nelle  repubbliche,  che  ne'  principi.  Perchè,  sebbene 
le  repubbliche  avessino  quel  medesimo  animo  e  quella  me- 
desima voglia  che  un  principe,  lo  avere  il  molo  loro  tardo, 
farà  che  le  porranno  *  sempre  più  a  risolversi  che  il  prin- 
cipe, e  per  questo  porranno  più  a  rompere  la  fede  di  lui. 
Romponsi  le  confederazioni  per  lo  utile.  In  questo  le  re- 
pubbliche sono  di  lunga  più  osservanti  degli  accordi,  che  i 
principi.  E  polrebbesi  addurre  essempi  ,  dove  uno  mìnimo 
utile  ha  fallo  rompere  la  fede  ad  uno  principe,  e  dove  una 
grande  utilità  non  ha  fatto  rompere  la  fede  ad  una  repub- 
blica: come  fu  quello  partilo  che  propose  Temistocle  agli  Alc- 
Tiiesi,  a' quali  nella  conciono  disse  che  aveva  uno  consiglio 

*  L*  edizione  di  Roma ,  cosi  qui  come  nella  linea  seguente,  lia  Berranno:  il 
cbe  dìi  indizio  che  1*  Autore  scrivesse  colle  abbreviazioni  iisale  in  quel  tetnpo, 
peneranno,  'pWt^  ^ 


212  DEI  Disconsi 

da  fare  alla  loro  patria  grande  utìlilà;  ma  non  lo  poteva 
dire  per  non  lo  scoprire,  perchè  scoprendolo  si  toglieva  la 

'occasione  del  farlo.  Onde  il  popolo  dì  Alene  elesse  Aristide, 
al  quale  si  comunicasse  la  cosa,  e  secondo  dipoi  che  paresse 
a  lui  se  ne  deliherasse  :  al  quale  Temistocle  mostrò  come 
r  armala  di  tutta  Grecia ,  ancora  che  stesse  sotto  la  fede 
loro,  era  in  lato  che  facilmente  si  poteva  guadagnare  o  di- 
struggere; il  che  faceva  gli  Ateniesi  al  tutto  arbitri  di  quella 
provincia.  Donde  Aristide  riferì  al  popolo,  il  partito  di  Te- 

1  mislocle  esser  utilissimo,  ma  disonestissimo:  per  la  qual 
cosa  il  popolo  al  tutto  lo  ricusò.  Il  che  non  arebhe   fatto  Fi- 

' lippe  Macedone,  e  gli  altri  principi  che  più  utile  hanno 
cerco  e  più  guadagnato  con  il  rompere  la  fede ,  che  con 
veruno  altro  modo.  Quanto  a  rompere  i  patti  per  qualche 
cagione  di  inosservanza ,  di  questo  io  non  parlo  come  di 
cosa  ordinaria  ;  ma  parlo  di  quelli  che  si  rompono  per  ca- 
gioni istraordinarie:  dove  io  credo,  per  le  cose  dette,  che  il 
popolo  facci  minori  errori  che  il  principe,  e  per  questo  si 
possa  fidar  più  di  lui  che  del  principe. 

« 
Gap.  LX.  —  Come  il  comoìalo  e  qualunque  allro  magistrato 
in  Roma  si  dava  senza  rispetto  di  età. 

E'  si  vede  per  T  ordine  della  istoria,  come  la  Repubblica 
romana,  poiché  M  consolato  venne  nella  Plebe,  concesse 
quello  ai  suoi  cittadini  senza  rispetto  di  età  o  di  sangue; 
ancora  che  il  rispetto  della  eia  mai  non  fussc  in  Roma,  ma 
sempre  si  andò  a  trovare  la  virtù,  o  in  giovane  o  in  vecchio 
che  la  fusse.  II  che  si  vede  per  il  testimone  di  Valerio  Corvino, 
che  fu  fatto  Consolo  nelli  ventitré  anni  :  e  Valerio  detto,  par- 
lando ai  suoi  soldati,  disse  come  il  consolalo  eral  prcemium 
virtulis,  non  sangniniìt.  La  qual  cosa  se  fu  Lene  considerala 
o  no,  sarebbe  da  disputare  assai.  É  quanto  al  sangue,  fu 
concesso  questo  per  necessità  :  e  quella  necessità  che  fu  in 
Roma,  sarebbe  in  osni  città  che  volesse  fare  gli  elTiftti  che 
fece  Roma ,  come  allra  volta  si  è  detto:  perchè  e'  non  si  può 
dare  agli  uomini  disagio  senza  premio,  nò  si  può  tórre  la 
speranza  di  conseguire  il  premio  senza  pericolo.  li-però  a 


LIBRO   PRIMO.  21»^ 

buona  ora  convenne  che  la  Plebe  avesse  speranza  di  avere 
il  consolato;  e  di  questa  speranza  si  nutrì  un  tempo  senza 
averlo.  Di  poi  non  bastò  la  speranza,  che  e' convenne  che 
si  venisse  allo  effetto.  Ma  la  città  che  non  adopera  la  sua 
plebe  ad  alcuna  cosa  gloriosa,  la  può  trattare  a  suo  modo, 
come  altrove  si  disputò:  ma  quella  che  vuole  fare  quel  che 
fé  Roma,  non  ha  a  fare  questa  distinzione.  E  dato  che  cosi 
sia,  quella  del  tempo  non  ha  replica;  anzi  è  necessaria: 
perchè  nello  eleggere  uno  giovane  in  uno  grado  che  abbi  bi- 
sogno d'una  prudenza  di  vecchio,  conviene,  avendovelo*  ad 
eleggere  la  moltitudine,  che  a  quel  grado  lo  facci  pervenire 
qualche  sua  nobilissima  azione.  E  quando  un  giovane  è  di 
tanta  virtù ,  che  si  sia  fatto  in  qualche  cosa  notabile  cono- 
scere ;  sarebbe  cosa  dannosissima  che  la  città  non  se  ne 
potesse  valere  allora,  e  che  la  avesse  ad  aspettare  che  fusse 
invecchiato  con  lui  quel  vigore  dell'animo,^  quella  pron- 
tezza, della  quale  in  quella  età  la  patria  sua  si  poteva  va- 
lere: come  si  valse  Roma  di  Valerio  Corvino,  di  Scipione, 
^  di  Pompeio,  e  di  molti  altri  che  trionfarono  giovanissimi. 

*  Così  nella  Romana  ;  nelle  altre  :  avendolo. 

2  Qui  le  moderne  edizioni  suppliscono  e. 

'  E  qui  la  Bladiana  frappone  un  e ,  il  quale  non  leggesi  nella  Testina. 


^14  DEI  DISCORSI 


lilBRO    $iECO\DO. 


Laudano  sempre  gli  aomini,  ma  non  sempre  ragione- 
volmente, gli  antichi  tempi,  egli  presenti  accusano:  ed  in 
modo  sono  delle  cose  passate  partigiani,  che  non  solamente 
celebrano  quelle  eladi  che  di  loro  sono  siate,  per  la  me- 
moria che  ne  hanno  lasciala  gli  acrittori,  conosciute;  ma 
quelle  ancora  che,  aeodo  già  vecchi,  fi  ricordano  nella  loro 
giotaneiia  avere  vedute.  E  quando  quesla  loro  oppinione  sia 
falsa,  come  il  pia  delle  volte  è,  mi  persuado  varie  essere 
le  cagioni  che  a  questo  Inganno  gli  conducono.  E  la  primi 
eredo  aia,  che  delle  cose  antiche  non  s*  intenda  al  tulio  la 
venti  ;  e  che  di  quelle  il  più  delle  volle  si  nasconda  quelle 
cose  ch*e  recherehhono  a  quelli  tempi  infamia;  e  quelle  al- 
tre che  possono  partorire  loro  sloria,  si  rendino  magnifiche 
ed  amplissime.  Però  che  i  più  degli  acrillori  in  modo  alla 
fortuna  de*  vincitori  ubbidi<icono ,  che  per  fare  le  loro  vit- 
torie sloriose,  non  solamente  accrescono  quello  che  da  loro 
è  virtuosamente  operalo,  ma  ancora  le  azioni  de*  nimici  in 
modo  illustrano ,  che  qualunque  nasce  dipoi  in  qualunque 
delle  due  Provincie,  o  nella  vittoriosa  o  nella  vinla,  ha  ca- 
gione di  maravicliarsi  di  quelli  uomini  e  dì  quelli  tempi , 
ed  è  forzato  sommamente  Inudarjili    ed    amargli.   Olirà    di 

r questo,  odiando  gli  uomini  le  cose  o  per  timore  o   per  in- 
Tidia,  vengono  ad  essere  spente  due  potentissime  casioni 
'dell'odio  nelh  cose  passate,  non  ti  polendo  quelle  offendere, 
e  non  ti  dando  cagione  d*  invidiarle.  Ma  al  contrario  inter- 
viene di  quelle  cose  che  si  maneggiano  e  veggono;  le  quali, 
per  la  intera  cognizione  di  esse,  non  ti  essendo  in  alcuna 
I   parte  nascoste,  e  conoscendo  in  quelle  insieme  con  il  bene 
\  molle  altre  cose  che  ti  dispiacciono,  tei  forzato  giudicarle 


LIBRO  SECONDO.  215 

alle  antiche  molto  inferiori,  ancora  che  in  verità  le  presenti 
molto  più  di  quelle  di  gloria  e  di  fama  meritassero:  ragio- 
nando non  delle  cose  pertinenti  alle  arti,  le  quali  hanno 
tanta  chiarezza  in  sé,  che  i  tempi  possono  tórre  o  dar  loro 
poco  più  gloria  che  per  loro  medesime  si  meritino  ;  ma  par- 
lando di  quelle  pertinenti  alla  vita  e  costumi  degli  uomini, 
delle  quali  non  se  ne  veggono  sì  chiari  testimoni.  Replico, 
pertanto,  essere  vera  quella  consuetudine  del  laudare  e  bia- 
simare soprascritta  ;  ma  non  essere  già  sempre  vero  che 
si  erri  nel  farlo.  Perchè  qualche  volta  è  necessario  che  giu- 
dichino la  verità  ;  perchè  essendo  le  cose  umane  sempre 
in  molo,  0  le  salgono,  ò  le  scendono.  E  vedesi  una  città  o 
una  provincia  essere  ordinata  al  vivere  polìtico  *  da  qual- 
che uomo  eccellènte;  ed,  un  tempo,  per  la  virtù  di  quello 
ordinatore,  andare  sempre  in  augumento  verso  il  meglio. 
Chi  nasce  allora  in  tale  stato,  ed  ei  laudi  più  li  antichi 
tempi  che  i  moderni,  s* inganna;  ed  è  causato  il  suo  in- 
ganno da  quelle  cose  che  di  sopra  si  sono  dette.  Ma  coloro 
che  nascono  dipoi,  in  (Quella  città  o  provìncia,  che  gli  è 
venuto  il  tempo  che  la  scende  verso  la  parte  più  rea,*  al- 
lora non  s'ingannano.  E  pensando  io  come  queste  cose  prò-  [ 
cedine,  giudico  il  mondo  sempre  essere  stato  ad  un  mede-  ( 
Simo  modo,  ed  in  quello  esser  stato  tanto  di  buono  quanto  ( 
di  tristo  ;  ma  variare  questo  tristo  e  questo  buono  di  provin-  ^ 
eia  in  provincia  :  come  si  vede  per  quello  si  ha  notizia  di 
quelli  regni  antichi  che  variavano  dall'uno  all'altro  perla 
variazione  de' costumi;  ma  il  mondo  restava  quel  medesimo. 
Solo  vi  era  questa  difTerenza,  che  dove  quello  aveva  prima 
collocata  la  sua  virtù  in  Assiria,  la  collocò  in  Media,  dipoi 
in  Persia,  tanto  che  la  ne  venne  in  Italia  ed  a  Roma:  e  se 
dopo  lo  imperio  romano  non  è  seguito  imperio  che  sia  du- 
ralo, né  dove  il  mondo  abbia  ritenuta  la  sua  virtù  insieme; 
si  vede  nondimeno  essere  sparsa  in  di  molte  nazioni  dove 
si  viveva  virtuosamente;  come  era  il  regno  de' Franchi,  il 
regno  de*  Turchi,  quel  del  Soldano  ;  ed  oggi  i  popoli  della 
Magna;  e  prima  quella  sella  Saracina  che  fece  tante  gran 

*  Così ,  e  cerio  assai  meglio,  nella  Romana.  Nelle  altre  '.pubblico. 
S  Xtà  Bladiaiia  &uIlaulo:  ria. 


216  DEI  DISCORSI 

cose,  ed  occupò  tanto  mondo,  poiché  la  distrusse  lo  imperio 
romano  orientale.  In  tutte  queste  provincie,  adunque,  poiché 
i  Romani  rovinorono,  ed  in  tutte  queste  sètte  è  stata  quella 
virtù,  ed  è  ancora  in  alcuna  parte  di  esse,  che  si  desidera, 
e  che  con  vera  laude  8i  lauda.  E  chi  nasce  in  quelle  ,  e 
lauda  i  tempi  passali  più  che  i  presenti,  si  potrebbe  ingan- 
nare; ma  chi  nasce  in  Italia  ed  in  Grecia,  e  non  sia  dive- 
nuto o  in  Italia  oltramontano  o  in  Grecia  turco,  ha  ragione 
di. biasimare  i  tempi  suoi,  e  laudare  gli  altri:  perchè  in 
iqaeUi  fi  sono  assai  cose  che  gli  fanno  meravigliosi  ;  in 
questi  non  è  cosa  alcuna  che  gli  ricomperi  da  ogni  estrema 
miseria,  infamia  e  vituperio:  dove. non  è  osservanza  di  re- 
^ligione,  non  di  leggi,  non  di  milizia;  ma  sono  maculati 
d'ogni  ragione  bruttura.  K  tanto  sono  questi  vizi  più  dete- 
stabili, quanto  ei  sono  più  in  coloro  che  seggono  prò  tri- 
banali,  comandano  a  ciascuno,  e  vogliono  essere  adorati. 
Ma  tornando  al  ragionamento  nostro,  dico  che  se  il  giudi- 
ciò  degli  uomini  è  corrotto  in  giudicare  quale  sia  migliore , 
o  il  secolo  presente  o  l'antico,  in  quelle  coso  dove  per  l'an- 
tichità ei  non  ha  possuto  avere  perfetta  cognizione  come 
egli  ha  de'  suoi  tempi  ;  non  doverrebbe  corrompersi  ne'  vec- 
chi nel  giudicare  i  tempi  della  gioventù  e  vecchiezza  loro, 
avendo  quelli  e  questi  egualmente  conosciuti  e  visti.  La 
qual  cosa  sarebbe  vera ,  se  gli  uomini  per  tutti  i  tempi 
della  lor  vita  fossero  del  medesimo  giudizio,  ed  avessero 
quelli  medesimi  appetiti:  ma  variando  quelli,  ancora  che  i 
tempi  non  variino,*  non  possono  parere  agli  uomini  quelli 
medesimi,  avendo  altri  appetiti,  altri  diletti,  altre  conside- 
razioni nella  vecchiezza,  che  nella  gioventù.  Perchè,  man- 
cando gli  uomini  quando  li  invecchiano  di  forze  ,  e  cre- 
scendo di  giudizio  e  di  prudenza  ;  è  necessario  che  quelle 
cose  che  in  gioventù  parevano  loro  sopportabili  e  buone,  rie- 
schino  poi  invecchiando  insopportabili  e  cattive  ;  e  dove 
quelli  ne  doverrebbono  accusare  il  giudirio  loro,  ne  accu- 
sano i  tempi.  Sendo,  oltra  di  questo,  gli  appetiti  umani  insa- 
ziabili, perchè  hanno  dalia  natura  di  potere  e  voler  deside* 

4  La  Teslioa  e  il  Poggiali:  variano  j  V  tdiziont  del  1S13  t  varino. 


LIBRO   SECONDO.  217 

rare  ogni  cosa,  e  dalla  fortuna  di  polere  conseguirne  *  poche  ; 
ne  risulta  conlinuanaenle  una  mala  conlentezza  nelle  menti 
umane,  ed  un  fastidio  delle  cose  che  si  posseggono:  il  che 
fa  biasimare  1  presenti  tempi,  laudare  i  passati,  e  desiderare 
i  futuri;  ancora  che  a  fare  questo  non  fussino  mossi  da  alcuna 
ragionevole  cagione.  Non  so,  adunque,  se  io  meriterò  d'es- 
sere numerato  tra  quelli  che  si  ingannano,  se  in  questi  mia 
discorsi  io  lauderò  troppo  1  tempi  degli  antichi  Romani ,  e 
biasimerò  i  nostri.  E  veramente ,  se  la  virtù  che  allora  re- 
gnava, ed  il  vizio  che  ora  regna,  non  fussino  più  chiari  chCj 
il  sole,  andrei  col  parlare  più  rattenulo,  dubitando  non  in- 
correre in  quello  inganno  di  che  io  accuso  alcuni.  Ma  es- 
sendo la  cosa  sì  manifesta  che  ciascuno  la  vede ,  sarò  ani- 
moso in  dire  manifestamente  quello  che  intenderò  di  quelli 
e  di  questi  tempi;  acciocché  gli  animi  de' giovani  che  que- 
sti mia  scritti  leggeranno,  possino  fuggire  questi,  e  prepa- 
rarsi ad  imitar  quegli,  qualunque  volta  la  fortuna  ne  dessi 
loro  occasione.  Perchè  gli  è  offizio  di  uomo  buono,  quel  bene 
che  per  la  malignità  de'  tempi  e  della  fortuna  tu  non  hai 
potuto  operare,  insegnarlo  ad  altri,  acciocché  sendone  molti 
capaci,  alcuno  di  quelli,  più  amalo  dal  Cielo,  possa  operarlo. 
Ed  avendo  ne*  discorsi  del  superior  libro  parlato  delle  deli- 
berazioni fatte  da'  Romani  pertinenti  al  di  dentro  della  città, 
in  questo  parleremo  di  quelle,  che  '1  Popolo  romano  fece 
pertinenti  allo  augumenlo  dello  imperio  suo. 

Cap;  I. —  Quale  fa  più  cagione  dello  imperio  che  acquislorono 
i  Romani,  o  la  virlù,  o  la  fortuna. 

Molti  hanno  avuta  oppinione,  intra  ì  quali  é  Plutarco, 
gravissimo  scrittore,  che  'l  Popolo  romano  nello  acquistare 
lo  imperio  fusse  più  favorito  dalla  fortuna  che  dalla  virlù. 
Ed  intra  le  altre  ragioni  che  ne  adduce,  dice  che  per  confes- 
sione di  quel  popolo  si  dimostra,  quello  avere  riconosciute 
dalla  fortuna  tulle  le  sue  vittorie,  avendo  quello  edificati 
più  templi  alla  Fortuna,  che  ad  alcun  altro  Dio.  E  pare  che 
a  questa  oppinione  si  accosti  Livio;  perchè  rade  volle  é  che 

*  JNon  bene ,  ne  senza  ({ualcbc  abbaglio ,  la  Romana  :  conseguitare. 

19 


2i8  »EI    DISCORSI 

facci  pc^rlare  ad  alcuno  Romano ,  dove  ci  racconli  della 
virtù,  che  non  vi  aggiunga  la  fortuna.  La  qual  cosa  io  non 
voglio  confessare  in  alcun  modo,  né  credo  ancora  si  possa 
sostenere.  Perchè,  se  non  si  è  trovato  mai  repubblica  che 
abbi  falli  i  progressi  che  Roma,  è  nato  che  *  non  sì  è  trovala 
mai  repubblica  che  sia  stata  ordinala  a  potere  acquistare 
come  Roma.  Perchè  la  virtù  degli  eserciti  gli  feciono  acqui- 
stare lo  imperio;  e  l'ordine  del  procedere,  ed  il  modo  suo 
proprio,  e  trovalo  dal  suo  primo  legislatore,  gli  fece  man- 
tenere lo  acquistalo:  come  di  sotto  largamente  in  più  discorsi 
si  narrerà.  Dicono  costoro,  che  non  avere  mai  accozzale  due 
potentissime  guerre  in  uno  medesimo  tempo,  fu  fortuna  e 
non  virtù  del  Popolo  romano  ;  perchè  e'  non  ebbero  guerra 
con  i  Latini,  se  non  quando  egli  ebbero  non  tanto  battuti 
i  Sanniti,  quanto  che  la  guerra  fu  da'  Romani  falla  in  difon- 
sionc  di  quelli;  non  combatterono  con  i  Toscani,  se  prima 
non  ebbero  soggiogali  i  Latini ,  ed  enervati  con  le  spesse 
rotte  quasi  in  tutto  i  Sanniti  :  che  se  due  di  queste  potente 
Intere  si  fussero,  quando  erano  fresche,  accozzale  insieme, 
senza  dubbio  si  può  facilmente  conìetturare  che  ne  sarebbe 
seguito  la  rovina  della  romana  Repubblica.  Ma ,  coraunchc 
questa  cosa  nascesse,  mai  non  intervenne  che  eglino  avessino 
due  potentissime  guerre  in  un  medesimo  tempo:  anzi  parve 
sempre,  o  nel  nascere  dell'una,  l'altra  si  spes^nesse;  o  nel 
spegnersi  dell'una,  l'altra  nascesse.  Il  che  si  può  facilmente 
federe  per  l'ordine  delle  guerre  falle  da  loro:  perchè,  la- 
sciando stare  quelle  che  feciono  prima  che  Roma  fusse  presa 
dai  Franciosi,  si  vede  che  mentre  che  combnllerno  con  gli 
Equi  e  con  i  Volsci,  mai,  mentre  questi  popoli  furono  po- 
tenti, non  si  levarono  conlra  di  loro  altre  genli.  Dorai  costoro, 
nacaue  la  guerra  conlra  ai  Sanniti;  e  benché  innanzi  che 
finisse  tal  guerra,  i  popoli  Ialini  si  ribellassero  da'Komani; 
nondimeno  quando  tale  ribellione  segui,  i  Sanniti  erano  in 
lega  con  Roma,  e  con  il  loro  esercito  aiulorono  i  Romani 
domare  la  insolenza  Ialina.  I  quali  domi,  risurse  la  guerra 
di  Sannio.   Battute   per  molle  rotte  date  a'  Sanniti  le  loro 

*  È  nato  perchè,  o,  da  ciò  che.  Gli  editori    della  Testina,    e    il  Pog- 
giali ,  che  non  intesero  questo  passo ,  emendarono  :  r  nolo. 


LIBRO   SECONDO.  219 

forze,  nacque  la  guerra  de*  Toscani  ;  la  qua!  coraposla,  si 
rilevarono  di  nuovo  i  Sanniti  per  la  passala  di  Pirro  in  Ita- 
lia. 11  quale  come  fu  ribattuto,  e  rimandato  in  Grecia,  ap- 
piccarono la  prima  guerra  con  1  Cartaginesi:  né  prima  fu 
tal  guerra  finita,  che  tutti  i  Franciosi,  e  di  là  e  di  qua  dal- 
l'Alpi, congiurarono  contra  ai  Uomani;  tanto  che  intra  Popo- 
lonia  e  Pisa,  dove  è  oggi  la  torre  a  San  Vincenti,  furono  con 
massima  strage  superati.  Finita  questa  guerra,  per  ispazio 
di  venti  anni  ebbero  guerra  di  non  molta  importanza  ;  per- 
ché non  combatterono  con  altri  che  con  i  Liguri,  e  con  quel 
rimanente  de'  Franciosi  che  era  in  Lombardia.  E  cosi  stet- 
tero tanto  che  nacque  la  seconda  guerra  cartaginese,  la 
qual  per  sedici  anni  tenne  occupata  Italia.  Finita  questa 
con  massima  gloria,  nacque  la  guerra  macedonica;  la  quale 
fini!a,  venne  quella  d'Antioco  e  d'Asia.  Dopo  la  qual  vitto- 
ria, non  res  <>  in  tutto  il  mondo  né  principe  né  repubblica 
che,  di  per  sé,  o  tutti  insieme,  si  potessero  opporre  alle 
forze  romane.  Ma  innanzi  a  quella  ultima  vittoria,  chi  con- 
siderrà  l'ordina  di  queste  guerre,  ed  il  modo  del  proce- 
dere loro,  vedrà  dentro  mescolate  con  la  fortuna  una  virtù 
e  prudenza  grandissima.  Talché,  chi  esaminasse  la  cagione 
di  tale  fortuna,  la  ritroverebbe  facilmente:  perchè  gli  è  cosa 
certissima,  che  come  un  principe  e  un  popolo  viene  in  tanta 
riputazione,  che  ciascuno  principe  e  popolo  vicino  abbia  di 
per  sé  paura  ad  assaltarlo,  e  ne  tema,  sempre  interverrà 
che  ciascuno  di  essi  mai  lo  assalterà,  se  non  necessitato; 
in  modo  che  e' sarà  quasi  come  nella  elezione  di  quel  po- 
lente, far  guerra  con  quale  di  quelli  suoi  vicini  gli  parrà,  e 
gli  altri  con  la  sua  industria  quietare.  I  quali,  parte  rispetto 
alla  potenza  sua,  parte  ingannati  da  quei  modi  che  egli  terrà 
per  addormentargli,  si  quietano  facilmente;  e  gli  altri  potenti 
che  sono  discosto,  e  che  non  hanno  commerzio  seco,  curano 
la  cosa  come  cosa  longinqua,  e  che  non  appartenga  loro.  Nel 
quale  errore  stanno  tanto  che  questo  incendio  venga  loro 
presso:  il  quale  venuto,  non  hanno  rimedio  a  spegnerlo  se 
non  con  le  forze  proprie  ;  le  quali  dipoi  non  bastano,  sendo 
colui  diventalo  potentissimo.  Io  voglio  lasciare  andare,  come 
i  Sanniti  stellerò  a  vedere  vincere  dal  Popolo  romano  i  Yolsci 


f*- 


"220  DEI    DISCORSI. 

e  gli  Equi;  e  per  non  essere  troppo  prolisso,  mi  farò  da' Car- 
taginesi: ì  qiali  erano  di  gran  potenza  e  dì  grande  estima- 
zione qaando  i  Romani  combattevano  con  i  Sanniti  e  con  i 
Toscani  ;  perchè  di  già  tenevano  tutta  V  Affrica,  tenevano  la 
Sardigna  e  la  Sicilia,  avevano  dominio  in  parte  della  Spa- 
gna. La  quale  potenza  loro,  insieme  con  V  esser  discosto  ne' 
conGni  dal  Popolo  romano,  fece  che  non  pensarono  mai 
di  assaltare  quello,  né  di  soccorrere  ì  Sanniti  e  Toscani: 
anzi  fecero  come  si  fa  nelle  cose  che  crescono,  più  tosto  in 
lor  favore  collegandosi  con  quelli,  e  cercando  l'amicizia  lo- 
ro. Né  si  avviddono  prima  dell'errore  fatto,  che  i  Romani, 
domi  tutti  i  popoli  mezzi  infra  loro  ed  i  Cartaginesi,  comincia- 
rono a  combattere  insieme  dello  imperio  di  Sicilia  e  di  Spa- 
gna- Intervenne  questo  medesimo  a*  Franciosi  che  a' Carta- 
ginesi, e  cosi  a  Filippo  re  de* Macedoni,  '  e  ad  Antioco;  e 
ciascuno  di  loro  credea,  mentre  che  il  Popolo  romano  era 
occupato  con  l' altro,  che  queir  altro  lo  superasse,  ed  essere 
a  tempo,  o  con  pace  o  con  guerra,  difendersi  da  lui.  In  modo 
che  io  credo  che  la  fortuna  che  ebbono  in  questa  parte  i  Ro- 
mani, r  arcbbono  tutti  quelli  principi  che  procedessero  comò 
i  Romani,  e  fusscro  di  quella  medesima  virtù  che  loro.  Sa* 
rebbcci  da  mostrare  a  questo  proposito  il  modo  tenuto  dal 
Popolo  romano  nello  entrare  nelle  provincie  d'altri,  se  nel 
nostro  trattato  de*  principati  non  ne  avessimo  parlato  a  lungo; 
perché  in  quello  questa  materia  è  ditTusamcnte  dispulala.  Dirò 
80I0  questo  brevemente,  come  sempre  s'ingegnarono  avere 
nelle  provincie  nuove  qualche  amico  che  fosse  scala  o  porla  a 
salirvi  ©entrarvi,  0  mezzo  a  tenerla  :  comò  si  vede  che  per 
il  mezzo  de*Capovani  entrarono  in  Sannio,  de'Camertini  in 
Toscana,  de'Mamertini  in  Sicilia,  de*Saguntini  in  Spagna, 
di  Massinissa  in  Affrica,  degli  Etoli  in  Grecia  ,  di  Eumene 
ed  altri  principi  in  Asia,  de'Massiliensi  e  dclli  Edui  in 
Francia.  E  cosi  non  mancarono  mai  di  simili  appoggi,  per 
potere  facilitare  le  imprese  loro,  e  nello  acquislare  le  pro- 
vincie e  nel  tenerle.  Il  che  quelli  popoli  che  osserveranno , 
vedranno  avere  meno  bisogno  della  fortuna,  che  quelli  che 
ne  saranno  non  buoni  osservatori.  E  perché  ciascuno  possa 

<  La  Testina  e  il  Poggiati ,  di  Macedonia. 


LIBRO  SECONDO.  221 

meglio  conoscere,  quanto  polè*  più  la  virlù  che  la  fortuna 
loro  ad  acquistare  quello  imperio  ;  noi  discorreremo  nel  se- 
guente capitolo  di  che  qualità  furono  quelli  popoli  con  i  quali 
egli  ebbero  a  combattere,  e  quanto  erano  ostinati  a  difendere 
la  loro  libertà. 

Cap.  II.  —  Con  quali  popoli  i  Romani  ebbero  a  combàUerCj 
e  come  oslinalamente  quelli  difendevano  la  loro  libertà. 

Nessuna  cosa  fece  più  faticoso  a' Romani  superare  i  popoli 
d'intorno,  e  parte  delle  provincie  discosto,  quanto  lo  amore 
che  in  quelli  tempi  molli  popoli  avevano  alla  libertà  ;  la 
quale  tanto  ostinatamente  difendevano,  che  mai  se  non  da 
una  eccessiva  virtù  sarebbono  stati  soggiogati.  Perchè,  per 
molti  essempi  si  conosce  a  quali  pericoli  si  mei  lessino  per 
mantenere  o  ricuperare  quella  ;  quali  vendette  e'  facessino 
contra  a  coloro  che  Tavessino  loro  occupata.  Conoscesi  an- 
cora nelle  lezioni  delle  istorie,  quali  danni  i  popoli  e  le  citlà^ 
ricevine  per  la  servitù.  E  dove  in  questi  tempi  ci  è  solo  una 
provincia  la  quale  si  possa  dire  che  abbia  in  sé  città  libere, 
ne'  tempi  antichi  in  tutte  le  provincie  erano  assai  popoli  libe- 
rissimi. Vedesi  come  in  quelli  tempi  de*  quali  noi  parliamo  al 
presente,  in  Italia,  dall'Alpi  che  dividono  ora  la  Toscana  dalla 
Lombardia,  insinoalla  punta  d' Italia,  erano  molti  popoli  li- 
beri ;  com'erano  i  Toscani,  i  Romani,  i  Sanniti,  e  molti  al- 
tri popoli  che  in  quel  resto  d' Italia  abitavano.  Né  si  ragiona 
mai  che  vi  fusse  alcuno  re,  fuora  di  quelli  che  regnarono  in 
Roma,  e  Porsena  re  di  Toscana  ;  la  stirpe  del  quale  come  si 
estinguesse,  non  ne  parla  la  istoria.  Ma  si  vede  bene,  come  in 
quelli  tempi  che  i  Romani  andarono  a  campo  a  Velo,  la  To- 
scana era  libera:  e  tanto  si  godea  della  sua  libertà,  e  tanto 
odiava  il  nome  del  principe,  che  avendo  fatto  i  Veienti  per 
loro  difensione  un  re  in  Veio,  e  domandando  aiuto  a*  Toscani 
contra  ai  Romani;  quelli,  dopo  molle  consulte  fatte,  delibera- 
rono di  non  dare  aiuto  a' Veienti,  infino  a  tanto  che  vives- 
sino  sotto  *1  re  ;  giudicando  non  esser  bene  difendere  la  pa- 

•  Nella  Romana  e  nella  Testina:  possa,  F or sechh   l'Autore  avea  srritlo 
possi. 

i9* 


222  DEI    DISCORSI 

tria  di  coloro  che  l'avevano  di  già  soUomessa  ad  altrui.  E 
facii  cosa  è  conoscere  donde  nasca  ne*  popoli  questa  alTozione 
del  vivere  libero;  perchè  si  vede  per  esperienza,  le  cittadi 
non  avere  mai  amplialo  né  di  domìnio  né  di  ricchezza,  se 
non  mentre  son  state  in  libertà.  E  veramente  meravigliosa 
cosa  è  a  considerare,  a  qunnta  grandezza  venne  Atene  per 
ispazio  di  cento  anni,  poiché  la  si  liberò  dalla  tirannide  di 
Pisislralo.  Ma  sopra  tutto  meravigliosissima  cosa  é  a  consi- 
derare, a  quanta  grandezza  venne  Roma,  poiché  la  si  liberò 
da' suoi  Re.  La  cagione  è  facile  ad  intendere;  perché  non  il 
bene  particolare,  ma  il  bene  comune  è  quello  che  fa  grandi 
le  città.  E  senza  dubbio,  questo  bene  comune  non  é  osser- 
vato se  non  nelle  repubbliche;  perché  lutto  quello  che  fa  a 
proposito  suo,  si  eseguisce;  e  quantunque  e' torni  in  danno 
di  questo  o  dì  quello  privato,  e'  sono  tanti  quelli  per  chi  detto 
bene  fa,  che  lo  possono  tirare  innanzi  centra  alla  disposi- 
zione di  quelli  pochi  che  ne  fussino  oppressi.  Al  contrario 
interviene  quando  vi  è  uno  principe  ;  dove  il  più  delle  volte 
rqaello  che  fa  per  lui,  offende  la  città  ;  e  quello  che  fa  per  la 
città,  otfende  lui.  Dimodoché,  subito  che  nasce  una  tirannide 
sopra  un  viver  libero,  il  manco  male  che  ne  resulti  a  quelle 
città,  è  non  andare  più  innanzi,  né  crescere  più  in  potenza 
0  in  ricchezze;  ma  il  più  delle  volte,  anzi  sempre,  interviene 
loro,  che  le  tornano  indietro.  E  se  la  sorte  facesse  che  vi 
surgesse  un  tiranno  virtuoso,  il  quale  per  animo  e  per  virtù 
d'arme  ampliasse  il  dominio  suo,  non  ne  risulterebbe  alcuna 
utilità  a  quella  repubblica,  ma  a  lui  proprio:  perché  e' non 
può  onorare  nessuno  di  quelli  cittadini  che  siano  valenti  e 
buoni,  che  egli  tiranneggia,  non  volendo  avere  ad  avere  so- 
spetto di  loro.  Non  può  ancora  le  città  che  egli  acquista,  sot- 
tometterle 0  farle  tributarie  a  quella  città  di  che  egli  è  ti- 
.  ranno  :  perché  il  farla  potente  non  fa  per  lui  ;  ma  per  lui  fa 
jtenere  lo  stato  disgiunto,  e  che  ciascuna  terra  e  ciascuna 
[provincia  riconosca  lui.  Talché  di  suoi  acquisti,  solo  egli  ne 
proGtla,  e  non  la  sua  patria.  E  chi  volesse  confermare  quesla 
oppinione  con  infinite  allre  ragioni,  legga  Senofonte  nel  suo 
trattato  che  fa  De  Tirannide.  Non  é  meraviglia  adunque,  che 
gli  antichi  popoli  con  tanto  odio  perscguitassino  1  tiranni,  ed 


LIBUO   SECONDO.  2f>3 

amassino  il  vivere  libero,  e  che  il  nome  delia  libertà  fusse 
tanto  slimato  da  loro  :  come  intervenne  quando  Girolamo  ni- 
pote di  lerone  siracusano  fu  morto  in  Siracusa,  che  venendo 
le  novelle  della  sua  morte  in  nel  suo  esercito,  che  non  era 
molto  lontano  da  Siracusa,  cominciò  prima  a  tumultuare,  e 
pigliare  l'armi  contra  agli  ucciditori  di  quello;  ma  come  ei 
senti  che  in  Siracusa  si  gridava  libertà,  allettato  da  quel 
nome,  si  quietò  tutto,  pose  giù  l'ira  contra  a' tirannicidi,! 
e  pensò  come  in  quella  città  si  potesse  ordinare  un  viver  li-' 
bero.  Non  è  meraviglia  ancora,  che  i  popoli  faccino  vendette 
ìstraordinarie  centra  a  quelli  che  gli  hanno  occupata  la  li- 
bertà. Di  che  ci  sono  stati  assai  esempi,  de*  quali  ne  intendo 
referire  solo  uno,  seguito  in  Corcira,  città  di  Grecia,  ne'  tempi 
della  guerra  peloponnesiaca  ;  dove  sendo  divisa  quella  pro- 
vincia in  due  fazioni,  delle  quali  l'una  seguitava  gli  Ateniesi, 
r  altra  gli  Spartani,  ne  nasceva  che  di  molte  città,  che  erano 
infra  loro  divise,  l'una  parte  seguiva  l'amicizia  di  Sparta, 
r  altra  di  Atene  :  ed  essendo  occorso  che  nella  delta  città  pre- 
yalessino  i  nobili,  e  togliessino  la  libertà  al  popolo,  ì  popolari 
per  mezzo  degli  Ateniesi  ripresero  le  forze,  e  posto  le  mani 
addosso  a  tutta  la  nobiltà,  gli  rinchiusero  in  una  prigione 
capace  di  tutti  loro  ;  donde  gli  traevano  ad  otto  o  dieci  per 
volta,  sotto  titolo  di  mandargli  in  esilio  in  diverse  parti,  e 
quelli  con  molti  crudeli  essempi  facevano  morire.  Di  che  sen- 
dosi  quelli  che  restavano  accorti,  deliberarono,  in  quanto  era 
a  loro  possibile,  fuggire  quella  morte  ignominiosa;  ed  arma» 
tisi  di  quello  potevano,  combattendo  con  quelli  vi  volevano 
entrare,  la  entrata  della  prigione  difendevano  :  di  modo  che 
il  popolo,  a  questo  remore  fatto  concorso,  scoperse  la  parie 
superiore  di  quel  luogo,  e  quelli  con  quelle  rovine  suffocor- 
no.  Seguirono  ancora  in  detta  provincia  molti  altri  simili 
casi  orrendi  e  notabili;  talché  si  vede  esser  vero,  che  con 
maggioro  impeto  si  vendica  una  libertà  che  ti  è  suta  tolta, 
che  quella  che  ti  è  voluta  tórre.  Pensando  dunque  donde 
possa  nascere,  che  in  quelli  tempi  antichi,  i  popoli  fussero 
più  amatori  della  libertà  che  in  questi;  credo  nasca  da  quella 
medesima  cagione  che  fa  ora  gli  uomini  manco  forti:  la  quale 
credo  sia  la  diversità  della  educazione  nostra  dalla  antica, 


^224  DEI  Disconsi 

fondata  nella  divcrsilà  della  religione  nostra  dalla  antica. 
Perchè  avendoci  la  nostra  religione  mostra  la  verità  e  la  vera 
via,  ci  fa  slimare  meno  l'onore  del  mondo:  onde  i  gentili 
slimandolo  assai,  ed  avendo  posto  in  quello  il  sommo  bene, 
erano  nelle  azioni  loro  più  feroci.  Il  che  si  può  considerare 
da  molle  loro  constituzioni,  cominciandosi  dalia  magnificenza 
de'sacrifìcii  loro,  alla  umilila  de' nostri;  dove  è  qualche  pompa 
più  dilicata  che  magnifica,  ma  nessuna  azione  feroce  o  ga- 
gliarda. Quivi  *  non  mancava  la  pompa  né  la  magnificenza 
delle  cerimonie,  ma  vi  si  aggiungeva  l'azione  del  sacrifìcio 
pieno  di  sangue  e  di  ferocia,  ammazzandovisi  moltitudine 
di  animali  :  il  quale  aspetto  sendo  terribile,  rendeva  gli  uo- 
mini simili  a  lui.  La  religione  antica,  oltre  di  questo,  non 
beatificava  se  non  gli  uomini  pieni  di  mondana  gloria  ;  come 
erano  capitani  di  eserciti,  e  principi  di  repubbliche.  La  no- 
stra religione  ha  glorificalo  più  gli  uomini  umili  e  contem- 
plativi, che  gli  attivi.  Ha  dipoi  posto  il  sommo  bene  nella 
umilila,  abiezione,  nello  dispregio  delle  cose  umane:  quell'al- 
tra lo  poneva  nella  grandezza  dello  animo,  nella  fortezza  del 
corpo,  ed  in  tulle  le  altre  cose  atte  a  fare  gli  uomini  forlissi- 
r  mi.  E  se  la  religione  nostra  richiede  che  abbi  in  le  fortezza, 
jxuole  che  tu  sia  atto  a  patire  più  che  a  fare  una  cosa  forte. 
(Questo  modo  di  vivere,  adunque,  pare  che  abbi  renduto  il 
mondo  debole,  e  datolo  in  preda  agli  uomini  scellerati;  i 
quali  sicuramente  lo  possono  maneggiare,  veggendo  come 
la  università 'degli  uomini,  per  andare  in  paradiso,  pensa  più 
a  sopportare  le  sue  battiture,  che  a  vendicarle.  E  benché  paia 
che  si  sia  eCeminalo  il  mondo,  e  disarmalo  il  Cielo,  nasce 
più  senza  dubbio  dalla  viltà  degli  uomini,  che  hanno  intcr- 
^  prelato  la  nostra  religione  secondo  l'ozio,  e  non  secondo  la 
)virtù.  Perchè,  se  considerassino  come  la  permette  la  esalta- 
zione e  la  difesa  della  patria,  vedrebbono  come  la  vuole  che 
noi  r  amiamo  ed  onoriamo,  e  prepariamoci  ad  esser  tali  che 
noi  la  possiamo  difendere.  Fanno  adunque  queste  educazioni, 
e  sì  false  interpretazioni,  che  nel  mondo  non  si  vede  tante 
repubbliche  quante  si  vedeva  anticamente  ;  né,  per  conse- 

♦  La  Romana:  Qui. 

'  Cosi  nella  Bladiana    In  lullc  le  altre:  universalità.  > 


LIBUO   SECONDO.  225 

guenle,  si  vede  ne' popoli  tanlo  amore  alla  libertà  quanto  allo- 
ra: ancora  che  io  creda  piuUoslo  essere  cagione  di  questo,  che 
Io  imperio  romano  con  le  sue  arme  e  sua  grandezza  spense 
tutte  le  repubbliche  e  tutti  i  viveri  civili.  E  benché  poi  tal  im- 
perio si  sia  risoluto,  non  si  sono  potute  le  città  ancora  rimet- 
tere insieme  né  riordinare  alla  vita  civile,  se  non  in  pochissimi 
luoghi  di  quello  imperio.  Pure,  comunche  si  fusse,  i  Romani 
in  ogni  minima  parte  del  mondo  trovarono  una  congiura  di 
repubbliche  armatissime,  ed  ostinatissime  alla  difesa  della 
libertà  loro.TTche  mostra  che  '1  Popolo  romano  senza  una 
rara  ed  estrema  virtù  mai  non  le  arebbe  potute  superare.  E 
per  darne  essempio  di  qualche  membro,  voglio  mi  bastilo  es- 
serapio  de'  Sanniti:  i  quali  pare  cosa  mirabile,  e  Tito  Livio*  lo 
confessa,  che  fussero  si  polenti,  e  l'arme  loro  si  valide,  che 
potessero  infino  al  tempo  di  Papirio  Cursore  consolo,  figliuolo 
del  primo  Papirio,  resistere  a' Romani  (che  fu  uno  spazio  di 
XLVI  anni),  dopo  tante  rotte,  rovine  di  terre,  e  tante  stragi 
ricevute  nel  paese  loro;  massime  veduto  ora  quel  paese  dove 
erano  tante  cittadi  e  tanti  uomini,  esser  quasi  che  disabitato; 
ed  allora  vi  era  tanto  ordine  e  tanta  forza,  ch'egli  era  insu- 
perabile, se  da  una  virtù  romana  non  fusse  stato  assaltato. 
E  facil  cosa  è  considerare  donde  nasceva  quello  ordine,  e 
donde  proceda  questo  disordine;  perché  tutta  viene  dal  viver 
libero  allora,  ed  ora  dal  viver  servo.  Perchè  tutte  le  terre  e  le 
Provincie  che  vivono  libere  in  ogni  parte,  come  di  sopra  dis- 
si, fanno  i  progressi  grandissimi.  Perchè  quivi  si  vede  mag- 
giori popoli,  per  essere  i  matrimoni  più  liberi,  e  più  deside- 
rabili dagli  uomini:  perchè  ciascuno  procrea  volentieri  quelli 
figliuoli  che  crede  potere  nutrire,  non  dubitando  che  il  pa- 
trimonio gli  sia  tolto;  che  e' conosce  non  solamente  che  na- 
scono liberi  e  non  schiavi,  ma  che  possono  mediante  la  virtù 
loro  diventare  principi.  Veggonvisi  le  ricchezze  multiplicare 
in  maggiore  numero,  e  quelle  che  vengono  dalla  cultura 
quelle  che  vengono  dalle  arti.  Perchè  ciascuno  volentieri 
multiplica  in  quella  cosa,  e  cerca  di  acquistare  quei  beni. 


are   ( 


*  Slr;ma  aller.izione  vctlcsi  qui  nella  Testina,  e  nell'edizione  del  Pog- 
giali, che  legjjono:  l'  essempio  de'  Sanniti ,  il  quale  pare  cosa  mirabile.  E 
2' ilo  Livio  ce. 


226  Dtl   DISCORSI  ^ 

che  crede  acquislalì  potersi  godere.  Onde  ne  nasce  che  gli 
uomini  a  gara  pensano  ai  privati  ed  a' pubblici  comodi;  e  Tuno 
e  r  altro  viene  meravigliosamente  a  crescere.  Il  contrario  di 
tutte  queste  cose  segue  in  quelli  paesi  che  vivono  servi  ;  e 
tanto  più  mancano  del  consueto  bene,  quanto  è  più  dura  In 
servitù.  E  di  tutte  le  servitù  dure,  quella  è  durissima  che  ti 
sottomette  ad  una  repubblica:  Tuna,  perchè  la  è  più  durabile, 
e  manco  si  può  sperare  d'uscirne;  '  l'altra,  perchè  il  fìne  della 
'  repubblica  è  enervare  ed  indebolire,  per  accrescere  il  Corpo 
suo,  tutti  gli  altri  corpi.  11  che  non  fa  un  principe  che  ti 
sottometta,  quando  quel  principe  non  sia  qualche  principe 
barbaro,  destrutlore  de*  paesi,  e  dissipatore  di  tutte  le  civiltà 
degli  uomini,  come  sono  i  principi  orientali.  Ma  s'egli  ha  in 
sé  ordini  umani  ed  ordinari,  il  più  delle  volte  ama  le  città  sue 
soggette  egualmente,  ed  a  loro  lascia  l'arti  tutte,  e  quasi 
lutti  gli  ordini  antichi.  Talché,  se  le  non  possono  crescerò 
come  libere,  elle  non  rovinano  anche  come  serve  ;  intenden* 
dosi  della  servitù  in  quale  vengono  le  città  servendo  ad  un 
forestiero,  perchè  di  quella  d'uno  loro  cittadino  ne  parlai  di 
sopra.  Chi  considerrà,  adunque,  tutto  quello  che  si  è  detto, 
non  si  meraviglierà  della  potenza  che  i  Sanniti  avevano 
sendo  liberi,  e  della  debolezza  in  che  e'  vennero  poi  ser- 
vendo: e  Tito  Livio  ne  fa  fede  in  più  luoghi,  e  massime  nella 
guerra  d'Annibale,  dove  ei  mostra  che  essendo  i  Sanniti 
oppressi  da  una  legione  d'uomini  che  era  in  Nola,  mando- 
rono  oratori  ad  Annibale,  a  predarlo  che  gli  soccorresse;  i 
quali  nel  parlar  loro  dissono,  che  avevano  per  cento  anni 
combattuto  con  i  Romani  con  i  propri  loro  soldati  e  propri 
loro  capitani,  e  molte  volte  avevano  sostenuto  duoi  eserciti 
consolari  e  duoi  consoli;  e  che  allora  a  tanta  bassezza  erano 
venuti,  che  non  '  si  potevano  a  pena  difendere  da  una  piccola 
legione  romana  che  era  in  Nola. 

*  La  Romana  soltanto  :  sperarne  d' tiscire. 

'  Dal  Biado  in  fuori ,  gli  editori  sopprimono  non. 


LIDRO   SECONDO.  227 

Gap.  in.  —  Roma  divenne  grande  cillà  rovinando  le  cillà  cir- 
convicine, e  ricevendo  i  foreslieri  facilmenle  a*  suoi  onori. 

Crescil  inlerea  Roma  Alba:  ruinis.  Quelli  che  disegnano 
che  una  città  faccia  grande  imperio,  si  debbono  con  ogni  in- 
dustria ingegnare  di  farla  piena  di  abitatori  ;  perchè  senza 
questa  abbondanza  di  uomini,  mai  non  riuscirà  di  fare  grande 
una  città.  Questo  si  fa  in  duoi  modi;  per  amore,  e  per  forza. 
Per  amore,  tenendole  vie  aperte  e  secure  a' forestieri  che  di- 
segnassero venire  ad  abitare  in  quella,  acciocché  ciascuno 
vi  abiti  volentieri:  per  forza,  disfacendo  le  città  vicine,  e 
mandando  gli  abitatori  di  quelle  ad  abitare  nella  tua  città. 
Il  che  fu  tanto  osservato  in  Roma,  che  nel  tempo  del  sesto 
Re  in  Roma  abitavano  ottantamila  uomini  da  portare  armi. 
Perchè  i  Romani  voUono  fare  ad  uso  del  buono  cultivatore;  il  \ 
quale,  perchè  una  pianta  ingrossi,  e  possa  produrre  e  mata-  j 
rare  i  frutti  suoi,  gli  taglia  i  primi  rami  che  la  mette,  ac-  | 
ciocché,  rimasa  quella  virtù  nel  piede  di  quella  pianta,  possino 
col  tempo  nascervi  più  verdi  e  più  fruttiferi.  E  che  questo 
modo  tenuto  per  ampliare  e  fare  imperio,  fosse  necessario  e 
buono,  lo  dimostra  lo  essempio  di  Sparla  e  di  Atene:  le  quali 
essendo  due  repubbliche  armalissime,  ed  ordinale  di  ottimo 
leggi,  nondimeno  non  si  condussono  alla  grandezza  dello  im- 
perio romano;  e  Roma  pareva  più  tumultuaria,  e  non  tanto 
bene  ordinata  quanto  quelle.  Di  che  non  se  ne  può  addurre 
altra  cagione,  che  la  preallegala:  perchè  Roma,  per  avere 
ingrossato  per  quelle  due  vie  il  corpo  della  sua  città,  potette 
di  già  mettere  in  arme  dugentottantamila  uomini  ;  e  Sparla 
ed  Atene  non  passarono  mai  ventimila  per  ciascuna.  II  che 
nacque,  non  da  essere  il  sito  di  Roma  più  benigno  che  quello 
di  coloro,  ma  solamente  da  diverso  modo  di  procedere.  Per- 
chè Licurgo,  fondatore  della  repubblica  spartana,  conside- 
rando nessuna  cosa  potere  più  facilmente  risolvere  le  sue 
leggi  che  la  commistione  di  nuovi  abitatori,  fece  ogni  cosa 
perchè  i  forestieri  non  avessino  a  conversarvi  :  ed ,  oltre  al  non 
gli  ricevere  ne' matrimoni,  alla  civiltà,  ed  alle  altre  conver- 
sazioni che  fanno  convenire  gli  uomini  insieme,  ordinò  che 


238  DEI    DISCORSI 

in  quella  sua  repubblica  si  spendesse  raoncle  di  cuoio,  per 
lòr  via  a  ciascuno  il  desiderio  di  venirvi  per  portarvi  mer- 
canzie, o  portarvi  alcuna  arie;  di  qualilà  che  quella  cillà  non 
potette  mai  ingrossare  di  abitatori.  E  perchè  tutte  le  azioni  no- 
stre imitano  la  natura,  non  è  possibile  né  naturale  che  uno 
pedale  sottile  sostenga  un  ramo  grosso.  Però  una  repubblica 
piccola  non  può  occupare  città  né  regni  che  siano  più  validi 
né  più  grossi  di  lei;  e  se  pure  gli  occupa,  gì'  interviene  come 
a  quello  albero  che  avesse  più  grosso  il  ramo  che  'I  piede , 
che  sostenendolo  con  fatica,  ogni  piccolo  vento  lo  fiacca:  come 
si  vede  che  intervenne  a  Sparta,  la  quale  avendo  occupate 
lulte  le  città  di  Grecia,  non  prima  se  gli  ribellò  Tebe,  che 
tutte  l'altre  cittadi  se  gli  ribellarono,  e  rimase  il  pedale  solo 
senza  rami.  Il  che  non  potette  intervenire  a  Roma,  avendo 
il  pie  si  crosso,  che  qualunque  ramo  poteva  facilmente  soste- 
nere. Questo  modo  adunque  di  procedere,  insieme  con  gli 
altri  che  di  sotto  si  diranno,  fece  Roma  grande  e  potentissi* 
ma.  Il  che  dimostra  Tito  Livio  in  due  parole,  quando  disse: 
Cresca  inlerea  Roma  Alba  ruinis. 

Gap.  IV.  —  Le  repuhhìiche  hanno  tenuti  tre  modi  circa 
lo  ampliare. 

Chi  ha  osservalo  le  antiche  istorie,  (ruova  come  le  repub- 
bliche hanno  tre  modi  circa  lo  ampliare.  L'uno  é  stato  quello 
che  osscrvorono  i  Toscani  antichi,  di  essere  una  lega  di  più 
repubbliche  insieme,  dove  non  sia  alcuna  che  avanzi  l'altra 
né  di  autorità  né  di  grado;  e  nello  acquislarc,  farsi  l'altre 
città  compagne,  in  simil  modo  come  in  questo  tempo  fanno 
ì  Svizzeri,  e  come  ne' tempi  antichi  feciono  in  Grecia  gli 
Achei  e  gli  Etoli.  E  perché  gli  Romani  feciono  assai  guerra 
con  i  Toscani,  per  mostrar  meglio  la  qualilà  di  questo  primo 
modo,  mi  distenderò  in  dare  notizia  di  loro  particolarmente. 
In  Italia,  innanzi  allo  imperio  romano,  furono  i  Toscani  per 
mare  e  per  terra  potentissimi:  e  benché  delle  cose  loro  non 
j  ce  ne  sia  particolare  istoria,  pure  c'è  qualche  poco  di  me- 
I  moria,  e  qualche  segno  della  grandezza  loro  ;  e  si  sa  come 
e'  mandarono  una  colonia  in  su  '1  mare  di  sopra,  la  quale 


LIBRO    SECONDO.  229 

chiamarono  Adria,  che  fu  sì  nobile,  che  la  dette  nome  a  quel 
mare  che  ancora  i  Latini  chiamano  Adriatico.  Intendesi 
ancora,  come  le  loro  arme  furono  ubbidite  dal  Tevere  per 
infino  a'  pie  dell'Alpi ,  che  ora  cingono  il  grosso  di  Italia  ;  non 
ostante  che  dugenlo  anni  innanzi  che  i  Romani  crescessino 
in  molte  forze,  delti  Toscani  perderono  lo  imperio  di  quel 
paese  che  oggi  si  chiama  la  Lombardia;  la  quale  provincia  fu 
occupata  da'  Franciosi:  i  quali  mossi  o  da  necessità,  o  dalla 
dolcezza  dei  frutti,  e  massime  del  vino,  vennono  in  Italia 
sotto  Belloveso  loro  duce;  e  rotti  e  cacciati  i  provinciali,  si 
posono  in  quel  luogo,  dove  edificarono  di  molte  cittadi,  e 
quella  provincia  chiamarono  Gallia,  dal  nome  che  tenevano 
allora;  la  quale  tennono  fino  che  da*  Romani  fussero  domi. 
Vivevano,  adunque,  i  Toscani  con  quella  equalità,  e  procede- 
vano nello  ampliare  in  quel  primo  modo  che  di  sopra  si  dice: 
e  furono  dodici  città,  tra  le  quali  era  Chiusi,  Velo,  Fiesole, 
Arezzo,  Volterra,  e  simili:  i  quali  per  via  di  lega  governa- 
vano lo  imperio  loro;  né  poterono  uscir  d'Italia  con  gli  acqui- 
sti; e  di  quella  ancora  rimase  intatta  gran  parte,  per  le  ca- 
gioni che  di  sotto  si  diranno.  L'altro  modo  è  farsi  compagni; 
non  tanto  però  che  non  li  rimanga  il  grado  del  comandare,  la 
sedia  dello  imperio,  ed  il  titolo  delle  imprese:  il  quale  modo 
fu  osservato  da' Romani.  Il  terzo  modo  è  farsi  immediate  sud- 
diti, e  non  compagni;  come  fecero  gli  Spartani  e  gli  Ateniesi. 
De'  quali  tre  modi,  questo  ultimo  è  al  tutto  inutile;  come  e* si 
vide  che  fu  nelle  sopraddette  due  repubbliche:  le  quali  non 
rovinarono  per  altro,  se  non  per  avere  acquistato  quel  domi- 
nio che  le  non  potevano  tenere.  Perchè,  pigliar  cura  di  avere 
a  governare  città  con  violenza,  massime  quelle  che  fussono 
consuete  a  viver  libere,  è  una  cosa  difficile  e  faticosa.  E  se 
tu  non  sei  armato,  e  grosso  d'armi,  non  le  puoi  né  coman- 
dare, né  reggere.  Ed  a  voler  esser  così  fatto,  è  necessario 
farsi  compagni  che  li  aiutino*  ingrossare  la  tua  città  di  po- 
polo. E  perchè  queste  due  città  non  feciono  né  l'uno  né  l'al- 
tro, il  modo  del  procedere  loro  fu  inutile.  E  perchè  Roma, 


*  Male  la  Testina,, con  altr^  edizioni,  non  però  ({uella  del  1813,  pon- 
gono 9  (juesto  luogo  una  virgola. 


230  DEI    DISCORSI. 

(ro,  però  salse  a  tanta  eccessiva  potenza.  E  perchè  la  è  stala 
sola  a  vivere  cosi ,  è  siala  ancora  sola  a  diventar  lanlo  po- 
lente: perchè,  avendosi  ella  falli  di  raolli  compasni  per  lulla 
Italia,  i  quali  in  di  molte  cose  con  eguali  lesgi  vivevano  se- 
co ;  e  dall' allro  canto,  come  di  sopra  è  dello,  sendosi  riser- 
vato sempre  la  sedia  dello  imperio  ed  il  tilolodel  comandare; 
questi  suoi  compasni  venivano,  che  non  se  ne  avvedevano, 
con  le  fatiche  e  con  il  sangue  loro  a  soggiogar  sé  slessi.  Per- 
chè, come  cominciorono  a  uscire  con  gli  eserciti  di  Italia,  e 
ridarre  i  resni  in  provincie,  e  farsi  suggelli  coloro  che  per 
esser  consueti  a  vivere  sotto  i  Re,  non  si  curavano  d'esser 
soggetti;  ed  avendo  governadori  romani,  ed  essendo  stati 
Vinti  da  eserciti  con  il  titolo  romano;*  non  riconoscevano  per 
superiore  altro  che  Roma.  Di  modo  che  quelli  compagni  di 
Roma  che  erano  in  Italia,  si  trovarono  in  un  tratto  cinti  da' 
sudditi  romani,  ed  oppressi  da  una  srossissima  città  come  era 
Roma;  e  quando  e' si  avviddono  dello  inganno  sotto  il  quale 
erano  vissuti,  non  furono  a  tempo  a  rimediarvi:  tanta  auto- 
rità aveva  presa  Roma  con  le  provincie  esterne,  e  tanta  forza 
si  trovava  in  seno,  avendo  la  sua  città  grossissima  ed  arma- 
tìssima.  E  benché  quelli  suoi  compagni,  per  vendicarsi  delle 
ingiurie,  gli  consiurassino  contra,  furono  in  poco  tempo  per- 
ditori della  guerra,  peggiorando  le  loro  condizioni  ;  perchè 
di  compagni,  diventarono  ancora  loro  sudditi.  Questo  modo 
di  procedere,  come  è  detto,  è  stalo  solo  osservalo  da' Roma- 
ni: né  può  tenere  allro  modo  una  repubblica  che  voglia  am- 
pliare; perchè  la  esperienza  non  te  ne  ha  mostro  nessuno  più 
certo  o  più  vero.  Il  modo  prcallegalo  delle  leghe,  come  vi- 
verono  i  Toscani,  gli  Achei  e  gli  Eloli,  e  come  oggi  vivono 
i  Svizzeri,  é  dopo  a  quello  de'  Romani  il  miglior  modo;  per- 
chè non  si  potendo  con  quello  ampliare  assai,  ne  seguitano 
duoi  beni:  l'uno,  che  facilmente  non  ti  tiri  guerra  addosso; 
l'altro,  che  quel  tanto  che  tu  pigli,  lo  tieni  facilmente.  La 
cagione  del  non  potere  ampliare,  è  lo  essere  una  repubblica 
disgiunta,  e  posta  in  varie  sedi:  il  che  fa  che  difTicilmenle 
possono  consultare  e  deliberare.  Fa  ancora  che  non  sono  de- 
siderosi di  dominare:  perchè  essendo  molle  comunità  a  parli- 

*  Sottintendi ,  costoro ,  o  codesti  regni  o  popoli. 


LIBRO   SECONDO.  23  i 

cipare  di  quel  dominio,  non  istimano  tanto  tale   acquisto,! 
quanto  fa  una  repubblica  sola,  che  spera  di  goderselo  tutto./ 
Governansi,  olirà  di  questo,  per  concilio,  e  conviene  che  siano 
più  tardi  ad  ogni  deliberazione,  che  quelli  che  abitano  den- 
tro ad  un  medesimo  cerchio.  Vedesi  ancora  per  esperienza, 
che  simile  modo  di  procedere  ha  un  termine  fisso,  il  quale  non 
ci  è  essempio  che  mostri  che  si  sia  trapassato:  e  questo  è  di 
aggiugnere  a  dodici  o  quattordici  comunità;  dipoi,  non  cer- 
care di  andare  più  avanti  :  perchè  sendo  giunti  al  grado  che 
par  loro  potersi  difendere  da  ciascuno,  non  cercano  maggiore 
dominio;  si  perchè  la  necessità  non  gli  stringe  di  avere  più 
potenza;  si  per  non  conoscere  utile  negli  acquisti,  per  le  ca- 
gioni dette  di  sopra.  Perché  gli  arebbono  a  fare  una  delle 
due  cose;  o  seguitare  di  farsi  compagni,  e  questa  moltitu- 
dine farebbe  confusione;  o  gli  arebbono  a  farsi  sudditi:  e 
perchè  e'  veggono  in  questo  ditlìcultà,  e  non  molto  utile  nel 
tenergli,  non  lo  stimano.  Pertanto,  quando  e' sono  venuti  a 
tanto  numero  che  paia  loro  vivere  sicuri,  si  voltano  a  due 
cose:  runa  a  ricevere  raccomandati,  e  pigliare  prolezioni  ;  e 
per  questi  mezzi  trarre  da  ogni  parte  danari,  i  quali  facil- 
menle  intra  loro  si  possono  distribuire:  1'  altra  è  militare  per/ 
altrui,  e  pigliar  stipendio  da  questo  e  da  quello  principe  chet 
per  sue  imprese  gli  solda  ;  come  si  vede  che  ftinno  oggi  i\ 
Svizzeri,  e  come  si  legge  che  facevano  i  preallegati.  Di  ch&  \ 
n'è  testimone  Tito  Livio,  dove  dice  che,  venendo  a  parla- 
mento Filippo  re  di  Macedonia  con  Tito  Quinzio  Fiaraminio, 
e  ragionando   d' accordo  alla  presenza  d' un  pretore  degli 
Etoli;  in  *  venendo  a  parole  detto  pretore  con  Filippo,  gli  fu 
da  quello  rimproveralo  la  avarizia  e  la  infidelità,  dicendo  che  » 
gli  Etoli  non  si  vergognavano  militare  con  uno,  e  poi  man-  j 
dare  loro  uomini  ancora  al  servigio  del  nimico;  talché  molte 
volle  intra  duoi  contrari  eserciti  si  vedevano  le  insegne  di  Eto- 
lia.  Conoscesi,  pertanto,  come  questo  modo  di  procedere  per 
leghe,  è  stato  sempre  simile,  ed  ha  fatto  simili  etTelti.  Vedesi 
ancora,  che  quel  modo  di  fare  sudditi  è  stalo  sempre  debole, 
ed  avere  fallo  piccoli  profitti;  e  quando  pure  egli  hanno  pas- 
sato il  modo,  essere  rovinati  tosto.  E  se  questo  modo  di  fare 

*  L*  edizione  del  Biado  :  et. 


232  DEI   DISCORSI 

suddili  è  inutile  nelle  repubbliche  armate,  in  quelle  che  sono 
r  disarmate  è  inulilissimo:  come  sono  slsfle  ne'  nostri  tempi  le 
repubbliche  di  Italia.  Conoscasi,  pertanto,  essere  vero  modo 
quello  che  tennono  i  Romani;  il  quale  è  tanto  più  mirabile, 
quanto  e' non  ce  n'era  innanzi  a  Roma  essempio,  e  dopo  Roma 
DOD  è  slato  alcuno  che  gli  abbi  imitati.  E  quanto  alle  leghe,  si 
trovano  solo  i  Svizzeri  e  la  lega  di  Svevia  che  gli  imita.  E, come 
nel  fine  di  questa  materia  si  dirà,  tanti  ordini  osservati  da  Ro- 
ma, cosi  pertinenti  alle  cose  di  dentro  come  a  quello  di  fuora, 
non  sono  ne'  presenti  nostri  tempi  non  solamente  imitati,  ma 
non  n'è  tenuto  alcuno  conto;  giudicandoli  alcuni  non  veri, 
alcuni  impossibili,  alcuni  non  a  proposito  ed  inutili;  tanto 
I  che  standoci  con  questa  ignoranza,  siamo  preda  di  qualun- 
que ha  voluto  correre  questa  provincia.  E  quando  la  imi- 
tazione de'  Romani  paresse  dilììcile,  non  doverrebbe  parere 
cosi  quella  degli  antichi  Toscani,  massime  a'  presenti  Tosca- 
ni. Perchè,  se  quelli  non  poterono,  per  le  cagioni  dette,  fare 
uno  imperio  simile  a  quel  di  Roma,  poterono  acquistare  in 
Italia  quella  potenza  che  quel  modo  del  procedere  concesse 
loro.  Il  che  Tu  per  un  gran  tempo  securo,  con  somma  gloria 
d'imperio  e  d'arme,  e  massima  laude  di  costumi  e  di  reli- 
gione. La  qual  potenza  e  gloria  fu  prima  diminuita  da' Fran- 
ciosi, dipoi  spenta  da'  Romani;  e  fu  tanto  spenta,  che  ancora 
che  duemila  anni  fa,  la  potenza  de' Toscani  fusse  grande,  al 
^  presente  non  ce  n'  è  quasi  memoria.  La  qual  cosa  mi  ha  fatto 
pensare  donde  nasca  questa  oblivione  delle  cose  :  come  nel 
seguente  capitolo  si  discorrerà. 

Cip.  V.—  Che  la  variazione  delle  sèlle  e  delle  lingue,  infieme 
con  V  accidenle  de'  diluvi  o  delle  pesli,  spegne  la  memoria 
deUe  cose. 

A  quelli  filosofi  che  hanno  voluto  che  '1  mondo  sia  stato 
eterno,  credo  che  si  potesse  replicare,  che  se  tanta  antichità 
fusse  vera,  e' sarebbe  ragionevole  che  ci  fusse  memoria  di 
più  che  cinque  mila  anni  ;  quando  e'  non  si  vedesse  come 
.  queste  memorie  de' tempi  per  diverse  cagioni  si  spengano: 
delle  quali  parte  vengono  dagli  uomini  »  parte  dal  cielo. 


LIBRO   SECONDO. 


^33 


Quelle  che  vengono  dagli  uomini,  sono  le  variazioni  delle 
sèlle  e  delle  lingue.  Perchè  quando  surge  una  sella  nuova, 
cioè  una  religione  nuova,  il  primo  studio  suo  è,  per  darsi  re- 
pulazìone,  eslinguere  la  vecchia  ;  e  quando  egli  occorre  che  gli 
ordinatori  della  nuova  sella  siano  di  lingua  diversa,  la  spen- 
gono facilmente.  La  qual  cosa  si  conosce  considerando  i  mo- 
di che  ha  tenuti  la  religione  cristiana  contra  alla  sella  gen- 
tile; la  quale  ha  cancellali  tulli  gli  ordini,  tulle  le  ceremonie  j  ^ 
di  quella ,  e  spenta  ogni  memoria  di  quella  antica  teologia.     *  ^^^r 
Vero  è  che  non  gli  è  riuscito  spegnere  in  tulio  la  notizia  ù/tti^v^i 
delle  cose  fatte  dagli  uomini  eccellenti  di  quella:  il  che  è  nato        -/*i> 
per  avere  quella  mantenuta  la  lingua  Ialina  ;  il  che  fecero  . 
forzatamente,  avendo  a  scrivere  questa  legge  nuova  con  es-  ^   v^ 
sa.  Perchè,  se  l'avessino  potuta  scrivere  con  nuova  lingua,     '.^4'*^ 
consideralo  le  altre  persecuzioni  gli  feciono,  non  ci  sarebbe  ri-  ^   liff-y 
cordo  alcuno  delle  cose  passale.  E  chi  legge  i  modi  tenuti  da   y^. 
San  Gregorio,  e  dagli  altri  capi  della  religione  cristiana,  ve- 
drà con  quanta  ostinazione  e'  perseguitarono  tulle  le  memo- 
rie antiche,  ardendo  l'opere  de'  poeti  e  delti  istorici,  minan- 
do le  immagini ,  e  guastando  ogni  altra  cosa  che  rendesse 
alcun  segno  della  antichità.  Talché,  se  a  questa  persecuzione 
egli  avessino  aggiunto  una  nuova  lingua,  si  sarebbe  veduto 
in  brevissimo  tempo  ogni  cosa  dimenticare.  È  da  credere  , 
pertanto,  che  quello  che  ha  voluto  fare  la  religione  cristiana 
contra  alla  setta  gentile,  la  gentile  abbi  fatto  centra  a  quella 
che  era  innanzi  a  lei.  E  perchè  queste  sèlle  in  cinque  o  in 
seimila  anni  variarono  due  o  tre  volle,  si  perde  '  la  memoria 
delle  cose  fatte  innanzi  a  quel  tempo.  E  se  pure  ne  resta  al- 
cun segno,  si  considera  come  cosa  favolosa,  e  non  è  prestalo 
loro  fede:  come  interviene  alla  istoria  di  Diodoro  Siculo,  che 
benché  e' renda  ragione  di  quaranta  o  cinquanta  mila  anni, 
nondimeno  è  riputata,  come  io  credo  che  sia,  cosa  mendace. 
Quanto  alle  cause  che  vengono  dal  ci^lp,  sono  quelle  che 

^  La  Bladianà  soltanto:  perche  queste  sette  in  cinque  o  sei  mila  anni  variano 
due  o  tre  volle ^  si  perde  la  inenioria  ec.  Quando  cosi  avesse  da  leggersi,  il 
teorema  del  Machiavelli  s3rebl)e  più  ar-lilo  di  tutte  le  degnila  pensate  dal 
Vico  :  se  non  che  sorge  però  iinportunamenle  il  sospetto  che  il  teorema  sia  ualu 
da  un'abbreviazione  m^^iot^s?  Q,^a  tm  acceotQ  oi^csso  pel  manosCiiliQ.  , 


234  DÈI  DISCORSI 

spengono  la  amana  generazione,  e  ridacono  a  pochi  gli  abi- 
talori  di  parie  del  mondo.  E  questo  viene  o  per  peste  o  per 
farne  o  per  una  inondazione  d'acque:  e  la  più  importante  è 
questa  ultima,  sì  perchè  la  è  più  universale,  si  perchè  quelli 
che  si  salvano  sono  nomini  tutti  montanari  e  rozzi,  i  quali  non 
avendo  notizia  di  alcuna  antichità,  non  la  possono  lasciare 
a'  posteri.  E  se  infra  loro  si  salvasse  alcuno  che  ne  avesse  no- 
tizia, per  farsi  riputazione  e  nome,  la  nasconde,  e  la  per- 
verte a  suo  modo;  talché  ne  resta  solo  a' successori  quanto 
ei  ne  ha  voluto  scrivere,  e  non  altro.  E  che  queste  inonda- 
va \  zioni,  pesti  e  fami  vcn^hino,  non  credo  sia  da  dubitarne;  si 
perchè  ne  sono  piene  tutte  le  istorie,  si  perchè  si  vede  que- 
sto effetto  della  oblivione  delle  cose,  si  perchè  e'  pare  rai?io- 
nevole  che  sia:  perchè  la  natura,  come  ne*  corpi  semplici, 
quando  vi  è  ragunalo  assai  materia  superflua,  muove  per  sé 
medesima  molte  volle,  e  fa  una  purgazione,  la  qnale  è  saluto 
di  quel  corpo;  cosi  interviene  in  questo  corpo  misto  della  u- 
\  mana  generazione,  che  quando  tutte  le  provincie  sono  ripiene 
di  abitatori,  in  modo  che  non  possono  vivere,  né  possono  an- 
dare altrove,  per  esser  occupati  e  pieni  tutti  i  luoghi;  e  quan- 
do la  astuzia  e  malignità  umana  è  venuta  dove  la  può  venire, 
conviene  di  necessità  che  il  mondo  si  purghi  per  uno  de' tre 
modi;  acciocché  gli  nomini  essendo  divenuti  pochi  e  battuti, 
vivano  più  comodamente,  e  diventino  migliori.  Era  adunque, 
come  di  sopra  è  detto,  già  la  Toscana  potente,  piena  di  re- 
ligione e  di  virtù;  aveva  i  suoi  costumi  e  la  sua  lingua  pa- 
tria: il  che  tutto  è  stato  spento  dalla  potenza  romana.  Tal- 
ché, come  si  è  dello,  di  lei  oe  rimane  solo  la  memoria  del 
nome. 

Cap.  vi.  —  Come  t  Romani  procedevano  nel  fare  la  guerra. 

Avendo  discorso  come  i  Romani  procedevano  nello  am- 
pliare, discorreremo  ora  come  e' procedevano  nel  fare  la  guer- 
ra; ed  in  ogni  loro  azione  si  vedrà  con  quanta  prudenza  ei  di- 
Yiarono  dal  modo  universale  degli  altri,  per  facilitarsi  la  via 
a  venire  a  una  suprema  grandezza.  La  intenzione  di  chi  fa 
guerra  per  elezione)  o  vero  per  ambizione,  ò  acquistare  e 


LIBRO   SECONDO.  ^35 

ilìanicncre  lo  acquisiate;  e  procedere  in  modo  con  essa,  che 
l'arricchisca  e  non  impoverisca  il  paese  e  la  patria  sua.  È 
necessario  dunque,  e  nello  acquistare  e  nel  mantenere,  pen- 
sare di  non  spendere  ;  anzi  far  ogni  cosa  con  utilità  del  pub- 
blico suo.  Chi  vuol  fare  tutte  queste  cose,  conviene  che  ten- 
ga lo  stile  e  modo  romano  :  il  quale  fu  in  prima  di  fare  le 
guerre,  come  dicono  i  Franciosi,  corte  e  grosse;  perchè,  ve-  ,-       ' 
nendo  in  campagna  con  eserciti  grossi,  tutte  le  guerre  eh'  e-^il^p 
gli  ebbono  co' Latini,  Sanniti  e  Toscani,  le  espedirono  in   iaA^^^ 
brevissimo  tempo.  E  se  si  noteranno  tutte  quelle  che  feciono   ^S^ 
dal  principio  di  Roma  infino  alla  ossidione  de'  Veienti,  tutte 
si  vedranno  espedìte,  quale  in  sei,  quale  in  dieci,  quale  in 
venti  di.  Perchè  l'uso  loro  era  questo:  subito  che  era  scoperta 
la  guerra,  egli  uscivano  fuori  con  gli  eserciti  all'  incontro  del 
nimico,  e  subito  facevano  la  giornata.  La  quale  vinta,  i  nimici, 
perchè  non  fosse  guasto  loro  il  contado  alTatto,  venivano  alle 
condizioni  ;  ed  i  Romani  gli  condennavano  in  terreni:  i  quali 
terreni  gli  convertivano  in  privati  comodi  o  gli  consegnavano 
ad  una  colonia;  la  quale  posta  in  su  le  frontiere  di  coloro,  ve- 
niva ad  esser  guardia  de' confini  romani,  con  utile  di  essi 
coloni,  che  avevano  quelli  campi,  e  con  utile  del  pubblico  di 
Roma,  che  senza  spesa  teneva  quella  guardia.  Né  poteva  que- 
sto modo  esser  più  securo,  o  più  forte,  o  più  utile:  perchè 
mentre  che  i  nimici  non  erano  in  su  i  campi,  quella  guardia 
bastava:  come  e' fussino  usciti  fuori  grossi  per  opprimere 
quella  colonia,  ancora  i  Romani  uscivano  fuori  grossi,  e  ve-   , 
nivano  a  giornata  con  quelli;  e  fatta  e  vinta  la  giornata,  im-   I 
ponendo  loro  più  gravi  condizioni,  si  tornavano  in  casa.  Cosi   ' 
venivano  ad  acquistare  di  mano  in  mano  riputazione  sopra  di 
loro,  e  forze  in  sé  medesimi.  E  questo  modo  vennono  tenendo 
infino  che  mutorno  modo  di  procedere  in  guerra  :  il  che  fa 
dopo  la  ossidione  de'  Veienti  ;  dove,  per  potere  fare  guerra  lun- 
gamente, gli  ordinarono  di  pagare  i  soldati,  che  prima,  per 
non  essere  necessario,  essendo  le  guerre  brevi,  non  gli  pa- 
gavano. E  benché  i  Romani  dessino  il  soldo,  e  che  per  virtù 
di  questo  ei  potessino  fare  le  guerre  più  lunghe,  e  per  farle 
più  discosto  la  necessità  gli  tenesse  più  in  su' campi;  nondi- 
meno non  variarono  mai  dal  primo  ordine  di  finirle  presto,  ' 


^36  DEI  mscoRst 

secondo  il  luogo  ed  il  tempo;  né  variarono  mai  dal  mandare 
le  colonie.  Perchè  nel  primo  ordine  gli  (enne,  circa  il  fare 
le  guerre  brevi,  olirà  il  loro  naturale  uso,  l'ambizione  de' 
Consoli;  i  quali  avendo  a  slare  un  anno,  e  di  quello  anno  sei 
mesi  alle  stanze,  volevano  fìnire  la  guerra  per  trionfare.  Nel 
mandare  le  colonie,  gli  (enne  l'utile,  e  la  comodità  grande 
che  ne  risultava.  Variarono  bene  alquanto  circa  le  prede, 
delle  quali  non  erano  cosi  liberali  come  erano  stali  prima;  si 
perchè  e*  non  pareva  loro  tanto  necessario,  avendo  i  sol- 
dati lo  slipendio;  si  perchè  essendo  le  prede  mag^iori,  dise- 
gnavano d'ingrassare  di  quelle  in  modo  il  pubblico;  che  non 
fussino  constretti  a  fare  le  imprese  con  (ribu(i  della  ci((à.  Il 
quale  ordine  in  poco  (empo  fece  il  loro  erario  ricchissimo. 
Questi  duoi  modi,  adunque,  e  circa  il  distribuire  la  preda,  e 
circa  il  mandar  le  colonie,  feciono  che  Boma  arricchiva  della 
guerra;  dove  gli  altri  principi  e  repubbliche  non  savie  ne 
impoveriscono.  E  ridusse  la  cosa  in  termine,  che  ad  un  Con- 
solo non  pareva  poter  trionfare,  se  non  portava  col  suo  trion- 
fo assai  oro  ed  argen(o ,  e  d'ogni  altra  sorte  preda,  nello 
erario.  Cosi  i  Romani  con  i  soprascritti  termini,  e  con  il  fi- 
nire le  guerre  preslo,  sendo  contenti  con  lunghezza  strac- 
care i  nemici,  e  con  rotte  e  con  le  scorrerie  e  con  accordi  a 
loro  avvantaggi,  diventarono  sempre  più  ricchi  e  più  polenti. 

Gap.  vii.  —  Quanto  terreno  i  Romani  davano  per  colono. 

Quanto  terreno  i  Romani  distribuissino  per  colono, 
credo  sia  molto  diflìcile  trovarne  la  verità.  Perchè  io  credo 
ne  dessino  più  o  manco,  secondo  i  luoghi  dove  e'  mandavano 
le  colonie.  E  giudicasi  che  ad  ogni  modo  ed  in  ogni  luogo  la 
distribuzione  fusse  parca:  prima,  per  poter  mandare  più  uo- 
mini, sendo  quelli  dipulati  per  guardia  di  quel  paese;  dipoi 
perchè  vivendo  loro  poveri  a  casa,  non  era  ragionevole  che 
volessino  che  i  loro  uomini  abbondassino  troppo  fuora.  E 
Tito  Livio  dice,  come  pireso  Veio  e'  vi  mandorno  una  colo- 
nia, e  distribuirono  a  ciascuno  tre  iugeri  e  selle  once  di  ter- 
ra; che  sono  al  modo  noslro  * Perché, 

'  JLactina  di  tulle  ].  edùiooi. 


ì 


LIBRO   SECONDO.  ^37 

oltre  alle  còse  èoprascrille,  e*  giudicavano  che  non  lo  assai 
terreno,  ma  il  bene  colli  vaio  bastasse.  È  necessario  bene, 
che  tutta  la  colonia  abbi  campi  pubblici  dove  ciascuno  possa 
pascere  il  suo  bestiame,  e  selve  dove  prendere  del  legname 
per  ardere  ;  senza  le  quali  cose  non  può  una  colonia  ordi- 
narsi. 

Gap.  vi  ir.  —  La  eaqione  perchè  i  popoli  si  partono  da*  luoghi 
palrii,  ed  inondano  il  paese  allrui. 

Poiché  di  sopra  si  è  ragionato  del  modo  nel  procedere 
della  *  guerra  osservato  da'  Romani,  e  come  i  Toscani  furono 
assaltati  da' Franciosi;  non  mi  pare  alieno  dalla  materia  dis- 
correre, come  e'  si  fanno  di  due  generazioni  guerre.  L'una 
è  fatta  per  ambizione  de'  principi  o  delle  repubbliche ,  che 
cercano  di  propagare  lo  ijnperio;  come  furono  le  guerre  che 
fece  Alessandro  Magno,  e  quelle  che  feciono  i  Romani ,  e 
quelle  che  fanno  ciascuno  di,  l'una  ^potenza  con  l'altra.  Le 
quali  guerre  sono  pericolose ,  ma  non  cacciano  al  lutto  gli 
abitatori  d'una  provincia;  perchè  e*  basta  al  vincitore  solo  la 
ubbidienza  de'popoli,  e  il  più  delle  volte  gli  lascia  vivere  con 
le  loro  leggi,  e  sempre  con  le  loro  case,  e  ne' loro  beni.  L'al- 
tra generazione  di  guerra  è,  quando  un  popolo  intero  con 
tutte  le  sue  famìglie  si  lieva  d'uno  luogo,  necessitato  o  dalla 
fame  o  dalla  guerra,  e  va  a  cercare  nuova  sede  e  nuova  pro- 
vincia; non  per  comandarla,  come  quelli  di  sopra,  ma  per 
possederla  tutta  particolarmente,  e  cacciarne  o  ammazzare  gli 
abitatori  antichi  di  quella.  Questa  guerra  è  crudelissima  e 
paventosissima.  E  di  queste  guerre  ragiona  Saluslio  nel  fine 
dell' lugurtino,  quando  .dice  che  vinto  iugurta,  si  senti  il 
moto  de'  Franciosi  che  venivano  in  Italia:  dove  e'  dice  che  '1 
Popolo  romano  con  tutte  le  altre  genti  combattè  solamente 
per  chi  dovesse  comandare,  ma  con  i  Franciosi  si  combattè 
sempre  per  la  salute  di  ciascuno.  Perchè  ad  un  principe  o  una 
repubblica  che  assalta  una  provincia,  basta  spegnere  solo  co- 
loro che  comandano;  ma  a  queste  populazioni  conviene  spe- 

*  L*  edizione  del  Biado  :  nella. 

'  Male  nella  Testina ,  e  nelle  moderne  cdiaioni  :  ciascuno  deli'  una» 


23$  DEI   DISCORSI 

I  gnere  ciascuno,  perchè  vogliono  vivere  di  quello  che  a1(ri  vi- 
veva. I  Romani  ebbero  Ire  di  quelite  guerre  pericolosissime. 
La  prima  fu  quella  quando  Roma  fu  presa,  la  quale  fu  occu- 
pala da  quei  Franciosi  che  avevano  tolto,  come  di  sopra  si 
disse,  la  Lombardia  a' Toscani,  e  fattone  loro  sedia;  della 
quale  T.  Livio  ne  allega  dae  cagioni:  la  prima,  come  di  so- 
pra si  disse,  che  furono  allettati  dalla  dolcezza  delle  fruite,  e 
del  vino  di  Italia,  delle  quali  mancavano  in  Francia;  la  se- 
conda che,  essendo  quel  regno  francioso  moltiplicalo  in  lauto 
di  uomini,  che  non  vi  si  potevano  più  nutrire,  giudicarono  i 
principi  di  quelli  luoghi,  che  fosse  necessario  che  una  parie 
di  loro  andasse  a  cercare  nuova  terra  ;  e  fatta  tale  delibera- 
xione,  elessono  per  capitani  di  quelli  che  si  avevano  a  par- 
tire, Belloveso  e  Sicoveso,  duoi  re  de'Frnnciosi:  de' quali 
Bellovcso  venne  in  Italia,  e  Sicoveso  passò  in  Ispagna.  Dalia- 
passata  del  quale  Belloveso  nacque  la  occupazione  di  Lombar- 
dia, e  quindi  la  guerra  che  prima  i  Franciosi  fecero  a  Roma. 
Dopo  questa,  fu  quella  che  fecero  dopo  la  prima  guerra  carta- 
ginese, quando  Ira  Piombino  e  Pisa  ammazzarono  più  che 
dugenlomila  Franciosi.  La  terza  fu  quando  i  Todcschi  e  Cimbri 
vennero  in  Ilalia:  i  quali  avendo  vinti  più  eserciti  romani, 
furono  vinti  da  Mario.  Vinsero  adunque  i  Koroani  queste  tre 
guerre  pericolosissime.  Né  era  necessario  minore  virlù  a  vin- 
cerle; perchè  si  vede  poi,  come  la  virlù  romana  mancò,  e  che 
quelle  arme  perderono  il  loro  antico  valore,  fu  quello  impe- 
rio deslrutto  da  simili  popoli:  i  quali  furono  Goti,  Vandali, 
e  simili,  che  occuparono  tulio  lo  imperio  occidenlale.  Escono 

\  tali  popoli  de*  paesi  loro,  come  di  sopra  si  disse,  cacciali  dalla 
nccessilà  :  e  la  necessità  nasce  o  dalla  fame,  o  da  una  guerra 
ed  oppressione  che  ne' paesi  propri  è  loro  falla  ;  laiche  e'  sono 
consiretti  cercare  nuove  (erre.  E  questi  tali,  o  e' sono  grande 
numero;  ed  allora  con  violenza  entrano  ne*  paesi  alimi, 
ammazzano  gli  abitatori,  posseggono  i  loro  beni,  fanno  uno 
nuovo  regno,  molano  il  nome  della  provincia:  come  fece 
Moisè,  e  quelli  popoli  che  occuparono  lo  imperio  romano.  Per- 
chè questi  nomi  nuovi  che  sono  nella  Ilali^a  e  nelle  allre  Pro- 
vincie, non  nascono  da  altro  che  da  essere  siale  nomale 
cosi  da'  nuovi  occupalori:  come  è  la  Lombardia,  che  si  chia- 


LIBRO    SECONDO.  239 

raava  Gallia  Cisalpina:  la  Francia  si  chiamava  Gallia  Trans- 
alpina,  ed  ora  è  nominala  da'  Franchi,  che  cosi  si  chiama- 
vano quelli  popoli  che  la  occuparono:  la  Schiavonia  si  chia- 
mava llliria  ,  l'Ungheria  Pannonia,  l'Inghillerra  Brilannia: 
e  molle  altre  provincie  che  hanno  mutato  nome,  le  quali  sa- 
rebbe tedioso  raccontare.  Moisè  ancora  chiamò  Giudea  quella 
parte  di  Soria  occupata  da  lui.  E  perchè  io  ho  detto  di  sopra, 
che  qualche  volta  tali  popoli  sono  cacciati  della  propria  sede 
per  guerra,  donde  sono  constretti  cercare  nuove  terre;  ne  vo- 
glio addurre  lo  essempio  de'Maurusii,  popoli.anticamente  in 
Soria:  i  quali,  sentendo  venire  i  popoli  ebraici,  e  giudicando 
non  poter  loro  resistere,  pensarono  essere  meglio  salvare  loro 
medesimi,  e  lasciare  il  paese  proprio,  che  per  volere  sal- 
vare quello,  perdere  ancora  loro;  e  levatisi  con  loro  famiglie, 
se  ne  andarono  in  Affrica,  dove  posero  la  loro  sedia,  caccian- 
do via  quelli  abitatori  che  in  quelli  luoghi  trovarono.  £  così 
quelli  che  non  avevano  potuto  difendere  il  loro  paese,  po- 
terono occupare  quello  d'altrui.  E  Procopio,  che  scrive  la 
guerra  che  fece  Belisario  co' Vandali  occupalori  della  Affrica, 
riferisce  aver  letto  lettere  scritte  in  certe  colonne  ne'  luoghi 
dove  questi  Maurusii  abitavano,  le  quali  dicevano:  Nos  Mau- 
rusii,  qui  fugimus  a  [ade  Jem  lalronis  filii  Navas.  Dove  ap- 
parisce la  cagione  della  partila  loro  di  Soria.  Sono,  pertanto, 
questi  popoli  formidolosissimi,  sendo  cacciati  da  una  ultima 
necessità;  e  s'egli  non  riscontrano  buone  armi,  non  saranno 
mai  sostenuti.  Ma  quando  quelli  che  sono  constretli  abbando- 
nare la  loro  patria  non  sono  molti,  non  sono  sì  pericolosi 
come  quelli  popoli  di  chi  si  è  ragionato;  perchè  non  possono 
usare  tanla  violenza ,  ma  conviene  loro  con  arte  occupare 
qualche  luogo,  e,  occupatolo,  manlenervisi  per  via  di  amici  e 
di  confederati:  come  si  vede  che  fece  Enea,  Bidone,  i  Mas- 
siliesi  e  simili;  i  quali  lutti,  per  consentimento  de' vicini, 
dove  e'  posorno,  *  poterono  manlenervisi.  Escono  i  popoli  gros- 
si, e  sono  usciti  quasi  tutti  de'  paesi  di  Scizia;  *  luoghi  freddi 
e  poveri:  dove,  per  essere  assai  uomini,  ed  il  paese  di  qualità 

*  Cosi  (non  posano j  colla   comune),  con   giudiaio  egregio,  l'cdàione 
del  1813. 

*  Male  nella  Bladiana  :  Soria. 


240  '  DEI   DISCORSI 

da  non  gli  potere  nutrire,  sono  forzali  uscire,  avendo  molte 
cose  che  gli  cacciano,  e  nessuna  che  gli  ritenga.  E  se  da 
cinquecento  anni  in  qua,  non  è  occorso  che  alcuni  di  questi 
popoli  abbino  inondato  alcuno  paese,  è  nato  per  più  cagioni. 
La  prima ,  la  grande  evacuazione  che  fece  quel  paese  nella 
declinazione  dello  imperio;  donde  uscirono  più  di  trenta  po- 
polazioni. La  seconda  è  che  la  Magna  e  V  Ungheria,  *  donde 
ancora  uscivano  di  queste  genti,  hanno  ora  il  loro  paese  bo- 
nificato in  modo,  che  vi  possono  vivere  agiatamente;  talché 
non  sono  necessitati  di  mutare  luogo.  Dall'altra  parte,  sondo 
loro  uomini  bellicosissimi,  sono  come  uno  bastione  a  tenere 
che  gli  Sciti,  i  quali  con  loro  confinano,  non  presumino  di 
potere  vincergli  o  passargli.  E  spesse  volte  occorrono  movi- 
menti grandissimi  da' Tartari,  che  sono  dipoi  ààuVi  Ungheri 
e  da  quelli  di  Polonia  sostenuti;  e  spesso  si  gloriano,  che  se 
non  fussino  Tarme  loro,  la  Italia  e  la  Chiesa  arcbbe  molte 
volle  sentilo  il  peso  degli  eserciti  tartari.  E  questo  voglio  ba- 
sti quanto  a'  prcfali  popoli. 

Gap.  IX. —  Quali  cagioni  comunemente  faccino  nascere  le.guerre 
intra  i  polenti. 

La  cagione  che  fece  nascere  guerra  intra  i  Romani  ed  i 
Sanniti ,  che  erano  stati  in  lega  gran  tempo,  è  una  cagione 
comune  che  nasce  infra  tutti  i  principati  polenti.  La  qual  ca- 
gione o  la  viene  a  caso,  o  la  è  fatta  nascere  da  colui  che  desi- 
dera muovere  la  guerra.  Quella  che  nacque  intra  i  Romani  ed 
i  Sanniti,  fu  a  caso:  perchè  la  intenzione  de' Sanniti  non  fu, 
muovendo  guerra  a'Sidicini,  e  dipoi  a' Campani ,  muoverla 
ai  Romani.  Ma  sendo  i  Campani  oppressati ,  e  ricorrendo  a 
Roma  fuora  della  oppinione  de'  Romani  e  de'  Sanniti,  furono 
forzati,  dandosi  i  Campani  ai  Romani,  come  cosa  loro  difen- 
dergli, e  pigliare  quella  guerra  che  a  loro  parve  non  potere 
con  loro  onore  fuggire.  Perchè  e' pareva  bene  a' Romani  ra- 
gionevole non  potere  difendere  i  Campani  come  amici,  con- 
tra  ai  Sanniti  amici,  ma  pareva  ben  loro  vergogna  non  gli 
difendere  come  sudditi,  ovvero  raccomandati;  giudicando, 

'  S  nule  ^ui  pare  :  ia  Inghilterra. 


UBIIO   SECONDO.  241 

quando  e' non  avessino  presa  (ai  difesa,  tórre  la  via  a  (ulti 
quelli  che  disegnassino  venire  sotto  la  potestà  loro.  Ed 
avendo  Roma  per  fine  lo  imperio  e  la  gloria,  e  non  la  quiete, 
non  poteva  ricusare  questa  impresa.  Questa  medesima  cagio- 
ne dette  principio  alla  prima  guerra  contra  a*  Cartaginesi,  per 
la  difensione  che  i  Romani  presono  de'  Messinesi  in  Sicilia  : 
la  quale  fu  ancora  a  caso.  Ma  non  fu  già  a  caso  dipoi  la  se- 
conda guerra  che  nacque  infra  loro  ;  perchè  Annibale  capi- 
tano Cartaginese  assaltò  i  Saguntini  amici  de'  Romani  in 
Ispagna ,  non  per  offendere  quelli ,  ma  per  muovere  l' arme  ro- 
mane, ed  avere  occasione  di  combatterli,  e  passare  in  Italia. 
Questo  modo  nello  appiccare  nuove  guerre  è  stato  sempre 
consueto  intra  i  potenti,  e  che  si  hanno  e  della  fede,  e  d'altro 
qualche  rispetto.  Perche,  se  io  voglio  fare  guerra  con  uno  prin- 
cipe, ed  infra  noi  siano  fermi  capitoli  per  un  gran  tempo  os- 
servati, con  altra  giustificazione  e  con  altro  colore  assalterò 
io  un  suo  amico  che  lui  proprio;  sappiendo  massime,  che  nello 
assaltare  Io  amico,  o  ei  si  risentirà,  ed  io  arò  l'intento  mio  di 
fargli  guerra  ;  o  non  si  risentendo,  si  scuoprirà  la  debolezza  o 
la  infidelità  sua  di  non  difendere  un  suo  raccomandato.  E  l'una 
e  r  altra  di  queste  due  cose  è  per  tòrgli  riputazione,  e  per 
fare  più  facili  1  disegni  miei.  Debbesi  notare,  adunque,  e  per 
la  dedizione  de'Campani,  circa  il  muovere  guerra,  quanto  di 
sopra  si  è  detto;  e  di  più,  qual  rimedio  abbia  una  città  che 
non  si  possa  per  sé  stessa  difendere,  e  veglisi  difendere  in 
ogni  modo  da  quel  che  1'  assalta:  il  quale  è  darsi  liberamente 
a  quello  che  tu  disegni  che  ti  difenda  ;  come  feciono  i  Capo- 
vani  ai  Romani,  ed  ì  Fiorentini  al  re  Roberto  di  Napoli:  il 
quale  non  gli  volendo  difendere  come  amici,  gli  difese  poi 
come  sudditi  contra  alle  forze  di  Caslruccio  da  Lucca,  che 
gli  opprimeva. 

Cap.  X.  —  I  danari  non  sono  il  nervo  della  guerra,  secondo  che 
è  la  comune  oppinione. 

Perchè  ciascuno  può  cominciare  una  guerra  a  sua  posta, 
ma  non  finirla,  debbo  uno  principe,  avanti  che  prenda  una  im- 
presa, misurare  le  forze  sue,  e  secondo  quelle  governarsi.  M«i 


242  DEI  DISCORSI 

debbe  avere  (anta  prudenza ,  che  delle  sue  forze  ei  non  s'in- 
ganni ;  ed  oc;ni  volta  s*  ingannerà,  quando  le  misuri  o  dai  da- 
nari ,  0  dal  sito,  o  dalla  benivolenza  degli  uomini ,  mancando 
dall'  altra  parte  d' arme  proprie.  Perchè  le  cose  predelle  li  ac- 
crescono bene  le  forze,  ma  le  non  le  ne  danno;  e  per  sé  me- 
desime sono  nulla;  e  non  giovano  alcuna  cosa  senza  l'arme 
fedeli.  Perchè  i  danari  assai,  non  ti  bastano  senza  quelle;  non 
ti  giova  la  fortezza  del  paese  ;  e  la  fede,  e  benivolenza  degli 
uomini  non  dura,  perchè  questi  non  ti  possono  essere  fedeli, 
non  gli  potendo  difendere.  Ogni  monte,  ogni  Iago,  ogni  luogo 
inaccessibile  diventa  piano,  dove  i  forti  difensori  mancano.  I 
danari  ancora  non  solo  non  ti  difendono,  ma  ti  fanno  predare 
più  presto.  Né  può  essere  più  falsa  quella  comune  oppinione 
che  dice  che  i  danari  sono  il  nervo  della  guerra.  La  quale 
sentenza  è  detta*  da  Quinto  Curzio  nella  guerra  che  fu  intra 
Antipatro  macedone  e  il  re  spartano:  dove  narra,  che  per  di- 
fetto di  danari  il  re  di  Sparta  fu  necessitato  azzuffarsi ,  e  fu 
rotto;  che  se  ei  differiva  la  zuffa  pochi  giorni,  veniva  la  nuo- 
va in  Grecia  della  morte  di  Alessandro,  donde  e' sarebbe  ri- 
maso  vincitore  senza  combattere.  Ma  mancandogli  i  danari, 
e  dubitando  che  Io  esercito  suo  per  difetto  di  quelli  non  lo 
abbandonasse,  fu  conslrctto  tentare  la  fortuna  della  zuffa:  tal- 
ché Quinto  Curzio  per  questa  cagione  afferma,  i  danari  essere 
il  nervo  della  guerra.  La  qual  sentenza  è  allegata  ogni  gior- 
no, e  da' princìpi  non  tanto  prudenti  che  basti,  seguitata.  Per- 
chè, fondatisi  sopra  quella,  credono  che  basti  loro  a  difen- 
dersi avere  tesoro  assai ,  e  non  pensano  che  se  '1  tesoro  ba- 
stasse a  vincere,  che  Dario  arebbe  vinto  Alessandro,  i  Greci 
arebbon  vinti  i  Romani;  ne'  nostri  tempi  il  duca  Carlo  arebbe 
vinti  i  Svizzeri;  e  pochi  giorni  sono ,  il  Papa  ed  i  Fiorentini  in- 
sieme non  arebbono  avuta  difficullà  in  vincere  Francesco 
Maria,  nipote  di  papa  Giulio  li,  nella  guerra  di  Urbino.  Ma 
tutti  i  soprannominati  furono  vinti  da  coloro  che  non  il  da- 
naro, ma  i  buoni  soldati  stimano  essere  il  nervo  della  guerra. 
Intra  le  altre  cose  che  Creso  re  di  Lidia  mostrò  a  Solone  ate- 
niese, fu  uno  tesoro  innumerabile;  e  domandando  quel  che  ali 
pareva  della  potenza  sua,  gli  rispose  Solone,  che  per  quello 

*  La  Bladiana  soltanto  :  è  Hata. 


LIBRO   SECONDO.  243 

non  lo  giudicava  più  potente  ;  perchè  la  guerra  si  faceva  col 
ferro  e  non  con  V  oro,  e  che  poteva  venire  uno  che  avesse  più 
ferro  di  lui,  e  tòrgfiene.  Oltr'  a  questo,  quando,  dopo  la  morte 
di  Alessandro  Magno,  una  moltitudine  di  Franciosi  passò  in 
Grecia,  e  poi  in  Asia;  e  mandando  i  Franciosi  oratoti  al  re 
di  Macedonia  per  trattare  certo  accordo;  quel  re,  per  mo- 
strare la  potenza  sua  e  per  sbigottirli,  mostrò  loro  oro  ed  ar- 
gento assai  :  donde  quelli  Franciosi  che  di  già  avevano  come 
ferma  la  pace,  la  ruppono;  tanto  desiderio  in  loro  crebbe  di 
iòrgli  quell'oro:  e  cosi  fu  quel  re  spogliato  per  quella  cosa 
che  egli  aveva  per  sua  difesa  accumulata.  IVeniziani,  pochi 
anni  sono,  avendo  ancora  lo  erario  loro  pieno  di  tesoro,  per- 
derono  lutto  lo  stato ,  senza  potere  essere  difesi  da  quello.  Dico 
pertanto,  non  l'oro,  come  grida  la  comune  (opinione,  essere 
il  nervo  della  guerra,  ma  i  buoni  soldati  :  perchè  l' oro  non  è 
sutfiziente  a  trovare  i  buoni  soldati,  ma  i  buoni  soldati  son  ben 
sulTìzienti  a  trovare  1'  oro.  Ai  Romani,  s'egli  avessero  voluto 
fare  la  guerra  più  con  i  danari  che  con  il  ferro,  non  sarebbe 
bastato  avere  tutto  il  tesoro  del  mondo,  considerato  le  grandi 
imprese  che  feciono,  e  le  difficultà  che  vi  ebbono  dentro.  Ma 
facendo  le  loro  guerre  con  il  ferro,  non  patirono  mai  carestia 
dell'oro;  perchè  da  quelli  che  li  temevano  era  portato  l'oro* 
infino  ne' campi.  E  se  quel  re  sparlano  per  carestia  di  da- 
nari ebbe  a  tentare  la  fortuna  della  zutTa,  intervenne  a  lui 
quello,  per  conto  de' danari,  che  molte  volte  è  intervenuto 
per  altre  cagioni:  perchè  si  è  veduto  che,  mancando  ad  uno 
esercito  le  vettovaglie,  ed  essendo  necessitati  o  a  morire  di 
fame  o  azzuffarsi,  si  piglia  il  partito  sempre  di  azzuffarsi, 
per  essere  più  onorevole,  e  dove  la  fortuna  ti  può  in  qualche 
modo  favorire.  Ancora  è  intervenuto  molte  volte,  che  veg- 
gendo  uno  capitano  al  suo  esercito  nimico  venire  soccorso,  gli 
conviene  o  azzuffarsi  con  quello  e  tentare  la  fortuna  della 
zuffa;  o  aspettando  ch'egli  ingrossi,  avere  a  combattere  in 
ogni  modo,  con  mille  suoi  disavvantaggi.  Ancora  si  è  visto 
(come  intervenne  ad  Asdrubale  quando  nella  Marca  fu  assal- 
tato da  Claudio  Nerone,  insieme  con  l'altro  Consolo  romano), 
che  un  capitano  che  è  necessitalo  o  a  fuggirsi  o  a  combatte- 

*  L'  edizione  'lei  Biado  ha  qui  ^OfO. 


244  DEI   DISCORSI 

re,  come*  sempre  elegge  il  combattere;  parendogli  in  questo 
partito,  ancora  che  dubbiosissimo,  potere  vincere;  ed  in  quello 
altro,  avere  a  perdere  in  ogni  modo.  Sono,  adunque,  molte 
necessitati  che  fanno  a  uno  capitano  fuor  della  sua  intenzione 
pigliare  partito  di  azzuflfarsi;  intra  le  quali  qualche  volta  può 
essere  la  carestia  de'danari:  né  per  questo  si  debbono  i  danari 
giudicare  essere  il  nervo  della  guerra,  più  che  le  altre  cose 
che  inducono  gli  uomini  a  simile  necessità.  Non  è,  adunque, 
replicandolo  di  nuovo,  l'oro  il  nervo  della  guerra;  ma  i  buoni 
soldati.  Son  bene  necessari  i  danari  in  secondo  luogo,  ma  é 
una  necessità  che  i  soldati  buoni  per  sé  medesimi  la  vinco- 
no; perchè  è  impossibile  che  a' buoni  soldati  manchino  i  da- 
nari, come  che  i  danari  per  loro  medesimi  truovino  i  buoni 
soldati.  Mostra  questo  che  noi  diciamo  essere  vero,  ogni  iBto- 
ria  in  mille  luoghi;  non  ostante  che  Pericle  consigliasse  gli 
Ateniesi  a  fare  guerra  con  lutto  il  Peloponneso, mostrando  che 
e'  poteva^no  vincere  quella  guerra  con  la  industria  e  con  la 
forza  del  danaio.  E  benché  in  (ale  guerra  gli  Ateniesi  prò- 
sperassino  qualche  volta,  in  ultimo  la  perderono  ;  e  valson 
più  il  consiglio  e  gli  buoni  soldati  di  Sparla, che  la  industria 
ed  il  danaio  di  Alene.  Ma  Tito  Livio  è  di  questa  oppinione 
più  vero  testimone  che  alcuno  altro,  dove  discorrendo,  se  Ales- 
sandro Magno  fusse  venuto  in  Italia ,  s*  cali  avesse  vinto  i  Ro- 
mani, mostra  esser  tre  cose  necessarie  nella  guerra;  assai 
!  soldati  e  buoni,  capitani  prudenti,  e  buona  fortuna:  dove  esa- 
minando quali  o  i  Romani  o  Alessandro  prevalcssino  in  que- 
ste cose,  fa  dipoi  la  sua  conclusione  senza  ricordare  mai  i 
danari.  Doverono  i  Capovani,  quando  furono  richiesti  da'  Si- 
dicini  che  prendcssino  Tarme  per  loro  centra  ai  Sanniti,  mi- 
surare la  potenza  loro  dai  danari,  e  non  dai  soldati:  perché, 
preso  ch'egli  ebbero  partito  di  aiutarli,  dopo  due  rotte  furo- 
no constretli  farsi  tributari  de'Romani,  se  si  vollono  salvare. 

*  La  Romana  ha  :  che  nn  capitano  e  necessitato  o  a  fuggirsi  o  a  combat- 
tere ^  et  come  sempre  elegge  ec.  Potremmo  forse  creder  sincera  la  mancanza  dtl 
che  ma  non  così  l' aggiunta  dell'  et. 


LIBRO    SECONDO.  245 

Gap.  XI.  —  Non  è  partilo  prudente  fare  amicizia  con  un  principe 
che  abbia  più  oppinione  che  forze. 

Volendo  Tito  Livio  mostrare  Io  errore  de'  Sidicinì  a 
fidarsi  dello  aiuto  de'  Campani ,  e  lo  errore  de'  Campani  a 
credere  potergli  difendere,  non  lo  potrebbe  dire  con  più  vive 
parole,  dicendo:  Campani  magis  nomen  in  auxilium Sidicino- 
rum,  quam  vires  ad  praisidium  altulerunt.  Dove  si  debbe  no- 
tare, che  le  leghe  si  fanno  co' principi  che  non  abbino  o 
comodità  di  aiutarti  per  la  distanzia  del  sito,  o  forze  di  farlo 
per  suo  disordine  o  altra  sua  cagione ,  arrecano  più  famn 
che  aiuto  a  coloro  che  se  ne  fidano  :  come  intervenne  ne'  di 
nostri  a' Fiorentini,  quando,  nel  1479,  il  papa  ed  il  re  di 
Napoli  gli  assaltarono  ;  che  essendo  amici  del  re  di  Francia, 
-trassono  di  quella  amicizia  magis  nomen,  quam  praesidium  : 
come  interverrebbe  ancora  a  quel  principe,  che  confidatosi 
di  Massimiliano  imperatore,  facesse  qualche  impresa;  perchè 
questa  è  una  di  quelle  amicizie  che  arrecherebbe  a  chi  la 
•  facesse  magis  nomen ,  quam  prcesidium,  come  si  dice  in  que- 
sto testo  che  arrecò  quella  de'Capovani  ai  Sidicini.  Erra- 
rono, adunque,  in  questa  parte  i  Capovani,  per  parere  loro 
avere  più  forze  che  non  avevano.  E  cosi  fa  la  poca  prudenza 
delti  uomini  qualche  volta,  che  non  sappiendo  né  potendo 
difendere  sé  medesimi,  vogliono  prendere  imprese  di  difen- 
dere altrui  :  come  fecero  ancora  1  Tarentini,  i  quali,  sendo  gli 
eserciti  romani  allo  incontro  dello  esercito  de*  Sanniti,  man- 
dorono  ambasciadori  al  Consolo  romano,  a  fargli  intendere 
come  ei  volevano  pace  intra  quelli  duoi  popoli,  e  come  erano 
per  fare  guerra  contra  a  quello  che  dalla  pace  si  discostas- 
se; talché  il  Consolo,  ridendosi  di  questa  proposta,  alla  pre- 
senza di  detti  ambasciadori  fece  sonare  a  battaglia,  ed  al  suo 
esercito  comandò  che  andasse  a  trovare  il  nimico,  mostrando 
ai  Tarentini  con  l' opera,  e  non  con  le  parole,  di  che  risposta 
essi  erano  degni.  Ed  avendo  nel  presente  capitolo  ragionato 
dei  partiti  che  pigliano  i  principi  al  contrario  per  la  (Jifesa 
d' altrui,  voglio  nel  seguente  parlare  di  quelli  che  si  pigliano 
per  la  difesa  propria. 

"  21' 


246  DEI   DISCORSI 


Gap.  XII.  —  S*eglì  è  meglio,  temendo  di  essere  assalUUo, 
inferire,  o  aspellart  la  guerra. 

Io  ho  sentito  da  aomini  assai  pratichi  nelle  cose  della 
guerra  qualche  volta  disputare,  se  sono  daoi  principi  quasi 
di  eguali  forze,  se  quello  più  gagliardo  abbi  bandito  la  guerra 
contra  a  quello  altro,  quale  sia  miglior  partito  per  l'altro;  o 
aspettare  il  nimico  dentro  ai  conBni  suoi,  o  andarlo  a  tro- 
vare in  casa,  ed  assaltare  lui:  e  ne  ho  sentito  addurre  ra- 
gioni da  ogni  parte.  E  chi  difende  lo  andare  assaltare  altrui, 
ne  allega  il  consiglio  che  Creso  dette  a  Ciro,  quando  arrivato 
in  su*  confini  de' Massagcli  per  fare  lor  guerra,  la  lor  re- 
gina Tamiri  gli  mandò  a  dire,  che  eleggesse  quale  dc'duoi 
partili  volesse;  o  entrare  nel  regno  suo,  dove  essa  lo  aspette- 
rebbe ;  o  volesse  che  ella  venisse  a  trovar  lui.  E  venuta  la 
cosa  in  disputazione.  Creso,  contra  alla  oppinione  degli  altri, 
disse  che  si  andasse  a  trovar  lei  ;  allegando  che  se  egli  la 
vincesse  discosto  al  suo  regno,  che  non  gli  terrebbe  il  regno, 
perchè  ella  arebbe  tempo  a  rifarsi;  ma  se  la  vincesse  dentro 
a'  suoi  confini ,  potrebbe  seguirla  in  su  la  fuga ,  e  non  le  dando 
spazio  a  rifarsi ,  tórli  lo  stalo.  Allegane  ancora  il  consiglio  che 
dette  Annibale  ad  Antioco,  quando  quel  re  disegnava  fare 
guerra  ai  Romani  :  dove  ei  mostrò  come  i  Romani  non  si 
potevano  vìncere  se  non  in  Italia,  perchè  quivi  altri  si  po- 
teva valere  delle  arme  e  delle  ricchezze  e  degli  amici  loro  ; 
chi  gli  combatteva  fuora  d' Italia,  e  lasciava  loro  la  Italia  li- 
bera,  lasciava  loro  quella  fonte,  che  mai  li  mancava  *  vita  a 
somministrare  forze  dove  bisogna;  e  conchiuse  che  ai  Romani 
si  poteva  prima  tórre  Roma  che  lo  imperio  ;  prima  la  Italia 
che  le  altre  provincie.  Allega  ancora  Agatocle,  che  non  po- 
tendo sostenere  la  guerra  di  casa,  assaltò  i  Cartaginesi  che 
gliene  facevano,  e  gli  ridusse  a  domandare  pace.  Allega  Sci- 
pione, che  per  levare  la  guerra  d' Italia,  assaltò  la  AflTrica. 
Chi  parla  al  contrario  dice,  che  chi  vuole  fare  capitare  male 
uno  nimico,  lo  discosli  da  casa.  Allegane  gli  Ateniesi,  che 
mentre  che  feciono  la  guerra  comoda  alla  casa  loro ,  resta- 

*  l*  Testifta  e  T  celinone  del  181d:  manca. 


LIBRO    SECONDO.  247 

rono  superiori;  e  come  si  discoslarono,  ed  andarono  con  gli 
eserciti  in  Sicilia,  perderono  la  libertà.  Allega  le  favole  poe- 
tiche, dove  si  mostra  che  Anteo,  re  di  Libia,  assaltalo  da 
Ercole  Egizio,  fu  insuperabile  mentre  che  lo  aspellò  dentro 
a' confini  del  suo  regno;  ma  come  e' se  ne  discosto  per  astu- 
zia di  Ercole,  perde  lo  stalo  e  la  vita.  Onde  è  dato  luogo 
alla  favola  di  Anteo,  che  sondo  in  terra  ripigliava  le  forze 
da  sua  madre  che  era  la  Terra  ;  e  che  Ercole  avvedutosi  di 
questo,  lo  levò  in  allo,  e  discoslollo  dalla  terra.  Allegane  an- 
cora i  giudizi  moderni.  Ciascuno  sa  come  Ferrando  re  di 
Napoli  fu  ne'  suoi   tempi  tenuto  uno  savissimo  principe  :  e 
venendola  fama,  duoi  anni  avanti  la  sua  morte,  come  il  re 
di  Francia  Carlo  Vili  voleva  venire  ad  assaltarlo ,  avendo 
fatte  assai  preparazioni,  ammalò;  e  venendo  a  morte,  intra 
gli  altri  ricordi  che  lasciò  ad  Alfonso  suo  figliuolo,  fu  che  egli 
aspettasse  il  nimico  dentro  al  regno  ;  e  per  cosa  del  mondo 
non  traesse  forze  fuori  dello  slato  suo,  ma  lo  aspettasse  den- 
tro ai  suoi  confini  tutto  intero  :  il  che  non  fu  osservato  da 
quello  ;  ma  mandato  uno  esercito  in  Romagna,  senza  com-' 
battere  perde  quello,  e  lo  slato.  Le  ragioni  che ,  oltre  alle 
cose  delle,  da  ogni  parte  si  adducono,  sono:  che  chi  assalta 
viene  con  maggiore  animo  che  chi  aspetta,  il  che  fa  più 
confidente  lo  esercito:  toglie,  olirà  di  questo,  molle  comodità 
al  nimico  di  potersi  valere  delle  sue  cose ,  non  si  polendo 
valere  di  quei  sudditi  che  sieno  saccheggiati  ;  e  per  avere  il 
nimico  in  casa,  è  constrelto  il  signore  avere  più  rispetto  a 
trarre  da  loro  danari  ed  affaticargli:  sicché  e'  viene  a  seccare 
quella  fonte,  come  dice  Annibale,  che  fa  che  colui  può  sos- 
tenere la  guerra.  Oltre  di  questo,  isuoi  soldati,  per  trovarsi 
ne'  paesi  d'altrui,  sono  più  necessitati  a  combattere;  e  quella 
necessilà  fa  virtù,  come  più  volte  abbiamo  detto.  Dall'altra 
parte  si  dice:  come  aspettando  il  nimico,  si  aspetta  con  assai 
vantaggio,  perchè  senza  disagio  alcuno  tu  puoi  dare  a  quello 
molti  disagi  di  vettovaglia,  e  d'ogni  altra  cosa  che  abbia  bi- 
sogno uno  esercito:  puoi  meglio  impedirli  i  disegni  suoi, 
per  la  notizia  del  paese  che  tu  hai  più  di  lui  :  puoi  con  più 
forze  incontrarlo,  per  poterle  facilmente  tutte  unire,  ma 
non  potere  già  tutte  discostarle  da  casa:  puoi  sondo  rollo  ri- 


248  DEI   DISCORSI 

farli  facilmente  ;  sì  perchè  del  tuo  esercito  se  ne  salverà 
assai,  per  avere  i  lifogì  propinqui;  si  perchè  il  supplemento 
non  ha  a  venire  discosto  :  tanto  che  tu  vieni  arrischiare 
tutte  le  forze,  e  non  tutta  la  fortuna;  e  discostandoti,  arrischi 
tutta  la  fortuna,  e  non  tutte  le  forze.  Ed  alcuni  sono  stati 
che  per  indebolire  meglio  il  suo  nimico,  Io  lasciano  entrare 
parecchie  giornale  in  su  il  paese  loro,  e  pigliare  assai  terre; 
acciò  che,  lasciando  i  presidii  in  tutte,  indebolisca  il  suo  eser- 
cito, e  possinlo  dipoi  combattere  più  facilmente.  Ma,  per  dire 
ora  io  quello  che  io  ne  intendo,  io  credo  che  si  abbia  a  fare 
questa  distinzione:  o  io  ho  il  mio  paese  armato,  come  i  Ro- 
mani, o  come  hanno  i  Svizzeri  ;  o  io  Tho  disarmalo',  come 
avevano  i  Cartaginesi,  o  come  l'hanno  i  re  di  Francia  e 
gli  Italiani.  In  questo  caso,  si  debbe  tenere  il  nimico  discosto 
a  casa  ;  perchè  sendo  la  tua  virtù  nel  danaio  e  non  negli 
Qomini,  qualunque  volta  ti  è  impedita  la  via  di  quello,  tu  sci 
spaccialo  ;  né  cosa  veruna  le  lo  impedisce  quanto  la  guerra 
di  casa.  In  essempi  ci  sono  i  Cartaginesi  ;  i  quali  mentre  che 
ebbero  la  casa  loro  libera ,  poterono  con  le  rendile  fare 
guerra  con  i  Romani;  e  quando  la  avevano  assaltala,  non 
potevano  resistere  ad  Agalocle.  I  Fiorentini  non  avevano 
rimedio  alcuno  con  Caslruccio  signore  di  Lucca,  perchè  ei 
faceva  loro  la  guerra  in  casa  ;  tanto  che  gli  ebbero  a  darsi, 
per  essere  difesi,  al  re  Roberto  di  Napoli.  Ma  morto  Caslruc- 
cio, quelli  medesimi  Fiorentini  ebbero  animo  di  assaltare  il 
duca  di  Milano  in  casa,  ed  operare  di  tòrgli  il  regno:  tanta 
virtù  mostrarono  nelle  guerre  longinque,  e  tanta  viltà  nelle 
propinque.  Ma  quando  i  regni  sono  armati,  come  era  armala 
Roma  e  come  sono  i  Svizzeri,  sono  più  difficili  a  vincere 
quanto  più  ti  appressi  loro  :  perchè  questi  corpi  possono 
unire  più  forze  a  resistere  ad  uno  impelo,  che  non  possono 
ad  assaltare  altrui.  Né  mi  muove  in  questo  caso  V  autorità 
di  Annibale,  perchè  la  passione  e  l'utile  suo  gli  faceva  cosi 
dire  ad  Antioco.  Perchè,  sei  Romani  avessino  avute  in  tanto 
spazio  di  tempo  quelle  tre  rotte  in  Francia  ch'egli  ebbero 
in  Italia  da  Annibale,  senza  dubbio  erano  spacciati:  perchè 
non  si  sarebbono  valuti  de' residui  degli  eserciti,  come  si 
valsono  in  Italia;  non  arebbono  avuto  a  rifarsi  quelle  corno- 


LIBRO   SECONDO.  249 

dita;  né  potevano  con  quelle  forze  resistere  al  nimico,  che 
poterono.  Non  si  trova  che,  per  assaltare  una  provincia,  loro^ 
raandassino  mai  fuora  eserciti  che  passassino  cinquantamila 
persone;  ma  per  difendere  la  casa  ne  misono  in  arme  centra 
ai  Franciosi,  dopo  la  prima  guerra  punica,  diciolto  centinaia 
di  migliaia.  Né  arebbono  potuto  poi  romper  quelli  in  Lombar- 
dia, come  gli  ruppono  in  Toscana;  perchè  centra  a  tanto 
numero  di  nimici  non  arebbono  potuto  condurre  tante  forze 
si  discosto,  né  combattergli  con  quella  comodità.  1  Cimbri 
ruppono  uno  esercito  romano  in  la  Magna,  né  vi  ebbono  i 
Romani  rimedio.  Ma  come  egli  arrivorono  in  Italia,  e  che 
poterono  mettere  tutte  le  loro  forze  insieme,  gli  spacciarono. 
1  Svizzeri  è  facile  vincergli  fuori  di  casa,  dove  e' non  pos- 
sono mandare  più  che  un  trenta  o  quarantamila  uomini;  ma 
vincergli  in  casa,  dove  e'  ne  posspno  raccozzare  centomila, 
è  difficilissimo.  Conchiuggo  adunque  di  nuovo,  che  quel  prin- 
cipe che  ha  i  suoi  popoli  armali  ed  ordinati  alla  guerra ,  aspetti 
sempre  in  casa  una  guerra  potente  e  pericolosa,  e  non  la 
vadia  a  rincontrare:  ma  quello  che  ha  i  suoi  sudditi  disar-  *-  ^ 
mali,  ed  il  paese  inusitato  della  *  guerra,  se  la  discosti  sempre  .  .• 

da  casa  il  più  che  può.  E  così  V  uno  e  l' altro,  ciascuno  nel     '   v-*** 
suo  grado,  si  difenderà  meglio.  (>>4-c|*^ 


Gap.  XIII.  —  Che  si  viene  di  bassa  a  gran  fortuna  più  con 
la  f rande,  che  con  la  forza. 


Io  slimo  essere  cosa  verissima,  che  rado,  o  non  mai,  in-         ^,$4 
tervenga  che  gli  uomini  di  piccola  fortuna  venghino  a  gradi  *^'*'**^ 
grandi,  senza  la  forza  e  senza  la  fraude;  purché  quel  grado  {^*%^^ 
al  quale  altri  é  pervenuto,  non  ti  sia  0  donato,  o  lasciato  per     y     ? 
eredità.Né  credo  sì  truovi  mai  che  la  forza  sola  basti,  ma  si  !         ' 
troverà  bene  che  la  fraude  sola  basterà  :  come  chiaro  vedrà 
colui  che  leggerà  la. vita  dì  Filippo  di  Macedonia,  quella  di 
Agatocle  siciliano,  e  di  molti  altri  simili,  che  d'infima  ov- 

*  L'  edizione  Romana  :  Non  si  trova  per  assaltare  una  provìncia  che 
/oro  j- e  quella  del  Ì813:  Non  si  trova  che  per  assaltare  una  provincia ,  che 
loro. 

*  Cosi  la  Romana.  Le  al» re  edizioni:  alla.  * 


250  DEI   DISCORSI 

vero  di  bassa  fortuna,  sono  pervenali  o  a  regno  o  ad  imperi 
grandissimi. Mostra  Senofonte,  nella  sua  vita  di  Ciro,  questa 
necessità  dello  ingannare;  considerato  che  la  prima  {spedi- 
zione che  fa  fare  a  Ciro  contra  il  re  di  Armenia,  è  piena  di 
fraude,  e  come  con  inganno,  e  non  con  forza,  gli  fa  occupare 
il  suo  regno  ;  e  non  conchiude  altro  per  tale  azione,  se  non 
che  ad  un  principe  che  voglia  fare  gran  cose,  è  necessario 
imparare  a  ingannare.  Fagli,  oltra  di  questo,  ingannare  Cias 
sare,  re  de'Medi,  suo  zio  materno,  in  più  modi;  senza  la  quale 
fraude  mostra  che  Ciro  non  poteva  pervenire  a  quella  gran- 
dezza che  venne.  Né  credo  che  si  truovi  mai  alcuno  consti- 
(uito  in  bassa  fortuna,  pervenuto  a  grande  imperio  solo  con 
la  forza  aperta  ed  ingenuamente,  ma  si  bene  solo  con  la  frau- 
de :  come  fece  Giovanni  Galeazzo  per  lòr  lo  stalo  e  lo  imperio 
di  Lombardia  a  messcr  Bernabò  suo  zio.  E  quel  che  sono  ne- 
cessitati fare  i  principi  ne'principii  degli  augnmenti  loro,  sono 
ancora  necessitate  a  fare  le  repubbliche,  inGno  che  le  sieno 
diventate  potenti,  e  che  basti  la  forza  sola.  E  perchè  Roma 
(enne  in  ogni  parte,  o  per  sorte  o  per  elezione,  tutti  i  modi 
necessari  a  venire  a  grandezza,  non  mancò  ancora  di  questo. 
Né  potè  usare,  nel  principio,  il  maggiore  inganno,  che  pigliare 
il  modo  di  sopra  discorso  da  noi,  di  farsi  compagni;  perchè 
sotto  questo  nome  se  li  fece  servi:  come  furono  i  Latini,  ed  al- 
tri popoli  air  intorno.  Perchè  prima  si  valse  dell'arme  loro  in 
domare  i  popoli  convicini,  e  pigliare  la  riputazione  dello  stato: 
dipoi,  domatogli,  venne  in  tanto  augumento,  che  la  poteva 
battere  ciascuno.  Ed  i  Latini  non  si  avviddono  mai  di  essere 
al  tutto  servi,  se  non  poi  che  viddono  dare  due  rotte  ai  San- 
niti, e  costrettigli  ad  accordo.  La  quale  vittoria,  come  ella  ac- 
crebbe gran  riputazione  ai  Romani  coi  principi  longinqui,  che 
mediante  quella  sentirono  il  nome  romano  e  non  l' armi;  cosi 
generò  invidia  e  sospetto  in  quelli  che  vedevano  e  sentivano 
l'armi,  intra  i  quali  furono  i  Latini.  E  tanto  potè  questa  invi- 
dia e  questo  timore,  che  non  solo  i  Latini,  ma  le  colonie  che 
essi  avevano  in  Lazio,  insieme  con  i  Campani,  slati  pocoin- 
nanti  diTesi,  congiurarono  contra  al  nome  romano.  £  mòssono 
questa  guerra  i  Latini  nel  modo  che  si  dice  di  sopra  che  si 
muovono  la  maggior  parte  delle  guerre,  assaltando   non 


LIBRO   SECONDO.  251 

Romani,  ma  difendendo  i  Sidicini  centra  ai  Sanniti;  a' quali 
i  Sanniti  facevano  guerra  con  licenza  de'  Romani.  E  che  sia 
vero  che  i  Latini  si  movessino  per  avere  conosciuto  questo 
inganno,  lo  dimostra  Tito  Livio  nella  bocca  di  Annio  Setino 
pretore  latino,  il  quale  nel  consiglio  loro  disse  queste  pa- 
role: Nam,  si  eliam  nunc  sub  umbra  foìderis  cequi  servilulem 
pali  possumus  eie.  Vedasi  pertanto  i  Romani  ne'  primi  augu- 
raenti  loro  non  essere  mancati  eziam  della  fraude;  la  quale 
fu  sempre  necessaria  ad  usare  a  coloro  che  di  piccoli. prin- 
cipii  vogliono  a  sublimi  gradi  salire  :  la  quale  è  meno  vitu- 
perabile quanto  è  più  coperta,  come  fu  questa  de'  Romani. 

Gap.  XIV.  —  Ingannansi  molle  volte  gli  uomini,  credendo  con 
la  umilila  vincere  la  superbia. 

Vedesi  molte  volte  come  la  umilila  non  solamente  non 
giova,  ma  nuoce,  massimamente  usandola  con  gli  uomini  in- 
solenti, che,  o  per  invidia  o  per  altra  cagione,  hanno  concello 
odio  teco.  Di  che  ne  fa  fede  lo  isterico  nostro  in  questa  cagione 
di  guerra  intra  i  Romani  ed  i  Latini.  Perchè,  dolendosi  i  San- 
niti con  i  Romani  che  i  Latini  gli  avevano  assaltati,  i  Ro- 
mani non  vollono  proibire  ai  Latini  tal  guerra,  desiderando 
non  gli  irritare  ;  il  che  non  solamente  non  gli  irritò,  ma  gli 
fece  diventare  più  animosi  centra  a  loro,  e  si  scopersono  più 
presto  inimici.  Di  che  ne  fanno  fede  le  parole  usate  dal  pre- 
falo  Annio  pretore  latino  nel  medesimo  concilio,  dove  dice: 
Tenlaslis  palienliam  negando  mililem  :  quis  dubitai  exarsisse 
eos  ?  Perlulerunt  tamen  hunc  dolorem.  Exercilus  nos  parare 
adversus  Samniles  faideralos  suos  audierunt,  nec  moverunl  se 
ab  urbe,  linde  hoec  illis  tanta  modestia,  nisi  a  conscienlia  vi- 
rium,  el  noslrarum,  et  suarum?  Conoscesi,  pertanto,  chiaris- 
simo per  questo  testo,  quanto  la  pazienza  de'  Romani  ac- 
crebbe l'arroganza  de' Latini.  E  però,  mai  uno  principe 
debbe  volere  mancare  del  grado  suo ,  e  non  debbe  mai 
lasciare  alcuna  cosa  d' accordo,  volendola  lasciare  onore- 
volmente, se  non  quando  e' la  può,  o  e' si  crede  che  la 
possa  tenere:  perchè  gli  è  meglio  quasi  sempre,  sendosi 
condotta  la  cosa  in  termine  che  tu  non  la  possa  lasciare  nel 


252  DEI    DISCORSI 

modo  deUo,  lasciarsela  lòrre  con  le  forze,  che  con  la  paura 
delle  forze.  Perchè,  se  la  la  lasci  con  la  paura,  lo  fai  per 
levarli  la  guerra, ed  il  più  delle  volle  non  te  la  lievi:  perchè 
colui  a  chi  lu  arai  con  una  viltà  scoperta  concesso  quella, 
non  starà  saldo,  ma  li  vorrà  lòrre  delle  altre  cose,  e  si  ac- 
cenderà «più  centra  dì  le,  stimandoli  meno;  e  dall'altra  parie, 
in  tuo  favore  troverai  i  difensori  più  freddi,  parendo  loro 
che  lu  sia  o  debole,  q  vile:  ma  se  lu,  subilo  scoperta  la  vo- 
glia dello  avversario,  prepari  le  forze,  ancoraché  le  siano 
inferiori  a  lui,  quello  li  comincia  a  stimare;  slimanti  più  gli 
altri  principi  allo  intorno  ;  ed  a  tale  viene  voglia  di  aiutarli, 
sendo  in  su  l'arme,  che  abbandonandoli  non  ti  aiuterebbe  mai. 
Questo  si  intende  quando  tu  abbia  uno  inimico  ;  ma  quando 
ne  avessi  più,  rendere  delle  cose  che  lu  possedessi  ad  alcuno 
di  loro  per  riguadagnarselo,  ancoraché  fusse  di  già  scoperta 
la  guerra,  e  per  smembrarlo  dagfi  altri  confederali  tuoi  ini- 
mici, fia  sempre  partilo  prudente. 

Cap.  XV.  —  Gli  siali  deboli  sempre  fieno  ambigui  nel  risolversi: 
e  sempre  le  deliberazioni  lente  sono  nocive. 

In  questa  medesima  materia,  ed  in  questi  medesimi  prin- 
cipi! di  guerra  intra  i  Latini  ed  ì  Romani ,  si  può  notare  come 
in  ogni  consulta  è  bene  venire  allo  individuo  di  quello  che 
si  ha  a  deliberare,  e  non  stare  sempre  in  ambiguo,  né  in  su 
lo  incerto  della  cosa.  II  che  si  vede  manifesto  nella  consulla 
che  feciono  i  Latini, quando  e'  pensavano  alienarsi  da'Romani. 
Perchè  avendo  presentito  questo  cattivo  umore  che  ne'popoli 
latini  era  entrato,  i  Romani,  per  certificarsi  della  cosa,  e  per 
vedere  se  potevano  senza  mettere  mano  all'arme  riguada- 
gnarsi quelli  popoli,  fecero  loro  intendere,  come  e'mandasscro 
a  Roma  otto  cittadini,  perchè  avevano  a  consultare  con  loro. 
1  Latini  inleso  questo,  ed  avendo  conscienza  di  molte  cose 
falle  centra  alla  voglia  de'Romani,  feciono  consiglio  per  or- 
dinare chi  dovesse  ire  a  Roma,  e  dargli  commissione  di 
quello  ch'egli  avesse  a  dire.  E  stando  nel  consiglio  in  quesla 
dispula,  Annio  loro  pretore  disse  queste  parole:  Ad  summam 
rerum  nastrar um  perlinere  arbilror,  ut  cogiletis  magis,  quid 


LIBRO    SECONDO.  253 

agendum  nobis,  quam  quid  loquendum  siL  Facile  erit,  eocpli- 
calis  consiliis,  accommodare  rebus  verba.  Sono,  senza  dubbio, 
queste  parole  verissime,  e  debbono  essere  da  ogni  principe 
e  da  ogni  repubblica  gustale:  perchè  nella  ambiguità  e  nella 
incertiludine  di  quello  che  altri  voglia  fare,  non  si  sanno 
accomodare  le  parole;  ma  fermo  una  volta  l'animo,  e  deli- 
berato quello  sia  da  eseguire,  è  facil  cosa  trovarvi  le  parole. 
Io  ho  notato  questa  parte  più  volentieri,  quanto  io  ho  molte 
volle  conosciuto  tale  ambiguità  avere  nociuto  alle  pubbliche 
azioni,  con  danno  e  con  vergogna  della  repubblica  nostra. 
E  sempre  mai  avverrà,  che  ne- partiti  dubbii,  e  dove  bisogni 
animo  a  deliberargli,  sarà  questa  ambiguità,  quando  abbino 
ad  esser  consigliati  e  deliberati  da  uomini  deboli.  Non  sono 
meno  nocive  ancora  le  deliberazioni  lente  e  tarde,  che  am- 
bigue; massime  quelle  che  si  hanno  a  deliberare  in  favore 
dì  alcuno  amico  :  perchè  con  la  lentezza  loro  non  si  aiuta 
persona,  e  nuocesi  a  sé  medesimo.  Queste  deliberazioni  cosi 
fatte  precedono  o  da  debolezza  di  animo  e  di  forze ,  o  da 
malignità  di  coloro  che  hanno  a  deliberare;  i  quali,  mossi 
dalla  passion  propria  di  volere  rovinare  lo  stato  o  adempire 
qualche  suo  desiderio,  non  lasciano  seguire  la  deliberazione, 
ma  la  impediscono  e  la  attraversano.  Perchè  i  buoni  cittadi- 
ni, ancoraché  vegg.iinouna  foga  popolare  voltarsi  alla  parie 
perniciosa,*  mai  impediranno  il  deliberare ,  massime  di  quelle 
cose  che  non  aspettano  tempo.  Morto  che  fu  Girolamo  tiranno 
in  Siracusa,  essendo  la  guerra  grande  intra  i  Cartaginesi  ed  i 
llomani,  vennono  i  Siracusani  in  disputa  se  dovevano  seguire 
l'amicizia  romana  o  la  cartaginese.  E  tanto  era  lo  ardore  delle 
parti,  che  la  cosa  stava  ambigua,  né  se  ne  prendeva  alcuno 
partito;  insino  a  tanto  che  Apollonide,  uno  de*  primi  in  Si- 
racusa, con  una  sua  orazione  piena  di  prudenza,  mostrò 
come  non  era  da  biasimate  chi  teneva  Toppinione  di  aderirsi 
ai  Romani ,  né  quelli  che  volevano  seguire  la  parte  cartagi- 
nese ;  ma  era  bene  da  detestare  quella  ambiguità  e  tardità 
di  pigliare  il  partilo,  perchè  vedeva  al  tutto  in  tale  ambi- 
guità la  rovina  della  repubblica;  ma  preso  che  si  fusse  il 
partito,  qualunque  e'si  fusse,  si  poteva  sperare  qualche  bene. 

'  Cosi  nelle  cdiiioiii  del  1531  e  18 11^.  Nelle  ììlrt  :  pericolosa. 

22 


2o4  DEI    DISCORSI 

Né  potrebbe  mosirare  più  Tito  Livio  che  si  faccia  in  questa 
parie,  il  danno  che  si  (ira  dietro  lo  slare  sospeso.  Dimostralo 
ancora  in  questo  caso  de'  Latini:  perchè,  sendo  i  Latini  ri> 
cerchi  da  loro  d'aiuto  contra  i  Romani,  differirono  tanto  a 
deliberarlo,  che  quando  eglino  erano  usciti  appunto  fuora 
della  porla  con  la  gente  per  dare  loro  soccorso,  venne  la 
nuova  i  Latini  essere  rotti.  Donde  Milonio  loro  pretore  disse: 
Questo  poco  della  via  ci  costerà  assai  col  Popolo  romano. 
Perchè,  se  si  deliberavano  prima  o  di  aiutare  o  di  non  aiu- 
tare i  Latini,  non  gli  aiutando,  ei  non  irritavano  i  Uomnni; 
aiutandogli,  essendo  l'aiuto  in  tempo,  potevano  con  la  ag- 
giunta delle  loro  forze  fargli  vincere:  ma  differendo,  veni- 
vano a  perdere  in  ogni  modo,  come  intervenne  loro.  E  se  i 
Fiorentini  avessino  notalo  questo  testo,  non  arebbono  avuto 
co' Franciosi  né  tanti  danni  né  (ante  noie,  quante  ebbono 
nella  passata  del  re  Luigi  di  Francia  XII,  che  fece  in  Italia 
contra  a  Lodovico  duca  di  Milano.  Perchè,  trattando  il  re  tale 
passata,  ricercò  i  Fiorentini  d'accordo:  e  gli  oratori  che  erano 
appresso  al  re,  accordarono  con  lai  che  gli  stessine  neutrali, 
e  che  il  re  venendo  in  Italia  gli  avesse  a  mantenere  nello 
stato  e  ricevere  in  protezione  :  e  dette  tempo  un  mese  alla 
città  a  ratificarlo.  Fu  differita  tale  ratificazione  da  chi  per 
poca  prudenza  favoriva  le  cose  di  Lodovico:  intanlochè,  il  re 
già  sendo  iti  su  la  vi((oria,  e  volendo  poi  i  Fiorcnlini  ratifi- 
care, non  fu  la  ratificazione  accettata;  come  quello  che  co- 
nobbe i  Fiorentini  essere  venuti  forzati,  e  non  voluntari  nella 
amicizia  sua.  11  che  costò  alla  città  di  Firenze  assai  danari, 
e  fu  per  perdere  lo  stalo:  come  poi  altra  volta  per  simile 
causa  li  intervenne.  E  tanto  più  fu  dannabile  quel  partito, 
perché  non  'si  servi  ancora  il  duca  Lodovico  ;  il  quale  se 
avesse  vinto,  arebbe  mostri  molti  più  segni  di  inimicizia 
centra  ai  Fiorentini,  che  non  fece  il  re.  E  benché  del  male 
che  nasce  alle  repubbliche  di  questa  debolezza  se  ne  sia  di 
sopra  in  uno  altro  capitolo  discorso;  nondimeno,  avendone  di 
nuovo  occasione  per  un  nuovo  accidente,  ho  voluto  repli- 
carne; *  parendomi,  massime,  materia  che  debba  esser  dalle 
repubbliche  simili  alla  nostra  notata. 

*  Lì  Bljduna  :  replicare. 


LIBRO   SECONDO.  255 


Gap.  XVI.  —  Quanto  i  soldati  ne'  nostri  tempi  si  disformino 
dalli  antichi  ordini. 

La  più  importanle  giornata  che  fu  mai  falla  in  alcuna 
guerra  con  alcuna  nazione  dal  Popolo  romano,  fu  questa  che 
ei  fece  con  i  popoli  latini,  nel  consolalo  di  Torquato  e  di  De- 
cio.  Perchè  ogni  ragione  vuole ,  che  cosi  come  i  Latini  per 
averla  perduta  diventarono  servi,  così  sarebbono  stati  servì 
ì  Romani,  quando  non  la  avessino  vinta. E  di  questa  oppinione 
è  Tito  Livio  ;  perchè  in  ogni  parte  fa  gli  eserciti  pari  di  or- 
dine, di  virtù,  di  ostinazione  e  di  numero:  solo  vi  fa  difife- 
renza,  che  i  capi  dello  esercito  romano  furono  più  virtuosi 
che  quelli  dello  esercito  latino.  Vedesi  ancora  come  nel  ma- 
neggio di  questa  giornata  nacquero  duoi  accidenti  non  prima 
nati,  e  che  dipoi  hanno  rari  esempi:  che  de'duoi  Consoli,  per 
tenere  fermi  gli  animi  de' soldati,  ed  ubbidienti  al  coman- 
damento loro,  e  diliberati  al  combattere,  V  uno  ammazzò  sé 
slesso,  e  l'altro  il  figliuolo.  La  parità,  che  Tito  Livio  dice  es- 
sere in  questi  eserciti,  era  che,  per  avere  militato  gran  tempo 
insieme,  erano  pari  di  lingua,  d'ordine  e  d'arme:  perchè 
nello  ordinare  la  zuffa  tenevano  uno  modo  medesimo;  e  gli  or- 
dini ed  i  capi  degli  ordini  avevano  medesimi*  nomi.  Era  dun- 
que necessario,  sendo  di  pari  forze  e  di  pari  virtù,  che  na- 
scesse qualche  cosa  istraordinaria,  che  fermasse  e  facesse  più 
ostinali  gli  animi  dell'uno  che  dell'  altro:  nella  quale  ostina- 
zione consiste,  come  altre  volte  si  è  dello,  la  vittoria;  perchè 
mentre  che  la  dura  ne* petti  di  quelli  che  combattono,  mai 
non  danno  volta  gli  eserciti.  E  perchè  la  durasse  più  ne'petli 
de' Romani  che  de' Latini,  parte  la  sorte,  parte  la  virtù  de' 
Consoli  fece  nascere,  che  Torquato  ebbe  ad  ammazzare  il 
figliuolo,  e  Decio  sé  slesso.  Mostra  Tito  Livio,  nel  mostrare 
questa  parililà^  di  forze,  lutto  l'ordine  che  tenevano  i  Romani 
nelli  eserciti  e  nelle  zuffe.  Il  quale  esplicando  egli  largamen- 
te, non  replicherò  altrimenti  ;  ma  solo  discorrerò  quello  che  io 

*    tii'ci'ano  i  medesimi  ,  è  soltanto  nell'edizione  del  1813. 
2  Gli  editori  del  1813,  non  avendo  trovato  nella  Crusca  questo  vocabolo, 
fi  credettero  abilitati  a  riformarlo,  e  scrissero /JAtr/YÀ. 


256  Dtl    DISCORSI 

vi  giudico  notabile,  e  quello  che  per  essere  negletto  da  tutti  i 
capitani  di  questi  tempi,  ha  fatto  negli  eserciti  e  nelle  zuOTe  di 
molti  disordini.  Dico,  adunque,  che  per  il  testo  di  Livio  si  rac- 
coglie ,  come  lo  esercito  romano  aveva  tre  divisioni  principali, 
le  quali  toscanamente  si  possono  chiamare  tre  schiere;  e  nomi- 
navano la  prima  astati,  la  seconda  principi,  la  terza  triarii:  o 
ciascuna  di  queste  aveva  i  suoi  cavalli.  Nello  ordinare  una  zuf- 
fa, ei  mettevano  gli  astati  innanzi;  nel  secondo  luogo,  per  di- 
ritto, dietro  alle  spalle  di  quelli,  ponevano  i  principi  ;  nel  terzo, 
pure  nel  medesimo  filo,  collocavano  i  triarii.  I  cavalli  di  tutti 
questi  ordini  gli  ponevano  a  destra  ed  a  sinistra  di  queste  tre 
battaglie  ;  le  schiere  de' quali  cavalli,  dalla  forma  loro  e  dal 
luogo,  si  chiamavano  atee,  perchè  parevano  come  due  alie  di 
quel  corpo.  Ordinavano  la  prima  schiera  delti  astati,  che  era 
nella  fronte,  serrala  in  modo  insieme  che  la  potesse  spigno- 
ra e  sostenere  il  nimico.  La  seconda  schiera  de'  principi , 
perchè  non  era  la  prima  a  combattere,  ma  bene  le  conveniva 
soccorrere  alla  prima  quando  fusse  battuta  o  urtata,  non  la 
facevano  stretta,  ma  mantenevano  i  suoi  ordini  radi,  e  di 
qualità  che  la  potesse  ricevere  in  sé  senza  disordinarsi  la  pri- 
ma, qualunque  volta,  spinta  dal  nimico,  fusse  necessitata  riti- 
rarsi. La  terza  schiera  de' triarii  aveva  ancora  gli  ordini  più 
radi  che  la  seconda,  per  potere  ricevere  in  sé,  bisognando,  le 
due  prime  schiere  de*  principi  e  degli  astati.  Collocate,  dun- 
que, queste  schiere  in  questa  forma,  appiccavano  la  zuffa:  e 
se  gli  astati  erano  sforzati  o  vinti,  si  ritiravano  nella  radila 
degli  ordini  de' principi  ;  e  tutti  insieme  uniti,  fatto  di  due 
schiere  nn  corpo,  rappiccavano  la  zuffa:  se  questi  ancora 
erano  ributtati  e  sforzati,  si  ritiravano  tutti  nella  radila  degli 
ordini  de'triarii  ;  e  tutte  tre  le  schiere  diventate  un  corpo, 
rinnovavano  la  zuffa  :  dove  essendo  superati ,  per  non  avere 
più  da  rifarsi,  perdevano  la  giornata.  E  perchè  ogni  volta 
che  questa  ultima  schiera  de'triarii  si  adoperava,  lo  esercito 
era  in  pericolo,  ne  nacque  quel  proverbio:  Resredacla  est  ad 
Iriarios;  che  ad  uso  toscano  vuol  dire  :  Noi  abbiamo  messo 
r  ultima  posta.  I  capitani  dei  nostri  tempi,  come  egli  hanno 
abbandonato  tutti  gli  altri  ordini,  e  della  antica  disciplina  ei 
pon  ne  osservano  parte  alcuna,  cosi  hanno  abbandonata  questa 


LIBRO   SECONDO.  257 

parte,  la  quale  non  è  di  poca  importanza:  perchè  chi  si  or- 
dina da*  potersi  nelle  giornate  rifare  tre  volte,  ha  ad  avere 
tre  volte  inimica  la  fortuna  a  volere  perdere,  ed  ha  ad  avere 
per  iscontro  una  virtù  che  sia  atta  tre  volle  a  vincerlo.  Ma 
chi  non  sta  se  non  in  su  '1  primo  urto,  come  stanno  oggi  gli 
eserciti  cristiani,  può  facilmente  perdere;  perchè  ogni  disor- 
dine, ogni  mezzana  virtù  gli  può  tórre  la  vittoria.  Quello  che 
fa  agli  eserciti  nostri  mancare  di  potersi  rifare  tre  volte,  è 

10  avere  perduto  il  modo  di  ricevere  V  una  schiera  neir  altra. 

11  che  nasce  perchè  al  presente  s' ordinano  le  giornate  con 
uno  di  questi  duoi  disordini:  o  eì  mettono  le  loro  schiere  a 
spalle  runa  dell'altra,  e  fanno  la  loro  battaglia  larga  per 
traverso,  e  sottile  per  diritto;  il  che  la  fa  più  debole,  per  aver 
poco  dal  petto  alle  schiene.  E  quando  pure,  per  farla  più  forte, 
ei  riducono  le  schiere  per  il  verso  de' Romani,  se  la  prima 
fronte  è  rotta,  non  avendo  ordine  di  essere  ricevuta  dalla  se- 
conda, s'ingarbugliano  insieme  tutte,  e  rompono  sé  medesi- 
me: perchè  se  quella  dinanzi  è  spinta,  ella  urta  la  seconda; 
se  la  seconda  sì  vuol  far  innanzi,  ella  è  impedita  dalla  pri- 
ma :  donde  che,  urtando  la  prima  la  seconda,  e  la  seconda  la 
terza,  ne  nasce  tanta  confusione,  che  spesso  uno  minimo  ac- 
cidente rovina  uno  esercito.  Gli  eserciti  spagnuoli  e  franciosi 
nella  zuCfa  di  Ravenna,  dove  mori  monsignor  de  Fois  capi- 
tano delle  genti  di  Francia  (la  quale  fu,  secondo  i  nostri  tem- 
pi, assai  bene  combattuta  giornata),  s' ordinarono  con  uno  de' 
soprascritti  modi;  cioè  che  l' uno  e  l' altro  esercito  venne  con 
tutte  le  sue  genti  ordinate  a  spalle:  in  modo  che  non  veni- 
vano avere  né  1'  uno  né  l'altro  se  non  una  fronte,  ed  erano 
assai  più  per  il  traverso  che  per  il  diritto.  E  questo  avviene 
loro  sempre  dove  egli  hanno  la  campagna  grande,  come  gli 
avevano  a  Ravenna:  perchè,  conoscendo  il  disordine  che  fan- 
no nel  ritirarsi,  mettendosi  per  un  filo,  lo  fuggono  quando  e* 
possono  col  fare  la  fronte  larga,  com'è  detto;  ma  quando  il 
paese  gli  ristringe,  si  stanno  nel  disordine  soprascritto,  senza 
pensare  il  rimedio.  Con  questo  medesimo  disordine  cavalcano 
per  il  paese  inimico,  o  se  e'predano,  o  se  e'fanno  altro  maneg- 
gio di  guerra.  Ed  a  Santo  Regolo  in  quel  di  Pisa,  ed  altrove, 

*  La  Bladiana  soltanto  :  ili. 


258  DEI   DISCORSI 

dove  i  Fiorenlini  furono  rolli  da'Pisani  ne'lempi  della  guerra 
che  fu  Ira  i  Fiorenlini  e  quella  cillà,  per  la  sua  ribellione 
dopo  la  passata  di  Carlo  re  di  Francia  in  Italia,  non  nacque 
(al  rovina  d'altronde,  che  dalla  cavalleria  amica;  la  quale 
sendo  davanti  e  ributtala  da'nimici,  percosse  nella  fanteria 
fiorentina,  e  quella  ruppe:  donde  lutto  il  restante  delle  genti 
dierono  volta:  e  messer  Ciriaco  *  dal  Borgo,  capo  antico  delle 
fanterie  fiorentine,  haatrermato  alla  presenza  mia  molle  vol- 
te, non  essere  mai  stalo  rotto  se  non  dalla  cavalleria  degli 
amici.  1  Svizzeri,  che  sono  i  maestri  delle  moderne  guerre, 
quando  ei  militano  coi  Franciosi,  sopra  tulle  le  cose  hanno 
cura  di  mettersi  in  lato,  che  la  cavalleria  amica,  se  fusse  ri- 
buttata, non  gli  urli.  £  benché  queste  cose  paiano  facili  ad  in- 
tendere, e  facilissime  a  farsi;  nondimeno  non  si  è  trovato  an- 
cora alcuno  de'  nostri  contemporanei  capitani,  che  gli  antichi 
ordini  imiti,  e  gli  moderni  corregga.  £  benché  gli  abbino 
accora  loro  tripartito  lo  esercito,  chiamando  V  una  parte  an- 
liguardo,  l'altra  battaglia  e  l'altra  retroguardo;  non  se  ne 
servono  ad  allro  che  a  comandargli  nelli  alloggiamenti  :  mn 
nello  adoperargli,  rade  volle  è,  come  di  sopra  é  detto,  che  a 
tulli  quesU  corpi  non  faccino  correre  una  medesima  fortuna. 
E  perché  molli,  per  scusare  la  ignoranza  loro,  allegano  che 
la  violenza  delle  artiglierie  non  patisce  che  in  questi  tempi  si 
usino  molli  ordini  de  gli  antichi,  voglio  disputare  nel  seguente 
capitolo  questa  materia,  ed  esaminare  se  le  artiglierie  impe- 
discono che  non  si  possa  usare  l'antica  virtù. 

Cip.  XVII. —  Quanlo  si  debbino  slimare  dagli  eitercili  ne'  pie - 
senti  tempi  le  artiglierie;  e  se  quella  oppinione,  clie  se  ne  ha 
in  universale,  è  vera. 


Considerando  io,  oltre  alle  cose  soprascritte,  quante  zuffe 
campali  (chiamate  ne*  nostri  tempi,  con  vocabolo  francioso, 

'  TuUe  le  stampe  hanno  Criaco.  Avremmo  fatto  ,  anche  per  mero  Luon 
senso,  una  si  naturale  correzione:  ma  il  eh.  direttore  del  Giornale  militare  to- 
scano (cav.  F.  Dragomanni)  ci  fa  pur  sapere  che  il  conetlabile  Ciriaco  del  Borgo  a 
S.  Sepolcro  era  della  famiglia  de'  Palamidessi. 


LIBRO   SECONDO.  259 

giornate,  e  dagl'Italiani  fatti  d'arme)  furono  fatte  dai  Romani 
in  diversi  tempi;  mi  è  venuto  in  considerazione  la  oppinione 
universale  di  molti,  che  vuole  che  se  in  quelli  tempi  fussìno 
state  le  artiglierie,  non  sarebbe  stato  lecito  a' Romani,  né  si 
facile,  pigliare  le  provincie  ;  farsi  tributari  i  popoli,  come  e' 
feciono;nè  arebbono  in  alcuno  modo  fatti  si  gagliardi  acquisti. 
Dicono  ancora,  che  mediante  questi  instrumenti  de' fuochi,  gli 
uomini  non  possono  usare  né  mostrare  la  virtù  loro,  come  e' 
potevano  anticamente. E  soggiungono  una  terza  cosa:  che  si 
viene  con  più  diflìcultà  alle  giornate  che  non  si  veniva  al- 
lora, né  vi  si  può  tenere  dentro  quegli  ordini  di  quelli  tempi; 
talché  la  guerra  si  ridurrà  col  tempo  in  su  le  artiglierie.  £ 
giudicando  non  fuora  di  proposito  disputare  se  tali  oppinioni 
sono  vere,  e  quanto  le  artiglierie  abbino  cresciuto  o  diminuito 
di  forze  agli  eserciti,  e  se  le  tolgano  o  danno  occasione  ai 
buoni  capitani  di  operare  virtuosamente  ;  comincerò  a  parlare 
quanto  alla  prima  loro  oppinione  :  che  gli  eserciti  antichi  ro- 
mani non  arebbono  fatto  gli  acquisti  che  feciono,  se  le  arti- 
glierie fussino  state.  Sopra  che,  rispondendo,  dico:  come  e' si 
fa  guerra  o  per  difendersi,  o  per  offendere  ;  donde  si  ha  pri- 
ma ad  esaminare  a  quale  di  questi  duoi  modi  di  guerra  le 
faccino  più  utile,  o  più  danno.  E  benché  sia  che  dire  da  ogni 
parte,  nondimeno  io  credo  che  senza  comparazione  faccino 
più  danno  a  chi  si  difende,  che  a  chi  otTende.  La  ragione 
che  io  ne  dico  é,  che  quel  che  si  difende,  o  egli  è  dentro 
a  una  terra,  o  egli  é  in  su'  campi  dentro  ad  un  steccato. 
S'egli  è  dentro  ad  una  terra,  o  questa  terra  è  piccola, 
come  sono  la  maggior  parte  delle  fortezze,  o  la  è  grande  : 
nel  primo  caso,  chi  si  difende  è  al  tutto  perduto,  perchè 
l'impelo  delle  artiglierie  é  tale,  che  non  trova  muro,  ancora- 
ché grossissimo,  che  in  pochi  giorni  ei  non  abbatta;  e  se 
chi  é  dentro  non  ha  buoni  spazi  da  *■  ritirarsi  e  con  fossi  e  con 
ripari,  si  perde;  né  può  sostenere  l'impeto  del  nimico  che 
volesse  dipoi  entrare  per  la  rottura  del  muro,  né  a  questo  gli 
giova  artiglieria  che  avesse:  perché  questa  é  una  massima, 
che  dove  gli  uomini  in  frotta  e  con  impelo  possono  andare, 
le  artiglierie  non  gli  sostengono.  Però  i  furori  oltramontani 

<  La  Romana  soltanto  :  di. 


260  DEI  DISCORSI 

nella  difesa  delle  terre  non  sono  sostenati  :  son  bene  soste- 
nuti gli  assalti  italiani,  i  quali  non  in  frotta,  ma  spicciolati  si 
conducono  alle  battaglie,  le  quali  loro,  pet  nome  molto  pro- 
prio, chiamano  scaramucce.  E  questi  che  vanno  con  questo 
disordine  e  questa  freddezza  ad  una  rottura  d*  un  muro  dove 
sia  artiglierie,  vanno  ad  una  manifesta  morte,  e  contra  a 
loro  le  artiglierie  vagliono  :  ma  quelli  che  in  frotta  conden- 
sati, e  che  l'uno  spinge  l'altro,  vengono  ad  una  rottura,  se 
non  sono  sostenuti  o  da  fossi  o  da  ripari,  entrano  in  ogni 
luogo,  e  le  artiglierie  non  gli  tengono;  e  se  ne  muore  qual- 
cane,  non  possono  essere  tanti  che  gì'  impedischino  la  vitto* 
ria.  Questo  esser  vero,  si  è  conosciuto  in  molte  espugnazioni 
fatte  dagli  oltramontani  in  Italia,  e  massime  in  quella  dì 
Brescia  :  perchè,  sendosi  quella  terra  ribellala  da'  Franciosi, 
e  lenendosi  ancora  per  il  Re  di  Francia  la  fortezza,  ave- 
vano i  Veneziani,  per  sostenere  l' impelo  che  da  quella  po- 
tesse venire  nella  terra,  munita  tutta  la  strada  di  artiglie- 
rie che  dalla  fortezza  alla  città  scendeva,  e  postane  a  fronte 
e  ne' fianchi,  ed  in  ogni  altro  luogo  opportuno.  Delle  quali 
monsignor  di  Fois  non  fece  alcuno  conto;  anzi  quello  con  il 
suo  squadrone,  disceso  a  piede,  passando  per  il  mezzo  di 
quelle,  occupò  la  città,  né  per  quelle  sì  sentì  ch'egli  avesse 
ricevuto  alcuno  memorabile  danno.  Talché,  chi  si  difende  in 
una  terra  piccola,  come  è  detto,  e  truovisì  le  mura  in  terra, 
e  non  abbia  spazio  di  ritirarsi  con  ì  ripari  e  con  fossi,  ed  ab- 
biasi a  fidare  in  su  le  artiglierie,  si  perde  subito.  Se  tu  di- 
fendi una  terra  grande,  e  che  tu  abbia  comodità  di  ritirarti, 
sono  nondimanco  senza  comparazione  più  utili  le  artiglierie  a 
chi  è  di  fuori,  che  a  chi  è  dentro.  Prima,  perchè  a  volere  che 
una  artiglieria  nuoca  a  quelli  che  sono  di  fuora,  tu  sei  neces- 
sitato levarti  con  essa  dal  piano  della  terra;  perchè,  sLnndo 
in  sul  piano,  ogni  poco  di  argine  e  di  riparo  che  il  nimico 
faccia,  rimane  sicuro,  e  tu  non  gli  puoi  nuocere.  Tanto  che 
avendoti  ad  alzare,  e  tirarti  sul  corridoio  delle  mura,  o  in 
qualunque  modo  levarti  da  terra,  tu  ti  tiri  dietro  due  diflì- 
cullà:  la  prima,  che  non  puoi  condurvi  artiglierìa  della  gros- 
sezza e  della  potenza  che  può  trarre  colui  di  fuora,  non  si 
potendo  ne'  piccoli  spazi  maneggiare  le  cose  grandi;  l'altra, 


I 


LIBRO   SECONDO.  261 

che  quando  bene  tu  ve  la  potessi  condurre,  tu  non  puoi  fare 
quelli  ripari  fedeli  e  sicuri,  per  salvare  della  arliglieria,  che 
possono  fare  quelli  di  fuora,  essendo  in  su  '1  terreno,  ed 
avendo  quelle  comodità  e  quello  spazio  che  loro  medesimi  vo- 
gliono :  talmentechè,  gli  è  impossibile  a  chi  difende  una  terra, 
tenere  le  artiglierie  ne' luoghi  alti,  quando  quelli  che  son  di 
fuora  abbino  assai  artiglierie  e  potenti  ;  e  se  egli  hanno  a 
venire  con  essa  ne'  luoghi  bassi,  ella  diventa  in  buona  parte 
inutile,  come  è  dello.  Talché  la  difesa  della  città  si  ha  a  ri- 
durre a  difenderla  con  le  braccia,  come  anticamente  si  fa- 
ceva, e  con  la  artiglieria  minuta:  di  che  se  sì  trae  un  poco 
di  utilità  rispetto  a  quella  arliglieria  minuta,  se  ne  cava  in- 
comodità che  contrappesa  alla  comodità  della  artiglieria;  per- 
che, rispetto  a  quella,  si  riducono  le  mura  delle  terre,  basse 
e  quasi  sotterrale  ne'  fossi:  talché,  com'è' sì  viene  alle  batta- 
glie di  mano,  o  per  essere  battute  le  mura  o  per  esser  ri- 
pieni i  fossi,  ha  chi  è  dentro  molti  più  disavvantaggi  che  non 
aveva  allora.  E  però,  come  di  sopra  sì  disse,  giovano  questi 
instrumenti  mollo  più  a  chi  campeggia  le  terre,  che  a  chi  è 
campeggialo.  Quanto  alla  terza  cosa,  di  ridursi  in  uno  campo 
dentro  ad  uno  steccato  per  non  fare  giornata,  se  non  a  tua 
comodità  0  vantaggio;  dico  che  in  questa  parte  tu  non  hai  più 
rimedio  ordinariamente  a  difenderli  di  non  combattere,  che 
si  avessino  gli  antichi;  e  qualche  volta,  per  conto  delle  arti- 
glierie, hai  maggiore  disavvantaggio.  Perché,  se  il  nimico  ti 
giunge  addosso,  ed  abbia  un  poco  di  vantaggio  del  paese, 
come  può  facilmente  intervenire;  e  Iruovisi  più  allo  di  te;  o 
che  nello  arrivare  suo  tu  non  abbi  ancora  fatti  i  tuoi  argini, 
e  copertoti  bene  con  quelli;  subilo,  e  senza  che  tu  abbi  alcun 
rimedio,  ti  disalloggia,  e  sei  forzato  uscire  delle  fortezze  tue, 
e  venire  alla  zufla.  Il  che  intervenne  agli  Spagnuoli  nella  gior- 
nata di  Ravenna;  i  quali  essendosi  muniti  tra  il  fìume  del  Ron- 
co ed  uno  argine ,  per  non  lo  avere  tirato  tanto  alto  che  bastas- 
se, e  per  avere  i  Franciosi  un  poco  il  vantaggio  del  terreno, 
furono  conslrelti  dalle  artiglierie  uscire  delle  fortezze  loro,  e 
venire  alla  zutfa.  Ma  dato,  come  il  più  delle  volte  debbe  es- 
sere, che  il  luogo  che  tu  avessi  preso  con  il  campo  fusse  più 
'eminente  che  gli  altri  all'incontro,  e  che  gli  argini  fussino 


2b2  DEI   DISCORSI 

baoni  e  sicuri,  (ale  che,  medianle  il  sito  e  l' allre  (uè  prepa- 
razioni, il  nimico  non  ardisse  di  assaltarli;  si  verrà  in  questo 
caso  a  quelli  modi  che  anticamente  si  veniva,  quando  uno 
era  con  il  suo  esercito  in  lato  da  non  potere  essere  otTeso  :  i 
quali  sono,  correre  il  paese,  pigliare  o  campeggiare  le  terre 
lue  amiche,  impedirti  le  vettovaglie;  tanto  che  tu  sarai  for- 
zalo da  qualche  necessità  a  disalloggiare,  e  venire  a  gior- 
nata; dove  le  artiglierie,  come  di  sotto  si  dirà,  non  operano 
molto.  Considerato,  adunque,  di  quali  ragioni  guerre  feciono 
i  Romani,  e  veggendo  come  ei  feciono  quasi  tutte  le  lor 
guerre  per  otTendere  altrui,  e  non  per  difender  loro;  si  vedrà, 
quando  sieno  vere  le  cose  dette  dì  sopra,  come  quelli  areb- 
bono  avuto  più  vantaggio,  e  più  presto  arebbono  fatto  i  loro 
acquisti,  se  le  fussino  state  in  quelli  tempi.  Quanto  alla  se- 
conda cosa,  che  gli  uomini  non  possono  mostrare  la  virtù 
loro,  come  ei  potevano  anticamente,  mediante  la  artiglieria; 
dico  ch'egli  è  vero,  che  dove  gli  uomini  spicciolati  si  hanno 
a  mostrare,  eh' e' portano  più  pericoli  che  allora,  quando 
avessino  a  scalare  una  terra,  o  fare  simili  assalti,  dove  gli  uo- 
mini non  ristretti  insieme ,  ma  di  per  sé  l' uno  dall'  altro  aves- 
sino a  comparire.  È  vero  ancora,  che  gli  capitani  e  capi  degli 
eserciti  stanno  sottoposti  più  al  pericolo  della  morte  che  allo- 
ra, potendo  esser  aggiunti  con  le  artiglierie  in  ogni  luogo;  nò 
giova  loro  lo  essere  nelle  ultime  squadre,  e  muniti  di  uomini 
fortissimi.  Nondimeno  si  vede  che  l'uno  e  l'altro  di  questi 
duoi  pericoli  fanno  rade  volte  danni  isiraordinari:  perchè  le 
terre  munite  bene  non  si  scalano,  né  si  va  con  assalti  de- 
boli ad  assaltarle;  ma,  a  volerle  espugnare,  si  riduce  la  cosa 
ad  una  ossidione,  come  anticamente  si  faceva.  Ed  in  quelle 
che  pure  per  assalto  si  espugnano,  non  sono  molto  *  maggiori 
i  pericoli  che  allora  :  perchè  non  mancavano  anche  in  quel 
tempo  a  chi  difendeva  le  terre,  cose  da  trarre;  le  quali  se 
non  erano  si  furiose,  facevano,  quanto  all'ammazzare  gli  uo- 
mini, il  simile  effetto.  Quanto  alla  morte  de'  capitani  e  de'  con- 
dottieri, ce  ne  sono,  in  ventiquattro  anni  che  sono  siate  le 
guerre  ne' prossimi  tempi  in  Italia,  meno  esempi,  che  non 
era  in  dieci  anni  di  tempo  appresso  agli  antichi.  Perché,  dal 

*  La  Romana  :  molti. 


LIBRO    SECONDO.  263 

conte  Lodovico  della  Mirandola,  che  morì  a  Ferrara  quando 
i  Veniziani  pochi  anni  sono  assaltarono  quello  stato,  ed  il 
Duca  di  Neniors,  che  mori  alla  Cirignuola,  in  fuori;  non  è  oc- 
corso che  d'artiglierie  ne  sia  morto  alcuno;  perchè  monsignor 
di  Pois  a  Ravenna  morì  di  ferro,  e  non  di  fuoco.  Tanto  che,  se 
gli  uomini  non  dimostrano  particolarmente  la  loro  virtù,  na- 
sce non  dalle  artiglierie,  ma  dai  cattivi  ordini,  e  dalla  de- 
bolezza degli  eserciti;  i  quali,  mancando  di  virtù  nel  tutto, 
non  la  possono  dimostrare  nella  parte.  Quanto  alla  terza  cosa 
della  da  costoro,  che  non  si  possa  venire  alle  mani,  e  che 
la  guerra  si  condorrà  tutta  in  su  l'arliglieriei  dico  questa 
oppinione  essere  al  tutto  falsa  ;  e  cosi  Ga  sempre  tenuta  da 
coloro   che  secondo  l'antica  virtù  vorranno  adoperare  gli 
eserciti  loro.  Perchè,  chi  vuole  fare  uno  esercito  buono,  gli 
conviene,  con  esercizi  *  o  finti  o  veri,  assuefare  gli  uomini 
suoi  ad  accostarsi  al  nimico,  e  venire  con  lui  al  menare  della 
spada,  e  al  pigliarsi  per  il  petto;  e  si  debbe  fondare  più  in 
su  le  fanterie  che  in  su'  cavagli,  per  le  ragioni  che  di  sotto 
si  diranno.  E  quando  si  fondi  in  su  1  fanti  ed  in  su  i  modi 
predetti,  diventano  al  tutto  le  artiglierie  inutili;  perchè  con 
più  facilità  le  fanterie  nello  accostarsi  al  nimico,  possono  fug- 
gire il  colpo  delle  artiglierie,  che  non  potevano  anticamente 
fuggire   l'impeto   degli  elefanti,  de' carri  falcati,  e  d'altri 
riscontri  inusitati,  che  le  fanterie  romane   riscontrarono; 
contra  ai  quali  sempre  trovarono  il  rimedio:  e  tanto  più  fa- 
cilmente lo  arebbono  trovato  contra  a  queste,  quanto  egli 
è  più  breve  il  tempo  nel  quale  le  artiglierie  li  possono  nuo- 
cere, che  non  era  quello  nel  quale  potevano  nuocere  gli  ele- 
fanti ed  i  carri.  Perchè  quelli  nel  mezzo  della  zuffa  ti  dis- 
ordinavano;^ queste  solo  innanzi  alla  zuffa  ti  'mpediècono:  il 
quale  impedimento  facilmente  le  fanterie  fuggono,  o  con  an- 
dare coperte  dalla  natura  del  silo,  o  con  abbassarsi  in  su 
la  terra  quando  le  tirano.  Il  che  anche  per  esperienza  si  è 
visto  non  essere  necessario,  massime  per  difendersi  dalle  ar- 
tiglierie grosse;  le  quali  non  si  possono  in  modo  bilanciare, 

*  Male ,  e  con  omissione  di  una  lettera',  nelle  antiche  edizioni  :  eserciti  ed 
esser  CI  ti, 

8  La  Testina  e  le  altre:  ti  disordinano. 


264  DEI    DISCORSI 

0  che  se  le  vanno  alle  le  non  ti  Iruovino,  o  che  se  le  vanno 
basse  le  non  ti  arrivino.  Venuti  poi  gli  eserciti  alle  mani, 
questo  è  più  chiaro  che  la  luce,  che  né  le  grosse  né  le  pic- 
cole ti  possono  poi  offendere  :  perchè,  se  quello  che  ha  1*  ar- 
tiglierie é  davanti,  diventa  tuo  prigione;  s'egli  è  dietro, egli 
offende  prima  l'amico  che  te;  a  spalle  ancora  non  li  può 
ferire  in  modo  che  tu  non  lo  possa  ire  a  trovare,  e  ne  vie- 
ne a  seguitare  l' effetto  detto.  Né  questo  ha  molta  disputa  ; 
perchè  se  ne  è  visto  l'essempio  de'Svizzeri,  i  quali  a  Novara, 
nel  1513,  senza  artiglierie  e  senza  cavagli,  andarono  a  tro- 
vare lo  esercito  francioso  munito  di  artiglierie  dentro  alle 
fortezze  sue,  e  lo  ruppono  senza  aver  alcuno  impedimento  da 
quelle.  E  la  ragione  è,  oltre  alle  cose  dette  di  sopra,  che 
l'artiglieria  ha  bisogno  d'essere  guardata,  a  volere  che  la 
operi,  o  da  mura  o  da  fossi  o  da  argini;  e  come  gli  manca 
una  di  queste  guardie,  ella  è  prigione,  o  la  diventa  inuti- 
le: come  gli  interviene  quando  la  si  ha  a  difendere  con  gli 
uomini  ;  il  che  gli  interviene  nelle  giornate  e  zuffe  campa- 
li. Per  Ganco  le  non  si  possono  adoperare,  se  non  in  quel 
modo  che  adoperavano  gli  antichi  gli  instrumcnti  da  trarre  ; 
che  gli  mettevano  fuori  delle  squadre,  perchè  ei  comhnt- 
tessino  fuori  delti  ordini  ;  ed  ogni  volta  che  o  da  cavalleria 
o  da  altri  erano  spinti,  il  refugio  loro  era  dentro  *  alle  le- 
gioni. Chi  altrimenti  ne  fa  conto,  non  la  intende  bene,  e 
fidasi  sopra  una  cosa  che  facilmente  lo  può  ingannare.  E  se 
il  Turco,  mediante  l'artiglieria,  centra  al  Sofi  ed  il  Soldano 
ha  avuto  vittoria,  è  nato  non  per  altra  virtù  dì  quella,  che 
per  lo  spavento  che  lo  inusitato  remore  messe  nella  caval- 
leria loro.  Conchiuggo  pertanto,  venendo  al  fine  di  questo 
discorso,  l'artiglieria  essere  utile  in  uno  esercito  quando  vi 
sia  mescolata  l'antica  virtù  ;  ma  senza  quella,  contra  a  uno 
esercito  virtuoso  è  inutilissima. 


Lir.RO  SECONDO.  265 

Cap.  XVIII. —  Come  per  l'aulorìlà  de' Romani,  e  per  lo  essempio 
della  anlica  milizia,  si  debbe  slimare  più  le  fanterie  che  i 
cavagli. 

E'  si  può  per  molte  ragioni  e  per  molli  essempi  dimo- 
strare chiaramente,  quanto  i  Romani  in  tutte  le  militari 
azioni  stimassino  più  la  milizia  a  pie  che  a  cavallo,  e  so- 
pra quella  fondassino  tutti  i  disegni  delle  forze  loro:  come 
si  vede  per  molti  essempi,  ed  infra  gli  altri,  quando  si  azzuffa- 
rono con  i  Latini  appresso  il  lago  Regillo  ;  dove  già  essendo 
inclinato  lo  esercito  romano,  per  soccorrere  ai  suoi  fecero 
discendere  degli  uomini  da  cavallo  a  piede,  e  per  quella  via, 
rinnovata  la  zulTa,  ebbono  la  vittoria.  Dove  si  vede  manife- 
stamente ,  i  Romani  avere  più  confidato  in  loro  essendo  a 
piede,  che  mantenendoli  a  cavallo.  Questo  medesimo  ter- 
mine usarono  in  molte  altre  zuffe,  e  sempre  lo  trovarono 
ottimo  rimedio  in  gli  loro  pericoli.  Né  si  opponga  a  questo 
la  oppinione  di  Annibale,  il  quale  veggendo  in  la  giornata 
di  Canne,  che  i  Consoli  avevano  fatto  discendere  a  pie  gli 
loro  cavalieri,  facendosi  beffe  di  simile  partito,  disse:  Quam 
malìem  vinclos  mihi  Iraderenl  cquiles  ;  cioè  :  io  arei  più  caro 
che  me  gli  dessino  legati.  La  quale  oppinione  ancoraché  la 
sia  stata  in  bocca  d'un  uomo  eccellentissimo,  nondimeno, 
se  si  ha  a  ire  dietro  alla  autorità,  si  debbe  più  credere  ad 
una  Repubblica  romana,  e  a  tanti  Capitani  eccellentissimi 
che  furono  in  quella,  che  ad  uno  solo  Annibale:  ancoraché 
senza  le  autorità  ce  ne  siano  ragioni  manifeste.  Perchè  l'uo- 
mo a  piede  può  andare  in  molti  luoghi,  dove  non  può  an- 
dare il  cavallo;  puossi  insegnarli  servare  l'ordine,  e  tur- 
bato che  fusse,  come  e' lo  abbia  a  riassumere:  a' cavagli  è 
diiTicile  fare  servare  l*  ordine ,  ed  impossibile ,  turbati  che 
sono,  riordinargli.  Oltra  di  questo,  si  trova,  come  negli  uo- 
mini, de' cavagli  che  hanno  poco  animo,  e  dì  quelli  che  ne 
hanno  assai:  e  molte  volte  interviene  che  un  cavallo  ani- 
moso è  cavalcato  da  uno  uomo  vile,  ed  uno  cavallo  vile  da 
uno  animoso;  ed  in  qualunque  modo  che  segua  questa  dispa 
rità,  ne  nasce  inutilità  e  disordine.  Possono  le  fanterie  or- 

2.? 


266  OfiI   DiSCOHSl. 

dinate  facilmente  rompere  i  cavagli,  e  difficilmente  esser 
rotte  da  quelli.  La  quale  oppinionc  è  corroborata,  oltre  a  molti 
essempì  antichi  e  moderni,  dalla  autorità  di  coloro  che  dan- 
no delle  cose  civili  regola:  dove  mostrano  come  in  prima 
le  guerre  si  cominciarono  a  fare  con  i  cavagli,  perchè  non  era 
ancora  l'ordine  delle  fanterie;  ma  come  queste  si  ordina- 
rono ,  si  conobbe  subito  quanto  loro  erano  più  utili  ,  che 
quelli.  Non  è  per  questo  però  che  i  cavalli  non  siano  neces- 
sari negli  eserciti ,  e  per  fare  scoperte ,  e  per  scorrere  a 
predare  i  paesi,  per  seguitare  ì  nimici  quando  ei  sono  in 
fuga,  e  per  essere  ancora  in  parte  una  opposizione  ai  cavagli 
degli  avversari:  ma  il  fondamento  e  il  nervo  dello  esercito, 
e  quello  che  si  debbe  più  stimare,  debbono  essere  le  fante- 
rie. Ed  infra  i  peccati  de'  principi  italiani ,  che  hanno  fatto 
Italia  serva  de'  forestieri,  non  ci  è  il  maggiore,  che  avere  te- 
nuto poco  conto  di  questo  ordine,  ed  avere  vólto  tutta  la  loro 
cura  alla  milizia  a  cavallo.  Il  quale  disordine  è  nato  per  la 
malignità  de' capi,  e  per  la  ignoranza  di  coloro  che  tenevano 
stato.  Perchè  essendosi  ridotta  la  milizia  italiana ,  da'  ven- 
ticinque anni  indietro,  in  uomini  che  non  avevano  stalo, 
ma  erano  come  capitani  di  ventura,  pensorono  subito  come 
potessino  mantenersi  la  riputazione  stando  armati  loro,  e 
disarmati  i  principi.  E  perchè  uno  numero  grosso  di  fanti 
non  poteva  loro  essere  continuamente  pagato,  e  non  avendo 
sudditi  da  poter  valersene,  ed  ano  piccolo  numero  non  dava 
loro  riputazione,  si  volsono  a  tenere  cavagli:  perchè  dugcnlo 
o  trecento  cavalli  che  erano  pagati  ad  uno  condottiero,  *  lo 
mantenevano  riputato;  ed  il  pagamento  non  era  tale,  che  da- 
gli uomini  che  tenevano  stato  non  potesse  essere  adempiuto. 
E  perchè  questo  seguisse  più  facilmente,  e  per  mantenersi 
più  in  riputazione,  levarono  tutta  l'atTezione  e  la  riputazione 
da' fanti,  e  ridussonla  in  quelli  loro  cavalli:  e  in  tanto  creb- 
bono  questo  disordine,  che  in  qualunque  grossissimo  eser- 
cito era  una  minima  parte  di  fanteria.  La  quale  usanza  fece 
in  modo  debole,  insieme  con  molti  altri  disordini  che  si 
mescolarono  con  quella,  questa  milizia  italiana,  che  questa 
provincia  è  stata  facilmente  calpestata  da  tutti  gli  oltraraon- 

*  La  Bla  diana  t  eondoUiert- 


LIBRO   SECONDO.  267 

lani.  Mostrasi  più  apertaraenle  questo  errore,  di  stimare  più 
i  cavalli  che  le  fanterie,  per  uno  altro  essempio  romano.  Era- 
no i  llomani  a  campo  a  Sora,  ed  essendo  usciti  fuori  della 
terra  una  lurma  di  cavalli  per  assaltare  il  campo,  se  gli 
fece  all'incontro  il  Maestro  de* cavalli  romano  con  la  sua 
cavalleria ,  e  datosi  di  petto ,  la  sorte  dette  che  nel  primo 
scontro  i  capi  dell'uno  e  dell'altro  esercito  morirono;  e  re- 
stati gli  altri  senza  governo,  e  durando  nondimeno  la  zuflTa, 
i  Romani  per  superare  più  facilmente  Io  inimico,  scesono  a 
piede,  e  conslrinsono  i  cavalieri  nimici,  se  si  vollono  difen- 
dere, a  fare  il  simile:  e  con  tutto  questo,  i  Romani  ne  ri- 
portarono la  vittoria.  Non  può  esser  questo  essempio  mag- 
giore in  dimostrare  quanto  sia  più  virtù  nelle  fanterie  che 
ne' cavagli:  perchè  se  nelle  altre  fazioni  i  Consoli  facevano 
discendere  i  cavalieri  romani,  era  per  soccorrere  alle  fan- 
terie che  pativano,  e  che  avevano  bisogno  di  aiuto;  ma  in 
questo  luogo  e'discesono,  non  per  soccorrere  alle  fanterie 
né  per  combattere  con  uomini  a  pie  de*nimici,  ma  combat- 
tendo a  cavallo  co' cavalli,  giudicarono,  non  potendo  supe- 
rargli a  cavallo,  potere  scendendo  più  facilmente  vincergli. 
Io  voglio  adunque  conchiudere,  che  una  fanteria  ordinata 
non  possa  senza  grandissima  diflìcultà  esser  superala,  se  non 
da  una  altra  fanteria.  Crasso  e  Marc' Antonio  romani  cor- 
sono  per  il  dominio  de'  Parti  molte  giornate  con  pochissimi 
cavalli  ed  assai  fanteria,  ed  all'  incontro  avevano  innumera- 
bili cavalli  de'  Parti.  Crasso  vi  rimase  con  parte  dello  eser- 
cito morto.  Marc' Antonio  virtuosamente  si  salvò.  Nondi- 
manco,  in  queste  afflizioni  romane  si  vede  quanto  le  fanterie 
prevalevano  ai  cavalli:  perchè  essendo  in  un  paese  largo, 
dove  i  monti  son  radi,  ed  i  fiumi  radissimi,  le  marine  lon- 
ginque,  e  discosto  da  ogni  comodità;  nondimanco  Marc*  An- 
tonio, al  giudicio  de*  Parti  medesimi,  virtuosamente  si  salvò; 
né  mai  ebbero  *  ardire  tutla  la  cavalleria  partica  tentare  gli 
ordini  dello  esercito  suo.  Se  Crasso  vi  rimase,  chi  leggerà 
bene  le  sue  azioni,  vedrà  come  e*  vi  fu  piuttosto  ingannato 

*  Lezione  della  Bladiana,  più  sincera  al  mio  credere,  della  sofisticata  r  ebbe. 
La  stessa  osservazione  avrei  potuto  fare  poco  innanzi  alla  voce  cahcsta^  dove 
le  altre  hanno  calpestata j  ed  altre  non  poche,  le  quali  ometto  per  brevità. 


268  DEI   DISCORSI 

che  forzalo:  né  mai,  in  tulli  i  suoi  disordini,  i  Parti  ardirono 
di  urtarlo;  anzi  sempre  andando  costeggiandolo,  *  ed  impe- 
dendogli le  vettovaglie,  promettendogli  e  non  gli  osservando, 
lo  condussono  ad  una  estrema  miseria.  Io  crederei  avere  a 
durare  più  fatica  in  persuadere  quanto  la  virtù  delle  fan- 
terie è  più  potente  che  quella  de' cavalli,  se  non  ci  fussino 
assai  moderni  essempi  che  ne  rendono  testimonianza  pienis- 
sima. E' si  è  veduto  novemila  Svizzeri  a  Novara,  da  noi 
di  sopra  allegata,  '  andare  ad  affrontare  diecimila  cavalli  ed 
altrettanti  fanti,  e  vincergli:  perchè  i  cavalli,  non  li  pote- 
vano offendere  :  i  fanti,  per  esser  gente  in  buona  parte  gua- 
scona  e  male  ordinata,  stimavano  poco.  Videsi  di  poi  ven- 
liseimila  Svizzeri  andare  a  trovare  sopra  Milano  Francesco 
re  di  Francia,  che  aveva  seco  ventimila  cavalli,  quaranta- 
mila fanti,  e  cento  carra  d'artiglieria;  e  se  non  vinsono 
la  giornata  come  a  Novara,  combatterono  due  giorni  vir- 
tuosamente; e  dipoi,  rotti  che  furono,  la  metà  di  loro  si  sal- 
varono. Presunse  Marco  Regolo  Attilio ,  non  solo  con  la 
fanteria  sua  sostenere  i  cavalli,  ma  gli  elefanti;  e  se  il  di- 
segno non  gli  riuscì,  non  fu  però  che  la  virtù  della  sua 
fanteria  non  fusse  tanta,  che  ei  non  confidasse  tanto  in  lei 
che  credesse  superare  quella  dimenila.  Replico,  pertanto,  che 
a  voler  superare  i  fanti  ordinati,  è  necessario  opporre  loro 
fanti  meglio  ordinati  di  quelli:  altrimenti,  si  va  ad  una  per- 
dita manifesta.  Ne' tempi  di  Filippo  Visconti,  duca  di  Milano, 
sccsono  in  Lombardia  circa  sedicimila  Svizzeri  :  donde  il 
Duca  avendo  per  capitano  allora  il  Garmignuola,  lo  mandò 
*con  circa  mille  cavalli  e  pochi  fanti  allo  incontro  loro.  Co* 
stui  non  sappiendo  l'ordine  del  combatter  loro,  ne  andò  ad 
incontrargli  con  i  suoi  cavalli,  presumendo  poterli'  subito 
rompere.  Ma  trovatogli  immobili,  avendo  perduti  molli  do' 
suoi  uomini,  si  ritirò:  ed  essendo  valentissimo  uomo,  e  sap- 
piendo negli  accidenti  nuovi  pigliare  nuovi  parlili,  riTaltosi 


'  CmI  tutte  le  ediiiooi  {  e  la  Romana  toltanto  :  eonstringendolo. 

'  Così  nella  Bladiana  ;  e  può  riferire  a  Novara ,  ouia  all'  esempio  delle 
cose  ivi  accadute.  Cionondimeno  ,  nelle  altre  edizioni  si  legge  :  allegati. 

•  La  Romana  ha  poterlo j  che  polrebUe,  benché  noa  senza  sforzo,  rife- 
rirsi ad  ordine. 


LIBRO    SECONDO.  269 

dì  gente  gli  andò  a  trovare;  e  venuto  loro  all'incontro,  fece 
smontare  a  pie  latte  le  sue  genti  d'arme,  e  fallo  testa  di 
quelle  alle  sue  fanterie,  andò  ad  investire  i  Svizzeri.  I  quali 
non  ebbono  alcun  rimedio:  perchè,  sendo  le  genti  d'arme 
del  Carmignuola  a  pie  e  bene  armate,  poterono  facilmente 
entrare  infra  gli  ordini  de' Svizzeri,  senza  patire  alcuna  le- 
sione; ed  entrati  tra  questi,  poterono  facilmente  offendergli: 
talché  di  lutto  il  numero  di  quelli,  ne  rimase  quella  parte 
viva,  che  per  umanità  del  Carmignuola  fu  conservala.  Io 
credo  che  molti  conoschino  questa  differenza  di  virtù  che 
è  intra  l'uno  e  l'altro  di  questi  ordini:  ma  è  tanta  la  infe- 
licità di  questi  tempi,  che  né  gli  essempi  antichi  né  i  mo- 
derni, né  la  confessione  dello  errore  é  sufficiente  a  fare  che 
i  moderni  principi  si  ravvegghino;  e  pensino  che  a  volere 
rendere  riputazione  alla  milizia  d'  una  provincia  o  d' uno 
slato,  sia  necessario  risuscitare  questi  ordini,  tenergli  ap- 
presso, dar  loro  riputazione,  dar  loro  vita,  acciocché  a  lui 
e  vita  e  riputazione  rendino.  E  come  e'diviano  da  questi 
modi,  cosi  diviano  dagli  altri  modi  delti  di  sopra:  onde  ne 
nasce  che  gli  acquisti  sono  a  danno,  non  a  grandezza  d'uno 
stato,  come  di  sotto  si  dirà. 

Cai».  XIX.  —  Che  gli  acquisii  nelle  repubbliche  non  bene  ordì' 
naie,  e  che  secondo  la  romana  virtù  non  procedono,  sono  a 
rovina,  non  a  esaltazione  d'esse. 

Queste  contrarie  oppinioni  alla  verità,  fondale  in  su'mali 
essempi  che  da  questi  nostri  corrotti  secoli  sono  stati  intro- 
dotti, fanno  che  gli  uomini  non  pensano  a  diviare  dai  con- 
sueti modi.  Quando  si  sarebbe  potuto  persuadere  a  uno  Ita- 
liano da  trenta  anni  in  dietro,  che  diecimila  fanti  polessino 
assaltare  in  un  piano  diecimila  cavalli  ed  altrettanti  fanti,  e 
con  quelli  non  solamente  combattere,  ma  vincergli;  comesi 
vede  per  lo  essempio  da  noi  più  volle  allegalo,  a  Novara?  E 
benché  le  istorie  ne  siano  piene,  tamen  non  ci  arebbero 
prestato  fede;  e  se  ci  a  vessino  prestalo  fede,  arebbero  dello 
che  in  questi  tempi  s'arma  meglio,  e  che  una  squadra  d'uo- 
mini d'arme  sarebbe  atta  ad  urlare  uno  scoglio,  non  che  una 

23' 


270  DEI   DISCORSI 

fanteria:  e  cosi  con  queste  false  scase  corrompevano  il  giu- 
dizio loro;  né  arebbero  consideralo,  che  Lucullo  con  pochi 
fanti  ruppe  cento  cinquantamila  cavalli  di  Tigrane;  e  che  tra 
quelli  cavalieri  era  una  sorte  di  cavalleria  simile  al  tutto  agli 
uomini  d'arme  nostri:  e  cosi  questa  fallacia  è  stata  scoperta 
dallo  essempìo  delle  genti  oltramontane.  E  come  e' si  vede 
per  quello  esser  vero,  quanto  alla  fanteria ,  quello  che  nelle 
istorie  si  narra;  cosi  doverrebbero  credere  esser  veri  ed  utili 
lutti  gli  altri  ordini  antichi.  E  quando  questo  fnsse  credulo, 
le  repubbliche  ed  i  principi  errerebbero  meno;  sariano  più 
forti  ad  opporsi  ad  uno  impeto  che  venisse  loro  addosso;  non 
spererebbero  nella  fuga;  e  quelli  che  avessino  nelle  mani  un 
vivere  civile,  lo  saperebbero  meglio  indirizzare,  o  per  la  via 
dello  ampliare,  o  per  la  via  del  mantenere;  e  crederebbero 
che  lo  accrescere  la  città  sua  d'abitatori,  farsi  compagni  e 
non  sudditi,  mandare  colonie  a  guardare  i  paesi  acquistati, 
fer  capitale  delle  prede,  domare  il  nimico  con  le  scorrerie  e 
con  le  giornate  e  non  con  lo  ossidioni,  tenere  ricco  il  pub- 
blico, povero  il  privalo,  mantenere  con  sommo  studio  li  eser- 
cizi militari,  sono  le  vie  a  fare  grande  una  repubblica,  ed  ac- 
quistare imperio.  E  quando  questo  modo  dello  ampliare  non 
gli  piacesse,  penserebbe  che  gli  acquisti  per  ogni  altra  via 
sono  la  rovina  delle  repubbliche»  e  porrebbe  freno  ad  ogni 
ambizione;  regolando  bene  la  sua  città  dentro  con  le  leggi  e 
co* costumi,  proibendogli  l'acquistare  e  solo  pensando  a  di- 
fendersi, e  le  difese  tenere  ordinate  bene:  come  fanno  le  re- 
pubbliche della  Magna,  le  quali  in  questi  modi  vivono  e  sono 
vivute  libero  un  tempo.  Nondimeno,  come  altra  volta  dissi 
quando  discorsi  la  differenza  che  era  da  ordinarsi  per  acqui- 
stare a  ordinarsi  per  mantenere;  ò  Impossibile  che  ad  una 
repubblica  riesca  lo  stare  quieta,  e  godersi  la  sua  libertà  e 
gli  pochi  confini:  perchè,  se  lei  non  molesterà  altrui,  sarà 
moleslata  ella;  e  dallo  essere  molestata  le  nascerà  la  voglia 
e  la  necessità  dello  acquistare;  e  quando  non  avesse  il  ni- 
mico fuora,  lo  troverebbe  in  casa:  come  pare  necessario  in- 
tervenga a  lotte  le  grandi  cittadi.  E  se  le  repubbliche  della 
Magna  possono  vivere  loro  in  quel  modo,  ed  hanno  potuto 
durare  un  tempo;  nasce  da  certe  condizioni  che  sono  in  quel 


LIBRO    SECO?\^DO.  271 

paese,  le  quali  non  sono  altrove,  senza  le  quali  non  potreb- 
bero tenere  sirail  modo  di  vivere.  Era  quella  parte  della  Ma- 
gna di  che  io  parlo,  sottoposta  allo  imperio  romano  come  la 
Francia  e  la  Spagna:  ma  venuto  dipoi  in  declinazione  l' im- 
perio, e  ridottosi  il  titolo  di  tale  imperio  in  quella  provincia, 
cominciarono  quelle  cittadi  più  potenti,  secondo  la  viltà  o 
necessità  degl' imperadori,  a  farsi  libere,  ricomperandosi 
dallo  imperio,  con  riservargli  un  piccolo  censo  annuario; 
tanto  che,  a  poco  a  poco,  tutte  quelle  cittadi  che  erano  imme- 
diate dello  imperadore,  e  non  erano  soggette  ad  alcuno  prin- 
cipe, si  sono  in  simil  modo  ricomperate.  Occorse  in  questi 
medesimi  tempi  che  queste  cittadi  si  ricomperavano,  che 
certe  comunità  sottoposte  al  duca  d'Austria  si  ribellarono  da 
lui;  tra  le  quali  fu  Filiborgo,  e  Svizzeri,  e  simili;  le  quali 
prosperando  nel  principio,  pigliarono  a  poco  a  poco  tanto 
augumento,  che,  non  che  e*  sieno  tornati  sotto  il  giogo  d'Au- 
stria, sono  in  timore  a  tutti  i  loro  vicini:  e  questi  sono  quelli 
che  si  chiamano  Svizzeri.  È,  adunque,  questa  provincia'  com- 
partita in  Svizzeri,  repubbliche  (che  chiamano  terre  franche), 
principi,  ed  imperadore.  E  la  cagione  che,  intra  tante  diversità 
di  vivere,  non  vi  nascono,  o,  se  le  vi  nascono,  non  vi  durano 
molto  le  guerre,  è  quel  segno  dell' imperadore;  il  quale,  av- 
venga che  non  abbi  forze,  nondimeno  ha  fra  loro  tanta  ri- 
putazione, ch'egli  è  uno  loro  conciliatore,  e  con  l'autorità 
sua,  interponendosi  come  mezzano,  spegne  subito  ogni  scan- 
dalo. E  le  maggiori  e  le  più  lunghe  guerre  vi  siano  slate, 
sono  quelle  che  sono  seguile  intra  i  Svizzeri  ed  il  duca  d'Au- 
stria: e  benché  da  molti  anni  in  qua  io  imperadore  ed  il  duca 
d'Austria  sia  una  cosa  medesima,  non  pertanto  non  ha  mai 
potuto  superare  l'audacia  dei  Svizzeri,  dove  non  è  mai  stato 
modo  d'accordo,  se  non  per  forza.  Né  il  resto  della  Magna 
gli  ha  pòrti  molti  aiuti;  si  perchè  le  comunità  non  sanno  of- 
fendere chi  vuole  vivere  libero  come  loro;  si  perchè  quelli 
principi,  parte  non  possono  per  esser  poveri,  parte  non  vo- 
gliono per  avere  invidia  alla  potenza  sua.  Possono  vivere,  adun- 
que, quelle  comunità  contente  del  piccolo  loro  dominio,  per 
non  avere  cagione,  rispetto  all'autorità  imperiale,  di  diside- 

*  Cioè  r  Allcmagna  ,  o  Germania. 


272  DEI   DISCORSI 

rark)  maggiore:  possono  vivere  onile  dentro  alle  mura  loro, 
per  aver  il  nimico  propinquo,  e  che  piglierebbe  l'occasione 
d'occuparle,  qualunque  volta  le  discordassino.  Che  se  quella 
provincia  fusse  condizionata  altrimenti,  converrebbe  loro 
cercare  d'ampliare  e  rompere  quella  loro  quiete.  E  perchè 
altrove  non  sono  tali  condizioni,  non  si  può  prendere  questo 
modo  di  vivere;  e  bisogna  o  ampliare  per  via  di  leghe,  o 
ampliare  come  i  Romani.  E  chi  si  governa  altrimenti,  cerca 
non  la  sua  vita,  ma  la  sua  morte  e  rovina:  perchè  in  mille 
modi  e  per  molte  cagioni  gli  acquisti  sono  dannosi  ;  perchè 
gli  sta  molto  bene  insieme  ^  acquistare  imperio,  e  non  forze; 
e  chi  acquista  imperio  e  non  forze  insieme,  conviene  che 
rovini.  Non  può  acquistare  forze  chi  impoverisce  nelle  guer- 
re, ancora  che  sia  vittorioso;  che  ei  mette  più  che  non  trac 
degli  acquisti:  come  hanno  fatto  i  Veniziani  ed  i  Fiorentini,  i 
quali  sono  slati  mollo  più  deboli,  quando  l'uno  aveva  la  Lom- 
bardia e  l'altro  la  Toscana,  che  non  erano  quando  l'uno  era 
conlento  del  mare,  e  l'altro  di  sei  miglia  di  confìni.  Perchè 
lutto  è  nato  da  avere  voluto  acquistare,  e  non  avere  saputo 
pigliare  il  modo  e  tanto  più  meritano  biasimo,  quanto  egli 
hanno  meno  scusa,  avendo  veduto  il  modo  hanno  tenuto  i 
Romani,  ed  avendo  potuto  seguitare  il  loro  cssempio,  quando 
i  Romani,  senza  alcuno  essempio,  per  la  prudenza  loro,  da 
loro  medesimi  lo  seppono  trovare.  Fanno,  olirà  di  questo,  gli 
acquisti  qualche  volta  non  mediocre  danno  ad  ogni  bene  ordi- 
nata repubblica,  quando  e'si  acquista  una  città  o  una  provin- 
cia piena  di  delizie,  dove  si  può  pigliare  di  quelli  costumi  per 
la  conversazione  che  si  ha  con  quelli:  come  intervenne  ado- 
rna, prima,  nello  acquisto  di  Capova;  e  dipoi,  ad  Annibale 
E  se  Capova  fusse  slata  più  longinqua.  dalla  città,  che^  lo 
errore  de' soldati  non  avesse  avuto  il  rimedio  propinquo;  o 
che  Roma  fusse  stata  in  alcuna  parte  corrotta;  era  senza 
dubbio  quello  acquisto  la  rovina  della  Repubblica  romana.  E 
Tito  Livio  fa  fede  di  questo  con  queste  parole:  Jam  lune  mi- 

<  Nessuna  edizione  offre  varianti  a  questo  passo;  il  quale  è  da  intendersi  ; 
molto  facilmente  vanno  insieme  queste  due  cose  ;  cioè  lo  acquietare  imperio ,  r 
non  acquistare  forze. 

*  Che  ha  qui  la  forza  di  laiche,  sicché:  onde  invano  gli  editori  della  Te- 
stina ed  altri  emendarono  :  e  che. 


LIBRO   SECONDO.  273 

nime  salubris  mililari  disciplinas  Capua,  inslrumenlum  omnium 
voluplalum,  delinilos  mililum  animos  averlil  a  memoria  pa- 
trioe.  E  veramente,  simili  cillà  o  provincie  si  vendicano  con- 
Ira  al  vincitore  senza  zuffa  e  senza  sangue  ;  perchè,  riempien- 
doli de' suoi  tristi  costumi,  gli  espongono  ad  essere  vinti  da 
qualunque  gli  assalta.  E  luvenale  non  potrebbe  meglio,  nelle 
sue  satire,  aver  considerata  questa  parte,  dicendo:  che  nei 
petti  romani  per  gli  acquisti  delle  terre  peregrine  erano  in- 
trati  i  costumi  peregrini;  ed  in  cambio  di  parsimonia  e  di  al- 
tre eccellentissime  virtù,  gula  et  luxuria  incubuit,  viclumque 
ulciscilur  orbem.  Se,  adunque,  l'acquistare  fu  per  esser  per- 
nizioso  ai  Romani  nei  tempi  che  quelli  con  tanta  prudenza  e 
tanta  virtù  procedevano,  che  sarà  adunque  a  quelli  che  dis- 
costo dai  modi  loro  procedono?  e  che,  oltre  agli  altri  errori 
che  fanno,  di  che  se  ne  è  di  sopra  discorso  assai,  si  vagliono 
dei  soldati  o  mercenari  o  ausiliari?  Donde  ne  risulta  loro 
spesso  quei  danni  di  che  nel  seguente  capitolo  si  farà  men- 
zione. 

Gap.  XX.  —  Quale  pericolo  porli  quel  principe  o  quella  repub- 
blica che  si  vale  della  milizia  ausiliare  o  mercenaria. 

Se  io  non  avessi  lungamente  trattato  in  altra  mia  opera, 
quanto  sia  inutile  la  milizia  mercenaria  ed  ausiliare,  e  quanto 
utile  la  propria,  io  mi  distenderei  in  questo  discorso  assai 
più  che  non  farò;  ma  avendone  altrove  parlato  a  lungo,  sarò 
in  questa  parte  brieve.  Né  mi  è  paruio  in  tutto  da  passarla, 
avendo  trovato  in  Tito  Livio,  quanto  ai  soldati  ausiliari,  sì 
largo  essempio  ;  perchè  i  soldati  ausiliari  sono  quelli  che  un 
principe  o  una  repubblica  manda,  capitanati  e  pagati  da  lei, 
in  tuo  aiuto.  E  venendo  al  testo  di  Tito  Livio,dico  che,  avendo 
i  Romani,  in  diversi  luoghi,  rotti  due  eserciti  de' Sanniti  con 
li  eserciti  loro,  i  quali  avevano  mandati  al  soccorso  de'Ca- 
povani  ;  e  per  questo  liberi  i  Capovani  da  quella  guerra  che 
i  Sanniti  facevano  loro  ;  e  volendo  ritornare  verso  Roma;  ed* 
acciò  che  i  Capovani, spogliati  di  presidio,  non  diventassino  di 
nuovo  preda  dei  Sanniti  ;  lasciarono  due  legioni  nel  paese  di 

*  Lezione  della  Romana.  Le  altre  omettono  ed. 


274  DEI   DISCORSI 

Capeva,  che  gli  difendesse.  Le  quali  legioni  marcendo  nel- 
l'ozio, cominciarono  a  duellarsi  in  quello;  lanlo  che,  dimen- 
ticala la  palria  e  la  riverenza  del  Senato,  pensarono  di  pren- 
dere l'armi,  ed  insignorirsi  di  quel  paese  che  loro  con  la 
loro  virtù  avevano  difeso,  parendo  loro  che  gli  abitatori  non 
fussino  degni  di  possedere  quelli  beni  che  non  sapevano  di- 
fendere. La  qual  cosa  presentita,  fu  dai  Romani  oppressa  e 
corretta:  come, dove  noi  parleremo  delle  congiure,  largamente 
si  mostrerà.  Dico  pertanto  di  nuovo,  come  di  tulle  l'altre 
qualità  di  soldati,  gli  ausiliari  sono  i  più  dannosi.  Perchè  in 
essi  quel  principe  o  quella  repubblica  che  gli  adopera  in  suo 
aiuto,  non  ha  autorità  alcuna,  ma  vi  ha  solo  l'autorilà  colui 
che  li  manda.  Perchè  i  soldati  ausiliari  sono  quelli  che  li 
sono  mandati  da  un  principe,  come  ho  detto,  sotto  suoi  ca- 
pitani, sotto  sue  insegne  e  pagati  da  lui:  come  fu  questo 
esercito  che  i  Romani  mandarono  a  Capova.  Questi  tali  sol- 
dati, vinto  ch'eglino  hanno,  il  più  delle  volle  predano  cosi 
colui  che  gli  ha  condotti,  come  colui  centra  a  chi  e' sono 
condotti;  e  lo  fanno  o  per  malignità  del  principe  che  gli 
manda,  o  per  ambizion  loro.  E  benché  la  intenzione  de'  Ro- 
mani non  fusse  di  rompere  l'accordo  e  le  convenzioni  che 
avevano  falle  coi  Capovani  ;  nondimeno  la  facilità  che  pa- 
reva a  quelli  soldati  di  opprimergli  fu  tanta,  che  gli  polcKe 
persuadere  a  pensare  di  tórre  ai  Capovani  la  terra  e  lo  sla- 
to. Polrebbesi  di  questo  dare  assai  essempi  ;  ma  voglio  mi 
basti  questo,  e  quello  dei  Regini,  ai  quali  fu  tolto  la  vita  o  la 
terra  da  una  legione  che  i  Romani  vi  avevano  messa  in  guar- 
dia. Debbe,  adunque,  un  principe  e  una  repubblica  pigliare 
prima  ogni  altro  parlilo,  che  ricorrere  a  condurre  nello  slato 
suo  per  sua  difesa  genti  ausiliarie,  quando  ei  s'abbia  a  fidare 
sopra  quelle;  perchè  ogni  patto,  ogni  convenzione,  ancora 
che  dura,  ch'egli  ara  col  nemico,  gli  sarà  più  leggieri  che 
tal  parlilo.  E  se  si  leggeranno  bene  le  cose  passate,  e  discor- 
rerannosi  lo  presenti,  si  troverà,  per  uno  che  n'abbia  avuto 
buon  fìne,  intìniti  esser  rimasi  ingannali.  Ed  uno  principe 
o  una  repubblica  ambiziosa  non  può  avere  la  maggiore  oc- 
casione di  occupare  una  città  o  una  provincia,  che  esser 
richiesto  che  mandi  gli  eserciti  suoi  alla  difesa    di   quella. 


LIBRO   SECONDO.  275 

Pertanto,  colui  che  è  tanto  ambizioso  che,  non  solamente | 
per  difendersi  ma  per  oCfendere  altri,  chiama  simili,  aiuti,' 
cerca  d'acquistare  quello  che  non  può  tenere,  e  che  da  quello 
che  gliene  *  acquista  gli  può  facilmente  esser  tolto.  Ma  l'am- 
bizione dell'uomo  è  tanto  ^  grande,  che  per  cavarsi  una  pre- 
sente voglia,  non  pensa  al  male  che  è  in  brieve  tempo  per 
risultargliene.  Né  lo  muovono  gli  antichi  essempi,  così  in 
questo  come  nell'  altre  cose  discorse  ;  perchè,  se  e'  fussino 
mossi  da  quelli,  vedrebbero  come  quanto  più  si  mostrala  li- 
beralità coi  vicini,  e  d'essere  più  alieno  da  occupargli,  tanto 
più  ti  si  gettano  in  grembo:  come  di  sotto,  per  lo  essempio 
de'Capovani,  si  dirà. 

Gap.  XXI. —  Il  primo  Pretore  che  i  Romani  mandarono  in 
alcun  luogo,  fu  a  Capova,  dopo  quatlrocenlo  anni  che  co- 
minciarono a  far  guerra. 

Quanto  i  Romani  nel  modo  del  procedere  loro  circa 
l'acquistare  fossero  diCferenti  da  quelli  che  ne' presenti  tempi 
ampliano  la  iurisdizione  loro,  si  è  assai  di  sopra  discorso;  e 
come  e' lasciavano  quelle  terre,  che  non  disfacevano,  vivere 
con  le  leggi  loro,  eziandio  quelle  che  non  come  compagne, 
ma  come  soggette  si  arrendevano  loro  ;  ed  in  esse  non  lascia- 
vano alcun  segno  d'imperio  per  il  Popolo  romano,  ma  l'ob- 
bligavano ad  alcune  condizioni,  le  quali  osservando,  le  man- 
tenevano nello  stato  e  dignità  loro.  E  conoscesi  questi  modi 
esser  stati  osservati  infine  che  gli  uscirono  d'Italia,  e  che 
cominciarono  a  ridurre  i  regni  e  gli  stati  in  provincie.  Di 
questo  ne  è  chiarissimo  essempio,  che  il  primo  Pretore  che 
fusse  mandato  da  loro  in  alcun  luogo,  fu  a  Capeva  :  il  quale 
vi  mandarono,  non  per  loro  ambizione,  ma  perchè  e'  ne  fu- 
rono ricerchi  dai  Capovani  ;  i  quali,  essendo  intra  loro  discor- 
dia, giudicarono  esser  necessario  avere  dentro  nella  città  un 
cittadino  romano  che  gli  riordinasse  e  riunisse.  Da  questo 
essempio  gli  Anziati  mossi,  e  constrelti  dalla  medesima  ne- 
cessità, domandarono  ancora  loro  un  Prefetto  ;  e  Tito  Livio 

*  La  Romana ,  qui  e  in  altri  luoghi!  gti  ne, 

•  La  stessa  edizion»  :  tanta. 


276  DEI    DISCOUSI 

dice  ìd  su  questo  accidente,  ed  in  su  questo  nuovo  modo 
d'imperare,  quod  jam  non  solum  arma,  scdjura  romana  pol- 
lebanl.  Vedesi,  pertanto,  quanto  questo  modofacililòraugu- 
mento  romano.  Perchè  quelle  città,  massime,  che  sono  use 
a  viver  libere,  o  consuete  governarsi  per  suoi  provinciali,  con 
altra  quiete  stanno  contente  sotto  uno  dominio  che  non  veg- 
gono, ancora  ch'egli  avesse  in  sé  qualche  gravezza ,  che  sotto 
quello  che  veggendo  ogni  giorno,  pare  loro  che  ogni  giorno 
sia  rimproverata  loro  la  servitù.  Appresso,  ne  seguita  un  al- 
tro bene  per  il  principe:  che  non  avendo  i  suoi  ministri  ir 
mano  i  giudizi,  ed  i  magistrali  che  civilmente  o  criminal- 
mente rendono  ragione  in  quelle  cìttadi,  non  può  nascere 
mal  sentenza  con  carico  o  infamia  del  principe  ;  e  vengono 
per  questa  via  a  mancare  molte  cagioni  di  calunnia  e  d'odio 
verso  di  quello.  E  che  questo  sia  il  vero,  oltre  agli  antichi 
essempi  che  se  ne  potrehbono  addurre,  ce  n'é  uno  esscmpio 
fresco  in  Italia.  Perchè,  come  ciascuno  sa,  sendo  Genova  stata 
più  volle  occupata  da'  Franciosi,  sempre  quel  re,  eccetto  che 
ne'  presenti  tempi,  vi  ha  mandalo  un  governatore  francioso 
che  in  suo  nome  la  governi.  Al  presente  solo,  non  per  ele- 
zione del  re,  ma  perchè  cosi  ha  ordinato  la  necessità,  ha 
lascialo  governarsi  quella  città  per  sé  medesima,  e  da  un 
governatore  genovese.  E  senza  dubbio ,  chi  ricercasse  quali 
di  questi  duoi  modi  rechi  più  sicurtà  al  re  dell'imperio  d 
essa,  e  più  contentezza  a  quelli  popolari,  senza  dubbio  ap- 
proverebbe questo  ultimo  modo.  Oltra  di  questo,  gli  uomini 
tanto  più  li  si  gettano  in  grembo,  quanto  più  lu  pari  alieno 
dallo  occupargli  ;  e  tanto  meno  li  temono  per  conto  della 
loro  libertà,  quanto  più  sei  umano  e  domestico  con  loro.  Que- 
sta dimestichezza  e  liberalità  fece  i  Capovani  correre  a  chie- 
dere il  Pretore  ai  Romani  :  che  se  dai  Romani  si  fusse  mostro 
una  minima  voglia  di  mandarvelo,  subito  *  sarebbono  in- 
gelositi, e  si  sarebbono  discoslali  da  loro.  Ma  che  bisogna 
ire  per  gli  essempi  a  Capeva  ed  a  Roma,  avendone  in  Fi- 
renze ed  in  Toscana?  Ciascuno  sa  quanto  tempo  è  che  la 
città  di  Pistoia  venne  volontariamente  solto  l'imperio  fioren- 
lino.  Ciascuno  ancora  sa  quanta  inimicizia  è  stata  intra  i 

*  Le  edizioni  posteriori  al  lò32  aggiungooo,  inutilmente,  si. 


I 


r 


LIBRO    SECONDO.  277 

Fiorentini,  ed  i  Pisani,  Lucchesi  e  Sanesi:  e  questa  diversità 
d'  animo  non  è  naia  perchè  i  Pistoiesi  non  prezzino  la  loro 
libertà  come  gli  altri,  e  non  si  giudichino  da  quanto  gli  altri; 
ma  per  essersi  i  Fiorentini  portati  con  loro  sempre  come  fra- 
telli, e  con  gli  altri  come  nimici.  Questo  ha  fatto  che  i  Pi- 
stoiesi sono  corsi  volontari  sotto  l'imperio  loro:  gli  altri 
hanno  fatto  e  fanno  ogni  forza  per  non  vi  pervenire.  E  senza 
dubbio,  i  Fiorentini  se,  o  per  vie  di  leghe  odi  aiuto,  avessero 
dimesticali  e  non  inselvatichiti  i  suoi  vfcini,  a  quest'ora  sa- 
rebbero signori  di  Toscana.  Non  è  per  questo  che  io  giudichi 
che  non  si  abbia  ad  operare  l'armi  e  le  forze;  ma  si  debbono 
riservare  in  ultimo  luogo,  dove  e  quando  gli  altri  modi  non 
bastino. 

Gap.  XXII.  —  Quanto  siano  false  molte  volle  le  oppinioni 
degli  uomini  nel  giudicare  le  cose  grandi. 

Quanto  siano  false  molte  volte  le  oppinioni  degli  uomini, 
r  hanno  visto  e  veggono  coloro  che  si  trovano  testimoni 
delle  loro  deliberazioni:  le  quali  molte  volte,  se  non  sono 
deliberate  da  uomini  eccellenti,  sono  contrarie  ad  ogni  ve- 
rità. E  perchè  gli  eccellenti  uomini  nelle  repubbliche  corrot- 
te, nei  tempi  quieti  massime,  e  per  invìdia  e  per  altre  am- 
biziose cagioni,  sono  inimicati  ;  si  va  dietro  a  quello  che  da 
uno  comune  inganno  è  giudicato  bene,  o  da  uomini  che  più 
presto  vogliono  i  favori  che  il  bene  dell'  universale,  è  messo 
innanzi.  Il  quale  inganno  dipoi  si  scuopre  nei  tempi  avversi, 
e  per  necessità  si  rifugge  a  quelli  che  nei  tempi  quieti  erano 
come  dimenticati:  come  nel  suo  luogo  in  questa  parte  appieno 
si  discorrerà.  Nascono  ancora  certi  accidenti,  dove  facilmente 
sono  ingannati  gli  uomini  che  non  hanno  grande  isperienza 
delle  cose,  avendo  in  sé  quello  accidente  che  nasce  molli  ve- 
risimili ,  atti  a  far  credere  quello  che  gli  uomini  sopra  tal 
caso  si  persuadono.  Queste  cose  si  sono  dette  per  quello  che 
Numicio  pretore,  poiché  i  Latihi  furono  rolli  dai  Homani, 
persuase  loro;  e  per  quello  che  pochi  anni  sono  si  credeva 
per  molti,  quando  Francesco  I  re  di  Francia  venne  all'ac- 
qsislo  di  Milano,  che  era  difeso  dai  Svizzeri.  Dico  pertanto, 

84 


■^78  DEI  dìscobsi 

che,  essendo  modo  Lai^i  XII,  e  succedendo  nel  resno  di 
Francia  Francesco  d'Ansolem,  e  desiderando  resliluire  al 
regno  il  ducalo  di  Milano,  sialo  pociti  anni  innanzi  occupalo 
dai  Svizzeri  mediante  il  conforto  di  Papa  Giulio  II,  deside- 
/^ava  aver  aiuli  in  Italia  che  «li  facilitassero  V  impresa  ;  ed 
oltre  ai  Veniziani,  che  il  re  Luisi  s'aveva  rÌ!:uadasnati,  ten- 
tava i  Fiorentini  e  papa  Leone  X;  parendogli  la  sua  impresa 
più  facile  qualunque  volta  s'avesse  rigua<lasnati  costoro, 
per  essere  le  genti  dèi  re  di  Spagna  in  Lombardia,  ed  altre 
forze  dello  iraperadore  in  Verona.  Non  cede  Papa  Leone  alle 
voglie  del  re,  ma  fu  persuaso  da  quelli  che  lo  consigliava- 
no (secondo  si  disse),  si  stesse  neulrale,  mnslrandonli  in 
questo  partito  consistere  la  vittoria  certa  :  perchè  per  la  Chiesa 
non  si  faceva  avere  polenti  in  Italia  né  il  re  né  i  Sviizeri  ; 
ma  volendola  ridurre  nell'antica  libertà,  era  necessario  li- 
berarla dalla  servitù  dell'  uno  e  dell'  altro.  E  perchè  vincere 
r  uno  e  l'altro,  o  di  per  sé  o  lutti  due  insieme,  non  era  |)os- 
sibile;  conveniva  che  superassino  l'uno  l'altro,  e  che  la 
Chiesa  con  gli  amici  suoi  urtasse  quello  poi  che  rimanesse 
vincitore.  Ed  era  ira|)0ssihile  trovare  inisliore  occa>ione  che 
la  presente,  sendo  l'uno  e  l'altro  in  su'  campi,  ed  avendo 
il  Papa  le.  sue  forze  ad  ordine  da  potere  ra[>prcsenlarsi  in 
sui  confini  di  Lomhardia  ,  e  propinquo  all'uno  e  l'altro 
esercito,  sotto  colore  di  voler  guardare  le  cose  sue,  e  quivi 
tanto  stare  che  venissero  alla  giornata  ;  la  quale  ragionevol- 
mente, sendo  l'uno  e  l'altro  esercito  virtuoso,  doverrehhe 
esser  sanguinosa  per  tulle  due  le  parti,  e  lasciare  in  modo 
debilitato  il  vincitore,  che  fosse  al  Papa  fa(  ile  assaltarlo  e 
romperlo:  e  cosi  verrebbe  con  sua  «loria  a  rimanere  signore 
di  Lombardia,  ed  arbitro  di  tutla  Italia.  E  quanto  questa  oppi- 
nione  fosse  falsa,  si  vide  per  lo  evento  della  cosa:  perchè, 
sendo  dopo  una  lunga  zufTa  suti  superati  i  Svizzeri,  non  che 
le  genti  del  Papa  e  di  Spa;2na  presumessero  assaltare  i  vin- 
citori, ma  si  prc{)arar()no  alla  fuga;  la  quale  ancora  non  sa- 
rebbe loro  giovata,  se  non  fusse  stato  o  la  umanità  o  la  fred- 
dezza del  re,  che  non  cercò  la  seconda  vittoria,  ma  gli  ba^tò 
fare  accordo  con  la  Chiesa.  Ha  questa  opf)inione  certe  ragioni 
che  discosto  paiono  vere,  ma  sono  al  lutto  aliene  dalla  veri- 


LIBRO    SECONDO.  ^79 

là.  Perchè,  rade  volle  accade  che  '1  vincitore  perda  assai 
suoi  soldati:  perchè  de' vincitori  rie  muore  nella  zuffa,  non 
nella  fuga;  e  nello  ardore  del  comballere,  quando  gli  uonaini 
hanno  volto  il  viso  l'uno  all'altro,  ne  cade  pochi,  raassime 
perchè  la  dura  poco  lempo  il  più  delle  volle;  e  quando  pur 
durasse  assai  tempo,  e  de' vincitori  ne  morisse  assai,  è  lanla 
la  riputazione  che  si  tira  dietro  la  vitloria,  ed  il  terrore  che 
la  porta  seco,  che  di  lunga  avanza  il  danno  che  per  la  morie 
de'suoi  soldati  avesse  sopporlalo. Talché, se  uno  esercito  il  qua- 
le, in  su  la  oppinione  che  e' fosse  debililalo,  andasse  a  tro- 
varlo, si  troverebbe  ingannato;  se  già  non  fusse  l'esercito  tale, 
che  d'ogni  tempo,  e  innanli  alla  vittoria  e  poi,  potesse  com- 
ballerlo.  In  questo  caso  e'  polrebbe,  secondo  la  sua  forluna  e 
virtù,  vincere  e  perdere;  ma  quello  che  si  lusse  azzuffato 
prima,  ed  avesse  vinto,  arebbe  piuttosto  vantaggio  dall'  altro. 
Il  che  si  conosce  certo  per  la  esperienza  de'  Latini,  e  perla 
fallacia  che  Numizio  pretore  prese,  e  per  il  danno  che  ne  ri- 
portorno  quelli  popoli  che  gli  crederono:  il  quale,  vinto  che 
i  Romani  ebbero  i  Latini,  gridava  per  tutto  il  paese  di  La- 
zio, che  allora  era  tempo  assaltare  i  Romani  debilitati  per 
la  zuffa  avevano  fatta  con  loro  ;  e  che  solo  appresso  i  Romani 
era  rimaso  il  nome  della  vittoria  ,  ma  tutti  gli  altri  danni 
avevano  sopportali  come  se  fussino  stali  vinti  ;  e  che  ogni 
poco  di  forza  che  di  nuovo  gli  assaltasse,  era  per  spacciargli. 
Donde  quelli  popoli  che  gli  crederono,  fecero  nuovo  esercito, 
e  subito  furono  rolli,  e  patirono  quel  danno  che  patiranno 
sempre  coloro  che  terranno  simili  oppinioni.* 

Cap.  XXllI.  —  Quanto  i  tìomani  nel  giudicare  i  suddili  per 
alcuno  accidenle  che  necessitasse  lai  giudizio,  fuggivano 
la  via  del  mezzo. 

Jam  Latto  is  slalus  erat  rerum  ul  ncque,  pacem,  ncque 
hellum  pali  possenl.  Di  tulli  gli  stati  infelici,  è  infelicissimo 
quello  d'  un  principe  o  d'  una  rejìubblica  che  è  ridotto  in  ter- 
mine che  non  può  riq^evere  la  pace,  o  sostenere  la  guerra  :  a 
che  si  riducono  quelli  che  sono  dalle  condizioni  della  pace 

■  •  L'edizione  del  Biado}  simile  oppinione. 


280 


DEI   DISCORSI 


troppo  offesi  ;  e  dall' altro  canlo,  volendo  far  guerra,  convien 
loro  o  gillarsi  in  preda  di  chi  gli  aiuti,  o  rimanere  preda  del 
nimico.  Ed  a  lutti  questi  termini  si  viene  per  cattivi  consi^^li 
e  cattivi  partiti,  da  non  avere  misuralo  bene  le  forze  sue, 
come  di  sopra  si  disse.  Perché  quella  repubblica  o  quel  prin- 
cipe che  bene  le  misurasse,  con  diflScultà  si  condurrebbe  nel 
termine  si  condussono  i  Latini:  i  quali  quando  non  dovevano 
accofdare  con  i  Romani,  accordarono;  e  quando  non  dove- 
vano rompere  loro  guerra,  la  nippono:  e  cosi  seppono  fare 
in  modo,  che  la  inimicizia  ed  amicizia  dei  Romani  fu  loro 
ugualmente  dannosa.  Erano,  adunque,  vinti  i  Latini  ed  al 
(ulto  afflitti,  prima  da  Manlio  Torquato,  e  dipoi  da  Camraillo: 
il  quale  avendogli  costretti  a  darsi  e  rimettersi  nelle  braccia 
de' Romani,  ed  avendo  messo  la  guardia  per  tutte  le  terre 
di  Lazio,  e  preso  da  tulle  gli  stalichi  ;  tornalo  in  Roma,  riferì 
al  Senato  come  tutto  Lazio  era  nelle  mani  del  Popolo  romano. 
E  perché  questo  giudizio  è  notabile,  e  merita  d'essere  os- 
servalo ,  per  poterlo  imitare  quando  simili  occasioni  sono 
date  a'  principi,  io  voglio  addurre  le  parole  di  Livio  poste  ia 
bocca  di  Cammillo  ;  le  quali  fanno  fede  e  del  modo  che  i  Ro- 
mani tennono  in  ampliare,  e  come  ne'  giudizi  di  stato  sempre 
fuggirono  la  via  del  mezzo,  e  si  volsono  agli  estremi:  perchè 
un  governo  non  é  altro  che  tenere  in  modo  i  sudditi,  che 
non  ti  possano  o  debbano  offendere.  Questo  si  fa  o  con  assi- 
curarsene in  tutto,  togliendo  loro  ogni  via  da  nuocerti;  o 
con  beneficargli  in  modo,  che  non  sia  ragionevole  ch'eglino 
abbino  a  desiderare  di  mutar  fortuna.  Il  che  lutto  si  com- 
prende, e  prima  per  la  proposta  di  Cammillo,  e  poi  per  il 
giudizio  dato 'dd  Senato  sopra  quella.  Le  parole  sue  furono 
queste  :  Dii  immorlales  ita  voi  polenles  hujui  conùlii  feceruni, 
u(  tii  Lalium,  an  non  tit ,  in  veslra  manu  posuerinL  Ilaqui 
pacem  vobts,  quod  ad  Lalinoi  allinei,  parare  in  perpeluum,  tei 
sctviendo ,  vel  ignoicendo  pnleslis.  Vullit  crudeliler  connuìere 
in  dedilos,  victosque?  licei  delere  omne  Lalium.  Vullis,  esemplo 
majorum,  ampere  rem  romarmm,  viclos  in  civilalem  accij.irndo? 
materia  crtteendi  per  summam  gloriam  suppedital.  Certe  id 
firmissimum  imperium  est,  quo  obedienles  gaudenl.  lUorum 
igilur  animot,  dum  expeciaUone  slupenl,  teu  pana,  seu  bene- 


LIBRO   SECONDO.  ^8l 

fido  prcEoccupari  oporlet.  A  questa  proposfa  successe  la  deli 
berazione  del  Sanalo:  la  quale  fu,  secondo  le  parole  del  Con- 
solo,che  recatosi  innanzi,  terra  per  terra,  tulli  quelli  eh*  erano 
di  momento,  o  gli  beneficarono  o  gli  spensono;  facendo  ai 
beneficati  esenzioni,  privilegi,  donando  loro  la  città,  e  da 
ogni  parte  assicurandogli;  di  quelli  altri  disfecero  le  terre j 
raandaronvi  colonie,  ridussongli  in  Roma,  dissiparongli  tal- 
mente che  con  l'arme  e  con  il  consiglio  non  potevano  più  nuo- 
cere. Né  usorno  mai  la  via  neutrale  in  quelli,  come  ho  detto, 
di  momento.  Questo  giudizio  debbono  i  princìpi  imitare.  A 
questo  dovevano  accostarsi  i  Fiorentini,  quando  nel  1502  si 
ribellò  Arezzo,  e  tutta  la  Val  di  Chiana:  il  che  se  avessino  fat- 
to, arebbero  assicurato  l'imperio  loro,  e  fatta  grandissima  la 
città  di  Firenze,  e  datogli  quelli  campi  che  per  vivere  gli 
mancano.  *  Ma  loro  usarono  quella  via  del  mezzo,  la  quale 
è  perniziosissima  nel  giudicare  gli  uomini  ;  e  parie  degli 
Aretini  ne  conflnarono,  parte  ne  condennarono;  a  tutti  tol- 
sono  gli  onori  e  gli  loro  antichi  gradi  nella  città;  e  lasciarono 
la  città  intera.  £se  alcuno  cittadino  nelle  diliberazioni  consi- 
gliava che  Arezzo  si  disfacesse  ;  a  quelli  che  pareva  esser 
più  savi,  dicevano  come  sarebbe  poco  onore  della  repubblica 
disfarla,  perchè  parrebbe  che  Firenze  mancasse  di  forze  di 
tenerla.  Le  quali  ragioni  sono  di  quelle  che  paiono  e  non 
sono  vere;  perchè  con  questa  medesima  ragione  non  si 
arebbe  ad  ammazzare  uno  parricida,  uno  scellerato  e  scan- 
daloso, sendo  vergogna  di  quel  principe  mostrare  di  non  aver 
forze  da  poter  frenare  uno  uomo  solo.  E  non  veggono  questi 
tali  che  hanno  simili  oppinioni,  come  gli  uomini  particolar- 
mente, ed  una  città  tutta  insieme  pecca  talvolta  contra  ad 
uno  slato,  che  per  esempio  agli  altri,  per  sicurtà  di  sé,  non 
ha  altro  rimedio  un  principe  che  spengerla.  E  l'onore  con- 
siste nel  sapere  e  potere  castigarla;  non  nel  polere  con  mille 
pericoli  tenerla:  perchè  quel  principe  che  non  castiga  chi 
erra,  in  modo  che  non  possa  più  errare,  è  tenuto  o  ignoranta 
o  vile.  Questo  giudizio  che  i  Romani  dettero,  quanto  sia  neces- 
sario si  conferma  ancora  per  la  sentenza  che  dettero  de'  Pri-  * 

*  Male  nelle  edizioni  del  Poggiali  e  del  ISlJi:  gli  mancavano.  Inlcndé 
ognuno  da  che  avesse  origine  <][uesta  arbitraria  correzione. 

24'  • 


282  DEI    DISCORSI 

vernati.  Dove  «i  debbe,  per  il  (eslo  dì  Livio,  notare  dno  coso: 
runa,  quello  che  di  Mpra^i  dice,  che  i  sudditi  si  dehhono  o 
bcncGcare  o  spensere:  TaUra,  quanto  la  senorosilà  deir^ni- 
mo,  quanto  il  parlare  il  vero  cìovi,  quando  o-li  è  dello  nel 
con»pello  desìi  uomini  prudenti.  Era  racnnalo  il  Sonalo  ro- 
mano per  siodicare  de' Pri vernati,  i  quali  sondosi  rilicllnli, 
erano  di  poi  per  fona  ritornali  sotto  la  obhtdienza  mtnnnn. 
Erano  mandati  dal  popolo  di  Priverno  molli  cittadini  per 
impetrare  perdono  dal  Senato;  ed  essendo  venuti  al  con- 
spello di  quello,  fa  dello  ad  un  di  loro  da  un  do'  Sonatori, 
^iiaai  pantam  meritot  Prirtruaiet  cemertL  Al  quale  il  Pri- 
vernale  rispose:  Eam,  quttm  merentur  qui  m  liberiali  dignnx 
emamf.  Al  quale  il  Consolo  replicò:  Quid  ii  pm*>'> 
mut  robU ,  qualem  noi  ptetm  tvbiicum  hmòitumt 
A  che  quello  rispose  :  Sé  binmm  dfderitis,  el  fid^lrm  ei  perpc- 
tuam  ;  ii  mdam,  haué  éiuturmam.  Donde  la  più  savia  parte  del 
SeOTto,  ancora  che  nolli  te  ■*allenissino,  disse  :  a  mmdiriur 
rocem  el  Ubtri  «C  wiri  ;  nte  credi  poite  iUum  poputmm,  a^  ' 
minem,  denéqmt  in  ea  eondiùnne  cujmi  emm  paniieal,  ti- 
quam  meeem  tit ,  mansurum.  Ibi  paeem  e»te  fidam ,  %tìn  re 
luwarii  paceiti  tinU  naqìu  «o  loco  ubi  serriiulem  etse  velini. 
(idem  iperundam  €ut.  Ed  in  ta  %w»le  parole,  deliberorno 
che  i  Privernati  fositro  cittadini  romani,  e  de'prìvilegi  dell.i 
civilità  rIì  onorarono,  dicendo:  fo«  demum  qui  nihil  praler- 
quam  de  liberiate  cogilant,  dijnot  tue,  qui  Romani  finnl.  Tanto 
piacque  agli  animi  generosi  questa  vera  e  generosa  rispeala  : 
perchè  ogni  altra  risposta  sarebbe  stala  bugiarda  e  vile.  K 
coloro  che  credono  desìi  nomini  altrimenti,  maaaimodi  quelli 
che  aono  osi  o  ad  essere  o  a  parere  loro  oMere  liberi, ie  n'  in- 
gannano; e  aolto  questo  inganno  pigliano  partiti  non  boom  por 
sé,  e  da  non  aatisfare  a  loro.  Di  che  nascono  le  spesse  ribel- 
lioni, e  le  rovine  degli  slati.  Ila  per  tornare  al  discorso  no<.iro , 
conchiodo,  e  per  questo  e  per  quello  siudizio  dato  dai  Latini] 
quando  si  ha  a  giudicare  cittadi  potenti,  e  che  sono  oi 
vivere  libere,  conviene  o  spesnerle  o  carezzarle;  altrimenti, 
ogni  giudizio  è  vano.  E  debbesi  fuggir  al  tutto  la  via  del 
mezzo,  la  quale  è  pemizìosa,  come  lo  fu  a'  Sanniti  qiiandt 
avevano  rinchiuso  i  Romani  alle  forche  Caudine;  quando  noa 


LIBRO    SECONDO.  283 

volleno  *  segoire  il  parere  di  quel  vecchio,  che  consigliò  che  i 
Romani  si  lasciassero  andare  onorali,  o  che  s'ammazzassero 
tutti  ;  ma  pigliando  una  via  di  mezzo  disitrmandogli  e  metten- 
dogli sotto  ii  gioqo,  gli  lasciarono  andare  pieni  d'ignominia 
e  di  sdegno.  Talché  poco  dipoi  conobbero  con  lor  danno  la 
sentenza  di  quel  vecchio  essere  stata  utile,  e  la  loro  dili- 
berazione dannosa  ;  come  nel  suo  luogo  più  appieno  si  dis- 
correrà. 

Cap.  XXIV.  —  Le  fortezze  generalmente  sono  molto 
più  dannose  che  utili. 

Parrà  forse  a  questi  savi  *de*nostri  tempi  cosa  non  bene 
considerata,  che  i  Romani  nel  volere  assicurarsi  dei  popoli  di 
Lazio  e  della  città  di  Priverno,  non  pensassino  di  edificarvi 
qualche  fortezza,  la  qual  fusse  un  freno  a  tenergli  in  fede; 
sondo,  massime,  un  detto  in  Firenze,  allegato  da'  nostri  savi, 
che  Pisa  e  l'altre  simili  città  si  debbono  tenere  con  le  for- 
tezze. E  veramente,  se  i  Romani  fussino  stati  fatti  come  loro, 
egli  arebbero  pensato  di  edificarle  ;  ma  perchè  egli  erano 
d'altra  virtù,  d'altro  giudizio,  d'altra  potenza,  e*  non  le  edi- 
ficarono. E  mentre  che  Roma  visse  libera,  e  che  la  segui  gli 
ordini  suoi  e  le  sue  virtuose  constituzioni,  mai  n'edificò  per 
tenere  o  città  o  provincie;  ma  salvò  bene  alcune  delle  edifi- 
cale. Donde  veduto  il  modo  del  procedere  de'  Romani  in 
questa  parie,  e  quello  de' principi  de' nostri  tempi,  mi  pare 
da  mettere  in  considerazione,  se  gli  è  bene  edificare  fortezze, 
se  le  fanno  danno  o  utile  a  quello  che  l'edifica.  Debbesi , 
adunque ,  considerare  come  le  fortezze  si  fanno  o  per  di- 
fendersi da'  nimici,  o  per  difendersi  da' soggetti.  Nel  primo 
caso  le  non  sono  necessarie;  nel  secondo  dannose.  E  comin- 
ciando a  render  ragione  perchè  nel  secondo  caso  le  siano 
dannose,  dico  che  quel  principe  o  quella  repubblica  che  ha 
paura  de' suoi  sudditi  e  della  ribellione  loro,  prima  conviene 
che  tal  paura  nasca  da  odio  che  abbiano  i  suoi  sudditi  seco; 
l'odio,  da' mali  suoi  portamenti;  i  mali  portamenti  nascono 

*  Cosi  ancora  nella  Testina. 

?  Nella  edizione  del  Poggiali ,  non  so  il  perchè:  a  questi  dotti. 


làS-i  DEI   DISCORSI 

o  da  poler  credere  (ener<?Ii  con  forza,  o  da  poca  prudenza  di 
chi  gli  governa  :  ed  una  delle  cose  che  fa  credere  potergli 
forzare,  è  l'avere  loro  addosso  le  fortezze;  perchè  i  mali  Iral- 
tamenli,  che  sono  cagione  dell'odio,  nascono  in  buona  parte 
per  avere  quel  principe,  o  quella  repubblica,  le  fortezze:  le 
quali,  quando  sia  vero  questo,  di  gran  lunga  sono  più  nocive 
che  utili  Perchè  in  prima,  come  è  detto,  le  ti  fanno  essere  più 
audace  e  più  violento  nei  sudditi;  dipoi,  non  ci  è  quella  sicurtà 
che  lo  (i  |)er8uadi:  perchè  tutte  le  forze,  tutte  le  violenze  che  si 
usano  per  tenere  un  popolo,  sono  nulla  eccetto  che  due;  o  che 
tu  abbia  sempre  da  mettere  in  campagna  un  buono  esercito, 
come  avevano  i  Romani;  o  che  gli  dissipi,  spenga,  disordini, 
disgiunga,  in  modo  che  non  possine  convenire  ad  ofTenderli. 
Perchè  se  tu  gì' impoverisci,  spolialit  arma  tupersunl:  se  tu 
gli  disarmi,  furor  arma  mini$lral:  se  tu  ammazzi  i  capi,  e 
gli  altri  segui  d'ingiuriare,  rinascono  i  capi,  come  quelli  del- 
l'idra: se  tu  fai  le  fortezze,  le  sono  utili  ne'  tempi  di  pace, 
perchè  ti  danno  più  animo  a  far  loro  male;  ma  ne' tempi  di 
guerra  sono  inutilissime,  perchè  le  sono  assaltate  dal  nimico 
e  da'sudditi,  né  è  possibile  che  le  faccino  resistenza  ed  all'  uno 
ed  all'altro.  E  se  mai  furono  disutili,  sono  ne' tempi  nostri 
rispetto  alle  artiglierie;  per  il  furore  delle  quali  i  luoghi  pic- 
coli, e  dove  altri  non  si  possa  ritirare  con  li  ripari,  è  impos- 
sibile difendere,  come  di  sopra  discorremmo.  Io  voglio  questa 
materia  disputarla  più  tritamente.  0  tu  principe,  vuoi  con  que- 
ste fortezze  tenere  in  freno  il  popolo  della  tua  città;  o  tu  prin- 
cipe, 0  tu  repubblica,  vuoi  frenare  una  città  occupata  per  guer- 
ra. Io  mi  voglio  voltare  al  principe,  e  gli  dico:  che  tal  fortezza 
per  tenere  in  freno  i  suoi  cittadini  non  può  essere  più  inutile 
di  quello  ch'ella  è,  per  le  cagioni  dette  dì  sopra;  perchè  la  ti 
fa  più  pronto  e  men  rispettivo  ad  oppressargli  ;  e  quella 
oppressione  gli  fa  sì  esposti  alla  tua  rovina,  e  gli  accende  in 
modo,  che  quella  fortezza  che  ne  è  cagione,  non  ti  può  poi 
difendere.  Tanto  che  un  principe  savio  e  buono,  per  mante- 
nersi buono,  per  non  dare  cagione  né  ardire  a'  figliuoli  di 
diventare  tristi,  mai  non  farà  fortezza,  acciocché  quelli  non 
in  su  le  fortezze ,  ma  in  su  la  benivolenza  degli  uomini  si 
fondino.  E  se  il  conte  Francesco  Sforza,  diventato  duca  di 


LIBRO   SECONDO.  285 

Milano,  fu  riputato  savio,  e  nondimeno  fece  in  Milano  una 
fortezza  ;  dico  che  in  questo  caso  ei  non  fu  savio,  e  l'effetto 
ha  dimostro,  come  tal  fortezza  fu  a  danno,  e  non  a  sicurtà 
de'suoi  eredi.  Perchè  giudicando  mediante  quella  viver  sicuri; 
e  potere  offendere  gli  cittadini  e  sudditi  loro,  non  perdonarono 
ad  alcuna  generazione  di  violenza;  talché  diventali  sopra 
modo  odiosi,  perderono  quello  slato  come  prima  il  nimico  gli 
assaltò:  né  quella  fortezza  gli  difese,  né  fece  loro  nella  guerra 
utile  alcuno,  e  nella  pace  avea  loro  fatto  danno  assai.  Per- 
ché se  non  avessino  avuto  quella,  e  se  per  poca  prudenza 
avessino  maneggiati  agramente  i  loro  cittadini ,  arebbero 
scoperto  il  pericolo  più  presto,  e  sarebbonsene  ritirali;  ed 
arebbero  poi  potuto  più  animosamente  resistere  all'impeto 
francioso  co'  sudditi  amici  senza  fortezza,  che  con  quelli  inSK 
mici  con  la  fortezza:  le  quali  non  ti  giovano  in  alcuna  parte; 
perchè,  o  le  si  perdono  per  fraudo  di  chi  le  guardar,  o  per 
violenza  di  chi  l' assalta,  o  per  fame.  E  se  tu  vuoi  che  le  li 
giovino,  e  ti  aiutino  a  ricuperare  uno  stato  perduto,  dove  ti 
sia  solo  rimase  la  fortezza;  ti  conviene  avere  uno  esercito,  con 
il  quale  tu  possa  assaltare  colui  che  t'ha  cacciato:  e  quando 
tu  abbia  questo. esercito,  tu  rìaresti  lo  stato  in  ogni  modo, 
eziandio  che  la  fortezza  non  vi  fusse;  e  tanto  più  facilmente, 
quanto  gli  uomini  ti  lussino  più  amici  che  non  ti  erano  aven- 
dogli mal  trattali  per  l' orgoglio  della  fortezza.  £  per  ispe- 
rienza  s'è  visto,  come  questa  fortezza  di  Milano,  né  agli  Sfor- 
zeschi né  a'Franciosi,  ne'terapi  avversi  dell'uno  e  dell'altro, 
non  ha  fatto  a  alcuno  di  loro  utile  alcuno;  anzr  a  tutti  ha 
recato  danni  e  rovine  assai,  non  avendo  pensato  mediante 
quella  a  più  onesto  modo  di  tenere  quello  stato.  Guido  Ubaldo 
duca  di  Urbino,  figliuolo  di  Federigo,  che  fu  ne' suoi  tempi 
tanto  stimato  capitano,  sondo  cacciato  da  Cesare  Borgia,  fi- 
gliuolo di  papa  Alessandro  VI, dello  slato;  come  dipoi,  per  uno 
accidente  nato,  vi  ritornò,  fece  rovinare  tutte  le  fortezze  che 
erano  in  quella  provincia,  giudicandole  dannose.  Perché, 
sendo  quello  amalo  dagli  uomini,  per  rispetto  di  loro  non  le 
voleva;  e  per  conto  de'nimici,  vedeva  non  !e  poter  difen- 
dere, avendo  quelle  bisogno  d'uno  esercito  in  campagna, 
che  le  difendesse  :  talché  si  volse  a  rovinarle.  Papa  lulio, 


286  DEI    DISCORSI 

cacciati  i  Bentivoeli  di  Bologna,  fece  in  quella  città  una  for- 
tezza; e  dipoi  faceva  assnssinare  quel  popolo  da  un  suo  go- 
vernatore :  talché  quel  popolo  si  ribellò,  e  subilo  perde  la 
fortezza;  e  così  non  gli  giovò  la  fortezza  e  T offese,  intanto 
che  portandosi  altrimenti,  gli  arebk>e  giovato.  Niccolò  da  Ca- 
stello, padre  de*  Vitelli,  tornato  nella  sua  patria  donde  era 
esule,  subito  disfece  due  fortezze  vi  aveva  edifìcale  papa 
Sisto  IV,  gia<licando,  non  la  Tortezza,  ma  la  benivolenza  del 
popolo  l'avesse  a  tenere  io  quello  stato.  Ma  di  tutti  gli  altri 
esaempi  il  più  fresco,  il  più  notabile  in  osni  parte,  ed  atto  a 
mostrare  la  inutilità  dello  edificarle  e  l'utilità  del  disfarle,  ò 
quello  di  Genova,  seguito  ne' prossimi  tempi.  Ciascuno  sa 
come,  nel  1507,  Genova  si  ribellò  da  Luigi  \ll  re  di  Francia, 
il  qoale  venne  personalmente  e  con  tutte  le  forze  sue  a  rac- 
qoistarla;  e  ricuperata  che  l'ebbe,  fece  una  fortezza,  fortis- 
sima di  tutte  l'altre  delle  quali  al  presente  si  avesse  notizia: 
perchè  era  per  sito  e  per  ogni  altra  circonstanza  inespugnabi- 
le, posta  in  so  ona  ponta  di  colle  che  si  distende  nel  mare, 
chiamalo  dai  Genovesi  Codefa;  e  per  que>to  batteva  tutto  il 
porlo,  e  gran  parte  della  terra  di  Genova.  Occorse  poi,  nel 
1512,  che  sendo  cacciale  le  aenli  franciose  d'Iialia,  Genova, 
iionoatanle  la  fortezza,  si  ribellò;  e  pre«e  lo  stato  di  quella  Ot- 
taviano Pregoso,  il  quale  con  ogni  industria,  in  termine  di 
sedici  mesi,  per  fame  la  espugnò.  E  ciascuno  credeva  e  da 
molti  n'  era  consigliato,  che  la  conservasse  per  suo  rifugio  in 
ogni  accidente;  ma  esso,  come  prudentissimo,  conoscendo  che 
non  le  fortezze,  ma  la  volontà  denti  uomini  mantenevano  i 
principi  in  slato,  la  rovinò.  E  cosi,  sen/.a  fondare  lo  slato  suo 
In  su  la  fortezza,  ma  in  su  la  virtù  e  prudenza  sua,  lo  ha  te- 
noto  e  tiene.  E  dove  a  variare  lo  sialo  di  Genova  solevano 
bastare  mille  fanti,  gli  avversari  suoi  1'  hanno  assaltato  con 
diecimila,  e  non  l'hanno  potuto  oflendere.  Vedesi  adunque  per 
questo,  come  il  disfare  la  fortezza  non  ha  offeso  Ottaviano,  ed 
il  farla  non  difese  il  re  di  Francia.  Perché,  quando  e'fmtelte 
venire  in  Italia  con  l' esercito,  e' potette  ricuperare  Genova, 
non  vi  avendo  fortezza;  ma  quando  e' non  palette  venire  in 
Italia  con  l'esercito,  e'  non  poteite  tenere  Genova,  avendovi 
la  fortezza.  Fu,  adunque,  di  spesa  ai  re  il  farla,  e  vergognoso 


LIBKO    SECONDO.  '  287 

il  perderla;  a  Oltaviano  glorioso  il  racquìslarìa,  ed  utile  il 
rovinarla.  Ma  vegnamo  alle  repubbliche  che  fanno  le  fortezze 
non  nella  patria,  ma  nelle  terre  che  le  aoquislano  Ed  a  mo- 
strare questa  fallacia,  quando  e' non  bastasse  l'essenapio  detto 
di  Francia  e  di  Genova,  voglio  mi  basti  Firenze  e  Pisa:  dove 
i  Fiorentini  fecero  le  fortezze  per  tenere  quella  città;  e  non 
conobbero  che  una  città  stata  sempre  inimica  del  nome  Go- 
rentino,  vissuta  libera,  e  che  ha  alla  ribellione  per  rifugio  la 
libertà,  era  necessario,  volendola  tenere,  osservare  il  modo 
romano  ;  o  farsela  compagna,  o  disfarla.  Perchè  la  virtù  delle 
fortezze  si  vidde  nella  venuta  del  re  Carlo:  al  quale  si  dettone 
o  per  poca  fede  di  chi  le  guardava,  o  per  timore  di  maggior 
male  :  dove,  se  le  non  fussino  state,  i  Fiorentini  non  arebbero 
fondato  il  potere  tenere  Pisa  sopra  quelle,  e  quel  re  non  areb- 
be  potuto  per  quella  via  privare  i  Fiorentini  di  quella  città; 
e  gli  modi  con  li  quali  si  fussi  mantenuta  fino  a  quel  tempo, 
sarebbero  slati  per  avventura  sufTìcienti  a  conservarla, *e  senza 
dubbio  non  arebbero  fallo  più  cattiva  pruova  che  le  fortezze. 
Conchiudo  dunque,  che  per  tenere  la  patria  propria,  la  for- 
tezza è  dannosa;  per  tenere  le  terre  che  si  acquistano,  le  for- 
tezze sono  inutili:  e  voglio  mi  basti  l'autorità  de'  Romani,  i 
quali  nelle  terre  che  volevano  tenere  con  violenza,  smurava- 
no, e  non  muravano. E  chi  contra  quesla  oppinione  n'allegassi 
negli  antichi  tempi  Taranto,  e  ne' moderni  Brescia,  i  quali 
luoghi  mediante  le  fortezze  furono  ricuperati  dalla  ribellione 
dei  sudditi;  ris()ondo  che  alla  ricuperazione  diTaranlo,  in  capo 
d'uno  anno,  fu  mandato  Fabio  Massimo  con  tulio  Io  esercito, 
il  quale  sarebbe  stato  alto  a  ricuperarlo  eziandio  se  non  vi 
fusse  statarla  fortezza;  e  se  Fabio  usò  quella  via,  quando  la 
non  vi  fusse  slata,  n'arebbe  usata  un' altra,  che  arebbe  fallo 
il  medesimo  tffetlo.  Ed  io  non  so  di  che  utilità  sia  una  for- 
tezza che.  a  renderti  la  terra,  abbia  bisogno,  per  la  ricupera- 
zione d'  essa,  d'  uno  esercito  consolare,  e  d'  un  Fabio  Massimo 
per  capilano.  E  che  i  Romani  l'avessino  ripresa  in  ogni  mo- 
do, si  vide  per  l'esserapio  di  Capova;dove  non  era  fortezza, 
e  per  virtù  dello  esercito  la  riacquistarono.  Ma  vegnamo  a 
Brescia.  Dico,  come  rade  volle  occorre  quello  che  è  occorso 

*  La  Bladiana:*«^cienW  conservarla. 


288  DEI   DISCORSI 

in  qoella  ribellione,  che  la  forfeiia  che  rimane  nelle  forze 
Ine,  sendo  rìheilala  la  lerra,  abbia  uno  esercilo  grosso  e  pro- 
pinquo, com'era  qael  de'  Franciosi:  perchè,  essendo  monsi- 
gnor di  Fois,  capitano  del  re,  con  Tesercilo  a  Bologna,  intesa 
la  perdila  di  Brescia,  senza  dilTerire  ne  andò  a  quella  volln, 
ed  in  Ire  giorni  arrivalo  a  Brescia ,  per  la  fortezza  riebbe  la 
terra.  Ebbe,  pertanto,  ancora  la  fortezza  di  Brescia,  a  vojere 
che  la  giovasse,  bisogno  d'un  monsignor  di  Fois,  e  d'un  osor- 
eilo  francioso  che  in  Ire  di  la  soccorreste.  Si  che  ressom|>ìn 
di  qaeslo, all'incontro  deali  esscmpi  contrari,  non  basta:  |>er- 
chè-MMi  fortezze  sono  slate,  nelle  guerre  de' nostri  tempi, 
prete  e  riprese  con  la  medesima  fortuna  che  si  è  ripresa  e 
preM  la  campagna, non  solamente  in  Lombardia*  ma  in  Ro- 
maina,  nel  regno  dì  Napoli,  e  per  lolle  le  parli  d'Italia.  Ma, 
quanto  allo  edilìcar  fortezze  per  difendersi  da'nimici  di  fuo* 
ra,  dico  che  le  non  sono  necessarie  a  quelli  popoli  né  a 
quelli  roani  che  hanno  buoni  eserciti  ;  ed  a  quelli  che  non 
hanno  buoni  eserciti,  anno  inutili:  perchè  i  Suoni  eserciti 
genia  le  fortezze  tono  soIDcienli  a  difenderti  ;  le  fortezze 
aeoià  i  buoni  eserciti  non  ti  possono  difendere.  E  questo  si 
ve4e  per  isfierienza  di  quelli  che  sono  slati  e  nei  goYerni 
e  nell'altre  cose  tenuti  eccellenti  ;  come  si  vede  dei  Romani 
e  degli  Spartani:  che  se  ì  Romani  non  edificavano  fortezze, 
gli  Spartani  non  solamente  si  astenevano  da  quelle,  ma  non 
permettevano  d'aver  mora  alla  loro  città;  perchè  volevano 
che  la  virtù  dell'uomo  |>articolare,  non  altro  difensivo,  gli 
difendesse.  Dondeché,  essendo  domandalo  uno  Sparlano  da 
ano  Ateniese,  se  le  mura  d'  Atene  gli  parevano  t>elle,  gli 
rispose:  Si,  se  le  fussino  abitate  da  donne.  Quel  principe, 
adunque,  che  abbi  buoni  eserciti,  quando  in  sulle  marine 
alla  fronte  dello  'stato  suo  abbia  qualche  fortezza  che  poast 
qealche  di  sostenere  !•  inimico  infino  che  sia  a  ordine,  sa- 
rebbe qualche  volta  cosa  utile,  ma  la  non  è  necessaria.  Ma 
quando  il  principe  non  ha  buono  esercito,  avere  le  fortezze 
per  il  sao  stalo,  o  alle  frontiere,  gli  sono  o  dannose  o  inu- 
tili: dannose,  perchè  facilmente  le  perde,  e  perdute  gli  fan- 
no guerra;  o  se  por  le  fussino  si  forti  che  'I  nimico  non 
le  potesse  occupare,  sono  lasciate  indietro  dallo  esercito  ni< 


LIBRO   SECONDO.  289 

mico,  e  vensono  ad  essere  di  nessuno  fruito;  perchè  i  buoni 
eserciti,  quando  non  hanno  gagliardissimo  riscontro,  entra- 
no ne'paesi  niraici  senza  rispetto  di  città  o  di  fortezza  che 
si  lascino  indietro;  come  si  vede  nelle  antiche  istorie,  e  come 
si  vede  fece  Francesco  Maria,  il  quale  ne' prossimi  tempi 
per  assaltare  Urbino  si  lasciò  indietro  dieci  città  niraiche, 
senza  alcuno  rispetto.  Quel  principe,  adunque,  che  può 
fare  buono  esercito,  può  fare  senza  edificare  fortezza;  quello 
che  non  ha  l'esercito  buono,  non  debbe  edificare.  Debbe 
bene  afforzare  la  città  dove  abita,  e  tenerla  munita,  e  ben 
d  sposti  i  cittadini  di  quella,  per  poter  sostenere  tanto  un  im- 
peto nimico,  0  che  accordo,  o  che  aiuto  esterno  lo  liberi.  Tutti 
gli  altri  disegni  sono  di  spesa  ne'  tempi  di  pace,  ed  inutili 
ne' tempi  di  guerra.  E  così,  chi  considererà  tutlo  quello  ho 
detto,  conoscerà  i  Romani,  come  savi  in  ogni  altro  loro  or- 
dine, cosi  furono  prudenti  in  questo  giudizio  dei  Latini  e 
de'Privernati;  dove,  non  pensando  a  fortezze,  con  più  vir» 
tuosi  modi  e  più  savi  se  ne  assicurarono. 

Gap.  XXV.  —  Che  lo  assaltare  una  cillà  disunila ,  per  occu- 
parla mediante  la  sua  disunione  ^  è  parlilo  contrario. 

Era  tanta  disunione  nella  Repubblica  romana  intra  la 
Plebe  e  la  Nobiltà,  che  i  Veienti  insieme  con  gli  Etrusci,  me- 
diante tale  disunione,  pensarono  potere  estinguere  il  nome 
romano.  Ed  avendo  fatto  esercito,  e  corso  sopra  i  campi  di 
Roma,  mandò  il  Senato  loro  contra  Gn.  Manlio  e  M.  Fabio; 
ì  quali  avendo  condotto  il  loro  esercito  propinquo  allo  eser- 
cito  de' Veienti,  non  cessavano  i  Veienti,  e  con  assalti  e 
con  obbrobri,  offendere  e  vituperare  il  nome  romano:  e  fa 
tanta  la  loro  temerità  ed  insolenza,  che  i  Romani  di  disu- 
niti diventarono  uniti;  e  venendo  alla  zuffa,  gli  ruppono 
vinsono.  Vedesi  pertanto,  quanto  gli  uomini  s' iniiannano, 
come  di  sopra  discorremmo,  nel  pisliare  de' partiti;  e  come 
molle  volte  credono  guadagnare  una  cosa,  e  la  perdono. 
Credettono  i  Veienti  assaltando  i  Romani  disuniti,  vincergli; 
e  quello  assalto  fu  casione  della  unione  di  quelli,  e  della 
rovina  loro.  Perchè  la  cagione  della  disunione  delle  repub- 

25 


290  DEI   DISCORSI 

bliche  il  più  delle  volte  è  l'ozio  e  la  pace:  la  casione  della 
unione  è  la  paura  e  la  guerra.  E  però,  se  i  Veienli  fussino 
stati  savi,  eglino  arebbono  quanto  più  disunita  vedevano 
Roma,  tanto  più  tenuta  da  loro  la  guerra  discosto,  e  con 
l'arti  della  pace  cerco  d'oppressargli.  Il  modo  è  cercare  di 
diventare  confidente  di  quella  città  eh*  è  disunita;  ed  infìno 
che  non  vengono  all'arme,  come  arbitro,  maneggiarsi  intra 
le  parti.  Venendo  all'arme,  dare  lenti  favori  alla  parte  più 
debole;  si  per  tenergli  più  in  su  la  guerra,  e  fargli  consu- 
mare;  sì  perchè  le  assai  forze  non  gii  facessero  tutti  du- 
bitare che  tu  volessi  opprimergli,  e  diventar  loro  principe. 
E  quando  questa  parte  è  governata  bene,  interverrà  quasi 
sempre  che  l'ara  quel  Gne  che  tu  hai  presupposto.  La  città 
di  Pistoia,  come  in  altro  discorso  e  ad  altro  proposilo  dissi, 
non  venne  alla  Repubblica  di  Firenze  con  altra  arte  che 
con  questa;  (>erchè,  sendo  quella  divisa,  e  favorendo  i  Fio- 
rentini or  r  una  parte  or  l'altra,  senza  carico  dell'una  e 
dell'altra,  la  condussono  in  termine,  che,  stracca  di  quel 
suo  vivere  tumultuoso,  venne  spontaneamente  a  gittarsi  nelle 
braccia  di  Firenze.  La  città  di  Siena  non  ha  mai  mutato 
slato  col  favore  de' Fiorentini,  se  non  quando  i  favori  sono 
stati  deboli  e  pochi.  Perché,  quando  e'sono  stati  assai  e  ga- 
gliardi, hanno  fatto  quella  città  unita  alla  difesa  di  quello 
stato  che  regge.  Io  voglio  aggiungere  ai  soprascritti  un  altro 
esscmpio.  Filippo  Visconti,  duca  di  Milano,  più  volte  mosse 
guerra  ai  Fiorentini,  fondatosi  sopra  le  disunioni  loro,  e 
sempre  ne  rimase  perdente;  talché  gli  ebbe  a  dire,  dolen- 
dosi delle  sue  imprese,  come  le  pazzie  de'Fiorentini  gli  ave- 
vano fatto  spendere  inutilmente  due  milioni  d'oro.  Restaro- 
no, adunque,  come  di  sopra  si  dice,  ingannati  i  Veleni i  e  gli 
Toscani  da  questa  oppinione,  e  furono  alfine  in  una  giornata 
superati  dai  Romani.  E  cosi  per  lo  avvenire  ne  resterà  in- 
gannato qualunque  per  simile  via  e  per  simile  cagione  ere- 
derà  oppressare  un  popolo. 


LIBRO   SECONDO. 


S9! 


Cap.  XXVI.  —  Il  vilipendio  e  V  improperio  genera  odiojconlra 
a  coloro  che  V  usano,  senza  alcuna  loro  uUlità. 

Io  credo  che  sia  una  delle  grandi  prudenze  che  usino  gli 
uomini,  astenersi  o  dal  minacciare,  o  dallo  ingiuriare  alcuno 
con  le  parole  :  perchè  V  una  cosa  e  1*  altra  non  tolgono  forze 
al  nimico;  ma  l'una  lo  fa  più  cauto;  l' altra  gli  fa  avere  mag- 
giore odio  contra  di  te,  e  pensare  con  maggiore  industria  di 
offenderti.  Vedesi  questo  pèrle  essempio  de*Veienti,  de' quali 
nel  capitolo  superiore  si  è  discorso  ;  i  quali  alla  ingiuria  della 
guerra   aggiunsono,   contra   ai  Romani,   l'obbrobrio  delle 
parole:  dal  quale  ogni  capitano  prudente  debbe  fare  astenere 
i  suoi  soldati;  perchè  le  son  cose  che  infiammano  ed  accen- 
dono il  nimico  alla  vendetta,  ed  in  nessuna  parte  lo  impedi- 
scono, come  è  detto,  alla  offesa;  tanto  che  le  sono  tutte 
arme   che   vengono  contra  a  te.  Di  che  ne  seguì  già  uno 
essempio  notabile  in  Asia  :  dove  Gabade,  capitano  de'  Persi, 
essendo  stato  a  campo  ad  Amida  più  tempo,  ed  avendo  di- 
liberato, stracco  dal  tedio  della  ossidione,  partirsi;  levandosi 
già  col  campo,  quelli  della  terra  venuti  tutti  in  su  le  mura, 
insuperbiti  della  vittoria,  non  perdonarono  a  nessuna  qualità 
d' ingiuria,  vituperando,  accusando,  rimproverando  la  viltà  e 
la  poltroneria  del  nimico.  Da  che  Gabade  irritato,  mutò  consi- 
glio; e  ritornato  alla  ossidione,  tanta  fu  la  indegnazione  della 
ingiuria,  che  in  pochi  giorni  gli  prese  e  saccheggiò.  E  questo 
medesimo  intervenne  a'  Veienti  :  a' quali,  com'è  detto,  non 
bastando  il  far  guerra  a' Romani,  ancora  con  le  parole  gli 
vituperarono;  ed  andando  infino  in  su  lo  steccato  del  campo  a 
dir  loro  ingiuria,  gl'irritarono  molto  più  con  le  parole  che  con 
r  arme  :  e  quelli  soldati  che  prima  combattevano  mal  volentie- 
ri, costrinsero  i  Consoli  ad  appiccare  la  zuffa;  talché  i  Veienti 
portarono  la  pena,  come  gli  antedelti, della  contumacia  loro. 
Hanno  adunque  i  buoni  principi  di  esercito,  ed  i  buoni  go- 
vernatori di  repubblica,  a  far  ogni  opportuno  rimedio,  che 
queste  ingiurie  e  rimproveri   non  si  usino  o  nella  città  o 
nello  esercito  suo,  né  infra  loro,  né  contra  al  nimico:  perchè 
usali  contra  al  nimico,  ne  nascono  gli  inconvenienti  sopra- 


292  DEI   DISCORSI 

scrini;  infra  loro,  farebbono  peggio  non  vi  si  riparando,  come 
vi  hanno  *  sempre  gli  oomini  prudenti  riparato.  Avendo  le 
legioni  romane  stale  lasciate  a  Capova  congiorala  c*olra  a* 
Capovani,  come  nel  suo  luoso  si  narrerà  :  ed  esMndone  di 
qoe<»la  congiara  naia  una  sediiione,  la  quale  fu  poi  da  Vale- 
n9  Cervino  quietala  ;  intra  *  all'altre  cooalitutìoaì  che  nella 
CMVtntione  si  fecero,  ordinarono  pen«  gravittiae  •  eoloro 
che  improverassino  mai  ad  alcun  di  qnpili  soldati  tale  aedi- 
lione.  Tiberio  Gracco  fatto,  nella  suorra  di  Annibale,  capitano 
sopra  certo  numero  di  serri  che  i  Romani,  per  carestia  d*  uo- 
mini ,  avevano  armati  :  ordinò,  intra  le  prime  cose,  pena  capi- 
tale a  qualunque  rimproverasse  la  servitù  di  alcano  di  loro. 
Tanto  fu  slimato  dai  Romani,  come  di  sopra  s*è  dello, rosa 
dannosa  il  vilipendere  sii  uomini,  ed  il  rimproverare  loro 
altana  vergogna  ;  perché  non  è  cosa  che  accenda  tanto  sii 
animi  loro,  né  seneri  Bagfiorc  sdegno, o  da  vero  •  da  beffo 
che  ai  dica:  Kam  fàtttim  tuiperm,  ^mm^b  mimUm  m  mro 
f,  flcrfm  tui  wiemormm  rtlimqumnL 


Càr.  IIVII.  -^  Ai  rrineiffi  «  rrpuhblichi  prudenU  Mot  htt- 
tlmn  vénetn;  ptrcàé  U  pia  étlU  voUe  qmmio  mm  ktMi,  ti 


Lo  osare  parole  contra  al  nimico  poco  onorevoli,  nasce 
il  pia  delle  volte  da  una  infirma  che  ti  dà  o  la  vittoria  o 
la  falsa  speranta  della  vittoria  ;  la  quale  falsa  speranta  fa  ali 
nomini  non  solamente  errare  nel  dire,  ma  ancora  nello 
operare.  Perché  •qoeela  tperania,  quando  la  entra  ne' pelli 
desìi  oomini,  fa  loro  potaare  il  sesno;  e  perdere  il  più  delle 
volte  quella  occasione  d'  avere  on  bene  certo ,  sfierando 
d'avere  on  mastio  incerto.  E  perché  questo  é  on  termine 
che  merita  consideraxione,  insannandocisi  dentro  gli  uomini 
molto  spesso,  e  con  danno  dello  stato  loro  ;  e'  mi  pare  da  di- 

delitfS.^ 

parUu  mh  tcriua  fm 


LlBtlO   SECONDO.  203 

mostrarlo  particolarmente  con  essempi  antichi  e  moderni, 
non  si  potendo  con  le  ragioni  così  distintamente  dimostrare. 
Annibale,  poi  ch'egli  ebbe  rotti  i  Romani  a  Canne,  mandò 
suoi  oratori  a  Cartagine  a  significare  la  vittoria,  e  chiedere 
sussidi.  Disputossi  nel  senato  di  quello  s'  avesse  a  fare.  Con- 
sigliava Annone,  un  vecchio  e  prudente  cittadino  cartagi- 
nese, che  si  usasse  questa  vittoria  saviamente  in  far  pace 
coi  Romani,  polendola  avere  con  condizioni  oneste  avendo 
vinto;  e  non  s'aspettasse  d'averla  a  fare  dopo  la  perdita: 
perchè  la  intenzione  de' Cartaginesi  doveva  essere,  mostrare 
ai  Romani  come  e' bastavano  a  combattergli;  ed  avendosene 
avuto  vittoria,  non  si  cercasse  di  perderla  per  la  speranza 
d'una  maggiore.  Non  fu  preso  questo  parlilo;  ma  fu  bene  poi 
dal  senato  cartaginese  conosciuto  savio,  quando  l'occasione 
fu  perduta.  Avendo  Alessandro  Magno  già  preso  lutto  l'orien- 
te, la  repubblica  di  Tiro,  nobile  in  quelli  tempi  e  potente 
per  avere  la  loro  città  in  acqua  come  i  Veniziani,  veduta  la 
grandezza  d'Alessandro,  gli  mandarono  oratori  a  dirgli,  co- 
me volevano  essere  suoi  buoni  servitori  e  dargli  quella  ub- 
bidienza voleva,  ma  che  non  erano  già  per  accettare  né  lui 
né  le  sue  genti  nella  terra;  donde  sdegnato  Alessandro  che 
una  città  gli  volesse  chiudere  quelle  porte  che  tutto  il  mondo 
gli  aveva  aperte,  gli  ributtò,  e  non  accettate  le  condizioni 
loro,  vi  mandò  a  campo.  Era  la  terra  in  acqua,  e  benissimo 
di  vettovaglie  e  d'altre  munizioni  necessarie  alla  difesa  mu- 
nita: tanto  che  Alessandro  dopo  quattro  mesi  s'avvide,  che 
una  città  gli  toglieva  quel  lempo  alla  sua  gloria  che  non  gli 
avevano  tolti  molti  altri  acquisti  ;  e  diliberò  di  tentare  1'  ac- 
cordo, e  concedere  loro  quello  che  per  loro  medesimi  ave- 
vano domandato.  Ma  quelli  di  Tiro  insuperbiti,  non  sola- 
mente non  volsero  accettare  l'accordo,  ma  amm  jzzarono  chi 
venne  a  praticarlo.  Di  che  Alessandro  sdegnato,  con  tanla 
forza  si  mise  alla  espugnazione,  che  la  prese  e  disfece,  ed 
ammazzò  e  fece  schiavi  gli  uomini.  Venne,  nel  1312,  uno  eser- 
cito spagnuolo  in  su  '1  dominio  fiorentino  per  rimettere  i 
Medici  in  Firenze,  e  taslìeggiare  la  città,  condotti  da* cittadi- 
ni d'entro,*  i  quale  avevano  dato  loro  speranza,  che  subilo  fus- 

*  Tutte  le  edizioni  hanno  dentro  s  ma  qui  è  certo  da  intendersi  di  quei 

25' 


^ù 


DEI   DISCORSI 


sero  in  sa  *ì  dominio  fiorentino,  piglierebbono  l'arme  in  loro 
favore;  ed  essendo  entrali  nel  piano,  e  non  si  scoprendo  al- 
cano,  ed  avendo  carestia  di  vettovaglie,  tentarono  raccordo: 
di  che  insuperbito  il  popolo  di  Firenze,  non  lo  accettò  ;  donde 
ne  nacque  la  perdila  di  Prato,  e  la  rovina  di  quello  slato.  Non 
possono,  pertanto,  i  principi  che  sono  assaltali  Tar  il  roag8Ìorc 
errore,  quando  1*  assalto  é  fatto  da  uomini  di  gran  lunga  più 
potenti  di  loro,  che  ricusare  ogni  accordo,  massime  quando 
gli  è  otTerto:  perchè  non  sarà  mai  otTcrto  si  basso,  che  non 
vi  sia  dentro  in  qualche  parte  il  bene  essere  di  colui  che  lo 
accetta,  e  ti  sarà  parte  della  sua  vittoria.  Perchè  e* doveva 
bastare  al  popolo  di  Tiro,  che  Alessandro  accettasse  quelle 
condizioni  che  egli  aveva  prima  rifiutate:  ed  era  assai  vittoria 
la  loro,quando  con  Tarmi  in  mano  avevano  fatto  condescendere 
un  tanto  uomo  alla  voglia  loro.  Doveva  bastare  ancora  al  popolo 
fiorentino,  e  gli  era  assai  vittoria,  se  lo  esercito  spagnuolo 
cedeva  a  qualcuna  dejle  voglie  di  quello,  e  le  sue  non  adem- 
pieva tutte:  perchè  la  intenzione  di  quello  esercilo  era  molare 
lo  slato  in  Firenze,  e  levarlo  dalla  devozione  di  Francia,  e 
trarre  da  luì  danari.  Quando  di  Ire  cose  e'  ne  avesse  avute 
due,  che  aon  I* ultime;  ed  al  popolo  ne  fosse  restala  una, 
che  era  la  conservazione  dello  stalo  suo  ;  ci  aveva  dentro 
ciascano  qualche  onore  e  qualche  satisfazione:  né  si  doveva 
il  popolo  curare  delle  due  cose,  rimanendo  vivo;  né  doveva, 
quando  bene  egli  avesse  veduta  maggiore  vittoria,  e  quasi 
certa,  voler  mettere  quella  in  alcuna  parte  a  discrezione 
della  fortuna,  andandone  l'ultima  posta  sua:  la  quale  qua- 
lunque prudente  mai  arrischierà  se  non  necessitato.  Annibale 
partito  d' Italia,  dove  era  slato  sedici  anni  glorioso,  richia- 
mato da' suoi  Cartaginesi  a  soccorrere  la  patria,  trovò  rotto 
Asdnibale  e  Siface;  trovò  perduto  11  regno  di  Nomidia  ;  ri- 
stretta Cartagine  intra  i  termini  delle  sue  mura,  alla  quale 
non  restava  altro  rifugio,  che  esso  e  l'esercito  suo  :  e  cono- 
scendo come  quella  era  l'ultima  posta  della  sua  patria,  non 
volle  prima  metterla  a  rischio,  ch'egli  ebbe  tentalo  ogni  al- 


ciiudioi  ^t  udbt  ietOxm  «Ih  dttk  eraao  paniali  dei  Medici;  ia  coatnppo»(a 
ed  «sgiunu  ai  loro  Mgaici  e  perdo  foonucitL 


LlfeRO   SECONDO.  ^98 

Irò  rimedio;  e  non  si  vergognò  di  domandare  la  pace,  giu- 
dicando se  alcuno  rimedio  aveva  la  sua  pàtria,  era  in  quella, 
e  non  nella  guerra:  quale  sendogli  poi  negata,  non  volle 
mancare,  dovendo  perdere,  di  combattere;  giudicando  potere 
pur  vincere;  o  perdendo,  perdere  gloriosamente.  E  se  Anni- 
bale, il  quale  era  tanto  virtuoso  ed  aveva  il  suo  esercito 
intero,  cercò  prima  la  pace  che  la  zuffa,  quando  ei  vide  che 
perdendo  quella,  la  sua  patria  diveniva  serva;  che  debbe 
fare  un  altro  di  manco  virtù  e  di  manco  isperienza  di  lui? 
Ma  gli  uomini  fanno  questo  errore:  che  non  sanno  porre 
termini  alle  speranze  loro,  ed  in  su  quelle  fondandosi,  senza 
misurarsi  altrimenti,  rovinano. 

Gap.  XXVIII. —  Quanto  sia  pericoloso  ad  una  repubblica  o  ad 
uno  principe  non  vendicare  una  ingiuria  falla  conlra  al 
pubblico,  0  conlra  al  privato. 

Quello  che  facciano  fare  agli  uomini  gli  sdegni,  facil- 
m8nte  si  conosce  per  quello  che  avvenne  ai  Romani,  quando 
e'  mandarono  i  tre  Fabì  oratori  ai  Franciosi,  che  erano  venuti 
ad  assaltare  la  Toscana,  ed  in  particolare  Chiusi.  Perchè 
avendo  mandato  il  popolo  di  Chiusi  per  aiuto  a  Roma,  i  Ro- 
mani mandarono  ambasciadori  a' Franciosi,  che  in  nome  del 
Popolo  romano  significassero  a  quelli,  si  astenessino  di  far 
guerra  ai  Toscani.  I  quali  oratori,  sendo  in  su  '1  luogo,  e 
più  atti  a  fare  che  a  dire,  venendo  i  Franciosi  e  i  Toscani 
alla  zuffa,  si  misero  intra  i  primi  a  combattere  centra  a  quelli: 
onde  ne  nacque  che  essendo  conosciuti  da  loro,  tutto  Io  sde- 
gno che  avevano  centra  a' Toscani,  volsero  centra  ai  Roma- 
ni. 11  quale  sdegno  diventò  maggiore,  perchè  avendo  i  Fran- 
ciosi per  loro  ambasciatori  fatto  querela  con  il  Senato  ro- 
mano di  tale  ingiuria,  e  domandalo  che  in  satisfazione  del 
danno  fussino  dati  loro  i  soprascritti  Fabi;  non  solamenle 
non  furono  consegnati  loro,  o  in  altro  modo  castigati;  ma 
venendo  i  comizi ,  furono  fatti  Tribuni  con  potestà  conso- 
lare. Talché,  veggendo  i  Franciosi  quelli  onorati  che  dovevano 
esser  puniti,  ripresone  tutto  esser  fatto  in  loro  dispregio  ed 
ignominia;  ed  accesi  d*ira  e  di  sdegno,  vennero  ad  assaltare 


.     '•  DEI   DISCORSI 

Roma,  e  qoella  presero,  eccello  il  Campidoglio.  La  quale 
rovina  nacque  a'  Romani  solo  per  la  inosservanza  delln  gin- 
stizia;  perchè  avendo  peccalo  i  loro  ambasciatori  '  eonira  jux 
genlium,  e  dovendo  esser  gaslisati,  forono  onorali.  Però  è 
da  considerare  quanto  08 ni  repubblica  ed  ogni  principe  debbo 
tenere  conto  di  fare  simile  ingiuria,  non  solamente  conlra 
ad  una  ani>crsalilà,  ma  ancora  contra  ad  uno  particolare. 
Perchè,  se  ano  uomo  è  offeso  grandemente  o  dal  pubblico  o 
dal  privato,  e  noo  sia  vendicato  secondo  la  salisfaiioiit  sm; 
se  e*  vive  in  una  repubblica,  cerca  ancora  con  la  rovina  di 
quella  vendicarsi;  se  e' vive  tolto  un  principe,  ed  abbia  in 
sé  alcuna  generosità,  non  si  acquieta  mai,  in  fino  che  in 
qualunque  modo  si  vendichi  conlra  di  lui,  ancora  che  etili  vi 
^i^redesse  dentro  il  tuo  propìo  male.  Per  verificare  questo, 
non  ci  è  il  più  bello  né  il  più  vero  essempio  che  quello  di 
Filippo  di  Macedonia,  padre  di  Alessandro.  Aveva  costui  in 
la  ma  carta  Paotania,  siovine  bollo  e  nobile,  del  quale  era 
toMMorala  Aliala,  ano  de*  primi  «lomini  che  foase  pratao  a 
Filippo;  ed  avendolo  più  volle  ricerco  che  doveaaa  cooaaiilir- 
gli,  e  trovandolo  alieno  da  simili  cote,  deliberò  di  avara  con 
inganno  e  per  forza  quello  che  per  altro  verso  vedeva  non 
polare  avere.  *  £  fatto  un  solenaa  oaavila,  sai 
nia  e  Bolli  altri  nobili  baroni  convaiiiiera,faee,| 
fa  pieno  di  vivande  e  di  vino,  prendere  Pausania;  e  condot- 
tolo allo  stretto,  non  aotemeate  per  fona  sfogò  la  saa  Ubidi- 
ne,  ma  ancora,  per  magfiece  ignominia.  Io  fece  da  aialll  degli 
altri  in  simile  modo  vituperare.  Della  quale  ingiuria  Paoaa* 
nia  si  dolse  più  volte  con  Filippo;  il  quale  avendolo  tenalo 
un  tempo  in  sperante  di  vendicarlo,  non  solamente  non  lo 
vendicò,  ma  prepose  Alialo  al  governo  d'una  provincia  di 
Grecia.  Donde  Pausania,  vedendo  il  suo  nimico  onorato,  e 
DOS  gastigato,  volse  tutto  lo  sdegno  soo  noo  contra  a  quello 
cbe  gli  aveva  fatto  ingiuria,  ma  contra  a  Filippo  che  non 
r aveva  vendicato:  ed  una  mattina  solenne,  in  so  le  nozze 
della  figliuola  di  Filippo  OBaritala  ad  Alessandro  di  Epiro, 
andando  Filippo  al  tempio  a  celebrarle,  io  oteiio  di  dae 

*  Malt  nella  Trstioa  e  nflla  «dmoM  ad  Pof^i  il Itr* 
'  Le  cdinooi  aou^cltc  tralMÓaM  aver». 


LIBRO   SECONDO.  297 

Alessandri,  genero  e  figliuolo,  l'ammazzò.  Il  quale  essempio 
è  molto  simile  a  quello  de' Romani,  notabile  a  qualunque 
governa:  che  mai  non  debba  tanto  poco  stimare  un  uomo, 
che  e' creda,  aggiungendo  ingiuria  sopra  ingiuria,  che  colui 
che  è  ingiurialo  non  pensi  di  vendicarsi  con  ogni  suo  peri- 
colo e  parlicolar  danno. 

Cap.  XXIX.  —  La  fortuna  accieca  gli  animi  degli  uomini, 
quando  la  non  vuole  che  quelli  si  opponghino  a*  disegni 
suoi. 

Se  e'  si  considerrà  bene  come  procedono  le  cose  uma- 
ne, si  vedrà  molte  volle  nascere  cose  e  venire  accidenti  a' 
quali  i  cieli  al  tutto  non  hanno  voluto  che  si  provvegga.  E 
quando  questo  eh*  io  dico  intervenne  a  Roma,  dove  era  tanta 
virtù,  tanta  religione  e  tanto  ordine;  non  è  meraviglia 
che  gli  intervenga  molto  più  spesso  in  una  città  o  in  una 
provincia  che  manchi  delle  cose  sopradelle.  E  perché  que- 
sto luogo  è  notabile  assai  a  dimostrare  la  potenza  del  cielo 
sopra  le  cose  umane,  Tito  Livio  largamente  e  con  parole 
elTìcacissime  lo  dimostra;  dicendo  come,  volendo  il  cielo  a 
qualche  fine ,  che  i  Romani  conoscessono  la  potenza  sua,  fece 
prima  errare  quelli  Fabi  che  andarono  oratori  a'  Franciosi, 
e  mediante  1'  opera  loro  gli  concitò  a  far  guerra  a  Roma:  di- 
poi ordinò,  che  per  reprimere  quella  guerra,  non  si  facesse 
in  Roma  cosa  alcuna  degna  del  Popolo  romano;  avendo  prima 
ordinalo  che  Camillo,  il  quale  poteva  essere  solo  unico  rimedio 
a  tanto  male,  fusse  mandato  in  esilio  ad  Ardea  ;  dipoi  venen- 
do ì  Franciosi  verso  Roma,  coloro  che  per  rimediare  allo  im- 
pelo de' Volsci,  ed  altri  finitimi  loro  inimici,  avevano  creato 
molte  volte  un  Dillalore,  venendo  i  Franciosi  non  lo  crearo- 
no. Ancora  nel  fare  la  elezione  de'  soldati,  la  feciono  debole,  e 
senza  alcuna  islraordinaria  diligenza;  e  furono  tanto  pigri  a 
pigliare  l'arme,  che  a  fatica  furono  a  tempo  a  scontrare  i 
Franciosi  sopra  il  fiume  d'Allia,  discosto  a  Roma  dieci  miglia. 
Qui  i  Tribuni  posero  il  loro  campo,  senza  alcuna  consueta  di- 
ligenza ;  non  provvedendo  il  luogo  prima,  non  si  circondando 
con  fossa  e  con  steccalo,  non  usando  alcuno  rimedio  umano 


298  DEI  DISCORSI 

o  divino;  e  nello  ordinare  la  zuffa,  fecero  gli  ordini  rari  e  de- 
boli :  in  modo  che  né  i  soldati  né  i  capitani  fecero  cosa  degna 
della  romana  disciplina.  Combattessi  poi  senza  alcuno  san- 
gue; perchè  e' fuggirono  prima  che  fussino  assaltati,  e  la 
maggior  parte  se  ne  andò  a  Velo,  l'altra  si  ritirò  a  Koma;  i 
quali  senza  entrare  altrimenti  nelle  case  loro,  se  ne  entra- 
rono in  Campidoglio:  in  modo  che  il  Senato,  senza  pensare 
di  difender  Roma,  non  chiuse,  non  che  altro,  le  porle;  e 
parte  se  ne  fuggi,  parte  con  gli  altri  se  ne  entrarono  in 
Campidoglio.  Pure,  nel  difender  quello  usarono  qualche  or- 
bine non  tumultuario  ;  perché  e'  non  lo  aggravarono  di  genti 
inutili  ;  messonvi  lutti  i  frumenti  che  poterono,  acciocché 
polessino  sopportare  l'ossidione;  e  della  turba  inutile  de^ vec- 
chi e  delle  donne  e  de'  fanciulli ,  la  maggior  parte  se  ne 
fuggi  nelle  terre  circun vicine,  il  rimanente  restò  in  Uoma 
in  preda  de' Franciosi.  Talché,  chi  avesse  letto  le  cose  fatte  da 
quel  popolo  lanli  anni  innanzi,  e  leggesse  dipoi  quelli  lem* 
pi,  non  potrebbe  a  nessun  modo  credere  che  fusse  stalo  un 
medesimo  popolo.  E  detto  che  Tito  Livio  ha  tutti  i  soprad- 
detti disordini,  conchiude  dicendo:  Adeo  ohccBcal  animos  for- 
luna,  cum  vim  iuam  ingruenlem  refringi  non  vuU.  Né  può  es- 
sere più  vera  questa  conclusione:  onde  gli  uomini  che  vivono 
ordinariamente  nelle  grandi  avversità  o  prosperità,  meritano 
manco  laude  o  manco  biasimo.  Perché  il  più  delie  volte  si 
vedrà  quelli  ad  una  rovina  e  ad  una  grandezza  esser  siali 
condotti  da  una  comodità  erande  che  gli  hanno  fatto  i  cieli, 
dandogli  occasione,  o  togliendoli  di  potere  operare  virtuosa- 
mente. Fa  bene  la  fortuna  questo,  che  la  elegge  uno  uomo, 
quando  la  voglia  condurre  cose  grandi,  di  tanto  spirito  e 
di  tanta  virtù,  che  e' conosca  quelle  occasioni  che  la  gli 
porge.  Cosi  medesimamente,  quando  la  voglia  condurre 
grandi  rovine,  la  vi  prepone  uomini  che  aiutino  quella  rovi- 
na. £  se  alcuno  fusse  che  vi  potesse  ostare,  o  la  lo  ammaz- 
za, o  la  lo  priva  di  tutte  le  facultà  da  potere  operare  alcun 
bene.  Conoscesi  questo'  benissimo  per  questo  testo,  come  la 
fortuna  per  far  maggiore  Koma,  e  condurla  a  quella  gran- 

'  Cosi  nella  BomaiUj  ed  i  lezione,  al  parer  mio,  più  «incera.  Kelle  al- 
tre leggcsi  quello,    f  <  »  1  ;  •  >  ff 


LIBRO    StCONDO.  299 

dezza  venne,  giudicò  fusse  necessario  batterla  (come  a  lungo 
nel  principio  del  seguente  libro  discorreremo),  ma  non  volle 
già  in  tutto  rovinarla.  E  per  questo  si  vede  che  la  fece  esu- 
lare, e  non  morire,  Caramillo;  fece  pigliare  Roriia,  e  non  il 
Campidoglio;  ordinò  che  i  Romani,  per  riparare  Roma,  non 
pensassino  alcuna  cosa  buona;  per  difendere  il  Campidoglio, 
non  mancarono  di  alcuno  buono  ordine.  Fece,  perchè  Roma 
fusse  presa,  che  la  maggior  parte  de'  soldati  che  furono  rotti 
ad  Allia,  se  n'andarono  a  Veio;  e  cosi,  per  la  difesa  della 
città  di  Roma,  tagliò  tutte  le  vie.  E  nell' ordinar  questo, 
preparò  ogni  cosa  alla  sua  ricuperazione;  avendo  condotto 
uno  esercito  romano  intero  a  Veio,  e  Cammillo  ad  Ardea,  da 
poter  fare  grossa  testa,  sotto  un  capitano  non  maculato  d'al- 
cuna ignominia  per  la  perdita,  ed  intero  nella  sua  riputa- 
zione, per  la  ricuperazione  della  patria  sua.  Sarebbeci  da  ad- 
durre in  confirmazione  delle  cose  dette  qualche  essempio  mo- 
derno ;  ma  per  non  gli  giudicare  necessari,  potendo  questo 
a  qualunque  satisfare,  gli  lascerò  indietro.  Affermo  bene  di 
nuovo,  questo  essere  verissimo,  secondo  che  per  tutte  1*  isto- 
rie si  vede,  che  gli  uomini  possono  secondare  la  fortuna  e 
non  opporsegli;  possono  tessere  gli  orditi  suoi,  e  non  rom- 
pergli. Debbono  bene  non  si  abbandonare  mai  ;  perchè  non 
sappiendo  il  fine  suo,  ed  andando  quella  per  vie  traverse  ed 
incognite,  hanno  sempre  a  sperare,  e  sperando  non  si  ab- 
bandonare, in  qualunque  fortuna  ed  in  qualunque  travaglio 
si  trovino. 

Cap.  XXX.  —  Le  repubbliche  e  gli  principi  verarhente  polenti 
non  comperano  l  amicizie  con  danari ,  ma  con  la  virtù  e 
con  la  riputazione  delle  forze. 

Erano  i  Romani  assediati  nel  Campidoglio,  ed  ancoraché 
gli  aspetlassino  il  soccorso  da  Veio  e  da  Cammillo,  sendo 
cacciati  dalla  fame,  vennono  a  composizione  con  i  Franciosi 
di  ricomperarsi  certa*  quantità  d'oro;  e  sopra  tale  con- 
venzione pesandosi  di  già  l'oro,  sopravvenne  Cammillo  con 

*  Così ,  colla  del  Biado ,  aticorà  la  Testio^i.  iPotst  per  ainor  di  cbiarezsa,  fu 
nelle  posteriori  aggiunto  ^ón  cbrta  Co, 


300  DEI   DISCORSI 

l'esercito  sno:  il  che  fece,  dice  lo  istorico,  la  foHana,  m( 
Romani  auro  redempli  non  vivermi.  La  qual  cosa  non  sola- 
rnenle  è  notabile  in  questa  parte,  ma  eziana  nel  processo 
delle  azioni  di  questa  Repubblica;  dove  si  vede  che  mai  acqui- 
starono terre  con  danari,  mai  feciono  pace  con  danari,  ina 
sempre  con  la  virtù  delle  armi  :  il  che  non  credo  sia  mai  in- 
tervenuto ad  alcuna  altra  repubblica.  Ed  intra  gli  altri  segni 
per  i  quali  si  conosce  la  potenza  d'uno  slato,  è  vedere  come 
e' vive  con  gli  vicini  suoi.  E  quando  e'  si  governa  in  modo 
che  i  vicini,  per  averlo  amico,  siano  suoi  pensionar!,  allora  è 
certo  segno  che  quello  stato  è  potente:  ma  quando  detti  vici- 
ni, ancoraché  inferiori  a  lui,  trassono  da  quello  danari, 
allora  è  segno  grande  di  debolezza  di  quello.  Legshinsi  tutte 
le  istorie  romane,  e  vedrete  come  i  Massiliensi,  gli  Edui, 
Rodiani,  lerone  siracusano,  Eumene  e  Massinissa  regi,  i 
quali  tulli  erano  vicini  ai  confini  dello  imperio  romano,  per 
avere  l'amicizia  di- quello,  concorrevano  a  spese  ed  a  Irilmli 
ne'  bisosnì  d'esso,  non  cercando  da  lui  altro  premio  che 
Io  essere  difesi.  Al  contrario  si  vedrà  negli  slati  deboli:  e 
cominciandosi  dal  nostro  di  Firenze,  ne' tempi  passati,  nella 
sua  maggior  riputazione,  non  era  signorotto  in  Romagna 
che  non  avesse  da  quello  provvisione  ;  e  di  più  la  dava  ai 
Perugini,  ai  Castellani,  e  a  tutti  gli  altri  suoi  vicini.  Che  se 
questa  città  fusse  stata  armata  e  gagliarda,  sarebbe  lutto  ilo 
per  contrario  ;  perchè  tutti,  per  avere  la  protezione  di  essa* 
arebbero  dato  danari  a  lei,  e  cerco  non  di  vendere  la  loro 
amicizia,  ma  di  comperare  la  sua.  Né  sono  in  questa  viltà 
vissuti  soli  i  Fiorentini,  ma  i  Viniziani,  ed  il  re  di  Francia, 
il  quale,  con  uno  tanto  reuno,  vive  tributario  de' Svizzeri,  e 
del  re  d' Inshillerra.  Il  che  lutto  nasce  dallo  avere  disarmati 
i  popoli  suoi,  ed  avere  piuttosto  voluto,  quel  re  e  gli  altri 
pren<»iiiinati.  godersi  un  presente  utile  di  potere  saccheggiare 
i  popoli,  e  fusgire  uno  immaginalo  piuttosto  che  vero  |)eri- 
colo,  che  fare  cose  che  gli  Hssicunno,  e  faccino  i  loro  slati 
felici  in  perpetuo.  Il  quale  disordine  se  partorisce  qualche 
tempo  qualche  quiete,  è  cagione  col  tempo  di  necessità,  di 
danni  e  rovine  irrimediabili.  E  sarebbe  lungo  raccontare 
quante  volte  i  Fiorentini,  Veniziaoi,  e  questo  regno,  si  sono 


LIBRO   SECONDO.  301 

ricomperati  in  su  le  guerre;  e  quante  volte  si  sono  sotto- 
messi  ad  una  ignominia,  che*  i  Romani  furono  una  sola 
volta  per  sottomettersi.  Sarebbe  lungo  raccontare  quante 
terre  i  Fiorentini  e  Veneziani  hanno  comperate:  di  che  si  è 
veduto  poi  il  disordine,  e  come  le  cose  che  si  acquistano  con 
Toro,  non  si  sanno  difendere  col  ferro.  Osservarono  i  Ro- 
mani questa  generosità  e  questo  modo  di  vivere,  mentre  che 
vissono  liberi;  ma  poiché  egli  entrarono  sotto  gli  imperadori, 
e  che  gli  imperadori  cominciarono  ad  esser  cattivi,  ed  amare 
più  l'ombra  che  il  sole,  cominciarono  ancora  essi  a  ricom- 
perarsi, ora  dai  Parti,  ora  dai  Germani,  ora  da  altri  popoli 
convicini:  il  che  fu  principio  della  rovina  di  tanto  imperio. 
Procedevano,pertanto,  simili  inconvenienti  dallo  avere  disar- 
mati i  suoi  popoli  :  di  che  ne  resulta  un  altro  maggiore,  che 
quanto  il  nimico  più  ti  s'appressa,  tanto  ti  trova  più  debole. 
Perchè  chi  vive  ne' modi  detti  di  sopra,  tratta  male  quelli 
sudditi  che  sono  dentro  all'  imperio  suo,  per  avere  uomini  ben 
disposti  a  tenere  il  nimico  discosto.  Da  questo  nasce,  che  per 
tenerlo  più  discosto,  ei  dà  provvisione  a  questi  signori  e 
popoli  che  sono  propinqui  ai  confini  suoi.  Donde  nasce  che 
questi  stati  cosi  fatti  fanno  un  poco  di  resistenza  in  sui  con- 
fini, ma  come  il  nimico  gli  ha  passati,  ei  non  hanno  rime- 
dio alcuno.  E  non  si  avveggono,  come  questo  modo  del  loro 
procedere  è  contra  ad  ogni  buono  ordine.  Perchè  il  cuore  e 
le  parti  vitali  d'un  corpo  si  hanno  a  tenere  armale,  e  non 
l'estremità  d'esso;  perchè  senza  quelle  si  vive,  ed  offeso 
quello  si  muore  :  e  questi  stati  tengono  il  cuore  disarmalo,  e 
le  mani  e  li  piedi  armati.  Quello  che  abbia  fatto  questo  dis- 
ordine a  Firenze,  si  è  veduto,  e  vedesi  ogni  di:  che  come 
uno  esercito  passa  i  confini,  e  che  gli  entrano'  propinquo  al 
cuore,  non  ritrova  più  alcuno  rimedio.  De'  Veneziani  si  vidde 
pochi  anni  sono  la  medesima  pruova;  e  se  la  loro  città  non 
era  fasciata  dall'acque,  se  ne  sarebbe  veduto  il  fine.  Questa 
isperienza  non  si  è  vista  sì  spesso  in  Francia,  per  essere 

*  La  sola  edizione  del  Poggiali  :  a  che. 

3  Così  nella  Bladiana  ;  accordato  cioè  il  plurale  entrano,  col  collettivo  «jer- 
cilo,o  sottinteso  nemici.  Gli  editori  di  schizzinosa  grammatica  impressero:  e 
eh' egli  entra. 

2G 


302  DEI   DISCORSI 

quello  SI  gran  regno,  eh*  egli  ha  pochi  nimici  superiori.  Non- 
dimeno,quando  sili  Inghilesi,  nel  1513,  assaltarono  quel  resno, 
tremò  tutta  quella  provincia;  ed  il  re  medesimo,  e  ciascuno 
altro,  giudicava  che  una  rolla  sola  gli  potesse  tórre  lo  stato.  Ai 
Romani  interveniva  il  contrario;  perchè  quanto  più  il  nimico 
si  appressava  a  Roma,  tanto  più  trovava  quella  città  potente 
a  resìstergli.  E  si  vidde  nella  venuta  d'Annibale  in  Italia, 
che  dopo  (re  rotte,  e  dopo  tante  morti  di  capitani  e  di  sol- 
dati, ci  poterono  non  solo  sostenere  il  nimico,  ma  vincere 
la  guerra.  Tutto  nacque  dallo  avere  bene  armato  il  cuore,  e 
delle  estremità  tenere*  poco  conto.  Perchè  il  fondamento  dello 
slato  suo  era  il  popolo  di  Roma,  il  nome  latino,  e  l'altre 
terre  compagne  in  Italia,  e  le  loro  colonie;  donde  e'  traevano 
tanti  soldati,  che  furono  sutTi/.ienli  con  quelli  a  combattere, 
e  tenere  il  mondo.  E  che  sia  vero,  si  vede  per  la  domanda 
che  fere  Annone  cartaginese  a  quelli  oratori  d'Annibale  dopo 
la  rotta  di  Canne:  i  qnalr avendo  maanificato  le  cose  fatte 
da  Annibale,  furono  domandati  da  Annone,  se  del  |)opolo 
romano  alcuno  era  venuto  a  domandiir  pace,  e  se  del  nome 
latino  e  delle  colonie  alcuna  terra  si  era  ribellata  dai  Roma- 
ni ;  e  negando  quelli  l'una  e  l'altra  cosa,  replicò  Annone: 
Questa  guerra  è  ancora  intera  come  prima.  Vedesi,  ()ertan(o, 
e  per  questo  discorso,  e  per  quello  che  più  volle  abbiamo 
altrove  detto,  quanta  diversità  sia  dal  modo  del  procedere 
delle  repubbliche  presenti,  a  quello  delle  antiche.  Vedesi  an- 
cora per  questo  ogni  di  miracolose  perdite  e  miracolosi  ac- 
quisti. Perchè,  dove  gli  uomini  hanno  poca  virtù,  la  fortuna 
dimostra  assai  la  potenza  sua;  e  perchè  la  è  varia,  variano 
le  repubbliche,  egli  slati  spesso;  e  varieranno  sempre,  infino 
che  non  sorga  qualcuno  che  sia  dell' antichità  tanto  amatore, 
che  la  regoli  in  modo,  che  la  non  abbi  cagione  di  dimostrare 
ad  ogni  girare  di  sole  quanto  ella  puote. 

Gap.  XXXI.  —  Quanto  sia  pericoloso  credere  agli  sbandili. 

E'  non  mi  pare  fuori  di  proposito  ragionare,  intra  questi 
altri  discorsi,  quanto  sia  cosa  pericolosa  credere  a  quelli  che 

*  La  Testina  e  le  moderne  :  tenuto. 


\ 


LIBRO   SECONDO.  303 

sono  cacciati  della  patria  sua,  essendo  cose  che  ciascuno  di 
si  lianno  a  praticare  da  coloro  che  len2;ono  slati;  polendo, 
massime,  dimostrare  qneslo  con  uno  memorabile  esserapio 
detto  da  Tito  Livio  nelle  sue  istorie,  ancora  che  sia  fuora  di 
proposito  suo.  Quando  Alessandro  Magtìo  i)assò  con  l'eser- 
cito suo  in  Asia,  Alessandro  di  Epiro,  cognato  e  zio  di  quel- 
lo, venne  con  genti  in  Italia,  chiamato  dagli  sbanditi  Luca- 
ni, i  quali  gli  detlono  speranza  che  potrebbe  medianti  loro 
occupare  tutta  quella  provincia.  Donde  che  quello, sotto  la  fede 
e  speranza  loro,  venuto  in  Italia,  fu  morto  da  quelli;  sendo 
loro  promesso  la  ritornata  nella  patria  dai  loro  cittadini,  se  lo 
ammazzavano.  Debbesi  considerare  pertanto,  quanto  sia  vana 
e  la  fede  e  le  promesse  di  quelli  che  si  trovano  privi  della 
loro  patria.  Perchè,  quanto  alla  fede,  si  ha  ad  estimare  che 
qualunque  volta  possono  per  altri  mezzi  che  per  li  tuoi  rien- 
trare nella  patria  loro,  che  lasceranno  le  ed  accosterannosi 
ad  altri,  nonostante  qualunque  promessa  ti  avessino  fatta.  £ 
quanto  alla  vana  promessa  e  speranza,  egli  è  tanta  la  voglia 
estrema  che  è  in  loro  di  ritornare  in  casa,  che  e'creilono 
naturalmente  molte  cose  che  sono  false,  e  molte  ad  arte  ne 
aggiungono  :  talché,  tra  quello  che  credono  e  quello  che  di- 
cono di  credere,  li  riempiono  di  speranza;  lalmentechè  fon- 
datoti in  su  quella,  tu  fai  una  spesa  in  vano,  o  tu  fai  una 
impresa  dove  tu  rovini,  lo  voijlio  peressemjjio  mi  basti  Ales- 
sandro predetto,  e  di  più  Temistocle  ateniese;  il  quale  es- 
sendo fatto  ribello,  se  ne  fuggi  in  Asia  a  Dario,  dove  gli  pro- 
misse  tanto,  quando  ei  volesse  assaltare  la  Creda,  che  Dario 
si  volse  alia  impresa.  Le  quali  promesse  non  gli  potendo  poi 
Temistocle  osservare,  o  per  vergogna  o  per  tema  di  suppli- 
cio,  avvelenò  se  stesso.  E  se  questo  errore  fu  fatto  da  Temi- 
stocle, uomo  eccellentissimo,  si  debbe  stimare  che  tanto  più 
vi  errino  coloro  che,  per  minor  virtù,  si  lasceranno  più  tirare 
dalla  voglia  e  dalla  passione  loro.  Debbe,  adunque,  un  prin- 
ci|ie  andare  adagio  a  pigliare  im|)rese  sopra  la  relazione  d'un 
confinalo,  perchè  il  più  delle  volte  se  ne  resta  o  con  vergo- 
gna o  con  danno  gravissimo.  E  perchè  ancora  rade  volto 
riesce  il  pialiare  le  terre  di  furto,  e  per  intelligenza  che-al- 
tri avesse  in  quelle,  non  mi  pare  fuor  di  proposilo  discorrerne 


304  DEI   DISCORSI 

nel  sèguenle  capitolo  ;  aggiungendovi  con  quanti  modi  i  Ro- 
mani le  acquistavano.  * 

Gap.  XXXII.  —  In  quanti  modi  i  Romani  occupavano 
le  terre. 

Essendo  i  Romani  (ulti  vòlti  alla  guerra,  fecero  sempre 
mai  quella  con  ogni  vantaggio,  e  quanto  alla  spesa ,  e  quanto 
ad  ogni  altra  cosa  clie  in  essa  si  ricerca.  Da  questo  nacque 
che  si  guardarono  dal  pigliare  le  (erre  per  ossidione;  perchè 
giudicavano  questo  modo  di  tanta  spesa  e  di  tanto  scomodo, 
che  superasse  di  gran  lunga  la  utilità  che  dello  acquisto  si  po- 
tesse trarre:  e  per  questo  i^ensarono  che  fosse  meglio  e  più 
utile  soggiogare  le  terre  per  ogni  allro  modo  che  assediando- 
le :  donde  in  tante  guerre  ed  in  tanti  anni  ci  sono  pochissimi 
essempi  di  ossidioni  fatte  da  loro.  1  modi,  adunque,  con  i  quali 
gli  acquistavano  le  città,  erano  o  per  espugnazione,  o  per 
dedizione.  La  espugnazione  era  o  per  forza  e  per  violenza 
aperta,  o  per  forza  mescolala  con  fraudo.  La  violenza  aperta 
era  o  con  assalto,  senza  percuotere  le  mìira  (il  che  loro  chia- 
mavano aggredi  urbem  corona^  perchè  con  tulio  l'esercito 
circondavano  la  città,  e  da  tulle  le  parti  la  combattevano  ;  e 
molte  volte  riuscì  loro  che  in  uno  assalto  pigliarono  una  cit- 
tà, ancora  che  grossissima,  come  quando  Scipione  prese 
Cartagine  nuova  in  Ispagna):  o,  quando  questo  assalto  non 
bastava,  si  dirizzavano  a  rompere  le  mura  con  arieti,  o  con 
altre  loro  macchine  belliche:  o  e' facevano  una  cava,  e  per 
quella  entravano  nella  città  (nel  qual  modo  presono  la  città 
de'  Veienli)  :  o,  per  essere  eguali  a  quelli  che  difendevano  le 
mura,  facevano  torri  di  legname,  o  facevano  argini  di  terra 
appoggiati  alle  mura  di  fuori,  per  venire  all'altezza  di  esse 
^topra  quelli.  Contra  a  questi  assalti,  chi  difendeva  le  terre, 
nel  primo  caso  circa  lo  essere  assaltato  intorno  intorno,'  por- 
tava più  subito  pericolo,  ed  avea  più  dubbi  rimedi:  perchè  bi- 
sognandoli io  ogni  loco  avere  assai  difensori,  o  quelli  eh'  egli 

*  Nelle  stampe  più  antiche  t  i*  acquistavano. 

'  La  Teslioa,  colle  moderne,  non  ripete  l'avverbio,  che  cosi  duplicato 
dipÌDge  la  cosa,  e  risponde  assai  meglio  al  liviano  termine  coroni. 


I 


LIBRO   SECONDO.  S05 

aveva  non  erano  tanti  che  potessero  o  supplire  per  tolto,  o 
cambiarsi;  o  se  potevano,  non  erano  tutti  di  eguale  animo  a 
resistere,  e  da  una  parte  che  fusse  inclinata  la  zuffa,  si  perde- 
vano tulli.  Però  occorse,  come  io  ho  dello,  che  molle  volle 
queslo  modo  ebbe  felice  successo.  Ma  quando  non  riusciva  al 
primo,  non  lo  rilenlavano  mollo,  per  esser  modo  pericoloso 
per  lo  esercito:  perchè  difendendosi  in  tanto  spazio,  reslava 
per  tulio  debile  a  polere  resistere  ad  una  eruzione  che  quelli 
di  dentro  avessino  falla,  ed  anche  si  disordinavano  e  strac- 
cavano i  soldati;  ma  per  una  volta  ed  allo  improvviso  tenta- 
vano tal  modo.  Quanto  alla  rottura  delle  mura,  si  oppone- 
vano, come  ne*  presenti  lempi,  con  ripari.  E  per  resistere  alle 
cave,  facevano  una  contraccava,  e  per  quella  si  opponevano 
al  nimico,  0  con  le  armi  o  con  altri  ingegni:  intra  i  quali  era 
queslo,  che  egli  empivano  dogli  di  penne,  nelle  quali  appic- 
cavano il  fuoco,  ed  accesi  gli  mettevano  nella  cava,  i  quali 
con  il  fumo  e  con  il  puzzo  impedivano  l'entrata  a'  nimici.  E 
se  con  le  torri  gli  assaltavano,  s*  ingegnavano  con  il  fuoco 
rovinarle.  E  quanto  agli  argini  di  terra,  rompevano  il  muro 
da  basso,  dove  l'argine  s'appoggiava,  tirando  dentro  la  terra 
che  quelli  di  fuori  vi  ammontavano;  talché  ponendosi  di  fuori 
la  terra,  e  levandosi  di  dentro,  veniva  a  non  crescere  l'ar- 
gine. Questi  modi  di  espugnazione  non  si  possono  lungamente 
tentare:  ma  bisogna  o  levarsi  da  campo,  e  cercare  per  altri 
modi  vincere  la  guerra;  come  fece  Scipione,  quando  entrato 
in  Affrica,  avendo  assaltato  Ulica  e  non  gli  riuscendo  pi- 
gliarla, si  levò  dal  campo,  e  cercò  di  rompere  gli  eserciti  car- 
taginesi: ovvero  volgersi  alla  ossidione;  come  feciono  a  Veio, 
Gapova,  Cartagine  e  lerusalem  e  simili  terre,  che  per  os- 
sidione occuparono.  Quanto  allo  acquistare  le  terre  per  vio- 
lenza furtiva,  occorre  come  intervenne  di  Palepoli,  che  per 
trattato  di  quelli  di  dentro  1  Romani  la  occuparono.  Di  questa 
sorte  espugnazione  dai  Romani  e  da  altri  ne  sono  stale  tentate 
molte,  e  poche  ne  sono  riuscite:  la  ragione  è  che  ogni  minimo 
impedimento  rompe  il  disegno,  e  gli  impedimenti  vengono 
facilmente.  Perchè,  o  la  congiura  si  scuopre  innanzi  che  si 
Venga  ali* atto:  e  scuopresi  non  con  molla  difflcnllà,  si  per 
la  infedelilà  di  coloro  con  chi  la  è  comunicata,  si  per  la  difiì- 

26* 


306  1)EI   DISCORSI 

colla  del  praticarla,  avendo  a  convenire  con  nimici,  e  con 
chi  non  ci  è  lecito,  se  non  sotto  qualche  colore,  parlare.  Ma 
quando  la  congiura  non  si  scoprisse  nel  maneggiarla ,  vi 
surgono  poi  nel  metterla  in  atto  mille  difficullà.  Perchè,  ose 
tu  vieni  innanzi  al  tempo  disegnato,  o  se  tu  vieni  dopo,  si 
guasta  ogni  cosa:  se  si  lieva  un  rumore  furtivo,  come  l'  oche 
del  Campidoglio:  se  si  rompe  uno  online  consueto:  ogni  mi- 
nimo errore  ed  ogni  minima  fallacia  che  si  piulia,  rovina 
la  impresa.  Asgiungonsi  a  questo  le  tenebre  della  notte;  le 
quali  mettono  più  paura  a  chi  travaglia  in  quelle  rose  peri- 
colose. Ed  essendo  la  maggior  pai  te  degli  uomini  che  si  con- 
ducono a  simili  imprese,  inesperti  del  sito  del  paese  e  de' 
luoghi,  dove  ei  sono  menati,  si  confondono,  inviliscono,  ed 
implicano  per  ogni  minimo  e  fortuito,  accidente;  ed  ogni  im- 
inazine  falsa  è  per  fargli  mellere  in  volla  Né  si  trovò  mai 
alcuno  che  fusse  più  felice  in  queste  espedizioni  fraudolente  * 
e  notturne,  che  Aralo  Sicioneo;  il  quale  quanto  valeva  in 
queste,  tanto  nelle  diurne  ed  aperte  fazioni  era  pusillanime: 
il  che  8i  può  giudicare  fusse  più  toslo  per  una  occulta  virtù 
che  era  in  loi,  che  perchè  in  quelle  naturalmente  dovesse 
essere  più  felicità.  Di  questi  modi,  adunque,  se  ne  praticano 
assai,  pochi  se  ne  conducono  alla  pruova,  e  pochissimi  ne  rie- 
scono. Quanto  allo  acquistare  le  terre  per  dedizione,  o  le  si 
danno  volontarie,  o  forzate.  La  volontà  nasce  o  per  qualche 
necessità  estrinseca  che  gli  costringo  a  rifuggirlisi  sotto: 
come  fece  Capeva  ai  Romani  ;  o  per  dìsiderio  di  esser  go- 
vernali bene,  sendo  allettati  dal'  governo  buono  che  quel 
prìncipe  tiene  in  coloro  che  se  gli  sono  volontari  rimessi  in 
grembo;  come  ferono  i  Rodiani,  i  Massilìensi  ed  altri  simili 
cittadini,  che  si  dettone  al  Popolo  romano.  Quanto  alla  dedi- 
zione forzala,  o  tale  forza  nasce  da  una  lunga  ossidione,  come 
di  sopra  si  è  detto;  o  la  nasce  da  una  continua  oppressione 
di  correrie,  depredazioni,'  ed  altri  mali  trallamenli,  i  quali 
volendo  fuggire,  una  città  si  arrende.  Di  tutti  i  modi  detti,  i 

<  La  Teslioa  e  le  moderne  del  1813  e  del  Poggiali:  fraxidolenU. 
'  La  Romana,  con  modo  fiorentinesco,  ed  etempio  in  e*sa  non  mfrequen- 
le  :  da  il. 

'  Fuorché  nella  del  Biado  t  di  predaùonl. 


Libro  secondo.  3Ò7 

Bomani  usarono  più  questo  ullinpo  che  nessuno;  ed  allesono 
più  che  quallrocenlo  cinquanta  anni  a  straccare  i  vicini  con 
le  rotte  e  con  le  scorrerie,  e  pigliare  mediani!  gli  accordi 
riputazione  sopra  di  loro,  come  altre  volte  abhiarao  discorso. 
E  sopra  tal  modo  si  fondarono  sempre,  ancora  che  gli  len- 
tassino  tulli  ;  ma  negli  altri  trovarono  cose  o  pericolose  o 
inutili.  Perchè  nella  ossidioneé  la  lunghezza  e  la  spesa;  nella 
espugnazione,  dubbio  e  pericolo;  nelle  congiure,  la  incertilu- 
dine.  E  viddono  che  con  una  rotta  d'esercito  inimico  acquista- 
vano un  regno  in  un  giorno;  e  nel  pigliare  per  ossidione  una 
cillà  ostinata,  consumavano  molti  anni,         « 

:  ì  kìVììii 

Gap.  XXXIII.  -^  Come  i  Romani  davano  àgli  loro  capitani 
degli  esercili  le  commissioni  libere. 

Io  stimo  che  sia  da  considerare,  leggendo  questa  liviana 
istoria,  volendone  far  profitlo,  tulli  i  modi  del  procedere  dei 
Popolo  e  Senato  romano.  E  infra  l'altre  cose  che  meritano 
considerazione,  sono:  vedere  con  quale  autorità  ei  manda- 
vano fuori  i  loro  Consoli,  Dittatori  ed  altri  Capitani  degli 
eserciti  ;  de'  quali  si  vede  l' autorità  essere  stata  grandissi- 
ma, ed  il  Senato  non  si  riservare  altro  che  l'autorità  di 
muovere  nuove  guerre,  e  di  confirmare  le  paci  ;  e  tutte  l'al- 
tre cose  rimetteva  nell'arbitrio  e  potestà  del  Consolo.  Perchè, 
deliberala  ch'era  dal  Popolo  e  dal  Senato  una  guerra,  ver- 
bigrazia  contra  ai  Latini,  lutto  il  reslo  rimeltevano  nell'ar- 
bitrio del  Consolo;  il  quale  poteva  o  fare  una  giornata  o  non 
la  fare,  e  campeggiare  questa  o  quell'altra  terra,  come  a 
lui  pareva.  Le  quali  cose  si  verificano  per  molli  essempi,  e 
massime  per  quello  che  occorse  in  una  {spedizione  contra 
ai  Toscani.  Perchè,  avendo  Fabio  Consolo  vinto  quelli  presso 
a  Sutri,  e  disegnando  con  l'esercito  dipoi  passare  la  selva 
Cimìna,  ed  andare  in  Toscana;  non  solamente  non  si  consi- 
gliò col  Senato,  ma  non  gli  ne  delle  alcuna  notizia,  ancora 
che  la  guerra  fosse  per  aversi  a  fare  in  paese  nuovo,  dubbio 
e  pericoloso.  Il  che  si  testifica  ancora  per  la  dilibcrazione 
che  all'  incontro  di  questo  fu  fatta  dal  Senato:  il  quale  avendo 
inteso  la  vittoria  che  Fabio  aveva  avuta,  e  dubitando  che 


308  DEI   DISCORSI 

qaello  non  pigliasse  partito  di  passare  per  le  dette  selve  in 
Toscana,  giudicando  che  fosse  bene  non  tentare  quella  guerra 
e  correre  quel  pericolo,  mandò  a  Fabio  due  Legali  a  fargli 
intendere  non  passasse  in  Toscana  ;  i  quali  arrivarono  che 
vi  era  già  passato,  ed  aveva  avuta  la  vittoria,  ed  in  cambio 
di  impeditori  della  guerra,  tornarono  ambasciadori  dello  ac- 
quisto e  della  gloria  avuta.  E  chi  considera  bene  questo  ter» 
mine,  io  vedrà  prudentissimamente  usato;  perchè,  se  il  Senato 
avesse  voluto  che  un  Consolo  procedesse  nella  guerra  di  mano 
in  mano,  secondo  che  quello  gli  commetteva,  lo  faceva  meno 
circunspetto  e  più  lento;  perchè  non  gli  sarebbe  parutoche  la 
gloria  della  vittoria  fusse  tutta  sua,  ma  che  ne  participasse 
il  Senato,  con  il  consiglio  del  quale  ei  si  fusse  governato. 
Oltra  di  questo,  il  Senato  si  obbligava  a  voler  consigliare  una 
cosa  che  non  se  ne  poteva  intendere;  perchè,  nonostante  che 
in  quello  fussino  tutti  uomini  esercitatissimi  nella  guerra, 
nondimeno  non  essendo  in  sul  luo^o,  e  non  sappiendo  infì- 
nili  particolari  che  sono  necessari  sapere  a  voler  consigliar 
bene,  arebbono,  consigliando,  fatti  infiniti  errori.  E  per 
questo  e' volevano  che 'l'Consolo  per  sé  facesse,  e  che  la 
gloria  fusse  tutta  sua;  lo  amore  della  quale  giudicavano  che 
fusse  freno  e  regola  a  farlo  operar  bene.  Questa  parte  si  è 
più  volentieri  notata  da  me,  perchè  io  veggio  che  le  repub* 
bliche  de' presenti  tempi,  come  è  la  Veneziana  e  Fiorentina, 
la  intendono  altrimenti;  e  se  gli  loro  capitani,  provveditori 
o  commissari  hanno  a  piantare  una  artiglieria,  lo  vogliono 
intendere,  e  consigliare.  Il  quale  modo  merita  quella  laude 
che  meritano  gli  altri,  i  quali  tulli  insieme  l' hanno condoUe 
ne'  termini  che  al  presente  si  (ruovano. 


iC«4»»-' 


S09 


UBRO  TERZO. 


C;^p.  I.  —  ^  volere  che  una  setta  o  una  repubblica  viva  lun- 
gamente, è  necessario  ritirarla  spesso  verso  il  suo  prin- 
cipio. 

Egli  è  cosa  verissima,  come  tutte  le  cose  del  mondo 
hanno  il  termine  della  vita  loro.  Ma  quelle  vanno  tutto  il 
corso  che  è  loro  ordinato  dal  cielo  generalmente,  che*  non  dis- 
ordinano il  corpo  loro,  ma  tengonlo  in  modo  ordinato,  o  che 
non  altera,  o  s'egli  altera,  è  a  salute,  e  non  a  danno  suo. 
E  perchè  io  parlo  de* corpi  misti,  come  sono  le  repubbliche 
e  le  sèlle,  dico  che  quelle  alterazioni  sono  a  salute,  che  le 
riducono  verso  i  principii  loro.  E  però  quelle  sono  meglio  or- 
dinate, ed  hanno  più  lunga  vita,  che  medianti  gli  ordini  suoi 
si  possono  spesso  rinnovare;  ovvero  che  per  accidente,  fuori 
di  detto  ordine,  vengono  a  detta  rinnovazione.  Ed  è  cosa  più 
chiara  che  la  luce,  che  non  si  rinnovando  questi  corpi,  non 
durano.  Il  modo  del  rinnovargli  è,  come  è  detto,  ridurgli 
verso  i  principii  suoi.  Perchè  tutti  1  principii  delle  sètte,  e 
delle  repubbliche,  e  dei  regni,  conviene  che  abbino  in  sé  qual- 
che bontà,  mediante  la  quale  ripiglino  la  prima  riputazione, 
ed  il  primo  auguraento  loro.  E  perchè  nel  processo  del  tempo 
quella  bontà  si  corrompe,  se  non  interviene  cosa  che  la  ri- 
duca al  segno,  ammazza  di  necessità  quel  corpo.  E  questi 
dottori  di  medicina  dicono,  parlando  dei  corpi  degli  uomini, 
quod  quolidie  aggregatur  aliquid,  qund  quandoque  indiget  cura- 
liane.  Questa  riduzione  verso  il  principio,  parlando  delle  re* 
pubbliche,  si  fa  o  per  accidente  estrinseco,  o  per  prudenza 
intrinseca.  Quanto  al  primo,  si  vede  come  gli  era  necessa- 

*  Cioèt  vanno  generalmente  tutto  il  corso  ec.  quelle  le  quali  non  disor- 
dinano ec* 


310  DEI  DISCORSI 

rio  che  Roma  fusse  presa  dai  Franciosi,  a  volere  che  la  ri- 
nascesse; e  rinascendo,  ripigliasse  nuova  vila  e  nuova  virtù; 
e  ripigliasse  la  osservanza  della  religione  e  della  giustizia,  le 
quali  in  lei  cominciavano  a  macularsi.  Il  che  benissimo  si 
comprende  per  l' istoria  di  Livio,  dove  ci  mostra  che  nel  (rar 
fuori  l'esercito  centra  ai  Franciosi,  e  nel  creare  i  Tribuni  coA 
potestà  consolare,  non  osservarono  alcuna  religiosa  cerimo- 
nia. Cosi  medesimamente,  non  solamente  non  privarono  i  tre 
Fabi  i  quali  conlra  jus  genlium  avevano  combattuto  contra 
i  Franciosi,  ma  gli  crearono  Tribuni.  E  debbesi  facilmente 
presupporre,  che  dell'altre  constituzioni  buone  ordinate  da 
Romolo,  e  da  quelli  altri  principi  prudenti,  si  cominciasse  a 
tenere  meno  conto  che  non  era  ragionetole  e  necessario  a  te- 
nere il  vivere  libero.  Venne,  adunque,  questa  battitura  estrin- 
seca, acciocché  lutti  gli  ordini  di  quella  città  sì  ripigliassero; 
e  si  mostrasse  a  quel  popolo,  non  solamente  essere  necessa- 
rio mantenere  la  religione  e  la  giustizia,  ma  ancora  stimare 
i  suoi  buoni  cittadini,  e  far  più  conto  della  loro  virtù,  che  di 
quelli  comodi  che  e'  paresse  loro  mancare  mediante  1'  opere 
loro.  Il  che  si  vede  che  successe  appunto;  perchè,  subito  ri- 
presa Roma,  rinnovarono  tutti  gli  ordini  dell'antica  religione 
loro  ;  punirono  quelli  Fabi  che  avevano  combattuto  conlra 
jus  genlium  ;  ed  appresso  stimarono  tanto  la  virtù  e  bontà  di 
Cammino,  che  posposto,  il  Senato  e  gli  altri,  ogni  invidia,  ri- 
mettevano in  lui  lutto  il  pondo  di  quella  Re(iubblica.  È  ne- 
cessario adunque,  come  è  detto,  che  gli  uomini  che  vivono 
insieme  in  qualunque  ordine,  spesso  si-  riconoschino,  o  per 
questi  accidenti  estrinsechi  o  per  gli  intrinsechi.  E  quanto 
a  questi,  conviene  che  nasca  o  da  una  legge  la  quale  spesso 
rivegga  il  conto  agli  uomini  che  sono  in  quel  corpo;  o  vera- 
mente da  uno  uomo  buono  che  nasca  fra  loro,  il  quale  con  gli 
suoi  essempi  e  con  le  sue  opere  virtuose  faccia  il  medesimo 
effetto  che  l'ordine.  Surge,  adunque,  questo  bene  nelle  repub- 
bliche, o  per  virtù  d'un  uomo  o  per  virtù  d'uno  ordine.  E 
quanto  a  questo  ultimo,  gli  ordini  che  ritirarono  la  Repub- 
blica romana  verso  il  suo  principio,  furono  i  Tribuni  della 
plebe,  i  (censori,  e  tutte  l'altre  leggi  che  venivano  conlra 
ali'  ambizione  ed  alla  insolenza  degli  uomini.  I  quali  ordini 


II 


LIBRO   TERZO.  311 

hanno  bisogno  d'esser  falli  vivi  dalla  virtù  d'un  cilladino, 
il  quale  animosamenle  concorra  ad  eseguirli  centra  alla  po- 
tenza di  quelli  che  gli  trapassano.  Delle  quali  esecuzioni,  in- 
nanzi alla  presa  di  Roma  dai  Franciósi,  furon  nolabili,  la 
morte  de'fmliuoli  di  Bruto,  la  morie  de' dieci  cittadini, 
quella  di  Melio  Frumenlario  :  dopo  la  presa  di  Roma,  fu  la 
morte  di  Manlio  Capitolino,  la  morie  del  figliuolo  di  Manlio 
Torquato,  la  esecuzione  di  Papirio  Cursore  centra  a  Fabio 
suo  maestro  de'  Cavalieri,  la  accusa  degli  Scipioni.  Le  quali 
cose,  perchè  erano  eccessive  e  nolabili,  qualunque  volta  ne 
nasceva  una,  facevano  uli  uomini  ritirare  verso  il  segno:  e 
quando  le  cominciarono  ad  esser  più  rare,  cominciarono  an- 
cora a  dare  più  spazio  agli  uomini  di  corrompersi ,  e  farsi 
con  magiiiore  pericolo  e  più  tumulto.  Perchè  dall'  una  all'al- 
tra di  simili  esecuzioni  non  vorrebl)e  passare,  il  più,  dieci  an- 
ni: perchè,  passalo  questo  tempo,  gli  uomini  cominciano  a 
variare  co*  cosiumi,  e  trapassare  le  leagi;  e  se  non  nasce 
Cosa  per  la  quale  si  riduca  loro  a  memoria  la  pena,  e  ritmo- 
visi  negli  animi  loro  la  paura,  concorrono  tosto  tanti  delin- 
quenti, che  non  si  possono  più  punire  senza  pericolo.  Dice- 
vano, a  questo  proposito,  quelli  che  hanno  governato  lo  stato 
di  Firenze  dal  1434  infino  al  1494,  come  egli  era  necessario 
ripigliare  ogni  cinque  anni  lo  stato;  altrimenti,  era  diflìcile 
mantenerlo:  e  chiamavano  ripigliare  lo  sialo,  mettere  quel 
terrore  e  quella  paura  negli  uomini  che  vi  avevano  messo 
nel  pigliarlo,  avendo  in  quel  tempo  battuti  quelli  che  aveva- 
no, secondo  quel  modo  di  vivere,  male  operato.  Ma  come  di 
quella  battitura  la  memoria  si  spegne ,  gli  uomini  prendono 
ardire  di  tentare  cose  nuove,  e  di  dir  male;  e  però  è  neces- 
sario provvedervi,  ritirando  quello  verso  i  suoi  principii.  Na- 
sce ancora  questo  riliramenlo  delle  repubbliche  versò  il  loro 
principio  dalle  semplici  '  virtù  d'un  uomo,  senza  dipendere 
da  alcuna  legge  che  li  stimoli  ad  alcuna  esecuzione:  nondi- 
manco  sono  di  lauta  riputazione  e  di  tanto  essempio,  che  gli 
uomini  buoni  disiderano  imitarle,  e  gli  tristi  si  vergognano 
a  tenere  vita  contraria  a  quelle.  Quelli  che  in  Roma  partico- 
larmente feciono  questi  buoni  effetti,  furono  Orazio  Code, 
I  L)  }lpmap9  solUoto  ;  dalla  semplice  virtù^ 


3i2  DEI  DISCORSI 

Scevola,  Fabrizio,  i  duoi  Deci,  Rejjolo  Attilio,  ed  alcuni  al- 
tri; i  quali  con  i  loro  essempì  rari  e  virtuosi  facevano  in  Roma 
quasi  il  medesimo  eflTelto  che  si  facessino  le  leggi  e  gli  ordi> 
ni.  E  se  le  esecuzioni  seprascrille,  insieme  con  questi  partico- 
lari essempi,  fussìno  almeno  seguite  ogni  dieci  anni  in  quella 
città,  ne  seguiva  di  necessità  che  la  non  si  sarebbe  mai  cor- 
rotta: ma  *  come  e*  cominciarono  a  diradare  Tuna  e  l'altra  dì 
queste  due  cose,  cominciarono  a  moltiplicare  le  corruzioni. 
Perchè  dopo  Marco  Regolo  non  vi  si  vidde  alcun  simile  essem- 
pio:  e  benché  in  Roma  surgessino  i  duoi  Catoni,  fu  tanta  di- 
stanza da  quello  a  loro,  ed  intra  loro  dall'  uno  all'  altro,  e  ri- 
masono  si  soli,  che  non  potetlono  con  ^W  essempi  buoni  fare 
alcuna  buona  opera;  e  massime  l'ultimo  Catone,  il  quale 
trovando  in  buona  parte  la  città  corrotta ,  non  potette  con 
lo  essempio  suo  fare  che  i  cittadini  diventassino  migliori.  E 
questo  basti  quanto  alle  repubbliche.  Ma  quanto  alle  sètte, 
si  vede  ancora  queste  rinnovazioni  essere  necessarie  per 
lo  essempio  della  nostra  religione;  la  quale  se  non  fusse  slata 
ritirala  verso  il  suo  principio  da  San  Francesco  e  da  San  Do- 
menico, sarebbe  al  tutto  spenta.  Perchè  questi,  con  la  pover- 
tà e  con  r  essempio  della  vita  di  Cristo,  la  ridussono  nella 
mente  desìi  uomini,  che  già  vi  era  spenta:  e  furono  si  po- 
tenti gli  ordini  loro  nuovi,  ch'ei  sono  cagione  che  la  diso- 
nestà de*  prelati  e  de' capi  della  religione  non  la  rovini;  vi- 
vendo ancora  poveramente,  ed  avendo  tanto  credilo  nelle 
confessioni  con  i  popoli  e  nelle  predicazioni,  che  e' danno 
loro  ad  intendere  come  egli  è  male  a  dir  male  del  male,  e 
che  sia  bene  vivere  sotto  l'obbidienza  loro,  e  se  fanno  er- 
rori, lasciargli  gastigare  a  Dio:  e  cosi  quelli  fanno  il  peggio 
che  possono,  perchè  non  temono  quella  punizione  che  non 
vesigono  e  non  credono.  Ha,  adunque,  questa  rinnovazione 
mantenuto,  e  mantiene  questa  religione.  Hanno  ancora  i  re- 
gni bisogno  di  rinnovarsi,  e  ridurre  le  leggi  di  quelli  verso 
il  suo  principio.  E  si  vede  quanto  buono  etfelto  fa  questa  parte 
nel  regno  di  Francia;  il  quale  regno  vive  sotto  le  leggi  e 
sotto  gli  ordini  più  che  alcuno  altro  resno.  Delle  quali  leggi 
ed  ordini  ne  sono  mantenitori  i  parlamenti,  e  massime  quel 

*  La  Testina  e  l' edixione  del  Poggiali  omettono  ma. 


LIBRO  TERZO.  313 

di  Parigi  :  le  quali  sono  da  lui  rinnovate  qualunque  volta  e'fa 
una  esecuzione  contra  ad  uno  principe  di  quel  regno,  e  che  ei 
condanna  il  Re  nelle'sue  sentenze.  Ed  infino  a  qui  si  è  man- 
tenuto per  essere  slato  uno  ostinato  esecutore  contra  a  quella 
nobiltà:  ma  qualunque  volta  e'ne  lasciasse  alcuna  impunita, 
e  che  le  venissino  a  muKiplicare,  senza  dubbio  ne  nasce- 
rebbe o  che  le  si  arebbono  a  correggere  con  disordine  gran- 
de, o  che  quel  regno  si  risolverebbe.  Conchiudesi,  pertanto, 
non  esser  cosa  più  necessaria  in  un  vivere  comune,  o  setta 
o  regno  o  repubblica  che  sia,  che  rendergli  quella  riputa- 
zione eh* eoli  aveva  ne'principii  suoi;  ed  ingegnarsi  che 
siano  0  gli  ordini  buoni  o  i  buoni  uomini  che  faccino  que- 
sto effetto,  e  non  l'abbia  a  fare  una  forza  estrinseca.  Perchè, 
ancora  che  qualche  volta  la  sia  ottimo  rimedio,  come  fu  a 
Roma,  ella  è  tanto  pericolosa,  che  non  è  in  modo  alcuno  da 
desiderarla.  E  per  dimostrare  a  qualunque,  quanto  le  azioni 
degli  uomini  particolari  facessino  grande  Roma,  e  causassino 
in  quella  città  molti  buoni  effetti,  verrò  alla  narrazione  e  dis- 
corso di  quelli:  intra  i  termini  de'quali  questo  terzo  libro  ed 
ultima  parie  di  questa  prima  Deca  si  conchiuderà.  E  benché 
le  azioni  degli  Re  fussino  grandi  e  notabili,  nondimeno,  di- 
chiarandole la  istoria  diffusamente,  le  lasceremo  indietro;  né 
parleremo  altrimenti  di  loro,  eccetto  che  di  alcuna  cosa  che 
avessino  operata  appartenente  alli  loro  privati  comodi;  e  co- 
mincierenci  da  Rrulo,  padre  della  romana  libertà. 

Gap.  II.  —  Come  gli  è  cosa  sapientissima  simulare  in  tempo 
la  pazzia. 

Non  fu  alcuno  mai  tanto  prudente,  né  tanto  stimato  sa- 
vio, per  alcuna  sua  egregia  operazione,  quanto  merita  d'es- 
ser tenuto  lunio  Bruto  nella  sua  simulazione  della  stullizia. 
Ed  ancora  che  Tilo  Livio  non  esprima  altro  che  una  cagione 
che  lo  inducesse  a  tale  simulazione,  quale  fu  di  potere  più 
sicuramente  vivere,  e  mantenere  il  patrimonio  suo;  nondi- 
manco,  considerato  il  suo  modo  di  procedere,  si  può  cre- 
dere che  simulasse  ancora  questo  per  essere  manco  osserva- 
to, ed  avere  più  comodità  di  opprimere  i  Re  e  di  liberare 

27 


314  DEI  DISCORSI 

la  saa  patria,  qaalanqae  volta  gliene  fusse  data  occasione. 
E  che  pensasse  a  questo,  si  vide,  prima,  nello  interpretare 
l'oracolo  di  Apolline,  qaando  simulò  cadere  per  baciare  la 
(erra,  giudicando  per  quello  aver  favorevoli  gli  Dii  ai  pen- 
sieri suoi;  e  dipoi,  quando  sopra  la  morta  Lucrezia,  intra 
il  padre  ed  il  marito  ed  altri  parenti  di  lei,  ei  fu  il  primo 
a  Irarle  il  coltello  dalla  ferita,  e  far  giurare  ai  circonstanli, 
che  mai  sopporterebbono  che  per  lo  avvenire  alcuno  re- 
gnasse in  Roma.  Dallo  essempio  di  costui  hanno  ad  impa- 
rare tatti  coloro  che  sono  malcontenti  d'uno  principe,  e 
debbono  prima  misurare  e  pesare  le  forze  loro;  e  se  sono 
si  potenti  che  possino  scoprirsi  suoi  nimici  e  fargli  aper- 
tamente guerra,  debbono  entrare  per  questa  via,  come  man- 
co pericolosa  e  più  onorevole.  Ma  se  sono  di  qualità  che  a 
fargli  guerra  aperta  le  forze  loro  non  bastino,  debbono  con 
ogni  industria  cercare  di  farsegli  amici;  ed  a  questo  effetto, 
entrare  per  tutte  quelle  vie  che  giudicano  esser  necessarie, 
seguendo  i  piaceri  suoi,  e  pigliando  diletto  di  tutte  quelle 
cose  che  veggono  quello  dilettarsi.  Questa  dimestichezzn, 
prima,  ti  fa  vivere  sicuro;  e,  senza  portare  alcun  pericolo, 
ti  fa  godere  la  buona  fortuna  di  quel  principe  insieme  con 
esso  lui,  e  ti  arreca  ogni  comodità  di  satisfare  all'animo 
tuo.  Vero  è  che  alcuni  dicono  che  si  vorrebbe  con  gli  prin- 
cipi non  stare  si  presso  che  la  rovina  loro  ti  coprisse,  né 
si  discosto  che  rovinando  quelli  tu  non  fussi  a  tempo  a  sa- 
lire sopra  la  rovina  loro:  la  qual  via  del  mezzo  sarebbe  la 
più  vera,  quando  si  potesse  conservare;  ma  perchè  io  credo 
che  sia  impossìbile,  conviene  ridursi  ai  duoi  modi  sopra- 
scritti, cioè  di  allargarsi  o  di  stringersi  con  loro.  Chi  fa 
altrimenti,  e  sia  uomo  per  le  qualità  sue  notabile,  vive  in 
continovo  pericolo.  Né  basta  dire:  io  non  mi  curo  d'alcuna 
cosa,  non  desidero  né  onori  né  utili,  io  mi  voglio  vivere 
quietamente  e  senza  hriea;  perchè  queste  scuse  sono  udite 
e  non  accettate:  né  possono  gli  uomini  che  hanno  qualità, 
eleggere  lo  starsi,  quando  bene  lo  eleggessino  veramente 
e  senza  alcuna  ambizione,  perché  non  è  loro  creduto;  tal- 
ché se  si  vogliono  star  loro,  non  sono  lasciali  stare  da  al- 
tri. GoQvieo^  ^dup(|ue  f9re  il  pazzo,  come  Bruto;  ed  ass^j 


LIBRO  TERZO.  315 

si  fa  il  matto,  laudando,  parlando,  veggendo,  faccendo  cose 
centra  all'animo  tuo,  per  compiacere  al  principe.  E  poiché 
noi  abbiamo  parlato  della  prudenza  di  questo  uomo  per  ri- 
cuperare la  libertà  di  Roma,  parleremo  ora  della  sua  seve- 
rità in  mantenerla. 

Gap.  III.  —  Come  egli  è  necessario,  a  voler  mantenere  una  li- 
bertà acquistala  di  nuovo,  ammazzare  i  figliuoli  di  Bruto. 

Non  fu  meno  necessaria  che  utile  la  severità  di  Bruto 
nel  mantenere  in  Roma  quella  libertà  che  egli  vi  aveva 
acquistala  ;  la  quale  è  di  un  essempio  raro  in  tutte  le  memo- 
rie delle  cose:  vedere  il  padre  sedere  prò  tribunali,  e  non 
solamente  condennare  i  suoi  Ggliuoli  a  morte,  ma  esser 
presente  alla  morte  loro.  E  sempre  si  conoscerà  questo  per 
coloro  che  le  cose  antiche  leggeranno  :  come  dopo  una  mu- 
tazione di  stato,  o  da  repubblica  in  tirannide  o  da  tiran- 
nide in  repubblica,  è  necessaria  una  esecuzione  memorabile 
conlra  a'nimici  delle  condizioni  presenti.  E  chi  piglia  una 
tirannide  e  non  ammazza  Bruto,  e  chi  fa  uno  stato  libe- 
ro e  non  ammazza  i  Ggliuoli  di  Bruto,  si  mantiene  poco 
tempo.  E  perchè  di  sopra  è  discorso  questo  luogo  largamente, 
mi  rimetto  a  quello  che  allora  se  ne  disse  :  solo  ci  addurrò 
uno  essempio  stato  ne' dì  nostri,  e  nella  nostra  patria  memo- 
rabile. E  questo  è  Piero  Soderini,  il  quale  si  credeva  con 
la  pazienza  e  bontà  sua  superare  quello  appetito  che  era  ne'tl- 
gliuoli  di  Bruto  di  ritornare  sotto  un  altro  governo,  e  se  ne 
ingannò.  E  benché  quello,  per  la  sua  prudenza,  conoscesse 
questa  necessità  ;  e  che  la  sorte  e  la  ambizione  di  quelli  che 
Io  urtavano,  gli  desse  occasione  a  spegnerli;  nondimeno  non 
volse  mai  l'animo  a  farlo.  Perchè.,  oltre  al  credere  di  potere 
con  la  pazienza  e  con  la  bontà  estinguere  ì  mali  umori,  e 
con  i  premi  verso  qualcuno  consumare  qualche  sua  inimici- 
zia ;  giudicava  (e  molte  volle  ne  fece  con  gli  amici  fede)  che 
a  volere  gagliardamente  urlare  le  sue  opposizioni,  e  battere 
i  suoi  avversari,  gli  bisognava  pigliare  straordinaria  auto- 
rità, e  rompere  con  le  leggi  la  civile  equnlità:  la  qual  cosa, 
ancora  che   dipoi  non  fusse  da  lui  usata  tirannicamente ^ 


316  DEI   DISCORSI 

arebbe  tanto  sbigottito  T  universale,  che  non  sarebbe  mai 
poi  concorso  dopo  la  morte  di  quello  a  rifare  un  gonfalo- 
niere a  YÌla  ;  il  quale  ordine  egli  giudicava  fusse  bene  augu- 
mentare  e  mantenere.  Il  quale  rispetto  era  savio  e  buono: 
nondimeno,  e'  non  si  debbo  mai  lasciare  scorrere  un  male  ri- 
speito  ad  un  bene,  quando  quel  bene  facilmente  possa  es- 
sere da  quel  male  oppressalo.  E  doveva  credere  che,  aven- 
dosi a  giudicare  l'opere  sue  e  la  intenzione  sua  dal  fine, 
quando  la  fortuna  e  la  vita  lo  avesse  accompagnato,  che  po- 
teva certificare  ciascuno,  come  quello  aveva  fatto,  era  per 
salute  della  patria, e  non  per  ambizione*  sua;  e  poteva  rego- 
lare le  cose  in  modo,  che  un  suo  successore  non  potesse 
fare  per  male  quello  che  egli  avesse  fatto  per  bene.  Ma  Io 
ingannò  la  prima  oppinione,  non  conoscendo  che  la  mali- 
gnità non  è  doma  da  tempo,  né  placala  da  alcun  dono.  Tanto 
che,  per  non  sapere  somigliare  Bruto,  ei  perde,  insieme  con 
la  patria  sua,  lo  stalo  e  la  riputazione.  E  come  egli  è  cosa 
difficile  salvare  uno  slato  libero,  cosi  è  difficile  salvarne  un 
regio  ;  come  nel  seguente  capitolo  si  mostrerà. 

Cap.  IV.  —  Non  vive  sicuro  un  principe  in  un  principato, 
mentre  vivono  coloro  che  ne  sono  stali  spogliati. 

La  morte  dì  Tarqninio  Prisco  caasafa  dai  fìeiiuoli  di 
Anco,  e  la  morte  di  Servio  Tulio  causata  da  Tarquinio 
Superbo,  mostra  quanto  difficile  sia  e  pericoloso  spogliar 
uno  del  regno,  e  quello  lasciare  vivo,  ancora  che  cercasse 
con  meriti  guadagnarselo.  E  vedesi  come  Tarquinio  Prisco 
fu  ingannalo  da  parergli  possedere  quel  regno  giuridica- 
mente, essendosli  stato  dato  dal  Popolo,  e  confermato  dal 
Senato:  né  credette  che  nei  figliuoli  di  Anco  potesse  tanto  lo 
sdegno,  che  non  avessino  a  contentarsi  di  quello  che  si  con- 
tentava tutta  Roma.  E  Servio  Tullio  s' ingannò,  credendo 
poiere  con  nuovi  meriti  guadagnarsi  i  figliuoli  di  Tarquinio. 
Dimodoché,  quanto  al  primo,  si  può  avvertire  ogni  principe, 
che  non  viva  mai  sicuro  del  suo  principato,  finché  vivono 

*  La  Testina  e  le  moderne  t  e  non /f  umbUione.  Ì/Ult  poi  la  Romana  tra* 
mata  il  seguente  e  in  et.  "    "'     '' 


LIBRO    TERZO.  317 

coloro  che  ne  sono  stati  spogliali.  Quanto  al  secondo,  si  può 
ricordare  ad  ogni  potente,  che  mai  le  ingiurie  vecchie  non 
furono  cancellale  da'benefizii  nuovi;  e  tanto  meno,  quanto 
il  benefizio  nuovo  è  minore  che  non  è  stata  l' ingiuria.  E 
senza  dubbio,  Servio  Tullio  fu  poco  prudente  a  credere  che 
i  figliuoli  di  Tarquinio  fussino  pazienti  ad  esser  generi  di 
colui  di  chi  e*  giudicavano  dovere  essere  re.  E  questo  ap- 
petito del  regnare  è  tanto  grande,  che  non  solamente  entra 
nei  petti  di  coloro  a  chi  s'aspetta  il  regno,  ma  di  quelli  a 
chi  non  s'aspetta:  come  fu  nella  moglie  di  Tarquinio  gio- 
vine, figliuola  di  Servio;  la  quale,  mossa  da  questa  rabbia, 
centra  ogni  pietà  paterna,  mosse  il  marito  centra  al  padre  a 
tòrgli  la  vita  ed  il  regno:  tanto  stimava  più  essere  regina, 
che  figliuola  di  rei  Se,  adunque,  Tarquinio  Prisco  e  Servio 
Tulio  perdettono  il  regno  per  non  si  sapere  assicurare  di 
coloro  a  chi  ei  l'avevano  usurpalo,  Tarquinio  Superbo  lo 
perde  per  non  osservare  gli  ordini  degli  antichi  re:  come 
nel  seguente  capitolo  si  mostrerà. 

Cap.  V.  —  Quello  che  fa  perdere  uno  regno  ad  uno  re 
che  sia  ereditario  di  quello. 

Avendo  Tarquinio  Superbo  morto  Servio  Tulio,  e  di  lui 
non  rimanendo  eredi,  veniva  a  possedere  il  regno  sicura- 
mente, non  avendo  a  temere  di  quelle  cose  che  avevano  of- 
feso i  suoi  antecessori.  E  benché  il  modo  dell*  occupare  il  re- 
gno fusse  stalo  islraordinario  ed  odioso;  nondimeno,  quando 
egli  avesse  osservalo  gli  antichi  ordini  degli  altri  Re,  sarebbe 
stato  comportalo,  né  si  sarebbe  concitato  il  Senato  e  la  Plebe 
centra  di  lui  per  tòrgli  lo  slato.  Non  fu,  adunque,  costui  cac- 
ciato per  aver  Sesto  suo  figliuolo  stuprata  Lucrezia,  ma  per 
aver  rotte  le  leggi  del. regno,  e  governatolo  tirannicamente; 
avendo  tolto  al  Senato  ogni  autorità,  e  ridottola  a  sé  pro|)rioj 
e  quelle  faccende  che  nei  luoghi  pubblici  con  salisfazione 
del  Senato  romano  si  facevano,  le  ridusse  a  fare  nel  palazzo 
suo  con  carico  ed  invidia  sua:  talché  in  breve  tempo  egli 
spogliò  Roma  di  tutta  quella  libertà  ch'ella  aveva  sotto  gli 
altri  Re  mantenuta.  Né  gli  bastò  farsi* nimici  y  Padri,  che  si 


318  DEI   DISCORSt 

concitò  ancora  contra  la  Plebe,  affaticandola  in  cose  mecca- 
niche, e  tutte  aliene  da  quello  a  che  1'  avevano  adoperata  '  i 
suoi  antecessori:  laiche,  avendo  ripiena  Roma  di  essempi  cru- 
deli e  superbi,  aveva  disposti  già  gli  animi  di  tutti  i  Romani 
alla  ribellione,  qualunque  volta  ne  avessino  occasione.  E  se 
Io  accidente  di  Lucrezia  non  fusse  venuto,  come  prima  ne 
fusse  nato  un  altro,  arebbe  partorito  il  medesimo  efTetto. 
Perchè,  se  Tarquinio  fusse  vissuto  come  gli  altri  Re,  e  Sesto 
suo  figliuolo  avesse  fatto  quello  errore,  sarebbero  Bruto  e 
Collatino  ricorsi  a  Tarquinio  per  la  vendetta  contra  a  Sesto, 
e  non  al  Popolo  romano.  Sappino  adunque  i  principi,  come 
a  quella  ora  e' cominciano  a  perdere  lo  stalo,  ch'ei  comin- 
ciano a  rompere  le  leggi,  e  quelli  modi  e  quelle  consuetu- 
dini che  sono  antiche,  e  sotto  le  quali  gli  uomini  lungo 
tempo  sono  vìvali.  E  se  privali  ch'ei  sono  dello  stalo,  e'di- 
venlassino  mai  lanlo  prudenti,  che  conoscessino  con  quanta 
facilità  i  principali  si  lenghino  da  coloro  che  saviamente  si 
consigliano;  dorrebbe  mollo  più  loro  tal  perdita,  ed  a  mag- 
giore pena  si  condannerebbono,  che  da  altri  fussino  condan- 
nati. Perché  egli  è  molto  più  facile  essere  amalo  da'  buoni 
che  dai  cattivi,  ed  ubbidire  alle  leggi  che  volere  comandare 
loro.  E  volendo  intendere  il  modo  avessino  a  tenere  a  fare 
questo,  noD  hanno  a  durare  altra  fatica  che  pigliare  per  loro 
specchio  la  vita  dei  principi  buoni  ;  come  sarebbe  Timuleone 
Corintio,  Aralo  Sicioneo,  e  simili:  nella  vita  de' quali  ei 
troveranno  tanta  sicurità  e  tanla  salisfazione  di  chi  regge  e 
di  chi  è  retto,  che  doverrebbe  venirgli  voglia  di  imitargli, 
potendo  facilmente,  per  le  ragioni  dette,  farlo.  Perché  gli  uo- 
mini, quando  sono  governati  bene,  non  cercano  né  vogliono 
altra  libertà  :  come  intervenne  ai  popoli  governati  dai  duoi 
prenominali;  che  gli  costrinsono  ad  essere  principi  mentre 
che  vissono,  ancora  che  da  quelli  più  volte  fusse  tentalo  di 
ridursi  in  vita  privata.  E  perché  in  questo,  e  ne' duoi  ante- 
cedenti capitoli,  si  é  ragionalo  degli  umori  concitati  contra 
a' principi,  e  delle  congiure  fatte  dai  figliuoli  di  Bruto  con- 
tra alla  patria,  e  di  quelle  falle  centra  a  Tarquinio  Prisco 

'  Nella  Bladiana,  eoa  offe|a  noo  del  senso  ma  della  forma  grammaticale  : 
gli  avevano  adoperati* 


LIBRO   TERZO.  5Ì9 

ed  a  Servio  Tulio;  non  mi  pare  cosa  fuori  di  proposito,  nel 
seguente  capitolo,  parlarne  difTusaraente,  sendo  materia  de- 
gna di  essere  notata  dai  prìncipi  e  dai  privati. 

Cap.  vi.  —  Delle  congiure. 

E'  non  mi  è  parso  da  lasciare  indietro  il  ragionare  delle 
congiure,  essendo  cosa  tanto  pericolosa  ai  principi  ed  ai 
privali  ;  perchè  si  vede  per  quelle  molti  più  principi  aver 
perduta  la  vita  e  Io  stato,  che  per  guerra  aperta.  Perchè  il 
poter  fare  aperta  guerra  con  un  principe,  è  conceduto  a  po- 
chi; il  potergli  congiurar  centra,  è  conceduto  a  ciascuno. 
Dall'altra  parte,  gli  uomini  privali  non  entrano*  in  impresa 
più  pericolosa  né  più  temeraria  di  questa;  perchè  la  è  diflBcile 
e  pericolosissima  in  ogni  sua  parte.  Donde  ne  nasce,  che 
molle  se  ne  tentano,  e  pochissime  hanno  il  fine  desiderato. 
Acciocché,  adunque,  1  principi  imparino  a  guardarsi  da  questi 
pericoli,  e  che  i  privati  più  timidamente  vi  si  meltino;  anzi 
imparino  ad  esser  contenti  a  vivere  sotto  quello  imperio 
che  dalla  sorte  è  stato  loro  preposto  ;  io  ne  parlerò  dilTusa- 
mente,  non  lasciando  indietro  alcun  caso  notabile  in  docu- 
mento dell'uno  e  dell' altro.  E  veramente,  quella  sentenza 
di  Cornelio  Tacito  è  aurea,  che  dice:  che  gli  uomini  hanno 
ad  onorare  le  cose  passate,  ed  ubbidire  alle  presenti  ;  e  deb- 
bono desiderare  ì  buoni  principi,  e  comunque  si  siano  fatti 
tollerargli.  E  veramente,  chi  fa  altrimenti,  il  più  delle  volte 
rovina  sé,  e  la  sua  patria.  Dobbiamo  adunque,  entrando 
nella  materia,  considerare  prima  centra  a  chi  si  fanno  le 
congiure;  e  troveremo  farsi  o  centra  alla  patria,  o  centra 
ad  uno  principe  :  delle  quali  due  voglio  che  al  presente  ra- 
gioniamo ;  perchè  di  quelle  che  si  fanno  per  dare  una  terra 
ai  nimici  che  la  assediano,  o  che  abbino  per  qualunque  ca- 
gione similitudine  con  questa,  se  n*  è  parlato  di  sopra  a  suf- 
ficienza. E  tratteremo  in  questa  prima  parte  di  quelle  cen- 
tra al  principe,  e  prima  esamineremo  le  cagioni  di  esser  le 
quali  sono  molte  ;  ma  una  ne  è  importantissima  più  che  tutte 
l'altre.  E  questa  è  l'essere  odiato  dall'universale;  perchè 
quel  principe  che  si  è  concitalo  questo  universale  odio,  è 

<  Le  edizioni  antiche,  e  il  Poggiali:  intrano*  i- 


320  D£l   DISCORSI 

ragionevole  che  abbi  de*  particolari  ì  qaali  da  Ini  siano  stati 
più  offesi,  e  che  desiderino  vendicarsi.  Questo  desiderio 
é  accresciuto  loro  da  quella  mala  disposizione  universale, 
che  vengono  essergli  concitata  centra.  Debbo,  adunque,  un 
principe  fuggire  questi  carichi  pubblici  :  e  come  egli  abbia 
a  fare  a  fuggirli,  avendone  altrove  trattato,  non  ne  voglio 
parlare  qui  ;  perché  euardandosi  da  questo,  le  semplici  offese 
particolari  gli  faranno  meno  guerra.  L'ana,  perché  si  ris- 
contra rade  volte  in  uomini  che  stimino  tanto  una  ingiu- 
ria, che  8i  meltino  a  tanto  pericolo  per  vendicarla;  l'altra, 
che  quando  pur  ei  fussino  d'animo  e  di  potenza  da  farlo, 
sono  ritenuti  da  quella  henivolenza  universale,  che  veggono 
avere  ad  ano  principe.  Le  ingiurie,  conviene  che  siano  nella 
roba,  nel  sangue,  o  nell'onore.  Di  quelle  del  sangue  sono 
più  pericolose  le  minacce  che  la  esecuzione;  anzi,  le  minacce 
sono  pericolosissime,  e  nella  esecuzione  non  vi  é  pericolo 
alcuno  :  perché  chi  è  morto,  non  può  pensare  alla  vendetta; 
quelli  che  rimangono  vivi,  il  più  delle  volte  ne  lasciano  il 
pensiero  al  morto.  Ma  colui  che  é  minaccialo,  e  che  si  vede 
constretto  da  ona  necessità  o  di  fare  o  di  patire,  diventa  un 
uomo  pericolosissimo  per  il  principe:  come  nel  suo  luogo 
particolarmente  diremo.  Fuora  di  queste  necessità,  la  roba  e 
l'onore  sono  quelle  due  cose  che  offendono  più  gli  uomini  che 
alcun' altra  offesa,  e  dalle  quali  il  principe  si  debbe  guar- 
dare: perché  e' non  può  mai  spogliare  uno  tanto,  che  non 
gli  resti  un  coltello  da  vendicarsi  :  non  può  mai  tanto  dis- 
onorare uno,  che  non  gli  r<ìsti  un  animo  ostinato  alla  ven- 
detta. E  degli  onori  che  si  tolgono  agli  uomini,  quello  delle 
donne  importa  più  :  dopo  questo,  il  vilipendio  della  sua  per- 
sona. Questo  armò  Pausania  centra  a  Fdippo  di  Macedonia; 
questo  ha  armato  molti  altri  corrtra  a  molti  altri  principi  :  e  nei 
nostri  tempi  lulio  Colanti  non  si  mosse  a  congiurare  centra 
Pandolfo  tiranno  di  Siena,  se  non  per  avergli  quello  data 
e  poi  tolta  per  moglie  una  sua  figliuola  ;  come  nel  suo  luogo 
diremo.  La  maggior  cagione  che  fece  che  i  Pazzi  congiura- 
rono centra  a' Medici,  fu  l'eredità  di  Giovanni  Bonromei,  ' 

*  Questo  antico  modo  di  tcrìrere ,  conservato ,  per  gran  maraviglia ,  in  tutte 
^'ediùoni,  ci  dimostra  l'origine  del  cognome  Borromeo,  o  Borromei. 


i 


LIBRO   TERZO.  35Ì 

la  quale  fu  loro  tolta  per  ordine  di  quelli.  Un'altra  cagione 
ci  è,  e  grandissima,  che  fa  gli  uomini  congiurare  conlra  al 
principe  ;  la  quale  è  il  disiderio  di  liberare  la  patria  siala  da 
quello  occupala.  Questa  cagione  mosse  Bruto  e  Cassio  cen- 
tra a  Cesare;  questa  ha  mosso  molti  altri  contro  ai  Falari, 
Dionisi,  ed  altri  occupatori  della  patria  loro,  ^è  può  da  que- 
sto umore  alcuno  tiranno  guardarsi,  se  non  con  diporre  la 
tirannide.  E  perchè  non  si  (ruova  alcuno  che  faccia  questo, 
si  truovano  pochi  che  non  capitino  male;  donde  nacque  quel 
verso  di  luvenale: 

Ad  gmerum  Cereris  sine  ccede  et  vulnere  palici 
Descendunt  reges,  et  sicca  morte  tiranni. 

I  pericoli  che  si  portano,  come  io  dissi  di  sopra,  nelle  con- 
giure, sono  grandi,  portandosi  per  tutti  i  tempi  ;  perché  in 
tali  casi  sì  corre  pericolo  nel  maneggiarli,  nello  eseguirli, 
ed  eseguiti  che  sono.  Quelli  che  congiurano,  o  e' sono  uno, 
0  e'  sono  più.  Uno  non  sì  può  dire  che  sia  congiura,  ma  è 
una  ferma  disposizione  naia  in  un  uomo  d'ammazzare  il 
principe.  Questo  solo  dei  tre  pericoli  che  sì  corrono  nelle 
congiure,  manca  del  primo;  perchè  innanzi  alla  esecuzione 
non  porta  alcun  perìcolo,  non  avendo  altri  il  suo  segreto, 
né  portando  pericolo  che  torni  il  disegno  suo  all'orecchie 
del  principe.  Questa  diliberazione  cosiffatta  può  cadere  in 
qualunque  uomo,  di  qualunque  sorte,  piccolo,  grande,  no- 
bile, ignobile,  famigliare  e  non  famigliare  al  principe;  per- 
chè ad  ognuno  è  lecito  qualche  volta  parlargli;  ed  a  chi  è 
lecito  parlare,  è  lecito  sfogare  l'animo  suo.  Pausania,  del 
quale  altre  volte  si  è  parlalo,  ammazzò  Filippo  di  Macedo- 
nia che  andava  al  tempio,  con  mille  armati  dintorno,  ed  in 
mezzo  intra  il  figliuolo  ed  il  genero  :  ma  costui  fu  nobile  o 
cognito  al  principe.  Uno  Spagnuolo  povero  ed  abietto,  dette 
una  coltellata  in  su  '1  collo  al  re  Ferrante,  re  *  di  Spagna:  non 
fu  la  ferita  mortale,  ma  per  questo  si  vidde  che  colui  ebbe 
animo  e  comodità  a  farlo.  Uno  dervis,  sacerdote  turchese©, 
trasse  d'  una  scimilarra  a  Baisit,  padre  del  presente  Turco: 
non  lo  Teri,  ma  ebbe  pur  animo  e  comodità  a  volerlo  fare.  Di 

*  I  moderni,  scaiKUleuati  della  ripetiiùoney  correwerot  al  r»  Ferrando 
di  Spagna, 


32Ì  DEI   DISCORSI 

««• 

questi  animi  falli  cosi,  se  ne  Iruovano,  credo ,  assai  che  lo 
vorrebbono  fare,  perchè  nel  volere  non  è  pena  né  pericolo 
alcuno  ;  ma  pochi  che  lo  faccino.  Ma  di  quelli  che  lo  fanno, 
pochissimi  *  0  nessuno  che  non  siano  ammazzali  in  sul  fallo: 
però  non  si  Iruova  chi  voglia  andare  ad  una  certa  morte.  Ma 
lasciamo  andare  queste  uniche  volontà,  e  veniamo  alle  con- 
giure intra  i  più.  Dico,  trovarsi  nelle  istorie,  tutte  le  congiure 
esser  fatte  da  uomini  grandi,  o  famieliarissimi  del  prini^ipe: 
perché  gli  altri,  se  non  sono  matti  affatto,  non  possono  congiu- 
rare; perché  gli  uomini  deboli,  e  non  famigliari  al  principe, 
mancano  dì  lutte  quelle  speranze  e  di  tutte  quelle  comodità 
che  si  richiede  alla  esecuzione  d*una  congiura.  Prima,  gli  uo- 
mini deboli  non  possono  trovare  riscontro  di  chi  tenga  lor 
fede;  perchè  uno  non  può  consentire  alla  volontà  loro,  sotto 
alcuna  di  quelle  speranze  che  fa  entrare  gli  uomini  ne*  peri- 
coli grandi  ;  in  modo  che,  come  e'  si  sono  allargati  in  due 
o  in  tre  persone,  e*  trovano  lo  accusatore  e  rovinano:  ma 
quando  pure  ei  fussino  tanto  felici  che  mancassìno  dì  questo 
accusatore,  sono  nella  esecuzione  intorniati  da  tale  difTiculià, 
per  non  aver  l'entrala  facile  al  princi|)e,  che  rIì  è  impos- 
sibile che  in  essa  esecuzione  ei  non  rovinino.  Perchè,  se 
gli  uomini  grandi,  e  che  hanno  l'entrata  facile,  sono  op- 
pressi da  quelle  ditìlcultà  che  di  sotto  si  diranno,  conviene 
che  in  costoro  quelle  ditììcullà  senza  fine  creschino.  Pertanto 
gli  uomini  (perchè  dove  ne  va  la  vita  e  la  roba  non  sono  al 
tutto  insani)  quando  si  veggono  deboli,  se  ne  guardano;  e 
quando  egli  hanno  a  noia  un  principe,  attendono  a  biastem- 
marlo,  *  ed  aspettano  che  quelli  che  hanno  mai^giore  qualità 
di  loro,  gli  vendichino.  E  se  pure  si  trovasse  che  alcuno  di 
questi  simili  avesse  tentato  qualche  cosa,  si  debbe  laudare 
in  loro  la  intenzione,  e  non  la  prudenza.  Vedasi,  pertanto, 
quelli  che  hanno  congiurato,  essere  slati  tutti  uomini  grandi, 
o  famigliari  del  principe;  de' quali  molti  hanno  congiurato, 
mossi  cosi  da' troppi  benefìzii,  come  dalle  troppe  ingiurie: 
come  fu  Perennio  centra  a  Commodo,  Plauziano  conlra  a 
Severo,  Seiano  conlra  a  Tiberio.  Costoro  tulli  furono  dai 

*  Cootinua  a  reggere  il  verbo  di  sopra  ;  se  ne  tntovano. 

'  Cosi  nella  Bladiana  e  nella  Testina. 


LIBRO  TERZO.  323 

loro  imperadori  constituiti  in  tanta  ricchezza,  onore  e  grado, 
che  non  pareva  che  mancasse  loro  alla  perfezione  della  po- 
tenza altro  che  l' imperio;  e  di  questo  non  volendo  mancare, 
si  missono  a  coni;iurare  centra  al  principe  :  ed  ebbono  le 
loro  congiure  tutte  quel  fine  che  meritava  la  loro  ingratitudi- 
ne; ancora  che  di  queste  simili  ne*  tempi  più  freschi  ne  avesse 
buon  fine  quella  di  Iacopo  d'Appiano  centra  a  messer  Piero 
Gambacorti,  principe  di  Pisa  :  il  quale  Iacopo,  allevalo  e  nu- 
trito e  fatto  riputato  da  luì,  gli  tolse  poi  lo  stato.  Fu  di  que- 
ste quella  del  Coppola,  ne'  nostri  tempi,  centra  al  re  Ferrando 
d'Aragona  ;  il  quale  Coppola  venuto  a  tanta  grandezza  che 
non  gli  pareva  gli  mancasse  se  non  il  regno,  per  volere 
ancóra  quello,  perde  la  vita.  E  veramente,  se  alcuna  congiura 
centra  a'  principi  fatta  da  uomini  grandi  dovesse  avere  buon 
fine,  doverrebbe  essere  questa  ;  essendo  fatta  da  un  altro  re, 
si  può  dire,  e  da  chi  ha  tanta  comodità  di  adempire  il  suo 
desiderio:  ma  quella  cupidità  del  dominare  che  gli  accieca, 
gli  accieca  ancora  nel  maneggiare  questa  impresa;  perchè, 
se  sapessino  fare  questa  cattività  con  prudenza,  sarebbe 
impossibile  non  riuscisse  loro.  Debbo,  adunque,  un  principe 
che  si  vuole  guardare  dalle  congiure,  temere  più  coloro  a 
chi  egli  ha  fatto  troppi  piaceri,  che  quelli  a  chi  gli  avesse 
fatte  troppe  ingiurie.  Perchè  questi  mancano  di  comodità, 
quelli  ne  abbondano;  e  la  voglia  è  simile-,  perchè  gli  è  così 
grande  o  maggiore  il  disiderio  del  dominare,  che  non  è 
quello  della  vendetta.  Debbono,  pertanto,  dare  tanta  autorità 
agli  loro  amici,  che  da  quella  al  principato  sia  qualche  in- 
tervallo, e  che  vi  sia  in  mezzo  qualche  cosa  da  disiderare: 
altrimenti,  sarà  cosa  rara  se  non  interverrà  loro  come  ai 
princìpi  soprascritti.  Ma  torniamo  all'ordine  nostro.  Dico, 
che  avendo  ad  esser  quelli  che  congiurano  uomini  grandi,  e 
che  abbino  l'adito  facile  al  prìncipe,  si  ha  a  discorrere  i 
successi  dì  queste  loro  imprese  quali  siano  slati,  e  ve<lere 
la  cagione  che  gli  ha  fatti  essere  felici,  ed  infelici.  E  come 
io  dissi  di  sopra,  ci  si  trovano  dentro  in  tre  tempi,  pericoli; 
prima,  in  su  'l  fatto,  e  poi.  Però  se  ne  trovano  |)oche  che 
abbiano  buono  esilo,  perchè  gli  è  impossibile  quasi  pas- 
§£(rgli  tutu  fejiceipeate.  £  comipclando  a  discorrere  i  peri- 


SIA  DEI  DISCORSI 

coli  di  prima,  che  sono  i  più  importanti  ;  dico,  come  e' biso- 
gna essere  mollo  prudente,  ed  avere  una  gran  sorte,  che  nel 
maneggiare  una  congiura  la  non  si  scuopra.  E  si  scuoprono 
o  per  relazione,  o  per  conietlura.  La  relazione  nasce  da  tro- 
vare poca  fede,  o  poca  prudenza,  negli  uomini  con  chi  tu  la 
comunichi.  La  poca  fede  si  trova  facilmente,  perchè  tu  non 
puoi  comunicarla  se  non  eoo  tuoi  fidali,  che  per  tuo  amore 
si  mettino  alla  morte,  o  con  uomini  che  siano  malcontenti 
del  principe.  DeTidati  se  ne  potrebbe  trovare  uno  o  due;  ma 
come  tu  ti  distendi  io  molti,  è  impossibile  gli  Iruovi:  dif>oi, 
e'  bisogna  bene  che  la  benevolenza  che  ti  portano  sia  grande, 
a  volere  che  non  paia  loro  maggiore  il  pericolo  e  la  paura 
della  pena.  Dipoi  gli  uomini  s*  ingannano  il  più  delle  volte 
dello  amore  che  lo  giudichi  che  on  uomo  ti  porti,  né  te  ne 
puoi  mai  assicurare,  se  (o  non  ne  fai  esperienza:  e  farne 
esperienza  in  questo  è  pericolosissimo:  e  sebbene  ne  avessi 
fatto  esperienza  in  qualche  altra  cosa  pericolosa  dove  e'  li 
fussono  stati  fedeli,  non  puoi  da  quella  fede  misurare  questa, 
passando  questa  di  gran  lunga  ogni  altra  qualità  di  pericolo. 
Se  misuri  la  fede  dalla  mala  contentezza  che  uno  abbia  del 
principe,  in  questo  lo  ti  puoi  facilmente  ingannare:  perché 
subilo  che  lo  hai  manifestato  a  quel  malcontento  l'animo 
tuo,  tu  gU  dai  materia  di  contentarsi,  e  convien  bene  o  che 
l'odio  sia  grande,  o  che  l'autorità  tua  sia  grandissima  a 
mantenerlo  in  Tede.  Di  qui  nasce  che  assai  ne  sono  riTeiate, 
eQ  oppresse  ne'  primi  principii  loro  ;  e  che  quando  una  è 
stata  infra  molti  oomini  segreta  longo  tempo,  é  tenuta  cosa 
Diiracolosa:  come  fa  quella  di  Pisone  centra  a  Nerone,  e 
ne'  nostri  tempi  quella  de'  Pazzi  centra  a  Lorenzo  e  Giuliano 
de' Medici;  delle  quali  erano  consapevoli  più  che  cinquanta 
nomini,  e  condussonsi  alla  esecuzione  a  scoprirsi.  Quanto  a 
scoprirsi  per  poca  prudenza,  nasce  quando  uno  congiurato  ne 
parla  poco  cauto,  in  modo  che  un  servo  o  altra  terza  persona 
intenda;  come  intervenne  ai  fmliuoli  di  Bruto,  che  nel  ma- 
neggiare la  cosa  con  i  legati  di  Tarquinìo,  furono  intesi  da  un 
servo,  che  gli  accusò  :  ovvero  quando  per  leggerezza  ti  viene 
comunicata  adonna  o  a  fanciullo  che  tu  ami,o  a  simile  leggieri 
persona;  come  fece  Dinne, uno  de' congiurati  conFilota  centra 


LIBRO   TERZO.  325 

ad  AlessandroMagno,ilqualecomunicò  la  congiura  aNìcomaco 
fanciullo  amato  da  lui,  il  quale  subito  lo  disse  a  Ciballìno  suo 
fratello,  e  Ciballino  al  re.  Quanto  a  scoprirsi  per  conieltura,  ce 
n'è  in  essempio  la  congiura  Pisoniana  contra  a  Nerone;  nella 
qualeScevino,  uno  de'congiurati,  il  di  dinanzi  ch'egli  aveva  ad 
ammazzare  Nerone,  fece  testamento,  ordinò  che  Melichio'  suo 
liberto  facesse  arrotare  un  suo  pugnale  vecchio  e  rugginoso, 
liberò  tutti  i  suoi  servi  e  dette  loro  danari,  fece  ordinare  fa- 
sciature da  legare  ferite:  per  le  quali  conietlure  accertatosi Me- 
lichio  della  cosa,  lo  accusò  a  Nerone.  Fu  preso  Scovino,  e  con 
lui  Natale,  un  altro  congiurato,  i  quali  erano  stati  veduti 
parlare  a  lungo  e  di  segreto  insieme  il  dì  davanti;  e  non  si 
accordando  del  ragionamento  avuto,  furono  forzati  a  confes- 
sare il  vero;  talché  la  congiura  fu  scoperta,  con  rovina  di 
tutti  i  congiurati.  Da  queste  cagioni  dello  scoprire  le  con- 
giure è  impossibile  guardarsi,  che  per  malizia,  per  impru- 
denza 0  per  leggerezza,  la  non  si  scuopra,  qualunque  volta 
i  conscii  d'essa  passano  il  numero  di  tre  o  di  quattro.  E 
come  e' ne  è  preso  più  che  uno,  è  impossibile  non  riscon- 
trarla, perchè  due  non  possono  esser  convenuti  insieme  di 
tutti  i  ragionamenti  loro.  Quando  e' sia  preso  solo  uno  che 
sia  uomo  forte,  può  egli  con  la  fortezza  dello  animo  tacere  i 
congiurati;  ma  conviene  che  i  congiurati  non  abbino  meno 
animo  di  lui  a  star  saldi,  e  non  si  scoprire  con  la  fuga:  per- 
che  da  una  parte  che  l'animo  manca,  o  da  chi  è  sostenuta 
o  da  chi  è  libero,  la  congiura  è  scoperta.  Ed  è  raro  lo  essem- 
pio addotto  da  Tito  Livio  nella  congiura  fatta  contra  a  Giro- 
lamo re  di  Siracusa;  dove,  sendo  Teodoro  uno  de' congiurati 
preso,  celò  con  una  virtù  grande  lutti  i  congiurati,  ed  ac- 
cusò gli  amici  del  re;  e  dall'altra  parte,  tutti  i  congiurati 
confidarono  tanto  nella  virtù  di  Teodoro,  che  nessuno  si  partì 
di  Siracusa,  o  fece  alcuno  segno  di  timore.  Passasi,  adun- 
que, per  tutti  questi  pericoli  nel  maneggiare  una  congiura 
innanzi  che  si  venga  alla  esecuzione  d'essa:  i  quali  volendo 
fuggire,  ci  sono  questi  rimedi.  11  primo  ed  il  più  vero,  ^  anzi 

*  Le  antiche  edizioni,  qui  e  di  sotto:  Milichio. 

3  Cosi  nella  Bladiana  e  nella  Testina.  Le  del  Poggiali  e  del  1813:  Il  primo 
e  il  più  sicuro, 

28 


326  DEI  DISCORSI 

a  dir  meglio,  onico,  è  non  dare  tempo  ai  congiurati  di  accu- 
sarli; e  perciò*  comunicare  loro  la  cosa  quando  tu  la  vuoi 
fare,  e  non  prima:  quelli  che  hanno  fatto  cosi,  fusgono  a\* 
certo  i  pericoli  che  sono  nel  praticarla,  e  il  più  delie  volle 
gli  altri;  anzi  hanno  tutte  avuto  felice  fine:  e  qualunque 
prudente  arebbe  comodità  di  governarsi  in  questo  modo.  Io 
voglio  che  mi  basti  addurre  due  essempi.  Neleraalo,  non  po- 
tendo sopportare  la  tirannide  di  Aristotimo  tiranno  di  Epiro, 
ragunò  in  casa  sua  molti  parenti  ed  amici,  e  confortatogli  a 
liberare  la  patria,  alcuni  di  loro  chiesono  tempo  a  delibe- 
rarsi ed  ordinarsi;  donde  Nelemato  fece  a'suoi  servi  serrare 
la  casa,  ed  a  quelli  che  esso  aveva  chiamati,  disse:  0  voi 
giurerete  di  andare  ora  a  fare  questa  esecuzione,  o  io  vi  darò 
tutti  prigioni  ad  Aristotimo.  Dalle  quali  parole  mossi  coloro, 
giurarono;  ed  andati  senza  intermissione  di  tempo,  felice- 
menle  l'ordine  di  Nelemato  ese^iuirono.  Avendo  un  Mago, 
per  inganno,  occupato  il  regno  de' Persi,  ed  avendo  Orla- 
no, uoo  de*  grandi  uomini  dei  regno,  intesa  e  scopertala 
fraude,  lo  conferì  con  sei  altri  principi  di  quello  slato,  di- 
cendo come  esli  era  da  vendicare  il  regno  dalla  tirannide  di 
quel  Mago;  e  domandando  alcuno  di  loro  tempo,  *  si  levò 
Dario,  uno- de'sei  chiamati  da  Orlano,  e  disse:  0  noi  andre- 
mo ora  a  far  questa  esecuzione,  o  io  vi  andrò  ad  accusar  tutti. 
E  cosi  d'accordo  levatisi,  senza  dar  tempo  ad  alcuno  di  pen- 
tirsi, eseguirono  felicemente'  i  disegni  loro.  Simile  a  questi 
duoi  essempi  ancora  è  il  modo  che  gli  Eloli  tennero  ad 
animazzare  Nabide,  tiranno  spartano;  i  qu;ili  mandarono 
Alessameno  loro  cittadino,  con  trenta  cavalli  e  dusenlo  fanti, 
a  Nabide,  sotto  colore  di  mandargli  aiuto;  ed  il  segreto  so- 
lamente comunicarono  ad  Alessameno;  ed  asti  altri  iro(>osnno 
che  lo  ubbidis<iino  in  ogni  e  qualunque  cosa,  sotto  pena  di 
esilio.  Andò  costui  in  S)>arla,  e  non  comunicò  mai  la  com- 
missione sua  se  non  quando  ei  la  volle  eseguire:  donde  gli 
riusci  d'  ammazzarlo.  Costoro,  adunque,  per  questi  modi 
hanno  fuggiti  quelli  pericoli  che  si  portano  nel  maneggiare 

*  Manca  nella  Romana  perciò,  eh' è  io  tuUe  le  altre. 

*  Male  nella  Te»tina ,  e  nelle  moderne  edizioni  :  ii  tempo. 

'  Co^f  e  meglio ,  nelU  Rowaa^.  I<«  «lire  t)«imo  facilmcnti. 


LIBRO  TERZO.  327 

le  congiare;  e  chi  imiterà  loro,  sempre  gli  fuggirà.  E  che 
ciascuno  possa  fare  come  loro,  io  ne  voglio  jdare  Io  essempio 
di  Pisone,  preallegalo  di  sopra.  Era  Pisone  grandissimo  e  ri- 
pulalissimo  uomo,  e  famigliare  di  Nerone,  e  in  chi  egli  con- 
fidava assai.  Andava  Nerone  ne'suoi  orli  spesso  a  mangiare 
seco.  Poteva,  adunque,  Pisone  farsi  amici  uomini  d'animo,  di 
cuore,  e  di  disposizione  alti  ad  una  tale  esecuzione  (il  che  ad 
uno  uomo  grande  è  facilissimo);  e  quando  Nerone  fusse  sialo 
ne'suoi  orti,  comunicare  loro  la  cosa,  e  con  parole  conve- 
nienti inanimirli  a  far  quello  che  loro  non  avevano  tempo  a 
ricusare,  e  che  era  impossibile  che  non  riuscisse.  E  cosi,  se 
si  esamineranno  tutte  l'altre,  si  troverà  poche  non  esser 
potute  contjursi  nel  medesimo  modo:  ma  gli  uomini  per  lo  or- 
dinario poco,  intendenti  delle  azioni  del  mondo,  spesso  fanno 
errori  grandissimi,  e  tanto  maggiori  in  quelle  che  hanno  più 
dello  istraordinario,  come  é  questa.  Debbesi,  adunque,  non 
comunicare  mai  la  cosa  se  non  necessitalo  ed  in  sul  fatto;  e 
se  pure  la  vuoi  comunicare,  comunicala  ad  un  solo,  del  quale 
abbi  fallo  lunghissima  isperienza,  o  che  sia  mosso  dalle  me- 
desime cagioni  che  tu.  Trovarne  uno  cosi  fatto  è  mollo  più  fa- 
cile che  trovarne  più,  e  per  questo  vi  è  meno  pericolo;  dipoi, 
quando  pure  ei  ti  ingannasse,  vi  è  qualche  rimedio  a  difen- 
dersi, che  non  é  dove  siano  congiurali  assai:  perchè  da  al- 
cuno prudente'  ho  sentito  dire  che  con  uno  si  può  parlare 
ogni  cosa,  perchè  tanto  vale,  se  tu  non  ti  lasci  condurre  a 
scrivere  di  tua  mano,  il  si  dell'uno  quanto  il  no  dell'altro; 
e  dallo  scrivere  ciascuno  debbe  guardarsi  come  da  uno  sco- 
glio, perchè  non  è  cosa  che  più  facilmente  ti  convinca,  che 
lo  scrino  di  tua  mano.  Plauziano  volendo  fare  ammazzare 
Severo  imperadore  ed  Antonino  suo  figliuolo,  commise  la 
cosa  a  Saturnino  tribuno;  il  quale  volendo  accusarlo  e  non 
ubbidirlo,  e  dubitando  che  venendo  alla  accusa  non  fusse  più 
creduto  a  Plauziano  che  a  lui,  gli  chiese  una  cedola  di  sua 
mano,  che  facesse  fede  di  questa  commissione;  la  quale  Plau- 
ziano, accecalo  dalla  ambizione,  gli  fece:  donde  segui  che  fu 
dal  tribuno  accusalo  e  convinto;  e  senza  quella  cedola,  e 

*  Cosi  nella  Bladiana  e  in  quella  del  1813  ;  ma  nelle  altre:  da  alcuni  pnt- 
denti. 

^   ¥\ 


328  DEI  DISCORSI 

certi  altri  contrassegni,  sarebbe  slato  Plauziano  superiore: 
tanto  audacemente  negava.  Truovasi,  adunque,  nella  accusa 
d'uno  qualche  rimedio,  quando  tu  non  puoi  esser  da  una 
scrittura,  o  altri  contrassegni,  convinto:  da  che  uno  si  debbc 
guardare.  Era  nella  congiura  Pisoniana  una  femmina  chia- 
mata Epicari,  stala  per  lo  addietro  amica  di  Nerone;  la  quale 
giudicando  che  fusse  a  proposito  mettere  tra  i  congiurati  uno 
capitano  di  alcune  triremi  che  Nerone  teneva  per  sua  guar- 
dia, gli  comunicò  la  congiura,  ma  non  i  congiurati.  Donde, 
rompendogli  quel  capitano  la  fede  ed  accusandola  a  Nerone, 
fu  tanta  l'audacia  di  Epicari  nel  negarlo,  che  Nerone,  limnso 
confuso,  non  la  condennò.  Sono,  adunque,  nel  comunicare  la 
cosa  ad  un  solo  due  pericoli:  rane,  che  non  ti  accusi  in  pruo- 
va;  l'altro,  che  non  ti  accusi  convinto  e  constrctlo  dalla  pena, 
sendo  egli  preso  per  qualche  sospetto  o  per  qualche  indizio 
avuto  di  lai.  Ma  nell'  ano  o  nell'  altro  di  questi  duoi  peri- 
coli é  qualche  rimedio,  potendosi  nesare  1'  uno  allegandone 
l'odio  che  colui  avesse  leco,  e  negare  l'alti'o  allegandone  la 
forza  che  lo  costringesse  a  dire  le  bugie.  È,  adunque,  pru- 
denza non  comunicare  la  cosa  a  nessuno,  ma  fare  secondo 
quelli  essempi  soprascritti;  o  quando  pure  la  comunichi,  non 
passare  uno,  dove  se  è  qualche  più  pericolo,  *  ve  n'é  meno 
assai  che  comunicarla  con  molti.  Propinquo  a  questo  modo 
è  quando  una  necessità  ti  costringa  a  fare  quello  al  prin- 
cipe che  tu  vedi  che  '1  principe  vorrebbe  fare  a  te,  la  quale 
sia  tanto  grande  che  non  ti  dia  tempo  se  non  a  pensare  d'as-^ 
sicurarti.  Questa  necessità  conduce  quasi  sempre  la  cosa  al 
fìne  desiderato:  ed  à  provarlo  voglio  bastino  duoi  essempi. 
Aveva  Commodo,  imperadore,  Leto  ed  Eletto,  capi  de* sol- 
dati pretoriani,  intra  i  primi  amicf^  famigliari  suoi,  ed  aveva 
Marzia  intra  le  sue  prime  concubine  ed  amiche;  e  perchè 
egli  era  da  costoro  qualche  volta  ripreso  de' modi  con  i  quali 
maculava  la  persona  sua  e  lo  imperio,  deliberò  di  fargli  mo- 
rire, e  scrisse  in  su  una  lista:  Marzia,  Leto  ed  Eletto, 
ed  alcuni  altri  che  voleva  la  notte  seguente  far  morire;  e 
questa  lista  messe  sotto  il  capezzale  del  suo  letto.  Ed  essendo 

•  Cosi  tulle  le  stampe:  ma  sembra  da  correggerti:  dovt  /*«  />«r«  qual- 
che pericolo. 


LIBRO  TERZO.  3^9 

ito  a  lavarsi,  an  fanciullo  favorito  di  lui  scherzando  per  ca- 
mera e  su  pel  letto,  gli  venne  trovata  questa  lista,  ed 
ascendo  fuora  con  essa  in  mano,  riscontrò  Marzia;  la  quale 
gliene  tolse,  e  lettola,  e  veduto  il  contenuto  d'essa,  subito 
mandò  per  Leto  ed  Eletto  ;  e  conosciuto  tutti  tre  il  pericolo 
in  quale  erano,  diliherarono  prevenire;  e,  senza  metter  tempo 
in  mezzo,  la  notte  seguente  ammazzarono  Coramodo.  Era 
Antonino  Caracalla,  imperadore,  con  gli  eserciti  suoi  in  Me- 
sopotamia,  ed  aveva  per  suo  prefetto  Macrino,  uomo  più  ci- 
vile che  armigero  ;  q,  come  avviene  che  i  principi  non  buoni 
temono  sempre  che  altri  non  operi  centra  di  loro  quello  che 
par  loro  meritare,  scrisse  Antonino  a  Materniano  suo  amico 
a  Uoma,  che  inlendesse  dagli  astrologi,  se  gli  era  alcuno  che 
aspirasse  allo  impefio,  e  gliene  avvisasse.  Donde  Materniano 
gli  riscrisse,  come  Macrino  era  quello  che  vi  aspirava;  e 
pervenuta  la  lettera,  prima  alle  mani  di  Macrino  che  dello 
imperadore,  e  per  quella  conosciuta  la  necessità  o  d'ammaz- 
zare lui  prima  che  nuova  lettera  venisse  da  Roma,  o  di  mo- 
rire, commise  a  Marziale  centurione,  suo  fidato,  ed  a  chi 
Antonino  aveva  morto  pochi  giorni  innanzi  un  fratello, 
che  lo  ammazzasse  :  il  che  fu  eseguito  da  lui  felicemente. 
Vedesi,  adunque,  che  questa  necessità  che  non  dà  tempo, 
fa  quasi  quel  medesimo  etTelto  che  '1  modo  da  me  sopraddetto 
che  tenne  Nelemato  di  Epiro.  Vedesi  ancora  quello  che  io 
dissi  quasi  nel  principio  di  questo  discorso,  come  le  minacce 
offendono  più  gli  principi,  e  sono  cagione  di  più  efficaci  con- 
giure che  le  offese:  da  che  un  principe  si  debbo  guardare; 
perchè  gli  uomini  si  hanno  o  a  carezzare,  o  assicurarsi  di 
loro,  e  non  gli  ridurre  mai  in  termine  che  gli  abbino  a  pen- 
sare che  bisogni  loro  o  morire,  o  far  morire  altrui.  Quanto  ai 
pericoli  che  si  corrono  in  su  la  esecuzione,  nascono  questi 
0  da  variare  l'ordine,  o  da  mancare  l'animo  a  colui  che  ese- 
guisce, 0  da  errore  che  lo  esecutore  faccia  per  poca  pruden- 
za, 0  per  non  dar  perfezione  alla  cosa,  rimanendo  vivi  parte 
di  quelli  che  si  disegnavano  ammazzare.  Dico,  adunque,  come 
e' non  è  cosa  alcuna  che  faccia  tanto  sturbo  o  impedimento 
a  tutte  le  azioni  degli  uomini,  quanto  è  in  uno  instante,  senza 
aver  tempo,  avere  a  variare  un  ordine,  e  pervertirlo  da  quelb 

SS' 


330  DEI  Disconst 

che  si  era  ordinato  prima.  E  se  questa  variazione  fa  disor- 
dine in  cosa  alcuna,  lo  fa  nelle  cose  della  guerra,  ed  in  cose 
simili  a  quelle  di  che  noi  parliamo;  perchè  in  tali  azioni  non 
è  cosa  tanto  necessaria  a  fare,  quanto  che  gli  uomini  fer- 
mino gli  animi  loro  ad  esesuire  quella  parie  che  tocca  loro  : 
e  se  gli  uomini  hanno  vòlto  la  fantasia  per  più  giorni  ad  un 
modo  e  ad  uno  ordine,  e  quello  subito  varii,  è  impossibile  che 
non  si  perturbino  tutti,  e  non  rovini  ogni  cosa;  in  modo 
ch'egli  è  roe;^lio  assai  eseguire  una  cosa  secondo  T ordine 
dato,  ancora  che  vi  si  vegga  qualche  inconveniente,  che  non 
è,  per  voler  cancellare  quello,  entrare  in  mille  inconvenienti. 
Questo  interviene  quando  e*  non  si  ha  tempo  a  riordinarsi; 
perché  quando  si  ha  lemfio,  si  può  1*  uomo  governare  a  suo 
modo.  La  congiura  de'  Pazzi  contra  a  Lorenzo  e  Giuliano 
de' Medici,  è  nota.  L'  ordine  dato  era,  che  dessino  desinare 
al  cardinale  di  San  Giorgio,  ed  a  quel  desinare  ammazzargli: 
dove  si  era  distribuito  chi  aveva  a  ammazzargli,  chi  aveva  a 
pigliare  il  palazzo,  e  chi  correre  la  città  e  chiamare  il  po- 
polo alla  libertà.  Accadde*  che  essendo  nella  chiesa  cattedrale 
in  Firenze  i  Pazzi,  ì  Medici  ed  il  Cardinale  ad  uno  otilzio 
solenne,  s'intese  come  Giuliano  la  mattina  non  vi  desinava: 
il  che  fece  chei  congiurati  s'adunarono  insieme,  e  quello 
che  gli  avevano  a  far  in  casa  i  Medici,  diliberarono  di  farlo 
in  chiesa.  Il  che  venne  a  perturbare  lutto  l'ordine;  perché 
Giovambalista  da  Monlesecco  non  volle  concorrere  all'omi- 
cidio, dicendo  non  lo  volere  fare  in  chiesa  :  talché  gli  ebbono 
a  mutare  nuovi  ministri  in  ogni  azione;  ì  quali,  non  avendo 
tempo  a  fermare  l'animo,  feciono  tali  errori,  che  in  essa 
esecuzione  furono  oppressi.  Manca  l'animo  a  chi  eseguisce, 
o  per  riverenta,  o  per  propria  viltà  dello  esecutore.  È  tanta 
la  maestà  e  la  riverenza  che  si  tira  dietro  la  presenza  d'uno 
principe,  ch'egli  é  facil  cosa  o  che  mitighi  o  ch'egli  sbigot- 
tisca uno  esecutore.  A  Mario,  essendo  preso  da'Minturnesi, 
fu  mandato  uno  servo  che  lo  ammazzasse;  il  quale  spaven- 
tato dalla  presenza  di  quello  uomo  e  dalla  memoria  del  nome 
suo,  divenuto  vile,  perde 'ogni  forza  ad  ucciderlo.  E  seque- 

'  La  Testiiu  e  1*  edizione  del  Poggiali ,  qui  e  io  altri  luoghi  :  Accadi, 
t  Cosi  nella  Romana.  Le  altre  leggono  t  dif^entà  vUe,eperdi, 


sta  potenza  è  in  uno  uomo  legalo  e  prigione,  ed  aflfogato  in  la 
mala  fortuna;  quanto  si  può  temere  che  la  sia  maggiore  in 
un  principe  sciolto,  con  la  maestà  degli  ornamenti,  della 
pompa  e  della  comitiva  sua?  talché  ti  può  questa  pompa 
spaventare,  o  vero  con  qualche  graia  accoglienza  raumiliare. 
Congiurarono  alcuni  conlra  a  Sìlalce  re  di  Tracia  ;  deputa- 
rono il  dì  della  esecuzione;  convennono  al  luogo  deputalo, 
dov'era  il  principe;  nessuno  di  loro  si  mosse  per  offenderlo: 
tanto  che  si  partirono  senza  aver  tentalo  alcuna  cosa  e  senza 
sapere  quello  che  se  gli  avesse  impediti  ;  ed  incolpavano  l'uno 
l'altro.  Caddono  in  tale  errore  più  volle;  tantoché  scopertasi 
la  congiura,  portarono  pena  di  quel  male  che  poterono  e  non 
volleno  fare.  Congiurarono  conlra  Alfonso  duca  di  Ferrara 
due  suoi  fratelli,  ed  usarono  mezzano  Giennes  prete  e  can- 
tore del  duca  ;  il  quale  più  volte,  a  loro  richiesta,  condusse  il 
duca  fra  loro,  talché  gli  avevano  arbitrio  di  ammazzarlo. 
Nuiidimeno,  mai  nessuno  di  loro  non  ardi  di  farlo;  tantoché, 
scoperti,  portarono  la  pena  della  cattività  e  poca  prudenza 
loro.  Questa  negligenza  non  potette  nascere  da  altro,  se  non 
che  convenne  o  che  la  presenza  gli  sbigottisse  o  che  qual- 
che umanità  del  principe  gli  umiliasse.  Nasce  in  tali  esecu- 
zioni inconveniente  o  errore  per  poca  prudenza,  o  per  poco 
animo  ;  perché  l'una  e  l'altra  di  queste  due  cose  ti  'nvasa,  e, 
portalo  da  quella  confusione  di  cervello,  ti  fa  dire  e  fare 
quello  che  tu  non  debbi.  E  che  gli  uomini  invasino  e  si  con- 
fondino, non  Io  può  meglio  dimostrare  Tito  Livio  quando 
descrive  d'AIessameno  elolo,  quando  ei  volse  ammazzare 
Nabide  spartano,  di  che  abbiamo  di  sopra  parlato  ;  che,  ve- 
nuto il  tempo  della  esecuzione,  scoperto  che  egli  ebbe  a'suoi 
quello  che  s'aveva  a  fare,  dice  Tito  Livio  queste  parole: 
CoUeijit  et  ipse  animum,  confusum  lantcB  cogilalione  rei.  Perchè 
gli  è  impossibile  ch'alcuno,  ancora  che  di  animo  fermo,  ed 
uso  alla  morte  degli  uomini  e  ad  operare  il  ferro,  non  si 
confonda.  Però  si  debbe  eleggere  uomini  sperimentati  in  tali 
maneggi,  ed  a  nessun  altro  credere,  ancora  che  tenuto  ani- 
mosissimo. Perchè,  dello  animo  nelle  cose  grandi,  senza 
avere  fatto  isperienza,  non  sia  alcuno  che  se  ne  prometta 
posa  certa.  Può,  adunque,  questa  confusione  o  farti  cascare 


33^  DEI  DISCORSI 

rarmì  di  mano,  o  farli  dire  cose  che  faccino  il  medesimo 
efiello.  F^ucilla,  sorella  di  Commodo  ordinò  cheQuinziano  lo 
ammazzasse.  Costui  aspettò  Commodo  nella  entrata  dello  an- 
fiteatro, e  con  un  pugnale  ignudo  accostandosegli»  gridò  :  Que- 
sto li  manda  il  Senato:  le  quali  parole  fecero  che  fu  prima 
preso  ch'egli  avesse  calato  il  braccio  per  ferire.  Messer  An- 
tonio da  Volterra,  diputalo,  come  di  sapra  si  disse,  ad  am- 
mazzare Lorenzo  de' Medici,  nello  accosiarsegli,  disse:  Ah 
traditore!  la  qual  voce  fu  la  salute  di  Lorenzo,  e  la  rovina  di 
quella  congiura.  Può  non  si  dare  perfezione  alla  cosa,  quando 
si  congiura  centra  ad  un  capo,  per  le  cagioni  dette:  ma  fa- 
cilmente non  se  le  dà  perfezione  quando  si  congiura  centra 
a  due  capi  ;  anzi  è  tanto  difTlcile,  che  gli  è  quasi  impossibile 
che  la  riesca.  Perchè  fare  una  simile  azione  in  un  medesimo 
tempo  in  diversi  luoshi,  ó  quasi  impossibile;  perché  in  di- 
versi tempi  non  si  può  fare,  non  volendo  che  l'una  guasti  l'al- 
tra. In  modo  che,  se  il  congiurare  conlra  ad  un  principe  è 
cosa  dubbia ,  pericolosa  e  poco  prudente  ;  congiurare  contra 
a  due,  è  al  lutto  vana  e  leggieri.  E  se  non  fusse  la  rive- 
renza dello  isterico,  io  non  crederei  mai  che  fusse  possibile 
quello  che  Erodiano  dice  di  Plauziano,  quando  ei  commise 
a  Saturnino  centurione,  che  egli  solo  ammazzasse  Severo  ed 
Antonino,  abitanti  in  diversi  luoghi  :  perché  la  é  cosa  tanto 
discosto  dal  ragionevole,  che  altro  che  questa  autorità  non 
me  lo  farebbe  credere.  Congiurarono  certi  giovani  ateniesi 
contra  a  Diocle  ed  Ippia,  tiranni  di  Atene.  Ammazzarono 
Diocle;  ed  Ippia  che  rimase,  lo  vendicò.  Chione  e  Leonide, 
eraclensi  e  discepoli  di  Piatone,  conuiurarono  contra  a  Calcareo 
e  Satiro,  tiranni:  ammazzarono  Clearco;  e  Satiro  che  restò 
vivo,  lo  vendicò.  Ai  Pazzi,  più  volte  da  noi  allegati,  non  suc- 
cesse di  ammazzare  se  non  Giuliano.  In  modo  che,  di  simili 
congiure  contra  a  più  capi  se  ne  debbe  astenere  ciascuno, 
perché  non  si  fa  bene  né  a  sé  né  alla  patria  né  ad  alcu- 
no: anzi  quelli  che  rimangono,  diventano  più  insopporta- 
bili e  più  acerbi;  come  sa  Firenze,  Atene  ed  Eraclea, 
state  da  me  preallegate.  È  vero  che  la  congiura  che  Pelo- 
pida  fece  per  liberare  Tebe  sua  patria,  ebbe  tulle  le  diflì- 
cultà;  nondimeno  ebbe  felicissimo  fine:  perchè  Pelopida 


LIBRO   TERZO.  m'  ^33 

non  solamente  congiaró  contra  a  due  tiranni,  ma  conlra  a 
dieci  ;  non  solamente  non  era  confidente  e  non  gli  era  fo- 
cile l'entrata  ai  tiranni,  ma  era  ribello:  nondimeno  ei  potè 
venire  in  Tebe,  aramazzare  1  tiranni,  e  liberare  la  patria. 
Pur  nondimeno  fece  tulio,  con  V  aiuto  d*  uno  Cariote,  consi- 
gliere *  de'  tiranni,  dal  quale  ebbe  l' entrata  facile  alla  esecu- 
zione sua.Non  sia  alcuno,  nondimeno,  che  pigli  lo  esserapio  da 
cosini:  perchè  cotae  la  fu  impresa  impossibile,  e  cosa  mara- 
vigliosa  a  riuscire,  così  fu  ed  è  tenuta  dagli  scrittori  i  quali 
la  celebrano,  come  cosa  rara,  e  quasi  senza  essempio.  Può 
essere  interrotta  tale  esecuzione  da  una  falsa  immaginazio- 
ne, 0  da  uno  accidente  improvviso  che  nasca  in  su  'l  fatto.  La 
mattina  che  Bruto  e  gli  altri  congiurati  volevano  ammazzare 
Cesare,  accadde  che  quello  parlò  a  lungo  con  Gneo  Popilio 
Lenate,  uno  de*  congiurati;  e  vedendo  gli  altri  questo  lungo 
parlamento,  dubitarono  che  detto  Popilio  non  rivelasse  a 
Cesare  la  congiura.  Furono  per  tentare  d'ammazzare  Cesare 
quivi,  e  non  aspettare  che  fusse  in  Senato;  ed  arebbonlo 
fatto,  se  non  che  il  ragionamento  fini,  e  visto  non  fare  a 
Cesare  moto  alcuno  straordinario,  si  rassicurarono.  Sono 
queste  false  immaginazioni  da  considerarle,  ed  avervi  con 
prudenza  rispetto;  e  tanto  più,  quanto  egli  è  facile  ad  aver- 
le. Perchè  chi  ha  la  sua  conscienza  macchiata,  facilmente 
crede  che  si  parli  di  lui  :  puossi  sentire  una  parola  delta  ad 
un  altro  fine,  che  li  faccia  perturbare  l'animo,  e  credere  che 
la  sia  delta  sopra  il  caso  tuo;  e  farli  o  con  la  fuga  scoprire 
la  congiura  da  te,  o  confondere  l'azione  con  accelerarla 
fuora  di  tempo.  E  questo  tanto  più  facilmente  nasce,  quanto* 
ei  sono  molli  ad  esser  conscii  della  congiura.  Quanto  agli  ac- 
cidenti, perchè  sono  insperali,  non  si  può  se  non  con  gli 
essempi  mostrargli,  e  fare  gli  uomini  cauti  secondo  quelli, 
lulio  Belanti  da  Siena,  del  quale  di  sopra  abbiamo  fallo 
menzione,  per  lo  sdegno  aveva  contra  a  Pandolfo,  che  gli 
aveva  tolta  la  figliuola  che  prima  gli  aveva  data  per  mo- 
glie, deliberò  d'ammazzarlo,  ed  elesse  questo  tempo.  Andava 
Pandolfo  quasi  ogni  giorno  a  visitare  un  suo  parente  infermo, 

*  La  Bladiana  soltanto  t  con^i^'/Zer/.  i^, 

3  Inutilmente  emendano  gli  editori  del  1813  :  quando,  •"*■ 


334  .  DEI   DISCORSI 

e  nello  andarvi  passava  dalle  case  di  lulio.  Costui  adunque 
veduto  questo,  ordinò  d'avere  i  suoi  congiurali  in  casa  ad 
ordine  per  aoimazzare  Pandolfo  nel  passare;  e  messisi  den- 
tro air  uscio  armati,  teneva  uno  alla  feneslra,  che,  passando 
Pandolfo,  quando  ei  fusse  stato  presso  all'  uscio,  facesse  un 
cenno.  Accadde  che  venendo  Pandolfo,  ed  avendo  fatto  colui 
il  cenno,  riscontrò  uno  amico  che  lo  Termo;  ed  alcuni  di 
quelli  che  erano  con  lui ,  vennero  a  trascorrere  innanli,  e 
veduto  e  sentito  il  romore  d*arme,  scopersono  Tazguato;  in 
lAodo  che  Pandolfo  si  salvò,  e  lulio  coi  compagni  s' eh- 
bono  a  fusgire  di  Siena.  Impedì  quello  accidente  di  quello 
scontro  quella  azione,  e  fece  a  lulio  rovinare  la  sua  im- 
presa. Ai  quali  accidenti,  perché  ei  sono  rari,  non  si  può 
fare  alcuno  rimedio.  È  ben  necessario  esaminare  lutti  quelli 
che  possono  nascere,  e  rimediarvi.  Restaci,  al  presente,  solo 
a  disputare  de'  pericoli  che  si  corrono  dopo  la  esecuzione  :  i 
quali  sono  solamente  ano;  e  questo  è,  quando  e' rimane  al- 
cuno che  \endichi  il  principe  morto.  Possono  rimanere,  adun- 
que, suoi  fratelli,  o  suoi  fiuliuoli,  o  altri  aderenti,  a  chi 
8* aspetti  il  principato;  e  possono  rimanere  o  per  tua  negli- 
genza, 0  per  le  cagioni  delle  di  sopra,  che  faccino  questa 
vendetta:  come  intervenne  a  Giovannandrea  da  Lampognano, 
il  quale,  insieme  con  i  sani  congiurati,  avendo  morto  il  duca 
di  Milano,  ed  essendo  rimase  uno  suo  figliuolo  e  due  suoi 
fratelli,  furono  a  tempo  a  vendicare  il  morto.  E  veramente, 
in  questi  casi  i  congiurali  sono  scusati,  perchè  non  ci  hanno 
rimedio;  ma  quando  ei  ne  rimane  vivo  alcuno  per  poca  pru- 
denza, 0  per  loro  nesligenza,  allora  è  che  non  meritano  scusa. 
Ammazzarono  alcuni  congiurati  Forlivesi  il  conte  Girolamo 
loro  signore,  presono  la  moglie,  ed  i  suoi  figliuoli,  che  erano 
piccoli;  e  non  parendo  loro  poter  vivere  sicuri  se  non  si  in- 
signorivano della  fortezza,  e  non  volendo  il  castellano  darla 
loro.  Madonna  Caterina  (che  cosi  si  chiamava  la  conles.<a) 
promise  a* congiurati,  se  la  lasciavano  entrare  in  quella,  di 
farla  consegnare  loro,  e  che  ritenessino  appresso  di  loro  i 
suoi  figliuoli  per  islatichi.  Costoro  scilo  questa  fede  ve  la  la- 
sciarono entrare;  la  quale  come  fu  dentro,  dalle  mura  rim- 
proverò loro  la  morte  del  marito,  e  minacciògli  d' ogni  qua- 


LIBRO   TERZO.  335 

lilà  di  vendetta.  E  per  raoslrare  che  de'  suoi  figliuoli  non  si 
curava,  moslrò  loro  le  membra  genitali,  dicendo  che  aveva 
ancora  il  modo  a  rifarne.  Così  costoro,  scarsi  di  consiglio  e 
tardi  avvedutisi  del  loro  errore,  con  uno  perpetuo  esilio  pati- 
rono pene  della  poca  prudenza  loro.  Ma  di  tutti  i  pericoli 
che  possono  dopo  la  esecuzione  avvenire,  non  ci  è  il  più 
cerio,  né  quello  che  sia  più  da  temere,  che  quando  il  popolo 
è  amico  del  principe  che  tu  bai  morto  :  perchè  a  questo  i 
congiurati  non  hanno  rimedio  alcuno,  perchè  e' non  sé  ne 
possono  mai  assicurare.  In  essempio  ci  è  Cesare,  il  quale  per 
avere  il  popolo  di  Roma  amico,  fu  vendicato  da  lui;  perchè 
avendo  cacciati  i  congiurati  di  Roma,  fu  cagione  che  furono 
lutti  in  vari  tempi  e  in  vari  luoghi  ammazzali.  Le  congiure 
che  sì  fanno  centra  alla  patria  sono  meno  pericolose  per 
coloro  che  le  fanno,  che  non  sono  quelle  che  si  fanno  centra 
ai  principi:  perchè  nel  maneggiarle  vi- sono  meno  pericoli 
che" in  quelle;  nello  eseguirle  vi  sono  quelli  medesimi;  dopo 
la  esecuzione,  non  ve  n'é  alcuno.  Nel  maneggiarle  non  vi  è 
pericoli  molli:  perchè  un  cittadino  può  ordinarsi  alla  potenza 
senza  manifestare  l'animo  e  disegno  suo  ad  alcuno;  e  se 
quelli  suoi  ordini  non  gli  sono  ìnlerrolti,  seguire  felicemente 
l'impresa  sua;  se  eli  sono  interrotti  con  qualche  legge, 
aspettar  (empo,  ed  entrare  [ler  altra  via.  Questo  s'intende 
in  una  repubblica  dove  è  qualche  parte  di  corruzione  ;  per- 
chè in  una  non  corrotta,  non  vi  avendo  tuono  nessuno  prin- 
cipio cattivo,  non  possono  cadere  in  un  suo  cittadino  questi 
pensieri.  Possono,  adunque,  i  cittadini  per  molli  mezzi  e 
molle  vie  aspirare  al  principato,  dove  eì  non  portano  peri- 
colo d'essere  oppressi:  si  perchè  le  repubbliche  sono  più 
tarde  che  uno  principe,  dubitano  meno,  e  per  questo  sono 
manco  caute;  si  perchè  hanno  più  rispello  ai  loro  cilladini 
grandi,  e  per  questo  quelli  sono  più  audaci,  e  più  animosi  a 
far  loro  centra.  Ciascuno  ha  letto  la  congiura  di  Caldina 
scritta  da  Salustio,  e  sa  come  poi  cbe  la  congiura  fu  scoper- 
ta, Caldina  non  solamente  slette  in  Roma,  ma  venne  in 
Senato,  e  disse  villania  al  Senato  ed  al  i.onsolo:  tanto  era  il 
rispello  che  quella  cillà  aveva  ai  suoi  cittadini.  E  parlilo 
che  fu  di  Mowa,  e  ch'e^jU  era  di  già  in  su  gli  eserciti,  non 


336  DEI   DISCORSI. 

si  sarebbe  preso  Len(oIo  e  quelli  allri,  se  non  sì  fussero 
avaJe  lellere  di  lormano  che  gli  accusavano  manifeslamente. 
Annone,  grandissimo  ciUadino  in  Cartagine,  aspirando  alla 
tirannide,  aveva  ordinato  nelle  nozze  d*  una  sua  figliuola 
di  avvelenare  tutto  il  Senato,  e  dipoi  farsi  principe.  Questa 
cosa  intesasi,  non  vi  fece  il  Senato  altra  provvisione  che 
d*ona  legge,  la  quale  poneva  termine  alle  spese  de' con- 
viti e  delle  nozze:  tanto  fu  il  rispetto  che  gli  ebbero  allo 
qualità  sue.  È  ben  vero,  cbe  nello  eseguire  una  congiura 
contra  alla  patria,  vi  è  più  ditlìcultà  e  maggiori  pericoli; 
perché  rade  volte  è  che  bastino  le  tue  forze  proprie  conspi- 
rando contra  a  tanti  ;  e  ciascuno  non  è  principe  d'  uno  eser- 
cito, come  era  Cesare  o  Agatocle  o  Cleomene,  e  simili,  che 
hanno  ad  un  tratto  e  coI^la  forza  occupata  la  patria.  Perchò 
a  simili  è  la  via  assai  facile,  ed  assai  sicura;  ma  gli  altri 
che  non  hanno  tante  aggiunte  di  forze,  conviene  che  faccino 
la  cosa  0  con  incanno  ed  arte,  o  con  forze  forestiere.  Quanto 
alio  inganno  ed  all'arte,  avendo  Pisistralo  ateniese  vinti  i 
Mcgarensi,  e  per  questo  acquistata  grazia  nel  popolo,  usci 
una  mattina  fuori  ferito,  dicendo  che  la  nobiltà  per  invidia 
r  aveva  ingiuriato,  e  domandò  di  poter  menare  armati  seco 
per  guardia  soa.  Da  questa  autorità  facilmente  salse  a  tanta 
grandezia,  che  diventò  tiranno  d'Ateoe.  Pandolfo  Peirucci 
tornò  con  altri  fuoruscili  in  Siena,  e  gli  fu  data  la  guardia 
della  piazza  in  governo ,  come  cosa  meccanica ,  e  che  gli 
altri  rifiutarono;  nondimanco  quelli  armali,  con  il  tempo,  gli 
dierono  tanta  riputazione,  che  in  poco  tempo  ne  diventa 
principe.  Molli  altri  hanno  tenute  altre  industrie  ed  altri 
modi,  e  con  ispazìodi  tempo  e  senza  pericolo  vi  si  sono  con- 
dotti. Quelli  che  con  forza  loro,  o  con  eserciti  esterni,  hanno 
congiurato  per  occupare  la  patria,  hanno  avuti  vari  eventi, 
secondo  la  fortuna.  Catilina  preallesato  vi  rovinò  sott<^.  An- 
none, di  chi  di  sopra  facemmo  menzione,  non  essendo  riu- 
scito il  veleno,  armò  di  suoi  partigiani  molte  migliaia  di 
persone,  e  loro  ed  eglino  furono  morti.  Alcuni  primi  cilladini 
di  Tebe  per  farsi  tiranni  chiamarono  in  aiuto  uno  esercito 
sparlano,  e  presono  la  tirannide  di  quella  città.  Tanto  che, 
esaminate  tulle  le  congiure  falle  contra  alla  palria,  non  ne 


1 


LIBRO   TERZO.  337 

troverai  alcnna,  o  poclie,  che  nel  maneggiarle  siano  oppres- 
se; raa  tutte  o  sono  riuscite,  o  sono  rovinate  nella  esecuzio- 
ne. Eseguite  che  le  sono,  ancora  non  portano  altri  pericoli , 
che  si  porti  la  natura  del  principato  in  sé  :  perchè  divenuto 
che  uno  è  tiranno,  hai  suoi  naturali  ed  ordinari  pericoli  che 
gli  arreca  la  tirannide,  alli  quali  non  ha  altri  rimedi  che  di 
sopra  si  siano  discorsi.  Questo  è  quanto  mi  è  occorso  scri- 
vere delle  congiure  ;  e  se  io  ho  ragionato  di  quelle  che  si  fanno 
con  il  ferro,  e  non  col  veleno,  nasce  che  l'hanno  tutte  un  me- 
desimo ordine.  Vero  è  che  quelle  del  veleno  sono  più  pericolo- 
se, per  esser  più  incerte  :  perché  non  si  ha  comodità  per  ognu- 
no ;  e  bisogna  conferirlo  con  chi  la  ha:  e  questa  necessità  del 
conferire  ti  fa  pericolo.  Dipoi ,  per  molte  cagioni,  un  beverag- 
gio di  veleno  non  può*  esser  mortale:  come  intervenne  a 
quelli  che  ammazzarono  Commodo,  che,  avendo  quello  ribut- 
tato il  veleno  che  gli  avevano  dato,  furono  forzali  a  strango- 
larlo, se  volleno  che  morisse.  Non  hanno,  perlarito,  i  principi 
il  maggiore  nimico  che  la  congiura  ;  perché  fatta  che  è  una 
congiura  loro  centra,  o  la  gli  ammazza,  o  la  gli  infama.  Per- 
chè, se  la  riesce,  e'  muoiono;  se  la  si  scopre,  e  loro  ammaz- 
zino i  congiurati,  si  crede  sempre  che  la  sia  stata  invenzione 
di  quel  principe,  per  isfogare  l'avarizia  e  la  crudellà  sua 
centra  al  sangue  ed  alla  roba  di  quelli  ch'egli  ha  morti.  Non 
voglio  però  mancare  di  avvertire  quel  principe  o  quella  re- 
pubblica conlraa  chi  fusse  congiurato,  che  abbino  avverten- 
za, quando  una  congiura  si  manifesta  loro,  innanzi  che  fac- 
cino impresa  di  vendicarla,  di  cercare  ed  intendere  molto 
bene  la  qualità  di  essa,  e  misurino  bene  le  condizioni  de' 
congiurati  e  le  loro  ;  e  quando  la  truovino  grossa  e  polente, 
non  la  scuoprino  mai,  infino  a  tanto  che  si  siano  preparati 
con  forze  sutTìcienti  ad  opprimerla  :  altrimenti  facendo,  sco- 
prirebbono  la  loro  rovina.  Però  debbono  con  ogni  industria 
dissimularla,  perchè  i  congiurati  vegcendosi  scoperti,  cac- 
ciati da  necessità,  operano  senza  rispetto.  In  essempio  ci  sono 
ì  Romani  ;  ì  quali  avendo  lasciate  due  legioni  di  soldati  a 
guardia  de'Capovani  contra  ai  Sanniti,  come  altrove  dicem- 
mo, congiurarono  quelli  capi  delle  legioni  insieme  di  oppri- 

*  Cosi  le  stampe.  Meglio  però  sarebbe:  prtò  non  essere, 

.     S9 


338  i»EI   DISCORSI 

merci  Capovanirla  qiial  cosa  inlesasi  a  Roma,  commessone 
a  Rulilio  nuovo  consolo  che  vi  provvedesse;  il  quale,  per 
addormentare  i  consiurali ,  pubblicò  come  il  Senato  aveva 
raffermo  le  stanze  alle  legioni  capovane.  Il  che  credendosi 
quelli  soldati,  e  parendo  loro  aver  tempo  ad  eseguire  il  di- 
segno loro,  non  cercarono  di  accelerare  la  cosa;  e  così  stel- 
lone infino  che  cominciarono  a  vedere  che  il  Consolo  gli  sepa- 
rava Pano  dair altro:  la  qual  cosa  generato  in  loro  sospetto, 
fece  che  si  scopersono,  e  mandarono  ad  esecuzione  la  voglia 
loro.  Né  può  essere  questo  maggiore  essem pio  nell'una  e  nel- 
l'altra parte:  perchè  per  questo  si  vede,  quanto  gli  uomini 
sono  lenti  nelle  cose  dove  ei  credono  avere  tempo;  e  quanto 
ei  sono  presti  dove  la  necessità  gli  caccia.  Né  può  uno  prin- 
cipe o  una  repubblica  che  vuole  differire  lo  scoprire  una 
congiura  a  suo  vanlaegio,  usare  termine  misliore  che  ofTe- 
rire  di  pros^Troo  occasione  con  ar4e  ai  congiurati,  acciocché 
aspettando  quella,  o  parendo  loro  aver  tempo,  diano  tempo 
a  quello  o  a  quella  a  castigargli.  Chi  ha  fatto  altrimenti, 
ha  acceleralo  la  sua  rovina  :  come  fece  il  duca  di  Atene,  e 
Guglielmo  de' Pazzi.  Il  duca,  diventato  (iranno  di  Firenze, 
ed  inten<lenfio  essergli  congiurato  centra,  fece,  senza  esa- 
minare altrimenti  la  cosa,  pigliare  uno  deVoneiurati  :  il 
che  fece  subito  pigliare  Tarmi  asti  altri,  e  lòrgli  lo  slato. 
Guglielmo,  sendo  commessario  in  Val  di  Chiana  nel  1501,  ed 
avendo  inteso  come  in  Arezzo  era  congiura  in  favore  de' Vi- 
telli per  tórre  quella  terra  ai  Fiorentini,  subilo  se  ne  andò  in 
quella  città,  e  senza  pensare  alle  forze  de*  congiurali  e  alle 
sue,  e  senza  prepararsi  di  '  alcuna  forza  ,  con  il  consiglio  del 
Vescovo  suo  figliuolo,  fece  piallare  uno  de'conaiurall  :  dof»o 
la  qunl  presura,  gli  altri  sub  te  presone  l'armi,  e  tolseno  la 
terra  ai  Fiorentini;  e  (iualielmo,  di  commessario,  diventò 
prigione.  Ma  quando  le  congiure  sono  deboli,  si  possono  e 
debbono  senza  ris|)elto  op|»rimere.  Non  è  ancora  da  imitare 
in  alcun  modo  duci  termini  usati,  quasi  contrari  l'uno  al- 
l'altro, l'ano  dal  prenominato  duca  d'Atene;  il  quale,  per 
mostrare  di  credere  d'avere  la  l)enivolenza  de'cilladini  (io- 
renlini,  fece  morire  uno  che  gli   manifestò  una  congiura: 

*  Men  Lene  alccrU»  k  TcsUm  C  il  Poggiali  :  ad. 


LIBRO    TERZO.  339 

r  altro  da  Dione  siracusano;  il  quale,  per  tentare  Tanimo  di 
alcuno  ch'egli  aveva  a  sospetto,  consenti  a  Callippo,  nel 
quale  ei  confidava  ,  che  mostrasse  di  fargli  una  congiura 
contra.  E  tutti  due  questi  capitarono  male:  perchè  l'uno  tolse 
l'animo  agli  accusatori,  e  dettelo  a  chi  volse  congiurare: 
l'altro  dette  la  via  facile  alla  morte  sua,  anzi  fu  egli  proprio 
capo  della  sua  congiura;  come  per  isperienza  g!i  intervenne, 
perchè  Callippo  potendo  senza  rispetto  praticare  contra  a 
Dione,  praticò  tanto,  che  gli  tolse  lo  stato  e  la  vita. 

Gap.  vii.  —  Donde  nasce  che  le  mulazioni  dalla  libertà  alla 
serviiù,  e  dalla  servitù  alla  libertà,  alcuna  n'  è  senza  san- 
gue ,  alcuna  n'  è  piena. 

Dubiterà  forse  -alcuno  donde  nasca  che  molte  mutazioni 
che  si  fanno  dalla  vita  libera  alla  tirannica,  e  per  contrario, 
alcuna  se  ne  faccia  con  sangue,  alcuna  senza  ;  perche,  come 
per  le  istorie  si  comprende,  in  simili  variazioni  alcuna  volta 
sono  stali  morti  infiniti  uomini,  alcuna  volta  non  è  stato  in* 
giurialo  alcuno  :  come  intervenne  nella  mutazione  che  fece 
Roma  dai  He  ai  Consoli,  dove  non  furono  cacciati  altri  che 
i  Tarquini,  fuora  della  offensione  di  qualunque  altro.  Il  che 
dipende  da  questo:  perchè  quello  slato  che  si  muta,  nacque 
con  violenza,  o  non;* e  perchè  quando e'nasce  con  violenza, 
conviene  nasca  con  ingiuria  di  molti,  è  necessario  poi,  nella 
rovina  sua,  che  gl'ingiuriali  si  vogliono  vendicare;  e  da  que- 
sto disiderio  di  vendetta  nasce  il  sangue  e  la  morte  degli 
uomini.  Ma  quando  quello  stato  è  causato  da  uno  comune  con*' 
senso  di  una  universalità  che  lo  ha  fatto  grande,  non  ha  ca- 
gione poi,  quando  rovina  detta  universalità,  dì  offendere  al- 
tri che  il  capo.  E  di  questa  sorte  fu  lo  slato  di  Roma,  e  la 
cacciata  de'Tarquini;  come  fu  ancora  in  Firenze  lo  slato  de* 
Medici,  che  poi  nelle  rovine  loro  nel  l4U4,non  furono  offesi 
altri  che  loro.  E  cosi  tali  mutazioni  non  vengono  ad  esser 
molto  pericolose  :  ma  son  bene  pericolosissime  quelle  che 
sono  fatte  da  quelli  che  si  hanno  a  vendicare  ;  le  quali  furono 
sempre  mai  di  sorte,  da  fare,  non  che  altro,  sbigottire  chi 

*  Corregge  l'edizione  del  13:  o  no. 


340  DEI  DISCORSI 

le  legge.  E  perchè  di  questi  essempi  ne  son  piene  l'Istorie, 
io  le  voglio  lasciare  indietro. 

Gap.  Vili.  —  Chi  vuole  alterare  una  repubblica , 
debbe  considerare  il  soggello  di  quella, 

E' si  è  di  sopra*  discorso,  come  an  tristo  citiadino  non  può 
male  operare  in  una  repubblica  che  non  sia  corrotta:  la  quale 
conclusione  si  fortifica,  oltre  alle  ragioni  che  allora  si  dis- 
sono, con  l'essempio  di  Spurio  Cassio  e  di  Manlio  Capitolino. 
Il  quale  Spurio  sendo  uomo  ambizioso,  e  volendo  pigliare 
autorità  islraordinaria  in  Roma,  e  guadagnarsi  la  Plebe  con 
il  fargli  molti  benefìzi ,  come  era  di  vendergli  quelli  campi 
che  i  Romani  avevano  tolti  alli  Ernici;  fu  scoperta  dai  Padri 
questa  sua  ambizione,  ed  in  tanto  recata  a  sospetto,  che  par- 
lando egli  al  Popolo,  ed  ofTerendo  di  dargli  quelli  danari  che 
8*  erano  ritratti  de'  grani  che  il  pubblico  aveva  fatti  venire 
di  Sicilia,  al  tutto  gli  recusò,  parendo  a  quello  che  Spurio 
volesse  dare  loro  il  pregio  della  loro  libertà.  Ma  se  tal  Popolo 
fusse  stato  corrotto,  non  arebbe  recusalo  detto  prezzo,  e  gli 
arebbe  aperta  alla  tirannide  quella  via  che  gli  chiuse.  Fa 
mollo  maggiore  essempio  di  questo,  Manlio  Capitolino;  per- 
ché mediante  costui  si  vede  quanta  virtù  d'animo  e  di  corpo, 
quante  buone  opere  fatte  in  favore  della  patria,  cancella  di- 
poi una  brutta  cupidità  di  regnare  :  la  quale ,  come  si  vede , 
nacque  in  costui  per  la  invidia  che  lui  aveva  degli  onori  erano 
fatti  a  Cammìllo;  evenne  in  tanta  cecità  di  mente,  che  non 
pensando  al  modo  del  vivere  della  città,  non  esaminando  il 
soggetto  quale  esso  aveva  ,  non  atto  a  ricevere  ancora  trista 
forma,  si  mise  a  fare  tumulti  in  Roma  contra  al  Senato,  e 
centra  alle  le2gi  patrie.  Dove  si  conosce  la  perfezione  di  quella 
città,  e  la  bontà  della  materia  sua:  perchè  nel  caso  suo  nes- 
suno della  Nobiltà,  ancora  che  fussino  acerrimi  difensori  l'uno 
dell'altro,  si  mos^e  a  favorirlo  ;  nessuno  de' parenti  fece  im- 
presa in  suo  favore:  e  con  gli  allri  accusati  solevano  compa- 
rire sordidati,  vestili  dì  nero,  tulli  mesti,  per  cattare  mise- 

*  Cosi,  colla  Bladiau  e  la  del  13,  molto  meglio  che  eolla  Testina f  £"  W 
sopra  j  o  col  Poggiali  t  Essi  sopra. 


LIBRO   TERZO.  341 

ricordia  in  favore  dello  accusato;  e  con  Manlio  non  se  ne  vide 
alcuno.  1  Tribuni  della  plebe,  che  solevano  sempre  favorire 
le  cose  che  pareva  venissino  in  benefizio  del  Popolo;  e  quanto 
erano  più  contra  ai  Nobili,  tanto  più  le  tiravano  innanzi;  in 
questo  caso  si  unirono  coi  Nobili,  per  opprimere  una  co- 
mune peste.  Il  Popolo  di  Roma,  disiderosissimo  dello  utile 
proprio,  ed  amatore  delle  cose  che  venivano  conira  alla  No- 
biltà, avvenga  che  facesse  a  Manlio  assai  favori;  nondimeno, 
come  i  Tribuni  lo  citarono,  e  che  rimessono  la  causa  sua  al 
giudizio  del  Popolo,  quel  Popolo,  diventato  di  difensore  giu- 
dice, senza  rispetto  alcuno  lo  condennò  a  morte.  Pertanto  io 
non  credo  che  sia  essempio  in  questa  istoria  più  atto  a  mo- 
strare la  bontà  di  tutti  gli  ordini  di  quella  Repubblica,  quanto 
è  questo;  veggendo  che  nessuno  di  quella  città  si  mosse  a 
difendere  un  cittadino  pieno  d'ogni  virtù,  e  che  pubblica- 
mente e  privatamente  aveva  fatte  moltissime  opere  laudabili. 
Perchè  in  tutti  loro  potè  più  T amore  della  patria,  che  nes- 
suno altro  rispetto;  e  considerarono  molto  più  ai  pericoli  pre- 
sentì che  da  lui  dipendevano,  che  ai  meriti  passati:  tanto 
che  con  la  morte  sua  e'  si  liberarono.  E  Tito  Livio  dice:  Hunc 
exilum  hahuit  vir,  nisi  in  libera  civilale  nalus  essel,  memora' 
hilis.  Dove  sono  da  considerare  due  cose:  1'  una,  che  per  altri 
modi  s'  ha  a  cercare  gloria  in  una  città  corrotta,  che  in  una 
che  ancora  viva  politicamente;  l'altra  (che  è  quasi  quel  me- 
desimo che  la  prima),  che  gli  uomini  nel  proceder  loro,  e 
tanto  più  nelle  azioni  grandi,  debbono  considerare  i  tempi, 
ed  accomodarsi  a  quelli.  E  coloro  che,  per  cattiva  elezione  o 
per  naturale  inclinazione,  si  discordano  dai  tempi,  vivono  il 
più  delle  volte  infelici,  ed  hanno  cattivo  esilo  l'azioni  loro; 
al  contrario  1*  hanno  quelli  che  si  concordano  col  tempo.  E 
senza  dubbio,  per  le  parole  preallegate  dello  istorico  si  può 
conchiudere,  che  se  Manlio  fusse  nato  ne' tempi  di  Mario  e 
di  Siila,  dove  già  la  materia  era  corrotta  e  dove  esso  arebbe 
potuto  imprimere  la  forma  dell'ambizione  sua,  arebbe  avuti 
quelli  medesimi  séguiti  e  successi  che  Mario  e  Siila,  e  gli 
altri  poi,  che  dopo  loro  alla  tirannide  aspirarono.  Così  mede- 
simamente, se  Siila  e  Mario  fussino  stali  ne'lempi  di  Manho, 
sarebbero  slati  intra  le  prime  loro  imprese  oppressi.  Perchè 

29* 


34^  t>E1   DISCORSt 

on  aomo  pnò  bene  cominciare  con  snoi  modi  e  con  suoi  (ri- 
sii termini  a  corrompere  un  popolo  di  una  ciltà,  ma  gli  è 
impossibile  che  la  vila  d'uno  basii  a  corromperla  in  modo 
che  egli  medesimo  ne  possa  Irar  frullo:  e  quando  bene 
e'fusse  possibile  con  lunschézza  di  tempo  che  lo  facesse,  sa- 
rebbe impossibile  quanto  al  modo  del  procedere  desìi  uomi- 
ni, che  sono  impazienti,  e  non  possono  lungamente  dilTetire 
una  loro  passione.  Appresso,  s' incannano  nelle  cose  loro,  ed 
in  quelle,  massime,  che  disiderano  assai;  talché,  o  per  poca 
pazienza  o  per  incannarsene,  entrerebbero  in  impresa  con- 
tra  a  tempo,  e  capiterebbero  male.  Però  è  bisogno,  a  voler 
pigliare  autorità  in  una  repubblica  e  mettervi  (risia  forma, 
trovare  la  materia  disordinala  dal  tempo,  e  che  a  poco  a  po- 
co, e  di  generazione  in  generazione,  si  sia  condona  al  disor- 
dine: la  quale  vi  si  conduce  di  necessità,  quan<lo  la  non  sia, 
come  di  sopra  si  discorse,  spesso  rinfrescata  di  buoni  essem- 
pi,  o  con  nuove  leggi  ritirala  verso  i  principii  suoi.  Sarebbe, 
adunque,  stato  Manlio  un  uomo  raro  e  memorabile,  se  fusse 
nato  in  una  città  corrotta.  E  però  debbono  i  cittadini  che 
nelle  repubbliche  fanno  alcuna  impresa  o  in  favore  della  li- 
bertà o  in  favore  della  tirannide,  considerare  il  soggetto 
che  eglino  hanno,  e  giudicare  da  quello  la  diflTicultà  delle 
imprese  loro.  Perchè  tanto  è  dilTIcile  e  pericoloso  voler  fare 
libero  un  popolo  che  voglia  viver  servo,  quanto  è  voler  fare 
servo  un  popolo  che  voglia  viver  libero.  E  perchè  di  sopra 
si  dice,  che  gli  uomini  nello  operare  debbono  considerare  la 
qualità  de' tempi  e  procedere  secondo  quelli,  ne  parleremo 
a  lungo  nel  segaenle  capitolo. 

Cap.  IX.  —  Come  contiene  tariare  coi  tempi,         JM, 
volendo  sempre  aver  buona  fortuna.  r 

lo  ho  considerato  più  volte  come  la  cagione  della  trista 
e  della  buona  fortuna  degli  uomini  è  riscontrare  il  modo  del 
procedere  suo  coi  tempi:  perchè  e' si  vede  che  gli  uomini 
nell'opere  loro  procedono  alcuni  con  impelo,  alcuni  con  ri- 
spetto e  con  cauzione.  E  perchè  neli'  uno  e  ncll'  altro  di  que- 
sti modi  si  passano  i  termini  convenienti ,  non  si  polendo 


1 


tlBRO  TERZO.  543 

osservare  la  vera  via,  nell'  uno  e  nell'  altro  si  erra.  Ma  quello 
viene  ad  .errar  meno,  ed  avere  la  fortuna  prospera,  che  ris- 
contra, come  io  ho  dello,  con  il  suo  modo  il  tempo,  e  sem- 
pre mai  si  procede,  secondo  li  sforza  la  natura.  Ciascuno  sa 
come  Fabio  Massimo  procedeva  con  Io  esercito  suo  rispettiva- 
mente e  cautamente,  discosto  da  ogni  impeto  e  da  ogni  auda- 
cia romana  :  e  la  buona  fortuna  fece,  che  questo  suo  modo 
riscontrò  bene  coi  tempi.  Perché,  sendo  venuto   Annibale 
in  Italia  giovine,  e  con  una  fortuna  fresca:  ed  avendo  già 
rotto  il  popolo  romano  due  volle  ;  ed  essendo  quella  repub- 
blica priva  quasi  della  sua  buona  milizia,  e  sbigottita;  non 
potette   sortire    miglior   fortuna,  che   avere  un  capitano  il 
qnale,  con  la  sua  tardil.i  e  cauzione,  tenesse  a  bada  il  nimico. 
Nò  ancora  Fabio  potette  riscontrare  lem()i  più  convenienti  ai 
modi  suoi:  di  che  nacque  che  fu  slorioso.  E. che  Fabio  facesse 
questo  per  natura  e  non  per  elezione,  si  vede,  che  volendo 
Scipione  passare  in  Affrica  con  quelli  eserciti  per  ultimare 
la  guerra,  Fabio  la  conlradisse  assai,  come  quello  che  non 
si  poteva  spiccare  dai  suoi  modi  e  dalla  consuetudine  sua; 
laiche,  se  fusse  stalo  a  lui,  Annibale  sarebbe  ancora  in  Italia, 
come   quello  che  non  si  avvedeva  che  gli  erano   mutali  i 
tempi,  e  che  bisognava  mutar  modo  di  guerra.  E  se  Fabio 
fusse   stato  re  di  Roma,  poteva  facilmente  perdere  quella 
guerra;  perchè  non  arebbe  saputo  variare  col  procedere  suo, 
secondo  che  variavano  i  tempi  :  ma  sendo  nato  in  una  repub- 
blica dove  erano  diversi  cittadini  e  diversi  umori,  come  la 
ebbe  Fabio,  che  fu  ottimo  ne'  tempi  debili  a  sostenere  la 
guerra,  cosi  ebbe  poi  Scipione  ne' tempi  alti  a  vincerla.  Di 
qui  nasce,  che  una  repubblica  ha  maggior  vita,  ed  ha  più 
lungamente  buona  fortuna,  che  un  principato;  perchè  la  può 
meglio  accomodarsi  alla  diversità  deMemporali,  per  la  di- 
versità de' cittadini  che  sono  in  quella,  che  non  può  un  prin- 
cipe. Perchè  un  uomo  che  sia  consueto  a  procedere  in  un 
modo,  non  si  mula  mai,  come  è  detto;  e  conviene  di  neces- 
sità, quando  si  mutano  i  tempi  disformi  a  quel  suo  modo, 
che  rovini.  Piero  Soderini,  altre  volte  preallegato,  procedeva 
in  tulle  le  cose  sue  con  umanità  e  pazienza.  Prosperò  egli  e 
la  sua  patria  mentre  che  i  tempi  furono  conformi  al  modo 


3i4  DEI  blSCORSt 

del  proceder  sao:  ma  corae  vennero  dipoi  tempi  dove  bi- 
sognava rompere  la  pazienza  e  T  umilila,  non  lo  seppe  fare; 
talché  insieme  con  la  sua  patria  rovinò.  Papa  lulio  il  pro- 
cedette in  lotto  il  tempo  del  suo  pontifìcato  con  impeto  é  con 
furia;  e  perchè  i  tempi  T accompagnarono  bene,  gli  riusci- 
rono le  sue  imprese  tutte.  Ma  se  fussero  venuti  altri  tempi 
che  avessero  ricerco  altro  consiglio,  di  necessità  rovinava  ; 
perchè  non  arebbe  mutato  né  modo  né  ordine  nel  maneg- 
giarsi. E  che  noi  non  ci  possiamo  mutare,  ne  sono  cagione 
due  cose:  1*  una,  che  noi  non  ci  possiamo  opporre  a  quello  a 
che  e'  inclina  la  natura  ;  V  altra ,  che  avendo  uno  con  un  modo 
di  procedere  prosperalo  assai,  non  è  possibile  persuadergli  che 
possa  far  bene  a  procedere  altrimenti  :  donde  ne  nasce  che 
in  uno  uomo  la  fortuna  varia,  perché  ella  varia  i  tempi,  ed 
egli  non  varia  i  modi.  Nascene  ancora  la  rovina  della  città, 
per  non  si  variare  gli  ordini  delle  repubbliche  co'  tempi  ; 
come  lungamente  di  sopra  discorremmo: ma  sono  pii'i  tarde, 
perché  le  penano  più  a  variare,  perchè  bisogna  che  venghino 
tempi  che  commovino  tutta  la  repubblica  ;  a  che  on  solo  col 
variare  il  modo  del  procedere  non  basta.  E  perché  noi  ab- 
biamo fatto  menzione  di  Fabio  Massimo  che  tenne  a  bada 
Annibale,  mi  pare  da  discorrere  nel  capitolo  seguente,  se  un 
capitano,  volendo  far  la  giornata  in  ogni  modo  col  nimico, 
può  essere  impedito  da  quello,  che  non  la  faccia. 

,^    Cap.  X.  —  Che  un  capitano  non  può  fuggire  la  giornata, 
quando  V  avversario  la  vuol  fare  in  ogni  modo. 

Cneus  Suìpiliut  Diclalor  adversus  Gallos  bellum  Irahe- 
bai,  nolens  te  fortuna  committere  adversus  hoslem,  quem 
Umpus  deleriorem  in  difs,  et  locus  alienus,  faceret.  Quando 
e*seguita  *  uno  errore  dove  lutti  gli  uomini  o  la  maggior  parte 
s'ingannino,  io  non  credo  che  sia  male  molle  volle  ripro- 
varlo. Pertanto,  ancora  che  io  abbia  di  sopra  più  volle  mostro, 
quanto  le  azioni  circa  le  cose  grandi  siano  disformi  a  quelle 

'  Cosi  nella  Bladianai  e  cemlira  nascere  da  un  errore  della  Testina  (i  se- 
guito,  corretto  a  penna,  nclb  copia  di  che  mi  serto,  segnila)  la  leiione  delle 
moderne  :  è  seguito. 


LIBRO    TERZO.  345 

degli  antichi  (empi,  nondimeno  non  mi  par  superfluo  al  pre- 
sente replicarlo.  Perchè,  se  in  alcuna  parte  si  devia  dagli  an- 
tichi ordini,  si  devia  massime  neHe  azioni  militari,  dove  al 
presente  non  è  osservata  alcuna  di  quelle  cose  che  dagli  an- 
tichi erano  stimale  assai.  Ed  è  nato  questo  inconveniente, 
perchè  le  repubbliche  ed  i  principi  hanno  imposta  questa  cu- 
ra ad  altrui;  e  per  fuggire  i  pericoli,  si  sono  discoslati  da  que- 
sto esercizio:  e  se  pure  si  vede  qualche  volla  un  re  de'tempi 
nostri  andare  in  persona,  non  si  crede  però,  che  da  lui 
nascano  altri  modi  che  meritino  più  laude.  Perchè  quello 
esercìzio,  quando  pure  Io  fanno,  lo  fanno  a  pompa,  e  non 
per  alcuna  altra  laudabile  cagione.  Pure,  questi  fanno  minori 
errori  rivedendo  i  loro  eserciti  qualche  volta  in  viso,  le- 
nendo appresso  di  loro  il  titolo  dell'  imperio,  che  non  fanno 
le  repubbliche,  e  massime  le  italiane;  le  quali,  fidandosi 
d'altrui,  né  s'intendendo  in  alcuna  cosa  di  quello  che  appar- 
tenga alla  guerra;  e  dall'altro  canto,  volendo,  per  parere 
d'essere  loro  il  principe,  diliberare,  fanno  in  tale  dilibe- 
razione mille  errori.  E  benché  d' alcuno  ne  ebbi  discorso  al- 
trove, voglio  al  presente  non  ne  tacere  uno  importantissimo. 
Quando  questi  principi  ociosi ,  o  repubbliche  effeminate, 
mandano  fuori  un  loro  capitano,  la  più  savia  commissione 
che  paia  loro  darli,  è  quando  gì' impongono,  che  per  alcun 
modo  non  ^  venga  a  giornata,  anzi  sopra  ogni  cosa  si  guardi 
dalla  zuffa;  e  parendo  loro  in  questo  imitare  la  prudenza  di 
Fabio  Massimo,  che  diCTerendo  il  combattere  salvò  lo  slato 
a' Romani,  non  intendono  chela  maggiore  parte  delle  volle 
questa  commissione  è  nulla  o  è  dannosa.  Perché  si  debbe  pi- 
gliare questa  conclusione  :  che  un  capitano  che  voglia  slare 
alla  campagna,  non  può  fuggire  la  giornata  qualunche  volla 
il  nimico  la  vuole  fare  in  ogni  modo.  E  non  è  altro  questa 
commissione  che  dire:  fa  la  giornata  a  posta  del  nimico,  e 
non  a  tua.  Perchè  a  volere  slare  in  campagna,  e  non  far  la 
giornata,  non  ci  è  altro  rimedio  sicuro  che  porsi  cinquanta 
miglia  almeno  discosto  al  nimico;  e  dipoi  tenere  buone  spie, 
che  venendo  quello  verso  di  te,  tu  abbi  tempo  a  discostarli. 

*  Manca  nella  Romana  il  non:  con  che  il  Machiavelli  furnirebbcci  un  duo* 
vo  esempio  di  alcuno  adoperato  nel  senso  di  ninno. 


346  DEI   DISCORSI 

Uno  altro  partito  ci  è;  rinchiudersi  in  ana  città:  e  Tuno  e 
r  altro  di  questi  due  parlili  è  dannosissimo.  Nel  primo  si  la- 
scia in  preda  il  paese  suo  al  nimico;  ed  uno  principe  valente 
vorrà  più  toslo  tentare  la  Tortuna  dolla  zufTa,  che  allungare 
la  guerra  con  tanto  danno  de' sudditi.  Nel  secondo  partito  è 
la  perdita  manifesta  ;  perché  conviene  che,  riducendoti  con 
uno  esercito  in  una  città,  tu  venga  ad  essere  assedialo,  ed  in 
poco  tempo  patir  fame,  e  venire  a  dedizione.  Talché  fuggire 
la  giornata  per  queste  due  vie,  é  dannosissimo.  Il  modo  che 
(enne  Fabio  Massimo  di  stare  ne*  luoghi  forti,  é  buono  quando 
tu  hai  sì  virtuoso  esercito,  che  il  nimco  non  abbia  ardire  di 
venirti  a  trovare  dentro  a'  tuoi  vantaggi.  Né  si  può  dire  che 
Fabio  fuggisse  la  giornata,  ma  più  (oiito  che  la  volesse  fare 
a  suo  vantaitgio.  Perchè  se  Annibale  fusse  ito  a  trovarlo, 
Fabio  Farebbe  aspellalo,  e  fatto  giornata  seco: ma  Annibale 
non  ardi  mai  di  combattere  con  lui  a  modo  di  quello.  Tanto 
che  la  giornata  fu  fognila  cosi  da  Annibale,  come  da  Fabio: 
ma  se  uno  di  loro  V  avesse  voluta  fare  in  ogni  modo,  l'altro 
non  vi  aveva  se  non  uno  de*  tre  rimedi;  cioè  *  i  due  soprad- 
detti,  o  fuguirsi.  Che  questo  eh*  io  dico  sia  vero,  si  vede 
manifestamente  con  mille  essempi,  e  massime  nella  guerra 
chei  Romani  fecìonocon  Filippo  di  Macedonia,  padre  di  Per* 
se:  perché  Filippo  sendo  assallatodai  Romani,  deliberò  non 
venire  alla  zufTa;  e  per  non  vi  venire,  volle  fare  prima  come 
aveva  fatto  Fabio  Massimo  in  Italia  ;  e  si  pose  col  suo  eser- 
cito sopra  la  sommità  d*un  monte,  dove  si  alTorzò  as'^ai,  giu- 
dicando che  i  Romani  non  avessero  ardire  d'andare  a  tro- 
varlo. Ma  andativi  e  combattutolo,  lo  cacciarono  di  quel 
monte;  ed  egli  non  potendo  resistere,  si  fuggi  con  la  masuior 
parte  delle  genti.  E  quel  che  lo  salvò,  che  non  fu  consumalo 
in  tutto,  fu  la  iniquità  del  paese,  qual  fece  che  i  Romani 
non  poterono  seguirlo.  Filippo,  adunque,  non  volendo  azzuf- 
farsi, ed  essendosi  posto  con  il  campo  presso  ai  Rutnani,  si 
ebbe  a  fuggire;  ed  avendo  conosciuto  per  questa  esperienza, 
come  non  volendo  combattere,  non  gli  bastava  stare  sopra  i 
monti,  e  nelle  terre  non  volendo  rinchiudersi ,  diliherò  pi- 
gliare l'aliro  modo»  di  stare  discosto  molle  miglia  al  campo 

*  Kella  Bbdiaaa  manca  ei0Ì. 


LIBRO   TEUZO^  347 

romano.  Donde,  se  i  Romani  erano  in  nna  provincia,  ei  se 
ne- andava  nell'altra  ;  e  cosi  sempre  donde  i  Romani  parti- 
vano, esso  entrava.  E  veggendo,  al  fine,  come  nello  allungare 
la  guerra  per  questa  via,  le  sue  condizioni  peggioravano,  e 
che  i  suoi  sosgetli  ora  da  lui  ora  dai  nimici  erano  oppressi, 
diliberò  di  tentare  la  fortuna  della  zufTa;  e  cosi  venne  coi 
Romani  ad  una  giornata  giusta.  È  utile  adunque  non  cora- 
baliere,  quando  gli  eserciti  hanno  queste  condizioni  che 
aveva  l'esercito  di  Fabio,  e  che  ora  ha  quello  di  Caio  Sul- 
■pizio  :  cioè  avere  uno  esercito  si  buono,  che  il  nimico  non  ar- 
disca venirti  a  trovare  dentro  alle  fortezze  tue  ;  e  che  il  ni- 
mico sia  in  casa  tua  senza  avere  preso  molto  pie ,  dove  eì 
patisca  necessità  del  vivere.  Ed  è  in  questo  caso  il  partito 
utile,  per  le  ragioni  che  dice  Tito  Livio:  nolens  se  foriuncB 
commitlere  adversus  hoslem,  quem  tempus  deleriorem  in  dies, 
el  locus  alienusy  facerel.  Ma  in  osni  altro  termine  non  si  può 
fuggire  la  giornata,  se  non  con  tuo  disonore  e  pericolo.  Per- 
che fuggirsi,  come  fece  Filippo,  è  come  essere  rotto  ;  e  con 
più  vergogna, quanto  meno  s'è  fatto  prova  della  tua  virtù.  E 
se  a  lui  riusci  salvarsi,  non  riuscirebbe  ad  un  altro  che  non 
fusse  aiutato  dal  paese  come  ei^li.  Che  Annibale  non  fusse 
maestro  di  guerra,  nessuno  mai  non  lo  dirà;  ed  essendo  al- 
lo 'ncontro  di  Scipione  in  AlTrica,  s'ecli  avesse  veduto  van- 
taggio in  allungare  la  guerra,  ei  farebbe  fallo;  e  per  avven- 
tura, sendo  lui  buon  capitano,  ed  avendo  buono  esercito,  lo 
arebbe  potuto  fare ,  come  fece  Fabio  in  Italia  :  ma  non 
l'avendo  fallo,  si  debhe  credere  che  qualche  cagione  impor- 
tante lo  movesse.  Perchè  un  principe  che  abbi  uno  esercito 
messo  insieme,  e  vegga  che  per  difetto  di  danari  o  di  amici 
ei  non  può  tenere  lungamente  tale  esercito,  è  mallo  al  tulio 
se  non  lenta  la  fortuna  innanzi  che  tale  esercito  si  abbia  a 
risolvere:  perché  aspellando,  ei  perde  al  certo;  tentando,  po- 
trebbe vincere.  Un'altra  cosa  ci  è  ancora  da  stimare  assai: 
la  quale  è,  che  si  debbo,  eziandio  perdendo,  volere  acqui- 
star gloria;  e  più  gloria  si  ha  ad  esser  vinto  per  forza,  che 
per  altro  inconveniente  che  t'abbia  fatto  [lerdere.  Sì  che  An- 
nibale do\eva  essere  constretto  da  queste  necessità.  E  dall'al- 
tro canto,  Scipione,  quando  Annibale  avesse  differita  [a  gior- 


348  DEI  DISCORSI 

nata,  e  non  gli  fusse  bastato  l'animo  andarlo  a  trovare  ne' 
laoghi  forti,  non  f)ativa,  per  aver  di  già  vinto  Siface,  e  acqui- 
state tante  terre  in  AtTrica,  che  vi  poteva  slare  sicuro  e  con 
comodità  come  in  Italia.  Il  che  non  interveniva  ad  Annibale, 
quando  era  air  incontro  di  Fabio;  né  a  questi  Franciosi,  che 
erano  airincontro  di  Sulpizio.  Tanto  meno  ancora  può  fag* 
gire  la  giornata  colui  che  con  V  esercito  assalta  il  paese  al- 
trui ;  perchè,  se  e' vuole  entrare  nel  paese  del  nimico,  gli 
conviene,  quando  il  nimico  se  gli  facci  incontro,  azzufTarsi  se- 
co; e  se  si  pone  a  campo  ad  una  terra,  si  obbliga  tanto  più 
alla  zuffa  :  come  ne'  tempi  nostri  intervenne  al  duca  Carlo 
di  Borgogna,  che  sendo  a  campo  a  Moratto,  terra  de*  Sviz- 
zeri, fu  da* Svizzeri  assaltato  e  rotto;  e  come  intervenne  al- 
l'esercito di  Francia,  che  campeggiando  Novara»  l  fu  mede* 
simamente  da'  Svizzeri  rotto. 

Cap.  XI.  —  Che  chi  ha  a  fare  con  attai,  ancora  che  tia 
inferiore,  purché  posta  toslenere  i  primi  impeli,  vince. 

La  potenza  de'  Tribuni  della  plebe  nella  città  di  Roma 
fa  grande,  e  fu  necessaria,  come  molte  volle  da  noi  è  stato 
discorso;  perchè  altrimenti,  non  si  sarebbe  potuto  por  freno 
all'ambitione  della  Nobiltà,  la  quale  areblie  mollo  tempo 
innanzi  corrotta  quella  Repubblica,  che  la  non  si  corruppe. 
Nondimeno,  perchè  in  ogni  cosa,  come  altre  volte  si  è  detto, 
è  nascoso  qualche  proprio  male,  che  fa  surgere  nuovi  acci- 
denti, è  necessario  a  questi  con  nuovi  ordini  provvedere.  Es- 
sendo, pertanto,  divenuta  l'autorità  tribunizia  insolente,  e 
formidabile  alla  Nobiltà  ed  a  tutta  Roma,  e' ne  sarebbe  nato 
qualche  inconveniente  dannoso  alla  libertà  romana ,  se  da 
Appio  Claudio  non  fusse  sialo  mostro  il  modo  con  il  quale 
si  avevano  a  difendere  centra  all'ambizione  de'Triboni  :  il 
quale  fu  che  trovarono  sempre  infra  loro  qualcuno  che  fusse  o 
pauroso,  o  corruttibile,  o  amatore  del  comun  bene;  talmcn- 
lechè  lo  disponevano  ad  opporsi  alla  volontà  di  quelli  altri , 
che  volessino  tirare  innanzi  alcuna  diliberazione  centra  alla 
volontà  del  Senalo.  Il  quale  rimedio  fa  an  grande  tempera- 

*  La  comune  delle  edizioaix  a  Novara, 


LIBRO   TEUZO.  .  349 

mento  a  lanla  aulorilà,  e  per  molli  lampi  giovò  a  Roma.  La 
qual  cosa  m'ha  fallo  considerare,  che  qualunque  volta  e'  sono 
molli  potenti  uniti  centra  ad  un  altro  potente,  ancora  che 
lutti  insieme  siano  molto  più  potenti  di  quello,  nondimanco 
si  debbe  sempre  sperare  più  in  quello  solo  e  meno  gagliardo, 
che  in  quelli  assai,  ancoraché  gagliardissimi.  Perchè,  la- 
sciando stare  tutte  quelle  cose  delle  quali  uno  solo  si  può 
più  che  molli  prevalere  (che  sono  inOnite),  sempre  occorrerà 
questo:  che  potrà,  usando  un  poco  d'industria,  disunire  gli 
assai;  e  quel  corpo  ch'era  gagliardo,  far  debole.  Io  non  vo- 
glio in  questo  addurre  antichi  essempì,  che  ce  ne  sarebbono 
assai;  ma  voglio  mi  bastino  i  moderni,  seguiti  ne' tempi  no- 
stri. Congiurò  nel  1484  tutta  Italia  contra  a'  Viniziani  ;  e 
poiché  loro  al  lutto  erano  persi,  e  non  potevano  slare  più 
con  P  esercito  in  campagna,  corruppono  il  signor  Lodovico 
che  governava  Milano;  e  per  tale  corruzione  feciono  ano  ac- 
cordo, nel  quale  non  solamente  riebbono  le  terre  perse,  ma 
usurparono  parte  dello  slato  di  Ferrara.  E  così  coloro  che 
perdevano  nella  guerra,  restarono  superiori  nella  pace.  Po- 
chi anni  sono  congiurò  contra  a  Francia  tutto  il  mondo:  non- 
dimeno, avanti  che  si  vedesse  il  fine  della  guerra,  Spagna  si 
ribellò  da' confederali,  e  fece  accordo  seco;  in  modo  che  gli 
altri  confederali  furono  costretti  poco  dipoi  ad  accordarsi 
ancora  essi.  Talché,  senza  dubbio,  si  debbe  sempre  mai  fare 
giudizio,  quando  e'  si  vede  una  guerra  mossa  da  molti  contra 
ad  uno,  che  quello  uno  abbia  a  restar  superiore,  quando  sia 
di  tale  virtù,  che  possa  sostenere  i  primi  impeti,  e  col  tem- 
poreggiarsi aspettare  tempo.  Perché  quando  e'  non  fussecosì, 
porterebbe  mille  pericoli  :  come  intervenne  ai  Viniziani  nel- 
l'otto,  i  quali  se  avessero  potuto  temporeggiare  con  lo  eser- 
cito francioso,  ed  avere  tempo  a  guadagnarsi  alcuni  di  quelli 
che  gli  erano  collegati  contra,  arebbono  fuggita  quella  rovi- 
na ;  ma  non  avendo  virtuose  armi  da  potere  temporeggiare 
il  nimico,  e  per  questo  non  avendo  avuto  tempo  a  separarne 
alcuno,  rovinarono.  Perchè  si  viddc  che  il  papa,  riavuto  ch'egli 
ebbe  le  cose  sue,  si  fece  loro  amico;  e  così  Spagna:  e  mollo 
volentieri  l'uno  e  l'altro  diquesli  due  principi  arebbono  salvalo 
loro  lo  slato  di  Lombardia  centra  a  Francia,  per  non  Io  fare  si 

30 


350  DEI   DISCORSI 

grande  in  Italia»  se  gli  avessino  poluto.  Potevano,  adunqae,  i 
Yiniziani  dare  parte  per  salvare  il  resto  :  il  che  se  loro  aves- 
sino fatto  in  tempo  che  paresse  che  la  non  fusse  stata  necessi- 
tà, ed  innanzi  ai  moli  della  guerra,  era  savissimo  partito;  ma 
in  su' moli  era  vituperoso,  e  per  avventura  di  poco  profitto. 
Ma  innanzi  a  lati  moli,  pochi  in  Vinegia  de' cittadini  pote- 
vano vedere  il  pericolo,  pochissimi  vedere  il  rimedio,  e  nes- 
suno consigliarlo.  Ma,  per  tornare  al  principio  di  questo  dis- 
corso,conchiudo:che  cosi  come  ilSenalo  romano  ebbe  rimedio 
per  la  salute  della  palria  conlra  all'ambizione  de' Tribuni, 
per  essere  molti;  cosi  ara  rimedio  qualunque  principe  che  sia 
assaltato  da  molli,  qualunque  volta  ei  sappia  con  prudenza 
usare  termini  convenienti  a  disunirgli. 

Gap.  XII.  —  Come  un  capitano  prudente  dehbe  imporre  ogni 
neetuilà  M  eombaltere  ai  tuoi  soldati ,  e  a  quelli  delti  ni- 
mici  tórlo. 

Altre  volte  abbiamo  discorso  quanto  sia  utile  alle  ama- 
ne azioni  la  necessità,  ed  a  qual  gloria  siano  sutc  condotte 
da  quella;  e  come  da  alcuni  morali  filosofi  è  stalo  scritto,  le 
mani  e  la  lingua  degli  uomini,  due  nobilissimi  inslrumcnti  a 
nobilitarlo,  non  arcbbero  operato  perfettamente,  né  con- 
dotte l'opere  umane  a  quella  altezza  si  veggono  condotte, 
se  dalla  necessità  non  fusscro  spinte.  Sendo  conosciuto, 
adunque,  dagli  antichi  capitani  degli  eserciti  la  virlù  di  tal 
necessità,  e  quanto  per  quella  gli  animi  de' soldati  diven- 
tavano ostinali  al  combattere  ;  facevano  ogni*  opera  perchè  i 
soldati  loro  fussino  costretti  da  quella.  E  dall'altra  parte,  usa- 
vano ogni  industria,  perchè  gli  nimici  se  ne  liberassino:  e 
per  questo  molle  volle  apersono  al  nimico  quella  via  che 
loro  gli  potevano  chiudere;  ed  a' suoi  soldati  propri  chiusono 
quella  che  potevano  lasciare  aperta.  Quello,  adunque,  che  di- 
sidera  o  che  una  città  si  difenda  ostinatamente,  o  che  uno 
esercilo  in  campagna  oslinalaraenle  combalta,  debbo,  sopra 
ogni  altra  cosa,  ingegnarsi  di  mettere  ne'  pelli  di  chi  ha  a 
combattere,  tale  necessità.  Onde,  un  capitano  prudente,  che 
avesse  ad  andare  ad  una  espugnazione  d'una  citta,  debbe 


LIBRO   TERZO.  351 

misurare  la  facilità  o  la  difficollà  dell'espugnarla  dal  cono- 
scere e  considerare  quale  necessità  costrìnga  gli  abitatori  di 
quella  a  difendersi:  e  quando  vi  trovi  assai  necessità  che  gli 
costringa  alia  difesa,  giudichi  la  ispugnazione  difficile;  al- 
trimenti, la  giudichi  facile.  Di  qui  nasce  che  le  terre  dopo  la 
ribellione  sono  più  difficili  ad  acquistare,  che  le  non  sono 
nel  primo  acquisto  :  perchè  nel  principio  non  avendo  cagione 
di  temer  di  pena,  per  non  avere  offeso,  si  arrendono  facil- 
mente; ma  parendo  loro,  sendosi  dipoi  ribellate,  avere  offeso, 
e  per  questo  temendo  la  pena,  diventano  difficili  ad  essere 
ispugnate.  Nasce  ancora  tale  ostinazione  dai  naturali  odii 
che  hanno  i  principi  vicini  e  repubbliche  vicine  1*  uno  con 
l'altro:  il  che  procede  da  ambizione  di  dominare,  e  gelosia 
del  loro  stato,  massimamente  se  le  sono  repubbliche,  come 
interviene  in  Toscana  ;  la  quale  gara  e  contenzione  ha  fatto  e 
farà  sempre  difficile  la  espugnazione  l'una  dell'altra.  Pertanto, 
chi  considerrà  bene  i  vicini  della  città  di  Firenze  ed  i  vi- 
cini della  città  di  Vinegia,  non  si  meraviglierà,  come  molti 
fanno,  che  Firenze  abbia  più  speso  nelle  guerre,  ed  acqui- 
stato meno  di  Vinegia:  perchè  lutto  nasce  da  non  avere  avuto 
i  Viniziani  le  terre  vicine  si  ostinate  alla  difesa,  quanto  ha 
avuto  Firenze  ;  per  esser  state  tutte  le  ciltadi  finitime  a  Vi- 
negia use  a  vivere  sotto  un  principe,  e  non  libere  ;  e  quelli 
che  sono  consueti  a  servire,  stimano  molte  volte  poco 
il  mutare  padrone,  anzi  molte  volte  lo  desiderano.  Talché 
Vinegia,  benché  abbia  avuti  i  vicini  più  potenti  che  Firen- 
ze, per  avere  trovate  le  terre  meno  ostinate,  le  ha  potute 
più  tosto  vincere,  che  non  ha  fatto  quella  sendo  circundata 
da  tutte  città  libere.  Debbo  adunque  un  capitano,  per  tornare 
al  primo  discorso,  quando  egli  assalta  una  terra,  con  ogni 
diligenza  ingegnarsi  di  levare  a' difensori  di  quella  tale  ne- 
cessità, e  per  conseguenza  tale  ostinazione;  promettendo 
perdono,  se  gli  hanno  paura  della  pena;»e  se  gli  avessino 
paura  della  libertà,  mostrare  di  non  andare  contra  al  co- 
mune bene,  ma  contra  a  pochi  ambiziosi  della  città  :  la  quale 
cosa  molte  volte  ha  facilitato  l'imprese  e  l'espugnazioni  delle 
terre.  E  benché  simili  colori  siano  facilmente  conosciuti,  e 
massime  dagli  uomini  prudenti;  nondimeno  vi  sono  spesso 


3o2  DEI  DISCORSI 

ingannati  i  popoli,  i  quali,  copidi  della  presente  pace,  chiug- 
gono  gli  occhi  a  qualunque  altro  laccio  che  sotto  le  larghe 
promesse  si  tendesse.  E  per  questa  via  infinite  città  sono  di- 
ventate serve:  come  intervenne  a  Firenze  nei  prossimi  tem- 
pi ;  e  come  intervenne  a  Crasso  ed  allo  esercito  suo,  il  quale 
ancora  che  conoscesse  le  vane  promesse  de' Parti,  le  quali 
erano  fatte  per  tòr  via  la  necessità  ai  suoi  soldati  del  difen- 
dersi, nondimanco  non  potette  tenerli  ostinati,  accecati  dalle 
otTerte  della  pace  che  erano  fatte  loro  dai  loro  nimìci  :  come 
si  vede  particolarmente  leggendo  la  vita  di  quello.  Dico  per- 
tanto, che  avendo  i  Sanniti,  fuora  della  convenzione  dello 
accordo,  per  l'ambizione  di  pochi  corso  e  predato  sopra  i 
campi  de*  confederati  Romani  ;  ed  avendo  dipoi  mandati 
ambasciadori  a  Roma  a  chieder  pace,  oflTercndo  di  restituire 
le  cose  predale,  e  di  dare  prigioni  gli  autori  de' tumulti  e 
della  preda  ;  furono  ributtati  dai  Romani  :  e  ritornati  a  Snn- 
nio  senza  speranza  d'accordo,  Claudio  Ponzio,  capitano  al- 
lora dello  esercito  de'  Sanniti,  con  una  sua  notabile  orazione 
mostrò,  come  i  Romani  volevano  in  ogni  modo  guerra  ;  e 
benché  per  loro  si  desiderasse  la  pace,  la  necessità  gli  faceva 
seguire  la  guerra  ;  dicendo  queste  parole  :  Juslum  est  bellum  ; 
quibus  ncccssarium,  et  pia  arma,  quihus  nisi  in  armis  spa  est  : 
sopra  la  qual  necessità  egli  fondò  con  gli  suoi  soldati  la  spe- 
ranza della  vittoria. Eper  non  avere  a  tornare  più  sopra  questa 
materia,  mi  pare  da  addurviquelliessempi  romani  che  sono  più 
degni  d'annotazione.  EraCaioManilio  con  lo  esercito  all'incon- 
tro dei  Veienti;  ed  essendo  parte  dello  esercito  veicntano  en- 
trato dentro  agli  steccati  di  Manilio,  corse  Manilio  con  una 
banda  al  soccorso  di  quelli  ;  e  perchè  i  Veienti  non  potessino 
salvarsi,  occupò  tutti  gli  aditi  del  campo  :  donde  veggendosi 
i  Veienti  rinchiusi,  cominciarono  a  combattere  con  tanta 
rabbia,  ch'egli  ammazzarono  Manilio;  ed  arebbcro  tutto  il 
resto  dei  Romani  oppressi,  se  dalla  prudenza  d'uno  Tribuno 
non  fosse  stato  loro  aperta  la  via  ad  andarsene.  Dove  si  ve- 
de, come  mentre  la  necessità  costrinse  i  Veienti  a  combat- 
tere, e* combatterono  ferocissimamente;  ma  quando  videro 
aperta  la  via,  pensarono  più  a  fuggire  che  a  combattere. 
Erano  entrali  i  Volsci  e  gli  Equi  con  gli  eserciti  loro  ne' con- 


LIBRO    TERZO.  353 

fini  romani.  Mandossi  loro  airincontro  i  Consoli.  Talché,  nel 
travagliare  la  zuffa,  Io  esercito  dei  Volsci,  del  quale  era  capo 
Vetlio  Mescio,  si  trovò  ad  un  tratto  rinchiuso  intra  gli  stec- 
cati suoi  occupati  dai  Romani,  e  l'altro  esercito  romano;  e 
veggendo  come  gli  bisognava  o  morire,  o  farsi  la  via  col 
ferro,  disse  ai  suoi  soldati  queste  parole:  Ile  mecum;  non 
murus  nec  valium,  armali  armalis  ohslant;  virlule  pares, 
qucB  uUimum  ac  maximum  lelum  esl^  necessitale  superiores 
esiis.  Sì  che  questa  necessità  è  chiamata  da  Tito  Livio  uUi- 
mum ac  maximum  telum.  Caramillo,  prudentissimo  di  tutti  i 
Capitani  romani,  sendo  già  dentro  nella  città  dei  Veienti  con 
il  suo  esercito,  per  facilitare  il  pigliare  quella,  e  tórre  ai 
nimici  una  ultima  necessità  di  difendersi,  comandò,  in  modo 
che  i  Veienti  udirono,  che  nessuno  oCfendesse  quelli  che 
fussino  disarmati;  talché,  gittate  l'armi  in  terra,  si  prese 
quella  città  quasi  senza  sangue.  Il  quale  modo  fu  dipoi  da 
molti  capitani  osservalo. 

Cap.  XIII.  —  Dove  sia  più  da  confidare,  o  in  uno  buono  capi- 
tano che  abbia  V  esercito  debole,  o  in  uno  buono  esercito 
che  abbia  il  capitano  debole. 

Essendo  diventato  Coriolano  esule  di  Roma,  se  ne  andò 
ai  Volsci,  dove  contratto  uno  essercito  per  vendicarsi  contra 
ai  suoi  cittadini,  se  ne  venne  a  Roma  ;  donde  dipoi  si  partì, 
più  per  pietà  della  sua  madre,  che  per  le  forze  dei  Romani. 
Sopra  il  quale  luogo  Tito  Livio  dice,  essersi  per  questo  cono- 
sciuto, come  la  Repubblica  romana  crebbe  più  per  la  virtù 
dei  Capitani,  che  de* soldati;  considerato  come  i  Volsci  per 
lo  addietro  erano  stati  vinti,  e  solo  poi  avevano  vinto  che 
Coriolano  fu  loro  Capitano.  E  benché  Livio  tenga  tale  oppi- 
nione,  nondimeno  si  vede  in  molti  luoghi  della  sua  istoria  la 
virtù  de' soldati  senza  capitano  aver  fatto  meravigliose  pruo- 
ve,  ed  esser  stati  più  ordinati  e  più  feroci  dopo  la  morte 
de' Consoli  loro,  che  innanzi  che  morissino:  come  occorse 
nello  esercito*  che  i  Romani  avevano  in  Ispagna  sotto  gli 
Scipioni;  il  quale j  morti  i  duoi  capitani,  potè  con  la  virtù 
sua  non  solamente  salvare  sé  stesso,  ma  vincere  il  nimico, 

30* 


354  E>E^l   DISCORSI 

e  conservare  quella  provincia  alla  Repubblica.  Talché,  discor- 
rendo tulio,  si  Iroverà  molli  essempi,  dove  solo  la  virlù  dei 
soldali  ara  vinto  la  giornata;  e  molli  altri,  dove  solo  la  virlù 
dei  capitani  ara  fallo  il  medesimo  efletlo  :  in  modo  che  si 
può  giudicare,  V  uno  abbia  bisogno  dell'  altro,  e  1*  altro  del- 
l'uno.  Èccì  bene  da  considerare  prima,  qual  sia  più  da  te- 
mere, o  d' ano  buono  esercito  male  capitanalo,  o  d'uno  buono 
capitano  accompagnalo  da  cattivo  esercito.  E  seguendo  in 
questo  Toppinione  di  Cesare,  si  debbo  stimare  poco  l'uno 
e  r  altro.  Perchè  andando  egli  in  Ispagna  contra  ad  Afra- 
nio  e  Pelreio,  che  avevano  un  buono  esercito,  disse  che 
gli  stimava  poco  quia  ibal  ad  exercilum  sine  ducet  mo- 
strando la  debolezza  dei  capitani.  Al  contrario,  quando 
andò  in  Tessaglia  contra  Pompeo,  disse:  Vado  ad  duccm  sine 
exercilu.  Puossi  considerare  un'  altra  cosa  :  a  quale  è  più  fa- 
cile, 0  ad  uno  buono  capitano  fare  un  buono  esercito,  o  ad  uno 
buono  esercito  fare  un  buono  capitano.  Sopra  che  dico,  che 
(ale  questione  pare  decisa;  perchè  più  facilmente  molti  buoni 
troveranno  o  instruiranno  uno,  tanto  che  diventi  buono,  che 
non  Tara  uno  molli.  Lucullo,  quando  fu  mandato  contra  a 
Mitridate,  era  al  tutto  inesperto  della  guerra;  nondimanco 
quel  buono  esercito,  dove  erano  assai  ottimi  capi,  lo  feciono 
tosto  un  buon  capitano.  Armarono  i  Romani,  per  difello 
d' uomini,  assai  servi,  e  gli  dierono  ad  esercitare  a  Sempro- 
nio Gracco,  il  quale  in  poco  tempo  fece  un  buon  esercito. 
Pelopida  ed  Epaminonda,  come  altrove  dicemmo,  poich'  egli 
ebbero  tratta  Tebe  loro  patria  della  servitù  degli  Spartani, 
in  poco  tempo  feciono  de' contadini  lebani  soldati  ottimi,  che 
poterono  non  solamente  sostenere  la  milizia  spartana,  ma 
vìncerla.  Si  che  la  cosa  è  pari,  perchè  1'  uno  buono  può  tro- 
vare r  altro.  Nondimeno  un  esercito  buono  senza  capo  buono 
suole  diventare  insolente  e  pericoloso;  come  diventò  l'eser- 
cito di  Macedonia  dopo  la  morte  di  Alessandro,  e  come  erano 
i  soldati  veterani  nelle  guerre  civili.  Tanto  che  io  credo  che 
sia  più  da  conGdare  assai  in  uno  capitano  che  abbi  tempo  a 
instruirte  uomini  e  comodità  di  armargli,  che  in  uno  eser- 
cito insolente,  con  uno  capo  tumultuario  fallo  da  lui.  Però  è 
da  duplicare  la  gloria  e  la  laude  a  quelli  rapiiani  che  non 


I 


LIBRO    TRRZO.  355 

solamente  hanno  avolo  a  vincere  il  nimico,  ma  prima  che 
venghino  alle  mani  con  quello,  è  convenuto  loro  inslruire 
l'esercito  loro,  e  farlo  buono:  perchè  in  questi  si  mostra 
doppia  virtù,  e  tanto  rara,  che  se  tale  fatica  fusse  stata  data 
a  molti,  ne  sarebbero  stimati  e  riputati  meno  assai  jche  non 
sono. 

Gap.  XIV.  —  Le  invenzioni  nuove  che  appariscono  nel  mezzo 
della  zuffa,  e  le  voci  nuove  che  si  odono,  *  quali  e/felli 
faccino. 

Di  quanto  momento  sia  ne'  conflitti  e  nelle  zuffe  un  nuo- 
vo accidente  che  nasca  per  cosa  che  di  nuovo  si  vegga  o 
oda,  si  dimostra  in  assai  luoghi,  e  massime  per  questo  essem- 
pio  che  occorse  nella  zuffa  che  i  Romani  fecero  coi  Volsci; 
dove  Quinzio  veggendo  inclinare  uno  de'  corni  del  suo  eser- 
cito, cominciò  a  gridare  forte,  che  gli  stessine  saldi,  perchè 
l'altro  corno  dello  esercito  era  vittorioso:  con  la  qual  parola, 
avendo  dato  animo  a' suoi  e  sbigottimento  a'nimici,  vinse. 
E  &e  tali  voci  in  uno  esercito  bene  ordinato  fanno  effelti 
grandi,  in  uno  tumultuario  e  male  ordinato  gli  fanno  gran- 
dissimi, perchè  al  lutto  è  mosso  da  simil  vento.  Ione  voglio 
addurre  uno  essempio  notabile  occorso  ne'  nostri  tempi.  Era 
la  città  di  Perugia  pochi  anni  sono  divisa  in  due  parti,  Oddi 
e  Baglioni.  Questi  regnavano;  quelli  altri  erano  esuli:  i  quali 
avendo,  medianti  loro  amici,  ragunato  esercito,  e  ridottisi  in 
alcuna  loro  terra  propinqua  a  Perugia  con  il  favore  della 
parte;  una  notte  entrarono  in  quella  città,  e  senza  essere 
scoperti,  se  ne  venivano  per  pigliare  la  piazza.  E  perchè 
quella  città  in  su  tutti  i  canti  delle  vie  ha  catene  che  la  ten- 
gono sbarrala,  avevano  le  genti  oddesche  davanti  uno  che 
con  una  mazza  ferrata  rompeva  i  serrami  di  quelle,  accioc- 
ché i  cavalli  potessero  passare;  e  restandogli  a  rompere  solo 
quella  che  sboccava  in  piazza,  ed  essendo  già  levalo  il  re- 
more all'armi,  ed  essendo  colui  che  rompeva  oppresso 
dalla  turba  che  gli  veniva  dietro,  né  polendo  per  questo 
alzare  bene   le    braccia  per  rompere,  per  potersi  maneg- 

*  La  Romana  soltanlo  :  odino. 


336  DEI   DISCORSI 

giare,  gli  venne  dello:  Fatevi  indietro:  la  qual  voce  an- 
dando di  grado  in  grado  dicendo  addietro,  cominciò  a 
far  fuggire  gli  ultimi,  e  di  mano  in  mano  gli  altri,  con 
tanta  furia,  che  per  loro  medesimi  si  ruppono  ;  e  cosi  restò 
vano  il  disegno  degli  Oddi,  per  cagione  di  si  debole  acci- 
dente. Dove  è  da  considerare,  che  non  tanto  gli  ordini  in 
uno  esercito  sono  necessari  per  potere  ordinatamente  com- 
battere, quanto  perchè  ogni  minimo  accidente  non  ti  disor- 
dini. Perchè,  non  per  altro  le  moltitudini  popolari  sono  disu- 
tili per  la  guerra,  se  non  perchè  ogni  rumore,  ogni  voce, 
ogni  strepito  gli  altera,  e  fagli  fuggire.  E  però  un  buon 
capitano  intra  gli  altri  suoi  ordini  debbe  ordinare  chi  sono 
quelli  che  abbino  a  pigliare  la  sua  voce  e  rimetterla  ad  altri, 
ed  assuefare  i  suoi  soldati  che  non  credino  se  non  a  quelli 
suoi  capì,  che  non  dichino  se  non  quel  che  da  lui  è  com- 
messo ;  perchè  non  osservala  bene  questa  parte,  si  è  visto 
molle  volte  avere  falli  disordini  grandissimi.  Quanto  al  ve- 
dere cose  nuove,  debbe  ogni  capitano  ingegnarsi  di  farne 
apparire  alcuna,  mentre  che  gli  eserciti  sono  alle  mani,  che 
dia  animo  agli  suoi  e  tolgalo  agli  nimici;  perchè  intra  gli. ac- 
cidenti che  ti  diano  la  vittoria,  questo  è  etlìcacissimo.  Di  che 
se  ne  può  addurre  per  testimone  Caio  Sulpizio  dittatore  ro- 
mano ;  il  quale  venendo  a  giornata  con  ì  Franciosi,  armò 
tulli  i  saccomanni  e  gente  vile  del  campo  ;  e  quelli  falli  sa- 
lire sopra  i  muli  ed  altri  somieri  con  armi  ed  insegne  da  pa- 
rere gente  a  cavallo ,  gli  mise  dietro  a  un  colle,  e  comandò 
che  ad  un  segno  dato,  nel  tempo  che  la  zuffa  fusse  più  ga- 
gliarda, si  scoprissero  e  mostrassinsi  a' nimici.  La  qual  cosa 
cosi  ordinala  e  fatta,  delle  tanto  terrore  ai  Franciosi,  che 
perderono  la  giornata.  E  però  un  buon  capitano  debbe  fare 
due  cose:  V  una  di  vedere  con  alcune  di  queste  nuove  inven- 
zioni di  sbigottire  il  nimico;  l'altra  distare  preparalo  che  es- 
sendo falle  dal  nimico  centra  di  lui,  le  possa  scoprire,  e  far- 
gliene tornar  vane  :  come  fece  il  re  d' India  a  Semiramis;  la 
quale  veggendo  come  quel  re  aveva  buon  numero  d'elefanti, 
per  sbigottirlo,  e  per  mostrargli  che  ancora  essa  n'era  co- 
piosa, ne  formò  assai  con  cuoia  di  bufali  e  dì  vacche,  e 
quelli  messi  sopra  i  cammelli,  gli  mandò  davanti;  ma  cono- 


LIBRO    TERZO.  357 

scìuto  dal  re*  l'inganno,  gli  tornò  non  solanaente  quel  suo 
disegno  vano,  ma  dannoso.  Era  Mamerco  dittatore  centra 
a'Fidenati,  i  quali,  per  isbigoltire  lo  esercito  romano,  ordi- 
narono che  in  sull'ardore  della  zufla  uscisse  fuora  di  Fidene 
numero  di  soldati  con  fuochi  in  sulle  lance,  acciocché  i  Ro- 
mani occupali  dalla  novità  della  cosa,  rompessino  intra  loro 
gli  ordini.  Sopra  che  è  da  notare,  che  quando  tali  invenzioni 
hanno  più  del  vero  che  del  finto,  si  può  bene  allora  rappre- 
sentarle agli  uomini,  perchè  avendo  assai  del  gagliardo,  non 
si  può  scoprire  cosi  presto  la  debolezza  loro:  ma  quando 
l'hanno  più  del  finto  che  del  vero,  è  bene  o  non  le  fare,  o 
facendole  tenerle  discosto,  di  qualità  che  le  non  possine  es- 
sere così  presto  scoperte;  come  fece  Caio  Sulpizio  de'mulat- 
lieri.  Perchè  quando  vi  è  dentro  debolezza,  appressandosi,  le 
si  scuoprono  tosto,  e  ti  fanno  danno,  e  non  favore;  come 
feciono  gli  elefanti  a  Semiramis,  e  a'Fidenati  i  fuochi:  i  quali 
benché  nel  princìpio  turbassino  un  poco  l'esercito;  nondi- 
meno come  e'  sopravvenne  il  Dittatore,  e  cominciò  a  sgri- 
dargli, dicendo  che  non  si  vergognavano  a  fuggire  il  fumo 
come  le  pecchie,  e  che  dovessino  rivoltarsi  a  loro,  gridando: 
Suis  flammis  delele  Fidenas,  quas  veslris  beneficiis  placare  non 
poluisHs;  tornò  quello  trovato  ai  Fidenati  inutile,  e  restarono 
perditori  della  zuCfa. 

^AP.  XV.  —  Come  uno  e  non  molli  siano  preposti  ad   uno 
esercito,  e  come  i  più  comandatori  offendono. 

Essendosi  ribellati  i  Fidenati,  ed  avendo  morto  quella 
colonia  che  i  Romani  avevano  mandata  in  Fidene,  crearono  i 
Romani,  per  rimediare  a  questo  insulle,  quattro  Tribuni  con 
poleslà  consolare;  de' quali  lasciatone  uno  alla  guardia  di 
Roma,  ne  mandarono  tre  centra  ai  Fidenati  ed  i  Veienti:  i 
quali  per  esser  divisi  intra  loro  e  disuniti,  ne  riportarono 
disonore,  e  non  danno.  Perchè  del  disonore,  ne  furono  ca- 
gione loro;  del  non  ricevere  danno,  ne  fu  cagione  la  virtù 
de'soldati.  Donde  i  Romani,  veggendo  questo  disordine,  ricor- 

*  La  Bladiaua  :  i  cameli ,  e:  da  il  re  j  romanismo  il  primo,  vcrisimilmente 
inlrodolto  dallo  stampatore;  e  l'altro  (come  altrove  avvertimmo)  fiorentinismo. 


358  DEI    DISCORSI 

83no  alla  creazione  del  Dittatore,  acciocché  un  solo  riordi- 
nasse quello  che  tre  avevano  disordinato.  Donde  si  conosce 
la  inutilità  di  molti  comandatori  in  uno  esercito,  o  in  una 
terra  che  s'abbia  a  difendere;  e  Tito  Livio  non  lo  può  più 
chiaramente  dire  che  con  le  infrascritte  parole:  Trcs  Tribuni 
poieslale  consulari  documento  fuere,  quam  plurium  imperium 
bello  inulUe  essel;  lendendo  ad  sua  quisque  contilia,  cum  alii 
aliud  viderelurj  aperuerunl  ad  occasionem  locum  hosli.  E  ben- 
ché questo  sia  assai  essempio  a  provare  il  disordine  che  fanno 
nella  guerra  i  più  comandatori,  ne  voglio  addurre  alcuno 
altro,  e  moderno  ed  antico,  per  maggiore  dichiarazione. 
Nel  1500,  dopo  la  ripresa  che  fece  il  re  di  Francia  Luigi  XII 
di  Milano,  mandò  le  sue  genti  a  Pisa  per  restituirla  ai  Fio- 
rentini; dove  furono  mandali  commessari  Giovambatista  Ri- 
dolfi  e  Luca  d'Antonio  degli  Albizi.B  perchè  Giovambatista 
era  aomo  di  riputazione,  é  di  più  tempo,  Luca  lasciava  al 
lutto  governare  ogni  cosa  a  lui:  e  se  egli  non  dimostrava  la 
sua  ambizione  con  opporsegli,  la  dimostrava  col  tacere,  e 
con  lo  stracurarc  e  vilipendere  ogni  cosa  in  modo,  che  non 
aiutava  le  azioni  del  campo  né  coli' opere  né  col  consiglio, 
come  se  fusse  slato  uomo  di  nessuno  momento.  Ma  si  vidde 
poi  lutto  il  contrario  quando  Giovambatista,  per  certo  acci- 
dente seguito,  se  n'ebbe  a  tornare  a  Firenze;  dove  Luca,  ri- 
masto solo,  dimostrò  quanto  con  l'animo,  con  la  industria  e 
con  il  consiglio  valeva:  le  quali  tutte  cose  mentre  vi  fu  la 
compagnia  erano  perdute.  Voglio  di  nuovo  addurre  in  con- 
fìrmazione  di  questo  le  parole  di  Tito  Livio;  il  quale  refe- 
rendo come  essendo  mandato  dai  Romani  conlra  agli  Equi 
Quinzio  ed  Agrippa  suo  collega ,  Agrippa  volle  che  tutta 
l'amministrazione  della  guerra  fusse  appresso  a  Quinzio,  e'  ^ 
dice:  Saluberrimum  in  adminislralione  magnarum  rerum  est, 
summam  imperii  apud  unum  esse.  Il  che  è  contrario  a  quello 
che  oggi  fanno  queste  nostre  repubbliche  e  principi,  di  man- 
dare ne' luoghi,  per  ministrargli  meglio,  più  d'un  corames- 
sario,  e  più  d'un  capo:  il  che  fa  una  inestimabile  confusione. 
E  se  si  cercasse  la  cagione  della  rovina  degli  eserciti  italiani 

*  TaUe  le  eduiooi  qoi  haano  l' e  coogiuntiva.  La  qaal  confessione  facciami 
perdonare  l'arLitrio. 


LIBRO  TERZO.  359 

e  franciosi  ne' nostri  tempi,  si  troverebbe  la  polissinaa  ca- 
gione esssere  stata  questa.  E  puossi  conchiudere  veramente, 
come  gli  è  meglio  mandare  in  una  espedizione  un  uomo 
solo  di  comunale  prudenza,  che  duoi  valentissimi  uomini  in- 
sieme tìon  la  medesima  autorità. 

Cap.  XVI.  —  Che  la  vera  virlù  si  va  ne*  tempi  diffìcili  a  tro- 
vare; e  ne'  tempi  facili  non  gli  uomini  virtuosi,  ma  quelli 
che  per  ricchezze  o  per  parentado  prevagliono,  hanno  più 
grazia. 

Egli  fu  sempre,  e  sempre  sarà,  che  gli  uomini  grandi  e 
rari  in  una  repubblica  nei  tempi  pacifichi  sono  negletti;  per- 
chè per  la  invidia  che  s' ha  tirato  dietro  la  riputazione  che  la 
virtù  d'  essi  ha  dato  loro,  si  truova  in  tali  tempi  assai  citta- 
dini che  vogliono,  non  che  esser  loro  eguali,  ma  esser  loro 
superiori.  E  di  questo  n'è  un  luogo  buono  in  Tucidide  islo- 
rico  greco;  il  quale  mostra  come  sondo  la  repubblica  ateniese 
rimasa  superiore  in  la  guerra  peloponnesiaca,  ed  avendo 
frenato  r  orgoglio  degli  Spartani,  e  quasi  sottomessa  tutta  la 
Grecia,  salse  in  tanta  riputazione,  che  la  disegnò  d'  occupare 
la  Sicilia.  Venne  questa  impresa  in  disputa  in  Atene.  Alci- 
biade e  qualche  altro  cittadino  consigliavano  che  la  si  faces- 
se, come  quelli  che  pensando  poco  al  bene  pubblico,  pensa- 
vano ali*  onor  loro,  disegnando  esser  capi  di  tale  impresa.  Ma 
Nicia,  che  era  il  primo  intra  i  riputati  d'Atene,  la  dissua- 
deva ;  e  la  maggior  ragione  che  nel  concionare  al  popolo, 
perchè  gli  fusse  prestato  fede,  adducesse,  fu  questa:  che 
consigliando  esso  che  non  si  facesse  questa  guerra,  ei  con- 
sigliava cosa  che  non  faceva  per  lui  ;  perchè  stando  Atene 
in  pace,  sapeva  come  v'erano  infiniti  cittadini  che  gli  vole- 
vano andare  innanzi  ;  ma  facendosi  guerra,  sapeva  che  nes- 
suno cittadino  gli  sarebbe  superiore,  o  eguale.  Vedesi,  pertan- 
to, come  nelle  repubbliche  è  questo  disordine,  di  fare  poca 
stima  de'  valentuomini  ne'  tempi  quieti.  La  qual  cosa  gli  fa 
indegnare  in  due  modi  :  1'  uno  pei*  vedersi  mancar  del  grado 
loro;  l'altro  per  vedersi  fare  compagni  e  superiori  uomini 
indegni,  e  di  manco  sufficienza  di  loro.  Il  quale  disordine 
nelle  repubbliche  ha  causato  di  molle  rovine  ;  perchè  quelli 


360  DEI   DISCORSI 

cilladini  che  immerilamente  sì  ves;gono  sprezzare,  e  cono- 
scono che  e'  ne  sono  cagione  i  lempi  facili  e  non  pericolosi, 
s' ingegnano  di  turbargli,  movendo  nuove  guerre  in  pregiudi- 
zio della  repubblica.  E  pensando  quali  potessino  essere  i 
rimedi ,  ce  ne  trovo  due  :  1'  uno ,  manlenere  i  cittadini  jfeveri, 
acciocché  con  le  ricchezze  senza  virtù  non  potessino  corrom- 
pere né  loro  né  altri  ;  1*  altro ,  di  ordinarsi  in  modo  alla  guerra, 
che  sempre  sì  potesse  far  guerra,  e  sempre  s'avesse  bisogno  di 
cittadini  riputati,  come  fé  Roma  ne' suoi  primi  tempi.  Perchè 
tenendo  fuori  quella  città  sempre  eserciti,  sempre  v'  era  luogo 
alla  virtù  degli  uomini  ;  né  si  poteva  tórre  il  grado  ad  uno 
che  lo  meritasse,  e  darlo  ad  uno  altro  che  non  lo  meritasse. 
Perchè  se  pure  lo  faceva  qualche  volta  per  errore,  o  per 
provare,  oe  seguiva  tosto  tanto  suo  disordine  e  pericolo,  che 
la  ritornava  subito  nella  vera  via.  Ma  le  altre  repubbliche 
che  non  sono  ordinate  come  quella,  e  che  fanno  solo  guerra 
quando  la  necessità  le  conslringe,  non  si  possono  difendere 
da  lale  inconveniente:  anzi  sempre  vi  correranno  dentro;  e 
sempre  ne  nascerà  disordine,  quando  quel  cittadino  negletto 
e  virtuoso,  sia  vendicativo,  ed  abbia  nella  città  qualche  ripu- 
tazione e  aderenza.'  E  se  la  città  di  Roma  un  tempo  se  ne 
difeso,  a  quella  ancora,  poiché  la  ebbe  vinto  Cartagine  ed 
Antioco  (come  altrove  si  disse),  non  temendo  più  di  guerra, 
pareva  poter  commettere  gli  eserciti  a  qualunque  la  voleva; 
non  riguardando  tanto  alla  virtù,  quanto  alle  altre  qualità 
che  gli  dessino  grazia  nel  popolo.  Perchè  si  vede  che  Paulo 
Emilio  ebbe  più  volte  la  repulsa  nel  consolato,  né  fu  prima 
fatto  Consolo  che  surgesse  la  guerra  macedonica  ;  la  quale 
giudicandosi  pericolosa,  di  consenso  di  tutta  la  città  fu  com- 
messa a  lui.  Sendo  nella  città  nostra  di  Firenze  seguile  dopo 
il  1494  di  molte  guerre,  ed  avendo  fatto  i  cittadini  fiorentini 
tutti  una  cattiva  pruova,  si  riscontrò  la  città,  a  sorte,  in  uno 
che  mostrò  in  che  maniera  s'aveva  a  comandare  agli  eserciti; 
il  quale  fu  Antonio  Giacomìni  :  e  mentre  che  si  ebbe  a  far 
guerre  pericolose,  tutta  1'  ambizione  degli  altri  cittadini  ces- 

•  La  Romana  a  questo  luogo  e  malamente  viziala  per  omisiione  di  una  pa- 
rola, e  difetti  di  puntuazione,  leggendo:  et  adherenta,  et  la  città  di  lioma  un 
tempo  se  ne  difese.  A  quella  ce. 


LIBRO    TliUZO.  361 

SO,  e  nella  elezione  del  Comoiessario  e  capo  degli  eserciti 
non  aveva  competitore  alcuno;  raa  come  s'ebbe  a  fare  una 
guerra  dove  non  era  dubbio  alcuno,  ed  assai  onore  e  grado, 
ci  vi  trovò  tanti  competitori,  che  avendosi  ad  eleggere  tre 
Commessari  per  campeggiar  Pisa,  fu  lascialo  indietro.  E 
benché  e'  non  si  vedesse  evidentemente  che  male  ne  seguisse 
al  pubblico  per  non  v'avere  mandato  Antonio,  nondimeno 
se  ne  potette  fare  facilissima  coniettura  ;  perchè  non  avendo 
più  i  Pisani  da  difendersi  né  da  vivere,  se  vi  fusse  stato  An- 
tonio, sarebbero  slati  tanto  innanzi  stretti,  che  si  sarebbero 
dati  a  discrezione  de'  Fiorentini.  Ma  sendo  loro  assediali  da 
capi  che  non  sapevano  né  stringerli  né  sforzarli,  furono  tanto 
intrattenuti,  che  la  città  di  Firenze  gli  comperò,  dove  la  gli 
poteva  avere  a  forza.  Convenne  che  tale  sdegno  potesse  assai 
in  Antonio;  e  bisognava  che  fusse  bene  paziente  e  buono,  a 
non  disiderare  di  vendicarsene  o  con  la  rovina  della  città, 
potendo,  o  con  l'ingiuria  d'alcuno  particolare  cittadino:  da. 
che  si  debbe  una  repubblica  guardare  ;  come  nel  seguente 
capitolo  si  discorrerà. 

Gap.  XVII.  —  Che  non  si  offenda  uno,  e  poi  quel  medesimo 
si  mandi  in  amminislrazione  e  governo  d'importanza. 

Debbe  una  repubblica  assai  considerare  di  non  preporre 
alcuno  ad  alcuna  importante  amministrazione,  al  quale  sia 
stato  fallo  da  altri  alcuna  notabile  ingiuria.  Claudio  Nerone, 
il  quale  si  parli  dallo  esercito  che  lui  aveva  a  fronte  ad  An- 
nibale, e  con  parte  d'  esso  n'  andò  nella  Marca  a  trovare 
r  altro  Consolo  per  combattere  con  Asdrubale  avanti  che 
si  congiungesse  con  Annibale  ;  s'  era  trovato  per  Io  addietro 
in  Ispagna  a  fronte  d.' Asdrubale,  ed  avendolo  serrato  in 
luogo  con  lo  esercito,  che  bisognava  o  che  Asdrubale  com- 
battesse con  suo  disavvantaggio  0  si  morisse  di  fame,  fu 
da  Asdrubale  astutamente  tanto  intrattenuto  con  certe  pra- 
tiche d'accordo,  che  gli  usci  di  sotto,  e  tolsegli  quella  oc- 
casione d'oppressarlo.  La  qual  cosa  saputa  a  Roma,  gli  delle 
carico  grande  appresso  al  Senato  ed  al  Popolo,  e  di  lui  fu 
parlato  inonestamente  per  tutta  quella  città,  non  senza  suo 

31 


362  DEI    DISCORSI 

grande  disonore  ed  isdegno.  Ma  sendo  poi  fililo  Consolo,  e 
mandato  all' incontro  d'Annibale,  prese  il  soprascrillo  par- 
tilo: il  quale  fu  pericolosissimo;  talmente  che  Roma  stello 
tutta  dubbia  e  sollevata,  infìno  a  tanto  che  vennono  le  nuove 
della  rolla  d'  Asdrubale.  Ed  essendo  domandalo  poi  Claudio 
per  qual  cagione  avesse  preso  si  pericoloso  parlilo,  dove 
senza  una  estrema  necessità  egli  aveva  giocata  '  quasi  la  li- 
bertà di  Roma;  rispose  che  T aveva  fallo  perchè  sapeva 
ohe,  se  gli  riusciva,  riacquistava  quella  gloria  che  s'aveva 
perduta  in  Ispagna  ;  e  se  non  gli  riusciva,  e  che  '  questo  suo 
partito  avesse  avuto  contrario  fìne,  sapeva  come  ei  si  ven- 
dicava contra  a  quella  città  ed  a  quelli  cittadini  che  l'ave- 
vano tanto  ingratamente  ed  indiscretamente  olTeso.  E  quando 
queste  passioni  di  tali  oflTese  possono  tanto  in  an  cittadino 
romano,  e  in  quelli  tempi  che  Roma  ancora  era  incorrotta, 
si  debbo  pensare  quanto  elle  possino  in  un  cittadino  d'  una 
pitta  che  non  sia  fatta  come  era  allora  quella.  E  perchè  a  si- 
mili disordini  che  nascono  nelle  repubbliche  non  si  può  d.irc 
certo  rimedio,  ne  seguila  che  gli  è  impossibile  ordinare  una 
repubblica  perpetua,  perchè  per  mille  inopinate  vie  si  causa 
la  sua  rovina. 

Cap.  XVIII.  —  Nessuna  cosa  è  più  degna  d' un  capUano, 
che  prf sentire  i  parlili  del  nimico. 

Diceva  Epaminonda  tebano,  nessuna  cosa  esser  più  ne- 
cessaria e  più  utile  ad  un  capitano,  che  conoscere  le  dili- 
berazioni e  partiti  del  nimico.  E  perchè  tale  cognizione  è 
diflTicile,  merita  tanto  più  laude  quello  che  adopera  in  modo 
che  le  coniellura.  E  non  tanto  è  diffìcile  intendere  gli  dise- 
gni del  nimico,  ch'egli  è  qualche  volta  diffìcile  intendere  le 
azioni  sue  ;  e  non  tanto  le  azioni  sue  che  per  lui  si  fanno 
discosto,  quantt)  le  presenti  e  le  propinque.  Perchè  molle 
volte  è  accaduto,  che  sendo  durata  una  zulTa  infìno  a  notte, 

'  La  Bladiana,  con  forma  del  tempo,  giucata;  ma  gli  editori  della  Tetti- 
na,  essendo  il  secolo  più  innoìlralo  ,  correggevano  giocata. 

3  Così  la  Romana  e  1*  edizione  del  1813.  Inutilmente  fu  per  altri  emenda- 
to :  ì  se. 


1 


LIBRO   TERZO.  363 

chi  ha  vinto  crede  aver  perduto,  e  chi  ha  perduto  crede 
aver  vinto.  11  quale  errore  ha  fatto  diliberare  cose  contrarie 
alla  salute  di  colui  che  ha  diliberato  :  come  intervenne  a 
Bruto  e  Cassio,  i  quali  per  questo  errore  perderono  la  guerra  ; 
perchè,  avendo  vinto  Bruto  dal  corno  suo,  credette  Cassio 
che  aveva  perduto,  che  tutto  l'esercito  fusse  rotto;  e  dispe- 
ratosi per  questo  errore  della  salute,  amnaazzò  se  stesso. 
Nei  nostri  tempi,  nella  giornata  che  fece  in  Lombardia  a 
Santa  Cecilia  Francesco  re  di  Francia  con  i  Svizzeri,  soprav- 
venendo la  notte,  credetteno  quella  parte  dei  Svizzeri  che 
erano  rimasti  interi  aver  vinto,  non  sappiendo  di  quelli 
che  erano  stati  rotti  e  morti  :  il  quale  errore  fece  che  loro 
medesimi  non  si  salvarono,  aspettando  di  ricombattere  *  la 
mattina  con  tanto  loro  disavvantaggio  ;  e  fecero  ancora  er- 
rare, e  per  tale  errore  presso  che  rovinare,  l'esercito  del 
papa  e  di  Spagna,  il  quale  in  su  la  falsa  nuova  della  vittoria 
passò  il  Po,  e  se  procedeva  troppo  innanzi,  restava  prigione 
de'  Franciosi  che  erano  vittoriosi.  Questo  simile  errore  oc- 
corse ne'  campi  romani  e  in  quelli  delli  Equi.  Dove,  sendo 
Sempronio  consolo  con  l'esercito  all'incontro  degli  nimici, 
ed  appiccandosi  la  zuffa,  si  travagliò  quella  giornata  infino  a 
sera  con  varia  fortuna  dell'uno  e  dell'altro:  e  venula  la 
notte,  sendo  l'uno  e  l'altro  esercito  mezzo  rotto,  non  ri- 
tornò alcuno  di  loro  ne' suoi  alloggiamenti  ;  anzi  ciascuno  si 
ritrasse  ne' prossimi  colli,  dove  credevano  esser  più  sicuri; 
e  l'esercito  romano  si  divise  in  due  parti  :  1'  una  n'  andò  col 
Consolo,  l'altra  con  un  Tempanio  centurione,  per  la  virtù 
del  quale  l'  esercito  romano  quel  giorno  non  era  stalo  rotto 
interamente.  Venuta  la  mattina,  il  Consolo  romano  senza 
intendere  altro  de'  nimici  si  tirò  verso  Roma  ;  il  simile  fece 
l'esercito  degli  Equi:  perchè  ciascuno  di  questi  credeva  che 
il  nimico  avesse  vinto,  e  però  ciascuno  si  ritrasse  senza  cu- 
rare di  lasciare  i  suoi  alloggiamenti  in  preda.  Accadde  che 
Tempanio,  ch'era  col  resto  dello  esercito  romano,  ritiran- 
dosi ancora  esso,  intese  da  certi  feriti  degli  Equi,  come  i 
capitani  loro  s'erano  partili,  ed  avevano  abbandonali  gli  al- 

*  Così ,  molto  a  proposito  ,  nella  Romana  e  in  quella  del  i3  j  ne  so  perchè 

nelle  altre  leggasi  cowArt</ere.  .'    * 


364  DRi  Disconsi 

loggiamenti  :  donde  che  egli,  in  sa  questa  nuova,  se  ne  enirù 
negli  alloggiamenli  romani,  e  salvògli  :  e  dipoi  saccheggiò 
quelli  degli  Equi,  e  se  ne  tornò  a  Roma  vittorioso.  La  qual 
Tittoria,come  si  vede,  consistè  solo  in  chi  prima  di  loro  in- 
lete i  disordini  del  nimico.  Dove  «  debbe  considerare,  come 
e'  poò  spesso  occorrere  che  i  dooi  esercili  cbe  siano  a  fronte 
r  ano  deir  «Uro,  siano  nel  medesimo  disordine,  e  patischino 
le  medesime  necessità  ;  e  cbe  quello  resti  poi  vincitore  che  ò 
il  primo  a  intendere  le  necessità  dell*  altro,  lo  voglio  dare  di 
qoestoonoessempio  domestico  e  moderno.  Nel  1498,  quando 
i  Fiorentini  avevano  ono  esercito  grosso  in  quel  di  Pisa,  e 
slringevaoo  forte  quella  città  ;  della  quale  *  avendo  prtM  i  Vi- 
niziaoi  la  protezione,  non  vnfgendo  altro  nodo  a  salvarla, 
dillberarono  di  divertire  qnallt  Sterra,  asMilando  da  un'al- 
tra banda  il  dominio  di  Firenze;  e  fatto  onn  ateraito  potente, 
entrarono  per  la  Val  di  La  mona ,  ed  oecoparono  il  borgo  di 
llarradi,  ed  assediarono  la  ròcca  di  Castiglione,  che  è  in 
ani  eolie  di  anpra.  11  che  sentendo  i  Fiorentini ,  diliberarono 
■otaafur  llarradi,  e  non  diminuire  le  foree  avevano  in 
quel  di  Pisa;  e  fatte  nuove  fanterie,  ed  ordinate  nuove  genti 
a  cavallo,  le  mandarono  a  quella  volta:  delle  qoali  ne  fa- 
reno  capi' Iacopo  quarto  d* Appiano  signore  di  Piombino,  ed 
il  conte  Rinoccio  da  Marciano.  8endosi,  adunque,  condotte 
queste  genti  in  sol  colle  aopra  llarradi,  si  levarono  i  ni- 
Bici  di  'ntorno  a  Castiglione,  e  ridossonsi  tulli  nel  borgo: 
ed  essendo  stalo  Tono  e  l'altro  di  questi  due  eserciti  a 
fronte  qualche  giorno,  pativa  l'uno  e  l'altro  assai  di  vetto- 
vaglie, e  d'ogni  altra  cosa  necessaria:  e  non  avendo  ardire 
l'uno  d'affrontare  l'altro,  né  sappiendo  i  disordini  l'uno 
dell*  altro ,  diliberarono  in  una  sera  medesima  1*  uno  e  l' al- 
tro *  di  levare  gli  alloggiamenti  la  mattina  vegnente,  e  ri- 
tirarsi in  dietro;  il  Vioiziano  verso  Berzighella  e  Faenza,  il 
Fiorentino  verso  Casaglia  e  il  11  ugello.  Venula  adunque  la 
mattina,  ed  avendo  ciascuno  de'campi  cominciato  ad  avviare 
i  suoi  impedimenti  ;  a  caso  una  donna  si  parti  dal  borgo  di 

<  E  qui  pare  deìfm  qnmU ,  la  Ttcc  cbe  di  esim ,  di  qnellm. 
'  Queste  parole  in  tma  strm  medesimm  t  nm»  «  /'  mttrt , 
■ella  Testina  e  in  altre  edicioai;  rimcske  io  «jaclla  d«J  It^lS. 


i 


LIBRO    TERZO.  3G5 

Marradi,  e  venne  verso  il  campo  fiorentino,  secura  perla 
vecchiezza  e  per  la  povertà,  disiderosa  di  vedere  certi  suoi 
che  erano  in  quel  campo:  dalla  quale  intendendo  i  capitani 
delle  genti  fiorentine,  come  il  campo  viniziano  partiva,  si 
fecero  in  su  questa  nuova  gagliardi;  e  mutato  consiglio, 
come  se  gli  avessino  disalloggiati  i  nimici,  ne  andarono  so- 
pra di  loro,  e  scrissero  a  Firenze  avergli  ributtati,  e  vinta 
la  guerra.  La  quel  vittoria  non  nacque  da  altro,  che  dallo 
avere  inteso  prima  dei  nemici  come  e' se  ne  andavano:  la 
quale  notizia  se  fusse  prima  venuta  dall'altra  parte,  arebbe 
fatto  centra  ai  nostri  il  medesimo  effetto. 

Cap.  XIX.  —  Se  a  reggere  una  moUiludine  è  più  necessario 
lo  ossequio  che  la  pena. 

Era  la  Repubblica  romana  sollevata  per  le  inimicizie 
de'Nobili  e  deTlebei:  nondimeno,  soprastando  loro  la  guerra, 
mandarono  fuori  con  gli  eserciti  Quinzio  ed  Appio  Claudio. 
Appio,  per  essere  crudele  e  rozzo  nel  comandare,  fu  male 
ubbidito  da'  suoi  ;  tanto  che  quasi  rotto  si  fuggi  della  sua  pro- 
vincia. Quinzio,  per  esser  benigno  e  di  umano  ingegno, 
ebbe  i  suoi  soldati  ubbidienti,  e  riportonne  la  vittoria.  Donde 
e'  pare  che  sia  meglio,  a  governare  una  moltitudine,  essere 
umano  che  superbo,  pietoso  che  crudele.  Nondimeno,  Corne- 
lio Tacito,  al  quale  molti  altri  scrittori  acconsentono,  in  una 
sua  sentenza  conchiude  il  contrario,  quando  dice:  *  In  mullù 
ludine  regendà  plus  poena,  quam  ohsequium  valel.  E  conside- 
rando come  si  possa  salvare  1*  una  e  l' altra  di  queste  oppi- 
nioni,  dico:  o  che  tu  hai  a  reggere  uomini  che  ti  sono  per 
ror<linario  compagni,©  uomini  che  ti  sono  sempre  soggetti. 
Quando  ti  sono  compagni,  non  si  può  interamente  usare  la 
pena,  né  quella  severità  di  che  ragiona  Cornelio:  e  perchè 
la  Plebe  romana  aveva  in  Roma  eguale  imperio  con  la  No- 
biltà, non  poteva  uno  che  ne  diventava  principe  a  tempo, 
con  crudeltà  e  rozzezza  maneggiarla.  E  molte  volte  si  vide 
che  miglior  frutto  feciono  i  Capitani  romani  che  si  facevano 

*  Mone  sbaglio  di  tipografo,  ne  arLitrio  (s'io  men  conosco)  di  editore, 
quel  che  qui  leggesi  nella  Bladiana  :  quando  ait, 

3i* 


366  DEI   DISCORSI 

amare  dagli  eserciti,  e  che  con  ossequio  gli  maneggiavano, 
che  quelli  che  si  facevano  straordinariamente  temere  ;  se 
già  e'  non  erano  accompagnali  da  una  eccessiva  virtù,  come 
fu  Manlio  Torquato.  Ma  chi  comanda  ai  sudditi,  de' quali 
ragiona  Cornelio,  acciocché  non  diventino  insolenti,  e  che 
per  troppa  tua  facilità  non  li  calpestino,  debbo  volgersi  più 
tosto  alla  pena  che  allo  ossequio.  Ma  questa  ancora  debbo 
esser  in  modo  moderata,  che  si  fugga  l'odio;  perchè  farsi 
odiare  non  torna  mai  bene  ad  alcuno  principe.  Il  modo  del 
fuggirlo  è  lasciar  stare  la  roba  de' sudditi:  perchè  del  san- 
gue, quando  non  vi  sia  sotto  ascosa  la  rapina,  nessuno  prin- 
cipe ne  è  disideroso  se  non  necessitato,  e  questa  necessità 
viene  rare  volte;  ma  sendovi  mescolata  la  rapina,  viene 
sempre,  né  mancano  mai  le  cagioni  ed  il  disiderio  di  spar^ 
gerle  :  come  in  altro  trattato  sopra  questa  materia  s' è  larga- 
mente discorso.  Meritò,  adunque,  più  laude  Quinzio  che  Ap- 
pio ;  e  la  sentenza  di  Cornelio  dentro  ai  termini  suoi,  e  non 
ne' casi  osservati  da  Appio,  merita  d'essere  approvata.  E 
perchè  noi  abbiamo  parlato  della  pena  e  dello  ossequio,  non 
mi  pare  superfluo  mostrare,  come  uno  essempio  d'  umanità 
potè  appresso  ai  Faliscì  più  che  l'armi. 

Gap.  XX.  —  Uno  essempio  d'  umanilà  appresso  ai  Falisci 
polene  più  d'  ogni  forza  romana. 

Essendo  Cammillo  con  Tesercito  intorno  alia  città  de'Fa- 
lisci,  e  quella  assediando,  un  maestro  di  scuola  de' più  no- 
bili fanciulli  di  quella  città,  pensando  di  gratificarsi  Cam- 
millo ed  il  Popolo  romano,  sotto  colore  di  esercizio  uscendo 
con  quelli  fuora  della  ciltà,  gli  condusse  tutti  nel  campo 
innanzi  a  Cammillo,  e,  presentatigli,  disse,  come  medianli 
loro  quella  terra  si  darebbe  nelle  sue  mani.  Il  quale  presente 
non  solamente  non  fu  accettato  da  Cammillo,  ma  fatto  spo- 
gliare quel  maestro,  e  legatogli  le  mani  di  dietro,  e  dato  a 
ciascuno  di  quelli  fanciulli  una  verga  in  mano,  lo  fece  da 
quelli  con  di  molle  battiture  accompagnare  nella  terra.  La  qual 
cosa  inlesa  da  quelli  cittadini,  piacque  tanto  loro  1'  umanità 
ed  integrità  di  Cammillo^  che  senza  voler  più  difendersi,  di- 


LIBRO    TERZO.  367 

liberarono  di  dargli  la  terra.  Dove  *■  è  da  considerare,  con 
questo  vero  essempio,  quanto  qualche  volta  possa  più  nelli 
animi  degli  uomini  un  alto  umano  e  pieno  di  carità,  che 
un  atto  feroce  e  violento  ;  e  come  molle  volle  quelle  Pro- 
vincie e  quelle  città  che  le  armi,  grinstrumenti  bellici  ed 
ogni  altra  umana  forza  non  ha  potuto  aprire,  uno  essempio 
di  umanità  e  di  pietà,  di  castilà  o  dì  liberalità,  ha  aperte.  Di 
che  ne  sono  nelle  istorie,  olire  a  questo,  molti  altri  essempi. 
E  vedesi  come  1'  armi  romane  non  potevano  cacciare  Pirro 
d'Italia,  e  ne  lo  cacciò  la  liberalità  di  Fabrizio,  quando  li 
manifestò  l' olTerta  che  aveva  falla  ai  Romani  quel  suo  fami- 
gliare, d' avvelenarlo.  Vedesi  ancora,  come  a  Scipione  Affri- 
cano  non  delle  tanta  riputazione  in  Ispagna  la  espugnazione 
di  Cartagine  nuova,  quanto  gli  delle  quello  essempio  di  ca- 
stilà, d'aver  rendula  la  moglie  giovine,  bella,  ed  intatta  al 
suo  marito  ;  la  fama  della  quale  azione  gli  fece  amica  tutta 
r  Ispagna.^  Vedesi  ancora,  questa  parte  quanto  la  sia  disi- 
derata  dai  popoli  negli  uomini  grandi,  e  quanto  sia  laudata 
dagli  scrittori  ;  e  da  quelli  che  descrivono  la  vita  dei  prin- 
cipi, e  da  quelli  che  ordinano  come  debbono  vivere.  Intra  i 
quali  Senofonte  s*  aflTalica  assai  in  dimostrare  quanti  onori, 
quante  vittorie,  '  quanta  buona  fama  arrecasse  a  Ciro  l'essere 
umano  ed  affabile;  e  non  dare  alcun  essempio  di  sé  né  di  su- 
perbo, né  di  crudele,  né  di  lussurioso,  né  di  nessuno  altro 
vizio  che  macchi  la  vita  degli  uomini.  Pur  nondimeno,  veg- 
gendo  Annibale  con  modi  contrari  a  questi  avere  conseguilo 
gran  fama  e  grandi  vittorie,  mi  pare  da  discorrere  nel  se- 
guente capitolo,  donde  questo  nacque. 

(-AP.  XXI. —  Donde  nacque  che  Annibale  con  diverso  modo  di 
procedere  da  Scipione,  fece  quelli  medesimi  effelli  in  Italia 
che  quello  in  Ispagna. 

Io   stimo   che  alcuni  si  potrebbono  meravigliare  veg- 
gendo   qualche  capitano,  nonostante  ch'egli  abbia  tenuta 

*  La  Testina  e  il  Poggiali:  Donde. 

2  Così  ancora  nella  Testina  ;  ma  nelle  moderne  :  la  Spagna, 

'  La  Bladiana  soltanto:  quanta  vittoria. 


368  DEI  DISCORSI 

contraria  ?ia,  aver  nondimeno  falli  simili  eflelli  a  coloro 
che  sono  tìssuIì  nel  modo  soprascritto:  (alche  pare  che  hi 
cagione  delle  vittorie  non  dipenda  dalle  predelle  cause;  anzi 
pare  che  quelli  modi  non  ti  rechino  né  più  forza  nò  più 
fortana,  potendosi  per  contrari  modi  acquistare  gloria  e  ri- 
putazione. E  per  non  mi  partire  dagli  uomini  soprascritti,  e 
per  chiarir  meglio  quello  che  io  ho  voluto  dire  ;  dico  come 
e' si  vede  Scipione  entrare  in  Ispagna,  e  con  quella  sua 
umanità  e  pietà  subito  farti  amica  quella  provincia,  e  ado- 
rare ed  ammirare  dai  popoli.  Vedesi,  all'incontro,  entrare  An- 
nibale in  Italia, e  con  modi  (otti  contrari, cioè  con  violenza 
e  crudeltà  e  rapina  ed  ogni  ragione  d'infedeltà,  fare  il  me- 
desimo efletlo  che  aveva  fatto  Scipione  in  Ispagoa;  perchè  ad 
Annibale  si  rìbellarooo  tutte  le  città  d'ItaUa,  tatti  i  popoli 
lo  seguirono.  E  pensando  donde  questa  cosa  possa  nascere, 
ci  si  veggono  dentro  più  ragioni.  La  prima  è,  che  gli  uomini 
sono  disiderosì  di  cose  nuove  ;  in  tanto  che  cosi  desiderano 
il  pia  delle  volle  novità  quelli  che  stanno  bene,  come  quelli 
che  stanno  male  :  perchè,  come  altra  volta  si  disM,  ed  è  il 
vero,  eli  uomini  si  stuccano  nel  bene,  e  nel  male  s'afflig- 
gono. Fa,  adunque,  questo  disiderio  aprire  le  porte  a  ciascuno 
che  in  una  provincia  si  fa  capo  d' una  innovazione  ;  e  s' egli 
è  forestiero,  gli  eorrono  dietro;  s*egli  è  provinciale,  gli  sono 
intorno,  augumcntanlo  e  iavorìaeoalo:  lalnenlechè,  in  qua- 
lunque modo  che  egli  proceda,  gli  rietee  il  far*  pregressi 
grandi  in  quelli  luoghi.  Oltre  a  questo,  gli  uomini  sono  s;  riti 
da  due  cose  principali;  o  dallo  amore,  o  dal  timore:  t.iti  ii< 
eosl  gli  comanda  chi  si  fa  amare,  come  colui  che  si  fa  te- 
mere; anzi,  il  più  delle  volte  è  seguito  ed  ubbidito  più  chi  si 
fa  temere ,  che  chi  si  fa  amare.  Importa ,  pertanto ,  poco  ad  un 
capitano,  per  qualunche  di  queste  vìe  ei  si  cammini,  pur- 
ché sia  uomo  virtuoso,  e  che  quella  virtù  lo  faccia  riputato 
intra  gli  uomini.  Perchè,  quando  la  è  grande,  come  la  fu  in 
Annibale  ed  in  Scipione,  ella  cancella  tutti  quelli  errori 
che  si  fanno  per  farsi  troppo  amare,  o  per  farsi  troppo  te- 
mere. Perchè  dell'  uno  e  dell'  altro  di  questi  duoi  modi  pos- 
sono  nascere  inconvenienti  grandi,  ed  atti  a  far  rovinare 
un  principe:  perchè  colui  che  troppo  disidera  esser  amato. 


LIBRO    TERZO.  ,360 

Ogni  poco  che  si  parie  dalla  vera  via,  diventa  disprezza- 
bile: quell'altro  cha  disidera  troppo  d'esser  temuto,  ogni 
poco  ch'egli  eccede  il  modo,  diventa  odioso.  E  tenere  la  via 
del  mezzo,  non  si  può  appunto,  perchè  la  nostra  natura 
non  ce  !o  consente:  ma  è  necessario  queste  cose  che  ecce- 
dono mitigare  con  una  eccessiva  viriù,  come  faceva  Anni- 
bale e  Scipione.  Nondimeno  si  vede*  come  l'uno  e  l'altro 
furono  otTesi  da  questi  loro  modi  *  di  vivere ,  e  cosi  furono 
essaltati. La  essaltazione  di  lutti  due  s'è  detta.  La  offesa  quanto 
a  Scipione  fu,  che  gli  suoi  soldati  in  Ispagna  se  gli  ribellarono', 
insieme  «on  parie  degli  suoi  amici:  la  qual  cosa  non  nacque 
da  altro  che  da  non  lo  temere;  perchè  gli  uomini  sono  tanto 
inquieti,  che  ogni  poco  di  porla  che  si  apra  loro  all'ambi- 
zione, dimenticano  subito  ogni  amore  ch'egli  avessero  po- 
sto al  principe  per  la  umanità  sua;  come  fecero  i  soldati  ed 
amici  predetti:  tanto  che  Scipione,  per  rimediare  a  questo 
inconveniente,  fu  conslrelto  usare  parte  di  quella  crudeltà 
che  egli  aveva  fuggita.  Quanto  ad  Annibale,  non  ci  è  essem- 
pio  alcuno  particolare,  dove  quella  sua  crudeltà  e  poca  fede 
gli  nocesse  :  ma  si  può  bene  presupporre  che  Napoli,  e  molte 
altre  terre  che  stettero  in  fede  del  Popolo  romano ,  stessero 
per  paura  di  quella.  Vedesi  bene  questo,  che  quel  suo  modo 
di  vivere  impio,  lo  fece  più  odioso  al  Popolo  romano,  che  al- 
cuno altro  nimico  che  avesse  mai  quella  Repubblica:  in  modo 
che  dove  a  Pirro,  mentre  che  egli  era  con  Io  esercito  in  Ita- 
lia, manifestarono  quello  che  lo  voleva  avvelenare,  ad  An- 
nibale mai,  ancora  che  disarmalo  e  disperso,  perdonarono, 
tanto  che  lo  feciono  morire.  Nacquero,  dunque,  ad  Annibale 
per  essere  tenuto  impio  erompitore  di  fede  e  crudele  queste 
incomodità;  ma  gliene  risultò  all'incontro  una  comodità 
grandissima,  la  quale  è  ammirata  da  tulli  gli  scrittori:  che 
nel  suo  esercito,  ancoraché  composto  di  varie  generazioni 
d'uomini,  non  nacque  mai  alcuna  dissensione,  né  infra  loro 
medesimi ,  né  coiitra  di  lui.  Il  che  non  potette  derivare  da 
altro,  che  dal  terrore  che  nasceva  dalla  persona  sua:  il 
quale  era  tanto  grande ,  mescolato  con  la  riputazione  che 

*  La  Romana  r  si  vide. 

*  Le  altre  :  da  questo  toro  modo. 


370  DEI   DISCORSI 

gli  dava  la  sua  Tìrlù,  che  teneva  gli  Moi  soldati  quieti  ed 
uniti.  Conchiodo,  adanqae,  come  e*  non  importa  molto  in 
qoal  modo  an  capitano  ai  proceda ,  parche  in  caao  sia  virtù 
grasde,  che  condisca  bene  l'ooo  e  V  altro  modo  di  vivere: 
perchè,  coom  è  dello.  Dell'ano  e  nell'altro  è  difetto  e  peri- 
colo, qoaado  da  ana  virtà  ialraordinaria  non  sia  corretto.  E 
••  Annibale  e  Scipione,  Tono  con  cose  laodabili,  l'altro  con 
dclMtahili ,  feciono  il  medesimo  effetto  ;  non  mi  pare  da  la- 
•ciM'  iodielro  il  discorrere  ancora  di  daoi  cittadini  romani, 
cIm  MMtfairoBo  eoo  diversi  modi,  ma  latti  duo!  laudabili , 
ana  MedMima  gloria. 

Cap  XXII.—  Com*  In  durtsm  et èhnH^  IVprfw iff ,  •  Vmmmmi* 
éi  r«lcr«i  CorriNo  acqminà  •  timemm  ftl  «MÌMImi  flirto. 


B*  tofoao  in  Roma  in  •«  medesimo  tempo  dot  capìlani 
eccellenti,  Manlio  Torquato  •  Valtfto  GorviM«  i  ^attt  di 
pari  virlò,  di  pari  trioni  e  gloria,  tlmaa  ia  lli«a;  a  ala- 
aeano  di  lora,  in  quinto  s*  appartaMTa  al  aHaico,  eoa  pari 
?inà  r  arqai«l«ronn  :  ma  quanto  a*  appartanava  af li  atardli 
ad  agi* intratienimenli  de' soldati,  divenlMimaaaata  piaga» 
deroBo:  perchè  Manlio  con  ogni  generationa  di  tavarìlò, 
santa  ioIsroMilara  ai  saoi  soldali  o  fatica  a  paaa ,  gli  c^ 
naodava  :  Valafio,  daQ'  altra  parla,  aaa  agal  aadaalanutoa 
MMaa,  a  péeaa  d' una  famigliare  dimaslichatta  ff  latralla- 
■an.  farahè  ai  vede,  che  per  aver  l'ubbidieata  dai  aaMali, 
r  aaa  aaMaattò  il  figliuolo ,  e  l' altro  non  offese  mai  alenna 
NoadisMno,  in  tanta  diversilA  di  procedere,  ciascaae  faca  il 
medesimo  frutto,  a  eoaira  a'aiaiiei,  ed  in  fa  vare  della  llapiib» 
Miaà  a  aao.  Perchè  nessaao  saldato  non  mal  a  daltaMé  la 
talli,  a  si  ribellò  da  loro,  o  f a  ia  alcuna  parta  dlaaMpasla 
dalla  voRlia  di  qnelli  :  quantunque  gì*  imperii  di  Maaia  ÉM* 
sino  si  aspri ,  che  lutti  gli  altri  imperli  cIm  imsJataaa  II 
moda,  erano  chiamati  oMniMiM  iwtperia.  Dove  è  da  csaside» 
rare  prima,  donde  nacque  cha  MaaKa  fa  eastratla  ptaaa- 
dere  si  rigidamente  ;  1*  altro ,  daada  avvanae  aha  Vaiarlo 
potette  procedere  si  ooMnameote;  1*  altro,  qual  cagioaa  fé 
che  questi  diversi  modi  facesfero  il  madesirao  effeila;  ad  in 


LIBRO   TERZO.  371 

ultimo,  quale  sia  di  loro  meglio  e  più  utile  imitare.  Se  al- 
cuno considera  bene  la  natura  di  Manlio  dall'ora  che  Tito 
Livio  ne  comincia  a  far  menzione,  Io  vedrà  uomo  fortis- 
simo, pietoso  verso  il  padre  e  verso  la  patria,  e  reverentis- 
simo a'  suoi  maggiori.  Queste  cose  si  conoscono  dalla  morte 
di  quel  Francioso;  dalia  difesa  del  padre  contra  al  Tribuno; 
e  come  avanti  ch'egli  andasse  alla  zutfa  del  Francioso,  ei 
n'  andò  al  Consolo  con  queste  parole  :  Injusm  tuo  adversus 
linslem  nunquam  pngnabOy  non  si  cerlam  vicloriam  vìdeam. 
Venendo,  adunque,  un  uomo  così  fatto  a  grado  che  comandi, 
desidera  dì  trovare  tutti  gli  uomini  simili  a  sé;  e  l'animo  suo 
forte  gli  fa  comandare  cose  forti  ;  e  quel  medesimo,  coman- 
date che  le  sono,  vuole  si  osservino.  Ed  è  una  regola  veris- 
sima, che  quando  si  comanda  cose  aspre,  conviene  con 
asprezza  farle  osservare  ;  altrimenti ,  te  ne  troveresti  in- 
gannato. Dove  è  da  notare,  che  a  voler  essere  ubbidito,  è 
necessario  saper  comandare:  e  coloro  sanno  comandare,  che 
fanno  comparazione  della  qualità  loro  a  quelle  dì  chi  ha  a 
ubbidire;  e  quando  vi  vegghino  proporzione,  allora  coman- 
dino; quando  sproporzione,  se  ne  astenghino.  E  però  diceva 
un  uomo  prudente,  che  a  tenere  una  repubblica  con  violenza, 
conveniva  fusse  proporzione  da  chi  sforzava  a  quel  ch'era 
sforzato.  E  qualunque  volta  questa  proporzione  v'era,  si 
poteva  credere  che  quella  violenza  fusse  durabile:  ma  quando 
il  violentato  era  più  forte  del  violentante,  si  poteva  dubitare 
che  ogni  giorno  quella  violenza  cessasse.  Ma  tornando  al 
discorso  nostro,  dico  che  a  comandare  le  cose  forti,  conviene 
esser  forte;  e  quello  che  è  di  questa  fortezza  e  che  le  coman- 
da, non  può  poi  con  dolcezza  farle  osservare.  Ma  chi  non  é 
di  questa  fortezza  d'animo,  si  debbe  guardare  dagl' imperii 
istraordinari,  e  negli  ordinari  può  usare  la  sua  umanità  : 
perché  le  punizioni  ordinarie  non  sono  imputate  al  prin- 
cipe, ma  alle  leggi  ed  agli  ordini.  Debbesi,  adunque,  credere 
che  Manlio  fosse  costretto  procedere  si  rigidamente  dagli 
istraordinari  suoi  imperii,  ai  quali  lo  inclinava  la  sua  natura: 
i  quali  sono  utili  in  una  repubblica ,  perchè  e'  riducono  gli 
ordini  di  quella  verso  il  principio  loro,  e  nella  sua  antica 
virtù.  E  se  una  repubblica  fusse  si  felice ,  eh'  ella  avesse 


372  DKI   DISCORSI 

spesso,  come  di  sopra  dicemmo,  chi  con  lo  essempio  suo  le 
rinnovasse  le  leggi  ;  e  non  solo  la  ritenesse  che.la  non  cor- 
resse alla  rovina,  ma  la  ritirasse*  indietro;  la  sarebbe  per- 
petua. Sì  che  Manlio  fu  uno  di  quelli  che  con  1*  asprezza 
de' suoi  impcrii  ritenne  la  disciplina  militare  in  Roma,  con- 
stretto prima  dalla  natura  sua,  dipoi  dal  desiderio  che  aveva 
s'  osservasse  quello  che  il  suo  naturale  appetito  gli  aveva 
fatto  ordinare.  Dall'altro  canto,  Valerio  potette  procedere 
umanamente,  come  colui  a  cui  bastava  s'osservassino  lo 
cose  consuete  osservarsi  negli  eserciti  romani.  La  qual  con- 
suetudine, perchè  era  buona,  bastava  ad  onorarlo,  e  non 
era  faticosa  ad  osservarla,  e  non  necessitava  Valerio  a  pu- 
nire  i  transgressori  :  si  perché  e' non  ve  n'erano;  si  perchè 
quando  e' ve  ne  fussino  stati,  imputavano,  come  è  dello,  la 
punizione  loro  agli  ordini,  e  non  alla  crudeltà  del  principe. 
In  modo  che,  Valerio  poteva  famascere  da  lui  ogni  umanità, 
dalla  quale  ei  potesse  acquistare  grado  con  i  soldati ,  e  la 
contentezza  loro.  Donde  nacque,  che  avendo  V  uno  e  l'altro 
la  medesima  ubbidienza,  poterono,  diversamente  operando, 
fare  il  medesimo  effetto.  Possono  quelli  che  volessero  imitar 
costoro,  cadere  in  quelli  vìzi  di  dispregio  e  d'odio  che  io 
dico  dì  sopra  d'Annibale  e  di  Scipione  :  il  che  si  fugge  con 
una  virtù  eccessiva  che  sia  in  te,  e  non  altrimenti.  Resta 
ora  considerare  quale  di  questi  modi  dì  procedere  sia  più 
laudabile.  11  che  credo  sia  disputabile,  perchè  gli  scrittori 
lodano  1'  un  modo  e  l' altro.  Nondimeno,  quelli  che  scrivono 
come  un  principe  s'abbia  a  governare,  si  accostano  più  a 
Valerio  che  a  Manlio;  e  Senofonte,  preallegato  da  me,  dando 
di  molti  essempi  della  umanità  dì  Ciro,  si  conforma  assai  con 
quello  che  dice  di  Valerio  Tito  Livio.  Perchè,  sendo  fatto 
Consolo  contra  i  Sanniti ,  e  venendo  il  dì  che  doveva  com- 
battere, parlò  ai  suoi  soldati  con  quella  umanità  con  la 
quale  eì  si  governava  ;  e  dopo  tal  parlare ,  Tito  Livio  dice 
queste  parole  :  Non  alias  milili  familiarior  dux  full,  inler  in- 
fimos  milUum  omnia  haud  gravale  munia  obeundo.  In  ludo 
pralerea  mililari,  cum  vclocilalis  viriumque  inler  se  aquales 
cerlamina  ineunt,  comiler  facilis  vincere  ac  vinci,  vullu  eodem; 

*  La  TestÌDa  e  le  moderne  :  ritraesse. 


ì 


LIBFxO    TERZO.  373 

nec  quemquam  aspernari  parem  qui  se  offerrel;  faclis  benignus 
prò  re;  diclis,  haud  minus  liberlalis  aliencB,  quam  sucb  digni- 
latis  memor  ;  et  (quo  nihil  popularius  est)  quibus  arlibus  pe- 
tierat  magislralus ,  iisdem  gerebat.  Parla  medesimamente  di 
Manlio  Tito  Livio  onorevolmente,  mostrando  che  la  sua  se- 
verità nella  morte  del  figliuolo  fece  tanto  ubbidiente  1'  eser- 
cito al  Consolo,  che  fu  cagione  della  vittoria  che  il  Popolc 
romano  ebbe  contra  ai  Latini;  ed  in  tanto  procede  in  lau- 
darlo, che  dopo  tal  vittoria,  descritto  ch'egli  ha  tutto  l'ordine 
di  quella  zuffa,  e  mostri  tutti  i  pericoli  che '1  Popolo  romano 
vi  corse,  e  le  dilTicuItà  che  vi  furono  a  vincere,  fa  questa 
conclusione  :  che  solo  la  virtù  di  Manlio  dette  quella  vittoria 
ai  Romani.  E  facendo  comparazione  delle  forze  dell'  uno  e 
dell'  altro  esercito ,  afferma  come  quella  parte  arebbe  vinto 
che  avesse  avuto  per  Consolo  Manlio  ;  talché ,  considerato 
lutto  quello  che  gli  scrittori  ne  parlano,  sarebbe  difficile  giu- 
dicarne. Nondimeno,  per  non  lasciare  questa  parte  indecisa, 
dico,  come  in  un  cittadino  che  viva  sotto  le  leggi  d'  una  re- 
pubblica, credo  sia  più  laudabile  e  meno  pericoloso  il  proce- 
dere di  Manlio  :  perché  questo  modo  tutto  è  in  favore  del 
pubblico,  e  non  risguarda  in  alcuna  parte  all'ambizione 
privata  ;  perchè  per  tale  modo  non  si  può  acquistare  parti- 
giani,  mostrandosi  sempre  aspro  a  ciascuno,  ed  amando 
solo  il  ben  comune;  perchè  chi  fa  questo,  non  s'acquista 
particolari  amici ,  quali  noi  chiamiamo ,  come  di  sopra  si 
disse,  partigiani.  Talmentechè,  simil  modo  di  procedere  non 
può  esser  più  utile  né  più  desiderabile  *  in  una  repubblica  ; 
non  mancando  in  quello  1'  utilità  pubblica,  e  non  vi  potendo 
essere  alcun  sospetto  della  potenza  privala.  Ma  nel  modo 
di  procedere  di  Valerio  è  il  contrario  :  perché  se  bene  in 
quanto  al  pubblico  si  fanno  i  medesimi  elTetti,  nondimeno  vi 
surgono  molte  dubitazioni ,  per  la  particolar  benivolenza 
che  colui  s'acquista  con  i  soldati,  da  fare  in  un  lungo  im- 
perio cattivi  effetli  contra  alla  libertà.  E  se  in  Publicola 
questi  cattivi  effetti  non  nacquero,  ne  fu  cagione  non  essere 
ancora  gli  animi  dei  Romani  corrotti,  e  quello  non  esser 

'  Cosi  la  Bladiana.  Le  altre  hanno,  con  significazione  cb*  io  confesso  di  noo 
^  intendere ,  in  aulore  del  500  :  considerabile, 

32 


374  DEI  Disconsi 

stato  tantamente  e  conlino?amente  al  governo  loro.  Ma  se 
noi  abbiamo  a  considerare  un  principe,  come  considera  Se- 
Dofonle,  noi  ci  accosteremo  al  tolto  a  Valerio,  e  lasce- 
remo Manlio  ;  perchè  on  principe  debbe  cercare  nei  soldati 
e  Dei  saddiU  1*  abbidienxa  e  1*  amore.  L*  ubbidienza  gli  dà 
lo  essere  08fer?atore  degli  ordini,  Tesser  tenuto  virtuoso: 
lo  amore  gli  di  Tatrabilità,  l'umanità,  la  pietà,  e  quell'al- 
tre parti  che  erano  in  Valerio,  e  che  Senofonte  scrive  essere 
stale  in  Ciro.  Perché  lo  essere  un  principe  ben  voluto  par- 
ticolarmente, ed  avere  lo  esercito  suo  partigiano,  si  conforma 
con  tutte  r  altre  parti  dello  stalo  suo  :  ma  in  un  cittadino 
che  abbia  l'esercito  suo  partigiano,  non  si  conforma  già 
questa  parte  con  V  altre  sue  parti,  che  1*  hanno  a  far  vivere 
sotto  le  leggi,  ed  ubbidire  ai  magistrali.  Leggesi  intra  le  cose 
antiche  della  Repubblica  vinitiana ,  come  essendo  le  galee 
vinitiane  (ornate  in  Vinegia,  e  venendo  certa  diflerenta  in- 
tra quelli  delle  galee  ed  il  popolo,  donde  si  venne  al  tumulto 
ed  air  armi  ;  né  si  potendo  la  cosa  quietare  ni  per  forza  di 
ministri,  ni  per  reverenza  de* cittadini,  ni  timore  di  maf(i- 
fttrati  ;  subito  che  a  quelli  marinari  apparve  innanzi  on  gentil- 
uomo *  che  era  Tanno  davanti  stato  Capitano  loro,  per  amore 
di  quello  si  partirono,  e  lasciarono  la  tulTa.  La  quel  obbi- 
dienza  generò  (anta  sospizione  al  Senato,  che  poco  tempo 
dipoi  i  Viniziani,  o  per  prigione  o  per  morte,  se  ne  assicu- 
rarono. Conchiudo  pertanto,  il  procedere  di  Valerio  essere 
utile  in  uno  principe, e  pernizioso  io  un  cittadino; non  sola- 
roenle  alla  patria,  ma  a  si:  a  lei,  perchò  quelli  modi  prepa- 
rano la  via  alla  tirannide;  a  si,  perchè  in  sospettando*  la  sua 
città  del  modo  del  procedere  suo,  i  costretta  assicurarsene 
con  suo  danno.  E  così,  per  il  contrario,  atTcrmoil  procc<lcro 
di  Manlio  in  un  principe  esser  dannoso,  ed  in  uno  cittadino 
utile,  e  massime  alla  patria:  ed  ancora  rare  volte  oflrcn<!e;  se 
già  questo  odio  che  ti  (ira  dietro  la  tua  severità ,  non  è  ac- 
cresciuto da  sospetto  che  l'altre  tue  virtù  per  la  gran  riputa- 
zione ti  arrecassino  :  come  di  sotto  di  Cammillo  si  discorrerà. 

<  L*  rsempUrc  cIm  mi  i  pret^iHc  «l«Ik  Testina,  ba  «rnUo  a  pcMM  lul 
margine:  M.  Ptetr»  Lvrtémm: 

*  AcUa  Bladiaaa  e  «crillo  mm 


LIBRO   TERZO.  375 


Gap.  XXIII.  —  Per  qual  cagione  Cammillo  fusse  caccialo 
di  Roma. 


Noi  abbianao  conchiuso  di  sopra,  come*  procedendo  come 
Valerio,  si  nuoce  alla  patria  ed  a  sé;  e  procedendo  come 
Manlio,  si  giova  alla  patria,  e  nuocesi  qualche  volta  a  sé.  11 
che  si  pruova  assai  bene  per  lo  essempio  di  Cammillo,  il  quale 
nel  procedere  suo  simigliava  più  tosto  Manlio  che  Valerio. 
Donde  Tito  Livio,'parlando  di  lui,  dice,  come  ejus  virlulem  mi- 
liles  oderanl,  el  mirabanlur.  Quello  che  lo  faceva  tenere  me- 
raviglioso, era  la  sollicitudine,  la  prudenza,  la  grandezza  del- 
l'animo,  il  buon  ordine  che  lui  servava  nello  adoperarsi,  e 
nel  comandare  agli  eserciti:  quello  che  lo  faceva  odiare,  era 
essere  più  severo  nel  gastigargli,  che  liberale  nel  rimunerar- 
gli. E  Tito  Livio  ne  adduce  di  questo  odio  queste  cagioni:  la 
prima ,  che  i  danari  che  si  trassero  de*  beni  dei  Veienti  che 
si  venderono,  esso  gli  applicò  al  pubblico,  e  non  gli  divise 
con  la  preda:  l'altra,  che  nel  trionfo  ei  fece  tirare  il  suo  carro 
trionfale  da  quattro  cavagli  bianchi,  dove  essi  dissero  che  per 
superbia  ei  s'era  voluto  agguagliare  al  Sole:  la  terza,  che  fece 
voto  di  dare  ad  Apolline  la  decima  parte  della  preda  dei 
Veienti,  la  quale,  volendo  satisfare  al  voto,  s'aveva  a  trarre 
dalle  mani  dei  soldati  che  V  avevano  di  già  occupata.  Dove 
si  notano  bene  e  facilmente  quelle  cose  che  fanno  un  prin- 
cipe odioso  appresso  il  popolo;  delle  quali  la  principale  è  pri- 
varlo d' uno  utile.  La  qual  cosa  è  di  importanza  assai  ;  perchè 
le  cose  che  hanno  in  sé  utilità,  quando  l'uomo  n' è  privo, 
non  le  dimentica  mai,  ed  ogni  minima  necessità  te  ne  fa  ri- 
cordare; e  perché  le  necessità  vengono  ogni  giorno,  tu  tene 
ricordi  ogni  giorno.  L'altra  cosa  è  lo  apparire  superbo  ed  en- 
fiato; il  che  non  può  essere  più  odioso  ai  popoli,  e  massime 
ai  liberi.  E  benché  da  quella  superbia  e  da  quel  fasto  non 
ne  nascesse  loro  alcuna  incomodità,  nondimeno  hanno  in  odio 
chi  r  usa:  da  che  un  principe  si  debbo  guardare  come  da  uno 

*  Cosila  Bladiana;  onde  sembra  correzione  di  schizzinosi,  per  la  prossimilk 
di  altri  come,  il  che  supplito  nelle  altre  edizioni. 


376  DEI   DISCORSI 

scoglio  ;  perchè  tirarsi  odio  addosso  senza  suo  proOUo,  è  al 
tulio  parlilo  temerario  e  poco  prudente.  ^ 

Gap.  XXIV.  —  La  prolungasione  degV  imperii  fece  serva  Roma. 

Se  si  considera  bene  il  procedere  della  Repubblica  romana* 
si  vedrà  due  cose  essere  sfate  cagione  della  resoluzione  di 
quella  Repubblica  :r una  furono  le  contenzioni  che  nacquero 
dalla  legge  agraria; l'altra  la  prolungazione  degli  impcrii:  le 
quali  cose  se  fussino  state  conosciute  bene  da  principio,  e 
fallivi  debili  rimedi,  sarebbe  sialo  il  viver  libero  più  lun- 
go, e  per  avventura  più  quieto.  E  benché,  quanto  alla  pro- 
lungazione dello  imperio,  non  si  vegga  che  in  Roma  nascesse 
mai  alcuno  tumulto;  nondimeno  si  vedde  in  fallo,quanto  noce 
alla  città  quella  autorità  che  i  cittadini  per  tali  diliberazioni 
presono.  £  se  gli  altri  cittadini  a  chi  era  prorogato  il  magi 
strato,  russino  stati  savi  e  buoni  come  fu  Lucio  Quinzio, 
non  si  sarebbe  incorso  in  questo  inconveniente.  La  bontà  del 
quale  è  d'ano  essempio  notabile;  perchè,  sendosi  fatto  intra  la 
IMcbe  ed  il  Senato  convenzione  d'accordo,  ed  avendo  la  Plebe 
prolungato  io  ano  anno  l'imperio  ai  Tribuni,  giudicandogli 
atti  a  poter  resistere  airambizione  dei  Nobili,  volle  il  Senato, 
per  gara  della  Plebe  e  per  non  parere  da  meno  di  lei,  pro- 
lungare il  consolato  a  Lucio  Quinzio  :  il  qoale  al  tutto  negò 
questa  dilibcrazionc,  dicendo  che  i  cattivi  cssempi  si  volevano 
cercare  di  spegnergli,  non  di  accrescergli  con  uno  altro  più 
cattivo  essempio;  e  volle  si  facessino  nuovi  Consoli.  La  qunl 
bontà  e  prudenza  se  fusse  stala  in  lutti  i  cittadini  romani, 
non  arebbe  lasciala  introdurre  quella  consuetudine  di  pro- 
lungare i  magistrati,  e  da  quella  non  si  sarebbe  venuto  alla 
prolungazione  delti  imperii  :  la  qual  cosa,  col  tempo,  rovinò 
quella  Repubblica.  Il  primo  a  chi  fu  prorogato  l'imperio,  fu 
Publio  Filone;  il  quale  essendo  a  campo  alla  città  di  Palcpo- 
li,  e  venendo  la  Gne  del  suo  consolato,  e  parendo  al  Senato 
ch'egli  avesse  in  mano  quella  vittoria,  non  gli  mandarono 
il  successore,  ma  lo  fecero  Proconsolo  ;  talché  fu  il  primo 

*  Malamente  errò  la  Testina  stampando  et  prudenlt  :  sbaglio  cbt  il  Pog* 
fiali  volle  forse  emendare  scrivendo  ed  imprudente. 


LIBRO   TERZO.  377 

Proconsolo.  La  qual  cosa,  ancora  che  mossa  dal  Senato  per 
iilililà  pubblica,  fu  quella  che  con  il  tempo  fece  serva  Roma. 
Perchè,  quanto  più  i  Romani  si  discostaron  con  le  armi, 
tanto  più  pareva  loro  tale  prorogazione  necessaria,  e  più 
r  usarono.  La  qual  cosa  fece  due  inconvenienti  :  1*  uno  che 
meno  numero  <li  uomini  si  esercitarono  negl'  imperii  ;  e  si 
venne  per  questo  a  ristringere  la  reputazione  in  pochi:  l'al- 
tro, che  stando  un  cittadino  assai  tempo  comandatore  d'uno 
esercito,  se  lo  guadagnava,  e  facevaselo  partigiano;  perchè 
quello  esercito  col  tempo  dimenticava  il  Senato,  e  ricono- 
sceva quello  capo.  Per  questo  Siila  e  Mario  poterono  trovare 
soldati  che  centra  al  bene  pubblico  gli  seguitassino  :  per  que- 
sto Cesare  potette  occupare  la  patria.  Che  se  mai  i  Romani 
non  avessino  prolungati  i  magistrati  e  gli  imperii,  se  non  ve- 
nivano sì  tosto  a  tanta  potenza,  e  se  russino  stati  più  tardi  gli 
acquisti  loro,  sarebbero  ancora  venuti  più  tardi  nella  servitù. 

Gap.  XXV.  —  Della  povertà  di  Cincinnato,  e  di  molli 
cittadini  romani. 

Noi  abbiamo  ragionato  altrove,  come  la  più  ulil  cosa  che 
si  ordini  in  un  viver  libero  è  che  si  mantenghino  1  cittadini 
poveri.  E  benché  in  Roma  non  apparisca  quale  ordine  fusse 
quello  che  facesse  questo  eflfetto,  avendo,  massime,  la  legge 
agraria  avuta  tanta  oppugnazione;  nondimeno  per  esperienza 
si  vidde,  che  dopo  quattrocento  anni  che  Roma  era  stata  edifi- 
cata, v'era  una  grandissima  povertà;  né  si  può  credere  che  al- 
tro ordine  maggiore  facesse  questo  effetto,  che  vedere  come 
perla  povertà  non  t'era  impedita  la  via  a  qualunque  grado  ed 
a  qualunque  onore,  e  come  s*  andava  a  trovare  la  virtù  in 
qualunque  casa  l'abitasse. Il  qual  modo  di  vivere  faceva  manco 
disiderabili  le  ricchezze.  Questo  si  vede  manifesto;  perchè 
essendo  Minuzie  consolo  assediato  con  lo  esercito  suo  dagli 
Equi,  si  empiè  di  paura  Roma,  che  quello  esercito  non  si 
perdesse;  tanto  che  ricorsero  a  creare  il  Dittatore,  ultimo 
rimedio  nelle  loro  cose  aflQilte.  E  crearono  Lucio  Quinzio 
Cincinnato,  il  quale  allora  si  trovava  nella  sua  piccola  villa, 
la  quale  lavorava  di  sua  mano.  La  ^ual  cosa  con  parole  au- 

32* 


378  DEI    DISCORSI 

ree  è  celebrala  da  Tito  Livio,  dicendo:  Opera  precium  esl 
audire,  qui  omnia  prce  diviUis  humana  spernunl,  neqtie  honori 
magno  locum,  ncque  virluli  pulanl  esse,  nisi  effuse  afjluanl  opcs. 
Arava  Cincinnalo  la  sua  piccola  villa,  la  quale  non  trapas- 
sava il  termine  di  quattro  iugeri,  quando  da  Roma  vennero 
i  Legati  del  Senato  a  signifìcarli  la  elezione  delia  sua  ditta- 
tara,  ed  a  mostrarli  in  quale  pericolo  si  trovava  la  romana 
Repubblica.  Egli,  presa  la  sua  toga,  venuto  in  Roma  e  ragù- 
nato  ano  esercito,  n'andò  a  liberar  Minuiio  ;  ed  avendo  rotti 
e  spogliali  i  nimici,  e  liberato  quello,  non  volle  che  T eser- 
cito assedialo  fusse  partecipe  delia  preda,  dicendogli  queste 
parole  :  Io  non  voglio  che  tu  participi  della  preda  di  coloro 
de'  quali  lu  sei  sialo  per  essere  preda  i— e  privò  Minaiio  del 
consolalo,  e  fecelo  Legalo,  dicendogli  :  Starai  tanlo  in  que- 
sto grado,  che  ta  impari  a  sapere  essere  Consolo.  Aveva  fallo 
soo  Maestro  de*  cavalli  Lucio  Tarquinio,  il  quale  per  la  po- 
vertà militava  a  piede.  Notasi,  come  é  detto,  1*  onore  che  si 
faceva  in  Roma  alla  povertà  ;  e  come  ad  uno  uomo  buono  e 
valente,  quale  era  CiocioDato,  quattro  iugeri  di  terra  basta- 
vano a  Dolrirlo.  La  quale  povertà  si  vede  come  era  ancora 
nei  tempi  di  Marco  Regolo;  forche  seiido  in  Affrica  con  gli 
eserciti,  domandò  licenzia  al  Senato  per  poter  tornare  a  cu- 
stodire la  soa  villa,  la  quale  gli  era  guasta  da* suoi  lavora- 
tori. Dove  ti  vede  due  cose  notabilissime  :  l' ona,  la  povertà, 
e  come  vi  ilavaoo  dentro  contenti,  e  come  bastava  a  quelli 
cittadini  trarre  della  guerra  onore,  e  1*  utile  tutto  lasciavano 
al  pubblico.  Perchè,  s'egli  avessero  pensato  d'arricchire  della 
guerra,  gli  sarebbe  dato  poca  briga'  che  i  suoi  campi  fussino 
stati  guasti.  L'altra  é,  considerare  la  generosità  dell'animo 
di  quelli  cittadini,  i  quali  preposti  ad  ano  esercito,  saliva  la 
grandezza  dell'animo  loro  sopra  ogni  principe;  non  slima- 
?ano  i  re,  non  le  repubbliche;  non  gli  sbigottiva  né  spaven- 
tava cosa  alcuna  ;  e  tornati  dipoi  privati,  diventavano  parchi, 
umili,  curatori  delle  piccole  facoltà  loro,  ubbidienti  ai  magi- 
strati, reverenti  alli  loro  maggiori:  talché  pare  impossibile 
che   ano   medesimo   animo   patisca  tanta  mutazione.  Durò 

'  Modo  a  coktmire  insolito,  nu  non  ismentito  da  vetiioa  delle  cootulute 
ediùooL  For«c  però  rAotorc  «Tcra  «criUo  hmrebbe  diUo  ce 


LIBRO    TERZO.  379 

questa  povertà  ancora  insino  ai  tempi  di  Paulo  Emilio,  che 
furono  quasi  gli  ultimi  felici  tempi  di  quella  Repubblica,  dove 
un  cittadino  che  col  trionfo  suo  arricchì  Roma,  nondimeno 
mantenne  povero  sé.  E  cotanto  si  stimava  ancora  la  povertà, 
che  Paulo  nell' onorare  chi  s'era  portato  bene  nella  guerra, 
donò  a  un  suo  genero  una  tazza  d' ariento,  il  quale  fu  il  pri- 
mo ariento  che  fusse  nella  sua  casa.  E  potrebbesi  con  un 
lungo  parlare  mostrare  quanti  migliori  frutti  produca  la  po- 
vertà che  la  ricchezza,  e  come  l'  una  ha  onorato  le  città,  le 
Provincie,  le  sètte;  e  l'altra  1'  ha  rovinate;  se  questa  male- 
ria  non  fusse  stala  molle  volte  da  altri  uomini  celebrata. 

Gap.  XXVI.  —  Come  per  cagione  di  femmine  si  rovina 
uno  stalo. 

Nacque  nella  città  d'Ardea  intra  i  patrizi  e  i  plebei  una 
sedizione  per  cagione  d'  un  parentado,  dove  avendosi  a  ma- 
ritare una  femmina  erede,  la  domandarono  parimente  un 
plebeo  ed  un  nobile;  e  non  avendo  quella  padre,  i  tutori  la 
volevano  congiugnere  al  plebeo,  la  madre  al  nobile:  di  che 
nacque  tanto  tumulto,  che  si  venne  all'armi  ;  dove  tutta  la 
Nobiltà  s'armò  in  favore  del  nobile,  e  tutta  la  Plebe  in  favore 
del  plebeo.  Talché  essendo  superata  la  Plebe,  s'uscì  d'Ardea, 
e  mandò  ai  Volsci  per  aiuto  :  i  Nobili  mandarono  a  Roma. 
Furono  prima  i  Volsci,  e  giunti  intorno  ad  Ardea,  s'accam- 
parono. Sopravvennero  i  Romani,  e  rinchiusono  i  Volsci  infra 
la  terra  e  loro  ;  tanto  che  gli  costrinsono,  essendo  stretti  dalla 
fame,  a  darsi  a  discrezione.  Ed  entrati  i  Romani  in  Ardea,  e 
morti  tutti  1  capi  della  sedizione,  composono  le  cose  di  quella 
città.  Sono  in  questo  testo  più  cose  da  notare.  Prima  si  vede, 
come  le  donne  sono  stale  cagioni  di  molte  rovine,  ed  hanno 
fatti  gran  danni  a  quelli  che  governano  una  città,  ed  hanno 
causato  di  molte  divisioni  in  quella:  e,  come  si  è  veduto  in 
questa  nostra  istoria,  l' eccesso  fallo  contra  a  Lucrezia  tolse 
lo  stato  ai  Tarquini  ;  queir  altro  fatto  centra  a  Virginia  privò 
i  Dieci  dell'autorità  loro.  Ed  Aristotele  intra  le  prime  cose  che 
mette  della  rovina  dei  tiranni,  é  V  avere  ingiuriato  altrui  per 
conto  di  donne,  o  con  stuprarle,  o  con  violarle,  o  corrom- 
pere ì  matrimoni;  come  di  questa  parte,  nel  capitolo  dove  noi 


380  DEI    DISCORSI 

(rattammo  delle  congiure,  largamente  si  parlò.  Dico  adun- 
que, come  i  principi  assoluti  ed  i  governatori  delle  repub- 
bliche non  hanno  a  tenere  poco  conto  di  questa  parte;  ma 
debbono  considerare  i  disordini  che  per  tale  accidente  pos- 
sono nascere,  e  rimediarvi  in  tempo  che  il  rimedio  non  sia 
con  danno  e  vituperio  dello  slato  loro  o  della  loro  repubbli- 
ca: come  intervenne  agli  Ardeali,  i  quali  per  avere  lascialo 
crescere  quella  gara  intra  i  loro  cittadini,  si  condussono  a  di- 
vidersi infra  loro;  e  volendo  riunirsi,  ebbono  a  mandare  per 
soccorsi  esterni  :  il  che  è  un  gran  principio  d'  una  propinqua 
servitù.  Ma  vegniamo  all'altro  notabile  del  modo  deP  riunire 
le  città,  del  quale  nel  futuro  capitolo  parleremo. 

Cap.  XX  vii.  —  Come  e*  it  ha  a  unire  una  cUlà  divisa  ;  e  come 
quella  oppinione  non  è  vera,  che  a  tenere  le  città  bisogna 
tenerle  disunite. 

Per  lo  essempio  dei  Consoli  romani  che  riconciliarono 
insieme  gli  Ardeati,  si  nota  il  modo  come  si  debbe  comporre 
una  città  divisa  :  il  quale  non  è  altro,  né  altrimenti  si  debbe 
medicare,  che  ammazzare  i  capi  de' tumulti.  Perchè  gli  è 
necessario  pigliare  uno  de' tre  modi  :  o  ammazzargli,  come 
fecero  costoro;  o  rimuovergli  della  città;  o  far  loro  far  pace 
insieme,  sotto  obblighi  di  non  si  offendere.  Di  questi  tre  modi, 
questo  ultimo  è  più  dannoso,  men  certo,  e  più  inutile.  Per- 
chè gli  è  impossibile,  dove  sia  corso  assai  sangue,  o  altre 
simili  ingiurie,  che  una  pace  fatta  per  forza  duri,  riveggen- 
dosi  ogni  di  insieme  in  viso  ;  ed  è  diflìcile  che  si  astenghino 
dallo  ingiuriare  l'uno  l'altro,  potendo  nascere  inTra  loro 
ogni  di,  per  la  conversazione,  nuove  cagioni  di  querele.  Sopra 
che  non  si  può  dare  il  migliore  essempio  che  la  città  di  Pi- 
sloia.  Era  divisa  quella  città,  come  è  ancora,  quindici  anni 
sono,  in  Panciatichi  e  Cancellieri;  ma  allora  era  in  sull'ar- 
me, ed  oggi  rha  posate.  E  dopo  molle  dispule  infra  loro,  ven- 
nero al  sangue,  alla  rovina  delle  case,  al  predarsi  la  roba, 
e  ad  ogni  altro  termine  di  nimico.  Ed  i  Fiorentini,  che  gli 
avevano  a  comporre ,  sempre  vi  usarono  quel  terzo  modo  ;  e 

*  La  Testina ,  colle  moderae:  di. 


LIBRO   TERZO.  381 

sempre  ne  nacquero  maggiori  tumuUì,  e  maggiori  scandali: 
tanto  che,  stracchi,  si  venne  al  secondo  modo,  di  rimuovere  i 
capi  delle  parti;  de* quali  alcuni  messono  in  prigione,  alcuni 
altri  confinarono  in  vari  luoghi:  tanto  che  l'accordo  fatto 
potette  stare,  ed  è  stato  infino  a  oggi.  Ma"  senza  dubbio  più 
sicuro  saria  stato  il  primo.  Ma  perchè  simili  esecuzioni  hanno 
il  grande  ed  il  generoso,  una  repubblica  debole  non  le  sa  fa- 
re, ed  ènne  tanto  discosto,  che  a  fatica  la  si  conduce  al  ri- 
medio secondo.  E  questi  sono  di  quelli  errori  che  io  dissi  nel 
principio,  che  fanno  i  principi  dei  nostri  tempi,  che  hanno 
a  giudicare  le  cose  grandi;  perchè  doverebbono  voler  vedere, 
come  sì  sono  governati  coloro  che  hanno  avuto  a  giudicare 
anticamente  simili  casi.  Ma  la  debolezza  de*  presenti  uomini, 
causata  dalla  debole  educazione  loro  e  dalla  poca  notizia 
delle  cose,  fa  che  si  giudichino  *  i  giudizi  antichi  parte  inu- 
mani ,  parte  impossibili.  Ed  hanno  certe  loro  moderne  oppi- 
nioni  discoste  al  tutto  dal  vero  ;  com'  è  quella  che  dicevano 
i  savi  della  nostra  città,  un  tempo  è  :  che  bisognava  tener  Pi- 
sloia  con  le  parli,  e  Pisa  con  le  forlezze;  e  non  s' avveggono, 
quanto  1'  una  e  1'  altra  di  queste  due  cose  è  inutile.  Io  vo- 
glio lasciare  le  fortezze,  perchè  di  sopra  ne  parlammo  a  lun- 
go ;  e  voglio  discorrere  la  inutilità  che  si  trae  dal  tenere  le 
terre,  che  tu  hai  in  governo,  divise.  In  prima,  è  impossibile 
che  tu  ti  mantenga  tutte  due  quelle  parti  amiche  ^  o  principe 
o  repubblica  che  le  governi.  Perchè  dalla  natura  è  dato  agli 
uomini  pigliar  parte  in  qualunque  cosa  divisa,  e  piacergli 
più  questa  che  quella.  Talché,  avendo  una  parte  di  quella 
terra  malconlenta,  fa  che  la  prima  guerra  che  viene,  tu  la 
perdi  ;  ^  perchè  gli  è  impossibile  guardare  una  città  che  ab- 
bia i  nimici  fuori  e  dentro.  Se  la  è  una  repubblica  che  la 
governi,  non  ci  è  il  più  bel  modo  a  far  cattivi  i  tuoi  cittadi- 
ni ed  a  far  dividere  la  tua  città,  che  avere  in  governo  una 
città  divisa  ;  perchè  ciascuna  parte  cerca  d'aver  favori,  cia- 
scuna si  fa  amici  con  varie  corruttele:  talché  ne  nasce  due 

*  La  Bladiana  :  gttidìcano. 

3  Male  la  Romana,  colla  Testina:  antiche}  e  nella  seconda,  aggiungendo 
all'  ertore  l' arbitrio  !  in  quelle  ec. 

5  Le  suddette  edizioni  :  te  la  perdi. 


382  DEI    DISCOBSI 

grandissimi  inconvenicnd  ;  Tuno,  che  lu  non  le  gli  fai  mai 
amici,  per  non  gli  poter  governar  bene,  variando  il  governo 
spesso,  ora  con  l'uno,  ora  con  T altro  amore;  l'altro,  che  tale 
stadio  dì  parte  divide  di  necessitala  taa  repubblica.  Ed  il  Bion- 
do, parlando  dei  Fiorentini  e  de'PistoIesi,  ne  fa  fede,  dicendo: 
Mentre  che  t  Fiorentini  disegnavano  di  riunir  Pistoia,  divùiono 
ti  medesimi.  Pertanto,  si  può  facilmente  considerare  il  male 
che  da  questa  divisione  nasca.  Nel  1501,  qaando  si  perde  ; 
Arezzo,  e  tatto  Val  di  Tevere  e  Val  di  Chiana,  occupatoci 
dai  Vitelli  e  dal  duca  Valentino,  venne  un  monsi(;nor  di 
Lant,  mandato  dal  re  di  Francia  a  fare  restituire  ai  Fioren- 
tini tutte  quelle  terre  perdute;  e  trovando  Lant  io  ogni  ca- 
stello uomini  che,  nel  visitarlo»  dicevano  che  erano  della  parte 
di  Marzocco,  biasimò  assai  questa  divisiooe:  dicendo»  che  so 
io  Francia  ono  di  quelli  sudditi  del  re  dicesse  d'essere  iMla 
parte  del  re,  sarebbe  gastigato,  perchè  tal  voce  non  signifi- 
cherebbe altro,  se  non  che  in  quella  terra  fusse  gente  nimica 
del  re;  e  quel  re  Tuole  che  le  terre  tutte  siano  sue  amiche, 
unite,  e  sema  parli.  Ma  tutti  questi  mo<li  e  queste  oppinioni 
diverse  dalla  verità,  nascono  dalla  debolezza  di  chi  sono  si- 
goorì;  i  quali,  veggendo  di  non  poter  tenere  gli  stati  con  forza 
e  eoo  virtù,  si  voltano  a  simili  industrie  :  le  quali  qualche  volta 
nei  tempi  quieti  giovano  qualche  cosa;  ma  come  e*  vengono 
l'avversità  ed  i  tempi  forti,  le  mostrano  la  fallacia  loro. 

Ckf.  XXVIIl.  —  Che  ti  debbe  por  menU  alU  open  de*  citta- 
dini, perchè  molle  volte  tolto  un'opera  pia  ti  neueonde 
un  principio  di  tirannide. 

Essendo  la  città  di  Roma  aggravata  dalla  fame,  e  noa 
bastando  le  provvisioni  pubbliche  a  cessarla,  pre<^c  animo 
UDO  Spurio  Melio,  essendo  assai  ricco.secondo  quelli  tempi, 
di  far  provvisione  di  frumento  privatamente,  e  pascerne 
con  suo  grado  la  Plebe.  Per  la  qual  cosa  egli  ebbe  tanlo  con- 
corso di  popolo  in  suo  favore,  che  'I  Senato  pensando  all'io- 
conveniente  che  di  quella  sua  liberalità  poteva  nascere,  per 
opprimerla  avanti  che  la  fiigliasse  più  forze,  gli  creò  nn  Dit- 
tatore addosso,  e  fecelo  morire.  Qui  è  da  notare,  come  molle 


LIBRO    TERÌiO.  383 

volte  r  opere  che  paiono  pie  e  da  non  le  potere  ragionevol- 
mente dannare,  diventano  crudeli,  e  per  una  repubblica 
sono  pericolosissime,  quando  non  siano  a  buon'ora  corrette. 
E  per  discorrere  questa  cosa  più  particolarmente,  dico  che 
una  repubblica  senza  cittadini  riputali  non  può  stare,  né  può 
governarsi  in  alcun  modo  bene.  Dall' altro  canto,  la  riputa- 
zione de'  cittadini  è  cagione  della  tirannide  delle  repubbliche. 
E  volendo  regolare  questa  cosa,  bisogna  talmente  ordinarsi, 
che  i  cittadini  sieno  riputati  di  riputazione  che  giovi,  e  non 
nuoca,  alia  città  ed  alla  libertà  di  quella.  E  però  si  debbo 
esaminare  i  modF  con  i  quali  ei  pigliano  riputazione  ;  che 
sono  in  effetto  due:  o  pubblici  o  privati.  I  modi  pubblici  sono, 
quando  uno  consigliando  bene,  e  operando  meglio  in  benefi- 
zio comune,  acquista  riputazione.  A  questo  onore  si  debbe 
aprire  la  via  ai  cittadini,  e  proporre  premi  ed  ai  consigli  ed 
all'opere,  talché  se  n'abbino  ad  onorare  e  satisfare.  E 
quando  queste  riputazioni  prese  per  queste  vie,  siano  schiette 
e  semplici,  non  saranno  mai  pericolose:  ma  quando  le  sono 
prese  per  vie  private,  che  è  l'alljo  modo  preallegato,  sono 
pericolosissime  ed  in  tutto  nocive.  Le  vie  private  sono,  fa- 
cendo benefìzio  a  questo  ed  a  quell'altro  privato,  con  pre- 
stargli danari,  maritargli  le  figliuole,  difendendolo  dai  ma- 
gistrati, e  facendogli  simili  privati  favori,  1  quali  si  fanno  gli 
uomini  partigiani,  e  danno  animo  a  chi  è  cosi  favorito  di 
poter  corrompere  il  pubblico,  e  sforzar  le  leggi.  Debbe,  per- 
tanto, una  repubblica  bene  ordinata  aprire  le  vie,  come  è 
detto,  a  chi  cerca  favori  per  vie  pubbliche ,  e  chiuderle  a 
chi  li  cerca  per  vie  private  ;  come  si  vede  che  fece  Roma 
perchè  in  premio  di  chi  operava  bene  per  il  pubblico,  ordinò 
i  trionfi,  e  tutti  gli  altri  onori  che  la  dava  ai  suoi  cittadini; 
ed  in  danno  di  chi  sotto  vari  colori  per  vie  private  cercava 
di  farsi  grande,  ordinò  l'accuse;  e  quando  queste  non  ba- 
stassero, per  essere  accecato  il  popolo  da  una  spezie  di  falso 
bene  ,  ordinò  il  Dittatore,  il  quale  con  il  braccio  regio  facesse 
tornare  dentro  al  segno  chi  ne  fusse  uscito,  come  la  fece  per 
punir  Spurio  Melio.  Ed  una  che  di  queste  cose  si  lasci  im- 
punita, é  atta  a  rovinare  una  repubblica;  perchè  difficilmente 
con  quello  essempio  si  riduce  dipoi  in  la  vera  via. 


38i  DEI.  DISCORSI 

Gap.  XXIX.  —  Che  gli  peccali  dei  pt^U  nascono 
dai  principL 

Non  si  dolghino  ì  principi  d*  alcuno  peccalo  che  faccino 
i  popoli  ch'egli  abbiano  in  governo;  perchè  lali  peccali 
conviene  che  naschino  o  per  sua  negligenza,  o  per  esser 
ini  macchiato  *  di  simili  errori.  E  chi  discorrerà  i  popoli  che 
nei  nostri  tempi  sono  stati  tenati  pieni  di  ruberie  e  di  simili 
peccali,  vedrà  che  sarà  al  lutto  nato  da  quelli  che  gli  gover- 
navano, che  erano  di  simile  natura.  La  Romagna,  innanzi 
che  in  quella  fossero  spenti  da  papa  Alessandro  VI  quelli 
signori  che  la  comaodavano,  era  uno  e^sempio  d*ogni  sc' il(>- 
ratissima  vita,  perchè  quivi  si  vedeva  per  ogni  leggiere  <  .1 
giooe  tegaireoccisioni  e  rapine  grandissime.  Il  che  nascevi 
dalla  IrìsUzia  dì  quei  prìncipi;  non  dalla  natura  trista  degli 
uomioi,  come  loro  dicevano.  Perchè  sendo  quelli  principi 
poveri,  e  volendo  vivere  da  ricchi,  erano  forzati  volgerai  a 
molle  rapine,  e  quelle  per  vari  modi  usare.  Ed  intra  I*  altre 
disoneste  vie  che  e*  tenevano,  facevano  leggi,  e  proibivano 
alcona  azione  ;  dipoi  erano  i  primi  che  davano  cagione  della 
inosservanza  d*eaie,  né  mai  punivano  gli  inosservanti,  se 
non  poi  quando  cedevano  esser  incorsi  assai  in  ainile 
pregiudizio  ;  ed  allora  si  voltavano  alla  punizione ,  non  per 
zelo  della  legge  fatta,  ma  per  cupidità  di  riscuoter  la  pena. 
Donde  nascevano  molti  inconvenienti ,  e  sopra  tutto  que- 
sto: che  i  popoli  si  impoverivano,  e  non  si  correggeva- 
no ;  e  quelli  che  erano  impoverìli ,  a'  ingegnavano  con- 
tra  ai  meno  polenti  di  loro  prevalersi.  Donde  sorgevano 
tutti  questi  mali  che  di  sopra  si  dicono,  de' quali  era  ra- 
gione il  principe.  E  che  questo  sia  vero ,  lo  mostra  Tilo 
Livio  quando  ei  narra  che  portando  i  Legati  romani  il  dono 
della  preda  dei  Veienli  ad  Apolline,  furono  presi  dai  corsari 
di  Lipari  in  Sicilia,  e  condotti  in  quella  terra:  ed  inteso  Ti- 
masiteo  loro  principe  che  dono  era  questo,  dove  egli  ar: 
e  chi  lo  mandava,  si  portò,  quantunque  nato  a  Lipari,  ' 


*  Coti  DclU  migliMi  ■«■■■■i.  QBdb  tolUDlo  M  PaggUtf  il  miti  ài  cor. 
reggere  :  per  Ur*  megUgm»ut0  0  ptr  9sser  lor*  mmcchimU, 


LIBRO   TERZO.  385 

uomo  romano,  e  mostrò  al  popolo  quanto  era  impio  occupare 
simll  dono;  lanlo  che,  con  il  consenso  dell'universale,  ne  la- 
sciò andare  i  Legati  con  tutte  le  cose  loro.  E  le  parole  dello 
islorico  sono  queste:  TimasUheus  muUitudinem  religione  im- 
flevil,  qucB  semper  regenli  est  similìs.  E  Lorenzo  dei  Medici,  a 
confirmazione  di  questa  sentenza,  dice: 

E  quel  che  fa  il  signor,  fanno  poi  molli  j 
Che  nel  signor  son  tutti  gli  occhi  vólti. 

Gap.  XXX.  —  Ad  uno  ciltadino  che  voglia  nella  sua  repub- 
blica far  di  sua  autorità  alcuna  opera  buona,  è  necessario 
prima  spegnere  l* invidia:  e  come,  venendo  il  nimico,  s'ha 
a  ordinare  la  difesa  rf'  una  cillà. 

Intendendo  il  Senato  romano  come  la  Toscana  tutta 
aveva  fatto  nuovo  deletto  per  venire  a'  danni  di  Roma  ;  e 
come  i  Latini  e  gli  Ernici,  stati  per  lo  addietro  amici  del 
Popolo  romano,  s'erano  accostati  coi  Volsci ,  perpetui  ni- 
mici  di  Roma  ;  giudicò  questa  guerra  dovere  esser  perico- 
losa. E  trovandosi  Ciammillo  tribuno  di  potestà  consolare , 
pensò  che  si  potesse  fare  senza  creare  il  Dittatore,  quando 
gli  altri  Tribuni  suoi  colleghi  ^  volessino  cedergli  la  somma 
dello  imperio.  Il  che  delti  Tribuni  fecero  volontariamente  : 
Nec  quicquam  (dice  Tito  Livio)  de  majeslale  sua  delraclum 
credebant,  quod  majeslali  ejus  concessissenl.  Onde  Gammillo, 
presa  a  parole  questa  ubbidienza,  comandò  che  si  scrives- 
sino  tre  eserciti.  Del  primo  volse  esser  capo  lui,  per  ire 
contra  1  Toscani.  Del  secondo  fece  capo  Quinto  Servilio ,  il 
quale  volle  stesse  propinquo  a  Roma,  per  ostare  ai  Latini 
ed  agli  Ernici,  se  si  movessino.  Al  terzo  esercito  prepose 
Lucio  Quinzio,  il  quale  ^  scrisse  per  tenere  guardata  la  città, 
e  difese  le  porte  e  la  curia,  in  ogni  caso  che  nascesse.  Oltre 
a  questo  ordinò  che  Orazio,  uno  de' suoi  colleghi,  provve- 
desse l'arme,  ed  il  frumento,  e  l'altre  cose  che  richieggono 
i  tempi  della  guerra.  Prepose  Cornelio,  ancora  suo  collega, 
al  Senato  ed  al  pubblico  consiglio,  acciocché  potesse  censir 

*  La  Romana  soltanto ,  qui  e  dodici  righe  appresso  :  collegi. 
-   Cioè ,  il  quale  esercito. 

33 


386  DEI    BISCORSI 

gliare  le  azioni  che  giornalmente  s*  avevano  a  fare  ed  ese- 
guire. In  questo  modo  furono  quelli  Tribuni,  in  quelli  temi»i, 
per  la  salute  della  patria  disposti  a  comandare  e  ad  ubbi- 
dire. Notasi  per  questo  lesto,  quello  che  faccia  uno  uomo 
buono  è  savio,  e  di  quanto  bene  sia  cagione,  e  quanto  utile 
ci  possi  fare  alla  sua  patria,  quando,  mediante  la  sua  bontà 
e  virtù,  egli  ha  spenta  T  invidia;  la  quale  è  molle  volle  ca- 
gione che  gli  uomini  non  possono  operar  bene ,  non  per- 
mettendo delta  invidia  che  gli  abbino  quella  autorità  la 
quale  è  necessaria  avere  nelle  cose  d'importanza.  Spegnesì 
questa  invidia  in  duoi  modi  :  o  per  qualche  accidente  forte 
e  difTicile,  dove  ciascuno  veggendosi  perire,  posposta  ogni 
ambizione,  corre  volontariamente  ad  ubbidire  a  colui  che 
crede  che  con  la  sua  virtù  lo  possa  liberare:  come  inter- 
venne a  (^amraillo;  il  quale  avendo  dato  di  sé  tanti  saggi 
d*  uomo  eccellentissimo,  ed  essendo  slato  (re  volte  Ditta- 
tore, ed  avendo  amministralo  sempre  quel  grado  ad  utile 
pubblico,  e  non  a  propria  utilità,  aveva  fallo  che  gli  uomini 
non  temevano  della  grandezza  sua;  e  per  esser  tanto  grande 
e  tanto  riputato,  non  slimavano  cosa  vergognosa  essere  in- 
feriore  '  a  lui.  E  però  dice  Tito  Livio  saviamente  quelle  pa- 
role: Kee  quicquam  ec.  In  un  altro  modo  si  spegne  l'invidia, 
quando  o  per  violenza  o  per  ordine  naturale  muoiono  coloro 
che  sona  stati  tuoi  concorrenti  nel  venire  a  qualche  ripula- 
zione ed  a  qualche  grandezza;  i  quali  veggendoti  riputato  più 
di  loro,  è  impossibile  che  mai  acquieschino,  e  stiano  pa- 
zienti. £  quando  sono  uomini  che  siano  usi  a  vivere  in  una 
città  corrotta  ,  dove  la  educazione  non  abbia  fatto  in  loro 
alcuna  bontà,  è  impossibile  che  per  accidente  alcuno  mai  si 
ridichino;  e  per  ottenere  la  voglia  loro,  e  satisfare  alla 
loro  perversità  d'animo,  sarebbero  contenti  vedere  la  rovina 
della  loro  patria.  A  vincer  questa  invidia  non  ci  è  altro 
rimedio  che  la  morie  di  coloro  che  l'hanno;  e  quando  la 
fortuna  è  tanto  propizia  a  quell'uomo  virtuoso,  che  si 
muoiano  ordinariamente ,  diventa  senza  scandalo  glorioso, 
quando  senza  ostacolo  e  senza  offesa  ei  può  mostrare  la  sua 
virtù  :  ma  quando  ei  non  abbi  questa  ventura,  gli  conviene 

*  L'edizione  del  1813  è  sola  a  correggere:  inferiori. 


UDRÒ    TERZO.  ^87. 

pensare  per  ogni  via  lòrsegli  dinanzi;  e  prima  che  ei  facci 
cosa  alcuna,  gli  bisogna  tenere  modi  eh' éi  vinca  questa  dif- 
ficullà.  E  chi  legge  la  Bibbia  sensatamente,  vedrà  Moisè  es- 
sere stalo  sforzato,  a  volere  che  le  sue  leggi  e  gli  suoi  ordini 
andassero  innanzi,  ad  ammazzare  infiniti  uomini,  i  quali, 
non  mossi  da  altro  che  da  invidia,  si  opponevano  a' disegni 
suoi.  Questa  necessità  conosceva  benissimo  frale  Girolamo 
Savonarola;  conoscevala  ancora  Pietro  Soderini,  gonfaloniere 
di  Firenze.  L'uno  non  potette  vincerla,  per  non  avere  auto- 
rità a  poterlo  fare  (che  fu  il  frate),  e  per  non  essere  inteso 
bene  da  coloro  che  lo  seguitavano,  che  ne  arebbono  avuto 
autorità.  Nondimeno  per  lui  non  rimase,  e  le  sue  prediche 
sono  piene  d'accuse  dei  savi  del  mondo,  e  di  invettive  con- 
tro a  loro;  perchè  chiamava  così  questi  invidi,  e  quelli  che 
si  opponevano  agli  ordini  suoi.  Quell'altro  credeva  col  tempo, 
con  la  bontà,  con  la  fortuna  sua,  con  beneficarne  alcuno,  spe- 
gner questa  invidia;  vedendosi  d'assai  fresca  età,  e  con 
tanti  nuovi  favori  che  gli  arrecava  il  modo  del  suo  proce- 
dere ,  che  credeva  poter  superare  quelli  tanti  che  per  invi- 
dia se  gli  opponevano,  senza  alcuno  scandalo,  violenza  e 
tumulto:  e  non  sapeva  che '1  tempo  non  si  può  aspettare,  la 
bontà  non  basta,  la  fortuna  varia,  e  la  malignità  non  trova 
dono  che  la  plachi.  Tanto  che  V  uno  e  l'  altro  di  questi  duo 
rovinarono,  e  la  rovina  loro  fu  causata  da  non  aver  sapulo 
o  potuto  vincere  questa  invidia.  L'altro  notabile  è  l'ordine 
che  Cammino  dette  dentro  e  fuori  per  la  salute  di  Roma.  E 
veramente,  non  senza  cagione  gli  istorici  buoni,  com'è  que- 
sto nostro,  mettono  particolarmente  e  distintamente  certi 
casi ,  acciocché  i  posteri  imparino  come  gli  abbino  in  si- 
mili accidenti  a  difendersi.  E  debbesi  in  questo  testo  notare, 
che  non  è  la  più  pericolosa  né  la  più  inutile  difesa ,  che 
quella  che  si  fa  lumuUuariamente  e  senza  ordine.  E  questo 
si  mostra  per  quello  terzo  esercito  che  Cammillo  fece  seri* 
vere  per  lasciarlo  in  Roma  a  guardia  della  città  :  perché 
molti  arebbono  giudicalo  e  giudicberebbono  questa  parie  su- 
perflua, sendo  quel  popolo  per  l'ordinario  armalo  e  belli- 
coso; e  per  questo,  che  non  gli  bisognasse  di  scriverlo  altri- 
mente,  ma  bastasse  furio  armare  quando  il  bisogno  venisse. 


388  DEI   DISCORSI 

Ma  Cammillo,  e  qoalunche  fusse  savio  come  era  osso,  la 
giudica  altrimenle  ;  perchè  non  permeile  mai  che  una  moUi- 
tudine  pigli  l'arme,  se  non  con  certo  ordine  e  cerio  modo. 
E  però,  in  sa  questo  esseropio,  uno  ohe  sia  preposto  a  guar- 
dia d'ana  città,  debhe  fuggire  come  uno  scoglio  il  fare  ar- 
mare gli  nomini  tumulluosamente  ;  ma  debbe  prima  avere 
scrini  e  scelti  quelli  che  voglia  s'armino,  chi  gli  abbino 
a  ubbidire^  dove  a  convenire,  dove  andare:  ed  a  quelli  che 
non  sono  scrini ,  comandate  che  stiano  ciascuno  alle  case  sue 
a  guardia  di  quelle.  Coloro  che  terranno  questo  ordine  in 
una  città  assaltata,  facilmente  si  potranno  difendere:  chi 
farà  altrimenti,  non  imiterà  Cammillo,  e  non  si  difenderà. 

Cap.  XXXf.  —  Le  Pfpubbliehe  forti  e  gli  uomini  eccelìmli 
ritengono  in  ojni  fortuna  il  medesimo  animo  e  la  loro  me- 
desima dignità. 

Inlra  Tallrc  magnifiche  cose  che  il  nostro  istorico  fa  dire 
e  fare  a  Cammillo,  per  mostrare  come  debbe  esser  fatto 
un  nomo  eccellente,  gli  mette  in  bocca  queste  parole:  AVr 
mihi  diclntura  animos  fedi,  nee  exilium  ademil.  Per  le  quali 
parole  sì  vede,  come  gli  uomini  grandi  sono  sempre  in  ogni 
fortuna  quelli  medesimi;  e  se  la  varia,  ora  con  esaltargli 
ora  con  opprimergli,  quelli  non  variano,  ma  tengono  sem- 
pre l'animo  fermo,  ed  in  tal  modo  congiunto  eoo  il  modo 
del  vivere  loro,  che  facilmente  si  conosce  per  ciascuno,  la 
fortuna  non  aver  potenza  sopra  di  loro.  Altrimenti  si  gover- 
nano gli  uomini  deboli;  perche  invaniscono  ed  inebriano 
ttella  buona  fortuna,  attribuendo  lutto  il  bene  che  gli  hanno 
a  quelle  virtù  che  non  conobbero  mai.  D' onde  nasce  che 
diventano  insopportabili  ed  odiosi  a  tulli  coloro  che  gli  hanno 
intorno.  Da  che  poi  dipende  la  subila  variazione  della  sorte  ; 
la  quale  come  veggono  in  viso,  caggiono  subito  nell'altro  di* 
fello,  e  diventano  vili  ed  abietti.  Di  qui  nasce  che  i  prìncipi 
cosi  fatti  pensano  nella  avversità  più  a  fuggirsi  che  a  difen- 
dersi ,  come  quelli  che  per  aver  male  usala  la  buona  for- 
tuna, sono  ad  ogni  difesa  impreparati.  Questa  virtù,  e  que- 
sto vizio,   ch'io   dico  trovarsi  in  uno  uomo  solo,  si  trova 


LIBRO   TERZO.  389 

ancora  in  una  repubblica  :  ed  in  essempìo  ci  sono  i  Romani, 
ed  i  Viniziani.  Quelli  primi,  nessuna  cattiva  sorte  gli  fece  mai 
divenire  abietti,  né  nessuna  buona  fortuna  gli  fece  mai  es- 
sere insolenti  ;  come  si  vidde  manifestamente  dopo  la  rotta 
ch'egli  ebbono  a  Canne,  e  dopo  la  vittoria  ch'egli  ebbono 
centra  ad  Antioco;  perchè  per  quella  rotta,  ancora  che  gra- 
vissima per  esser  stata  la  terza,  non  invilirono  mai;  e 
mandarono  fuori  eserciti  ;  non  volleno  riscattare  i  loro  pri- 
gioni centra  agli  ordini  loro;  non  mandarono  ad  Annibale 
0  a  Cartagine  a  chiedere  pace  :  ma,  lasciate  stare  tutte  queste 
cose  abiette  indietro,  pensarono  sempre  alla  guerra;  ar- 
mando, per  carestia  d'uomini,  i  vecchi  ed  i  servi  loro.  La 
qual  cosa  conosciuta  da  Annone  cartaginese,  come  di  sopra 
si  disse,  mostrò  a  quel  Senato  quanto  poco  conto  s'aveva  a 
tenere  della  rotta  di  Canne.  E  così  si  vidde  come  i  tempi  dif- 
ficili non  gli  sbigottirono,  né  gli  renderono  umili.  Dall'altra 
parie,  i  tempi  prosperi  non  gli  fecero  insolenti  :  perché  man- 
dando Antioco  oratori  a  Scipione  a  chiedere  accordo,  avanti 
che  fussino  venuti  alla  giornata,  e  ch'egH  avesse  perduto, 
Scipione  gli  dette  certe  condizioni  della  pace;  quali  erano 
che  si  ritirasse  dentro  alla  Siria,  ed  il  resto  lasciasse  nello 
arbitrio  de*  Romani.  Il  quale  accordo  ricusando  Antioco,  e 
venendo  alla  giornata,  e  perdendola,  rimandò  ambasciadori 
a  Scipione,  con  commissione  che  pigliassero  tutte  quelle 
condizioni  erano  date  loro  dal  vincitore:  ai  quali  non  pro- 
pose altri  patti  che  quelli  s'avesse  oiTerti  innanzi  che  vin- 
cesse; soggiungendo  queste  parole:  Quod  Romani,  si  vm- 
cunlur,  non  minuunlur  animis  ;  nec  si  vincunt ,  insolescere 
solent.  Al  contrario  appunto  di  questo  s' è  veduto  fare  ai  Vi- 
niziani :  i  quali  nella  buona  fortuna,  parendo  loro  aversela 
guadagnata  con  quella  virtù  che  non  avevano,  erano  venuti 
a  tanta  insolenza,  che  chiamavano  il  re  di  Francia  figliuolo 
di  San  Marco  ;  non  stimavano  la  Chiesa  ;  non  capivano  in 
modo  alcuno  in  Italia;  e  avevansi  presupposto  nell'animo 
d'aver  a  fare  una  monarchia  simile  alla  romana.  Dipoi,  come 
la  buona  sorte  gli  abbandonò,  e  ch'egli  ebbero  una  mezza 
rotta  a  Vaila  dal  re  di  Francia,  perderono  non  solamente 
tutto  lo  stato  loro  per  ribellione,  ma  buona  parte  ne  dettero 

33* 


300  DEI   DISCORSI 

ed  al  papa  eii  al  re  di  Spagna  per  TÌUà  ed  abiezione  d' ani- 
mo; ed  in  (an(o  invilirono,  che  mandarono  amhasciadorì  al- 
lo imperadore  a  farsi  Iribalari  ;  e  scrissono  al  papa  IcUcrc 
piene  di  viUà,  e  di  sommissione  per  muoverlo  a  compassione. 
Alla  quale  infelicilà  pervennero  in  quattro  giorni,  e  dopo 
una  metta  rotta  :  perchè  avendo  combattuto  il  loro  esercito, 
nel  ritirarsi  venne  a  combattere  ed  essere  oppresso  circa  la 
metà;  in  modo  che,  T  noo  de*  provveditori  che  si  salvò,  ar- 
rivò a  Verona  eoo  più  di  venticinqaemila  aoldali,  intra  piò 
e  cavallo.  '  Talmenlechè,  se  a  Vinegia  e  negli  ordini  loro  fussa 
stata  alcuna  qualità  di  virtù,  facilmente  si  potevano  rifare, 
e  dimostrare  di  nuovo  il  viso  alla  fortuna  ed  essere  a  tempo 
o  a  vincere,  o  a  perdere  pia  gloriotamente,  o  ad  avere  ac- 
corda più  onorevole.  Ma  la  viltà  dell'animo  loro,  caasata 
dalla  qualità  de'  loro  ordioi  eoa  buoni  nelle  cose  della  guer- 
ra, gli  fece  ad  un  trailo  perdere  lo  stato  e  1*  animo.  E  sem* 
pre  iolenrerrà  eeal  a  qealenqee  ti  geteroi  come  loro.  Pefobò 
divealare  teeelenle  mUa  beane  fortuna  ed  ebielle 
celUfe»  Mtee  dal  mo(Ìp  del  proceder  tuo,  e  delle  ede- 
ceiieoe  nelle  feele  la  sei  nudrìto  :  la  quale  quando  è  debole 
•  ?eoa,  li  rende  simile  e  sé:  quando  è  siala  altrimenti ,  li 
rende  ancora  d*  un* altra  sorte;  e  fecendoii  migliore  conosci- 
tore del  mondo,  li  fa  meno  rallegrale  del  bene,  e  nene  rei- 
tristare  del  mele.  E  quello  che  si  dice  d*  un  solo,  si  dice  di 
molti  che  vivono  in  una  repubblica  medesima;  i  quali  si  fanno 
di  quella  perfctiooe,  che  ba  il  modo  del  vivere  di  quella.  E 
benché  altra  volta  si  sia  detto,  come  il  fondamenta  di  tutti 
gli  stati  è  la  buona  miliiia  ;  e  come  dove  non  é  questa,  non 
possono  oasere  né  leggi  buone  né  alcuna  altra  cosa  buona  ; 
non  mi  paresnperflee  replicarlo:  perchè  ad  ogni  punto  nel 
leggere  questa  istoria  si  vedo  apparire  questa  necessilà  ;  e  si 
vede  come  la  militia  non  puole  esaere  buona,  ee  la  non  è 
eeercitata  ;  e  come  la  non  si  può  esercitare,  se  la  non  è  com- 
posta di  luoi  sudditi.  Perchè  sempre  non  si  sta  in  guerra,  nò 
si  può  slarvi;  però  conviene  pelerle  esercitare  a  tempo  di 
pace  :  e  con  altri  che  con  suddili  non  si  può  fare  questo  eser- 
cizio, rispetto  alla  spesa.  Era  CaamiUo  andato,  come  di  sopra 

'  Sole  il  Poetali  :  Irm  pit  e  «  cmfmif: 


LIBRO    TERZO.  391 

dicemmo,  con  1'  esercito  contra  ai  Toscani  ;  ed  avendo  i  suoi 
soldati  veduto  la  grandezza  dello  esercito  dei  nimici,  s'erano 
tutti  sbigottiti,  parendo  loro  essere  tanto  inferiori  da  non 
poter  sostenere  l'impelo  di  quelli.  E  pervenendo  questa  mala 
disposizione  del  campo  agli  orecchi  di  Cammillo,  si  mostrò 
t'uora,  ed  andando  parlando  per  il  campo  a  questi  ed  a  quelli 
soldati,  trasse  loro  del  capo  quella  oppinione  ;  e  nell'ultimo, 
senza  ordinare  altrimenti  il  campo,  disse:  Quod  quisque  di- 
dicil,  aul  consuevU,  faciet.  E  chi  considererà  bene  questo 
termine,  e  le  parole  disse  loro,  per  inanimarli  a  ire  contro 
ai  nimici,  considererà  conie  e' non  si  poteva  né  dire  né  far 
fare  alcuna  di  quelle  cose  ad  uno  esercito  che  prima  non 
fusse  stato  ordinalo  ed  esercitato  ed  in  pace  ed  in  guerra. 
Perchè  di  quelli  soldati  che  non  hanno  imparato  a  far  cosa 
alcuna,  non  può  un  capitano  fidarsi,  e  credere  che  faccino 
alcuna  cosa  che  stia  bene;  e  se  gli  comandasse  un  nuovo  An- 
nibale, vi  rovinerebbe  sotto.  Perchè,  non  polendo  un  capi- 
tano essere  mentre  si  fa  la  giornata  in  ogni  parte,  se  non  ha 
prima  in  ogni  parte  ordinato  di  potere  avere  uomini  che  ab- 
bino lo  spirito  suo,  e  bene  gli  ordini  ed  i  modi  *  del  procedere 
suo,  conviene  di  necessità  che  ci  rovini.  Se,  adunque,  una 
città  sarà  armata  ed  ordinala  come  Roma  ;  e  che  ogni  di  ai 
suoi  cittadini,  ed  in  particolare  ed  in  pubblico,  tocchi  a  fare 
isperienza  e  della  virtù  loro,  e  della  potenza  della  fortuna; 
interverrà  sempre  che  in  ogni  condizione  di  lempo  e' siano 
del  medesimo  animo,  e  manterranno  la  medesima  loro  de- 
gnila :  ma  quando  e'  siano  ^  disarmali,  e  che  si  appoggeranno 
solo  alli  impeti  della  fortuna,  e  non  alla  propria  virtù,  varie- 
ranno  col  variare  di  quella,  e  daranno  sempre  di  loro  quello 
essempio  che  hanno  dato  i  Viniziani, 

Gap.  XXXII.  —  Quali  modi  hanno  tenuti  alcuni  a  turbare 
una  pace. 

Essendosi  ribellate  dal  Popolo  romano  Circei  e  Velilre, 
due  sue  colonie,  sotto  speranza  d'esser  difese  dai  Latini;  ed 
essendo  dipoi  vinli  i  Latini,  C!  mancando  di  quelle  speranze; 

*  La  Testina  colle  moderne:  e  il  modo. 
2  LaRomana  sollanlo:^rtno. 


3D2  DEI    DISCORSI 

consigliavano  assai  cilladini  che  si  dovesse  mandare  a  Roma 
oratori  a  raccomandarsi  al  Senato:  il  qual  partito  fu  turbalo 
da  coloro  che  erano  stati  autori  della  ribellione,  i  quali  te- 
mevano che  tutta  la  pena  non  si  voltasse  sopra  le  teste  loro. 
E  per  tòr  via  ogni  ragionamento  di  pace,  incitarono  la  mol- 
titudine ad  armarsi,  ed  a  correr  sopra  i  confini  romani.  E 
veramente,  quando  alcuno  vuole  o  che  uno  popolo  o  un  prin- 
cipe levi  al  tutto  r  animo  da  on  accordo,  non  ci  è  altro  modo 
più  vero  né  più  stabile,  che  fargli  usare  qualche  grave  scel- 
leratezza contra  a  colui  con  il  quale  tu  non  vuoi  che  l'ac- 
cordo si  faccia  :  perchè  sempre  lo  terrà  discosto  quella  paura 
di  quella  pena  che  a  lui  parrà  per  Io  errore  commesso  aver 
meritala.  Dopo  la  prima  guerra  che  i  Cartaginesi  ebbono  coi 
Romani,  quelli  soldati  qhe  dai  Cartaginesi  erano  stati  ado- 
perati in  quella  guerra  in  Sicilia  ed  in  Sardigna,  fatta  che 
fu  la  pace,  se  ne  andarono  in  AflTrica  ;  dove  non  essendo  sa- 
tisfatti del  loro  stipendio,  mossono  l'armi  contra  ai  Cartagi- 
nesi; e  fatti  di  loro  due  capi.  Malo  e  S|>endio,  occuparono 
molte  terre  ai  Cartaginesi,  e  molte  ne  saccheggiarono.  I  Car- 
taginesi, per  tentare  prima  ogni  altra  via  che  la  zuffa,  man- 
darono a  quelli  ambasciadore  Asdrubale  loro  cittadino,  il 
quale  pensavano  avesse  alcuna  autorità  con  quelli,  essendo 
slato  per  lo  addietro  lor  capitano.  Ed  arrivato  costui,  e  vo- 
lendo Spendio  e  Mato  obbligare  tutti  quelli  soldati  a  non 
sperare  d'aver  mai  più  pace  coi  Cartaginesi,  e  per  questo 
obbligarli  alla  guerra;  persuadono  loro,  ch'egli  era  meglio 
ammazzare  costui,  con  tutti  i  cittadini  cartaginesi, quali  erano 
appresso  loro  prigioni.  Donde,  non  solamente  gli  ammazza- 
rono, ma  con  mille  supplizi  in  prima  gli  straziarono;  ag- 
giungendo a  questa  scelleratézza  uno  editto,  che  tutti  i  Car- 
taginesi che  per  lo  avvenire  si  pigliassino,  si  dovessino  in 
simil  modo  occidere.  La  qual  diliberazione  ed  esecuzione  fece 
quello  esercito  crudele  ed  ostinato  contra  ai  Cartaginesi. 

Gap.  XXX ih.  —  Egli  è  necessario,  a  voler  vincere  una  giornata, 
fare  C esercito  confidente  ed  infra  loro,  e  con  il  capitano. 

A  volere  che  uno  esercito  vinca  una  giornata ,  è  necessa- 
rio farlo  conlìdcnle,  in  modo  che  creda  dovere  in  ogni  modo 


LIBRO    TERZO.  393 

vincere.  Le  cose  che  lo  fanno  confidente  sono  :  che  sia  arnaalo 
ed  ordinalo  bene;  conoschinsi  l'uno  l'altro.  Né  può  nascer 
questa  confidenza  o  questo  ordine,  se  non  in  quelli  soldati 
che  sono  nati  e  vissuti  insieme.  Conviene  che  '1  capitano  sia 
slimato,  di  qualità  che  confidino  nella  prudenza  sua:  e  sem- 
pre confideranno,  quando  lo  vegghino  ordinalo,  sollecito  ed 
animoso,  e  che  tenga  bene  e  con  riputazione  la  maestà  del 
grado  suo:  e  sempre  la  manterrà,  quando  gli  punisca  degli 
errori,  e  non  gli  affalichi  invano;  osservi  loro  le  promesse  ; 
mostri  facile  la  via  del  vincere  ;  quelle  cose  che  discosto  po- 
lessino  mostrare  i  pericoli,  le  nasconda,  le  alleggerisca.  Le 
quali  cose  osservate  bene,  sono  cagione  grande  che  l'esercito 
confida,  e  confidando  vince.  Usavano  i  Romani  di  far  pigliare 
agli  eserciti  loro  questa  confidenza  per  via  di  religione;  donde 
nasceva,  che  con  gli  augurii  ed  auspizii  creavano  i  Consoli, 
facevano  il  deletlo,  partivano  con  li  eserciti,  e  venivano  alla 
giornata  :  e  senza  aver  fatto  alcuna  di  queste  cose,  non  mai 
arebbe  un  buon  capitano  e  savio  tentata  alcuna  fazione,  giu- 
dicando d'averla  potuta  perdere  facilmente,  se  i  suoi  soldati 
non  avessero  prima  inteso  gli  dii  essere  dalla  parte  loro.  E 
quando  alcuno  Consolo,  o  altro  loro  capitano,  avesse  combat- 
tuto conlra  agli  auspizii,  Farebbero  punito  ;  come  e*  punirono 
Claudio  Fulcro.  E  benché  questa  parte  in  tulle  l' istorie  ro- 
mane si  conosca,  nondimeno  si  pruova  più  certo  per  le  parole 
che  Livio  usa  nella  bocca  di  A  ppio  Claudio  ;  il  quale,  dolendosi 
col  popolo  della  insolenza  de'  Tribuni  della  plebe,  e  mostrando 
che  medianti  quelli,  gli  auspizii  e  l'altre  cose  pertinenti  alla 
religione  si  corrompevano,  dice  così:  Eludant  nunc  licei  re- 
Ugionem.  Quid  enim  interest,  si  pulii  non  pascenlur,  si  ex  ca- 
vea lardius  exierìnl,  si  occinuerit  avis?  Parva  sunt  hcec  ;  sed 
parva  isla  non  conlemnendo,  majores  nostri,  maximam  hanc 
Rempublicam  fecerunt.  Perchè  in  queste  cose  piccole  è  quella 
forza  di  tenere  uniti  e  confidenti  i  soldati  :  la  qual  cosa  è 
prima  cagione  d'ogni  vittoria.  Nondimanco,  conviene  con 
queste  cose  sia  accompagnala  la  virtù  :  altrimenti,  le  non 
vagliono.  I  Prenestini,  avendo  contra  ai  Romani  fuori  il 
loro  esercito,  se  n'andarono  ad  alloggiare  in  sul  fiume 
d'Allia,  luogo  dove  i  Romani  furono  vinti  da'  Franciosi  ;  il 


394  DEI   DISCORSI 

che  fecero  per  meder  fidocia  nei  loro  soldati,  e  s1>igoUire  i 
Romani  per  la  Torlana  del  luogo.  E  benciiè  questo  loro  par- 
lilo russe  probabile,  per  quelle  ragioni  che  di  sopra  sì  sono 
discorse  ;  nientedimeno  il  fine  delU  cosa  mostrò,  che  U  vera 
virtù  non  leme  ogni  minimo  accid— le.  11  che  V  istorico  be- 
nissimo dice  con  qoeata  parole,  io  bocca  poale  «lei  Dillalore, 
che  parla  cosi  al  aoellaealro  de* cavagli  :  Vidn  Uè,  fortuna  i7/os 
frtlot  ad  Àlliam  conudUu;  al  (m,  frelut  armis  an(mi$qm9,ifUmit 
acùuu  Perchè  ana  vera  virtù,  nn  ordine  buono,  una 
presa  da  tante  vittorie,  non  si  può  con  cose  di  poco 

Ito  apesnere  ;  né  aoa  cosa  vana  la  Jor  pamra»  né  uu 
disordine  gli  offende  :  cene  si  vede  '  certe,  che  eaaeode  due 
Manli!  consoli  centra  ai  Volsci,  per  aver  mandalo  temeraria- 
roenle  parte  del  campo  a  predare,  ne  segai  che  io  un  tempo 
e  qnelii  che  erano  iti,  e  quelli  che  erano  rimaati,  si  trovarono 
aaaediati  ;  dal  quel  pericolo  non  la  prodenta  dei  Conaoli,  ma 
la  virtù  de' propri  aoldaii  gli  liberò.  Dove  Tito  Livio  dice 
f  «eale  parole  :  ÈtUUutn,  eiiam  iint  rettore,  iiabUù  virlu»  Imlaln 
esl.  Ken  veglio  lasciare  iodici ro  uo  lernine  osalo  da  Fabio, 

entralo  di  Aoevo  con  T  esercito  in  Toscaoa,  per  farlo 
giudicando  quella  lai  fidansa  esser  più  neccssa- 
fia  per  averlo  condotto  in  paese  Beove,  •  centra  a  oiroici 
nuovi:  c!ie,p4r!abdo  acanti  la  tuffa  ai  soldati,  e  detto cb' ebbe 
molle  ragioni,  roedianle  le  quali  e*  potevano  sperare  la  vil- 
loria,  disse  che  potrebbe  ancora  loro  dire  certe  cose  booM,  e 
dove  e*  vedrcbbooo  la  vittoria  certa,  se  non  fusse  perieolMo 
il  isanifeslarle.  Ilqual  modo  come  fu  saviamenle  oaalOi  eosà 
merita  d' essere  imitalo. 

Csr.  X\HV.  »  QuaU  fmma  •  toee  o  oppimkme  fm  9k$  U 
popofo  cnmineia  a  farorire  un  eillédino  :  e  te  ei  Hitlrlbui' 
uè  •  magUlrati  con  magjior  prudenza  che  un  principe. 

Altra  volta  parlammo  come  Tito  Manlio,  che  fu  poi  dello 
Torquato,  salvò  Lucio  Manlio  sno  padre  da  ona  accosa  ebc 
eli  aveva  f^lla  Marco  Pomponio  Iribnno  dalli  plebe.  E  ben 
che  il  modo  del  sslvarlo  fosse  alqnanf  vialenio  od  isira  i  i 

*  Aììntiuioni.  Piét.oHéJe. 


LIBRO    TERZO.  395 

nario,  nondimeno  quella  filiale  pietà  verso  del  padre  fa  tanto 
grata  all'universale,  che  non  solamente  non  ne  fu  ripreso, 
ma  avendosi  a  fare  i  Tribuni  delle  legioni,  fu  fatto  Tito  Manlio 
nel  secondo  luogo.  Per  il  quale  successo,  credo  che  sia  bene 
considerare  il  modo  che  tiene  il  popolo  a  giudicare  gli  uomini 
nelle  distribuzioni  sue;  e  che  per  quello  noi  veggiamo,  s*» 
egli  è  vero  quanto  di  sopra  si  conchiase,  che  il  popolo  sia 
migliore  distributore  che  un  principe.  Dico,  adunque,  come  il 
popolo  nel  suo  distribuire  va  dietro  a  quello  che  si  dice  d'uno 
per  pubblica  voce  e  fama,  quando  per  sue  opere  note  non  lo 
conosce  altrimenti;  o  per  presunzione  o  oppinione  che  s*  ha  di 
lui.  Le  quali  due  cose  sono  causate  o  dai  padri  di  quelli  tali, 
che  per  esser  stati  grandi  uomini  e  valenti  nelle  città,  si 
crede  che  i  figliuoli  debbino  esser  simili  a  loro,  infino  a 
tanto  che  per  l'  opere  di  quelli  non  s' intende  il  contrario  ;  o 
la  è  causala  dai  modi  che  tiene  quello  di  chi  si  parla.  I  modi 
migliori  che  si  possono  tenere,  sono:  avere  compagnia  d'uo- 
mini gravi,  di  buoni  costumi,  e  riputati  savi  da  ciascuno.  E 
perchè  nessuno  indizio  si  può  aver  maggiore  d'un  uomo,  cho 
le  compagnie  con  quali  egli  usa;  meritamente  uno  che  usa 
con  compagnia  onesta,  acquista  buon  nome,  perchè  è  im- 
possibile che  non  abbia  qualche  similitudine  con  quella.  *  O 
veramente  s'acquista  questa  pubblica  fama  per  qualche 
azione  istraordinaria  e  notabile,  ancora  che  privata,  la  quale 
ti  sia  riuscita  onorevolmente.  E  di  tutte  tre  queste  cose  che 
danno  nel  principio  buona  riputazione  ad  uno,  nessuna  la  dà 
maggiore  che  questa  ultima  :  perchè  quella  prima  de'  parenti 
e  de' padri  è  si  fallace,  che  gli  uomini  vi  vanno  a  rilento; 
ed  in  poco  si  consuma",  quando  la  virtù  propria  di  colui  che 
ha  ad  essere  giudicalo  non  l'accompagna.  La  seconda  che  ti 
fa  conoscere  per  via  delle  pratiche  lue,  è  miglior  della  pri- 
ma, ma  è  molto  inferiore  alla  terza  ;  perchè,  infino  a  tanto 
che  non  si  vede  qualche  segno  che  nasca  da  te,  sta  la  ripu- 
tazione tua  fondata  in  su  l' oppinione,  la  quale  è  facilissima  a 
cancellarla.  Ma  quella  terza,  essendo  principiata  e  fondata  in 
su  l'opere  lue,  li  dà  nel  principio  tanto  nome,  che  bisogna 

1  L' dizione  del  LI.kIo  :  (7«c//c. 


396  DEI    DISCORSI 

bene  che  tu  operi  poi  molte  cose  contrarie  a  questo,  '  volendo 
annullarla.  Debbono,  adunque,  gli  uomini  che  nascono  in  una 
repubblica  pigliare  questo  verso,  ed  ingegnarsi  con  qualche 
operazione  istraordinaria  cominciare  a  rilevarsi.  11  che  molli 
a  Roma  in  gioventù  feciono  o  con  il  promulgare  una  legge 
che  venisse  in  comune  utilità  ;  o  con  accusare  qualche  po- 
tente cittadino  come  trasgressore  delle  leggi  ;  o  col  fare  simili 
cose  notabili  e  nuove,  di  che  s'avesse  a  parlare.  Né  sola- 
mente sono  necessarie  simili  cose  per  cominciare  a  darsi  ri- 
putazione, ma  sono  ancora  necessarie  per  mantenerla  ed 
accrescerla.  Ed  a  voler  fare  questo,  bisogna  rinnovarle;  come 
per  lutto  il  tempo  della  sua  vita  fece  Tito  Manlio:  perchè,  di- 
feso ch'egli  ebbe  il  padre  tanto  virtuosamente  e  straordina- 
riamente, e  per  questa  azione  presa  la  prima  reputazione  sua, 
dopo  certi  anni  combatto  con  quel  Francioso,  e  morto  gli  trasse 
quella  collana  d*oro  che  gli  dette  il  nome  di  Torquato.  Non 
bastò  questo,  che  dipoi,  già  in  età  matura,  ammazzò  il  figliuolo 
per  aver  combattuto  senza  licenza,  ancora  ch'egli  avesse  su- 
perato il  nimico.  Le  quali  Ire  azioni  allora  gli  dellono  più 
nome  e  per  tutti  i  secoli  lo  fanno  più  celebre,  che  non  lo 
fece  alcuno  Irìonfo,  alcuna  vittoria,  di  che  egli  fu  ornalo 
quanto  alcuno  altro  Romano.  E  la  cagione  è  perchè  in  quelle 
vittorie  Manlio  ebbe  moltissimi  simili  ;  in  queste  particolari 
azioni  n'ebbe  o  pochissimi  o  nessuno.  A  Scipione  maijgiore 
non  arrecarono  tanta  gloria  tutti  i  suoi  trionfi,  quanto  gli 
dette  l'avere,  ancora  giovinetto,  in  sul  Tesino  difeso  il  padre; 
e  l'aver,  dopo  la  rotta  di  Canne,  animosamente  con  la  spada 
sguainata  fatto  giurare  più  gioveni  romani,  che  ei  non  ab- 
bandonerebbono  Italia,  comedi  già  intra  loro  avevano  dilibe- 
ralo :  le  quali  due  azioni  furono  princìpio  alla  riputazione 
sua,  e  gli  fecero  scala  ai  trionfi  della  Spagna  e  dell' Affrica. 
La  quale  oppinione  da  lui  fu  ancora  accresciuta,  quando  ei  ri- 
mandò la  figliuola  al  padre  e  la  moglie  al  marito  in  Ispagna. 
Questo  modo  del  procedere  non  è  necessario  solamente  a 
quelli  cittadini  che  vogliono  acquistar  fama  per  ottenere 
gli  onori  nella  loro  repubblica,  ma  è  ancora  necessario  ai 
principi  per  mantenersi  la  riputazione  nel  principato  loro: 

*  La  nede&ima  :  nntsU, 


LIBRO    TIÌUZO.  307 

perchè  nessuna  cosa  2;^  ^>  tanto  stimare,  quanto  dare  di  sé 
rari  eserapi  con  qualche  fatto  o  detlo  raro,  conforme  al  bene 
comune,  il  quale  mostri  il  signore  0  magnanimo  o  liberale 
o  giusto,  e  che  sia  tale  che  si  riduca  come  in  proverbio  intra 
i  suoi  soggetti.  Ma,  per  tornare  donde  noi  cominciammo  que- 
sto discorso,  dico  come  il  popolo  quando  ei  comincia  a  dare 
un  grado  ad  un  suo  cilladino,  fondandosi  sopra  quelle  tre 
cagioni  soprascritte,  non  si  fonda  male;  ma  quando  poi  gli 
assai  esserapi  de'  buoni  portamenti  d'  uno  lo  fanno  più  noto, 
si  fonda  meglio,  perchè  in  tal  caso  non  può  essere  che  quasi 
mai  s'  inganni.  Io  parlo  solamente  di  quelli  gradi  che  si 
danno  agli  uomini  nel  principio,  avanti  che  per  ferma  ispe- 
rienza  siano  conosciuti,  o  che  passano  da  una  azione  ad 
unaltra  dissimile:  dove,  e  quanto  alla  falsa  oppinione,  e  quanto 
alla  corruzione,  sempre  fanno  minori  errori  che  i  principi. 
E  perchè  e' può  essere  che  i  popoli  s'ingannerebbono  della 
fama,  della  oppinione  e  delle  opere  d'uno  uomo,  stimandole 
maggiori  che  in  verità  non  sono  ;  il  che  non  interverrebbe 
ad  uno  principe,  perchè  gli  sarebbe  detto,  e  sarebbe  avver- 
tilo da  chi  lo  consigliasse  ;  perchè  ancora  i  popoli  non  man- 
chino di  questi  consigli,  i  buoni  ordinatori  delle  repubbliche 
hanno  ordinato,  che,  avendosi  a  creare  i  supremi  gradi  nelle 
ciltà,  dove  fusse  pericoloso  mettervi  uomini  insuffizienti,  e 
veggendosi  la  voglia  popolare  esser  diritta  a  creare  alcuna 
che  fusse  insuffizienle,  sia  lecito  ad  ogni  cittadino,  e  gli  sia 
imputato  a  gloria,  di  pubblicare  nelle  concioni  i  difetti  di 
quello,  acciocché  il  popolo,  non  mancando  della  sua  cono- 
scenza, possa  meglio  giudicare.  E  che  questo  si  usasse  a 
Roma,  ne  rende  testimonio  la  orazione  di  Fabio  Massimo,  la 
quale  ei  fece  al  Popolo  nella  seconda  guerra  punica,  quando 
nella  creazione  dei  Consoli  i  favori  si  volgevano  a  creare 
Tito  Oltacilio;  e  giudicandolo  Fabio  insuflìziente  a  governare 
in  quelli  tempi  il  consolato,  gli  parlò  contra,  mostrando  la 
insulTizienza  sua;  tantoché  gli  tolse  quel  grado,  e  volse  i  fa- 
vori del  Popolo  a  chi  più  lo  meritava  che  lui.  Giudicano,  adun- 
que, i  popoli  nella  elezione  a'  magistrati  secondo  quei  con- 
trassegni che  degli  uomini  si  possono  aver  più  veri; e  quando 
ei  possono  esser  consigliati  come  i  principi,  errano  meno 

34 


398  DK»    DISCORSI. 

che  i  principi  :  e  qacl  cidadino  che  voglia  cominciare  ad 
avere  i  favori  del  popolo,  debbe  con  qualche  fallo  notabile, 
come  fece  Tito  Manlio,  guadagnarseli. 

CàP.  XXXV.  —  Quali  pencoli  si  portino  nel  farsi  capo  a  con- 
sigliare una  cosa;  e  quanto  ella  ha  più  dello  straordinario, 
maggiori  pericoli  vi  si  corrono. 

Quanto  sia  cosa  pericolosa  farsi  capo  d' una  cosa  nuova 
che  appartenga  a  molti,  e  quanto  sia  difTìcile  a  trattarla  ed 
a  condurla;  e  condotta,  a  mantenerla,  sarebbe  troppo  lunga 
e  troppo  alta  materia  a  discorrerla:  però,  riserbandolo  a  luogo 
più  conveniente,  parlerò  solo  di  quelli  pericoli  che  portano  i 
cittadini,  o  quelli  che  consigliano  uno  principe  a  farsi  capo 
d'  una  deliberazione  grave  ed  importante,  in  modo  che  tutto 
il  consiglio  d'essa  sia  imputalo  a  lui.  Perchè,  giudicando  gli 
uomini  le  cose  dal  Cne,  tutto  il  male  che  ne  risulta,  s'imputa 
all'autore  del  consiglio;  e  se  ne  risulta  bene,  ne  è  commen- 
dalo: ma  di  lunga  il  premio  non  contrappcsa  il  danno.  11  pre- 
sente Sultan  Sali,  detto  Gran  Turco,  essendosi  preparato 
(secondo  che  ne  riferiscono  alcuni  che  vengono  de' suoi  paesi) 
di  fare  l'impresa  di  Seria  e  di  Egitto,  fu  confortato  da  un  suo 
Bascià,  quale  ei  teneva  ai  confini  di  Persia,  d'andare  centra 
al  Soft:  dal  quale  consiglio  mosso,  andò  con  esercito  grossissi- 
mo  a  quella  impresa;  ed  arrivando  in  paese  larghissimo,  dove 
sono  assai  deserti  e  le  fiumare  rade,'  e  trovandovi  quelle  dif- 
(ìcultà  che  già  fecero  rovinare  molli  eserciti  romani,  fu  in 
modo  oppressalo  da  quelle,  che  vi  perde  per  fame  e  per  pe- 
ste, ancora  che  nella  guerra  fusse  superiore,  gran  parte  delle 
sue  genti:  talché  irato  contro  all'autore  del  consiglio,  l'am- 
mazzò. Leggesi,  assai  cittadini  stati  confortatori  d'una  impre- 
sa, e  per  avere  avuto  quella  tristo  fine,  essere  stali  mandati 
in  esilio.  Fecionsi  capi  alcani  cittadini  romani ,  che  si  facesse, 
in  Roma  il  Consolo  plebeo.  Occorse  che  il  primo  che  usci 
fuori  con  gli  eserciti,  fu  rotto  ;  onde  a  quelli  consigliatori  sa- 
rebbe avvenuto  qualche  danno,  se  non  fusse  slata  tanto  ga- 
gliarda quella  parte,  in  onore  della  quale  tale  diliberazionc 

*  Credo  errore  nella  Bladiana ,  per  iicarabio  di  lettere  :Jìunia(e  rare. 


LIBRO    TERZO.  399 

era  venuta.  È  cosa  adunque  certissima,  che  quelli  che  con- 
sigliano una  repubblica,  e  quelli  che  consigliano  un  principe, 
sono  posti  intra  queste  angustie,  che  se  non  consigliano  le  cose 
che  paiono  loro  utili,  o  per  la  città  o  per  il  principe,  senza 
rispetto,  ei  mancano  dell' ufTizio  loro;  se  le  consigliano,  egli 
entrano  nel  pericolo  della  vita  e  dello  stato  :  essendo  tutti  gli 
uomini  in  questo  ciechi,  di  giudicare  i  buoni  e  cattivi  consi- 
gli dal  fine.  E  pensando  in  che  modo  ei  polessino  fuggire  o 
questa  infamia  o  questo  pericolo,  non  ci  veggo  altra  via 
che  pigliar  le  cose  moderatamente,  e  non  ne  prendere  al- 
cuna per  sua  impresa,  e  dire  l'oppinione  sua  senza  passione, 
e  senza  passione  con  modestia  difenderla:  in  modo  che,  se 
la  città  0  il  principe  la  segue,  che  la  segua  volontario,'  e 
non  paia  che  vi  venga  tirato  dalla  tua  importunità.  Quando 
tu  faccia  così,  non  è  ragionevole  che  un  principe  ed  un  popolo 
del  tuo  consiglio  ti  voglia  male,  non  essendo  seguito  centra 
alla  voglia  di  molti:  perchè  quivi  si  porta  pericolo  dove  molti 
hanno  contradetto,  i  quali  poi  nello  infelice  fine  concorrono 
a  farti  rovinare.  E  se  in  questo  caso  si  manca  di  quella  glo- 
ria che  si  acquista  nell' esser  solo  centra  molti  a  consigliare 
una  cosa,  quando  ella  sortisce  buon  fine,  ci  sono  al  rincon- 
tro due  beni  :  il  primo,  di  mancare  del  pericolo;  il  secondo, 
che  se  tu  consigli  una  cosa  modestamente,  e  per  la  contra- 
dìzione  il  tuo  consiglio  non  sia  preso,  e  per  il  consiglio  d'al- 
trui ne  seguiti  qualche  rovina,  ne  risulta  a  te  grandissima 
gloria.  E  benché  la  gloria  che  s'acquista  de' mali  che  abbia  o 
la  tua  città  o  il  tuo  principe,  non  si  possa  godere,  nondi- 
meno è  da  tenerne  qualche  conto.  Altro  consiglio  non  credo 
si  possa  dare  agli  uomini  in  questa  parte:  perchè  consiglian- 
dogli che  lacessino,  e  non  dicessino  l'oppinione  loro,  sarebbe 
cosa  inutile  alla  repubblica  o  ai  loro  principi,  e  non  fuggi» 
rebbono  il  pericolo  ;  perchè  in  poco  tempo  diventerebbono 
sospetti  :  e  ancora  potrebbe  loro  intervenire  come  a  quelli 
amici  di  Perse  re  dei  Macedoni,  il  quale  essendo  stato  rotto 
da  Paulo  Emilio,  e  fuggendosi  con  pochi  amici,  accadde  che 
nel  replicar  le  cose  passate,  uno  di  loro  cominciò  a  dire  a 
Terse  molti  errori  fatti  da  lui ,  che  erano  stali  cagione  della 

*  L*  eiUzione  del  Poggiali  i  volontariamente. 


400  DEI  Disconsr. 

sua  rovina:  al  quale  Per^e  rivòllosi,  disse:  Traditore,  si  che 
(u  hai  indugiato  a  dirmelo  ora  eh'  io  non  ho  più  rimedio  ;  e 
sopra  queste  parole,  di  sua  mano  l'ammazzò.  E  così  colui 
portò  la  pena  d' essere  stalo  cheto  quando  ei  doveva  parla- 
re, e  d'aver  parlato  quando  ei  doveva  tacere;  né  fuggi  il  pe- 
rìcolo per  non  avere  dato  il  consiglio.  Però  credo  che  sia  da 
tenere  ed  osservare  i  termini  soprascritti. 

Gap.  XXXVI.  —  La  cagione  perchè  i  Francioai  sono  siali  e 
sono  ancora  giudicali  nelle  zuffe  da  principio  più  che  uo- 
mini, e  dipoi  meno  che  femmine, 

La  ferocità  di  quel  Francioso  che  provocava  qualunque 
Romano  appresso  al  fiume  Aniene  a  combatter  seco,  dipoi  la 
zuffa  fatta  intra  lui  e  Tito  Manlio,  mi  fa  ricordare  di  quello 
che  Tito  Livio  più  volte  dice, che  i  Franciosi  sono  nel  principio 
della  zutTa  più  che  uomini,  e  nel  successo  di  combaitcre  rie- 
scono poi  meno  che  femmine.  E  pensando  donde  questo  na- 
sca, si  crede  per  molli  che  sia  la  natura  loro  cosi  fatta:  il 
che  credo  sia  vero;  ma  non  è  per  questo,  che  questa  loro  na- 
tura che  gli  fa  feroci  nel  principio,  non  si  potesse  in  modo 
con  l'arte  ordinare,  che  la  gli  mantenesse  feroci  infino  nel- 
r  ultimo.  Ed  a  voler  provare  questo,  dico  come  e*  sono  di 
Ire  ragioni  eserciti  :  V  uno  dove  è  furore  ed  ordine;  perchè 
dall'ordine  nasce  il  furore  e  la  virtù»  come  era  quello  dei  Ro- 
mani :  perchè  si  vede  in  tutte  l'istorie,  che  in  quello  esercito 
era  uno  ordine  buono,  che  v'  aveva  introdotto  una  disciplina 
militare  per  luiigo  tempo.  Perchè  in  uno  esercito  bene  ordi- 
nalo, nessuno  debl)C  fare  alcuna  opera  se  non  regolato  :  e  si 
troverà  per  questo,  che  nello  esercito  romano,  dal  quale, 
avendo  egli  vinto  il  mondo,  debbono  prendere  essempio  lutti 
gli  altri  eserciti,  non  si  mangiava,  non  si  dormiva,  non  si 
roercalava,  non  si  faceva  alcuna  azione  o  militare  o  dome- 
stica senza  l'ordine  del  consolo.  Perchè  quelli  eserciti  che 
fanno  altrimenti,  non  sono  veri  eserciti;  e  se*  fanno  al- 
cuna pruova,  la  fanno  per  furore  e  per  impeto,  non  per  virtù. 
Ma  dove  è  la  virtù  ordinata ,  usa  il  furore  suo  coi  modi  e 

*  Qui  tulle  le  edizioni ,  all' infuori  «Iella  Rom.ina  ,  tramcllono  ne. 


LIBRO   TEBZO.  401 

co'lempi  ;  né  diflìcuUà  veruna  lo  invilisce,  né  gli  fa  mancare 
r  animo  :  perchè  gli  ordini  buoni  gli  rinfrescano  T  animo  ed  il 
furore,  nutriti  dalla  speranza  del  vincere;  la  quale  mai  non 
manca,  infino  a  tanto  che  gli  ordini  stanno  saldi.  Al  contra- 
rio interviene  in  quelli  eserciti  dove  è  furore  e  non  ordine,, 
come  erano  i  franciosi  :  i  quali  tuttavia  nel  combattere  man- 
cavano; perchè  non  riuscendo  loro  col  primo  impeto  vince- 
re, e  non  essendo  sostenuto  da  una  virtù  ordinata  quello  loro 
furore  nel  quale  egli  speravano,  né  avendo  fuori  di  quello 
cosa  in  la  quale  ei  confidassino,  come  quello  era  raffreddo, 
mancavano.  Al  contrario  i  Romani ,  dubitando  meno  dei  pe- 
ricoli per  gli  ordini  loro  buoni,  non  diffidando  della  vittoria, 
fermi  ed  ostinati  combattevano  col  medesimo  animo  e  con  la 
medesima  virtù  nel  fine  che  nel  principio  :  anzi,  agitati  dal- 
l'arme,  sempre  s'accendevano.  La  terza  qualità  d'eserciti  è, 
dove  non  è  furore  naturale,  né  ordine  accidentale:  come  sono 
gli  eserciti  nostri  italiani  de' nostri  tempi,  i  quali  sono  al 
lutto  inutili  ;  e  se  non  si  abbattono  ad  uno  esercito  che  per  \ 
qualche  accidente  si  fugga,  mai  non  vinceranno.  E  senza  ad- 
durne  altri  esseropi ,  si  vede  ciascuno  di  come  ei  fanno  proove 
di  non  avere  alcuna  virtù.  E  perchè  con  il  testimonio  di  Tito 
Livio  ciascuno  intenda  come  debbe  esser  fatta  la  buona 
milizia,  e  come  è  fatta  la  rea;  io  voglio  addurre  le  parole  di 
Papirio  Cursore,  quando  ei  voleva  punire  Fabio  maestro  de' 
cavalli,  quando  disse:  Nemo  hominum,  nemo  Deorum  verecun- 
diam  habeat;  non  edicla  imperatorum,  non  auspicia  observen- 
tur  :  Bine  commealu,  vagì  mililes  in  pacalo,  in  hoslico  errent; 
immcmores  sacramenli,  se  ubi  velint  exauclorcnt  ;  infrequenlia 
deseranl  signa;  ncque  conveniant  ad  ediclum^  nec  discernanl 
interdiu,  nocle  ;  ocquo,  iniquo  loco,  jussu,  injussu  imperaloris 
pugnenl  ;  et  non  signa ,  non  ordines  scrvent  :  lalrocìnii  modo, 
ccBca  et  forluila,  prò  solemni  el  sacrala  mililià  sii.  Puossi  per 
questo  testo,  adunque,  facilmente  vedere,  se  la  milizia  de'  no- 
stri tempi  è  cieca  e  fortuita,  o  sacrata  e  solenne;  e  quanto  le 
manca  ad  esser  simile  a  quella  che  si  può  chiamar  milizir  ; 
e  quanto  ella  è  discosto  da  essere  furiosa  ed  ordinata  come 
la  romana,  o  furiosa  solo  come  la  franciosa. 


34" 


402  DEI   DISCORSI. 

» 

Gap.  XXXVII.  —  Se  le  piccole  ballaglie  innanzi  alla  giornata 
sono  necessarie^  e  come  si  debbe  fare  a  conoscere  un  nimico 
nuovo,  volendo  fuggire  quelle. 

£'  pare  che  nelle  azioni  degli  aoroìni,  come  altre  volle  * 
abbiamo  discorso,  si  Iruovi ,  olire  all'  allre  didìcullà,  nel  voler 
condurre  la  cosa  alla  sua  perfezione,  che  sempre  propinquo 
al  bene  sia  qualche  male,  il  quale  con  quel  bene  sì  facilmente 
nasce,  che  pare  impossibile  poter  mancare  dell'uno  volendo 
r  altro.  E  questo  si  vede  in  tutte  le  cose  che  gli  uomini  ope- 
rano. £  però  s'acquista  il  bene  con  ditlìcultà,  se  dalla  fortuna 
tu  non  se' aiutalo  in  modo,  che  ella  con  la  sua  forza  vinca 
questo  ordinario  e  naturale  inconveniente.  Di  questo  mi  ha 
fatto  ricordare  la  zuOa  di  Manlio  Torquato  e  del  Francioso, 
dove  Tito  Livio  dice:  Tanti  ea  dimicalio  ad  universi  belli  even- 
lum  momenti  fuit,  ut  Gallorum  exercitus,  relictis  trepide  ca- 
slris,  in  Tiburtem  agrum,  mox  in  Campaniam  transieril. 
Perché  io  considero  dall' on  canto,  che  od  buon  capitano 
debbe  fuggire  al  lutto  di  operare  alcuna  cosa  che,  essendo  di 
poco  momento,  possa  fare  caltivi  etTetti  nel  suo  esercito:  per- 
chè cominciare  una  zufla  dove  non  si  operino  tutte  le  forze 
e  vi  si  arrischi  tutta  la  fortuna,  è  cosa  al  tutto  temeraria; 
come  io  dissi  di  sopra,  quando  io  dannai  il  guardare  de' pas- 
si. Dall'altra  parte,  io  considero  come  i  capitani  savi,  quando 
ei  vengono  all' incontro  d'un  nuovo  nimico,  e  che  sia  ripu- 
talo, ei  sono  necessitali,  prima  che  venghino  alla  giornata, 
far  provare  con  leggieri  zutTc  ai  loro  soldati  tali  nimici  ;  ac- 
ciocché cominciandogli  a  conoscere  e  maneggiare,  pcrdino 
quel  terrore  che  la  fama  e  la  riputazione  aveva  dato  loro.  £ 
questa  parte  in  un  capitano  é  importantissima;  perchè  ella  ha 
in  sé  quasi  una  necessità  che  li  costringe  a  farla,  parendoti 
andare  ad  una  manifesta  perdita,  senza  aver  prima  fatto 
con  piccole  isperienze  deporre  ai  tuoi  soldati  <}aelIo  terrore 
che  la  riputazione  del  nimico  aveva  messo  negli  animi  loro. 
Fu  Valerio  Corvino  mandato  dai  Romani  con  gli  eserciti  con- 
Ira  ai  Sanniti,  nuovi  nimici,  e  che  per  lo  addietro  mai  non 

'  L*  cdizìoDe  del  Bludo  :  altra  volta. 


ì 


LIBRO    TERZO.  403 

avevano  provale  Tarme  l'ano  dell'  allro;  dove  dice  Tito  Li- 
vio ,  che  Valerio  fece  fare  ai  Romani  coi  Sanniti  alcune 
leggieri  zuffe  :  Ne  eos  novum  bellum,  ne  novus  hoslis  lerrerel. 
Nondimeno  è  pericolo  grandissimo,  che  restando  i  tuoi  soIt 
dati  in  quelle  battaglie  vinti,  la  paura  e  la  viltà  non  cresca 
loro,  e  ne  conseguitino  contrari  eflelti  ai  disegni  tuoi  ;  cioè 
che  tu  gli  sbigottisca,  avendo  disegnato  d'assicurarli:  tanto 
che  questa  è  una  di  quelle  cose  che  ha  il  male  si  propinquo 
al  bene,  e  tanto  sono  congiunti  insieme,  che  gli  è  facil  cosa 
prendere  l'uno  credendo  pigliar  l'altro.  Sopra  che  io  dico,  che 
un  buon  capitano  debbe  osservare  con  ogni  diligenza,  che 
non  surga  alcuna  cosa  che  per  alcuno  accidente  possa  tórre 
r  animo  all'  esercito  suo.  Quello  che  gli  può  tórre  1'  animo  è 
cominciare  a  perdere  ;  e  però  si  debbe  guardare  dalle  zutfe 
piccole,  e  non  le  permettere  se  non  con  grandissimo  van- 
taggio, e  con  certa  speranza  di  vittoria:  non  debbe  fare  im- 
presa di  guardar  passi,  dove  non  possa  tenere  lutto  l'esercito 
suo:  non  debbe  guardare  terre,  se  non  quelle  che  perdendole 
di  necessità  ne  seguisse  la  rovina  sua  ;  e  quelle  che  guarda, 
ordinarsi  in  modo,  e  con  le  guardie  d'esse  e  con  l'esercito, 
che  trattandosi  della  espugnazione  di  esse,  ei  possa  adope* 
rare  tulle  le  forze  sue  ;  l' altre  debbe  lasciare  indifese.  Per- 
chè ogni  volta  che  si  perde  una  cosa  che  si  abbandoni,  e 
l'esercito  sia  ancora  insieme,  e' non  si  perde  la  riputazione 
della  guerra,  né  la  speranza  di  vincerla:  ma  quando  si  perde 
una  tosa  che  tu  hai  disegnala  difendere,  e  ciascuno  crede 
che  tu  la  difenda,  allora  è  il  danno  e  la  perdita;  ed  hai  quasi, 
come  i  Franciosi,  con  una  cosa  di  piccolo  momento  perduta  la 
guerra.  Filippo  di  Macedonia  padre  di  Perse,  uomo  militare 
e  di  gran  condizione  ne' tempi  suoi,  essendo  assaltato  dai 
Romani,  assai  de' suoi  paesi,  ì  quali  ei  giudicava  non  po- 
tere guardare,  abbandonò  e  guastò:  come  quello  che,  per  es- 
sere prudente,  giudicava  più  pernizioso  perdere  la  riputazione 
col  non  potere  difendere  quello  che  si  metteva  a  difendere, 
che  lasciandolo  in  preda  al  nimico,  perderlo  come  cosa  ne- 
gletta. I  Komani,  quando  dopo  la  rotta  di  Canne  le  cose  loro 
erano  afflitte,  negarono  a  molti  loro  raccomandali  e  sudditi 
li  aiuti,  commellendo  loro  che  si  difendessino  il  meglio  pò- 


404  DEI    DISCORSI 

lessino.  I  quali  parlili  sono  migliori  assai,  che  pigliare  dife- 
se, e  poi  non  le  difendere:  perchè  in  questo  parlilo  si  perde 
amici  e  forze;  in  quello,  amici  solo.  Ma  tornando  alle  piccole 
zuffe,  dico  che  se  pure  un  capitano  è  coslrello  per  la  novità 
del  nimico  far  qualche  zuffa,  dehhe  farla  con  tanto  suo  van- 
taggio, che  non  vi  sia  alcun  pericolo  di  perderla  :  o  vera- 
mente far  come  Mario  (il  che  è  migliore  partilo),  il  quale 
andando  conlra  ai  Cimbri,  popoli  ferocissimi,  che  venivano 
a  predare  Italia,  e  venendo  con  ano  spavento  grande  per  la 
ferocità  e  moltitudine  loro,  e  per  avere  di  già  vinto  uno  eser- 
cito romano;  giudicò  Mario  esser  necessario,  innanzi  che 
venisse  alla  zuffa,  operare  alcuna  cosa  per  la  quale  l'eser- 
cito suo  deponesse  quel  terrore  che  la  paura  del  nimico  ali 
aveva  dato;  e,  come  prudentissimo  capitano,  più  che  una  volta 
collocò  l'esercito  suo  in  luoso  donde  i  Cimbri  con  l'esercito 
loro  dovessino  passare.  E  cosi,  dentro  alle  fortezze  del  suo 
campo,  volle  che  i  suoi  soldati  gli  vedessino,  ed  assuefaces- 
sino  gli  occhi  alla  vista  di  quello  nimico  ;  acciocché,  vedendo 
una  mollitudine  inordinata,  piena  di  impedimenti,  con  arme 
inolili,  e  parte  disarmati,  si  rassicarassino,  e  diventassino 
disidcrosi  delia  zuffa.  Il  quale  parlilo  come  fu  da  Mario  sa- 
viamente preso,  cosi  dagli  altri  debbo  essere  diligentemente 
imitalo,  per  non  incorrere  in  quelli  pericoli  che  io  di  sopra 
dico,  e  non  avere  a  fare  come  i  Franciosi,  qui  ob  rem  parvi 
ponderis  trepidi,  in  Tiburlem  agrum  et  in  Campaniam  trans- 
ierunt.  E  perchè  noi  abbiamo  allegato  in  questo  discorso 
Valerio  Corvino,  voglio,  medianli  le  parole  sue,  nel  seguente 
capitolo,  come  debbo  esser  fatto  un  capitano  dimostrare. 

Gap.  XXXVIII.  —  Come  dcbhe  eaer  fallo  un  capitano 
nel  quale  i'  e$ercilo  tuo  possa  confidare. 

Era,  come  di  sopra  dicemmo,  Valerio  Corvino  con  l'eser- 
cito centra  ai  Sanniti ,  nuovi  nimici  del  Popolo  romano  :  donde 
che,  per  assicurare  i  suoi  soldati,  e  per  fargli  conoscere  i  ni 
mici,  fece  fare  ai  suoi  certe  legì^ieri  zuffe;  né  gli  bastando 
questo,  volle  avanti  alla  giornata  parlar  loro,  e  mostrò  con 
ogni  efficacia  ,  quanto  e*  dovevano  stimare  poco  tali  nimici, 


LIBRO   TERZO.  40?) 

allegando  la  virtù  de' suoi  soldali,  e  la  propria.  Dove  si  può 
notare,  per  le  parole  che  Livio  gli  fa  dire,  come  debbe  essere 
fatto  un  capitano  in  chi  l'esercito  abbia  a  confidare;  le  quali 
parole  sono  queste:  Tum  eliam  inlueri  cujus  duclu  auspicioque 
ineunda  pugna  sii  :  ulrum  qui  audiendus  damlaxal  magnificus 
adhorlalor  sii,  verhis  lanlum  ferox,  operum  mililarium  expers; 
an  qui,  el  ipse  tela  Iractare,  procedere  anle  signa,  versari  me- 
dia in  mole  pugnce  sciai.  Facla  mea,  non  dicla  vos  milites  se- 
qui volo;  nec  disciplinam  modo,  sed  exemplum  eliam  a  me  pe- 
tere,  qui  hac  dexlra  mihi  Ires  consulalus,  summam'que  laudem 
peperL  Le  quali  parole  considerate  bene,  insegnano  a  qualun- 
que, come  ei  debbe  procedere  a  voler  tenere  il  grado  del  capi- 
tano :  e  quello  che  sarà  fatto  altrimenti,  troverà,  con  il  tempo, 
quel  grado,  quando  per  fortuna  o  per  ambizione  vi  sia  condot- 
to, tórgli  e  non  dargli  riputazione;  perchè  non  i  titoli  illustrano 
gli  uomini,  ma  gli  uomini  i  titoli.  Debbesi  ancora  dal  prin- 
cipio di  questo  discorso  considerare,  che  se  i  capitani  grandi 
hanno  usato  termini  istraordinari  a  fermare  gli  animi  d'  uno 
esercito  veterano  quando  coi  niraici  inconsueti  debbe  affron- 
tarsi ;  quanto  maggiormente  si  abbia  ad  usare  V  industria 
quando  si  comandi  uno  esercito  nuovo,  che  non  abbia  mai  ve- 
duto il  nimico  in  viso.  Perchè,  se  lo  inusiialo  nimico  allo  eser- 
cito vecchio  dà  terrore,  tanto  magqiormente  lo  debbe  dare 
ogni  nimico  ad  uno  esercito  nuovo.  Pure,  s*  è  veduto  molte 
volte  dai  buoni  capitani  tutte  queste  dilTicultà  con  somma  pru- 
denza esser  vinte  :  come  fece  quel  Gracco  romano,  ed  Epa- 
minonda tebano,  de' quali  altra  volta  abbiamo  parlato,  che 
con  eserciti  nuovi  vinsOno  eserciti  veterani  ed  esercitatissi- 
mi.  I  modi  che  tenevano,  erano:  parecchi  mesi  esercitargli  in 
battaglie  finte;  assuefargli  alla  ubbidienza  ed  all'ordine:  e  da 
quelli  dipoi,  con  massima  confidenza,  nella  vera  zulTa  gli  ado- 
peravano. Non  si  debbe,  adunque,  diffidare  alcuno  uomo  mili- 
tare di  non  poter  fare  buoni  eserciti,  quando  non  gli  manchi 
uomini;  perchè  quel  principe  che  abbonda  d'uomini  e  manca 
di  soldati,  debbe  solamente,  non  della  viltà  degli  uomini,  ma 
della  sua  pigrizia  e  poca  prudenza  dolersi. 


406  DEI   DISCORSI 

Gap.  XXXIX. — Che  un  capitano  debbe  esser  conoscUore  dei  sili. 

Intra  V  allre  cose  che  sono  necessarie  ad  un  capilano 
d' eserciti,  é  la  cognizione  dei  siti  e  de'  paesi  ;  perchè  senza 
quesla  cognizione  generale  e  particolare,  un  capilano  d' eser- 
citi non  può  bene  operare  alcuna  cosa.  E  perchè  tulle  le 
scienze  vogliono  pratica  a  voler  perfetlamenle  possederle, 
questa  è  una  che  ricerca  pratica  grandissima.  Quesla  prati- 
ca, ovvero  questa  particolare  cognizione,  s'acquista  più  me- 
dianti  le  cacce,  che  per  verun  altro  esercizio.  Però  gli  anti- 
chi scrittori  dicono,  che  quelli  eroi  che  governarono  nel  loro 
tempo  il  mondo,  si  nutrirono  nelle  selve  e  nelle  cacce;  per- 
chè la  caccia,  oltre  a  questa  cognizione,  li  insegna  infinito 
cose  che  sono  nella  guerra  necessarie.  E  Senoronte,  nella  vita 
di  Ciro,  mostra  che  andando  Ciro  ad  assaltare  il  re  d'Arme- 
nia, nel  divisare  quella  fazione,  ricordò  a  quelli  suoi,  che 
quesla  non  era  altro  che  una  di  quello  cacce  le  quali  molte 
volle  avevano  fatte  seco.  E  ricordava  a  quelli  che  mandava 
in  aguato  in  su  i  monti,  che  gli  erano  simili  a  quelli  ch'an- 
davano a  tendere  le  reti  in  su  i  gioghi  ;  ed  a  quelli  che  scor- 
revano per  il  piano,  che  erano  simili  a  quelli  che  andavano  a 
levare  dal  suo  covile  la  fera,  acciocché,  cacciata,  desse  nelle 
reti.  Questo  si  dice  per  mostrare  come  le  cacce,  secondo  che 
Senofonte  appruova,  sono  una  immagine  d'  una  guerra:  e  per 
Questo  agli  uomini  grandi  tale  eserci&io  è  onorevole  e  neces- 
sario. Non  si  può  ancora  imparare  questa  cognizione  de' paesi 
in  altro  comodo  modo,  che  per  via  di  caccia  ;  perchè  la  cac- 
cia fa  a  colui  che  l'usa,  sapere  come  sta  parlicolarraenlo 
quel  paese  dove  ei  l'esercita.  E  fatto  che  uno  s'è  familiare 
bene  una  regione,  con  facilità  comprende  poi  tulli  i  paesi 
nuovi  ;  perchè  ogni  paese  ed  ogni  membro  di  quelli  hanno 
insieme  qualche  conformila,  in  modo  che  dalla  cognizione 
d'uno  facilmente  si  passa  alla  cognizione  dell'altro.  Ma  chi 
non  ne  ha  ancora  bene  pratico  uno, con  di(ricollà,anzi  non  mai 
se  non  con  un  lungo  tempo,  può  conoscer  l'altro.  E  chi  ha 
questa  pratica,  in  un  voltar  d'occhio  sa  come  giace  quel  pia- 
no, come  surge  quel  monte,  dove  arriva  quella  valle,  e  tulle 


LIBRO  TERZO.  407 

l'altre  simili  cose,  di  che  ei  ha  per  lo  addietro  fallo  una  fer- 
ma scienza.  E  che  queslo  sia  vero,  ce  Io  moslra  Tilo  Livio 
con  lo  essempio  di  Publio  Decio;il  quale  essendo  Tribuno  de' 
soldati  nello  esercito  che  Cornelio  consolo  conduceva  centra 
ai  Sanniti,  ed  essendosi  il  Consolo  ridotto  in  una  valle,  dove 
l'esercito  dei  Romani  poteva  dai  Sanniti  esser  rinchiuso,  e 
vedendosi  in  tanto  pericolo,  disse  al  Consolo:  Vides  (u,  Àule 
Co'rneli,  cacumen  illud  supra  hoslem  ?  arx  illa  est  sjpei  salutis- 
que  noslroB,  si  eam  {quoniam  cosci  reliquere  Samniles)  impigre 
capimus.  Ed  innanzi  a  queste  parole  dette  da  Decio,  Tito  Li- 
vio dice  :  Publius  Decius ,  Iribunus  mililum ,  unum  edilum  in 
sallu  collem,  imminenlem  hoslium  caslris,  adilu  arduum  impe- 
dito agmini,  expedilis  haud  difficilem.  Donde,  essendo  stalo 
mandato  sopra  esso  dal  Consolo  con  tremila  soldati,  ed  avendo 
salvo  l'esercito  romano;  e  disegnando,  venendo  la  notte,  di 
partirsi,  e  salvare  ancora  sé  ed  i  suoi  soldati,  gli  fa  djre  que- 
ste parole:  Ile  mecum,  ut  dum  lucis  aliquid  superest,  quibus 
locis  hostes  prcesidia  ponant,  qua  pateal  hinc  exilus,  explore- 
mus.  Hcec  omnia  sagulo  militari  amiclus,  ne  ducem  circuire 
hostes  notarent y  perluslravit.  Chi  considererà,  adunque,  tutto 
questo  testo,  vedrà  quanto  sia  utile  e  necessario  ad  un  capitano 
sapere  la  natura  de'  paesi  :  perchè  se  Decio  non  gli  avesse 
sapuli  e  conosciuti,  non  arebbe  potuto  giudicare  qual  utile 
faceva  pigliare  quel  colle  allo  esercito  Romano  ;  né  arebbe 
potuto  conoscere  di  discosto,  se  quel  colle  era  accessibile  o 
no;  e  condotto  che  si  fu  poi  sopra  esso,  volendosene  partire 
per  ritornare  al  Consolo,  avendo  inimici  intorno,  non  arebbe 
dal  discosto  potuto  speculare  le  vie  dello  andarsene,  e  li  luoghi 
guardati  dai  nimici.  Tanto  che,  dì  necessità  conveniva,  che 
Decio  avesse  tale  cognizione  perfetta:  la  qual  fece  che  con 
il  pigliare  quel  colle,  ei  salvò  l'esercito  romano;  dipoi  seppe, 
sendo  assedialo ,  trovare  la  via  a  salvare  sé ,  e  quelli  che  erano 
stali  seco. 

Cap.  XL.  —  Come  usare  la  fraude  nel  maneggiare  I(i  guerra 
è  cosa  gloriosa. 

Ancoraché  usare  la  fraude  in  ogni  azione  sia  detestabi- 
le, nondiraanco  nel  maneggiar  la  guerra  è  cosa  laudabile  e 


408  DEI  Disconsi      > 

gloriosa  ;  e  parimente  è  laudato  colui  che  con  fraude  supera 
il  nimico,  come  quello  che  M  supera  con  le  forze.  E  vedasi 
questo  per  il  (giudizio  che  ne  fanno  coloro  che  scrivono  lo 
vite  degli  uomini  grandi,  i  quali  lodano  Annibale,  e  gli  altri 
che  sono  stali  notabilissimi  in  simili  modi  di  procedere.  Di 
che  per  leggersi  assai  essempi,  non  ne  replicherò  alcuno.  Dirò 
solo  questo,  che  io  non  intendo  quella  fraude  essere  gloriosa, 
che  ti  fa  rompere  la  fede  data  ed  i  patti  falli  ;  perchè  que- 
sta, ancora  che  la  li  acquisti  qualche  volta  slato  e  regno, 
come  di  sopra  si  discorse,  la  non  li  acquisterà  mai  gloria. 
Ma  parlo  di  quella  fraude  che  si  usa  con  quel  nimico  che 
non  si  fida  di  te,  e  che  consìste  proprio  nel  manesgiare  la 
guerra:  come  fu  quella  d'Annibale,  quando  in  sul  lago  di 
Perugia  simulò  la  fuga  per  rinchiudere  il  Consolo  e  lo  esercito 
romano;  e  quando,  per  uscire  di  mano  di  Fabio  Massimo,  ac- 
cese le.corna  dello  armento  suo.  Alle  quali  fraudi  fu  simile 
questa  che  usò  Ponzio  capitano  dei  Sanniti,  per  rinchiudere 
l'esercilo  romano  dentro  alle  forche  Caudine:  il  quale  avendo 
messo  lo  esercito  suo  a  ridosso  dei  monti,  mandò  più  suoi 
•oldali  sotto  vesti  di  pastori  con  assai  armento  per  il  piano  ; 
i  quali  sendo  presi  dai  Romani,  e  domandali  dove  era  l'eser- 
cilo dei  Sanniti,  convennero  lotti,  secondo  l*  ordine  dato  da 
Ponzio,  a  dire  come  egli  era  allo  assedio  di  Nocera.  La  qual 
cosa  creduta  dai  Consoli,  fece  ch'ei  si  rinchiusero  dentro  ai 
balzi  caudini  ;  dove  entrali,  furono  subito  assediati  dni  San- 
niti. E  sarebbe  stala  questa  vittoria,  avuta  per  fraude,  glorio- 
sissima a  Ponzio,  se  egli  avesse  seguitali  i  consigli  del  padre; 
il  quale  voleva  che  i  Romani  o  si  salvassino  liberamente,  o 
si  aromazzassino  tulli,  e  che  non  si  pigliasse  la  via  del  mcz- 
fo,  qua  neque  amieos  parai,  neque  inimicot  lollU.  La  qual 
via  fu  sempre  perniziosa  nelle  cose  di  slato  ;  come  di  sopra 
in  allro  luogo  si  discorse. 

Cap.  XLL  —  Che  la  palria  si  debbe  difendere  o  con  ignominia 
0  con  gloria;  ed  in  qualunque  modo  è  ben  difesa. 

Era,  come  di  sopra  s'è  detto,  il  Consolo  e  l' esercito  ro- 
mano assedialo  dai  Sanniti  :  i  quali  avendo  proposto  ai  Ro- 


LIBRO    TERZO.  400 

mani  condizioni  ignominiosissime;  come  era  ,  volergli  met- 
tere soUo  il  giogo,  e  disarmali  mandargli  a  Roma:  e  per 
questo  stando  i  Consoli  come  attoniti,  e  tutto  l'esercito  di- 
sperato; Lucio  Lentolo  legato  romano  disse,  che  non  gli 
pareva  che  fusse  da  fuggire  qualunque  partito  per  salvare  la 
patria:  perchè,  consistendo  la  vita  di  Roma  nella  vita  di  quello 
esercito,  gli  pareva  da  salvarlo  in  ogni  modo;  e  che  la  pa- 
tria è  ben  difesa  in  qualunque  modo  la  si  difende,  o  con 
ignominia  o  con  gloria:  perchè  salvandosi  quello  esercito, 
Roma  era  a  tempo  a  cancellare  l'ignominia;  non  si  sal- 
vando, ancora  che  gloriosamente  morisse,  era  perduta  Roma 
e  la  libertà  sua.  E  cosi  fu  seguitato  il  suo  consiglio.  La  qual 
cosa  merita  d'esser  notata  ed  osservala  da  qualunque  citta- 
dino si  Iruova  a  consigliare  la  patria  sua:  perchè  dove  si  di- 
libera al  tutto  della  salute  della  patria,  non  vi  debbe  cadere 
alcuna  considerazione  né  di  giusto  né  di  ingiusto,  né  di  pie- 
toso, né  di  crudele,  né  di  laudabile,  né  di  ignominioso;  anzi, 
posposto  ogni  altro  rispetto,  seguire  al  lutto  quel  partito  che 
li  salvi  la  vita,  e  mantenghile  la  libertà.  La  qualcosa  è 
imitata  con  i  detti  e  con  ì  fatti  dai  Franciosi,  per  difendere  la 
maestà  del  loro  re  e  la  potenza  del  loro  regno;  perchè  nes- 
suna voce  odono  più  impazientemente  che  quella  che  dicesse: 
il  tal  partilo  è  ignominioso  per  il  re  ;  perché  dicono  che  il 
loro  re  non  può  patire  vergogna  in  qualunque  sua  dilibera- 
zione, 0  in  buona  o  in  avversa  fortuna:  perchè  se  perde  o 
se  vince,  lutto  dicono  esser  cosa  da  re. 

Gap.  XLIL  —  Che  le  promesse  falle  per  forza,  non,  si  debbono 
osservare. 

Tornati  i  Consoli  con  l'esercito  disarmato  e  con  la  ri- 
levuta  ignominia  a  Roma,  il  primo  che  in  Senato  disse  che 
la  pace  fatta  a  Caudo  non  si  doveva  osservare,  fu  il  consolo 
Spurio  Postumio;  dicendo,  come  il  Popolo  romano  non  era 
obbligato,  ma  ch'egli  era  bene  obbligalo  esso,  e  gli  altri 
che  avevano  promessola  pace:  e  però  il  Popolo  volendosi  li- 
berare da  ogni  obbligo,  aveva  a  dar  prigione  nelle  mani  dei 
Sanniti  lui,  e  tutti  gli  altri  che  l'avevano  promessa.  E  con 

35 


410  DEI   DISCORSI 

lanla  ostinazione  (enne  questa  conclusione,  che  il  Sonalo 
ne  fu  contento;  e  mandando  prigioni  lui  e  gli  altri  in  San- 
nio,  protestarono  ai  Sanniti,  la  pace  non  valere.  £  tanto  fu 
in  questo  caso  a  Postumio  favorevole  la  fortuna,  che  i  Siin- 
nili  non  lo  ritennero;  e  ritornato  in  Roma,  fu  Postumio  ap- 
presso ai  Romani  più  glorioso  per  a\ere  perduto,  che  non 
fu  Ponzio  appresso  ai  Sanniti  per  aver  vinto.  Dove  sono  da 
notare  due  cose:  Tuna,  che  in  qualunque  azione  si  può  ac- 
quistar gloria ,  perchè  nella  vittoria  s'acquista  ordinaria- 
mente; nella  perdita  s'acquista  o  col  mostrare  tal  perdila 
non  esser  venula  per  tua  colpa,  o  per  far  subito  qualche 
azione  virtuosa  che  la  cancelli:  V  altra  è,  che  non  è  vergo- 
gnoso non  osservare  quelle  promesse  che  li  sono  slate  falle 
promettere  per  forza  ;  e  sempre  le  promesse  forzate  che 
riguardano  *  il  pubblico,  quando  e*  manchi  la  forza  ,  si  rom- 
peranno, e  Ga  senza  vergogna  di  chi  le  rompe.  Di  che  si 
leggono  in  tutte  T  istorie  vari  cssempi,c  ciascuno  di  nc'pro- 
scnli  tempi  se  ne  veggono.  E  non  solamcnle  non  si  osser- 
vano inlra  i  principi  le  promesse  forzate,  quando  c'manca  la 
forza;  ma  non  si  osservano  ancora  tulle  Tallre  promesse, 
quando  e' mancano  le  cagioni  che  Io  fanno  promcUere.il 
che  se  è  cosa  laudabile  o  no ,  o  se  da  un  principe  si  debbono 
osservare  simili  modi  o  no,  largamente  è  dispulalo  da  noi  nel 
nostro  trattalo  del  Principe:  però  al  presente  lo  taceremo. 

Gap.  XLIII.  —  Che  gli  uomini  che  nascono  in  una  provincia, 
m  osietxano  per  tulli  i  lempi  quasi  quella  medesima  nalura. 

Sogliono  dire  gli  uomini  prudenti,  e  non  a  caso  né  ìm- 
mcritamenlc,  che  chi  vuol  veder  quello  che  ha  ad  essere, 
consideri  quello  che  è  stalo  ;  perchè  tulle  le  cose  del  mondo, 
in  ogni  tempo,  hanno  il  proprio  riscontro  con  gli  antichi 
tempi.  Il  che  nasce  perchè  essendo  quelle  operale  dagli  uo- 
mini, che  hanno  ed  ebbero  sempre  le  medesime  passioni, 
conviene  di  necessità  che  le  sorlìschino  il  medesimo  elTclto. 
Vero  è,  che  le  sono  l'opere  loro  ora  in  questa  provincia  più 

<  Erroneamente  la  Bladiana:  rtggumrdmndoj  pare  ioditio  dir  l'Autore 
scrivesse  raggiiardano.  ,       * 


LIBRO    TERZO.  ,  411 

virtuose  che  in  quella,  ed  in  quella  più  che  in  questa  ,  se- 
condo la  forma  delia  educazione  nella  quale  quelli  popoli 
hanno  preso  il  modo  del  viver  loro.  Fa  ancora  facililà  il 
conoscere  le  cose  future  per  le  passate;  vedere  una  nazione 
lungo  tempo  tonerei  medesimi  costumi, essendo oconlinova- 
raente  avara,  o  continovamente  fraudolenta,  o  avere  alcun  al- 
tro simile  vizio  o  virtù.  E  chi  leggerà  le  cose  passate  della 
nostra  città  di  Firenze,  e  considererà  ancora  quelle  che  sono 
ne'  prossimi  tempi  occorse,  troverà  i  popoli  tedeschi  e  fran- 
ciosi pieni  d'avarizia,  di  superbia,  di  ferocia  e  di  infedelità; 
perchè  tutte  queste  quattro  cose  in  diversi  tempi  hanno  of- 
feso molto  la  nostra  città.  E  quanto  alla  poca  fede,  ognuno 
sa  quante  volte  si  delle  danari  al  re  Carlo  Vili,  ed  egli  pro- 
metteva rendere  le  fortezze  di  Pisa,  e  non  mai  le  rendè.  In 
che  quel  re  mostrò  la  poca  fede,  e  la  assai  avarizia  sua.  Ma 
lasciamo  andare  queste  cose  fresche.  Ciascuno  può  avere  in- 
teso quello  che  segui  nella  guerra  che  fece  il  popolo  fioren- 
tino centra  ai  Visconti  duchi  di  Milano;  che  essendo  Firenze 
privo  degli  altri  espedienti,  pensò  di  condurre  l'imperadore 
in  Italia,  il  quale  con  la  riputazione  e  forze  sue  assaltasse  la 
Lombardia.  Promise  l' imperadore  venire  con  assai  gente,  e 
far  quella  guerra  contra  ai  Visconti,  e  difendere  Firenze 
dalla  potenza  loro,  quando  i  Fiorentini  glidcssino  centomila 
ducali  per  levarsi,  e  centomila  poi  che  fusse  in  Italia.  Ai 
quali  patti  consentirono  i  Fiorentini;  e  pagatogli  i  primi  da- 
nari, e  dipoi  i  secondi,  giunto  che  fu  a  Verona,  se  ne  tornò 
indietro  senza  operare  alcuna  cosa,  causando  esser  restato 
da  quelli  che  non  avevano  osservato  le  convenzioni  erano 
fra  loro.  In  modo  che,  se  Firenze  non  fusse  stata  o  constretla 
dalla  necessità  o  vinta  dalla  passione ,  ed  avesse  letti  e  co- 
nosciuti gli  antichi  costumi  de' barbari,  non  sarebbe  stata 
né  questa  né  molle  altre  volte  ingannata  da  loro;  essendo 
loro  stali  sempre  a  un  modo ,  ed  avendo  in  ogni  parte  e 
con  ognuno  usati  i  medesimi  termini.  Come  e*  si  vede  eh'  e' 
fecero  anticamente  ai  Toscani  ;  i  quali  essendo  oppressi  dai 
Romani ,  per  essere  stati  da  loro  più  volte  messi  in  fuga  e 
rotti;  e  veggendomedianli  lelor  forze  non  poter  resistere  al- 
l' impeto  di  quelli;  convennero  con  i  Franciosi  che  di  qua  dal- 


412  nn  Disconsi 

r  Alpi  abilavano  in  Ilalia,  di  dar  loro  somma  di  danari,  e  clic 
tassino  obbligati  congiognere  gli  eserciti  con  loro  .  a]  andare 
conlra  ai  Romani:  donde  ne  segui  che  i  Franri*  ì  da 

nari,  non  volleno  dipoi  pigliare  l'arme  per  loro.  iverli 

avoli  non  per  far  guerra  coi  loro  nimici,  ma  perchè  s'aste* 
neMÌoo  di  predare  il  paese  toscano.  E  così  i  popoli  toscani, 
per  raftrixia  e  poca  fede  dei  Franciosi,  rimasono  ad  un  tratto 
privi  de*  loro  danari,  e  degli  «ioti  che  gli  speravano  da  quel- 
li. Talché  si  vede  per  qvedoessempio  dei  Toscani  antichi,  e 
per  quello  de'  Fiorentini,  I  Franciosi  avere  usati  i  medesimi 
termini;  e  per  queslo  facilmente  si  può  conietlarare,  qaanto 
I  principi  si  posaooo  ftdaft  di  loro. 

Caf.  XLIV.  —  B'ttonifne  con  Vimptlo  t  con  t audacie  molto 
tolte  quello  che  con  modi  ordinari  non  ti  oUerrehbe  mai, 

Batendo  i  Sanniti  assaltali  dallo  esercito  di  Roma  ,  e 
B0«  polendo  con  V  esercito  loro  alare  alla  canpegna  a  petto 
ai  BooMoi,  diliberarono,  laiciale  foardaìe  le  terre  in  San- 
nio,  di  passare  rnn  tulio  l'esercito  loro  in  Toscana,  la  quale 
era  in  (riegoa  coi  Romani  ;  e  vedere  per  tal  passala ,  se 
ci  potevano  con  la  pre<cnza  dello  esercito  loro  indurre  i  To- 
acani  a  ripigliar  1*  arme  ;  il  che  avevano  negato  ai  loro  aro- 
tasciadori.  B  sei  parlare  che  feciono  i  Sanniti  ai  Toscani, 
nel  mostrar,  massime,  qual  cagione  gli  aveva  indotti  a  pi> 
gliar  renne,  usarono  un  termine  notabile,  dove  dissono: 
BMIma,  f«otf  pax  terrienlibut  grarior,  quam  liberii  bellitm 
essai.  B  cosi,  parte  con  le  persuasioni,  parte  con  la  presenza 
dello  esercito  loro,  gli  indussooo  a  pigliar  1*  arine.  Dove  è  da 
notare,  che  quando  un  principe  disidera  d'ottenere  una 
cosa  da  un  altro,  dcbbe,  se  l'occasione  lo  patisce,  non  gli 
dare  spatio  a  dilibcrarsi,  e  fare  in  modo  ch'ei  vegga  la  ne- 
cessiti della  presta  diliberazione  ;  la  quale  é  quando  colui 
che  è  domandato  vede  che  dal  negare  o  dal  differire  ne  na- 
sca una  subita  e  pericolosa  indegnazlone.  Questo  termine a'é 
veduto  bene  osare  nei  nostri  tempi  da  papa  folio  con  i 
Franciosi,  e  da  monsignor  di  Fois  capitano  del  re  di  Francia 
col  marchese  di  Mantova:  perchè  papa  lulio  volendo  cac- 


LIBRO    TEPiZO.  413 

ciare  ì  Benlìvogli  di  Bologna,  e  giudicando  per  questo  aver 
bisogno  delle  forze  franciose,  e  che  i  Viniziani  slessino  neu- 
trali; ed  avendone  ricerco  l'uno  el'allro,  e  traendo  da  loro 
risposta  dubbia  e  varia;  diliberò  col  non  dare  lor  tempo  far 
venire  1'  uno  e  l' altro  nella  sentenza  sua:  e  partitosi  da  Roma 
con  quelle  tante  genti  ch*ei  potò  raccozzare,  n'andò  verso 
Bologna,  ed  a'Viniziani  mandò  a  dire  che  stessino  neutrali, 
ed  al  re  di  Francia  che  gli  mandasse  le  forze.  Talché,  rima- 
nendo tulli  ristretti  dal  poco  spazio  di  tempo,  e  veggendo 
come  nel  papa  doveva  nascere  una  manifcsla  imlegnazione 
dilTerendo  o  negando,  cederono  alle  voglie  sue;  ed  il  re  gli 
mandò  aiuto,  ed  i  Viniziani  si  stettono  neutrali.  Monsignor  di 
Fois,  ancora,  essendo  con  l'esercito  in  Bologna,  ed  avendo 
inlesa  la  ribellione  di  Brescia,  e  volendo  ire  alla  ricupera- 
zione di  qtiella,  aveva  due  vie;  I' una  per  il  dominio  del  re, 
lunga  e  tediosa;  l'altra  brieve  per  il  dominio  di  Mantova:  e 
non  solamente  era  necessitalo  passare  per  il  dominio  di  quel 
marchese,  ma  gli  conveniva  entrare  per  certe  chiuse  intra 
paludi  e  laghi,  di  che  è  piena  quella  regione,  le  quali  con 
fortezze  ed  altri  modi  erano  serrale  e  guardate  da  lui.  Onde 
che  Fois,  diliberalo  d'andare  per  la  più  corta,  e  per  vincere 
ogni  dilTicullà  né  dar  tempo  al  marchese  a  dilibcrarsi,  ad 
un  trailo  mòsse  le  sue  genti  per  quella  via,  ed  al  marchese 
signiGcò  gli  mandasse  le  chiavi  di  quel  passo.  Talché  il  mar- 
chese, occupato  da  questa  subila  diliberazione,  gli  mandò  le 
chiavi:  le  quali  mai  gli  arebbe  mandale  se  Fais  più  lepida- 
mente si  fusse  governalo,  essendo  quel  marchese  in  lega 
col  papa  e  coi  Viniziani,  ed  avendo  un  suo  figliuolo  nelle 
mani  del  papa;  le  quali  cose  gli  davano  molle  oneste  scuse 
a  negarle.  '  Ma  assalalo  dal  subilo  parlilo,  per  le  cagioni  che 
di  sopra  si  dicopo,  le  concesse.  Così  feciono  i  Toscani  coi 
Sanniti,  avendo  per  la  presenza  dell'esercito  di  Sannio  preso 
quelle  arme  che  gli  *  avevano  negalo  per  altri  tempi  pi- 
gliare. 

*  Il  Poggiali  e  l'eilizione  del  4813:  fl  «eg'ar^. 

2  J^'ediiioiii  anledcUe:  eh' eg/inojh  Testina:  ch'egli. 


35' 


414  DO   DISCORSI 

Gap.  XLY.  —  Qual  sia  migìiitr  piuiUo  neUe  giornale,  o  toslr- 
neri  V  imptf  éf  NÓRÙrt  ;  «  «o«(cfiM(o  iirf«rytf,  MMp  éop- 
prima  ctm  ^«rM  mml\ar(ji\\.  ^ 

é 

Erano  Decio  e  Fabio,  consoli  romani,  con  due  escrcili 
air  incontro  degli  eaercili  dei  Sanniti  e  dei  Toscani;  e  ve- 
nendo alla  toffa  ed  alla  giornata  inaiene,  è  da  Miare  in  lai 
faiione,  qoaie  di  doe  diversi  nmli  di  procedere  tenuti  dai 
»  dnt  e— tnli  fH  ailliirt.  Perché  Perlo  con  ogni  impelo  e 
CM  ogai  ano  Um»  «mllò  il  nimico;  Fabio  solamonte  !•  aos- 
tenne,  giudicando  rataflto  ItdWeaatre  pia  ntlle,  riserbando 
r  impelo  Mo  Mirollimo,  qoando  il  nimico  «vcMe  perdilo  il 
primo  artfift  del  combattere,  e  cooio  noi  dieioao,  In  «m 
foga.  Doto  ii  Todo,  por  il  socaaiao  d4||  coM,  cbo  a  FoMo 
rioacl  Bollo  Meglio  lldiatgno  cbo  a  Ooelo:  il  qoalo  ti  tlraecò 
nei  primi  impeti;  in  modo  cbe,  vedendo  la  banda  ava  piollo* 
sto  in  volta  cbe  altrimenti,  per  acquistare  eoo  la  Mori 
gloria  alla  quale  con  la  vittoria  non  aveva  pelalo 
gore,  ad  imitacione  del  padre  tacfiOcd  ae  alette  per  le  ro. 
mane  legioni.  La  qoal  coea  ialeaa  da  Fabio,  per  non  acqui - 
ftlarc  manco  onoro  vivendo,  elM  t'avesse  il  suo  collafi 
acquistato  morcn«1o,  epioM*  innanii  tolte  quelle  foqpe  clio 
s'aveva  a  tale  gKetsitA  flaervate;  «iondc  no  riporl*  ooa 
ftlicissima  vittoria.  Di  qui  al  vede  che  'I  modo  del  procedere 
di  Fabio  é  più  sicuro  e  piò  irnHabile. 

Càp.   XI. VI.  —  Dondi  naacf  ck»  unm  fami j  tu  m  una  cuia 
tìem  «n  frmpe  I  widfrtail  cottumi. 


E*  pare  che  non  aolamenle  l' ona  città  dall'  allra  ahhi 
certi  mo<Ji  ed  instituti  diversi,  e  procrei  uomini  o  piA  duri  o 
pia  eOeminati,  ma  nella  medesima  citti  ti  vede  tal  diflérenia 
etser  nelle  famiglie  1'  una  dall*  altra.  11  che  si  riscontra  et- 
8ere  vero  io  ogni  città,  e  nella  città  di  Roma  te  no  lafgoso 
assai  essempi:  perché  e' ti  vede  i  Maolii  eft<>ere  alati  dori  ed 
ostinati,  i  Publicoli  uomini  l>eni^ni  ed  amalorì  del  popolo, 
gli  Appli  ambiziosi  e  nimlci  della  Plebe:  e  cosi  molle  altre 


LIBRO   TERZO.  415 

famiglie  avere  avute  ciascuna  le  qualità  sue  spartite  dall'  al- 
tre. La  qual  cosa  non  può  nascere  solamente  dal  sangue, 
perchè  e*  conviene  ch'eivarii  mediante  la  diversità  dei  ma- 
trimonii;  ma  è  necessario  venga  dalla  diversa  educazione 
che  ha  una  famiglia  dall'  altra.  Perchè  gì'  importa  assai  che  un 
giovanetto  dai  teneri  anni  cominci  a  sentir  dire  bene  o  male 
d'una  cosa;  perchè  conviene  che  di  necessità  ne  faccia  im- 
pressione, e  da  quella  poi  regoli  il  modo  del  procedere  in 
tutti  i  tempi  della  vita  sua.  E  se  questo  non  fosse,  sarebbe 
impossibile  che  tutti  gli  Appli  avessino  avuto  la  medesima 
voglia,  e  fussino  stati  agitati  dalle  medesime  passioni,  come 
nota  Tito  Livio  in  molti  di  loro:  e  per  ultimo,  essendo  uno 
di  loro  falto  Censore,  ed  avendo  il  suo  collega  alla  fine  de' 
diciotto  mesi,  come  ne  disponeva  la  legge,  deposto  il  magi- 
strato. Appio  non  lo  volle  deporre,  dicendo  che  lo  poteva 
tenere  cinque  anni  secondo  la  prima  legge  ordinata  dai  Cen- 
sori. E  benché  sopra  questo  se  ne  facessero  assai  concioni , 
e  se  ne  generassino  assai  tumulti,  non  pertanto  ci  fu  mai 
rimedio  che  volesse  deporlo,  centra  alla  volontà  del  Popolo 
e  della  maggior  parte  del  Senato.  E  chi  leggerà  1'  orazione 
che  gli  fece  centra  Publio  Sempronio  tribuno  della  plebe,  vi 
noterà  tutte  V  insolenze  appiane,  e  tutte  le  bontà  ed  umanità 
usate  da  infiniti  cittadini  per  ubbidire  alle  leggi  ed  agli  au- 
spicii  della  loro  patria. 

Gap.  XLVIL  —  Che  un  buon  ciltadino  per  amor  della  patria 
debbe  dimenlicare  V  ingiurie  privale. 

Era  Manlio  consolo  con  l'esercito  centra  ai  Sanniti;  ed 
essendo  stato  in  una  zuDTa  ferito,  e  per  questo  portando  le 
genti  sue  pericolo,  giudicò  il  Senato  esser  necessario  man- 
darvi Papirio  Cursore  dittatore,  per  supplire*  ai  difetti  del 
Consolo.  Ed  essendo  necessario  che  '1  Dittatore  fusse  nomi- 
nato da  Fabio,  il  quale  era  con  gli  eserciti  in  Toscana;  e 
dubitando,  per  essergli  nimico,  che  non  volesse  nominarlo; 
gli  mandarono  i  Senatori  due  ambasciadori  a  pregarlo,  che, 
posti  da  parte  gli  privati  odii,  dovesse  per  benefizio  pubblico 

*  Cosi  ucUa  Bladiana  e  nella  Testina. 


416  l»t(  DtM^unsi 

nominarlo.  Il  che  Fabio  fece,  mosso  dalla  carità  della  palrin; 

ancora  che  col  lacere  e  con  molli  altri  modi  facesse  scialo 

'  -  '-!o  «omioazione gli  prtMMne.  Dai  qvaledtèbono  pigliare 

io  ludi  quelli,  diie  €creaa«  d*ctteft  ItnuU   buoni 

,  uUadioi. 

Cap.  XLVIILr-  Qtitmio  «i  rtét  fmn  «no  errort  fremii  td 
•u  ìdmieà,  fi  MW  crtéen  rW  vi  tm  toU^ 


BfltMido  rimato  Polfio  Legato  oello  ctercilo  cIm  i  im- 
mani a?e?ano  te  Tofeaaa,  per  eeacr  ite  il  CoMote  peralewie 
cerimonie  a  Roma;  i  Tosca oi,  per  vedere  m  potevano  tTere 
quello  alla  tratta,  paaani  nn  afnato  propteqoo  ai  campi  ro- 
mani, e  maniaroao  alcnni  tnldali  eoa  vnalo  di  paateri  con 
assai  armento,  e  ali  fectaiM  taiiira  alla  vi«ia  dello  esor  ti  > 
romano:  i  qoali  cosi  InifMlili  ai  acco«laronn  slloaleetalo  !•  i 
n  «adt  il  Infiala  eNrafigliandoai  di  qnesta  loro  pre- 
MS  fH  ptfMdo  f»fi«Mvate»  Uano  modo  eh*  agli 
te  Dramte;  •  aaal  raalè  il  diaan»  ^'  Toaeani  rollo. 
Q«i  ai  p«è  comodamcate  notare,  cIm  m  capiteM  di  aaereiii 
noa  deMm  prealar  teda  ad  «no  crrara  cka  aridealeiBante  si 
%esga  fare  al  nimiro:  perchè  «ampra  vi  sarà  aotto  frafMte. 
non  aeodo  ragionavate  ehe  gli  nomini  aiano  tanto. incauti. 
Ila  spamn  il  daahtarla  dal  t incere  accaca  gli  animi  degli  uo- 
mini, che  non  vcaeono  aHro  eha  quello  pare  facci  per  tero. 
I  Vrancioti  adendo  vinti  i  loaaai  ad  Allia,  a  vaatada  a 
Roma,  e  trovando  le  porte  aperte  q. senta  guardia,  aletlern 
lutto  qoel  giorno  e  la  notte  tenia  entrarvi,  temendo  di  frau- 
de,  e  aoa  potendo  cradara  thè  fcaaa  tenia  viltà  e  tenia  poco 
coaaiflte  aa' palli  rooMai,  che  sii  abbandonas«ino  la  palria. 
Qaaada  aal  fiat  a*aadè  per  gli  Fiorentini  a  Pita  a  campo, 
Alteaao  del  Mutolo,  cittadino  pisano,  si  trovava  prifiaaa  dei 
Piataalini,  e  promise  che  s*  eali  era  libero,  darebbe  aaa  parla 
di  Pisa  air  esercito  fiorenlioo.  Fo  costui  libero.  Dipoi,  per 
pralicara  te  coaa,  venne  molle  Tolte  a  partera  coi  a|aadali 
de*co«mittan;  a  veniva  aoa  di  aaaaatte,  m»  tcapartet  ad 
accompagnato  dt*  Pisani  ;  i  quali  bsctava  da  perle,  qaaadn 
parlava  coi  Fiorcntiol  Taimcniechè  ti  ledeva  contellararc 


LIDRO   TERZO.  417 

il  SUO  animo  doppio;  perchè  non  era  ragionevole,  se  la  pra- 
tica fusse  stala  fedele,  ch'egli  l'avesse  trattala  sì  alla  scoper- 
ta. Ma  il  disiderio  che  s'aveva  d'aver  Pisa,  accecò  in  modo 
i  Fiorentini ,  che  condottisi  con  l' ordine  suo  alla  porta  a  Luc- 
ca, vi  lasciarono  più  loro  capi  ed  altre  genti  con  disonore 
loro,  per  il  tradimento  doppio  che  fece  detto  Alfonso. 

Gap.  XLIX. —  Una  repubblica,  a  volerla  manlenere  libera,  ha 
ciascuno  di  bisogno  di  nuovi  provvedimenti  ;  e  per  quali 
merili  Quinto  Fabio  fu  chiamalo  Massimo. 

Edi  necessità,  come  altre  volte  s*é  dello,  che  ciascuno 
dì  in  una  città  grande  naschino  accidenti  che  abbino  biso- 
gno del  medico;  e  secondo  che  gli  importano  più,  conviene 
trovare  il  medico  più  savio.  E  se  in  alcune  città  nacquero 
mai  simili  accidenti,  nacquero  in  Roma  e  slrani  ed  insperati; 
come  fu  quello  quando  e'  parve  che  tutte  le  donne  romane 
avessino  congiuralo  contra  ai  loro  mariti  d'ammazzargli: 
tante  se  ne  trovò  che  gli  avevano  avvelenati ,  e  tante  eh'  ave- 
vano preparato  il  veleno  per  avvelenargli.  Come  fu  ancora 
quella  congiura  de' Baccanali,  che  si  scoprì  nel  tempo  della 
guerra  macedonica,  dove  erano  già  inviluppati  molti*  mi- 
gliaia d'uomini  e  di  donne;  e  se  la  non  si  scopriva,  sarebbe 
stata  pericolosa  per  quella  città;  o  seppure  i  Romani  non 
fussino  stati  consueti  a  gasligare  le  moltitudini  degli  uomini 
erranti:  perchè,  quando  e' non  si  vedesse  per  altri  infiniti 
segni  la  grandezza  di  quella  Repubblica,  e  la  potenza  delle 
esecuzioni  sue,  si  vede  per  la  qualità  della  pena  che  la  im- 
poneva a  chi  errava.  Né  dubitò  far  morire  per  via  di  giusti- 
zia una  legione  intera  per  volta,  ed  una  città  tutla;  e  di 
confinare  otto  o  diecimila  uomini  con  condizioni  straordina- 
rie, da  non  essere  osservate  da  un  solo,  non  che  da  tanti: 
come  intervenne  a  quelli  soldati  che  infelicemenle  avevano 
combattuto  a  Canne,  i  quali  confinò  in  Sicilia,  e  impose  loro 
che  non  albergassino  in  terre,  e  che  mangiassino  ritti.  Ma 
di  tulle  l'altre  esecuzioni  era  terribile  il  decimare  gli  eser- 

*  Cosi  nella  Bladiana  e  nella  Testina.  Nelle  moilerue  sollanlo  è  la  Hcsiucuza 
femminile  inyiliqypate  molte. 


41S  I>^I   DISCORSI 

citi,  dove  a  sorte  da  tulio  uno  escrcilo  era  morlo  d'ogni  dieci 
uno.  Né  si  polcva  a  gasligare  una  molliludine  trovare  più 
spaventevole  punizione  di  questa.  Perchè  quando  una  molli- 
ludine erra,  dove  non  sia  l'autore  certo,  tulli  non  si  possono 
gastfgare,  per  esser  troppi;  punirne  parte  e  parte  lasciare 
impuniti,  si  farebbe  torto  a  quelli  che  si  puniésino,  e  gli  im- 
puniti arebbono  animo  di  errare  un'altra  volta.  Ma  ammaz- 
zare la  decima  parte  a  sorte,  quando  tulli  la  meritano,  chi 
è  punito  si  duole  della  sòrte;  chi  non  è  punito,  ha  paura 
che  un'altra  volta  non  tocchi  a  lai,  e  guardasi  di  errare.  Fu- 
rono punite,  adunque,  le  venefiche  e  le  baccanali  secondo 
che  meritavano  i  peccati  loro.  R  benché  questi  morbi  in  una 
repubblica  faccino  cattivi  elTctti,  non  sono  a  morte,  perché 
sempre  quasi  s*  ha  tempo  a  correggerli:  ma  non  s'  ha  già 
tempo  in  quelli  che  riguardano  lo  stato,  i  quali  se  non  sono 
da  un  prudente  corretti,  rovinano  la  città.  Erano  in  Roma, 
per  la  liberalità  che  i  Romani  usavano  di  donare  la  civilità 
a' forestieri ,  nate  tante  genti  nuove,  che  le  cominciavano 
avere  tanta  parte  ne'sulTragi,  che  '1  governo  cominciava  a 
variare,  e  partivasi  da  quelle  cose  e  da  quelli  uomini  dove 
era  consueto  andare.  Dì  che  accorgendosi  Quinto  Fabio  che 
era  Censore,  mr^ssc  tutto  queste  genti  nuove  da  chi  dipen- 
deva questo  disordine  sotto  quattro  Tribù,  acciocché  non 
polcssino,  ridotle  in  si  piccioli  spati,*  corrompere  tutta 
Roma.  Fu  questa  cosa  ben  conosciula  da  Fabio,  e  postovi 
senza  «Iterazione  conveniente  rimedio;  il  quale  fu  tanlo  ac- 
cetto a  quella  civilità,*  che  meritò  d'esser  chiamalo  Mas- 
simo. 

'  La  Tellina,  colle  moderne  :  /«  ti  picco!»  tpazio. 

'  Nel  nostro  esemplare  della  Teslioa,  è  tcriUo  a  penna  qui  dirimpcUo: 
città. 


FL^fi. 


419 
irVDICK  DEL  VOLIJIE. 


Avvcrliniento  tlell'Edilore Pag.  v 

Sul  Libro  del  Principe,  Considerazioni  del  prof.  Andrea  Zimbelli.    .  .  .  vii-lxi 

IL.    PIUMCIPE. 


Niccolò  Macliiavelli  al  Magnifico  Lorenzo  di  Piero  de' Medici. 3 

Capitolo   I.  Quante  siano  le  specie  de' principati ,  e  con  quali  modi  si 

acquistino. 5 

—  IL- De' principati  ereditari ivi 

—  HI.  De' principati  misti G 

• —        IV.  Perchè  il  regno  di  Dario  da  Alessandro  occupato,  non  si  ri- 
bellò dalli  successori  di  Alessandro  dopo  la  morte  sua.  .  .  43 

—  V.  In  che  modo  siano  da  governare  le  città  o  principati,  quali, 

prima  che  occupati  fussino ,  vivevano  con  le  loro  leggi.  .  .  i5 

—  VI.  De'principati  nnovi,  che  con  le  proprie  armi  e  virtù  s'acqui- 

stano   -IG 

—  VII.  De'principati   nuovi,  che   con    forze    d'altri  e   per  fortuna 

s'acquistano id 

—  Vili.  Di  quelli  che  per  scelleratezze  sono  pervenuti  al  principato.  25 

—  IX.  Del  principato  civile 29 

—  X.  In  che  modo  le  forze  di  tutti  i  principali  si  delibino  nìisurare.  32 

—  Xf.  De'principati  ecclesiastici 3't 

—  XII.  Quante  siano  le  spezie  della  milizia,  e  de' soldati  mercenari.    .  36 

—  XIII    De' soldati  ausiliari,  misti  e  propri 40 

—  XIV.   Quello  che  al  Principe  si  appartenga  circa  la  milizia 43 

—  XV.   Delle  cose  mediante  le  quali  gli  uomini,  e  massimamente  i 

Principi ,  sono  laudali  o  vituperati Ah 

—  XVI.  Della  liberalità  e  miseria.' 47 

—  XVII.  Della  crudeltà  e  clemcuzia,  e  s'egli  è  meglio  essere  amato 

o  temuto 49 

—  XVIII.  In  che  modo  i  Principi  delrbiano, osservare  la  ftie 51 

—  XIX.  Che  si  debbe  fuggire  lo  essere  disprezzalo  e  odiato 64 

—  XX.  Se  le  fortezze,  e  molte  altre  cose  che  spesse  volte  i  Principi 

fanno,  sono  utili  o  dannose 62 

—  XXI.  Come  si  debba  governare  un  Principe  per  acquistarsi  riputa- 

zione   66 

—  XXII    DcUi  segretari  de' Piincipi 61) 

—  XXIII.  Come  si  debbino  fuggire  gli  adulatori 70 

—  XXIV.  Perchè  i  Principi  d'Italia  abbino  perduto  i  loro  stati 72 

—  XXV.  Quanto  possa  nelle  umane  cose  la  fortuna ,  e  in  chq  modo  se 

gli  possa  ostare jt /,  .  ,  73 

—  XXVI.  Esortazione  a  liberare  l' Italia  «'>'  barbari 76 


420  KNDICE. 


DI    TITO   LIVIO. 


Kicrolù  MachuTclli  a  Zanobi  Booodelmonti  a  Cosimo  Rucelhi  salute.  Pag      S3 
LIBRO  rniMo. 

Caf.    I.  Quali  siano  siati  aniversalmeDle  i  friocipii  di  qualunque  città, 

e  quale  foste  quello  di  Roma. 87 

—  II.  Di  quante  sptsie  tono  le  rrpuMilirlie ,  e  di  quale  fu  la  'Rrpuli-  « 

blira  Romana 90 

—  III.  Quali  accidenti  racessino  creare  in  Roma  i  Tri Inini' della  plebe; 

il  che  fece  la  Repubblica  più  perfetta t  ■  •  •     ^^ 

—  IV.  Che  la  disunione  della  Plebe  e  del  Senato  rodano  fece  libera  e 

potente  quella  Repubblica. 97 

—  V.  Dove  più  seruramente  si  ponga   la  guardia  della  fllttrtà,  9  nel 

Popolo  o  ne*  Grandi  j  t  quali  hanno  maggiore  cagione  di 
tumultuare,  o  chi  vuole  acquistare  o  chi  vuole  mantenere.  .  .     90 

—  VI.  Se   in    Roma    ti    poteva    ordinare  uno  ttato  che  toglieue  «ia  le 

inimicitie  intra  il  Popolo  ed  il  Senato ^  •  ■  .   101 

—  VII.  Quanto  siano  necessarie  in  una  repubblica    le   accuse   per  man- 

tenere la  libertà 100 

—  VIII.  Quanto    le    accuse    sono    ulilt    alle    repubbliche,    tanto   aono 

pernitiose  le  calunnie 100 

—  IX.  Come  egli  è  neceuario  esser  solo  a  Tolerc  ordinare  una  repul»- 

blica  di  nuovo,  o  al  tulio  fuqfi  dclli  antichi  suoi  ordini 
riformarhl. 1  II 

—  "X.  Quanto    sono   laudabili   i    fondatori    d' una    repubblica  o  d' uno 

regno,  tanto  quelli  d'una  tirannide  sono  vituperabili.    .  .  114 

—  "Xl.  Della  religione  de* Romani ' 117 

—  XII.  Di  quanta  importanca  sia  tenere  conto  della  religione,   e  coma 

la  Italia  per  esserne  mancata  mediante  la  Chiesa  romana,  è 
roxinata 131 

—  XIII.  Come  i  Romani  si  servirono  della  religione  per  ordinare  la  cillii, 

e  perseguire  le  loro  imprese  e  fermare  i  tumulti 131 

—  XIV.  I  Romani  Interpretavano  gli  auspicii  secondo  la  necessità,  e  con 

la  prudenca  mostravano  di  osservare  la  religione,  quando 
fonati  no*  1*  ostervavano  ;  e  se  alcuno  temerariamente  la 
dispregiava.  Io  punivano 126 

—  XV.  Come  i  Sanniti,  per  estremo  rimedio  alle  cose  loro  afflitte,  ri- 

corsono  alla  religione 138 

—  XVI.  Un  popolo  uso  a  vivere  sotto  un  principe,  te  per  qualche  acci- 

dente diventa  libero,  con  dilHcuUà  mantiene  la  libertà 129 


INDICE.  421 

Cap.    XVII.  Uno  popolo  corrotto ,  venuto  in  liberta ,  si  può  con  difficoltà 

grandissima  mantenere  libero Pag.  133 

—  XVIII.  In  che  modo  nelle  città  corrotte  si  potesse  mantenere  uno  stato 

libero  ,  essendovi;  o  non  essendovi ,  ordinarvelo i3;> 

—  XIX.  Dopo  un  eccellente  principe  si  può  mantenere  un  principe 

debole;  ma  dopo  un  debole,  non  si  può  con  un  altro 
debole  mantenere  alcun  regno 138 

—  XX.  Due  continove  successioni  di  principi  virtuosi  fanno  grandi  ef- 

fetti ;  e  come  le  repubbliche  bene  ordinate  hanno  di  ne- 
cessità virtuose  successioni  :  e  però  gli  acquisti  ed  augu- 
menti  loro  sono  grandi 14C' 

—  XXI.  Quanto  biasimo  meriti  quel  principe  e  quella  repubblica  che 

.     manca  d'armi  proprie 141 

—  XXII.  Quello  che  sia  da  notare  nel  caso  dei  tre  Orazi  romani,  e  dei 

tre  Curiazi  albani i'iìi 

—  XXIII.  Che  non  si  debbe  mettere  a  pericolo  tutta  la  fortuna  e  non  tutte 

le  forze  ;  e  per  questo ,  spesso  il  guardare  i  passi  è  dan- 
noso  143 

—  XXIV.  Le  repubbliche  bene  ordinate  constituiscono  premii  e  pene  a' 

loro  cittadini ,  ne  compensano  mai  V  uno  con  l'altro.    .  .  145 

—  XXV.  Chi  vuole  riformare  uno  stato  antico  in  una  città  libera,  riten- 

ga almeno  1'  ombra  de' modi  antichi 146 

—  XXVI.  Un  principe  nuovo,  in  una  città  o  provincia  presa  da  lui,  debbe 

fare  ogni  cosa  nuova 147 

—  XXVII.  Sanno  rarissime  volte  gli  uomini  essere  al  tutto  tristi  o  al  tutto 

buoni • ■.  .  14S 

—  XXVIII.  Per  qual  cagione  i  Romani  furono  meno  ingrati  agli  loro  citta- 

dini che  gli  Ateniesi 44y 

—  XXIX.  Quale  sia  più  ingrato,  o  un  popolo ,  o  un  principe 150 

—  XXX.  Quali  modi  debbe  usare  un  principe  o  una  repubblica  per  fug- 

gire questo  vizio  della  ingratitudine  ;  e  quali  quel  capitano 

o  quel  cittadino  per  non  essere  oppresso  da  quella.    .   .  .  153 

—  XXXI.  Che  i  capitani  romani  per  errore  commesso  non  furono  mai 

islraordinariamente  puniti;  ne  furono  mai  ancora  puniti 
quando ,  per  la  ignoranza  loro  o  tristi  partiti  presi  da 
loro ,  ne  fussino  segniti  danni  alla  repubblica 455 

—  XXXII.  Una  repubblica  o  un  principe  non  debbe  differire  a  beneficare 

gli  uomini  nelle  sue  necessitati Ì5G 

—  XXXIII.  Quando  uno  inconveniente  è  cresciuto  o  in  uno  stato  o  contra 

ad  uno  stato ,  è  più  salutifero  partito  temporeggiarlo  che 
urtarlo 158 

—  XXXIV.  L'autorità   dittatoria  fece  bene,  e   non   danno,  alla  repub- 

blica romana  :  e  come  le  autorità  che  i  cittadini  si  tol- 
gono, non  quelle  che  sono  loro  dai  suffragi  liberi  date, 
sono  alla  vita  civile  perniciose 100 

—  XXXV.  La  cagione  perchè  in  Roma  la  creazione  del  decemvirato  fu 

nociva  alla  libertà-di  quella  repubblica,  non  ostante  che 
fosse  creato  per  suffragi  pubblichi  e  liberi 163 

—  XXXVI.  Non  debbono  i  cittadini  che  hanno  avuti  i  m,iggiori  onori, 

sdegnarsi  de' minori 1G4 

3G 


432  ixoiCK. 

«M  k^ft  ia  «■  iif  ■Ulìn  ce*  iiì^pmII  mhì  imètt- 

k  iiMililiiii|-|i     tif!  163 

_  XXXTIIL  Le  npaHliiti  4AA  mm  Mali  tMihm  t  M«  «  smim  4t> 
lihcnrc<*«  M  II  fiff^mm  ■■■  ilrwn  fitlito,  MMt 
piè*i«iiiwrt«>i<»ilwlm     Ili 

—  XXXHL  la  «ma  pafali  tà  iifgii  ipMM  i  ■iÌiiìmì  ■imìiIì.  .  .  171 

CHM  ii  MkMivara  mi 

—  iii  111     m 

—  XU.  Sdlm  Mb  aaiitit  ••■  m  iiHi,  4«lli  piMk  db  craMlk, 

wi4Aìli— ii.»c<M  iH|i itoli  di  i—lii^.  .  .  .  47S 

-*>         XMt   Qwl»tli—i rilftiTlB àiiawi  iifHfWi I7> 

>-        XUIL  Q«ii  «èc  «MAMtaM  f«  b  glwMpMfni.MMkMirf  t 

XJiMliili. ivi 

MM  4db  MUt*  li*  «M  ;  •  rtrfkwMitj^pÉ  A  «MM 
iagiartiiaaM  «uk,è  arlnUfwwMjHMMMaHi.  .  Iti 
-^        1I.VI.  OH— irtai  libili  a«— 'MiW»»«fJ  — •■ltwi»ftì— «i 

CCfCt  MA  MMW  MNi^^  9^0k  A  flBMsMW  iHWt.  •   •   •   •  1*4 

—  XLVII.  Oli  MàM,  «««ta  «te  tilif  ■■  ii  t'filiiill.  Ma  p«IÀ. 

«•bfi  M«  «  ii^HBIll Iti 

—  XLYIU.  CM«MbiktaMa^bMl*  M«  M  4M«aJ  M«il««W 

M  Mito,  I»  toié  ^mmbJém  •  «I  m  Uff»  vib  • 
•Mff»  Mgi«,  •  ai  «M  lr«rr*  **^*'*  *  Mfr»  ^mmw  .  f  17 
yUX.  ••  ^Mlt  «ìnk  ckc  Um»  t*«l*  d  praHÉfi»  hUr»,  MM 
1m«  ,  kMM  Mbaiik  •  IMMra  bfil  «k«  b  MMlM- 

^ÉÌM|  ^mI«  dM  I*  kMM  IMMAM  NT*».  M  IkMM 

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L.  mp  ili  hi  •••  caawclM  •  ■■•  ■mietila  falMB  ìiwmìì  b 

MiHiddbcitU. Ito 

I J.  Om  wpilllni  •  BM  prtMif*  éàkJkt  mmttn  A  Cm  p«t  li- 

k«Aa^nÌfeaAtbMMM«Ufo<MUii^ Iti 

—  Ut  k  tipilMiii  b  liiilii  I    4t  «M  <kt  •«§•  ia  MM  WfHli 

—  Ull.  Il  filili  adto  Mte  iwiiiri  b  rwiM  tm,  lafMaala  4* 

•Mtto  ifMb  4i  IrtMi  •  CMM  b  pmdà  if  wmi  t 

->  UV.  QaMU  Mlad[>  aUéa  «m  aMia  fiwii  >  twaaw  aM  awl. 

—  LV.  QawCa  fu  ila  mi   ti   ruiirtm    b  cmc  ■■  <|adb  tkA 

émm  b  aHllilaiiM  awècaffaltt:  tdM4»«««  c^a»> 
M.MM  M  paè  bn  ftmófm»;  9  étm  b  bm  k,aM 

Ift 


INDICE.  4-23 

Gap.    LVI.  lunauzi  che  seguino  i  grandi  accidenti  in  una  città  o  in  una  pro- 
vincia ,  vengono  segni  che  gli  pronosticano ,  o  uomini  che 

gli  predicono Pag.  203 

. —     LVII    La  plebe  insieme  è  gagliarda,  di  per  se  è  debole 204 

—  LVIII.  La  moltitudine  è  più  savia,  e  più  costante  che  vai  principe..  .  .  205 
— ■       LIX.  Di  quali  confederazioni ,  o  lega ,  altri  si  può  più  fidare;  o  di 

quella  fatta  con  una  repubblica,  o  di  quella  fatta  con  uno 
principe 210 

—  LX,  Come  il  consolato  e  qualunque  altro  magistrato  in  Roma  si  dava 

fcnza  rispetto  di  età 212 

£.inBO    (SECONDO. 

Cap.         L  Quale  fu  più  cagione  dello  imperio  che  acquistorono  i  Romani, 

o  la  virtù,  o  la  fortuna 217 

—  II.  Con  quali  popoli  i  Romani  ebbero  a  combattere,  e  come  ostina- 

tamente quelli  difendevano  la  loro  libertà 221 

—  IIL  Roma  divenne  grande  città  rovinando  le  città  circonvicine ,  e 

ricevendo  i  forestieri  facilmente  a' suoi  onori 227 

—  IV.  Le  repubbliche  hanno  tenuti  tre  modi  circa  lo  ampliare 22S 

—  V.  Che  la  variazione  delle  sètte  e  delle  lingue,  insieme  con  l'acci- 

dente  de' diluvi  o  delle  pesti,  spegne  la  memoria  delle  cose.  232 

—  VI.  Come  i  Romani  procedevano  nel  fare  la  guerra 234 

VII.  Quanto  terreno  i  Romani  davano  per  colono 236 

—  Vili.  La  cagione  perchè  i  popoli  si  partono  da' luoghi  palrii,  ed  inon- 

dano il  paese  altrui 237 

.—          IX.  Quali  cagioni  comunemente  faccino  nascere  le  guerre  intra  i 

potenti 240 

—  X.  I  danari  non  sono  il  nervo  della  guerra ,  secondo  che  è  la  co- 

mune oppinione 241 

—  XI.  Non  è  partito  prudente  Care  amicizia  con  un  priqcipe  che  abbia 

più  oppinione  che  forze 245 

—  XII.  S'egli  è  meglio,  temendo  di  essere  assaltato,  inferire,  o  aspettare 

la  guerra 246 

—  XIII.  Che  si  viene  di  bassa  a  gran  fortuna  più  con  la  fraude ,  che  eoa 

la  forza .  249 

—  XIV.  Ingannansi  molte  volte  gli  uomini ,  credendo  con  la  umiltà  vin- 

cere la  superbia 251 

—  XV.  Gli  slati  deboli  sempre  fieno  ambigui  nel  risolversi  :  e  sempre 

le  deliberazioni  lente  sono  nocive 252 

— '       XVI.  Quanto  i  soldati  de'  nostri  tempi  si  disformino  dalli  antichi  or- 
dini  255 

—  XVII.  Quanto  si  debbino  stimare  dagli  eserciti  ne'presenti  tempi  le  ar- 

tiglierie; e  se  quella  oppinione,  che  se  ne  ha  in  univer- 
sale, è  vera 258 

—  XVIII.  Come  per  l'autorità  de' Romani,  e  per  lo  essempio  della  antica 

milizia,  si  debbe  stimare  più  le  fanterie  che  i  cavagli.  .  .  '.  265 

—  XIX.  Che  gli  acquisti  nelle  repubbliche  non  bene  ordinate,  e  che  se- 

condo la  romana  virtù  non  procedono,  sono  a  rovina,  non 

a  esaltazione  d'esse 269 


424  INDICE. 

Gap.     XX.  Quale' pericolo  porli  quel  principe  o  quella  rcpuLLlica  che  »i 

vale  della  milizia  ausiliare  o  merceoaria Pag.  273 

—  XXI.  Il  primo  Pretore  che  i  Romani  mandarono  in  alcun  luogo,  fu 

a  Capova  ,  dopo  quattrocento  anni  che  cominciarono  •  far 
guerra 275 

—  XXII.  Quanto  siano  false  molle  volte  le  oppinioni  degli  uomini  nel 

giudicare  le  cose  grandi 577 

— >    XXUI.  Quanto  i  Romani  nel  giudicare  i  sudditi  per  alcuno  accidente 

che  necessitaue  tal  giudizio ,  fuggivano  la  via  del  metto.    .  379 

—  XXIV.  Le  fortette  generalmente  sono  molto  più  dannose  che  utili.  .  .  2S3 

—  XXV.  Cbc  lo  assaltare  una  città  disunita ,  per  occuparla  mediaott  la 

sua  disunione ,  è  partito  contrario 980 

—  XXVI.  Il  vilipendio  e  l'improperio  genera  odio  contra  a  coloro  che 

l'usano,  senta  alcuna  loro  utilità Udì 

—  XXVII.  Ai  principi  e  repubbliche  prudenti  debbe  Lattari  vincere;  per- 

chè il  più  delle  volte  quando  non  basti,  si  perde. S9t 

—  XXVIII.  Quanto  sia  pericoloso  ad  una  repubblica  o  ad  uno  principe  non 

vendicare  una  ingiuria  fatta  cootra  al  pubblico  «  o  eoo* 
ira  al  privato S95 

—  XXIX.  La  fortuna  accieca  gli  animi  degli  uomini,  quando  la  non  mole 

che  quelli  si  oppooghino  a' disegni  suoi. S97 

—  XXX.  Le  repubbliche  e  gli  principi  veramente  potenti  non  compe- 

rano l'amicitie  con  danari,  ma  con  la  virtù  e  con  la  ri* 
putatiooc  delle  forte. 29i> 

—  XXXI.  Quanto  sia  pericoloso  credere  agli  sbanditi 'ÒOi 

—  XXXII.  In  quanti  modi  i  Romani  occupavano  le  terre 304 

— XXXIII.  Come  i   Romani   davano   agli   loro  capitani  degli  eserciti  le 

commissioni  libere , 807 

LIBRO    TESSO. 

CAriToLo  I.  A  volA-e  che  una  tetta  o  una  repobblica  viva  luogimeote ,  è 

necessario  ritirarla  spesso  verso  il  suo  principio 309 

—  il.  Come  gli  è  cosa  sapientissima  simulare  in  tempo  la  pattia. .  .  .  313 

—  III.  Come  egli  è  necessario,  a  voler  mantenere  una  libertà  acqui- 

stata di  nuo%-o,  ammazzare  i  figliuoli  di  Bruto 315 

—  IV.  Non  vive  sicuro  un  principe  in  un  principato,  mentre  vivono 

coloro  che  ne  sono  stati  spogliati 316 

—  V.  Quello  che  fa  perdere  uno  regno  ad  uno  re  che  aia  ereditsrio 

di  quello 317 

—  VL  Delle  congiure 3iU 

~        VII.  Donde  nasce  che  le  mutazioni  dalla  libertà  alla  servitù,  e  dalia 

servitù  alla  liliertà ,  alcuna  n'è  senza  sangue,  alcuna  n'è 

piena 339 

•y  ;    VIII.  Chi  vuole  alterare  una  repubblica,  debbe  considerare  il  soggetto 

di  quella 340 

—  IX.  Come  conviene  variare  coi  tempi ,  volendo  sempre  aver  buona 

fortuna 343 

—  X.  Che  un  capitano  non  può  fuggire  la  giornata,  quando  l'avver- 

sario la  vuol  fare  in  ogni  modo 344 


INDICE.  425 

Gap.      XI.  Che  chi  La  a  fare  con  assai,  ancora  che  sia  inferiore,  purché 

possa  sostenere  i  primi  impeti,  vince Pag.  348 

—  XII.  Come  un  capitano  prudente  debbe  imporre  ogni  necessità  di 

combattere  ai  supi  soldati,  e  a  quelli  delli  nimici  tórla  .  .  350 

—  XIII.  Dove  sia  più  da  con6dare,  o  in  uno  buono  capitano  che  abbia 

l'esercito  debole,  o  in  uno  buono  esercito  che  abbia  il  ca- 
]^itano  debole 353 

—  XIV.  Le  invenzioni  nuove  che  appariscono  nel  mezzo  della  zuffa,  e 

le  voci  nuove  che  si  odono,  quali  effetti  faccino 355 

—  XV.  Come  uno  e  non  molti  siano  preposti  ad  uno  esercito ,  e  come  i 

più  comandatori  offendono 357 

—  XVI.  Che  la  vera  virtù  si  va  ne'  tempi  difficili  a  trovare  ;  e  ne'  tempi 

facili  non  gli  uomini  virtuosi ,  ma  quelli  che  per  ricchezze 

o  per  parentado  prevagliono,  hanno  più  grazia. .  .....  359 

—  XVII.  Che  non  si   offenda   uno,  e  poi  quel  medesimo  si  mandi  in 

amministrazione  e  governo  d' importanza 361 

—  XVIII.  Nessuna  cosa  è  più  degna  d' un  capitano,  che  presentire  i  par- 

titi del  nimico 362 

—  XIX.  Se  a  reggere  una  moltitudine  è  più  necessario  lo  ossequio  che 

la  pena 865 

—  XX.  Uno  essempio  d'umanità  appresso  ai  Falisci  potette  più  d'ogni 

forza  romana 366 

—  XXI,  Donde  nacque  che  Annibale  con  diverso  modo  di  procedere  da 

Scipione,  fece  quelli  medesimi  effetti  in  Italia  che  quello  in 
Ispagna 367 

—  XXII.  Come  la  durezza  di  Manlio  Torquato ,  e  l' umanità  di  Valerio 

Corvino  acquistò  a  ciascuno  la  medesima  gloria 370 

—  XXIII.  Per  quale  cagione  Cammillo  fusse  cacciato  di  Roma 375 

—  XXIV.  La  prolungazione  degl* imperii  fece  serva  Roma 376 

—  XXV.  Della  povertà  di  Cincinnato  ,  e  di  molli  cittadini  romani.    .  .  .  377 

—  XXVI.  Come  per  cagione  di  femmine  si  rovina  uno  stato. 379 

—  XXVII.  Come  e' si  ha  a  unire  una  città  divisa;  e  come  quella  oppi- 

nione  non  è  vera,  che  a  tenere  le  città  bisogna  tenerle 

^  disunite 380 

— XXVIII.  Che  si  debbe  por  mente  alle  opere  de' cittadini ,  perchè  rrtolte 
volte  sotto  un'opera  pia  si  nasconde  un  principio  di  ti* 
rannide 382 

—  XXIX.  Che  gli  peccati  dei  popoli  nascono  dai  principi 384 

—  XXX.  Ad  uno  cittadino  che  voglia  nella  sua  repubblica  far  di  sua  auto- 

rità alcuna  opera  buona,  è  necessario  prima  spegnere  l'in- 
vidia: e  come,  venendo  il  nimico,  s'ha  a  ordinare  la 
difesa  d'una  città 3S5 

—  XXXI.  Le  repubbliche  forti  e  gli  uomini  eccellenti  ritengono  in  ogni 

fortuna  il  medesimo  animo  e  la  loro  medesima  dignità. .  .  388 

—  XXXII.  Quali  modi  hanno  tenuti  alcuni  a  turbare  una  pace 31)1 

—  XXXIII.  Egli  è  necessario,  a  voler  vincere  una  giornata,  fare  l'esercito 

conBdente  ed  infra  loro,  e  con  il  capitano 302 

—  XXXIV.  Quale  fama  o  voce  o  oppinione  fa  che  il  popolo  comincia  a  fa- 

vorire un  cittadino  :  e  se  ei  distribuisce  i  magistrati  con 
maggiore  prudenza  che  un  principe 394 


426  INDICE. 

Cap.  XXXV.  Quali  pericoli  &i  portino  nel  tarii  cjpo  a  consigliare  una 
cosa;  e  quanto  ella  ha  più  dello  straordinario,  mag- 
giori pericoli  ri  si  corrono Pag.  398 

—  XXXVI.  La  cagione  perchè  i  Franciosi  sono  stali  e  sono  ancora  giu- 

dicati nelle  tufle  da  principio  più  che  uomini,  e  di- 
poi meno  che  femmine, 400 

—  XXXVII.  Se  le  piccole  battaglie  innanzi  alla  gioroala  sono  uecestarie, 

e  come  si  debbe  fare   a   coooscere  uo  nimico  nuovo, 
volendo  fuggire  quelle 403 

—  XXXVIII.  Come  debbe  esser  fatto  un  capitano  nel  quale  Tesercito  tuo 

possa  confidare 404 

—  XXXIX.  Che  un  capitano  debbe  esser  conoscitore  dei  siti 406 

—  XL.  Coaie  usare  la  fraude  nel  maneggiare  la  guerra  è  cosa  glo- 

riosa  407 

—  XLI.   Che  ]a  patria  si  debbe  dilendcre  o  con  ignominia  o  con  glo- 

ria :  ed  in  qualunque  modo  e  beo  difesa 408 

—  XLII.  Che  le  promesse  fatte  per  fona ,  non  si  debbono  osservare. .  .  409 
— -         XLIir.  Che  gli  uomini  che  nascono  in  una  provincia,  osservano  per 

tutti  i  tempi  quasi  quella  medesima  natura 410 

—  XLIV.  E'  ti  ottiene  con  1*  impeto  e  con  l'audacia  molte  volle  quello 

che  con  modi  ordinari  non  si  otterrebbe  mai 412 

—  XLV.  Qual  sia  miglior  partito  nelle  giornate,  o  sostenere  V  impeto 

de'nimici,  e  sostenuto  urtargli;  ovvero  dapprima  con 
furia  assaltargli 414 

—  XLVI.  Donde  nasce  che  una  famiglia  in  una  città  tiene  un  tempo 

i  medesimi  costumi ivi 

-^  XLVII.  Che  un  buon  cittadino  per  amore  della  patria  debbe  di- 
menticare l'ingiurie  private 415 

—  XLVIII.  Quando  si  vede  fare  uno  errore  grande  ad  un  nimico ,  si 

debbe  credere  che  vi  sia  sotto  inganno 416 

•»  XLIX.  Una  repubblica ,  a  volerla  mantenere  libera ,  ha  ciascuno 
di  bisogno  di  nuovi  provvedimenti  ;  e  per  quali  meriti 
Quinto  Fabio  fu  chiamato  Massimo 417 


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