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Full text of "Il Propugnatore"

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284892 


AI  SITO!  COM.EGIII  ED  ASSOCIATI 


I.A  IllllEZIONE. 


Con  (jucsUi  UispL'iisa  cuDiiucia  il  [erzo  aiuiu  ili  vila 
nostro  l'ropHgnalore.   È  in  vero  un  miracolo  che  in 
opi  così  avversi  agli  studi!  filologici  egli  continui  a  man- 
flencnÀ  furto  abbastanza  e  rigoroso.  La  qualu  buona  ven- 
EtBn  a  voi  singolarmente,  illustri  alleghi  ud    amici,  si 
■■dee,  che  con  indicibiiR  ed  esemplare  costanza  non  lascia- 
ste giainimi  di  amministrarci  quel  tanto  cbo  occorreva  a 
sì  ben  nutricarlo  e  sorreggere. 

A  voi  iliiiitjiie  i  nostri  pubMici  e  cordiali  ringrazia- 
miMili.  a  voi  le  congratulazioni  più  sentite,  e  a  voi  le 
pregliiiTi'  più  fervorose,  affinchè  perduriate  nella  consueta 
assistpoza.  Or  da  tante  e  così  isvariate  scritture  ondo  ci 
pnivTisdesle.  die  ne  avvenne?  L'approvazione  dei  dotti, 
e  per  conseguenza  l'eletta  schiera  dì  associati,  che  pur 
raldamenle  ci  animarono.  Onde  a  loro  eziandio  noi  non  ci 
ranarrcmo  dal  rendere  le  debile  azioni  di  grazie. 

Con  sì  favorevoli  auspicii  intanto  noi  proseguiremo 
■larrcirw'nte  nella  ntmpUazione  di  questo  Periodico,  fidu- 
ckisi  che  nella  guis;i  stessa  che  in  noi  non  verran  meno 
U  solerzia  e  la  diligenza,  così  in  voi  il  concepito  fervore 
«•  l'ii5atu  patrocinio. 


j 


GIOVAN  DA  PROCIDA 


IL  RIBELLAMENTO  DI  SICILIA  NEL  1282 

«FECONDO  IL  CODICE  VATICANO  Sì^i 


A  chi  si  oroipa  di  cose  storiche,  e  massime  di  ar- 

>  siciliano,  è  notissima  la  storia  della  Guerra  del 

t  tieiliam  di  Michele  Amari,  opera  pììi  volte  rlstam- 

,  lodata  e  censurata  per  diverso  riguardo,  alla  quale 
più  che  altro  P  autore  deve  la  sua  bella  ffima  di  valente 
stanco  (■  di  scrittore  pregevole.  Intendimento  del  libro 
(kir  Amari  rti  il  mettere  innanzi  in  quel  grande  avveni- 
mento che  pipilo  nome  da' Vespri  dì  S.  Spirito  più  l'ar- 
dimento popolare  e  lo  sdegno  degli  oppressi  Siciliani  contro 
lo  litraniem  dominatore,  anziché  il  macchinamento  di  una 
FODtriura  condotta  da' baroni  di  Sicilia  e  aiutala  dal  Papa, 
Jat  l'aleokigo  e  dal  Re  di  Aragona;  anima  della  quale 
f.Hv  stato  Giovanni  da  Precida,  vecchio  medico  dell' im- 
juntiire  Federico,  ministro  di  re  Manfredi,  compagno  di 
Comdino  a  Tagliacozzo,  e  consigliere  dappoi  di  Pietro, 
(B  Gtammo,  di  Federico  d'  Aragona,  re  di  Sicilia.  Se  non 
die,  contro  quest'avviso  dell'illustre  scrittore  mandò  luori 
il  Rubieri  la  sua  bella  Apologia  di  Giovanni  da  Procida 
(Fir.  1856),  fi  scrisse  il  De  Renzi  la  importantissima  opera 
//  secolo  Xlìl  e  Giovanni  da  Procida  (Napoli  1860) ,  ricca 


—  6  — 
ili  motti  (locamenti  ineilili  e  pr^evolissima  per  la  gra- 
vità della  critica,  dalla  qoale  esce  la  fìgara  di  Giovai) 
da  Procida  spiccata  più  che  mai ,  e  Detta  di  quelle  ombre 
ctie  parera  PAmarì  averle  gettale  sopra  a  Tarle  velo  al- 
meno, se  non  del  tutto  a  celarla.  Poi,  la  pabblicazìoDe  della 
Leggenda  di  Giovati  da  Procida  tirata  faorì  da'  Godici  Mss. 
della  Biblioteca  Palatina  di  Modeoa  per  cara  dell'  egr.  cav. 
Antonio  Cappelli  (Tor.  1861),  e  infine  la  ristampa  della 
Cronica  del  Ribellameniu  di  Sicilia  coatra  Re  Garin ,  scritta 
in  antico  ^cìliano,  nel  volume  delle  Cronache  siciliane 
de'secoli  XIII,  XIV  e  XV  pabblicaie  da  noi  nella  Colle- 
zione (li  opere  inedite  e  rare  per  cara' della  R.  Commis- 
sione pe' testi  di  Lìngua  (Bologna,  1663),  aggiunsero  novelle 
prove  ed  argomenti  a  difesa  del  Procida  contro  ie  accuse  e 
il  proponimento  dello  storico  palermitano.  E  però  il  lettore 
imparziale  avrebbesi  creduto  che  nell'  ultima  edizione  della 
storia  del  Vespro  (Firenze,  Lemonnier,  1866),  nella  quale 
l'autore  pensò  far  risposta  ai  difensori  del  Procida  o  della 
cotujiura,  molte  cose  fossero  state  corrette,  e  tornato  il 
nome  del  Procida  in  onore,  concedendogli  in  quel  memo- 
raliile  fatto  quella  parte  che  e  gli  scrittori  contemporanei 
u  la  tradizione  non  gli  negarono  punto,  tanto  da  esser 
diiamato  per  ira  di  parte  angioina  perfido  uomo  e  mosso 
dal  demonio.  Intanto  la  novella  edizione  venne  ad  aggra- 
vare le  accuse  e  a  rincalzare  la  ostinata  persecuzione  al 


mtù  de''(locnmentÌ,  uè  voglio  andar  cercando  le  ra- 
I  perchè  l'illustre  storico  né  manco  volle  correggere 
i  errori  direi  maternli  del  suo  libro,  notati  da  me  con 
iziom .  e  non  pur  sostenuti  da  ragione  alcuna  ;  ma  agginn- 
g«do  qualcosa  al  detto  altrove,  varrà  questo  solamente 
nme  prefeaione  a  questa  cronica  del  Vespro ,  che  ora  per 
ti  prima  volta  pubblichiamo  intera ,  secondo  la  lezione  del 
cndire  Vaticano  3256,  trascritto  anni  addietro  dal  valeo- 
lisàtnn  ellenista  Pietro  Matranga,  prete  grecosicolo  e  scrittore 
di  (Croco  della  Vaticana  (1).  E  ciò  perchè  la  narrazione  e  il 
ikltai»  di  quest'altro  t&^,  ritratto  dall'originale  siciliano 
dd  swolo  \III ,  possa  dar  nnovi  riscontri  con  la  detta 
lezione  «ciliana,  e  con  l'altra  in  volgare  nobile  della  Leg- 
gala modenese  ;  fonti  onde  trassero  materia  e  forma  alla 
loro  narrazione  il  Malespini  e  il  Villani,  e  compose  Ser 
Gionnni  Fiorentino  la  bellissima  novella  tf.  della  Glom. 
XXV.'  del  suo  Pecorone,  ove  è  detto  come  «  un  savio  e 
)  cavaliere  e  signor  detr isola  di  Precida,  il  quale 


Il  lacca  <M  popolo  in  Carini  tlall>gr.   giovane  sig.   Salv.   Siiloinone 
ma,  neco^iiari!  U|iieniissiiiio  ili  canti  (lopolarì  sìcJliuni: 

La  iptrìlu  di  Dìu  'n  frunti  l' areniti, 
la  donna  strali  ucen  li  ; 
SU  gturlanna  cu'  k  clii  ntii  \a  leva 
Ccì  «eni  a'mpolU  (')  Prùcitcì  valenti; 
YcDDD  IJ  Serafini  Ji  lu  celu, 
Sangu  prì  sangu ,  cu  li  spati  ardenti. 

I  Sodo  debitore  di  poter  pubblicare  itiiesto  testo  sull'esemplare 
a  alla  ^ntileizu  del  Fratello  di  coflui,  che  è  aoclie  prete  glie- 
lo, ùg.  Filippo  Halrsnga,  valente  traiiuttore  di  alcune  Omelie  di 
e  di  S.  Ciovan  Crisostomo. 


—  fi- 
si chiamava  messer  Ginvanni  Ja  Procida,  per  suo  senno 
e  Industria  si  pensò  di  sturbare  il  d«tto  passaggio  (di  re 
Carlo  contro  il  Paleologo),  e  di  recare  la  forza  dei 
Carlo  in  basso  stato...»  facendo  «  rubellare  l'isola  di  Sicilia 
al  re  Carlo  con  forza  di  molti  baroni  e  signori,  i  quali 
non  amavano  la  signorìa  de'Francfisi;  e  questo  con  Taiulo' 
e  forza  del  re  di  Raona,  mostrandosi  che  egli  prenderebbe 
la  bisogna  dello  retaggio  di  sua  mogliera,  la  quaPera  stata 
figliuola  del  re  Manfredi.  >  Questa  novella  di  Ser  Giovanni 
Fiorentino  è  proprio  a  parola  la  Leggenda  stessa .  mode- 
nese, e  specialmente  nelle  lettere  di  papa  Martino  ai  Si- 
ciliani, e  di  re  Pietro  a  Carlo,  e  di  Carlo  a  Pietro;  e  fino 
vi  trovi  quel  Santa  Maria  di  Bocca  maggiore  che  si  legge 
per  isbaglio  nella  Leggenda  suddetta  e  nel  Villani  e  nel 
Malespini,  invece  del  Sonia  Maria  di  Rocca  amaturi, 
slMome  ba  11  testo  siciliano,  _ed  è  proprio  il  nome  del 
luogo  di  cui  si  paria  in  quell'assedio  di  Messina  del  mìU 
ledugento  ottaotadne.  Ove  non  ci  sìa  documento  di  plagio, 
potrebbe  dirsi  per  ora,  stando  ai  riscontri ,  non  altri  essere 
stato  il  trascrittore  della  Leg(>enda  modenese  che  esso  Ser 
Giovanni  Fiorentino,  il  quale  portò  la  narrazione  della  no- 
vella più  là  che  non  giunga  la  Leggenda,  per  ragione  che 
quest'era  come  traduzione  del  testo  siciliano  o  vaticano 
e  la  novella  poteva  stendersi  a  suo  piacere,  siccome  ap- 
punto si  stende  sino  alla  incoronazione  di  Carlo  IL  in  re 
di  Sicilia  e  di  Puglia,  e  alla  fazione  avvenuta  presso  Ca* 
tanzaro  con  iscouBtta  di  Rogero  di  Loria  e  vittoria  non 
de' francesi,  come  dice  Ser  Giovanni,  ma  de' siciliani  con- 
dotti dal  cloroso  Blasco  Magona. 

Né  solo  poi  Ser  Giovanni  stette  fedelmente  alla  Cro- 
nica e  alla  tradizione  che  correva  per  P Italia:  ma  nel 
Comento  alla  Divina  Commedia  di  Anonimo  Fiorentino  del 
secolo  X!V,  scritto  non  dopo  il  1326,  e  nello  stesso  tempo 
cbe  quello  di  Iacopo  della  Lana;  sì  che  l'autore  scriveva 


I  di  venti  anni  doiio  la  morte  del  Precida ,  e  vi- 
■ti  ancttra  non  poclii  chu  avevano  vista  la  lunga  guerra 
I  Vespro  e  forse  avuta  parte  nella  cospirazione  siciliana 
r angioina;  si  legge  sul  proposito,  che  mentre  re 
)  armava  contro  il  Paleologo  <  messer  Gianni  di  Pro- 
l  in  questo  tempo  coli"  aiuto  del  detto  Piero  re  di  Raona 
ttcr  trattalo ,  e  rubelloglì  l'isola  di  Sicilia  (1)  »:  le  quali 
pirole  scritte  da  tale  che  allo  lodi  che  fa  nello  stesso 
laogo  di  re  Carlo  parteggiava  certo  per  casa  di  Angiò,  e 
Dimte  amico  si  vede  de' figli  di  re  Pietro,  Giacomo  e  Fe- 
derico :  sono  molto  valevoli  a  confermare  sempre  la  verità 
della  Cronica  e  del  trattalo  per  la  rebellazione  che  al  re 
GarUi  fu  fatta  dell'isola  di  Sicilia;  al  quale  trattato  ac- 
mnsfTiti  e  diede  ainlo  e  favore,  siccome  altrove  è  detto 
dallo  slesso  Anonimo  comentatore  (2) ,  papa  Niccola  terzo 
t  il  danaro  del  Paleologo.  Che  se  Iacopo  della  Lana  già 
iHin  nomina  Giovan  di  Procida,  tuttavia  parlando  di  papa 
?iicri)la .  che  Dante  disse  nel  XIX  dell'  Inferno  conti'o  Carlo 
ardito,  nota  che  questo  papa  •  seppe  sì  ordinare  che  al 
dettu  re  fu  tolta  l'isola  dì  Cicilia  s:  macchìnamenti  con- 
ùrmati  dalla  Cronica  di  Marino  Sanudo  Torsello  II  Vecchio, 
por  contemporaneo  ai  fatti,  nella  quale  si  legge  che  il 
riU^llamento  di  Sicilia  >  fu  per  trattalo  dell'  Imperatore 
Sor  Micbiel  e  suoi  seguaci  (3).  »  E  dello  stesso  tempo 
otaodio  i^  la  Cronica  di  Napoli  di  Giov.  Villano  napole- 
Imo,  ove  è  scritto  al  capit.  XI  del  Libro  II ,  parlando  di  re  ' 
Caio  :  •  El  qual  Carlo  Iiebbe  l'animo  tanto  grande  che  dopo 


li)  <t.  Purgatorio,  e.  VII.  p.  3%,  Bolopa,  uclla  Collezione  di  Opere 
l  •  rart  ptr  cura  Mia  Cnmmitt.  de'  Tali  di  linijua.  18C9. 

(St  f.  Inferra,  e  XIX.  p.  ÌS5.  Bologna,  Colicz.  di.  1866. 

(3}  *.  Stwia  di  Carlo  h'Angiù  e  della  Gutrra  ilei  Vfiinv  Siri- 
li  della  storia  inolila  del  Regno  di  Ramania  aerina  ira  il  I3S8 
I  13.13  ila  Marino  Sunudo  Torsello  il  Vecchio  tiubblicaii  àa  Cirio 
l  :<lipoli.  pri'uo  lli'lkiii.  IKGl 


—  lu  — 
acquistato  el  Ileaino  àe  Sicilia,  si  congregò  una 
gran  Compagnia  di  Cavaglieri  et  Navilii  p^  acquistare  il 
Hegno  de  Horaania  cot  suo  Imperio  :  la  quale  cosa  li  fora 
forai  con  felicità  successa  se  non  fossi  stata  la  rebellione 
de  Sicilia,  la  qual  rebellione  fò  principiata  per  male  collae- 
lerali  sol,  li  quali  aggravando  indebitamente  li  populi,  da 
la  quale  rebbellione  fo  casone  e  principale  ordinatore  Mis- 
sere  Ioanne  de  Procida  de  Salerno,  el  quale  era  stato 
medico  del  Ite  Manfredo,  et  quale  andò  per  Imbasatore 
in  Aragona  al  Rè  Pietro  d'Aragona,  marito  de  Madamma 
Costantia  figlia  del  Ite  Manfredo,  da  parte  de  li  Signori 
di  Sicilia  sollecitando  al  dicto  Rè  che  venesse  a  la  dieta 
Isola  de  Sicilia  promettendoli  lo  dominio  de  la  dieta 
Isola  (1)  .. 


(1)  V.  fiaccolla  di  varìi  Libri  outro  Opvtcoli  d' Binarie  del  He- 
pria  di  l/apnli  di  varii  el  approbati  Autori  ecc.  nella  quale  ti  con- 
Ungono  V infrascritli ,  eÌoÌ  Le  Croniche  dell' Inctila  Cillà  di  Napoli, 
con  li  Bagni  di  Pussuolo  et  liAia  lìi  Giov.  Villam  Napoklanù  ecc. 
Napoli,  appresso  Carlo  Porsilc  1680.  Lo  stampalorc  neH'aTvn-Utua  al 
IcUorc  dice  che  i  GioTaani  Villano  Napoletano  Tu  il  primo  a  scrìvere 
bencliÈ  in  lìngua  maierna  amica  e  gold  N.ijioleUuia,  l'Hisloria  o  :' 
Cronicbc  della  nostra  Patria  (Napoli),  onde  da  esso  hanno  cavalo  pot 
le  cose  più  memorabili  et  anliclic  gli  altri  llìstorici  del  Regno,  clie  a^' 
pn;s$a  di  lai  stali  5ono.  >  Il  Cappelli  nella  prerazionc  alla  Leggenda  dE' 
Gtovan  da  Procida,  a  p.  35  e  segg.,  paria  appunto  di  ({aesia  Cronici 
di  Napoli,  stampata  col  nome  di  Giov.  Villano  ISapolilano,  e  di  un 
dice  anonimo  di  essa  Cronica  esistente  nella  II.  Biblioteca  di  Modena,  dal 
quale  lìn)  come  Appendice  alla  Leggenda  sette  capitoli  che  sì  rircriscoDO 
ai  hVx  di  Carlo  d'AngiA  in  NapoU  e  in  Sicilia.  Nulla  c7'  da  aggiungere 
ai  dubbi  e  alle  lestimonianze  raccolle  dall' egr.  mio  amico  su  questo  Gio- 
van  Villano  Napoletano,  ma  solo  fo  sapere  che  altro  codice  sìmilisstmo 
al  modenese,  pur  membranaceo,  ma  in  8,"  piccolo  e  in  carauere  del 
sec.  XIV,  abbiamo  in  questa  BiUioteca  Na:EÌonate  palermitana,  segnato 
Armad.  1).  ib,  e  col  titolo  in  carattere  minuscolo  rosso:  —  Di  tacila 
di  Supoli  la  quale  ìntn'  Vatlre  ella  del  «tondo  jier  la  molleluditu 


—  li  — 

nna  Cronaca,  storia  o  Novella  contemporanea  ci 
dife  di  altro  personaggio  die  abbia  condotto  la  cospii-a- 
none  contro  re  Carlo,  e  riuniti  gli  animi  del  Papa,  del- 
rimperatore  greco,  e  del  re  Aragona  e  de'Siciliaoi,  tranne 
di  (iiovaii  dì  Crocida  che  già  per  più  anni  usò  alla  corte 
é  l^tro  e  di  Costanza  e  poi  ebbe  tanta  parte  ne' fatti  di 
SciUa,  ove  egli  appunto  si  trova  quando  è  invitato  a  re 
l'Aragonese,  e  vengono  festosamente  accolli  a  Palermo 
con  la  madre  Costanza,  i  due  lìgli  del  novello  re,  Giacomo 
e  Federico.  Abbiamo  nella  Biblioteca  Comunale  palerini- 
tina  un  cod.  rartaceo,  segnato  Qq  E.  29.  n.  V,  di  mano 
ilellWurta  che  lo  trascriveva  dairoriginale  di  Filippo  Pa- 
nila .  f liti  fu  Segretario  del  Senato  di  Palenno  lol  titolo  — 
■  Anuaie  delle  cose  accorse  nella  Città  di  l'aleniio  e  dilli 
OffUiali  che  som  stati  e  persone  nominale,   aitato  dalli 

dn  tataiìfrt  *  dilloro...,  (*)  «  diUete  ricthfsia  ano  acquutata  fama 
frmtiisima.  U  quali  ekww  lucit  se  narrano  in  diversi  volumi  i, 
r»M(CAc  ri  tu  questa  presente  scrittura  se  comjionim  —  La  lenone 
Jt  i|unlo  cntlic  palmnitano  è  in  gMicrale  pilt  corrctla  di  quella  ilellj 
umpa  lupoliUna;  mu,  come  il  i>ioil(mc$r,  non  ha  divbionc  di  libri,  aii» 
tona  Kinn  a  rrrto  |iaoto  iti  nibrìchc,  procnlomlo  con  ^ok  ini'tnii  in 
rauo  o  inrdiino,  e  k  nibrìclic,  in  nero,  commcìano  sotiuncntn  con 
^mo-  Ctnim  pajia  AlMandru  ritorno  in  YMia  ci  rfiomo  m  loin 
barrita  liedifica  la  cUa  daìciatulria  per  suo  noìno  la  (jualt.  nella 
Vatft  citata  na|>oli[:in3  r  la  67.*  del  libro  I.  Poi,  ovi  niella  stampa  co- 
naca  D  Lib.  11.  e,  I,  il  codice  porla  i|uesU  rubrica,  che  non  mpouilc 
■bto  alb  dlTÌ«ione  de]  lesio.  cioè:  Chomensa  loelai>o  libro  ove  Iraela 
M  '«  venula  dìl  Bt  Karlo  di  puglia  et  di  suo  (adi  ci  di  molti  inu- 
Htmmi  cAf  ftiruno  in  Ylatia  al  suo  ttmpe.  11  coJìco  non  lia  se^a- 
tm.  t  Uni».',  Cusl  comi.'  il  niotlcnei-e,  cut  libro  11  della  slainp.i  napoli- 

imM  itwu. 

O  b  peritameni  è  coii  guitla  che  h  parol*  t  iDleggtliIle.  In  un'an- 
tta  lrwcriil«nii  che  e'  b  tggìunla  In  earu  ,  Ai  camllcre  ilei  tee,  XVI  o 
ITn,  ti  legge  pompate  :  nella  itampii  napo  titani  bI  legge  pampe ,  e  nel 
tat.  «M^rnf**  popoli:  mn  'l  [iMrol.i  piire  piullnelo  el;e  ero  pruiosr. 


—  12  — 

libri  del  Senato  del  tempo  die  si  possono  trovare  sin  hog^ 
ecc.  cavato  con  quella  fedeltà  e  realtà  che  ogn' utto  potrà 
a  Silo  modo  per  delti  liltri  reconoscere  »  —  E  quest'  An- 
nuale comincia  dal  12H7  e  lerniÌDa  al  140S,  con  quest'aT* 
vertenza  deirAiiria:  •  Sin  qui  ho  copiato  (la  un  Onìnterao 
d'antico  carattere,  cfie  è  in  potere  del  Sig.  D.  Vincenzo 
La  Farina,  Marchese  di  ,\fadonia  e  Barone  d'Aspromonte, 
ho^i  23  di  Marzo  1667.  •  Ora,  in  esso  si  legge: 
«  Nel  anno  1280. 

Il  detto  Rè  (Carlo  d'Angiò): 

Alaimo  di  Lentini  Barone 

Palmeri  Abati  Barone 

Gualtieri  di  Caltagirone  Barone 

Giovanni  di  Precìda  fatto  Barone  (1) 
>  In  detto  anno  cominciò  a  trattare  il  sopradetto  Giovau 

■  dì  Procida  con  li  sopradettì  Baroni  di  Sicilia,  e  eoa. 
»  Pietro  Re  di  Aragona  e  col  Papa  e  l'Imperatore  il  traU 
1  tato  di  levare  il  regno  di  potere  di  Carlo  d'Angiò, 
»  darlo  a  Pietro  Rè  di  Aragona  suo  vero  e  legilimo  Rè. 

E  sotto  all'anno  1282.  nel  quale  anno  si  pone.  Pietra 
Re  d'Aragona  Re,  e  si  nota  la  oecisione  de'Francesi, 
trova  : 

K  Le  persone  nominate  nel  trattato  della  Tattione  con- 
»  tro Francesi  furono  li  sopraddetti  quattro,  Procida,  Lmh 

■  tini.  Abati,  e  Caltagirone,  Baroni  di  Sicilia.  Oltre,  nella 
»  oecisione  vi  furono  molt' altri  che  vi  mossero  mano, 
»  come  foro:  Giovanni  di  Calvello  majore,  Giovanni  di 
M  Milite,  Guido  Filangeri,  Pontio  di  Caslar,  Gandolfo  dì 

(i)  (Jucslo  fallo  barone  accenna  a  dhoto  titolo,  non  all'amico  di 
Procida  che  GtOTanni  aven  nel  Regno;  e  si  sa  infatli  che  mn  rial  1278  e 
1S79  re  Pielro  d'Aragona  av«Ta  investito  Giovanni  de'caslelli  e  d^le 
Signorìe  di  Luxcn,  Beniziano  a  Palma.  I  diplomi  di  questo  nuovo  titolo, 
pubblicati  dal  Saint-Priest,  sono  citati  dall'Amari,  Op.  cii.  cap.  V.  v.  f. 
.  103,  Fir.  I8fi«ì. 


—  13  — 

•  IV)Dtecorona,  Guglielmo  TagUavia,  Orlando  di  Miglia, 

•  Bartolomeo  Mariscalco  straticoto  di  Messina.  » 

Io  non  so  capire  perchè  P  Amari  duri  a  combattere 
la  cronica  del  Vespro ,  quando  già ,  tranne  la  forma  dram- 
matica, ne  accetta  la  sostanza.  L'illustre  stoijpo  norf  sa 
negare  che  un  certo  trattato,  come  dice  la  Cronica,  tra 
Pietro  d' Aragona ,  il  Papa ,  il  Paleologo  e  ì  Baroni  siciliani, 
già  c'era,  e  lo  maneggiava  principalmente  Giovanni  da 
Procida;  e  la  Cronica  non  fa  che  mettere  vivamente  in- 
nanzi agli  occhi  la  pratica  dì  questo  trattato,  condotto 
principalmente  da  Giovanni  di  Procida,  che  P Amari  dice 
destro y  accorto y  e  audace  (Appendice,  voi.  2,  p.  259), 
non  negando  fede  a  Tolomeo  da  Lucca  vescovo  di  Tor- 
tello e  prima  bibliotecario  della  Vaticana ,  il  quale  afferma 
a  proposito  delle  pratiche  tra  Pietro  e  il  Paleologo  per 
togliere  a  Carlo  il  reame  di  Sicilia,  di  aver  veduto  rac- 
cordo trattato  da  Giovanni  di  Procida  e  Benedétto  Zaccaria 
da  Genova  con  altri  genovesi  dimoranti  in  terra  del  Paleo- 
logo; di  guisa  che,  confessa  il  nostro  storico,  e  le  trame 
co' Ghibellini  e  con  alcuni  Baroni  di  Napoli  o   di  Sicilia, 
non  si  possono  ornai  rivocare  in  dubbio  (e.  V.  voi.  1,  p. 
112).  >  Ma,  r Amari  aggiunge:  e  Falso  è  che  la  pratica, 
si  strettamente  condotta ,  fosse  appunto  riuscita  a  produrre 
lo  scoppio  del  Vespro...  Mentre  Pietro  s'armava,  e  i  no- 
bili bilanciavano,  e,  concedasi  pure,  stigavano  gli  animi 
in  Sicilia,  ma  non  si  dava  principio  alle  oper^,  né  forse 
si  sarebbe  mai  dato ,  il  popolo  di  Palermo  die  dentro ,  in- 
nasprito  per  la  nuova  stretta  di  violenze  di  Giovanni  di 
San  Remigio,  e  acceso  dagli  oltraggi  alle  donne,  rapito 
dalla  tenzone  che  ne  seguì  (v.  1,  p.  112  —  v.  2,  p.  259).  » 
Or,  in  che  si  oppone  la  Cronica  a  questa  spiegazione  che 
r  Amari  crede  potersi  tirare  da'  fatti  e  dalle  narrazioni  dei 
contemporanei?  Il  tumulto  di  S.  Spinto  fu  a  caso,  non 
disposto  da'  baroni  congiurati ,  i  quali  «  maturavano  e  pre- 


—  li  — 

paravano  tatlavia ,  quando  il  popolo  proruppe  (p.  112  v.  1).» 
E  la  Cronica  narra  forse  il  fatto  divci'saraente ?  I  Baroni, 
«  tutti  SMurdati  a  un  vuliri  »  erano  in  l'alcrmo  «  per- 
fari  la  rebellìonì;  »  ma  è  un  francese  che  dà  occasione  al 
tumulto  di  S.  Spirito,  insultando  una  fanciulla,  <  dì  cM 
»  la  fimmina  gridau,  et  horaini  di  Palermu  cursini 
»  (juìUa  fimmina,  e  riprisirnsi  in  briga,  et  in  quilla  bi^ 
»  intisini  quisti  Baruni  preditti,  et  incalzaru  la  briga  contr» 
1  li  Pranzisi  cu  li  Palermitani,  et  li  hominì  a  rimuri  (fi 

>  petri  e  di  armi  gridandu  inorami  li  Franzisi  intram 

>  intra  la  gitati  cu  grandi  rumuri.  »  I  congiurali  a  fare 
scoppiare  la  ribellione  sì  avvalsero  del  tumulto ,  intt^tru  i» 
quitta  briga  soffiandovi  sopra,  e  incalzarli  la  briga  coni™  ti 
Franzisi,  sì  che  gli  uomini  di  ì'aìermo  qttantu  Franm(M 
trovavanu  tutti  li  aucidiam;  e  pei'ò  «  quando  lì  Baroni  dì 

>  Sicilia  sì  appiru  vidutu  tuttu  quistu  fatlu,  tutti  si  ndì 

>  andaru  in  loru  terri,  e  lìciru  lu  sumìgliantì  ìn  tutta  la 
•  Sicilia,  salvu  Missina,  chi  adimandau  un  certu  tempu  (1).  i 
Non  è  questa  appunto  la  storia  rhe  danno  i  documenti  t 
Senza  clic  la  congiura  avesse  soffiato  negli  animi .  e  preso 
r indirizzo  del  tumulto,  questo  si  sarebbe  restato  a 
Icrmo ,  e  non  avrebbe  mossa  la  ribellione  di  tutta  V  Isolai 
gli  animi  erano  disposti  a  sollevarsi  sì  dalle  violenze  àe\U 
mala  signoria  e  sì  dalle  trattazioni  scerete  con  l' Aragonesflj 
il  tumulto  di  S.  Spirito  fu  l'occasione  perchè  si  levasH 
la  ribellione,  già  macchinata;  e  cacciati  a  punta  d'arme  i 
Francesi,  sì  chiamasse  a  re,  pe' diritti  della  moglie  Go- 
stanza di  Casa  sveva,  Pietro  d'Aragona.  La  briga  di  S. 
Spirito  non  fu  scoppio  della  congiura  :  ma  la  congiura  ^' 
avvalse  dì  quella  rissa,  e  cosi  fu  fatta  la  sollevazione. 

Ma ,  conceduta  la  congiuia  e  la  parte  avuta  in  questi' 

(1)  V.  Croiiidio  SicUiaju  Uè  saatli  Xlil,  XIV  e  XV,  ed.  cil.  psg. 
132-133. 


—  15  — 

ilal  Profida,  come  assolverlo,  si  diretjlie,  tlol  tradimenru 
rimiro  re  Federico  e  la  Sicilia ,  (piando  lascia  la  Corte  di 
Palermo,  e  va  a  ripararsi  in  Corte  di  Roma  favoreggiatricc 
ìlìan  dell'  Angioino  di  Napoli  contro  Sicilia  ?  Giovanni  par- 
lira  da  l'alenilo,  sotto  vista  di  accompagnare  la  regina 
Costanza,  insieme  a  Rogero  di  Loria;  e  questo  valorosis- 
simo Ammiraglio,  uscito  dell'Isola,  ove  le  sue  castellasi 
tommovevano  contro  re  Federico,  già  ritoma  nemico  di 
Sicilia  ad  offenderla  per  parte  de' reali  di  Napoli:  il  tra- 
ilìmeulo  è  confermato  da'fatti.  Per  noi,  quanto  al  Procida 
i  latti  segnili  alla  sua  parlila  da  Sicilia  non  confermano  in 
anlla  l'accusa  dell'Amari,  più  cbe  provala  dalla  storia  ri- 
sfwtto  a  llogcro  di  Loria;  e  il  passo  della  Cronica  di  Ma- 
rino Santido  puliblicato  dall' Hops,  cioè,  die  a  quella  pace 
the  re  Giacomo  trattava  con  Casa  Angioina  e  col  Papa, 
l>erc(iù  avesse  fine  la  lunga  guerra  del  Vespro,  «  asseii- 
liruDO  la  Regina  Costanza  e  Miser  Zuan  de  Prochita;  » 
UnlAchè  poi  I  Miser  Zaan  de  Prochìla  andò  ad  inchinarsi 
•  al  1>apa  con  una  sua  Tiglia,  e  fu  assolto,  e  tolto  in  gra- 
>  m  della  Chiesa;  n  non  fornisce  contro  il  Procida  armi 
più  valevoli  che  contro  la  Costanza:  né  si  debba  dire  tra- 
dimento il  desiderio  di  pace  dopo  circa  venti  anni  di  guerra 
ODde  Sicilia  fu  desolata,  tanto  da  far  cedere  ad  accordi 
r«roico  Federico,  al  quale  dovrehhe  toccare  la  stessa  accusa 
ilei  lYocJda  se  guardiamo  alla  pace  di  Caltahellolta  e  agli 
ultimi  anni  del  suo  regno,  o  alle  speranze  non  soddisfalle 
Je'ghibcUini  della  penisola.  C'è  poi  documento,  il  quale, 
benclrè  negativo  [  né  positivo  ce  n'  ha  alcuno  )  vale  più  che 
lUro  a  sostenere  intemerata  la  fama  del  ]>rocÌda ,  per  niente 
pwteci)ie  alta  fellonia  dell'  Ammìra^'lio.  Il  documento  è 
tra' diplomi  raccolti  nel  volume  di  Mss.  segnalo  Qq  G  I 
della  Bihiioleca  Comunale  palermitana,  ed  ò  un  bando  di 
fellonia  che  re  Federico  manda  a  un  suo  ofhciale  contro 
Hopero  di  Loria,  già  traditore  di  Sicilia:  nel  quale  docu- 


—  IC  — 
mento  Qon  si  legge  paroln  che  accenni  a  Giovanni  di  Cro- 
cida, compagno  nella  partenza  da  Sicilia  al  Loria,  ma  non 
partecipe  del  costui  fallo  (1).  Né  co'  tanti  regali  che  e  re 
Giacomo  e  re  Carlo  dispensavano  al  Loria  (2),  qaasi  a  pre- 
mio di  sua  defezione  da  Federico,  ce  n'è  almen  uno  per 
Giovanni,  uomo  non  secondo  né  per  nome  né  per  im- 
portanza di  suo  slato ,  al  battagliero  Ammiraglio.  Anzi  nel 

(I)  Ecco  il  documenlo:  »  1297  —  Ex  auelographo  inslrumenlo 
recondito  in  Regio  Tabularlo  Barellinone  in  area  Charlarum  et  Bul- 
larum  Papatium  prò  facto  Sicilia  tempore  Dni  laeobi  teeundi  Aragonia 
et  SieiliiB  regi»  olim. 

FrHlericas  Torlius  Dei  gralia  Rgx  Sicilix.  Ducatas  Apuli»  et  frin- 
djialus  Capuat,  Nolum  faciuius  uniTcrsìs:  Quod  confisi  de  fide  el  legali- 
raic  NoMlis  Itaymundi  Fulconìs  Vice  Cornilis  Cardons  dilccii  devoti  no- 
stri, consiituimus  et  ordinainus  eum  loco  ci  prò  parte  nostra  ad  impe- 
Imdum  scD  mpiandum  et  accusandum  Rogcrium  de  Lauria  Militem  de 
iiilegalitate,  et  prodiciune,  ijiiod  ipsc  abnei^ata  fide  et  dominio  nosirìs, 
nipioquc  hoinagio  ei  violato  «icrainenlo,  quod  noUs  tamquam  Vassallus 
naturalìs  Doniino  ore  et  mauibus  praistilil  ci  Jnravil,  et  quibus  nobis 
tenebatur  adslriclus,  conlra  Majcslalcin  nostrani  prodicionis  committens 
crinien  et  couirn  fìdrm  suam  veniens  adhx^t  bostibus  nostris  cum  eis 
contra  nos  et  (,'CDlcni  nostram  amictliam  copulaTil,  nitendo  Iraclandoet 
procurando  quoil  nos  bonorcm  lerrenuni  et  terraro  nostram  pcrdcremus. 
Danics  et  conccdentes  ei  tenore  pncseniiuin  potestalem  accusandi,  reptandi, 
ci  convìncundi,  scu  Tacicndi  convinci  cundem  Ro^erium  de  prxmissis  pe- 
lenito  de  lioc  fieri  ducllum,  seu  pugnani  sccunduin  usum   Eiarchìnonun- 


t  djploi 


I  di  r-e  Catlo  in  cui  si  parla  di  restitazione 
al  Procida  de'  beni  conSscati.  in  virtù  di  patii  statuiti  con 
re  Giacomo ,  non  e'  è  parola  di  lode  o  che  accenni  a  ser- 
Tìai  resi  dal  coDvertito,  o  a  prezzo  di  tradimento;  e  quando 
.«'ÌDTesle  della  signoria  e  del  titolo  del  Gastcllu  di  Procida, 
DOQ  il  primogenito  di  Giovanni,  ma  l'altro  Gglio  Tommaso, 
à  rinùccìa  al  primo  l'infedeltà  (e  già  Giovanni  era  morto), 
si  accusa  di  nan  aver  voUito  pigliare  la  difesa  del  Regno 
allora  pericolante  (in  tanta  discrimine  positi),  e  si  dice 
diiaramenle  lineila  nuova  investitura  esser  fatta  ■  prmi- 
p*K  prn/iler  multa  graia  et  accepta  servìtia ,  qua:  dicHis 
tìtomasitts  poslqwim  ad  ctiltum  uostrip  /idei  rediit  fideliler 
trhiiere  eararit,  et  qute  in  jìoslerum  ipsum  prmtare  spe- 
nmus  (1).  So  il  padre  ei-a  toi-natu  fedislo  a  Casa  Angioina, 
pwrtiè  re  Carlo  non  fa  mai  lode  di  questo  rinsavimento? 
anzi  il  ricordo  d'infedeltà  e  di  prodizione,  e  la  nuova  inve- 
stitura ,  non  avrebbero  avuto  più  luogo.  È  invero  un 
po'oirioso  il  rileggere  contro  il  Procida  le  fierissime  pa- 
role die  sono  a  p.  13  e  6!»  del  voi.  2.°  della  Guerra  del 
Ve^ro,  fondate  sopra  documenti  clic  già  furono  dal  llu- 
liieri  e  dal  De  Renzi  interpretati  e  corretti  secondo  la  loro 

É,  La  lunga  nota  di  p.  69,  nella  quale  l'Amari  vuol 
argomento  al  sito  partito  da'  due  documenti  pub* 
dal  Kubieri ,  non  risponde  alla  bella  interpretazione 
k  di  essi  due  diplomi ,  che  sono  due  epistole  di  Papa 
izio,  esso  il  Rnbieri  nel  suo  libro,  %  XI.  e  XII.  Né 
per  gli  anni  innanzi  al  Vespro  crediamo  di  motta  impor- 
i  l'alio  di  Vilerlio  del  28  agosto  1267,  citato  dall'A- 
n  questa  ultima  edizione  della  sua  storia  (v.  2,  p.  410), 
"•  provato  che  pur  dopo  la  disfatta  di  Benevento 
dda  già  disponeva  di  suoi  beni  esistenti  nel  Regno, 
ì  eternava  il  vincitore  di  Manfredi.   Glie  cosii  signìli- 

Ijt)  T.  lUpluaia  del  911  >eU.  1300,  mi  Cod.  ms.  di.  |>.  183,  18i. 

2 


—  18  — 
casse  lal^nóla  usata  da  Carlo  II  a  proposito  del  Procid 
(li  cui  dice  dtim  eral  in  gralia  palris  mslri,  lo  spi^ 
bene  colle  formole  feudali  del  tempo  il  De  Renzi  ;  e  qm 
fine  si  avesse  avuta  la  dotazione  che  Giovanni  faceva  alt 
riglia  protnessa,  itittocEiè  bambina,  a  un  fanciullo  di  Gas 
Caraccioli  partigiana  dell'Angioino,  basta  a  darlo  ad  inte 
dere  che  già  romoreggiava  allora  la  discesa  di  Corradim 
e  Giovanni  era  disposto  a  trovarsi  tra' primi  ad  accoglierli 
nel  Regno,  e  a  combattere  pei  legittimo  erede  di  Gas 
Sveva  contro  re  Carlo. 

E  qui  fermo  il  discorso  sul  Procida  e  su' fatti  e  I 
testimonianze  della  Cronica,  per  dire,  infine,  che  quesl 
testo  Vaticano  è  lo  slesso  che  la  Leggenda  Modenese,  trann 
la  mano  poco  perita  e  la  parlata  propria  dell'amane 
non  so  qiial  parte  del  Napolitano  o  della  Comarca ,  quam 
la  dizione  della  Leggenda  è  in  lingua  nobile  e   di  man 
toscana.  Uno  de' due  testi  suddetti,  qualunque  esso  siai 
stato  il  primo ,  fu  esemplato  in  origine  sul  testo  siciliane 
che  è  l'originale;  e  basterebbe  a  provarlo,   oltre  gli 
gomenti  da  noi  altrove  riferiti  e  rincalzati  dall'Amari, 
proemio  al  racconto  come  si  legge  sì  nella  Leggenda  e  i 
in  questo  testo   Vaticano,  niente  convenevole  a  tutta  I 
narrazione ,  ma  posto  a  sfogo  di  odio  ovvero  d' ira  di  part 
contro  il  Procida  dal  trascrittore  che  lo  esemplava  sull 
Cronica  siciliana.  La  frase  di  questo  testo  Vaticano  è  seta 
pre  italiana  e  propria  del  volgare  illustre ,  quantunque  nell 
forma  delle  parole  e  nella  grafia  usata  si  scotte  la  pai 
lata  plebea  del  menante;  e  da' riscontri  infatti  che  all' uop 
si  fanno  de' tre  lesti,  o  por  dar  luce  alla  locuzione,  o  pt 
difetto  ovvero  eccellenza  che  sia  in  uno  anziché  in  alti 
di  essi  testi,  scorgi  le  parole  stesse  e  la  frase  medesim 
che  hai  nella  Leggenda,  meno  le  storpiature  e  l'abbon 
danza  delle  vocali  e  lo  scambio  e   ìl  r.iddoppiamento 
consonanti,  onde  .tpecìalmente  si  distingue  questo  tesi 


—  19  — 

Vaticano  dal  modenese;  i  quali  due  si  riferiscono  è  vero 
entrambi  al  siciliano  che  n'  è  la  fonte  e  V  esemplare  primo, 
ma  tra  loro  trovi  ia  differenza  che  si  rileva  tra  le  prime 
prove  di  stampa  e  la  nitida  tiratura  di  uno  stesso  foglio. 
Ho  poi  divisato  pubblicare  il  testo  cosi  come  si  legge 
con  tutte  le  scorrezioni  e  la  barbara  grafìa  del  codice ,  per 
la  ragioDe  die,  pubblicandosi  ora  la  prima  volta,  possa  il 
lettore  quasi  avere  sott'  occhio  lo  stesso  codice ,  e  studiarsi 
eoa  meglio  la  orìgine  e  i  riscontri  a  proposito  col  testo 
siciliano  e  con  la  Leggenda  modenese.  Se  non  che ,  questi 
riscontri  die  il  leggitore  potrà  fare  a  suo  talento ,  io  V  ho 
&tti  solamente  pei  passi  oscuri  e  difficili  a  intendere,  quasi 
dando  nel  luogo  riportato  sia  della  Leggenda,  sia  della 
Cronica  siciliana,  la  spiegazione  al  luogo  di  questo  testo 
poco  0  niente  intelligibile.  Né  ho  creduto  apporvi  note  fi- 
lologiche di  sorta;  essendo  questa  pubblicazione  non  per 
giovani  e  novizii  in  questi  studii,  ma  pe'maestri  che  ne 
saprebbero  all'uopo  assai  più  che  non  ne  sappia  il  suo 
editore. 

Palermo,  15  febbraio  del  1870. 


Vincenzo  Di  Giovanni. 


LIBER  YANI  DB  PROCITA  ET  PALIOLOCO  (D 


Se  voleti  ascoltare  et  intendere  o  eu  vo  contare  e  dimo- 
strare apertamente  lo  gran  peccato  et  uno  pericoloso  (allo  che 
feze  et  ordino  misser  Giani  de  procita  de  Salerno  in  cootra  lo 
re  Karlo  di  si  grande  tradixione  che  feie  centra  se.  Onde  si 
se  dole  et  piange  la  gasa  de  roma.  Ella  cassa  di  franza  e  lor 
amici.  E  però  prego  lo  meo  factore  magistro  fino  che  a  mi 
done  gracia  e  virtù.  E  dia  a  la  mia  lingua  bona  memoria  de 
recordarese  e  descrivere  il  tenore  del  fato  el  modo.  £1  dito 
perfido  homo  misser  Giani  feze  rebellare  lisola  de  Cicilia  da 
la  segnoria  del  grande  Re  Karlo  Re  de  Cicilia  e  de  gerusalem 
e  de  probenza  conte  edangio  (3)  che  era  MCCLXXVIUI  misser 


(I)  Questo  codice  Valicano  e  la  Leggenda  modenese ,  meno  il  lilolo 
hanno  lo  slesso  proemio,  che  non  si  legge  nella  Cronica  siciliana,  origi- 
nale de' due  lesti  Vaticano  e  Modenese,  ed  è  una  giunta  che  d  disac- 
cordo con  tutto  il  contesto'della  narrazione,  la  I.egpnda  modenese  ha 
per  tìtolo:  •  Qui  eomineia  tu  leggenda  di  Mmter  Gianni  di  Pro- 
cida  >  e  il  proemio  è  questo  :  <  Volendo  dimostrare  apertamente  a  cia- 
scheduno il  gran  peccato  e  'I  periglioso  (allo  che  fece  e  contrasse  messer 


lo  Ut  eaiio  nvcvn  preso  uaa  guerra  colo    Re  de  greci»  chi 
m  giaraslo  palioloco  e  fczc  armare  multe  de  nave  e  de  ga- 
lee per  pasaie  io  grecia  con  tulo  il  so  ìsforzo.  Et  erano  Jnvì- 
uu  tuia  la  bona  zenle  di  franza  e  di  provenzu  e  dilalia  per 
leocere  e  segnorezare.  Allora  il  dito  pessimo  crudele   misser 
Gàm  de  prociia  isl^ndo  en  lisola  dì  Cicilia  penso  come  elio 
(Messe  desirurre  e  menare  il  pasage  chavea  lo  Re  cario  or- 
dinasoucra   lo  palioloco  anlerile  (1).  E  come  potesse  cadere  e 
itestnirre  e  menare  a  morte  lo  Ro  cario,  E  chose  potesse  re- 
Mlare  il  r^no  dì   Cicilia  tulo  Como  piaze  al  inimico  chel 
menala  el  teneva  (?)  venegli   pensato  dandare  in  grecia  per 
paHare  col  dito  palioloco  a  pensare  corno  il  suo  penserò  ve- 
nisse ìd  alTetto:  Allora  si  se  parli  misser  Giani  de  procila  per 
VI  ffns^roa  et  inlro  in  mare  et  andò  verso  quello  palioloco  e 
NUDse  iu  costaiuiiiopolo  e  mando  per  duj  cavaler  li  (jualli  d'ano 
rubellj  de  lo  Re  cario,  el  acoutosse  a  loro  multe  zellatamenle 


^^^t  ifi'r  JII' (Iella  Colleiiooc  di  opere  inolile  f  rare  ecc.  per  cur:i 
^Hk  B.  Cominìssionc   pe'TMti  di  Uaguj,  Bologna,  Romagnoli,  1865. 
^^^Btacii:  •  A  li  milli  dui  cenlu  setlantanovi  anni  ili  la   Incarnalinni  di 
^^^fell  Mpiuri  Jeu  Cristi!,  Iu  Re  CaHu  stÌo    prìsa  una   in^iiidi   guerra 
m  In  Impi^ratarì  Piagatola  di  Ituntania;  e  per  quilla  guerra  Iu  dlllD  Re 
CvId  Iki  lari  iddIL   nari  grossi   e  galeri  per   passar!  in    CosUnlinopoli 
MB  Milo  Iu  so  sform,  e  supra  ià  havia  invitala   mulM  bona    genti  ili 
I  r  di  Provenza  e  d'Italia,  chi  li  [acissiru  cumpagnia  a  quìllu  pas- 
■  per  pnliri  vinciri  k  Plagalogu  e  tutlu  In  so  imperiu  di  Raniania.  > 
^(t>  lùrido  potrcbtte  leggersi  :  <  ordinalo  ter  a  lo  Palioloco  a  niente  > 
ordinalo  n'era   lo    Palioloco  a  niente  >.  I.a    Leggenda  lin: 
(  peosù  MCGODte  (tolesse  slmgg»'e  e  menare  il  detto   passaggio   al    ne- 
nie •  -  La  {'.ronica  siciliana:  •  si  pinsau  io  chi  modu  putissi  slurbari 
l'aulut,  h  i)iiaU  avia  làUa  Iu  re  Carlu  conira  Iu  Plagalogu  >. 

{ì)  Qar$lo:  t  Como  piau  al  inimico  chel  menava  el  teneva  >  si 
trfgr  pure  nella  Leggenda  modenese,  e  manca  nel  testo  siciliano,  poi- 
àà  è  giunta,  conforme  al  proemio,  dell'amanuense  guelfo,  sia  siato 
,  sia,  come  più  probabile,  di  questo  cod.  Vaticano,  sul 
i  essere  trascritta  la  Leggenda,  per  ragione  delle  parole  con 
,  le  quali  uon  sono  né  nel  lesto  siciliano,  nà  in  questo  Vaii- 
1  [àìi  in  li  clic  non  i  due  lesti  puddelli. 


—  sa- 
per quello  che  venia  Ìd  quelle  pane.  E  quele  li  domindo  per 
quc  era  venuto.  E  quello  rispose.  Sicom  homo  descazato  di  sua 
icpac  vome  per  lomundo  percazanJo  mia  viia  (1)  pero  vi  pi^o 
che  mi  acontati  col  palìoloco  &e  me  volesse  a  famegla  volen- 
tcra  demorareve  coluj.  E  pregove  che  mi  acoatate  e  metitom 
avanle  Lui  di  grande  essere  (3).  E  sono  homo  che  so  degne 
magistere.  Li  cavaleri  udiendo  questo  furou  multi  allure  e 
disseoo  che  volunlera  la  farcbeno  quella  ambaysala.  Et  incoD- 
tanenti  andorne  al  palìoloco  e  disseuo.  Misser  cosi  ti  dizamo 
che  nuy  te  portarne  bone  novelle  che  de  lo  regno  dì  Cicilia 
ce  venuto  lo  melglor  magistro  di  fìsica  che  fusse  al  mundo 
lo  quallo  vene  a  slare  al  vostro  servigio.  E  dinamo  per  zerto 
clie  questo  el  pyu  savio  che  sia  e  quelo  che  melgio  sa  li  lati 
de  lo  Ile  cario  e  deli  soy  barone.  —  Quando  lo  palìoloco  io* 
tesse  questo  fue  multe  alegro  e  comandoe  che  fusse  maialo  a 
luy  in  el  palagio  chello  volia  vedere.  Allora  se  movo  li  diti 
eivaleri  e  menaron  il  dite  misser  Giani  de  procita  davanze  al 
palioloco.  Onaodo  fu  davante  luy  fecelli  reverencia  Como  a 
segnore.  £  quello  lo  ricevete  alegramente.  E  fezello  so  magì- 


(I)  I.a  Legenda  modenese  manca  di  questo:  «  Tome  per  lo  mDDdo 
percatando  mia  «ila  >,  e  porta:  t  rispose  e  disse  com'  era  discaccialo  di 
sua  lem  >;  nel  qnal  luogo  t'egr.  sìg.  Cappelli  annoia:  f  il  codice  ha 
ilj  mia  vita  *  ;  e  così  pare  cbc  il  menarne  della  Leggenda  stilava  le 
parole  tua  (era  e  vome  per  lo  mundo  ptreazatulù ,  legando  Sic- 
coir'  /ionio  ttusca^ato  di  mia   vila    invece  di  irascrirere  l' il 


—  aa  - 

I  BMcrale  e  con&ilglere.  £  dice  die  stando  i 


[ 

^^pl  cune  cra^U  Culo  multe  tioitore  dn  luta  genie.  Maado  a 
HpHglesi  et  a  dciljani  Quasi  laverano  Tallo  lor  capo  (I).  Dice 
^'cfte  stando  misser  Giani  solo  col  palioloco  ilisselgle  tmpera- 
lore  tiofdina  per  ileo  uno  seg^reto  loco  lo  «tualo  sia  segreto 
che  homo  spiar  noi  possa  lo  nostro  conseglo.  Allora  disse  1 
l>3ljoloct>  ctie  e  io  Giani  clic  ine  vo  parlar  in  segreto  loco.  K 
ijueilo  lor  li  ilisiio  per  lo  maior  besogiio  die  sìa  al  mundo  li 
vulne  (zirlare  falle  zo  sia  tosto  per  ileo.  Allora  dice  0  anda- 
ri>mo  sopru  la  porta  ili  (JostantinoiKiUo  la  ve  lo  segreto  loco. 
1.1  sue  »L-i  il  lesorio  del  palioloco.  E  i|uelIo  disse  or  siame 
00)  bene  in  segreto  loco,  or  di  misser  Giani  zo  die  piaza  in 
luto  a  voi.  Allora  disse  misser  Giani.  Imperatore  cheunctia 
tibia  per  savio  e  prò  no  ctieu  to  per  lo  conlrario  per  stuldo 
e  Iter  vilo  xicomo  la  l)estta  die  nosi  sente  se  none  locala  col 
nillello  niortallc  die  tri  mesi  e  più  so  stalo  in  tua  corte  e 
DO  lo  oditi)  Ite  parlare  ne  pensare  del  (o  perìculo:  ni  a  de- 
feosa  di  qiidlo  pericolo  che  a  dosso  li  veni.  Or  non  pensa  tu 
multo  e  pazo  elle  lo  Re  cario  lì  ven  a  dosso  per  lorle  lo  Rc- 
«nuiitc  et  occidere  lo  to  legnazo.  E  vene  coluy  quello  ki  de 
raion  e  sua  costantinopolli  zoe  l' imperaior  baliloyiio.  E  venie 
a  dosso  con  luti  li  cristiani.  E  con  C  galee  ben  armale.  E 
con  XX  «avi  grosse.  E  con  X  m  cavaleri  ben  adobati.  E  licn 
eoo  XL  conte  co  loro  masnadieri  per  conqideie  le  e  tuta  tua 
gente.  E  questo  abie  per  cerio:  — 


(t)  Qù  più  correiumemc  b  Leggenda:  «  E  dice  die  stando  per 
dai-  inrsi  ia  sua  corte  %ìi  i>ra  Tuuo  molto  grande  oiiore  da  tutta  gelile, 
UB  Ja  Pugliesi  e  ib  Ciciibni  pib ,  1  quali  a'  avevano  tatto  loro  capo  di 
lai  i.U  Haivlo  a  yolgleti  ti  a  cieUìani  quasi  laveoano  fallo  lor  oapo, 
ilorn'Uu  leEgei>Ì  t  Ma  Ju  polgli-si  et  da  ciciliani  quali  Invevano  tnllo 
tur  «twi  1.  Si  noti  dir  questo  dice  taolo  della  Leggenda  cbe  ili  questo 
leìlo,  rìpFlDto  più  volte,  è  provu  the  si  trascrìveva  da  altro  leslo,  ri. 
tioDlu  come  r  originale  della  uori'aiione;  ne  questo  dìee  iiiRilli  si  trova 
nd  ti-alu  Ncillanu  ;  i[uanluui[ue  il  ilici,  parlando,  sia  in  buccii  de'  sici- 
boi  un  lai  quale  riempitivo. 


—  24  — 
Lo  palioloco  .iiidicnilo  questo  comeDio  Torte  a  piangete: 
e  disse.  Messer  Giani  que  sole  keu  faza,  y  so  corno  homo 
disperato.  Eu  me  son  voluto  aconzare  colo  Re  cario  multe 
volle.  E  non  posse  trovar  coluj  ne  veruno.  Eu  me  sone  tor- 
nato alla  giessa  ài  roma  (1).  Et  al  papa  et  a  le  cardinali  noa 
me  valle  niente.  Et  allo  Re  di  Pranza  et  a  quello  dìngalterra 
et  a  qudlo  dispagna  et  a  quello  di  granata  veruno  di  questi 
Re  non  pon  trovare  conzo  coluy  (2).  Anzo  no  paura  da  morie 
di  lui  clic  non  ci  volo  ne  piar  parte  contra  luy  per  la  sna 
possanza.  Siche  eo  me  son  indurato  (3).  E  di  zo  sera  zo  ke 
poza  da  che  no  trovo  aiuto  da  neuno  Christiane.  Et  allora 
mìsser  Giani  disse  messeri  paholoco  mctriste  niente  ki  le- 
vasse di  dosso  questo  furor  (4).  E  quello  disse  zoo.  Ki  potesse 
fare.  Or  chi  sarebe  tanto  ardito.  E  quello  disse  eo  sero  quello 
che  menare  a  destruclione  lo  Re  cario  se  tu  me  voray  dare 
aiuto  it  Eli  sono  aveduto  di  zo  che  bessogna  (5)  però  li  piaza 
di  sbrì}{arle.  saze  che  mi  e  li  altri  soj  rebelli  ben  vendica- 
rome  li  onte  nostri  se  a  deo  piaze.  Allora  disse  el    palioloco 


II)  La  Leggenda  lia;  «io  mi  sono  ammesso  alla  ecclesia  dì  Roma» 
e  il  (lappclti  annota:  ammesso  per  ilirelto  o  presentato  con  ItUnre.  Il 
testo  siciliano  ha  invece:  «  cu  mi  su  niisu  in  pudri  di  S.  Clesia  dì 
Ruma  > ,  e  mi  pare  cbe  questa  stesso  voglia  dire  1'  ainnusso  della  Leg- 
genda, quasi  rriiMio  \i\  mani.  Qui  tornalo  lia  senso  dì  rivolto ,  dirello, 
se  pur  la  lezione  sia  bene  interpelraia. 

(3)  (  Non  pon  trovare  codso  co  luy  ■  cioè,  non  ponno  trovare 
accorilo. 

(3)  Cosi  pure  la  Leggenda:  ■  si  ch'io  niinde  sono  induralo  >:  ma 
clic  vale  questo  induralo?  h  me  pare  dovrebbe  lecersi  indusitio  (in- 
dugiato), e  cosi  avremmo  il  sejiso,  cioè,  non  avendo  potuto  aver  ajuli, 
sono  stalo  ad  aspettare  senta  saper  che  tare. 

(4)  La  Leggenda:  «  Mess.  Pallialoco;  nielleresti  tu  neente  ch'I'  li 
levassi  di  dosso  qui-slo  furore  e  questa  morie?  >  Meglio  il  testo  >ici- 
liano:  ■  lior  cui  li  tirassi  di  svpre  tutta  quislu  fururì  el  qnisla  morii 
et  atfonnu,  iDirilirissilu  lu  dì  alcuni  com?  t 

(5)  Questo  e  il  Eu  sono  avcduio  iti  xo  che  bessogna  i  la  Legpmki 
legge:  t  II  mìo  senno  ha  veduto  ciò  die  bisottna  >  Ma  il  lesto  ^iii- 
liano:  <  et  eu  vidirù  zAchi  hìsognu  li  sarrà  >. 


—  28  ~ 

io  qual  modo.  E  quello  disse  el  modo  no  te  diroe.  Ma  se  (u 
mimproinite  di  dare  C  m.  onze  doro.  £o  faro  venire  uno  chi 
torà  la  tera  di  Cicilia  a  lo  Re  cario.  E  darà y li  tanta  briga 
che  di  qua  may  non  passera.  Allora  il  palioloco  fo  molto  ale- 
grò  e  disse  toto  lo  meo  tesauro  pigia  se  te  piaze  e  fa  ke  sia 
tosto.  Misser  Giani  disse.  Or  me  zurate  credenza.  E  sagelare- 
teme  lelre  de  questo  che  vo  me  preferite.  Et  eo  me  partirò 
in  questo  modo.  E  cercaroe  tuto  lo  fatto.  Et  incontanente  fo 
fato  il  sacramento  e  sagelate  le  letre.  E  partirou  si  eu  questa  sera 
la  mia  pania  (1)  perche  no  se  spiase  dil  fato  niente  vo  me  fa- 
rete dare  bando  et  apellaretime  traditore  davanze  daly  amici 
e  dal  popolo  E  direte  cheu  vabia  offesso.  E  pare  cheu  mi 
foga  per  questa  caxione,  xiche  nexu  sapia  nostra  credenza 
niente.  E  zo  che  pensaromo  vegna  fatto.  E  son  partiti,  da  poi 
parloDO  io  grande  godio  luno  co  laltro  (3):  Or  se  mete  mis- 
ser Giani  intel  dito  anno,  e  viene  in  Cicilia  vestito  a  guisa  dun 
frate  minore.  E  parlo  con  messer  a  lamo  da  lelitino  (3)  ba- 
rooo  ciciliano.  E  messer  palmere  abate.  E  con  i  altri  barone 
dil  pagesse  e  dise  a  loro.  0  misseri  venduti  come  cani  e 
sdavi  malventurati  chavite  li  cori  vostri  come  petra.  Or  nove 
movente  mai  voleti  stare  pur  servi  potendo  istare  segnore 
vendicando  lonte  vostre.  Allora  pianseron  tuti  quanti  e  dis- 
seoo.  Misser  Giani  comò  potromo  altro  fare.  Non  sai  tu  che 


(1)  Questo  e  E  partirou  si  cu  questa  sera  la  mia  partia  «  è  assai 
cooruso.  n  testo  siciliano  legge  :  t  Intandu  lu  Imperatori  fici  sacramento 
a  Misser  Gìoannì,  e  partirò  dilla  di  quilla  cammera  :  di  chi  Messer  Gio- 
anni  dissi  a  lu  Imperaturi,  signuri,  eu  mi  voglia  partiri  di  vui  in  qui- 
sln  modo  >  Cosi  il  passo  si  rende  intelligibile  leggendo:  e  E  partironsi, 
e  Misser  Gianni  disse  questa  sera  la  mia  partia  i.  La  Leggenda  è 
pare  un  pò  confusa;  e  però  T editore  dovette  leggere;  e  Fu  fatto  il  sa- 
cramenio,  e  disse:  Partosi,  e  questa  sia  la  mia  partita,  i  Senza  il  disse 
aggiunto,  sono  le  parole  stesse  di  questo  testo. 

Ci)  La  Leggenda  :  e  e  sono  parliti  da  più  parlare  in  grande  gaudio 
r  uno  dell'  alu*o.  i  II  testo  siciliano  :  e  Intandu  si  partiu  V  unu  di  Y  au- 
tra  cu  grandi  alligrizza  e  confortu. 

(3)  l^jrgi:  Alaimo  da  Lenlino. 


no  siimmo  a  tal  segnor  che  zamay  non  serannie  franclii  per* 
(|ucllo  kt>  xi  ponderoso  (1).  E  quello  disse  Axevelmenlc  vene 
posso  Irare  purché  no  vociati  fare  quello  che  ordinare  di  fare 
per  li  noslri  amici.  E  quel!  diseno  iriSne  a  morie  vignaremo 
fa  de  nuy  zo  che  vogie  (2).  Che  ne  convera  rei>elare  luta  la 
lera  di  Cicilia  ze  pò  kc  ordinalo  per  li  segnore  di  qnel  si- 
gnore sarei!  multi  contenti  et  alegre  di  sua  segnorìa.  AJlonk, 
disse  misser  guallcr  de  calatugirone  eomo  pò  essere  zo  che 
voi  dite  habiamo  lo  più  potente  segnore  a  dosso  che  sia  infra 
chrisliani  e  dì  più  podere.  Onde  questo  piensere  mi  par  vano  :  — 
Quando  misser  Giani  di  procila  odi  questo  disse  credile 
voy  cheu  me  fose  impresse  a  fare  uno  si  grande  fato  si 
eo  non  avesse  in  prima  pensato  20  ke  era  in  prima  da 
fare,  e  eomo  devesse  andare  il  fato.  Voi  non  avite  a  fare 
ma  una  cosa  (3ì  che  voi  me  legnati  credenza  almen  uno 
anno.  E  vedente  per  oura  fare  lo  falò  vostro  (4).  Allora 
furon  tuli  acofdati  e  zurati  credenza.  E  sagelaro  le  tetre  a 
messer  Giani  in  questo  modo  :  —  Al  grande  e  gentile  homo. 
Messer  Pero  di  ragona  Re.  siciliano  palmere  abate  e  gualteri 
di  calatagiroue.  e  li  altri  barone  de  lisola  di  Cicilia  salute  e 
recomendatione  di  lor  persone  sicomo  homini  venduti  e  sfr* 
gnorezali  cum  bestie  no  si  recomandemo  et  avo  et  ala  vostra, 
dona  di  ragona  nostra  a  cuy  devemo  portar  lianza  (5).  Mao- 

(])  Cioè:  per  quello  che  è  si  poderoso,  si  potente. 

(3)  La  Leggenda;  In  fino  a  morte  ti  segoileremo ,  fa  por  noi  ciò 
che  foli.  >  Il  lesto  siciliano:  t  nni  simu  apparìcchiali  tli  seguirili  Sua 
alla  morti  ». 

(3)  La  Leggenda:  f  Voi  non  avete  a  lare  altro  cli'uM  cosa  >:  a 
però  questo  t  ina  una  cosa  *  dovrebtie  leggersi:  ca  una  cosa.  0  cha 

{i)  l.a  Leggenda  :  f  e  poi  vedereie  fare  per  opera  i  &tlj  noslri.  1 
Il  testo  siciliano:  t  vidiriti  per  opere  li  uoslri  Talli  »;  e  meglio  che  lo 
fato  vottrv  di  questo  lesto. 

(5)  La  Leggenda  piti  carré llam enle  :  <  Siccome  uomini  Tenduti  e 
subjugali  come  bestie  vi  ci  raccomandiamo  a  voi  ed  alla  vostra  donna  , 


la  ({uale  è  di  ra (rione  n 


I  donna 


i  doven 


—  27  — 
e  (lebiaii  (rare  di  servii 
nnMri  inimici  sicomo  trasse  nioise  il  popolo  Ji  mauo  di  fum- 
UDe  che  no  poasamn  lenire  per  sesnore  il  vosiri  fioli.  E  ven- 
dicare di  V  perfliii  lupi  die  ce  devorano.  Quello  che  no  se 
poli  scrivere  credcle  ale  parole  dì  misser  Giani  noslro  se- 
creto: —  Quando  ebbene  sagelale  lor  letre  si  s^  parti  et  dito 
ìtessrr  Giani  da  lor  e  ilise  che  devessero  lenir  credenza  zo 
chera  ordinalo  di  fare  E  moslro  a  lor  le  letre  kel  palioloco 
h  avea  dnlo  e  dito  dì  Tare.  E  corno  avea  proferta  multa  mo- 
neta e  rurale  credenza  e  compagnia  colioro  e  con  luti  li  i-c- 
belli  di:  Io  Re  cario  e  ile  la  sua  gente  e  cosi  se  partirono: 

In  quello  tempo  segnorezava  e  selhia  in  la  apostolica  seda 
mister  lo  papa  Nicola  romano  dinprima  so  nome  era  misser 
Gunì  gaylane  di  la  cassa  dolgorsioi  di  roma  (Ij  El  uno  die 
isiaudo  in  una  terra  cha  nome  soriano.  Venne  misser  Giani 
da  procita  e  disse  padre  santo  eo  voreo  parlare  con  vo  in  uno 
secreto  loco.  El  pupa  disse  ke  volenter  e  che  ben  lo  cono- 
sceva, e  volenlera  lo  servirebe:  AJlora  disse  misser  Giani,  pa- 
dre santo  che  tuto  lo  mundo  manlene  in  pax  Que  de  ef^ore 
rie  quello  misseri  tapini  diseazalì  de  lo  regno  de  cecilia  e  de 
pagla  che  non  trovano  icra  ne  togo  ni  albergo:  che  sono 
pczo  ke  lebrossi.  piazave  de  remelile  in  cassa  loro  che  son 
ben  chrìsliani  come  li  altri.  Allora  rispose  il  papa  e  disse. 
Come  li  posse  eo  adiulare  contro  lo  Re  cario  nostro  fjlyolo 
lo  qualli  maoliene  noi  e  la  santa  gicssa  in  bono  staio.  Allora 
disse  misser  Giani.  Za  soe  bene  che  no  obedissc  li  vostri  co- 
mandi (2)  e  negli  curono  niente.  El  papa  disse  si  fa  e.  E 
quello  disse  Como  quando  volisti  parentar  co  luy  e   volisii 


lesta  siciliano:  <  »i  comu  lioiuiiii  vinduii  e  sugiugali  comu  lipsiii,  rì- 
{«ouiidaniur.:  a  la  vosira  signuria,  H  a  la  sìgnura  roslra  mu^llerì  la 
quali  é  notlra  «Ioana,  a  cui  nui  divìmu  puriarì  lianta  >. 

0}  La  Li^g^nila:  <  In  queWa  [empo  sì  gno  roggia  va  e  sedea  iiciro- 
paoolìcala  Sedia  ili  Roma  uiess.  Nicola  lerzo  papa  di  Itonia,  di  prima 
tao  suine  ine&s.  Giaoni  Gaetano  della  casa  delli  Orsini  di  Itoiiiu  i, 

li)  La  Leggnoda:  «  Giiì  su  io  clic  non  obbidio  in  niuna  cosa  i 
mtlri  rniiiaDituiieiili  cli'ìo  w  >. 


—  as- 
tiare al  nppoli  soy  vosir:i  nppola.  non  vossc  veditore  le  vostre 
lelre.  Ben  ven  devcrebe  fecondare:  — 

El  aliora  il  papa  3ud*ndo  questo  maraviglosse  molte  corno 
elio  lo  sapea  e  dicioe  conio  say  tu  zo.  e  cel  disse  perke  ve 
pullica  fama  per  tuta  zicilia  che  no  ve  vole  obedire  mente.  E 
non  vole  fare  parentado  cum  voy  ne  con  vostre  legnazi.  Al- 
lora il  papa  {o  multo  adirato  e  disse  volimlera  nel  farebe  pen- 
tire che  ben  e  vero  zo  che  tu  die.  E  misser  Uiaai  dise  ve- 
nuto homo  el  al  mundo  che!  possa  Tare  ciim  voi  e  con  eo  (1). 
E  quello  disse  corno  puote  essere.  E  misser  Giani  dise  se  vo 
voieti  dare  parola  eo  faro  tore  la  Cicilia  el  regno.  El  papa 
disse  Como  cbelle  de  la  giejta  (2),  E  quello  dise  eo  la  faray 
lenire  e  attendere  ben  linleressu  a  omo  che  volra  essere  vo- 
stro amico  e  Tedelle  (3).  £  che  vole  parentado  cum  vostro  le- 
gnazo  remetere  noj  (4)  elli  nostri  amici  in  cassa.  Allora  el  papi 
disse.  Chi  sarebe  quello  segiiore  die  zo  potesse  fare  e  che 
avesse  tanto  ardimento  e  che  fornire  potesse  un  tallo  fato.  È 
misser  Uianì  disse  se  volesti  tenere  zelato  soper  la  vostra  anima 
e  de  pena  e  di  periculo  eo  lo  dirò  bene.  E  monslrarovi  bene 
corno  essere  potè.  Allora  disse  il  papa  la  mia  fede  dilo  che  ben 
e  zelalo.  £  quello  disse  lo  Re  di  ragona  farà  zo  se  voy  voteli 
contendere  (5)  colla  forza  del  palìoloco  e  di  ziciliani  che  sono 

(t)  Questo  t  e  con  eo  >  manca  si  nella  |f>^geiula  modeiiese  e  à 
nel  leslo  siciltano,  il  quale  ha:  non  è  aiiionu  homu  a  lu  mundu  chi  In 
pozu  fui  accDssl  comu  vai  >.  La  Leggenda:  <  Niuono  uonto  hae  nel 
mondo  chc'l  possa  fare  me' di  voi>. 

(9)  La  Leggenda:  •  Come,  eh' A  della  ecclesia?  > 

(3)  Cosi  la  Leggenda  :  lo  la  ri  foni  tenere  e  rendere  bene  lo  censo 
ad  uomo  che  voglia  d' essere  vosU-o  Fedele  >.  Il  lesto  sicUiauo  lia:  ea 
lu  fino  tari  a  Sipurì,  chi  roli  essiri  ndili  di  la  Clcsia;  lu  quali  vi  rt»- 
dirà  beai  lu  tosIto  censo  *. 

(i)  La  Leggenda  pur  dice  :  t  e  rimellere  voi  in  vostro  luogo  >  :  mi 
dovrebbe  qui  il  lesto  dire  noi  non  i«i,  e  la  Leggenda  •  rìmeltere  noi 
in  noWro  luogo  ».  Il  testo  siciliano  correliamenle  Im  :  €  rimeiiirà  a  IDlti 
noi  in  nostra  locu  t. 

(5)  Questo  conlendere  sarebbe  eoinUndere,  cioè,  klendere  ins 
nella  cosa.  Cot^  la  Leggenda:  <  Il  re  di  Ragooa  fìirìi  àf>,  se  voi  vi 


—  i!)  — 
i  tmema  di  farlo.  Kl  co  son  procazHlore  di  zo  ftirc  (1). 
I  disse  il  papa  sia  Tulo  zo  che  volge  si  me  nioslrato  le 
k  .Utora  Jìsse  inisser  Giani:  zo  no»  potè  assere  Ma  sera  (3) 
*rt«  voAre  letro  Et  eo  ajiorlaro  ciim  quelle  die  o  al  dito  se- 
niore. E)  papa  disse  farolo  quanto  In  vole.  Feze  Tare  letrc 
e  sdgdare.  on  de  bolla  papalle.  ma  d' uno  sugello  caveva  de- 
Kuoe  quando  era  cardinale.  E  misser  Giani  se  parli  in  quc- 
tui  modo  dal  lupa  in  piena  concordia  et  amore.  E  dise  la  leti^ 
io  questo  modo  kio  vi  dico  qui  apresso.  Al  grande  karissimo 
Alialo  so.  pero  di  ragona.  papa  ntcola  nostra  bcnedictioiie.  Azo- 
ttw  (3)  li  nostri  lìdeli  de  Cicilia  non  sian  segnorezati  ne  zegliy 
boat  (i)  per  lo  Re  cario  ne  per  sua  zente.  si  pregomoti  die 
v^  a  scgnoreza)  per  noi  tolo  il  regno  e  pigialo  e  tello  per 
Ni  Crede  a  niesser  Giani  de  procitu  zo  che  dici.  El  e  zellata 
li  che  maj  no  sen  savra  nulla  pero  li  piaza  zo  ricevere  e  di 


mr  mieoiier<?  colla  torsi  liei  l'allialoco  e  de'  Ciciliani  i.  Ha  coireltanieDlc 
d  iHib  iKiliauo  legijo:  •  Sanlu  patri,  illu  »rà  lu  Ite  d'Aragona;  e 
i|gitt«  oiM  ùrri  cou  h  tana  dì  lu  Plagalogu,  si  rai  lu  tuIìU  consen- 
un,  e  CD»  bt  furia  di  li  sidb'aoi  >. 

(i)  Ij  lyfgendii:  €  ed  io  sono  [irocaucialorc  di  ch'i  Ikru  i.  Meglio 
il  IMO  ticdUno:  i  et  ea  ndi  su' procurati! ri  di  vi  *.  V.  noi  voi.  cit. 
tìk  Cronache  *ieiliane  ecc.  a  p.  ibi  la  nota  (28)  su  questo  passo. 

(S)  (}ueMa  lera  leggi  se  mi. 

(3)  Questo  Aivdie,  e  i^lla  Leggenda  Acciocché,   vale   concmsia- 

(t)  Quello  ne  leghy  boiìc  É  da  leggere  ne  redi  bone.  Così  la  l.ng- 
inida.  e  tùà  il  testo  siciliano  porla  unta  la  lellera  a  re  Pietro:  <  .\ 
la  CnfUaaiuima  Hgliu  nostra  Pelru  Ite  d'Aragona  Papa  Nicola  lerzu. 
U  nottn  beaeditioDÌ  ti  luandaiiiu  coiti  «aera  cosa ,  chi  li  nostri  ridili  di 
Sài»,  «icrniiriati  non  rìgiuti  txmi  per  lu  Ite  l^rlu,  si  vi  preganiu  e  cu- 
■nriMin  chi  niì  dlgiati  andari  e  «gnnriarì  per  nui  la  Isula  di  Sicilia  e 
i  mòSn,  dnnomluTi  talla  In  rcgnu  di  pigliar!  e  mantinìrì  per  nui,  si 
tmm  igKa  c«iuiui>talarì  di  la  Saoln  Matrì  desia  Itamana  ;  e  di  io  chi  ndì 
Mffiiti  cridirì  a  nisMr  Gioanni  di  Prociin  noatru  secretu,  tuiiu  quillu 
h  qwii  li  dirrA  a  bocca;  lenendu  cilaiu  lu  bitlu,  chi  jaminai  non  siiidi 
aecii  arali  :  e  [wrd  vi  plaia  priodirì  quisia  iniprisa  e  di  non   liiuìii  dì 

I  roH  chi  coatra  a  ti  volisii  oUendiri  >  — . 


—  ;ìo  — 

pigMre  e  Don  leDiere  Oe  uieute:  —  (^mo  questo  processo  Toy 
falò  e  segeluto  partisse  messer  Giani  e  prese  ad  andare  in  ca- 
telogna.  Allora  quando  fo  zunie  a  lo  Be  di  ragona.  feceli  lio- 
nore  asìay.  E  demorava  corno  homo  umano  col  He  (1).  et  era 
con  )uy  la  reginn.  Quando  fu  st,iiu  un  tempo,  menolo  una  sera 
in  maiolica  per  mare.  El  dito  messer  Giani  disse  a  lo  Re.  Eo 
voreve  parlare  con  voi  de  celato  duna  grande  credenza,  la  quale 
no  si  convene  sapere  o  per  die  o  per  note.  Elio  Re  disse  di 
seguramenle  zo  ke  vogle  no  li  dico  niente  se  no  me  ziiiri  cre- 
denza et  allora  ziird  credenza:  —  Allora  disse  messer  Giani. 
Messer  Pero  de  ragona  or  sapie  die  zo  che  te  dico  non  sen 
seta  nulla,  o  in  dito  o  in  fato,  peroche  di  lanto  periculo  ke 
sarixe  mortu  tu  e  luti  li  te.  Allora  lo  Ite  di  ragona  ebbe  grani 
dotanza.  disse  messer  Giani,  eo  crezo  clieu  so  venuto  tanto 
avanti  cheu  posse  fare  de  te  segnoie  del  muudo  se  mi  vote 
teniore  credenza.  Allora  disse  lo  Re  sì  faro  se  a  dco  piaze.  Al- 
Ioni  disse  messer  Giani  niisser  lo  Re  di  ragona  voresli  tu  ven- 
dicare de  le  ofTension  ke  te  sun  fnle  per  lontayo,  o  per  no- 
vello (2),  cliie  più  unte  e  più  vìiupcrii  che  may  sia  grande 
signore.  Xicome  foe  quela  che  lo  Re  mayfredo  ti  laxo  a  tua 
molgcre  il  regno  luto.  E  tu  vile  e  coardo  non  volisti  inay  ve- 
nire per  eserone  vendicale  del  unta  de!  avlo  lou  ke  vilana- 
mente  lozis  coli  francescbi  (3).  Ora  la  poj  vendicai'e.  E  raque- 
stare  luto  il  dalmayo  (4)  se  se  prò  e  valente,    misser  Giani. 

(1)  Questo  ramo  Iwtno  ìàmano  Don  s'inlctidc,  se  mai  dod  dovesse 
leggera  conio  uomo  strano,  cÌoÉ  Jiraiitero,  mn  noto.  \a  Leggenda 
dice:  (  dimorava  couc  uomo  disconosciuto  >  Il  leslo  siciliano:  f  addi- 
murau  certu  leuipu  cu  lu  De,  ma  non  comu  hoinu  canuxalu  *. 

(Sj  Questo  }>fr  lontayo  a  per  novello  nella  Leggcoda  si  legge  pure 
per  hìilano  a  fxir  nooetlo;  e  Ìl  Cappelli  annota:  t  modo  elLlt.  che  vaio 
per  tempo  lontano  e  recente  t.  Il  lesto  siciliano  ha:  «  vurrissÌTU  voi 
divingiarìTi  di  li  offlsi,  li  quali  vi  sa' siali  Tatti  per  la  icmpu  passatu, 
chi  harìii  riciputu  piai  virgogni  chi  signuri  cliì  sia  in  Cristiani?  > 

(3)  lia  Leggenda  ha:  che  tillanamenie  l'uccisero  i  Franceschi».  Il 
testo  .siciliano  dice:  <  che  vigliacca  meni  e  In  aucish-u  li  Franiisi  a  Hardla 
in  Tolusa  >. 

(i)  DahnaijQ  nella  Leggenda  è  (ianna{rfrio;  nel  lesto  siciliano  duiii- 
iiiaiu,  a  (laiìinaiu.  e  njeglio  (okiì  liumìiiaiii.   dot  iloininio,    stato, 


—  ai  — 

0  the  ai  trovalo.  Non  s;ii  lii  kc  la  gicssa  dì  roma  e  la  cassa 
ili  Franzo  segnoregia  luto  il  mundo.  specjalmerite  lo  re  cario. 
Como  (rfirebe  essere  ke  uno  segaov  «li  si  picolo  podere  come 
it  meo  pulesse  conlrstare  a  zo  che  tu  dici  cliio  possa  fare  tanto 
coflio  Ui  lii.  Ma  se  la  me  lo  inostri  per  alcun  modo,  volcnlent 
taro  IO  rlie  se  pora  il  meo  podere,  .\llora  disse  messer  Giani. 
£o  ti  voglo  (lire  il  modo.  Seo  li  do  a  padagnare  la  (era 
sua»  fiulicu,  no  la  poi  tu  pilglarc.  Seo  ti  do  C  m.  unze  doro  no 
1»  poi  III  pilglare  e  Tornire  le  spese  bone,  disse  lo  Re.  Como 
i  li  bristi  tu  dare  eo  non  credercve  niente  se  no  me  Testi 

Allora  trasse  misscr  Giani  fora  le  lelre  del  papa  e  del  pa- 
so, e  deli  baroni  di  Cicilia  e  porsegcie  in  mano.  £  quello 
!  iieu  IO  kc  li  dizavaiio.  Fuc  multe  alegro-  E  disse  lien 
t  Ve  tu  sii  boiio  amico  tanti  lora  iiy  cercata  et  eo  mi  se- 
<  rjia  la  parie  di  dco.  e  rezcveo  (ì).  da  poy  ke  messer  lo 
I  vele  ome  ben  securo  pero  ke  elio  e  mio  lo  pò  ben  Ciré. 
S  quello  ke  in«  dice,  e  cossi  prometto  e  ztiro  credenza  a  ijuanlo 
Mi.  Fa  die  mi  vegna  fato  et  eo  piglaro  zo  che  li  piazera ,  e 
lari]  il  fato.  Resposse  mìsser  Giani  e  disse.  Ora  taparegla 
umaile  a  l;i  mia  tornala.  Eo  torn.iro  al  papa  et  al  palto- 
luco  el  a  cicilìani  e  si  recliaro  multa  moneta  per  fornire  il  fato, 
e  mofitrdTO  lo  ricevimento  vostro  a  tute  quelli  sacen  che  (2) 
zo  saaiu  Per  nexitna  caxoiie  no  lo  manifestare  a  allruy  ne  per 
morte  ne  per  vita  chel  [io  se  senta  may  ke  di  tropo  pericolo 

rrfao.  Il  liannag'jìo,  danno,  niaiicliereU)e  di  senso  uiiilo  al  verbo  ra- 
qattiare,  bMictiè  putrelibe  valere  nella  maniera  siciliana  e  sallUfari  Cullii 
lu  lou  ilummaru  lo  $leìto  cbe  ribrli  del  danno  soITcrlo.  l'ref'irirci  inm- 
pr*  b  JF-iiotiR  duminaiu.  come  |ii{i  concorde  al  lonteslo. 

(t|  (^i  la  l.eggMiila:  <  E  io  mi  segno  da  parie  ili  Dio  i>  ricevo, 
da  poi  che  maa.  in  \ia\ta  vuole.  Io  mi  renilo  bon  sicuro,  perchè  st  |)UOIc 
hre  qncllo  cbc  mi  dici,  r  cosi  impromeilo  e  giuro  credenia  >.  C'è  pure 
aicoriu  t  imbaraxio  di  parole.  Il  testo  siciliano  più  chiaramenle  :  <  el  eu 
«I  iirafìilo  di  la  parti  di  tlru,  poiclii  lo  santu  Pa|ia  voli;  ei  ancora  mi 
rendu  lieu  aicuru  da  isìu,  chi  io  chi  diu  uii  proinelti  {ioti  ben  Tari  >. 

{i>  Ijuì  la  {tarola  tacen  nella  Leggenda  è  siijruiri  :  secondo  il  lesto 
«Kilunii  itcreli.  cioè  a  jiojfe  tW  acereto,  cungiurali,  a  sì  accosto  a 
i|uri>Ia  inren  ,  iiuaM  loco^iifi. 


—  32  - 

sarcbe  il  fato.  Mu  u  la  parlila  de  mnyolica  tornan<Jo  in  eal^ 
logna  si  lollo  comiaio  e  presse  ad  audare  e  dise  di  questo 
Tato  mi  ni  posso  dire  nulla  de  <iue  a  la  mia  tornala  comò  o 
ordinato  coli  cicilìanì  e  col  papn  e  col  palioloco.  E  partisse  de 
bazalona  (1)  e  questo  ne  vene  intra  e  misser  Giani  per  mare 
in  Une  a  pisa.  E  vene  per  celali  parte  e  vie  fino  a  Viterbo. 
Et  ilio  trovo  misser  lo  papa.  E  quando  lo  papa  Io  vide  tM 
multe  alegro  per  sapere  come  e  lavesse  falò  per  iute  guise.  E 
messer  Giani  disse  co  fato  tuto  lo  nostro  intendimento  com- 
pìitamente  et  alegrament?.  Et  a  rezivoto  (2)  misser  lo  Re  dj 
ragona  la  segnoria  per  le  pregere  vostre  e  multo  vi  recomanda 
e  mandavi  leira  Riumane  voj  ystudiaie  et  onlinate  come  sia  celalo 
e  mandave  (3)  regraciando  de  questo  fato.  El  papa  disse  a 
scr  Giani.  Va  du  la  mia  p;irie  ai  palioloco  ci  in  Cicilia  a  lì  piue 
copertamente  e  dìcigli  die  li  aiutaro  (4)  e  cliio  procazero  de' 
trarli  di  siporia  de  lo  re  Carlo,  e  cola  mia  parola  che  averano: 
buono  signoi'e  s*a  deo  piaze:  —  Allora  se  movo 
Giani  de  procita.  Et  andoe  in  Cicilia  per  coniare  questo  fato 
ay  baroni  di  zicilia.  Vene  el  dilo  messer  Giani  per  mare  a 
giunse  i  Napoli  (5)  e  foc  con  messer  Palmieri  abbate  e  mandoe 
per  gialtrì  baroni  di  Cicilia.  Alora  venero  e  conto  loro  tuto  lo 
fato.  £  come  il  pajia  de  roma  avea  dato  e  concieduto 
ser  Pero  Re  daragona  e  come  aveva  recluta  la  siporìa  e  la 


(1)  Basalona,  ciaf,  Barcellona:  ne  vene  in  tra,  cioè,  ne  viene 
per  terra. 

(2)  Reiivoto  ?ale  ricevuto. 

(3)  La  leggenda  ha:  •  e  manda  questa  lettera  siccome  voi  stadiaM 
e  ordinine  couic  sia  celalo  questo  fallo  e  avacciato  >. 

{i)  Nella  Leggenda  mancano  queste  parole:  <  Va  da  la  mia  parte 
al  palioloco  et  io  Cicilia,  a  lì  piue  copertamcnle  >;  ma  comincia  (  E  di 
loro  di'  io  alla  copeiia  li  alerò  ■  cod  quel  che  segue.  Il  testo  siciliano 
porta:  «  impirò  vatliudi  in  Sicilia,  e  dllU  di  mia  par^  e  di  lu  Piagalo- 
gD,  chi  si  spaccìana  di  xiri  di  li  maou  di  la  De  fxirlu  e  di  h  sua  si- 
gnurin:  sopra  la  mia  parola,  eu  li  ajuiird  cdatsmenti,  e  dicitili  chi  to- 
sta aTirnnnu  bon  siguurì,  si  a  Oeu  placirè  >. 

(5)  Qui  scorrotiamenle  Napoli  per  Trapati,  Trapani 


'  iaaomici  avcvn  giurato  credentemente.  linde  vJ 
!  che  legnate  ciel-ito  el  fato  de  que  a  mia  tor- 
t  mio  ordine  com  pcnsaro  (t)  E  jo  me  ne  vo  al  pnlio- 
r  acoatarc  il  fato  tuto  come  jstae  El  a  rccliare  la  mo- 
Kta  per  cominziare  la  armala  bene  grande  e  grossa.  E  sa  deo 
jnìie  taremo  lulo  bene.  E  voi  prego  per  dìo  chel  tepati  eie- 
Ino.  uio  ke  may  oo  si  sapia  ke  veouto  e  il  lempo  chenusie- 
itie  de  scrviludine  di  vostri  inimici  e  vendicarete  le  cole  vo- 
stre r  fircto  ttiij  beni  (2).  E  così  se  parilo  e  aporio  in  con- 
ttaotioopoUo  3  guisa  d*  un  Tralre  minore  (3).  Inconlancule  scn 
indoe  (bito  al  palìoloco  e  Tue  co  liij  nel  secreto  loco.  E  disse. 
Ora  ulegra  che  o  Icnicudimcnto  vostro  Tato  io  vi  reco  la  ve- 
ribde.  sì  come  inesser  lo  papa  di  roma  a  conctedulo  la  morte 
t  U  (IrsinictiiHie  di  lo  Re  Carlo  (4)  e  dì  cicilìanì.  Et  a  cìo 
(Ilio  per  capitano  misser  Pero  di  ragona.  Et  àc  ricievoto  la 
imorii  di  Cicilia.  E  si  e  capitano  della  guera.  Et  à  giurato 
iKlib  compagnia  et  a  vita  et  a  morte  contro  li  loy  inimici. 
'>  vbIc  bene  so  quello  chio  linpromisì  li  viene  bene  litio  lo 
Illa  ^  cosi  abiamo  ordinalo  che  en  M.CCLXXXIl  Cicilia  sera 
(fidbla  da  lo  Re  Carlo-  E  serano  morti  tuli  ì  soi  rrancesctii 
e  loliie  le  galee  e  Iii  navi  e  luto  lo  fornimento  colo  qualo  de- 


(l>  Ndla  Leggeaìa  mancano  qaesic  ultime  parolo,  k  quali  nel  le- 
WfbìiaoD  toao:  «  chi  con  i|uil]i  ordinE  ordìnatanienii  chi  cu  haiu  a 
ìri,  tln  CD  Togliu  lodarì  pn  Tina  a  In  Plagalogu  ■. 

(!)  Il  tfkto  siciliano  <  e  ndi  Tcngircmo  beni  dì  luiti  nosli'ì  vergogni 
f  diplacirì  >. 

|3)  lj  Lfggniila:  <  E  cosi  si  parlio  e  inlrfl  per  mare  e  apporrà 
■  rdMotiooiiotì  a  gnisa  dì  traio  minoro  ■.  Il  iGSio  siciliano  pib  com- 
<  E  poi  pri«i  coinmialu  dì  misscr  Paliiieri  Abitali,  e  per 
anaun  di  Trapani  con  ona  galìa  dì  Veneiiani,  e  misuniin  in  terra 
■anit  ad  un  loco  lu  quali  haria  noinu  Nigruponti;  a  poi  si  nd- 
■  ■  CoiUDtinapoIi  «istuln  a  modu  di  tralì  minuri  per  andari  cela. 
■Il,  B  lalcbi  iuu  non  Tlissi  canuxintu  i. 

(4)  Odi  oiaoca  il  Insto  di  laiuue  parale  cbc  sono  nella  Leggenda  • 
roiraiulnrìo  luo  e  de' die  iliadi  >.  Il  lesto  siciliano:  •  lu 
I  Imi  conckluiu  la  iiiorU  e  la  distruiiooi  di  lu  Re  Carlu  e  cu  lu  tou 
fc,  t  eoa  qaitlo  di  lì  ticiliani  e  di  li  nostri  amici  ■> 

3 


vea  venire  sopra  a  tee,  e  11  il  suo  ialendiiiienlo  perduto  e 
avera  tanto  ke  farà  si  de  lae  ctie  may  non  passera  di  quae  :  — 
Quando  il  palioloco  vide  questo.  E  vide  ciò  chera  per  bo- 
iate letre.  Disse  a  misser  Giani,  io  sono  per  fare  zo  che  ti 
piace  che  no  lo  feci  anche  ad  homo  oato  se  deo  li  ti  da  a 
compiere  (1).  Misser  Giani  disse  Or  tosto  mi  dona  e  fee  pcs- 
sare  XXXm.  unze  doro  per  apareglare  la  armata  e  soldare  li 
cavaleri.  E  dami  uno  tuo  sergiente  amico  (3)  che  vegna  meco 
in  aragona  al  segnore.  A.lora  disse  eu  voio  fare  parentado  co 
luy  e  voglo  dare  una  mia  Qglola  ad  uno  sou  flglolo  per  avere 
più  amore  al  fato.  Àlora  disse  misser  Giani  bene  mi  piade 
Or  tosto  sia  fato  quello  cfaio  domando  chio  no  vorey  supri- 
slare  al  fato  ne  vedere  persona  die  me  cognosiesse.  Foe  pe- 
salo loro  tuto  e  messe  in  mare.  —  (3) 

l^corUinuaJ 


(1)  Questo  luogo  è  un  po'euaslo.  La  LcgEcnds  porla:  (  Hcsser 
Gianni,  io  sono  per  fare  e  dire  eia  che  li  juace,  che  cosa  làUa  non 
piiotc  mai  Trastornarc  con  onore:  ma  voi  il  polcte  meglio  altare  che  uomo 
naio,  chÈ  Dio  f  ha  dato  a  aimpicrc  *;  e  il  senso  va  pure  impaccialo  e 
non  inlero.  Meglio  il  leslo  siciliana:  e  eu  sogna  per  diri  e  fari  luUu 
quillu  chi  li  piaci;  che  tu  bai  taiiu  cosa  chi  homa  di  lu  munda  non  la 
hariria  potuto  fari;  e  pari  chi  Dea  li  haja  datu  to'  Toliri  a  complimento  >. 
Quesi'  ultima  Trase  è  tuttavia  viva,  e  vale:  li  abbia  Tatto  riusdre  per  filo 
e  per  segno  nella  impresa,  net  disegno  concepito. 

(3)  Invece  di  sergiente  amico  la  I^ggcada  legge  più  corretlamoile 
segreto  amico;  e  il  lesto  siciliano:  t  unu  voslru  sicretu  e  reru  vosim 

(3)  Qui  tanto  in  questo  testo  Valicano  quanto  nella  Leggenda  ino- 


pericoloso  Snme  ;  per  l' aria ,  teme  V  uomo  venti ,  tnoni , 
conruzioni  d'aria:  per  lo  fuoco,  leme  Tuomo  caldo, 
saette ,  baleni ,  incendi ,  e  molte  altre  cose  dìpendeoli  i 
queste  :  per  la  fenmina  teme  T  uomo  vergongoa  e  danno  i 
vergongna ,  perchè  dì  sua  persona  non  falli  :  danno ,  pai 
gli  beni  eh'  ella  puote  male  dispensare ,  e  per  molte  altrt 
ragioni  che  assegnare  si  potrebbono ,  e  nota  il  seguire. 

Areolo  Teofasto  essendo  domandato  da  uno  suo  amÌo( 
se  egli  il  consigliava  che  togliesse  moglie  o  no ,  cosi  rispuQ 
se  :  Se  la  fenmina  che  ti  viene  alle  mani  è  buona ,  giovane  ij 
grande  e  bella,  e  bene  costumata,  e  vìrtudiosa  di  sapere 
fare  e  dire  ciò  che  al  tuo  istato  s'appartiene ,  e  sia  di  buona 
e  onesta  vita ,  che  sia  naia  dì  schìatU  che  a  te  si  confao- 
eia  ,  e  che  sia  il  suo  parentado  acrescimenlo  di  stato , 
con  questo  ti  rechi  a  casa  di  dota  quello  che  a  te  si  eoo* 
viene ,  e  tue  ti  senta  e  sia  savio  e  ricco  e  virtudioso  (U 
pazienza,  puossi  fare;  ma  perchè  rade  volte  s'accordane 
tutte  queste  cose,  ed  è  quasi  inpossibile,  non  la  tórre, 
però  eh'  ella  è  ìupedlmento  dello  studio ,  e  quasi  d' ogoi 
bene  adoperare.  Et  ancora  alle  donne  bisongniano  moltfi 
cose  a  ciascuna  secondo  suo  grado ,  che  non  sono  le^ièrfi 
ad  avere  :  però  che  come  è  maggiore  lo  stato ,  maggiora 
ornamento  e  maggiore  ispesa  richiede  ;  e  la  fenmina  è  in- 
saziabile ,  e  >-uoÌe  ricchi  vestimenti ,  oro ,  perle ,  gieome , 
vai ,  gioielli ,  masserizie ,  ornamenti  nuovi ,  che  non  sienft 
mai  veduti  a  persona,  acciò  ch'ella  vantaggi  tutte  l'altre, 
e  ciascuna  vuole  essere  quella  ;  e  questo  è 
vuole  fanti  e  fancielle  a  suo  comodo  e  none  a  tuo  ; 
questo  non  farai ,  arerai  continova  battaglia  di  dì  e  di  notte; 
e  non  considerando  tuo  potere,  ti  dirà:  Cotale  e  cotale 
e  altre  tale .  che  non  sono  buone  né  dabbene  com'  io , 
sono  adorne  di  tale  e  di  tale  cose,  et  io  cattiva, 
aparire  tra  l'altre  donne:  pongniamo  che  il  biasimo  sia 
pure  tuo.  E  (juesta  battaglia  non  fmirà ,  se  lu  non  adempì 


—  37  — 

sua  dimanda  ;  e  fornita  che  Taverai ,  rìcomincierà  da  capo 
po'  DaoYO  disiderìo  ;  e  però  nolla  tórre. 

Ancora ,  se  tu  non  le  piacerai  ella  t' ara  in  dispregio ,  e 
peoserà  d'altro  ;  e  se  ayerai  alcuno  difetto ,  sarai  mal  servito 
da  lei;  e  se  tu  le  vedrai  fare  alcuno  senbiante  ad  altrui,  mai 
DOD  dormirai  sicuro  per  gielosia ,  e  senpre  viverai  maninco- 
Dico  e  accidioso  e  tristo ,  né  a  te  piacerà  V  usanza  altrui ,  nò 
altrui  la  tua  ;  e  se  tu  le  piacerai  e  siagli  in  amore ,  se  guar- 
derai altra  fenmina  che  lei ,  ed  ella  se  n'  aveggia ,  pensa 
d'a?ere  in  casa  poca  pace;  e  se  ti  vedrà  parlare  colla 
fante,  ti  dirà  che  tu  non  sia  buono  se  non  da  strufinac- 
doli  ;  e  però  non  la  tórre. 

Et  ancora ,  s' ella  non  averà  figliuoli  di  te ,  dirà  che 
ta  non  sia  da  nulla,  e  penserà  d'altro;  e  se  ella  n' averà 
di  te,  le  raddoppierà  il  rigoglio  e  la  baldanza,  e  non 
potrai  vivere  se  tu  non  farai  ciò  ch'ella  vorrà;  e  però 
nolla  tórre. 

Et  ancora ,  se  tu  se'  povero  e  prendi  moglie  e  abbine 
figlinoli,  se  prima  avevi  assai  di  nutricare  te,  e  poi  ti 
converrà  nutricare  te  e  loro ,  pensa  come  tu  starai.  E  però 
nolla  tórre. 

Et  ancora ,  se  tu  se'  ricco ,  senpre  viverai  in  tormento 
co'  lei  per  le  molte  sue  dimande ,  come  detto  è  di  sopra. 
Ancora  tu  dèi  sapere  che  nonn'  è  sì  vile  animale  né  si  caro 
inanzi  che  si  conpri  non  sia  provato,  se  non  la  moglie; 
però  che  s' ella  é  matta  o  sozza  o  con  molte  magangne 
0  scostumata ,  prima  ti  se'  legato  che  tu  il  sappia  :  e  sai 
che  quello  legame  non  si  può  isciogliere  se  non  colla  morte. 
Ancora,  o  bella  o  rustica  ch'ella  sia,  senpre  te  la  con- 
verrà lodare  e  plagiare,  e  converratti  dire  ch'ella  ti  piaccia 
sopra  tutte  l' altre  ;  e  se  cosi  non  farai ,  e  tu  guardi  del- 
Paltre,  crederrà  dispiacerti,  e  dirà  che  tu  Pài  a  sdegno; 
e  quando  farai  saramento  per  mostrare  che  tu  l'ami, 
parlando  co'  lei  ti  converrà  dire  :  Se  Dio  mi  ti  guardi  e 


salvi  lungo  tempo.  Et  ancora  ti  converrà  contro  a  tua  vo- 
glia ispesso  amare  et  onorare  cui  ella  amerà;  e  perb 
nella  tórre. 

Et  ancora,  le  ti  converrà  dare  siognorìa  di  ciò  che  tu 
ài;  e  se  noi  farai,  dirà  cbe  tu  non  ti  fidi  di  lei,  et  ave- 
ratti  in  odio  e  disìderrà  la  morte  tua,  e  farà  quanto  nule 
ella  potrà,  ispendendo  e  gittando  il  tuo  a  indovini  e  io 
malìe  ;  e  racciendo  questo  è  da  temere  ch'ella  non  caggi  in 
avolterìo;  e  volendola  guardare  essendo  disonesta,  è  in- 
possibile; e  però  nolla  tórre. 

Ancora,  snella  sarà  bella  sarà  vagheggiata  e  diside- 
rata  :  e  quella  cosa  eh'  à  bramata  da  molti ,  malagievobneute 
si  guarda ,  e  molle  volte  se  ne  rimane  perdente  ;  et  a  cui 
è  tolto  r  onoro  di  sua  donna ,  non  debbe  essere  mai  con- 
tento; e  però  nolla  tórre. 

E  s'  eli'  è  0  rustica  o  sozza ,  ispesse  volte  ama  e 
disidera  altrui ,  e  da  molti  è  servila;  ed  è  molesto  a  pos- 
sedere quello  che  ninno  degna  di  volere;  e  non  avere 
per  piccola  affrizione,  anzi  per  continua  morte,  vederti 
senpre  innanzi  al  mangiare  e  al  bere  e  al  posare  quella 
cosa  che  tu  ài  in  odio  et  in  dispetto;  ma  minore  miseria 
è  avere  la  sozza ,  che  guardare  sempre  la  bella  ;  però  che 
chi  per  cortesia,  chi  per  bellezza,  chi  per  prodezza,  chi 
per  pecunia,  chi  per  molti  altri  diversi  ingiengni  che  dire 
si  potrebbono,  alcuna  volta  vince  la  cosa  che  da  molti  è 


—  40  — 

avoido  rispetto,  per  lo  bene  ch'io  ti  voglio,  alla  tua  con- 
solazione, concludendo  io  ti  protesto  e  dico,  che  tu  doq 
U^li  moglie,  se  non  vuogli  islare  sempre  in  doglie. 

L'uomo  è  capo  della  fenmina,  e  non  la  fenmina  dell'uo- 
mo, però  che  la  donna  non  può  fare  viaggio  contro  al  volere 
del  marito ,  e  quando  la  vuole  menare  è  tenuta  di  segni- 
tarlo;  e  per  lo  legame  del  matrimonio,  se  l'uomo  vuole 
andare  in  lontane  parti ,  la  donna  il  può  ìstrìognere  che  la 
meni  seco ,  ed  egli  è  tenuto  di  menarla  ;  e  dò  osservano 
bene  i  Tartari  che  dovundie  e'  vanno  la  menano:  ma  pure 
è  mala  compagnia  la  sua ,  ed  è  di  gran  rischio.  E  delle 
femine  disse  il  Cresastìco  così  :  La  fenmina  è  origioe  del 
peccalo,  arme  del  diavolo,  cacciamento  di  paradiso,  ma- 
dre di  fallo ,  corruzione  della  leggie. 

La  Dina  figliuola  di  Giacobe,  mentre  che  istette  in  casa 
co'  suoi,  conservò  virginità  ;  ma  poi  ch'ella  andò  v^gìendo 
l'altre  contradì,  da' figliuoli  di  Erese  re  fu  vituperala  (1). 

Seneca  dìcie  che  le  fenmine  rustiche  senpre  sono  ca- 
ste ,  non  perchè  manchi  loro  V  animo ,  ma  manca  loro  il 
conronpitore. 

Ovidio  disse  :  Quelle  donne  che  niegano ,  sono  liete 
d'essere  pr^ate. 

Salustio,  per  una  fenmina  che  apparava  a  leggiere 
disse:  Il  veleno  del  serpente  s'agiungne  a  quello  dello 
iscarpione. 


—  42  — 

Fedra,  vaga  di  Ii>olito,  perchè  non  volle  consentire  a 
lei,  ella  l'accusò  al  padre  falsamente:  ood' egli  lo  fede 
■squartare ,  come  piìi  dinanzi  dissi. 

Isilfile  fu  madre  delle  due  sopradette  e  moglie  di 
Minosso  :  e  fu  che  essendo  reina  giacque  con  uno  suo  no- 
taio ,  come  detto  è. 

Siila  fu  figliuola  del  re  Nisso,  al  quale  tagliò  la  te- 
sta, e  porlolla  al  nimico  suo  di  cui  ella  era  vaga,  come 
dello  è. 

Bersabè  fu  amica  di  David,  il  quale  per  lei  fece  De- 
cidere il  marito. 

Fue  una  pagana  che  seppe  tanto  fare  che  Salamooe 
adorò  gP  ìdoli  per  lei. 

SaRlra  fu  moglie  di  Marua(l),  e  con  lui  insieme  vol- 
lono  ingannare  san  Piero. 

Dido  fu  moglie  di  Siccheo,  al  quale  promisse  dì  nm 
rimaritarsi  mai:  e  morto  che  fu,  gli  ruppe  fede,  e  rima- 
rìtossì  subito  ad  Enea ,  come  dicemo  dinanzi. 

Etena  fu  molglìe  del  re  Menelao,  la  quale  se  orando 
con  Parisse:  per  la  qual  cosa  seguitò  la  distruzione  dì 
Troia. 

Mirra  fue  una  che  si  trasformò  in  altrui  forma ,  e 
giacque  col  padre. 

Gìrcie  fue  quella  che  per  sue  malie  et  incantamenti 
fecie  molli  uomini  diventare  bestie. 


—  44  — 

e  di  loro  dire  e  garrire  si  Taciea  beffe.  ODd'elle  un  dì 
s'accordarono  iD»eme  e  dieroDgli  di  molle  busse,  ed  egli 
tutto  paziente  sofTerse.  El  un  altro  die,  l'una  gli  disse 
molta  villania.  Onde  egli  diede  giìi  per  la  scala,  etandos- 
sene  fuori  in  sulla  panca;  ed  ella  si  fecìe  alle  finestre 
isgridandolo  e  picchiando  il  palco  sopra  a  capo:  e  quan- 
d' ella  il  vide  che  d' ogni  cosa  si  Taciea  beffe ,  prese  uno 
bacino  d'acqua  e  gittogliele  a  dosso.  Onde  Socrate  isco- 
tendosi  i  panni  disse  :  De ,  come  bene  mi  sta  I  ch'io  dovea 
bene  pensare  che  rade  volte  vengono  molti  tuoni  che 
apresso  non  piova. 

Maestro  Ciocco  d'Ascoli  disse  cosà: 

De ,  non  credete  a  fenmina  isciocca , 
E  non  v'accienda  sua  fitta  bellezza, 
Ma  riguanlate  come  dentro  fiocca. 

0  quanto  è  cieco  chi  a  fenmina  crede  I 
U  quanta  pena  nascie  del  difetto, 
Passando  il  tempo  eh'  elio  ben  non  vede. 

Lo  fuoco  e  la  feniniDa  e  la  terra 
L'abisso  inferno  mai  non  dice  basta. 
Ma  sanza  fine  appitito  serra.  (1) 

Secondo:  La  fenmioa  è  confondimento  dell'uomo, 
fiera  insaziabile ,  continua  sollecitudine ,  battaglia   sanza 


_  46  — 
sue  forze  ;  e  manifestato  eh'  egli  ebbe  che  la  sUa  forza  era 
ne'  capelli,  ed  ella  poi  che  '1  sentì  adormentato  in  grem- 
bo ,  jl  tosolò  tutto  ;  onde  ì  Filistei  saoi  nimici ,  a  cai  istaDza 
ella  per  pecunia  l'avea  fatto,  sopragiunsono,  e  legòrollo, 
et  abacìnòrollo  ;  onde  poi  ne  seguì  cb'elli  volle  morire  per 
fare  morire  altri. 

Assilla  moglie  d'An6rao,il  qaale  s'era  nascosto  per 
nonne  andare  contro  a'  Tebaoi ,  dove  trovava  per  sua  arte 
che  la  tetra  il  doveva  inghiottire,  lo  fecie  manifesto;  onde 
convenne  che  cavalcasse  ;  e  quando  fu  presso  alla  città ,  la 
terra  sopra  la  quale  egli  era,  s'aperse,  et  inghiotliUo 
coli' arme  e  col  cavallo;  e  questo  fu  per  colpa  d' Astila 
sua  molglie.  (1) 

Erìlon  cruda  Tue  una  fenmina  incantatricie  dì  dimoni. 

Butto  Giovanni  contro  alle  fenmine  scrisse  egli  :  (2) 

(1)  Cosi  i  due  usti:  ma  ognun  sa  che  il  nome  della  moglie  di 
Anfiarao  è  Erilìle. 

(2)  Nella  raccolla  di  Rime  del  Pucci  fatla  dopo  il  CeiUUoguio  dal 
P.  Idcironso  questo  sonetto  si  trova  appropriato  al  Pucci ,  e  dice  cosi  : 

Sonetto  mìo,  di  femmina  pavento, 

Perocch' egli  ène  in  femmina  ogn' inganno, 

Femmina  pensa  male  tutto  l'anno. 

Femmina  è  d'ogni  bene  sfuggimenio. 
Femmina  è  sempre  d'ogni  mal  convento. 

Femmina  è  dell' uom  vergogna  e  danno. 


—  48  — 
Perchè  di  lor  mi  giova , 
CoDtra  chi  mal  ne  dice ,  sansa  fallo , 
Difender  vogliole  a  piede  ed  a  cavallo.  (1) 


(1)  L'eruditissimo  sig.  Avr.  Bilancioni,  al  quale  ietbo  predose 
notizie  sulle  rime  inedite  del  Pucci ,  aieva  gii  trovala  il  presente  sonetto 
nnilamenle  all'antecedente,  nel  Cod.  Riccard.  1 103 ,  ove  ambidue  portano 
in  Tronte  il  nome  di  Uesser  Antonio.  Se  non  che  l'aver  trovalo  poi  la 
proposta  col  nome  di  Ballo  Giovanni  nel  Laurenz.  89  pluL  90  snp.  gli 
aveva  fatto  ritenere  cbe  a  costui  appartenesse  il  primo,  al  Pucci  il  se- 
condo sonetto  :  e  dalia  presente  nostra  pubblicazione  ognun  vede  quanto 
bene  il  valcniuomo  si  Tosse  apposto. 

Ambedue  i  sanelli  sì  trovano  poi  nella  parie  3'  dei  Sonetti  del 
Barchiello,ediz.  di  Londra,  1751  a  pag.  199,  e  qui  lì  irascrìviamo  an- 
che secondo  quest'altra  lezione  : 

Amico  mio,  di  femina  pavento. 
Però  che  fcmina  è  con  ogni  inganno, 
Fcoiìna  di  natura  è  proprio  alunno, 
Feinina  d'ogni  mal  cominciamenlo  ; 
Femina  d'ogni  male  si  è  convento, 
Femina  è  dell' uoro  vergogna  e  danno, 
Femina  mal  si  pensa  lutto  l'anno, 
Femina  d'ogni  bene  slroggimento. 
'Femina  a  peccare  Adamo  indusse , 
Femina  a'  Fiesolan  fé'  perder  prova  , 
Feinina  fu  che  già  l'uomo  distrusse; 


—  50  — 
mali  fanno  più  gli  uomini  che  le  fenmine.  E  quante  fen- 
mìne  vegliamo  noi  andare  a  sforzare  gli  uomini  alle  letta 
loro,  0  quante  ne  veggiamo  andare  conmetteudo  iQÌcìdi  o 
furti  0  falsitade  o  ruberie?  Cierto  per  ongni  fenmina  che 
in  alcuno  di  questi  difetii  cade,  mille  uomini  vi  sono  eg- 
uali; e  por  moltissime  altre  ragioni  si  potrebbono  difen- 
dere. E  se  vogliamo  dire  :  Salamone  non  l' avrebbe  biasi- 
mata se  cosi  non  fosse,  salva  la  sua  riverenza  che  esso 
medesimo  ne  scrisse  in  più  parti  bene  che  male. 

Giudit  fu  del  legnaggio  dì  Simeone ,  figliuola  di  Meta- 
ri;  questa  fu  pìii  forte  e  gagliarda  che  ninno  uomo,  e 
non  dottò  il  furore  del  re  Aloferno  ch'avea  a.ssedÌato  il 
suo  popolo  Mn  gli  Ansirij  :  anzi  si  misse  a  dubbio  di  morte 
per  salute  de'  suoi,  et  inamicossi  in  vista  con  luì,  et  or- 
dinò ch'ella  di  notte  uscì  fuori  della  terra  sua  e  andò  a 
dormire  ron  Ini  nel  can^w;  e  quando  ella  il  vide  dormi- 
re, gli  tagliò  la  testa  e  pnrtolla  al  popolo  suo ,  ond'  eglino 
presono  ardire  o  uscirono  addosso  a'  nimici ,  e  sconfisson- 
gli  :  di  che  il  sommo  poeta  Dante  disse  : 

Mostrava  come  in  rotta  si  fuggirò 
Gli  Ansirì  poi  che  fu  morto  Eloferoe 
E  anche  le  reliquie  del  marliro. 

E  Sfi  volgliamo  dire:  Molle  se  ne  truovano  iscritte, 
per  coi  furono  cnnmessi  molti  mali  ;  molte  si  truovano  piti 
di  quelle  di  cui  ancora  rcngna  la  fama  acciesa  di  loro  vir- 
tù ,  e  mai  non  si  ispengnerà  ;  e  d' alcune  faremo  menzione 
brievemente.  Se  dicie  alcuno  che  la  fenmina  nonn'à  fede, 
or  rom'  è  quella  di'  ebbe  [in]  Cristo ,  Maria  e  Maddalena  e 
Marta  e  molte  altre?  E  se  vogliamo  dire  temporalmente, 
in  quale  uomo  si  trovìj  maggiore  fede  che  fu  quella  di 
Fisoia,  di  cui  diciemo  f^he  dovendo  morire,  cioè  ch'era 
condannata  a  morie.  Amone  ch'era  vago  di  lei  istettc  co- 


J 


33   — 

morte,  e  dato  al  soprastante  die  lo 
taciesse  morire  di  fanm  nella  prigione,  una  sua  figliuola 
il  vicitava ,  e  uon  possendogii  portare  alcuna  cosa ,  che 
tuttavia  era  ciercala  quando  andava  a  lui,  gli  dava  la  pop- 
pa. Ond'  egli  alTamato  poppava  :  e  dopo  più  di  maravi- 
gliandosi il  soprastante  che  non  era  morto,  guardò  dietro  alla 
fanciulla ,  e  vide  com''  ella  il  pasclea  ongnì  di  due  volta 
del  latte  del  petto  suo  ;  e  rapportato  die  l'ebbe  al  signore, 
per  piata  perdonò  a  lui  la  morte  e  a  lei  la  diresa. 

Al  tempo  dì  Giesere,  secondo  Lucano,  davano  la 
fenmìne  agli  uomini  di  dota  quanto  gli  uomini  a  loro, 
doè  che  a  petto  della  donna  mettea  il  marito  altrettanti 
danari ,  e  menavalasi  a  «asa ,  e  di  quello  che  Truttavauo  le 
due  dote  mai  non  toccavano  se  non  per  comune  bison- 
gno.  E  se  l'uno  moriva,  e  l'altro  rimaneva  reda:  e  ciò 
era  ragionevole  e  comune  leggie. 

Sidraco  disse  :  Meglio  è  l'amore  della  buona  fenraina 
che  l'odio  della  rea.  E  dee  Tuomo  amare  la  Temnina  e 
la  fenmina  lui,  secondo  il  comandamento  di  Dio. 

E  legggiesi  che  sendo  Roma  al  governo  di  dieci  savi 
uomini,  de'  quali  era  capo  e  maggiore  Appio  Claudio,  il  quale 
essendo  vago  d'una  figliuola  d'un  buon  uomo  di  Roma,  la 
fede  sotto  cierta  cagione  richiedere  dinanzi  a  sé  :  e  venuta 
ch'ella  fue  col  padre  e'  non  la  voien  rendere  a  malleveria 
ma ,  volendola  sostenere  per  vituperaria ,  il  padre  aveggien- 
dosi  della  cagione,  e  sappiendo  ch'egh  non  avea  a  fare 
nulla  con  colui  che  avea  posto  il  richiamo  dinanzi  ad 
Appio  Claudio,  ma  a  sua  istanza  l'avea  fatto,  non  pos- 
sendola  menare ,  prese  un  coltello  d*  un  beccaio  et  uccisa 
la  figliuola  ;  per  la  quale  cosa  fu  tolta  la  sìngnoria  a  que' 
dieci  uomini  ;  e  come  fu  questa ,  cosi  ne  sono  il  di  mille 
volute  vituperare. 

0  quante  fenmine  s"  inducono  a  mal  fare  per  gli  prieghi 
e  lusinghe  degli  uomini ,  chi  con  sonetti  e  chi  con  canzone. 


—  53  — 

chi  con  donare  di  gioie ,  chi  per  forza,  chi  per  amore , 
chi  per  pecunia;  e  per  molti  altri  diversi  modi  che  dire 
si  potrebbe,  sono  condotte  al  mal  fare  I  0  quanti  assaliscono 
le  donne  al  Ietto  loro^  e  quante  ne  sono  state  morte  per 
HDD  acconsentirei  Messere  Yenetico  Gaccianimici  da  Bo- 
longna  amiBanò  la  sirocchia  al  Marchese ,  e  di  lui  disse  il 
sommo  poeta  Dante  cosi: 

Io  SODO  colai  che  la  Chisola  bella 
Condussi  a  far  la  voglia  del  Marchese 
Come  che  suoni  la  sconcia  novella. 

0  quanti  ci  à  di  questi  mezzani  e  sensali  di  tale  merca- 
tanzia  !  E  se  T  uomo  è  più  savio  che  la  fenmina ,  quale  è 
la  cagione  che  de'  venti  e'  diciannove  sono  suggietti  et 
ubbidienti  alle  donne? 

Per  le  dette  donne  e  per  molte  altre  cagioni  che 
raccontare  si  potrebbe ,  si  vede  assai  manifesto  ch'elleno 
non  meritano  el  biasimo  che  è  loro  dato,  però  che  se 
male  fanno,  vi  sono  condotte  da  Tuomo.  E  questo  ba- 
sti di  loro. 


i 
« 


IL  PERDONO  DI  S.  FRANCESCO  D'ASSISI 


Il  breve  scritto  che  viene  ora  pubblicato ,  è  aoa  I 
gendaria  nari-azione  improntata  delta  consiiela  carissima 
semplicità ,  tanto  famigliare  agli  scrittori  del  Trecento ,  dì 
una  apparizione  al  Santo  d'Assisi  presso  la  chiesa  di 
s.  Croce  di  Porlingola,  quale  si  legge  in  un'apografo  del 
secolo  XV,  contenuto  in  un  grosso  codice  dell' vVmbro- 
siana.  È  dessa  raccontata  da  un  Michele  Bernarducci  con- 
cittadino e  contemporaneo  del  Serafico,  poco  tempo  dopo 
la  costui  morte  avvenuta  nel  122tì.  È  ignoto  il  nome  di 
chi  scrisse  queste  pagine  ;  si  ha  però  in  esse  una  scrittura 
almeno  del  sec.  XIV,  quand'  anche  non  la  si  voglia  am- 
mettere come  autentica  e  fedele  riproduzione  del  sup- 
posto racconto  del  Bernarducci  stesso;  e  sebbene  le  cose 
ivi  narrate  non  siano  che  popolari  tradizioni ,  alterate  forse 
e  travisate  di  mano  in  mano  che  s'allontanavano  dalla 
fonte  primitiva,  e  passavano  per  le  bocche  di  (pianti  l'u- 
divano e  le  ricontavano,  pure  come  ne'Fioient,  di  cui 
questo  Capitolo  è  un'  imitazione,  vi  si  trovano  non  poche 
elette,  leggiadre  ed  evidenti  forme  del  pariare  toscano, 
e  vi  spira  un'aura  di  candore  che  tocca  talvolta  al  sublime. 

Personaggio  eminentemente  popolare  fu  Francesco 
d'Assisi;  in  quel  secolo  ebbro  di  odii  feroci,  di  guerre  e 
di  violenze,  a' giorni  d'Kzzelino  da  Hom;ino,  di  Buoso  da 


Egidio,  Silvestro  e  il  venerabile  Bernardo  come  perso- 
naggi dei  tempi  eroìd,  che  inebbrìati  dì  quella  pace  ìnu- 
sala  corrono  dietro  (  all'ignota  ricchezza  »,  e  con  santo 
trasporto  s' aggiungono  al  fido  amante ,  perchè  *  la  sposa 
piace  >  ;  colloca  11  santo  Archimandrita  fra  ì  sapienti,  per- 
diè  quel  Sole  Oriente  non  fa  né  ignorante  né  iautore 
d^  ignoranza ,  come  corollario  della  sua  legge  di  pace 
e  d' inopia  ;  non  pochi  «  di  quella  gente  poverella  >  cre- 
sciuta dietro  a  luì, 

....  la  cui  mirabil  vita 
Meglio  ìd  gloria  del  ciel  si  canterebbe, 

complici  a  della  santa  voglia  e  della  dura  intenzione  *  del 
venerato  maestro,  e  conscii  della  forza  morale  della  pa- 
rola, furono,  secondo  la  sentenza  d'un  erudito  italiano, 
contemplanti  ragionatori,  eloquenti  solitarii,  dotti  cittadini. 
Segue  un  breve  t  Sermone  che  fece  Cristo  » ,  che 
nel  codice  Ambrosiano,  da  cui  anch'esso  è  tolto,  si  at< 
tribuisce  a  s.  Agostino,  come  scritto  da  lui  nel  libro  che 
fece  a'  Bomiti,  e  volgarizzato  da  anonimo  trecentista. 

Milano,  nel  marzo  1870. 


—  3S  — 

iDsieme,  e  veggendo  eh' eglino  parlavano  insieme,  vergogna' mi 
e  si  mi  volla  partire,  ed  eglino  si  mi  cliiamorouo,  ed  io  andai  n 
loro,  e  questo  parlamento  si  era  nell'orlo  dov'era  la  cella  di 
santo  Francesco,  e  uno  di  loro.  cioÈ  frale  Piero  Caltani,  si  ri- 
volse a  me  e  disse  :  Odi  qua.  Michele,  maraviglìosa  cosa  che  ad- 
divenne a  qnesti  di  prossìnii  passati,  quando  lo  nostro  Padre 
piatoso,  cioè  santo  Francesco,  era  in  quella  celia.  In  que- 
sto anno,  cioè  nel  mese  di  gennaio  prossimo  passalo,  quando 
erano  te  grandi  neve,  nel  mezzo  della  notte  venne  Setanasso, 
e  venne  a  lui  allato  alla  cella,  e  '1  servo  d'Iddio  Francesco 
era  io  orazione.  Allora  disse  Selanasso:  Francesco,  perchè 
vuo'lu  morire  innanzi  al  lempo?  Perchè  stai  a  fare  queste 
cose  ?  Non  sa'  tu  che  '1  dormire  è  '1  principale  noiricamento 
del  corpo?  E  altre  volte  fò  detto  che  tu  se' giovane,  e  altre 
volte  tn  potrai  fare  penitcnzia;  perchè  dunche  t'affriggi  tanto 
in  vigilare  e  'n  orazioni  ?  Allora  il  beato  Francesco  si  si  spo- 
glione  ignudo  e  uscì  fuori  della  sua  cella,  e  passò  per  una 
griinde  siepe,  e  si  entrò  i»  una  selva  durissima  e  spinosa. 

Essendo  lo  piatoso  padie  sauto  Francesco  in  mezzo  della 
selva,  avendo  lulla  la  carne  stracciata  e  'nsanguinala  per  le  pun- 
ture de' pruni  e  delle  spine,  disse  Francesco  in  se  medesimo: 
Meglio  m'è  in  questo  modo,  cli^  io  conosca  la  passione  del  mio 
Signore  Geso  Cristo,  che  credere  alle  lusinghe  dello  ingan- 
natore dell'umana  natura;  e  'ncontanente  dette  queste  cose, 
apparve  io  mezzo  della  selva  un  grandissimo  lume,  e  in  mezzo 
del  ghiaccio  e  della  neve  apparve  fuori  bellissime  rose  e  fiori, 
e  apparirono  schiere  d'angioli  senza  numero,  e  nella  selva 
e  nella  chiesa  di  sanu  Maria  a  Portingola.  la  ijuale  era  allato 
alla  selva.  Allora  dissono  gli  angioli  con  una  solenne  boce  al 
beato  santo  Francesco;  Vieni  tostamente  al  Salvatore  e  alla 
sua  dolce  madre  madonna  santa  Maria,  che  sono  nella  chiesa; 
e  allora  apparve  una  via  diritta  e  ornata  i]uasi  come  seta  per 
andare  alla  chiesa,  e  santo  Francesco  colse  allora  del  rosaio 
dodici  rose  bìauclie  e  dodici  rose  rosse,  e  andO  per  quella  via 
iguudo  con  quelle  rose  in  mano,  ed  entrò  nella  chiesa  di  santa 
Maria  di  Portingola,  e  pose  le  rose,  le  quali  avia  recate^ 
eolle  mani  giunte  in  sull'altare;  e  allora  vide  Geso    Cristo  e 


—  60  — 
vespro  clol  primo  à\  d'ngosio  iiisìno 
di  il'  agosto  chìunchc  vi  fusse  in  quel  di  confesso  e  coiUrilo 
d*ogni  suo  peccato,  di  tulli  quelli  che  sì  ricordi,  gli  sieno 
perdonati  tulli,  e  quali  egli  avessi  commesso  e  fatti  dal  die 
del  battesimo  inlino  al  di  deir  avvenimento  e  dell'  enlramento 
di  quella  chiesa. 

Allora  disse  il  beato  santo  Francesco  :  Santissimo  Padre, 
come  si  farà  che  questa  cosa  sì  sappia,  e  venga  a  notizia 
dell'umana  generazione?  Allora  disse  il  Signore:  Francesco, 
questo  si  farà  peli'  aiuto  della  mìa  grazia  ;  ma  tu  debbi  an- 
dare al  vicario,  il  quale  i''ò  posto  sopra  '1  mondo,  e  al  quale 
i'  b  dato  podestade  di  legare  e  di  sciogliere,  cheU  egli  questi 
perdoni  manlTesli,  che  pare  a  lui  che  si  convenga.  £  Io  beato 
Francesco  disse:  Come  crederrà  a  me  peccatore?  Rispose 
Iddìo  onnipotente  a  san  Francesco  e  disse:  Porta  teco  per  le- 
stimonanza  rose  bianche  e  vermiglie,  le  quali  tu  ai  colte  del 
mese  di  gennaio  con  aifrizione  e  dicìplina  del  corpo  tuo,  e 
di  quel  numero  le  porta  come  ti  parnl  a  te  convenevolemente. 
£  queste  pi'edette  cose  si  udirono  lutti,  frate  Piero  Cattaui 
e  frate  Rulfino  e  frate  Bernardo  da  Quintavalle  e  frate  Mas- 
seo  Magnani  e  compagni  dì  frate  Francesco,  e  quali  stavano 
nelle  celle  loro  fuori  della  chiesa  nell'orlo,  dove  la  cella  di 
santo  Francesco  congiugne  colta  chiesa.  Allora  santo  Francesco 
di  quelle  rose,  le  quali  aveva  colte  delta  selva,  lolse  tre  rose 
bianche  e  tre  rose  rosse  all'  onore  della  santissima  Trìnìlade  e 
a  laulde  di  Dìo  e  della  gloriosa  vergine  Maria.  La  divina 
maestade  colla  sua  madre  incontanente  levò  un  canto  grandis- 
simo d'angioli,  e  cantavano:  Ta  Deum  laudamua,  te  Do- 
minnm  coafitemar.  E  dopo  queste  cose  che  sono  dette  di 
sopra,  la  mattina  per  tempo  il  beato  Francesco  si  veslle  la 
tonica  sua, la  quale  e' portava,  e  venne  a  que'tre  compagni  e 
chiamògli  e  disse  loro:  Apparecchiatevi  dì  venire  meco  a 
Roma;  e  dispose  a  loro  silenzio  di  queste  cose,  te  quali  aviano 
udite,  e  questi  tre  suoi  compagni  furono  frate  Fiero  Cattani  [3) 


cosa  ai  addi  mandala,  nia  daccliè  piace  al  re  del  ciclo  e  della 
terra,  il  (jiiale  pelli  prieghì  della  sua  madre  groHosa  e  ver- 
gine santa  Maria  assauldisca  la  tua  orazione ,  noi  iscriverremo 
al  vescovo  d'Ascesi  e  a  quello  di  Fiiligno  e  a  quello  di 
Norcia  e  a  quello  d"  Agobbio  e  a  quello  ili  Perugia  e  a  quello 
di  Spulcio,  clii!  vengliino  al  luogo  di  santa  Maria  di  Portin- 
gola  il  primo  di  di  calenJi  d' agosto,  e  annunzino  la  'ndulgen- 
zia,  la  quale  piace  a  le. 

E  cosi  il  beato  ■  Francesco  ricevette  le  lettere  del  soitt- 
mo  pontefice  papa  Onorio  co'  suoi  compagni  aljì  predetti  ve- 
scovi e  rappresentò  le  lettere  e  procure  il  bealo  France- 
sco, che  tulli  i  vescovi  il  primo  di  d'agosto  vennono  alla 
Chiesa  di  santa  Maria  di  Poriingola,  e  ivi  vi  fu  fatto  un 
pergamo  di  legname,  nel  quale  tulli  e  predellì  vescovi  salirono 
col  beato  Francesco;  ed  essendo  rannata  gran  moltitudine  dì 
genie  intorno,  quasi  come  nei  mezzo  della  terza  del  detto  di 
disse  il  beato  Francesco  a' vescovi:  0"al  è  di  voi  che  vuole 
predicare  e  annunziare  ta  *ndulgenzia  ?  Ed  eglino  s'accordorono 
insieme  e  dissono:  Noi  aviamo  a  seguire  la  volontA  di  frate 
Francesco,  secando  il  tinore  delle  lettere  del  sanlo  Padre  mes- 
ser  lo  papa;  e  cosi  dissono  a  lui,  e  santo  Francesco  disse: 
E  io  voglio  alcuna  cosa  dire  in  cospetto  di  questa  gente,  av- 
vegna  che  io  non  ne  sia  degno,  e  annunzierò  la  'ndulgenzia 
da  parte  del  re  del  cielo,  la  qual'è  fatta  alli  prieghi  della 
sua  dolce  madre  gloriosa  santa  Maria,  e  voi  del  comanda- 
menU)  del  sommo  pontefìce  suo  vicario  s)  l'annunziercte  meco; 
e  levossi  su  il  bealo  Francesco  e  predicò  si  benignamente  e 
utile,  che  pareva  veracemente  un'angelo  di  cielo.  E  compiuto 
il  sermone,  dinunziò  le  'ndulgenzie  sopra  dette,  cioè  che  chiun- 
che  venisse  alla  predella  chiesa  di  santa  Maria  degli  Angioli, 
cioè  di  Portingola ,  ed  è  nelle  parti  d' Ascesi ,  dal  vespro  del 
primo  di  d*  agosto  fmo  al  vespro  del  secondo  di  d' agosto , 
inchiudendo  la  notte  e  'I  die.  sono  perdonali  a  lui  tutti  e  suoi 
peccati,  de'  quali  egli  è  confesso,  ed  anne  ricevuto  comanda- 
mento dal  sacerdote,  e  sono  assoluti,  e  di  quelli  che  non  si 
ricordano,  dal  di  del  battesimo  inlino  al  di  ch'entra  nella  detta 
chiesa  col  cuore  conlrilo  e  umilialo.  E  udendo  queste  cose, 


J 


—  64  — 


Sermone  che  fece  Cristo  a  la  cena  a  la  madre,  e  la 
madre  agli  apostoli;  e  questo  scrisse  santo  Ago- 
stino nel  libro  che  fece  a' Romiti. 


Leggiamo,  fratelli  carissimi,  che  santo  Cipriano  martire 
e  vescovo  disse,  che  nella  cena  del  nostro  Signore  Gesù  Cri- 
sto furono  apparecchiate  tre  mense,  delle  quali  Y  una  fu  per 
Cristo  e  per  suo'  discepoli  cioè  apostoli  /Ja  siconda'  per  la 
madre  sua  gloriosa  e  per  V  altre  donne,  quali  seguitavano  Cri- 
sto,  e  la  terza  per  li  altri  suoi  discepoli.  Fatta  che  fu  la  cena, 
innanzi  che  cominciasse  il  sermone  a' discepoli,  chiamò  la  ma- 
dre sua  benignamente,  sicondo  che  narra  il  preditto  santo  Ci- 
priano, e  dissele  che  '1  tempo  della  sua  passione  già  s'ap- 
pressimava.  0  madre  mia,  voglioti  manifestare  uno  segreto, 
cioè  che  '1  figliuolo  tuo  sarà  crudelmente  crocifisso,  legato  e 
sputato  nella  faccia.  E  veramente  so  tuo  figliuolo,  imperò  che 
ninna  creatura  è  sopra  la  terra,  che  sappia  così  certamente 
ch'io  so  vero  figliuolo  di  Dio,  come  sai  tu,  madre  mia.  Tu 
sai  che  per  T  angelo  Gabriello  ti  fu  annunziato,  come  senza 
nulla  gravezza  mi  portaresti  nel  ventre  tuo,  e  senza  alcuno 
dolore  mi  partoriresti.  Adunque,  madre  mia  sacratissima,  della 
pena  e  della  morte  mia  non  ti  dare  afflizione,  imperò  che 
cosi  conviene  che  sia,  acciò  ch'io  entri  nella  gloria  mia.  Tu 
sola  rimarrai  meco  nella  fede;  ed  i  discepoli  miei  a  modo  che 
fusseno  strani,  fuggiranno  da  me.  Tu  sola  colonna  immobile 
della  fede  mia  rimarrai  ;  tu  sola  averai  la  certa  speranza  della 
risurrezione  mia,  come  maestra  di  tutte  le  cose  secreto  di  Dio. 
Onde  ti  prego,  o  madre  pietosa,  che  quando  mi  vedrai  cro- 
cifiggiare  e  morire,  per  li  miei  cari  apostoU  al  Padre  mio 
faccia  speziale  orazione;  essi  m'abbandonaranno,  essi  mi  ne- 
garanno  e  tradiranno.  Tutte  queste  cose  si  faranno,  acciò  che 
le  sante  scritture  de'  profeti  s' adempino. 

Poi  che  la  madre  di  misericordia  ebbe  udito  quelle  parole, 
chiamò  gli  apostoli  ciascuno  per  se  e  disse  :  Ricordivi  quali  e 


far  bene,  uè  1  diavolo  non  ti  può  far  male,  se  tu  prima  non 
consenli.  Ecco  quanto  è  la  liberta  e  la  dignità  deiruomo;  ed 
avvenga  che  Paolo  fusse  cattivo,  e  per  la  vocazione  di  Cristo 
diventasse  buono  e  dottore  delle  genti,  vaso  di  elezione,  tromba 
di  verità,  ciuadino  di  vita  eterna  ed  amico  degli  angeli,  non 
vogliate  per  questo,  Tratelli  miei,  aspeture  d' essere  rapiti  co- 
me fu  Paolo;  ma  da  che  liberi  sete  fatti  per  grazia  di  Cristo, 
imparate  a  far  bene,  pensando  sempre  quello  che  fece  Dio  a 
Paolo  per  grazia  singulare,  a  noi  V  adempirà  per  la  legge  stia. 
Esso  può  tutto,  e  la  legge  guastare,  e  la  legge  adempire, 
cioè  guastarla  per  grazia  ed  adempirla  per  giustizia,  e  non 
di  meno  ogni  cosa  bene  e  ordinatamente,  e  ciò  che  fa,  fa 
per  grazia,  per  ciò  die  da  )a  parte  nostra  non  potiamo  me- 
ritai'e  nullo  bene,  ni'  eziandio  pensare.  Onde  falsamente  dice 
quello  Pelagio,  quando  pose  ed  affermò  nella  fine  della 
vita  sua,  che  per  li  merili  dellì  beni  nostri  noi  potiamo  ac- 
quistare vita  etema.  Nulla  cosa,  nullo  bene  da  noi  potiamo 
pensare,  ma  ogni  nostra  sufflcienzia  procede  e  viene  dall' etemo 
Dio,  qui  est  benedictus  in  secula.  Àmen. 


—  70  — 

sunt  Christiam  de  Etiopia ,  snbmissis  presbitero  Johanni. 
Civilas  ista  est  ad  Marmam  prope  (lumen  Sion.  Predicti 
fuerunt  taliter  deiempti  quod  nemo  illorum  a  partibus 
illis  unquam  reddidit.  Anzi  Àntoniotto  scrive  il  12  dicem- 
bre 14SS  di  aver  trovato  in  quelle  regioni  d' Etiopia  (Nu- 
bia?)  hominem  unum  de  natione  nostra  ex  illis  galeis, 
credo  Vivalde,  qui  se  amiserunt  sunt  anni  CLXX,  qui  michi 
dixit  et  sic  me  affirmat  iste  secrelarius  (di  un  Moro)  non 
restabat  ex  ipso  semine  salvo  ipso. 

Qualunque  fede  voglia  darsi  a  questo  racconto  di  Àn- 
toniotto, certo  è  almeno  il  tentativo  del  giro  delP Africa, 
intrapreso  nel  1281,  e  certa  è  Teco  di  quell'intrapresa, 
durata  oltre  la  vita  di  Dante.  Imperocché  quando  nel  1340 
Abul-Hassan  di  Marocco  fu  battuto  al  Salado,  e  gli  ul- 
timi Almoadi  furono  spazzati  via  dalla  Spagna,  Luigi  de 
la  Cerda,  discendente  da  Ferdinando  d'Alfonso  X  di  Casti- 
glia  e  da  Bianca  di  Lodovico  il  Santo  di  Francia,  si  fece 
ad  Avignone  da  papa  Clemente  VI  investire  con  bolla  del 
15  nov.  1344  del  principato  delle  isole  Fortunate,  abitate 
da  infedeli,  e  non  soggette  a  principe  cristiano  (Y.  il  Ri- 
naldi alPanno  1344  n.  39  —  Baluzio  t.  1 ,  p.  290 ,  Val- 
singio  p.,  165,  e  Ughelli  III,  423).  Praetereo,  scrive  il  Pe- 
trarca sotto  il  24  gennaio  1366  dedicando  al  vescovo  Ca- 
vagliense  il  suo  trattato  de  vita  solitaria  (Yenet.  1501,  I, 
f.  V.,  lib.  II,  tr.  VI,  e.  3),  Fortunatas  insulas,  quae  ex- 
tremo  sub  occidente  ut  nobis  et  viciniores  et  notiores  sic 
quam  longissime  vel  ab  Indis  absunt  vel  ab  arcte  terra  y 
muitorum  sed  in  primis  Flacci  lyrico  Carmine  (Epod.  XVI, 
41  ad  finem)  nobiles,  cuìììs  pervetusta  fama  est  et  re- 
cens;  eo  siquidem  et  patrum  memoria  (del  1281)  lanuen- 
sium  armata  classis  (una  armata  intera!)  penetravit,  et 
nuper  Gemens  sexttts  UH  patriae  principem  dedit;  quem 
vidimus  Hispanorum  et  Gallorum  regnum  mixto  sanguine, 
generosum  quendam  virnm  qui  (meministi  enimX  dum  eo 


—  72  — 

pena  singolare,  e  rincontm  d'Ulisse  e  di  Diomede,  non  | 
può  dopo  tante  altri!  maraviglie,  tante  altre  pone,  e  tanti  I 
non  meno  alti  incontri,  giustificare  ravvertimento  del  poeta:  1 

E  più  lo  'ngegno  alTreno  eh'  i'  non  soglio, 

PerchÈ  non  corra  che  virtù  noi  guidi: 
SI  che  se  stella  buona  o  miglior  cosa 
M' ha  dato  'I  ben,  eh'  io  stesso  noi  m' invidi. 


Il  poeta  stara   per  narrare  la  fine  d' Ufisse  diversa-  1 
mente  da  tutte  le  narrazioni  del  ciclo   troiano  ;  ed  è  per  | 
ciò  eh'  egli  deve  aPTrenare  T  ingegno  sno.  Apparecchiato  il  | 
campo  gli  era  dalle  tradizioni  antiche,  che  facevano  il  Laer-  - 
ziade  visitatore  di  Scozia  e   fondatore  di  Lisbona,  dall'  a-  1 
spettativa  di  tutta  Italia  sull'esito  dell'impresa  genovese.  On-  } 
d'ci  poteva  dire  che  un'anima  dannata  airinfemo  per  le  suo 
frodi  non  poteva  giungere  al  Purgatorio  cristiano,  lasciando 
la  speranza  di  felice  riuscita  ad  una  intrapresa  arrischiala  in 
compagnia  dì  frati  cristiani  che  s'imbarcavano  per  fini  reli- 
giosi; ma  contraddiceva  nonpertanto  alla  tradizione.  E  perchè 
ciò  ?  Perchè  dei  molti  innominati ,  che  la  tradizione  faceva 
perire  nel  tentativo  di  giungere  al  Paradiso  terrestre,  egli  da 
lìuoQ  poeta  popolare  non  poteva  sciegliero  uno  e  dargli  un 
nome,  e  da  buon  teologo  gli  ripugnava  di  farvi  perire  un  cri- 
stiano, che  t  per  una  lagrimetta  »  poteva  acquistare  am- 
bedue i  paradisi.  E  di  t:ali  cristiani  nominati  ve  n'avevano. 

Quel  santo  Nicolò,  vescovo  di  Mira  in  Licia,  che  di 
notte  passava  a  nuoto  il  mare  per  fare  la  larghezza  alle 
putceile  (Purg.  XX,  32),  divenne  soggetto  di  canti  po- 
polari. In  francese  ci  sono  conservali  de'  frammenti  che 
risalgono  al  mille: 

Seyntz,  vos  kc  alez  par  mer, 
De  cel  barun  oiez  parler, 
Ke  larit  esl  par  lui  secorahle. 
E  ne  en  mer  <•<{  l;inl  aiilatile. 


—  74  — 
Lada,  il  sole  privato  della  luce,  che  fa  le  veci  di  san  Ni- 
colò, e  di  essa  rimano  le  fanciulle: 

Santa  Lucia,  mamma  pia, 
Metti  un  dono  in  scarpa  mia; 
Se  la  mamma  noo  lo  mette, 
Restaa  vuole  le  scarpette! 

Il  benedetto  santo  nuotatore,  protettor  de*  marinai, 
avrà  dato  orbine  alla  leggenda  del  maledetto  Nicola  Pesce, 
di  cui  canta  il  buon  autore  del  Dittamondo  (  11,  27  )  : 

Nicola  bestemmiato  dalla  madre, 
Ch'ei  non  potesse  mai  dai  mare  uscire, 
Convenne  abbandonar  parenti  e  padre; 

E  poi  volendo  il  precetto  ubbidire 
Di  Federico,  nel  profondo  mare 
Senza  tornar  mai  su  si  mise  a  gire. 

Fazio,  a  quel  che  pare,  attribuisce  la  leggenda  ai  tempi 
di  Federico  svevo,  re  di  Sicilia,  meglio  per  lo  meno  dei 
commentatori  del  Taucher  di  Schiller,  che  la  fanno  dei 
tempi  de'  Ferdinandi  aragonesi.  Ma  ella  è  piìi  antica  an- 
cora; perchè  come  tale  è  mentovata  dal  trovatore  Perdi- 
gon,  che  vuoisi  morto  verso  il  1269,  ma  che  poetava  nei 
primi  decenni  del  secolo ,  e  sembra  accenni  a  (utf  altro 
che  a  discesa  tra  Scilla  e  Gariddi  per  obedienza  all'  im- 


_  76  — 

«  undc  Arrigherius: 
u  Ouem  semel  orrendìs  mactilis  infamia  nigrat, 
»  .1(1  bene  lergendum  mulla  latiorat  nqua  », 

(Biirlscli  nel  Jnhrb.  (.  roin.  lìL  XI.  43). 

I  regni  conftnati  dil  mondo  fluido,  dalle  onde,  hoq 
possono  essere  i  tre  regni  dell'Inferno,  del  Purgatorio  e 
del  Paradiso  celeste  ;  ma  si  solamente  l' isola  di  Brandano,- 
il  Purgatorio  di  S.  Patrizio.  Nell'esilio  poi,  nel  1305  (co- 
me diremo  in  altro  luogo),  vennegli  il  pensiero  di  pren- 
der l'acqua  die  giammai  non  si  corse;  il  disegno  della  Di- 
vina Commedia  fu  fatto  allora,  abbandonando  le  esercita- 
zioni latine  vergate  a  Firenze  prima  del  1294.  Giammai 
non  si  corse  ;  ctiè  Dante  non  curava  risioni  ne  di  frati  né 
di  laici,  che  troppo  dovea  frenare  la  propria 'fantasia;  ben;^ 
vantaggiavasì  pel  suo  line  delle  leggende  del  popolo,  per 
il  quale  scriveva,  e  senza  di  che  sarebbe  restalo  incom- 
preso e  avrebbe  scritto  per  sé.  Chi  negherà  ingegno  e 
vena  poetica  e  fbrma  eletta  a  Luigi  Carrer?  ma  perchè 
poco  la  sua  musa  partecipò  delle  nazionali  aspirazioni,  breve 
numero  di  amici,  non  la  nazione  il  conosce.  AtP incontro 
i  carmi  di  Giacomo  Zanella,  perchè  unisoni  al  sentimento 
nazionale,  appena  apparsi  fecero  il  giro  d"  Italia  e  d'  Eu- 
ropa; e  briosi  ufTiriali  dell'esercito  e  gravi  senatori  del 
regno  ne  recitano,  deliziandosi,  interi  componimenti  a  me- 
moria ;  come  è  fama  avvenisse  già  de^  versi  dell'  Alighieri 
0  del  Petrarca. 

Nella  Venezia  Dante  trovb  la  leggenda  del  pozzo  di 
S.  Patrizio  bene  radicala.  Pmova  n'  è.  a  Padova,  ìl  pozzo 
del  cortile  ili  Rinalilo  Scrovegni ,  oggi  corte  del  capitaniato, 
allora  detto  l'Inferno;  il  pozzo  di  Piero  d'Abano,  che  il 
(linvulo  trasporlo  dall' interno  della  corte  sulla  pubblica 
via;  il  pozzo  più  non  esistente  nu  che  lasciò  il  nome  alla 


1 


Reeius  lo  primo  di  de  ^tgm  Pieri  e  Toni  so  frodi  de  Yjà, 
cioè  di  Adegliacco.  L'iscrizione  fu  pubblicata  poi  in  fac- 
simile, ne!  qnale  uno  sfregio  del  sasso  appare  erroneamente 
per  punto  od  accento.  —  L'afUiienza  di  gioventù  colta  e 
studiosa  air  Università  di  Vicenza  (1204-9)  vi  portò  mo- 
vimento anche  nel  campo  delle  muse;  e  Tommasino  dei 
Gerchiari  di  Forogiulio  in  quelli  anni  scrisse  i  suoi  en- 
senhamens  della  Cortesia  e  della  Falsità,  non  ancora  rìtrch 
vati  in  originale,  ma  secondo  ogni  probabilità  scritti  in  dia- 
letto veneto.  —  Giotto,  (Gotto,  Gotto.  Giacotto)  mantovano, 
cioè,  a  quanto  io  penso,  il  figlio  del  poeta  piij  antico 
Visconti  di  Coito  che  s'appropriò  il  soprannome  di  El-Cort 
rivoltando  le  liue  voci,  cedigliando  il  e  e  poi  leggendosi, 
come  diceva  la  nuova  voce,  a  ritroso  (/e-lrof  =  tetros  o 
ledros  =  Sordel)  —  che  recitava  a  Dante  multai  et  bo- 
nas  canliones  orelenvs  (v,  2,  It,  13),  forse  nel  castello  di 
Cerbaia  in  vai  di  Bisenzio,  dove  a  di  10  giugno  1279  tro- 
viamo la  sua  Cunizza  da  Romano  (Ardi.  slor.  v.  n,  p.  290, 
a.  18S8)  ;  Sordello  dico,  nato  nel  1202  e  morto  nel  1282 
quando  Dante  contava  15  anni,  poetava  e  parlava  (poetando  et 
loquendo)  in  volgare  illustre  (1, 15),  vivendo  nella  Venezia  ia 
gioventù,  nella  Toscana  in  vecchiaia  ;  e  per  ciò  non  ha  parte 
alla  dilTasione  del  dialetto  veneto.  —  Ma  parte  insigne  deve 
assegnarsi  alla  città  di  Verona,  focolare  di  studi  e  di  po&j 
sia  per  tutto  il  medio  evo.  —  Un  elogio  magnifico  di  Lo- 
vato  Lovati ,  poeta  veriiacx)lo  e  satirico ,  ci  ha  lascialo  il 
Petrarca.  Il  Lovato.  morto  nel  1309,  potè  farsi  leggere  fia 
dal  1250,  perocché  nel  1274  lo  troviamo  fra  gli  anziani, 
vale  a  dire  più  che  quadragenario.  E  Padova,  citt.^  univer- 
sitaria fin  dal  1222 ,  certamente  contribuì  alla  diffusione 
del  dialetto,  poiché  Dante,  scrivendo  a  Padova,  non  cono- 
sceva che  un  solo  poeta  padovano  che  .■^e  ne  fosse  scostato. 
Così  convien  credere  che  Marco  Grioni  (  il  Marco  Lombardo 


—  80  — 
riconobbe  il  chiaro  editore  stesso ,  e  che  si  scorge   larga- 
mente  nel  Tesoro  di  Uaìmondo  conservalo  nella  Marciana  (1). 


(i)  Per  lo  studio  <li  quel  dialeUo  aniccipiamo  qui  intanto  brete  e- 
strallo  dal  codice  N.  531  della  R.  UniTcrsili  di  Padora,  contenente  stadi 
grammaticali  latini,  tra'  quali  T'hanno  i2  carte  di  vocabolario  latino-ber- 
gamasco. Il  codice  è  del  cinquecento,  ma  il  TOcaholanelto  palesasi  per 
l'ortografia  copialo  da  altro  del  quattrocento;  non  6  senu interesse  an- 
che pel  latino  mcdioeTale. 


hic  et  hcc  inraos,  h  fanti  e  la 

fantina. 
senectus,  la  compagnia  di  veg. 
senecla,  la  edad  del  veg. 
hoc  sincipuiiuin,  la  parie  denanx 

dd  elio. 
hoc  occipulium ,  la  pari  de  dred 

hoc  sincìpul,  ol  zuf  denani. 
hoc  occipul,  ot  luf  de  dred. 
hcc  culis,  la  codga. 
hcc  culclla,  ol  spluri  de  la  . 
hic  capillos,  ol  caael  del  lioi 
beo  criois,  ol  cavel  de  la  fé) 
cesaries,  fa  cexa  del  hom. 
coma,  la  ceia  de  la  fetnna. 
craneum,  la  erapa  del  eho. 
Trons.  rijs 


eodga. 


pinila,  la  cuna  del  nat. 
mucidas,  a,  uni,  cosa  micimoia. 
mongo,  is,  per  mochà. 
nasitergium,  ol  modtarol. 
lif  0,  as,  per  sbadagià. 
slemulo,  as,  itranudà. 
hyatus,  lo  sbadagià. 
stran ulns,  ol  slranud. 
labium,  laver  del  hom. 
gingira,  la  g^ngioa  de  la    femna. 
gena,  la  gotta. 
malj,  ol  (noi  de  la  golia. 
dcns  praecissor,  ol  detti  da  nam. 
dens  caninus,  ol  dcnt  ogiàl. 
mobrìs,  ol  ganasàl. 
mordeo,  es,  per  piar  eoy  denti. 
ntastigo,  per  biasar. 
mhnln,   )i/T  imlxicai: 


belino  (1293)  insegna  nel  suo  Reggimento  delle  donne 
(Roma  1815,  p.  S),  che  gli  scrittori  non  erano  obbligati  a 
schivarìi  : 


Ileo ,  per  piantar  eoli  lagrimi. 
Ingeo,  per  piaiwer  mj/  piuri. 
bcrìiDor,  per  pianter  cum  tnent 

abatuda. 
gemo,  per  pianser  denler  da  ti. 
ploro,  per  pianier  in  vos. 
plao^,  per  pianur  cum    bali- 

meni. 
planctas,  oJ  piani  co  U  ma. 
lersorioin,  ol  bedoseh. 
Iacee,  per  tati  inani  che  ic  parti. 
sileo,  per  Casi  pò  eh 'è  t'à  parlad. 
mntesco,  per  /i  mtU. 
mudo,  per  mulesà. 
surdesco,  per  fi  lord. 
ocilo,  as,  per  cignià. 
screo,  per  td&reayà. 
screa  Uim,  ol  tcarehayo. 
anelo,  per  re/iadar. 
alg'oror,  per  infregiàt. 
algor,  ol  fregiar. 
digero,  per  paylì. 
digesiio,  ol  payli. 


De  TMtilltU  8t  BBia 
pertinentibu 

interula,  la  eamisa. 

serabalom,  ta  braga. 

iumbar,  ol  bragarol  over  ot  icng. 

aluda,  ta  stringa. 

stapiludiam,  la  tiratha  da  pichà, 

ta  siringa. 
diplois,  ol  suparel  over  ol  lupo, 

over  ol  tack  (*). 
pignolalum,  ol  fustà. 
bombii,  ol  vermatol  che  faol  bom- 

bas. 
pi  Ilo  [ora,  la  pignadura. 
cardo,  ol  garto. 
discrimino,  per  scarleià. 
melloia,  ol  tabar. 
perula,  la  igiavina. 
coacius,  ol  borda. 
epitagìom,  ol  guarnazo. 
tunicha,  la  eotardida. 


—  84  — 
NoD  tarò  mennglia  perciò,  se  ne  vediamo  aodie  ne''  versi 
dì  Romagna;  a  mo'  d'esempio,  nel  sonetto  burlevole  di 


gleba,  la  tota. 

I,  la  mtAla. 


Do  OTM  Bt  pertinMtlbu 


nuxtorìniD,  la  remra. 

seilarios,  ol  tUr. 

manipulas,  la  lava  over  la  branca. 

milicatiala,  la  mtigaiada. 

legumen,  ol  («m. 

laba  (ressa,  ta  fava  frangia, 

cker  fressnm,  ol  cùer  frag. 

wotms,  la  roveya. 

siliqua,  la  toorxa  del  letn. 

acns,  ol  granai. 

loliun,  oJ  piolo. 

óiania,  la  lirga. 

tribola,  ol  flavel. 

trìbolo,  as,  per  bai  i 

merges,  la  dmva. 

palleare,  ol  payer. 

(rìtoro,  ptr  tretchà. 


n  hera. 


SolTaliniiii,  lomelafi  over  el  fodia. 
olerinus,  coia  de  citen. 
stipes,  ol  zoch, 
cophinos,  ol  cofvn. 


De  ubIbaU  et  perUnentibus 
^  euAÌiiAtui 

ciatos,  la    layna  ooer  el  moyol. 
sa],  la  Kà. 

salìnum,  la  (basca  de)  la  sai 
p;as,  la  suila. 
bic  vel  bec  adeps,  l'aief. 
artoiira,  la  torta  del  formag  ('). 
artiboUiia,  ol  casojuei. 
biseUns,  ol  forici  de  paddìa. 
manatortam,  ot  eaton^  de  pasqua. 
pasiillus,  ol  motA  over  ol  madutrg^ 
lagianom,  la  foyada. 
coidolum,  ol  companàdeg. 
vinum  citrìnnin,  ol  vi  cimi. 
poQlbicus,  cosa  t> 
arceus,  ol  tediai. 


loda  il  faentino  Ugolino  Bacciola,  che  da  qnel  parlare  si 
rivoltasse.  Per  il  che  sembra  a  me  Ugolino  abbia  voluto 


rancoro,  per  savi  da  nwfa  cuni    maUirus,  oota  madura,  maruda. 


t  la  cdren, 
rancibulus,  a,  nm 
è  la  cartn. 
macidas,  a»a mu/lela cum iti pd. 
carnea,  la  camola  de  la  earen. 
linea,  la  parma. 
linealQS,  cota  parmada. 


De  p«mi  et  ndi  psrHnutDnu 

jegts,  la  vela  omt  la  carerà. 

Tegilicalus,  ol  vetdl. 

yJnicoiKlra,  la  boiioia. 

colus,  ol  BOlirol. 

armila,  la  brerUa. 

Dter,  ris,  l'oder  over  la  boga. 

geroUa,  fa  civera. 

circumleatea,  la  eagnia  day  cirg. 

circulos,  ol  cirg. 

torqub,  la  itropa. 

torqnilas,  ol  itropèl. 

siler,  la  pendola  <qv^  herbal, 

calco. 


bolTDS,  ol  grd  de  l'uva, 
ransa  cum     racimas,  ol  rampai  over  ol  gra- 
pel. 
palmea,  ol  gartol  de  l'uva. 
tJrsnm,  la  troia. 
acitnum,  ol  vinasol. 
usta,  la  eavagnia. 
cutella,  la  eavagniola. 
corìnphus,  ol  eavriol  de  la  vid. 


De  rtalnUo  et  pertlsentìbu 
èA  itabaliH 

sonipes,  ol  deitrer. 
troUnas,  ol  rond. 
iumenlan),  ol  cavai  da  basi. 
clitearius,  ol  tomer. 
succusarìiu,  ol  troler. 
quadrupedarius,  ol  porleler. 
mando,  is,  per  mangia  ol  fré. 
frenum,  ol  fré. 
capìstrum,  ol  sogiL 
luiika.  la  e 


dolo  infarcito  di  qoMche  modo  del  volgare  veneto,  sonetto 
che  fa  inteso  da  Dante  neir  allegazione  di  cotesti  due 
vezzeggiativi  : 

Ocli  de  la  Goradal  eo  m'ender  nego. 
E'fero  in  Truscana  cb'ed  viva; 
Abbian  mercè  de  l'anima  gaittiva, 
Digando  ice  per  mi  vi  piazza  il  prego. 


borit,  la   coca  dei  cor  over  la 

tìiva. 
Tomer,  la  matsa. 
bigarvalis,  ol  pio. 
cantus,  ol  gavtt  de  la  roda. 
modiidus,  ol  co  de  la  roda. 
orbila,  la  «prua  de  la  roda. 


et  itii  pertlaeiUliKS 

TiciniB,  e,  la  vUnexa. 

tìcds,  la  maiala  over  la  pùua. 

templom,  la  tetia. 

aocbona,  l' andana  over  la  mai- 

ilad. 
bmpas,  la    lampada  over  ol  ci- 

tendel. 
r,  (impersonale)  a (  fl  w 


Ito  wte  «t  ehi»  pertiiintfltna 

sUlio,  (officina),  la  ttaxù. 
pilìda,  la  pinola. 
pL  passule.  li  tiveli. 
pi.  tibe,  Il  lebidi. 
papirotuin,  ol  btuolot. 
piiis,  la  bumla. 
Btnuneatuni,  lo  incoiUr. 
iocos,  la  inchìten. 
ìiKixInla,  la  indritneta. 
fen-Qgo,  la  dogata  del  ftr. 
sera,  la  rasga. 
leviga,  la  piolo. 
lerigula,  ol  ploltì. 
lenibnun,  ol  gxrobi. 
caTaniu,  ol  seti. 
'juadrarifiula,  la  squadra. 


—  90  — 

tempo  prima  del  Volgare  Eloquio,  e  tprobabilmente  tra  il 
1270  e  1280,  quando  la  fama  del  volgare  illustre  di  Guido 
Cavalcanti  dava  ai  Fiorentini  un  certo .  sentimento  di  supe- 
riorità. Il  manoscritto  la  porta  sotto  il  prenome  di  messer 
Osmano  ;  e  messer  Osmano  Castra,  o  Castratutti,  non  è  al- 
tri che  il  ser  Manno  del  cod.  chigiano  574 ,  il  quale  nel 
sonetto  pubblicato  dal  Crescimbeni  (III,  73)  buffoneggia 
la  scuola  guittonesca.  Pubblicandosi  per  la  prima  volta, 
ed  essendo  d' importanza  per  l'attinenza  al  Volgare  Eloquio, 
riproduciamo  esattamente  il  testo,  mandando  però  nelle 
note  ciò  che  riteniamo  del  copista.  Le  voci  in  corsivo  tra 
parentesi  sono  aggiunte  da  noi,  onde  far  camminare  me- 
glio il  verso  d'una  canzone,  che  fu  detta  da  Dante  perfet- 
tamente ligata. 

MESSER  OSMANO 

'Na  Permana  (1)  iscoppai  da  Gasciòli; 
eletto  detto  sa  già  in  grand' afna; 
e  cecino  portava  im  pignòli, 
saìmato  di  buona  salma. 
Disse:  a  te  dare'  rossi  treciòli 
e  operata  cinta,  s'a  maitina  (2) 
seco  meco  ti  dai  ne  la  caba, 
(se  mi  viva  mai!)  e  boni  scarponi. 
So  e'  a  te  malico]  fa  t  che  caba 
la  fantina  di  Ciencio  Guidoni. 

« 

Kandotto  meo,  me  l'ai  comannato! 
cà  l'ai  lene;  va,  dà  a  le  rote 
iqual  sòcolo,  vitto  ferrato 


(1)  Il  cod.   Vna  fonnana 

(2)  martina 


—  92  — 

—  E  io  pib  non  ti  ^ccìo  ru  busto, 
poi  cotanto  (tu)  m'ai  sucotata; 
vienci  ancoi,  no  sia  Pirìno  Busto, 
ed  adoc^iia  nom  sia  stimulata. 

A  l'aborto  ne  gio  alaterato, 
ch'era  aWato  senza  follena; 
1  (1)  battisacco  trovai  bel  lavato, 
e  da  capo  mi  pose  la  sciena; 
e  tutto  quanto  mi  M  comsolato, 
ce  sopra  mi  gitt6  buona  legna; 
e  con  esso  mi  fui  appatovito, 
e  unqua  mt{i]  non  vi  abrei. 

—  Ma  i  fai  com'omo  isciooito; 
be'  mi  pare,  che  tu  mastro  èi. 

Pralellevolmente  a  lato  a  questi  dialetti  rustici  o  me- 
diocri, al  pugliese  di  cui  Daate  allega  il  verso 

Volzera  che  cbiangesse  lo  quatraro 

e  al  siciliano  di  Vincenzo  d'Alcamo,  conservatoci  in  tradu- 
zione pugliese,  viveva  di  vita  vigorosa  il  volgare  illustre, 


Calcioli,  Gasòli,  terra  degli  Abruni  —  aina,  fretla  —  cocino,  cuscino 
—  taimalo,  saponaio  —  trecioli  lenuoli.  »  Li  minori  (astori)  sono  n 


—  fti  — 

onde  gli  altri  poeti  toscani  scrissero  più  in  volgare  me- 
sciiiato,  che  non  nel  dialetto  proprio;  e  perciò  male  fa- 
rebbesi  supponendo  arbitrio  de'  copisti  quello  che  fu  ele- 
zione dell'autore.  Certamente,  leggendo  nel  testo  a  penna 
della  Vaticana  di  sopra  citato  le  seguenti  rime  di  trovatori 
toscani,  facilmente  ci  persuaderemo,  clfesse  possono  es- 
sere stale  scritte  dagli  autori  in  questa  forma  che  ce  le 
porge  il  codice,  copiato  da  altri,  e  que^i  compilati  dai 
Togli  volanti  de'  giullari. 

e.  12.  n.  XLIII.  —  Messer  Jacopo  Mostacci. 

A  pena  pare  eh'  Jo  saccia  cantare 
N6  gioia  (1)  mostrare  che  ileggia  plagirc; 
C'a  me  medesmo  credo  esser  furalo, 
ConRlderando  a  lo  breve  partire. 
Ma  se  non  fosse  eh"  è  piii  da  laudare 
Queir  uom  che  sa  sua  voglia  coverire, 
Quando  gli  avene  cosa  olire  'n  suo  grato, 
Non  cunLerla  né  farla  gioia  parire. 

Ma  però  canto,  donna  mia  valente, 
Ch'  io  so  veracemente , 
C*  assai  vi  gravèria  di  mia  pesanza; 
Pur  cantando  vi  mando  allegranza, 
Che  crederete  di  me  cerlamenle, 
Poi  la  vi  maudo,  eh'  io  D*aggio  abondanza. 

Abondanza  non  n'ò,  ma  dimostrare 
La  voglio  a  voi,  da  cui  mi  suol  venire; 
Ch'io  non  fui  mai  allegro  né  confortato, 
Se  da  voi  non  avesse  lo  verdire  : 
Cosi  come  candela  che  rischiare , 
Prendendo  foco  dà  ad  altra  vedere; 


(1)  Messer  Jucopo  Mns 
tiOìiill^liQ.  Cosi  iMjw  {ao'). 


—  96  — 

Ben  m'averia  per  servidore  avuto, 

Se  non  fosse  di  frode  adomata  ; 

Perchè  lo  gran  dolzore 

E  la  gran  gioia  m' è  stata,  i'  la  riGuto. 

Ormai  gioia  che  per  lei  mi  fosse  data, 

Non  m'averia  savore. 
Però  ne  parto  tutta  mia  speranza; 

Ch'ella  pari  à  del  pregio  e  del  valore; 

Che  mi  fa  uopo  d'avere  altra  intendanza, 

Ond'io  aquisti  ciò  che  perdei  d'amore. 

Però  se  in  altra  intendo,  da  ella  parto; 

No  le  sia  greve  e  no  Ile  sia  oltraggio  ; 

Tant'  è  di  vano  affare. 

Ma  ben  credo  savere  e  valer  tanto. 

Poi  la  soglio  avanzare,  c'a  dannaggio 

Le  saveria  contare, 
Se  non  fosse  (aUri)  'n  ella  qual  eo. 

Chi  sì  fa  dire  tanto  misdicente. 

Cassai  vai  meglio  partire  da  reo 

Segnore,  alungiare  buonamente. 

Om  che  si  parte  a  lunga,  fa  savere 
Di  loco  ove  possa  essere  affannato, 
E  tra'ne  suo  penserò. 
Ed  io  mi  parto  e  traggono  volere, 
E  doglio  de  lo  tempo  trapassato. 
Che  m'è  stato  falUre. 

Ma  non  ispero,  c'a  tal  segnoria 
Son  servato,  che  buono  guiderdone 
Àveraggio;  che  per  zò  che  nobria, 
Lo  ben  servente  merita  a  stagione. 

e.  13  n.  XLVnL  —  Messer  Jacopo  Mostacci. 

Mostrar  vorria  in  parvenza 
Ciò  che  mi  fa  allegrare, 


—  98  — 

C'ogD'oino  golea  famn  e  segooria, 
Ed  egli,  ove  piit  potè ,  più  s*asconde  ; 
Se  vene  ìd  pala  (1),  perde  sua  vertute. 
Uedesmamente  à  colpa  de  ramante, 
Però  c'avante 

De'  omo  andare  in  cosa  che  ben  ama, 
Cà  per  ria  fama 

Gran  gioie  e  gran  ricchezze  son  perdute, 
E  rie  parole  gran  fatto  confonde. 

,  V.  Q.  LXXXVU.  —  COMPAGNETTO  DA  PrATO. 

Per  lo  marito  curare 
L'amor  m'è  'ntrato  in  coraggio; 
Gà  per  lo  suo  lacerare 
Sollazzo  e  gran  bene  aggio. 

Tal  penserò  e'  non  l'avia, 
Che  sono  presa  d'amore; 
Fin' amante  aggio  in  balia, 
Che  'n  gran  gioia  mi  fa  stare. 
Per  lo  mal  che  colui  ag^. 

Geloso,  battuta  m' Ai  ; 
Piaccti  di  darmi  doglia; 
Ha  quanto  più  mal  mi  fai , 
Tanto  il  mi  metti  più  in  voglia. 

Di  tal  uom  m'accagionasti. 


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—  100  — 

Ha  per  eh'  io  mi  ti  laoiento 
D'  una  mia  disaventura, 
Non  aver  ta  pensamento 
Che  d'altro  amwe  aggìe  cura, 
Se  non  br  tuo  piadmeuto. 

e.   i».  ▼.   D.   LXXXVIU.  —   COMPAGNETTO  DA  PhATO 

L'amor  Ta  una  domia  amare. 
I^ce:  Lassai  com'braggioT 
Quelli  a  cui  mi  voglio  dare. 
Non  so  se  m'à  'n  suo  coraggio. 

Sire  Dio!  s'è'  lo  savesse, 
Ch'  io  per  lui  sono  al  morire, 
0  c'a  doona  s'arenesse, 
Manderìa  a  lui  dire. 
Che  lo  suo  amore  mi  desse. 

Dio  d'anuK",  quel  per  cui  m'  ài 
Gomquisa,  di  lui  m'aiuta; 
Non  l' è  onor,  se  a  lui  non  vai. 
Combatti  pur  la  reuduta. 

Dio]  ch'ell'avessero  usanza 
L'altre  d' iochìeda'  d'  amare, 
Ch'io  inchedesse  lui  d'amanza, 
Que*  che  m' i  u4to  1  posare. 
Per  lui  moro  fw  Manza. 


..•.:•■■.  ••■."•—  102  — 

dift'sè  ventura  d*  la  rota  à  fermezza 
,     'Indel  altezza  —  di  voi  che  mostrate. 
In  ciò  considerate  —  ch'io  son  vostro 
Più  che  del  mio  cantare  non  vi  mostro. 

Se  non  vi  mostro  le  pene  e  la  doglia 
Che  per  amor  patisco 
Temendo,  eo  veo  son'  de  pauros<^ 
Che  'aver  di  me  non  vi  si  sforzi  voglia 
Del  penar  ch'io  norisco, 
Inorando  voi  son'  ne  dubitoso. 
Ma  80  che  possedete  canoscìeoza 
Di  che  s'agienza  —  tutta  botoianza, 
Onde  la  mia  sp^^nza  ~~  si  conforta , 
Gom'  fò  fenicie  a  rinnovar  s'ammorta. 

Morir  meglio  mi  fora  naturali, 
Pensando  li  martiri 
Cb'  i'  ò  patuto  e  pato  nott«  e  dia 
Con  altre  cose  non  mi  sono  [a]gaali. 
De!  li  mie!  desiri 

[Co]m'èD  compresi  di  voi,  donna  mia) 
Non  l'auso  dir,  che  la  mente  b  raminga. 
Né  da  la  lingua  —  non  pò  provenire. 
Potendomi  salire ,~  se  v'è  'o  plagienza, 
Come  Taringhe  fan  contro  a  correnza. 

A  tale  corso  mi  donao  natura. 
Non  mio'  posso  partire. 


—  104  — 

lo  non  so  dire,  e  vMia 
La  voglia  mia 
Contar  pa  mio  parlameoto 
A.  qudla  che  m' à  io  balia. 
Ila  non  so  mia 
Ch'io  possa  teaet  ifabento. 
Cà  di  ab  che  m'è  mestiere 
Aggio  senno  e  soffrenza. 
La  Dompot^iza 
Hi  f»  dolere  in  coraio, 
Gom'  quelli  che  per  usalo 
Tuttor  perde  sua  semenza. 
Di  benvo^enza 
Similmente  è  il  mio  danaio. 

Lasso!  perchè  sono  o  fìii 
Amante  a  cui 
Lascio  di  dire  per  paura, 
Non  smo  come  colui 
Glie  per  altrui 
Si  mette  in  aventura. 
Gom'  temente  fo  follia, 
E  vegDO  a  me  stesso  meno. 
Tanto  son  leno 
IM  dir  molto  che  mi  vaglia) 
Pili  temo  il  dir  che  battaglia. 
Paura  mi  tiene  in  tKm; 


—  106  — 
SI  corno  Adam,  lo  primo 
Omo  da  Dio  crìaio, 
Fue  sadotto  per  agnolo  maligno , 
Secondo  cbe  noi  sverno , 
Odo  cbe  Aie  ingannato 
Porgendo  ad  Eba  'i  pome  de  lo  legno: 
Cosie  eo  per  disdegno 
Da  una  par  sua  vegno 
Di  tal  guisa  scbernito; 
Cà  s^  io  fosse  sciopito, 
Noi  doveria  potere 
Soffrir  lo  suo  volere, 
Chi  noi  l'avea  fallito. 


Già  no'  le  minospresi, 
Per  nessuna  cagione 
Non  osservasse  '1  suo  comandamento. 
Secando  cb'io  inlesi. 
Data  mi  Aie  inlenzone 
Pur  a  soa  mossa  e  a  suo  cominciamenta 
Di  danni  compimoito 
A  tutto  il  mio  talento, 
Quando  fosse  ragione. 
Or  m'alleva  cagione, 
Portami  blasmo  assai. 
Già  unque  non  pensai. 
Cantasse  a  tradigione. 


Che  no  volle  menlire; 
Poi  eirebbe  dalo  il  bollo. 
Ad  Artd  re  &h  molto. 
Lì  si  diede  in  servenza. 

Donna,  nel  dire  meo, 
Merzè,  fede  pognate, 
El  mio  prego  inlendiate. 
Che  giusio  far  lo  creo. 
Cosi  piacesse  a  Deo 
Di  voi  dare  umiliale. 
Pregovi  sol  che  reo 
Non  vi  sia,  né  lardiate 
Di  darmi  liberiate 
De  la  gioia  c'aver  ileo. 
La  quale  m'imprometie 
La  vostra  maestate. 
E  voglio  che  sacciate, 
Donna,  che  'I  lardare 
M'ha  messo  in  tal  penare, 
Che  mone  non  n'è  reo; 
Che  sono  in  tempestale 
Più  fera  che  di  mare. 


lOS  — 
Non  posso  argomenlare 
Per  lo  perire  veo. 

Donna,  poi  mi  convene 
Perir,  non  vo'  che  sia 
Null'iiom  che  di  me  dia: 
—  Vilmente  morto  ene  — , 
Che  no  argomente  bene 
Che  scampalo  saria  ; 
Se  tosto  non  mi  vene 
Da  voi  conforto  mia, 
Non  tarderaggio  dia, 
Paleseraggio  che  òne 
Lo  male  in  che  mi  tene 
La  vostra  segnoria  ; 
SI  che  s' alcun  nom  fia 
Che  li  doglia  del  male 
Ch'  i'  ò  d'amor  mortale, 
Che  saccia  le  mie  pene, 
Cosi  forse  porla 
Trovar  pietanza  in  tale 
Che  medicina  quale 
Mestier  mi  fosse,  avre'  ne. 


E  sebbene  ì  due  sonetti  che  seguono ,  sappiano  un 
po'  più  del  dialetto,  e  contengano  maggior  copia  di  me- 
sàdari,  io  non  dubito  che  (ili  autori  li  abbiano  dettali 
quali  stanno  nel  codice.  Maglio  è  fiorentino  al  certo;  il 
nome  suo  è  preso  da  uno  de'  nomi  di  Boezio ,  che  nel 
poema  romanzo  della  prima  metà  del  secolo  X  snona 
MalUos,  ne"  casi  obbliqui  Mallio,  cioè  Manlio.  Questo  Ma- 
glio dugentista  vuoUì  da  alcuni  progenitore  di  Antonio  di 
Matteo  BiifTone  araldo  di  Firenze  a'  tempi  di  papa  Euge- 
nio IV.  Che  cosa  abbiamo  da  ritenere  intorno  a  ciò,  ne 
dirà  il  chiarissimo  storico  Gaetano  Milanesi,  che  del  nomi- 
nalo .\ntonio  e  di  sua  famìglia  ha  raccolto  quanto  si  pub 


—  110  — 

E  son  moDlato  per  le  quattro  scale, 
E  son  assiso;  e  dato  m'ai  feruto 
De  Io  dardo  de  l'auro,  ond'  6  gran  male; 

E  per  merzede  lo  cor  m'à  parlulo. 
bit  quello  bello  bimbo,  tat  altrettale 
A.  quella  per  cui  questo  m'è  avvenuto. 

E  parimente  leggendo  il  segueote  soaetto  doppio  di  Monte 
d'Andrea  di  Firenze  a  ser  Clone  notaio  in  risposta  ai  so- 
netto :  Venuto  è  boce  di  lontan  paese  —  pubblicato  dal 
Trucchi  I,  186: 

e.  165. 

I  baron  de  la  Magna  barn  fatto  impero. 

E  conquistarlo  credono  a  ragione; 

Se  me  vogliono  amico  a  lai  mesterò, 

Nom  faccìan  dalla  chiesa  partigione. 
Eo  son  ben  certo,  che  lo  lor  penzero 

E  i'ovra  tutta  è  'n  bona  condizione; 

Lo  specchio  ha  bene  ciaschedun  slranero 

Di  non  avere  falsa  openione. 
Or  vuo'li  dica,  amico,  lutto  il  vero? 

Convien  'n  cfTetto  avvegna  la  lezione. 

Io  ne  laudo  Dio  e  messer  san  Pero, 

Che  de  la  chiesa  ancor  ci  è  lo  campione, 
lo  non  mi  credo  voglia  esser  guerrero 


—  Fosse  vera!  — 
Morte,  al  cor  m'adduce. 

La  tua  luce 

Che  riluce 

Sovr'ogD' altro  splendore. 

Già  consuma 

Mo  c'alluma; 

SI  mi  strane  Amore. 

SI  m'à  priso 

E  conquiso 

Dì  cort  uà  benvoglienza , 

Che  niente 

ìNfrà  la  gente 

Paté  mìa  vogUenza. 

Chi  mi  vede. 
Di  te  crede 
Caggia  pensagione, 
E  la  fede 
Mia  non  crede 
Ch'egli  aggia  ragione; 


Che  il  mio  core 
iSlà  'o  errore 
Pur  di  (e  pensare: 
A  null'ore 
'Un  fa  sentore 
Se  non  di  te  amare. 

Io  prego 
Senza  nego 
Che  n'aggie  pietanza: 
Teco  le  gio'. 
Meco  il  pregio 
E  tutta  mia  speranza 
e  Te  conforti , 
e  Me  desporti, 
Ch'[r]  era  senza  noia; 
Non  mi  porti 
Di  conforti 
Nell'angore 
Croia; 
Gioia 

Mi  doni,  che  amore 
'  Non  m'ammorti. 


Gerlameiite  panni,  che  Dante  poteva  sapere  quale 
fosse  ta  lingua  di  corte  di  Federigo  U,  di  Enzo,  di  Man- 
fredi; e  distìngueudo  i  poeti  da  lui  citati  dagli  altri  siS- 


—  iU  — 
il  principio  d' una  canzone  clic  dal  Valerìanì  è  attribuita  a 
Simbuono  giudice: 

Spesso  di  gioia  nasce  una  encomenza. 

Che  adduce  dolore 

Al  core  Immano,  e  pargli  gioi  sentire, 

E  fhitto  nasce  dì  dolce  semenza 

Ch*è  d'amaro  sapore, 

E  spess'  hore  V  ho  visto  addivenire  — 

e  canzoni  di  altri  bolc^esi  e  toscani.  Dal  citato  passo  di 
Dante  e  dal  titolo  del  libro  di  Giammaria  Barbieri  non 
discende  dunque,  che  ciò  che  fu  detto  siciliano,  sia  stato 
scritto  in  dialetto  siciliano.  Ma  ben  senza  fondamento  no- 
gherebbesi  fede  a  Dante,  quando  afTerma  che  tale  canzone 
di  Guido  delle  Colonne  fu  dettata  in  volgare  illastre,  e 
tale  altra  di  Vincenzo  d'Alcamo  in  siciliano  mediocre:  in 
siciliano,  non  in  pugliese.  Questa  egli  può  aver  sentilo 
dair  autore  stesso  ore  tenas  ;  e  se  non  egli ,  il  suo  amico 
Guido  Cavalcanti  e  il  suo  maestro  Brunetto  Latini  possono 
aver  conosciuto  di  persona  la  massima  parte  de'  cortigiani 
di  Federigo,  e  appreso  le  loro  canzoni  dalla  bocca  d^li 
autori,  anziché  da'  giullari,  o  dai  libri. 


I.a  leggemla  cIip  piihlilicliianin,  si*  non  fosse  a  docu- 


SEGUE  LA  LEGGENDA. 


S;ipiè  che  in  lo  tempo  clic  saa  l'atrìcio  lo  guinilo  s)  an- 
ilKva  predicando  in  Iilandia  la  parola  del  nostro  signor  Jesii 
Cristo  (1),  Dio  sì  conrermà  la  sua  pridicn  e  li  soi  sermoni  con 
molti  e  gloriosi  e  gran  miractiU.  Qncslo  sancto  Patricio  si  IrovA 
ìsk  gente  de  giielle  c<l<ide  mollo  salvadege  a  poderi!  Tar  creder 
in  la  fede  de  Jesii  Oislo,  si  die  s'eli  Tosseno  stadi  genie  sen^a 
intellelo,  serave  slade  asse.  EHI  erano  corno  bestie.  E  p&nò 
se  faiigà  molto  granmente  per  poderlì  insegnar  ed  amagistrar 
in  la  sancta  fede,  predicandoli  de  h  pene  de  lo  inferno,  e  de 
le  alegrt^ce  e  coie  del  paradiso,  sperando  per  (juello  tirarli  a 
far  creder  in  Jesi'i  Cristo  ed  in  la  lege  cvanj^elica.  e  farli  ro- 
magner  de  li  soi  grandi  peccadi  pei-  la  jiauru  de  le  pene  de  la 
inferno.  £  si  pensava  de  confermarli  in  la  fede  per  dolct>V^i  de 
le  zoie  ed  alegrece  de  paradiso,  afocliè  li  s^  melesse  a  far 
bone  opere.  Mo  lo  sancto  omo  si  se  faligava  indarno,  e  poco 
li  valeva  ;  impercocb'  eli  dixeva ,  eh"  eli  non  lo  crederave  tama' 
I  (?)  eterno,  se  algun  de  loro  non  vedesse  le  pene  de  lo  in- 
ferno e  le  alegrece  del  paradiso,  digaadoli  che  tiito  quello  che 
lo  dixeva,  si  lor  pareva  frasche  e  ^ani^e.  Mo  san  Patricio,  lo 
ijual  iera  molto  inlentivo  e  sollicìlo  a  servir  lo  nostro  signor 
Dio,  sì  comeni;^  mollo  a  Jù^inar  ed  a  vegiar  ed  e  (3)  far  cordiat 
oralioo  a  lo  nosli-o  signor  Dio  per  la  saliide  de  le  anime  de 
quello  puovolo,  lo  guai  si  iera  grande  sen<;a  numero.  Alelìn 
lo  nostro  signor  Jesii  Cristo  nn  corno  sì  li  se  demoslrà,  corno 
elo  li  aveva  fato  de  le  altre  volte,  che  molle  liade  lo  li  era 
aparesto  vìsìbilnienle  in  forma  umana.  Cristo  si  li  dona  nn  libro, 
in  lo  qual  icraiio  scriti  luti  li  vangelìi  de  tuli  qualro  vangelisti, 

(t)  Il  codice  iiorld  scmpru  l'abbruviBlui'a^  yhu  X|io. 

(2)  in,  avendosi  caina'  in  Malleo  ile'GrilIoni.  Ha  poln^bbu  aiiirlie 
enervi  omniessu  U  jii'up.  in. 

(3)  Troveri'ino  ancora  Ve  in  fona  dulia  prciKisìiioiii:  a. 


—  118  — 

a  quello  tempo  dentro  molti  omeni  per  purgar  luti  li  lor  pec- 
cadì  e  per  far  la  lor  penitencìa  in  un  comò  ed  in  una  notte; 
e  quelli  die  retornava  indriedo  de  là  dentro,  si  disevano  tuto 
quello  eh'  eli  aveva  vigudo  (1)  ed  oldido,  coiè  (2)  de  li  gran 
tormenti  de  li  peccadori  e  de  le  grande  alegrece  de  li  (usti. 
E  san  Patricio  si  confermava  li  lor  ditti  digando,  corno  Dio 
li  aveva  revelado  la  fossa  e  le  cosse  le  qual  ìeraoo  dentro. 
E  santo  Patricio  si  feva  senlar  a  li  soi  più  coloro  ctii  ierano 
stadi  là  dentro,  e  quando  elo  lor  aveva  predicado,  si  feva 
eh'  eli  confermava  la  so  predica  per  vecuda  e  per  olduda.  E 
quella  fossa  si  sé  chiamaiia  purgatorio,  ìmpercochè  là  dentro 
se  pui^  li  peccadi  che  stanno  commessi;  e  lo  moDasUer  sé 
chiamado  RegiUi  Modredo.  —  (3)  . . . .  de  la  morte  de  santo 
Patricio,  lo  prevosto  de  quella  gesia,  lo  qual  iera  un  gran 
valente  omo,  e  si  iera  vegnudo  si  vechio,  che  lo  non  aveva 
se  non  solamente  un  dente  in  gola.  Ed  in  percò  elo  se  fesse 
far  una  cella  un  pocu  largo  de  lo  monaslier,  e  si  sse  messe 
a  star  dentro  solo  con  un  «ago  (4),  acochè  li  coveni  de  lo 
monastier  uon  lo  avesse  in  fastidio  et  in  desprexio  per  la  sua 
gran  vechie^^.  E  si  non  se  voleva  più  piar  (5)  con  essi,  né 
f^  lor  despiaser.  Elo  tolse  lo  dito  (6)  de  misser  san  Gregorio, 
che  disse  in  uno  suo  capitolo,  che  ma  stando  aocora  l'omo 
e  la  femena  vechi  infermi,  eli  sono  dìsprìxiadi  et  tigDudi  per 
vili  par  la  lor  vcchieca,  che  lij  proprij  floli  noi  li  voi  veder, 
e  sempre  dixéra  (7)  la  lor  morte-  Mo  pur  li  govenì  de  quello 
monaslier  si  andeva  spese  Sade  a  la  sua  cella  di  questo  santo 
privosto  per  parlar  con  esso;  e  molle   flade  voiando  trepar  e 


—  120  — 

prevosto  sancto  molte  persone  entra  in  Io  purgatorio,  de  li 
qual  (tlguni  de  romagneva  in  T  anima  ed  in  corpo  là  dentro, 
ed  alguni  de  retomeia  sani  et  salvi.  E  quel!  omeni  che  retor- 
navano de  là  dentro,  si  contavano  a  quelli  de  Io  monastier 
tuto  quello  cir  eli  avevano  vigudo  et  oldido,  e  sì  Io  feva  (1) 
meter  in  sento  a^ò  che  li  voleva  veder,  s' eli  se  acordava  tuti 
insembre  de  quelo  eh'  eli  aveva  vecudo  et  oldido.  Mo  ve  dirò 
la  costuma  e  lo  modo  de  lo  entrar  In  quella  fossa  de  lo  pur- 
gatorio. Sapiè  che  nigun  non  può  entrar  là  dentro,  se  non  è  '1 
per  purgar  li  suo  peccadi  ;  mo  negun  non  de  può  entrar  ancora 
senca  parola  d' un  vescovo  de  quella  citade  che  xè  là  da  presso, 
lo  qual  à  quelo  purgatorio  in  so  gqardia.  E  quando  algun  de 
vuol  entrar,  elio  va  da  quello  vescovo  avanti  eh'  elo  d' entri, 
et  delo  li  conscia,  eh'  elo  non  debia  entrar  per  algun  modo, 
in  perQò  che  multi  omeni  de  sono  entradi ,  che  sono  peridi  là 
dentro  e  romasi  in  anima  et  in  corpo,  e  non  sono  me  più 
retomadi.  E  se  lo  vede  lo  vescovo,  che  quello  omo  non  se 
voia  romagner  d'entrar  là  dentro  per  lo  so  conscio, elo  si  lo 
manda  con  le  sue  lettere  bolade  e  sigilade  de  Io  so  sigillo  a 
Io  prevosto  de  lo  monastier;  e  quando  Io  prevosto  à  ve^ude  le 
lettere  de  lo  vescovo  bolade  de  la  sua  bolla  che  lesse,  fa  dir 
a  quello  omo  tuta  la  so  voluntade,  et  de  velando  pur  disposto 
a  voler  d'entrar,  elo  desconseia  quanto  elo  sa  e  può,  digandoli 
eh'  elio  non  debia  entrar  per  algun  modo  né  meterse  a  tanto 
risico,  e  eh'  elo  se  aleca  (2)  altra  penitentia  ca  quella  per 
purgar  li  soi  peccadi.  E  se  Io  prevosto  vede  pur,  eh'  elo  non  Io 
possa  cavar  de  lo  suo  proposito,  elio  lo  fa  star  in  la  gesia 
XY  comi  in  oration  ed  in  digunij  ed  in  vigilie,  ed  in  c;ìvo 
de  li  XY  corni  lo  prevosto  asuna  (3)  tuta  la  sua  gleresìa,  e 
la  maitina  canta  una  messa  multo  solempne  avanti  corno;  e 
quelo  omo  che  voi  entrar  là  dentro  si  sse  confessa  diligenta- 


(1)  Faceva.  Il  codice  vcva. 

(2)  Elegga. 

(3)  Aduna. 


^n  contrìcion  ile  cuor.  Aloi'a  lo  vescovo  I 
niu>[i[i;i  die  li  pnrevii  che  fosse  abile  ;i  poiler  portar  e  far 
segODilo  li  pareva  li  peccadi  f^ran  ci-udel.  Alora  disse  lo  cavalier 
a  lo  vescovo  :  Misser ,  io  som  disposto  d' entrar  in  io  purgatorio 
de  san  Pairicio.  Quando  lo  vescovi)  T  oidi ,  si  si  lo  discoasia 
molto  forte,  digandoli:  Misser,  de!  non  vossc  far  si  fata  pe- 
nitentia  né  meter  vo  a  tanto  risico  de  l'anima  et  del  corpo; 
imperiò  che  molti  de  sono  entradi  che  'nde  seno  (1)  romast  [in 
anima]  et  in  corpo,  e  sono  peridi  là  dentro;  meglio  ve  serave 
ad  entrar  in  qualclie  santa  reli^'ioii  e  far  là  dentro  la  vostra 
penitentia.  Alora  lo  cavalier  disse  a  lo  vescovo,  che  certamente 
elo  iera  al  luto  disposto  de  far  i|uella  penitentia  che  nw  altra 
per  alora,  quado  elio  fosse  con  lo  alturio  (2)  del  signor  Dio 
leioi-nado  da  lo  purgatorio.  Fato  può'  novo  conscio,  velan- 
dolo [lo]  vescovo  pur  voler  entrar  al  tuto  in  la  fossa,  s)  li  de 
le  so  lelere  sigilade  de  lo  sua  sigilo,  e  maudMo  a  lo  prevosto 
de  lo  monaslier.  E  cosi  corno  vui  ave  oldìdo  avanti,  elo  stele 
W  (orni  in  la  gliesìa  in  oracion  et  di^unij  et  di  vigilie,  ed 
in  cavo  de  li  XV  zorni  luti  li  glérisi  de  là  d' aionio  se  asu- 
nàno  a  far  insembre  e  ca[ila[r]  lu  messa  segomlo  la  !or  usanza  de 
maiUiia  a  bon'ora  avanti  (orno;  e  lo  cavalier  misser  Aluvlse 
se  comunica  a  quella  messa,  e  lo  prevosto  li  get:'i  de  l'aqua 
santa  e  dèli  la  henedicìon,  e  può'  lo  mena  con  gran  procession 
cantando  le  lelauie  a  la  porta  de  la  fossa .  e  lo  prevosto  aversè 
lamtosto  la  porta,  e  si  li  disse  a  lo  cavalier  davanti  tuli  quelli 
die  ierano  là.  si  ch'ogni  orna  lo  podeva  oldir;  Misser,  varda 
qui  lo  luogo  dove  vui  volè  entrar;  mo  se  vui  volè  creder  a  lo 
mio  conseio,  vui  non  de  entrare  ponto,  aretornaif^]ve  aman- 
tiente  indriedo,  e  si  fare  la  vostra  penitentia  per  altro  modo 
in  questo  mondo;  imperiò  che  molti  de  sono  enlradi  che  non 
de  retornà  mai  piii  indriedo,  an  sono  peridi  là  dentro  in  corpo 
et  in  anima;  e  questo  si  fò  eh'  eli  non  entra  con  ferma  fede 


—  124  — 
con  lo  se^o  iJc  santa  croicc,  e  può'  s)  cndrà  multo  ardida 
menie  in  la  ross:i.  E  lo  prevosto  sen\  tamtosto  In  porta,  e  si 
relornà  con  la  processìon  indriedo  a  lo  so  monastier.  E  lo 
cavalicr  se  ne  andò  mollo  at'dtda  mente  e  longa  mente  solo 
soleto  per  entro  de  qiiela  fossa;  e  quando  (i)  elo  andava  più 
avanti,  tanto  elio  trovala  la  fossa  più  scura,  taalo  eh'  elo  perse 
ogni  tuxe  e  ogni  claritade.  Mo  quando  elo  To  longameote  an- 
dato, elo  vele  un  poco  de  luxc  vegnir  per  la  boca  de  la  fossa, 
et  a  quella  lu\e  elo  pervene  a  la  pia^a  ed  a  lo  palalo  che  lo 
prevosto  si  aveva  ditto.  Mo  quella  luxe  non  jera  Clara  se  non 
comò  sÈ  adesso  dredo  lo  sol,  quando  elo  sé  andadp  a  monte, 
d' inverno.  Quelo  palalo  non  iera  fato  d' abasso  ponto  di  muri; 
an  iera  tuto  in  coione,  tuto  fato  a  volli,  lavorado  multo  sutil- 
mente.  Lo  cavalier  l'andè  vardando  da  erto  e  da  basso  tuto 
aturno,  e  quando  elo  l'ave  ben  vardado,  elio  se  maraveiiì 
multo  de  la  gran  fatura  e  della  belb  fa^on  d'esso  e  de  tanto 
sutil  lavorier  eh'  elio  vedeva  da  fuora.  Può'  si  entra  dentro,  e 
quando  elo  lo  vete  dentro,  si  maravcià  ancora  piii  tropo  de  la 
Ta^on  d'entro  e  de  la  so  gran  beliega  ;  si  eh'  elio  dixeva  dentro 
das.si  niedessimo,  che  mai  in  lo  mondo  non  de  aveva  ve^udo 
un  simil  de  belerà.  Aiora  quando  elo  l' ave  ben  vardado,  si  se 
senta  ^uso,  ed  abiando  sentado  un  gran  pe;o,  si  vene  là  da 
elio  XII  omeni  li  qual  parevano  esser  omeni  de  riligion ,  corno 
mónesi  o  frari.  Essi  ierano  luti  vestidi  de  cape  bianche  corno 
neve.  Siando  cntradi  là  suso  in  la  sala  dove  sentava  [io]  cavalier, 
comò  elli  lo  vete,  si  lo  saluta  molto  dolcemente,  ed  elo  leva 
lamtosto  suso  in  piò  e  rcndèlì  lo  lor  saludo   reverentementc. 


—  126  — 

vjrlude  e  In  possanca  de  Dio,  sen^a  fallo  elio  seravc  inscido 
dal  seao.  Elio  li  pareva  che  tuta  la  gente  dal  mondo  e  luti 
li  animali  fosseno  asunadi  insembre,  e  tati  siagasse  ad  alla 
voxe;  ancora  disse  che  quella  voxe  icra  Indisse  (1)  Ria^or.  E 
.  driedo  queste  vose  tante  alte  e  spagorose  de  li  demonij ,  dio 
vele  può'  che  crudel  ed  orìbile  vision,  tante,  che  quello  palalo 
de  fo  sì  pien,  che  nigun  si  non  lo  porave  dir  né  contar  in 
algun  modo.  Vogando  li  demonij  vixibilnientc  in  diverse  forme 
che  tuti  feva  sembianza  de  saludarlo  e  gabando  e  signando  s) 
li  dixeva  corno  reprobando:  Tu  si'  pur  ben  vignudo  a  casa  no- 
stra, in  per^ò  che  li  altri  omeni,  che  ne  serve,  non  vigneno 
me  da  nui  se  non  dredo  la  lor  morte,  e  tu  de  sse*  vegnudo 
avanti  la  morie  siaodo  ti  san,  ed  in  per^ò  nui  ten  demo  (2)  render 
mior  guiderdon  asè;  e  sapi  che  nui  te  lo  redendererao  (3)  mollo 
ben  e  volentìera.in  perc&  che  lu  lagramente  (4]  de  servidor  tu  xe 
vignudo  vivo  qua  a  soferir  li  tormenti  per  li  toi  peccadiji  qual 
tu  h  fati  ;  sapie  che  tu  averà  apresso  de  nui  pene  e  dolori  più 
che  tu  non  vorà;  mo  imper0  che  tu  ne  à  longamcnte  servidi, 
se  tu  vuol  creder  al  nostro  conscio,  tu  retornarà  a  lo  mondo 
donde  che  tu  è  vegnudo,  e  nui  te  faremo  per  nostra  bonlade 
questo  servixio  e  questa  gracìa,  che  nui  te  mctercmo  sano  et 
salvo  a  la  porla,  donde  che  tu  entrasti,  e  si  te  lagaremo  asà 
viver  al  mondo  a  gran  cola  ed  a  grandi  piaxeri  e  consolation 
ed  alegrege;  e  se  tu  non  vorà  fàr,  sapic  che  lo  non  seri'i  cossa 
alguna  che  te  possa  aidar.  Li  dixeva  tute  queste  cosse  per 
volerlo  iaganar,  s'  eli  podesse,  o  per  manta]ce  o  per  losengt^ 
sliijoli 


—  128  — 
di  loDgo,  a  man  de  sera  si  (rovà,  eli  pervene  apontc  dove 
va  [lo]  sol  sotto  la  tera  in  li  più  curti  ^omi  che  xè  del  de- 
cembrio;  e  perveoe  corno  [d]  la  fin  del  mondo;  e  là  oidi  lo 
cavalier  de  molli  grun  pianti.  E  iera  si  grande  quello  pianar 
che  lo  pareva  che  tuta  la  gente  del  mondo  fosse  asunadi  là 
per  far  grandissimi  pianti  e  gran  dolori.  E  tanto  quanto  elo 
se  aproximava  più  a  loro,  tanto  li  oldeva  ed  intendeva  raeio 
e  più  claramentre  li  lor  gran  dolori.  Quando  elo  fo  andado 
longamenle,  elo  arivà  in  un  campo  grandissimo  e  molto  loDgo, 
lo  qual  iera  pien  de  ogni  dolor  e  pena  e  caitivitade;  elo  non 
podcva  veder  ci  fin  de  quello  campo,  telato  ieralo  longo  comò 
serave  una  campagna  tanta  granda  che  non  se  podesse  veder 
la  fln  d'essa.  E  là  dentro  ierano  omeni  e  femcnc  de  diverse 
ilade,  li  qual  si  giaseva  tuli  nudi  in  Iera  distesi  con  lo  corpo 
insuxo.  Essi  erano  tuti  ficcadi  in  terra  con  agudi  ardenti  in 
tuie  do  le  man  ed  in  Iute  do  li  pie.  E  sovra  d'  essi  ierano 
draconi  ardcuti  li  qual  lor  ficcavano  li  lor  denti  in  le  carne,  e 
passavali  lo  corpo  lina  a  li  interiori  dentro;  e  si  pareva  ch'eli 
li  volesse  devorar  tuli  ciu^ndo  (1)  loro  tuia  la  sangue  (2). 
Per  la  grande  angosa  eh'  eli  sofrìva,  eli  se  volava  con  lo  cavo 
a  morsegar  la  tcra,  s'  eli  podeva,  e  si  cridava  molto  piatosa- 
mcnte  digando:  misericordia.  Ma  poco  lor  covava,  eh'  eli  non 
la  trovava  ponto,  in  per^  che  I)  iera  (uslixia  scn^  miseri- 
cordia. Che  corno  li  dcmonij  li  oldiva  cridar  in  tal  maniera, 
si  li  corevano  adosso,  e  si  li  tormentava  multo  crudelmente. 
Alori  disse  li  dcmonij  a  lo  cavalier:  Sapi  die  tu  sofrirà  luti 
questi  tormenti,  se  tu  non  credi  a  lo  nostro  conseglio,  e  nui 


—  i;t(i  — 

renusf  eìò^liberado  da  <|uello  si  crudel  lormeab).  Vegand*' 
(jiiello  li  demonij  e  non  posando  aver  viltoria  incontra  d'  asso, 
st  lo  tolse  de  là,  e  menano  in  un  altro  lerco  campo,  in  lo 
qual  iera  tante  maniere  de  gente  de  diverse  ettade.  che  quello 
campo  de  iena  tnio  roverlo.  E  questa  genie  si  casevano  luti  in 
terra  fìcadi  con  agudi  ardenti:  mo  questi  ierano  licadi  per 
tutì  li  lor  membri  da  lo  cavo  lina  a  le  pie  tanto  spexi,  che. 
nigun  luogo  non  se  averavc  possudo  meter  lo  dedo  pìginin,  chff 
non  fosse  stado  agudi  ardenti.  E  quela  gente  piangeva  e  braivi, 
comò  fano  colloro  che  sofra  la  morte  crudel,  si  eh'  eli  i 
podeva  latianar  le  lor  voxe  per  mmlo  eli'  eli  Tosseno  intexi.  E 
da  presso  quelle  pene  li  demonij  si  li  tormentava  de  diverài 
tormenti  mollo  crudel.  Alora  eli  disse  a  lo  cavalieri  Ques 
tormenti  sofFrirastu.  se  tu  non  retorni  indriedo  in  Ingallern 
a  casa  tua.  Lo  cavalier  non  volse  asentir  niente  a  le  sue  pa- 
role; an  se  te'  le  befTc  de  loro,  e  li  demonij  negando.  Qu^ 
si  lo  prexe  volandolo  gUtar  a  tera  per  far  d"  esso  comò  eli 
aveva  fato  deh  altri.  Mo  elo  disse  la  so  oration,  e  ssL  fo  Lanlosts 
delibcrado  da  loro  e  de  quelo  cussi  crudel  tormento.  Alora 
velando  li  demonij  non  poder  lormenLir  in  quelo  campo,  si  lo 
amiii  in  un  altro  campo,  [in]  lo  qual  ierano  de  tuie  manien 
de  tormenti  e  de  maraveioxi  dolori  ed  aspie  e  crudele  pene. 
Ed  entro  da  questo  fuogo  si  ierano  de  molti  arbori  sechi, 
si  ierano  cargadi  de  orneni  e  de  femene  de  diverse  eladc, 
qual  ierano  tuli  apicadi  con  cadene  de  ferro  ardente,  le  qaii- 
aveva  in  cavo  angini  ardenli.  Alguni  iera  apicadi  per  li  pie, 
alguni  per  le  man,  alguni  per  lo  colo,  alguni  per  li  narrane 
del  naxo,  e  per  li  ochi  e  per  le  rechie,  e  per  le  mamele,  e 
per  li  membri.  E  ipielo  campo  ardeva  luto  come  farave  i 
fornaxe  ardente  ben  abraxada  ile  fuogo  e  de  solfere  fetidissimo. 
El  alguni  caxeva  suxo  cradele  (1)  de  ferro  in  quello  fuogti; 
alguni  ierano  straxìnadi  da  li  demonij  per  lo  fuogo.  e  molti 
ierano  in  terra  gitladi  con  lo  viso  in  suxo.  £  li  demonij  colava 
de  diversi  metali,  e  ssi  eili  gitava  cossi  ardenti  in  suxo  per 
la  golia  e  per  sovra  tute  le  membre  loro.  Cossi  li  tormentava 

(I)  Graticole 


—  Isa- 
ii'essa  verso  Taiere  e  altra  verso  U  tera,  dove  iera  im  fuog 
de  diversi  colori,  corno  fa  solfere,  che  ardeva  quelle  anime, 
per  ine^^o  d' essa  ierano  travi  comò  de  ferro  tutì  pioni  d 
rosori,  lì  qual  le  uicava  tute,  quando  li  demonij  menava  I 
roda  atomo.  Alora  disse  li  demonij:  Elo  te  convien  sol 
questo  tormento  al  luto,  se  tu  non  reiomi  indriedo;  tu  cercat 
adesso,  corno  elo  xii  fallo  questo  tormento.  K  si  comenci 
menar  la  ruoda  at«rno  con  (anta  furia,  che  lo  non  se  vedev 
quasi  quelle  anime  die  iera  apicade  suxo  1'  una  de  altra.  1 
quelli  che  ierano  suxo,  si  pienC'Cvano  molto  crudelmente,  di 
gando:  Parenti  et  amixi  nostri,  pregè  Dio  per  mi,  e  fé  de  I 
elemoxine,  oration  per  mi;  e  racatàne  de  tante  pene;  in  perg 
che  la  man  de  Dìo  si  ne  tocu.  Alora  li  demooij  pense  lo  ci 
valier,  e  si  lo  volse  gitar  ed  apicar  da  un  de  li  ancini  de  I 
roda.  Mo  elio  disse  lantosto:  Jesus  Navarenus  eie.;  ed  amaB 
liente  elio  fo  deliberado  de  quello  eossi  crudel  tormento.  Fai 
questo,  alora  li  lo  mena  de  quello  tormento  in  im' altra  vallt 
dove  elio  vele  corno  un  gran  pallaco,  lo  qua!  fumava  fonia 
simamenle,  corno  se  là  /osse  una  gran  fornaxa.  Quella  slanci 
si  iera  mollo  longa  e  granda  lanlo,  che  lo  cavalier  non  podev 
veder  né  cavo  né  coda   d'  essa.  Menandolo  li  demonij  vi 
d'  essa,  e  siando  elio  ancora  molto  da  longi,  elo  volse  aresU 
d'andar  più  inan^i  per  caxon  eh'  elo  senti  un  st  grande  cai( 
eh' elo  non  podeva  sofrir  né  andar  avanti.  E  li  demonij  si 
disse:  Mo  perchè  tu  réstilu  e  demorì  qui?  sapi  die  questa  x6' 
una  maxon  da  hagnarse  dentro,  che  tu  vedi;  per  qui  o  vòglisto 
0  non,  elio  le  convignerà  bagnane  con  quelli  che  se  bagnano 
dentro.  Mo  quando  elio  se  aproximava  ad  essa,  elio  oidi 
tro  de  dolorosi  e  maraveiosi  pianti.  A  la  fin  elo  ontriJ  dentro, 
e  siando  intrado  dentro,  elio  vardà,  e  si   non  poue  veder  la 
fin  de  quella  slancia,   len   tuui  piena  de  fosse  redonde 
ierano  tute  una  apresso  l'altra,  lanlo  che  pareva  (I)  che  le 
locasse  r  una  l' altra  ;  e  cadauna  de  quele  fosse  iera  piena 
diversi  melali  coladi;  e  là  se  bagnava  gran  quuotilade  di 


—  134  — 

un  Sion  ed  un  torbdion  (1)  ile  vento  che  M  levi  tuli  de  lì, 
e  s)  leva  elio  e  luti  li  demonij  li  qual  ìerano  con  elio;  e 
d  li  porta  de  là  looci,  e  si  lì  sapo<^  (3)  tuti  dentro  da  ud 
fiume  pien  de  spuoa  e  de  grandissimo  felor  più  fredo  ca  gla^a 
flè  neve.  Uà  lo  cavalier  dixe  le  sue  parole  e  romaxe  elio  in 
suxo  la  riva  de  lo  fiume  con  li  denionij  cbe  lo  menava.  E  tuti 
quelli  che  ìerano  in  lo  tlume,  si  gridavano  digando:  misere- 
mini  mei  eie;  ed  alguni  dixeva:  miserere  mei  Deus  secundum 
magnam  miserìcordiam  tuam  etc.  Alora  se  forchavano  li  de- 
moni] de  volerlo  sapocar  in  lo  fiume.  Mo  lo  cavalier  che  non 
se  aveva  miga  desmentegado  le  sue  sanie  parole ,  sA  le  dixe 
tantosto.  E  corno  elo  le  ave  dit«,  subitamente  elo  fa  deliberado 
da  quello  tormento  cossi  crudel  E  quando  quele  anime  voleva 
inslr  de  quelo  fiume,  li  altri  deraonij  si  li  sapo^ava  solo  con 
li  so  forconi  de  Terrò  tuti  arden^.  Vegaudo  li  demonij  malvaxi 
non  li  poder  far  cossa  alguoa  là  in  quello  tormento,  d  lo  taix 
e  menalo  mollo  longì  de  là  verso  oriente.  £  cosi  andando,  elio 
vete  davanti  da  ssi  una  grandissima  brama  essl[rj  a  dentro 
da  una  slancia  tuta  d'atomo.  E  là  dentro  oidi  grao  cose  da 
lamenti.  E  quando  elo  fo  dentro,  elo  vete  tre  leti  grandissimi 
seooa  numero  ;  e  pareva  queli  leti  a  modo  de  fornaxe  ardente 
tuti  coverti  de  fuogo  tanto  erto  che  non  se  vedeva  la  cima 
del  fuogo.  E  si  vete  in  lo  primo  leto  che  parevano  esser  car- 
denalì  vescovi  ed  abadi,  arcivescovi  e  monexi,  frari  e  prevedi 
e  canonexi  regolari,  che  per  l'avarizia  e  per  la  simonia  ieraoo 
là  dentro  purgadi  di  suo  pecadi.  In  lo  secondo  leto  ìerano  li 
falsi  re  e  conti  e  marchesi   e  duxi  e   visconti  e  castellani  e 


—  Ì36  — 

e  per  forca  i  eli  feva  ìnglolir,  e  può  per  logo  de  sotto  insir- 
Epuò^  implìva  ^ran  sacconi  de  quelli  denari,  essi  i  eli  fo- 
ceva  portar  a  forsa  adosso  pon^doli  con  forconi  di  ferro  pon- 
iti, e  con  bastoni  de  ferro  li  pon^eva  e  bateva  crudelmente. 
Aloni  li  disse  li  demonii  a  lo  cavalier:  De  do  coxe  (e  OMivìen 
br  l'una;  o  tu  retomi  donde  che  (u  xe'  vegnudo,  o  te  con- 
vignerà  sofrìr  questi  tormenti  che  tu  vedi  che  soffrisse  costoro 
iaato  aspre  e  crudelissime.  Lo  cavalier  ancumè  aveva  provsdo 
tante  fiade  in  )i  altri  tormenti  lo  alturio  del  nostro  signor  Jesà 
Cristo  per  parole  eh'  elo  dixeva,  si  se  fesse  beffe  de  le  Ich*  pa- 
role, e  non  lor  respo^ie  niente.  Queli  demoni  roalvaxi  à  lo 
prexc  e  volselo  tormeoiar  e  (1)  quelli  che  ierano  (orment«dÌ. 
Mo  comò  elo  disse  le  suo  parole,  zoè:  Jesus  Na^renus  rex 
Judeorum  miserere  mei;  tantosto  elo  fo  deliberado  da  quesU 
tormenti.  Alora  queli  demonij  si  lo  mena  longi  de  là  inverso 
oriente;  ed  elo  se  revardà  davanti  da  sì,  e  si  vette  una  aama 
intolerabille  e  negra  comò  un  carbon,  e  tan[(]o  purulente  e 
fetoxa  che  non  se  porave  dir  né  contar.  E  quela  dama  esin 
corno  d' una  boca  d' un  po^o  (2j,  e  pareva  che  non  fos  se  non 
solfere  die  ardisse.  E  quela  fiama  li  pareva  che  montasse  molto 
erto;  e  ssl  vete  omeni  volar  per  aere  che  parevano  scintelle 
de  fuogo  ;  e  quando  la  vampa  se  rebasava ,  el  oldiva  le  voxe 
amare  e  pieloxe  che  isivano  de  quela  boca.  E  corno  eli  vene 
da  presso,  si  vette  a  che  modo  quela  fiama  isiva  del  po^o  (3). 
E  queli  demonij  li  disse  :  Sapi  che  questo  po^  (4)  che  tu 
vedi  qui,  si  xè  l'entrada  de  l'inferno,  e  si  xè  questa  la  no- 
stra slancia;  ed  imper^ochè  in  tuto  lo  tempo  de  la  vita  tua  tu 


—  138  — 

volcnlìera,  impercò  che  nui  inganemo  con  )o  mentir  e  con  l« 
buxie  quelli  che  nui  non  potemo  inganar  digando  la  verìtade, 
ed  in  parte  (1)  dixemo  che  questo  non  sé  ponto  lo  inferno,  ito 
nui  te  meleremo  tropo  ben  1^  do'  lo  xè,  e  si  le  convigneii 
cercar  de  le  imbandixion  le  quali  sono  doilro.  E  s)  kt  tohe 
con  gran  furor  e  con  gran  tempesta,  e  s)  lo  mena  lon^i  de  U 
flao  ad  un  fiume  mollo  pu^elente  e  fetoso.  E  pareva  a  lo  ct- 
valier,  che  quello  (lume  ardesse  luto  quanto  d'una  fiama  de 
solfere,  e  si  iera  luto  pien  de  demonij  corno  sé  le  bo^e  (S) 


(1)  Inlanto,  om;  nolo  per  Dante. 

(2)  Alveari.  Ricorre  in  versioni  del  Tesoro,  in  principio  dd  proe- 
mio. Oggidì  in  lombardo  ot  bui  di  ae,  in  veronese  e  vicentino  el  buu 
li'ave,  in  friulano  il  bo:  liet  tu  (es),  di  genere  maschile;  cosi  nei  dà- 
loghi  (li  S.  Gregorio  3,  2G  buai  di  peectiie.  Buso  era  deUo  nei  di» 
cento  a  Y^ieiia  un  naviglio  (Ronianin,  St.  di  Yen.  I,  228,  e  11,  5S),t 
l'indoralo  (indorào,  induro)  Buìindoro.  Nel  nostro  Tocabolariella  ber 
gamasco  trovasi  Mium  ol  gos,  il  pesce  gobio  la  bo:a ,  e  la  botte  vini- 
eotìiii-a  la  botsola.  Boaria  o  bozzeria  e  una  trave  delle  navi  dove  sono 
conficcale  le  latte.  Col  baco  da  sola  venne  il  diminutivo  bozzolo;  e  fkr 
bozzolo  vale  sciamare,  e  andar  l'ii  boxh  andar  in  giro.  Ilpnoco  dri 
ranciulli  dell'andar  in  giro,  o  Tare  la  ridda,  attorno  ad  uno  bendilo  ijt 
ocelli  colla  cantilena  : 


BAiolo,  bdzolo  canarìn, 

Dt'glic  da  bevcr  al  fantolin, 
Mghenc  poco,  digliene  assai, 


—  no  — 

andando  svanii  a  poco  a  poco.  E  quando  Hli  andava  più  avanti, 
lanU)  elio  trovava  lo  ponte  più  largo  e  {riìi  sìgur  d' andar  per 
su\o  :  0  porevalì  die  lo  pome  se  largasse  d'ogn'ora  tanto  cbe 
Io  desirave  andando  un  4!aro  cargado  de  fon.  fiossi  lo  cavalier 
se  ne  andava,  abiando  inprìma.  quando  lì  demonij  lo  messe 
suxo,  dita  la  sua  oraiìoo:  e  li  demonij  romaxe  de  q\ik  in 
suxo  la  riva  de  lo  riutne.  E  quando  eli  vete  eh'  elo  se  n'  an- 
dava axiada  mente,  si  comencà  a  far  gran  dolori  e  gra 
lamento,  e  menar  gran  mina,  vegando  die  al  tuto  eli  à  l« 
perdeva;  e  tuti  gridava  de  dolor  in  lo  fiume.  E  percft  feva  a  i 
lo  cavalier  quelo  tanto  orribile  cridor,  ehe  bob  li  feva  li  t 
mttnti  e  li  demonij  die  ierano  là  chxo  in  lo  Hume:  si  li  co-4 
meoi^  a  gitar  dredo  con  li  Iiasionì  de  ferro  ardenti  e  sti^  I 
ardenti;  roo  non  lo  podeva  locar.  E  cussi  passa  lo  e 
oltra  quelo  ponte,  corno  se  niguo  non  li  .ivesse  dado  impa^ 
algun.  E.  quando  elo  fo  passado  olirà  lo  ponte,  elo  se  volse  J 
a  vardar  indredo  Io  pome  e  lo  fiume  e  li  pericoli  che  elltf 
aveva  passadi.  e  corno  tuti  li  demonij  l'aveva  lassado  ed  abaiF 
dottado.  (1)  Certo  chi  pensasse  ben  sovra  H  tormenti  e  li 
dolori  che  sono  in  inferao  ed  io  purgatorio,  tute  le  peoe  che  ^ 
se  podesse  mo  me  portar  in  questo  mondo,  pararave  molto 
pinole  e  motte  liriere,  e  si  non  agreverave  niente,  e  si  i 
delelerave  de  viver  malamente  uè  in  li  gran  pecadi  uè  in  lì 
ddetì  vani  del  mondo.  E  <{ueli  che  sono  in  li  remitorij  ed  in 
le  religìon .  si  se  doverave  ben  pensar ,  quanto  sono  gi^odì 
ed  oribeli  li  tormenti  e  le  pene  de  purgatorio  e  quelle  d'io- 
femo  e  ti  gran  dolori  die  ode  sono.  E  quando  xè  più  li^ieta 
cossa  a  portar  li  dolori  e  le  pene  de  quesu  mondo,  in  Io  quai 
non  se  oe  pub  viver  sen^a  iravaia  e  senca  briga  e  sen^a  grande 
avcrsiladee  tribulation  e  pene,  e  spesse  volte  oldir  de  le  cosse 
che  non  se  vorave  oldir.  Mo  ctii  porterà  tute  queste  cosse  paciett- 
lemeote.  vivando  ben  in  li  comandameati  de  Dio,  si  scamparà 
Iute  queste  pene,  e  sera  delibemdo  de  tuti  questi  dolori  e  pene. 
SI  che  pregemo  lo  nostro  Signor  Dio  per  nostri  padri  e  per  nostre 


|t)  La  sedente  upplicaiinna  idonle  é  aggtonta  i" 


—  ut  — 

eh'  el  iera,  e  de  qua!  cìtade  ;  s' eli  ihhi  retornava,  eh'  eli  perisse 
là  denlro,  sì  li  Teva  queli  de  lo  monastier  una  croxe,  inostraitdo 
eh*  elo  iera  dentro  perjdo  in  anima  ed  in  corpo;  e  si  li  relor- 
nava  indriedo  ed  eli  savesse  instessi  scrìver,  si  li  feva  scrìver 
in  suxo  quelo  libro  de  lor  man  luto  quelo  ch'eli  aveva  vicodo 
ed  oldido  ;  e  per  veder  s' eli  se  accordava  insembre  in  lo  kff 
dir.  Certo  non  de  iera  dtfii^encia  alguna  ;  che  quello  che  aveva 
ve^iido  l'un,  aveva  vezudo  l' altro  integramente.  Ed  impercA  che 
questo  cavalier  aveva  letto  in  suxo  quelo  libro,  elo  saveva  per 
queli  che^veva  scrìto  de  so  man  tulo  quelo  ch'elo  doveva  trovar 
Mi  dentro.  £  s'elt  non  saveva  scriver  queli  che  retomava ,  no  de 
queli  de  lo  monastier  scrìveva  H  'ncontra  de  lo  so  nome  luto  quello 
che  aveva  vi^udo  ed  oldudo  là  dentro.  Ed  impercò  saveva  que- 
sto cavalier  luto  quelo  ch'elo  doveva  dentro  trovar.  Mo avanti 
eh'  elo  entrasse  dentro  da  la  porla,  si  li  vene  una  granda  pn>- 
cessiò  incontra,  tanto  grande,  che  impossibile  serave  a  podedo 
dir,  imperché  lo  non  de  vette  <;a  mai  in  lo  mondo  una  ^  grao- 
da.  E  molti  portava  avanti  dopierì ,  e  si  portava  la  croxe.  le- 
vada,  e  tuli  portava  in  man  rami  de  palma,  che  pareva  esser 
luto  d'oro.  E  là  vete  lo  assai  genie  de  diverse  eude,  elo  de 
velie  vescovi  ed  arcivescovi,  monexi  ed  religiosi  d'ogni  sorte, 
e  prevedi,  ed  i  resi,  ed  altra  genie  mondana  asè  ed  io  gran 
quantitade  ;  e  luti  ìerano  veslidi  de  ssl  fato  abito ,  corno  dU 
solevano  portar  in  questa  viia  presente  siando  al  mondo  vivL 
E  cadaun  demoslrava  in  che  abito  eli  aveva  Dio  servìdo.  E 
là  fo  lo  cavalier  receudo  con  mollo  grande  alegrec«,  e  con 
mie  OTor.  K  ssi    fo    men:'i    rons'i   caiUando   con    dolye  me- 


—  144  — 

canti  e  melodie  cb'  elo  oldiva  cantar  da  quele  sanie  e  beoe- 
dele  compagnie;  e  gran  pioxer  e  deleto  aveva  in  queli  suavis- 
simi  odori  li  qual  elo  sentiva  là  dentro.  E  può  elio  vedeva  che 
cadauD  de  loro  feva  festa  grandissima  de  la  so  vegniida  U 
dentro;  e  tuti  quelli  che  lo  vedeva,  si  benediva  e  loldava  lo 
ooelro  Signor  Dio;  e  pàrevali  che  tuti  fexe  per  la  so  vegnnda 
novela  ^ia  e  novela  alegre^  e  festa,  corno  se  cadun  avesse 
so  pare  e  suo  fioli  o  fradeli  rescoso  de  lo  pericolo  de  la  morte. 
Là  dentro  no  iera  né  caldo  né  D'edo  nò  cossa  che  li  podesse 
nuoxer.  Molto  iera  lo  luogo  piacevole  e  deletevole.  £  là  qoelo 
cavalier  vele  assai  più  cosse  che  lo  non  messe  in  iscrito  io 
suxo  lo  libro,  in  lo  qual  tuti  queli  che  retomà,  s)  scrìveva  queli 
ch'eli  aveva  ve^udo  là  dentro.  Imperfochè  lo  serave  stado  impos- 
sibille  a  scriver  tuto  quelo  che  aveva  ve^udo  ed  oldido.  Mo  quando 
lo  cavalier  ave  ve^udo  tute  queste  cosse  che  vui  ave  oldido  ed 
assai  pifi  che  non  digo,  alora  li  do  arcivescovi  che  se  lo  menan 
de  me^o,  si  lo  mena  de  parte,  e  può  si  li  disse:  Fradelo  nostro 
carissimo,  mo  astu  vegudo  quelo  che  desideravi  a  veder,  zosè  la 
vita  de  li  (usti  e  li  tormenti  de  li  pecadori.  E  benedeto  sie  lo  Wh 
stro  Signor  Dio,  lo  qual  à  fato  tute  cosse,  e  che  ne  racalò  de 
lo  so  precioxo  sangue,  che  questo  bon  proposito  te  dona,  de 
lo  qual  elo  te  à  dona  de  for^  e  possane  de  passar  )i  tor- 
menti, li  qual  tu  à  vegudi ,  e  che  per  la  sua  gratia  e  pieUie 
e  misericordia  tu  xè  vegnudo  san  e  salvo  qua  da  nui.  Te  di- 
remo (0  che  sé  questo  che  tu  à  vcgudo.  Sapie  che  questo  pa- 
iexe,  lo  i^ual  tu  à  ve^udo,  si  xè  lo  paradiso  terreslro,  de  lo 
Adamo  e 


—  146  — 

Dui  avemo  fati  in  nostra  vita  in  lo  mondo;  e  benclienui  ooo 
semo  ancora  ponlo  degni  d' andar  in  paradiso ,  ben  die  nui 
semo  qui  in  graodissima  consolazion  e  goa  ed  in  gran  reposso, 
cossi  corno  tu  pò  veder  e  senlir.  E  quando  sera  la  voluntade 
de  lo  onnipotfflte  Dio  nostro  signor,  nui  monteremo  de  qui  in 
paradixo.  E  sapì  che  la  nostra  co:iipagnia  eresse  e  sì  descrese 
ogni  ^mo;  cossi  comò  quelli  de  purgatorio  veguino  qua  da 
DUI,  ^  vano  de  qui  in  paradiso.  —  E  quando  elli  ave  cossi 
longamente  partado  con  esso,  elli  lo  mena  in  suso  una  tnoO' 
lagna,  e  sfando  lù  suxo  elli  li  dissi;,  che  elio  vantasse  in  suso. 
E  cussi  elo  vardà.  E  può  lo  domanda  digando  :  De  che  exAor 
te  par  el  cielo  che  tu  vedi?  Elio  respoxe:  Elio  me  par  coma 
\h  V  oro ,  quando  elio  \è  ben  nfìnado  in  la  fomaxa.  Ed  eli 
disse:  Sapì  che  quello  che  tu  vedi  si  xè  la  porta  de  paradisso; 
quando  li  angeli  dismontano  de  paradiso,  eli  desmonta  per  qui; 
e  queli  chi  vano  de  qui  in  parailixo,  st  vano  per  qua  suxO-E 
sapi  clie  cadun  ^rno  de  quanto  nui  semo  qui,  lo  nostro  si- 
gnor Dio  si  ne  passe  de  la  mana  da  f  ielo;  e  tu  saverà  ^  bm- 
toslo  Como  la  nostra  vivanda  xò  fata.  E  sapi  che  questa  mon- 
tagna si  xè  quella  che  nasce  li  quattro  llumi  principali ,  coxè 
Tigris  Elfrates  Erixon  e  lo  fiume  Cordan.  Ed  in  questa  mot>- 
lagna  non  nasce  altre  piere  se  uon  robini  baiassi  e  salili  ed 
altre  piere  prccìose,  e  si  ode  xè  tuui  piena.  E  queste  Btunere 
si  de  meua  i;uxo  in  grandissima  quantitade;  mo  la  via  si  xè 
tanto  longa,  che  poche  de  può  venir  dove  cbe  abita  gente,  e 
quele  poche  che  xe  trova  al  mondo,  tute  xè  de  qua  dentro. 
E  chi  podesse  vegnir  qua  da  presso  da  questo  paradixo 


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—  148  — 
incontra  la  so  voluntade.  E  la  porla  e  si  fo  mollo  tosto  se- 
rada  dredo  elio.  Como  elio  (o  essido  fuora,  elio  relomà  per 
la  via  che  lo  iera  vegnudo  indna  a  la  sala  de  lo  pala^,  dove 
ri  (1)  aparete  san  Patrìcio  con  li  XII  monexi  vestiti  de  veste 
bianche.  Tuli  li  demoaìj  che  lo  inscontrava,  luti  scampava  di 
elio,  conio  fano  li  sor^i  quando  eli  vede  la  gatta;  inpergo- 
ch'eli  lo  temeva  molto  dura  mente,  né  negun  de  queli  tor- 
menti nollt  puote  nuoser  niente  né  far  mal  algun.  Cossi  loslo 
corno  lo  cavalier  (o  ronlo  in  la  sala  de  lo  pala^,  tamtoslo 
vene  da  elio  li  XII  religiosi  li  quali  aveva  parlado  a  T  andar, 
e  al  loldà  lo  nostro  Sipor  molto  gran  mente,  digamlo.-fiene- 
deto  sia  lo  onipoienle  Dio,  lo  qiial  le  à  mantegnudo  in  si 
forte  corano,  che  certo  tu  ii  pisaaéi  luti  li  altri,  che  sono 
me  stadi  qua  dentro,  de  conslancia  o  de  ardir  e  de  fone^  ìb- 
Gonlra  li  demonij  mnligni,  e  si  non  h  me  abudo  paura  d'essi, 
e  sempre  tu  k  desprixiade  le  lor  parole.  E  s\  li  disse  può': 
Sapi  che  tu  xè  acquiutado  ed  asolto  e  piirgado  de  luti  li  loi 
peccadi.  Mo  te  convien  reiornar  indrìedo  presta  menie,  inper- 
^ochè  r  alba  del  ^omo  si  coment  a  parer  sovra  terra  de 
fuora  al  mondo;  che  lo  prcvoslo  vegnirA  ad  avrir  la  porta, 
la  clerixia  con  gran  procession;  e  s'el  non  te  trovasse  a  la 
porla,  quando  elo  la  verrirà,  eto  se  dubìtarave  crecando  (2) 
tu  fossi  romaxo  qua  dentro  in  corpo  ed  in  anima,  corno  de 
sono  romaxi  molti  de  queli  che  nde  sono  entradi  più  tosto 
per  veder  cosse  nuove  ca  per  purj^ar  li  loro  pecadi.  Ed  io- 
percù  non  te  trovando,  elo  relomaravc  tao  tosto  io  dredo  con 
la  procession  a  lo  so  monastier.  Alora  eli  lo  segna  e  benedl , 


LA  LINGUA  COMUNE 

MiLOGO 

AIIATOFILO,  TIMETE,   AMICO  VEROSESE 


AfìAT.  —  Giungi  in  liiion  pnnto,  Timefe;  ho  ripi- 
glialo i  miei  siHdii  liloingid,  ila  alcun  tempo  interrolli  per 
quelle  ragioni,  che  sai.  ed  oi'a  sto  beccanilomi  il  cervello 
a  lille  (li  schiarirmi  im  (lul)l>Ìo,  che  m'è  nato  in  mente 
leggendo  (jiiesta  Appendice  aìin  Helaztatie  iiitorm  alt  unità 
della  lingua,  data  alle  stampe  l'anno  passato.  Deh,  se 
non  ti  noia,  aiutami,  che  temo  di  non  sapere  per  io  ap- 
punto deciferare  questo  passo. 

TiM.  —  Tu  vuoi  la  baia  de'  fatti  miei.  Dimmi  anzi 
aperto  il  tuo  pensiero. 


—  ini  — 

A«AT.  —  Sì,  nel  1694,  come  è  dello  a  pag.  XVIII. 
Tu  vedi  adunque 

TiM.  —  Vedo  che  ìt  granchio  fu  preso  senz'altro. 

AoAT.  —  Pare  anehe  a  tef 

TiM.  —  Sì,  certo.  Ma  forse  che  il  metodo  prescelto 
fu  quello,  che  servì  per  le  varie  compilazioni  Sno  a  que- 
sta sesta,  tanto  che  si  possa  dire  di  essa  quello  che  della 
prima? 

Agat.  —  Né  della  prima,  né  dell'ultima,  pcàchè  gli 
Accademici  francesi  mutarono  poi  tenore,  le  Dictùmnaire 
ayatit  vieilli  pendata  qu'on  y  travaillail,  on  revint  sur 
ce  qu"  on  avait  fait.  —  E  sai  perchè  ?  Perchè  quando  Ri- 
chelieu  ordinò  si  desse  mano  al  Dizionario  della  linguii 
francese,  on  ne  savait  pas  encore  ou  preadre  cette  latigtte. 
Elle  n'  étail  plus  dans  V  inculte  liberté  et  la  confusion 
hétérogène  du  seizième  siede;  on  ne  la  voyait  pas  encore 
daits  les  génies  rares  et  contestés  des  cotnmencemenls  d»t 
dix-septxème.  Gli  Accademici  antichi  formarono  la  Tavola 
degli  scrittori  da  citare;  ma,  vedi,  si  riduceva  a  pochis- 
simi ,  e  la  loro  lìngua ,  non  avendo  ancora  preso  suo  stato, 
era  incerta,  confusa,  oscura,  ed  in  gran  parte  già  anti- 
quata. Dunque,  volendo  pur  fare  un  Vocabolario,  non  ri- 
maneva che  appigliarsi  alla  lingua  parlata.  Ma  nOD  era  an- 
cora compito  il  lavoro,  che  ecco  penetrare  nuove  muta- 
zioni nella  lingua ,  ed  il  Vocabolario  già  invecchiato  prima 


—  154  — 

loHles  le!i  unances  dn  laiìgaye  Artt,  e  di  tenere  per  re- 
gola che  d  la  lottgae  les  moderaieun  de  C  usage  y  cedent 
eiix-méauss,  cootra  il  Bossaet,  e  lo  Swin,  i  quali  deside- 
ravano  si  isliluisse  un'Accademia  in  ciascuna  delle  loro 
Capitali,  investita  deir autorità  di  governare,  una  la  lio- 
goa  francese,  e  T  altra  la  lìngua  iaglese.  Gli  Accademici 
adunque,  non  fanno  eccezione  di  età,  essendo  o^imai 
stabile  sostanzialmente  la  loro  lingua,  comechè  tì  s'intro- 
ducano mocU0cazioni  accessorie,  e  gli  scrittori  sono  ap- 
provati, ove  sappiano,  conforme  fecero  i  classici  secen- 
tisti, tenersi  valentemente  sulle  orme  dell'uso.  Che  ne 
dici,  Timete,  di  queste  mie  interpretazioni? 

TiM.  —  Mi  paiono  dedotte  a  (11  di  logica.  Né  so  finir 
di  dolermi  che  da  un  pezzo  in  qua  non  si  resti  dal  pro- 
porcì  a  modello,  non  la  sapienza  nostrale,  sì  la  forestie- 
ra, che,  eccellente  per  gli  oltramontani,  non  fa  però  che 
imbastardire  il  nostro  genio,  volendosi  applicarla  a  noi 
senza  una  discrezione  al  mondo. 

AoAT.  —  Consento  teco  in  tutto,  e  se  alcuna  volta 
parlo  alto  e  franco,  il  fo,  non  per  irriverenza  verso  al- 
cune persone,  e  perchè  io  reputi  aver  esse  inleso  di  re- 
car onta  alla  nostra  patria ,  ma  perchè  panni  che  ad  ogsà 
modo  un  danno  le  provenga  dalie  loro  dottrine.  Come  si 
divulgasse  tanto  prestamente,  e  laicamente  la  lingua  (Iran- 
cese  Pabbiam  veduto,  ne  l'Autore  dell' Appendice  ^nora 


—  156  — 

corte  di  Sicilia,  in  Toscana,  e  hion,  .s'avvezzavano  a  co- 
municar fra  loro  mercè  la  lingua  di  quelli.  Né  mi  penso 
cbe  la  corte  medesima  abbia  giovalo  poco  al  dÌYQlgameDlo 
della  lingua,  che  se  il  ghibellinismo  insanguinò  la  sventu- 
rata Penisola ,  indusse  però  i  popoli  a  trattar  fra  loro  per 
intendersi,  e  collegarsi,  e  non  è  a  dubitare  che  air  uopo 
servi  la  lingua  allora  appena  venuta  fuori.  Questo  aiuto 
insieme  con  P  altro,  che  proveniva  da' commerci,  {h^ 
mosse  r  opera  degli  scrittori. 

TiH.  —  Mi  piaci  in  ogni  cosa;  e  non  so  perchè  la 
nostra  lingua  es.<tendo  di  quella  natura,  che  hai  detto,  non 
avrebbe  potuto  avere ,  com'  ebbe  infatti ,  virtù  di  divulgarsi 
a  modo  della  francese,  che  pare  sia  tratta  più  schietta- 
mente  dal  favellare  comune. 

Agat.  —  La  ragione  gli  avversari  non  la  dicono,  e 
poi  il  fatto  prova  il  contrario,  che  la  lingua  de' nostri 
scrittori  è  comune  dalle  Alpi  alla  Sicilia,  come  ho  detto 
altra  volta.  Vedi  infatti  se,  dove  che  tu  vada,  parlando 
assa  lingua  non  sei  inteso,  e  se  chi  ti  ascolta  non  s'' in- 
gegna di  risponderti  di  conformità.  Parla  invece  il  tuo  dia- 
letto, od  il  puro  toscano,  e  vedrai  divario  I 

TiH.  —  È  verissimo. 

Agat.  —  L' errore  de'  contrari  è  lutto  nel  tenere  la 
lingua  degli  scrittori  per  una  congerie  di  vocaboli,  per  un 


Ar.AT.  —  La  lìngua  Traacesc,  vicinissima  al  tempo  in 
che  ebbe  suo  stato,  non  ha  soflerto  che  lievi  alteraziooi, 
comechè  tuttodì  gazzettieri,  e  romanzieri  le  menino  gra- 
vissimi colpi.  Appresso  di  noi  la  difTerensa  fra  la  lìngua 
scrìtta,  e  la  parlata  toscana  è  ben  maggiore,  perchè  piti 
antico  il  nostro  secolo  d' oro ,  e  perchè  alla  libera  ope- 
rarono gli  scrittori  nostri  eccellenti.  Onde  gli  scrìtti  italiani 
possono  traslatarsi  nella  favella  pretta  fiorentina,  od'' altre 
parti  della  Toscana,  e  viceversa;  né  la  differenza  corre 
solo  tra  r  esteriore,  come  sono  le  desinenze,  e  certe  al- 
terazioni particolari  nelle  parole,  provenienti  dalla  pro- 
nunzia, ma  tra  voce  e  voce,  modo  e  modo,  costrutto  e 
costrutto.  Non  dico  già  che  si  tratti  di  due  lìngue;  è  una 
lingua,  che,  essendo  scritta,  si  è  resa  elegante ,  e  si  è  ar- 
ricchita di  parole,  e  forme  grammaticali  derivate  da  altre 
fonti,  elle  non  sono  le  toscane,  senza  iwrciò  diventare 
metaforica  né  una  congerie,  ne  una  deformità. 

TiM.  —  E  (jiiesla  lingua  si  chiama  vìva,  non  è  vero? 

Agat.  —  Sì,  perchè  nella  sostanza  è  toscana,  e  si 
misura  principalmente  alPuso  toscano,  per  questo  che  ne 
accoglie  le  nuove  voci  necessarie,  o  utili,  che  la  lìngua 
scrìtta  non  può  contener  tutto,  e  lo  scrittore  acquista  fran^ 
chezza  conversando  col  popolo. 

TiM.  —  E  serve  dì  criterio  per  dìscernere  la  parte 


—  1«0  — 
iiniana  perversità  e  follia ,  da  lasciare  pìcciola  speranza  di 
rimedio,  ove  altri  noQ  s^ affidi  nella  maDO  di  Dio. 

TiM.  —  E  so  che  la  tua  non  sarebbe  vita  d'ozio, 
ma  di  assidua  meditazione. 

AuAT.  —  L'età  presente,  che  non  dà  importanza  se 
non  a  ciò  che  cade  sotto  i  sensi,  e  poi^  utile  materiale, 
giudica  quel  tenore  di  vita  inRogardia,  e  biasimevole  di- 
spregio del  mondo.  Le  prove  sono  recenti,  anzi  quotidia- 
ne; eppure  non  si  lagna  della  turba  di  certi  eoa  detti 
ptMlkisti,  e  di  certi  componitori  di  romanzacci,  che  scia- 
l>ano  tempo  ed  ingegno  in  ben  altro  che  in  opera  vana, 
ìnducendp  la  civile  società  a  corruttela,  vituperando,  e 
belTeggiando  tutto  che  la  sapienza  antica  e  moderna,  di- 
vina ed  umana  lia  costantemente  proposto  per  princìpio  e 
fine  di  vero  e  di  bene. 

TiM.  —  In  realtà  il  governo  della  pubblica  cosa  è  in 
coleste  mani.  —  Ma  lasciamo  (piesti  discorsi ,  che  ve^o 
r amico  mio.  0  Vincenzo,  non  volerci  male^  se  abbiamo 
indugiato. 

.Amico  V.  —  Non  cominciamo  colle  cerimonie,  sai  ne- 
mico eh'  io  no  sono. 

Agat.  —  Sì,  senza  cerimonie  :  colie  persone  che  amo 
ed  onoro  mi  è  grato  al  sommo  poter  usare  con  dimesti- 
chezza. 

TiM.  —  Io  poi  nelle  cerimonie  mi  ci  trovo  tanto  im- 


—  162  — 

sce  di  nuove  voci  e  forme  di  dire.  E  il  suo  m^gior  torto 
non  istà  nell'avere  richiamato  alle  Tonti;  era  questo  un 
sano  avviso  ed  un  utile  consiglio.  Poiché  la  lingua  era 
corrotta,  colà  dovevasi  attingere  le  nostre  proprietà  ed 
el^oze  accordandole  coli'  uso  vìvo  del  dire  toscano  ;  il 
torto  slava  nel  non  ammettere  salute  iaon  dei  trecentisti, 
nel  pretendere  la  lingua  formata,  compiuta,  perfetta  e 
fìnila  nel  trecento  quanto  a  voci,  forme,  locazioni,  frasi, 
artefìdo,  e  die  porgesse  modo  a  dir  lutto,  oppure  si 
dovesse  lasciar  dì  dire  quello  che  il  b'ecento  non  por- 
gesse mezzo  di  esprimere,  e  che  la  lii^ua  del  trecento, 
che  vive  in  bocca  del  popolo  toscano  anche  a  nostri  dì, 
sia  tutta  negli  scrittori  dj  quell'aureo  secolo  >. 

.\«AT.  —  Se  non  vi  spiace  comincerei  subito  dal  fare 
alcune  note  a  quello,  che  avete  letto. 

Amico  Y.  —  È  il  piacer  mio. 

TiM.  —  Kd  io,  come  arbitro,  proporrei  che,  per 
risparmio  dì  tempo,  uno  leggesse  il  suo  scritto,  e  Taltro 
approvasse,  o  disapprovasse  con  brevi  argomenti.  In  tal 
guisa  sarebbero  baslevolmente  messe  in  chiaro  le  ragioni 
prò  e  centra ,  e  avreste  agio  di  trattare  di  più  cose  prima 
che  si  faccia  notte. 

Amico  V.  —  Lodo  il  tuo  consìglio,  ed  ascolterò  di 
buono  grado  gli  appunti,  che  farà  Agatofilo  a'  miei  pensieri. 


—  Itìl  — 

pare  av»r  torto  il  Varchi  assereodo  die  ttiuna  tùtgua  si 
può  chiamare  veramente  lingua,  la  quale  non  abbia,  no» 
dico  tcrittori,  ma  lodati  scnltori;  ed  il  Bonbo  che  af^ 
femia  lo  stesso,  cioè  che  non  si  può  dire  che  sia  vera- 
mente lingua  aicaaa  favella,  che  non  ha  scrittori  ». 

Agat.  —  Siamo  a  quel  medesimo,  di  supporre  che 
altri  possa  mai  immaginar  una  lingua  di  scrittori  che  dod 
sia  insieme  lingua  dì  popolo,  cioè  parlata.  La  quale  sa- 
rebbe la  più  amena  immaginazione,  poiché  il  fatto,  ed  il 
raziodnio  concordano  nel  mostrarne  la  falsità.  E  però  il 
Bembo,  e  il  Varchi  dissero:  lingua  che  non  abbia  scrit- 
tori, ponendo  cosi  che  la  lingua  scritta  sia  prima  parlata. 
Ma  essi  considerando  la  lingua  sotto  un  rispetto,  a  mio 
senno ,  filosoiìco  quanto  mai,  vollero  si  chiami  lingua  per 
eccellenza,  notate  bene,  per  eccellenza,  quella  che  ha 
lodati,  ovvero  come  sogltam  dire,  classici  scrittori.  £  si 
clie  in  niuna  lingua  appaiono  questi ,  se  prima  non  è  per- 
venuta alla  sua  perfezione,  che  vuol  dire  al  suo  slato.  — 
E^i  allora  raffermano,  se  no  fanno  conservatori,  e  alB- 
natori,  principalmente  scartandone  quello  che  vi  è  di  di- 
scordante, e  di  troppo  popolaresco,  e  però  le  danno 
quella  parte,  che  da  essi  soU  può  provenire,  P eleganza. 
Noi  dunque  abbiamo  ragione  di  tenerla  per  letteraria, 
sebbene  non  sia  vero  che  la  consideriamo  per   letteraria 


AiiAT.  —  Riuscirebbero  andie  pe^io,  se  veramenle 
il  loro  uso  fosse  divìso  da  quello  del  popolo,  come  hnao 
que' colali  scrittori,  che  abbiamo  testé,  come  ^  doveva, 
dannati.  Ma  quando  si  tratti  di  el^gere,  e  di  altra  mo- 
dificazione consentita  dall'indole  della  lingua,  di  forma 
che  questa  ne  esca  realmente  più  vaga ,  e  maestosa,  lo 
scrittore  sarà  le  mille  miglia  lunge  dall' affettato  e  dal 
pedantesco,  quando  però  non  si  voglia  aflibbiar  questi 
nomi,  per  un  esempio,  ai  tre  principali  scrittori  del  se- 
colo XIV.  —  Concordo  con  voi  che  l'uso  proviene  dal 
popolo:  non  ho  io  detto  che  fa  la  lingua?  Ma  o^o  che 
gli  scrittori  siano  ridotti  al  solo  ufficio  negativo  d'impe- 
dire l'abuso,  e  la  corruzione;  primo,  perchè  se  legge 
assoluta  è  l'uso  popolare,  non  si  sa  vedere  quando  de- 
generi iu  abuso,  ed  in  corruttela.  Sarà  sempre  buono  e 
lodevole.  Secondo,  perchè  se  gli  scrittori  sonda  tanto  da 
frenar  la  lingua,  che  non  si  guasti,  posseggono  eziandio 
r  arte  di  man^giarla  pensatamente,  e  di  ridurla,  come  ab- 
biam  detto ,  ad  urbanità ,  e  splendore.  Io  somiglio  la  lingua 
prima  solo  pariata,  e  poi  anche  scritta,  ad  una  vergine  leste 
incolla,  e  vestita  di  rozzi  panni,  ed  ora,  conservatole  il 
candore,  e  T innocenza,  ammaestrata  a  gentilezza,  a  squi- 
sita civiltà,  a  perfetta  grazia,  e  leggiadrìa.  È  sempre  una, 
ha  sempre  le  fattezze  di  prima,  e  lo  stesso  ingegno, 
comechè  raggentilite  quelle,  e  addestrato  questo.    Cosi 


—  172  — 

Amico  V.  —  *  Né  io  voglio  sbandire  Tnso  de'claf^ 
sìci  in  omaggio  alla  lingua  moderna  ;  basta  accordarlo  coK 
r  uso  corrente ,  quando  questo  repugnaodo  air  oso  de' 
buoni  scrittori  di  tutti  i  secoli,  i  quali  ci  ritrassero  e 
conservarono  V  indole  di  essa  lingua ,  non  chiariscasi  per 
corrotto,  e  fortaoatamente  Tuso  de^ classici  e  Paso  cor- 
rente vanno  meglio  d'accordo  che  altri  non  crede,  e  lo 
stile  del  Fanfani  vel  mostra  >. 

TiM.  —  Qui  poi  Agatofilo  non  sarà  di  conlrarìo  pa- 
rere ;  egli  non  rifìoisce  mai  di  lodare  lo  stile  del  Fanfimi, 
di  M.  Hindi ,  del  Guasti  e  di  pochi  altri  Toscani. 

Agat.  —  E  questi  egregi  uomini  mi  ritraggono  in 
atto  lo  scrittore ,  che  ho  in  idea.  Ma  ho  già  detto  che  se 
l'uso  corrente  )ia  fra  noi  suprema  autorità,  non  rimane 
agli  scrittori  che  acconciarsi  ad  esso,  allora  eziandio  che 
si  dilunga  dall'indole  della  liagua  degli  aitimi  cinque  se- 
coli, e  so  di  uluni  che  dicono  appunto  mancare  il  crìto- 
rio  per  giudicare  delle  buone  e  delle  male  atteraziom, 
che  il  popolo  possa  arrecare  alla  sua  favella,  e  non  vo- 
gliono sentir  parlare  d'abuso,  e  di  comiltela.  E  poi,  a 
che  gioverebbero  gli  scrittori?  Se  una  voce,  od  un  co- 
strutto è  contrario  air  indole  della  lingua  pariala ,  ci  si 
vede  subilo  paragonandolo  ad  essa,  senza  rimontare  alle 
età  passale.  Sicché  nell'opinion  vostra  i  nostri  scrittori 
valgono  ciò  che  gli   scrittori  francesi  del   secolo  decimo- 


—  i74  — 

Siro  criterio  riduce  a  poro  meno  che  a  DÌeote  l' impor- 
lanza  degli  scrittori,  salvo  lo  siile,  e  la  matnia;  il  nostro 
fa  loro  grm  parte  net  fatto  della  lingua  ancora,  e  Uene 
in  iioQ  picciolo  conto  la  lingua  parlata.  —  Ecco  perdiè 
avreste  un  bel  dire:  <  Non  ^  ripudi  nello  scrivere  la 
lingua  dotta;  sarà  ottimo  quello  solvere,  die  valradosi 
il  più  della  lingua  parlata  in  Toscana,  e  di  quella  parie 
delta  classica  e  dotta,  che  è  viva  ancora,  esprime  il  pen- 
siero moderno  conformemenle  ali*  indole  immutabile  della 
favella,  fondata  dagli  autori  toscani  ».  Imperciocché  tali, 
0  somiglianti  parole  avrebbero  loro  proprio  signincalo  pei 
Francesi,  a  moM' esempio,  non  per  noi,  che  il  piti  della 
lingua,  anzi  la  lingua  abbiamo  n^^li  scritiori  classici.  Voi 
verreste  sempre  a  i-idurre  la  parie  della  lingua  dotta  an- 
cor viva  ad  essere  tutt'  uno  colla  lingua  parlata  dal  popolo 
toscano,  e  però  tanto  varrebbe  porre  in  disparte  affatto 
gli  scritiori,  e  non  avere  ricorso  che  al  favellare  di  esso 
popolo. 

Amico  V.  —  •  Eppure  nel  mio  concetto  non  intendo 
ripudiare  il  lesero  letterario  della  favella,  ma  stando  io 
per  la  lingua  viva....  • 

Agat.  —  Dite  parlata,  che  viva  è  anche  la  scrìtta. 

Amico  V.  —  •  Volli  che  coli' uso  dei  parlanti  a  ve- 
nisse a  conoscere  quanta  parte  della  lingua  letteraria  sia 


—  178  — 
poiché  sarebbe  di  quella  sorte  che  è  il  proemio  uella  pa^ 
lata  liorentina  della  Novella  del  Faofanì;  e  se  fosse  iiiTeoe 
tal  quale  é  scritta  tutta  essa  novella,  sarebbe  la  lingua 
comune  italiana,  che  ci  hanno  data  ■  classici,  lemperab 
colVnso  delle  persone  colte  di  Toscana.  Vuol  dire,  adan- 
que,  che  i  toscani  d'allora  non  trascuravano  il  loro  idio- 
ma, poiché  in  esso  non  iscrivevano,  £^  la  lingua  falla  ita- 
liana ,  e  questa  è  la  verità ,  essendosi  poi  dati  a  scrìver  bene 
parecchi  tra  loro,  e  de' primi  Tuomo  egregio  ora  nomi- 
nato, e  quegli  altri  già  detti,  i  quali  ottennero  il  fìne  vo- 
luto dall'Azeglio,  ma  con  mezzi  ben  più  acconci. 

Amico.  V.  —  ■  Io  sto  col  Manzoni,  non  conosco  al- 
tra lingua  che  la  parlata,  altra  lingua  scritta  che  quella 
die  è  conforme  ad  un  uso  parlalo,  assegnato,  determi- 
nato ed  uno.  Il  vostro  peccalo  originale  è  insomma  il  non 
s.i|iervi  dipailirc  dal  concello  letterario  della  lingua  rego- 
lata, squisita  e  artificiosa,  che  sì  può  bene  studiare  e  imi- 
tare dagli  autori,  ma  non  mai  rendere  comune». 

AfiAT.  —  Oggimai  vi  dovreste  accorgere  che  il  con- 
cetto manzoniano  sta  in  genere,  non  in  ispecie,  avendo 
noi  in  realtà  la  lìngua  comune  mercè  gli  scrittori,  per 
negar  che  facciate  non  potersi  mai,  loro  mercè,  render 
comune.  H  pregiudizio,  adunque,  o  peccato  originale, 
pare  sìa  tutto  di  voi  altri,  che  colle  vostre  teorie  vorrò- 


—  180  — 

vulli  bene  che  si  corregga  la  lingua  parìaia  per  via  della 
scrìUa,  nell'uso  lelterario,  ma  che  nel  tempo  slesso  la 
scritta  si  attinga  dai  parlaali,  e  non  dai  libri  soltanto;  cbe 
per  la  cognizione  e  ta  pratica  della  parlata  si  distingua 
nella  letteraria  ciò  che  è  vivo  da  dò  che  è  morto;  volli 
metter  d' accordo  coli'  uso  dei  parlanti  quello  degli  scri- 
venti. E  questo  si  chiama  Tar  opera  da  ingrati,  sprezzar 
i  classici?  ■ 

Ar.AT.  —  Voi,  Vincenzo,  mi  fareste  ingiuria  se  cre- 
deste mai  cir  io  abbia  dubitato  della  Iwntà  delle  vostre 
intenzioni.  Volete  fare  del  t>cnc,  è  cerio,  ma,  a  mio  giu- 
dizio, errate  neiP  elezione  dei  mezzi.  Non  prendete  aduo- 
((ue  in  mala  parie  s' io  continuo  a  parlare  francamente. 

Amico  V.  —  Uilc  a  vostra  posta. 

.\(iAT.  —  Le  nllìme  vostre  parole  comprendono  ve- 
rità in  palle,  ed  ìli  parte  son  difeltuose.  V^go,  o  panni, 
che  ponete  delle  restrizioni  alla  vostra  opinione,  rìducendo 
air  uso  domestico  principalmente  la  Nngua  odierna,  e  nep- 
pure per  tutto  esso  uso,  ma  per  (pielte  cose  in  ispecie, 
die  non  si  trovano  nominate  su  pei  libri.  —  E  fìn  qui 
potremmo  essere  con&>rdi.  Il  resto  sente  ancora  un  po'lrop- 
po  del  criterio  generico,  che  voi,  e  i  vostri  partigiani 
avete  nssunto,  ed  ha  bisogno  a  sua  volta  di  essere  tem- 
perato. Finattanlochè  non  riconoscerete  quello,  che  è  un 


—  182  — 

in  SH  por  <li>clnrnp  Ifì  Icgf^.  anziché  rmlfre  di  potere  iro- 
pnnemente  applicargli  certe  allre.  troppo  generali,  perdiè 
dedotte  da  lingue  diverse. 

Amico  V.  —  «  Ed  io  fo'per  Io  appunto  così,  pm- 
che  vo*che  si  imitìoo  i  classici  in  ciò  che  esà  medesind 
hanno  fatto ,  che  i  TrecenUsU  non  usarono  altra  lingna  da 
quella  che  correva  ai  loro  tempi  sulle  bocche  del  popolo  >. 

AoAT.  —  Questo  è  vero  se  s' intende  con  ci6  di  a- 
gnidcare  die  in  sostanza  scrivevano  in  queBa  lingna,  e  più 
prettamente  i  man  colti.  Ma  come  prima  si  passa  a  con- 
siderarli con  diligenza ,  si  discerné  V  arte  da  loro  osata 
per  discostarsi  dal  favellar  comune,  onde  g)i  uni  dagli  al- 
tri riescono  distìnti  ;  non  parlo  ora  dello  stile,  ma  dei  co- 
strutti e  delle  parole.  E  qnesto  soprattutto  si  discopre  in 
queUi,  che  non  iscrissero  in  solo  servigio  proprio,  o  del 
popolo,  senza  proporsi,  insomma,  di  fare  opera  lettera- 
ria, quali  sono  gli  scrittori  di  Leggende,  di  Ricordi,  esi- 
mili, ma  in  coloro,  che  informandosi  prìncipalmaite  su- 
gli esempi  latini,  intendevano  a  fare  opera  durevole  po- 
nendo gP  inizii  d' una  nuova  letteratura.  Ciò  che  poteano 
farti  assai  agevolmente  molti  di  loro,  per  questo  ancora 
che  furtmo  pili  tempo  fuori  di  Toscana,  come  intervenne 
ad  un  infìnito  numero  di  poeti,  eziandio  non  toscani,  ed 
ai  trt!  sommi  padri  della  nostra  lingua  e  letteratura.  E 
peni,  se  pel  natio  candore,  e  per  la  purezza  tutta  ver 


—  184  — 

A<iAT.  —  Fatta  la  ilUttnziono  di  poc'anzi,  si  vedrà 
in  quali  scrittori  sì  deliba  cercare  l'arte;  e  poi  si  consideri 
die  altro  è  che  apparisca  aver  voluto  uno  scrìttCHre  seguir 
le  norme  dell'arte,  e  non  essergli  presso  che  venato  fotto, 
ed  esservi  mirabilmente  riuscito.  Il  Triumvirato,  che  ebbe 
questa  sorte,  servì  subito  di  modello  agrilaliaDi,  e  serve 
tuttavìa.  E  che  tutti  questi  abbiano  scritto  in  lìi^na  to- 
scana l'ho  già  consentito,  e  so  che  non  ostano  forme  e 
voci  latine,  italiche,  o  forastiere,  che  vi  siano  state  intro- 
messe. —  Ti  ricordi ,  Timete ,  che  già  parlammo  a  lor^ 
di  quello,  die  Dante  ragiona  nel  libro  del  Volgare  eb»- 
qnio? 

TiM.  —  Me  ne  ricordo  benissimo. 

AciAT.  —  Abbiamo  veduto  che  egli  distingae  la  lin- 
gua parlala  dalla  lingua  letteraria  e  comune,  che  dice  vol- 
gare illustre,  aulico,  cortigiano,  perchè  da  magisterìo  in- 
nalzato, e^isendo  dì  tatitì  diretti  di  pronunzia,  di  tanti  con- 
tadineschi accenti,  così  egregio,  così  districato,  cosi  per- 
Tetto  e  così  civile  ridotto ,  come  Gino  da  Pistoia ,  e  Dante 
stesso  nelle  loi'o  canzoni  dimostrano.  Notate  che  tale  opera 
di  modificazione  attorno  alla  lìngua  sì  deve  ad  altri  ezian- 
dìo, oltre  r Alighieri,  il  Petrarca,  ed  il  Boccaccio.  E  la 
lìngua  co:^  innalzata  egli  dice  esser  quella ,  che  in  ciascuna 
citta  appare,  e  che  in  niuna  riposa,  che  è  di  tutte  te  città 
italiane,  e  non  pare  che  sìa  di  ninna,   colla  quale  i  voi- 


—  18(i  — 

l^tfendo  le  Prose,  V  l^-ivlano,  e  cotali  altre  opere,  non 
etxrettuatu  le  grammalìche,  e  parUatlanoeDte  gli  scrìtti 
del  Nannucci,  e  le  oote  e  gli  spogli  distesi  per  dilìgena 
di  dotti  filologi  a  corredo  delle  scritture  treceatistiche.  Io 
stesso  maitre  che  in  sifliatii  tesori  mi  delizio ,  sc^o  tener 
ricordo  de' latinismi ,  e  forestierismi  d'ogni  maniera,  die 
spessìssime  volte  occorrono  per  entro  a  quelle,  ed  af- 
fermo che  meri:è  questo  minuto  studio,  e  continuo,  mi 
SODO  meglio  che  mai  certificalo  di  quello,  che  sostengo 
conforme  air  opinione  di  egregi  autori,  essere,  cioè,  il 
nerbo  del  nostro  comune  volgare  la  faretla  tosoma,  mi 
doversene  ricevere  le  leggi,  e  la  forma  perfetta  dalle  opere 
immortali  de'  primi  scrittori.  Né  si  oppoi^  che  certe  pa- 
role, e  certi  modi  potevano  essere  allora  comuni  alla  no- 
stra, e  alla  lingua  provenzale;  perchè,  oltre  il  coglierne 
facilmente  una  cotal  discordanza  naturale  dal  tutto  insieme 
delle  voci,  e  dei  modi  nativi,  ed  il  trt^vare  il  più  delle 
volte  questi  di  costa  a  quelli ,  la  storia  di  que'  tempi  ci 
i-cnde  agevole  il  persuaderci  di  ciò  che  dico,  pcnchè 
le  Crociate  ci  avvezzarono  prima  alla  lingua  franca,  e  i 
Normanni  accogliendo  alla  loro  corte  uomini  illustri  d'ogni 
nazione,  e  primi  fra  essi  erano  ì  trovatori  provenzali,  ac- 
crebbero grandemente  l' influsso  delle  lingue  straniere.  Se- 
guitarono il  loro  esempio  gli  Svevi,  e  più  cite  tutti  gli 
Angioini,   per  amore  di   nazione    prot^gitorì    magnìfici 


—  188  — 

AMim  V.  —  ■  PmpoDendo  un  linguagfpo  da  diffÌMt- 
clere  nel  popolo,  non  è  da  badare,  oso  dire,  né  al  buono, 
uè  al  puro;  ma  solo  a  dare  un  mezzo  eguale  dì  comu- 
Dìcazione  fra  tutti  i  membri  della  nazione  >. 

Agat.  —  A.  me  pare  sia  da  badare  all^ona,  e  al- 
Tallra  cosa,  chi  voglia  tare  opera  perfetta.  Ma  che  dico? 
Per  noi  non  si  traila  punto  di  proporre  un  lingua^io,  si 
di  aiutare  con  ogni  mezzo  il  divulgamento  di  quello  che 
già  è  comune. 

Amico  V.  —  ■  Che  cosa  importa  di  più  cirilmente 
ti  politicamente?  Che  vi  siano  cento  uomini  marcili  in  sui 
libri,  die  sappiano  in  un  caso  parlarvi  in  un  modo  da 
disgradarne  la  Crusca  stessa,  oppure  che  tutti  i  cittadini 
d' Italia  sappiano  parlai'e,  e  parlino  eflettivamente  ìtaliaiw  ?  ■ 

AuAT.  —  Queste  parole,  il  dico  schietto,  mi  mara- 
vigliano. —  Gli  uomini  marciti  in  sul  libri  sanno  fare  ben 
altro  che  parlare  in  modo  da  disgradarne  la  Crusca:  essi 
possono  avere  raccolto  tanto  senno  da  Tarvì  avveduto  che 
civilmente,  e  politicamente  non  ^ova  mettere  opposizione 
da  di  essi,  ed  i  cittadini,  che  parlino,  o  no  effettivamente 
italiano;  che  se  loro  mercè  il  popolo  si  da  a  vita  civile, 
e  politica,  e  la  sua  virtù  si  specchia  nella  sua  lìngua  fat- 
tasi perfetta,  conserva  altresì,  e  lingua,  e  virtù  per  opera 
di  quelli.  E  quanto  a  noi,  ripeto  che  nuovo  afCatlo  è  il 
vostro  modo  di  onoi'are  ({uegli  uomini,  che  continuano  le 


unii  sconcio  gravisduno,  al  quale  vuoisi  porre  proirio  lì- 
medio.  Ma  i^iò  non  U^ie  cbe  sia  coamoe  la  lingua,  per- 
che ad  ogni  Diodo  è  intesa  uniTersalmeole,  e  parlala 
dai  più. 

Amico  V.  —  ■  Ma  cbe?  0  io  Toscana  si  paria  oggi 
come  parlaTasi  e  scrìTevasi  nel  trecento  e  nel  cinquecento, 
e  la  lingua  è  la  stessa,  e  niente  di  male  a  imitare  i  to- 
scani; ovvero  ora  parlano  io  manìo'a  diversa,  e  la  vostra 
lìngua  letteraria  sarà  bellissima,  ma  rancida  e  mmla  >. 

An\T.  Sarrebbe  stata  rancida  e  morta  sabito  cbe  fti 
innalzata  a  perfezione,  e  divulgata,  che  fin  d'allora  ebbe 
dalla  parlata  quel  divario ,  che  ho  accennato.  Ond'  egli  è 
vano  il  vostro  dilemma,  perchè  n<Hi  comprende  questo 
terzo  caso.,  il  quale  per  soprappiù  è  il  solo  nspondeote 
al  fatto.  —  Non  importa  dunque  esaminare  se  oggidì  il 
jiarìare  tosiamo  sia  o  m  mtaùa  bello,  nrmonioso,  pro- 
jH-io,  elegante ,  espresmo  e  paro,  ove  però  non  si  voglia 
farlo  per  sapere  se  si  possa  ad  esso  avere  ricorso  sicura- 
mente quando  si  tratti  dì  rifornire  il  volgare  di  dò  cbe 
per  avventura  gli  fa  difetto. 

Amico  V.  —  •  Però  la  lìngua  studiata  nei  classici  è 
inefficace  a  preservare  i  molti  da'  francesismi  nel  parlare 
e  nello  scrivere,  ì  molti,  cbe  sapendo  imperfettamente  e 
male  T italiano,   ricorrono  di  necessità  al  francese,  che 


—  ÌIH  — 

Amux)  V.  —  V  accordeivle  dutique  con  questo  trailo 
(Ielle  mìe  note?  *  Costoro  che  vogliono  la  lingua  lettera- 
ria unica,  perpetua,  inalterabile  norma  della  lingua  co- 
mune da  parlarsi,  e  da  scriversi,  mi  danno  sembianza  di 
nn  collettore  di  dipinti  dMnsignì  autori,  il  quale  invitasse 
i  giovani  pittori  alla  sua  galleria,  e  tenesse  loro  un  di- 
scorso su  questo  gusto:  ammirate  capolavori  che  sono 
questi.  Se  volete  riuscire  a  Tame  di  simili  traete  di  qua 
le  forme,  le  attitudini,  le  movenze;  lasciate  da  parte  la 
natura,  che  è  l)rutta  e  golfa.  Forse  die  i]uei  giovani  non 
si  lideri'bliero  de' Tatti  suoi"  E  se  le  risa  lasciassero  loro 
facDltà  di  parlare ,  non  gli  lisponderehbero  tosto  che  quei 
valenti  fecero  di  cosi  belle  cose  studiando  sul  vero,  e 
che  in  quelle  opere  s  impiira  solamente  come  si  debba 
imitare  la  natura?  E  così  noi  attingiamo  le  forme  \ive 
della  lingua  dal  popolo  clic  la  parla,  impariamo  ad  al^ 
teggiarle  dagli  scrittori,  che  ce  la  serbarono,  e  che. la 
illustrarono.  Tutto  il  resto  è  archeologia,  pedanterìa,  e 
convenzione  accademica  •. 

,\cAT.  —  Non  m' acconcio  davvero  a  coleste  dottrine. 

TiM.  —  Addio,  concordia! 

A(iAT.  —  E  che?  Oggidì  a  forza  di  chiamare  archeo- 
logia, pedanteria  e  convenzione  accademica,  così  nelle 
arti   [)eUe,   come   nelle   lettere,  tante  cose  che  fin  qui 


—  l'Ji  — 

fjualora  si  tratti  di  esprimere  generalità  di  fttii,  o  di  sen- 
timenti, non  quando  occorrano  materie  ramiliari  o  leali- 
che,  e  quella  precisione  di  termini  die  è  imposta  dal  bi- 
seco di  idee  precise  > . 

AcAT.  —  Siccome  non  lio  serrato  T  ascio  a  quello, 
ctie  è  necessario,  ed  utile  ad  aggiungersi,  così  se  la  lin- 
gua sente  tal  difetto,  si  provveda  pure,  che  io  non  ìÀt- 
simerò  mai  chi  vi  darà  opera ,  anzi  vedrei  di  buoD  occhio 
un  vocabolario  compito  della  lingua  domestica,  e  scientì- 
fir» ,  che  raccogliesse  -tutti  1  termini  de'  classici  ancora  in 
uso,  e  lutti  gli  altri  che  i  ben  parlanti  adoperano. 

TtM.  Vorresti  dunque  quel  vocabolario  dell'uso,  die 
altra  volta  non  approvasti? 

AtiAT.  —  Non  lo  approvai  io  quanto  volersi  dai^li 
maggior  estensione,  e  fargli  tener  luogo  del  Vocabolario 
del  volgare  italiano.  —  A  proposito,  ti  ricordi  die  io  di- 
ceva: dal  detto  al  fatto  corre  un  buon  tratto? 

TiH.  —  Si ,  ed  il  Vocabolario  dell'  nso  non  deve  es- 
sere neppure  alPA:  »nzi  ho  letto  su  pe' giornali  la  di- 
chiarazione di  uno  tra' più  illustri  nomini  eletti  a  compi- 
larlo ,  rh'  ei  rinunziò  l' incarico  ricevuto  ;  sicché  non  so  se 
gli  altri  intendano  a  far  più  nulla. 

Agat.  —  Desidererei  ciie  il  vocabolario  domestico,  e 
scientifico  fosse  fatto ,  e  rimanesse  separato  da  quello  della 
Crusca ,  per  questo  che  necessariamente  i  termini  di  quella 


—  196  — 

TiM.  —  Ed  io  riservo  la  mia  sentenza  al  gioroo  che 
dichiarerete  ultimo  della  discussioDe.  Per  ora  essa  doo  ha 
fatto  mutar  parere  né  air  uno  né  alV  altro. 

AcAT.  —  Qaesto  non  vuol  dire  die  non  aU)ianio  a 
termiuare  per  essere  unanimi.  Ma  torniamo  in  dita. 

Prof.  1.  G.  Isola 


[tìj.  •Mi,  ini.  tì.  i'  \<A. 
31. 


%.  0»Ì  taira  '*t  Ut 
31.  imn  wrir» 
ìt.  Da  Chuip 

IS,  OMI  M  e  DM 

19.  iowT'i 
•J.  0) 
Ifi.  utìeu 
17.  J'jrdanuin 
33-  d* 
IM.  jrrofonikt  lénrbm 


22.  (£/«9-  II) 
Kt.  i*u.-  t«  non 

27.  /to  i/ift/i 


'.Vii  l'^ir  é>t  Ktur 

Di  Ci^r 
KM  è  «e  MB 

msMÌ 

ynfaiidei  Ihiibrft 
a/m.mrn 


ilib.  11.  EJiy.  SXXII) 

i-iilerii ,  rrya     ^i  non  le  eitUril .  rrfi 
Uà  aggi 


Umetto  ìili)uanLi  minori,  e  alla  S.  Y.  e  ai  diserai  leiiori 

caldamente  mi  raccomando 


[li  Torino,  nella  Domenica  Quoti  modo.  Si  Aprile  1 


—  200  — 
Nru.e  Nozze  Alessandim-Sai-vatoiiklu  ,  Catailena  di  Ciro 
Mdxsaroti.  —  Bagnaravalld .  1870, 
Questa  Cantilena  deiresìmìo  signor  Giro  Massaroli  è 
alquanto  più  sostanziosa  e  sostenuta  delle  altre  per  Nozze, 
che  è  andato  sciorinando  nel  volger  breve  di  Ire  o  qnattro 
anni,  perchè  questa  volta  le  gralulazioni  e  il  vaticinio  sono 
in  nome  d'un  sacerdote  cristiano,  che  festeggia  il  nuri- 
taggio  della  gentile  signora  Allessandrì  di  Assisi  coir  ornato 
giovine  Salvatore  Salvatorelli  dì  Perugia.  E  per  vero ,  avolo 
riguardo  al  carattere  dell' ofTerente,  non  pdteva  la  poesia 
starsi  umile  e  rimessa ,  ma  doveva  assumere  on  tono  che 
sentisse  alquanto  dell'ecclesiastico.  Egli  è  perciò  che  con 
savio  avviso  il  giovane  rimatore  ha  condilo  le  sae  Stanze 
d'una  rarta  unzione  religiosa,  la  quale  ben  si  addice  al 
deilìrante  Don  Giuseppe  !tIassaroli,  persona  di  chiesa  e 
(legna  dell'abito  che  veste. 

Amico  il  prete  Massaroli  della  famiglia  Alessandri ,  xo^ 
gesi  all'Annetta,  die  muta  nome  e  paese,  e  ne  Ta  le  lodi 
con  certe  frasi  afTettuosc  e  paterne,  che  non  muovono  da 
altro  luogo  se  non  dall'altare. 

Divola  di  pietà ,  bella  e  tV  assai . 

r  ti  eonosco  già  di  iMiga  mano: 

E  ti  scìitii,  pturicti ,  a'd\  sereni 

Rider  risetti  di  dolcezza  pieni. 


—  ìoa  — 

fra  le  ameoiti  del  villeggiare.  Al  prezzo  degU  oAett,  dice, 
e  delle  querce  secolari,  aWatptìto  dt^ verdi  poggi  e  delb 
vtUli  fiorenti,  al  sereno  de' suoi  deli  furciU«  e  diafani, 
e  più  ancora  aU'aara  dei  mUi  e  semplici  costumi  de'nioi 
pacifici  abitatori,  nacquero  coleste  narrazioni  piacevoli  e 
d^  affetto.  Questo  breve  passo  è  sofficieale  a  dimostrare 
quel  che  V  autore  si  ha  proposto ,  e  il  modo  di  dar  forma 
alle  creazioni  della  sua  Tantasia.  Già  si  sente  lo  Scrittore 
del  nostro  paese  meridionale,  che  sempre  tras^i'a  della 
dolce  aara  delle  antiche  siculo  muse  ;  dì  queir  aura ,  che 
poi  trasfondeva  tanta  dolcezza  nelle  squisite  egloghe  del 
Sannazaro  e  del  Rota,  e  ne' soavi  carmi  del  Tan^io,  di 
Galeazzo  di  Tarsia  e  del  misurato  Costanzo. 

Crediamo  che  molte  delle  XXVI  novelle  del  Pruden- 
zano  siano  attinte  dal  vero ,  con  quel  po'  di  giunta  dhe  al 
novellatore  non  solamente  sì  concede  creare,  ma  che  in 
lui  si  loda  altresì.  Egli  non  ha  seguito  la  forma'antica  nel 
disporre  la  materia,  immaginando  una  occasione  onde 
qualche  onesta  brigata  venga  via  via  novellando  ;  ma ,  come 
adoperarono  presso  che  tutti  i  più  recenti,  libero  di  co- 
testo vincolo  seppe  dare  varietà  al  suo  lavoro  colle  dovide 
della  propria  fantasia.  Quanto  è  allo  stile  e  alla  lingua, 
e' ci  paiono  assai  lodevoli,  ed  accomodati  con  senno  ai  ca- 
ratteri delle  persone  che  ne  rappresenta;  e  mentre  in  buona 


BULLETTINO  BIBUOGRAFICO 


PlTHK  Ivol.pfimo/-  Palermo.  Lui- 
gi Pedoie-Lauritl  tditore,  1870, 
U  8."  di  pagg.  Xll-4&g, 
Non  è  ÌDlendimcnto  noslra 
purlare  slesamenie  di  (juesla  |ire- 
ziosa  raccolta;  ((uando  ci  tolessiiiia 
ililTondcre,  bene  essa  ci  presterebbe 
maierìa  a  larga  mano;  ci  conlen- 
icremo  per  ora  di  dame  un  aeoi- 
ulìce  annunzio,  divisando  ai  nostri 
leggitori  puramente  ciò  cb'  essa 
conlienc.  Ad  una  hreie  Aevtrleata 
succdc  la  nota  delle  Città  e  Paesi 
nei  quali  sono  stati  raccolti  i  Canti. 
i'oi  uno  Studio  critico  nui  Canti 
Popolari  Siciliani,  già  altra  volta 
inesso  [jori,  aitcgnacliè  in  questa 
ristampi  di  molto  nccr  sciuto  e  ntì- 
Kliorato.  In  esso  la  criUc»,  l'eru- 
dìiionc  storica  e  la  sapìeoia  Tilo- 
logica  tanno  nnirabìle  prora:  è  di- 
tÌso  in  tredici  capitoli ,  non  com- 
presa la  conclusione:  toglìpsi  dalla 
jiag.  3  e  Ta  sino  alla  <71-  Indi 
seimila  una  diligente  Bibliografiii 
dei  Canti  Popolari  d'Italia,  dove, 
secondo  la  copìzione  noslra,  non 
TKta  omm  sso   che   un   libercolo 


avranno  luogo  le  Leggende  Sacre  « 
profane,  i  tJaitìi  faaciuUesekì,  gli 
Inaoi-inrlii  ecc.  ecc.  Le  note  sono 
copiosissime,  ma  necessarie;  niente 
di  soperchio:  speme  volle  con  raf- 
fronti di  Canti  Italiani  :  rìputlaino 
insomma  cotesto  libro  ragiguarde- 
voie  per  ogni  conto. 

Il  solerte  raccoglitore  é  uno  di 

3 negli  uomini  che  non  se  ne  stanno 
a  vero  colle  mani  in  mano  :  egli 
ad  ogoi  breve  tempo  manda  foori 
opere  degnissime  dell'universale  sp- 
provaiione ,  perciò  ba  sapulo  gua- 
dagnarsi fama  di  esimio  e  bencroe- 
rìlo  letterato  in  Italia  e  fuori.  1  suoi 
lavori  sono  tntti  di  somma  erudi- 
zione e  d'ìmportania:  essi  partono 
da  una  mente  diritta,  soda ,  piena 
di  studio  e  di  sapere.  Il  stg.  dott 
Pìiré  ha  sempre  dato  saggi  isvariali 
di  più  svariata  dottrina.  Lo  vuoi 
scrittore  eccellente  di  belle  arti,  e^li 
è  :  lo  vuoi  di  biografie  e  di  storta, 
niente  lascia  a  desiderare:  lo  vuoi 
inllnc  di  fìblogia  e  di  buone  lettere, 
ne  disgrada  asui  che  sono  in  voce 
di  odimi. 


Dien;  alcuM  del  BcrliB  busso, 
alut  ipifoUle  dii  piò  iosipi  com- 
,^  p^   3j 

r  intera  nu 
a  lUrìbuilj  ■  Dinlc, 
onta  A»  DB  ■Dticso  libra  dei  frati 
drik>  Zoccolo  ia  Firenie ,  dell  j  qn  ile 
pil  pirìò  il  HorfUi  ne'Miat  Còdici 
aaMMcnllj  ro/gan  della  Hbmia 
ISamami:  Veneiia .  ZilU.  1786. 


alla  42 ,  li  rìporU  per 
Caunu  inedita  attribuii 


Ktntfù  JViJwM,  ilawiiB  M»- 
M,  IS69,  iù  p4f.  XVl-160. 
OuiiDo  lenipo  hi  pracvtft 
adi  nodioM  l'egrepo  lis.  nneaU 
GiDTaimi  Pimlti  eolla  ntiB^  fi 
qncHo  libre,  non  mi  ihiiiawi 
letto  e  studialo  da  chi  ami  icra- 
UKDle  inlonoBni  per  bcoe  dellt 
bellene  della  noitn  loqacU.  Ti  pn- 


reilò  il  tetto  dì  amllqiUd  e  b 


Solenae  tara«ta  drth  Arcade- 
mia  Ptlermilama  di  ttinzt ,  Irl- 
lere  fd  arti  fu  memoria  drl  tua    , 
tneio  e  tire  pretidrmle  n.r.  Be- 
nedfUo  [fAcquiilo,  Artitetrovo 
di  MonreaU.  Palermo.  Franre- 
tra  Lao,  Ift69,  ra  i.'  di  pagq. 
M),  tol  rilratlo  ddtArrii-eicoro. 
Vi  si  contencono  Ire  Iteriùoni 
detl*illuMre  ùf.  Giuseppe  De  Mensa 
«  un  eloquente  e  pieioso  Ditrorto 
ilei  prof.  Vincente  Dì-GiDTannì,  al 
(|ii3le  rannn  corona  diiene  poesie   . 
in  greco,  in  Mlinoe  inTol}nre;lutti    ' 
componimenti,  dal  più   il   meno,   \ 
eleBaoti  e  praTalìssimi,  secondo  che    : 
sogliono  uscire  dille  penne  de'  molli   | 
lelleraii  della   dotta   Palermo.   Gli   ' 
:i>i(ori,cui  Bp(iiirlenguHO  sono;  (1.   | 
He  Spuches,  can.  I.  Monlslhano. 
'i.  RoMM,  S,  Villareale.G.  Spia 


rte  compilale.  Rì|iianlaiMi 
filologia,  altre  più  tpedal 
la  storia.  In  fine  allogò  le  Ditiia- 
raàoiù  di  M.  Yineettit  Barwàim 
d'alcune  tocì  antidie.  le  inui  li 
iravanQ  per  entro  le  Novelle.  Noi 
sono  mai  a  sulficienia  lodati  quelli 
che  si  occupano  a  pn  della  sin* 
diosa  giotenlù. 


aiMOIaMMi  ad  a 

rlaue    Gimunal  .   . 

Metga.  In  Kapoli,  tiella  ttenue- 

ria  del  Fibreno,  1869.  m  S.' di 

pagg.  19i. 

Quesu  lùJevùle  ediilone.  in- 
trapresa dall' instancabile  prof.  cav. 
Michele  Melga .  [u  poi  compiuta 
dall' esimio  orofesion.'    Emmanuf' 


gomcnto.  Kiilift  generali  non  ci  |iare  i 
Aii  fcro  che  eww  giiin^no  ni  me- 
rito di  quelte  più  sopra  registrale  { 
deli'egr^io  sìg.  Caroselli,  mi  pur 
del  buono  sembraci  *i  si  possa  spi- 
golare. 

Poesie  di  Pietro  Leohobi  ro- 
wuM.  Trento,  tip.  ed.  M.  KUp- 
peT'Fnmia,  ìilO,  tu  16."  gof. 
dipeigg.  IV-64. 

Qoesto  volnmelto  ci  offre  com- 
ponimenti di  un  ben  disposto  p'o-  | 
fine  lerse^alore,  dai  quali  si  | 
apprende  iKeTolmenle,  che  prose-  : 
Biiendo  egli  oltre  nello  studio  dei  | 
buoni  maestri ,  potrà  cogliere  frutti  | 
lef^adrì  e  saporosi  :  i  concetti  non  ; 
gli  mancano  ;  lo  spirito  è  jrentìle,  e  I 
non  se  ne  può  indovinare  che  bene.  '. 

Nuove  Poesie  di  Concettina  ' 
RiKONDETTA  FiNETl.  Palermo,  , 
tip.  del  Giomak  di  Sicilia,  iS%,  j 
M  8.'  di'  pagg.  VI-9Ì.  ' 

La  soaiiti  e  il  caldo  affetto  e   I 
le  vite  e  graiiose  immagiai  non  si 
lasciano  desiderare  in  queste  rime. 
Per  cib  cbe  risguarda  la  lingua  e 
lo  stile  Torrebbesi ,  a  parer  nostro,   | 
un  po'  di  lima.  La  signora  Ramon- 
detta  é  iin  nome  che  suona  caro 
e  riierilo  nell'odierno  Parnaso  ita-  i 
Viano  da  buon  tempo,  e  coteste  nuo- 
"ft  poesie  confermano  vieppiù  il  suo 


DI  un  Itrgo  intetnamealo  pop»- 
lare  per  Enrico  RAlOHDim.  Sm- 
poli,  1870.  M  8.*  <fi  pùgg.  3S. 

Questo  ragionamento  h  rìfàt- 
tilo  in  qaatin  Capitoli,  e  *i  ri 
paria  abbasUnn  di  qnuito  ai  è  pro- 
posto r  illastre  autore.  Beila  peri 
a  Teder«  sa  la  magfior  parte  dai 
leggitori  possano  eoannire  nelle  lae 
opinioni. 

HotUte  dei  retlauralori  dell»  fU- 
ture  a  mceaieo  della  R.  CoffeU 
la  Palalina,  MpigelaU  eé  e^ml» 
da  Gaetano  Riolo  tee.  nUr- 
m,  1870,  M  8°  di  pagg,  48. 

Molto  acconcio  può  torurs 
questo  opuscolo  agli  aoutori  aio- 
goLirmente  di  belle  arti ,  otc  coi 
buon  ordine  e  con  chiarena  di  mo- 
siaìone  si  narra  de'  ristanrì  bui 
nella  Cappella  Palatina  di  Palerà» 
dal  t3i5  sino  ai  di  nostri.  L'^dh 
aio  sig.  Riolo,  prof,  di  disq^  nela 
R.  scuola  tecnica  parallela  di  Pa- 
lermo, se  n'abbia  intanta  le  nostre 
sincere  congratu Iasioni.  In  fine  sta 
un' Appendiu  di  documenti  all'uopo. 

Precetti  ed  esempi  1  M/farlt 
del  comporre  per  la  i.*  *  5." 
flaite  gmnaiiiale .  pfetedtti  dt 
brevi  cenni  tnlofflo  alFiitoria  dA 
hello  r  deirarte  per  GiOBBPn 
Frosina-Cannelij*.  Porte  /."  — 


Hovellft  rfcUs  (fmiM  tfun  notaio 
tMMMoraKt  d'ili!  medico:  daU» 
IcMMM  rfi  nwttm  Nicodamo.  I» 
Napoli  e  in  Bolegn»,  a  lA   15 
Agata,  1869,  in  8*  di pagg.  16. 
Ele^DU  ediiiom  di  mIì  dieci 
esemplari    per    ordine    Dumiratì , 
tulli  in   beìliuime    pergamene  di 
Rami.    Fu    coDSicrtita   all'  esimia 
bibijoniosis.  Giovanni  Pepanti,  felice 
culture  de' Duoni  studi!  e  gran  rac- 
coglitore e  pubblicatore  di  Novelle. 

Mot6Ua  di  TMiuignore  GtO.  DEL' 
LA  Casa  fratta  dal  tuo  Galateo. 
Ih  Livorno,  pei  tipi  di  Frauettco 
Vigo,  1870,  in  8.'  di  carie  16. 

Ediiione  di  soli  sedici  eseni' 
plani  progressiTa mente  numerali, 
e  tutti  impressi  in  finissima  perga- 
mena dì  Roma.  È  una  delle  più 
eleganti  e  ^hiotle  pubblicazioni  che 
m'  abbia  usto  a  nostri  iji.  Il  lusso 
e  la  elegania  e  la  nilideiia  tipo- 
graftcì  fi  gareggiano  insieme  mi- 
rabllmeaie  e  sono  una  prora  in- 
uontrastabile  del  buon  ^usio  del- 
l'esimio editore,  sig.  Giovanni  Pa- 
panli,  e  del  peritissimo  tipografo, 
sìg.  Francesco  Vigo.  È  impressa  in 
caratteri  corsivi  nuovi,  co  quali  si 
imitano  per  eccelleoia  le  stampe 
più  belle  del  Giolito.  Quattro  su- 
perbe e  finissime  inmioni  in  legno, 
eseguile  apposilameote  dall'illustre 

prof,  franeeseo  lìaui. 


Eire,m  levigito,  dotto  poredlwM. 
)U'  Epigrafe  premeiUTi ,  coDi 
Juile  l'iotitola  al  ai|.  Giovani 
spanti,  ai  rìtiM  die  la  NofaUi 
fu  ilampau  (bnt  im  Baleaml  i 
di  XXIV  GiuKi»  del  186g.  Tior 
corsero  due  eiTori:  alla  pw.  5 
cwea  per  ciiceo,  e  alla  p^.  7,  *•- 
Illa  per  Mtia.  Non  w>  poi,  m  per 
aslraiione  del  proto,  onero  par 
biuarria,  fatto  tta  eoe  il  ftvlIoM 
■I  Irontispiuo  i  capovolto! 

I  dae  iiBur»l,  NonUm  mm  ■« 
It*  qui  (teRuafa.  Genova,  fiaefnw 
5cAnioiw,  lB70,i 


11. 


.'■  *  P*9S- 


E  d' autore  iwidenio,  il  quale, 
a  detto  dell'editore,  volle  per  ma- 
dnlia  se  ne  lacesse  il  oorae.  Fu 
pubblicata  dal  civ  G.  B.  Passano 
ncir  occasione  delle  nomi  Ghinis- 
sì- Ugolini,  in  72  etemplari,  ma 
non  numerati,  dei  <iuali  dieci  io 
carta  inglese  da  disegno,  dieci  io 
carta  colorata  d' America  e  due  ia 
Sitissima  pergamena  di  Homa. 

novella  di  LsoKAitDo  Bruni  un- 
tino leeondo  itn  codice  Manod- 
liano  inedita,  /n  lÀvona,  pei 
tipi  di  Fratieaco  Vigo,  1870, 
in  4."  di  pagg.  IO. 


Iww  a  rhi  chi>  si  fosse,  mnndsia 
ili  uonlado  la  moglie  a  tempo  de- 
bito presso  una  sua  cugina,  noa 
inijlò  persona;  aoii  a  irarii  del 
lutto  Tuori  J'ogni  impaccio  ed  aver- 
ne diletto,  pensd  una  nuova  nia- 
liiia;  e  fu  in  questo  modo.  La  sera 
ìnoauzi  al  <li  della  f^sta,  atuli  a  sé 
gli  apparatori,  ordinò  che  la  mat- 
tina vegnente  per  tempissimo,  a[- 
Ire  le  colonne  e  le  pareti  della  sja 
casuccia ,  dovessero  coprire  con  un 
liuon  telodi  damasco  eiìnadio  la  por- 
ta. Uli  apparatori, senz'altro  iniesli- 
^ai'e,  essendovi  già  egli  raccniuso, 
k<xro  il  suo  comandamento.  In- 
tanto SeraQno  a  mena  mattina, 
allor  che  incomiDció  il  concorso  a 
essere  grande,  fattosi  alla  Qoestn 
di  sopra,  slaodn  apnaKgiato  col 
petto  sul  davanzale  e  la  testa  spor- 
);eDdu  air  infuori,  mano  mano  ^11 
veniva  «eduto  alcuno  de'  suoi  amici 
|iassar  di  colà,  accennandogli,  quivi 
sotto  il  menava,  e  sommersamente 
dicea:  o  ventura!  vieni,  vien  su. 
che  Iddio  Li  dia  il  buon  gìonui! 
Vien  su,  se  vuoi  ristorarti:  ci  ho 
del  buon  moscadello:  vieni,  non 
beesti  dì  meglio  I  ci  Lo  anche  le 
ciambelle,  Siiiì  e  giunta  il  rosolio 
e  la  Carlotta  !  vieni.  E  co>i  dicendo, 
traevasi  dalla  finestra,  come  se  in- 
contro gli  volesse  andare ,  i>  non 
vi  ritornava  poi,  se  non  ^c  passato 
buono  ìspaiìo,  cio£  tanto  che  ri- 
imlasse  colui  doversi   essere  dìle- 


sp&nilExani)-.  oh,  io\  artie  wnin, 
che  Iddio  vi  perdoni'.  Serafino 
non  isti  qui.  ma  nella  casa  da 
presso.  Allora  quelli  seni'  altro, 
giù,  leiti  e  foori;  e,  oltrepassando 
altresì  la  porta  coperta,  andavano 
difilati  ali  altra,  e  quivi  pur  di- 
mandavano di  Serafino,  E  quei  di- 
cevano: deh!  non  è  questa,  ami  è 
coiest' altra  d'allato  la  casa  sua. 
lodi,  al  rifarsi  del  giuoco,  soegiu- 
gnevano:  oh  diacine!  cbe  vuol  dir 
questo?  altri  motti  per  lui  d  teo- 
nero lest^  ancora!  noi  non  s'iam 
gente  da  uccellare  e  prendere  a 
gabbo!  e'  la  sì  vuol  finire  una  volta 
cotests  seccaggine!  Laonde  scu- 
sandosi coloro  e  ravvolgendosi  or 
qua  or  lì.  e  salendo  e  discendendo 
queste  scale  e  queir  altre,  per  niuna 
guisa  veniva  fatto  di  ritrovar  Se- 
rafino. Alla  perfine .  caiteudo  loro 
le  IravegRole  dagli  occhi  ed  accor- 

§  ondosi  ciascuno  per  sé  della  rìbal- 
eria,  avvegnaché  tardi,  tristi  e  di 
mala  voglia  se  ne  ritornavano  tra- 
felati, dicendo:  Iddio  il  facùa  tri- 
sto costui,  che  ce  ne  lascia  ir  colla 
sete  e  colle  beffe,  ma  a  fare  a  fare 
sia  che  noi  gli  renderem  pan  per 
focaccia'.  B  cosi  egli  dalle  dieci  della 
mattina  infino  a  seni,  quanti  amici 
e  parenti  vide,  tanti  beffò  e  deluse, 
perchè  r  uno  non  manifestava  quel 
che  gli  era  intervenuto  all'altro, 
vergognandone,  e  amando  pur  che 
qualche  cristiano  s"  ~' '--  — ' 


—  ili  — 
degno  di  studio  non  meno  degli  animali  più  perfetti,  eoa 
ai  suoi  un'  informe  e  rozza  composizione  sembra  talvolta 
meritevole  di  esame  quanto  una  splendida  creazioDe  artì- 
stica; poìcliè,  se  rinsetto  può  rivelare  uno  dei  mille  segr^ 
della  natura,  un  miserabile  lavoro  letterario  può  I^r  palese 
un  fatto  nuovo,  o  una  legge  non  anche  osservata  nella 
vita  del  pensiero.  Molte  volte  per  vero  accadrà  a  questa 
disciplina  dì  affaticarsi  intomo  ad  inezie,  le  quali  nem- 
meno per  ([uesto  rispetto  paiono  meritevoli  di  cDra;  ma 
anche  in  tal  caso  sarebbe  ingiusto  muovei^liene  troppo 
acerbo  rimprovero;  imperocché  dessa,  come  ogai  alta 
scienza,  non  devo  pi-ediliiiere  Tuno  anziché  l'altro  fatto, 
sì  Iv  conviene  raccoglierne  il  maggior  numero  possibile, 
esarninarii.  coordinarli,  per  poi  trarne  da  ultimo  oppw- 
lune  induzioni. 

Di  siffatte  considerazioni  ho  io  bisogno  siccome  di 
schermo,  mentre  mi  accingo  a  discorrere  lungamente  di 
duo  antichi  romanzi  cavallereschi  italiani,  noti  fiDora  a 
[Kichlssimi.  La  bontà  della  lingua  non  basterebbe  certo  a 
mìa  discolpa;  però  stimo  liene  avvertire,  che  il  fine  ch'io 
mi  propongo,  è  scientifico  piìi  assai  che  letterario.  Trattasi 
di  due  versioni  del  Rinaldo  da  Montalbano,  Tmia  in  pro- 
sa, Taltra  in  ottava  rima,  delle  quali  io  intendo  esaminare 
le  relazioni  reciproche,  e  quelle  onde  entrambe  si  rìool- 
I  li"  Oli.  Imperoccliè  oramai  è  noto 


—  216  — 

Enti-ambi  i  manoscritti  appartengono  dunque  all' in- 
arca al  medesiino  tempo;  anzi  chi  prenda  a  brne  il  nf^ 
fronto,  li  troverà  sifTattamente  d'accordo  anche  in  molta 
minuzie,  da  doverli  tenere  siccome  copie  di  un  medesimo 
originale.  Che  d'altra  parte  l'uno  non  sìa  trascritto  dal- 
l' altro,  si  argomenta  con  bastevole  sicurezza  da  certe  dif- 
ferenze, dalle  quali  sembra  apparire  come  la  lezione  ori- 
ginaria sia  conservata  ora  dal  primo,  ed  ora  dal  secondo. 

Il  codice  palatino  poi  (Pai.  E,  ti.  4,  46),  a  cui  una 
mano  moderna  ha  apposto  poco  opportunamente  il  titolo 
di  «  Prodezze  dei  Paladini  di  Francia  » ,  mentre  non  può 
essere  designato  altrimenti  che  col  nome  dì  ■  Rinaldo  da 
MoHlalbano  « ,  oppure  <  t  qualtro  figli  di  Amone  > ,  consta 
di  234  carte,  contenenti  ciascuna  otto  stanze,  quattro  per 
ogni  facciata.  Le  ottave  ai^cendono  in  totale  a  2038,  divise 
in  cinquantun  cantari,  ognuno  dei  quali  ne  novera  per  lo 
più  quaranta.  A  questa  somma  ne  vanno  aggiunte  altre 
otto,  perite  per  la  perdita  di  un  foglio.  La  scrittura  non 
è  elegante,  ma  chiara,  e  potrebbe  appartenere  al  secondo 
quarto  del  secolo  XV:  il  cite  per  altro  non  vale  a  deter- 
minare l'etii  della  composizione,  comechè  l' essersi  lasciate 
in  bianco  molte  parole  e  versi  interi,  mostri  aperto,  che 
chi  scrisse  il  codice  copiava,  ed  anzi  aveva  dinanzi  a  sé 
un  esemplare,  o  malconcio,  o  mal  scritto.  Di  questo  codice 


—  218  — 
soverchio  disdegno  di  ogni  soggezione.  Che  se  la  tendenza 
air  unità  nazionale,  già  fin  d' allora  viva  nella  Franda ,  e 
più  ancora  T  evidenza  dei  fatti,  costrinsero  ì  cantori  a  rap- 
presentare i  rivoltosi  fiaccati  e  domi  alla  fine,  ne  lì  com- 
pensarono la[^mente  col  guadagnare  loro  sempre  le  em- 
patie di  chi  ascoltava,  e  col  farli  apparire  anche  nella 
sconfitta  ben  piìi  grandi  del  vincitore.  Poco  a  poco,  per 
una  confusione ,  prodotta  in  parte  dalla  simiglianza  d^  no- 
mi, in  parte  dall'incapacità  del  popolo  di  ben  distingaere 
ciò  die  è  afline,  Luigi  e  Carlo  il  Calvo  cedettero  in  questi 
romanzi  il  luogo  al  nome  assai  più  noto  e  famoso  di  Carlo 
Magno:  onde  il  grande  imperatore  apparve  d'allora  in  poi 
in  forma  doppia  e  contradditoria,  ora  savio,  magnanimo  e 
valente,  ora  stolto,  vile,  fiacco,  e  talvolta  perfino  traditore. 
Così  l'immagine  sna  era  non  solo  stravolta,  ma  annien- 
tala, con  danno  gravissimo  dì  tutto  quanto  il  ciclo  epico, 
che  le  si  aggirava  dattorno  come  a  suo  centro. 

Egli  è  forse  da  attribuire  a  siflatto  lavoro  dì  trasfor^ 
mazione,  su  alcuni  tra  i  romanzi  di  questa  specie  non 
riuscirono  ad  acquistare  ima  compiuta  unità  ed  armonia; 
ce  ne  offre  esempio  per  l'appunto  il  Rinaldo,  dove  noi 
possiamo  scorgeri'  parti  non  anche  bene  accordate.  lofatU 
di  questo  poema  ci  sono  pervenute  tre  redazioni  francesi, 
concordi  nella  sostanza,  dl'^cordì  spesso  nei  particolari  e 


—  lìlll  — 

r  criliti  che  Irallarono  di  qtiesif  materia  (1).  Le 
liìtteretae  mi  paiono  derivare  in  ^ran  jiaile  dalla  trasmis- 
siDoe  orale,  poiché  twu  considerando  la  co^,  si  vede  che 
lutto  e  ire  le  versioni  discendono  da  un  comuae  proge- 
nitore. Ma  ad  ogni  modo  anche  questo  lesto  originario 
doveva  esst^re  una  compilazione  poco  accurata,  fatta  in 
no' età  rispettivamente  larda.  Imperocché,  pur  tacendo 
dell' opinione  non  improbabile  dell'illustre  Paolino  Paris, 
dii;  la  seconda  parte  del  poema,  l'assedio  cioè  di  Montal- 
laim.  sia  in  origine  un  raddoppiamento  della  prima,  ossia 
di  quello  di  Monlesoro  {t),  v'hanno  qua  e  ìk  delle  con- 
mddizioni  evidenti,  per  le  quali  il  romanzo  dev'elisero 
giodicato  nn  accozzo  di  parecchi  cantari .  di  età  e  di  autori 
ddlLTtiili.  Per  addarne  ima  sola,  mentre  secondo  ciò  che 
qui  S4  narra.  Orlando  deve  aver  preso  la  prima  volta  le 
anni  oeir  impre.sa  contro  i  Sa-ssoni,  che  il  libro  racconta 
t*  rite  procede  immediatamente  all'as-seiiio  di  Montalbano, 
egli  stesso,  standosi  qnivi  a  campo,  accenna  ad  una  guen-a 
w  Ispai^na.  di  cui  è  slato  gran  parte: 

Ma^eille-z  avez  dil.  le  coni  RoUant  respoii. 
Nos  phsnies  a  force  l'ctiseigiie  laslamoii. 
S'  at>atisnies  de  Nobles  la  tor  e  le  donjon , 
E  coiiquìs  rolifan  a  force  e  abandon: 
Tiiil  soni  mori  e  vencu.  se  nO  talent  ne  fon. 


|1;  V.  llHUijrr  liui-r.  \ie  la  Prunce,  Toiqp  XXII.p.  G67-70H;  r.astoti 
hri»,  ffiftoÌTP  [HH'tiquf  rie  Cliorìemagne,  Paris,  Franck,  1865;  Uauliur, 
Lt9  Epopto  rraacwses.  rarìs.  Victor  Palntf^,  T.  H.  p.  177-229.  Somme 
oMIg» linai  io  lio  sopralUitto  alla  si^camla  Ira  quoaic  opere,  tarilo  lodoLi 
da  podici  auloret oliMÌrai .  che  sarebbe  inuulc  Tolcrue  ijuì  fare  l'elogio; 
tna  ni  bi  efliuocisMiuo  atiuiola  n  ritangare  i  nostri  romanzi  uavallerescLi , 
tè  certo  M  ]K)ln-i  operare  «Enei  il  «un  aiuto  ili  sirjcnn>  rgiipsta  iiialrrin 
a  aiTuITata. 

ii)  V.  Hiu.  liiii^.  XXII.  i>  tm. 


—  220  — 
A  un'  impresa  dì  Spagna  si  accenna  in  più  altri  lac^  del 
poema ,  e  con  parole  tali ,  da  far  sospettare  che  si  trattasse 
in  origine  di  quella  terminata  infelicemente  colla  catastro- 
fe di  Honcisvalle  ;  ma  poiché  si  volle  introdurre  in  qoesU 
parie  del  ciclo  il  fìglio  di  Milone ,  dapprima  senza  doMào 
alcuno  affatto  estraneo  ad  essa,  convenne  dì  necessità  scon- 
volgere tutta  quanta  la  cronologia  primitiva.  Potrei  di  leg- 
gieri addurre  altri  esempi  :  ma  non  volendo  uscire  di  ca^ 
reggiata.  mi  basti  aver  fatto  cenno  della  cosa,  perchè  a 
vegga  con  qual  sorta  <ii  composizione  noi  abbiamo  a  hn, 
lì  non  s'abbia  poi  a  meravigliare  se  le  versioni  italiane 
non  risponderanno  perfettamente  a  niuna  delle  ft'ancesi, 
anche  colà  dove  non  v'  lia  ragione  di  credere  a  mulameoti 
arbitrari. 

Lasciamo  dimqne  la  Francia,  e  ripassiamo  le  Alpi- 
Se  noi  avessimo  qui  a  discorrere  di  Buovo  d'Antona,  di 
Orlando,  o  di  Uggieri.  ri  converrebbe,  prima  di  venire 
più  oltre ,  trattenerci  qualche  tempo  nelle  nostre  Provincie 
settentrionali.  Ma  intomo  a  Rinaldo  non  ci  è  pen'enuto 
nessun  cantare  franco-italiano.  Questo  fatto  dà  luogo  a 
due  interpretazioni:  o  i  figli  di  Amone  non  furono  mai 
celebrati  dai  cantatori  volgari  di  quell'età,  o  il  tempo  ha 
usato  anche  qui  della  sua  [Kitenza  distruggitrice.  Tra  le 
(lue  ipolesi  io  non  posso,  nemmeno  a  prii^rì ,  dubitare  un 
istanti'  di  aintidJarmi  alla  sttconda:  e  a  ciò  m'induce. 


—  2iì  — 
9Ìmettt^  noia;  nìuna  da  cui  .siano  cresciuti  l;intj  nuovi 
npolli;  ninnii  infine  In  qtiale.  fino  dai  più  aiUicbl  do- 
I  cninenli  a  noi  Riunii,  appaia  rìmutata  profondamente  al 
pari  di  questa.  Ora  ititto  codesto  lavorio  dovette  procedere 
con  mcvita  lentezza,  e  suppone  quindi  una  lunga  prepa- 
razio[u^.  compintasi  certo  nelP  Italia  settentrionale  più  assai 
che  allroTfi.  A  ([Desti  argomenti,  die  verranno  meglio  chia- 
rili  nd  processo  del  mio  discorso,  se  ne  aggiungeranno 
non  pochi  altri,  dedotti  per  una  vìa  alTatto  opposta,  i 
(]itali.  SK  male  non  mi  appongo,  faranno  apparire  la  cosa, 
min  solo  prolwliile,  ma  cJ'rla.  Essi  emanano,  siccome  con- 
■  necessaria,  dail' esame  e  dal  paragone  delle  due 
mi  italiane,  alle  quali  ora  mi  volgo. 


II. 


Perchè  la  trattazione  proceda  semplice  e  chiara,  co- 
irò (fallo  studiare  imo  solo  dei  testi,  ben  conn.scendn 
'(|innl3  ennfiLiione  nascerebbe  dal  trattare  di  entrambi  mi 
no  tempo.  Se  io  concedo  la  preferenza  al  testo  in  pro^t, 
niuiu»  "irto  me  ne  vorrà  dar  biasimo;  poiché  per  altri 
K?enipi  consimili  nasce  spontaneo  il  sospetto,  che  da  esso 
appunto  debba  essere  derivalo  quello  in  versi.  Aggiungasi , 
non  contenere  la  versione  prosaica  se  non  la  metiì  all' in- 
dirà dolla  materia  racchiusa  nell'altra;  laonde  quando 
una  volta  ci  ;aremo  spacciati  della  prima,  potremo  ragio- 
nare ordinatamente  di  quest'ultima,  senza  interruzione  tli 
sorta. 

Il  lesto  in  prosa  del  Rinaldo  consta,  secondo  ^ià  ac- 
«ooai,  di  due  libri.  Volerne  fin  d'ora  fissare  l'età,  sa- 
retitH-  cosa  impnidentc;  dirò  quindi  su  di  ciò  il  mio  parere, 
«Te  (larrammi  di  potergli  dare  almeno  apparenza  ili  pro- 
InliìlìL^.  I  due  libri  difTeriscAno  assni  per  il   contenuto,  il 


—  222  — 
quale,  se  nel  primo  è  per  lo  più  estraneo  ai  poemi  frio- 
resi ,  nel  secondo  invece  si  accorda  mirabilmente  con  essi 
In  luogo  (li  riassumere  d'un  fiato  tutta  la  scrìttara,  mi 
si  permetterà  dì  far  sosta  di  tratto  in  tratto,  per  ioserìre 
mano  mano  le  considerazioni  che  mi  parranno  opportone. 
Comincia  il  romanzo  colla  descrizione  di  una  gnu 
corte  tenuta  da  Carlo  Magno  in  occasione  della  Pentecoste, 
allorché  la  superbia  di  Gherardo  da  Fratta  era  stata  flao- 
rata,  assia  parecclii  anni  dopo  le  guerre  di  AgoUnte  (!)• 
Cotale  indicazione  di  tempo  sembra  qui  posta  perchò  ti 
racconto  venga  a  rannodarsi  in  qualche  modo  ai  tre  libri 
dell' Aspramente  :  onde  peraltro  sarebbe  grave  arbitrio 
l'inrerire,  die  i  due  romanzi  facessero  parte  di  una  stessa 
compilazione,  e  peggio  ancora,  die  siano  opera  di  un  me- 
desimo autore.  Carlo  adunque  sì  sta  fra  la  sua  baronia, 
.seduto  sulla  seriola  imperiale  ;  il  caldo  gli  suscita  stimoli 
di  sete,  ed  egli  si  fa  recare  una  coppa  ricchissima,  ripiena 
di  perfetto  vino.  Dissetatosi,  porge  la  coppa  ad  Amone, 
affinchè  beva  ancor  egli;  ma  un  duca  di  M^anza,  diii- 
mato  Ghinamo  di  Bajona,  nemico  di  Araone,  perchè  questi 
sposò  la  gentile  Clarice  della  casa  di  Soave  (Svevia),  da 
lui  pure  amata  un  tempo,  si  leva  e  lo  accusa,  siccome 
reo  di  aver  osato  bere  nella  coppa  imperiale ,  essendo  gab- 
bato dalla  moi^ie.  Stordisce  Amone,  e  il  traditore  Ghinamo 


—  ìm  — 
i  ^.-ooiATv  'stK  il  ^>jctituzionf  delle  Ire  gesle,  e  spetiil> 
mnA^  ii  ■l'i-iiii  Ai  >la^Dza.  riposa  in  Frauda  sopra  iv* 
uu-^  <ii  Unii  eù.  c>:)mp<^Mi  soprattutto  per  muterò  h 
L-A\>  i:  oniiae  tra  la  foofniA  moliitodiiie  di  Darrazioiii  a 
■il  ^■^rs:<uj;n  Qiifuixuti  nei  poemi  aalecedeoti.  La  prfr 
t^si  patvctrlj  di  .ViD'Mk-  e  Rinaldo  eoo  Gano  e  i  suoi  a 
i.xkii  <pò;ialm-rnle  1  >ril  1)i^d  de  Marence.  composto  0 
r.fitt.;*  ::•'<.  3vj:itì  la  N^'iìoda  metà  del  secolo  XIII ,  e  a 
■l'irai-»  ^ir?  ;ì<>:i  V"^r<*>:t(ii<>-  ■>  almeno  non  diEFusosi  mi 
et  iM.vi.  Cert'^  di  '.'■'•taio  affinila  non  ho  scorto  indizio nd 
Ktrull'.  -l.'tc-  ili  •{lieti  1.  vece  vesao  Orlando  peritarsi  I 
-'OiuUittrD^  >-<<L  tu'ii->  di  .Vni-_>iie.  perchè  appartiene  alla  sai 
^^>w.  li-ìvv^j  diKi-HK  .«:iche  ii-rlla  Francia  esservi  un  tempo 
ii-'ij  vrTS)-''-':'.'  Mmil'.-  l'.i  •iiiaiotie  maniera  a  quella  diventati 
•  '^miin-:  ili  lulki.  ^eivind-'  la  <|uale  Orlando  e  Rinaldo  som 
<.u_i:ii.  ijuindi  i>:>  intìtio  argomento  a  rafTorzare  la  ma 
..TMietizj.  fOQ-lua.  iii  spero,  sopra  buone  ragioni,  che  la 
trasmissione  della  letteratura  romanzesca  tra  la  Francia  e 
r  Itilia  fosse  ^nà  'iiusi  compiuta  verso  la  metà  del  dngento: 
lia  iiuel  temp-.ì  alzimi  nuovi  cantari  poterono  gìimgere  a 
noi.  Bu  jlh  sptCL-iolata.  e  in  siiiisd  da  non  turbare  uè 
deviare  il  oors>.t  che  «quella  letteralura  aveva  già  preso 
iielU  i>eiusotd. 

Pntsejueiiilo  l' esame  del  nostro  testo,  ci  abbattiamo 


—  2tl  — 
ran  lir«nza  ilj  Carlo  a  ^lonti;  Armitio  una  gran 
(len.  V  autore  si  rifa  addietro  di  molti  anni  per  darci  con- 
tezza ili  due  personaggi,  die  dovi'aniio  tra  poco  apparire 
lU  scena.  Itacconta  pertanto  come  la  moglie  di  Buovo 
A^ni^inoDte ,  fratello  di  Amonc,  non  avendo  figliuoli, 
'"ftcesse  un  voto,  e  ingi'avidata  ben  presto,  n^  andasse  col 
marito  in  pellegrinaggio  a  San  Jacopo  di  Galizia.  Nel  ritomo 
ella  partorisce  in  una  selva  due  gemelli,  che  per  il  soprav- 
ire  improvviso  di  una  forte  schiera  di   f^aracìni ,  si  rì- 
ingonn  folk  in  abbandono.  L'  uno  dei  bambini  è  raccolto 
re  Abitante,  il  (|uale.  postogli  nome  Viviano,  lo  alleva 
figliuolo,  celandogli  la  vera  sua  schiatta:  T altro, 
Ilo  ili  nna  fossa,  ne  è  tratto  dalla  dama  di  Belfiore , 
tlla  di  Abìlante,  e  viene  da  lei  edurato,  e  a  suo  temptj 
imapslrato  in  grammatica.  Ma  l'accorto  fanciullo  impara 
che  non  volesse  ella  medesiraa,  poicliè  riesce  a  car- 
ie la  scienza  della  negromanzia,  nella  (]uale  è  maestra. 
Costretto  ((iiindi,   un   demonio,  e  istmtlo  da  lui  circa  la 
sua  nascita,  la  schiatta,  i  cugini  e  la  fiera  bandita  allora 
appunto  a  Monte  Armino,  delil>era  di  procacciare  a  Itinal- 
«  ci  migliore  cavallo  del  mondo;  e  gittò  l'arte,  e  trovò 
la  madre  d'Achille,  quando  senti  la  morte  d'Achille, 
loranlò  el  suo  cavallo  in  una  montagoia,    nel  mezzo  de! 
mare  (Jciano:  e'ncanlowi  l'armo  e  la  spada  che  fu  d'A- 
i-hille  >.  Avuta  quindi  licenza  dalla  dama,  Malagigi  va  a 
tram'  di  colà  Baiardo  e  Fnisberta,  e  dipoi,  recando  seco 
anrlK-  altre  armi  e  cavalli,  se  ne  viene  a  Monte  Armino, 
molraflalto  a  guisa  di  vecchione.  Rinaldo,  piacendogli  Ba- 
urdo.  lo  vuole  acquistare,  o  Malagigi,  dopo  molte  parole, 
iuismminstosi  con  Ini  e  Clarice  verso  il  castello,  si  rifa 
gkivanc,  con  gran  terrore  della  donna.  Manifestatosi  allora, 
dà  il  cavallo  e  la  spada  al  cugino,  e  poco  stante  si  torna 
in  Ispagiia  a  Belfiore. 

Tale  è  qui  la  sliiria  della  giovinezza  di  Malagigi,  nar- 


—  iitt  — 
rata  Iwii  diven>ain(.>i)te ,  per  quanto  posso  vedei'e  dairilì- 
stoii-e  littéraire  [1].  nel  Maugbi  dWigremont.  Quivj  il  figlio 
di  Ruovo  non  è  allevalo  in  Upagna.  si  nella  Sicilia:  il  clic 
Iiaiìterebbe  a  distoglierci  dall'opinione  die  il  nostro  testo 
derivi  di  lìi.  sembrando  olta'modo  inverosimile  ciie  udo 
scrittore  o  cantatore  italiano  volesse  trasporre  in  paese 
straniero  una  scena  posta  dai  suoi  fonti  iii  una  parte  del- 
r  Italia.  Nondimeno,  rlie  «piesta  nart^zionc  non  sia  inven- 
zione dei  nostri .  appaiv  dall'  intor[)retazione  del  nome  di 
Malagi^i,  lii  ([iiale  uiauifestamcnte  accenna  alla  forma  fran- 
cese (Mauyis):  -  E  perchè  ella  (cioè  la  dama  di  Belfiore) 
r  aveva  trovalo  titilla  fossa  die  t,'iacoa  male,  ^li  \MX.  DUoe 
Mal^iaci:  ma  ef;li  lue  chiamalo  >1ulagigi>.  Quindi  sembri 
assai  probabili'  elio  la  nostra  versione  derivi  da  testi  più 
antichi,  che  non  sìa  il  Maugb:  a  noi  pervenuto:  andie 
perchè  non  è  traccia  in  i':isa  di  una  lunga  serie  di  av- 
venture, amorose  la  piìi  parte,  ove  agevolmente  si  rav- 
visa r  imita/.iono  della  Tavola  Rotonda.  E  in  generale  è 
notevole  as.si)i,  non  essere,  a  quanto  pare,  pervenuti  ia 
[talia  (|uei  cantari  francesi,  in  cui  il  ciclo  carobngio  si  va 
mescolando  col  brettone:  certo  io  non  ho  trovato  alcuna 
tracxia  dell'  iliion  de  Boideaux.  .\nche  la  letteratura  caval- 
leresca italiana  riesce  da  ultimo  a  (piesla  mescolanza,  ed 
anzi  la  poita  assai  più  oltre  che  mai  non  si  fosse  fatto: 
riesce  in  un'età  più  tarda,  i 


—  230  — 
pono»  certo  pretendere  al  vanto  dell'  antidiilà.  Piuttosto, 
salvo  notevoli  mutazioni,  lo  dovremo  concedere  alle  iKtf^ 
razioni  che  qui  tengono  dietro  nel  romanzo  italiano;  esse 
traggono  orìgine  dal  Beuve  d*Aigremont,  cantare  che  ora 
si  ritrova  soltanto  a  gnisa  d' introduzione  nei  testi  del 
Renaud,  ma  che,  a  quanto  pare,  dovette  un  tempo  avere 
una  vita  sua  propria  e  indipendente. 

Un  giorno  adunque  l'imperatore,  punge  Gano,  cod 
certe  parole  allusive  all'imboscala,  e  questi  indispettito, 
si  propone  dì  vendicarsi  accendendo  gran  fuoco  di  discor 
dia;  a  cotal  (ine  ricorda  al  consiglio  che  Buovo  d'Agri- 
smonte  da  heii  otto  anni  non  paga  alla  corona  il  debito 
tributo.  I  baroni  si  prnlferiscono  di  cavalcare  sopra  (fi 
lui,  se  Carlo  vuol  rompere  la  guerra;  ma  questi  antepo- 
ne di  tentare  altre  vie.  Un  messaggiero  è  spacciato  ad 
Agrìsmontc,  ed  espone  con  molta  tracotanza  la  sua  ambi- 
sciata;  nulladimeno  Buovo,  dopo  avergli  risposto  GeraroeiK 
te ,  lo  lascerebbe  ripartire  incolume ,  se  egli  non  ucddesse 
un  gigante,  che  sta  a  guardia  del  ponte  per  cui  ^  viene  al 
castello.  Allora  1'  aml>asciaIore  è  fatto  morire ,  e  una  spia 
di  Gano  reca  dì  ciò  novella  a  Parigi.  Ma  non  tutti  pre- 
standovi credenza,  il  conte  maganzese  propone  l'invio  di 
un  secondo  messo.  Per  istigazione  di  lui  medesimo,  Alo- 
rino,  figliuolo  di  Carlo,  si  profferisca  a  questo  ufficio,  e 


—  fòi  — 
Gano,  assalito  dai  figliuoli  dì  Ghioamo,  e  bitcìdato.  Costo- 
i-u,  prese  le  insegne  dei  vinti,  riescooo  di  poi  a  peoetnre 
con  ingaoDO  in  Agrismonte,  e  postolo  a  ferro  e  a  roba, 
se  ne  partono  lasciaodori  buona  guardia,  n  cadavere  dì 
Buovo  è  recato  dai  traditori  stessi  a  Parigi,  e  Cario  si 
mostra  più  lieto  che  dolente  delP  accaduto.  Però  Viviano 
D  Malagigi,  sospettandolo  complice  deir  assassinio ,  ìnsì&' 
me  con  Girando  si  riducono  in  Rossiglione,  e  segretamente 
chiedono  aiuto  ai  parenti  e  agli  amici.  Tutta  la  gesta  à 
listringc  allora  insieme;  i  fìgliuoli  di  Ghinamo,  traiti  in 
un  aguato  dall'astuzia  di  Malagigi,  sono  ammazzati  con 
due  mila  dei  loro;  Baiona  è  presa  e  messa  a  sacco,  e  Agri- 
smonte  riavuto.  A  queste  nuove  Carlo  si  lascia  indurre  da 
Gano  ad  andai-e  a  campo  a  Rossiglione.  Il  primo  fatto 
d'arme  riesce  favorevole  ai  ribelli;  ma  siccome  è  troppo 
gran  cosa  il  resistere  al  capo  della  crìstiaoità,  Mal^^ 
pensa  di  ricorrere  alle  sue  arti.  Raccomandata  pertanto  ai 
consanguinei  la  custodia  della  terra,  «non  si  seppe  come 
egli  tii  partisse,  ma  egli  si  fece  portare  al  suo  dimonio 
Malaterra  in  sull'alpi  d'Apennino,  e  vi  congregò  per  forza 
di  dimonì  grandissimi  brevilegi,  sugiellati  del  sogiello  del 
papa,  con  tutte  quelle  cierimonie  ch'enno  di  bisognio;  e 
in  cambio  d' un  altro  cardinale  di  corte  si  fece  legato  di 
Franza:  e  come  cardinale  si  vestì,  e  fece  molti  fom^ 


—  234  — 

composizioni  toscane  ci  si  mostra  saldo  nelle  menli  e  infil- 
trato in  ogni  parte  del  ciclo,  converrà  supporre  cbe  anche 
anteriormente,  prima  ancora  che  il  romanzo  cavalleresco 
mettesse  radici  sulle  rive  dell'Arno,  le  nimicizie  tra  Magann 
e  Chiaramonte  abbiano  dato  argomento  a  baon  Domerò 
di  canti  ora  perduti ,  o  almeno  non  ancora  riappare  alta 
luce  (1).  Certo  ì  documenti  dell'età  franco-italiaDa  perr»- 
nutì  lino  a  noi  s^  hanno  a  tenere  per  una  parte  assai 
piccola  dei  romanzi  delP  Italia  settentrionale;  il  più  dovette 
esserci  tolto  dal  tempo;  del  che  se  Partista  non  ha  sema 
dubbio  a  dolersi  né  punto  né  poco,  ben  deve  invece  es- 
seme dispiacente  chiunque  reputi  degni  di  studio  i  pri- 
mordi delle  letterature,  e  la  storia  di  quelle  lotte,  per  cui, 
a  simiglianza  di  quanto  succede  secondo  il  Darwin  negli 
esseri  viventi ,  un  dialetto  prevaie  sugli  altri  e  diventa  lingoa 
letteraria:  cose  tutte  collegate  necessariamente  da  strettis- 
simi vincoli  colla  civiltà  di  un  popolo. 

Se  poi  ci  facciamo  a  confrontare  la  versione  italiana 
del  Buovo  colle  francesi,  vedremo  apparire  differenze  gra- 
vissime, ma  certo  non  riferibili  tutte  alle  medesime  ca- 
gioni. Le  une  nascono  dall'  essersi  abbreviata  in  più  modi 
la  nanazione,  e  di  queste  non  istarò  a  discorrere;  le  altre 
si  possono  suddividere  in  due  categorie,  e  parte  consistono 
nell'  introduzione  di  qualche  nuovo  episodio  o  circostanza, 
liarlc  nell'esposizione  alquanto  ilJversa  di  fatti    sostanziai- 


—  230  — 

cade  nelP  altra  ventìone,  Lohìer  è  il  primo  e  il  solo  am- 
basciatore spedito  ad  Agrismonte.  Né  meno  di  questa  riesce 
a  scapito  del  testo  a  stampa  la  seconda  differenza  :  poiché 
qui,  essendo  stata  trasposta  la  guerra  subito  dopo  l'acci- 
»one  di  Lohier,  essa  non  può  più  trovar  luogo  dopo 
quella  di  Buovo;  mentre,  se  nel  primo  caso  è  inutile,  o 
poco  meno,  nel  secondo  invece  è  necessaria  per  soiiare 
intatta  la  dignità  del  carattere  dei  tre  fratelli  superstiti,  i 
quali  accordandosi  così  agevolmente  con  Carlo,  complice 
e  quasi  istigatore  dell'  assassinio,  appaiono  poco  cnnnti 
della  sanguinosa  oflesa  toccata  alla  loro  schiatta.  Ma  checché 
si  voglia  pensare  di  ciò,  a  me  basta  osservare  che  il  testo 
italiano  ora  somiglia  più  allo  stampato,  ed  ora  al  Mardaoa. 
Con  quest'ultimo  ha  comuni  le  circostanze  dell' assasàoio 
di  Buovo;  egli  è  quando  invitato  con  messi  da  Carlo  si 
avvia  a  Parigi  per  fare  omaggio  e  ricevere  il  perdono,  che 
è  assalito  e  trucidato  nel  bosco.  Nella  versione  stampala 
per  contro  il  Tatto  si  compie  dopoché  la  pare  è  fermata: 
quivi  il  duca,  solo  perchè  così  era  necessario  air  autore, 
muove  alla  volta  di  Parigi,  mentre  aveva  già  trascorso 
tranquillamente  alcun  poco  di  tempo  nella  sua  terra.  Ma 
poi  il  testo  italiano  Ita  comune  col  testo  a  stampa  una 
particolarità  di  molto  rilievo:  in  entrambi  il  figlio  di  Cario 
è  il  secondo  ambasciatore  inviato  a  Buovo;  in  entrambi, 
il  messo  spedito  avanti  a  Ini  è  ucciso  dal  duca  e  porta 


—  2:17  — 

Btplin   indizi,   per  rendere  probabile  quanto  ho  fiducia 
di  potere  tra  poco  dimostrar-e. 

Ripigliando  il  sunto  del  primo  libro,  ritrovo  i  (juattro 
^U  di  Amone,  i  quali,  postisi  in  via  per  compiere  il  pel- 
legrìiu^o  al  Sepolcro,  sì  coiiducooo  a  Valenza;  (|ui  en- 
tnno  in  nave,  e  da  una  tempesta  sono  spinti  all'  Isola 
Perduta,  sipioreggiala  dal  crudele  gigante  Brunalmonte, 
figliuolo  del  re  di  Ulivanle  e  fratello  di  Mambrino.  Inca- 
[«fi  di  paura,  essi  scendono  a  terra,  uccidono  e  fugano 
molti  caralieri  mandati  coTitro  di  loro,  e  cosi  costringono 
il  Teroco  gigante  ad  uscire  egli  slesso  alla  battaglia.  Rinaldo, 
piglialala  sopra  di  sé,  lìnisce  col  mettere  a  morte  l'avver- 
ario.  e  acquistata  per  tal  guisa  la  signoria  del  paese,  la 
dà  io  ricompensa  a  Morando,  padrone  della  nave  che  li 
la  qui  ])(>rtati.  Rimessosi  quindi  in  mai-e,  si  Ta  condurre 
al  ra.'iU^llo  di  Gostantiiio,  fratello  di  Brunalmonte  e  di  lui  non 
nkeno  midele,  il  quale  fia  spogliato  «lei  suo  dominio  e  ucciso 
il  signore  del  luogo.  togiìendoKlì  per  di  più  una  figliuola. 
Aurhi^  rostui  con  tutta  la  sua  brigata  è  fatto  a  pezzi,  e 
il  i-astdlo  viene  restituito  a  un  fratello  del  signore  legit* 
limo.  QuÈ!.ti  dona  a  Rinaldo  un  nano,  assai  bello  d'aspetto 
e  pratico  di  ogni  linguaggio  dell'  Asia  e  dell'  Africa.  A  lui 
dunque  Rioaldo.  il  quale  quind'  innanzi  si  cela  sotto  il 
nome  di  Brandor  dell'  Isola  Perduta,  ordina  di  condurre 
9è  ti  i  fratelli  in  luogo  ove  sìa  guerra.  <  El  nano  entrò 
per  b  Soria.  All'entrare  di  Persia  ba  una  cittii  cliìamata 
NìlibL  in  su  'n  un  Piume  ch'avea  nome  Fosca;  el  paese 
era  prono  di  giente,  e  eravi  (ad)  assedio  ci  Soldano  di 
Persia,  [xr  torre  la  signoria  ali"  Amostanle  di  Persia.  Ri- 
naldo s' appresentò  davanti  al  Soldano  e  domandogli  soldo 
per  renio  cavalieri,  e  '1  Soldano  disse,  cbe  Orlando  né  U1Ì- 
Tieri  non  meritavano  tanto  soldo,  e  diègli  licienzìa  ch'egli 
eotnssc  in  Nilibì  i.  Cosi  fa  dnnque  Rinaldo,  il  quale  per 
i  cnnforti   di   Fiorita,   figliuola  dell' Amostante,   è   accolto 


—  £IS  — 
tirila  l-^ts  .-  fallii  ■Mt.iiaii.)  ■_'rtB'raÌe.  Né  di  rio  hanno  i 
}>f;[itir-i  jU  a->>^lMli:  >i  tiene  a  Uittaglia  giudicata,  e  per 
•'[fera  di  lui  il  ><>Mano  è  preNj  e  le  sue  geoU  sconfitte. 
Ma  mentre  il  i^valiere  è  siilenditlamente  onorato,  due  spie 
di  Gann  A<;i>pr»n>'i  lui  e  i  fralelli  al  Soldano,  e  questi  d- 
r  .Vmo>ta[ite.  C<>«lui  allora,  dimenticando  i  benefizi,  li  b 
><irpr>'nder>:r  adilumieiilali.  e  li  ìmprìi^ima:  di  poi  la  pace  coi 
lUfniii'L  rhe  to>l<'i  >i  |jarti:>no.  Ma  Fiorila,  inraghita  (ino  dal 
[(rini-ipio  iIt;llM  ■'li-anifr.i.  \.i  nlla  pritrione  e  offre  scampo 
■li  ijuatlfii  fratelli.  >»•  Rinaldo  aivon-^ente  a  prenderla  io 
mo!2lie  e  n  darle  1'  amor  suo.  Non  senza  difficoltà  Rinaldo 
>i  fiietia  al  suo  de-^iderio.  l*  statosi  con  lei  quella  notte,  è 
>ei(r);Uniente  Ulcerato  la  mattina,  e  si  parte,  promettendo 
di  ttjrnare.  a^ipetia  sciolto  il  voto  al  sepolcro. 

Ma  il  >ìag!;io  soffre  lien  presto  nuovi  inciampi.  I 
fralelli  <!Ìungono  alla  città  di  .'Torini,  dove  il  re  Salione  è 
asst^liato  a  toit'i  ila  Cliiariflto.  fratello  ancor  egli  di  Bru- 
naimonte.  Rìnildo  si  act-orda  dì  combattere  con  costui,  il 
quale  dopo  liin^  difesa,  vedendosi  perdente,  fa  scatenare 
contro  r  avversario  un  feroce  leone.  Ma  l' inganno  non 
vale;  egli  e  la  helva  soffijiamono  del  pari,  e  le  sue  genti, 
corse  alle  armi,  sono  tutte  tagliate  a  pezzi  dai  nemid 
Intanto  certe  spie  di  Gano  erano  venute  a  Salione;  se  non 
che  questi,  in  luogo  di  rimeritarle  e  tradire  Rinaldo,  le 
:iveva  impiccale.  .\l  .suo  ritiinio  le  mo.stra  quindi  al  chia- 


—  238  — 

nella  terra  e  fatto  capitano  generale.  Né  di  ciò  hanno  a 
pentirsi  gli  assediati:  si  viene  a  battaglia  giudicata,  e  per 
opera  di  lui  il  Soldano  è  preso  e  le  sue  genti  sconfitte. 
Ma  mentre  il  cavaliere  è  splendidamente  onorato,  due  spie 
di  Gano  scoprono  lui  e  i  fratelli  al  Soldano,  e  questi  al- 
l'Amostante.  Costui  allora,  dimenticando  i  benefizi,  li  fa 
sorprendere  addormentati,  e  li  imprigiona;  di  poi  fa  pace  coi 
nemici,  che  tosto  sì  partono.  Ma  Fiorita,  invaghita  fino  dal 
principio  dello  straniero,  va  alla  prigione  e  offre  scampo 
ai  quattro  fratelli,  se  Rinaldo  ac<;onsente  a  prenderla  in 
moglie  e  a  darle  V  amor  suo.  Non  senza  difficoltà  Rinaldo 
si  piega  al  suo  desiderio,  e  statosi  con  lei  quella  notte,  è 
segretamente  liberato  la  mattina,  e  si  parte,  promettendo 
di  tornare,  appena  sciolto  il  voto  al  sepolcro. 

Ma  il  viaggio  soffre  ben  presto  nuòvi  inciampi.  I 
fratelli  giungono  alla  città  di  Sorini,  dove  il  re  Salione  è 
assediato  a  torto  da  Chiariello,  fratello  ancor  egli  di  Bru- 
nalmonte.  Rinaldo  si  accorda  di  combattere  con  costui,  il 
quale  dopo  lunga  difesa,  vedendosi  perdente,  fa  scatenare 
contro  r  avversario  un  feroce  leone.  Ma  V  inganno  non 
vale  ;  egli  e  la  belva  soggiacciono  del  pari,  e  le  sue  genti, 
corse  alle  armi,  sono  tutte  tagliate  a  pezzi  dai  nemici. 
Intanto  certe  spie  di  Gano  erano  venute  a  Salione;  se  non 
che  questi,  in  luogo  di  rimeritarle  e  tradire  Rinaldo,  le 
aveva  impiccate.  Al  suo  ritorno  le  mostra  quindi  al  cbia- 
ramontese,  e  prende  volontariamente  il  battesimo;  Gui- 
letta  poi,  sua  figliuola,  in  memoria  del  combattimento  dona 
al  liberatore  una  ricca  sopravveste  con  trapuntovi  un  leone 
sbarrato,  che  sarà  quind'  innanzi  la  sua  insegna,  e  ottiene 
in  ricambio  una  grazia  a  sua  scelta.  Si  partono  di  poi  i 
baroni,  e  la  fanciulla,  raggiuntili  in  abito  da  scudiero,  do- 
manda ora  il  dono  promesso,  richiedendo  di  poterli  seguire 
così  vestita.  Essi  capitano  quindi  alla  città  di  Valdinferna, 
e  dal  re  Roncano,  grande  amico  di  Chiariello,  vi  sono  fatti 


—  i;!'.i  — 
imfpdSTa  U-adimeolo.  Pui-e  al  nano  rkscn  àf 
(ijbU)  profitla  della  libertà  per  recare  le  nuove  u  Satione. 
Fratianlo  «  MaUgigi,  eh'  era  cameriere  de!  re  Carlo,  avea 
incantalo  uno  diavolo  in  uno  anello,  e  chiamavalo  Surpini 
il  novelliere,  e  ogni  giorno  il  domandava  ^  Rinaldo,  e 
qaando  senti  eh'  egli  era  prigione  a  Valdinfecna  »,  preso 
da  timore,  manifestò  la  cosa  ad  Orlando,  a  Ulivieri  e  al 
Danese.  Questi,  seguitati  loro  malgrado  dn  Astolfo,  salpano 
rome  prima  lo  possono  da  Ac<|uamorta,  e  spinti  da  una 
procella  alle  terre  di  Salione,  sono  dal  nano  riconosciatt 
alte  insegne.  Però  ricevono  grande  onore  dal  re,  e  di  qui  ben 
presto  si  conducono  sconosciuti  a  Valdinfema,  che  poco 
Ntaote  è  assediala  dal  Saldano,  pieno  d'ira  perchè  Roncano 
avera  mancalo  dì  recarsi  a  corte  colla  bellissima  Indiana, 
sua  moglie.  Il  re  allora  trae  di  prigione  Rinaldo,  che  cela 
la  gioia  del  rivedere  i  paladini,  e  il  giorno  appresso  uccide 
il  campione  del  Soldano,  sicché  questi,  abboccatosi  con 
Roncano  fuori  della  città,  giura  la  pace. 

Ma  ecco  per  la  terza  volta  due  spie  di  Ganellone, 
che  .scoprono  al  Soldano  Orlando  e  i  compagni;  buon  per 
loro,  che  avvedutisi  a  tempo  della  cosa,  si  ritraggono  e 
riiKhiudono  nella  terra,  secondali  da  Indiana  per  amore 
ili  Salomone,  il  quale  non  mollo  innanzi  aveva  fatto  grande 
onore  a  lei  e  a'  suoi  parenti,  gittali  da  una  tempesta  sulle 
roste  della  Brettagna.  E  in  questo  mentre  Malagìgi.  ma- 
nifestato a  Salomone  l'amore  della  donna  e  la  prigionia 
dei  crisliani,  fa  che  con  Girardo  da  Rossiglione  e  altri  ca- 
ralierì  si  parta  segretamente,  e  dopo  gran  cavalcare  si 
conduca  a  Sorini,  la  città  di  Salione.  Franando,  mancando 
in  Valdinferna  la  vittovaglia,  i  baroni  si  partono  per  una 
ria  sotterranea  ;  scoperii  e  raggiunti,  combattono  con  tanto 
valore,  che,  mercè  altresì  il  soccorso  di  Salomone  e  degli 
altri,  sopravvenuti  opportunamente,  ottengono  la  vittoria. 
Tttrnatisi  allora,  saccheggiano  la  terra  e  si  partono.  Indiana 


1 


STUDll   SULLE    LINGUE   ROMANE 
DI  VARII  FILOLOGI  MODERNI 


tlA  xmiVO  BART01.I 


l. 


Sei  anni  or  sono  il  signor  Gastone  Paris,  in  un  artì- 
colo inserito  nella  Biblioteca  della  Scuola  delle  Carte,  la- 
mentava lo  stato  nel  quale  versano  gli  studii  delle  lingue  . 
romane  presso  i  popoli  di  razza  latina,  In  paragone  (U 
quello  elio  si  va  Tacendo  in  Germania.  Là  molte  cattedre 
di  filologia  romana;  là  le  opere  di  Diez,  di  Fudis,  dì 
Mahn,  ili  lÌJirl'^L'Ii.  ili  moUl  nitri:  l.i  iiivt  sometà   berlinest; 


—  241  — 

vecchio.  Cotale  simiglianza  tra  i  due  romanzi  apparirà 
ancor  più  manifesta  poiché  avremo  esaminato  il  secondo 
libro:  il  quale,  a  differenza  del  primo,  si  attiene  stretta- 
mente a  racconti  antichi,  a  qael  modo  istesso  che  nei 
Reali,  mentre  il  libro  di  Piovo  è  qaasi  tutto  invenzione 
nuova  afibtto,  le  narrazioni  invece  che  riguardano  Berta 
dal  gran  pie,  Mainetto  e  altre  ancora,  appaiono  derivate 
la  massima  parte  dai  fonti  delia  tradizione.  Anche  discor- 
rendo di  questo  secondo  libro  io  continuerò  ad  usare  nei 
raflfronii  il  testo  marciano,  il  quale  per  altro  sembra  quin- 
di innanzi  convenire  per  lo  più  collo  stampato,  pur  diffe- 
rendone qualche  volta  notevolmente. 

(  Conlintta  ) 

Pio  Rajna 


—  244  — 
alterazioni  di  forma,  e  qualclie  volta  anche  in  uuove  pa- 
role j  le  quali  però  non  si  paó  asserire  che  non  risalgano 
Tino  air  antichità.  Stabilire  T  età  di  una  parola  dalla  data 
della  sua  apparizione  su  un  monumwto ,  è  un  processo 
falso  e  superficiale.  Molte  parole  sarebbero  state  giudicate 
come  appartenenti  al  basso  latino,  se  per  caso  non  fossero 
state  conservale  da  un  qualche  scrittore  del  periodo  clas- 
sico. Di  molte  parole  l'omane  di  origine  Ialina,  sarebbesi 
cercata  l'etimologia  in  lingue  stnmìere,  se  lo  stesso  caso 
non  ce  ne  avesse  fatta  conosoire  chiaramente  la  prove- 
-  nienza.  l'er  valutare  giustamo[itc  le  parole  romane  e  le 
parole  della  bassa  latinità,  occorre  avere  sempre  presente  il 
fatto,  die  noi  non  possediamo  cbe  un  Rammento  del  vo- 
cabolario latino;  e  che  la  civiltà,  le  arti,  le  industrie,  i 
cx)stumi  dei  Domani  richiedevano  senza  dubbio  un  numero 
ben  più  gi'andc  di  vocaboli  di  quello  che  non  sia  perve- 
nuto fino  a  noi.  E  molti  di  questi  vocaboli,  specialmente 
quelli  riguardanti  le  cose  tecniche,  è  da  credere  che 
sieno  passati  neiruso  comune  della  bassa  latinità. 

Il  Diez  dà  nella  introduzione  alla  sua  grammatica  una 
lunga  lista  di  vocaboli  del  latino  popolare  anteriore  al 
medio  evo,  e  un'altra  lista  del  basso  latbo:  importantis- 
sime ambedue  per  lo  studio  delle  lingue  romane,  e  per 
islabilire  la    loro    etimologia ,    e  insieme   la  loro  origine 


—  246  — 

Ainurescere  (Palladio):  pr.  amarzir;  rendere  amaro. 
Amicabilis  (Goti.   Giuslin.,    Giulio   Finnico):   sp.,   e 

amiijable;  ani.  fr,  amiablc. 
Aiitplare  per  amplificare  [Paciivio  presso  Nonio):  ita 

r.'  :  [ir.  amplar, 
'  Annelius  per  annulus  (Lucrezio  e   Cicerone):   il.   anello: 

pr,  anel;  cai.  andl;  sp,  anillo. 
Apiario  vulgus  (lieti  loca  in  quibus  siti  sunt  alvei  apum,  sed 

neminem  corum  ferine  qui   iacorrupte  tocuti  soni  aut 

scripsìssc  mémini  aut  dixtsse  (Aulo  Geli-,  Noci.  Att.). 

Apiariuin  si  trova  in   Ckìluniella,    che,   secondo   ossem 

Freutid,  fu  il  primo  ad  usare  questo  vocabolo  nella  lUigiu 

scritta.  Ital,  apiario;  pr.  apiari;  ant.  fr.  achier. 
Appropriare  (Celio   Aurelio);   it,   appropriare,    appropiare; 

sp.  apropriar  ;  fr.  approprier. 
A'puttjìum,  quasi  aquae  agium,  i,  e.  aquae   ductus  (Feslo, 

Pandelie):  sp.  atfuaije;  pori,  agoagem  (1). 
Arboreta  ignobilius  verbum  est,  arbusta  celcbratius  (Aulo Geli. 

N.  A.):  it.  arboreto  e  arbusto;  sp.  arboleda   e  arbutto, 

arbusta  (2). 
Arlihis,  bonis  inslruclis  artibus  (Feslo,  Plauto),  (juesta  parola 

is  evidentcmenle  la  primitiva  radice  delle  seguenti:  pr. 

artisia.  artisiir;  it.  artigiano;  sp.  artesano;  fr.  artisan: 

cioè  artitia,  aHitiorixts,  artitianus, 
Astrum  nel  significalo  di  astro   della   sorte,   sorte:    t   quem 

adolescentem  vidcs  malo  astro  natus  csl  »    (Petronio  cit 

da  Galvani):  pr,  sim  don  Dieu  boti  astre  (Ra  n.,  Omx.). 


—  248  — 
Beber  per  fiber  non  ritrovasi  che  Dell'  agg.  ftebrinus  (Sdud. 

ad  luvcnal):  il.  bevero;  sp.  ifiaro;  fr.  fttóare.  Si  h>  pure, 

celtico  befer;  ted.  bibcr;  anglosassone  befor,  ctc 
Belare,  rorma  rara  per  baiare,  usata  da  VarroDe.   IL  bdare; 

fr.  béler. 
Bellatulus  per  bellulas  (Plauto),  suppone  un  primitivo  beUatia, 

ant.  fr.  belle:  comp.  bellatior;  aDL  fr.  bellezour  (1). 
Berhex,  forma  volg.  per  fwyfx,  (Petronio):  il.  berbice;  nL 

berbectcf;  pr.  berbitz:  fr.  ^eftis  (2). 
Bìbo-onis  (Firmico):  it.  teucuic. 
fitsof^^ium  (Petronio):  it.  iiùacoa;  sp.  òùasa ;  fr.  Amocs.  Dal 

plur,,i«'samo  (3), 
•  Birotus  (Nonio):  it.  biroccio,  baroecio;  vai.  berwette;  sol, 

fr.  bouroaite;  fr.  brouette  (4). 
Blitum,  gr.  ^XiTEv  (Plauto,  Varrone,  Fcslo):  sp.  firerfa;  port. 

(veito;  cat.  («■«/. 
Boatus  (Apuleio),  dal  verbo  di  uso  piìi  comune  beare:  iuL 

sp.  pg.  boato. 
Bojae,  i.  e.  geiius  vinciilorum,  tam  lignae  quam  ferreae  di- 

cuntur  (Festo).  —  Boja  i.  e.  torques   damnatorum  (Isi- 
doro di  Siviglia).  II.  boja;  pr,  buja  :  ani.  fr.  baje. 
'  Botones  (scrittori  Agrarii),  cumulclti  di  terra  soprammesM 

ad  indizio  <11  conlìne  :  onde  V  il,  bottoni  ;  fr.  bouton  ;  pr. 

sp.  bot(m  :  pg,  baino.  Bottnre,  buttare  si   fa   derivar  dal 

m.  led.  b6zen,  colpire,  urlare  (5). 
Botìilìts.  Parola  usata  da  Marziale  e  che  Aulo  Gelilo  pone  tra  ie 

f  verba  obsoleta  et  macutantia  ex  sordidiore  vulgi  usu  a. 


—  aso- 
li-, liourii.  Ha  cei'to  relazione  coli'  ant  allo  ted.  bmrg,  got 
batirf/s,  die  voleva  dire  luoijo  fortificcto, 

Burrae,  t  illepidjm,  riidem  libellum,  burras,  quisquiliss  ine- 
ptiasiiue  >  (Ausonio].  Ms.  iu  borre  plur.  (1),  sp.  borrat 
Dal  diminuì,  burrula,  il  e  sp.  burla. 

Itarricus,  buricu^,  piccolo  cavallo  (  Vegezio,  S.  Paolino  di 
Noia),  parola  dell'uso  volgare,  f  Manniis  quem  vulgo 
buricum  vocant  o  (Isidoro).  Fr.  bourrique,  cavallo  di 
soma  piccolo  e  cattivo,  ed  asino.  IL  bricco,  briechelto, 
buricco,  nel  senso  solamente  di  asitw;  sp.  boorico. 

Bioruin  dicebant  aniiqiii  quod  nunc  dicimus  rufum,  onde 
i-usiici  burram  appellanl  buculam  quae  rostram  tubel 
nifum;  pah  modo  rubens  cilo  et  pollone  ex  prandio 
burriu  appcUalur  »  (Pesto).  A  ciò  cola  Miiller:  «Glos-  ■ 
sana  Labb.  burruin  ^«-j^òv,  nuppsv,  gloss.  Isid.  bimts== 
rafu^;  primarius  testis  Ennius  est.,  Annal.,  M,  5,  ap. 
Mortilam  >.  L'il.  bujo;  sp.  buriel;  pr.  burel;  di  colore 
scuro,  sembra  derivare  da  un  agg.  lai.  bweus,  bwiui, 
Taliosi  da  burrus.  Sono  frequenti  ì  cambiamenti  dì  senso 
nei  nomi  dei  colori.  Dalla  forma  birrus  pare  die  derivi 
r  it.  bii-retta;  sp.  birreta;  fr,  barrette,  b&et.  a  cagione 
del  suo  colore  (2). 

Cdballiis,  usato  solamente  dai  podi  nel  periodo  classico,  poi 
anclie  dai  prosatori,  per  esprimere  un  cavaUo  da  fatico. 
ìL  cavollo;  pr.  cavaih;  calai,  cabali;  sp.  ccAailo;  fr. 
cfto'ai  (gr.  X3£«XXr,?). 

Cnmhiarc:  <  emendo  vendendoque  aul  cambiando  mutusodo- 
(Sioilo  Fiacco,  k'uge  Salica).  II.  cnnihìare.   con- 


—  Mi- 
di istnimenli  nivali:  onile  forse  iL  earuieri:b.t 
»1  t'i>j.j  ht.  ranttTÌum  (1). 

::  US  fer  •'•  'Js  Palladio  Anlologia  )  ;  it.  ^Mo  :  sp.  gato  ;  pr.  cat; 
fr.  c-,'.t  i2). 

:ui  per  ••■vs-rna  (Scritlori  Agrari';  it.  sp.  pg.  p-.  flai-o; 
fr.  .-•..:'.:■. 

C.-yv-pui    Lucilio   per  elau-ius:  it.  zoppo:sp.  sopo,  sombo: 

MI.  (f.   t"«>^'     3  . 

'u.?.r.-  f-?f  ..-'.li  f-iv:  il.  chiudere;  pr.  ciurc. 

K-:'o.  mozuM  (Pijuto?  e  Laberio,  al  quale  Aulo  Gellio  lo 

riniiTovera  come  parob  triviale):  usato  spesso  nel  basso 

lai.  sono  le  forme  cjcio .  coccio.  II.  cozzone  ;  aut.  tr.  cotton; 

pr.  cussi  .  p;irola  ingiuriosa. 
Coiìdinarc  (Aiiosiino.  Sidooio^:  it.  combinare  etc. 
f-i:!\i-'-fsh  (Tertulliano  etf.);  it.  compassione  eie. 
Co'nputiiS    Finnico):  coinputum  .  compotom  (in  nno  Scrittore 

Agrario  ì:  ÌU  '»*»/'>:  sp.  cucnto;  fr.  compie. 
Con-'-ftcrc  t  Lattando.  Cipriano):  it.  confortare;  sp.  conAorfor; 

pr.  c-viortor:  fr.  confortcr. 
C'yiìiiau-lcrc  Tertullìnno.  Cipriano  :  it.  congauzir;  tr.  conjouir. 
Coniculart'  (Solino  :  vai.  cuiuntà.  parlare  ad  alcuno,  con> 

venire  oH'iucin. 
Cooperi  meni  um    Basso  in  Aulo  Geli  io):  it.  coprimento;  pr.  cn- 

briinen  :aat  sp.  colirimiento ;  yaì.  coperemunt, 
Cooperlorium  ,Vegezio,  PanJettel:  il.  copertojo;  sp.  pr.  oo- 

bertor;  fr.  coiìi-ertoir. 
Coquina  per  cu'ina    Aniobio,  Palladio,  Isidoro):  it.  cucina: 


—  254  — 

Diumare  inusitate  prò  Uiuvivare  (Gellio).  Le  lingue  ronune 

non  hanno  che  dei  composti,  come  ita),  soggiomare,  ag- 
giornare etc 
Doga,  gr.  $ox^,  vaso  0  misura  per  i  Hquidi  [  Vopisco):  il,  daga, 

vai.  doag,  pr.  doga,  fr.  (touve,  in  un  senso  alterato  (i)> 
Ducere  se,  andare,  portarsi  in  un  luogo.  [Plauto:  Due  te  ab 

aedibus).  [Terenzio:  Duxitse  foras]:it.  condursi;  sp.  con- 

durcirse. 
Dueltum,  forma  arcaica  di  bellum,  sebbene  si  trovi  usalo 

anche  ai  tempi  dì  Augusto.  Nelle  lingue  romane  questa 

parola  significava  combattimento  singolare,  senso  che  ebbe 

già  battaglia;  cosi  duello  è  senza  dubbio  parola  venuta 

in  uso  piii  tardi. 
Dulcire  (Lucrezio):  pr.  doucir;  ital.  sitamente  addolcire, 

sp.  adulcir;  fr.  aUoucir. 
Duplare  per  dit-pitcare  (Pesto):  arcaismo  rimesso  in  uso 

dai  giureconsulti  :  it,  doppiare  ;  sp.  pr,  disiar  ;  fr.  doiMer. 
Ebriacus  per  ebiv'us  (Plauto,  Laberìo  in  Nonio):  ital.  ^>riaeo; 

anU  sp.  embridgo;  pr,  ebriac;  ir.  pai.  clriat.. 
Eff'orescere  o  efferasccre  (  Ammiano  Marcellino  )  :  pr.  s' esferexir, 

s'esferzir,  corrucciarsi. 
Exagium,  peso  (Teod.  e  Valent.  nov.  25;  Inscr.  in  Gfoter): 

i^d-fiov,  pcnsatio,  in  Gloss.  gr.  lai.  It.  saggio;  sp.  enst^/o; 

pr,  essay;  fr.  essai. 
Excaidare  (Apicìo,  Yulcazio  Gallicana  etc.):  ital.  scaidare, 

vai.  sceldà;  sp.  escaldar;  fr.  ec/iauder. 
Excolare  per  percolare  (Palladio,  Vulgata):  it,  scolare;  aoL 

sp.  escolar;  fr.  ècouler. 


il)  varie  (liscipliac,  ma  ignaro  di  membranacei,  cartacei  e 
simili  cose,  cliiama  per  sbaglio,  ma  con  denominazione 
che  potrebbe  rimanere,  le  cartacce  d'Arborea 

Se  non  che,  prima  ch'io  entri  in  argomento,  lasciale 
ch'io  mi  Ialini  un  poco  di  voi.  In  un  recente  vostro  ar- 
tìcolo della  lìevtte  Critique  d'  hisloire  et  de  littératnn 
(7  Mai  1870)  voi  asserite  che  questi  documenti  <  fureot 
accucillis  avec  faveur  en  Italie  •  o  che  «  ceux-lì  seuls 
qui  y  cro3'aient  fìrent  connaìtre  leur  opinion;  ceui  qui 
doutaìent  ({ardèrent  le  sìlcnc«  > .  Panni  alquanto  arrischialo 
il  dire  che  le  carte  d' Arborea  trovarono  favore  in  Italia. 
Certamente  esse  ebljcro  fautori  fin  dal  loro  primo  appa- 
rire; ma,  se  se  ne  tolgano  gli  scopritori,  decifratori,  com- 
mentatori e  pubblicatori,  i  quali  dovevan  pur  credere  alla 
veracità  dì  quelle,  la  novella  chiesa  si  riduce  ad  un  esi- 
guo numero  di  fedeli;  né  tulli  di  molta  autorità.  Vero  è 
che  l'Accademia  di  Torino  ammise  nei  suoi  volumi  al- 
cuno di  coleste  carte  sulla  relazione  del  dotto  Cav.  Bandi 
do  Ve:;me  ;  ma  essa  non  mi  sembra  essersi  davvero  com- 
promessa, come  corpo  scientiQco,  più  che  la  vostra  Ao- 
cadcmia  delle  scienze  pei  falsi  autografi  del  Sig.  Yraio-LO' 
cas  :  anzi  forse  un  po^  meno.  E  neanche  direi  che  tutti  gli 
oppositori  si  stessero  in  silenzio  :  che  il  Tota  espresse  per 
la  stampa  la  opinione  sua:  nel  seno  deir Accademia  tori- 
nesa  manifestavano  nel  18C4  gravi  dubbii  il  Gibrarìo  ed  il 


—  258  — 

trambusti  del  1860,  per  mostrare  <  riconoscente  vtxw  i 
generosi  fratelli  italiani  che  con  tanto  sacrìGcio  operarono 
la  redenzione  della  sua  patria  >;  aggiuni^endo  die  certe 
speciali  ragioni  l' ohbli^vano  a  tenere  il  silenzio ,  ma  che 
presto  egli  sperava  di  poter  chiarameate  manirestare  il  sno 
nome.  Ciò  non  è  stato  mai  fatto:  e  sarebbe  par  tempo 
che  il  donatore  palermitano  comparisse  in  scena,  se  egli 
è  non  ombra  vana,  ma  persona  vera  e  vìva.  Io  ricordo 
ancora  la  impressione  che  produsse  suir  animo  mio  code- 
sto codice,  quando  mi  fu  pòrto  ad  esaminare  dal  biblio- 
tecario Senese  :  il  quale  ' —  e  Dio  abbia  in  pace  T  anima 
di  quel  galantuomo!  —  mi  pareva  molto  meravigliato  e 
confiLso  di  essere  stato  citato  in  questa  questione  corno 
autorilii  letteraria  e  paleograQca.  Il  codicetfo  contienB 
da  principio  dei  computi  frammischiati  di  parole  catalane; 
la  scrittura  ,  apparentemente  del  secolo  decimoquinto, 
è  di  inchiostro  assai  nero.  Secondo  gli  editori,  il  trascrit- 
tore delle  poesie  vissuto  nel  secolo  XV,  trovando  un  bel 
giorno,  anzi  precisamente  il  30  settembre  del  li53,  alcane 
carte  bianche  in  questo  libro  di  conti,  le  venne  riem- 
piendo con  le  rime  di  Aldobrando  senese.  A  me  parve  al- 
quanto strano  clic  l' inchiostro  delle  poesie,  uguale  del  re- 
sto a  qncllo  dei  codici  Cagliaritano  e  Fiorentino,  fosse 
pili  svanito,  e  però  apparentemente  più  antico,  di  quello 
col   quale  già   innanzi  erano  stati  scritti  ì  conti    delle 


—  3'>  ^ 


in  tutte  le  biblioteche  e  in  tatti  gli  archìvi  della  pe- 
nisola? Si  dovrà  ritenere  come  pura  opera  del  caso,  cuite 
bizzan-ja  della  fortuna,  tale  esclusioue  delle  rime  di  oo- 
(leiìti  poeti  dai  molti  codici  antichi  e  genaini?  >'è  sup- 
pongo che  del  Tatto  vorrà  darsi  la  stessa  ragione  od  po' 
vieta  ormai,  ed  arrecata  già  pei  manoscritti  boemi  di  Róo- 
Oiginliof,  e  per  le  carte  sarde,  cioè  •  la  timida  e  so- 
spettosa dominazione  straniera  >;  la  quale  non  varrdìbB 
al  caso  presente ,  perchè  se  anche  dominazione  straiùen 
fosse  stata  in  tante  parti  d'Italia  nel  sec.  13."  e  14.°,  mwà 
comprenderebbe  come  cotesto  rime  avrebber  potuto  dille 
ombra:  che  anzi  le  vedremo  da  uà  viceré  spagnuolo  rictr- 
cale  e  copiate  nel  13.°  secolo. 

.Ma  ammettiatno  jiure  che  cotesti  poeti  e  le  loro  rìM 
attraversassero  tutto  il  secolo  XIV"  sepolte  entro  codid 
generalmente  ignoti.  Intanto  gli  editori  presenti  ci  fvm 
sapere  come  il  codice  fiorentino  fosse  trascritto  in  t  àn- 
tate  Panormi  die  ìnlitulata  XX  mensis  decembris  annaa 
nativitate  domìni  MCCCCXXXIII  >  da  ■  qnodam  puro 
libro  pergameneo  quod  servatur  apud  cgrcgium  virum  do- 
minum  '  ndream  de  5ipeciali  regni  buius  Sicilie  thesaon- 
rium,  quodque,  uti  ipse  dominus  de  Speciali  asserii,  trai- 
sumpsìt  ab  alio  anliqnissimo  libro  pergameneo  recon^ 
in  Archivio  cnnventus  sancii  Benedicti  »:  e  che  il  Sanese 
fu  nel  30  di  Settembre  1453  trascritto  in  •  hac  civitate 


—  Ì6*  — 

iKanza.  àeoza  cbe  se  oe  sappia  prù  doIU  per  tre  se- 
coli e  mezzo.  Nel  X\T  secolo  s' incomiDciaDO  per  open 
del  GiuQti  e  del  CorbiDelU,  quelle  nccolle  di  rime  anti- 
che die  noD  s' inlemùsefo  mai  dappcn.  Nel  XMP  i'Allacd 
irae  da  mi  maDosorJtlì  dod  piccola  messe  di  rimatori  dd 
primo  secolo.  Eppure  oè  questi  eruditi  editori  uè  qnaoti  albi 
reDoero  dappoi ,  oalla  mai  ritrovarono  dei  poeti  del  XKl' 
secolo,  ed  ignorarono  del  tutto  che  nel  400  se  ne  cooo- 
scessero  e  se  ne  copiassero  le  rime. 

Ed  ignorate  rimasero  coleste  poe^e  sino  a  che  rìpnl- 
lularoDO  prodigiosamente  or  sono  pochi  anni.  Auspicate  e 
prenunziate  da  qualche  fo^evol  cenno  che  già  se  ne  en 
fatto  nelle  carte  d' Arborea,  e  piìi  dalle  pubblicazioni  del 
1859  e  del  60,  a  un  dato  momento,  quasi  contempon- 
nearaente,  sbucarono  dal  loro  sepolcro  più  che  quatri- 
duano, come  se  fossero  suscitate  dalla  parola  di  no 
tatunatni^o  o  dalla  bacchetta  magica  di  un  negromante: 
Se  non  che  noi  sappiamo  già  quanto  sia  tenebrosa  la  loro 
origine:  ed  è  un  brutto  introdursi  nel  mondo  senza  l'qh 
poggio  di  un  nome  autorevole  che  dia  guarentigia  delb 
loro  legittimità,  anzi  sapendosi  da  tutti  che  sono  pionle 
dalle  nuvole,  come  gli  scudi  dei  tempi  di  Noma. 

Fatta  questa  esposizione  storica,  la  quale  non  panni 
molto  atta  a  predisporre  gli  animi  in  forare  di  documeoli 


—  266  — 

HipoiliTÙ  alcune  osservazioni  del  s^.  Gaston  Paris  (1)  le 
quali  basteranno  a  dare  una  idea  chiara  della  dispnta. 
Intanto  il  lettore  non  si  spaventi  vedendomi  abbastaim 
lontano  dal  soletto  che  certo  ai  si  aspetta  veder  trattilo 
secondo  il  titolo  del  mio  lavoro:  forse  non  sarà  Imfo 
al  lutto  perduto,  e  in  salito  ■  et  haec  olim  meminisae 
juvabit.  ■ 

<  Un  premier  argumeni  grave  (dice,  adunque,  il  ov 
tico  francese)  conlre  T autlienlicité  des  poemes  tcfaèqnes 
est  la  certitudo  que  des  fabrìcatiòns  de  ce  geore  onl  en  ; 
lieu  en  Bohème ,  à  r  epoque  et  daos  le  milieu  on  aa  ' 
poémes  ont  été  découverts ,  et  pour  servir  les  mémes  ma  , 
qu'a  senies  leur  découverte.  En  1816,  une  chanson  sa  , 
le  Wychegrad ,  l' ancienne  acropole  de  Prague ,  fui  co»  ; 
[wsée  par  un  faussairc  reconnn  aujourd'hui  comme  lei  pir  I 
les  Tclièques  eux-mèmes.  En  1818 ,  un  maouscrìt  fot  wf-    i 

si&ieìiaemefìt  envoijé  au  Museum  natìonal  de  Prague 

En  18:^:t,  on  trouva  à  la  bibliothèqiie  de  ce  méme  Ho-    : 
seiim,  (Ioni  M.  Hanka  était  directeur,  un  feuillet  de  pir 
chemin  contenant  d'  un  coté  un  petit  poème  IjTico-épiqne, 

</)(>  se  Irouva  aiissi  dans  le  ms.  di  Kiinìgitihof et  dt 

l'aulre  une  chanson  ichèque  du  roi  Veceslav  L'^elc.» 

Di  questi  e  di  altri  monumenti ,  per  così  dire,  prcftt- 
ratorii  del  ms.  di  Kóniginhof,  messi  a  luce  dallo  stesso  sig. 
Ihnka .   per  lo  l'ure  del  (juale  doveva  poi  venir  a  late 


Di  certo  ra  meraviglia  come  un  nomo  qnaPè  il  sig. 
Chasles,  abbia  potuto  credere  alla  ancerìtà  di  sifbtti  mss^ 
però  non  bisogna  dimenticare  che  ogni  qnal  Tolta  unms. 
dava  da  diro  a'  dotti  francesi ,  e  in  conseguenza  la  fidam 
dello  stesso  sig.  Chasles  cominciava  un  pochino  a  vacilla- 
re, tosto  venivano  fuori  nuovi  manoscritti  che  confermavano 
ì  precedenti  e  ne  mostravano  T  autenticità. 

Le  carte  del  Vrain-Lucas  formavano  così  un  tutto  tal- 
mente connesso,  che  era  impossibile  ammettere  l'autenti- 
cità di  un  manoscritto  senza  ammettere  quella  di  tutti:  e 
il  falsario  ne  aveva  saputo  comporre  tanti ,  da  dova-  sem- 
brare impossibile  che  un  sì  grande  ammasso  dì  carte  fosse 
nuli' altro  che  una  balorda  menzogna  (1). 

Per  ragioni  dì  analogia ,  che  meglio  parranno  in  se- 
guito ,  abbiamo  voluto  preludere  a  questo  lavoro  (qualoo- 
que  e'  si  sia)  sulle  Carte  ir  Arborea,  rammemorando  coleste 
due  solenni  imposture. 

Che  se  le  carte  sarde  fosser  vere  ,  un  altro  pfr 
riodo  verrebbe  ad  agginni^ersi  alla  storia  della  nostra  let- 
teratura, e  la  Sardegna  avrebbe  una  storia  documentatt 
polìtica,  letteraria,  ecclesiastica,  quale  i  dotti  storici  sardi 
non  si  sarebbero  mai  aspettata ,  quando  ebbero  a  lavorare 
tanto  di  congetture,  per  tentare  di  colmare  le  grandi  lacune 
in  cui  spesso  si  abbattevano.  Queste  lacune,  aimmo  per 
sistertìhhero  nii'i:  p.  innltn 


Li  n^a-TMr  par*:  li  ìà=i  ì<)qi>  in  -fiaietia  arda  4  m 
.amili  hlmììk^^**     3im  !naiii:aai>  puri  oimè  in  nfihnn , 

:iniiii>r':'  it^'  mancsi-rTti  -;  :a  v^-.m  >liifla  mafiffn  è  ^ 
''h>^.  *:.n  ::itr.  r^  ^tàiarmenci  <pn  i  ]à  ìgxs.  oeUe  ioli 
lei  Hnrxi  rj-ri  :iit-;  rrtnavj  nm  «pav«UEs  cbimipe 
^■jtpia  nwOrT-i  1  -nu'Jaril 

O-mlti  rrr^-'Ci?  nr  :•?  -rarw  ìi  lrt4)CM?  Omà  e  )]■■■ 
•if}  trir^nf:  ■i.^-rerr  •  —  O-n'iier:'  ■!' mJlìrnianie  eoto  Bif- 
mirif  p<>.-L^^■r  rr-r^xi  ni-;'  l«Ctjri  -±1?  funi  ne  abòóoo  »M 
notizsi  •ir.rn. 

Oi-^im-j  Harj:»  I  .  21:1  &m  ile'  IfiDorì  Ossemoiì  A 
f'AjYar..  'lai  lSÌ<'f  in  px  tu  mesie  in  venlib  -pe;^  arte, 
ohe  tnttr .  i  nurvj  1  m-in-:' .  'iiT-eotarr-D-?  proprietà  defla  Bl- 
b(ii')tn:3  ''3j\\»nUT!3.  Il  MiDt^a  le  ili<:faiarò  proT^nKoti  di 
Ort-tarui  anth^a  ^ilr  'Ìk  re.?jli  «li  .\rti«?rèa  :  ^  di  qui  fl  oom 
41  1  Carti^  tlì  Art-'Ti^j  > .  T3>:)7ce  per'-  ti  Mawa  della  pa<- 
Sina  <:h<^  silirlé  -Tori^-itun  :  ma  il  PiLIito.  coi  prima  cfae 
ad  altri  fnrrioij  mo-?tme.  dis.i^  che.  doq  ostanle  il  alenai 
del  frate,  ^i  poteva  arer  qasM  certezza  cbe  esse  kssm 
stale  «lepiìsitat-f  nel  ''ooTenM  de'  M.  0.  di  Orùtano  sa» 
all'anno  1^2  in  coi  fa  ^ppres^o  il  coarentOL 

<  Comunque  però .  è  certo  che  pacqa«o  per  più  » 
coli  nelle  tenetire  e  vi  sarebbero  rimaste  per  sempre,  se 
il  lori]   rilpr)tiir'^   n^n  ayesse  aralo  la  felice 


—  271  — 

occupiamo 9  e  molto  spesso,  anzi,  non  vi  si  trova  che 
r  esatta  riproduzione  del  già  detto  da  altri. 

Ma  lasciando  da  parte  i  lavori  degli  altri ,  e  venendo 
iD?ece  a  dir  qualcbecosa  del  presente,  i  lettori  che  conoscono 
la  Raccolta  del  Martini  si  accorgeranno  facilmente  come 
il  cootenuto  stesso  de'  manoscritti  sardi  mi  abbia  indotto  a 
dividere  in  due  parti  questo  studio  :  nella  prima,  prenderò 
in  esame  alcuni  fatti  della  storia  sarda  antica  e  medievale 
quali  i  nostri  codici  ci  danno ,  assumendo  quasi  a  tipo  dei 
Doyelli  monumenti  quello  che  primeggerebbe  su  tutti  per 
importanza  e  per  antichità  —  il  Carme  di  Gialeto:  e  nella 
secooda ,  mi  occuperò  specialmente  delle  scritture  in  dia- 
letto sardo  e  in  lingua  italiana,  che  per  la  prima  volta  i 
manoscrìtlì  arboreesi  ci  hanno  fatto  conoscere. 


I. 


La  raccolta  delle  carte  di  Arborea  comprende  qua- 
ranta manoscritti  :  otto  pergamene ,  diciassette  codici  car- 
tacei e  quìndici  fogli  cartacei  (1).  Di  certo ,  per  abbondanza 
di  manoscritti  è  questa  una  gran  bella  raccolta  :  di  che 
più  agevolmente  si  convincerà  il  lettore  ove  non  voglia 
dimenticare,  che  non  pochi  di  questi  manoscritti  vanno  sino 
alle  trmta  e  alle  quaranta  pagine  in  4""  grande  (1). 


(1)  Non  è  però  straDo  che  altre  carte  Tengano  a  luce:  anche  dopo 
le  tute  sioora  scoperte,  la  storia  e  le  lettere  sarde  hanno  sempre  biso- 
fBO  di  schiarìmeoti  e  documenti.  Il  Bandi,  in  fallo,  (Nuove  notizie  in- 
$&rmé  a  Gherardo  da  Firenze  etc.  1869)  ci  fa  sapere  essergli  riescilo 
acquistare  quattro  nuovi  fogli  di  un  ras.  gifi  in  parte  compreso  nella 
Raccolta  del  Martini  ;  e  aggiunge  che  altri  fogli  contenenti  poesie  sarde 

ampie  note  marginali ,  sono  tuttora  presso  gli  scopritori. 

(t)  P.  es.  il  Codice  gamerìano  occupa  40  pagine  (Appendice  p.  21 
;.),  la  Pergamena  V*  31  pagine  {Raccolta  p.  177  segg.),  il  Codice 
W  (Ib.  p.  279  segg.)  29  pagine  etc.  etc. 


—  274  — 

non  potrà  cosi  facilmente  rifiutare  queste  carte,  vero  pd- 
ladio  della  nazione  Sarda.  Io  vorrei  tuttvìa  che  i  Sv£ 
si  persuadessero  che  le  carte  di  Arborea  per  gU  stnDÌeri 
sono  manoscritti  come  tatti  gli  altri,  e  che  però  il  mei- 
lerli  in  dubbio ,  il  arcare  di  mostrare  eh'  e'  sodo  apootf 
non  è  già  un  voler  detrarre  alla  gloria  della  Sardina, 
ma  un  voler  rendere  omaggio  alla  verità,  o  almeno  a  db 
che  come  tale  si  presenta  al  loro  intelletto  (1). 

Ma  non  voglio  piìi  a  lungo  insìstere  su  cose  abba- 
stanza evidenti  :  per  conto  mio  posso  ben  dire  d' essenù 
messo  a  studiare  le  carte  sarda  «  sine  ira  el  studio,  quo- 
rum caiissas  prociil  habeo.  » 

Ciò  che  prima  di  ogni  altra  cosa  si  nota  nella  letton, 
anche  disattenta,  de' manoscritti  arboreesi  è  la  connesfione 
strettissima  che  ciascun  manoscritto  ha  con  gli  altri.  Si  può 
dire,  senza  pei-ìcolo  di  esagerazione,  che  se  in  un  manoscriUo 
si  afferma  brevemente,  e  però  con  poca  chiarezza ,  nn  btlo 
di  qualche  importanza ,  vi  sarà  dì  certo  un  altro  manoscritto 
almeno  in  cui  sarà  più  ampiamente  alTermato  il  fatto  stesso; 
e  nel  maggior  numero  dei  casi  non  mancheranno  altre  carte 
in  cui  con  maggiore  ampiezza,  e  spesso  con  più  rettoria, 
si  tornerà  alla  esposizione  del  fatto  medesimo.  Quindi  it- 
veniva  al  Delta  Marmerà  quello  stesso  che  accennamn» 
avvenuto  al  sig.  Cliasles  con  le  carte  del  Yrain-Lucas.  Se  per 
caso  egli  aveva  a  dubitare  di  qualchecosa,  bentosto  onon 


—  273  — 
isione  di  ttotli  (1) ,  ia  celebre  giudicessa  Eleonora 
rArboK^,  e  poi  i  marchesi  di  Oristano  Leonardo  ed  An- 
tonio CubeDr». 

Queste  sono  le  notizie  più  importanti  sulla  scoperta 
delle  naove  carte  sarde  :  altri  particolari  avremo  occasione 
di  rammenlarli  iu  seguito. 

Disgraziatamente  la  quistione  delle  carte  d'Arborea  ha 
preso,  m  certo  modo,  Paspistto  stesso  di  quella  degli  antichi 
mss.  boemi.  Ne'  dotti  sardi  in  generale,  l'apparizione 
delle  carte  arborecsi  non  produsse  né  poteva  produrre 
quolta  impressione  che  produsso  poi  ne'  dotti  stranieri. 
I  dotti  sardi  non  giunsero  per  la  via  della  critica  alla  con- 
rinziooe  dell'autenticità  de' manoscritti  :  ma  li  accolsero, 
appena  scoperti,  con  quell'entusiasmo  che  meritavano  do- 
cmneiitì  di  una  antica  gloriosa  storia  dell'isola  loro.  Le 
drrosianze,  che  agli  stranieri  fornirono  argomenti  per  im- 
pn^urlì,  non  furono  untate  da' Sardi  che  quando  già  le 
eUiero  avvertite  i  dotti  stranieri  :  si  rispose  da  essi , 
quando  ormai  già  erano  avvezzi  a  vedere  con  un  cer- 
to senso  di  compiacenza  la  storia  polìtica  e  letteraria 
sarda  (|aale  i  nnovi  manoscritti  l'avevano  creala.  —  Na- 
iuralro«nte  io  parlo  qui  de'  Sardi  in  generale,  che  le 
eccezioni  non  mancano.  —  In  somma,  i  Sardi  son  troppo 
lusiugalì  nella  loro  vanità  nazionale  da  queste  carte.  E 
come  del  resto  poteva  altrimenti  avvenire  in  bravi  isolani, 
dio  tante  lacune ,  tanti  dubbii ,  tanti  oscuri  accenni  trova- 
vano udle  memorie  del  loro  passato?  Ora  avevano  belle 
pagine  di  storia  :  come  supporre  che  dì  buon  animo  le 
polt?ss«To  rifiutare  ?  —  Ben  potrà  qualche  eletto  ingegno 
avere  una  opinione  indipendente  da  qnalsiasì  preoccupazione 
nazionale  :  ma  la  generalità  degli  uomini  più  o  men  colti 

Ut  «  CoDimÌHÌo  deputala  su{ierlransuiiiplis  eh  ro  naca  rum.*  Martini, 
LS7l,Còit  e  V*.  ^tlna  deputaiìone  di  storia  pairìa  nel  XV  secolo! 


—  ni  — 
:<    Irrlr     <!•'    IDf    DT»-r-^    Vr30m    Kinfc.   SE^:  ^^P- 

■ru  I  L  ::  j  ly*    :,  -  :  1.  sr  ««  3.  »«- 

>  it'iuzf  u^b  TT-.-'inzEKiii*  «na  fu  tK*  ■■Ha  pv 

u-  TL-s.  -iz.    L  -.  :  1  ics   I  7  ÌÙ.  ■  3.  ì»:  q 

1   >»    :x  1.  US   TI  1.  wm-i. 

??rL  :  -.-rvi   ;3-^4.      :±    L  L  ?T  a.  ST:  Q,  ^l  Oft 
.  tH-^       *  ?vrx    T  3.  isi;  C  *.  IT 

>-i:     *   •-  -.  ki  z.  3».  ao:  a 

-■i-^t      -jt  "l  r.  rr  s.  3SSl 
■      -l-ie      *    1  :.  IV  e.   3».  ìM,  n 
:    4;^>.  :.  rifaer.  p.  53-SI 

.  il-:  12^  -fr  F^rz  IV  f-,  IH:  Ct  I 
;.  iST:  :.  ^•.  IV  p.  JW;  XD 
['.  i±^:  •:.  flnkef.  p.  !23,S 
Apf!»it«t  :  f>dk>  cip.  iSI; 
n  p.  432:  m.  ÌÒ8L  559;V, 
irjfi:  VI.  ÌTO  etf.  eie 
0nir>ii  apf^Tr  piastiv^m]  t' oss^mzkne  de)  Don, 
<-[><;  ófifr.  !•:  ari«  di  .irt<or^  >ieao  <  aai  mdhù  siocen, 


—  278  — 

Ed  è  poi  singolare  i^he  mentre  negli  scrìtti  dei 
sori  delle  carte  di  Arborea  spesso  è  detto  che  qoeslì  i 
avrebbero  resistilo  ad  ogni  più  accurato   esame  paleogE 
fico,  trovo  iovece  nel  Jaffé  (cui  nessuno,  io  credo,  t 
contestare  la  qualità  di   giudice  coinpeteDte)  le 
parole  a  proposilo  della  Perg.  II: 

D  Già  la  forma  delle  singole  lettere  tradisce  lo  set 
moderno,  che  non  aveva  una  conoscenza  sicura  del  | 
Ucolare  e  fermo  modo  col  quale  una  mano  del  i 
teneva  la  penna.  1/ eguaglianza  manca  non  solo  ni 
diverse  lettere,  ma  anche  in  opiuna  separatamente  pra 
l'crciò  il  documento  ha  un'  apparenza  grademenle  e 
spetta,  die  per  certi  riguardi  dovrebbe  bastare  i  I 
glier  fede  alla  credibilità  di  un'antica  scrittura  »  {!). 

E.  come  se  questo  non  bastasse,  il  Jaffè  conchiadc 

"  Non  mette  il  conto  di  spender  molte  parole  a  i 
scrivere  ciò  che  poclii  accenni  bastano  a  far  vedere  i 
bella  prima  :  come  cioè,  ò  evidentemente  procurata  ad  ai 
qutìll'  apparenza  di  sudicio  per  cui  si  vorrebbero  dar  f 
vecchie  scritture  recenti  t  Si  vede  che  i  fogli  interi  * 
soli  margini  sono  stati  tuffati  in  diversi  liquidi  :  vi  si  ved 
'  macchie  più  grandi  o  piii  piccole  fatte  con  del  sadidin 
liquido  0  vischioso,  o  versato  o  spruzzalo,  o  spalnl 
di  sopra  o  di  sotto!  Qnesti  segni  non  servono  che  adl| 


—  *«  — 

voj  cu  ;r'j^i  Er:-i--i  -S  -^ifesU  ££cR>3oe.  —  E  (pesto 
:*<.  ■'>,*  T;;<'.or  ì:4Ì-:'>,zTà-a .  or:»  lesinale  ooonni 
l'-.-vH'  U:-:  i.'^i  r^  r>y»^>^T^  1«  oàs^mzàiwi  de^  ai- 
tn .  pr.-Ury;  '-•■m-»  >:o?  ala  ><!iefiz]  •^cti  anlìdM  (andai 

pt^v-  ciH^  i^'-esaiDr  d-e'ms-.  artoreea  qoolo  al  ion 
•tfTit^^Db:-.  f^raio-l-L-mi  f-riKi;'>atm<?Qt>?  sdIIi  Percameoa  L 
«♦v-'-m^  -^-riU  -*ti^  [j-yi  -^r-j^  1  fresimi  ilm  per  inqNN>- 
tariM  iji-n-a .  ■?  -'he  f-^'  partkr-Uri  si  anoeCte  con  qoisi 
tmti  :.ì  aitri  mirjx.rittL 

ija-r-U  ["irr-im-rta  ooiti^ri^  il'i  ritmo  o  anio  pop»- 
hr--  iìuri"  -J'  OM  !' ìr-'v-m-iDl-:'  friEk:Ìf*afe  è  (a  almflio  do- 
irrl-l--  f-^rr  Ì3  ru<^]ui-^t'iu  iO'lì[>eDd«nza  della  Sardc^ 
iirir3ri'i'>  t'is'7  lir-H'rra  ^■.L'arr'.  e  l' innalzamenlo  al  inno 
'il  un  «iiil-rtM  n--'i'ile  janli...  Il  p-jeta  rtrii  >i  rompiare  tì- 
-it>jlrD>-:ii'.-  3  ni'T'^Tt  la  ^t>'>ri3  anti<'a  «Iella  Sarde^  ri- 
]n->rtan'i-<nr!  nutf'nlirhfr  iDi-mArìe  :  e  bisoima  confessare  che 
iiitomf*  4  <[iieMi~i  rìtnir)  r^n  arret-ttero  proprio  nulla  di 
rìilin:  qrj>'^'|j  |ist>(iil»H:riii<-i  «'tie  >i  laenavano  tio  tempo 
(trilla  iniitilità  della  [M-»^ia. 

Si  liguri  il  lettore  die  iiuasi  OLmì  verso  i,e  il  Rilnu 
ne  comprende  17t,  ha  la  :>ua  speciale  importanza  per 
la  storia  politica  o  letteraria  della  Sardegna.  Esso  sa- 
relfttf  .stat'j  roni|)0^to  Ira  il  6K7  e  il  Hi.  e  la  copia  eoo- 
senatai-i    sareblw    molte   probabilmenle   del    tempo,  al- 


—  282  — 

l'eli')  se  ii[i  Ueletone  non  fnsse  ora  ricomparso  in  qoeslì  j 
inaiiiHt-rìIti .  la  ramiglia  <le'  Deletoni  sarebbe  per  la  crìlia 
storica  (^à  scomparsa  dal  numero  dì  quelle  che  un  lenqw 
esisterono  in  Sardegna,  percliè  iu  Cicerone  si  le^  inreee 
Delicottes  o  Iklecoites ,  e  la  .  lettera  e  si  Tede  atAosUoa 
chiara  nel  palinsesto. 

Ma  se  il  Manno  avesse  t-onosciula  la  buona  le»M 
lìetecones,  non  sarebbe  per  afreniura  stato  un  Ddteem 
r  autore  del  nostro  ritmo?  (1) 

V»)endo  adesso  al  contenuto  del  Ritmo,  wi  fenBoè 
in  prima  sul  Tatto  più  importante  In  esso  accennalo  :  b  ~ 
rivoluzione  sarda  del  (i87. 

Serondo  dunque  il  nostro  Ritmo,  Terso  la  fine  àé 
sec.  VII  r  erano  in  Sardegna  un  Marcello  preside  e  n 
Atisenio  duce,  amltedue  rappresentanti  l'autorità  ìai[» 
riale  di  Ciiustiniano  11.  Marcello  •  inumano  preside  ■  aii> 
tato  dair  .  empio  •  amico  suo  .\usenio  riesce  a  Tarsi  re 
indipendente  dell'isola.  l*erò  ìl  popolo  sardo,  irritato  p(r 
lo  vessazioni  di  ogni  genere  sofferte  [ìer  opera  de'dne 
amici,  si  solleva. 

Allni-a  Gialeto.  i  tre  suoi  Tratelli  Xieolao,  Tornito  e 
iHirùi .  e  il  sno  genero  Auionio  me.ssisì  a  rapo  del  popolo, 
riivfuno  ad  uccidere  Marcello  ed  .\usenÌo.  Gialeto  è  fitto 
giudice  di  Cagliari  col  nome  di  re  di  Sardegna,  e  lasca 


—  281  — 
avrebbe  questo  ritmo,  il  quale  verrebbe  cosi  a  colmare  quella 
^nn  lacuna  die  gli  storici  sardi,  per  la  mancanza  assoluta  di 
documenti,  disperarono  già  di  poter  riempire.  Il  Manno,  giuQla 
colla  sua  narrazione  a  questo  periodo  diceva,  mestamente: 
«  Da  questo  punto  (  681  )  maggiori  si  addensano  le 
tenebre  sulla  storia  civile  ed  ecclesia:itica  della  Sardina; 
talché  ne  parrebbe  che,  mentre  soprastava  airisota  la 
massima  delle  sue  pubbliche  calamità,  cioè  r  invasuoe 
de'  Saraceni,  le  sia  mancato,  se  non  il  compassionamento 

de'' contemporanei,  il  lamento  almeno  d^li  scrittori D 

progresso  degli  avvenimenti  ci  sbalza  .ora,  per  coA  dire, 
nel  mezzo  ad  una  genia  novella  di  feroci  dominatori;  e  ci 
sbalza  inopinatamente,  perchè  mancano  i  ricordi  dell' in- 
vasione, restano  le  sole  memorie  della  già  acquistata  si- 
gnoria (1)  ». 

Dair  accusa  di  maestà  deir  arcive.scovo  cagliarìtaiu 
Cilonato  (680-1)  si  (Kissava  di  salto  alla  legazione  di 
Liutpi'ando  pel  riscatto  del  corpo  di  S.  Agostino  (721-25). 
On.  gnizit'  alle  carte  di  Arborea,  la  lacuna  è  interamente 
scomparsa,  e  (quel  che  è  piìi)  le  poclie  congetture  ià 
^lanno  su  questo  perìodo  ricevono  splendida  conferma. 


n  frmpnp  foni   per  acidcrf  lioinpni   foni  eciam   \ìfr  l^roenc  *. 
.  >  —  R  ciis^i  rncAfio  giiprrn  li-  dili^  Ttiinpiic.  E   le    Sarde  siiiwIaM 


—  285  — 
I  Medilanilo  (dice  Ji  Manno)  stille  o/tndizioni  politiche 
I  Sariieftna  ne' secoli    precedenti,    io  non  altra  «poca 
ipi  riconoscere  più  adatta  allo  stabilimento  di  quella 
jDva  maniera  di  signoria  {i  giudicati  ),  che  quella  in  cui, 
r  lo  decadimento   dell'impero    greco   e  la   noncnranza 
s  cose  dell'Occidente,  atìQevolivasì  da  ana  parte  Pin- 
mza  dell'antico  reggimento,  e  dall'altra,  per  lo  peri- 
»  delle  aggressioni  esteriori,  moltiplicavasi  anche  glor- 
iente il  bisogno  di   un'  autorità  presente,  vigile  e  ri- 
s|>etlJiW.  Quest'epoca  è  qnella  delle  incursioni  de' Longo- 
bardi e  de' Saraceni  (1)  ». 

Noi  abbiamo  già  visto  come  appunto  in  questa  epoca, 
Gtalelo  divent<isse  giudice  di  Cagliari. 

Se  poi  c'era  quistione  sull'origine  de^f/iiaUro  giudi- 
cati ftra  il  problema  è  pienamente  risoluto:  non  furono 
*lHnltrii  fratelli  i  libei-atori  della  Sardegna? 

Ma  qnello  di  cui  non  so    persuadermi  davvero,    si  è 
I  Manno  abbia   dato  tanto  nel  se^o  quando,  dopo 
i  abbozzato  un  quadro  delle  condizioni  dell'  isola  du- 
il   decadimento  della    potestà   imperiale   bizantiua, 
I  con  le  seguenti   parole:    •  Un  popolo  situato 
stremo  a\'ea  bisogno  di   maggiore  protezione,  e 
lopolo,   rlie   mal   cura  i   bisogni  o  male  scaglie  i 
dii,  nutrivasi   d' ìlItLsioui    o  di    timori ,    mancati    non 
quegli    uomini    dalla    loro    riputazione    o    dalla 
ronnria  innalzati  già  a  tal  grado   die  il   passo  al 
remo   potere   sarà  stato    Torse    per    essi    un    breve 
.  Ed  in   questo   novero    io    comprendo    non  solo  i 
Eo(i7t   i! -ir  itola,    ma    gli    stessi    duci    imperiali   che, 
fonati  dall'  ambizione,  non  ritratti  dal  timore,   poterono 
ftarsi   ili   una  poteMà  loro   meglio   abbandonata   che 


eom-essa  e  convertire  un  uffizio  temporario  w  urna  carUa 
perpetua  (1)  >. 

Ai  notabili  deW  isola  diamo  Dome  Giaieio,  Xicolao  de^ 
ai  duci  imperiali  diamo  nome  MareeUo  e  Auiemar.  ed 
ecco  in  abbozzo  la  pei^amena  prima. 

Quello  però  che  il  Manno  non  prerìde,  perchè  en 
diffìcile  troppo  il  prevederlo,  si  è  che  qnesti  mtUibUi  dd- 
r  isola  avessero  dovuto  unire  air  arvedalezza  politica 
l'amore  degli  sludii.  Gialeto  (e  cosi  anche  i  suoi  fmàS} 
è  un  dotto  pento  nelle  cose  e  nelle  lettere  ^izìe  e  gre> 
die,  è  protettore  di  dotti,  tiene  seco  un  erudito  •  elMvo 
di  corte  >  come  lo  disse  il  Gerhard,  ed  è  qualcosa  più  che 
iiD  dilettante  di  archeologia.  E  il  nostro  Deletooe,  accorto 
come  era,  si  avvide  benissimo  che  nairandoci  le  scoperte 
arclieologiclie  de'  quattro  fratelli  avrebbe  potuto  dara 
qualche  schiarimento  a'  futuri  storici  sardi,  i  quali  non  si 
sarebbero  trovati  in  grado  di  saperne  tanto  quanto  lui 

Del  resto,  non  sì  può  negare  che  sìa  molto  ing^^DOSO 
il  modo  in  cui  Deletone  ci  fa  sapere  tutte  queste  belle  ed 
utili  cose.  Egli  apostrofa  gli  anttctiissìmì  coloni  della  Sar- 
degna, e,  congiungendo  mirabiltnente  il  t6no  di  poeta 
solenne  colle  minnte  ed  esatle  descrizioni  dell'archeòlogo, 
cosi  dice: 


Vers.  liWO: 


-  '■-      ..      .■"*>-       ■■■■-••■-  t<i     :r:ijf«Cifc  di  qnd- 

>  :  ^:i^--'-  >.-  ij'--  «r- >tr:- or;<at^Ta  l'oMìfO 
::   Liz- -T-..--    -v        --ji.     j-c.   ^viii    i:l    SanJeena  ne' 

—  --:>■;      --!    -Lr    -X    -'C    r^oitriv   affatto   in- 
■■  -■-.■.-  >:•  :■  •     —  <-r^!  i  T-^-'-Dr  ■tfw  lierifrnno 

-.~ --  ■•-  '<■■-  '  r-'.r  -  -.kj'    -iif-  iniiiT'*  per  (ìli 

'•  ■■.  -.  -  :■:'.■,  -_-^;  --~'-='J  ^'-i  L>  par-le  del  Meyer. 

—  .>      -:     -:ì-     -.---^       Vi.-:--   M-.stK.  che  p»- 
-    ,-     -  ■  M    '.   ■-'_■-  -  -"ì",     :.~:rj:e  b  Sanletma.  e 

-  -■  -:  .  -~i  '■■-.:■  -::.--T  :ììi-:ud3  anche  ne' 
' '—.  —  :--  —ri'  --•:.  .--  -■-  -u  :-r:'ViD.:i3  ?oggetu 
-;  ,-■-  i.'."  ij_-  "  r_:--  i:  >i:.:z,--  Wn  polera  co- 
■_■  --■'  .  .--  .'.-  '■  :•  :-■':  --srrr  ui  t-breii.  perchè 
-■_r,'    :.■•-!-:,    :.  ?,■-:■   .   i-  .;>>.!iii    i^t^vindij  b  IkIÌ- 

>-.  ".'•:  ?;-:»-i. .  L  [»T-*V::-:r'.:it*  •_+!■?  5i  meraviphsn 
:-.  i  ■'  .,  :  -.\r-.ri  >■  -.•ir-.c  fi  Gi-ìUtn.  rispose  3 
Mi.ri.  ■-  '.-  *---!-;.:.  :-i:  ■■.-■  i-,;  Cave-i-iui.  a  cui  nnlll 
:-:r»*  pi  n:tiir:-.T  -•  r:-!!  «:.::i.!'i?>  -'i-- U  esaltazione  de' 
:  st:,,  ruvrium-:.:!  r.r:  !;■  ■ih-t.i'  iri  -ui  uriinizìone  ac(|uisla  Is 
;r..:i](  i'.Àn  ■:•.:•{•:■.. z--.:  ■  C  -i  il  -vletir--  tiiluiini  Cola  di  Rienzo 


—  28»  — 

Mi  à  accuserà  forse  d' irriverenza  alla  memoria  di 

I  nomo  per  tanti  rispetti  caro  a^li  amatori  dell' anticlittà, 

fi  oserò  notare  che  da  Gialeto  al  tribiiEio  romano   c'è 

'.  secoli,  e  clic  dagli  scopi  politici  di  Gola  di  Rienzo  alle 

!  prettamente  archeologiche  di  Gialtito  e'  è  un  gran- 

Bimo  divario? 

Ma,  (ornando  al  Martini,  egli  non  potè  ragione- 
meotc  presamere  di  aver  dato  una  buona  risposta 
oLbìczìoni  messe  innanzi  dal  Meyer.  A  parer  mio 
mpossihile  rispondere,  anche  restringendosi  alla  carta 
secolo  l\  cui  le  obbiezioni  de!  Mejer  riferlvansi  : 
diremo  poi  del  canne  di  Gialeto?  —  Noi  alt- 
dinanzi  un  monumento  de!  sec.  VII,  un  ritmo 
re  (giacché  come  tale  ce  lo  danno  i  difensori  stessi 
delia  sua  autenticità  (1)  uè  altrimenti  noi  potremmo  con- 
siderarlo) in  cui  il  poeta,  almeno  lino  ad  un  certo  punto, 
deve  essere  interprete  del  sentimenti  del  popolo;  e  in 
alesiti  ritmo  appunto,  noi  troviamo  un  gusto  lellcrai-i». 
vcheologico,  linguistico  assai  nettamente  formalo.  Desta  da 
supporre  che  il  popolo  sardo  si  curasse  poco  o  nulla  delle 
>ti)Ue  ricerche  di  quella  società  di  eruditi  presieduta  dal 
re  Uialelo,  e  che  guardasse  il  museo  archeologico  della 
corte  di  Cagliari  con  quella    stessa  ingenua  curiosità  che 


i  inou  alla  liUnnù  Ellitnicn  del  come  Dionigi  Solumo:^  e 
i:  «  Il  Dulcloni?  eil  il  Solomos  furono  due  poeti  storici,  ini. 
Mia  Cirilla  in  Sonlrgna  ed  Jn  Grt^cia;  prrcliè  i  primi  sierici 
)  lunmo  poeli.  ed  1  piti  grandi  poeti  Ttirono  fiorici  fedeli  i. 
''^  f-  i.  Caoari,  /.?  earir  rfi  vlrftorrà  eie.  p.  8,  So  pameoni  siffaiti 
*"»«»  lojore,  oon  so  davrero  cosa  potrebbero  rispondere  i  critici 
•  fh  (irtwniasse  loro  comi'  Anteriore  di  dieci  secoli  all'idra  rolgare  un 
■Muilr  ili  jrcheologin  in  ver^i   epici. 

di  i'nli  p.   e.:   Mutini.   ÌVmmm   pirgtimtne  iT  Arhori-a  voi.    I," 
P' 19,  Ci(lL.rì  ffllfl. 


—  290  — 

anche  oggi  in  molte  citUk  è  propria  alla  maggior  parte 
de'  visitatori  di  mmei. 

Ma  sarebbe  stato  mai  po^ibile  ud  canto  popolare 
quale  le  carte  arboreesi  ce  H  danno  ?  Ciò  premesso  che  nle 
il  dire:  potevano  essersi  scoperte  ioscrizìooi  fenicie,  po- 
teva sapersi  di  greco,  c'erano  degh  Ebrei.  —  Ci  sg» 
ghiamo  forse  una  corte  del  VII  secolo  in  cui  si  attende  {Ms 
a  dissotterrare  monumenti  antichi  che  a  gOTemare  lo 
stato;  e  un  ritmo  popolare  di  174  versi  de'  quali  31  soli 
(dal  135  a  106)  sono  spesi  a  narrare  la  grande  in- 
presa politÌi-.i  di  Ciialeto,  e  quasi  tulli  gli  altri  ad  aimoTe- 
iTime  le  scoperte  archeologiche? 

Ma  prescindiamo  anche  dal  carattere  popolare  dd 
ritmo;  consideriamolo  pure  come  il  resoconto  poetico  d 
un'accademia  scientilìca:  riesciremo  forse  a  persuaderò 
della  sua  sincerità? 

Nel  continente  italiano  la  condizione  degli  studii  di) 
VI  al  \I  secolo  non  era  dì  certo  idonea  a  produrre  en- 
Insiasmn  per  gli  studìi  di  antichità,  non  dico  in  mia  b- 
miglia  di  principi,  ma  neppure  in  questo  o  queir  altro 
individuo.  Se  nplP  universale  ignoranza  ci  riesce  scorgere 
ogni  tanto  un  dotto,  o  almeno  un  uomo  reputalo  tale 
da' contemporanei ,  egli  è  un  teologo.  Di  fantasticherìe, 
sogni  d' infermo,  sottigliezze  e  sofismi  scolastici,  talvolta 
niirlic  ili  lampi  [l'iiigoinin   verainentii    specnlativ 


—  291  — 

Ma  la  Sardegna,  si  risponderà,  poteva  trovarsi  in 
condizioni  diverse  da  quelle  del  continente  italiano.  — 
Ecco  la  famosa  obbiezione  a  cai,  se  volessi  farla  un  po' 
da  avvocato,  potrei  evitar  di  rispondere,  pefchè  tocca  a' 
difensori  delle  carte  arboreesi  il  dimostrare  che  in  Sarde- 
gna si  era  dotti  qoando  nel  resto  d'Italia  si  era  poco  più  che 
airabbicd;  e  perchè  non  incombe  a  me  il  provare  che  la 
Sardegna  non  poteva  fare  eccezione  alla  barbarie  univer- 
sale. —  Tuttavia  che  ragioni  abbiamo  per  supporre  tanta 
differenza  tra  la  Sardegna  e  V  Italia  continentale  ?  Di  certo 
la  Sardegna  in  fatto  di  coltura  non  ha  avuto  dalP  impero 
romano  beneflzii  maggiori  di  quelli  xhe  ne  ha  avuti  il 
resto  d^  Italia  :  a  me  basta  la  testimonianza  di  Deletonc: 

V.  110-116: 

Sed  Romani  Dunqiiam  fuerunt  —  in  agendo  similes, 
0!  quam  barbari  isti  fuerunt  —  cum  evicto  populo, 
Avidique  divìtiarum,  —  argenti  et  auri, 
Praepotentes  vexatores  —  et  latrones  pessimi, 
Inimici  sapientum  —  et  scìentium  litteras, 
Quos  omnimo  obscurabant,  —  in  noctis  caligine 
Et  obscuri  desinebant 

V.  124: 

Omnium  demum  procurabant  —  obsciirare  ingenia  (i). 

Lasciando  da  parte  quest'ultima  espressione  —  pro- 
curabant obscurare  ingenia  —  che  è  per  sé  stessa,  come 
frase  latina,  un  gioiello  inapprezzabile,  io  domando   se 


(1)  Di  questo  (tasso  Ocleloue  sarebbe  potuto  giungere  a  dire;  S;tr- 
«lioia  e  capta  ferum  viclorera  cepit  et  artcs  liitulit  etc.  ». 


r  impero  romaDO  poteva  disporre  la  Sardegna  a  tiTenìre 
un  seminario  di  dotti  e  di  artisti  ne' secoli  medieiaU- 
l'eggio  ancora  il  dominio  bizantino. 

Questi  Sardi  sbucarono,  dunque,  belli  e  sapienli  dalli 
madre  terra. 

E  passando  ormai  a  qualche  consideraziooe  ^eciile, 
io  credo  che  ogni  lettore  del  rilmo  di'Deletone  non  potri 
non  notare  con  diffidenza  il  ritorno  rrequentissìmo  di  (or- 
mole  come  le  seguenti  :  Nam  aegyptiorum  taorum  extaM 
testimotUa  (v.  41);  Simt  hodie  vidimus  (v.  61);  ttf  ex 
plumbi  taminis  (v.  80.  congettura  del  Cavedoai);  De  M 
scimur  evidente!'  laminibus  similibus  (v.  83);  Ut  a» 
slot  tnanifeste  ex  aeaeis  tabulis  (v.  91);  Ut  ex  ttictìi 
doctimeiilis  nocis  conslat  certius  (v.  103);  Ut  ex  ùwcri 
ptionibm  (v.  119). 

Brava  gente  die  erano  questi  Sardi  del  sec.  VII,  i 
([Itali  (superiori  in  ciò  a  tanti  dotti  moderni)  non  affer- 
mavano cosa  che  non  fosse  colle  detnte  forme  auten- 
ticata! 

Quasi  saremmo  tentati  di  dimandar  perchè  invece  àà 
nome  di  carme  di  Gialeio  non  siasi  dato  al  nostro  ritmo 
(|uello  più  idoneo  di  BuUeltino  archeologico  Sardo  dd 
sec.  VII! 

E  queste  formolo  del  nosUo  ritmo,  non  sono  che  un 
■ah  sjiL'uin  di  l'ió  r.lift  ritriìvasi  nellf-  altriìrartp.  H  l>ei 


ramnitiUtiaiDD  adesso  «{ualclre  fallo  <li  quelli  che 
il  nostro  Dclclone,  per  forluna  de' futuri  storici  Sardi,  ha 
UDlo  c«sceiiziosanieiite  provali  ed  illnslrali. 

fiitutiao  mi  Orosìo,  lia  le  nazioni  cbe  spedirono  legali 
ad  indiinare  Alessandro  Magno  dopo  le  spedizioni  del- 
^J^^Uo  e  dell'  India,  nominano  anche  la  Sardf^a,  e  Dio- 
^^Bp  Siculo,  benché  non  la  rammenti  in  particolare,  la  in- 
^^Be  Tumdimeno  nell'  espressione  :  <  cimeli  qui  mare 
^Hoe  ad  colnmnas  Ilerculis  accolebanl  ». 

Il  Manno  (v.  I,  p.  41  segg.)  &i  mostro  propenso  ail 
Jia-ellari'  i»er  vero  questo  fallo:  peni  toinbatte  con  bun- 
uissimH  ra^noni  gli  scrittori  ì  quali  tollero  ■  die  qiu.1U 
li-^ziune  fosse  per  la  Sardegna  un  argomeulo  di  politirt 
indipendenza,  e  che  perciò  ad  un'età  postcnoa  jd  \U>- 
isodro  f\  debba  riferire  il  dominio  cartaginese  neir  isola  » . 
Di  (ini  il  Tola  (\)  osservò  die  quella  legazione  «  se  non 
è  prova  di  assoluta  indipendenza  della  nazione  che  i  legati 

Sardi  rappresentavano è  certamente   nn   indizio   della 

costanza  colla  quale  la  sarda  nazione  cercava  sempre   di 
MjUrar:^  al  servaggio  africano  *. 

Elibene  cosa  abbiamo  nel  ritmo  f  Dapprima  si  mette 
in  sodo  cbc  ì  Cartaginesi  erano  già  padroni  dell"  isola:  e 
poi  Initlandosi  di  cosa  tanto  onorevole  per  la  Sardegna 
f  ■  è  qualche  cosa  che  conferma  r  osservazione  det  Tola  : 

V.  o»-ioa: 

Molla  ilanina  vos  (ulLstts  —  (Jarihuginlenses  primJlus: 
^^m    Ci  secreto»  suos  legalos  —  ad  AJexandruni  maiimum 


^^T  (I)  (Wntt  diplomai.  Sariio,  Disi.  I,  |i.  51.  Il  fìi§cicoIo  del  Cod 
UfL  is  cai  ^  contenato  il  bruno  ciiato  lu  [jubblicalo  non  ilopo  il 
tKifi:  h  pcrfsiMtia  I  di  Arborei  tu  \enduu  al  Hariini  né  Luglio 
1847.  ?-  ■»rtìBl.  .Vanir  [Wi/.  't  Ari,.  Uluslrale  n>!.  I,  p.  2.  Ca- 
nfori  IXl!> 


—  iyv  — 

Sui  Sopheii  iam  misissent  —  Olbìae  ci  O^Uis  proiutiM,  ] 


De  sua  gloria  graltilantes  —  el  petenies  gratiam: 
Ci  ex  dictis  documentìs  —  novts  coQsUt  certiu& 

Che  se  [loi  il  lettore  avesse  vaghezza  di  s^re  il 
risultato  (li  questa  legazione,  la  i]uale  del  resto,  secoodo 
il  mìo  debole  parere,  uon  può  altrimeoti  ammetter»  die 
come  un  semplice  omaggio  al  grande  conqoislatore,  em 
qualche  accenno  nel  Cod.  cart.  IV  p.  263  : 

■  Agrilla,  ohi  !  citate  superba  prò  amicitia  beDevolen- 
tii)  et  grafia  de  Alexandre.  » 

Che  diremo  poi  della  fondazione  dì  Cagliari? 

In  una  inscrizione  (sincera  o  falsa,  importa  poco  per 
ora)  Cagliari  è  delta  <  cìvìtas  Jnlae  ».  Alcuni  scrittori 
antichi  ne  attribuivano  invece  a'  Cartaginesi  la  fondazione. 

Il  Manno  poi  scrìveva  (Ebid.  p.  40):  •  Cagliari  dK 
a'  Cartaginesi  deve  se  non  il  primo  suo  innalzamento,  li 
sua  ampliazione  almeno  etc.  «  K  aggiungeva  in  noO: 
■  ("ili  scrittori  rhe  ne  atlribuiscono  la  fondazione  a' Car- 
taginesi sono  Claudiano  (1)  e  i^usania.  Un  mezzo  solo  si 
ha  por  conciliare  le  diverse  sentenze,  e  questo  è  stato  di 
me  segnilo  rapportando  a'  tempi  cartaginesi  V  ampIiaikM 
almeno  n  la  ripopniazione  della  capitale  della  Sarde([na  •■ 

Anclie  Dclctone  la  pensava  cosi; 


—  £«  — 
\f^.  I.  K  igsiDD^'erò  aiKon  qaaldie  Mire  carri^ionlHui 
fra  U  nrV:  t  la  f-oeu. 

?>i  tratta  >ìì  OD  t^iii(>i4  eretto  ab  awliqmo  Ha^  i» 
luii  a  <^A  Sordtr  poàre  b  cai  nninapDe  en  scolpiU 
tiiir  aneli»  ilvl  p»lre  di  Gialelo.  come  Tedemmo  A 
•rf-pra. 

Manno.  -Sf-  d.  s.  voi.  I  p.  i8  —  <  Nuoro  e 
iiia?sii'>r<-  i-omprDvamentn  delta  religiosa  memoria  degfi 
i-^il^tiì  [>ri  Sapii'i  >ì  è  pure  il  tempio  erettogli  Delta  coiti 
■Mridrrntaltr  della  .Sardei^Tia  >. 

Tola,  C  Z>.  j^.  p.  il  nota  (  —  ■  Il  ^o  predm 
•|i:l  tempio  L>  doli'  altare  eretto  a  Sardo  padre  dagli  s- 
li<:l)ì.s.simi  aiutatori  delia  Sanlegoa  non  è  stato  InUaiii 
•l>.-ti.-nnitiato  con  certezza.  Tolomeo  nel  testo  della  sn 
iimfirata  lo  colloca  tra  i>sea  e  Napoli:  ma  nella  Tarob 
r:r)rtisFHi[idente  lo  nota  pili  verso  il  sud  dell'  isola  in  quel 
ra/w  II  promontorio  che  oggi  appellarsi  della  Frasca  ». 

Le  «Mrte  ili  Arborea  dovevano  toglier  via  ogni  dnb- 
tiio.  —  (Jclelone  apostrofa,  al  solito.  SarAn  padre,  e  itr 
l'uiinatu  lircveraoDte  le  Imprese  principali,  v'  incastra  con 
maestria  la  menzione  del  tempio: 


7:t-7; 


—  2!t7  — 
molto  acume  critico  quando,  alle  afTeitiiose  aposfi^u  per 
gli  anticlii  immigratori  nella  isola  non  ne  aggiunse  una 
per  quell'eroe  che  <  il  primo  insegnò  a" Sardi  le  regole 
ddl" agricoltura  e  il  governo  delle  pecchie  e  l'arte  di 
coagotare  il  latte  >.  Eppure  se  vi  Tu  tradizione  difTusa 
nella  antichità  intorno  alla  Sardegna,  la  Tu  <piesta  della 
tenuta  tli  Arìsteo  nell'  isola  I  L' autore  del  libro  <  De 
mirahilitius  > ,  Diodoro  Siculo,  Pausania ,  Solino,  Silio 
9IÌCU  cuiifermano  ad  una  voce  quasta  famosa  colonia 
Mia:  Virgilio  stesso  {Georg.  IV.  317  segg.),  tanto 
liliare  al  cronista  Antonio  di  Tharros  (sec.  Vni-IX), 
l  dimenticò  neppur  lui  i  naggi  e  le  invenzioni  agricole 
LArisleo.  Ebbene,  né  nel  ritmo  né  in  altri  manoscritti 
§ArtKM"éa  rici)rre.  che  io  rammenti,  menzione  del  celei)re 
Kore. 

Questi  antichi  cronisti  sardi  i::he  pur  conobbero  gli 
llltori  greci  e  latini  che  si  occuparono  della  Sarrie- 
I  (l),  nel  resto  li  hanno  Stì|juili.  ma  rispetto  ad  Aristeo, 


ti  n  HutiBi  Slesso  lo  smmeue  «  la  spieRS  a  rgjesln  modn 
■  Non  i  crrilibile  clic  ad  un'isola  come  la  Sardegna,  Inniii  pron- 
I  Homi,  e  per  lami  secoli  doiiiiuaia  e  cursa  daftumanì,  non 
>  le  opere  di  que'  grandi  tenitori,  e  soTraluUo  del  sommo 
,  e  non  oe  lucessero  tesoro  «luegll  eleUi  ingegni  che,  come 
I  presMU,  Don  saranno  allora  a  lei  mancati.  Non  ò  credibile  pnre  die 
Unnat  lITiUo  all'isoU  xiano  state  le  scrìuurc  de'dolli  oltremarini  che 
H  parìarano,  (n  i  quali  è  Tausania,  citato  dallMeyer  >.  Giudizii  np- 
^•di  eie.  p.  IT. 

Del  resto  si  cfr.  i  segg.  brani: 

Funai*,  Of  rrb.  Phnr.  \  (cit.  dal  Tola,  C.  D.  S.  p.  H  nota  3): 

I  Tbespien<es  (cioè  i  seguaeì  di  Jolao  in  generale),  Olliiam  condi- 

:   pri*atini   fero  Athenienses  tioryllen;   vel  senato  aliciiins   de 

I  tribubos  nonine.  vel  quod  nniis  ile   thim   dnctoribix    llorvltu!! 

I.  f*rl   tv,  p.  SBS: 


—  Ì08  — 
personaggio  il  cui  nome  rivela  un  mito,  :!J  acoorseeo  bene 
t-li'ei  non  poteva  entrare  nel  dominio  della  severa  storii. 
E  siccome  la  critica  vera  è  scopre  la  stessa,  il  Manno  bi 
seguito  in  ciò  senza  saperlo  questi  antichi  dotti,  retando 
nel  numero  delle  Tavole  mitologiche  la  venuta  di  Ahsleo. 

<  Bello  ravvicinamento  *  (esclamerebbe  forse  il  bnon 
Martini)  Ira  il  Manno  del  sec.  XIX  e  i  croDisti  sardi  oie- 
dievali  ! 

Le  stesse  buone  ragioni  di  critica  storica  ebbero  a 
convincere  gli  autori  di  diversi  mss.  arboreesi  che  quella 
de'Fenicii  fosse  la  prima  colonia  d' immigrazioDe  in  Sar- 
degna: non  ha  forse  avuto  la  stessa  opinione  il  Manno, 
lienchè  timidamente  egli  l'abbia  espressa  (l.  e  p.  5)? 
Ma  d'^ora  innanzi  non  più  esiteranno  a  professarla  aper- 
tamente gli  storici  sanli,  perchè  re  n'  è  testimoDianie 
quante  se  ne  vuole. 

Ritmo,  V.  32:   •  Vos  primum  o  Phoenices  qoi 

invenistis  insulam  >. 

Pergam.  IV.  p.  IW:  •  ...  illos  navigalores  FeniMS 
qui  primi  in  Sardiniam  appulerunl  >. 

Cod.  e.  Vi.  p.  357  :  *  Fenikos  k\  ante  omoes  benirunt 
in  ipsa  insula  ». 

Ma  e'  è  di  più  :  il  .Manno  accenna  specialmente  agli 
«  arditi  navigatori  di  Sidone  e  dì  Tiro  che  primi  peri- 
gliaronsi  negli  sconosciuti  mari  dell'Occidente  >; 


Iteri  li  ricordano  essi  stessi. 
In  ferità  non  A  mollo  agevole  il  discutere  con  loro: 
dice  —  questi  antichi  sanìto  troppo  —  gridano  ana- 
a' superbi  che  non  vogliono  intendere  come  i  nostri 

potessero  in  certe  cose  saperne  più  di  noi:  se  si 
—  sanno  poco  —  non  si  fa  molto  attendere  la  ri- 
I  die  è  rollia  pretendere  di  più  da  genie  che  visse 
Dpi  poco  propizìi  agli  sludii.  Ma  essi,  che  pure  hanno 
e  studiale  le  nuove  carte  sarde,  come  hanno  mai 
»  non  accorgersi  che  Deletone,  Anlonio  di  Tharros, 
io  di  Lacon  e  trilli  gli  altri,  spesso  sanno  quel  che 
lovrebboro  sapere,  e  ignorano  invece  tpiel  che  non 
bhero  ignorare? 

tb  mieee  di  Termarci  a  considerazioni  generali .  sarà 
o  «ndare  innanzi  ancora  per  qualche  poco,  facendo 
sali  con  gh  storici  sardi  anteriori  alla  scoperta  delle 

Onesto  è  forse  il  \ero  modo  di  conoscere  la  genesi 
Kiri  manoscritti. 

0  Tola  (C.  D.  S.  p.  47)  volle  provare  che  prima 
venata  della  colonia  greca  di  Jolao  la  Sardegna  era 
liUta  da  Etruschi.  In  falli  Slrabone  ha:  «  Fertur  enim 

1  eo  addaxisse  quosdam  filiorum  llercuiis;  et  Inter 
ros,  qni  eram  Elrusci .  eins  insulae  cullores  habilas- 
■DKPAiL  «lanrfiila  iMtnfnniM  iwl  nitmriT 


Gaiide  quoque  o  JoIìh* 


Liieras  alquc  scienlius  —  conflmiasU  firmilus. 
Omnes  artes  iam  florcntes  —  a  Tyrrenis  habiUì:. 
Sive  potiiLs  Cliananaeis  —  qiios  Etruscos  dicimus. 

Non  si  maravigli  poi  il  lettore  se  mentre  da  Slnbone 
son  detti  barbari  gli  Btrusclii ,  Deletone  ce  li  presbiti  come 
cultori  di  scienze,  lettere  ed  arti:  prima  di  tutto,  mno 
abitatori  della  Sardegna  e  però  dovevano  essere  fior  di 
civiltà;  oltracciò  gli  Etruschi  sono  troppo  noti  per  esser 
tutt'  altro  che  barbari.  E  il  Tola  stesso,  soltanto  poche  pa- 
gine innanzi  (op.  cit.  p.  37),  aveva  fatto  meniione  del- 
l'antica  civiltà  etnisca.  Se  poi  il  Mazzocchi  e  il  MalTei  (f) 
avessero  avuto  la  fortuna  di  vivere  a' giorni  nostri,  quale 
non  sarebbe  stato  il  loro  giubilo  nel  veder  confennata  noi 
delle    loro   predilette   opinioni,   gli   Etruschi    Cananei?! 

C'era  Trasdotti  quistione  sulla  parola  mastntca,  se 
cioè  corrispondesse  al  vocabolo  sardo  moderno  bestepedA 
(abito  di  pelle)  ovvero  al  colleiin  (cuojetto):  si  comprende 


(i)  V.  Kioftli,  L'Italia  av.  il  dom.  dr'Biimani,  toI.  I,  p.  »!  (To- 


—  :tiii  — 

Ma  questo  Apollo  Sardo  (come  in  sedilo  lo  dùvu 
(iiorgiu  di  Lacon)  m«ilava  d'esser  meglio  cooosdato,  ed 
il  Cod.  cai-t.  IV,  p.  260-1  ce  ne  darà  qualche  cenno  bio- 
grafico. 

■  Et  fìdam   Nora  (1)   haìt  homines  doctos.....  ipso 


(I)  Cal|!o  l'occuione  Jal  nome  della  cilla  di  Nora  per  bnnirnì 
II»  [to'  sii'  cosi  iJcUi  Nurhagi  che  tianno  daio  Unto  da  Tare  agli  anidili. 
Iti  ijiiesia  quisiioih-  k  cane  di  Arlwréa  mpprexentano  una  parte  un  pò 
ilivena  djlla  solita.  —  È  nolo  the  in  Sarde;;(i3  rsistono  migliiia  di  A'ar- 
big*  e.  che  opinioni  dìsparatissime  Turoiio  emesse  sulla  loro  orìgine  ed 
uso.  Molli  li  crederono  nntichi  sepolcri,  e  il  Hanno  in  ispecie  li  repgtb 
Kiinhft  di  amiche  r^iiniglie  aristocratiche  a'ieinpi  della  tìu  nomade  e 
pastorale.  Altri  vollero  vedervi  torri  dì  dih-sa  o  di  sanali.  Altri  fiaal- 
iiicnte  li  crederono  costniiìoni  Tenicie  destinate  al  cuIki  del  fuoco  o  degli 
»>iri.  (Ampie  notizie  troverà  il  lettore  ricll' opera  dì  A.  Della  Harmora, 
Vni/age  n  Sardaignr,  llùmi-  panie,  p.  36-159  —  Turin  ISiO)  —  RL 
cliiamerò  l' attenzione  del  lettore  sopra  i  seguenti  brani  de' dotti  dw  si 
sono  occupati  della  quistìone.  —  •  ...Inclinai  alla  seulenia  die  i  non- 
chi  fossero  cdiQciì  religiosi;  che  la  religione  (oss^  quella  ebe  Tu  agli  no. 
mìni  più  aniicbi  verso  il  sole  e  eli  astri  etc.  ■  (Am^u  lil.  dal  L» 
Humorftf  op.  cit,  p.  Ufi)  —  (Se  oon  alle  colonie,  alla  naTÌgiiioae 

almeno  ^enidir sono  dovuti i  nnrajihes  >.  (Kabbo  op.  tit.  p.  8). 

—  •  Fino  a  quando  tniffliorì  argomenti  non  discopransi,  ogni  ragieM 
persuade  che  rìfi^iìr  si  debba  l' edilìcxtione  de'Noraghes  a  pii  aulkii 
popolatori  della  Sardegna  ».  (Id.  III.  p.  9). 

I  compilatori  delle  c:irte  arhoresì  non  hanno  osato  darci  udì  soln- 
e  delioitiva  ed  ussoluia  di  una  quìstione  tanto  difficile  a  KÌ(q;liei 


—  3(14  — 
ipsa  rorda  —  ki  furit  binkitu  prò  Artide  io  ipsu  lempas 
de  Tiberiu  —  ki  donetsitsi  ipsa  morte  de  propria  noBii 
prò  ki  ipsu  serba  non  desitli.  Et  hat  demooMrata  ipsa 
Traude  de  ipsos  scriptores  Romanos  prò  ki  tacereot  ipsas 
glorias  de  ipsos  Sardos  prò  lande  ipsoram  comodo  est  in 
ipsas  suas  satiras.  Et  multu  scripsit  contra  ipsa  Cicerone 
de  lingua  acuta  el  falsa  cuDtra  ipsu  et  ipsos  Sardos  >. 

A  questo  brano,  cbe  sarebbe  della  fine  del  sec.  Vili 
0  della  prima  metà  del  IX ,  un  dotto  annotatore  quattro- 
centista aggiunge,  che  GiM'gio  di  Lacon  e  Antonio  vescovo 
ploacense  citavano  alcuni  versi  dì  Tigellio,  ma  cbe  io 
diversi  arcliivii  o'  era  molte  altre  poesie  dello  slesso  poeta, 
le  (]uali  un  Giovanni  Amoroso  di  Sassari  avrebbe  comin- 
ciato a  redigere,  se  non  ne  Tosse  stato  distolto  dalla  guem 
cbe  ebbe  a  sostenere  contro  Niccolò  Dona.  In  seguito  non 
se  ne  occupò  più  nessuno,  per  causa  de'  caratteri  che  cre- 
devansi  turcbi  e  diffìcili  a  leggersi.  Dicesi  però  (è  sempre 
il  nostro  bravo  commentatore  che  parla)  che  prima  del- 
l'Amoroso un'altro  le  avesse  raccolte,  ma  fìnora  qod- 
sf  opera  è  ignota  «  propter  heredum  avaritìam  vel  igno- 
rantiam  ». 

Suppongo  die  il  lettore  si  diverta  quanto  me  con 
queste  storielle,  e  però,  senza  chiedere  altrimeute  scusa, 
pa-iiso  al   Codice  gameriano  (Append.  p.  54-39)  donde 


raiTÒ  an  siioto,  il  più  breve  che  io  possa,  della  vitJt 
Ti^eilin. 
Tigeltio  nato  schiavo  In  Nora,  per  h  sua  belle^tza  e 
l'indegno  oticnne  dal  padi'one  Ennogene  II  permesso 
I  studiar  lettere  sotto  II  sardo  Coriace  di  Bìore.  che  a)- 
t  insegava  in  Itoma.  Avuta  in  seguito  la  libertà  per 
tamento  di  Ermogene .  tornò  in  Sardegna  insieme  colla 
I  famìglia  {!  c^llo  zio  Famea.  Datosi  tolalmonte  allo  stii- 
,  in  breve  acquistò  fama  di  poeta  celebre,  di  cantore 
1  sonatore  di  tetracordo  (1).  La  sua  fama  crebbe  tanto 
s  un  Etrusco  Cloantas .  cantore  e  poeta  aiiclie  Ini ,  andò 
"ipjtosla  in  Sardegna  a  sfidare  Tigellio,  ma  non  polendo 
rc-ilsivre  alla  commozione  prodottagb  da' dolci  suoni  del 
lelracordo  del  sardo  cantore  —  «  tu  me  —  inquit  —  vi- 
risli  ipiin  ilerum  l'mserpinam  vicisses,  imo  vei-o  ipsnni 
Orpheiim  ». 

Tigelliii  per  doni  e  legati  divenne  ricchissimo,  e  spese 
mollo  bene  le  sue  ricchezze .  perchè  tra  le  altre  cose  ferii 
edificare  un  Teatro  (2)  nella  sua  città  natale.  Avido  di 
sdenia  se  oc  andò  poi  a  Cagliari  dove  in  maggior  numero 
am/lHebant  gli  eruditi ,  e  anche  in  Cagliari  ammassò  im- 
mense ricchezze  e  le  spese  in  opere  di  arte.  I'.  es.  com- 
pKi  delle  terre  in  vicinanza  dell'antiteatro  dì  Cagliari,  evi 
Jece  editicare  case  ornale  di  marmi  indigeni,  con  mosaici 
rappresentanti  Ercole  che  ammazza  il  Icone,  Orfeo  che 
doma  le  fiere  col  suono  della  lira  etc.  (:)). 


(I)  Cf.  lloniL  Serm.  I.  3.  6-8:  -  ....sì  collìbuissut  [Tigclliusj,  uli 
n*o  Ihifiìr  ìA  mala  cium  •  Io  Dacché!  >>  ntado  siiminn  Vocr.  mmlo 
toc,  reunui  liane  chonlis  qnatuor  ima  i>. 

nt  Qnl  t>iMCaiin  appellarsela  cliinra  t  lonria  la  parola  Theairum 
ptnl'è  gii  A- Della  ttarmon/liin.  etc.I,p.23S;  V'o^n^c  eie.  Il  p.  531) 
«Hk  ravine  dì  Kom  tÌiIe  an  Tfatro  e  non  un  AnfUeatro  comi!  aveva 
•ofaA»  il  Valeri.  • 

(3)  ?4r|  1707  in  un  campo  vicino  alla  diìesu  ili  S.  Ucruanlo,  dm.' 
»  ntnpeciu  all'amico   unltlcalro  cagliarìlano,  »i  ^opri  an  i>avi- 


3 


Quindi  la  osa  di  lui  divenne  convegno  di  lettemi, 
lioeti,  musici  e  specialmente  era  frequentala  da  Fartdio, 
Piatelo  0  PUUù  (1)  e  PHoceno.  Intanto  Tigellio  s' iDDamorì) 
di  Inorta,  una  poetessa  dì  Cagliari,  eroina  che  eoo  la  m 
eloquenza  era  riescila  a  pacificare  i  popoli  iliesi  co^  Roman 
durante  la  pretura  di  Azio  Balbo.  Però  il  padre  di  lei,  u 
SÌimjo(2),  non  volle  dargliela  sposa,  e  quindi  ire  era- 
dette  da  iunlte  le  parti.  Tra  le  altre  cose,  Tigellio  per 
impedire  che  Inoria  fosse  costretta  a  sposare  un  certo  Ho- 
togene  —  •  elegans  fervidumque  poema  scripsit,  qoo 
juvenihus  suadcbat  ut  celibatum  matrimonio  anteferroit, 
i>I>  illius  maxima  cmolumenta,  Imjus  gravissima  incomoda. 
Cumquo  illud  per  lotam  civìtatem,  magna  sociatus  jdk- 
num  turba .  cecinìsset ,  adeo  eonim  animos  movìt ,  omoes 
vitam  celitiem ,  posilo  cujuscumque  pene  vel  infamie  timo- 
re, ducere  dcc^missent,  nec  ipso  excepto  Protogene  quen 
c\  eo  die  ad  intimam  amicitiam  Tigellìus  adjnnxit  (3)  >. 
1  commenti  al  IcttoiT. 

Dopo  ciò  Tigellio  eblw.  occasiono  di  prender  parte 


Jillro  mosaico  ra|iprcacnlan[e  Orfi'o  con  la  li 
viirJi  aiiimiiii  cil  allieri.  —  Rcio  come  si  indi 
Arìioréa;  eppure  il  Bandi  scrìvevi 


i  ITU  liguralo  Eruolit.  coperto  da  uoi  pelb  é 
n  mano.  Nel  1762  nello  stesso  posto  si  ironu 


in  mano,  utrconJiUi  b 
isconn  d.i  per  tè  le  cintdi 
ilo  di  questi  mosaici  :i 


—  ;io7  — 

»uiie  politiclio  (idi" isola,  mentre  sene"! 

rsoo  il  possesso  Cesare  e  Pompeo.  Entrato  in  grazia  ili 

sare,  questi  lo  menò  seco  a  Roma,  dove  il  nostro  lan- 

Ltore  fece  tutte  quelle  cose  che  si  sanno  dalle  lettere  dì 

Kpirerone  e  dal  brano  del  Ce.  IV  già  riportato,  ma  che 

Enel  codice  gameriano  sono ,  secondo  il  solito ,  narrate  più 

HTusamente  e  wn  nuovi  partimlari.  P.  es.  da  questo  nv 

!  sappiamo  come  Tigellio  potè  vincere  Orazio  in  quella 

I  dispala  salla  naliu-a  degli  dei:   Tigellio  aveva  avuto 

palcbc  relazione  con  gli  Israeliti  e  da .  essi  aveva   jnipa- 

Uo  3  pensare  rettamente  su  tal  soggetto! 

E  qui  potrei  continuare  questo  sunto  della  vita  del 
)  cantore,  ma  per  amore  di  brevità  me  ne  astengo: 
mio  più  che  non  troveremmo  altro  die  particolari  più 
Dipi  di  quelle  stesse  cose  le  quali  sappiamo  da  Cicerone, 
che,  ointinuando.  avremmo  molte  occasioni 
i  br  confronti  con  quel  che  di  Tigellio  disse  il  Manno 
^la  sua  storia:  ma  di  ciò  bastami  per  ora  la  lestimo- 
I  (di  certo  non  sospetta)  del  Martini,  die  ebbe  a 
>  Come  un  rommenlo  direi  quasi  alle  stesse  pagine 
I  Mauio)  mi  è  dato  produrre  quanto  disse  di  quella 
(Ira   Tigellio  e  Cicerone)  il  biot^i-afo  di  Tigel- 

>  («>  '. 

A<I  ogni  modo,  io  spei-o  cbe  il  lettore  sia  convinto  clic 

l'DOslro  bic^afo  ùi  persona  molto  Itene  informata  de' fatti 

1  Tigellio:  la  precisione,  1'  esattezza,  la  diffusione  ne'par- 

ui  sono  tante  prove  della  sua  veracità. 

OÒ  posto,  si  può   creder  mai  che,  in  una   biograTia 

1  resto  tanto  esalta  si  cominci  dal  confondere  il  Tigellio 

Pilo  con  un  altro  cantore  dello  stesso  nome? 

(>razio,  comò  è  noto,  rammenta  due  volle  il  nostro 


(t)  M&rtini,  A/'t'rt 


mi 


iillii  Storiu  -lol  M^iii) 


—  ;w8  — 
Tìgellio  sardo  (1)  e  parecchie  altre  volte  un  Tigellio  Er- 
mogeoe  senz'altro  (i).  Glie  questi  due  Tigellii  sieno  di- 
versi r  uno  dall'  altro  è  evidentissimo,  perchè  in  una  slesa 
satira  ne'  primi  versi  parlasi  di  Tigellio  sardo  come  di  p 
morto,  e  negli  ultimi  è  rammentato  Ermogoie  cometilF' 
lora  vivo  (3;. 

Ad  onta  dì  ciò,  molli  de'  vecchi  commentatori  di  On- 
/io  e  il  Forcellini  stesso  (ad.  v.  *  Tigetlios  *)  hanno  id» 
tificato  questi  due  Tigelli,  e  co^  ne  venne  fuori  nn  sardo 
Tigellio  Ermogene,  cioè  un  Tigellio  liberto  di  Ennogcoe. 
Ma  un  (ale  orrore,  per  quanto  si  voglia  grave,  è  spiip- 
hilc  0  almeno  conceiùbìle,  trattando^  di  commentatori  Àe 
conoscevano  Tigellio  sai-do  solo  per  quello  che  ne  di&n 
Orazio  e  Cicerone.  Si  può  già  supporre  die  T  essere  tato 
raro  <|uesto  nome  <  Tigellio  »  sia  slata  pe'  conimenUloiì 
una  causa  di  identificare  due  persone  distinte. 

Di  pili  in  Orazio  trovavano  essi  chiamato  ^nalmeoto 
cttnlore  l'uno  e  l'altro  de' due  Tigellii,  ambedue  li  vedermo 
disprezzati  dal  Venosino:  che  piìi  per  identificarli 'f  (i) 

Ed  aticlie  nelle  carte  di  Arborea  sarebbe  sino  ad  tu 
certo  punto  concepibile  un  tale  errore,  se  si  trattasse  di 
nn  semplice  accenno  a  questo  Tigellio  litet-to  di  En» 
ijene:si  potrebbe  ciò  considerare  come  errore  prodotto  di 
poco  attenta  lettura  di  Orazio!  Vero  è  che  tale  errore  do- 
trebbo  far  meraviglia  in  questi  .inliclii  scrittori  sardì. eofl 


—  309  — 

profoodi  ooDosdtorì  della  loro  storia  letteraria;  ma  con 
UD  poco  di  buona  volontà^  tirerebbe  di  lungo. 

Invece  V  autore  della  biografia  era  ben  certo  che  Ti- 
geliio  fosse  liberto  di  Ermogene,  giacché  ne  racconta  che 
Tigelliò  nacque  in  Nora,  perchè  colà  erano  stati  mandati 
i  suoi  genitori  dal  loro  padrone  Ermogene ,  che  Ermogene 
richiamò  poscia  a  Roma  la  famiglia  di  Tigellio,  che  Er- 
mogene preso  dalla  bellezza  (1)  e  dalP  ingegno  del  gio- 
Tanetto  lo  mandò  a  ^  scuòla  da  Goriace  dì  Biore,  e  che  alla 
fine  per  testamento  gli  donò  la  libertà. 

Questa  è  tutta  una  leggenda  formata  su  quel  dato 
fiilso  :  «  Tìgellio  liberto  di  Ermogene.  »  Supporremo  forse 
che  abbia  accolta  o  formata  utia  tale  leggenda  quel  Ser- 
tobie  del  IV  secolo,  dottissimo  e  diligentissimo  (2),  il 
quale  raccolse  i  materiali  per  la  vita  di  Tigellio?  0 
sapporremo  che  P  abbiano  interpolata  Narciso  e  Dele- 
tone  ,  che  pure  avevano  a  disposizione  loro  tutto  quel 
tesoro  d'inscrìziom  di  cui  ci  parla  il  Ritmo,  e  che  sugli 
appunti  di  Sertonio  compilarono  la  preziosa  biografia? 
Supporremo  che  tra  i  Sardi ,  i  quali  anche  dopo  tanti  se- 
coli portavano  l'immagine  dì  Sardo  padre  sngli  anelli,  e 
che  sapevano  a  mente  vita ,  morte  e  miracoli  di  ogni  per- 
sonaggio sardo  di  qualche  importanza,  s'ignorasse  poi  la 
vera  condizione  del  loro  maggior  poeta  e  uomo  politico, 
e  la  si  andasse  a  cercare  nelle  satire  di  un  suo  acerrimo 
nemico?  0  non  sarà  più  probabile  che  qualcuno  del  seco- 
lo XJX  abbia  fatta  la  vita  di  Tigellio  su  dati  falsi  conte- 
nuti nella  Storia  del  Manno  (voi.  1"  p.  129-Ì28)  e  nella 
Biùgrapa  Sarda  del  Martini  (t.  3.'  Cagliari  1838)? 


(1)  Orazio  (Seno.  I,  X,  17-18)  dà  del  e  pulcher  t  a  Ermogene, 
■OB  a  Tigellio  Sardo. 

(Ti  V.  Martini ,  Appendice  p.  i. 

20 


—  aio- 
li Martini  e  il  Maano  ci  danno  llgeUìo  come  (Kìrni 

schiavo  e  poi  liberto  di  od  Ennogene  (1),  e  tale  ce  b 
danno  anche  le  carte  d'Arborea.  Il  Martini  (op.  ài)  os- 
servava che  —  «la  menzione  (in  Orazio)  de'  dogento  soni 
che  talvolta  facevano  codazzo  al  sardo  cantore,  di  nu 
prova  delle  sue  grandi  ricchezze  ■  —  e  le  carte  di  Arborei 
ci  hanno  Tatto  anche  sapere  io  che  cosa  ^Modeva  que- 
ste immense  ricchezze Ma  a  che  mi  dilungo  sa  no- 

velline  che  non  si  darebbero  a  intendere  a'  pntii  ? 

Ma  donde  è  mai  sbacato  TigeUio  poeta  ? 

Cantorem  lo  dice  Orazio  ;  betlum  tibicinen ,  $at  bo- 
num  cantorem  lo  dice  Cicerone  :  mai  poeta,  mai  mi  u- 
cenno  a  poesie  dì  TigeUio  (2)  I 

Il  Manno  (Dio  glie!  perdoni!)  volle  dire  che  Tigellio 
ebbe  —  «  feconda  vena  di  poetico  ingegno  »  —  ed  ecoo 
nelle  carte  di  Arborea  tutta  ana  vita  d' nomo  rì&tta  n 
questo  dato. 

Il  Hanno  (Dio  gli  perdoni  anche  qnestal)  volle  dire 


(1)  MuBO  :  —  1  Era  questo  Tigellio  un  liberto  d'Eraiogene....  e 
pprciA  ne  rilnncva  il  nome,  t  —  KEitiMl  :  —  ■  Tigellio  e  Famea  tbroH 
nel  novero  degli  schiavi  di  un  Ennogene:  ed  indi  de' di  lui  liberti,  A 
ooiutgucn^a  della  fattane  manumùiione.  i 

(ì)  Ci  Torrcbbc  molta  buona  toIodIì  per  credere  accenno  a  piw 
Ti^rlliii  il   -,i';;iii'iiif   pa.'so  ili  Orazio:  ~   ■   modo  re;» 


—  311  — 
!  Ttgellio  —  *>  fu  nella  casa  di  Cesare  e  nella  corte  di 
fosto  dò  che  ne'  tempi  di  mezzo  furono  i  trovatori»  — 
BlOd  ecco  Del  Foglio  cartac.   Il,  p.   i52  —    f  el  trobador 
peli!  >  —  Dopo  ciò  legga  pure,  chi  ne  abbia  voglia, 
i  farà  di  Tigeliio  nel  Foglio  cartaceo  I,  p.  430:  io  non 
|innoier(%  il  lettore  col  rìporlarlt  (1). 

Ha  [lerchè  la  leggenda  di  Tigeliio  non  resti  un  fatto 
tsnico  nel  suo  genere  a  provare  che  le  carte  di  Arborea 
I  sien»  bhilìcaziooe  moderna ,  vo'  rammentare  un  altro  fatln 
fcorìosissimo. 

Nel  cod.  cart.  XIII  (p.  426-7 }  si  rareonla  di  un  certo 
I  Arrio  [ì)  sardo,  nemico  a'  Romani,  il  quale  unitosi  a  quel 
1  Corelio.  che  noi  già  conosciamo  (v.  sopra  a  p.  303), — 
•  cum  omnibus  Corsis  et  Balaris  et  aliis    populis    con- 
Irt  Romanos  et  civitales  et  loca  illis  amicas   ìnsurrexit 
—  cum  ipsis  priora  dapna  et  peiora  ferendo  ejusdem  L 
Mummii  Praeloris  personam  insutlando.  »  —  In  qncslo 
|i}oogrt  si  allude  alla  sommossa  de'  Balari  ed  Iliesi  comin- 
rcàata  sotto  la  pretnra  di  T.  Ebuzio  Caro  nel  574  di  no- 
na (Liv.  XLI.  6),  e  il  Manno,  dopo  aver  fatto  cenno  di 
questa  sedizione  aggiungeva  : 

•  Pretore  allora  (575)  traevasi  per  la  Sardegna  L. 
Mummìo  :  ma  troppo  importante  era  la  fazione  e  troppo 
ingrossava  nell'isola  la  sedizione,  perchè  di  tutto  il  maggiore 
apparato  nim  fosse  d'uopo  e  di  forza  e  di  autorità  per  com- 
primeria.  Provincia  consolare  dichiarata  fu  adunque  in  quei 

<■)  La  ilranft  contusione  de'  due  Tigcllji,  fu  priinamenur  tiot»la,  per 
i|ikI  cbt  »  so,  dal  DoTe  (f^  Sard.  ìm.  eie.  p.  32). 

{■£)  Anche  di  questo  Arno  si  narrano  amcnissimc  cose  nelle  cnrlc 
di  Srìtorra.  Lo  si  dice  p.  e.  inientore  delle  note  lachìgrafichi^ ,  le  <[ualj 
anrblirtii  pr«sn  il  oome  di  Ti'roniaru,  perchè  Arno  confi Jù  a  Tìronu 
h  MS  «coperta,  i:  ifuefìì  riesci  a  liarla  passar  per  sna.  Ce  da  giurai^ 
cbf  se  molli  iincora  continueranno  a  ritenere  sincere  le  carie  arboreesi,  ben 
fn*to  imi  pronin  in  asm  clie  Omero  era  greco  della  colonia  di  Jnlao  I 


—  312  — 

frangenti  la  Sardegna,  ed  al  consolo  Tiberio  Sempronio 
Gracco,  cui  la  sorte  ne  toccò,  il  negozio  fu  commesso  di 
debellare  i  sollevati.  »  —  Come  vedesi,  dal  Manno  non  sì 
rileva  se  L.  Mummio  andò  anche  lui  in  Sardegna  col  con- 
sole Tib.  Sempronio  Gracco,  oppure  restò  a  Roma;  ma 
invece  da  Livio  (XLI,  9)  si  rileva  chiarissimamente  che 
non  \1  andò  ,   perchè   altro  incarico  gli  venne  affidato. 

Ora  non  si  può  dire  che  Terrore  sia  dipeso  da  qualdie 
tradizione  popolare.  Come  volete  si  sia  formata  una  tradi- 
zione popolare  su  questo  pretore  L.  Mummio  che  non  andò 
in  Sardegna  ?  E  poi  una  tradizione  così  determinata  ?  — 
Eliminato  codesto ,  se  il  cronista  avesse  consultato  Livio  non 
avrebbe  potuto  commettere  Terrore  che  abbiamo  notato; 
e  invece  bene  ha  potuto  commetterlo  avendo  preso  a  guida 
il  Manno. 

Né  del  resto  può  mettersi  in  dubbio  che  questi  brayì 
cronisti  sardi  abbiano  avuto  presente  il  Manno,  poiché 
ne  copiano  persino  le  parole.  Eccone  un  esempio.  — 
Trattasi  della  spedizione  di  Agilulfo. 

Manno ,  St.  di  Sard.  v.  I ,  p.  326  : 

«  Era  preveduta  questa  incursione  in  Roma ,  non  nel- 
r isola  ;  tuttavia  fu  maggiore  in  Roma  che  nell'isola  lo  spa- 
vento, poiché  i  Sardi,  sebbene  malconci  pel  repentino  o^- 
salto ,  respinsero  dal  loro  lido  quegli  aggressori.  » 

Cod.  Cartac.  I ,  comm.  H ,  p.  229  : 

«  Set  Caralitani  —  ubi  ille  gentes  apulerunt  —  quamvis 
improviso  deprehmsi  post  magnam  guerram  ac  multa  dapna 
a  nobilissimo  ac  doctissimo  Isidoro  (1)  calaritano  duce  —  ac 
ejus  valorem  animique  vim  imitantes  —  cumque  adjutorio 
nonnullorum  vicinorum  populorum  —  a  litore  fortiter  re- 
pulerunt  multis  spoliis  ac  cimbis  armisque  ibi  relictis.  » 

(1)  È  V  cloquenlissinw  e  chiarissimo  delle  lettere  di  S.  Gregorio  : 
vedi  1,  1,  cpisl.  3i;  II,  epist.  36  (Mansi). 


—  313  — 

E  qual  differenza  troviamo  infatti  tra  i  due  brani? 
Questa ,  die  i  Sardi  son  diventati  Caralitani  (Cagliari  è  la 
città  predUetta  di  queste  carte),  e  inoltre  vi  è  un  po'  di 
panegirico  dei  Sardi  in  generale  e  in  particolare  di  Isi- 
doro. Eran  cose  che  potevamo  bene  aspettarcele  (1). 

E  giacché  siamo  a'  confronti  delle  carte  di  Arborea 
con  la  Storia  del  Manno,  accenniamone  ancora  qualche 
altro.  —  Il  Manno  discorrendo  T  origine  del  motto  no- 
tissimo «  Sardi  venales  >  accettò  P  opinione  del  Frein- 
sbemlo  (Suppl.  Liv.  X ,  3)  che  cioè  derivasse  questo  dalla 
gran  quantità  di  schiavi  tratti  a  Roma  dopo  le  vittorie  di 


(1)  Ecco  an  altro  perìodo  ingegnosamente  formato  sulla  bozza  del 
Manno.  TraUasi  di  ciò  che  avvenne  in  Sardegna  durante  le  feroci  gare 
di  Mario  e  SiDa. 

Mumo,  I.  e.  p.  108:  —  e  Pacata  tuttavia  ebbe  a  rìmancre  in 
Sardegna  fino  a  che,  nel  consolato  di  G.  Mano  il  flgliuolo,  soverchia- 
mente ligio  si  dichiarò  alla  parte  di  lui  Q.  Antonio ,  il  quale  pretore  era 
in  qod  tempo  dell*  isola.  Suscitata  con  ciò  a  maggiore  ardenza  la 
fazione  di  Siila,  proruppe  a  fare  oflìensìone  contro  al  pretore:  ed  as- 
sstita  da  Lucio  Filippo,  che  Siila  aveva  spedito  neir  isola  colla  qualità 
di  soo  legato,  in  breve  fugò  ed  uccise  Q.  Antonio,  dimostrandosi  in 
qoel  momento  la  più  potente,  come  poscia  fu  la  più  fortunata  delle 
dee  parti.  Ed  a  gran  bene  della  Sardegna  dovette  tornare  tal  fazione ,  che 
io  tal  modo  andò  immune  dalle  terribili  vcìidette  del  vincitore.  > 

Sapponiamo  soltanto  che  la  e  maggiore  ardenza  »  della  fazione  sillana 
sia  stata  opera  di  un  sagace  e  previdente  Sardo,  e  conosciamo  già  il  brano 
corrispondente  del  Cod.  carU  IV,  p.  261  : 

€  Eciam  furìt  de  akista  citale  (Nora)  ipsu  famosu  Timena  ki  prò 
ipsa  magna  Consilia  suu  salvarit  ipsa  patria  de  ipso  furore  de  Siila 
el  fecit  cognoscere  ad  ipsos  populos  ki  ipsa  fortuna  de  Siila  erat  ja  facla 
—  et  ki  ipsu  pretore  Quinta  Anthoniu  inimicu  de  Siila  debiat  perdere 
comodo  successa ,  secundu  ipsu  consiliu  suu.  > 

Trovammo  già  un  Corelio  per  la  guerra  contro  Sempronio  Gracco, 
Doo  avremmo  trovato  un  altro  eroe  per  questa  importante  dazione? 

Timeoa  poi,  secondo  le  carte,  rappresentò  più  o  meno  la  stessa 
pule  qoando  venne  H.  Emilio  Lepido  e  poscia  Perpenna  neir  isola. 


—  31*  — 

Gracco  (377),  schiavi  che  per  molli  gioroi  rimasero  sema 
compratori. 

Lo  storico  sardo  interpretò  io  modo  del  tatto  onore- 
vole per  gli  antichi  Sardi  il  motto  che  generalmente  si 
reputava  disonorevole  per  essi.  ■  Giovami  (egli  dice  1.  e. 
p.  01-2)  affrontare  apertamente  tutto  il  rigore  di  qoella 
proverbiate  ingiuria,  ed  accettarla  non  senza  gloria,  dicen- 
do :  poter  agli  schiavi  della  Sardegna  convenire  an  motto 
attribuito  ad  an  uomo  straordinario  delia  nostra  età  sogli 
schiavi  di  un'isola  alla  Sardegna  assai  vicina.  «  Non  lo 
>  niego,  egli  diceva,  giammai  i  Romani  comprarono  schìaii 
»  della  mia  patria;  essi  sapevano  che  avrebbero  tentato 

'  impossibil  cosa  nel  farli  piegare  alla  schiavitù  (1)  » . 

Si  dica  dunque  essere  pure  stati  gli  schiavi  sardi  merct- 
,  tanzia  di  mala  vendita  ;  ma  dicasi  del  pari  che  non  p«r 
altro  caddero  in  tal  discredito,  che  per  aver  sentito,! 
preferenza  di  tanti  altri  popoli  di  natura  più  tenera,  qoanto 
pugnassero  questi  due  vocaboli,  uomo  e  venale.  * 

Ora  il  Tota  (C.  D.  S.  Diss.  I ,  p.  54  noU  4)  ha  di- 
mostrato incontestabilmente  che  il  molto  rìferìvasi  invece 
agli  Etruschi,  e  che  soltanto  per  malignità  o  per  ercm 
v^ne  qualche  volta  riferito  a'  Sardi.  Nondimeno  ecco  coma 
ne  discorre  Giorgio  di  Lacon  nel  Cod.  e.  IX,  p.  331-2: 

*  Sed  multi  ahi  (Sardi)  in  quantitale  magna  Rranani 
trajccti  fiienint  in  captìvìtatem  in  magno  triumpho  - 


—  315  — 

Dopo  r taterprolazione  datane  dal  Manno,  i  Sardi 
debbono  essere  anche  troppo  contenti  del  motto  storif-o, 
e  però  Giorno  di  Lacon  lo  ha  anche  egli  riferito  a'  Sar- 
di.  e  lo  ba  dichiarato  (  mii-abile  accordo  I  )  allo  stesso 
iDodo  del  Manno. 

Che  se  una  così  bella  interpretazione  non  ne  avesse 
data  il  Manno ,  probabilmente  avremmo  vista  confermata 
l'altra  opinione  dd  Tola. 

Ha  talora  le  carte  di  Arborea  si  discostano  in  qualche 
cosa  dal  Manno  :  quando ,  cioè ,  trattasi  di  esaltare  il  valore 
0  la  forza  de''  Sardi. 

Scriveva  il  Manno  (I.  e,  p.  311):  —  »  Fra  le  ardite 
paprese  del  re  goto  (Totila)  si  annovera  da  Procopio  la 
ione  da  esso  ^tla  de'  maggiori  snoì  capitani  con  un 
laTÌgtio  onde  impadronirsi  delle  isole  di  Sardegna 
.  spedizione  che  riesci  a  prospero  fine ,  non 
wnlrato  gl'invasori,  come  lo  stesso  storico  af- 
"  resistenza  nessuna  nella  Corsieri  :  la  qual  cosa  fa 
prcsittnerc  che  pari  ragione  si  possa  rendere  della  facilità 
Bicontrata  nella  occupazione  della  Sardegna.  » 

Vi  ricordate  di  que'  compiti  di  storia  che  si  fanno  dai 
ngrunì  su''  dodici  anni  ?  —  Sia  il  tema  del  maeslro  — 
«  (Zadala  dell'  impero  romano.  •  Lo  scolaro  comincia  tosto 
dalla  c(«-niZ)one ,  licenza ,  disordini  di  ogni  genere ,  man- 
canza di  disciplina  militare  etc.  ;  poi  qualche  luogo  co- 
niiiie  die  avrà  allora  allora  riguardato  nel  libro  di  ret- 
torica,  e  finalmente  qualche  digressioncella  sul  valore  e 
solla  virtù  romana. 

Ebbene,  spesso  spesso  le  carte  di  Arborea  rispetto  al 
.Manno  mi  sembrano  una  cosa  stessa  col  compito  dello 
dolio  scolare  rispetto  al  tema  del  maestro.  Ecco  p.  e.  che 
preso  per  tema  il  brano  del  Manno  citato  di  sopra,  il 
commentitore  Severino  (Cod.  cari.  I,  comm.  K,  p.  232-3) 
I  dal  mostrare  che,  ne' diciassette  anni  che  corsero 


—  31fi  — 
dalla  espulsione  ile'  Vandali  alla  occapazione  de'  Goti ,  le 
cose  dj  Sai-degna  erano  andate  tanto  a  male  da  dod  potersi 
pretendere  una  ordinata  e  seria  resistenza  da'  Sardì  (!}; 
ma  questo  non  toglie,  checcbè  dica  il  MaoDO,  che  i  Sardi 
abbiano  potuto  fare  prodigìi  di  valore  (magna  certamina), 
e  che  Cagliari  (ecco  al  solito,  Cagliari)  avendo  avuto  agio 
dì  prepararsi  un  po'  dì  più  abbia  potato  resistere  glorio- 
samente ad  un  lungo  assedio ,  e  i  Cagliaritani  abbiano  po- 
tuto fare  delle  ardite  sortite  (2). 

Un  altro  fatto  ancora  ci  darà  occasione  ad  osserva- 
zioni dello  stesso  genere.  Vollero  alcuni  de'  vecchi  storici 
sardi  che  fossero  venuti  a  predicare  il  vangelo  in  Sard^oi 
gli  stessi  apostoli  Pietro,  Giacomo  e  Paolo. 

IL  Manno  opinò  (Ib.  p.  260-1)  che  l'asserzione  soltanto 
del  passaggio  di  S.  Paolo  in  Sardegna  aveva  carattere  dì 
verisimiglianza ,  giacdiè  se  il  desiderio  dell'apostolo  di  andare 
a  predicare  in  Ispagna  (ad  Rom.  W,  21-24)  ebbe  eBetto 
(come  alcuni  avvisano),  resta  probabile  che  siasi  f 
in  Sardegna  ;  4  loccbè  non  sarebbe  punto  diverso  dal  6 
che  egli  vi  predicò  la  divina  parola,  sapendo  ciascuDO  qua 
fervido  fosse  in  quel  santo  petto  lo  zelo  di  bandire  J 
genti  tutte  la  novella  fedu.  ■  Questo  (aggiungeva  il  Mann 
potreblK!  rendere  pienamente  credibile  il  ragguaglio  s 
batoc!  da  Teodoreto,  che  cioè  S.  Paolo  passò  in  1 


—  318  — 

Stifìlione  Tece  mettere  una  inscrìzioDe  (H.  A.  P.  F.  D. 
=  Die  apostolus  Paulus  fidem  dedit)  nel  loogo  della  su 
conversione,  inscrizione  che  venne  distratta  da' Saraceo, 
come  sappiamo  dalla  perg.  Il,  p.  117. 

Come  o|;nun  vede,  non  si  è  voluto  togliere  Tede  io- 
leramcnte  alla  tradizione  (cara  a' devoti  sardi)  del  pas- 
saggio in  Sardegna  de' tre  Apostoli:  ma  il  passalo  di  & 
Paolo,  che  più  verisimile  credè  il  Manno,  è  aactte  pia 
volte  e  con  maggiori  prove,  esso  solo,  aOermato  (1). 

Sicché  ben  può  essere  contento  il  Manno  de'saoi 
sUidii  storici  sulla  Sardegna:  egli  ha  visto  coofeimate  ixtìt 
sue  opinioni,  congetture  e  persino  parole,  ed  è  mwto 
con  la  dolce  illusione  che  fossero  sinceri  i  monumenti  d» 
tanto  esattamente  confortavano  le  sue  ricerche  nei  temjd 
pili  oscuri  della  storia  Sarda.  Fortunati  quanto  lui  damra 
non  saprei  citare  altri  storici!  Ben  mi  sovviene  che  m 
Simonides  (divenuto  poi  famoso  per  la  sua  stretta  pareo- 
tela  con  Annio  da  Viterbo)  trovò  non  so  dove  certe  arte 
in  cui  erano  confermate  a  capello  le  congetture  del  Lepós 
sulla  cronologìa  egizia.  Al  Manno  dunque  potrebbe  pn- 
gonarsi  il  Lepsiiis,  se  quest' ultimo  non  avesse  dovuto  ben 
presto  dar  ragione  alP  Humboldt,  che  mai  prestò  fede  atti 
preziosa  scoperta,  e  non  avesse  dovuto  bea  presto  correr 
dietro  a  Simonides  per  farlo  mettere  in  luogo  sicoro  dilU 
giustizia  (2). 


■pò  O  TOlOOU 

irde,  e  anfiouni  che  a  Boi  m  ■• 

ano  questi  manoMiini  qiaoiB  ala 

'     I  ddb  Sardegna  (t). 

I  col  femarnU  or  ipn  or  B, 
I  pef^amera  prìna,  i 
ì  forse  al 


l^oi  sappimo  che  i  rimo  è  awteapanHt  al  r 
i  la  copia  stan  dm  m  »t  ia  è  ti  t 
o:  ciò  posto,  dm  Kopo  lana  Éitwm  4e'i 


)  haec  lainen  ìalsr  pian  —  i 
)  tme»  et  [ 

1  Jugnin  toAtgisiis  —  ci  brw  hpcwi: 
)  Ssnlùiìam  Itbenttii  —  ab  iiiMii  danài», 
!  in  plaDciii  bbonbai  —  per  Metta  na^ntaa. 
ì  Marc«lltim  vexaUmni  -      ~ 
I  aminim  eìas  irapioia  — 
inxisUs  et  neeastii  —  saUento  popolo: 

0  pritmts  fedt  te  r^ern  —  loMut  Sardivàae 
tra  vero  hstinianmn  —  qm  kt^ui  erat  dominus. 


(1)  Lo  (V«*n  fi  {MHRbtie  dire  ifì  Kutini  e  iS  Alimi»  d 
lon,  ^  n|Hiiioni  dir'qiuli  hn»  ipMio  vi-niKTO  confrnMle  orile  cirUs 
i  Ari«rte.  Snio  il  T«b,  chi?  porr  prptt>'>  f«le  alla  prima  peryanMU 
hvy.  V.  Mia  Raccolta)  paUillcala  ni?l  1846,  MHA  in  aepiilo  d^l- 
1  ili  ^el  int.,  e  ntl  no  Coitiiys  IH/JonuUieo  non  delle  adito 
■  iMle  carte  di  Arborea.  V.  Dvrc,  In  Sard.  insula  ole.  p.  30 


—  320  — 
Ma  uon  doveva  esser  noto  lippù  et  uutsorUiHi  cbe 
Marcello  si  efa  fatto  re,  e  che  prima  era  GìustinìaDO  il 
signore  della  Sardegna?  Non  è,  curioso  che  quando  certe 
notizie  son  tali  da  far  comodo  a  noi  moderni,  questi  aati- 
chi  sardi,  singolarmeote  previdenti,  le  espoogan  sempre 
con  la  massima  precisione  possihile?  E  co^  usavano  doq 

già  solo  i  cronisti,  ma  i  podi,  i  retori tutti  quelli  te 

somma  che  figurano  come  autori  di  questo  o  quel  muo- 
scritto.  —  Giorgio  di  Lacon  (n.  1177  m.  1227)  in  qnetli 
tal  lettera  al  suo  nipote  Pietro  nella  quale  gli  dà  la  trac- 
eia  di  uti  poema  in  onore  di  Cornila  IV  di  Arborea,  a 
ne  dà  un  altro  esempio.  Giorgio  e  Pietro  erano  cooles-  , 
poranei  di  Gomita  (1),  Pietro  inoltre  conosceva  molto  ben   j 
Gomita,  e  nondimeno  il  previdente  zio  si  crede  neirobli-    ' 
go  di  cominciare  proprio  ab  ovo: 

1  Cornila  Barasonis  alias  Torgotori  et  lìenedicie  Killvi- 
lane  judicisse  fllius  ctc.  > 

E  perchè  questo?  Perchè  di  Gomita  non  si  coDOScen 
che  il  nome  (Martini  p.  ItiO)  e  perchè  c^era  bisesti 
sapere  (Id.  p.  1(14)  che  Barìsone  e  Torcotorio  era»  la 
stessa  persona  (2). 


(1)  Sì  rileva  dalla  i<>lli<ra  Ktes&ai  Perg.  IV  p,  lil 


—  321  — 

E  cod  parmi  di  avere  còlto  parecchie  volte  in  fallo 
i  nostri  cronisti,  e  di  avere  suflBcientemente  mostrato  come 
essi  sanno  talvolta  quel  che  è  impossibile  abbiano  potuto 
sapere,  e  commettono  invece  degli  errori  su  cose  che  bene 
avrebbero  dovuto  conoscere  :  il  ritmo  di  Gialeto  e  la  con- 
fusione di  due  Tigellii  ne  sono  esempii  anche  troppo  evi- 
denti. Che  se  questo  non  basti,  basterà  di  certo  un  fatto 
recentemente  notato  dal  Dove  (1).  Un  Umberto  arcivesco- 
vo di  Cagliari  in  un  suo  memoriale,  che  sarebbe  stato 
scrìtto  nel  1020,  manda  i  suoi  saluti  a^ consoli  genovesi, 

in  predicla  narratione  piane  sunt  expressa  >  (p.  1^2); —  e  praeter  cir 
cmnstanlias  loci  et  temporìs  nihil  aliud  ut  videbis  Yariare  ausus  fui  > 
(p.  150)  etc.  etc 

Epperò  afeva  ben  ragione  il  Martini  di  servirsi  di  questa  traccia  di 
poema,  come  di  verìdica  cronaca.  —  Ma  quando  le  notizie  non  rìguar- 
dano  né  ponto  oé  poco  la  storia  sarda,  allora  Giorgio  di  Lacon  non 
Cora  tanto  ì  particolari.  P.  es.  egli  raccomanda  al  nipote  di  enunciare 
le  città  che  Comìta  tìsìIò  durante  i  suoi  viaggi  e  i  principi  che  gli  det- 
tero ospitalità,  e  non  si  cura  di  dirci  neppure  i  nomi  di  queste  città  e 
questi  principi.  Invece  il  discorso  che  si  suppone  latto  da  Gomita  a'  suoi 
ospiti  è  abbozzalo  tuttaltro  che  concisamente,  perchè  in  quel  discorso 
c'entrano  tante  peregrine  notizie  su  Gomita  e  gli  avi  suoi,  che  sarebbe 
Slata  di  certo  una  gran  disgrazia  se  Giorgio  avesse  lasciata  la  cura  di 
Csirìo  al  suo  nipote,  il  quale  del  resto,  erudito  com'era  (  e  Pere  era 
doctor  tambe  de  grammatica  »  —  Nota  Marginale  a  p.  145),  non  do- 
veva aver  bisogno  di  cosi  minute  indicazioni  per  distenderlo.  Del  quale 
discorso  non  posso  astenermi  dal  riportare  qualche  periodo,  perchè  il 
lettore  giudichi  da  sé  se  è  roba  da  poema,  e  se  poteva  crederla  tale 
Giorgio  di  LacoD  che,  almeno  secondo  le  carte  arboresi,  era  emunclae 
naris  homo.  —  e  Scilicet  quod  prò  anterìoribus  judicatus  dcbitis  ac 
plorìmis  aliis  gravìbas  a  Parasone  rege  Sardinie  contractis  Petrus  ejus 
filios  creditoribos  coactus  ac  potissimum  ab  Ugone  de  Basso  Saluci  Poncii 
beres  ac  filios  ejnsdem  civitatis  ditissimo  egens  pecunia  virìbusque  debi- 
fior  aervandi  sibi  regnom  excogitavit.  Propterea  quod  opportunum  existi- 
navit  cum  dicto  Ugone  fedus  inire  uli  propinquo  suo  cujus  gradum  ta- 
men  qoia  indecens  praetcrmittes  etc.  etc.  » 

(1)  BericJU  iiber  d,  Uandschr.  von  Arborea  p.  91. 


—  323  — 

mentre  V  instituzioDe  de^  consoli  geooreM  data  soliamo 
dalla  fine  del  XI  secolo  I 

E  se  dal  detto  (in  qai  è  eridente  che  le  carte  di 
Arborea  riguardanti  la  storia  sarda  sono  una  solenne  im- 
postura ,  non  è  meno  evidente  che  la  falsificazione  è  po- 
steriore air  opera  del  Manno,  e  che  anzi  V  impulso  a  feb- 
brìcare  documenti  di  tal  genere  è  venuto  appunto  di 
quelle  Trequenti  menzioni  di  lacune,  dubbii,  incertezze  nelli 
storia  sarda  che  il  Manno  ebbe  spesso  occasione  di  notare, 
con  rincrescimento  naturalissimo  in  uomo  amante  dell'is(di 
che  era  sua  patria.  La  brama  di  possedere  le  pagine  per 
dute  della  loro  storia  dovè  ne'  Sardi  snsdtarsi  TiTÌsami 
dopo  le  \amenlazioni  fatte  io  proposito  dal  Manno;  e  *  qod 
non  mortalia  pectora  cogis  lUstoriae  sacra  &me3?(l)>- 


(1)  Dora,  Di  Sarà,  iruuia  etc  p.  36.  —  Del  retta  qnetki  Itt 
delle  Carle  ili  Arborra  non  è  né  il  primo  né  l' ultimo  di  tal  pam.  lE 
contpnicrA  di  rammentarne  uno  solo.  <  ì  la  fin  do  Kiiième  aiède,  M 
jésuile  nommò  Jérdme  Romain  Higocra  cbercba  à  réparer  le  sleset  <■ 
historicns  sor  l' établissemeni  du  clirìsiiaiiisme  en  Espagne.  ì  Pa^te 
Iradilions  populairos  iM  des  documenis  de  toat  genre  qn'  il  pai  liak, 
il  composa  des  cliroiiìr|ues  et  en  atlribua  la  plus  part  a  FIatìdi  Dedffi 
hiilnricn  cilé   par   saini  J^rrtm'i,  t».  irmK  le?  fimnigm  élsiml  ^ 

1  il  dt'plova,  dans  cene  siiperchcrìe,  l'adresse  qui  n 
nremcnt  aux  bons  pcres  de  snn  ordrc,  et  sol  ^»iler  tiabilei 
ficulu'.  lOHJours  si  craudc  pour  un  faussaire.  de  n 


LEGGENDA  DI  SAN  MARZIALE 


NoD  sembri  faor  di  luogo  od  inopportuna  la  comparsa 
d^un  saggio  di  leggenda  agiografica  nel  Propugnatore;  in 
00  Periodico  esclusivamente  letterario  com'  è  desso ,  e  de- 
dicato al  colto  della  lingua  nostra  dovrebbero  trovare  ac- 
concia sede  scelti  monumenti  delle  varie  forme  deir  antica 
letteratura  italiana,  massime  dei  primi  secoli  della  lingua 
volgare,  allorché  questa,  sebben  recente,  era  pur  sì  ricca. 
Qoaotanqoe  il  racconto  delle  azioni  straordinarie  o  mera- 
vigliose di  taluni  personaggi  vissuti  in  qualsivoglia  età, 
lasciatoci  dal  medio  evo,  non  possa  punto  vantare  un'  auto- 
rità storica ,  intrecciandosi  nei  fatti  narrazioni  rifiutate  dalla 
critica  ed  impugnate  ben  anco  dalla  ragione;  pure  un' ec- 
cezione è  aomiessa  a  favore  delle  biografie  del  Trecento, 
DOD  già  pel  loro  valore  storico,  ma  pel  merito  della  lin- 
gua, maneggiata  con  tanto  garbo  dagli  scrittori  toscani, 
che  por  essi  sapevano  innestare  nei  loro  racconti  il  mera- 
viglioso per  destare  P interesse  nei  lettori,  pressoché  al 
modo  ora  usato  nei  romanzi  storici.  Quei  semplici  uomini 
cogli  scarsi  mezzi  letterari  eh'  aveano  alle  mani ,  coir  idee 
attìnte  ai  favolosi  racconti  cavallereschi ,  andavano  in  cerca 
di  un'  estetica  e  d' un'  intreccio ,  che  escisse  dai  confini  del- 
l' ordinario  sviluppo  dei  fatti ,  preludevano  ad  una  rigene- 
razione letteraria  e  civile  a  loro  modo ,  tentavano  sviare  i 


—  3*4  — 

lettori  da  quelle  leggende  dì  cavalleria  soveote  erotiche, 
l'ol  costituire  loro  le  religiose .  ioformate  a  nonne  ed  ài- 
segnamenti  di  gran  lunga  più  morali,  porere  baia  d'arte, 
ma  slìmolnlrici  alla  virtii ,  ta  quale  operava  nei  persoD^ 
descritti  prodigi  e  meraviglio.  A  cristianizzare  il  movùnenlo 
della  vita  risorgente  dalla  barbarie  sapeauo  es^  qnal  fonie 
di  supreme  ispirazioni  fosse  il  cristianesimo .  nel  quale  s 
attingono  i  più  sublimi  concelli,  si  sorreggono  nei  voli  pii 
arditi  e  colgono  l'ideale  con  un'apostolato,  che  par  ri- 
sponderebbe ai  bisogni  anche  del  nostro  secolo,  cbe  pv 
lia  camminato  alacremente  sulla  via  d' un' illuminato  pro- 
gresso. 

Quella  nuova  forma  cristiana  di  letteratun  mtit 
narrativa  che  fiorì  nel  Trecento,  vera  storia  di  pensieri  e 
dì  affetti ,  non  uscita  da  ingegni  letterati  ma  dal  vira  »- 
timento  del  popolo  che  tanto  vi  si  affezionò,  oa  no^^ 
flcacìssimo  mezzo  a  creare  il  predominio  dello  siHrìto  sdh 
forza  materiale  allora  si  prepotente,  a  dirozzare  gli  miaif 
a  volgerli  al  bello  di  allora,  al  vero,  al  buMio  coD'il- 
trattiva  dell'  esempio ,  die  eccita^-a  V  imitazioite.  La  sloriv 
rì  è  testimone  di  assai  mutamenti  secrelamente  openliil 
nell'indirizzo  morale  anche  di  celebrati  personaggi  De&B- 
quiete  delle  mura  domestiche  colla  meditazione  ddle  le- 
gende agiografiche  del  medio  evo,  che  tanta  parte  ebboo 


^  nosi 


P 


iHime  della  Tede  contro  la  scienza.  D'altra  parto  però  non  op- 
pongasi che  colali  scritture  siano  per  noi  un'anacronismo, 
essendo  ormai  U'a^corsi  i  suoi  bei  tempi,  né  sì  accusi  clic  col 
produrle  si  voglia  far  tornare  la  sociel.'i  nel  decrepito  passa- 
lo, or  rtif!  per  ìoc^into  è  bandita  la  riformatrìce  innovazione 
delle  idee  e  delP  indirizzo  della  cosa  publica  e  privata. 
No  :  ^juesta  sovente  spregiata  forma  letteraria  k  pur  sem- 
pre atki  a  rivolgere  gli  animi  all'amore  non  servile  ma 
gioMo  f  ragionevole  degli  scrittori  antichi,  a  farci  ammi- 
rare ed  imitare  1"  incantevole  semplicità  e  l' ingenue  gi'azie 
di  i|iiesti  stupendi  prosaturi-poeti ,  ad  insegnare  agli  scrit- 
turi presenti  il  debito  e  ad  insinuar  loro  la  vaghezza  di 
cnstodav  gelosamente  la  purezza  e  la  soavità  della  lingua 
OOStra ,  documento  irrefi'agabile  e  vìncolo  dì  nazionale  unì- 
tcsoro,  potenza  e  delizia  presente;  ad  ispirare  il  ri- 
lUo  ai  sommi  principii  morali  e  religiosi,  a  reintegrare 
il  sentw  morale  dei  popoli  e  rialzare  il  prestigio  della  pu- 
blic» autorità  col  racconto  delle  azioni  d'uomini  veramente 
liberi  e  liberali.  Quei  semplicetti  nostri  avi  del  Trecento 
non  erano  anc/ir  giunti  alla  pellegrina  scoperta  della  mo- 
rale indipendente,  e  d'un  ibrida  libertà  di  pensiero  e  dì 
Oì^CKììza,  a  cui  prelendesi  assegnare  il  compito  ili  rigo- 
iwTarp  le  nazioni  e  di  costituire  la  religione  dell'  avvenire  ; 
non  Mpoano  ancora  che  per  liberare  gli  istinti  e  le  incli- 
nazioni  della  natura  fosse  inevitabile  distruggere  l'idea  di 
Dio  (1),  urlo  questo  d'una  selvaggia  follìa. 

Se  a  questo  saggio  sarà  fatto  buon  viso ,  altre  narra- 
zioni Rnora ,  come  questa ,  inedite  e  tolte  dai  mss.  dell'  Am- 
brosiana, potranno  comparire  nel  Propugnatore,  pari  di 
merito  per  lingua,  stile  e  colorito. 


Milano,  nel  giugno  1870. 


ih   Oirr^ntifMcur  Suii; 


Ant.   CtHlITl. 


Incomincia  la  leggenda  di  santo  Marziale, 
uno   de'  settantadue    discepoli   di   Gesù  Cristo 

SccoikIo  die  si  legge  nella  s^inla  Scrittura,  predicando 
nostro  Signore  Gesii  Cristo  nella  provincia  di  Galilea,  :iTrei 
che  della  generazione  di  Beniamin  era  uno  nobile  omo,  ( 
avi;va  nome  Marcello,  il  quale  aveva  una  sua  donna ,  che  an 
nome  Lisabelta.  e  quali  come  piacque  a  Dio,  ebbeno  uno 
j^liuolo.  quale  elibe  nome  Marziale.  Avendo  udito  che 'I  nos 
Signore  predicava  e  Taceva  molti  miracoli,  e  sapendo  che  C 
sto  amava  molto  santo  Pietro  e  santo  Andrea,  e  quali  en 
loro  parenti.,  cominciarono  a  seguitare  Cristo  e  udire  le  l 
sjinLlssime  predicazioni.  Di  che  vedendo  Cristo  costwo  noni 
sere  battezzali,  comandò  a  santo  Pieiro  che  li  dovesse 
zare  e  ammaestrare  nella  fede,  e  cosi  fu  fatto.  E  insieme i 
loro  battezzò  uno  che  avea  nome  Zaclieo,  e  uno  che  aveva  ne 
Joseph.  Questo  Zacheo  fu  quello,  del  quale  parla  santo  L 
nel  suo  Vangelo,  dove  dice  che  esso  Zacheo  montò  io  sui 
arbolo  per  vedere  Cristo  cbe  passava  per  la  via,  imperi)  i 
ora  s)  pìccolo  di  persona,  che  altrimenti  nollo  poteva  vede 
e  allora  Cristo  il  chiamò  e  disse:  Zacheo,  discende,  che 
sogna  eh'  io  stia  oggi  nelli  cas,T  tua.  Questo  !os6 
di  sopra  fu  quello,  il  qiinle  insioriie  coi)  Nicodeiini  seppeS! 
rono  poi  tìt'sii  Cristo. 


innanzi  la  morte  di  (i'rìslo.  ne*  quali  anni  sUinilo  con  Hrislo  e 
cogli  apostoli  suoi,  viilile  e  fu  prcsenle  a  lutti  i  miracoli  che 
tlrìsio  ÌR  ({liei  leinpo  fece  per  la  .«alrile  nostra.  Questo  glorioso 
s.inio  Marziale  Tu  quello  rancìiillo  che  aveva  li  cinque  pani 
il* orzo  e  (Ine  pesci,  de' quali  Cristo  sadò  cinque  initia  uomini, 
e  avuuouiie  dodici  sporte.  Costui  Tu  quello  umilissimo  fan- 
cmllo.  al  quale  Cristo  poso  la  sua  mano  in  capo  nel  mezzo 
Ur'suoÌ  discepoli,  dicendo:  Chi  non  Kirà  umile  come  questo 
fandullo,  non  entrare  nel  regno  del  cielo.  In  quella  ora  li  ri- 
mase la  forma  della  mano  m  capo,  e  cosi  vi  si  pareinfmoal 
il)  il'  oggi.  Anco  fu  presente  e  viilde  quando  Cristo  lisuscitò 
Lazaro;  anco  fu  dipiilato  a  servire  e  apparecchiare  a  la  mensa 
neir ultima  cena  clic  Cristo  fece  condiscepoli  suoi,  e  lavò  i 
piedi  e  U(I)  il  sermone  e  tutte  le  parole  «he  Cristo  disse  nella 
cena  e  dopo  la  cena.  Anco  fu  insieme  con  tutti  gli  apostoli, 
ilo  Cristo  dopo  la  sua  santa  risurrezione  apparve  a  loro, 
I)  serrali  per  paura  de'giuderi  dentro  nel  cenacolo,  e 
i|n  tttcìte  nel  mezzo  di  loro,  rimanendo  le  porli  (t)  serrale,  n 
ipiesle  (Kirole:  Pace  sia  a  voi;  ed  ei^lino  mimano  di  ve- 
lino spirito  infiammato,  e  Cristo  disse:  Toccatemi  le  mani 
piedi;  e  mangiii  Gesù  Cristo  del  pesce  arrostito  e  un  poco 
fladowi  (li  mele,  che  gli  aposloU  li  dero  (2).  E  poi  die  Cristo 
cosi  mangiato,  volse  che  gli  apostoli  suoi  mangiassero; 
■è  hmaoeiido  insieme  con  loro,  santo  Marziale  mangiò  del  cibo 
ebe  avanzò  innanzi  a  Cristo. 

Quando  e  sauti  Apostoli .  secondo  che  Cristo  li  comandò  die 

ambsMru  in  Galilea  per  vedei'c  Mi'sìcj,  e  saiilo  Marziale  andò 

liiro  i>or  detto  di  santo  Pietro,  e  ino  riceva  potestà  insieme 

apostoli  ila  Gesi'i  Cristo  di  (iredicare  il  Kmto  Vangdo 

(ili  altri  apostoli,  diceitdo  Cristo:  Andate  per  T  universo 

>  e  ammaestrate  la  i^ente,  battezzando  lutti  nel  nome  del 


(Ir  Cio^  (•-  /nrU- :  %i  Im  l'islosìa  tornin  negli  aiiliclii  scrillori;  p. 

l  ta  Hdo  Compagni:  t  V,  co«l  prnlemmo  il  primo  li'ai|io,  pnrucchè 

a  ciiimlere  le  porli  >. 

(J)  n»  ttftv;  nei  Volgariiz,  (li  AllxTlano  del  tt'ftivi  ilei  (hmol.  >■  del 

Gtni'g'-  <»!'-  WSIU     •   l-Ì  'jiiali  utui  unii  i-mi  lui  i:oi»ìmIÌi>  ili  '<■   "lem  p. 


—  328  — 
l'adrc  e  ilol  Fi^'liuolo  e  dello  Spirito  Santo.  Anco  quando  Cri- 
sto enirò  in  una  casa  qunl  era  chiusa,  quando  nm  v'era  santi) 
Tome,  santo  Marziale  era  con  loro,  e  insieme  cogli  altri  ri- 
cevè da  Cristo  podestà  di  potere  assolvane  e  legare  come  gii 
»ltri  apostoli,  dicendo  Cristo  a  loro,  sofliaudo  nelle  loro  facce: 
Ricevete  lo  Spirilo  Santo,  e  quelli  peccali,  quali  perdonarete, 
saranno  perdonati.  Anco  il  di  dell'Ascensione,  quando  Cròio 
nostro  Redentore  montò  in  cielo,  santo  Marziale  insieme  tm 
la  vergine  Maria  e  santi  apostoli  ta  presente,  e  vidde  ùirin 
cosi  glorioso  salire  in  cielo,  e  poi  stette  con  loro  lutti  qndli 
dicci  di  inrino  a  la  Pasijua  della  PentecosLi  in  orazione,  di- 
giuni  e  vigilie,  aspettando  ([uello  tanto  celestiale  dffliOj  cioè  lo 
Spirito  Santo,  il  quale  Cristo  aveva  promesso  di  mandare  i 
loro.  Il  dì  della  Pasqua  vidde  venire  sopra  di  sé  il  Anco  dtflo 
S|)irito  Santo  in  spezie  di  lingua,  e  allora  imparò  Inlti  lin- 
giiaggi  del  mondo,  si  come  gli  apostoli. 

Seguita,  si  come  ditto  è,  avendo  ricevuto  lo  Spirito  Santo, 
andò  ciascuno  per  lo  mondo  a  predicare  in  quella  parie,  Of'en 
mandato  da  Dio;  rimase  iillora  santo  Marziale  con  santo Koo 
suo  maestro  nella  provincia  di  Galilea,  e  ine  sle  con  Ini  di- 
\\\vt  anni,  e  poi  dopo  la  passione  di  6«sì\  Oislo  venne  sfitìtt 
Pietro  nella  provincia  d'Anliocliin,  e  menò  seco  santo  Marzìair-, 
e  ine  predicando  santo  Pietro,  comandò  a  santo  Marziale  d» 
esso  dovesse  predicare  la  pnrola  di  Dio,  impera  che  conoscevi 
la  Sila  parola  e  predicazione,  tariibbe  gran  Trutlo  a  la  crisiiaoa 
gente.  E  cominciò  adiimjue  sonlo  Marziale  a  predicare  il  non» 


—  329  — 


Come  santo  Pietro  per  comandameiito  di  Dio  mandò 
santo  Marziale  con  due  compagni  a  predicare  in 
Francia,  e  fece  grandissimo  frutto. 

Giogneodo  a  Roma  santo  Pietro  e  santo  Marziale ,  furono 
ricevuti  da  UDO  eh' ebbe  nome  Marcello, consolo  de' Romani,  e 
io  questo  modo  stavano  e  predicavano.  Apparbe  Gesù  Cristo  a 
santo  Pietro  e  disseti  :  Manda  Marziale  nella  provincia  di  Fran- 
cia a  predicare,  imperò  che  v'è  molto  popolo  tenuto  e  op- 
pressalo dal  dimenio.  Allora  santo  Pietro  manifestò  a  santo 
Marziale  tutto  quello  che  Gesù  gli  aveva  detto.  Incominciò  (1) 
fortemente  a  piangere,  però  che  malvolentieri  si  partiva  da 
lui,  e  temeva  d'andare  tanto  di  lunga  (2).  Allora  santo  Pietro 
il  chiamò  e  disse:  Figlici  mio  e  compagno,  non  ti  contristare, 
perche  1  nostro  maestro  Gesù  Cristo  sarà  sempre  con  teco.  Tu 
sai  che  ci  disse  che  sarebbe  sempre  con  noi,  e  comandocci 
andassimo  per  lo  mondo  predicando  alla  gente,  si  che  noi  do- 
viamo ubidire;  e  però,  figliuol  mio,  va  prestamente  e  non  in- 
dugiare, e  trovarai  in  quelle  parti  una  città  ch'à  nome  Le- 
mogìa  (^)j  la  quale  Cristo  ti  raccomanda,  e  quella  e  tutta  la 
Francia  si  convertirà  per  tue  predicazioni;  e  voglio  meni  il 
tuo  compagno  Alpiano  ed  anco  Austriano,  quali  sono  preti,  e 
meoamoli  d'Antiochia,  e  voglio  che  tu  sia  tanto  sofferente  e 
tanto  paziente,  che  se  uno  ti  darà  nell'una  gota,  voglio  che 
umilemeote  tu  apparecchi  l'altra. 

AUora  santo  Marziale  con  quelli  due  compagni,  cioè  Al- 
piano e  Austriano,  si  misero  in  cammino,  e  cosi  andando  da 
Roma  inverso  la  Francia,  pervennero  a  uno  fìume  che  aveva 
uno  ponte y  il  quale  fiume  si  chiama  l'Elsa,  presso  al  quale 

(I)  Sottintendi  s.  Marziale, 

(t)  Di  lungi,  lontano:  e  Abitando  un  sanie  Padre  in  un  luogo  de- 
sarto e  molto  di  lunga  da  ogni  luogo  abitato  ecc.  »  Cavalca,  Discipl, 
tpirii,  156. 

.3|  Limoge»,  ritta  nel  dipartimento  dt'lP  Al  a  Vienna. 


—  330  — 

I)Oi)l<>  e*»  oggi  il  l'nslello  che  sì  cliinmn  Colle  di  Val  d'E 
ine  infermò  Auslridiano  e  morì,  e  Tn  seppelliio  presso  a  q 
ponte.  E  vedendo  questo  santo  Marziale,  siibit.imente  i 
coir  altro  compagno  Alpiano  ritornarono  indietro  a  Rot 
santo  Pietro  |)cr  nunzìarli  quello  eh'  è  intervenuto.  Allora  si 
Pietro  udendo  ipiesto,  disse  a  samo  Marziale:  ToDe  (I]  il&i 
done  mio  e  portalo  con  leco.  e  loccarai  il  tuo  compagoe  j 
strìdiano  che  f-  morto  e  soppellito,  e  risuscitare  imman 
Allora  santo  Marziale  prese  cpiet  bordone,  e  tomi»  a  ( 
Val  d'  Elsa ,  dov'  era  'I  corpo  de!  suo  compagno  Ams* 
lo  (piale  era  staio  mono  e  seppellito  quaranta  dt,e 
tiordonc  toccò  il  corpo   morto,  e  subitamente  fu  i 
Con  molta  reverenzia  laudando  Dio,  coraincitì  a  predie 
popolo  di  Colle  ed  a  qucUi  delle  contrade  d'intorno; e (| 
fu  il  primo  miracolo  che  fusse  fallo  da  Roma  in  qita.i 
verso  le  parti  di  ponente. 

Anco  per  la  predica  dì  questo  risuscitalo,  cìoèdf^ 
Austridiano,  Colle  si  converll,  e  fu  I.)  prima  terra  (beri 
vcrtisse  a  la  fede  cristiana  da  Roma  insino  a  le  poni  i 
nènie.  Anco  per  (guesta  ragione  ninno  papa  mai  porla  | 
rale  ni  bastone  in  mano,  però  che  santo  Pietro  dette  t 
a  santo  Marziale,  ed  esso  già  mai  nollo  rendè.  S  Ai 
parla  sprcssamenie  il  decretale  iu  uno  capitolo  della  n 
zione,  e  credesi  per  lo  fermo  che  quel  bordone  i 
lora  a  Colle,  e  oggidì  si  truova  alla  Badìa  di  Spugna; 
sto  fu  il  primo  pastorale  che  fusse  mai.  Nota  cheq 
grande  miracolo  fu  fatto  in  uno  luogo,  dove  ora  è  * 
1  sanin  MaiyialP 


Come  santo  Marziale  andò  in  Francia,  e  liberò 
Dna  bella  fanciulla  eh'  era  spiritata. 


Pni  che  santo  A.us(ridiano  Tu  risuscitalo,  e  la  dilla  terra 

(il  Culle  fu  convenite  a  la  Tede  santa,  santo  Marziale,  santo 

I  Aoslrìdiano  e  santo  Alpiano  si  partirò  da  Colle  e  andoro  in- 

I  la  Francia,  e  capitando  a  la  cìtl:'i  di  Lemogia,  entrarono 

[in  UDO  «istdlo  presso  a  la  citU,  e  furono  umanamenle  rìce- 

mui  da  lino  grande  ricco  che  aveva  nome  Arnolfo,  e  con  iiii 

I  .Uateuo  per  ispazio  di  ilne  mesi,  e  mai  non  cessavano  di  pre- 

Kdicarc  la  parola  di  Dio.  Ed  in  quel  tempo  aveva  sanio  Mar- 

Lnale  aiioì  trentuno,  e  molti  miracoli  mostrava  Dio  per  lui, 

ktanlo  che  tutta  i|uella  patrin  era  convertita  a  la  Tede  cristiana. 

[■Uuesio  Arnoiru  aveva  una  ligliiiola  molto  beila  e  non  piii,  e 

Lipella  era  indimoaìala,  e  quando  santo  Marziale  iulrò  in  casa, 

^ipellodiiuonìo  (trìdù  ad  alta  boce  e  disserTnon  ci  posso  stare. 

!>  che  gli  angeli,  quali  sono  con  teco,  molto  forte  mi  tor- 

laDOi.  Ma  io  ti  scongiuro  per  quello  Cristo  crociQsso,   il 

tale  ta  predichi,  che  tu  non  mi  mundi  nell'abisso.  (Jnesla 

pn\i  è  molto  da  pensare  per  clic  cacone  la  disse:  ed  allora 

e  sunto  Marziale:  Ed  io  per  quello  Cristo  crocifìsso  ti  coman- 

tio  che  li  parli  da  questu  fanciulla,  u  da  ora  innanzi  nolla  toccar 

IfOt,  e  ra  in  luogo  diserto,  dove  :.on  abiti  persona  nò  uccello, 

e  ine  sta  per  ìnQuo  al  d)  del  giudìcio.  A.  questa  voce  subila- 

L^ueitfe  il  dimonio  si  p,irt)  e  lassolla  quasi  mona,  e  santo  Mar- 

'  ~^  la  rendo  ul  padre  suo  sana  ed  allegra. 

Era  santo  Marziale  di  grandissima  santità  e  di  profonda 
||  mnilìlJi,  e  sempre  slava  in  orazione,  ed  in  quello  medesimo 
)  era  uuo  omo,  il  quale  era  principe  di  quella  provin- 
rh;  aveva  nome  Nerva,  il  quale  cr.i  putente  dì  Nerone  ìm- 
peradore.  ed  aveva  uno  suo  Qgliuolo  che  ei'a  stato  affogato  e 
morto  dal  dimonio.  Allora  quello  principe  e  la  donna  sua  e 
tutta  la  famiglia  con  grande  revcrenzia  e  divozione  sMngiiioc- 
diiarono  a'  piedi  di  santo  Marziale,  e  fortemente  piangendo  dis- 
sCDO  queste  parole:  0  omo  di  Dìo,  aitaci  in  tanta  trìbulazione. 


I 


—  332  — 

Allora  santo  Marciale  mpose  a  qaestì  che  lo  pregaTino,  vol- 
gendosi a  lutto  r  altro  popolo  eh'  era  venuto  per  vedere,  e 
disse:  Pregliiamo  tutti  Iddio,  che  ci  rìsuBciti  questo  giovai»; 
e  TatLi  divotamenle  l'orazione,  prese  il  giovano  per  mano  e 
COI)  fiducia  disse:  Nel  nome  del  mio  Signore  Gesù  Cristo,  il 
quale  e  giuderi  crocifissero,  il  terzo  di  risuscitò,  i' li  comanlo 
che  prestamente  tu  debbi  risuscitare ,  e  di  e  manifesta  a  que- 
sto popolo  quello  clie  tu  ài  veduto  nello  'Dfemo.  ADora  subito 
si  levò  e  giltossi  a' piedi  di  santo  Marziale  e  disse:  0  uomo 
ili  Dio,  battezzami  e  segnami  del  segno  della  fede  erìstiiDi. 
per  la  quale  io  sia  salvo;  e  dopo  questo  disse  altre  parole, 
cioè:  Due  angeli  vennero  a  me.  e  dissero  ch'io  dovevo  risa- 
scitare  per  lì  preghi  di  santo  Marziale.  Nello  inferno  non  è 
misura;  ine  è  pianto  grande,  ine  è  tenebre,  ine  stridore  d 
denti,  ine  grandissima  tristizia,  ine  f^do  crudele,  ine  fìioco 
terribile,  qual  mai  non  si  spegne,  ine  morsi  di  sopenti  e 
grande  puzza.  Quivi  grande  miseria  e  vermi  che  mai  non 
muore  (1).  Ine  sono  diavoli  coli' aspetto  terribile,  e  quali  pi- 
gliano e  grappano  (2)  l'anime,  e  di  diversi  tormenti  le  tor^ 
mentano.  Allora  tutto  il  popolo  gridò  e  disse;  Non  È  altro  Dio 
che  quello  predica  questo  santo  uomo;  e  subilo  ai  batteaft 
tremilia  trecento  persone,  e  quali  volevano  fare  a  santo  Ml^ 
ziale  grandi  presenti  e  doni,  in»  nissuno  ne  volse  rìcevare; 
anco  comandò  che  tutte  quelle  cose  si  dessero  a'povarì  per 
amor  di  Dìo,  e  cosi  fu  fallo;  e  poi  fece  disfare  tutti  li  loro 
templi  e  ì  loro  idoli  giitnre  per  terra.  E  quello  principe  fece 
fare  una  chiesa  a  riverenzia  di  santo  Marziale,  e  comandò  che 
>pel[isse  mai   ni>!suna   per^oii^. 


Come  saoto  Marziale  si  parti  e  andò  pili  oltre,  e  fugli 
dato  di  molte  busse. 


Falte  tanli>  haoae  opere  e  lanto  rrutlo,  parlisst  santo  Mar- 
cie co'suai  discepoli,  e  andò  a  una  [erra  chiamala  Age- 
duna  Iti  e  cominciò  a  predicare.  Allora  vennero  e  preti  di 
quella  terra,  e  delteao  ài  molte  bastonate  a  santo  Marziale  e 
a*8uot  compagni,  e  santo  Mai7i<ile  sempre  laudava  Dio.  ri- 
cordamlofii  di  quello  che  santo  Pietro  gli  aveva  detto.  Ed  in  ijuel 
punta  tulli  que' preti  divenlorono  ciechi;  e  vedendosi  cosi  conci, 
per  volere  guarire  andarono  a  uno  loro  idolo,  quale  aveva 
nome  Mercurio,  e  dimandarono  perchè  erano  cosi  ciechi  di- 
venUili,  e  pregavano  che  li  dovesse  rendiirc  il  vedere.  Esso 
lo  taceva  e  niente  rispondeva,  perchè  aveva  perduto  ogni 
per  la  virlfi  del  glorioso  santo  Marziale. 

Udendo  costoro  cbeU  suo  idolo  e  loro  Dio  Mercurio  non 

•va,  si  recero  menare  a  un'altre  ìdolo,  quale  aveva 

Giove,  e  dissero  cosi;  Noi  siamo  venuti  per  consiglio  a 

I,  imperò  clie'I  nostro   Iddio  Mercurio  è  adirato  con  esso 

e  non  ci  vuole  rìspondare.  Allora  rispose  Giove  e  disse 
li  vostro  idolo  e  vostro  Dio  non  vi  può  rispondare,  im- 
però che  in  qucU'  ora  che  voi  percotesle  lo  servo  di  Dio  Mar- 
aale.  iucootanenie  fu  legato  da  catene  di  fuoco.  Allora  ijuesii 
preti  dimaudaro  consiglio  di  quello  dovessero  fare;  ed  egli  ri- 
spose e  disse  :  Il  consiglio  eh'  io  vi  do  si  è  che  voi  vi  gittiale 
«'piedi  di  Marziale,  e  pregatelo  che  vi  perdoni;  io  per  me 
luu  vi  posso  aitare;  e  voi  per  altro  modo  già  mai  non  po- 
trete guarire.  Allora  questi  preti  si  partirono  e  vennero  a  santo 
MarEiale,  e  con  gran  piatilo  si  gittorono  a*  piedi  suoi  e  dis- 
sello; 0  uo.no  di  Dio,  non  guardate  al  nostro  peccato,  per- 
donaci per  amor  di  quello  crocifisso  che  tu  predichi,  il  quale 
nui  perfettamente  crediamo.  .Allora  santo  Marciale  li  perdonò 
r  (utlesolli,  e  subito  furono  ralhmiinati. 

m    Xhun .  bl.   .Ììi'ìIhuiii". 


—  33t  — 

Allora  uno  ch'eri  paralitico.  udenJo  questo  miracoki. 
pregò  santo  Marziale  die  lo  snnasse;  e  saoto  Maraiale  btlo 
che  ebbe  la  siin  orazione,  lo  sanò.  Allora  vedendosi  sanato, 
volse  dare  a  santo  Marziale  molto  oro  e  argento,  ma  santo 
Marziale  non  volle  niente:  anco  li  disse  che  lì  dovesse  dire 
a'  povari. 

Stando  santo  Marziale  in  (|uello  medesimo  luogo,  Iz  ap- 
pari Gesù  Cristo  e  disse:  Entra  nella  cittÀ  di  LemoggiaenoD 
temere;  impei'ò  clie  sempre  sarò  con  teco.  £  la  maltioi  per 
tempo  santo  Marziale  chiamò  e  compagni,  e  disse  come  Crìsbi 
gU  aveva  parlalo:  onde  sntiilo  si  partirono,  e'Dtrarooo  nelli 
citta  di  Lemoggia. 


Come  a  santo  Harsiale  e  compagni  fu  dato  molte  InuH 
B  messi  in  prigione. 

Intrando  nella  città  di  Lemoggia,  furono  rìceTuLi  da  una 
grande  gentildonna  e  contessa,  la  quale  aveva  nome  Susama 
ed  era  vedova.  Aveva  una  lìgliiiola  chiamata  Valeria,  e  nos 
aveva  più  n^  maschio  né  femina.  Questa  Susanna  fii  doeu 
d'uno  conte  chVhbc  nome  Leocadio,  il  quale  fu  parente  <lì 
Tiberio  impcradore.  nel  ifuule  tempo  Gesù  Cristo  ricevè  per 
noi  morte  e  passione.  Questo  Leocadio  era  slato  mandato  ila 
Tiberio  il  signoreggiare  la  Galizia  e  la  Guascogna  e  l'altre 
Provincie  di  là  ;  il  quale  conte  fu  morto  in  quelle  parli  a  una 
grande  hattagli.i.  Questa  sua  donna  era  rimasta  tanto  nobile  e 


!  prn^alo  ttnnio  Marziale  da  quesLii  nobile  iJomia  die  li  pia- 
ì  doverlo  guarire;  a  la  quale  rispose  cosi  santo  Marziale: 
Lo  doma,  se  mi  vorrai  credare,  vedrai  la  polenzia  e  la  gloria 
di  Gesù  Cristo:  e  fallo  il  segno  della  sanla  Croce,  subito  le 
catene  fìirono  siiczzate  e  rotte,  e  quello  Tamelico  (a  sanalo.  E 
vedendo  quella  gentildonna  sì  grande  miracolo,  subitamente  si 
fece  batteizare  so  e  sua  figliuola  Valeria  con  tutta  la  sua  fa- 
miglia ui  numero  di  persone  secenlo.  Poi  andò  snnlo  Marziali; 
co'snoi  compagni  a  una  terra  clie  a  nome  Teatro,  per  predi- 
care la  parola  di  Dìo.  Allora  due  falsi  preti  di  quella  terra,  e 
f\iiaH  )'  uno  aveva  nome  Andrea  e  1'  altro  Aureliano,  fortemente 
baslonoroDO  santo  Marziale  e  suoi  compagni,  e  miserli  in  una 
scura  prigione.  I.o  seguente  di  all'  ora  della  terza  santo  Mar- 
ziale pr<>gò  Iddìo,  die  mandasse  a  quella  prigione  tanta  olila- 
rilà,  che  polesscno  vedere  l'uno  l'altro,  e  fatta  Torazioue, 
subito  venne  da  delo  una  raaravigliosa  luce,  e  di  subito  rup- 
j  peno  le  catene,  colle  quali  e  servi  di  Gesù  Cristo  in  lanla 
l 'jcaritl  erano  legati.  Altre  persone  che  erano  in  quella  prigione. 
iendfl  tanto  miracolo,  lutti  si  gillorono  in  ginocchioni  a'pìedi 
i  unto  Marziale,  pregando  che  h  battezzasse;  e'n  quello  mc- 
)  di  fu  uno  grande  tuono,  ed  in  quella  terra  fu  molli 
loiil  e  baleni,  per  la  qual  cosa  tutti  fugarono  a  li  loro  tem- 
pli per  j)aura.  e  quelli  due  sacerdoti  die  miseno  in  prigione 
e  servi  di  Dio,  furono  percossi  e  morti  dalla  saetta.  Allora 
tutta  la  gente  corse  a  la  prigione,  e  trasse  fiiora  santo  Mar- 
nale e  compagni  suoi,  e  poi  dissero  a  sanlo  Marziale:  Se  tu 
risnscilarai  questi  due  nostri  sacerdoti,  certamente  credaremo 
ai  luu  Dio.  Allora  santo  Marziale  pregò  Gesù  Cristo  e  disse: 
O  [lidio,  che  dicesti  se  noi  avessimo  tanla  fede  quanto  uno 
Knnello  di  senape,  e  dicessimo  a  uno  monte:  passa  di  qua,  e 
vi  passarebbe;  adunque  comanda  che  questi  morti  risusciti  per 
inatto  de'tJoi  augell.  E  dette  queste  parole,  andò  al  luogo 
tiov' erano  quelli  sacerdoti  morti,  e  disse:  Nel  nome  di  Dio 
rito  fu  crocilisso,  levate  suso  risuscitali,  e  dite  a  questo  pò- 
(toto  qutllo  die  bisogna  fare  acciò  die  sieiio  salvi;  e  subita- 
mente si  levare  sn  quelli  due  preti  laudando  Dio  e  feceusi 
tHiiezure.  .\Hora  vedendo  quel  popolo  così  grande  miracolo. 


—  330  — 

incominciarono  (iitli  roriemonle  a  gridare,  diceado:  VeranieDle 
non  è  altro  Iddio,  se  non  (juello  che  predica  questo  santo  uo- 
mo; ed  in  quel  di  se  ne  battezzò  vintidue  migliaia,  e  ine  (é- 
ceno  una  bella  chiesa  iid  onore  di  Gesii  Cristo  e  di  santo  ìàar- 
zìale. 

In  quello  di  mori  la  beata  Susanna  conte&sa ,  e  ta  portala 
dagli  angeli  In  cielo,  e  fu  soppellitn  per  mano  di  santo  Mar- 
ziale, e  nanzi  ch'ella  morisse,  molto  raccomandò  la  sua  fi- 
gliuola Valeria  a  santo  Marziale.  La  quale  rimanendo  dopo  la 
madre,  diventò  di  lama  scienzìa  e  di  tanta  santità,  ed  era  d 
perTelta  la  sua  vita ,  clie  nel  numero  delle  sante  si  poteva  com- 
putare; e  non  ostante  che  maritala  fusse,  votossi  a  Gesù  Cri- 
sto di  servare  sempre  la  sua  virginitil,  e  dentro  dal  suo  core 
elesse  per  suo  l(;giltimo  sposo  e  marito  il  diritto  e  vero  sposo 
Gesù  Cristo  beneiletto,  e  continuamente  andava  a  le  chiese,  e 
udiva  le  prediche,  e  quello  che  udiva,  metteva  in  opera.  Stava 
mollo  tempo  in  oriiziono,  e  faceva  grandi  e  molte  llmosine 
per  Dio,  ajielli,  oro,  argento,  pietre  preziose,  vesljmcnta  ed 
ogni  altra  cosa  eh'  ella  aveva  dì  valore. 

Venendo  queslo  duca  Stefano  suo  marito  con  quiodid 
roilli  cavalieri  a  la  città  di  Lemoggia  per  menare  con  suo 
([uesla  sua  sposa  Valeria,  non  sapendo  lui  ch'ella  fusse  Alta 
cristiana,  fulli  detto  che  costei  non  farebbe  a  suo  senno,  pe^ 
eh'  ella  faceva  a  senno  d*  uno  uomo  eh'  era  venuto  da  Roma, 
di  che  molto  si  maravigliò.  Questo  duca  era  slato  mandilo 
dallo  'niperadorc  di  Roma  chiamalo  Claudio,  però  che  morto 
era  il  padre  di  questa  Valeria,  il  quale  era  stato  mandato  i 


^^P  Uossesi  .idimi)iie  iiueslo  duca  mollo  adiralo  per  r|iiello 
^^B  ch'aveva  uililo,  e  andò  a  questa  sua  sposa  A'alfm  con  gi-m- 
^r  dissima  geuU-,  e  la  donna  s'adornò  come  reina;  però  da  Roma 
per  inverso  poaunle  dou  en  maggior  donna  dì  lei,  nÈ  di  iiiatj- 
giorì  riccliezze  né  di  maggiore  pareatudo  di  lei:  e  cosi  simi- 
lemeiile  questo  duca.  I^  quaudo  il  marito  ciilrò  nel  palazzo  di 
VaJenu  sua  douna,  ella  si  levò  da  sedere,  ctie  sedeva  in  una 
bellissima  sedia  d'oro,  e  cosi  adorna  a  guisa  di  reina  andò 
inverso  il  marito  con  rhiar-i  ed  allegra  iaccia.  Allora  il  marilo 
con  adiralo  animo  le  parlò  e  disse:  K  ctie  è  questo.  Valeria? 
È  vero  ctie  tu  ami  allro  nomo  sopra  di  me?  Ed  ella  rispose, 
(liceudo  <iiiesle  parole:  0  nobile  principe,  gì.^  non  ti  Te  io  in- 
KÌnrìa,  se  io  amo  piti  Dio,  il  quale  è  d'ogni  cosa  creatore, 
che  io  non  amo  te  clic  se' creatura;  se  io  amo  più  colui,  clic 

t  immorlale.  glorioso  ed  elenio  Dio,  eh*  io  non  amo  le,  che 

ff>'  corrullibile  e  mollale.  E  mostrali  per  molle  e  belle  ra- 
gioni come  esso  Dio  ci  à  iatli  a  sua  immagine  e  a  sua  si- 
militudine, e  come  esso  ci  ricomperò  lanto  caramente  in  sul 
della  croce,  e  come  '1   mondo  per  lui   si  governa  e 
itàtatt,  e  come  ogni  dominazione  e  signoria  si  governa  e 
iticQC  da  lui,  e  similmente  tulli   gli  altri   beni  procedono 
Ivi  «opra  ogn'  altra  cosa.  Di  clic  già  non  si  doveva  di  ciò 
Riaravigliaru,  che  egli  medesimo  era  obligato  :)   questo 
tare,  conchiudendo  Hiialtnenle  come  era  b.-illezzata  e  l^lui  cii- 
sUana,  e  che  né  Ini  nò  altro  sposo  già  luai  non  vorrà,  se  non 
*oIo  (iesii  Cristo,  a!  quale  promesso  aveva  inseparabile  fede  e 
perpetua  virginità. 


Come  il  daca  per  grande  ira  fece  tagliare  la  testa  a 
Valeria  sua  donna,  e  l'anima  fu  portata  dagli 
Angeli  vUibilfflente  in  paradiso. 

Allora  il  duca  pieno  di  furore,  lalibia  ed  iia  senza  più 
indutparc  fece  comandamento,  che  subito  fusse  menata  alla 
fCiusliida  fuorc  della  terra,  e  subito  le  fusse  laglialo  la  testa 
per  m.in'i  d'  uno  su»  siniscalco  ctiiamalo  Orlapino,  ipial  era 


—  338  — 
molto  nobile  uomo;  e  quando  la  menava  al  lui^  della  p«- 
stizia  0  vero  del  martirio,  ella  disse  a  quello  sioiscalco:  0 
stolto,  stollo,  in  questa  notte  tu  morrai,  ed  io  oggi  ìneomii- 
ciai'ò  a  vivare;  e  quando  fìi  presso  al  luogo  della  giustizia 
ovvero  del  martirio  a  mezzo  miglio,  s' inginocchiò  e  pn^ 
Idilio  con  divora  orazione  che  perdonasse  a  quello  suo  marito, 
dicendo:  Dio  mio  e  Sijniore  mio,  sposo  mio,  corona  e  speraaia 
mia.  111  sai  come  i*  b  voluto  te  per  mio  marito  e  mio  spoM^ 
e  per  avere  te  ò  rìllulalo  cosi  grande  signore  come  1  dota. 
I'rc;ioli  aduiHiue.  Signor  mio.  come  io  ò  eletto  e  voluto  (e, 
clic  In  clegei  e  voglin  me.  E  subito  venne  una  boce  cdestiale 
e  disse;  0  ililetla,  o  sposa  mi»  Valeria,  non  temere,  ecco  gli 
angeli  clic  Taspcllimo  con  grandissima  allegrezza  per  menarti 
dinanzi  da  me  tuo  sposo  Cristo  ;  e  questa  voce  fu  udita  tb 
ogni  [icrson'i  eh'  ora  presente.  E  ricevuta  che  ebbe  qnesu 
risposta,  e  giognendo  al  luogo  del  martirio,  disteso  il  eti\a. 
in  uno  colpo  il  cajio  tu  taglialo;  e  quella  gloriosa  anima  vi- 
sibilmente Tu  veduta  per  e  circostanti,  e  dagli  angeli  fu  por^ 
(ala  in  cielo:  e  fu  udito  il  canto  angelico,  che  cantavano  eoa 
bellissime  voci,  dicendo:  Beata  se',  Valeria,  vei^ne  e  sposa 
e  martire  di  (Iristo. 


Come  santa  Valeria  tolse  il  suo  medeaimo  capo 

che  era  tagliato,  e  portollo  a  santo  Marxiale. 


t 


—  33!)  — 

Ulto  Marnale,  prtise  ella  rnedesinia  lo  suo  cajH),  ed  iiigi- 
noccliiossi  e  poselo  dinanzi  da  lui,  ed  in  quello  luogo  fece  le 
forme  dcUi  suoi  piedi  in  uno  nianiio  dov'  era  su,  le  (|ujili 
forme  iiiliue  al  pi'esenle  di  chiaramcnle  si  veggono. 

La  sera  seguente  entrò  unaigrande  paurii  a  i|neIlo  sini- 
scalco per  le  tante  cose  che  aveva  vediilo  ed  udito,  e  massi- 
onarocate  dì  quello  che  santa  Valeria  aveva  detto  a  lui,  quando 
ella  disse:  0  misero,  sta  notte,  tu  morrai;  onde  tanto  tosto 
andò  al  preacipe  e  signore  sua  duca  e  disse:  Missere,  io  credo 
che  voi  arcte  mal  fatto;  e  contolti  tutto  il  modo  e  le  grandi 
eose  clic  veduto  aveva.  Allora  il  dnca  si  fece  beffe  di  lui,  e 
Stollo  clie  tu  se*  a  credare  quesie  cose.  Non  credi  in 
tìie  io  sappi  quello  che  ò  fallo?  Niente  me  ne  pento,  e  se  io 
Milo  avessi  fatto,  si  Io  farei.  Rispose  allora  il  siniscalco  e 
idiese:  Anco  vi  dico  plfi,  signor  mìo,  che  voi  non  sapete. 
"^  il  duca:  Qm  i^?  E  '1  siniscalco  rispose:  Valeria  disse 
lic  io  morrei  sliinotlc;  e  dillo  questo,  subito  il  dimonìo  lo 
!b  V  cadde  in  terra  morto.  .Ulora  vedendosi  costui  dì 
ibllo  morto  .l' piedi,  ebbe  grandissima  paura  e  diventò  tnllo 
Lveulato,  e  dì  subito  mandò  i>er  santo  Marziale,  pregandolo 
itì  venisse  a  lid.  Questo  duca  ai-ebbc  voleniieri  fatto  tagliare 
~Ù  lesta  a  santo  M.irziale,  quando  la  fece  tagliare  a  Valeria; 
tttì  perchè  siinto  Marziale  era  venuto  da  Roma,  credeva  il  duca 
die  fussc  romano,  e  per  questo  nollì  fece  male.  Era  in  quello 
tempo  c^maudamenlo,  che  nullo  romano  fusse  giustizialo  senza 
lieeaiia  dello  'mperadorc;  ma  ih;i'  ipieste  grandi  cose  che 
mlervennero,  era  rimosso  il  duca  ed  era  d' altra  opinione. 
Vedendo  santo  Marziale  die  il  duca  manda  pei-  lui,  par- 
Gon  due  suoi  compagni,  cioè  Alpiano  e  Austridiano,  e 
iwacro  al  duca  Stefano.  Allora  il  duca  si  vesti  di  cilicio,  e 
graodc  umitil:'!  e  reverenzia  si  fece  incontra  a  santo  Mar- 
jdile,  e  con  grande  pianto  si  gittò  a'  piei  suoi  pregandolo  che 
fi  perdonasse,  e  che  li  piacesse  di  risuscitare  Urtarlo  l'shj  suo 
sJnìscalcD.  Allora  santo  Marziale  tenendo  le  mani  del  morto, 
<IUse:  Risusciti  te  quello  Iddio,  il  quale  e  giuderi  crocifissero. 
e  poi  il  di  lerao  risuscitò;  e  subitamente  quello  siniscalco  fu 
rauscilalo.  Vedendo  il   duca  sì   (;r.inrJe    miracolo,  gitlossi  a' 


—  aw  — 

piedi  di  saolo  Marnile  e  disse:  0  amico  del  vero  Ko,  e  noDU 
simlissimo.  jbbi  misericordia  di  me:  io  b  peccai^  perdonanri 
e  batiezzaiiii.  Allora  sanie  Marziale  con  grande  aBegrem 
Italtezzò  lui  e  tutta  la  stia  gente,  che  eraao  quindici  niflii 
omini.  Misser  santo  M.ir/i;ile  avendo  battezzati  cosUvt),  ando- 
rono  .1  seppellire  santa  Valeria  eoo  grande  onore  (1).  Questi 
santa  fu  di  donna  la  prima  che  per  la  fede  cristiana  tese 
inartiiizzata,  siccome  santo  Sterano  fu  il  primo  martire,  e  cobk 
pregò  per  santo  Favolo,  quando  serbava  e  panni  a  colmo  cbe 
io  allapidavano,  cosi  questa  preziosa  santa  Valeria  pr^  per 
io  suo  marito,  quando  e.sso  la  fece  dicollare;  e  come  per  li 
)>reglii  dì  santo  Stefano  santo  Favolo  sì  salvò  e  tornò  a  la 
felle,  cosi  per  li  preghi  di  santa  Valeria  si  converti  il  suo 
marito  duca  Stefano. 

Beata  santa  Valeria  fu  dicollata  e  portala  in  cielo  dagli 
iȓiie\i  a  di  dieci  di  dicembre,  e  fu  sopellito  il  suo  santo  corpo 
in  quella  santa  chiesa,  che  fece  fare  sant:)  Marziale  a  odor 
de)  primo  martire  santo  Stefano,  in  un  bello  mooimento  dalli 
ditta  chiesa:  e  'I  duca  fece  fare  in  quella  medeama  chiesi 
allato  a  quello  di  santa  Valeria  due  bellissimi  monumeati,  ■«> 
per  santo  Marziale,  e  l'altro  i>er  sé;  e  poi  fece  fare  nno  spe- 
dale, nel  quale  ogni  di  fusse  pasciuto  treceolo  povarì  a  reve- 
renzia  di  Dio  e  della  sua  donna  santa  Valeria;  e  un'altro  ne 
fece  fare  a  onoro  dì  Orìsio  e  di  sunto  Marziale,  e  per  memorìi 
di  sé,  nel  quale  fussero  pasciuti  secenlo  povarì. 


—  341  — 

itele  NeroDC,  quello  die  uccise  sariio  Pietro  e  sanie  Pavolo;  e 
ùrno  die  fu  imperadore.  muiiilò  a  quel  duca  Stefano  che  do- 
ve»»» andare  a  Roma  con  quallro  legioni  di  cavalieri,  clic  ftono 
tu  somma  vcoLiscì  inigUaia  e  seicenEo  scssanlaquallro.  Allora 
il  duca  Stefano  si  consigliò  con  santo  Marziale,  e  riceulo  il 
buono  e  drillo  cousigUo,  congregò  conti,  baroni,  cavalieri  e 
uomini  da  bene  (ine  al  ditto  numero,  e  andò  a  Roma  sicondo 
il  rfmsìglìo  di  santo  Marziale;  e  giunti  cbe  furo  a  Roma,  si 
come  Marziale  gli  aveva  dello,  andò  in  prima  a  sanio  l'ieiro, 
il  quale  pn^dicavu  in  su  la  piazza.  Allora  il  duca  e  molti  altri 
liaroni  sì  vestirono  di  cilicio,  e  tutti  scalzi  e  cosi  in  qud  modo 
andarono  a  santo  Pietro,  e  fatta  la  predicazione,  tutti  s' ingi- 
itoccliianuio  iu  leira  dinanzi  da  lui. 

Vcdemlri  santo  Pietro  lanL-i  ^ente  da  bene  slare  a  quel 
modo,  maravigliossi  molto,  e  disse:  Che  gente  scie  voi?  Onde 
.fCiiile  e  che  volete?  Allora  rispose  il  duca  Stefano  e  disse: 
veniamo  delle  parti  dì  Franda  e  della  Gallia  percoman- 
:lo  dell' imperadore,  quale  ii  mandato  per  me,  e  so  venuto 
in  prima  perchè  voi  mi  perdoniate  e  mie'  peccali  e  datemi 
Aiesaia,  però  clic  feci  lagliai-e  la  testa  a  una  mia  donna  che 
ffa  nome  Valeria,  e  per  questo  nt'  à  da  voi  mandato  uno 
die  è  vostro  parente.  Rispose  allora  santo  Pietro:  E  come 
DOiDe  costui  ?  Disse  il  duca  :  A  nome  Marziale.  Rispose  santo 
Tietro:  K  come  si  porta  infra  di  voi?  Che  vita  È  la  sita?  Disse 
il  duca:  Misscre.  egli  è  uno  santo  omo:  luì  guarisce  l'infermi, 
CJuda  li  dimonia  (t),  ratlumìna  e  ciechi,  dirizza  gli  attraili, 
nmiila  e  lebrosì.  risuscita  e  morti  e  battezza  l' infedeli.  Molte 
altre  viriti  e  santità  adopera  per  la  vìrlii  di  Gesti  Ciisto.  Ri- 
spn^  allora  santo  Pietro  e  disse:  Voi,  ligliuolì,  sete  tutti  bal- 
lezzalif  II  tinca  rispose:  Santissimo  Padre,  si;  ed  iu  quella 
ora  salilo  Pietro  levò  gli  occhi  inverso  il  delo  e  disse:  Padre 
Dito  oonipoieule,  io  lì  prego  che  tu  sia  in  suo  aìutorio,  però 


fi)  ¥nb!  Giardaao,  Pred.  XXXIIl  sullu  Genesi:  *  Tulli  gli  altri 
usi*  peccurono  •  ;  fu  adoixtrala  questa  voce  al  genero  njascoUno 
:h  d*l  VIIUdI.  lib.  IX.  Civ.  LIX. 


—  312  — 

che  per  Io  tuo  amore  egli  andò  cosi  di  longa  a  predicare  il 
nome  lue,  ed  a  sostenere  molte  pene  per  tuo  amore.  E  mAto 
cordialmente  pr^ò  allora  santo  Pietro  per  lui;  e  vedendo 
santo  Pietro  che  quello  duca  aveva  cotanta  contrizioDC;  e  cori 
fortemente  piangeva  e  suoi  peccati,  mosso  >  compassioDe  ddk 
lagrime  sue,  si  li  perdonò  tutti  e  suoi  peccati;  ed  il  duca  li 
volse  donare  dugento  libre  d'  oro,  ma  santo  Pietro  noi  vobe 
ricavare,  ma  disse  che  1  portasse  a  santo  Marziale  che  ne  b- 
cesse  fare  chiese.  E  poscia  avuta  la  benedizione  da  santo  Pietn, 
il  detto  duca  Stefano  andò  dinanzi  a  Nerone  con  '  tutta  quella 
gente;  e  poi  che  funo  spediti  da  lui,  e  tornando  inverso  on 
loro,  irovaro  un  flume  che  si  cliiama  Laviceoa,  e  ine  era  ■ 
bellissimo  palagio,  nel  quale  volendosi  riposare,  fece  teadan 
trabacche  e  padiglioni,  e  fecero  consiglio  d'  andare  a  vedere 
santo  Marziale  innanzi  che  ritornassero  a  le  case  loro,  poè 
che  avevano  avuto  molto  prospero  il  cammino  DeU'andve  e 
nel  tornare. 

E  bagnandosi  la  gente  in  quello  fiume,  però  che  in  qid 
tempo  era  grande  caldo,  avvenne  che  un  giovano  nomiiuto 
Ildelberto.  fìgliuolo  d' Arcadio  conte  di  Pittieri  (1),  quando  ri 
bagnava  io  quella  acqua,  fu  affogato  e  morto  dalli  dimooL  ISr 
la  qual  cosa  il  duca  e  tutta  la  sua  corte  ebbero  giandinw 
dolore,  ed  allora  si  diierminaro  d' andare  a  santo  Mandai^  e 
santo  Marziale  vedendo  il  padre  dì  questo  giovano,  eogaobbe 
per  divina  grazia  che  '1  lìgliuolo  era  da  li  dimoni  iBogtìo,  m 
l'anima  sua  era  salva.  ÀHora  disse  santo   Uaniale  al  padn 


Uè"  " 


—  tiVi  — 

orazioni;  e  iiuanOo  suolo  Mnrzinle  fu  gionto  .1  quel  fiume  con 
tiiua  ijuella  genie,  disse  queste  parole:  Io  vi  scongiuro,  ilimoni, 
die  in  questa  aequa  siale  affogare  la  gente,  che  'l  corpo  di 
quello  giovano  voi  a  riva  del  lìiime  lo  giltiate  subitamente,  e 
m  lai  modo  apparite,  che  ogni  persona  eh'  È  qui  presente,  vi 
possa  veliere.  Subitamente  quelli  dimoui  preseno  Torma  di  porci, 
e  col  grugno  gittaro  quello  corpo  alta  riva  del  fiume  di  longa 
dall'acqua  sei  stadii,  che  sono  delie  quattro  parti  le  tre  d'uno 
miglio  (1);  e  santo  Marziale  vedendo  ì  dimoui  avere  preso 
forma  di  porci,  coniandone  (2)  che  apparissero  in  forma  pro- 
pia  come  sono  fatti;  e  cosi  apparirò,  e  subito  si  gitlaro  a' 
piedi  di  santo  Marziale  con  grande  impeto  e  furore  e  ira, 
ed  erano  neri  più  che  non  sono  etiopi,  eil  avevano  li  piedi 
grandi  e  fi\i  occhi  terribili  e  crudelissimi  (3).  Li  capelli  ave- 
,vaDO  si  grandi,  che  tulio  't  corpo  coprivano;  per  la  bocca  e 
[Ulti  loro  iDi'^li  giltavano  fuoco  e  solfo  puzzolente.  Lo  suo 
ire  era  come  di  cerbi,  ed  in  tulle  l' altre  cose  erano  tanto 
i  ed  orrìbili  a  vedere,  che  lìngua  umana  noi  potrebbe 
dire.  Ciascheduno  di  loro  aveva  fn  mano  una  catena  di  fuoco 
mollo  ardente,  e  santo  Marziale  disse:  Dite  li  nomi  voslrì;  e 
l'uno  di  loro  disse:  Io  6  nome  Mille  arti.  Disse  santo  Mar- 
mie:  E  perchè  ài  tu  cosi  nome?  Ed  egli  rispose:  Perchè  io 
ò  mille  arti  per  le  mani  a  ingannare  le  persone  del  mondo. 
Poi  dimandò  santo  Marziale  Taliro  dimenio,  dicendo:  Tu  com'ai 
DomeT  E  rispose:  Io  mi  chiamo  Netlomio.  Disse  santo  Mar- 
ziale; Perchè  ai  cosi  nome!  Rispose:  Tanto  \nLol  dire  Net- 
tomio  :4),  quanto  affogalore;  onde  io  sto  qui  a  questo  fiume  per 


1  PniKlenilo  il  ratallo  per  la  rcdina,  si  cominciò  a  gridare  in  alti  voci  > 
tJttMe  ^pra  Dant?,  t'urgat.  \.;  <  La  sua  figliuola  mutata  in  colomba 
dato  (li  suoi  anni  nell'  alti  torri  ■  Ovid.  Siminl.  IV. 

(1)  Cioè  tre  quarti  di  miglio. 

(1)  Intendasi  eùmtmdà  loro;  lo  adoperatasi  sovente  dagli  antichi  in 
«fOM  e  luogo  di  torti,  come  ledcsì  anche  poco  appresso. 

(3i  Eiprimetano  cioè  la  crudeltà  del  loro  animo. 

(Il  Pai  gr.  vTjZTÓ^.  nuoinnic. 


—  3i4  — 
affogare  chiunchc  ci  passa,  e  moiri  ò  già  affogati  e  menali 
fuoco  eterno.  Disse  allora  santo  Marziale:  Queste  caiene  i 
in  mano  potiate,  che  ne  fate  voi?  Risposero:  Quando  i 
avenio  aggrappale  1'  anime,  con  queste  catene  di  Tuoco  le  1 
ghianio,  ed  al  noslro  prencipe  delle  tenebre  le  meùamo. 
sanlo  Marziale  disse:  Ironie  à  nome  questo  prencipe!  Ris] 
sero:  X  nome  Rissardo-  E  perei»'!  k  cosi  nome?  Rispose) 
Però  che  egli  è  quello  eh'  à  a  mettare  resfa,  briga,  odio 
discordia  fra  città  e  ciltù,  fra  castello  e  castello,  fra  uoBltt 
uomo,  e  cosi  non  è  nissiino  male  che  esso  non  faccia  e  ba 
fare;  e  detto  queste  parole,  pregavano  santo  Marnale,  dice 
do:  No' ti  preghiamo  che  tu  non  ci  facci  pììi  parltm  ] 
modo,  che  questa  gente  qui  d' intorno  ci  possa  inlendert  ! 
sapiamo  che  In  sai  parlare  e  intendi  tutti  linguaggi  (e  li 
era  la  verità,  però  che  quando  Cristo  mandò  lo  Spirito  S* 
sopra  gli  apostoli,  il  quale  lo  'nsegnò  tutte  le  lingue,  era  iM 
loro  santo  Marziale,  e  con  loro  ricevè  lo  Spirito  Santo,  e  1 
parò  tutte  le  lingue  del  mondo,  si  come  fecero  gli  altri  4 
stoli  )  ;  anche  ti  preghiamo  che  tu  non  ci  mandi  nd  idI 
Oceano  né  anco  nello  'nferno.  Le  quali  parole  sono  mollo  4 
considerare,  perchè  eglino  le  dissero.  Allora  santo  Mani 
parlò  a  loro  in  liugua  ebrea,  e  comandò  a  loro  che  andia 
in  parte  diserta,  là  dove  non  abitasse  né  persone  De  bM 
nÈ  uccelli  Tolasseno,  ed  ine  stessero  infine  al  di  del  ; 
dicio,  e  non  potessero  offendare  a  nulla  creatura, 
partirò  dì  subito  e  mai  noQ  comparirò  pi». 


—  344  — 

afiogare  dihmche  ci  passa,  e  molti  ò  già  affogati  e  menati  al 
fiiOGO  eterno.  Disse  allora  santo  Marziale:  Queste  catene  che 
in  mano  portate,  che  ne  fiite  voi?  Risposero:  Quando  noi 
avemo  aggrappate  V  anime,  con  queste  catene  di  fuoco  le  le- 
ghiamo, ed  al  nostro  prencipe  delle  tenebre  le  meniamo.  E 
santo  Marziale  disse:  Come  à  nome  questo  prencipe?  Rispo- 
sero: À  nome  Rissardo.  E  perchè  à  cosi  nome?  Risposero: 
Però  che  egli  è  quello  ch'à  a  mettare  resia,  briga,  odio  e 
discordia  fra  città  e  città,  fra  castello  e  castello,  fra  uomo  e 
uomo,  e  cosi  non  è  nissuno  male  che  esso  non  faccia  e  faccia 
fare;  e  detto  queste  parole,  pregavano  santo  Marziale,  dicen- 
do :  No*  ti  preghiamo  che  tu  non  ci  facci  più  parlare  per 
modo,  che  questa  gente  qui  d' intorno  ci  possa  intendere.  Noi 
sapiamo  che  tu  sai  parlare  e  intendi  tutti  linguaggi  (e  cosi 
era  la  verità,  però  che  quando  Cristo  mandò  lo  Spirito  Santo 
sopra  gU  apostoli,  il  quale  lo  'nsegnò  tutte  le  lingue,  era  infra 
loro  santo  Marziale,  e  con  loro  ricevè  lo  Spirito  Santo,  e  im- 
parò tutte  le  lingue  del  mondo,  si  come  fecero  gli  altri  apo- 
stoli); anche  ti  preghiamo  che  tu  non  ci  mandi  nel  mare 
Oceano  né  anco  nello  'nferno.  Le  quali  parole  sono  molto  da 
considerare,  perchè  eglino  le  dissero.  Allora  santo  Marziale 
parlò  a  loro  in  lingua  ebrea,  e  comandò  a  loro  che  andasseno 
in  parte  diserta,  là  dove  non  abitasse  né  persone  né  bestie, 
né  uccelli  volasseno,  ed  ine  stessero  infine  al  di  del  giu- 
dicio,  e  non  potessero  offendare  a  nulla  creatura.  Allora  si 
partirò  di  subito  e  mai  non  comparirò  più. 

Allora  il  duca  Stefano  e  M  padre  del  giovano  morto  e 
tutta  r  altra  baronia  pregarono  santo  Marziale,  che  li  piacesse 
di  resuscitare  quello  giovano,  e  santo  Marziale  rispose  e  disse 
cosi:  Fratelli  mici  carissimi,  tutti  quanti  stiamo  in  orazione  e 
preghiamo  V  altissimo  Dio,  che  V  anima  di  costui  ritomi  al 
corpo.  E  prese  la  mano  del  giovano  e  disse:  Nel  nome  del 
nostro  Signore  Gesù  Cristo  leva  su;  ed  elli  si  levò  subita- 
mente. Allora  tutta  quella  gente  s'inginocchiò,  e  con  grande 
reverenzia  laudaro  e  ringraziare  e  benedissero  Dio  e  santo 
Marziale.  Allora  santo  Marziale  comandò  al  giovano  eh'  era 
risuscitato,  che  narrasse  a  coloro  in  che  modo  affogò,  e  che 


—  Mo  — 

I  f;ilto  deiriDJm.i  sua  iieirallr.i  vìia,  e  li?  cose  che  vidde. 
Altor-i  incominciò  n  parlare  nel  cospetto  di  tutti  e  disse: 
Uuando  io  mi  bagnava  in  questo  lìume,  due  dimoni  mi  pre- 
seao  l'uno  per  lo  capo  e  l'altro  per  li  piedi,  e  si  m'alTogoro; 
b  qual  cosa  credo  che  m'avvenisse,  perchè  io  non  mi  se- 
gnai quando  entr-V  nel  fiume;  e  volendomi  legare  con  quelle 
alene  di  fuoco,  quali  avevano  in  mano,  ed  ecco  subitamente 
uno  angelo,  e  cavommì  delle  mani  loro,  e  menandomi  ron- 
filo verso  dell'  oriente,  ed  ecco  subitamente  due  grandi  schiere 
di  (limoni  venire  a  me;  1"  una  veniva  dietro,  e  l'altra  dinanzi, 
e  con  saette  di  tuoco  ardente;  ed  io  vedendomi  cosi  condotto, 
non  ebbi  mai  nò  credo  avere  si  terribile  paura;  ed  intanto 
che  tulio  uscii  fuore  di  me  medesimo,  e  come  esmaitito  rag- 
guardai  Tangelo  che  mi  menava,  per  volermi  nascondere  dopo 
Ini  per  paura  di  questi  furiosi  dimoni.  E  1"  angelo  vedendo 
tìte  io  ero  cosi  smarrito,  confortommi  e  dissemì:  Non  aver 
panni,  accostati  a  me  e  sta  sicuramente,  che  io  ti  diCendarò 
bcoc  delle  mani  di  costoro.  Allora  essendo  io  un  poco  rassi- 
curata delle  parole  dell'  angelo ,  esso  angelo  incominciò  a 
cantare  ipiello  salmo  del  Sallero:  Benedic.  anima  ìiwa,  Do- 
miiio  et  celerà,  cioè:  0  anima  mia.  benedice  il  Signore.  E 
cosi  cantando  giopemmo  al  purgatorio,  e  ragguardando  io 
«{uello,  credevo  che  fusse  lo  'iiremo;  ed  incominciai  avere 
^ode  paura  di  non  entrarvi,  e  T  angelo  che  mi  menava,  mi 
di5AC  :  Onesto  non  è  1*  inrenio,  anco  è  il  purgatorio  :  e  voglio 
che  sappi  poi  che  la  persona  è  battezzata,  o  poi  vivendo  nel 
mondo  pecca,  e  poi  si  conressa  e  Ta  nel  inondo  parte  della 
peoilenzia,  conviene  che  1'  altra  parte  facci  in  questo  luogo 
cbe  tu  vedi,  e  poi  va  a  godere  a  la  somma  e  felice  gloria  di 
tìu  etema.  Ed  imperciò  che  tu  ài  peccato,  poi  die  tu  fusti 
battezzalo,  ìu  molte  parole  superflue  ed  in  molte  altre  cose 
non  lecite,  delle  quali  tu  non  a'  nel  mondo  fatto  peuìtenzia, 
unperciò  ti  conviene  tanto  stare  in  questa  luogo,  die  l' anima 
tua  sia  motto  bene  purgata  e  purificata,  come  quando  esce 
deHa  fonte  del  battesimo. 

E  guardando  in  quello  luogo,  viddi  uno  fiume  molto  cor- 
rente, sopra  lo  quale  era  uno  ponte  molto  stretto:  e  veduto 


—  348  — 


Della  grande  penitenzia  che  fece  Aldeberto  sopraditto, 

poi  che  fu  risuscitato. 

Di  poi  santo  Marziale  e  'Iduca  Stefano  e  Aldeberto  e 
tutti  gli  altri  baroni  ritomaro  a  la  città  di  Lemoggia  con 
grande  gaudio  e  letizia,  sempre  laudando  e  magnificando  Dio; 
e  santo  Marziale  fece  sacrifizio  a  Dio  nella  chiesa  di  santo 
Stefano  primo  martire  e  suo  parente,  la  quale  aveva  fatta  fare 
a  suo  nome  e  suo  onore.  Àdelberto,  quale  era  risuscitato, 
tondossi  (1)  e  levossi  e  capelli,  e  promise  di  non  partirsi  mai 
da  santo  Marziale,  secondo  che  l'angelo  T aveva  ammaestrato, 
e  la  vita  sua  era  cosi  fatta:  poiché  fu  risuscitato,  ma' vino 
non  bebbe,  né  mai  carne  non  mangiò,  né  calzamento  alcuno 
più  gon  portò;  solo  col  pane  e  acqua  contento  stava,  e  1 
cilicio  su  le  carni  sempre  portava,  con  digiuni  ed  orazioni  e 
buone  opere  sempre  perseverava,  ed  ogni  cosa  che  '1  padre  e 
la  madre  li  dava,  a'  poveri  distribuiva.  Lo  conte  Arcadie  per 
amore  di  questo  Àldiberto  fece  grandi  doni  a  la  chiesa  di 
santo  Stefano,  e  per  li  buoni  esempli  di  questo  Àldiberto  molti 
si  convertirono  e  tornare  a  penitenzia  e  diventarono  di  buona 
e  santa  vita;  e  '1  duca  Stefano  per  comandamento  di  santo 
Marziale  mandò  messi  e  corrieri  a  tutti  quelli  della  Francia, 
ed  a  tutte  quelle  Provincie  che  a  lui  erano  suggette,  che  ve- 
dute le  sue  lettere,  dovessero  disfare  tutti  li  loro  idoli  e  lor 
falsi  dei,  e  solo  uno  vero  Dio  del  cielo,  tre  persone  in  una 
essenzia  adorasseno;  e  chi  contrafacesse,  fortemente  sarebbe 
punito.  E  fatto  questo  e  ricevuto  che  ebbe  ognuno  la  benedi- 
zione da  santo  Marziale,  ciascuno  tornò  a  casa. 

Era  questo  duca  Stefano  si  grande  signore,  che  dallo  im- 
peradore  in  fuore  non  era  in  tutto  il  mondo  maggiore  signor 


(1)  Cioè  tosassi,  dall*  antiquato  tondam  in  luogo  di  iondeni;  nei 
Morali  di  s.  Gre{;orio:  e  Ora  dunque  tondarsi  il  capo  non  é  altro,  se  non 
tagliarsi  dalla  nostra  mente  ogni  soperchio  pensiero  »,  lì.  S5. 


—  349  — 

di  lui;  lui  sempre  la  mezzedima  (1)  e  1  venardl  digiunava, 
vino  non  beieva  (2),  carne  non  mangiava,  il  cilicio  continua- 
mente portava,  e  mai  donna  non  prese,  castissimamente  viveva, 
grandi  limosine  faceva,  e  cherici  molto  onorava,  quattro  volte 
r  anno  con  tutta  la  sua  gente  santo  Marziale  visitava,  e  nella 
chiesa  di  santo  Stefano  in  orazione  molto  stava,  ed  a  questo 
modo  la  sua  vita  menava. 


Come  il  bastone  di  santo  Marziale  guari  uno 
che  era  paralitico ,  e  molta  gente  si  converti. 

Fu  nella  città  di  Bordella  (3)  uno  conte,  quale  aveva 
nome  Sigisberto,  ed  era  paralitico.  Udendo  dire  si  grandi 
miracoli  che  faceva  santo  Marziale,  chiamò  la  donna  sua  per 
nome  Benedetta,  e  disse  :  Prende  compagnia,  e  tolte  oro  e  ar- 
gento assai,  e  va  a  quel  santo  omo  nella  città  di  Lemoggia, 
ebe  fa  tanti  miracoli^  e  pregalo  che  mi  guarisca,  però  eh'  e 
nostri  dii  non  mi  possano  guarire,  e  tu  lo  sai.  Subito  la  donna 
Benedetta  prese  oro  molto  ed  argento,  e  per  sua  compagnia 
viototto  ceotonaia  di  cavalieri,  andò  a  la  città  di  Lemoggia  a 
quello  santo  omo,  e  santo  Marziale  vedendo  questa  gentil  donna 
con  tanta  compagnia,  cognobbe  per  divina  grazia  la  cagione 
perchè  quella  donna  era  venuta;  onde  parlò  a  quella  donna  e 
disse:  Tu  ài  uno  marito,  il  quale  è  stato  anni  sei  col  male  di 
paralitico;  e  la  contessa  disse:  Padre,  cosi  è  vero,  e  però 
prego  la  vostra  santità  che  voi  U  faciale  sano;  so  certa  avete 
la  possanza  se  voi  volete,  e  se  questo  farete,  verrà  da  voi  a 
battezzarsi.  Allora  vedendo  santo  Marziale  la  fede  di  costei, 
quale  era  contessa  di  Bordella,  e  tutto  'I  suo  paese  adorava 
ridoli,  disse:  Riloma  a  casa  tua  e  lolle  questo  mio  bastone, 
€  tocca  con  esso  lo  tuo  marito,  e  subilo  sarà  guarito.  Ed  in- 


(1)  Cioè  li  mercdedi^  il  giorno  medio  della  settimana. 

(2)  Dair  antiquato  beUre. 

(3)  Intendi  Bordeaux,  lai.  Burdigala. 


—  350  — 

iianici  die  quesla  conlcssa  si  partisse,  ù  bitleuò  da  santo 
Marziale  con  luiu  la  sua  compagnia,  e  poi  prese  il  baralo  di 
santo  Marziale  e  andossene. 

Innanzi  che  giognesse  a  la  sua  città  di  Bordella,  il  mig' 
gior  sacerdote  cioè  il  vescovo  della  ditta  cittì  andò  a  sacri- 
ficare a  uno  loro  idolo  chiamilo  Giove,  il  quale  parli  a  ludo 
il  popolo  e  disse:  Sappiate,  tutu  gente,  È  venuto  '1  tempo 
che  io  mi  debbo  pai'lire,  e  piii  non  posso  slare  ornai  eoo  voi, 
percliò  è  venuto  uno  ebreo  d' ollramare,  il  quale  lutti  e  miei 
compagni  disperge,  ed  :inco  me  caccia  e  perseguita;  e  vuole 
e  comanda  che  ognuno  ndori  quello  Dìo,  che  fece  il  cielo  t 
l'I  terra,  il  quale  poi  incarnò  della  vergine  Maria,  poi  fu  ctd- 
cilìsso  e  morto  da'  giuderi.  Allora  quello  sommo  sacerdMe 
disse:  Chi  è  questo  ebreo,  e  perchè  temete  voi  cosi  forte! 
Non  sete  voi  più  giande  Dio  e  piìi  potente  di  lui?  E  1  i- 
monio  stava  in  quella  imagine  e  rispose:  No,  perchè  egli  1 
amico  dell'  onnipotente  Dio,  e  sempre  vanno  eoa  Ini  dofiei 
aogeU  a  sua  guardia,  e  vino  non  beie,  carne  non  mangia,  a- 
micia  non  porta,  bagno  non  usa,  male  parole  non  dice,  aee 
sempre  lauda  Dio,  ed  opi  grazia  che  vuole  da  Dìo,  senqve 
ìi.  Allora  rispose  il  pontelìce  e  disse:  La  conlessa  nosin 
madonna  Benedetu  andò  da  luì,  e  ora  toma  con  grande  iD»- 
grezza,  e  io  con  tutta  la  gente  della  città  doviamo  aniare  | 
incontra.  11  dìmonio  rispose:  Non  sia  ella  Benedetta,  anco na- 1 
ladetta;  e  approssimandosi  alla  città,  quello  sommo  sac^erdottl 
insieme  con  tutto  il  popolo  andò  loro  ìncoaira;  e  gionti  Ai  " 
furono  a  la  contessa,  quello   sommo   sacerdote  incominciò  i  1 


—  3:;i  — 

come  mti'acolosamenle  sì  viJile  così  pivsto  guarito,  reudè 
grazi»  a  Oìslo  Leneilelto,  e  con  molla  grande  genie  e  eoo 
bello  apparecchiamento  andò  a  saulO  Marziale,  e  con  tntu  la 
sna  genie  si  fece  batlezzare,  e  poi  sempre  fu  divoto  e  servo 
di  Dio. 


Come  la  contessa  spense  uno  grandissimo  fuoco 
col  bacolo  di  santo  Marziale. 

In  quella  ridi'!  dì  Bordeila  s*acce.se  uno  grandissimo  fuo- 
co, tanto  che  lutla  la  cillà  era  a  mal  porto,  e  vedendo  que- 
sto In  contessa ,  con  grande  divozione  e  reverenzia  prese  quello 
bacolo  dì  santo  Marziale,  e  andò  incontro  quello  fnoco.  e  mo- 
strò guello  bacolo  a!  fnoco  e  disse  ad  alla  boce:  Gesti  Cristo, 
campaci  da  questo  fuoco  pei-  la  vìrti'i  del  tuo  sei'vo  Marziale; 
e  ditto  queste  parole,  il  fuoco  non  andò  più  oltre. 


Come  santo  Harsiale  guari  nove  spiritati. 

Fu  ammonito  santo  Marziale  dallo  Spirito  Santo,  che  .in- 
dasse  a  nna  provincia  che  si  cliiamava  Mauritaua,  dove  era 
ut»  grande  popola  che  era  appareccliiato  a  credere  in  Dìo, 
jil  quale  comandamento  santo  Marziale  fu  uhbidìente.  Andò  al 
ilitlo  luogo  e  stcttcvi  tre  mesi,  .il  quale  luogo  fu  menato  nove 
indinionialì,  e  pregato  sauto  Marziale  che  dovesse  liberare  co- 
storo, mosso  santo  Marziale  a  compassione,  pregò  Dio  per 
loro,  dicendo:  0  Iddio,  il  quale  dicesti  che  era  certa  genera- 
none  di  dimoni ,  quali  non  si  possano  cacciare  se  non  per  vìrtii 
d'orazione  e  di  digiuni,  pregoli  che  saui  costoro  e  lìberi  da 
(juesii  diiimui.  Ed  io  vi  coniando,  spìriti  maligni,  che  voi  vi 
partiate  prestamente  e  andate  allo'nfento,  ed  ine  stale  per  fine 
al  giudicio;  e  ditto  queste  parole,  subito  furono  liberali. 

Sigisberto  conle  di  Bordeila,  del  quale  è  ditto  di  sopra, 
sentendo  come  santo  Marziale  era  venuto  in  quelle  parli,  mos- 
sesi colla  contessa  Benedclla  sua  donna,  e  cm  molti  cavalieri 


—  352  — 

e  grnnije  apparecchiamenlo  per  andare  a  santo  HaniJle,  e  an- 
dniHlo  i  servi  suoi  per  suo  camandameDto  a  pescare,  enlro- 
rono  in  mare  bene  per  trecento  sladii,  che  monta  vinUquallra 
miglia;  e  subito  si  levò  iu  mare  una  grande  tempesta,  lano 
che  coloro  erano  per  perire.  Allora  la  contessa  vedendo  dalla 
lunga  la  Tortima  di  costoro,  prese  quel  bacolo  di  santo  Mar- 
ziale, e  mostrollo  verso  il  mare,  e  subito  fu  cessato  la  lem- 
pesta,  e  furono  liberi  e  riagraziarono  tutti  Dio  e  santo  Mar- 
ziale. Di  poi  tornò  sauto  Marziale  a  la  città  dì  Lemo^^  Il 
duca  Stefano  aveva  fatto  fare  sopru  il  sipolcro  di  santa  Vale- 
ria sua  donna  una  bella  chiesa,  la  quale  dovesse  cwisecrare 
santo  Marziale  a  onore  di  Dio  e  di  santo  Stefano  primo  mar- 
tire. 


Coma  santo  Hariiale  andA  a  tuta  terra  che  si  chiuna 

Ansiaco,  e  ine  fece  grandi  miracoli. 

Partissi  dalla  città  di  Lemoggìa  santo  Marziale,  e  andò 
a  una  terra  chiamala  Ansiaco,  laddove  era  uno  idolo,  ed  erano 
grande  moltitudine  d'infermi  di  diverse  e  varie  iofenniti,  e 
(|uella  genie  pregò  divotamente  Kiato  Marziale  Che  facesse  par- 
lare il  loro  Iddio,  però  che  avevano  udito  dire  a  lui  mede- 
simo, che  egli  dubitava  d'essare  legato  dagli  angeli  dì  santo 
Marziale,  e  cosi  era  vero,  però  che  egli  era  legato  con  ca- 
tene di  fuoco,  .\llora  disse  santo  Marziale:  lo  vi  scongiuro, 
inaladetti  demoni  che  sete  in  cotesta  statua,  che  subito  ve- 


—  353  — 

'  ore  essi  abitavano,  e  nella  ({iiale  si  facevano  adorare  per  e 
Dii;  e  poi  lo  coniando  che  si  partisseno  e  anda-iseno  a  luogo 
diserto,  ove  non  abitasse  persona  né  uccello  volasse,  e  di  su- 
bilo si  partirò,  e  poi  santo  Marziale  segnò  liilli  r|ue!li  inferrai  che 
erano  in  quello  luogo  e  subito  furono  tutti  guariti;  e  poi  tutti 
li  batleniì,  e  Lornossì  a  la  città  di  Lemoggia,  della  quale  era 
vescovo:  e  per  divina  grazia  cognobbe  die  a  Roma  Nerone 
imperadorc  fece  tagliare  l,i  lesta  a  santo  Favolo,  e  santo  Pie- 
tro era  crocifisso  per  amore  di  Gesii  Oislo.  Onde  comandò  die 
t  ostoussc  fornita  lacbieta  die'l  duca  Stefano  aveva  f^tto  co- 
minciare, la  quale  era  cominciala  e  difìcata  d'una  possessio- 
ne il)  di  santa  Valeria  sua  donna.  Anco  fecero  una  chiesa  ad 
onore  di  santo  Pietro  e  di  sauto  Favolo,  e  1*  altare  adornò  d' ìn- 
lorno  d'oro  lino,  e  dinanzi  vi  posero  sette  lainpane  di  Quo  oro,  e 
cinque  bellissimi  candelieri  d'oro,  e  una  bellissima  croce  d'oro, 
Di  poi  disse  santo  Marziale  al  duca  Stefano,  ctie  voleva  con- 
sacrare la  chiesa  che  aveva  fatto  fare,  e  mandò  per  tutte  le 
sue  terre  a  comandare,  che  ciascuno  venisse  e  arrecasse  vet- 
'  tovaglia  e  fornimento  abbonilantemenle ,  e  oguuuO  (iicesse  fe- 
sta e  allegrezza;  ed  intomo  a  la  città  fece  tendare  molli  |)a- 
f  diglioni  e  ifabacdie ,  perchè  la  genie  vi  potesse  capire.  E  ve- 
I  nutj  tutti  e  popoli,  disse  a  loro  santo  Marziale:  Domattina  sa- 
I  relè  apparecchiali  con  divozione  a  vedere  consagrare  la  cliie- 
»3,  e  guardatevi  da  ogni  peccato,  acciò  che  voi  siale  parle- 
fìci  di  quella  consegrazione.  La  mattina  seguente  dipendo  la 
messa  sauto  Marziale,  venne  uno  t[iovano,  quale  era  conte  di 
Tunisi,  con  una  sua  donna,  a' quali  eulrò  addosso  lo  spirito 
niatigno  in  quella  notte  dinanzi,  e  quali  fur  menali  dinanzi  a 
santo  Marziale,  mentre  die  ilìceva  la  messa,  e  disse:  Perchè 
sete  voi,  maladetlì  spirili,  inlrati  addosso  a  coslm-o?  E  quelli 
spirili  rìsposeno:  Perchè  tu  comandasti  ieri  che  stanotte  e  oggi 
si  dovesse  ogni  persona  guardare  da  peccare,  e  costoro  tutta 
questa  notte  sono  stati  insieme  in  atto  di  lussuria.  Queste  pa- 
role so  mollo  da  tenere  a  ipente.  Allotti  santo  Marziale  al 
prego  della  gente  che  ine  era,  comandò  a  li  dimoui  che   si 


(I)  Il  Goilicp  Ila  pocttiivnr. 


—  3.j4  — 

partìsseno,  e  cosi  fu  f^tto.  E  questo  conte  e  la  sua  doana  (n- 
rono  liberi,  e  tutti  quanti  laudarono  Dio  e  santo  Maniale. 

Tanto  splendore  mandb  Dio  in  quella  chiesa  sopra  di  lui 
quando  diceva  la  messa,  che  T  una  persona  non  poteva  vedere 
r  altra  per  tanta  luce  e  maraviglioso  splendore.  Fu  consegrata 
la  ditta  chiesa  di  santo  Pietro  e  di  santo  Favolo  lo  ^coodo 
di  di  maggio. 


Come  santo  Marziale  miae  il  prete  aella  ditta  chiesa, 
e  come  Nerone  aminaziA  si  medesimo. 

Lo  quanodccimo  anno  della  signoria  di  Nerone,  fece  nar- 
lìrizare  santo  Pii'iro  e  santo  Favolo,  e  quello  medesimo  anno 
uccise  sé  medesimo:  e  morto  Nerone,  fu  fatto  imperadore  Ve- 
spasiano- ConseciMla  che  fu  la  chiesa  predetta,  santo  Maniate 
e*l  duca  Stefano  poseno  a  quella  chiesa  per  prete  uno  che 
aveva  nome  Andrea,  compagno  di  Aureliano,  li  quali  santo 
Marziale  aveva  risuscitati  da  morte  a  vita.  Anco  vi  pose  Ildi- 
berto  iìgliuolo  del  conte  di  Pitticri,  del  quale  fu  ditto  di  so- 
pra come  fu  l'isuscilalo  da  santo  Marziale,  e  posevi  treotas^ 
cherici  e  guardie  a  guardare  il  tesoro.  Posevi  dodici  vaà 
d*oro  consagrati,  e  lassò  che  tutui  questa  genie  avvessenoda 
la  detta  chiesa  vestimenti  e  calzanienti  ed  anco  la  vita  (1),  e 
ciò  che  lo  bisognasse.  Anco  fece  fare  uno  spedale,  nel  quale 
ogni  di  avessei'o  loro  vita  cinquecento  povarì.  Lo  terzo  dì  dopo 


r 


—  3SS  — 

slìaiia,  il  nostro  Signore  Gesù  Cristo  sempre  laudava  e  bene- 
diceva. vViìco  orilinò  e  compose  die  qiiaiiro  volte  Panno  ogiii 
persona  che  venisse  a  qnella  chiesa,  avesse  vintollo  anni  <li 
perdonanza.  Anco  lì  donò  Dio  tanta  grazia,  che  conosceva  la 
c{isclenza  delle  persone,  ed  infra  l' alire  cose  dava  questo  con- 
siglio, che  nissuna  persona  prendesse  il  corpo  di  Cristo,  che 
non  fusse  bene  puro  e  mondo;  e  qualuoche  omo  o  donna  la 
notte  dinanzi  avesse  avuto  alcuna  corruzione  per  vìa  dì  ma- 
trimonio 0  in  qualunche  altro  modo,  non  prendesse  quello  inef- 
bbile  sacramento,  e  molle  altre  grandi,  alte,  buone  e  santis- 
sime cose  insegnava;  e  spezialmente  die  la  virginitJÌ  e  uma- 
iiilà  e  carità  erano  sopra  tutte  le  virtù.  Anco  comandava  Tu- 
ttidienza  e*l  matrimonio,  ma  pifi  commendava  la  viduità.  Lui 
sanava  ogni  infermità ,  e  ogni  grazia  che  la  persona  voleva  da 
lui,  che  russe  sicondo  Dio.  volentieri  faceva.  Tante  erano  le 
maravigliose  cose  e  miracoli  che  lui  faceva,  che  già  mai  non 
»  potrebbe  contare. 

Lo  quarto  anno  che  Vespasiano  fu  fatto  ìmperadore  dopo 
il  maladetto  Nerone,  il  duca  Stefano  mori,  e  fu  sopellito  con 
grande  onore  da  santo  Mar;£Ìale,  e  posto  alialo  al  sepolcro  di 
tanta  Valeria  sua  donna  a  di  tie  di  maggio,  e  credesi  per 
fermo  che  sia  santo  per  le  mohe  buone  e  virtuose  cose  che 
adoparò  secondo  la  dottrina  di  santo  Marziale. 

Dopo  la  morte  del  duca  Sterno,  cioè  anni  quaranta  dopo 
la  santa  resurrezione  di  Gesù  Cristo,  appari  esso  Gesìi  Cristo 
a  santo  Marziale,  essendo  egli  allora  nel  suo  oratorio,  il  quale 
era  nella  chiesa  di  santo  Stefano  primo  martire,  e  oiava;  ed 
in  questo  punto  venne  Gesù  Cristo  con  grandissimo  splendore, 
e  disse  cosi:  Pace  sia  a  te,  fedelissimo  mio  fratello;  imperò 
dte  ubidisti  a  la  mia  voce,  sarai  a  la  mia  compagnia  nel  re- 
gno di  vita  eterna.  E  vedendo  questo  il  glorioso  discepolo  di 
Gesìi  Cristo  santo  Marziale,  fu  fatto  pieno  dì  gninde  allegrezza 
i:  Signor  mio,  io  so  fatto  si  allegro,  che  mi  pare 
risuscitato  da  morte  a  vita.  Tu  se*  il  mio  Signore,  eie 
tramato  e  desiderato.  Tu  se' il  mìo  maestro,  la  tua  boce  b 
piena  di  grazia,  pregoti  che  tu  mi  ricevi  nella  tua  chiaritoi. 
Allora  Gesii  Cristo  li  disse  cosi:  Da  oggi  a  quindici  di  verro 


—  356  — 
a  te,  carissimo  mio,  e  rioe^'aroUi  co'  miei  santi  apotfolì  e  ggUì 
miei  aogeli,  e  co' patriarci,  co' martiri,  co' dottori,  co'coik 
fessorì  e  colla  graode  lurtia  delle  rergini,  e  bratti  reda  dd 
mio  regno.  E  subitamente  S  discepolo  di  Gesii  Cristo  saito 
Marziale  maoifestb  tutte  queste  cose  a*  suoi  compagm,  eioi 
saoto  AustrieJiano  e  santo  Alpiano  ed  a  certi  altri  suoi  diset- 
poli,  e  subito  mandò  messi  per  tutte  le  terre  e  [MQTiDde,  U 
dove  aveva  predicato,  che  eglino  dovessono  v^re  a  Ini  a  li 
città  di  Lemoggia,  peii  che  egli  inteadera  di  dare  a  ìon  li 
sua  benedizione  e  penlonanza  di  loro  peccali  nanzi  che  mo- 
risse, s)  come  aveva  avuta  l'aatorìtà  dì  Gesù  Cristo,  ed  ia 
i|uelli  di  raguDÒ  il  popolo  di  Pittieri  e  quello  di  fintliceno, 
quello  (li  Nerva  e  quello  di  Guascogna,  quello  di  Gotti  e  di 
molli  altri  paesi:  ed  iu  quelli  quìndici  di  il  discepolo  di  Cristo 
Marziale  di  e  notte  stava  in  orazione  e  conlinuamente  predi- 
cava, e  ogni  mattina  diceva  la  sua  messa  e  poco  i 
m«H>  beieva. 


Del  buono  ammaestramento  cb'  è  dì  santo  Marnale 
al  popolo  naniì  che  nOTÌsse. 

Approssimandosi  il  di  che  santo  Marziale  doveva  moriie, 
andò  fuore  della  cillà  a  predicare,  percbè  la  gotte  non  vi  ca- 
piva dentro:  o  cosi  andando  per  la  via,  diceva  a  la  gente  toiu 
per  ordine  tulle  le  cose  cbe'l  nostro  Signore  Gesii  Cristo  ado- 


aveva  veduto  Tare,  e  come  lui  a  quelle  cose  Tu  presente;  ed 

aminaestravnli  dì  liillo  i|iie1lo  die  Jovessero  Tare  a  piacere  a 

pio,  ed  a  salvare  raoime  loro,  e  singularmenle  amare  Dio  con 

tuo  il  cuore  sopra  ogiii  cosa,  ed  anco  il  prossimo  loro  per 

itnore  di  Dio,  e  che  I'udo  amasse  Taliro,  e  che  l'uno  non 

l'altro  quello  die  non  dolesse  che  fusse  fatto  a  lui; 

'  e  come  Cristo  comandò  non  solamente  amare  il  prossimo  e 

l'amico,  ma  eziandio  il  nimico,  e  per  luì  pregare  Dio  cou  di- 

vou  orazione,  e  se  lui  à  fame,  si  debba  dare  mangiare,  e  se 

keoe,  dalli  bere,  e  cosi  sovvenirlo  in  tutte  le  cose  cheli  fanno 

bisogno;  e  come  la  pace  e  la  morte,  la  vita  e  la  concordia 

eraDO  grandissimo  bene,  e  comcildimonìo  temeva  più  la  pace 

^«  ta  concordia  che  veiiina  altra  cosa,  e  Dio  piti  l'amava,  e 

some  la  persona  sì  doveva  guardare  da  ogni  peccato  mortale, 

l  come  facesse  da  uno  velenoso  serpente.  Queste  e  molte  al- 

ì  cose  buone  e  sante,  le  quali  sarebbero  longhe  a  recitare. 


venuto  il  di  della  sua  morte,  e  predicando  ed 
ammaestrando  il  popolo,  il  quale  pareva  che  fusse  ìnnumera- 
bile  a  vedere,  fece  queste  orazioni  per  tutti  coloro  che  erano 
ine  congregati,  e  disse  a  loro  che  rispondessero  Amen. 


C«me  BADto  Marziale  de  la  benedizione  al  suo  popolo 
cristiaDO,  e  come  pregò  Dio  per  loro  inaanei  che 
morisse. 

fieneiJicavi  Dio  e  guardivi,  ed  abbi  misericordia  dì  voi. 
Amen.  Gcsii  Cristo  onnipotente  figliuolo  di  Dìo  vivo  e  vero' 
io  U  raccomando  questo  popolo,  lo  quale  per  tua  grazia  io  ti 
ò  acquistalo  per  battesimo  e  per  fede,  e  tu  r,^i  ricomperato 
del  tuo  preziosissimo  sangue.  Tu,  maestro  mio,  il  quale  quando 
venni  a  slare  con  teco,  mi  dicesti  che  io  non  premlessì  mo- 
glie, ed  io  infìne  a  questo  di  ò  guardato  il  cuore  e'I  corpo 
mio,  e  so  per  tua  grazia  slato  vergine,  e  per  tuo  comanda- 
mento so  venuto  a  questa  provincia,  nella  quale  ò  .sostenuto 
(adip  per  lo  tuo  amore,  dirizci.  Signor  mio,  bi  mia  vìtii  a 

■i-i 


É 


te 


—  358  — 

si  che  lo  dimoDìo   doq  impedisca  il  mio  < 


:  Utlldi, 


Signore,  il  lume  che  nolla  veda:  apremi,  Signore,  la  porli 
del  paradiso  per  tua  misericordia,  e  nelle  tue  mani  neoo- 
maodo  lo  spìrito  mio. 

Vedeuilo  il  popolo  morire  santo  Marziale,  incomiiK»- 
vano  tutti  quanti  fortemente  a  piatire  per  la  grandisfiimi 
perdila  di  tanto  uomo  e  tale  maestro  e  si  EiUo  pastore;  t 
passando  l'anima  sua  di  i|uesta  misera  vita,  gridanu»  ad 
alla  boce.  e  (ìKevano  ^  grande  pianto,  e  metleraiio  si  gradi 
slrida.  che  santo  Marziale  per  lo  grande  impelo  a  sre^ 
come  uno  die  si  levasse  dal  sonno,  e  disse  cosi:  Tacete,  fi- 
gliuoli mìci,  e  non  piangele;  anco  con  meco  vi  nilgau 
perchè  '1  no-An  ^por  Gesù  Uristo  è  venuto  a  me  eoo  tulli 
la  corte  celesliale,  sì  come  vi  dissi  oggi  fa  quìndid  di:  «1 
ecco  siibiiamcule  un.i  voce  da*  delo  e  disse:  Vienne,  dìkBO 
mìo,  Vienne,  anima  beoedelU,  Vienne,  glorioso  discepolo  mio, 
ecco  elle  l'ani^eli  mìe' l'aspettano:  ecco  Pietro,  che  fa  M 
maestro,  l'aspetti  con  grande  allegrezza,  acciò  che  Ut  sia» 
ronato  con  luì  nella  somma  bealitudine.  E  dette  queste  parale, 
(|iiella  gloriosa  anima  se  n'  andò  in  Cielo  nel  jnezzo  àATm- 
gelico  coro.  Allora  fu  uililo  uno  bellissimo  canto  il'angdi,t 
i|uali  caiitavaito  am  grunJissinui  allegrezza  e  dicevano  aà: 
Bealo  è  qiiesio  uomo,  che  lu.  Dìo,  ài  eletto;  e  con  qDesU 
cauto  e  con  questa  allegrezza  andò  l' anima  sua  alla  gloria  ce- 
lestiale di  vita  etema. 


—  359  — 

ziale  i!  guarisse,  ed  essendo  già  mori»  santo  Marziale,  santo 
Alpiano  suo  compagno  tolse  il  sudano  di  santo  Marziale,  e 
poselo  sopra  di  quello  ritropico,  e  subito  fu  liberato. 


Come  santo  Marziale  fu  sopellito  nella  città  di  Lemoggia 

da  dne  santi,  e  quando. 

m 

Fu  sopellito  questo  santissimo  corpo  da  santo  Àlpiano  e 
santo  Austreliano  suoi  compagni,  e  quali  erano  venuti  con  lui 
da  Roma,  lo  quale  santo  Austreliano  era  stato  risuscitato  da 
santo  Marziale  a  Colle  di  Val  d'Elsa.  Fu  adunque  sepolto 
santo  Marziale  nella  città  di  Lemoggia  e  messo  in  uno  sepol- 
cro fra  santa  Valeria  e'I  duca  Stefano  l'ultimo  dì  di  giugno; 
e  cosi  come  santo  Marziale  nella  vita  sua  stette  coir  apostolo 
santo  Pietro  per  ispazio  di  sedici  anni,  e  amollo  più  che  nis- 
suno  uomo  di  questo  mondo,  così  piacque  a>  nostro  Signore 
Gesù  Cristo ,  che  Y  uno  di  morisse  santo  Pietro  e  andasse  in 
cielo  come  maestro ,  e  V  altro  di  seguitasse  santo  Marziale  come 
buono  discepolo,  e  così  la  santa  Chiesa  Tuno  di,  cioè  il  pe- 
nultimo di  giugno,  si  fa  la  festa  di  santo  Pietro,  e  T  altro  di 
si  fa  quella  di  santo  Marziale,  il  quale  sia  nostro  avvocato  in 
vita  eterna.  Amen. 

Fu  santo  Marziale  vescovo  della  città  di  Lemoggia  anni 
vintotto;  visse  anni  cinquanta  e  nove. 


Fine. 


GIOVAN  L'A  PROODA 


IL  HIBELLAMENTO  M  SICUiA  NEL  l»2 


^ax<yK'  :l  ntn  i  (Olìv*  »S& 


ijmnia  ao-Ja^aiK  per  passare  m  Cidlia  i 
di  pescai  e  éinaipi»m»  'ìe  dotHI&  E  •inedi  diserà.  Sa|Éle 
k«l  papa  Dicola  sì  e  morto.  Altre  Dordf  do  d  abbima.  JUltn 
•Ilv^  misMT  Giani  ora  an-laiì  cod  dia  el  infisesi  di  M  s^tn 
nullo  ke  li  cavaleri  do  s«a  ades^oo  di  onUa  ma  mollo  e  dh 
bioso  misHr  Giani  il  fato  le  quasi  remaso  se  no  die  à  pMC 
recooforu    ij.  Et  anJo  io  Cicilia  e  fne  aporuio  in  inpolì  cu 


I  Vi  La  L«;;;eDd>  motcws'-  :  t  ADcm  disM  meswr  Goni  :  Or  a- 
■Ul?  C40  ilio:  I-  ialÌDwi  <ti  nfin  •apert-  itvtttf  p^nbè  'I  canine  d'm 


—  361  — 
sSF  palmeri  abbaie.  Et  incontanente  andarono  a  mcsser 
Idamo  (li  Ialino  e  per  gialtri  baroni  di  Cicilia  che  ciascheduno 
iivesse  venire  eri  liscia  di  malta  a  parlamentare  con  misser 

"  Ciani  e  col  ambaglsalore  del  palioloco  al  più  cielato  chelli  po- 
tassero:— 

Da  che  furono  luti  insieme  assemblali  fecìero  multa  festa. 
l^Uanibasiatore  dil  palioloco  il  quale  avia  nome  misser  Aganlo 
liilino.  E  (]ue  si  si  levo  misser  Giani  de  procila  e  si  cominzin 
a  dire  come  misser  lo  palioloco  aveva  ferma  compagnia  con 
misser  lo  Re  daragona.  E  kogli  ciciliani.  E  come  aveva  data 
multa  moneta  per  cominziamento  del  fallo.  Allora  si  levo  mis- 
ser Alamo  e  disse,  misser  Giani  multo  tingraciamo  misser  lo 
palioloco  e  noj  di  tanto  bene  e  di  tanta  fattcha  guanta  voj 
aveti  messo  per  note  e  per  die  in  volerni  trare  di  serviludìne 
di  nosti'i  inimici.  Ma  sapiate  per  cierlo  cbe  ora  ci  e  incun- 
Irata  una  traversa  (1]  tropo  rea  si  come  fne  quella  di  misser 
lo  papa,  lo  quale  era  capo  de  queste  cose,  e  per  cuy  si  po- 
tano fare.  Onde  da  di'  e  morto  a  me  no  pare  e  die  si  vada 
più  inanze  al  falò.  E  quello  ke  fato  si  legna  zielato  che  no 
pare  che  dio  vogla  un  talle  segno  a  mostrato  di  questo  se- 
gnore  che  e  mono  (^)  cosi  dico  ke  no  si  vada  più  ìnanzi  al 
.  iiiiroj  che  noi  no  vodicramo  chi  sita  papa  se  ila  amico 
1  segTiore.  Allora  vetleremo  che  sera  da  fare.  E  quello  pare 
I  me  ci  megiorc  che  si  fazia.  A  questo  paroe  cbe  sacordas- 
lero  tuli  gli  aliri  baroni  dì  Cicilia  e  ipiasi  furono  tuli  discor- 

*  dati  del  fato  si  erano  paui'osi  de  la  morie  dil  papa  (3),  E  raesscr 


(1)  La  Lf^ggeniia  ba  pure:  t  una  traversa  molto  ria  *.  Il  lesto  Si- 
iaoo:  1  Diui  imversa  la  i{uali  csli  multa  ria  a  lu  luislru  fatlu  >. 

(i)  Questo  pasM)  scorretto  si  JRggi?  meglio  nella  Leggerla:  4  quello 
LcÉ'i  dito  ù  lenga  celalo,  che  Dio  non  pare  die  voglia;  Uile  insegna 
riM  n'ha  nuMlraia  dì  questo  signore  eh'  à  morto  ■.  Il  lesto  siciliano:  <  e 
L>i(niUi  che  Ddi  è  staio  talia  si  legna  ben  crlalu;  che  non  pari  chi  Deu 
Bio^à  cbe  si  lai:»,  per  tali  signtt  uhi  vi  esil  muslratu  di  lu  Papa,  lu 
ili  i  stala  monu  >. 

(3)  Il  cod.  Sau  Giorgio  Spnielli,  con  la  leggerissima  variarne  di  df- 
kaearrfo/i  invece  di  dìteorati.  e  rii  dubituii  anrì  che  ilubimi.  comesi 


—  362  — 

GìaDD)  thiio  questo  (òe  multo  rniciosso  et  Intasi  e  disse.  BelK 
SegDorì  (1)  multo  mi  maraveglo  de  zjoche  voj  dite,  veri  em 
e  die  messer  lo  papa  ee  morto,  ei  e  bea  vero  et  al  bto  e  dì 
scoDZio  asay  la  soa  morte,  ma  noa  dee  tornare  noo  cotalk 
Eato  a  retro  per  questa  ragioue.  sei  papa  fU  oostro  amico  bcM 
ista.  e  sa  no  fusse  cominzia  lite,  eoa  ciò  do  le  falla  che  li 
giessa  perdona  voluoterì  (2).  Se  no  zi  veoo  fato  tiilo  qodlo  ke 
pensiamo  avere,  mo  almeno  booo  concio  averemo.  ìb  se  òe 
vene  fato  A  mal  grado  del  papa  e  de  la  giessa  di  roma  U- 
remo  la  lera  qual  mal  cini  vogla  se  vor^e  istare  Itali  signori 
Che  mayore  forza  fue  quella  de  limperadore  Frederico  ke  ao 
sarebe  (luella  de  lo  Re  cario.  Se  no  lineste  ad  una  mentre  ko 


ì>^ge  nel  testo  siciliano  mIÌId,  lia  :  t  a  i|nistii  diri  si  auwrdara  ueii  i- 
Laranj  di  ùchilia  apiasi  ti  foni  rumasi  di  la  bctu  e  duconbli  H  wn 
<>ranD  dobitiui  e^pa^lì  di  la  iDOrti  di  In  fupi  >. 

(I)  Im  Legf.ntia  modenese:  •  Uà  signori  >:  ine^lts  il  Usta  àa- 
ì'umo  e  il  coiL  Spinelli  :  t  Signori  miei  •:  così  come  m  («mincà  ii  Si- 
cilia 1^1  discorso  die  $i  rivolga  a  )hìi  persone. 

(i)  Questo  passo,  e  quello  che  st^ue,  va  mollo  confuso  si  in^ 
sio  teslo  e  si  nella  Leggenda  o<e  irori  le  parole  slessa  che  <^i  lano 
qui.  Il  testo  siciliano,  in  cui  pare  uanclii  (|nalcosa,  ìegpf.  t  H  imftto 
oon  si  diri  lassari  (|oÌ!ta  cossi  fatta  imprìsa  cossi  grandi;  prri|DL<iara- 

sianì,  chi  Si  In  Papa  chi  si  brrà  sarrì  noslrn  amica adcumnuun 

questioni,  che  la  Clesia  itumana  perduna   lutti  li  peccatari;  e  si  ni  i& 
vni  ratta  quisto  chi  noi  cridecnu,  la  terra  a  lo  maldispeUo  dik  ~ 
e  di  la  Clesia  di  Ruma  la  tenium  per  Tona  >.  Non  s'intewlcbi 


qitilu 
■  h       boni 


—  ."leu  — 

;  islare  insieme  »  otta  (1).  Kt  ìmperzio  dico  ke  no  si 
tassi,  anzi  sinnndn  iannzi  col  falò  vnlentemeolre  et  ardilamente. 
Si  kel  giebe  (2)  tuli  rincorati  il  detu  sou.  co  le  ragione  che  mo- 
.  E  cossi  fermalo  ke  si  devessi  mandare  in  corte  de  lo  Re 
■de  ragona  per  sapere  Li  voluniade  sua.  E  meser  Giani  disse 
eiie  zi  voleva' andare  pur  eli  col  cavaliere  caveva  co  luj.  zio 
uisser  agardo  (3)  del  paiinloco.  chel  glc  voleva  dare  moneln 
uveano  co  loru  per  fornire  il  falò  elio  navilio  e  cavalieri  e 
Riarmata  mia  bene. 

Allora  se  parliroe  per  mare  al  andaro  in  catalogna  mes- 

Bscr  Giaoi  e  messer  a^rdo  latino.  E  fiutino  aportalì  in  bran- 

Kluua  vestili  come  frati  cremini  (4)  ke  no  siano  conossuti  et 

Pindaro  a  messer  lo  re.  E  quando  lo  Re  gli  vidde  Tue  multo 

xlegro  e  disc  loro  chessero  devesse  (5)  incontanente  presse  lo 

(1)  [niaidligibile  nnclie  (|ui»i'»liro  [hieso,  si>  pur  no»  ù  àeìtia 
:  ■  Se  vi  letieslit  aduna' mcDtrc  ke  lolcsie  slare  aduna'  t:  (|ua»ii 
riconlare  come  sotto  Federico  la  Sicilia  poié  sostenersi  contro 
{Ki>clic  concordi  i  BaroTii  con  I'  linpeniUir«.  Il  testo  siciliano 
ha:  (  impero  chi  indurì  forza  fu  quilb  di  1u  imperaturi  Pedericu.  dà 
quiib  di  iu  re  Carlo;  e  si  tenissivu,  lino  chi  vui  rulissiru  cg^ri  lialì  q 
Nel  (|ual  luogo  potrebbe  anche  leggersi:  <  e  sì  tenistiTU,  lino 
vai  Tulislivu  essiri  liali  e  boni  >.  Il  cod.  Spinelli  leggei  ■  et  si  vi- 
ìto  fiiu  ki  vui  vulissivu  essiri  liali  e  boni  t. 
(3)  Qaesto  gitbc  vaie  gli  ebba.  che  unito  a  parola  il  gì  sta  per  gli. 
'come  in  altri  luoghi  si  è  visto.  In  [juesio  luogo  il  lesto  ìiìcitlano  ha  una 
pcn'i  leggiamo  col  coit.  Spinelli;  e  In  diri  di  mìssiir  Jolinnni 
cuna  soi  veri  raiuni  el  fquì  ntanca  il  nerbai  cliascunu  curqjnsu  apln- 
ala  el  cossi  fa  Tuniilu  chi  lulti  disunì  cbi  sì  divissi  mandarì  pri  lu  Re 
di  ar^ona  in  sua  curii  pri  sapiri  la  sua  rolunlati  ». 

(3)  Di  quesla  miuer  Aj/ardu  il  lesto  siciliano  dice:  t  Misser  Ac- 
eardn  latinu,  chi  era  naiu  di  lu  chianu  di  Lombardia,  lu  quali  era  produ 
t  stviu  e  valenti  caialieri  ». 

(<!)  La  leggenda  modenese:  «  e  tuoro  apportali  iu  Barcellona  ve- 
stili aicconte  frali  erminii,  che  non  fossero  conosciuiì  >.   Il  lesio  sici- 
liano: «  e  foru  chicali  ipcrvenuUj  in  Barcellona  visitili  a  inodu  di  (Vati 
Frati  artninii,  o  cremini  poliiibbero  essere  i  frati  eremili, 
(5)  Questo  chessero  lifveise  nulla  Leggenda  si  ha  correlIainiHile:  <  e 
dtue  che  sedessero  >. 


—  361  — 

Re  mpsser  Giiini  e  menollo  nella  camera  luto  solo  e  Eecie  n 
luy  grande  compianto  de  la  morte  del  papa.  E  di&se  lo  Re 
follia  e  la  pensala  nostra  da  ke  perduto  lo  nostro  capo  none 
da  andari  giamay  ioanzi  col  folto.  Allora  disse  messer  &ta. 
per  dio  non  dotare  di  niente  Le  Doj  ziaveremo  boao  pqn  e 
fla  bene  noslro  amico,  pero  non  dotare  di  oieole.  anie  a»ii 
più  istudio  chi  may  fussi  per  rincorare  ^i  amici  nostri  de  Ci- 
cilia, ke  de  la  morte  del  papa  non  deba  dotare  di  nieole.  E 
sapiale  ke  questo  meo  compagno  si  e  uno  cavalere  dU  palio- 
loco  dia  nome  misser  agardo  latina.  Et  e  uno  savio  bom 
foteglì  lionore  grande.  El  udirete  quello  ke  ve  voradireEi^ 
piale  chel  vi  reche  XW.*"  unze  doro  per  incominduneaioiM 
foto  che  vapareccliiale  di  fore  la  armala  grande:  — 

Da  che  lo  Re  udìe  questo.  Incontanente  fue  riDCorMa  e 
disse,  io  vegio  che  dio  vole  pur  che  cosi  vada  sia  zio  cfaeia 
violi,  foro  zio  che  lu  may  delo.  E  cosi  se  partirò  di  la  tsUt. 
E  venendo  fuori  gliamaio  misser  agardo  e  foceli  mollo  hooon 
E  messer  Agardo  lo  saluto  da  la  parte  del  palioloco.  E  diw 
come  aveva  voluntade  de  luy  veddere  E  di  fore  parentado  e>- 
luy  e  con  sou  legniayo.  E  presentato  lor  letre  com'era  ordi- 
nato di  fore  e  tenero  miillo  consìglo  sopra  al  foto  come  do- 
vessero andare  E  cominzìare  la  armata  di  y  legni:  — 

Istiando  in  sieme  messer  lo  Re  di  ragona  E  messer  GìmL 
E  messer  .Agardo  in  quello  auiio  zioe  en  n.  ce.  Isxijj.  (1^ 
venne  loro  uno  messo  e  conto  loro  si  com  era  giamato  pofes 
un  cardinale  cliavìa  nome  messer  symone  de  torso  d 
Il  sou  uome  papale  era  Martino  papa  terzo  (3). 


Vttl 


—  .-MìS  — 

papa  francLscho  mollo  ite  pssere  amico  de  Kc  rjirlo.  E  po- 
rcile essere  (rapo  isconzo  al  falò.  Allora  disse  messer  lo  He 
ragona.  inesser  Oianì  pensate  zio  ke  da  pensare  al  falò.  E 
messer  Giani  disse  lo  malìore  amico  kavesse  lo  Re  cario  si  e 
questo  in  ciirte.  ma  pei-o  faremo  Luto  nostro  aparegi  lamento  e 
vedremo  quello  che  vora  a  fare  e  que  vi  pensaremo  ijnello 
che  si  convera  a)  fato:  — 

(i)  Dicie  che  del  niesu  de  febraro  vene  a  lo  Re  cario  in 
igla  UDO  messo  e  contoglì  siciime  messer  Pero  de  ragoiia 
facieva  grande  armata  io  mare,  e  no  si  potè  sapere  come,  ne 
lOD  perche  la  faciesse.  ne  a  cny  a  dosso  si  era  cielato.  (Juando 
lo  Re  cario  udie  questo  maraviglossi.  E  disse  iti  questo  modo 
chio  vi  dico  per  apresso.  Et  egli  sen  andò  a  Roma  al  papa:  — 
«  Al  grande  et  al  alto  karissimo  mio  nepote  philip[>o  Re 
Carlo  He  salute.  Faciovi  a  sapere  chio  oe  mesagio  el  i^uale 
ci  contio  si  come  messer  Pero  di  mgona  fae  armata  di  mare. 
E  lon  perche  no  si  sa.  Uade  vi  mandiamo  pregando  che  de- 
biali  mandare  messagi  ke  sapiano  in  luto  perkeglì  la  fa.  Eia 
cuj  egli  vuole  ire  a  dosso,  dia!  postulo  lo  voglamo  sapere  ■ . 
Quando  lo  He  di  Francia  udìo  questo  maraviglossi  molta 
(2)  E  mando  del  messe  de  aprile  uno  ambaìsatore  di  Franzìa  a 


(1)  Da  (|u)  sino  ali»  parolo:  ■  E  mando  del  mefc  di  oprile  uno 
wLiiuton'  di  Fniiizta  a  ui^ssei'  lo  n;  da  ra|;ona  >  inanr.a  nolln  L^t'Et^mla 
e  mtto  rpesto  Iratin  iniportiinlJsxinio,  clic  non  si  tia  nemmeno 
d  tetto  siciliano;  il  quale  dopo  le  parole  di  Gioranni  al  rp  Piciro,  se- 
«  E  slaodu  ioseiubli  intisiru  supra  l' accumin  sa  menta  di  la  armata  si 
tSa  nani  lu  misi  di  Aprile.  Di  chi  iuosi  una  ambaxalori  di  lu  re  di 
franta  r  fu  doranti  lu  Re  d'Aragona  ». 

Nella  iioTclla  di  Ser  Giavanni  Fiorentino  non  si  legge  neppure  lo 
letlorn  di  Carlo  n  Filippo  di  Francia,  ma  in  contonnìiii  alla  Leggenda 
nUfqta  mand.-L  ambasciadorì  al  re  di  Aragona  per  fama  del  tuo  appo- 
reeAiammio. 

rt)  Qui  ricomincia  sì  la  Leggenda  e  si  il  lesto  siciliano.  E  manca 

fan  di  Ulto  intero  iiuesto    passo  il  Cod.   Spinelli,  nd    quale  co^i  si 

'   legge:  <  et  sianda  insemlili  inlisiru  sopra  lu  accomcn samen lu  dilarmnia 

[lisi  di  aprìlL  Dìki  yunsi   imbaxaiuri  di  lu   Re  di  Franta 


m(>»u>r  lo  rte  fla  ragotia  e  disse:  Messer  lo  Re  di  Pmuiaper 
lonore  n  pei'  lamore  cliel  vi  portii  sencieodo  ke  voi  fite  ir- 
inaUt  di  legni  per  andare  sopra  a  saracini.  vi  si  proTera  aver 
e  persona  a  tato  vostro  comando.  E  pregavi  per  sou  amore  ke 
deliialc  per  letra  o  per  messo  signillcare  vostro  passagio  (t 
io  quale  parie  sera,  e  sopra  a  quali  saracini.  E  se  bisogu 
luoncta.  ke  Torse  vene  bisogna,  ka  volentieri  vece  presiera 
quanta  bisogna:  — 

Allora  disse  lo  Re  da  ragona:  Dizie  a  misser  lo  Re  di  fma. 
ke  fazioj  multe  grafie  de  la  gran  proferta  kezi  ma  fata  n  b 
mia  bisogna.  Azio  di  ame  non  convenc  parlare  per  leten  ke 
già  fue  mio  cognato,  parlaro  a  voj  messer  Cavaìere  e  dite  il 
Re  de  Traiiza  da  la  mia  parte,  che  vera  cosa  e  chio  debio  n- 
(lare  sopra  saracini.  may  io  non  direo  ove.  ne  a  cuy  per  nub 
cagione,  ma  io  credo  che  tosto  lo  sapra  bito  il  moòdo.  ongii 
andare.  Delle  proferte  soe  a  me  no  bisogna  altro  ke  umobIl 
EVegetello  da  la  mia  parte,  che  mi  debia  prestare  de  la  sn 
moneta  XL."  libri  de  tornesi  per  fornire  me  e  mia  gatte,  sibij 
piacie:  — 

l'artìssi  lo  cavaliere  dal  Re  di  ragona.  et  andooe  in  fta- 
zia.  e  conto  tuta  questa  ambaisata  a  lo  He  di  Dranzia.  Elio  Be 
ili  fruncia  comaiidoc  iiicoiilaiienle  che  gli  denari  fossero  apor- 
tati in  aragona  a  lo  Re  daragona.  E  furono  XL."  libri  di  ttr- 
nesi  (l).  Et  incontanente  comando  a  questo  ambaìs^ore  mt- 
ilesimo  che  cnvelrasse  incontanente  a  He  cario  in  pugla  per 
contare  le  novelle  chavea  dal  Re  daragona  Come  avea 
rli.induvu  sopra  a  saracìiii  con  graiide  isforzo.  ma  n 


^ 


—  -MI  — 

quando  vìilc  qiiest.i  amliaisai.i  (1)  miirnviglo»  mitilo. 
Allon  disse  lo  He  cario.  Mandategli  dicendo  chegli  voe  sopra 
a  saraeini  che  li  darcle  aiuto  grande.  E  se  va  sopra  a  cri- 
stiani comandategli  suto  pena  de  la  lera  (2)  ke  no  vada  in  parie 
di  dare  danno  a  rieuiio  fidele  de  la  chiessa  di  roma.  Quando 
il  papa  aodie  questo  Incontanente  mando  per  Trate  lacobo  de 
lordine  di  y  Irati  predicatori.  E  disse  chaconciasse  sou  biso- 
gno per  andai'e  n  lo  He  di  ragooa.  E  digli  cheu  intendo  che- 
degli  fae  grande  armata  di  mare  per  andare  sopra  a  saraeini. 
Che  se  va.  vada  da  la  parte  di  deo  kegli  dora  gi-ande  bene 
forc.  E  se  bisogna  ainto  dijioj  che  volnnl^^ira  giele  d.iremo.  E 
pregallo  da  la  nostra  parte  che  li  dica  in  qua!  parte  e  va.  e 
se  va  in  terra  de  barbari  o  del  Re  di  granata  (3).  kc  al  po- 
Btuto  lo  voglamo  sapere.  (^Iic  la  soa  andata  dola  tropo  la  gtessa 
ei)  honore  e  en  danagio  sou.  E  comanda  solo  pena  dì  perdere 
la  lera  quanto  da  noj.  che  no  vada  sopra  alcuno  chrìstiano  per 
guerra  fare.  E  di  questo  reclia  risposta  cierla:  — 

Il  frate  Jacopo  col  sou  compagno  e  via  andau  in  nragona. 
E  riie  aporlato  inanzo  a  lo  He  di  ragona.  e  niostrogli  tuia  la 
ambagisata  kel  [lapa  martino  gli  mandava.  Alora  dicìo  kel 
mostra  a  incs.ser  Giani  di  procila.  E  tenne  cdIii>  di  zio  coii- 
seglo.  t!t  in  ipiello  giorno  feciero  la  risposta  al  deto  frate  Ia- 
copo. E  dise  io  questo  modo.  Direte  al  nostro  signore  papa 
martino  che  come  nosti'o  padre  lo  rengraciamo  luy  di  tanta 
buona  proferta  quanta  ci  mostra.  E  diretegli  quando  sera  bi- 
Mgno  lo  sou  adiuto  Tarolao  rìnchiedere.  sicome  nostro  padre. 
Ma  ditegli  k.e  del  voler  sapei-e  quando  nostra  andata  Ila.  o  a 


(1)  Pare  die  (|iil  mancbj  iV  Papa,  a  cui  Carlo  raccania  l'ainlM' 

a  del  Re  ili  Pranciu'.  n£  pollava  meravigliarsi  Carlt>  die  già  sapvn 
della  cosa. 

|S)  Qw:,  sotto  pena  di  perdere  il  suo  regno.  La  Leggenda,  il  lesta 
iteiliano  e  il  coti.  Spinelli  leggono:  t  sotto  pena  della  terra  che  (iene 
da  voi  >. 

(3)  Qui  la  Leggenda  ha:  «  «e  va  in  (erra  di  Tartari  o  di  Bnrharì  o 

di  Gnnata  >  ma  il  ti>$lo  sidliano  col  cod.  Spindli:  t  chi  vi  dica  undi 

.  n  in  Urm  di  Kpilln  o  in  DarlM'ria,  n  punì  in  firanata. 


—  368  — 

cuy  a  dosso  quello  no  può  sapere  messer  per  veruno  nnodo  ke 
sia.  E  dilegli  se  eu  una  mano  il  dicìese  ^1  altra  la  muzarebe. 
Pero  ditegli  ke  mi  perdoni  a  questa  volta  chessere  no  puote 
altro.  Ma  sa  deo  piazie.  eo  credo  andare  in  parte  che  messer 
lo  papa  navra  multa  leticia  e  gaudio.  Questo  gli  dite  da  la  mia 
parte.  E  pregovene  per  dio:  — 

Il  frate  Jacopo  quando  odio  questo  fue  partito  da  Re  di 
ragona  e  venne  in  corte  al  papa  et  uno  giorno  venne  a  ridire 
la  ambagissata  al  papa  che  vi  era  presente  lo  Re  cario.  Elio 
frate  disse  a  messer  lo  papa  quello  che  lo  Re  di  ragona  avea 
risposto.  E  quando  lodirono  maraviglosi  molto.  Elio  Re  cario 
disse  Istia  dixemo  beni  ke  quello  di  ragona  e  uno  barone. 
(Mite  bella  risposta  ka  fata  (1).  ma  fazia  con  dio  zio  ke  fa 
segli  a  buna  fede  daquestare  sopra  a  saracini  deveretene  es- 
sere alegro  voi  e  tuta  la  chiessa  de  roma;  — 

Poi  se  partio  il  deto  messer  Giani  da  procita  da  lo  Re 
di  ragoua.  E  disse  io  vo  in  Cicilia  ad  ordinare  come  la  terra 
se  rebelli  in  questo  anno  da  Re  karlo.  E  foe  partito  da  lo  re 
di  ragona  e  disse  a  messere  agardo  latino  ambaisadore  del  pa- 
lioloco  ka  conciasse  suo  bisogno  per  andare  co  liig  in  Cicilia. 
E  presser  comiato  de  mese  de  genaio  en.  M.  CC.  LXXXij.  E 
E  giunse  in  trapalli.  E  mando  per  messere  palmere  abate,  e 
per  messere  aliamo  di  tentino,  e  per  messere  Gualtero  de  ca- 
latagirone.  che  dovessero  venire  a  parlamentare  co  luy  e  con 
gli  altri  sacreti  de  lisola.  In  quel  tempo  venero  tuti  in  trapoli. 
E  messer  Giani  cominzio  a  dire  Bey  sepori  e  buoni  amici, 
bone  novelle  vaporto  dil  nostro  novello  segnore.  Come  a  fata 
la  più  bella  armata.  Ke  may  fosse  in  mare,  e  de  le  megiori 
genti  Et  ae  fato  amiraglo  lo  mìglore  e  lo  più  francho  homo 
ke  sia  et  e  nostro  latino.  Et  a  nome  messer  rugieri  di  loria 
de  caivra  lo  quale  e  istato  Io  più  guerriero  homo  ke  sia.  e 
quello  ka  più  in  odio  li  francieschi  per  la  morte  de  lo  son 

(i)  La  Leggenda:  «  Dissìvi  bene  che'l  re  di  Raona  era  un  bric- 
cone :  udite  bella  risposta  e  ha  fatta  !  »  Il  testo  siciliano  :  e  Santa  Pa- 
dri, ben  vi  dissi  veru  eu  chi  re  di  Aragona  è  gran  filluni:  anditi  bella 
risposta  chi  ha  fattu!  >  Il  cod.  Spinelli  sopra  ìe^ge  folluni  qui  fulluni. 


I 


spia 
1        •hii 


—  36a  — 
si  pensale  ke  la  tcn  sia  tolui  i 
qualuDClie  ragione  ku  si  piiole.  E  may  no  Toc  più  belo  Taic 
clie  ora  (juando  io  Re  cario  e  acorte  del  papa,  el  prenze  e  in 
prolieitza.  ami  che  sen  tomi  sera  longo  lempo  passalo,  e  po- 
leie  meglo  fornire  vostre  terre  per  liscia.  Come  piache  a  mes- 
ser  Giani  fue  fato  et  ordinato  di  Tare  che  al  più  tosto  ke  si 
puole  sia  tolta  la  lera:  — 

Venne  il  tempo  del  mese  di  marzo  i)  secondo  die  dala 
pasqua  de  resoreso  {I).  Et  era  in  paleimo  messer  Giani,  e 
messcr  palmeii  e  messe  alamo.  e  messer  Gualtieri  e  tuli  gli 


(1)  Il  IcMo  siciliano:  *  IDrcii  chi  Tu  vinulu  In  misi  di  Ai>rilì  l' nnriti  ili 
li  milti  ducpnlo  ottanl^diii,  lu  marikl)  di  tu  Pas(|UR  di  la  Rcsiirreclioni  ». 
La  Leggenda  ba  pure  il  tnese  di  marut.  cosi  coiiic  questo  lesto:  ma 
in  aoia  io  diedi  ragiouc  a  pag.  153  delle  Cronache  cÌL  perche  inTcce 
dì  nurao  li  leslo  siciliano  dica  Aprili.  Il  inarlcdì  di  Pasqua  in  qu<>ìl'anDo 
1S82  cadde  nel  3t  mano,  e  perù  lo  scrittore  siciliano  segui  l'orario 
della  ChicEa  pel  quale  i  Vespri  aprono  la  solennità  del  giorno  vegnente, 
quando  già  entrava  l'aprite.  Cosi  pure  come  Ìl  lesto  siciliano,  il  cod. 
Spinellì,  e.  19-20;  «  Eccu  ki  (n  muta  lu  misi  di  apprìli  lannn  dili  mìlli 
•dui  cbenlu  oclanta  dui  In  Marti  dij  dita  poscua  dila  ncsurroccionì  eccu 
misMT  palmeri  nbali  e  misser  alaimu  diliniini  ei  misser  galleridiCn- 
itBgirani  et  tacti  li  altri  barunì  di  sichilia  lutti  accordati  ad  un  rolirì  p 
discreta  consigla  rìnira  inpalerma  p  fari  la  rìbellacìoni  dundi  in 
1  iomu  p  diclu  si  soli  Tari  una  gran  testa  fora  di  la  chiiaii  di  pa- 
hmiu  in  uuu  lovu  lu  qaali  si  cliama  sanctu  spirila  Dundi  una  fraocliiscu 
H  |frì»  una  Gmniina  loccandula  cum  li  manu  disonesiamenli  coma  ia 
eranu  niati  di  Tari  Diki  la  Timinina  gridau  el  liomini  di  palcmiu  cursìru 
in  quiUa  tìiuminu  ci  riprisuiisi  in  briga  ni  in  quilla  briga  intisira  qaisli 
baruni  prcdicli  et  incaltani  la  briga  contra  li  tranchiskì  et  livani  a  ri- 
■nurì  et  Ioni  ali  armi  li  D^nchiski  cum  li  palermitani  et  li  liomìnì  ani- 
muri  di|>etri  e  di  anni  gridandu  luoranii  li  francbiski  et  inlraru  intra  la 
chitati  cuui  grandi  rimurt  el  fora  p  li  pia;!  et  quanti  fnincliiscki  troia- 
nnu  luci!  li  auchklianu  >.  Ma  qui  è  da  noiare  che  in  calce  di  questa 
Cronica  sì  leggono  in  rosso,  e  di  caraiierc  stesso  di  tutto  il  Codice, 
due  note,  l'una  delle  Iquali  t-  questa:  <  A  li  millixclunij  anni  die 
martj  decime  Ind,  foru  morti  li  francliischi  in  palennu  ci  p  lucia  si- 
cliilia  >. 


—  3C8  — 

ruy  .1  dosso  quello  no  può  sapere  messer  per  veruno  modo  ke 
sia.  E  ililcgU  se  eu  una  mano  il  diciese  ^1  altra  U  mmanbe. 
l'ero  ditegli  ke  mi  perdoni  a  questa  volta  ctiessere  do  puott 
altro.  Ma  sa  deo  piazie.  eo  credo  andare  in  parte  che  mma 
lo  papa  navra  multa  leiicia  e  gaudio.  Questo  0i  dite  da  la  bi 
parte.  E  pregovene  per  dio:  — 

li  frate  Jacopo  quando  odio  questo  fue  partilo  da  Re  < 
rafrona  e  venne  in  corte  al  papa  et  uno  giorno  venne  a  rìdirc 
ta  anibafnssala  al  pa)M  che  vi  era  presente  lo  Re  cario.  Eli 
frale  disse  a  messer  lo  papa  quello  che  lo  Re  di  ragon  ira 
risposto.  E  quamlo  lodirooo  maraviglosi  mollo.  Elio  Re  aito 
disse  Istia  ilixcmo  beni  ke  quello  di  ragona  e  uno  toone. 
Odite  l)ella  risposta  ka  fata  (1).  ma  fazia  con  dio  zio  ke  b 
seglì  a  Ijuna  fale  daquestare  sopra  a  saracini  deveretene  a-  . 
sere  alegro  voi  e  luta  la  chicssa  ile  roma:  —  ' 

Poi  se  pnrtio  il  deto  messer  Giani  da  procita  da  lo  Bl 
dì  ragoua.  E  disse  io  vo  in  Cicilia  ad  ordinare  come  la  ton 
sfi  rebelli  in  iiuesto  anno  da  Ke  fenrlo.  E  fw  pnnito  fla  te  n_ 
di  ragona  e  disse  a  messere  agardo  latino  ambaisadore  delf 
tioloco  ka  conciasse  suo  bisogno  per  andare  co  liy  in 
E  presser  comialo  de  mese  de  gcnaio  en.  il.  CC.  LI) 
E  giunse  in  trapalli.  E  mando  per  messere  palmere  a 
per  messere  aliamo  di  lenlino.  e  per  messere  Gualteroded 
latagirane.  che  dovessero  venire  a  parlamentare  co  luy  e 
i^li  altri  sacreti  de  liscia.  In  quel  lempo  venero  tuli  il 
E  messer  Giani  comìnKio  a  dire  Bey  segnorì  e  buoni  i 
bone  nove! 


I 


—  371  — 

Quando  li  deli  t>uroui  videro  questo  cosi  andato  ì)  fato, 
zinscliiuio  aridoe  in  soa  tera  per  la  Cicilia,  e  Teciero  il  sonii- 
gleale.  salvo  che  messìDii  peno  vn  poclio  più  per  fare  pe- 
gio  (1).  E  bene  fuorono  morti  in  iiuesto  modo  infino  a  quatro 
miiia:  — 

Lutando  in  quello  tempo  in  corte  di  Roma  lo  Re  curio, 
venelli  uno  messo  da  parte  Ui  larciveskevo  di  moreale,  E  dis- 
sero si  come  cicdìa  erano  quasi  rebellaia  Iuta.  E  conto  si  come 
erano  morii  soj  franciesclii  lon  perche  noi  sapeva.  Or  vi  con- 
siglale  quello  che  sia  il  meglo  dì  voj:  — 

Quando  lo  Re  cario  iidio  questo  fne  multo  crudoso.  et 
inconieneute  andoe  .il  papa.  E  dise.  padre  santo  malie  novelle 
vaporto  de  me.  ke  la  tera  de  Cicilia  me  e  l'ebellata.  E  morta 
luta  la  mia  gente,  e  lor  perche  noi  soe.  Pero  piaciave  di  con- 
siliglami  e  dajularmi  di  tuto  quello  ke  mi  sia  bisogna  perke 
far  io  dovete  voj  e  luti  vostri  frati  (2)  e  con  tuta  la  chiesa 
di  roma.  El  papa  disse  llglolo  nostro  no  temere  niente,  che 
luto  laglolo  el  conseglo  che  voray  E  che  sìe  mestieri  luto  !o 
ti  laramo.  va  en  lo  regno  e  fa  tua  armata.  E  passa  di  la  e  ra- 
questa  ìKT  concio  e  per  piace  che  puoj.  E  mena  con  lecho 
uno  nostro  legalo  e  nostre  letiv.  E  da  nostra  parte  dìray  a  ci- 
ciliani  che  li  Rendano  la  tera  la  quale  tignamo  nostra  yspì- 
ciale  camera,  allora  se  partio.  lo  Re  cario,  et  aduno  consiglo 
de  tuli  y  chìeressi  e  cardinali  et  altri  prelati  e  pregogli  per 
dio  chel  devesseixi  consiglare  de  le  sue  besogne.  E  conio  loro 
sì  come  Cicilia  era  rebellata  e  come  aveva  perduta  la  soa  gen- 
ie. Allora  si  levo  messer  Jacopo  salvello  e  disse.  Messer  lo  Re. 
Alla  chiese  di  roma  piazìe  ke  voj  sciate  adiutato  e  consìglato. 
per  ke  lo  debiamo  fare  per  tute  Ragioni.  Ke  tropo  amesso  en 
ìonore  de  la  sancta  chiesa  di  roma,  e  de  suoi  frali  (3).  Et  io 


(I)  Il  («sio  siciliuno  ha  itolaiiiciitr  t  Salvu  Mi>siria,  ctii  aililiiiian- 
dau  un  certu  icmpu  ». 

li)  hHendi  i  Cardinali. 

(3)  Oui  il  tcsio  siciliano  legge;  t  irti|i[H]  .iviii  misa  ail  oiiiiri  lu 
Clcsia  'li  Itunw  <■  li  sei  latti  •.  yueslo/'fdd' iw  Cuiilinali,  loiiu'  sopra. 


k 


—  372  — 

pcrzio  per  me  voglo  ke  vadi  in  Cicilia  e  meoi  eoo  tedio  uno 
legato  cardinale.  Che  Luti  y  prociessi  che  si  possano  dare  e  fare 
9,1  ke  se  raqiicsti  la  terra  per  via  de  pacie  per  voler  guen.  E 
cossi  per  questo  tenore  dissero  tuli  glnltri.  E  questo  fermaro 
e  tomaro  al  papa.  E  dissero  i|uel]o  chavean  ordinato  di  fiffe 
et  al  papa  piace.  Et  amantenenle  chomando  a  messer  Girardo 
da  parma  cardinale  cha  conciasse  sou  bisogno  per  andare  in  à- 
cilia  in  servizio  de  la  ciiiessa  di  roma  e  de  lo  Re  cario.  E 
cossi  foe  fallo  al  so  comandamento:  — 

Allora  lo  Re  cario  tolsoi  messagi  asay.  E  mandogU  pir 
Iute  parti.  Al  He  iti  Francia  et  al  prenze  sou  figliolo  sì  come 
Cicilia  era  rebcllala  da  luj  et  erano  luti  morti  li  soj  fraDÒe- 
schi.  cagione  per  ke  noi  sa|)eva.  ctie  per  dio  lo  dovesse  lo  Re 
di  Fninzia  consiglare  et  ainlare  li^  in  qnesto  fato.  Et  al  preme 
che  incontanente  devese  venire  in  piigla  con  quanto  ìslÒRO 
potesse  e  die  pregasse  luti  li  baioni  di  francia  ke  debiano  ve- 
nire in  pugl.1  per  lo  soii  amore.  Allora  quando  lo  Re  di  ftan- 
cia  udio  (|uesto.  Tue  multo  crucioso.  e  gito  multi  sos[Hrì.  E 
dise  al  prenze.  fiMlello  mio.  lìrande  paura  oe  che  questo  fUo 
no  sia  fato  a  petilione  di  lo  Re  di  ragona.  Ke  do  mi  vele  dire 
ne  perche  ne  dove  andava:  — 

Quando  li  prestai  XL.™  libre  ile  tomesi  tropo  mene  parve 
male,  ma  si  zio  e.  no  poni  io  (urona.  sìo  no  nel  Ib  pentire  st 
questo  tradimenlo  a  falò  alla  cliie.ssa  di  roma  et  a  la  casa  dì 
francia.  Et  incontanente  disse  al  prenze  ke  cavalcasse  in  pogb 
et  al  conto  artcsc  et  a  quello  di  lancone  de  piemartino  [l]  et 


—  373  — 

fue  mosso  di  branditia  con  oste  di  mare  in  fino  a  regio  di  ca- 
lavra  con  luto  sou  isforzo.  cavalieri  e  baroni  francieschi  e  pro- 
vinzale  e  lombardi  e  toscani  e  di  tei*a  romana  e  furono  pas- 
sati a  messina.  E  quando  fue  di  la  puosse  sul  campo  a  sancta 
maria  di  rocha  maiora  (1).  Et  era  co  luj  el  legato:  — 

Quando  gli  missinesi  videro  questo  fuorono  ispaventati  si 
come  homeni  che  dovevano  recevere  morte,  che  bene  la  ave- 
vano per  servita  (2i.  Incontanente  mandoe  ambasiatore  a  Re 
cario  et  al  legato  ke  devesero  venire  per  la  tera  si  come  le- 
gipiimo  segnore.  pregando  di  misericordia  di  loro.  E  fusse  lo 
Re  andato  en  la  tera  avevalla  al  so  comandamento.  Ma  no 
volse.  E  mandoli  diffidando  sicome  traditori  di  soa  corona  chel 
no  volle  loro  prometere  mercede,  ma  morte  di  loro,  e  di  loro 
figloli.  Ke  talle  offensa  aveano  fatta.  E  tal  peccato  alla  chiessa 
di  roma  et  alla  cassa  di  franza  che  may  non  averano  miseri- 
cordia ma  di  morte.  E  de  zio  sou  tuti  dìgni.  e  ke  tornasero 
in  loro  tera.  e  defendeseno  loro  tera.  E  may  no  li  venisero 
più  inanzì  per  neuno  patto  fare.  E  con  questo  si  se  partirono 
da  luy.  e  tornaronsi  in  messina.  E  contaro  loro  questa  amba- 
siata.  Allora  veddendo  questo  queli  de  messina  Zioe  questo 
fato  Li  messinesi  eboro  paura  di  morte.  E  stetero  iiij  giorni 
in  questa  conditione  o  davere  misericordia  o  di  perire:  — 


(1)  Non  Sancla  Maria  di  rocha  maiora,  o  Sancta  Maria  di 
Rocca  Majore  siccome  ha  la  Leggenda,  e  trascrissero  il  Malespini  e  il 
Villani;  bensì  deve  dire  Santa  Maria  di  Rocca  amaturi,  che  è  pro- 
prio il  nome  del  luogo,  e  come  appunto  si  legge  nel  testo  siciliano.  Il 
cod.  Spinelli:  e  et  misi  campu  undi  sancta  maria  di  rocca  amaduri  »,  se- 
condo la  pronunzia  del  sec.  Xlli  e  XIV. 

(2)  Questo  e  che  bene  la  avevano  per  servita  >  nella  Leggenda  è 
solamente  e  che  ben  l'avevano  servita  >  e  il  Cappelli  annotò:  servita, 
meritata.  Il  testo  siciliano  dice:  e  hapf^iru  gran  paura,  comu  homini 
li  quali  havianu  servutu  di  ricipirì  morti  »;  né  potrebbe  intendersi  che, 
come  uomini  che  erano  stati  sudditi,  e  ora  rubelli,  si  che  erano  in  pena 
di  morte.  Ma  sta  pure  servita  per  meritata.  11  cod.  Spinelli  legge  come 
il  testo  siciliano  :  e  appiru  gran  paura  comu  homini  li  quali  aviaou  ser- 
TUtu  di  richipìri  morti»  . 

2i 


—  374  — 

Et  uno  giorno  venne  el  conte  de  monforte  e  quello  di 
brenna  con  cavalieri  e  con  pedoni  verso  una  terra  cha  nome 
melazo.  ardendo  e  vastando  la  terra  usirono  fuori  credendo  de- 
fendere. E  franceschi  veddendo  gli  ussioro  per  forza  loro  a 
dosso.  E  sconOssoro  entra  messinesi  e  de  quelli  de  melazzo 
bene  octecento.  Quando  torno  la  novella  a  messina  tenessi  tuti 
morti.  E  mandarono  per  lo  legato  ke  devesse  venire  en  la  tera 
per  aconciarli  colo  Re  cario,  si  che  avessero  logo  en  quelle 
cosse.  Elio  legatto  entro  in  messina  e  presento  letre  del  papa 
al  comune  di  messina.  E  fi  legero  il  processo  che  la  chiessa 
avea  fato  contra  a  loro,  se  per  via  di  mercede  non  volessero 
dare  loro  la  tera  portando  lieltade  sicome  a  legiptimo  segnore. 
E  dissero  le  letre  in  questo  modo  chio  vi  dico  qui  apresso:  — 

c(  Ay  perfldi  crudeli  (1)  di  lisola  di  Cicilia  Martino  papa 
terzo,  de  quelle  salute  che  sete  digni  salute.  Sicome  corum- 
pitorì  de  pacie  e  di  xrìstianitate.  Et  ulciditori  e  spanditori  di 
sangue  di  nostri  fedeli,  noj  comandiamo  che  vedute  le  nostre 
letre  dibiate  Rendere  la  tera  a  nostro  campione,  zioe  messer 
karlo  di  gerùsalem  e  di  Cicilia  Re  per  lautoritade  di  sancta 


(i)  Gos)  pure  la  Leggenda:  Perfidi  crudeli  dell* isola  di  Cicilia  ».  Ma 
più  correttamente  il  testo  siciliano:  «  Ài  perfidi  Judei  della  isola  di  Si- 
cilia >.  Questo  Judei,  parola  che  è  ben  ?iva  in  Sicilia  per  dire  uomo 
crudele,  senza  pietà,  risponde  bene  alla  risposta  data  per  tre  volte  dal 
papa  ai  legati  siciliani  che  supplicavano  con  ripetere  tre  volte  il  mise- 
rere  rvohis ,  cioè:  Ave  reo?  ludeorum,  et  dabant  ei  alapam,  -^  Ave 
ecc.  et  dabant  —  Ave  ecc.  et  dabant  ecc.  Il  cod.  Spinelli  ha:  e  A  li 
perfidi  Judei  allisula  di  sichilia  ».  In  questa  lettera  di  papa  Martino  dove 
nel  testo  siciliano  pubblicato  si  legge  per  Vautoritati,  il  cod  che  servi 
air  edizione  del  Di  Gregorio  e  alla  nostra  del  volume  delle  Cronache 
Siciliane,  ha  pri  l' aniichitati.  Ma  il  Di  Gregorio  aveva  corretto  per 
V  autorilati ,  ed  io  ne  accettava  la  correzione,  che  fu  confermata  dalla 
Leggenda  modenese,  siccome  lo  è  da  questo  testo  Vaticano.  Intanto  è 
da  notare  che  anche  il  cod.  Spinelli  legge  p  lantiquitati ,  dando  cosi  a^ 
gomento  che  sovr'  esso  fosse  stato  esemplato  la  prima  volta  il  cod.  della 
Biblioteca  Comunale  di  Palermo,  già  trascritto  dal  Carrera  nel  sec.  XVII, 
sopra  Codice  antico  in  Messina.  E  questo  sospetto  si  era  da  noi  annun- 
ziato sin  dal  1865  a  p.  X  delle  Cronache  cit. 


—  375  — 

chiessa  di  roma.  Pero  debiate  voy  a  luj  obedire  come  vostro 
legiptimo  segnore.  E  se  zio  no  facieste  anunciovi  iscomunica- 
Uone.  et  interdeti  secondo  luso  de  la  divina  ragione.  Ànun- 
ciandovi  giuslicia  In  spirituale  e  temporale  »:  — 

Quando  il  comune  di  messina  videro  questo.  Il  popolo  fue 
ispaurìto.  E  fuorono  chiamati  XXX  homeni  dil  popolo  de  mes- 
sina che  devessero  trovare  concio  co  lo  legato  e  co  lo  Re  cario. 
E  quando  fuorono  multo  istate  sopra  a  zio  domandogli  illegato 
ke  pati  vollesero.  E  quelli  dissero  che  voleano  cotalli  patti 
dal  Re  ke  noj  si  gli  darremo  la  tera.  E  pagerebo  al  fòdro 
delo  Re  Guielmo  (2).  E  voglamo  segnorìa  da  luy.  la  quale  sia 
latina  e  no  franciescha  ne  provenzalle.  E  volemo  che  perdoni 
lofessa  che  li  nostri  fecioro  a  suoj  cavaglieri.  Se  questo  fa  noj 
istaremo  buoni  et  fideli:  — 

Elio  legato  quando  udio  questo,  dissero  (3).  Mandaremo 
en  el  campo  a  Re  cario.  E  vederemo  la  voluntade  soa.  E  sa 
dio  piace  noj  faremo  bene  e  meteremo  in  acordo  il  fato  et  in 
pacie.  Et  incontanente  tolse  ilegato  il  camerlengo  soa.  E  man- 
dolo  A  Re  cario,  con  questo  mandato:  — 

Da  parte  di  dio  lo  dovesse  pigiare.  E  perdonare  loro  per- 
che dio  perdonasse  luj  :  (4)  — 

Allora  quando  lo  Re  cario  udie  questo  fue  adirato.  E  que- 
sta fue  la  sua  risposta:  — 

Quegli  che  sono  digne  di  morte  et  domandano  pati.  E 
volonomi  toglere  la  signoria.  E  volono  kio  tegna  luso  delo  Re 


(2)  Fodro  qui  vale  i  tributi  che  si  pagavano  sotto  il  regno  di  re 
Guglielmo  li.  Il  testo  siciliano  ha:  e  e  pagbirimu  in  quìllu  modu  comu 
pagavamu  anticamenti  in  lu  tempu  dì  lu  re  Guglielmu  >.  E  questo  tempu 
di  iu  re  Guglielmo  è  restato  nelle  tradizioni  del  popolo  siciliano  come 
tempo  dì  grande  prosperità  pubblica  e  privata. 

(3)  Correttamente  diste.  La  Leggenda  ha  :  e  11  Legalo  udio  questo , 
disse  >:  manca  del  quando,  necessario  al  costrutto. 

(4)  Meglio  il  testo  siciliano:  e  et  incontanenti  lu  Legatu  mandau 
onu  Camerlingu  a  lu  Re  Garlu  cu  tutti  quistì  patti,  scrittu  ancora  da 
parti  di  lu  Legatu  chi  li  duvissi  placiri  di  parti  di  Deu  chi  duvissi  prin- 
dirsi  quistì  patti,  e  perdunarili,  a  tali  chi  Deu  perduna.^i  ad  isso  ». 


—  376  — 

Giiielnio.  che  iiooaveva  quasi  de  reDdita  del  paese  (1).  none 
far»!  niente.  Ma  da  che  al  legato  piace  eo  perdonaro  la  mone 
salvo  che  m*  voglo  dì  loi^  viij.  e.  a  poter  fare  di  loro  al  mìo  co- 
man-lo  *2 .  E  tenendo  sejniorìa  <le  mee.  quela  che  me  piade 
si  come  libero  se;:nore.  |kai;ando  cotte  e  dogane,  ste  come 
usato  (3l.  So  •|iie$io  vollono  fare  facialo  E  se  no  dt^eodassise 
possono  elio  Ix'iio  Lissogna  loro:  — 

11  oanitTlonv'o  torno  in  luessina  con  questa  ambasiata.  E 
qu'tndo  li  XX.X.  ili  niessìna  udirono  questo  furono  diaanli  a  luto 
il  pcipollo.  K  dìsscno  Come  l->  Re  cario  aveva  mandato  diccnda 
E  qucfili  dissero.  Ojni  vollonio  manucharl  Inno  laltro.  et  aoii 
votlemo  morire  in  tra  li  nostri  fintoli,  et  in  nostra  tera  che 
morire  per  lo  mondo  et  in  prigioni  degli  nostri  inimici  (4).  E 


(Il  (1  ii'<tt>  >ì<-ilt:i[;o  dice:  •  l'Ili  noD  tiaiìa  Df>mi  lem  «  lu  so  ptià, 
ne  Di\ìuia  ri'iiiiii.i  t.  Ma  •|ii<>l->  .<'  Ji'Tn-libe  riniuoterù:  né  poi  rìspoo- 
deretdie  il  dii!»  di  r<-  l'.uil)  a^li  .<:aiuii  dv>' tempi  Dormanni,  né  quali fii 
5l  eldk'  il  -k  tir,  ■■  d'I  |>rì:.ci|i'  eli.'  (a  appaiina^irio  di-Ila  famiglia  ti- 
pa, e  i-i-n  is-r-  la  !"j  .  i-3  .'i  :  iv;  i^.  vi<W  li-oi  che  reodeTaiw  alb 
regina,  niu^i  doli-  >'.;ì;m  S;j!<'. 

1^1  11  li-^to  >ìi-ilijri^  non  lu  <]'ir^U  domanda  di  Tilt  cento  daficAi, 
come  pur  d'iv  la  l.iv^-nJj.  Il  ci-l.  Spiiu-Ui  non  ba  piti  cbequc»lo:<ei 
alloni  piTlUfTiii  lj  Olili  sjìtn  <hi  «a  lo^lu  cbi  ip^i  sLiyann  animni  pò- 
tiri  elbri  dilani  tneti  Ha  rohati  >.  "Svù  à  parla  nemmuio  di  «uiidu 

(3)  Nd  l«slo  tidBaB»  e  nel  «d.  SfindE,  à  ha:  «  pagacdu  culli  f 
dtoaada  Mcanin  ttà  msna  >.  la  aoa  a  qMsto  passo  noi  pn'punrtanw 
di  kstcn  eoli,  gi»li,  iB«Mr  et  eMi  (caikue),  a  n^ione  Mìe  nò 


—  377  — 

questo  risposeno  al  legato.  E  quando  lo  legato  udio  questo  fue 
multo  crucioso  e  disse  loro.  Da  che  non  volete  fare  zio  a  Re 
cario.  Et  io  vi  denuntio  iscomunicati.  et  interdeti  de  la  sancta 
chiessa  e  di  messer  lo  papa  di  roma.  E  comando  a  tuti  que- 
gli al  terzo  die  siano  fuore  de  la  tera.  E  rinchiesse  il  comune 
di  messina  che  dovesse  di  qui  a  XL.  giorni  conparire  dinanzi 
a  messer  lo  papa  ad  audire  sentenza  soto  pena  de  la  tera  che 
teneano  da  la  chiexa  di  roma  (1).  E  usirono  de  la  tera:  — 

Quando  lo  Re  cario  udie  lo  legato  fuori  de  la  tera  sua 
consiglosi  colgli  soj  baroni  quello  che  dovessero  fare.  E  li  ba- 
roni lo  consiglaro  che  gli  devesse  destruere  la  tera  per  ba- 
iaygla  e  per  dificij  (2).  si  chelli  avesse  la  tera  per  forza,  da 
che  per  pacie  no  si  puotue  avere.  Allora  lo  Re  cario  udendo 
questo,  disse  (3).  jo  no  voglo  guastare  mia  tera  ne  ocidere  li 
fautini  che  no  vi  ano  colpa.  Ma  jo  voglo  assecare  di  vivanda 
si  poso  (4).  Et  averemo  la  villa  al  nostro  comando.  E  faro 
certi  mangani  per  gitali:  e  per  ispaurali  (5).  E  cossi  fue  fato. 


(1)  Con  queste  parole  si  vuol  far  intendere  che  il  Comune  di  Mes- 
sina esercitasse  de' diritti,  de' quali  riconosceva  T  investitura  dalla  Chiesa 
di  Roma:  e  ciò  a  ragione  che  la  Sicilia,  o  sia  il  Regno  tutto,  si  teneva 
dalla  Corte  romana  come  suo  feudo.  11  testo  siciliano  col  cod.  Spinelli 
ha  pure  la  stessa  condizione  o  pena. 

(2)  La  Leggenda:  e  lo  consigliarono  che  dovesse  ristrengere  la  terra 
per  battaglia  o  per  dificii  per  gìttare,  sicch'egli  avesse  la  terra  per  forza 
ecc.  >.  Questi  dipeli  sarebbero  macchine  guerresche  da  assedio  e  da 
guastare  con  projettili  la  città  :  il  testo  siciliano  col  cod.  Spinelli  ha  so- 
lamente: eli  consigliaru  ch'issu  divissi  slringeri  la  terra  per  battaglia»; 
e  l'aggiunta  della  Leggenda  per  gillari  mi  pare  invero  soverchia. 

(3)  Qui  il  testo  siciliano  e  cod.  Spinelli  hanno  di  più  che  questo  te- 
sto e  la  Leggenda:  e  e  lu  re  Carlo  stetti  a  quillu  consigliu  un  joniu 
et  una  notti;  e  poi  la  matina  vinendu  mandau  per  li  soi  Baroni  e  dissi:  > 

(4)  Questo  asseccare  di  vivanda  risponde  all'uso  che  si  la  in  Si- 
cilia del  verbo  assicari  di  una  cosa  per  dire  non  lasciar  niente  di  una 
cosa,  portare  alcuno  al  secco  di  danaro  o  di  altro. 

(5)  Il  testo  siciliano  ha  :  «  ingegni  et  islrumenti  per  spagnarìli  »  e 
sono  i  dificii  di  sopra.  Il  cod.  Spinelli  più  correttamente  legge  ingegni 
et  instringimenti  p  spagnarili  ad  adveniri  a  nostra  intencioni. 


—  378  — 
Et  uno  giorno  voleano  ilare  una  balagla  alla  tera.  e 
fecciorono  colgli  famigle  e  con  fanciolì  uno  muro  a  la  tera  in 
tomo  dal  lato  dui  liosle  (1).  E  cominziaro  a  deffendere.  E  ààar 
inarono  loro  Capitano  E  lor  difTenditore.  E  stetero  in  questo 
islato  bene  due  messi:  — 

In  quello  tempo  venne  die  lo  Re  de  Ragona  e  mosso  di 
catalopa.  E  fccie  vista  dandare  in  tunessi.  E  capitoe  ad  una 
tera  dia  nome  ancelle.  E  degli  una  bataygla  e  demorogli  XV. 
giorni.  In  quel  tempo  del  messe  dagusto  Messer  Giani  da  pro- 
cita. CI  glaltri  baroni  ambasiadorì  di  Cicilia  andorono  per  mare 
al  Re  di  Ragona  che  devesse  venire.  E  glambasiadorì  fuorono. 
Messer  Giani  da  procita  e  messer  Guiglo  dì  messìna.  E  due 
altri  sindicLì  de  lisola.  e  gionsero  ad  ancolle  dinand  a  lo  Re 
di  ragona.  Et  sigli  fecie  loro  honore  asay.  Et  inconteoente  lo 
Re  diedi  mano  a  messer  Giani  e  disse  che  novelle  ci  ae.  che 
lo  Re  cario  he  ad  hoste  a  messina  con  multa  gente.  Et  ae  in- 
volata la  fera,  che  e  da  fare.  Ora  li  consigla,  messer  Giani 
disse,  no  dubilai'e  di  niente  veray  in  sula  tera.  E  manderay  a 
dire  a  Re  cario  che  tisgombri  la  tera  la  qualla  li  coociedete 
il  papa  nicola.  che  di  ragione  di  tua  mogliere.  E  questo  e 
ambasiadore  di  messina.  udìray  quello  che  vora  dire  E  li 
sindichi;  — 

Allora  si  levo  lamhasiadore  di  mesana.  E  disse,  messer 
lo  Re  di  ragona.  molto  vi  desidera  gli  vostri  Gdeli  di  messina. 
che  vegnate  a  la  tera.  e  che  faciale  levare  lo  Re  cario  loro 
da  dosso.  Che  altro  secorso  no  nateodono  che  lo  vostro.  Pia- 
zavi  dizio  fare  per  dio.  E  seno  voleste  venire  a  loro  securso 


—  379  — 

Ghey  farebero  lo  comandamento  de  la  ehiexa  e  de  lo  Re  cario. 
E  quando  questi  ebe  cossi  detto  gli  altri  sindichi  dissero  lo 
somigliente:  — 

Allora  si  levo  lo  Re  di  ragona  e  disse  che  voluntieri  ve- 
rebe  en  Pisola  in  aiuto  di  soj  fideli.  E  chandassero  e  dices- 
sero ziaschuno  al  sou  comune,  che  la  venuta  sira  de  presente. 
E  ditte  a  messinesi  che  stiano  franchamente  chio  sero  tosto  di  la 
en  loro  adiuto.  E  quando  gli  ambasiadore  udirono  questo,  fu- 
rono partiti  dal  Re.  (1)  venne.  E  muovosse  dancolle  fue  aportato 
in  trapoli  con  messere  palmeti  abbati,  e  con  gialtri  baroni.  E 
messer  Giani  disse.  Messer  lo  Re  per  dio  cavalcha  tosto  in 
Palermo,  e  fa  andare  lo  navilio  per  mare.  E  quando  seramo 
in  Palermo  pensaremo  del  nostro  meglo  sa  deo  piace:  — 

Dicie  che  en  MCClxxxij  de  messe  dagosto.  giunse  in  Pa- 
lermo lo  Re  dì  ragona.  E  feciesin  palermo  grande  festa.  E 
grande  gioia  di  loro  sicome  coloro  che  se  credeano  scampare 
per  luy  da  morte.  E  tuti  glisi  federo  incontra  inGno  a  sey 
miglia  daono  lato  (2).  Cavalieri  e  tuta  altra  gente.  E  fue  a 
grido  di  popolo  fato  Re.  Se  non  che  larciveschevo  di  mo- 
riate nogli  volse  dare  la  corona  del  reame.  Anzi  si  fugio  il 
tempo  di  note  in  fìno  a  roma.  E  cossi  non  fue  incoronato  si 
no  di  fatto  di  voluntade  de  la  gente.  Et  uno  giorno  vennero 
tuti  li  baroni  di  lisola  al  Re.  E  furono  a  grandissimo  conse- 
glo.  E  levossi  messer  palmeri  abbate  e  disse:  — 

<c  Messere  lo  Re  di  ragona  bene  venuto  fato  il  pensiero  no- 
sto  el  tractato  nostro  per  la  boutade  vostra.  E  per  quella  di 
misser  Giani  di  procita.  Dio  il  vogla  che  sia  di  tuto  bono  com- 
pimento. Ma  ben  vorei  che  fusse  venuto  con  più  gente  che  no 
siete,  che  sello  Re  cario  viene  per  lisola  di  Cicilia  Egla  bene 


(1)  Qui  manca,  come  è  nella  Leggenda:  e  E  lo  re  venne  >. 

(2)  La  Leggenda  più  correttamente:  e  E  tutti  se  gli  fecero  incon- 
tro, donne  e  cavalieri  e  tutta  gente  >.  Il  testo  siciliano  ha:  €  luascon- 
tram  ben  sei  miglia  cu  grandi  gazara  di  donni,  e  di  dunzelli,  homini  e 
fimini.  Conti,  e  Baroni  e  Gavaleri  ».  Il  cod.  Spinelli  ha  più  corretta- 
mente: e  lu  ascuntraru  ben  sei  migla  cum  grandi  gazara  donni  e  dun- 
zelli, ecc.  ». 


!i  ii'.iui:>i'-  ii^aii-  if-^i  —  i"~r>miiit.  i  1»^  SII 

•ni-    .;à  ',<-".a.i.  ■■•  —ì    .«r-M    li   ■ '■.iniia  i    i  nutìlu.  ii  i* 

si'.itU'i  ;'-,i^';**.  .'ni-'ULiiiifii.-  i-^-i  ti  laniTS  ii  ìwiia.  w  w?- 
iiHtW  "T-*!  :nii*'nii-  .  l-iuii':!'  ina  v<h'.  '-antt  ma  ìuhui 
a  iww.iia  rr.^  m.  i  ini!  iin.r -i  -m  i-'.r:  I  ^-irau^t  rnntt  ais- 
ìint^f-  ;ii.*:iin;  vf  ■■-ìtuui  )-r  •ii.  iit!  *  m  inr  iiiie  d* 
■  •:iiu>  .111"  !■  iv.v  i:  ji-  ;i^'*>^  i^rir^  ;i  -«ci  «  ta  &Sk- 
*»;.>^  ■■.   ':-.i:iiiiii:;i!iifnii',   >.   n  ?.ì  arJi.    jun   nm  jmffif'  «- 


.'..■■.■T  ■■.  .-:*  ::  -iirna  uitKiiiii  nufsn  fe2«  acalar*  ; 
Mf  -'.-■_;  ^r-  j^  '^;ir,kf.*'.iii*,  -  L:!rf  iur^f  ;«*r  ini  'smfita  ;«" 
fjit-:  i>  ,ri-^-i  >  .1  ■,-»;■■■.  Z  :;ii«c:  ;iir-i  i  lu  Iii- nitpxiF dto 

■JfM*.  A  ff.-*  V;  ;**i  '.:.-t  i:  s:  Vii   :'fi*  ■mi*ì»  !»>i>.  che 
\',  li'-.  inTi'i  u<.  r.  :.-'.-vjj  -'rA  'li*  ì"»  nieU  ■  *'.  M»  tim» 


(,M  li  f*  '^.'ii  4\A  U.'.:3  ff-.:>::  «  :i:::c-ji«t  isubiii  «n<m  per 


—  381  — 

cosi;  Noj  mandaremo  da  parte  di  messer  lo  Re  una  letera  allo 
Re  cario,  che  si  come  la  lera  di  Sicilia  fue  data  dal  papa  ni- 
cola.  che  inconlenenle  disgombri  la  tera.  Se  no  si  lo  manda 
difidando.  Segli  la  lascia  da  cheto  bene  (1).  se  no  mandaremo 
lamiraglo  nostro  per  mare  in  fino  a  messina.  E  piglara  tute  le 
tere  che  rechano  la  vivanda  a  lo  Re  cario  (2).  Preselle  tute, 
convera  che  lo  Re  cario  muoia  di  fame  con  tuta  la  sua  gente. 
E  faremo  di  luy  mayore  vendeta  che  fuse  may  fata  per  home 
del  mundo.  Ma  segll  disgombri  la  tera  vedderemo  che  farà  e 
se  viene  ad  altra  tera  di  Sicilia:  — 

Quando  lo  Re  e  y  baroni  udirono  questo  furono  tutti  acor- 
dati al  deto  di  messer  Giani.  Et  incontanente  comando  lo  Re 
a  due  cavalieri  catalani  chaconciassero  loro  bisogno,  per  an- 
dare con  letere  e  con  ambasiata  en  el  campo  di  lo  Re  cario 
da  la  sua  parte.  E  lune  fue  messer  namico  catalano  (3).  E 
portarono  una  letera  a  lo  Re  cario  in  questo  modo  chio  vi 
diro  per  a  presso:  — 

«  Piero  di  ragona  e  di  Cicilia  Re.  A  Te  cario  Re  di  jeru- 
salem  e  di  prohenza  conte.  Signifìciiiamo  a  ti  il  nostro  aveni- 
mento.  de  lisola  di  Cicilia,  sicome  nostro  judicalo  che  mee  per 
lautoritade  di  sancta  chiessa  di  roma  e  di  messer  lo  papa.  E 
di  venerabili  cardinali.  Pero  comandiamo  a  te  che  veduta  que- 
sta letera  debiate  levarvj  de  lisola  di  Cicilia  con  luto  tou  po- 
dere e  gente.  Sapiendo  se  noi  faciessi.  chili  nostri  cavalieri  e 
fedeli  vederesti  di  presente  In  vostro  danagio  ofendendo  voi 
e  vostra  gente  »  :  — 

Quando  lo  Re  cario  vidde  questo  fue  a  consiglo  co  li  suoj 
baroni.  E  quigli  si  maraviglarono   multo.  E  gli  baroni  fran- 

(1)  Questo  luogo  potrebbe  anche  dire:  <  scegli  la  lascia  da  se, 
sta  bene  >  ma  non  ci  par  buona  lezione  quella  della  Leggenda:  e  e  se 
la  lania,  Dio  con  bene  ». 

(2)  Invece  di  e  pigliara  tutte  le  tere  che  recano  la  vivanda  a  lo  Re 
Carlo  >  la  Leggenda  legge  trite,  navi  onerarie,  e  il  lesto  siciliano  col 
cod.  Spinelli,  iiaviliu. 

(3)  Qui  manca  il  nome  dell'  altro  cavaliere  che  la  Leggenda  dice:  e  fue 
mes.  Guillelmo  Catalano  >.  il  namico  nella  Leggenda  è  Namigo  Cata- 
lano, e  nel  testo  siciliano  e  nel  cod.  Spinelli,  Misser  Almingu. 


_   _  382  — 

cieschi.  quando  udirono  dire  a  lambasiadore  di  lo  Re  di  ra- 
gona  e  de  la  sua  letera  luto  oltragio  verso  lo  Re  cario  e  suoj 
cavalieri,  levosse  messer  Guido  de  monforte  e  dise  come  zio 
puote  essere  chuno  signore  de  un  piozolo  podere  potesse  avere 
si  grande  ardimento  di  tore  la  tera  al  magiore  signore  del 
mondo  :  — 

Istando  jn  questo  li  baroni  fùorono  a  dire  quello  che  pa- 
resse loro  del  fato.  Alla  fine  si  levo  lo  conte  di  bretagna  (1).  E 
disse,  messer  lo  Re.  Ame  pare  che  voj  respondiate  a  lo  Re 
di  ragona  per  letera  e  per  vostri  messi  si  come  vae  fatto  gran- 
de tradimento.  E  comegli  nolo  devea  fare.  E  come  voj  ne  la- 
bete  servito  (2).  E  come  egli  no  lavea  da  la  chiexa  di  roma 
quello  chegli  dicieva.  Anzi  la  allevato  tractatamente  di  sou 
tradimento  (3)  che  incontanente  diosgombri  la  tera.  E  di  quello 
cbavea  fato  e  pensato  egli  ne  sera  bene  recrehente  (4)  come 
malvagio  traditore  huomo  che  may  no  si  trova  che  uno  se- 
gnore  andasse  a  dosso  a  laltro  senza  diffidare  luno  laltro.  Ma 
questo  come  malvagio  traditore  fecie  buzie  dandare  sopra  a 
saracìni.  Et  ora  e  venuto  contra  li  cristiani.  E  centra  aUa  chiessa 
di  roma.  E  questa  e  la  mia  voluntade  chegli  si  mando  per 
letere.  E  per  vostri  messi.  Allora  tuti  li  baroni  gridarono  sia 
fato.  E  lo  Re  ni  stete  tuto  contento.  E  tolse  una  letera  e  diella 
alambasiadore.  E  disse  in  questo  modo  chio  vi  diro  per  a- 
presso:  — 

(1)  Nel  cod.  della  Bibliot.  Comunale  di  Palermo,  dal  quale  si  trasse 
il  testo  siciliano  pubblicato,  si  legge  1u  Conti  di,  e  manca  la  parola 
Brilagna,  che  fu  supplita  dal  Di-Gregorio:  e  cosi  pure  nel  cod.  Spi- 
nelli manca  questa  parola,  e  si  ha  solamente:  e  eppoi  si  livau  la  conti 
di.  »  la  quale  lacuna  conferma  bene  che  Y  antico  originale  è  proprio  questo 
cod.Spinelli. 

(2)  Qui  servito  vale  come  sopra  meritato.  Il  testo  siciliano  col  cod. 
Spinelli  ha  più  chiaramente:  e  e  zo  nun  duvia  fari,  chi  Iure  Carla  non 
lì  avia  fattu  oltraiu  ». 

(3)  Questo  luogo  un  pò  scorretto,  si  legge  nella  Leggenda:  e  anzi 
lo  s*  ha  pensato  malvagiamente  questo  trattato  »  :  e  nel  testo  siciliano 
e  cod.  Spinelli:  e  anzi  Tavia  fausamenti  comu  a  tradituri  ». 

(4)  La  Leggenda:  t  e  di  quello  eh*  egli  ha  pensato  e  fatto  e* ne 
sarà  ben  ricreduto,  siccome  malvagio  uomo  e  traditore  ». 


—  383  — 

(c  Karlo  per  lo  dio  gracia  di  gerusalem  e  di  Cicilia  Re  prenze 
di  capua  e  dangio  e  di  folcalcherìa  e  di  prohenza  conte.  A  te 
piero  di  ragona  e  di  valenza.  Maraviglamoci  di  te  come  ardito 
fusti  (1)  di  salire  e  di  venire  in  su  lo  reame  di  Cicilia  giudicato 
nostro  per  lautoritate  di  sancta  giessa  di  roma.  Perciò  coman- 
diamo a  te  che  veduta  questa  letera  debite  partire  de  lo  reame 
di  Cicilia  si  come  malvagio  traditore  di  sancta  chiessa  di  roma- 
E  se  cossi  no  faciessi  Difidiamo  voy  si  come  nostro  traditore 
E  di  presente  vederete  in  vostro  danagio  noj  elli  nostri  cava- 
lieri che  volentieri  disiderano  voj  veddere  cum  vostra  gente:  »  — 

Partissi  lambassiadore  da  lo  Re  cario  con  letere  e  con 
ambasiata.  E  presero  ad  andare  verso  palermo.  E  al  Re  di  ra- 
gona. E  fuorono  giunti.  E  presentarono  loro  letere.  E  quando 
Io  Re  udiu  questo  fue  a  consiglo  coli  suoj  baroni.  E  messer 
Giani  di  procita  si  levo.  E  disse  per  dio  manda  lamiraglo  per 
mare  a  messina.  E  fa  pigiare  tuti  jlegni  da  mestieri  di  lo  Re 
car|p  (2)  da  chegli  ta  diffidato  prochaza  ancoymaj  (3)  Il  fato 

(1)  Questo  come  ardito  fosti  si  lesse  da  noi,  contro  il  Di-Grego- 
rio che  lesse  fusti  usatu,  e  contro  la  lettera  del  cod.  della  Bibliot*  Co- 
munale palermitana  che  portava  fusti  usariti,  cosi:  fusti  usanti.  Questa 
lezione  è  ora  confermata  dal  cod.  Spinelli:  e  comu  tu  fusti  usanti  di 
inirari  intni  la  ysula  di  sichilia  >.  11  cod.  suddetto  della  Bìbliot.  Comunale 
di  Palermo  legge  appresso:  e  judicata  nostra  pri  la  utilitati  di  la  de- 
sia di  Ruma  »,  e  il  Di  Gregorio  aveva  bene  corretto,  cosi  come  si  ha 
nel  nostro  testo  pubblicato,  e  come  fu  confermato  dalla  Leggenda  mo- 
denese e  ora  da  questo  testo  Vaticano,  pri  la  autoritati:  ma  il  cod. 
Spinelli  dà  pure  pri  la  utilitati  di  la  ecclesia  di  Ruma,  E  nota  che  il  cod. 
della  Comunale  e  questo  Spinelli  hanno  tutti  e  due  Ruma ,  non  Roma, 
siccome  la  Leggenda  e  questo  testo  Vaticano. 

(2)  La  Leggenda  ha  pure  e  fa  pigliare  tutt*  i  legni  da  mistieri  del 
re  Carlo  »  e  il  sig.  Cappelli  annota:  «  legni  da  mistieri,  navi  mercan- 
tili da  iraflìco,  o  per  trasporto  di  vivande  ».  Il  testo  siciliano  col  cod. 
Spinelli  ha  solamente:  e  comandatili  chi  prinda  tutti  li  navili  di  lu  re 
Carlu  ».  E  nota  che  il  cod.  legge  al  modo  proprio  del  sec.  XUI  la  mi- 
raglia  vostra,  non  lu  Miragliu  vostru,  come  leggemmo  nel  nostro 
testo. 

(3)  Il  cod.  Spinelli  legge:  e  misser  alkirinu  di  amari  ». 


—  384  — 

tau.  E  sigli  fa  lore  lo  navilio.  E  sigli  remara  di  quae.  E  fallo 
assichare  di  fame.  E  convera  chegli  sia  morto  con  tuta  sua 
gente.  Et  averemo  vinta  la  guera.  E  cossi  fue  fato  effermo.  Et 
ordinato  di  fare.  E  mandorono  per  raesser  Rugieri  di  loria 
amiraglo.  chandare  dovesse  a  messina.  E  menare.  Et  ardere 
luto  lo  navilio  de  lo  Re  cario  :  — 

Questo  sape  una  spia  di  messer  arichioo  di  Mare  amira- 
glo (1)  dilo  Re  cario.  Incontanente  fue  a  messer  anellino.  E  disse 
come  la  armata  de  lo  Re  de  ragona  venia  verso  lo  fare  di 
messina.  E  devea  cremare  tuli  y  legni.  E  quando  messere  ari- 
chino  udie  questo,  fue  a  Re  cario.  E  disse  messer  per  dio 
isbriga  di  passare  in  calavra.  Saetia  mia  conto  come  Y  amira- 
glo di  lo  Re  di  ragona  venia  sopra  il  fare  di  messina  per  Cre- 
mare lo  navilio  nostro.  E  segli  ci  viene  io  nono  galee  armate 
per  batagla.  Anci  eie  legni  da  mistiere  segli  mi  pigia  sanza 
riparo  veruno,  e  tu  rimaray  di  quae  sanza  vivanda.  E  conviene 
che  tu  perischi  con  tuta  la  toa  gente.  E  zio  sera  di  qui  a  tri 
giorni.  Disbriga  di  passare  di  ioe  per  questa  cagione.  E  per- 
che il  verno  viene  adesso  ati.  E  tu  non  ay  porto  vernatoyo 
oe  jlegni  tuoi  istiano  (2).  E  pero  se  tu  tindugij  li  piagie  Rom- 
pirano  y  legni,  linde  per  questa  cagione  ti  conviene  passare. 
In  tera  ferma,  si  chelmercato  ci  vegna  di  nostra  tera:  — 

Quando  lo  Re  cario  udie  questo  fue  multo  cruciosso.  Et 
in  contanente  fue  a  consiglo  coli  suoj  baroni.  Quando  li  baroni 
udirò  questo  furono  cruciossi.  E  dissero  messer  lo  Re.  Multo 
Ci  doglamo  che  no  lasciaste  pigiare  messina  per  concio  ne  per 
guera.  Ora  la  voresti  e  no  la  puoy  avere  per  neuna  via.  Multo 
ne  siamo  cruciossi.  ma  no  puote  essere  altro.  Passiamo  di  lae. 
essera  zio  che  piaciera  a  deo.  E  cossi  fue  ordinato  e  fermo  da 
luti  \ì  baroni:  — 

Allora  quando  lo  Re  cario  udio  questo.  Il  stete  dubioso 
multo  e  disse  fusse  jstesso  suspirando  de  or  fossio  morto,  da 


(1)  La  Leggenda:  e  procaccia  oggimai  il  fatto  tuo  ». 

(2)  Cosi  pure  la  Leggenda  :  e  ti  viene  il  verno  in  dosso ,  e  tu  non 
hai  porto  vernatolo  dove  i  legni  steano  >. 


—  386  — 

che  tanta  dìssaventura  mincontra  chi  oe  perduta  la  tera  mia 
no  so  perche  E  toglelami  quegh  che  may  no  glele  disservij  (1). 
E  may  noj  glofessi.  Multo  mi  doglo  che  no  voli  tore  la  tera 
di  messina.  Ma  da  che  va  cosi  passiamo  di  lae.  E  chi  avrà 
colpa  di  questo  tradimento  che  me  falò  si  sia  morto.  0  cle- 
rico 0  ladicho  cliel  sia.  E  cossi  fue  jstanciato  e  fermo  dil  mese 
di  setenbre  a  linxuta  si  levo  in  questo  modo  (2);  — 

Lo  primo  giorno  passo  la  soa  regina,  lo  sicondo  die  passo 
Io  Re  con  tuta  la  sua  gente.  E  lassio  di  lae  doi  capitani,  con 
doa  milia  cavalieri  E  disse  loro  jstate  diziae  celati.  E  quando 
quegli  di  messina  usierano  fuori  per  le  robe  date  a  la  tera. 
E  irarette  dentro  a  la  tera.  Et  io  tornerò  a  voj.  Se  fatto  Ci 
viene,  cossi  fue  ordinato:  — 

Videndo  questo  quegli  di  messina  fecero  comandamento 
che  neuno  iusisse  de  la  tera.  A  pena  de  la  vita.  E  cossi  fue 
fato.  Quando  y  francieschi  videro  che  quegli  de  la  tera  non 
jusievano  fuori.  Aconciarono  loro  legni,  e  venne  di  fuori  tuli. 
E  furono  col  Re  E  dissero  la  pensata  nostra  ci  vene  falita. 
che  quegli  di  messina  non  escono  fuori.  Allora  lo  Re  cario 
ftie  adjrato  più  che  in  prima.  E  disse  Istiamo  a  veddere  di 
loro  E  di  lo  Re  di  ragona:  — 

EUaltro  giorno  apresso,  giunse  lamiraglo  de  lo  Re  di  ra- 
gona per  lo  fare.  Menando  grant  gioya  e  grant  festa.  E  fuo- 
rono  alio  navilio  di  lo  Re  cario.  E  presserò  dicenove  (3)  tra 
galee  dil  comune  di  pissa.  venne  E  menolle  a  messina.  E  cossi 
lo  Re  veddendo  questo  tenesi  morto  di  dolore.  E  fecie  sou 
parlamento  di  qua  da  lo  regno.  E  degli  comiato  a  tufi  quellgli 
che  no  teneano  tera  da  luy  (4).  E  quando  venne  del  messe 


(1)  Così  il  testo  siciliano  e  il  cod.  Spinelli:  e  eu  haiu  pirdutu  mia 
terra, et  hammila  prisa  horau,  a  cui  ìammai  eu  non  dispiacivi  >. 

(2)  La  Leggenda  :  e  E  air  uscita  del  mese  di  settembre  si  levò  da 
Messina  in  questo  modo  >. 

(3)  II  testo  siciliano  e  il  cod.  Spinelli,  hanno:  e  efforu  prisi  chincu 
galei  di  lu  Comuni  di  Pisa  i. 

(i)  Cioè  non  erano  suoi  feudatarii,  ma  gente  assoldata. 


artjL   L  Kicia-  ^   OE  I  fe»frr  sim 


«    -   tìt  ->i_    .a.  ^.  iSt  .. 


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f!  -r:;.r-iz=r-:  a-s.  )  r  _m  a:.;  isi-a.  cas.  Tth^x.  i  me 
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—  387  — 


IL  CODICE  SAN  GIORGIO  SPINELLI 
ORA  DELLA  BIBLIOTECA  NAZIONALE  DI  PALERMO 

Presso  il  principe  San  Giorgio  Spinelli  di  Napoli  esi- 
steva un  Codice  antico  della  Cronica  del  Vespro ,  del  quale 
aveva  data  notizia  forse  il  primo,  nel  1841,  il  Sig.  Michele 
Amari,  neìV Appendice  alla  sua  Storia  della  guerra  del 
Vespro  Siciliano.  «  Il  qual  codice,  avvisava  l'Amari,  per 
l'ortografia  e  la  forma  de  caratteri,  con  le  lettere  iniziali 
azzurre  o  vermiglie  e  vestigia  di  dorature ,  appartiene  senza 
dubbio  al  secol  XIV.  Questo  antico  Ms.  pervenuto  allo 
Spinelli  forse  da  Messina,  era  del  tutto  ignoto  in  Sicilia 
nel  secol  passato  ;  talmentechè  Di-Gregorio  pubblicò  la  Cro- 
naca nella  sua  Biblioteca  Aragonese  sopra  una  copia  del  se- 
colo XVII,  con  ortografia  diversissima  dal  Ms.  del  San  Gior- 
gio ,  e  con  alcune  varianti  di  maggiore  importanza  » .  Ora, 
questo  Codice  San  Giorgio  Spinelli  fu  testé  acquistato  dal 
Ministero  della  Istruzione  pubblica,  e  per  le  cure  lodevo- 
lissime  deir  Amari  stesso  venne  dal  Ministro  mandato  in 
dono  alla  Biblioteca  Nazionale  di  Palermo.  Pertanto ,  giunti 
quasi  a  metà  di  questa  stampa,  l'abbiamo  potuto  avere 
sottocchio,  si  che  oltre  i  riscontri  colla  Leggenda  mode- 
nese e  col  testo  siciliano  eh'  era  pubblicato ,  questo  testo 
Vaticano  è  stato  pure  riscontrato  col  Codice  suddetto.  I 
quali  riscontri  poi  ci  sono  giovati  per  rivedere  la  lezione 
del  testo  siciliano  edito  sopra  il  Ms.  della  Biblioteca  Co- 
munale di  Palermo,  esemplato  sopra  altra  copia  che  il 
Carrera  aveva  tirata  nel  secolo  XVII  da  un  antico  Mano- 
scrìtto,  il  quale  abbiamo  conchiuso  per  molti  argomenti 


—  388  — 

essere  stato  proprio  questo  Codice  San  Giorgio  Spinelli, 
specialmente  se  è  vero  che  il  Codice  usci  da  Messina,  dove 
per  appunto  il  Carrera  faceva  la  sua  copia. 

La  narrazione  va  divisa  in  brevi  capi ,  senza  rubri- 
che, che  cominciano  con  piccole  iniziali  a  colore,  del  modo 
stesso  come  nel  Ms,  della  Comunale  ;  ed  è  da  notare  che 
i  luoghi  più  importanti  sono  segnali  da  linee,  specialmente 
quando  occorre  il  nome  di  Johanni  di  prochita.  Le  varianti 
che  corrono  tra  questo  Codice  e  il  testo  pubblicato  sono 
di  poca  0  nessuna  importanza,  perocché  nascono  da  scam- 
bii  di  lettera  o  maniera  grafica  propria  dell'antico  scrit- 
tore del  secolo  XIV  e  del  moderno  trascrittore  del  XVII  : 
il  che  è  chiaro  da'  luoghi  riferiti  nelle  note  a  questo  testo 
Vaticano.  Il  Codice  è  in  4''  piccolo,  in  carta  bambagina 
(non  pergamena,  siccome  io  dissi  altrove,  non  avendolo 
veduto  da  me  stesso),  e  costa  di  carte  35  numerate  da 
una  sola  faccia:  ha  in  rosso  il  titolo,  e  miniata,  benché 
non  finanente,  la  prima  lettera  che  é  A.  Le  iniziali  de' 
capitoli  sono  a  colore  o  rosso  o  azzurro;  la  lettera  é  ro- 
tonda e  della  prima  metà  del  secolo  XIV.  Non  pare  avere 
avute  indorature,  tranne  vedersi  sparsi  nella  prima  faccia 
puntini  in  oro  lasciati  da  qualche  foglia  di  oro  che  fu 
chiusa  tra  la  guardia  e  la  detta  prima  faccia,  e  si  che 
aderì  alla  carta  qua  e  là  un  po'  di  polvere.  Può  dirsi  il 
Codice  essere  stato  anticamente  mal  guardato,  e  però  é 
un  po' guasto  e  sciupato,  in  rilegatura  di  pergamena  assai 
grossolana.  In  una  carta  di  guardia  posteriore  ha  l'im- 
pronta di  un  suggello  raddoppiato  in  secco,  e  sarà  credo 
della  famiglia  che  ultima  il  possedeva,  non  avendo  potuto 
trovare  quel  blasone  negli  stemmi  delle  famiglie  nobili  si- 
ciliane. I  richiami  a  pie  di  pagina  sono  di  altra  mano  e 
di  altro  inchiostro  che  non  il  Codice,  ma  sempre  più  an- 
tichi delle  postille  in  margine,  le  quali  scritte  di  minutis- 
simo carattere  in  spagnuolo,  sono  del  sec.  XVII.  Dopo 


k 


—  aso  — 

r  Amen  the  cbìade  la  Cronica ,  a  pie  dì  e.  34*,  se^ono 
nella  taccia  retro  in  lettere  rosse,  e  in  carattere  del  tempo, 
anzi  della  stessa  mano  che  tutto  il  codice,  queste  due 
note,  cioè: 

■  A  li  milli  ce.  lx\xij  anui  die  marlj  decime  Ind.  [oru 
tDoni  lì  fraiicbisclu  in  p^lerniu  et  p  tucla  Sichilìa  ». 

■  A  li  milli  e.  Ixxxiiij  fu  ìncomensala  la  ecclesia  mayiiri 
di  palermti  chamaL-i  scii  m.'  p  lu  archi  epu  galterj  ». 

L'ultima  carta  del  codice  ctie  è  la  ^5'  porta,  infine. 
dalle  dae  Tacco  ana  scrittura  pur  del  tempo  col  Eilolo 
Btasiì  dt  armi,  la  quale  ci  piace  qui  trascrivale  con  la 
flessa  graiia  del  Codice. 


RLASO  DI  ARMI. 


Omnt  jalìnii  in  colurì  e  havuto  p  oru  In  armi  nobilita  In 
petrarja  topaclii  In  vesUmenli  complimcnio  In  pianeti  lu  suli 
In  I  anima  Inlcllectu  In  virtù  la  fidi. 

Omni  hlancu  in  colurì  e  liavuto  p  argenta  In  armi  ginli- 
licza  lu  pelraria  perii  In  vestimenti  castitali  In  pianeti  la  luna 
In  lanimn  la  voltinLati  In  virtù  cantati  Omni  russu  incnluri  e 
e  bavuui  p  goles  lu  armi  ardimento  In  peirarìa  rubinj  In  ve- 
alligrìzza  In  alimenti  focu  In  la  calilali  In  saugu  In 
prudencia. 

Oiddì  bleuy  in  colurì  e  liavuto  p  aczolu  In  armi  lìallati  In 
zafllrij  In  vestimenti  humililali  In  alimenti  lu  ajru  lu 
la  calilati  colera  In  virlnU  Justicia. 

Onint  virdi  in  colurì  o  liavuto  e  sinoble  In  armi  Victoria 
la  petrarìa  ysmiraldj  In  vestimenti  spìrancia  In  alimenti  1 3ct[ua 
In  catiuti  malinconia  In  virtuti  fortilicza. 

Onini  nigru  in  colurì  e  itable  lu  armi  llrmicza  In  peiraria 
'fiìT'f»*'  In  vestimenti  trìsticza  In  alimenti  terra  In  calilaii 
■evou  In  virtù  temperancia. 

Onni  moratu  e  havutu  p  purpura  In  armi  signoria  In 
prtrarìa  amatisia  lu  vestimenti  baraclarìa  e  veru  chi  la  dieta 

ttì 


I      e  bavuui 
^nmi  pr 

^^Hraria  i 


L. 


—  390  — 

purpura  e  coluri  compostu  hi  la  vera  purpura  e  quilla  sì  vidi 
alcuni  di  Spagna  piglaudu  di  cada  unu  di  Ij  coiuij  e  quillu 
culurandu  divi  portali  si  non  qnilli  su  di  casa  reali  in  signi- 
ficantia  di  la  vestitura  la  qualu  portau  lu  nostru  redempturi 
in  la  sua  Immanità  vistendu  In  armi  pero  non  si  chi  duna  prò- 
prìu  significatu  pirkj  e  coluri  compostu. 

Armi  si  divinu  faii  vegitabili  oy  [sensibili  per  si  extanti 
oy  per  si  non  extanti,  vegitabili  comu  su  herbi  :  fiuri  :  arbori 
sensibili  animali  inracionali  per  si  extanti.  Chitati  Castelli  turri 
per  si  non  extanti  comu  non  si  canuxi  lu  campu  cum  li  armj. 

Tucti  li  armi  chi  siano  divinu  essiri  di  quattro  coluri  et 
dui  mitalU  di  manyera  chi  mitallu  non  staya  supra  mitallu  ne 
coluri  sopra  coluri  si  no  chi  serìanu  falsi  e  questi  quattro  coluri 
si  blasmanu  goles  aczolu  soble  esinoble  (1)  li  dui  mitali  oru  et 
argentu  lu  muratu  si  consenti  non  per  si  ma  comu  coluri.  divisi 
guardari  chi  homu  vivu  non  sia  misu  In  armi  per  chi  sarrianu 
falsi  ne  tampocu  mxunu  animali  si  divi  fari  si  non  del  suo  co- 
luri chi  tali  armi  so  impropri]  ma  non  falsi. 

La  illusione  di  questa  simboUca  de'  colorì  e  delle 
imprese  del  secolo  XIV  ci  condurrebbe  a  più  che  a  una 
semplice  nota:  e  però  ci  basti,  oltre  la  notizia  del  Codi- 
ce, aver  anche  qui  dato  questa  scrittura  curiosissima  e 
pel  contenuto  e  per  talune  voci  che  ci  sono  usate;  la- 
sciando ad  altri  occuparsene  di  proposito. 

Palermo,  24  luglio  1870. 

Vincenzo  Di  Giovanni 

• 

(1)  Queste  voci  mancano  al  Vocabolarìo,  dove  si  ha  solamente  V  az- 
zurrognolo che  sarebbe  questo  aczo/u,  e  ì\  giallorino  che  risponderebbe 
al  jcdino  (giallino)  di  sopra.  E  sarebbero  pur  da  registrare  le  voci  pe- 
Ir  aria ,  morato  che  mancano ,  e  il  diverso  senso  che  qui  hanno  le  voci 
calitali,  che  non  è  la  calidaii  del  Vocab.  e  blasmare  che  non  è  il 
biasimare  con  voce  antica.  E  avverti  che  jalino,  per  giallo,  giallino, 
è  voce  propria  tuttora  delle  parti  di  Messina ,  donde  si  crede  uscito  que- 
sto Cedicc. 


'T'AJEòrElT^ 


«^«WWWIWMXx 


ANCORA  DELLA  PAROLA  GANDELLA 


(V.  alla  pag.  447  anno  %^  di  questo  periodico). 

Poiché  ho  intrattenuto  una  volta  i  lettori  del  Pro- 
pugnatore intorno  a  questo  vocabolo,  per  dir  loro  che 
esso  dura  ad  essere  vivo  sulla  bocca  de'  contadini  Pisani, 
siami  conceduto  di  aggiungere  oggi  che,  se  non  prendo 
inganno,  credo  di  avere  trovata  una  non  affatto  irragione- 
vole etimologia  di  questa  voce.  È  noto  come  dal  latino 
candere  derivi  tanto  candore  che  candela.  Dall'idea  di 
cosa  bianca  e  brillante  si  passò  evidentemente  a  quella 
di  candela.  Or  che  maraviglia  che  dallo  stesso  candere 
si  facesse  pure  candella  per  esprimere  la  gocciola  del- 
l' acqua,  che  appunto  brilla  nella  sua  candidezza  ?  Chi  voglia 
può  vedere  quanti  vocaboli  si  formassero  da  candere,  nel 
Du  Gange  ed  in  altri  glossari.  E  può  anche  estendersi  a 
considerare  altre  voci  delle  lingue  romane,  affini  di  signi- 
ficato e  di  suono,  e  forse  risalire  ad  una  radice  sanscrita, 
e  trovare  in  tutto  ciò  conferma  della  etimologia  di  car^ 
della  ;  la  quale  potrebbe  senz'  altro  entrare  nel  vocabolario 
della  lingua  se,  accertatane  la  nobile  origine,  la  leggiamo 
adoperata  da  uno  scrittore  del  secolo  XIV,  e  la  sentiamo 
viva  su  labbra  tosoiine. 

Adolfo  Bartoli 


—  392  — 


LA  LEGGENDA  DI  PRETE  GIUSTINO. 


Kd  GBROMCO!!  di  CmaiiM  koraer,  Ae  r  MUre  cNipì  mI  lUl, 
leggiaoM  s«U0  r  anM  1060  (F.  G.  Egcahih,  Corpus 
historicum  medii  aevi,  li,  596-598)  \à  ttgKtU  kfgmk: 

In  regno  Sicilke  prope  habitalionem  regiam^  secundum 
Sigibertum  (ì),  quidam  devotus  sacerdos  nomine  Justmus 
eremiticam  vitam  ducens,  tantum  sanctitatis  nomen  habuit^ 
ut  plures  peccatores  ad  ipsum  concurrerent,  et  sibi  con- 
fitentes  pcenitentias  graves  ab  ipso  reciperent.  Rex  autem 
Siciliw  unicam  habuit  filiam  nomine  Theodoram,  qua^  tanUie 
erat  prudentiw  et  sagacitalis,  ut  in  patris  prwsentia  ttaum 
regnum  administraret  et  singula  bene  disponeret.  Consuevii 
autem  eadem  virgo  venationi  quandoque  insistere  prò 
temporis  deductione  cum  militibus  suis,  nec  solertem  curam 
habere  solebat  de  virginitatis  suce  flore^  ne  marcesceret. 
Quadam  ergo  die,  dum  esset  venationi  intenta,  deviare 
eam  contigit  in  densissimo  nemore.  Cumque  sic  sola  va- 
garetur,  occurrit  ei  canis  latrans,  quasi  feram  insequens, 
quem  sequebatur  Theodora  quasi  canem,  licet  diabolus 
esset,  qui  eam  errare  fecerat,  ut  seduceret.  Cum  autem 
advesperasset  et  nox  instaret,  ccepit  virgo  contristari  eo 
quod  nesciret,  quo  se  diverteret.  Cui  occurrens  dcemon  in 
specie  unius  de  familia  sua  et  dixit  ei  :  Ubi  poterimus  hoc 


(1)  Questa  citazione  di  fonti  è  falsa.  Già  Lappenberg  nel  suo 
articolo  e  Uber  Hennanni  Corneri  Chronìcon  •  (  neir  Archiv  der  Gesell- 
schad  f&r  iltere  deatsche  Geschlchte  VI,  595)  dice:  e  La  leggenda 
di  S.  Giuliano  non  è  presa  da  Sigiberto,  secondo  viene  indicato  sotto 
ì'  anno  855,  come  del  pari  non  è  tratta  di  là  la  novella  del  prete 
Giustino,  indicata  sotto  l'anno  1060  >. 


I 


—  .Iln  — 

ospitium  in  fiac  soHludine?  Et  respiciens 
per  nemoris  spatia  cidit  procul  domnnmtam  et  dixil 
vìrgini:  Hic  prope  nos  quidam  eremita  demtus  est,  in 
cuitis  cellula  manere  polerimus  iisque  mane.  Et  ditxU 
eain  ad  ittam.  Cam  aulem  appropinquar  et  ei-emitorio, 
dixil  fiimiUtis  ad  virginem:  Pnecedam  vos  ad  eremilnm. 
ut  loquar  eì  de  Destro  adventu.  At  ubi  eitm  diabolits 
tenissel,  ail  hoinini  Dei:  Ecce  veitiel  pia  rcgis  nostri  ad 
le,  mansura  tecum  per  noctem.  Cui  sacerdos:  Bene  veniat, 
domina  nostra,  faciam  ei  melins  qmd  poterò.  Venieniem 
trgo  virginem  eremita  juxia  suam  faciiltatem  recepii  et 
pertraclavil,  potum  et  cibitm  siiti  sotitum  ei  ministrando. 
Cam  aatem  facta  aena  ad  ignem  sederent,  surrexit  fa- 
midus  et  licentiam  a  virgine  recìpìens  et  post  horam  se 
reversurum  asserens  celbilam  exivit,  visui  disparens,  sed 
prtssenliam  non  subtrahens.  Crescere  itaque  caipit  in  sene 
tmlatio,  dianone  ipsum  instigante  ex  virginia  pulcritudine. 
et  primo  blande  virginem  alloquem,  ipsa  verba  sacerdoiis 
amtemsil,  dure  ipsam  reprekendendo.  Sed  ipse  tandem 
oirgini  vim  inferens,  eam  oppressit  et  defloracit.  At  illa 
opproiyriiim  sibi  factum  imligne  ferens  minas  eremit<B 
intutit,  dicens,  se  factum  illud  patri  suo  cum  lacrimis 
eonqae&luram.  Qttod  aadiens  '■■enex  iile  et  periculnm  vita 
formidans  ex  hoc  sibi  imminere,  puellam  invasit  et  inter- 
fecil  ac  sub  altari  eam  sepelicit.  Quod  cum  fecìsset,  dia- 
Mus  in  aere  voUians  clamavit:  0  sceleratissime presbyter, 
ttUia  gravissimas  pxnitenttas  prò  suis  delictts  hticusque 
imposuisti  et  mine  ipse  in  profundissimum  vitiorum  lutum 
eeeidisti.  Quibus  diclis  diabolus  abscessit.  Senex  aufem 
ad  verba  d(pninnis  compiinctus  cellam  suam  reliquit  et 
more  bestiarum  extra  teda  vitam  agere  cwpit.  Cumqne 
tic  per  longttm  lempus  transisset  et  crines  ei  in  tantum 
crevissent,  tu  quasi  tunica  ipsum  operirenl,  incepit  ma- 
ftifrttj  et  pedibus  q^iasi  bestia  incedere,  ut  sic  eo   gravior 


—  394  — 

sibi  esset  pcenitentia  sua,  et  per  singulas  dies  lacrimis  et 

disciplinis  multum  se  affligebat.  CorUigit  ergo  post  spatium 

longi  temporis,  patrem  interfectcB  puelke  in  eodem  nemore 

venationi  intentum  óberrare.  Cumque  Deo  disponente  ad 

locuniy  ubi  dictus  eremita  degebat,  deviando  pervenisset, 

invenit  ipsum  prope  quendam  paludosum  locum  deambur 

lantem  et  sequebatur  eum.  Aestifnans  autem  rex,  prcedi- 

ctum  senem  feram  esse,    eo  quod  manibus  et  pedibus 

graderetur,  ad  instar  bestice  hispidus  et  hirsutus,  tetendit 

arcum  suum,  ut  ipsum  sagitta  percuteret.  Quod  presbyter 

videns  lacum  celeriter  intravit,  aquis  se  immergendo  in 

tantum,  ut  vix  os  extra  undas  haberet  ad  ventum  spi- 

randum.  Quod  rex  cernens  stetit  attonitus,  cogitans  quid 

hoc  esset.  Cumque  dorsum  rex  verteret  ad  recedendum, 

senex  de  palude  se  erexit,  ut  fugeret.  Sed  cum  rex  retro- 

spiceret  et  senem  videret,  iterum  arcum  paravit  ad  ja- 

dendum  telum,  Quod  videns  eremita  ut  prius  se  aquis 

immersit.  Hoc  postquam  scepius  factum  esset,  admiratus 

rex  quid  hoc  esset,  quod  tam  sagaciter  sibi  caveret  de 

jaculo,  C(epit  dubitare,  si  forte  homo  esset,  quia  de  bestia 

hoc  insolitum  erat.  linde  dixit  rex:  Si  es  homo,  qui  sic 

latitando  trepidas,  securus  ad  me  venias,  quia  in  nullo 

tibi  nocebo.  Senex  autem  timens   tacuit.  Et  rex  secundo 

et  tertio  verba  assecurationis  repetens  tandem  dixit  :  Adjuro 

te  per  Deum  vivum  prò  nobis  crucifiocum,  ut,  si  homo  es, 

loquaris  mihi.   Ciii  sacerdos:   Homo  peccator  sum.   Ad 

quem  rex  :  Securissime  ad  me  accede.  Al  ille:  Non  audeo. 

Cui  rex  tantam  fidem  tandem  fecit,  quod  sibi  nullo  modo 

noceret  propter  quemcunque  casum,  projiciens  arma  sua 
procul  a  se.  Tunc  presbyter  de  palude  exiens  venit  ad 

regem  et  procidens  in  faciem  suam  coram  eo,  nesciens, 

quod  rex  esset  et  prcesertim  pater  virginis,  quam  interfe- 

cerat,  ait:  Oro,  domine,  ut  meam  audia^  confessionem. 

Qutod  rex  cum  lacrimis  facere  recusavit,   asserens,   se 


tai 

^^^    COI 

■^' 

1 

■: 

I 

I 


—  39a  — 
hoc  ofjicium,  eo  quod  laicas 
veì-o  cutn  lacrimis  institit,  ut  ipstim  propter  Deitm  audirei 
et  poma  alicui  sacerdoti  ea  referret.  Cui  cum  rex  tandem 
cmsenliret  et  inler  mtera  sita  deticta  audiret.  quod  post 
tam  Utrpem  actam  filiam  stiam  occidisset,  commola  sunl 
coatra  eam  omnia  viscera  ejas.  Et  acerbntas  nimxs  dixìt: 
Piletta  illa  a  te  tam  crudeliter  inlerfecta,  virorum  vitis- 
sime,  unica  mea  fuit  pia,  gius  ubi  denenerit  nunqiiam 
'  -ire  potili.  Cujus  quidem  sepitlttirw  lamm  nìsi  mtfii 
teiewteris,  protinus  te  interficiam.  Senex  autem  timens 
•mortem  perrexit  cum  rege  et  qutvrens  locum  celltU<e,  vix 
tandem  ipsum  invenit,  eo  quod  tugurium  ittud  prw  vetu- 
slaie  jam  corruisset  et  locas  immutatus  essel.  Qui  cum 
imenissent  seputcrum,  foderunt  et  invento  carpare  adhuc 
incorrupto  et  pallio  suo  involuto,  sicut  sepultum  fuerat, 
ait  rex:  Si  jam  aticujus  meriti  es  apiid  Deum,  oremus, 
ut  hanc  puellam  rcsuscilel  precibns  noslris.  Provoluti  eryo 
ambo  et  prostrati  cum  lacrimis  oraveraut,  et  max  puelta 
mortila  revixit.  Et  gavisus  rex  est  supra  modum.  Tane 
rex  una  cum  fitia  sua  senem  illuni  de  nemm-e  editxit  et 
\iTini^s  rasis  ipsum  veslibus  induit  el  cum  dispensatiom 
\per  papam  {acta.  ipsum  in  episcopum  ordinari  fecit. 

Questa  legenda  narra  del  prete  Giustino  quello  stesso 
cbe.  con  differenze  non  essenziali,  si  raeconta  anche  dì  Gio- 
laoni  Chrysostomo.  di  Giovanni  Garinus  (Guarinus).  —  alla 
cai  leggenda  si  connette  la  fondazione  del  celebre  monastero 
di  Monserrate  —  e  di  un  S.  Albano.  Io  rendo  nota  qni  la 
legenda  per  complemento  alla  dotta  introduzione  di  Ales- 
sandro d' Ancona  alla  sca  edizione  della  «  Leggenda  di 
Sani'  Albano,  prosa  inedita  del  sec.  XIV,  e  Storia  di  S, 
Giovanni  Boccadoro  secondo  due  antiche  lezioni  in  ottava 
ijima  ■■  (Bologna,  Romagnoli.  1865). 

Weimar.  Keinholi»  K6in.t:(( 


LA    NOVELLAJA    MILANESE 
ESEMPD  E  PANZANE  LOMBARDE 

RACCOLTI  KKL  I1UBB3B 
DA  VITTORIO  IMBRUNI 


1.  El  Treikiin.  —  li.OnRcedò  sòceor.  —  III.  L'Ombrian.  —  IV.  U 
jlella  Didna.  —  V.  p  V.  bis.  El  Sciavatlìn.  —  VI.  B  Cor*4U- 
Un.  —  Vn.  l  Irii  naranz.  —  Vili.  L'omm  e  la  àontut  di£  on- 
ilaven  a  Homma.  —  IX.  L'omm  apót  aJ  dotwn.  —  X.  L'tMmpi 
iti  lader.  —  XI.  L'esempi  di  tre  lotànn.  —  XII.  L'etempi  iti 
trìi  frode-}.  —  X(lt.  La  Scindiraura.  —  XIV.  Scindirìn-Seitr 
diriFu.  —  XV.  /  tre  totànit  dd  flc  —  XVI.  SI  Gestumìn.  — 
XVII.  L'eternili  del  tcimbioU  e  di  rmw.  —  XVIII.  la  Kegina  in 
del  deiert.  —  XIX.  La  Monega.  —  XX.  /  Ire  torfnn  dd  jirwlf 
née.  —  XXI.  El  Sidetlìn.  —  XXII.  £1  Boffitl.  —  XXIU.  L'Mnnpt 
de  BfTlold.  —  XXIV.  Ei  Piyorée.  —  XXV.  /  duu  mai-conlml.  — 
XXVI.  L'eiempi  di  occA.  —  XXVII.  Bllk  del  Sol.  —  XXVUI.  U 
Hegina  superba. 


—  397  ■ 
stioo  il  lavoro  di  ralTronto  e  di  paragone ,  pel  qual 
necessario  un  accumulo  preveoUvu  di  inatt;rialtì,  che  da 
un  solo  mal  può  procacciarsi.    Se  a  me  non  riuscirà  mai 
di  eseguirlo,  altri  più  felice  soUenlrerà  prima  o  poi  nel 
mio  luogo  e  mi  sarà  mèrito  t'avergli  agevolato  il  compito. 
Comincio  dal  mandar  fuori  un  gruzzoletlo  di  liabe, 
kftcezie  e  noYelline  lombarde,  raccolte  in  Milano  stessa  e 
(nel  contado.  Le  ho  stenografate  mentre  si  narravano  da 
contadine,  operaje,  domestiche;  e  quindi  trascritte  senza 
fanni  lecito  di  mutar  sillaba  alla  dicitura  ingenua  primitiva. 
Non  ho  cancellata  una  ripetizione ,  non  un  foderamento  di 
parole:  non  ho  supplito  lacune.  Avrei  slimalo  delitto  l'al- 
terar checchessia,  anche  dove  fondatamente  poteva  credere 
di  migliorare. 

Malgrado  T  ajuto  benevolo  di  parecchi  amici  non  posso 
isingarmi  di  non  essere  incorso  in  errore  di  sorta  :  è  sem- 
|)re  grandissima  temerità  l'affaccendarsi  intorno  ad  un  dia- 
letto  del  quale  non  s'è  ndìto  sillaba  prima  del  sesto  lustro. 
Ma  dove  nessuno  fa ,  chi  pel  primo  fa ,  quantunque  non 
_,fiiccia  che  mediocremente ,  ha  dritto  almeno  a  qualche  in- 
dulgenza. 

Della  utilità  d'un  simigliante  lavoro  per  la  mitologia 
^comparala,  per  la  novellistica  e  per  la  fdologia,  credo  inu- 
tile parlare .  perchè  non  suppongo  esista  al  mondo  chi  la 
revochi  in  dubbio.  Risparmio  al  lettore  lunghe  note  intomo 

■  alle  orìgini  ed  alle  vicende  di  ciascuna  novella  o  fiaba ,  e 
voglio  solo  aver  dichiarato  che  con  questi  venlotto  racconti 
non  pretendo  mica  di  aver  dato  tutti  quelli  che  si  rac- 
contano in  Lombardia,  né  la  miglior  versione  di  ciascuno.  So 
benissimo  esser  questo  lavoro  di  quelli ,  ne'  quali  non  può 
mai  farsi  tanto  che  non  rimanga  da  fare  altrettanto  e  più. 


lei  di 

leu- 
Ma 

mr 

^^"coi 


VlTTOniO    IlrtHBIAÌil. 


i.   Kl  Xr-ede 


OnaC2)  volU(3)  gh'era  od  pover-òmm.  El  gh'aven  Irèdes 
fideu,  e  el  saveva  minga  come  fa  per  dagb  de  mangii.  On  di 
el  ghe  dis  a  sti  ficeu:  —  «  Andèm  in  campagna,  in  d'on 


ih  7W<l«tn,<|ual5op[amiompnrl  senso  £  padre  di  Iriditi  figliyùli. 
manca  nel  Cberabìnì;  doTe  >■  «tlo  regtsinto  nrì  ffoso  dd  IrrdUì  di  mar»: 
—  t  C.mlf$i  tbe  io  quello  di  ^i  piuU^s^  in  Kibno  b  Tede  cmiiani  t  ri 
■  .t'inalbfnisf(<  la  cimtc  per  b  prima  toIu.  Nel  secalo  «corso  ceMra- 

>  Tasi  la  fi-»ia  rebtÌTa  nelb  Cfaìesa  di  San  Konigi .  stompar»  sul  fioin 
»  del  serolo  stt>^«o.  e  a  tale  lesta  conrorrvn  tnlla  Mibno  a  bifà  à 

>  rorsii.  l^^iifi  si  Te^te^pa  per  b  <teìMi  oppilo  nHla  china  M  Pin- 

>  diM  a  Porla  Vipentioa.  Corrv  opinione  che  b  piog^,  la  mv«,  il  tmu 

>  e  il  !ole  aUiiano  o^  anno  alternativo  donunki  fa  questa  gionab,  t 

>  per  Terìià  l'opinione  è  amlorata  dal  ulto  qua <i  sempre.  Il  Ualntrarì 

>  iRìme  in .  id  •■  ^f>  lu  una  poesia  ^  Tr^jln.  »  — 

tSi  (M .  uasch. .  i'ta  .  (enim.  st>Di>  articoli,  l'yn  od  un .  nueh. 
ckHnti  e  ivtiHKj .  fiiaaa.  m(m  nnmeralL 

i3t  lUra  Iti  aocbe  r<rT-';>i .  che  cMninrb  a  sdiifanà  ^'  bea  pwtaML 
Il  dtileUo  niilanese  e  a»U'.i>  e  n  coatimiamnile  rinpnuleMkNi  :  e  cerio 
WS  è  pA  «em  ai  poni  nt^sth  ch>  cbe  diceva  il  bodeU».  £  Catithioi» 
^h<ù .  quando  ^ fun.'  :'.  ■ì.'r.Co  /.(  dt>po  anrr  lodalo  h  brilna  ed  i 
ctviKiì  *flle  miboe^'.  e"  jt-fpatp* :  —  *  Et  a  ni*  (per  (fine  ciù  ck'io 
1  r.t  JMi[v>  ■  nire  che  zmlf  sjoch'i   loro  a  Eu4e  iM  mio  COfllpìlC,  » 


—  399  — 
lem  trova  quajghedua  (1)  de  podé  damm 
»  00  poo  de  pan ,  oii  quajcoss  (2)  de  podè  mangia.  »  —  Reus- 
[  sissen  a  vess  in  d'ona  campagna:  là  gh'èoo  sit  co[it(3)  ona 
cArt,  e  van  denter.  Gh'è  là  ona  donna  e  el  Tredesin  el  ghe 
dU,  se  la  gli'aveva  de  dagli  quajcoss,  ch'el  gh^ aveva  tredes 
fìffiu.  E  lee  la  glie  dìs  :  —  a  Pover-òmni,  adess,  me  rincress,  poss 
M  dav  nient.  perchè  bisogna  che  ve  scoiida;  perchè  se  veii  a 
»  cà  el  me  mari. che  l'è  el  mago(  ).  l'è  bon  de  mètles  adnìe 
»  a  mangia  i  vosler  Aceti.  Bonca  prima  besogna  che  ve  metta 
n  in  cantiniia;e  che  daga  de  mangia  a  lu;ep(eu  dopo  gh'el 
»  diròo,  che  ve  faròo  vegnl  de  sora  e  ghe  daroo  de  mangia 
»  anca  ai  voster  fioeu.  «  —  Difatti  el  mago  el  ven  a  cà  ;  el 


»  parlava  napolitano  chiaatuio  e  majoteco,  lotte  sst'  noe  n-detano.  Isso 

■  po'  ppr'  farcia  loccà  la  coda  co'  li  mmatio,  decetir  ad  utin  ca  bceva 

■  lo  protonquanqaa  :  —  Vedimmo  'no  poco  de'  rasia  si  tango  fneglio  li 

>  pparole  nosU  o  li  rttuuU.  Nvje  tieeiinviù  Gtpo  ;  e  buje,  eomme  ikci- 

*  Uf  —  ffuje  decinanoCù, — respose  l'aulo.  Ed  is»)  :  —  Nt^je  deeimmo 

*  Cu^ìebiycf  —  CI, —  rcsponnel te  l'auto.  —  NnJBdecimmalit.-ebiQc? 
t  —Hi,  —  llebrecaje  lo  lomaianlo.  Ora  lo  Fclosorodecetic  accessi:  — 
t  M  alla  'mpressa  li  parvle  mtje  a  lengua  toja  :  Io ,  Capo .  Cua.  — 
I  E  lo  lommanlo  subbclo:  —1ii,Cti,Co.  —  E  si  le  eacà.  —  Heceile 

>  lo  Napolitano,  —  le  lu  'mmrretatle,  pacca  se  dicea  io  ptijese  ca  non  è 
»  mio  :  lengni,  oft  no'Ia'ntienne  e  ta  la  caos.  Ora  vide  chi  parla 
I  a  lo  ipruposelo  ntije  o  buje  ?  E  pj>e'  dicere  lu  vero ,  tino  parcnv  j>a- 
»  laccvne  chiille  belle  parale  accinsi  grasse  e  chialle,  ca  (lon  ce  n» 
I  maitca  'iia  letlera  ?  Him  saje  citello ,  ca  se  conta  de  'no  itoverotn- 

*  mo  de  li  «voslr .  lo  quale  fiartuto  da  ìtnapole .  addava  lo  paos  te 
»  chiainma  pane,  arreraj!"  a  'ti'  auto  pajéii:  e  (Tiii-qj'c  ca  sr  detvva 
»  pan,"  pasiaìe  cchiù  'iiniiu:c-  e,  sr  rhiaminava  pa  ;  luiiwi  deecltc  a 
1  la  campagnu  :  torDaninoQoeiiDe,  ca  se  ochiò  'noanze  iammo ,  non 

>  troTarrìiBBa  ochiìi  pane  e  nce  morarrimno  de  fannie.  >  — 
(1)  Qy  :jjltedùn,  qucjgitediin  o  <iuaidun. 
{ì)  Noi  Clienibini  non  c'I-  che  qtiaicùita.  Ma  io  sono  b«n  cerio 

di  avere  odito  non  una  volta ,  n^  da  una  notellatricc  quaicòss,  con  l'ar- 
tìcolo on. 

(3)  Il  '  di  coni  è  euronico.  v  si  nu'tii'  nrilo  quando  la  parola  ac- 
fuenie  comincia  per  vocale, 

(i)  Mago  .  orco  :  manca  nrl  Cheruliìni. 


—  400  — 

ven  a  cà  e  el  dis:  —  «  Tniss  tnisc(lX  odor  de  crisUanusc (2).  )» — 
)»  Toeu  el  mangia ,  perchè  chi  gh'  è  nissuD  de  mangia.  »  — 
Qnand  Tha  avùu  ben  mangiàa,  lée  la  0ie  dìs  allora:  —  «  Si, 
)»  caro  ti;  boo  soondùu  in  caulinna  on  pover-òmm  con  trèdes 
)»  ficea.  Te  vedet,  dì  fioeu  ghe  n'emro  anca  min.  Sicché,  te 
»  vedet ,  donca  besogna  dagh  de  mangia  a  qu^  pover  fioeu  11.  » — 
S^ciao,  je  fa  vegnl  de  sora,  e  ghe  dan  de  mangia  a  sti  fioeu. 
E  lu,  el  dìs:  —  «  Ben  adess;  metti  a  dormi  tucc.  E  mettegh 
»  in  eòo  ai  noster  de  nun  la  barretta  bianca,  e  ai  so  de  lu  ona 
»  scuffia  rossa.  »  —  E  s'ciao  vann  à  dormi.  Lu  el  Tredesin, 
el  lassa  indormentà  tutt  i  fioeu,  e  poeu  adasi  adasi  el  va,  el 
ghe  tira  via  la  scuffia  di  so  fioeu  e  ghe  V  ha  missa  in  testa  a  i 
fioeu  del  mago;  e  quella  che  gh' aveva  i  fioeu  del  mago  ghe  Tha 
missa  in  testa  a  i  ^  de  lu.  E  lu ,  el  mago ,  la  mattina  el  se 
desseda,  el  leva  sù^  el  va,  el  ciappa  tutt  quij  della  scuffia  rossa 
e  je  mazza  tutti  e  poeu  via  el  va.  E  allora  eì  Tredesin  che 
stava  11  a  guarda,  che  lu  el  se  Tè  immaginàa  che  ghe  stava 
denter  qu^'coss,  che  lu  (el  mago)  el  voreva  fa  quel  tradiment ,  el 
ciappa  i  so  fioeu ,  je  fa  vesti  e  poeu  via  el  scappa.  La  mièe  del 
mago,  la  va  là  per  fa  leva  su  i  so  fioeu,  la  je  troeuva  ch'eren 
tutti  mazzàa.  Yen  a  cà  el  mago  ;  la  ghe  dis  :  —  /e  Cosse  V  he 
»  fàa,  ti  ?  t'hé  mazzàa  tutti  i  noster  fioeu.  (c  —  Allora  el  mago 
el  dis  ;  —  «  Ah  quel  baloss  (3)  de  quel  Tredesin  I  V  ha  capii 
»  che  mi  voreva  mazzàgh  i  fioeu,  e  lu  Tha  scambiàa  i  scuffi 
»  e  mi  ho  mazzàa  i  me.  »  —  S'ciao,  el  Tredesin  el  va. 
el  saveva  minga  come  podè  fa  per  viv  con  tutti  sti  fioeu; 
Yen  che  on  servitor  del  Re  F  ha  sentùu  sta  robba  che  era  suc- 
cess de  sto  Tredesin  e  lu  ghe  le  conta  al  Re,  per  vede  s'el 


(1)  Truss  inisc,  mucci  mucci;  manca  nel  Cherubini. 

(2)  Ci'isliamtsc  per  crislianurci ,  forse',  e  senza  forse,  non  esiste 
che  in  questa  sola  frase. 

(3)  BcUòss ,  barone ,  furfante ,  paltoniere.  Così  chiamansi  per  anto- 
nomasia nel  basso  milanese  que'  vagabondi  che  si  presentano  sol  far  della 
notte  alle  cascine  chiedendo  alloggio  e  vitto,  certi  d'ottenerlo  pel  timore 
che  incutono  facilmente  a'  cascinai  abitanti  in  luoghi  pericolosi  perchè 
isolati. 


I 


—  401  — 
podeva  dagh  qiiaijcossa  a  sto  pover-àmm  cli'el  podeva  minga 
maniegn)  i  so  ficeu.  E  lu,  el  He,  el  d)s:  —  «  Sem,  digli 
B  ìnsci  :  se  l'è  hon  de  anilà  là  del  mago  a  robi'i  quel  pappa- 
»  gali  ch'el  gb'ha  lu,  che  mi  glie  darò  ona  gran  sómma.  »  — 
E  lu,  el  Tredesin,  el  ttis:  —  n  Ma  cora'lioo  de  falla  mi? 
9  Basti,  provaròo  d'andà  Ifi  quand  el  gli' è  minga  in  elsa  lu, 
»  che  forsi  con  soa  mièe  poderoo  robaghel.  «  —  Difatti  el 
l'era,  lee.  I/era  II  coni  in  man  el  pappagal!  per  por- 
iBghei  via ,  qiiaiid  capila  el  mago.  E)  mago  ci  ghe  dis  :  — 
■  Ah,  te  set  nlii  adess  t  Te  nenrhfi  Ragià  viEunna;  adess  le 
»  secchi  per  famni  quella  di  dò  (I).  »  —  El  l'ha  ligàa,  e  potu 
el  dis  a  la  soa  mièe:  —  »  Guarda  chl.ailess  andaròo  a  tipu 
l'acqua  rasa,  che  voeuj  dagh  el  fffiugh.  Ti  intreltant  ciappa 
sto  beli  legii  chi.  e  la  fole  e  s' céppa  sto  legn.  Che  insci  quand 
»  vegni  a  cà  metti  su  quij  legn  11  e  l'acqua  rasa  e  el  hrusi.  »  — 
Lee,  sta  povera  donna,  la  ghe  dava  per  s'ccppà  sto  legn  ;  ma 
.la  stentava  a  s'ceppall  perchè  l'era  lanl  dur.  El  Tredesin  el 
le  dis  :  —  n  Povera  donna .  deslighem  on  moment  e  tei  s'ceppi 
mi;  e  s'ci.to!  dopo  tornem  a  ligà,  che  insci  el  tò  mari  el 
B  ven  a  casa  e  el  tro^uva  beli'  e  s'ceppaa  la  legna.  »  —  Lee  le 
dislìga:  e  lu,  appena  desIrgUa,  corr,  va  a  tceu  el  pappatali  e 
via  el  scappa.  Ven  a  casa  el  mago  per  dagh  el  fixugh,  el  iroeuva 
che  gir  è  pu  né  el  Tredesin,  né  pappagall.  Lu,  el  se  metl  a 
batt  la  mièe  perchè  l' ha  desligàa  e  l'ha  lassàa  andà  via  e  el  fa  ona 
bamiffa  del  diavot.  Lu,  el  Tredesin,  e!  va  a  portagh  el  so  pappagall 
al  Re.  El  Re  el  ghe  dà  on  gran  beli  regal  che  l'era  coment  come  (2}. 
El  dis  :  —  «  Adess,  te  devct  fanien  on  alter.  Mi  desideri  che  le 
»  vaghet  là  a  robagh  quella  coverta  che  hi  el  gh'  ha  in  sul  lett 
»  che  l'è  lulla  pienna  de  campanili  (3).  » — «  Cara  lu,  com'iioo 


(1)  l)ò,  due.  femmiDile  ;  al  inascliile  sii  dice  duu.  Quella  di  dò. 
quella  iti  Irèdes  e  modi  simili,  la  seconda,  la  deeimatma,  eccetera. 
fagliela  de  dò.  ficcarla  di  bolòa,  fare  uua  burln  di  p6|iu  ad  alcnno. 

(2)  Oomè;  molto,  assai,  quanto  mai.  L' t  grand  comi,  b  grande 
I    tfsai.  Vuol  pur  dire  come,  liceome. 

(3)  Camimnill,  ca  in  panelli,  la  (piKto  senso  proprio  non  it  nel  Che- 
I  niliinì,  .imi   solo  come  nome  di  liorì,  Imeantvr  :  coii»!  noin<!  d'islni* 


—  Si«  — 
j  it;  lù  lu  ^  wit»  i  uni  t»  fiBvetu  tntla  piesa  de  campi- 
•  mal  *  —  -«Epvce  <Wet  b  H  poasibel  (1)  de  aodalU  a 
1  iva.  ■  —  Tml^  el  va.  B  va  li  iMreltm  che  soi  mièe 
['  <n  'b*  bas  a  fi  1  »  rollò  :  e  la.  el  n  de  san  adasi  adaa 
•TflBc  'M  bombos.e  Tèiinlàa  imbonì  ton  sii  eun|milt  per 
MB  &  óe  Moana.  e  pan  d  *>  ieoodòiL  A  b  sera  d  mago 
«1  va  u  ina:  In.  ^  k  lana  ttkxviati  ben  ben  e  pan  et  eth 
ouiheia  a  poeta  j  podi  a  un  in  dò .  a  tira  in  gib.  Lu  d  mago 
4Ì  s^ -leaneiii  :  el  <iis  t:  —  «*!:osse  Té  .'!ì)  iosd  die  se  seni  la 
>  0)vi>ru  a  on  fio*  ■  —  E  lo.  el  Tredesin.  el  fa  :  —  «  Gnau, 

■  zuiL  ■  —  ^  b  àiD  <!•>  vess  00  gaiL  El  le  lassa  indonnenli 
ha  t*u  ^  p*xu  a  poeta  a  poeta  l'è  renssi  a  liraf^ela  giò.  E 
f'ta  rU  O  aiklaa  eoo  b  5aa  coverta.  El  mago  la  maRiai 
el  tgK»  lì  o^v^ru  e  la  trmva  no.  el  la  Irtenva  in  atssim 
*it:  —  1  Ah.  'YìA  haVitw  -le  -idì?!  Tr^ledD  eh'el   m'ha  fia 

■  'l'alia  -li  [r«i4i'  S'el  me  pò  r«as8i  a  vegnì  in  man,  mi  ^ 
»  d  mazzi  p-efch#  ri  m*  q"  ba  faa  tropp.  »  —  Ln ,  el  Tredeslii, 
el  va  dei  Re.  El  Re  el  fbe  dis:  -—  «  &avo.  ma  (e  see  propi  bra- 
»  vo.  te  ebe  see  reiesLAJess  te  dooona  gran  somma  che  poeti  ti 

■  te  siaree  ben.  Ade»  te  devei  bmen  oo'alira  :  allora  te  set  od 
»  sciòr  (5).  Te  devet  fi  in  manera  de  eoaseffomm  a  mi  el 
»  mago.  ■  —  «  Com'  boo  mai  de  fiT  Ch'  el  mago  adess  s'd  me 


memo  miiiicik.  i-adif-virv  tliiw^:' .  r  coiw  ippellaliTo  di  qoei  ferri 
posti  nelle  mxiae.  >cch>  quuklo  dob  è  piò  gnoo  tra  qnclle,  risoDindo 
tu  di  e^sT  diano  arrìso  al  magliaio  di  rìfoniirle  di  grano. 


—  W-i  — 
»  ciappa  el  me  mazza  !  Basta ,  faroo  de  tuli.  ] 
»  i|uesla.  »  —  El  pensa ,  el  se  vestiss  {Ij  tuli  divers  de  quell  del 
so  sòlit  (3),  el  meit  ona  barba  Bnta  e  poeu  el  va  là.  El  glie  dìs 
a  soa  mièc  :  —  «  Vij  (3)  !  gh'  è  minga  in  cà  el  voster  mari  ?»  — 

■  Si,  ch'el  gli' è:  adess  vòo  a  ciamall  subet.  »  —  E  el  Tre- 
de^n  el  ghe  dìs:  —  «  Mi  sont  vegniiu  clil  de  lu ,  perchè 

;irhoo  bisogn  Oli  piasè  (4),  L' ha  de  savé  die  mi  hoo  mazzàa 

»  vun  che  ghe  disen  el  Tredesln.  e  hoo  de  fagh  la  cassa  e 

gh'bòo  minga  de  ass  (5)  de  lìighela.  Soni  vegnim  de  lu  a  vede 

li'el  voeur  minga  damm  di  ass.  »  —  El  mago  el  dis:  —  «  Bra- 

■  vo,  t'hé  fàa  ben  de  mazzall:  te  doo  subet  i  ass.  Yen  chi, 

>  veo  clit  I  Te  jullaròo  (6]  anca  mi  a  falla  la  cassa  per  metl  deii- 

►  ter  quel  hirbón.  Va  lii!. ..  »  —  El  ghe  da  di  ass;  e  lu  el 
1*  è  0IÌ8S  adree ,  el  Tredeslo  .  a  fi*!  la  cassa.  E  lu  el  mago  l' è 
lemper  stJia  1)  a  guardngh  adoss.  L'ha  preparada  in  manera 

»  vess  pront  a  podella  sarS{7).  Qiiand  l'ha  linida  :  —  «  Adess 
)  mo  sont  iiirescìàa  (8) ,  perchè  suo  minga  la  grandezza,  per  vede 
I  se  l'andarà  ben.  Me  par  ch'el  sia  grand  compagn  de  lu  (9)  el 


<l)  Se  calisi,  si  reste. 

(%  Smt  0  SOM.  Quell  del  tò  solit .  il  solito  suo. 

(3)  lìy.01à,FliÌ,  A  le,  A  tediuo.  Vój  ohi  m,  vìa]  Vój  ti.  He'. 

(4)  PÌMi,  e  pitutri  solo  nella  frase  avegh  tanl  pmr  i  si  minuti 

(5)  Àisa,  siag.  un'aiie:  oji.  plur.  le  itssi:  ass,  sìd|;.  asso. 

(6)  Mia.  ajuiare.  altare. 
(T)  Sarù.,  serrare,  chiuderei  raiiiinargiiiara ,  cicairiiiare .  saldare, 

■"{de'  cavalli)  pareggiare  il  dente  ;  salare. 

(8)  Infescié,  Impicciare,  inibrog1iar«i  imliarazure ;  /gh'  i  paùon'ai- 
tra  robba  che  m'infeteia:  qui  poi  t  un'altra  cosa  che  mi  rompe;) 
disajalarc,  e^ser  di  distralo  :  inzafardare ,  iuibratuire. 

(9)  Grami  eonijiagn  de  lu ,  grande  quanto  lei ,  della  sua  taglia.  Lo- 
raio  Da  Pome  nelle  sue  Memorie  parla  de'  biasimi  di  malevoli  al  suo. 
ìurbtra  di  buon  cuore  :  —  (Ca!>ti  si  trovò  imbarazzato  e  non  osd  dir 

!  apertamente  d'un'opera  clic  tulli  lodavano.  Prese  una  via  di 
t  mensu;  iodd,  ma  v'aggiunse  tanti  ma.  che  la  lode  slessa  Univa  in 
in  /bndo,  diceva  egli,  non  i  che  una  iToduiiime:  bi- 
}  sogna  vctUn  ooiw  anilrlt  la  faccenda  in  un'ofcra  originale.  Ma  t 


—  404  — 

»  Tredesln.  Ch'  el  proeuva  od  poo  a  andà  denter  lu ,  che  insci 
»  vedaroo  perchè  Tè  grand  come  lo.  Se  la  ghe  va  ben  a  lu, 
»  r andare  ben  anca  al  Tredesln.  »  —  «  Ben,  spetta,  adess 
»  vòo  denter  subet.  Guarda ,  guarda  se  la  va  ben.  »  —  Quand 
rè  stàa  denter,  el  Tredesln  el  mett  su  el  coverc  (1),  e  tic  tac  in 
d'on  moment  Y  è  stàa  piccada  giò  (2)  la  cassa.  Però  el  gh'aveva 
faa  di  bus  (3)  in  de  la  cassa  per  podè  fiadà ,  perchè  lu  V  aveva 
de  consegnali  viv  al  Re.  El  gh' aveva  visin  di  so  amis  per 
jultall  a  porta  sta  cassa.  Lór  hin  (4)  stàa  là  pront  e  hin  andàa  e 
r  han  portada  là  a  la  cort  del  Re.  Ghe  V  han  consegnada  al 
Re:  e  el  Re  Tè  stàa  tutt  content  a  vede  che  Tè  reussli  a  con- 
segnagh  el  mago  beli  e  viv.  £1  gh'ha  daa  ona  gran  somma , 
che  r  è  stada  assèe  de  fa  el  scior  per  tutt  el  temp  de  la  soa  vita. 


»  prccalo  ch'egli  negliga  lanlo  la  lingua  :  itLgU% ,  jìcr  esempio,  non 
»  vuol  dire  slalura;  nella  qual  signifìcazione  io  aveva  adoperata  quella 
»  parola.  Mi  trovai  accidentalmente  dietro  alle  sne  spalle  quand*  egli  in 
»  tuon  derisorio,  e  più  col  naso  che  con  la  strozza  disugolata  gorgo- 

>  gliava  questo  verso  a  un  cantante  :  La  taglia  è  come  questa.   Passai 

>  allora  dalle  sue  spalle  al  suo  petto,  e  in  suono  anch'io  di  strozza 
»  disugolata  e  nasale ,  gli  ripetei  questo  verso  del  Berni  :  Gigante  non 
»  fu  mai  di  maggior  taglia.  Guardommi ,  arrossi ,  ma  ebbe  la  onestà 
»  di  dire  :  per  dio ,  ha  ragione.  —  Signor  Abate ,  gli  dissi  io  allora  » 
»  chi  non  può  criticar  in  un  dramma  che  qualche  parola,  ne  fa  un 
»  grandissimo  elogio.  Io  non  ho  mai  criticato  i  gallicismi  del  Teo- 
1  doro.  Non  gli  diedi  tempo  di  rispondermi  e  me  ne  andai.  Quel  can- 
)  (ante  rise  ;  e  il  signor  Abate  rimase  mutolo  per  più  di  dieci  minuti. 

>  Cosi  mi  disse  poi  quel  cantante,  Stefano  Mandini.  >  — 

(1)  Coverc,  coperchio.  El  diavol  el  fa  i  caldar,  ma  minga  i  co- 
verc. Parlando  di  pentole,  caldai,  ecc.  il  milanese  chiama  test  il  coper- 
chio di  ferro,  coverc  quello  di  rame  o  di  terra  cotta,  spazzofu,  quello 
di  lepo. 

(2)  Ficca  giò,  ficcar  giù,  spiega  il  Gherardinì  ;  è  chiaro  che  qui  vale 
inchiodare. 

(3;  Bus,  buso,  bugio,  buco,  pertugio.  Fa  di  biu ,  sforacchiare; 
fa  bus,  far  colpo. 

(4)  Hin,  sono.  Jlfi  soni,  ti  te  set,  tu  l'è,  nun  sem,  vu  sèe  , 
lor  hin. 


—  i05  — 
"•  On  «e  e  rtA 

""  —  -  — ....,.J 

rt>  Zincala  o  av.^ 

•^  "rpa    .,  fe  ,\^  de  risa. 
,  "*M  la  mmosM  »  „  «vore: 

j-p»-™.™'*  *,;--* 


—  406  — 

su  ona  pianta  de  per  (1)  a  catta  (2)  pòmm  (3).  L'è  rivaa  el 
padron  de  sti  nespol  e  l'ha  ditt  ;  —  «  Giò  de  quij  flgh,  ch'hin 
»  minga  voster  quij  brugo  (4).  »  —  ET  ha  ciappàa  on  sass 
che  no  gh'  era  e  ghe  V  ha  dàa  tant  su  i  calcagn ,  eh'  el  gh'ha 
fàa  dori  (5)  on'  oreggia  (6)  per  on  ann. 

III.  IL.'  Oml>z-ioii  (7) 

Ona  volta  gh'era  on  papà  (8).  El  gh' aveva  tre  tosànn  (9)  e 
l'era  molto  (10)  pover  e  l'andava  à  cerca  la  carìtàa,  per  porta  a  cà 
de  mangia  a  sti  so  tosànn.  E  on  dì  gh'  an  ditt  de  portagh  a  cà 
onpòbd'^g  (11).  L'è  andaa  foBura  de  cà,  Tè  passàa  d'on  sit, 
l'ha  vist  on  beli  giardin ,  e  l'è  andàa  dent  (12).  L'ha  vist  che 
gh'era  on  beli  scepp (13)  d'aj ;  e  Tè  andàa  là  e  n'ha  cattàa  on 


(1)  Pianta  de  per  ^  si  dice  anche  on  per. 

(2)  Catta,  cogliere,  captare,  frequenl.  di  capio. 

(3)  Pomm,  mela,  ed  anche  il  melo. 

(4)  Brugna;  tanto  il  prugno  o  susino  che  la  prugna  o  susina. 

(5)  Dori,  dolere.  Insalata  de  fràa,  bombon  de  monegh,  fan 
semper  dori  el  stomegh.  —  «  Insalala  di  monache  eh  !  E'  si  spende  più 
»  a  mangiarne  a  capo  d*anno  che  a  mangiar  starne  e  fagiani.  G-elli. 
>  Sporta.  >  — 

(6)  Oreggia,  sing.  Orecc,  plur. 

(7)  Ombrion,  manca  nel  Cheruhini,  dove  non  è  che  Ómbra  ed 
ombria  per  ombra,  spettro  (da  non  confondersi  con  Ómbra  ed  Om- 
brìa, ombra  ed  ombria.  Ave  paura  de  la  so  ombrìa). 

(8)  Papà,  paperin,  babbo,  papà. 

(9)  Tósa ,  sing.  tosànn ,  plur.  fanciulla ,  ragazza ,  tosa.  Il  diminu- 
tivo tosètta,  fa  al  plur,  tosarèlt. 

(10)  Parola  che  non  è  nel  dialetto. 

(11)  Aj,  aglio.  Coronna  d'aj ,  resta  d'aglio.  Coo,  capo.  Gesa,  spic- 
chio. Coa  0  sgaùsc,  coda. 

(12)  Dent  o  denter.  Andà  dent ,  entrare. 

(13)  Scèpp,  fra  gli  altri  signifìcati  ha  quello  di  cespo ,  cesto ,  cumulo 
di  molti  figliuoli  sur  una  sola  radice  di  frutti  o  d*erba;  lo  stesso  che 
ceppaia,  ceppata  (sceppdda)  negli  alberi.  Da  non  confondersi  con  s' ceppa, 
fesso,  screpolato;  s' ceppa,  schiappa,  ecc. 


—  407  — 

poo.  In  del  strappali ,  V  è  borlàa  per  terra  e  l' ha  ditt  :  —  «  0 
»  daj  (1)!  »  —  E  gh' è  compars  come  on  ombria.  E  st'ombrion 
rha  ditt;  «  Cosse  te  set  vegnuu  a  fa  cont  st'aj?  »  —  E  lu  l'ha 
ditt  che  rè  per  porta  a  cà  ai  so  tosano  che  gh'han  ditt  lor  de 
andà  a  cattali.  E  lu,  Tombrion,  e)  gh'ha  ditt;  —  «  Ben!  o  ti 
»  te  menet  chi  diman  a  sfora  vuna  di  tò  tosànn,  o  la  tòa 
»  vitta  rè  andada.  »  —  E  lu,  sto  pover-òmm  Tè  andàa  a  cà 
tutt  stremii  (2)  a  piang.  I  so  tosànn  gh'han  ditt  cosa  Pera  che  lu 
el  gh'aveva.  E  lu  T  ha  ditt  quell  che  gh'era  success.  Donca  (3)  i 
tosànn,  la  maggior  l'ha  vorùu  minga  andà,  la  segónda  nanca  (4),  e 
la  minor  Tha  ditt;  —  «  Ghe  andaròo  mi!  »  —  e  Tè  andada 
lee  in  sto  sit  cont  el  pà  (5).  E  quand  el  pader  V  è  stàa  là  con  la 
sòa  tosa,  rha  fàa  a  la  stessa  manera  che  Taveva  fàa  quand  Tha 
strappàa  l'aj.  E  allora  l'è  compare  l'ombrion  e  l'ha  ditt;  — 
<c  Lassala  chi,  che  la  toa  tosa  Tè  in  bon  man  e  la  patirà 
»  minga.  »  —  L' ha  menada  giò  d' ona  scaletta  e  quand  V  è 
stada  giò,  l'ha  veduu  on  magnilìch  sii,  insci  beli  ch'el  pareva 
on  palazz.  E  no  ghe  mancava  nient ,  qualunque  cossa  che  lee 
la  podeva  desidera.  Solament  che  la  gh' aveva  semper  st'om- 
brion denanz  ai  oeucc  (6),  e  la  podeva  mai  pizza  el  ciàr  (7)  de 
sera;  el  gh'aveva  proibii  lu,  ch'el  voreva  minga  che  de  nott  se 
pizzass  el  ciàr.  E  quand  el  dormiva,  lee  le  sentiva  a  ronfà  (8) 
come  ona  persona.  E  la  ghe  voreva  molto  ben;  la  s'era  tant 
affezionada  che  la  ghe  voreva  molto  ben.  La  gh'ha  cercàa  el 


(1)  Dàj ,  esclamazione,  dagli!  Ma  qui  y*é  un  bisticcio  con  d'aj. 

(2)  Slremìi,  impaurito,  sbigoiito.  Fa  stermì,  impaurire,  Slremiss, 
rimescolarsi,  sentirsi  rimescolare.  Stermìzzi,  rimescolameuto.  Taù  su 
on  stremìzzi. 

(3)  Donca  e  donch.  Ergo  donca,  trii  conchin  fan  ona  conca, 
modo  scherzevole  di  conchiudere. 

(4)  Nanca,  gnanca  e  gnanch. 

(5)  Pà  e  pàder^  padre. 

(())  Oeucc,  occhio,  plur.  simile  al  sing. 

(7)  Pizza,  appicciare,  accendere.  Smorza  on  moccheii  per  pizza 
ona  torcia.  El  ciàr,  il  lume. 

(8)  Ronfà,  ronca,  russare,  ronflare,  ronfere;  (de*  gatti)  tornire. 


—  408  — 

permess  d'andà  a  cà  a  trova  i  so  sorej  (1)  e  el  so  pà.  E  lu  ghe 
]'ha  daa  el  permess  doma  (3)  per  yintiquattr'or(3).  E  lee  la  gh'ha 
promess  che  la  saria  vegnuda  prima  anca  di  ventiquattr'or. 
L' è  andada  a  cà ,  T  ha  trovàa  i  so  sorej  e  el  so  pà  e  la  gh'  ha 
cuntàa ,  che  la  stava  insci  ben ,  che  ghe  mancava  nagott  (4).  La 
gh'aveva  el  dispiasè  che  la  podeva  minga  pizza  el  dar,  e  che 
la  nott  la  sentiva  Tombrion  a  ronfà  come  ona  persona.  Lor, 
i  sorej,  gh'han daa  de  podè  pizza  el  ciar;  candela  e  zolfanej  (5) , 
per  pizza  el  ciar  quand  lu,  Tombrion,  el  dormiva.  I  sorej, 
voreven  tegnilla  là  e  lee  la  gh'ha  ditt  :  —  «  No,  poss  no,  per- 
»  che  gh'hoo  promess  che  saria  andada  prima  di  vintiquat- 
»  tr'or.  »  —  L'è  andada,  e  lu  l'era  là  a  ricevela.  E  l'è  staa 
content  perchè  l' è  andada  anmò  (6)  prima  de  quel  che  lu  el 
gh' aveva  ditt.  La  sera  quand  hin  andàa  a  dormi,  lee  Tha 
lassàa  indormentà  e  poeu  l'ha  pìzzàa  el  ciar.  E  l'ha  vedbu  che 
r  era  on  bellìssem  gioven.  El  gh'  aveva  al  coli  on  cordon  cent 
attach  (7)  ona  eia  vetta  (8).  Ghe  l'ha  tiràda  via  e  l'è  andada  a 
prova  in  di  stanz  che  gh'  era  intorna  al  so  palazz ,  per  vede 
dove  r  è  che  l' andava  ben  sta  ciav.  L' ha  trovàa  che  in  sta 
stanza  gh'  era  denter  tanti  donn  che  lavora ven  e  che  diseven  : 

Fee  fass,  patton  (9)  e  pattej  (10) 
Per  el  fioeu  del  Re. 

(1)  Sing.  sorella;  plur.  sordi,  e  sorej. 

(2)  Doma  e  noma,  solo,  soltanto,  solamente. 

(3)  Óra,  sing.  Or,  plur. 

(4)  Nagott  e  nagotta,  nulla,  da  ne  gutta  quidem,  probabilmente. 

(5)  Il  Cherubini  nota  come  bella  parola  contadinesca  SolfanèU  o 
Zolfinèll  invece  del  cittadinesco  Zo/freghètt  o  Zoffreghìn. 

(6)  Anmò ,  ancamò  ;  ancora  ,  anche  ;  tuttora ,  tuttavia. 

(7)  Atlacch,  accanto,  allato,  presso,  vicino,  accosto. 

(8)  Ciavetla,  chiavetta,  specialmente  quella  dell* oriolo,  diminutivo 
di  ciav. 

(9)  Fee^  fate.  Fass  s.  masch.  plur.  fasce.  Patton,  qui  è  sinonimo 
di  paltonin,  pezza  a  più  doppi  o  imbottita  che  si  sottopone  per  pulizia 
ai  bambini  lattanti  fra  le  pezze  line  e  quelle  di  frustagno. 

(10)  Fatteli  e  più  comunemente  al  plurale  pattij,  pezze,  que'  pan. 
nilini  onde  avvolgonsi  i  fanciulli  in  fasr.e. 


—  409  — 

E  pceu  rha  saràa  su  e  vìa  Tè  andada.  Gh'è  vegnuu  a  la 
centra  lu ,  T ombrìon ^  in  forma  d'un  bel  gioven(l).  El  gh'ha 
diti  :  —  «  Adess ,  pòdem  pu  sta  inserama.  »  —  E  lee  V  ha 
ditt:  —  «Insegnem  dove  hoo  de  andà,  che  mi  ghe  andaròo, 
»  dove  te  voeut.  »  —  Lu  el  gh'  ha  ditt  :  —  «  Va  a  la  cort 
»  dei  Re,  che  mi  soo  che  lu  l'aloggia  i  forestee(2),  quej  che 
»  desideren  de  andà  là.  GHe  tutt  i  noti  vegnaròo  mi  a  trovatt.»  — 
Lee  rè  andada  e  là  l'han  aloggiada.  La  prima  nott  che  l'om- 
brion  Tè  andàa  a  trovalla  gh'è  ona  lampeda  là  sul  scalon  e 
quand  Y  era  là  el  ghe  diseva  : 

Lampada  d'argento,  stoppino  d'oro 
La  mia  signorina  riposa  ancora? 

E  la  lampeda  la  ghe  diseva: 

Vanne  vanne  a  buon'ora 

La  tua  signorina  riposa  ancora. 


Lu  el  ghe  dis  a  la  lampeda  : 


Quando  mio  padre  saprà 
Con  fasce  d'oro  ti  fascerà. 
Quando  i  galU  più  non  cantano, 
E  le  campane  più  non  sonano, 
Sino  a  giorno  starò  qui. 


(!)  Giuven  e  Gioveìu 

{%  Foreslée ,  forestiere.  Avendo  Pietro  Giordani  stampato  in  un 
articolo  della  Biblioteca  Italiana ,  fra  le  altre  cose  che  nella  moderna 
Italia  forestiere,  come  nell'antichissima  Roma,  vuol  dire  inimico, 
Carlo  Porta  gli  rispose  col  seguente  sonetto: 

Quand  i  nost  vìcciurritt  e  fiaccaree 
Menen  intoma  on  Milanes  a  spass, 
Ghe  diraven,  a  chi  gh*ei  domandass, 
Che  menen  in  caroccia  on  Fhrestec. 

Quand  i  nost  sciori  inviden  on  vivee 


_  410  — 
On  servitor  Tlia  sentii  sta  robba,  ooa  noti  e  dò.  E  Tè  «- 
dàa  a  dighel  al  Re  che  sentiveo  de  nott  quest  che  v^i¥a  a 
di  sta  robba.  E  lu.  el  Re,  l'è  andaa  e  l'ha  voruasenl)  lu;  edi 
fatt  l'è  andàa  e  l'ha  senili  sta  robba.  L'ha  pe&segàa(l)  a  mandi 
a  fa  mazza  tult  i  gali  e  a  fa  sona  pu  i  campann.  Quand  gh'è 
staa  pu  campaoD  che  sonass,  né  gaj  che  canlass,  cpielta  oott 
l'ombrion  l'è  andàa  e  l'ha  tornàa  a  di'anmò  alla  lampeda 
Vistess  che  el  gbe  diseva  i  alter  volt: 

Già  le  galle  (?)  più  non  cantano. 
Le  campane  più  non  sonano. 
Sino  a  giorao  starò  qui. 

E  la  mattinna  (3) ,  a  l'ora  solila  che  ghe  portaven  el  calè  a 
sta  tosa,  van  denter  e  veden  che  gh'è  là  on  alter  scìor  inseni- 
ma.  E  lu ,  sto  scior ,  l' ha  cercàd  se  se  podeva  parta  al  Re. 
El  RecheTeraquel  ch'el  desiderava ,  quaad  l'ha  veduti. l'hi 
riconossùu  che  l'era  so  lioeu  che  l'era  staa  instriaa.  E  allon 
lu  r  ha  ditt  :  —  «  Quella  l' è  la  mia  deliberatrice  ;  se  no  ^'era 
M  questa  mi  podeva  minga  vess  delìberàa  ;  perchè  mi ,  el  me 


Di  so  amis  HitaMS  a  reQziass , 

Hìd  solet  «ligi]  al  cixugh  de  regolasi 

Che  gh'han  di  Foreske,  Lani  che  sia  assee  ; 

E  lu  eh' ci  sta  chi   insci  a  s' ceppa  i  radìs. 
1."  ha  el  corali!  de  slampann  it 


—  411  — 

»  iostrìament  T  aveva  de  bisogn  de  trova  vuiuia  che  me  voress 
»  ben,  anca  che  mi  fuss  mostruós.  »  —  E  so  pader  el  gh'ha 
ditt: — a  Ben,  e  li  te  la  sposaret  e  la  sarà  toa  sposa.  »(1)  — 
E  s'ciao  (2). 

L' è  passàa  on  carr  d' oli  ^3)  d' oliva , 
La  panzanìga  (4)  Y  è  beir  è  finida. 

fContiniui). 


(i)  Usanza  moderna  che  è  stata  recentemente  interpolata  nella  fiaba. 

(2)  Ciao,   ciaw),  s'ciao,  schiavo,  come  formola   di  congedo  e 
d'addio. 

(3)  Oli  e  presso  il  volgo  auli  ed  auri, 

ii)  Panzànega.  Fiaba,  fola,  panzana,  favola,  pantraccola.   11  Che- 
rubini riporta  così  questa  chiosa  comunissima. 

E  poeù  gh*han  miss  su  la  saa,  Taséc  e  Foli  d'oliva 
E  la  panzànega  Tè  bella  e  finida. 

Risponde  al  modo  toscano  : 

Stretta  la  foglia  sia,  larga  la  via, 
Dite  la  vostra  che  ho  detta  la  mia  ; 

nel  quale  è  da  notarsi  che  spesso  (e  cosi  V  ha  scritto  Nicomedo  Tabacchi , 
ossia  Domenico  Ratacchi  nei  canto  IX  del  libaìdone)  il  primo  verso 
suona  : 

11  fosso  sta  fra  il  campo  e  fra  la  via. 

e  talvolta  semplicemente  : 

In  santa  pace  pia. 


I  MANOSCRITTI  ITALIANI 


CHE  SI    CONSERVANO 


NELLA   BIBLIOTECA    RONCIONIANA   DI   PRATO 


(V.  pag.  451.  Voi.  ^°  Continuazione). 


God.  X. 

Cartaceo,  in  fol.,  sec.  XVI, 
di  carte  160  senza  nnm. 


I.  —  Mathbo  Palmieri  de  Temporibus  tradotto  di  latino  in 
lingua  materna  dal  reverendo  m.  gabriello  di  antonio 
Zachi  da  Volterra  vescovo  di  Osmo.  m.cccc.lx. 

Comincia:  e  Dal  princìpio  del  mondo  o  vero  da  Adam 
primo  delli  Homini  per  insino  al  Diluvio,  quale  fu  sotto  Noe 
sono  computati  2242  >.  A  e.  8  1.  :  «  Finisce  el  Libro  de  Matteo 
Palmieri...  »,  ripetendo  il  titolo.  E  la  Cronaca  termina  coir  an- 
no 1444.  Ripiglia  poi  coiranno  1453,  e  viene  al  1509;  termi- 
nando a  e.  81  con  TtXtoq, 

Del  testo  latino,  più  volte  stampato,  ved.  Zeno,  Bis- 
seri.  Voss,\  I,  110;  Fabricio,  Bibliotheca  Latina  med.  et 
infim.  aet.  (ed.  Florent.  1858);  V,  49-50.  Il  Moreni  (Bt- 


—  4l;t  — 

btiogra/ia  storicfxagìonata  della  Toscana:  II,  148}  ricorda 
che  questa  Cronaca  «  nel  XV  secolo,  in  cui  fu  scrina,  fii 
»  ancoiti  trasportata  in  volgare,  e  che  di  questa  versione 
,  »  UD  Cod-  in  carlap.  in  4,  lo  possedea  Bernardo  Trivisano, 
[  ■  al  dire  del  suddetto   Zeno  ec.  ».  Ma  il  bÌblÌop-afo  fio- 
rentino tacque,  o  non  seppe,  V  autore  del  volgarizzamento; 
e  ignorò  pure,  che  nella  Magliabechiana  se  ne  conservava 
r autografo.  Il  codice  magliabechiano  ha   questo  ricordo: 
,   ■  Questo  libro  ene  di  me  Zaa'aria  di  Antonio  Zacchi  da 
l'I  Volterra,  il  quale  mi  traslatò  in  volgare  messer  Gabriello 
^  »  mio  fratello,  et  ene  scripto  di  sua  propria  mano  in  anno 
»  Christiane  salutis  1460  ».  E  questo  ricordo  ci  fa  accorti 
dell'errore  nel  quale  incorse  chi  copiò  il  nostro  Codice; 
perchè  non  Gabriele  Zacchi,  ma  Gaspare  suo  fratello  fu, 
¥escovo  d'  Osimo.  Di  cbe  può  consultarsi  il    Compagnoni, 
\  Jkmorie  ec.   della  Chiesa  e  de'  Vescovi  di  Osimo  ;  Lezione 
tCCri;  voi.  Ili,  391. 

—    (  Cb  OKI  GHETTA     VOLTERRANA,     (1"  ilIlOtlimO ,     (lai    13(Ì2    Sl 

1478), 

.\  e,  81   Comincia,  senza  [itolo;  •  Anno  snlut-is  mcccli 
Kleg)^si  LxO  la  noslra  comunità  iti   Volterra,  statim   [toppo 
1  tagliare  della  lesta  a  messer  Bocliino  di  messer  Ociaviano 
;"BeIforli  ».  Finisce  a  e.  91  t-,  coli' anno  \M0. 


Fu  stampala  questa  Cronichetta  neìV  Archivio  storico 
taliano.  Appendice,  HI,  317  e  segg. ,  da  M.  Tabarrini;  e 
~a  pag.  776-82  si  leggono  le  varianti  da  rao  tratte  da  que- 
sto Codice,  e  mandate  alla  Compilazione  dellMrcAìtio  con 
lettera  de'  28  di  settembre  1846.  Oltre  le  varianti,  assai 
buone,  trovai  di  piò  nel  testo  Roncioniano  la  deliberazione 
de' 30  di  ottobre  1431,  colla  quale  i  Fiorentini  riposero 
Volterra  ne'  diritti  perduti  per  la  ribellione  del  Catasto. 


—  414  — 

III.  —  (La  Sfera  di  Fra  Leonardo  Dati,  in  citava  rima.) 

A  e.  92  comincia: 

f  Al  Patre,  al  Figlio,  al  Spirito  Sancto 
Per  ogni  secalo  sia  gloria  et  honore 
Et  benedicto  sìa  suo  nome  quanto 
Tutte  le  creature  hanno  valore 
Laudato  et  rengratiato  in  ogni  canto 
Con  pura  mente  et  con  devoto  chore 
Et  confessata  sia  la  sua  boutade 
Pietà  misericordia  et  charitade  ». 

Più  volte,  fino  dal  secolo  XV,  furono  ristampati  i 
quattro  libri  della  Sfera;  e  modernamente  due  volte  da 
Gustavo  Galletti,  che  primo  la  pubblicò  col  nome  del  suo 
vero  autore,  essendo  andata  per  T  avanti  sotto  il  nome 
di  Goro  Dati.  Sono  poi  molte  le  copie  a  penna  conservate 
nelle  biblioteche,  e  spesso  ne  troviamo  di  belle,  ornate  di 
miniature. 

IV.  —  Di  m.  Antonio  Rinieri  da  Colle. 

A  e.  Ili  t.-113.  (Canzone.  Ritorno  a  Dio  dopo  i  terreni 
amori.  ) 

Com.:  €  Sommo  Padre  del  ciel,  Padre  immortale  ». 
Fin.;   •  Prega  per  me,  ch'ai  mio  fallir  perdoni  ». 

A  e.  113-114  t.  (Canzone  d'amore.) 

Com.:  €  Ahimè  ben  conosceva  ». 

Fin.:  ((  Canzon,  de  i  pianti  miei  non  più  con  quella 

In  cui  pietate  è  spenta, 

Ma  meco  ti  lamenta  ». 


—  416  — 

Antonio  Rinierì,  nativo  di  Colle,  fu  un  tempo  in 
Prato,  condotto  da  quel  Comune  a  insegnare  umane  lettere 
nelle  pubbliche  scuole;  e  nei  funerali  del  proposto  Bec- 
cadelli  (an.  1572)  vi  recitò  T  orazione.  (Ved.  Monumenti 
di  varia  letteratura  tratti  dai  manoscritti  di  mons,  Lo- 
dovico Beccadelli;  Bologna,  1797;  I,  164.)  Anche  verso  la 
fine  del  secolo  scriveva  sempre  poesie  latine  e  italiane  in 
lode  dei  Serenissimi  di  casa  Medici. 

V.  —  Di  don  Sbvbro  Parella,  detto  Ctcinnio,  da  Volterra. 

A  e.  114  t.-116  t.  (Canzone  sul  Natale  di  N.  S.) 

Coro.:  e  Nella  stagìon  eh' a  noi  r avara  terra  ». 
Fin.;  «  Non  ti  festi  di  me  perpetuo  donno  ». 

A  e.  125  t.-128  t.  Sopra  bl  mbdbmo  senso.  (Cioè,  in 
morte  del  duca  Alessandro  de' Medici.) 

Canzona    I.  Coro.  :  «  In  antri  oscuri,  in  secco  arido  scoglio  > . 
Canzona   II.  Coro.:  «  Ah  sventurato  e  miser  Tosco  lido  ». 
Canzona  III.  Com.  :  «  Lasso  I  quant'  alte  e  gloriose  imprese  ». 

VI.  —  Di  m.  Giovanni  Parella,  detto  Alfeo,  da  Volterra. 

A  e.  116  t.-125: 

Com.  :  (c  In  ermi  in  rupi  in  fratf  e  arido  scoglio  > . 
Fin.:  <c  0  Dio  per  suo  pietà  ne  porgh'aita  ». 

Sono  LXII  Stanze,' che  piangono  la  morte  del  duca 
Alessandro  de'Medici. 

A  e.  125.  Allo  illustrissimo  Cosmo.  (Sonetto.) 
Com.  :  ((  L' aquir  altiera  per  natio  costume  ». 


—  416  — 

Il  poeta  esorta  il  novello  Principe  ad  aflìsar  gli  occhi 
neir  Aquila  di  Cesare.  —  È  Giovanni  Parelli  V  autore  di 
una  Cronichetta  latina,  che,  volgarizzata  dal  Tabarrini,  venne 
in  luce  m\V  Archivio  storico  Italiano;  Appendice,  ITI,  333 
e  seg.;  col  titolo  di  Seconda  Calamità  Volterrana  (an. 
1530).  L'editore  disse,  che  del  Parelli  «  nulla  sappiamo, 
»  tranne  il  pochissimo  che  si  può  ricavare  da  questa  sua 
»  narrazione  nei  luoghi  ove  parla  di  sé  ».  E  soggiunge, 
che  fu  Canonico  in  quella  Cattedrale,  e  mori  il  10  dicem- 
bre 1568  in  sacrarium  diete  Ecclesiae,  subitanea  morte. 
Ora  questo  Codice  ci  fa  sapere,  che  il  Parella  faceva  anche 
versi,  e  che  delle  calamità  sue  e  patrie  non  fece  colpa  ai 
signori  Medici. 

VII.  —  Di  m.  Lodovico  Akiosto  ferrarese.  (Sei  Stanze.) 

A  e.  130.  Sono  le  Stanze  61-66  del  Canto  xliv  del  Fti^ 
rioso;  ma  invece  che  la  Donna  parli  amorosamente  a  Ruggiero, 
un  Amante  qualunque  parla  alla  sua  Donna  cosi: 

e  Qual  son,  qual  sempre  fui,  tal  esser  voglio 
Fin  al  morte,  e  più,  s' esser  si  puote. 
0  siami  Amor  benigno  o  m' usi  orgogho, 
0  me  Fortuna  in  basso  o  in  alto  ruote; 
Pson  di  vero  amor  inmobil  scoglio 
Che  d' ogn'  intorno  el  vento  e  '1  mar  perquote  : 
Che  mai  già  per  bonaccia  né  per  verno 
Stato  mutai,  né  muterò  in  eterno. 

Si  vederà  scarpel  di  piombo  o  lima 
Formar  in  varie  imagin  diamante, 
Prima  che  colpo  di  fortuna  e  prima 
Ch'  ira  d' amor  rompa  '1  mio  cor  constante; 
Si  vederà  voltar  verso  la  cima 
De  gli  alpi  el  fiume  torbido  e  sonante, 
Che  per  nuovi  accidenti,  buoni  o  rei, 
Faccin  altro  viaggio  i  disir  miei. 


—  417  — 

Madonna  a  voi  tuttMl  dominio  ho  dato 
Di  me,  eh' è  forse  più  ch'altri  noi  crede. 
So  ben  eh'  a  nuovo  principe  giurato 
Di  questa  non  fu  mai  la  maggior  fede: 
So  che  né  al  mondo  un  piii  sicuro  stato 
Di  questo,  re  né  imperador  possedè. 
Non  vi  bisogna  far  fosse  né  torre, 
Per  dubio  ch'altri  mi  vi  possi  torre. 

Quel  eh'  i'  v'  ho  dato,  a  custodir  son  buona  ; 
Non  verrà  assalto  a  cui  non  si  resìsta: 
Riccheza  non  sarà,  che  a  voi  prepona; 
Né  si  vii  prezo  un  gentil  cuore  acquista: 
Non  nobiltà  né  alteza  di  corona, 
Ch'ai  sciocco  vulgo  abagliar  fa  la  vista; 
Non  beltà,  ch'in  liev' animo  può  assai, 
Vedrò,  che  più  di  voi  mi  piaccia  mai. 

Non  havet'  a  temer  eh'  in  forma  nuova 
hìtagliare  il  mio  cuor  mai  più  si  possa; 
Se  {leggi  si)  l'imagine  vostra  si  ritrova 
Scolpita  in  lui,  eh'  esser  non  può  rimossa. 
Che  '1  cuor  non  ho  di  cera  ;  e  fatt'  ho  prova, 
Che  gli  dia  {leggi  die)  mille,  non  eh'  una  percossa. 
Amor,  prima  che  scaglia  ne  levasse, 
Quand'  all'  imagin  vostra  lo  ritrasse. 

• 

Avorio  e  gemma  e  ogni  pietra  dura 
Che  da  r  intaglio  meglio  si  difende 
Si  spezerà,  ma  non  ch'altra  figura 
Che  quella  prenda,  eh'  una  volta  prende. 
Non  è  '1  mio  cuor  contrario  alla  natura 
Del  marmo  o  d'  altro  eh'  al  ferro  contende. 
Prim'  esser  può  che  tutt'  Amor  lo  speze, 
Che  lo  poss'  intagliar  d'  altre  belleze  d. 


—  418  — 

Ho  volato  recar  qui  per  disteso  queste  Stanze  non 
solo  per  certe  varianti  che  dà  il  nostro  Codice,  ma 
perchè  non  sarebbe  difficile  che  l'Autore  medesimo  le 
avesse  mandate  fuori  in  questa  forma  avanti  d'inserirle 
nel  suo  poema.  E  perchè  la  mia  congettura  non  sembri 
affatto  priva  di  fondamento,  veda  il  lettore  nelle  Rime 
deir  Ariosto,  fra  i  Capitoli  in  terzine,  quello  eh' è  IX 
nell'edizione  procurata  dal  Dolce  (Vinegia,  1560);  dove 
r  editore  ha  posto  la  seguente  nota  :  «  Tutti  i  concetti,  e 
»  quasi  i  versi  interi  di  questo  Capitolo  ridusse  l'Ariosto 
»  con  molta  felicità  nel  suo  Furioso  nella  persona  di 
»  Bradamante  ».  Ora,  nel  modo  che  dette  fuori  le  terze 
rime,  può  aver  messi  in  ottava  questi  concetti  amorosi 
prima  di  inserirli  nel  poema. 

A  e.  130  t.  Del  medesimo.  (Madrigale.) 

«  Quando  ogni  ben  della  mia  vita  ride, 
I  dolci  baci  niega; 

Se  piange,  alhor'al  mio  voler  si  piega: 
Cosi  suo  mal  mi  giova,  e  '1  ben  m'  accide. 
Chi  non  sa  come  stia  fra  il  dolce  il  fele 
Provi,  come  provo  io, 
Questo  ardente  disio 
Che  mi  fa  lieto  viver  e  scontento. 
Cosi  nasce  per  me  di  amaro  il  mele  : 
Dolor  del  riso  pio, 
Ch'el  bel  volto  giullo 
Lieto  m'apporta  sol  per  mio  tormento. 
Miseri  amanti,  senza  più  contesa. 
Temete  insieme  e  sperate  ogni  impresa  ». 

Mandai  al  professor  Luigi  Muzzi  nel  45  questo  Ma- 
drigale, che  non  trovavo  fra  le  Rime  dell'Ariosto;  e  il 


—  419  — 

Professore  mi  rispose:  «  Il  Madrigale,  io  come  io,  noi 
»  penserei  mai  delP  Ariosto.  Quegli  antitesi,  qae'concettini 
»  troppo  bellini  son  forse  più  del  Guarino,  del  Chiabrera, 
»  e  anche  anche  del  Tasso  » .  Ma  in  questo  Codice  stavano 
scritti  quando  que'  Poeti  non  erano  ancora  venuti  al  mondo. 
E  il  professor  Carducci,  avutolo  da  me  anni  sono,  lo 
pubblicò  nelle  Veglie  letterarie,  voi.  I,  pag.  144,  an.  1862. 

Vni.  —  Dbl  Molza. 

A  e.  131.  (Sonetti  due.) 

Com.:  «  Se  ciò  che  non  in  voi  donna  dispiace  ». 
((  Tu  che  ritrai  quella  fronte  superba  ». 

IX.  —  Di  m.  Paulo  Maffbi  da  Volterra. 

A  e.  131,  «  Si  recitò  su  un  carro  ». 

Com.:  a  Fa  di  questi  Volterra  hoggi  memoria  ». 

È  una  Canzone  in  lode  de'  Medici,  e  di  Volterra 
suddita  di  que' Serenissimi. 

A  e.  142  t.   €  Si  recitò  su  un  carro  •. 

Com.:  «  Questa  nostra  alta  e  inclita  regina  ». 

È  una  Canzone  sulla  Pudicizia. 

X.  —  Di  sbr  Octaviano  Ricciarello  da  Volterra. 

A  e.  132  t.  €  Recitato  su  un  carro  ». 

Com.:  •  Su  dal  superno  e  glorioso  ciostro 
Da  l'alto  ciel,  dove  tornar  desio, 
Dove  è  tenuto  a  vile  il  viver  nostro  ».... 

E  un  Capitolo  sulla  Passione  di  Nostro  Signore. 


—  420  — 

XI.  —  Elegia  in  obitu  amplissimi  CanlituUii  IRppoiìti  >U 
dices. 

A  e.  133  t  comiDcia: 

«  Su/rge  age  perpetui  monstres  me,  musa,  dfAorit  *. 

xn.  —  La  Marchesana  di  Pescara  al  Sagro  Impir&tou. 

A  e.  131  t.  (Sonetto.) 

Cora.:  «  Vincer  i  cor  più  saggi  e  ì  re  più  altieri  ■. 

A  e.  135-139.  Sonetti  della  Marchrsa  sr  Pescara. 

«  Con  la  Croce  a  gran  passi  ir  vorrei  dietro  ■. 

n  Rina.>;ca  in  te  il  mio  cor  questo  almo  giorno  >. 

«  Se  ne  die  lampa  il  cìel  chiara  e  lucente  > . 

«  Cibo  dal  cui  meraviglioso  effetto  ». 

«  Se  quanto  ò  inrerma  e  da  se  vii  con  sano  ». 

«  Dietro  al  divino  tuo  gran  capitano  •. 

a  Da  Dio  mandata  angelica  mia  scorta  ». 

«  Di  vero  lume  abisso  immenso  e  puro  ». 

«  Quasi  gemma  del  ciel  l'alto  Signore  ». 

«  Tempo  è  pur  ch'io  con  la  precinta  vesta  ». 


—  421  — 

Dal  pigro  SODDO  onnai  dove  sepolta  ». 

Se  pioggia  ornai  da  Dio  larga  Don  scende  ». 

Chiara  fama  tra  noi  Bodvìso  soDa  ». 

DuDque  Bodvìso  mio  del  Dostro  seme  >. 

La  bella  Italia  che  graD  tempo  stese  ». 

Mentre  Bodvìso  ìd  più  superbo  volo  >. 

Fia  mai  quel  di  che  U  giogo  amaro  e  grave  >. 

Prega  Bonviso  il  ciel  meco  d'aita  >. 

Ecco  che  muove  orribilmente  il  piede  ». 

Il  Tebro  l'Amo  e  '1  Po  queste  parole  •. 

Bonviso  mio  dai  dispietati  strali  >. 

Saggio  Bonviso  il  gran  pubblico  danno  > . 

Degna  nodrice  delle  chiare  genti  ». 

XIV.  —  Di  uiiA  GENTIL  Madonna  Sanesb  a  un  suo  amante. 
A  e.  143  t.  (Stanze  XV.) 

Com.:  ce  Misera  in  van  mi  doglio  e  mi  lamento  ». 

XV.  —  Ave  Maria. 
A  e.  145  t: 

Com.:  «  Per  voler  l'amor  mio  mio  petto  aprire, 

Et  farvi  'I  grand'  honor  che  vi  si  debbe.    * 
Con  reverentia  son  constretto  dire 

Ave. 

Vagheza  e  honestà  sempre  'n  voi  crebbe, 
Beltà  di  par  con  pudicitia  giostra; 
Havete  appresso  a  Dio  la  gratia  eh'  ebbe 

Maria. 

E  cosi  profanamente  dì  seguito  sino  all'  Amen. 

27 


XVI.  —  EsOBTATIOnE   DBLU   PACE    TBA    L'  IiPESÀIOIB   B    IL   Re 
DI   FbAKCIA.  COHPOSITIOUB  01  M.  PiBnO  ÀRBTinO. 

À  c  147-148  t.  «  Gae(Z0!<a  ». 

Gom.:  ■  0  Re  0  Imperador,  temete  e  amate 

I)  Padre  universa!,  pereti' è  Dio  ia  terra...  » 

Confrtrta  quo' due  a  star  in  pace  eoo  Clemente  \1I; 
0,  portando  guerra  al  Turco,  dar  pace  all'Italia.  Notabili, 
nella  sua  stranezza,  qaestt  versi  della  seconda  strol^: 

<  Italia  è  nostra,  e  a  noi  la  diede  io  parte, 
Quando  compartì  '1  mondo,  la  natura  ». 

Ne  abbiamo  una  rara  stampa  di  Roma,  1524. 

XVU.  —  Di  F.  Fedro  voltehraho. 

A  e.  148  t.: 

«  Col  pel  cangiando  l'amorose  voglie  ».  (Sonetto.) 
K  Madonna  i  prieghi  miei  ».  (Madrigale.) 

«  Nou  è  ver  che  pielade  ».  (Madrigale.) 


—  423  — 

A  e.  149  t.-I5I  t.  Ck)m.:  Dei  opt.  max.  num.  invocato, 
aòsque  cuius  niUu,,, 

XX.  —  Stanze  recitate  nelle  nozb  de  hl.^^  Signor  Duca 
DI  Fiorenza  C!osho  Medici.  Finito  el  pasto  si  rappre- 
sentò Apollo  con  tutte  le  sub  Muse  e  le  Ciptà  di  Sua 
Ecc."* 

A  e.  151  t.  Sono  le  Stanze  di  Giovarabatista  Gelli,  che  si 
trovano  stampate  nell'  «  Apparato  e  feste  nelle  noze  dello  illu- 
strissimo Signor  Duca  di  Firenze  ec.  » ,  descritto  da  Pierfran- 
cesco  Giambullari,  e  impresso  da' Giunti  in  Firenze  Tanno  1539. 
Ma  la  nostra  copia  non  viene  dalla  stampa;  anzi  ha  varianti 
notevoli. 

A  e.  159  t.  Intermedii  della  Comedi  a. 

Sono  stampati  anche  questi  nell'  t  Apparato  »  ;  e  n'  è 
autore  Giovambalista  Strozzi.  Furono  pure  impressi  nel  libretto 
intitolato  e  Musiche  fatte  nelle  nozze  dello  illustrissimo  Duca 
ec.  • .  ( Ved.  Gamba,  Serie  de'  Testi  di  lingua,  n.  2750.) 

XXI.  —  Epitafium  T.  Phedri,         • 

A  e.  160  t.  Fu  da  me  pubblicato  nelY  Archivio  storico 
Italiano;  Appendice,  III,  777. 

Finisce  il  codice  con  questo  ricordo  dello  Scrittore  : 

SCRIPTO  EL  PRESENTE   LIRRO  PER  MB  FrANG.'^ 

Phedro  Ingerrami  da  Volterra  el 
di  xv  dicbmr.  m.d.xxxx. 


—  M%  — 

God.  41. 

Membranaceo,  in  4  pie,  di  e.  6  scrìtta. 

RIA»>*ina  cleiflt  iiiBcl  e  iiiaa;i«tratt 
della  ten-a  di  Prato. 


*  Hoc  est  exempUir  liUeramm  iU."'  et  Mt.™  d,  d. 
Coirne  Medicei  predaritsimi  Ducii  U  totiui  domimi  FUt- 
rentini. 

■  SpectabUei  amici  nostri  precipui.  Appr(q>iiiqiundon  il 
tempo  da  mi  preSxo  per  dare  la  siia  finale  cooclusiODe  alli 
Rifomia  delli  VBlj  et  Magistrati  di  qaeDa  lem  et  insane 
ordinare  tucto  quello  si  conviene  per  1'  optimo  gDvenM^  ino- 
quìllilà,  pace  et  conservatione  ei  del  publico  et  del  priTalo^ 
haveodooe  sopra  di  wh  preso  la  cura  et  incharìco  per  Io  nnore 
et  siogulare  aSectione  ne  portiamo  cbome  l' esperientìa  ne  ha 
demodrato,  et  al  presente  meglio  o^oscerete  et  ve  ne  e»ti- 
ficherele,  et  per  ciò  posto  ogni  nostra  diligeotia  per  aoeertard 
dell'  essere  et  stato  di  quella,  et  donde  et  perchè  proceda  la 
sì  trtiovi  oppressati  da  tanti  superchieTtrii  debiti,  et  che  todo 
nasce  da  innumerabili  spese  exlraordìnarìe  sema  portare  sed» 
alcun  Ihicto  et  proficlo,  anzi   più  tosto  danno  cooftnione  et 


di  ynam  api  n 


I  AIR  ip.*  Oa>  a  ( 


baio  JimiL~  ù.a.  IMS  «H«B 


Sono  17  Ot**-  Isa 

gumiw  ddte  &«e  pie.  per  te  ^ 
Mti  brii  pravndHob.  E  tf  4 


A. 


■IrHumiil  ft»l  *  C  1»! 


>^>« 


»■•■*■ 


MnaXW  Cèa  Al 


Vi  sono  al 
&  eaao,  con  ì 


God.  42. 


Cartaceo,  in  fol.,  sema  n.  di  e; 
scritto  tatto  d'  ona  mano,  sec.  ZVm. 


I^otUsare  del  Contai  LORENZO  KAaAI.OTri, 
contro  I*  Ateismo. 


Sodo  le  Lettere,  che  sotto  il  titolo  di  ■  Familiari  * 
Tennero  pubblicate  io  Venezia,  appresso  Sebastiano  Ctrieti, 
1719.  E  poiché  il  nostro  Codice  appartenne  a  Giofast 
batista  Casotti,  che  lo  emendò  di  propria  mano:  e  il 
Casotti  fu  in  coirispondenza  co'  letterati  e  gii  stampatori 
Teneziani,  e  in  Venezia  passò  vari  me^ì:  non  è  didìclle  cbe 
questo  sia  uno  de'  «  due  ottimi  esemplari  »  che  V  editore 
dice  d'  aver  avuti  da  Firenze,  oltre  averne  consultato  no 
altro  romano  ■  ne'  passi  dubbiosi  > . 

Dopo  le  Lettere  seguono,  della  ste-ssa  mano,  i  •  Mo-  1 

>  tivi  da  aversi  in  considerazione   da   clii    nel    problema  I 

>  Se  i  bruti  abbiano  senso  o  no.  inclinasse  a  opinare  per  J 

>  TalTennativa  *;  e,    d'altra    mano,   la    Lettera 
air  anima  de'  bruti,  al  padre  Angiolo  Maria  Querin 


BIBLIOGRAFIA 


Segni  di  Cartiere  Antiche,   del  dottore   D.  Urbani.  — 
Venezia,  Naratovich,  1870.  Con  dieci  tavole. 

Questo  libretto  del  signor  Urbani,  V  erudito  e  solerte 
Vicedirettore  del  Museo  Civico  di  Venezia,  merita  la  più 
grande  attenzione  per  parte  degli  studiosi,  sìa  di  quelli 
che  volessero  intendere  ad  una  storia  delle  Cartiere  italiane, 
sia  di  noi  che  abbiamo  spesso  per  le  mani  Codici  antichi, 
e  troppo  spesso  non  sappiamo  con  precisione  né  quando 
né  dove  sieno  stati  scritti.  «  Pochi  sono,  scrive  il  signor 
Urbani,  i  quali  non  abbiano  posto  mente  anco  sulle  vecchie 
carte  alla  moltiplicità  di  quei  segni  che  traspariscono  con- 
trapponendole alla  luce,  e  dei  quali  talvolta  pure  si  scorge 

il  solco  leggero Le  fabbriche  diverse  foggiarono  alcuna 

parte  di  quel  fondo,  con  figure  che  ne  facessero  conoscere 
r  origine.  Talora  aggiunsero  qualche  segnuzzo  o  iniziale 
presso  r  orlo,  in  un  canto,  in  piccolissime  dimensioni  » . 
E  di  questi  segni  o  marche,  che  furono  pure  chiamati 
filigrane,  ci  dà  un  saggio  appunto  il  signor  Urbani,  che 
potrebbe  essere  principio  di  più  vasto  ed  importantissimo 
lavoro.  «  Dagli  stampati  più  antichi,  egli  dice,  presi  a 
risalire  verso  i  primi  esordi  delle  cartiere  per  via  dei 
manoscritti,  e  a  seconda  che  le  carte  si  trovino  usate  in 


—  428  — 
uno  0  in  altro  luogo....  È  quasi  superfluo  U  dire  quale 
utilità  rechi  alla  crìtica  di  tanti  monuinaiti  una  sempre 
più  minuta  osservazione  della  materia  sulla  quale  furono 
scrìtti....  Apparisce  facilmente  ancora  quanto  un  così  btto 
studio  aggiunge  occasioni  di  penetrare  bene  addentro  nelle 
vicende  de'  piii  celebri  mss.  cartacei,  per  V  interesse  pre- 
cipuo regolatore  delle  ricerche  nostre  a  rinvenire  con 
precisione  il  luogo  dove  una  scrittura  fu  eseguita  >. 

Noi  non  entreremo  nelle  particolarità  di  questo  lavoro, 
il  quale,  come  già  dicemmo,  vorrnnmo  che  fosse  conti- 
Duato,  ampliato  e  condotto  a  compimento,  se  non  per 
tutte  le  carte  italiane,  almeno  per  quelle  di  Venezia;  e 
forse  allora  te  altre  città  nostre  dove  sono  le  piìi  cospicue 
raccolte,  di  incunaboli  e  di  manoscritti  imiterebbero  il 
nobile  esempio.  Intanto  valgano  queste  poche  parole  a 
congratularci  col  signor  Urbani,  ed  insieme  a  previo 
che  non  sì  stanchi  neir  utilissimo  lavoro  che  siamo  in 
diritto  oramai  d' aspettarci  da  lui. 

Adolfo  Bariou 


tVELLlNU  PROVENZALE,  OSSIA  VOLGARIZZAMENTO  DELLE  ANTI- 
CHE viTABELLE  DEI  TiiovATOHi,  scntle  già  in  lingua 
d'oc  da  Ugo  di  S.  Ciro,  da  Michele  della  Torre  e  da 
altri.  —  Bologna,  presso  Gaetano  Romagnoli,  1870, 
in  12.'  (Dìsp.  CVIII  della  Scella  di  Curiosità  lette- 
I-arie),  di  pagg.  XXII— 222. 

Questo  volgarizzamento  è  dovuto  all'  illustre  penna 
conte  comm.  Giovanni  Galvani   accad.  della  Crusca,  e 
nome  suo  si  caro  alle  lettere  sia  in  fronltì  alla  dedica- 
toria ch'egli  ne  ha  fatto  al  eh.  comm.  Francesco  Zambrini 
benemerito  Presidente  della  R.  Commissione  pei  testi  di 
lingua.  Del  quale  volgarizzamento  amando  noi  dare  rag- 
guagho  che  risalga  al  suo  punto    d'origine,  ci  è  d'uopo 
■render  le  mosse  da  due  altre  fra  le  varie  opere  mandate 
luce  dal  nostro  .\uIore. 
Se  ì  Mitologi  Anserò  che  Minerva  nascesse  armata  dal 
elio  di  Giove,  similmente  dir  si  potrebbe  che  il  Gal- 
vani nacque  alla  pubblicità  letteraria  in  un'  opera  che  lo 
lasciava  supporre  maturo,  laddove  esso  contava  soltanto 
23  anni  d"  età.  Parlo  delle  Osservazioni  sulla  Poesia  dei 
Trovatori,  le  quali  edite  in  Modena  nel  1829,  valsero  ad 
oUenei^li  un'onesta  e  ben  riconosciuta  fama  di  eccellente 
Mogo.  Su  queste  Osservazioni,  che  formano  un  volume 
olire  500  pagine  in  compatto  carattere,  il  n.  A.  accom- 
la  ciascuna  distinzione  di  rima  provenzale  coi  migliori 
esempi  ordinali  tradotti  alla   lettera  e  illustrati  con  raf- 
fronti italiani  di  classica  erudizione:  e   offerendo  di  tal 
isa  all'Italia,  come  già  il  Raynouard  alla  Francia,  un'i- 
completa  della  Poetica  de*  Trovatori,  non  che  dell'ut!- 
ne  potrebbe  trarre  la  storia  del  nostro  idioma , 
iiisiniiandn  nei  lettori  l'amore  della  lingua  or^ilanica, 


oiieni 
^^olo 

^m  oli 

i;      esem; 


i 


—  430  — 
:he  moMra  essere  stata  per  ben  due  secoli  dopo  il 
quella  dell' amore  e  della  cavallerìa. 

A  rendere  maggiormente  profittevole  ìl  suo  lavoro, 
pensò  più  tardi  a  presentarci  in  altrettanti  quadri  politici 
e  i:av3UeresGbi  i  principali  avvenimenti  della  contrada  t  per 
la  quale  avrebbero  erralo,  dicendo  d'armi  e  di  cortoae, 
i  suoi  Trovatori,  ed  alle  cui  passioni  ed  alle  cui  guerre 
o  fortune  o  pericoli  od  allegrezze  essi  si  sarebbero  asso- 
rjati  per  farne  soggetto  de' loro  canti  »;  e  all'importante 
assunto  diede  egli  lodevole  adempimento  col  Fiore  di  sto- 
ria delC  Occitania  cbe  uscì  in  Milano  del  1843.  Nel  quale, 
dopo  essersi  fatto  a  parlare  delle  epocbe  remote  de'  Scaliti 
e  Bardi  ood' ebt)ero  orìgine  i  trovieri  in  lingua  à^oil  e 
trovatori  in  lìngua  di  oc,  discende  a  trattare  de'  prìncìiH 
e  delle  corti  che  in  special  modo  coltivarono  od  ebba^ 
in  protezione  le  lettere,  e  cioè  dì  Guglielmo  IX  duca  dì 
Aquitania,  chiamato  ìl  trovatore  primiero,  di  Riccardo  Cuor 
di  Leone  re  d'Inghilterra,  di  Pietro  I!  d'Aragona  e  di 
Raimondo  Berengero  IV  conte  di  Provenza,  terminando 
con  accompagnare  Beatrice,  figliuola  a  quest'  uUimo,  nella 
nostra  Italia  alla  conquista  del  regno  dì  Napoli,  ove  la 
gloria  del  cadente  linguaggio  di  oc  viene  con  essa  a  man- 
care, per  dar  luogo  a  quella  del  sorgente  idioma  del  si. 
—  Nella  prefazione  al  libro  medesimo  il  n.  A.  promise 
pure  di  fornirci  ad  opportuno  contorno  de' suoi  quadri 
storici  le  vile  de' principali  Trovatori;  ma  circostanze  che 
unicamente  dipesero  dal  suo  editore  ne  attraversarono  la 
sollecita  pubblicazione. 

Ad  una  tale  promessa  venne  ora  per  cortese  ìnrito 
del  eh.  Zarabrini  egregiemente  supplito  coll'ele^nte  vo- 
lumetto notato  in  capo  del  presente  annunzio  bibliografico; 
ìl  cui  primo  titolo  di  Noceltim  provenzale  non  vuol  gii 
dire  che  le  Vite  de' Trovatori .  ond' ei  si  compone,  abbia- 
no alcun  che  d' intromesso  che  non  sìa  pretta  storia ,  ma 


Bilie 


soltanto  il  ricliiamare  la  singolare  som^oza  ctie~ 
offrono   nella   forma  linguistica  e  nella  concisione  dolio 
stile  colia  parte  più  antica  del   celebre  nostro  Novellino 
Centomvelle  o  Libro  di  parlar  gentile,  il  quale  venne 
cerio,  come  il  presente,  disteso  sulla  falsariga  del  pro- 
izalc  ad  opera  probabile  di  Francesco  da  Berberino.  E 
rafani  ove  Io  studioso  facciasi  a  confrontare  le  novelle  che 
quest'  ultimo  sparse  ne"  suoi  IteggitaeMi  delle  dontte  con 
quelle  che  le^gonsi  per  entro  il  Cetilonovelle  (tratto  forse 
Fiore  di  mbili  detti  del  Monaco  di  Montalto,  scritto 
provenzale  e  andato  miseramente  perduto),  non  potrà 
a  meno  di  ravvisarvi  tale  un''  identicità  di  stile  da  do- 
aggiustare  alquanto  di  credenza  al  relativo  giudizio  del 
itvani.  Ad  ogni  modo,  se  anche  il  Barberino  non  avesse 
essere  P  autore  od  il  volgarizzatore  del  Centomvelle, 
lerà  però  sempre  indubitabile  che  il  detto  libro  fu  ri- 
llcato  sulla  pro^  provenzale;  cosi  a  noi  torna  di  perfetta 
somiglianza  nella   sua   giacitura  e  andamento   P  esempio 
portoci  da  questo  Novellino  provenzale,  da  sembrarci  quasi 
di  tenere  dinanzi  gli  occhi  una  seconda  parte  rimasta  sin 
qui  sconosciuta  di  quel  più  antico,  e  come  meglio  appa- 
rirà dalla  vitarella  che  riferiamo,   e  che  trovasi  sotto  il 
,0.  \1,  alle  pagg.  18  e  19. 


K  Otit  co;*TA  DI  Messkr  Roggeho. 

(A.  1160-1180). 

«  Pier  Roggero  si  fu  d'Alvergna,  cherico  Ji  Cbiarmonte, 

le  molto  savio  di  lettere  e  di  senno  naturale.  Fu  gentil  uomo 

|t»clIo  ed  avvenente,  e  bene  trovava  e  meglio  cantava.  Per 

}  ciò  lasciò  clercia  (1)  e  grauimalica,  e  si  fece  giullare, 


>  ■  Taluni  vocaboli  s' incaricano  di  far  l' elogio  degli  nomini  di 
Ecfaieia  del  dìhIìo  evo.  Chercu  o  chercia  valevano  allora  mu' insieme 
B  taiiienU  o  )a(ii«nia;  e  laico,  per  conirario.  Unto  sigiiilìcava  non 
1  rfierru.  ijuanLo  iijnoranU.  t 


»  *fmi  óra  rnwr-.  :«»  ^ila  v  k  taim  Mb  fev- 
•  no»  <fa  «.  S>  ]'  aid»  -sa  itSart  ma^  t  feavi*  e  Oft- 


■  <afi  'fce  k£  ^trw^KK  àt  fa»  à  te.  «  «te  < 


>   Sipl'T  *— ■   1  MMl'li  I     HT  VBÉ9t 


*Lmw  fcnf*  wne  ch  Ifes»  Riaftofti»  f  Oksn.  e  pà 
MUt  mt  fort  -ti  hi.4  Jiiiw^'  m  Esfaon  al  baàrtìlB- 
«  wu  AMwu»  'f  AfatfOBL  e  ^  «i»  ori  feav  i^Htr  Rbbo^ 

•  di  T^laia  UM*  qi^Mo  idi  pixqw  «ti  rili  nfte.  Mah*  cUe 
»  ejadi  eaeri  ad  noailo  tana  «me»  «'  ri  scor:  ■>  pa  s 

•  readè  ■drOnliK  <li  Gnamnk.  «  b  edi  tiA|w  «  fàL 

*0n  adite  di  lai  mi  coHiob  fiatile  caa  cai  nOe  lodMi 
.  «1  è  in  questi  «aMu: 


—  433  — 

ghiere  ed  i  voU.  nou  ha  mancato  altreà  di  darci  saggio 
dì  parecchie  poe^e  occitanìctie  die  sentimenti  di  tal  sorte 
appalesano,  ora  nel  testo  originale  con  traduzione  letterale 
iu  prosa,  ed  ora  soltanto  (In  conformità  della  cobbola  sm- 
rìportata)  ridotte  io  rimo  italiane  mn  si  rara  perizia  e 
fElìàtà  di  maniera  da  tornarci  penoso  di'* egli  non  rabbia 
fatto  più  spesso,  e  diremmo  anzi  per  lutti  i  componimenti 
che  cita  per  capoversi  e  die  tanto  strettamente  si  legano 
ai  casi  narrati  de'  Trovatori.  Se  non  riie  abbiamo  motivo 
di  credere  cbe  ciò  possa  esseigli  soggetto  di  un  altro  la- 
voro, come  in  prova  della  continua  operosità  sua  rileviamo 
dalla  dedicatoria  al  Zambrini,  die  sta  ora  occupandosi  a 
farci  nel  suo  vero  aspetto  conoscere  il  trovatore  Sordelio 
Mantovano  ^  accarezzato  da  Dante. 


Antonio  Cappelli. 


Del  cb.  signor  pror.  Salraiore 
Salomon^Harìno  armimo  occasio- 
nn  di  parlare  alira  volla,  regiitran- 
ib  nella  nostra  bibliogra/ia  il  suo 
lodaiissìmo  lavoro  della  Storia  del- 
la Baronesta  di  Carini.  Ora  non 
Toglìam  (larimcnti  passarci  <!'  un 
ojiuscoio  che  leste  ha  dato  ruorì  col 
utolo  sopra  indicato,  il  qaalc  pur 
contiene  mullcplici  pregi.  È  una 
ristampa ,  ma  corretta  ed  accrn- 
leiula  di  parecflii  altri  Canti, 
aameolando  con  cii^  tic  pili  l'im- 
pwianza  clw  gii  avea  in  sé  cotesto 
;tuì'>«!0  Ubriccino,  che  Torremiiio 
inprìtamente  più  conosciaio  in  nue- 
sie  nostre  Provincie.  I.e  pubblicu- 
lioni  del  signor  Salomone-Marino 
baodg  il  Tanlitggio  non  nolanienle 
ilei  diletto,  ma  iizianilio  dell'utile, 
siccliè  non  indarno  si  leggono;  sem- 
pre l' ha  di  che  siudrnrvi  ei!  ap- 

La  Chioma  dì  Berenirr.  var- 
ine di  PlETHO  CaI-iari  —  In 
iiM  Praneuehini-Farina.  Ve- 
na, flnetfUim  e  Franchini, 
no,  »n  4.'  «il  pfljj.  16. 
Elegantissima  rcrsionc  pare  a 
noi  cotesta,  e  da  onorarsene  l'il- 
Insire  Autore.  Fedeltà  al  lesto  Ca- 
tulliano, eleganza  di  locniìone  e 
bcilità  e  graviilì  a  un  iiunno  dì  ìcr- 
«reggiare  non  mancano.  Vorremmo 
elle  a  bone  delle  nostre  lettere 
odierne,  (ossero  pib  Trequenli  cosi 
kni  esempi  lodeTolissimi. 

Elogio   >(i    Girolamu    GargioUi 
letto   alla    Società   Colombaria 
in  Firema  il  dì  3  aprile  1870 
da   Guglielmo  Enrico   Saltini. 
Pireme.    Succettori    Le   Mou- 
nier. 1870,  in  8.'  di  pagg.  i8. 
Bellissimo  e  degno  tributo  al 
btooraerìto  commend-  Gir.  Gargìolli 
4  qucst'  Klofiio  dettato  dalla  nobii 
pana  del  signor  Saltini.  Stanno  in 
Appendice  narecchie  L:Ui:re  d' uo- 
mini   iltusin    imiirìlle    allo    «lesso 


^^  Eie 


Gargiolli,  le  i|uali  i 

dcmenlc  il  pregio  a  cotesto  libro. 

Saggio  iJi  ixilgarissamenti  dal 
greco  e  dal  latino  per  Dome- 
nico Bongiavanni.  Forlì.  Tipo- 
gra/ia  Sociale  Democralica , 
1870,  in  8."  di  pagg.  128. 
Chi  per  |)oco  sia  dedito  agli 
sludii  Danlesctu,  non  può  ignorare 
il  nome  del  prof.  Domenico  Don- 
giovanni mercé  i  suoi  Prolegoìneni 
del  nvaso  Commento  Storìeo-llo- 
rale-Esletico  della  Divina  Com- 
media, le  cui  opinioni,  quantunque 
non  da  lutti  Tessero  ugualmente  ac- 
colte, non  cessa  pero  dall'essere 
un'  opera  molto  erudita  e  lodevole. 
Ora  cotesto  nuovo  Saggio  dcjtti 
svariati  suoi  studii  leilerani  vieppili 
comprova  il  sapere  e  la  dottnna 
ond'Rglì  k  inTonnalo;  e  chi  ebbe 
in  amore  e  in  isiima  il  valentuomo, 
non  poò  ora  a  meno  ili  non  compia- 
cersene e  non  congratularsene  cor- 
dialmente. Vi  si  contengono  la  Ba- 
tracomiomachia d'Omero,  un 
Saggio  di  una  nuova  in  ter  prelazio- 
ne dell'  Odissea  e  tre  Epistole  di 
Orazio.  1  componimenti  sono  pre- 
ceduti da  preliminari  assai  oppor- 
tuni, ed  in  fine  alle  versioni  stan- 
no note  illnslrative.  Farci  che  il 
SDO  verseegiare  sia 'coniato  snita 
roggia  de'nnoni  nostri  poeti,  jKr- 
che  sf'"""    —-■--"—"  ~— ".".~ 


ed  piegante, 

I  Poeti  itaiiani  dei  Cèdici  d'Ar- 
horéa.  Note  di  ADouro  BOROO- 
csofii.  Ravenna.  Angelelli.i^lO, 
in  8."  .il'  pagg.  29. 
Assai  preiiase  sono,  per  nostro 
avviso,   coleste    Nòie  sulle   Carle 
d'Arborea,  in  cui  si  comballe  bre- 
vemente, ma  con  valide  ngitni  la 
supposta  loro  auleniicìlà.  Toccavisi 
ancora  dei  vc-rii  attribuiti  ad  Aldo- 
brando  da  Siena,  che  da  lai  ven- 
gono  rigettali  con    buooa   critica 
siccome    non   apparicnentì  all'eia 
l'ui  ii  vogliono  allriliuire. 


-  "     jurrTU.     mx^:    —  i 


Paln-inilBLio  f  delle  sue  Hinit.  delle 
ijiuli  alcune  riporun»!  a  pìè  di  ita- 
pan  Me  not«  ed  altre  oeirultiTna 
pnrie  del  preiìoso    ragionamento. 
Né,  secondo  il  iiosiro  avviso,  si 
■ppMc  al  Tcro  r  illiisire  àg.  Coc- 
cmam,  celebrando  coleste   poesie 
(MIT  Uione  e  de^nr  d'  essere  inle- 
r.)iiif(iir  piiiililicjile  secondo  un  cod. 
!.iF»  che  si  conserva  nello 
I  omunalo  di   Palenno. 
11.  (lice  egli,  in  volga- 

Iioche  lolle  le  Unezzc 

•'M  ^■■■.■',  I'  ^11  fu  propria  quella 
raUai>i.i/a  di  forma  e  sicurtà  di 
gusto  che  sono  indizio  di  arie  ina- 
lun  e  di  »)|utsito  sentimento. 

^■^^Bsandro    Pelo&  fwrfa  Un- 

^^BCTMi!.  IfCUitliiom  di  FEDEntCO 

^^BPu.STiEiii.  ìtapoli ,  De  Angeli». 

^^868,  m  8."  di  pam.  30i. 

^^  B«l  serrìgio  rese  da  tero  allo 
•oaiiv  tenere  l'illustre  ste.  Fede- 
rico Funlieri  col  darci  eleganle- 
mcnU  Tolgarinate  le  Poesie  del 
V«eA,  appellato  il  Poeta  della  Iti- 
ttilution'  O'nghetvtf.  il  Tirleo  del- 
iL'nghz-rìa.  Tacendoci  cosi  guslare, 

K  quanto  si  poteva  in  una  Tede- 
ima  e  stretta  Tcrstone,  l'indole 
e  le  belleste  originali  di  uno  icrìl- 
lorr  rhc  giodicatt  il  pib  grandi! 
In  i  po«li  dì  quella  bellicosa  Na- 
lionr,  od  an  de  maggiori  dell'  Eu- 
ropa contemporanea.  U  lìliro  è  pre- 
erdulo  da  una  lunga  <•  eireo^Uin- 
mia  ì'ita  del  PuelH .  slei^a  molto 
pulitamente  dallo  stesso  sii;.  Pian- 
lierì,  la  i(iule  logliesj  dalla  pag,  13 
r  la  nino  alla  91.  I  componimenti 
poetici,  di  vario  genere,  sono  in 
Ulto  91.  Eccone  un  saggio: 

ONOBATE  1  §E»PL(a  SOLDATI 


CUCI 


lur  pilrii  i  mUrifnt.  eha  par  jnwio 
ungmi  lur.  lur  fiIU  un  iw'rllpH* 
uatcbs  ilncda;  un  mvle  per  Ha  m^a 


ft  FIMI  prò,  so  ']  unno?  Niaiu  pifini 

erwb  ;  iuta  può  f  Ì4imD4Ì  l' iilorii 
nm>r  IvW  qaeitì  che  iKcumboDO 
jot^r ,  in  mulo  il  bcllin»  furor. 
irau  li  Hoiplicl  kildili, 
<  snn  |Hit  grinili  cliB  li  cip)  lori 


n  morii..    Al  toro  eit  a 
)riù  grindi  elio  li  capi  li 


La.  lingua  comune   in  Italia, 
Dialogo   d'I.   (ì.   Isol\,  Socio 
detta   Al   Commissione  pe' tasti 
dì  lingua  e  di  altre  diverse. 
Bologna,    Tipi  Fava  e' Gara- 
gnani,  1870,  in  8.'  dipagg.  50. 
Lodevole  senza  Goe  6  il  divi- 
sameuto  dell'esimio  nostro  collega, 
signor  avv.  IppoUlo  Gaetano  Isola, 
di  propugnare  in  cotesto  prezioso 
Diato^.  come  nelle  ìsvariale  sue 
opere   per   In  addietro  fece,  con 
opi  forza  r  illndre  volgare  italico; 
ma    diciamolo    rrancamenlc,  jter 
quanta   eloquenza    e^lì  adoperi   e 
per  quanto  sicn  valide  le  ragioni 
sue,  rtsulla  oggimai  vano  ogni  ci- 
menlo:  è  come  un   pesiar  l'acqua 
nel  moriaio.  La  licenza  e  lo  spinto 
di  novità,  che  entrati  sono  aa  ogni 
uscio,  entrar  vogliono  eziandio  nel 
delie  lettere;  perche  toma 
invero    assai  comodo   lo   scrivere 
studiare.    1    tempi  van  pur 
cosi  *  inutile  riesco  per  ora  il  com- 
batterli. Ogni  età  ha  suo  speciale 
28 


-■«•-.  ;.i.    ■•«■dii  amu  b,  _ - 

-•i    or  ^nron.  pnihf 

•—:.   zir-  tm-r  dfUi  wMà 

■    -..    ....  ,0  t.jna  t  «* 

.  ■■   -n'.ze'  Ed0D  fiiit 

■  ^■■^~  rmtriMt  mUi  9M- 
!-i  (-  prì".  con  pnMi 
■^t-T .  i.»rtiir  dìodo  dx  M 
■-n.aui;.ji-  h.-ri-^fo  r  ifnvrrn- 
■■-  t;    roScrtrle  *   L' dm  i 

-  !  i:    arnvì  ctipoat  futa 

-  '  — riòe.  ndràdo.  wnArr 


■-  aniittu .  e 


ili^r 


£  Iti'  DMHt:  r  ron  ironÌFc 
::-::..  te  ìk-ÌTi-  di  un  cooiom 
'■  s  ..aiÌL:  ira  j  pia  sffuM 
:.:-.d^-:.  l' Italii.  la  Gennaà 
■-  •  ''I:;;bìIiiTra!Eiwia 
■  ■:  C--r~  cbe  i  botoli  dk» 
:  !3rit  7  >.M  è  dnnqw  Bfr 
>:viJrT  l-Tp  ni  snie:» 
:";>■■  iw^oio:  s  tmem 

.r-iij-"  <-'ii.>rF  cwnt  f  pff- 
:5  ici:.>iKÌ3  a  dfliin.' 
rìdono  di  noi.  rifr 
un  pi:<i)  di  bre. 
■T  •■  3Dcon  guari  i» 
.  in  uni  ciiiì  d'Ii^. 
f  jvod'nomo.  cht  « 
rs  di  K-ieun- .  lelim  ed 
^i  iniunzi   t 


sci  e; 


i  popoli 


Éd- 


1«  ttellu,  t  pt-r  lu  [|uali- 

Wero  Gulurt!  in 

Ora  il  vBlenluoiiio , 

tolu  ita  alcun  suo 

donde  avvenir  potessr  la 

di  coli  disaocsio  abbaiido- 

Uata  ignominia,  loslo  ri- 

disH:  — 

una  terra  ilella  Marca  Tri- 
oetebravasi  a  ifausiì  passali 
on  solenniaùma  e  disusala 
.  Don-M  qnale  It»la  cetile- 
onore  di  nostri  Donna,  alle 
.'  Boa  agùia  e  deiota  Conrra- 
di  nolti  Talenii  e  buoni  uo- 
K  ÌD  qoelb  slanzi.ìv.mo.  Ora 
fakn)  Mtarìale  dìinoslraiinni 
~j  e  di  Rioia,  (u,  slamila 
I  corsa  di  caialli  barberi, 
I  pnrniio  ai  tinciinrr.  I.a 
la  pe'  reggenti  il  Comune 
,  ch'erano,  colpa  l' altrui 
atggìae  o  codanlia,  i  più 
1i  e  i  maggior  briniuli  del 
ma  bua  ragione  di  parec- 
Miaili),  sì  mossero  a  gran- 
_    >re  e  mrono  tosto  alle  luaoì 
Irltì  buoni  uomini,  prolrstando, 
1  si  Toleia  sontrìre  in 
a, con  eia  tosse  ch'egli 
-.TbeDe,  che  si  crossa   mo- 
ti dipartisse  dal  loro  tillait- 
BTC  tanto  minuto  popolo  di 
i  albergali;  uia  clie  il  ratto 
r  si  aófta  per  Tomia,  ch'el- 
la i(DÌvi  ad  ogni  modo  si  rìnianes- 


i\i<-n  (are:  mpnire  che 
I  1  ra  da  cercare  allro»e, 
.1  i:ran  dovizia  aveji  nella 

sema  che  gli  spct- 

u.„ IiIkiu  preso  due  Unii  piti 

dikllu  D'I  ii>di^r  correre  asiui  clic 
non  cavalli.  Ora  le  ragioni  del  Co- 
maiK  non  troppo  gradendo  ai  mem- 
bri della  Coniralerniia,  nacque  un 
(Mrapiglia  cosi  buii,  eh'  io  non  vo' 
air  gualc,  tanlo  fu  grande  e  acca- 
atUt.  Ben  sappiale,  die,  dopo  lunga 
■ ,  venne  alla  prrflne  deter- 


minalo, che  sicctunc  il  qulsllonire 
anche  lino  aUa  dimane,  non  sareb- 
be in«n[aio  a  nulla,  Ibsse  da  pro- 
ceder^*  a"  voli,  e  che  la  maggio- 
ranni  prevaler  dovesse.  Si  venne  al 
fatto.  Nel  giorno  dipoi,  a  siiori  di 
campana,  traggono  que' terrazzani 
rrellolosi,  scamiciati,  colle  giulibe 
io  sulle  s^lle.  parte  in  zoccoli  e 
parie  a  pìp  ignudi  che  sembrava 
venissero  dal  Pei'dono;  traggono, 
dissi,  a  consiglio  nelle  case  del 
Comune,  in  numero  di  ben  trenia 
tre.  a'qoali  altrelianti  membri  della 
Confralcmiia  sono  aggregali.  Quivi, 
dopo  un  lungo  ragionar  del  Sinda- 
co, messo  mano  alle  fave  e  gettate 
giti  per  lo  bossolo:  pale-sato,  si  tro- 
varono li-enla  tre  bianche  e  trenla 
Ire  nere.  Di  che  oltremodo  hnpac- 
ciata  la  Giunta,  che  suole  essere 
sempre  inferiore  alla  derrata,  e  per 
lo  caso  strano  e  pel  bisbiglio  nato. 
chiamano  a  soccorso  il  Sindaco,  e 
lui  invitano  e  parhuneniare  di  nuo- 
vo. Questi,  che  (secondo  avviene 
comunemente)  non  disseparata  dal- 
l'ignoranza, avea  buona  copia  di 
malizia  e  ciucili  da  far  correre,  sali- 
to su  dì  un  desclieito,  accennando 
colla  mano  che  ciascun  sicsso  cbe- 
lo.  fatto  il  silenzio,  cosi  prese  a 
dire:  Signori  Confraternili,  Signori 
Coinunisii,  io  veggo  troppo  Dene, 
che  la  quistione  polrebue  andare 
assai  per  le  lunghe  e  non  irarscne 
prò  alcuno.  A  me  par  quindi,  che 
si  possa  saiisfare  ad  ami»  le  parti 
senza  che  l'util  d'alcuno  e  l'onore 
ne  vadano,  in  queslo  modo:  che 
s'ia  lecito  cioè  e  diritto  aver  luogo 
alle  corso  asini  e  cavalli  ad  un  ten>- 
po;  i  Signori  deUa  Confraternita 
ponendo  cavalli  a  lor  talento,  pur 
che  sjeno  di  proprietà  loro,  ed  asi- 
ni «fucili  del  Comune.  Viva  il  nostro 
indaco!  dissero  alcuni  ad  alta  vo- 
ce; sìa  latto,  sia  Gitio.  Ha  il  Sin- 
daco non  lasciò  dire  oltre,  anxi  con 
una  voce  da  toro,  soggiunse:  Si- 
leiUium.  Signori;  alteodcte  la  line 


1 


del  mio  ragionamenio  e  poscia  Ci- 
vellereie.  Tacquero  lutti  allora,  ed 
egli    asinescamenlc    conlcgnoso    e 

Prave,  aitorliKliaadusì  per  jeuo 
estremila  dei  bafD,  seguitò  dicen- 
do: Fogniamo  dunque  che  non  sia 
fier  dispiacenri  la  mìa  proposta; 
ciascun  Comunista  faccia  di  raccór 
Ire  asini  e  gli  metta  al  cimenlo 
co' cavalli  della  Confratemiu,  con 

Suesto  però,  che  i  micci  abtuano 
a  precedere  i  catalli  lo  spazio  al- 
meno di  pertiche  dicci.  A  Canio 
quelli  del  Comune  nuovamente  ap- 
plaudirono, ed  i  Signori  della  Con- 
n^temita,  non  pensando  alla  ma- 
lizia del  Sere,  ne  andarono  pur 
contenti,  avvisandosi  che  un  caval- 
lo solo  fosse  sufficiente  a  rincerc 
non  cento,  ma  mille  asini.  Venne 
dunque  il  d)  della  corsa.  Cento  e 
uno  furono  i  somieri,  perchè  di 
privilegio  delta  scranna,  volJc  il 
Sindaco  melteroe  uno  per  soprap;- 
più,  quello  ch'eì  teneva  appo  ac 
per  le  maggiori  e  quotidiane  sue 
bisogne!  ed  era  un  cotale  asinaccio, 
gioTincello  se  Tolele,  ma  gran  ra- 
gliatore,  tardo,  prosuntnoso  ed  o- 
slinato  più  che  asino,  il  quale  ci 
chiamala  Babbuino:  ed  un  altro, 
pur  di  privilegio,  poco  dissimigltan- 
le  dal  sopraddetto,  che  area  nome 
Buacciolo,  aggiunse  il  Segretario. 
Un  buono  e  un  dabbene  asino  anche 
il  Curalo  volca  arrogere,  e  un  ahro 
il  Medico  e  un  terzo  il  Brigadiere, 
ma  non  fu  conceduto,  perclié  non 
erano  della  terra.  Tre  cavalli  sol- 
tanto andarono  al  cimento,  paren- 
do che  ciò  fosse  assai,  Ira  quali 
un  buono  per  intelligenza  e  per 
prodezza,  cognominato  Corsa.  Gli 
spettatori  e  i  curiosi  eran  uaolli, 
e  ciascuno  che  conoscerà  la  qui- 
stione  avea  trailo  da'  vicini  castelli 
parendo  loro  mille  anni  vedpme  la 
line,  intanto  sono  condotte  al  luo- 
go del  palio  le  due  maniere  di  cor- 
ridori. Al  Tederli  strilla  il  popolo 
per  la  gioia.   Si  pongono   innanzi 


spazio  delle  dieci  pertiche  dtri- 
sate,  ed  all'ora  opportuna  si  "  " 
bramalo  segno,  percuotendo  .  . . 
stando  e  mazzìcando  e  punieecIiÌBD> 
do  crud^enle.  I  ciumenti  à  av- 
viano senza  fretta  e  di  lento  trotto, 
secondo  che  la  loro  natura  com- 
porta. Vanno  ì  C3i>-al]i,  ma  sena 
usar  loro  corso:  frcmilono,  ulri- 
sceno:  è  tuttuno:  avanti  non  M»- 
sono,  impediti  dalla  tnrtta  aÙDiU, 
che  già  a  plfi  scomposte  Ole  e 
pa  la  stretta  via  che  mena  all' 
re  Or  dtcolo  io,  o  piire  il  di 
tacere?  v'erano  maschi  e  (inniatu 
insieme  e  alFa  rinfusa!  potete  bnw 
imaginarvi  che  digrignare!  che  tor- 
cere e  sollevar  dì  musi!  che  ap» 
lar  d^le  pendenti  labbra!  che  o>' 
rìcciar  di  nasi  I  che  alzar  di  ragli,. 
che  levar  di  code,  che  trardica*' 
ci,  che  talTeruglìo  insomou  e  et 
piacevolezze  si  vedeano!  In  cosi  A 
lo  tramesto  dunque  il  | 
cavallo,  come  se  mente  unu 
vesse,  tà  sosti  un  tratto; 
andar  oltre  i  giumenti;  poi  eoa 
r  irto  crine  e  la  svolaiaote  coda 
muove  a  gran  corsa  per  sorpassar 
li  ;  ma  la  sorte  gli  A  à  netnica,  du 
rotte  le  prime  Ule,  inciampa  né 
l'ultima,  e  propriam^nic  ta  qtn 
maledetto  asinaccio  del  Sòidioa 
Casca  per  terra  e  guastasi  la  ctacJi 
In  questo  il  rumore  si  leva  torte 
tutu  ^ridsuo:  Viva  gli  asini,  viti 
gli  asmi!  E  gli  asini  di  b\Xo  eoa 
cordcmeote,  preceduti  da  Babbain 
e  da  Buacciolo,  quasi  ringraziasi 
ro  la  bonarietà  del  popolo.  raglìaiF 
do  e  ruzzolando ,  giun^u  prìia 
alla  meta.  Guadagnano  il  premio 
e  inghirìandati  di  rose,  di  rair^ 
e  di  alloro,  vengono  con  dolc^  sn 
di  strumenti  condotti  alle  nugit 
loro  per  quindi  dover  essere,  nta 
schi  e  feuimioe,  ben  ^ravveduiì  ~ 
tempo  opportuno^  ed  i  Consìglie. 
grandi  onori  largiscono  al  Siadaci 
che  sì  sotlìlmente  ha  disposto  per 


—  441  — 


che  la  giustizia  e  le  virtù  trionfino, 
e  lui  appellano,  in  benemerenza, 
Gran  Cordone  dell'  Ordine  di  Monte 
Asinaio.  E  poi,  ivi  a  non  molto, 
Babbuino  e  Buacciolo,  come  i  più 
garruli  della  brigata  e  i  più  sac- 
centi e  di  più  begli  e  lunghi  orec- 
chi forniti,  avvegnaché  di  picciol 
trotto,  furono  adagiati  a  due  imone 
e  pingui  mangiatoie;  l'uno  in  quel 
di  Scaricalasino  e  l'altro  in  quel 
d'Asinalunga  ;  dove,  mercè  la  pro- 
teggi trice  gerarchia  asinesca,  non 
più  venne  meno  1*  annona  :  onde 
vispi  e  rubesti,  parendo  già  loro 
essere  divenuti  gran  bacalari  per 
r  ottenute  prebende,  addottorati, 
incominciarono  vie  maggiormente  a 
ragliare,  a  mordere  e  a  trar  di 
calci  senza  una  discrezione  al  mon- 


do; e  così  forse  dureranno  insin 
che  non  trovino  qualche  ardito  me- 
dico, che,  sanandoli,  lor  tragga  il 
ruzzo  del  capo.  — 

Qui  si  tacque  il  valentuomo,  e 
quegli  che  l'avea  da  prima  addo- 
mandato,  brevemente  conobbe,  che 
non  già  le  virtù  e  la  dottrina  fan 
sempre  salire  e  procacciano  agi  e 
onorificenze,  ma  sì  più  snesso  V  in- 
trigo, l'egoismo  e  le  mal  concette 
f)rotezioni  ;  e  che  tante  volte,  come 
a  nebbia  offusca  lo  splendor  del 
sole  e  lo  sfavillar  delle  stelle,  cosi 
la  moltitudine  degli  ignoranti  e  de' 
tristi,  insieme  ristretta,  impedisce 
temporalmente  e  sgomenta  il  chia- 
rore degli  uomini  onesti  e  virtuosi. 


X. 


t    I 


IMDIGE 


La  Direzione  ai  suoi  Colleghi  ed  Associati Pag.  3 

Giovai)  da  Procida  e  il  Ribellamento  di  Sicilia  nel  1282  (prof. 

cav.  Vincenzo  Di  Giovanni) i     5-360 

Una  Poesia  ed  una  Prosa  di  Antonio  Pucci  (  prof.  cav.  Ales- 
sandro D'Ancona) i  35 

Il  Perdono  di  S.  Francesco  D'Assisi  e  un  Sermone  di  S. 

Agostino  (prof.  ab.  Antonio  Ceruti) i         54 

II  Pozzo  di  S.  Patrizio  (doti.  prof.  Giusto  Grion)     .    .    .   i  67 

Dialogo  della  lingua  comune  (prof.  avv.  Ippolito  Gaetano 

Isola) »        150 

Reltificameulo,  al  Direttore  del  Propugnatore  (cav.  Fran- 
cesco Di  Mauro  di  Polvica) i        i97 

Sul  Rinaldo  di  Monlalbano  (prof.  Pio  Rajna)    .    .    .    :    .   i        213 

Studii  sulle  lingue  Romane  di  ?arii  filologi  moderni  (cav.  prof. 

A.  Bartolo »        242 

Delle  Carte  d'Arborea  e  delle  Poesie  volgari  in  esse  conte- 
nute (prof.  Girolamo  Vitelli) i        255 

Leggenda  di  San  Marziale,  testo  inedito  (prof.  ab.  Antonio 

Ceruti) .    .    .  i        323 

VARIETÀ 


Della  parola  Candella  (Adolfo  Bartoli) i  391 

La  Leggenda  di  Prete  Giustino  (Reinhold  Kohler)   .    .    .  i  392 

La  Novellaja  Milanese  (prof.  Vittorio  Imbriani)    .    .    .    .  i  396 

1  Codici  Roncioniani  (cav.  Cesare  Guasti) »  412 

BIBLIOGRAFIA 


Ricordo  di  Antonio  Tumminello  (S.  M.) »  199 

Cantilena  di  Ciro  Massaroli  (S.  M.) i  200 

Novelle  di  Francesco  Prudenzano  (Alcuni  Soci  ecc.)  ...»  201 

Lettere  inedite  di  Pietro  Giordani  (A.  D.  A.) i  203 

Segni  di  cartiere  antiche  (A.  Bartoli) i  427 

Novellino  provenzale,  ossia  volgarizzamento  delle  antiche  vi- 

larelle  dei  Trovatori  (cav.  Antonio  Cappelli)    ...»  429 

Bullettino  Bibliografico  (X.) i  204-434 


IL  PROPOGNftTORL 

STDDII  FILOLOGICI,  STOEICI  E  BIBLIOGRAFICI 


DI  VARI  soci 


DELLA  C0IIIS8I0IIE  Pf-TISTI  DI  IINGUI 


Voi.  III.  —  Parte  IL' 


BOLOGNA 

rilESSO  GAIfTANO  ItOHAGNOLI 

Libraio-Editore  della  R.  Coaiinissioiic  pe'iesti  di  Lingua 

1870 


•moneti   ML-nr.i 


COMPENDIO  ST(3I11C0 
DELLA  LETTERATURA    TEDESCA 


In  ti*  ofl  I  ■  z  t  o  no. 


Naia  vastissima  regione  deir  Asia,  che  confìna  da  una 
parie  coi  Moali  Caucasi  ed  il  mare  Caspio  e  dall'  altra  col 
fiume  Indo:  )ìi,  ove  ebbero  sede  le  stirpi  dei  popoli 
Ariani,  anche  i  Germani  ebbero  la  loro  culla,  e  di  là  per 
motivi  non  abbastanza  conosciuti,  essi  presero  le  mosse 
rerso  l'Europa.  Il  popolo  dei  Celti  che  li  aveva  prece- 
duti, fu  spinto  da'  suoi  successori  verso  i  paesi  e  le  spìag- 
gie  occidentali  d'  Europa.  I  Germani  si  sparsero  in  parte 
nei  paesi  intorno  al  mare  baltico  e  nella  Scandinavia,  e 
parte  presero  dimora  ne!  vasto  territorio  tra  ìl  Reno,  il 
Danabio.  le  Alpi,  l'Elba,  il  mar  lialtìco  e  quello  del  Nord. 
Sul  confine  occidentale  e  meridionale  delle  loro  terre 
ucolte,  venuti  in  contatto  coi  Romani,  essi  ne  diventarono 
oggetto  della  brama  di  conquista,  ed  insieme  della  voglia 
sapere  di  questi  conquistatori  del  mondo  antico.  Quindi 

0  gli  scrittori  Romani,  come  presso  gli  storici  poste- 
dei  Greci,  dehbonsi  cercare  le  notizie  ed  i  documenti 
[Mù  antichi  della  Storia  Germanica.  A  Cesare  ed  a  Tacito 
dobbiamo  specialmente  ricorrere.  Quest'  ultimo  ha  posto, 

cosi  dire,  nella  sua  Germania  un  magnìfico  monumento 


«Isa 
Biori 


.«"OCLL  r.rkzzii  zxx'jt  j-z-Seraiii,  ^:<re  dalb  Berti 

'iciìa  O^raiaua  KOÌr:  U'^soA'  lucia  ti  una  hice  troppo 
itcfeT-ii  :^f-:  ^  :«èr':.  cm  i  <>ìnBXii  M  lesq^  deb 
pncc  '.■:r:  rT^u>:[i;  '!-:i  ft-'-mariL  ent»  dà  aliiDmo  pio- 
a^ii  i>7LJ  »jìlnn-  La  des.TtDi-C'T  di  Tadto  della  loro 
lio  filiera  i  ffÌTia  i?  ■iim.:stn  cfaanmeole.  Fone 
tadó:  i>:c  ani  -as?  snunett^cd-?.  cbe  ì  Govuch  mi- 
UméLt^  ilU  l'jTO  Pihryjfx  imfortaixiry  aiuJK  dall'  Aà 
la  aXiTiic^rjì  irili  l-rttere  nmkbe.  a  die  afcerauno  aocon 
le  tr>iz>:'rii  [>:'pi>:be  5^■p^^  i>lii>:^.  Q  quale  oltre  la  refi- 
gioce  ha  a&:t-e  infecijab>  l' o^  delle  tenere.  Se  si  TogtiooD 
àtqaJK  qnaite  primilÌTe  tncde  di  caltoia  e  di  poeà 
gennanica,  si  dere  preodere  codsì^  parimenlì  da  Tadla 
Qaestì  ncwDia.  che  i  Cennani  celebravaiio  ì  pn^enilari 
del  loro  popolo,  il  dio  Tuiteo  ed  il  di  Ini  Aglio  JKuho 
in  antìcbe  canzooi:  cbe  dal  soooo  più  o  meno  damonno 
del  canto  guerriero,  co^  detto  Barriius,  cbe  intnooaTXiD 
prima  della  battaglia,  e&si  prooosticarano  l' esito  deUa  [Nh 
gna,  e  che  es^  cnstodÌTano  e  celebrarano  io  canzom  la 
memoria  dell'  eroe  nazionale  Arminio.  Inoltre  GìuHaiia, 
Terso  la  metà  del  terzo  secolo,  ricorda  delle  canzoni  pò- 


Oneste  indicazioni  ci  sono  prove  safflcienti  per  cdo^ 
ciadere,  che  già  nei  lempì  antichissimi  si  coltivava  nella 
Germania  la  poesia  popolare.  E  principale  oggetto  della 
medisiraa  possono  essere  state  le  tre  antichissime  tradi2ioni 
di  Si'jfredo  C  incallito,  del  lupo  Isengrimm  e  della  volpe 
Reinhart,  che  purtroppo  nella  loro  forma  originale  sono 
per  noi  perdnte.  Le  due  prime  ritraggono  la  loro  origine 
nel  buio  dei  tempi  pagani  della  Germania;  così  almeno 
si  potrebbe  dedurre  dal  loro  carattere  mitologico-pagano. 

Per  ciò  che  riguarda  la  lingua  delle  differenti  stirpi 
Germaniche,  si  è  reso  sommamente  benemerito  il  celebre 
etimologista  Giacomo  Grimm.  Secondo  lui  farebbero  desse 
UD  ramo  della  grande  famiglia  indogermanica,  subdivisa  a 
qoaiUo  ci  è  lecito  concludere  dalle  fonti  primitive,  nei 
segnenti  quattro  dialetti  principali:  1."  il  Germanico-orien- 
late  0  Gotico;  che  non  sopravvisse  al  regno  degli  Ostrogoti 
in  Italia  ed  a  quello  dei  Vestrogoti  nella  Spagna,  di  cui  è 
figlia  la  nostra  odierna  lingua  delPalta  Germania;  2."  il 
Germanico  superiore,  che  si  subdivise  in  altri  tre  dialetti 
cioè  nel  Bavarese,  nel  Franconio,  e  nello  Svevo,  il  qual 
ultimo  nel  progredire  del  medio  evo  oltrepassò  in  impor- 
tanza lutti  gli  altri  dialetti  germanici  ;  3.°  il  Basso  Germa- 
nico, ie\  qaaìe  fanno  parte  l'Idioma  Anglo-sassone,  il 
Fhsio  ed  il  Sassone-antico  colle  sae  diramazioni  il  basso 
germanio)  e  r  olandese  ;  4."  1'  Antico-nordico,  da  cui  pro- 
vengono r  Islandese,  il  Danese  e  lo  Svedese. 

Nell'arte  del  verseggiare  valeva  sempre  la  suprema 
legge,  r  accentuazione,  cioè  a  dire,  il  verso  consisteva  in 
un  numero  Asso  di  sillabe  fortemente  accentuate,  così  detti 
alzamenti,  fra  i  quali  potevansi  frammettere  altre  sillabe 
meno  fortemente  accentuale.  I  più  antichi  versi  regolari 
in  lingua  Tedesca,  che  sono  pervenuti  sino  a  noi,  appar- 
tengono ai  principio  del  nono  secolo  e  consistono  in  versi 
Im^i  di  otto  alzamenti.  Essi  sono   T  antica  misura  del 


k 


■uLi.  —■.Il-':  :i'i;t:iiar^.  ■■  aìiL*?D-: 
■■-•-  ni-3-estni:  Tm  bì'.'  iti»v.>  t  uoao  setxAo  questi  nri 
i?:L'\-aii-  irìra:.  uij.  ^'.."  aitr:' mediante  raUÌtteriàaoe,eà 
iil)'.>r<i  IL  :•.•:  '.-'•:  nczz:*  ^ìdii:  nme  finali  La  piò  i^ 
strilla  2^:  «-fl--'  fjostsir  IL  àot  twìj  lancili. 

Lt  misarT  aruii'^iili  e  ]v  9rMt  di  canzoni  xtBUn 
<>>it3iit'j  ym  tarÒL  '_-ic>^  a]  teinp'>  del  canto  eroiìco.  k 
q\iì\  e;<:<'3  ia  Vii^ii  l^ìttc»  alibi)  arato  inlopreli  t 
fT'jleiii'.o^.  Diii;  >;  7>d"'  fissare  ccm  ;>redàone.  Però  ^ 
■li  bu.t'j  ora  vi  rraDj  (anUtri  e  sn'Tnalori  erranti  i  ffftà 
catitavaii'.'  <r  r^(-it3Taii<:<  i  piirii  cauti  declì  eroi  ioaanii  i 
Grandi  eil  a)  poiti-ì-ri.  acoompacDaDdùsi  coli'  arpa  e  col 
liuto. 

Ancate  ì  fì?  e  jli  er-:>i  medesimi  eseratarano  la  noli 
arte  del  cauu.>.  e  ]•:•  imostnao  il  vecdiio  re  nel  pool 
BeownlC  l'ciUrfr  nelle  Nilielonsen  e  Horamd  nd  GodnaL 

iK'i'O  >:}aesta  trere  introdozione  alla  slorìa  ddla  lei- 
Urratan  le-les-:^  dividiamo  la  medesima  in  qnatlro  epodie 
prinapali  f'm:  1."  I  (empi  più  antichi;  2.*  il  medio  era; 
3.*  i  tempi  moderai  e  l.°  i  tempi  remotissimi. 

Ma  prima  di  entrare  Dell'  analisi  dì  queste  quattro 
epoche  daremo  brevemente  alami  cenni  generali  sopn 
r  infloenza,  che  esercitarano  il  Cristianesimo .  la  poeà 
a-iicetìca,  la  Romantica,  l' antica  cavallerìa  ed  il  teatro  medio- 
evale sulla  letteratura  non  soltanto  della  Gennaoia  ma  <fi 


idecoiDposiziontì  del  moDdo  antico,  T  ultima  ora  di  qae- 
[  Società  si  decrepila  e  passata  allo  stato  di  totale  ma- 
io, doveva  scoccare.  Il  geime  di   una  nuova  Idea,  la 
,  era  cresciuta  a  poco  a  paco  nel  tempi  del   far- 
ineoto  degli   Imperatori  Romani  ad   una   spirituale 
rìvoluzionarìa    irresistibile,    la    quale   sconquassò 
Edificio  sociale   dell'  Antichità,    attaldiè   una    parte  del 
mo  dopo  r  altra  cadde  irremediabilmente  sotto  i 
nuli  assalti  dei  popoli  germanici  durante  V  uragano  delle 
'loro  trasmigrazioni. 

Ha  questo  immenso  e  mostruoso  caos,  durato  quasi 
cinque  secoli,  e  che  sembrava  di  voler  distruggere  lotal- 
menle  la  cultura  de)  mondo  antico,  si  erano  sul  limite 
fra  l'oliavo  e  nono  secolo  innalzate  due  istituzioni  domi- 
oalricì  di  una  nuova  era  mondiale,  cioè  il  Romano  Papato 
e  l' Impero  Romano-Germanico,  questi  due  punti  cardinali, 
intomo  ai  quab  si  aggira  V  intero  medio  evo.  Questo  grande 
perìodo  della  Storia  universale  può  apparire  al  coperto  da 
ogni  ranta-'magoria  premeditata  o  non  premeditata,  alP  im- 
parziale osservatore  d' oggi  come  un'  epoca  sommamente 
bartiara,  quantunque  sarebbe  stoltezza,  se  si  facesse  rim- 
proTOM  agli  uomini  di  queir  epoca  per  quello,  che  essi 
senlivano.  pensavano  ed  agivano,  mentre  tutto  questo  vo- 
levano le  idee  di  allora. 

La  suprema  ed  universale  direzione  degli  spiriti  era 
ia  roano  della  Chiesa.  Essa  Tu  per  lunghi  secoli  la  sola 
custode  e  V  unica  dispensalrice  di  ogni  cultura.  Egli  è  nella 
natura  di  ogni  dogmatismo,  il  volere  promuovere  il  pro- 
gresso solamente  Qn  là,  ove  si  possa  dire  decisa  la  vittoria 
della  sua  maniera  di  pensare,  di  credere  e  di  insegnare. 
Toslocbè  il  lavorio  della  cultura  accenna  a  progredire  un 
po' innanzi,  l'esagerato  dogmatismo  ne  diventa  il  pili  im- 
placabile avversario.  Questa  triste  verità  ci  è  dimostrata 
dilla  storia  della  Chiesa  ;  non  soltanto  dalla  Cattolica-Romana 


—  8  — 

0  Bisantina-Greca,  ma  con  altrettanta  evidenza  dalla  luterana, 
dalla  calTinista,  dair  anglicana  ;  anzi  qaesr  ultima  era,  ed 
è  forse  la  più  insensibile,  la  più  servile  e  la  più  esdnà- 
vista  di  tutte  le  Chiese.  Egli  è  fuor  di  dubbio  che  gli  im- 
mensi risultati  materiali  ed  intellettuali  della  cultura,  che 
furono  ottenuti  in  Europa  durante  i  tre  ultimi  secoli,  non 
furono  acquistati  per  mezzo  della  chiesa  ;  mentre  può  darsi 
lo  fossero  suo  malgrado.  Nessuna  meraviglia  dunque,  se 
essa  esiste  già  da  lungo  tempo  non  più  per  la  relsAiva 
maestà  delle  sue  idee,  ma  per  T  apatìa  spirituale  e  l**  igno- 
ranza delle  masse  e  per  la  protezione  degli  stati  e  delle 
costituzioni. 

Col  crollare  dei  moderni  stati  di  polizia  minerà  anche 
r artificiale  meccanismo  della  Chiesa,  perchè  contro  Tir- 
resistibile  forza  del  progresso  e  delle  idee  non  ci  ha  scampo 
veruno.  L'anima  divina  del  Cristianesimo  rimarrà,  perchè 
essa  è  eternamente  vera,  ma  il  dogmatico  corpo  crollerà 
sotto  r  urto  continuato  e  prepotente  della  moderna  Cultura. 

Il  Cristianesimo  primitivo  ha  vinto  il  mondo  antico 
per  la  sublimità  e  l'energia  della  sua  morale.  Il  Cristia- 
nesimo primitivo  era  una  reazione  dello  Spiritualismo, 
prescritta  dalla  necessità  storica,  contro  il  prepotente  e 
frenetico  Sensualismo,  che  dominava  universalmente  i  popoli 
di  quel  tempo. 

Esso  prescriveva  air  umanità,  quando  il  Carnevale  nei 
tempi  degli  Imperatori  Romani  erasi  convertito  in  una 
frenetica  orgia,  una  grama  ma  salutare  cura  di  digiuno. 
Ma  come  è  solito  di  accadere,  quando  un  nuovo  principio 
in  tutta  la  freschezza,  austerità  ed  esclusività  della  sua 
forza  giovanile,  tempesta  contro  un  antiquato,  cosi  avvenne 
anche  qui.  «  Il  Cristianesimo,  dice  Jean  Paul,  distruggeva 
come  il  giorno  delP  ultimo  giudizio  V  intero  mondo  sen- 
suale con  tutti  i  suoi  allettamenti,  lo  schiacciava  alla  forma 
di  avello,  lo  trasformava  in  gradino  verso  il  cielo,  lo  ri- 


leva  a  soglia,  e  poneva  nn  nuovo  mondo  spinto 
►  luc^o  » .  La  demonologia  divenne  la  propria  mitolo^a 
[  mondo  fisico  e  demoni  vagarono  intorno  solto  Torme 
1  «mane  e  mistiche:  ogni  vita  terrestre  cambiavasi  in  avvenire 
celeste.  Imperciocché  il  contegno  del  Cristianesimo  verso 
le  arti  e  le  scienze  doveva  essere  in  principio  tutto  ostile. 
Eccitato  dalle  sofferte  persecuzioni  air  intolleranza  pivi 
partigiana,  volgevasi  il  Cristianesimo  diventato  potente  pieno 
di  cieco  furore  contro  i  tesori  dell'antica  cultura.  La 
distruzione  disegnava  il  cammino  trionfante  della  nuova 
fede.  Bande  di  furiosi  fenatici  irrompevano  dal  mondo 
claustrale  e  romilico  dei  deserti  della  Tebaide,  e  si  slan- 
ciavano con  impeto  barbarico  contro  i  tesori  delle  arti  e 
scienze  antiche.  Le  piìi  nobili  costruzioni  e  creazioni  del- 
r  arto  perirono  sotto  il  furore  esterminatore  di  stupidi  e 
fenaliti  monaci,  le  biblioteche  pili  grandiose  furono  date 
alle  fiamme,  come  la  sommamente  pregievole  biblioteca  de) 
Serapeo  ìn  Alessandria  fu  totalmente  distrutta  dall' arcive- 
5C0T0  TeoGlo  nell'anno  38f);  le  pili  splendide  tradizioni 
di  poetico  slancio  e  di  filosofico  studio  furono  stigmatizzate 
dai  devoli  padri  della  Chiesa  col  marchio  della  peccabilità 
e  proclamate  opere  del  Demonio.  Sulle  mine  di  un 
giocondo  godimento  della  vita  s'  inalzò  il  culto  della 
morie  e  del  cadavere:  nel  luogo  delle  leggiadre  figure 
delle  divinità  mitologiche  subentrò  il  culto  delle  reliquie 
dei  corpi  santi.  Tosto  però  che  questi  saturnali  del  cieco 
finalismo  erano  passati,  ad  ogni  pensatore  doveva  venire 
io  mente,  che  la  fondazione  di  una  cultura  esclusivamente 
negativa  e  soltanto  specificamente  cristiana,  era  una  mera 
illosione  di  poca  durata.  Malgrado  di  ogni  orgoglio  del- 
r  astrazione  cristiana  si  doveva  risolversi  a  raccogliere  i 
materiali  per  la  costruzione  di  una  nuova  cultura  dai  gen- 
tili par  sempre  tanto  disprezzati  e  condannati.  Ed  ancora 
di  più:  siccome  il  bisogno  di  adornare  ta  nuova  religione 


—  10  — 
milolob'icamente,  facevasi  seotire  in  modo  inelutlabile,  non 
sì  esitò  a  prendere  ad  iiuprestito  presso  i  antichi  poeti 
tanto  maledetti  da  parte  dei  padri  della  chiesa,  tutto  qoello 
che  potesse  servire  d' uopo  di  dotare  ed  adornare  P  Olimpo 
cristiano. 

Frattanto  il  Cristianesimo,  come  noi  vedremo,  ba 
conscguentemente  eseguita  questa  impresa  soltanto  nel  sua 
rappresentarsi  sotto  la  forma  di  Chiesa  cattolica,  menlre 
il  Cristianesimo  primitivo  nella  sua  ascettica  rigidezza  in- 
dietreggiò spaventato  dinanzi  ad  una  artìstica  elaborazione 
della  dottrina  e  del  culto,  e  si  mantenne  ostile  contro  la 
vita  stessa,  come  anche  contro  il  flore  della  medesima, 
l'arte.  Questo  era  fissato  anche  dal  tuono  della  primitiva 
poesia  cristiana,  che  attingeva  le  sue  aspirazioni  da  quelle 
del  vecchio  testamento.  L'elemento  visionario  della  profezia 
produsse  dalla  parte  cristiana  ìl  poema  l' apocalisse,  ed  l 
Salmi  diedero  alla  Lirica  cristiana  un  suono  fondamemale,. 
che  corrispose  interamente  al  contrito  separarsi  dalla 
terrestre  valle  di  lagrime.  La  forma  dei  più  antichi  poeti 
del  cristianesimo  era  una  reminiscouza  delle  forme  antiche, 
e  tale  rimase  ancora  per  lungo  tempo;  l'argomento  en 
formalo  principalmente  dalla  parafrasi  dei  vangeli,  piii  tardi. 
anche  dalle  biogiafle  del  martiri,  dei  quali  nacqne  od 
corso  dei  tempi  quella  faragine  di  leggende  spesse  volte 
stupide  ed  assurde.  Aliato  di  ciò  furono  poetìzzati  motti 
inni  che  esaltarono  le  lodi  del  Redentore,  celebrandolo  on 
sotto  la  mìstica  figura  del  pastore  del  gregge  dei  credente 
ora  sotto  quell'altra  dell'agnello  pasquale  che  tolse  i 
peccati  del  mondo. 

Però  tutta  questa  poesia  era  assai  monotona  e  magra 
e  se  talvolta  introducevasl  qua  e  là  qualche  suono  armonico; 
conforme  alla  natura  ed  all'  umano  bisogno,  sì  gi-ìdava  ali 
peccato.  Cosi  fu  scacciato  dalla  sua  sedia  vescovile  ìl  VcscorO' 
Eliodoro,  perchè  aveva  scritto  11  romanzo 
Cariclea  ». 


—  li  — 

Il  Canio  iTJstiano  più  mlko  si  innalzò  nèHI 
i:a.  I  snoi  rappresentanti  principali  sono:  il  padre  delta 
,  Clemente  (fi  Alessandria  verso  il  200,  al  quale  il 
i  celebre  inno  dedicato  al  Redentore,  concede  il  diritto 
I  gloria  d'  essere  cliiamato  il  più  antico  poeta  cristiano; 
I  Gregorio  tbscoto  di  Nazianzo  { mori  nel  391 }  il  quale 
^  l'aolore  del  piìi  antico  dramma  cristiano  sotto  il  titolo 
ly[fii'rzii  wdTn.tv)  ossia  «  Il  Cristo  sofferente  »,  scritto  in 
*-KRi  euripidiani;  in  oltre  Appolinare  di  Laodicea,  il  Sinesin 
di  Cirene  (morto  il  431)  e  Melodie  di  Palara.  Un  assai 
mediocre  lavoro  in  poesia  è  la  così  detta  Oinerocenlra, 
una  liiografia  dì  Cristo  fatta  in  versi  omerici  da  un  certo 
Peianio  ne!  S."  secalo  e  continuata  e  terminala  da  Eudossia 
\ì  dotta  consorte  dell'  Imperatore  Teodosio  II. 

La  poesia  della  Chiesa  Romana  (anche  detta  >  l'Oc- 
cidentale 1  )  comincia  col  padre  della  Chiesa  Tertulliano, 
die  mori  nel  220,  e  la  quale  ebbe  specialmente  una  di- 
rezione epico-didattica,  nella  quale  lo  seguirono  Lattanzio, 
Giovenco  ed  altri.  La  Lirica,  cioè  il  canto  proprio  della 
filiera,  fu  però  soltanto  introdotta  dal  celebre  Vescovo 
Amltrogio  i  Milano,  che  morì  nel  397.  Le  premure  di 
Am)>n:^io  per  la  dignità  e  la  bellezza  del  Canto  della 
Cliit'sa  furono  accolte  e  continuale  con  riconoscenza  dal 
papa  Gregorio  I,  il  quale  si  dimostrò  poeta  valente  nei 
SQoi  canti  mattutini  e  vespertini.  Di  grande  importanza  ed 
mflaenza  per  questi  tempi  ed  i  seguenti  era  il  libro  di 
Severino  Boezio  morto  nel  524,  scritto  parte  in  prosa  e 
I     parte  in  versi  e  che  tratta  della  consolazione    della  fìto- 

^^H  Coir  nndecimo  secolo,  nel  quale  fu  decisa  la  vittoria 
^^■la  Cbìesa  Romana,  essa  cominciava  a  spiegare  il  suo 
l^einlo  nel  modo  il  piìi  potente.  In  questo  tempo  ebbe 
ofigine  il  celebre  *  Dies  irae  >  poetizzato  probabilmente 
da   Tbimnaso  di   Celano;  alquanto   più  tardi    Tommaso 


j 


—  12  — 

[T  Aquino  celebrò  la  Testa  del  Corpus  DomÌDì,  allora  ìsliUiita 
col  suo  beliissìmo  e  mìstico  inno  *  Pange,  Uagita  ;  » 
Bernardo  di  Chiaravalie  propagava  nel  canto  uoa  spede 
(li  stoicismo  cristiano;  li  frate  lampone  cantava  11  suo 
commovente  e  sublime  •  Stabai  mater  «  ed  il  Cardinale 
Damiani  spiegava  nel  suo  inno  sulle  gioe  del  paradiso  tu 
sommo  ardore  di  fantasìa  ed  una  magnìScenza  di  colorito, 
che  infervorano  anche  il  più  freddo  ammiratore. 

Da  questa  poesia  della  Chiesa  Romana  usa  la  poesà 
neolatina,  che  si  coltivava  nel  mondo  dotto  sino  a)  d6a- 
mottavo  secolo,  emancipandosi  però  nel  corso  del  tempo 
dalla  chiesa,  trattava  con  severa  imitazione  della  forma 
classica,  nella  maniera  di  Virgilio,  di  Orazio  e  di  OtoJ» 
delle  materie  epiche  e  condiatteva  le  pazzie  ed  i  vizi  del 
tempo  0  esternavasì  anche  in  canti  lirico-erolid.  Dì  là  dh 
scende  nna  serie  di  celebri  poeti  neoialini  dal  nono  ma 
al  decimottavo  secolo  che  comincia  con  Walafredo  Strato 
abate  mitrato  di  Reicbenau  che  morì  nel  849  e  tenniu 
col  Cardinale  Melchiore  di  Polignac  morto  noi  174L 
Neir  intervallo  fra  questi  troviamo  i  nomi  di  molti  altri 
p.  e.  Giovanni  di  Salìsburg,  Abalardo,  Gualterio  Mapes^ 
Petrarca,  Poliziano.  Sannazaro,  Pontano,  Felice  HemmeriiO, 
Erasmo.  Ulrico  di  Hntten,  Vida,  Balde,  Lotichius,  Giuto' 
Scaligero  e  Ugo  Grotius. 

Ma  lutla  questa  poesìa  latina  aveva  soltanto  nto» 
ed  importanza  nei  cìrcoli  dei  dotti.  Un  proprio  pregic 
d'arte  per  la  letteratura  nazionale  dei  popoli  essa  uni 
ebl>e  :  anzi  fu  alla  medesima  piuttosto  di  ostacolo  di  queUo 
che  r  abbia  promosso  e  le  abbia  giovato. 


LA  ROMANTICI  E  L'A!mCA  CAULLERU- 


L' uragano  della  trasroigrazìone  dei  popoli  gettò  ia 
ruine  il  mondo  Romano  e  fece  cadere  al  suolo  la  soerralx 
Cirilla  del  medesimo  sotto  V  impetuoso  assalto  della  ioooha 
fora  della  natura.  Ma  questo  uragano  purificò  ancbe  io 
pari  tempo  l' atmosfera  della  storia  del  oioDdo  ed  iatro- 
diuse  aa  sangue  fresco  e  sano  nelle  disseccate  arterie  del 
corpo  sociale.  Suolsi  comnoemente  dire,  per  abitudine  or- 
mai ioTeterata ,  che ,  per  la  irruzioDe  dei  bartari  nd- 
rimpero  Romano,  l'umanità  sia  stata  ricacciata  per  da 
secoli  nel  suo  primiero  sviluppo.  Nulla  è  più  contrario  b 
storia,  ne  più  ingiusto  di  questa  gratuita  asserrione;  dap- 
poicfaé  la  parte  meridionale  del  mondo  d''  allora,  SaaaaaAe 
e  moralmente  decaduta,  è  piuttosto  debitrice  della  sua 
rigenerazione  unicamente  alle  popolazioni  gennanicbe,  che 
conquistando  e  rovesciando  si  sono  gettate  contro  di  essa. 
An^  come  vedemmo,  lungo  tempo  innanzi  V  uruziooe 
dei  barbari,  Y  antica  cultura  er?  gi^  passata  allo  stato  di 
decadimento.  I  Germaoi  furono  soltanto  gli  esecutori  di 
una  dì  quelle  grandi  sentenze  sempre  vere,  cbe  di  epoca 
io  epoca  escono  dalla  bocca  della  Neraià,  che  regge  la 
storia  ed  t  destini  del  mondo,  sentenze,  che  condanoaDO 
air  estorminio  una  società  decaduta  ed  in  pari  tempo  ne 
evocano  alla  vita  una  nuova. 

I  popoli  germanici,  ì  quali  al  tempo  di  quella  im- 
mensa rivoluzione,  che  di  solito  noi  chiamiamo  la  trasmi- 
grazione dei  popoli,  conquistarono  le  provincie  romane 
avanzandosi  impetuosamente  dal  Nord  e  Nord  Est  verso  il 
Mezzogiorno  e  Ponente,  mescolavami  coi  soggiogati  zìa- 
Mdte  loro  nuova  dimora  e  da  questa  mistione  luciroBO 


I 


quelle  nazioni  mi;sle,  che  dlconsi  Romane,  i 
tori  framischiarono  non  soltanto  il  loro  sangue,  ma  i 
la  loro  lingua  con  quella  dei  vinti  Romani,  e  siccome  1 
lingua  Latina  godeva  di  una  perfelLa  cultura,  non  potei 
non  avvenire,  ciie  essa  si  sottomettesse  1  rozzi  idiomi  d 
vincitori  in  modo  tale  da  rimanere  in  tutte  le  proriDd 
occidentali  del  già  ioipero  Romano  la  base  universale 
fondamentalo  di  discorso  e  dì  scritto.  Ciò  non  ostante  t 
doveva  accomodarsi  ad  accogliere  motti  elementi 
perdendo  per  V  applicazione  di  questi  elementi  molto  del 
sua  originalità  e  modulandosi  nella  bocca  del  popA 
mentre  il  vero  latino  rimaneva  pm'  sempre  la  liogna  < 
dotti  e  delta  cbiesa  ;  a  poco  a  poco  dal  cosi  detto  / 
il  quale  per  lungo  tempo  nei  paesi  romani  aveva  i 
universale  valore,  e  dal  quale  poi  con  una  più  accenlni 
separazione  delle  dìfTerentì  nazionalità  romane,  si  fom 
vano  anche  i  diCTerenti  dialetti  anzi  idiomi  romani.  Coi 
è  noto;  si  fece  diCTerenza  nella  lingua  latina  di  un  ser 
rusticus  (lingua  popolare)  e  di  un  sermo  urbanus  (lin| 
dei  dotti),  la  quali'  ultima  mantenevasi  separala  dalla  f 
ma  soltanto  per  T  attività  letteraria  dei  Romani.  Si  di 
dunque  conchiudere,  che  il  seimo  ruslims  era  ìppia 
quel  miscuglio  di  linguaggio,  chiamato  Romanzo  che  4 
formato  mediante  la  fusione  dell'idioma  dei  conquistala 
colla  lingua  latina.  Fra  gli  altri  esimi  scrittori  d  hi 
fornito  su  di  ciò  preziose  indicazioni  e  prove  :  il  Sim 
nella  sua  opera:  <  De  la  lilteralure  du  midi  de  PEun 
e  più  tardi  il  Bulk  nella  sua  storia  della  poesia  itaH 
La  forma  poetica  del  Romanzo  era  esenzialmente  la  rìn 
in  opposizione  alla  poesia  germanica,  ove  dominava  l'AH 
terazione. 

L' amalgamazione  dei  popoli  del  Nord  con  quelli  i 
Sud  aveva  però  pei  primi  il  danno,  che  essi  perdetti 
interamente  o  almeno  in  gran  parte  la  loro  storia  pn 


— 15  — 

d^Ii  eroi  oazionali, 
te,  salla  quale  un  popolo  si  appoggia  nel  suo  proprio, 
tependenle  e  sioriro  sviluppo;  ma  quesla  perdita  venne 
alqaanto  compensata  dalla  appropriazione  dell' elasticità 
del  Sud,  la  quale  mitigava  la  rigida  forza  della  loro  innata 
natura  senza  infrangerla;  e  perciò  preso  nel  suo  insieme, 
prmiuceva  appunto  questa  amalgaraazione  di  elementi  del 
Nord  con  ipielli  del  Sud,  un  risultalo  sommamente  bene- 
fio)  per  avvanlaggiamento  della  cultura  dello  Stato  e  dello 
spirito.  La  brutalità  del  feudalismo  nordico,  il  quale  di- 
vvDDe  la  forma  politica  del  medio  evo.  trovò  subito  da 
principio  un  salutare  contrapeso  nella  connaturale  e  seren,*) 
mobilità  della  vita  popolare  meridionale,  nella  quale  già 
in  allora  come  ancora  addesso  spariva  maggiormente  la 
distinzione  delle  caste,  come  anche  nelle  reminiscenze  di 
una  antica  e  repubblicaaa  libertà,  che  non  erano  mai 
spente  e  che  dovevano  ben  presto  energicamente  ritornare 
io  vita.  Oltre  di  ciò  accumulava  il  vicendevole  scambio 
delle  idee,  delle  tradizioni  e  leggende  un  tale  capitale 
poetico,  che  più  tardi  i  numerosi  poeti  potevano  soddisfare 
a  tulle  le  loro  aspirazioni  senza  mai  esaurire  la  ricchezza 
del  materiale.  In  ultimo,  e  ciò  era  il  più  importante,  dai 
popoli  romani  venne  infranta  al  Cristianesimo  la  troppo 
acuta  pnnta  dello  spiritualismo  ed  ascetismo,  suo  carattere 
precipuo,  nel  pnmo  nascere,  e  la  nuova  religione  come 
Catlnlirismo  divenne  più  conforme  ai  bisogni  dei  popoli  e 
del  tempo,  per  quanto  la  sua  essenza  lo  permettesse,  il 
Catlolirismo  mitigava  col  suo  intervento  la  tirannide  feudale, 
risenliva  mercè  la  cflsliluzione  della  sua  gerarchia  delle 
.simpatie  democralicbe  e  preservava  il  popolo  d'una  parte 
mediante  i  suoi  stabilimenti  di  carità  e  di  beneficenza  dalla 
morte  per  fame,  e  d' altra  parte  mediante  il  magnifico  ed 
artistico  cerimoniale  del  suo  culto  dairabbnitlimenlo.  Il 
Cittoliciano  creò  Farte  cristiana;  egli  voleva   operare  su 


k 


a 


—  16  — 

I  sensi  e  suU'  anima  dell'  uomo,  e  percib  Don  poteva  Un 
di  meno  della  poesia,  della  pittura,  della  scultura  e  delli 
musica;  anzi  esso  fece  delle  chiese  una  specie  di  UìatHi 
ove  per  la  rappresentazione  di  commedie  religiose  (dui 
male  Misteri,  Miracoli  o  Moralità)  divenne  il  Tondalored 
Dramma  moderno. 

Nel  Cattolicismo,  nel  quale  ^ì  riproducevano  : 
forme  più  sublimi  tutta  la  fantasia  e  tutti  i  simboU  Aé 
l'India  antica,  ha  anche  la  sua  sorgente  la  Romantica,  \ 
la  quale  aprivasi  un  vasto  campo,  sia  nella  origiDalità,  nelll 
tradizioni  e  nella  maniera  di  vedere  e  di  credere,  companff 
e  provocate  dalla  fusione  delle  nazioni  medìanle  la  trasni 
grazione  dei  popoli,  sia  mercè  T  inconscio  desio  di  libeq 
zione  ed  affrancazione  dell'  umanità,  tormentata  ed  op|>re 
dall' odiato  sistema  feudale.  La  Romantica  anzi  tatto  i 
pose  il  quesito,  di  esporre  il  dibattersi  del  soggetto  ! 
lotta  tra  i  precetti  della  morale  cristiana  e  le 
della  umana  natura.  Mercè  questo  dibattersi  i 
deve  elevarsi  ad  una  trascendentale  sublimita,  nel  \ 
stadio  esso  trionfa  di  tutte  le  seduzioni  del  mondo  i 
suale;  ma  nell'impossibilità,  di  spogliarsi  totalmente  < 
cose  terrestre,  esso  è  contìnuamente  in  balia  d'un  ecótt 
mento  malatticcio,  d' una  bramosìa  d' essere  soddisbttd^ 
Essenzialmente  cristiana  è  la  Romantica  per  la  maniera  q 
il  modo,  onde  comprende  T  Amore.  Cioè  la  Roin 
fondava  un  formale  culto  d'  amore,  di  cui  idolo  era  I 
donna.  La  donna  ricevette  dalla  Romantica,  per  la  qa» 
in  primo  luogo  era  regola  il  cullo  cattolico  di 
tutt' altro  valore  e  posizione  dì  quello  che  avea  nel  moc 
antico.  Nei  tempi  antichi  era  1'  uomo,  qual  rappresala 
della  forza  d' azione,  il  punto  centrale  della  vita  ;  nel  teiE 
della  Romantica  invece  divenne  la  donna  il  tipo  dell' ii 
mità  di  sentimento.  11  Cristianesimo  come  religione  < 
umiltà  e  di  sommissione  divinizzava  la  donna  e  la  M 


I  prese  perciò  consf^ueiitementc  l'amore  per  nna 
kinc  spirituale,  per  un  mìstico  atto,   il   qualo   nuo 

}  nulla  ch6  fare  rolP  amore  naturale  cioè   del  sesso, 

meno  desse  a  quest'  allìmo  la  dovuta  consacrazione. 

L'ideale  d'amore  della  nomanlica  era  il  sole,  che 
I  sbocdare  il  fiore  sociale  delia  vita  medio-evale,  cioè: 
Ilici  cavallerìa.   Il   culto   d'amore  era   l'anima  della 

lotica,  la  cavalleria  il  suo  corpo.  In  quest'ultima 
Romantici  giunse  al  suo  più  perfetto  splendore, 
I  con  ciò  si  bipartiva  in  due  differenti  direzioni  e  pre- 
sentava in  queste  sue  diramazioni  due  varianti  delle  sue 
tradizioni,  cioè  nella  tradizione  di  Arturo  la  cavalleria 
temporale,  e  in  quella  di  Gral  invece,  la  spirituale. 

L'antica  cavallerìa,  come  l'eoonneno  politico,  basavasi 
salla  rostituzìone  feudale  e  faceva  capo  nelle  sue  differenti 
graduazioni  sino  alla  Corona,  all'imperatore;  di  rìmpetto 
a  queslu  stava  il  papa,  come  cima  culminante  della  gè. 
rarchia  ■ —  potere  temporale  e  spirituale,  il  mondo  di  qua 
contro  quello  dì  là,  combattcodosi  senza  tregua.  Questa 
era  effettivamente  la  unione  della  vita  medio-evale  tanto 
vantata  dai  romantici  moderni.  Del  resto  questa  pretesa 
unione  avrebbe  necessariamente  distrutta  la  Romantica  ; 
perchè  il  romantico  consiste  anzi  appunto  nella  dissensione, 
egli  è  quel  etemo  essere  non  contento,  quel  mai  soddisfatto 
deski,  quello  sforzalo  effondersi  del  terrestre  nel  trascen- 
dentale. Come  tale  esso  si  è  manifestato  storicamente  nelle 
crocile,  quell'epoca  splendidissima  dell'antica  cavalleria, 
e  ba  attinto  la  sua  massima  perfezione  di  forme  dal  con- 
tinualo contatto,  proveniente  dalle  lunglio  lotte  tra  i  credenti 
dell'islamismo  e  quelli  del  Cristianesimo,  nella  Spagna  e 

I  Francia   meridionale  cioè:  tra  P  Oriente  e  V  Oc*i- 


IL  TEATRO  UEL  MEDIO-EVO. 


Come  b  ben  noto  agli  eruditi  la  poesia  drammatica 
e  l'arte  teatrale  dell' antichità  erauo  scaturite  dal  Culto 
della  divinità,  tanto  nella  direzione  tragica  quanto  comici 
dì  questa  poesia  ed  arte.  I  teatri  antichi,  almeno  gli  Et- 
ienici, erano  luoghi  di  cullo,  le  rappresentazioni  azioni  (K 
culto,  e  chi  conosce  le  tragedie  di  Eschito  e  di  Sorode, 
non  lo  trovei'à  in  nessun  modo  sorprendente. 

Anche  le  origini  dell'  arte  drammatica  Itomano-Itali 
sono  slate  di  natura  religiosa.  Nel  Virgilio  (nella  sua 
Georgica  II)  troviamo  su  di  ciò  i  seguenti  memorabOì 
versi: 

«  Nec  non  Àusonii,  Troia  gens  missa,  coloni 
\'crsibus  ìiicomlis  ludunt  rìsuque  soluto, 
Oraque  corticibus  sumunt  horrenila  cavatis  ; 
E  te,  fiacche,  vocant  per  carmina  laeta  (ìbiqiie 
Oscilla  ex  alta  siispendnnt  mollia  pinu  ». 

la  di  cui  volgarizzazione  suona  all' incirca: 

«  Anche  i  Coloni  d' Ausonia,  gente  originaria  di  Troia, 
celebrano  con  rozzo  canto  e  sbrigliala  risa  i  loro  giuochi 
di  Testa,  e  coperti  di  spaventevoli  larve  fatte  dì  savall 
corteccia,  essi  invocano  te,  o  Bacco,  con  liete  canzoni  ed 
appendono  mobili  imagini  di  te  sull'eccelso  pino  ». 

Colla  decadenza  dell'arie  drammatica  la  sema  : 
perdette  sempre  di  piìi  in  più  il  suo  c^irattere  dì  culto 
divino ,  sinché  essa  nella  Roma  imperiale  era  soltanto 
ancora  il  riflesso  di  una  universale  e  orrida  depravazione 
di  costumi.  Lussuria  e  crudeltà  davano   spettacoli,   coinè 


K 

^"    Tifi! 


—     19    — 

net  mondo  reale,  ancfie  sulla  scena,  che  Don  è  se  non  il 
mondo  slesso.  Era  però  nel  primo  secolo  dell'  era  cristiana 
l'antica  arte  tragica  giunta  a  tanto,  che  nella  tragedia 
«  Ercole  suU'  Oeta  a  la  parte  litolare  dovette  essere  rap. 
presentata  da  un  matrattore  condannalo  a  morie,  il  quale 
oeir  atto  Gnale,  ad  accrescimento  dell'  illusione  teatrale, 
le  abbraccialo  vivo.  In  un  abbandono  impudico  e  lascivo 
trascinava  la  degenerazione  del  teatro  antico  soltanto 
nel  4.°  5.°  e  G."  secolo  e  specialmenle  nelle  provincìe 
orientali  dell'Impero  Komano.  Al  tempo  dell'Imperatore 
Costantino  il  balletto  «  Maiuma  »  fece  furore,  la  cai 
scena  più  applaudita  consisteva  in  ciò,  che  comparirono 
sul  teatro  delle  ballerine  affatto  nude  che  rappresentarono 
una  scena  di  bagno  ;  ed  al  tempo  di  Giustiniano,  Teodora, 
l'ortodossa  consorte  di  questo  imperatore,  aveva  comin- 
ciata la  sua  cai-riera  comparendo  >  sulla  scena  del  teatro 
vestita  soltanto  di  una  stretta  cinta  onde  rappresentare 
iBOSe  che  il  pudore  vieta  di  nominare. 
I  Imperciocché  è  assai  facile  a  comprendere,  che  i  padri 
della  chiesa  cristiana  principiando  da  Tertulliano  tuonavano 
con  tutto  loro  zelo  ed  eloquenza  contro  il  teatro  e  gli 
spotticoli.  Con  ogni  ragione  e  diritto  S.  Crisostomo  poteva 
chiamare  il  teatro  di  allora  <  abitazioni  di  demonio,  scena 
di  dissolutezza,  scuole  di  lussuria,  aule  della  peste  e  gin- 
nasi di  ogni  libertinaggio  p.  Nella  ricetta  morale,  che  il 
cristianesimo  prescriveva  alla  decaduta  società,  V  anatema 
lanciato  contro  gli  spettacoli  e  gli  artisti  formava  la  parte 
obbligata,  e  vescovi,  sinodi  e  concilii  afTatticaronsi  conti- 
nuamente di  indurre  i  fedeli  ad  astenersi  in  ogni  maniera 
possibile,  e  a  disvezzarsi  del  tutto  dal  diletto  degli  occhi.  Se 
però  era  forte  lo  spirilo,  la  carne,  cioè  la  sensualità  era 
ancora  piii  forte.  1  Cristiani  accorsero  ai  teatri  con  non 
mena  avidità  dei  gentili,  ed  il  clero  dovette  finalmente 
confessare,   quantunque  con  stringimenti  di  spalla,  cbe 


—  io  — 

)'  Ttfon!  hruA  tcì  nscQza  D-xi  è  Dwole  affinio  OD  aslnlto 
l^i^tV-*-'-'-  nu  t-Hiii  OH  isàèti  assai  concreto,  che  vaole 
as!*:4aEaiii'e{:ti:  ouadare.  tere.  maritarci  ed  in  varie  guise 
tLTertirrL  E>1  in  oltre,  ^i  fTà  ìolisùio  sospingere  il  pOfKds 
alla  re^-i'On^  i-it^ale  Dtetiiuité  la  Een  di  reali  esposióoDi  e 
nppnsentaùxu  o  ìq  a:  tre  f>aroIe.  il  popolo,  sia  incolto  o 
edQ<3t'>.  ba  bis^cno  |;>er  ar>pp>priarsi  i  concetti  e  le  idea 
relijvj^t  'lelia  nieiliazii'De  -li  rappreseutaziooi  mìtolt^idie^ 
come  aQ<.-he  la  iznn  m.iÀ>3  as<:olta  più  TOloalierì  le 
prediche  morati  s<:>tlo  una  forma,  che  accoppia  V  utile  e 
salutare  al  dilettevole  e>l  attraente.  Quindi  il  clero  crisliaiio 
ebbe  la  oxinoziorìe.  che.  5e  i  gentili,  abituati  ad  ud  colti) 
religio?t'i  Sijtlo  forma  artistica,  che  dilettaTa  i  saia  ed 
eccitata  la  bntasia.  doressero  essere  guadi^ati  alla  niuni 
lede,  era  d'oopo  far  loro  ritr.^tare  nel  collo  del  crìslà- 
nesimo  possìbilmente  •pello.  che  abbaodonerebbero  od 
fienlilesimo.  Per  conseìmeoza  si  iraltaTa  di  trasformare 
rirreli^oso  diletto  dei  sensi  nel  colto  pagano  in  nu 
santa  attrazione  rerso  il  colto  crìstiaao  e  di  concedere 
oeirintemo  de^li  stessi  templi  cristiani  od  salatane  ed  ìstmt- 
tJTO  pascolo  a  questo  umano  bisogno. 

loiell^bilmenle  n-^n  è  detto  con  ciò,  che  V  iatam 
culto  cristiano,  il  suo  rituale,  le  mistiche  sne  ■ 
e  sacre  fnnzioai  siano  provenute  o  scaturite  da  i 
l.un^'e   tìd   EUlj    il    pensiero   •}]   voler    al»ba>jare   a  motiri 


secolo  1 

lo  zelo  nfipo»  per  «■■■teae  M  * 

nicdìanle  i 

nwtiTo  (Q  «amderc  «1  aoMmtmt  #  ^ 

Di  barn  ora  ga  saiB  MMAri  itf^ 

ftue  andw  alABMIrMP>MK  ■ 

<Mla  bibHDleq  iIiIm'Ji  *  oa»  ^  fc 

pia  aniìebì  li  oMMb  i^  d^  C  i 

bazn  eoa  d  ~ 

rburrenoDe.  Da  < 

Mi  ndnto  delle  dÉeae  à  flSqy»  fs  li 

nimoli,  o  eonaefa  ^feftnK,  ^  * 
Da'  dnllen  e  oeOe  pia»  Afle  dA  •  i 
recdii  e  b  leena  amaà  A  | 
plirl,  rozzi  e  dilMtaL  Itttma^^Sftt 
ìdruiooe  e  tahm  tann^  TsbAì  4fl 
Testnrìn  e  h  bfm  *>  M^B^fiiri^  !■■ 
cofKOTM)  di  maaa.  di  caM»  e  A  É*l  ìm 
ii6  che  al  giorno  ^o^  màm^mm  «te  i  a 
,  Ita  I 

n^aaiola 
|i"  secolo,  epoca  in  ai  b  : 

iDto  Q  sao  ponto  criHÌBHie  C  api 

ntazioiii  rìtUedevMD  fnpanCn  i 

»  scenario.  rafRgnnado  tfvoftì  hI»  ^ 


delo,  la  t&n  e  l' inferno,  si  aveva  una  sc«oa   con 
di  [re  piaci;  centioaie  di  allori  la  popolavano    e    sp 
volte  come  aneDoe  ogoi  anno   a  Lacerna  Della  Sviz 
per  i  mislcrì  pasquali,  la  sc«na  esteudevasi  sopra  parecchi 
-piazze  e  strade  della  cillà.  L'esercizio  di  <iuest'arte  i 
richiedeva  un  omnerosissimo  personale  passava  perdo  d 
mani  del  dero  iu  quelle  dei  laici  e  si  formarono 
gnie  ed  unioDi  di  dotti,   dì  studenti,  di  mercatanti  e  < 
artigiani,  cosicché  in    tal    modo   diventarono  spesse   volt 
aflari  dei  comuui,  dei  qnali  si  iDcarìcarano  le  autorìtì  e  h 
magislralnre  civiche. 

Oggetto  di  questi  spettacoli  erano  e  rimanevano  s 
pre  gii  avvenimenti  biblici,  e  tal  volta  vi  si  comprcode* 
anche  latta  la  storia  sacra  dalla  creazione  del  miiodo  si 
al  giudizio  fìnale  nel  circolo  di  queste  rappresentazìofl 
che  durarono  non  soltanto  dei  giorni  ma  delle  : 
Tn  mistero  rappresentato  nell'anno  1380  d'innanzi  { 
VI  re  di  Francia,  aveva  23  lunghi  atti,  un  altro  ^egnil 
nel  li09  a  Skinnersirell  in  Inghilterra  durava  8 
Delle  commedie  sacre  rappreseiilale  a  Valmcietmcs  ed 
Bourges  in  Francia  nel  corso  del  15.°  secolo  rìcJlied 
per  la  loro  rappresentazione  I'  una  25.  e  t'  altn  i 
giorni. 

La  Letteratura  francese,  inglese  e  tedesca  poss 
ricdie  collezioni  di  misteri,  miracoli  e  spellaceli  di  i 
e  di  pasqua,  però  tali  opere  hanno   pìutloslo    un 
per  la  storia  della  cultura  e  dell'arte  drammatica,  che  pi 
la  letteratura  e  l' estetica. 

Terminati  ora  i  C'enni  su  quelle  cause  storiche,  ci 
esercitarono  una  grandissima  influenza  sulla  letteratura  d 
popoli  della  Germania,  riprendiamo  l'analisi  delle  qiiaUl 
epoche,  in  che  si  divide  lo  sviluppo  della  letteratura  i 
dtìsca  e  comincieremo  : 


FXioi  tempi  i  più  antichi  cioè  dalla  trasmigrazione  dei 
popoli  sino  agli  Imperatori  della  casa  di  Svevia 
oasia  dal  345  al  1137  dell'  era  Cristiana. 


È  un  fallo  storico,  che  t'aspetto,  le  relazioni  ud  1 
P«>stiiim  dell'  antica  GennaDia ,  subirono  una  totale  trasfoK- 
mazione  per  la  trasmigrazione  dei  popoli.  Ove  una  inier'a 
nazione  si  mise  i[i  movimento,  a  One  di  cercare  altri 
clima,  altre  regioni  ed  altra  dimora,  dovette  cambiarsi  e 
mutarsi  tutto,  specialmente  le  tradizioni  della  poesìa  po- 
polare, la  quale  venne  strappata  dai  luoglii,  aì  quali  essa 
era  legata  sinora;  circostanza,  che  ba  essenzialmente  pre- 
([iudicato  lo  stabile  sviluppo  nazionale  dell'  antica  poesia 
germanica,  spegnendo  se  non  interamente  almeno  in  parte 
la  reminiscenza  delle  tradizioni  degli  eroi  del  primitivo 
tempo  germanico  mediante  la  confusione  di  nuovi  avveni- 
mentì  d' una  grandezza  e  vastità  colossale;  la  tramischiava 
_{>erò  con  nuovi  coiicetti  ed  idee,  e  la  patria  leggenda 
I  fu  in  massima  parte  trasformata  e  ritìnta  dalle 
Love  impressioni  meridionali.  La  trasmigrazione  dei  po- 
■  poli  condusse  i  Germani  incontro  al  cristianesimo  e  que- 
sto piantava  nell'anima  dei  distruggitori  dell'Impero  Ro- 
mano i  germogb  delia  itomantica,  1  quali  poscia  fiorirono 
si  magnificamente  nella  poesìa  Germanica  del  medio  evo. 
I  popoli  tedeschi ,  che  prima  della  trasmigrazione  avevano 
rappresentata  una  parte  storica,  o  sparirono  totalmente 
dalla  sceiia  del  mondo  in  seguito  di  questo  rivolgimento 
della  situazione  europea,  o  almeno  cambiarono  la  patria 
^ora  con  un  altra  nelle  provincìe  conquistate  dell' Im- 


^_,{>erò  con 
^Bpprdìca  1 
^Plnove 


—  2i  — 

pero  Romano ,  o  mescolaronsi  anche  con  altri  popoli  sino 
alla  impossibilità  di  essere  riconosciuti.  Per  questa  cagione 
si  perdettero  le  antiche  tradizioni  di  stirpe  dalla  memoria 
dei  popoli ,  onde  V  attenzione  fu  totalmente  occupata  dalle 
gesta  di  altri  potenti  re,  come  di  un  Attila  e  di  un  Teo- 
dorico; ed  intomo  alle  figure  di  questi  dominatori  forma- 
vansi  nuovi  circoli  di  tradizioni ,  le  quali  nella  più  svariata 
guisa  furono  messe  in  relazione  fra  di  loro  e  che  fanno 
il  principale  argomento  dell'antica  poesia  epica  dei  Te- 
^  deschi.  Innanzi  tutto  presentaronsi  sulla  scena  della  storia 
le  genti  dei  Goti,  Longobardi,  Borgognoni,  Franchi,  Ale- 
manni, Bavaresi,  Turingi,  Sassoni  e  Frisi  e  mediante  le 
tradizioni  attenenti  a  questi  popoli,  esse  entrarono  nel  cer- 
chio della  poesia  popolare.  In  questo  grandioso  quadro  di 
celebrati  eroi  e  donne  appariscono:  1.**  I  re  degli  Ostrogoti 
della  stirpe  degli  Amali,  perciò  chiamati  Amedunghi,  cioò 
Ermanrico  ed  il  suo  nipote  Teodorico  il  Grande  coi  suoi 
armigeri,  formando  le  tradizioni  ostrogotiche;  2.**  I  re 
Borgognoni  Gunterio ,  Gemot  e  Giselero  colla  loro  madre 
Ute,  la  sorella  Krìemhilda,  gli  armigeri  Hagen,  Dankwart 
e  Volker  e  V  eroe  Siffredo  che  formano  le  tradizioni  franco- 
borgognone;  3.**  Il  re  degli  Unni  Attila,  intorno  al  quale 
si  aggruppano  Gualterio  di  Aquitania,  Ruggiero  di  Be- 
chlar,  Irnfredo  di  Turingia  ed  altri  eroi  formando  le 
tradizioni  unniche;  L*"  Il  re  dei  Frisi  Ettel  colla  sua 
figlia  Gudiiin  ed  il  re  dei  danesi  Horand,  ai  quali 
stanno  incontro  i  re  dei  Normanni  Lodovico  ed  Artuico 
e  da  ciò  le  tradizioni  frisio-danese-mrmanne;  5.*  II  re 
do  lutlandesi  Beowoulf  e  gli  eroi  Scandinavi  Vittico  e 
Vilando  col  loro  seguito  mitologico  che  formano  le  tradi- 
zioni nordiche;  e  6.°  I  re  e  gli  eroi  Longobardi  Roterio, 
Otnito,  Ugo  Teodorico  e  Volfteodorico  formando  le  tradi- 
zioni longobarde. 

Si  può  ammettere,  che  già  nel  6.^  7.°  ed  8."  secolo 


t  Tra  j  popoli  germanici,  dotati  di  canto,  delle 
canzoni  sopra  le  gesta  di  questi  o  quelli  eroi  delle  so- 
praddette tradizioni;  viene  aiicho  espressamente  provato, 
che  tali  canzoni  furono  scritte  e  che  il  convento  di  fìei- 
rhenau  snl  lago  di  Costanza  possedeva  già  neir  anno  821 
dodici  canti  di  questo  genere,  malgrado  che  il  fanatismo 
dei  Clero  sotto  S.  Bonifócio  (dal  680  al  753)  violente- 
mente infuriasse  contro  la  poesia  popolare  e  che  a  tenore 
di  un  decreto  capitolare  dell'anno  789  fosse  stato  vietato 
specialmente  ai  monaci  ed  alle  monache  di  scrivere  ed 
emettere  delle  canzoni  popolari.  Poi  Eginardo  ci  racconta 
che  Carlo  Magno  aveva  fatto  preparare  dalla  bocca  del  pò-  .,, 
polo  ima  racj-olta  di  antiche  canzoni  degli  eroi.  Ma  qnesta 
raccolta  «  per  noi  perduta,  ciò  che  facilmente  si  spiega  per 
l'odio  del  clero  di  quei  tempi  contro  tutte  le  tradizioni  pa- 
gane. Noi  possediamo  soltanto  tre  antiche  poesie  in  forme 
primitive,  provenienti  dal  8.°  o  9.°  secolo,  cioè,  il  poema 
Beowulf  in  idioma-  anglo-sassone,  il  canto  di  Ildebrando 
e  di  Adebrando  e  quello  di  Gualtiero  d' Aqnitanta.  La 
forma  originale  alto-germanica  ed  allilterale  della  canzone 
di  Idcbrando  e  di  Adebrando  esiste  soltanto  ancora  in 
fr-ammenti,  mentre   l'argomento  di   quel  poema   ci  vicn 

Kto  conoscere  interamente  mercé  d' una  elaborazione,  cho 
poeta  popolare  Gasparo  di  fìoen  intraprese  non  senza 
luna  sulla  fine  del  15.°  secolo.  Il  poema,  che  descrive 
;  duello  fra  Ildebrando  il  vecchio  armigero  di  Teodorico 
Grande,  e  suo  figlio  Adebrando,  ha  l'impronta  di  tutta 
ferocia  e  temerità  della  vita  degli  eroi  al  tempo  delia 
ismigrazione  di  popoli.  L'altro  poema.  Gualtiero  d'A- 
itania,  il  cui  argomento  forma  la  fuga  dell'eroe  colla 
a  fidanzata  ildegonde  dalla  corte  dì  Attila  e  le  sue  vìt 
loriose  pugne  col  re  Gunterio,  coli' armigero  Ilagen  ed 
altri,  ci  fn  tramandato  soltanto  in  esametri  latini,  nei  quali 
|, monaco  Eccardo  tli  S.  Gallo  ha  trasformato  verso  la 
!  del  0."  secolo  la  primitiva  maleiia  iradizionale. 


—  26  — 

Col  nuovo  periodo  di  cultura  iniziato  nella  Germania 
da  Carlo  Magno ,  V  antico  canto  degli  eroi  nazionali  si  fece 
muto ,  ed  il  suo  posto  prese  la  poesia  cristiofuhspirituak. 
Dopo  che  il  Regno  degli  Ostrogoti  era  andato  in  roioa,  il 
Franco  Carlo  colla  sua  monarchia  mondiale  divenne  pro- 
priamente il  propagatore  del  Cristianesimo  nella  Germania 
e  nel  Nord,  ove  la  spada  operava  quasi  il  lavoro  mag- 
giore, quantunque  i  mezzi  più  miti  d'una  politica  astata 
della  chiesa  producessero  effetti  più  durevoli.  Fra  questi 
mezzi  prendono  il  primo  posto  le  scuole  monacali,  alla 
cui  istituzione  e  direzione  Carlo  chiamò  degli  uomini  dotti 
dair  estero.  Cosi  il  Diacono  Paolo,  Pietro  di  Pisa  ed  Al- 
enino. Il  discepolo  di  quest'  ultimo ,  il  dotto  Rabano  Mauro 
dal  776  al  856  divenne  il  vero  fondatore  della  erudizione 
monacale  in  Germania  e  la  scuola  monacale  di  Fulda  da 
lui  fondata  nel  804  era  il  modello  di  tutti  gli  altri.  Che 
la  cultura  nutrita  e  curata  in  queste  scuole  era  essenzial- 
mente teologica  ed  aveva  per  scopo  principale  la  propa- 
gazione del  Cristianesimo  tra  il  popolo,  era  nella  natura 
di  questi  istituti.  SiccomiB  i  medesimi  avevano  radice  nella 
gerarchia  Romana,  doveva  essere  di  somma  importanza 
per  essi,  di  procacciare  alla  chiesa  Romana  sotto  qualun- 
que rapporto  la  vittoria  sopra  il  Germanismo  pagano,  e 
siccome  una  mano  lava  l'altra,  l'imperatore  Carlo  ed  il 
suo  figlio  Lodovico  il  devoto  prestarono  l' ajuto  del  potere 
temporale  al  promuovimento  di  disegni  gerarchici  altret- 
tanto volonterosi,  quanto  le  scuole  monacali  estendevano 
ed  assodavano  il  potere  sovrano  mediante  la  propagazione 
del  principio  della  cristiana  sommissione.  Onde  assicurare 
al  Romanismo  cristiano  la  preponderanza  sopra  la  Nazio- 
nalità Germanica,  doveva  apparire  come  assai  congruente 
r  uso  della  lingua  Latina.  Il  Latino  divenne  la  lingua  della 
Chiesa,  dello  stato  e  del  foro,  in  somma  quella  dei  dotti. 
Frattanto  il  bisogno,  d'influire  sul  popolo   colla   propria 


sua  lingua,  era  pel  clero  troppo  esigente,  che  esso  avesse 
potuto  negligere  interamente  l'idioma  Tedesco,  e  da  ciò 
proviene  principalmente,  che  le  scuole  monacali  acqni- 
staronsi  anche  dei  meriti  per  il  perfezionamento  della  lìn- 
gua madre. 

Fulda  sotto  la  direziooe  del  dotto  Rabam  Mauro 
precedette  e  le  scuole  monacali  di  S.  Gallo,  Hirschau, 
Ueìchenau,  Weissemburgo  e  Corvei  lo  seguirono  sulla  ac- 
cennala via. 

Preti  e  frati  comminciarono  perciò  a  favorire  la  poe- 
sia Tedesca,  presupponendo,  die  la  medesima  sarebbe 
soggetta  alle  mire  della  chiesa,  e  perchè  essi  erano  in- 
fluenti abbastanza ,  per  mantenere  la  supremazìa  di  questa 
tendenza  durante  un  lungo  periodo  dì  tempo  ;  e  cosi  spa- 
risce la  tradizione  degli  eroi  nazionali  col  9."  secolo  dalla 
letteratura  germanica,  per  cedere  il  posto  alla  mitologia 

:ana  e  ricomparire  di  nuovo  dopo  tre  secoli,  ma  al- 

sommamente  cristiana  e  romantizzala. 

La  Poesia  cristiana  clericale,  che  riusci  dominante 
it  9.**  secolo,  si  affaticò,  di  sostituire  le  tradizioni  pa- 
gane colle  leggende  della  nuova  fede,  gli  eroi  nazionali 
coi  martiri  e  santi. 

Fortunatamente  perà,  almeno  da  principio,  la  forza 
[jl^erativa  delP  antica  nazionalità  era  aucora  vegeta  abba- 
per  emergere  sempre  nuovamente  dai  prodotti 
lìelta  poesia  clericale,  come  risulta  dal  cosìdetlo  canto  di 
Lodovico,  poetìzzato  da  un  ignoto  ecclesiastico  in  occa- 
sione della  vittoria  riportata  da  Lodovico  III  re  dei  Fran- 
chi sopra  i  Normanni  presso  Saucourl.  Ma  ancora  molto 
più  risplendente  che  nel  predetto  evinto  si  presenta  vera- 
mente grandioso  ed  energico  l'effetto  dell'antico  spirito 
Germanico  nel  poema  anglo-sassone  di  nome  lleliand  che 
vuol  dire  il  Salvatore. 

L' lleliand  (di  cui  abbiano  una  bellissima  riprodu- 


leuei 

gane 
coi  i. 

!■      I 

^■jl^era 
^P^tanz; 


u 


—  28  — 

zione  neotedesca  dai  dotti  etimologisti  Rannegiesser/Sin^ 
rock  e  Rapp.  del  1830)  é  stato  poetizzato  nella  prima 
metà  del  O.""  secolo  da  ud  poeta  sassone,  non  lungo  tempo 
dopo  la  conversione  alla  fede  cristiana  di  questo  popolo, 
da  cui  si  spiega,  come  il  poeta  sapeva  introdurre  neir  ar- 
gomento eterogeneo  tante  proprietà  della  nazionalità  sas^ 
sone,  e  dare  al  suo  oggetto  ebreo-cristiano  la  tinta  della 
vita  degli  eroi  e  del  popolo  antico^ermanico. 

Sulla  base  dei  quattro  Evangeli  il  poema  racconta  in 
un  linguaggio  semplice  e  popolare  la  vita  di  Gesù,  con 
una  chiarezza  veramente  epica,  senza  far  pompa  di  una 
importuna  erudizione  monacale. 

Il  poeta  partendo  dal  suo  punto  di  vista  nazionale ,  ci 
descrive  ingenuamente  là  corte  di  Erode,  come  se  fosse 
stato  quella  di  un  duca  sassone;  fa  comparire  Cristo  in 
mezzo  ai  suoi  discepoli  come  un  capostirpe  germanico  Ara 
i  suoi  tributari  e  dipinge  fìra  le  altre  la  scena  della  predica 
di  Gesù  sul  monte  oliveto  come  appunto  avevano  luogo 
le  deliberazioni  dei  princìpi  Germanici  coi  loro  capi  in 
presenza  del  popolo  radunato. 

Uno  spiccante  contropposto  a  questo  poema  ne  tà 
un  altro  sotto  il  medesimo  titolo  «  il  Salvatore  »  poetiz- 
zato circa  30  anni  più  tardi  dal  frate  benedettino  Otfredo 
di  Weissenburgo  neir  Alsazia.  Quest'  ultimo  è  diviso  in  5 
libri  ed  espone  interamente  la  cultura  Romano-Cristiana 
di  quel  tempo  senza  riguardo  alcuno  per  le  reminiscenze 
nazionali  e  guardando  con  disprezzo  sulla  poesia  popolare. 
Di  valore  poetico  assai  inferiore  al  sassone  Heliandy  Po- 
pera  di  Otfredo  è  però  di  sommo  pregio  sotto  l'aspetto 
etimologico,  perchè  il  pio  frate  nel  suo  disprezzo  della 
poesia  popolare  fondò  la  poesia  Tedesca  dell'  arte  ponendo 
al  luogo  deir Allitterazione  la  rima  Anale,  la  quale  restò 
di  poi  dominante  nella  poesia  germanica. 

Altre  produzioni   poetiche  di  quel   tempo  sono:  la 


—  29  — 

Preghiera  di  Wessobrunuo  e  la  poesia  sulla  fine  del  mondo 
coaoscinla  sollo  il  oome  Muspilli,  delia  quale  si  cono- 
scono soltanto  alcuni  frammenti.  .Ma  ambedue  non  si  in- 
nalzano air  impoi'Umza  Unguistioa  dei  suaccennati  poemi. 
A  capo  delle  opere  di  prosa  della  letteratura  Tede- 
sca dì  quest'  epoca  trovasi  la  celebre  traduzione  della  Bib- 
bia nel  Gotico  eseguita  dal  Vescovo  Ulfila  dopo  la  metà 
del  4."  secolo.  Quest'opera  è  la  fonte  primitiva  della 
scienza  lin^istica  Tedesca  ed  il  venerabile  monumento 
d' uno  spirilo  colto  od  sommamente  importante.  Il  Codice 
argenteo  di  Upsala  ed  il  codice  Carolino  di  Wolfeobìiltel 
conservano  principalmente  i  salvati  frammenti  dì  questa 
famosa  opei'a  letteraria.  Altri  frammenti  furono  scoperti 
nella  biblioteca  Ambrosiana  di  Milano  e  ne  possediamo 
una  edizione  completa  dell'  anno  1857. 

Dopo  il  secolo  ottavo  compariscono  delle  opere  in 
prosa  nell'antico  idioma  alto-germanico,  die  hanno  però 
soltanto  un  pregio  linguistico  e  consistono  in  formulari  di 
confessione,  traduzioni  del  paternoster,  estratti  biblici, 
inai  di  chiesa,  frammenti  di  prediche  e  simili.  Sul  termi- 
nare del  10.°  secolo  fu  scritta  dal  monaco  Notker  Labeo 
ài  S.  Gallo  una  traduzione  e  parafrasi  dei  salmi.  Neil' 11.° 
ilo  Viiliravi  Abate  di  Ebersberg,  tradusse  e  comentò 
mtico  di  Salomone. 

Anche  le  traduzioni  di  opere  dell'antica  letteratura, 
ime  Porganone  di  Aristotele  e  le  consolazioni  della  fi- 
lo-'iofia  di  BoSzio,  in  cui  esercilavasi  V  erudizione  mona- 
cale, sono  d'importanza  soltanto  in  quanto  che  dimo- 
strano, come  di  buon^ora  già  si  cercava  nella  Geimanìa 
la  conoscenza  dell'antichità. 

Dopo  r  11.°  secolo  cessano  per  lungo  tempo  le  oc- 
cupazioni letterarie  nella  lingua  madre  nei  conventi;  con- 
seguenza forse  della  degenerazione  de!  clero,  sorvenendo 
irdo  alla  poesia  tedesca  un  totale  riposo  dal  10."  se- 
fino  alla  metà  del  12.°. 


—  30  — 

La  nazione  doveva  prima  immedesimarsi  gli  elemeoti 
della  nuova  cultura  cristiana,  trasfonderìi  nei  meati  della 
propria  vitalità  primache  dalla  medesima  potesse  sbocciare 
la  nucva  poesia,  cioè  la  Cristiano-romantica.  L^ operosità 
spirituale  della  Germania  indietreggiava  davanti  la  gran- 
diosa aspirazione  politica  sotto  gli  imperatori  Ottone  il 
Grande  e  Enrico  III  o  si  moveva  soltanto  fra  i  limiti  di 
erudizione  latina. 

Entro  a  questi  limiti  scrìssero  ì  famosi  cronisti  Vitur 
Ghindo  di  Corvei  le  sue  «  Res  gestae  Saxonicae  »,  Tiet- 
maro  di  Merseburgo  e  Lamberto  di  Hersfeld  le  loro  cro- 
nache ed  annali ,  la  monaca  Rosvitta  del  Convento  di  Gan- 
dersheim  le  sue  comedie  sante  ad  imitazione  di  Terenzio, 
ed  una  narrazione  delle  gesta  di  Ottone  il  Grande  in  esa- 
metri latini. 


I medio  evo    ed  U  periodo  della    Riforma,  ossìa  dal 
1137  al  1600. 


Il  periodo,  che  si  è  solilo  di  designare  come  il  fioro 
l  medio  evo  germanico,  principia  airincirca  colPavve- 
nìmeDlo  degli  Svevi  (chiamati  Hohenstaufen )  al  trono  Im- 
periale, percui  chiamasi  anche  la  letteratura  di  quest'epoca 
(dalla  metà  del  secolo  dodicesimo  sino  alta  metà  del  de- 
cimoquarto)  la  letteratura  del  periodo  svevo,  e  ciò  con 
.tanto  maggior  ragioue,  che  il  favorire  della  poesia  per 
parte  degli  Imperatori  Svevi  imprime  anche  al  linguaggio 
poetico  di  questo  periodo  la  marchia  de!  dialetto  svevo. 
In  virtù  dell' inOuenza  di  questo  dialetto  della  Germania 
meridionale,  come  era  usato  nella  Svevia,  nella  Svizzera, 
nella  Baviera,  in  Austria  perfino  nella  Turingia,  furono 
respinti  a  poco  a  poco  i  dialetti  delta  bassa  Germania  dal- 
l'uso  delle  classi  privelegiate,  e  si  raddolcì  l'antico  alto- 
germanico  temprandosi  con  quello  del  centi'ale  alto-germa- 
DÌco,  la  cui  pieghevolezza,  chiarezza  ed  armonia  si  pre- 
■ono  di  buon  grado  al  fertile  espandersi  della  poesia 
rie  come  allo  svolgersi  del  popolo  di  questo  tempo. 
La  caratteristica  della  poesia  del  periodo  svevo  è  la  Ro- 
mantica, suir  origine  ed  essenza  della  quale  abbiamo  già 
parlato  anteriormente.  Mediante  l'operoso  e  forte  reggimento 
degli  imperatori  svevi,  principalmente  di  Federico  Barba- 
rossa  ,  fu  di  nuovo  portato  ad  onore  e  valore  lo  stato  se- 
colare, come  venne  rappresentato  dalla  Cavalleria,  in  fac- 
alla  troppo   esclusiva   influenza   del   Clero.   Sebbene 


l: 


—  32  — 

nelle  sue  fondamenta  essenzialmente  cristiana,  fonnava 
r  antica  cavalleria  un  fortissimo  contrasto  col  sacerdozio 
cioè  nel  suo  significato  ascetico,  perchè  essa  richiedeva 
espressamente  lo  splendore  ed  il  godimento  della  vita,  e 
sosteneva  i  diritti  delle  passioni  di  fronte  ai  doveri  reli- 
giosi. Per  tal  cagione  doveva  anche  infondersi  nella  poe- 
sia, la  quale  nel  precedente  perìodo  era  diventata  esclu- 
sivamente monacale ,  un  nuovo  brio  che  attinse  dai  variati 
fenomeni  della  vila  cavalleresca  il  più  abbondante  nutri- 
mento. Egli  è  noto  universalmente  che  questa  vita  ca- 
valleresca ed  uno  dei  suoi  frutti  più  belli,  la  poesia  ca- 
valleresca, fosse  formata  e  perfezionata  primamente  in 
Francia.  Le  crociate  offrirono  ai  popoli  Europei  occasione 
ad  un  molteplice  contatto  fra  popoli,  ed  i  Francesi  appro- 
fittarono di  quest'occasione  per  propagare  lo  spinto  dei 
loro  istituti  cavallereschi  e  conciò  anche  quello  deUa  loro, 
poesia  romantica  sopra  tutti  i  paesi  deir  occidente.  La 
Francia  d' allora  esercitava  già  il  suo  dominio  della  moda 
sopra  r  Europa.  Sostegni  della  medesima  erano  la  caval- 
lerìa provenzale  e  della  Francia  settentrionale,  nei  circoli 
della  quale  aveva  preso  voga  unitamente  al  raffinamento 
dei  piaceri  sensuali,  al  ravvivamento  del  commercio  so- 
ciale, air  innalzamento  morale  della  donna,  anche  il  bi- 
sogno di  una  cultura  superiore,  in  cui  specialmente  svi- 
luppavasi  la  poesia,  la  quale  dalle  principali  sedi  della 
sua  cultura  cioè  dalle  corti  dei  principi  e  sovrani  aveva 
ricevuto  il  nome  di  arte  cortigiana.  Questa  cavalleria  Fran- 
cese, che  specialmente  dopo  la  prima  crociata  era  stata 
circondata  da  un  magico  splendore  d'onore  e  di  gloria, 
divenne  il  modello  della  nobiltà  Germanica,  che  da  essa 
tolse  e  si  adattò  V  organizzazione  e  le  leggi  della  cavalle- 
ria, Tettichetta  di  corte  e  la  cortesia,  la  romantica  e  c^ 
valleresca  venerazione  della  donna.  Una  necessaria  conse- 
guenza di  questa  influenza  defla  cavallerìa  Francese  sulla 


—  33  ■ 
"era  poi  anche  il  desiderio  di  esK"citar^ 


rp> 


conda  del  canto  e  della  poesia  conforme  al  loro  modello. 
Quindi  si  spiega  facilmente,  come  breve  tempo  dopo  la 
sectìuda  crociata ,  la  quale  aveva  data  occasione  alla  cavai- 
lena  Tedesca,  dMmparare  a  conoscere  i  costumi  francesi, 
la  poesia  Tedesca  non  fosse  più  coltivata,  come  prima, 
dai  cantori  del  popolo  e  del  clero,  ma  bensì  ad  esempio 
dei  Francesi,  dai  cavalieri;  e  che  non  fosse  più  esercitala 
nelle  adunanze  popolari  e  nelle  celle  dei  conveoli,  ma 
alle  corti  dei  grandi,  nelle  aule  imperiah,  nei  castelli  del 
Langravio  di  Ttiringia,  dei  duchi  d'Austria  e  di  altri  prin- 
.  cipi  ed  ivi  sì  piegava  ad  un'andare  unicamente  cavallere- 
■Seo  e  cortigiano,  che  cadde  se  non  esclusivamente,  però 
I^Dcipalmente  nelle  mani  di  poeti  di  nobiltà,  entrò  in 
opposizione  colla  antica  poesia  popolare  e  sì  distinse  nella 
sua  forma  esteriore.  Cioè  mentre  la  poesia  popolare  im- 
piegava in  massima  parte  nelle  sue  produzioni,  destinate 
alla  declamazione  a  guisa  di  canto,  la  strofa  cosidetta  delle 
Nìbelungen,  consistente  in  quattro  versi  lunghi  con  sei  o 
sette  alzamenti,  sì  serviva  invece  la  poesia  artistica  per 
r  epica  dei  versi  rimati  a  due  a  due  con  tre  a  quattro  al- 
zamenti e  per  la  lirica  della  costruzione  della  strofa  di- 
visa in  ire  parti. 
L.  Se  dìriggiamo  la  nostra  attenzione  sulla  poesia  arti- 
Eitica ,  vi  e  da  osservare ,  che  varie  circostanze  eransi  unite, 
[per  mettere  in  fiore  questa  parte  di  letteratura  nella  Ger- 
mania d'allora.  I  due  imperatori  svevi.  Federico  Barba- 
rossa  ed  Enrico  VI ,  avevano  condotto  T  impero  Germa- 
nico verso  l'esterno  ad  una  imponente  autorità,  e  nel- 
r  interno  a  saldezza  ed  ordme.  Quella  prima  circostanza 
dava  alla  vita  intellettuale  della  nazione  un  potente  im- 
ri.palso,  un  fiero  sentimento  della  sua  forza  e  grandezza: 
"l  seconda  allo  stato  materiale  una  attività  e  prosperità, 
ì  cercavano  di  appropriarsi  tutti  i  godimenti  e  piaceri 


—  34  — 

della  vita.  Nelle  città,  che  di  fresco  fiorivano,  si  dispie- 
gavano la  industria  ed  il  commercio,  che  mercè  le  anno- 
date conoscenze  e  relazioni  colle  città  conmierciali  d' Italia 
durante  le  crociate  e  le  spedizioni  Romane,  si  estendevano 
e  si  arrichiavano  procacciando  al  ceto  dei  cittadini  una  po- 
sizione più  influente  nello  stato.  L'ottusa  monotonia  dd 
monachismo  dalla  parte  d' Italia  fu  rasserenata  e  riscaldata 
dai  raggi  di  un  culto  ricco  di  fantasia  e  mediante  il  coni» 
moversi  più  colorito  della  mitologia  cattolica.  DairOriente 
i  crociati  riportarono  alla  patria  fantastici  ed  incantevoli 
racconti  e  tradizioni  del  mondo  antico.  Insorse  lo  splen- 
dido periodo  della  cavallerìa  Tedesca  coi  suoi  tornei,  feste, 
nozze,  elezioni  dei  re,  incoronazioni  e  diete.  Le  corti 
grandi  e  piccole,  i  principi  temporali  ed  ecclesiastici  gareg- 
giavano in  tali  occasioni  in  pompa  e  lusso.  Gol  benessere 
di  quel  tempo  comparivano  anche  le  arti:  T architettura , 
la  cui  gigantesca  forza  ed  assennata  pazienza  anuniriamo 
ancora  al  giorno  d' oggi  nelle  meravigliose  cattedrali  co- 
struite in  quel  tempo  ;  la  poesia ,  i  cui  nobili  frutti  fecero 
dimenticare,  essere  essa  un  innesto  straniero  addattato 
sul  tronco  Tedesco. 

Fra  le  numerose  produzioni  della  poesia  artistica  e 
cortigiana  risplendono  principalmente  due  specie  di  poe- 
sia, cioè:  r epopea  cavalleresco-romantica  ed  il  canto 
(f  amore. 

Come  la  Francia  aveva  specializzato  alla  poesia  caval- 
leresco-romantica la  maniera,  i  tono  e  la  forma,  cod  ora 
le  suggeriva  anche  la  njaterìa  e  gli  argomenti,  che  consi- 
stevano principalmente  nelle  tradizioni  di  Carlo  Magno  e 
dei  suoi  paladini,  del  santo  Gral,  di  re  Arturo  e  della 
sua  tavola  rotonda  ovvero  di  Tristano  e  d' Isolde.  A  lato 
di  ciò  si  elaboravano  anche  argomenti  religiosi  e  leggende 
di  chiesa.  La  sfera ,  nella  quale  muovevasi  con  predilezione 
l'epopea  romantica,  era  il  meraviglioso,  come  conveniva 


—  3".  — 

ad  nn  prodotto  delle  crociate ,  che  spìngevano  la  Tede  mì- 
nicolosa  crìstiaaa  alia  .  sua  più  alla  cima.  L'avventura, 
cioè  il  fantastico  intreccio  d'avvenimenti  meravigliosi  era 
propriamente  la  musa  di  questi  poeti  narratori.  Il  culto 
divino  e  V  amore  per  la  donna ,  il  desio  rnmanticoKiristiano 
pel  sopranaturale  e  celeste,  il  valore  cavalleresco,  i  co- 
stumi di  corte,  e  sopra  tutto  delle  meravigliose  storie 
d' amore  sono  gli  argomenti  favoriti  di  questo  poesie  ca- 
valleresche, cbe  foggiano  con  un  ricco  cambìanienlo  di 
scem  e  di  avvenimenti,  di  intrecciati  destini  degli  eroi  e 
delle  eroine ,  di  inaudite  avventure  e  casualità  ;  ma  il  tuono 
fondamentale,  che  meno  poche  eccezioni,  domina  sempre 
di  nuovo  in  questo  grandioso  tema,  è  la  lotta  del  mondo 
cristiano  con  V  Islamismo. 

Con  questo  predominio  delle  tendenze  religiose  e  spe- 
cialmente cristiane  non  può  sorprendere,  come  la  poesia 
anche  al  principio  del  2.°  periodo  della  storia  della  lette- 
ratura Tedcsen  fosse  ancora  trattata  principalmente  da  ec- 
clesiastici Infatti  incontriamo  in  primo  luogo  varie  opere, 
che  procurano  la  transizione  della  poesia  monacale  alla 
cavalleresca.  Tali  opere,  sono:  l'armonia  dei  vangeli  di 
Gorlitz  (così  chiamala  perchè  il  manoscritto  trovasi  in 
quella  città)  di  un  poeta  sconosciuto  del  12."  secolo;  un'o- 
pera sui  5  libri  di  Moisé  dal  principio  del  secolo  12."; 
una  versificazione  della  vita  della  Vergine  Maria  del  Mo- 
naco Guamicri;  un  Tramenio  d'una  leggenda  di  Pilato;  in 
oltre  la  cronaca  degli  Imperatori  in  16,000  versi  poetiz- 
zata  nella  metà  del  12."  secolo;  poi  il  canto  di  Anno 
scritto  nel  1180  in  dialetto  basso-renano  in  onore  di  S. 
Anno,  Arcivescovo  di  Cotogna,  il  cui  linguaggio  ricorda  ìl 
tuono  degli  antichi  canti  eroici  e  che  comincia  colia  crea- 
zione del  mondo.  Due  produzioni  più  grandi  e  nel  loro 
genere  di  poesia  ecclesiastico-cavalleresca  assai  pregtevoli 
sono:  ii  Canto  di  Orlando,  poetizzato  dal  prete   Corrado 


—  36  — 
ed  il  1177,  di  cui  formano  ar^ 
di  Carlo  Magno  contro  ì  Mori  in    Spagna  e  specialUHO 
la  morte  di  Orlando  nella  valle  di    Itoucevai  ;  l'allro 
caoU)  dì  Alessandro  del  prete  Lamherlo,  Tatto  verso  ta  fi 
del  12."  seoilo,  cbe  nella  sua  priina   patte  è   tatto  CO 
forme  al  testo  di  Curzio .  mentre  nella  seconda  dal  [ 
OTG  Alessandro  giunge  alla  line  della  terra  e  tenia  di  o 
(luistare  il  paradiso,  si  schiude  d'innaazi  al   lettore  U 
il  mondo  meravigliosa  del  medio  evo. 

Questa  arbitraria  miscela  della  storia  colla  mltolof 
deir  indigeno  collo  straniero ,  specialmente  coli'  orienti 
si  trova  ancora  in  tanti  altri  lavori  di  questo   periodo 
transizione,  che  principalmente  risalta  nel  poema  sofn 
duca  Ernesto.  Il  poeta  comincia  colla  disunione  del  A 
Ernesto  col  suo  imperiale  patrigno  Ottone.  Egli  vieoe  I 
gliato  e  parte  col  suo  fido  amico  Vclzel  per  paesi  IodU 
Una  meraviglia  dell'  oriente  segue  Taltra.  Ernesto  gioogel 
un  popolo  colle  teste  a  becco,  entra  nel  niaredelfqpl 
passa  presso  la  montagna  calamitai,  poi  in  un  paese  [Mf 
lato  da  gente  con  un  occhio  solo  in   mezzo  alla  Ih 
assiste  questo  popolo  contro  quello  dei  piedi  scbìu 
fa  la  guerra  alle  popolazioni  colle  orecclùe  lunghe,  I 
i  pigmei  dagli  uccelli  mostruosi  e  dopo  d' avere  est 
molti  strani  e  meravigliosi  fatti  in  terra    santa,  rìlon 
patria  e  viene  da  sua  madre  Adelaide  riconciliato  coU't 
peratore.  Molti  sono  i  poeti    cbe  in    quest'  epoca  calft 
rono  l'arte  poetica  con  queste  idee  romantico-medioT^ 
diverrei  noioso  e  prolisso  se  nominassi  ed  anaiìzasti 
strane  produzioni  di  questo  genere. 

Ma  in  un  modo  grandioso  e  da  profondo  pensdl 
trattò  in  principio  del  13."  secolo  il  geniale  e  dotlO  pV 
Voifram  di  Escbenbach  P  epopea  romantica  nei  sddì  ' 
lebri  lavori  Parcivai  e  Titurel.  Quello  in  16  capiìcAi 
primo  gran  fatto  deir  idealismo  Tedesco ,  il  quale  da  (f 


^ 


—  37  — 

tànpo  in  poi  non  lia  mai  più  cessalo  di  occuparsi  di  Dio, 
dello  scopo  e  del  fine  della  vita  umana.  Perciò  è  il  Far- 
cirai un  opera  tutta  originale,  nn'' epopea  psicologica  a 
fianco  della  quale  sì  pone  con  ogni  ragione  il  Faust  di 
Goethe  come  dramma  psicologico.  V  intero  poema  si  erige 
sopra  Dna  significante  idea  etica:  esso  dimostn,  come  na- 
sce nell'  uomo  il  dubbio ,  dove  lo  conduce ,  e  come  in 
senso  cristiano  possa  essere  combattuto  e  vinto  pel  mi- 
stero della  redenzione  dell'  amanita  operata  da  Cristo.  La 
seconda  opera  di  questo  poeta  det  medio  evo  il  Titurel 
esiste  soltanto  in  due  frammenti  cioè  ìh  170  strofe  me- 
diche. 

Il  gran  coetaneo  ed  antagonista  di  Votframo  di  Es- 
ubach  era  il  maesti'O  Godofredo  di  Strassburgo.  Il  suo 
1  terminalo  poema:  Tristano  ed  Isolde  e  assai  memo- 
rile, perchè  costitnisce  la  più  completa  autitesi  colle 
iraccennate  opere  di  Escheobach.  Esso  stabilisce  il  con- 
sto tra  lo  spiritualismo  ed  il  sensualismo,  tra  lo  spi- 

►  ideale-li'ascendentale   e    reale-umanistico,  come  dipoi 
I  traverso  l' intera  letteratura  nazionale  Tedesca,  e  die 

sì  pronuncia  tanto  distintamente  nei   tempi  moderni  tra 
Klopstock  e  Wieland,  tra  Schiller  e  Gòthe. 

In  ferità,  è  una  meravigliosa  apparizione  questo  mae- 

I  Godofredo  di  Strassburgo;  uno  dei  più  grandi  poeti 

,  uno  d^li  spiriti  più   luminosi   della  storia  di 

1  della  Germania ,  un'  Elleno  fra  i  cristiani  del  me- 

►  evo,  una  anticipazione  dell'arte  classica  di  Goethe  in 
aio  alla  più  accesa  romantica.  Il  suo   poema  è  un'o- 

I  d'  arte  senza  difetto  ed  in  paritempo  una  ardita  pro- 
I  contro  le  vedute  del  mondo  del  suo  tempo,  i  suoi 
i  e  le  sue  eroine  sono  uomini  e  non  soltanto  idee;  il 

►  lrngu3(^ìo  è  vero .  reale,  la  sua  materia ,  come  quella 
I  Shakspeare,  è  la  più  inesauribile  cioè:  il  cuore  umano. 

Con  i  prenominati  poeti  Volfram  di  Eschenbach  e  Go- 


—  3S  — 


I  aveva  n^gm 


.  lo  HM 

B6n  smbMo  www  Wtfwi  m  SnfBtÈefg  èra 
poem:  i  camliere  cofia  rota.  JSwiep  rfi  nirte  { 
b  CoroDa  deOe  Jneotiire;  OrraAi  Jlatt  b  leggeodi 
FhM  e  Bbocflos;  il  poeta  erocieo  Oirr«t4o  A' 
tasse  (bua  indizioQe  deOa  pum  di  Troia  no  | 
poema  di  60,000  versi  e  poetìzzò  meora  molle  dire  li 
ed  arreoture  ;  Rodolfo  <ti  Bms  ondasse  eoa  i  suoi  p 
Alessandro  e  la  cronaca  del  mondo,  l'epopea  en 
sca  sai  ^ampo  della  storia  e  scrése  0  Go^iefaBO  ti 
leans ,  il  baon  Gerardo  e  la  leggenda  Bariamo  e  Gioofitt 
Colle  traduziooi  delle  le^oide  firancbe 
Ogiero,  Rinaldo  orrero  i  figli  di  Aimone  e  Malagìs,  pffet 
cipia  la  decadenza  deir  epica  cortigiana.  Al 
riodo  degli  Sven  segue  ora  ona  le4n  epoca  di  tot 
fasione  aotrersale.  nella  qnale  campeggùvano  U  i 
della  pace  poUilica,  il  dbillo  del  pia  forte,  la  ■ 
r assassinio,  la  sbrigliala  degeneraaone  della  nobili 
del  clero.  Si  spense  la  nta  animata  e  tiorente  oéYÉi 
gioconda.  Ai  poeti  maocava  per  co^  dire  il  (ialo  per  q 
grandiose  prodnziool  come  il  Parcirat  ed  il  lYistOM, 
si  conieotafa  di  racconti  più  piccoli  e  di  novelle,  eòe  bi 
presto  degeneravano  io  celie  e  facezie  spessevtdie  Ini 
e  sciocche. 

In  questo  tempo  di  decadenza  nacque  anche  la  i 
naca  rimala.  In  vicinanza  dei  paesi  bassi  furono  scriUCl 
prime  opere  di  questo  genere  in  dialetto  della  bassi  Gì 
mania,  come  la  Cronaca  dì  Gandersheim  del  frate  Rtemi 
la  cronaca  dei  principi  di  Brunswick  e  quella  di  ( 
del  Maestro  Godofredo  Hagen.  Alquanto  meno  ì 
più  romantiche  di  queste  opere  rimate  sono  l 
Llviandia  di  Ditleb  dì  Alpeke  e  quella  dell' ord 


—  39  — 

nico  di  Nicola  di  leroschin.  Invano  afTaticavasi  l'Impera- 
tore Massimiliano  I  che  spese  le  sue  migliori  forze  ed  il 
suo  tempo,  all'impossìbile  ristaurazioue  delP antica  cavai- 
lena  e  con  lui  si  perdette  r  epopea  cortigiana  nel  deso- 
lato e  noioso  deserto  del  romanzo  cavalleresco-allegorìco. 
Il  verso  0  la  rima  della  poesia  cavalleresca  cominciarono 
col  secolo  XV  a  sciogliersi  nella  prosa.  Da  questo  pro- 
cesso uscirono  quei  romanzi  cavallerechi  in  prosa,  che 
più  tardi  si  restrinsero  in  quei  libri  popolari,  che  da  se- 
coli laccontano  ai  popolo  le  leg[,'ende  d"  una  Nfagelone, 
d'  una  Melusina ,  d'  una  Genoveffa ,  di  Lancilotto ,  di  Tri- 
stano, di  Ottaviano,  di  Fortunato  e  così  via. 

In  pari  tempo  colla  epopea  artistico-cavaliersca  erasi 
formata  splendidamente  la  lirica  cavalleresca ,  designata  dal 
suo  principale  concetto,  l'amore  (in  Tedesco  Minne)  col 
nome  di  canto  della  Mtnne  o  canto  erotico.  Fra  i  cultori 
di  quest'  arte  si  contano  molti  illustri  principi  e  sovrani 
come:  l'Imperatore  Enrico  \T,  Corradino  di  Svevia,  il 
duca  Enrico  di  Breslavia.  il  margi'avio  Enrico  di  Meisscn, 
il  margravio  Ottone  di  Brandenburgo  ed  il  duca  Giovanni 
di  Brabanto.  A  questa  poesia  lirica,  diretta  alla  glorilìca- 
zioce  della  donna,  alla  pratica  delle  discipline  cortigiane 
e  di  grado,  alla  cultura  del  sentimento  religioso,  che  di- 
venne poi  come  esenziale  attributo  della  vita  cavalleresca, 
un  elemento  deir educazione  morale  del  medio  evo;  ap- 
partiene un  posto  d' onore  nella  storia  della  cultura  Ger- 
manica. Però  a  lode  della  verità  si  deve  confessare  che  i 
poeti  erotici  Tedeschi  sono  molto  al  di  sotto  dei  Trova- 
dori provvenzali.  La  virile  ed  Opposta  tendenza,  che  emerge 
dalle  canzoni  dei  Trovadori;  l'eroica  bramosìa  di  lotta 
d'un  Bertrando  di  Born;  il  caldissimo  ed  avvampante  sde- 
gno contro  Roma  ed  il  pretismo  di  un  Peire  Cardinale; 
il  giubilante  amore  di  libertà,  la  iìera  forza  attiva,  la  ru- 
morosa gioia  nelle  giostre  e   nei  banchetti,  tutti   questi 


—  40  — 

sintomi  (li  una  vigorosa  schiatta  d' uomini ,  si  cercberà  in- 
vano presso  i  cantori  erotici  Tedeschi ,  meno  atcana  scarse 
eccezioni,  e  sommo  dolore  ci  colpisce  il  loro  strisciare 
ed  elimosinare  intorno  ai  prìncipi  e  sovrani.  La  forma 
esteriore  dei  canti  erotici  Tedeschi  consiste  in  massima 
parte  in  semplici  rime  accoppiate  senza  strofe  chiamate 
LaiSy  ovvero  in  canzoni  con  strofe  e  rime  intrecciate  assai 
artificiosamente,  sotto  le  quali  si  nascondeva  pur  troppo 
spesso  la  totale  mancanza  di  pensieri.  Come  creatore  del 
vero  canto  erotico,  cioè  il  primo  poeta  del  medesimo  si 
nomina  universalmente  JSnrtco  di  Vddeke ,  che  cantafa  an- 
cora prima  del  1190.  A  lui  fanno  seguito  Federigo  di 
Husen,  Enrico  di  Rucke,  Artmanno  di  Aue,  Volfram 
di  Eschenbaoh ,  Ulrico  di  Singenberg  ;  e  ptà  avanti 
verso  la  metà  dal  13.^  secolo  Cristiano  di  Amie»  6o> 
dofredo  di  Nifen,  Rodolfo  di  Rothenburgo,  Gualtiero 
della  Yogetweide.  Egli  d'una  parte  appartiene  ancora  al 
tempo  più  luminoso  dell'arte  di  canto  sverò,  d^ altra 
parte  le  sue  canzoni  formano  la  transizione  del  canto  ero- 
tico alla  didattica.  Anche  Gualterio  canta  P  amore,  ancora 
egli  glorifica  la  primavera  e  rende  omaggio  alla  donna, 
anch' egli  è  pio  e  religioso;  ma  nello  stesso  tempo  egli 
scrive  come  coraggioso  pensatore  ed  illuminato  patriota 
poesie  piene  di  rammarico  sopra  la  mina  della  grandezza 
e  virtù  germanica,  e  castiga  con  parole  di  giusto  sdegno 
la  corruzione  del  papato  e  del  clero,  come  la  vigliaccheria 
dei  principi  e  dei  grandi.  In  questo  periodo  fu  anche 
scritto  il  poema  della  guerra  sulla  Wartburg,  nella  quale 
quattro  poeti  hanno  cantato  a  gara  per  il  premio  della  toro 
vita.  Di  questo  poema  ci  ha  fornito  il  testo  e  la  trado^ 
zione  il  dotto  Simmrock.  Nel  14.""  secolo  Ruggiero  di  Ma- 
nesse  di  Zurigo  fece  raccogliere  e  copiare  le  poesie  di 
136  cantori  erotici  e  questo  codice  del  canto  erotico  tro- 
vasi nella    biblioteca  di   Stato  a  Parigi.   La   raccolta   più 


—  41  — 
mplela  delle  canzoni  erotiche  ha  d»ta  alla  Inoe  H  Vtm 
■  Hagm  in  4  volmni  stampati  a  Lipsia  nel  1838. 
Come  abbiamo  già  accennato  di  sopra,  il  canto  erotico 
riocolse  gi.'i  di  buon  ora  degli  elementi  didattici,  perchè 
I  uomini  valenti  e  saggi  inveivano  contro  la  menzogna  e 
l'immoralità  nell'arte  cortigiana,  e  si  opponevano  da  una 
parte  contro  la  dissolutezza  nelP  amore  e  dall'  altra  contro 
il  pavoneggiarsi  dei  vuoti  dottrinari.  Però  non  si  deve 
pretendere  da  queste  opere  didatticlie  delle  poesie  didat- 
liclie  come  al  giorno  d'oggi;  esse  trattano,  ognuno  in 
modo  proprio  e  più  o  meno  liberamente,  le  relazioni  ed 
apparizioni  della  vìla  intellettuale ,  morale  e  fisica ,  partano 
di  virtù  e  di  vizi,  di  sapienza  e  di  stoltezza,  o  come  pro- 
prietà della  singola  natura  umana,  o  di  singoli  popoli, 
di  famiglie  e  di  caste ,  avendo  riguardo  agli  affari  pubblici 
[■dell'epoca,  annodandovi  delle  istruzioni,  ammonizioni, de- 
gli avvertimenti,  che  hanno  per  iscopo  tanto  la  salute 
dell'anima  quanto  la  prosperità  terrestre  e  la  morigera- 
tezza del  consoi-zio  umano.  Perciò  venne  presto  in  cre- 
dito la  favola,  che  comparve  nella  letteratura  Germanica 
I  «rtto  una  specie  secondaria  del  cosidetlo  Bispel  ossia: 
esempio.  Questa  specie  di  letteratura  cortigiana  fa  co!tì- 
I  di  buon  ora  e  comprendeva  baje,  relie,  novelle, 
»nti  di  animali  e  favole.  Una  raccolta  di  tali  esempi 
i  il  ilfowfo  del  Stricker  del  1230,  il  libro  di  Schachzabel, 
"tradotto  dal  latino  da  Corrado  di  Ammenhusen  net  1337, 
la  storia  dei  sette  sapienti  maestri ,  elaborala  in  poesia  da 
GiovanDi  Biibler  nel  1412,  ed  innanzi  tutto  la  traduzione 
delle  •  Gesta  Bomanorum  •> .  Da  qui  trae  anche  l' origine 
la  noveltislica  Tedesca,  sulla  quale  operarano  special- 
mente i  novellisti  d'Italia  ed  il  celebro  romanzo  di  Aenea 
{più  lardi  Papa  Pio  II)  intitolato  i  Eiirialo  e  Lu- 
crezia »  trodotto  nel  1462  dall' attaurio  Nicola  de  Wyte. 
Onesta  successiva  decadenza  della  romantica  e  della 


—  42  — 

poesìa  lirica  produceva  a  poco  a  poco  il  canto  della  Mae- 
stranza. Esso  è  il  prodotto  d'un  epoca,  ove  la  cura  ed 
il  godimento  della  vita  intellettuale  e  la  cultura  emigra- 
vano dai  castelli  dei  principi  e  dalle  rocche  e  fortezze  della 
nobiltà  feudale  e  passavano  nelle  mura  delle  nuove  fi 
fiorenti  città,  ove  al  posto  della  degenerata  cavalleria  su- 
bentrava come  sostegno  della  cultura  ed  educazione  il 
ceto  dei  cittadini.  Gol  secolo  IS.*"  succedeva  alla  fantastica 
deir  antica  cavalleria  la  saviezza  cittadina.  La  manieni,  nella 
quale  questi  poeti  esercitavano  V  arte  di  canto  nelle  scuole 
dei  cantori  maestri,  aveva  bensì  molto  del  mestiere  prosaico, 
ed  il  pregio  artistico  del  canto  della  Maestranza  è  in 
generale  assai  meschino  ;  però  possiede  il  merito  di  avere 
piantati  e  coltivati  nel  suo  circuito  molti  germi  di  educa- 
zione e  non  gli  si  può  negare  una  certa  ingenua  inclinazione 
all'oggetto  ed  un  sincero  ardore  di  sentimento.  L'argo-, 
mento  di  questo  canto  era  una  poesia  lirica  adorna  di 
sentenze,  la  quale  poi  si  perdette  nelP  arida  sabbia  dldla 
dogmatica  scolastica  e  più  tardi  prese  per  norma  la  bib- 
bia e  l'ortodossia  luterana.  Lo  spirito  del  canto  di  Mae- 
stranza era  dunque  esenzialmente  religioso.  La  prima  cor- 
porazione di  cantori  cittadini  fu  istituita  da  Frauenlob 
nella  città  di  Magonza.  La  più  antica  intavolatura  a  noi 
nota  è  quella  della  scuola  dei  cantori  maestri  di  Strasburgo 
deiranno  1493.  Intavolatura  ctiiamavasi  quel  codice,  in 
cui  erano  contenute  le  leggi  e  prescrizioni  della  prosodia, 
della  metrica  e  rettorica.  Le  differenti  specie  di  verso 
chiamavansi  in  questa  poesia  «  strutture  »  e  le  melodie 
toni.  La  canzone  destinata  pel  canto  era  costruita  in  istrofe 
però  così,  che  questa  costruzione  poteva  smoderatamente 
estendersi  e  chiamavasi  «  Bar  » .  Chi  non  conosceva  ancora 
perfettamente  la  intavolatura  dicevasi  scolaro;  chi  la  co- 
nosceva, amico  di  scuola;  chi  sapeva  cantare  alcune  me- 
lodie, cantore;  chi  faceva  delle  canzoni  poeta;  e  chi  in- 
ventava una  nuova  melodia.  Maestro. 


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—  44  — 

maDi  del  clero,  della  cavallerìa  e  della  boiighesia.  La  le^ 
genda  germanica  degli  antichi  eroi  era  stato  interrotta  nel 
suo  naturale  sviluppo  dalla  trasmigrazione  dea  popoli  ed 
impedita  nel  suo  popolare  e  poetico  perfezionamento,  prima 
dalla  poesia  ecclesiastica  e  dotta  dei  preti  e  frati,  e  poi 
dalla  romantica  cortigiana  degli  antichi  cavallierì.  Essa  non 
fu  mai  spenta  del  tutto  nella  memoria  del  popolo  e  per 
comprendere  il  suo  subitaneo  risorgere  al  tempo  della 
romantica,  si  deve  necessariamente  dedurre,  che  le  tradi- 
zioni della  patria  leggenda  degli  eroi,  fìirono  propagate 
pietosamente  dal  ceto  popolare  da  una  generazione  alF  al- 
tra, malgrado  il  gusto  della  nobiltà.  Queste  tradizioni  orali 
erano  la  fonte,  alla  quale  attingevano  nel  1%""  e  13.''  secolo 
i  cantori  erranti  del  popolo,  e  le  cui  canzoni  in  onore  e 
lode  degli  antichi  re  ed  eroi  senza  arte  alcuna,  tn>?«Pono 
a  poco  a  poco  anche  adito  nelle  rocche  e  nei  casteHi  dei 
potenti. 

La  base  storica  di  questa  epica  popolare  è  prindpal^ 
mente  il  tempo  della  trasmigrazione  dei  popoli^  i  em  co- 
lossali sconvolgimenti  operarono  ancora  dopo  secoli  nelle 
rimembranze  del  popolo.  Su  questa  base,  il  coi  "p&mo 
forma  Attila,  il  re  degli  Unni,  innalzavasi  la  poesia  eroioo- 
nazionalc  della  Germania.  Come  naturale  la  parte  storica 
della  tradizione  fu  rispinta  dalla  instancabile  forza  d^  ima- 
ginazione del  popolo  e  dei  suoi  cantori  e  la  realti  fki  vìnta 
dal  meraviglioso.  Certo  è,  che  alla  flne  del  ìiJ"  secolo  ed 
al  principio  del  IS."",  poeti  educati  nelP  arte  cortigiana 
s'impossessarono  delle  materie  epiche  della  poesia  popo- 
lare, raccolsero  le  rapsodie  dei  cantori  popolari  e  le  rat  ' 
fazzonarono. 

In  tal  modo  venne  raccolto  e  verseg^o  da  un  ignoto 
poeta  dal  1200-1210  il  celebre  canto  delle  NiMungen,  al 
quale  viene  dato  con  ogni  ragione  il  nome  onorifico  di 
epopea  nazionale.  In  esso  concorrono  le  tradizioni  astrgfoH, 


Bar 


—  io  — 

firanca-òorgognonc  e  unniche.  Esso  è  composto  di  30  casti 
contenenti  2440  strofe  di  quattro  versi  ognuna  e  si  divide 
io  due  se7.ionJ.  La  prima  comprende  i  primi  10  canti  sino 
alla  morte  dell'eroe  Siffredo.  la  seconda  dal  20."  al  39." 
canto  gli  avvenimenti  posteiiorì  dal  malrimomo  di  Krim- 
hilda  col  re  Attila  sino  al  rompimento  della  sua  vendetta, 

intero  poema  cccheggia  per  così  dire  del  torriblle  urto 
ideile  armi  della  trasmigrazione  dei  popoli.  Esso   presenta 

nostri  occhi  le  figure  di  ferro  e  di  bronzo  di  quel  tempo 
irbaro  e  principiando  la  narrazione  con  epica  calma,  la 
ingia  ben  presto  in  drammatica  energia,  nello  svolgersi 
di  selvaggie  passioni  si  precipita  verso  la  fine  e  1*  epopea 
termina  colla  potente  impressione  d' una  grandiosa  e  ter- 
ribile tragedia.  Per  quelli,  che  non  conoscono  T  argomento 
vogliamo  damo  un  breve  schizzo. 

Dapprima  il  poeta  ci  introduce  nella  regia  àà  Bor- 
gognoni nella  antica  Vormizja  sul  Reno,  ore  i  tre  re 
Ganterio,  Gernozio,  e  Giselberto  hanno  cura  della  loro 
madre  Ute  e  della  sorella  Krìmhitda,  ed  ivi  impariamo 
a  conoscere  i  loro  più  distinti  vassalli  e  guerrieri  cioè 
Hagen  di  Ironia,  Volker,  Dankwart  ed  altri.  Di  là  il  poema 
ci  trasporta  al  castello  di  Santen  nei  Paesi  Bassi,  ove  re- 
gnano il  re  Sismoodo  colla  sua  consorte  Sislìnda,  i  genitori 
di  Siffredo,  Entrato  nelP  età  virile  Siffredo  con  pochi  com- 
pagni d'arme  trae  verso  Vormazia  ed  al  suo  arrivo  colà 
spiega  Hagen  Teroica  gioventii  del  neo  arrivato  raccontando, 
come  Sifb-edo  si  assoggettò  una  stirpe  di  giganti,  chiamati 
ì  Nibelungen,  e  gli  fece  suoi  tributari.  Siffredo  vede  Krim- 
hilda,  r  ama  e  la  chiede  in  isposa  rendendosi  meritevole 
di  un  tal  favore  con  azioni  guerresche  che  egli  compisce 
in  fevore  del  di  lei  fratello  Gunterio.  Con  questo  fa  la 
^dizione  in  Islanda,  ed  a  lui  conquista  con  astuzia  e 
valore  la  regina  Bruiiilda  dì  quel  paese  in  isposa.  Ritornato 
a  Vormazia  Siffredo  si  marita  con  Krimhilda.  Ma  ora  nasce 


—  46  — 

tra  questa  e  la  cognata  Bruailda  una  funesta  contesa  per 
i  pregi  dei  loro  mariti,  onde  la  conseguenza  è,  che  per 
istigazione  di  Brunilda  il  guerriero  Hagen  uccide  proditto- 
riamente  Siffredo  alla  caccia.  L' afflizione  di  Krimhilda  per 
l'ucciso  consorte  è  immensamente  grande:  essa  giura 
terribile  vendetta,  di  cui  le  si  porge  tosto  occasione. 
Regnava  in  allora  nel  paese  degli  Unni  (TUngaria  del 
giorno  d'oggi)  il  potente  re  Attila,  il  quale,  commosso 
dalla  fama  della  bellezza  di  Krimhilda,  manda  una  amba- 
sciata, alla  testa  della  quale  trovasi  il  nobile  margravio 
Ruggiero  di  Becbelar,  per  chiedere  in  isposa  la  bella  vedova 
dell'eroe.  Indotta  dal  pensiero,  che  come  sposa  di  un  A 
potente  re  potesse  più  facilmente  eseguire  i  suoi  piani  di 
vendetta,  Krimhilda  accoglie  favorevolmente  la  proposta, 
parte  per  V  Ungaria  e  diventa  sposa  d'Attila.  Dopo  qualche 
tempo  essa  invita  i  suoi  reali  fratelli  e  loro  principali 
guerrieri  ad  alcune  grandi  festività  e  non  ostante  V  arver 
timento  di  Hagen  i  Borgognoni  accettano  V  invito.  Ma  appena 
arrivati  alla  corte  d'Attila,  trovano  da  parte  della  loro 
sorella  il  trattamento  più  ostile:  in  breve  d'  ora  sorge 
con  gli  Unni  a  poco  a  poco  una  lotta  di  distruzione,  la 
quale  termina  soltanto  colla  ruina  di  tutti  i  Borgognoni. 
Hagen  l' ultimo  superstite,  viene  decapitato  di  propria  mano 
di  Krimhilda. 

A  tal  fatto  ribolle  il  cuore  del  vecchio  ndebrando, 
che  aveva  combattuto  a  fianco  del  suo  principe  contro  i 
Borgognoni  e  stimava  altamente  le  virtù  di  questi  guerrieri. 
Sdegnato  di  questa  inumana  sete  di  vendetta  nel  cuore 
d' una  donna  che  aveva  cagionata  la  ruina  di  tanti  generosi 
e  nobili  guerrieri,  Ildebrando  snuda  la  sua  spada  e  taglia 
in  pezzi  la  Regina. 

La  forma  del  poema  è  la  così  detta  strofa  delle  Ni- 
belungen.  La  forma  metrica  è  il  lambo,  però  vi  si  trovano 
anche  versi  d'altro  genere  nel  più  variato  cambiamento, 


^Rle  tra 


I 


HMai 


—  47  — 
1  modo  assai  Telice  ia  monotonia  dell*7 

I  versi  hanno  sei  alzamenti  e  vengono  ordinariamente  ta- 
gliati in  mezzo  dalla  Cesura.  L'  ultimo  dei  quattro  versi 
dì  ogni  strofa  è  di  solito  alquanto  piìi  lungo  degli  altri. 
che  da  airintero  poema  una  piacevole  varietà. 

Se  si  chiama  il  poema  delle  Nihelungen  V  Iliade  Te- 
si può  con  ogni  ragione  dar  il  nome  di  Odissea 
iesca  al  grandioso  poema  eroico  Gudrun,  il  quale  tratta 
'le  tradizioni  fristo-danese-normanne,  perchè  come  in  questa 
anche  nel  poema  Tedesco  il  mare  coi  suoi  stupendi  feno- 
meni, colle  sue  (errìhili  catastrofi  forma  il  fondo  dell'eroico 
quadro  e  come  V  Odissea  in  antitesi  all'  Iliade  termina  con 
felicità  e  gioia,  cosi  anche  il  Gudrun  si  chiude  con  pace, 
,^oia  ed  un  triplice  matrimonio.  Esso  ha  ricevuta  la  sua 
presente  forma  da  un  poeta  austriaco  dal  1210  al  1212. 

Dalla  fine  del  13.°  secolo  e  durante  tutto  il  secolo 
ii."  si  spense  V  interesse  pel  canto  eroico  nazionale  e 
r epica  popolare  non  ehhe  sorte  migliore  dell'epica  ar- 
tistica. Sia  nel  15.°  secolo,  ove  la  poesia,  però  soltanto 
per  breve  tempo,  fece  ritorao  al  popolo  e  che  si 
risvegliò  il  gusto  per  le  leggende  patrie,  furono  anche 
verseggiate  le  rimanenti  tradizioni  dei  tempi  antichi  e  rac- 
colte in  opere  complete.  Una  tale  opera  è  il  libro  degli 
eroi  che  fu  compilato  neil'  anno  1472  da  Gasparo  di  Roen. 

II  contenuto  formano  dieci  differenti  leggende  delle  tradi- 
zioni nordiche  e  longobarde  parte  in  strofe  e  versi  alla 
guisa  delle  Nihelungen  e  parte  in  versi  rimati  accoppiati 
due  a  due  o  anche  in  istrofe  di  sei  versi  ognuna.  Pero  il 
[loro  pregio  poetico  è  assai  meschino,  il  che  prova  che  i 

Itivi  poeti  erano  uomini  di  poco  o  nian  talento. 
Coir  entrata  della  borghesia  e  del  popolo  in  quella 
'posizione  sociale,  che  nel   li."  e  15."  secolo   esclusiva- 
mente occupava  la  nobiltà,  e  con  quel  sentimento  democra- 
tico, che  avevano  svegliato  le  battaglie  degli  Ussiti,  le  guerre 


—  48  — 

delle  città  germaniche  contro  la  razza  malaDdrìoa  dei  oo- 
bili,  le  gloriose  vittorie  dei  Ditmarsi  nel  settentrioiie  e 
degli  Svizzeri  nel  mezzogiorno  delia  Germafììa  contro  i 
principi  e  cavailieri  oppressori,  risvegliossi  anche  nel  po- 
polo l'impulso  d'espressione  poetica. 

La  canzone  storica  del  popolo  scavalcò  la  poesìa  ca- 
valleresca che  erasì  inaridita  sino  air  allegoria  ed  al  pa- 
negirico. 

Nelle  marche  limitrofe  del  Holstein  e  specialiD^te 
nelle  Alpi  risuonarono  tali  canzoni  liete  e  gioconde  e  le 
più  belle  di  questo  genere  sono  quelle  poetizzate  verso  la 
fine  del  secolo  IS.""  da  Vito  Weber  a  glorificare  le  vittorie 
degli  Svìzzeri  sopra  Carlo  il  Temerario.  Verso  la  fine  del 
ÌGJ"  secolo  perdevasi  questo  canto  storico  popolare  e  le 
poesie  del  secolo  HJ"  appartengono  sempre  più  alla  re- 
gione della  poesia  dotta. 

Non  soltanto  V  esistenza  storica  del  popolo ,  ma  anche 
tutto  il  suo  sentire  e  pensare,  suo  fare  ed  agire  ester* 
navasi  in  canzoni  durante  il  14.^  IS."*  e  16.**  secolo.  Il 
campagnuolo  dietro  il  suo  aratro  cantava  le  gioie  e  le 
tribolazioni  del  suo  stato  oppresso;  il  mugnaio  accompa» 
gnava  il  misurato  strepito  del  suo  molino  con  rime  e  canto; 
il  fantaccino  abbreviavasi  la  faticosa  marcia  con  canzoni  di 
lode  e  di  scherno;  giovani  e  fanciulle  si  svelavano  il  se- 
greto dei  loro  cuori  in  canzoni,  spesso  di  meraviglioso 
appassionamento ;  Partigiano  ambulante  cantava  il  suo  ar-^ 
rivo  e  la  sua  partenza  con  canzoni  di  benvenuto  e  di  co- 
miato;  il  pelegrino  salutava  i  luoghi  della  sua  devozione 
con  pio  canto;  Tafilitto  gemeva  il  suo  affanno,  il  lieto 
esternava  la  sua  gioia  nel  canto;  il  cacciatore,  il  carnet* 
tiere,  il  mendicante,  il  carbonajo,  il  minatore ,  il  pastore^ 
il  giardiniere ,  il  vignaiuolo ,  tutti  insomma  facevano  risao- 
nare  in  canzoni  ciò,  che  avevano  veduto,  sofferto  e  go- 
duto. E  siccome  gli  autori  di  milliaja  di  queste  canzoni 


non  SODO  conosciuti,  di  esse  sì  può  dire  comidel  vento, 
si  sente  bensì  il  loro  alito ,  ma  non  si  sa  d' onde  vengano 
né  dove  vadano, 

Allorcliè  al  lempo  della  riforma  religiosa  lo  spirilo 
del  popolo  Tedesco  attese  con  maggiore  cura  agli  avvenì- 
menli  politici  ed  animava  maggiormente  il  ceto  popolare, 
aumeotavasi  straordinariamente  il  nomerò  delle  canzoni 
storiche  popolari.  Gli  eroi  e  gli  avvenimenti  della  riforma  e 
della  guerra  dei  villani  ribelli,  le  contese  dei  principi  fra 
di  loro  e  coir  Imperatore ,  le  guerre  d' Italia  fra  Carlo  V 
e  Francesco  I,  ed  i  micidiali  combattimenti  contro  ì  Turchi 
ne  formavano  il  principale  argomento.  Dopo  la  metà  del 
Md.'  secolo  comiociava  a  sfuggire  sempre  piii  il  canto 
'slorìco  e  profano,  ed  in  vece  sua  il  canto  spirituale,  per 
la  sua  trasformazione  in  canti  della  chiesa  protestante, 
guadagnava  nuove  forze  e  diventava  una  manifesta  potenza. 
Martino  Lutero  (dal  1483  al  1546)  diede  il  segnale  a 
questo  slancio  del  canto  ecclesiastico  col  suo  inno  •  Una 
soda  rocca  •  che  può  chiamarsi  la  vera  Marsigliese  delta 
Hiforraa, 

Zelanti  imitatori  di  Lutero  sono  :  Zvingli ,  Giona ,  Era- 
smo Albero,  Paolo  Sperato,  Nicola  Hermann.  Giovanni 
Rist,  Filippo  Nicolai,  Simone  Dach,  Giorgio  Neumarck 
i«d  altri,  ma  eccellente  sopra  lutti  Paolo  Gerardo  (dal  1616 
ai  1676).  Dalla  parie  cattolica  si  segnalarono  in  questo 
genere  di  poesia  Giacomo  Balde  ed  il  Gesuita  Federico 
di  Spee,  che  nei  loro  sublimi  canti  fanno  dominare  una 
sincera  pietà  ed  una  vera  tolleranza. 

Il  menzionare  del  canto  ecclesiastico  <^i  conduce  già 
mezzo  al  periodo  tempestoso  ed  angustiato  della  Ri- 

la.  Onesta,  cioè  a  diro,  il  tentativo  di  riformare  la 
vHa  religiosa,  polìtica  e  civile,  entrò  in  lotta  colle  istitu- 
zioni del  medio  evo  ed  arrecava,  quantunque  naufragata 
oel  suo  intero,  almeno  nel  singolo  una  quantità  di  nuove 

4 


^Lmi 


—  50  — 
forze  vitali  air  organismo  sociale.  Molte  wi' 
circostanze  avevano  cooperato  di  reodcre  posabile 
fenomeno,  di  cui  preludio  erano  le  guerre  degli  (Issi 
In  quella  proporzione ,   nella  quale  colla  decadenza  d< 
cultura  cavalleresco-cortigiana  i  ceti  inferiori  della 
presentaronsi  sul  proscenio  della  cultura  e  della  stoi 
misero  essi  anche  da  banda  Tesclusivo  valore  politico 
sociale  della  nobiltà  e  del  clero.  L' invenzione  delia  pohnt 
da  canone  nel  1354.   mise  Qne  alla  importanza  nulìlar 
e  per  conseguenza  alla  politica  della  nobiltà,  ponwido 
luogo  delle  schiere  corazzate  di  cavallieri,  i  fantacciiù 
mali  di  archibugio  e  dando  le  armi  in  mano  al  popolo 
che  le  costruiva.  La  successiva  decadenza  del 
frangeva  in  pari  tempo  la  feudale  caparbietà  àà  i 
ed  essi  principiavano  sempre  più  a  sottometterà 
nobiltà  di  corte  al  potere  principesco,  il  qual  nltimo,  u 
mantenersi  assoldava  truppe  mercenarie,  e  cercavate 
arsi  nella  borghesia,  che  pagava  balzelli  ed  imposte,  t 
forza  ausiliare  che  a  poco  a  poco  sapeva  attirare  i 
colla  concessione  di  duovì  ed  estesi  diritti  e  privile^ 
come  la  borghesia  sempre  pìii  ponevasi  in  opi 
vincitrice  contro  la  nobiltà,  cosi  pure  la  scienza 
contro  la  cliiesa.  Anciie  sul  territorio  scientifico  pi 
tasi  una  rivoluzione,  che  di  certo  poteva  compiersi  i 
tanto  allora,  quando  per  le  grandiose  scoperte  ed  im 
ziooi  astronomiche,  geografiche  e  tecniche  del  14."  ì 
e  16."  secolo  erano   state  poste  le  fondamenta  dì  i 
nuova  veduta  universale  dei  mondo,  che  per  mezzo d 
stampa,  inventata  da  Giovanni  Gullenberg  di  Magoni! 
1436  al  1454,  ricevette  instancabili  ale  d'tma  fona  in 
colabile,  per  dare  al  pensiero  quel  sublime  vigore, 
rendeva  dottrina .  scienza  ed  ogni  sapere  un  bene  otù 
saie  di  tutti  i  ceti  e  di  ogni  nazione. 

Se  dunque  da  una  parte  alla  irmginita  sapieon 


—  51  — 

Topponevasi  la  sana  ragione  ed  il  giudizio  naturale 

dei  bassi  ceti  del  popolo .  d' altra  parte  procedeva  in  mezzo 

all'erudizione  una  riforma  mercè  il  rifiorire  degli  studi 

l  elassici ,  i  quali  dagli  scolari  del  celebro  Tommaso  a  Kem- 

Rpis  (autore   del    famoso    libro    ascetico    «  De  imtlatione 

fCftmri  »)  dai  Paesi  bassi  furono  trasportati  in  Germania. 

Qui ,    Rodolfo    Agricola ,    Gerardo    de    Groote ,    Corrado 

Celtes  e  spezialmente  Giovanni  Reuctilin  (dal  1435  at  1522) 

e  Desiderio  Erasmo  (dal   1467    al   1536)  coltivarono   e 

propagarono  lo  studio  delle  lingue  e  letterature  antiche 

con  entusiastico  risaltato. 

^Dai  circoli  degli  umanisti  uscirono  le  famose  lettere 
BaUriche  {Epislolae  virorum  obscuronim  dal  1515  al  1517), 
nelle  quali  si  menava  senza  misericordia  la  frusta  della 
più  acerba  critica  contro  gli  oscuranti  d'ogni  specie.  In 
queste  satire  ebbe  la  massima  parte  il  magnanimo  Ulrico 
di  Hutten  (cbe  visse  dal  1448  al  1523).  In  lui  si  uni  la 
valente  attività  della  gioventii  Tedesca  di  allora  ad  un  fer- 
vido amore  di  libertà.  Dm-ante  l'intera  sua  vita  combattè 
pel  Germanismo,  per  la  luce,  la  libertà,  la  verità  e  la 
ragione  colla  spada  e  colla  penna,  con  ispirito  o  con  a- 
cume,  con  avvampante  entusiasmo  e  valorosa  energia;  tra 
le  persecuzioni,  i  bisogni  della  vita  e  le  più  dolorose  ma- 
Llaltie.  Degno  emulo  gli  fu  l'infelice  Nìcodemo  Frischlin 
■dal  1547  ai  1590.  che  nelle  sue  poesie  e  comedie  latine 
^propagava  le  idee  della  sua  epoca  e  diventava  il  media- 
llorc  tra  la  letteratura  dotta  e  popolare. 

Il  ceto  dei  dolli  aveva  ricevuta  una  formazione  cor- 
ea, la  scienza,  maggiore  sostanzialità  ed  indipendenza 
a  istituzione  delle  università,  delle  quah  la  prima  fu 
rta  a  Praga  nel  1348.  la  seconda  a  Vienna  nel  1385 
1  terza  a  Heidelberga  nel  1387,  che  presto  estendevansi 
i  tutta  la  Germania.  Ben^  da  princìpio  lo  spirito  di 
ìTQ  esame  ed  investigazione  in  questi  istituti  era  ancora 


—  32  — 

oppresso  e  respinto  dair  assurdo  e  disgustoso  ronnolarìo 
della  Qlosofia  scolastica,  ma  giornalmente  invigorendosi 
alia  fonte  salutare  degli  studi  classici ,  guadagnava  però  a 
poco  a  poco  terreno,  procedeva  da  conquista  in  conquisti 
e  faceva  avanzare  il  tempo,  ove,  come  esclamava  HqUia 
n  Gli  spiriti  si  risvegliavano  e  vi  era  una  vera  gima  à 
vivere.  >  Ma  questa  epoca  di  luce  nascente  era  mancairte 
nella  stessa  misura,  come  la  riformazione  in  generale,  di 
un  genio  vincitore  delle  circostanze  oppositrici.  ( 
creatore.  Un  tale  genio  Martino  Lutero  non  | 
ollrecciò  la  sua  cultura  ed  erudizione  non  alzavasi  il  £ 
sopra  del  livello  dell'ordinaria  e  teologica  scienza  di  qud 
tempo.  Delle  umane  lettere  egli  non  conosceva  nttlla  e 
non  voleva  neanche  saperne.  Teologo  in  ogui  sua  fìtn,. 
egli  ha  gareggiato  coi  pìii  stupidì  del  suo  tempo  nelle  a 
perstiziose  credenze  ai  demoni  e  alle  streghe.  Di  cnllin 
politica  non  vi  era  nulla  in  lui.  In  servilità  verso  i  pràh 
cìpi  non  è  stalo  superato  mai  da  nessuno.  II  gran  poiaerd 
di  una  riforma  della  chiesa  non  soltanto,  ma  anche  dello 
stato,  di  una  vera  e  non  eflìimera  rigenerazione  della  »■ 
zione  Tedesca ,  che  era  Io  scopo  del  geniale  ardore  i- 
Hutten,  non  trovava  spazio  nello  stretto  cervello  di  Lnlenx 
Colle  sue  prediche  servili,  come  per  esempio  dicendo:d»' 
2  e  5  fanno  7,  tu  poi  comprendere  colla  tua  ragione,  n 
quando  l'autorità  costituita  li  dic£:  <  2  e  5  fanno  8,  IB 
devi  crederlo  cflntro  ogni  tuo  sapere  e  sentire,  »  Lalen 
è  diventato  il  vero  inventore  della  funesta  dottrina  di  dea: 
sommissione  del  suddito.  A  guisa  di  ogni  mediocrità, 
che  Lutero  ha  rigettato  come  fantasticheria  tutto  queHtt» 
che  sporgeva  al  di  sopra  de)  suo  teologico  accecamento  t 
della  sua  fanatica  esacerbazione.  La  ragione  era  per  I  ' 
secondo  il  proprio  suo  detto  grossolano  "  la 
del  demonio;  »  la  lettera  moria  della  bibìa  era  per  luì  R: 
lutto.  11  pesante  giogo  del  papato  romano  egli  ha  ìnfiranUit 


I 


—  sa- 
io è  vero;  ma  in  suo  luogo  ha  posto  il  giogo  ferreo 
<d'una  idolatria  della  lettera  della  bibia,  la  quale  lia  poi 
Tovocato  coir  sudar  del  tempo  gli  innumerevoli  e  mes- 
cbioissimi  papi  della  ortodossia  Luterana.  La  vera  azione 
illustre  di  Lutero,  azione  di  una  portata  incalcolabile,  era 
la  sua  teoretica  e  pratica  negazione  del  celibato.  La  sua 
■ribellione  contro  la  sede  pontificale  di  Roma  ottenne  suc- 
perchè  il  mescbino  ed  il  mediocre  viene  sempre 
accolto  dalla  immensa  pluralità  degli  uomini,  come  con- 
forme alla  propria  sua  essenza;  ma  il  grandioso  ed  il 
geniale  invece  viene  rifiutato,  perchè  da  essa  di  rado  com- 
presi; in  oltre  anche,  perchè  Lutero  univasi  ai  principi 
contro  il  popolo  e  sapeva  abilmente  approOttare  a  favore 
delia  riforma  la  loro  brama  di  dominio  e  della  loro  avi- 
dità. Perciò  che  si  riferisce  all'importanza  letterario-nazio- 
nale  di  questo  riformatore,  essa  si  basa  sulla  sua  poesia 
di  canzoni  religiose ,  di  cbe  abbiamo  già  pariato ,  sulla  sua 
instancabile  attività  come  scrittore  satirico  ed  in  ultimo 
sulla  sua  famosa  traduzione  della  bibbia.  Però  non  bisogna 
credere,  che  la  traduzione  di  Lutero  fosse  stata  la  prima, 
iperchè  la  più  antica  che  abbiamo,  fu  fatta  nel  1343  da 
ijfaffì'o  di  Beheim  e  nel  1483  venne  alla  luce  una  seconda 
|di  Anlonio  Coburger.  Ma  questi  antecessori  furono  vinti  da 
Xutero  di  gran  lungo.  Egli  principiò  la  sua  grandiosa  e 
classica  opera  nel  1517  e  la  terminò  nel  1534.  11  suo 
linguaggio  vigoroso  ed  enei^ico  offriva  al  pensiero,  scosso 
dal  suo  lungo  letargo,  una  forma  rigida,  pronta  e  con- 
cisa, mentre  l'argomento  stesso  del  libro  ha  esercitato 
validissimo  ascendente  sulla  vita  intellettuale  della  na- 
ione  Germanica.  Certo  é  che  Lutero  è  diventato  grande 
potente,  perchè  scriveva  in  Tedesco  e  sapeva  come  scri- 
re  pei  Tedeschi. 

Se  il  ritratto  di  questo  Riformatore  non  è  tanto  con- 
irme  alle  ordinarie  e  spesso  esagerale  descrizioni  biogra- 


4 


—  54  — 

Qche ,  esso  ha  però  il  pregio  della  verità  storica  ed  i  più 
caldi  panegiristi  della  riforma  non  possono  negare  la  me- 
diocrità di  queste  personaggio  storico,  sostenuto  nella  sua 
impresa  dalla  casualità  di  moltissime  fortunate  circostanze. 
11  bisogno  della  Prosa  si  era  fatto  valere  soltanto 
colla  decadenza  della  poesia  artistico-cortigiana  e  coir  in- 
nalzarsi della  borghesia.  11  ceto  dotto,  a  cui  bastava  il 
latino  come  lingua  della  scolastica  e  del  diritto  Romano, 
non  fece  nulla,  per  soddisfare  a  questo  bisogno.  Tanto 
più  operarono  per  la  formazione  e  T  abbellimento  della 
prosa  i  grandi  predicatori  del  13.**  e  14."*  secolo,  come 
Bertoldo  di  Augusta  morto  net  1272  ed  il  profondo  Gio- 
vanni Tauler  morto  nel  1361.  Sullo  sviluppo  della  mede- 
sima, operò  favorevolmente  T  innalzamento  della  lingua 
Tedesca  a  lingua  legale  e  della  cancelleria  in  virtù  d'un 
editto  di  Rodolfo  d'Absburgo,  che  ebbe  per  risultato 
che  dalla  fine  del  IS.""  secolo  ogni  città  germanica  di 
qualche  importanza  facesse  stendere  in  iscritto  volgare  i 
suoi  statuti,  i  libri  di  diritto  e  le  sentenze  dei  Tribunali. 
Tra  il  1215  ed  il  1276  ebbero  anche  origine  le  due  rac- 
colte di  leggi  ed  usanze  giuridiclie  sì  importanti  per  il 
diritto  Germanico  cioè:  il  Sachsenspiegel  compilato  dal 
cavaliere  sassone  Bike  di  Repgow,  ed  il  Schwabenspiegel 
redatto  da  un  ecclesiastico  della  Germania  superiore.  Con- 
tro r  anarchia  linguistica  principiando  nel  14.**  secolo  e 
regnando  durante  P  intero  secolo  15.^  Lutero  ha  operato 
efficacemente  con  i  suoi  scritti  polemico-didattici  come, 
prediche,  catechismi,  lettere,  pareri,  discorsi  di  tavola, 
scritti  satirici  ed  epigrammi.  L' influenza  dello  stile  mostra- 
vasi  anche  presto  nella  prosa  storica,  che  ebbe  già  prin- 
cipio nel  14.''  secolo.  I  più  antichi  libri  di  storia  sono:  la 
cronaca  alsaziana  e  strasburghese  di  Giacoìno  Twinger  del- 
l'anno  1386;  la  cronaca  limburghese  di  Giorgio  Emmel 
del   1538,  la  cronaca  di  Turingia  della  prima  metà  del 


IS.'  secolo,  la  cronaca  bavarese  di  Gtovanoi  Tliummajra' 
del  15^  e  qneila  dì  Pommerania  dj  Tommaso  Kantum 
dell'  anno  1542.  Ma  assai  pregievolì  sono  le  croaadie 
Sfìoire  del  15."  e  16."  secolo,  ed  innanzi  a  mite  il  co- 
Sidetto  Chronicon  llehelicum  del  Glarooese  Egidio  Tsijmdi 
dai  150n  al  1572.  Voglio  ancora  menzionare  due  roemo- 
ntnli  opere,  la  biografia  di  GÓtz  di  BerlicbingeD,  oltiBO 
caraliero  e  paladino  del  feodaltsmo,  scritta  da  Itd  stoBo; 
e  ^i  annali  del  Cavaliere  silesìano  GÌOTanni  di  Sobwemkbett. 
Ai  nostri  tempi  cioè  nel  1862  fu  pabbIkaU  di  m» 
commissione  dell'accademia  storica  bai-arese  ona  ncetimmt 
raccolta  dì  cronache  delle  città  tedesche,  estratle  diì  Mi- 
natiti conservati  nei  relatin  archivi  e  nelle  bìbbotedie. 
solto  il  titolo  *  Monumenta  Germamùr  kisioriea  *  die 
Tonna  ttna  ine^nribìle  fonte  per  la  storia  ptiriii  di  Utta 
U  Germania. 

Il  tempo  della  riforma,  cfae  applicò  il  metro  d'Ha 
criticai  ra^onevole  ai  tempi  passali,  dorette  fnmrcifiiii 
mente  rìfìtiiare  tulio  ciò  cbe  era  ronanlioo  e  tee  frine 
il  principio  d' una  sana  ragione  andw  ndb  «fera  ddh 
Letteratura.  In  quest'epoca,  ore  la  poeab  pnae  lyeHi* 
Simo  il  carattere  della  pubblidU,  mé^  prapenraa*  fa 
didattica  e  la  salirà.  La  tnmsiiiooe  '  ~ 
medio-evale  alla  polemica  satirica ,  i 
di  Sirassbnrgo  dal  1458  a]  I55M  cotta  aa  JSm»  d^^ua. 
die  lb},'ella  acerhamenle  le  sloUezK  «d  i  tia  M  i^ 
tempo.  La  conosceoza  di  sé  itesso  é  ì  pano  éeSe  mte 
dottrine.  La  straordinaria  pt^wlarilà  dcOa  Nat*  é^pmsxi 
fra  i  coetanei,  dimostra  b  dicoatata,  (Ée  i  aUbnm»- 
lore  sacro  Geiler  di  Kaitenfary,  nsMlo  dri  ItS*  ai  ÌH9. 
pose  i  singoli  capìtoli  (fi  qaeslo  Dbro  amt  leMs  jMttm 
prediche.  È  anche  s^^eaoie,  cfee  a|V«lo  A  iac  4é 
IS.°  secolo,  l'antica  epopea  anÌHaie,  mM»  Ì  tilal»  # 
Anndce  Vos,  fu  di  quoto  redatta  e  tea  iÉ^igHeal  f»- 


à 


—  se  — 

.  se  Nicola  Beaumaou  o  Eorico  À 
mar  ne  sia  slato  il  nuovo  autore;  certo  è,  che  questi 
poesù)  dava  un  gran  soccorso  alla  direzione  satirica 
quel  tempo.  E^imi  poeti  di  questo  genere  erano;  Tbm 
mano  Murner  dai  1475  al  1336,  Erasmo  Albero  morto 
nel  1553,  Giorgio  Roltenhagen  che  morì  Qel  1609  e  (ri 
lutti  segnalavasi  il  geniale  Giovanni  Fischart  di  Magona, 
che  morì  nel  1589.  Il  gran  numero  delle  opere  e  degfi' 
scrìtti  di  questo  satirìco,  é  pieno  di  brìo,  di  sale  e  fi, 
una  ragionala  crìtica.  Spezialmente  egli  flageUò  i  preUctF-i 
della  sua  epoca ,  e  scftprì  e  stigmatizzò  gli  abu^  e  le 
piludìni  dei  conventi  e  sopra  tutto  combatteva  ad  olUi 
le  mene  dei  Gesuiti. 

Prima  di  chiudere  questo  periodo  della 
Tedesca ,  vogliamo  tener  parola  ancora  del  celebre  Hi 
di  canto  Giovanni  Sachs,   il  quale  viveva   dal    li9S 
1576.    Questo    fecondo  poeta,  dolalo  di  un   vero  gè 
poetico,  trattava  con  ispirilo  e  calma  tutti  i  generi 
poesia   in  allora  in  voga.  Egli  componeva  canti  erotìtti 
gnomi,  favolo,  esempi,  canzoni  sacre,  allegorìe, 
dialoghi,  prediche  morali,  facezie  e  salmi  nello  ^htìM 
della  riforma.  In  parì  tempo  egli  apriva  l'epoca  della 
teratnra  moderna  cioè  occupandosi  del   Dramma,  cfae  é 
poi  divenne  la  forma  principale  dì  ogni  poesìa.  L' 
del  Dramma  si  annoda,  come  abbiamo  già  anlcrìormenteA 
mostrato,  alla  storia  del  colto  religioso.  Breve  tempo  ai! 
la  riforma  separavasi  il  dramma  religioso  dal  probno, 
mistero  di  pasqua  cambìavasi  in  rappresenlazioni 
lesche,  che  divennero  poi  oggetto  principale  d^ 
cittadineschi  nelle  ricche  e  fiorenti  città  della  Genuuu 
Ben  è  vero,  che  la  forma  di  questi  giuochi  era  assai 
schina  e  spesse  volte  dissoluta;  le  parti  comiche  delta 
giomaliei-a,  matrimoni,  scandali  matrimoniali.  aTrenii 
di  fiere,  btti  di  furberia  e  di   trulTa,   formavano  !'< 


—  57  — 

meato.  Dopo  la  riforma  questo  dramma  prese  an  ca- 
rattere essenzialmente  satirico  o  critico.  Cattolici  e  pro- 
testanti rappresentavano  degli  spettacoli  popolari ,  in  cui  vi- 
cendevolmente si  schernivano,  si  calunniavano,  o  non  di 
rado  gravemente  si  insultavano.  In  pari  tempo  si  cominciò 
anche  a  tradurre  delle  comedie  di  Terenzio  e  di  Plauto  e 
queste  traduzioni  ajutarono  i  poeti  popolari  nel  perfezio- 
namento dello  stile  drammatico.  Nelle  università  e  nelle 
scuole  filosoflclie  prevalse  l'usanza  di  fare  rappresentare 
dagli  sttidenti  delle  comedie  latino,  e  da  questi  istituti 
propagavasi  tra  il  popolo  la  brama  di  vedere  rappresen- 
tate simili  comedie  anche  nella  lingna  propria.  A  questa 
brama  del  popolo  corrispose  Giovanni  Sachs  in  modo  ab- 
bondante, dando  esempio  di  una  assai  rara  fecondità  di 
mente,  nel  comporre  piii  di  duecento  di  questi  drammi, 
che  universalmente  raccolsero  gli  applausi  del  popolo  di 
ogni  ceto.  Egli  conosceva  il  vero  gusto  ed  il  carattere  dei 
suoi  contemporanei,  e  quantunque  diffettasse  alquanto, 
come  tutti  gli  scrittori  del  suo  tempo,  nella  scelta  degli 
argomenti,  conservava  però  sempre  la  nobiltà  del  suo 
cuore  e  la  purità  morale  del  suo  carattere,  dirigendo  con- 
tinuamente la  sua  mira  alla  correzione  ed  al  miglioramento 
alla  Società  del  sno  tempo.  .\  lui  seguiva  Giacomo  Ayrer 
1  però  raggiungere  il  suo  maestro.  Rimane  però  assai 
morabile,  come  il  primo,  che  in  Germania  scrivesse 
I  operette.  Verso  la  flne  del  16.°  secolo  vi  erano  già 
Ila  Germania  delle  compagnie  erranti  di  Comedìanti,  die 
Bevano  una  professione  di  questo  genere  di  rappresm- 
bzioni ,  nelle  quali  una  specie  di  arlecchino  faceva  la  prima 
parie;  e  nel  160S  il  duca  Enrico  Giulio  di  Brunsicick 
ebbe  già  un  uumero  fisso  di  comici,  primo  esempio  di 
I  teatro  di  coi1e  in  Germania. 
(continua) 

Carlo  Fh-ippo  Henrisch. 


RINALDO  DA  MONTALBANO 


(V.  la  pag.  213  Voi.  HI  Part.  1.*  Continuazione  e  fine) 


III. 


L' autore  comincia  il  secondo  libro  con  una  osservazio- 
ne, che  mostra  in  lui  la  pretesa  di  filosofare:  «  Per  le  nuore 
apparenze  e  dimostrazioni  che  la  fortuna  fece ,  si  può  cono- 
scere alcuna  volta  essere  grande  differenza  della  nostra 
naturai  vita,  cioè  nell'essere  uno  nato  sotto  la  stella  di 
pace ,  e  un  altro  sotto  la  stella  di  guerra ,  come  fue  Rinaldo, 
a  cui  la  fortuna  sempre  apparecchiava  guerra  ».  Pertanto 
erano  appena  scorsi  due  mesi  dal  suo  ritorno ,  e  già  i 
maganzesi  si  ristringevano  insieme  per  trovar  modo  a  farlo 
morire.  Un  giorno  egli  sta  giuocando  a  scacchi  con  Bertolagi, 
che  è  cugino  di  Gano  e  uno  dei  congiurati  alla  sua  morte; 
costui  prende  dal  giuoco  occasione  di  contesa  e  mette 
mano  al  coltello,  ma  Rinaldo,  piii  pronto,  lo  percuote 
sul  capo  collo  scacchiere  e  lo  fa  stramazzare  privo  di  vita. 
Si  leva  il  romore:  il  Chiaramontese  si  difende  da  prode, 
e  in  suo  aiuto  accorrono  i  fratelli.  Carlo,  offeso  da  certe 
parole ,  ordina  che  tutti  sieno  presi  ;  ma  ad  essi  vien  fatto 
di  ricoverarsi  nel  palagio  di  Orlando,  e  poscia  di  uscir 
salvi  da  Parigi ,   mentre   V  imperatore  li  mette  al  bando 


della  crìstiaoità,  vietando  adognuDO,  eperflDoad  Amone, 
dì  soccorrerli  ìd  ninna  maniera,  pena  la  vita. 

I  quattro  fratelli  vanno  a  Dordona  alla  madre,  la 
quale ,  suo  malgrado ,  è  costretta  dai  messaggi  di  Carlo  e 
di  Amone  a  rinviarli.  Essi  allora  si  ricoverano  sulla  selva 
di  Dardenna,  e  quivi  sopra  un  monte,  presso  il  fiume 
Musso  (Mosa),  fabbricano  il  castello  di  Montesoro,  dove 
conducono  molta  gente  ad  abitare.  Nella  Pasqua  di  Pente- 
coste un  messo,  per  opera  di  Gaiio,  viene  ad  accusarli 
di  continue  ruberie  dinanzi  all'imperatore,  il  quale  per- 
tanto, seguito  dai  suoi  baroni,  eccettuatine  Orlando,  Uli- 
vieri  ed  Astolfo ,  muove  ad  assediarli.  Il  conte  Rioiert ,  che 
scorta  le  salmerie,  scostatosi  dall'esercito,  è  assalito  da 
Ricciardetto,  che  fa  grande  bottino,  e  conquista  buon  nu- 
mero di  prigioni. 

Molti  baroni  consigliano  l'accordo,  e  Carlo,  fingendo 
consentire,  a  istigazione  di  Gano  manda  per  il  Danese  e 
per  Namo  a  invitare  a  parlamento  Rinaldo  e  Ricciardetto , 
con  pensiero  di  uccìderli:  ma  come  essi  non  si  fidano,  strin- 
ge il  castello.  Nondimeno  Amone  permette  talvolta  ai 
figliuoli  l'uscita,  la  qual  cosa,  rapportata  da  Gano  all'impe- 
ratore, muove  questi  a  far  giurare  al  duca  mortale  nimicizia 
contro  il  suo  sangue.  Rinaldo  allora  esce  una  mattina  e  si 
spinge  fin  dentro  al  padiglione  imperiale ,  affine  di  trucidare 
ciarlo;  ma  non  ve  lo  trovando,  è  costretto  a  sostenere  in- 
sieme coi  fratelli  una  cruda  battaglia ,  nella  quale  si  scontra 
col  padre  istesso.  Tuttavia  riesce  a  ritrarsi  salvo  nella  rocca, 
dove  per  ben  tredici  mesi  regge  allo  sforzo  nemico.  Da 
ultimo  un  traditore,  Rìnieri  di  Losanna,  stretto  un  segreto 
accordo  coli' imperatore,  si  fa  accettare  nel  castefio,  fin- 
gendosi cacciato  dal  campo,  e  nottetempo,  messo  il  fuoco 
asfi  edifici ,  apre  le  porte  a  trecento  nemici.  Ma  la  fortuna 
ajuta  i  fratelli,  che  uccidono  costoro  e  squartano  Rinieri; 
Dore,  l' essere  distrutte  dal  fuoco  tutte  le  vettovaglie  fi  co- 


stringe  a  fiiggìre  per  una  vìa  celala.  Inseguiti, 
no;  tre  di  loro  perdono  i  cavalli;  allora  monlaoo  tutti 
groppa  a  Bajardo  e  si  salvano  per  la  selva,   dove  tìvc 
a  guisa  di  ladroni,  eludendo  le  genti  mandatevi  dall'i 
peratore,  tornalo  a  Parigi,  dopo  avere  smantellato  Md 
tesoro.  Qualche  tempo  appresso  Amone,  andando  con  d 
mila  dei  suoi  verso  le  sue  terre,  passa   per  la  selva  . 
denna.evi  trova  addormentati  i  figliuoli  con  certi  comp 
gni.  Non  li  volendo   uccidere  a  tradimento,    li  sfida, 
quindi  combatte  con   essi.  Dopo  fiera  zuITa   Rinaldo  a 
rralelli  si  fuggono ,  e  rimasti  alcun  tempo  in  quelle  p 
si  ritraggono  nella  Guascogna,  mentre  Amone,  recatóà 
Parigi ,  e  rimproverato  aspramente  da   Carlo  dell"  aver  1 
scialo  scampare  i  figlinoli,  si  parte  di  nascosto,  ) 
nimicìzia  alla  corona. 

Dalla  Guascogna    tornano  quindi  i  banditi  alla  ì 
Ardenna,  e  vi  sofTrono  nel    verno   le  maggiori    dui 
Tomaia  la  primavera ,  determinano  di  andare  per  s 
alla  madre  e  di  uccidere  il  padre ,  se  ancora  persevai 
volere  la  loro  morte.   Venuti  a  Dordona,   penetrano  i 
palagio,  e  da  niuno  riconosciuti,  si  pongono  nella  adi 
sedere.  Poco  stante  soppravviene  la  madre,   la  quale  i 
princìpio  non  li  ravvisa  pur  essa,  tanto  li  ha  sfigurati  I 
vita  .selvaggia;  ma  poi  dopo  vari  discorsi,  riconosciulo  I 
naldo  da  una  cicatrice,  li  abbraccia  e  bacia  con  molte  h 
grìme  e  si  studia  riconfortarli.  Ma  non  va  molto,  ecco  I 
tornare  dalla  caccia  Amone,  che  vedendo  ì  Qglìaoli, 
loro  villania,   sebbene  la  moglie  si  sforzi  d' impietosivli 
L' animo  fiero  del  padre  e  di  Rinaldo  per  poco  non  è  e 
gìooe  di  qualche  orrìbile  fallo  ;  pure  alla  fine  Amom 
ranunollìsce,  e  per   offendere  il  meno  che   può  la  f«d 
data  a  Carlo ,  sì  parte  da)  castello  e  si  trasferisce  ad  i 
sua  dimora ,  non  lungi  a  Dordona.  Rimastovi  otto  gior 
si  torna,  e  fa  die  ì  banditi,  abbondantemente  provvisti ì 


rattempo  d'oiu,  vesti  e  compagni,  si  par 
qui.  Quaudo  appunto  stanno  per  andarsene ,  ecco  soprav- 
venire Malagigi  con  quattro  some  d' oro ,  da  lui  rubate  al- 
l'' imperatore  per  soccorrere  la  loro  povertà.  Il  ladrone 
insieme  coi  cugini  si  reca  allora  in  Guascogna  dove  oE&e 
i  servigi  della  franca  brigata  ad  Ivone,  re  di  Bordella. 
assediato  dal  re  Mambrino  d'Ulivante,  passato  in  Francia 
p«r  vendicare  Brunalmonte  e  Costantino ,  suoi  fratelli. 
Ivone,  par  temendo  di  Carlo,  per  paura  che  sì  prodi  cava- 
lieri s"  acconcino  col  nemico ,  accetta  la  proposta.  E  presto 
hassene  a  chiamar  lieto:  i  Chiaramontesi  gli  rendono  se- 
gnalati servigi,  tantoché  Beatrice,  di  lui  figlia,  invaghisce 
delle  virtù  dì  Rinaldo,  cui  il  padre  la  promette  in  isposa,  se 
Carlo  lo  ribaudìsce.  Ma  un  giorno,  mentre  la  fanciulla  si  sol- 
lazza ad  un  giardino  fuori  della  terra,  Mambrino  la  rapisce, 
e  il  di  lei  scampo  è  tutto  merito  di  Rinaldo  o  dei  fratelli.  Alla 
fine  Carlo  istesso  viene  con  un  esercito  a  recare  soccor- 
so, ma  oitremodo  s'  adira,  quando  ha  notizia  del  ricovero 
dato  agli  sbanditi-  Questi  allora  si  partono  e  sì  vanno  a  porre 
sopra  un  monte  vicino,  aspettando  opportune  occasioni. 
Ben  presto  cristiani  e  saracini  s' azzuffano  fieramente ,  e 
Carlo  viene  in  gravissimo  pericolo;  Rinaldo  allora  si  muove 
coi  suoi ,  rinfresca  il  combattimento ,  dil  Bajardo  all'  im- 
peratore, che  si  trovava  scavalcato,  e  da  ultimo,  venuto  a 
duello  con  Mambrino,  lo  uccide.  Così  la  vittoria  rimane 
ai  cristiani  e  Carlo  riceve  nuovamente  in  grazia  Rinaldo  e 
i  fratelli,  i  quali  fanno  pace  coi  Maganzesi,  e  si  sentono 
chiedere  perdono  da  Gano.  Poco  stante,  mentre  P impe- 
ratore si  riposa  in  Bordella,  Rinaldo,  essendo  con  Mala- 
gigi  a  cacciare,  giunge  a  un  poggio  in  vista  della  terra  e 
vicino  alla  Gironda,  e  s' invoglia  di  fabbricarvi  un  castello. 
Ivone,  pregatone,  concede  il  paese,  e  Carlo  dà  la  sua  li- 
cenza; del  che  poi  tosto  si  pente,  allorché  viene  a  sapere 
amie  in  quel  medesimo  luogo  sorgesse  già  prima  un' al- 


—  6a  — 

tra  rocca,  che  Pipìao  aveva  dovuto  disfare  con  grand 
stento.  Ma  senz'altro  aspettare,  per  non  dar  tempo  ai  pen 
timenti,  Rinaldo  si  parte  la  notte  con  Alalagìgi,  il  qtul 
per  forza  di  demonii  fa  innalzare  un  fortissimo  caslel]( 
a  cui  sarà  poi  dato  nome  di  Montalbano.  La  mattina  Cari 
ed  Ivone  veggono  con  somma  meraviglia  questa  nonH 
ma  non  essendovi  ornai  riparo,  consentono,  invitali  daK 
naido,  a  recarsi  al  castello  colta  baronia.  Malagigi  si  prendi 
cura  del  desinare,  che  si  compone  di  trenlasei  rivanda^ 
tolte  per  arte  alle  mense  del  soldaao,  del  Papa  e  ^  i 
tri  princìpi.  Tornatasi  poi  la  brigala  a  Bordella.  Hinaldl 
vi  sposa  la  bella  Beatrice,  dalla  quale  egli  avrà  due  fi 
gliuoli,  Amonelto  e  Ivonetto. 

Tale  è  la  fine  del  secondo  libro,  l'ultimo  delta  i 
ria  in  prosa  dì  Rinaldo,  a  cut  sì  possa  assegnare  nn'oi 
gine  antica;  gli  altri  tutti  —  o  sono  parecchi  —  sono  » 
Meramente  invenzione  italiana.  Ma  invero  le  ^migUnift^ 
(piesto  libro  secondo  col  testo  francese  sono  cosi  prosai* 
e  continue ,  che  se  noi  non  avessimo  la  versione  in  ri 
la  quale  ci  porrà  sulla  buona  strada,  ci  lasceremino  d 
leggieri  condurre  a  induzioni  contrarie  alla  verità:  poìAl 
notando  la  somma  diversità  che  passa  tra  i  due  libri,  d» 
rivato  il  primo  da  fonti  molteplici,  il  secondo  da  i 
sola ,  questo  pieno  di  casi  avventurosi ,  quello  fedele  atti 
tradizione,  dì  leggieri  c'indurremmo  a  ritenere  PauHft 
della  prosa  un  compilatore,  che  componesse  insieme  q 
attingeva  dì  qua  e  di  là,  e  aggiungesse  mollo  dì  sua  il 
zione.  Eppure ,  o  io  m' inganno  a  partito .  o  le 
ben  diversamente:  mi  si  permetta  dunque  dì  ind 
ancora  qualche  poco  la  questione  dell'  oiigine ,  e  di  ffl 
pago  per  ora  di  porre  in  mostra  le  differenze  delta  i 
sione  in  prosa  e  del  testo  francese. 

Colali  dìITerenze  sono  la  più  parte  di  poco  i 
lo ,  mentre  d' ordinario  v'  ha  un  meraviglioso  accordo  i 


—  63  — 
»se  lievi.  Stì  io  prendo  a  guida  il  codice  mardaDÓT 
nou  incontrerò ,  è  vero ,  nella  nostra  prosa  uo  lungo  epi- 
sodio, ivi  contenuto ,  in  cui  Maugis  libera  con  sue  arti 
Alardo,  Gaiccìardo  e  Bicciardetto ,  fatti  prigioni  dall' im- 
peratore, nella  zuffa  che  segue  all'uccisione  di  Bertholais; 
ma  poi,  ben  considerando,  vedrò  mancare  questo  raccon- 
to —  se  pure  non  mi  traggono  in  inganno  i  libri  di  cui 
sono  qui  costretto  a  contentarmi  —  anche  nel  testo  del  Mi- 
chclant,  sicché  nulla  mi  vieterà  di  riportare  la  mancanza 
all'originale  francese  ;  e  questo  potrò  faro  a  tanto  miglior 
diritto ,  in  quanto  l'episodio  era  troppo  conforme  all'in- 
dole del  romanzo  cavalleresco  ilabano,  perchè  un  nostro 
rifadtore  lo  volesse  tralasciare.  Ma  poi,  procedendo  oltre, 
troTerò  che  sì  nel  testo  francese  come  nell'  italiano  egli  è 
alla  Pas(iua  dì  Pentecoste,  che  Carlo  è  avvertito  della  co- 
struzione di  Montesoro;  in  entrambi  Ricciardetto  è  il  primo 
a  combattere,  e  sconfitto  Rìnieri  { Regnier  nel  marciano),  si 
(a  padrone  di  molto  bottino;  in  entrambi  Namo  e  Uggieri 
sono  inviati  a  tentare  un  accordo ,  e  vi  si  adoperano  colla 
sl£s$a  riuscita.  Insomma,  per  non  accumulare  inutilmente 
altri  o.scmpi,  se  si  pongano  a  paragone  i  due  testi,  dovnn- 
cpie  la  materia  conviene  si  troveranno  frequentissimi  ri- 
scotrì.  non  solo  di  particolarità,  ma  ancora  di  parole:  ri- 
scontri di  tal  falla,  da  costringerci  a  riconoscere  derivata 
qui  la  prosa  italiana  da  una  versione  assai  simiglianto  a 
quella  conservataci,  e  non  già  da  una  più  antica.  Ma  in 
qual  modo  avesse  luogo  la  derivazione,  se  direttamente  o 
00,  Io  vedremo  tra  breve;  notisi  intanto  che  il  prosatore 
abbrevia  sempre  la  narrazione,  intollerabilmente  prolissa 
nei  lesti  in  lìngua  d'oil. 

Ma  v'  hanno  pure  certe  altre  differenze ,  non  riferibili 
già  oè  al  testo  originario,  né  a  licenza  del  traduttore, 
sibbene  dovute  alla  trasformazione  prodottasi  in  Italia 
dentro  alla  materia  cavalleresca.  Bertolagì ,  nipote  di  Carlo 


À 


—  64  — 

nelle  versioDi  fraDcesi,  diventa  un  conte  di  Msgttaa  cu- 
gino di  Gano;  né  s'attribuisce  al  caso  la  contesa  a^  scM- 
chi.  sì  ad  una  coltura  ordita  dai  Maganzesi.  Egli  è  pare  m 
messo  istigato  da  Gano  colai  che  accasa  a  Carlo  i  qaatr 
tro  fratelli,  ricoTcratisi  nella  selva  Ardenna,  ed  è  Gano 
istesso.  che  sempre  manda  a  ?aoto  ogni  opera  di  pace. 
Né  aji  altro  che  a  questa  medesima  trasformazione  ù^ 
bono  riferirsi  le  gravi  differenze  in  cui  ci  avveniamo  verso 
la  fine  del  libro,  e  sopratatto  nella  guerra  sosteDUta  da 
Ivone.  Secondo   la  versione  marciana,  i  quattro  fratdli, 
partitisi  da  Dordona,  vengono  a  Bordeaux  al  re  Ton,  di-, 
sposti,  s'egli  rifiuta  di  assoldarti,  a  recarsi  a  Tolosa  per 
offerirvi  i  loro  servigi  al  Saracino  Bemier,  suo  nemioo. 
Yon  li  ritiene  senz'altro:  e  il  re  di  Tolosa,  vemito  poco 
stante  a. porre  il  campo  alla  città,  é  assalito  dagli  asse> 
diati  e  fetto  prigione  da  Rinaldo.  Si  coocfaiode  alien  la 
pace,  e  Bemier  si  toma  colle   sue  genti  a  Tolosa.  Qui 
adunque  Cario  non  ha  parte  alcuna  nella  guerra,  e  que- 
sta non  ha  già  per  riuscita  il  rimettere  in  pace  ood  lui 
gli  sbandeggiati;  la  narrazione  e  più  semplice  assau,  e  Ber- 
nier,  m  luogo  dì  essere,  come  Mambrìno,  un  re  vernilo 
dair  oriente  per  £ire  le  vendette  dei  suoi  consangoiuei, 
non  è  altro  che  il  signore  d' una  città  della  Francia  nieri- 
dionale.  e  ci  rappresenta  la  tendenza  de^  Arabi  a  diF> 
fondere  dal  mezzodì  il  loro  dominio  su  tutta  rEan^HL 
Ma  poco  a  poco  entra  net  romanzieri  italiani  una  predOe- 
zioqe  singolare  per  le  invasioni  dei  Saraeini .  le  qoafi ,  ben 
s* intende,  terminano  sempre  col  loro  macello:  gli  Ago- 
lauti*  i  Troiani*  i  Bravieri  si  mohipUcaiio  fuor  di  misera: 
testimonio  ad  un   tempo  e  della   povertà  di   fantasìa  di 
codesti  romanzieri*  e  insieme  delle  coodizioiii  del  popolo 
per  cui  essi  anoponevano.  Certo  dii  poteva   eoo  dBetlo 
prestare  orecchio  a  queste  monotone  e  oofosisànie  narra- 
zioni, doveva  serbar  vìva  dentro  dì  sé  la  memoria  delle 


IV. 


)  e  l'odio  contro  i  seguaci  di  Maometto;  se  nelle 

plebi  toscane  non  fosse  stato  ancora  assai  potente  il  sen- 

■    teieoto  religioso,  la  lelleratura  cavalleresca,  o  si  sarebbe 

presto   spenta,  o  avrebbe  dovuto    tramutarsi,    com'essa 

fece ,  appena  fu  trasportata  in  una  società  piìi  colta  e  meno 

^^V  Dalla  prosa  volgiamo  ora  il  nostro  studio  al  poema 
^^B  ottava  rima,  alliuchè  dal  raETronlo  di  quello  eoo  que- 
sta ci  venga  qualche  lume  a  rischiarare  V  oscurità  per  cui 
ainiamo.  E  davvero  ci  è  qui  d'uopo  usare  cautela, 
!  se  ci  avveotuiassimo  a  giudicare  dietro  idee  pre- 
Ette  e  secondo  r  analogia ,  saremmo  tratti  probaliil- 
)  ad  affermazioni  enonee;  e  di  ciò  ebbi  a  far  prova 
Miesimo,  poiché  avanzando  nello  studio,  mi  vidi  co- 
I  a  riuegare  le  opinioni  abbracciate  da  princìpio. 
Gastone  Paris,  il  primo  che  abbia  preso  a  discorrere 
i  rigore  scieniilìco  della  nostra  letteratura  cavalleresca, 
i  medesima  maniera  che  solo  nelle  composizioui 
►italiane  vede  il  modo  di  ricongiungere  i  romanzi  to- 
1  colle  chansoits  di  bngua  d' oìl ,  pensa  altresì  che  tra 
Epròne  e  i  cantari  in  ottava  rima  s'abbiano  a  collocare 
i  in  prosa ,  e  che  i  rimatori  da  piazza  sempre  abbiano 
D  da  questi  la  loro  materia.  Cotale  opinione  non  mi  pare 
■  verità  accettabile  in  tutto.  Potrei  infatti  noverare  parec- 
ehì  romanzi  in  prosa,  i  quali  in  cambio  di  essere  fonti  ai 
poeti  popolari,  sono  essi  stessi  derivati  da  cantari  in  ottava 
rima.  Nulladiraeno,  lo  concedo,  non  mancano  neppure  gli 
esompl  del  contrario,  ed  anzi  si  ponno  forse  dire  più  nume- 
ro»; onde  ogniqualvolta  è  d'uopo  giudicare  della  priorità 
(It  nn  romanzo  in  prosa  e  di  un  cantare  in  rima,  in  cui  la 


a 


-rr? 


—  (J7  — 

3  r  autore  li-aducesse  dal  fraucestì.  Si  raffronti  [ 
0  questo  luogo: 


t-I, 


C.=  r,  8-9. 
Onde  un  barone  in  pie  sì  fu  levalo. 
Con  juiìicio  (l'inpani  e  Irnriiincnlo; 
CiA  fu  Ginamo,  signor  di  Bajona, 
Dicendo;  Intendi  me,  santa  corona: 

Ohe  non  mi  par  che  ragion  dritta  sia 
A  noni  che  sia  tradilo  da  sua  donna, 
E  con  altr' nomo  abbia  Tallo  follia. 
Di  ber  con  coppa  di  i|uel  che  i:  colonna 
K  capo  e  guida  e  nostra  signoria. 
Udendo  il  dire,  Amone  il  her  Traslonna, 
E  invcr  Ginamo  si  volse  ridendo , 
Dicendo  :  Sire ,  ctie  è  quel  cb'  io  intendo  '! 

Dell,  dilel  toÌ  da  molti  o  si  da  vero? 
l'Ir  che  v'ha  mosso  a  dir  silTalta  cosa? 


i  DOD  sente  nella  rima  un  fare  schiettamente  italiano,  e 

i  rersione  posaica  per  contro  l'eco  di  una  favella  fo- 

Bliera?  Mn  i  giudizi,  in  fatto  di  lingua  e  di  siile  tengono 

Ipre  assai  dell'arbitrario,  e  però  vogliono  essere  raf- 

tati  da  ragioni  piìi  positive.  Né  qui  esse  fanno  diffetto  : 

I  in  prosa  contiene  molte  particolarità  di  cui  non  è 

I  nel  poema,  sebbene  talune  si  possano  dimostrare 

ibbiamente  antiche  col  riscontro  dei  testi  francesi.  Ad 

npìo  mentre  la  rima  nomina  Liveri  il  traditore  intro- 

i  in  Montesoro  per  aprirlo   ai  nemici,   la   versione 

aica  lo  chiama  Rinieri,    convenendo  così  col    cantare 

,  ove  è  nominato  Regnier.  E  del    pari,  a  propo- 

D  dcir  assedio  di  questo  medesimo  castello ,  l' invio  di  Na- 

fted'Uggieri  per  trattare  un  accordo  manca  nel  poema, 

Ire  è  conservato  nella   prosa,   dove  soltanto  si  altri- 

e  a  Gano  una  parte  non  assegnatagli  dalia  forma  origi- 

I  del  raccoiilii,  ma  pienamente  consentanea  alle   leggi 


secundo  le  quali  la  iDat«rì;i  cai^leresca  sì  andaia  tnnui- 
tando  ÌD  llalia.  E  una  proia  noa  meno  irrepagnatMle  si 
deduce  dalla  scena  in  cui  si  descrìve  .Vinone,  cbe  s' ab- 
baile nei  figliuoli  addormentati  presso  ad  ana  fonte;  poi- 
che  qui  il  poema  tace  al  tulio  del  combattimenlo ,  di  eoi 
oairano  le  altre  due  versioni,  ne  dice,  a  differenia  di 
queste,  che  il  duca  si  tomaiise  a  Parigi,  e  vedeodoTisi 
cadalo  in  di^razia  di  Carlo,  ^  partisse  celatamente,  sen- 
za averne  ottenuto  licenza. 

Questi  esempi  ponao  bastare  a  mettere  fuor  di  dub- 
bio la  cosa,  e  però  stimo  inutile  l'andarli  molliplicaodo, 
come  potrei  fare  con  poca  fatica.  Il  guaio  »  è  che  alla 
sua  volta  il  poema  conviene  coi  testi  francesi  in  pjii  cose, 
nelle  qnalì  invece  ne  dUconla  la  pro^.  Ad  esempio  il 
nome  di  Inorante  dato  dal  poeta  al  messo  che  Carlo  io- 
via  ad  .Vgrismonte ,  è  certo  più  vicino  alPEnguerrand  ddb 
versione  stampata,  che  non  sia  il  Morando  del  proiiatore, 
E  se  cosini  nei  poema  passa  per  Blois,  aflìne  dì  giaagen 
alla  sua  mela,  del  che  tace  la  prosa,  si  vede  die  T as- 
tore di  quello  collocava  la  terra  dì  Buovo  ivi  appoolo 
dove  la  ponevano  le  versioni  (mginarìe.  Ma  più  assai  gimi 
il  notare  che  la  rima  e  il  lesto  francese  f^nno  della  sposi 
di  Rinaldo  una  sorella  di  Ivone,  la  versione  prosaica  ubi 
figliuola;  questi  la  chiamano  Claiice,  quella   invece,  <£- 


—  69  — 

mio  non  avrebbero  potuto  essere  ranoodate  al  medesimo 
modo  nella  prosa,  se  l'autore  avesse  condotto  più  oltre 
la  narrazione.  Che  se  ad  alcuno  restasse  ancora  qualche 
dablùezza,  basterà,  io  spero,  a  toglierla  il  riscontro  no- 
levolissimo  di  un  luogo,  dove  perfino  le  parole  del  poe- 
sia convengono  col  lesto  francese.  Trattasi  delia  scena  in 
coi  Anione,  tornando  dalla  caccia,  ritrova  in  sua  casa  i 
figliuoli  in  uno  stato  miserando.  S'adira  ìl  duca  da  prin- 
cipio, ma  poi,  sbollito  il  primo  sdegno,  rivolge  queste  pa- 
role a  Rinaldo,  che  gli  va  descrivendo  le  miserie  patite: 


I 


XIX.     Rispuose  il  padre:  Che  non  andavate 
Alle  badie,  che  non  stanno  murate? 
Ch' e*  stanno  più  che  l'altre  genti  ad  agio; 
E  se  do' non  v'avesser  ben  Torniti, 
Avessi  morii  i  monaci  a  niisagio, 
E  colti  loro  lessi  ed  arrostiti. 
Migliore  è  la  lor  carne  eli' uovo  o  cacio, 
Giovani,  gi-assì,  in  ogni  bea  nodrìti. 
Bea  dovavale  inanzi  mangiar  frati, 
Che  veuir  qui  si  poveri  e  afTamati. 


Con  questo  passo  si  paragoni  ìl  corrispondente  del  poema 
,  che  io  recherò  come  sta  nel  codice  Marciano: 


N'estes  pas  chevaliers,  ancois  estes  garden; 

Ja  a  il  asez  geuz  iledenz  sa  regio», 

Clerc,  preveires,  e  moines  de  grand  religion, 

Qui  som  cras  sot  gonaes  e  ont  gres  li  reìgnon; 

ta  cler  fain  lor  gist  le  foie  e  le  poumon, 

E  si  ont  la  char  leadre  ausi  come  poon; 

Mdllors  sonL  a  mangier  que  cers ,  ne  que  venoissou. 

Bniisiez  les  abeies  a  force,  a  abandon. 

Qui  del  suen  vus  dorrà  si  lì  feìles  pardon, 

E  qui  si  nel  ferra,  ja  mais  ait  raenchoa; 


Heogier  les  en  quisiez  e)  feu  e)  zarbon; 


—  Tu- 
li ne  vus  ttroai  ja  plus  mal  que  veooissoo. 
lianip  1f  Dieu  me  coofunde.  enfant,  ce  ditAymOD, 
Mieli  vaii  un  moioe  au  rosi,  que  ne  fet  un  pian. 

Il  prosatore  atteoaa  alquaofo  la  crudezza  di  qnefe 
:>ari.'>W:  *  DUse  Amone:  Egli  è  per  la  Toslra  altìM, 
\"jt:*m  sìtle  da  pochi.  Imperi)  ch'egli  ha  tante  badie  t 
i  ui-.Miisieri  per  tutti  questi  paesi  ìdsìqo  a  Parigi,  che  sono 
iHissi  e  pieni  di  roba ,  che  roi  potavate  virere  e  ralv- 
i.'!'.  wri'bè  non  sarebbe  peccato  a  torre  loro  della  nih 
l.-^e  3(3?.za  loro:  che  se  io  avessi  bando  come  voi,  Dn 
ni!  i-urtivi  dì  rullare  le  croci  per  non  Tenire  in  tanta  » 
seria  >. 

Itopo  di  Ciò  sarà  forse  lecito  pensare  die  il  rimiUn 
mettesse  in  versi''  il  romanzo  in  prosa?  A  me  non  pare; 
ma  poicliè  neppure  1'  affermazione  coati'aria  sarebbe  so- 
steniLiile.  citnvt'nà  cercare  un'altra  via,  per  iscit^liere  il 
Dodo,  ^è  arrcmi3  »-ì  almanaccare  di  troppo  per  iscop^^ 
la,  partM  si  ilefiutSi'a  netiamente  il  problema.  TroviuM 
doe  testi  simìglìantt^simt  tra  di  loro,  tanto  da  conlenen 
spesso  le  medesime  trtsi  e  parole,  ma  che  pure  rìlen^ 
ciascuno  alnooi  tratti  onjnoarii.  mancanti  in  quella  vttt. 
0  alterali  Dell"  altro.  Che  s' avrà  mai  a  pensare  ?  La  solo- 
zione  è  ovvia:  ì  doe  lesti  derivano  entrambi,  l'uiw  in- 
dipendt-ntemeote  dairaltro,   da  un   medesimo  originalft 


srgo  siiDìgltanCe  a  quello  del  ms.  XIU  detta  Marciana  e  di 
altre  composiziODi  silTatte.  Che  fosse  scritto  Dei  paesi  cir- 
cumpadani ,  ne  dà  sicurezza  V  essere  colà  ctie  la  lettera- 
tura cavalleresca  fece  la  prima  sosta  tra  di  noi,  e  comin- 
ciò a  Irasrormarsi ;  che  poi  la  lingua  fosse,  comunque  si 
voglia,  forestiera,  si  argomenta  dai  due  testi  toscani:  im- 
perocché altrimenti,  o  era  in  prosa,  ne  sarelibe  spiega- 
bile resistenza  delta  versione  prosaica,  o  era  in  ottava 
rima,  e  rimarrebbe  inesplicabile  il  poema.  Di  più  non  è 
certo  da  lacere  in  questo  luogo  che  il  terzo  libro  della 
compilazione  in  prosa,  Il  quale  narra  la  storia  del  Danese, 
mostra  avere  stretta  parentela  con  una  parte  del  ms.  XIII 
dì  Venezia  :  onde  è  agevole  trarre  un  argomento  di  ana- 
logia a  conferma  della  mia  congettura. 

Alla  quale  forse  verrà  opposta  un'obbiezione,   certo 
dì  nou  lieve  momento.  Come  sì  spiega  il  continuo  e  quasi 
perfetto  accordo  delle  due  versioni  toscane,  le  quali  hanno 
spesso  comuni  frasi  e  parole  ?  lo  per  me  credo  s' abbia  a 
spiegare  ammettendo  che  tanto  il  prosatore  quanto  il  ri- 
matore .li  conservassero  per  lo  più  fedelissimi  al  loro  testo: 
né  questa  supposi:!ione  può  dirsi  arbitraria ,  polche  dì  u- 
guale  e  forse  maggiore  fedeltà  noi  possiamo  trovare   pa- 
recchi esempi  nella  letteratura  romanzesca.  A  ogni  modo, 
tacendo  altresì  delle  ragioni  addotte   poc'anzi,  se  l'affer- 
mare il  poema  derivato  dalla  prosa  ci  torrebbe  qui  d'innanzi 
qualche  leggiera  dilBcollà,  verrebbe  tra  poco  a  recarcene 
una  mollo  maggiore,  allorché,  continuando  il  nostro  esame, 
sarà  pur  necessario  spiegare  come  mai  in  moltissimi  altri 
^^Ughì  il  lesto  in  rima  si  accordi  coi  testi  francesi  perfmo 
^Hrite  parole.  Certo  sarebbe  strano  oltie  ogni  dire  che  co- 
^Hbta  simigtianza  potesse  conservarsi  attraveno  alla  trafila 
^^  una  versione  prosaica.   Quanto  poi  al  supporre  gue- 
st'ultima  derivata  dal  poema  in  ottava  rima,  non  può  es- 
servi luogo  a  dubbio:  poiché  se  Della  prosasi  potrebbe. 


J 


_  7i  — 

arbitrarìameute  s^ioteode.  ammeltere  ima  interpolazione  « 
un'  alterazkme  del  lesto ,  P  inlet^rìL^  del  poema  aiera  1^ 
deli  ^l:^todi  il  verso,  la  rima,  e  ti  numero  costante  del!» 
stanze  conlenate  in  ciascun  cantare. 

Però  mi  sembra  pelere  oramai  considerare  come  m 
btto  xccertalo  b  mia  congettura ,  Torse  non  infeconda  à. 
conseguenze  per  la  storia  del  romanzo  cavalleresco.  Aoà* 
tutto  euo  i  cantari  dell'  .Vita  Italia  servire  di  mezzo  anche 
per  il  Rinaldo  alla  trasmissione  della  materia  romanzaci 
dalla  FniDcia  alla  Toscana:  Tatto  assai  importante  ai  mìfll 
occhi,  emendo  questa  la  parte  del  ciclo  che  ebbe  tra  fi 
noi  più  Tavore  e  si  venne  maggiormente  allargando.  M 
non  basta;  che  il  Rinaldo  franco-italiano,  se  mi  è  ledttf 
chiamarlo  cosi,  ci  permette  di  studiare  il  lavoro  di  Ir 
mazione  in  uno  stadio  diverso  da  (pianti  ne  avevamo  gii 
potuto  conoscere.  Certo  esso  non  era  per  la  maggior  | 
che  una  semplice  trascrizione  del  poema  francese:  ma  pd 
già  vi  appaiono  scolpili  tutti  i  caratteri  del  romanzo  loscanoi 
sicché  la  loi'o  origine  non  solo ,  ma  altresì  il  primo  svot 
gimento  va  attribuito  alPetò  di  passaggio.  Questi  caralled 
sono  specialmente  due:  l'abbondanza  di  avventure  nellf 
regioni  orientali,  sol  guslo  dì  quelle  del  ciclo  brettonej 
ma  di  gran  lunga  meno  varie,  e  la  parte  sempre  odloa 
allribuita  a  tutta  intera  la  stirpe  di  Maganza.  Quanto  alla 
avventure  nell'Oriente,  già  altri  prima  di  me  aveva  relU- 
mente  sospettato  doversene  cercare  l' orìgine  nel  Rinaldo; 
rispetto  poi  alla  gesta  maganzese ,  egli  è  sempre ,  chi  boi 
guardi,  in  opposizione  alla  casa  diChlaramonte,  suape^ 
petna  nemica,  che  dessa  viene  costituendosi  come  i 
schiatta  di  traditori.  Però  l'origine  di  questo  segno  carat 
teristico  dei  nostri  romanzi  sembra  da  riportare  al  BuofD' 
d'Agnsmonle,  anziché  al  cantare  di  Roncisvalle;  e  il  suo 
graduato  allargarsi  dovette  procedere  dì  conserva  colla 
crescente  fama  della  gesta  di  Chiaramonle,  che  divenne  poui 


1 


—  73  — 

ì  pofo  sede  e  tipo  di  ogni  virtù  cavalleresca.  Ecco  dunque 
\  storia  di  Hinaldo  apparire  principale  fattrice  della  Ira- 
inazione  del  ciclo  di  Carlo;  da  essa  dovettero  questi 
raiteri  insinuarsi  poco  a  poco  negli  altri  racconti  e  ve- 
rti  gradataracnlB  tramutando.  Questo  ci  spiega  come  nella 
leratura  franco-italiana  si  possano  trovare  alcuni  docu- 
inti,  non  gran  fatto  più  antichi  dei  Reali,  e  dove  tutla- 
scorgono  appena  i  germi  di  quella  metamorfosi, 
!  in  questi  ullimi  appare  compiuta  e  già  mostra  segni 
l  corrazione.  Molti  racconti  poterono  dunque  conservarsi 
■Ili  0  quasi,  sia  perchè  già  da  tempo  avevano  posto 
«,  sia  perchè  non  avevano  attinenze  colla  sloi-ia  di 
'  Rinaldo. 

Qaaoto  all'età  rispettiva  delle  varie  versioni,  io  posso 
proporre  delle  congetture,  ma  nulla  più.  Il  testo  franco- 
iulìano  conteneva  già  un  episodio  di  cui  s' incontra  il  so- 
migliante nelP  Entrée  en  Espagne.  Nel  primo ,  Rinaldo , 
venato  al  campo  del  soldano  di  Persia,  che  assedia  ìn  Ni- 
littì  rAmostante,  gli  chiede  soldo  percento  cavalieri:  del 
che  meraviglialo ,  si  sdegna  il  Saracino,  tantoché  lascia  per 
dispregio  che  lo  straniero  vada  a  portare  il  suo  ajuto  agli  as- 
sediati; neir  Entrée  un  caso  al  tulio  simile  interviene  ad  Or- 
lando ,  allorché  partilo  per  isdegno  da  Carlo ,  è  passalo  in 
Oriente.  Quindi  sembra  probabile  che  di  questi  due  luoghi 
l'uno  sia  imitalo  dall' altro;  ma  poiché  Nicola  da  Padova 
è  poeta  formio  a  dovizia  d' ingegno  e  di  fantasia ,  doti 
die  mal  si  potrebl>ero  concedere  all'ignoto  rifacltore  del 
Hinaldo,  a  lai,  anziché  a  quest'  ultimo,  parmi  doversi  attri- 
hoire  il  merito  dell'invenzione.  Quindi  il  Rinaldo  franco- 
ÌUliano  sarà  posteriore  all'Entrée,  e  a  quanto  .sembra 
dalla  natura  di  certo  narrazioni,  posteriore  di  un  tempo 
abbastanza  considerevole:  io  non  credo  discostarmi  dal 
vero  assegnandolo  alla  prima  metà  del  trecento. 

Tra  il  rUacimeaki  franco-ilaliano  e  11  romanzo  ìn  prosa 


—  74  — 

ci  conviene  frapporre  un  intervallo  di  molti  aofìi,  da« 
rante  il  quale  le  avventure  deir  Oriente,  apparse  colà 
per  la  prima  volta,  potessero  progenerare  altri  rac- 
conti del  medesimo  genere.  Imperocché  a  niuno,  come 
aiCtiiaramontesi,  furono  attribuiti  tanti  figliuoli  illegittimi, 
nati  da  donzelle  saracine.  Ora  già  nel  testo  in  prosa  noi 
ci  avveniamo  in  uno  di  questi  Epigoni,  la  di  cui  storia, 
ivi  appena  accennata  per  incidenza,  óome  è  affatto  ignota 
a  me,  doveva  essere  notissima  all'autore;  trattasi  di  un 
Dragonetto  di  cui  Ricciardo  lascia  gravida  una  fanciulla  nel 
castello  deir  ucciso  Costantino.  La  storia  di  costui  era  pro- 
babilmente opera  di  alcuno  tra  quei  cantatori  da  piazza, 
legittimi  succcessori  dei  giullari ,  che  dovettero  in  Firenze 
e  in  altre  parti  di  Toscana  diffondere  tra  il  popolo  le  vi- 
cende dei  paladini  di  Carlo ,  prima  ancora  che  i  romanzi  fran- 
cesi venissero  tradotti  in  servizio  di  chi  sapeva  leggere.  E 
d' altra  parte  non  si  potrebbe  rimuovere  troppo  verso  la  fine 
del  trecento  la  versione  in  prosa ,  se  dev'  essere  contempo- 
ranea ai  Reali  di  Francia ,  coi  quali  mostra  molta  analogia. 
Anzi  non  sarebbe  forse  audacia  V  affermare  il  Rinaldo  an- 
teriore ai  Reali,  poiché  questi  fanno  menzione  di  due  ba- 
stardi del  Chiaramontese ,  ignoti  al  primo  e  attribuitigli 
da  tardi  continuatori  :  vo'  dire  Guidone  e  Dodonello  (1). 
Che  se  quanto  a  quest'  ultimo  può  osservarsi ,  non  essere 
la  narrazione  condotta  fino  al  luogo  dove  si  avrebbe  do- 
vuto discorrerne,  non  sembra  doversi  dire  la  medesima 
cosa  del  primo. 

Il  poema,  finalmente,  deve  a  mio  parere  reputarsi  po- 
steriore alla  prosa ,  e  composto  verso  la  fine  del  trecento. 
Dal  crederlo  più  antico  mi  ritiene  la  forma,  e  il  vedere 
come  vi  sia  accennata  la  storia  di  Guidone;   ma  d'altra 


(1)  Tolgo  questi  nomi  dall'unico  Ms.  dei  Reali,   posseduto   dalla 
Magliabecchiana.  CI.  VI,  Palch.  I,  cod.  L 


—  7o  — 
t  non  lo  saprei  oè  anche  tenere  più  receotie,  si  per- 
I  allude  .id  nna  versione  di  questa  storia  diversa  da 
Ile  altre,  sì  perchè  non  saprebbesi  intendere  come 
t  composizione  di  età  piìi  larda  ridesse  fedelmente  i 
ToediJ  leslt.  senza  nulla  accoglierti  dei  nuovi  racconti,  ger- 
mogliati in  gran  copia  sul  vetusto  tronco  del  Rinaldo.  Del 
resto  non  intendo  di  attribuire  importanza  a  queste  con- 
geUore.  e  solo  le  propongo  in  mancanza  di  meglio:  sono 
torse  tela  di  ragno ,  che  ciascuno  può  agevolmente  lacerare. 


V. 


E  ora  mi  limane  a  discorrere  dei  venticinque  can- 
tari, che  non  hanno  riscontro  nella  prosa.  Comincìerò  dal 
riassumeiTi  alquanto  diffusamente,  si  perchè  la  storia  di 
Rioaldn,  ìraporlantissima  per  ia  letleralura  cavalleresca  ita- 
liana, è  quasi  affatto  sconosciuta  fra  di  noi,  sì  perchè 
questo  è  l' unico  nostro  romanzo  in  cui  essa  si  trovi  nar- 
nU  conforme  alle  antiche  versioni. 

Noi  abbiamo  dunque  interrotto  il  racconto  lasciando 
Rinaldo  tranquillo  signore  di  Montalbano  e  novello  sposo 
dì  Clarice;  ma  poco  dura  la  di  lui  felicità;  non  molto 
appresso  Gano  con  quaranta  de' suoi  si  parte  da  Parigi, 
per  isciogliere  un  voto  a  Corapostella,  e  giunto  in  Guas- 
cogna meraviglia  al  vedere  la  nuova  rocca,  di  cui  le  nuove 
Don  sotto  ancor  giunte  alla  corte.  Saputala  dì  Itinaldo, 
s'arvta  a  quella  volta,  e  incontratosi  nei  quattro  fratelli, 
in  ricaniSio  dell'onore  che  s'ingegnano  di  fargli,  li  svilla- 
Mggìa,  si  gitta  addosso  a  Rinaldo,  gli  sputa  sul  viso,  e 
t^ì  tira  la  barba.  A  questi  atti  il  Chiaramonlese  risponde 
prima  con  dolci  preghiere;  ma  nulla  giovando,  afferra  il 
lnditore.e  lo  gitta  al  suolo  tutto  sanguino.so.  Sì  fanno  allora 

izi  gli  altri  compagni,  e  si  accende  una   zuffa, 


3 

e 


—  T€  — 
i-nPiL*  7:<li:  sanrù:  òa  tnàiton.  Tormloà  i  taip, 
■;^2d:  5^£a  1  !d  a."  iiii(>sAiJn  e  mm  dd  ostello  <»- 
jCtis;  T'ccr:  i  i'i'A:-..  Cark>  albn  admu  h  baroMS 
ru^^  -r?iir.-.  p^  <au;nrnBa<c>  dì  Nudo  s'  ìqtÌUui 
rjncfrr  .  gucr-:  fncrlli.  i  qruli  obbedienli  si  prei» 
a:*: .  b:)io5:nì  :rìfvi'-:-  tt/xmf'Kaarf  di  diiqaemib  a- 
TIJ7-.  r  a  liùor:  ù  VWin  L  I33V  Essi  si  scotp», 
t  rfiv>:ci^:o:  al^t  ^«ik^iAt  di  Gao:  mi  costui  à  th 
^■^la  ::c  =.  '..:ir.-r:>:  i  Kiiiald?.  boendo  eoa  che  à  m^ 
h.  fsciTi^  aTiì  n^  4  MtZKìLiSi  5vebbero  scoofitU,  b 
:»;c  -rti-e^-rr:  >>rr.:«^-  da  i>arecrtae  migUaia  dei  tao, 
fid  TéciTr  i  zjs-'X:-  b  Pvip  dal  perfido  Gano;  sedil 
e  r-ìc  T^c^r^-i  diz  ^stìii  £  CbanmoDte  si  siItìdo,  pro- 
ifCTrii^:  ^  ?;^-^  ><:-L~>pi«:-^'ar  fo<xo  ad  od  borgo  drila  adi 
iiiUic:-  'Iriiirl: .  a>i>t>  a  dtfeodere  la  ProTeoza  dalPìon- 
3:or  i.  si'  ;rìi  ara:^ .  mena  prisiouero  a  Pariff  H  im 
C3>:-.  :'  £in£i:?  >CT:-bSiy.  àt^  pmde  il  battesimo  e  promede 
m  trl^<n.:>  aL~ inkpef*:<¥.  E  questi,  raccolto  di  nnofofl 
rcQàr*io.  colina  a  cìa>ciiDO  di  tenersi  pronto  per  ani- 
are  »Qtr:>  V-xitalbaiKx  Nessuoo  osa  fiatare,  eccettuto 
no  s«:>lo: 

Astenia  Ica  molti  sacnraenti 
IXaaiiii  a  Cario,  forte  rimbrottando, 
Qie  »  iroTisse  Rinaldo  le^lo. 


—  77  — 

i  il  cavallo  vincitore,  [tandila    dunque  la    prova,  Ki- 

)  Don  sa  reggere  al  desiderio  di  parteciparvi;  (C."  XXIX. 

'.")  i  fratelli    lo   accompagnano,  e   insieme  Malagigì, 

lale  il)  un  boschetto  trosforma  con   sue  arti    sé,  lui, 

,0,  in  guisa  da  non    potersi  più    riconoscere.   La- 

1  i  compagni  io   un  luogo  riposto,   Rinaldo  e  Mala- 

i  entrano  nella  città,  passando  attraverso  alle   guardie 

«state  per  ispiarlì;  ma  postisi  ad  albergare  presso  un 

SDlaio,  sono  da  lui  riconosciuti  per  certe  parole  disac^ 

,  e  sarebbero  traditi,  se  Malagigì  non  desse  morte  a 

tnì.  Il  giorno  appresso  si  viene  al    prato  delle  corse; 

143  v.°)  ivi  Rinaldo,  lasciatisi  addietro  di  grande 

I  talli  gli  emuli,  tocca  la  meta,  spicca  la  corona,  e 

i  a  Carlo  il  sno   nome,  fugge   a   rompicollo,  inse- 

>  da  molle  genti,  e  prima  che  da  altri  dall'imperatore. 
I  fuor  di  modo  per  essersi   cosi  stoltamente   fatto 

ire.  Un  fiume  attraversa  la  via  :  Bajardo  lo  valica  d'un 

.  mentre  Carlo  si  rimane  lutto   stizzito  sull'opposta 

la.  Bramando  pure  di  ricuperare  la  corona,  offre  la 

I  compenso:  indarno:  il  cliiaramonlesB  la  vuol  porre 

>  a  Clarice,  e  ripigliato  il  cammino,  trova  Malagigì, 

}  tallo  trasflgwato,  guercio  e  zoppo  e  in  vesti  da  pel- 

I,  siede  sotto  di  un  albero.  A  sua  ricbicsta  Rinaldo 

e;  ma  poco  stante  sopravviene  l'imperatore,  e  do- 

I  il  falso  palmiere  se  abbia  veduto  passare  un  cava- 

>  sopra  un  cavallo    bianco.  Malagigì    risponde  che   si; 
)  scellerato  gli  ha  scagliato  il  bordone  sopra  di  un 

•o.  Carlo  mosso  a  pietà,  e  pregatone  da  lui,  scende 
!  s'ingegna  con  pietre  di  fario  ricadere:  ma  in- 
)  Malagigì,  colto  suo  tempo,  si  lancia  sul  cavallo,  e 
i  il  proprio  nome,  si   fugge.  Cario,  pieno  d'ira, 
i  vendetta ,  e  costringe  tutti  i  suoi ,  che  poco  appresso 
nvvengODO,  a  giurare  di  guastar  Montalbano  e  far  pon- 
ì  i  chiararaontesi.  Torn.ito  f[iiindi   n    l'arigi,   appa- 
recchia la  guerra. 


—  78  — 

(XXXI,  148  V.')  Frattanto  Malagigi,  raggiunto  Rinaldo, 
torna  con  lui  a  Montalbano,  ove  si  fa  gran  festa  delPaccaduto. 
Ma  tosto  la  gioia  si  rivolge  in  pianto ,  poiché  l'oste  di  Carlo 
viene  in  Guascogna  e  distrugge  la  rocca  di  Monbendello,  pas- 
sando a  fil  di  spada  anco  le  donne  e  i  fanciulli.  Qui  b 
sosta  il  grosso  dell'esercito,  mentre  Orlando  viene  con 
tremila  cavalieri  ad  accamparsi  sotto  Montalbano;  dove  il 
paladino,  fidando  troppo  nelle  sue  forze,  va  con  pochi 
compagni  a  cacciare  per  la  riviera.  Rinaldo  non  dorme, 
assale  il  campo,  lo  sbaraglia^  e  si  ritrae  con  grande  bot- 
tino, tra  cui  V  insegna  maestra,  che  per  onta  dei  nemici 
è  inalbenata  sulla  torre  (XXXII,  153  v.*").  A  quella  vista 
Carlo  crede  preso  il  castello  ;  ma  saputo  il  vero  da  Gano, 
ne  prova  gran  doglia.  Allora  fa  cercare  del  nipote,  che 
gli  è  menato  innanzi  tutto  vergognoso,  sicché  tocca  al- 
l' imperatore  confortarlo. 

Gano  poi ,  sempre  pari  a  sé  stesso ,  propone  a  Carlo 
d' impadronirsi  per  tradimento  dei  quattro  fratelli  e  gliene 
suggerisce  la  via.  Il  tristo  consiglio  trova  facile  ascolto,  e 
un  messo  é  spacciato  a  Tolosa,  la  quale  in  questo  luogo 
è  divenuta  capitale  del  regno  di  Ivone.  Questi,  avuta  la 
lettera  di  Carlo,  che  lo  invita  con  promesse  e  minacde 
a  farsi  strumento  di  nefandezze,  si  ristringe  co' suoi,  e  da 
essi  consigliatovi,  finisce  per  consentire;  quindi,  scritta  la 
risposta,  per  mezzo  di  Gondarte,  suo  cappellano,  la  fa 
pervenire  alP  imperatore.  Questi  allora  chiama  il  Danese 
e  Folco  da  Smeriglione,  e  strettili  anzitutto  con  giura- 
mento, palesa  il  nefando  trattato,  che  essi  devono  porre 
a  esecuzione,  andando  con  quattro  mila  uomini  ad  appo- 
starsi in  Valcolore.  Indarno  il  Danese  vorrebbe  esimer- 
sene: ha  giurato  e  gli  conviene  obbedire.  Dipoi  T  impera- 
tore rimanda  Gondarte  al  re  Ivone,  che  accompagnato  da 
molta  baronia  viene  a  Montalbano,  e  vi  è  accolto  con  fe- 
ste e  dimostrazioni  di  affetto,  le  quali  gli  passano  P  anima. 


^^^P  ~  70  — 

n  ^omo  appresso,  mentre  Malagìgi  è  alla  carda,  il  re 
dice  a  Rìnsldo  di  essere  mandato  dall'imperatore  per  trat- 
tare l'accordo,  (XXXIII,  158  v.")  e  lo  stimolo  ad  andare  di- 
sarmato in  Valcolore  per  fare  parlamento  con  Carlo.  Ri- 
naldo bramerebbe  recarvi  le  armi,  ma  asserendo  il  re 
i  ciò  guasterebbe  ogni  cosa,  comunica  ai  rratelli  Pin- 
.  Clarice,  presente  ai  loro  discorsi, 

Odcndo  dir  si  fatti  scnlimenlì, 

Diceva:  Signor  mio,  tu  e  tuoi  frati 

Non  v'andate  per  Dio  se  non  armati: 
Ch'io  sognavo  stanotte  sogni  scuri 

Di  tutti  quattro  voi  franchi  guerrieri; 

Pareamivi  vedere  a  pie  de'  muri 

D'un  gran  palagio,  soli  su'sentieii: 

Ragionandovi  voi  piano  e  sicuri, 

Cadevan  delle  mura  canton  Heri, 

A  cui  io  sulle  spalle  ed  a  cui  in  testa; 

Quasi  che  a  morte  vi  facean  richiesta. 
Poi  vidi  un  orso  che  le  mie  mammelle 

Tor  mi  volea  del  petto  colle  branche; 

Se  non  che  Malagigi  a  lai  novelle 

Vi  giunse  e  liberò  mie  vene  stanche. 

Tutta  notte  sognai  cose  si  felle. 

Taltavolta  Rinaldo ,  soffocando  in  cuore  ogni  sospetto 
\  ascoltar  solo  la  voce  dell'  obbedienza  al  suo  signore, 
Euade  i  fratelli  all'  andata  e  con  loro  si  pone  in  cam- 
»  in  compagnia  di  quindici  conti  di  Ivone.  Alardo, 
(ìuicciardo  e  Ricciardetto  vanno  dinanzi  cantando;  e  quei 
canti  raddoppiano  il  dolore  a  Rinaldo  e  lo  fanno  piangere, 
pensando  al  pericolo  clte  forse  li  aspetta.  Di  ciò  si  av- 
vede llicciardetto,  e  ne  muove  parola  al  fratello,  che  si 
!(|m)ia  ras.sicnrarlo.  Così  giunfjono  ir  Valcolore,  luogo  tutto 
Aiuso  da  boschi,  dove  s' ini-rociano  f|nattro  vie:  quivi 


—  80  — 

si  celano  quattro  aguati,  di  Uggieri,  di  Folco  da  Smerì- 
glione,  di  Ruberto  da  Pontieri,  e  di  Canone  da  Losanna. 
Il  Danese  lascia  passare  liberamente  i  fratelli;  ma  per 
contro  il  maganzese  Folco  e  gli  altri,  che  appartengono 
del  pari  alla  stirpe  maledetta ,  s' affrettano  a  mostrarsi.  Al- 
lora Alardo,  Guicciardo  e  Ricciardetto,  credendosi  traditi 
dal  fratello,  lo  vogliono  uccidere:  ma  rinsaviti  per  le  pa- 
role di  luì ,  gli  chieggono  perdono.  Egli  poi ,  ornai  chiaro 
d'ogni  cosa,  si  gitta  sui  conti  guasconi,  uccide  rArchr&* 
scovo  d'Avignone,  e  pone  gli  altri  in  fuga.  Non  essendovi 
modo  a  scampare,  i  quattro  fratelli  scendono  dai  muli, 
su  cui  Ivone  li  ha  costretti  a  qui  venire,  e  s^  apparec- 
chiano a  far  difesa  colle  sole  spade.  E  già  i  nemici  s'ap- 
pressano (XXXIV,  163  v."*),  e  comincia  la  zuffa.  Rinaldo 
tocca  da  Folco  una  ferita,  ma  pure  gli  vien  fatto  di  uc- 
ciderlo e  d' impadronirsi  dello  scudo  e  del  cavallo;  quindi, 
provveduti  al  medesimo  modo  i  fratelli,  resiste  con  animo 
imperterrito  ai  nemici.  Pure  alla  fine  manca  ogni  speranza; 
Ricciardo  è  a  terra  ferito  mortalmente;  gli  altri  allora, 
postolo  sul  cavallo ,  lo  traggono  a  gran  fatica  ad  una  rocca 
guasta,  ove  ancora  potranno  reggere  qualche  poco.  Ivi 

Rinaldo  non  guardò  di  far  posate; 
Ricciardo  puose  sulla  terra  dura 
Con  le  budella  del  corpo  cavate; 
Sovra  il  suo  manto,  e  poi  sotto  la  testa 
Gli  misse  un  sasso  e  niente  fé'  resta. 

Egli  poi  si  pone  con  Alardo  e  Guicciardo  a  difendere  l'en- 
trata. Veduto  ciò ,  Uggieri ,  desideroso  di  soccorrerli  senza 
parere,  accorre  e  grida  loro  di  arrendersi;  ma  ricevendo 
risposte  ingiuriose,  fa  ritrarre  gli  altri,  e  manifestato  come 
sia  qui  venuto  suo  malgrado,  dà  loro  agio  di  fornirsi  di 
pietre.  E  siccome  i  maganzesi  Io  prendono  a  sgridare, 
egli  risponde  menando  ad  uno  di  loro  una  fiera  mazzata. 


—  81  — 

fXXXV,  168  ».")  Ma  mentre  i  quattro  fratelli  si  iro- 
vaao  ÌD  così  grave  traTaglìo ,  .Malagigi,  (ornalo  dalla  caccia, 
risa  (la  Goodarte  tatto  l'ordine  del  tradimento.  Raccolte 
senza  iiulagìo  le  gt:Dti,  sì  parte,  meoaiido  seco  Bajardo, 
e  si  conduce  in  Valcolore ,  dove  il  fiero  cavallo  s' apre  a 
morài  e  calci  la  via  fino  al  suo  signore.  11  Danese  ìnlaolo 
abbatte  Malagigi,  che  lo  aveva  assalilo,  ma  poi  lo  tasca 
andare  scnz'  altro  inciampo  alla  rocca.  Quivi  egli  con  mi  suo 
balsaiQO  risana  ogni  ferita,  e  ritorna  i  cugini  al  primiero 
vigore;  sicché  reintegrata  la  battaglia,  ì  magaozesi  smki 
rolli,  e  U^eri  prende  a  guadare  la  Gironda.  Motteggialo 
da  Rinaldo,  torna  addietro,  ma  poi  questi  doo  tooI  sa- 
perne di  combalEera  eoo  lui  Da  ottimo  i  Quaramaolesi 
lomano  con  molti  prigionieri  e  ricca  prttb,  e  Itone,  ri- 
aputo  ti  fatto,  fu^ge  a  una  badia  ne)  bosco  ddla  Ser- 
poila.  Ma  poco  vale;  la  cosa  è  riferita  a  Orlando,  il  quale 
con  molle  genti,  e  accompagnato  da  Ulivieri  ed  Astolfo,  à 
reca  tosto  colà.  Ben  gli  ^  fa  iocootro  1*  abate  cantando 
e  portando  la  croce  ;  ma  Orlando  vnole  a  ogni  oknIo  i 
fellone,  e  ai  rifiuti  del  monaco  ri;>poDde  eoo  altro  cbe 


L'abale  prese,  in  terra  lo  percosee. 
Per  la  cappa  di  dietro,  a  lai  panilo 
Cbe  Kanza  più  del  mondo  fu  uscita 
Ulivier  prese  per  lo  scapuUre 
Sutiiio  di  que'roooaci  il  priore: 
1d  terra  il  percoteva  a  tale  albr<?. 
Che  nel  petto  gli  fé' crepare  il  cwe. 
Diceva  Astolfo:  Cosi  si  vuol  tue. 
Uccìdetegli  tutti  per  mio  amore. 
Gli  altri  monaci  si  fuggivao 
Per  la  badia  chi  aie'  può  s' ft 


cbe  liecondo   la   meoie   dei   ooslii 


—  82  — 
stolfo  non  fosse  un  modello  dì  pietà,  e  sopratutto  dm 
se  la  dicesse  troppo  coi  frati  e  i  romiti.  Come  poi  boat 
è  ritrovato,  gli  è  tratta  la  cappa,  e  posto  sopra  di  no 
mulo,  è  afQ(bto  a  cento  cavalieri,  perchè  Io  appiccfaino 
a  Monfalcone,  ìn  vista  di  MODtalbano,  sicché  Rinaldo  legfi 
le  sue  vendette  (XXXVI,  M^  y.').  Cosi  ortoiato  il  tetto, 
Orlando  toma  verso  il  campo: 

In  questo  mezzo  Rinaldo  giunge  al  suo  castello: 

E  quando  fur  sulta  sala  gioiosa, 

Venneli  incontro  la  sposa  e' suoi  figli, 

Clarice  bella,  tulla  lacrimosa, 

I  figljuoi  piangon,  che  parevan  gigli: 

Inginocchiarsi  sanza  prender  posa 

Al  prò'  Rinaldo,  ed  el  con  crudi  pigli 

Dice  a'tigliuoi:  Voi  siate  maltrovati 

Poi  che  di  tiaditor  voi  siete  nati. 
Dinanzi  a  me  non  mi  venite  mai. 

Né  voi,  né  vostra  madre,  ch'io  non  voglio. 

Clarice  piange  con  dogliosi  guai; 

Alardo  e  gli  altri,  vedendo  il  cordoglio, 

A  Rinaldo  diceano:  Glie  Tarai? 

Vedi  che  a  noi  non  piace  il  tuo  rigoglio 

Di  dirli  cosa  che  noiosa  sia. 

A  mal  suo  grado  facemmo  tal  via. 
ticr  suo  senno  avessimo  noi  fatto. 


—  8a  — 

Dirai  che  per  amor  del  solo  Idio 
Kl  venga  a  Tar  con  sue  man  ie  vemlelle 
Di  me  miser,  lapin,  traditor  rio, 
Che  missi  hii  e'  frali  in  si  rie  strette. 
S'elli  m'uccidon,  salvo  sarò  io. 
E  se  noi  fan,  tra  genti  maladelle. 
Gira  r  anima  e  '1  corpo  mio  tapino 
Colui  si  parie,  e  mettesi  in  cammino. 

jj^enuto  a  [tioaldo,  gli  fa  l'imbasciata,  e  questi  piemie 
irtìto  di  campare  il  traditore,  acciocché  non  si  dica  per 
I  moudo 

Uno  parerne  di  questo  s'appese. 


pITiDta  l'opposizione  dei  fratelli,  adima  le  suo  genti.  Ira 
ni  sono  duemila  annali,  condottigli  ^al  prode  Lamberto 
lonte  di  Tremogoa,  suo  parente  carnale,  e  s^ avvia  al- 
l'Impresa. Io  questo  tempo  medesimo  il  Danese,  die  sì 
"  tornava  doglioso  al  campo ,  s' incontra  in  Orlando ,  ed  è 
da  lui  chiamalo  traditore,  perchè  si  è  lascialo  sfuggire  i 
quattro  fratelli.  Già  si  sta  per  veuire  alle  mani,  quando, 
essendo  apparso  Rinaldo  coi  suoi,  Orlando  si  volge  con- 
tro di  luì  e  nella  giostra  è  gìttato  a  terra  per  colpa  di 
Veglianlino,  che  non  regge  all'  impeto  di  Bajardo  (\XXVII, 
179  v.").  Dopo  molti  colpi  Rinaldo  propone  di  sospendere 
il  duello,  e  consentendovi  l'avversario ,  sprona  il  cavallo 
alla  volta  della  Serpenta.  Per  via  incontra  la  schiera  che 
mena  Ivone  alle  forche,  libera  costui,  lo  trae  in  Montai- 
baoo,  e  datolo  in  custodia  alla  moglie,  torna  alla  bat- 
taglia. Intanto  i  nemici  erano  già  a  mal  partito,  sicché  a 
lui  non  resta  che  porre  compunento  allo  sbaraglio.  Com- 
piata cosi  r  impresa ,  egli  si  torna  ;  ma  Ricciardetto ,  troppo 
^Ido  neir inseguire  i  fuggiaschi,  è  sfidato  da  Orlando,  e 


—  M  — 

ila  lui  oo!>i->tu>  ffi^x^.  Solo  kì  MoDUlbno  Rinaldo  s'av- 
T(sle  ox)  JKvito  -iolor^  della  sua  manfana:  pure  Mala- 
vnp  lo  '.vxìfvYla.  e  tnnmtau>à  in  pdlegrino.  Tiene  a  Carlo 
e  dì  chi-ede  TeoieUi  dei  dùramontesi.  accusandoli  di 
averio  nitoio.  mxt'.vli  qaittn>  coBip^gni.  quindi  gittate 
m  urvi  5)e;^.  i.rr  k>  hiQD>  makoock)  i  morsi  di  rettili 
velro.>>L  L*  jnr«ef}tore.  tet>  ^uardioso  dair esperienza, 
x>>f^ui:  ii;oÌ£&fo:-  olisce  per  ttsòarsi  ancora  inGnoc- 
;iiur\  .ili  f il>.'  r^i^niìffe .  '±e  ìq  più  moA  à  h  beSè  di 
luL  rt-Kiic?:  r.i3p:o:«  Ve  !i»>re  di  Vakolorv  e  riempioao 
Ciri:  1  i5i7j:o.  ^ifrSC'  5i  >x-n?sw  aU*ndire  Tiidelice 
no-vivi  .1:1: 1  iifi  >:s:-s:ca  di  OFtDl>.  e  solo  lo  «ne 
r*:;j;iLi::  ».:  jlV^ilt:  ..i  :jC2n  ii  Kstxùrìc^,  al  qoale  Tim- 
jvrK.c:  !•>■  rriDif  rL7?jra.  ron^ìy  di  farlo  ioqMC- 
viT:.  l.  C3:rr.Kc:>  raccoif  ìrStamxàe.  e  pN^rtosso  da 
ijrr»:.  *•:  lAm  xc  ^xxKfLSL  Ki  i^t^S>  e  i  pieri  far- 
i:o:  a  *tr?:cTi:s»  .rcfcsi,  f  i  rri»x>?  rkooosce  allora 
ve  r:i:«j  j.  .cLrri:  s:c:  >f  jcci^f  ifi  paiaàero.  Cario, 
fcr&:  3if  ^t:c^i•:^:  ìi  luiiiirS:  Un   5:rAe.  cera  di  no 

m 

:c.a.  \ic&:.  l'^^^n.  'J-raiiò:,  Ttztic»  ^  A2%>K>  si  ri- 
z':.vcr  j;  ri.ui]»:  li'.i:  ili  ji  Tiri  railìty  ri  si  profle- 
-s;^:  v;i:cjr«:-u£n.»:r:L:  r:  iiuiraTJ^sf  S^»:  il  Ripamoole. 
Vfciia  :  :>':ci  xTh  :':si  ^éìùk^ìt  n  i  ^ferire  iì  tallo 
I  5.i:jò.     i   :rj:;ii.:  >tuju    i:iiTXijr    inxj  :  saj,"ì.  e   si  la 

\\\'A  IS?  •      K   voiji;  i5i>cìrrjc:  tee»:-  .-oq  traila 

TinCUTlt-fTù: 

•Mzri   i     •II*.'*     I   ;:r    III»!    i-v?!itr:     e*:  m  n«a  ii    s-j^i 


—  85  — 
t^  occhi  bendati  e  col  capestro  alla  gola.  Ma  se  donne 
R^aklo,  veglio  Bajardo:  il  quale,  veduta  la  cosa,  desta 
il  suo  signore,  che  balza  in  piedi,  soccorre  coi  suoi,  e 
in  luogo  del  Tralelto  Ta  che  sia  appiccio  Itispo  con  Intlì 
i  compagni.  Uicciardetlo  poi,  prese  le  anni  e  d  arallo 
di  costui,  viene  a  Carlo  e  lo  sfida.  Nello  sconiro  egli  è 
abbattuto,  ma  le  genti  chiaramontesi  lo  soccorrono, ne»- 
tiv  dall'altra  parte  si  Tanno  innanzi  i  fraDcesi,  coaedK  ì 
duello  si  tramuta  ìn  una  battaglia.  Rinaldo  scafala  Tìb- 
peratore,  ma  appena  riconosciutolo  gli  si  giiia  ai  peti, 
(XL,  19i  T.")  e  lo  prega  di  pace: 

To' Monte  Mtaao  e  Baiardo  die  bo  •ano. 
E'miei  tiglìuoli  e  b  domu  ebe  ntn. 
E  gli  altri  miei  Traiegli,  e  b  far  pace, 
E  dì  me  1^,  signor,  ciò  che  ti  pace. 
Per  amor  di  Gìesù  te  La  duomda. 
Che  sofTerse  per  voi  e  per  mì  mane. 


irìo  in  luogo  di 

I  U  spada,  lo  afferri,  e  lo  bunnUte  mm.  m 
rrìbile  colpo  di  Orlando  sm  I»  ao^haftmt  a  !»■ 
.  Intanto  Malagigi  si  arrende  ad  Cimri,  dke  b  Mb 
I  lo  dare  a  Carlo  per  qadli  ma,  té  «^  ftmttÈt 
alia  sua  volta  di  non  fa^ire  ■  qaeMo  toa^  Mmtim 
notizia ,  r  imperatore  si  ricooteti  ifokke  pan.  e  OM» 
Ei  con  Clivìeri,  che  qaesli,  ritenta  tima»  ite  i  tap»- 
manle  non  sarà  offeso  per  on.  gfe  I»  omÈKBt.  €■!•  to 
carica  di  minaccie,  e  ibiaffp.  I 
KODO,  gli  chiede  di  cemre  eoa  1 


—  86  — 
Niilladimeno  a  istanza  della  laronia  concole  la  grazia: 

Lo  imperadore  fu  a  l.ivola  posto, 
E  Malat{igì  gli  fu  posto  apresso: 
A  seder  si  gli  pose  alialo  loslo, 
Poi  gli  altri  suoi  baron  secoudo  ad  esso. 
Vivandò  assai  di  buon  lesso  ed  aroslo 
l^rlo  non  mangia  per  temenza  d'esso. 
Clic  non  gli  Taccia  qualctie  trulTaria. 
Tutta  la  genie  di  ciò  oc  ridia. 

Malgigi  (i }  maagia  e  tra  sé  rìde  e  gode  ; 
Carlo  il  guardava  per  isbalordito, 
E  d' ira  tutto  quanto  se  ne  rode. 

Kinito  il  mangiare,  Carlo  lo  fa  caricare  di  catene  (\U, 
19fl  v.") ,  del  die  egli  si  ride ,  e  dice  apertamente  di  w- 
lersi  partire  avanti  il  giorno.  Mentre  la  baronìa  si  soimk 
con  suoni  e  canti ,  V  imperatore  non  leva  gli  ocelli  dd 
negromante ,  che  dopo  uo  certo  tempo  addormenta  cii^ 
cuno  con  parole  magiche.  i]uindi  si  scioglie  dai  c8p{N< 
aduna  in  un  Tascio  Gioiosa  o  le  spade  di  tutti  i  palai 
Ciò  fatto,  per  maggiore  scherno  apre  gli  occhi  a  Carlo,  1« 
guisa  peraltro  che  non  possa  muovere  le  membra,  e  chi» 
stogli  congedo,  esce  dal  campo  e  s' abbatte  in  Kinaldo. 
uscito  fuori  per  cercare  novelle  di  \m. 

Venuto  il  giorno.  Carlo  si  risente,  e  risoTvennttS 
deir  accaduto,  desta  i  baroni,  dolenti  oltremodo  al  ritromj 
privi  delle  spade.  Quindi  egli  scrive  a  Rinaldo  una  letta» 
piena  d'ingiurie,  onde  questi  si  sdegna  sì  fortemente. di 
uscito  dalla  rocc^  e  lasciati  in  luogo  opportuno  i  ftatd 


(1)  Il  Cwl.  ha  Malagigi'  ma  r  i|ui  e  ili  Ogni  allro  luogo  ^  di 
riosiro  come  degli  altri  cnnlari,  dove  il  verso  richiede  ire  ùltabt,  1 
non  (luliito  non  s' ubbia  a  leggero  Malgi0,  fonn»  del  wsio  cbt  II 
risponde  alla  francese  (Mangìs). 


peg^Onodo  b  nlb  ka  !««. 
Udite  bel  miracol  e 
Cbe  Crìsio  fé' per  d 
Tra  lor  dse  gionsc  b  npri  mbi  ftiM»  -àe}, 
OtUDto  fti  per  ciaieBi  rieos  rnlar»! 
Cbe  Pud  non  socia  FiHn  afe  Tvlen; 
Dice  la  stona  cbe  (>«u  i  ( 
Che  QOD  ftUtn  cbe  Oriandt  | 
HoBtnase  sua  Tiftb  sopn  i 
^    pOB  mìvier  ^  areoac  liab^ 
bi  Vieona.  quando  e'tes»  afle  i 


lon  Oliando,  disceso  a  \em. 


A  guisa  come  io  bari  tv  jh^me; 
Fone  clie  Cario  nitighert  rin. 

lo  appa^,  uè  è  a  <6n  qnrto  Carlo  atUolori  p 
de]  nipote,  condoOo  in  MuiftlbaDo,  e  iti  a 

rande  onore- 
questo  mentre  sbarca  a  Borddb  fl 
d'  Oriente  per  Tcndicare  la  norie  4  ] 

aUri  SQoi  fratelli  noeta  da  I 
Ilo  a  Urlo,  i)  quàt  lo  ueno»,  iwiirllirti  » 


pagano  di  rinnegare  Cristo,  se  egli  lo  libera  dal  sno  i 
mico.  Di  cid  prendono  tanto  sdegno  Namo,  Ulivieri.  Aslolfci 
Guido,  Ottone,  Berlinghieri,  Gualtieri  e  il  Danese,  che  e 
molle  genti  se  ne  vanno  in  Monlalbano.  Gatlamoglier^ 
venuto  in  campo,  manda  a  minacciare  acerbamente  Binaldo; 
questi  (XIJII.  209  v.°),  apparsa  l'alba,  esce  fuori  armalo, 
di  Dnrlindana.  e  dopo  lunga  znfia  spiccalo  il  capo  al  S»- 
racino,  lo  reca  a  Cirio,  rimproverandolo  e  diiedemloi 
pace,  Ma 

Carlo  gli  volse  le  spalle  e  noi  mira  ; 
Rinaldo  fra  la  sua  genie  si  tira. 

I  pagani  sono  messi  a  sbaraglio,  e  tutti  i  paladini  Tanno 
insieme  a  supplicare  l' imperatore,  che  sempre  ostiiwU, 
risponde  cliìamandolì  felloni  ;  ond'  ossi  tornano  a  Montal- 
bano,  dove  la  sera  Mnlagigi  promette  a  Rinaldo  dì  Ant^ 
preso  Carlo,  avutane  sicurezza  che  non  sarebbe  oifési 
Venuto  poscia  nel  campo,  addormenta  quanti  soao  nei 
padiglione  imperiale,  e  ravvolto  Cario  in  un  capperone,  la 
porla  in  Monlalbano.  Quivi  lo  depone  sopra  di  unleHo,* 
vi  conduce  Rinaldo: 

Carlo  gli  mostra  dalla  cera  ardita: 
I  Fa,  fraisi  mìo,  che  tu  .ibhi  perdono 
Prima  che  ci  esca  »,  e  poi  fece  partit^i. 
Rinaldo  il  guarda  per  isbalordito, 
E  non  guardò  Malgigi  eh"  ene  ito, 
Forse  per  non  alarlo  più  giil  mai 
Uhi  quanto  Qa  Rinaldo  doloroso. 
Ora  direm  di  Malagìgi  ornai, 
Che  se  ne  va,  quel  baron  dilettoso; 
E  dìspogliossi  i  drappi  d'oro  e  vai. 
Poi  si  vesti  di  un  panno  tenebroso. 
Con  una  gonna  grossa  ed  un  mantello. 
Scalzo,  ed  in  testa  non  avia  nulla  elio. 


—  m  — 

E  tanlo  cammiQÒ  di  noUtì  e  gioriia 
Che  anivd  in  un  bosco  Tolto  e  scuro; 
Nel  folto  bosco  andò  lanto  dintorno. 
Che  fece  ud.i  cellcttjt  a  secco  muro. 

(1) 

Di  Trasche  uo  letto  corto  e  mollo  duro. 
Di  spine  e  pnin,  per  maggior  penilenzia, 
E  quivi  orava  Iddio  con  peniienzia.  (2] 
D'  erbe  selvaggie  ognor  se  nutricava, 
E  dell' Kque  beveva  di  una  fonie; 
Cristo  per  sé  e  per  altrui  pregava, 
E  per  tutta  la  gesta  dì  Chiarmotile. 
Spezialemcnte  a  Dio  iticcom^indava 
Rinaldo  e'  suoi  trale'  colle  mas  giunte, 
E  che  pace  lor  renda  Carlo  Mano. 
Or  vo'  tornar,  signori,  a  Montalbano. 

ì  Rinaldo  chiama  i  fratelli,  tra  cui  Ricciardo  vorrebbe 
lo  l'iioperatore,  per  vendetta  dell' averlo  voluto  impic- 
l  Ma  Rinaldo  si  oppone,  e  in  quella  vece  (XLN.  214  v.") 
luce  al  letlo  latti  i  baroni,  e  avutane  promessa  che 
rtcderaoDo  per  lui,  con  certe  erbe,  delle  quali  gli  ha 
peto  l' uso  Malagigi,  risv^lia  Carlo,  il  quale 


Aperse  gli  occhi,  intomo  riguardossi. 
Vide  la  zambra  dipinta  a  fin  oro. 
Credendosi  esser  dentro  al  padiglione; 
Subilo  si  pensò  di  qnel  lavoro, 
Glie  Malagigi  dormendo  il  portone. 
Da  seder  si  levò  ira  tutti  loro, 
D' ira  cruccioso,  e  non  facea  sermone. 
I  paladini  e  Rinaldo  cTratcgli 
In  ginocchion  tutti  si  mìssor  egli. 


—  90  — 
Ma  anche  questa  volta  le  preghiere  dod  valgono  a  anaovere 
Carlo,  che  vitupera  i  suoi  come  traditori  e  sfida  Rinalda 
Questi,  geDtile  quaPegli  è,  lo  libera,  rende  la  corom 
imperiale,  l'insegna  e  le  dodici  spade,  e  mole  aocon 
donargli  Bajardo;  ma  T  imperatore,  tornato  al  campo,  li- 
manda  il  cavallo  e  quindi  dà  l'assalto  alla  rocca.  Qnesb 
resiste,  e  allora,  e  agli  sforzi  rinnovati  nei  giorni  succes- 
sivi ;  se  non  che  poco  a  poco  vi  si  fa  sentire  h  l^e,  àie 
insieme  colle  continue  battaglie  la  viene  spogliando  al  tutto 
di  difensori.  Oramai  vi  rimangono  soli  in  vita 

Rinaldo  e'  suoi  frategli,  e  '1  prò"  Lamberto, 
Clarice  e' figli,  e  'I  re  Ivon  diserto. 

Costui  dal  momento  della  sua  liberazione  dalle  forcbe 
rimase  sempre  imprigionato.  Ad  aggravare  gli  stenti  Cirio 
fa  rizzare  certi  trabocchi: 

Di  Monte  Albano  opi  cosa  era  alTraota; 
Solo  le  mura  e  la  rocca  vi  dura. 
Che  la  fé" far  Maiagigi  per  arte: 
Pietra  non  se  ne  rompe  né  diparte. 

Di  otto  cavalli  superstiti  quattro  vengono  divorati;  e  siri»- 
gcndo  sempre  più  il  bisogno,  si  fa  il  medesimo  di  quelli 
(li  Ricciardetto,   (XLV,   219  v.°),  di    Alardo  e  di  Gmf- 


Vegati  quindi  i  fratelli  e  la  mogie  A 
sera.  <;sce  dal  castello  e  à  rea  il 
.'amor  paterno  parta  toàlo  al  ewredi 
'  aricatd  di  tetto?; 


Poi  per  partirsi  dal  doa  fa  i 
I  Dicendo:  Padre  mio,  Cristo  ti  g 

Del  ben  cbe  tu  ci  lai.  Ed  e)  lispoose 
Al  prò'  Rinaldo:  Figluo',  siile  certi. 
Che  mai  celale  non  vi  fien  mie  cose; 
Facdami  Dio,  come  gli  piare,  meni. 


—  oz- 
io v'alerò  in  palese  ed  in  nascoso. 
Rinaldo  Y  abbracciò  di  sotto  al  petto, 
Poi  si  diparte  a  pie  tutto  soletto. 

Fedele  alla  promessa,  Amone  in  luogo  di  pietre  trabocca 
nottetempo  nel  castello 

bottacci  di  cuoio  incotto, 

E  castroni  e  gran  sacchi  di  pan  cotto. 

Ma  essendosi  un  giorno  scoperto  V  artificio.  Amone  è  fatto 
uscire  dal  campo,  e  la  fame  toma  in  Montalbano  sì  acerba, 
che  per  illuderla 


Da  due  volte  Baiardo  insanguinaro; 
Ma  poco  li  durò  tal  bandigione. 


Da  ultimo  Lamberto  si  risovviene  di  un  antico  sotterraueo, 
che  li  dovrebbe  poter  condurre  oltre  i  nemici;  tutti  si 
danno  a  cercare,  e  riescono  alla  fine  a  ritrovarne  la  bocca. 
In  questo  tempo  Rinaldo  trova  morto  Ivone,  e  lo  piange. 
Quindi  la  notte  i  superstiti,  compreso  Bajardo,  entrano 
nella  caverna,  e  venuti  all'aperto,  camminano  finché  per- 
vengono a  un  romito  della  casa  di  Chiaramente,  dal  quale 
hanno  cena,  alloggio  e  tre  cavalli.  Di  poi  si  conducono 
fino  a  Tremogna,  la  città  di  Lamberto,  (XLVI,  224  v.') 
dove  sono  in  ogni  maniera  onorati,  e  dove  per  volontà  di 
Lamberto  istesso,  la  signoria  è  data  a  Rinaldo. 

Per  più  giorni  Carlo  non  s' avvede  di  nulla  :  alla  fine 
il  non  udire  alcun  rumore  lo  induce  a  scalare  la  rocca, 
e  non  vi  trovando  anima  nata  e  nemmeno  cadaveri,  si 
toma  scornato  a  Parigi.  Ma  Gano  con  sue  spie  scopre  il 
ricovero  dei  Chiaramontesi  ;  allora  Carlo,  raccolte  le  sue 
genti,  muove  a  quella  volta,  e  Rinaldo  gli  si  fa  incontro 


Hlbni 


—  93  — 

con  un  grosso  esercilo.  Già  sono  ordinate  le  schiere:  pure, 
avanlì  che  sì  dia  principio  al  combattere,  Rinaldo  va  un'altra 
volta  soletto,  ma  ancora  indarno,  a  chiedere  il  perdono. 
Così  sì  fa  battaglia,  e  per  più  giorni  sì  rinniiova,  con 
gravissimo  danno  di  ambedue  le  parti;  ivi  resta  morto 
il  baon  Lamberto. 

Mentre  i  Chiaramontesi  sono  io  tale  travaglio,  e  si 
ino  rinchiusi  nella  terra,  Mnlagigi,  Tatlone  accorto,  non 
piiì  dal  demonio,  ma  da  una  visione,  delibera  di  rivederli 
ancora  una  volta  e  quindi  pellegrinare  a  Gerusalemme 


I 


Acciò  che  Cristo  a  pace  gli  riduca, 
Prima  lor  morte,  con  quel  re  Cai-Ione. 
E  poi  si  mosse  con  sua  Taccia  bruca, 
E  prese  un  grande  e  pesante  bastone. 
Dell' acqua  beve  e  dell'erbe  manduca, 
La  barba  gli  copri»  '1  petto  e  '1  ventrone, 
Discalzo  e  magro  per  la  scura  vita. 
La  taccia  aveva  palìda  e  smarrita. 


Attraversando  un  bosco,  vendica  alcuni  mercatanti  di  c^erU 
ladroni,  uccidendo  sei  di  costoro  e  a  due  rompendo  bisaccia 
e  gambe:  di  poi  viene  a  Tremogna,  e  si  appresenla  a 
Rinaldo,  che  siode  a  tavola  coi  fmlellì  e  la  moglie  (XLVII, 
220  v.").  Quantunque  niuno  lo  riconosca,  gli  è  fatto  assai 
onore,  ma  egli  altro  non  vuole  che  un  pane  e  dell'acqua. 
Finito  il  mangiare,  si  scopre  ai  cugini,  i  quali  lo  credono 
così  sfigurato  per  arte: 


Chi  in  ginochione  e  chi  ritto  T  abbraccia. 
Di  tenerezza  ognun  par  che  si  sraccia. 
Rinaldo  e  gli  altri  parlavan  piangendo: 
•    0  signor  nostro,  ritorna  in  tuo  viso. 
Malgigì  con  amor  parlò  dicendo: 
f  Per  lo  servire  a  Dio  di  Paradiso 


—  94  — 

Son  venuto  si  scuro  > ,  e  poi  godendo 
Gli  abbraccia  ftitti  con  tenero  riso.    * 
Poi  con  suoi  dir  gli  fece  chiari  e  certi 
Com'  era  Malagigi,  e  ne'  diserti. 

ProfTerendosegli  ricchi  doni,  non  accetta  nulla,  sal?o  che 
gli  sia  ferrato  il  bordone  ;  quindi  si  parte,  sempre  pregando 
Iddio  di  voler  dar  pace  ai  suoi  cari.  Rinaldo,  rimasto  con 
gran  dolore,  assale  il  campo  e  fa  prigione  Riccardo  di 
Normandia.  Ne  addolora  Carlo;  ma  in  luogo  di  piegarsi, 
manda  a  minacciare  Rinaldo,  il  quale  risponde  con  rizzare 
le  forche,  solo  per  mostra  e  a  terrore  dei  nemici.  A  ot- 
tenere ancor  meglio  l'intento,  vi  conduce  Riccardo,  come 
volesse  tosto  impiccarlo.  Allora  tutti  i  paladini  si  fanno 
a  supplicare  Carlo ,  già  dogliosissimo  per  sé  medesimo, 
(XLVIII,  235  v."*)  tantoché  alla  fine  egli  si  lascia  smuovere, 
e  così  parla  ai  suoi: 

Duo  di  voi  vada  a  Rinaldo  e  dicete 

Che  io  gli  rendo  la  pace  in  questo  modo: 

S'  el  vuol  far,  mio  comando  posto  ho  in  sodo: 
Che  io  voglio  i  figli  e  la  dama  e'  frategli, 

E  si  Baiardo  e  la  sua  armadura: 

E  pace  lor  vo'  fare  a  tutti  quegli, 

E  render  lor  le  tórre  a  dirittura; 

E  sol  soletto,  scalzo  ne  vada  egli 

Là  dove  Cristo  fu  sua  sepultura; 

Accattando  per  Dio,  sanza  altra  scorta. 

Con  un  bastone  in  mano  esca  la  porta: 
Che  dinanzi  da  me  noi  vo'  vedere 

Se  uno  va  prima  scalzo  dove  il  mando. 

Per  quanto  duri  siano  questi  patti,  vengono  accolti  con 
giubilo,  e  Rinaldo,  prese  vesti  da  pellegrino,  senza  indugio 
si  pone  in  viaggio.  Clarice  cade  allora  tramortita,  e  quando 


—  95  - 

si  risente  giura  di  leiicr  sempre  il  bruno,  fino  a  che  non 
sia  tornato  il  marito.  Carlo,  avuto  Bajardo,  lo  fa  gittare 
nel  fiume  con  una  macina  al  collo:  ma  il  cavallo  riesce 
coir  indomita  sua  fierezza  a  spezzarla  e  scampare.  Uscito 
dall'acqua,  va  indarno  ricercando  il  suo  s" 

I Prima  di  partire  Carlo  rende 
lelli  di  Rinaldo: 


A  Monte  Alban  n'andò  ed  a  Dordona, 
Paura  avea  di  lui  ogni  persona, 
lu  quella  grotta  ove  venne  il  serpente 
Tonio  il  divallo  onde  Malgigi  il  trasse. 
Mai  più  non  fu  dì  verun  uom  vìvente, 
Carlo  né  suoi  non  seppe  ov'cgli  andasse. 


I  terra  e  ogni  cosa  ai  fra- 


G  tutti  si  tornarono  a  Dordona, 
E  Carlo  con  sua  genie  tornò  in  Francia; 
E  secondo  che  il  libro  mi  ragiona. 
Il  duca  Amone  mori  in  poca  stanza; 
Mori  la  madre  lor,  come  sì  sona. 
Onde  Clarice  ebbe  tal  loalenanza. 
Che  si  mori,  onde  che  gran  lamento 
Fero  e  Hgliuoli  e  suoi  frale'  possenti. 


E  frattanto  Rinaldo  limosinando  la  vita  arriva  a  Giaffa. 
e  capita  ad  albergare  nella  casa  medesima,  ove  Malagigi 
si  riposa  delle  asprezze  del  cammino.  Lieti  oltremodo  di 
rivedersi,  ripigliano  T  indomani  insieme  la  via,  e  giungono 
presso  Gerusalemme,  assediata  allora  da  grande  oste  di 
Cristiani,  liramosi  di  ritoglierla  air Amostaote,  che  v'era 
entrato  per  frode  e  aveva  fatto  prigioniero  il  re  Simone 
(XLfX,  2Ì0  v.").  Si  dà  battaglia,  e  i  cristiani  indietreg- 
giando   vengono   .id    -itikitlorc    una    capanna    di  frasclio. 


—  96  — 

oift»tnitta  dai  dae  peUegrini  per  rqMsanìsL  Questi  dlon, 
armati  ili  tia5t<>Qi,  si  cacdano  Del  più  fiorte  delb  misdù 
e  faoDO  macello  di  SandoL  Terminata  poi  la  battaglia,  si 
danno  a  conoscere,  Skcdà  Rin^o  è  creato  eoo  festa  ca- 
pitano generale.  Egli  aUi^ra.  ordinata  ogni  cosa  oomeab- 
Tolmente,  dà  T  assalto,  e  presa  la  città  costringe  T  Amo- 
stante  a  tornarsene  in  Francia.  Sdolto  per  tal  go^a  fl 
voto,  s*  cidono  nc*Telle  cbe  Cario  è  intonw  a  Roma,  per 
ritoglierla  al  ne  Fatiorro  d'India,  che  Tba  oonqjaistata  e 
la  difenile  con  doecento  mfla  pagani  Allora  3  re  Simone 
e  gii  altri  signori  cristiani  allestiscono  on' armata,  e  con- 
dottisi a  SaieriK*.  la  lil^rano  dall*  assedio  che  già  le  aveva 
posto  r  Amristaiite.  p*er  far  vendetta  del  re  3fatteo.  Tenuto 
a  oste  a  Genisalemme.  LWmostante  muore  affogato,  e 
Rinaldo,  cresciato  «^i  di  cn«jve  gentL  viene  a  Roma  e 
alletta  foori  dalle  mora  il  re  pagano,  mentre  ^blagigi, 
appiattatosi  press«>  la  p*>xta.  o>gUe  0  destro  per  avviarsi 
alla  città.  Avvistosi  delP  ioganai:».  Faborro  torna  rapidamente 
addietro.  L.  245  v.')  ma  Rina]«lo  lo  assale,  lo  ncdde  e 
fa  a  pezzi  tutti  i  san«:toL  QoìdIL  avuta  la  terra,  inalbera 
io  o-zni  p<irte  le  sae  tiandiere.  oxi  granale  maraviglia  di 
Cario,  che  teme  sia  •{oesto  iir>:>  stratagemma  dei  nemici; 
ma  tosto  veD;r*:>fì*:*  a  lai  Ric^akio  e  )lalagigL  e  gli  rimettono 
le  chiavi  ili  Gerosalemme  e  *li  Roma.  Allora,  ottenuta  eoa 
iosperatameate  la  vittoria,  tiitte  I^  genti  si  tornaDO  liete 
in  patria,  e  Ri&aldo.  riavuti  i  fenili,  insieme  eoo  Malagigi 
rifabtirica  Mootaltar^^.  Mj  solito  appnftsso  il  figlio  di  Baovo 
toma  al  n:kQUti>r>x  e  vi  murfVc  in  t4we  [^er  b  durezza 
della  penitenza.  Ivi  RioiMo  erice  on  convento 

Liouto  «li  ricfeexa  e  t-eae  e  tarilo; 
E  chiinaasi  e  cbja3&>  Nin  MjU^j^ 
Perchè  wAxi  miracoii  fece  elio. 


Maggiore,  da  coostawm  a  S. 
1  Dio  vi  si 

)  alacrità  da  br 
flgti  solo  nle  per  notti,  i 
dì  manoali;  però  costar^  niraiÉ 
iarlo,  e  lu  g^onn. 


Al  Danubio  D*a 
Che  correa  forte 
Dentro  il  gitUr,  la  gnir 

lai  Rinaldo  è  santificalo  ( 
t  accorrono  i  pesci  a  «osteaere  i  3aa%  e  h  i 
mpane  della  città  incomiDciaao  a  s 
le.  LeTalisi  allora  gli  abitanti,  Teggon»  ni  ^^  § 
,  che  si  sta  a  galla,  e  ana  schien  d'aoRei  <ftc  ■ 
no  sopra.  Trattolo  dall'acqua  e  rinrenaton  i  e 
i  elio  lutti  conoscono  come  il  ManoaJe  dì  £,  | 
>  lamento  lo  pongono  sopra  una  ornila 


Diuno  riesce  a  tirare,  ma  la  quale,  lasciata  Ubera, 
da  sé  medesima  e  si  feima  a  ima  villa  a  meno 
lega  da  Cologna.  Ivi  accadono  infiniti  miracoli  d 
d'  ogni  sorta  restituiti  a  sanità. 

Ed  ecco  capitare  a  questo  luogo  i  fratelli  e  ì 
che  già  da  tempo  andavano  cercando  di  Rinaldo. 
sciuto  il  cadavere,  annunziano  la  dolorosa  nuova  i 
e  questi  viene  col  suo  baronaggio,  e  fa  costrorre 
ricca  badìa,  che  si  chiama  ancora  San  Rinaldo, 
poi  fa  vendetta  degli  uccisori;  quindi 

Fatta  quella  vendetta  ritoraarsi 
Carlo  e'frategli  e  l'altra  baronia,* 

e  così  ha  termine  il  libro. 


VI. 

Tali  sono  gti  ultimi  venticinque  canti  del  pm 
non  hanno  riscontro,  ch'io  sappia,  nei  nostri  roH 
prosa.  Ma  in  quella  vece  ben  lo  trovano  nel  Rom' 
cese;  anzi  ve  lo  trovano  sì  continuo  e  paku»,  i 
avrei  potuto  risparmiare  la  fatica  del  rìa^una^  V 


prima  parte,  e  che  alla  prima  si  riconoscevano  per  invenzione 
italiana.  E  così  pure  gli  allri  caratteri  del  nostro  romanzo 
cavalleresco  hanno  intaccato  assai  lievemente  la  forma  origi- 
naria del  racconto.  Certo  anche  qui  Gano  e  i  Maganzesi  sono 
intromessi  ogni  qualvolta  vi  sia  da  compiere  qualche  fel- 
lonia, ed  è  singolarissimo  come  per  tal  guisa  essi  vengono 
a  prendere  talvolta  ìl  luogo  di  taluno  fra  i  baroni  pili 
lodati,  ed  anche  di  Carlo  stesso.  Infatti  nel  testo  iu  lingua 
d'o'il  il  consiglio  di  tentare  Ivone  di  tradimento  viene  dal 
savio  e  illibato  duca  di  Baviera;  le  spie  che  dopo  la  di- 
struzione di  Montalhano  vanno  ricercando  il  ricovero  dei 
Cfiiaramontesi,  non  sono  inviate  da  Gano,  sibbene  dall'im- 
peratore, a  ciò  istigato  da  Orlando.  Però  uno  tra  gli  stimoli 
a  porre  in  così  brutta  luce  la  casa  di  Maganza  devesi 
ricercare  nel  desiderio  di  togliere  agli  altri  baroni  certe 
parti  odiose  loro  assegnate  nei  romanzi  fi'ancesj,  composti 
io  un'  età  di  costumi  più  rozzi  e  pìii  fieri.  Altro  esempio 
del  medesimo  fatto  noi  troviamo  precisamente  al  principio 
di  questa  seconda  parte.  Nel  testo  francese  non  è  già  Gano 
r  autore  degli  scandali  e  della  nimìcizia  Ira  Carlo  e  Rinaldo; 
è  in  quella  vece  l'imperatore  istesso,  il  quale  tornandosi 
da  Compostelia  scorge  la  nuova  rocca,  e  nianda  a  minac- 
ciare acerbamente  Ivone.  se  non  gli  consegna  i  quattro 
banditi:  ma  avutone  un  reciso  ririnlo,  si  toma  a  Parigi 
e  va  macchinando  la  guerra.  E  qui  ìl  testo  fnince.se  narra 
distesamente  una  guerra  contro  ì  Sassoni,  nella  quale 
Orlando  mostra  per  la  prima  volta  il  suo  valore.  Nel  poema 
italiano,  dove  questo  episodio,  introdotto  per  certo  nel 
Bcnaud  in  età  assai  tarda,  è  appena  accennato,  i  Sassoni 
sì  trasformano  in  Saracini  clie  invadono  la  Provenza,  e  il 
loro  re  Escorfaut  nel  gigante  Scrofaldo  :  la  quale  tramuta- 
zione  deve  certo  essere  notata  diligentemente  da  chiunque 
studìi  le  leggi  che  reggono  lo  svolgimento  del  ciclo  caro- 


—  100  — 

Il  bando  della  giostra,  V  andata  di  Rinaldo  e  il  ratto 
della  corona  si  accordano  quasi  in  tutto;  nel  testo  francese 
è  la  Senna  il  fiume  a  cui  giunge  Rinaldo,  e  che  ef^  varca, 
lasciando  Carlo  suir  altra  riva.  Ma  poi  secondo  questa 
versione  T  imperatore  non  procede  più  innanzi;  sicché  non 
trova  riscontro  V  episodio  di  Malagigi,  che  si  fe  giuoco  di 
lui  in  forma  di  pellegrino.  Tuttavolta  la  mancanza  potreb- 
besi  attribuire  air  imperfezione  dei  testi  a  noi  pervenuti; 
almeno  dà  ansa  a  pensare  cosi  un  luogo  della  scena  in  cui 
Malagigi,  a  procurare  la  liberazione  di  Ricciardetto,  si  reca 
alla  tenda  imperiale  in  sembianza  .di  palmiere.  Ivi  Carlo 
pronunzia  queste  parole: 

Je  n^  amerai  pauroier  por  Maugis  le  laron  ; 
Maint  damage  m^a  fet,  roainte  pe^secution, 
Quand  il  velt  est  paumier,  e  qaand  il  velt  gddon. 

Ora  nei  testi  francesi  sarebbe  questa  la  prima  volta  che 
Malagigi  assume  cotale  travestimento. 

Venendo  innanzi  troviamo  leggiermente  spostate  alcune 
scene  nel  tradimento  di  Yalcolore,  dove  del  resto  è  meravi- 
glioso raccordo  tra  le  due  versioni.  Così  la  guarigione 
delle  ferite  di  Ricciardetto  per  virtù  del  balsamo  di  Malagigi 
ha  luogo  nel  testo  marciano  solo  dopo  la  disfatta  dei 
Maganzesi:  dove  per  verità  sembra  più  logica  la  nostra 
versione.  Ma  più  gravi  assai  sono  le  differenze  là  dove  il 
poema  palatino  racchiude  V  episodio  di  Gattamoglìera;  non 
solo  questo,  come  ben  si  poteva  affermare  con  certezza 
anche  a  prióri,  manca  affatto,  ma  altresì  riescono  assai 
differenti  le  narrazioni  che  lo  circondano,  od  hanno  con 
esso  attinenza.  Dopo  che  Malagigi  si  è  fuggito  recando 
seco  le  spade,  l'imperatore  non  iscrive  già  una  lettera  a 
Rinaldo,  sì  gli  manda  ambasciatori  Namo,  Turpino,  Astolfo 
ed  Uggieri,  offerendo  qual  prezzo  per  la  restituzione  un 


—  101  — 
aaao  di  tregua.  Rinaldo  aderisce  alla  pnipoda,  ed  t 


coi  messi  per  ricevere  gli  oslag^: 

ditore  appartenente  suiza  daU)io  al  iigDaggio  A  Gmm, 

offi«  a  Carlo  di  dai^lielo  preso,  e  questi,  che  ìb  Mto  fl 

romanzo  tien  molto  del  fellone,  accetta  d  bona  grwio.  li 

dopo  rari  casi  Alardo  e  Rinaldo  tommo  sid 

e  con  loro  i    quattro   baroni   Tenati   a 

quelli  ciie  avevano  preso  sopra  la  loro  fede  T  « 

dei  patti.  Carlo  allora  si  apparecdiia  ai 

e  Namo,  risaputolo,  tenta,  ma  ìndam^  41  i 

pace  ;  però  Malagigi  coaceptsce  e  dà  esaonoae  d  f 

di  trasportare  dentro  la  rocca  V  a 

Se  colali  differenze  si  U^vassero  già  wé 

eoi  ebbe  origine  la  versione  in  ottura  i 

forse  eoa  maggiore  verisimiglianza  a  p 

l'interpolazione  del  caso  di  ( 

oiatare  (piesta  parte  del  nccooto.  I 

momento  si  è  questa,  che  od  lesto 

j&a  Orlando,  colui  che  desta  V  'm 

i  lo  ha  immerso  Mal^^  colie  cbb  aiti;  I»  a 
^  il  veder  qui  il  paladiDO  ( 


h  iiioU  set  d' eochanlemeol  RoDaad  le  Earte  i 


lilla  mente  l'episodio  di 
I  e  in  rima,  derivato  sena 
»la  da  Padova. 
Da  questo  punto  le  diversità 
liimatore  deve  avo-e  attinto  eoo 
,  à  perchè  questo  doveva 
ì  a  noi  conservati.  È  notevole  il  mm 
i  alcuna  menzione  di  Lamberto  <& 
g)o  che  a  mìo  giudizio  non  paó  ii 
Indicarsi  un'  invenzione  italiana,  lobtti,  a 


'Pnt0 


—  102  — 

è  qui  introdotto  a  gloriflcazione  della  città  di  Dortmand, 
la  quale  tiene  un  luogo  importante  nella  storia  di  Rinaldo, 
veneratovi  sugli  altari.  Anche  nei  testi  francesi  è  sotto  le 
sue  mura  che  Analmente  i  quattro  figli  d' Àmone  ottengODO 
la  pace:  ma  chi  vi  accoglie  i  fuggitivi  è  il  Vescovo,  non  già 
Lamberto.  Ma  per  farla  breve,  lascierò  a  chi  lo  volesse  la 
cura  di  rilevare  altre  numerose  discrepanze,  ponendo  a 
paragone  T  ultima  parte  del  racconto  nel  testo  francese  e 
nel  mio  sunto.  È  superfluo  avvertire  non  iscorgersi  nei 
testi  francesi  alcuna  traccia  dei  fatti  di  Salerno  e  di  Roma, 
nei  quali  appaiono  manifesti  i  caratteri  delle  invenzioni 
italiane. 

Gotali  diversità  appariranno  ben  lievi,  se  si  paragonino 
còlie  somiglianze,  continue  e  assai  strette:  le  quali  già 
per  sé  medesime  ponno  bastare  a  confermarci  nell'opinione, 
che  anche  in  questa  parte  il  rimatore  non  attingesse  a  un 
romanzo  in  prosa,  ma  sìbbene  ad  un  testo  in  lingua  stra- 
niera, simigliante  assai  alle  versioni  francesi  che  noi  pos- 
sediamo. Mi  pare  inutile  aggiungere  nuovi  argomenti,  facili 
del  resto  a  trovarsi,  per  provare  nuovamente  il  fattb  che 
io  credo  aver  dimostrato  per  quanto  spetta  ai  primi  ventisei 
canti.  Certo  se  T  autore  ebbe  dinanzi  fino  a  quel  punto 
una  versione  franco-italiana,  non  v'  è  ragione  di  sospettare 
che  da  indi  innanzi  V  abbandonasse.  Gh'  egli  traducesse,  e 
traducesse  da  un  testo  in  rima,  lo  possiamo  confermare 
anche  colle  parole  di  lui  medesimo: 

G.°  XX VII,  i.  Grazia  dimando,  Vergine  beata, 

Ghe  la  mia  mente,  che  a  rimar  ritoma 
La  bella  storia  eh'  ho  volgarizzatay 
Piaccia  e  diletti,  etc. 

G.*"  XXIX  Gli  stormenti  cominciano  a  sonare, 

Secondo  che  il  cantar  dice  per  rima. 


—  103  — 

*Del  resto  non  senibi'a  neppure  die  mai  esistesse  un  testo 
in  prosa  italiana,  dove  fossero  narrate  queste  vicende  di 
Rinaldo;  ed  anche  se  i  due  libri  da  noi  esaminati  ebbero 
mai  altre  continuazioni,  oltre  a  quelle  assai  numerose  in  cui 
si  raccontano  avventure  avvenute  neir  Oriente,  ed  invasioni 
di  Saracìni  in  Francia,  certo  i  racconti  originarii  vi  dovevano 
almeno  in  principio  essere  alterati.  Imperocché,  essendosi 
fatto  nella  fine  del  libro  secondo  che  Carlo  istesso  con- 
sentisse alla  fabbricazione  di  Montalband,  questa  non  poteva 
pili  essere  la  cagione  principato  detli;  nuove  discordie, 
come  dicono  i  testi  francesi,  e  in  parte  anche  il  poema 
italiano. 

Ma  se  il  rimatore  continuò  senza  dubbio  fino  all'ul- 
timo a  valersi  del  romanzo  franco-italiano,  ci  conviene 
ammettere  da  un  Iato,  che  molte  volte  egli  togliesse  di  là, 
non  solo  i  pensieri,  sì  ancora  le  parole,  dair  altro,  che 
questo  romanzo  fosse  per  lo  più  una  pura  trascrizione, 
corrotta  nella  fonna,  degli  originali  in  lingua  d'oìl.  Senza 
dì  ciò  non  potrebbe  spiegarsi  la  somiglianza,  non  di  rado 
sorprendente,  della  rima  ilatiana  e  dei  versi  francesi.  Se 
n'abbiano  qui  questi  esempi,  tolti  ai  casi  di  Valcolore: 


Marc.      E  vait  ferir  Ogìer,  te  nobille  baron. 

De  BrieTort  l'abat,  ou  il  vousist  ou  uoa; 
Quant  l'a  veu  Ogier,  sì  dolenl  ne  fu  hon; 
Renaud  descenl  h  terre  de  Baiard  l' aragon  : 
Son  ctieval  l'cmena  a  Ogìer  le  poigneour, 
Puis  lì  tìiit  son  eslrief,  Ogier  monte  en  l'arclion. 
CousÌD,  ce  dìst  Reoaud,  or  as  lu  guerendon 
De  la  roche  Mabon,  oii  or  eins  cstion; 
Tu  n'  i  asausis  mie,  tant  feis  que  prodoni. 
Selene  celui  servise  as  ici  guerendon; 
Mes  itanl  i  feis  que  traitor  felon, 
C  onques  de  nul  de  dos  ne  feis  garison  : 
Hui  me  vos  gardez  bien,  qar  nos  vos  desfion. 


~  104  — 

Pai.  C.''  XXXV  Rinaldo  col  Danese  fti  scontrato 

E  abbattello  con  sua  forza  magna; 
Poi  gli  rendè  il  cavallo,  e  disse:  Adesso 
Te%  ch'io  ristoro  tutto  quello  eccesso 
Il  quale  hai  fatto  d' atarmi  si  poco  : 
Da  oggi  innanzi  ti  guarda  da  mene. 

E  poco  più  innanzi,  allorché  Uggieri  si  rivolge  addietro  per 
combattere, 

Qant  Re.  Ta  veu,  si  Ten  pris  grand  pechiez; 
Oez  con  feitement  il  Ten  a  areisnez: 
Danois,  ce  dist  Re.,  i  alez  vus  en  ariers, 
Qar  de  moi  ne  serez  ne  feruz  ne  touchez. 
Bien  sai  e  reconois  que  nos  aves  aidiez. 
Pai.  ib.    Quando  Rinaldo  il  vide  rivoltato, 

Disse:  Vatti  con  Dio,  baron  pregiato, 
Che  già  con  meco  non  ti  proverai: 
Disse  Malgigi:  Perchè  non  T aspetti? 
Rinaldo  gli  rispuose:  Tu  non  sai 
Com'el  campecci  di  molti  difetti, 
Ed  è  de'  miglior  uomin  che  fur  mai. 

Qualche  altro  esempio  trarrò  dalP  andata  di  Malagigi  al 
campo  di  Carlo  in  forma  di  pellegrino.  Se  nel  testo 
francese 

XXX  livres  li  donne  li  rois  de  bone  mangon, 

nelP  italiano  egli  riceve  trenta  lire  di  grossi;  e  se  nel  primo 
dice  a  Carlo  : 

De  cesi  pelerinage,  où  tant  dei  peine  avon, 
E  de  toz  les  bienfez  que  nos  i  atendon, 
L'une...  (1)  parmi,  sire,  vos  en  donon, 


(t)  La  parola  è  lasciata  in  bianco  nel  codice. 


—  ioti  — 
wl  secondo  gli  sono  poste  in  bocca  queste  parole: 


Dì  ({uamo  gran  perdono  ho  ricevuto: 
Metà  da  me  te  ne  sia  conceduto. 


Viacemi  riportare  da  questo  luogo   medesimo  anci)e   tin 
t  tratto  più  lungo,  che  comincia  con  alcune  parole  di  Ma- 


Anuit  soniaie  un  songe,  e  vint  en  avision 
Qe  vus  me  tailliez  davant  raoì  mon  paon, 
Mon  simle  bulele  (1)  e  seìgniez  mon  poisson, 
E  le  premier  morsel  qe  nos  mongerion, 
Me  mette  en  la  bouce  par  boene  entencion. 
Gè  sai  trcs  bien  de  voir  que  or  garion, 
Qar  maint  ires  bel  miracle  a  lesu  fet  por  vos. 
Sire,  dient  trancois,  por  Dieu,  tailliez  le  donc. 
Volunters,  dist  le  rois,  par  le  cors  saint  Simon. 
Agenoillons  se  mei  1"  emperero  Charllon, 
E  a  pris  le  coutel  e  saissì  le  paon, 
E  coupa  un  morsel  e  fist  beneì^n: 
Paumiers,  oevra  la  bouce,  e  nos  le  ti  raetron. 
Maugis  Va  engonle  en  guise  de  grifon, 
E  Karlles  le  misi  enz  par  boene  entencion. 
Sachiez  qe  ne  faillisse  mout  pelìlel  non 
Qe  Maugis  ne  le  prist  as  denz  par  le  doilon. 
Paumiers,  boens  dens  as,  or  meluve  abandoo. 
E  Maugis  s'  en  est  ris  dedenz  son  zaperon. 
I  Pai.  XXXVII  Disse  Malgigi:  In  visione  mi  vemie 
Stanotte,  quando  io  sentivo  tal  guai, 
Che  il  miglior  re  del  mondo  mi  sovenne; 
Mangiar  mi  dava  colle  sue  man  gai, 
Onde  che  tal  dolor  più  non  mi  tenne. 


(1)  Creilo  s'abbia  a  correggere  bulelkz. 


—  106  — 

Carlo,  fatto  venire,  precisamente  come  nel  testo  francese, 
il  pavone,  e  postosi  ginocchione  a  partirlo  dinanzi  al  ne- 
gromante, 

XXXVIII    Prese  un  boccon  per  metterglielo  in  bocca, 

Dicendo:  e  Peregrin,  col  nome  di  Dio 
Confortati  •,  ed  in  bocca  glielo  accocca. 
Malgigi  tosto  co'  denti  il  carpio; 
Poco  fallì  che  il  dito  non  gli  tocca. 
Carlo  ridendo  disse:  Tu  se' rio; 
0  peregrino,  mi  perdonerai, 
Colla  tua  man  ne  terrai,  se  vorrai. 

Codesti  riscontri,  mentre  fanno  vienmieglio  apparire 
impossibile  che  il  rimatore  potesse  attingere  a  una  versione 
in  prosa,  non  nuocono  per  nulla  alla  mia  congettura  circa 
il  testo  franco-italiano.  L'esistenza  del  quale  sembra  del 
resto  confermata  dalla  Struziane  di  Montalbano,  testo  in 
prosa  contenuto  in  un'  ampia  compilazione  di  racconti 
spettanti  a  Rinaldo,  scritta  forse  verso  la  metà  del  quat- 
trocento. Mentre  tutte  le  altre  parti  sono  manifestamente 
inventate  in  Italia,  la  sola  Struzione  (1)  narra  molti  fotti 
tradizionali,  accozzandoli  peraltro  insieme  a  caprìccio; 
poiché,  mentre  il  fondo  del  racconto  è  V  assedio  di  Mon- 
talbano,  vi  trasporta  alcune  particolarità  dall'assedio  di 
Montesoro,  e  prende  a  prestito  la  catastrofe  dai  casi  di 
Tremogna.  Ora  questo  testo,  che  ha  comune  col  nostro 
poema  Gattamogliera  e  Lamberto,  sembra  conservare  alcune 
circostanze  del  testo  francese,  perdute  in  quello:  onde 
nasce  spontanea  V  ipotesi  che  anche  il  compilatore  di  queste 
narrazioni  seguitasse  il  testo  franco-italiano.  Di  qui  adunque 
si  dedurrebbe  un  fatto  assai  importante,  che  cioè  la  let- 
teratura cavalleresca  dell' Italia  settentrionale  continuasse 


(t)  Slrusione  significa  Distruzione,  non  già  Costruzione. 


—   107  — 
I  essere  Dola   niìlla  Toscana   anche  verso   la  metà  del 
secolo  XV  (1). 

E  qui  mi  si  concederà  il  dar  luogo  ad  un'  osserva- 
zione, che  mi  dorrebbe  di  tralasciare.  Il  nostro  rimatore 
conosceva  una  versione  del  Carletto  o  Maìnetto  diversa  da 
qnella  dei  Reali: 

t'  Vni  Non  so,  signor,  se  voi  avete  udito 
Siccome  Carlo,  qiiand"  era  fantino, 
Fuggi  in  Spagna  si  com"  uora  sentito, 
E  servi  (  vi  )  Galafro  Saracino. 
Sua  Oglia  (2]  Sobilla  viso  colorito 
Isposó,  donde  ne  nacque  Àlorino, 
Un  damigiel  cortese  ed  avenante, 
Nipote  di  Marsilio  e  Balugante. 

Qui  adunque  è  cliiamata  Sobitia  la  Galerana,  Galiana. 
Galina,  o  Galienne  degli  altri  testi  italiani,  francesi  e  spa- 
gnuoli;  ne  argomenteremo  adunque  che  la  Conquista  d'Ul- 
tramar  si  facesse  eco  di  voci  più  antiche,  allorché  diceva  che 
Galiana  prese  al  battesimo  il  nome  di  Sibilla,  e  identificava 
così  la  figlia  di  Gatafro  colTinnocente  e  infelicissima  sposa  di 
Carlo,  dalle  ben  note  avventure?  Io  non  lo  so;  ma  certo  la 
menzione  del  nostro  testo  mi  sembra  importante,  perchè  la 
sola  di  un  testo  italiano  in  cui  appaia  una  moglie  dell'  impe- 
ratore con  questo  nome  di  Sibilla,  mutato  in  Blanflflor 
.irautore  della  compilazione  di  Venezia.  E  di  più  si  vede  da 


^al 


(1)  Mi  si  pprdoiierò  se  non  irallo  qui  più  Jislfsarnpiile  quosln 
singolare  questione:  l'ar^omcnio  di  cui  vado  ore  parlando,  poco  s(^  ne 
arvantagjg'erebbc ,  ed  io,  coslreuo,  come  sono,  a  lavorare,  non  sai 
codici,  nja  sopra  ap{>unii  presi  da  qnalchc  tempo,  correrei  rìschio  di  dir 

non  sempre  sicure.  Cotale  scusa  mi  valga  anche   per  (|ualche  int^ 

uà,  da  cni  per  aTreniara  non  avessi  sapulo  guardarmi. 

(S)  Fa? 


—  HO  — 

alle  quali  altro  non  maDc^  faorchè  no'  e^Kisizione  sobria  e 
MUìiplkw  quale  averano  forse  Della  TerskNie  pio  antìa, 
ma  che  uon  >i  troverebbe  per  certo  io  qaeDe  a  iioi  OMh 
>eniiio,  dove  >i  dura  spesso  fatica  a  scoprire  la  belkoa 
del  conienut-.^  >:«n>  la  scccza  di  una  fonna  oHremodo 
tMKva  e  proMssa. 

E  D: p::irc>  >:*:!' ìiiììh  la  storia  di  Rinaldo  potè  cliia- 
luarsì  f :«r:ui.£t£ :  c^  :i  rimaiore  t^iscaùo  doo  era  poeta,  e 
'tvr>  d:c  >:>:•:•:  f.c^i^rr  a.^vtiKiaiDeDte  la  materia  die 
avrva  \rk  >  tuxu.  Storca  revàiasse  ecli  nwMtesiiiio  in 
ht.v;-  v>u^ui:i?..  c-ihl  tc?  alien  c^o^omie.  i  pf^ipm  lavoro, 
f  Tif  ;a:v*:>^'  r^Dc  ìr;na:    òadi  iscc4talori:  ìdìMIì  c^ 

>;»Tri:i-*f  "r-sof  itfoiuair-  rm£  Indiirsi 
F  ìt  SUI  Xlnj-^^  Vfl-pK^  Mani: 

.".1':   n  ■  i.jiiiTif  laiif  r^fT 

:'  nj;Ii:  cTiT.»:  t  riaìdii  alt  ria 

1-1  itr-Iu  siii-u  insau  i  àsasL. 

i.ì-         '.:*..':,    '^t         ;:ìiii«.    Sii*     iiiijrrcirflniiflaie  chia- 


iìNi     k.-v    :.»•-   :   •  ,   ì:::,  ,:.   ini   jiiiTr.»^"»fctf'Hiic» 

.1    r-\iii-',i        V*  :.::;'-   lì  ini,    T.ir    i    iirspf   Kit 
u-j^    in,*  ■  •    ^<\  ..•  .    n^    >*-'    i-n .    OTparràò* 


^vn'^-.   >w,''m.  s..:?f*r.    -3   -  S  3 


—  HI  — 

Ha  poi,  s"  egli  era  cjinlatore,  doveva  tenero  in  questa 
schiera  un  luogo  alquanto  elevato  :  lo  si  scorge  anche  solo 
alle  rimo,  cbe  mostrano  una  varietà,  insolila  fra  costoro. 
E  oeppure  doveva  da  tempo  o  abitualmente  esercitare 
questo  mestiere,  poicliè  ancbe  in  molle  altre  cose  sì  di- 
stìngue dalla  razza  dei  cantambanchi.  Questi  infatti  dall'uso 
de)  recitare  e  cantare  erano  condotti  a  dare  all'ottava  e 
al  verso  una  fo«gia  assai  uniforme,  ponendo  sempre  le 
pose  al  medesimo  luogo  e  chiudendo  costantemente  colla 
slanza  anche  il  periodo.  Ora  nel  nostro  poema  troviamo 
iavecc  una  struttura  assai  piii  varia,  e  vediamo  il  periodo 
continuarsi  spesso  dalP  una  alP  altra  ottava.  E  inoltre  sono 
qui  molto  meno  frequenti  le  cbiuse  convenzionali  di  versi, 
ossia  le  parole  poste  unicamente  per  servire  alla  rima, 
senza  cbe  nulla  aggiungano  al  concetto. 

Ma  se  io  ciò  il  nostro  autore  si  dislingue  dalla  mag- 
gior parte  dei  cantatori  da  piazza,  di  molto  maggior  tratto 
lo  rimuovono  dalla  schiera  dei  poeti  d' arte  lo  stile,  il 
fia«^^re  e  la  mancanza  di  ogni  ornamento  studiato  e  di 
qualsiasi  citazione  classica.  Il  suo  stile  pecc^  per  una  con- 
tinua spezzatura  e  per  la  trascuratezza  del  periodare; 
troppo  spesso  rasenta  da  vicino  la  prosa  e  se  ne  distingue 
solo  per  il  metro  e  le  rime.  Né  queste  sono  sempre  quali 
sì  richiedono  dai  poeti  colti;  che  noi  troviamo  qui  delie 
rime  femminine  imperfette,  cbe  volentieri  chiamerei  conso- 
nanze, dove  si  ha  poco  riguardo  alla  vocale  accentuata.  Ne 
siano  esempio:  C."  I."  lamento,  vanto  ;  II.°  quanto,  giunto; 
V."  amico,  seco;  IN."  sapere,  lenire;  XU.°  giunto,  conto; 
XXXII."  conlento,  vinto;  carte,  sorte;  grida,  giuda.  Altrove 
sono  in  quella  vece  poco  curate  le  consonanti,  sia  che  non 
si  tenga  conto  delle  doppie,  sia  che  si  stia  paghi  dell'afB- 
nità.  senza  chiederne  la  perfetta  convenienza,  sia  che  si 
tolleri  la  mancanza  di  qualcuna  di  esse.  Se  ne  abbiano  questi 
esempi  :  C."  1°  capitano,  vanno;  mano,  sapranno;  L.°  insieme, 


—  uà  — 

lerusalemme :  —  VI.''  corazza,  allaccia;  XI.""  parlare,  na- 
turale; XX!!!.""  meco,  lego;  XXX.""  soccorso,  sforzo:  — 
figliastro,  casto.  Quanto  al  metro,  molte  apparenti  violaziom 
si  debbono  per  certo  attribuire  air  amanuense,  e  più  ancora 
al  costume  di  scrivere  molle  lettere  che  poi  non  si  pronun- 
ziavano; pertanto  io  non  dirò  errati  i  versi  in  coi  Ualagigi  e 
Chiaramente  valgono  per  tre  sillabe,  giacché  le  forme  francesi 
Maugis  e  Glermont  ci  danno  ragione  bastevole  per  credere 
die  si  potesse  pronunziare  Malgigi,  Ghiarmonte.  Perdo- 
nerò ancora  ai  versi  mal  foggiati  od  aspri,  sia  perchè 
convenga  omettere  le  elisioni,  tollerando  iati  disaggradevo- 
lissimi,  come  nel  seguente  : 

I.  Che  andar  pòssa  infine  a  Dordona , 

sia  perchè  T accentuazione  riesca  disarmonica: 

II.  Cristo  e  San  Iacopo  di  tal  vittoria, 

III.  ÀI  bosco  di  Quintafoglia  fu  giunto, 

sia  ancora  per  altre  ragioni  troppo  lunghe  a  noverarsi: 

XV.  Per  vedere  impiccar  que*car  fratelli. 

Ma  pur  concedendo  venia  a  tutti  questi  versi ,  ne  restano 
ancora  assai  non  riducibili  a  giusta  misura.  Tali  sarebbero  : 

I.  A  Parigi  era  lo  'mperador  Carlone 

XV.  Bertolagi  traditor  Rinaldo  aflferra. 

XXXVI.  Rinaldo  fu  il  primo  principe  chiamato. 

XXXVIII.  Dicendo:  Peregrini,  col  nome  di  Dio. 

XLIII.  Tutti  ci  guardi  T  onnipotente  Idio. 

Del  resto  è  noto  a  chiunque  si  è  occupato  di  queste  ma- 
terie che  tali  pecche  sono  comuni  a  tutti  i  rimatori  voi- 


—  113  — 

gari  del  tempo;  sicché  in  luogo  di  averle  ia  codIo  di  di- 
fetti, dobbiamo  piuttosto  considerarle  siccome  proprietà  ca- 
ratteristiche della  nostra  poesia  popolare. 

La  quale,  oltre  Pandar  soggetta  a  certe  leggi  generali 
stabilite  poco  a  poco  e  senza  consapevolezza,  suole  anche 
sottoporre  le  singole  specie  di  composizione  a  certe  forme 
immutatabih,  nate  talvolta  da  circostanze  particolari,  ma  con- 
servale anche  dopoché  queste  già  sono  venute  a  mancare. 
Tali  sono  per  la  poesia  narrativa  della  Toscana  le  invoca- 
zioni sacre  al  principio,  e  i  commiati  al  termine  di  ogni 
cantare.  E  questi  e  quelli  noi  troviamo,  com'è  naturale, 
anche  nel  Rinaldo;  ma  anche  qui  l'autore  mostra  spesso 
di  sapersi  allontanare  dal  costume  dei  cantambanchi.  Che, 
se  la  più  parte  dei  canti  termina  con  una  formula  simile 
a  questa: 


XI.I. 


Or  rinforza  il  cantar  deir  aspra  giostra  ; 
Dio  ci  difenda  la  persona  nostra. 


i  in  parecchi  altri  non  s' invoca  l' ajuto  divino  nò  per  .sé  né 
per  gli  uditori: 

I  V.  Rinforza  il  dir  come  insieme  trovarsi 

■  Con  Malagigi  e  come  apalesàrsi. 

Le  invocazioni  poi  sogliono  essere  più  brevi  che  non  sia 
il  costume,  e  non  oltrepassare  la  prima  metà  della  prima 
stanza,  mentre  gh  altri  quattro  versi  contengono  un  breve 
ihiamo  alle  cose  detto  nella  fìne  del  canto  antecedente  : 


Madre  di  Dio,  che  ricevesti  doglia 
In  questo  mondo  del  tuo  caro  figlio. 
Concedi  tanta  grazia  alla  mia  voglia. 
Che  io  seguì  questa  storia  in  cui  m' apiglio. 


—  114  ~ 

Io  vi  lascia'  che  il  prò'  Viviao  rìgoglìa 
D'andare  adosso  al  padre  con  rio  fùgUo, 
E  si  promisse  allo  re  Abilante 
Di  dargliel  preso  e  morto  a  lui  davante. 

Ma  insieme  alle  invocazioDi  foggiate  alla  maniera  comone 
ve  ne  hanno  alcone  di  una  forma  indiretta,  che  di  rado 
s'incontra  altrove: 

XLIX.     Chi  vuole  o  (are  o  dire  alcuna  cosa 
Che  utile  sia  o  di  diletto  alquanto. 
Chiama  sempre  la  Vergine  graziosa, 
Figliuola  e  Madre  allo  Spirito  Santo. 
Or  torniamo  alla  storia  dilettosa,  etc 

Talvolta  poi  segaita  air  invocazione  un  concetto  morale , 
suggerito  dai  casi  raccontati: 

XIII.  Col  nome  di  Dio  ritomo  al  mio  dire. 

Alla  cui  posta  i  ciel  rotando  vanno, 
Chemmì  dia  grazia  di' i' possa  seguire. 
Che  piaccia  a  que'che  per  udir  mi  stanno. 
Or  ritomo,  signor,  come  il  sendre 
À  l'uomo  ingrato  talor  toma  danno; 
Cosi  quello  Àmostante  provedessi 
Di  dar  morte  a  Rinaldo,  ma  pentessi. 

Chi  non  iscorge  qui  il  passaggio  dalla  forma  d'introdo- 
zione  sacra  propria  dei  cantatori  da  piazza  ai  graziosi 
esordii  usati  talvolta  dal  Bajardo ,  e  sempre  poi  dall'  Ario- 
sto? Ma  a  togliere  affatto  ai  poeti  d' arte  il  merito  di  que- 
sta invenzione  e'  inducono  alcuni  principii  di  canti ,  ove 
dell'invocazione  sacra  non  rimane  più  traccia: 

XIV.  Signior  chicci  ha  ventura  e  chi  ci  ha  senno, 

In  questo  mondo,  e  clii  ci  ha  ria  fortuna. 


—  115  — 

E  chi  ci  ha  pace,  e  chi  guerra  e  disdegno, 

Chi  vive  Heto,  e  chi  sospir  raguna. 

Or  ritorniamo  a  que'che  mal  là  fenno,  etc. 

SpeciaUnente  osservabile  mi  sembra  questa  introduzione, 
nella  quale  il  poeta  si  vale  di  proverbi  : 

XXV.     Servire  e  di  servir  mai  non  ti  scorda, 
E  però  servi  e  non  guardare  a  cui; 
Un  bel  proverbio  fra  la  gente  s'accorda: 
A  chi  diservi,  guardati  da  lui. 
Rinaldo  per  servire  ebbe  concordia 
Dal  buon  re  Carlo  ed  anco  i  frati  sui. 
Torniamo  al  conte  Orlando,  che  dimanda 
Se  '1  prò  Rinaldo  fu  per  quella  banda. 

Né  qui  solo,  ma  altresì  nel  mezzo  dei  canti  P autore  va 
talvolta  citando  siffatte  sentenze ,  non  inutili  a  farci  vieme- 
glio riconoscere  in  lui  un  vero  poeta  popolare; 

XII.        Un  proverbio  si  dice  con  ragione. 

Che  Tuomo  ingrato  non  conosce  il  bene; 
Ed  un  altro  ne  dicon  le  persone. 
Che  a  questo  punto  molto  s'appartiene: 
Chi  lava  l' asin  si  perde  il  sapone. 
Rinaldo  per  servir  sofferse  pene, 
Come  udirete;  e  quando  insieme  stanno, 
Giunser  di  ratto  a  lor  due  spie  di  Gano. 

Altri  due  esordii  meritano  di  essere  qui  riportati: 

XV.        Ciascun  che  si  diletta  d'ascoltare 
Le  dilettose  istorie  di  coloro 
Che  si  fanno  e  faranno  ricordare. 
Traggasi  avanti  senza  far  dimoro: 


—  116  — 
)  canterò  in  rima  ed  in  cantare 
Di  Carlo  Mano  e  dì  sao  oobil  coro , 
E  di  ciascun  che  vive  là  a  suo  caldo: 
Ma  più  degli  altri  dirò  di  Rinaldo. 
XXIX.    Talor,  signor,  si  vuol  prender  diletto. 
Per  discacciar  dal  cuor  malinconia, 
E  per  fuggire  ancora  onta  e  tUspetlo, 
E  ritrovar  la  lieta  compagnia. 
Al  nome  di  Dio  vo'  tornare  al  mio  deiKi 
Di  Carlo  Mano  e  dì  sua  baronia: 
Come  Malgìgt  a  Rinaldo  sermona 
Dì  togliere  ai  re  Carlo  la  corona. 

Se  qui  il  nostro  rìtnatore  si  va  sciogliendo  dai  tìd- 
coli  del  costume,  altrove  ci  ofire  uno  tra  i  primi  i 
di  certe  dGScrìzioDi,  le  quali  vediamo  poi  dÌTenire  w 
luogo  coQiune  della  nostra  poesia  cavalleresca,  e  cbt 
nou  v'ha  ragione  di  credere  derivate  dall'  età  franco-ilali)» 
Non  per  questo  vuoisi  attribuire  a  lui  il  merito,  qualffl 
que  esso  sia ,  dell'  invenzione  ;  ma  pure  la  descrtzioDe  deUi 
tenda  di  Mambrino  è  degna,  non  foss'  altro  per  la  s 
brevità,  di  essere  qui  riferita: 

XX.  Udite,  be'iiignori  a  questa  fiat.-i 

Di  quel  bel  padiglione  il  suo  mestieri: 
Stavavi  il  re  Mambrin.  ch'era  gigante. 
Che  non  s' udì  giamai  d' un  tal  sembiante. 
Era  quel  padiglion  doppio  velluto 
Vermiglio,  in  su  uno  fusto  d'avoro. 
E  stonato  à'  or  tutto  tessuto  : 
Non  fu  veduto  mai  più  bel  lavoro. 
Le  corde  a  seta,  che  l'ha  mantenuto, 
E  in  sulla  cima  aveva  un  gran  tesoro: 
Un  ìdol  grande  com'uom  naturale. 
D'or  fino,  e  favellava  in  modo  tale: 


—  117  — 
Quando  vento  veruii  sì  rìvolgea, 

In  questo  padiglion  tanto  magnissimo. 
Quel  colai  vento  favellar  facea 
L'idolo  con  ìslrido  crudelissimo; 
E  ctiiaramente  in  suo  parlar  dicea: 
Viva  Mambrin.  die  è  sipor  nobilissimo. 
E  tutta  quanta  la  sua  baronia.  — 
Or  rilomiamo  a  dir  di  quella  spia. 


^K  rima 


Poco  a  poco  sìlTalte  descrizioni  sì  vanno  ampliando,  Suo 
a  diventare  argomento  dì  poemetti  speciali;  a  me  giovi 
qui  ricordare  il  padiglione  di  Luciana  nel  Morgante  del 
Palei. 

E  se  noi  ci  faremo  a  considerare  più  attentamente 
lo  stile  e  la  maniera  del  nostro  autore,  non  peneremo 
ad  avvederci  come  il  merito  di  lui  consista  in  un'esposi- 
zione piana  e  semplice,  e  nella  facilità  del  verso  e  della 
rima.  Ma  poi  l'anima  sua  non  era  né  poetica  né  passìo- 
sicchè  non  seppe  trarre  lastevole  partito  da  una 
materia  che  era  certo  tra  le  migliori  del  ciclo.  Non  vo' 
dire  con  ciò  che  anche  nel  nostro  poema  non  s' incontrino 
qua  e  là  dei  passi  veramente  commendevoli.  Nessun  poeta 
rifiuterebbe  per  certo  questi  due  versi: 


Sonando  un'arpa  con  si  bel  piacere, 
Che  ogni  uomo  avrebbe  detto  :  Ella  favella. 
Né  poco  efQcaci  si  diranno  queste  simililudìn 
Non  balle  spesso  il  fabbro  col  martello, 
Nò  uccello  alia  quando  vola  forte, 
Come  feriva  spesso  ciascun  d' elli . 
Chi  gli  aspettava  subito  avea  morte. 
Non  esce  mai  si  forte  la  saetta 
Quando  ella  va  colla  maggior  tempesta. 
Come  Baiardo  del  correr  .s'affretta: 
La  rondine  sì  ve'piìi  manìfesla 


—  H8  — 

Che  non  facla  Baiardo  per  V  erbetta  : 
Collo  parea  la  bocca  colla  testa , 
Le  gambe  mena  si  forte  e  si  spesse. 
Buono  arebbe  il  veder  chi  le  scorgesse. 

■ 

E  senza  dubbio  s'incontrano  altresì  molti  laoghi  caldi 
di  affetto  ;  ma  il  merito  è  il  più  delle  volte  della  materia. 
e  solo  devesi  concedere  al  rimatore  la  lode  dì  non  aver 
guasto  con  inutili  ornamenti  la  semplicità  ed  eflBcada  del 
suo  dire.  Ben  espresso  è  per  esempio  il  dolore  in  questo 
passo  del  canto  XVI: 

A  tanto  il  prò' Rinaldo  e  la  sua  gente 
Uscir  di  Montesor  trista  e  dolente, 
Dicendo:  Castel  mio  di  gran  riposo, 
Per  forza  abbandonar  mi  ti  fo  Carlo; 
Tu  ti  rimani,  ed  io  parto  doglioso! 
Ciascun  si  volse  indrieto  per  guardarlo. 

Lodevole  ancora  è  a  giudicare  la  scena  della  partenza  di 
Amone  da  Parigi  e  di  suo  incontro  coi  figliuoli  nella  selva 
Ardenna.  L'imperatore  é  adirato  col  duca,  a  parer  suo 
non  ispietato  abbastanza: 

XVII.      Poi  disse  al  Duca  Amon  :  Mettiti  in  via , 
Tosto  ritorna  nella  tua  cittade, 
Che  già  con  meco  non  vo'che  tu  stia. 
E'I  duca,  tutto  pien  di  niquitade, 
Con  tutta  la  sua  gente  si  partia; 
Per  quelle  selve  prendeva  le  strade, 
Dicendo:  Figliuol  mia  isventurati, 
Via  più  che  Carlo  v'  ha  perseguitati  : 
Et  el  mi  rende  cotal  guìdardone! 
Ma  per  Colui  che  mi  ricomprò  in  croce, 
Non  dico  di  tenervi  in  mia  magione, 
Ma  contra  voi  non  sarò  più  feroce. 


—  no  — 

E  menlre  eh'  el  «liceva  lai  ragione , 
Cavalcando  per  quella  folla  foce. 
Trovò  i  sua  ligli  eh'  a  dormire  sUnno 
C(U)  tutti  ì  lor  compagni  per  TafTanno: 

E  quali  avevau  tanto  comballuto  ! 
Dormiansi  ludi  in  uno  praticello; 
E  quando  il  duca  Amon  questo  lia  veduto, 
Dormir  Rinaldo  e  ciascun  suo  fratello, 
(Rinaldo  la  sua  genie  avca  perduto, 
Con  otto  era  riniaso  il  suo  drappello. 
Ed  e'son  quattro,  e  dodici  in  lutto; 
Ciascuno  a  ben  dormire  era  i-addutto). 

E  'I  duca  Amon  s'alissc  con  sua  gente, 
Guardando  i  sua  llgliuoi  diceva:  Lasso! 
Come  dormile  sicurosameotel 
Poi  pensa  ;  S' io  gli  piglio  in  questo  passo 
Carlo  fo  lieto  e  me  farò  dolente. 
Fecie  destargli,  e  ognuno  parea  lasso; 
Ed  e' si  levar  tutti  isbalordili. 
Diceva  et  duca:  Voi  siale  assaliti. 

'  Questo  passo,  colla  sua  struttura  sinlatlìca  al  quanto  sciolta 
da  legge ,  può  essere  buon  esempio  dei  pregi  e  dei  difetti 
propri!  della  poesia  popolare  nel  secolo  XV.  E  degno  di 
ricordo  mi  sembra  anche  il  luogo  seguente,  ove  Rinaldo, 

I  poco  avanti  di  uccider  Mambrino,  soccorre  P  in^ieratore, 

L  die  lo  ha  sì  ferocemente  perseguitato,  e  lo  campa  da  una 

i morte  imminente: 

Carlo  il  conobbe  ed  ebbe  ^ran  pavento; 
Pensate  s'  el  doveva  aver  paura  ! 
Credeile  Carlo  in  suo  imaginamenlo 
Che  Rinaldo  gli  desse  morte  scura. 
Diceva:  Iddio,  assai  più  contento 
Sarei  io  stato  dì  cotal  ventura, 
Che  il  re  Mambrin  m' avesse  morto  o  preso. 
OmèI  perchè  rai  son  tanto  difeso? 


—  1*1  — 

i>e>kva  cLe  RiiaM»  ToJiisie 

Om  el  faoerva  M.  ed  el  r 

Cario  «lintonio  wxk  di  Borii 

RiDaldo  ÙTer  di  Ini  s' 

Cario  il  vide  Tcnir.  eoo  tocì 

A  Gesà  Cristo  si  neeouBdafa, 

Che  il  guardi  da  soa  mab  opiaiOBe. 

RioaMo  giunse  e  dismoalò  d*arcioBe. 
E  iogiooochiossi  eoo  gran  rerereBia. 

Diceoio:  Signor  mio.  perdon  ti  diìeggio 

[Iella  mia  folle  e  sem|riiee  bUema, 

Benché  tal  grazia  chieder  non  ti  d^ggio. 

Ma  per  X  amor  di  Dio  e  soa  potenza 

Recaci  a  pace  del  tuo  regal  seggio, 

E  sovra  me  vendica  ogni  tua  ira. 

Cario  temendo  con  paura  sospira. 

Tiriamo  un  velo  sugli  ultimi  versi,  propriameote  ÌDtolle- 
rabili,  e  die  ci  confermano  sempre  più  Del  giudino  pro- 
nunziato intomo  al  valore  letterario  di  questa  composi- 
zione. Nel  giudicare  dalla  quale  non  dobbiauio  dimenticare 
gianrunai  trattarsi  qui  di  poesia  composta  da  un  rimatore 
incolto ,  e  destinata  sopratutto  al  piacere  del  popolo.  Non 
ci  meravigliamo  dunque  se  anche  nei  luoghi  meno  difet- 
tosi ci  conviene  conchiudere  confessando  che  la  materia 
avrebl)e  meritato  di  venire  alle  mani  di  un  artefice  più 
esperto.  V'hanno  nondimeno  alcuni  luoghi  a  cui  le  lodi 
si  ponno  concedere  con  maggior  larghezza,  e  sono  le 
sc(3ne  burlesche  e  umorìstiche,  ove  Malagìgi  si  fiat  beffe  di 
Cario.  L' una  di  esse  è  importante  anche  perchè  non  trova 
riscontro  nei  testi  francesi,  ed  ha  luogo  dopo  il  ratto 
della  corona;  le  altre  seguono  sotto  Montalbano,  e  tra 
({ucsto  merita  specialmente  di  essere  notata  quella  in  coi 
Malagigi,  guardato  a  vista  da  Carlo  istesso  e  carico  di 
ceppi,  trova  modo  di  scampare.  Fatta  cadere  nel  letargo 


—  121  — 

mia  la  baronia,  si  st^ioglie, 
tao  le  spade, 


adunate   quindi    in 


Certa  sua  erba  che  avea  adosso  prese; 
Sii  per  lo  viso  dì  Carlo  signore 
FregoIIa  si,  che  g)i  occhi  aperti  stese 
Ver  Malagigi,  ed  udia  ciò  che  parla, 
Ha  sua  persona  non  poiea  levarla. 

Cogli  occhi  aperti  (verso)  lui  rimira, 
E  non  potea  levarsi  da  sedere  ; 
Dormiva  e  non  dormiva  Carlo  d' ira  ; 
Malagigi  diceva:  »  Bel  messere. 
Pano,  »  e  col  dito  il  viso  gli  raggira. 
«  Dammi  licenzia,  o  nohite  imperìere, 
Che  io  ho  Trclla  d'andar,  sono  aspettalo, 
E  temo  di  non  esser  rampognato  ». 

Dicea  Malgigi:  Vedi,  signor  mìo, 
Che  a  me  bisogna  d'andarmene  ornai; 
Dammi  licenzia,  e  tu  riman  con  Dio, 
Ch'io  ti  promissi  chiederla,  e  tu  'l  sai. 
Ben  ode  e  vede  Carlo  il  suo  disio, 
Hùa  si  potea  mutar  e  sentja  guai; 
Malgigi  fé' delle  spade  un  fastello, 
In  sulle  spalle  se  l'è  via  posto  elio. 

Parlando  a  Carlo  con  le  spade  in  collo. 
Diceva:  Sir,  con  tua  licenzia  vonne. 
Carlo  col  capo  ver  lui  fece  un  crollo; 
Malgigi  disse:  A  Dio  siate,  ed  andonne. 
Cosi  dormendo  lui  e' suoi  lasciollo, 
E  le  dodici  spade  via  portonne, 
Che  c'era  tal  che  valeva  un  castello. 
Al  duca  Astolfo  gi.'i  non  la  tolse  elio. 


mque  metta  qui  a  paragone  il  testo  francese  si  av- 
■k  U»lo  di  qnanto  coda  all'  italiano,  E  in  generale  rie- 
0  ^niglinri  latte  quelle  patii  ìd  cui  entra  Malagigi,  uno 


—  t-È  — 


i  aK:"L*ii-s  it^  • 
E  <tau7>.  -m  mj  S3U1VÌU  luiiaa . 

^m  m  nc'i'Hu  ^  in  niràm  b  sa». 
r'»  :i  'UHI  ìiia  '^si  ii  rmiKai 

^  >?  >iK  iTL  nra  jar^n  ^au: 
JUGib!  i  rac'i  -t  1  >sr  <?  1  itayn  i  1  imat, 
_^_  omoir  via  indLifa!  *ì  iioi  bjbv. 
Vn .  )t!T)iiit[i  I  ■>  r  !isi  imtt  pur  peat  : 
r'jHj  l' irretì  iTuu  hai  «■  lorv»- 

np<jraniìi-  i*ii  lip*  1"  icaL:!!  ie-^  BhiBJ  ventakiw  (lA 
bxìOìniuK:'  p4^:a)f  .'icnci?-  ;*:«<st  nyare  m  gìBiÌu>  Ihì 
fiiDilaii  ':tr:3  la  C:-niu  <àH  Qtjt^tP^  p^eai.  La  itie  pi  Ae 
•li  ne  ?intz<:'li:-  ìiiiììtìi1[l>:>  A  qa>*lk>  «fi  am  dase  ■■ 
tiera  >fi  nmati^rl.  i4  [y>.-o  <!imatì  -lelU  propra  penai- 
lità .  <:b«  D<>a  ^r  'ietta^>  uè  ponto  né  poto  b  liigi  Ì 
tnouDdard  ti  lixii  UHoe.  La  Uagm  poi.  tam/t  beta 
veile.  è  poTL  icfaietta.  pn^prii  e  però  andie  ikj^< 
jitx'faé  baerebbe  a  nbDstrare  i^aanlo  sia  ren  qBtIi 
sentenza,  riputata  per  tanti>  tempo  e  dod  ancon  tao* 
n.A^tra  bteili  ^ 


—  123  — 

del  trecento  e  del  quattrocento  ben  poco  abbia  prodotto 
che  sia  degno  di  encomio,  o  vuoi  per  V  eleganza  del  det- 
tato, 0  vuoi  per  la  novità  e  leggiadria  dell'invenzione; 
questo  non  toglie  che  i  nostri  nonni,  non  meno  i  nobili 
che  i  plebei,  trovassero  grande  piacere  nel  leggere  e 
ascoltare  quei  romanzi,  spesso  così  nojosi  ed  insulsi  al 
nostro  gusto.  Chi  non  lo  credesse ,  prenda  a  esaminare  le 
opere  bibliografiche,  e  quando  abbia  coniato  le  edizioni 
del  Buovo  d'Antona,  certo  uno  dei  peggiori,  e  trovatene 
venti  0  forse  piii  nello  spazio  di  un  secolo,  tenga  quel- 
V  opinione  che  meglio  gli  piace.  E  notisi  come  le  edizioni 
si  andassero  diradando  solo  in  sul  volgere  del  cinquecento, 
vale  a  dire  assai  tempo  dopo  V  apparizione ,  non  pure  del 
Morgante  e  dell' Innamorato,  ma  altresì  del  Furioso.  É 
ben  vero  che  questi  poemi  d'arte  finirono  poi  per  cac- 
ciar gli  altri  di  seggio,  e  dagli  uomini  colti  scesero  giù 
giìi  fino  al  popolo  rozzo  delle  campagne,  sicché  oggidì 
non  è  forse  meno  frequente  il  vedere  tra  le  mani  di  un 
contadino  toscano  il  poema  di  messer  Lodovico,  che  i 
Reali  e  il  Guerino  ;  ma  così  non  doveva  essere  intorno  al 
1526,  allorché  il  Folengo  scriveva  nel  suo  Orlandino,  non 
alludendo  per  cerio  a  persone  del  volgo: 


t 

^^m  se  i 


Son  certi  pedantuzzi  di  montagDa, 
Che  poi  eh'  ttan  Ietto  A.ncroJa  al  Àllobello, 
E  dìcoD  tutta  in  mente  aver  la  Spagna, 
E  san  chi  ancise  Almonle  o  Cliiarìello, 
Credono  l'opre  d'altri  sian  d'aragna; 
Le  sue  non  già,  ma  d'un  saldo  martello. 


se  allora  non  mancava  anche  tra  gli  eruditi  chi  si  ap- 
passionasse a  libii  siffatti,  ben  doveva  esseme  dì  gran 
lunga  maggiore  il  numero  allorché  ì  poeti  d'arte  non 
irano  ancora  entrati  nella  lizza.  Né  di  ciò  spetterebbe  a 


^^jrano  ancora  entrati  i 


—  124  — 

noi  il  meravigliare ,  a  noi  che  cosi  ingordamente  sogliamo 
divorare  fritte  e  rifritte  in  cento  maniere  le  medesime  in^ 
venzioni,  condite  per  di  più  col  sale  dell'immoralità.  La 
differenza,  se  io  non  m'inganno,  anzicchè  nella  cosa  in 
sé  medesima,  sta  negli  accidenti.  GP italiani  del  quattro- 
cento non  si  sarebbero  mai  saziati  di  udir  descrìvere  bat- 
taglie e  duelli,  e  noi  porgiamo  sempre  avido  orecchio  a 
chi  ci  narri  di  adulteri  amori  ;  essi  amavano  i  Rinaldi  e  le 
Galazielle,  noi  gli  Armandi  e  le  Signore  dalle  Camelie; 
essi  sentivansi  allettati  dai  draghi  e  dai  grifoni,  noi  dai 
mostri  in  forma  umana;  essi  dalle  fellonie  di  Maganzeà, 
noi  dagli  avvelenamenti  e  dai  suicidii.  Mutarono  i  gusti, 
ma  Tuomo  rimase'  sempre  quel  desso,  e  del  pari  che 
allora,  oggidì,  mai  non  è  sazio  di  vedere  rappreswtaU 
quei  sentimenti  che  gli  stanno  nel  cuore.  Quindi  è  che 
siccome  nei  giuochi  si  rivelano  più  manifeste  le  tendenze 
dei  fanciulli,  cosi  ci  è  d'uopo  ricorrere  ai  libri  destinati 
a  sollievo  dell'animo,  se  vogliamo  acquistare  perfetta  co- 
noscenza dei  costumi  e  dei  sentimenti  di  un'  età.  Però  an- 
che la  letteratura  cavalleresca  dovrà  sembrare  argomento 
degno  di  attenzione,  non  solo  ai  molti  che  nei  giorni  no- 
stri si  danno  allo  studio  delle  letterature,  e  sopratutto 
delle  popolari,  come  a  quello  di  una  scienza,  ma  altresì 
ai  cultori,  assai  più  numerosi,  degli  studi  storici.  Questi 
tutti  tollerino  dunque  pazientemente  la  mia  lunga  diceria 
intomo  al  Rinaldo  da  Montalbano.  parte  troppo  impor- 
tante nel  ciclo  carolingio  perchè  una  succinta  trattazione 
potesse  bastare.  Qui,  come  già  avvertii,  le  orìgini  della 
maggior  parte  fra  i  tratti  caratteristici  del  romanzo  cavid- 
leresco  d'invenzione  puramente  italiana;  questa  la  sola 
parte  che  venisse  fuor  di  modo  ampliata  con  intrusioni, 
imitazioni ,  continuazioni  d' ogni  fatta.  Poco  a  poco  le  in- 
sidie di  Gano  per  trarre  a  distruzione  la  stirpe  di  Ghia- 
ramonte  si  vanno  moltiplicando   fuor  di  misura  ;  le  sue 


spìe,  che  già  più  volte  abbiamo  inconlrato  Della  prima 
parte  del  romanzo  ìd  prosa  e  del  poema,  corrono  a  cer- 
care tutto  il  mondo  ;  i  suoi  artiticii ,  le  sue  malvagità  tra- 
scinano ogni  momento  a  trasmodare  l'animo  focoso  del 
figlio  d' Amone  e  lo  costringono  ad  impngnare  per  sua 
nropria  difesa  le  armi  nella  sala  istessa  di  Carlo,  il  qnale, 
divenuto  omai  cieco  strumento  nelle  mani  del  perfido 
consigliere,  punisce  colla  piìi  cruda  severità  chi  è  inno- 
cente, 0  meritevole  almeno  di  scusa.  Quindi  hanno  origine 
quei  perpetui  esilii  di  Rinaldo,  occasione  sempre  a  lunghe 
peregrinazioni  nell'Oriente  e  a  casi  avventurosi,  in  cui  si 
frammischiano  anco  gli  altri  paladini,  animati  oramai  da 
seutimenti  non  troppo  dissimili  da  quelli  degli  erranti  di 
Brettagna.  E  con  queste  avventure  si  alternano,  ripeten- 
dosi non  meno  stucchevolmente,  le  imprese  dei  saracìni 
nella  Francia,  le  quali  sempre,  come  nel  nostro  poema 
quella  di  Mambrino.  tevninano  colla  morte  dei  capi  e  la 
distruzione  delle  orde  da  essi  condotte. 

Tali  sono  le  fila  principali  onde  s' intesse  la  povera 
tela  di  un  gran  numero  di  racconti,  spesso  oltremodo 
prolissi.  Per  non  citare  che  i  titoli  di  quelli  che  appar- 
tengono propriamente  alle  storie  di  Rinaldo  e  ne  coslilui- 
scoDO  le  varie  parti,  nominerò  il  Dodonello,  Baldo  di 
Fiore,  0  l'Ancroia,  lo'mperador  d'Aldelia,  Calidonia,  il 
Castello  del  gran  Lago,  il  Castello  di  Teris,  Rubion  d'An- 
farna,  i  Vanti  dì  Dionesta.  Altri  si  rannodano  strettamento 
al  sire  di  Montalbano,  come  il  Rinaldino  e  il  Tapinello; 
altri  assai  sono  foggiati  a  imitazione  delle  sue  storie  o  a  lui 
concedono  la  parie  principale.  Imperocché  nell'  Italia  il 
favore  del  pubblico  fu  sempre  rivolto  a  Rinaldo  più  che 
agli  altri  paladini;  che  se  questi  volleio  mantenersi  in 
fama  e  non  essere  posti  da  parte  come  vieti  arnesi,  do- 
vettero tramutarsi  a  sua  sìmìglianza,  deponendo  le  spo- 
}  antiche.  Insomma,  a  dir  tutto  in  breve,  il  protago- 


—  126  — 

Dista  del  romanzo  cavalleresco  italiano  è  Rinaldo,  ed  è 
quindi  nelle  storie  di  lui  che  noi  dobbiamo  e  possiamo 
studiare  le  metamorfosi  della  materia  a  noi  tramandata 
dai  giullari  francesi.  Cotale  studio,  non  m'inganno,  deve 
di  necessità  essere  fondamento  alla  cognizione  storica  della 
nostra  letteratura  romanzesca. 


Dopo  aver  compiuto,  e  in  parte  anche  pubblicato, 
questo  lavoro,  ebbi  modo,  grazie  alla  squisita  cortesìa  di 
due  patrizi  milanesi,  del  Marchese  Gerolamo  D^Adda  e 
di  Don  Alessandro  de'  Conti  Melzi ,  di  esaminare  due  edi- 
zioni deir  Innamoramento  di  Rinaldo  da  Montalbano ,  pub- 
blicate, runa  nel  1517,  T altra  nel  1533.  Questo  esame 
mi  dimostrò  come  ben  mi  apponessi  nel  porre  a  fonda- 
mento del  mio  studio  il  testo  «palatino;  le  versioni  a 
stampa  ci  ridanno  bene  la  medesima  materia  e  pa*  la 
massima  parte  anco  i  versi  medesimi;  ma  poi,  oltre  ad 
offerire  una  lezione  assai  scorretta  e  arbitraria,  alterano 
le  divisioni,  aggiungono  interi  canti,  molti  ne  amplificano 
0  rìmutano,  e  perfino  inseriscono  nella  narrazione  princh 
'pale  altri  romanzi,  che  non  hanno  che  fare  con  quella. 
Così  non  sarà  forse  discaro  ai  bibliografi  il  sapere  come  il 
Fierabraccia,  del  quale  conoscevasi  una  sola  edizione,  nota 
dair  unico  esemplare  della  Corsiniana,  si  trovi  stampato 
frammezzo  agli  «  binamoramenti  di  Rinaldo  »;  e  come  il 
Tradimento  di  Gano,  prima  che  apparisse  da  solo  nel- 
r  edizione  del  1538,  avesse  già  veduto  la  luce  in  quella 
che  del  nostro  poema  fu  fatta  nel  1533.  Anche  da  questo 
esempio  ho  potuto  cosi  avere  nuova  prova  della  poca 
autorità,  che  si  può  dare  alle  stampe  in  fatto  di  lettera- 
tura cavalleresca.  Il  titolo  istesso.  Innamoramento  di  itt- 
naldOy  comincia  di  già  ad  essere  un'  infedeltà  non  piccola, 


—  IÌ7  — 

dalla  quale  ognuno  sì  lascerebbe  trarre  in  errore:  ctiè  a 
giustilicarlo  non  basta  t' amore  pei-  Clarice ,  che  bentosto 
ha  compiinenlo  colle  nozze.  Mercè  le  aggiunte  d'ogni 
l^lla,  alle  quali  qui  posso  appena  accennare  dì  volo,  il 
Rinaldo  delle  edizioni  accennate  dì  sopra  viene  a  conte- 
nere intorno  a  mille  quattrocento  stanze  più  che  non  ne 
noveri  il  testo  palatino. 

Infine  mi  è  qui  d'uopo  correggere  un  abbaglio,  nel 
quale  troppo  tardi  mi  avvidi  dì  essere  caduto  a  pag.  73. 
(Joivi  io  volli  confortare  V  anteriorità  dell'  Entrée  en  Espa- 
^e  rispetto  al  Rinaldo  franco-italiano,  mostrando  probabile 
che  r  autore  di  quest'  ultimo  imitasse  un  episodio  di 
quella;  ma  il  mio  argomento  è  falso,  poiché  io  confusi 
l'Entrée  colla  Spagna  in  ottava  rima,  che  ne  deriva,  e 
ciò  che  asserii  trovarsi  nella  prima,  non  istà  in  quella 
lece  die  nella  seconda.  Che  peraltro  il  poema  di  Nicolò 
da  Padova  sia  d'alquanto  piìi  aulico,  non  sembrami  per 
questo  meno  verisimile,  come  quello  in  cui  noi  vediamo 
adoperato  temperatamente  un  genere  di  narrazioni,  di  cui 
nella  prima  parte  del  Rinaldo  non  solo  si  usa,  ma  fuor 
di  modo  si  abusa. 


Pio  Rajna. 


nroRM  AD  nu  cuoon  i  ad  13  msm  italiani  del  sk.  hi, 

I  AD  EU  usua  SABDA,  TRAni  DAUl  CARTE  VASBQBEA, 

LETTERA  DI  CARLO  VESME 

Al  Sk.  ConBXDATORB  FRANCESCO  ZAMBRINI 
Preùémc  Mb  Ummsskm  pei  Testi  A  bgn  MH'lBÌlia. 


Torino,  29  settembre  i870. 


PregMO  Signore  ^ 


È  noto  a  Y.  S. ,  come  fiao  dall^  anno  1846  il  signor 
Pietro  MartìDì  di  Cagliari,  persona  di  specchiata  onestà, 
ed  alla  quale  per  commune  consenso  appartiene  uno  da 
primi  luoghi  fra  i  Sardi  che  nel  presente  secolo  illostra- 
rono  la  patria  cogli  scritti,  cominciò  la  publicazione  di 
una  serie  di  nuovi  documenti  relativi  alla  Sardegna;  e 
come  il  primo  di  quei  documenti  fu  accolto  con  plauso, 
né  da  alcuno  si  mosse  dubio  contro  la  sua  sincerità;  ma 
appena  altri  vennero  in  luce,  e  quel  primo  ed  i  seguenti 
furono  generalmente  o  non  curati,  o  condannati  come 
spurii.  Della  non  curanza  fu  principale  cagione  il  trattarsi 
in  quei  documenti  quasi  esclusivamente  della  storia  di 
Sardegna,  generalmente  negletta  ed  ignorata  ed  in  Italia 
e  fuori. 

Ma  già  in  uno  dei  primi  publicati  (Tanno  1849)  dal 
Martini  si  trovava  cosa,  che  aveva  tratto  particolarmoite 
la  mia  attenzione  :  un  non  breve  squarcio  di  poesia  italiana 
di  un  Bruno  de  Thoro  da  Cagliari,  il  quale,  dal  contesto 


—  129  — 

dHio  scritto  dove  quella  poesia  era  inserita,  appariva  aver 
fiorilo  nel  secolo  XII,  Si  aggiunge,  che  un'altra  fra  le 
porgamene  allora  acquisiate  dalla  Biblioteca  di  Cagliari  & 
da  me  vedute  {1}  conteneva,  in  copia  contemporanea  al- 
l'Autore, alcune  altre  poesie  dello  stesso  Bruno.  Io  ecci- 
tava perciò  l'amico  Martini  alla  sollecita  publicazione  di 
quelle  preziose  anticliissime  poesie,  ed  a  Tarne  argomento 
di  uno  studio  critico  sui  nostri  piìi  antichi  poeti.  Ma  le 
molte  dilQcoltà  che  una  ed  altra  volta  intorruppero  la 
publicazione  da  lui  intrapresa  delle  Carte  di  Arborea,  e 
l'essere  le  cure  di  quell'esimio  Sardo  più  .specialmente 
rivolte  alla  publicazione  ed  alla  illustrazione  dei  documenti 
che  riguardavano  la  storia  fino  a  quel  tempo  monca  ed 
oscurissima  della  sua  Isola,  resero  vane  le  mie  inslanze. 
Parecchi  anni  dopo  (1859)  il  valente  paleogi-afo  Ignazio 
Pillilo  publicava  una  canzone  e  un  sonetto  di  un  altro  Tra 
i  poeti  di  quella  età,  Lanfranco  di  Bolasco  da  Genova.  Ma 
neppiu*  questo  valse  gran  fatto  a  volgere  l' attenzione  dei 
dotti  su  colasti  antichissimi  avanzi  delia  nostra  volgar 
.^poesia. 

Il  Bene  è  vero,  che  a  quel  tempo  la  questione  non  ave- 
ma  preso  l'importanza,  alla  quale  la  portarono  le  scoperto 
*  posteriori.  Venivano  a  conoscersi  due  poeti  anteriori  di 
un  secolo  ai  piii  antichi  noti  finora,  ma  le  tenebre  che 
coprivano  le  origini  della  lingua  e  della  poesia  italiana  non 
erano  dissipate:  quando  e  per  opera  di  chi  dai  volgari 
parlali  fosse  sorta  la  lingua  italiana;  se  fosse  avvenuto 
lutto  ad  un  trailo,  od  a  poco  a  poco  nel  cflrso  dei  secoli; 
quali  in  que'  principii  fossero  le  relazioni  della  lingua  italia- 
na ^a  col  Ialino,  sia  coi  volgari  della  penisola,  e  nominata- 
mente, siccome  è  innegabile  ed  evidente  la  stretta  aflìnilà 


(1)  Vcggasi  Nuove  Pcrgai'unc  d'Arb-ima  ita  Pietro  Martini;  Ca- 
ri. 18*9,  pag.  3  e  7. 

0 


—  130  — 

fra  la  lii^a  italiana,  ed  i  dialetti  toscani  e  più  particolar- 
mente il  Gorentino,  qaale  di  ciò  fosse  la  cagione ,  e  se 
r  italiano,  il  toscano  e  il  fiorentino  fossero  una  sola  e  me- 
desima cosa ,  come  pretendevano  gli  scrittori  fiorentini  del 
secolo  XM,  OTvero  se  l'italiano  sia  ben^  derivato  dal 
parlare  toscano  e  più  specialmente  dal  fiorentino,  ma  pm* 
fosse  e  sia  cosa  diversa;  quale  influenza  e  quando  il  pro- 
venzale abbia  avuto  sulla  lingua  e  sulla  poesia  italiana;  ed 
infine  come  sia  avvenuto,  che  il  linguaggio  di  una  piccola 
provincia  si  trovasse  già  nella  prima  metà  del  secolo  Xin 
adoperato  negli  scritti  in  gran  parte  d'Italia,  e  nominata- 
mente in  Sicilia,  mentre  ed  in  questa  e  per  ogùi  dove 
si  scrìveva  contemporaneamente  nei  volgari  locali. 

Diede  occasione  e  mezzo  di  allargar  la  questione  e 
di  portarvi  una  luce  insperata  la  publicazìone  fetta  dal 
professore  Adolfo  Bartoli  da  un  codice  Fiorentino,  di  un 
sonetto  inedito  di  un  altro  fra  quegli  antichi  poeti,  Aldo- 
brando;  e  sopratutto  di  una  notizia  biografica  tratta  dal 
medesimo  codice,  dalla  quale  appariva,  che  quel  poeta 
nacque  in  Siena  Tanno  1112,  morì  in  Palermo  il  1186; 
e  che  educato  alla  scuola  dì  Gherardo,  poeta  parimente 
in  lingua  italiana,  in  Firenze,  dove  molti  dotti  uomini  a 
quel  tempo  si  trovavano,  acceso  d' amore  della  sua  lingua 
italiana,  quantunque  fosse  valente  anche  in  poesia  latina, 
attese  principalmente  al  volgare  italiano,  ed  in  questo  com- 
pose molte  poesie  (1).  La  novità  della  cosa  fu  cagione  che 
il  Bartoli  non  vi  prestasse  fede,  e  nelle  notizie  biografidie 
relative  a  quel  poeta  stimasse  essere  avvenuto  T  errore  di 
un  intero  secolo.  Ma  la  falsità  dì  tale  supposizione  venne 
indi  a  poco  dimostrata  dalla  publicazìone  che  il  Martini 


(1)  /  viaggi  di  M&roo  Polo  secondo  la  lezione  del  codice  Magli(i- 
becchiano  più  antico,  reintegrati  col  lesto  francese  a  stampa,  Firenze, 
Lemonier,  1862;  pag.  lix-lxvi. 


131  — 
faceva,  sotto  forma  di  lettera  diretta  a  V.  S.  (1),  dì  una 
canzone  di  Aldobrando,  che  traeva  da  uno  dei  codici  d'Ar- 
borea, e  che  si  trovava  pure,  ma  non  erasi  potuta  leg- 
gere, nel  codice  fiorentino,  la  quale  pei  suo  argomento 
storico  non  poteva  lasciar  dubio  intorno  all'età  del  poeta, 
quale  era  indicata  dai  codice  fiorenlino.  Indi  a  poco  si 
scopriva  in  Siena  un  altro  codice  delle  poesie  di  Aldo- 
brando  simile  al  Fiorentino;  ed  io  mi  offriva  all'amico 
Martini  di  esaminarli  ambedue  ad  uso  dell'  edizione,  alla 
rpiale  appunto  attendeva,  di  quelle  poesie  secondo  il  codi- 
ce d'Arborea.  Ma  ei  volle  che  io  medesimo  trattassi  le 
questioni  cui  dava  occasione  la  scoperta  dei  nuovi  docu- 
menti; e  indi  ebbe  origine  la  Dissertazione  che  publìcai 
or  fa  quattro  anni  sotto  il  titolo  :  Di  Gherardo  da  Firenze 
e  di  Mdobrando  da  Siena,  poeti  del  secolo  XII,  e  delle 
orit/ini  del  volgare  illustre  italiano  (2). 

i  stessa  cagione  che  aveva  indotto  il  Bartofi  a 
lutare  per  congettura  Ja  lezione  del  codice  fiorenlino 
I  a  fare  Aldobrando  piii  recente  di  un  intero  secolo, 
9sia  l'inveterala  opinione  che  non  oltre  U  secolo  XIII 
potesse  ritrarsi  l' origine  della  lingua  scritta  e  della  poesia 
italiana:  la  stessa  fece  restie  ad  accogliere  le  nuove  sco- 
perte quasi  tutte  le  persone  che ,  numerose  in  Italia ,  trat- 
tano dei  primordi  della  nostra  lingua  e  poesia.  Per  altra 
parte  la  sincerità  dì  quei  manoscritti   essendo  accertata 

Pila  concorde  testimonianza  di  quanti  li  avevano  veduti, 
D  avendo  ragioni  di  qualche  peso  da  opporre,  né  essen- 
<  possìbile,  dopo  le  nuove  publìcazioni,  sfuggire  la  diffi- 
da riferendo  quei  poeti ,  come  aveva  fatto  il  Bartolì ,  ad 

(1)  Letlera  di  Pietro  Martini,  Presidente  della  Regia  BiblioUca 
di  Cagliari,  al  citiarinimo  cav.  pnf.  FruieeMO  Zambiinl,  Presi- 
dente della  Commissione  per  i  lesti  di  lingua  nelle  Piijvinaii  itell'E- 
milìa:  Cagliuri  1865. 

(2)  Torino  1866,  presso  i  fratelli  Bocca. 


^^Bsìa 


^^m       {t)  Torino  1866,  pre 


—  132  — 

un'età  più  vicina:  lasciarono  cadere  la  questione  nei  silen- 
zio; e  nel  trattare  delle  origini  della  nostra  lingua  o  tac- 
quero dei  nuovi  poeti,  o  ne  toccarono  appena  di  volo, 
come  di  cosa  al  tutto  incerta  e  di  dubia  fede. 

Mutaronsi  interamente  le  cose  dal  principio  di  qne- 
sfanno;  poiché  appena  apparve  la  Relazione  della  Com- 
missione Academica  di  Berlino  che  giudicava  sparìe  le 
Carte  tutte  di  Arborea,  tosto  in  questa  nostra  che  nuo- 
vamente dico  umile,  ma  non  a  torto  umile,  Italia /si 
mostrò  vero  per  parte  dei  contradittori  di  quelle  Carte  dò 
che  uno  di  essi.  Paolo  Meyer,  disse  invece  de' loro  pro- 
pugnatori :  che  sovr'  essi  «  V  autorité  des  noms  est  d' un 
»  grand  effet.  »  Tenendo,  come  attesta  un  altro  di  loro,  la 
falsità  delle  carte  d'Arborea  per  quel  giudizio  provata  in 
modo,  da  non  lasciare  pur  luogo  ad  appello:  dA  più  chi 
meno  temperatamente,  ma  concordi,  si  scagliano  contro 
quelle  innocenti,  né  una  voce  si  alza  a  difesa  (1);  mo- 
strando con  questo  nuovo  esempio  la  verità  del  proverlMO: 

ognun  corre  a  far  legna 
Air  albero  che  il  vento  in  terra  getta. 

Ma  se  dopo  quel  giudizio  fecero  eco  e  furono  una- 
nimi in  condannare  le  Carte  di  Arborea,  assai  poco,  e 
pressoché  nulla  di  qualche  valore,  aggiunsero  a  quanto, 
cercando  dimostrarne  la  falsità,  aveva  detto  la  Commis- 
sione Academica  di  Berlino. 

Siccome  in  ciò  mio  solo  desiderio  e  mio  scopo  si  è, 
non  già  di  propugnare  ad  ogni  costo  la  sincerità  di  quelle 
Carte,  che  io  primo  combatterei  se  mi  persuadessero  gli 


(1)  Da  princìpio  perGno  alcuni  giornali  Cagliaritani  parvero  fare  eco 
alla  condanna,  senza  prenderla  ad  esame.  Ora  tuttavia  alcuni  giovani  stu- 
diosi publicano  una  serie  di  articoli,  dove  con  valide  ragioni  propugnano 
la  sincerità  di  quelle  Carte,  nel  giornale  Cagliaritano  La  Speranza, 
num.  1  e  seguenti. 


—  133  — 

argommti  conlrarìi,  ma  semplicemente  di  oUenere  che 
intorno  alla  presente  questione,  eh''  io  reputo  grave  e  sotto 
pili  d' un  aspetto  importantissima ,  sopralulto  per  noi  Ita- 
liani, ne  da  prendersi  a  gabbo  come  si  fa  dalla  maggior 
parte  degli  oppositori,  si  faccia  la  luce,  e  si  accerti  la 
verità  da  qualunque  parte  si  trovi:  mosso  da  tale  pen- 
siero traslatai  dal  tedesco  o  publicai  la  Relazione  Acado- 
raica  di  Berlino,  che  le  trasmetto  (1);  in  risposta  alla  quale, 
ed  agli  altri  scritti  posteriori  di  cui  mi  giunse  notizia, 
aggiunsi  alquante  mie  Osservazioni;  ed  a  queste  a  modo 
di  Poscritta  alcune  pagine  di  risposta  all'Esame  Critico 
di  quelle  Carte,  stato  dal  signor  Girolamo  Vitelli  pubii- 
calo  appunto  nel  giornale  diretto  da  V.  S.  —  In  quelle 
mie  Osservazioni  ho  trattato  della  questione  delie  Carte 
d'Arborea  in  generale;  di  quanto  riguarda  i  nostri  pivi 
antichi  poeti  e  le  origini  della  nostra  lingua  toccandone 
sol  tanto,  quanto  era  necessario  a  rispondere  alle  obje- 
zioni  del  Tobler  e  del  Borgognoni.  Ma  qtiesto  lato  della 
qnestione  non  potrà  in  tutta  la  sua  ampiezza  e  con  frutto 
trattiìrsi,  fuorché  quando  saranno  per  inloro  conosciute  sia 
nuove  poesie,  delle  quali  ho  dato  alcuni  saggi  In  Appen- 
dice alle  mie  Osservazioni  alla  Relazione  Berlinese;  sia  le 
annotazioni  storiche,  onde  quelle  poesie  sono  accompa- 
gnale nei  manoscritti.  Da  questi  nuovi  documenti  vengono 
in  gran  parte  confermate,  in  alcuna  parte  corrette,  le 
anteriori  mie  congetture  intorno  a  Gherardo,  a'  suoi  disce- 
poli e  alle  loro  poesie:  veniamo  a  sapere  che  giovanissi- 
mo, e  non  giunto  ancora  all'età  di  veni' anni,  Gherardo 
Mara  opera   a    poetare  in  italiano;   che  in   principio   del 


(i)  Relaiione  sui  nutnoscritti  d'Arborea  publicala  negli  Alti  del- 
l'Academia  delie  Sctente  di  Berlino,  geanaja  1810.  —  Osservazioni 
■n'orno  alla  Belatione  sui  manoscrilli  d'Arborea  publìeaia  ecc.  — 

0  aJJ'Esatne  Crìlico  delle  Carle  d'Arborea  di  Girolamo  Viielli.  — 

1  e  Fireiiix.  Fralelli  Bocea,  1870. 


—  134  — 

terzo  deceoDio  del  secolo  XIII,  e  cosi  quando  aveva 
poco  più  di  25  anni,  tenne  scuola  di  lingua  italiana  e  di 
poesia  in  Firenze;  che  più  tardi  ebbe  in  ciò  cooperatori 
alcuni  de^  suoi  discepoli  ;  e  che,  non  ostante  molti  contra- 
sti, questa  scuola  fiori  fin  verso  la  fine  del  secolo,  ossia 
fin  quando,  dopo  la  morte  di  Papa  Alessandro,  riprese 
vigore  in  Toscana  la  parte  imperiale.  Narrano  quelle  anti- 
che memorie,  che  Gherardo  adoperandosi  a  purgare,  colla 
scorta  particolarmente  del  latino,  il  suo  volgare  dai  vizii 
dì  pronunzia  e  dalle  voci  plebee,  aspirava  ad  inalzarlo  alla 
dignità  di  lingua  commune  d' Italia ,  almeno  nella  scrittura  ; 
e  che  a  ciò  era  mosso  anche  dal  desiderio  e  dalla  spe- 
ranza, che  gr  Italiani,  uniti  di  lingua,  si  unissero  anche 
d'animo,  e  cessassero  dalle  intestine  discordie;  ond' anche 
Gherardo  e  i  suoi  discepoli  presero  parte  attivissima  alle 
grandi  guerre  della  Lega  Lombarda.  Aldobrando  V  anno 
1181,  fuggendo  le  ire  dei  nemici  ed  i  perìcoli  onde  lo 
minacciava  la  risorta  parte  imperiale,  si  rifugiò  in  Sicilia; 
dove  per  cinque  anni  tenne  scuola,  ivi  pure  fra  difficolti 
non  lievi,  particolarmente  per  parte  di  quelli  che  volo- 
vano  che  i  Siciliani  poetassero  nella  proprìa  lingua,  e  ai 
Toscani  la  loro  lasciassero  (1).  Non  ostante  gli  oppositori, 
prevalsero  in  Sicilia  gli  ammiratori  e  i  seguaci  di  Aldo- 
brando;  e  cosi  si  trapiantava,  e  durante  gran  parte  del 
secolo  XIII  fioriva,  la  lìngua  e  la  poesia  italiana  in  Sicilia. 
Ben  so  che  tutto  questo  è  troppo  nuovo,  troppo 
grande,  e  sopratutto  troppo  conforme  al  vero,  perchè 
abbia  di  leggiero  ad  essere  creduto;  so  che  non  manche- 
ranno gli  oppositori,  ai  quali  facendo  difetto  gli  argomenti, 
continueranno  a  combattere  collo  scherno:  ma  a  dimostrare 


(1)  Ma  sì  vostra  naciuni  plui  amati, 

Cantati  quilli  (canzuni)  sunnu  a  nui  cumuni, 
Et  a  li  Tuschi  li  Ioni  lassali. 

Da  un  sonetto  siciliano  contro  Aldobrando. 


—  135  — 
t  Terità  rimarranno  ire  argomenti ,  clie  uessiiiio,  credo, 
rarrà  ad  abbattere:  T  1  manoscritti  contenenti  tali  poesie 
e  (ali  notizie,  i  quali,  cbeccbè  se-ne  dica,  sono  indubita- 
tamente sinceri,  e  come  tati  verranno  senza  fallo  ricono- 
sciuti da  quanti,  senza  preconcetta  opinione,  si  facciano  ad 
esaoiinarli;  oltrecchè  la  sincerità  delle  notizie  che  quei 
manoscritti  contengono  è  già  fin  d' ora  confermata  da  do- 
camenti  scoperti  dopo  la  publicazìone  dei  manoscritti  me- 
desimi (1);  2"  l'assurdità,  cbe  una  lingua  di  origine  evi- 
deutemente  toscana  sia  nata  dapprima  in  Sicilia,  e  che  già 
nella  prima  metà  del  secolo  Xin  si  scrivesse  in  gran  parie 
d'Italia,  se  prima  non  vi  fu  in  Toscana  una  scuola  onde 
la  nuova  lingua  sì  diffondesse;  3°  e  sopratutto,  le  poesie 
medesime,  le  quab  per  numero,  per  lingua,  per  argo- 
mento, e  parecchie  per  bellezza,  sono  tali,  che  è  al  tutto 
impossibile  siano  opera  di  un  odierno  falsificatore. 

Ma  siccome  ed  in  uno  scritto  già  da  alcuni  mesi  pu- 
Uicato  dal  prof.  Borgognoni,  e  non  ha  guari  nella  lettera 
del  prof.  D'Ancona  premessa  air  Esame  Critico  del  Vitelli, 
trovo  essersi  tratto  argomento  contro  la  sincerità  delle 
Carte  d'Arborea  da  un  sonetto  composto  da  varii  di  quei 
dìseepoli  di  Gherardo,  del  quale  aveva  fatto  cenno  il  Gua- 
sti (2)  dietro  indicazioni  da  me  avuto  ;  e  nominatamente  il 
D'Ajicona  contro  quel  sonetto  muove  objezioni  e  dice  cose, 
die  certo  non  avrebbe  detto  se  avesse  conosciuto  il  sonetto 
medesimo,  e  V  epistola  colta  quale  Aldobrando  lo  trasmette 
a  Bruno  de  Thoro:  mando  qui  a  V.  S.  l' una  e  l'altro, 
affinchè  si  compiaccia  dar  loro  ospitalità  nel  Propugnatore. 

r>  a  me,  nel  sonetto  ravviso  al  tutto  quel  rotto 
,  cbe  lo  dimostra  opera  di  diversi  ;  la  lettera  poi 

ti)  Vnli  le  nostre  (htervasioni  sulla  Iklasione  dell' Aeadcmìa  di 
iniino.  i  100-106. 

(S)  /  primi"  patti  italiani  nvovammle  tooperli;  ncU'Arcbitjo  Slo- 
ric»  loliaDO,  Ser  III,  Voi.  111. 


I 


—  136  — 

di  Aldobrando,  nella  quale  non  sono  itmestaU  ad  arte 
parole  e  modi  di  fra  Guittone,  ma  che  da  un  capo  air  al- 
tro è  scritta  in  lingua  che  non  è  quella  di  oggidQ,  è  cosa 
si  bella  e  sì  spontanea,  che  esclude  pur  il  sospetto  che 
possa  essere  opera  di  un  moderno  falsificatore.  E  se  alcu- 
no è  di  contrario  avviso;  ha  mezzo  agevole  e  sicuro  di 
dimostrarlo;  scriva  un'  epistola  simile  di  metro,  di  lìngua  e 
di  leggiadria,  e  che  pel  suo  aspetto  arcaico  possa  essere 
tolta  in  iscambio  con  questa  di  Aldobrando. 

E  per  aprire  fin  d'ora  ai  contradittori  delle  Carte 
d'Arborea  un  più  ampio  arringo  poetico,  e  maggiori  mezzi 
di  dimostrarne  la  falsità,  trasmetto  a  Y.  S.  per  essere 
aggiunta  alle  due  italiane  anche  una  poesia  sarda.  Le  poe- 
sie sarde  nelle  Carte  d'Arborea  sono  assai  meno  nume- 
rose che  non  le  italiane  del  secolo  XII;  siccome  tuttavia 
non  provengono  da  una  medesima  scuola,  ma  sono  di  vani 
autori ,  di  varia  età,  di  varii  luoghi ,  perciò  fra  loro  differi- 
scono assai  più  che  non  le  poesie  italiane,  sia  per  argo- 
mento, sia  per  lingua,  sia  per  valore  poetico;  in  tanto  che 
anche  sotto  questo  aspetto  è  impossibile  dirle  opera  di 
un  medesimo  e  tanto  meno  di  un  moderno  poeta.  Fra 
queste  scelgo  una  canzone  di  una  figliuola,  che  piange  la 
morte  della  madre.  Questa  poesia  per  metro,  per  lingua , 
e  per  alcune  espressioni  imaginose ,  ha  un'  impronta  sarda 
antica  inimitabile;  ma  soprattutto  è  ripiena  di  tante  bellez- 
ze, e  di  si  tenero  e  vero  affetto,  che  in  qualsiasi  lingua, 
antica  o  moderna,  difficilmente  si  troverà  altra  in  simil 
genere  che  possa  starle  a  fronte.  —  Essa  è  tratta  dal 
medesimo  manoscritto  che  ci  conservò  parecchie  poe^e 
di  Gherardo  e  di  Bruno;  ed  è  fra  quelli  che  furono  tra- 
smessi a  Berlino  (vedi  la  Relazione  Berlinese,  §  17). 

Colgo  questa  occasione  ecc. 

Suo  dev,mo  ob.mo 
Carlo  Yesme 


Certo  sarìa  fallare  a  la  tua  amanza, 

Meo  Brun.  lassarle  sanza 
Conio  di  dò,  eh' a  la  Città  Fiorente 

Nella  scuola  saccente 
Del  nostro  Ijon  Gherardo  foe  avvenuto; 

U'  pur  fo  comparuto 
Lo  nobil  Alberigo,  e  lo  Poncelo, 

Lo  Puccio,  e  lo  Giuleto, 
L'Aretin  Meo,  e  Pereto,  che  fortuna 

Caluno  quasi  io  una 
Addusse,  e  me,  che  reverenle  allora 

Venni  a  pagar  la  mora. 
In  tal  pur  trovo  cavaiier,  baroni, 

Amici  e  sui  campioni: 
E  cosi  stanti,  il  bon  Gherardo  a  cari 

Belli  sermoni  e  rari, 
A  comone  allcgranza,  gioco  e  riso, 

A  parlar  si  Toe  priso: 
Talché  tutu  r  audir  a  gioja;  e  poi 

Piacir  facendo  noi, 
Lesse  d'Apol  la  storia  in  sua  poesia. 

Che  certo,  a  visa  mia. 
Per  lo  sermon  saccente  e  giocond'  estro, 

Foe  tal  del  nostro  Maestro. 
Ha  cftmo  cade  ch'atizzoiM  infermo, 

Se  di  malor  a  schermo 
Rechere  lui  giierenza  sanguinosa 

I^  mano  dona  ascosa 
Del  gueriior  saccente,  e  viso  volle, 

E  da  tal  parte  tolle, 


—  138  — 

E  a  latti  e  a  mod  mostra  sm  nove. 

Tutto  diera  tadre: 
Cosi  qadli  baroni  e  caTalierì. 

Che  Doo  pooèn  paiseri 
A  cose  tal,  e  lor  dà  ooja  ed  oou 

Se  di  sarer  si  conta: 
Lo  viso  lor  torcean,  ed  ora  suso. 

Ed  or  miraTan  gioso. 
Dal  Doir  or  dormienti,  or  osdtanti; 

Sì  ch'essi  a  pari  tanti. 
Dì  bsùdìo  già  pien,  qual  orbi  e  moti, 

Foron  da  noi  partutL 
A  tal  tutti  rìdimo  a  tòrte  rìso 

A  lor  onta  e  disprìso. 
Ma  il  buon  Gherardo,  ch'atto  tal  non  fea. 

Tali  detti  traea: 
e  Qual  latto,  amici,  a  ridere  tì  stringe, 

0  qual  mattia  vi  spinge?  » 
E  noi:  «  Dei  cavalieri  la  nescienza, 

E  tal  lor  disagenza; 
Poi  paran  disintender  dir  gentile, 

0  che  materia  è  vile  ». 
Ed  egli:  «  Ah  no!  lo  meo  gran  disvalere 

Fé'  certo  a  lor  spiacere  ». 
Ma  noi  maggio  tomamo  a  rìso  nostro, 

Che  non  sorstava  rostro. 
PoMmagioam  finar  senza  ientenza 

Quel  dia  di  gran  piagenza 
Ad  un  sonetto  a  loro  disonore, 

Onne  respetio  fuore, 
Catun  dui  versi  o  più  a  mente  criando, 

Tutti  pria  rìme  dando; 
Alberigo  e  Gherardo  non  facenti, 

Como  li  più  prudenti: 
E  questo  pur,  meo  Brun,  ora  t'invio. 

E  qui  serra  lo  parvo  dire  mio. 


—  139  — 


Sonetto  Comorb 


Ahi  porci  vili,  e  muti  can  dormienti, 
Cui  l'ozio  grave  rende  voi  oscitanti, 
Che  vanieri,  e  più  stolti  e  nescienti 
L'altroi  saver  e  dire  trae  penanti; 

Lo  vostro  orgoi'e  fumo  adducon  venti, 
Noi  pugnam  disviar  ognor  stutanti; 
E  vostro  tosco,  par  non  han  serpenti. 
Noi  sperderem,  e  malusati  tanti. 

Ah,  non  savete,  a  invidia  viziati, 
Com  conta  è  noi  la  vostra  disragione? 
Poi  vi  credite  più  di  noi  sennati. 

Ma,  se  disgrate  son  nostre  persone, 
Savem  eh' ad  occhio  sete  voi  mirati, 
Poi  del  vostro  noir  pande  ragione. 


Aldob. 

Pereto. 

Pucc. 

Pene. 

Giulete. 

Hee  Aret. 

Aldeb. 

Perete. 

Pucc. 

Pene. 

Giul. 

Mee  Aret. 

Peret. 

Aldeb. 


Culla  mama  istimada  (1), 
Qui  fuit  su  meu  contentu, 
Unu  furiosu  bentu 
Ohi  !  m' inde  l' hat  leada  (2). 

Jovana  fiat  ancora. 
Et  sas  gratias  li  riiant; 
Sos  ojos  li  lughiant, 
Sa  cara  (3)  fit  s' aurora; 
Perlas  monstrait  onne  hora 
Dae  sa  buca  rosada. 

Cum  SOS  pilos  falados  (4) 
Pariat  sa  Maddalena; 
S' inde  faghiat  cadena, 
Gosì  bene  aconzados, 
Rajos  pariant  dorados 
De  su  sole  ad  s'intrada. 


(1)  Amata.  (2)  Levala,  tolta.  (3)  Faccia.  (4)  Capagli  sciolti. 


—  140  — 

De  angela  fiat  sa  mcflle. 

De  arcangdii  sa  eoro: 

Ipsa  fiat  so  thesoro 

De  sa  Bosana  gente: 

Fìat  docOe  et  pradeale. 

Dae  totos  apressùda. 
Com  sa  "e^re  et  so  maato 

Puiat  ooa  matrooa; 

Oone  persone  bona 

La  miraiat  com  vanto: 

Ca  jughiat  (1)  aB'ineanto, 

PìQS  de  famosa  bda. 
Femioa  asie  pretiosa 

Non  bi  fdit  nen  hooesta. 

Plus  homile  et  modesta 

Non  b*hat  naschida  in  Bosa; 

Exemplu  de  oime  isposa 

Sas  mamas  Thaiant  giamada. 
De  su*ODu  (2)  padre  mea 

Fiat  su  veni  contenta; 

Teniat  su  coro  atenta, 

A  lu  amare  cum  Dea, 

Cum  fide  senza  neu, 

Cum  coostaotia  proada. 
Quale  abe  (3)  trabajante 

Àrrichidu  hat  sa  domo; 

Cum  sas  lanas  fiat  corno  (4), 

Como  cum  su  lactante, 

Bolteudesi  in  su  istante 

Ad  sa  cosa  inzipiada. 
De  abilitades  piena, 

Fiat  ancu  cautadora; 

Cantende  fit  onne  bora 

Cum  bogbe  de  sirena; 

Ca  de  poesia  sa  vena 

Mai  li  fit  mancada. 

(1)  Portala.  (2)  TroDcameDto  di  bonu,  (3)  Ape.  (4)  Ora. 


I  annos  bivesil 
Cum  sa  sua  compania; 
Sa  pagbe  et  s' allegria 
CoQSlame  li  duresil; 
Nessuna  afianou  proesit 
Dae  (oius  honorada. 
Ma  quando  a  mala  sorte 
Ben/esil  a  Terquillti, 
Su  bona  sou  pubilla  (t] 
nriiat  leailu  sa  mone; 
Custu  dolore  fone 
Non  r  hat  abaudonada. 

i*  allegrìa 
Et  s'antigu  conteotu, 
Piaaghiat  enne  momeuiu 
In  pena  et  agonìa. 
Eo  la  confonaia 
A.  su  tugu  (?)  abrassada. 

Uà  cum  pena  et  dolore, 
Gosl  narail  a  mie: 
«  Ctiie  m' hat  leadu  et  chie 
Su  coro  meu,  s'amore. 
Culli!  pretiosu  flore 
De  tolu  53  contrada? 

Et  chie  m'ìnde  Turesit 
Su  bene  meu.  s'amante? 
Cullu  bellu  gigante 
Chie  mi  l'aterrcsii? 
Et  chie  mi  trunchesil 
Culla  palma  dorada?  s 

«  Ahi  marna  »,  intando  naro. 
«  Lassade  su  lameutu; 
Non  bos  dedes  lopmentu 
Pianghende  cussu  caro: 
Ca  non  bi  hat  reparo 
Cum  sa  morte  ostinada. 


«.  (2)  Collo. 


—  142  — 

In  sa  celeste  sfera 
Bivet  s'anima  pia, 
Et  prò  nois,  marna  mia, 
Pregat  cum  fide  vera. 
Non  factades  manera, 
De  m' ider  disperada. 

S'istimades  a  mie  (1), 
Comente  lu  monstrades, 
Proite  (2)  bos  ostinades 
Pianghende  nocte  et  die? 
Non  ischides  (3)  qui  asie 
Inde  morzo  (4)  apenada? 

Consolade,  bos  prego, 
Cust' anima  afflighìda. 
Chi  sa  bostra  fenda 
Siat  grave,  non  lu  nego, 
Nen  de  sentire  omego 
Sa  disgratia  passada. 

Ma  si  gosl  sigtùdes 
In  custu  dolu  et  pianto, 
Eo  facto  ateru  et  tanto. 
Et  ancu  a  mie  perdides; 
Tando  bos  consumides 
Cum  pena  adopìada  )>. 

Ad  custu  narrer  meu. 
Quale  bona  meìghina, 
Mi  mirait  sa  meschina, 
Et  suspendiat  su  theu  (5). 
Solu  unu  forte:  «  Oh  Deul  » 
Dae  su  coro  mi  dada. 

Però  ocultu  sufriat 
Cullu  amaru  dolore, 
Chi  cum  febra  et  ardore 
Sa  Vida  illi  finiat. 


(i)  Se  mi  amate.  (2)  Perchè.  (3)  Sapete.. (i)  Ne  muojo.  (5)  Pianto 
funebre. 


Sa  cara  sua  incanudal 
Un'ispasimu  forte. 

Unu  patire  lenlu. 

De  momentu  in  momeniii 

Li  acoslaiat  sa  morte. 

Ahi,  cnideie  sorte t 

Ahi,  fiza  disgraziada! 
Ahi  marna!  ahi  \-ida!  ahi  coro! 

Perdidn  t"  apo  ea 

Ali  no!  ah  Don  lu  creo. 

Chi  mi  lasscs,  thesoro. 
1  ctiìe  CODIO  adoro 

Aleni  oggetto  b'IiadaT 
Tue  Qas  su  meu  confortit 

In  omne  afl1icti(Hie; 

Sa  mea  coosolatione 

Dae  cando  babu  est  moru  ; 

Tue  juttestì  [%  ad  so  portu 

Cussa  nae  desolada. 
Abiza  d' inde,  abiza  (3;, 

Como  chi  ses  dormida; 

Mira  inoghe  (4^  afOighida 

S' atjandonada  Aza. 

Consizala,  coosiza 

Cust^  mente  a&dada. 
Ha  ja  su  nero  velu 

Sus  Djos  li  obscuresil; 

Su  corpus  marmuresil 

Udu  mortale  gelu. 

Abi!  marna  mia.  a  so  cheiu 

Como  ti  ses  bolada. 
Anima  sancta  et  pura 

In  cussa  eterna  gloria 

CoQsena  sa  memoria 


.  {i)  GnkLisiì.  (3)  Desiali  iodi,  dt^taii.  ({|  Qui 


—  144  — 

De  custa  fiza  iscura; 
Prega  a  Deu  in  figura 
Pro  custa  ìsfortunada. 

Pregalu  qui  sa  vida 
Prestu  inde  leet  a  nùe^ 
Qui  quanto  presto  a  tie 
Pota  esser  eo  unida; 
Ca  dae  te  dividida 
Biver  non  poto  biada. 

Biver  poto  et  comente  (1) 
Senza  babu  nen  mania , 
Iscura  senza  fama, 
Senz'ateru  parente, 
Pobera  senza  niente 
Quale  arvure  isfozada?  (2) 

Morte  qui  bictoriosa 
Bolas  in  custa  domo, 
Ahi  leam'  inde  comò , 
Pro  cumplire  onne  cosa, 
Leam'  inde  ;  qui  gustosa 
T'abbrasso,  a  tie  prostrada. 

Leati  custa  vida 
A  mie  odiosa  et  vana; 
Gosl  ti  naro  umana. 
Si  fusti  incrudelida; 
Pro  qui  custa  ferida 
Est  sa  mezus  donada. 


Db  donna  Elbna  db  Athbnb. 


(1)  E  come  viver  posso.  (S)  Albero  sfogliato. 


ORIGINE  DELLA  LINGUA  ITALIANA  IN  SICILIA 

DLTIME  HICEnCHE  SOPRA   LE   ORIGINI   RIMOTA   R  PROSSIMA 
e  SOPRA  LA  POBMAZIONE  DELLA   LINGUA  ITALIANA 

DEL  Phop.  VINCENZO  PAGANO 


FRANCESCO  DE  SvVNCTIS 

RRSTAnUTORB  DELLA    CRITICA   LETTERARIA 

IR   ITALIA 

L'  AUTOR  B 

OFFRE    gOBSTB  BiCSHCUE 


Coloro  che  hanno  discorso  delle  origini  delia  lingua 
italiana  e  della  sua  derivazione  dalla  latina,  tra  i  quali  (e 
sono  i  migliori)  rammento  il  Muratori,  il  Cesarotti,  il  Per. 
ticari,  il  Ginguenè,  il  Canlii,  il  Tommaseo,  il  Nannueci, 
non  potendo  raccogliere  né  tutto  né  il  meglio  di  quel  che 
poteva  presentarsi  alle  loro  investigazioni;  e  divagandosi 
in  digressioni  estranee,  non  guardarono  attentamente  i  fatti 
e  i  documenti  importanti,  e  non  si  ftìrmarono  nella  parte 
critica  della  cosa.  Primieramente  era  d'  uopo  riunire  e 
coDfrontare  i  documenti  opportuni  e  coordinarli  coi  prin- 
ctpii  della  linguìstica  o  sia  della  filosofìa  delle  lingue,  la 
qoale  scienza  è  diretta  a  rischiarare  le  oscurità  della  pr& 
sente  materia.  Secondariamente  abbiamo  le  collezioni  par- 
ziali del  Giunta,  del  Corbinelli,  del  Valeriani,  del  Perlicari, 
del  Mossi,  del  Nannueci,  dell'  Ozanam  ;  ma  pare  die  ne 
manchi  una  rx)llezione  compiuta  dei  primi  trovatori,  i  qnali 

10 


—  146  — 

scrissero  dalla  infanzia  di  Pietro  delle  Vigne  sino  alla  gio- 
ventù di  Dante  Alighieri,  almeno  per  un  secolo  e  mezzo. 
La  quale  illustrata  in  maniera  sì  grammaticale  e  storica, 
come  comparativa  e  critica,  avrebbe  potuto  spandere  nuova 
luce  sopra  i  vagiti  della  lingua  toscana  dei  nostri  maggiori, 
e  sopra  le  poesie  dei  trovatori. 

Qualvolta  si  fossero  perdute  interamente  le  testimo- 
nianze, che  ora  abbiamo  della  condizione  della  lingua  latina 
scrìtta,  e  delle  altre  lingue  allora  o  parlate  o  scritte  dentro 
Italia,  e  di  fuori  per  le  ragioni  che  composero  P  Impero 
Romano,  noi  conosceremmo  per  principj  di  linguistica, 
appoggiati  sulla  esperienza  e  sulla  veracità  e  fede  dei 
fatti,  che  la  lingua  latina  era  non  altro  che  un  dialetto 
dominante,  né  poteva  mai  impedire,  che  si  parlassero  e 
si  scrivessero  gli  altri  idiomi  del  mondo.  Quel  che  oggidì 
si  osserva  della  lingua  italiana,  e  che  Dante  avvertì  sino 
dalla  infanzia  di  lei,  si  deve  affermare  altresì  della  lingua 
latina.  La  lingua  italiana,  la  quale  comparisce,  qual  dialetto 
dominante  dell'Italia  moderna,  nelle  poesie  dei  trovatori 
del  secolo  tredicesimo,  tenne  fra  i  dialetti  italici  quel  pri- 
mato, che  aveva  tenuto  la  lingua  latina  nell'Italia  antica. 
E  sì  essa,  come  i  suoi  dialetti  affini  convengono  fontal- 
mente  in  alcuni  elementi  costitutivi  dell'  idioma,  mentre 
ne  diversificano  in  altri  elementi;  talché  convengono  fra  sé 
per  ragione  generica  del  genere  prossimo,  e  discordano 
per  ragione  specifica  delle  specie  congeneri.  Poi,  quanto 
alle  specie  superiori,  'le  lingue  italiche  sono  tanti  rami 
delle  lingue  tracopelasgiche,  pelasgiche  o  grecolane,  secondo 
la  classificazione  sistematica  di  Corrado  Maltebrun,  di 
Adriano  Balbi,  di  Cesare  Cantù,  di  Francesco  Marmocchi 
e  di  altri. 

Ciò  posto,  per  concepire  idee  giuste  delle  origini   e 

della  nascita  della  lingua  italiana,  uopo  é  distinguere  più 
fatti,  i  quali  non  solo  sono  indicati  dalle  teorìe  della  lin- 


—  147  — 

jtitsttra,  ma  sono  anche  tesliGcati  e  prorati  alAondanie- 
neote  Aa  documenti  e  ragiooì  di  storia,  e  dal  confronlu 
dei  migliori  scrittori,  e  anco  dai  meno  ìolelligeoti  ed  esperti. 
On,  è  cerio  nella  linguistica  storica,  che  la  lingua  latina, 
italiana  e  le  lingue  affini  e  vernacole  d' Italia,  le  quali 
pure  si  addimandano  plebee  e  rusticbe,  hanno  quanto  a 
materia  e  Torma  o  sìa  quanto  a  vocabolario  e  a  grammatica 
lale  analogia  dì  Tocaholi,  modi  e  costrutti,  che  ogonno 
poà  sl^guardare  quelle  lingue,  come  se  elle  fossero  di  una 
prosapia  e  di  una  patria;  onde  gli  scrittori  più  insigni 
sogliono  alTermare,  che  la  lingua  italiana  sia  la  lìngua  latina 
rustica  od  osca,  indi  risorta  in  forma  moderna  nelle  lìngue 
Molalìne  e  romanze  di  Europa.  Inoltre,  è  vero,  che  la 
Bagna  vernacola  e  parlata  rinfranchi  e  ristori  la  lingua 
dotta  e  scritta,  e  che,  siccome,  allorché  scriveva  TAIigiueri 
nel  1300  la  bella  lingua  volgare  d' Italia  prendeva  sugo  e 
ligore  da  quattordici  dialetti  principali  della  penisola,  cioè 
jidliaDO.  pugliese,  romano,  spoletano.  toscano,  genovese. 
nrdo,  calabrese,  anconitano,  romagnuolo,  lombardo,  trivi- 
fJÈOO,  veneziano,  aquileiese,  furiano  e  istriano,  cosi  tredici 
aeooii  addietro,  mentre  fioriva  il  secolo  più  splendido  della 
Itagoa  latina  dominante,  questo  idioma  era  distinto  itoo 
solo  dal  punico  di  Carta^ne  e  da  altri  idiomi  barbari,  ma 
da  quelli  che  erano  usali  dentro  l'Italia,  cioè  greco,  ligure, 
ìosubre,  patavino,  etrusco,  mnbro,  latino,  sabino  e  sanni- 
tieo,  lucano,  Calabro  bnizio  e  siculo,  eh'  erano  rami 
noti  doli'  osco.  In  Roma^  ove  era  la  sede  della  lingua 
btiDa.  la  lingua  plebea,  rustica,  vernacola,  o,  vuoi  dire. 
partala,  ancorché  del  continuo  repressa,  ammutolita  e 
^RC^la  dalla  maestosa  lingua  latina,  rb''  era  la  favella 
'■ùrersale  dei  dominatori  e  dei  popoli  del  mondo  gre- 
llaronaDO,  rì  è  attestata  da  innumerevoli  scrittori  e 
^■onmnentì.  Lo  forme  diverse  della  lingua  latina  scritta,  o 
BMero  omonime  o  fossero  sinonime,  o  regolari  o  anomale. 


—  lis- 
ci mostrano  colla  massima  evidenza  T  azione ,  T  oso  e  la 
esistenza  delle  due  lingue,  che  tatto  di  s^  inoontrayano  e 
si  mescolavano  insieme,  come  se  fossero  dne  espressiom 
e  due  modi  di  una  medesima  lingua;  perciocché,  mentre 
la  lingua  latina  eulta  soggiogava  la  lingua  del  volgo,  doveva 
confondersi  seco,  finché  questa  da  ancella,  eh*  era,  non 
cambiò  quella,  che  figurava  come  signore.  La  lingua  plebei 
era  più  semplice,  più  uniforme,  più  andante,  e  bisognevole 
di  poco  artifizio  ;  e  per  queste  sue  proprietà  prevalse  sopra 
r  altra.  Oltreché  tutti  i  vocaboli  italici  erano  qualificati 
per  romani  da  Quintiliano  ;  dei  vocaboli  e  delle  frasi  di 
sinonimia ,  sovente  un  téma  é  latino  e  V  altro  é  vernacolo, 
come  accade  nella  lingua  greca  e  nella  lingua  italiana,  e 
le  desinenze  erano  in  consonante  e  in  vocale,  come  si 
ravvisa  nei  dialetti  attuali  d'Italia.  I  Romani  non  pronun- 
ziavano le  parole  come  elle  stavano  scritte;  ma,  come  é 
costume  dei  Francesi,  degl'Inglesi  e  di  altri  popoli,  fro- 
davano favellando  alcune  consonanti  o  sillabe  per  eufoidi 
0  per  proprietà  di  prolazione.  Per  esempio  il  vizio  dd 
metacismo  o  sia  della  m  finale,  poco  noto  ai  Greci,  che 
parlavano  con  bocca  rotonda  e  che  poi  si  rese  discara  ai 
Latini,  era  spesso  usata  nella  lingua  latina;  e  nel  secolo 
stesso  Cassìodoro  e  Gregorio  romano  non  si  guardavano 
dal  sopprimere  quella  lettera,  che  sapeva  male  al  loro 
udito.  Cosi  le  parole^  spogliate  del  metacismo,  terminavano 
in  vocale,  e  diventavano  voci  invariabiU,  come  alcuni  ncMni 
indeclinabili  o  vernacoli,  i  nomi  sostantivi  della  quinta  de- 
clinazione e  le  voci  monottate  terminanti  in  vocali.  Questa 
specialità  era  più  estesa  presso  gli  Umbri,  i  Tusci  e  altri 
popoli,  i  quali  solevano  mettere  la  u  invece  della  o  con- 
forme alla  usanza  della  plebe.  Avverti  il  MicaU  nel  1810, 
che  Tuso  della  u  finale  continuava  ancora  in  Corsica.  Ma 
continuava  altresì  nella  plebe  si  della  Sabina  e  del  Lazio, 
si  della  Sicilia,  come  osservava  il  Perticarì,  e  nella  plebe 


—  149  — 

Ifeir  Umbria,  che  udiva  san  Francesco  d'Assisi,  e  in  qaetfi 
di  Sardegna,  come  nota  Ozanam;  e  noi  possiamo  aggiun- 
gere, die  così  si  vede  per  tutta  l'Italia  meridionale,  eccetto 
il  dialetto  napolitano,  il  quale  tuttavia  ama  V  o  finale  di 
Roma.  Non  sì  sovvenne  il  Micali,  che  la  u  Gnale  si  ravvisa 
nella  stessa  lìngua  latina,  segnatamente  nei  sostantivi  della 
quinta  declinazione,  che  conservano  la  u  invariabile  nel 
numero  singolare,  e  nei  sostantivi  della  seconda  declina- 
zione, che,  perdendo  la  s  o  la  ra  finale,  ci  danno  la  de- 
sinenza umbra  e  tusta,  ovvero  quella  che  oggidì  adoprano 
i  nostri  popoli.  Ora  tali  differenze,  se  siano  ben  ponderate, 
dovevano  trasformare  le  lingue  antiche  nelle  lingue  mo- 
derne rispetto  a  grammatica,  e  questi  sono  già  i  semi 
della  lìngua  italiana. 

Mohi  avrebbero  potuto  pensare  da  sé,  che  il  caso 
ablativo  sia  proprio  dei  Latini,  perchè  i  Greci  non  Paveano, 
ed  aveano  insegnalo  ai  Latini  gli  altri  cinque  cast;  per 
modo  che  il  caso  ablativo  doveva  essere  il  tipo  o  tema 
indeclinabile  dei  sostantivi  e  degli  addìettivi,  secondochè 
ora  si  scorge  nella  lingua  italiana  e  nei  dialetti  della  Italia 
meridionale.  La  quale  osservazione  è  si  naturale,  die  io 
credo,  che  non  sia  sfuggita  agli  eruditi.  Eppure  Varrone 
DOD  solo  aveva  distìnto  la  lingua  latina  co.'à  propriamente 
detta  dalla  vernacola  ;  ma  egli  e  Diomede  altro  grammatico 
ci  palesavano  una  rara  verità,  che  il  caso  eminentemente 
e  schiettamente  latino  era  il  caso  ablativo.  Cosi  tutte  le 
parole  sarebbero  state  monopiote  o  sia  di  una  sola  desi- 
nenza, secondochè  è  accennato  in  una  distinzione  gram- 
maticale di  Prìsciano  cesariese.  Per  quanto  io  sappia,  il 
nostro  De  Rìtis  indicò  il  primo  quella  pi-egevolissima  no- 
tizia di  Varrone  nel  1821,  e  P  annunziò,  come  sua  cara 
scoverta  si  nelle  giunte  fatte  al  Gìnguenè  in  quell'anno  e 
à  negli  Amali  ciiiili  di  Napoli  del  1841.  Quindi  ben  con- 
diiose,  che  ciò  disegnava  i  primi  e  rimoti  fondamenti  del 


—  150  — 

Auleti:*  r:«uE>x  cbe  f«i34  t  dnreDOlo  il  odelvato  idìoiiia 
•jrìpEdr>>  e  ow^iCfe  d"  ItaliiL  mantandosi  col  greco.  Nod 
2C>.  perdìè  i  ktienli  sesoeciL  e  il  mìo  fflustre  amico  Ce- 
sare Ootù.  fl  qoale  sì  è  iiKXsmto  ^  diUgente  e  diffuso 
tnttatc<«  deik  chissà  della  ììdsqi  iUliaDa,  e  dotta  e  ver- 
nKx*b,  e  cbe  inr  uAse  qoaldie  cosa  daUe  carte  del  let- 
terato Dap-jlitaoo.  abtia  tadoto  b  recente  scoperta.   Però 
secooào  il  mii>  metodo  àotetico,  dialettico  e  complessivo 
io  onisco  insieme  i  detti  di  Plinio,  di  VarrDoe,  di  Diomede, 
di  Agrezio.  di  Prisdano  e  di  altri  grammatici  antichi;  e 
Ten^  a  questa  nuora  e  profonda  conclusione,  che  altret- 
tanto r  u  finale  era  distintivo  di  alcuni  dialetti  italici,  quanto 
To  finale  era  distintivo  del  dialetto  del  Lazio;  il  che  ne 
manifesta  la  segreta  e  occulta  granmiatica  di  qaelle  lingue. 
Simile  divario  corre  presentemente  tra  U  dialetto  napole- 
tano, simile  al  latino,  e  altri  dialetti  del  Regno  di  Napoli 
Gli  antichissimi  frammenti  della  lingua  latina  conservano 
rimembranze  e  vestigìe  di  parole,  dove  le  consonanti  finali 
sono  taciute  ed  ommesse,  e  co^  è  ma^iore  il  numero 
delle  parole,  che  terminavano  in  vocale.  Onde  erano  allora 
nei  dialetti  della  nostra  penisola  alcune  parole,  che  finivano 
in  consonante  e  altre   parole  che  finivano   in   vocale;  e 
questo  fatto  fu  osservato  a' suoi  dì  (1300)  dall' Alighim, 
e  poi  dal  Passavanti,  dal  Landino  e  da  altri;  e  si  oss^ra 
pure  nei  monumenti  scritti  e  nella  lingua  vivente.   Dal 
quale  divario  grammaticale  nasce  la  grammatica  simultanea 
di  due  categorie  di  dialetti  italici,   e  specialmente   delle 
lingue  latina  e  italiana,  o,  vogliamo  dire,  della  lingua  latina 
scritta  e  della  lingua  latina  parlata.  E,  ove  si  levassero  i 
casi  greci  dai  sostantivi  e  dagli  addiettivi,  e  rimanesse  sol- 
tanto il  sesto  caso,  che  è  il  vero  caso  retto   nella   lingua 
italiana,  si  avrebbe  già  una  metà  della  scrittura  gramma- 
ticale della  nostra  lingua  materna,  e  della   coushnile  for- 
mazione delle  lingue  neolatine  e  romanze.   Quel  che   si 


—  151  — 

)  delle  declìnazionj  dei  sostaotivi  coavìeoe  alle  dedìoa- 

10)  degli  addìettivi,  le  quali  sono  modellate  sopra  le 

le,  e,  perchè  la  consonante  Anale  si  elideva,  conviene 

»ra  ai  verbi  ed  alle  altre  parole  del   discorso.  Ecco 

ibrionc  della  lingua  italiana,  ch'era  racchiuso  nel  grembo 

i  lingua  latina,  e  che  poteva  essere  quasi,  come  ora, 

I  lingua  vernacola  del  Lazio. 

Questa  lingua  implicita  e  inosservata,  questa  lingua  po- 

re,  che  chiamarono  vernacola,  rustica,  plebea  e  volgare, 

I  pia  semplice,  più  unirorme,   più  piana  e  più  andante 

ll^opevole  di  minore  artìQzio  e   di   minore  studio;  e 

r  lalfi  proprietà  doveva,  nonché   piacere,  prevalere   un 

air  altra.  Per  contrario  le  anomalie  e  materiali  e 

lali,  di  vocabolario  e  di  grammatica ,  spuntavano  aco- 

I  della  lingua  latina  dotta,  e  non  iscemarono,  ma  creh- 

i  colla  venula  e  signoria  dei  Barbari,  Germani,  Fran- 

ÌHt  Saraceni  e  Giudei  d'Italia,  i  quaU  usavano  lingue 

mli  e  per  vocaboli  e  per  grammaticale  struttura. 

altre  stirpi,  conversando  colle  stirpi  nostre,  le 

■U  adoperavano  la  lingua  italica  sì  civile,  come  plebea, 

1^ adottando    l'idioma  delle  plebi   vinte,   dovettero  poi 

:  quella  terza  lingua  più  semplice,  più  schietta  e 

;  uniforme,  la  quale  comparve  con  le  sembianze  della 

I  e  soave  lingua  italiana  dopo  sette  secoli  (476-1175). 

idi  più  frequenti,  piìi    espressici  e   più  spiccai)  sono 

J^iDdizi  e  i  testimoni  dì  quest'altra  lingua,  che  in  prima 

h^ìsse  lìngua  volgare;  poiché   la    lingua  volgare    latina 

I  una  forma  recondita,  più  semplice,  fornita  di  pre- 

ì  pure  di  articoli,  che  Varrone  ed  ì  grammatici 

ini  non  Irasandavano,  e  i  poeti  volgari  latini  nella  de- 

i  della  lingua  scrivevano  versi  non  col  metro  e 

1  quantità,  bensì  colle  assonanze  e   colle  consonanze, 

\  ritmo  e  coir  accento,  per  modo  che  ì  ritmi  ben  tosto 

rono  in  rime.  Questa  seconda  lingua,  non  rià_la 


—  152  — 

lingua  grammaticalmeote  osca,  dorerà  essere  usata  nelle 
favole  atellane,  speóe  di  fiurse,  die  per  la  forma  diam- 
matica  i  Romani  arenano  appreso  dagli  Osd  di  Atdla, 
preDdeodo  da  questi  Q  personaggio  del  Macco,  poi  rinato 
JD  abito  del  Poldodla  acerraoo.e  dagli  Etrusdu  g}^istrionL 
Io  somma  lotte  queste  notizie  couTengono  in  questo,  die 
la  lingua  latina  avefa  in  una  lingua  due  altre  Imgue  fr 
stinte  per  la  dirersità  e  moltiplicita  delle  forme  varie  e 
parallele/  due  idiomi  in  uno.  E,  siccome  prima  era  pre- 
valso quello  che  abbondava  di  consonanti,  poi  prìm^giò 
quello  che  abbondava  di  vocali;  ed  ecco  formarsi  e  nascere 
la  lingua  italiana,  quella  che  Dante  salutava,  come  un 
nuovo  sole. 

Intanto,  correndo  il  secolo  decimo,  e  propriammte 
attorno  a  Capua,  appariscono  i  chiarì  s^ini  ddla  lingua 
volgare,  la  quale  era  confusa  con  la  lingua  latina  Tolgare 
dei  cherìci  e  dei  notai;  e,  mentre  la  lingua  latina,  co- 
mechè  generale  per  V  Italia  e  universale  per  altre  regioni, 
tentava  di  mantenere  il  primiero  lustro  e  splainiore,  la 
lingua  vernacola,  che  poscia  si  disse  siciliana  e  italiana, 
cominciava  a  mostrare  la  sua  propria  fisonomia.  Special- 
mente il  dialetto  capuano  sì  ravvisa  in  carte  capuane  del 
960,  1113,  1124  e  1174,  e  fu  compreso  dair  Alighieri 
sotto  la  categorìa  di  dialetto  pugliese.  Se  non  che  tì  bi- 
sognava una  parola  potente,  che  avesse  sollevata  la  lin- 
gua vernacola  al  grado  di  lingua  illustre  e  cortigiana;  e 
ciò  è  dovuto  a  Guglielmo  II  e  Federìco  II,  suo  cugino, 
i  quali  rìsedevano  in  Palermo  di  Sicilia;  e,  perchè  que- 
sto Regno ,  parte  terra  ferma  e  parte  isola ,  era  detto  re- 
gno di  Sicilia  nel  Registro  di  Federìco  del  1240,  non  già 
Regno  delle  Due  Sicilie,  per  questo  la  nuova  lingua  fu 
detta  siciliana,  e  dall'Alighieri  i  Siciliani  ebbero  il  vanto 
di  essere  stati  i  primi  padri  della  lingua  italiana.  Ora  si 
possono  ammettere  questi  fatti  per  ciò  che  si  attiene  alle 


i  lÌD^a  siciliaDa.  La  lingua  italiana  doveva  es- 
sere coltirata  sotto  Guglielmo  II,  tra  perchè  tanto  s'infe- 
risce dair  epoche  additate  dall' Aligliierì,  da  Benvenuto  da 
Imola  e  dal  Giambullaii ,  e  perchè  secondo  le  aotizie  sto- 
riche la  lingua  siciliana  fa  scritta  verso  il  1186  da  Giulio 
d'Alcamo  siciliano,  da  Lucio  Drusi  di  Pisa,  poi  Fra  Pa- 
6co,  da  QD  altro  Pisano  in  Monreale,  da  Guglielmo  da 
Lisciano,  castello  vicino  ad  Ascoli,  che  celebrò  in  versi 
ttidiani  r  ingresso  di  Arrigo  VI  in  Ascoli  verso  il  1195, 
e  da  altri  per  P  Italia.  Guglielmo  II  poi  fu  protettore 
splendido  delie  lettere.  Ma  pure  la  lingua  dori  dopo  venti 
jddì  ,  specialmente  per  l' esempio  di  due  grandi  marchi- 
giani, san  Francesco  Moriconi  d' Assisi  e  Federico  Hoheo- 
stanfeo  di  Jesi.  Nel  20  ottobre  1208,  mentre  il  cardinale 
I^etro  Capuano  fondava  del  suo  una  scuola  gratuita  nel 
ducato  di  Araaltì,  Giovanni  Curiale  stendeva  in  vernacolo 
napoletano,  i  cui  prìncipii  sono  io  una  carta  del  12  de- 
cembrc  1115,  un' istromento ;  e  Innocenzo  III,  ch'era 
pontefice  molto  eloquente  (1198-1216)  favellava  la  nuova 
lùigiia  d*  Italia.  Folcacchiero  Folcacchieri ,  cavaliere  sanese, 
scrisM  in  Siena  nel  1177  una  canzone,  aderendo  ai  prìn- 
cipii dello  stile  siciliano,  e  usando  per  esempio  le  voci 
maraggio  e  miraggio.  S.  Francesco  d' Assisi ,  prima  viag- 
^tore  e  poscia  istitutore  dì  monaci,  dettava  con  alcuni 
Tersi  facili  dintorno  al  1216  il  cantico  o  salmo  del  sole, 
die  somigliava  ad  una  lode  vernacola,  che  un  frate  del 
medesimo  ordine  recitava  in  san  Germano  nel  giugno  1233, 
«A  altre  lodi  sacre,  le  quali  si  cantavano  in  quel  secolo 
in  Firenze  e  in  Cremona.  San  Francesco  Moriconi  di  As- 
si», oltrecchè  aveva  raggiato  per  25  anni,  e  nel  1219 
ivera  ardito  dì  predicare  la  fede  cristiana  innanzi  al  sol- 
dmo  di  Babilonia  ed  ai  suoi  Saraceni,  aveva  fondato  un 
ordine  sì  innumerevole,  che  esso  sarebbe  stato  sufficiente 
1  creare  e  dilatare  la  lìngua  italiana.  Nel  26  maggio  1219, 


'  :i  j-.i  n>iiiìii.'iala  f!:   *'.-::■:: 
I  f,'i;[\-\\\iA  II,  l'Urlino  di  T*;r: 
LI  ijil   iJiiS.  .■  *    >;-^llL'  f^-    '; 
I  M  iiii":   ,:,  >■■  .;    v-ff  'ili?: 


^MiifiiT  .  iteti.:  i:  >s™ 

■.  '   <  Eriio  di  Sanl^ 

"■i'-iiiOJO.Rinieriili 


>>Y  nini,    wiì-  .lVt  ^-aa 


—  135  — 

)  slessa  di  Federico,  qua)  re-  dei  versi  arca  il  1330. 

fallo  è   atlestalo  ria  sao  Bonaventura,  dal  Tira- 

i  e  da  allri.  F»  altresì  dì  Sicilia  monna  NJna  Sicala, 

1  che  scrisse  versi  siciliani  a  vicenda  con  Dante  da 

Fiesolano.  Sicilianizzarono,   ancorché   non  noli   in 

ì  in  Puglia,  Saladino  da  Pavia,  messer  Polo  da 

elio  0  di  Lombardia,   Fredi   Lucchese,  Albertuccio 

Viola,  toscano,  il  cui  stile   per  la   versificazione  e 

ì  parole  inchina  al  siciliano.  E  pare,  che  non  solo 

Ighetlo  da  Setlimello,  poeta  Ialino  di  Toscana,  ma  an- 

t  messer  Semprebene   Bolognese,  giureconsulto  di  Bo- 

1  nel  122G  e  Bauieri  dì  Sammaritani  abbiano  visitala 

rie  di  Federico,  e  Semprebene  poetò  in  siciliano. — 

i  questi  poeti  di  lingua  e  di  scuola  siciliana  vìs- 

prìma    del   1250;    né  i   trovatori  che   ne' medesimi 

Ipi  poetarono  in  volgare  italiano  per  l' Italia ,  scrissero 

\  proprietà  siciliana.  Onde  è  necessario  ben  determinare 

\  di  qneì  poeti,  per  meglio   conoscere  la  influenza 

^dialetto  siciliano.  Manfredo  di  Taranto  si  dilettava  di 

j  canzoni  e  versi  nel  12S9;  ma  doveva  pur  poetare 

!50,  allorché  era  giovano  capace  di  operare  e  di 

ì  la  pienezza  della  vita.  Enrico  di  Sardegna  poteva 

I  poetare  mollo  prima,  e  nel  1238,  allorché  sposava 

laide;  cLe  gli  portò  in  dote  la  eredità  dei  due   ^udi- 

Torri  e  di  Gallura,  e  da   lui  poi   ottenuti;  onde 

I  primo  inverno  del  1239  il  regno  di  Sardegna  venne 

io  potere  dì   Federico,  padre  dell'  uno  e  suocero  del- 

:•  l'altra. 

Si  è  credulo,  che  Giulio  d'Alcamo,  nato  in  Sicilia, 

ì  è  nominato  quasi  come  il  piùmo  trovatore  sici- 

io,  avesse  scritto  dopo  il  I23I  il  nolo  epitalamio,  si  perchè 

\  parla  degli  agostari,  che  furono  battuti  nelle  zecche 

isi  e  di  Messina  nel   decembrc   1231,  si  perché 

I  difesa  legale  a  sia  della   multa ,  che  si  pagava  pe£ . 


—  166  — 

ingiurie  arrecate  a  donne,  conforme  alle  costitimom  sì- 
cale  pubblicate  di  agosto  1231.  Ma  appunto,  perchè  vi 
sono  le  allusioni  degli  agostari  risalgono  ad  agosto  e  set- 
tembre, prima  che  siano  stati  battuti  nelle  zecche  di 
Brindisi  e  di  Messina,  e  le  multe  anzidette  sono  di  im 
tempo  vieppiù  antico.  Il  Ducange  aveva  avvertito,  che 
nelle  costituzioni  sicule  si  faccia  spesso  menzione  degli 
agostari;  ma  non  avvertì  che  il  tempo  primiero  di  esso 
fu  r  agosto  del  1231 ,  molto  prima  della  fine  di  qael- 
Tanno,  nella  quale  furono  coniati  gli  agostari  di  Brindisi 
e  di  Messina.  Ma  senza  questa  riflessione,  che  io  afiacck) 
per  la  prima  volta,  siccome  dappoi  sino  al  1269  si  & 
menzione  degU  agostari  e  dei  tari  di  oro,  altro  uome 
della  stessa  moneta,  così  ben  poteva  esserci  agostani  pri- 
ma di  Federico  II.  Il  Ducange,  il  De  Ritis  e  altri,  che 
primi  per  T  autorità  di  Riccardo  da  san  Germano  si  fer- 
marono alla  fine  del  1231,  e  che  furono  seguitati  in  oo- 
testa  opinione  dal  Balbo ,  dal  Cantù ,  dal  Fusco ,  dal  Nan- 
nucci ,  avrebbero  dovuto  dimostrare ,  che  sotto  Federico  I, 
Enrico  VI ,  Ottone  I ,  che  nel  952  assunse  il  titolo  di  aiF 
gusto  ed  altri  più  antichi  imperatori  germanici,  i  quali  si 
nomarono  augusti,  Pagostaro  non  fu  nò  moneta  ideale, 
uè  moneta  reale.  Quindi,  quegli  uomini,  sì  pregevoli  per  eru- 
dizione, non  si  avvidero,  che  vi  rimaneva  una  difficoltà  più 
spinosa.  Alcuni  pure  supposero,  che  P  agostaro  fosse  moneta 
più  antica  ;  ma  Carlo  Du  Gange  e  Domenico  Schiavo  appo- 
sero le  testimonianze  del  Sangermano,  di  Ricordano  Male- 
spini  e  di  Giovanni  Villani,  i  quali  non  dissero,  né  potevano 
dire,  che  avanti  Federico  non  vi  fosse  stata  memoria  di 
agostari.  Male  a  proposito  il  Gagliani  e  il  De  Ritis ,  disdi- 
cendosi, citano  le  leggi  sicule  del  1231,  dettate  da  Pietro 
delle  Vigne  ;  perchè  Giulio  d^  Alcamo  accenna  una  difesa 
0  sia  multa  di  due  mila  agostari  per  ofiesa  fatta  a  donna; 
ma  nei  titoli  delle  leggi  da  essi  citate  non  si  trova  a&tto 


—  157  — 

tfaeì  numero  di  agostari,  e  dìpptu  si  allude  ad  antidie 
consiietndini.  Infine  se  per  la  multa  degli  agostari  la  cag- 
ione dell' Aicamese  dovesse  discendere  al  1232,  noa  sa- 
rebbe da  riputare  la  prima  delle  composizioni  di  trovatori 
siciliani,  come  l'banno  considerata  per  tradizione  l'Ali- 
ghieri e  talte  le  raccolte  dei  poeti  e  prosatori  del  primo 
secolo  delia  lingua  italiana ,  dalla  raccolta  deir  Allacci  alla 
recentissima  del  Nannucci. 

A  queste  ragioni  negative  sonvi  altre  ragioni  positÌTe, 
le  quali  leggermente  si  sono  abbandonate.  L' Aicamese  non 
dimentica  tra  le  prime  cime  delia  società  di  quel  tempo 
antico  i  conti ,  i  cavalieri ,  i  marchesi ,  i  giustizieri ,  il  Papa 
e  il  soldano,  l'imperatore  e  il  Saladino,  ch'era  il  più  ricco 
dj  tulli.  Ora  si  sapeva  nel  Regno  nel  1319,  che  dominavano 
in  Siria  il  soldano  di  Damasco  e  il  suo  fratello  Sarecco,  sol- 
dano di  Babilonia,  non  più  il  soldano  e  il  famoso  Sala- 
dmo.  Safadino  e  Saladino,  che  furono  fratelli,  signoreg- 
giarono in  Damasco  e  in  Babilonia  ;  e  Saladino ,  essendo 
re  dei  Torchi .  respinse  i  nostri  Siciliesi .  e  conquistò  l' E- 
gilto  con  Babilonia  e  ìl  Cairo  e  la  Siria.  Venuto  a  morte  nel 
t  marzo  1193,  divise  la  Siria  e  T  Egitto  ai  suoi  figliuoli 
Safadino  e  Meriuccio,  ì  quali  furono  privati  degli  statì 
patemi  dal  Safadino  loro  zio.  Quindi  Safadino  successe  a 
Saladino ,  come  soldano  dei  Saraceni  e  Musulmani  di  Ba- 
hQooia,  e  signoreggiò  in  Gerusalemme  e  in  Damiata  infino 
al  1210.  anno  della  sua  morte,  allorché  gli  successe  ìl 
suo  figlio  Corradino,  soldano  dì  Bnbllonia  e  di  Damasco, 
al  quale  Gregorio  IX.  mandò  di  Roma  una  lettera  Tanno 
primo  del  suo  papato  _nel  23  dicembre  1227,  come  rac- 
conta il  Paris.  Corradino  mori  in  marzo  1228,  secondo 
la  testimonianza  del  Sangermano.  Nel  1214  a  Safadino, 
soldano  di  Damasco  e  di  Babilonia ,  Innocenzo  III  inviò  una 
lettera  per  gli  affari  di  Terra  Santa,  giacché  Gerusaleomie 
^n  soggetta  al  soldano  di  Babilonia.  Similmente  dintorno 


—  158  — 

a  quelPanno  Federico  dovette  dirìgere  a  Safadino  o  Sefe- 
dino  (Cephedino  Sciffedin)  una  piccola  lettera,  che  è  tra 
quelle  di  Pietro  delle  Vigne ,  a  fine  di  rendere  la  terra  di 
Gerusalemme  al  culto  cristiano.  Nel  registro  di  Federico  II 
del  1239  è  detto  dei  messi  del  soldano  dì  Babilonia,  cioè 
di  Safedino  II  ;  onde  la  canzone  dell'  Alcamese  deve  ripor- 
tarsi verso  il  1193,  allorché  finì  di  vivere  Saladino,  e 
proprio  tra  il  1187  e  il  1193,  allorché  vivevano  insieme 
l'imperatore  Federico  I  e  Saladino,  soldano  di  Babilonia. 
E  se  la  divinazione  critica  può  cogliere  il  segno,  diremo 
che  la  canzone  anzidetta  è  da  riferirsi  proprio  al  1186, 
allorché  la  lingua  italiana  era  conosciuta  in  Monreale  e  in 
Palermo  per  brevi  iscrizioni  e  per  le  poesie  del  Drusi  e 
del  Folcacchieri ,  secondo  la  testimonianza  indiretta  delP A- 
lighieri,  e  allorché  furono  conchiuse  le  superbe  e  magni- 
fiche nozze  tra  Enrico  figlio  dell'imperatore  Federico  I  e 
la  principessa  Costanza.  Era  allora  Saladino  nel  colmo  delle 
sue  vittorie  e  della  grandezza.  Il  componimento  amebeo 
è  un  vero  epitalamio,  espresso  in  forma  di  dialogo,  e 
composto  ad  imitazione  della  cantica  della  Bibbia. 

Parlano  a  vicenda  lo  sposo  e  la  sposa  sottto  i  nomi 
dell'amante  e  della  madonna  secondo  il  costume  corrente 
di  quel  tempo,  e  conchiudono  e  terminano  il  dialogo  con 
pronunziare  quel  siy  che  rende  rato  il  matrimonio,  e  s'av- 
viano con  la  intenzione  di  consumarlo,  come  è  costume 
dei  principi,  per  non  rendere  dubbia  la  successione  del 
trono.  Così  la  principessa  alla  fine  si  dà  per  vinta,  e  sa- 
luta il  suo  marito,  quel  paladino  errante  e  straniero  alla 
terra  italiana,  col  nome  di  sire.  Anche  Sara  chiamava  il 
suo  Abramo  col  nome  di  signore.  Ella  desiderava  la  gran- 
dezza dei  soldani  di  Damasco  e  di  Babilonia ,  non  che  del 
Papa,  il  quale  allora,  quant'ogni  più  pregiato  principe, 
raccoglieva  in  Roma  dovizie ,  tesori ,  moneta  coniata.  Que- 
st' ambizione ,  la  quale  sarebbe  stata  ridevole  in  bocca  ad 


—  IM  — 
,  beD  s'addiceva  all'unica  erede  della  nnova 
larchia  di  re  Ruggiero,  e  che  stringeva  la  mano  del 
a  ed  erede  presuniivo  dell"  Impero  Germanico.  Costanza 
l  giaslamenle  lusingata  dal  dolca  pensiero  di  diventare 
Kratrìce,  mutando  di  titoli  e  di  stato;  e,  perchè  allora 
massimo  e  quasi  unico  il  pensiero  della  dinastia,  e 
a  il  pensiero  dei  popoli,  sacriQcava  volentieri  nei  sogni 
ì  sue  speranze  e  delle  sue  gioie  la  sicurtà  e  la  felicità 
poli  soggetti.  Allorché  ella ,  contro  la  opinione  umana 
I  madre  e  poi  sola  imperatrice,  viveva  nel  pensiero 
i  nato  figliuolo  e  del  suo  regno  ed  impero  d'Italia  e 
ICenoania.  Posti  questi  elementi  precipui  del  componi- 
nto,  io  considero  gli  altri  elementi,  come  accidentali, 
i  sembra  che  la  canzone  di  Giulio  d'Alcamo  sia  stata 
lata  dalla  prima  ispirazione  delia  poesia  siciliana,  che 
)  forma  vernacola,  pur  nobile  e  classica  nei  versi  di 
_         ni  Meli ,  fu  serbata  a  celebrare  un  grande  avveni- 
mento, e  che  veramente  fu  tale,  perchè  fu  la  causa  prin- 
cipale di  quel  che  poscia  accadde  in  altri  tre  secoli. 

Se  dunque  l'epitalamio  dell'Alcamese  si  deve  riferire  al 
1186,  come  in  parte  ho  dimostrato  e  come  io  vado  conghiel- 
tnraodo  e  divinando,  la  poesia  siciliana  si  trovava  già  nata 
dopo  quella  di  Provenza .  e  ai  poeti  volgari  latini  erano 
sottenlrati  i  trovatori  si  provenzali  e  sì  italiani.  Federico  ta 
trovava  già  nata  sotto  il  regno  di  Guglielmo  il  Buono  suo 
mgino,  ma  appena  vagiente,  e,  prendendo  a  careggiarla 
e  a  darla  nella  sua  corte  la  parola  dell'amore  degli  amanti 
e  delle  belle ,  la  rendeva  cortigiana  e  illustre ,  come  già 
notò  e  ridisse  l'AlIighieri.  Questo  primo  periodo  è  da  ri- 
ferire, come  di  sopra  si  è  accennato,  dal  120S  al  1212; 
ma  non  si  può  conehiudere  per  questo  con  certezza ,  che 
le  poesie  di  Federico  e  di  Piero  delle  Vigne ,  che  certa- 
mente sono  delle  più  antiche,  appartengono  a  quella  gaia 
ìpoca. 


—  160  — 

iDlaDto  la  poesìa  dei  nostri  trofatori  «aliaoi  è  stata 
considerata  o  rispetto  alla  poesia  dei  troratorì  prorenzali 
0  rispetto  ai  trovatori  bolognesi  e  pisani  I  tro?aAori  sici- 
liani elessero  ana  lirica  ingenua  e  circoscritta.  I  prorenzaB , 
dice  il  Gingnené,  cantarono,  ad  esempio  degli  anAM,  le 
imprese  guerriere,  le  avrentore  amorose  e  i  piaeeri  delh 
fita.  Farono  abili  e  destri  lottatori,  satirici  mordaci,  no» 
Tel  latori  licenziosi,  ma  pieni  di  sale  e  di  rerìtà;  e  con- 
fersando  pia  dappresso  con  gli  arabi  dì  loro  maestri, 
dipinsero  meravigliosamente  gli  oggetti  materiali,  e  raccoo- 
tarono  in  modo  più  vero  e  pia  animato  le  grandi  azioni 
e  i  minimi  fatti.  Il  gnsto  ddle  nuove  lingne  volgari  e  delle 
canzoni  d'amore  era  già  penetrato  nell'Italia  al  tempo  di 
Federico  I,  avo  di  Federico  n.  I  poeti  volgari,  diee  Dante, 
scrissero  di  materia  amorosa.  I  primi  poeti  sicfliani  e  ita- 
liani non  li  imitarono  ;  ma  di  tatti  gli  argomenti  ch^  erano 
stati  trattati  dagli  arabi  e  dai  provenzali,  ne  rìtennoro  od 
solo,  qael  dell'amore;  e  dall'ampiezza  originale  e  mae- 
stosa ,  in  cai  esso  si  trovava  fd  chiuso  nel  cerdiio  angusto 
e  violento  delle  corti.  I  trovatori  italiani  avrebbero  potuto 
non  curare  le  argazie  e  le  sottigliezze,  onde  l'argomento 
era  stato  rivestito,  e  soltanto  imitare  tutto  il  resto.  Onde 
eglino  non  dipingono  niente  di  vero  e  di  reale.  La  loro 
donna  è  affatto  ideale,  è  un  ente  di  ragione  e,  p^  dire 
cosi,  una  silfide,  non  mai  una  donna  ;  perchè  non  si  vede 
né  si  conosce.  Non  si  ascoltano  le  parole  che  si  scam- 
biano nei  momenti  di  amore ,  non  i  giuramenti  delle  pro- 
messe fallite,  non  le  querele,  non  le  paci,  non  gli  sde- 
gni, non  il  romanzo  della  vita.  Il  trovatore  e  la  donna 
nulla  sperano  e  nulla  veggono  di  reale ,  non  godono  e  non 
sentono  di  rimanere  privati  della  gioia  del  loro  cuore.  Il 
loro  amore  non  ha  né  speranze,  né  trasporti,  né  rimen^ 
branze;  non  é  eccitato  e  inspirato  dalla  natura,  ma  è  un 
amore  di  cavallieri ,  che  sono  freddi  ed  estatici  ammiratori 


—  I6i  — 

di  bellezze  immagmarle  e  di  frivoluzze  galanti  creale  dalla 
nuxla.  0  che  il  rìchiegga  la  donna  o  chit  lo  imponga  l'a- 
more, Ttillìcio  dei  trovatori  è  di  cantare,  e  insieme  di 
cdebrare  in  lunghe  e  diffuse  canzoni  e  in  sonetti  raffinati 
ti  spesso  oscuri  le  bellezze  incomparabili  delle  donne  u  le 
ambasce  inesprimìbili  degli  amanti.  Talora  si  lasciano  sfug- 
gire nella  rima  qualche  ingenua,  piacevole  e  allettativa 
espressione,  ma  questi  pochi  slanci  dell'ingegno  sono  cir- 
condati più  spesso  da  estasi  e  da  lamenti  senza  Qne ,  e  da 
ricerche  amorose  e  platoniche,  le  quali  spingono  ad  odiare 
a  morte  e  Platone  e  l'Amore.  I  trovatori  possono  tenere 
soUo  gli  occhi  i  mari ,  i  vulcani ,  una  vegetazione  abbon- 
datile e  varia,  i  maestosi  e  muti  avanzi  dell'antichità,  i 
giorni  cocenti  e  le  notti  fresche  e  magnifiche  ;  il  toro  se- 
colo può  essere  fecondo  di  guerre ,  di  rivoluzioni,  di  sco- 
perte e  di  grandi  avvenimenti  ;  i  costumi  della  età  possono 
atlirare  i  frizzi  della  satira  o  gli  encomi  dell'elogio.  Ma 
ta  poesia  deve  essere  insensibile  a  tutte  queste  sensazioni 
della  natura,  della  società,  dell'individuo;  insomma  estra- 
nea al  movimento  pieno  della  vita  e  alla  vitalità  rigogliosa 
dello  spirito.  Dove  non  è  vita,  non  pub  essere  poesìa.  I 
troTalori  cantano  nel  parnaso  della  corte ,  come  in  un  de- 
serto ;  e  non  debbono  dipingere  niente  di  tutto  ciò  die  lì 
attornia ,  e  niente  sentire  e  vedere  dì  tutto  ciò  che  sentono 
e  reggono,  neppure  l'affetto  della  patria  e  delia  famigUa, 
die  è  il  pili  puro  e  più  sacro.  Nondimeno ,  tale  fu  per  un 
secolo  intero  la  sola  poesia  che  si  conoscesse  in  Italia  ;  e 
il  gusto  di  essa,  dilatatosi  e  divenuto  generale  per  la 
penisola,  comunicò  agli  spiriti  il  pendio  all'esagerato,  al 
vago  0  al  falso,  che  sì  sparse  nelle  opinioni,  nelle  cose 
e  nei  (alti,  che  corruppe  la  storia  e  allontanò  e  distrasse 
^i  animi  dallo  studio  della  natura ,  e  che  produsse  ìl 
trasporto  delle  quìslìonì  dì  parole,  delle  puerilità,  delle 
ciaucìe,  iuozio  e  baie  sonore.  Come  sì  perfezionavano  la 

11 


—  162  — 

lingua  e  lo  stile  a  poco  a  poco ,  il  solo  orecchio  fu  dol- 
cemente lusingato  dair incanto  melodioso  del  ritmo,  ch^è 
più  spiccato  ndlla  lingua  italiana;  ma  lo  spinto  non  era 
nudrito  di  giuste  e  chiare  idee ,  e  V  anima  non  era  scaldata 
da  veri  e  potenti  affetti.  Gol  tempo  lo  spirito  e  T  anima 
ebbero  pure  i  godimenti  propri,  ma  forse  subordinati  ai 
godimenti  delP  orecchio  ;  e  se ,  almeno  nella  poesia ,  spesso 
nei  più  begli  ingegni  e  nei  più  bei  secoli  si  rinviene  qual- 
cosa ,  che  male  confà  col  gusto  puro  e  severo  e  col  bello 
semplice  e  naturale,  che  i  soli  antichi  conobbero,  e  che 
vuoisi  antiporre  ad  ogni  altra  cosa,  alfine  bisogna  risalire 
sino  ai  primi  tempi,  per  rinvenirvi  la  cagione,  e  investi- 
gare nei  portati  dei  primi  padri  della  poesia  italiana  quella 
macchia  originaria,  dalla  quale  i  loro  discendenti  tanto 
faticarono  per  togliersi  interamente.  Oggi  quella  macchia 
è  del  tutto  cancellata,  avendo  la  patria  ottenuta  la  sua 
unità,  libertà  e  indipendenza.  11  principio  di  nazionalità, 
solenne  desiderio  di  tanti  secoli,  ha  conseguito  il  suo  trionfo. 
Continuando  Pietro  Luigi  Ginguené  nel  1804  la  sua 
critica  dei  poeti  del  primo  secolo  della  lingua  italiana, 
soggiunge:  Le  poesie  del  principio  del  secolo  decimo- 
terzo hanno  le  stesse  forme,  e  presso  a  poco  lo  stesso 
stile  di  quelle  di  Federico,  del  suo  cancelliere  Pietro 
della  Vigna,  e  di  altri  antichi  poeti  siciliani,  che  gP Italiani 
riguardarono  come  i  primogeniti  delle  muse  italiane.  Si 
scorgono  in  esse ,  e  proprio  in  quelle  di  Giulio  d'Alcamo, 
di  Federico  II  e  di  Piero  delle  Vigne,  che  la  lingua  e  l'arte 
dei  versi  siano  nella  infanzia.  Gomuni  i  pensieri  ;  scorretto 
e  grossolano  lo  stile  ;  una  mescolanza  di  siciliano  e  di  pro- 
venzale. Le  canzoni  hanno  quasi  sempre  le  forme,  che 
diedero  a  quelle  i  trovatori  di  Provenza  ;  ma  il  sonetto  è 
costantemente  lo  stesso ,  che  fu  poi  ;  il  che  conferma  la 
opinione  intorno  alla  origine  siciliana  del  linguaggio  italia- 
no. Leggierissima  può  essere  la  idea,  che  noi  possiamo 


—  Hi:i  — 

dare  di  ([uei  primi  vagili  e  balbettamenti.  Leggendoli ,  con- 

yicne  contrastare  nel  medesimo  tempo  con  la  barbarie  e 

COD  la  oscurità  del  linguaggio ,  col  testo  scorrettissimo  e 

Leon  le  mende  tipograQcbe ,  di  cui  è  piena  la  edizione  del- 

r Allacci.  O^de,  siccome  la  lingua  dei  trovatori  provenzali 

faveva  grammatica  regolare  e  compiuta,  come  avvisò  il  Si- 

igmondi,  non  potrà  affenaarsi  ugualmente,  che  la  gram- 

L  malica  delia  lingua  siciliana  sia  stala  unironue  e  perfetta, 

[e  sono  evidenti  le  tracce,  che  v'impressero  i  dialetti,  come 

P  Alighieri  osservò. 

Si  distinguono  avanti  la  metà  del  secolo  XIII  tre  scuole 
I  sia  tre  specie  di  trovatoria  italiana,  cioè  la  scuola  sici- 
,  la  scuola  bolognese  e  la  scuola  pisana.  La  poesia  dei 
Hrovatori  siciliani  è  semplice ,  ingenua  e  breve ,  e  il  sonetto, 
'  breve  forma  del  pensiero  poetico,  fu  invenzione  di  essa. 
È  la  poesia,  che  non  è  nutrita  ancora  della  dottrina  dei 
filosofi  e  teologi,  e  quale  vive  in  una  monarchia  moderna. 
La  poesia  dei  trovatori  bolognesi,  fra'  quah  primeggia  Guido 
Guinìcelli,  applicò  la  filosofia  platonica  al  princìpio  dell'a- 
more di  uomo  e  di  donna ,  in  un  comune  libero  e  dotto, 
e  incarnò  nelle  immagini  poetiche  forza  e  nobiltà  di  pen- 
sieri. La  poesia  siciliana  e  bolognese  di  questo  secolo  svol- 
gono entrambe  in  maniera  lirica  il  principio  dell'  amore  ; 
ma  la  prima  si  astiene  dalla  fliosofia,  e  la  seconda  vi  si 
accoppia,  e  ne  impresta  le  sentenze  morali.  La  poesia  ero- 
Uca  siciliana  ebbe  la  sua  perfezione  e  finitezza  nell'affet- 
llnose  e  sdavi  poesie  della  Vita  Nuova  di  Dante,  e  finì  con 
PWse,  per  rinascere  nelle  pili  tenere  e  dolci  composizioni 
dei  più  leggiadri  ingegni  italiani.  Ben  fu  detto  dal  Perti- 
cari ,  che  il  dialetto  siciliano  tenga  originariamente  del  fiato 
greco,  anzi  del  dialetto  eolico,  e  che  questo  comporti  tanta 
dolcezza  a  quello,  quale  si  sente  specialmente  nell'Alighieri, 
nel  Compagni,  nel  Cavalca,  nel  Celli,  nell'Ariosto,  nel  Firen- 
zuola ,  nel  Caro ,  nel  Gozzi  e  nella  veste  piebeia  del  Meli. 


—  164  — 

La  poesia  erotica  bolognese ,  anictnaDdosi  più  da  presso 
alla  filosofìa  platonica,  fu  perfezionata  per  FraDcesco  Pe- 
trarca, nel  cui  Canzoniere  la  poesia  è  di  lingua  pulita  e 
gentilQ,  ma  di  pensieri  concettuosi  e  freddi,  e  perciò  è  di 
pregio  inferiore  a  quella  dell' Alighieri.  La  poesia  pisana 
si  ferma  anche  alla  superficie  esterna  e  alla  buccia  della 
espressione  e  mira  a  ritornare  latina  e  agreste  e  dura, 
senza  penetrare  nel  concetto ,  allontanandosi  dalla  colla  si* 
ciliana  per  opera  di  Pannuccio  del  Bagno.  In  questa  nuova 
maniera  non  si  rinviene  niente  che  sia  conforme  alla  poe- 
sia siciliana,  e  per  la  scelta  delP argomento  e  per  la  te- 
stura dei  versi,  benché  alquanti  pisani  allora  seguissero 
questa ,  e  due  scuole  si  mostravano  nel  comune  libero  di 
Pisa.  Le  poche  canzoni  di  amore  non  cadono  nelle  ordi- 
narie languidezze  e  nei  raffinati  pensieri.  Il  dire  pende  più 
alla  veemenza  oratoria ,  che  alla  spontaneità  e  facilità  poe- 
tica ;  i  costrutti  si  accostano  alla  maniera  latina  ;  aspri  e 
duri  sono  i  versi,  ma  pieni,  vigorosi,  robusti  e  fanno 
pensare  ;  le  rime  sono  le  meno  usuali  per  le  consonanze 
piene ,  e  raddoppiate  e  triplicate  nelle  cesure  ;  il  sonetto 
siciliano  variato  meravigliosamente  per  versificatura  ;  la  can- 
zone ha  un  andamento  più  largo  nel  ritomo  delle  rime. 
La  poesìa  di  Pannuccio  del  Bagno  si  dice  che  abbia  spie- 
gato nei  suoi  voli  quel  maschio  ardire,  che  avevano  sui 
mari  i  navigatori  di  Pisa  suoi  concittadini ,  e  che  poi  si 
mostrò  nelle  più  grandi  inspirazioni  della  Divina  (^me- 
dia deir  Alighieri ,  o  nei  sonetti  e  nelle  ottave  di  Torquato 
Tasso.  Insomma,  nella  poesia  siciliana  si  veggono  sempli- 
cità ,  soavità  e  naturalezza  di  affetti  ;  nella  poesia  bolognese 
nobiltà  e  gravità  di  pensieri  ;  e  nella  poesia  pisana  ardi- 
mento e  veemenza  d'immagini.  È  questa  la  critica  della 
trovatoria  italiana.  Le  tre  scuole  cercavano  di  rinnovare  gli 
spiriti  romani,  che  ancora  vivevano  nella  memoria  degli 
uomini ,  nei  libri  latini  e  greci  e  negli  sforzi  della  grandezza 


—  163  — 

politici.  Chi  non  rammenta  i  comuni  del  medio  evo?  Le 
iibert.'i  municipali,  gli  statuti,  i  commerci,  le  navigazioni,  le 
ioiluslric ,  le  lotte  ?  Ma ,  se  Bologna  e  Pisa  inchinavano  alla 
forma  repubblicana  di  Roma ,  Sicilia  e  Provenza  inchinavano 
alla  forma  imperiale.  Dì  qui  nasce  la  diversità  dello  stile 
e  della  espressione  delle  ire  scuole.  La  politica  ha  sempre 
inllutlo  sulle  sorti  della  poesia ,  e  oggi  le  lettere  non  si 
po.'isono  scompagnare  da  quella.  Peraltro  la  lirica  proven- 
lale  e  siciliana  dei  secoli  duodecimo  e  decimoterzo ,  cioè 
durante  la  trovatoria,  é  di  un  tipo  particolare,  ed  è  pro- 
pria al  cielo  di  Provenza  e  di  Sicilia  e  alle  corti  e  ai  tro- 
vatori di  amore.  È  lirica  amorosa .  o ,  come  la  chiamava 
Alessandro  Tassoni,  poesia  melica,  ma  temprala  dagli  spi- 
riti della  civiltà  ciistiana  e  moderna.  Cotesta  poesia,  benché 
sia  legala  al  principio,  che  la  contradistingue  dagli  altri 
generi  e  specie ,  conserva  i  caratteri  propri  e  le  proprie 
sembianze  ;  e  poi  divenne  dantesca  e  petrarchesca ,  e  com- 
parve nelle  pastorelltìrie  arcadiche  del  settecento ,  e  nelle 
moderne  cantiche  e  tragedie. 

I  ti-ovatori  poterono  influire  con  io  esempio  a  destare 
il  ftioco  poetico,  che  per  innanzi  rimaneva  oppresso  dalla 
dominazione  di  popoli,  i  quali,  diversi  dMndole ,  di  abi- 
ludini ,  di  religione ,  dovevano  tirannicamente  esercitarla  ; 
ed  attendeva  il  fortunato  momento  della  emancipazione  a 
divampare.  Le  turbolenze,  le  rapine,  grincendii,  che  de- 
Tastarono  l'Italia,  e,  più  ancora,  il  vandalismo  de'  poste- 
riori tiranni,  che  distruggevano  e  lasciavano  distruggere 
gli  archivi,  ci  hanno  irreparabilmente  privati  di  documen- 
li .  che  sarebbero  stati  utilissimi  ad  illustrare  vieppiù  nei 
suoi  particolari  il  procedimento  primo  della  lingua  e  let- 
teratura italica.  Ma  pure  abbiamo  tanto  da  poter  discemere 
S  vero  dal  falso.  Bisogna  saper  studiare  i  pochi  rimasti,  e 
prù  bisogna  aver  fede  nei  destini  della  letteratura  naziona- 
le,  dispreaando  i  lenocinli  delle  lingue  straniere.  La  tii 


—  166  — 

italiana  è  d'uopo  studiarla  a  preferenza ,  e  profondamente. 
Imperocché  è  a  dolere  gravemente ,  e  questo  fu  anche  un 
lamento  dell'agitata  anima  di  Vincenzo  Gioberti,  che  sonyi 
Italiani  in  Italia,  che  conoscono  Manzoni  e  Pellico  per  le  sole 
traduzioni  francesi ,  e  che  studiano  i  nostri  classici  non  nel 
puro  e  vergine  idioma  italico ,  ma  neiradulterato  e  manieroso 
gallico  e  germanico.  Io  penso  che  la  nuova  luce  delle  lettere 
nostre  è  mirabile  cosa  in  paragone  della  coltura  degli  stra- 
nieri ,  che  si  tolgono  a  maestri ,  massime  i  filologi  e  filosofi 
tedeschi.  Mentre  costoro  vegliano  gelosissimi  a  serbare  ed 
accrescere  la  loro  libertà  intellettuale,  i  nostri,  e  sono 
proprii  quelli  che  stanno  in  cattedra  nelle  università ,  pre- 
dicano imitazione  straniera.  Ma ,  grazie  al  cielo ,  la  scuola 
di  questi  pedissequi,  che  fra  noi  alzano  il  capo,  e  fuori 
piegano  umilmente  il  dorso,  oggimai  dechina,  e  in  breve 
sarà  ridotta  al  nulla ,  o  vivrà  solo  ne'  rostri  delle  cronache 
0  nelle  inclite  glorie  de'  giornali.  GP  Italiani  si  vanno  ac- 
corgendo delle  sciagurate  condizioni  dove  gli  ha  precipitati 
la  perdita  della  fede  nei  martiri  del  pensiero  nazionale. 
Riscaldino  ancor  più  questa  fede  alle  fonti  purissime  della 
patria  coltura,  alla  lingua  italica,  air  archeologia ,  ai  mo- 
numenti della  prisca  sapienza  nazionale,  e  gli  studi  filo- 
logici non  tarderanno  ad  avere  fra  noi  anche  il  primato ,  al 
pari  della  filosofia  e  della  giurisprudenza. 
Napoli,  ottobre  1870. 

Prof.  V.  Pagano. 


■VAJRrBTA 

&TA  SUL  VERSO  DEL  X  CANTO  DELL'  INFERNO 

FORSE  cui  GUIDO  VOSTRO  EBBE  A  DISDEGNO 


Piangendo  disse:  Se  |ier  i|aeslo  cicco 
Carcere  laì  per  altezza  d' ingegno , 
Mio  figlio  m'  è?  e  perchè  non  é  teca? 

Ed  io  a  Ini:  Da  me  stesso  non  vegno: 
Colui,  che  all«nde  lì,  per  qui  mi  mena. 
Forse  coi  Guido  loslro  ebbe  a  disde^o, 
(Versi  58-63) 

Che  cosa  significa  che  Guido  ebbe  a  disdegno  Virgi- 
lio? Dei  commenUtori  antichi  rouirao  e  il  Della  Lana  ri- 
f^onduno  che  Torse  Guido  aveva  antipatia  per  l' Eneide,  gli 
altri,  come  l' Anonimo,  il  Buti,  il  Boccaccio,  che  Guido 
facendo  professione  di  filosofo  forse  disprezzava  i  poeti  e 
Virgilio  tra  gli  altri.  Ma  dell'anlipatia  di  Guido  per  V  Eneide 
non  avremmo  altra  testimonianza  che  questo  verso  di  Dante: 
quindi  se  il  verso  non  è  suscettibile  d'  altra  interpre- 
tazione la  testimonianza  non  può  esser  piii  autorevole 
né  il  fatto  meglio  accertato,  ma  se  il  verso  può  essere 
spiegato  altrimenti  non  bisogna  tanto  facilmente  rassegnarsi 
a  credere  a  un  fatto  nuovo  e  singolare,  che  uno  spirito  colto 
e  geniale  potesse,  a  quei  tempi,  aver  antipatia  per  TE- 
neide.  Che  Guido  poi  dìsprezzasse  la  poesia  perchè  filo- 
sofo, e  perciò  non  leggesse  e  avesse  a  noja  i  poeti  inge- 
nerale e  Mrgilio  in  particolare,  non  è  presumibile,  giac- 
ché Guido  era  poeta  anche  lui,  tanto  da  togliere  air  altro 
Guido  ia  gloria  detta  lirtgua.  Per  questi  molivi  altri  hanao 


—  168  — 

«lanipie  ^oppiTsto  che  Vìrgilb  doq  ài  qui  intéso  uè 
Vmlyre  dell'Eneiile.  ne  come  an  nppresentanle  defla 
in  generale,  ma  come  rappresentante  «leQ'arte  aolìcai,del 
classiin^mo  della  latinità,  e  che  in  questo  senso  Donle 
deve  voler  dh-e  che  Gaido  lo  aveva  a  sdegno.  Il  Camlcanli 
M  sa  che  .spinse  Dante  a  scrìver  la  Vita  Nova  in  volgare, 
lai  non  comp«>^  altro  che  in  volgare,  dunque  non  è  al- 
tro: dovea  essere  on  dispregiatore  degli  w&dAj  doveva 
avere  a  disdegno  la  cnltnra  latina  che  tahmi  sì  ostÌDavaoo 
vanamente  a  continuare  e  far  rivìvere.  SeoDODchè,  se  il 
predicato  rcmaniirismo  di  Guido  si  spoglia  di  quelTaa- 
reola  mitica  di  cai  è  stato  circondato,  si  riduce  a  tali 
proporzioni ,  che  il  verso  di  Dante,  se  avesse  proprio  quel 
senso  che  gli  si  vuol  dare,  annanzierebbe  una  cosa  ina- 
spettata e  naova.  II  romanticismo ,  giacché  l' ho  eoa  diìa- 
mato,  del  Cavalcanti  non  ha  fondamento  die  sulle  parola 
del  S  XXXI  della  Vita  Nova  là  dove  Dante  dice:  «...  k) 
intendimento  mio   non  fa  dapprincipio  dì  scrivere  diro 

che  per  volgare ,  e  simile  intenzione  so  che  ebbe  qoe- 

sto  mio  amico  (Gaido),  a  cai  ciò  scrìvo ,  cioè  cb^  io  gii 
scrìvessi  solamente  in  volgare  >.  Or  da  questo  passo  non 
si  rileva  altro  se  non  che  Guido  rìconfermò  Dante  nel 
pensiero  di  scrìvere  in  volgare  la  Vita  Nova.  Dante,  ben- 
ché col  suo  buon  senso  vedesse  che  nel  linguaggio  ma- 
temo  e  non  nel  latino  doveva  scrìvere  la  narrazione  dei 
suoi  amori  giovanili,  poteva  pure  rimanere  in  ona  certa 
esitazione.  Amava  quei  classici  che  continuamente  leggeva 
ed  ammirava;  quel  latino,  a  cui  anche  dopo,  quand'ebbe 
r ardire  di  esporre  la  filosofìa  in  volgare,  prestava  un 
culto  come  a  cosa  veneranda  e  sacra,  (1)  voleva  pensarci 
l)ene  prìma  dì  lasciarlo  dapparte;  e  Guido,  più  provetto 


(1)  Cfr.  Conrilo,  tr.  i;  de  vulg.  el,  U,  4,  6. 


—  169  — 

,  mcoo  sensibile  dì  cerio  alle  bellezze  degli  aatichi 
i.  meno  rispettoso  d' indole,  dette  probabilmente 

DlUma  spinta ,  distrusse  quel  resìduo  d' esitazione  in  cui 
i  ancora  rimaneva.  Più  di  (juesto  dal  passo  della  V.  N. 
ì  si  deduce:  Guido  voleva  si  scrivesse  in  volgare,  come 

mte,  e  penò  probabilmente  meno  dì  Dante  a  lasciare 
di  scrivere  in  latino.  Da  questo  fatto  un  Fausto  da  Lon- 
giano.  grammatico  delta  (ine  del  cinquecento,  ne  prese 
ardimento  ad  attribuire  al  Cavalcanti  una  grammatica  ita- 
liana.  Ora  che  in  Italia,  dove  la  coltura  del  volgare  era 
cominciata  da  cosi  poco  tempo  e  si  era  tenuta  in  limiti 
così  ristretti,  vi  Tosse  la  possibilit,\  d' immaginare  quello 
che  snin  due  secoli  dopo  fu  cfirtaraente  attuato,  una  gram- 
matica italiana ,  lo  creda  chi  vuole  ;  ma ,  lasciando  stare 
la  possibilità  e  venendo  alle  prove  di  fatto ,  quale  scrittore 
antico  da  una  sola  frase  da  cui  si  possa  tnrre  il  minimo 
appoggio  air  alTermazione  d'  un  grammatico  posteriore 
di  più  di  tre  secoli?  Un  antico  anzi,  Dante  stesso,  la 
(«elude  assolutamente  con  le  parole  con  cui  comincia  il 
libro  de  vulg.  el.  —  cum  neminem  ante  nos  de  vulgaris 
doqaentiae  doctrina  inveniaraus  traclasse  — ,  mentre  a 
lui  QOn  sarebbe  parso  vero,  (e  ad  ogni  modo  sarebbe  stalo 
iuerlUbile),  dì  ranunentare  anche  a  principio  quel  suo 
Guido  che  ramment.1  cosi  spesso  nel  corso  del  libro.  In- 
tanto con  un  po'  d' immaginazione .  uno  de'  più  benemeriti 
siusiilìi  degli  studit  letterari,  e  di  buona  volontà,  dalle 
parole  della  Vita  Nuova  e  dalla  Icggenduccia  delia  gram- 
matica s'è  fermamente  stabilito  il  dogma,  che  la  prefe- 
nnza  da  dare  al  volgare  sul  latino  fosse  quasi  il  cardine 
delle  opinioni  letterarie  del  Cavalcanti,  la  sua  idea  fissa. 
Nulla  dunqne  di  più  naturale  che  considerando  il  verso 
di  Dante  vi  si  trovasse  subito  il  complemento  della  nota 
opinione  di  Guido,  vi  si  scorgesse  il  lato  negativo  d' un 
sistema  di  cui  si  sapeva  il  positivo.  Ma,  ridotte  le  cose 


—  170  — 

al  loro  vero  stato,  e' si  vede  che  il  fatto  dell'odio  di 
Guido  per  Tarte  antica  e  per  il  latino  in  fondo  non  ha 
che  il  verso  del  decimo  canto  da  cui  si  possa  dedarre, 
e  che,  come  fatto  nuovo  e  singolare  che  esso  è  in  un 
uomo  colto  e  gentile  di  quei  tempi,  non  sarà  da  accet- 
tarsi se  non  quando  il  verso  non  possa  avere  altra  inter- 
pretazione. Si  potrebbe  veramente  dire  che  il  disdegno 
senza  significare  propriamente  odio  potrebbe  indicare  sem- 
plicemente il  lasciar  da  parte  il  latino,  ma  da  un  lato 
sarebbe  allora  di  questo  peccato  più  che  infetto  anche 
Dante,  e  dall'altro  non  sarebbe  tal  peccato,  quando  non 
ci  fosse  unito  odio,  da  metter  male  fra  chi  n'era  reo  ed 
il  rappresentante  della  latinità.  (1) 


(1)  Phìialethes,  cioè  Giovanni  di  Sassonia,  dà  una  forma  propria  a 
quest* ultima  interpretazione,  ficcandoci,  per  giunta,  anche  un  pò*  della 
precedente.  Secondo  lui  Dante  vuol  dire  che  Guido,  datosi  tatto  aUa 
filosofia  (e  una),  e  alla  maniera  di  poetare,  un  pò*  leggerina,  de' pro- 
venzali (e  due),  non  onorava,  come  lui,  Virgilio;  ed  in  senso  allegorico, 
che  Guido,  non  occupatosi  dello  studio  de' poeti  antichi,  non  potea  fare 
una  Divina  Commedia,  non  potea  trovare  con  luì  la  via  per  i  tre  regni 
(Gdttliche  Com6die,  Qberlragcn  v.  P. ,  Leipzig  1865)  —  0  state  a  ve- 
dere che  tutte  quelle  visioni  della  vita  futura,  delle  cui  narrazioni  quel- 
l'età ribocca,  i  monaci  e  gli  asceti  imparavano  ad  averle  studiando  i 
poeti  antichi  !  E  la  maniera  leggera  provenzale  di  Guido  è  anche  un  bel 
trovato!  Dante  chiama  il  Guinicelli  massimo,  savio,  padre  di  lui  e 
degli  altri  suoi  migliori ,  eppure  dice  che  V  ha  levato  di  seggio  il  Ca- 
valcanti; il  Cavalcanti  mette  certo  in  sua  compagnia  quando  si  fa  dire 
dal  provenzaleggiante  Buonagiunta  le  vostre  penne;  al  Cavalcanti  dedica 
le  sue  rime  nove;  e  ora  Dante  slesso  è  costituito  accusatore  di 
Guido,  e  deve  proferir  lui  la  sentenza  che  ricaccia  Guido  tra  i  leg- 
geri provenzaleggianti!  —  11  fatto  è  che  quel  girigogolo  di  parole, 
ingeposamente  accozzate  a  esprimere  una  cosa  si  vaga,  che  vo- 
lendola dire  a  memoria  con  altre  parole  non  si  troverebbe  la  via ,  è  se- 


—  ITI  — 
i  preferisce  un'  ioieniretazioae  poMMi,  e  oE^ 
getìan  -.  *  Guido  era  godìi] ,  com'  era  stalo  Dante  fioo  il 
t:iOO ,  epoca  della  visioDe  e  del  suo  camìiiaEieolo.  È  i^oilo 
baie  eh'  e^li  non  cooTenisse  oell'  idea  deir  impot)  va- 
gbeg^ab  e  predicala  dall'amico —  QahidJ  la  n^oot  d^i- 
fer  potuto  Daote  accennare  che  G.  eUx  io  dispetto  Vìr^ 
cane  cnloiv  e  sosteiutore  della  divina  orìgioe  deO'ìn- 
pero,  a  citi  il  Gaelfo  era  contrario  >.  11  BÉncbi  cade  qni 
in  mia  beila  contradinooe^  perthè  inetundo  al  1300  pKtt» 
aodie  Dante,  non  ^  capisce  penbè  al  raggio  del  I3M 
il  gaelfìsmo  cbe  era  d' impediiMolo  il  Gndaoti  noo  Ione 
d' impedimento  aodie  a  Ini  Clie  se  per  citoc  ^mNI 
contradizione  sì  rìoorre  dia  sapposiziaoe  At  Datfe  fcne 
diventato  ghtbellÌDO  prima  àà  I3O0L  di  a  nmmata  àdSt 
qnistioni  spbose  sair  epoca  deb  rvmjmiaaat  del  dr  Jto- 
tiardtia  sa  che  s' eotn  n  aa  paepraift  bie  dK  età  d»- 
vero  non  ci  sarebbe  da  poter  ■■  eipìr  ■erte  dele  p*> 
role  di  [)ante.  E  poi  rinlgprcijaaDiie  poSfia  k>  mt  par- 
talo originale  come  ChanBO  lotte  r;dlre  Asohr.  I  m- 
.•denilorì  delle  wie  inleipretaiioBi  jiilUiu»  atrta  Mfi 
una  cgnisiioDe  da  propani  e  di  liaoltere  i*  wm  tmÉB 
qnalunfpie:  il  proporab  era  ^èd  Adto  oAUIbb,  e,  pv 
gianta  poi,  se  se  la  lÓGsero  proforta  mOéuit  ataa  ••- 
lete  3rri%-3ii  alla  ioierprctaaane   pmsn.  Tal»  i   pr aprii 


SH  Mfto  ddli  poa  BCOHB  e  wfrt  MTi^vaMMe.  tmt  éé 
rato  cbr  qM«to  acMés  >wiiMki  fa*  f  àiayRMn»  rdH» 

iortauto  hù.  QoimÌ  «  Shmm.  Tatt,  «bA»  «  1m|»  <-«  o^ 

■eclio  degfi  iliri,  ai  dfax  cfe  fi  jW  M*  «ri  <  m^^  te*  <M> 

'     MBUtre;  e  unii  ^tmotumt,  f^ii»  ■■■  ■  oyiB*.  aa  «Hrtiaw 

L    A  rieorrtn  •  qnefle  MiitiiÉt  fm^mi,  (te  MadkiteM»  A  4^ 

£■  n  aeeonodunato  tn  d  liMp*  e  b  ««iSb  *  «pte  <  It  «m^hh 

di  MM  nurci  rtedii. 


—  172  — 

dovere  sarebbe  spesso  da  farsi  se  non  altro  per  torna- 
conto I  La  qnistione  era ,  ammesso  pure  che  Guido 
avesse  antipatia  per  P Eneide:  ma  perchè  e  come  po- 
teva questa  antipatia  impedire  che  Virgilio  lo  menasse  pei 
regni  infernali  ?  0 ,  perchè  e  come  poteva  impedh*lo  V  an- 
tipatia di  G.  per  la  poesia  e  per  i  poeti?  0,  perchè  e 
come  l'antipatia  per  Tarte  classica  e  pel  latino?  0,  da 
ultimo ,  perchè  e  come  •  V  antipatia  pel  Ghibellinismo  ?  E 
r  impossibilità  di  dare  una  risposta  a  ognuna  di  queste 
quattro  domande  avrebbe  messa  in  chiaro  la  falsità  delle 
rispettive  interpretazioni.  —  Il  viaggio  pe'tre  regni  non 
era  un  viaggio  per  missione  letteraria;  perciò  un  antìvir- 
giliano,  uno  sprezzatore  della  poesia,  un  nemico  del  la- 
tino poteva  benissimo  farlo.  Le  sue  storte  opinioni  lette- 
rarie non  avrebbero  potuto  impedire  che  la  divina  grazia 
mandasse  la  ragione  a  fai^Ii  da  scorta,  ammenodiè  Vir- 
gilio che  rappresentava  la  ragione  non  vi  si  fosse  voluto 
negare  per  un  risentimento  personale.  E  neppure  il  guel- 
fismo  poteva  esser  un  impedimento.  Certo  nelle  opinioni 
di  Dante  la  monarchia  universale,  stabilitrìce  della  pace  e 
della  concordia  generale  tra  i  popoli  e  cospirante  con  la 
Chiesa  al  bene  dell'umanità,  era  in  connessione  logica  con 
tutto  il  sistema  della  morale;  ma  se  qualcuno  in  buona 
fede  avesse  dalla  morale  dedotte  dottrine  guelfe  non  era 
reo  di  tal  colpa  che  non  potesse  visitare  perciò  i  regni 
eterni.  Nella  Commedia  si  trova  spesso  il  senso  politico, 
spesso  le  passioni  politiche  tengono  il  campo,  ma  T In- 
ferno, il  Purgatorio  e  il  Paradiso  sono  anzitutto  i  regni 
del  premio  e  della  pena  delle  azioni  morali  di  quaggiù; 
la  loro  divisione  in  cerchi,  gironi  e  cieli  è  fatta  secondo 
vizii  e  virtù  morali  esclusivamente;  gli  uomini  politici 
stessi  non  vi  ricevono  pena  se  non  di  colpe  anche  morali^ 
delle  loro  opinioni  politiche  mai.  Il  poeta  avrà  scelto  più 


^WHOnE 


Ieri  un  simoniaco,  tiu  traditore  ecc.  in  una  : 
avversa,  come  talora  Iia  preferito  suoi  nemici  perspnali, 
ma  il  titolo  sotto  cui  fa  che  sien  puniti  è  sempre  la  si- 
mouia.  la  frode  ecc.  Lo  opinioni  morali,  fliosoflche  e  re- 
ligiose hanno  pena  neiP  Inferno,  e  proprio  in  questo 
luogo  stesso  ove  Dante  parla  a  Farinata,  a  Cavalcante,  e 
ove  apprende  che  dimora  quel  magnanimo  Federigo  che 
tanto  onorava,  ma  le  opinioni  politiche  no.  Perchè  dunque 
Virgilio,  sia  pure  di' e' fosse  stato  ìl  cantore  dell'impero 
latino,  non  polca  menare  un  guelfo?  Se  questo  guelfo 
avea  la  fede  in  Dìo  e  era  docile  a  lasciarsi  scorgere  dalla 
ragione  illuminata  dalla  fede? 

Or  appunto  questo  al  Cavalcanti  mancava.  Figlio  d' un 
fe^icureo  che  facea  V  anima  morta  col  corpo ,  ora  epicu- 
cureo  anche  ini ,  tanto  clie  poi  il  volgo ,  a  vederlo  astratto 
e  meditabondo ,  s' immaginava  che  egli  fosse  assorto  nella 
ricerca  di  argomenti  contro  l'esistenza  di  Dio.  «  Egli  al- 
cuna volta,  dice  il  Boccaccio,  speculando  molto  astratto 
dagli  uomini  diveniva ,  e  perciò  eh'  egli  alfjuanto  teneva 
dell'  opinione  degli  Epicurei ,  si  diceva  tra  la  gente  volgare 
che  queste  sue  speculazioni  erano  solo  in  cercare  se  tro- 
var potesse  che  Dio  non  fosse  ».  Ora  Virgilio  non  era 
guida  in  qualità  di  poeta  epico  o  d'autore  latino,  ma 
il  più  gran  savio  del  gentilesimo ,  come  l' incarna- 
le della  sapienza  lunana,  c^me  il  massimo  sforzo  che 
possa  fare  la  ragione  priva  della  fede,  sforzo  che  giunge 
quasi  a  indovinare  la  fede  (quarta  egloga);  tale  era  la 
Dgura  di  Virgilio  com'era  stala  ridotta  dall' elaborazione 
l^gendaria  de'  dotti  del  medioevo.  Dante  alla  sua  volta 
era  guidato  da  Virgilio  perchè  promettesse  bene  in 
sia  0  cose  slmili,  ma  come  uomo  smarrito  nella  selva 
vizii ,  che  vuol  salire  al  monte  e  n'  è  trattenuto  da 
Oere  ossia  tre  vizii,  e  che  appena  la  ragione  sommessa 


—  I7J  — 
■■■dita  difii  grazia  drriDa,  gli  si  preseob,' 
b  Kgat,  an  la  certezza  d' esserne  meràto  t 
la  ftrto  éi  5.  Mefrv  e  </U  spiriti  mfsli  e  eoa  1 
(Ée  taàmm  pia  iefma  b)  coodaca  poi  alle  tm 
une  b  ragiooe  Olmnìiau  diDi 
e^ji  segoiTa  la  ragtoDe  ] 
I  e  nMk  al  aratore?  Cocne  poteva  mtrapreodere  1 
•ID  é'àmtomta,  se  e^  all'  oltretomba  ooa  aeieal 
live  b  parificaziooe  deQ'aaima  culla  risiooe,  per 
stUie  SUO  cane  per  nn  ateo  il  cercare  il  ] 
\o  d' mn  riBorso  a'  piedi  d*  an  confessore.  ?m^ 
dp  Oralonte  dnede  :  5e  ta  TÌeoì  qna  per  i 
pBpBs,  ptrdé  BOD  i  cOQ  te  aiw-be  mio  figlio?  Date 
■de:  ita  io  qii  un  d  soa  renalo  da  me,  po'  a- 
(fee  io  aLtéa,  p«r  altezza  d'  mgegno  come  In  dìd; 
i  watm  b  ragione  N^mmesa  alla  Tede,  e  per  comi 
:  hde  stesa:  e  Guido,  purtroppo,  voi  lo  sapete,Dai 


K  ^Md  fènt,  die  gl^interpr«ti  tiOQ  poisoDO  spiegai 
■I  hiId  aaàSaSboeoàe ,  perchè  la  verità  non  si  i 
OMS  ■■  potesse  Dmle  doq  e-ssere  abbastanza  «icitro  i 
Gàdo  ama  o  i»  antipatia  per  T  Eneide  o  per  la  | 
o  pel  bliBO  o  per  r  intiero,  tanto  da  dire  fortt  eMf< 
diidfeyii  secz'affenDariù  recisamente,  è.  nell'inteiprt 
none  che  bo  delio.   T  espressione   non   d'gpyeroJ 


—  175  — 

pio;  quindi  Dante  non  ha  coraggio  di  dire  crudamente  la 
cosa  e  per  delicatezza  verso  il  padre  e  per  la  pena  che 
egli  stesso  prova  a  confessare  la  colpa  del  suo  primo 
amico  (V.  N.  I  III)  dice  forse  (1). 

Francesco  d'Ovidio. 


(1)  Accortomi  d'aver  commessa  la  negligenza  di  non  guardare  an- 
che il  Commento  del  Tommaseo,  Tho  ricercato  subito,  e  v*ho  trovato 
un  accenno  alla  stessa  interpretazione  che  ho  qui  sostenuta.  <  Guido, 
dice  il  T. ,  non  curò  V  eleganza  dello  stile  e  lo  studio  degli  antichi ,  cosi 
come  Dante,  e  cel  prova  la  canzone:  Donna  mi  prega....  guazzabuglio 
peggio  che  prosaico,  sebbene  in  alcune  ballate  il  dire  sia  di  tutta  fre- 
schezza. Non  mai  però  l'arte  e  lo  studio  sono  quanto  in  Dante  profondi. 
Allegoricamente  intendendo:  la  filosofìa  naturale  e  politica  di  Virgilio 
era  religiosa  insieme  e  ghibellina;  Guido  irreligioso  e  guelfo;  ma  in 
cuore  avea  i  semi  del  Ghibellinesimo  come  li  avea  già  Dante  nel  1300: 
però  dice  forse,  >  Si  vede  che  in  questa  nota  il  sig.  Tommaseo  cercò 
d'esaurire  la  rassegna  di  tutte  le  ragioni  possibili  e  immaginabili  per 
cui  Guido  potè  disdegnar  Virgilio,  e  che  perciò  gli  si  è  presentata  tra 
r  altre  anche  quella  della  miscredenza  di  Guido,  che  egli  ha  gettata  là 
in  un  fascio  con  le  altre.  A  sprigionamela  quindi  non  avrebbe  forse 
mai  pensato  nessuno ,  senza  esserci  prima  arrivato  per  altra  via.  Sia 
come  sia.  Tessere  slato  preceduto  dal  valentissimo  commentatore  non 
deve  far  che  piacere,  e  in  tutti  i  modi  il  tacerlo  per  malizia  sarebbe 
stato  un  ben  povero  ripiego. 


LEGGENDA  DI  S.  MARGHERITA  V.  e  M. 


Ecco  un'  altro  Saggio  di  leggenda  agiografica,  che  pnò 
annoverarsi  certo  fra  le  migliori  per  purezza  di  lingua, 
semplicità  di  stile  e  candore  di  esposizione.  Un  Teotimo, 
vero  0  supposto  narratore  «  ammaestrato  di  senno  e  di 
lettera  »,  che  a  lungo  errò  sui  libri  in  cerca  della  yerìtà, 
non  trovò  pace  che  nelle  dottrine  cristiane,  vinto  fors^  an- 
che dair  eroismo  de'  primi  suoi  testimonii ,  e  volle  che 
fossero  raccolti  gli  atti  del  martirio  di  santa  Mai^herita 
(al  quale  assisti  di  persona)  da  «  coloro  che  in  quello 
tempo  erano  scrittori  e  scrissero  tutte  le  cose  di  mar- 
tirio » ,  dando  ad  essi  perciò  «  pregio  e  carte  » ,  e  divul- 
gò questa  narrazione  in  molte  parti  concorde  colla  tradi- 
zione popolare  tuttora  vivente  intomo  ad  alcune  circo- 
stanze biografiche  di  quella  invitta  donzella,  creata  ap- 
punto dalle  antiche  leggende.  Quantunque  somigliante,  ha 
tuttavia  tali  differenze  da  quella  che  pubblicossi  a  Trieste 
nel  1858  e  a  Venezia  nel  1866,  da  riputarla  una  versione 
diversa  non  immeritevole  della  stampa. 

È  questo  senza  dubbio  un  prezioso  documento  di 
virtù  e  di  lingua,  checché  sentenziino  delle  leggende  me- 
dievali e  d'  ogni   scritto  volgare  dell'  aureo  Trecento  i 


r<i3i.  autnr  e  . 


^m    i  ^  US 


—  178  — 


Incomincia  la  Leggenda  di  Santa  Margarita. 

Dopo  la  passione  e  la  resurrezione  di  Dio  nostro  Signore 
Gesù  Cristo,  il  quale  sali  in  cielo  e  sta  da  la  parte  diritta  a 
Dio  Padre  onnipotente,  e  nel  suo  nome  moltissimi  anno  morte 
e  passione,  e  li  apostoli  sono  incoronati,  e  molti  in  quella 
ora  sono  fatti  santi  e  vinseno  questo  mondo,  e  soprasterono 
a^  tiranni  e  vinseno  anco  la  smania  delli  omini  e  la  rabbia  del 
diavolo,  e  T idoli  ch^ erano  sordi  e  muti,  ed  erano  fatti  per 
mano  d' uomini  e  adoravano  li  idoli,  e  quali  non  facevano  bene 
né  a  loro  né  altrui.  Ed  imperciò  io  Teodimo  per.  nome  chia- 
mato, che  credo  in  Gesù  Cristo,  ammaestrato  di  senno  e  di 
lettara,  posi  mente  a  tutte  le  carte  per  leggere,  e  non  trovai 
in  cui  potessi  credare,  se  non  (1)  in  Gesù  Cristo  ed  in  suo  nome, 
lo  quale  alluminò  li  ciechi,  e  li  sordi  fece  udire,  e  li  moti 
fece  parlare,  li  morti  suscitare,  e  tutte  quelle  persone  che  in 
lui  credevano,  fece  salve.  Ed  imperò  io  Teodimo  ricevetti 
battesimo  al  nome  del  Padre  e  del  Figliuolo  e  dello  Spirito 
Santo,  e  posimi  saviamente  a  vedere  come  beata  Hai^arita 
pugnò  col  dimonio  e  vinse  questo  mondo;  e  io,  sicondo  la 
mia  virtù,  detti  pregio  e  carte  a  coloro  che  in  quello  tempo 
era  (2)  scrittori  e  scrisseno  tutte  le  cose  di  martirio,  le  quali 
aveva  sostenuto  beata  santa  Margarita.  E  voi  tutte  persone ,  che 
avete  orecchie,  udite  e  col  core  intendete  le  fortezze  e  le  virtù 
della  vergine,  come  si  legge  la  leggenda  sua,  e  cosi  fate,  si 
che  abiate  la  luce  e  la  corona  di  paradiso  e  la  gloria  sempi- 
tema. 

E  beata  santa  Margarita  fu  figliuola  d' uno  uomo,  il  quale 
aveva  nome  Teodimo,  lo  quale  era  nobile  patriarca  delti  gen- 
tili ed  adorava  T  idoli,  e  non  aveva  altra  figliuola  se  non  beata 
santa  Margarita.  Ed  incontanente  che  ella  fu  nata,  fu  degna 

(1)  Il  testo  ha  none,  voce  usitatissima  a*  primi  scrittori,  che  così 
la  pronunciavano  per  istrascico. 

(2)  Era  per  erano,  conforme  al  lat.  erant. 


I 

I 


—  179  — 

Eiella  grazia  dello  Spirilo  Sanlo,  e  fu  mandata  a  nutricare  a 
una  cittA,  ch'era  di  lunga  (fa  Anliocliia  miglia  quindici,  e  da 
quella  balia  era  nutricala  mollo  diligentemente.  E  quando  poi 
mori  la  madre  sua,  con  maggiore  desiderio  era  lemita  da 
quella  die  la  nuiricava,  imperciò  che  era  molto  bella  e  ado- 
rava Cristo,  ed  era  odiata  dal  padre  suo.  e  mollo  era  amala 
da  Dio,  e  aveva  già  anni  dodici,  e  stava  in  casa  di  colei  che 
la  nutricava. 

Beata  santa  Margarita  tidl  li  comandamenti  de*  santi  mar- 
tiri e  lo  spargimento  del  sangue  delli  giusti,  e  Gesù  Cristo 
l'aveva  ripiena  di  Spirito  Santo,  e  tutta  era  Tedele  a  Domine- 
dio,  il  quale  la  fece  salva,  e  sempre  guardò  la  sua  virginita- 
de.  E  beata  sunta  Margarita  teneva  a  pasciare  (1)  le  pecore 
di  colei  che  la  nuiricava,  ed  ella  e  altre  fancelle  (2)  di  quella 
città,  e  quando  il  signore  d'Antiocliia  andava  perseguitando  li 
cristiani,  e' dove  udiva  che  ne  fusse  .ilcuno,  incontanenle  lo 
faceva  pigliare  e  mettare  ne'  ferri.  E  vidde  quello  crudele 
signore  beala  santa  Margarita,  che  teneva  a  pasciare  le  pecore 
di  colei  che  la  notricava,  e  inconianente  quello  crudele  signore 
comandò  a' suoi  servi,  e  disse:  «  Andate  tosto  e  pigliate  quella 
fanciulla;  se  ella  è  libera,  la  pigliarò  per  moglie;  e  s'ella  è 
serva,  terrolla  per  amica  e  faroUe  bene  in  casa  mia  per  amore 
della  sua  bellezza  n.  E  quando  la  preseno  quelli  cavalieri,  che 
erano  mandati  da  quello  iniquo  signore,  e  beala  sauta  Marga- 
rita incominciò  a  dire:  «  Dominedio  Gesii  Cristo  n,  e  disse 
anco;  ■  Miserare  mei,  Deus,  misererò  mei,  non  perda  io  col- 
Timpii  e  coir  iniqui  l'anima  mìa:  fa.  Iddio  mio,  escirc  della 
bocca  mia  sempre  orazioni,  acciò  che  l'anima  mia  stia  pura  e 
netta,  e  '1  corpo  mio  stia  fermo  nella  fede  santa,  e  non  sia  mu- 
talo il  corpo  mio  della  sozza  iniquità,  e  non  sia  vinta  dalle 
sottighezze  del  diavolo:  ma  manda  l'angelo  tuo,  che  ammaestri 

(1)  Cioè  a  pascere,  vezzo  senese  anticamente  osato,  come  tnetfura, 
I  riffondare,  astare,  ecc.  clic  seguono,  invece  di  metlere,  rispondere, 
\  mere. 

(2)  FanciuU»;  nella  Vila  di  S.  Margherila  già  ricordala'.  «  Si  la 
I   mandava  a  guardar  le  pecore  con  esso  l'altre  tancelle  ■. 


—  180  — 

e  apri  il  scono  della  mente  mia  e  del  corpo  mio  a  rispoodare 
con  fiducia  a  V  impio  ed  iniquo  perfetto  (1).  Yeggiomi  sicondo 
che  la  passara  è  presa  dair  uccellatore  nella  rete,  e  presa  so 
come  U  pesce  all'  amo,  e  compresa  sono  si  come  capra  od 
lacciuolo.  Aitatemi,  Dominedio,  e  salvatemi  e  non  mi  lassate 
nelle  mani  delli  impii  e  de'  tiranni  ». 

E  tomaro  quelli  cavalieri  ch'aveva  mandati  qiieUo  àgnore 
iniquo  a  beata  santa  Margarita,  e  disseno:  cMissere,  l'amore 
tuo  non  può  essare  comune  col  suo,  impercib  che  non  serve 
li  dii  nostri,  ma  solo  quello  Dio  adora  e  chiama  (2),  quale 
e  giuderi  crocifissene.  >  £  allora  quello  crudde  signore  si  cam» 
biò  tutto  nel  volto  suo,  e  comandò  che  fusse  menata  innanzi 
a  lui;  e  quando  fu  venuta,  disse:  iDi  qua' generazione  se'tnf 
dimmi  se  tu  se'  libera  ovvero  ancilla.  t  E  beata  santa  Marga* 
rita  rispose:  «  Libera  so,  cristiana;  »  e  quello  signore  le  disse: 
i  In  quale  Dio  ài  tu  fede?  E  come  ài  tu  nome?  i  E  santa  Mar- 
garita rispose  e  disse  :  ■  Io  chiamo  Dio  Padre  onnipotente,  padre 
del  nostro  Signore  Gesù  Cristo,  lo  quale  la  mia  virgimtade  à 
salvata  infine  a  questo  presente  di  senza  lordamento^  e  non 
corrotta  m' à  guardata.  Ed  i*  ò  chiamato  il  nome  di  Cristo,  fl 
quale  fu  crocifisso,  e  mai  il  suo  regno  non  averà  fine.  »  Allora 
quello  signore  ebbe  grande  ira,  e  comandò  che  santa  Marga- 
rita fusse  menata  in  pregione,  infine  a  tanto  che  trovasseno  per 
che  modo  la  potesseno  dispergere  (3).  Ed  entrò  quello  iniquo 
signore  in  Antiochia,  ed  andò  adorare  li  suoi  dii  sordi  e  mu* 
toli  sicondo  la  sua  fede. 

Il  sicondo  di  venne  a  sedere  su  la  sedia  sua,  e  comande 
che  li  fusse  menata  innanzi  santa  Margarita,  e  disse  a  lei: 
e  Vana  fancella,  abbi  misericordia  del  corpo  tuo  e  della  bellezza 
e  della  tenarezza  tua;  non  adorare  Cristo,  e  consente  a  me,  e 
adora  li  dii  miei,  e  darotti  molti  denari  e  faretti  bene  sopra 
tutta  la  mia  famiglia.  >  E  santa  Margarita  rispose  e  disse  :  e  Io 

(1)  Prefetto,  per  metatesi:  e  Sentendo  una  notte  la  famiglia  del  per- 
fetto ecc.  ».   va.  SS.  Pad,  1.  259. 

(2)  Cioè  inf)oca, 

(3)  Qui  dispergere  è  in  senso  di  confondere  o  vincere. 


—  181  — 

)  il  mio  Signore  Dio,  quale  m'k  «jalo  tanta  gmja. 
cite  tu  non  mi  potrà' tanto  lusiogarc,  che  lu  mi  [Kuai  mito- 
vare  da  la  via  della  verità,  nella  quale  cominciai  andare; 
ma  io  colui  adoro,  del  quale  è'I  mare  e  la  terra  me  paura, 
il  qiiale  ogni  creatura  deverebbe  adorare,  il  quale  rimarrù  onai- 
poleoie  in  saccula  saccuiomm.  Amen.  >  E  quello  signore  disse: 
j  Se  lu  non  adorarai  lì  miei  dii,  il  coltello  mio  squarciarà  la 
carue  tiin,  e  l'ossa  tue  si  spargiaranno  sopra  il  fuoco  ardente; 
e  se  lu  adorerai  li  dii  miei,  innanzi  a  tutti  costoro  lo  dico, 
ctr  io  ti  pigliarò  per  moglie,  e  bene  farò  a  le  sicondo  che  a 
me.  •  E  beala  santa  Margarita  risponde:  •  lo  do  tutto  lo  corpo 
mio  a  Gesù  Cristo,  e  colli  giusti  e  vergini  da  lui  corona  rice- 
verò, e  Cristo  so  medesimo  per  noi  si  dò  a  la  morte,  e  io 
per  suo  amore  non  ò  paura  della  morte,  però  die  lui  m'k 
segnalo  col  suo  segno.  >  Allora  quello  crudele  signore  comandò 
a  li  servi  suoi,  che  la  sospendessena  in  aria  e  che  la  battes- 
seno  con  verghe;  e  mentre  che  quelli  crudeli  la  battevano, 
pose  mente  santa  Margarita  in  cielo  e  disse:  t  In  te.  Domine, 
Aperavi,  imn  sia  io  confusa  in  eterno,  e  non  mi  scherniscano 
r  inimici  miei,  e  quelli  che  anno  fede  in  te,  non  sleno  confusi 
per  lo  tuo  nome.  Liberami,  Signore  Dio,  che  benedetto  sia  i) 
nome  tuo  in  saecula  saeculorum.  Amen.  >  Ancora  disse  santa 
Margarita:  'Pone  mente  in  me,  Dio  mio,  e  abbi  misericordia 
di  me  e  liberami  delle  mani  de' miei  nimici,  ehe'l  mio  corpo 
non  ahi  paura  di  questo  camitico  (I).  E  poscia  manda  a  me 
rugiada  da  cielo,  che  conforti  le  piaghe  mie  tanto  cocenti,  e '( 
dolore  mio  si  riposi  e  la  tristizia  torni  in  allegrezza.  >  K  beata 
A3Dta  Margarita  orava,  e  li  messi  la  battevano  colle  verghe 
il  suo  tenaro  corpo,  e  lo  sangue  suo  corriva  (5)  per  le  carni 
MK  si  come  acqua  corrente  di  fonte.  E  quello  inìquo  nignore 
gridava  e  diceva:  <  Crede,  Margariu,  al  mio  Dio;  •  e  molti 
piangevano  per  tanto  sangue  che  usciva  delle  carni  sue,  e  forte- 
ti) In  luogo  di  earaefief.  tlanca  qoesU  tote  nei  dizionarìi, 
<S>  Correva:  •  Parve  che  i[ael  velc-no  al  cor  corritK  >  ¥ivui, 
Quadrir.,  ilb.  III.  cap.  tV;  p  nd  cap  IX  <  Pn-  quelle  ifiiast  ognuu 
mio  conia  », 


—  182  — 

niente  ne  pareva  loro  peccato»  e  diceva  r  uno  di  coloro  a  beata 
santa  Margarita:  e  0  Margarita,  molto  cMncresce  di  te,  imper- 
ciò  che  ti  vediamo  battare  e  macerare  il  corpo  tuo  mondo  e 
netto.  0  Margarita»  quanta  bellezza  ài  perduta,  perciò  che  tu 
non  ài  creduto  a  questo  signore,  ed  ene  fortemente  irato  oon- 
tra  di  te  la  memoria  sua.  Deh  I  crede  nelli  dii  suoi  e  vivraL  » 
E  beata  santa  Margarita  rispose:  1 0  gattivi  (1)  consiglieri^  o 
omini  pessimi ,  andate  air  uópare  vostre,  che  a  me  è  in  aiuto 
Domincdio  mio.  Che  pensate  voi  se  U  corpo  mio  divorarete? 
L' anima  mia  colle  giuste  vergini  si  riposare  per  questo  tor- 
mento del  corpo,  ma  credete  voi  in  Dio  mio,  che  è  forte,  giusto 
e  pio,  e  poò  bene  esaudire  coloro  che  lo  pregano,  e  apre  la 
porta  del  paradiso  a  coloro  che  V  addimandano,  e  io  non  adoro 
H  dii  vostri  mutoli  e  sordi,  fatti  per  mano  d' uomini,  i  E  disse 
a  quello  signore  :  t  Tu  fai  V  uopera  del  padre  tuo  diavolo.  0 
svergognato,  o  crudele,  a  me  è  in  aiuto  Dio  e  li  santi,  ed  otti  (2) 
dato  podestà  delle  carni  mie.  0  Dommedio,  libera  T  anima 
mia  delle  sue  crudeli  mani  ed  insaziabile  leone  puzzolente.  » 
Allora  quello  signore  fu  forte  irato,  e  comandò  che  fiisse  so- 
spesa in  aria,  e  colle  verghe  aspramente  le  carni  sue  fusseoo 
rotte,  battute  e  fragellate.  E  beata  santa  Margarita  pose  men- 
te in  cielo  e  disse:  t  Molti  cani  m'anno  circondata,  e  consi- 
glieri mali  voli  m'anno  assediata;  tu,  messer  Dominedio,  in- 
tende e  aiutami.  Levale  e  tollete  T  anima  mia  delle  manidd- 
r inimici  mici,  e  di  quelle  del  cane  salvami  e  della  bocca  dello 
leone;  e  conforta  T  umilila  mia.  Cristo,  contra  T  avversario 
mio,  e  mandami  la  colomba  da  cielo  in  aiuto,  che  guardi  la 
virginità  mìa  senza  lordamente,  e  dammi  fiducia  chMo  com- 
batti contra  T avversario  mio,  ch'io  lo  vegga  acciecato  innanzi 
a  la  faccia  mia,  acciò  ch'io  dia  fiducia  a  tutte  le  vergini 
di  confessare  lo  nome  tuo  benedetto  in  saecula  saeculonun. 
Àmen.  » 


(1)  Coitivi,  voce  anliquata:  cDe'luog^hi  gallivi gli  albori  si  vo- 
gliono trasportare  >  Pallad.  Marz.  e.  IX. 
("2)  Vale  a  dire:  ti  ò  dato  podestà  ecc. 


—  183  — 

Li  caniìflct  e  l'impii  che  battevano  e  moniftcavano  le 
carni  sue,  e  quello  crudele  signore  si  copriva  (1)  lutti  la  fac- 
cia sua,  perchè  non  potevauo  poiiei-  mente  a  santa  Margarita, 
l;into  saogiie  escira  delle  carni  sue;  e  simigliantcmente  molli 
altri  si  coprivano  la  faccia,  perchè  non  la  potevano  risguar- 
iLtre;  tanto  sangue  1'  esciva.  E  [|uel1o  signore  disse:  «  Che  ene 
ci6,  che  tu  non  mi  vuoi  ubidire,  Margarita,  né  di  te  non  ài 
misericordia?  Ecco  le  carni  ine  sono  mone  nel  giudicio  mio; 
consente  a  me  e  adora  li  dii  miei,  altrimenti  il  coltello  mìo 
signoreggiarà  le  carni  tue  e  l' ossa  tue  innanzi  a  tutti  costoro.  » 
Rispose  santa  Margarita:  «  0  iniquo  senza  vergogna,  o  crudele, 
&e  tu  non  arai  misericordia  delle  mie  carni,  T anima  mia  sarà 
in  cielo  coronala,  »  Allora  quello  signore  comandò  che  fusse 
menata  santa  Margarita  in  pregione,  ed  era  la  settima  ora 
del  d). 

E  beala  santa  Margarita  segnò  il  corpo  suo  col  segno  di 
Gesù  Cristo,  e  incomincii  ad  orare  e  dire:  «  Dominedio,  col 
giudicio  tuo  e  della  tua  sapienzta  li  degnasti  di  fare  tuue  quelle 
cose  che  lemeno  Cristo.  Il  secolo  e  gli  abitanti  nel  secolo  de' 
«ecoli  spaventano  (3)  e  temeno  la  potenzia  tua.  Tu  se'dispen- 
saiore  del  bene  e  speranza  di  coloro  che  non  si  possono  aita- 
re; lu  se' pastore  delti  orfeni  e  giudice  verace  delle  vedove  e 
lume  delli  lumi;  pone  mente  in  me  e  abbi  misericordia  di 
me,  che  sono  unica  del  padre  mio,  ed  elli  m'ane  abbando- 
nato. Dominedio  mio,  fammi  grazia,  ch'io  vinca  ora  lo  nimico 
mio,  che  meco  pugna.  Giudicio  piglia  contra  di  lui,  e  favellarò 
a  fiiceia  a  leccia  con  lui;  non  so  che  io  l'abbia  nociuto;  tu  se* 
giudice  giusto,  tu  giudica  tra  me  e'I  diavolo.  Ecco  la  batta- 
glia, falla  so  trista  per  lo  dolore  delle  piaghe  mie,  incomincio 
a  piangere,  e  non  mi  abbandonare,  Dominedio,  e  non  sia  me- 
scolato il  senno  mio  colli  dimoni  sordi  e  mutoli,  però  che  la 


(I)  Si  eoprivam.  forma  et  ittica,  Ibmig-liare  agli  antichi ,  che  rtuon- 
ttiai  awai  SOieoie  Delta  Vita  di  Cola  da  Rienso;  il  Barberino  nel  fkg- 
fin.  «  auU  ddU  donne:  ■  I  masclil  augelli  stanno  con  v.$se  e  nascono 


(1)  Pavenlaiui,  itmonù. 


—  184  — 

speranza  mia  è  tutta  in  te  solo,  Gesù  Cristo,  che  tu  se*  bene- 
detto in  saecula  saeculorum.  Amen.  »  Ed  incontanente  appari  a 
santa  Margarita  a  la  pregione  la  notrice  soa,  e  davate  pane 
e  aqua,  e  pose  mente  per  la  finestra,  e  scrisse  T orazione  di 
santa  Margarita.  Ed  incontanente  del  cantone  della  pregione 
esci  uno  terribile  e  grande  dragone  tutto  di  vari  colorì.  La 
bocca  sua  era  come  oro;  e  denti  suoi  erano  come  di  fmo 
acutissimi,  e  li  occhi  suoi  si  come  fiamme  di  fuoco,  e  la  liiH 
gua  sua  gìttava  sopra  lo  collo,  ed  aveva  uno  coltello  in  mano, 
ed  era  orribile  e  molto  scuro,  e  gitta  (I)  puzza  per  b  bocca 
come  di  soiro  nella  pregione.  E  beata  santa  Margarita  diventò 
come  erba  palida,  e  la  paura  della  morte  venne  in  lei. 

Aveva  Dominedio  esaudito  le  sue  orazioni,  imperò  eh* dia 
aveva  ditto  a  Cristo:  <r  Mostrami  chi  con  meco  pugna.  »  E  santa 
Margarita  s'inginocchiò,  e  levò  le  mani  sue  in  alto  e  disse: 
a  Dominedio  Padre  onnipotente,  che  se^  invisibile  e  fermasti  (2) 
il  cielo  e  la  terra,  e  desti  termine  al  mare  che  non  venisse 
meno  lo  comandamento  tuo,  lo  quale  teme  (3)  le  Scrittore  tntte, 
e  che  lo  'nfemo  guastaste  e  1  diavolo  legaste  e  rompeste  h 
podestà  del  drago;  pone  mente  in  me  e  abbi  miserìe(»tlia  di  me, 
che  so  sola  orfàna  posta  io  trìbulazione.  Non  lassare  noodare 
a  me  questa  mala  fera.  Signor  mio,  ma  dammi  grazia  eh* io 
vinca  lei  perchè  pugna  centra  dì  me,  e  io  nella  ò  mai  nocinto. 
Ed  ecco  che  s'affretta  d'inghiottirmi  e  di  menarmi  nella  sua 
forza,  f  E  quando  santa  Margarita  questo  diceva,  il  dragone 
aperse  la  bocca  e  poscia  sopra  lo  capo  di  santa  Margarita,  e 
la  sua  grande  lingua  sopra  lo  calcagno  suo,  e  incontanente 
la'ngoUò  nel  ventre  suo;  ma  la  croce  di  Cristo,  la  quale  s*a- 
veva  fatta  santa  Margarita,  fece  crepare  il  corpo  del  dragone. 


(1)  Gìttava;  erano  i  trecentisti  famigliari  al  passaggio  da  un  tempo 
air  altro  nelle  loro  scritture,  talvolta  per  esprimere  con  maggiore  ca- 
denza i  fatti  che  narravano. 

(2)  Fermare  è  qui  in  senso  di  stabilire,  conforme  al  laL  firiruuti: 
t  Verbo  Domini  coeli  firmati  sunt  i  Ps.  XXX!!,  6;  e  Etenim  GrmaTÌt 
(Dominus)  orbem  terrae,  qui  non  commovebilur  »  Ps.  XCII,  i. 

(3)  Cioè  temeno  o  temono,  conforme  al  lat.  tinierU. 


—  185  — 

e  niuno  male  si  fece,  e  use)  fuore  del  di'agone.  Ed  allora 
santa  MargnriUi  s'inginocchiò  in  tprra  e  adorò  e  disse  :  •  Lodo 
e  glorifico  Io  nome  tuo,  Dio  mio  e  Signore  di  [ulti  signori, 
Trinilù  perfell»,  a  la  quale  sia  onore  e  gloria,  laude  e  giubi- 
lazione per  infinita  saecida  saeculoruni.  Amen.  » 

Quando  beala  santa  Margarita  ebbe  compita  la  sua  ora- 
Eione,  pose  mente  in  parie  manca  della  prigione ,  ed  ella  vìddc 
uno  vero  diavolo  sedere  sicondo  che  omo  (1),  ed  aveva  le  mani 
l^ate  a  le  ginocchia;  e  levossi  rìllo  e  cominciò  andare  a  lei, 
e  toccò  te  mani  di  santa  Margarita,  e  disse  santa  Margarita 
al  dimonio:  i  Non  ti  basta  quello  che  tu  m'ài  fatto?  Cessati  da 
me,  matadetto;  molli  mali  m' ài  fallo.  •  E  '1  dimonio  disse;  •  Io 
mandai  a  te  il  mio  fratello  carnale  Bufone  io  similitudine  di 
dragone,  perchè  t'inghiottisse  e  lollcsse  la  memoria  tiia;  ma 
tu  l'uccidesti  col  segno  della  santa  Croce;  ora  per  le  tue  ora- 
ziooi  disideri  d' uccidare  me.  >  Ed  allora  beata  santa  Margarita 
prese  lo  dimonio  per  li  capelli  e  gitlollo  in  terra,  e  pose  lo 
piede  suo  sopra  lo  capo  del  (limonio  e  disse:  •  Cessa,  maligno 
senia  mente,  nulla  contra  la  mia  anima  e  virginità  non  puoi 
fere,  lo  50  anelila  di  Dio,  sposa  di  Cristo,  lo  cui  nome  è  be- 
nedetto in  saecula  saeculorum.  Amen.  >  E  quando  santa  Mar- 
garita diceva  queste  cose,  tostamente  rìsptendette  lume  nella 
pregione,  e  la  croce  di  Cristo  pareva  che  stesse  da  terra  fine 
al  cielo,  e  la  colomba  pareva  che  sedesse  sopra  lo  capo  della 
croce,  e  diceva:  >  Beata  Margarita,  t'aspettano  le  porli  del 
paradiso.  >  Ed  allora  santa  Margarita  rendo  grazia  a  Dìo,  e 
pivolsesi  verso  il  dimonio,  e  disse:  ■  Dove  (2)  è  la  nalura  tua? 
dimmelo.  »  E  lid  disse:  <  Fregoli,  serva  di  Cristo,  che  tu  levi 
il  pie  tuo  di  sopra  il  capo  mìo,  acciò  eh'  io  mi  riposi  un  poco, 
e  poi  ti  dirò  tutte  le  mie  opere.  •  Ed  allora  santa  fancella  levò 
a  suo  pie  di  sopra  il  capo  dello  dimonio.  Lo  dimonio  rispose 
Indisse:  *  Vuo' tu  sapere  lo  mestiero  mio?  Di  po'Balzab  è  prin- 
Wtàpe  delli  dimoni  (3),  ed  io  centra  ogni  giustizia  pugno,  e  la 

(1)  Cioè  a  guisa  d'uoiiw. 
(%  Ovvero:  quale  è  la  profeiiione  tua? 
I  Intendi  :  Dappoiché  Balsab  i  principe  ecc. 


—  186  — 

bdiga  di  molti  ò  tolto  e  vìnta,  e  niuDO  me  può  vincere,  ma  tu 
m*àì  cavato  Y  occhio  mìo:  e  Bufone  uccidesti ,  e  ora  fai  di  me 
dò  che  tu  vuoi .  però  eh*  io  vedo  Cristo  dimorare  e  stare  eoa 
leco:  ma  innanzi  che  Cristo  dimorasse  in  te,  non  potesti  mai 
nncere  né  le  mie  opere,  né  le  mie  virtù  superchiare;  ma  solo 
col  segno  di  iiisio  Bufone  uccidesti,  e  me  ài  legato.  Ora  ti 
dirò  tutte  r  opere  mie  e  quello  eh*  io  fo.  Io  pugno  e  combatto 
colli  giusti,  e  accendo  le  reni  loro,  e  follo  (1)  dimenticare  la 
sapienza  celeì4ìale:  e  quando  dormeno,  vo  sopra  loro  e  disve- 
glioli  dal  sonno,  e  quelli  eh*  i*  non  posso  muovare  dal  soono, 
folli  peccare  in  sogno,  e  con  qualunche  arte  ovvero  iogegno, 
eh*  io  possi  trovarli  freddi  senza  il  segno  della  santa  Croce; 
ma  da  quelli  che  sono  simili  a  te,  sempre  ne  vado  ccmfiiso  e 
vinto  da  loro,  sicondo  eh*  io  vo  oggi  vinto  da  te.  E  dod  so 
che  mi  fare  né  che  più  mi  dire,  perché  da  te  so  vinto.  Le 
armi  tue  sono  buone  e  forti,  e  le  mie  sono  rotte,  e  la  virtù 
mia  é  confusa,  quando  da  una  tenara  fanciulla  so  vinto.  E 
maggiormente  so  dolente,  che  il  padre  tuo  e  la  madre  tua 
sono  in  mia  compagnia,  e  tu  ài  sollevato  la  generazione  loro 
centra  me;  e  molto  é  da  maravigliare,  quando  la  flgliuola  à 
superchiato  il  padre  e  la  madre,  e  la  tua  generazione  à  segui- 
tato Cristo  e  lassato  li  dimoni  e  scacciato  lo  diavolo  e  ucciso, 
e  non  ci  vale  niente  la  virtù  nostra,  quando  da  una  fimdulla 
vinti  siamo.  > 

Ed  allora  santa  Margarita  vidde  che  aveva  vinto  lo  dimo- 
nio,  e  disse  a  lui:  t  Dimmi,  nùsero  inimico,  la  tua  generazione 
e  chi  vi  comanda.  »  E  lo  diraonio  rispose  e  disse:  t  DI  tu  a 
me,  Margarita,  dov'è  la  vita  tua  e  li  membri  tuoi  che  in  te  si 
muovono,  e  dov'  é  la  fede  tua ,  e  come  Cristo  é  intrato  in  te, 
e  io  dirò  poi  a  te  tutte  V  opere  mie.  •  E  beata  santa  Margarita 
rispose  e  disse:  e  Non  è  lecito  a  me  dire  a  te  queste  cose,  però 
che  tu  non  se' degno  d'udire  la  boce  mia,  ma  grazia  (2)  di 
Dio  so  quello  ch'i' so.  >  Allora  lo  dimonio  disse:  e  Satana  è 

{{)  Fo  loro;  to' per  loro,  osato  anticamente. 

(2)  Cioè  per  grazia  di  Dio,  corrispondente  al  e  gratia  Dei  som 
quod  sam  »  Ep.  ad  Cor.  1,  XV,  10.  L' ommissione  del  segnacaso  è  assai 
frequente  negli  scritti  di  fra  Goittone. 


hit,  quale  Ita  e 


)  di  paradiso,  e  p 


i  earif,  e  Ironrai  la  nosln  i 


t  non  posso  piò  (!)  < 


I  leeo,  in 


k  di'»  1 


1  Crislù 


rare  presso  a  t«,  ed  ò  grude  i 


,  penile  qiMdp  ve- 


dùmo  Cristo,  le  vie  nostre  noo  sone  sofn  U  lem.  m  comb 
vaili  andiamo  e  faggiamo.  On  fimudo  te.  adDa  di  Crisla^ 
che  mi  oda  noa  parola.  Ecco  che  io  dico  taOe  T  mifen 
oiie;  io  ti  scon^uro  per  Dio  vivo,  sei  quale  tn  credi,  cbe  ta 
MM  mi  fKci  più  male,  ma  iegani  in  laogo  remota  da  ma 
pme,  perchè  io  nelli  dii  '2|  della  vtta  nia  ■«  pagm  eoa- 
U*  a*  giusti  De  incontra  di  te.  Sabaone  rnchót  «oi  ■  mm 
naello  di  velro.  Dia  ooi  da  ma  parte  dd  dino  fiseflo  Bdie- 
mo  fuoco,  e  li  Domini  dì  BaUUonia  Tennera  e  ]<aiiiii  dK 
fosse  oro.  e  rappeno  il  vasdlo.  Allora  ttfli  dtpi  imIiii 
via,  e  ricmpimo  tutto  il  mondo  e  la  itm.  ■  E  saia  Hvgiriia 
disse  adon:  •  Iniquo  dimonio,  tace,  gii  ma  Tafiri  firn  parato 
di  bocca  tua.  •  Ed  allora  santa  Mxr^arila  legè  3  iKaMaia  ■ 
oso  canto  della  pregile,  e  disse:  •  Tua  via,  Sataaas  •;  ci 
iMOoLiseote  la  terra  io  inghiooL 

E  l' altro  di  comandò  qndla  iaiqaB  à^an  cte  1  iMe 
■OMU  ionanzi.  e  santa  Maniaritt  esd  ddla  pregiiae, e «|ak 
fl  eorpo  suo  col  segno  di  Cesi  Orato.  E  aBsn  mae  arili 
di  quelli  della  città  a  vedere  le  poKdie  patifa  saMa  Mai^ 
rìta.  Disse  quello  cnidde  xgnon:  «  Coaaeae  a  bk.  Marswil^ 
e  adora  li  dIi  miei ,  cbe  ri  è  ledi*  adonre  S  aia  M  pìi 
loeio  ch'io  li  tnoL  •  E  beafa  «aaa  li>niarila  imt:  lAm  t 
lecito  a  le,  iniquo  sigoov,  adonve  DaariMAa  aia  GaA  Cratob 
qaale  sairadore  di  toui  li  aetxA  e  di  Miai  agata:  e  «e  W 
adoreni.  diventanu  amico  suo  e  aoa  aenirai  atTìdoG  faM, 
fani.  Moli  e  mototi.»  Allora  godio  sipaMe  eaaaadft  dbe  bae 
•Mpesa  in  aria,  e  con  fiacole  dì  toocs  beae  aeeeM  aia  ìaMi. 
Ed  allora  ti  servi  cosi  feecM,  eoae  lo'fa  eaaaiKo  dal  tara 
signore.  Oiiaitdo  il  corpo  £  santa  Har^aila  t' iaeeadeta  e  ar^ 
deva,  ed  ella  adorava  e  fingraiiaTa  Dio,  e  poi  dkeva  a  ^mM 
aerri:  •  Ardetemi  le  rem,  aedo  efae  aaBa  taa^ali  ia  ae  da.» 


(1)  Intendi  :  non  pano  pi*  p«rter  tm  lem. 
La  UtiA.tai  daito  pa  ittaaàw  «  pi^ 


—  188  — 

Anco  disse  quello  iniquo  signore  a  santa  Margarita:  e  Ck)nseote 
a  me  e  sacrifica  a  li  miei  dii.  >  E  beata  Margarita  rispose: 
€  Non  mai  ti  consentirò  e  non  adorarò  li  dii  tuoi  sordi  e  mutoli, 
e  non  potrà  il  nemico  vincere  la  casta  fanciulla ,  imperò  cbe'l 
mio  Signore  Gesù  Cristo  segnò  il  corpo  mio  e  tutti  li  mem- 
bri miei  col  segno  della  santa  Croce.  >  Ed  allora  quello  signore 
comandò  che  fusse  arrecato  uno  vasello  d'acqua  bollita  (l),  e 
fusse  legato  le  mani  e  piedi  a  santa  Margarita,  e  fiissevi  messa 
dentro  perchè  morisse.  E  quando  e  ministri  inteseno  lo  coman- 
damento del  loro  signore ,  cosi  fecero  come  comandato  lo'  ita.  E 
beata  santa  Margarita  pose  mente  in  cielo,  e  disse:  e  Dominedio, 
che  signoreggi  il  terreno  (2),  rompe  li  legami  miei,  e  questa 
acqua  sia  santificamento  ed  illuminamento  e  fonte  di  battesmo 
che  non  venga  meno,  e  vestemi  di  capelli  di  salute,  e  venga 
sopra  me  la  colomba  santa  piena  di  Spirito  Santo,  die  mi 
lavi  e  distrugga  le  piaghe  mie,  e  batteggiami  in  nomine  Patris 
et  Filii  et  Spiritus  Sancti.  »  Ed  incontanente  fu  fatto  grande 
tremuoto,  e  la  colomba  venne  da  cielo  e  portava  corona  d^oro 
in  bocca,  e  andò  sopra  di  beata  Margarita,  e  allora  fturono 
sciolte  le  mani  di  santa  Margarita,  e  uscì  fuore  dell'acqua 
bollita  senza  niuno  male;  e  lodò  e  benedisse  Dio  e  disse:  e  Do- 
minedio,  regna  la  bellezza  e  veste  la  forza  e  prineipe  se'di 
virtù  (3).  >  Ed  ecco  la  boce  della  colomba  da  cielo,  6  disse: 
(  Vienne,  Margarita,  nel  regno  del  cielo  abitare  con  Cristo.  E 
beata  se'  tu.  Margarita,  che  la  virginità  tua  guardasti.  »  Ed  in 
quella  ora  credetteno  in  Gesù  Cristo  uomini  cinque  milia  cento. 
E  comandò  il  signore  che  tutti  fusseno  dicollali  nel  campo 
della  città  d'Arminia,  e  disse  a  uno  che  aveva  nome  Mako: 
«  Fa  distendare  il  capo  suo  e  ricevere  il  coltello  tuo  »  ;  e  Malco 
disse  a  beata  santa  Margarita:  e  Abbi  misericordia  di  me,  ch'io 
vedo  Cristo  appresso  di  te  colli  angeli  suoi  stare,  i  E  santa 

(1)  Bollente;  vedine  un  es.  in  M.  Vili.  1,98. 

(2)  La  terra,  V  universo;  non  v'  hanno  esempi  ne*  dizionari  di  tal 
voce  in  questo  senso. 

(3)  Corrisponde  questa  espressione  al  v.  1  del  Salmo  XCII  :  e  Domi- 
nus  regnavit,  decorem  induit;  induit  Dominus  fortitudinem  et  praocinxit 
se  virtutem  »;  ma  qui  la  traduzione  è  inesatta. 


largatila  disse  a  Malco:  •  Io  li  prego  che  li 
a  tanto  ch'io  Unisca  la  mia  orazione,  e  accomandi  l'anima 
mia  a  Gesù  Cristo.  >  E  questo  Malco  disse  a  santa  Margarita: 
1  Aiiiiimanda  quanto  tu  vuoi  e  ricorditi  di  me.  ■  E  allora  santa 
Mai'garita  incominciò  ad  orare  e  dire:  i  Dio,  cbe  lo  cielo  e  la 
terra  fondasti ,  e  desti  icrmine  al  mare  perchè  non  trapassasse 
il  comandamento  tuo,  esaudisce,  Signore  Dio  mio.  lo  prego 
mio;  e  che  ciascuna  persona  che  credarà  ìq  te,  e  leggiarà  lo 
libro  mio  di  questo  Tallo  e  di  questa  mia  passione,  ovvero 
chi  l'udire  leggiere;  similmente  chi  per  me  divotamenle  a 
raccomandare,  sia  meritato  d'avere  perdonanza  de'  peccali  suoi; 
e  chi  rccarà  lume  a  la  mia  chiesa  o  farà  ricordanza  del  nome 
mio,  e  di  qualunche  iribulazione  a  te  si  richiamarà,  sia  meri- 
tato; e  chiunque  sì  trovare  nel  nome  mio,  liberalo  da  tribula- 
zione.  Anco  t'addimando,  Dominedio  mio,  che  qualunche  per- 
sona farà  chiesa  ovvero  altare  al  nome  mio,  ovvero  libro  della 
passione  mia  scrivan'i,  ovvero  di  suo  pregio  (1)  comprarà, 
riempielo  di  Spirito  Santo.  E  nella  sua  casa  non  nasca  fan- 
ciullo zoppo  né  cieco  nò  mutolo,  e  non  sia  tentato  nel  mondo, 
e  se  addimandar;')  perdonanza  de' peccati  suoi,  perdonali  per 
amore  mio  e  per  tua  misericordia.  » 

E  poscia  die  santa  Margarita  ebbe  compito  la  sua  ora- 
zione, fu  fatto  uno  grande  tremuoio,  6  la  colomba  venne  da 
cielo  colla  santa  croce ,  e  favellò  e  disse  :  »  Beala  se'  Margarita , 
che  nelle  tue  orazioni  di  tutti  coloro  che  li  chiamano,  avesti 
memoria.  >  Ed  udito  questo,  santa  Margarita  cadde  nella  faccia 
sua  sopra  la  terra,  e  tulli  quelli  che  erano  ine  presentì,  vìd- 
dero  la  colomba,  e  toccò  santa  Margarita  e  disse:  «  Per  me 
medesimo  t'adoro  e  per  la  gloria  mia  e  per  li  angeli  miei;  che 
ciò  che  tu  chiedesti  nella  tua  orazione  e  ciò  che  tu  ricordasti, 
l'è  dato  e  d'ogni  cosa  se' esaudita.  E  beala  se'Lu,  Margarita, 
che  nelle  lue  pene  li  ricordasti  di  tutti;  ma  dove  saranno  le 
tue  reliquie  o  chiesa  tua,  e  li  peccatori  verranno  a  quello  luogo, 
piangendo  e  memoria  facendo  del  nome  tuo  nella  sua  orazione, 
e  chiamarà  remissione  de' peccali  suoi,  sarà  esaudito;  ed  to 
quello  luogo,  dove  lo  libro  della  tua  passione  sarà,  spirito 


(I)  0' 


pre::o.  iW  s 


|-  denc 


—  190  — 

mdigDO  ooD  T*  entrai,  ma  solo  ^rìto  di  verità  ed  abbon- 
danzia  vi  sarà  e  allegrezza  e  carità  ^  e  tutti  saranno  beati  chi 
a  te  credarà  nd  nome  tao  (1).  E  Ci  e  viene  tosto  al  luogo  che 
t*  è  apparecAThìato.  e  io  sono  leco  e  aprirotti  le  porti  del  regno 
del  cielo.  »  Ed  allora  santa  Margarita  si  levò  dalle  sue  orazioni , 
e  disse  a  le  persone  che  T  erano  d**  intomo:  e  Udite,  padri  e 
madri  e  sorori  (?)  e  fratelli ,  e  tutti  voi  ammonisco  che  crediate 
in  Cristo  Dio  onnipotente  ed  in  una  Trinità  perfetta  ed  in  uno 
Dio  Signore  di  tutti  li  secoli,  e  lo  quale  tutti  li  secoli  T ado- 
rano, lo  cui  regno  permarrà  in  saecula  saeculorum.  Àmen.  E 
pregovi  faciate  ricordanza  del  nome  mio  a  Gesù  Cristo,  che 
vi  perdoni  e  peccati  vostri,  e  facciavi  credare  e  venire  nd 
regno  del  cielo.  »  E  poscia  santa  Margarita  benedetta  da  Dio 
diceva:  e  Io  rendo  grazia  a  te,  Dominedio  re  di  tutti  secoli, 
che  degna  mi  facesti  d*  intrare  nello  regno  tuo  e  nella  com- 
pagnia delli  giusti.  Onde  io  dico  e  lodo  e  glorifico  il  nome 
tuo,  eh*  è  benedetto  in  saecula  saeculorum.  » 

Dopo  queste  cose  santa  Margarita  chiamò  colui  die  la 
dovesse  dicollare;  ed  allora  quelli  che  la  doveva  dicollare, 
venne  dinanzi  a  lei  ed  inginocchiossi,  ed  ella  disse:  e  Fratello, 
tolle  lo  coltello  tuo  e  dicoUami,  che  già  è  venuto  lo  tempo 
mio;  >  e  quello  disse:  e  Non  farò,  né  nissuno  ocddarò,  però  che 
io  odo  Dominedio  che  favella  con  leco;  imperò  non  ò  ardire 
uccidere  te.  t  E  beala  santa  Margarita  benedetta  rispose  e  disse: 
e  Se  tu  non  farai  questo,  non  arai  parie  meco  nel  regno  dd 
cielo.  »  Ed  allora  quelli  che  la  doveva  dicollare,  si  gitlò  ginoc- 
chioni in  terra  e  disse:  t  Prego  te.  serva  di  Dio,  che  preghi 
Dio  per  me;  »  ed  allora  santa  Margarita  adorò  e  disse:  f  0 
Iddio  onnipotente,  non  imponere  a  costui  questo  peccato;  »  ed 
allora  colui  con  grande  paura  tagliò  la  lesta  a  santa  Margarita 
in  uno  colpo.  La  lesta  cadde  in  terra  ritta,  ed  ella  si  mise  in 


(1)  Questa  allocuzione,  come  la  preghiera  che  poco  indietro  legge», 
fa  dettata  da  scrittore  fornito  pib  di  semplicità  che  di  pietà  assennata, 
come  ognuno  scorge  di  leggieri.  E*  conviene  perdonarla  all'  ignoranza  dei 
tempi,  poveri  di  critica  e  faciU  ali*  errore  colle  migliori  intenzioni. 

(2)  Sorelle;  adoperò  questa  voce,  or  in  disuso,  anche  il  Petrarca 
nel  Son.  283. 


—  1!H  — 
Mituoiit;  ed  allora  venne  sopra  al  corpo  di  sanla  Mar- 
fflrìlì  li  angeli,  laudando  e  benedicendo  Dio;  e  poscia  vennero 
li  dimoni  che  erano  tormentali,  e  gridavano  fortemenle  e  dlce- 
rano:  •  Uno  è  Dio  grande,  uno  è  Dio  onnipotente.  0  Margarita, 
lo  Dio  tuo  ci  tormenta;»  e  questo  udivano  tulli  l' inferrai  e  li 
òcchi  e  li  zoppi  e  mutoli,  e  iiuclli  cir  erano  tenuti  dal  dimo- 
dìo,  tutti  vennero  al  corpo  di  beata  sanla  Margarita,  e  furono 
fallì  salvi.  E  li  angeli  lolseno  l'anima  di  sanla  Margarita  e 
saglirono  in  cielo  sopra  uno  nuvino  (1),  laudando  Dio  e  dicen- 
do: «Sanctus,  sanctus,  sanctus  Donainiis  Deus  Sabaoth.  Pieni 
SUDI  codi  et  terra  gloria  tua;  osanna  in  excelsi.s.  Benedicius 
qui  venit  in  nomine  Domini,  rex  Isra«l.  > 

E  io  Teodimo,  che  dillo  so  dì  sopra,  portai  le  reliquie 
dì  beala  sanla  Margarita,  cioè  il  corpo  suo,  in  uno  goEfancllo 
dì  pietra  molto  bello  con  ogni  onore  e  diligenzia  e  con  aro- 
matico, e  porta'  lo  in  nella  ciità  d'Antiochia  in  casa  di  ditta 
matrona.  Ed  io  contemplai  tulli  e  combatiinicnti  di  sania  Mar- 
garita, come  ella  con  quello  impio  e  iniquo  signore  pugnò,  e 
aAli  suoi  carnefici  dimoni;  e  dava  a  lei  pane  e  acqua,  e  le 
sue  orazioni  tulle  scriveva  nella  pregione,  e  mandavale  a  tutte 
quelle  persone  che  credevano  in  Cristo. 

La  iÌDC  e  combatlimenti  e  la  passione  di  santa  Margarita 
fu  del  mese  dì  luglio:  a' quattordici  di  ebbe  fine  la  sua  passione. 

Voi  che  avete  orecchi,  udite,  e  con  puro  core  adorate 
Dominedio  nostro  Signore;  in  ciascun»  città  e  castello  fate  ri- 
cordanza, acciò  che  per  quella  memoria  siamo  degni  tulli  di- 
nanzi a  la  sedia  di  Crislo  andare  ed  adorare;  a  lui  ed  al  coeter- 
no  Padre  e  Santo  Spirito  sia  laude,  onore  e  gloria  e  podesl/i 
per  ìniinìta  saecula  saeculorum.  Amen. 

Sanla  Margarita  vergine  e  marlire  di  Crislo  benedetto,  si 

come  noi  crediamo,  che  per  U  nienti  tuoi  lu  sia  abil.'U'e  nella 

gloria  celestiale,  cosi  prega  per  noi,  acciò  siamo  degni  delle 

promissioni  dì  GesJi  Cristo,  il  quale  vive  e  regna  in  unilate 

I  Spiritus  Sancii  per  inlìnita  saecula  saeculorum.  Àmen. 


>  (I)  lluwia,  delta  anche  laholla  nutnlo; 


LA    NOVELLAJA    MILANESE 

ESEMPU  E  PANZANE  LOMBARDE 

RACCOLTE  NBL  MILANBSB 
DA   VITTORIO  IMBRlANi 


IV.  X^  SItella  Diana  (1) 


Gh'era  ona  voeulta  oq  spezièe,  che  el  gh'aveva  ona  tosa  (2). 


(1)  Questa  novella  è  quasi  la  fusione  di  due  cunti  del  PerUame- 
rone,  cioè  di  Viola  (trattenimento  DI  della   giornata  II:  —  e  Viola, 

>  'mmediata  da  le  sore ,  dappò  assai  burle  fatte  e  receTute  da  'na  Pren- 

>  cipe,  a  despietto  loro  le  doventa  mogliere.  >  — )  e  della  Sa^ia  Uè- 
carda  (trattenimento  IV  della  giornata  III:  —  e  Sapìa,  co  lo  'ngegnio 

>  sujo,  essenno  lontano  lo  patre,  se  mantene  'nnorata  co  tatto  lo  male 

>  asempio  de  le  sore.  Burla  lo  'nnamoraio  e  previsto  lo  perìcolo  che 
»  passava  repara  lo  danno.  Ed  aU*  utemo  lo  figlio  de  lo  Re  se  la  piglia 

>  ppe' mogliere  >  — ).  Similmente  la  fiaba  precedete  V  OmìbrìM  ri- 
sponde a  Lo  Catenaccio,  trattenimento  IX  della  giornata  11  del  PerUa- 
merone:  —  e  Lucia,  va  ped  acqua  a  'na  fontana  e  trova  'do  schiavo 

>  che  la  mette  a  'no  bellissimo  palazzo  dov*è  trattata  da  Regina;  ma 
»  da  le  sore  'mmidiose  consigliata  a  bedere  co  chi  dormesse  la  Dotte, 

>  trovatolo  'no  bello  giovane,  ne   perde  la   grazia  ed  è  cacciata;  ma 

>  dapo'  essere  juta  sperta  e  demcrta  grossa  prena  'na  maniata  d' anne 
»  arreva  'ncasa  de  lo  'nnammorato,  dove  fatto  'no  figlio  mascolo,  dapo* 

>  varie  socciesse  fatto  pace,  le  devenia  mogliere.  »  — 

(2)  Tosa,  fanciulla,   pi.    Tbsànn,   Da  intonsa.  Celio  Kaloq»iBi 
Duecento  Novelle.  Parte  IL  Novella  XLVI:  —  e  II  che  veduto  da  lui, 


L*en  vnlaT,  el  gh'areva  minga  mièe(l],  el  glie  voreva  UbIo  ben 
a  su  soa  tosa;  e  lee  l'andava  a  ìmparii  a  cosi  de  biancheria 
in  d'ona  soa  amisa.  E  sia  soa  amìsa  ghe  pìaseva  lauto  i  fior; 
b  gb 'aveva  ona  terrazza;  e  tutti  i  dopdisnàa  (2)  Taiidava  a  dacquà 
sii  (ior;  e  per  conira  ^'era  on  poggioeu  (3)  e  gh'era  semper 
li  00  sdor.  Lu  el  saveva  clic  lee  la  gh*  aveva  nomm  :  Stella 
Diana.  El  ^e  diseva; —  'Stella  Diana,  quanti  Toenj  (4)  fa  la 
»  soa  laaggioraiu !  *  — E  lee  la  ghedis:—  «  E  lu,sur  nobii 
*  eavalier,  quante  stelle  gb'è  io  J«l  cielT  n  —  Lu  el  dis:  — 
«  1  steli  che  gb'è  in  dei  cìel  non  se  poi  coDlare.  »  —  E  lee 
h  ^e  dis:  —  «La  mia  niaggìorana  non  si  può  rimirare.  » 
—  E*)»  d  gb'aveva  uot  piasè  de  vetlella  de  visia  sta  tosa,  l'è 
anba  iutes  eoa  qudla  dove  l'era  io  casa  lee;  el  s'è  vestii  e 
Via  fìDt  de  jtss  00  pessee  (5).  de  aodi  ììi  a  reod  el  pess.  Quella 
(love  Ten  io  essa  da  laorà  [6,,  la  gbe  dis: —  <  Famm  el  piasè 
>  a  loeii  ile  qatl  pessin.  ■  —  E  la  ghe  dis  cosse  r  è  eh'  el 
nreva.  E  la  d  gb1u  domaBdàa  oo  prezzi  carissiin.  E  lee  la  gli'tia 


per  a  pMfcmw  ipiiMi  Om  itntnftnm.tfi  riatw  jtkmtn» 
dK  viia  E  poi  (i  fMB  »  fccpn  em  ìm  Bigpsr  cderiti  M  mmà» 
tnimii:  ikimà  Mdfw  «mim  di  5»  C*m  (cUen  mÉ»  ocUr 

fMcrt  jifh'Mif»-'  •  lB««a  óìt^  fcaw  kIb  iboa  ukmat.  * 
—  mia.  uno.  —  *  ti  ffiét  db  Tt^mt-—.  Ar  «M  fa  WH  vi 
M^tt»  iìn  attf*.  m  nm  efae  mI  IhoMc  !•  cm  e  tM  A  («eiff 
M^sto.  <fw*fc  it  A'  rMMTTv  fMA(  loMMc  (le  «pai  a  IBiM 
cari  «  cUmm*  Ir  tffa  di  anto)  fa  uM»  W«  ^  w  x  «*. 

<l|  Jfar.  Biffie. 


—  194  — 

diti  che  le  voreva  minga,  che  Fera  tropp  car.  —  E  la  el 
gh'ha  ditt  de  fagh  oq  basin  ch'el  ghe  dava'd  p688in.S*ciio! 
lee  la  gh'ha  fàa  el  basin,  e  lu  el  gh'ha  dèa  d  pessin.  Al 
dopdisnàa  la  torna  anmò  su  la  terrazza  e  la  el  ghe  toma  a 
di:  —  «  Stella  Diana,  quanti  foeuj  fa  la  soa  maggiomia?  » 

—  E  lee  la  ghe  dis:  —  •  E  lu,  sur  nobil  cavalier,  quante 
»  stelle  gh'ò  in  del  ciel?  »  —  E  lu  el  dis:  —  «  I  stdl  che 
»  gh'  è  in  del  ciel  non  se  poi  contare.  ■  —  E  lee  la  g^ 
dis:  —  «  La  mia  maggiorana  non  se  può  rimirare.  »  —  E 
tu  el  ghe  dis  :  —  «  Per  on  pessin ,  la  m' ha  fàa  d  basin.  » 

—  Lee,  Fera  rabiada  perchè  el  gh'ha  fàa  sto  scherz;  e  lee 
la  pensava  de  faghen  vun  a  lu.  L'ha  miss  ona  bellissima  zeDta(l) 
in  vita,  magnifica,  e  Tha  ciappàa  ona  mula,  e  Tè  aodada  a 
cavali  ere  passada  via  dove  el  stava  lu,  a  posta  pe  bss  vede 
che  la  gh^aveva  sta  zenta  insci  preziosa.  E  lu,  Tha  vedoda  e  llu 
ditt:  —  «  Oh  che  bellezza  d'ona  zenta I  come  me  piasaria, 
»  che  la  fuss  miai  »  —  L'è  andàa  de  bass,  e  gh'ba  diti 
cosse  r  è  eh'  el  voreva  (  perchè  V  era  vestida  de  omro  )  per 
quella  zenta.  E  lu  (che  Tera  lee  vestida  de  omm)  V  ha  ditt  (2): 
che  lu  le  vendeva  minga  ;  che  chi  ghe  faseva  on  basin  in  dei 
cùu  alla  soa  mula,  el  ghe  dava  la  zentura. S' ciao  1  e  la  Tba 
guardàa ,  V  ha  vedùu  che  gh'  era  nissun  attoma  e  la  zenta  la 
ghe  piaseva  tant ,  el  gh'  ha  fàa  el  basin ,  e  T  ha  ciappàa  la  soa 
zenta  e  via  !  V  è  scappàa  via  subet.  Al  dopdisnàa  tornea  de 
capp:  lee, in  su  la  soa  terrazzale  lu, in  sul  poggioeu.  E  lu  el 
ghe  dis:  —  «  Stella  Diana,  quanti  foeiy  fa  la  soa  maggio- 
»  rana?  »  —  E  lee  la  ghe  dis:  —  <c  E  lu,  sur  nobil  cava- 
»  lier,  quante  stelle  gh'è  in  del  ciel?  •  —  Lu  el  dis:  — 
«(  I  steli  che  gh'  è  in  del  ciel  non  se  poi  contare  !  •  —  E  lee 
la  ghe  dis  :  —  «  Anca  la  mia  maggiorana  non  si  può  rimirare  I  » 

—  E  lu  el  ghe  dis:  —  •  E  per  el  pessin,  la  m'ha  faa  el 
»  basin.  •  —  E  lee  la  ghe  dis:  —  <c  E  per  la  zentura,  d 


(1)  ZetUa,  Cinta,  cintolo,  scheggiale.  Zentura,  cintura,  ciotola. 

(t)  Dice  il  Manno  ndY  Adom,  Canto  XIV,  stanza  XXVU,  in   ana 
seluazione  consimile:  Ei  rivolto  a  colei  ch'era  colui. 


—  !{t5  — 

»  gh'  ha  baska  el  cùii  a  la  mia  miilla  (t).  » —  Quand  l*t)9  sentii 
che  lee  la  gli'ha  f;ia  sto  Jesprèsl  [2),allora  lu  el  pensa  de  faghen  on 
alter  nnmò  a  lee.  L' è  andaa  in  dove  l' era  in  casa  lee  a  laorà  e 
l'è  restaa  intè^  de  fagh  on  scherz.  AI  dopdìsnàa,  lee  t'ha  faa 
per  andà  a  cà.  qiiand  l'è  in  sti  la  scala,  gh'è  i  b3sej(3)con 
denler  ili  sfor,  di  bus,  che  l'è  la  scala  che  solt  ghe  restala 
cantiDDa.  El  se  prepara  là  e  menter  che  la  passava  ci  cascia 
su  la  man  e  el  ghe  tira  la  vesta.  Lee  la  diseva:  —  <  Sura 
»  maestra,  la  se-ala  mi  lira,  la  scala  mi  lascia:  gh'è  nlssun 
»  che  mi  abbraccia?  »  —  Lee,  la  maestra,  l'amisa,  la  dì- 
seva:  —  o  Va,  va,  che  la  scala  li  lascerà,  a  —  Lee  adess 
la  s'è  ammalada  e  l'è  stada  on  poo  de  lemp  senza  podè  andà 
a  la  soa  scola.  Dopo  1'  è  andada  e  torna  la  slessa  storia  sulla 
terrazza.  Lu  el  ghe  dis:  —  «  Stella  Diana,  quanti  foeuj  fa  la 
ji  soa  maggiorana?  »  --  E  lee  la  ghe  dis:  —  «  E  lu,  sur 
»  Dobii  cavaiier, quante  stelle  gh'  è  in  del  ciel?  n  —  E  hi  el 
ghe  dis  :  ^  n  I  steli  che  gh'  È  in  del  ciel  non  se  poi  con- 
»  tare,  n  —  E  lee  la  ghe  dis:  —  «  Anca  la  mia  maggiorana 
»>  non  si  può  rimirare,  w  —  E  lu  el  glie  dis:  — «  Per  el  pes- 
»  sin,  la  m'ha  Taa  el  basin. » —  E  lee  la  ghe  dis:  —  «  Per 
n  la  zentura,  l'ha  basàa  el  citu  a  la  mìa  mula,  n  —  E  lu  el  ghe 
dis:  —  a  Sura  Maestra,  la  scala  mi  lira,  la  scala  mi  lascia; 
»  gire  nissun  che  mi  abbraccia?  Va  ,  va,  che  la  scala  ti 
»  lascerà.  »  —  Lee  la  seni  sii  robb  tutta  rabbtada ,  la  pensa  de 
faghen  vunna  pussèe  (4)  bella.  Donca  la  va  a  cà  del  so  papà  e 
la  ghe  dis  de  faglici  slo  piasè,  de  dagli  di  danèe:  —  a  ma 
»  tanti,  perchè  ghe  n'hoo  de  bisogn.»  — Luci  ghe  dis:— «Cosa 
»  le  n'hède  fan  tu  —  Lee  la  dis;  —  «Tel  diròo  quand  gh'avaròo 
'*■*  fila  quel  che  gh'hoo  intenzion  de   fa  mi.  »  —  E  Tè  an- 


(1)  Mula  e  SMIa,  remiti,  ilul,  mascb. 

(2)  Deiprisi,  dispello. 

(3)  Dasell.  sìng.  basej  o  baiij.  piar.  Gradino,   icalino,  scaglione. 
.  buco,   foro,   pcrlueio.   Sfor.  lace,   apertura,   ogni  nno  nelle 

Sbricile. 

<i]  Putstv .  più,  dippiù;  da  jiiù  assai  (?f. 


—  196  — 

dada  e  V  ha  pagaa  di  servitor  de  la  casa  in  dove  el  stava  In, 
per  lassalla  entra  ona  sera  in  di  stanz  in  dove  stava  el  so 
padron.  E  lee  la  s'è  missa  on  lenzoeu  in  testa,  'bianch;  ona 
gran  torcia  in  man  e  on  libcr  ;  e  al  moment  che  Tentrava  in 
stanza  de  lu  Tha  pizzaa  sta  torcia.  E  lu,  a  vede  sta  fantasma 
tutr  on  tratt,  con  sto  ciar  a  compari,  el  s' è  stremi!.  —  «  Que- 
»  sta  r  è  r  ultima  ora  de  la  toa  vita  :  li  te  devet  mori  !  » 
—  E  lu,  tutt  stremi!, el  diseva:  —a  Morte  roortina,  lasciami 
»  stare  che  son  giovinetto,  va  da  mio  padre  clf  è  più  vec- 
»  chio  di  me!» —  E  Ice  la  ghe  diseva:  —  «  No,  questo  è 
»  il  tuo  momento  e  non  è  il  momento  di  tuo  padre  !(1)» — E 


(1)  Nel  seicento  ebbe  gran  voga  un  libro  d*  educazione  morale  in- 
titolalo: L'  Utile  col  dolw,  cavalo  da*  delli  e  falli  di  diversi  uomini 
saviissimi,  ciuf-  si  contiene  in  tre  decade  di  arguzie  dal  padre  Carlo 
Casalicchio  della  Compagnia  di  Giesù;  per  ricreazione  e  spiritual 
profitto  di  tutti  e  consolazione  specialmente  de' tril)olali  et  afflitti  $ 
per  efficace  antidoto  contro  la  peste  della  malinconia.  Nell'argoiia 
seconda  della  terza  decade  della  parte  terza ,  si  mostra  a  guai  precipisùf 
conducili  la  passione  dell'  interesse  narrando  un  furto  tentalo  da  tre 
birbe  a  danno  di  un  oste  decrepito  ed  avaro,  secondo  il  racconto  dd 
padre  Giacomo  Bidermano:  —  e  Alle  due  o  alle  tre  ore  dì  notte,  quando 

>  sentirono  che  Toste   tutta  via  russava,  Andrea,  che  questo    era  il 

>  nome  di  un  de*  tre  ladri ,  apre  pian  piano  la  porta  della  camera  del 
■  vecchio,  e  mascheralo  con  una  maschera  che  rappresentava  la  morte,  e 
»  tenendo  una  tovaglia  assai  lunga  in  capo ,  che  gli  scendeva  ìnslno  ai 
1  piedi,  nella  destra  un  arco  con  la  saetta  e  nella  sinistra  un  orologio  di 
»  arena,  sen  va  a  dirittura  verso  del  letto  dove  tuttavia  dormiva  il 
1  vecchio  e  crollatolo  con  una  gran  scossa  lo  chiama  per  nome  con 
1  orribilissima  e  luttuosa  voce  o  gli  annuncia  eh*  è  necessario  senza  di- 

>  mora  alcuna  partire  da  questa  vita  per  passarsene  all'  altra.  Qui  il  vec- 
»  chio  (che  per  lo  stordimento  del  sonno,  che  per  Timagìne  di  colai 

>  che  pur  vedeva  col  debil  lume  che  gli  dava  una  lampada  accesa  e 
»  che  per  le  tenebre  della  notte  spaventosissima  gli  pareva,  ebbe  vera- 

>  mente  a  morire)  tutto  tremante  prega  la  Morte  e  la  scongiura  per 
È  dio  e  per  i  santi  tutti  del  cielo,  che  voglia  avergli  compassione,  cosi 

>  appunto  dicendole:  Morie  non  esser  così  spietata  el  inumana  con 
•  un  povero  vecchio  r/w  avendo  faticato  e  stentato  tutto  it  tempo  di 


I 


—  Ili:  — 

"poeu  l'ha  smorz3a(l)  la  M)a  lorda,  e  vìa  la  gh'è  scomparsa. 
Lu  el  pessèga,  el  sona  el  campanili  e  el  dimanda  la  serviti) 
tutt  stremii  con  paura:  el  fall  l'è  che  l'ha  faa  ona  maialila 
de  la  gran  paura  che  l'ha  ciappàa  e  l'è  slàa  tanto  lemp  in 
lett  Quand  l' è  andaa  ancamò  in  sul  so  poggioeu,  l' lia  veduu  la 
Stella  Diana.  Lit  el  ghe  dis;  —  «  Stella  Diana,  quanti  focuj 
»  fa  la  soa  maggiorana?»  —  E  leelaghe  dis:  —  «  E  lu.  sur 
»  nobii  cavalìer,  quante  stelle  gh'è  in  del  ciel?  »  —  Elu, el 
ghe  dis:  —  «  I  sletl  che  gh'è  in  del  ciet  non  se  poi  con- 
»  tare.  »  —  E  lee  la  ghe  dis:  —  «  Anca  la  mia  maggiorana 
»  non  si  può  rimirare.  »  —  E  lu  el  ghe  dis;  -^  «  Per  el  pes- 
»  sin,  la  m'ha  faa  el  basin.»  —  E  tee  la  ghe  dis:  —  «  Per  la 


*  vita  sua  ed  ai-endo  acquistato  iiartcchi  denari  e  molle  Ticchniu. 
»  aveisi  poi  a  iwrirc  scusa  disporre  del  mìo  e  tema  aggiu- 
I  Ilare    eJw  i  miei  figli    abbino  a  godere  ognuno  per   la  sua  parie 

>  1  miei  sudori!  E  giacchi  siete  slata  sempre  con  me  el  insina  a 
■  questo  tempo  cosi  amorevole  e  cortese  die  iion  me  avete   reciso  il 

*  fU  lielta  vita,  bettchi  l'abbiale  fallo,  sensa  tiersujia  misericordia 

>  con  tanti  e  tanti  allri  giovani  e  che  non  avevano  nemmeno  la 
f  ìnttà  de'miti  anni,  siatelo  ancora,  io  non  dico  per  anni  o  mesi  beni- 
1  gna  e  cortese  verso  di  me  slesso  eoi  non  togliermi  la  vita,  ma  per  un 

*  giorno  solo.  Ciò  stare  dicendo  colui  ed  Andrea  iiUerrompendolo  cosi 
I  gli  aog^anse  :  il'ón  occorre  pi'i'i  pregare  né  dar  suppliche,  è  venuto 
t  il  tempo,  ni  si  pud  di/ferire,  che  tu  abbi  in  ogni  modo  a  pas- 
»  sare  all'  altro  nuindo.  Questa  è  quella  destra  e  queUa  saetta  che 
t  toglie  lo  spirito  anche  ai  primi  Principi  e  Potentati  del  mondo. 
t  Questo  è  quel  ferro  che  uccide  gì'  Imperatori  e  i  Re.  Questo  è-  quel 
1  dardo  così  crudele  e  potente  che  non  la  perdona  a  sorte  veruna 
t  di  persone  e  lutto  insieme  uccide  e  dislrtigge  poveri  e  ricchi,  gio- 

>  vanì  e  vecchi .  di  qualsivoglia  ixndisione  o  slato  alla  rinfusa  e 
t  sensa  alcuna  di/ferensa.  Questa,  questa  saetta  dunque  ha  da  to- 
t  glierti  la  vita  et  ora  el  In  questo  punto  et  in  questo  momento. 
»  Uaec  regios  elisit  kasla  spiritui.  Hìc  mucro  principes  viros,  hic 
t  Caesares  Ictu  potente  fodil.  Idem  pauperes  Evilalidem  diviles , 
»  dum  sanguine  Promiscuo  laetalur.  Ibc  telo  et  tuum  deiiiqu»  ea- 
9  pul  petetur.  »  — 

(I)  Smorta  e  Smorta  gid,  spegnere. 


i 


—  198  — 

»  zeotura,  Tha  basaaelcùu  a  la  mia  mulla.»  —  E  lu^d  gbe 
dìs:  —  «  Sura  maestra,  la  scala  mi  tira,  la  scala  mi  lascia; 
»  gli'  è  nissuD  che  mi  abbraccia  f  Va ,  va ,  che  la  scala 
»  ti  lascerà.  »  —  E  lee  la  ghe  dis  :  —  «  Morte  mortina ,  lascìa- 
»  mi  stare  che  son  giovinetto  I  va  da  mio  padre  eh*  è  pib  vec- 
»  chio  di  me.  »  —  E  lu  el  sent  che  la  gh'  ha  faa  sto  scberz, 
el  dis  :  —  «  La  m' ha  fàa  de  sti  azion  I  Adess  me  veodicaròo 
»  mi  deversament  »  —  El  va  e  le  cerca  al  so  pa  per  spo* 
salla.  E  lu,  el  so  pader,  el  ghe  dis  che  Tè  impossibel  per- 
chè rè  fioeu  del  Re.  E  lee,  la  tosa,  la  ghe  dis  a  so  papà: 

—  «  Lassa  pur  eh'  el  me  sposa  ;  mi  el  sposi  subet  volentera.  » 

—  DoDca  fano  el  coDtratt.' Fissàa  el  di  di  sposalizi,  tee, 
cosa  r  ha  faa  lee  ?  La  pensa  de  fa  on'  altra  robba  innanz  che 
Tavessaviiudesposalla,  fa  fa  ona  gran  pigotta(l)  gronda,  le 
mett  in  camisa  cont  on  gipponin  de  lett  (2)  e  la  gh'  ha  fa  mett 
ona  vessiga,  chi,  in  del  stomegh,  piena  de  lacc  (3)  e  vin  e  zac- 
cher.  Poeu  la  sera  che  V  è  andada  a  cà  dopo  sposada,  lee  la 
gh 'aveva  scondiiu  la  soa  pigotta  in  d' on  .vestee  [(4).  Intrettant 
eh'  el  passeggiava  in  stanza  che  lee  la  se  disvestiva  per  andi 
in  lett,  la  gh'ha  miss  in  lett  la  pigotta  e  lee  la  s'è  scooduda. 
E  lu  d  va  là,  cont  on  stil:  —  <c  Ahi  »  —  el  dis  —  «  adess 
y>  me  vendighi  mi  I  Quest  chi,  l' è  propi  el  to  ultim  moment, 
»  e  l'è  minga  el  me.  »  —  El  ghe  dà  ona  stilettada  in  de  la 
vessiga:  lu  l'ha  credùu  de  daghela  in  del  coeur,  e  gh'è  ao- 
daa  on  poo  de  sto  vin  e  lacc  dolz  in  bocca  :  —  a  Oh  poer  a 
»  mi  !  come  l' è  dolz  el  sangue  della  mia  Stella  Diana  t  Poer  (5) 
»  a  mil  coss'hoo  mai  fàal  »  —  a  piang  tutt  desperaa.  — 
«  L' è  vera  che  sont  on  Re  ;  ma  se  fuss  el  Re  de  tutt  i  Re, 
»  la  mia  Stella  Diana  la  farla  diventa  viva  anmòl  »  —  Lee 
l'ha  lassaa  piang  desperaa  e  poeu  l'è  vegnuda  foeura  e  la 
gh'ha  ditt:  •--  «  No,  sont  chi  ancamò.  La  toa  Stella  Diana 

(1)  Pigotta,  (anche  Popola  e  Popoeura)  bambola,  fantoccio,  pupo. 

(2)  Gipponin^  farsettino,  giubbettino.  II   Cherubini  non   registra 
Gipponin  de  lett,  bensì  Gipponin  de  noti. 

(3)  Lacc  e  Latt,  pib  gentilmente. 

(4)  Veslèe,  armadio,  armario. 

(5)  li  Cherubini  non  ha  che  pover. 


»  l'è  minga  moria.»—  S'ciao!  lu  dopo  el  gli'ha  voruu  ben; 
ee  l'è  slaUa  soa  mie  [1). 

V.  —  e:i  SclaT-aCtin.  (S| 

Una  voeulia  gh'era  on  sciavatlin.  Sicché  on  d)  l'era  tani 

(I)  Il  Elandello  narra  come  Faustina  romana  l'osse  infonnaia  che  il 
marilo  Marcanlonìo  voleva  ucciderla  e  ruggirsi  con  una  Cornelia:  — 
<  E  «olendo  alla  mina  del  marito  fabbricare  una  contrammiiia ,  ebbe  se- 
t  grtla  pratica    con  uno  eccellente    tegnajuolo  e  fecu  Tare   una   statua 

*  della  grandezza  che  ella  era  ma  di  modo  fabbricala  che  se  le  acco- 
1  moJata  benissimo  la  pelle  d'una  bestia  attorno.  Alla  quale  ella  avendo 
1  inteso  il  determinato  punto  che  il  marito  «olcva  uccideria,  acconciò 

>  certe  vessiche  piune  d'acque  rosse  assai  spesse,  accia  Tacessero  Tede 
r  >  dì  sangue.  Ella  soleva  la  state  nelle  ore  del  incrìftge  corcarsi  nel  letto 
l  >  e  dormire  una  o  due  ore;  onde  il  marito  in  quel  tempo  voleva  om- 

>  mazzarta.  Ella    venuta  l' ora  andi^  in  camera   e  l' immagine    Fatta  ac- 

>  conciò  nel  tclio,  che   pareva  proprio  che  Faustina    Tosse  quella  cbe 

>  dormisse.  Arevalc  anche  concio  certe  funi,  per  Tare  a  suo  piacere, 
t  stando  sotto  il  letto,  scuoter  l'immagine.  Avendo  poi  di  già  messo 
t  mito  ciò  ad  ordine  che  seco  voleva  portare,  (che  era  roba,  come  di- 
t  cono  i  soldati,  da  manica),  dicendo   a  le   fantesche  che   voleva   dor- 

>  mire,  si  mise  sotto  ti  letto,  serrate  le  rmesire  de   la  camera.  Venne 

>  il  marito  a  casa  et  intendendo  cbe  la  moglie  dormiva  mandò  iia  due 

*  donne  che  in  casa  erano,  in  certi  servigi,  che  Insognava  che  slessero 
t  due  ore  a  tornare  a  casa.  Erasi  già  prima  disfatto  di  quanti  uomini 
1  soleva  tenere.  Fatto  questo  se  n'  andò  di  lungo  dentro  la  camera  ove 

■  credeva  che  la  moglie  dormisse.  Quivi  arrivato  quanto  pib  chetamente 

>  potè  se  naodò  al  letto,  e  per  esser  l'uscio  aperto  eravi  pure  un  co- 

>  lai  barlume,  dal  cui  splendore  ajutato,  vide,  com'  egli   pensava,  la 

>  donna  che  sopra  il  letto  boccone  giaceva.  E  stesa  la  mano  sinistra  e 

>  quella  posta  sovra  il  capo  della  immagine,  tirò  fuor  un   pugnale  e 

>  con  quanta  forza  puotè,  quello  ticcò  ne  le   schiene  a  hi    statua.  Pau- 

*  slina  che  sotto  il  letto  era  e  senti  la  percossa,  tirò  le   funi  di  modo 

>  che  r  immagine  tutta  si  scosse.  Marcantonio  pensando  che  la    moglie 

■  volesse  levarsi,  le  diede  un'altra  ferita  e  passolla  dt  banda  in  banda. 
t  Era  da  la  prima  ferita  uscito  di  quell'umor  rosso  pure  assai,  e  me- 

*  desimauicnte  della  seconda;  il  perchè  egli  sentendo  che  la  moglie  piti 

*  non  si  moveva,  pensando  quella  portar  via,  prese  la  statua  e  qiiella 

>  in  un  necessario,  che  in  camera  era,  gettò,  »  — 
(9)  Sciavallin .  ciahadino.   Fa  el  triavatlin .  oltre  a    Tare  il   mi-- 


^H  {t)  Sciavallin.  cu 


—  200  — 

stuff  de  fa  el  sciavattin,  el  dis.  *—  •  Adess  voeuri  aodà  a  cerca 
t  fortunna.  •  —  L*lia  compràa  ona  formagginna  (1)  e  Tba  missa 
sul  tavolili.  La  s*e  impieoìda  de  mosch  e  lu  Tha  ciappàa  ona 
sciavatta ,  el  gh'  ha  dàa  ona  scia vattada  (2)  e  i  ha  mazzàa  tutti. 
Dopo  i  ha  cuntàa,  cinqcent  creo  mazzàa  e  quattercent  n'ha 
ferii.  Dopo  Y  ha  miss  on  sciabel  coni  in  testa  ona  lumm  (3)  e 
rè  andàa  a  la  cort  del  Re,  e  el  gh'ha  ditt:  —  e  Io  sono  il 
1  capo  guerriero  delle  mosche,  quattrocento  n'ho  ammazzate 

•  e  cinquecento  n'ho  ferite.  •  —  El  Re  el  gh'ha  ditt:  — 
f  Subet  che  te  set  on  guerriero,  te  sarèe  bon  de  andà  su  qud 
1  mont  che  gh'  è  su  dùu  maghi  e  Vi  mazzaret.  Se  fi  mazza- 

•  ret,  te  sposaret  la  mia  tosa.  »  —  Elgh'ha  daa  la  bandera 
bianca  e  quand  i  ha  mazzàa  d' espònela  :  ^—  e  e  te  sonarci  la 

•  tromba.  Te  mettarèe  la  testa  denter  in  d'on  saccb ,  tutte  dò 

•  i  test ,  per  fami  vede  a  mi.  »  —  Donca  lu  V  è  andaa  su  e 
riia  trovaa  ona  casa:  sta  tal  casa  Tera  on  ostarla:  ghiera 
mari  e  miée  che  eran  poeu  sti  maghi.  L'ha  dimandàa  alogg 
e  de  mangia  e  tutt  insomma.  Dopo  Tè  andaa  in  d'ona  stanza: 
prima  de  andà  in  lett  V  ha  guardàa  per  aria.  Gh'  era  ona  gran 
pioda  (4)  de  sora  al  lett;  e  lu,  inscambi  d'andà  in  leu  el  s'è 
miss  in  d' on  canton.  Quand  l' è  stàa  ona  cert  ora  i  maghi  ban 

slicre  del  ciabatiino ,  signiGca  anche  lunediare.  A  proposito  di  ciabattini, 
nel  cinquecento,  come  desumo  da  Celio  Malespini,  Duecento  novelle^ 
parte  11,  novella  LXIV  (dove  narra  delle  nozze  d'un  d*essì)  T*era  in 
Blilano  un  uso  nuziale,  ora  dismesso:  —  e  Acconciata  che  le  ebbero 
»  la  testa,  et  essendo  ora  di  girne  alla  chiesa,  accompognala  da  infinite 
»  donne  ;  non  cosi  tosto  ella  fu  uscita  fuori  del  stallo ,  che  non  gli  fus- 
»  sero  d*  intorno  più  di  duecento  fanciulle  gridando  air  oso  loro  :  Dove 
-^  la  né?  A  casa  del  ferree  a  conzà  i  colzee;  alludendo  ad  Imeneo 
»  iddio  delle  nozze;  vetusto  costume  di  quella  grandissima  città  »  che 
»  continua  tuUavia  e  continoverà.  >  — 

(1)  Formagginna,  non   registrato  dal  Cherubini,  probabilmente 
diminutivo  di  Formaggia, 

(2)  Sciavallada,  ciabattata,  colpo  di  ciabatta. 

(3)  Lumm,  tricorno,  nicchio,  capello   a  tre  punte,  cappello   da 
prete. 

(i)  Pioda,  pietra  piatta  e  grande,  lastra,  lastrone. 


—  idi  — 

sàa  iiii)  &ta  pìoda  e  l'tia  schìscìùn  tutt  el  leu.  A  la  manina 
e]  \a  tic  tiass:  ci  gli* ha  ililt  che  Dia  mai  ijojìiu  dormi  per 
el  gran  rreca.s,s.  E  lor  gh'han  din  che  glie  cambteran  la  stanza. 
Sicché  la  sera  l'È  andaa  in  slanza  e  l'ha  giiardaa  e  gh'era 
anmfl  sta  pioda.  E  lu  el  s'è  tiraa  in  d'on  canton.  E  guand 
l'k  sUia  ona  ccrt'ora  aacamò  come  prima  l'han  lassada  giò. 
A  U  inaltina  el  va  de  bass,  el  ghe  dis  aumò  che  l'ha  mai 
poduu  dormi  per  el  gi'an  frecass.  E  lor  gh'  haii  Uit  ancamò 
che  ghe  cambieran  la  slanza.  Quand  1'  è  slaa  ona  cert  ora 
tiìn  amba  in  del  bosch  mar)  e  miòe  a  tajil  on  fass  de  legna. 
Dopo  hìQ  vegnuu  a  cà  e  lu  l'ha  prepara»  ona  fole  (1)  e  el  gh'ha 
itìlt:  —  ■  SpetlÈ.  elle  ve  julli  mi  a  tira  giò  el  fass.  »  —  E 
lu,  el  Kciavatlin.  d  gh'ha  dàa  ona  folciada,  l'ha  tajàa  via  el 
eòo  al  mago.  Dopo  la  va  a  casa  lee,  e  lu  l'ha  THia  l'ìstess, 
riia  cattaa  via  el  eoo  anca  a  lee,  la  maga.  Dopo  l' ha  spiegàa 
la  bandpra  e  l' ha  sonila  la  tromba ,  e  gli"  6  andaa  centra  la 
banda  a  ricevei.  Dopo  Tè  rivAa  a  la  cort,  el  Re  el  gh'ba 
diu:  ~  €  Adess  che  t'è  raazzàa  1  dùu  maghi,  te  sposarci  la 
»  mia  iosa.»  — Sicché  lu,  l'è  andàa  in  leti,  dopo  sposada;  e 
l'era  tanl  siieETAa  a  lira  el  spagh,  eh' et  gh'ha  dàa  i  pugn  a 
la  mièe:  e  lee  l'ha  vornu  pn  dormi  iasemma.  E  el  Re  ci 
gb'  ha  dàa  tanti  danee  e  l' ha  mandaa  a  casa. 

V.  bit.  —  'El  Scla-v-attin.  (2) 


(1)  Fole.  Talee.  Folciada.  ralciala. 

j   (2)  Aitra  Tariuite.  —  Ona  volta  glt'eTì  on  scJaTaltÌD  che   sluff 

Blirl  el  spagli  ci  pensava  la  ntanera  de  lì^  rorlunoa.  lulaol  eh'  ci  slava 

aria  a  cunlà  i  traviti,  e)  s'era   desmeolegàa   che  l'aveva 

I  sol  b::..heU  ona  basta  de  lacc;  e  i  mosch,  percLù  l'era  d'estàa, 

I  in  gran  quantità  sui  lacc,  laot   cbc  l'era  dcvcniàn    tuli  ne- 

hr.  Alora  la  el  se  accorg  de  sta  robba,  e  el  se  alza  su  luU  ian<ri&a, 

Hlargn  la  tnau  come  fan  1  ciappamosch  e  gii  on   gran  colp.  Tanti 

I  tcappfia.  ma  oaa  bona  parie  gh' hin  reslàa  in  Ji  man.  Alora  gh' è 

1  de  cuntaj:  eren  ciaqcenL  Cosse  l'ha  Taa  lu  alora?  L'ha  Hi  on 

1  carlellon  con  su  scritl:  Con   una  mano  tu   jtuuio   citiquectnlo. 


—  202  — 

Gh'era  oq  sdavattiQ  che  Tera  al  bandiett  (1)  a  lavora  e  el 
gh'aveva  on  formaggin  e  sto  formaggin  (2)  gbe  andava  su  tanti 
mosch,  e  lu,  n'ha  mazzàa  tanti  ch'el  diseva:  —  t  Genti  ho 
i  mazzaa  e  cent  i  ho  de  mazza,  t  —  La  gent  sentiven  a 


Poeu  1*  ha  taccàa  sto  gran  cartel  lon  foeura  de  la  botega.  A  vii  de  savè, 
che  in  quei  temp  el  Re  el  ghe  aveva  ona  gran  guerra  coot  on  so  vì- 
sin.  Ma  Tera  semper  slàa  baltùu,  tant  che  on  di  eh'  el  scappara  l'è 
passàa  cont  el  so  seguii  denanz  a  la  bottega  del  sciavattin  e  l'ha  tlst 
sto  gran  cartellon.  El  He  Tha  mandàa  subet  a  ciamà;  e  lo,  tati  stre- 
mi! per  paura  eh*  el  ghe  fass  quajcossa  e  anca  vergognds  de  trovass  a 
la  presenza  de  soa  Maestà,  Tè  cors  là  subet  —  e  L'è  lem  che  voi 

>  con  una  mano  ne  massate  cinquecento?  >  —  e  Si  >  —  el  respond 
Itt  tutt  tremant.  El  Re:  —  e  Ve  sentireste  el  coraggio  d'andare  a 
»  combattere  i  miei  nemici?  >  —  El  sciavattin  ch'd  sperava  de  fli 
fortuna  da  ona  part  el  gh'  aveva  paura,  e  dall'  altra  el  dis  :  —  <  Tuit 

>  r  è  r  istess  :  morì  o  seguita  n  h  e\  sciavattin  non  savaria  qnal'  è  el 

>  peggior  di  maj.  Mi  tenti.  >  —  E  alora  el  ghe  rìspond  al  Re:  — 
e  Si,  ìfaestà.  Ch*el  me  daga  on  cavali  che  mi  vòo  sobet  a  fa  seappà 
»  tutt  i  so  nemis.  »  —  e  Bene  »  —  el  Re  —  e  se  voi  nascite  io  vi 

>  darò  in  sposa  la  mia  flglia.  >  —  Ditto  fotto  el  sciavattin  el  monta  a 
cavali,  che  quasi  Tera  gnanca  bon  de  sia  su  e  cont  ona  gran  bandeia 
dove  gh'era  scritt:  con  una  mano  ne  masso  cinquecento^  l'è  andàa 
incontra  al  nemis.  El  nemis  eh'  el  ved  arriva  costùu  e  che  el  legg  sia 
gran  bandera  V  ha  cominciàa  a  ciappà  paura  ;  e  poeu  de  meneman  eh'  el 
sciavattin  el  vegniva  innanz  han  cominciàa  a  scappa,  i  nemis;  e  in  meo 
de  quella  ghe  n*era  pu  gnanca  vun.  El  Re  ch'el  ghe  vepiva  adrèe  a 
la  lontana,  quand  Tha  visi  sta  poca  fotta,  Tè  cors  anca  lu  a  jultà  el 
sciavattin.  E  quand  di  nemis  ghe  n'  è  stàa  propi  pu  nessun,  hin  tor- 
nàa  a  cà  e  ci  dì  dopo  han  fa  el  sposalizi  co  la  tosa  del  Re:  La  prima 
sera  eh*  hin  andàa  in  lett  i  dùu  spds,  el  sciavattin  l'era  tutt  contenL 
Ma  quand  el  s'è  indormentàa,  el  s'è  insognàa  de  vess  ancamò  al  ban- 
chett,  sicché  el  ghe  menava  pugn  de  lira  a  la  soa  sposina.  Questa  chi 
a  la  mattina  V  è  andada  tutta  piangenta  dal  so  papà  a  lamentass;  el  qual, 
non  savend  come  combinalla,  l'ha  ordinàa  che  i  dùu  sp5s  dormissen  in 
dòo  stanz.  E  Tè  per  quest  che  i  Re  e  i  gran  sciori  no  donnea  nùaga 
insemma  marì  e  mièe. 

(1)  Banchetl,  deschetto,  banchetto. 

(2)  Formaggin,  cacciolo,  formella  di  cacio. 


I 


r  Ceni  i  ho  mazzaa  e  cent  i  ho  de  mazza.  ■  —  Gh'fian 
l<ditt  se  l' era  bon  de  andà  a  loeu  la  cìll^  de  Casli.  E  lu  el 
ite  de  dagli  on  cavali  eh'  el  saria  andàa  a  toeu  sta 
lor  gh'han  daa  od  rozzon(l)  d'on  cavali,  on  cavallasc 
come  se  sia.  El  saveva  nanca  fa  a  sta  a  cavali  e  l'andava 
come  un  desperàa.  E  veden  a  vegnl  sto  niatt  ch'el  dtseva:  — 
1  Ceni  i  ho  mazzàa  e  cent  i  ho  de  mazza.  >  —  e  gh'  htn 
cors  a  ia  centra  subit,  cont  i  ciav  de  la  ciuà  de  Casti.  In 
dei  vegnl  ìndr^e  Tè  passàa  d'on  sit  e  là  gb'era  on  mago; 
e  ià  slo  mago  l' ha  cìappàa  e  l' ha  miss  in  d'  ona  stanza ,  e 
el  gbe  dava  minga  de  mangia.  Ei  mago  ei  ghe  dis:  —  •  Vojl 
ven  chi.  Mi  gh'  hoo  ona  balia  ìnsci  grossa  :  se  li  te  see  Iran 
de  ciappà  sta  balla  chi  e  de  butlaila  fina  in  del  mar,  mi 
te  lassi  andà.  >  —  Lu  l'ha  ciappàa  sta  balla,  V  iia  avùu 
forza  assee  de  buttalla  in  del  mar.  .\dess  el  sciavaltin  el 
dis:  —  «  Ti  le  dee  fa  quel  che  te  disi  mi.  Adess  de  mi  e 
li  emm  de  guarda  chi  l' è  che  l' è  pnsèe  fort  de  tira  gib 
sia  pianta.  •  —  E  là  s' bin  miss  adrèe  con  sta  pianta  per  traila 
ò.  Ei  sciavatlin  el  ghe  dis:  —  <  Spella,  che  andaròo  su 
de  la  toa  raièe  e  ghe  diròo  de  damm  la  fole.  •  —  El  va  de 
sora  de  la  soa  mièe  e  et  gbe  dis  el  sciavaltin:  --  i  El  m'ha 
»  dìtt  insci  el  so  mari,  de  damm  la  ciav  del  secretèr  (2).  » —  E 
lee  la  va  a  la  fìnestra  e  la  ghe  dis  al  so  mari  :  -^  ■  Voj  I  hoo 
■  de  daghela?  >  ■—  E  lu  ci  gh'  ha  dil:  —  •  SI,  si,  dàghela, 
1  dàghela  in  pressa.  •  —  Lu,  el  sciavatlin,  dopo  l'è  andàa 
al  secretÈr  e  l' ha  portàa  vìa  tutti  i  danèe  che  l' ha  trovaa. 
Lee,  la  mièe,  la  credeva  che  fusseu  jntÈs.  perchè  el  gh'a- 
veva  diU  lu,  el  mago,  de  dagb  la  ciav  al  sciavaltin,  la  cre- 
deva che  fussen  inles  de  toeu  su  i  danèe.  Lu,  el  sciavatlin 
l'è  andàa  via  per  l'altra  porla,  l'è  minga  passàa  per  dove 
l'era  il  mago.  Lu,  el  mago,  el  ved  ch'el  ven  no,  el  ciama 
la  soa  mìt-o,  el  ghe  dis:  —  t  Ma  vojl  te  ghe  l'è  dada?  > 


(1)  Roìion,  roizonc,  roizaccia.  Cavallasc.  manca  al  Cherubini, 

(2)  SecretfT  (dal  Secretaire  francese),  segreurio  armadio  e  acriva- 
L  aia  nel  contempo. 


-.  €  SI,  rè  on  pexz.  I/ba  mò  de  vc^é;  »  —  E  li  d  vtf 
di' et  feo  DO,  fa  a  f«lè  in  dove  fé.  El  ghedv  a  »■  aìb: 
-*<Ma  com  <?  el  gii  è  in  nìsraa  sic?Cankrèchele^^W 

•  dia?  »  —  <  La  daf  di  dante.  »  —  «  Ah  fami  mài  Fcn 

•  la  Me  ebe  U  te  gb'aTeret  de  dà,  matok  b  cor.  Bucr  a  ai! 
»  adess  dov'boo  de  amlaO  a  Coen?  »  — Gaanb  de  cfei^iaih 
de  n,  el  seiafauio  r  ha  mioga  padm  livfà  *p«.  La  rki 
ditt:—  «  Inreee  «le  aiidi  a  qnisci  b  dui  de  Csti, 
f  9tàa  dì  danèe  de  m!  •  — 


Vi.  —  El  OorlMitCia.  (t> 

Ona  folta  ghiera  on  sdor  e  ou  sdora,  ch^ercn  behI  e 
pregaf  en  d  Signor  di*d  gfae  dass  oo  fioen.  lafin  m  di  ^*è 
pars  in  easa  on  corbatUn (2). On  di, sto  corbaltiB  d  eonìneba  A 
tanto  de  nrason  -3).  Lor  gfae  dimanden  eossa  d  gh'aTefa.E  tai,d 
forefa  minga  digfad.  In  fin  col  seguiti  a  dimandagh,  d  ^ 
dis  eh'  el  forefa  toea  mièe.  In  b  cort  ghe  stafa  od  prestnèe(4) 
di'  el  gh'  af  ef  a  tre  béj  tosann.  Sto  sdor  el  gbe  db  al  pre- 
stinèe  se  el  voreva  dagh  ona  tosa  in  sposa  per  d  so  eortol- 
tb,  e  lor  ghe  disen  de  si,  come  dibtti  el  r  ha  qioada  e 


(1)  È  Io  stesso  argoroeoto  della  (afola  prima  nella  secoada  ^Wig 
Tredici  piacevoli  notti  dello  Straparob:  —  e  Galeotto,  Re  d'Andy 

>  ha  OD  figliuolo  nato  porco,  il  quale  tre  folte  si  marita;  e  posti  gik 
»  la  pelle  porcina  e  difenuto  an  bellissimo  gioTane,  fa  chiamato  Be 

>  Porco.  »  —  Vedi  Novelline  di  Santo  Stefano  da  Caleint^,  rac- 
colte da  Angelo  De  Gabematis:  Norellina  XIV,  Sor  Fiorante  mago  ed 
anche  in  parte  Novellina  XIII  La  Cieca  (da  paragonarsi  con  la  DI  fih 
fola  della  III  notte  dello  Straparola). 

(2)  Corbattin,  ommesso  dal  Cherubini,  vai  quanto  Scorbatiin^  di- 
minutifo  di  Scorbatt^  contadinescamente  Corbatt,  conro. 

(3)  Muson,  grugno,  muso  lungo. 

(4)  Prestinèe ,  fomajo ,  panicuocolo.  11  Cavour  ne*  suoi  discorsi  par- 
lamentari ha  adoperata  la  parola  pristinajo,  che  è  di  pretta  orìgine 
latina. 


han  raa  on  gran  dìsnà.  Lu,  quaml  l'ò  fenlì  e1  disnà,  el  va 
dentei'  in  tl'on  lontl  e  el  seguiu  a  sbatt  i  al:  ei  glie  fava 
and:'!  adoss  lult  i  gott  de  conza  (1)  a  la  sposa.  E  la  ghe  dis:  — 
»  Guarda,  ciall  [2),clie  le  ra'hè  smaggiàa(3)  tult  el  vesHì.»  — E 
lu,  l'ha  dill  nielli.  A  la  sei'a  ci  va  a  dormi  con  la  sposa: 
r  ha  lassadn  indormenti!i  e  T  ha  seguil:ìa  a  beccalla  lln  che 
l'ha  rada  mori.  Dopo  lu,  la  manina  l'è  levàa  su  e  l'è  an- 
dàa  via  e  r  è  restìa  via  on  seil  o  volt  di.  Dopo  el  von  a  casa 
e  e)  comincia  ancamò  a  (à  tant  de  muson.  1  so  gentlor  ghe 
dimanden  cossa  el  voreva;  e  lu,  el  ghe  dis  ancora  ch'el  vo- 
reva  toeu  miòe.  E  lor  gh'han  dilt  ancamò  a  sto  preslinee  se 
el  voreva  dagh  anmb  ona  Iosa  per  sposa.  E  lu  ei  gh'ha  dill 
de  sì.  Dopo  sposada  han  faa  ancamò  on  gran  pranz  e  lu  el 
va  denter  anmb  in  del  lond,  sbnlt  i  ali  e  gh'ha  Taa  andà  su 
tutl  i  golt  in  del  vestii.  E  Ice,  la  sposa,  la  ghe  dis:  —  «  Sta 
•  quieti,  ciall,  che  le  me  smagget  tult  el  vesth.  »  —  Allora 
la  sira  el  corhnttin  l' e  aiidàa  a  dormi  con  la  sposa ,  l' ha 
tassada  indorraenlà  e  l' ha  seguìl.'ia  a  beccalla  che  l' ha  fàa 
mori  anca  quella.  Dopo  lu  a  la  mattina  el  leva  su,  el  va  via 
per  on  seti  o  volt  di,  e  dopo  el  ven  a  casa  anmò,  e  el  co- 
mincia a  fa  el  mu>«on,  che  el  voreva  loen  mièe  anmò.  Allora 
lor,  so  pader  e  soa  mader.  ghe  disen  al  preslinee:  — a  Ve 
»  dem  ona  borsa  de  danèe,  e  di'n  la  vostra  tosa  per  sposa 
»  ai  corbatlin.  »  —  E  lor,  ci  preslinee  e  la  Iosa,  gh'han 
diti  de  si.  Quand  l'ha  avuda  sposida,  han  fàa  on  gran  dis- 
nàa  ancamò,  e  lu  Tè  andaa  dentei'  ancamò  in  del  tond  a 
sball  i  al.  E  so  pader  el  gh' aveva  diit  de  digh  nient.  come 
difalli  a  la  sera  hin  anJaà  a  domili  e  el  gli'  ha  faa  nient. 
L'  è  vegnìiu  carneviia,  el  gh'  ha  dill:  —  u  Varda  che  mi  di- 
a  man,  passaròo  via  de  la  porla  vestii  in  maschera:  e  te  fa- 
1  ròo  on  basin.  Varda  ben  a  dighel  a  la  mamma,  perchè  se 
f  li  te  ghei  direi;  <U'l  turlurìt  soni  vegnùu  e  (IH  turluru  ior- 


(1)  Golia,  goccia,  gocciola.  Conza  o  Cunsàa,  candijncnto ,  salsn. 

(2)  Ciall,  sioccD.  CiMa.  lenim. 


Smaggià.  macchiare. 


—  206  — 

n  nardo  cmdà,  »  --  Ck)me  difatti  V  è  passàa:  el  gb^  ha  fta  oo 
basiD.  La  soa  mamma  Tha  comiQCiàa  a  di:  --^«  Dimm^  chi  Tè 
»  eh'  è  stàa  che  t' ha  fàa  on  basiQ  ?  Se  ti  te  mei  diset  minga, 
D  gh*  el  diròo  al  to  corbattiQ.  d  —  Lee  infiQ  la  ghe  V  ha  ditt  che 
rè  stàa  el  corbattin.  L'è  passàa  on  mes,  Tè  passàa  dùu,  ei 
corbattin  r  è  andaa  a  casa  pu.  E  lee  la  s' è  imaginada  de  la 
parola  eh'  el  gh'  aveva  dilt  L' ha  fàa  fe  tre  para  de  scarp 
de  fer,  e  la  3'  è  missa  in  viagg.  In  tutt  i  paes  che  la  pas- 
sava, la  dimandava  cunt  per  andà  al  paes  del  Turlulù.  .Col 
seguita  a  viaggia  in  fln  la  seguitava  a  piang  e  Ifha  trovàa  ona 
porta:  gh'era  ona  stria  (1)  in  mezz  e  ona  fila  de  tosftnn  per 
parL  E  sta  strìa  la  ghe  dimanda  :  ~  «  Dove  V  è  che  la  voria 
»  andà,  0  sposa?  d  —  E  lee  la  ghe  dis:  —  «  Ybo  al  paes 
»  del  Turlulù.  »  —  E  la  gh'  ha  cuntàa  quel  che  Fé  success.  E 
la  gh'  ha  daa  ona  nizzoeula  (2)  a  la  sposa,  sta  stria,  e  on  pe- 
stonin  (3)  ;  e  la  gh'  ha  ditt  quand  che  Tavaria  impienli  d'acqua 
de  occ  (perchè  la  piangeva,  sta  sposa)  la  trovarà  on'  altra  porta. 
Come  di  fatti  l' ha  seguitàa  a  viaggia  e  quand  V  è  stàa  pieo 
el  pestonin  Y  ha  trovàa  la  porta  che  gh'  era  ona  stria  io  mezz 
e  ona  fila  de  tosànn  per  part  E  la  ghe  dis:  —  «  Dove  vo- 
»  rii  andà,  sposa?  Dove  vi,  sposa?  »  —  La  0ie  dis:  — 
«  Yòo  al  paes  del  Turlulu.  »  —  E  sta  stria  la  ghe  da  ona 
castegna  e  la  gh'  ha  ditt:  —  <c  Tegnii  de  cunt  sta  castegna, 
»  che  la  sarà  l' occasion  de  fav  andà  insemma  al  voster  cor- 
»  battin.  »  -—  E  la  gh'  ha  dàa  on  alter  pestonin  e  la  gh'ha 
ditt  quand  l'avaria  impienìi  d'acqua  de  occ, la  trovaria  on' altra 
porta.  Come  difatti  V  ha  seguitàa  a  viaggia.  Quand  l' è  stàa 
picn  el  pestonin  l'ha  trovàa  on' altra  porta:  gh'era  Dna  stria 
in  mezz  cont  ona  fila  de  tosann  per  part.  E  la  ghe  dis  :  — 
«  Dove  vorii  andà ,  sposa  ?»  —  La  ghe  dis  :  —  «  V60  al 
»  paes  del  Turlulù.  »  —  E  lee ,  sta  stria,  la  gh'  ha  dàa  on 
nOs  e  la  gh'  ha  ditt  de  tegnii  de  cunt  che  sarà  l' occasion  per 


{ì)  stria,  plur.  slrij  slrega,  maga,  fata,  fatucchiera. 

(2)  Nizzoeula  0  NiscioeiUa  0  Niscioeura,  nocciuola,  avellana. 

(3)  Pestonin,  fiaschetto. 


I 


I 


—  207  — 

andà  insemnia  al  corbaUin.  E  la  sposa  la  glie  dimanda  a  la 
Siria,  se  gh'cra  ancsmò  od  pezz  a  riva  al  paes  del  Tiirlulfi.  E 
la  strìa  la  gli'  ha  diU  che  se  ved  giamo  el  canipaoin  e  la 
gh'ha  insegnàa  la  maaera  comi-,  l'aveva  de  (i  per  andà  a  la 
cort  del  Re,  che  l'era  poeu  el  so  corbaUin.  Come  di  falli 
rè  andada  a  la  porta  del  Re  a  dimandagli  se  vorcven  cìappalla 
pe  fa  la  donzella  (1).  E  lor  gh'  tian  diti  che  ghen'  bisognava  no. 
E  lee,  l'ha  pregàa  almen  de  ciappalla  per  cura  i  pùj  (3): 
e  Inr  l'han  ciappada.  On  di  l'era  in  giardin  e  gh'è  vegniiu  in 
ment  de  romp  la  nìzzoenlu:  e  gh'è  saltila' foeura  ona  bellissi- 
ma rocca  d'ora  (3),  che  la  lusìva  tant  che  Ulti  i  ptij  s' hin  miss 
a  scappi).  La  Regina  la  gbc  dis  a  la  donzella:  —  r  Guarda 
»  on  poo  quella  cialla  cosa  Y  ha  Tàa  che  la  Ik  spavenU  tulli 
»  i  pùj.  u  —  La  donzella  la  guarda  e  la  ghe  dis:  —  «  Se 
»  l'avess  (le  vede,  sura  Regina,  che  bellezza  d' ona  rocca 
(c  d*  ora  che  la  gh'ha  la  pollìroeula!  L'è  tanl  bella,  che  la 
»  spaventa  luti  i  piij  I  »  —  E  la  Regina  la  glie  dis  :  —  n  Di- 
j»  mandela  de  sora.  »  —  E  la  Regina  la  ghe  dis  a  la  polli- 
roeula;  —  i  Cosse  l'è  che  le  voenret  a  dammela  a  mi?  » 
~-  E  lee,  la  ghe  dis:  —  «  Nienl  :  solament  ona  noli  a  dormi 
»  insemma  al  so  mari.  »  —  E  la  Regina  la  ghe  dis:  —  «  Ben,  te 
»  dormirei.!  — I^e.ala  sira,  la  gh'ha  daa  rindorraenlinna  (4), 
che  l'ha  seguiiàa  a  dormi  lulla  la  noti,  el  mari.  Quand  l'è  stàa 
ìndormentii  el  corbaUin,  la  polliroeula  la  va  in  lelt  e  la  seguita 
tutta  noli:  —  •  0  corbatto,  o  corbaUin,  l'è  Irti  ann  che  viaggio 
»  per  mare  e  per  lerra,  ho  stracciato  tre  paja  di  scarpe  di  ferro, 
»  per  venirti  a  trova,  te.  •  —  E  lu,  el  s'è  mni  dessedàa.  A 
la  manina,  a  bonora.  glie  va  là  la  Regina  e  la  glie  dis:  — 
«  Fuora,  ftiora,  pellegrina,  che  l'ha  da  entrar  la  bella  Re- 


{!)  Domètla .  cameriera. 

(i|  Pùj,  pollo,  polli;  yvUii-ueula,  pollnjuola,  ^ii^irdiatia  dc'pollì, 
ftie  de  batte-oour, 

(3}  Veramente  si  avrebbe  a  dire  òr,  e  non  ora;  ma  ripeto,  io 
stenografo  e  non  mi  fo  lecilo  di  correggere  iieiniuaco  gli  spropositi 
lividcnli. 

(l)  IniorniniHiviu  per  iiareolico,  nuli  c*é  nel  t^lierubini. 


—  a»  — 

p  gina.  »  —  E  lee,  la  s'è  lerada  m  e  fé  aodada  de 
(ìmwì  V  è  <itàa  el  mezz  dì  la  romp  la  cafltegna  e  salta  fiiem 
ona  pò  MVafipafl}  ricorsi,  la  Iiisiva  tant  che  cmt  i  pa|  s^ìm 
tfom  a  Mappa.  Allora  la  Regina  la  gtie  «l»  a  la  dnaellai:  — 
tf  Va  mi  pòo  de  basM;  ame  f  ha  &i  qneOa  daOa ?»  —  Al- 
lóra la  donzella  la  ghe  dLs:  —  «  Se  Faveas  de  vedfe 
t  Regina,  ehe  bellezza  d'on  aspa  die  la  gh'^ha  b 
9  rneoA^l  ÌA  \\ìsÀfigt  tant  ehe  tntt  i  pAj  se  spaveatOL»  —  Al- 
lora la  Regina  la  ghe  dis  :  —  «  Dimandeia  de  sorx  > —  E  b 
Regina  la  ghe  dis  a  la  poiliroenla  :  — «  Cofise  Tè  cfae  te  fneorei  a 
»  dammela  a  mi  ?  •  —  E  lee  la  ghe  dis:  —  «  Voeori  dorai 
»  on*  altra  nott  insemma  al  so  marL  »  —  Allora  b  ghe 
dis:  —  <  Ben,  te  dormiret  ». —  La  gh^'ha  dàa  aaeanb  Fìa- 
dormentinna  al  mart,  ehe  Tha  dormii  tutta  b  aolL  Oud 
rè  sti^  indorment,  la  poiliroenla  b  fi  in  left,  e  b  segata 
tntta  nott:  —  «  0  corbatto,  eorbattin  f  r  è  trii  ans  che  fbg- 
»  gio,  per  mare  e  per  terra:  ho  straeeiato  tre paja  di  acarpe 
»  di  ferro,  per  ? enirti  a  trova'  te.  »  ---  A  b  matthina  a  Ink 
nora  b  va  in  stanza  la  Regina:  —  «  Fnora,  fiiora  peOegrba, 
»  ebe  ha  da  entrare  b  belb  Regina.  »  —  Allora  b  polfi- 
roenb  la  va  de  bass  e  b  ra  ancaroò  in  gbrdìn  coot  i  pdg. 
Qoand  Tè  stib  mezz  dì  b  romp  il  nos.  Allora  glie  salta  fideora 
ona  beliMsima  carrozzella  d'ora  che  b  correrà  attoma  per  et 
giardin  de  per  lee.  Allora  liitf  i  piij  s' hin  miss  a  scappi.  La 
Regina  la  ghe  dis  ancamb  a  la  donzella  :  —  «  Va  on  poo  de 
ft  bass,  giiarrb  cossa  la  fa  la  polliroeula.  »  —  E  la  ghe  dis: 
—  «  Se  Tavess  de  ve^lè,  stira  Regina,  che  bellezza  d'ona 
9  carrozzella  che  la  corr  de  per  lee  per  el  giardin  !  e  tutt  i 
»  piii  scappcn.  »  —  Allora  la  Regina  la  ghe  dis:  —  «  Di- 
»  mandela  de  sora.  »  —  E  la  ghe  dis  :  —  «  C!osse  V  è  che 
»  te  vocureta  dammela  a  mi?  »  —  E  lee  la  dis: —  «  NienL 
9  Voeuri  dormi  on'  altra  volta  insemma  al  so  corbaltin.  »  — 
\jA  Regina  la  ghe  dis:  —  a  Che  dalla  che  te  set!  L'è  minga 
n  méj  che  te  ciappet  di  danèe?  Ten  doo  fin  che  ten  voeuL  » 


(1)  Aspa,  a.spo,  ria s pò. 


-  E  lee  la  ghe  dis:  —  «  Voeuri  minga  on  cenfesim: 
■  dormi  on' altra  volta  ìnsemma  al  so  corbattio.  »  —  El  Re, 
el  capiva  cti*  el  stava  minga  tant  ben  a  bev  quella  robba  là, 
e  lu  iflsambi  de  bevela,  Tha  trada  via.  La  Regina  te  sa- 
veva  no.  Quand  l' è  sta  indomient,  la  polliroeub  la  va  in  lett 
e  la  comincia:  —  a  0  corbatt,  o  corbattin,  l'è  trii  ann  che 
o  viaggio  per  mare  e  per  terra;  ho  stracciato  tre  paja  di 
j>  scarpe  di  ferro,  per  venirti  a  trova  te,  •> —  Lu,  el  comin- 
cia a  fa  <uidà  la  testa.  Lee  la  toma  on'  altra  volta  a  di  l'i- 
sless:  —  «  0  corbatt,  o  corbattin,  l'è  trii  ann  che  viaggio 
n  per  mare  e  per  terra;  ho  stracciato  tre  paja  di  scarpe  di 
D  ferro,  per  venirti  a  irovà'  te.  »  —  E  lu,  ei  se  disseda.  Lee 
la  torna  a  dì  on  altra   volta;  e  lu  el  dis:  —    •  Ma  chi  te 

•  set?  >  —  E  lee  la  ghe  dis;  —  •  Sont  quella  tal,  che  te 
>  m'avevet  spossa  e  pocu  le  m'hé  abandonada  •.  —  Allora 
lu  el  ghe  dis:  —  «  Come  1"  è  che  f  he  faa  a  vegni  chi  ?  »  — 
Lee,  la  gh' ha  cunlàa  tutt  come  l'è  stÀa.  E  lu  el  ghe  dis: 

—  e  Ben,  mi  faròo  Gnta  de  dormi,  quand  che  ven  la  Re- 
»  gina;  e  ti  leva  su.  Poeu,  la  pensaròo  mi,  bella.  •  —  Lee, 
la  mattina  a  bonora,  la  va  la  Regina  in  stanza  e  la  ghe  dis: 

—  •  Tuora ,  fuora  pellegrina ,  che  ha  da  entrare  la  bella  Re- 

•  gina.  •  —  Lee  l'è  andada  io  lett  insemma  a  lu,  la  Regina. 
Dopo  lu,  el  se  disseda,  el  dis:  —  «  Àdess,  mi  levi  su,  e  U 

•  -Sta  pur  chi  a  dormi.  >  —  E  lee  la  ghe  dis:—  •  Si;  stòo 

•  chi  on  pòo  tard,  perchè  me  senti  minga  ben.  •  —  L'ha 
la&sada  indormentà  ;  el  gh'  ha  daa  el  foeugh  al  lett  e  ?  ha 
brusada  in  lelt.  Dopo  V  è  restada  1*  altra  per  soa  sposa. 

/'Contìnua^ 


BIBLIOGRAFIA 


Osservazioni  intomo  alla  Relazione  sui  manoscritti  d^  Ar- 
borea ,  pubblicata  negli  Atti  della  JR.  Accctdemia  delle 
Scienze  di  Berlino  del  Conte  Carlo  Bandi  di  Vestne.  — 
ToriDO,  Stamperìa  Reale,  1870,  in  8.^  di  pagg.  LXn-152. 

Ninna  controversia  letteraria  fd  a'  nostri  giorni  trat- 
tata con  pari  energia  e  costanza  a  quella  delP  aatentìdtà 
0  falsità  delle  Carte  d' Arborea ,  poste  in  luce  dal  celebre 
letterato ,  commend.  Pietro  Martini.  Sin  d^  allora  cbe  esse 
apparvero,  molti  eruditi  uomini,  si  italiani  che  stranieri, 
opinarono  prò  e  contro;  e  bene  a  ragione,  perchè  con 
tale  pubblicazione  si  veniva  in  certo  modo  a  sconvolgere 
la  storia  letteraria  de'  primi  tempi  del  nostro  volgare,  e 
a  togliere  il  primato  a  certe  Provincie,  che  fino  allora 
aveano  goduto.  Fra  i  dotti  che  più  animosamente  ne  so- 
stennero r  autenticità  è  da  annoverarsi  V  illustre  Conte 
Carlo  Bandi  di  Vesme ,  Senatore  del  Regno ,  il  quale  fer- 
mò sempre  T  opinione  sua  sopra  argomenti  gravissimi  e 
validi  quanto  altri  mai.  Se  non  che  vedendo  che  le  dub- 
biezze pur  seguitavano  nell'animo  di  parecchi  altri  valen- 
tuomini, per  amore  agli  studii  nostri,  standogli  grande- 
mente a  cuore  che  una  volta ,  se  possibil  fosse ,  si  venisse 
a  conoscimento  della  verità  e  sincerità  di  quelle  Carte, 
deliberò  sentir  V  opinione  su  tal  proposito  degli  eruditi  di 
Germania.  Onde  nello  scorso  anno,  essendosi  trovato  col 
sig.  Mommsen ,  membro  della  R.  Accademia  delle  Scienze 


—  211  — 

rluM),  io  ìDTìtò  perchè  si  àesse  cara  d'inaorre  quel 
celebre  Consesso  a  prendere  Ìq  esame  la  iiuiìiUonc,  e  giu- 
dicasse. L'Accademia  tenne  Piovilo;  e,  avuti  a  sé  alcuni 
(ti  qtioi  manoscriUI,  dopo  grave  considerazione,  un  per  uno 
que' dotti  uomini,  tutti  sentenziarono  in  WHilnirio  airav- 
viso  dell'illustre  Conte  di  Vesme  e  de' suoi  [tartli^iaut. 

A  tale  inaspettata  sentenza  il  noijilc  lelterat'j  non  ìkI>ì- 
gottì  punto,  né  si  dette  "per  vinto,  anzi  valoro.samente  se- 
guitando nel  suo  aringo,  ha  risposto  ne)  sopra  allegata 
Tolum»  ad  ogni  eccezione  di  que'  falorosi  Aecadeoiid, 
QOD  cbe  ad  altre,  ria  via  che  ^ie  oe  eorren  il  dettro, 
da  diversi  studiosi  mossali  contro,  e  eoo  (Mia  faUdiH 
dì  ragioni ,  pare  a  noi ,  e  à  etlkatemealB ,  die  ooa 
molto  dovrebbe  restare  oggimai  da  aggjangani  io  eootr»- 
rio.  Ma  eoa  lutto  ób  cgti  ooD  prenuM  ìoippdlatiélea  mio 
giodizio,  anzi  eoo  siogobre  nodettia  sellila,  dioend»:^ 
Mio  scopo  è  di  promaofcre  TMase  e  te  dwwMooe;  bcp* 
^  cbe  altri  si  an«iifa  al  ab  aè  MtUlnà  paóaitt  :  Utif^ 
diffio^ià  resmo  a  soperareL  La  eofitì  e  b  pmieoM  éib 
soapetU,  sopntliitto  m  pilo  rifaarda  i  piimm0étMt 
Imgaa  italiana,  kUmk  1  Mto  «aarinto  4tNe  wmm 
teoperie  a  Iran  nipwin  tmtoimt»  ifaml»  ■eoaanrf»' 
iDeale  EKxmno  tapfom  A  le  Mlitfe,  ^  le  ikme  mah 
fitiaalchari  —  E  qa  aaa  è  MMava  letta  fa  leS' 
dMin  e  il  «no  d^'ilMre  mmp.  Ì  ^f*  «eie  caÉMe- 
■Mole  e  rmfriii  le  JpnrirJ  <fce  <  mrem— >,  li  pwgr 


■  ftaanMbiiae  «he  aéwMMi 
Baine  Mk  le  Carte  «^M*- 


proprio  il  caieA  ifec  Mi  ae^taB*  atti  i 


—  212  — 

piccola  mole:  esigerebbe,  ed  esigette  di  fatti ,  il  lavoro  di 
più  anni  il  solo  trascriverli  dagli  originali  in  odierna 
scrittura;  a  comporre  il  contenuto  non  basta  la  vita  di 
un  uomo.  Ed  oltre  il  comporli ,  si  pretenderà  che  quel 
creatore  di  cronache  e  di  altri  scritti ,  tra  loro  di  lingua, 
di  stile,  di  forma  e  di  argomento  differentissimi ,  che 
quell'autore  di  bellissime  poesie  sarde  ed  italiane  abbia 
passalo  un  terzo  della  sua  vita  a  finger  croniche  antiche , 
un  altro  terzo  ad  avvezzarsi  a  poetare  in  lingua  arcai^ 
ca,  e  r  ultimo  terzo  a  simtilare  antichi  caratterii 

Ora ,  comunque  su  ciò  possa  giudicarsi ,  ad  ogni  modo 
egli  è  pur  cotesto  uno  strano  avvenimento,  e  anche  noi 
ne  facciamo  le  maraviglie,  molto  più  considerando  la  na^ 
tura  dell'uomo  di  lettere,  il  quale  cerca  fama  e  gloria  e 
non  desidera  per  le  sue  fatiche  rimanersi  ignoto  né  senza 
premio.  Comunemente  vediamo  che  in  coda  a  un  misero 
sonettuccio,  ad  una  sonnifera  canzoncina-,  ad  una  pedan- 
tesca novelletta,  ed  uno  arcadico  ragionamento  vuol  pur 
l'autore  ficcare  il  suo  riverito  nome  colla  credenza  di 
guadagnar  fama,  non  altrimenti  che  rumile  fraticello  ai 
piedi  d'un  suo  arruffato  sermone.  Quindi  noi  non  cesse- 
remo dalPammirare  la  modestia ,  anzi  la  bizzarria  di  colui , 
che  a  solo  divisamento  d' inganno ,  abbia  speso  tutta  la 
sua  vita  in  simile  ciurmeria  senza  proposito  alcuno  di  bene. 
E  le  nostre  maraviglie  tanto  più  van  crescendo  nel  pen- 
sare che  cotest'  uomo  continui  pertinace  a  nascondersi  ;  e 
che ,  lui  morto ,  non  siavi  amico ,  né  parente ,  né  cittadino 
che  il  sappia  o  il  voglia  manifestare  I  Cotesto  é  un  verace 
mistero!  Se  ciò  avvenisse,  egli  otterrebbe  senza  dubbio 
plauso  non  comune  dell'aver  saputo  così  bene  condurre 
l'opera  sua  da  illudere  per  lungo  tempo  una  numerosa 
schiera  d'uomini  eletti,  e  il  giuoco  suo  tornerebbe  oggi- 
mai  compensalo,  e  gli  si  perdonerebbe  la  frode.  Se  non 
si  cessa  tuttavia  di  tributar  lodi  al  Leopardi  per  una  con- 


—  213  ~ 

t  di  stile  e  di  lingna  fatta  in  quel  suo  Martirio 
ié'  Ss.  Padri,  da  lai  spacciato  per  del  300,  e  per  tale  da 
Diolti  allora  credulo,  or  cbe  cosa  si  direbbe  di  cbi  tanto 
prolODgò  la  baia  in  aliare  si  maggiormente  importante .  e , 
fiogeodo  DOQ  solo  il  contesto  ma  eziandio  i  varii  anticlii 
earatlerì,  seppe  aumentarla  ed  accrescerla  in  forma  da 
doTersi  ricorrere  ad  un'Accademia  delle  più  celebri  d'Eu- 
ropa per  averne  un  gindicio?  Certo  costui  sarebbe  da  am- 
mirarsi e  da  rigaardarsi  come  Unica  per  le  isvarìate  e  in- 
comparabili sue  abilità.  Qui  non  ci  ha  che  dire  :  il  fatto 
per  sé  stesso  e  grave  :  l' incertezza  continua  ;  e  chi  difen- 
de r autenticità  delle  Carte  d'Arborea,  potrà,  a  nostro 
arrìso ,  gridare  viiioria,  Qnchè  con  assolute  prove  o  al- 
meno, con  sotDcienti  ìndizli ,  alcuno ,  conoscitore  a  pieno 
dei  luoghi  e  delle  persone ,  non  dimostri  chi  sia  lo  stre- 
nuo e  ardito  falsificatore. 

Notevoli  e  da  prendersi  in  considerazione  sono  altresì 
certe  teorie  poste  in  campo  dal  sig.  Vesme  sulP  origine  e 
sull'indole  della  lingua  italiana,  delle  quali  si  tocca  in  co- 
testo eruditissimo  libro.  Dalla  pag.  113  alla  126  stanno, 
in  Appendice ,  Rime  edile  od  inedit«  di  Gherardo  da  Fi- 
renze, di  Bruno  De  Thoro,  di  Alberigo  da  Siena,  di  Tor- 
bem  Falliti  e  di  Antonio  Pira  da  Oristano,  aggiunto  a 
provaro  che  ne  quella  lingua  né  queUa  poesia  non  possono 
essere  opera  di  un  odierno  falsificatore ,  e  che  inoltre  la 
elidente  diversità  dì  lingua,  di  stile  e  di  ogni  altra  cosa, 
dimostra  che  appartengono  a  varie  età  e  a  diversi  autori. 
Dalla  pag.  ^27  alla  ISl  sta  una  Bisposta  all'  articolo  del 
sig.  Girolamo  Vitelli  contro  le  Carte  d'Arborea,  pubblicato 
Beli"  antecedente  dispensa  del  Propugnatore. 

Uno  della  Commissione. 


i 


—  216  — 

ì  propri!  studi!  e  V  opera  con  quante  sono  in  Italia  asso- 
ciazioni educative.  Scrivendo  queste  parole  di  proemio  non 
intendiamo  di  venir  fuor!  con  larghe  promesse,  le  quali 
spesse  volte  non  sogliono  essere  adempiute;  ma  fin  d'ora 
promettiamo  di  attendere  al  compito  nostro  con  buon  volere 
e  con  operosità. 

Propugneremo  la  libertà  delPinsegnamento;  procurando 
che  a  questa  siano  veramente  informati  gli  ordinamenti 
della  istruzione  primaria,  della  secondaria  e  della  superiore. 
Della  libertà  comunale  in  fatto  di  studi!  ci  faremo  promo- 
tori. Avversi  alla  pedanteria,  sotto  tutte  le  forme  la  com- 
batteremo, studiandoci  di  trattare  la  pedagogica  con  ragio- 
nevole larghezza  di  vedute  col  giovarci  dei  lumi  della 
esperienza.  Per  questo  speriamo  che  le  nostre  ossenrazioni 
saranno  sempre  informate  a  un  senso  pratico,  e  che  pos- 
sano riuscire  ad  utile  vero  degli  insegnanti  e  dello  inse- 
gnamento. La  istituzione  di  biblioteche  popolari  e  curco- 
lanti  promuoveremo  ;  ben  comprendendo  come  a  diffondere 
la  istruzione  queste  contribuiscano,  e  ci  sforzeremo  che 
le  grandi  biblioteche  diano  indizio  sicuro  del  progresso 
dei  tempi  per  buona  scelta  di  opere,  e  riescano  per  sa- 
viezza di  ordinamenti  agli  studi!  ed  agli  studiosi  di  van- 
taggio. Di  uomini  e  di  cose  giudicheremo  con  franchezza, 
sine  ira  et  stìidio;  ed  oppugnando  le  idee,  rispetteremo 
le  persone  e  la  libertà  delle  opinioni. 

Con  questi  intendimenti  cercheremo  di  promuovere 
r  incremento  della  istruzione  e  della  educazione.  Non  ci 
dissimuliamo  che  il  nostro  compito  è  difficile;  ma  noi 
abbiamo  fede  nel  vero,  e  crediamo  che  V  efficacia  di  questo 
debba  trionfare  sui  pregiudizi!  degP  insipienti  e  dei  nemici 
del  pubblico  bene.  A  compiere  quest'opera  invochiamo 
r  aiuto  dei  buoni,  e  di  quanti  si  fanno  propugnatori  della 
morale  e  civile  educazione  del  popolo. 

I  Compilatori 


ì 


—  217  — 

n  Periodico  si  pubblica  il  1."  ed  il  15  di  ogni  mese. 
L' associazione  è  obbligatoria  por  un  anno,  pagabile  Lire  S 
a  semestre,  Lire  8  ad  anno,  anlicipalamenie. 

Un'  azione  di  Lire  30,  da  soddisfarsi  a  mese,  dà  drillo 
a  6  copie  della  fìivista. 

Un  solo  ninnerò  costa  Cent.  SO. 


LETTERARIO  ROMANO 


Or  sia  la  Iwne  arrivata  cotosta  nuova  Istituzione  let- 
lerarìa  !  È  troppo  necessario  ne'  presenti  tempi,  che  gli 
nomini  dì  lena  e  di  buono  intendimento  si  dieno  attorno 
con  tutla  r  energia  a  discacciare  le  barbariche  guise  oltra- 
montine  che  anno  invaso  il  nostro  suolo,  e  a  sorreggere 
foir  opere  loro  e  difendere  le  glorie  nazionali.  Dagli  illustri 
nomini  che  la  compongono,  chi  potrebbe  non  prevederne 
un  ottimo  e  sicuro  riusclmento?  Noi  ne  meniam  festa, 
perchè  siamo  certi  eh'  ella  tornerà  degna  de'  valentuomini 
che  la  istituirono  e  della  città  ove  venne  fondata.  Ripro- 
darremo  qui  appresso  il  Programma:  — 

Compiutosi  appena  il  memorando  avvenimento  del  20 
settembre  1870,  il  Sig.  Cav.  Enrico  Nardocci  si  rivolse  a 
parecchi  illustri  suol  amici,  proponendo  loro  di  comporre 
un'associazione  patriotica  e  letteraria,  i  cui  intendimenti 
sono  indicati  nel  seguente  manifesto: 

I  sottoscritti,  valendosi  del  diritto  di  libera  associazione, 
e  persuasi  delle  seguenti  verità  incontrastabili: 

1."  Che  presso  i  popoli  civili  la  coltura  e  floridezza 
delle  lettere  segna  II  progresso  intellettuale,  onde  nasce 
la  loro  relativa  prosperità  e  sicurezza; 


i 


—  218  — 

%""  Che  ciascuno,  secondo  suo  potere,  è  tenuto  a 
promuovere  il  decoro  e  l'utilità  della  patria; 

3.**  Che  molle  aberrazioni  politiche,  le  quali  condu- 
cono a  decadimento  e  rovina  gli  stati,  sogliono  nascere 
dalla  ignoranza; 

si  sono  costituiti  in  Circolo  Letterario  Romano. 

Intendimento  di  questo  Circolo  è  di  propugnare  l'onore 
degli  studi,  caldeggiare  i  provvedfanenti  che  possano  favo- 
rirli e  combatter  quelli  che  potessero  nuocerli  ;  rivolgendo 
ogni  suo  sforzo  al  buon  andamento  della  cosa  pubblica. 

Proponendosi  il  detto  Circolo  di  giovarsi  a  questo 
fine  del  concorso  d'uomini  chiari  per  ingegno  e  per  dot- 
trina, in  Roma  e  nel  resto  d'Italia,  ascriverà  fra  i  suoi 
socii  chiunque  sia  proposto  da  tre  dei  sottoscrìtti,  ed  ap- 
provato da  due  terzi  almeno  dei  medesimi. 

Con  altro  manifesto  sarà  indicato  il  luogo  delle  adu- 
nanze. 

Francesco  Cerroti,  bibliotecario  della  Corsiniana,  PREsmEKTE 

Rocco  Botnbelli 

Paolo  Emilio  Castagnola 

Ignazio  Gampi 

Costantino  CorvisieiH 

Domenici)  Gnoli 

Basilio  Magni 

Achille  Monti 

Enrico  Narducci 

Antonio  Stefanucci-Ala 

Gustavo  Tirinelli 

Oreste  Tomassini 

Roma  30  settembre  1870. 
Appena  il  detto  Circolo  sia  definitivamente  costituito 
se  ne  darà  avviso  mediante  pubblica  affissione,  ed  inserzione 
nei  principali  giornali  della  Capitale. 


ANNUNZI  BIBLIOGHAFICI 


Orlilo  otHa  il  bandito  Siciliano. 
CmUi  Xlldi  Carmelo  Piota,  tra- 
tporlali  III  italiana  favella  dal 
pnf.  Giuseppe  Cazzino.  Paler- 
mo. AmetUa.  1870,  in  IS.°  di 
fOQQ.   Vili  —  918. 
È  ili«Ì9o  m  dodici  canti;  tra- 
dotto in    felicissime  e    spontanee 
MUve,  non  altrimailì  c)ie  era  da 
uptttarsi,  dalli  penna  elegante  del 
prót  caT.  Giuseppe  Ga»ino,  il  cui 
tatore  nelle  nostre  lettere  già  da 
huH)  tempo  è  a  latti  nolo. 

Precetti  ed  etempi  di  Mort^ità 

civile  esitosli  da  LrctANO  Sca- 

luetLLi  per  l'educaiione  dei 

giovinelli    ifoliant   d'  ambo    i 

itjii.    Milano.    Treva.    1870, 

in  8.°  di  pagg.  33i. 

Sono  molte  Novelle  morali  in- 

trecdaie  con   ragionameniì  oppor- 

tuoi  a  bene   educare   la    giovenlù 

iudiana.  L'opera  é  scritta  con  i.^pi- 

(liaU   eleganu  :   sarebbe   prodlle- 

tole   mollo  che   corresse   per    le 

nani  d'ogni  bejie  inclinala  &mi- 

tlìa,  e  che  i  padri  e   le  madri  la 

oesùro  per  lettura  quotidiana  a' 

loro  GgtÌDoIL 

■Btwfl  pugile  dell'Avvocato  Is- 

NOCEK»)  Pahti.  Imola.  Galeali, 

■1870,  in  S."  di  pagg.  88. 

Vi    sono  jHKsje   originali,  e 

tndoiioni  dall'  inglese,  dal  francese, 

(bl  latino,  dal  tedesco,   dallo   sp»- 

pmolo  e  dal  fnco.  Ci  raileeriamo 

coir  erodilo  pome  che  alma  sa- 


puto informarsi  di  tante  lingue  eu- 
ropee da  tentare  la  Irasformaiione 
nella  nostra  letteratura  delle  bel- 
lezze delle  lìngue  morte  e  delle 
nazioni  oltranioRlane. 

L'ultimo  dei  Patrisii  vewzia- 
ni.  lìaeconto  di  Francesco  Fa- 
panni.   Venezia,  Cecchini,  Ì810, 
in  8."  di  pagg.  139. 
Curiosissimo    libro    e    molto 
utile  ancbe  dal  lato  storico.  Si  to- 
glie il  racconto  dal  1787  e  va  lino 
al  1809.  E  scrìtto  con   molla   di- 
sinvoltura,  con   atiieismo  e  con 
tstile  piano  e  làmìglìare,  ctie  assai 
piace. 

Versi  di  hw,\  Celli.  Imola, 
Galeali.  1870,  in  8."  di  pagg. 
205. 
Molle  poesie  di  varìo  eenei^ 
contiene  questa  raccolta:  v'ba  del 
mediocre,  pare  a  noi,  ma  più  as- 
sai del  buono,  Mori  l'autore  quando 
la  stainpa  era  condotta  lino  alia 
pag.  Ifli;  e,  quel  ch'i  jieggio, 
mori  il'  amore.  Negli  ultimi  giorni 
dì  sua  vita  dettava  la  seenenie  poe- 
sia contro  la  tidanzala  cbe  ^lì  rup- 
pe fede;  la  quale  olTero  qm  sotto, 
non  come  saggio  del  migliar  suo 
poetare,  ma  per  la  sua  specialità 
e  novità. 

A  MARIA  G.... 


A  km  U  Irudna. 


—  220  — 


f  flMTti  «••  eh'  i»  ét0m«  al 
yff^Ham  mmu  b  rtàAM  min  i 
T«  ftei  Mia  <k»<t»a  «4  »  tv>  <avaS 

T'  b/i  4a  f.nùAmt  In  «mi. 

B«l«r«ai.  b«:kr«»»  e  u  «4  w 
Co»  IMI  vbeieln  »tt'4u  ìa  bnuMi  faéMcftì; 

e  aui  B«^rfi  ureai  itJAcfci. 

Sc4o  4«i  falG  al  Uno  canto,  qau^ 
L'avara  Uir«  noi  ftfMrili  rarria, 
Ta  Mi  niM»  avello  d/iraurai.  po«aa4o 

Fra  le  oue  ««jnie  faraeaa. 

Ma  Doo  «p«rar,  f>^  rma  rh^  ti  d««ti, 
Sóorti  pfà  mai  dal  fnMldo  aUbraceiiiftoc 
L«  prooMM*  4'  »flMr  rbe  U  mi  feali, 
ffoii  •«  1«  porU  il  vesto. 

Ta  la  fe  mi  finrafti!  io  la  reclaoM»!.... 
Gisro  «(piai  mi  chiedenti ,  e  td  formai; 
IhuMfue  Kbel«(ro  aiMror  f<oMo  dir  t*  amo. 
T'  amo.  e  to  mia  «arai  ! 

ftarai?  rb4  diMi  !  il  mì.  Dormi  qoa  meco  ; 
Non  t'impasra  ai  vermi  amor  verace! 
Qoal  due  «ia  letto,  vs  lo  «poM  è  aeco, 
Ad  <Yiu  iipo»a  |>iace! 

fte  la  tlanza  di  notte  k  mal  fonùla, 
Di  le  ti  dolf  a  che  nm  voletti  ; 
Noo  ho  più  i  bari  rbe  tradiiti  In  Tita, 
Or  ti  dèi  prender  questi  I 

Mal  ti  appoaetti  ron  qsel  tno  tradire 
Di  eatonoia  aiutato  e  di  Kooforto! 
Fu  colpo,  è  ver,  cb*  io  ne  dovea  morire. 
Me  laMo,  e  ne  aon   morto  I 

Son  dì  »rhele(ro  i  bari  ;  or  tu  K  saggi, 

rii  li  tof  ^e*ti  nn  di  col  labro  infido, 
mi  fuggi  te  puoi,  se  puoi  mi  faggi  f 
lo  mi  ti  avTÌnghio,  e  rido!I 

Le  Rime  di  Francesco  Petrarca 
col  tomento  di  Giuseppe  Bozzo 
(Volume  primo).  PalerrìV),  Tip. 
di  Michele  Amenta,  1870,  in 
8.*»  di  pagg.  XL  —  392. 

Ecco  il  primo  volume  delle 
Rime  del  nostro  maggiore  lirico, 
nuovamente  comontate  da  un  va- 
lentuomo: vi  si  contengono  tutte 
le  poesie  in  vita  di  madonna 
Laura.  Un  aggiustato  proemio  é 
anteposto  alle  rime,  cui  succede  la 
vita  dell'autore.  Le  chiose  sono 
molteplici,  ma  esposte  con  brevità 
0  con  chiarezza.  La  sobrietà  è  una 
delle  migliori  doti,  pare  a  noi, 
d'un  comentatore,  da  che  la  pro- 
lissità suole  incenerare  noia  e  non 
di  rado  concisione.  Quelle  disser- 
tazioni, che  alcuni  usano  ad  ogni 


e  iB  wmto  a 
Alb  ne,  355 

^  che  i 


TWcnte  di 


ì  sa- 

fili- 

Àc- 
trftk 


I 


onesta  r-— — 

361  alh  383, 

pra  h  prìm  parte:  ìa  fi 

dici.  Semfaraa  cbe  aoko 

Tofanoite 

tcnziò,  che  qnfslo  bforo 
e  eofntmdnoU. 


Liriche  sedU  di  Patii  Jkmm^ 
ni,  versione  di  ksncnao  Db 
MiJiCHi  seghila  da  «n  Compem- 
d»  storico  deUa  ìeiiermiìsrm  te- 
desca antica  e  moderna.  Pater' 
mo,  Giomaie  di  Sicilia,  fSTQ, 
in  8.^  di  pagg.  224. 

Importano  assai  qoesle  Uri- 
che,  ffcrebò  ci  danno  mi  saggio 
del  roigUor  poetare  Akomiio  tra- 
sportato molto  nofaflmenie  nd  no- 
stro nazionale  linguaggio.  Ma  im- 
portano anche  più,  a  nostro  aniso^ 
le  preziose  nozioni  storìcbe  di  qaeBa 
letteratura  antica  e  moderna,  esporte 
con  grande  erudizione:  si  tolgoBO 
dalla  pag.  121  e  Tanno  sino  alb 
224. 

L' Adriana  da  Castigfiooe, 
tragedia  dello  stesso  illustre  Anto- 
nio De  Marchi  (Palermo  Lanriel, 
1870)  ci  sembra  condotta  con  tutte 
le  regole  dell*  arte  e  degna  di  star 
colle  meglio  che  sicno  uscite  a 
questi  tempi. 

Storia  dell'Isola  di  Cipro  nar^ 
rata  da  Romualdo  Cannonerò. 
Parte  prima.  Imola,  Gateati, 
1870,  in  8.*»  di  pagg.  Vili  —  1 16. 
Eleganza  di  stile  e  gran  disin- 
voltura parci  che  spiccano  in  co- 
testa  operetta,  la  quale  ci  rappre- 
senta al  vivo  con  particolare  bre- 
viloquenza un  buon  perìodo  di  sto- 
ria antica.  Questo  prìmo  volume 
fa  desiderare  il  seguito  con  solle- 
citudine. Al  pregio  dell'opera  ag- 


!•«    Fa 


Favole    di    Fedro    Uberto 

Axtg\t*io,  tradotte    in    vario 

Irò  da  Cf,s\i&  CwAnA.  To- 

ParoDÌa.  1870,  in  8."  di 


ISO. 


Felicissima  v 


<  dell' illu- 


0  collega  cav.  Cesare  Ca- 
nra.  Il  nome  dell' autore  è  pà 
nolo  da  buon  tempo  per  gli  ongi- 
luli  suui  Canti  popolari,  che  gli 
piadaparono  loaidovunque. Questa 
«ersione  di  Fedro  può  slare,  per 
KWtN)  avTJso,  al  paragone  delle 
meglio  ctie  fio  qui  si  vedessero. 

NoTelle   ad  uso  dt'  Giovani, 
leelle  dal  Deeamerone  di  Gio- 
r*NNi  BoccACcro,  ìllmtrate  dai 
proffsiorv  lìa/farMa  FomaeiaTi. 
Milano.  Betloni.    1870,  in  8.° 
di  pagg.  SXIII  —  380. 
Altre  Scelte  delle  NoTelle  del 
Boccaccio  aTemmo  da   registrare 
Bd    BuUrllim    Bibliografieo    del 
Propvgrtalorc.    lodandole  con  in- 
thoocontiacimento  sopra  tutte  l'al- 
tre cbK  in  antecedenza  eransì  fatte; 
ma  coicsta  dell'  egregio   sig.  pror. 
FoniBciari  sembraci,  a  dir  vero, 
die  M  quelle  porti  il  tanto,  quoti- 
UDqvp  le  Novelle  non   sieno   che 
por  Tentiduque.  L' accorto  editore 
non  MUmeale  volle  adornare  il  suo 
Mto  d'  utilissime  note   Glologìche 
e   gramaiicoli ,  secondo   che  altri 
fece,  ma  ben  anche  si  propose  e 
cani  di   br  gustare   agli   studiosi 
Utij  que'  brani    piCi  segnalali   che 
vi  a'  incontrano,  rendendo  ragione 
ginsia  di  toro  speciali  bellezze. 

Sassi  di  bigologia  dei  ■profet- 

MOre   Sae.  HaITAELE  DI  FRANCIA. 

mVolutM  primo/,  liessina,  1S70. 

"■■         .  UV  —  98. 

..«'optra,  piena,  a  parer 
I,  di  pforonda  dottrina  e  di 


lilosofica  entdiziane,  merita  t'eaen 

Iella  ponderatamente  e  meditata  da 
chi  ne  volesse  dare  nn  adeguato 
avvisa.  Dn  questo  primo  Tascicolo 
è  a  giudicarne  assai  vantaggiosa- 
mente, e  noi  ne  diremo  qualcosa 
di  più,  compiuta  ch'ella  sia. 

Q.  Orati!    Flacci   epistola  mi 
Piiones    ex    odo    codio,    nui. 
Bibliolheeae  NeapoHlanae,  cura 
ae  studia  SciPlONis  Volpiceixab 
edita —  Dell'arte  poetica   di 
0-   Orasia  Fiacco,  versione  di 
Scipione    Volpicella,    Napoli. 
Lombardi,     1870,    in    S°    Di 
pagg.  56. 
Fra  la  moltiplicità  delle  ver- 
sioni dell'  atlegaln  operetta,  cotesta 
del  sig.  cwfalier  Volpicella  &  senza 
dubbia   una    delle    pi(i   fedeli    ed 
eleganti.  Ha  per  soprappiù  il  testo 
latino  a  fronte,  pubblicato  conforme 
alle  lezioni   di    otto  codici  mano- 
scritli,  che  presentano  talvolta  va- 
rietà di  lezioni  importantissime. 

Breve  dell'arte  degli  ora/i  Sen^ 

si,  testo  di  lingua  pubblicato 

con    noie    da  ÌAichkie    Dello 

tlusso.  Napoli,  Ferrante.  1870, 

m  8."  Di  pagg.  60. 

È  un   buon   testo  in  lingua 

sanese,  che  il   Sig.    Dello   Russo, 

instancalnle  pnbblicatorc  di  antiche 

scritture,  ha  ullimamenln  riprodotto 

a  bene  degli  studiosi.  Non  è  perd 

né  inedito  né  raro,  da  che  crasi 

S'à  prodotto  lino  dal  1839  dal 
>tl,  Giovanni  Cave,  e  poscia,  nel 
1854,  dal  doti.  G'  Milanesi, 

Ricordo  di  Michele  Pitrantoni, 
per  Emuco  RiiiOLn.  Lucca,eoi 
tipi  di  B.  Canovetii,  1870,  in 
8."  Di  pagg.  BS. 

Pietoso  uflicjo  fornì  il  signor 
Enrica  Itidolfi  nel  dettare  e  pub- 
blicare cotesto  Kicordo  d'un  affe- 
zionalo amico  e  d'  un  egregio  )et- 


—  222  — 


tifato  ìlaiaBo,  U  cui  immatara 
morte  Doo  è  imi  abtastania  com- 
ponu,  e  noi  giene  trìbatìamo  le 
Dìà  sÌDgobrì  grazie.  Egli  il  fece 
da  TalemaoiDO  come  è,  e  lasciò 
proTa  di  verace  amistà,  di  pietoso 
Cittadino  e  dì  Taknte  scrittore. 

Sonetti  jopra   rari  argomenii 

dtl  ML   Cat.  LCC\   VlVARKLU 

ora    insieme    raceoìti.    hnola, 
Gùleati,  1870,  in  8.'  Dipa9g,Z± 

n  nome  dd  sig.  caf.  Tivardli 
è  oggìmai  noto  amstania  per  la 
Tanrtà  e  moltiplicità  de'  suoi  com- 
ponimenti in  prosa  ed  in  tersi  :  più 
Tolte  aTemmo  cagione  di  fore  ricor- 
do di  cotesti  suoi  kiTorì,  e  più  Tolte 
accreditati  giornali  d'Italia  gliene 
tributarono  meritate  lodi,  quindi 
noi  non  ci  diffonderemo  su  questa 
raccolta  di  ^  Sonetti  di  Tario 
argomento,  pubblicata  per  nozze, 
contentandoci  soltanto  di  dare  un 
componimento  per  saggio,  affinchè 
il  pubblico  giudichi  un  poco  di  per 
sé  stesso. 

n  MORTE  DEL  PROF.  G.  GIBELU 


^1  it^f  4*uiiciiia  iifaiitt 
lai,  tnàè  lirlt,  •  filiti  4i«l  rictilti 
Ptilr*  il  ai*  ciir!  C«bc  ìi  ii  huf  hii  ? «lu 
Opi  HiTÌt«  ài  aii  f iti  il  piait«  ! 

Nii  hiic  ulte,  Bi  èli  feri  ii  tuli 
CneiHc  aair  ci  iiii  entri  U  tUlt« 
lifirlar,  che  fial  lel  fiig«  arralta 
U  WIU  Itile  che  fi  lettre  raite. 

Ifli  celi*  irai  i\  Seta  l' errare 
A  eeakatter  t'  aceiite,  e  tatti  i  taggi 
Slipiniie  (1)  il  léir  tute  ralere  ; 

le  leitii  ceglì  eteapli:  tà  er,  ae  latte! 
Sem  Ili  tei  piiieti  erbe  ài  riggi, 
Ile  te  che  finger  lerri  il  fredde  tute. 

Senofonte,  Ricordi  di  Socrate: 
Saggio  di  volgarizsamento  di 

(l)  S'allude  al  suo  libro  sui  prìncipi 
di  letteratura  che  quanto  prima  verrà  m 
iure. 


Enea  Pigcolominl  In  Firense 
coi  tijpi  di  M.  CeUini,  1870, 
in  S,^  Di  pagg.  18. 

Consiste  questo  prezioso  sarao 
nella  Tersione  dei  Capitoli  n,  vii, 
VI  del  Libro  D,  e  del  lU  dei  Ri- 
cordi di  Socrate  :  ce  ne  par  bene 
assai,  e  ce  ne  congratuliamo  col- 
r  egregio  traduttore. 

Due  Centurie  delle  iscrizioni 
italiane  di  Carlo  Pepou.  Bo- 
logna, Romagnoli^  1869,  in  8.^ 
Di  pagg.  96. 

In  questo  fascicolo  non  si 
contiene  che  la  sola  prima  Oenith 
ria:  in  uno  successito  siconterri 
la  seconda.  Noi  non  sapremmo  di- 
Tisare  se  il  celebre  autore  sia  pift 
benemerito  cittadino  o  Taloroso 
letterato.  La  fama  sua  è  assai  nota 
in  Italia  e  fuori  e  non  ha  Msogno 
delle  nostre  parole  di  lode.  Bene 
noi  non  ci  rimarremo  dal  dire, 
che  in  questa  raccolta  di  epigrafi 
Te  n*  ha  parecchie,  che  non  si 
Terffognereobero  andar  del  pari  con 
quelle  de'  più  illustri  epigrafisti  iti- 
lianL 

Topographia  lunensis  orae  Car- 
men Baltassard  TARAVAsn  Ca- 
nonici sarsanensis.  Genova , 
1870,  in  8.^  Di  pagg.  28. 

È  un  caro  libriccino  messo 
fuori  dall'  egregio  signor  Achille 
Neri,  studiosissimo  del  nostro  vol- 
gare idioma:  al  testo  latino  del 
Taravasi,  che  fioriva  nel  secolo  16**, 
sta  di  fronte  una  buona  Tersione 
in  terza  rima  d'Anonimo  de' tempi 
nostri.  In  fine  non  mancano  assai 
note  storiche  ad  illustraxione  del 
testo.  * 

Memorie  care.  Imola^  Goleati^ 
1870,  in  8.*'  grande.  Di  pagg.  ia 

È  il  conte  Pietro  Codronchi 
che  dedica  alle  nozze  Rufini-Vi^eti 
coleste  Memorie  care,  che  consisto- 


no  io  Olio  brevi  poeiici  e  leggiadri 
componJniFiili.  Un  cuore  pieno  d'at- 
retti,  un  mimo  gentile,  seosi  i  pib 
nobili  ci  sembra  che  spirino  d'ogni 
lato  cotesti  Tersi.  A  prova  dì  quanto 
dissi,  eccone  un  saggio: 

V ORFANELLA 


U,  U  I1.L..'^Ì:  FiDciuTli.  chs  biH 
Ed  fiU*.  &j>]nrBtida  :  OgEi  hn  perdiiLo 

U  «*rdu  «Bla.  povimi  hodiilli, 
CU  U  «nbrll?...  Quella  Bum  vure  ^ 

Redole  grammaticali  fier  gli 
aluniii  lU'lla  2.'  classe  elenu'n- 
lart  'kl  Prof.  Pasqumj;  Piazza. 

ÉPaiermo,  tip.  Mirto.  1870,  in 
9.'  Di  Pm-  32. 
Queste  BtgoU  grammatieaii, 
e  non  sono  che  un  compendio 
d'opera  maggiore  dello  stesso  illu- 
Kre  Lelt4?ratD,  esposte  con  brevilì, 
DM  con  lingnlarc  chiarezza,  debbono 
loniar  di  ^ndc  utile  agli  studiosi 
Alile  classi  dcmeniarì,  e  noi  ne 
ónA  tabnenle  conTinti,  che  se 
■TCSsimo  giovanelli  così  (alti  da 
ammaestrare,  tosto  lo  adotteremmo 
ndb  nostra  Scuola. 

CommemoraBÌone  ikl  dottore 

Fr-WcescoGrott  ANELLI  tiiì'5an- 

li  da    Siena  Idrato,    Guaiti, 

1870/,  "i  8."  Di  fogg.  30. 

QoMto  breve  Commentario  6 

odio  or  ora:  appartiene  all'aurea 

paioa  dell'  illastre  Mons.  E.  D.  r. 

di  V.  e  P.  In  e&so  Tan  bella  piova 

inmane  la  pietà,  il  caldo  alTcìto  e 

l'deeanio  "^"^  dicitura:  v'ha  tutto 

eiA  insomma  die  si  possa  desiderare 

di  tncglin  in  un  leggiadro  compo- 

oiiDrntoi   stccliÉ  la    memoria   del 

Imo  e  buon  Crottanelli  ne  vico 


proprio  onorau.  In  Qnc,  alle  Noie, 
si  produsse  una  breve  lettera  di  F. 
Zambrìni,  indirllla  al  Groil^nelli 
medesimo  sin  dalli  19  gennaio  del 
1868,  colla  quale  egli  invitava  quel 
bcnenierito  a  collaborare  nel  Perio- 
dico il  Ptvpugiialore.  Ma  chi  ebbe 
cura  della  stam;»  non  scrini  Tedollà 
all'originale,  lasciando  correre  d'Ap- 
pendi-ee  della  Collezione  iovece  di 
Oli  Appendice  della  CoUetìone,  e 
più  sotto  insana  di  popoli  per 
iruana  di  ipoeriU:  ÒA  ad  amore 
del  vero. 


Firensi\  Tiitiigra/ia  del  Voca- 
bolario, 18fi9  (1870),  mS."  Di 
paijg.  X\IV.ÌU. 

Sono  preceduti  da  una  dedi- 
catoria al  Marchese  Ferdinando  Pan- 
ciatìchi  Simejies,  cui  succedono 
Giudisii  di  chiarissimi  Latlerali 
e  Poeti  italiani  sui  versi  contenuti 
nella  «itata  raccolta.  Ai  GiudUii 
tengon  dietro  in  primo  luogo  le 
llitne  Erotiche,  poi  le  BÌ7m  varie, 
indi  le  Rime  Politiche  e  le  Bttrui 
Saere.  Sta  in  ultimo  la  tragedia 
Giulio  e  Romeo.  Secondo  il  nostro 
avvisa,  le  Binus  Erotiche  sono  le 
meglio  del  volume,  sicchf^  queste 
preferiamo  a  tutte  l'altre,  quantun- 
que in  tutte  il  discreto  leggitore 
poirA    cogliere    lì  ori. 

Anche  il  sig.  dotL  Pancinlicbi 
fece  r  onore  al  Zambrioi  di  produrre 
fra  ì  Giudica  una  sua  Lettera 
conliJenziale,  ina  rpiivi  incorsero 
alcuni  erromzxi,  che  propriamente 
non  uscirono,  conforme  veniamo 
assicurati,  dalla  penna  di  lui.  A 
cag.  d'es.:  alla  pag.  XVIIIJin.  20: 
merito  d' alloro,  invece  di  mirto 
td  alloro.  Ed  ivi  pure,  lin.  33; 
stm»  che  gli  si  apparecchi  un 
briecioi  di  bene;  in  iscambio  di: 
icnsa  che  gli  ti  appiccichi  un 
briceiot  dì  bene. 


i 


-^  224  — 


Lettere  di  Andrea  Bdonsignori 
Oratore  senese  in  Firenze  in- 
torno alla  morte  di  Lorenzo  il 
Magnifico,  con  le  risposte  della 
Balìa  di  Siena,  ora  per  la 
prima  wlta  pubblicate  da  Ce- 
sare Paoli.  Siena,  BargeUini, 
MDCCCLXX,  in  8."  di  pagg.  24. 

È  un  prezioso  opuscolo  pub- 
blicato per  nozze  dal  sig.  Cesare 
Paoli  Le  leltere  sono  5,  e  to- 
fflìonsi  risguardare  per  altrettanti 
documenti  storici  :  furon  tratte  dal- 
l' Archivia  di  Stato  senese.  Non  è 
libro  venale. 

Lettere  inedite  di  donne  illih 
stri  italiane^  dei  secoli  XV  e 
X  VI  temperatamerUe  ridotte  al- 
la grafCa  moderna,  Padova, 
Seminario,  MDCCCLXX,  in  8.*» 
di  pagg,  16. 

Pubblicazione  non  venale,  fatta 
per  nozze  dal  sig.  ProC  Cav.  Fer- 
rato. Le  lettere  sono  VI  e  a  detto 
dell'illustre  editore  ricche  di  quella 
naturalezza,  di  quella  sponta- 
neità, di  queW  abbandono  che 
formano  il  vero  carattere  della 
lettera,  eh' è  appunto  l'imitazixh 
ne  del  parlar  famigliare.  Appar- 
tengono ai  sec.  XV  e  XVI:  ruron 
tratte  dall*  archivio  centrale  dì  stato 
di  Firenze. 

Novella  inedita  d' autore  senese 
del  sec.  XVI.  Livorno,  Vigo, 
1870,  in  8.^  di  pagg.  24. 

Rara  pubblicazione  dell* instan- 
cabile sig.  Giovanni  Pepanti.  Que- 
sta Novella  che  Gn  qui  era  rimasa 
inedita,  fu  tratta  da  un  codice 
della  Biblioteca  livornese.  Quantun- 
que la  sintassi  qui  e  qua  sia  un 
{>oco  intralciata  ed  oscura,  pur 
eggesi   molto    volontieri   per  gli 


strani  accidenti  che  via  via  fra  di 
lor  si  succedono.  Lo  stile  e  la  lin- 
gua sono  conformi  a  quelli  degli 
altri  novellatori  della  medesima  età. 
Se  ne  impressero  soli  sessanta  e- 
semplari  per  ordine  numerati  in 
diverse  carte  distinte  e  quattro  in 
pergamena. 

Novella  inedita  d'  ignoto  autore 

del  secolo  X  VII  In  Livorno  Tip, 

di  Frane.  Vigo,  i870,  in  8.*»  di 

pagg.  16. 

Pubblicazione  dello  stesso  sig. 

Papanti.  La  Novella  riguarda  un' 

astuzia  d'un  segretario  del  Duca 

di  Modena  per  mugner  danari  a 

un  Ebreo.  Fu  tratta  da  un  cod. 

Palat  di  Firenze.  Se  ne  tirarono 

soli  sessanta  esemplari  in  diverse 

carte  distinte  e  tre  in  pergamena. 

Il  Timore,  Novella  friulana  di 
Angelo   Dalmistro.    Livorno , 
Vigo,  1 870,  in  8.°di  pagg.  XIV-U. 
Fu  tratta  da  un  cod.  della 
Bibl.  Patriarcale  del  Semin.  di  Ve- 
nezia, ed  ora  pubbl.  dal  si^.  Pa- 
panti in  soli   75  ess.  in  diverse 
carte  distinte,  fra' quali  tre  in  per- 
gamena. In  fine  sta  un'altra  No- 
velletta, intitolata  t  due  Medici. 

Detti  e  fatti   curiosi  e  faceti 
di  Antonmaria  Biscioni  fioren- 
tino per  la  prima  volta  stam- 
pati sopra  V  autografo  (Livor- 
no, Vannini),  1870,  in  8.*  di 
pagg.  24. 
Elegantissima  edizione  di  soli 
16  esemplari  tutti  per  ordine  nume- 
rati, dei  quali  tre  in  perj^mena. 
È  proprio  un  caro  libnccmo,  pel 
quale  i  raccoglitori  di  Novelle  deb- 
bono  saperne  buon  grado  al  so- 
lerte editore,  sig.  Giovanni  Papanti. 

X. 


LE  PRETESE  AMATE  DI  DANTE 

DI  e  F.  BERGNANN 


Uno  de' più  iilusti'i  cultori  degli  studìi  dantesclii  fuori 
■Italia  è  senza  dubbio  il  prof^  Guglielmo  Federigo  Berg- 
Dncano  della  Facoltà  di  Lettere  di  Strasburgo  e 
ibro  di  quella  Società  Letteraria.  Da  olire  a  sei  anni 
i  attende  alla  pubblicazione  d'importanti  lavori  sopra 
\jOiMnmedia  e  le  Opere  Muori  del  divino  Poeta:  ed  essi 
1  da  tenere  in  molta  estimazione  non  solo  per  l' assen- 
Eza  delle  opinioni,  ma  ancJie  per  la  grande  e  svariata 
scenza  che  l' Autore  vi  mostra  della  letteratura  italiana 
1^  de*  suoi  classici  scrittori.  In  conferma  di  ciò  accade 
lare  come  la  sola  Vision  de  Dante  au  Paradis  ter- 
re, stampata  per  la  prima  volta  in  Parij^i  (Imprìmerìe 
iale  1865)  e  ristampata  a  Colmar  in  Alsazia,  (Imp.  et 
.  Deker)  sia  stata  tradotta  in  italiano  e  accolta  bene- 
mie  da  questo  stesso  Periodico  (Il  Propugnatore, 
an.  I.  disp.  V,  gennaio-febbraio  1869).  Che  se  fegual 
sorte  non  è  toccata  ad  altri  opuscoli  del  valente  Autore, 
egli  è  a  lamentare  che  in  Italia  rimangano  tuttavia  ignorate 
molte  opere  profittevoli  risguardanti  assai  da  vicino  le  cose 
italiane,  e  che.  conosciute,  con  colpevole  trascuranza  si 
tengano  in  non  cale.  Cosi,  come  og^  a' nostri  dantofili  si  fa 
maiiiresto  il  giudizio  del  Bei^mann  sulla  visione  che  Dante 
Mippotu'  di  aver  avuto  al  i'aradisu  (erreslre  a  sulle  forme 

IM 


1 


—  226  — 

simboliche  da  lui  adoperate  neir  esprimere  i  suoi  pen- 
sieri; farebbesi  del  pari  nolo  ciò  che  il  dotto  Professore 
meditò  e  scrisse  della  Poesia  lirica  nelle  Opere  di  Dante 
e  di  Dante  poeta  didascalico^  nelle  lettere  su  Dante,  sa 
vie  et  ses  ceuvres  (Paris,  Impr.  Martinet  1865);  di  alcuni 
passi  della  Divina  Commedia  travisati  o  fraintesi  da'  co- 
mentari,  negli  articoli  di  Explication  de  quelques  passages 
faussement  interprélés  de  la  Comédie  de  Dante,  (Paris, 
Impr.  imp.  1865);  e  delle  Sestine  di  Dante,  che  pure  son 
da  credere  pubblicate  prima  in  italiano  a  Bologna  che  in 
francese  a  Strasburgo  o  altrove/  —  Auguriamoci  che  pre- 
sto cessi  per  noi  tanta  indifferenza,  sì  che  aMolti  forestieri, 
i  quali  prendono  affettuosa  cura  delle  cose  nostre,  ne 
venga  riconoscenza  e  conforto. 

Intanto  un  nuovo  lavoro  del  Bergmann  è  venuto  in 
luce  testé  a  Strasburgo  intorno  alle  opere  dantesche;  ed 
esso  è  tale  che  per  P  argomento,  per  la  maniera  ond'è 
trattato  e  pe' documenti  su  cui  si  fonda,  può  reputarsi 
superiore  agli  allri  del  nostro  Autore  e  non  ultimo  tra' 
molti  scritti  stranieri  su  Dante.  Il  suo  titolo  è:  Les  pré- 
tendnes  Mailresses  de  Dante,  e  leggesi  da  pagina  306  a 
pag.  377  del  voi.  IV  del  Bulletin  de  la  Société  Littéraire 
de  Strasbourg.  Tale  Bui  lettino  corre  in  iscxirso  numero 
di  copie  fuori  d' Italia,  ed  essendo  quasi  ignorato  tra  noi, 
ho  creduto  non  dover  riuscire  inutile  una  traduzione  ita- 
liana di  quel  saggio  critico,  ed  ora  la  pubblico  per  amo- 
revole eccitamento  delT  illustre  Comm.  Zambrini,  cui  la 
R.  Commissione  po'  Testi  di  Lingua  deve  la  nxonfe  aggre- 
gazione del  prof.  G.  F.  Bergmann. 

Nelle  prétendms  MaUresses  de  Dante  V  A.  proponesi 
mostrare  che  per  una  falsa  interpretazione  di  alcuni  testi 
danteschi  si  è  giunto  ad  attribuire  a  Dante  fino  a  sette 
amate,  o  amanti,  o  innanìorale:  Beatrice  Portinari,  la  Pietà 
0   la   Consolatrice,    la   Pargoletta,    Genturca    di    Lucca, 


—  227  — 

E*  Alpigiana,  Pietra  degli  Scrovigni  e  Lisetta.  In  altrettanti 
articoli  l'egregio  critico  chiarisce  i  passi  che  riferisconsi 
a  quesli  nomi:  e,  cominciando  dalla  Figlia  di  Folco,  fa 
osservare  come,-  personaggio  reale,  terrestre  in  origine,  ella 
fosse  dicenula  in  processo  di  tempo  simbolo  della  beati- 
tudine,  dama  de' pensieri  nelle  ballate,  personifìcazione 
della  beatitudine  generale  e  però  Genio  del  Cristianesimo 
nella  Divina  Commedia.  Morta  Beatrice,  Dante  cercò  e 
trovò  consolazione  all'  animo  suo  nella  filosofìa  e  cantolla 
in  Dna  serie  di  liriche  e  la  incarnò  in  Gemma  de'Donati; 
se  non  che,  convinto  che  la  filosofia,  questa  fglìn  ilell' im- 
peratore deir universo,  debba  esser  l'ancella  della  religione, 
e  cbe  quindi  la  Consolatrice  non  possa  tener  luogo  di 
fede  cristiana,  tornalo  al  suo  primo  amore,  cioè  a  Beatrice, 
alla  religione,  egli  guardò  la  sua  passione  per  la  fìlosofìa 
come  una  specie  d'  infedeltà  commessa  agli  occhi  della 
vera  amata,  che  è  il  Genio  del  Cristianesimo. 

I,a  Pargoletta  è  la  stessa  della  Consolatrice;  quindi 
la  filosofia  è  l'Ancella  della  religione:  l'amore  della  Par- 
goletta, di  cui  è  fatto  cenno  nel  Paradiso  terrestre,  è 
uoa  chiara  offesa  all'  antico  amore  di  Beatrice  beatificante. 
Intorno  alla  Gentucca  V  A.  fermasi  sulla  spiegazione  de' 
Tersi  34-93  del  C.  XXIV  del  Purgatorio,  in  cui  ha  luogo 
lo  incontro  di  Dante  col  lucchese  Bonagiunta,  che  dà  lode 
al  fiorentino  del  dolce  stile  non  piìi  udito  delle  sue  can- 
zoni; siile  non  adatto  alla  moltitudine,  alta  Gentucca.  Nella 
Alpigna  n  Montanina,  sesta  delle  prétendues  maitresses, 
Bergmanii  vede  il  nome  poetico  di  una  delle  canzoni  cbe 
Dante  esiliato  indirizzò  alla  sua  donna  crudele,  Firenze,  per 
cattivarsi  T  animo  della  parte  Nera,  e  preparare  il  suo 
ritorno  in  palria.  In  due  sole  sestine  è  cennato  il  nome 
Pietra,  ma  esso  non  richiama  a  nessuna  donna;  pel  Ber- 
gmann  vi  è  un'allusione  all'alloro,  simbolo  dell'ispirazione 
imelwa.  La  Li*eua  fìnalmente  non  comparisce  per  verun 


k 


«HO   sci  erraci    eff  rÙDBt*r.  ^àm-  tit  ooM  laraote 
X   éimm   -L  n    *^ni;f-::'   £   -n  i  a^n»  ?MCa  pvla  dei- 

rsrwr-  -  oS.ijA  SUI  i«iBda3  e  pensieri 
wn^rr^j  jci  -TT'-r  :Tizn  nfcrir*!!  *  rinniiiiaiifi^i  Dante: 
^£1  liL'y  «rissai  -^ui  auiia  ciCwf  i  Boccaccio 
:  Tr-iin:  i  zrawb  ?'»i«i  &rsflUiK<  Forse  noo 
nmt  -  T«T».  >  Ulti,  ai-^ì^saoiie  ii  onssa»  biwt>,  cbè 
n  ini  i'  ir.i  in-<:  >!r  i»^  -i-warroia  arm^axi  Y  \,  va 
T-.Tip  ..tr-  ->-'.*  :*f-^T>jr-  Tw  va— f  -fjt  te  f«efa  per  m» 
"a  Tk^'dt  iTTTj-  ,v  <ii.ii.s  n  ina  -?rà  impcvUnle  mo- 
>'i5tk:  •  r -san    ^r.r»-!     i    Ts-    fi  rw^sTf  rorazana 


■^Ht-'T».*.     H«  •<!:     tV"'!. 


G-  PirmÈ 


>i]lro  r  errore  e  la  calunnia, 
la  rìTendiciizìonc  della  t  eri  là 
e  della  giustizia  è  elurna. 


I. 


Un  uomo  politico ,  parlando  de'  suoi  avversari ,  disse 
I  volta:  «  Costoro  vogliono  esser  liberi  e  non  sanno 
-  giusti,  ■  significando  con  ciò  die  la  giustizia  sia  cod- 
ì  della  libertà.  Alla  lettura  di  alcuni  lavoii  letterari 
lerni  si  potrebbe  egualmente  dire  de'  loro  autori: 
gliono  esser  letterati,  e  non  sanno  interpretare  i 
I  lesti:  ■  intendendosi  che  la  spiegazione  filologica  sia 
:  di  ogni  conoscenza  letteraria.  Codesta  verità  può 
tarsi  allo  spesso,  specialmente  a  proposito  degli  scritti 
I  cinque  secoli  in  qua  sono  st^ti  pubblicati  sulla  vita 
ì  opere  di  Dante,  il  maggior  numero  de'  quali,  per 
felsa  interpretazione  de'  testi,  sono  sparsi  di  errori  sì  gravi, 
che  la  vera  intelligenza  delle  liriciie  e  della  Divina  Com- 
media del  grande  Poeta  fiorentino  è  divenuta  cosa  molto 
ditBcile.  Egli  è  così  che  fino  a  sette  amate  si  è  giunto  ad 
attribuire  a  Dante:  1'  Beatrice  de"  Portinarì;  2°  la  Con- 
tolatrice  o  la  Pielà;  3"  ta  Pargolella;  i"  Genfucca  di  Lucca; 
5'  r  Alpiyna  dell'  alta  valle  del  Casentino;  6°  Pietra  degli 
Scrovigni  di  Padova;  T  finalme'nlo  la  Lisetta.  —  Noi  ri- 
feriremo i  passi  a'  quali  sì  è  credulo  potersi  appoggiare 
per  ammettere  V  esistenza  di  queste  pretese  amanti.  Biso- 
gnerà dar  la  vera  spiegazione  di  tali  passi;  provare  che  la 
maggior  parte  di  queste  donne  o  fanciulle  non  sieno  altri- 
menti esistite  che  nella  immaginazione  de' comentatori ,  e 
die  anco  riguardo   alle  donne  realmente  esistite  1'  amore 


i 


—  230  — 

che  Dante  volò  e  cantò  loro  ne'  suoi  versi ,  sia  stato  tanto 
platonico  e  metafisico  da  non  aversene  più  veruna  traccia; 
amore  che  la  maggior  parte  de'  trovatori  provarono  per 
le  loro  amate  o  per  le  dame  de'  loro  pensieri. 


n. 


Beatirloe  de'  Portina.x'i. 

ET  non  è  da  porsi  in  dubbio:  Beatrice  fu  un  personaggio 
reale;  tale  però  che  dopo  la  morte  venne  nella  poesia  di 
Dante  trasfigurata  in  un  personaggio  simbolico.  Beatrice  fu 
figlia  del  fiorentino  Folco  de'  Porlinari.  Nel  1274  Dante, 
novenne  appena,  condotto  dal  padre  a  una  festa  in  casa 
di  Folco,  vide  per  la  prima  volta  Beatrice,  inferiore  a  Ini 
d'un  anno,  bella,  graziosa,  amabile,  la  quale  senza  par- 
lare gli  produsse  una  passione  indelebile.  Ricordiamo  a 
questo  proposito  che  ad  otto  anni  Lord  Byron  innamorò 
d' una  fanciulla  nominata  Mary  DufT.  «  Non  è  egli  strano, 
scriveva  17  anni  dopo  lo  stesso  Byron,  che  io  sia  stato 
così  perdutamente  preso  di  questa  fanciulla  a  un'età  in 
cui  non  potevo  sentir  l'amore,  né  comprendere  il  signi- 
ficato di  questa  parola  ? . . .  Io  ricordo  tutto  quanto  ci  dice- 
vamo r  un  l'altro,  le  nostre  carezze,  le  sue  maniere;  io 
non  avevo  più  riposo ,  né  poteva  dormire La  mia  an- 
goscia ,  r  amor  mio  era  così  violento  che  talvolta  io  chiedo 
a  me  stesso  se  abbia  sentito  dipoi  altro  amore  verace.  Al- 
lorché ebbi  appreso  più  tardi  il  matrimonio  di  lei,  mi  sentii 
colpito  come  da  fulmine,  venni  meno,  caddi  quasi  in  con- 
vulsione. »  (1) 


(1)  Taine.  Histoire  de  la  liUérature  angìaise,  HI,  p.  545. 


Qu^ta  stiDsibililà  [jteiualura  sì  comprende  iicU'  indole 
ardente  di  questi  due  raaciulli,  poeti  predestinali;  ma  per 
apprezzar  secondo  verità  questo  amore  pieooce,  bisogna 
SMmar  la  parie  di  passione  che  Danle  e  Uyron  vi  aggiunsero 
poi  con  intelligenza,  l'uno  dopo  più  die  15  anni  traspor- 
tando alta  sua  infanzia  la  passione  della  sua  giovinezza, 
r  altro,  suir  esempio  di  Danle,  prestando  17  anni  piii  lardi 
uo  carattere  un  po^  romanzesco  a  un^  afTezione  infantile. 
Questa  sensibilità  non  era  ancora  una  passione  amorosa 
avvivata  dall'  ardor  della  giovinezza;  era  un  amore  come, 
secondo  T espressione  di  Vittorio  Hugo,  «  l'alba  è  del  sole.  » 
Era  un  comìnciamento  d' amore  adolescente ,  cioè  un'  affe- 
zione pura  e  vergine,  ove  V  istinto  sessuale  non  s' è  ancora 
espanso,  ma  si  reprime  pel  rispetto  che  ispira  la  fanciulla 
al  giovane,  il  quale  adora  in  lei  un  essere  nobile,  angelico, 
divino.  Cosi  nella  Vita  nuova,  parlando  come  d'un  ricordo 
del  suo  affetto  per  Beatrice,  Dante  scrìve:  <>  Ed  avvegnaché 
la  sua  immagine,  la  quale  continuamente  meco  stava ^  fosse 
baldanza  d' amore  a  signoreggiarmi ,  tuttavia  era  dì  sì  nobi- 
lissima vìrlù,  che  nulla  volta  sofferse  die  Amore  mi  reg- 
gesse senza  il  fedele  consiglio  della  ragione  in  quelle  cose 
là  dove  cotal  consiglio  fosse  utile  a  udire.  <•  Fin  qui  per- 
tanto codesta  passione  niente  avea  di  simile  con  un  amor 
vero, né  tampoco  con  un  amor  di  tiovatore.  Per  nove  anni 
il  giovane  Dante  vide  di  tempo  ìd  tempo  Beatrice,  ma 
oon  le  parlò  nessuna  volta. 

L'affezione  che  Dante,  fanciullo  ancora,  avea  sentito 
per  lei,  entrò  naturalmente  in  un  nuovo  periodo  e  pre- 
sentò una  nuova  mutazione  senza  perder  nulla  della  sua 
primitiva  purezza  si  tosto  come  egli  divenne  giovane.  Fu 
allora  che  Danle  cominciò  a  farsi  innanzi  come  poeta,  e 
a  celebrare  ne'  suoi  cauli  di  trovatore  la  dama  de'  suoi 
pensieri. 

Il  carattere  distintivo  della  poesìa  amorosa  de'  trovatori 


k 


.      „  282  — 

si  conosce.  Questa  poesia  s' è  formata  pel  connubio  di  due 
elementi  aiQni,  i  quali  difTerìscono  solo  nella  loro  orìgine 
storica  :  V  amor  platonico,  e  la  galanteria  cavalleresca ,  con- 
seguenza naturale  de'  costumi  delle  classi  elevate  e  della 
società  feudale.  Infatti ,  secondo  V  idea  poetica  che  s' era 
formata  de'  doveri  della  gerarchia  feudale ,  il  cavaliere  vas- 
sallo dovea  omaggio,  fedeltà  ed  amore  non  pur  al  suo 
signore  o  padrone,  ma  altresì  alla  sposa,  o  air  amata,  altri- 
menti detta  dama,  di  luì.  La  galanteria  cavalleresca  dunque, 
sotto  altra  specie,  era  la  forma  feudale  dell'amor  plato- 
nico, e  costituiva,  per  un  certo  legame  con  esso,  ciò  che 
si  addimanda  amor  cavalleresco  ;  il  quale  veniva  riguardato 
non  come  passione  de'  sensi ,  ma  come  virtù  dell'  anima, 
sorgente  d' ogni  virtù  e  di  ogni  merito  cavalleresco;  intanto 
che  nella  pratica  la  galanteria  o  l'amor  cavalleresco  de' tro- 
vatori non  riusciva  che  di  rado  a  mantenersi  nella  sua 
purezza  e  nel  suo  ideale  teorico.  Questo  il  pericolo  eh'  essa 
presenterà  in  tutti  i  tempi:  il  trovarsi  posta  come  su 
sdrucciolevole  pendio,  ove  il  culto  disinteressato  della  dama 
corre,  senza  posa,  pericolo  di  finire  in  una  passione  sen- 
suale, rivolgentesi  alla  donna.  L'Alighieri  cantando  nel  1283 
della  sua  Beatrice  volle  tentar  di  vincere  la  forma  poco 
elevata  della  poesia  amorosa  de'  trovatori  contemporanei 
d' Italia  e  di  Provenza  ;  ma  bentosto,  più  sicuro  di  sé ,  ob- 
bedendo all'  indole  sua,  a'  suoi  gusti,  al  suo  genio,  iniziato 
d'avvantaggio  nel  platonismo,  ed  ispirato  soprattutto  dal-  . 
l'amor  mistico  di  S.  Francesco  d'Assisi,  non  meno  che 
dal  culto  poetico  della  SantaVergine ,  fu  il  primo  a  con- 
cepire ciò  che  egli  addimandò  intelletto  d'  amore ,  cioè 
r  ideale ,  l' essenza  del  vero  amore ,  dell'  amore  spirituale. 
Fondò  insieme  con  alcuni  poeti  suoi  amici  la  compagnia 
de'  Fedeli  d'  amore ,  nella  quale  faceasi  voto  di  fedeltà 
all'  amore  delle  cose  celesti  e  divine  ;  onde  le  nobili  donne 
cantate  nelle  lor  poesie  venivano  considerate  personificazione 


—  23a  — 

o  stmbolfl  terrestre,  liifalii,  come  nulb  poesia  drammatica 
e  didatlrca  di  quel  tempo  erasi  introdotto  l'uso  di  perso- 
nifìrare  le  idee  e  le  qualità  morali  in  donne  allegoriche 
fittizie,  p.  e.  nella  donna  Bontà,  nella  donna  Giustizia;  così 
seguendo  un  processo  differente  ma  analogo,  doveva  esser 
ben  naturale  che  si  considerassero  certe  donne  viventi  o 
storiche  come  personificazione  di  ci'rte  virtii  e  qualità 
metafisiche. 

Il  giovane  Dante  scelse ,  per  consepiienza ,  irn  le  donne 
e  le  fanciulle  fiorentine  sessanta  le  più  lielle  e  più  savie, 
e  in  ciascuna  di  esso  rappresentò  la  qualità  morale  che 
j(li  parve  predominasse  in  lei  o  venisse  significata  dal  nome 
di  liallesimo:  Lucia.  Giovanna,  Matelda,  Beatrice.  0"est'nl- 
lima,  h  figlia  di  Folco  Portinari,  fu  la  donna  che  egli  elesse 
e  preferi  tra  tutte  come  soggetto  del  suo  amore  platonico, 
e  come  argomento  delle  sue  spirituali  poesie.  Questa  fan- 
cinlta,  il  cui  nome  significava  beatificante,  divenne  pel 
giovane  poeta  la  incarnazione  non  solo  della  beatiliidine, 
cioè  della  felicità  suprema  che  ella  gli  diede  in  vita  mercè 
la  vista  della  sua  bontà  e  della  sua  virtù,  ma  altresì  della 
felicitò  che  apprestavagli  incielo  con  l'amore  della  verità, 
della  santità  e  delta  giustizia  eterna  che  gli  ispirava. 

Dante  celebrò  la  metamori'osi  che  subì  il  suo  primo 
amore  di  trovatore  in  amor  platonico  e  spirituale;  meta- 
morfosi cantata  in  un  sonetto  nel  quale  suppone  d'  aver 
avuta  una  visione ,  ove  figura  ìl  dìo  dell'  amore  terrestre 
tramutantesì  nel  dio  del r  amore  spirituale;  ed  ecco\o: 


A  ciascun'  alma  presa  e  gentil  core, 
Nel  cui  cospetto  viene  il  dir  presente, 
A  ciò  che  mi  riscrivan  suo  parvente. 
Salute  ìa  lor  signor,  cioÈ  Amore. 


—  234  — 

Già  eran  quasi  eh'  atterzale  V  ore 
Del  tempo  ch'ogni  stella  è  più  lucente. 
Quando  m'  apparve  Amor  subitamente, 
Cui  essenza  inembrar  mi  dà  orrore. 

Allegro  mi  sembrava  Amor,  tenendo 
Mio  core  in  mano,  e  nelle  braccia  avea 
Madonna,  involta  in  un  drappo,  dormendo. 

Poi  la  svegliava,  e  d'  eslo  core  ardendo 
Lei  paventosa  umilmente  pascea: 
Appresso  gir  ne  lo  vedea  piangendo. 

Questa  visione,  che  i  trovatori  cui  veane  indirizzata 
non  seppero  spiegare,  è  T espressione  poetica  della  lotta 
interna  onde  dovetr  esser  travagliato  Dante  ne'  primordi 
della  sua  vita  per  giugnere  a  decidersi  francamente  e  con 
intiera  convinzione  intorno  alla  natura  dell'  amore  eh'  egli 
accingeasi  a  cantare,  e  al  tono  che  volea  prendere  come 
trovatore  nelle  sue  poesie  amorose.  In  questa  visione, 
evidentemente  fittizia,  egli  rappresenta  il  dio  Amore,  sim- 
bolo qui  della  passione  de'  sensi ,  che  sforzasi  di  soggiogar 
Beatrice  obbligandola  a  mangiare  il  cuore  ardente  del  gio- 
vane Dante  per  affascinarla  ed  incantarla.  Ma,  poiché  ella 
dimostra  una  invincibile  ripugnanza  a  subire  il  dominio 
di  quest'amor  sensuale,  il  dio  pieno  di  dispetto  cessa 
dalle  insistenze  ed  avviasi  con  lei,  versando  lagrime  di 
dolore,  alla  regione  celeste,  ov'egli  si  trasforma  in  signore 
dell'amore  spirituale.  Beatrice  non  sarà  dunque  pel  nostro 
Poeta  un'amante,  una  donna  ordinaria,  ma  piuttosto  una 
guida  spirituale  y  la  cagione  della  terrestre  ed  eterna  bea- 
titudine di  lui.  Ed  è  appunto  in  questo  senso  elevalo  che 
bisogna  spiegare  non  solo  le  poesie  amorose  tutte  di  Dante, 
ma  anche  i  tratti  di  galanteria  della  Vita  nuova.  Noi  ricor- 
deremo che  come  l'amor  platonico  si  espresse  sovente, 
perfino  negli  inni  cristiani,  col  linguaggio  dell'amor  naturale, 
alla  stessa  maniera  Dante  stimò  dover  osservare  qualche 


—  233  — 

^oltt^etl' espressione  dell'amor  suo  spirittiatè'le  Jòrroe, 
gli  usi.  i  costumi  della  gaìanteria  cavalleresca  ile' trovatori. 
Tra  le  poesie  amorose  composte  da  Dante  in  questo  primo 
periodo,  che  corse  dal  1283  al  1287,  basta  citare  come 
esempio  un  sonetto,  nel  quale  l'amore  cantalo  dal  nostro 
Poeta  tiene  il  mezzo  tra  la  galanteria  de'  trovatori  e  l' in- 
telletto 0  l'ideale  dell'amore  di  Daute.  Il  sonetto  è  indi- 
rizzato a'  trovatori  Guido  Cavalcanti  e  Lappo  Gianni  degli 
jerti,  padre  di  Fazio: 

Guido,  vorrei  che  tu  e  Lappo  ed  io 
Fo.ssi[no  presi  per  iucanlanienict, 
E  messi  ad  un  vascel,  eh"  ad  ogni  verilo 
Per  mare  andasse  a  voler  vostro  e  mio; 

Sicché  fortuna,  od  altro  tempo  rio, 
Non  ci  potesse  dare  impodimenio; 
Anzi  vìvendo  sempre  in  noi  U  talento 
Di  slare  insieme  crescesse  "I  disio. 

E  Monna  Vanna  (1)  e  Monna  Lagia  por, 
r.0D  quella  su  il  minier  delle  trenta, 
Con  noi  ponesse  il  buon  incant;itore: 

E  quivi  i-agionar  sempre  d'  amore; 
E  ciascuna  di  lor  fosse  contenta 
Siccome  io  credo  che  sariaino  noi. 

'  (1)  Monna  l'arma  abbrcvùizionc  dì  Giovanna  (appellala  cosi  la 
i>,  i  il  nome  della  donna  toscana  di  Guido  Cavalcanti.  Lagia 
',  di  Alagia,  t  it  nome  della  donna  di  Lappo,  lo  credo  dir  debba 
leggersi  col  niaaoscrilio  uiagliabecliiano  931 ,  Logia  in  luogo  di  tiice. 
che,  leiiipltcì!  nota  inargijialc  aggiunta  per  cliìaiìre  il  verso  seguonlP.  tu 
OKSN  nel  testo  al  posto  dì  lagia.  Tra  le  60  più  tielle  e  piìi  savie  donne 
DorcDline,  Diiiiie  avea  collocata  Beatrice  le  Ireiilesima,  vale  a  dire  al  posto 
d*oDorF:  avendo  3tì  donae  alla  sua  destra  e  30  alla  sinistra.  Dame,  che 
rìforìva  uno  grande  importanza  alla  cifra  9,  mulliph  del  Ivo,  compose 
Dna  canzone  nella  quale  il  nome  dì  Beatrice  ricorreva  sempre  11  nono,  il 
dicioiimno ,  il  veniiscttesiino,  ecc.  degli  altri  nomi.  Seguendo  la  pratica 
in'  trovatori,  di  non  indicare  le  loro  donne  che  eccezionalmente  dal  nome, 
designa  qui  Beatrice  dicendo:  ■  Coler  che  in  conoscenza  de'  saoi  amici  è 
collocatu  >:ul  numero  trenta.  > 


k. 


—  236  — 

Nel  1287  Beatrice,  toccando  il  suo  ?entanesimo  anno, 
andò  sposa  a  messer  Simone  de'  Bardi.  Questo  matrimonio 
non  iscemò  per  nulla  il  culto  che  il  nostro  giovane  poeta 
avea  votato  alla  sua  donna;  crebbe  anzi  agli  occhi  di  lui 
il  merito  di  Beatrice ,  in  considei*azione  dell'  influenza  più 
efficace  che  la  condizione  sua  di  moglie  permettevale  di 
esercitare  col  suo  esempio  sullo  spirito  e  sul  cuore  delle 
donne  di  sua  conoscenza.  Ecco  come  il  nostro  Poeta,  senza 
la  menoma  ombra  di  gelosia ,  esprime  la  propria  satisfazione 
a  proposito  di  questo  matrimonio,  e  della  influenza  benefica 
eh'  esso  procurava  a  Beatrice: 

»  Questa  mia  donna  venne  in  tanta  grazia,  che  non 
solamente  ella  era  onorata  e  laudata,  ma  per  lei  erano 
onorate  e  laudate  molte.  Ond'  io  veggendo  ciò ,  e  volendol 
manifestare  a  chi  ciò  non  vedea,  proposi  anche  di  dire 
parole  nelle  quali  ciò  fosse  significato;  e  dissi  questo  so- 
netto, che  comincia:  Vede  perfettamente,  lo  quale  narra, 
come  la  sua  virtù  adoperava  nelle  altre  : 

Vede  perfettamente  ogni  salute 
Chi  la  mia  donna  fra  le  donne  vede, 
Quelle,  che  van  con  lei,  sono  tenute 
Di  bella  grazia  a  Dio  render  mercede. 

E  sua  beliate  è  di  tanta  virlute 
Che  nulla  invidia  air  altre  ne  procede; 
Anzi  le  face  andar  seco  vestule 
Di  gentilezza,  d'amore  e  di  fede. 

La  vista  sua  face  ogni  cosa  umile, 
E  non  fa  sola  sé  parer  piacente. 
Ma  ciascuna  per  lei  riceve  onore. 

Ed  è  negli  atti  suoi  tanto  gentile, 
Che  nessun  la  si  può  recare  a  mente 
Che  non  sospiri  in  dolcezza  d'Amore. 

Beatrice ,  dopo  tre  anni  sposa ,  mori  a'  9  giugno  del 
1290,  all'età  di  24  anni.  Questa  morte  fu  una  sventura 


—  237  — 

ptA  Poeta,  il  quale  siccome  avea  avuto  per  Beatrice  san- 
limenti  di  vero  amore,  perciò  non  la  pianse  nei  suoi  versi 
colle  parole  strazianti  li'  un  giovane  che  abbia  perduta  la 
sua  ridanzata;  ma  sentendo  tutta  la  gravità  delta  perdita 
che  la  sua  vita  morale  e  di  poeta  avea  fatto,  piaosela  come 
calamità  sua  e  di  tutta  la  città,  la  quale  in  Beatrice  avea 
perduto  ogni  gloria  e  splendore.  Di  che  ecco  una  strofa 
di  una  elegia  ch'egli  compose  sotto  forma  di  canzone; 

Ita  n'è  Beatrice  in  Tallo  cielo. 
Nel  reame  ove  gli  Angeli  hanno  pace, 
E  sia  con  loro;  e  voi,  donne,  ha  lisciate. 
Non  la  ci  tolse  qualità  di  gelo, 
Né  di  calor,  siccome  l'alire  face; 
Ma  sola  fu  sua  gran  benigni  tate: 
C.ìiè  luce  della  sua  umìlilate 
Passò  li  cieli  con  tante  virlule. 
Che  fé* maravigliar  l'eterno  Sire. 
SI  che  dolce  desire 
Lo  giunse  di  chiamar  tanta  salute, 
E  fella  di  quaggìiiso  a  sé  venire; 
Perchè  vedea  ch'està  vita  noiosa 
Non  era  degna  di  si  gentil  cosa. 

Morta  Beatrice ,  forse  per  dai-e  una  distrazione  al  suo 
dolore,  il  nostro  Poeta  diedesi  ardentemente  allo  studio 
delle  scienze  naturali  e  filosofiche.  Andò  a  Parigi,  e  vi  si> 
gui  il  corso  filosofico  del  Dottor  Séguter  di  Brabant  (1). 
Kitomalo  in  capo  a  un  anno  in  Firenze,  a   26   anni  vi 


(1>  ArUsd  de  Hontor,  lHiloiie  d.-  iJaut,-  AHnkirri,  p.  432.  lo 
iliino*trerA  altrove  comi;  Dante  sia  sialo  una  sola  volui  u  Parigi  prima 
dd  1 300.  CoiiiP  può  siipporsi  i^hr  Danic  nrtnìco  disila  francia  p«r  l' igno- 
bilf  condotta  di  Carlo  àc  Valois  abbia  sognalo  di  andare  a  Parigi  dopo  , 
il  1300? 


^ 


—  238  — 

prese  in  moglie  Gemma ,  figlia  di  Manelli  de^  Donati ,  le- 
gandosi cosi  con  una  delle  più  anlTche  e  nobili  famiglie 
fiorentine.  È  probabile  che  qualche  dissenso  sia  insorto 
più  tardi  tra  Gemma ,  di  famiglia  guelfa ,  e  Dante  di  parte 
ghibellina;  ma  nessun  documento  prova  quel  che  dicono 
alcuni  biografi ,  cioè  che  questo  matrimonio  sia  stato  poco 
lieto  a  cagione  della  incompatibilità  d'indole  del  marito 
e  della  moglie. 

Marito  e  ben  presto  padre  di  famìglia ,  Dante  riguar- 
dò la  prima  parte  della  sua  vita,  la  sua  gioventù,  finita 
a  25  anni;  di  lì  cominciò  la  seconda,  e  scrisse  successi- 
vamente una  nuova  serie  di  lìriche. 

Codeste  poesie,  che  seguono  la  seconda  fasi,  o  se- 
condo periodo  della  poesia  amorosa  di  Dante,  differiscono 
dalle  prime  in  questo,  che  il  soggetto  non  ne  è  più  esclu- 
sivamente la  beatUndine,  dì  cui  Beatrice  era  la  sorgente 
e  il  simbolo,  ma  la  consolazione,  che  il  Poeta,  perdutala 
sua  donna,  trovò  nella  filosofia  da  lui  soprannominata 
perciò  sua  consolatrice.  Or  come  Dante  amava  personifir  - 
care  le  scienze  e  le  virtù  in  alcune  donne  sia  fittizie  sia 
reali,  particolarmente  con  ciascuna  delle  sessanta  più  belle 
e  più  savie  donne  dì  Firenze,  delPegual  modo  nella  se- 
conda serie  delle  sue  liriche  celebrò  la  filosofia  consola- 
trice sotto  il  simbolo  d'  una  donna  che  dopo  la  morte  di 
Beatrice  avea  cercato  consolarlo  dimostrandogli  viva  com- 
passione. 

E  più  che  probabile  che  T  Alighieri,  il  quale  in  Bea- 
trice cantò  il  simbolo  della  Beatitudine,  abbia  del  pari 
cantato  in  Gemma ,  sua  fidanzata  in  prima  e  poi  sua  spo- 
sa, la  sua  Consolatrice  ovvero  il  simbolo  della  Saviezza  e 
della  Filosofia.  Gemma  significa  pietra  preziosa  (Purga- 
torio, XXIII,  31)  e  astro  celeste  o  stella  CPnrg.  IX,  4; 
Paradiso  XV,  22;  XVIII,  M5);  ed  è  sotto  la  figura 
d'una  stella  che  Dante  amava  rappresentare  la  filosofia  (V. 
più  innanzi,  IV  la  Pargoletta), 


—  2:ì9  — 

Intanto  dopo  la  morte  dì  Beatrice,  Dante  tuttoché 
amanlt;  della  Filosofia  o  di  Gemma,  sìmbolo  della  umana 
Saviezza,  s'accese  vieppiìi  nell'amor  platonico  che  avea 
sentito  per  la  sua  prima  donna.  Beatrice,  che  in  sua  vi- 
venza era  sl^ta  per  lui  simbolo  dì  salute  terrena  ed  eter- 
na, diventò  in  morte  la  personìRcazione  delia  beatitudine 
generale,  la  salute  e  lo  scudo  d'ogni  anima  cristiana,  e 
però  il  riflesso  della  Trinità,  il  Genio  del  Cristianesimo. 
Idealizzandola,  trasdguraDdola  così,  Dante  non  si  perdette 
in  an  misticismo  senza  Torma  nò  poesia.  È  proprio  de' con- 
cepimenti poetici  deirAlif^hieri  e  di  ogni  grande  poeta 
d'idealizzare  persone  e  cose  dando  loro  una  significazione 
Upica  superiore  a  quella  ch'esse  hanno  nella  natura  e 
nella  storia,  e  dì  trasfigurarle  rispetto  all'idea  senza  di- 
stniggere  la  loro  figura  storica,  le  loro  qualità  naturali, 
i  movimenti  e  gli  attributi  della  loro  vita  reale.  Per  tal 
modo  Beatrice,  sebbene  Genio  del  Cristianesimo,  nella  poe- 
sia dantesca  non  è  una  semplice  figura  allegorica,  né  un'  idea 
a:stratta  personificala  in  una  donna  senza  realtà,  senza 
vita,  senza  individualità.  Ecco  perchè  alcuni  illustri  scrit- 
tori, tra' quali  Claudio  Fanriel,  ingannati  da  questa  Torma 
gwetica  tanto  concreta  di  Beatrice,  non  hanno  saputo  o 
roliitn  comprendere  che  questa  figlia  dì  Folco  Portinari 
fosse  divenuta  nel  pensiero  di  Dante  qualcosa  di  simile 
alh  teologia,  ossia  la  personificazione  del  Genio  de!  Cri- 
stianesimo. 

Intanto  egli  è  proprio  sotto  questa  qualità  che  Bea- 
trice ridivenne  il  sofjgetlo  della  poesia  dantesca.  Persuaso 
che  il  cristianesimo  è  supcriore  alla  filosofia,  T Alighieri 
cessò  verso  l'anno  12iJ5  di  scrivere  poesie  liriche  in  onore 
della  donna  Omsolatrice  o  della  saviezza  umana,  ed  in- 
tese a  cantar  Ji  nuovo  il  suo  amore  per  Beatrice,  IrasS- 
gitrata  nel  suo  pensiero  in  Genia  del  Cristianesimo.  Egli 
prese  a  dime  quel  che  nessuna  donna  aveane  detto:  e  a 


—  240  — 

tal  uopo  verso  il  1295  die  roano  a  ud  poema  didattico 
in  versi  latini,  nel  quale  volle  rappresentare  il  Genio  del 
Cristianesimo  personificato  in  Beatrice,  sedente  in  trono 
nel  Paradiso  terrestre,  in  atto  di  ricevervi  gli  omaggi  di 
tutte  le  illustri  donne,  simboli  delle  differenti  virtù  e 
scienze,  e  di  comunicar  loro,  perchè  li  trasmettano  alla 
cristianità  laica  ed  ecclesiastica,  i  tesori  di  verità»  di  ca- 
rità e  di  beatitudine  contenuti  nel  Vangelo  ;  tesori  a'  quali 
nel  pensiero  di  Dante  anche  i  dannati  dell'inferno  pote- 
vano sperar  di  partecipare  alla  fine  de' secoli. 

Questo  poema  allegorico  latino  era  nel  genere  del 
Tesoretto  in  italiano  e  del  Tesoro  in  lingua  d'oli  del  fio- 
rentino Brunetto  Latini.  Cominciato  verso  il  1295  venne 
lasciato  al  settimo  canto,  nel  1300;  e  a' di  nostri  nonne 
rimangono  se  non  questi  tre  esametri,  onde  il  poema  à 
apriva  : 

Ultima  regna  canam,  fluido  contermina  mundo, 
Spiritibus  que  lata  patent,  que  proemia  solvunt 
Pro  meritis  cuicumque  suis,  data  lege  Tonantis. 

Non  solamente  in  questo  poema  didascalico  latino  ma  an- 
che nelle  poesie  liriche  [italiane  dell'Alighieri,  dal  1295 
al  1300,  Beatrice  venne  rappresentata  come  la  Beatitudine 
0  come  la  Redenzione  generale.  Così  nella  canzone:  Don- 
ne, ch'avete  intelletto  d'amore,  benché  morta.  Beatrice  è 
rappresentata  come  colei  eh'  è  in  desiderio  presso  i  celesti. 

Madonna  è  dCvSiata  in  sommo  cielo; 

dicendosi  poi  con  evidente  allusione  al  poema  latino: 

E' che  dirà  nello  Inferno,  a' malnati: 
lo  vidi  la  speriinzu  de'  beati. 


>  poema  latino  fu  il  primo  abbozzo  che,  svjlnppato 
e  Irasformato,  divenne  poi  la  sua  opera  principale,  la  Di- 
vina Cnmmedia. 

Nella  Commedia  Beatrice  non  ha  nulla  ri'  un'  amante 
terreslre;  essa  è  in  tutto  e  per  tutto  il  Genio  vivente  del 
Cristianesimo,  il  simbolo  della  fede,  della  carità  e  della 
speranza.  Guardata  da  tal  punto  di  vista,  ella  comincia  con 
falcare  il  suo  Dante,  il  fa  guidare  attraverso  l'Inferno  e 
il  Purgatorio  da  Virgilio,  simbolo  della  fdosofia  e  della 
scienza,  Io  riceve  suo  amante  all'entrala  del  Paradiso  ter- 
restre, gli  fa  subir  l'esame  di  coscienza  circa  i  principi 
fondamentali  del  Cristianesimo,  gli  dichiara  il  suo  proprio 
papa  e  il  suo  proprio  imperatore ,  lo  conduce  al  Paradiso 
cele-sln.  ove  lo  affida  alla  direzione  di  S.  Bernardo,  die 
è  sopra  di  lei  in  dignità  siccome  colui  che  è  simlxtlo  della 
vita  contemplativa  in  Din,  la  quale  secondo  Dante  sta  so- 
pra ogni  pratica  religiosa. 

Egli  è  chiaro:  la  poesìa  delT  Alighieri  dai  primi  so- 
netti 0  dalle  prime  canzoni  a'  concepimenti  sublimi  della 
Conimedia  ha  sempre  per  soggetto  !'  amor  di  Beatrice. 
Ma,  dopo  quanto  abbiam  detto,  si  cadrebbe  in  grande 
errore  intorno  r1  cirattere  di  quest'amore  e  della  poesia 
che  lo  canta  se  in  Beatrice  volesse  vedei-si  adombrata  una 
donna  lerrestre,  o,  come  alcuni  comentatori  s'argomen- 
tano, una  amante  dell'Alighieri  nel  senso  ordinario  od 
anche  nel  senso  più  elevato  della  parola. 


Xj»  Plotu.  o  la  OoDEtolftti-ice. 

A  prima  vista  pare  che  Dante  stasso  c'indichi  l'esi- 
stenza d'un' altra  donna  venuta  a  prendere  nel  cuore  di 

16 


—  242  — 

lui  il  posto  della  morta  Beatrice  ;  di  che  leggesi  nella  Vita 
nuova  : 

.  »  Poi  per  alquanto  tempo,  couciofossecosaobè  io  fossi 
in  parte  nella  quale  mi  ricordava  del  passato  tempo  molto 
stava  pensoso,  e  con  dolorosi  pensamenti,  tanto  che  mi 
faceano  parere  di  fuori  una  vista  di  terribile  sbigottimento. 
Ond'io  accorgendomi  del  mio  travagliare,  levai  gli  oc(^ 
per  vedere  s' altri  mi  vedesse.  Allora  vidi  una  gentil  donna , 
giovane  e  bella  molto ,  la  quale  da  una  finestra  mi  riguar- 
dava si  pietosamente  quant'  alla  vista ,  che  tutta  la  pietà 
pareva  in  lei  raccolta.  Onde,  conciossiacosaché  quando  i 
miseri  veggiono  di  loro  compassione  altrui,  più  tosto  si 
muovono  a  lagrimare ,  quasi  come  se  di  sé  stessi  avessero 
pietade  io  pentii  allora  li  miei  occhi  cominciare  a  voler 
piangere;  e  però,  temendo  di  non  mostrare  la  mia  viltà, 
mi  partii  dinanzi  dagli  occhi  di  questa  gentile,  e  dicea 
poi  fra  me  medesimo  :  «  E'  non  può  essere  che  con  quella 
pietosa  donna  non  sia  nobilissimo  amore  ».  E  però  pro- 
posi dire  un  sonetto,  nel  quale  io  parlassi  a  lei... 

»  Avvenne  poi,  che  là  dovunque  questa  donna  mi 
vedea  si  facea  d' una  vista  pietosa  e  d' un  color  pallido 
quasi  come  d' amore  :  onde  molte  fiate  mi  ricordava  della 
mia  nobilissima  donna,  che  di  simile  colore  mi  si  mo- 
strava... 

»  Io  venni'  a  tanto  per  la  vista  di  questa  donna ,  che 
li  miei  occhi  si  cominciarono  a  dilettare  troppo  di  veder- 
la; onde  molle  volte  me  ne  crucciava,  ed  avevameneper 
vile  assai.  E  più  volte  bestemmiava  la  vanità  degli  occhi 
miei...  » 

In  un  altro  luogo  Dante  parla  del  contrasto  che  dentro 
di  sé  pativa  tra  V  amor  della  donna  pietosa  e  P  amor  che 
continuava  a  senth^e  per  Beatrice;  se  non  che,  pensando 
bene  a  Beatrice  si  abbandona  finalmente  alla  sua  debo- 
lezza. «  Un  di,  dice  T  Alighieri,   quasi   nell'ora  di  nona 


—  i43  — 

»  levò  una  forte  immaginazione  in  me:  che  uTparoiT»- 
dere  questa  gloriosa  Beatrice  con  quelle  vestinienla  san- 
guigne «-olle  qnali  apparve  prima  agli  occhi  miei;  e  pa- 
reami  dovane  in  simile  elade  a  quella  io  che  prima  la 
fidi.  Allora  incominciai  a  pensare  di  lei  :  e  secondo  V  or- 
dine del  tempo  passato,  ricordandomene,  il  mio  onore 
cominciò  dolorosamente  a  pentirsi  del  desiderio,  al  quale 
si  vilmente  s'avea  lascialo  possiedere  alquanti  dì,  contro 
alla  costanza  della  ragione.  E  discacciato  qaesto  cotal  mal- 
Tagio  desiderio,  si  rivolsero  li  miei  pensamenti  tatti  alla 
loro  gentilissima  Beatrice  >. 

Da  questo  tratto  sembra  risulti  che  Dante  si  fosse 
innamorato  in  una  giovane  o  giovinetta,  la  quale  compa- 
tendone il  dolore  voleva  consolarlo  della  perdila  di  Bea- 
trice; che  egli  avesse  dovalo  lottar  contro  l'amore  che 
provava  per  quesU  donna  compassionevole,  la  quale  per 
hii  era  ta  pietà  o  la  c4)nsolazione  personificata;  e  che  in 
lino  avendo  scaccialo  questo  nuovo  amore,  che  a  luì  sem- 
brava un  r/)lpevole  desiderio ,  avesse  riportato  tulli  t  suoi 
pensieri  a  Beatrice,  sua  prima  donna. 

Qnando  si  conosca  la  predilezione  di  Dante  pe'  con- 
retti e  per  lo  siile  simbolico,  può  agevolmente  compren- 
dersi rome  qui  si  tratti  dell' amore  per  Beatrice,  simbolo 
della  beatitudine  lerres{re  ed  eterna  :  la  donna  compas- 
sioaerole ,  che  è  considerata  quale  rir^U  di  Beatrice , 
deve  egualmente  avere  una  significazione  simbolica.  Ma 
si  andrebbe  lontano  dal  vero  prendendola  semplicemente 
come  personificazione  astratta  e  poelira  della  pielà  e 
delia  consolazione;  imperciocbè  è  proprio  delle  allego- 
rie ili  Dante  di  riferirsi  generalmente  a  un  fatto,  a  una 
persona  re^le,  e  d'idealizzare  poi  questo  fatto  e  di 
trasfigurar  questa  persona  in  modo  che  il  lor  carattere 
reale^  e  storico  si  cancelli  e  confonda  del  tutto  col  si- 
gnificato   morale    V   niL'lafìsico  d'un    personaggio   allego- 


—  244  — 

rico.  È  dunque  probabile  che  questa  compas^ooevole 
donna  sia  stata  una  persona  reale,  e  senza  dubbio  una 
deire  sessanta  più  belle  donne  di  Firenze;  ed  a  me  pare 
più  che  verisimile  esser  Gemma  de' Donati,  la  qutle  per 
una  ragione  o  per  un'  altra  il  giovane  Alighieri  e  i  suoi 
amici  consideravano  come  la  personificazione  della  filoso- 
fia 0  la  saviezza  umana,  e  che  quasi  18  mesi  dopo  la 
morte  di  Beatrice  andò  moglie  air  Alighieri.  Se  non  che, 
quantunque  la  donna  consolatrice  ossia  Gemma  sia  stata 
come  Beatrice  una  persona  reale,  tuttavia  Dante,  seguendo 
il  suo  costume ,  non  la  cantò  per  tale  nelle  sue  poesie  di 
trovatore,  né  per  altro  ne  fece  memoria  che  pel  carat- 
tere simbolico  di  lei^  o  piuttosto  siccome  personificazione 
d'una  cosa  intellettuale,  morale,  metafisica.  E  quaPera 
egli  la  cosa  o  l'idea  di  cui  Gemma,  ossia  la  donna  con- 
solatrice, divenne  simbolo  nella  poesia  dell'Alighieri?  la 
Filosofia.  In  una  delle  sue  opere  in  prosa,  nel  Convito, 
che  è  per  le  poesie  liriche  del  secondo  periodo  ciò  che 
la  Vita  nuova  per  quelle  del  primo,  cioè  un  comentario  sto- 
rico e  psicologico ,  Dante  espresse  chiaramente  qual'  era  il 
carattere  simbolico  della  donna  consolatrice,  così  parlan- 
done: «  La  donna,  della  quale  mi  sono  innamorato,  fu 
r  umilissima  e  bellissima  fif^lia  dello  Imperatore  dell'  uni- 
verso, alla  quale  Pitagora  diede  if  nome  di  Filosofia  j». 
È  dunque  supporto  che,  qualunque  sieno  stati  i  senti- 
menti amorosi  di  Dante  per  la  donna  compassionevole  o 
per  la  sua  donna  Gemma ,  egli  la  cantò  come  simbolo 
della  filosofia. 

Pertanto  come  dovette  egli  l'Alighieri  considerare 
l'amor  suo  per  la  donna  consolatrice  o  la  Filosofia  per 
rapporto  all'  altro  suo  amore  per  Beatrice  ossia  il  Cristia- 
nesimo? Egli  dovette  considerarlo  dietro  il  valore  che  avea, 
secondo  lui,  la  filosofia  rispetto  alla  fede  cristiana.  Per 
comprendere  il  suo  giudizio  sul  valore  relativo  dell^  una 


—  21.1  — 

e  dell'altra,  bisogna  rJmrdarsi  che  al  medio-evo,  almeno 
in  sul  princìpio,  la   fìlosofia,   cioè  la  ricerca    della   verità 
indipendente  del  dogma,  non  esisteva;   essa  era  tuttavia 
■■confusa  colla  teologia,  e  i  suoi    cultori    erano   una    cosa 
\  stessa  co'  dottori  teologi.  Piìi  tardi ,  verso  ìa  fine   del  se- 
colo \n,  sopratutlo  in  Parigi,  alla  Sorbona,  la  filosofia 
considerata  come  ricerca  e  pensiero  indipendente  del  dog- 
ma cominciò  a  dividersi  dalla  teol(^ìa,  o  ortodossia  posi- 
tiva. Abelardo  e  piìi  lardi  il  Dottor  Séguier  de  Brabant, 
[  che  professava  nella  via  PoQ^rre  del  quartiere  Latino,  fu- 
*  rono  i  primi  iniziatori  di  questo  mutamento  filosofico  (\). 
Nel  Ì290,  morta  Beatrice,  l'Alighieri  forse  per  consolazione 
dell'animo,  ovvero  per  consiglio  del  suo  maestro  Brunetto 
Latini,  che  avea  lungamente  dimorato  in  Francia,  andò  a 
Parigi  per  un  anno ,  e  vi  seguì  il  coi-so  dello  stesso  Dottor 
Ségnier,  di  cui  conservò  dipoi  affettuoso  ricordo  si  che 
componendo    la  Commedia   annoverollo   tra'  beati  Dottori 
del  Paradiso  celeste.  Reduce  ne"  primi  del  1293  in  Firenze 
continuò  i  suoi  sludii  letterari  e   scientifici,  ch'egli  com- 
prendeva sotto  il  nome  di  Filosofia,  e  riguardava  come 
leonforto  nella  perdita  di  Beatrice.  Al  suo  amore  per  costei 
l  tenne  dietro  l'amore  per   la    donna  consolatrice  o  per 
Gemma  de'  Donati ,  che  Dante  chiamò  sua  filosofia.  Rimes- 
sosi alla  poesia,  compose  tra  gli  anni  1293  e  1298  una 
nuova  serie  di  canti  lirici,  che  per  l'argomento  e  il  tono 
generale  differivano  dalle  poesie  del  primo  periodo:  però 
che  Dante  non  più  Beatrice,  simbolo  di  salute  terrestre 
ed  eterna,  ma  la  donna  consolatrice  o  la  Filosofia  celebrava. 
Intanto,  malgrado  il  valore  che  Dante  attribuiva  alla 
filosofia,  egli  non  andava  tant' oltre  da  concepirne  e  am- 
metterne r  indipendenza  assoluta  e  legittima  dì  fronte  alla 
I  teologia.  Animato  de'  principii  più  avanzati  del  tempo,  egli 

fi)  llitloire  miérain  de  la  France.  I.  XXI,  paft.  96-127. 


—  246  — 

opinava  che  la  Qlosofla  fosse  subordiData  alla  teologia ,  cioè 
al  dogma  cristiano.  Già  il  padre  della  Chiesa  S.  Ambrogio 
di  Milano  al  IV  secolo  avea  formulato  questo  concetto 
dicendo  :  Philosophia  theologiae  atècilla;  giudizio  condivìso 
da  Dante  e  da  tutti  i  dottori  e  sapienti  del  secolo. 

Parlando  delle  quattro  virtù  cardinali  che  costituiscono 
e  rappresentano  la  Filosofia  in  opposizione  alle  tre  virtù 
teologali,  costituenti  e  rappresentanti  alla  lor  volta  la  Re- 
ligione 0  Beatrice ,  Dante  le  personificò  ed  introdusse ,  par- 
landone di  questa  forma:  (Purg.  XXXI,  106) 

Noi  sem  qui  ninfe,  e  nel  ciel  semo  stelle; 
Pria  che  Beatrice  discendesse  al  mondo 
Fummo  ordinate  a  lei  per  sue  ancelle. 

Dopo  di  che ,  al  cap.  1**  del  Convito ,  dice  che  il  comento 
è  il  servo  del  testo;  la  filosofia  che  spiega  la  religione  è 
perciò  r  ancella  della  religione.  Così  rappresentando  la 
Filosofia  come  sua  consolatrice  dopo  che  Beatrice  fini  dì 
vivere,  Dante  consideravala  non  come  quella  che  può  e 
deve  in  tutto  e  per  tutto  tenerci  luogo  di  teologia  o  d' 
fede  religiosa ,  ma  soltanto  quale  consolatrice  o  edificatrice 
in  mancanza  di  quella. 

Dante  riguardava  perciò  nelle  sue  poesie  Beatrice  o 
il  Genio  del  Cristianesimo  come  sua  vera  donna  ;  e  la  donna 
consolatrice  o  la  filosofia  come  ancella  di  Beatrice.  Da  ciò 
si  comprende  com'egli  avesse  rappresentato  poeticamente 
Tamor  suo  per  la  filosofia,  o  l'ancella  della  teologia,  sic- 
come una  specie  d'infedeltà  commessa  agli  occhi  di  Bea- 
trice, la  sola  amante,  o  la  sola  donna  vera  e  legittima.  Nel 
suo  linguaggio  allegorico  e  poetico  pare  che  egli  si  faccia 
un  rimprovero  di  preferire  T  ancella  alla  padrona;  egli  si 
rammarica  per  guisa  del  suo  colpevole  desiderio  da  scac- 
ciarlo riportando  tutti  i  suoi  pensieri  a  Beatrice ,  col  fermo 


|U«po^lo  di  non  cesiiare  d' onorar  ne'  suoi  canti  la  filosofia 
per  ricorrere  al  suo  primo  amore ,  1'  amor  di  Beatrice. 
Così  lasciando  la  poesia  lirica ,  il  cui  soggetto  era  stato  la 
saviezza  umana,  apprestossi  nel  12!>5  a  parlar  degnamente 
di  lei,  e  a  dire  nella  Commedia  ch'egli  meditava  ciò  che, 
secondo  la  sua  espressione,  non  avea  per  anco  detto  nes- 
suna donna. 

Da  queste  nostre  spiegazioni  si  comprende  che  nessuna 
cosa  6  contraria  al  vero  piìi  di  questa:  che  la  Pietà  o  la 
donna  Consolatrice  sìa  stata  un'  amante  dell'  Alighieri; 
eh'  egli  r  abbia  amata  dopo  la  morte  di  Beatrice  ;  e  che 
rabbia  cantata  in  mollo  delle  sue  liriche  come,  p.  e.,  il 
trovatore  Pietro  Baimon  cantò  la  sua  dama  Alixandre:j. 


IV. 
ila  Pa  l'aro  le  età. 


^f  II  nome  della  Pargoletta  figura  principalmente  in 
due  luoghi  delle  poesie  di  Dante,  nella  ballata  cioè  che 
comincia  : 

lo  mi  son  pargoletta  bella  e  nuova, 

e  nelle  terzine  15  a  20  del  XXXI  canto  del  Purgatorio, 
I  comentatori  e  i  biografi  dell'  Alighieri  han  creduto  tro- 
vare in  questi  versi  l'indicazione  e  la  prova  positiva  che 
Dante  abbia  parimenti  avuto  per  amante,  oltre  a  Beatrice 
e  alla  Consolatrice,  una  certa  Pargoletta.  E  pure  basta 
spiegarli  e  mostrare  che  la  Pargoletta  altro  non  sia  se  non 
la  Consolatrice,  cioè  la  Filosofia  o  1" umana  sapienza,  per 
abbattere  codesti  errori.  Per  comprender  la  ballata  bisogna 
anzitutto  ricordare  che  Dante,  seguendo  il  suo  costume, 
iontfìcò  la  niosoGa  o  la  scienza  in  una  bella  donna  da 


—  248  — 

lui  cantata  in  una  serie  di  poesie  parte  liridie  parte  dida- 
scaliche tra  gli  anni  1293  e  1298.  La  ballata  vuol  mostrare 
la  natura  sublime  e  le  qualità  celesti  di  questa  donna,  e 
giustificar  cosi  V  amore  ardente  eh'  ella  ebbe  ispirato  al 
poeta.  Dante  vi  fa  parlare  lar  Filosofia,  o  la  donna  stessa, 
spiegando  la  sua  natura  e  le  sue  qualità.  Essa  dice  esser 
sempre  la  pargoletta  ;  nome  che  qui  è  sinonimo  di  ancella, 
essendo  che  nella  maggior  parte  delle  lingue  antiche  e 
moderne  la  serva  viene  espressa  con  delle  parole  signifi- 
canti petite  fille.  I  Latini  dicevano  puelta  (  per  ptierula  )  o 
ancitta  (per  anculula)  (1).  Gli  Alemanni  dicono  Magd  o 
Màgdlein.  GP  Italiani  parimenti  dicevano  nel  medio  evo 
parvola  o  pargola  (dal  latino  parvula)  o  pargoletta.  La 
filosofia,  che  Dante  chiama  qualche  volta  stella  (v.  Gap.  Ili) 
pel  suo  splendore  celeste ,  e  ninfa  come  sinonimo  di  figliuo- 
letta  0  di  ancella ,  addimandasi  qui  ella  stessa  pargoletta, 
perchè  si  considera  come  V  ancella  della  religione.  Essa 
si  dice  nuova  nel  significato  di  giovane,  perchè  la  filosofia 
0  la  scienza,  secondo  Dante,  è  posteriore  alla  religione  e 
nel  mondo  comparve  molto  più  tardi.  Ma  essa  aggiunge 
che  le  sue  sublimi  bellezze  provano  la  sua  origine  celeste, 
che  il  suo  lume  di  stella  è  di  piacere  agli  angeli  del  cielo, 
e  che  chi  la  vede  e  non  l'ama  non  comprenderà  mai  il 
vero  amore  disinteressato  come  V  amor  della  scienza.  Par- 
lando ancora  di  sé  stessa,  aggiunge  (la  Filosofia)  che  fin 
da  quando  madre  natura  V  associò  al  vero  amore,  questo 
non  è  mancato  mai  di  piacere  nel  presentarsi  con  lei  alle 
donne  nella  poesia  lirica.  Ogni  pianeta,©  il  mondo  intiero  — 
prosegue  —  contribuisce  colla  sua  luce  all'ingrandimento 
e  alla  bellezza  dell'  avvenire  della  sapienza ,  il  cui  splendore 
è  recente  nel  mondo,  essendosi  poi  l'umana  scienza  for- 
mata come  riflesso  della  religione.  Nessuno  conoscerà  le 

(1)  Origine  et  signi  ficai  ion  du  nom  de  Frane,  pag.  Ì9. 


—  24!)  — 

MEze  della  filosofia  che  non  sia  compenetrato  d' intenso 
©re;  il  quale  non  tende  già  a  godere  ma  piuttosto  a  pro- 
sar t'alirui  godimento.  Ecco  come  s'esprime  il  poeta 

I  prima  parte  della  ballala; 


lo  mi  son  pai^otflta  bella  e  aova, 
E  SOR  venuta  per  tnostrarini  a  vui 
Delle  bellezze  e  loco,  ilond"  io  fui. 

lo  fui  del  cielo,  e  tornerovvi  ancora 
Per  dar  della  mia  luce  altrui  diletto: 
E  chi  mi  vede,  e  non  se  ne  inuaniora, 
D'amor  non  averà  mai  intelletto; 
Che  non  gli  fu  in  piacere  alcun  disdello. 
Quando  natura  mi  chiese  a  colui. 
Che  volle,  donne,  accompagnarmi  a  vui. 

Qascuna  stella  negli  oc^hi  mi  piove 
Della  sua  luce  e  della  sua  vìrtutc. 
Le  mie  bellezze  sono  al  mondo  nove. 
Perocché  di  lassù  mi  son  venute; 
Le  quai  non  posson  esser  conosciute. 
Se  non  per  conoscenza  d'  uomo,  in  cui 
Amor  sì  mella  per  piacere  altrui. 


Nella  seconda  jiarte  il  poeta  prende  egli  stesso  la 
•ola  per  dire  che  le  qualità  che  la  FiiosoQa  sì  ha  attri- 
buite traspariscono  dal  suo  brillante  viso;  che  conforman- 
dosi a  ciò  eh' ella  stessa  avea  detto  in  qnest' idlimo  luogo, 
cioè  che  li^  sue  bellezze  non  sono  comprese  se  non  da 
colui  che  è  penetrato  dell'amor  vero,  egli  fissò  amoro- 
samente il  suo  sguardo  sugli  occhi  di  lei,  ove  risiede  Amore; 
che  dopo  questo  tempo  la  sua  passione  per  lei  Tngli  causa 
di  agitazioni  che  misero  a  pericolo  la  sua  vita.  Ecco  la 
seconda  parte  della  ballata: 


—  250  — 

Ouesie  parole  si  leggoo  nei  viso 

D*  un'  Àogioletta  die  ci  è  apparita: 
Ood*  io  cbe  per  campar  la  mirai  fiso, 
Ne  SODO  -a  rischio  di  perder  la  vita; 
Perooch*  io  ricevetti  tal  ferita 
Da  un  eh'  io  vidi  dentro  agli  occhi  sui, 
Ch'  io  vo  piangendo,  e  non  m' acqueto  pui. 

Dopo  di  che  apparisce  chiaro  come  la  Pargoletta-,  di  cui 
si  è  ragionato,  non  possa  venir  presa  per  un'  amante 
reale  dì  Dante,  ma  bensì,  pari  alla  Pietà  e  alla  Gonsola- 
tiice,  come  personaggio  simbolico,  personificazione  della 
Filosofia  o  della  Sapienza  imiana.  Ei  ne  ha  anche  della 
Pargoletta  di  cui  parla  Beatrice  ne'  rimproveri  che  fa  a 
Dante  neir  abbandonar  eh'  egli  fa  il  paradiso  terrestre  per 
entrare  nel  l^aradiso  celeste.  A  comprendere  questa  scena 
che  ha  luogo  nel  paradiso  terrestre ,  vuoisi  tener  presente 
che,  secondo  il  divino  Poeta,  per  giungere  alla  verità  e 
alla  santità  v*  abbiano  tre  gradi  ascendenti:  primo,  la  Scienza 
0  la  filosofia;  secondo,  la  Fede  o  la  religione  cristiana; 
terzo,  la  Contemplazione  o  la  vita  di  Dio.  Volendo  nella 
Divina  Commedia  insegnare  air  umanità  i  veri  principii 
dell'ordine  sociale,  morale,  intellettuale  e  spirituale  che 
conducono  alla  verità  e  alla  santità,  e  darsi  T autorità 
necessaria  ad  insegnare  siffatti  principii ,  V  Alighieri  suppone 
d'essere  stato  iniziato  nella  scienza  e  nella  filosofia  da 
Virgilio,  da  Beatrice  nella  Fede  cristiana,  da  S.  Bernardo 
nella  Contemplazione  di  Dio.  Percorrendo  sotto  la  scorta 
del  primo  i  cerchi  dell'Inferno  e  del  Purgatorio,  egli  ap- 
prende quel  che  insegnano  la  scienza  e  la  filosofia ,  il  giusto 
e  r  ingiusto ,  il  bene  ed  il  male ,  la  causa  della  perdizione 
temporanea  ed  eterna  e  la  causa  della  salvazione  sociale, 
morale  e  spirituale.  Giunto  al  sommo  del  Purgatorio ,  ossia 


—  231  — 

('  Paradiso  terrestre ,  da  quello   che   ha  visto  e  udito ,  e 
)  dalle  dìITerenti  inizi.izionì  per  le  quali  è  passato,  già 
(reputato  padrone  della  scienza  e  della  giustizia:  quindi 
UDzi  non  ha  ptìi  bisogno  di  guida  temporale,  egli  papa 
ì  imperatore  di  sé  stesso,  è  arrivato  alla  giuslificazione, 
3  stalo  d'innocenza  primitiva,  al  Paradiso  terrestre,  donde 
lamo  ed  Eva  vennero  cacciati  dopo  la  loro  caduta  ;  Vir- 
ilio non  può  adunque  insegnargli  altro:  gli  bisognerebbe 
I  insegnamento  superiore.  Allora  in  una  visione  simbolica 
)de  svolgersi   innanzi   la  storia  dell'  nmanità  da'  tempi 
nitivi  lino  a'  suoi  giorni.  La  quale  gì'  insegna  come  sia 
i  nelle  sue  origini  indirizzata  V  umanità,  come  preparato 
^Kitrodotto  nel  mondo  il  crìstiane.simo;  e  gli  Ta  intendere 
Bsta  verità  capitale ,  che  la  cristianità  più  che  s'  è  coo- 
genio  del  cristianesimo  più  è  slata  illuminala 
^felice,  e  che  più  s'è  allontanata   dallo  spirito  del  Van- 
I,  più  è  ripiombata  nell'errore  e  nelP avvilimento.  Con- 
)  di  questa  verità.  Dante  rivede  Beatrice,  il  Genio  del 
janesimo;  e  la  rivede  più  bella  e  divina  che  non  dieci 
ini  innanzi.  Beatrice  non  ha  più    bisogno  d' indirizzarlo 
f  prìncipii  del  cristianesimo .  che  Dante  già  conosce ,  ma 
[  Ih  intender  chiaro  che   egli   ha  Tatto  come  ogni  altro 
iano:  ha  abbandonato  il  Vangelo,  la  sua  Beatrice,  che 
^i  di  scorta  in  gioventù,  e  s'  è    lasciato  trasportare  da 
|bi  vento  di  fal^  dottrina    e  dalPamor  della  pargoletta, 
i  dall'ancella,  dalla  Filosofìa.  Dnnte  non  potrà  pertanto 
are  nel  Paradiso  celeste  se  non  crede  in  tutto  e  per 
I  che  il   solo  N'angelo   comprende  la  vera  luce  e  la 
Iole  vera.  Per  condurlo  a  riconoscere  il  suo  errore  o  la 
infedeltà,  a   conressarsi  di  buona   Tede,  a  meritare 
l'assoluzione  plenaria;  e  per  esser  degno  infine  d'en- 
ì  nel  Paradiso  celeste.  Beatrice  così   rampogna  Dante 
t'essersi  abbandonalo  all' amor  della  pargoletta: 


—  252  — 

Tmiaràu  perchè  me'  vergogna  porte 
Del  tuo  errore,  e  perchè  altra  volta 
Udendo  le  sirene  sie  più  forte. 

Poh  giù  il  seme  del  piangere,  ed  ascolta; 
SI  udirai  come  in  contraria  parte 
Muover  doveati  mia  carne  sepolta.  * 

Mai  non  t^  appresentò  natura  ed  arte 
Piacer,  quanto  le  belle  membra  in  eh'  io 
Rinchiusa  fui,  e  che  son  terra  sparte: 

E  se  il  sommo  piacer  si  ti  fallio 
Per  la  mia  nsorte,  qual  cosa  mortale 
Dovea  pm  trarre  te  nel  suo  disio? 

Ben  ti  dovevi  per  lo  primo  strale 
Delle  cose  fallaci,  levar  suso 
Diretr'  a  me  che  non  era  più  tale. 

Non  ti  dovea  gravar  le  penne  in  giuso^ 
Ad  aspettar  più  colpi,  o  pargoletta, 
0  altra  vanità  con  si  brev'  uso.  (1) 

Sarebbe  dunque  un  volersi  ingannare  a  partito  il  cre- 
dere con  alcuni  de'  comentatorì  che  la  pargoletta  significhi 
qui  una  qualche  amante  deir Alighieri,  e  che  Beatrice,  V  an- 
tica amante  platonica  di  lui,  gli  rimproveri  con  collera 
e  gelosìa  V  infedeltà  commessa  al  suo  sguardo.  Qui  si  tratta 
di  cosa  più  grave  che  non  è  la  infedeltà  volgare  tra  gli 
amanti.  Beatrice  non  è  una  donna  terrestre,  gelosa,  gar- 
rula, che  rampogna  il  suo  amante  d'averla  abbandonata 
per  un'  altra  più  giovane  :  essa  è  qui  la  figlia  della  Trinità, 
il  Genio  del  Cristianesimo,  la  personificazione  della  Fede, 
della  Carità  e  della  Speranza.  Dante  non  è  mica  un  zerbino 
volgare,  frivolo  e  leggiero;  egli  è  qui  l'uomo  giusto,  il 
saggio ,  che  meritò  d' esser  coronato  e  mitriato  da  Beatrice, 
dal  Genio  del  Cristianesimo;  per  diventar  quind'  innanzi 

(1)  Purgatorio,  Canio  XXXI,  43-60. 


idrone  e  donno  di  sé  slesso.  Il  luogo  ove  Beatrice,  dopo 
dieci  anni,  lo  rivede  per  la  prima  volta,  non  h  poi  nn 
gabinetto  nel  quale  la  donna  rinfaccia  al  suo  volubile  amante 
la  ìnfedeilà  dì  lui;  questo  luogo  è  il  Paradiso  terrestre,  ove 
i  giusti  e  i  santi  soli  hanno  accesso,  e  che  sta  chiuso  a 
iDtli  coloro  a'  quali  avrebbesi  ragione  di  rimproverare  le 
debolezze  della  carne.  Or  quaodo  la  Figlia  della  Trinità 
rimbroccia  di  traviamento  colui  cbe  merita  d'esser  papa 
ed  imperatore  di  sé  stesso,  e  lo  rimbroccia  proprio  nel 
santuario  del  Paradiso  terrestre,  ei  non  può  trattarsi  che 
d'uno  di  que'  rari  falli  ne'  quali  cadono  anche  gli  uomini 
giusti  e  gli  spiriti  elevati.  QuaP  è  il  fallo  rimproverato  a 
Dante  da  Beatrice?  quello  appunto  d' aver  dimenticato, 
alla  morte  di  lei,  il  suo  primo  e  verace  amore,  Beatrice, 
la  fede  e  la  beatitudine  cristiana;  e  d'essersi  troppo  ab- 
bandonato all'amor  della  donna  pietosa  o,  come  dic«  il 
Poeta,  della  pargoletta,  cioè  della  Filosofia. 

Questo  nome  della  jiargoletla .  che  ricorre  nella  bal- 
lala e  nel  passo  sopracilato  de!  Purgatorio,  essendo  sino- 
aimo  di  Filosofia,  è  chiaro  che  non  prova  in  verun  modo 
arer  voluto  I)ant«  significar  con  esso  una  giovane  e  gentile 
tnoamorata.  p^r  la  quale  abbia  messo  in  non  cale  il  suo 
antico  amore  per  Beatrice,  la  figlia  dì  Folco  portinari. 


(Continua) 


—  255  — 
i  aotìctiì  filosofi,  i  qaali  ebbero  sacri  i  Tetasti  cimelii 
della  mano  e  dell' LntelleUo  dell'uomo;  per  cui  Cicerone 
dolorava  di  essersi  smarriti  i  cauli  convivalt  anteriori  al 
vecchio  Catone,  e  religiosamente  venerava  la  elQ^e  del- 
l'aatichità.  e  la  prisca  vetustà  dell'eloquio  delle  XII  ta- 
TtAe  1.  Senza  Pacavio  e  Nevio,  non  avremmo  Ennio,  e 
senza  costui  Lua'uzio  e  Virgilio;  senza  i  ducenlisli  1" Ali- 
ghieri; comò  senza  i  monumenti  trogloditici  e  riclopei, 
il  Parteoope,  S.  Metro,  Suez.  E  certo  non  può  essere  di 
'gentile  animo  chi  guata  le  aoliche  maravigliose  opere  ar- 
tistiche, 0  sfoglia  i  volumi  da' magni  spìriti,  senza  accen- 
dersi di  fervido  culto  per  chi  fu  lucifero  a  cosi  luminoso 
meriggio. 

Palermo,  capitale  della  potente  e  vasta  monarchia  si- 
Ciliana,  i  suoi  dinasti  normanni,  seguiti  dagli  svevi  e  me- 
glio dall'  imperatore  Federico  II ,  crearono  la  grande  era 
ilalica,  e  se  non  riuscirono  a  collegare  i  popoli  ausoni!. 
colica  i  Papi  e  la  Francia,  li  dotarono  almeno  di  lingua 
e  letteratura  nazionali.  E  primo  documento  scritto  e  an- 
cora superstite  di  cosi  nobile  risorgimento,  è  la  Tenzone 
di  Cìullo  d'Alc^imo,  tenuta  merlLimenle  in  massima  estì- 
Bazione  dagli  ottimi.  Nel  185S  fui  astretto  da  municipale 
convenienza  a  dettarne  estemporaneamente  una  parziale 
Ouamiaa,  che  oggi  elargo  e  tramulo  in  Comentario ,  non 
solo  per  il  pregio  di  quel  Canto,  ma  sì  pure  perchè  esti- 
mo potersi  meglio  e  a  preferenza  di  qualsiasi  altro  inter- 
pretare da  quanti  padano  e  studiano  dall'infanzia  la  par- 
lala nella  quale  essa  fu  scritta.  ±  Dal  secolo  Xlll  sinora 
mmeslrelli  e  giullari,  copisti  ed  editori  l'hanno  lacerato 
abbastanza;  in  sei  centenni!,  la  slampa  del  1856  del  Nan- 
nucrj  è  la  piij  ìnijenua;  egli  la  risanò  di  molle  piaghe 
giovandosi  spesso  del  Codice  Principe  Vatii'^no  anteriore  a 
Dante.  Non  possiamo  gloriarci  della  pubblicazione  fattasene 
in  Sicilia  nel  IfoUsiario  di  Corte  dal    Gregorio,  e  poscia 


—  256  — 

nella  ristampa  del  1821.  Il  Duca  di  Villarosa  stampò  qnatr 
tro  volumi  di  poesie  antiche,  ma  tralasciò  la  T^zone  di 
Giulio.  Chi  più  atto  a  ciò  di  costoro?  Ma  essi  per  nostra 
sventura  non  alzarono  gli  occhi  al  di  là  delP  Allacci  e  del 
Grescimbeni.  Palmeri,  Sanfllippo,  Di  Giovanni,  La  Lumia 
limitandosi  a  distrigare  epoche  e  fatti,  diradarono  vani 
dubbii  di  chi  li  precesse,  ed  io  molto  lor  devo,  come 
sarà  ripetuto  a  suo  luogo.  Se  i  nominati,  o  altri  siciliani 
della  loro  tempera,  vi  avessero  inteso  l'animo  davvero, 
sarebbe  stata  da  tempo  dipannata  P  arruffata  matassa. 

A  spingere  innanzi  T opera  loro,  ho  messo  anch'io 
il  piede  in  questo  ginepraio;  e  diffidando  di  me,  a  dissi- 
pare i  miei  rimorsi,  ad  evitare  novelli  errori  od  equivoci , 
ho  consultato  comentatori,  codici  e  stampe  qui  e  in  terra- 
ferma, e  ho  richiesto  di  consiglio  non  pochi  illustri  miei 
riveriti  amici,  i  quali  mi  hanno  partecipato  benevoli  le 
loro  idee.  3.  Soccorso  da  tanto  senno,  tenterò  indagare 
il  vero  tìtolo  della  lirica  di  Giulio,  il  luogo  e  il  tempo 
quando  fu  dettata,  e  di  conseguenza  i  valori  del  medio 
evo,  le  dìfense  e  multe,  l'antichità  degli  agostari,  l'epo- 
ca del  Soldano  e  del  Saladino;  cosi  pure  la  lingua,  me- 
tro e  grafia  adoperati  dal  poeta  ;  parlerò  de'  codici  e  dell^ 
stampe ,  che  quella  ci  serbarono  e  diffusero  ;  de'  passi  più 
scorretti  e  delle  loro  emendazioni ,  del  di  lei  merito ,  dan- 
done il  testo  alla  fine.  Gosi  ho  procurato  sodisfare  il  de- 
siderio degli  amatori  della  letteratura,  che  chiamerei  fos- 
sile per  la  sua  vetustà,  se  in  gran  parte  non  fosse  ancor 
viva,  e  non  suonasse  rifatta  sulle  labbra  de' minestrelli 
dell'età  nuova,  accompagnata  da' loro  musicali  strumenti. 


Celebrità  e  titolo  della  Tenzone  di  Giulio. 


Non  è  poBsia  anteriore  allo  sfornino  della  Monarchia 
siciliana,  cioè  alle  disfatte  dì  Benevento  e  Tagliacozzo,  né 
più  celebre,  né  più  dìITusa  dì  questa.  Non  appena  nata, 
da  Alcamo  a  Palermo,  Napoli,  Boma ,  Firenze,  Padova, 
Bologna  ec.  si  sparse  per  lulta  la  penisola.  E  fu  univer- 
salmente accolla,  perchè  nella  storia  di  quell'amor  for- 
lanato  vedeano  molli  il  caso  proprio;  per  i  suoi  pregi 
artistici;  per  la  lingua  volgare  intesa  appieno  dal  popolo 
con  diletto  ed  orgoglio;  e  perchè  lusingando  la  vanagloria 
dei  poeti:  celebrava  il  matrimonio  d"'  illustri  personaggi.  Se 
oggi ,  dopo  quasi  settocent'  anni ,  ne  abbiamo  copia  del 
secolo  XllI,  e  parecchie  del  seguente,  quante  non  ve  ne 
doveano  essere  quando  era  il  canto  favorito  de' cavalieri, 
delle  castellane,  delle  eorti  bandite?  In  Sicilia  piacque 
tanto,  da  faria  sua  il  popolo  de' monti  e  de' mari,  e  va- 
riandola e  trasformandola  tuttora  la  ripete,  intitolandola 
ti  mtiili  viici,  Lu  Tuppi  tuppi,  Li  setti  fratelli,  La 
Donna  Onesta,  Lu  Vnjareddu  dili  Caiani,  per  quanto  è 
a  mia  notizia.  Perciò  ben  disse  Giusto  Grion  poter  mo- 
strare come  a  Padova  la  Cantilena  di  Giillo  fosse  ttei 
1300  divulgatissima.  4.  E  la  prova  più  solenne  di  ciò  si 
è  l'averla  Danto  registrata  nel  Volgare  Eloquio,  le  impri- 
mendo il  suggello  dell'eternità. 

Volando  da  un  labbro  all'altro  e  dall'uno  all'altro 
sialo  iUilico.  ricevette  il  marchio  ilialellico  pugliese,  ro- 
mano, toscano,  e  cosi  fu  fidata  alla  carta,  e  qualche  volta 
qoa  e  \k  adulterando  il  nativo  insulari-.  Allorché  poi  da' co- 
dici passò  a"  tipi,  e  si  moltiplicò  con  la  stampa ,  non  solo 

17 


I 


—  258  — 

furono  accresciati  quei  guasti  dagli  emanaensi,  ma  per 
arrota  fu  variamente  battezzata.  Si  accostò  meglio  al  vero 
chi  la  lasciò  innominata.  Cosi  tra  copisti,  editori  e  storici 
della  nostra  letteratura ,  ebbe  più  nomi  di  Apolline  presso 
i  mitologi. 

Ma  quarè  quello  che  veramente  le  compete?  Ck)n 
quale  saluteremo  il  ritmo  vittorioso  della  fresca  rosa  di 
Bari,  della  sdegnosa  e  pudica  giovane,  che  chiusa  nella 
gloria  del  suo  forte  castello,  avea  resistito  a  conti,  a  ca- 
valieri, a  marchesi  e  a  giustizieri,  e  si  arrendeva  all'in- 
canto degl'ispirati  numeri? 

Canzone  deriva  da  canto ,  perciò  nel  senso  primige- 
nio cosi  furono  dette  tutte  le  poesie  cantabili;  di  conse- 
guenza Dante  chiamò  canzoni  le  sue  liriche,  e  Bembo  i 
sonetti  del  Petrarca.  Quando  i  retori  dettarono  i  pre- 
cetti dell'arte  poetica,  così  intitolarono  quella  lirica,  che 
giusta  rAliglìieri  racchiude  in  se  tutti  i  pregi  degli  al- 
tri, e  componesi  di  parecchie  stanze,  le  quali  serbano 
per  le  più  il  medesimo  ordine  di  rime  e  di  versi.  Tale 
non  è  il  dialogo  di  Giulio.  Molto  meno  è  quello  che  in 
Sicilia  appellasi  Canzone,  cioè  un'  ottava  con  quattro  rime 
0  assonanze  alterne  e  variamnte  intrecciate. 

Né  Cantilena.  È  questo  termine  musicale,  male  at- 
tato  alla  poesia,  e  dalla  Crusca  e  dal  Fanfani  definito: 
<c  quella  sorta  di  canto  usato  per  addormentare  i  bambi- 
ni, lungo,  lento  e  nojoso». 

Ballata  neppure,  perchè  non  è  regolata  a  tempo  di 
ballo,  né  si  canta  ballando,  e  non  ha  intercalare  o  ritor- 
nello: insomma  neppur  uno  de' caratteri  co' quali  la  con- 
trasegnano Trissino ,  Minturno,  Affò,  Crescimbeni ,  o  come 
la  troviamo  ne' classici,  e  segnatamente  nella  Raccolta  di 
Canzone  a  ballo  stampata  a  Firenze  nel  1568,  ove  sono 
siffatte  poesie  di  Lorenzo  de' Medici,  del  Poliziano  e  di 
altri  corrotti  e  corruttori  di  lui  corteggiane 


Frottola  non  k,  essendo  questa  tessuta  di  motti  e 
mottetti  epigrammatici  di  versi  brevi,  senz'ordioe  alcuno 
disposti,  per  lo  più  in  baja,  come  quelle  di  Antonio  Buf- 
fone e  di  Girolamo  Bcnivieni,  ricordate  dall' Affò.  Per  al- 
tro le  Frottole,  e  tutte  le  poesie  di  simil  genere,  comin- 
ciarono ad  essere  in  uso  dopo  la  metà  del  secolo  XiV. 
come  notava  il  Nannucci  B. 

Serventese  neppure.  Se  si  accettasse  P  opinione  del 
Grion  6,  il  quale  chiama  sirventesi  le  rime,  cbe  tendono 
ad  ottener  grazia  dalle  donne,  tali  sarebbero  quasi  tutti  i 
Canzonieri.  Egli  cosi  scrisse,  perchè  fu  detto  che  i  trova- 
tori giovaronsi  di  questo  metro  per  Dio,  per  la  Vergine, 
per  le  loro  amorose.  Il  Galvani  senilmente  scrutandone 
l'origine,  l'uso  e  la  forma,  dimostra  con  peregrina  eru- 
dizione e  solidi  argomenti,  non  potersi  intitolare  Serven- 
tese  il  canto  di  Giulio.  In  pari  tempo  rigetta  il  cognomi- 
narlo Altcrcazione ,  Contrasto,  Canzone  responsiva  a  dia- 
logo, Rima,  Tenzone,  e  adotta  Cantilena;  ma  io  riveren- 
dolo ed  esaltandone  il  merito,  non  so  acconciarmi  alla  di 
lui  sentenza  7.  Il  nome  di  Contrasto  alla  poesia  popolare, 
quel  di  Tenzone  alla  letteraria  compete. 

La  lirica  dì  cui  ci  occupiamo  è  certo  un  dialogo, 
rome  ne  abbiamo  molli  nei  Parnaso  dotto  e  popolare;  ap- 
partiene al  genere  che  in  Sicilia  appellasi  Contrasti;  quin- 
di oltre  di  essere  un  dialogo  semplice,  è  propriamente 
una  Tenzone,  che  ben  corrisponde  alla  esatta  definizione 
datane  dall'  Accademia  e  dal  Fanfani.  Questa  Tenzone  tra 
il  poeta  e  la  bella,  fu  imitata  da  altri,  tra  cui  da  Mazzeo 
Bieco  da  Messina  8,  e  da  Ciacco  dell' Anguillara,  se  vero 
il  concetto  del  Trucchi  9,  entrambe  sbiadilo  riflesso  del- 
l''antico  esemplare.  Di  conseguenza  ho  estimato  acconcio 
chiamarla  semplicemente  Tenzone. 


i  i 


]b  ove  oUizzKi  imhatsamamto  rjnB*ft  inpaHr.  b 
f/)M  nmiéutUi  4i  «on  i'ìnvaiz&ì  i  paiaifioa  pa«n?  !(» 
^memfi  de^HxoKrto  «!he  «lai  iooi  ws.  —  Sim)  esà  eit» 
d«»niemi>nte  ^nitti  «topo  januii>  i  ■acrntfsw.  e 

^tì(0re  il  di  (ni  :^U^i.  Tedreno  «»an&  nsgalo  A  aullo 
ikI  pane  iMT amata,  ore  m  anoo  prìBa  di  cfeìHlene  b 
flKUD  era  preso  dì  la: 


Ora  b  oB  aa», 
Ch*  cifrala  mi  se* 


e  arer  coooseeiiza  delb  bcottà^  della  poma,  delle  Hfr 
nenze  de^di  la  coiksaiigiiioei  ;  ed  essa  d  tempo  medesìBio 
essere  al  &tlo  del V  ammoni»^  del  dì  lui  atere.  Quel  luogo 
è  determinalo  dalla  stanza  quinta,  che  a  cbiarìmecito  dei 
fero,  dovremo  esaminare.  La  gioranetta  abitara  il  castello 
del  patire,  ivi  le  vaste  proprietà  di  costui,  ivi  i  di  lei 
fratelli,  la  madre,  il  monastero  privilegiato,  di  là  fl  dia- 
letto di  cai  è  intinta  la  Tenzone:  insomma  in  Puglia,  e 
precisamente  in  Bari  la  scena.  Il  seguito  di  questo  Co- 
mento,  ribadirà  quanto  affermo,  perchè  Puna  parte  dà 
luce  air  altra,  e  tutte  fra  di  loro  si  concatenano. 

A  inforsare  questa  mia  convinzione  mi  sì  oppongono 
chi  diede  cau.sa  alla  Dis^imina  del  1858,  e  il  Grion.  Colui 
fra  lo  tante  e^Jizioni  della  Tenzone,  ripescata  la  più  cor- 
rotta, cioè  quella  del  Gregorio  per  il  Notiziario  di  Corte, 
ove  manca  Bari,  giunse  a  dire  ch'io  fantasticava.  Ma 


—  un  — 

quella  stampa,  oltre  di  essere  ricalco  dell'Allacci,  èmu- 
tiia,  errata,  mancante  della  stanza  19:  Molli  son  li  ga- 
rofani ec,  e  perciò  inutile  straccio  e  imbratto  di  carta; 
e  Dotisi  die  nel  1858  era  già  da  due  anni  pubblicata  la 
seconda  edizione  del  Manuale  del  Nannucci!  A  convincer- 
sene basta  leggere  la  strofa  in  discorso  come  il  mio  cri- 
tico l' accettava  : 


^H    Se  luci  paresti  irovanmì,  e  che  mi  pozon  fare? 
"         Una  defensa  meltoci  di  dumi 

NoD  mi  tocara  patreto  per  quanto  avere  ambare. 

Manca  in  essa  In  rima,  come  vedremo,  manca  un  emisti- 
chio, e  vi  è  creato  dall' emannense  queir  omftare  ignoto 
a  tutta  Italia,  e  chi  lo  adotta,  se  non  altro,  confessa  di* 
non  intenderlo. 

Ecco  a  rincontro  la  lezione  ripetuta  universalmente  e 
meglio  dal  Valerianì,  Sanfilìppo,  Nannucci  ec.  ;  il  confronto 
chiarisce  le  magagne: 


5. 


^pl  6  qui  da  notare  che  unica  rima  legando  questi  tre 
versi,  e  certa  essendo  la  desinenza  di  agostari,  il  Grego- 
rio male  accolse  fare  invece  di  fari,  uscita  rustica,  ma 
ingenua  del  verbo;  e  peggio  quel  mostruoso  ambare. 


Se  tuoi  parenti  irovanmi, 
E  che  mi  posson  fari  ì 
Una  difcRsa  meUoci 
Di  dumìlia  agoslari. 
Non  mi  toccarà  patreto 
Per  quanto  avere  ha  id  Bari. 


—  262  — 

luogo  di  ha  in  Bari.  Per  cui  integrando  la  stanza,  e  re- 
stituendo Bari,  ove  lo  allogò  il  poeta,  la  determinazione 
della  scena,  rifulcita  da  tutte  le  altre  ^circostanze  cooco- 
mitanti,  accquista  maggior  sicurezza  10. 

11  Grion  opina  essere  scritta  la  Tenzone  in  Sicilia  »  e 
non  lo  prova;  e  dippiù  essere  posta  la  scena  né^dimami 
di  Messina,  appoggiandosi  a  due  argomenti.  Il  primo  lo 
trae  da' versi: 


23. 


A  mene  non  aitano 
Amici  né  parenti, 
Istrano,  mi  sod,  carama, 
Infra  està  bona  genti; 

il  secondo  dall'  essere  composta  in  buon  dialetto  siciliano. 
Or  il  primo  prova  la  scena  non  essere  in  Alcamo  o 
al  più  in  Palermo ,  ove  Giulio  avrebbe  avuto  amici  e  pa- 
renti: mentre  il  dichiararsi  istrano  convalida  trovarsi  fuori 
del  regno,  come  allora  appellavasi  a  giusto  titolo  risola. 
La  Puglia  era  ducato,  e  al  pari  de' conquisti  d'Africa  e 
dell'Arcipelago,  provincia  della  vasta  monarchia  siciliana. 
Stranio,  istranio,  straino,  strano  son  lutt'  uno,  e  diceasi  a 
quelli  del  paese  del  quale  non  erano  i  nostri  padri  nativi. 
In  questo  senso  li  vediamo  adoperati  da  Ser  Giovanni  Fio- 
rentino nel  Pecorone;  e  specificatamente  Fra  Guittone 
chiamò  straino  chi  non  era  in  sua  casa,  e  quindi  il  Buo- 
naroti  nella  Fiera  distinse  gli  strani  da'  cittadini.  Perciò  se 
egli  era  istrano  nel  paese  dell'amata,  e  quindi  fuori  del- 
l' isola ,  non  può  assegnarsegli  altra  stanza  temporanea ,  se 
togli  r  avito  di  lei  castello  di  Bari.  Per  quanto  poi  aguzzi 
l'intelletto,  non  vi  so  leggere  i  dintorni  di  Messina.  — 
Nulla  prova  il  secondo  argomento,  ancorché  fosse  vero; 


—  ÌG3  — 
Ciollo  peHet  scrìvere  in  buon  dialelio  sidlumo  Dgi 
in  Calabria,  Puglia,  Toscana  e  Babiiooia:  ì  viaggi  ma 
raoDO  dimenticare  la  materna  fareila.  Rispello  U  Grioa, 
ma  persisto  nella  mia  opioìODe,  molto  piò,  come  vedre- 
mo, per  r  abito  pagliose  della  Tenzooe. 

Aocb'  egli  il  ìlaisi  inlbrsan  amìcameote  il  mìo  crile- 
rìo  poggiaodo  il  sao  dabbio  salla  stanza  13,  oeUa  qoale 
Gallo  enomera  all'amata  i  paesi  cercali  inraao  per  tro- 
vare chi  la  somigliasse  io  cortesia.  Se  fra  quelli  è  la  Pu- 
glia, egli  dicea.  Fono  delia  di  lui  (ntea  rma  en  attrth 
ve.  —  A  [Mima  gioota  semJ)ra  grave  rosservaiioiie:  na 
riflettendo  essere  vasta  qneDa  beUa  parte  deOa  amln  mo- 
narchia; che  a  giovane  saoese,  ast^òna  o  erióM,  pa& 
dirsi  e  si  dice  :  bo  covato  nmio  tmoa  Tntrw,  i  He- 
monte  o  la  Sicilia,  e 

Udoai  BOB  rÉUwai  taaàù  carte»: 

non  vedo  ragiope  a  canibóre  jntcma.  E  gii  è  data  «■■ 
g«oer^roeoie  adottala,  laato  di  Ma  loro  ì  BOfelfi  tcril- 
lorìll. 

D  Di  Giovanni  con  la  Bwwrta  «cane  e  pMlo»  dd 
soo  ingegno,  osservava  cbe  riofocare  die  fi  TaMMa  di 
Ginllo,  nella  sL  ae  dopo  ta  XtaOt,  S.  Matteo,  lior  tkt 
£ce: 

^L  Se^on  ■  Pam,  ■  Fa», 


die  rcaaect  A  itìàm  <|aMU»  besMo  fmdpl  ! 
Saknio,  paò  br  ìadBTc  a  porre  la  ieBB  ia^ 


—  264  — 

tadìnanza,  e  solo  per  divozione  personale  o  di  famiglia, 
come  spesso  avviene,  e  ne  ho  storici  esempii;  che  parte 
del  corpo  di  quel  Santo,  oltre  di  Salerno,  è  in  Beau- 
vais  ed  in  Saint  Mahè  in  Francia  di  cui  è  patrono;  che 
nel  1080  Papa  Gregorio  VII,  giusta  la  testimonianza  del 
Baronio,  riferito  dal  Galvani  p.  24,  rallegrandosi  con  Al- 
fano Arciv.  di  Salerno,  lo  invitava  a  diffonderne  la  di- 
vozione ,  e  ad  eccitar  quella  del  Duca  Roberto  e  della  no- 
bilissima sua  consorte,  aggiungendo  essere  nelle  Due  Si- 
cilie venerato  S.  Matteo  in  quei  tempi  quanto  S.  Marco  in 
Venezia;  che  in  Giulio  ivi  è  ricordato  isolatamente  quel 
nome,  e  qui  espressamente  la  città  di  Bari,  e  poi  il  suo 
celebre  Monastero,  il  castello  e  le  vaste  possessioni  del 
padre  della  giovane,  non  trovo  motivo  ad  innovare  cre- 
denza. 


3. 


Stato  di  Giulio  e  dell'Amata 

Ma  chi  era  Vincenzo  d'Alcamo?  —  Fu  certo  altissi- 
mo personaggio  dell'epoca  sua,  quantunque  le  cronache 
nostre  ne  tacciano.  A  divinarne  lo  stato  concorrono  la  di 
lui  opulenza,  studii,  viaggi,  dottrina,  parentato,  tradizio- 
ne. I  nostri  critici  e  storici  viventi,  e  meglio  Sanfilippo, 
Di  Giovanni,  Grion,  La  Lumia,  ritennero  vero  quanto  ho 
precedentemente  annunziato  al  proposito,  t  ali' K4e>s'ora 
lo  ampliarono.  Senza  occuparci  di  cl)i  lo  giudicò  idiota , 
plebeo,  tapino,  tanghero,  noi  riguardando  alle  Costituzioni 
del  tempo,  continueremo  a  chiamarlo  uno  de' primi  ma- 
gnati del  regno. 

Se  nel  secolo  XII  a  sminuirne  i  possessi,   diceagli 
r  amata  : 


Meli  esle  di  miironze  1»  tuo  avire; 

!  egli  potea  imporre  una  difensa  di  duemila  agoslari, 
cioè  onze  2i7S,  8,  17,  pari  a  L.  31,  360,  era  ricco  quanto 
0  pia  di  un  principe  sovraDO,  e  dì  dirilto  grande  feuda- 
tario. 

I  viaggi  sono  indice  del  grado  di  Giulio.  Egli  ad  esal- 
tare il  merito  dell'amala  donna  dice: 


I 


i3. 

Cercato  ajo  Calabria, 
Toscana  e  Lombardia, 
Puglia,  CostaDiinopoli , 
Geoua,  Pisa,  Soria, 
La  Magna  e  Babilonia, 
£  tutta  Barberìa  ec. 


Or  nello  stalo  delle  partizioni  territoriali,  diffidenze  e 
guerre  di  quel  secolo,  non  potea  Giulio  viaggiare  da  un 
capo  all'altro  l'oriente  e  P occidente,  senza  il  nome  o  la 
bandiera  del  re  di  Sicilia,  uno  de  più  potenti  d'Europa. 
Suo  padre,  o  che  discendesse  da' cristiani  i  quali  chiama- 
rono i  normanni  ad  aiutarli  a  purgar  Pisola  dagli  arabi, 
0  che  appartene.'^e  a' commilitoni  degli  Altavilla,  dovea 
n&sere  uno  de'pììi  notevoli  baroni,  valutando  la  di  lui 
ricchezza  da  quella  del  figlio.  Perciò  probabilmente,  ed 
anche  prima  di  essere  armato  cavaliere,  potea  seguire  il 
genitore  quando  nel  1148  conquistammo  quant' Africa  è 
compresa  fra  Tripoli,  Tunisi,  Sahara  e  Cairovano.  Parec- 
chie altre  pacifiche  e  militari  spedizioni  vi  furono  ancora 
Ira  il  liso  e  il  1189,  anno  della  morte  del  buon  Gu- 
glielmo, ricordate  da' nostri  cronisti,  alle  quali  polca  e 
dOTea  come  barone  partecipare. 


—  266  — 

Delle  più  gravi  di  esse  è  particolareggiato  racconto 
ne' nostri  storici,  e  meglio  in  quelli  che  di  Guglielmo  II 
hanno  scritto  col  sussidio  della  diplomatica  e  della  critica 
12.  Quind'io  ribadendo  quanto  toccarono  al  proposito  il 
Sanfilippo  e  il  Di  Giovanni,  confermo  aver  potuto  age- 
volmente vedere  il  vasto  oriente  con  le  nostre  flotte  più 
volte  inviate*  in  Palestina  e  in  Egitlo  a  protezione  de'  cn>- 
ciati  ;  la  Lombardia  accompagnato  a'  cavalieri  siciliani ,  che 
seguirono  Romualdo  Arcivescovo  di  Salerno  e  Ruggiero 
conte  d'Andria,  i  quali  nel  1177  conchiusero  15  anni  di 
tregua  in  Venezia  tra  il  Barbarossa  e  re  Guglielmo;  la 
Barberia  quando  nel  1180  la  nostra  poderosa  armata  co- 
strinse Àbu-Jacub  signor  di  Marocco  a  giurarsi  nostro  tri- 
butario con  il  trattato,  ch'ebbe  vita  sino  attempi  di  Fe- 
derico Il  di  Aragona  ;  Costantinopoli  ne'  varii  messaggi  dalla 
nostra  corte  colà  spediti  lungo  il  tempo  del  Buono ,  e  nel- 
r  impresa  di  Tancredi ,  che  vi  si  accostò  vincitore  del  Bo- 
sforo. Allorché  due  nostre  flotte  cariche  del  flore  de'  no- 
stri cavalieri  salvarono  Tiro  e  Tripoli,  e  di  conseguenza 
Antiochia ,  fiaccando  le  armi  di  Saladino ,  è  ben  probabile 
siavi  accorso  il  Sire  di  Alcamo.  Non  parlo  de' varii  stati 
d' Italia ,  riuscirebbe  superfluo.  È  verisimile  abbia  egli  par- 
tecipato alle  trattative  del  maritaggio  della  principessa  Co- 
stanza con  Enrico  figlio  del  Barbarossa;  e  in  Lombardia, 
allorché  essa  medesima  recossi  in  Milano  ad  impalmare 
lo  sposo,  seguita  dal  corteo  de' grandi  signori  della  Sici- 
lia, e  da  cinquanta  some  d'oro,  d'argento,  di  preziosi 
arredi  d'ogni  maniera. 

Queste  peregrinazioni  non  sono  una  finzione  poetica: 
né  Giulio  potea  mentire  innanzi  ai  suoi  contemporanei, 
innanzi  all'amata.  Senza  del  che  i  versi: 

Donna  non  ritrovai  tanto  cortesi, 
Onde  sovrana  di  mene  ti  presi. 


—  ÌG1  — 
I  un  elogio,  sarebbero  riusciti  un  dile^io  13.  Conrer- 
Wno  l'emineule  suo  grado  i  titoli  di  cui  P onora  l'amala 
Uamandolu  mio  Sire  appellativo  di  eccelsa  distinzione,  e 
\aiadino,  di' io  ritengo  qual  vocativo,  titolo  competente 
jF  supremi  personaggi  delie  corti  normanna  e  sveva. 
j  La  tradizione  municipale  celebra  Giulio  costantemente 
Ida  secoli  come  un  grande  signore:  quindi  gli  attribuisce 
Pfir  abitazione  un  castello ,  eli'  ebbe  forse  originariamente 
^al  Bonifalo,  ove  sorgeva  dapprima  il  grosso  dell'antica 
Alcamo,  e  che  di  poi  i  suoi  discendenti  riedilicarono  nel 
piano  della  cìltà  nuova.  Senza  del  che  non  sarebbesi  per- 
petuata nel  popolo  la  denominazione  di  Casa  di  Giulio  a 
quella  magione  14. 

.41tro  documento  dell'  elevata  posizione  e  del  merito 
del  nostro  poeta,  è  la  stessa  di  lui  Tenzone.  Mentre  po- 
chi Tra'  nobili  sapeano  scrivere ,  e  chierico  era  sinonimo  di 
letterato  15,  Giulio    dettava   una    lirica  di   160  versi,  in 
32  stanze  uniformi ,  con  tre  rime  alternate  con  isdruccioli 
in  cìa.scuna,  oltre  quelle  degli  ultimi    due  versi  baciate. 
^-Perché  egli  a  lauto  fosse  potuto  giungere,   dovette  avere 
^■levata  e  distintissima  nascita  ed  educazione,  e  non  pochi 
^Rbi  canti  dovette  trovare  antecedentemente.  E  dì  ciò  ab- 
^Trtamo  una  testimonianza  nella  Tavola  delle  voci  notabili  di 
Federico  Ubaldini,  il  quale  riferendo  die  Giulio  d'Alcamo 
osò    frequente  la   voce'uun  per   iVi  uno,   rapportò  i  se- 
guenti quattro  versi  tratti  da  una  canzone  a  lui  attribuita 
in  un  testo  a  penna  vaticano: 

Se  'nuno  core  ^^^^H 

meo  amore  ^^^^H 

Folleiato  aggia,  ^^^^| 

Se  lue  esto  saggia  ....  ^M 

I  Codice  Barberino  la  Tenzone  è  preceduta  da'        ^^^M 


—  268  — 

Virgo  pietosa,  sgutami. 
Ch'io  non  perisca  a  torto, 

cb' estimansi  di  Giulio,  e  ch'io  reputo  tratti  da  qualche 
di  lui  lirica  su'  pericoli  dell'  amore  con  la  bella  barese  16. 

Dante  chiamò  plebeo  il  suo  stile,  non  la  sua  persona, 
e  sarebbe  stato  meglio  chiamarlo  arcaico.  Queir  Altissimo 
non  registrava  le  famiglie  nobili  d'Italia  come  il  conte 
Litta;  bensì  cribrava  il  volgare  eloquio  della  penisola. 
Tanto  ciò  vero ,  che  fra  i  plebei  non  solo  annoverò  il  no- 
stro alcamese,  ma  sì  pure  Guitton  d^  Arezzo,  nato  di  gen- 
tilissimo stocco,  figlio  di  Viva  di  Michele  Gamerlingo  di 
quel  Gomune;  ed  il  Guittone  fu  ascritto  all'ordine  eque- 
stre de' cavalieri  di  Santa  Maria,  e  fu  ricco  feudatario  ed 
uomo  di  stato  17.  Per  lo  che  saviamente  il  Grion  bene 
interpreta  che  Dante  citando  la  Tenzone  di  Giulio,  intai- 
dea  indicare  una  poesia,  la  quale,  a  creder  suo,  andava 
allora  fra  le  migliori  e  fra  le  più  divulgate  §.  I.  Quindi 
egli  può  dirsi  a  buon  dritto  barone ,  feudatario ,  paladino , 
sire,  egli  il  più  illustre  poeta  della  reggia  normanna  §.  12. 

Ed  avendo  richiesto  e  avuto  in  consorte  opulente  e 
nobilissima  donna,  la  più  cortese  di  quante  ne  avesse  vi- 
sto ne' suoi  viaggi,  ne  assoda  essere  egli  ad  essa  pari  di 
grado.  L'amata  dovea  appartenere  ad  una  delle  più  rag- 
guardevoli prosapie  della  monarchia,  quando  essa  avverte 
Giulio  di  potere  essere  ucciso  dai  di  lei  consanguinei,  e 
il  di  lui  corpo  impunemente  gittate  ne' correnti,  che  in- 
torniavano il  castello,  per  cui  egli  è  obbligato  ad  opporle 
la  ingente  difesa  di  duemila  agostari.  Quando  essa  gli  ag- 
giunge essere  donna  di  perperi;  possedere  monti  d'oro; 
che  sposar  lui  equivarrebbe  a  degradarsi  —  cadere  dal- 
l' altezze  —  ;  che  concederla  a  lui  sarebbe  una  degnazione 
de' di  lei  genitori;   quando  si  considera  che  essa  abitava 


—  26!(  — 

rasa  magnatizia,  chiamata  tre  volle  castello  e  tre  volte 
magione;  e  Onalmente  che  i  di  lei  proci  erano  conti,  ca- 
valieri, marchesi  e  giustizieri,  cioè  i  più  cospicui  perso- 
naggi di  una  delle  più  potenti  corti  di  allora.  Acconcia- 
mente il  Galvani  p.  7,  la  intitola:  doviziosa  e  nobile  ca- 
stellana. 

Né  pelea  essere  altrimenti,  avendo  essa  dritto  di  en- 
trare nel  monastero  di  Bari,  che  fondalo  nel  X  secolo  fu 
destinato  a  ricevere  la  nobiltà  pili  fiorita,  e  raccolse  don- 
zelle di  regio  ed  imperiai  sangue  18.  E  che  non  sarebbe 
degno  di  toccarle  la  mano  il  possessore  de'  favolosi  tesori 
del  Soldano  e  del  Saladino,  ancorché  ne  facesse  a  lei  dono. 
SI.  6.  Qual  maraviglia  adunque  eli' ella  vestisse  gli  abiti 
più  ricchi  del  tempo,  St.  23,  il  di  cui  splendore  amma- 
liava il  paladino  poeta?  E  quanto  è  qui  detto  .■<!  corrobora 
e  connette  con  quello  che  andrò  svolgendo  ne'  seguenti 
paragrafi.  Non  faccia  senso  agl'inesperti  il  dirgli  l'amata 
non  esser  degno  della  di  lei  mano,  posseder  poco  al  di 
lei  paraggTO,  ed  egli  chiamarla  villana,  St.  13,  nel  fer- 
vore della  conciUizione  del  dialogo.  Eran  dardi  di  amore, 
ed  essa,  che  la  prima  era  corsa  alle  offese,  nobilmente 
a  lui  ne  chiede  mercede  pria  dì  andarne  al  letto,  se  mi- 
Teso  mai  l'abbia. 


r 


Siegue.  Valori  del  medio  evo. 


Non  potremo  estimare  adeguatamente  lo  stato  de'  per- 
sonaggi di  cui  ci  occupiamo,  senza  richiamarci  a  memoria 
i  valori  del  medio  evo.  A  conoscere  quanto  valesse  chi 
poteva  imporre  a  sua  difesa  duemila  agostari,  e  possedeva 
le  onze,  è  mestieri  retrocedere  sette  secoli,  e  farci  con- 


jniU, 


—  270  — 

temporanei  aggrandì  del  XII.  E  prima  aggiungo  che  co-, 
lui,  il  quale  possedea  once  dieci  annuali,  era  per  le  nor 
stre  leggi  barone  del  regno;  e  siccome  Giulio  avea  molto 
di  più  di  onze  mille  in  avire,  e  disponibili  al  di  là  di 
onze  2,475,  potea  rivaleggiare  coi  nati  da' re.  Perciò  Giulio 
avendo  del  suo  in  beni  fondi  —  ed  è  poco  —  oltre  onze 
duecento  di  rendita,  potea  essere  venti  volte  feudatario,  e 
dovea  condurre  secolui  in  battaglia  largo  stuolo  di  fanti 
e  cavalieri.  Alcamo  al  1300  era  tassata  per  100  pedoni  e 
33  cavalli  ;  s' egli  ne  fu  signore ,  pareggiava  i  figli  e  nipoti 
del  Gonte  Ruggiero  19. 

A  ragguagliare  i  valori,  ricordo  Oddardo  Terreri  e  sua 
moglie  Emma  nel  1156  aver  venduto  a  Pietro  di  S.  Bar- 
tolomeo le  case  loro  e  del  Gaito  Kusaen  poste  in  Palermo 
per  trenta  tari;  Filippo  Orsino  nel  1170  otto  tumoli  di 
terreno  a  Nicolò  Xero  per  cinquantasette  tari  20;  Grane- 
rio  sacerdote  e  Omenessa  sua  moglie  nel  1183  il  podere 
denominato  di  Flaciano  con  altre  possessioni  limitrofe  e 
tutti  i  villani  a  Messer  Pancrazio  catecumeno  del  venera- 
bile monastero  di  Demona  per  tari  cento  21;  Michele  il 
Flebotomo  nel  1216  a  Giovanni  Endelusi,  canonica)  e  te- 
soriere della  cattedrale  di  Palermo,  l'intera  di  lui  ofB- 
cina  ivi  posta  per  tari  venti  22.  Perciò  non  faccia  mara- 
viglia se  regnando  gli  svevi  una  salma  di  frumento  valeva 
tari  S,  d'orzo  tari  2,  10;  un  giorno  d'aratro  grani  6  e 
piccoli  4,  la  giornata^!  un  uomo  per  zappare  grani  2, 
per  mietere  5,  una  gallina  grani  4  e  le  uova  quattordici 
a  grano.  Gli  estesissimi  boschi  di  Troina  sino  a  Brente  fu- 
rono valutati  onze  200!  Dopo  gli  aragonesi  questi  valori 
crebbero  progressivamente,  come  è  dimostrato  dall' od- 
doamento  del  servizio  militare  prestato  da' feudatari  sici- 
liani, riferito  da' nostri  pubblicisti.  Bastano  questi  cenni  a 
determinare  la  gentile  origine,  la  potenza,  la  sapienza  di 
Giulio  e  di  colei,  che  gli  fu  moglie.  V.  §.  12.  23. 


5.3. 

Qaando  scrisse  Giulio? 


Disaminato  l'essere  del  nostro  poeta,  è  i 
volgerci  a  indagare  l'epoia  quand'egli  dettava  la  famosa 
Tenzone.  È  questo  uno  dei  maggiori  dubbii  che  essa  pre- 
senti, ma  fortunatamente  ne  divinarono  la  soluzione  Leone 
Allacci,  G.  B.  Strozzi,  Castelvetro,  e  quindi  Girolamo  Ti- 
rat)oschì,  il  quale  la  disse  contemporanea  ad  Enrico  VI. 
Lo  seguirono  molti  degli  storici  della  nostra  letteratura, 
tra  i  [luali  il  Maffei,  che  la  pose  anteriore  al  1193,  e  così 
il  Valeriani  al  1197,  e  ultimamente  il  Trucchi,  anch' egli 
allogandola  nella  seconda  metà  del  secolo  XH.  Pier  Vin- 
cenzo Pasquìni  corse  più  innanzi,  allorché  stampava:  sa- 
prei lUmoslrare  con  buoni  argommUi  che  Giulio  fu  imlu- 
bilalamenle  anteriore  agli  svevì.  Nel  1869  disaminando  la 
quistione,  e,  senza  aggiungere  nuovi  argomenti  a  quelli 
enunciati  da'* nostri,  lo  fa  dieci  e  forse  anclie  tredici  anni 
posteriore  a  Folcaccliiero  de'Folcacchierì.  È  contradizione? 
Lo  risolva  egli  medesimo:  io  noto  e  aintinuo  24. 

Si  dice  all'  incontro  che  Angelo  Colocci ,  morto  nel 
1546,  ebbe  per  le  mani  poesie  inedite  del  nostro  trova- 
tore nelle  quali  nomina  Fra  Guittone,  e  allude  a  N.'  Ja- 
copo da  Lentini;  ma  l'Allacci  medesimo  dichiara  che  an- 
corché hnbbia  usata  diligenza  nelli  manoscritti  notamenti 
del  Colocci,  non  vi  ha  però  trovato  tali  parole  25.  All'op- 
posto altri ,  tra  i  quali  il  Nannucci ,  il  Cantù  e  l' istesso 
fino»  la  pongono  alia  metà  del  secolo  sus.seguente.  For- 
tunatamente il  Sanfilìppo,  Vincenzo  Di  Giovanni  e  Isidoro 
La  Lumia  meco  d'accordo,  dileguarono,  o  a  dir  meglio 
eradicarono  i  dubbii  nel  modo  il  più  incontrovertìbile. 


—  272  — 

Quantunqae  la  lìngua ,  lo  stile  e  V  ortografia  di  quella 
celebre  Tenzone  me  ne  assicurino  la  vetustà,  non  credo  es- 
sere fiorito  Giulio  attempi  normanni,  e  molto  meno  attem- 
pi di  Federico  :  per  me  nacque  sotto  i  normanni ,  regnando 
Guglielmo  il  Malo ,  e  scrisse  imperando  Enrico  VI.  U  Iei>- 
tinese  e  V  alcamese  non  furono  e  non  poteano  essare  con- 
temporanei: sono  di  stampo  diverso,  e  chi  li  crede  coe- 
tanei s' inganna.  Nel  medesimo  t^mpo ,  nella  medesima 
corte  non  potea  coesistere  cotanta  notevole  difformità.  Chi 
ha  occhi  e  tatto  esercitati  in  cosifatte  investigazioni,  non 
sarà  certo  gabbato  dalP asserzione  degl'ignoti  teUuni,  at- 
tribuita al  Golocci.  L' esame  seguente  farà  disparire  le  di- 
sopinioni. 


6. 


Siegue.  Difesa,  imperatore. 

Le  strofe  5  e  6  mentre  suscitano  apparenti  difficoltà , 
prestano  in  fatto  le  più  valide  prove  a  determinare  Tetà 
della  Tenzone,  la  mercè  di  reiterati  sincronismi.  Giulio 
avvertito  dall'amata  di  poter  essere  ucciso  da' di  lei  con- 
sanguinei, le  risponde  di  opporre  alla  loro  prepotenza 
una  difesa  di  2,000  agostari,  ed  invoca  a  salvaguardia 
r  autorità  sovrana.  Ed  essa  ripicca  :  se  tu  mi  donassi  quan- 
Vha  il  Saladino,  e  per  giunta  quant'Aa  il  Saldano^  non 
mi  toccheresti  la  mano.  In  questi  versi  storici  sono  cinque 
dubbii,  e  altrettante  conferme  della  priorità  della  Tenzone 
al  glorioso  regno  di  Federico.  L'imparziale  loro  analisi, 
farà  evidente  il  vero. 

Essendo  stati  due  gì'  imperatori  e  all'  istess'  ora  re  di 
Sicilia,  Enrico  e  Federico,  di  quale  di  essi  invoca  la  legge 
e  il  nome?  Coloro  che  opinano  essere  la  Tenzone  coeva 


—  273  — 

a  Federico,  credono  avere  primo  costui  bandito  siffetta 
legge,  e  nella  quarta  deca  del  secolo  XIII.  Perciò  schia- 
rire Terrore,  basta  dimostrarne  la  preestslenza  e  l'uso 
comunissimo  in  Italia  e  in  Siritìa. 

Questa  maniera  di  garanzie  personali,  ebbe  Tra  noi  il 
nome  di  multa  e  composizione,  e  da  tempo  immemora- 
bile vive  tuttora  nel  continente  e  nell'isola.  Senza  specu- 
lare (]uando  e  da  chi  fosse  stata  fra  di  noi  introdotta,  è 
l'erto  Tacito  ricordarla  fra'  costumi  germanici  ;  i  romani 
averla  conosciuta  sin  da' tempi  della  repubblica;  i  longo- 
bardi e  i  galli  quindi  qui  la  ribadirono;  si  legge  ancora 
ne' Capitula  Caroti  Magni  et  Charta  Dagoberti,  anno  635 
e  7SI  presso  il  Mabillonio:  e  in  Italia  fu  viemmaggior- 
mento  assodata  da'  normanni ,  da'  pnpi ,  e  da  quanti  ebbe 
prìncipi.  Se  pure,  come  sembra  piìi  verisimile,  non  sia 
indigena,  giusta  i  snguentì  indizii.  Avvegnaché  essa  è  de- 
nominala faeda  e  fredo  alla  barbara,  composizione  alla  la- 
tina, e  mitlta  air  italiana.  Difatti  il  Remondini  Iroxa  multa 
in  una  iscrizione  elrusca,  che  si  conserva  nel  Seminario 
di  Nola  ;  leggiamo  in  Festo  :  mnUam  osci  dici  pulant  p(e- 
nam  quidam;  e  in  Varrone  riferito  da  A.  Gelilo:  mullae 
vocabuhim  non  latinum,  sed  sabinum  esse;  idque  ad  suam 
memoriam  mansisse  in  lingua  samniiinm.  Se  a'  sopra  no- 
tali testi  aggiungiamo  quanto  registrò  il  Fabbretti,  cioè 
averla  detta  muliatic^  gli  etruschi,  ed  essere  usuale  presso 
gli  antichissimi  italici,  non  vi  saranno  più  increduli.  Tal- 
volta alle  mulle  vennero  sostituite  pene  corporali  e  infa- 
mami; come  oggi  nel  nuovo  Regno  d'Italia  chi  non  può 
pagarle  al  Fisco,  le  sconta  col  carcere  valutato  da'' nostri 
legislatori  L.  2  per  ogni  ventiquattro  ore.  Dapoìchè  si 
credeva  allora —  tempi  barbari  — e  si  crede  oggi  —  tempi 
civili — ,  che  il  danaro  si  possa  rìc-attar  con  la  pena,  e 
la  pena  col  danaro!  La  mutla  per  lo  più  si  divise  in 
due  parti,  l' una  delle  quali  dovea   essere  pagata  al  Fi- 

18 


—  274  — 

SCO,  fredo;  T altra  a  chi  avesse  sofferto  il  danno, 
posizione. 

Nessuno ,  che  io  sappia ,  chiarisce  questo  difficile  t 
meglio  deir  illustre  A.  Manzoni  giovandosi  delle  inves 
zioni  del  Montesquieu;  ed  io  a  testimonio  di  riverem 
tesoro  delle  sue  idee.  Il  fredo  o  feida,  nella  sua  ver 
senza  feudale,  giuridica,  era  quanto  doveasi  per  la 
tezione  accordata  dalla  legge  a' cittadini;  la  compoH2 
0  difensa,  quanto  doveasi  a  chi  avesse  patito  ingii 
danno,  ferita,  o  la  morte  di  un  suo  intimo.  Il  fred 
proporzionava  alla  grandezza  del  protettore,  march 
conte ,  duca ,  re ,  imperatore  ;  e  quindi  il  fredo  allo  si 
la  difesa  o  composizione  spettava  all'offeso. 

A  meglio  validare  quanto  abbiamo  detto  nel  §.  ^ 
i  valori  di  quel  tempo,  e  dimostrare  essere  queste  1 
anteriori  agli  svevi,  ecco  una  nota  delle  principali  n 
0  composizioni  pecuniarie  sancite  daMongobardi  per  1 
lia,  secondo  il  Nugnes  nella  Storia  di  Napoli,  e  t 
dall'editto  di  Rotari: 

Omicidio  premeditato  di  un  libero    ....  Soldi 

Veneflcio  premeditato 

Di  un  aldio  di  altri 

Mutilazione  del  naso ,  accecamento  di  un  occhio , 
perdita  di  uno  o  due  denti ,  da  un  soldo  a 

Violatori  di  sepolcri 

Chi  spogliava  un  annegato 

Chi  faceva  abortire  una  serva  o  un^  giumenta  . 

Perciò  valutavasi  un  rustico 

Un  pecoraio,  massaro  o  bifolco 

Un  custode  di  porci 

Un  domestico 

Un  aldio ,  libero  di  persona  e  non  di  sostanze . 

Un  libero  cittadino 

e  cosi  via  26. 


—  273  — 

Ma  queste  difese  conoscevansi  in  Sicilia?  Non  < 
siavi  bisogno  di  ullerrori  lestimonianze.  Pure  a  serenare  ìl 
signor  Grion,  e  quanti  altri  potessero  opinare  secondo  Ini, 
potrei  chiarirgli  con  ctnlo  esempi  la  consuetudine  uni- 
versale neir  isola  sin  dall'antichità  di  sìfatte  guarentigie; 
ma  per  brevità  mi  limito  al  tempo  di  Giulio,  e  prima  che 
Tosse  nato  Federico  li.  Nel  H70  Filippo  Orsino  mette  una 
difesa  di  36  numismi  a  favore  del  Fisco  contro  chi  turbi 
Nicolò  Xero  nel  possesso  pacifico  del  fondo  vendutogli. 
Nel  1192  Niccolò  e  Teodoro  permutano  con  Pancrazio  due 
poderi,  se  ne  impongono  una  scambievolmente,  e  altra 
in  prò  del  Fisco  per  chi  mancasse  a' patti  consentiti.  Gu- 
glielmo [|  con  fa  Costituzione  XXXIV  del  Codice  Vaticano 
pubblicato  dal  Merkel ,  ìmponea  la  multa  di  3  soldi  d' oro 
a  chi  depilasse  la  barba  di  un  cittadino  in  rissa,  e  fuori 
rissa  di  6,  27.  Pertanto  ed  il  poeta  e  la  giovane  amata 
dovevano  aver  familiare  in  Puglia  e  in  Sicilia  il  sistema 
delle  tiìKlle  0  difese.  11  ricorrere  alte  Costituzioni  di  Fe- 
derico del  1232,  mostra  poca,  conoscenza  pratica  della 
nostra  storia  giuridica.  Le  Costituzioni  di  Melfi  per  altro 
Don  furono  una  novità  nella  monarchia  siciliana  insulare  e 
rantinenlale;  invece  nella  massima  parte  una  collezione 
delle  prescrizioni  pmcedenti  de'  Parlamenti  e  de'  prin- 
cipi 28. 

Ma  il  Viva  lo  nniieralore,  fjrazie  a  Beo,  dee  rife- 
rirsi ad  Enrico  o  a  Fi'derico?  Per  chi  ignora  le  nostre 
leggi,  all'uno  e  all' altro  potrebbesi.  A  dileguare  le  peri- 
tanze occorre  il  mio  imico  Vincenzo  Di  Giovanni  con  la 
setfuente  opportuna  considerazione  29.  Net  Parlamento  di 
Melfi  del  1231  Federico  II  fece  imporre  la  pena  capitale 
a' rapitori  di  donzelle,  e  a  chi  facesse  violenza  a  donna 
qualunque  eziandio  non  onesta.  Or  se  Ciullo  tentava  la 
giovane  a  cedere  alle  sue  voglie,  all'  insaputa  de' suoi  ge- 
aitori,  come  e  perchè   invocare  F  inesorabile  autore  dì 


—  276  — 

quella  legge?  E  quali  si  fossero  i  suoi  iuteoti  è  palese 
dalle  strofe  17  e  25.  Perciò  T  apostrofe  è  diretta  ad  En- 
rico ,  non  già  a  Federico  ;  e  Giulio  si  valse  a  buon  dritto 
dell'antica  guarentigia,  imponendo  duemila  agostarì  per 
sua  difesa  a  chi  V  offendesse ,  ed  invocando  il  nome  della 
suprema  potestà  tutrice  delle  leggi. 


8.7. 
Siegue.  Agostari. 

Volgiamoci  ormai  agli  agostarì ,  moneta  di  coi  parla 
r  alcamese ,  poiché  V  essere  preesistita  a  Federico  II ,  as- 
soda viemeglio  la  fede  di  nascita  della  nostra  Tenzone. 

Nel  §.  2  di  questo  Gomentario  abbiamo  riferito  la 
St.  5  nella  quale  Giulio  li  nomina.  Più  di  un  crìtico^  tra 
i  quali  il  Nannucci  e  ultimamente  il  Grion,  notando  aver 
queir  imperatore  e  re  di  Sicilia  ordinato  la  coniazione  degli 
agostari  nella  seconda  o  terza  deca  del  secolo  XIII,  ba 
estimato  la  Tenzone  posteriore  all'epoca  sopraccennata.  E 
se  mai  gli  agostari  non  fossero  stati  antecedentemente  co- 
nosciuti, quella  data  cronologica  avebbe  arruffato  la  ma- 
tassa. 

Lacera  la  serie,  e  pochi  i  superstiti  diplomi  della 
prima  e  della  seconda  dinastia  siciliana;  dapoichè  fra  gli 
altri  malefizii,  dobbiamo  a  Garlo  d'Angiò  lo  sperpero  di 
essi,  avendone  distrutto  quanto  fu  in  suo  potere ,  quasi  i 
dritti  dell'isola  stessero  nelle  pergamene.  E  pure  noi  ab- 
biamo ricordo  che  «  ben  prima  di  Federico  vi  erano  mo- 
nete dette  agostari  ;  ed  erano  le  antiche  monete  augusiales, 
le  monete  de'  Gesari  Augusti  30  » . 

Quella  moneta  coniata  originariamente  in  Bisanzio, 
come  vedremo,  si  era  diffusa  per  tutto  T  oriente,  e  quindi 


—  277  — 

fra  i  masulmaoi,  che  volgarmente  e  impropriamente  «r-  " 
dti  da' Qostri  addlmandavansi  ;  per  cui  Lorenzo  Bonincon- 
tro  scrivea:  Post  tandem  pax  Ananiae  cnm  Pontifice  fir- 
mala fuit,  quam  magister  equìtum  Rkhardus  Fìlagirus 
sicatns,  augusto  mense  anno  eodevi  firmavit  persolutis 
ccn/uni  vigiitti  aagustalìbiis,  sic  entm  ìd  genus  monelae 
turcae  appellabant  31. 

Un  altro  ricordo  di  questo  nummo  troviamo  ne'  Di- 
plomi normanni  siciliaoi,  e  proprianneote  nella  Costituzione 
65*  di  Guglielmo  I,  De  officio  Bajulorum,  ove  si  legge: 
quae  tamen  poena  ^[uaatitatem  augustalis  unius  per  ti- 
ces  singutas  non  excedat.  Qualche  pubblicista  evulgò  er- 
roneamente tale  Costituzione  a  nome  di  Federico  11;  ma 
Huillard  Bréholles  la  restituì  a  Guglielmo  il  Malo  secondo 
i  piti  riputati  antichi  codici,  apponendovi  questa  nota:  In  ■ 
quibusdam  edilionifnts  et  etiam  apud  Carcani,  Friderico 
Imperatori  Utiiltis  adscribìlur.  Codicein  vei'o  nostrum  se- 
CHti  hanc  et  seqtientes  leges  patius  a  Guillelmo  emanasse 
arbilramttr  32.  Né  in  questo  solo  luogo  è  corretto  il  Car- 
cajii,  ma  parimenti  io  diversi  altri  titoli  delle  sicule  Co- 
stituzioni, come  può  consultarsi:  e  nello  stato  presente 
degli  stadii  diplomatici  della  nostra  monarchia,  non  vi  è 
giudice  più  sicuro  di  Huillard  Bréholles. 

La  Costituzione  di  cui  è  parola,  fa  parte  del  corpo 
delle  leggi  sancite  dal  Parlamento  di  Melfi,  grande  nu- 
mero delle  quali  erano  state  emanate  dal  re  Ruggiero, 
quasi  il  doppio  da  Guglielmo  I,  le  rimanenti  furono  da 
Federico.  Questo  dichiararono  Pietro  delie  Vigne,  che  le 
compilò,  e  il  medesimo  Federico  nella  introduzione  alle 
stesse  33.  E  a  rassodare  quanto  ben  disse  V  Huillard  Br&- 
hoUes,  osservo  che  la  Costituzione  (15  riferita  dal  Carcani 
a  p.  68  del  libro  1°,  fu  modiQcata  da  Federico,  come  si 
legge  neir  Huillard  a  p.  37;  e  quindi  ne  esistono  due,  la 
prima  nonoanna,  la  seconda  sveva;   in  quella  è  ragione 


L 


■ 


—  278  — 

delP agostaro ,  in  questa  se  ne  tace:  onde  non  possono 
fra  dì  loro  confondersi.  Del  soldo  d'oro  è  parola  nella 
Costituzione  XXXIV  di  Guglielmo  II  evulgata  dal  Merkel. 

L'egregio  Pietro  Sanfilippo,  tenuti  presenti  gli  argo- 
menti de' dotti,  che  lo  precessero,  sostenne  essere  stati 
cogniti  gli  agostari  in  Italia  fin  dall'epoca  de' longobardi 
34.  Egli  considerando  col  Tiraboschi  essere  Mons.  Vincenzo 
Borghini  «  uom  versatissimo  nella  storia,  nelle  antichità, 
nella  critica  e  nella  diplomatica  ancora,  e  dotato  di  buon 
criterio  nel  discernere  le  vere  dalle  false  opinioni  »  ri- 
porta la  di  lui  testimonianza,  mercè  la  quale  si  conosce 
essere  in  corso  sin  dal  tempo  de' longobardi ,  e  all'istes- 
s'ora  aggiunge  l'etimologia  di  quei  numismi,  con  queste 
parole:  «  A  dire  il  vero  si  conosce  che  dagli  imperiali  e 
forse  papali  in  fuore,  non  si  trovavano  agevolmente  in 
quei  tempi  di  qua  da  noi  parlando ,  monete  d' oro ,  e  del 
non  si  sentire  ricordare  per  le  scritture  lo  mostra  il  fatto , 
perchè  agostari  e  bisanti  che  da' longobardi  in  qua  in  an- 
tichissime scritture  e  privilegii  si  leggono;  dei  quali  il 
primo  non  pare  che  abbia  dubbio,  che  dal  nome  di  Au- 
gusto si  chiamasse;  il  secondo  per  avventura  dalla  città 
di  Bisanzio,  seggio  allora  del  greco  impero,  ebbe  il  no- 
me 35  ». 

Il  Borghini  non  determina  l'origine  di  sifatta  mone- 
ta ,  al  che  occorre  Antonio  GrafBoni ,  il  quale  presso  l' Ar- 
gelati  a  proposito  del  soldo  d' oro ,  che  fecero  battere  Co- 
stantino e  Valentiano,  scrisse:  «  E  questo  si  è  il  soldo 
d'oro  di  cui  tratta  Giustiniano  nelle  sue  leggi,  che  per 
essere  la  sesta  parte  dell'  oncia  fu  chiamato  sextula ,  come 
dice  S.  Isidoro  nelle  sue  Etimologie.  E  questo  similmente 
è  r  agostaro ,  di  cui  discorre  Mons.  Borghini  nel  suo  Trat- 
tato delle  monete,  ed  il  Vocabolario  della  Crusca  nella 
voce  agostaro,  il  quale  ebbe  l'origine  da  Costantino  Au- 
gusto 36  B.  Che  il  soldo  d'oro  sia  come  l' agostaro  una 


—  Ì79  = 
ToDcia,  è  riconfermalo  aeir  Archivio   NapolìtaDO, 
ove  leggo:  ■  Solidus  auretts  e  sexla  unciae  parte  costa- 
bat  ac  propferea  mmctipari  eliam  sextula  consuenil  37  • . 

Dal  sopradetlo  si  deduce  che  soldo  d'oro,  sextula 
ed  agostaro  siano  sinonimi,  e  forse  anche  il  numìsmo, 
coraanissimo  ne' diplomi  noiTnanni,  equivaler  all' agosta- 
ro, come  sapienti  antiquari]  opinano;  che  dagli  Augusti 
ricevette  il  nome;  che  fu  coniato  in  Bisanzio;  ed  ebbe 
origine  da  Costantino  Augusto,  e  -valeva  una  sesta  parte 
dell'  oncia. 

Ribadendo  quanto  dì  sopra,  aggiungo  che  gli  arabi 
quando  vennero  in  Sicilia  conosceano  V  agostaro  ne'  loro 
paesi  orìginarii,  e  qui  lo  trovarono  insieme  alle  altre  mo- 
nete bisantine.  E  ad  esso  rapportarono  le  loro  tanto  gli 
aglabitì,  quanto  i  primi  fatemiti  riducendolo  e  valutandolo 
ad  una  quarta,  invece  di  una  sesta  d'oncia,  onde  equipa- 
rarlo al  loro  dinar  38.  V  istesso  sistema  conservarono  ì 
normanni,  per  i  quali  fu  una  moneta  piuttosto  nominale 
che  reale;  e  di  conseguenza  l'Imperatore  Federico  11  vo- 
lendola ridurre  a  moneta  effettiva,  adottò  il  pregio  arabo- 
normanno,  e  quindi  secondo  riferisce  Riccardo  di  S.  Ger- 
mano, nel  1221  fece  coniare  in  Brindisi  e  in  Messina  i 
nuovi  agostari  d'oro:  Mense  decembrts  1221  nummi  au- 
rei, gui  augustales  vocantur,  de  mandato  Imperaloris  in 
Utraque  Sicilia,  Brundisii  et  Messanae  cudunfur. 
1222.  Mense  innii  quidam  Thomas  de  Bando  ciiis  sca- 
lettsis  novam  monelam  auri,  quue  Aiigtistalis  dicitar ,  ad 
S.  Germanum  detulil  di»tribuendam  per  lotam  Abbatiam 
et  S.  Germanum ,  «1  ipsa  moneta  utantur  homines  in  em- 
ptionibus  el  vendilionibus  suis  juxta  valorem  eì  ab  Impe- 
ratore constifutum,  ut  quilibel  nummus  aureus  recipialur 
et  expetidatur  prò  quarta  ancia,  sub  panna  personarum 
et  rerum  in  impertatibus  literis,  qiias  idem  Thomas  de- 
tulii  annotata.  Figura  Augitstalis  erat  ab  uno  latere  co- 


—  280  — 

put  hominis  cum  inedia  facie,  et  ab  alio  aquilam.  Lodo- 
vico Muratori,  appoggiandosi  e  di  accordo  con  Apostolo 
Zeno ,  cui  veterum  nummorum  est  insignis  peritia  y  dica: 
il  volgo  aver  creduto  essere  stati  chiamati  agostari  da 
Federico  II  augusto,  ma  ch'essi  prendean  nome  da  Ce- 
sare Augusto;  e  conchiude  che  il  loro  peso,  valore  e 
coniazione  longe  antea  ad  inventam  disdmus  ec.  39. 

I  nostri  storici  e  letterati  dissentono  delP  anno  quando 
fu  coniata  e  dìifusa  questa  moneta:  gP insulari  inclinano 
a  crederla  del  1222,  i  continentali  del  1232.  Io  non  mi 
soffermo  su  questa  inutile  disamina:  non  è  quistione  di 
decennio,  bensì  di  centennii:  certo  sono  differenti  mone- 
te, le  prime  bisantine,  siciliane  le  seconde. 

A  conferma  di  quanto  abbiamo  esposto,  ritomo  al 
Borghini.  Egli  che  alla  p.  127  scrivea  essere  rammemo- 
rati gli  agostari  nelle  antichissime  scritture  e  privUegii 
longobardi;  poi  a  p.  221  e  223,  ragiona  distintamente 
deiragostaro  di  Federico  II,  citando  Giovanni  Villani;  il 
che  dimostra  aver  egli  conosciuto  P  antico  ed  il  nuovo. 
Ecco  le  di  lui  parole  a  p.  221  ;  «  Questo  agostaro  di  cui 
parla  Giovanni  Villani ,  dovette  essere  battuto ,  o  appunto, 
0  assai  vicino  alla  ragione  della  vecchia  moneta  (f  oro  do- 
gi'imperatori  romani  ».  E  a  p.  223:  «  ma  che  le  prin- 
cipali monete  dell'oro  fra  le  quali  essere  l' agostaro  il 
nome  stesso ,  quand'  anche  non  ci  fosse  altro ,  lo  mostre- 
rebbe, fussero  di  questo  peso  di  sei  per  oncia,  intenden- 
do pure  dal  Gran  Costantino  in  qua  > .  Ove  è  da  notare 
non  solo  di  aver  ragionato  prima  del  nuovo  e  quindi  del- 
l'antico  nummo,  ma  sì  pure  di  aggiungere  che  questo 
trae  origine  dal  Gran  Costantino. 

Perciò  non  è  a  dubitare,  a  me  sembra,  che  vi  siano 
state  due  coniazioni  di  agostari  differenti  fra  di  loro  per 
origine,  per  peso  e  valore,  equivalendo  l'antico  ad  una 
sesta ,  e  il  nuovo  ad  una  quarta  d' oncia ,  talché  V  uno  non 


—  261  — 
può  menomamente  con  Taltro  confondersi.  Quindr  se  r ago- 
slaro  in  Sicilia  era  termine  t'enerico  di  qualunque  moneta  sin 
dair  epoca  imperiale;  se  ilalla  sua  origine  e  difTusione  orien- 
tale, ei'a  (letto  moneta  turca,  come  è  riferito;  se  io  trovia- 
mo ricordato  da  Guglielmo  I  e  dalle  antichissime  scritture 
e  privilegii  longobardi;  se  ebbe  nome  da' Cesari  Augusti 
sin  dall'epoca  di  Costantino;  se  è  sinonimo  di  soldo  d'oro, 
di  seslula,  e  Torse  di  numismo,  monete  al  di  qua  e  al  di 
\h  del  Faro,  in  Asia  ed  in  ATrica  divulgale;  se  gli  arabi 
lo  trovarono  in  Sicilia,  e  lo  accrebbero  di  valore  per  uni- 
formarlo al  loro  dinar;  se  Muratori  e  Zeno  lo  estimarono 
di  antichissimo  conio:  se  il  Borghini  parla  a  p.  127  del- 
l'antico, e  a  p.  221  e  223  del  nuovo  agoslaro,  e  li  di- 
stingce  insieme  al  Graffioni,  senza  tener  conto  di  Vergara 
e  di  altri,  i  quali  ne  ragionano;  se  essenzialmente  sono 
fra  (lì  loro  distinti  e  differenti  di  peso,  conio  e  valore, 
I>otea  Giulio  nominarli  allo  scorcio  del  secolo  \1I7  Avea 
bisogno  di  vivere  nel  secolo  XIII  per  giovarsene?  Si,  egli 
e  r  amata  ne  aveano  piena  scienza ,  perchè  in  uso  da  se- 
coli. Ed  egli  trattandosi  di  monete ,  mostrò  ricordare  le 
antiche  a  preferenza  delle  moderne,  come  è  evidente  dalla 
St.  6,  quando  la  rosa  invidiala  ad  ostentare  ricchezza, 
[lomina  il  perpero .  anch'  essa  moneta  d'  oro  degi'  Impera- 
tori bisanlini: 

^  Doona  mi  son  di  perperi. 

^L  D'auro  massa  amotioo. 


*■  Pertanto  P.  Emiliani  Giudici  nel  Florilegio  sanamente 
scrivea:  «  Cbi  argomenta  che  Federico  fosse  il  primo  a 
dare  il  nome  a  ipicsta  moneta,  o  su  questo  argomento 
protrae  l'epoca  di  Giulio  a  quella  de!  monarca  svevo, 
mostra  d'ignorare  la  storia  ».  —  Dietro  queste  conside- 
razioni, rimetto  a' prudenti  il  giudizio  40. 


—  282  — 


§.  8. 
Siegue.  Il  Saladino,  il  Soldano. 

Giulio  fa  dire  air  amata,  come  sopra  abbiamo  cexk- 
nato,  di  essere  ricca  di  casa  sua,  e  scegli  le  offerisse 
quanto  hanno  il  Saladino  e  il  Soldano ,  non  si  farebbe  toc- 
care la  mano.  E  siccome,  per  quanto  si  voglia  sofisticare, 
due  soli  furono  contemporaneamente  cogniti  con  quei  nomi 
fra  noi,  è  mestieri  determinare  chi  furono  e  quando  vis- 
sero. Il  Sanfilippo  e  il  Di  Giovanni  hanno  chiarito ,  il  pri- 
mo essere  Saladino  re  di  Babilonia ,  che  disfece  i  crocìse- 
gnati  nel  1187-1188,  morto  nel  1193;  e  il  secondo  il  Sot 
dano  di  Damasco,  che  nel  1174  sconfisse  T  esercito  del- 
l' imperatore  Emanuele.  Innegabile  essendo  averne  parlato 
Giulio  come  di  persone  viventi,  quella  Tenzone  fu  scrìtta 
tra  il  1174  e  il  1188,  quando  per  le  crociate  la  fama  di 
quei  due  potentissimi  suonava  alta  fra  di  noi.  Molto  più 
perchè  teneasi  come  il  Greso  dell'oriente  il  Saladino,  il 
quale  a  far  dimenticare  nel  1171  le  stragi  la  cui  mercè 
sottomise  l'Egitto,  e  dopo  avere  ucciso  il  Galiffo  Àded, 
e  usurpato  l'impero  de'Fatemiti,  profuse  gl'inunensi  te- 
sori accumulati  dal  califfato,  per  cui  V  occidente  e  V  orien- 
te magnificarono  la  di  lui  ricchezza ,  e  quindi  il  poeta  pri- 
mo lo  nomina.  Se  Giulio,  com'è  verisimile,  nel  H78 
seguì  i  siciliani  vessilli  in  levante  a  liberare  Tripoli  e  Tiro 
assediate  dal  Saladino;  se  nel  1188  contribuì  con  l'am- 
miraglio Margaritone  a  disperdere  l'esercito  musulmano, 
a  soccorrere  Antiochia  contro  l'istesso  Saladino,  bene  e 
opportunamente  lo  ricordava  nella  Tenzone. 

E  questo  in  quanto  alla  storia,  che  nessuno  inforsa; 
ma  il  Grion  a  trasformare  in  passato  quei  due  presenti 


—  28:j  — 

l  Saladino,  ha  il  Soldano, 
Saiadino,  ebbe  il  Saldano,  e  perciò  far  Giulio  posteriore 
di  oltre  mezzo  secolo,  crea  una  nuova  uscita  della  terza 
persona  del  presente  indicativo  del  verbo  avere.  Nella 
stampa  egli  sostiene  queir  o  essere  V  habttit  dei  Ialini, 
V aut  0  eiit  dei  francesi,  e  perciò  un  aii  siciliano  di  suo 
cervello,  e  a  ciò  impiega  HO  linee.  Ma  nella  lettera  det 
4  febbraro  1869  forse  sgannato  dalle  ragioni  del  Di  Gio- 
vanni, si  pente  e  conviene  essere  ignoto  a  Sicilia  queir au, 
e  quindi  propone  di  leggersi: 

Se  tanto  avir  dunassimi 

QuauV  appi  Saladino; 


» 


senza  dirci  come  vorrebbe  acconciare  il  verso  seguente: 
E  per  ajunta  quant'/ia  lo  Soldano; 


e  a  dispello  dell'esempio  di  Dante,  togliendo  l'articolo  il 
a  Saladino ,  e  serbandolo  a  Soldano. 

Ecco  a  the  obbliga  un'idea  preconcettai  Non  è  chi 
sappia  meglio  del  Grion  leggersi  in  lutti  i  Codici  a  o  ha, 
e  nel  Valicano  con  chiarissima  lettera  sei  volte  con  Ph, 
cioè  1.°  per  quanto  avere  ha  in  Bari;  2.°  ka  lo  Sala- 
dino; 3."  ka  lo  Soldano:  i."  hanno  dura  la  testa;  3."  l'ha 
in  sua  potestà  ;  fi."  per  quanto  acere  ha  il  Papa  e  lo  Sol- 
dano. Or  perchè  non  arrendersi  all'evidenza,  alle  com- 
prove consociate  della  lingua,  dello  stile,  delle  date,  dei 
sincronismi,  e  strologare  storcendo  la  grammatica  e  gt'in- 
genai  versi  di  Ciullo?  Perchè?  Per  trovare  anche  un  filo, 
no  capello' a  cui  attenersi,  e  fer  credere  essere  stata  det- 
tala la  Tenzone  dopo  la  morte  di  quei  due  personaggi. 
Dnolmi  che  anche  il  Galvani  propose  tramutare  Vha  in 
habe,  variante,  che  devo  rifiutare. 


—  284  — 

Dopo  aver  ricordato  qual  grande  magnate  e  sapiente 
si  fosse  Giallo  d'Alcamo,  mi  è  caro  trìboire  il  meri- 
tato elogio  allo  scultore  Antonio  d' Amore  per  averlo  ri- 
tratto di  plastica.  Ma  per  quanto  ammiri  il  nobile  e  pa- 
triottico concetto,  non  so  comprendere  perchè  ablria  yo- 
luto  figurarlo  neir  abito  di  umile  minestrello ,  in  attitodine 
di  cogitabonda  mestizia,  quasi  Tasso  a  S.Anna, con  appiè 
la  dimessa  mandola.  Invece  avrei  amato  vederlo  baldo , 
animato  d' estri  e  d' amore,  in  abiti  convenienti  air  alto  suo 
grado ,  e  air  istess'  ora  leggere  nella  pergamena ,  che  strìnge 
con  la  sinistra  il  principio  della  Tenzone,  che  lo  rese  ce- 
lebre e  immortale: 

Rosa  fresca  aulentissima , 
Che  appari  iover  la  state  eoe 

Cosi  usarono  grandi  artefici ,  e  ultimamente  il  Vela  col 
Grossi,  a  cui  pose  nella  destra  un  foglio  ove  si  leggono  i 
passionati  versi  della  canzone  di  Tremacoldo: 

Dna  croce  a  primavera 
lYoverai  su  questo  suolo  eco, 

versi,  che  nello  storico  atrio  di  Brera,  mi  trassero  lagrime 
di  dolore  e  di  affetto. 


§9. 
Lingua  della  Tenzone 

Questa  Tenzone,  come  è  stato  detto,  ebbe  P  onore 
di  essere  diffusa  da  un  capo  all'altro  del  continente,  e 
molti  poeti  neir  isola  e  nella  terraferma  ne  ricantarono 


—  285  — 
nrìiiBeoie  V  argomento  divenuto  famoso.  La  lìogoa  e  I 
siile  adoperali  dall' alcamese,  cioè  la  corteccia  di  quest'aU 
bero  sette-secoiare ,  Danlt;  potè  chiamarli  plebei,  ìd  con- 
fronto degli  scritti  della  corte  di  Federico:  come  possono 
dirsi  plebei  i  di  costoro  al  paraj^'gio  di  quelli  di  Cavalcanti 
Goinicelli  e  dell'  istesso  Alighieri  ;  ma  sarebbe  meglio  chia- 
marli arcaici,  cioè  del  periodo  normanno,  anteriore  a 
Federico  II.  Ed  è  questa  la  piìi  sicura  comprova  di  es- 
sere stato  Giulio  sotto  i  Guglielmi,  e  di  aver  dettalo  la 
sm  Tenzone  molto  prima  delle  poesie  di  cui  T  Accademia 
imperiale  facea  suonare  le  aule  del  real  palagio  dì  Pa- 
lermo. Per  lo  che  ben  a  ragione  dicea  il  Tracchi:  •  La 
maniera  e  lo  stile  e  la  lingua  di  Giulio  son  cosa  affatto 
diversa  dalla  maniera,  e  dallo  stile  e  dalla  lingua  de' Irò- 
valori  italiani,  che  cominciarono  a  fiorire  dopo  la  seconda 
metà  dei  secolo  Xll  • .  La  Tenzone  in  discorso ,  i  canti 
di  N*.  Jacopo  e  de' suoi  contemporanei,  e  quelli  del  di- 
vino poeta  presentano  triplice  aspetto;  e  se  assumessero 
persona,  mostrerebbero  la  vecchiaia,  la  virilità,  la  giovi- 
nezza de'  tre  periodi  distinti ,  come  al  vedere  )e  melope 
selenunline  ciascuno  avvisa  la  rudezza  e  la  progrediente 
perfezione  artistica  fra  la  prima,  le  susseguenti  e  le 
Dltime. 

Noi  abbiamo  tentato  provare  ne' Prolegomeni  a' Canti 
popolari  la  preesistenza  del  volgare  italico  agli  arabi  e  ai 
bUanlini  in  Sicilia.  Per  la  terraferma  il  Muratori  ne  dà 
documento  in  sin  dal  900  con  le  testimonianze  de!  mo- 
naco Gonzone,  di  quel  di  Bobio,  di  S.  Gerardo  Abbate: 
a'  quali  aggiungendo  quelli  riferiti  ultimamente  dal  Tom- 
maseo, dal  Canlù,  e  quelli  che  possono  trarsi  da' diplomi 
dell'Archivio  di  Napoli  .'^in  dall'anno  003,  41,  no  deriva 
essere  esistite  allora  due  lingue,  cioè  il  volgare  e  il  Ialino. 
La  prima  l'antichissima  de' pelasgo-siculi .  che  ancor  vive, 
1>  seconda  soprimposta:  quella  del    popolo,  questa   della 


L 


ì 


—  286  — 

classe  ieratica  e  imperante.  Che  il  carattere  del  siciliano 
siasi  conservato  tale  quale  oggi  risuona,  lo  dimostra  Te- 
ditto  del  re  Gialeto,  che  regnando  in  Sardegna  dal  687 
al  722,  proibiva  a' suoi  sudditi  Puso  del  nostro  dialetto 
42.  E  i  cauli  e  le  laudi  volgari,  che  fra  noi  redtavansi 
all'epoca  normanna,  originavano  probabilmente  dalla  bi- 
santina,  e  quindi  erano  precedenti  all'araba. 

Il  maggiore  incremento  T ottenne,  allorché  la  Sicilia 
con  r  aiuto  de'  normanni ,  si  sdossò  i  saracini ,  e  racquistò 
la  propria  indipendenza.  Dal  1000  a  tutto  il  1300  la  tra- 
sformazione e  il  perfezionamento  della  lingua  e  dello  stile, 
sono  notevolissimi;  in  questo  periodo  la  nostra  letteratura 
presenta  tre  secoli  distinti.  Il  primo  corre  dall'  anno  1000 
al  1100;  il  secondo  dal  1101  al  1200;  il  terzo  dal  1201 
al  1300;  e  quello  che  noi  chiamiamo  primo,  in  fatto  do- 
vrebbesi  dire  terzo  secolo,  rettificando  la  cronologia  fi- 
lologica. Giulio  sta  tra  il  primo  ed  il  terzo. 

Del  primo  abbiamo  tre  documenti  e  tre  testimonianze, 
e  testimonianze  e  documenti  si  accresceranno,  qoando 
avremo  ordinati  gli  archivii,  e  rinsaviremo  dalla  smania 
di  frantumarli  e  isolarli,  come  si  è  fatto  della  nazione, 
tagliuzzata  in  minuzzoli  alla  napoleonica,  e  l'una  parte 
ignota  e  quasi  all'altra  straniera. 

Le  testimonianze  sono,  prima  quella  di  Roberto  Cri- 
spino, il  quale  avendo  visitato  Palermo  mentre  Guglielmo 
il  Conquistatore  regnava  in  Inghilterra,  cioè  fra  gli  anni 
1066-1087,  e  qui  imperava  il  G.  Conte  Ruggiero,  trovò 
nelle  aule  sovrane  canti,  suoni  e  canzoni  43.  La  seconda, 
la  carta  di  memoria  scritta  da  Ambrogio  Vescovo  di  Patti 
nel  1081  in  linguaggio  ufficiale,  e  contemporaneamente 
tradotta  in  volgare  per  il  popolo.  La  terza  il  permesso 
di  Augerio  Vescovo  di  Catania,  circa  al  1090,  col  quale 
concedeva  che  i  catecumeni  adulti  ignari  di  greco  o  latino, 
avessero  potuto  rispondere  in  volgare  nell'  amministra- 
zione del  santo  battesimo. 


—  -288  —  . 

vassalli,  e  perciò  scrìtta  nel  volgare  de' tempi.  Questa 
versione  o  transunto  fu  pubblicata  dal  benemerito  Giu- 
seppe Spata  46,  e  il  Di  Giovanni  la  reputa  sincrona  47. 
A  maggior  chiarimento  deflettori ,  ne  pubblico  un  bran- 
dello: e  Conti  Rogeri  di  Sicilia  et  di  Calabria,  ayutaturì 
di  li  christiani.  Impero  hi  scelliysti  lu  divinu  amuri  di  la 
pichulitali  di  li  tennirìti  di  li  ungi,  et  di  exiri  a  la  vita 
monastica  et  viviri  silenziusamenti  et  quietamenti  et  pnh 
ticandu  secundu  lu  dictu  di  lu  apostulu  di  noeti  et  di^ 
jornu  petendu  et  pregandu  lu  signuri  deu  pir  la  sthabi- 
limentu  pachificu  pir  tuclu  lu  populu  chrìstianu  adunca 
ricolligastì  bene  plachenti  a  deu  ec.  » 

Del  secondo  secolo  possediamo  i  canti,  che  parlano 
de' Guglielmi  1154-1189;  la  testimonianza  del  Buti,  che 
disse  essere  allora  in  corte  bmni  dicitori  in  rima  (T  ogni 
condizione;  le  iscrizioni  delle  imposte  di  bronzo  del  tem- 
pio di  Monreale  §  11;  Tatto  di  permuta  stipulato  a  4 
maggio  1153  fra  Leone  Yisiniano  ed  Oftimio  Abbate  di 
Santo  Nicola  di  Xurguri,  da  me  riportato  ne' Prolegomeni 
a' Canti  popolari:  e  forse  le  Consuetudini  di  Castiglione, 
scritte  in  volgare,  e  credute  del  1118. 

Il  terzo  secolo  è  lo  svevo ,  che  male  è  stato  chiamato 
primo.  In  esso  sovrabbondano  i  documenti ,  tanto  che  die 
nome  di  siciliano  alP  italico  volgare. 

La  lingua  e  Io  stile  del  bronzo,  delle  pergamene  e 
della  Tenzone,  si  possono  dire  ritratto  fotografico  gli  uni 
dell'altra,  e  tutte  del  tempo  quando  furono  dettati.  Coi>- 
chiudo  questo  paragrafo  con  la  seguente  savia  osservazione 
del  Crescimbeni:  «  Agli  imperiti  della  nostra  favella  par- 
ranno per  avventura  molte  voci  e  forme  di  dire  de'coiu- 
ponimenti  antichi,  anzi  spropositi  che  vocaboli  e  maniere 
buone.  Ma  avvertano  a  non  condannarle  così  alla  cieca, 
perchè  elleno  sono  per  lo  più  radici,  dalle  quali  è  poi 
venuto  il  purgato  dialetto  che  ora   corre.  Nel   rimaoeDte 


qoaalo  alle  tocì  debbe  aache  ÉX>iisìdera[^ì  che  i  poeti  an- 
tichi ,  salvo  pochissimi ,  componevano  nei  dialetti  delle 
proprie  loro  patrie,  o  mescolavano  variì  dialetti  anche 
straaieri,  e  iterò  i  loro  vocaboli  alle  volte  si  rendono 
oscuri,  e  paiono  slorpii  e  svarioni  »,  Se  a  questo  si  ag- 
giungono gli  errori  de' copisti,  ì  quali  non  solo  corrom- 
pono l'ortografia,  ma  quel  eh' è  più  sostituiscono  le  loro 
parole  a  quelle  dell'autore,  si  conoscerà  quanto  sia  dif- 
flcile  r  interpretazione  degli  antichi  testi. 
*  Ma  quale  la  favella  adoperata  dal  Sire  d'Alcamo? 
Cerio  la  siciliana  italianizzala,  o  a  proprio  dire  come  i 
gentili  della  corte  la  parlavano,  e  a  dippiù  intarsiata  di 
pngtieso,  e  spruzzata  di  rare  reminiscenze  francesi,  latine 
ec.  Tiraboschi  dicea  che  nelle  poesie  del  primo  secolo  si 
posson  vedere  non  pache  vestigia  del  dialetto  di  quelle 
città  in  cui  furono  scriUe  48;  talché  conoscere  il  luogo 
ore  nacquero,  vale  conoscere  il  dialetto  di  quelle  città  e 
ctsi  viceversa.  E  questa  osservazione  corrobora  quanto 
abtHamo  detto  al  §  2  pel  luogo  ove  è  locata  la  scena. 

In  quanto  all'esservi  tramescolalo  l'elemento  pugliese, 
oggi  detto  napolitano,  che  vale  lo  slesso,  è  fatto  consentito 
da  tutu  i  ntologi,  Lo  avevano  notalo  gli  antichi,  e  ripetuto 
Nannucci  e  Cantìi,  e  nel  modo  più  affermativo  possigli! 
Ireneo  Affò:  <  Lo  stile  dì  Giulio  è  tale,  egli  scrìvea,  che 
mostra  come  a  quei  di  ìn  Sicilia  il  dialetto  volgare  en 
similissimo  a  quello  che  anche  og^ì  mta  il  volgo  di 
Napoli,  e  ninno  vi  troverà  strofa  che  non  sembri  venee* 
mentf  in  lingua  napolìtana  »  49.  Questo  f u  da  m;  d»> 
mostrato  nel  1858,  e  per  tanto  ne  dirò  oggi  l*en  poco. 

La  lingua  volgare  fu  in  uso  in  Siciba  moHo  phm 
dell*  arrivo  de'  normanni  :  senza  internarci  (pù  neV  epwlK 
anliche.  ne  son  documento  l'edìllo  del  re  fiàAelo,  ià  vt' 
polcro  de' Coppaia,  i  diplomi  del  1000.  Il  dilefntani  M 
.iatino.  arabo  e  greco,  favelle  ìmpoq/?  m\  itanm^Mf,   f^« 


—  290  — 

risorgere  la  lingua  nazionale,  e  se  non  abbondano  le  per- 
gamene sincrone,  soccorrono  la  critica  storica,  i  canti  del 
popolo,  i  diplomi,  le  osservazioni,  la  Tenzone  di  Giulio, 
che  non  potea  essere  né  solo ,  né  primo.  Quella  lingua  si 
forbiva  e  perfezionava  in  tutta  Italia,  con  le  necessarie 
vicissitudini  locali,  e  meglio  in  Sicilia  per  l'indole  della 
nazione,  per  l'ottimo  reggimento,  per  la  liberalità  e  sa- 
pienza de' suoi  dinasti.  Sicché  noi  possiamo  chiamare  cre- 
puscolo di  tanta  luce  i  secoli  anteriori  al  1000;  alba 
r  epoca  normanna  ;  aurora  la  sveva,  e  V  apparizione  di* 
Dante,  Petrarca  e  Boccaccio  pienissimo  giorno.  E  questa 
similitudine  compiette  la  sintesi  delle  parziali  analisi  da 
me  dettate  e  ne'  Prolegomini  a'  Canti  popolari,  e  in  varie 
occasioni  e  polemiche  suscitate  da  scortesi  ignoranti,  e  da 
urbanissimi  dotti. 


1  10. 
É  intinta  di  pugliese? 

Quantunque  ogni  assennato  comentatore  riconosca 
essere  in  questa  Tenzone  adoperate  molte  voci  pugliesi, 
talune  venete,  francesi,  lombarde,  latine;  mi  fu  niegato 
quanto  io  dissi  di  ciò ,  e  principalmente  dell'  elemento 
pugliese.  Non  ripeterò  qui  la  lunga  e  documentata  dimo- 
strazione della  concordanza  fra  Giulio  e  tutti  gli  scrittori 
pugliesi  dal  1063  al  1858  protratta  da  secolo  in  secolo,  e 
di  parola  in  parola  50.  Invece  restringerò  a  sommi  capi 
questo  esame,  perchè  mentre  la  illustra,  ricomprova  la 
dimora  di  Giulio  nelle  Puglie  e  il  luogo  della  scena. 

Quando  la  pugliese  favella  era  famosa  in  Italia,  ancora 
non  avea  nome  la  napolitana,  e  ne' tempi  posteriori  sino 
a  noi,  scriver  pugliese  valse  scrivere  nella  parlatura 


Di  quel  con»  d*  luln.  che  s* 
Di  Bari,  di  Gaeta  «  di  Coiroai, 
Da  onde  Tronto  e  Verde  in  ■■ 


Pnad-TIH. 


Ciò  conferinava  l' illastre  mio  anieo  R.  LOienlore  nel  s 
Tnltato  del  Diak-Uo  NapolìUno,  e  oc  iodagna  Va 
e  la  cagione.  La  quale  si  è  Tarere  amlo  il  pogbese  sooUi 
scriltori,  e  niiino  il  napolUaiw  sioo  a  Sanuazzara,  die 
detUvR  lo  Glomero,  farsa,  e  lo  avere  Alfonso  ordioaU)  che 
lutti  gli  atti  pubblici  in  pogliese  si  scrìressero  e  doq  piò 
in  latino,  come  Tu  esegailo  &in  dall'anno  1142.  Og^  è 
cambialo  il  nome,  e  il  pugliese  appellasi  napolitaoo. 

\U  qiiale  è  l'indole  di  quella  biella?  io  qoì  coda 
la  penna  al  Galeanì  e  al  Lilieraiore.  ì  quali  nati  coli, 
maestrevolmente  ne  hanoo  ragionalo.  Ed  eecooe  le  pa- 
role: *  Il  pugliese  ed  il  napolitano  sono  somiglianti  51; 
il  volgare  napolitano  chiamasi  pugliese  52:  l'indole  di 
esso  a  chi  voglia  ben  considerarlo,  difTerìsce  manirestissi- 
mamenle  e  grandemente  da  qnella  di  tutti  gli  altri  dialetti, 
che  si  parlano  dal  Cenisio  al  Peloro  33.  Differisce  pre- 
cipuamente dagli  altri  per  una  stia  propria  gagliofleria  e 
.scnrritilà.  per  le  vocali  piti  aperte,  la  pronunzia  più  larga 
e  rotonda  54.  E  dobbiam  maravigliare  che  in  tanti  secoli 
—  dal  1200  al  1800  —  questo  dialetto  siasi  in  generale 
conservalo  cosi  inlatto,  che  non  vi  è  mutazione  o  quasi 
indiscernibile.  1  Diurnali  di  Matteo  Spinello  dal  I2i7  al 
1268  (la  di  cui  ingenuità  oggi  s'inforsa),  e  le  cronache 
(li  Parlenope,  che  arrivano  al  1382,  ne  sono  prova.  Es- 
sendo esso  antichissimo,  veggonsi  usati  in  gran  copia  le 
«.uè  voci  da  quei  primi  scrittori,  i  quali  furono  canonizzali 
«ime  testi  di  lingua,  le  quali  voci  —  perchè  non  proprie 
delle  altri  parti   d''  Italia,   e  meglio  di  Toscana  —  sono 


—  292  — 

state  poi  mano  a  mano  espulse  da'  toscani  > .  Pertanto  di- 
remo propriamente  pugliesi  quelle  voci,  le  quali  al  1300 
0  prima,  sino  al  1800  o  dopo,  ancora  si  conservano  da 
quel  popolo,  come  potere,  bolére,  tico,  grolia,  casiiello  e 
simili;  giusta  a  quel  modo  che  noi  diciamo  propriamente 
siciliana  quella  voce,  la  quale  dal  1300  o  prima,  sino  al 
1800  0  dopo  ancora  conservasi  dal  popolo  siciliano;  come 
grasta  per  vaso  di  fiori,  serbataci  dal  Boccaccio  e  ancor 
fresca  e  viva  fra  di  noi. 

È  carattere  del  pugliese  vocalizzar  le  parole,  cosi  di 
fosso  far  ftiosso ;  di  felice,  fiélece;  alle  vocali  naturali  della 
parola  sostituire  le  più  molli,  aperte  e  liquide,  come  la  e 
alla  i,  la  a  alla  e;  q  così  di  lingua  far  lengua;  d'impie- 
gato, impiagato;  di  fune,  funa;  di  spirito,  spireto  ;  amare 
i  dittonghi,  e  mentre  tutta  Italia  dice  Cicerone,  ivi  pro- 
nunziasi Ciciarone  ;  usata  ed  ivi  ausata  ;  unite  ed  ivi  auni- 
te;  le  desinenze  plurali  maschili  tramutare  per  dolcezza 
in  plurale  femenile  con  V  articolo  femenile,  così  invece  di 
gli  angioli.  Ile  angiole;  di  amici,  Ile  amice  55  ;  permutare 
la  g,  b  in  v,  così  vammdce,  per  bambacia  56;  viato,  per 
beato;  favréca,  per  fabbrica;  fr avola,  per  fragola;  pre- 
deliggere  le  desinenze  in  iello,  in  luogo  di  elio;  così  penniello, 
per  pennello,  filariello,  per  filarello,  fossettiella,  per  fossetta, 
fratiello,  per  fratello  ec.  Congiungere  e  posporre  —  essi 
soli  in  Italia,  come  ben  disse  Liberatore  dal  Cenisio  al 
Peloro  —  congiungere,  ripeto,  e  posporre  i  pronomi  de- 
rivativi mio,  tuo,  mia  e  tua  ai  nomi,  ai  verbi,  agli  agget- 
tivi, così  dicendo  patremo,  patreto,  vitama,  casata,  cara- 
ma^  tagliaveme,  accomplimi  ec.  E  queste  caratteristiche 
della  fisonomia  dialettica  pugliese-napolitana,  di  cui  qualcuna 
a  caso  trovasi  negli  antichi  sparsamente  e  isolata,  e  in 
maggior  copia  nei  contermini  romagnuoli,  sempre  ricono- 
sciuti come  napolìtanismi  ne'  loro  patrii  scrittori,  veggoosi 
accumulate  nelle  opere,  come  si  udirono  e  si  odono  nel 
oro  quotidiano  parlare. 


Dopo  del  che  gettiamo  I'  occhio  sulla  Tenzone  di 
inllo,  quindi  su  qualche  scrittore  pugliese,  tralasciando 
nanlo  è  stampalo  nella  Disamina,  e  chiudiamo  questa 
oiosa  ricerc». 

In  Giulio  leggo  secondo  il  Codice  Barberino,  V  Allacci, 
Crescimbenì  e  in  parte  secondo  il  Godic-e  romano: 


1. 


Se  ci  ti  trova  potremo 

Con  gli  altri  mei  parenti; 

Non  mi  toccherà  patreCa 

Per  quanto  avere  ha  in  Bari- 

Di  ciò  che  dici.  vUama  ; 

Dunque  vorresti,  vitama: 

Ora  fa  un  anno  vitama  ; 

Molti  son  li  garofani 

Che  a  c<lsata  mandai; 

Hai  morto  l'uomo  in  afsata. 

Bene  Io  saccio,  carama. 

Rosa  fresca  a/ulentissima, 

....  davanti  fossi  aucisa  ; 

Le  tue  paraule,  o  paravole  : 

Le  donne  le  desiano: 

Toccar eme  non  polena  la  mano; 

Molte  sono  le  femmcnc  : 

Che  eo  me  ne  pentesse  : 

Di  quel  frutto  non  albero  : 

....  li  eavelli  m'  arrìtoniìo  ; 

Se  li  cavellì  artonniti  ; 

Poi  tanto  Irahagliastiti  : 

Niente  ti  baie,  e  ixilontate; 

Non  baglio  m'attalenti; 

Quando  ci  passo  e  vcjoti; 

Poniamo  che  s'  ajunga  il  nostro  amore; 

Che  il  nostro  amore  cijungasì: 

E  per  ajunla  quant' ha  lo  Soldaoo; 

Sposami  d'avanti  la  jenti: 

....  infra  ista  bona  jenti; 


—  294  — 

8.  Id  paura  non  mettermi 
Di  lìuìWmanganiello ; 
V  stommi  nella  grolia 
D'esto  forte  castiello; 

9.  Se  chisso  non  accomplimi; 
Chisso  ben  t' imprometto; 

10.  Se  di  mene  trabagliti 

Con  Ugo  stao  la  sera  e  lo  matino; 

Onde  sovrana  di  mene  te  presi; 

Tutti  a  mene  dicessero; 

À  mene  non  aiutano; 

Con  tico  m'ajo  a  j  ungere  ec. 

Siccome  tra  le  voci  notate  ne  sono  talune  indabita- 
tamente  pugliesi,  com'  io  sono  siciliano,  e  perciò  bastevoli 
per  sé  sole  a  dir  intinta  di  puglitse  la  Canzone  di  Giulio; 
mi  giova  notarle  a  conforto  di  quanto  asserii,  per  uscire 
di  quistione.  Sono  esse: 

1.  Grolia  per  gloria,  che  la  Crusca,  il  Cesari,  il 
Manuzzi,  i  napolitani  medesimi  nel  Vocabolario  Universale 
battezzano  voce  del  dialetto  napolitano,  e  che  trovo,  per 
tacer  di  altri  nella  nona  corda  della  Tiorba  di  Francesco 
Balzano  di  Scafati,  stampata  nel  1646,  intitolata  Grotte  de 
Carnovale,  e  in  Genuino,  il  quale  nel  1842  pubblica  nel 
5  del  Poliorama  p.  121  un  Canto  a  grolia  e  dde fresco 
dell'anno  scnrzo, 

2.  Mogliema  per  mia  moglie,  che  tutti  i  lessicografi 
battezzano  voce  propria  del  dialetto  napolitano,  e  che  coi 
consimili  è  stata  ed  è  usata  da  quel  popolo  universalmente 
in  prosa  ed  in  verso  57. 

3.  Bolere  per  volere  e  simili,  non  boglio  m'  attalenti, 
che  Vincenzo  Nannucci  registra  tra  le  voci  proprie  de'  na- 
politani, p.  235,  N.°  4. 

4.  Tico  uguale  a  mico  de' napolitani. 

5.  Pàtere  per  potere,  onde  Ciullo  :  Avere  non  ne  pò- 


—  295  — 

Hrn,  6  avere  me  non  potei'ia  eslo   monna,  e  GflDuino  lo 
poturisse  avisà.  Arerta,  p.  51, 

6.  Dar  gli  articoli  femenili  a'  nomi  maschili,  cosi  He 
gentihtomene,  Ile  angiole  ec.  Né  pìii  ne  aggiungo,  e  mi 
volgo  a  riportare  le  altre  da  lui  loKe  alla  Puglia,  e  ado- 
perati dagli  scrittori  di  terraferma. 

Matteo  Spioelli  da  Giovenazzo  nato  nel  1230,  e  colà 
cresciuto,  intìngea  la  penna  nel  calamaio  del  nostro  tro- 
vatore. Ludovico  Paglia  suo  concittadino,  chiama  go/fe  le 
di  Ini  parole,  dimentico  come  in  quella  lingua  avessero 
parlalo  i  pugliesi  ùel  \.II  secolo,  e  come  V  ingenuo  Matteo 
avesse  scritto  cosi  come  parlava  58.  Né  la  corte,  né  i 
notari,  allora  persone  di  conto,  altrimenti  usavano,  come 
dalla  Raccolta  de)  Pelliccia  si  dete^ige,  e  ciò  dal  sorgere 
del  1200  sino  a  quando  continuossì  ad  usare  il  pugliese 
negli  atti  pubblici.  A  conferma  del  che  basti  la  lettera  del 
Boccaccio  scritta  da  lui  appositamente  nel  1349  in  napo- 
litano, e  pubblicata  la  prima  volta  dal  Biscioni,  ristam- 
pata (li  poi  dal  Galeani,  e  ultimamente  da  G.  Niccolini. 
ibi  più  desidera,  rilegga  la  Disamina  sudetla. 


I  II. 
Ortografia,  metro.  Codici  e  stampe  della  stessa. 


Quella  Tenzone,  poiché  fu  cantala  da  minestrelli  e 
Bllari  per  la  penisola,  rimase  patrimonio  degli  inferiori, 
come  direbbe  l'Alighieri,  all'apparire  de' canti  letterari! 
dell'epoca  sveva;  perciò  leggendola,  o  a  dir  proprio  stu- 
diandola, s\  vede  in  una  stampa  italianizzata,  in  altra  am- 
manierata alla  siciliana  con  modi  in  parte  ignoti  a  Sicilia, 
in  altra  impiastricciata  a  capriccio  d' italo-siculo  ;  talché  mi 
1  aua  tavola  bisaatina,  come  ne  ho  viste  parecchie, 


—  206  — 

ritocca  le  venti  volte  e  ritinta  da'  girovaghi  pittori  da  sga- 
belli, e  da  ciascuno  rimodernata  a  modo  o  del  tintore  o 
de'  reverendi  cappellani,  o  delle  divote  pinzochere,  che  ne 
hanno  saldato  lo  scotto. 

Come  ben  disse  il  Grion,  chi  trascriveva  le  poesie,  le 
trascriveva  per  farle  intendere  e  cantare,  e  le  avvicinava 
perciò  neir  atto  stesso  del  copiare  al  proprio  dialetto.  Ol- 
tre che  la  negligenza,  V  ignoranza  e  la  presunzione  de'co- 
pisti  non  di  rado  adulterava  a  capriccio  il  dettato  deiraa- 
tore  59.  Ecco  V  origine  vera  della  difformità  ortografica 
e  dialettica  de'  Codici.  La  prima  vèste  V  abito  di  questa  o 
quella  regione  ;  mentre  la  seconda,  conservando  i  vocaboli 
indigeni,  dichiara,  manifesta  e  comprova  la  favella  di  chi 
la  scrisse,  e  del  luogo  ove  fu  scritta  60.  Delle  voci  e  forme 
pugliesi  abbiam  detto;  le  francesi  sono  cortigiane  e  riba- 
discono Talto  stato  del  poeta,  che  fu  certo  familiare  de' 
principi  normanni;  le  altre  erano  al  UGO  nell'uso  de'colti 
uomini. 

Da  ciò  proviene  la  disuguaglianza  de'  Codici  ;  tutti 
pregevoli,  nessuno  perfetto.  Esattamente  scrivea  T  Allacci 
parlando  del  Barberini,  giudicarli  egli  scritti  nello  stesso 
tempo  0  poco  dopo  degli  autori  ;  aggiungendo  che  coloro 
i  quali  li  copiarono,  li  trascrissero  con  la  stessa  articola- 
zione, la  stessa  ortografia  e  l'istesso  tenore  di  come  pai^ 
lavano  61.  1  difetti  de' Codici  Barberini  sono  visibili  a  cia- 
scuno nelle  stampe  dell'Allacci,  del  Grion,  del  Crescim- 
beni,  che  vi  arrecò  lievi  cambiamenti.  Quelli  de'  toscani 
sono  ripetuti  nelle  stampe  della  Bìbl.  del  Viaggiatore,  del 
Nannucci  1837  e  del  Valeriani  62.  Il  meno  difettoso  fra 
tutti,  è  il  Vaticano  chiamato  per  antonomasia  il  Codice 
Principe,  riconosciuto  universalmente  anteriore  all'epoca 
di  Dante  Alighieri.  Esso  ci  dà  luce  chiarissima  per  alcuni 
dubbii  passi,  ma  al  tempo  stesso  è  visibilmente  errato  in 
più  luoghi  63. 


—  a97  — 

Ma  come  scrisse  Giulio?  Egli  medesimo,  i  aiticrom  e 
ce  ne  daran  segno.  Con  la  di  loro  scoria  noi  po- 
imo  approssimativamente  rifargli  le  vestimenla  conforme 
al  lempo  e  all'  uso  di  lui.  Per  e^mpio,  l' Allacci  adottò 
Iraheme,  gli  editori  fiorentini  iraemi.  il  Codice  Vat.  trami, 
la  Volgare  Eloquenza  tragemi,  il  Grion  Iragimì;  ma  avendo 
Dante  prescelto  tragemi,  io  lui  segno,  essendone  egli  te- 
stimonio e  giudice  irrecusabile.  E  l'ortografìa  di  questa 
parola  è  riconfermala  due  volte  da  Odo  delle  Colonne. 
Inoltre  noto  aver  Giulio  costantemente  preferito  le  desi- 
nenze illustri  in  o  e  in  e.  invece  di  »  ed  t  alla  sicula,  se 
logli  ove  la  rima  glielo  vietava.  Cosi  nella  SI.  5,  troviamo 
fari  invece  di  fare,  che  rima  con  Bari  ed  agostari;  nella 
St.  8.  gueri  e  camaneri:  nella  11,  cleri,  momteri,  wteth 
tieri;  nella  14,  jiregherì,  perì,  monsteri;  nella  23,  parenti 
e  gemi;  nella  39,  uva  e  ventura  Q4.  Nelle  altre  stanze, 
libero  della  rima,  seguì  l'ortografia  comune  italianizzando 
il  dialetto.  Parimenti  mi  sarà  guida  il  metro,  come  nel  3 
verso  dolla  Tenzone.  Ivi  lo  scorcierà  di  una  sillaba  chi 
vorrà  accogliere  it  Trami  del  Cod.  Vat.  e  lo  integrerà  o 
gli  darà  nerbo  col  Tragemi  trasmessoci  dall'  Alighieri. 

A  comprova  di  essersi  giovati  gli  scrittori  di  quel 
tempo  promiscuamente  delle  desinenze  insulari  e  italiche, 
leggiamo  nell'alto  de' Visiniano  del  1133  mtigleri,  meu, 
aomu,  manu,  r)aluntati,  e  al  loro  fianco  fiicolao,  legitimo, 
figlio,  senza  dolo  alcuno,  Palermo  ec.  ;  e  nelle  imposte  di 
bronzo  della  porta  maggiore  del  Duomo  di  Monreale  del 
1186:  Eva  serta  a  Ada  —  Caìm  uccise  frale  suo  Abel  — 
\w  piantaci  tinca  —  Abraha  Irea  vidi  unu  ajloravi  — 
Iteph  Maria  et  puer  fugge  in  Egiltu  —  La  Quarantina. 
A  comprovare  che  Giulio  abbia  seguilo  que<it'  uso  pro- 
mìscuo, ma  sempre  più  inclinando  nelle  desinenze  alla 
lingua  comune,  dì  quanto  al  dialetto,  bada  ponderare 
issionatamente  come  la  mano  dell'  Alighierì  ci  1 


f 


—  298  — 

il  5."*  e  6."*  verso  di  quella  Tenzone.  Nella  Volgare  Elo- 
quenza leggiamo: 

Tragemi  d'este  focora, 
Se  V  este  a  bolontate; 

e  mentre  in  siciliano  dicesi  vtduntati,  che  bene  avrebbe 
potuto  rimare  con  stati  e  maritati,  V  altissimo  poeta  pre- 
feri la  desinenza  in  e,  sostituì  V  o  air  u  alP  italica  in  focora^ 
e  h  b  alla  t;  alla  pugliese,  perchè  cosi  trovò  in  Giulio. 
Queste  osservazioni  microscopiche  possono  avviarci  a  sol- 
vere il  quesito.  E  notisi  che  Dante  volendo  implebeiare 
quel  canto,  non  avrebbe  registrato  la  terminazione  e  le 
vocali  di  uso  nazionale,  se  la  forma  insulare  fosse  suonata 
alle  sue  orecchie. 

Il  Grion  tentò  ancor  egli  restaurare  la  Tenzone  di 
Giulio,  e  vedendo  starsi  a  lui  di  contro  V  autorità  del- 
l'Alighieri,  che  ne  avea  determinato  la  grafia,  se  ne  sba- 
razzò con  la  seguente  osservazione  :  «  Perchè  ne'  tre  Godici 
della  Volgare  Eloquenza  si  trovò  scritto  bolontate  invece 
di  vuluntati,  non  è  sufiQciente  argomento  a  farci  credere 
che  Dante  cosi  V  abbia  avuto  65  » .  Io  non  V  intendo  : 
Dante  non  operava  di  capriccio,  e  molto  più  in  un'opera 
di  tanta  critica.  Credo  anzi  che  il  trovarsi  in  tutti  e  tre  i 
Codici  superstiti  di  quel  Trattato  uniformemente  scritti 
quei  due  versi,  sia  indice  e  documento  di  come  lì  pro- 
nunziava Giulio  e  li  adottò  il  divino  poeta;  anzi  aggiungo 
che  il  modificarli  noi  dopo  tanti  secoli,  sia  quasi  un'apo- 
stasia letteraria. 

Il  laborioso  Grion  segui  il  Codice  Barberino,  restitiiendo 
il  testo,  egli  dice,  al  dialetto  siciliano.  Ove  è  da  notare 
che  non  essendo  qui  nato  e  vissuto,  spesso  erra,  quantun- 
que sia  de'  pochissimi,  i  quali  abbiano  tentato  coscenzìosa- 
mente  di  appararlo;  e  all'  istess'ora  che  la  sua  non  è  una 


—  asji)  — 

ituiione.  I^nsì  adulleitizione  <ti  quella  poesìa.  Egli  va- 

poco    le  ragioni  sopraccenate ,  gli  esempi  coevi,  il 

»  sociale  del  poeta,  i  suoi  viaggi  nel  conlinente  ila- 

,  ti  testimonio  di  Dante  Alighieri,   e  molto  meno  la 

I  osservazione  del  Quadrio,  allorché  mostrava  gli  an- 

i  poeti  essere  stali  «  vaghi  di  accrescere  e  di  impolpare 

I  loro  nascente  favella  > .  Lo  iogentilire  le  ter- 

lazioni  delle  voci  fu  loro   costante  studio  ed  industria, 

dalle    carte   insulari  scomparve    qualsiasi  vestigio 

Etico  66.  E  bene  notò  il  Crescimbeni  avere  i  siciliani 

)  nella  stessa  lìngua  degli  italiani,  e  Petrarca  mai 

;  intese  che  il  linguaggio  siciliano  e  il  nostro  fossero 

I  medesima  cosa  67.  Né  la  prosa  del  mio  concittadino 

isio   tolta   a  guida  dal   Grton,  può  giovargli.  Giulio 

!  nel  secolo  XII,  .Atanasio  nel  XIII;  quello  inchinò 

nazionale,  questi  alT  insulare,  e  sono  fra  dì 

i  siile  e  carattere  disuguali  e    difformi,  per  lo  che 

1  ne  ho  tenuto  conto. 

Nel  %  XI  della  Prefazione  a'  Canti  popolari,  abbiamo 
tdito  la  convenienza  dì  scrìvere  la  presente  Tenzone  in 
i  ed  endecasillabi,  e  ora  vieppiù  avendovi  meditato 
I  molti  altri  anni,  troviamo  preferibile  questa  forma 
I  proposta  sennatamente  dal   Crescimbeni  all'altra 
idente,  e  già  seguita  nel  18^6  dal  Nannucci  68.  Ma 
!  potissima  sulla  quale  mi  fondo,  si  è  la  testi- 
deli' Alighieri,  il   quale   così  ci   lasciò  scritto: 
Fin  qui  ninno  verso  ritroviamo  che  abbia  la  undecima 
I  trapassato,  né  sotto  la  terza  disceso.  Ed  awegna 
)  i  poeti  italiani  abbiano  usato  tutte  le  sorli  di  versi, 
)  sono  da  tre  sillabe  sino  a  undici,  nondimeno  il  verso 

!  cinque  sillabe,  e  quello  di  sette,  e  quello  di  undici 

SODO  in  uso  più  frequente  09  ».  E  perciò  ho  preferito  i 
seltenarii  agli  alessandrini.  Avverto  air  istess'  ora  averla 
svecchiala  dì  h  e  k  premesse  o  intromesse  alle  parole 
quantunque  usale  nel  secolo  Xll  e  seguenti. 


k. 


—  300  — 

Per  cosiffate  considerazioni  ho  conservato  alla  nostra 
Tenzone  le  frasi  e  le  parole  siciliane  italianizzandone  le 
desinenze,  ove  la  rima  non  abbia  imposto  altrimenti.  Con 
queste  guide  ne  ho  tratto  la  interpretazione  seguente 
giovandomi  delle  stampe,  che  mi  hanno  precesso,  di  vani 
testi  a  penna  e  meglio  del  Codice  Principe  Vaticano,  ma 
sopra  tutto  de'criterii  logici,  perchè  la  Critica  è  la  vera 
decima  musa.  Volea  qui  deciferare  i  passi  più  oscuri,  ma 
per  non  infastidire  il  lettore,  li  delucido  con  brevi  anno- 
tazioni, e  ne  produco  le  varianti  in  nota.  Cosi  potrà  cia> 
scheduno  scegliere  da  se  medesimo,  senza  essere  costretto 
di  adottare  la  lezione  da  me  estimata  migliore. 

Dichiaro  finalmente  discordare  da  quei  comentatorì  e 
più  dal  Nannucci,  i  quali  scambiano  i  latinismi  di  Ciullo 
con  vocaboli  provenzali.  Di  quelli  riboccano  Italia,  Francia, 
Spagna  e  le  loro  Provincie,  perchè  tutti  attinsero  ad  unica 
fonte.  I  di  lui  francesismi,  tuttora  viventi  in  parte  nel- 
r  isola,  lo  ripeto,  provengono  dalla  reggia  o  dalla  di  lui 
origine  normanna,  derivati  tutti  quanti  dal  ceppo  italico, 
che  formò  il  substrato  delle  lingue  romanze. 


12. 


Suo  pregio. 

Chi  dimentico  de'  sette  secoli  interposti  fra  noi  e 
Ciullo,  legga  per  la  prima  volta  la  di  lui  Tenzone,  e  sperì 
trovarvi  lo  splendido  e  poetico  eloquio  del  Parini,  del 
Monti,  del  Manzoni,  s'inganna  di  certo,  e  se  non  altro  è 
facile  che  da  se  V  allontani,  offeso  dalla  sua  apparente 
rudezza.  Ma  invece  chi  assuefatto  alla  prosa  e  al  verso 
anteriori  all'  Alighieri,  la  mediti  con  amore,  vi  troverà 
purissimo  oro  latente  come  nella  ganga  delle  miniere,  e 


—  aoi  — 
Re  come  sotto  lo  scabro  involacm  delle  valve 
condiiliari,  ove  s' iogenerano  e  chiudono.  L' incondito  di 
quella  stessa  corteccia  non  le  sminuisce  decoro  pel"  chi 
non  è  nuovo  all'  archeologia  fdologica.  Nel  1858  conchiusi 
il  mio  ragionamento  su  di  essa,  dichiarando  venerarla  come 
Quintiliano  i  frammenti  di  Ennio  70;  e  sofTolcilo  dalle 
medesime  considerazioni,  esordii  nel  dettare  il  Comeniario 
presente. 

Non  altrimenti  V.  Alfieri  usava  con  i  nostri  vecchi, 
da' quali  attìngea  la  proprietà  de' vocaboli,  la  parsimonia 
degli  ornamenti,  il  nerbo  delP  espressione,  che  e-gii  stam- 
pava del  suo  marchio  originale  71.  A  Cinllo  perciò  bene, 
si  attaglia  quanto  Nannucci  scrivea  per  Fra  lacopone: 
•  ma  se  ^li  non  è  sempre  bello  di  fuori  nell'apparato 
delle  parole  e  delle  frasi,  è  però  quasi  sempre  bello  di 
dentro  nei  sentimenti  e  nelle  immagini;  a  somiglianza  de' 
tabernacoli  di  Salomone,  che  di  fuori  coperti  erano  di 
rozze  pelli,  ma  di  dentro  splendenti  d'oro  e  di  gemme 
72  ».  Se  ad  onta  di  ciò  vi  sarà  qualche  schifilloso  a  cui 
non  garbi  og^i  lo  stile  del  secolo  XII,  noi  gli  diremo 
come  Cicerone  solca  far  risovvenire  al  proposito  a  qualche 
lezioso  di  lui  contemporaneo:  <  ita'enim  lune  loqueban- 
tur  73  »  ;  0  come  il  Boltaro  osservava  :  t  potrà  dirsi  lo 
stesso  di  questo  nostro  stile  fra  SOO  anni  74  ». 

Il  Quadrio  nel  contemplare  l' epoca  prima  de'  nostri 
scrittori,  così  li  scusava:  o  poveri  e  rozzi  e  di  barbarie 
ripieni  erano  quei  tempi  ».  Che  poleano  però  fare  quei 
primi  verseggiatori?  Eglino  d'ogni  parte  s'  aggiravano  in- 
dustriosi: «  e  vaghi  di  emulare  nella  gloria  del  canto  le 
altre  nazioni,  e  dì  accrescere  nel  tempo  slesso  e  d' impol- 
pare  la  materna  loro  nascente  favella,  ora  quinci  ora 
quindi  le  parole  tutte  coglieano,  che  alla  loro  necessità 
opportune  si  appresentavano  73  ..  il  che  riunito  alla 
sentenza  del  Crescimbeni  da  noi  trascritta  al  |  9,  si  ha  il 
carattere  e  l'indole  dello  stile  di  quel  tempo. 


k. 


—  302  — 

Magnanimo  il  proposito  di  Giallo  nell' averci  volato 
dare  nelP  idioma  volgare  la  di  lui  celebre  Tenzone.  Quan- 
di egli  ispirato  dalP  amore,  scioglìea  i  melodici  Dumerì,  era 
meno  ardente,  ma  continuava  ancora  in  Sicilia  la  lotta 
tra  il  Vangelo  e  il  Corano,  tra  la  scuola  araba  e  la  greco- 
italica.  Ancora  i  re  scriveano  bilingui  o  trilingai  i  lem) 
diplomi,  e  parimenti  si  scolpivano  nel  marmo  le  epigrafi. 
Due  scuole  quindi  occupavano  il  campo,  difformi  fra  loro 
quanto  il  vestire  di  chi  le  seguiva,  ed  opposte  quanto  le 
loro  credenze  religiose.  La  prima  orientale  e  semitica  fa- 
ceva suonare  la  kalida  nella  favella  di  Cairovano;  la 
seconda  europea  e  giapetica  idoleggiava  i  classici  greci  e 
Ialini,  seguendo  Elpide,  S.  Giuseppe  e  gli  altri  innografi 
nelle  laudi  delle  chiese  di  Roma  o  Bisanzio.  E  mentre  i 
dotti  poetavano  nelle  lingue  oiTiciali  greca  o  latina,  il  popolo 
carezzava  la  nazionale  e  di  essa  abbelliva  le  sue  canzoni. 
Giulio,  quasi  profeticamente  divinò  la  prossima  elevazione 
e  supremazia  della  stessa,  e  spregiando  il  cachinno  de' 
nolari,  de'  chierici  e  de'  letterati  in  toga,  tolse  dal  trivio 
l'antica  favella  insulare,  la  illeggiadrì  mirabilmente,  e  in 
essa  emise  i  suoi  canti,  che  a  noi  non  pervennero,  e 
questa  sua  immortale' Tenzone.  Egli  nel  secolo  XII  pose 
in  effetto  quanto  V  Alighieri  nel  XIV.  L' alcamese  operò 
vigorosamente  alla  sicula,  né  ci  lasciò  documento  della 
causa,  che  a  tanto  lo  ebbe  determinalo;  il  fiorentino  se- 
guendone animoso  P  esempio,  volle  spiegarcene  la  cagione. 
Quello  antepose  il  volgare  all'arabo,  al  greco,  al  latino; 
questi  alla  lingua  d'  oco,  scrivendo  nel  Gonvito,  averlo 
prescelto  «  per  confondere  li  accusatori  del  nostro  lin- 
guaggio, i  quali  dispreggiano  esso  e  commendano  gli  al- 
tri, massimamente  quello  di  lingua  d'oco,  dicendo  che  è 
pili  bello  e  migliore  di  questo  ».  Per  quest'altro  titolo 
venerano  i  savii  la  Tenzone,  che  meritamente  è  rico- 
nosciuta essere  il  più  vetusto  monumento  della  lìngua 
italiana. 


I 
i 


—  yoa  — 

giudizii  emessi  proprio  sulla  medesima^  spesso  sa- 
perficiali,  variaoo  secondo  l' epoca  e  il  senso  de'  critici  ;  e 
però  noi  tralasciamo  di  rireridi  lutti,  attenendoci  a  tre 
solamente,  oltre  a'  surriferiti  del  Quadrio  e  del  Crescim- 
beni.  Nannucci  dicea:  «  malgrado  della  rozzezza  dello 
stile,  il  dialogo  v'  è  condotto  con  ingenuità,  e  naturale  è 
il  linguaggio  di  amore,  ne  mancante  di  affetto  76  >.  11 
venerando  Leone  Allacci  scrivea:  "  vedi  in  questo  suo 
dialogo  non  essere  del  tutto  mispregevole  poeta,  bavendo 
la  sua  locuzione  proporzionata  al  verso,  di  fiori  oratori! 
ornata,  e  concetti  non  soliti  del  volgo,  ma  da  dottrina 
soda  ed  atti  a  persuadere  77  ».  Finalmente  T  Emiliani 
Giudici  così  la  giudicava  :  «  la  Ingenuità  onde  procede  il 
dialogo,  frammista  d'  una  certa  selvaggia  gentilezza,  dà  uno 
slacco  mirabile  agli  aFTetti  varli  che  animano  la  poesia:  e 
l'espressione  manifesta  uno  spirito  originale,  spirito  spe- 
ciale del  paese,  cfi'  io  osservo  in  molti  dialoghi  di  Teo- 
crito, e  che  anche  oggi  sento  nelle  canzoni  araoi'ose,  con 
coi  il  montanaro  di  Sicilia  nelle  tepide  notti  di  estate  fa 
echeggiare  le  valli.  La  canzone  di  Giulio  è  al  tutto  scevin 
di  quel  frasario  erotico,  che  costituisce  il  carattere  distin- 
tivo delle  posteriori  poesie.  Dalle  quali  osservazioni  mi 
sia  lecito  dedurre  le  considerazioni  seguenti:  che  il  canto 
di  Giulio  non  palesa  nessuna  influenza  provenzale;  che  la 
grammatica  vi  esìste  in  tutta  la  sua  intierezza.  dal  che 
si  argomenta  lo  sviluppo  del  linguaggio  essere  accaduto 
in  un'  età  mollo  anteiiore.  Queste  forme  sono  assoluta- 
mente locali,  0  diciamo  meglio  municipali,  avvegnaché  dopo 
sei  secoli  durano  ancora  nella  bocca  del  popolo  78  ». 

La  Tenzone  in  discorso  è  per  me  miracolo  d'arte  e 
di  mente  riguardando  gli  anni  quando  essa  fu  composta. 
Giulio  non  solo  seppe  scegliere  la  lingua  di  cui  la  vestì, 
ma  ugualmente  il  tessuto,  i  colori,  il  disegno  convenienti 
a  quell'abito.  IS'azJonale  nella  parola,  lo  è  parimenti  nelle 


—  304  — 

forme.  Quindi  nulla  ha  d'arabo,  poesia  che  oontagiaya 
r  isola  da  due  secoli,  ma  che  non  giunse  a  corrompere 
r  indole  classica  della  siciliana  letteratura.  E  qui,  a  dir 
breve,  basti  il  ricordo  di  essere  essenziale  carattere  del 
Parnaso  arabo  T  abuso  della  rima,  talché  per  essi  prose, 
versi,  titoli  di  libri,  epigrafi,  tutto  era  alliterazioni  e  con- 
sonanze ;  i  saracini  ne  ponevano  a  principio,  ne  appiccavano 
alla  fine,  ne  disseminavano  in  mezzo  di  ogni  linea  ;  diresti 
che  componendo  un  libro  intendessero  formare  una  specie 
di  ricamo  calligrafico  per  gratificare  la  vista  non  meno 
che  r  udito.  AMunghissimi  poemi  correnti  sopra  una  me- 
desima desinenza,  aggiungi  tutte  le  arguzie  affettate,  i 
sensi  sforzati,  i  giuochetti  di  parole,  gP  indovinelli,  i  traslati 
stranissimi  e  mille  altre  somiglianti  peregrinità,  formanti 
un  vero  e  perpetuo  caustico  mentale;  e  ne  avrai  una 
letteratura  affatto  inadattabile  al  gusto  de'  popoli  latini  79. 
Come  bene  osserva  V  Emiliani,  non  solo  non  ha  carattere 
provenzale  quel  canto,  ma  non  potea  averne,  avvegnaché 
non  era  tuttora  affuorestierata  la  nascente  letteratura 
d' Italia,  e  molto  meno  nel  secolo  XII  poteva  esserlo 
quella  di  Sicilia,  come  altrove  ho  provato  80.  Per  altro 
avendo  assunto  la  poesia  provenzale  V  idealismo  delPamor 
platonico,  e  Giulio  dilettandosi  del  sensuale  o  pagano,  era 
di  tipo  e  d'ispirazione  non  solo  diversa,  ma  opposta.  E 
la  Tenzone  è  riconferma  essere  fola  e  menzogna  di  ossessi 
di  fuorestierume  che  Sicilia  abbia  anche  per  poco  seguito 
le  maniere  arabe  o  provenzali,  mentre  invece  continuò  a 
specchiarsi  da  se  in  se  medesima  q, nelle  originali  sue  fonti 
siciliote.  Il  canto  di  Giulio  sopravvisse  a  quelli  de'  poeti 
anteriori  e  suoi  contemporanei,  e  fu  modello  a  quelli  del 
secolo  XIII. 

Giò  premesso  raccogliendo  sinteticamente  1'  intera 
Tenzone  come  in  una  continuazione  di  scene  drammatiche, 
che  abbiano  principio,  mezzo  e  fine;  noi  vediamo  dopo 


—  303  — 

l  anno  di  amore  nuilrilo  di  speranze  e  solo  manifasiato 
I  dono  di  mazzi  di  Qorì  mandati  alla  bella,  e  suom  e 
i  noltm-ni  accosto  il  castello  di  lei,  venire  risohiio 
l'ultima  prova,  e  quindi  colto  ji  momento  opporlUDo 
cJùedeile  il  frutto  del  suo  giardìm.  e  dopo  una  lotta  di 
repulse,  insistenze,  di  sdegni  simulali  e  amore  crescente, 
cedere  la  bella  Gglia  del  signore  di  Bari,  e  concedergli  di 
andarsene  secolei  allo  letto. 

Il  dialogo  v'è  condotto  con  grazia  non  solo,  ma  ^ 
pure  con  forza  e  concatenazione  progrediente,  acdiè  non 
è  parte  di  esso  non  ammirevole.  Il  linguaggio  è  sponìaoieo, 
non  sopraccarico  di  oroamenti,  invece  sobrio;  ooteroW 
per  una  tal  quale  verginale  proprietà  da  fartelo  dfleWerole 
e  caro,  quasi  rimprovero  a  taluni  poeti,  i  di  cui  rersi 
azzimati,  lisciali,  ridondanti  di  ricercatezza  artificiali,  lestt- 
iicano  se  non  la  decadenza  contemporanea,  T  ktààsiàudti. 
In  Giulio  tutto  è  natura,  in  castoro  la  miaàen  amati 
r  ispirazione.  Cosi  la  rima  quantunque  triplice,  è  semftr 
spontanea;  vero  trionro  della  mente  versatile  od  porti 
sulla  lingua  ancora  incomposta  ed  amorfa.  Le  imigìDi,  |ti 
epiteti,  le  figure  naturali,  non  ricercate  col  lanlernoo  OMK 
oggi,  0  strane  di  frequente,  e  non  rado  Unte  on  le 
tanaglie  come  i  sillogismi  scolastici.  Giulio  conoann  ^ 
antichi:  ma  poetò  come  il  cuore  gli  delta\-a,  e  qsele  Me 
slesse  forme  e  voci,  che  oggi  sarebbero  insuele,  Iraw 
accolte  da''  grandi  della  corte  sveva,  né  disdegnale  al  MMo 
dagli  arcliimandritì  delP  italica  poesia. 

Gome  è  manifesto  dalle  note  annesse  alla  TenMK, 
noi  le  troviamo  in  tutti  i  poeti  siciliani,  e  ne' più  illofln 
scrittori  dal  secolo  XIII  al  XVI,  senza  loter  discendere  al 
presente,  a  conlare  da  Guittone  a  Jacopone,  a  Umie  e 
Petrarca  ecc.  E  in  fatto  in  quale  lìrica  posteriore  a  Gallo 
e  anleriore  al  nuovo  stile  dolce  di  Dante  Alighieri,  *  pm 
vita,  passione,  evidenza,  vigore,  ingenuità?  A  lui  cedon» 


20 


k 


—  306  — 

l)erciò  i  dugentisti  delP  isola  e  dei  cootineDte,  i  quali 
toccando  unica  corda,  l' amore,  non  seppero  avvivarlo  del 
caldo  affetto  di  Giulio,  che  ben  poteva  ripetere  con  Matteo 
Ricco  da  Messina: 

Come  fontana  viva, 
Che  spande  tutta  quanta, 
Cosi  lo  meo  cor  canta. 

Pertanto  io  conchiudo,  riepilogando  questo  ornai  lungo 
prodromo  alla  di  lui  Tenzone,  essere  Punico  cimelio 
deir  epoca  normanna  diffusa  e  celebre  in  tutta  la  penisola, 
scritta  dopo  il  di  lui  matrimonio  con  giovanotta  pugliese 
non  meno  di  lui  nobile  e  ricca,  regnante  Enrico  VI,  come 
si  prova  con  moltiplici  connesse  testimonianze  storiche  ed 
economiche,  e  dettata  in  lingua  aurea  pel  tempo,  ma 
intinta  di  pugliese,  giunta  sino  a  noi  guasta  ne^  Codici,  il 
meno  imperfetto  de' quali  è  il  Vaticano  col  di  cui  aiuto 
e  di  coltissimi  sapienti,  propongo  la  seguente  lezione. 


1.  Anliquitalis  t 

.  lib.  1. 

3.  Vedi  Idea.  Gioruale  di  Pdemo,  anoo  %  «oL  t.  p.  %. 

Ove  è  ioserìia  la  mia  Disamina,  ebe  tU  risUnpUa  M  Gab- 
tola  in  Calania  nel  1859.  Chi  (iesitlera  m^giore  siUbi^  e 
sdiiarìmenti,  e  vorrà  conoscere  al  miattU)  i  fauì  e  le  mie  con- 
vinzioni al  proposilo,  può  rivolgersi  alla  SegT«ierìa  delf  Acca- 
demia degli  Zelami  dì  Aci.  ove  ho  depositato  una  lunga  lettera 
con  documenti  analoghi,  un  Raggiooanienlo,  e  N.°  29  Note 
delucidative.  Questi  scritti  riuniti  alla  Disaminn,  spero,  so>ii- 
sféranno  gli  scrupoli  de*  più  peritosi. 

3.  Sono  essi  Alberto  Buscaino  Canjpo  da  Trapani,  Riccarda 
Mitchel  da  Messina,  Corrado  Sbano  da  Noto.  Vincenzo  Hor- 
lìllaro  da  Palermo,  Giuseppe  Angelo  Giercber  da  Caltagirooe, 
Vincenzo  Di  Giovanni  da  Salaparula,  Salvatore  Salomone  da 
Borgello.  Michele  Castógnoia  da  Catania,  Giuseppe  Cazzino  da 
Genova,  Francesco  Massi  d.i  Roma,  Giusto  Grion,  Preside  del 
Liceo  di  Verona,  Giuseppe  Pilrè  e  altri, 

4.  11  Sirventese  di  Giulio  d'Alcamo,  Esercitazione  critica 
del  Doli.  Giusto  Grion.  Padova  1855,  p.  5. 

5.  Manuale  della  Lelleraiura  del  primo  secolo  delta  lingua 
italiana.  Firenze  185fi. 

6.  Ivi,  p.  10. 

7.  Nannucci,  Analisi  de' verbi:  Firenze  1844,  p.  23,  N." 
l  •—  Alcune  vecchie  e  nuove  Osservazioni  del  Conte  Comm. 
Giovanni  Galvani  sulla  Cintilena  di  Giulio  il'  Alcamo.  Modena 


co'lipì  di  Cario  Vincenzi.  1870.  Pag.  31-40. 


—  308  — 

8.  Nannucci,  Manuale  ec.  toro.  1,  p.  125. 

9.  Trucchi  tom.  1,  p.  65-73. 

10.  Senza  fallo  V  emanqense,  che  scrìsse  quello  sproposito, 
era  oca,  od  ebbe  dettata  la  Canzone  da  chi  pronunziando  a 
suo  modo  ha  *m  Bare  alla  pugliese,  per  ha  in  Bari  all'ita- 
liana, r  oca  copista  segnò  sulla  carta  il  famoso  ambare  a  ta- 
luno prediletto.  —  Non  manco  di  rispetto  pe' dotti,  ma  neces- 
sità mi  ha  obbligato  a  tener  conto  di  tanta  laida  e  misera 
povertà  di  critica. 

11.  Ed  in  Bari,  dove  Italia  s' imborga  specchiandosi  nefle 
adriatiche  onde,  fu  preso  Giulio  dalle  angeliche  fattezze  di  una 
timida  fanciulla,  e  spiegò  in  elette  rime  il  suo  dolce  patire  — 
Frosina  Cannella,  Schizzo  Crìtico  intorno  a  Giulio  d'Alcamo 
ec.  p.  12,  Palermo  per  Virzl,  1861. 

12.  Somma  della  Storia  di  Sicilia,  di  Nicolò  Palmeri. 
Storia  della  Letteratura  italiana  di  Pietro  Sanfilippo.  Storia 
della  Sicilia  sotto  Guglielmo  il  Buono,  di  Isidoro  La  Luoiia. 
Deir  uso  della  lingua  volgare  in  Sardegna  e  in  Sicilia  ne'  secoli 
XII  e  XIII,  di  Vincenzo  Di  Giovanni. 

13.  Il  Grion  aggiunge:  ce  io  non  posso  non  prenderli  (i 
viaggi)  per  gran  parte  che  in  senso  letterale,  riflettendo  che 
tutte  le  poesie  de'  ducenlisti  sono  poesie  d' occasione,  nelle 
quali  i  lirici  di  allora  inserivanonotizie  della  lor  vita,  se  anche 
abbellite  ed  esagerate  poeticamente,  non  però  mai  inventate  di 
pianta.  Quelli  del  nostro  alcamese  per  la  sua  condizione  e  sto- 
ria de' tempi,  hanno  sembianza  di  vero  d.  p.  5. 

14.  Per  quante  ricerche  abbia  fatto  per  4X)noscere  la  ge- 
nesi de'  proprìetarii  di  quesf  edifizio,  nulla  di  sodo  ho  potuto 
indagare,  perchè  in  Àl&imo  gli  arcliivii  municipali  e  notarili 
sono  quasi  affatto  deperiti.  Quanto  rapporta  Ignazio  del  Giu- 
dice nell'inedite  di  lui  Memorie  della  città  di  Alcamo,  con- 
servate in  quel  Municipio,  sulla  genealogia  di  Giulio,  è  con- 
tradetto  dall'istoria. 

La  casa,  alla  quale  si  attribuisce  il  suo  nome,  fu  nel  se- 
colo trascorso  della  famiglia  Guarrosi,  poscia  del  Monastero 
Nuovo,  oggi  è  del  cav.  Pietro  De  Stefani.  La  sua  architettura 
ò  del  sec.  XIV,  ma  un  frammento  di  cornice  sporgente  dalla 


;  occidentale  della  i 
1  si  argomenla  essere  stata  i 
ì  le  lineslrioe  seo 
:  anticlii  commessi  a  i 
Inloitaco  caduto,  ranno  a 
r  edifizìo.  Ne'  nidpri  ddf  a 
irine.  Essa  è  nel  piaoo.  i 
gli  altri  bbbrìcati.  —  Ri«[>ilt0i  q 
I  del  n  luglio  1870  del  Pnit  G.  Fn 

15.  Cirio  Magno,  Federic*  Bufaarona,  FVppa  Fi 
,  non  sapeaoo  scrìvere;  ì  noettì  re  ""■'■"■    éa^  su 
I  parìo,  erano  leiieraii.  Il  Baiirdo  ia  fin  ad  ìiiii  ■> 


Noo  ptrt-  a  me  che  n  pm 
Sia»  in  sa  ì  likn  a  tdftuM 


I  Forliguerrj  .aggiunge  per  Rinaldo: 


Ita  di  «olpaiY  o  H  tmaa; 

JUbaldo  c(Me  del  Sacro  palazzo  Dell*  anno  874  souoicrìTea 

i  alto  pubblico  cosi:   Qui  ilii  fui  et  ftropttr  igiutrontias 

siffnum  sanctx  crucis  feci.  Muratori,  Rerum 

\  lom.  %  p.  2.  Tale  la  disugoagtianza  fra  i  nostrì  dinasti 

|b  di  loro  corte,  dal  rimanente  di  Europa;  tale  la  superìo- 

ì  di  Giulio  fra  1  magnati  suoi  contemporanei! 

16.  Tanto  da  me  stesso  nel  mio  breve  soggiorno  a  Roma, 
per  mezzo  dell'illustre  mio  amico  Prof.  Francesco 

S6Ì,  bo  cercalo  invano  se  esistessero  colà  sinora  il  Codice 
)  dall' Ubaldini,  e  il  Fatcio  di  poesie  antìGhissìme  sici- 
?  citato  dal  Crescimbeni,  e  non  più  si  rinvengono,  come 
I  Budello  Massi  e  1'  egregio  l^^iile  Gnoli  mi  accertano. 

17.  Nanoucci,  ivi,  voi.  I,  p.  160 

18.  Il  regno  delle  due  Sicilie  descritlo  ed  illustrato,  voi. 
9,  p.  16.  coi.  3. 

19.  Andrea  Iscrnia.  Commenl.  ad  consuci.  Teudal.  p.  Ì0\: 


L 


—  310  — 

Orlando,  Feudalismo    ia  Sicilia.    Gregorio^   GonsideraziODiy 
Muscia  &. 

20,  21,  22.  Le  Pergamene  greche  esistenti  nel  Grande 
Archivio  di  Palermo,  tradotte  ed  illustrate  da  Giuseppe  Spata. 
Palermo  1861,  p.  271,  297,  365,  433,  445.  Historìa  diploma- 
tica Friderici  IL  ec.  Parisiis  1859,  voi.  1,  Preface  p.  386. 

23.  V.  Isemia,  Orlando,  Gregorio. 

24.  Borghini,  Giornale  di  Firenze,  N.""  9,  anno  1,  Settem- 
bre 1853,  p.  545.  Deir  Unificazione  della  lingua  in  Italia,  Le 
Monnier,  1869,  p.  45.  Colgo  quest'occasione  per  ringraziare 
il  Posquini  delle  cortesie  usatemi,  per  manifestargli  la  mia 
ammirazione  per  V  opera  citata,  la  migliore  e  più  dotta  e  sot- 
tile di  quante  ne  abbia  io  letto  su  quest'  argomento,  che  sarà 
sempre  un  desiderio,  un'  utopia,  la  quale  se  mai  si  attuasse, 
tramuterebbe  r  aurea  nostra  favella  in  babele. 

25.  Giusto  Grion,  a  mia  preghiera,  con  sua  lettera  del  4 
febbraro  1869,  cortesemente  mi  partecipava  da  Verona  i  suoi 
argomenti,  in  conseguenza  de' quali  crede  la  Tenzone  in  disa- 
mina, essere  stata  dettata  tra  r  estate  1246  e  il  giugno  1247, 
e  mi  manifestava  che  avessi  riferito  le  sue  stesse  parole,  di- 
versamente opinando.  Essendomi  impossibile  trascrivere  la 
sua  lunga  lettera  di  quattro  fogli ,  andrò  mano  mano  spo- 
nendo le  addottemi  ragioni,  e  sottomettendo  a  lui  e  al  pub- 
blico le  mie  osservazioni,  tendenti  ad  assodare  la  storica  ve- 
rità. Ed  ecco  al  proposito  del  Colocci  le  sue  e  le  mie  de- 
duzioni. 

Nella  lettera  del  Grion  trovo  che  egli  fonda  i  suoi  criterii 
nella  vaga  tradizione  che  taluni  asserivano,  avere  scrìtto  il 
Colocci  essere  stati  citati  da  Giulio  Fra  Guittone  e  Notaro 
Iacopo.  Ma  la  testimonianza  di  Leone  Allacci,  Custode  della 
Vaticana  dopo  dell' Olstenio,  il  quale  dichiara  che  ancorché 
liabbia  usala  dUi{ienza  nelli  ms,  notamerUi  del  Colocci,  non 
ìu)  trovato  tali  parole,  eradica  ogni  dubbiezza. 

Quella  tradizione  non  pub  ad  altro  valere,  se  non  a  farci 
conoscere  che  anche  nel  1661  vi  erano  taUmi,  che  opinavano 
come  ir  Grion;  e  a  ribadire  essere  uguale  alla  nostra  la  con- 
vinzione doli'  Allacci,  basta  il  ricordarsi  l' aver  egli  proclamato 


—  311  — 

-Talcamcsc  il  primo  rimatore  di  cui  si  habbia  notitta.  A 
questo  ini  son  fermato  per  solisfure  il  Grion.  Io  Roma  si  sono 
reiterale  le  ricerche,  il  Massi,  lettore  della  Vaticana  e  Uotii^ 
Simo  in  questi  studii,  mi  scrive  direttamente  i)  36  geonaro,  e. 
per  mezzo  del  Conte  Gnoti  it  17  febliraio  1870:  yiuji  atcaUo 
diasi  Ili  Cdocci  che  Ciullo  nomini  Lenlino  e  Fra  GuHUme. 
CiuUo  aiaidùstitiio  fiori  sotto  Arrigo  il  Crudele.  ~  Ch'  ^ 
conosce  i  mmjs.  viticani  quarOo  le  sue  cose  profiri^.  av«rtt 
riftta^ato  di  nttovo.  e  nulla  vi  esiste  al  proposito.  —  Tanto 
basti  a  serenare  il  (ìrìon. 

36.  V.  A.  Manzoni.  Ragionamento  sall'Aikldti;  Moiiieii)iea, 
EsprìU  des  Lois.  lib.  30,  cap.  19  e  30;  RkoUÌ,  Sur.  iTftalii. 
Torino  1858:  Leo,  Stor.  d' Italia  vcd.  1  ;  OriaMto,  il  temiUami 
in  Sicilia  1S47:  Du  Gange  riporta,  matta,  eoMpoiHio.  fredum, 
e  aggiunge  die  sodisfatto  il  fredo,  rem  paeem  a  Priimipe 
consequituT.  Sam  frid  germiirus  idem  vaUt  fuorf  fa». 
Fabbreili  Arìodantts  Glossarinm  te,  Toriw  1887. 

37.  Spaia,  ivi.  p.  371.  309.  U  hmtìm.  Gufata»  II. 
Cap.  IV. 

38.  «  Pietro  delle  Vigne  per  sw  ioeark»  tom^  Mie 
U  leggi  de'  re  normanni,  e  qòcie  pl*MÌfi^  •  cfce  ÌM(léBI 
pubblicare  Io  stesso  FederictL  D  awi*»  Cadke  !■  4M  s  A- 
scutere  al  Pariamenlo  imiTacaMi  im  HeU.  Nd  pa^»  dd  (331 
comincia  la  discussioiK,  a  A  23  M  wgwlg  j^aM  3  CoAee 
fa  pubblicato  >.  Palmoi,  umm»  ddbSlar.iiSkil^  Ftrienw 
1839,  voi.  3,  p.  86. 

A  validare  tie  megli»  «mm  qaaie  eoBeziari  ftr  io  fsk 
ritffodiuioni  ddle  le^  fnaàuai,  ocearre  i  Cafiee  ntìam 
giudicato  anunon  al  PirtifHu  «  lidi,  e  fnfh»  *r|«M 
anni  dei  r«gi»  di  Federieot.  Qmam  fitntimim»  M.  &.  h 
acquistato  dalb  Valkaj  Mi  IM4,  e  qiitM  tuiiM»  e  p*- 
bBcaio  dal  ÌMui  od  ISA.  Camia$mm  m  tma  varie  «oalf- 
tnioni  di  Ga^idBo  D,  che  paé  Éna*  Jnrfannu  Mie  Fe- 
dericeaw  dd  1331.  tme  m  mpàm  éktÉm 

39.  DdToao  dd  vdgM  la  Saiten  e  ìb  SMti  ad  se- 
coli Xa  e  Xm.  FrioM  taSB^  pi  tL  B  «Maia  taCartiuAw 
33.  De  rapterthms  ift^wani  vd  ndurva.  pt.  34.  C«pdMnn 


L 


—  312  — 

30.  Trucchi  voi.  1.  p.  XII.  Pasquini,  UDificazkuìe  ddla 
lingua,  ivi. 

31.  Hist.  sic.  pan.  1.  presso  Lami  Ddie:  erodUor.  p.  305. 

32.  Hist.  diplom.  Friderici  secundi.  Parisiìs  1854.  tom.  lY. 
pars.  I.  p.  36. 

33.  Epist  lib.  1.  cap.  26.  Petrus  de  Yineis.  Io  quas  pre- 
cedentes  orones  Siciliae  santiones  et  nostras  (quas  servari  de- 
cernimus)  jussimus  esse  transfusas,  ut  ex  bis  qust  io  presenti 
constitutionuin  nostrarum  corpore  roiDime  contineotur,  robor 
aliquod  nec  auctoritas  aliqua  in  judidis  vel  extra,  possiot  assu- 
mi. —  Hist.  diplom.  ec.,  p.  4-5. 

34.  Storia  della  letteratura  italiana  dal  seo^  XI  al  XIV. 
Palermo  1859,  p.  51  e  seguenti  ec. 

35.  Mons.  Vincenzo  Borghini,  Discorsi,  Firenze  1585, 
tom.  2.  p.  127.  Discorso  sulla  moneta  fiorentina. 

36.  De  monetis  Italiae  variorum  illustrìum  virorum  Dis- 
sertazione, p.  IV;  excepta  ex  Dissertatione  Antoni!  GrafBoni 
p.  154,  Mediolani  1752. 

37.  Sjilabus  Membranarum,  tom.  1,  p.  11,  N.*  3.  V. 
nota  26. 

38.  Mortillaro  Opere,  voi.  3.  La  storia,  gli  scrittori,  e  le 
monete  dell'epoca  arabo-sicula,  p.  334. 

39.  Antiquit.  Medi  aevi,  Dissertatio  XXVDd,  p.  788-789. 

40.  Non  è  credibile  quanto  abbia  fatto  per  assodare  que- 
sta veril<^!  I  più  celebrati  nummografi,  tra  cui  primo  il  Mse 
Strozzi,  se  ne  sono  lavate  le  mani.  Due  anni  di  corrispondenza 
perduta  —  Credea  trovar  mirabilia  nel  Valeriani  citato  dal 
Fanfani  nel  suo  Vocabolario  alla  voce  ago^aro;  un  mio  illu- 
stre amico  dopo  inGnite  ricerche  ebbe  il  libro  irreperibile,  con 
pazienza  e  carità  fraterna  me  ne  spedi  il  sunto,  e  presi  un 
pugno  di  mosche.  Ivi  si  ragiona  di  economia  pubblica,  non  di 
numismatica,  e  meno  dì  erudizione.  Non  ho  potuto  avere  Topera 
del  Lo  Schiavo  da  Palermo  citata  dal  Valeriani  al  proposito, 
ma  credo  ancor  questa  indagine  infruttuosa:  forse  è  negli  atti 
deir  Accademia  di  Napoli.  Sono  stanco  e  mi  fermo. 

41.  Syllabus  Membranarum  ec  voi.  1. 

42.  Nell'editto  del  re  Gialcto  riferito  nell'Appendice  1.' 


—  :ii3  — 

Mie  pergamene,  Codici  e  Fogli  cartacei  di  Arborea,  raccolti 
e  illiiflrali  da  Pietro  Martiaì,  Cagliari  1863-65,  vi  si  legge: 
Et  fiierii  ipsu  primu  qui  usarìt  de  narrer  ipsu  et  ìpsa,  in  loeu 

,  de  /'u  et  la  dieta  de  ssos  Corsos  et  Siciliauos,  comodo  ipsos 
itarranint  kt  pani,  lii  castellu,  comodo  ad  su  presente;  prò 
su  quale  lu  sttpradiciu  latetii  ponesit  illu  in  eustu  casu  — 
«jo  amo  illum  ego  illu  amo  —  ef  Hip  cunat  ponesìt  ipse 
amai:  qui  eciam  hat  usatu  in  locu  de  ssu  diciu /«,  proevilari 
n  confusione:  per  esemplo  —  ipsu  pane  illu  manducai  ipsu 
honmie:  qui  ipsDs  aniiquos  narrarunt  —  tu  pane  lu  Twon- 
ducat  lu  homine  —  V.  Di  Giovanni  I.  e.   p.  31.  L'Accade- 

I    tata  dì  Berlino  le  ritiene  apocrife.  Lo  sono?  Lo  siano  o  no, 

I giova  né  nuoce  a  Sicilia. 
43.  Itd)ert  Crìspin  entra  le  ]ulaÌE, 

On  cauiait  ei  on  sonnait  lais, 
Li  un  arpe,  li  aulrc  vicllc  (;c. 
fei,  St.  lettei^ria  ec.  lom.  1.  p.  67.  Firenze  1855. 
44.  Vedi  Canti  popolari  siciliani  Cat.  XLIL  Canti  sacri. 
.  1857. 
45.  Questa  interessa  nlissinia  epigrafe  bilingue  fu  pubbli- 
dal  nostro  bcDemerìto  Di  Giovanni,  il  quale  ne  ebbe  un 
Bc-simtle  in  cera.  Io  per  ribadire  quanL'egli  prodncea  l'ho 
avolo  ritratta  con  la  massima  diligenza  dall'  egregio  Prof. 
Papas  Giovanni  Harcìa.  Es.sa  è  posta  nella  chiesa  di  S.  Gio- 
vanni Battigia  del  Comune  di  Monte  S.  Giuliano,  antica  Eriee, 
a  terra  a  destra  dell'  altare  del  Crocefisso,  è  scolpita  sopra 
lastra  calcare.  È  quadrala  di  centimetri  32  per  ogni  lato. 
A.11' estremità  destra  è  spezzala,  talché  nel  lato  orizzontale  ne 
mancano  centimetri  18,  e  nel  verticale  10,  e  mancano  perciò 
Tasta  iofeiiore  della  E  e  la  M  di  amen.  Le  parole  non  sono 
disgiunte  fra  di  loro,  ma  invece  riunite,  e  ogni  lineo  tocca  il 
vivagno  del  sasso.  Sono  screpolati  superiormente  il  primo  e 
Urto  zero  del  millesimo,  senza  d  menomo  sospetto  di  altera- 
DOne,  come  pure  1"  H  di  TheoUora  e  1'  A.  di  madre,  e  sem- 
brano essere  sclieggiale  dallo  scarpello,  che  le  iacidea.  A  ri" 
oonfermare  l' antichità  di  quest'  epigrafe  occorrono  due  testi- 


i 


—  314  — 

monianze.  La  prima  si  è  del  Guarrasi  il  quale  ntìVEria 
vendicato  (1)  p.  330,  il  quale  ricorda  essere  dell'epoca  d 
Costantino  la  chiesa  ov'  è  collocata,  e  quindi  la  chiaaia  arUi- 
chissima,  e  air  istess'  ora  la  ricopia  fedelmente  com'  io  T  he 
dato.  L' opera  del  Guarrasi  fa  parte  deir  accanita  polemici 
suscitatasi  in  Erice  sulla  vera  patria  di  S.  Alberto»  e  il  sue 
Aero  contradittore  Niccola  Maria  Burgio,  che  gli  appunta  per 
sino  le  virgole,  non  inforsa  r  ingenuità  delP  epigrafe  de^  Gop 
pota.  La  seconda  è  più  antica  di  oltre  due  secoli.  Io  un  M.  S 
d'ignoto  erìcino  deiri500,  ove  sono  raccolte  preziose  notizii 
di  quella  città  cavate  da  vetustissimi  documenti,  è  coatestat( 
essere  i  Coppola  una  delle  antichissime  feudatarie  del  regni 
nominando  Niccolò  Coppola  uno  de'  primi  baroni,  e  aggiungi 
essere  costui  andato  in  Aragona  al  re  Pietro  Ambasciatore  de 
regno.  Devo  questi  librì  alla  cortesia  delP  egregio  Prof.  Ug< 
Antonio  Amico  ericino,  che  mi  ha  oralmente  testiBcato  essen 
r  epigrafe  come  e  quale  io  la  descrivo.  Raccomando  e  fo-vot 
addotti  erìcini  di  togliere  dal  pavimento  e  collocare  nel  mun 
delia  chiesa  l'epigrafe  monumentale,  tal  che  non  fosse  logor 
dallo  stropiccio  de' piedi  degli  accorrenti  in  chiesa. 

46.  Spata,  ivi,  p.  182. 

47.  Di  Giovanni,  Il  Borghini,  Giornale  di  Filologia  e  d 
Lettere  italiane,  Firenze  1863,  voi.  1.  p.  100. 

48.  Storìa  della  letteratura  italiana.   Aggiungo   essere 
dialetti,  antichi  quanto  le  lingue,  e  corrispondere  a*"  generi,  ali 
specie  e  alle  varietà  delle  piante  in  botanica. 

49.  Ragionamento  storìco  sulla  volgar  poesia.  Milano  182^ 
p.  64.  È  qui  evidente  V  errore  dell'  Affò  nello  scambiare  Na 
poli,  0  a  dir  meglio  Puglia  e  Sicilia:  i  due  dialetti  hann 
caratteri  proprii,  come  si  detegge  nettamente  dalle  opere  i 
essi  pubblicate  e  da' loro  vocabolarìi. 

50.  Vedi  noU  2. 


(1)  Erice  vendicato  Lettere  critico-storìco-apologetiche  a  favo 
della  verace  nascita  in  Erice  di  S.  Alberto  ec.  Palermo  1580  presi 
0.  Battista  Gagliani. 


—  3i5  — 

51.  D^l  dialetto  iiftiioliLirio  p.  23. 

52.  In,  p.  30. 

53.  Ivi,  p.  28. 
&4.  Ivi. 
55l  In. 

56.  Genuino,  Gita  a  Sora. 

57.  Il  Grion  osserva  che  il  Pasqualino  nel  suo  Vocabo- 
I  riporta  questa  voce  come  siciliana;  ma  ignora  essere 

)  UDO  de*  lami  errori  del  Pasqualino,  e  che  i  lessico- 
1  I  lui  anteriori  e  posteriori  non  l' banno  registralo,  perchè 
astenie. 

58.  Storie  di  Giovenazzo  f.  87,  rirerilo  dal  Mnralori. 
Ui»  Ualicarum  snriptores  ec.  lom.  VII,  p.  1022.  Oggi  se 

lìDftirsa  riageouilà. 

59.  Ivi.  p.  8. 
.  A  chiarire  quanto  aflermo  basla  por  mente  alle  per- 

mulazioni  di  lettere  come  ti  per  b.  bof/lio.  brabofiUaU.  cnveìii, 
per  voglio.  traiMKjlitì,  capelli:  agli  afSssi  e  suffissi  ec.  A 
qtiesli  iodizii  il  Nannucci  riconobbe  «he  il  Codice  Magliabec- 
diiano  del  Volgarizsammlo  del  TVaitato  del  governo  ik'prin- 
eipi  di  Egidio  Colonna,  (u  copialo  dalla  mano  di  un  sanese 
(Ivi  voi.  2,  p.  324]. 

61.  Ivi  p.  70. 

62.  Costui  scambia  abere  con  a/jete  ;  gente  con  avvento, 
e  fa  dire  a  (Uullo  nella  Stanza  13  non  aver  (rovaio  donne  in 
tutti  i  paesi  da  lui  visìlalit  Gh  uomini  colà  erano  forse  allora 
ermafroditi. 

63.  Eccone  la  prova: 

Si.  1.  Trami,  invece  di  ìtoìhk' o  (ra^nii/ senza  del  che 
il  verso  sarebbe  monco  di  una  sillaba. 
Si.  3.  Solicco  per  solacelo. 

tSt.  4.  Trovatiìi  per  Irovanmi  plurale. 
St.  7.  Procazala  per  procacci;ila. 
Si.  8.  Ripresa  e  distesa  per  riprisa  e  dislisa,  senza  del 
die  non  vi  saiebbe  rima. 

Si,  9.  Pensandome  per  pensandoci. 
St,  13.  Calabro  per  Calabria,  Pulgiìa  per  Puglia,  Gie- 
lìwa  per  Genova,  tuta  Barheria  per  lulla  Barberia. 


—  316  — 

St.  14.  Trabagliasti  per  irabagliasUti^  adomcmimi  per 
addomannimi. 

St.  18.  Boi  per  boglio,  disiano  per  disiarono. 

St.  19.  Ma  'non  che  salman  dai  invece  di  a  casata 

mandai. 

Si.  21.  Fosse  per  Fos",  sans*  onni  colpo,  invece  di 
dammi  un  colpo. 

St.  22.  Belio  mi  sofferò,  invece  di  beilo  mio  socio. 

St  23.  Di  eh'  anno,  invece  di  quanno. 

St.  25.  Poi  che  annegassUi^  invece  di  poiché  cara  an- 
negassiti. 

St.  26.  E  di  Sardo  Matteo,  invece  ed  in  Santo  Matteo. 
Figlio  di  giudeo,  invece  di  o  figlio  di  giudeo.  E  coltale  per 
cotali  —  N(m  udire  dire  anch'  eo  ec.  Mortasi  la  fenUna, 
per  ca  mortasi  ec. 

Ad  onta  di  queste  mende,  quel  Codice  variamente  appellato 
Priru>ipe,  reale.  Vaticano,  è  il  migliore  di  tutti,  ed  ecco  come 
il  Trucchi  lo  controsegna:  par.  CXXX,  p.  LXV. 

<c  II  Codice  Vaticano  de' Trovatori  Italiani,  è  senza  con* 
tradizione  la  più  antica,  la  più  ricca,  la  più  preziosa,  la  pik 
corretta  e  la  più  autentica  raccolta  delle  rime  de*  prìnù  tro- 
vatori della  nostra  volgar  poesia.  Il  Codice  è  io  pergamena, 
in  foglio,  benissimo  conservato,  di  un  carattere  minuto  e  sot- 
tile, ma  uniforme  dal  principio  al  fine,  tutto  andante  alla  pro- 
saica, senza  divisione  di  stanze,  di  versi,  e,  alcune  volte,  nep- 
pur  di  parole,  e  senza  punteggiatura,  al  solito  de'  dugentisti, 
di  sorte  alcuna.  Non  vi  è  data  precisa  del  tempo  in  cui  fu 
scritto;  ma  per  molte  ragioni  si  può  francamente  affermare 
che  fu  scritto  tra  il  1265  e  il  1275,  e  contiene  le  poesie  di 
non  meno  di  cento  trovatori  italiani,  tutti  anteriori  a  Lapo 
Gianni,  a  Cino,  a  Guido  e  a  Dante  Alighieri;  di  modo  che 
si  può  dire,  che  contiene  quasi  tutte  le  rime  dei  più  illustri  e 
de' più  chiari  trovatori  italiani.  » 

64.  Cosi  Pietro  delle  Vigne  mozzò  la  parda  gioia  di 
un'  a  per  farla  rimare  con  voi,  Nannucci  p.  27;Rugerone  da 
Palermo  scrisse  nivi  per  neve,  p.  54;  Enzo,  avveniri,  p.  64; 
Arrigo  Testa,  nojt^o,  nascuso,   accrisce,   p.  71-72;  Guido 


,  merciite,  dim 
78,  81  ;  Stefano  Proionoiaro, 

il  coltissimo  F.  Redi  nel  secolo  meilicoo  amwi,  per  amore, 
tralascianilo  gli  esempli  di  Dante,  Petrarca,  Artoslo  e  degli 
altri  siciliani  a  Giulio  di  poco  posteriori.  V.  Prefazione  a'Canti 
ec  ediz,  del  1857, 

65.  Ivi,  p.  7. 

66.  Riporto  a  comprova  di  quanto  asserisco  qualctie  parola 
dal  Grion  dataci  cotne  siciliana,  e  ignota  a  noi. 

Strofe.  2.  davÌTìtri,  per  dda  intra,  interpretazione  alla 
quale  ribellansi  il  senso  e  il  dialetto.  4.  Cwrenli,  per  cnirenci; 
fra  noi  si  dupplica  la  r.  Bono  la  vìnuta.  Invece  dì  bona.  5. 
Si  ci  li  toi  mi  trovo'nu.  invece  di  Si  li  toi  mi  cei  trovanu. 
ifctuci;  per  mentud;  toct£ra,  per  tuechirà,  è  forma  delle 
scale  (li  levante  ;  grazj  a  Oiu,  si  dice  ;  grazia  a  Diu,  6.  Tu  mia 
non  lasci  viviri,  per  Tu  non  mi  lasci  è  turco;  e  au  per  ha  è 
ìgDOto  in  Sicilia;  cosi  Tuatrimi  non  pótiri  a  la  munu,  in 
Sicilia  si  direbbe:  Non  pìUiria  tuccarimi  la  manu.  7.  Ad- 
dimimi  e  avvutesta  sono  errori  manifesti  di  copisti,  e  indo- 
vinelli fra  noi.  10.  Artocchi,  per  lecchino;  12.  Impistimi,  pa- 
rola incomprensibile;  circa  per  cerca;  17.  Mosira  per  movirù, 
ed  fli,  (Oli,  per  avrò  e  tuo;  i8.jer' ,  invece  àijeru,  andarono, 
dimenticando  che  il  dialetto  siciliano  abborre  i  tronchi.  21. 
fussi,  per  fussì,  fossi;  sansa,  per  seìiza;  23.  Nella  stampa  ti 
vistili  lamaitUa,  nella  copia  gentilmente  donatami  dal  Grion, 
leggo  di  sua  mano  a  matita: 

Di  Qtantu  lì  TJstisli  lo  'ntajalo: 
Bella,  da  quillu  jornu  so'  sooralo  ; 

mi  riescono  inintelligibili  tanto  il  lanzajutu,  guanto  'o  'ntajato. 
?4.  fii.  per  sarà. 

67.  Loco  citato. 

68.  Ivi,  p.  417. 

69.  Del  Volgare  Eloquio  lib.  2.  cap.  V. 

70.  Ennium,  sicut  sacros  veiusuie  lucas  adoremus.  in 
qtnbus  grandia  el  antiqua  robora  Jam  non  tantum  babent  spe- 


Hno,  quam  religionem. 


—  318  — 

71.  Vita,  epoca  IV.  cap.  1. 

72.  Ivi,  voi.  1.  p.  383. 

73.  Nel  Bruto. 

74.  Prefazione  alle  lettere  di  Fra  Guittone. 

75.  Stor.  1.  770.  Vedi  Grion  p.  6. 

76.  Ivi,  p.  I. 

77.  Poeti  antichi  ec.,  raccolti  da  Moos.  Leone  Allacci 
Napoli  1661,  p.  15. 

78.  Stor.  della  Letteratura  italiana,  Firenze  1855,  voi.  1. 
p.  75.  V.  inoltre  il  giudizio  dal  medesimo  emesso  al  propositc 
nella  Prefazione  al  Florilegio  de'  Lirici  più  insigni  d'IkUia, 
Firenze  1846,  p.  18  e  seguenti. 

79.  Ivi,  p.  56. 

80.  Schiarimenti  di  L.  V.  a  Costantino  Nigra.  Scienza  < 
Letteratura,  Giornale  di  Palermo  1858,  p.  HO,  par.  3. 


LA  TENZONE 

DI 

CIULLO  D'  ALCAMO 


Virgo  beata,  sùatami 
Ch'io  Doo  perisca  a  torto. 

COD.  BARBBiiOfO. 


I.  UOMO 

Rosa  fresca  1  aulentissiina  % 
Ca  pari  in  ver  la  state. 
Le  donne  3  ti  disiano 
Pulzelle  e  maritate: 
Tragemi  d^este  focora  4 
Se  t^este  5  a  bolontate: 
Per  te  non  ajo  abeoto  6  notte  e  dia  7, 
Pensando  pur  di  voi.  Madonna  mia. 

2.  DONNA 

Se  di  mene  8  trabagUati  9, 

Follia  lo  ti  tà  tare: 

Lo  mar  potresti  arrompere  10 

Avanti^  e  semenare; 

L' abere  11  d'esto  12  secolo   i 

Tallo  quanto  assembrare, 

Avere  me  non  poterìa  esio  monno; 

ivanti  li  Cavell!  m'arrìtonno  13. 


—  320  — 


3.  UOMO 

Se  li  cavelli  artonniti, 
Avanti  fossMo  morto! 
Ca  io  si  mi  pèrderà 
Lo  solaccio  e  1  diporto  14. 
Quando  ci  passo  e  Yejoti, 
Rosa  fresca  de  Torto, 
Bono  conforto  donimi  tutt*ore: 
Poniamo  che  s'ajunga  il  nostro  amore. 

4.  DONNA 


Che  il  nostro  amore  sgungasi 
Non  boglio  m' attalenti; 
Se  ti  ci  trova  patremo 
Cogli  altri  miei  parenti, 
Guarda  non  Tarricoigano 
Questi  forti  correnti  15: 
Como  ti  seppe  bona  la  venuta, 
Consiglio  che  ti  guardi  a  la  partuta. 

5.  UOMO 


Se  tuoi  parenti  trovanmi  16, 
E  che  mi  posson  fari? 
Una  difensa  17  mettoci 
Di  dumilia  agostari; 
Non  mi  toccarà  patreto  18 
Per  quanto  avere  ha  *n  Bari. 
Viva  lo  'mperatore,  grazia  a  DeoI 
Intendi,  bella,  quei  ti  dico  eo. 


—  321  — 


6.  DONNA 

Tu  me  non  lasci  vivere 
Né  sera  né  mattino  : 
Donna  mi  son  di  perperi  19, 
D' auro  massa  arootino  20. 
Se  tanto  aver  donassimi 
Quant'  ha  21  lo  Saladino , 
E  per  ajunta  quaot'ha  Io  Soldano, 
Toccareme  22  non  polena  la  mano. 

7.  UOMO 

Molte  sono  le  femine, 
Ch'hanno  dura  la  testa  23, 
E  Tomo  con  parabole  24 
L'addimina  23  e  ammonesta  26: 
Tanto  intomo  percacciale  27, 
Fin  che  V  ha  in  sua  podestà. 
Femina  d'omo  non  si  può  tenere: 
Guardati,  bella,  pur  di  rìpentére. 

8.  DONNA 


(Ih'eo  me  ne  pentesse? 
D'  avanti  foss'  io  auccisa  I 
Ca  nulla  bona  femina 
Per  me  fosse  riprisa  28! 
ler  29  sera  ci  passasti. 
Corenno  30  a  la  distisa. 
Acquistiti  riposo  31,  canzoneri. 
Le  tue  paraole  32  a  me  non  piaccion  gueri. 

21 


—  322  — 


9.  UOMO 

Quante  sono  le  scliiantora  33, 
Che  m' ha'  miso  a  lo  core, . 
E  solo  pur  pensandoci  34 
La  dia  quanno  vo'  fore  35 1 
Femina  d'esto  secolo 
Non  amai  tanto  ancore 
Quant'amo  teve,  rosa  invidiata, 
Ben  credo  che  mi  fosti  distinata. 

tO.  DONNA 

Se  distinata  fossili, 
Caderìa  de  rattezze; 
Che  male  messe  forano 
In  teve  mie  bellezze  36. 
Se  tanto  37  addivenissemi, 
Tagliarami  le  trezze  38, 
E  con  sore  39  m'arrenno  a  una  magione. 
Avanti  che  mi  tocchin  40  la  pei'sone. 

11.  UOMO 


Se  tu  con  sore  arrenniti. 
Donna  col  viso  cleri  41, 
A  lo  Monstero  42  vennoci  43, 
E  rennomi  con  freri  44. 
Per  tanta  prova  vincere 
Faràlo  volentieri; 

Con  teco  stao  la  sera  e  lo  matino  45, 
Bisogna  eh'  io  ti  tenga  46  al  meo  dimino  47. 


li  DONNA 

Oimè  48  upiiu,  auserà. 
Com'hao  reo  dfetioiio  49! 
Gieso  Cristo  P  AltìissiiBo 
Del  to(o  m*  è  airaMo  50: 
(lODCiepisUmi  51  a  abbattere  ^ 
In  omo  Mestiemalo  53. 
Cerca  la  terra,  chieste  gname  assai. 
Chiù  bella  doma  di  WÈt  tivveraL 


13.  UOMO 


Corcato  ajo  Calabria. 
Toscana  e  Lombardia. 
Puglia,  Costantinopoli. 
Genua,  Pisa,  Soria, 
I^  Magna  e  Babflooia, 
E  tutta  Bartieria: 
Donna  non  ritrovai  tanto  cortesi. 
Perchè  sovrana  di  mene  54  te  presi  55. 

14.  DONNA 


Poi  tanto  trabagiiastiti, 
Faccioli  meo  pregheri  56 
Che  tu  vadi  addomannimi 
A  mia  mare  e  a  mon  peri  57. 
Se  dare  mi  ti  degnano 
Menami  a  lo  Monsteri, 
£  sposami  davanti  de  la  genti  58, 
E  poi  farò  li  tuoi  comannamenti. 


—  324  — 


15.  UOMO 


Dì  ciò  che  dici,  vitaroa, 
Nejente  dod  mi  baie, 
Ca  59  de  le  tue  parabole 
Fatto  n'ho  ponte  e  scale  60: 
Penne  pensasti  mettere, 
Son  ricadute  V  ale  61  ; 
E  dato  f^o  la  botta  62  sottana, 
Dunque  se  puoi  teniti,  villana  63. 

16.  DONNA 

In  paura  non  mettermi 
Di  nullo  manganiello  64; 
r  stomi  65  nella  grolla 
D' esto  forte  66  castiello  : 
Prezzo  le  tue  parabole 
Men  che  d'uno  zitello: 
Se  tu  non  levi  e  vattine  di  quaci  67. 
Se  tu  ci  fossi  morto  ben  mi  chiaci  68. 

17.  UOMO 


Dunque  vorresti,  vitama, 
Ca  per  te  foss'eo  strutto  69! 
Se  morto  essere  deboci, 
Od  intagliato  tutto, 
Di  quaci  non  mi  moverà 
Se  non  ajo  70  de  '1  frutto, 
Lo  quale  stae  nello  tuo  jardino  71  : 
Disialo  la  sera  e  lo  matino. 


—  325  — 


18.  DONNA 


Di  quel  frutto  non  abbero 
Conti  né  cabalieri  : 
Molti  Io  disiarono  72 
Marchesi  e  justizieri  : 
Avere  non  ne  pottero, 
Gironde  molto  feri. 
Intendi  bene  ciò  che  boglio  dire, 
Men  este  di  miironze  io  tuo  avire. 


19.  UOMO 


Molti  son  li  garofani, 
Che  a  casata  mandai: 
Bella,  non  dispregiaremi 
Se  avanti  non  mi  assai  73. 
Se  vento  è  in  proda,  e'  girasi, 
E  giungeti  a  le  prai  74; 
A  rimembrare  t' hai  este  parole, 
Ca  di  està  75  animella  76  assai  mi  dole. 


20.  DONNA 


Macàra  77  se  dolesseti, 
Che  cadesse  angosciato! 
La  gente  ci  corressero 
Da  traverso  e  da  lato; 
Tutti  a  mene  dicessono  : 
—  Accorri  78  esto  malnato,  — 
Non  ti  dipàra  porgiere  la  mano, 
Per  quanto  avere  ha  1  Papa  e  lo  Soldano. 


—  326  — 


21.  UOMO 

Dio  lo  volesse,  vitama, 
TiA  te  fos'79  morto  in  casa! 
L'arma  n'anderia  consola, 
Ca  di  e  notte  pantasa  80; 
La  jente  ti  chiamarono: 
—  Oi,  periura,  malvasa  81, 
Ch'  hai  morto  V  omo  in  casata,  traila  82 
Dammi  uno  colpo,  levami  la  vita  83. 

^,  DONNA 


Se  tu  non  levi  e  valline 
CoMa  maladizione, 
Li  frati  mei  ti  trovano 
Dentro  chista  84  magione. 
Ben  io  lo  saccio,  e  ^ffero, 
Perdici  la  persone  85, 
Che  meco  sei  venuto  a  sermonare: 
Parente  o  amico  non  fave  aitare  86. 


23.  UOMO 


A  mene  non  aitano 
Amici,  né  parenti; 
Istrano,  mi  son,  carama. 
Infra  està  bona  genti  87. 
Ora  fa  un  anno,  vitama. 
Ch'entrata  mi  se"n  menti: 
Di  quanno  ti  vestisti  lo  'ntajuto  88, 
Bella  da  quello  jorno  son  feruto. 


—  327  — 


24.  DONiNA 


Al  manto  'namorastili, 
U  luda  lo  trailo  89,  . 
Como  90  se  fosse  porpora, 
Iscarlato  o  sciamilo! 
Se  a  le  VaDgelie  jurimi 
Che  mi  si'  a  marito  91, 
Avere  me  non  poterà  esto  monno 
Avanti  in  mare  jettomi  al  profonno  92. 

25,  UOMO 


Se  tu  nel  mare  gittiti, 
Donna  cortese  e  fìna, 
Di  reto  mi  ti  misero  93 
Per  tutta  la  marina: 
Poiché,  cara,  annegassiti, 
Trobariti  a  la  rina  94. 
Solo  per  questa  cosa  ad  impretare 
Con  teco  m' ajo  a  j  ungere  e  peccare  95. 

26.  DONNA 


Segnomi  in  Patre  e  'n  Filio, 
Ed  in  Santo  Matteo; 
So  che  non  sei  tu  retico, 
0  figlio  di  giudeo  96: 
E  cotali  parabole 
Non  udi'  dire  anch'  eo  : 
Ca  mortasi  la  femina  a  lo  'ntutto, 
Perdesi  lo  sabore  e  lo  disdutto  97. 


—  328  — 


27.  DOMO 

Bene  lo  saccio,  carama, 
Altro  non  posso  fare  98: 
Se  chisso  non  accomplimì 
Lassone  lo  cantare: 
Fallo,  mia  donna,  piacciati. 
Che  bene  lo  puoi  fare: 
Àncora  tu  non  m'ami,  eo  molto  t'amo; 
SI  m' hai  preso  come  lo  pesoe  a  P  amo. 

2a  DONNA 

Saccìo  che  m' ami  ed  amoti  99 
Di  core.  Paladino  100; 
Levati  suso  e  vattene. 
Tornaci  a  lo  maUno  101. 
Se  ciò  ca  dico  facimi, 
Di  bon  cor  t'amo  e  fino: 
Chisso  eo  V  imprometto  senza  faglia  102, 
TeMa  mia  fede,  che  m'hai  in  tua  taglia  103. 

29.  UOMO 


Per  ciò  clie  dici,  carama, 
Nejente  non  mi  movo; 
Innanti  prenni  e  scannimi, 
Tolli  esto  cortei  novo: 
Esto  fatto  far  potesi 
Innanti  scalfì  un  uovo  104: 
Accompli  mi'  talento,  amica  bella, 
Ca  Parma  co  lo  core  mi  s' infella  105. 


Ben  saccio  1'  arma  doleli, 
Com'omo  ch'ave  arsura; 
E  sliilari  106  non  potesi 
Per  nuli' altra  misura; 
Se  Don  a  le  Vaiigelìe, 
Como  ti  dissi,  jura  107: 
Avere  me  non  puoi  in  tua  podestà, 
Innanli  prenni  e  tagliami  la  testa. 


I,e  Vangelie,  cai-ama. 
Eo  le  porlo  in  sino, 
A  lo  Monslero  presile. 
Non  ci  era  lo  patrino  108; 
Sovr'cslo  libro  juroli, 
Mai  non  li  vegno  mino. 
Accompli  mio  talento  in  cantale, 
Che  Tarma  me  ne  sta  in  suttilitate  10! 


Meo  Sire,  poi  jurastimi, 
Eo  tutta  quanta  incenno: 
Sono  a  la  tua  presenzia, 
Da  voi  non  mi  direnno; 
S' eo  minespreso  110  ajoti, 
Merzp,  a  voi  m'arrenno. 
A  lo  letto  ne  gimo  a  la  bon'ura  111. 
Ca  chissà  cosa  n'  è  data  in  vnntura. 


1.  È  comune  il  paragone  delP amata  alla  rosa;  V  osarono 
ebrei,  greci,  romani.  In  Sicilia  ogni  bella  è  rosa  o  fiore.  Ra- 
nieri da  Palermo  la  disse:  Fresca  rosa;  Mazzeo  Riccio:  Aosa 
colorita,  e  cosi  via.  Nei  Canti  popolari  è  Rrosa  a  buUuni; 
Rrosa  ca  già  cumincia  a  spampinari;  Rrosa,  si*  vera  rrosa 
Usciandrina;  Rrosa  ca  di  li  rrosi  si*  rrigina  ec*  In  Fn 
Guittone  è  rosa  aulerde,  che  sembra  imitato  da  Giulio;  ù 
Dante  è  la  fresca  verdura.  Inf.  4.  Ili;  e  in  Petrarca  V erbe 
fresca.  Sonetto  240. 

2.  Latinismo  frequente.  Cosi  in  Re  Giovanni:  ancor  k 
fior  sia  aìilente.  E  nella  Nona  rima  attribuita  dal  Trucchi  t 
un  siciliano,  e  dalPOzanam  (Documents  inédits  pour  sertm 
à  Vhistoire  litteraire  de  /'  Italie,  Paris,  1850)  a  Dino  Com 
pagni,  ma  per  me  ancora  d' incerto  autore,  si  legge  : 

Le  pratora  son  piene  di  verdone, 
Gli  verzieri  cominciano  a  aulire. 

In  Fra  lacopone:  aulentissimo  giglio. 

3.  Preferisco  donne  ad  uomini  secondo  il  più  de'  codici 
e  delle  buone  stampe,  perchè  i  flori  e  più  le  rose  sono  loro 
speciale  cura,  delizia,  ornamento;  perchè  i  poeti  volendo  esal- 
tare la  suprema  bellezza  femenile,  dicono  esser  tale  da  inna- 
morarnc  perfìno  il  proprio  sesso.  Rigetto  le  Pìdzeìiette  marUak 
del  Nannucci,  errore  si  laido  da  doversi  attribuire  alla  stampa 
come  U  omini  pulzelli  del  Grion,  e  seguo  il  Codice  Vaticam 
la  di  cui  lezione  è  nitida  e  logica. 


—  331  — 

4.  Focjyra  per  fuoclii,  all'  amica,  non  già  per  lo  sdnic- 
.  Ne"  Diplomi  del  Grande  Arcliivio  di  Napoli,  T.  1.  p.  55. 
I  I  leggo  :  Fumlura  per  fondi,  drcora  per  arcfii,   lócora 

per  luoghi,  pn/tora  per  pralì,  saepissìme  occurronl  in  veieribus 
monumenlis, 

5.  Este  per  è  vive  ancora  in  Sicilia,  e  fu  fivquenie  negli 
antichi,  ttinaldo  d*  Aquino: 


PoicliP  tal  ette  l'amorosa  viia; 


Barlolomco  Manconi: 


i:osÌ  ni'ule  in  piaceiua  ed  in  volrrc. 

Iacopo  ila  Lenlini:  este  di  tale  usato;  Bonaggiunta  Urbicia- 
ni:  tanto  esto  abbassato;  e  in  tulli  i  siciliani  in  verso  ed  in 
prosa:  oggi  vive  in  Alcamo,  in  Messina  e  altrove  in  Sicilia. 

6,  Abento  vive  fra  noi,  V.  i  Vocabolarii;  vale  quiete, 
riposo.  È  nella  Romanza  altribuila  a  Rinaldo  d'  Aiìiiino,  imi- 
tatore di  Ciidio  d'Alcamo: 


lo  non  posso  abentare 
None  né  dia.  p.  527. 


E  in  Inghilfi'edi  dì  Palermo  riferito  dal  Gregorio; 


Perchè  il  mio  con? 

£  votolo  assfniirc  a  l»l  volere, 

Ch'  io  non  posso  abóntarf. 

7.  Re  Enzo:  Là  dove  è  Io  mio  core  notle  e  din.  Dal 
greco  X'.rt-  Nella  vita  di  Cola  de  Renzo  è  die  alla  Ialina. 

8.  Il  Cod.  Vaticano  ha  meve  seguito  dal  Nannucci;  Grion 
mini;  Allacci  mcn^;  cosi  Creseimbeni  e  Gregorio,  ch'io  se- 
guo, perchè  il  ne  sembra  valere  mi,  e  il  ve,  voi. 

9.  Trabaglia/re  t  in  Guittone  e  in  altri.  Galvani  proponi* 
irnhagliti.  V.  Alcune  vecchie  e  nuove  osservazioni  del  Come  Com. 


—  332  — 

G.  Galvani  sulla  Cantilena  di  Giulio  d' Aicamo.  Modena  co' 
tipi  di  Cario  Vincenzi,  1870. 

10.  Questo  è  uno  de'  passi  i  pib  difficili  della  Temone 
fortunatamente  ben  corretto  dal  Cod.  Vaticano.  La  donna  dice 
a  Giulio  di  non  poteria  possedere  ancorché  &cesse  T  impossi- 
bile e  le  offerisse  tutti  i  tesori  del  mondo.  Perciò  se  tu  ari 
il  mare  e  lo  semini,  se  riunisci  le  ricchezze  mondiali,  non 
giungerai  ad  avermi.  Quindi  io  leggo,  se  prima  rompi  il  mare, 
e  di  poi  vi  spargi  la  semente  per  raccoglierne  il  frutto:  e  ciò 
per  accrescere  ostacoli  insormontabili.  Sostituirei  rompere  ad 
arrompere,  perchè  fra  noi  si  dice  rumpiri,  frangiri,  e  ri- 
frangiri  la  terra.  È  ancora  fra  noi  T  antico  proverbio:  Zap- 
pari  all'  acqua  e  siminari  a  lu  ventu,  da  cui  Giulio  trasse 
il  concetto,  che  vesti  Sannazzaro  di  nuove  forme: 

Neil*  acqua  solca,  o  nell*  arena  semina, 
E  tenta  il  vano  vento  in  pugno  accogliere. 
Chi  fonda  sue  sperarne  in  cor  di  femina. 

V.  Mortillaro.  Diz.  sic.  rumpiri  §  9.  Noto  a  questo  proposito 
essere  in  Ciullo  e  in  vani  degli  antichi  il  vezzo  di  premettere 
avverbi  degli  affissi,  come  ar  in  rompere,  rUonnare  St.  2, 
ricogliere  St.  4,  renno  e  tocchino  St.  10  e  32.  L'  OUimo  nel 
Cemento  al  v.  16  nel  31  deirinfemo,  ove  Dante  parla  della 
rotta  di  Roncisvalle,  dice:  Il  detto  sonare  (di  Orlando)  fu  si 
forte  e  si  lungo,  che  si  crede  che  diseccasse  il  detto  sonatore, 
e  li  arrompesse  il  sangue,  ond'egli  morisse.  E  Guido  delle 
Colonne  nei  Fatti  di  Enea:  Per  cotale  visione  divenne  spa- 
ventata, e  arruppesi  in  fluviali  lagrime.  Alberto  Boscaino 
Campo  mi  scrive  essere  vivo  nelle  campagne  toscane  arrotn^ 
pere  per  arare;  e  T.  Gradi  nella  versione  del  Trinummus  di 
Plauto,  ove  si  adopera  la  lingua  quale  si  parla  in  Toscana, 
dice  cosi:  «  Prima  di  tutto  quando  si  arrompe  la  terra,  ogni 
cinque  solchi  i  bovi  cessan  morti  ». 

11.  Ecco  risanata  una  delle  piaghe  di  Ciullo.  Che  signifi- 
cato poteva  avere  assembrare  r  abete  del  secolo?  Forse  adu- 
nare gli  alberi  delle  selve  o  le  navi  de' mari?  Spiegazione 


—  333  — 

1  e  contorta,  dicea  sennatamente  ì)  Prof.  Massi  con  io 
ttno  il  Codice  Principe.  Il  concetto  si  fa  spontaneo  e  lucido 
ttituendo  avere  od  ahere  ad  abeie,  e  ben  consuona  con 
nnto  leggiamo  nella  sesia  strofe  e  nelle  altre.  Nannucci  nel 
5  corresse  il  proprio  ei'rore  de!  1 837.  Nel  Cod.  'Vaticano 
r  per  proprietà,  ricchezza,  è  scritto  di  due  modi,  cioè,  qui, 
iDa  Si.  18  ahere,  nella  5  e  6  avir-c,  ed  io  preferirei  la  v 
'  I  b. 

l'i.  È  comune  negli  anticlii,  e  non  disdegnalo  da  Dante  e 


Voi  credete 

Forse  che  siaioo  sperti  d' silo  loco. 

Purg.  %  62. 

Nei  Ùinvito:  està  vita,  come  in  Petrarca. 

13.  Mi  fo  monaca,  non  mi  marita.  Hfunnu  in  Sicilia,  fra 
gli  altri,  vale  matrimonio,  congiunzione  carnale.  Essiri  o  no  di 
munriu.  significa  essere  o  no  da  marito;  sapiri  di  mìmnu, 
coooscere  i  misteri  coniugali:  per  cui  il  Meli: 

Tu  sai  di  miinnQ  cchtij  assai  di  li  liii. 

L'ignoranza  del  siciliano  fece  male  interpretare  questo  verso. 
Quantunque  inclini  a  scrivere  munno  e  arritunno  più  insulari 
e  arcaici,  preferisco  la  lezione  vaticana,  e  per  la  stessa  ragione 
eaveUi  a  capelli,  come  negli  altri.  Fran.  Barberino: 

Cavelli  Ila  bìanclii,  e  viso  e  tutta  veste.  ' 

Franco  SaccheUi: 

I  lor  eaveUi  quanto  più  bianchi  hanno, 
Più  X  ne  conforta. 

r^-cco  Angiulieri: 

Haggio  cotwUi  e  iMrbu  a  lua  taione. 


—  334  — 

I  siciliani  pronunziano  la  n  congiunta  alia  d  come  se  fossero 
due  n:  come  bando,  quando,  potendo  dicono  bawnu,  qwjtnnu, 
ptUennu.  —  Arritonno  dal  latino  timdere,  tosare^  voce  ancor 
viva.  Emiliani  Giudici  I.  e.  p.  71. 

14.  Allacci,  Crescimbeni,  Gregorio,  Nannucci  ec.  variano 
di  poco  la  lezione  vaticana,  che  dice: 

Calsi  (ca  i*sì)  perderà 
Lo  solacco  e  lo  diporto. 


Grion  scrisse: 


Cà  in  issi  eu  pérdira, 


equivocando  i  capelli,.  t55^,  per  la  persona.  A  me  non  garbano 
io  e  mi  cumulati  dal  Nannucci,  perchè  Fun  T  altro  comprende, 
e  proporrei  leggere: 

Ga  cos)  io  pérdira 

Lo  solacelo  e  '1  diporto. 

Rifluto  il  solacco  del  Codice,  mal  seguito  dall'  Allacci  e  Cre- 
scimbeni;  peggio  il  solazzo  del  Gregorio,  e  seguo  T  autorili 
di  Iacopo  Mostacci,  il  quale  cantò: 

Donna  ed  amore  han  fatto  compagnia, 

E  teso  un  dolce  laccio 

Per  mettere  in  soUaccio  —  lo  mio  slato; 

Nannucci  p.  303.  t.  1.; 

e  di  Guitton  d'Arezzo,  il  quale  anche  in  prosa  dicea:  Non  < 
sì  acerba  cosa,  ove  solaccio  non  trovi  animo  retto.  Let.  3. 

15.  Codici,  stampe,  chiosatori  quasi  unanimi  leggono  cor- 
renti, ritenendolo  attributo  de'  fratelli  deir  Amata  di  Giulio 
i  quali  non  solo  erano  forti;  ma  si  pure  agili  al  corso,  corri- 
dori. Per  me  sono  in  errore  per  ignoranza  del  dialetto  insù 
lare.  Currenti  è  sostantivo  maschile,  e  vale  ripida   china   ii 


—  333  — 
«alle  0  liM  nioiili,  nella  qualo  cbi  la  valiclii,  0  qualsiasi  corpo 
vi  si  gilli.  precipua  gìii  sepolto  tra  le  ghiaie,  la  terra  e  le 
mobili  pietre  del  correnle.  Tale  fra'  cento  dell'  Etna,  quello 
Ira  Fior  di  Cosmo  e  Cassone  nella  Vaile  di  S.  Giacomo,  a 
tacere  degli  alirì  della  Colla  di  Messina.  Busambra,  il  BoniTato 
d'Alcamo  ec.  In  questa  Torma  il  discorso  è  piano,  evidente  e 
armonico  con  l'intera  Tenzone,  e  può  spiegarsi  :  Guarda,  bada 
che  i  mici  parenti  non  li  uccidano,  e  non  arricolgano  il  tuo 
cadavere  le  Torre,  i  Tossali  che  intorniano  il  castello.  Bd  è 
minaccia,  pittura,  poesia.  Neil' alino  è  un  non  senso.  Trala- 
sciando che  arricol'jano  non  vale  rar/ffi ungano,  e  che  Giulio 
Don  ruggiva.  Che  valore  ha  il  dirgli:  Bada  che  non  ti  nm- 
colfjano  mìo  padre  e  ì  miei  parenti  gagliardi  e  agili  al  corso? 
E  come  sì  lega  con  V  intero  tessuto  della  Tenzone,  nella 
quale  è  continua  la  minaccia,  e  T  ìmperierrila  resistenza  di 
Giulio?  Finalmente  essendo  Li  Multi  vuci  e  Lu  Tìippi  Tuppi,  da 
me  pubblicali.  paraTrasi  e  spìeghc  popoLirì  della  Tenzone  di 
Dulìo.  prego  chi  dubita  della  mìa  inierpreiazione  a  rileggerli 
ponderaiamente,  e  in  luogo  di  corse  e  Tughe,  troverà  morte  e 
villorìoso  coraggio.  Se  altri  invece  di  correnti  vorrà  sostituirvi 
torrenti  per  valloni,  non  ne  solTrirarno  né  la  perspecuilà, 
né  la  bellezM.  L'Emiliani  Giudici  spiega:  correnti  di  fiumi. 
Qui  pervenuU  mi  giova  far  conoscere  la  corrispondenza,  e 
quasi  dirci  il  ricalco  tra  la  Tenzone  di  Giulio  e  le  altre  po- 
polari, rignardanli  il  pareniato  della  donna  amata.  DìTalli 
trovo  colà: 


Gìuvlnì,  si  non  vai  ppi  la  io 

via. 

Gei  lu  tutti  sApiri  a  li  m 

■gpuii 

Ca  mi  teni  a  'nsulenii  'n 

casa  mìa  : 

Tu  no  lu  sai  cu  'su  li  me 

parcniì  f 

Su  di  bon  sangu  e  di  bona  ìnìa. 

t.i  Muli! 

uci,  St.  -i 

E  li  promellu  rarili  ammazza 

ri, 

FarÌDÌ  quallru  quarti  di  ss 

a  testa. 

ne'  (rati  sanu  qualclii  erruri, 
l^iancr,  mali  pri  mb,  cliisia  nuitaia. 


—  336  — 

Vattini,  ca  si  venna  li  me*  amici, 
Ca  su  li  fraii  mei  cori  tinaci. 
Chiù  niuru  U  iarannu  di  la  pici. 

Tappi  Tuppi,  3. 
Va  itivinni  non  facemu  liti, 
Ca  mi  scanlu  si  venna  li  me'  frati, 
E  vi  farannu  tanti  di  firiti, 
Qaanta  mi  stissa  *an  vi  la  figarati. 

hi,  7. 
Chi  s'addimurì  sinu  a  la  matìna 
Di  li  me*  frati  ni  provi  li  roana. 

hi,  9. 
La  sai  li  frati  mei  chi  sunna  marti, 
E  tennu  Tarmi  viiinusi  e  forti? 
La  corpu  ti  farannu  in  quattro  parti 
Si  tu  *un  ti  scosti  d'arreri  sti  porti. 

hi,  li. 
Sarai  ccu  Ugna  e  coteddi  pigghiato, 
Ca  veni  a  parti  chi  *an  po*avirì  aiuto. 

hi,  19. 
Lu  sai  eh' è  granni  lu  miu  parintatu 
Cintn  d'onuri,  nobili  e  cuietu. 

hi,  23. 

16.  Ck)d.  Vat.  trovami  —  Anche  Emìliam  Giudici  adotta 
il  fari. 

17.  Guido  Orlandi; 

T'accogli  e  fortemente  far  difenza. 
G.  Villani: 

Sanza  nulla  difenza  furono  sconfitti. 

Milia  dal  latino  miUia,  è  vivo  nelF isola,  e  come  neMugen 
tisti  e  trecentisti. 

18.  Cod.  Vat.  padreto. 

19.  Perperum  vel  hyperperv/tn,  monetam  imperatorun 
bysantinoì^m  av/rea,  sic  appellerà  quasi  e^xs  auro   exitni 


—  337  — 
)  et  recocta  confecta  esset.  Du  Gange  —  i 
•perare.  —  Cosi  Va(]ostaro,  ili  cui  appresso,  era  moneta 
nune  anteriore  agli  svevi.  Nov.  Ani.  E  sappiendo  die  siamo 
I  ricco  signore,  prenderai  questi  perperì.'i  quali  sono  molti. 
.  Villani:  E  a' marinari  diede  cinque  mhperpcri, 
30-  Eccoci  a  un  altro  indovinello.  I  Codici  hanno  motìno, 
l.starape  variano  tra  molino  e  ammotino;  Grion  sostituì  oro 
fho  a  bottino.  Come  leggersi ,  come  spiegarsi?  Salvìni  adotta 
nmotiim,\o  slima  prima  persona  di  ammotinare,  unirsi  per 
e  0  insorgere,  e  lo  spiega  raguno.  Massi  crede  molino  sia 
e  viva  io  Sicilia,  ove  non  esiste.  Grion  opina  permutare  le  tt 
l  bottino  in  mm.  Gli  aitii  si  copiano.  Io  seguo  il  Cod.  Vat. 
leriore  a  tulli;  ma  non  rifiuterei  V  ammotino,  registrato 
i  Vocabolario  con  buoni  esempii.  —  Emiliani  Giudici  spiega: 
siedo  oro  a  monti. 

21.  Per  trasmorfare  in  passalo  quest'Art  presente,  il  Grion 
Iptega  una  pagina,  crea  un  au.  ebbe,  ignoto  in  Sicilia,  e  scorda 

e  di  tempo  presente  la  Tenzone,  tutta  la  scena,  e  l'Ita  del 
seguente;  cosi  facendo  il  Soldano  vivo  e  il  Saladino 
.  Quel  benedelio  ha  rovescia  i  suoi  calcoli  cronologici; 
I  la  colpa  non  è  nostra.  V.  Comentario  ^  8. 

22.  Gregorio  scrive:  Toccarem?,   e  Massi  Toccàreme. 

S3.  0  Gesù,  donna,  comu  ri  tacili 

Aula,  superila  e  lìolenli! 

Li  Multi  mei,  3. 

24.  Leggo  jiornhole  e  non  paraute  seguendo  il  Cod.  Val., 
quantunque  siano  voci  quasi  identiche,  e  derivate  dal  greco, e 
ciò  principalmente  percbò  la  lingua,  che  )ia  ritenuto  parola 
e  parohjv,  registra  parabolano ,  ed  è  nell'  uso  degli  ottimi. 

25.  Cosi  nel  Cod.  Val.;  ma  il  Vocabolario  accoglie  di- 
minare per  dominare,  diminio  e  dimino  per  dominio,  per 
cui  la  lezione  del  Nannuccì  k  esaiu. 

26.  Ecco  un  altro  indovinello.  N'e'  Codici  toscani  h  am- 
modesla  in  luogo  di  ammonesta:  am  questa  voce  l'uomo 
amoHHiìsce,  persuade;  eoa  b  Mcooda  b   noocJesta  la  domo. 

S2 


—  338  — 

La  seconda  è  preferibile ,  perchè  la  modestia  è  nemica  delle 
voglie  amorose.  Il  Mittchel,  Buscaino,  Mortillaro,  Salomone 
accettano  ammonesta;  Sbano,  Gazzipo  e  Capuana  ammode- 
5la.  Emiliani  Giudici  spiega:  mitica,  ammansa. 

27.  Nel  Cod.  Vat.  si  legge  procazala;si  nòe  sembra  bene 
indovinato  il  senso  del  poeta  con  percacciale,  cioè  le  perse- 
guita. Nel  Tuppi  Tuppi  è  ristesso  sentimento,  St  25,  26, 
27,  e  cosi  nelle  Multi  vuci.  Emiliani  Giudici  spiega:  fa  loro 
la  caccia. 

28.  Nel  Cod.  Vat.  si  legge  ripresa  e  distesa,  che  non 
rimano  con  auccisa.  Galvani  propone:  per  te  fossi  riprisa; 
p.  12. 

29.  Nel  Cod.  Vat  si   legge:  Er. 

30.  Ecco  una  bella  lezione  del  Codice  Prìncipe;  quel  co- 
retino  è  qui  nel  senso  di  musicando  ben  rinforzato  dajr  attri- 
buto di  canzoneri  dato  al  poeta,  quasi  cantando  a  coro,  co- 
reando,  come  si  usa  nelle  nostre  serenate,  il  che  ben  con- 
corda con  lo  cantare  della  St  27.  Il  correre  sarebbe  un^  illo- 
gicità. Questa  spiegazione  acquista  evidenza  da^  seguenti  passi 
deir  interpretazione  popolare: 

Ammatula  mi  canti  pri  davanti. 

Lì  Haiti  vuci,  f; 
Vincinni  cerchi  ccu  ssa  io  cantata  ; 

Ivi  10. 

e  il  fine  del  Tuppi  Tuppi: 

Amuri  ccu  canzoni  e  puisia 

N'  ha  'nciammalu  e  vinciulu  a  talli  dai. 

31.  Ancor  questa  è  una  grave  variante  di  quel  Codice. 
Le  tue  canzoni  a  nulla  approdano. 

32.  Quantunque  nel  Cod.  Vat.  si  legga  parabole ,  per  ra- 
gion di  verso  deve  sostituirsi  paraole. 

33.  Da  schianto.  Questo  verso  nel  Cod.  Vat.  è  cosi  : 

Doimè  quanto  son  le  schiantora; 


t  Maini  propone  leggerlo: 


Doìmf  quan'  son  Ip  schianiora, 


con  accorciamento,  secondo  l'aDlica  pronunzia,  perchè  il  verso 
non  ridondi.  Allri  scelga.  V.  N.  4. 

34.  Nel  Goil.  Val.  si  legge  pensandome. 

35.  Fuori,  meglio  fuore  per  la  rima. 

36.  Alili  legge  :  In  le  le  mie  bellezze. 

Non  ci  [iinsjtrì  no,  ca  non  ci  arrivi, 
'  Hegghiu  d' aTanli  sia  porla  li  levi, 

Cbi  ristirai  scnnlcnlu  'nlra  li  tjvi, 
'Nvatiu  a  lanlj  disiu  lu  ti  kuIIrtì. 
Tu  non  si  oinu  prì  sia  janca  nivi, 
Mancu  ccu  ss'  occhi  ^uardarì  sii  slroii  (I), 
Tappi  Tuppi,  n. 


lama  a 


Ivi,  21. 


37,  Nel  Cod,  Val.  sia  tutto  invece  tli  tanto,  che  io  pri; 
ferisco. 

38.  Frane.  Barberino: 

E  di  tanta  bellezza 

Che  ognuno  intorno  le  guarda  la  Irena. 

Lapo  Gianni:  Bionda  trozza 
Branetlo  Lalini  nel  Tesoro: 

Si  eh'  io  credea  cbc  il  crine 
Fosse  d'  un  oro  (ine 
Partilo  sema  (r's:e. 


(l)  Slreti,  logaccU  dette  scarpe 


—  340  — 

Che  mal  per  me  si  vide 

Il  fronte  e  il  viso 

E  quella  bionda  tresza, 

39.  II  sore  per  suore  y  è  come  il  fare  per  fiwre» 

40.  Invece  di  tocchin,  nel  God.  Vai.  si  legge  artocchin, 
come  arronvpere  della  St.  2  invece  di  rorrvpere. 

41.  Cleri  0  doro  per  chiaro,  bello,  Boc.  Chiaro  viso,  e 
cosi  Petrarca.  In  un  canto  inedito  di  Messina: 

Donna  ch'hai  lo  ?i$o  chiaro  ec. 

42.  Monskri  dal  latino  barbaro.  Monasterium  saepe  sia- 
mUur  prò  ecclesia  Cathedrali^  voi  prò  ecclesia  Monasteri: 
Da  Gange.  Ebbe  tre  significati:  convento  di  monaci,  dì  donne 
chiesa  madre. 

*       43.  Nel  Ck)d.  Vat.  sta  venoci. 

44.  Mi  fo  monaco  anch'  io.  Freri  dal  latino,  fratelli. 

45.  Nel  God.  Val.  si  legge  maitino  per  manifesto  errore 
di  emannense. 

46.  Preferibile  al  congiuntivo  come  nel  Vaticano,  invece 
deir  indicativo  come  nel  Nannucci. 

47.  Ecco  ripetuto  il  dimino  della  St  7  dominio.  Tavola 
Rotonda  :  E  fermasi  di  mai  partirsi  se  prima  non  ha  la  città 
a  suo  dimino.  Morelli,  Gronaca  :  Da  poi  che  lo  re  Piero  ebbe 
a  suo  dimino  la  Gicilia. 

48.  Nel  God.  Vat.  si  legge:  boimè. 

49.  Distinato  per  destino  è  in  Livio,  nelle  Pistole  di  Se- 
neca, in  Franco  Sacchetti. 

50.  Airato  per  irato  è  ne' Gradi  di  S.  Gregorio: 

A  colui  è  Dìo  bene  airato. 

La  lingua  ha  del  pari  i  verbi  aitare  e  airarsi.  Questi  quat- 
tro versi  potrebbero  collegarsi  insieme,  come  propone  il  Gal- 
vani, con  la  seguente  variante: 


_  341  — 
Gleso  disio  r  Aliiìsimo. 
Del  loto  a  iiid  uirato, 
Concepii  temi  a  abbattere 
ìd  omo  bleslictnalo  ! 

51.  Mi  concepisli,  mi  creasti. 

52.  Nel  Cod.  Val.  è  scritto  ad  invece  di  a.  Mi  creasti 
per  incODtmrmì. 

53.  Cosi  blestiainato,  maledetto. 

54.  Nel  Cod.  Val.  sia  scritto  meve. 

55.  Io  credo  clie  questi  due  versi  siano  ilaliatiizzati  nei 
Codici  di  lerraferma,  e  che  debba  leggersi  alla  sicula  cortesi 
e  presi.  Quando  il  Valerìani  e  il  Cautìi  adottavano: 

Donna  non  ritrovai  jn  tanti  paesi, 

voleano  destare  l'ilarità  del  lettore.  La  donna  è  ovunque. 

56.  Lo  scambio  de' generi  è  fre<|ueale  uella  formazione 
della  lingtia.  Nello  stesso  Dante,  Uime  3,  leggiamo: 

SeU  lilla  non  ti  credi;, 

Di'  che  ilomandi  Amor,  sed  eg\i  i  vero, 

Ed  alla  fine  falle  uinil  preghiera. 

E  nelle  prose,  Gradi  di  S.  Girol.imo:  Ben  sapele  che  quelli, 
che  colale  preghiero  fa  ec:  Coil.  de' SS.  PP,  E  quelli  non 
sappiendo  il  fondo  della  quistion  preposta,  addimatidarono  con 
preghiero  ec.  ;  cosi  nella  Vita  di  ti.  G.  e  in  altri. 

57.  Francesismo  di  corte  normanna. 

58.  Non  è  preferibile  jenti  o  genti,  e  li  tuoi  comanna- 
merUi,  invece  di  gente,  e  le  tue  ccnandamenteì  11  Galvani, 
con  la  consueta  erudizione,  produce  due  diplomi  comprovanti 
la  consuetudine  di  sposarsi  innanzi  la  genti,  anche  i  più  illustri 
personaggi.  Ivi  p.  15  e  16. 

59.  Ca  senza  accento  vale  percitH,  con  1*  accento  qui.  È 
pretto  siciliano,  e  chi  lo  scrive  allrinicnti  erra.  Viene  dal  quia 
deMatiai.  Pier  delle  Vigne; 


L 


—  342  — 

Ca  lo  troppo  lacere 
Naoce  manta  stagione. 

60.  Passo  sopra  a'  tuoi  discorsi  come  su  ponti  e  scale. 

61.  Dante  Purg.  10. 

In  giuso  Tale. 

Stefano  Protonotaro: 

in  forte  tìsco 

Mi  pare  che  sian  prese  le  mie  ale 

62.  Cod.  VaL  registra  boUa,  che  il  Massi  spiega  vMa: 
ma  la  stoccata  di  seconda  sottrarmi  è  da  abile  schermitore; 
perciò  per  la  perspecuità,  e  per  la  bellezza  della  lingua 
r  adotto. 

63.  Scortese,  senza  cortesia,  eh'  era  la  massima   offesa 
che  poteasi  allor  fare  tra  cavalieri,  o  in  senso  di  mal  nata, 
non  di  sangue  gentile  ma  plebeo. 

64.  Mangano  e  Manganello,  qui  scritti  alla  pugliese ,  come 
castiello,  erano  macchine  militari.  Non  mi  sgomento ,  né  mi 
cogli. 

65.  Cod.  Val.  è  scritto  IstomL 

66.  Il  castello  era  forte,  come  i  corre7Ui  di  cui  era  difeso. 

67.  Gitaci,  qui. 

68.  Pugliese  arcaico,  ignoto  in  Sicilia.  È  preferibile  piaci? 

69.  Nel  Cod.  Vat.  si  legge: 

Ca  per  le  fosse  slrutlo. 

È  vivo  neoclassici.  Guittone:  Strutti  e  morti.  Ov.  Pist  Troja 
è  strutta.  Davanzali,  Tacito:  Provincie  strutte.  Poliziano.  Le 
membra  sento  indebolite  e  strutte. 

70.  Nel  Cod.  Vat.  non  ai'  per  aio,  ho. 

71.  Allusione  facile  ad  intendersi,  molto  più  per  chi  ha 
familiari  i  canti  del   popolo.  Caro,  Long.  Am.  Mi  ruppe   la 


_  a*3  — 

^n^^riia  il  mio  sodo,  e  per  premio  n'ebbe  le  prime  rosé" 
del  mio  giardino. 

73.  Assaggi,  provi,  dal  Ialino  b:irbaro:  exagìum.  As- 
saiare  per  assaggiare,  manca  nel  Voc. 

74.  Prai  è  voce  comune  in  Sicilia,  e  vale  spiaggia  di 
mare  arenosa.  Il  senso  è  questo:  se  avrai  il  verno  in  prua, 
e  cadrai  dalle  altezze  ove  sei,  allora  ti  risovverrai  di  quanto 
ti  ho  avvertito,  e  ti  dorrai  di  non  aver  corrisposto  all'amor 
mio. 

75.  God.  Vat.  codesta:  io  preferirei  di  questa  per  mag- 
giore chiarezza. 

Ha  siddu  moru,  e  sl'arma  va  dannala. 
Bella,  cb!  D'aTJrai  di  lu  ttm  Toco? 

Li  Molli  Tuci,  II. 

77,  Macara ,  manca  nel  Voc.  V  è  vtagari  con  esempio 
del  Varchi  E  probabile  Giulio  avere  scritto  maestri  alla  si- 
ciliana, dal  greco  machari-os,  beato. 

78.  Accorri  per  soccorri:  Vita  di  S.  Margherita: 


79.  Nel  Cod.  Vat.  è  scrino  fossa.  Il  Massi  sMtiMil  fcw'iD 
grazia  del  verso;  lo  adollò  il  Valcrianj.  e  dietro  a  lui  il  Nan- 
nacci  con  due  esempii  uno  di  Pier  delle  VigtK,  Taltr»  del 
bealo  laeopoue. 

80.  La  lezioae  del  Cod.  Val.  t-  cliiarissima.  È  voM  wt- 
giaariameute  gieca  ditTusasi  in  lulLi  etl  in  Francia.  VmM, 
Uistoire  de  la  Poi'sii-  provencale.  In  Marsijjlia  é  parttajttr, 
in  Sicilia  panf an'ar^,  abberrare,  sognare,  fantasticare.  I>s  «Ma 
nac^iue  fanlesiare.  È  il  rever  de'  traace«i.  Gailvan  la  Hét^ 
oppressa  dall' incubo.  Ivi,  30. 

81.  Malvagia.  Come  si  dice  asio  «  udaiu)  \Kt  »i^f  e  uttr 
glo.  NiJiinucci.  Nel  ribellameolu  di  Sicilia  couro  rr  t'ji/tli 
p.  120.  Bologna  1865,  ì  francesi  sodo  ctiiamali:  perlMi,  taf/t. 


—  344  — 

vxalvasi,  divoraiori.  Fra  Guittone:  Fatta  discrezion»  niaUKh 
sio  ingegno. 

82.  Traditrice,  come  il  traito  della  St.  24  vale  traditore. 
Vita  di  S.  Margh.  Fel,  ladro,  traUo  si  prese  a  dire  che  ve- 
nisti per  me  traire.  E  Guittone  LetL  5  ec. 

83.  Nel  Cod.  Yat  si  legge  Sans*  onni  colpo.  V  istesso 
pensiere  il  popolo  T espresse  cosi: 

Facilini  di  mia  zoccu  vuliti, 

Mi  fa*  ammazzari  di  li  to' parenti, 

Ca  doppu  mortu  iu,  sazia  sarriti, 

Figghia,  pri  amari  a  vui  mora  cuntentl. 

Li  Multi  Voci,  3. 
Iu,  fìgghia,  pri  Iu  tantu  amari  a  tia, 

No,  non  ni  fazzu  stima  di  la  morti. 

i?i,  5. 
Si  di  la  vita  mia  si  ni  fa  festa, 

Non  mi  ni  cura  ca  mora  pri  amurì. 

hi,  9. 
Siddu  a  li  porti  ci  sunu  saitli, 

Li  miri  *nfacci  tutti  a  mia  Tutati, 

Sempri  ca  iu  dirò  sparati  ritti 

'Ntra  stu  misiru  peltu,  e  non  sgarrati; 

*Nterra  vidennu  li  mc'carai  afflitti, 

Sfardati  tutti  e  dì  sangu  lavati; 

Qual'  è ,  fìgghia ,  V  amuri  ca  m*  aviti, 

Comu  ccu  Tocchi  non  Iu  dimustrati? 

Ivi,  i3. 

84.  Fra  chista  e  chissà  in  siciliano  corre  la  differenza 
che  è  in  lingua  tra  cotesta  e  questa  ;  e  siccome  non  può  equi- 
vocarsi il  senso,  io  adotto  chista. 

85.  Questi  due  versi  sono  molto  guasti  ne'  CodicL  II  socio 
non  c'entra  per  nulla,  credo  debba  leggersi  saccio  colGrion. 
La  persone  è  puro  francesismo,  la  perso7vne. 

86.  Il  Massi  propone  non  t*  ha  aitare,  io  direi  non  t*  ha 
ad  aitare, 

87.  Nel  Cod.  Vat.  leggo  nettamente  parenti,  por  cui  per 


—  a45  — 

cagìon  di  rima  scrivo  genti  e  uteiUi  sìh  sicula,  come  ^  nei 
Godici  e  iu  istauipa  cleri  alla  Su  H,pregtia-i  alla  ii,riprìsa 
e  distisa  all'8,  avire  alla  18,  chìaci  alla  16,  tralasciando  le 
altre. 

88.  Ne'codici,e  quÌDili  nelle  sUimpe,ijueslo  aonic  è  pro- 
babilmente erralo  o  guasto,  e  forma  la  disperazione  de'co- 
mentalori.  0i;gi  noi  leggiamo  trajuto.  'niajuto  e  nel  Grìon 
lonzajuto.  È  un  enigma,  ma  non  dell' alcamese.  che  scrivea 
piano  per  farsi  intendere  dalla  rosa  invidiata,  e  lo  fu  da'  suoi 
coolemporanei,  perchè  nominava  o^'gelti  allora  conosciuti.  Egli 
parla  ceno  di  un  tessuto  splendido  e  ricco,  non  dì  una  foggia 
di  vestito,  allrimenli  non  calzerebbe  la  risposta  deir  amala 
nella  stanza  segueule.  Io  mi  limilo  a  compendiare  le  varie 
interpretazioni. 

Clii  ritiene  intajuto.  opina  essere  un  tessuto  particolare, 
cosi  detto  con  vocabolo  forse  orientale. 

Coloro  i  quali  lo  estimano  foggia  di  vestimenlo  eoo  la 
co<la,  adottano  trajuto,  e  ne  danno  due  spìeghe.  Dal  Ialino 
traìteri:  derivano  il  normanno  train,  strascico  dell'abito,  ap- 
pellalo traino  in  volgare;  e  di  \A  i  suoi  derivali  trainare, 
trainante,  trainato  ecc.,  e  credono  Ciullo  aver  dello  trujvto. 
doè  trascinalo.  Gli  altri  lo  iraggono  diretlamente  dal  traiiere. 
da  cui  provengono  iraimenio,  traiiore,  irarre,  iraimo;  e  il 
poeta  aver  inleso  esprimere  con  (|uella  parola  ito  leaulo  di 
finissimi  Dli  di  seta,  forse  simile  a  quello  che  oggi  «  trae 
da' bozzoli  e  appellasi  arsoio. 

ti  Grion  sostituì  lonzajuto,  ritenendo,  cocne  nota  il  Gal- 
vani, che  kmza  valga  coda  in  siciliano;  ou  quoto  roeabois 
d  è  ignoto. 

Frugati  e  rifrugati,  lanlo  da  me,  quanto  con  Ywon  di 
cospicui  dotti,  tulli  i  Tabulari,  Arcbivi,  L«ggi  toirtoane  e 
Biblioteche  nell'  isola,  dall'  Inventario  deUa  Cbi«a  dì  %.  Itiecatt 
del  1173  e  riservato  nella  Cappella  Palatina  di  Véttma,  mo 
alla  VeoJiLi  dì  oggeili  mobiliari  aodie  dj  reAi  kmàmt.  Ad 
del  IS'^O  nel  voi.  ni.  s.  della  Comnoale  dì  qocla  òtti  ic^l» 
Q  q,  F,  '231 ,  e  inoltre  gli  anlictiì  aalori  a  ne  Mgirili.  Ma 
«be  U  XX.V  Distruzione  del  Mmuri  ari  folin  tMfaM 


—  346  — 

del  medio-evo»  non  ho  rinvenuto  nome  che  possa  sostituirsi 
logicamente  a  quei  due  di  disperata  lezione.  Né  qui  inserisco 
quella  noiosa  e  vana  litania. 

Or  essendo  certo  aver  Giulio  adoperato  un  trisillabo  piano 
fìniente  in  uto  o  un  equivalente,  il  Prof.  Cor.  Sbano  da  Noto 
propose  leggersi  lo  tuo  viUo,  cioè,  il  tuo  abito  votivo ,  per- 
chè vestire  il  voto,  per  antica  consuetudine,  è  costume  delle 
nostre  donne. 

Io,  tenuto  presente  aver  mandato  s.  Bonifazio  arcivescovo 
di  Magonza  nel  sec.  YIII  a  Daniello  vescovo  capsiUam  villo- 
sam,  e  Giovanni  e  Matteo  Villani,  non  che  Giov.  Boccaccio 
ricordare  il  velluto  essere  servito  nel  secolo  XII  ad  ornarsene 
le  principesse,  e  il  Muratori  aggiungere  che  i  principi  e  i  re 
usavano  tali  vesti  di  molta  magnificenza,  estimo  possibile  aver 
Giulio  scritto:  Di  quanno  ti  vestiti  di  (o  lo)  velluk). 

Il  Prof.  V.  Di  Giovanni  con  sua  lettera  del  6  nov.  1870 
produce  un'altra  soluzione  del  nostro  enigma.  L'aiuto,  egli 
dice,  che  aveva  vestito  un  anno  innanzi  la  fanciulla,  non  era 
stato,  come  si  vede  da' versi,  che  seguono  nella  Tenzone,  né 
di  porpora,  né  di  scarlato,  né  di  sciamito,  che  varrebbe  sot- 
tosopra il  velluto;  ma  di  roba  meno  pregevole,  siccome  ap- 
punto lo  'nsajiUo  di  saina,  drappo  di  seta  leggiera;  o  lo  'n- 
sajotto  di  saja,  ovvero  lo  rasuto  da  raso,  più  leggiero  della 
porpora,  dello  scarlato  e  dello  sciamito,  che  sarebbero  stati 
panni  di  alto  prezzo.  Raso  italiano  è  accorciato  di  rasato,  e 
noi  siciliani  che  diciamo  rasu,  dovemmo  dire  in  antico  ra- 
sutu:  poi  per  figura  la  materia  è  presa  per  T  abito,  siccome 
in  porpora,  scarlato  e  sciamito  sono  usati  il  colore  e  la  spe- 
cie del  tessuto  per  la  roba  slessa  ;  e  cosi  si  potè  avere  lu  ra- 
sutu,  che  sarebbe  stato  forse  il  corpettino  di  raso  usato  dalle 
nostre  donne  sino  a^principii  di  questo  secolo.  Anzi,  egli  ag- 
giunge, per  opposizione  a  porpora  e  scarlato,  foiose  di  color 
bianco,  proprio  delle  fanciulle  e  dell' età  verginale.  Queste  due 
voci  0  insajuto  da  saja,  o  rasato  da  raso,  correggerebbero 
senza  accrescimento  o  scemamento  di  lettere  le  due  voci  in- 
tajuto  0  trajiUo,  che  Onora  abbiamo  avuto  come  inintelligi- 
bili. Tutto  si  ridurebbe  all'  errore  grafico  di  aver  tagliata  la 


I 


—  347  — 
s  in  insajuto,  fac«m)one  intojuto:  ovvero  Dell'aver  I 
una  R  forse  majuscola,  due  leliere,  cioè,  ir,  e  confusa  la  s 
con  j  dando  cosi  Irajuto,  invece  Ji  rasutù. 

Scelga  clii  vuole  a  suo  libilo,  o  escogiti  altri  scioglimenti. 

89.  Ecco  come  variano  le  interpretazioni  di  questo  passo. 

lutla  lo  iL-aìto  —  Cod.  Vat,  NaoDucci  1856;  Gregorio. 

I  tola  lo  trailo  —  Cod.  Barb.,  Allacci,  Cresciinbeni. 

Giù  dallo  trailo  —  Valcrioni,  Bibl.  M  Vtogg.,  Narinucci  I8IG. 

lu  da  lo  trailo  —  Prof.  Massi,  Gi'A  liallo  slratcica. 

0  luda  lu  iraitu.  Gi'ion. 

Io  preferisco  questa  lezione,  perchè  la  più  logica  e  armonica 
con  i  versi  seguenti.  Avverto  però  essere  forma  arbitraria,  e 
non  siciliana  ';V  lu:  non  è  colpa  del  Grìon  ignorare  il  nostro 
dialetto. 

90.  91.  Cosi  nel  Vaticano.  Può  migliorarsi 


Si  a  le  Vaugelie  jarimi 
Ca  già  mi  se'  marito. 


92.  V.  St.  2,  Nola  13. 

93.  Cod,  Val.  —  Dereto  mi  ti  misera.  Il  donna  fina  è 
in  Inghilfredi  e  in  Guido  tiuinicelli.  Nel  primo:  A  cui  servir 
mi  sforzo,  donna  fina.  Nel  secondo:  Orgoglio  mi  mostra 
donna  fina. 

94.  95.  Ecco  un  altro  polipaio  di  dubbii.  Il  catergandoti 
del  Cod.  Barb.  seguilo  da  .Mlacci,  Crescimbeni,  Gregorio  ec. 
non  ha  senso;  V altergaTidoti  del  Grion  è  in  lingua;  Dante 
Inf.  20,  46,  disse:  Aronta  è  quei  che  al  ventre  gli  s'atterga; 
e  Tasso,  Gerus.,  19  47. 


Ei  col  ibrido  ìaiirìzzando  e  con  la  terga 
l.<?  mandra  innanzi,  agli  ulliini  s' atterga. 


Ha  qui  starebbe  a  proposito?  Ne  dubito.  Val  meglio  Vanne- 


—  348  — 

gassiti  del  Cod.  Val.  Yaleriani,  Nannucci  ec.  Il  verso  manca 
di  due  sillabe,  che  ho  supplito. 

L' ultima  parola  della  stanza  ha  avuto  quattro  interpre- 
tazioni sufTolcite  da  gravi  autorità.  Sono  esse: 

1.  —  0  appiccare  del  Prof.  F.  Massi  nel  senso  di 
congiungersi,  attaccarsi  insienie,  incorporarsi ,  corroborato  dal- 
l' Alighieri. 

Poi  s' appiccar  come  di  calda  cera 

Fossero  stati.  Inf.  25,  v.  61. 
Le  gambe  con  le  cosce  seco  stesse 

S'appiccar  si  ec. 

Ivi,  V.  i06. 

2.  —  e  peccare  del  Cod.  Barb.  seguito  dall' Allacci, 
Gregorio,  Grion,  Boscaino,  En)iliani  Giudici,  Riccardo  Mit- 
chell  e  Prof.  G.  A.  Chercher  nel  senso  di  peccare  carnal- 
mente con  r  amata.  L' Emiliani  Giudici  e  il  Boscaino  mi  as- 
sicurano che  tuttora  in  Mussumeli  e  Trapani  abbia  peccare 
un  senso  osceno,  e  che  le  parti  sessuali  muliebri  si  chiamano 
peccaibra.  Entrambe  le  lezioni  di  Massi,  di  Grion  e  de' sun- 
nominati, hanno  tutte  unico  sigoiGcato,  che  riceve  luce  e  sug- 
gello dalle  Tenzoni  dettate  dal  popolo  sullo  stesso  argomento. 
Così: 

Non  mi  ni  curu  di  li  me* feriti, 
Quantu  durmissi  un*ura  'ntra  ssu  pettu. 

Li  Multi  vucì,  i5. 
Vurria  vi  viri  acqua  a  ssa  funtana. 

Lu  Tuppi  Tuppi,  1. 
lu  chista  sira  ti  vogghìu  pri  zzita. 

Ivi.  2. 
Nessuna  auceddu  pizzulia  sta  Gcu; 
Di  st' acqua  *un  vivirai  né  assai  né  pocu. 

Ivi,  5. 
Fammi  sfugari  la  chimera  mia, 
Pri  *na  vota  ti  voggliiu  e  poi  non  chiui. 

Ivi,  6. 


—  349  — 
Non  mi  ni  curu  si  patisciu  guai. 
Basta  chi  sfogu  la  mia  TanUsia: 
Grapimi,  bcdda,  ca  non  e  risia; 
Pircbl  M' in  gratili!  lini  mi  fai? 
fa  e'  arriposu  an  piizDddn  ccu  lia, 
E  poi  si  inoru  ciutenli  mi  fui. 
hi,   12. 
S' anelli  sapìssi  ca  sia  vita  morì, 
Gca  IJa  sta  sira  vogghiu  cuuvìrsai'i. 
Ivi,  16. 


3,  —  0  'mpiccare  Coil.  Fior.,  Nannucci,  Valeriani, 

Imdo,  Cazzino,  Salomoue,    Morliilai'o.  Ciascuno    scel;^   a 

suo   grado:  io    mi   sono  limitalo  a   reintegrare  il    verso,  e 

ad  accettare  l'inlerpretazioiie,  ctie  sente  meglio  del  siculo, 

versificala  da  secoli  ila  questo  popolo. 

96.  L'istesso  linguaggio  è  ne' Canti  popolari  congeneri: 


l!n 


ureo  mitili,  un  greca  di  lìvanii. 

Li  MuUi  Vuci,  I. 
S' nvissi  anirnnddatii  lu  ji3'IÌu 
A  Imi  a  la  Tonti  a  traltiurì. 

Ivi,  7. 


97.  11  CoJ.  Vat.  scrive  ilisitollo:  ma  la  rima  in  Giulio 
non  falla,  e  la  proniinria  insulare  T  obbligava  a  Jire  disdulto. 
Questa  voce  è  in  Federico  II,  e  in  altri  anltcliì  nel  senso  di 
diporto,  [liacere,  sollazzo.  Nel  sudelto  Codice  è  scritto  chia- 
ramente sahnro.  per  sapore,  t,'usto,  piacere,  potrebbe  anciic 
leggersi  Inboro,  per  lavoro.  Il  senso  è  chiaro:  Sei  pazzo:  che 
ne  fai  di  un  cadavere?  —  Il  disdotlo  o  disdutlo.  come  os- 
serva il  Nannucci,  Verbi,  p.  57,  nota  2,  deriva  dal  latino 
deditca-c,  da  cui  driìuctus.  dilcltamento  dell'animo,  sollazzo, 
divertimento,  gioia,  piacere  in  generale,  ed  in  particolare 
quello  dì  amore. 

98.  Nel  God.  Val.  sta  scritto  poso  e  quisso  invece  di 
poao  e  ciiisso. 


—  350  — 

99.  Aiu  TÌstu,  ca  m*aini  ?ila  mia, 

E  veru  amari  Iiaia  mittutu  a  vai. 

MolU  Yaci,  25. 

100.  Sta  bene  come  vocativo  atteso  il  grado  di  Giallo, 
come  Gregorio  e  GrioD  V  intesero ,  cosi  pure  come  aggettivo 
giusta  il  Nannucci  e  il  Galvani:  io  propendo  perla  prima  in- 
ierpretazione:  o  Paladino,  io  t' amo  di  core. 

101.  Si  si*  savia  fidili  e  ben  criatu; 
Porsi  chi  un  jornu  ti  faroggiu  leta. 

Tappi  Tappi  Sl  23. 

102.  È  in  Guittone,  e  due  volte  nel  Tesoretto,  capo  L 

Che  l'aom,  che  Dio  mi  vaglia, 
Crealo  fa  san  faglia 
La  più  nobile  cosa. 

103.  Balia,  baglia,  rerum  administroÀio »  governo.  Ro- 
man de  Guillaume  au  Court  Nez,  MS.  Més  pour  tei  Dieu 
qui  tout  a  en  baillie  —  Du  Gange. 

Iacopo  da  Lentini  : 

.\  qaella  a  cui  consento 
Core  e  corpo  in  sua  baglia. 

m 

Odo  delle  Colonne 

Per  uno  ch'amo  e  voglio, 
E  non  aggio  in  mia  baglia, 
Siccome  avere  soglio, 
Però  palo  travaglia  ce. 

Quindi  il  ballare  avere  in  balia.  Dittamondo  capo  settimo: 

Che  bailo  Crislo  e  lo  veste  e  lo  spoglia. 


La  morii,  chi  mi  hai  a  duri  presUi  sa. 
Tu[tpi  Tujipi, 

105.  God.  Barb.,  Allacci,  Crescimbeai ,  Gregorio  e  Grion 
[Ono  inslella,  de  stella,  in  siciliano  stedda,  quasi   astrila. 

'.a,  sclieggìn  di  legno;  il  cuore  mi  si  fa  a  sctiegge.Gli  al- 
Itulli  infelUi:  ma  diffcriscoQO  nella  spiega.  Nannuccì,  Mìit- 
,  Sbano,  Gazziiio,  Morlillaro,  Salomone,  Capuana  lo  dc- 
10  da  fiele,  il  cuore  mi  s'infiela,  e  Dame  usfl  felle  per 
»i,  mi  s'ifirellonisce,  mi  diventa  feroce,  mi  si  rende 
ice  d'ogni  eccesso;  io  sommetto  poter  interpretare  mi  sì 
a,  da  fcdda.  Fetta,  perciJ)  fìdilulia,  die  Giulio  ilalianiz- 
,  come  è  nel  canto  popolare: 

Tutlu  lu  cori  miu  $i  fiddulia. 

^Odo  delle  Colonne  leggo: 

Perù  palo  iratuglia. 

Ed  or  mi  mena  orgoglio. 

Lo  cor  mi  fende  e  tagHa, 

~ch'  è  il  nostro  fUlduiia.  Boscaino  mi  scrive  esser  viva  in  Tra- 
pani la  espressione  mi  si  fedda  lu  coti,  usala  ad  esprimere 
un  gran  dolore. 

106.  Voce  ancor  viva  nell'isola.  E  in  Tommaso  di  Sasso: 

Tardo  mi  risvegliai  a  disajiiarL', 

Glie  noti  si  pui^  slutare 

Coìj  senta  htìca  udo  grao  Toco. 


|auìI 


leggouo  cs(o  fatto  invece  di  statari  ;  io  preferisco  l'in- 
stazione  del  Grion,  perchè  lega  e  rincalza  quanto  di  sopra. 


lurami  III  .s.irai  inuggliiLTÌ  mia, 
La  moni  *ìxia  mi  sparli  di  vui, 
lura  In  voli. 

T'ippi  Tuppi ,  25. 


—  352  — 

106.  Meglio  parrino,  come  in  Sicilia ,  sacerdote. 

109.  SuUilikLte:  coosoozione.  La  tisi  in  Sicilia  si  diiami 
mali  suUilì,  perciò  morire  di  mo/i  suUili,  importa  morire  con- 
sunto. Emiliani  Giudici  Florilegio. 

110.  Minispreso  dal  latino  mima  preiiare ,  mimqNn- 
zare. 

IH.  ....  *Ntn  la  casa  mia 

Trasi  skaro,  e  chidda  ca  fo  foL 

Toppi  Toppi,  2S. 


In  questo  momento  ricevo  dal  mio  amico,  Sig.  Giuseppe 
Silvestri  da  Palermo,  una  lettera  con  la  quale  mi  annunzia 
esistere  nella  Biblioteca  comunale  di  quella  città  un  prezioso 
Codice  Doganale  del  1300,  nel  quale,  ove  tratta  della  Gabella 
della  tintoria^  si  legge  quanto  siegue  : 

ce  Pro  qualibet  canna  tele  tingendo  in  mayuto  tarennm 
unum  ». 

«  Item  de  cuculio,  si  ve  seta  tinta  in  maynto  de  qnibii- 
stibet  duabus  unciis  tarenum  unum  ». 

Si  raccoglie  parimenti  dair  istesso  Codice  che  il  dazio 
governativo  su  gli  altri  colori  deMessuti  di  filo,  di  cotone  o 
di  seta,  quali  luni^  riridi,  sarco ,  musumi^  ialino ^  ckatbalo  ec 
era  se  npre  inferiore  al  colore  mayuto.  Di  guisa  che  paò  bene 
argomentarsi  che  le  famiglie  nobili  adoperassero  a  prrferenza 
la  stoffa  di  questo  colore,  che  più  di  ogni  altra  era  in  pregio 
e  gravata  di  dazio. 

Sembra  quindi  probabile  che  il  verso  7."*  della  Stanza 
23  della  Tenzone  di  Giulio  debba  leggersi: 

Di  qoaiino  ti  Teslisti  (o  nuToto. 

(di 

La  metonimia  adoperata  dal  poeta  per  indicare  la  veste 
della  donna  amata  è  comune  agli  scrittori  di  tutti  i  secoli  e 
di  tutte  le  nazioni. 


SAGGIO  DI  COMMENTO 


mONlCA  FIORENTINA  1)1  DINO   COMPAGNI 


Al  Comm.  Fhanciìsco  ì^amukini. 


Della  Cronica  Fiorentina  (li  Dino  Cumpai^i,  Ja  me 
commentata,  pubblicava,  non  son  molti  mesi,  il  primo  li- 
liro  la  signora  Amalia  Betloni,  in  una  collezione  scolastica 
ch'ella  stampa  a  .Milano.  E  non  è  per  Tambizione  di  con- 
dliarmì  lode  di  dotti,  sMo  otTro  alla  S.  V.  un  saggio  della 
conlinuaziooG  di  questa  per  me  non  leggera  Mica;  ma 
perchè  dai  dotti,  a' quali  il  modesto  libretto  milanese  può 
facilmente  restare  ignoto,  vorrei  sentirmi  dire  se  la  via 
Della  quale  mi  sono  messo  mostra  condurmi,  od  è  mia 
superba  speranza ,  ad  una  vera  e  compiuta  rivelazione  dei 
sensi  di  quel  difBcilissimo  autore ,  rivelazione  da  nessuno . 
sino  ad  oggi ,  se  però  non  m' inganno ,  neanco  tentata. 
Dico  non  essere  stata  tentata  con  la  forma  del  commento, 
che  ^  pure  la  sola  a  ciò  direttamente  appropriata;  per- 
chè veramente  il  signor  Carlo  Ilillebrand,  nella  sua  dotta 
e  accuratissima  monografìa  su  Dino .  molto  bene  si  adden- 
\m ,  non  che  in  generale  nello  spirito  di  quel  mirabile  li- 


—  354  — 

bretto ,  ma  io  molte  parti  aacbe  più  riposte  o  dubbie  del 
testo ,  sia  quando  prese  a  considerarlo  rispetto  all'  arte  sto- 
rica e  alla  letteratura,  sia,  e  più  profondamente  (perchè 
studiar  bene  Dino  vuol  dire  studiar  bene  i  fatti  e  i  tempi 
di  lui  raccontati),  quando  con  la  sua  scorta  e,  spessis- 
simo, con  le  proprie  parole  di  lui,  volte  in  un  vivace  e 
snello  france^.  ritessè  la  sua  medesima  istoria.  Ma,  com'è 
facile  comprendere .  a  superar  tutte  tutte  le  difficoltà  che 
offra  r  interpetrazione  d' un  testo ,  non  e'  è  se  non  il  com 
mento  che  obblighi:  perchè  solamente  il  commentatore, 
arrivato  a  un  intoppo,  è  costretto  a  fermarcisi  sopra,  e 
a  non  andare  innanzi  finche  non  lo  abbia  in  un  modo  e 
in  un  altro  tolto  di  mezzo.  Chi  scrive  un  libro  sopra  uc 
libro,  come  il  sijinor  Hillebrand  lo  scrisse  davvero  bellis 
Simo  sul  nostro  istorico,  per  quanto  copiosamente  parafrasi, 
colorisca,  illustri  il  suo  originale,  non  avrà  mai  né  tante 
strette  ne  tanto  continue  catene,  quanto  impone  un  com- 
mento: fatto,  W\ì  s'intende,  con  un  po' di  coscienza  e  d 
senno.  A  queste  catene  mi  sottomessi  io,  nella  interpe 
trazione  del  Compagni  ;  e  s' io  ne  abbia  guadagnato  sol- 
tanto le  noie  della  servitù  e  della  pedanteria,  ovvero  la 
intima  unione  col  mio  autore,  vorrei,  ripeto,  mi  fosse 
detto  da  chi  sa  e  può  dirlo,  e  che,  come  V.  S.,  non 
nega,  in  ogni  caso,  una  parola  di  conforto  alle  buone  in- 
tenzioni, ancoraché  non  seguite  d'effetto. 

Ch'io  scelga  per  saggio  il  tratto  che,  nella  partizione 
da  me  stabilita,  è  Pxi  capitolo  del  libro  II,  n'è  cagione 
che  quel  capitolo  durò  per  parecchi  giorni  a  disperarmi 
di  sé;  dico,  clfio  non  vedevo  per  che  verso  s'avessero 
a  prendere  le  parole  di  Dino,  anzi  non  giungevo  a  farmi 
un'  idea  de'  falli  da  esso  narrali.  Avvertasi  che  si  tratta  di 
fatti  morali:  cioè  d'opinioni,  di  sentimenti,  di  sospetti, 
d' avvedimenti ,  d' intrighi  ;  nella  cui  esposizione  Dino ,  come 
per  solito  è  accuratissimo,   cosi  anche  è  sottile,  senten- 


aoso,  pièno  (l'allnsioni  e  di  secondi  sensi,  ctm,  se  mlest, 
illumÌn.ino  e  coloriscono  il  quadro,  ma  se  sfuggono,  ge- 
nerano dubbiezza  e  oscurità:  tanlo  più  che  in  ({nelle  parti 
la  interpetrazione  del  suo  libro  non  può  menomamente 
vantaggiarsi  del  confronto  di  altri  storici,  come  quando  si 
tratta  di  storia  esteriore,  comprendente  cioè  fatti  di  co- 
mune dominio  degli  scrittori.  In  questo  capitolo  io  sentivo 
il  pensiero  dell'Autore,  come  la  corda  dantesca,  «aggrop- 
palo e  ravvolto  >;  né  mi  riusciva  trovarne  il  bandolo:  e 
maggiore  sgomento  ra'  era ,  che  a  guardare  gli  altri  rac- 
contatori della  storia  fiorentina  di  que' tempi,  quelli  spe- 
cialmente fra  i  moderni  che  si  sono  serviti  delle  notizie  e 
spesso  anche  delle  parole  di  Dino,  quando  arrivavano  a 
cotesto  arduo  passo,  li  vedevo  abbandonare  il  mio  autore, 
e  tenersi  più  o  meno  sulle  generali:  e  questo  di  uomini 
dell'autorità  del  Balbo,  della  diligenza  del  Fraticelli,  del- 
l'acume dell' Hillebrand.  Cito  dantisti:  perocché  quel  ca- 
pìtolo ha  la  speciale  importanza  di  riferirsi  ad  uno  de' mo- 
menti più  gravi  nella  vita  del  divino  nostro  poeta,  anzi 
nella  vita  sua  politica  il  più  doloroso:  T  ambasceria  a  papa 
Bonifazio. 

F,  tu  n'hai  cavato  le  gambe?  Glie  dunque?  ci  verrai 
forse  il  dire  d'aver  tu  pel  primo  trovata,  in  qualche  vecchio 
armadio  del  Palagio  de' Priori,  la  mirabile  cliiave  d'un  au- 
tore, che  dal  Muratori  in  poi  tutti  gli  studiosi  svolsero, 
gli  eruditi  citarono,  le  coltane  storiche  ristamparono,  eie 
antologie  scolastiche  ne  delibano,  e  lo  registrano  i  pro- 
grammi ufTiciali  d'insegnamento;  e  tutti  col  Giordani  lo 
dicono  *  sallustiano  »,  e  col  Pertìcari  «  breve,  rapido, 
denso  • ,  e  a  coro  pieno  lo  cantano  »  principe  de'  croni- 
sti,? —  Lasciamo  stare  di  quest'ultima  appellazione,  che 
I  conviene  a  Dino  per  la  sua  Cronica  fiorentina,  quanto 
Iute  s'adatterebbe,  in  grazia  della  Cotntnedia,  il  titolo 
I  principe  de'  comici  >  ;  e  che  basta  a  mostrare  non 


—  356  — 

inteso  un  libro  mal  definito;  ma  rispetto  alle  altre  lodi, 
giova  distinguere  quelle  date  alla  cieca ,  che  non  si  ha  da 
tenerne  alcun  conto ,  da  quelle  certamente  autorevoli  di  cri- 
tici insigni  :  e  di  queste  è  da  dire  eh'  ebbero  piuttosto  fonda- 
mento in  una  apprensione  delle  qualità  esteriori  dello  stile  di 
Dino ,  che  in  una  perfetta  intelligenza  de'  suoi  pensieri  ;  e 
che  però  al  caso  nostro  non  provano  nulla ,  cioè  non  pro- 
vano che  in  me  sia  baldanza  irreverente  a  dire  che  Dino 
sin  qui  non  lo  abbiamo  saputo  leggere.  Ben  mi  conten- 
terò' io  che  la  interpretazione  mia  apparisse  errata  ne^  par- 
ticolari per  difetto  deir  interprete ,  ma  vera  nel  metodo  e 
nello  spirito;  cosicché  da  essa  potessero  più  felici  ingegni 
trarre  avviamento  alla  vera. 

Io  prego  dunque  mi  si  dica ,  chi  abbia  la  pazienza  di 
leggere  le  mie  note,  se  le  cose  che  io  ho  vedute  nel  te- 
sto, ci  sono  0  no:  non  per  menare  scalpore,  se  le  ci 
sono,  e  per  misurare  a  spanne  T altrui  vista  e  la  mia, 
ma  perchè  si  convenga  d'amore  e  d'accordo  che  Dino 
Compagni,  da  quando  il  Muratori  lo  pubblicò,  ce  lo  slam 
letto  ed  ammirato  senza  curarci  troppo  d' intenderlo  ;  e 
contenti  di  paragonarlo  encomiasticamente  a  Gaio  Grìspo 
Sallustio ,  non  abbiamo  spese  intorno  al  ruvido ,  acuto ,  im- 
petuoso Prior  Bianco  di  Firenze  quelle  cure  delle  quali 
troppo  maggior  bisogno  aveva  egli  che  l'elegante  e  com- 
passato pretore  romano. 

E  qui  una  domanda.  Dino  è  proposto  alle  scuole;  e  ai 
più  teneri  alunni  delle  liceali,  a  quelli  del  primo  anno. 
Con  quanta  opportunità?  Risponda  per  me  ai  facili  com- 
pilatori e  rimpastatori  di  programmi  scolastici  un  valen- 
tissimo professore  d' una  delle  nostre  Università ,  il  quale 
messosi,  or  sono  tre  anni,  a  spiegarlo  a' suoi  uditori,  non 
potè  (mi  scriveva)  che  toccare  appena,  e  con  grande  e 
vera  fatica ,  la  fine  del  libro  primo ,  e  lasciò  la  cosa  per 
disperala.  Ma  s'  entrassi  su  questo  argomento  delle  scuo* 


—  357  —  __^^ 

le,  e  propràmenle  sul  modo  come  ti  sono  on&Dati'  fijl 
studii  di  lettere  italiane,  il  da  dire  sarebbe  troppo;  equi 
ci  starebbe  a  pigiooc.  Però  fo  punto;  ed  a  Lei,  riTcrito 
signore,  raccomando  le  mie  passate  e  future  esercitaziooi 
su  Dino  Compagni. 


Firenze,  nel  decembre  del  1870. 

Isidoro  Del  Lì:>'go. 


^V  li,  XI.  —  In  questo  tempo  lomorono  i  due  am- 
basciadori  ritnandati  indietro  dal  Papa:  Tono  fa  Maso 
di  messer  Ruggierioo  Minerbetti,  falso  pupolaDo.  il 
quale  non  difendea  la  sua  volontà  ma  seguiva  quella 


XI.  Tornano  da  Udua  nof.  degli  ambasciatoki.  La  Si- 
gnoria SI  RIMETTE  NELLA  VOLONTÀ  BEL  fONTKFjrE,  E,  iE- 
ORSTAMBNTE,  CHIEDE  UN  SUO  LEOAT«.  LO  RI£AX>0  I  NSfit: 
LORO  TlMOItl  E  SUPPOSIZIONL  CoU' ERA  INTERNAMENTE  ORDI- 
NATA Parte  Nera.  (1-8  novembre  1301). 

1.  I  (lue  ambasciadori.  Cioè  dell*  ambasceria  inviata  a 
Roma  dal  Comune  nell'ottobre,  ilopo  g:ÌDnlo  colà  il  Valese, 
e  compunta  il]  tre  ambasciatori.  Aveva  per  commJBsione  di 
contrastare  alle  maligne  inflaenze  cLe  buIP  animo  A\  lui  e 
dei  Ponteflee  esercitavano  I  Neri.  Ma  non   gianse  in  Corte 

non  dopo  partitone  Car\o.  Rimandali  dal  Papa  il  Mlner- 
;i  e  il  Corazza,  era  rimasta  presso  ti i  lai  Uaole  Aligbie- 
Cfr.  Il,  IV,  11,  16,  22;  xiv. 

2.  Falso  popolano  ecc.  *  Non  affezionalo  di  cuore  alla 
parte  pupolare  ,  e  die  perciò  non  lon«ndo  (difendere)  troppo 
olla  opinioni  e  sentimenti  propri!,  secondava  facilmente  gli 

11» 


É 


—  358  — 
d'altri;  Y  altro  fu  il  Corazza  da  Signa,  il  quale  tanto  si 
riputava  guelfo,  che  a  pena  credea  che  nell' animo  di 


3.  Il  Corazza  da  Signa,  Di  costui  cfr.  II,  xxxi,  dove  lo 
chiama  «  savio  uomo  guelfissimo  »;  ma  allora  lo  vedremo 
disingannato  dai  fatti,  e  cruccioso  spettatore  delle  esorbi- 
tanze de* Guelfi  Neri:  ora  (cosi  paiono  da  interpetrare  le 
parole  di  Dino:  cfr.  not.  seg.)  sperava  nella  pacificazione 
delle  partì.  Egli  (cfr.  cap.  seg.)  stava  co*  Bianchi. 

4.  ,,.che  a  pena  credea  che  neW animo  di  niimo  fusse 
altro  che  spenta ,  narrando  le  parole  del  Papa,  Cosi  resti- 
tuisco, sulla  fede  del  più  antico  manoscritto  e  della  prima 
edizione.  La  volgata  ha:  c?ie  a  pena  credea  che  nell'animo 
di  niuno  quella  parte  ftisse  altro  che  ^enta.  Narrarono  le 
parole  del  Papa  ecc.  Ad  accogliere  questa  lezione  mi  fece 
ostacolo,  innanzi  tutto,  la  sua  ambiguità,  non  riuscendomi 
cavarne  un  senso  netto  e  sicuro;  poi  l'avervi  messo  la 
mano  gli  editori,  sebbene,  com*  altri  giustamente  notò,  potes- 
sero le  parole  da  essi  aggi  un  te,  9ue22aj7arf  e,  riguardarsi  come 
contenute  implicitamente,  per  costrutto  di  pensiero,  nel- 
r  adiettivo  guelfo.  Aggiungi  che  due  Manoscritti  hanno  la- 
cuna fra  altro  e  Naìrarono ,  mostrando  con  ciò  che  il  testo 
debba  a  questo  punto  avere  comecchessia  sofferto.  Per  que- 
ste ragioni,  come  arbitraria  incerta  ed  oscura,  rigettai  la 
volgata  lezione.  Adottando  P  altra,  del  vecchio  codice  e  della 
prima  stampa,  non  pretendo  di  aver  dissipate  le  tenebre 
da  questo  passo,  dove  qualche  guasto  di  copisti  pare  pro- 
babile ;  ma  solamente  di  averlo  ridotto  capace  di  qualche 
interpetrazione,  in  armonia  specialmente  e  con  ciò  che  pre- 
cede e  col  passo  (II,  iv)  dove  Dino  ci  ha  riferite  distesa- 
mente le  parole  del  papa  alle  quali  qui  accenna.  La  Inter- 
petrazione che  proporrei  è  la  seguente:  <  Il  quale  tanta 
fede  aveva  nell*  altrui  guelfismo,  misuranc^clo  dal  proprio 
(su  questi  secondi  sensi  o  impliciti,  cfr.  Proem,  5:  I,  xu, 
8  e  altrove) ,  che  stentava  a  credere  che  nelT  animo  di  qua- 
lunque cittadino  fiorentino  la  volontà  (oggetto  deirinciso 
relativo,  coordinato  a  questo,  nella  proposizione  preceden- 
te) non  dovesse  del  tutto  piegarsi,  rimettersi  in  tutto  e  per 
tutto  (spengersi,  quasi   cessando  di  essere,  e  fusse  spenta 


—  359  — 

niuDO  fosse  altro  che  spenta,  narranrio  le  parola  del 
Papa.  Onde  io  a  ritrarre  sua  ambasciata  fui  colpe- 
vole: misila  ad  indugio,  e  feci  loro  giurare  credenza; 
e  non  per  malizia  la  indugiai.  Appresso  rauoai  sei  savi 


per  fmse  per  spegnersi)  al  Pontefice  capo  di  Parte  Guelfa, 
quando  fossero  conosciute  le  parole  di  luì  >.  0  altrimenf.i: 

<  Il  quale  tanta  fede  ecc.,  che  sì  dava  quasi  per  sicuro,  ba- 
stasse rifiirire  (narrare)  le  parole  conciliative  del  papa, 
percliè  Bìancbi  e  Neri  egualmente  dovessero  inchinarsi  >. 
A  questa  indole  dì  «  guelfo  in  buona  fede  e  celante  »  cor- 
risponde queir  appellativo,  die  sopra  notammo,  di  <  sa- 
vio uomo  guelfiesìmo  ■.  La  interpetrazione  da  me  propo- 
Bla  mi  pare  s'accordi  con  questa  versione  del  Balbo  (Vita 
di  Dante,  I,  xu),  il  quale    segue    pure    la   prima    stampa: 

<  L'ano,  Maso  Minerbetti,  uomo  senza  volontà  propria; 
*  l'altro,  il  Corazza,  tanto  guelfo,  clic   appena  credea  pò- 

>  tesse  rimaner  volontà  in  nessuno,    narrandogli    le  parole 

>  del  Papa  >. 

5.  Onde  ecc.  Si  cliiama  in  colpa  Dino  (il  quale  in  que- 
sti affari  sembra  avesse  largo  mandato  da' Priori  suoi  col- 
legbi)  ili  aver  posto  indugio  a  riferire  (ritrarre)  a'ConsiglI 
del  Comune  queir  ambasciata,  dalla  quale  il  Corazza  s'  a- 
epettava  cosi  grandi  effetti  per  la  paclQcazione  di  Firenze. 
(Il  legame  fra  queste  due  idee  6  espresso  da  onde  [efr.,  su  . 
questo  eoslrutlo,  I,  vi,  1)  e  da  sua,  ohe  riferirai  al  Coraz- 
za). Ma  aggiunge,  in  propria  difesik,  che  ciò  non  feco  già 
per  malizia,  cioè  <  perchè  credendo  probabili  quelli  effetti, 
e' li  volesse  distornare  ». 

fi.  Crtdema.  •  Silenzio,  segretezza  >. 
7.  Appresso  ecc.  Ecco  la  cagione  per  la  quale    Indugiò, 
e  poi  s'astenne  afTatto  di  portare  a' Consigli   l'ambasciata. 
ibitando  della  convenienza  di    ciò    fare,   e  credendo    più 
idiente  die  la  Signoria  provvedesse  da  sé,  aveva,  innanzi 
f  determinarsi  per  l'uno  o  per  l'altro    partito,   rlohlesti 
^rere  sei  dotli  giureconsulti:  comunica  ad  essi  (far  ri- 
vi y  ambasciata;  e  avutone  parere  conforme  al  proprio 
Mto  Inciso  6  tutto  da  sottintendere),  non  lascia  consi- 


—  360  — 

legisti ,  e  fecila  innanzi  loro  ritrarre,  e  non  lasciai  con- 
sigliare: di  volunlà  de*  miei  compagni,  io  proposi  ( 
consigliai  e  presi  il  partito,  che  a  questo  signore  s: 

8.  Consigliare.  È  nel  senso  di  <  tener  consulta,  o  ada- 
nanza  de*  detti  Consigli  »;  ne*  processi  verbali  de^  quali  ve' 
diamo  appunto  detto  di  ciascuno  degli  oratori  :  <  Dominua.. 
consuluit  quod  ecc.  » 

9.  Di  volufUd  ecc.  Muto  la  punteggiatura  della  volgati 

che  porta: e  non  lasciai  consigliare  di  voluntà  de* mie 

compagni.  Io  proposi  e  consigliai  ecc.  Dopo  fermata  la  in- 
terpetrazione  di  ciò  che  precede,  ciascun  vede  che  rinci» 
di  voluntd  de' miei  compagni  quanto  ò  superfluo,  e  forse  af 
fatto  inopportuno  e  di  ni  un  senso,  riferito  a  lasciai  ecc. 
tanto  riesce,  non  che  opportuno  e  logico,  necessario  a  il 
lustrare  le  frasi  io  proposi  e  consigliai  e  presi  il  partito 
delle  quali  tempera  il  significato,  che  potrebbe  parere  trop< 
pò  assoluto  anche  non  dimenticando  (cft*.  not  5)  la  grande 
autorità  che  a  Dino  avevano  concessa  in  que*  momenti 
colieghi. 

10.  Proposi....  consigliai....  presi  il  partito.  Nelle  Consul- 
te il  Capitano  del  Popolo  o  il  Potestà,  ovvero  alcun  lon 
ut£icìeL\e ,  proponevano ,  presente  la  Signoria,  la  quistlone  di 
trattarsi  («In  Consilio   proposuit   dominus   Capitaneus.... 

,»  proposuit  dominus  Potestas.... ,  praesentibus  Prioribus  e1 
»  Vexillifero  lustitiae,  omnia  infrascripta  »);  gli  adunati 
consigliavano^  esponendo  ciascuno  il  proprio  parere  («Do- 
»  minus  N.  consuluit  quod  ecc.  »):  dopo  di  che,  il  proponitore 
0  presidente  faceva  o  prendeva  il  partito  («  Facto  partito  su- 
»  pra  praedictis  ad  sedendum  et  levandum  per  dominum  Po- 
»  testatem,  placuit  ecc.»)  Quelle  parole  adopera  dunque  Dino 
in  istretto  e  storico  significato;  e  mentre  ci  dà  con  esse  la 
chiave  alla  interpetrazione  di  tutto  questo  difi^icile  para- 
grafo, viene  a  dire  che  €  la  Signoria  fece  essa  e  deliberò 
da  so,  dopo  sentito  ravviso  de* sei  legisti,  quello  che  or- 
dinariamente sarebbe  stato  materia  di  consulta  ». 

11.  il  questo  Signore.  Cioò  <  al  Pontefice  »;  ma  perché 
comunemente  con  la  parola  Signore  è  da  Dino  indicato  il 
Valese  (cfr.  II,  xiv,  2),  perciò  ne* Manoscritti  e  nella  voi- 


—  301  — 

volea  ubbidire,  e  cLe  subito  gli  fusse  scritto  cbe  Doi 
eravamo  alla  sua  volunlà,  e  che  per  noi  addirizare 
ci  mandasse  messer  Gentile  da  Montetiore  cardinale. 
Colui,  che  le  parole  lusinghevoli  da  una  mano  usava 
e  dall'altra  producea  il  Signore   sopra   uoi,  spiando 


gata,  in  Qne  del  presente  periudo,  dopo  la  parola  cardinale, 
sono  quoste  altre,  che  lio  creduto,  come  gluaGcma  ili  copi- 
sti, dover  espungere:  Intendi  questo  Signore  pel  Papa  e 
non  per  messer  Carlo. 

12.  Addiriiare.  <  Correggere,  ravviare  a  buono  e  paci- 
fico  Btuto,  rìfurmare  nel  governa  >. 

13.  Oetttile  da  Montefiore.  Frale  Oentilu  da  Monteftore 
(Montefiore  dell'  Aeu,  nella  provincia  d'Ascoli  Piceno), 
de' Minori  conventuali,  fu  fatto  cardinale  dei  SS.  Silvestro 
e  Martino  nel  1293  da  Bonifazio  Vlll^  del  quale  fu  molto  in- 
trinseco e,  ciò  cLe  torna  a  sua  lode,  ne  sostenne,  lui  mor- 
to, dinanzi  a  concilii  e  principi,  ed  anclie  per  iscritto,  la 
difesa.  E  Omelie  ed  opuscoli  scrisse.  Fu  nel  1307  legato  in 
Unglieria.  Morendo  in  Avignone,  nel  1312,  lasciò  d'esser 
portato  a  Geppellìre  In  una  sua  cappella  in  San  Francesco 
d'Assisi.  Può  dirsi  pertanto  clie  uomo  non  volgare  scegliesse- 
ro I  Fiorentini,  e  tale  clie,  per  la  stretta  amicizia  col  Ponte- 
fice, doveva  al  Pontefice  stesso  piacere,  se  però  questi  fosse 
alato  in  buona  fede.  La  politica  di  quella  Signoria,  della 
quale  Dino  fu  l'anima,  era  dunque:  continuare  col  Vulois 
le  apparense  di  buona  amicizia;  e  intanto  prendendo  in  pa- 
rola il  Pontefice,  cbe  per  mezzo  de' due  ambasciatori  chie- 
deva sottomissione  a' suoi  voleri,  trattare  direttamente  con 
lui,  e  invocare  un  legato  pontificio,  cbe  se  fosse  persona 
savia  e  di.Lbene,  come  pare  stimassero  questo  messer  Gen- 
tile, da  porsi  lealmente  d'  accordo  co'  Priori  e  col  loro  par- 
tito, li  faceva  forti  contro  1  Neri  e  magari  ancbe  contro 
Carlo.  Ed  ecco  perchè  Dino  non  volle  portare  ai  Consigli 
la  cosa,  e  fece  giurar  credenta  agli  ambasciatori  eoe. 

14.  Colui,  <  Il  Papa  »; producea,  <  spingeva  >. 


—  362  — 
chi  era  nella  città,  lasciò  le  lusinghe  e  usò  le  minacce. 
Uno  falso  ambasciadore  palesò  T  ambasciata ,  la 
quale  non  aveano  potuto  sentire.  Simone  Gherardini 
avea  loro  scritto  di  Corte,  che  il  Papa  gli  avea  detto: 
«  Io  non  voglio  perdere  gli   uomini  per  le   femmi- 


15.  Chi  era  nella  città,  Allade  alle  soldatesche  guelfe^ 
delle  quali  si  era  Cario  fatto  forte  in  Firenze.  Cfr.  II,  a,  C 
e  seg. 

16.  Lasciò  le  lusinghe  ecc.  €  Scopri  le  sue  vere  Inten* 
zioni ,  buttò  giù  la  maschera  ».  Ciò  ò  a  dire  che  giunte  s 
Roma  le  oneste  proposte  della  Signoria,  egli  rispose,  senzi 
dubbio  air  ambasciatore  colà  rimasto.  Dante,  esser  tempc 
di  Unirla,  e  che  non  cercava  la  pacificazione  de*  Biaocbi 
co* Neri,  ma  il  trionfo  di  questi  su  quelli:  non  di  addiriS' 
zare^  ma  di  percuotere  e  fiaccare.  Avverti  che  qui,  come 
altrove  (cfr.  I,  xxi,  14,  41;  e  tutto  il  xxvi)  Dino  anticipa 
sugli  avvenimenti.  La  risposta  del  Papa,  tenuto  conto  della 
distanza  tra  Firenze  e  Roma,  fu  di  molti  giorni  posteriore 
agli  avvenimenti  de* quali  subito,  nel  seguente  paragrafo, 
riprende  il  filo. 

17.  Falso  ambasciatore.  Certamente  il  Minerbetti:  cfr 
not.  2. 

18.  Aon  aveano  ecc.  Cioè,  i  Neri;  perchè  a  Neri  vuoisi 
sottintendere  dopo  palesò. 

19.  Simone  Gherardini,  Cfr.  I,  xxi,  dove  è  da  corregge- 
re, anche  in  questa  mia  edizione,  la  lezione  volgata:  Si' 
mone  Gherardi^  conformandola  al  passo  presente  e  a  un  al- 
tro pure  del  II  libro  (xxvi). 

20.  Li  Corte.  Cfr.  I,  xxiii,  5. 

21.  Io  non  voglio  ecc.  Vale  a  dire:  e  Io  sono  con  voi, 
Neri,  e  sto  a*patti,  purché  operiate  virilmente,  e  presto  vi 
disfacciate  de' vostri  potenti  avversarli;  a  che  vi  ho  dato 
modo  io  stesso,  prestandovi  la  gran  potenzia  di  Carlo  (li, 
li):  che  se  non  riusciste  o  andaste  per  le  lunghe,  a  me  non 
mette  conto  inimicarmi  i  Guelfi  Bianchi,  che  infine  sono 
ancora  i  signori  di  Firenze  ». 


—  :t63  — 

nelle  ».  1  Guelfi    neri  sopra  ciò   si  consigliarono.' 
sliuiarono  per  queste  parole  che  gli  ambasciadori  fus- 
sero  d'accordo  col  Papa,  dicendo:   «    Se   sono  d'ac- 
cordo, noi  siamo  vacanti  ».  Pensarono  di  slare  a  ve- 
dere che  consiglio  i  Priori  prendessono,  dicendo:  «  Se 


92.  Sopra  ciò.  e  Sopra  l'ambasciata  e  il  molto  >. 

23.  Siimarono  ecc.  A  sentir  Bonifacio  parlare  in  quel 
mollo  al  Oheranliiii,  sospettarono  die  )e  parole  ila  esso 
mandate  ai  Fiorentini,  e  ad  essi  Neri  ridette  dal  Minerliet- 
ti .  non  fossero  già,  come  pur  troppo  erano,  lusinghevoli  e 
finte,  ma  che  pM  ambasciatori,  specialmente  il  Corazza  e 
r  Alighieri,  fossero  riusciti  nell'intento  di  rompere  la  lega 
fra  il  Pontefice  e  Parte  Kera. 

24.  Noi  siamo  vacanti.  •  Noi  restiamo  a  mani  ruote, 
delusi,  perdiamo  il  frutto  delle  nostre  fatiche  >.  Dal  senso 
ellmolofrico  di  rtwante  (vuoto)  passa  ad  on  figurato. 

25.  Dicendo:  Se  ecc.  Queslo  pare  fosse  il  ragionamento 
che  dei  Neri  riferisce  qui  Dino.  Rammentiamoci  ch'essi 
partivano  dal  supposto  che  gli  ambasciatori  fiuterò  d'ac- 
cordo col  Papa,  cioè  fossero  riusciti  ecc.  (cfr.  not.  93).  Giù 
posto,  essi  dicevano:  •  La  risposta  che  sta  per  dare  la  Si- 
finorin  è,  senza  dubbio,  concerlitla  con  lui:  se  questa  6  un 
no,  cioè  se  la  Signoria  non  si  sottomette,  al  Ponlelìce.  al- 
legando che  noi  Neri  e' infin^iiamo  e  cerchiamo  non  la  pace 
ma  \;i  vendetta,  Bonifazio  si  serve  di  questa  risposta  o  per 
ritirare  il  mandato  a  Carlo  di  Valoìs.  o,  pestio,  per  taa- 
tarftllelo.  imponendogli  (che  per  Carlo,  una  volta  cuntrnlo 
il  Papa,  era  la  stessa)  di  dare  addosso  a'Neri  e  protejigere 
i  Bianchi;  e  allora  noi  siam  morii,  cioè  siamo  periluti,  e 
la  meditata  vendetta  su' Bianchi  si  converte  nella  nostra 
rovina.  Se  invece  la  Signoria,  sempre  d'accordo  col  Pon- 
tellce.  piglia  il  si,  cioÉ  il  partito  di  sottomettersi  alia  sua 
votuntà.  Bonifazio  sì  serve  di  tale  risposta  per  mutare  il 
£|jkiid&to  a  Carlo   in  questo    senso,   cioè    che    cerchi    vera- 

!  e  lealmente  la  pacitìcazlone,  e  allora  la  vendetta  ci 
:;  tn  cotesto  caso,  precipitiamo  gli  eventi,  e  prima  che 
i  la  riiposta  del  PoDUQoe ,  pialiamo  noi  i  ferri ,  e  dia- 


—  364  — 

prendooo  il  no,  noi  siàn  morti:  se  pigliano  il  sì,  pi 
gliamo  noi  i  ferri ,  sì  che  da  loro  abbiamo  quello  che 
avere  se  ne  può  ».  E  così  feciono.  Incontenente  ch( 
udirono  che  al  Papa  per  li  rettori  s'ubbidia,  subite 
s*armorono,  e  misonsi  a  offendere  la  città  col  tuoa 
e*  ferri ,  a  consumare  e  struggere  la  città.  I  Prior 
scrissono  al  Papa  segretamente:  ma  tutto  seppe  h 
parte  Nera;  però  che  quelli  che  giurarono  credenza 
non  la  tennono. 

La  parte  Nera  avea  due  priori,  segreti  di  fuori 


mo  addosso  a'  nostri  avversarii  ».  Ora  il  supposto  de*  Ner 
par  troppo  non  avea  fondamento,  e  Bonifazio  (efr.  not  16 
era  sempre  e  rimase  con  loro:  ma  se  le  intenzioni  sue  fos* 
sere  state  più  oneste,  e  eh* egli  avesse  acconsentito  alh 
proposta  di  sostituire  il  Montefiore  al  Valese  ecc.,  vedes 
quanto  danno  portava  il  tradimento  del  Minerbetti ,  che  dett< 
modo  ai  Neri  di  prepararsi  agli  avvenimenti. 

26.  Incontenente  ecc.  Anche  qui  anticipa  nella  narra- 
zione: Tarmarsi  e  il  misfare  dei  Neri  non  comincia  pru* 
priamente  che  dal  cap.  xv. 

27.  Rettori.  Qui,  ma  è,  crediamo.  Tunica  volta,  la  pa- 
rola rettori  sta  per  e  Signoria  »:  che  di  solito  ha  tutt*  altre 
senso.  Cfr.  I,  xu,  6;  xiii,  18;  xix,  12. 

28.  Però  che  quelli  ecc.  Queste  parole  pare  accennine 
che  non  fu  solo  il  falso  ambasciadore  a  tradire  il  segreto 
forse,  alcuno  de' sei  legisti  (cfr.  sopra). 

29.  La  Parte  Nera  ecc.  Il  seguente  accenno  alla  costi- 
tuzione di  Parte  Nera  si  lega  con  le  cose  precedenti,  per- 
chè giova  a  far  intendere  come  le  riuscisse  procurarsi  no- 
tizie, corrompere  cittadini  ecc.,  specialmente  servendosi  dì 
gente  come  questo  Noffo,  dato  qui  da  Dino  come  un  tipo  dì 
partigiano  Nero. 

30.  Due  priori,  €  Due  capi,  due  ufficiali  »,  presa  la  pa- 
rola in  senso  del  tutto  generico  e  comune.  Segreti  di  fuori, 
cioò  che  non  dovevano  esser  conosciuti  altro  che  da' Neri 
medesimi. 


—  365  — 

durava  il  loro  uGcio  sei  mesi;  de' quali  ano  era 
bffo  Guidi,  iniquo  popolano,  crudelp,  perchè  pes- 
namenle  aoperava  per  la  sua  citlà,  e  avea  in  uso 
I  le  cose,  facea  in  segreto,  biasimava,  e  in  palese 
i  biasimava  i  fallori  :  il  perchè  era  tenuto  di  buona 
speranza,  e  di  mal  fare  traeva  suslaoza. 


'  31.  B  durava  ecc.  Cioó,  die  ogni   mese  si  ri  elegge  vano. 
^.  Notfo    Gvidi.   Il    medesimu   clie    altrove  (I,  xiv)  ha 
liitnato  FìolTo  (li  Gaido  Boiiafeiii:  qui,  e  nomìnanJolo  al- 
tre, fa  casato  del  patronìmico   latino;  di   cbe  troveremo 
^1  esempli,  oltre  quello  cbe   giti   notammo   in  [,  ii,  15, 
ifre  accennammo,  da  consnltarBÌ  in  proposito,  il  NanDUCoi 
1  Uuratori. 

:.  Avea  in  uso  che  ecc.  <  Soleva  pnbblicamente  dir 
jilfl  di  cose  cii'egli  stesso  segrelamente  avea  fatte,  e  di 
loro  che  le  facevano  >.  Difticile  dunque  il  guardarsi  da 
ntni.  Tuttociò  ba  stretta  relazione  con  la  qualità  che  se- 
gretamente rivestiva  Noflo,  di  Priore  de' Neri:  come  Nero, 
partecipava  alle  loro  macchinazioni;  poi  intingendosi,  di 
queste  medesime  pronunciava  severi  biasimi  e  rimproveri. 
34.  Buona  temperanza.  «  Buona  tempera,  buona  ed  o- 
neita  naturu  >. 
■  35.  Sustanza.  «  Guadagno  >:  pare,  cioè,  cbe  coteste  vili 

^^^Milie  gli  fossero  da*  suoi  Neri  ben  pagate;  o  forse,  che 
^^B^eulasse  felicemente  sulla  dabbenaggine  de'  Bianchi.  A  ogni 
^^^Ms,  la  bella  ed  aflicaoe  frase  suona:  <  e  di  queste  bas- 
^^^■to  campava 


—  366  — 

Non  ad  altro  fine  se  non  di  Inostrare ,  come  dal  pre- 
sente passo  non  abbiano  potuto  gP  illustratori  della  vita  e 
dei  tempi  di  Dante  trarre  perfetta  e  compiuta  la  narrazione 
dei  fatti  a'  quali  Dino  accennava,  mi  si  permetta  che  da' li- 
bri meritamente  letti  e  pregiati  del  Balbo,  del  Fraticelli, 
deirilillebraod,  e  da  due  recenti  monografie  tedesche, 
io  stacchi  la  pagina  che  ai  medesimi  fatti  si  riferisce. 


G.  Balbo,  Vita  di  Dante;  I,  xn:  In  questo,  ritornarono, 
restando  Dante  in  Roma,  i  due  imbasciatori  collegbi  di  lui, 
mandali  indietro  dal  Papa.  L'uno,  Maso  Minerbctli,  nome 
senza  volontà  propria;  l'altro  il  Corazza,  tanto  Guelfo ,~ die 
,  appena  credea  potesse  rimaner  volontà  in  nessuno,  narrandogli 
le  parole  del  Papa.  Quali  fossero  tali  parole  non  è  detto  (a); 
ma  fattane  giurar  credenza,  cioè  segreto,  ai  due  ambascia- 
dori,  e  adunato  un  consiglio  di  sei  legisti,  fu  preso  il  partito 
d'obbedire  (6),  e  scrivere  subito  al  Papa:  —  esser  eglino  a 
sua  volontà,  e  che  per  addrizzarli  ei  mandasse  messer  Gen- 
tile da  Monlefiore  cardinale.  — -  «  Uno  falso  ambasciadore  pa- 
»  leso  la  imbasciata;  Simone  Gherardini  havea  loro  scrìtto  da 
»  Corte,  che  il  Papa  gli  avea  detto:  Io  non  voglio  perdere 
»  gli  huomini  per  le  femminelle.  I  Guelfi  Neri  sopra  ciò  si 
»  consigliarono,  e  stimarono,  per  queste  parole,  che  gli  im- 
»  basciadori  fossero  d' accordo  col  Papa ,  dicendo  :  5'  ei  sono 


(a)  Anzi  è;  e  com'io  ho  osservato  nella  nota  2,  Dino  ha  già  ripor- 
tate distesamente  nel  cap.  iv  di  questo  Libro  le  parole  del  Papa  ai  tre 
ambasciatori:  t  Perchè  siete  voi  cosi  ostinati?  Umiliatevi  a  me.  Ciò  vi 

>  dico  in  verità  eh'  io  non  ho  altra  intenzione  che  di  vostra  pace.  Tor- 

>  nate  indietro  due  di  voi;  e  abbiano  la  mia  benedizione,  se  procurano 

>  che  sia  ubidita  la  mia  voluntà  ». 

(b)  Vcdesi  che  il  Balbo  qui  salta  V indugiare,  il  consigliare  ecc. 


—  367  — 
['  accordo,  noi  siamo  vacanti.  E  (e)  inconlanenle  che  in- 

Llesero  che  al  Pnpa  per  gli  reltorì  si  ubbidiva,  subito  s'ar- 
larono,  e  messonsi  a  offeDdere  la  ciltà  col  fuoco  e' ferri, 

i  È  coD-sumare  e  struggere  la  citl.^  ».  È  chiaro  da  tulio  ciò, 
die  gli  aiubasciadori ,  e  cosi  probabìlmcnle  Dame,  erano  per 
Tobbedienza  al  Papa;  e  che  questa,  secondo  l' opinione  slessa 
dej  Neri,  sarebbe  stata  lor  perdizione,  o  almeno  salvameolo 
de'  Itjaachi.  Ma  non  era  più  («rapo.  1  Neri  sciolsero  la  qui- 
stìone  colla  violenza.  «  I  Priori  scrissero  al  Papa  segretamente, 
D  ma  lullo  seppe  la  parte  Nera;  perocché  quelli  che  giura- 
li rono  credenza,  non  la  tennono.  La  parte  Nera  havea  due 
»  Priori  segreti  di  fuori  »  (cioè  {(/)  crauo  eletti  di  fuori,  ma 
staì-3D0  dentro  a  tradire).  «  Uno  era  Noffo  Guidi....  e  avea 
»  in  uso,  che  le  cose  faceva  in  segreto,  biasimava,  e  in 
»  p.ilese  ne  biasimava  i  fattori;  il  perchè  era  tenuto  di  buooa 
»  temperanza  e  dì  mal  fare  traeva  sustanza  ». 


P.  Fraticelli ,  Stor-ia  ik-Ua  Vita  di  Datile  Alighieri ,  cap. 
v:  In  questo  tempo  giunsero  in  Firenze  i  due  ambasciatori, 
tornati  addietro  da  Roma;  e  i  priori,  intese  le  parole  del  papa, 
mandarono  (e)  segretamente  nuove  isiiiidoni  a  Dante,  secondo 
le  qu.ili  significasse  a  Bonifazio,  ch'egli  erano  pronti  ad  ub- 
bidire, ma  solo  il  pregavano  a  voler  loro  mandare  per  rifor- 


(c)  Qui  (MÌ  r  oiaìssianc  è  anche  più  grave.  Cbè  sebJKne  Dino  sìa 
Balbo  liberamente  irascrillo,  parrà  troppa  libertà  che,  senza  nean- 
Doure  con  puntoliai  la  lacuna,  sia  saltato  lutto  rjucl  difllcilc  passo 
riferisce  i  diil^iì  e  i  proposili   de'  ^m ,  da   me  dicliiarato   con   la 


\iì  Hi  pare  che  la  glassa  sia  pili  oscura  dei  lesto,  il  quale  puree 
amo,  solo  che  sia  punteggialo  a  dovere  (cfr.  la  mìa  nota  30). 
Anche  il  Fraiìcdli,  come  il  Balbo,  passa  sopra  all'indugio,  alla 
de'IegìRt  inibito  dopo  accennala   inosaliamunle),  al   raduFiaru 
119  i  CootiglI  ecc. 


—  368  — 

matore  il  cardinal  Gentile  da  Montefiore.  E  i  Neri ,  che  avean 
segreta  intelligenza  con  alcuno  de' sei  priori ,  che  in  qoest 
tempo  si  erano  contro  alle  leggi  voluti  aggiungere  a{^  altri  (f] 
avendo  saputa  la  cosa,  e  temendo  che  (g)  la  venata  del  cai 
dinaie,  quando  pure  il  papa  l'avesse  consentita,  noiifoflsepc 
guastare  i  loro  disegni,  presero  le  armi,  e  comindaroiio  a 
offendere  i  loro  awersarii. 


K.  Hillebrand,  Dino  Convpagni,  Étude  hittorique  i 
liUéraire  sur  V  epoque  de  Dante,  III,  u,  p.  132.  Cesi  àc 
moment  que  les  ambassadeurs  revinrent  de  la  cour  de  Rome 
où  ils  avaient  laissé  leurs  coUègues  Dante  et  Andrea  Gherai 
dìni  [h].  Ils  rcndirent  compie  de  Tinsuccès  de  lear  missioi 
Il  en  résiiltait  clairement  qua  si  Ton  ne  voulait  se  livrer  vo 
loutairemeiit  à  ses  ennemis,  il  ne  restai t  plus  qu'  à  faire  1 
jKiix  avee  le  Pape,  qui  y  seroblait  assez  dispose.  «  Je  ne  n 


(f)  Cotest*  afTennazione  non  ha  alcun  fondamento,  l  sei  legisti,  de' qua 
intende  qui  il  Fralicelli,  furono  semplicemente  chiamati  da  Dino  (rat 
nai)  per  aTcre  da  essi  un  parere  legale  sulla  convenienza  di  non  deA 
rirc  la  cosa  ai  Consigli.  E  il  non  avere  inteso  quel  punto  vizia  tutt 
queste  interpretazioni.  La  Signoria  non  si  aggiunse  nessuno:  tentò  (m 
non  vi  riuscì,  secondo  che  si  trarrehbc  dal  Vannucci,  /  primi  Ump 
della  lib'Ttà  fiorentina,  p.  270,  e  dall' Hillebrand ,  Dino  Compagn 
ecc. ,  p.  1 3i  )  di  far  eleggere ,  a  mano ,  un  Priorato  misto  ;  il  che  Dim 
narra  nel  capitolo  seguente  (xii):  e  (ìnalmentc  1*8  novembre  cede  i 
posto  (Dino,  li,  XIX ;  dov'è  da  correggere,  su  documenti  originali,  l 
data  )  ai  nuovi  Priori ,  Neri. 

(g)  Qui  pure  il  Fraticelli  taglia  corto,  poco  meno  che  il  Balbo 
sulle  incertezze  e  la  politica  de' Neri. 

Qi)  Perchè  questo  Andrea  Gherardini ,  ricordato  da  Dino  in  tntt'altr 
proposilo  (I,  XXV,  XXVI)  sia  dall' Hillebrand  aggiunto  airamhascerì 
fiorentina,  non  so  vedere.  Forse  T  Hillebrand  sbagUò  fra  Andrea  e  S 
mone  Gherardini,  che  era  invero  a  Corte,  ma  come  agente  de'Ner 
Cfr.  qui  la  mia  nota  19. 


—  m'A  — 

idoDni'r  Ics  iioinines  pour  des  fetumes  ■> ,  avait- 
U  (til,  el  les  Neri  virenl  bìen  que  là  élait  le  iluoger  pour  eux. 
«  S'ils  tombent  d'accord  avec  le  Pape,  nous  sommes  per- 
dus  o,  disaìeDt-ils.  Les  Bianchi  ne  voulurent  poinl  les  cora- 
pmidre  ((),  Dino  seul,  inalgré  le  peu  des  disposilions  favora- 
bles  (le  ses  collègues,  parla  dans  le  sens  d'  une  reconciliation 
avec  le  Pape,  et  finit  par  réussir  à  rallier  le  membres  dii 
Goiivernement.  a  Oi-s  que  (k)  le  Neri  apprirent  que  les  Piieurs 
se  soumellaienl  au  Pape,  ils  s'amièrent  et  se  préfarèrent  à 
allaquer  b  ville  par  le  feu  el  le  fer,  el  ii  la  dévasler  el  la 
(Ié4ruire.  Les  Piieurs  écrivìrent  cependant  secrèlemenl  au  Pape; 
mais  le  parli  Nero  siit  toul,  parce  que  ccnx  qui  juraìenl  le 
secret  ne  le  gardèrenl  p;is.  » 


■P  l'er  ullinio  confi'oiUo  df  I  c.ipilobi  della  Cronica  a  nar- 
razioni riesimte  da  quello,  ecco  i  passi  rorrispundnili  di 
due  libri  tedeschi  su  Dante,   dove  la  piccola   dilTerunza. 


<i)  tlii  che  si  ilediiue  cutcììlo,  n  h  cose  clic  seguono,  «opra  le  ili- 
apo«noui  poco  lavoreToli  de'collegbì  di  Dino,  e  l'esser  egli  stalo  il 
Mio  che  sostenesse  In  concilla):Joae  col  Papa,  ecc.?  Temo,  non  da  al- 
Iro,  che  dalla  caliita  punieggiatura  della  lezione  volgata  (cfr.  noia  9), 
e  dall'afere  anche  il  dolio  professore  urtalo  nella  in  ter  pe  trazione  dei 
eoit'glian:  —  U  quale,  dei  resto,  sarelibe  indiscrete  «a  cliieder«  a 
uno  straniero,  ijuando  i  postillatori  ilaliani  della  Cmiira  annotano  a 
quella  parola:  €  Non  lasciai  die  si  pri>ndesse  consiglio  a  rolonlì  ile'niiei 
compagni,  mn  io  Tiiì  che  proposi  e  consigliai  ■.  Curiosa  Ggura,  e  nnova 
alli  storia  ili  Firen»?,  questo  Priore  prepolente,  che  inette  in  sacco  ìl 
Gonbionier'-  e  gli  altri  eingtie  Priori,  per  fare  e  disfar  egli  a  suo  modo  ! 
Ha  lasciando  di  ciù,  il  vero  è  che  a  volere  spiegare  an  autore  conio 
Dino,  bisogna  bene  avvertire,  innanzi  di  dare  alle  parole  il  comune  e 
odierno  signìGcaio,  so  ne  ricevano  alcun  sUro  meranumte  storico. 

ih}  Inutile  ripetere  qui  1'  osscrvaiionc  Tatta  sul  Balbo  in  e  sul  fm- 
.  ikdU  '(j.. 

il 


f'tsfso:  «fi-  />i   rn   -.«Ji    tra    ?-:jRrpa 
^/^,  mèi  V^^n^  Mi,  .S^;-»-*:  Bi 


LUOGHI  DEL   CONVIVIO 
CHE  ILLUSTBANO  IL  POEMA  DI  DANTE 


Pia  di  Irenranni  fa,  nella  prima  stampa  del  mio 
mento,  notavo  l'utilità  del  raffrontare  Dante  con  Dante 
stesso ,  offrendone  qualche  saggio.  Nella  ristampa  lo  feci 
con  maggiore  larghezza,  quanto  concedevano  gli  altri  non 
lievi  assunti  dell' umile  mio  lavoro,  e  segnatamenli;  la  cura 
doir  accennare  alle  molte  fonti  di  bìblica  e  di  pagana  poe- 
sia, di  teologica  e  rdosofica  tradizione,  alle  quali  attinse 
il  Poeta ,  fonti  da  comentatori  e  dotti  e  pi!  non  ancora 
siiOìcienteniente  indicate.  A  illustrare  Dante  con  Dante  at- 
tende di  proposito  il  prof.  Giuliani  :  ma  non  potrebtte  senza 
prolissità  minuziosa  e  senza  ripetizioni  frequenti  scendere 
a  que'  riscontri  d' immagini  e  di  locuzioni  ciie  pur  danno 
a  conoscere  l' intima  mente  dello  scrittore  ;  e  chi  non  le 
osservi,  non  pufi  dire  di  intenderlo  rettamente.  Un  dizio- 
nario dantesco,  più  compiuto  che  quello  del  sig.  Blanc,  e 
condotto  con  più  alti  ìntendimenli  di  scienza  e  con  più 
delicato  senso  del  bello,  a  ciò  gioverebbe:  ma  debbono  a 
ciò  provvedere  principalmente  col  vivo  loro  insegnamento  i 
maestri,  e  a  tale  esercizio  di  paragoni  fecondi  venirsi  edu- 
rando. Apparrebhe  di  qui  come  Dante,  il  quale  nelle  opinioni 
politiche  non  si  può  dire  che  non  abbia  mai  variato,  nelle 
c:u;cnziali  dottrine  !;ia  sempre  costante  a  se  slesso  :  come 


—  372  — 

nella  ricchezza  del  dire  osservi  la  proprietà  de'  vocaboli; 
come  sappia  essere  originale  nelPatto  del  fedelmente  ri- 
verire r  autorità  de'  maggiori ,  anzi  sia  davvero  orìgioale 
per  questo  ;  come  V  erudizione  non  gli  sia  materia  ammoo. 
tata  che  soffochi  il  fuoco  della  fantasia ,  ma  sottoposta  io 
maniera  che  lo  ecciti  e  lo  alimenti.  Della  ispirazione  par 
che  abbiano  un  falso  concetto  i  più  de'  verseggianti  mo- 
derni ;  che  si  fìngono  nemica  a  lei  la  scienza ,  cosi  come 
la  meditazione  e  la  lima;  intendono  volare  nel  vuoto ,  e 
reggersi  sempre  sulle  ale,  sdegnando  l'uso  dèi  piedi,  co- 
me se  qualcosa  di  simile  non  fornisse  la  natura  agli  stessi 
volanti.  Cosi  certi  pittori  e  scultori  si  tengono  genii. tanto 
più  vergini  quanto  più  sono  ignoranti  ;  certe  anime  tenere 
tanto  più  amabili  quanto  più  passionatamente  delirano; 
certi  politicanti  tanto  più  benemeriti  della  libertà  quanto 
più  vendicano  a  sé  e  ad  altri  licenza  di  rompersi  il  collo 
e  le  gambe.  L' esempio  di  Dante ,  insegnandoci  a  non  di- 
videre l'arte  dalla  scienza,  c'insegna  pure  a  non  fare  dello 
stile  poetico  e  del  prosastico  due  linguaggi  differenti ,  anzi 
lingue  tanto  diverse  che  la  poesia  di  certuni  a  chi  pure 
intende  la  prosa  italiana  par  come  latino.  Raffrontando  il 
Convivio  al  Poema,  rincontransi  in  questo  locuzioni  che  a 
non  pochi  poetanti  parrebbero  umili  troppo ,  e  non  poche 
degnissime  della  poesia  nella  semplice  prosa. 

Dirò  quel  clic  ha  olTerto  occasione  al  tenue  lavoro  di 
cui  do  saggio ,  e  con  che  intendimento  potrebbesi  legger- 
lo, e  come  coglierne  qualche  frutto.  Spogliando  il  Con- 
vivio per  r Accademia  della  Crusca,  ho  notati  alcuni  raf- 
fronti tra  quel  libro  e  il  Poema  :  ma ,  perchè  sminuzzare 
ciascun  passo  secondo  l'ordine  dell'alfabeto,  non  fornirebbe 
soggetto  a  lettura  e  a  studio  continuato ,  io  qui ,  sotto  una 
delle  parole  che  cadono  nel  passo  citato,  vengo  raccogliendo 
in  nota  que'  raffronti  che  concernono  altre  locuzioni  del 
passo  medeshno;  raffronti  che  accennano  anco  alle  idee; 


—  ;i7:ì  — 
e  sopra  i  quali  può  non  solamente  il  maestro  volg 
l'attenzione  de'  giovani,  ma  può  lo  sladioso  meditare  da 
sé.  Nel  Convivio  alcuni  passi  veggonsi  felicemente  corretti 
dagli  editori  milanesi,  dal  Pederzini,  dal  prof.  Wilte,  e  dal 
Fraticelli;  altri  diieggono  d'e-ssere  sanali  con  collazione 
d"  altri  codici  o  degli  scrittori  da  Dante  citati  ;  altri  schia- 
risconsi  punteggiando  altrimenti.  L'' ortografìa  molto  im- 
porta alPestetica ,  nonché  alla  grammatica  ;  come  e  a)  senso 
e  al  sentimento  delle  cose  che  dicansi  e  scrivonsi  importa 
l'accento.  Gli  studiosi,  ponendo  mente  alle  idee  molte  che 
possono  essere  da  un  vocabolo  significate,  e  agli  svariati 
conpogni  che  un  vocabolo  con  altri  comporta,  e  alla  finezza 
dell'idea  e  alle  pieghe  del  sentimento  che  possono  essere 
da  que'  congegni  delineale  o- adombrate ,  riconosceranno 
quanto  sia  preziosa  ricchezza  insieme  e  forte  peso  l'eredità 
della  lingua;  e,  considerando  come  in  quella  varietà  ma- 
raviglinsa  pur  domini,  piiì  mirabile  ancora,  un'arcana 
unità ,  s*  avvedranno  come  sta  opera  di  scienza  insieme  e 
di  virtù  il  ministero  della  parola  ne'  modi  debiti  esercitato. 


Lalino   ^ri^ ,  Che  cosa.    Dante ,  Inf.  3.  Ben  puoi  sa- 

omai .    chr'l    mo  dir  swma.    Convivio   191.  {'Eilis. 

Uioell''.   Lo  loco  nel  ipiale  dico,  esso  ragionare  si  è  la 

le  :  ma ,  per  dire  che  sia  la  mente,  non  si  prende  di  ciò  più 

idim^nto  che  prima.  E  però  è  da  vedere  che  questa  mente 

iamenie  significa  (1).  —  Inf.  7.  Questa  forluna  di  che  in 


(Il  '■'■'•  'Uff.  nei  wnso  die  il  Pelmrcn  Caiiz.  Koit  nvilo  ritt 
giammai  dai  yigTO  lonno  Levi  lattila,  prrehiamar  rh' uiim  faccia. 
e  dH  Par.  32.  Jfon  niuor*  oeckio  prr  cantare  osanna.  —  Preode- 
■-•    inUodlnsntC,  CopliiT^  il  »'■•'>    Pmv.'iS    II    rintcc  simno  Yrniva 


—  :ni  — 

mi  tocclie  (Me  è.  che  i  beif  del  mondo  ha  d  tra  bnnch 
Coìiv.  193.  a  mezzo:  Unde  si  puote  ornai  vedere  che  è  menti 
Il  di  che,  il  mezzo ,  id  de  quo  ;  la  qaal  forma  didiiai 
r  origine  di  Onde  in  senso  di  per.  Data.  Conv.  200  e  201 
Tornando  adunque  al  proposito,  dico  che  nostro  intelletto,  pc 
difetto  della  virtù  della  quale  trae  quello  eh*  el  vede  (che 
virtù  organica,  cioè  la  fantasia),  non  puote  a  certe  cose  salì 
re  :  però  che  la  fantasia  noi  puote  aiutare,  e  die  non  ha  lo  e 
che;  siccome  sono  le  sustanze  partite  da  materia;  delle  qua: 
(se  alcuna  considerazione  di  quelle  avere  potemo)  inteodef 
non  le  potemo ,  né  comprendere  perfettamente  (1).  —  Air  ai 
ticolo  U  può  notarsi  che  la  lingua  concede  potorio  premetter 
a*  verbi  e  a'  nomi ,  ad  avverbi  e  a  particelle  :  come  qui  ap 
punto  il  di  che. 

Quanto  che,  per  Quanto  e  dicevasi  per  Quomltunque:  Con 
vivio  206-209.  Ora  per  due  modi  si  prrade  dagli  Astrologi  :  Tuo 
è,  che  del  di  e  della  notte  fanno  ventiquattr* ore ,  cioè  dodi< 
si  del  di .  e  dodici  della  notte ,  quanto  che  1  di  sia  grande 
piccolo.  E  queste  ore  si  fanno  picciole  e  grandi  nel  di  e  nell 
notte,  secondo  che'l  di  cresce  e  scema  (  alcuni  codici  meno 
ìì\aj.  E  queste  ore  usa  la  Chiesa,  quando  dice  Prima,  Ter 
la.  Sesta,  e  Nona;  e  chiamansi  cosi  ore  temporali  (2). 


a  me  co*  suoi  ioteadimenti.  —  Prendere  ha  qui  senso  affine  a  Torre 
InL  8.  Appena  il  potea  rocchio  torre.  —  Però  è  da  Tederà,  ano 
nel  verso ,  Par.  2.  Questo  non  è  :  però  è  da  vedere  Dell'altro.  —  Ptì 
piiaaeBte,  nel  senso  e  grammaticaìe  e  filosofico. 

(  I  )  Toraare ,  fibrato ,  Par.  7.  Ritomo  a  dichiarare  in  alcun  locc 
—  HMtro,  rumano.  Par.  I.  .Appressando  sé  al  suo  desire,  Nostro  in 
tellello  si  profonda  tanto.  Che  retro  la  memoria  non  può  ire.  —  XI 
Inf.  ^IJl  Con  tulio  eh' eì  fosse  di  rame.  Pure  ei  pareva  da!  do!o\ 
trafitto.  Boccaccio:  El  mi  y^re.  —  Partito,  da  materia  Purg.  18.  Ogn 
forma  susianzial  che  setta  È  da  materia.  —  ComddenudMM ,  pensieri 
dito  considerando,  idea  considerando  acquistata.  —  Caipraadara,  pii 
d*  intendere. 

{t)  Preadarei, Intendere.  Par.  11. -Francesco  e  Poverlà  per  qoesl 
amanti  Prendi  oramai  nel  mio  parlar  diflfaso. 


—  375  — 
Cbed.  Inr.  31-  Clu-U   dia   incontro  petu/a.  Conv.   lIOi 
nifesto  è  clted  ella  è  la  cagione  stata  dell'amore  di' io 
0  ad  esso. 

CJItcrIco 

I  l>er  il  Glossario.  Nel  S  3  del  Manuzzi  ) ,  aoche  ìi  Laico 
edocalo  agli  sliidii,  come  solevaoo  essere  gli  aomuii  di  CUe- 
sa.  Ci»»'.  305.  Une  :  Non  ^  da  lasciare .  ttMochè  il  tato  à 
taccia ,  che  messere  lo  Imperatore  in  questa  parte  non  errò 
pur  nelle  parti  della  difinìzìone.  ma  eziandio  neltnodo  di 
difinire  favvetjnaehè .  secondo  la  fotna  che  di  lui  grida . 
t^i  fosse  laico  e  clierico  grande)  11). 

Clietai*e 

Conv.  177.  a  mezzo  fla  scienza  divina)  cìwtma  per- 
fetta, pn-dtè  perfettamente  ne  fa  U  Vero  vedere,  nel  quale 
si  elicla  Vanima  rìostra.  Par.  '28.  Come  la  lor  veduU  si  pro- 
fonda Nel  vero  in  che  si  queta  ogni  ìniellelto.  E  4.  Giammai 
Don  si  sazi»  Noslru  iolelletto  se  il  Ver  odo  lo  illustra  Di  fuor 
dal  qual  nessun  vero  si  spazia.  Posasi  io  esso. 

Chi 

Gonr.  201  principio:  Dimostrasi  (l'anima)  negli  occhi 
tanto  manifesta,  che  conoscer  si  puì)  la  tua  presente  pas- 
sione, da  bene  la  mira  (9;.  —  Quest'uso  del  c/ii  h  l'iaeiso 


Il  I  Luoiare,  col  A'.-n  e  sena,  tralasciare  parfando  o  striv*odo.  — 
TMt»,  liliro  aulomoic.in  genere;  quasi  personilìcaio.  —  Tacer»  /l- 
Stiralo,  d' autore  e  di  libro.  ìat  25.  Xicóa  Locano  ornai.  —  Qrid^ 
qua»  tiguraio.  Par  5.  Se  mala  cupidigia  allro  ri  pida.  —  Loieo  ìa! 
•7.  -  erude,  in  sen»  di  lode  o  di  biasimo,  bl«iuiio  .Idia  »^,ii 
di  CUI  H  ragiona.  Inf.  15.  E  Mirrali   grandi  e  di  gran  faiaa. 

(2)  MftBifèato,    Diimttrati  mini  fatto,  aggedifo  > 
m  namej  ma  ìaiendesi  corae  atierhio,  Manifetlamnu.  - 


—  376  — 

stare  da  sé ,  e  potersi  inchìudere  nel  costrutto ,  come  pareni 
Spiegando  l' ellissi  intendesi  :  se  alcuno  la  mira ,  9i  quis , 
vero ,  a  chi  la  mira. 

OblamAire 

Dal  §  15  in  poi,  e  dal  30  in  poi,  néir^.  Mcmuzzi, 
parecchi  paragrafi  di  Chiamare  coir  a;  nessuno,  mi  pare,  \ 
Va  e  coir  infinitivo.  Conv.  140-141.  Poi  gli  ho  chiamai 
wìire  (jt^Uo  clw  dire  voglio;  assegno  due  ragionL^.  (1) 

Impon^e  nome  non  a  persona  ma  a  cosa.  Conv.  14ì 
princ.  Perocché  ancora  l*uUiina  sentenza  della  mente,  i 
lo  consentimento,  si  tenea  per  qMsto  pensiero  che  la  memo 
aiutava ,  chiama  lui  anima  e  Valtro  spirito  ;  siccome  eh 
mare  solerne  la  cittade  quelli  che  la  tengono ,  e  non  qu 
che  la  combattono  ;  avvegnaché  Vuno  e  Valtro  sia  cittcidi 

Invocare.  Par.  10.  Perch'io  V ingegno  e  Varte  e  Vuso  eh 
mi,  Sì  noi  direi,  die  mai  s'immaginasse.  E  Purg.  29.  0  sac 
sante  vergini ,  se  fami.  Freddi  e  vigilie  mai  per  voi  soffeì 
Cagion  mi  sprona  eh*  io  mercè  ne  chiami.  E  7.  Rade  « 
riswge  per  li  rami  U  umana  probitate  ;  e  questo  vuole  Q 
die  la  dà ,  perchè  da  lui  si  chiami.  Conv.  257-258.  E,  com 
dando,  chiamo  quel  signore  (Amore,  e  simbolicamente 
Verità)  Ch'alia  mìa  donila  negli  occhi  dimora.  Per  dfe 
di  se  stessa  s' innamora,  (Può  intendersi  che  la  sapienza  ste 
dimora  in  chi  Y  ama  ;  ed  esso  amante ,  amando  in  lei  se  st 
so,  inquanto  partecipa  di  quel  bene;  cioè  che  la  dignità  d 
r  uomo  rendesi  rispettabile  al  sentimento  suo  stesso  ). 

Figurato.  D.  Conv.  183  princ.  Canz.  St.  3.  Gli  atti  soc 
disella  mostra  altrui.  Vanno  chiamando  Amor,  ciasou 
a  prova ,  In  quella  voce  che  lo  fa  sentire  (2). 

qualùnque  impressione  e  sentimento  conseguente.  Purg.  il.  Che  ria 
pianto  son  taìUo  seguaci  Alla  passion  da  che  ciascun  st  spicca ,  ( 
men  seguon  voler  ne'  più  veraci. 

(1)  Poi  per  poiché,  Purg.  10;  Par.  2. 

(2)  A  pi\)va,  Inf.  8.  Ciascun  dentro,  a  prova  si  ricorse,   — 
voce,  Par.  \0.  Più  dolci  in  voce  che  in  vista  lucenti. 


—  377  — 

a  nome  propi'io  di  persona  o  di  luogo,  la!. 

I  motitagna....  che  si  cliiamò  liUi.  E  iìO.  Tosto  clic 

correr  mette  co',  Nonpdìt  Btnaco,  ma  Mincio,  si 

iama.  ti  6.  Voi.  cittadini,  mi  cJaamaste  Ciacco.  Conv. 

Un   monte  m  Toscana ,  che   si  chiama  FuUet'ona.  E 

t96.  Si  legae  nelle  storie  d'Ercole,  e  nello  Oviiiìo  mag- 

i  Lucano ,  e  in  altri  poeti ,  che ,  combattendo  col 

■e  cJte  si  chiamava  AnU-o ,  tutte  volte  che  'l  gigante  era 

,  ed  elli  ponea  lo  suo  corpo  sopra  la  terra  disteso  (o 

i  volontU ,  0  per  forza  il'  ErcoleJ,  (orsa  e  vigore  in- 

mente  della  terra  in  lui  risorgeva .  nella  tjìuilc  e  dalla 

!  era  generatoci).  E  196  in  Bne:  La  natura  razionale 

I  mente, 
haitotare.  Conv.  ?35  a  mezzo  :  Aon  si  dee  chiamare  vero 
ofo  colui  eh' è  amico  di  sapiensa  per  'utilità. 
Col  Di.  lalioo:  nomine  appellare.  Conv,  332  princ.  ftico 
intelletto  per  In  nobile  parte  dell'anima  noUra,  che.  di  co- 
mitne  tfiotbalo  Mente  si  pw>  chiamare  {%. 

FigNralo.  nel  senso  che  cbi  dice  lale  o  Ule  l'oggeilo,  «' 
lo  psAn .  cioè  od  scaso  die  om  propaazioae  i  un  giudi- 
no.  CooT.  ^  I  mem:  E  dico,  tieeomt  U  mitri  occhi  chia- 
,  do»  ^mMeano.  la MeOa  tatara  atrim^nli ehe  tia  la 
t  tmiiwimt.  daè  ywgflo  iallMMi  tmaiOgrÒ  qttata 
■  aeeamia  rafforrtum.  éimerimU  dal  vera,  per  in- 
m»ekt  di  tnffo  dim  tra  pattùmala  (3). 


I !«•,  W  StW.-  ««fa,*  bifaM,  t„»tea.  _ 


—  378  — 

Figurata  CooTfr.  184.  a  mezio  :  CaiK.  sL  a.  Jb  /i  f 
jfr*  occhi  per  cagioni  assai  Chiaman  la  sieUa  ialor  ieneh 
sa.  Così  quafuTella  (b  mia  canzone }  la  chiama  argoglM 
Non  considera  lei  secondo  7  tyro ,  Ma  pur  secondo  9 
che  a  lei  parta  (1). 

Gridare.  Porg.  22.  Là  dove  tu  chiame(o  Virgilio),  Omeci 
quasi  aWumana  naiura  :  Per  che  non  reggi  iu,  o  saera  fa 
Dell  oro.  l'appeiiio  de  niariali?  ijottf. 214  fin.  Lascisi  sU 
quanto  contro  esse  (hecheoe  Salomone  e  suo  padre  g 
da,  quanio conira  esse  Seneca ,  quanio  Orazio,  quanto  G 
renale,  e,  brievemerUe.  quanto  ogni  scrittore,  ogni  poei 
e  quafUo  la  verace  Scrittura  divina  chiama  conSro  a  qi 
ste  false  meretrici  (riecbeae'  (2^. 


Par.  21.  Quinci  vien  F  aUegrezza  ond*  io  fiammeggi 
Perch'alia  visto  mia ,  quant'elia  e  chiara ,  La  chiarUò  de 
fiamma  pareggio.  Coqt.  212-213.  Di  cpj  sensibile  esem\ 
potemo  avere  dei  soie.  Xài  vedemo,  la  luce  del  sale, 
quale  è  una  fonte  derivala,  diversamente  dalle  €wpo§a 
sere  ricevuta  ;  siccome  dice  Alberto  in  quello  libro  che 
dello  intelletto ,  che  eerti  corpi ,  per  molta  ckiardò  di  di 
fono  avere  in  sé  mista ,  tosto  che  il  sole  gli  vede  ,  divi 
tafui  tanto  luminosi ,  che ,  per  multipUcamento  di  luce 


{ìì  Stella, M  soie.  mterfrHmo  mtm  mdTlsL  ± 
chi  saot  pia  cW  h  strib.  —  Csmiàmmn.  ipnio.  La 
dbtono,  fl  tnttaco,  cauààen  k  urie  o  tik  tsfeas  li  cMi.  — 
i»,  il  rebjwae  a  :  camt  Pvf.  ti.  ii  riJ'  in  Cà  -mm  di  migHor  j 
3''«Ai«  5a»iiÌi)  rarii.tsùj.  ,igurmio  Q^toiUti ,  per  ri«  »  di  fuor 
mo^U  «nsiuc  ^Lo  sgtno  drih  stnii  oa  pàcB»  i^ mmapm 
«■K  qwle  dàt  sofn  k  «cpottore  9  ^e^foao  ;  ■>,  <pMa»  a 

SuìUaia,  Pìr.  tL   U  Atuc^  «  U  p^rùturs  *m£iekA,  E  32.  ^r 
Serial 


fi.  appena  discernibile  è  io  loro  aspetto,  e  rmdofio  agii 
altri  di  sé  grande  splendoro;  siccome  è  l'oro  o  alcuna  pie- 
tra  (1). 

n  piimo  esempio  nel  vocabolario dell'ab.  Manuzzi  è  di  Dan- 
te: Luculenta  e  chiara  gioia,  il'aiiiaia  beata.  Oiiesl'allro  è 
più  vivo  e  bello,  e  usato  Del  proprio;  e  però  ^ova  a  meglio 
discernere  la  differenza  ira  Lucetìtc  e  chiaro  :  giaccbè  non  ogni 
luce  è  cliìara  luce.  Conv.  184.  Canz.  st.  5.  Tu  sai  che  'l  del 
setnpr'  è  lucente  e  cìmro ,  E,  /pianto  in  sé ,  non  si  («rio 
giammai  (2). 

Vedere  le  cose  chiare,  invece  di  chiaramente:  aUribuila 


(I)  8eulblle,(]ui, non, dito  a  sanlire.  ma  pomìInIr  a  p;5cre  ppr- 
cepilo  l'o'  Ji'iisi.  Pur.  i^.  iVcf  iiioii(i<i  leniibi'':  —  Esempio,  non  nel 
KCnw  ili  f^iiipliiri'  0  Jiioclcllo,  ina  dì  ogjjL'tIo  chi',  per  via  ili  soiniglianui, 
dicbiarì  o  conrcrmi.  Aectc  cscìii[iiu  ,  in  senso  anche  più  laio.  semplice  mo- 
do, e  {kcrA  più  nolabìle.  —  Poi  esrnipio  con  due  Di ,  porianli  diverso  si);ui- 
flcaio. -Miro  è  l'esempio  dell' oggetto  csemplìJìcanle,  altro  è  l'esempio  ilel- 
Toggello  chi?  per  vìa  d'esempio  dichiarasi.  —Ponte,  figuralo,  FiinU  dì  luce. 
Un  inno  :  Foiis  /umiliti  (Rio}.  —  Kioevore,  della  luce,  Par.  3.  Com'aajua 
rtetpe  Raggio  di  soie,  permanendo  unita.  E  Ì9.  £a  somma  ture  che 
tulla  la  raia ,  Per  tanti  modi  in  essa  si  reeepe ,  Quanti  son  gli  splen- 
dori a  etti  s'  appaia....  D'amar  la  doleeiia  ùiveriamenle  in  eiii 
ferite  Uff.  —  Di&fhiio,  sostanlivo.lrasparcnra.  —  Per,  coll'inOnìlivo 
e  altre  parolu  Trapposte.  — Mlato,  l'ar.  ì.  in  senso,  non  uguale  roa  so- 
BDgliantr.dcllodd  lume  degli  astri,  £a  i'i>/ù  miila.  per  tv  corpo,  luce. 
dmta  leliiia  per  pui>illa  riea.  —  Diversamente,  de'  gradì  d'una 
Ibiu,  vedi  il  citato  del  Par.  W.  —  Holtiplioamento ,  Par.  10.  Quando 

Lo  raggio   -IMa   Grazia HoìIipI irato ,   in  le  tanto   ntplende.  — 

Beadere,  Pur^-.  U.  E,  come  npaccliùi ,  l' vno  all'  allm  nsnàe.  Par.  U. 
B  iì  come  earbon  elis  fiamma  rtnik.  Chi! .  per  vivo  iplendor,  qveUo 
tovrn-hla  Tanto  cU  la  parocnìa  si  difenile.  E  figuralo,  Purg.  28., 
Ma  Ince  rende  il  salino  delectasli. 

(3)  Tnrbsre,  nel  proprio   senso  di  intorbidare.   Par.  19.   .' 
MH  è.  tt:  non  vmn  dal  irreno   Ch»  non  ai  turba  inai. 


re;  poi,  più  oltre,  dubita;  poi 
cedendo ,  lo  vi»o  ,  dùgiunto  ,  nul 
Figurato,  in  senso  ìDtellettua 
perocché  nelle  bontadi  della  rului 
etra  delta  divina,  vifiu  che  naturi 
quelle  per  via  ipirituale  si  unisce 
quatta  quelle  più  appaiono  perfe 
fallo ,  secondoché  la  conoscenza 
pedita.  { Non  chiara ,  e  da  megli 
parimento  è  fatto).  E  questo  un^ 
amore  (2). 

(I)  BagtoBtn,  che  fanno  i  pensie 
mi  ragiona.  —  CMwUadflre,  tot  pa 
co)  (|iuirto  caso ,  non  np|  senso  del  Pui 
siero ,  e  ne'  proprìi  pensieri,  lai  IO.  tnt 
riperuando  À  quel  parlar ,  fJu  mi  pi 
sì  tmarrito?  —  Di  fkiori,  conlrappo 
unuDo,  Par.  9.  S'abbuia  L'oiiUira  di 
E  Poi^.  15.  Come  f  animo  mio  torn 
fuor  di  Ivi.  «re.  E  18.  Se  amore  i  di  / 
vista,  qui  notabile  perchè  accanto  a  gtia 
preposto.  —  Pnoeien,  dell'occhio,  laC 
mio  sguardo  il  curro,  l'idiru  un'alti 
passeggiando  W  andava  io  cogli  occhi 
cose  TedQte,noii  della  Intellettuale  ferii 
anobio,  quasi  superìitiTO  di  quello.  - 
a  ulUrius;  masiimamenle  olire,  all'ul 


Assoluto.  Catlolica,  nelle  sue  pratiche.  Codv,  208.  E  que-" 
ore  usa  la  Chiesa,  quanilo  dice  Prima,  Terza....  £369. 
Par.  6.  Quando  il  dente  longobardo  morse  La  Santa  Chie- 
da. Conv.  136.  Secondo  che  la  Santa  Chiesa  ruole  ,  che  non 
può  dire  menzogna. 

Coir  aggiunto  di  Santa,  senza  articolo.  Par,  4.  E  Santa 
Chiesa  con  aspetto  umano  Gabriele  e  Michel  vi  rappresenta. 
K  Ira  l'articolo  e  raggiunto  .iltre  voci.  Conv.  136.  La  tua 
sposa  e  segretaria  Santa  Chiesa  (della  quale  dice  Salomone: 
•  Chi  è  questa  che  ascende  dal  diserto ,  piena  di  quelle  cose 
che  duellano  {iìélicììs  atQuens) ,  appoggiata  sopra  l'amico 
suo?»)  (I). 

^^B  olili*dcx-e 

escludere  gli  occhi ,  per  non  vedere.  Modo  enfatico.  Goov. 
397  (ine  :  Al  mio  gìudicio ,  così  come  chi  uno  valente  uomo 
infama .  ti  degno  d'esse  rfuggito  dalla  gente,  e  non  ascoltato  : 
cosi  l'uomo  vile,  disceso  degli  buoni  maggiori,  è  degno  d'es- 
sere da  tutti  scacciato  ;  e  deesi  l' uomo  chiudere  gli  occhi 


Ivra .  Ed  in  una  luslantia  eiitt  e  t' umana.  —  Salone,  non  la 
ngioQi^  Jeir  esscrv ,  ma  il  modo  di  rpodere  a  sé  ragione  dell'  enUi,  — 
Dal  plurale  Boutadi  è  resa  ragione ,  e  falla  risaltare  la  Mleia ,  dell' altro 
Par.  31.  .41/1  ornali  di  liille  oniMladi.  —  Tralre,  in  sema  di  eonst- 
guire.  —  Unini,  d'.iiiima  con  anima,  o  con  le  perfraoni  amabili  d'altra 
aaitua.  —  Conaacensa,  rnlelIpKiialr  e  morale,  de' pregi  dell'anima;  co- 
BoseeniaasuiadaBllraanima.adinéreniada!  Purg.  28.  E  Io  spirito  mio. 
die  giù  enlonto  Tempo  era  stato  che  olla  sua  pretensa  Hon  tra  di 
Stupor.  Iremando,  affranto.  Sema  degli  occhi  atter.  piii.  eonoian- 
sa.  Per  occuila  virtù  che  da  lei  mmie,  d'anliro  amor  sentì  la  gran 

{ì)  l'ar.  II.  Perà  eft-i  anitatte  vèr  lo  nio  ditello  la  t/ìota  di  Colui 

»  ad  allf  grida  OÌsjjusò  lei  nel  sangwj  bciivdeilu. 


Tì^rm  flVfOle  kì  . , 

tmpmm  t  §fb'amdt,  Cm^^  SI  a 
pm$$éitmi  9mm$  frwffrit  éMwmmm  wmmmm ,  éMi  qrnaH  fm  n 
U  FiUmi(è  BfUm  sma  BMmiem  ;  emé  frmsim ,  zei 
\  mtiiim,  mm0rt,t  €er§&fmmzéi  mdim  di  fai; 

cài  ■«■  t€fmm  Iff  irmtMm'M .  te ,  ftr  frmmàe  ritta  ,  éem 

3). 


I,  ad  pai  ^Ak»  fi»f<»:  tmm  m  Hr^  ^%s 

p«nMa.  m  «!&!«  «Ae  iS'bt  SI  Tieifem  édk  r^tt.  E    12.  L 
ÌMBMà  4k  CnHi    ^  M^m'xs^n  .  —  flato  ,  ctWxìkmit  paipoift».  pia 

KMÉ^    flBMMift   ^'^fWUÈtM  lft***S»     -—   BA^ifl^lA      S/feS^KÈA       lAtl^lAfSA    A 
f.^^uc  X*^**^  ^-'"■*^^"*  •■"-■r^^-  .^i^^^^t^.  «s^^^^v,  a^v&^H^iv   ■■ 

lilU. 

<?t  €k«an.   P«^  9L  /?  MbMr,  «vaf    réfit.  mta;  £  fa 
L  ~  TMm,  fi      '      éiaà,UL  f.;  e  Pat^  «L  £# 


a  Zsfi»;  JKMrkoofìéia ,  a  Mr«^«;  J«»rra  Hrfiyiia  f 
{la  è  ifiiLiMiiii  citt  rilefM   4i  nT«eBa.  éi   f)fn9»ri.  — 
JUrrn  /^fKTia,  ii£  fX  Ai  éti»r  fmetSrm.  ~ 


^f.  l  mfta*  fh€  dimuiri  3d   im  parimrt 


t,  ^  ì* 


—  383  — 


Obi  uso 


Del  fiore.  laf.  2.  Quale  i  fioretti ,  dal  notturno  gelo  Chi- 
nati e  chiusi,  poi  che  7  sol  li  imbianca ,  Si  drizzane  tutti 
aperti,  in  loro  stelo.  Par. 21.  L'affetto  che  dimostri — Cosi 
ha  dilatata  mia  fidanza ,  Come  il  sol  fa  la  rosa ,  quando 
aperta  Tanto  divien  quanVella  ha  di  possanza.  Conv.  385 
princ.  Appresso  la  propria  perfezione ,  la  quale  s^  acquista 
nella  gioventute,  conviene  venire  quella  ehe  alluma  non  pur 
sé,  ma  gli  altri;  e  conriensi  aprire  Puomo,  quasi  come  una 
rosa  che  più  chiusa  stare  non  può ,  e  V  odore  cK  è  dentro 
generato ,  spandere  (2). 


/^  «:>e*^^*.»  <r»^    ^-«  V> 


^ÌL^^  ♦•   /  '♦  ^     ^^  /i^'^* 


i'f^ 


Ch'io  veggio  e  noto  in  tutti  gli  ardor  'vostri.  Così  ha  dilatata  mia 
fidanza  Come  il  sol  fa  la  rosa.  —  Dentro,  Inf.  33.  fo  non  piangeva: 
sì  dentro  impietrai,  —  Yeidre ,  flgura  simile  Purg.  6*  Molti  han  giu- 
stizia in  cuor  ;  ma  tardi  scocca,  Per  non  venir  senza  consiglio  al- 
l'arco :  Ma  il  popol  tuo  l' ha  in  tommo  della  bocca. 

(2)  PerfeidoBei  Par.  13.  Tutta  la  perfezion  quivi  s'acquista.  — 
CoiiT8iiirey  coli* infinitivo,  in  amico,  Purg.  17.  Esser  conviene  Amor 
sementa  in  voi  d'ogni  virtute  E  d'ogni  operazion  che  merla  pene.  — 
AlloBUure.  Par.  20.  Colui  che  tutto  il  mondo  aUuma.  —  Odorei  Par. 
23.  j^tvt  è  la  rosa  in  che  'l  Verbo  divino  Carne  si  fece  ;  quivi  son 
li  gigli  Al  cui  odor  si  prese  il  buon  cammino. 


LA  ROTTA 

DI 

RONCISVALLE 

NELLA  LETTERATURA  CAVALLERESCA  ITALIANA 


Allorché  Dante,  volte  le  spalle  ai  peccatori  dell' 
tava  bolgia,  muove  il  passo  verso  Torlo  della  nona,  s'< 
dal  fragore  di  un  corno  rintronare  gli  orecchi.  Dì  q 
corno  vuol  egli  rappresentare  al  vivo,  quanto  più  gli 
possibile,  lo  strepito  inusitato;  e  per  ciò  fare,  non  e 
tento  di  averlo  detto  tale 

....  ch'avrebbe  ogni  tuon  fatto  fioco, 

(e.''  XXXI,  13),  soggiunge: 

Dopo  la  dolorosa  rotta,  quando 
Carlo  Magno  perde  la  santa  gesta,  (t) 
Non  sonò  sì  terribilmente  Orlando. 


(1)  Queslo  verso  da  qualche  secolo  in  qua  ha  la  disgrazia  di  esi 
male  inlerprctato ,  per  colpa  di  quella  parola  gesla,  e  deil*oscyrìU 
cui  è  caduto  il  fallo,  al  quale  Dante  fa  qui  allusione.  I  cofflmeiita 
moderni,  quanii  almeno  io  ne  vidi,  intendono  pcv santa  gesla  V ìnupi 


—  385  — 

^■{Ib.  v.°  16-18).  Cotale  paragone  sarà  certo  setìflffsfS^po^^ 
efficace,  per  non  dire  ozioso  alTatto,  a  tutti,  o  quasi, 


del  cacciare  i  Saraceni  dalla  Spagna.  ìié  de.sst  soliamo  cadano  in  questo 
abbaglio,  ma  allresi  i  migliori  nostri  IcssicograQ ,  la  Crusca,  il  Manui- 
li,  il  Tommaseo,  i  quali  tulli  adilucona  il  luogo  daniesco  siccome 
esempio  della  voce  gesta  usala  a  signillcar«  impresa.  Al  Tommaso  {taro 
iDllaTia  alquanto  insolilo  1'  uso  ivi  faltone ,  pojcbè  dice  :  ■  Le  gesta  sono 
specialmc^nie  guerriere  o  polilictie ,  grandi  e  memoi'abili  ;  per  lo  più  for- 
lunale.  —  Ma  Dante  \n{.  31  »,  etc.  Il  fatto  st.i  che  la  parola  non  ha 
qui  punto  questo  sìgnìfìcato,  nel  quale,  quanto  Trcquen temente  è  usala 
oggtdU  altrettanto  rado  lo  tira  nel  trecento.  La  si  adoperava  iuvece 
spessissimo  ìn  quello  di  lekiatla.  del  quale  i  lessici  non  lasciano  di  ad- 
durre alcuni  esempi,  a  cui  se  ne  (lolrebbcro  aggiungere  parecchie  ccn- 
UnaÌM,  traendoli  dai  romanzi  caiallcrrschì.  I^d  e  naturale:  che,  mentre 
nel  valore  à' impraa  questa  voce  p  un  pretto  latinismo,  in  quello  di 
iftiùuia  e  simigliami  è  tolta  a  prestilo  dal  francese,  e  praprìamenle  dalla 
leitcnlDra  romaniesca.  \a  Francia  pure  essa  derivò  dal  Ialino,  e  doTcUe 
usarsi  sniitutto  a  signincarc  le  cronache  scritte  iti  Ialino,  che  appunto  so- 
levansi  nel  Medio  Evo  inlilotai^  Gesta,  in  qurst'  uso  la  possiamo  vedere 
in  più  lunghi  dilla  Cliatison  de  Roland,  e  tra  gli  altri  al  verso  U14: 


Il  e 


escrii  en  la  gesle  Tnijicor, 


dove  ciascuno  riconosce  la  denominazione  Jalina,  ; 
dal  significar  cronaca ,  la  parola  venne  per  un  rapido  e  ardilo  passaggio 
a  lignificare  ìl  complesso  degli  uomini  di  cui  la  cronaca  narrava  le  im- 
prfie,  ossia  la  schiatta,  la  Tamiglia:  non  qualunque  peraltro,  ma  quella 
soltanto  che  si  fosse  resa  Cimosa  per  imprese  celebrate  nei  romanei  Però, 
a  lacere  d'infiniti  altri  esempi,  un  poeta  del  secolo  xtli,  l'autore  del 
Giran  de  Viane ,  poteva  dire  non  v'  essere  che  t  ni.  gcstcs  *  nella  Fran- 
cia: del  re,  di  Doon  de  Naiancc,  e  di  Garin  de  Honglane.  E  questo 
appunto  è  il  sipilìealo  che  In  parola  gesta  conserva  più  dì  frequente 
anche  fra  di  noi  nel  trecento  e  nel  quuiirocenlo ,  e  che  va  poco  a 
poco  allargando.  Specialmente  mi  |iare  notevole  il  vederla  usata  a  de- 
signare un'unione  d'uomini  congiunti  da  qualche  vincolo,  che  non  i> 
più  b)  comune  di.-Miendeuu  da  un  medesima  capostipite  Di  qucsl'  uso  ci 
di  un  esempio  la  Spagna  in  rima,  là  dove,  parlando  (telb  morie  di 
Turpioo,  dice  uhu  gh  angeli  ne  presero  l'aniiua  e 


k 


ìffi 


—  386  — 

lettori  del  divino  poema  dalla  metà  del  cinquecento  ai  n 
stri  giorni  ;  eppure  io  oso  asserire  che  il  poeta  non  avre 
be  attempi  suoi  potuto  sceglierne  alcuno  più  acconcio 
conseguire  il  suo  intento.  Della  rotta  di  Rondsvalle,  del 
quale  ora  ben  pochi  conoscono  anco  il  nome,  non  e 
nel  trecento  chi  non  sapesse  appieno  le  vfcende  e  i  ps 
ticolari.   Orlando   era   scolpito   nella   mente   d^  ognuni 

• 

Ne  la  portaro  via  tra  la  gran  giesta, 

(c.^  xxvi,  26).  E  un  secondo,  che  fa  ancor  meglio  al  nostro  caso,  tro 
ancora  nel  medesimo  poema:  Fautore  (c.^  xxxii,  2)  chiede  a  Dio 
poter  raccontare  la  cruda  battaglia 

C'a  Roncìsvallc  fu  tra  que*duo  monti, 
Dove  mori  la  franca  e  santa  gesta. 

Sanla  gesta  sono  qui  chiamati  cogli  altri  baroni  i  paladini,  i  quali  era 
stretti  r  uno  coir  altro  da  fratellanza  d' armi,  e  però  formavano  quasi  i: 
sola  famiglia.  E  tale  appunto  è  il  valore  della  voce  anche  nel  passo  dan 
SCO ,  dove  quindi  perde  la  santa  gesta  significa  perde  la  santa  schie 
dei  paladini,  santa,  perchè  moriva  combattendo  i  Saractni.  Che  e 
veramente  s'abbia  a  intendere,  è  facile  a  dimostrare.  Se  cogli  interpr 
moderni  per  gesta  intendiamo  impresa,  facciamo  dire  a  Dante  una  c( 
al  tutto  falsa:  Carlo  secondo  tutù  i  romanzi  e  la  cronaca  istessa  de 
PseudoTurpino,  non  perde  altrimenti  l'impresa  a  Roncisvalle,  poict 
morti  i  paladini,  egli  ne  fa  tosto  acerba  vendetta,  e  sterminati  due  esi 
citi  saracini,  s'impadronisce  di  Saragozza  e  di  tutta  la  Spagna,  che 
forza  viene  convertita  alia  mansueta  (cde  di  Cristo.  S'aggiunga  che  i  coi 
mentatori  antichi,  sebbene  i  più  non  diano  un'  interpretazione  letten 
di  questo  verso,  perche  il  senso  a  loro  appariva  chiarissimo,  mostra 
aperto  di  non  aver  inteso  in  altro  modo.  Basti  per  tutti  Jacopo  de 
Lana,  che  alla  parola  santa  nota:  e  imperquello  ch'elli  combattem 
per  la  fede  e  colli  saracini  >.  E  dello  stesso  Jacopo  si  consideri  qi 
si' altra  chiosa  al  verso  122  del  canto  xxxii,  ov' è  nominato  Ganelloo 
la  quale  ottimamente  conforta  tutto  quanto  sono  venuto  dicendo  :  e  Qi 
sii  tu  uno  d'AIemagna,  cioè  todesco  della  casa  di  Maganza,  lo  qa< 
tradì  la  gesta  dei  paladini  > 


—  :i87  — 

Doo  già  quale  ce  lo  rappresentiamo  noi  in  grazia  delle 
le^adre  e  fanlasticlie  invenzioni  del  Bojardo  e  dell'Ario- 
sto, ma  come  l'idealo  del  perfetto  cavaliere,  dell'eroe  e 
del  seguace  del  Cristo.  Forse  adunque  io  non  farò  cosa 
inalile  e  ingraia  agli  enidìlì,  ricercando  e  studiando  le 
?arie  descrizioni,  che  di  quella  battaglia  s'incontrano  nei 
romanzi  cavallereschi  italiani  dei  secoli  XIV  e  XV.  Siffatto 
studio  verrà,  io  spero,  a  spargere  un  po' di  luce  sulla 
storia  di  questo  genere  di  letteratura  ;  esso  mi  porgerà  oc- 
casione di  far  conoscere  docnmenti  fin  qui  sconosciuti ,  ed 
in5Ì«rao  di  mettere  in  chiaro  attinenze  non  mai  rilevate 
tra  altri,  che  pur  videro  la  luce  molte  e  molte  volte. 

Ln  poca  notizia  che  di  questa  materia  si  ha  general- 
mente nell'Italia,  non  solo  dalla  maggior  parte  dei  let- 
tori, ma  non  di  rado  altresì  da  chi  scrive  la  storia  delle 
nostre  lettere,  mi  costrìnge  a  rifarmi  dalle  origini  piti  an- 
liclie,  e  a  trattenermi  qualche  poco  nella  Francia:  dove  la 
rolla  di  Roncisvalle  è  tra  le  poche  parti  del  ciclo  di  Carlo 
Magno,  a  cui  con  testimonianze  autentiche  noi  possiamo 
assegnare  un  fondamenln  storico.  Eginardo  ne  discorre  a 
questo  modo  negli  .Annali  (ad  ann.  778):  •  Wascone?. 
insidiis  conlocatis.  extrcmnm  agmen  adoni,  totiira  exercj- 
lum  magno  tumultu  perturhant.  Et  licei  Franci  Wasconi- 
bus,  tam  armis  qnam  animis,  praeslare  vìderenlur,  lamen 
et  inìqiiilalc  locorum,  et  genere  inparis  pugnae  inferinres 
effecti  sunl.  In  hoc  certamine  plerique  aulicorum,  quos  rex 
copiis  pracfecerat,  interfecti  sunt,  direpta  impedimenta, 
et  hostis,  propler  notiliam  locorum,  statim  in  diversa  di- 
lapsus est..  E  nella  vita  di  Carlo  (cap.  IX):  «  Hispanìam 
quam  maximo  poterai  l)elli  apparatu  adgredilur  Karolus 
salluque  PjTinei  superato,  omnibus  quae  adieral  opptdis 
atque  castellis  in  deditionem  acceptis,  salvo  el  incolumi 
excrcitu  reverliliu';  praeter  quod  in  ipso  Pyrinei  jugo 
li\ascouicam  perndiam   parumper  conligit   oxperìri    Nam 


—  388  — 

cum  agmiae  loDgo,  ut  loci  et  aDgastiarum  sitas  pen 
tebat ,  porrectus  iret  exercitas ,  WascoDes ,  io  sammi  n 
tis  vellica  positis  insidiis,...  extremam  impedimentor 
partem  et  eos  qui  novissimi  agmiois  incedeates,  subs 
praecedentes  tuebantur,  desuper  incursantes,  in  subjec 
vallem  dejiciunt,  consertoque  cum  eis  proelio,  usque 
unum  omnes  interficiunt ,  ac ,  direptis  impedimentis ,  ne 
beneficio ,  quae  iam  instabat ,  protecti ,  summa  cum  ce] 
tate  in  diversa  disperguntur...  In  quo  proelio  Eggihar 
regiae  mensae  praepositus,  Ànselmus  comes  Palatii 
Hruodlandus,  Britannici  limitis  praefectus,  cum  aliis  e 
pluribus  interficiuntur.  Ncque  hoc  factum  ad  prae^ 
vindicari  poterat,  quia  hostis,  re  perpetrata,  ita  dispei 
est,  ut  ne  fama  quidem  remaneret,  ubinam  gentium  qu 
potuisset  1. 

Dalle  nude  e  scarse  parole  del  biografo  di  Carlo 
descrizioni  dei  romanzi  v'ha  certo  un  abisso;  che  se 
che  in  queste  ultime  non  è  improbabile  si  contenga  d 
storico  e  del  tradizionale  più  che  non  paia,  una  p 
senza  paragone  maggiore  vi  si  deve  assegnare  alPimn 
nazione  del  popolo.  Questi  sembra  essere  stato  vivami 
colpito  dalla  distruzione  di  una  mano  di  prodi  nelle  ( 
dei  Pirenei  ;  con  un'  assennatezza ,  che  non  sempre  si  ti 
nelle  età  civili,  comprese  essere  gloriosa  una  rotta,  qua 
fino  all'ultimo  i  combattenti  si  lasciano  tagliare  a  pe 
ma  non  cedono  né  si  arrendono  ;  però  venne  mano  m 
adornando  di  splendida  aureola  la  memoria  di  quegli  esti 
e  specialmente  del  maggiore  tra  tutti,  del  paladino 
landò.  Ma  poco  a  poco  il  sentimento  popolare  si  ve 
corrompendo:  non  ispontaneamente  forse,  ma  più 
opera  di  cantori,  che  per  acquistarsi  favore  e  doni^ 
sforzarono  di  piaggiarlo.  Allora  la  santa  gesta  più  i 
cadde  se  non  dopo  avere  sterminato  trecento  migl 
di  saracini;   allora   alla   sconfitta   tenne  rapida  dietro 


1      Ma 


—  389  — 

indetta,  e  Carlo  .Magno,  (ornato  al  di  là  dei  monti, 
far  macello  dei   nemici   superstiti,   conquistarne 
città  ed  i  regni,  e  dare  egli  slesso,  o  cagionare  la  morte 
capi  loro.  Egli  è  in  questa  maniera,  se  io  non  m'in- 
ganno, che  dalle  tradizioni  e  dai  primi  canti  in  onore  dei 
caduti  si  pervenne  via  via  ai  poemi  giunti  fino  a  noi. 

Roncisvalle  è  argomento  alla  più  antica  tra  le  chan- 
sons  de  gesie  risparmiate  dal  tempo:  a  quella  che  oggidì 
è  conosciuta  sotto  il  titolo  di  Chanson  del  Roland.  Critici 
assennati  la  reputano  composta  alla  line  del  XI  o  ai  princi- 
pio del  secolo  XII,  prima  ancora  che  i  trovatori  di  Pro- 
venza si  dolessero  in  versi  della  crudeltà  delle  dame.  E 
come  in  ordine  di  tempo,  così  questo  poema  va  senz'al- 
tro anche  in  ordine  di  pregio  collocato  il  primo;  che  se 
troppo  s'informano,  mi  si  perdoni  il  dirlo,  dalla  boria 
nazionale  certi  giudizi  che  taluni  ne  recano,  disconoscendo 
l'immenso  spazio  che  lo  disgiunge  dai  poemi  omerici, 
certo  è  che  esso  ha  comuni  coir  Iliade  non  pochi  carat- 
teri, ed  offre  campo  a  huon  numero  di  raffronti,  utili  e 
fecondi  per  la  conoscenza  dell'epopea.  Pertanto  pochissimi 
tra  i  monumenti  delle  nascenti  letterature  romanze  a  me 
sembrano  a!  pari  di  questo  meritevoli  dello  studio  di  chi 
cerca  il  hello  senza  il  lumicino  dei  retori,  e  ovunque  lo 
trovi,  lo  ammira,  non  riconoscendo  in  fatto  d'arte  altro 
codice,  fuorcliè  le  leggi  eterne  della  natura  e  del  cuore. 
Ma  pur  troppo  anche  nel  .Medio  Evo,  come  ai  dì  nostri 
-  gusti  non  trovavano  posa;  questa  sola  è  la  differenza' 
in  quei  tempi  essi  tramiitóvansi,  non  già  per  causa 
di  passeggiere  aberrazioni  delP  intelletto  e  del  sentimento 
ma  hensì  in  forza  del  tramutarsi  delle  società  umane  lé 
quali  dalla  barbarie  dei  secoli  di  ferro  si  trascinavano  fa- 
ticosamente verso  la  civiltà  odierna.  Quindi  agli  ascoltatori 
della  seconda  metà  dei  secolo  XII  la  Chanson  de  Roland 
pane  già  cosa  troppo  selvatica  e  rozza;  i  versi  riusciva* 


—  390  — 

aspri,  le  assonaoze  intollerabili,  lo  stile  troppo  rotto 
coDciso.  Allora  non  tardò  a  trovarsi  chi,  togliendo  tal 
quanto  offendeva  gli  orecchi  delicati,  rimise  a  nuovo 
poema ,  ammorbidi  i  versi ,  alle  assonanze  sostituì  le  ria 
rammodernò  la  lingua,  snervò  lo  stile,  duplicò  o  triplicò! 
la  lunghezza  della  composizione ,  e  con  sifihtti  artifici  n 
più  accetto  il  poema  a'  suoi  contemporanei.  Così  la  Cte 
son  de  Roland  cedette  il  luogo  al  Roman  de  Roncevaox  ( 
Apertaci  cosi  dinanzi  la  via,  veniamo  a  considerar 
rampolli  che  da  questi  tronchi  crebbero  neir  Italia,  esai 
nando  particolarmente  e  nelle  reciproche  loro  relazioni 

1.  Il  testo  del  codice  marciano  GIV.  7.  4. 

2.  La  Spagna  in  prosa. 

3.  Le  differenti  versioni  della  Spagna  in  ottava  rio 

4.  Gli  ultimi  canti  del  Morgante. 


I. 


Determinare  quando  propriamente  la  Ghanson  de  E 
land  cominciasse  a  divenir  nota  al  di  qua  delle  Alpi, 
cosa ,  non  che  difDcile ,  ma  nello  stato  attuale  delle  nost 
notizie  al  tutto  impossìbile.  Solo  si  può  affermare,  e 


(1)  Il  numero  dei  versi  diflerisce  non  poco  nei  varii  rifacimenti, 
maioscritto  di  Versailles,  posseduto  dal  Bourdillon,  ne  novera  8830; 
treUanli  a  nn  dipresso  se  no  trovano  nel  codice  marciano  CIV.  7.  7; 
versione  invece  pubblicata  dal  Michel  sopra  un  codice  parigino  uni 
mente  alla  Ghanson  de  Roland  (Paris,  Didot,  1869)  ne  conta  ben  1310 
e  ne  avrebbe  più  assai  se  non  mancasse  il  principio,  che  dovette  ess( 
supplito  col  testo  di  Versailles,  assai  meno  prolisso. 

{%  Per  brevità  mi  varrò  di  questi  nomi ,  chiamando  sempre  Chans 
la  versione  del  codice  d' Oxford,  Roman  de  Roncevaux  i  rifacimenti, 
specialmente  quello  pubblieato  dal  Michel. 


pochi  poemi  dovettero  giungere  a  noi  prima  di  questo; 
die  niun  altro  poteva  sostenere  con  esso  la  gara,  e  pre- 
tendere a  uguale  nominanza.  La  Cliaoson  de  Itoland  ap- 
Hure,  3  ciii  l)en  guardi,  siccome  il  centro  del  ciclo  caro- 
^fegìo:  alla  morte  inrelice,  ma  gloriosa,  che  v'incontra, 
^Eleve  Orlando  sopratutlo  quella  fama,  cl)e  mosse  I  cantori 
a  fare  di  lui  Peroe  di  tante  imprese;  in  niun  altro  canto, 
airinfiiori  di  questo,  appat-ivano  da  principio  quei  dodici 
frslclli  d'arme,  che  sotto  il  nome  di  paladini  act|uistarono 
poi  tanta  celebrità.  Chi  conoscesse  tutte  le  altre  narrazio- 
ni, e  questa  sola  ignorasse,  non  potrebbe  dire  di  cono- 
scere la  letteratura  cavalleresca.  I  casi  di  Roncisvalle,  a 
differenza  della  guerra  contro  i  Sassoni,  costituivano  un'im- 
presa, non  già  dei  Franchi,  si  della  cristianità;  questa  e 
non  la  Francia  rimaneva  pericolante  ed  afflitta  per  la  di- 
struzione della  forte  schiera,  e  si  riaveva  dappoi  per  la 
tremenda  rivincita  che  il  volere  divino  concedeva  a  Carlo 
Magno.  Orlando  poi.  meglio  assai  che  un  eroe  francese, 
era  il  campione  della  fede  cristiana.  Di  qui  che  nell'Italia 
s'inventò  intorno  alla  sua  fanciullezza  una  leggenda  assai 
bella,  la  quale  valesse  a  ricongiungerlo  col  popolo  italiano 
e  a  fare  di  lui  poco  meno  che  un  eroe  nazionale.  E  quc- 
}  medesimo  sentimento  di  gelosia  e  di  orgoglio  si  ap- 
alesa ancora  in  ciò ,  che  la  schiera  d' Orlando ,  la  quale 
I  tutu  i  testi  in  lingua  d'oii  si  compone  unicamente  dì 
incesi,  nelle  versioni  nostre  diventa  una  milizia  italiana, 
Idala  al  Paladino  dal  Pontefice,  e  da  lui  comandata  irì 
"\  di  senatore  di  Roma  e  gonfaloniere  della  Chiesa  (1), 

(Il  Quesli  duu  iralii,  counlo  carallerisrici .  appaiono  già  lino  dal- 

■  (ranco-ilaliana  in  Nicola  da  PadoTa.  I  veiilimila  uomini,  che  cnslì- 

cmo  ia  schien  d' Orlando,  qudla  che  è  poi  tulio  qama  slerminaia 

I  RoDcis«lle,  gh  sono  ivi  concessi  dal  Pa|«  nel  principio  deWa  Bucrra 

■  B  udiamo  cliìamare  <  Las  souitokr  Uè  ttume  t  [{."  88  y,»)  ]| 

n  di  Carlo  si  è  deUo  ripciuUuiBiile  tenetor  roman. 


—  3»2  — 

Da  questi  due  fatti  pare  a  me  da  inferire  che  la  Chan 
venisse  in  Italia  in  tempi  remoti ,  quando  il  popolo  nof 
non  porgeva  ancora  ascolto  alle  narrazioni  dei  giullari  ce 
a  piacevoli  novelle ,  ma  bensì  le  ascoltava  con  animo  ] 
sionato ,  e  vedeva  in  esse  la  verace  storia  dei  trionfi 
stiani.  Però  era  naturale,  che  allora,  e  allora  soltan 
esso  procurasse  appropriarvi  a  sé  medesimo  quella  n 
gior  parte  che  per  luì  si  poteva.  E  poiché  ragioni  i 
lievi,  ma  che  non  posso  qui  né  esporre,  né  discute 
m' inducono  a  giudicare ,  che  la  trasmissione  della  mat 
cavalleresca  dalla  Francia  air  Italia  si  operasse  nella  secoi 
metà  del  secolo  xn*  e  nella  prima  del  wif,  cod  io  cn 
di  poter  affermare  con  bastevole  sicurezza,  che  la  CI 
son  de  Roland  dovette  diffondersi  al  di  qua  delle  i 
avanti  il  principio  del  dugento. 

Nulla  di  più  concreto  mi  sembra  potersi  dedurre 
gionevolmente  da  certe  traccie ,  di  cui  più  volte  si  é  fs 
parola  da  altri.  Se  dal  vedere  che  nel  1131  i  cavalieri 
consoli  di  Nepi,  giurando  un  patto,  imprecavano  al  ' 
latore  la  morte  infame  di  Ganellone  (ì),  noi  volessi 
argomentare  che  già  fin  d'allora  fosse  ben  nota  nel  e 
re  deir Italia  la  Chanson  de  Roland,  non  potremmo  é 
che  il  nostro  fosse  un  ragionare  a  fil  di  logica.  Anzii 
dal  poema,  a  me  pare  più  probabile  assai  che  gli  aul 
del  giuramento  dovessero  la  conoscenza  del  fatto  alla  e 
naca  del  falso  Turpino  (cap.  xxvi),  compiuta,  secoi 
dimostra  il  Paris  (2),  non  più  tardi  del  1119.  Né  ar 
mento  migliore  per  V  Italia  settentrionale  potrebbesi  tra] 


(1)  Cosi  si  legge  nel  Lebas,  Ree.  d*inscriptioDs,  5.  Cahier,  p.  1 
Tolgo  la  citazione  dal  Paris,  che  alla  sua  volta  Tha  tratta  dal  Gei 
Chanson  de  Roland,  xxi. 

(2)  V.  De  Pseodo-Turpino ,  disseruit  Gaston  Paris,  Parigi,  FniD( 
1865. 


—  393  — 

dalle  effigie  di  Orlando  e  L'Iivieri,  scolpite  a  basso  riUero 
sugli  stipiti  della  porla  maggiore  del  duomo  di  Verona  (1), 
lo  qiiali  pure  debbono  avere  on<;iiie  ecclesiastiir;) ,  e  non 
sembrano  del  re.sio  auleriori  alla  seconda  metà  del  secolo 
XII  (2).  Assai  più  probabilmente  può  essere  riferito  alla 
Chaoson  de  Kolaod  il  passo  del  Cronista  citalo  dal  Mu- 
ratori, ove  si  dice  cbe  snlT  antico  teatro  milanese  *  fli- 
strìones  cantabant,  sicut  modo  cantantur  de  Rolando  et 
OliTerio  (3)  »  ;  se  non  che  V  importanza  di  questa  attesta- 
zione scema  d' assai ,  se  si  considera  non  sapersi  bene  a 
qual  tempo  sia  da  rirerire. 

Se  pertanto ,  lasciati  questi  semplici  indizi ,  noi  ci  fó- 
remo  a  ricercare  veri  e  proprii  documenti,  non  dovre- 
mo certo  stupire  di  ritrovare  anche  per  questa  parie  del 
ciclo  i  più  antichi  neiritalia  settentrionale,  e  piìi  spe- 
dalmenle  tra  l' Adige  e  il  mare.  Ma  la  narrazione  della 
rotta  di  honcisvalle,  forse  in  causa  della  sua  stessa  ce- 
lebrità, non  subì  quivi  quella  medesima  trasformazione 
a  cai  soggiacquero  tante  altre,  venute  al  pari  di  Francia; 
la  forma  primitiva  si  perpetuò  per  secoli ,  come  fosse 
((Uesto  un  racconto  veramente  storico ,  e  da  ascollare  con 
rispetto  poco  meno  che  sacro. 

Due  manoscritti  che  richiamano  qui  il  nostro  studio, 
troviamo  alla  Marciana  di  Venezia;  Funo  (civ.  7.  cod.  7) 
ci  fornisce  un  rifacimento  assai  ■  somigliante  a  quello  del 


(t)  Non  già  di  S.  Zenone, 


!   liicono  erroneamente  ii  l'.ii 


(3)  Il  lijiniiìcato  delle  due  immagini  a  me  pare  chiaro  abbatianu: 

9  ed  liliTÌeri,  campìuni  della  fede  crìslìana,  sono  piiili  »  ^lardare 

■  del  leiDpio  del  Signore.  PiuUo9o  io  dubilo  forte  *e  il  cofflp>- 

6  d'Orlando  sia  qui  Teramenle  Ulifieri,  ti  qnaht  non  m  afirt  conM 

poUoe  esKre  armalo ,  non  della  9|wdi,  in  di  una  nani,  ■  cai  ^  a^ 

pea  nna  patb  moniia  di  ponle. 

43)  Moniori.  Dissert  xux.  Tom.  II.BU. 


li  -^^(HiCl  *  ;f;SCLJa  tA  m  iir.1 
nuiirub  alta  prtsi  à.  \irt*jCiì-.  ì 
tntki  il  rinuTiffttc.  Socrj  di^reoi 
dislìDiniuiio  r  ima  daU*  altra  queste 
la  iirìma,  di  gran  Int^  maggior 
coir  antica  versione  del  codice  d' 
si  ritrova  in  nian  altro  testo,  e  I 
^cimenti.  Ma  come  mai  si  potè 


lU  Di  niitfXo  ms.  si  potò  ■ 


—  393  — 
accozzo  al  quale  dod  sarebbe  agevole  irorare  un  rìsooo- 
Iro?  La  rìsposUi  oon  è  facile,  e  più  che  il  certo,  dqÌ  do- 
vremo coDtentard  di  conoscere  il  probabile,  preodendoa 
guida  r  osi^rvazione  della  lìogoa. 

Que-sta ,  se  beo  si  coasiderì ,  è  beo  lontani  dalT  essere 
uniforme  in  tutto  il  poema.  Lasciando  per  on  le  minori 
differenze,  non  può  non  balzare  agli  occhi  di  ogni  lettore. 
par  disattento  che  sia ,  come  neir  ultima  il  tiogoagf^  sia  di 
gran  lunga  meno  alteralo  che  nelle  altre  due,  dorè  ani 
lale  un  miscuglio  di  forme  dialettali  Tenete,  da  oostitiare. 
non  già  una  lingua,  ma  piuttosto  uno  slranissiBO  gergo. 
Se  ne  abbia  un  breve  esempio,  preso  a  caso: 

r.  77  v.°      Disi  Bollant  moli  e  fera  nostra  baiane; 
Eo  cornare,  si  l'oira  Qarlo  d  Maìie^ 
Disi  Oliver;  Vu  »"averi  gran  blasroe. 
E  reprocer  vostro  maior  Ugnate. 
Quand  eo  vel  dis,  soner  do  ve  dignase; 
Se  le  roì  li  fiist,  no  avresme  doamaìe. 
Se  vos  cornee,  do  ve  wra  vasalace. 
Per  questa  man.  e  per  tfuesi^  mia  barbe, 
S'eo  podes  veder  mia  cent  sor  AWe, 
Vos  non  caseris  carnai  in  le  soe  brace. 

Certo  non  è  neppur  mestieri  del  paragotw  del  testo  d^Oi- 
ford  (1)  per  iscoz^ere  quanto  corrotta  sia  la  leaàooe  <fi 
qnesti  versi.  Ma  se  invece  noi  prendiamo,  ngnalmeole  a 


(1)  Srrii:  130.  lo  chiamo  irru  ad  una  rima,  o  aoi 
iMUlit  serie,  per  uon  avrr  Mpuia  UaraK  dì  meglio,  dA  che  i  ftmtm 
dicMiu  liTodi  monoriine.  Dì  dire  lirata  dod  mi  rtfgtn  il  cMn;  I 
rncaboln  tlmfa  non  rì^panilcv»  abbasuoza  alla  eoa;  fa  toa  iI*bm. 
dotnidu  io  spttM  [urbrp  «itlu>  di  otu*e  no» ,  sirebbe  pnenio  co»- 


U 


—  396  — 

caso ,  un  luogo  da  quella  parte  che  s' acoorda  coi  r 
meutì,  troveremo  certo  anche  qui  ddla  corruzione, 
di  gran  lunga  minore: 

f.  95  V.*     Aude  se  leve,  soa  raxcm  a  finee. 
Pois  torna  arere  cum  feme  adolee: 
Frere  Oliver ,  cum  m'ave  desevreel 

Sir  Rollam,  vos  m'avec  iuree; 
Se  Dee  plaist  que  fuse  mariee. 
Sur  tut  dames  fus  per  vo&  prisee. 

La  scorrezione  in  questo  luogo,  e  in  generale   in 
r ultima  parte  del  poema,  è  di  tal  fatta,  da  potersi 
volmente  attribuire  air  amanuense  italiano,  speciain 
se  si  voglia  anunettere.  cosa  punto  inverisimile ,   che 
stui  trascrivesse  da  un  esemplare  già  scorretto,   p( 
ancor  esso  copiato  in  Italia.  Si  ponga  ben  mente  app 
nere  il  codice  al  secolo  xlv^  né  a  quanto  pare,  ai  ] 
anni  del  medesimo;  è  dunque  trascorso  gran  tempo 
che  il  poema  fu  rìgentilito ,  o  per  dir  meglio  annacq 
dai  rifacitorì.  Ma  potremo  noi  attribuire  del  pari  alla 
ignoranza  dei  copisti  il  gergo  delle  prime  due  parti  ? 
Per  dare  una  risposta  compiuta  converrebbe  i 
varsi  dal  caso  nostro  ad  una  ricerca  assai  più  ardu 
estesa ,  e  indagare  in  generale  V  orìgine  del  gergo  usat 
poemi  franco-italiani.  Codesta  indagine  mi  trarrebbe  tr 
fuor  di  via,  sicché  mi  basti  accennare  la  mia  opini 
senza  appoggiarla  per  ora  né  a  ragioni ,  né  a  fatti.  Il 
biema  a  me  sembra  assai  complesso,  e  capace  di 
soluzioni  diverse,   quanti   sono  i   casi   particolari, 
quanti  sono  i  documenti  di  questa  rozza   letteratura, 
che  é  vero  per  uno  di  essi ,  può  essere  falsissimo  pc 
altri  ;  poiché  se  in  questo  la  scorrezione  é  dovuta  sa 
cemente  agli  amanuensi,  in  quello  invece  fu  il  rimai 


—  397  — 

)  ToUe,  ma  dod  seppe  comporre  i 

attese  di  proposilo  a  innalzare  il  suo  dialetto  a  di- 

)  di  liogaa  letteraria;  in  un  terzo  poi  egli  è  alta  in- 

nissione  orale,  che  si  deve  la  trasfonnazioue  del  testo 

•iginario.  Se  a  ciò  si  a^'giuuga  clie  ognuno  di  questi  casi 

combinarsi  e  complicarsi  cogli  altri,  sj  vedrà  quante 

)  le  soluzioni  possibili,  e  come  però  sarebbe  vano  e 

Wicoloso  i!  voler  stabilire  un  principio  generale  ed  as- 

ito. 

Nel  caso  del  lesto  marciano  ci  si  presentano  spécial- 
iste due  m  :  la  trasformazione  può  attribuirsi ,  o  ai  co- 
li, 0  alla  trasmissione  di  bocca  in  bocca.   Imperocché 
Spiamo  che  non  sempre  i  giullari    apprendevano  dai  li- 
i  il  ricco  corredo  di  racconti  d' ogni  fatta,  che  andavano 
i  ricantando  di  terra  in  terra,  di   castello  io   castello; 
)  le  narrazioni  si  trasmettevano  oralmente  dal  mae- 
1  discepolo,  e  certo  poteva  accadere  che  dopo  avere 
^to  a  questo  modo  per  lungo  tempo,  fossero  di  bel 
1  fissate  colla  scrittura.  È  naturale  che  per  tal  guisa 
l' tenisse  allora  ad  ottenere  una  versione  non  poco  dif- 
!  dall'  originaria.  E  questo  appunto  mi  sembra  essere 
iduto  al  testo  della  Chanson;  che  P amanuense,  chi  ben 
ii,  dà  prova  nell'ultima  parte  di  saper  trascrivere,  se 
correttamente,  almeno  con  assai  minore  scorretlezsta 
I  quella  che  sarebbe  stala  necessaria  per  ridnrre  le  altre 
t  forma  in  cui  noi  le  troviamo.  Né  alcuno  potrebbe 
tenere  che  egli  od  altri  volesse  di  proposito  alterare  ri 
[uaggio  col  miscuglio  continuo   di  forme  proprie  del 
I  veneto,  afiìne  di  renderio  piii  intelligibile  ai  mai 
mpaesani.  Lasciando  stare  che  se  (ale  fo.vic  .sialo  il  soo 
isiero  egli  avrebbe  al  medesima  modo  insformaio  »n- 
i  quanto  prendeva  dai  t«sti  rìf»UÌ,  non  si  Mprf^iU»  dav- 
iro  intendere  lo  .'^copo  di  un  itifEatto  Uram:  il  motari!, 
^piuttosto  modUicare  dieci  parok  ninil  ron 


1 


—  398  — 

sembianze  al  tutto  forestiere,  non. poteva  certo  agevoU 
alle  plebi  P intelligenza  del  poema,  se  esse  non  aveva 
già  in  pratica  la  lingua  d' o'il  ;  né  i  nobili ,  soliti  a  vale 
in  quei  tempi  dei  linguaggi  della  Francia  si  meridion 
che  settentrionale,  avevano  punto  mestieri  di  questo  i 
schinissimo  ajuto.  S' aggiunga  non  essere  piccolo  il  num( 
delle  parole  che,  se  non  sono  francesi,  non  si  ponno  d 
né  manco  venete,  o  in  qualunque  modo  italiane,  e  di  q 
ste,  quanto  ovvia  si  presenta  la  spiegazione  supponendo 
trasmissione  orale  per  le  bocche  dei  nostri  giullari ,  aitr 
tanto  riuscirebbe  difficile  trovare  un  ragionevole  perchi 
chi  si  appigliasse  ad  altre  ipotesi.  Di  tal  fatta  mi  sembn 
le  seguenti:  bugi  (busti),  ^avil  (capelli),  blanda  (bianc 
tramitissa  (  trasmetteste ,  inviaste  ) ,  aseio  (  asedio  ) ,  osU 
(ostaggi),  spea,  cevo  (capo),  vid  (vidi),  cella  (quelli 
sonfé  (  suonate  ),  avremes  (  avremmo  ),  dovum  (  dobbiam< 
condux  (conduce),  cumo  (come),  cet  (gitta),  sai  (esci 
vedes  (vedessimo),  poi  (potete),  sei  amisi  (i  suoi  amie 
gerpisca  (lasci),  cri  (credo)  ecc.  Assai  probabilmente 
m'ingannerò  per  taluna  di  queste  voci,  ma  certo  ne 
sterà  pur  sempre  un  numero  considerevole,  le  quali, 
possono  tenersi  per  semplici  falli  dell'amanuense,  né] 
trebberò  credersi  sostituite  a  disegno,  affine  di  rendi 
più  agevole  V  intelligenza  del  testo.  So  bene  che  le  di 
colta  scemerebbero  supponendo  che  il  codice  marciano 
rampollo  di  una  schiatta  antica,  trapiantata  di  buonN 
in  Italia,  e  sempre  più  tralignata  mano  mano  che  s'alh 
tanava  dal  capostipite;  ma  se  le  difficoltà  scemano,  n 
vengono  certo  a  svanire,  tanto  più  che  ci  converret 
supporre  sempre  veneti  gli  amanuensi,  poiché  non  ti 
viamo,  a  quanto  pare,  nel  testo  traccie  di  altri  dialei 
Però  a  me  sembra  assai  più  probabile  T altra  ipotesi, 
mi  sembra  scorgerne  non  inefficace  conferma  in  certi  ve 
che  si  leggono  nel  principio  del  testo  marciano,  e  e 
mancano  in  tutti  gli  altri:  ^ 


Chi  voi  oir  vere  signifìcADce, 
A  san  Donis  ert  uae  ieste  io  Fraine. 
Cil  ne  sa  ben  qui  per  le  scrit  ii 
Non  deit  aler  a  pei  (obier  qae  cade. 
Mais  civalcer  mul  e  desirìer  de  Rabìe. 
De  sot  comenza  lì  iraimeni  de  Gayoe, 
E  de  Rollant,  li  nef  de  Carie  el  Mavne. 

Chi  era  tanto  tenero  dei  giollarì ,  non  poien  i 
Un  giullaro  egli  stesso;  né  alcano,  faorchè  o 

irel>be,  a  quanto  pare,  espresso  ma  ael  jeeoodo  i 

a  pur  sostenendo  che  il  le^o  i 

I  appartenere  al  dominio  dei  e 
terÒ  bene  al  tempo  slesso  cbe  anche  afl"i( 
imannensi  abbia  ad  assegnarsi  Dna  certa   parte,  b  < 


I  paneoM  di  à» 


si  può  misurare  appro^simatiramente  col 
!  (xk  trascritto  dai  rìradmenli.  Cerio  io 
lai  ai  recitatori  Parer  mutalo  repo?  in  repoft,  Ui 
Maiit,  nns  (anni)  in  ani.  frane  io  ùwc,  pasi  ■  | 
podesté  in  podesler,  nef  in  ner,  e  cosi  ria,  mia 
lerchè  in  luogo  di  assonanze  si  areffiero  tmt  perfe 
Adrinque  la  concinsioDe  e  0  wa^o  truUo  # 
0  ragionamento  sarebbe,  po^to  dw 
BTsaadere  ì  lettori,  V  aver  nuatntù  cbe  la 
}  Roland  dovette  di  hnoo'  ora 
sere  recitata  sulle  piazze  e  oei 
tenti  della  seconda  metà  dd 
tei  decimoterzo  secolo  non  TednmUDo 
dK  per  la  scrittura  Anche  rtnesto  « 
te  insieme  r«n  molli  altri  può 
nonoingia  dei  poemi  tnoexyHttlmtu 
E  di  qui  rifaceodod  al 
teremo  dorersi 


—  400  — 

cozzo  deir  antica   versione  e  del  rifacimento ,   quale 
vediamo  nel  Marciano.  Certo  se  l'ultima  parte  fosse 
sata  ancor  essa  di  bocca   in  bocca,   non  avrebbe  pò 
conservarsi  tanto  vicina  alla  sna  forma  originaria.  Ma  q 
ragioni  abbiano  indotto  allo  strano  miscuglio,  non  è  age 
il  determinare.  A  me  pare  sommamente  improbabile 
si  ricorresse  al  rifacimento  per  bisogno  dì  riempiere 
lacuna  della  versione  più  antica;  sarebbe  davvero  sii 
lare,  per  non  dire  portentoso,  che  ^  la  lacuna   cominci 
ivi  appunto,  dove  aveva  luogo  una  delle  principali  divis 
del  racconto.  Sembrami  poi  meno    improbabile   sì, 
tuttavia  poco  verisimile,  che  nella  recitazione,  e  però 
che  nella  scrittura,  potesse  di^iungersi  dal   resto  o 
lasciarsi  aflatto  T  ultima  parte,  in  cui  si  contengono 
fatti  di  somma  importanza,  la  morte  d' Alda  e  il  snpp 
di  Gano.  Piuttosto  è  a  credere  che  il  raflfazzonatore  f 
guidato  puramente  da   ragioni  di  gusto,  vo'  dire  eh 
versione  rammodemata  gli  andasse  in  questa  parte  pi 
genio  dell'antica,  forse  in  causa  del  lungo  episodio  d 
fuga  di  Gano,  che  in  quella  mancava.  Quanto  poi  air 
sodio  in  cui  è  narrata  la  presa   di   Nerbona,   sembra 
pensare  che  già  nella  recitazione  dovesse  andar  congii 
coli' antica  versione,  se  il  linguaggio  vi  appare  com 
del  pari,  se  non  forse  più.  Del  resto  s'avverta  bene  esi 
io  ben  lontano  dal  supporre,  nonché   dall' affermare, 
il  raffazzonatore  e  il   trascrittore  del  codice  marciano 
biano  a  tenersi  per  la  persona  medesima;  l'accozzo  f 
e  forse  deve,  supporsi  avvenuto  per  opera  d'  altri  in 
tempo  assai  anteriore,  e  il  nostro  testo  non  credo  ess 
altra  cosa  che  una  copia. 

Resta  che  noi  prendiamo  a  esaminare  una  per 
le  tre  parti  delia  composizione.  Non  istarò  qui,  con  m 
fatica   e  scarso   profitto,   a  confrontare  minutamente 
prima  col   testo  d'  Oxford;   cotale  raffronto  spetta 


—  iOI  — 

'  editori  della  Clianson,  e  non  giti  a  clii  intraprende  uiiu 
studio  lelterario  intorno  alle  trasformazioni  che  dessa  subì 
nel!"  Italia.  S' io  mi  vi  accingessi,  potrei  mostrare  con  ab- 
bondanza di  esempi,  come  la  vera  lezione  ora  sia  conser- 
vala dall'  uno.  ora  dall'  altro  testo  ;  come  e  iiell'  uno  e 
neir  altro  v'  abbiano  lacune,  non  solo  di  versi,  ma  d'intere 
serie;  come  ad  esempio  l'oxfordiense  abbia  erroneamente 
ridotto  a  due  le  battaglie  della  scliiera  d'  Orlando  contro 
i  Saraeini,  confondendo  in  un  solo,  o  almeno  mal  distin- 
gnendo,  l'esercito  ili  Grandonio  e  quello  di  Marsilio,  la 
seconda  battaglia  e  la  terza.  Potrei  anche  far  vedere  che 
ora  neir  uno,  ora  nell'  altro,  è  migliore  la  disposizione 
delle  serie  e  ilei  versi,  ed  altre  cose  siffatte,  le  quali  di- 
mostrano che  il  lesto  onde  deriva  questa  parte  del  Jlar- 
ciano  dilTeriva  da  quello  d' Oxford,  o  che  per  ispiegare  le 
dilTereuze  devesi  pure,  anche  astraendo  dalla  lingua,  con- 
cedere qualche  luogo  alla  trasmissione  orale,  sia  che  questa 
intervenisse  soltanto  neir  Italia,  sia  che  già  prima  si  fosse 
intromessa  nella  Francia.  Ma  poiché  non  s' appartiene  a 
questo  luogo  uno  studio  silTaito,  noterò  solo  che  ai  392fì 
versi,  di  cui  nel  Marciano  si  compone  la  prima  parte, 
corrispondono  solo  3675  nel  manoscritto  bodleiano.  Quindi 
arri  nel  testo  di  Venezia  un  di  più  di  251  versi,  parte 
dei  quali  vanno  giudicati  interpolazione,  parte  invece  deri- 
vano dalla  versione  primitiva.  Fra  gli  altri  mi  piace  se- 
gnalarne alcuni,  che  non  hanno  riscontro  nel  manoscritto 
d*  Osford,  sebbene  lo  trovino  noi  rifacimenti  (1),  i  quali 
dimostrano  colle  loro  aspre  assonanze  quanto  antico  sia 
il  concetto,  che,  la  fellonia  fo.sse  ereditaria  in  tutta  quanta 
.la  slirpp  di  Gano.  Il  passo  fa  paile  di  una  serie,  che  ari- 
drebbe  collocata  tra  la  13fi"  e  la  130'  del  testo  bodleiano: 


—  402  — 


f.*"  78  v"*  Carlo  cival^a  tant  quant  el  porto  dure; 
Eli  demeoa  tei  dol  e  tei  rancure; 
Qo  dit  li  roi,  saocta  Maria  aiue; 
Per  Gayuo  gran  pene  m' est  cresue. 
In  la  veire  geste  est  mis  in  scrìture; 
Ses  antesur  firent  ingresme  fellune, 
E  fellonie  tutor  ave  in  costume. 
In  Capitolile  de  Rome  ca  'n  fé  une: 
luUìo  Qesar  oncìent  il  per  ordre; 
Pois  ont  il  malvas  sepolture. 
Chi  in  fogo  ardent  et  angosos  mis  fure. 

Attribuire  perfino  V  uccisione  di  Cesare  alla  schiatt 
Gano  è  davvero  un  po' troppo;  gli  stessi  Reali  si  con 
tano  di  innestare  la  fellonia  nella  stirpe  maganzes 
tempo  di  Costantino.  Oramai  non  v'  era  che  a  fare 
passo,  e  Caino  stesso  sarebbe  divenuto  egli  pure 
lignaggio  maganzese. 

Ancora  mi  giova  osservare,  non  essere,  quanto  a 
gua,  ugual  grado  di  scorrezione  in  tutta  la  prima  pai 
ad  esempio  il  principio  e  qualche  luogo  ove  comincia 
nuova  serie  di  narrazioni  sono  conservati  con  magg 
fedeltà,  il  che  ottimamente  si  spiega  colla  mia  ipol 
Altrove  poi  non  sapremmo  trovare  ragione  del  perchè 
lingua  sia  meno  guasta,  salvo  questa,  che  la  memoria 
giullari  avesse  apprese  e  ritenute  certe  parti  meglio 
certe  altre.  Del  resto  non  intendo  già  di  determinare 
e  sarei  matto  se  ci  pensassi  —  per  quante  bocche  dove 
passare  il  poema,  avanti  di  essere  nuovamente  messo 
iscritto;  stimo  verisimile  che  la  trasmissione  merame 
orale  non  dovesse  durare  gran  tempo,  quantunque  Pese 
pio  dei  poemi  Indiani,  dell'Edda  e  cosi  via,  mostri  co 
là  dove  la  memoria  è  solita  tener  luogo  di  scrittura,  1 


—  404  — 

riconforta  quando  Arnaldo  di  Bellanda  gli  si  dichiara  prò 
a  ricevere  la  città,  non  per  sé,  ma  per  un  suo  fig 
letto,  che  lasciò  in  Francia  al  suo  partire.  Arnaldo  iste 
parte  per  andarne  in  traccia,  giunge  a  Bellanda,  e  qi 
a  Isabella  sua  donna  racconta  la  tremenda  catastrofe 
Rondsvalle.  Poco  stante  egli  rivede  con  gran  gioia  il 
glio,  reduce  dalla  caccia,  e  gli  narra  come  Carlo  vo 
donargU  onore  di  terra;  ma 

Per,  dist  Aimerig,  no  ve  stuet  parler, 
No  prendro  tera  tanto  cum  avrò  durer, 
S' ella  no  e  quella  che  me  viot  en  penser. 
La  noit,  quant  eo  dormo,  in  vixion  me  ve; 
Ne  noit  ne  ior  no  me  lassa  polse; 
^0  est  Nerbona,  che  seit  sor  regoi  del  me; 
Alfarìs  la  tint,  un  fol  roi  desfaé. 

Come  egli  sente,  questa  appunto  essere  la  terra  di 
Carlo  lo  vuole  infeudare,  accetta  con  gioia,  né   punt( 
lascia  smuovere  dalle  trepidanze  del  cuore  materno. 
L'indomani,  baciata  la   madre,  Amerigo   parte 
Arnaldo ,  e  con  lui  insieme  giunge  sotto  Nerbona.  Il  pa 
dice  allora  di  volerlo  presentare  al  re;  ma  il  franco 
vinetto  riQuta  baldanzosamente,  dichiarando  eh'  egli  w 
venirgli  innanzi  da  sé  medesimo.  Sdegnasi  Arnaldo,  e 
nuto  solo  a  Carlo,  fa  che  esca  fuori  della  città   accon 
guato  dalla  baronìa  divisa  in  dieci  schiere,  tenendosi  i 
r ultima  fra  Namo  e  il  Danese;   se  Amerigo   non   sa 
riconoscere  tra  tutti  questi  l'imperatore,  non  più  ved 
da  lui ,  egli  medesimo  gli  spiccherà  il  capo ,  in  pena  d 
sua  tracotanza.  Il  giovinetto  allora  si  rimane  sulle   pri 
alquanto  confuso  ;  tuttavia  disceme  Carlo ,  gli  si  presei 
e  salutatolo,  e  baciatigli  i  piedi,  chiede  onore  di  ten- 
di cavalleria.  L'imperatore  lo  loda  dell'ardire  e  del  i 


—  40S  — 

bel  parlare ,  tosto  lo  fa  r.ivaliere,  e  infendalolo  di  Nerbona 
e  lascialigli  dieci  mila  cavalieri,  si  parie  e  toroa  ad  Asia 
(Aix). 

Uì  versione  delP  Aimeri  de  Nartwniie  è  assai  più  in- 
tricata, 0  sebbene  mostri  nel  principio  grande  simiglianza 
colla  nostra,  se  ne  spicca  poi,  e  non  ha  più  con  essa  che 
uoa  remota  analogia.  Ivi  Nerbona  non  è  signoreggiata  da 
un  solo,  ma  da  tre  re,  due  dei  quali  evidentemente  non 
sono  trovati  che  per  allungare  il  racconto,  poiché  fino 
dal  principio  si  partono  per  una  via  sotterranea,  e  si  con- 
ducono 3  Babilonia,  donde  torneranno  poi  con  un  eser- 
cito innumerevole  per  muovere  guerra  ad  Aimeri ,  sta- 
bilito di  Tresco  nella  signoria.  Questi  poi  non  trovasi  già 
a  Rellanda,  ma  si  nell'esercito  slesso  di  Carlo,  sicché 
mancano  qui  di  necessità  tutta  Tandata  e  il  ritorno  di  Ar- 
naldo, che  nel  nostro  episodio  costituiscono  la  parte  raas- 
giore  e  più  bella.  La  città  poi  non  è  già  presa  per  mira- 
colo ,  ma  bensì  colle  armi  e  colf  ingegno. 

Ne  questa  narrazione,  né  la  nostra,  si  accordano 
colla  versione  della  presa  di  Nerbona  accennata  nel!'  antico 
testo  della  Chanson  (v.  2990),  secondo  la  quale  la  città 
doveva  essere  stata  conquistata  avanti  il  disastro  di  tton- 
cisvalle  (I).  E  il  testo  marciano  contraddice  a  sé  mede- 
simo anche  in  ciò,  che  qui  assegna  una  durata  di  dicia- 
sette  anni  alla  guerra  di  Spagna,  la  quale  nel  principio 
della  prima  parte  esso  aveva  detto  colla  Chanson  essersi 
cominciala  sette  anni  innanzi  : 

(larle  li  reis.  noslre  imperer  de  Frante, 
Set  ans  tut  plens  a  estetz  in  Spagne. 


r 


(t)  Tale  e  aimeai}  l' ìnterprplazionc  d?\  Puri*  (llisl.  poi"'!,  2r)<i),  sulla 
ile  8  dir  letù  avrei  a  muovere  dei  duMiiì. 


i 


—  406  — 

Qui  invece  Arnaldo  dice  di  avere  alla  sua  partenza  lasc 
un  bambino  di  tre  anni ,  che  se  vive  ancora ,  potrà  ave 
intorno  a  venti.  Simigliantemente  nel  Gui  de  Bourgogn 
fa  durare  questa  medesima  impresa  ventisette  anni, 
dar  tempo  agli  Epigoni  di  farsi  adulti.  Da  questa  dis 
danza,  che  si  poteva  togliere  con  assai  poca  fatica ,  api 
che  il  nostro  episodio  non  fu  già  inventato  per  contini 
la  Ghanson ,  ma  venne  qui  trasportato  non  saprei  doi 
Giò  peraltro  dovette  farsi  in   età  remota,  se   noi  ve 
vediamo   congiunto   per  me^zo  di   certi  tratti,  che 
potrebbero  supporsi  invenzione  del  secolo  XIII.  Taccii 
certi  versi,  in  cui  ci  si  pone  innanzi  Gano:  poiché 
volmente  potrebbero  togliersi  dal  luogo  ove  sembi 
stare  a   pigione;  ma  quando  Arnaldo  sta  per  partin 
Nerbona,  è  bello  udirlo  dichiarare  che  non  mentirà  il  v 
e  rifiutare  obbedienza  all'imperatore,  il  quale  gli   vi 
imporre  di  celare  la  catastrofe,  e  di  rispondere  una  e 
zogna  a  chi,  passando  da  Parigi,  gli  chiederà  nuove 
r  esercito  : 

Dites  che  grani  coia  a  T  imperar  puissant. 

Garlo  stesso  è  obbligato  a  piegarsi,  e  il  conte,  iute 
gato  a  Parigi,  svela  il  tradimento  di  Gano  e  la  m 
dei  pari: 

Les  dames  quant  Tintendent  font  ìì  dol  si  grani 
Tal  mai  non  fu  in  le  seigle  vivant. 

Queste  tristi  novelle  gli  convien  poi  ripetere  nuovam^ 
alla  moglie  ed  al  figlio. 

A  codesti  segni  di  antichità  se  ne  ponno  aggiun^ 
altri  ancora.  Come   nella   Ghanson   de  Roland,  così 


—  407  — 

Dio  manda  il  suo  messafittiero  celesle  a  conrortare  Cario 
suppliclievole: 

Jesu  li  manda  )ì  angle  cherubìn: 
Droit  iinperer.  no  le  doler  de  ria. 
Che  Dio  rira  alquant  de  lon  plaxiu. 

E  qui  ognuno  poirà  agevolmenle  scorgere  un'  assonanza, 
mal  dissimulata  dall'  amanuense,  che  abbandonò  per  dispe- 
rata quest'impresa  in  un'altra  serie: 

Deo  ama  Carlo  e  olde  le  soe  vose; 

Quel  c^rno  li  manda  aher  et  solìbione. 

E  un  aure  et  un  si  fon  deluvione. 

Clic  da  mille  parie  faxea  runer  le  mure. 

Ouand  li  lemps  est  remes,  Trani^ìs  prendenl  li  arme, 

Vieni  3  Nerbona,  entra  per  me  le  porte. 

Di  qui  non  sarebbe  forse  sovercliio  ardire  il  dedurre  che  il 
nostro  episodio,  rimato  nel  resto,  derivi  nondimeno  tntto  da 
una  versione  appartenente  all'  età  in  cui  le  assonanze  tene- 
vano ancora  il  luogo  delle  rime.  E  ben  si  noti,  cbe  il 
miracoloso  acquisto  della  città,  che  cì  richiama  la  caduta 
di  Jerìco,  non  è  già  un'invenzione  o  un'imitazione  pro- 
pria del  nostro  testo.  Non  solo  il  falso  Turpino  riferisce 
il  medesimo  miracolo  a  proposito  dì  Pamplona,  non  solo  ' 
Filippo  Mousket  e  il  falso  Philomena,  convalidati  da  tra- 
dizioni locali,  narrano  che  a  questo  modo  fu  conijni- 
slala  da  Carlo  Carcassona,  ma  Ramon  Keraud  (1)  narra 
die  Nerbona  istessa  venne  presa  grazie  ad  un  terremoto, 
che  fece  crollare  le  mura;  solo  v' è  questa  differenza, 
che  costui,  com'era  naturale,  dà  il  merito  della   cosa  al 


(I)  Vie  ilu  Saim  llonoral. 


—  i08  — 

suo  santo ,  narraDdo  che  Carlo  volgesse  a  lui  la  pregfak 
e  che  alla  sua  intercessione  fosse  dovuto  il  miracolo, 
ultimo  non  è  neppure  da  trascurare  un  altro  indiz 
quando  Carlo,  conferita  la  signoria  ad  Aìmerì,  si  pai 
da  Nerbona,  non  s^  avvia  già  a  Laon,  come  nei  rif< 
menti,  ma  bensì  ad  Aix  (Asia),  l'antica  capitale  dei  < 
rolingii,  come  nel  testo  d' Oxford.  Cosi  l'episodio  viene 
trovarsi  in  disaccordo  colla  parte  del  romanzo  che 
tien  dietro. 

Questa  narrazione  a  me  pare  così  notevole,  che 
piace  riportarne  per  saggio  il  luogo  ove  si  racconta  co; 
Arnaldo  e  Amerigo  giungessero  a  Nerbona,  f.  90,  r.**  : 

Filz,  disi  li  coni,  in  ver  mi  intende 

Veez  de  Nerbona  li  ter  et  li  scile, 

La  est  Carlo  de  Pranza  Timperé; 

Or  siec  prò  et  saco  air  acuite. 

Oit  il  Aimerig,  si  '1  prist  a  rampogé; 

Pere,  dist  il,  no  ven  conven  parler; 

la  bora  veiardo  no  m'  avrà  presenter, 

Tut  per  mi  sol  e  voi  al  roi  parler. 

Se  davant  li  roi  no  me  so  apresenter, 

Deo  no  me  lassi  mes  corona  porter, 

Se  de  soa  tera  me  donara  a  baillé. 

Oit  il  Arnaldo,  si  se  prese  adicé: 

Gloto,  dist  il  or,  vos  con  vera  fé; 

Se  vos  non  faites  cum  eo  vos  ai  vanté. 

Deus  in  Bellanda  no  me  lassi  tome, 

Se  de  sor  le  spalle  no  ve  faro  li  cef  colpe. 

Sotto  la  dura  scorza  di  una  forma  rozzissima ,  si  nasco 
dono ,  a  mio  parere ,  in  tutto  questo  episodio  non  comu 
bellezze.  Però  non  mi  è  rincresciuto  spendere  un  lunj 
discorso  a  trattarne,  mentre  poche  parole  basteranno  p 
r  ultima  parte  del  testo. 


—  409  — 
Questa  presi  io  a  confrontare  colla  versione  del  co- 
dice settimo,  e  coir  altra  pubblicata  dal  Michel.  In  que- 
st'ultima essa  risponde  ai  versi  11138-13109;  non  de- 
riva peraltro  né  dall'uno,  né  dall'altro  testo,  poiché  ora 
s'  accosta  maggiormente  al  primo ,  ora  al  secondo.  Questi 
poi  convengono  tra  di  loro  meglio  che  non  facciano  colla 
versione  del  codice  quarto. 

(  Continua } 


LEGGENDA 

DI  S.  MARGARITA  V.  e  M, 

IN  OTTATA  RIMA 


AL  CAV.  PROF.  ALESSANDRO  D'ANCONA 

STRENUO    INVESTIGATORE 

E  PROMTLGATORE 

M   ANTICHE  POPOLARI   LEGGENDE 

F.  Z. 

CONSACRA 


/m  im  cod.  Misceli.,  cognominalo  Quolìbet,  ( 
iaceo  im  f.,  a  due  colonne y  del  sec.  XV j  num.  157, 
n  conserta  nella  R.  Bibl.  di  quesla  ciitày  del  quale 
[ersi  una  minuta  descrizione  dalla  pag.  122  alla  1 
e  dalla  251  alla  272,  Anno  I  del  Propugnatore,  in 
questo  componimento  in  rimOy  che  io  credo  inedito 
dettato,  a  quel  che  si  pare,  sul  finire  del  sec.  XIY 
circa.  Letto  con  diligenza,  sembrami  che  ri  spicchino 
cune  ottave  molto  graziose  e  degne  deir  approvazione 
cultori  veraci  della  nostra  letteratura  e  delle  antiche  i 
dizioni  popolari ,  sulle  qtiali  a'  di  nostri  molti  valeni 
mini  fanno  sttidii  profondi,  dimostrandone  la  uiUità 
rica  e  letteraria ,  e  profferendone  al  pubblico  diversi  es 
plari.  Onde  come  quelli  furono  bene  accolti,  cosi  per 
stessa  ragione  mi  confido  avverrà  del  presente,  che, 
parer  mio,  non  dissomiglia  loro  gran  fatto. 


—  *n  — 

Qttaitro  diversi  testi  sul  medesimo  argomento  io  co- 
*  ttosco  in  islatnpa,  ma  d'  uno  aW  infuori,  tulli  in  prosa. 
Il  primo  fti  pubblicato  mi  1731-32  da  Domenico  Maria 
Manni  fra  le  Vite  di  Santi  e  Sante  in  aggiunta  al  mi- 
garizzanieiuo  delle  Vite  de'Santi  Padri,  detti  propriamen- 
te deir  Eremo,  di  fra  Domenico  Cavalca,  secondo  un  te- 
sto posseduto  dagli  Accademici  della  Crusca;  e  poscia  ri- 
prodotlQ  mano  mano  in  ogni  ristampa  di  queW  aureo  vo- 
lume. Il  secondo,  dal  benemerito  e  solerte  sig.  prof.,  ca». 
Pietro  Ferrato,  secondo  un  cod.  Marciano,  già  Farsetti, 
in  Venezia  alla  Tipografia  Clementi  nel  1867.  //  terzo, 
dfUl'  egregio  sig.  ab.  doli.  Antonio  Ceruti ,  confm'me  a  un 
ms.  delP  Ambrosiana ,  dalla  pag.  178  alla  191  di  questo 
medesimo  volume.  Il  sig.  Ceruti,  ne//' Avvertenza  premes- 
savi, ricorda  ««'erfi's.  di  Trieste  del  1838,  ma  cotesta 
non  contiene  se  non  quel  testo  del  Manni  piii  s(^ra  ricor- 
dalo, quivi  riprodotto  dal  prof  Racheli  insieme  colle  pre- 
fate Vite  de"' Santi  Padri.  Finalmente  una  quarta  compi- 
lazione abbiamo,  ma  in  versi  rimali  a  due  a  due,  quando 
il  poeta  per  bene  sapeva  imberciare,  la  quale  eziandio 
fu  inserita  dallo  stesso  Manni,  esemplata  su  di  un  cod. 
Bargiacclii,  dopo  la  Leggemla  in  prosa  della  medesima 
santa.  Secondo  che  il  diligente  editore  annota,  essa  ci  veone 
dal  fraiizese  antico,  conciossiachè  non  ritengano  i  versi  nna 
giusta  misura,  e  manchevoli  sieno  per  lo  più  della  rima, 
la  quale  si  vede  chiaro,  che  era  beusì  nel  Tranzese,  donde 
^i  voltala. 

^^L  Or  chi  è  pratico  e  si  conosce  delle  antiche  poesie, 
^Hpn  farà  le  maraviglie  nelV  abbattersi  talvolta  in  versi 
^Kmeilosi  nel  metro,  mila  rima  e  negli  accenti;  assai  esempi 
^Bm  riporta  fra  gli  altri  il  celebre  piof.  Vincenzio  San- 
Bnucn  nel  suo  Manuale  della  letteratura  del  primo  secolo, 
e  ne  adduce  apertamente  le  ragioni,  e  perché  eran  mossi 
i  nostri  antichi  a  cosi  fare:  chi  i^oglia  approfittarne,  ri- 


—  412  — 

corra  a  qml  prezioso  volume.  Ciò  nondimeno^  aik 
mi  aovenioa  di  non  contraffare  molto  alla  legittimi 
testo  y  qui  e  qua  ritoccai  leggiermente  quel  che  mi  p 
errore  delP antico  amanuense,   mettendo  però   in 
allor  che  importava,  la  genuina  lezione  del  codice,  qu 
ella  si  fosse.  Con  questa  pubblicazioncella  tuttavia 
intendo  di  produr  cosa  che  aumenti  le  nostre  glorie 
rarie ,  ma  bensì  un  antico  documento  popolare  da 
ai  molti  altri  già  posti  in  luce,  il  quale  se  non  è 
affatto  da  mende,  certo  né  pur  va  mancante  al  tu 
pregi  e  di  maestre wli  tratti.  Valga  se  non  altro  a 
pendice  della  Leggenda  in  prosa  più  sopra  edita  di 
stro  sig.  dott.  Antonio  Ceruti. 

F.  Z 


LEGGENDA   DI   SANTA    MARGARITA 


Io  prego  la  divina  maiestate, 
Padre  e  Figliuolo  col  Spirito  Santo, 
Grazia  mi  presti  per  la  sua  pietale, 
Gli' io  possa  raccontar  con  dolce  canto 
Una  Leggenda,  piena  di  bontaie, 
D'una  pulcella,  che  tormento  tanto 
Sostenne  da  un  crudele  imperatore. 
Per  render  castità  al  suo  creatore  (1). 

Q. 

Dell!  stale  attenti,  per  lo  vostro  onore, 
Dal  mio  principio  sino  alla  finita, 
D'una  pulcella  serva  del  Signore, 
Che  lo  suo  nome  è  santa  Margarita, 
Che  figlia  (a  d' un  re  di  gran  valore , 
E  piccola  da  balia  Tu  nutrita: 
Lontana  era  dal  siio  tei  paese 
Qtidla  pulcella  vergine  o  cortese. 


—  414  — 


III. 


Lo  suo  bel  padre  a  balia  Tavea  data, 
Perchè  la  madre  nel  parto^morio  ; 
Poco  tempo  da  poi  ch'ella  fa  nata 
El  suo  padre  del  mondo  transio. 
Questa  è  la  verità  che  v'  ho  contata , 
E  so  che  la  sua  istoria  non  mentio. 
Rimase  la  fantina  piccoletta: 
La  sua  Leggenda  sì  vi  dico  dretta. 


IV. 


Da  poi  che  fu  cresciuta  la  pulcella, 
Sempre  laudava  Cristo  Salvatore: 
La  sua  Ggura  era  tanto  bella, 
Che  dir  (2)  non  si  porta  per  trovatore. 
Guardando  un  giorno  lei  le  pecorella, 
Di  li  passoe  (3)  il  tristo  imperatore: 
Subitamente  ne  fu  innamorato, 
Vedendo  il  suo  bel  viso  delicato. 


V. 


E  disse  alli  messaggi:  tosto  gite 
Arditamente,  e  perfetto  coraggio; 
Et  a  quella  fantina  si  dirìte, 
S'eirè  (i)  libra,  per  moglie  la  torraggio; 
E,  s'elPè  serva,  aver  li  promettite: 
Quanto  ne  mole,  tanto  le  daraggio. 
E  li  messaggi  tosto  a  lei  n'andamo 
Cortesemente  e  poi  la  sakitamo. 


—  415  — 


VI. 


E  dissero:  o  pulcella  dilicata, 
Or  rispondete  per  lo  vostro  onore; 
Se  voi  sete  pulcella  o  maritata, 
A  noi  il  direte  sanza  aver  timore: 
L' imperator  v'  ha  tanto  vagheggiata , 
Che  lui  al  tutto  (5)  vuole  il  vostro  amore. 
E  quella  gli  rispuose  incontinente: 
Ancilla  son  di  Cristo  omnipotente: 

VII. 

E  lui  invoco  e  chiamo  notte  e  dia , 
Che  la  mia  prece  intenda  per  pietate, 
Et  al  mio  cuore  tanto  dea  balìa. 
Ch'io  non  perda  la  mia  virginitate; 
E  Tangel  suo  mi  guardi  tuttavia, 
Ch'io  non  consenta  vostra  vanitate. 
Allora  li  messaggi  ritornarno 
E  quel  ch'avia  detto  li  contarno. 

Vili. 

Lo  imperatore  fu  forte  adirato; 
Cambiò  la  faccia  e'I  viso  incontinente, 
Et  al  li  suoi  messaggi  ha  comandato: 
Andate,  e  qui  menatela  presente. 
Ciascun  di  loro  si  fu  apparecchiato, 
E  corseno  a  pigliarla  arditamente, 
E  lei  menarno  a  quello  imperatore; 
Onde  lui  le  parlò  con  gran  furore. 


1>e^    OUfStti   IHlDlt'   cc^ 

Iv:  Vinnrita  mi  chiac 
I  Gesù  Cristo  cÉumif- 
Cu«  iDlinr>  a  mo  m'  ha 
JiT'UDieni  às  poi  che  i 

X. 


~  nspose 
^x  dumi  Crhito?c'da 
liiireltr  tana,  tu  sarai 
>  rhiami  Im  die  ti  di 
Li  siudei  li  dier  morte 
tir  tTfdi  a  me.  cbe  V* 
omelia  rispose:  queiflo; 
\jasa  f-  ta  verità,  cbe 

Alkir  r  impannn-  la 
In  OBI  ranxr  cb'  ai  i 
n  A  e  la  noOr  ^  la  : 
Cbe  le  penan  mea«n 


xa 


Se  lo  mìo  dio  tu  tuoi  adorare, 
Io  V  amaro  sopra  ogni  famiglia  : 
Se  non  mi  credi,  farotli  consamare  (sìcj, 
E  batter  farò  (7)  tua  carne  vermiglia  : 
Or  pensa  qual  partilo  vuoi  pigliare, 
E  di  risponder  tosto  t'  assottiglia  : 
E  quella  disse:  ben  ci  pensaroe, 
E  prestamente  ti  rispouderoe  : 

xia 

Se  lo  mio  corpo  sarà  tormentato. 
L'anima  mìa  ^rà  in  salvazione; 
Che'!  mio  Signore  in  croce  fu  chiavalo; 
Per  me  sostenne  grave  passione  : 
Del  tuo  pensiero  ben  sarai 'ngannato, 
Che  esso  sta  con  meco  a  ogni  slagione; 
E' non  mi  lascierà  perir  neente 
Lo  mio  Signore,  Cristo  omnipotenle. 

XIV. 

L' imperatore  allor  la  fé  spogliare 
E  batter  il  suo  corpo  delicato: 
Tanto  con  verghe  la  fece  frustare, 
Che'l  sangue  suo  correa  per  ogni  lalot 
Tulli  gridavan:  più  non  ci  durare. 
Che  del  tuo  fatto  ne  prende  peccato. 
Assai  v'  eran  di  ijue'  che  piangoano 
Quando  frustar  Margarita  vedeauo  (8). 


Ox  -7;-^  •y.rj-.iry.-  &■ 
A  Marzarlu  diièe:  fa 
K  qatita  [Mfoa  più  no 


—  419  — 


XVIII. 


0  empio  ed  o  malvagio  (11)  chi  mei  dice, 
Glie  lo  mio  Dio  non  debbia  onorare, 
Che  cielo  e  terra  et  ogni  cosa  fecel 
Ogni  creatura  il  debbe  adorare! 
Ma  lo  tuo  dio  ch'ai  sulla  cronice, 
E  sordo  e  muto,  e  sì  non  può  parlare: 
SMo  li  credessi,  farei  villania. 
Però  che  è  falso  et  è  pien  di  follia. 

XIX. 

Quando  Timperator,  lui  questo  intese, 
In  piana  terra  si  lasciò  cadere; 
E  tanto  era  suo  cuor  di  fuoco  acese, 
Che  di  tal  doglia  pensava  morere. 
E  in  una  scura  prigion  sì  la  mese, 
Che  cielo  e  terra  non  potea  vedere. 
E  quand'ella  vi  giunse  per  intrare 
Con  la  man  dritta  sì  s'ebbe  a  segnare. 

XX. 

E  disse:  o  Signor  mio  pien  di  sapienzia, 
Quest'orfana  ti  sia  raccomandata: 
Allo  mio  cuore  dà  tanta  potenzia, 
Che  vinca  questa  gente  rinegata; 
E  del  martire  non  abbia  temenzia 
In  nulla  parte  dov'  io  sia  menata , 
E  r avversario  mio  che  mei  fa  fare, 
A  faccia  a  faccia  con  lui  mi  fa  stare. 


—  tiO  — 


XXL 


fl  gojnfian  che  la  prigioo  gunfara. 
Tutte  le  soe  parole  s  scrìrefa, 
E  pane  et  acqua  dascon  A  le  dava. 
Ma  già  DOD  efa  per  parola  sua. 
L'imperatore  sì  lo  comaodaTa, 
E  però  altro  fame  dod  poteta: 
Dì  Margarita  molto  era  dolente. 
Dico  di  lui,  e  eoo  moir  altra  gente. 

XXB. 

Standosi  sola  in  carcere,  peosara. 
Sempre  adorando,  a  Cristo  ommpot«te: 
Da  totte  Tore  si  raccomandai 
Con  pianti  e  con  sospiri  fortemente: 
E  quando  pose  mente,  rigoardaTa 
Un  drago  oscir  di  terra  (12*  arditamente: 
Di  bocca  gli  nscìa  foco  e  gran  fetore; 
E  qoeUa  disse:  aiotami.  Signore! 

xxm. 

E,  come  fossi  m  terra,  impditfio: 
Non  gii  rimase  neente  colore: 
Segoi>ssi.  e  disse:  aiatamì,  mio  Dio  (13;, 
Tu  cbe  del  moo*!*)  fosti  ordinatore! 
Misericordia  del  peccato  mìo. 
Tn  cbe  ri^L>mpierastì  fl  Creatore  fsicf! 
AUo  mio  caor  te  presta  tanta  possa, 
Cbe  qoe:slo  <fra^  oflfeiider  non  mi  possa. 


XXIV. 

R  (]u3ndo  l'orazìon  ebbe  fornita, 
Quel  drago  si  si  mosse  all'adirata: 
La  bocca  aperse  ed  ebbela  inghiotlita, 
E  dentro  nel  suo  corpo  I'  ha  cacciata. 
Tanto  qui  crebbe  santa  Margarita, 
Che  crepò  il  drago  et  essa  fu  campata. 
Più  ne  usci  bella  assai  che  non  c'entroel 
Allora  in  piana  terra  inginoccLioe  : 

XXV, 

Grazie  ti  rendo,  o  altissimo  Padre, 
Che  m'bai  tratta  del  corpo  del  dragone: 
Anco  ti  priego  per  la  tua  pietade , 
Che  dii  conforto  alla  mìa  passione; 
Ch'io  la  sostenga  con  iimilitade, 
E  non  ci  senta  tribulazTone , 
Che  per  tuo  amore  la  voglio  soffrire: 
Fortezza  dammi  infino  al  suo  finire. 

XXVI. 


Guardando  la  pulcella  delicata, 
E  un  altro  gran  demonio  le  aparia: 
La  feccia  a  forma  d'uom  avea  formata, 
E  di  quel  luoco  lui  non  si  parila. 
Croce  si  fece,  essendo  scapigliata, 
Dicendo:  aita  (14),  o  vergine  Maria! 
Presel  pHr  li  capelli  e  gittò  in  terra, 
Dicendo:  vien  tu  qui  per  farmi  guerra? 


xxvn. 

E  quel  demonio  aDora  le  rì^)ose: 
0  HargariU,  lasduni  e  noo  fare; 
Le  tae  oranoo  soo  a  oooclose, 
Cbe  difender  ood  mi  posso  uè  drizzare  (sic). 
E  quella  il  piede  ritto  m  capo  impose, 
Diceodo:  bdro,  mi  vien  ta  a  tentare 
Ch'  io  soQ  sposa  di  Cristo  benedetto? 
Or  ti  leva  da  me,  can  maled^to. 

xxvra. 

Guardando  in  la  prigion  vide  ona  croce. 
La  qaal  splendor  grandissimo  rendia: 
Una  colomba  vide  con  gran  lace. 
Di  sopra  a  quella  croce  si  ponia: 
A  lei  parloe  e  disse  ad  alta  voce: 
Ora  non  dubitar,  figliuola  mia; 
Gli  è  certo  che  tu  vìnci  ogni  battaglia; 
SeM  corpo  paté  pene,  non  ten  caglia. 

XXK. 

Or  santa  Margarita  s' allegrava 
Di  quel  che  la  colomba  gli  avea  detto: 
In  piana  terra  si  s'inginocchiava, 
Rendendo  grazie  a  Cristo  benedetto; 
E  Io  demonio  falso  addomandava: 
Ora  mi  dici,  falso  maledetto; 
Onde  venisti,  e  che  va' tu  facendo? 
Io  ti  scongiuro  che  1  venghi  dicendo. 


XXX. 

E  quel  demonio  le  rispose  altun: 
0  gemma  Margarita  genitrice  (sic). 
Se  volete  ch'io  dica  mìa  natura. 
Levate'!  vostro  pie  di  mia  cervice. 
Et  io  prometto  a  vostra  fede  pura, 
Ch'io  li  risponderoe  (15)  a  ciò  che  dice. 
E  quella  levò  il  piede  e  dèlli  posa; 
E  quello  venne  contando  ogni  cosa. 

XXXI. 

Or  qoesto  Tu  primo  cominciamenlo, 
Che  a  Margarita  si  cominciò  a  dire: 
Dal  Signor  senti  posto  a  dar  tormento; 
Ciò  che  comanda  convenmi  obbedire, 
E  non  eh'  io  senta  alcuno  pensamento 
Che  lande  a  Dio  mi  convien  seguirò  (sic). 
Et  io  mi  parlo  e  voe  incontinente, 
E  tutta  ne  conturbo  la  sua  mente: 

XXXII. 

Le  cose  brutte,  belle  fo  parere, 
E  toglioli  lo  senno  e  la  scienzia; 
Conturboli  et  accieco  il  suo  vedere 
E  non  li  lascio  levar  penitennia; 
E  lo  mal  far  so  sì  bene  imbellero. 
Che  già  di  Dìo  sì  non  ha  temen/ia. 
Ora  i'ho  detto  a  voi  la  mia  natura, 
Or  dite  a  me  la  vo-stra,  o  vefgìri  pura. 


—  424  — 


xxxm. 


E  quella  presto  si  gli  prese  a  dire: 
0  ladro,  falso,  che  cerchi  iDgannare, 
Ch'io  noD  mi  degDo  (16)  di  te  reverire, 
E  tu  npD  mi  se' degno  d'ascoltare: 
La  grazia  di  Dio  tu  dod  può' sapere. 
Ch'ella  è  quella  che  mi  fa  parlare  : 
Et  io  dalla  sua  parte  ti  scongiuro. 
Contarmi  il  fatto  tuo  senza  dimuro. 

XXXIV. 

Allora  le  rispose  con  tremore 
E  con  sospiri ,' forte  lacrimando: 
Che  Satanasso  è  degno  mio  signore; 
Esso  è  quello  che  me  fa  gir  penando; 
Ma  io  ti  scongiuro  per  Cristo  Signore, 
Che  tu  mi  facci  quel  ch'io  ti  domando; 
Che  mi  rinchiudi  nella  tua  balia, 
Ch'  io  non  tomi  sotto  sua  signoria. 

XXXV. 

Salamon  (17)  ci  rinchiuse  in  un  vasello 
Che  non  andasse  attorno  fra  la  gente: 
Dopo  sua  morte  venne  un  ladroncello. 
Che  quel  vasello  aperse  incontinente: 
Ognun  ne  usci  volando  come  uccello, 
E  tutta  Taer  ne  impimo  certamente: 
D'allora  in  qua  giammai  non  ci  posamo. 
Se  non  come  alla  gente  (18)  danno  faciamo. 


XXXVl. 

Allora  li  rispose  Margarita: 
Lo  vostro  parlamento  lutto  pule: 
Or  prestamente  la  da  me  partita: 
A'ostre  malvagità  son  cooosciate! 
Piangendo  andate  nella  vostra  vita 
Delle  vostre  anime,  che  son  perdute; 
Et  io  mi  Taccio  il  segno  della  croce. 
Strìdendo,  si  partìo,  ad  alta  voce. 

XXXVII. 

Poi  l'altro  dì  che  venne  la  fé  trare 
L'imperatore  fra  tutla  la  gente, 
E  disse:  'l  mio  dio  tu  viioh  adorare? 
Ora  a  me  rispondi  incontanente. 
E  quella  disse:  i'non  voglio  pensare; 
Risponder  si  ti  voglio  allegramente: 
Il  vostro  dio  è  sordo,  muto  e  cieco, 
E  lo  mio  Dio  sempre  sta  con  meco. 

xxxvm. 


Disse  l'imperatore:  or  la  spogliate, 
E  in  allo  l'appendete  per  la  mano, 
E  con  le  verghe  tanto  la  frustate, 
Che  non  rimanga  nullo  membro  sano: 
Il  nostro  dio  disprezza  in  ventale, 
E  dice  eh'  el  è  sordo,  muto  e  vano! 
Apparecchiale;  fuora  il  gran  tormento. 
Et  obbedite  il  mio  comandamento. 


—  426  — 
XXXIX. 

Or  stando  nel  martirio  fortemente, 
Ad  alta  voce  ella  cominciò  a  dire: 
0  lesa  Cristo,  Padre  omnipotentel 
Tu  sulla  croce  volesti  morire, 
Aiutami  da  questa  falsa  gente 
Ch'  io  non  possa  giammai  consentire  : 
Da  lor  difendi  mia  virginitade: 
A  te  piaccia,  Signor,  per  tua  pietadel 

XL. 

Quando  Timperator  questo  intendia. 
Che  air  alto  Dio  si  raccomandava , 
Del  suo  martirio  forte  si  dolia, 
E  molto  dolcemente  la  pregava: 
Or  credi  a  me,  dolce  speranza  miai 
Allo  martirio  non  star  cosi  prava. 
E  quella  disse:  taci  e  non  parlare, 
Che'l  mio  martirio  in  gaudio  de  tornare. 

XLI. 

Allora  con  grand' ira  comandoe. 
Che  stretta  per  le  man'  fosse  legata  ; 
Et  una  conca  d'acqua  apparecchioe , 
Qual  era  molto  cupa  e  smisurata; 
E  con  sua  bocca  la  sentenzìoe 
Col  capo  sotto  la  fusse  cacciata 
In  cotal  modo  ch'ella  qui  morisse. 
Acciò  che  più  martirio  non  sentisse. 


Quando '1  suo  corpo  nell'acqna  fa  messo. 
Tutta  la  gente  slava  a  riguardare: 
Tremò  la  terra  giù ,  fin  all'  abisso  ) 
Ogni  persona  cominciò  a  tremare. 
Una  colomba  lì  venne  per  messo, 
E  Margarita  prese  a  confortare: 
Levati  su ,  che  Dio  non  t'  abbandona  ; 
Per  te,  pulcella,  arreco  la  corona. 


Allora  si  rizzoe  incontinente, 
Et  air  alto  Signor  rendè  salute: 
Te  laudo,  lesù  Cristo  omnipotente, 

i  grazie  vengono  adempiute. 
Venne  una  voce,  e  disse:  allegramente 
Le  vostre  orazTon  son  ricevute: 
Verrai  a  me,  figliuola  delirata, 
A  ricever  gloria  in  vita  (il)  beata. 


—  428  — 


XLV. 


La  gente  cbe  d  stava,  era  in  pensiero: 
Quando  che  vider  la  terra  tremare. 
Far  cinque  miglia  cbe  m  convertero, 
E  tatù  quanti  si  fer  battezzare! 
Allora  qud  malvagio  rio  imperiero 
A  tatti  quanti  fé  il  capo  mozzare; 
E  die  sentenzia  tosto  alla  spiegata, 
Cbe  Margarita  fosse  decolbta. 

XLVI. 

Levato  fne  m  pie  lo  mal  fiittore 
Incontinenti  /  a  cui  fu  domandato. 
Fecesi  a  le?  con  grave  furore, 
Misse  mano  alla  spada  cfa'^avea  a  hto: 
0  Margarita,  misera  in  dolore. 
Di  questo  fatto  mi  prende  peccato! 
China  lo  capo,  di'  io  non  ho  altro  a  &re. 
Che  detto  m*"  è  di'  i'  te  '1  debbia  mozzare. 


;-ii  V.  1 


E  quella  li  rispose 
Or  ti  sostieni  un  poco  per  poche  ore, 
Ch^  io  preghi  Jesà  Cristo  omnipoteote, 
E  sìe  per  me  et  ogni  peccatore, 
Cbe  mi  difenda  da  quei  fuoco  ardente. 
Là  dove  è  sempre  puzza  con  fetore. 
E  quello  le  rispose:  vokntieri; 
Pregate  Dio  quanto  vi  b  mestieri 


XLvni. 


' 


E  quella  disse:  o  Iddio,  cbe  mi  creasti, 
La  prece  mia  ti  piaccia  d'  ascollare  : 
Con  le  tue  mani  lo  ciel  misurasti, 
E  poi  la  terra  partisti  dal  mare, 
E  r  uomo  alla  tua  immagine  Tormastì , 
E  volesti  morir  per  noi  salvare! 
Però  li  priego,  allo  Signore  Iddio, 
Cbe  intmdere  a  te  piaccia  lo  dir  mio. 

XLIX. 

Chi  pensarà  nella  mia  palisi  one. 
E  nel  suo  cuore  n'ara  rimembranza, 
D'ogni  peccalo  abbia  remissione: 
0  Jesu  Cristo,  per  la  tua  pietanza 
Difendilo  da  Iribulazione, 
Et  alla  fine  dagli  consolanza: 
A  chi  legge,  0  chi  l'ode  per  mio  amore, 
Gli  suoi  peccali  perdona,  o  signore: 


La  casa,  dove  (fuella  itarà  Kiilla, 
Da  me,  Signor,  la  tua  grazia  m  tìnta  : 
Femina  in  parto  non  fi  muoia  afflilU, 
Né  ereda  non  ci  nas<;a  macnlala. 
Ne  dal  demonio  non  sa  malarlitU; 
Notte  né  di  non  pò**»  en^r  UitrMiM: 
Nullo  peric<jl  li  poetila  inwnlrare; 
A  le  piaccia.  Sigtirjr.  dw  lo  piwi  ferii. 


—  430  — 


LI. 


Vedendo  Cristo  la  sua  prece  dritta. 
Una  colomba  bianca  le  mandoe 
Con  una  croce  in  bocca  ben  fornita, 
Che  tutto  quel  tal  luoco  allnminoe. 
Parìoe  e  disse  a  santa  Margarita  : 
Cristo  per  messo  mi  manda,  e  si  son  soe  (sic); 
E  dice,  che  la  vostra  prece  è  intesa; 
A  ciò  eh'  hai  detto  non  sarà  difesa  ; 

Ln. 

E  ciò  ch'hai  detto,  abbi  per  certanza. 
Dall'alto  Dio  si  è  stato  ascoltato: 
Chi  per  tuo  amor  li  chiede  perdonanza , 
Dalla  sua  parte  ben  gli  è  perdonato. 
Or  ti  conforta,  non  aver  turbanza, 
Che  lo  suo  regno  a  te  è  reservato: 
Fra  tutte  T  altre  vergini  starai, 
E  sempre  la  sua  faccia  vederaì. 

LUI. 

Allora  disse  santa  Margarita: 
Or  ti  fa  innanzi  tu,  che  dei  mozzare. 
Che  troppo  ci  son  stala  in  questa  vita: 
Per  Dio  ti  prego,  non  m'indugiare! 
Farmi  mill'anni  ch'io  faccia  partita, 
Che  l'alma  mia  si  vada  a  riposare: 
Al  primo  colpo  ti  prego  che  facci. 
La  testa  dal  busto  che  tosto  (22)  spacci. 


—  432  — 


LVU. 


AUon  tatti  gli  angel  si  motaro, 
E  sa  DdPaer  ne  feoer  gno  canto, 
E  Talto  ^gnor  Dio  rìngraziaro: 
Cìascao  dicea:  santo,  swto,  santo! 
Infino  allo  soo  corpo  si  bassaro. 
Dove  la  gente  ne  C^ea  gran  pianto. 
Benedicendo  il^soo  corpo  benegno: 
Poi  rìtomomo  in  delo  al  santo  regno. 

LVm. 

E  li  denonii  T'aodonio  a  Tedere: 
Con  graie  strida  e  grare  pestilenzia 
MalaÀeeano  tatto  Q  loro  sapere, 
E  lor  sattflitate  e  lor  potenzia: 
Il  Signore  d  b  pena  soliere ,  (23) 
Che  non  poieno  rkicer  la  soa  scàeniìi! 
Piangendo  e  bcrònaodo  si  parteroo. 
Et  in  fira  loro  gran  romor  sì  fierao. 

LDL 

n  goanfian  che  la  prigioo  goardoe 
Sì  prese  k>  suo  aìrpo  deficato, 
E  con  grao  referenzia  k>  portoe, 
E  dentro  da  an  t^el  pOo  Tha  potsalo. 
E  1  Bai  telar  che  1  capo  di  mìa» 
Tati*  era  già  ce»  hy  actioaafMBlo. 
Pìiowodd  e  tarrìBMMk)  fra  le 
Dì  qMl  €b*af«  fatto  eia  doteote. 


Sempre  giva  dicendo:  o  Margarita! 
Deh  t  priega  Cristo  che  non  m'  abbandoni  t 
Quando  che  io  verroe  a  mia  Unita, 
Questo  peccato  e  gli  altri  mi  perdoni! 
Oimè,  dolente I  trista  la  mia  vita! 
Pianger  io  debbo  a  tutte  le  stagioni, 
Quando  ricordo  (24)  della  tua  pietanza  : 
A  Cristo  per  me  chiedi  perdonanza. 

LXI. 

Qnesrè  la  verità  senza  mentire, 
Che  Palma  sua  fu  salva  alla  fìnita, 
Il  guardian  che  la  fece  seppellire, 
E  Punoe  P  altro  andò  in  gloria  adimpita. 
Qualunque  persona  che  viene  al  morire, 
Si  s'arricordi  di  santa  Margarita. 
Or  tu  la  prega  con  molta  reverenzia, 
Che  lei  ci  scampi  dalP  infernal  sentenzia  (sic). 


(1)  Lez.  test  casliUUe  al  suo  creatore, 
(f)  contar,  il  cod. 

(3)  passò,  il  cod. 

(4)  Se  l'è,  lì  cod. 

(5)  Ch'ai  tutto  lui,  il  cod. 

(6)  che  da  giudei,  lez.  lest 

(7)  farolli,  il  cod. 

(8)  Quando  Margarita  frustare  vedeano;  lez.  test 

(9)  I  nostri  antichi  si  rìmaser  contenti  talvolta  nell'  oso  de 
alle  assonanze,  come  nel  caso  presente,  che  l'Autore  ha  Yolato 
dura  con  furora  e  dimora.  Co^  in  Giulio  d*  Alcamo  troTiamo 
ventura  :  ne*  Documenti  del  Barberino  destro  con  presto  .*  in  E 
segna  con  islagna,  ed  altri  molti  de' così  &tti;  come  pur  trover 
alla  stanza  18,  fece  con  dice  e  cornice;  e  alla  SI  sua  con  j 
e  poteva;  e  alla  25  padre  con  pietade  e  umilUade;  e  alla  28  ì 
croce  e  wce,  e  così  altrove  diversi  altri. 

(10)  E  quella,  il  cod. 

(il)  0  empio  e  malvagio,  lez.  test 

(12)  Un  drago  che  uscio,  lez.  test. 

(13)  Segnassi,  e  disse  aiutami  Dio,  così  il  cod. 

(14)  aitami,  così  il  cod. 

(15)  Anche  Io  scambiamento  de' numeri  fu  comune  agli  an 
prof.  Nannucci  ne  riporta  molti  ess.  nel  suo  Manuale:  ecconc 

In  Bonaggiunta  Urbicciani: 

J)a  voi  sì  dipartìo 
La  bellezza  e  l'onore 
E  non  sei  quella  di' eri. 


—  i35  — 

E  in  Cinlto  d'Alcamo: 

per  Ib  Mn  aiù  abenlo  nolU  e  «Ut. 
Pitisarulo  jiur  di  voi.  Madonna  nu& 
.  E  qui  più  sotto,  alla  sLania  U: 

Le  voilre  oraiion  lon  ripreu/c. 
Verrai  a  ut,  figliuola  ddicala. 

(16)  non  degni,  così  il  cod. 

(17)  Cht  Salamon,  così  il  cod. 

(18)  Alcune  Toci  dagli  aniidii  si  scrirpvano  in  od  modo  e  si  pro- 
àswo  in  un  altro,  accorciando,  e  troncando  come  in  ijucllo  Icnni- 

■  in  etile,  in  endo,  in  andò  e  simili. 
Pier  delle  Vigne  : 

Che  m'ha  inalzato  curalmenle  d' amama. 
Kazieo  Ricco: 

Come  faccio  eo  diveitetido  geloso. 
I  te  TOci  eoralmtnle.  parenti,  diiienendo.  ce.,  come  di  ragione  osser- 
ItS  Nanaucci,  per  la  giusta  inisara  del  verso,  vogliono  essiir  pronun- 
e  ooralmen',  paren',  di  venen'  ce.  Cosi  nel  nosiro  caso,  in  iscnm- 
^  di  genie,  leggeremo  gen'. 

(19)  allora  eon  gran  pianto,  ki.  tesi. 
(SO)  fanima.  iei.  test. 

(ti}  la  gloria  di  vita:  cosi  il  cod. 

(S3)  La  lata  dal  busto  elte  lotto  la  ijiacci.'  coiii  la  lei,  tetl. 

(33)  Il  lesto  legge:  Il  Signor  nostm. 

(il)  rieordotiii;  cosi  la  !cz.  lesL 


DELLE  CUtTE  DI  ARBOREA 

:  POESIE  VOLGARI  LN  ESSE  C0> 

tsua  carneo 

M  OBOUMO  WTTLLÌ 

I^JILIH  bi   rXi   LEITEkA 


D-(l) 

St  lÉ  «b  A  quatto  die  già  osservammo 
strillo,  voglia   lunaria  il   teli 
i  doaunemi  sardi  <;  quelli   e 
■  ••  coQgum^iQo,  benché  veouti  ru< 
forte  d'Un.  e'ttoiTi  aocbe  rassegnarsi  ad, ai 
a  1.*  Cht  ^  taliaai  ebbero  una  letterata 
I  fa  aderito  sioora,  aoteriOTe 


—  437  — 
4."  Che  in  Firenze  ccdIo  anoì  prima  della  uscita 

i  di  Federicn   di    Svevia    v'  era    una    fiorente   scuola    di 

k  poetica  letteralara;  > 

5.°  Cbe  linatmente  al   tempo    di   quegli   aDtichissimi 
i  erasi  già  formata  la  così  detta   lingua  comune   itji- 

1(1}. 


(1)  Le  prime  quallro  dednzioni  sono  ammesse  e  treqneaieateoie 
tale  da' sosieni  tori  il  eli' amen  lìciti!  delle  cane  sarde  (V.  Bftndi,  pas- 
,  Ctauti,  op.  ciL  p.  ì,  Oìossa,  p.  SS);  che  poi,  ammessa  la  sin- 
k  delle  carie  arboreesi,  debba  ancbc  Deccssariamenle  ammeliersi 
alleno  di  una  lingua  comuae  italiana  bella  e  funiiala  nel  XU  secolo, 
j^nione  sosienula  ripeluiamenle  dal  sig.  Baudi,  e  basta  rigtwlar  qual- 
1  de'  supposi!  antichi  poeti  per  pr«Tarlo. 
Bruno  ile  Thoro.  cagliaritano  {11)0-1306)  io  Hartiiii  App. 
(  Da  quel  d)  che  con  pìb  giocando  viso  Ascoliasli  pietosa 
l'  meo  orare,  F.  temprando  le  labia  a  dolce  riso  L'  alma  di  gioj  '  mi  fe- 
e.  Tale  allegranza  pari  a  paradiso,  Cli'  altra  quaggifi  non  evfi 
tggian  lo  me  dimom  ognor,  e    piue    l'atiso   Se  lue   bellezze  in- 

ìembrare  etc.  >. 

Lanfranco  ik  Bolasco.  genovese  (inorlo  poco  dopo  il  1162)  in 
,  p.  489:  —  t  Onde  trovar  piacere  Nel  TOslro  orto  vcrduto 
'  [uore:  Che  mi  fu  cerio  a  cuore  Fiori  galden ti  e  alberi  gityosi. 
gustosi.  Di  gl'amie  vabmniio  e  di  dolciore,  Non  Tur  certo 
i.  Né  galdeaiì  e  gradivi,  a  meo  viso.  Quelli  del  paradiso  etc.  t. 
Àldobrando  da  Siena  (HI2-tl8G)  in  Kartìsl,  App.  p.  110:  — 
Dli  e  più  vidi  giovano  giojose  In  dilettoso  e  bel  giardino  ameno, 
,  pcH  colle  le  venniglie  rose  Ed  altri  ilori,  ne  abbelluvan  seno;  Poi 

)nì  ed  amorose  Rendean  quel  loco  d' allegranti  pieno  etc.  *. 
Aggiungerò  anche  il  madrigale  ormai  notissimo  del  grandi  homttie 
lam,  che  sarebbe  del  tlS7,  come  giusiamenie  osserva  ilsig.  Baudi, 
a  del  IfST,  come  erroneamente  trotiamo  scrino  nel  memoriale  di 
a  de  Orru.  —  <  Ahi!  disveniara,  la  Tede!  Co  ri  n  la.  Bella  qual  rosa 
r  giardin  piacente,  Ch'a  li  chiari  occhi  suoi  diceasi  vinta  1^  luna 
ilendcnle,  Morbo  Talal  da  lo  meo  sen  divìse,  E  lo  meo  cor  conquise. 
'',  pietosi  pastori,  al  pianto  meo  Lo  roilro  pure  unite.  E  mesti  a  pie 
mo  dite  De  le  ninfe  l'onor,  ahi  deitiu  reo!  Lo  nostro 
re,  qui  Corinia  giace;  Possa  gauder  tra  li  tilrì  eUn^ 


—  438  — 

Giorfio  dì  Latoo  oetla  soa  lettera  al  nipote  Piel 
prìoio  d  dice  qualche  cosa  di  un  Amiio  de  Tharo 
€  italkoram  canniniim  >  (Race,  p.  147).  Vennero 
altri  stfaiarimenli  e  altre  poesìe,  come  soleva  avrer 
fia  per  tntte  le  altre  carte  arboreesì  (redi  Perg.  m  ] 
138;  Foglio  cartac.  VOI  p.  489^;  cod.  csiac  VI  eti 
Coà  sì  ebbero  ancbe  notizie  di  on  Lanfranco  de  ì 
geooTese,  e  si  troiò  andie  on  frammento  di  prosa 
sia  italiana  doTUto  a  penna  sarda  del  XII  secolo, 
babìlmente  ad  Elena,  una  delle  tre  figlie  di  G 
d'Arborea  (1).  In  Italia  però  non  si  fece  gran  < 
questo:  ma  la  Tortona  ToUe  confimnare  solennem< 
sincerità  di  lotta  la  fiuraggìne  dei  codici  sardi.  Ess 
donqae  T  ingegnosa  idea  di  Cu*  capitare  in  mano 
palermitano  doe  codici  di  antiche  poesie  italiane, 
palarmitano,  al  qoale  dovremmo  appropriare  on 
che  non  sarebbe  qoello  di  galantocmio  (2),  li  arrebl 
vati  in  loogo  di  coi  non  ci  dà  notizia  (3)  dorante  ì 
busii  del  1860,  e,  ad  onta  della  soa   ignoranza,  \ 


Se  è  fero  che  per  Eir  la  crìtica  dì  antichi  monainenli  lett 
bisogno  più  che  altro  di  on  certo  sentimento  storico  dell'età 
Toirebbero  riportare,  dovrà  ammetti^rsi  che  i  sostenitori  delk 
rilà  delle  carte  d*  Arborea,  a'  quali  non  dà  punto  sospetto  on 
gale  con  le  ninfe  e  i  pastori  nel  Xll  secolo  (e  sin  pure  nel 
intendano  la  critica  un  pò*  troppo  a  modo  loro. 

(1)  Come  di  questi,  si  ebbero  anche  notizie  di  sardi  meno 
poetanti  in  lingua  italiana,  del  qual  numero  sono  Torbeno   Fall 
fino  Chelo,  Francesco  Carau,  )iichele  Conco,  Gavino  Garobela, 
vescovo  di  Ploaghe,  Antonio  Pira  etc.  (V.  KaitiBi, /fi/rodtfs.  pi 

(2)  Non  esito  a  pronunziare  siflatto  giudizio  soU'anonii 
lermitano,  perché  non  credo  si  trovi  veramente  fra  quanti  ma 
bevono  e  vestono  panni  in  Sicilia. 

(3)  Ognuno  ricorderà  come  le  carte  del  Manca  abbiano  ancl 
la  stessa  origine  misteriosa. 


—  439  — 

~poluto  lecere  il  nome  di  Firenze  nell'  uno  e'  HT  Sigi»  ' 
nell'  allro.  pensò  di  mandare  P  uno  al  gonfaloniere  di 
Firenze  e  l'altro  a  quello  di  Siena  con  lettera  anonima 
tn  cui  diceva  :  «  essergli  sembrato  die  restituire  i  versi  di 
»  antichi  poeti  {alle  ciltà  cui  appartenevano)  sarebbe  alto 
>  di  giustizia  e  al  tempo  slesso  dì  riconoscenza  verso  i 
■  generosi  Tratelli  italiani  che  con  tanto  sacriflcio  opera- 
•  rono  la  redenzione  della  patria  u .  Aggiungeva  poi  come 
lo  avesse  spinto  a  mandarli  il  desiderio  di  saperne  il  con- 
tenuto ,  e  perciò  esorlava  con  notevole  insistenza  a  darne 
qualche  notizia  ne'  pubblici  diarii. 

Certo  è  qni  da  ammirare  nuovamente  il  saggio  pro- 
cedere della  Fortuna  la  quale,  ne'  trambusti  della  rivolu- 
zione palermitana,  fece  capitare  queste  preziose  carte  in 
mano  appunto  di  chi  non  era  tanto  ignorante  da  gettarle 
al  fuoco,  0  venderle  al  pizzicagnolo,  né  così  poco  dotto  da 
non  prevedere  (sebbene  e' non  sapesse  leggervi  dentro) 
cbe  la  loro  vera  sede  doveva  essere  in  Siena  ed  in  Fi- 
renze. Ne  per  un  pezzo  si  fece  motto  di  queste  carte; 
che  non  era  impresa  da  pigliarsi  a  gabbo  quella  dMn- 
tenderci  qualche  cosa.  Finalmente  Adolfo  Barloli,  nella 
prefazione  a'  viaggi  di  Marco  Polo,  fé  menzione  del  codice 
Oorentino,  ne  pubblicò  un  sonetto,  e  congetturò  che 
r  autore  Aldobrando ,  dovesse  farsi  discendere  un  se- 
colo più  giù  della  data  fornita  dal  codice.  Intanto  il  28 
Giugno  1865  il  Manca  vendeva  al  Martini  due  nuovi  codici, 
di  cui  già  qualche  tempo  prima  gli  aveva  dato  contezza 
{Àpp.  p.  115  segg.);  e  il  22  .\gos.to  dello  stesso  anno  il 
Martini  inviava  una  lettera  al  Coinm.  Zambrini,  facendo 
noto  per  tal  modo  che  in  uno  de'  duf^  codici  acquistati 
si  contenevano  più  o  meno  le  stesse  materie  del  codice  fio- 
rentino e  se  ne  confermavano  le  Jate.  Letta  la  lettera  del 
Martini,  il  Grottanelli,  bibliotecario  di  Siena,  gli  s 
aonanziandogli  che  nn  codice  delio  stesso  geoe'* 


—  440  — 

remino  e  del  cagtònitano  lrova?asi  nella  sua  bi 
fin  dal  1862,  anno  in  coi  era?i  stato  mandato  d 
nimo  palermitano. 

Il  lettore  ricorderà  che  anche  per  le  carte  i 
Boemia  trovammo  che,  come  dice  il  Paris»  e  un 
scrit  fot  mysterieosement  envoyé  au  Musemn  nati 
Pragoe  »  e  che  in  on  foglio  di  pergamena  trovai 
biblioteca  di  quello  stesso  Moseo  si  conteneva  un 
poema  epico-lirico,  e  qui  se  troava  anssi  dans  le  ms. 
niginhcrf  > .  Qaesti  non  sono  certo  argomenti,  ma  ; 
molto  significative:  né  è  senza  importanza  il  vedere  co 
raccolte  di  carte  egualmente  solite,  sien  venute  a 
tanta  distanza  di  luoghi  e  di  tempi,  colla  stessa  parti 
di  casi  concomitanti.  Analogia  perfetta  troviamo  ani 
la  scoperta  dei  codici  sardi  e  quella  de^  codici  fiore 
sanese.  Quelli  mette  foorì  il  Manca,  né  ci  dà 
precise  della  loro  provenienza,  forse  (dicono  i  or 
perchè  non  ne  era  aflatto  legìttimo  possessore  col 
glieli  aveva  affidati;  questi,  li  manda  un  palermita 
scrive  soltanto  una  lettera  anonima,  forse  pere 
non  erano  roba  sua  :  sicché  gli  uni  e  gli  altri  hanno  U 
macchia,  quella  del  peccato  d'orìgine,  che  se  pui 
sulla  specie  umana,  non  è  verisimile  non  abbia 
valore  trattandosi  di  opere  della  mano  dell' uomo. 

Oltredichè  tanto  ne' codici  sardi  quanto  ne't 
se  diamo  un'  occhiata  alle  indicazioni  della  lor 
gine,  troveremo  conformità  certo  non  insignifìc 
codici  arboreesi  sarebbero  roba  degli  archivii  di  Oi 
dove  una  serie  di  principi  dotti  e  amanti  di  cron 
di  versi  nel  XIV  e  XV  secolo  li  avrebbero  fatto 
gliere;  ì  codici  toscani  dovremmo  ripeterli  da  un 
e  da  un  tesoriere  di  Sicilia.  Così  negli  uni  come  n^ 
le  indicazioni  della  provenienza  son  fotte  con  la 
precisione  e  con  le  stesse  solite   formule;  e  Tes 


—  441  — 
Sùie  biograRche  (Baudì,  Memoria  etc.  p.  31} 
ne' codici  toscani  conlenate,  non  avrebbe  risrX)ntro  se  non 
ne'  codici  sardi ,  che  già  sappiamo  qual  mirabile  cosa  sieno 
scilo  queslo  rispetto.  E  se  aggiungiamo  che  anclie  i  codici 
fiorentino  e  sanese  si  compiono  a  vicenda  col  cagliaritano  (1) 
e  che  tra  gli  uni  e  gli  altri  c'è  concordanze  persino  or- 
tografiche (Baudi,  ibid.),  avremo  argomento  da  so- 
spettare che  la  pretesa  scoperta  degli  uni  sia  molto  con- 
nessa collo  strano  modo  di  comparire  degli  altri.  Ma  più 
che  per  altre  vie,  la  stretta  parentela  de' ms.  toscani  coi 
sardi  si  rivela  da  (fuelle  indii^zionì  in  latino  di  cui  abbon- 
dano, e  che  basla  scorrere  per  non  dubitare  che  escano 
dalla  stessa  ofticina  {2).  Che  se  poi  vogliamo  procedere 
col  principio  cassiano  del  *  cui  hono  «  non  arriveremo 
a  conseguenze  diverse:  ecco  in  fatti  come  il  Martini  (che 
con  la  sua  buona  fede  e  il   patrio  zelo  non  sospetta  nep- 


(1)  P.  e.  il  codice  fior,  e  il  ssnese  (Bandi,  ib.  p.  9)  hanno:  — 
e  Et  ideo  ab  anno  sue  elatis  XVIII  (Aldobramitis)  rt:cit  ìllum  vulgo  So- 
ncto  ad  Jhcsum  crucilìxum,  quod  pj|ic  lionorio  <licaTÌl,  ciim  alio,  qtioJ 
vero  perivi!  >.  Non  liispcrianio  ili  qacsl'  atiro  :  il  cod.  cagliariUino,  al- 
meno secondo  il  Bandi  (p.  *0),  ce  lo  conscrra. 

fi)  Cod.  Hot.  —  t  flìc  pnela  Aldobrnndus  naiua  est  in  civitate 
Sene  anno  Domini  MCXII,  et  oUil  anno  UCLXXXTl,  etaiis  suo  LXXIlt 

in  cÌTiiaii!  Panoroii,  ad  quam  confugit  in  eiircmis  sue  vite  annis. 

....  Magno  amore  e:ursus  ob  suam  linguam  iialicam,  ad  eam  incubuii, 
magnalo  operam  ob  id  poncris  ila  quod  carmina  latina  spcmens,  in 
qnibus  valde  perilus  eral,  italico  sermone  varia  carmina  scrìpt^iL . . , . 
Toi  vero  sua  carmina  pprierc  ob  illiu?  temporis  guerras,  ob  invi- 
di», ac  etiuui  '|uia  mullos  liabull  inimìcos  >. 

Cod.  cagliariL  —  i  Aldobrandus  senensìs  vcrsabatur  in  raultis 
scìenliìs  et  permaximc  in  sacris  scripturis  et  iheologia;  cognovit  pero- 
ptime  lingunm  latiuam  et  sluduit  eliam  propriam  sue   palrio,  qnam    aii- 

lit,    expurgavil,  ornavi t    el  expolivìl sed   multas  persecucioni'S 

snbslulit,  et  guerre   discrimina  et  emnios  el  varia   inrorlunia   passus 


L 


filali'  I  »  *- 


—  442  — 

pure  «n  dteooBSlo  nggìro)  magnifica  V  importaiu 
scoperta  di  dae  codici  toscani  per  la  dimostrazic 
r  antentìcità  delle  carte  sarde:  —  €  E  qui  noi 
dissinuilamii  il  sommo  compiacimento  mio  nel  v< 
de^  due  codici  fiorentino  e  sanese  con 
Si  può  chiedere  pmova  più  luminosa  della 
tenlidtà?  Pdò  darsi  un  migliore  argomento  di  qn 
che  ddle  altre  carte  di  Arborea  die  ascìvano 
stessa  Ibnte?  » 

E  chi  non  Tede  die  pel  fiilsarìo  era  an  n 
recidere  ogni  qoistione  soir  autenticità  delle  sne 
cationi,  quello  di  mostrar  codid  vaanti  a  luce  i 
parte  d^ Balia,  i  quali  corrìq[)ondendo  col  codice  i 
se,  senrirebbero  alla  loro  volta  a  confermare  la  i 
di  tutta  la  non  breve  serie  dei  codid  sardi?  Par 
che  avreno  ormai  a  scrìvere  in  quel  suo  bello  s 
tanto  si  ammira  nelle  indicazioni  sparse  a  larga  n 
codid  di  Arborea,  non  abbia  pensato  a  mutarla 
ponendo  i  due  codid  toscani:  ed  è  incalcolabile 
no  che  gli  deriva  da  tale  inescusabile  negUgenz; 
cosa  ormai  nota  che  per  essere  buon  falsario  non 
spensabile  aver  grandi  doti  intellettuali:  che  se 
queste  si  accoppiassero  a  quella  attitudine  imitali 
pria  di  chi  esercita  il  turpe  mestiere,  forse  molt 
gior  copia  di  roba  falsa  passerebbe  per  sincera. 

Ora  che  abbiamo  visto  a  quanti  non  infondati 
dia  luogo   la  concordanza  de'  codici  toscani  col 
tano,  diremo  pure  qualche  cosa  delle  illazioni 
sognerebbe  trarre  da' nuovi  codid   ove  sinceri   v< 
reputarsi,  e  cominciamo  da  quella  prima  importa 
serzione  che,  cioè,  gP  Italiani  ebbero  una  letteratu 
riore  alla  provenzale  e  perciò  indipendente  da  essj 

Ebbi  a  provare  non  poca   meraviglia,  quand 
in  un  opuscolo  del  Martini  (Giudizii  opposti  etc 


«he  il  Littré  ■  aveva  trovali  degni  dì  profondi  stadi  i 
monumenti  tutti  d'Arborea  ».  Non  so  per  verità  se  il 
Littré  <it)bia  studiato  le  carte  sarde,  ma  se  nel  Luglio  del 
i864  o'  poteva .  a  priori  e  senza  esame  attribuisce 
grande  importanza  alle  carte  sarde ,  credo  che  oggi,  dopo 
la  pubblicazione  del  celebre  manuale  di  Gomita  de  Orni 
e  delle  poesìe  italiane  anteriori  ad  ogni  influsso  proven- 
zale, avrà  di  molto  modilìcalo  il  suo  giudìzio  su  carte, 
che  se  concordano  colle  idee  pììi  comuni  e  volgari  intorno 
alle  lìngue  neolatine,  si  oppongono  ai  risultamenti  più 
arrerati  e  sicuri  della  scienza  moderna.  Non  dimentichiamo 
che  le  carte  d'Arborea  danno  al  Martini  (Ibid.  p.  7) 
il  diritto  di  chiamare  la  lìngua  italiana  <  la  primogenita  * 
delta  lingua  de!  Lazio,  e  di  farne  risalire  la  formazione 
al  tempo  di  Giustiniano.  Eppure  il  Littré  (Htstoire  de  la 
(angue  Fran^.  Paris,  1863)  era  ginnlo  per  via  scientifica 
al  resultato ,  che  •  e' est  la  langued'oc  et  la  langne  d'oB 
qaì  ont  T  antécédence,  contre  P  opinion  volgaire,  qui  attri- 
bnait  P  antécédence  à  PiUlìen  (L  p.XXXVII-XXXVm,  In- 
troduction)  * .  E  aveva  già  detto  altrove  [Journal  des  savanu, 
1858  ;  cf.  Hisioire  de  la  langue  Frane-,  U.  ^2-3)  :  •  À  la  lan- 
gne des  Gaules  appartieni,  avec  la  prìorité  phìiologiqiie 
la  prìorité  de  production;  e' est  là  que  commeocent  les 
oeuvres  nouvelles  eie.  •  (cf.  anche  II,  286).  Or  (pieste 
conclusioni  del  Martini,  tratte  da' nuovi  monamenti  sardi, 
le  quali  non  permettono  certo  al  Littré  di  prestar  fede 
alle  carte  arboreesì ,  come  quelle  che  ripngnano  del  latto 
alle  leggi  piii  sicure  delle  lingue  e  letteralore  neolatine; 
hanno  forse  servito  ad  illudere  molli  altri,  specialmente  ita- 
liaoì.  die  grandemente  accarezzati  nella  vanità  nazionale  o 
mantcipale,  hanno  con  troppa  let^gerezza  acj!ettalo  come 
buona  merce  ciò  che  veniva  a  dar  loro  argomenti  da  sosto- 
nere  il  primato  Ungaìslico  e  letterario  del  loro  paese.  Uacio 


—  444  — 

da  parte  i  Sardi  che  io  latta  la  qoistiODe  delle 
d'Arborea  sono  troppo  interessati,  ma  gr Italiani  ii 
nerale,  non  scapiterebbero  di  certo,  ove  sinceri  ave 
a  reputarsi  i  codici  fiorentino,  sanese  e  cagliaritan 
par  egli  poco  per  gP  Italiani  che  una  serie  abbastanz 
merosa  di  documenti  venga  a  provare,  come  essi 
debbano  ninna  riconoscenza  a'  trovatori  di  lingua 
per  r  ingentilimento  di  quella  che  sarà  poi  la 
gua  di  Dante  e  di  Petrarca,  ma  debbano  invece  rìt 
questo  influsso  do'  provenzali  coma  gran  male 
alle  nostre  lettere  già  svolte  abbastanza ,  e  T  averli  i 
come  <  primo  frutto  di  quelle  che  il  Balbo  eh 
preponderanze  straniere  >  (  Guasti ,  p.  7  )  ?  Si  agg 
che  le  carte  di  Arborea  verrebbero  apparentemente  a 
glìere  non  pochi  dubbi  sul  primo  p^odo  della  i 
lingua  e  letteratura.  In  fatti,  come  mai  la  co^  detfa 
gua  comune  d'Italia  è  in  fondo  in  fondo,  il  dialett 
rentino  sollevato  a  dignità  di  lingua  scritta  ?  Ni^te  é 
semplice  :  nel  millecento  e  tanti,  e'  era  in  Firenze  un 
maestro  di  poesia,  Gherardo,  alla  cui  scuola  conva 
studiosi  da  tutte  le  parti  d'Italia,  Aldobrando  da  S 
Bruno  de  Thoro  da  Cagliari,  Lanfranco  da  Genova ,  Pe 
da  Siena,  Puccio  da  Pavia  ed  altri,  che  tutti,  tornati 
loro  case,  poetarono  in  fiorentino,  e  cosi  il  dialeti 
Firenze  si  diffuse  per  tutta  T  Italia. 

Se  poi  i  siciliani  usaron  anch'  essi  il  fiorentine 
prìmordii  della  nostra  letteratura,  non  si  creda  già 
le  nostre  carte  non  diano  ragione  anche  di  questo 
Aldobrando  da  Siena  perseguitato  in  patria  si  rìc< 
a  Palermo,  e  scolari  di  lui  certo  saranno  stati  i 
rimatori  della  Sicilia.  Gli  è  vero  che  una  tale  solu 
potrà  essere  difiìcilmente  accettata,  quando  si  tenga  i 
di  tanti  altri  fatti  della  nostra  antica  letteratura;  m; 
pare  probabile  per  chi   créde  che  la  formazione 


"flhgaa  e  della  letteratura  Italiana  era  per  noi  un  mito 
prima  che  le  peregrine  scoperte  dei  codici  sardi  ce  la 
piegassero  (1).  Certo  si  può  ammettere  in  tal  modo, 
ma  poesia  Italiana  anteriore  ad  ogni  ioQusso  proveii- 
sle:  sebbene  anche  cosi  opinando,  sarà  necessario  af- 
frontare diflìcollà  gravissime.  Ma  quando  invece  si  muovo 
da'  risultali  scientifici .  su  cui  non  è  lecito  il  dubbio , 
bisogna  confessare  che,  se  pnre  si  scoprissero  migliaia 
di  documenti  che  per  altre  vie  non  dessero  sospetto  di 
ftlsilà.  (e  non  è  di  certo  tale  il  caso  delle  carte  d'Ar- 
borea) non  si  dovrebbe  però  coirere  cosi  alla  lesta 
a  rifare  da  capo  tutto  l' edificio.  —  Se  è  provato  che 
la  lingua  e  le  lettere  Italiane  abbiano  assunto  forma 
d'arte  più  tardi  delle  allre  neolatine,  appunto  perchè  in 
Italia  più  che  altrove  l'antica  cultura  romana,  non  mai 
scomparsa  intei-amente .  impediva  lo  svolgimento  del  vol- 
gare; il  filologo  non  potrà  credere  a  chius' occhi  e  senza 
maturo  esame,  alla  sìnr^rità  di  documenti  che  suppon- 
gono il  contrario  di  ciò  che  egli  ha  scientilìcamcnle  ap- 
provato per  vero.  Se  le  ragioni  per  dimostrare  che  i  pri- 
mi Italiani  imitarono  dai  provenzali  fossero  oggi  le  Ktes-se 
di  quelle   addotte  dal  Varchi,  di   certo   bisognerebbe   ri- 


di Riporleró  un  brano  della  —  Storia  liAk  [^llirraiura  Iluluiiia — 
dd  de  Sanotìs,  non  prchè  io  voglia  cotitonikn:  il  Talfntn  crilici  am 
Unii  allri  da  mmo  di  lui,  ma  per  mosinrc  coititi  iBJfolu  dai  miKlloii 
ti  dia  occasione  alle  esageraiioni  dei  mediocri,  t  Coni';  e  quindo 
la  lingua  Ialina  sìa  ila  ìn  decomposizione,  quali  inno  i  dialclli  umII 
dillr  *Jrìc  idcrlù,  come  e  quando  ticnti  fonnite  Ik  linjiuc  nuum  r  uut- 
4ertie  neo-latine,  quando  e  rome  «icà  formalo  il  noilro  lolgarr,  ii  pn/, 
congtUurare  con  ptfi  o  meno  Trrì«i mig liana ,  ma  non  li  |h>A  tthrmant 
per  la  inNiflìcicnu  de'  docnmniii.  Ultr^tif ,  non  è  'jiitln  II  Uioft  M 
esaminare  e  cliiarìre  quisiioni  niolofficlM  di  «om  alio  inlcntHC,  — tuìji 
non  ancora  esausla  di  leliili  ed   ippiidonili  ^rfTTTfmi    a  fV«l.  ),* 


I 


—  446  — 

pndiarle  quando  nuovi  docomeoti  Yemssero  faoii 
moslrarci  il  contrario;  ma  oggi  non  è  più  lecito 
mersi  dobitatiTaniente  col  Yardii  (1)  e  dire  —  i  rii 
proreniali  furono  prima  dei  toscani;  pardo  à  pem 
essi  abbiano  dato  e  non  ricevuto  — ,  oggi  stfebl 
surdo  il  porre  in  duMm  che  ^*  Italiani  abbiano  ii 
dai  provenzali  le  forme  comuni  agli  uni  e  agli  altri 
Ma  sia  che  si  voglia  di  dò ,  esaminiamo  adess< 
da  vicino  la  quistione  ;  vediamo,  cioè,  se  possa  soste» 
tesi ,  che  gi'  Italiani  ^bero  una  letteratura  anterior 
provenzale.  E^  non  è  fuor  di  proposito  rammentar 
il  Faurìel ,  dopo  aver  toccato  delle  condizioni  politi< 
dvili  deir  Italia  medievale ,  aggiunge  :  —  €  Gomment 
serait-il  arrìvé  qu'  avec  tant ,  et  de  si  belles  données 
avoir  d'aossi  bonne  benre  que  possìble,  une  littéi 
originale ,  V  Italie  da  moyen  àge  n^  eut  eu ,  en  ce  g 
qu^un  début  tardif  et  servile?  Il  y  a  là  quelque  < 
hors  de  tonte  vraisemblance ,  qaelqae  chose  qui  a  b 
d'étre  expliqué.  Od  est  irrésistiblement  conduit  à 
conner  que  la  littérature  provengale ,  loin  d^  étre  la  so 
le  point  de  départ  de  la  litteratore  italienne ,  n^  en  fu 
contraire ,  qa'  on  accident ,  qu'  noe  revolution.  Il  y  a 


(1)  Vureki,  Ercolano  (Firenze, Gianti  1570,  pag.  159).  —  e 
Ere,  —  e  Non  sarebbe  egli  possibile,  che  i  toscani  avessero  ak 
coleste  stesse  voci  non  dai   provenzali  preso,  ma  da  quelle  me 
lingue,  dalle  quali  le  pigliarono  i   provenzali?  —  Varchi:  Sare 
anco ,  che  la  Provenza  ne  avesse  preso  alcuna  dalla  Toscana ,  ma 
i  rimatori  provenzali  furono  prima  dei  toscani  perciò  si  pensa 
—  Lo   stesso   Vftreki   nel  suo  IHicorso  ovvero  Dialogo,  sul 
della  lingua  nostra  (  in  fondo  ali*  Eroolano  dell*  edizione  fiorenti 
1730)  dice  a  pag.. 466:  e  Ciascuno  sa  come  i  provenzali  cornine 
a  scrivere  in  versi;  di  Provenza  ne  venne  quest'uso  in  Sicilia,  e 
cilìa  in  Italia,  e  in  tra  le  provincie  d'Italia  in  Toscana  etc.  >. 


—  447  — 

'  et  tOQl  autorise  a  regarder  la  vogue  qu'obtìDt  celle  lil- 
lérature  élrangère  qnand'  elle  vini  envahir  la  litléralure 
italienne  dejà  existante  et  plus  ou  moìns  llorissante,  woune 
r  une  des  causes  qui  firent  negliger  les  moauments  de 
celle  demière,  et  en  occasionuèrent  la  perle  (1)  >. 

Le  condizioni  della  civiltà  italiana  nel  medio  evo  erano 
certamente  tali  da  dar  luogo  ad  una  letteratura  piìi  o 
meno  perfetta  :  o  almeno  era  probabile  in  Italia  piìi  che 
allrove  il  nascimento  di  una  letteratura  :  ma  quale  ne  po- 
teva essere  lo  strumento  ?  Se  una  letteratura  poteva  sor- 
gere in  Italia,  appunto  per  essersi  qui  conservata  piiji 
iutegi'a  la  tradizione  della  civiltà  aDtìca  romana ,  sarebbe 
poi  stato  strano  che  non  avesse  vestito  quella  forma  che 
più  naturalmente  le  si  conveniva ,  vale  a  dire  una  forma 
più  0  meno  latina,  quale  durava  pur  sempre  allora  per 
ciò  che  spetta  alla  liturgia ,  alle  leggi  ed  alla  politica. 

Non  abbiamo  dunque  ragione  dì  maravigliarci  che 
r Italia  abbia  preso  le  mosse,  nella  sua  nuova  cultura 
telteraha,  dalla  imitazione  provenzale  :  codesto  non  è  in 
contradizione  colte  condizioni  accennate:  anzi  ne  è  la  conse- 
guenza logica ,  per  quanto  strana  possa  sembrare  a  prima 
vista. — Noi  fummo  troppo  tenaci  di'quella  civiltà  romana  che 
siamo  anche  oggi  superbi  di  chiamar  nostra  :  e  se  vogliamo 
aver  diritto  ad  un  tal  vanto,  del  quale  sono  forse  anche  trop- 
po teneri  i  nostri  retori ,  non  possiamo  poi  rifiutarne  le  con- 
seguenze. Né  si  può  pretendere  che  l'Italia,  culla  della  ci- 


(t)r&iiriel,  Dante  et  Us  orig.  de  la  lilléral.  italienne,  1,350;  e  cfr. 

ibid.  251  ■ le  tableau  mémc  (de  la  lilléralure  ilatienne  svanì  Dante) 

ine  fournira  (Ics  dotini^es  pour  établlr  cn  dehors  de  celle  lillérature  ita- 
liennc-protcncale,  ou  provenga  li  sée ,  l'cxìstence  d'unu  lillérature  plus 
ancienne,  plus  spontanee,  plus  iialienne,  doni  les  sources  se  perdent 
dans  Ics  siécles  les  plus  recniés  du  mojen  àge.  *  Vedi  poi  Tomo  II , 
p.  831-393. 


—  448  — 

Tiltà  romaia,  e  sede  di  nna  Chiesa  che  fece  su  b  fiogii 
Lazio,  precedesse  le  altre  naxioBi  neiriiso  teaerario  de 
Tolgane,  giacché  era  natiirale  che  i  fruiti  delTk^iegDO  fts 
eootinoassero  a  festìr  forma  latina ,  sìdo  a  che  gT  II 
DOD  si  fossero  persoasi,  eoo  resen^rio  di  altre  im 
che  andie  una  naota  Imgoa ,  ^ersa  da  qndla  di  Vir 
poterà  aspirare  a  perfezìoDe  diarie,  e  gloriosamenli 
gioi^erla.  Cosa  taoto  rera,  che  anche  dopo  Daote,  bs 
risorgere  degli  stndi  classici  per  br  quasi  porre  in  noi 
r idioma  ?olgare.  Ammettiamo,  donqae,  come  gim 
osservazioni  del  Faoriel ,  ma  non  dimentidiiamo  d 
possono  con  Tenta  riferirsi  ad  ona  letteratnra  di 
latinità ,  sarebbe  poi  assordo  il  riferirle  ad  una  lettei 
italiana  in  lingna  volgare. 

Però,  oltre  qoesta  letteratnra  di  bassa  latàiità, 
lia ,  innanzi  alla  influenza  provenzale ,  ebbe  una  poest 
polare  (V.  p.  es.  Fauriel,  n,  460492).  Ne  abfc 
pochi  accenni,  pochi  firammeoti:  ma  in  fatto  di  [ 
popolare  si  sa  bene  che  sarebbe  pio  strano  assai  Ta 
molti  (1).  Troviamo  cosi  due  forme  diverse  fra  lorc 


(1)  II  sig.  OoAsti,  movendo  dal  principio  che  Dante  nel  noto 
del  XXV^  capitolo  della  Vita  Nuova  accenni  a  poeti  in  lingua  di 
1140,  si  accinge  a  Dame  ricerca,  ripetendo  il  Virgiliano  e  antigas 
quirite  matrem  ».  Quindi  ricorda  le  &?ole  fiorentine  e  dei  Troi< 
Fiesole  e  di  Roma  »,  il  Ritmo  modenese  del  924,  on  rìtmo  san 
1000,  e  poi  proverbii  e  molti  tratti  dalla  cronaca  di  Fra  Salimb 
dotto  critico  avrebbe  potuto  arricchire  il  suo  opuscolo  con  ci 
di  altri  accenni  alla  nostra  poesia  popolare,  ma  dal  caiito  nosti 
sapremmo  trovare  la  relazione  delle  rozze  poesie  popolari,  delU 
potrebbe  ad  ogni  modo  supporsi  verso  nn  certo  tempo  l'esiste 
ciascuno  degli  informi  dialetti  d'Itilia,  se  anche  non  ne  avessimo  i 
gli,  colle  poesie  studiate  di  Gherardo,  di  Aldobrando,  di]  Bm 
Thoro  e  degli  altri  poetanti  secondo  forme  d*arte  e  con  lingnagg 
terario  comune. 


iCn  atafi)  sìqùu 
ppnnu*.  che  stili  ; 

atun ,  potessero  aostiture  aOa  tmgoa,  testioioiiìo  ilt 
I  le  ghNÌe  (taliane.  il  rozzo  dialetto  del  tolj^. 

•  eoQtfizioai  D>3a  sussistevano  invece  in  l'roveD- 
I  quale  par  godeodo  largameale  de'  betie&'ii  dt;U'ti>- 
)  romano,  qoq  credè  per  qaesto  esst>r  )a  Uirella 
I  glorie  di  Itoma.  La  Lingua  ile'  dooiiiiatoh  dou 
)  coli  quell'assoluto  duminio  che  et>be  da  noi ,  e  perì^ 
maggior  probabilità  che  1"  idioma  TOlgare  piiles» 
ivi  dìteotar  presto  hngua  eulta  e  letteraria. 

E  che  COSI  sia  avvenuto,  lo  pro^-a  il  Tatto  incontrasta- 
bile cJie.  ne'  primunUÌ  della  nostra  lelteraliira ,  abbiamo 
arato  noa  scuola  di  poeti  ìmìlatori  de'  provenzali  :  scuola, 
'  àon  pili  dove  meno,  diflusa  per  tutta  l'Italia,  la  ipialo 
sorse  probabilmente  collo  scendere  dei  tnivatmi  in  ilalin. 
Dal  1154  0  al  più  dal  1162  ìn  poi ,  v«dìamo  quanti  trovatori 
accolli  festosamente  ne'  castelli  feudHli  dell' Italiii  dui  Nord. 
Ogicri  di  Vienna  nel  DGlRnato,  lU'niardo  da  Ventiiduur 
(1140-1195),  Cadenel,  Rambaldo  di  Yai|UDÌras  (limKtìt07), 
Pietro  Vìdal  ed  altri  poetarono  con  plauso  fì'a  noi;  e  niaoulri) 
Buoncompagno  fioreotìno  ci  fa  tostìmouianza  di  quanto  roHM 
stimato  uno  di  loro ,  Bernardo  da  Ventadnur.  CimI  dalle 
due  poesie  di  Amerigo  di  Pe^uiltiim  [1ÌUK-1Ì70)  in  nloglo 
di  un  marchese  Malaspina  e  dì  un  ranrrlieMo  il'  KhIii  ,  iln* 
AiDti ,  possiamo  congetturare  qua!  lieta  nri:ottnfìiiita  ni  lu- 
cesse a'  poeti  provenzali  nelle  corti  Italiano  verMi  h  llnu 
del  XII  e  nella  prima  metà  ilei  XIII  Mwoto. 

Per  altra  parte  sappiamo  che  ali»  corln  di  (liiKllHliito 
il  Buono  (IIGO-IISI)....)  c'erano  buoni  ■  dicilJiri  )i)  rimti 
di  {^i  conditione  >  e  u  excellentiiwimi  cAiHalori  *  (  Da 


—  450  — 
Buti  al  KX  dd  Pui^.  e  Ottimo  Commento). 

sero  poeti  stranieri  è  per  noi  ìDdtibìUbile,  ci 
opìoi  in  coQtrarìo,  quando  si  raoiiuer.ti  con  i 
i  Normanni  promossero  in  Italia  la  coltura  de' 
gua,  secondo  che  Gu^'lielmo  di  Puglia  ci  allei 

Di  i>oi  la  corte  di  Federico  II  fa  il  seg( 
portante  della  poesia  provenzale  in  Italia,  e  s 
lile  il  pia  discorrerne  :  come  sarebbe  del  pari 
diSusamenle  degr  italiani  che  scrìssero  in  pr 
di  quelli  cbe  in  volgare  italiano  poetarono  alla 
poiché  da  Alberto  Malaspina  a  Dante  da  Mai: 
una  serie  abbastanza  lunga ,  e  della  quale  ci; 
prender  afrevolmente  notizia. 

Ebbene  :  lutti  questi  poeti  nostrali  del  > 
se  vuftlsi  prestar  fede  a"  codici  sardi,  avrebbe 
zata  la  maniera  poetica  già  in  fiore  sino  da' 
del  XII ,  e  per  colpevole  errore  si  sarebber  ?■ 
venzali,  arrestando  cosi  l'avviamento  originale  d 
ilatiane.  Di  tatti  gì'  Italiani  d' allora  si  dorrebl 
quel  che  de'  più  recenti  diceva  Dante  nel  Conv 
*  malvagi  nomini  d' Italia .  cJie  commendano 

attnii,  e  lo  proprio  dispregiano abhomi 

lìvi  d'Italia,  che  hanno  a  vile  questo  prezioso 
quale  se  è  vile  in  alcuna  cosa ,  non  è  se  non 
egli  suona  nella  borea  meretrice  di  questi  adui 


—  431  — 

I  della  nuova  poesia  de''  troratori ,  ad  essa  &*  erano 
Uli,  perchè  non  truvavano  in  patria  uno  strumento  che 

sse  starle  a  fronte  nelP  espressione  dei  pensieri  e  dei 
»si  (l'amore? 

Dai  preziosi  codici  recentemente  scoperti  veniam  però 
l  sapere  «  che  in  principio  del  terzo  decennio  del  se- 
tcolo  Mll,  tenne  scuola  di  poesìa  e  di  lingua  italiana  in 
Lflrenze  un  maestro  Gherardo  lìorentino;  che  più  tardi 
■«bbe  in  ciò  cooperatori  alcuni  de'  suoi  discepoli  ;  e 
Vcbe,  non  ostante  molti  contrasti,  questa  scuola  fiorì  fin 
1  Terso  la  fine  del  secolo,  ossia  fin  quando,  dopo  la  morte 
idi  Papa  Alessandro,  riprese  vigore  in  Toscana  la  parte 
[imperiale.  Narrano  quelle  antiche  memorie,  che  Ghe- 
r  rardo  adoperandosi  a  purgare ,  colla  scorta  particolar- 
^  mente  del  latino ,  il  suo  volgare  da'  vizii  di  pronunzia 
•  t  dalie  voci  plebee ,  aspirava  ad  inalzarlo  alla  dignità 
Idi  lingua  comune  d' Italia ,  almeno  nella  scrittnra  ;  e 
Kdw  a  ciò  era  mosso  anche  dal  desiderio  e  dalla  spe- 
linnza.che  gl'Italiani,  aniti  di  lìugiia,  si  unissero  anche 
M'animo,  e  cessassero  dalle  intestine  discordie  ;  ond'an* 
l«he  Gherardo  e  i  suoi  discepoli  presero  parte  attivissi- 
■  ma  alle  grandi  guerre  della  Lega  Lombarda.  Aldobrando 
iranno  1181,  fuggendo  le  ire  de' nemici  ed  i  pericoli 
^ende  lo  minacciava  la  risorta  parte  imperiale ,  si  rifugiò 
kin  Sicilia;  dove  per  cinque  anni  tenne  scuota,  ivi  puro 
^  fra  difficoltà  non  lievi,  particolarmente  per  parte  dì 
!•  quelli  che  volevano  che  i  Siciliani  poetassero  nella  prò- 
t  pria  lingua,  e  ai  Toscani  la  loro  lasciassero.  Non  ostante 
^  gli  oppositorì,  prevalsero  in  Sicilia  gli  ammiratori  e  i 
>  seguaci  di  Aldobrando  ;  e  cosi  si  trapiantava ,  e  durante 
i^  gran  parte  del  secolo  Xlll  fioriva  la  lingua  e  la  poesia 
»  italiana  in  Sicilia  (1).  > 


ì 


(t)  Budl,  Inbirno  ad  una  e 


r  ad  un  monello  Ualiani  t 


i 


—  452  — 

Ma  se  nel  XII  secolo  era  tanto  in  flore  la  poesù 
liana,  come  mai  allora  appunto  tanto  favore  incontri 
noi  la  provenzale?  Se  in  quel  tempo  fosse  stata  2 
bambina  la  poesia  italiana  e  la  provenzale  già  adulta , 
tremmo  non  meravigliarci  della  imitazione  che  ne  f( 
gl^  Italiani  ;  ma  mentre  Aldobrando  scrìveva  le  canzc 
Maria  Vergine,  La  battaglia  di  Legnano  ecc.,  e  il  soi 
epigrammatico  <  Venti  e  più  vidi  giovane  gioiose  »  ; 
ci  pare  possibile  la  preponderanza  di  una  poesia, 
quanto  si  vuole ,  ma  straniera ,  e  congiunta  a  istituzi< 
costumanze  aliene  dalle  nostre. 

Si  opporrà  forse  che  anche  dopo  il  Guinicelli  si  | 
in  provenzale,  e  pure  esso  si  era  posto  a  capo  di 
scuola  poetica  italiana;  e  che  però,  anche  mentre 
la  prima  scuola  di  Gherardo,  poteva  attecchire  in  Ital 
poesia  de'  trovatori.  Pur  non  vuoisi  dimenticare  eh 
Guinicelli  in  poi  la  poesia  provenzalesca  è  sempre  ii 
cadenza;  ma  se  anche  si  fosse  per  qualche  tempo 
tenuta  in  fiore,  so  ne  troverebbe  di  leggieri  la  ra; 
considerando  che  prima  del  Guinicelli  era  essa  la  sol? 
ma  accetta  e  lodata  di  poesia  volgare^  e  però  fai 
invece  meraviglia  se  ad  un  tratto  fosse  stata  dimen 
e  dispetta.  Ma  ammettendo  la  sincerità  de'  nuovi  c( 
avremmo  un  fatto  assai  strano  :  la  prima  volta  che  la  p 
d'oltralpe  avrebbe  fatto  capolino  in  Italia  sarebbe 
appunto  allora ,  quando  si  vorrebbe  farvi  fiorire  una  se 
di  colti  poeti  schiettamente  italiani. 

ad  una  eansone  sarda  traili  dalle  carte  d'Arborea,  Lettera  al  ( 
F.  Zambrìni,  p.  9.  Soggiunj^e  l'autore  che  non  mancheranno  opp 
i  quali  conlinueraniw  a  combcUlere  eolio  scherno.  Ha  lontani  d 
lunque  intenzione  di  scherno,  che  dire  quando  con  tutta  serietà 
l»arla  di  un  Gherardo  che  nel  1 1 30  insegnava  lingua  italiana ,  fac 
scelta  de*  vocaboli  colla  scorta  del  latino ,  e  che  aspirava  ad  ii 
il  dialetto  di  Firenze  a  lingua  comune  d* Italia? 


—  433  — 

Animessa  la  sincerità  de^DuOTÌiiutDoscrilti,  rasu  don- 

,  molto  dilTicile  spiegare  la  vosra  die  oUenno  ira  noi  la 

isia  ilo' trovalori  ne'primordiì  della  nostra  lotlornlura. 

uesla  è  cosa  di   poco  momento  per  chi  conosca  i 

i  secoli  delle  nostre  lettere.  OUredichè  i  nuovi  docii- 

i,  di  cui  ci  intratteniamo,  offrono  un'altm  non  lìov<» 

oltà;  e  per  vero,  riesce  dillìcile  il  supporrò  come  I 

tenitori  della  autenticità  loro  possano  trionf^lmento  »»• 

rada.  È  noto  che  la  poesia  provenzale  eliltii  un  rrasn- 

speciale   e  che  ben  presto  divenne  qualcosa  di  ar- 

cioso;  ma,  io  origine,  esso  Tondavasi   sullo  condì/Ioni 

lìtiche  e  civili  e  sulle  costumanze  cavallerosctje  d'ul- 

ilpe,  che  0  non  esisterono  aflatto,  o  appem  fecero  nuv 

1  di  sé  in  Italia.  In  Provenza  p.  e&  dove  eoa  ttMe  ra- 

i  aveva  il  sistema  feudale,  e  dove  era  aitt  iiMlÌtU2Ìone 

1  e  reale  la  cavallerìa ,  non  fen  oolU  di  mano  àm 

I  personificazione  poetica  dell'  Amore  tome  m  fmmtn 

noe  con  U  sua  corte  e  i  suoi  /«dUì,  ArrawK  iti  bUft 

,  e  i  trovatori  di  Proreon  riefàmoo  a  imA^  fimmm 

\  «ioail  UnKiuggio  penino  io  Malia*  4m«  b  fewMtt» 

1  mai  il  l^ao  Don:,  e  4ow  b  onierti  ttsét  vm^n 


che  'wmunmw  i  fnmuaC.  ti  S*  k  mmn/k". 
e  pen*i  le  é  nmmitu»^  mOm  m  t/m» 


I  o  C  taoip*  i»  I  w<Mw-: 


—  454  — 

—  «  Se  avarele  un  nnrìlo....  che  barn  servg  lì  sia 
manza  ec  fibid.)  ». 

—  «  A  forza  d^  amore  e  fedel  servaggio  (p.  121)  ■ 

—  «  Ed  è  giocoso  gradir,  mirar  ed  andir  ban  fedel 
pione,  tntr altro  di  Toi  moslrì  non  calere  (mn.  cL  p, 
passim)  ». 

Go9  anche  Brano  de  Tboro  (1110-1206): 

-—  «  Perdoo,  donqne,  mercede.  Al  meo  coraggio 
Che  umile  ve  r^ere.  amor  donate , 
E  fedel  te  convente  vassallaggio.  »  (Mait.  p.  133  cf.  App.  1 
[  Var  :  —  «  E  fedel  ve  convente  vassallaggio.  >  App.  p 

Aldobrando  stesso  (1112-1186)  eoa  italiano  in  tattc 
questo  sì  accorda  con  gli  altri  (1): 

—  e  Spietata  donna  e  maggio,  ora  te  chiamo: 
Està  mercè  me  doni  for  paraggio 
Misvolendo  lo  meo  fedel  servaggio  ^ 

Poi  già  gran  tempo  mi  t^esti  all'amo?  »  (App.  p.  1 

Come  sia  possibile  un  tal  frasario  in  poeti  ci 
vogliono  anteriori  ad  ogni  influsso  provenzale,  io  noi 
Forse  alcuno  risponderebbe:  crediamo  che  tutto  eie 
d'origine  italiana.  Ma  chi  non  vorrà  così  facilmente 
dere ,  come  potrà  tener  sinceri  i  codici  qhe  tali  poesie 
tengono  ? 

Né  certamente  potrebbe  menarsi  buona  l'ipotesi, 
corroborata  da  alcun  sussidio  di  notizia  storica,   che 


(1)  App.  p.  170:  f  lo  bon  servaggio  Che  v'offre  meo  corag 
—  p.  173  e  fedel  campione  i  dove  sebbene  non  si  tratti  di  amo 
donna,  pure  abbiamo  sempre  on  modo  proprio  del  formulario 
veniale. 


—  455  — 
Citazione  dei  provenzali,  jn  forma  volgare  italiana,  co- 
minciasse dalla  prima  metà  del  XII  secolo  (1).  Ciò  die 
sappiamo  invece  di  sicuro  su  guest'  argomenlo  si  ac- 
corda anche  col  logico  svolgimento  dei  fatti.  Dapprima 
invero  avemmo  trovatori  provenzali  scesi  fra  noi:  poi  ita- 
liani poetanti  in  lingua  d'oc:  per  ultimo,  ma  solo  nel  XIII 
secolo,  italiani  che  adoperarono  T idioma  italiano,  ma 
infarcito  di  frasi  e  parole  provenzali ,  e  seguente  le  fonne 
dell'arte  dei  trovatori. 

Né  meglio  sapremo  spiegare  codeste  voci  e  locu- 
zioni provenzali  e  francesi,  di  cui  sono  intarsiale  le  poe- 
sie che  ci  scoprono  i  codici  toscani  e  sardì.  Certo  lutto 
questo  tesoro  di  vocaboli  e  di  frasi  lo  troviamo  tale  e 
quale  ne'  nostri  antichi  poeti  provenzateggianli  del  XIIl 
secolo.  Ma  donde  l'attinsero  Bruno,  Aldobrando  e  gli 
altri?  Il  lettore  da'  saggi  di  poesìe  sinora  citate  avrà  no- 
tato con  che  profusione  vi  ricorrano  coleste  forme:  ad 
ogni  modo  ne  darò  un  saggio  abbastanza  copioso. 

—  Bellore:  Elena  p.  120,  122,  123;  Bruno,  p.  148,  149, 
^t  150;  Aldobrando,  App.  167,  172  ec.  —  prov. 

^H 

^K>  LA  valuba;  Elena  p.  120  (valente  valer  p.  119,  124  cfr. 
H  122,  148.  489,  App.  169);  cf.  la  i'a/«r  in  Lao- 

^H  rranco  p.  490. 

^K>  LA  noB:  Elena  p,  124  etc.  —  prov.  la  fior,  frane,  la  fUur. 

^Hp  (t)  Sebbene  molle  delle  poesìp.  iti  Aldobrando.  Rinno  et.  si  rife- 
^WKano  alla  fine  del  XII  secolo,  nondimeno  rammenlandosi  che  i  due 
soneili  di  Aldobrando,  l'uno  a  Gcsfi  crocifìsso  t  divinai  sacriQcio  d'a- 
more >  e  l'altro  sulle  Irìbulationi,  si  riroriscono  all'anno  1129  (vedi 
Baudi,  Di  Gher.  e  Aldob.  ce.  p.  40-1  )  e  già  mostrano  imitazione 
proTcntate  ibMore.  eternai,  Uioiìia'.  fullore .  bombansu  ec.A  Imso- 
gnerebbe  ammettere  cbe  sin  dal  1120  Tosse  conosciuta  o  imitala  in  lia- 
lia  la  poesia  di  Itnpa  d'oc. 


i 


—  456  — 

LA  baiu:uba:  Id.  p.  124;  Aldobrando,  App.  p.  166, 
—  prov.  rancar,  rancura,  fr.  roMcoeur, 
cune  (femm.) 
DBLivHATo:  Lanfranco,  p.  489  ec 
umbra:  Eleoa  p.  120;  Bruoo,  App.  155. 
FAZONB,  fazzonb:  p.  123,  119,  120,  121,  124,  149  ( 
mahbntb:  Eleoa  p.  121  —  prov.  maneni,  manen  (1). 
coBAGGio  {=  cuore):  Lanfr.  493;  Bruno,  App.  154; 
dobrando,  App.  168,  169,  170. 


E  cosi  tante  altre  voci  di  desinenza  straniera: 


--  PABAGGio,  490,  491,  App.  154,  169,  170  —  pì 

N AGGIO,  490,  App.   154  —  DANNAGGIO,  App.   124  —  FALU 

App.  148,  155,  169,  171,  172,  173  (fallenza,  171, 

176 j  —  PADRONANZA,  491  —  LBANZA,  493  —  ALLBGRJ 

App.  151,  163,  166,  167,  168,  170.  —  desianza,  App. 

—  PBRDONANZA,  ibìd.    —  ASSBNNANZA   App.   159.  — MBMBRj 


(1)  e  si  che  essere  sekaggia  mostriale  e  digiuna  d*on 

more,  fino  nelle  fiere  è  manente,  i  11  Martini  annota:  e  che  fìno 
lìere  alberga  »  —  e  per  verità  pare  che  anche  Elena  abbia  ado[ 
manente  per  die  mane,  altrimonte  non  avrebbe  forse  detto  e  ma 
nello  fiere  >  né  avrebbe  premesso  e  digiuna  d*  onne  amore.  »  ( 
noto  che  in  prov.  maneni  vuol  dir  ricco,  opidento,  potente,  i 
tanto  in  tal  significato  fu  adoperato  manente  da'  nostri  antichi  imi 
de*  provenzali,  se  pure  non  voglia  citarsi  in  contrario  il  noto  laoj 
fra  Guitlone  (Lelt.  16,  46)  dove  ManeìUe  è  un  nome  proprio.  Mi 
tavia  molti  de' nostri  vocabolari  hanno  commesso  lo  stesso  erro 
Elena:  or  non  potrebbe  essersi  inspirata  in  questi  la  nostra  poetessa? 
tanto  più  ci  parrà  verisimile,  se  ricorderemo  quello  che  già  ebbe 
tare  il  Tobler  {Bericht  ù.  d.  Handschriflen  v.  A.  p.  86)  rìspeti 
l'uso  sbagliato  della  voce  adesso, 

V.  Nannucci,  Voci  e  locuz.  Hai,  ec.  p.  49-51;  Raynouard, 
quo  Roman,  alla  voce  Manens. 


—  457  — 
^■Afp.  166.  169  —  acokvanza;  App.  174  —  auhu,  (pi 
Amansa,  Aimavsa)  119,  120,  121.  136.  imfcorol amanza). 
494,  49ó.  App.  148,  153,  154.  155  (amorosa  amanza), 
164,  174.  176  —  ODOHAKU,  120  —  fidama,  121.  —  »bhi- 
oìiAMA,  121.  122  —  piBTANiA,  r=  piflà),  124,  132,  App. 

166    —    BOBBAKZA,     122;    App.     172    —    mSAMOItA.tZA ,    135  — 

POSASiA.  (far  posanza  di  sé  =  posarsi j   136  —  piackhtéb, 
(plazentfr  prov.^  121,  App.   177   —  piacenza,   (prùv.  pla- 

I    Mata,  plazenza)  150  —  guabk:«z*,  App.  151,  163,  171, 

■ri^  —  VALSNZA,  App.  165,  177. 

1^      E  poi  freqiienli  bisticci  a  modo  di  quelli  adoperati 
da  Fra  Goittone  : 


rVuiNTB  VALER,  119,  124;  LUCB  LvciosA,  134,  cfr.  App.  162 
(luciore),  167  (lucioso);  dolcioso  dolcoh,  493, 

495;   DOLCE    AMANZA     DOLCIOSA,     App.     153,     155 

(cfr.  dolcioTu,  dolciore  489,  App.  148.  163, 
167,  DOLzuHA,  120,  131,  ec);  piacente  piacer, 
App.  166  ec.  ec. 
Eorder6  anctic  le  forme  di  comparativi:  fortiór  bene,  App. 
154;  FoaziòBK  e  più  mo^itanie,  App.  176;  fohziòh 
FATTI,  (disioso  di)  App.  173;  DOLZiòRH  loco,  j4;ip. 
158;  DOLCióR  FRUTTO,  App.  166  eie.  pldsòb  ptr 
più  etc.  Sono  Trequenti  poi  per  poiché  (p.  e. 
122,  120.  132)  e  per  tìcciocchr  {App.  494  ec), 
e  forme  come  misvolb5do,  kiscompoh,  misfa- 

CBRDO,    MESDIHB,   HESDICENTB  etC.   CtC. 


E  potrebbesi  continuare  per  un  buon  pezzo  ancora 
'  qaesta  licita  già  lunga  3bb3slanz;a,  se  ve  ne  fosse  bisogno. 
Ma  cerchiamo  piuttosto  d' ìmmaginaro  la  condizione 


d'intelletto  in  cui  trovavasi  chi  compose  queste  poesìe.  Egli 


A 


—  458  — 

voleva  creare  un  aotichissimo  perìodo  della  nostra 
ratora  poetica:  dove  danqae  avrebbe  potato  m^ 
spirarsi  per  la  lingua,  se  non  in  qaelU  che  la  toc 
mane  addita  come  tali  che  più  interamente  e  copiosai 
ne  riproducono  le  forme  proprie? 

Usare  i  modi  di  Fra  Goittone,  spargere  a  piene 
le  sue  composizioni  di  tutti  que'  vocaboli  che  i  nosb 
antichi  usarono,  era  per  lui  Tunica  via  da  seguire 
mentre  gli  antichi  poeti  presi  a  modello  furono  i 
tori  de'  provenzali ,  e  poiché  si  vuole  che  questi  altri 
posti  antichissimi  non  sieno  stati  in  ciò  simili  ad  essi , 
mai  possiamo  credere  alla  sincerità  delle  poesie  deg 
timi,  quando  vi  ritroviamo  le  stesse,  note  caratteri^ 
che  nelle  rime  dei  primi?  Né  parlerò  dello  stile, 
di  questo  faccio  appello  a  chiunque  abbia  conos< 
de'  nostri  antichi,  e  son  certo  che  la  maggior  parte 
noscerà  come  tutr  altro  che  stile  di  antichi  sia  q 
de'  poeti  de'  nuovi  codici  ;  ma  la  lingua  stessa ,  ancbi 
nendo  da  parte  le  forme  prese  dal  provenzale,  è 
lingua  del  XII  secolo? 

Al  Tobler,  che  faceva  consimili  obbiezioni  snlk 
carità  delle  poesie  arboreesi ,  il  signor  Bandi  pam 
sponda  col  §  72  e.  delle  sue  «  Osservazioni  intornc 
relazione  su'  manoscritti  d' Arborea  ec.  (  p.  76-77  )  i 
ragrafo  che  credo  necessario  riportare  : 

<  Sebbene  gli  scritti  italiani  conservatici  dalle  ' 
d' Arborea  siano  senza  fallo  (?)  sotto  l' aspetto  pc 
scevri  da  ogni  imitazione  de'  provenzali,  anzi  da 
altra  imitazione  qualsiasi ,  salvo  de'  Latini  :  vi  si  tre 
tuttavia  alcune  parole,  quantunque  non  in  gran  n 
ro,  che  sono  o  sembrano  di  origine  provenzale  o 
cese:  agenzare,  aonito,  bealtà,  cieray  deretano 
bonare^  dolziore  per  più  dolce  y  dottare  per  tet 
fazzone^  laiisore,  manto,  plusore,  zambra.  Molte 


—  459  — 
>  tarb,  anzi  crediamo,  la  maggior  parte  di  queste  y 

■  baono  il  loro  riscontro  in  idiomi  italici:  tale  cera  in 

*  alcune  parti  d'Italia,  e  cara  in  Sardegna;  tale  zambra, 
1  trovandosi  camera  nel  medesimo  senso  già  in  iscritti 
«  sardi  del  Xil  secolo;  tale  anche  bealtd,  che  crediamo 
»  tratto  dal  volgar  fiiorenlino  (!?).  All' incontro  certamente 

*  non  è  dal  horentìno  plusor,  ostandovi  il  suono  pt:  lo 

■  erediaìno  tuttavia  d'  origine  italiana ,  e  vi  ravvisiamo  il 
1  pasé  de'  Lombardi,  che  l'usano  appunto  a  modo  d''av- 
»  Terbio,  forma  notata  dal  Tobler  nelle  Carte  di  Arbo- 
»  rea  ec.  » 

Ma  per  riuscire  nel  suo  intento  il  sig.  Baudi  avrebbe 
dovuto  provare  scientificamente  che  tntte  quelle  voci  di 
rattezza  straniera,  le  quali  s' incontrano  in  qnesti  poeti,  sicno 
invece  italiane  e  pìii  specialmente  fiorentine;  giacché  non 
va  dimenticato  che  Gherardo  lavorava  alacremente  sul  suo 
dialetto  per  innalzarlo  a  dignità  di  lingua  comune  italiana; 
o  non  potendo  provarlo  per  tutte ,  avrebbe  dovuto  pro- 
varlo per  la  maggior  parte ,  e  spiegarci  poi  come  sia  av- 
venuto che ,  essendo  d'  origine  italiana ,  quelle  voci  sieno 
scomparse  come  per  incanto,  appunto  quando  l'imitazione 
degli  stranieri  cessò.  Ma  il  sig.  Bandi  si  contenta  di  affer- 
mare che  la  maggior  parte  di  tali  voci  abbiano  riscontro 
in  idiomi  italici,  e  cita  ad  esempio  camera  e  cei'a.  Certo 
camera  sarà  del  dialetto  sardo  del  Xtl  secolo ,  ma  questo 
prova  forse  che  zambra  per  aver  ragione  di  essere  in 
italiano -non  abbia  bisogno  d'un  francese  chambre?  Crede 
che  bealtà  sia  voce  tratta  dal  volgar  fiorentino  :  ma  che 
ragione  egli  abbia  per  crederlo ,  non  ci  è  dato  saperlo. 
Crede  che  il  plasor  sia  d' origine  italiana .  e  vi  ravvisa 
jl  pusé  de'  Lombardi  :  ma  non  ci  spiega  come  poterono 
usarlo  Bruno,  Lanfranco  ed  Elena  toscani  per  educazione 
letteraria,  o  Aldobrando  toscano  anche  per  nascita.  E  poi 
come  c^  entra  il  pusé  in  questa  quistione  ?  11  sig.  Baudi 


—  460  — 

avrebbe  potuto  dire  cbe  plusor  non  è  poi  tanto  sti 
air  Italia ,  poiché  vi  si  ravvisa  il  plus  de'  latini ,  e  £ 
valso  tanto  qaanto  citare  il  pusé  lombardo.  Sare 
stesso  come  se  alcuno  volesse  dimostrare  che  amc 
voce  italiana  nella  sua  terminazione,  osservando  e 
liane  sono  le  voci  amore  e  amare. 

Per  noi  dunque  è  spiegato  come  quelle  tali 
trovino  nelle  poesie  di  Aldobrando ,  di  Bruno  e  deg 
Chi  le  fabbricò ,  non  sapendo  formare  una  nuova  iìnj 
attenne  a  quella  de'  nostri  antichi  più  noti ,  non  badi 
grossolano  anacronismo  die  commetteva.  Inesperto,  a 
era ,  sulla  origine  delle  voci  italiane  antiche ,  e  solk 
delle  varie  fogge  e  determinazioni  che  esse  ci  mosti 
queir  età ,  tenne  per  carattere  costante  e  fisso  ciò  ( 
accidente  transitorio  e  fuggevole.  Di  qui  è  ch'i 
sparso  a  piene  mani  le  terminazioni  in  anza^  enzc 
venute  in  voga  fra  noi  pel  contatto  e  la  celebrità  < 
vatori,  e  volendo  esser  troppo  antico  è  riuscito 
vera  caricatura ,  ad  una  parodia ,  che  rammenta  i  ne 
del  conte  di  Gulagna,  nella  Secdiia  rapita: 

0,  diceva,  bellor  dell' universo 
Ben  meritata  ho  vostra  benioaoza. 

E  questo  anacronismo  ci  parrà  anche  più  credibile 
corderemo  che  il  sig.  Liverani  ne  trovò  uno  sin 
dialetto  sardo  delle  carte  arboreesi.  In  fatto  il  man 
Gomita  de  Orru ,  a  giudizio  del  Liverani ,  porta  imp 
vestigia  di  un  dialetto,  che  ha  ricevuto  in  sé  Tel 
spagnuolo.  Ora  il  libro  di  Gomita  è  del  1271  circ; 
Aragonesi  sbarcarono  in  Sardegna  nel  1323,  quindi  a 
un  anacronismo  di  almeno  mezzo  secolo  (1). 

(1)  Hivista  Europea,  l"*  Dicembre  1870,  p.  9-10.  W  sig. 


Conclucliarao  dunque ,  non  esser  punto  probabile  che 
gP  Italiani  avessero  una  lelleratura  fi'  arie  anteriore  alla 
provenzale;  e  se  anche  l'avessero  avuta,  dovrehbe  essa 
ritenere  indole  diversa  da  quella  che  mostra  negli  esempi 
arrecati,  non  punto  esenti  da  traccfl  di  provenzale  imi- 
tazione. 

Dopo  ciò  va  inleso  con  discrezione  l'altro  assioma ,  che 
nel  sec.  XHI  la  poesia  dì  lingca  à'or.  e  oil  infiacchì  e  cor- 
ruppe l'italiana  per  guisa  da  rendere  i  poeti  di  quel  tempo 
di  molto  inferiori  per  merito  ad  Aldobrando ,  Bruno  e  agli 
altri  del  sec.  XH.  —  Non  fu  certo  una  gran  bella  poesia 
quella  de'  provenzaleggianti  del  XIII  e  XJV  secolo ,  ma 
considerandola  rispetto  alla  storia  della  nostra  lingua,  dob- 
biamo sempre  tener  presente,  che  se  la  poesia  de'  trova- 
tori non  avesse  incontrato  favore  tra  noi ,  e  molti  de"  nostri 
non  si  fossero  messi  a  poetare  secondo  i  modelli  stranie- 
ri, probabilmente  gl'italiani  non  si  sarebbero  cosi  presto 
persuasi  che  un  idioma  volgare,  e  perciò  anche  il  loro,  po- 
teva servire  all'  uso  poetico  e  all'  arte ,  e  chi  sa  per  quanto 
altro  tempo  ancora  il  latino  avrebbe  continuato  a  tenere 
incontrastato  il  campo.  So  bene  che  molti  negano  originalità 


per  verità  crede  vi  sia  anacronismo  di  pili  d'un  secolo,  perchè  suppone 
che  il  libro  di  Cornila  sia  sialo  cominciato  nel  ISOT  e  lerminalo  nel 
1Ì23.  Invece  qnc.sic  indicazioni  di  daie  si  rirerìscono  alla  «  Storia  della 
lingua  sanlesca  >  dì  Giorgio  di  Lacon  (1177-1967),  della  quale  si  servi 
Cornila  nella  compilacionF  del  ano  manuale.  Ecco  inianlo  il  brano,  trailo 
a  caso  dal  ilocumenlo,  addoilo  dal  sig.  Livcrani  a  prova  delta  sna  as- 
senione:  «  esi  causa  bene  conoschida  qui  ipsos  romanos  dominadu  liaot 
toias  ssas  nacìones  el  etìam  bcniranL  in  ipso  insula  nostra  ei  bJ  douii- 
namnt  per  plus  longo  lompus  di  ip;os  aieros  conquista  lo  res  et  obllga- 
runt  ipsos  bincliilos  eie.  t 

Lasciamo  al  critico  la  responsabilità  del  giudizio  che  egli  porta  circa 
le  Ibltczie  spagnuolc  di  questo  pi?riodo  ;  a  noi  sembra  certo  che ,  ad 
Ogni  modo,  non  abbia   i  caralteri  del  tempo  antico  cui  si  vorrebbe  ri- 


L 


I 


—  462  — 

alla  nostra  antica  poesia ,  perchè  incominciò  dall'  imi 
provenzale.  Però  giudicando  co^  non  sì  tien  conto 
perìodo  d'imitazione  provenzale  pel  crìtico  cbe  t 
storia  delle  nostre  lettere,  non  è  che  preparazioi 
vera  nostra  poesia;  e  che  qaando  la  lingua  si  è 
per  molte  prove ,  sorge  la  poesia  vera  italiana ,  U 
non  cessa  d'essere  orìginale  solo  perchè  fta  preoed 
tentativi  imperfetti ,  ove  si  mostra  evidente  Vesm 
forme  aliene. 

Vuoisi  poi  notare  che  il  merìto  delle  poesie  coi 
ne'  codici  sardi ,  fiorentino  e  sanese ,  non  è  poi  quel 
si  vorrebbe  da- taluno  far  credere. 

Si  è  detto  e  rìpetuto  più  volte  che  esse  non  pc 
essere  una  falsificazione,  perchè  di  molto  valore 
co  (1).  A  noi  veramente  non  parrebbe  codesta ,  ragie 

(1)  È  noto  che  nelle  carte  dì  Arborea  e*  è  on  sonetto  a  i 
bligate  composto  da  sei  poeti  del  IH  secolo ,  e  che  fa  trasmesi 
dobrando  a  Bruno  con  una  epistola  poetica. 

Il  sonetto  e  la  lettera  sono  stati  altimamente  pubblicati  da 
Bandi ,  il  quale  ne  parla  così  :  e  In  quanto  a  me ,  nel  sonetto 
al  tutto  quel  rotto  e  scucito,  che  lo  dimostra  opera  di  diversi;  !< 
poi  di  Aldobrando,  nella  quale  non  sono  inneslcUe  ad  arie  j 
modi  di  Fra  Guitloììe,  ma  che  da  un  capo  all'altro  è  scritta  i 
che  non  è  quella  di  oggidì ,  è  cosa  sì  bella  e  sì  spontanea ,  che 
pure  il  sospetto  che  possa  essere  opera  di  un  moderno  falsific 
Dopo  tali  parole  di  un  uomo  così  autorevole ,  come  è  il  sig.  Ba 
non  si  figurerebbe  che  si  tratti  davvero  di  una  bella  poesia? 

Ebbene,  rileggiamone  qualche  brano  : 

e  Certo  saria  fallare  a  la  tua  amanza ,  —  Meo  Bnin ,  lassar 
—  Conto  di  ciò,  eh*  a  la  Città  Fiorente  —  Nella  scuola  sacc 
Del  nostro  bon  Gherardo  foe  avvenuto  ;  —  IT  pur  fo  comparate 
nobil  Alberigo  e  lo.Ponceto,  —  Lo  Puccio,  e  lo  Giuleto,  —  I 
Meo ,  e  Peroto ,  che  fortuna  —  Catuno  quasi  in  una  —  Add 

me,  che  reverente  allora  —  Venni  a  pagar  la  mora —  M 

cade  eh*  atizzoso  infermo ,  —  Se  di  malor  a  schermo  —  Ree 
guerenza  sanguinosa  —  La  roano  dotta  ascosa  —  Del  guerìtor  sao 


—  463  — 
dsiva  :  e  sembraci  ollracciò  che  ben  poco  dì  beilo  vi  si 
trovi  per  entro,  ed  invece  esse  tradiscano  sempre  o  la 
stentata  afTetlaztone  dell'antichità,  o  mal  celali  punsieri  in- 
teramente moderni. 

E  su  questa  che  è  quistione  di  gusto  letterario  non 
credo  inutile  trattenermi  alquanto.  È  forse  l' argomento 
creduto  da  taluno  più  forte  io  sostegno  della  sincerità  de'  nuo- 
vi codici,  e  mette  perciò  il  conto  di  discorrerne  a  lungo. 

lo  non  dirò  che  sia  assolutamente  brutto  il  sogtionto 
sonetto  di  Bruno  (App.  p.  251): 

»  Alma  dell'alma  mìa,  e  spirto  e  vita 

Di  questo  corpo  ahi!  quanto  Jiircrmo  o  lasso, 

Se  tu  me  sdJci  ina  pietosa  aita, 

A.I  niente  meo,  e  neentc  soti ,  irnpasso. 
Che  del  tuo  viso  che  lo  sole  imita 

SluDgiato  soe  in  loco  obscitro  e  liasso , 

U'  sol  conforta  ilolce  tua  ferita 

Lo  meo  penar,  e  si  tra  vivi  passo. 
Ma  se  dando  più  indugi  tua  guarenzii , 

Tardo  gire  in  voler ,  credo  saria . 

Diraggio ,  fosse  gire  da  partenza. 
Ma  già  me  fuge  il  di.  Atii  I  dorma  miu , 

lo  per  te  moro.  Dhe ,  se  pare  senzii 

M'amasti  in  vita,  in  morte  simuli  pia.  n 

Ora  io  dimando  soltanto  se  sono  a^pras-sioni  possihijl 
del  XII  secolo:  •  alma  dell'alma  mia,  o  spirto  o  vita  il| 


tìm  voOe ,  —  E  da  tal  parie  lolle ,  —  E  n  ralli  e  a  moli  inoilra  ano 
noire,  —  Tutto  cliera  lacire; 

Po'  imaginam  lìnnr  senxa  tonienu  —  Quel  dia  dì  gmn  jilagniiin  — 
Ad  DO  sonelto  a  loro  disonore ,  —  Onne  res|)ello  fuor» ,  —  Vatun  dui 
versi  II  più  a  mttile  a-iaiido,  —  Tulli  pria  rime  ilaiulu  ;  —  Albnrigo  n 
Gherardo  non  Cicenli,  —  Como  li  pih  prudenti:—  R  [|U0Kt0  por,  iiipo 
BniD,  ora  t'invio.  —  E  qui  serra  lo  jianro  dire  mio.  i 

Giudìcliì  il  leltore  il  giudino  del  sig.  Biudi  o  il  mio. 


—  u»  — 

qii«t»>  corpo  »  —  se  fmb  essere  del  XD  secolo  qiiel 
coià  efmwmBBÈko  «  al  wiBBie  Beo.  eneemesM,! 
so:  »  e  <e  a  qae^le  forme  eleeaBlì  posono.  silio  i 
OH  neìperto  fibìÉcatore,  che  non  teée  è«m  émlFm 
rmUn  jiito,  ump^ianem  altre  d'indole  cosi  dm 

Goà  nel  sonetto  iX  dello  ste»o  Inrf  troro: 
praidole  lafaìa  a  doke  iìsd  »  nella  prisa  q^artìsi  : 
rnMaa  tenìoa:  «  A  le  consacro  la  nna  nla  e  l< 
frasi  che  baso  '■pronli  aodcraa^  cose  sa  di  m 
anche  Tallra  del  sonetto  YI  €  E  chi  nescime  don 
eodiot^a.  Mofcil.  K«  f»^fa  a  pia  kfSKro  lenlo 
raauKota  troppo  heut  i  noli  Terà  fi  Ftaocesco  fi  Fi 
o  ined»>  qneOa  tioalBo^ioe  tradsóMfee  che  se  ne  Irò 
lArHUy  musKalo  àaà  Verfi. 

Di  più.  è  esfi  KM  pi>»ilide  che  Bmno  de  The 
ifBsAi  arerà  sdino  i  sonetto  €  Da  qnel  A  che  pi 
s»xijQrto  fi?o  eie.  B  tp.  131  con  lìDfvi^^  spici 
se«p&e.  sirmesse  potsteriorseale  .1)  ano  del  ^snei 


—  MB  pa 
X-sn  bcu.  ce  td  hra  2  r^ve 
E  V^j»r  pei  prw:  ch*>iess» 
GfST»  eLJ».  e  paio  ul  Bàv 
Mi  ^«14  uflU  KilaÉi  iù^*a£fnGe. 
V^  cr»M  jf«»  ffic  esrpo  iJae 

Ah:  !  che  nf  è  a  lede  e  mb  se  sfiere. 
Afii  se  cx>  |ff««v  vìrtesii  a  fKO, 
O  a  $arf% .  « 


k—  463  — 
Che  tua  vila  di  vilio  miradore 
I  Non  sia  a  paraggio ,  si  la  creo  di  poco , 

Ver  dolce  libertà  di  corpo  e  core.  » 
Questa  cosi  profonda  diversità  di  forme  nelle  poesie 
ilo  stesso  autore  h  anche  più  notevole  in  quelle  di 
dobrando ,  così  che  V  autore  stesso  delle  preziose  indi- 
cazioni contenute  ne'  codici  si  credette  in  dovere  di  dar^ 
cene  adeguata  spiegazione  : 

D  AldobraDilus multas  persecuciones  substulit  et  guerre 

discrimina .  et  emulos.  et  varia  infortunia  passus  est,  per  quc 
ingenii  vis  minuitur:  et  hoc  clarìus  adnotatur  ex  ipsamet  stilis 
varietale,  quo  in  suis  carminibus  usus  est,  ubi  poeta  tum  no- 
bilìs  tiiiQ  plebeus  adparel.  » 

Chi  si  contenta  di  tal  ragione  non  sarà  meravigliato 
in  vedere  che  Aldobrando ,  l'autore  del  sonetto  semipe- 
trarchesco «  Venti  e  più  vidi  giovane  gioiose,  »  possa  poi 
usare  forme  incerte  e  scontorte  come  le  seguenti  : 

—  pili  non  lui  spietati  (  =  non  pili  spietati  di  lui)  App.  p.  175. 

—  no»  tosco  inriilie  amare  (  =  non   invidie  amare  più  che 

tosco)  Ib.  p.  165. 

—  Quella  pastion  crudele  Per  quasi  cui  fu  anciso  il  giusto 

Abele.  Ib.  p.  175. 

—  viira  a  bon  ragione  (=  drizza  al  bene  la  ragione)  Ibid. 

—  con  tale  ambizione  Dei  bon  Dio .  m  lo  del  tutto  provede 

Como  mistero  vede ,  Miseompor  previdenza  forte  intendi , 
E  disposf  onne  misfacendo  offendi  (  Senso  ;  —  con  tale 
ambizione  roriemcnte  intendi  scomporre  la  provvidenza  del 

»buon  Dio  che  nel  ciel  tutto  provvede,  come  vede  il  biso- 
gno; e  malfacendo  offendi  lutto  il  disposto)  Ibid.  (1) 

(1)  G'à  il  prof.  Comparetti  aveva  a  suo  tempo  nouio  qut^sla  ìnlni- 
aoiK  di  Torme  moderno  nelle  poesie  arboreensì,  die  ben  dettola  l'ine- 
«pena  mano  del  ralssrio:  <  Che  ceni  versi  come  Degli  aterciH  Dio,  padre 

30 


k 


—  466  — 

Ma  qaello  che  forza  nmana  non  varrebbe  a  spi 
e  che  pare  passa  come  la  cosa  più  naturale  del  i 
agli  occhi  degli  ammiratori  delle  carte  arboreesì ,  è  il 
di  sentire  di  Aldobrando  circa  alle  cose  politiche.  - 
avrebbe  mai  sapposto  che  nel  XII  secolo ,  quandi 
città  pensava  a  se\  cercando  di  fare  il  maggior  mal 
sibile  alla  sua  vicina ,  da  cui  era  ricambiata  di  pari 
to,  fosse  poi  vissuto  un  poeta  che  sapesse  sollev 
concetto  della  nazionalità  italiana?  Eppure  Aldobrai 
narra  della  battaglia  di  L^[nano,  combattuta  dai 
lombardi ,  come  glorìa  d'  «  Italia  grande  »  e  d^  «  1 
gli  9  che  in  essa  si  reser  chìarL  Che  più  ? 

»  Ma  a  comuo  ben  pagnando , 
Non  a  loro  daonaggio ,  ma  difesa 
Di  Dum  umvKisAL »  C^PP- 168). 

Si  domanda  se  queste  parole  e  questi  peosier 
sano  davvero  essere  del  Xn  secolo  ! 

Panni  che  le  carte  di  Arborea  si  manifestino  t 
spesso  per  quel  che  sono. 

Sostiene  a  ragione  il  signor  Bandi  che  se  false 
molte  vie  debbono  dare  argomento  a  scoprire  V 
stura;  ma  se  egli  stesso  parla  con  compiacenza  del 
neroso  delirio  »  politico  di  Aldobrando  (Di  Gherar 
Firenze  e  Aldob.  da  Siena  etc.  p.  71),  non  potrà  ceri 


amoroso  o  come  Indiinàii  a'  tuoi  pie  gli  Raii  figli  non  possane 
in  alcona  gnisa  di  nn  poeU  del  XU  secolo,  e  convenga  scendere 
più  in  gi&  di  qoeir  epoca  per  trotare  nno  stile  poetico  a  cui  si 
no ,  è  per  me  cosa  di  eridenza  as^omatica.  Se  però  on  nomo  di 
sappia  che  ha  letto  anch*  egli  i  poeti  italiani  da  Cinllo  al  Leopardi, 
che  questo  eh*  io  vedo  ei  non  Io  vede ,  e  mi  chiede  di  provar 
quelfi  e  tanti  altri  simili  versi  non  possono  esser  di  queU* epoca, 
prìo  mi  troverò  ridotto  a  mal  partito,  e  dovrò  rass^narmi  a 
queO*  uomo  nel  suo  errore  >  fNùowa  Antohgia,  Giugno  f  870). 


—  i67  — 

persuadersi,  come  tanti  altri  ritengano  solentidl 
tutta  la  farraggine  delle  carie  sarde  {!). 


(I>  Credo  ulile  raccogliere  in  questa  nota  maggior  copia  di  esem- 
pi ,  sia  di  parole  che  di  pensieri,  che  mi  sembrano  in  coniradizìone  col 
tempo  cui  si  ilovrcbbcro  rìrerire ,  ammessa  la  sijic«rità  de'  codici  sardi.  Il 
lettore  vi  iroierà  anclie  alcane  fonile  proprie  di  nessun  tempo,  e  spiegabiii 
soltanto  col  rìpeosare  al  proposilo  delil>eralo  del  falsario  dì  alTeUarc 
oscarìtà  0  slraneùa  per  dare  apparenza  di  vetusta  alle  sue  composi liooi. 

Nel  canto  dì  un  pastore  sardo,  Gililino  de  Corya  de  Ollolai,  che 
sarebbe  (issuto  verso  I' 800  dopo  Cristo,  leggonst  i  seguenti  versi  di- 
retti alhi  sua  sposa  Barbarila  : 


Cum  magna  ragione,  Habo  clamare,  Te  sole  et  stella, 
la  kelo  secura.  Et  astru  desideraiu.  Sole  splendente, 
Stella  nuiante,  Et  lana  bella  eie.  > 

(Martini,  p.  467). 


^^m      Ecco  alcuni  versi  di  un  canto  guerriero  di  un   llfredìco 
^BS:  si  riferiscono  all'invasione  di  Museto.  P,  una  specie  di  n 

sarda .  cosi  il  Martini ,  del  1000,  e  c'è  menzione  di  un  valorosi 

del  poeta  Bruno  de  Thoro  : 


Sa  patria  prò  salvare. 
Sa  patria  prò  salvare 
Dae  nova  invauonc. 

Commns  juvenlude 
Honstranus  sa  virtude 
Ad  so  ree  Parasene 


RaccomaDdiamo  «  filologi  €tl  agli 
vertirri,  Divertimento  nel  wasa  loro  a 
secolo. 

<  Costa  crudele  et  dol 
Hi  restai  filta  in  s' i 

f  Voi  ne  adonnto  eo  malti 
(Da  voi  Tìtaperato,  io  n> 

t  Ch'ooDe  Inltj,  non  solo  dir 
(percbè  tolto  è  creato  per  tn 

(  L'alma  dì  gioj'  mi  fesl 

«  tntt'alma  inebria.  > 


Amor  Tiaato  imparo 


Sodo  di  Aldobraodo  (111M186): 


(  Qi'nom  bulilo  da  ni  oa 
E  Buggio  ove  su  patria 


in  quatto  d 

d'oorcTirie  onor  a  Ib 


Cose  <|OHlÌ  aitimi  Tfni  rìcordaao  la  1\.*  oiuta  ilrl  qu>rtik  mmIu 
IcUi  Gerralnmiie  lìtrrau .  cosi  i  sTgumii  mi  sriiibrano  calcilli  (ulht 
noDMiMiK  dello  sUsso  Tasso  : 


■  0  Nasa  tue  che  io  .>' etwoniu  nioaio 
Sa  dalche  limba  tiu  to'  bu  ìnspirwlu. 

Inspiraroi  a  reni,  M  ìfm  iiwntii 
CoDiusida,  agìloda 
Aperìnii,  et  abìm  Uilimi'nk', 

Il  decoro,  gratia,  kinciMUdo. 
Canle  so  nieu  suUoclu. 


«  Sa«  fnrcMie  ias  pxlts  t 


—  471  — 

•rimi  anni  del  \ll  secolo  c'era  un  Gherardo  che  metteTa 
mola  (li  lingua  e  poesia  italiana,  e"  era  it    poeta  romano 


>  Procnrel,  non  suspendat 
Sn  cotnerciu,  $' industria,  sas  anes,  > 
(p.  361). 
I  PromoTeiHlE)  sas  arles ,  sas  scientiis.  i 
(p.  3H). 
I  Armai  sa  manu  a  sa  non  sua  lundicla.  * 
(  IbiiiO. 
I  Pro  snìilari  dae  s' ìnsula  iti  su   loia 
Sa  genie  Aragonesa.  i 

(  rbld.). 
t  Sa  Vida  prò  sepie  horas  prolungando  (i  niediei).* 
(p.  37i). 


D  Francesco  Carau ,  discepolo  di-l  rollili , 


1  Molle  di  piamo  e  pallido  nel  riso, 
Siretio  lo  core,  e  di  mestizia   pieno  .  .  .  .  , 
Abi  !  lo  dolor  lolle  valura ,  e  priso 
□amini  lo  ingegno ,  e  slrinsc  iti  duro   Treno  . 
Onde  il  vasccl  da  lo  limon  diviso 
Varcar  non  può  dello  gran  mar  il  seno.  ■ 


(p.  : 


18). 


di  natura  il  drìit«.  : 

(  p,  204). 
I  Se  aberra  dal  drillo.  > 

(Ibid.). 

<  Tulla  scietiza  elio  ebbn  citinvennnio 
Allo  suo  talento  sufliclenii).  > 
(p,  20r,). 
t  Ma  tulio  spiritoso 
Fu  lo  SDo  canlare.  > 

(  p.  «Ufi  ). 

In   un  codii:e  supposto  do'  primi  anni  del  secolo  XV  si  legiiono 
i  tegnenti  versi  di  Amosio  di  Ploaglic  ; 


[  -  472  - 


k 


che  scrìveva  il  madrìgale  in  morte  di  Gorinta^  e  Aldobi 
poeta  politico;  prima  di  loro  qualche  tentativo  di  p 
d' arte  ci  sarà  pur  stato.  Or  che'  ci  danno  le  carte  di 
borea  che  non  ci  lasciano  mai  dubbiezze,  lacune  od  < 
rìtà?  Ci  danno  la  canzone  di  Azone  da  Siena  del  99 

e  Caro  Cola  eo  te  saluto 
De  li  fiorì  u^  son  beato. 
Sodo  in  Florencia  un  mese  jà  rìvato: 
^      Et  lo  di  che  son  venuto  etc.  » 

e  r  altra  di   Misser  Petruccio  de  Florencia    dell' 
1085: 

«  Lo  tuo  amico  te  saluta, 
Ke  la  cosa  fue  plagiuta, 
Et  tute  lo  denaro  me  foe  dato, 
Et  lo  vino  fu  bombato, 
Et  lo  pretio  brancicato  etc  » 

E' si  vede  facilmente  che  Tuna  e  T  altra  sono  o 
della  stessa  persona^  e  che  devono  essere  state  comp 
non  già  a  quasi  un  secolo  di  distanza,  ma  V  una  in: 
diatamente  dopo  T  altra  e  da  un  falsano  inesperto,  t 
è  la  somiglianza  di  stile  (se  pure  in  questo  caso  è  U 
parlar  di  stile)  e  tanta  è  la  simiglianza  persino  nelle  i 
e  nella  forma,  che  è  V  epistolare.  Ma  anche  tenendole 
merce  buona,  qual  mai  differenza  di  poesia  da  quest 
quella  di  Bruno,  dal  1085  al  1130  o  40  forse  I  Ck>m< 


e  Che  se  Imene  Tegg'  io  scaoter  la  foce , 
Come  lieto  scoccava  amor  suoi  dardi. 
Nascer  pur  veggo  mille  eroi  gagliardi 
Temati  io  guerra  e  Teuerati  in  pace.  > 

(pag.  337). 


cotesti  rozzi  saggi,  una  trentina  d'anni  dopo  aTremmo 
forme  così  diverse  di  poesia?  Qui  non  vi  è  più  progresso 
ma  salto! 

Chi  dice  dunque  che  le  carte  rli  Arborea  illustrano 
la  storia  delle  lettere  italiane,  dovrebbe  dire  piuttosto  che 
r  abbuiano. 

E  infatti  :  per  la  Sardegna  ci  hanno  dato  una  corte  ipo- 
tetica del  VII  secolo  trasformata  in  accademia  archeologica.  Ci 
hanno  data  una  lista  di  70  pittori  sardi  (  Martini, 
p.  263-4  noia  E)  da!  900  al  1400,  laddove  se  ne  troverà 
appena  due  o  tre  ne!  500  e  600.  Ci  hanno  dato  un  Gior- 
gio di  Lacon  (1177-1267)  che  fa  profondi  studi  sulle 
lingue  romanze  e  sul  romano  rustico:  un  Gialeto  che  fk 
mutar  lingua  a'  Sardi  e  inventa  gli  articoli  :  un'  Elena  che 
fa  versi  e  prose  italiane  nel  XII  secolo  (1).  Non  una  sola, 


r 


(I)  Aggiungerti  [|ai  in  nota  qualche  saggio  delle  doiirìnc  degli  ari- 
fi  lologi  su  Hi  ariKireesi. 
Deieione  aposirofii  Gìaleio  e  i  suoi  quatlro  h^iieili: 

I  Nosirae  linguae  varialio  vesira  est  sapienlia.  • 


GaTJno  di  Marongio  ci  fa  sapere  clie  Gìalclo  <  lia  il.nln  graiii- 
mntica  cum  anìcoli  nori  a  la  lingua  sarda  che  anle  erano  a  Torma  de 
Ialino  rustico  che  no  yolia  li  diii  arlicoli  >. 

E  CoitiJta  de  Orru  del  XIII  secolo;  <  ipsu  supradictu  reo  rurii 
ipsD  prìmu  qui  usarìt  de  narrer  ipsu  el  ipsa  iu  loco  de  tu  et  la,  dictn 
de  SOS  Corsoi  et  Siciliana^  ■. 

Gomita  de  Orru:  —  «  E  questa  lingua  rustica  romana,  la  quale  fd 
generale  ne'  popoli  Ticini  italiani,  cioè  i  più  Ticini  a  Roma,  sì  apprese 
da  ogni  nazione  sommessa,  con  alcuna  variazione  in  quanto  alla  pronunzia 
e  lerminanione  per  la  diversa  qualitii  e  natura  de'  (lopoli:  ed  è  rimasa 
quasi  giusta  o  terma  in  ogni  parte  d'Italia:  come  T ha  provato  il  soprad- 
detto autore  Giorgio  de  Lacono,  per  inezio  di  molti  ed  innumerevoli 
verbi  ovvero  parole,  che  ha  raccolto  nel  grande  e  mollo  alile  Tiaggio 


_  474  — 

ma  tutte  quante  queste  meravigliose  rìvelaziooi  ea 
giustamente  i  dubbj  degli  studiosi:  le  notizie  storie 
le  letterarie,  lo  stile  delle  poesie  e  le  forme  di  ver 
zione,  le  immagini,  i  pensieri,  le  parole,  le  dottrine 
rafie  e  le  filosofiche,  tutto  è  egualmente  controvei 
discutibile. 


sao  nell'  Italia,  Fraocia  e  Spagna.  I  quali  Terbi  nella  Carnosa  opei 
citò  uno  per  uno  etc.  etc  >  (Tradaz.  del  Martini,  p.  127  Appen 
Onesta  opera  di  Giorgio  di  Lacon  è  detta  —  Idatoria  de  s; 
gua  sardesca  —  da  Gomita,  e  —  historlft  lingue  sardesdie  - 
l'annotatore  GioTanni  Pnliga. 

—  p.  128  —  e  fa  la  rima  conosciuta  in  que' tempi  eziandi< 
altri  poeti,  come  Virgilio  ed  Ovidio  F  hanno  usata,  ad  imitano 
canto  de*  rustici  nel  mezzo  dei  Tersi  loro,  almeno  per  gioco.  I 
certo  che  hanno  conosciuta  la  detta  rima  i  detti  grandi  poeti  Le 
poesie  colla  rima  i  nostri  poeti  rustici  hanno  composto  non  cono 
OTTero  non  istando  alla  misura  de*  versi  latini  etc.  >  —  E  il 

' annota:  —  e  Ego  credo  quod  Tulgus,  Terum  credens  modun 
Virgilii  et  Ovidii,  et  cum  illi  placuisset,  statim  imitasset,  quia 
stat  auditui  et  non  decernit,  et  per  consequens  rustici  acceper 
retinuerunt,  non  autem  dederunt  supradìctis  poetis  qui  ludendo  can 
sed  post  rustici  dederunt  literatis,  qui  in  arlem  naluram  Terter 
(p.  121  ). 

—  p.  130  —  1  Però  noi  [Sardi]  cacciata  che  fu  in 
dair  Italia,  compresa  Pioma,  ed  altri  luoghi  la  vera  lingua  latina, 
barbarie  de*  tempi,  e  tanti  altri  disastri  e  guerre  ed  oppressi 
popoli,  non  abbiamo  avuto  la  necessità  di  formare  una  lingua  ] 
scritti,  ed  abbiamo  continuato  ad  usare  e  scrivere  la  lingua  rustica  r 
che  dopo  di  pochi  secoli  ed  eziandio  per  le  dette  ragioni,  si  fi 
nostra  propria,  eziandio  negli  scritti.  Però  gì*  Italiani  restarono 
tempo  per  formarsi  la  lingua  perfetta  a  modo  da  scriverla  civil 
facendo  tante  mutazioni  negli  scritti,  quante  furono  le  disgrazie  d 
pi,  come  è  evidente  dagli  scritti  dei  notari  e  cancellieri,  l  qua 
volendo  scrivere  la  detta  lingua  rustica  che  fu  in  uso,  tentar 
scrìvere  in  latino  intelligibile  alla  plebe  per  molto  tempo.  Il  quale 
fu  il  più  barbaro  e  deformato,  che  meglio  sarebbe  stato  scrii 
lingua  del  popolo  etc.  »  — 


—  476  — 

Se   è  Jfgwfnto  A  poco  lariore 
rìlà  de^oodid  vbomsi  <|iìelo   del 
chi  so  tatti  que'  prelesi  poeti  che 
Bè  dì  OD  solo  paeseL  Dme  scrive  i  Ar 
paria  de  '  poeti  di  ogai  parte  f 
di  CWIod'AkaBo,  e 
■B  periodo  detta  nostra 
ben  Molto  si  potrebbe  dBUMicie, 


detto  a  loBpo,  rtsparvìo  al  lettore 

o  avea   lette  altrove  o  di  se 

e  ma  contenterò  di  notare  cqbkì 

rispondere  a  <|nesta  obfeaenaner 

per  ipioranB  od 

tsporan&  e  dfei  ad 

del  conte  UfoBn^  cane  sé  i 


ifi 

Ilo 


«reti»  !!a%s$arà  ila 

et  pHÌ^  soft  i 


■fwamad  teiùas  «  -  —  e  Téot  san 


nes  ic  joàimiiiia  jer 
BC  wsusani  ssùsaosn 


—  477  — 

fello  diflàsa  tra  i  letterati  italiani,  e  motto  Terisiirale,  le 
-  poesie  Sicilie  non  ci  sarebbero  giunte  altrimenti  che  in 
tnscrizioDÌ  di  toscani,  e  che  a' traschltorì  devesi  dare 
il  merito  0  la  colpa  di  averle  ridotte  in  lingua  più  o  meno 
toscana,  come  non  doveva  essere  molto  dìOlcile  qundo  i 
paletti  italiani  erano  di  Torma  molto  più  vicini  Ira  loro. 
1j  canzone,  in  puro  siciliano,  di  Stefano  Protonoiarjo 
riportata  dal  Barbieri  nel  suo  trattalo  •  Dell'  origine  ddb 
poesia  rimata  •  (Modena  1700,  p.  143-145)  dà  molu  ap- 
parenza di  verità  a  questa  opinione. 

Né  ci  farà  meraviglia  il  trovare  oe'  primi  siciliaiu  forme 
poetiche  e  dì  stile  e  di  metro  già  svolte  abbastanza,  » 
ripensiamo  che  essi  sì  modellavano  sulla  poesia  protemale 
giunta  ormai  ad  alto  grado  di  perfezione,  senza  sapporre 
di  necessità,  col  sig.  Baudi,  una  anteriore  scuola  iialio. 

Un  altro  argomento  recato  dal  sìg.  Bandi  in  favore 
delle  nuove  poesie,  parmì  abbia  anche  esso  poco  valore, 
sebbene  ei  lo  dica  di  fate  evidenza  da  convincere  i  piA 
restii.  È  nolo  che  nelle  poesie,  specie  in  qnelle  di  Aldo- 
brando,  s' incontrano  spesso  modi  alTatto  gniltoniaDi.  0 
Bandi  ha  creduto  dimostrare  che  Guittone  e  non  Aldo 
brando  sìa  l'imitatore;  e  cita  due  «sempi,  mio  de' quali, 
a  quel  che  e'  ne  dice,  dimostrerebbe  ìncontrastabìlmeute 
il  suo  assunto. 

Confessiamo  che  con  la  migliore  volontà  del  mondo 
non  siamo  riusciti  a  veder  la  necessità  dell'  asserzione  del 
sìg.  Baudi.  e  ci  è  parso  sempre  afTalto  impossibile  deter- 
minare con  certezza  o  almeno  con  molti  gradi  di  proba- 
biUtà,  quale  de'  due  poeti  ne'  brani  messi  a  confronto,  sia 
r  imitatore,  quale  l'imitalo.  Se  non  che,  noi  abbiamo 
altre  ragioni  per  credere  che  il  modello  sia  il  frale  Are- 
lino,  mal  ricopiato  dal  moderno  falsario. 

Finirò  (pieste  osservazioni  su'  io 

col  rammentare  l' uso  frequenti» 
tnwr  per  in. 


—  478  — 

Il  sig.  Baadi  Del  suo  Glossario  ad  Aldobrand( 
an  esempio  di  Loffo  Bonagnidi  :  e  Dio  mercè,  avrò 
mai  riposo  0  troveraggio  iaver  P  amor  riparo.  » 
egli  stesso  a  p.  77  delle  sae  e  Osservazioni  iotoro^ 
relazione  etc.  pabblicata  negli  Atti  della  R.  Acca 
delle  scienze  di  Berìino  »  dice  invece  che  dì  tal  vo< 
se  n'ha  esempio  ne' poeti  antichi;  e  in  fotti  è 
che  r  inver  in  Loffo  Bonagoidi  significa  tntt'  altro  ci 
Né  è  vero  che  sia  incerta  P  orìgine  della  voce, 
vorrebbe  il  sig.  Bandi:  inver  significa  verso,  ed  i 
etimologicamente  chiara  come  incontro,  innatue  ^ 
strano  è  soltanto  neir  osarla  in  vece  di  tu.  Or  non  sa 
possibile,  che  siccome  già  il  sig.  Bandi  intese  T  ini 
Loffo  Bonagnidi  per  tu,  cosi  anche  il  compilatore  di  ( 
poesie  rabbia  inteso  nello  stesso  significato,  e  < 
sparso  a  piene  mani  nelle  supposte  poesie  del 
secolo? 


m 


Avrei  volentieri  discorso  anche  delle  poesie  e 
prose  sarde  della  raccolta  arboreese,  ma  non  conos^ 
a  fondo  il  dialetto  sardo  ne' suoi  vani  perìodi,  i  1 
mi  perdoneranno  facilmente,  io  spero,  se  ho  preferì! 
sciare  anche  più  incompiuto  il  lavoro,  che  arrischiai 
discorrere  dì  cose  per  me  non  abbastanza  studiate.  < 
invece  far  cosa  più  utile  esaminando  qualche  argot 
messo  innanzi  in  favore  delle  carte  di  Arborea  in  gen 
Il  più  importante  di  certo  è  quello  della  menzione  < 
ha  nel  cod.  gameriano  di  un  Caesius  Aper  preside  i 
riale  in  Sardegna  nel  primo  secolo  dell'era  volgar 
costui  non  si  seppe  nulla,  prima  che  nel  1856  fosse 
blicata  dal  Borghesi  una  inscrizione  di  Sostino,  in  cu 


—  479  — 

ainato.   Intanto  il  codice  gameriano  era  noto  sino  dal 
,  Riporterò  le  osservazioni  d^l  Mommsen: 
«  Non  v"  ha  dabio,  cìie  qui  s' intende  appunto  quel 
t  Cesio  Apro,  che,  secondo  le  inscrizioni,  era  nell'  anno 
I  prefetto  d' una  coorte,  e  più  tardi  legalits  prò  prae- 
j  dell'  imperatore  in  Sardegna.  Questa  carica  di  Cesio 
I  in  Sardegna  fu  conosciuta  per  mezzo  dell'inscrizione 
I  Sestino,  pubblicata  per  la  prima  volta  dal  Borghesi  nel 
tetlino  delt  Inslitulo,  185&  p.  140;  Io  scritto  del  Bor- 
i  Tu  indi  a  poco  ripubblicato    dal  benemerito  Spano 
l  Bollettino  Arclieologico  Sardo,  Anno  IV  (1838),  p.  181. 
Ille  è  il  fatto,  che  venne  piìi   volte   allegato   in  prova, 
!  notizie  positive  date  dai  manoscritti  d' Arborea  si  tro- 
"ono  confermale  da  inscrizioni  posteriormente  scoperte. 
i  è  d'  uopo  che  prima  e"  intendiamo,  che  cosa  s' intenda 
1  questo  posteìiormente  scoperte.  Certamente,  Tinscrizione 
1  parecchi  secoli  dopo  V  età  alla  quale  si  pre- 
nde appartenere   quel  manoscritto  secondo   l' opinione 
>'  suoi  difensori,  ossia  al  secolo  \V.  Ma  questo  è  appunto 
lel  manoscritto  (3°  fra  gli   enumerati  dal  Vesme),  la 
IsiU  paleografica   del   quale   fu   sopra    dimostrato  dal 
è,  ed  inoltre  manc^  assolutamente  ogni  prova,  che  la 
iota  marginale  in  questione  sia  stata   veduta   da  persona 
I  di  fede  prima  dell'  anno  1856.  Il  Vesme  dice  bensì: 
>  dal  1850  era  noto,  e  slato  visto  da  parecchi,   quel 
éiee  che,  acquistalo  poco  dopo  dal  Sig.  Cesare  Gameri, 
I  poscia  da  lui  donato   alla   Biblioteca   di   Qigliari.  È 
tamente  a  dolere,   che   in  simil  caso,   dove  anche  da 
Dioro  che  prendon  parte  a  simili  controversie  letterarie 
i  sarebbe  richiesta  un'  assoluta  esattezza  ed  una  precisa 
ssignazione  dei  fatti,  quale  si  esige  in  un   processo  cri- 
ninale  :  i  difensori  delle  Pergamene  si  siano  ristretti  a 
late  così  generali  e  ad  espressioni  così  poco  precise,  come 
Mr  esempio  quella  visto  da  parecchi.   Ma  questa  è  una 


li 

I  ' 


1. 

I 

—  480  — 

'  svista  pio  di  forma  che  di  sostanza;  ed  ìnSstti  non 

che  tale  prova,   assolatamente  necessaria,   potrà  ; 
venire  sommìniArata.  Se  non  che  anche  ammesso  i 
qoale  pienamente  provato,  gli  toglie  ogni  forza  la 
stanza,  che  il  passo  in  questione  si  legge  in  margio 
manoscritto,  e  dallo  stesso  primo  editore  venne  dato 
aggianta  posteriore.  Ora  non  è  p^  nulla  dimostrate 
quando  anche  il  manoscritto  già  esistesse  nel   1850 
sia  stato  possibile  al  falsificatore  mutarne  alcuni  fo{ 
almeno  farvi  alcune  aggiunte  in  margine.   Questo 
scritto  di  difiicile  lettura,  come  quasi  tutti  questi 
menti,  fu  lungo  tempo  nelle  mani  dei  trascrittori;  ( 
assicura,  che  alcuno  di  essi  non  sia  appunto  il  fa 
od  in  intima  relazione  col  falsario?  e  l'esistenza  de 
noscritto  nel   1850  prova  essa  forse,   che  già  alle 
fossero  quelle  note  marginali?  se  si  trovasse  una 
aggiunta  in  margine  ad  una  lettera   di   commercio, 
tribunale  ne  terrebbe  conto   in   giudizio?  Di  certe 
v'ha  che  questo:  che  T inscrizione  fu  trovata   dap 
nel  1856,  e  che  la  notizia  in  questione  venne   dap 
pubblicata   nel   1865  ;   e  che  perciò  V  autore  di 
notizia  può  benissimo  essere  stato  in  grado  di  far  i 
quella  inscrizione.  » 

Se  non  si  avesse  a  lottare  invano  con  le  obbi 
del  Mommsen,  qui  si  avrebbe  di  certo  una  prova  abba 
concludente  della  sincerità  del  manoscritto.  Or  non 
mai  fuori  V  uomo  autorevole  e  degno  della  fiducia  de 
il  quale  dica:  —  prima  che  fosse  pubblicata  Pinscr 
io  stesso  ho  visto  quella  tal  nota  marginale  nel  ( 
sardo?  (1). 


(1)  Almeno  pc'mss.  boemi  c'era  il  Dr.  Hanka,  che  affem 
averli  egli  slcsso  irovali,  ma  per  ciò  che  riguarda  I*  orìgine  delle 
sarde  e  dei  codd.  fiorentino  e  sanese,  lutto  è  mistero. 


—  481  — 

proposito  di  DotG   margiDalì,  mi  sia  permesso 

ire  UD  allro  fallo  che,  in  cosa  dì  mìoore  imporlanza, 

I  una  seconda   edizione   di   quello  si  bene  esami- 

I  dal  Mommsen.  Vedemmo  già  nella   prima  parte  del 

sente  lavoro  conio  nel  cod.  cartac.   XIII  p.  426  (pub- 

1  dal    Can.    Spano   nel    1859)    quel   tale  Arrio 

)  fosse  dato  come  «  nolamra  sive  sci'iptura  compendii 

Il  Martini  in  una  nota  a  quel  luogo  a  si  tenne 

i'  attribuire  ad  Arrìo  il  merito  dell'invenzione  »;  di  poi 

l  approfondila  la  quistione,  non  esitò  a  negarlo  {!).  » 

)  che  le  ragioni  stesse  che  misero  in  dubbio  il  Martini, 

I  fatto  mutare  opinione  all'  autore  del  codice  gar- 

I,   giacché    in   questo    ultimo    si  dice  che    Sifilione 

«re  studuit  nolis  compendiariis  ['  ab  Arrio  in  Sar- 

i  inlroductis].  »  E    le   parentesi  quadrate    indicano 

)  una  nota  marginale,  identica  a  quella   in   cui  è 

le  di  Cesio  Apro  ;  e  queste  note  marginali  il  Mar- 

l  stesso  afferma  possano  credersi  interpolate. 

Sarà  reo  di  giudizio  temerario  il  lettore  se  supporrà 
,  come  la  menzione  di  Cesio  Apro  potè  essere  inserita 
I  pubblicata  P  inscrizione  di  Sestine,  cosi  del  pari  fu 
>  ad  Arrìo  il  brevetto  d' invenzione,  soltanto  dopo  i 
sti  dubbii  del  Martini  (2)? 

Altro  argomento  addotto  dal  sig.  Baudi  è  la  menzione 
I  si  ha  di  un  incendio  di  Villa  di  Chiesa  per  opera  di 
briano  giudic«  d'  Arborea  in  un  poema  arboreese  ìn  lode 
di  Ugone  pubblicato  sin  dal  18<iì.  Di  tale  incendio  non 
si  conosceva  nulla  prima  che  il  sìg.  Bandì  stesso  nell'aprile 


(1)  App.  p.  IlO-llt.  Le  ragioni  sarà  Torse  inutile  rìpelErIp:  le  note 
uchigrafìclic  erano  in  Roma  cosa  mollo  piti  amica  e  di  Arrio  e  di  Tirane, 
>olo  per  errore  inveleralo  lo  si  chiamano  tironiane. 

{t)  Nello  slesso  codice  la  noia  marginale  B  a  p.  30  conferma  una 
optntone  dal  Martini  espressa  a  p.  Slii  delia  Raccolia. 

31 


^ 


—  482  — 

del  1865  esaminasse  alcune  carte  antiche  della 

Villa  di  Chiesa,  in  cui  se  ne  trova  frequente  rie 

Mi  sia  permesso  dubitare  che  questo  e  gli  altri  ai 

dello  stesso  genere  addotti  dal  sig.  Bandi  (1)  sieno 

Era  già  noto  per  fama,  che  P  archivio  della  città  i 

conteneva  molte  e  preziose  carte  antiche  :  ora  chi  ] 

assicurarci  che  il  falsario  non  ne  avesse  preso  ai 

mente  conoscenza?  o  ne  avesse  d'altronde  notizia 

La  più  strana  però  delle  argom^tazioni  del  si 

è  quella  per  cui  deduce  la  sincerità  delle  carte  s 

gran  numero  e  dalla  gran  varietà  de' nuovi  do 

Egli  sfida  il  Dove  a   comporre,   con  la  diversità 

che  è  fra  Tuno  e  P  altro,  il  Ritmo  in  lode  di  Gi 

concione  delegati  di  Torres  e  Figulina  e   la  vit; 

gellio  contenuta  nel  codice  Gameriano;  come  sfid 

terati  italiani  a  comporre  poesie  del  genere  delle  ai 

A  me  pare  che  se  anche  nessuno  de'  contraditto 

atto  a  contrafare  un  verso  di  poesia  o  periodo  e 

non  per  questo  il  contradittore  avrebbe  vinta  la  cau 

che  l'attitudine  alle  falsificazioni  è  attitudine  spec 

l'intelletto,  come  potrebbe  essere  per  esempio  una  ] 

sa  memoria,  una  tendenza  istintiva  alla  imitazione  ( 

e  della  voce  altrui.  E  tale  è  l' attitudine  del  falsario, 

riescire  nel  suo  intento  non  ha  neppur  d'uopo  di  gra 

dizione.  A' nostri  giorni  Vrain-Lucas  che  non  era  un 

tico,  ha  illuso  per  gran  tempo  un  illustre  matematica 

ad  un  certo  punto  anche  l' Accademia  delle  scienze  e 


(1)  §  103,  104,  105  delle  Osservazioni  etc. 

(2)  Lo  stesso  può  dirsi  di  notizie  conosciate  solo  per  m 
carte  di  Arborea  e  poscia  confermate  da  carte  scoperte  ncU'a 
Cagliari. 


—  483  — 
jppe  Velia  era  nn  ignorante,  e  seppe  tanto  di  arabo 
uto  altri  della  lìngua  degli  Oltenloti,  e  pure  pabblicò 
i  volumi  in  (]aarto  e  uno  in  folio,  codici  arabi,  da 
i  ru  ingannato  un  orientalista  di  gran  riputazione,  il 
-     1(1). 

Chi  poi  non  sappia  figurarsi  come  si  possano  falsifìcare 

i  manoscritti  quanti  ne  ha  la  raccolta  Arboreese,  legga 

^Operetta  del  Tiraboschi  «  Riflessioni  sugli  scrittori  ge- 

tàogicì  »  (Padova  !789)  e  vedrà  ivi  quanto  seppe  fare  il 

creili  (2).  Leggansi  anche  le  «  Notizie  spettanti  all'opera 

n-ira  intitolata  Storia  degli  Svevi  e  Vita  del  Beato  Cala  «  (3) 


(I)  V.  Seinà,  Protpelto  della  Storia  LilUraria  di  Sieilia,  voi.  3° 
3.  È  un  capitolo  che  merìU  di  esser  letto  da  chi   non   crede 

e  r  iraposiura  possa  giungere  a  lanlo. 

{%  Alfonso  Cicurclli  da  Deraglia  (1533-1583)  fu  condannato  a 
Mite  per  aver  flnlo  due  leslanieiili,  uno  slrumenio  della  conferma  della 
supposta  donazione  di  Costanliao  sollo  nome  di  Teoitosio  ìoiperalore,  e 
diverta  htperalorum  Privilegia,  geneaiogias ,  et  hislorias.  et  alia 
pretentorum  inttrumcnlofiim  traiuuinfiCa.  Tra  queste  ultime  iinpO' 
sinrc  va  annoTcraia.  nn'  opera  Ialina  in  5  libri  di  un  Fanusio  Cara|iano, 
il  irailalo  dr  Cardinalalu  et  Cardinalibui  di  on  Jacopo  Gorello  da 
Colonia,  l' opera  de  antiquilale  et  rebus  Campaniae  Felieii ,  et  itt 
marima  Seai>oliii  nobilitale  eie 

Ha  della  pericolosa  facollà  inteutiva  del  Ciccarclli  t  prova  lamìno- 
lissiiiu  r  indice  di  aoiori  e  opere  da  lui  supposti,  eh;  pufi  vedersi  a 
p.  5&^  dell'  operetta  del  Tiraboschi. 

(3)  t  Lo  Stocchi  comìncio  dal  falsificare  due  libri  con  carta,  ca- 
rallerì,  e  stampa  uniforme  a  quei  del  sec.  XV  e  principi!  del  XVI,  uno 
del  1473,  l'altro  del  t509,  clic  sparsi  ne' suoi  mw  per  l'Europa, 
wppe  dopo  del  tempo  fame  venire  una  copia  in  Napoli,  per  presentarla 
al  regio  Ministro  >, 

'  Due  manoscritti  inserì  nella  Vaticana  r  nell'Angelica  ove  poi  furono 
rìlroTatì.  Una  quaiilìlà  di  opuscoli,  frammenti,  diplomi,  lettere  ed  allif 
carte,  che  in  tutto  passano  il  ceniinaio,  fece  trorare  negli  arcliivìj  ft 
btici  e  nelle  cose  privale  del  regno  di  Napoli,  e  luui  li  raccolse    ift> 
tomo,  a  cui  fece  seguire  due  altri  tomi  in  latino. 


k 


—  481  — 

tloBiL  1792)  e  si  vedrà  carne  m  prete,  Ferd 
Sloodi.  ìofsniasse  bob  solo  foloBii  ìb  ìqUo,  ma  ri 
«fecfae  a  far  pKsare  per  coqio  di  un  saolo  la  caro 
■n  aàBù!  Qttetsto  per  fero  bob  è  aBcora  anenalc 
earte  d"  Arborea,  sia  chi  sa! — 

Si  don  die  càò  die  fm  possibile  un  teBipo, 
ofgt;  laa  ai  ponà  nostri  fa  possibie  b  frode,  ben 
cone^pota  e  preparata,  del  Simonides,  e  V  ìBTeniìoo 
carte  boesK,  e  le  27  nSa  lettere  dd  Vrùi-LocasL 
o^  è  iiia<iili1i  Taccorteiza  de' dotti,  bob  è  asci 
■entata  Pastazìa  de'mahagì?  Se  ad  bb  ignorante  A 
scorsi  riesdia  iigaBBare  i  dotti  d *  allora,  bob  potF 
riesdre  lo  stesso  ad  bb  mediocrenieBte  erndtto  de 
teiBpi? 

Si  dosandera  poi:  a  che  scopo  qoeste  fidsi6G 
A  toglier  fona  aD *  obbiezioBe  basterebbe  rispoodei 
BBa  Msificazione  poò  per  eoa  dire  esser  Gne  a  sé 
Si  falsifica  per  Gdsificare.  Ma  nel  caso  delle  carte  Arti 


Efft  ìksmtn  €  M  hnwo  tessalo  eoa  talee  tasta  «le,  e 
himtaiMae  e  coatfesàoae  di  chi  arerà  arila  parte  nefla  medesi 
af^*s^  posto  ÌB  s4>5peUo  i  lefptorì.  saivbbe  stato  forse  difficile 
j  tono  di  »a!!iù.  Ne  re<taroao  ioàtti  ioponali   tanti  reTÌsorì. 
ìa  <^oel  tempo  de'  piò   iHimitkati ,   che  aiesse   Napoli,  i   diver 
de'  qinli  5i  fe^^ooo  in  testa  di  ciasche^fan    tomo,  e   conlessai 
of^mti  tutti  i  moonmecti  aotenticl  che  mostraTsio  la  chiara 
che  obèU^Taoo  -a  prestar  loro  (^i  mairgior  fede.  E  fra  questi 
manca  hi  Hopo  alT  opera  di  moosi^.  Gregorio  Cara£b  tpscoto 
sano,  e  repo  coosi^liere,  cbe  riconosce  io  essa  h  mano  di  Dio 
Tohito  fflani£estar  b  gloria  della  soa  onnipotenza   nella  TÌrtù  e 
di  questo  santo  >. 

La  fran  moie  di  scrittore  cbe  doTeitero   ìnTeniar   di   sana 
questi  hlarii  qui  accennati,  dere  scemar  la  meraTÌ^lia   d^  Soc 
afmmissione  dei  testi  di  lingfua^  cbe  neiroltimo  fascicolo  del 
gtiatore  p^  ±ìt  parre  negar  fede  ai  contraddittori  delle  carte  d'  ■ 
coAsiiierando  la  quantità  e  varietà  di  queste. 


—  485  — 

non  ci  potrebbe  esser  anche  qualche  altro  flne?  E  non 
v'  è  poi  anche  lo  scopo  della  glorificazione  della  Sardegna, 
e  un  poco  anche  dell'Italia  e  della  sua  poesia,  restituite 
al  primo  posto  nella  serie  delle  letterature  romanze? 

Ma  son  quistioni  coteste  alle  quali  non  siamo  obbligati 
a  rispondere,  come  del  pari  non  siamo  obbligati  a  ri- 
spondere alla  quistione:  Chi  è  il  falsario?  Noi  abbiamo 
visto  come  la  storia  sarda,  quale  dalle  carte  arboreesi  ci 
è  data,  è  una  nuova  edizione  corretta  ed  ampliata  della 
storia  del  Manno:  abbiamo  visto  che  i  codici  sardi  ci  offrono 
poesie  italiane  del  XII  secolo  che,  per  argomenti  intrinseci 
ed  estrinseci,  non  possono  essere  del  tempo  cui  son  rife- 
rite :  abbiamo  creduto  poter  ritenere  perciò  un'  impostura 
tutta  questa  congerie  di  carte  —  e  cosi  sembraci  finito  il 
nostro  compito. 


"V-AJEZ/IETA 


AL  DIRETTORE   DEL  PROPUGNATORE 


NICOLÒ  TOMMASEO 


"MMMMHM 


Firenze,  13  Dicembre,  1( 

Giacché  neìV  utile  giornale  diretto  da  Lei  ha 
tamente  trovato  accoglienza  T  interpretazione  dal 
Francesco  D'Ovidio  proposta  intorno  a  un  de'  più  i 
luoghi  deir Inferno  di  Dante,  mi  conceda  ch'io  po^ 
stesso  ringraziarlo  del  cortese  modo  com'egli  a 
avere  il  Comento  mio  antivenuta  l' induzione  alla 
egli,  prima  di  leggerlo,  venne  da  sé.  Né  di  corte 
lamente,  ma  io  credo  cotesto  essere  atto  di  prol 
gliene  rendo  la  debita  lode. 

Al  Cavalcanti  che  domandava  del  figlio,  e  perei 
sia  anch' egli  compagno  a  tale  viaggio  se  l'ingegno 
a  Dante  lo  ha  meritato,  risponde  Dante  additando 
Ho  :  Colui  che  attende  là ,  per  qui  mi  mena ,  Fot 
Guido  vostro  ebbe  a  disdegno  (1).  Intende  il  sig.  D' 
per  queste  parole  sola  una  cosa  :  che  il  sentimento 
ligiosa  pietà,  ispiratore  del  canto  virgiliano,  non  era 

(1)  Inf.  10. 


—  M»7  — 
la,  «osi  ftKieawDie  mtìàno  da  Giùlo;  «  om  affatT" 
!  rigetti  le  iolerpreiizMni  che  a  (pesto  toso 
Le  quali  io  noo  mi  credetti  dover  tacere , 
itesse  3  lettore  ^udicanie  da  sé  ;  ma  alle  altrnt 
ì  b  mn ,  come  soglio .  ieazs  fame  espressamente 
)  la  novità ,  cooleoto  del  rendere ,  come  posso ,  al 
1  Terità  Q  mio  modesto  tributo.  Offesso,  però. 
t  io  qneir  altre  interpretazioni  io  rìconoscu  qualche  cosa 
I  DOo  si  poter  rigettare  ;  conresso  che  lo  siile  della  can- 
Ddmm  MJ  prtga  potrebbe  a  taluni  far  credere  che 
■miGO  di  Guido ,  commendandolo  per  altezza  d' in- 
,  intendesse  insieme  notare  quanto  quella  mauieni , 
!  poi  ingenUlila  da  un  più  vero  amore,  fosse  distante 
I  virgiliana  eleganza  schietta ,  da  quella  pensala  e  no- 
mi^icità.  Potrebbe  ad  altri  parere  cite  qui  si  accenni 
)  opinioni  guelfe  di  Guido,  e  non  assai  concordanti  at 
I  cantore  della  Monarchia  ;  dì  Guido  non  però  guelfo 
I  gaìsa  de'  parteggianti  volgari ,  s' egli  ebbe  a  mostrarsi 
)  avverso  alla  fazione  di  Corso  :  nel  quale  intendimento 
l  forse  verrebbe  a  dire  che  Guido  non  avesse,  quanto 
fin,  a  disdegno  il  pensiero  rivite  del  Latino  maestro, 
(ogni  modo,  la  parola  disdfffno  non  è  da  voltare  ìn  di- 
ì  come  il  canonico  Bianchi  fa.  Anima  sdegtiosa  dice 
Vìi^lio  a  Dante  slesso ,  e  lo  abbraccia ,  e  benedice  sua 
madre  (1);  Virgilio  che  di  forza  ribatte  1  dispetti  del  superbo 
Capaneo  (2) ,  e  fa  che  ìl  senese ,  ucciso  per  sua  superbia , 
dice  :  L'opere  leggiadre  Be'  miei  maggior''  mi  fér  xi  om>- 
gatue  Che Ogni  nomo  ebbi  in  dispetto  (3).  All'  incon- 
tro ,  Dante  e  il  Petrarca  (4)  accoppiano  disdegno  coli'  ag- 


ii )  Inf,  K. 
(2)  Inf.  ti. 


I 


—  488  — 

giunto  di  giusto;  e  il  dolore  che  trae  Pier  delle  Vi 
essere  ingiusto  contro  sé  neir  uccidersi ,  non  lo  ai 
chiamato  dispetto  Dante  che  pur  lo  dice  disdegno  e 
gnoso  gusto  (1),  che  corrisponde  alla  fiera  dolcezi 
mite  Petrarca  (2). 

Ma  certo ,  dovendo  scegliere  una  interpretazione 
alla  accennata  da  me ,  e  confermata  meglio  dal  sig. 
dio,  conviene  appigliarsi;  perchè  veramente  si  dis 
r  Eneide  dall'  Iliade  e  da  tutti  i  pagani  poemi ,  e  da 
de'  cristiani  altresì ,  nel  sentimento  religioso  congiu 
civile,  e  che  lo  consacra  e  lo  sublima,  e  sin  nell 
lezze  del  mondo  esteriore  diffonde  un  che  di  spirit 
di  santo,  lo  aveva  accennato  un  sospetto ,  che  il  Boc< 
confondendo  Guido  col  padre,  apponesse  al  figliu 
bestemmie  o  i  dubbi  del  pensiero  paterno;  e  sarà 
il  Novelliere  stato  ingannato  da  voci  che  allora  cor 
di  partigiani,  calunniatori  per  mestiere  e  per  vezzo, 
senza  prove  si  saran  flgurato  che  l'educazione  doi 
contaminasse  la  coscienza  di  Guido.  Intorbidata ,  noi 
altro ,  potevano  sospettarla  i  nemici ,  gli  amici  teme 
a  tale  sospetto  risponde  il  forse  e  V  ebbe  di  Dante  ; 
dire  :  non  lo  credo  già  io  ;  e  se  ciò  potè  essere  o 
per  qualche  tempo,  adesso  non  è.  Uebbe  rimane  senza 
altrimenti  ;  giacché  ben  sapeva  Dante  che  Guido  era 
E ,  anche  spiegando  quel  verso  altrimenti ,  convei 
pur  sempre  intendere  che  un  mutamento  fosse  s 
nella  mente  o  nel  cuore  di  Guido.  E  a  me ,  che  e 
D'Ovidio  convengo ,  piace  pensare  che  il  mutamente 
opinioni  religiose  Guido  lo  dovesse  in  gran  parte  a 
cizia  di  Dante. 


(!)  Inf.  13. 
(2)  Canz. 


Occnpato  dal  presentimento  che  in  lai  destano  le  pa- 
role di  Farinata,  rammentandogli  cbc  ì  Ghibellini  seppero 
ben  ntoi'nare  a  Firenze,  ma  i  Guein  no,  Dante  rimane 
in  Bn  turbamento  simile  a  quello  che  nel  Purgatorio  è 
descritto  d'un'' anima  commossa  airannunzio  di  domestiche 
e  patrie  calamità  :  Come  air  annunzio  di  futuri  damU 
Si  turba  il  viso  dì  colai  che  ascolta ,  Da  qualche  parte  il 
periglio  lo  assaimi  (1).  Fors' anche  per  questo,  Vii^ilio  non 
è  nominato,  cioè  per  non  entrare  in  lunghi  discorsi,  for» 
s* anche  per  questo  la  risposta,  nella  sua  pieaezza,  non 
è  cauta  a  prevedere  il  colpo  che  quell'e&6c  farà  sul  cuore 
paterno.  Del  resto,  co/mi  non  suona  qui  irriverente;  e  nel 
Purgatorio  dice  La  suora  di  colui ,  soggiungendo  tra  pa- 
rentesi :  e  il  sol  moslrai  (2)  ;  questo  dice  parlando  a|)- 
panto  di  Virgilio  sua  guida. 

Accennai  nel  Comento  la  corrispondenza  tra  il  bol- 
lissimo Hector  ubi  est  (3),  e  ìl  non  men  bollo  net  suo 
genere  Mio  figlio  ov'é?  All'tiso  del  pronomo  in  Virgilio 
Quid  puer  Ascanias?  superatne  et  vescitur  aara:^  Quum 
tibi  jam  Trqja — ,  corrisponde  il  (lanlfisco  elegante  Form 
cai  Guido  vostro  ebbe  a  disiteijno  :  e  dire  al  padre  minoro 
Guido  vostro  è  più  e  meglio  che  dire  /'  amico  min.  Lr 
semplicilii  della  locuzione  aggiunge  all'afTetlo;  n/)  iikI  prii> 
cedente  verso  detrae  punto  al  decoro  poetici)  Il  per  i/tit 
accanto  al  là.  il  colui  col  fnt  mAut,  anm  (incriililii'  n\ 
verseggiami  moderni. 

In  Virgilio  superarne  et  vetcilur  aura  *l»ll  td'llit  H 
Andromaca  dalla  abbondanza  del  mt«Nll4tl|ti|ii  Hlftilln  hiH' 
temo  ;  qui  con  abbondinza  a  MariUi  pl/l  iitiiiillM  nliri  il 
Virgilio,  non  vìv'bqU  ancoruT  Soti  far»  yli  ui^fillt   ilhU  h 


(l>  C  (4. 
(S>  C.  K 
(3)  L.  3. 


ì  Éiv*  :  I  iTaftr  kA^  :>{>er¥  e 
■■aarMe .  viffii .  axvae  j1 


3  W  9& 


LA    NOVELLAJA    MILANESE 
ESEMPn  E  PANZANE  LOMBARDE 

RACCOLTE  NBL  MILANESE 

DA  VITTORIO  IMBRUNI 


VII.  —  I  tri!  iiax*ansE.  (1) 


Ooa  volta  ghiera  on  albergator.  El  gh' aveva  ona  tosa. 

(1)  Questa  panzana  ha  molti  punti  di  somiglianza  con  la  Palomma, 
trattenimento  settimo  della  II  giornata  del  Pcntamerone  :  —  e  'No  pren- 

>  cepe  pe  'na  jastemma  datale  da  'na  vecchia,  corze  gran  travaglio,  lo 

>  quale  sse  ffece  cchiù  ppejo  pe'  la  mmardezzione  de  'n  'Orca.  A  la  fine 
»  pe*  'nnnstria  de  la  figlia  de  TÒrca,  passa  tutte  li  pericule  e  se  accasano 
»  'nsiemme.  »  — 

La  fanciulla  che  (h  scala  delle  sue  trecce  si  ritrova  in  parecchi 
canti  popolari;  eccone  uno  di  Napoli: 

Nenna,  ca  staje  'ncoppa  a  'sta  fenesta, 
Famme  'na  grazia,  non  te  ne  trasire. 
Calami  'nu  capillo  de  'sta  trezza, 
Galamillo,  ca  voglio  saglire. 
Quanno  simmo  'ncoppa  a  la  fenesta, 
Pigliame  'mhraccia  e  portame  a  dormire. 
Quanno  simmo  'ncoppa  a  chillo  letto. 
Mannaggia  tanto  suonno  e  chi  vo'  dormire! 

Altra,  del  pari  napolitana 

Accalami  sti  trecce  'mperiali. 
Figlia  de  'a  gran  torca  Emmanuela; 
Vui  scennite  ra  sangue  reale. 
Parente  de  'a  Rrecina  delli  dei. 
Facitemi  'na  'razia  se  potite, 
Levateme  'sta  catena  re  'sto  pede 
—  e  La  'razia  è  fatta  e  la  guerra  è  fcnita 
t  Vattene,  ninno  mio,  ca  la  grazia  ha'  'vuto.  »  — 

Var.  V.  8.  Vattenne,  ninno,  addò  tu  sì  benuto.  —  Altra  lezione  na- 
politana : 


—  492  — 
La  stava  semper  in  slanza  ;  b  voreva  mai  sortL  S 


Cabteve  ila  trena  iaperìale, 
Fiffii  4e  io  Gnodnca  Haoiiele. 
Tje  fcmaile  4e  saighe  mie; 
Pvtsie  a  b  Rreciia  de  li  dee. 
Portale  gìBste  *sie  Tafanie  'mniaiio 
Coume  le  porta  lo  giisto  Michele. 
FauMDe  'na  *nm  si  nme  b  può*  fbre, 
Lefine  *su  calma  da  'sto  pede: 

le  di  Pomiglisio  d'Arco  e  B^nofi  Irpeoo. 

T&cciati  a  b  finestn  'mperale, 
Figfia  de  lo  Gran  Turco  Umamieie 
Voi  ne  Tieni  ra  sango  reale, 
SUe  parerne  alb  Regina  Lena. 
Famme  'oa  fraiia,  ca  mme  b  può  fi* 
Lerami  b  catena  ra  lo  pere, 
To  che  le  poorti  roe  Tabnxe  'mmaDo, 
E  gliiiisto  pesale  come  a  Su  Micbele. 

VariaBle  di  Lecce: 

Donna,  ci  stai  *n(acciata  alb  fenescà, 
Famme  'na  ^zia,  na*  te  ode  trasire. 
)lioame  *na  capello  de  toa  trezza 
La  cab  a  basso  ca  Togiìa  salire. 
Quando  soggiunto  sobra  alb  fenescia, 
'Ccoaxa  la  lietlu,  ca  Toglia  darmire. 
Ca  quando  slama  inir'  a  ddha  bianco  lieUo, 
Belb  donna,  ca'  tie  t(^o  morire. 

Inalile  ed  inopportimo  sarebbe  il  Toler  qui  rinlraocìare  a 
alludesse  il  canto,  del  quale  soprarnTono  cotesti  firammenti 
moria  popolare. 

Si  raccoola  nel  Milanese  ancbe  un  ahra  pazana ,  sotto  il 
titolo:  I  trii  aanaa.  Eccob:  —  t  Gh>ra  ona  Tolta  oa  fio< 
»  cbe  Tera  preso  da  b  malinconb;  e  alora  el  Re  el  gbe   bT 
»  dÌTertiment  per  Ted  •  de  rallegrali,  ma  nieiit  reossÌTa.  On  di 
1  su  00  poggioea  el  ved  a  passa  ona  donnetta  goeohba  e  con 
»  color  del  ramm:  e  Io,  el  s'è  miss  a  rìd.  Alora  b  donnetta 


—  493  — 

I  almea  a  la  finestn ,  om  volla   Dia  tlii!i  mia 


■   rolla  e  la   ghe  dis:    Com'è?  le  gh' M   noroKJ  rta 

)  adrèe  a  mi?  Behn!  mi  lo  faroo  an  tlrìan  t  te  ridarei  inai 

aadte  le  avrfe  Irooàa  la  Mr  iti  Trii  uarani.  DlOilli  ilo  t\o«a 

ai  podùD  rid,  per  qnant  el  faiCMen  iUtoril,  E  ilora  io 

r  el  gh'ha  diti:  L'unica   l'i  che    la  le   meliti  in   viagg  jinr 

i  a  la  TSr  di  trii  narant.  E  alorn  ilonu  ni   un   iiidi  in    fiJttfg 

Ai  Mnitor  e  canj  e  carroii.   El  tu,  pI  tu!  Vi  clic  Ip  «a,  cu 

n,  e  mai  el  ritata:  quind  nnatmciil  ci    ini   ons   (or    lontan 

n  quella  l'era  b  Tor  di   Ini   nstnuz.  Kl   gb' arerà    dlr^   ona 

\  de  saron ,  di  »ceh  de  saron  per   dtiragginl  i  cadi^ni»  e  di 

b  de  pan  per  dagb  ai  ou.  cbc  m  de  no  gli«  umttn   utiAa 

L  Dmm  el  dar  i  taàttan  e  denttr  m  la  lAr  el    rnl  tul  (amiu 

L  El  ne  dtr*  wéii  tM  e  Mka  fawan  ooi  bella  rìo«ìiiì  ,  cIm 

t  &:  Oontin  nii'  <lt  btv  db  mi  imoeuri.  Im  d  corr  ■  loeufli 

1,  nn  le  rm  nap  ia  imy  «  li  bcU  flovioa  h  moetr. 

B  li  n.  l'ciw!  El  K  4rrT  «d  «ber  '  '■  alu  bara  «m 

fa  pvrin  MI  Mi,  c*e  b  4b:  Aimm   'ie  nMNftA;  m  d( 

MMTi.  SECMed(irM*>aÌH>4t4if  it  MnM.CMt 

b  I  ta  BMv.  RiritaM  d  im  4  Mn  «  m  (mmi  m> 

pvria  waa»  ^  li  1^  «*:  J0  M  «fe'Aw  mi  fé  ai 

a  a*  Mf  dh(«M|ft  éoK.  Alnei  |lhc  ^mm  «MHIimHk*- 

■M  w  mka  fK  «a*  a  t*  4r  •>  p4ir  «  apirfta. 

■  r«i>ro<  ^ariiifc.»  ivkww  awite  téim; 

■  j»  «ÌV  M  e  fc  ^  tart  *  (M  M  k  4m<  Ito 

rii^.  ■  V    ta»  S  pg|l    ^  W    «MMK    Im    NMM  k 

■  «•is  Cmì  yiMidr  ^*k    6  «Mw  (cafcMl*'  Jb 

LKaMM.»«Ì»«rli«ÉMi9*tf  ««pM»  ,méé> 

■.  •k'rf  tM  M  Ik  «1  ^  «Mw  ìMv  ttm-,  m  * 
■■h-e  k  ^b  nel-  Am;  ■•nana  ■  mtht  •  uui  i>  «i^ 


>a*«^  &<»^ 


—  494  — 

iesu  io  qoeUa  eoDtnda;  e  rtum  inibODida(l)d'andà  a 
stn.  Uhao  bssada  sola  e  gfa^è  passàa  ona  Siria;  b 


ristess.  Inrers  d  fioea  del  Re  e  rabbiàa  come  on  scin,  el  : 

su  bnitu  tosiu  Q  im  a  cà  ;  e  so  pader  el  ?oeiir  tri  TÌa  ì 

Tede  sto  bnitt  mosler;  el   ghe  dìs:  Èia  Vhi  de  onda  insc 

per  foni  insci  on    master f  Ma  in  somna  qod  che  Fé,  Vi 

Teia  mini»  d  con^  de  mandalla  imkée.  E  l' ordina  el  prani 

lotant  cfa'd  coeogfa  Y  è  adrèe  a  preparali,  ven  denter  in  la  ci 

colomba  e  la  gfae  éìs:  Cuoco,  M  cuoco,  cosa  fole?  —  Lei 

rosio,  hi  el  rìspood.  Lesso  e  roslo  subito  bruciato,    perdU 

efUm  strega  non  ne  abbia  nuii  mangialo.  E  snbet  brasa  tu 

dì  caniroenL  El  coengfa  strenui  el  fa  sobet  a  avisà  d  fioei 

de  qnd  che  d  ghe  socced ,  e  la  d  capiss  che  gh'  è  denter  on 

d  ghe  dis  de  torni  a  roettess  in  cosina  e  de  lassa  Tegni  d 

colomba  in  cosina.  La  colomba  b  toma  a  Tegni  li  e  la  ghe 

(fi  :  Cuoeo^bet  cuoco,  cosa  fate?  E  hi  d  rìspond  nient  e  la 

la  Ten  denter  e  lo  le  ciappa  e  ghe  le  porta  li  al  fioea  del 

fioeo  dd  Re  el  goarda  sta  colomba,  le  carena,  e  d  se  acc 

h  gh*ha  dèo  spontoo  in  testa.  Ghe  ne  tira  ria  Ton:  d  Ted 

focnra  mem  ticcia  de  la  soa  sposa  che  Y  a?efa  perdùo.  Aloi 

tffa  foeora  Tia  Y  alter  e  ven  foeora  totta   qoella   bdla   gioì 

gh*  era  tant  piasùu.  Alora  el  cascia  ria  la  bratta  strìa ,  d  spc 

fì  che  el  ghe  pia$,  e  fon  on  pranz  con  Toli  d*olÌTa   e  la   | 

Ve  bella  e  fìnìda.  >  —  E  questa   fiaba  è  tale  e   quale  le   t\ 

trattenimento  IX  della  V  giornata  del  Penlamerone.  —  e  Cena 
vole  mogliere;  ma  taglìatose  *no  dito  sopra  *na  recotta,  la 
de  petene  jaoca  e  rossa  come  a  cbella  che  ha  ha  fatto  de  i 
sangue;  e  pe*  chesto  cmmina  pellegrino  peMo  manno  ed  air 
le  tre  Fiale  ave  tre  cetre,  da  lo  taglio  d*ana  de  le  quale  acq 
bella  lata,  conforme  lo  core  sujo,  la  quale  accisa  da  *na  scfa 
glia  la  negra  *ncagno  de  la  Janca.  Ma  scoperto  lo  trademiento,  li 
è  fatta  morìre  e  la  £aita  tornata  viTa  deventa  Rrecina.  >  —  L' 

della  persona  reale  incapace  di  rìso,  si  rìtrova  nella  Introduzione 

tamerone.  Cf.  De  Gubernatis,  Novelline  di  Santo  Stefano  di  Ci 

IV.  Le  tre  meU  ed  anche  :  V.  /  tre  aranci. 

(1)  Imbonì  significa   non  solo  placare,  anzi   pure  tridur 

sucuiere. 


—  495  — 

ngììiu  oa  d)t,  e  Tha  strusada  giò(l)  in  spalla.  L*ha  por- 

1  via  disUDt  in  ci'on  sii  che  gh'ei'a  doma  (2]  ciel  e  acqua  ; 

1  OQ   piccol  senl^  che  gh'era  poeu  la  cà  de  la  slria. 

lassada  là  e  la  gh'  ha  ditt  :  —  <  Guarda  che  mi  vòo 

)  e  quand  vegni  a  casa .  te  dìròo  :  Figlia  mia ,  figlia  co- 

a,  lassa   ffiò   la   toa   trezza  e  tira  su  la  toa  mamma 

.  n  ~  So  pader  e)  va  desora ,  el  Iroeuva  pu  la  soa 

V  Ita  tnandaa  dùu  servitor  con  la  carrozza  ;  el  gh'  ha 

,  chi  trovava  la  soa  tosa,  ghe  la  dava  per  sposa.  Infin 

I  Tè  propi  andàa  ìd  del  sit  in  dove  l'era;  là  e)  s'è  infor- 

i  d' on  vesin  e  el  gh'  ha  ditt ,  el  gh'  ha  insegnàa  la  ma- 

I  d' andà  in  sta  casa ,  de  digh  :  —  •  Figlia  mia ,  figlia 

■a,  lassa  giò  la  toa   trezza  e  tira  su  la  toa  mamma  ca- 

1  —  Lùu,  sto  servitor,  Tè  andàa  là,  el  gh'ha  ditt, 

;b'ha  dimandàa:  —  <  Figlia  mia,  figlia  cara,  lassa  giò 

i  toa  trezza  e  tira  su  la  toa  mamma  cara,  »  —  E  lee ,  sta 

tosa ,  pronta  l' ha  lassàa  giò  la  trezza  e  l' ha  tiràa  su.  El  gh'ha 
dimandàa  com'a  l'è  stàa  d'andà  in  quel  sii  là.  E  Ice  la 
gh'  ha  ditt  che  l' è  stada  ona  stria  ;  e  la  gh'  ha  ditt  de  fa 
prest  a  andà  via ,  perchè  se  la  va  a  casa ,  chi  sa  cossa  la  ghe 
fa.  E  lu.  l'è  andàa  ancamò  in  de  sto  vesin.  De  li  a  on  poo 
va  a  casa  la  stria  :  l' ha  capi  che  gh'  era  stàa  on  quajghedun  e 
la  gh'ha  diti:  —  •  Mi  per  trli  di  vegni  a  casa  pfi.  Te  dòo  sti 
»  trli  naranz  (3)  chi.  Se  ven  ciil  on  quajchedun,  traghen  adrèc 
«  vun,  ch'el  restarà  in  d'on  gran  fastidi.»  —  Dopo  va  là  an- 
mò  el  servitor  ;  el  gh'  ha  diti  a  la  tosa  :  —  «Fa  presi ,  ven 
I  giò ,  che  gh'  hoo  chi  la  carrozza.  •  —  E  la  voreva  minga 
andà,  per  la  paura  che  la  trovass  la  stria.  La  ghe  dis  :  —  «Se 
»  la  irteuvem,  chi  sa  cossa  la  me  Ta.  •  —  E  lu,  el  gh'ha 
ditt  :  —  <  Toeu  su  i  trli  naranz ,  che  al  cas  die  la  troeuvem , 
»  ghen  butterem  adrÈe  vun,  che  la  reslarà  lee  in  d'on  gran 


(1)  strusa,  strascinare,  strascicare.  Slruià  gio 
ir  giù. 

(2)  Donià  0  noma,  solo,  soltanto,  selamentc. 

(3)  Jfaram.  arancia,  melarancia. 


—  496  — 

1  fastidi.  »  —  Come  difatti  han  viaggiàa  oo  gr^Q  toccb  ; 
la  se  guardia  iodrèe  e  la  ved  che  veo  la  stria.  La  ghe 
drèe  oo  naranz  :  lee ,  Y  è  restada  in  d' on  sit  pien  de 
che  la  podeva  pu  difendes.  Quand  Tha  poduu  pu,  la  gì 
—  a  Ciappio  (1) ,  ^utem  ;  che  se  i  ciàppem ,  ne  fem  vi 
>  uo  (3).  >  —  Dopo  de  li  on  poo ,  la  tosa  la  se  guarda  in 
la  ved  che  veo  ancora  la  strìa.  La  tra  indrèe  on  alter  o 
e  la  stria  Tè  restada  in  d'on  sit  pien  de  sass,  che  la  ] 
\  pa  difeodes.  La  ghe  dis  ancamò  al  ciappin  :  —  e  Ajuten 

1  se  i  ciappem  ne  fem  vun  per  un.  >  —  Dopo  de  lì  a  a 
]  la  tosa  la  se  toma  a  guarda  indrèe  e  la  ved  apcamò  ci 

'  la  stria  e  la  ghe  tra  indrèe  on  alter  naranz.  La  stria  ] 

i  stada  in  d*  on  sit  pien  de  sjhu,  che  la  podeva  pu  dìfen 

la  ghe  dis  ancaroò  al  ciappin  :  —  e  Ajutem,  che  se  i  eia 
»  ne  fem  vun  per  un.  >  —  El  servitor  fa  prest  a  fa  cor 


il 

I 

■■ 

1 


t  cmniaio,  \U,  21. 


(1)  Ciappin,  demonio,  diaTok).  In  Napoletano  Chiappino  vo' 
firbo«  astato,  onde  forse  lo  Scapin  francese.  Cortefle.^Io  Cerri 


Ma  Tonno  md'ch'era  'no  gran  chiappino 

Sentette  da  lontano  lo  gre'  addore. 

(i)  Questa  invocazione  del  diavolo,  ci  mostra  che  qui  la 

semplicemente  una  strega,  non  già  una  fata.  Nel  Penlamerotie  i 

d'un' Orca.  Il  mesi'iig ilo  delle  fate  col  diavolo  è  cosa  letteraria,  t 

nendo  queste  due  creazioni  a  due  cicli  mitici  diversi.  (  Ricciardetto  ^ 

Il  diavola  donne  mie,  pud  far  gran  cose: 
Basta  solo,  che  dio  lo  lasci  fare. 
Però  non  siate  ponto  dubitose 
Di  ciò  che  adiste  ed  udrete  cantare 
De  l'opere  di  lui  meravigliose. 
Che  sebbene  il  trìstaccio  «on  appare, 
E  su  le  late  si  versa  la  broda; 
Ei  però  vi  pon  sempre  e  corno  e  coda. 

So  ben  che  ci  son  molte  come  voi. 
Che  credono  romanzi  e  favolette 
Le  cose  delle  tate  :  ma  son  buoi , 
Né  sanno  che  il  demonio  non  perdette 


^  >  — ^  •  a 


■  lìn  cbe  r  era  wll  «n  I 

»  rh>  ciappii  Mi  Kàra»  e  i 

t  oa  fer  e  i  ha  fa  aU   beva  a  rana  a  tibub:  e  ì  ha  i 

I  poco  r«  aadia  Uarm  a  ran  ptr  b  etnia.  El  dìsna:  GioMutmi  IV 

»  d^m  n'  ha  aMuia  «&MnW  i«  4'(m  coJp  Mi  ;  toni  jmtèr  gktn  /Wm 

>  «dia .  coni  pKnfa  ne  «acTM  watti*  E  d  Re  T  ha  ba  ciani  «  «I 
»  ^'  b*  diti  te  d  TCMvn  aodì  a  caccia  la  miiBiu  tàrit  iDstnuH  « 
(  bL  E  ha  tio  MiantliD,  el  fh'la  dUt  de  si.  E  areien  ile  mkU  ■  ctl^ 
»  fé  do  betti  che  iTeten  ani  podbn  càppaj.  Slo  scìaratlin,  qiMad  l'i 
»  ma  ■  OKlà  «inda,  l'ba  dell:  f'ialUr  andM  giù  de  M  *  Mt  tw 
t  gid  de  li.  F.  tw  scuTaiijn  qoand  l'ba  T^bo  awfni  OM  btMil,  fte 
)  tnllù  ia  d  t' ciopp  e  1'  è  icappàa  in  su  OM  piaaCk.  Sta  hMk  fla 
1  da  per  c<^"t^  adrée;  e  gh'era  (oeura  on   te^l  da   h   finta  •  MI 

>  bestia  l'è  resuda  accada  mi.  La  allora  d  s'è  Rn  eonn  <**  **f*l 
f  pò.  D«po  l'è  andìa  iaoaai  oo  poo  o  l' tu  tmIdu  a  \rpA  \  ahn  h^- 
»  Mia.  E  gh'era  li  oca  casa  eoa  dealer  du  u».  E  lu  1'^  amlia  denirr 

>  in  de  »la  caia  ;  e  l' ha  laa  per  ittdà  deuier  $ia  huita  e  b  l  ha  «arwll 

>  dealer,  i'.  Tegnuo  el  ite  ;  el  gh'  ha  diti  se  i  ba  ciapf  pia.  K  el  m>ì«- 
*  laitia  el  gh'  ha  din  de  ti  ;  e  el  gh'  ha  din  :  Vutwa  1  hixi  eitppaita  per 

>  la  co(^  e  l'boo  laccada  su  quella  pianta  ;  e  l'altni  I1mm  cìift|iBiiU  per  l'«- 


—  500  —  ' 

mièe  :  —  <  Guarda  che  mi  vbo  iQoaoz ,  tira  adrèe  V  os'c. 
E  lee  r  ha  capii  de  portali  adrèe.  Andàa  ionaiiz  oa  gran  to 
la  ghe  dis  al  mari  :  —  e  Spèttem ,  ajùtem  a  portali ,  pc 
»  r  è  molto  grev.  »  —  E  lu  el  ghe  dis  :  —  t  Cialla  ci 
»  set  !  T  ho  ditt  de  tirali  adrèe ,  ma  minga  de  portali  adi 
—  El  dis:  —  «  Adess  che  scm  chi,  che  Tè  giamo (1)  i 
»  andarem  io  quel  bosch  a  dormi.  »  —  Come  di  fatti  hio  a 
sott  a  ona  pianta  ;  e  poeu  lu  ghe  ven  in  ment  :  — e  Andà  ben 

•  chi  ghe  ven  i  lader  a  dormi  >  —  El  dis  :  —  «  Anden; 
»  su  sta  pianta  tutt  e  dùu.  •  —  E  pcKu  ghe  ven  in  ment 
e  E  poeu,  se  ven  i  lader  e  veden  che  gh^è  giò  V  us^c,  gua 
1  su  e  me  veden  V  istess.  •  —  Come  di  fatti  a  mezzanott 
va  ona  troppa  de  lader  sott  a  quella  pianta  :  e  vun  se 
adrèe  a  fa  el  risoti  ;  e  i  alter  se  metten  adrèe  a  cuntà  i  d 
eh'  aveven  robbàa.  Qudla  donna  la  dis  :  —  e  Voj  vu  !  g! 

•  volontàa  de  pissà.  i  —  E  lu,  el  dis  :  —  e  Falla  on  poo 
>  Fistess.  1  —  Dellaonpoola  ghe  dis  al  mari:  —  e 


•  reggia  e  Y  hoo  missa  denter  in  quella  cà.  E  dopo  la  1*  era  de  sposa  b 

>  del  Re  perchè  Tha  ciappàa  sti  besti.  E  el  di  adrèe  eren  de  ai 

>  prend  la  ciltàa  de  Casco.  E  a  la  nott  el  s*  ìnsognaTa  che  T  era  ì 
»  a  tira  el  spagb  ;  e  el  gh*  ha  dàa  i  pugo  a  la   soa  mlèe  che  V  t 
»  tosa  del  Re.  A  la  matiuna  el  sciavattin  l'è  andàa  a   cavali    per 
»  a  'oeu  la  cittàa ,  e  perchè  el  boriava  giò  el  continuava  a  dì  :  A  e 

>  E  i  alter  ghe  dimandaven  se  el  boriava  giò;  e  lu  el  diseva  che 
»  dava  a  toeu  la  citlàa  de  Casco.  Dopo  de  lì  a  on   poo  l'è  boria 

>  e  in  quel  uienter  passava  ona  legora  ;  e  el  gh*  ha  dia  che  V  è  ve 

>  gi('>  apposta    per  ciappalla.  Innanz  a   on  poo   de   strada   anmò 

>  tomàa  a  boria  giò  e  gh*  era  ona   crooz.  E   gh*  han    dimandàa 

>  s*  era  faa  inai  :  e  lu  el  gh'  ha  ditt  che  Y  aveva  faa  per  ciappà  s 
»  crooz.  Quei  de  la  cittàa  de  Casco  han  sentii  che  vegniva  si*  orni 

>  sci  fort ,  gh*  bau  dàa  i  ciav  de  la  cittàa  e  hin  scappàa  lutt  S*  ci 
—  Questa  variante  è  gallaratese  e  vi   si   notano  alcuni   idiotismi 
colari  a  quella  città. 

(1)  Giamo,  già.  È  evidente  T  etimologìa  latina. 
(S)  Amia  ben,  andà  ile   dio,  andà  de    He.  andà  de  pappa 
dare  di  vantaggio  o  di  rondone  o  in  poppa  o  a  seconda. 


—  SOI  — 

I  vu!  Iio  volontùa  Je  caga.  >  —  E  el  dis:  —  *  F.ilb  on  poo 

;h'è  IMsless.» —  Allora  i  latler  s'hin  miss  a  di;»  —  Oli  el 

|i  «gnor  come  l'è  bon  I  el  ne  Ta  vegaì  giò  la  manna  del  ciel  {!).» 

-  E  lor,  gb'è  scappàa  el  rìd  a  sii  duu  :  gh'è  scappàa  de  rid  a  tticc 

:  lassàa  andà  Tus'c  e  ì  lader  han  sentii  sic  IicihIcII  (2)  a  vegnl 

I,  s'bìo  miss  a  scappa  ;  han  lassàa  giò  el  risoU  e  tiilt  i  diitièn. 

r  dopo  liin  vegnìiu  abass  e  han  tolt  su  tuli  i  dan^e  e  liiii 

a  casa,  lasci  vjveven  de  scior.  Uin  andùa  innanz  on  poo 

!  temp  e  i  danèe  i  han  finii,  sicché  et  mari  el  dis  nncam^: 

•  cui  bisogna  andiì  ancamb  a  cerca  fortnnna.  >  —  E  la  niiòu 

s :  —  «  Andaroo  mi.  •  —  E  Tè  andada  ancamò  in  su 

a  pianta  che  l'eren  amia  prima.  Quand  l' è  stèda  meiizanott 

e  passa  doo  ^^trij.  E  vimna  la  dis  adrèe  l'altra:  —  «Teseo 

ùnga?  Girò  malàa  la  Iosa  del  Re,  già  licenzìada (3)  di  dottor. 

]  gb'è  nissun  rimedi  de  falla  guari,  foeura  clic  l'ucipia  de 

nella  fontana  là:  tré  goil  sol  hin  assèe  de  Talia  guari.  •  — 

Hors  la  mattinna  (|uella  donna  la  va  a  tteu  on   hogKcIlIn 

!  empiss  de  st' acqua  e  la  va  là  a  la  porla  del  Re  e  la 

e  dis  a  la  guardia  de  lassalla  passa  che  la  gli'  ha  on  re- 

lì  per  fa  guari  la  tosa  del  Re.  Allora  la  guardia  Vk  andada 

ftdìgtiel  al  Re.  E  el  Re  el  gif  ha  diti  de  laxsalla  poma,  die 

fé  facii  a  savènn  pusee  Ice  che  nk  (4)  i  medìgh.  Allora  lee 

I  va  dessora  e  la  comincia  a  daglien  ona  gotta,  e  la  iosa  del 

t  la  comincia  a  dervl  i  oeucc.  Ghe  n'ha  dàa  on'nltra  golia: 

\  comincia  a  parla.  Ghe  ne  dà  on'  altra  golia  e  \'k  slada  guari- 

.  Allora  el  Re  el  gh'ha  daa  ona  gran  somma  de  dan6c,de 


(1)  ¥,  impossibile  <|ui  non    riutnlani  del   celelire  wntlio  di    l^rlu 
t  sulla  manna  dogli  Kbriii,  cbe  fone  gli  uri  ilalo  npinia  di   una 
■iticsccnu  di  questa  iioTellina  inb^n  da  bimbo. 

(3)  Bardell.  Rorida;  cbiano,  bordello:  —  t  Va  latitu   bunlHlo,  I 
t  Travicello  >  —  Oiaatì.  La   parola   mìUoeu  duu   ba  imnlo   r  in 
I  caso  il  tenso  che  tùia  alle  perfooe  ben  educale  di  ìniitpi-nri!  in 
a  U  parola  aiuloFa. 
(3)  Lieemiada,  spedila, 
(t)  H^.  in  fuetto  cavi  nimiOca  no-  Che  ni  ilal  r.ut  a  aiuiA  dute 


—  502  — 

b  b  «elafi  in  che  b  scuBpa,  lee  e  d  so  mari.  Ona  soa 
àn  b  di*bEi  arài  bràlb  e  b  dìs:  —  «  Yoeari  prova 
•   m^MibaoHrcàiiUMMi  » — Come  difatti  r  è  aiHbda  in 
bik  ìB  sa  FÈ^aessa  pòau.  A  b  mesanoU  ^e  passa  a 
4WI  ^ttii  :!<r^  La  eonbòa  vmn  e  b  dis  :  —  e  Voj  !  t€ 
»  Hi^Ea  che  T^  norib  b  tosa  dd  Re?  e  ghiera  nissoi 
»  «eift  f««n  che  qadTacqn  b.  Andà  ben,  gh'era  di 
»  fHÌdiiBAB  m  Ad tesch a seMimm.  Àdess  guardi:  se  tr 
»  «t  ^p^ìdtedHi  el  Ili  Mt  a  toedL  >  —  E  b  comincia 
«  r«.  «e!  <i  sa  <k  cnstianase!  »  —  e  b  guarda  su 
pnoca^  b  v*^i  d^  di'è  a  sia  doooa.  Gh^è  andàa  su  b 
<  riti  cnb  abass.  pixa  V  ha  biada  tutt  a  tocch. 


«1 


UN  ESEMPLO  MORALE  INEDITO 
TRATTO  DAL  COD.  MAGI.  56.  P.  IV. 


i  parla  if  uno  religioso ,  come  i  ciltadini  si  voleano 
confessare  da  lui. 

Leggesi  d' uno  relegioso  eh'  era  in  nuna  ciltà ,  la  qaale 
(sic)  tutti  i  cittadini  si  voleano  confessare  da  lui.  Ed  in 
questa  città  avea  uno  tiranno,  il  quale,  vegniendo  a  morte, 
si  confessò  da  questo  riìegioso,  e  mostrò  tanta  divozione 
e  tanta  contrizione  e  giltò  tante  lagrime ,  che  questo  coo- 
fessoro  diciè:  veramente  Iddio  farà  misericordia  a  costui  I 
E  quando  i  religiosi  venieno  a  costui  a  letto  a  vicitarlo, 
ed  e'  dicea  troppo  buone  e  sante  parole.  E  quando  venne 
a  comunicarsi ,  si  si  mise  la  coreggia  in  collo,  e  parea  uno 
santo.  Morì  costui,  e  questo  suo  confessoro  si  predicò  di 
lui  al  popolo  tutto  ciò  ch'egli  avea  veduto;  ed  egli  e'I 
popolo  isperavano  bene  di  lui  e  ponevallo  in  paradiso  co' 
santi.  E  poi,  dopo  pochi  di,  istando  questo  suo  coufes- 
soro  nella  chìe.sa  in  orazione  per  costui,  udi  in  diversi 
luoghi  della  chiesa  di  dfversi  guai  e  bocie  di  tapini  dello 
inferno;  e  l'una  bocie  dicea:  guai  a  me!  guai  a  mei 
tristo  doloroso,  che  mai  non  vedrò  Iddiol  E  l'altra  gri- 
dava e  diciea:  guai  a  me!  ch'io  ebbi  la  buona  volontà 
e  nolla  misi  in  opera  quando  io  potea!  E  altre  molte 
istrìde  e  diverse  bocie  di  dannati  udì.  E  levando  gli  oc- 


—  50i  — 

eiiì  ÌD  soào  al  tetto  deib  chiesa,  ride  infinito  m 
di  diiToli  e  di  (fimoQi  inferDali:  e  dentro,  nel  mei 
loro,  à  era  Taoima  dolorosa  di  questo  tiranno  eh'  en 
to.  ed  era  legato  ed  incatenato  diTersamente.  E  ve 
costai  «ineslo.  ebbe  grande  paora;  e  poi,  segmandi 

a  Dio  seiq>re,  e' disse:  dii  se' tu, 

.  cotà  tixnKiitata ?  E  quegli  disse:  no  mi  e 

ts  toislo,  chi  son  io.  tra^aglkito  tra  le  mani?  e  io 

nenie  ^  disse:  io  5i3oo  qoello  cavaliere  che  mi  co 

e  coamnkai  uMe  tne  manL  Allora  disse  qoesto  sai 

fessoro.  credendo  ch'egli  fosse  in  purgatorio:  dìmn] 

che  tm  andasti  in  purgatorio  ed  io  t' aiuterò.  Il  qiu 

tanlo  grande  ed  amarissìnio  sospiro,  con  guai,  dis 

■e!  Hiiàero  d>)lente!  ch'io  sono  in  luogo  che  tu  i 

pnoì  aìmare.  però  di*  io  sono  dannato  all'  inferno!  p 

che  per  Hfee  non  ti  aStfìchi.  però  che  no  mi  potre: 

lare  ne  aiutare*.  Vedi,  confessoro  mio,  abU  contro 

penileiiia  nella  morte,  ed  io  sono  tra'  morti  e  tra'' d 

e  b  oDQirìzìone  eh'  ebbi  e  le  lagrime  eh'  io  gittai  e 

lor^  che  tu  mi  regesti,  non  ebb'  io  del  peccato  eh'  ì 

coinmesi5«>.  and  m'iocresriè  «lì  me  e  de' miei  figli 

4?Ba  mìa  d«XkQa  e  de'  miei  parenti  e  di  me ,  perch" 

rira  coQtr>  al  mii?  Tolere  e  di  loro,  perch'io  mi 

malTolentieri  da  loro  e  no  eli  lasciava  com'  io  \ol 

dotenmi  eh'  io  lasciaTa  il  mondo  che  m' em  molto  p 

e  pìacea .  e  no  mi  ci  panea  essa^  istato  un  dì  né  n 

e  però  dc«  durare  in  me  Catica  che  non  ti  varrebt 

loca  d&>p«ì.  e  questo  suo  confessoro  rivelò  poi  al 

questo  miracolo  che  Iddio  avea  mostrato ,  e  le  gien 

narv^oo  molto  a  Iddio.  Ora  preghiamo  Iddio ,  che  per 

uùserieor^  ci  dea  tali  occhi,  che  noi  fociamo  pei 

mentre  che  noi  siamo  viri  e  sani,  sì  che  noi  abbia 

grazia  di  vita  etema,  alla  quale  ci  conduca  il  figlio 

Dìo.  il  quale  vive  e  regnia  in  secuU   seculorum:  ; 


1  MANOSCRITTI  ITALIANI 


NELLA   BIBLIOTECA    RONCIONIANA   DI    PRATO 


(V,  |KI|;.  t!2  Anno  III,  Parie  t."  noiitiiuarioiK; ). 


'  Cartacee,  in  fol.,  sec.  XVIII,  dì  carte  204  num., 
scritte  da  più  mani. 


Proso  di  niuusitjruof  GIOVANNI  DELLA  CASA. 


I  codice,  che  fu  <Jel  conte  Giovani batìsla  Gasolti, 
e  servi  alia  sua  oolissiraa  edizione  delle  Opere  di  monsi- 
gnor Delia  Casa  (Firenze,  1707,  voi.  3;  Venezia,  1728-29, 
voi.  5),  si  divide  in  cinque  parti;  cioè  sì  compone  di  al- 
trettanti codicetli ,  ora  qui  legali  in  uno.  Cosi  descriven- 
dolo mi  terrò  a  questa  originale  partizione,  con  distin- 
guere ciascuna  parte  per  una  lettera  dell'  airabelo.  I  do- 
cumenti descritti  sotto  la  lettera  C  sono  postillati  da  An- 
lommaria  Salvini,  che  pare  tenesse  un'altra  copia  a 
riscontro. 


A)  da  e,  1  a  4  inclusive. 

«  Di  Monsignor  Già.  Della  Casa    Nunzio  a  Venezia.  Al 
33 


Snaiu  V<Kttu  —  E  i««iììn>  tBa 

■ocim  di   Nostro  Sij 

»3it!  mnmL  Hicissstnci.  «.  •. 

Bi  }«cfiit  ki  «ZìHQCiL  dki  M 

Ti'Mij  a  coiliTioiie  di 

•OH»  MG»  «opci.  ti  Émt:  Anprùtu 

iter.  71W>ifuis  ofxAtfpi^ 

npìesB-. 

■aso  BoBaTcaton  ddk 

K  4à  c^  i  ^  76  ÌBclKm: 

:  m  le  e  17, 26,  31 

<  Akane  édk  Lecure  fiiiBMi  e  domestìcbe  di 
smt  óiiK  L^iiìLi  «Ifesi  armesoyvo  dì  Bcmevento  ». 


e  A  Hi.  PHkL  R.  (^Pwfeli»  Roedlai)  sao  nipole 
RtMBL  natotì  t5òiX 

AI  Bi^lesia».  —  9  jt^!Q6to  toòCl 

Ai  iKdfsàiirK  ~  19  isdìo  lo5a 

Ai  awiifsowL  —  Vffflena.  li  seombre  tool. 

AI  aieiiesìawL  —  3  «f  ottobre  tool. 

Al  Meikiì^j^  —  3  dkmbffv  1551. 

Ai  BAfesùKw  —  30  dkefbbre  1551. 

Al  Beiksw».  —  ^  z^dnano  1552. 

AI  r^BC;ft  «laàHL  —  «   Avendo  io  ottenoto  moli 

-VI  V^si-oirt  ,ii  i^ortofti.  —  Flr«iie,  21  gennaio  1 

A  F'Mii^ifo  R.  >w>  nipote.  —  «  Credeva  che  le  lue 
dwne.  «.  ». 

LiHien  di  PiHìdoUo  Rocellai  a  monsignor  GioTann 
•  -IS».  —  e  Per  b  feiiera  di  V.  S.  de'  9,  ec  ». 

A*^.  —  «  HLklo  e  ReTjno  signor  mio  padron 
FVr  noQ  tedùn^  V.  Sl  Illifitrissima  con  lungo  ragionamenl 

AI  i.aniì&ile  Sl  Vitale.  —  Venezia.  30  luglio  Ix. 

A*^.  —  RevjDo  et  IlLmo  Signor  Patn>n  mio  ce 
5ÌIWL  Io  s(rts>ì  siKito  a  V.  S.  IlLma  ». 

«  Al  medesimtx  —  Non  crelo  che  sia  possibile 
)ilcw]B!àr»]c  lostiniano.  ec.  »  —  L*  ultimo  del  52. 

A*^.  —  «  So  che  V.  S.  DLma  e  ReT.ma  ha  n 
dì  MoKìgBor  Instinìano,  ec  ». 


—  507  — 

(  Al  Cardinal  Caraffa.  —  Il  Capitan  Lorenzo  da   Casti- 

!  è  mio  cugino,  ec  u. 

t  Medici  »(  cioè,  al  Cardinale  dc'Medici).— «  Non  voglio 
fetlar  a  ringraziar  V.  S.  lll.ma  e  Rev.ma,  ec.  «. 

I  Al  Cardinal  Farnese.  —  Quanto  meno  mi  par  nuo- 
,  ec  ». 

e  AI  Cardinal  Monte.—  Son  cerio  che  l'opera  e  l'aulo- 
d,  ec.  »  (Frammenlata). 

«  Lettere  di  Monsignor  Della  Ca»a  tratte  da   una  copia 

ino  non  conosciuta  ». 

I  A  messer  lacomo  Marmitta.  —  Se  mai  V.  S.  desl- 
ec.  ». 

I  Al  clarissirao  M.  Girolamo  Quirino.  —  Io  non  posso 
lovinare,  ec  ». 

AI  medesimo.  —  Roma,  22  marzo  1555. 

C)  da  e.  37  a  150  inclusive  ;  delle  quali  sou  bianche 

\  104,  i2i,  laa,  150. 

o  Al  Duca  d'  Uihino.  —  Questi  signori  fratelli  del  Car- 
dinal Camarlingo,  ec  ». 

«  Lega  fra  il  Papa  e  il  Re  di  Francia  ».  Firmata  in 
Roma  nel  palazzo  di  San  Marco,  l' ottobre  1555;  e  a  Villa 
Coire,  il  1  d'ottobre  1555.  Ratificala  In  Roma,  nel  palazzo 
di  San  Pietro,  a' 15  dicembre  1555,  e  soitoscritla  da  Paolo 
IV,  da  Francesco  Cardinale  de  Tornoii  e  da  Carlo  Cardinale 
di  Lorena. 

«  Al  signore  D.  Antonio  Caraffa.  —  Roma,  28  Tebraro». 

o  Insiruzione  del  Cardinal  CaralTa  e  Duca  di  Montorio 
data  al  Duca  di  Somma.  —  Quando  V.  S.  sarà  con  sua  Mae- 
stà Cristianissima,  ec.  ». 

0  Discorso  al  Cardinal  CarafTa  per  aver  Siena  dall'  Impe- 
ratore. —  Credo  che  V.  S.  lll.ma  possa  pensar  d'  aver  per 
Gasa  sua  Siena,  ec  ». 

a  Instruzione  di  Paolo  IV.  —  Dopo  le  salutazioni  e  be- 
nedizioni paterne  e  consuete,  direte  a  sua  Maestà,  ec 


J 


3 
i 

r 

t 


c  «^utiiiii  «ieftì  Trfna  per  cìBqse  anni  tra  V  Imp 
Re  r Ibdidtiim  a  3  Re  «Instiaiiissìiiìo,  ranno  1^. 
^emàaÀ  oMoa  h  oerra  ib  akia  anoi  in  qua,  ec  >. 

e  KspiKa  ési  Caniìaai  Carafli  al  Re  CrisUaniss 
lé  ha  éao^  dm  sì  Teée^,  ec  ». 

<  Letaera  M  •jvtinal  i]aralb  al  Duca  di  Pali 
Lane,  i  6  òaun»  tòòd.  —  Da  Mafsigiia  scrissi  a  V.  E. 

e  Lettiera  tJel  «lardinai  Caraffi,  legato  io  Francia 
Dvta  *&  PaiiaHi:  1  17  «fi  giano  ì5q6,  di  Fontana  ». 

e  DKtmzkiBe  Jd  ilardisd  Caraffii,  data  al  R.  Fi 
p«r  la  *jx^  JT  ktfhiiterTa.  —  Vostra  Signoria  se  n^  ao 
^jrnuà  'ad  B^  «r  h^ilierra .  ec  ». 

e  Trena  tra  Xttstro  Signore  d  il  Duca  d^ÀJva, 
Rdofii  a'^S^  '&  novembre  1oò6l  —  Essendo  successo  i 
pimenfu  kOa  znerra.  ec  ». 

e  Iffi^mizioae  a  Miiosi^nor  Oloardo  per  andars 
«lirlinsii  ijÈnSx,  —  Avete  a  dire  a  soa  Signoria  Ill.ma 

e  LKirTBxoiie  a  Moasisoor  Domenico  Del  Nero,  i 
•la  Paoto  Orarlo  al  Duca  d*AlTa  in  Napoli,  in  rìsj 
«pianto  pi>rtò  il  •joofie  A  San  Valentino  a  nome  di  Siu 
lenia.  —  Di  Runa.  Il  ^loslo  1556  ». 

e  «JofHa  Je*Capiioli  della  Pace  tra  Nostro  Sigoo 
Re  di  SjpasnLi  iieBa  2taem  *h  Napoli.  1557  ». 

<  «.apitoli  e  <^veafìOQi  passate  tra  il  reverendissi 
iinale  t^raili  e  f  eccdienliss>imo  signor  Duca  d'Àlva.  — 
«.be  per  parte  «li  S.  M.  Oictolica.  ec  ». 

«  0>pta  delia  r^puolazico  segreta  ».  — 14  settembi 

A**^.  —  €  lìLmo  e  Rev,  Signore  e  Padrone  a 
tiissimo.  Non  h*)  scritto  a  V.  S.  IlLma  per  il  corriere 
Roma,  1  dicembre  1557. 

Memoriale  al  Re  di  Spagna  ;  senza  titolo,  comincia 
lecitaodo  io  di  venire  alla  spedizione  de'  negozi,  che 
stati  commessi  da  Stia  Beatitudine,  ec  ». 

a  Instruciioms  prò  IUmw  H  Revjno  Cardinali 
(Ul  Philippum  Hf/spaniarum  regem.  1557  ». 

a  Ricordi  al  Re  Cattolico  neir  andata  del  Cardii 
raffa  a  Sua  Maestà.  —  Considerando  Monsignore  illus 
mio,  ec.  ». 


istruiioDe  del  Duca  di 
ina  per   rill.mo   Signore 


a   Monsignor  < 
Cardinal    Caraffa.  Di   Rt 


Xinaro  1558  » 

d  (>)pi3  del  Memoriale  delle  cose  che  si   domandano  per 

e  di  Sua  Sanlilà   nelle   Leiiere  et    Insiruzioni.  —  Intesa 
i  ebbe  Sua  Beatitudine  la   morte  della   Regina   vecchia  di 

lia,  ec.  ». 

(  Instruzione  del  Cardinal  Caraffii  per  Monsignore  il  Ve- 

)  di  Terracìna,  da  Brusetles  i  5  gennaro  1558  >. 
L  Risposta  air  Instruzione  dell*  lll.mo  e   Hev.mo  signor 
}  il  sig.  Cardinale  Caraffa.  1558  ». 

n  Instruzione  sopra  le  cose  di  Paliaoo.del  Cardinale  Ca- 
Fa,  dopo  il  suo  rìioroo  da  S,  Maestà  a  N.  Signore.  1558  ». 

n  Alcuni  Capitoli  dell' Distruzione  sopra  le  cose  di  Pa- 
lìano.  ~-  Il  negozio  più  importante,  dal  quale  dipende,  ec  ». 

«  Instructio  sanctistimi  domini  no^ri  Pavti .  papae 
Quarti  prò  iU.mo  Cardinali  TriuU'O  ad  ffenricum  GaUcrum 
regein.  —  M  Dei  nomine,  amen.  Oilecte  Pili.  C-um  adeha- 
rissimum  in  Christo  fUium  lìostrura  llenricum.  He.  », 

«  Instruzione  ad  .^JMlrea  Saccheui  per  negoziare  eoi  Duca 
dì  Paliano.  —  In  prima,  che  essendoci  al  partire  dì  M.  Lo- 
renzo Emo  risoluti,  ec.  ».  È  del  Cardinal  Caraffa. 

«  Instruzione  a  H.  Paolo  Filooanlo,  di  quanto  abbia  a 
trattare  in  Corte  di  S.  Maestà  Cattolica.  —  Sebbene  >'.  S.  ha 
cercalo,  ec.  ».  È  del  Duca  di  Paliano. 

a  Instruzione  a  SL  Paolo  Filooardo,  di  qudlo  die  lu  da 
trattare  per  me  in  Corte  coli"  IlLmo  «gnor  D.  .\olonìo  Dona.  — 
Io  dubito  che  la  Maestà  del  Re  CaUoUco.  ec  ».  De)  Dan 
soddelio. 

«  Instruzione  al  Signor  Filonardo.  —  Anlerele  dalla  à- 
ptora  Contessa  Madre,  ec.  ».  Di  don  Antonio  Carab. 

■e  Lettera  dd  Cardinal  <Jaralb  al  ***,  perchè  s'addofxrì 
eoo  S.  Sanlità,  die  ^  voglia  dare  ad  iuleodere  le  sue  ra- 
giooi,  pronieUetido  di  dargli  coutro  ».  —  £>i  Paliano,  i  19 
geonarD  t5c0. 

«  Lett«n  del  Carduul  Caratla  al  l^jrdìnal  dì  Carpi,  di 
GTiUlaTìaia .  ai  3S  febraio  1^9  ». 


l'anno  1558.  —  Noslro  Signore  i 
Acato,  ec.  ». 

D)  da  e.  151  a  196. 

Lettere,  Istruzioni  e  Memori! 
deir Arcivescovo  Della  Casa;  dal 
d'aprile  del  1556. 

E)  da  e.  197  a  204;  ma 

Testamento  di  Monsignor  Gic 
di  maggio  1551,  in  Roma. 


Cod.  ' 

Cartaceo,  in  fol.,  t 

di  carte  57 

scrìtte  da  pi 

Poe«i«  di  -vK 


Maggi  ,  segretario  del  Senato  dì  I 

Sonetti.  «  Io  grido,  e  griderò  I 

«  Lungi  vedete  il  torbi< 

«  Giace  l'Italia  addorm 


—  811  — 

<c  //  Petrarca  donato  a  Gran  Dama  dal  sig.  Maggi. 

((  Leggi  le  vaghe  altrui  rime  canore  ». 

«  Risposta  d' altro  Autore  al  precedente  Sonetto. 

((  Maggi,  se  dietro  Torme  il  pie  movete  ». 

«  Quis  ego  sum.  Domine,  ut  amari  te  iubeas  a  me,  et 
nisi  hoc  fecerim,  mineris  ingentem  miseriam?  Par- 
vane  ipsa  miseria  est,  si  te  non  amem?  (Aug.  p. 
Confess.) 

«  Dell!  ciii  son  io,  che  d'increato  Amore». 
((  Signor,  dehl  chi  son  io,  che  mi  chiedete  ». 

«  AW  Isola  Vitaiiana. 

«  Io  che  seguii  la  gloria  in  su'  verd'  anni  ». 

«  M  lode  di  B.  D.  (bella  donna). 

((  Alma  si  chiara  a  noi,  si  cara  a  Dio  ». 
«  0  bella  Veritade,  il  cui  splendore  ». 

RucBLLAi  Orazio. 

Sonetto.    ^<  In  morte  di  B.  D. 

((  Nel  giorno  che  costei  si  bella  nacque  ». 

Ricciardi  Giovamratista. 

Sonetto.  «  Nel  punto  della  sua  morte. 

«  Mi  chiede  il  tempo  di  mia  vita  i  conto  ». 

«  Nel  ìnedesimo  soggetto. 

«  Per  render  conto  del  perduto  tempo  ». 

G.  P. 

«  Risposta  al  secondo  Sonetto  del  signor  Ricciardi. 

«  Altro  ci  vuol  eh'  un  punto  sol  di  tempo  ». 

Incerto. 

Sonetto.  «  Si  detesta  lo  stato  pi^esente  di  Roma. 

((  Roma  che  fai?  In  questa  tua  bonaccia  ». 

PlGNATTBLLI  STEFANO. 

«  Per  l'altezza  serenissima  del  principe  Francesco 
Maria  de'  Medici.  Canzone. 


—  512  — 
4.  Qwl  di*a  sapèeou.  die  li  raom  Tcr^uomo  » 

Rm  Fia!«ec)Ol 

€  Amar  maesiro. 

«  Lflfeci  è  Tane  d*aiiior.  ta  tìui  è  breTe  ». 

«  Amor  civeUakK 

<  Già  ta  metta  apparecchiata  e  1  Gschio  ». 

«  CoB  le  soe  proprie  mani  il  ciuio  Amore  ». 
«  La  beltà  di  ¥ai1oona  entro  al  mio  core  ». 

<  Al  sù^  amU  Federigo  Veierani. 

«  Se  r  Cagherò  mbdo  e  il  Traosavano  ». 

€  Al  sig,  marche»  Gùk   Vincenzo  Salv 
marchese  Cìemenie  ViieUi  solide. 

«  t>»d  *io^  che  avvezzo  a  spmnafrhiare  i  Galli  » 

Terzine.  «  AIT  iU,"^  sig.  marchese  Clcmenie  ViieUi 
piere  del  serenissitHO  Gran  Duca  di  Toscana. 

«  b  «TArtimiiio  i  rugiadosi  e  molli  ». 

Fhjcau  Vi!iceq»x 

Terzine.   *  .Ufo  di  Cofììriziom, 

i  P;idre  od  eie!,  che  eoo  pietose  braccia  ». 

*  h\  f'»,«^,v  Jrl  s^r.  sùj.  Cordirìal  Leopoldo  di  ] 
'kj.  r^'S.V'^i^U'tììia  dci!a  Crusca  dtilo  il  Cai 
Conz^ìc. 

«  Alma  bella  Real.  che  sì  repente  ». 

Rkcukm  Gk>taUìTI5TA. 

«  A  salvator  Rosa,  Canzone. 
4  Sotto  rigida  stella  ». 

Aizoij5a. 

e  Saiiriì  di  Ulonsignore  Azolini,  coniro  la  sfrena 
del  simso.  Dialogo  tra  r Autore  ed  Apollo. 

«  Liascia  Soratte.  o  ser  ApoUa  e  cinto  ». 


Asosmo. 

a  Alta  felicissima  cUtà  di  Prato,  per  il  maravì(tlio30 
germoglio  dei  gigli  appesi  più  tempo  fa  cui  vn'lrna- 
ifine  di  Maria  sempre  Vergine,  ec.  Madrigale, 
it  Ferlilissimo  Prato  ». 
«  AH'  ili.'"  ctttà  di  Prato,  stante  Ut  devosione  verso 
la  Vergine  beatissima:  allude  all' arme  della  mede- 
sima cititi,  in  occasicme  dell'lmagine  di  Maria  sco- 
perta con  U  Giglio  miracoloso.  Madrigale. 
«  Caodidjssimo  llore  ». 
Mi  l'U.""  città   di  Prato,   in   occasiotie  deli  tmagine 
miracolosa  di  .Varia,  scoperta  nvavamerde:  allude 
all'esser  posta  in  faccia  d'un  pozzo.  Madrigale. 
«  Prodigiosa  Regina  », 
Al  serenissimo  Carlo  V  duca  di  Lorena,  generalissimo 
dell'Armi  Imperiali,  per  V  acquisto  fatto  dell'im- 
portante piazza  di  Buda.  Canzone. 
«  Se  del  sagro  Permesso  * 


A 


—  514  — 


Cod.   46. 

Cartaceo,  ia  4,  sec.  XTII-TQI, 
ii  carte  f  5€  aam. 


n  a»ie  GionAbatxsU  Casotti,  trovaiìdosi  a 
scfreCjrio  del  foTìato  toscano  presso  qaella  ( 
aBìdm  con  nri  letterati  francesi,  e  spedata 
coi  stptuho  ddl* Accademia ,  abate  F.  Regoier  Desm 
al  qaak  iodvìzzò  poi  la  Vita  di  Monsignor  Della 
itHinia  ìananiì  aD* Opere  di  hii  (Firenze,  1707). 

fei  qwsto  Codice  si  contengono: 

a)  XXX  Bigfietti  e  Lettere  aotografe  del  Regn 
CasoOì.  senile  di  Rvigi  dal  lG9i  al  21  novraibre  ^ 
twÉOe  italiane.  ^Da  e.  1  a  e.  55)  (1). 

b«  Lettera  del  Lancelot.  che  mi  piace  di  pnbb 
r netta  soa  originale  ortografia)  perchè  concerne  al  Rei 
e  ci  offiv  «ie*  curiosi  particolari  che  non  ho  trovati  in 
che  biografia  dì  Ini.  ^Ved.  Histoire  des  membres  de  i 
ééwùe  FroMCoise  morts  depnis  1700  ec.  Paris,  1785, 
m,  pag.  201  e  segg.).  Anche  questa  è  indirizzata  a 
sottL  iCar.  5fr57.'i 


(  1  »  Sono  scrìne  in  boooo  italiano;  e  meriterebbero  d*  essere  sta 
Altre  ne  sono  oeDe  Kbiiotecbe  Oorentine,  e  molte  in  an  Codice 
■a^por  Kbiioceca  di  Parigi,  segnato  6^  Supplémenl, 


r  d^ais  pea  de  iea&.  Vobs  r«àK  «h  taev  »  Th»- 
E  GKqn;  sor  le  quay  des  l^etfìK.  B  5  a  IM9HR 
i  jusqu'  a  ce  «iue  oei  bosud  ,aÉl  taé  vtmtt.  M.  Ir 
e  Lauzon,  qui  ea  esl  deran  racfMKv,  Iny  (U  si- 
Immediatemeol  apres  sa  anfùnUJorn  ce  demy  vers  d« 
.  Vetfres  migrate  oolaiù:  «onplìmenl  (\n\  ne  pini 
i  au  vieil  bosle,  qui  croyoìl  -y  avoir  clioisi  un  Jonii- 
ur  (ouie  la  vie. 

)  maladie  n'est  venue  que  d'une  ìndi)t(<!tlioii  riiiiiiiii> 

r  un  exces  quii  fit  eo  fruii  (I).  Gens  (li^ncx  d'wtfx  m» 

t  asseuré  quii  avoii  maogé  uvnte  quatrc  jioclim  Pl  pn*- 

|ue  tout  un  meloQ  ea  un  scul  rcpii.i.  L'ciitoiiiiii'li  l'iiii  li'tiii- 

.  fort  derangé.  Dans  cette  silunlion  viult'rit'i  II  no  rcvltit 

l  de  l'eatestemeiil  quii  avoil  contro  In  nm\M'\m  \A  \t^ 

^ecins:  il  voulul  essaycr  cocorc  di*  «ft  itiC'i'li'  l'Jy  iriNNt) 

ativc  qui  luy  avoit  ilejii  rRUUHy.  Il  u>li  il  pH  (^«(  d««  WH. 

ne  de  celle  cy.  Il  s'onlonna  u  luy  uii'iiii'  uim  •HtifH'''' j ''Ut' 

ntiOD  monelle  dans  une  coujoacUir(-  W\k  'iw  »'W'-  W  fiw 

rouvoil.  Ud  de  ses  amlK  ipii  In  vliTI  trttir  1»^  i*pM*M4  ili 

(  quii  avoit  eu,  et  luy  dil  quii  uuroU  iift^^i   rvf^  tv  W/« 

'er  un  vomissemenl  par  <lf  \' i-oint'Vf    l>    «.vivii'  uM 

t  avìs  comrae  quckfue  «Ii'im  'f  wr  <  '  .  ^^t 

hll  sorti  quii  euvo)a  tt  Uirtr  ^ti^.i  ,|  u 

"  '".  Ce  fui  un  surcfWM  fl'ifrBi^wo'.  /,  ^i» 


>  trùuer  sa  maladie,  a,  1 

■  Tigoarem  ne  pnt  resìste 
»  dés  pris  a  contrtiems: 

■  sa  vigoeur  et  soq  boa 

>  pns  <j'  m  mois.  Dans  i 
•  venMnl  il  tasi  besoUi  i 
»  la  erainle  d' en  maoque 
»  qui  teotent  professioo 

>  Roy  pour  Iny  qoelque 
»  quer  da  necessaire.  £b 
a  moìBs  Becessaìre  cbei 

>  Le  RoT  luv  eoroya  cec 

>  les  dooiMHt  pour  cejtte 

>  dust  les  regarder  coma 

■  en  cas  quii  eo  revioL 

€  n  est  mort  en  fv 

>  enlerré  sus  appareil  n 

■  Vons  seavez,  sans 

>  bé  fVrffMJT  (1),  a  cau 

>  croyem  quii  meriloit  o 
K  mkìeos  en  conTÌennent 

«  Entr'  antres  legs  <: 

■  de  Noailtes  soa  PoeoH 
-va  pres  d'  ud  an.  Il  \ 

•  mais  eo  geoenl  od  pe 
»  iimtcìi.  ou  si  vons  vou 

■  lueiue  assei  de  peine  a 

•  a  beaucoup  d' eodroils 
■•  obsoures  ou  (res  comn 
«  demìcien.  auteur  de  la 
"  Mecuieur  testameotaiit 

■  J"  espere  appreodr 

■  V  honoeur  de  vaus  mai 

>  comme  od  id'  a  promìs 

i\ì  M.r  d'Alembert  rJcoi 
irslanliggiae   oiiiniàtreli.  lo 


—  517  — 

>  m  Piifi—  li—  faina  ma.  Sta  «'ta  ^t^»  V.  S. 
4d  ìb,  àOr  \Aei&.  (^mtn  bMetMoo  al  signor  AUoM 
Btfgìacefii*  Qwi  Signon,  in  te  naa»  de't|Mfti  ha  pdssal» 
^mI  Bbnik  b  pn^BB  dK  w  (fica  il  parer  simk 
'  «  Oum  Aig.  Maria  Qnfiai  ha  finahiMnte  iasrìata  la  kk 
'im  cU  hieri  ralDo  per  aodarseoe  per  h  via  di  Lmae^ 
PiQToua  eie.  a  Fìrefoe.  el  poi  ridursi  in  Ve- 


■  D  preoB  dd  Sacy  è  dì  lire'  d^tto  franchi  vinti  tr^ 
Se  io  ^ì  ^oi,  è  per  sottomeiteriDì  alla  sua  ^tdoutit.  alU 
^■de  starò  sempre  attaccalo.  Tornerà  V.  S.  presto  in  Fì- 
rene,  e  b  soa  girata  si  finirj.  Gli  prego  ogni  felicilà.  ^ 
paria  qui  (kl  sito  viaggio  come  d'  ud  viaggio  (ie  conltance 
qne  S.  A.  R.  Ini  a  rait  taire  pour  la  conversìoo  d*  un  illustre 
PrDsdvte  (h.  Faites  moi  la  grace.  mon  cher  Monsieur,  en 
quelque  lieu  et  eo  <[ue1iue  situatton  que  vous  vous  trouviet 
de  me  ilonner  quelque  pari  dans  vostre  estime  et  dans  vostre 
sonvenir.  Quand  voiis  serez  plus  sedentaire  j"  espere  la  me- 
riter  mieux-Jesuis  avec  toule  la  siuccritt'  et  l'eslinie  ik»s- 
sible, 

0  Monsieur. 

Il  vostre  ires  hiimble  ^l  Mvs  oticissanl  wrviti-ur 

1  Je  ne  vous  enlrptiendrny  pus  rette  fois  cy  '1*'  iioii^''''"* 
<  liueraircs.  Vous  estes  en  ville  bien  Inslniile.  Si  von»  u» 
■  souhaitez  neaiiimoins,  vous  n'aver  iju'n   m' ordoimf""-  i* 


(I)  li  Come  Casoni  i-rn  sialo  dalo  <U  f.nsimo  HI  "  ""'TlJólin i  ■ 
principe  Federigo  AukusIo  di  Sassonia  nr/duni  vingK'  I^""  '  .^  ,    ,,,„„ 
a  Venezia  si  irotava  noli'  osiain  n  nell'  auliinno  il 
di  G.  fl.  Caro»,-  accwlrmiro  delta  Cruf»  «'  ''^'"''^T""  •«,« 
■   al   Gan.    iorenx    Gianni,    elio  tono    "    "* 
Pralm.) 


1 

I 


n 


I 


t: 


—  518  — 

))  crois  pouvoir  vous  eo  appreodre  quelques  uoes  qu 
»  seront  oouvelles,  puisquil  y  a  si  longtems  que  nostre  coi 
»  a  esté  iaterrompu  ». 

cj  Poesie  italiane  del  Regnier.  (Da  e  58  a  e.  65] 

1.  ((  Quant'  ha  fatto  d'un  uom  V  ambizione  ».  Rondò. 

tografo,  con  due  versi  di  biglietto  al  Casotti. 

2.  Altra  copia  del  medesimo,  autografa,  con  due  versi 

3.  «  Si  descrive  r  alto  del  serenissimo  Principe  Gio.  C 

di  Toscana,  protettore  delP  Accademia  della  Crusca,  < 
I  S.  A.  si  portò  air  Accademia  per  presentarle  di  su 

i  pria  mano  le  Poesie  d' Anacreonte  tradotte  in  versi 

dall'Abbate  Regnier  Desmarais.  Sonetto.  —  Cogl 
i  sommi  ingegni  eletto  coro  ».  Autografo. 

4.  (c  Avendo  l' Accademia  della  Crusca  decretato  che  si  1 

venire  il  ritratto  dell'  Abbate  Regnier  Desmarais  pe 
terlo  nel  luogo  ov'  ella  si  raduna  (cosa  non  fatta  a 
;  altro  Accademico  in  vita)  il  Sig.  Inviato  di  Tos 

j  Parigi  lo  fece  fare  d' ordine  del  Serenissimo  Princij 

Gastone;  e  nel  mandarlo  egli  a  Firenze  fu  accomi 
con  questo  Sonetto  dell'Abbate.  —  Vanne,  ritratte 
vanne  là  dove  ».  Autografo. 

5.  c(  Al  signor  Abate   Anton  Maria  Salvini  sopra  i  su 

netti  in  lode  della  mia  traduzione  d'Anacreonle  ir 
toscani,  ed  invitandolo  a  dar  fuori  la  sua.  —  Salvi 
le  lodi  onde  sei  degno  ».  Autografo. 

6.  «  In  lode  di  Monsignor  della  Casa.  Sonetto.  —  Qua 

nobil  fiume  a  sdegno  prende  ».  Autografo. 

7.  «  L'Abate  Regnier,  sopra  la  sua  età  d'ottanta  ann 

piti  il  IS*'  d'agosto  1712  ».  La  diamo  per  saggio; 
copia  di  mano  del  Casotti. 


(1)  M/  d*  Alembert  giudica  che  il  Regnier  valesse  più   nella 
italiana  che  nella  francese. 


—  519  — 

Ottantanni  oggi  appunto  ho  bclPe  fatti; 
Pur  senz'uso  d'  occhiali  e  scrìvo  e  leggo, 
E  sulle  gambe  poi  mi  muovo,  e  reggo 
Con  facil  portamento  e  liberi  atti: 
Né  dair  etade  offéso , 
Dell'età  sento  peso; 
Ma  qual  fui  di  cinquanta, 
Tal  sono  presso  a  poco  ora  d'ottanta. 
Quanti  già  dopo  me  nel  gran  camino 
Entraro  della  vita,  a  cui  '1  destino 
Fece  giugner  l'inverno  a  primavera, 
E  nel  lor  bel  mattino 
Veder  l'ultima  sera! 

Mentre  io  per  via,  come  dal  ciel  si  vuole, 
Qual  leggier  pellegrino 
Cantando  vo  dall'uno  all'altro  sole, 
Né  per  iniqua  strada  unqua  ri  Ano. 
Cosi  talor  antiqua  quercia  suole 
Nella  fredda  stagione 
Dall'irato  aquilone 
Illesa  mantener  sua  chioma  verde. 
SI  che  foglia  non  perde; 
Mentre  per  l' aria  a  volo 
Delle  querele  minori 
1  brevi  verdi  onori 
Sen  vanno  a  stuolo  a  stuolo 
Perduti  i  lor  colori, 
E  di  caduche  frondi  empiono  il  suolo. 
Vien  tempo  alfln  eh'  anch'  ella 
À  i  repetiti  ognora  assalti  cede 
Di  tramontana  fella, 
E  dagli  antichi  rami  erranti  vede 
Cader  l'aride  foglie, 
Dell'inverno  già  vecchio  ultime  spoglie. 

Or  che  giunto  mi  truovo 
Della  mia  vita  a  più  di  mezzo  il  verno; 


—  520  — 

Né  per  me  altra  stagion  torna  di  naevo, 

Che  firoodi  e  fior  m'apporte, 

Tosto  tosto  avverrà,  s'io  ben  discenio. 

Che  deir  antica  quercia  avrò  la  sorte; 

Non  già  sol  nelle  frondi  al  vento  ^Mute» 

Anzi  ne' rami  e  nello  tronco  istesso, 

Gli'  in  breve  ha  da  cader  a  terra  anch'  esso. 

Ma  di  me  ndl' eccelsa  e  miglior  parte 

Della  vicina  morte, 

Che  stammi  in  sulle  porte, 

Prendo  questo  conforto, 

Gh'  ella  di  somma  pace  etemo  porto, 

Ella  d' immortai  vita  a  me  fia  germe, 

Quando  dell'  uman  verme 

Posta  giù  la  terrena  impura  spoglia. 

Tornerò  nudo  spirto  al  gran  Fattore; 

E  l'assetata  v(^lia 

Spegnerò  in  Lui  del  vero  ond'arde  il  cuore. 

Pien  di  si  fiata  spene 

n  fatai  giorno  estremo 

Del  mio  mortai  non  temo; 

Ma  quanto  più  ripenso  all'  alto  bene, 

E  più  tarda  a  roorìr  quel  che  in  me  muore, 

Tanto  più  col  liesir  ne  affretto  Tore. 

d  ;  «  Sopra  la  traduzione  d' Ànacreonte  dal  greco  i 
toscani,  del  sig.  Abate  Regnier,  Sonetti  del  sig.  Abate 
Maria  Salvini  ». 


«  Ànacreonte  placido  e  tranquillo  ». 

ce  Eran  da  Lui  che  il  Tosco  cielo  adoma  ». 

(Car.  66-67.) 

{ 

'  e^  Poesie  del  Regnier,  parte  autografe  e  parte  ( 

I  '  dal  Casotti  e  da  altri,  per  lo   più  in  francese.  (Da 

1  a  e.  153.) 


—  OSI  — 
le  k  credo  del  Hegnier:  ran  troppo  ci  vorrebbfi  ad 
i  autori.  Ve<la,  chi  vuole,  la  mccoiui  dullit  hiiii 
I  varie  lingue,  stampala  in  2  volumi  in  Vi  u  [iro- 
Ista  dall'  AuiobiograHa.  Noterò,  clic  ullu  Siilym  tur  la 
r  Dirtction.  cbe  sta  a  e.  145-150,  il  Casotti  iliUOKilu 
1* astore:  ùu  Pére  Santeuil  chan.  r^ffuller  da  tiamto  Gémh 
vieve. 


Cartaceo,  in  8,  sec.  XVII, 
di  carte  42  num. 


,   I..ettei-it  del  Galileo   Ih  «lllltMU  dui  mhu 
f xvttiito  clfoa  11  moto  dolln  toi'i'n. 


(^lesto  codìcetto,  che  porla  ([uul   tllolo  Hulla   prima 
,  eoatiene: 


aj  Lettera  di  G.  G.  al  a  Mollo  HI."  e  Rev.""  Sig.  mio 

{padrone  coleadissimo  »,  che  comincia:  «  Perchè  ìo  so  che 

(.  S.  ec-  »:  ed  ha  la  d.ila  «  DI  Firenze,  16  febbraio  1614 

I  Me.  »;  con  una  Poscrilla,  che  principia:  b   Ancorché  io 

Bcìlmente  possa  creilerc  ».  In  Une  il   CtsouÌ   ha  scritto: 

I  Riscontrala  con  una  copia  di  mano  del   signor  Vincenzio 

yviam  »;  e  difetto  è  qua  e  l;'i  con'etta  di  mano  del  medesimo 

Otti.  (Da  e.  ?  a  e.  5  retto.) 

6;  «  Alla  serenissima  madama  la  Granduchessa  Madre 
lidileo  Galilei  ».  Comincia:  «  Io  scopersi  alcuni  anni  ad- 
ilro,  ec.  «.  Anche  questa  copia  è  inlta  ricorretta  dì  mano  del 
Wlli.  (Da  e  5  tergo  a  e.  39.) 

«  Excerpium  ex  Didaci  a  SliiniRi  Satmaliceusis  Oom- 
Mtariis  in  lob,  ec.  ...  Si  riporta  quel  che  dice  il  detto  co- 

:t4 


—  522  — 

meoutore  sul  verseUo  6  del  capìtolo  9  di  Giob  :   Qm 
inavH  terrcmi  de  loco  suo,  ec  (Gar.  40-41.) 

dj  Doe  ricordi  di  mano  del  Casotti,  concernenti 
stampa  ddla  Lettera  del  Galileo,  htta  con  la  Tersiooe 
impensis  Klzeviriorum  nd  1636,  col  titolo  di  fhv-A 
Sandorum  Patrum  ei  probakjrum  Theologoirwn  doc^ 
Sacrae  ScripUarae  tes^'monm  in  condusiorUbus  meri 
ralibui,  He  ;  e  alla  opiniooe  espressa  suir  essere  o  no 
9oletn  moveri  et  terram  stare,  dal  gesuita  Riccioli  nel 
ArnuMgesii  Novi,  parte  I,  tomo  I,  pag.  52  delP  ediz 
Bologna,  1651. 


God.  49. 

Cartaceo,  in  fot.,  sec.  X?II, 
e.  num.  48  e  106. 


SquIttiAo  della  Iill>e]rtÀ  Vonota» 

Comincia:  «  Chi  asserisce  Venezia  esser  nata  lil 
es^tersì  mantenuta  sempre  tale«  ec  b. 

Monsignor  Ferdinando  Raldanri,  già  bibliotecarie 
Rondoniana*  scrisse  nella  guardia  di  questo  Codice  U  S4 
«  N.  B.  Ouest*  opera  —  Squittirne  della  Libertà  Vene 
V  che  comparve  drai  Fanno  1612,  fu  attribuita  a  Man 
»  sero  ooosole  di  Augsbourg  sua  patria  nato  ai  20 
*  lo5&  Vedi  il  Dizionario  di  Bayle  ». 


Non  fia  titola  e  comincia:  <  Padre  mio  nel  coor  d 
»  riTeritìssìaa  —  A  tante  grazie  rìcemle  da  V.  R» 
»  p»saia,  io  aggìngo  qnesto  nnon>  Cifoie  d'haTenni  tra 


—  523  — 

I  A  libro  intitolalo  Concordia  tra  la  fnttica  o  la  i/uiete  ti 
I  »  r  Orastone,  esposto  alla  luce   dal  P.   Paolo  Hnitiiurl   ilellR  I 
I»  Conpagnia  di  Giesù;  e  mmlre  m'imponi:  1' oIiIIho,  iiliu 

>  lo  saura  alla  sfuggita,  ma  che  a  pasm  Idnio  vmlu  pniidOBl 
la  nailo  e  masticando  i  sentimenti  e  le  proponi/ioiii  (-onlKnuMi 
\m  ìb  esso,  affinchè  io  possa  dì  poi  aprirle  tulio  Itilorii  II  inlvl 
«v,  e  palesargli  quegli  effetti,  che  hanno  cagiuiioll  iiM  I 
>  spirito:  soD  costretto  a  dire,  come  iIIkm  lan  Iilrolaiii0|i 
!■  che  te  grandi  malerìe  ricercano  un  grami' IngOdiio,  ec.  n, . 
|L*.\iioaiiiio  fa  le  meraviglie  a    vi»ler   "   la   Imm^ìimiu 

ari  il  Segneri  preiiende  indurre  una  via  ili  muiio,  Iti 
\  »  qoale  presuppone  essere  stato  irMiUn  lUi  Sunti  inÀtf  1 
|«  trcKorsi  ec.  ».  e  si  pone  ad    uiuininarne   a    parie  a   purtC  | 


.1. 

1 


BIBLIOGRAFIA 


Delle  Rime  volgari,  Trattato  di  Antonio  da  Tanpo 
dice  padovano,  composto  nel  1332,  daio  in  luce 
gralmente  ora  la  prima  volta  per  cura  di  G\ 
Grion. — BologDa,  Romagnoli,  1869,  in  8/ di  pagg. 

Quesf  importante  libro ,  che  fa  parte  della  raccoli 
Opere  inedite  o  rare  dei  primi  tre  secoli  della  /ti 
pubblicate  a  cura  della  R.  Commissione  pé*  testi  di  lin 
è  preceduto  da  utilissimi  preliminari  delP  illustre  6 
ne' quali  si  tratta  delia  famiglia  da  Tempo,  del  libr 
Antonio ,  del  Pseudo-Antonio  e  delle  due  edizioni  del  ' 
tato,  cioè  di  quella  fatta  nel  1509  e  della  sopra  annunc 
Vi  si  prova  con  buone  ragioni  e  con  soda  crìtica,  ci 
Commento  alle  Rime  e  Canzoni  del  Petrarca  e  la 
del  Petrarca  stesso,  che  sotto  suo  nome  si  stampa 
più  volte,  non  sono  né  potrebbero  essere  di  Antonio, 
verso  il  1275  e  morto  in  principio  del  1336,  ma  ben 
Domenico  Saiiprandi  Mantovano,  cognominato  Giro] 
Squarciafico  Alessandrino,  che  scrisse  dopo  li  10  li 
del  1471;  sicché  il  supposto  Antonio  da  Tempo  iun 
nipote  dell'altro  Antonio,  autore  del  Trattato,  non  san 
insomma  che  un  pseudonimo. 


Cotesla  nuova  ediz.  è  fatta  sopra  un  cod.  ms.  raemltr. 
la  fine  del  sec.  XIV,  che  sta  nella  Bibliot.  del  Semi- 
jrio  di  Padova,  segn.  del  num.  4.  Se  V  egregio  prof.  Grion 
"  avesse  consultato  eziandio  il  lesto  a  penna  clie  conservasi 
nella  Capitolare  di  Verona,  certo  gli  avrebbe  giovato,  se- 
condo elle  opina  V  illustre  e  benemerito  Mons.  Conte  G.  B. 
Giuliari.  I  preliminari  vanno  sino  alla  pag.  OC,  donde  il 
Trattalo  delle  Rime  volgari  sino  alla  173.  Nella  Prefazione, 
nelle  note  al  Testo  e  aell'  Appendice  seconda  si  leggono 
Rime  edite  ed  inedite  di  Francesco  Vannozzo ,  di  A/arsi/io 
da  Carrara,  di  Gkidino  o  Gidino  da  Sommacampagna, 
di  Contrasto  di  Bontempo ,  di  Ùmctaco  da  Belluno ,  di  Atf 
tonio  da  Ferrara,  di  Matteo  da'  Griffoni  da  Bologna,  di 
Fazio  e  dì  Lapo  degli  liberti,  di  un  Anonimo,  di  Jacopo 
Sanguinacci,  di  Domenico  Scolari  e  di  Antonio  e  Fran- 
cesco Baratella,  del  quale  ultimo  sta  un  Compendio  del- 
l'arte  Ritmica  dalla  pag.  179  alla  240.  in  grosso  volgar 
padovano,  da  lui  dettato  nel  1447,  sedecimo  dell'età  sua. 
Dalla  pag.  241  fino  alla  292  è  la  prima  Appendice  conte- 
Dente  i  Rìioli  dei  cittadini  di  Padova  dal  1275  al  1321. 
Dalla  29b  fino  alla  383  sta  la  seconda  Appendice  conte- 
nente Poesie  del  trecento  deW  Italia  superiore ,  le  quali  ap- 
partengono alla  maggior  parte  de'  Poeti  sopra  indicati. 
"INella  384,  die  è  l'ultima,  V  Indice  del  volume. 

Un  libro  così  prezioso  e  ricco  di  isvariati  e  impor- 
intissimi  documenti  doveva  naturalmente  riscuotere  il 
degli  eruditi  e  dei  veracissimi  letterati,  come  di  fatto 
avvenne,  nullostante  i  difetti  che  vi  si  possano  incontrare. 
Onde  parecchi  Giornali  parlarono  in  lode  di  cotesto  pub- 
blicazione e  singolarmente  un  di  Germania  de'  piìi  accre- 
ditati che  v'  abbia ,  ìl  Central-Blat  dello  Zarnacke  che 
li  stampa  in  Lipsia.  Tra  i  nostrali  poi  il  celebre  G.  Zanella 
tffermava,  che  il  libro  del  Grion  può  mostrare  che  gV  /(«- 
\ani,  quando  vogliono,  non  sono  da   meno  dei  Tedeschi 


—  526  — 

rneUe  rictrcàe  esatte  e  faiicose  della  filologia.  Ma  < 

toglie  che  il  Gtìoq  non  isfiiggisse,  come  dicemmo,  ( 

menda  :  chi  non  b  non  falli ,  e  nell'  opere  degli 

gammii  noo  si  troTi  la  perfezione ,  e  stupido  è  eh 

doTerfi  essere  e  folle  dii  presame  tro?ar?ela,  sicché 

si  foglia  «  OTonqae  la  malignità  o  la  sofisterìa   { 

\  agercAmeiite  trovare  cagione  di  colpa. 

Un  intempestiTO  e  inginrioso  cicaleccio  contro 
pobUìcazioQe  osa  fìiorì  ndla  Kmsta  delT  Umbria 
Martke ,  scritto  dal  signor  Cristoforo  Pasqualigo,  g 
fessore  od  R.  liceo  di  Verona  presieduto  dal  Grìoi 
paerìlmente  assale  eziandio  la  Ck)mmìssione  pe 
di  lingoa  ;  ma  la  critica  perde  a  grande  pezza  d 
valore  quando  non  sia  urbana  e  gentile:  l'astiosa 

I  che  non  si  addice  a  nessuno  ben  costumato  uomo 

anche  in  sospetto  ragionevolmente  di  sleale  e  di  esa 
donde  la  poca  fiducia  de'  prudenti  leggitori.  Di  priv 
e  di  sdegni  non  è  lecito  mescolare  e  rend^  parte 
pubblico  sotto  quale  si  voglia  forma,  manto  e  coU 
come  la  critica  buona  e  modesta  è  di  grande  giov; 
alle  lettere,  cosi  la  rabbiosa  toma  dannevole;  e,  ai 
abbattere  il  criticato,  umilia  e  rende  abbietto  il  crìi 
ma  di  questo  basti  per  ora. 


IL  NUOVO  ISTITUTORE 

GiORÌtMS. 
V  ISTRIZIOSF,    ?.    Ili    F,Di;CAZFONK 


È  cotesto  un  Periodico   compilalo  enti  molto  senno, 

ratezza  e  buon  gusto:  ìasu  dire   che  tr  ò  Direttore 

stre  professor  G.  Olivieri,  e  che  vi  lavorano  letterati 

loon  piccola  rinomanza:  il  chiarissimo  8Ìg.  professor  Fraiv 

I  Lingaiti  è  de'  primi ,  per   tacer  iV  altri.    In  cotesto 

late,  che  comincia  ad  avere  tre  anni  ili  vita,  sta  Dn 

l^di  lutto:  scritture  di  pedagogia  e  ili  didatlia,di  agri' 

[ara,  di   filologia,  di   bibliografia,  ecc.   ecc.   Insomma 

Britei^bbe  d'  essere  un  po'  più  conosciuto  ({ua  da  noi, 

:faè  fra  la  moltitudine  di  Periodici  che  ripullulano  per 

a  Italia,  il  Suovo  Istitutore  cammina  co'  migliori,  onde 

Ili  lo  raccomandiamo  a  chiunque  ami  il  decoro  della  no- 

I  Penisola.  Si  pubblica  in  Salerno  tre  volte  al  mese. 

Le  associazioni  si  fanno  a  prezzi  anticipati   mediante 

iglia  postale  spedilo  al  UiretUjre.   Le  lettere  ed  i  pieghi 

non  francati  si  respìngono:  né  sì  restituiscono  manoscrìltì.  — 

Prezzo  :  anno  L.  5;  sei  mesi  L.  3:  un  numero  separato  di 

otto  pagine  Cent.  30;  doppio  Cent.  SO. 


I 


ANNUNZI  BIBUOGRAFICI 


Due  Nocelle  per  festeggiare  la 
laurea   dottorale   in    ambe  le 
leggi  del  signor  Adriano    noh. 
De  Malfer  presso  la   R.    Uni- 
versità   di    Padova.    Venezia, 
Narratovidi,  1870,    in  8.*»  di 
pagg.  16. 
Edizione  non  yeoaìe  esegpila 
a  Cora   delF  illastre   5ig.  Andrea 
Tessier.  La  prima   NoTeUa  venne 
tratta  dal    Magazxino   letterario, 
Tol.  1.^  edito  in  Treviso  nei  1823; 
h  seconda  dall*  Vonìo  di  conversa- 
sione;  Venezia,  Poggi,  1833. 

NoYeliette  di  Paolo  Mlnucci 
est  rat  le  dalle  note  al  Mal  mùn- 
tile r acquistato  di  Lorenzo 
Lippi.  Venezia,  Tipografìa  del 
Commercio,  1870,  in  8."*  di 
pagg.  30. 

Appartiene  questa  pubblica- 
zione altresì  al  prefato  sig.  Andrea 
Tessier ,  che  Toue  intitolarla  all'  e- 
simio  bibliofilo  sig.  Giovanni  Pa- 
panti,  il  quale  pochi  mesi  innanzi 
avea  pur  dato  fuori  due  di  coleste 
Novelle  in  soli  quattro  esemplari 
numerati,  col  titolo:  Due  Novelle 
di  Paolo  Minucci  tratte  dalle 
Note  al  Malmantile  di  Lorenzo 
Lippi;  Livorno.  Vannini,  1870, 
n  8.^  Della  suddetta  raccolta  del 


sig.  Tessier  s'anpressero 
pie,  delle  quali  alcune  in 
carte  distinte,  e  tre  in  pei 
Le  Novelle  sono  in  latte 
L'ammazza  sette,  e  Por 
proverbio:  Oli  è  folto  \ 
all'oca  son  le  doe  che  in 
denza  avea  stampate  il 
pantL 

Pletrino  e   la  Coma 
velia  di  Francesco   A: 
da  Temi  non  prima  sii 
Modena,    Tipografia   C 
1870,  in  8.**  di  pagg.  ' 
Se  ne  impressero  sol 
semplarì,  cinque  de' quali 
colorata  d*  America   e  cii 
carta   bianca  da   disegno, 
velia  è   intitolata   al   sig. 
colla  seguente  Epigrafe: 

A 

Gifvuii  Pabuli 
ractoflitore  iitflli§eite  e  s 
editore  splesdiJo  tà  arcar 

ài  Rovelle 

scritte  ài  illisth  italiai 

•ire 

ìb  sefio  ài  stila  ed  zm 

AbImìì  Cappelli. 


Rime  di  Francesco  Petrarca 
con  inleriirelazioiii  di  Giacomo 
Leopardi  e  wn  nota  inedite  di 
Francesco  AmbrosoH.  Fircnte, 
Barbèra.  1870.  in  fidili  pagg. 
XX-ll).i.  a  dw  col. 

La  Gerusalemme  liberata 
di  Torquato  Tasso  correda- 
la iti  noie  filologiche  e  sloriehe 
e  di  varianti  e  risoontri  eolia 
Conquistata  [ler  rura  di  Do- 
menico Carboi»!.  Ftrense,  Bar- 
bèra. 1870.  in  8.°  di  pagg.  XVI- 
3S4,  a  due  col. 

U  onorevole  sijj.  prof,  cav.  Oo- 
menico  Carbone,  rcj^io  ProTTed.  agli 
smdii  pella  Provìncia  di  Milano,  piii 
0|>ere  fìn  tgiii  ha  poslu  in  luce  a 
beneficio  della  studiosa  gìoTentli 
con  particolare  diligenza  e  assen- 
nalczza,  e  coleste  sopra  citale  to- 
glionsi  tenere  in  grande  connidera- 
»«ne.  Sono  luite  corroborale  di 
oittme  e  giudiziose  illustrazioni,  sic- 
ché chi  TI  stndia  npproiiilerà  gran- 
demente. Che  Iddio  lo  benedica  t  e 
gh  mantenga  il  Tenore  di  adope- 
rarsi a  prò  della  crescerne  eenera- 
ajonc,  in  parie  assai  isviala  da  ogni 
bene,  colpa  singolarmente  ì  \iziosi 
sensi  che  di  primo  trailo  su^p  Ira 
le  pareti  doniesiichc.  I  vecchi  padri 
eraii  troppo  pietosamente  severi, 
ma  i  moderni  son  troppo  criidel- 
] nenie  pietosi. 

Seemplare     della     Divina 

Commedia  iknalo  da  Papa 

(Benedetto  XIV)  Lambarlini  con 

lutti  i  luoi  libri  atlo  itudio  di 

Bologna,  cJìlo  seconda   la  sua 

fiorlografia,  illuslrala  dai  oon- 

L^nli  di  allrì  XIX  codici  dan- 

^tetchi  inedili  e  fornilo  di  noie 

aritiehe  da  Luciano  Scarabelli. 

aolognOt  presto  Gaetano  Aoino- 

Jano/i',   Regia  Tipografia,  1870, 

To/.  1."  IH  8." 

Fa  parie  della  Colletione  di 


oprre  iiicdile  o  ^ 

seeoli  delia  lin^a  che  si  pubblica 
dalla  R.  Commiss.  pe'  lesti  di  lin- 
goa.  È  colesta  una  pubblicazione 
veramente  im porta niissi ma  non  solo 
pei  Danlorili,  ma  per  ogni  maniera 
di  letterali  e  di  eruditi.  Il  prof.  L. 
Scarabelli  ha  tale  energia  e  solenia 
die  non  la  cede  a  nessuno,  e  non 
perdona  a  fatica  per  ipianlo  possa 
essere  grave  e  dimcoltosa.  Vi  snrA 
(gualche  menda,  ma  é  inevitabile  in 
un  lavoro  cosi  laborioso  e  compli- 
calo. L'opera  è  preceduta  da  una 
dedicatoria  all'  inglese  conte  E.  C. 
Barlow,  cui  .seguita  una  larga  ra- 
gionala Descritione  de'codici  Dan- 
teschi dati  in  questa  pubbiirasio- 
ne;  indi  il  testo  Lamberliniano  con 
a  pie  di  pag.  le  variami  dej^li  altri 
XIX  lesti  a  penna,  e  note  copiosia- 

Oltre  glj  ess.  ulT.  altri  50  ne 
furono  impressi  a  spese  dell'  illu- 
stratore, in  gr.  4.10,  con  fac-simili, 
con  dedicatoria  al  Re,  toltone  via 
quelln  al  Barlow,  e  con  una  Prefor 
sione  siorico-Ii  io  logica,  che  non  si 
legge  nelle  copie  ufllciali. 

Cauti  Q  Racconti   del  jMpolo 
ilaliitno.  jmbblicati  jmr  cura 
'li*  Domenico  Comparetli  ed  Ales- 
sandro d'Ancona.  Torino-Firan- 
te,  Ertnantio  Loescher ,  1870, 
m.  1."  in  8.°  di  pagg.  XVI-t58. 
L'  utilità   storica  e   letteraria 
di  questi  componimenti  popolari  tu 
assai  volte  dimostrata  da  valorosi 


injfegni 


dell'  eia  nostra.  Molli  volu- 


ne  furono  pubblicati  pertinenti 
aiiu  varie  Provincie  della  Penisola, 
ma  ninno  lln  qui  si  ora  proposto 
di  fame  una  raccolta  completa.  A 
ciÙ  vogliono  ora  provvedere  gli 
illustri  proff.  Comparetli  e  d'An- 
cona, sicché  per  lalc  uopo  anno 
fallo  un  appello  a  quanti  amano 
in  Italia  le  nostre  lettere.  Da  fanale 
precipua  cagione  ei  sien  mossi,  ■- 


—  530  — 


peruoicBle  il  dìcoao  nefi*  Àfrecteii- 
a  che  firecede  qoesto  primo  toIb- 
■K.  Ecco  If  kNt>  parole  medesime: 
€  La  nostra  grande  open  naiioBale 
imifira^  ef Q^fia  cd  iDoalza  il  pen- 
siero dei  nostri  Tolfhi,  opi  giorno 
meno  Arisi,  spingcndoto  in  uà  via 
di  irvnatamento,  per  la  qiale  do- 
fra  aTicfiire  che  unto  si  distacchi 
àà  lalni  prodotti  del  soo  passalo 
da  obkiaru  aiitto.  È  d*  nono  adon- 
<|ne  afrettarsi  a  colmare  le  beone 
in  mi  campo  di  rìcercbe  di  ormai 
troppo  nota  importana.  > 

Onesto  primo  Tolome  conlieae 
C4Mii  Popolari  Manferrini  me- 
eoUi  ed  atwoUUi  dal  DoiL  Giu- 
seppe FifTora;  e  sono  in  nomerò 
di  111 


Arte,  Patria  e  Reli^one, 
Prtùe  di  Giambattista  Giofiaoi 
Firense,  Le  Monnùr,  1870,  in 
ia*  di  pagg.  YI-46S. 

Anreo  e  fMte  manipolo  di  scel- 
tissime Prose  d*  uno  de*  pib  ^»len- 
didi  ingegni  e  de*  pia  tersi  scrittori 
defl*  eà  nostra.  La  maggior  parte 
di  coleste  Prose  versa  sai  Dirìno 
Poema  di  Dante,  ma  T*ba  nutavia 
da  deliziarsi  ancora  in  tarie  altre 
scrittare  di  gnTÌ  e  dì  srarìati  ar- 
^omeotL  Stanoo  in  fioe  HL  eiegan- 
tissime  Epigra/i  a  Cario  Alberto  e 
Itafia.  Gfi  stodiosi  oca  debbcNio  la- 
sciar di  proTTedersi  di  questo  to- 
lume,  nel  quale  Tedranoo  come  si 

rsa  maestreTolmeote  scrìTere  tra 
stìl  de*  moderai  e  fl  sermon 
prtseo. 

Sonetti  di  Francesco  Petrarca, 
ora  scoperà  e  pubblicati.  Ve- 
ncsia.  Tipogra/ia  S.  Giorgio, 
MDCCCLXX,  in  id.^  di  pagg,  IO 
non  nufn. 

Granosissima  publJicazione  pro- 
cnrau  dall'  illustre  sig.  prot  Gìo. 
Vehhlo,  Tìcepreletto  d^la  Marciana: 


I 


I 


ogni  baoi^;nstaio  aeua  da 
merebbe  di  possederla,  ma 
stampata  in  ristretto  nom. 
per  le  nozze  di  Amedeo  G 
oon  Emma  LevL  Tero  è  t 
tutti  sono  propriamente  ine 
testi  sei  Sonetti,  essendotq 
tro  che  anticamente  vider 
ma  e*  sono  tanto  rari,  cb 
potrebber  chiamarsi  inediti, 
dail*  inedito  al  raro  d  ha 
poca  differenza.   Circa  poi 
partenere  o  no  al  Petrarc 
dubbio:  ad  ogni  modo  noi  p 
dello    stesso   arriso   deU* 
sig.  Yebido,  ed  il  ìiarsan 
sua  Bibtiotéca  Petrarehest 
firancamente  potersi  sostea 
laTorì  del  nostro  primo  li 

Notizie  per  la  vita  di  L 
Ariosto  traile  da  documé 
diti  a  cura  di  Giuseppe  C 
5ècoiida  edizione  correi, 
tevolmente  aeeresciuta. 
na,  (ui^amst,  1871,  in 
pagg,  145l 

Ediz.  di  soli  906  esemj 
ordine  nomeratL  Capiosissn 
i  ramagfi  intorno  a  Lodofi 
sto  eoe  quÌTÌ  si  leegooo,scr 
maggiore  disioTcSlora  e  ci 
n  caldo  e  curioso  ammin 
quel  sommo  Poeta,  gli  stod» 
cose  storiche  e  delle  glor 
rane  tì  troTeranno  assai  d 
che  possano  desiderare  e 
qui  da  Teruno  altro  non  ci  € 
nferilo.  Sparse  per  entro 
ma  parte  leggonsi  molte 
inedite  di  ec4^si  personags 
Te  all'  argomento  trattato,  s 
dall'  ilhislre  Autore  negli  Ai 
Mantova  e  di  Modena,  le  r 
rooo  sdtanto  aggiunte  ii 
seconda  edizione  e  che  auj 
assai  pregio  aQ*  opera.  Gra 
rese  pertanto  ali  illustre 
merito  signor  marchese  C 
Campori 


Discorso    inaugurale  per  la 

ììia}icrtura  dell'  l/nivsriilà  lii 
Bologna  nell'  aniio  seolaslieo 
I87tì-71.  klla  dal  \trof.  F.  Fio- 
reniino  Ugìor'io  Ì6  Nuv.,  1870. 
Bologna .  Società  Tipografica 
dei  Compoiilorì.  1870.  in  8." 
di  pagg.  18. 

Gravità  di  stile  e  Tobnstetu  Hi 
niponi  rìsplendoDo  in  questo  fllo- 
solico  ragionamento,  il  quale  non 
produce  meno  effelio  «  sensazione 
nei  leggerlo,  di  quel  che  si  tacesse 
all'  udirlo  pronunziare  dalla  viva 
loce  dell' Aulori!  nella  grande  Aula 
dell'  Uni?ersiLì  Bolognese,  dove  ri- 
scosse ragionevoli  e  Tragorosi  ap- 


Cola  di  Rieneo,  Tragedia  di 
Nicolò  Tialio.  Palermo.  Tipogra- 
fia dfl  Gionialf  di  Sicilia,  1870, 
in  8°  rfi  i<agg.  139. 
Che  cosa  proprJamenie  esser 
possa   colesla  TrageMa.  in  breve 
ce  lo  dice  l' Autore  stesso  in  una 
AvoertctiM  ai  lettori  die  le  va  in- 
Twmi.   Ecco  le  medesime  sue  pa- 
role: 

■  Non  ho  inleso  ritrarre  un 
fallo,  ma  un'  epuea:  non  un  lipo. 
ma  un  uomo.  Ho  spezzalo  i  ceppi 
delle  ntoriehe  peJanlerie.  ho  Tran- 
te  le  catene  del  secchio  classici- 
smo, ed  ho  respirato  le  purissime 
aure  di  quella  libarla  che  (àvorì- 
sce  i  voli  dell'  ingegno  e  le  ispi- 
razioni ikir  arte.  —  Ho  ben  fello? 
Ti  sono  riuscito?  • 

Sia  come  si  voglia,  risponde- 
remo noi,  ad  o^ni  modo  l'Autore, 
secondo  eli'  i';;ii  stesso  ci  palesa,  ha 
veati  anni  soltanto!  e  se  è  giunto 
8  *pmar  ceppi  e  a  franger  catene 
nella  sua  tenera  età,  ha  latto  pro- 
digi! Se  perù  possa  tornargli  a  bene, 
Iwcieremo  eoe  altri  giudichi. 


e   di  .San 

L 


rissale  da  fra  Domenico  Cavalca 
con  noie  e  schiarimenti  dtl 
sac.  Francesco  Cerniti  dottore 
in  Lettere,  nrim,  1870,  in  16° 
di  pagg.  960, 

Fa  parte  dì  una  Biblioteca  della 
Gioventù  italiana.  Cliì  potrebbe 
non  lodare  il  slg.  ilott.  Cerniti,  che 
con  unto  telo  si  adopera  ad  alle- 
stire pe'  teneri  giovanetti  cosi  falle 
auree  scritture ,  le  (|uali  insieme 
colla  lingua  buona  ispirano  eziandio 
ottimi  esempi  di  belle  costumanze 
e  di  morale  pietà?  Noi  ne  andiamo 
assai  lieti  e  confortiamo  q^uel  bene- 
merito editare  a  proseguire  oltre 
con  solerzia  e  coraggio.  Ci  permet- 
teremo soliamo  di  ferali  notare,  che 
la  Leggenda  di  S.  Francesco  non 
è  gii  versione  che  appartenga  al 
Cavalca ,  ma  ad  Autore  Anonimo. 
Essa  fa  parte  delle  Vite  ili  Satiti 
e  Sante  pubblicale  dal  Uanni  in 
aggiunta  alle  >T(r  de'  Santi  Padri 
delti  dell'  Eremo,  e  di  queste  sol- 
tanto fa  volgarizzatore  ÌI  Cavalca. 

I  Hotameatl  di  Matteo  Spinelli 
da    Gionenaiio    difesi    e   illu- 
strali da  Camillo  Miiiieri  Riccio. 
N-apoli.  Militiero.  1870,  in  8" 
di  pagg.  Wìt. 
È  coieslo  libro  un  bel  saggio 
della  vasta  erudizione   slorica  del 
sig.  Hioieri;  e  chi  l'abbia   ponde- 
ratamente letto  sarà  forzalo  dalle 
polenti  ragioni  quivi  esposte  a  non 
credere  una  felsIHcaiione  i  Diurnali 
dello  Spinelli,  scondo  che  con  un 
suo  acuto   e   sottile  ragionamento 
avea  fello  credere  l'illustre  Gugliel- 
mo Bernhard],  professore  del  lìin- 
n»sìo   di   Luisenstadl   di   Berlino. 
Quesl'  apologia   ha  in  fine  63  Zto- 
--■"■'■  Ialini. 


Il  Libro  inlorno  la  consola- 
Itone,  dalla  lingua  Ialina  re- 
calo nell'  italiana  dall'aviiocato 
Filippo  Cicconetli,  Boma,  Tipo- 


;i 


grotta  deiU  beUe  arti.  1870,  in 
8°  di  pagg.  92. 
Niuno  polli  non  lodire  l' ele- 

Sinle  versione  dì  quesl'  opnscolo. 
lire  la  bontà  della  lin)^  e  dello 
siile  a  raccomanda  mirabilmente 
per  la  materia  conteauia;  e  cbi 
scirri  e  cbi  patisca  lidssìiudiai  Iro- 
veri  nande  conrorto  nel  leggerlo 
e  meditarlo,  e  i  dolori  e  i  ramma- 
ricbi  di  che  Tosse  trafitto,  a  pat^ 
nostro,  si  ailcvieranao. 

Le  Operette  marali  di  Giacomo 
Leopardi  oon  la  Prefatione  di 
Pietro  Giordani,  editioiu  aecre- 
tciuta  e  corretta  da  G.  Chiarini. 
Livorno.    Vigo.  1870,  in   32° 
di  pagg.  XXXXVIIl-5m 
Vano  torna  ragionare  del  Leo- 
pardi: egli  baiai  Tama,  cbe  niuno 
Sotrebbe,  per  quantunque  colesse 
ime,  accrescergliela  o  diminuirla. 
Diremo  soltanto  che  qaesl'  edìiione, 
allestita  dall'  illustre  sig.  Car.  Chia- 
rini, è  fatta  con   grande  amore  e 
imelligenza,  concludendo  infine  che 
r  eleganza  dei   tipi   e  la  nitideua 
son  tali,  che  proprio  fónoo  onore 
all'egrepo  tipografo  sig.  Cai.  Fran- 
cesco Vigo,  if  quale,  si  »ede  chiaro, 
esercita  la  professione  sua  più  ad 
onore  di  essa    cbe  per  materiale 
lucro. 

ProTTisioni  e  Statuti  d'  una 
Brigala  Carnevalesca  mi  1613. 
Scrittura  inedita  d'un  bell'u- 
more Fiorenlino  del  secolo  X  VII. 
Firenze,  presso  Giovanni  Dotti, 
1870,  in  S"  di  pagg.  30. 
Non  è  da  vero  senza   pregio 
cotesto  componimento,  quaniunr|uc 
a'  nostri  tempi  possa  trovare  chi 
gli  faccia  mal  viso.  Anche  dalle  più 
minute  cose  i  nostri  antichi  sape  va  n 
Irar  materia  di  scherzo  e  di  gio- 
vialità: oggi  a  tulio,  cbe  non  sia 
di  gazzette,  di  politica,  di  hrillanii 
carneficine  belliche  e  di  romanzi,  si 


snoie  far  ceSo,  ed  il  vecch 
rebbe  interamenle  distrti^ 
cbè  [Dito  si  biasima  e  si 
Or  che  diamine  è  egli  mai 
Che  fossero  lotti  imbecilli 
padri?  Or  che  la  verace 
cbe  lutto  lo  scibile  tUDai 
sviluppati  oggidì  soltanto 
noi  credono,  anzi  tengo»  p 
che,  salvo  le  debite  cccezìoi 
sente  abbiavi  grande  copia 
di  prosDOtione,  di  vanterìe 
tività  con  un  po'  d' ignor 
tornando  al  nostro  libricc 
che  egli  è  scrìtto  molto 
mente,  e  cbe  dobbiamo  sap 
do  all'egregio  sig. Giulio I^ 
il  trasse  da  un  cod.  Maglb' 
peccato  cbe  ne  facesse  il 
un  cosi  scarso  numero  d' e 
Trentasei  numerali  son  pc 
de  nostra! 

OtBervaileai    oritict 

Tertina  10  del   Canta 

l'  Inferno    di  Dante. 

Penado,  1870,in8»<ii 

È  lavoro  di  un  egreg 

ne,  il  sig.  Alessandro  de  l 

dìoso  e  ammiratore  del  pr 

nosirì  classici  antichi  Poe 

buone  e  ragionevoli   semi 

sue  Osservaiioni  e  da  pre 

considerazione.  Ad  ogni  mi 

dimostra  assai  studioso,  i 

di  sonile   ingegno,  qaM 

lodi  e  conforto. 

Lo  Spiritismo,  Novella 

maso   VallaurL    Torini: 

in  32." 

Graziosissima  Novella 

in  cui  l'Autore  si  cimenta  i 

quanto  sien  fallaci  le  prA 

colesti  Spiritisti,  e  ne   ' 

apertamente  le  loro  ciunn 

condotta  e  T  intreccio  sono 

assai  e  la  lìngua  e  lo  stile 

tanan  di  moljo  dall' odiem< 

barbariche  guise.   Sembrai 


—  533  — 


sig.  Vallauri  possa  e  debbasi  allo- 
gare tra  i  meglio  Novellatori  de*  no- 
stri tempi.  Lo  Spiritismo  è  per  or- 
dine la  decima  delle  sue  Novelle. 

Canti  Popolari  Siciliani  rac- 
colti ed  illustrati  da  Giuseppe 
Pitrè,  preceduti  da  uno  studio 
critico  dello  stesso  autore.  Volu- 
me secondo,  Palermo,  Luigi  Pe- 
done -  Lauriel,  1871,  in  8*  di 
pagg.  XU-500  con  16  pagg,  di 
Tavole  in  musica. 

Non  meno  importante  e  dilet- 
tevole ed  erudito  del  primo  volume 
è  cotosto  secondo,  che  pur  dobbia- 
alle  incessanti  sollecitudmi  dell*  illu- 
stre Pitrè.  Noi  già  parlammo  di 
questa  copiosissima  e  graziosa  rac- 
colta alla  pag.  204,  Anno  111,  Parte 
prima,  del  nostro  Periodico,  e  quel 
poco  che  ne  dicemmo  allora  in  nota, 
or  vie  più  riconfermiamo,  colà  ri- 
mandando i  nostri  leggitori.  In  que- 
sto secondo  volume  si  contengono 
NinneNanne,  Canti  fanciulleschi, 
Invocazioni  e  Preghiere,  Indovinel- 
li, Arie,  Leggende  e  Storie,  Contra- 
sti, Satire,  Canti  religiosi  e  mora- 
li; in  tutto  sono  componimenti  279, 


i  quali,  uniti  ai  727  del  primo  volu- 
me, forman  la  ragguardevole  raccol- 
ta di  1006!  Non  vuoisi  in  fine  pre- 
termettere, che  in  qnesto  secondo 
volume,  oltre  la  moltiplicìtà  delle 
note  dichiarative  e  d*ogni  maniera 
d*  erudizione ,  sta  pure  un  ampio 
Glossario ,  comprendente  in  singo- 
iar modo  la  maggior  parte  delle 
voci  illustrate  alle  note. 

A  Vittorio  Emanuele  II  Re 
d' Italia,  Canzone  di  Achille 
Monti.  Firenze,  Tipografia  di 
G.  Barbèra,  1870,  in  8*»  gr. 
di  pagg.  15. 

È  un  componimento  che,  a 
parer  nostro,  non  ha  da  invidiare 
1  più  belli  che  di  tal  genere  sieno 
usciti  sin  da  quando  fiorivano  i  no- 
stri maggiori  letterati  nei  primi  anni 
del  corrente  secolo  :  chi  voglia  per- 
suadersene si  faccia  a  leggerlo  at- 
tentamente. Il  signor  Monti,  in  una 
)arola,  è  depissimo  nipote  del  ce- 
ebre  Vincenzo,  e  che  in  fatto  di 
ettere  da  lui  non  traligna:  ce  ne 
rallegriamo  cordialmente. 

X. 


INDICE 


Compendio  storico  della  letteratura   tedesca   (prof.  Carlo 

Filippo  Henrisch) Pag,        3 

Rinaldo  da  Montalbano ,  Conlinuaziùne  e  fine  (  prof.  Pio  Raina)    >  58 
Intorno  ad  una  Canzone  e  ad  un  Sonetto  italiani  del  Sec. 
XII,  e  ad  una  Canzone  Sarda,  tratti  dalle  Carte  d'Ar- 
borea (conte  Carlo  Yesme) »        128 

Orìgine  della  lingua  italiana  in  Sicilia  (  Prof.  Vincenzo  Pagano)    »       1 45 

Le  pretese  amate  di  Dante  (  Bergmann-Pitrè) »       225 

Comentario  sulla  Tenzone  di  Cìullo  d'Alcamo  (cav.  Lionaroo 

Vigo) »       254 

Saggio  di  commento  alla  Cronaca  fiorentina  di  Dino  Compagni 

(prof.  cav.  Isidoro  del  Lungo) >       353 

Luoghi  del  convito  che  illustrano  il  poema  di  Dante  (  Nicolò 

Tommaseo) »       371 

La  Rotta  di  Roncisvalle  (prof..  Pio  Raina) >       384 

Leggenda  di  S.  Margarita  fin  qui  inedita,  in  ottava  rìma 

(Francesco  Zambrini) »       410 

Delle  Carte  d'Arborea  e  delle  Poesie  volgari  in  esse  con- 
tenute, continuazione  e  fine  (Girolamo  Vitelli)    .    .    »        436 


VARIETÀ 


Nota  sul  verso  del  X  Canto  dell'inferno.  —  Forse  cui  Guido 

vostro  ebbe  a  disdegno  (prof.  Francesco  d'Ovidio).  .  •  167 
Leggenda  di  S.  Margarita  vergine  e  martire,  in  prosa  (dott. 

Antonio  Ceritti) »       176 

La  Novellaja  milanese.  Esempii  e  Panzane  lombarde  (prof.  Vrr- 

torio  Imbruni) «192491 

Nota  sul  verso  del  X  Canto  dell'  inferno.  —  Forse  cui  Guido 

vo  tro  ebbe  a  disdegno  (  prof.  comm.  Nicolò  Tommaseo)    »       486 

Esempio  morale  antico       *        503 

l  codici  Roncioniani  illustrati  (cav.  Cesare  Guasti).     .    .    *       505 


3 


—  536  — 

BIBLIOGRAFIA 

OssenraiìoDi  intorno  alla  relanone  sai  manoscrìiU  d'Arborea 

del  conte  Carlo  Bandi R 

La  Palestra  del  Sannio ,  Periodico  settimanale 

Rifista  italiana  dMstniiione  e  d'educanone 

Circolo  letterario  romano 

Antonio  Da  Tempo,  delle  rime  Tulgari 

Il  nuovo  istitutore,  giornale  d'istmiione  e  di  educaiione    . 
Bollettino  bibliografico 


rODU  FILOLOGICI,  STOKICI  E  BIBUOeund 


m  VARII  8WJ 

in  APPENDICE  ALLA  C0IlKZ10i\E  EH  OPEM  | 
IRNO  3.*  DISPENSI  I.* 

MAGGiO-OlUONO 


D'IMMINESTE  reBBLltVZIONE: 

OPERE 

STORICO-NUMISMATK 

CARLO   MORBIO 
DBClCtlOI»  UUmiUTl  DEIXE  SUE  lUCTAI 


\ 

ini;  J 
meli 


Questo  volume  non  lui  bisogno  di  raccomanilazioni; 
titolo  annunzia  l'importanza  dcH'argomemo;  ti  nome 

lustre  autore  lo  raccomanda, 
lìilizioae  in  8."  ili  300  esemplari  ordinalamenle   nume 
di  pagg.  XXIV^72  con  due  tavole  litograiìcUe. 


DUE  CENTURIE 


I 


ISCRIZIONI  ITALIAN. 


CARLO  PBPOLl 
Un  lifil  volume  del  formalo  Le  Monuier  di  |ngg.  1 


INDIQE 
«Iella  px>eseiite  IMapensa 


La  Direzione  ni  suoi  colleghi  ed  associati P 

Vincenta  Dt  QioTanni  —  Giovan  da  Prociila   e   il    ri- 
belbnitnio  Ji  Sicilia  nel  1282 

Alessandro  D'Ancona  —  Una  poesia  ed  una  prosa 
ili  Antonio  Pucci,  prccidute  da  una  lettera  al  profes- 
sore A,  Wcssclofsky 

A.  C.  —  Il  Perdono  di  S.  Francesco  d'Assisi  e  un  Sei'inonc 
di  S.  Agostino 

QiuBto  Grion  —  Il  Pozzo  di  S.  Patrizio 

I.  Q.  Isola  —  Dialogo  dclJii  Lingu»  comune 

Francesco  Di  Mauro  di  Polvica —  Al  Direttore  del 
Propuguatore      

S.  M. ,  N.  N-,  A.  D.  A.  —    Bibliogralla 

F.  Z.  —  Dullcltino  bibliograflco 


Li;  ;LsstM:i;iuo[ii  si  riceveranno  dal  sotloscrttU 
eiliiurv  iiui  in  ntilogiia  cn' sci^ctili  jiatti. 

It  Oìoni:ili!  sarà  riiiarlitii  in  ffii  fascicnli  annui,  ogn 
ili  IO  fogli  in  8.°.  (li  pa^R.  1(1  jn-r  riascnno,  ila  pai 
ili  bitnesii-c  lii  bimesirc. 

S(!  per  forza  di  (iJ!ip(»Ìzi(ne  Oelle  risfiettivc  i 
fascicolo  iloves»c  tornar  meno  «le'  fogli  i>run]es!ii , 
nciiuiriiDlJ  saranno  Hf.itiì  in  alcuno  de' iirossinii  ; 
r  incoiitni ,  se  i  fogli  ollrepasseniiiiio  il  niimei-o  dell 
Nc  m  l^rà  rai^giiaiilio  alla  sna  mM-j. 

L' xssoàaxiimt  sarà  obbli^alorìa  per  un  ; 
gai'si  aulicìpaianifflitc    di  scmeslre  io  scmi»tr& 

D' ora  iiuunzi  non  ai  animcuoiio  cambi  s 
perioilici  scienlilici  e  Iell«rari. 

Gaetano  Hohacnoi.!  KdUore  f. 

e  n'SfmiSftl/ile