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284892
AI SITO! COM.EGIII ED ASSOCIATI
I.A IllllEZIONE.
Con (jucsUi UispL'iisa cuDiiucia il [erzo aiuiu ili vila
nostro l'ropHgnalore. È in vero un miracolo che in
opi così avversi agli studi! filologici egli continui a man-
flencnÀ furto abbastanza e rigoroso. La qualu buona ven-
EtBn a voi singolarmente, illustri alleghi ud amici, si
■■dee, che con indicibiiR ed esemplare costanza non lascia-
ste giainimi di amministrarci quel tanto cbo occorreva a
sì ben nutricarlo e sorreggere.
A voi iliiiitjiie i nostri pubMici e cordiali ringrazia-
miMili. a voi le congratulazioni più sentite, e a voi le
pregliiiTi' più fervorose, affinchè perduriate nella consueta
assistpoza. Or da tante e così isvariate scritture ondo ci
pnivTisdesle. die ne avvenne? L'approvazione dei dotti,
e per conseguenza l'eletta schiera dì associati, che pur
raldamenle ci animarono. Onde a loro eziandio noi non ci
ranarrcmo dal rendere le debile azioni di grazie.
Con sì favorevoli auspicii intanto noi proseguiremo
■larrcirw'nte nella ntmpUazione di questo Periodico, fidu-
ckisi che nella guis;i stessa che in noi non verran meno
U solerzia e la diligenza, così in voi il concepito fervore
«• l'ii5atu patrocinio.
j
GIOVAN DA PROCIDA
IL RIBELLAMENTO DI SICILIA NEL 1282
«FECONDO IL CODICE VATICANO Sì^i
A chi si oroipa di cose storiche, e massime di ar-
> siciliano, è notissima la storia della Guerra del
t tieiliam di Michele Amari, opera pììi volte rlstam-
, lodata e censurata per diverso riguardo, alla quale
più che altro P autore deve la sua bella ffima di valente
stanco (■ di scrittore pregevole. Intendimento del libro
(kir Amari rti il mettere innanzi in quel grande avveni-
mento che pipilo nome da' Vespri dì S. Spirito più l'ar-
dimento popolare e lo sdegno degli oppressi Siciliani contro
lo litraniem dominatore, anziché il macchinamento di una
FODtriura condotta da' baroni di Sicilia e aiutala dal Papa,
Jat l'aleokigo e dal Re di Aragona; anima della quale
f.Hv stato Giovanni da Precida, vecchio medico dell' im-
juntiire Federico, ministro di re Manfredi, compagno di
Comdino a Tagliacozzo, e consigliere dappoi di Pietro,
(B Gtammo, di Federico d' Aragona, re di Sicilia. Se non
die, contro quest'avviso dell'illustre scrittore mandò luori
il Rubieri la sua bella Apologia di Giovanni da Procida
(Fir. 1856), fi scrisse il De Renzi la importantissima opera
// secolo Xlìl e Giovanni da Procida (Napoli 1860) , ricca
— 6 —
ili motti (locamenti ineilili e pr^evolissima per la gra-
vità della critica, dalla qoale esce la fìgara di Giovai)
da Procida spiccata più che mai , e Detta di quelle ombre
ctie parera PAmarì averle gettale sopra a Tarle velo al-
meno, se non del tutto a celarla. Poi, la pabblicazìoDe della
Leggenda di Giovati da Procida tirata faorì da' Godici Mss.
della Biblioteca Palatina di Modeoa per cara dell' egr. cav.
Antonio Cappelli (Tor. 1861), e infine la ristampa della
Cronica del Ribellameniu di Sicilia coatra Re Garin , scritta
in antico ^cìliano, nel volume delle Cronache siciliane
de'secoli XIII, XIV e XV pabblicaie da noi nella Colle-
zione (li opere inedite e rare per cara' della R. Commis-
sione pe' testi di Lìngua (Bologna, 1663), aggiunsero novelle
prove ed argomenti a difesa del Procida contro ie accuse e
il proponimento dello storico palermitano. E però il lettore
imparziale avrebbesi creduto che nell' ultima edizione della
storia del Vespro (Firenze, Lemonnier, 1866), nella quale
l'autore pensò far risposta ai difensori del Procida o della
cotujiura, molte cose fossero state corrette, e tornato il
nome del Procida in onore, concedendogli in quel memo-
raliile fatto quella parte che e gli scrittori contemporanei
u la tradizione non gli negarono punto, tanto da esser
diiamato per ira di parte angioina perfido uomo e mosso
dal demonio. Intanto la novella edizione venne ad aggra-
vare le accuse e a rincalzare la ostinata persecuzione al
mtù de''(locnmentÌ, uè voglio andar cercando le ra-
I perchè l'illustre storico né manco volle correggere
i errori direi maternli del suo libro, notati da me con
iziom . e non pur sostenuti da ragione alcuna ; ma agginn-
g«do qualcosa al detto altrove, varrà questo solamente
nme prefeaione a questa cronica del Vespro , che ora per
ti prima volta pubblichiamo intera , secondo la lezione del
cndire Vaticano 3256, trascritto anni addietro dal valeo-
lisàtnn ellenista Pietro Matranga, prete grecosicolo e scrittore
di (Croco della Vaticana (1). E ciò perchè la narrazione e il
ikltai» di quest'altro t&^, ritratto dall'originale siciliano
dd swolo \III , possa dar nnovi riscontri con la detta
lezione «ciliana, e con l'altra in volgare nobile della Leg-
gala modenese ; fonti onde trassero materia e forma alla
loro narrazione il Malespini e il Villani, e compose Ser
Gionnni Fiorentino la bellissima novella tf. della Glom.
XXV.' del suo Pecorone, ove è detto come « un savio e
) cavaliere e signor detr isola di Precida, il quale
Il lacca <M popolo in Carini tlall>gr. giovane sig. Salv. Siiloinone
ma, neco^iiari! U|iieniissiiiio ili canti (lopolarì sìcJliuni:
La iptrìlu di Dìu 'n frunti l' areniti,
la donna strali ucen li ;
SU gturlanna cu' k clii ntii \a leva
Ccì «eni a'mpolU (') Prùcitcì valenti;
YcDDD IJ Serafini Ji lu celu,
Sangu prì sangu , cu li spati ardenti.
I Sodo debitore di poter pubblicare itiiesto testo sull'esemplare
a alla ^ntileizu del Fratello di coflui, che è aoclie prete glie-
lo, ùg. Filippo Halrsnga, valente traiiuttore di alcune Omelie di
e di S. Ciovan Crisostomo.
— fi-
si chiamava messer Ginvanni Ja Procida, per suo senno
e Industria si pensò di sturbare il d«tto passaggio (di re
Carlo contro il Paleologo), e di recare la forza dei
Carlo in basso stato...» facendo « rubellare l'isola di Sicilia
al re Carlo con forza di molti baroni e signori, i quali
non amavano la signorìa de'Francfisi; e questo con Taiulo'
e forza del re di Raona, mostrandosi che egli prenderebbe
la bisogna dello retaggio di sua mogliera, la quaPera stata
figliuola del re Manfredi. > Questa novella di Ser Giovanni
Fiorentino è proprio a parola la Leggenda stessa . mode-
nese, e specialmente nelle lettere di papa Martino ai Si-
ciliani, e di re Pietro a Carlo, e di Carlo a Pietro; e fino
vi trovi quel Santa Maria di Bocca maggiore che si legge
per isbaglio nella Leggenda suddetta e nel Villani e nel
Malespini, invece del Sonia Maria di Rocca amaturi,
slMome ba 11 testo siciliano, _ed è proprio il nome del
luogo di cui si paria in quell'assedio di Messina del mìU
ledugento ottaotadne. Ove non ci sìa documento di plagio,
potrebbe dirsi per ora, stando ai riscontri , non altri essere
stato il trascrittore della Leg(>enda modenese che esso Ser
Giovanni Fiorentino, il quale portò la narrazione della no-
vella più là che non giunga la Leggenda, per ragione che
quest'era come traduzione del testo siciliano o vaticano
e la novella poteva stendersi a suo piacere, siccome ap-
punto si stende sino alla incoronazione di Carlo IL in re
di Sicilia e di Puglia, e alla fazione avvenuta presso Ca*
tanzaro con iscouBtta di Rogero di Loria e vittoria non
de' francesi, come dice Ser Giovanni, ma de' siciliani con-
dotti dal cloroso Blasco Magona.
Né solo poi Ser Giovanni stette fedelmente alla Cro-
nica e alla tradizione che correva per P Italia: ma nel
Comento alla Divina Commedia di Anonimo Fiorentino del
secolo X!V, scritto non dopo il 1326, e nello stesso tempo
cbe quello di Iacopo della Lana; sì che l'autore scriveva
I di venti anni doiio la morte del Precida , e vi-
■ti ancttra non poclii chu avevano vista la lunga guerra
I Vespro e forse avuta parte nella cospirazione siciliana
r angioina; si legge sul proposito, che mentre re
) armava contro il Paleologo < messer Gianni di Pro-
l in questo tempo coli" aiuto del detto Piero re di Raona
ttcr trattalo , e rubelloglì l'isola di Sicilia (1) »: le quali
pirole scritte da tale che allo lodi che fa nello stesso
laogo di re Carlo parteggiava certo per casa di Angiò, e
Dimte amico si vede de' figli di re Pietro, Giacomo e Fe-
derico : sono molto valevoli a confermare sempre la verità
della Cronica e del trattalo per la rebellazione che al re
GarUi fu fatta dell'isola di Sicilia; al quale trattato ac-
mnsfTiti e diede ainlo e favore, siccome altrove è detto
dallo slesso Anonimo comentatore (2) , papa Niccola terzo
t il danaro del Paleologo. Che se Iacopo della Lana già
iHin nomina Giovan di Procida, tuttavia parlando di papa
?iicri)la . che Dante disse nel XIX dell' Inferno conti'o Carlo
ardito, nota che questo papa • seppe sì ordinare che al
dettu re fu tolta l'isola dì Cicilia s: macchìnamenti con-
ùrmati dalla Cronica di Marino Sanudo Torsello II Vecchio,
por contemporaneo ai fatti, nella quale si legge che il
riU^llamento di Sicilia > fu per trattalo dell' Imperatore
Sor Micbiel e suoi seguaci (3). » E dello stesso tempo
otaodio i^ la Cronica di Napoli di Giov. Villano napole-
Imo, ove è scritto al capit. XI del Libro II , parlando di re '
Caio : • El qual Carlo Iiebbe l'animo tanto grande che dopo
li) <t. Purgatorio, e. VII. p. 3%, Bolopa, uclla Collezione di Opere
l • rart ptr cura Mia Cnmmitt. de' Tali di linijua. 18C9.
(St f. Inferra, e XIX. p. ÌS5. Bologna, Colicz. di. 1866.
(3} *. Stwia di Carlo h'Angiù e della Gutrra ilei Vfiinv Siri-
li della storia inolila del Regno di Ramania aerina ira il I3S8
I 13.13 ila Marino Sunudo Torsello il Vecchio tiubblicaii àa Cirio
l :<lipoli. pri'uo lli'lkiii. IKGl
— lu —
acquistato el Ileaino àe Sicilia, si congregò una
gran Compagnia di Cavaglieri et Navilii p^ acquistare il
Hegno de Horaania cot suo Imperio : la quale cosa li fora
forai con felicità successa se non fossi stata la rebellione
de Sicilia, la qual rebellione fò principiata per male collae-
lerali sol, li quali aggravando indebitamente li populi, da
la quale rebbellione fo casone e principale ordinatore Mis-
sere Ioanne de Procida de Salerno, el quale era stato
medico del Ite Manfredo, et quale andò per Imbasatore
in Aragona al Rè Pietro d'Aragona, marito de Madamma
Costantia figlia del Ite Manfredo, da parte de li Signori
di Sicilia sollecitando al dicto Rè che venesse a la dieta
Isola de Sicilia promettendoli lo dominio de la dieta
Isola (1) ..
(1) V. fiaccolla di varìi Libri outro Opvtcoli d' Binarie del He-
pria di l/apnli di varii el approbati Autori ecc. nella quale ti con-
Ungono V infrascritli , eÌoÌ Le Croniche dell' Inctila Cillà di Napoli,
con li Bagni di Pussuolo et liAia lìi Giov. Villam Napoklanù ecc.
Napoli, appresso Carlo Porsilc 1680. Lo stampalorc neH'aTvn-Utua al
IcUorc dice che i GioTaani Villano Napoletano Tu il primo a scrìvere
bencliÈ in lìngua maierna amica e gold N.ijioleUuia, l'Hisloria o :'
Cronicbc della nostra Patria (Napoli), onde da esso hanno cavalo pot
le cose più memorabili et anliclic gli altri llìstorici del Regno, clie a^'
pn;s$a di lai stali 5ono. > Il Cappelli nella prerazionc alla Leggenda dE'
Gtovan da Procida, a p. 35 e segg., paria appunto di ({aesia Cronici
di Napoli, stampata col nome di Giov. Villano ISapolilano, e di un
dice anonimo di essa Cronica esistente nella II. Biblioteca di Modena, dal
quale lìn) come Appendice alla Leggenda sette capitoli che sì rircriscoDO
ai hVx di Carlo d'AngiA in NapoU e in Sicilia. Nulla c7' da aggiungere
ai dubbi e alle lestimonianze raccolle dall' egr. mio amico su questo Gio-
van Villano Napoletano, ma solo fo sapere che altro codice sìmilisstmo
al modenese, pur membranaceo, ma in 8," piccolo e in carauere del
sec. XIV, abbiamo in questa BiUioteca Na:EÌonate palermitana, segnato
Armad. 1). ib, e col titolo in carattere minuscolo rosso: — Di tacila
di Supoli la quale ìntn' Vatlre ella del «tondo jier la molleluditu
— li —
nna Cronaca, storia o Novella contemporanea ci
dife di altro personaggio die abbia condotto la cospii-a-
none contro re Carlo, e riuniti gli animi del Papa, del-
rimperatore greco, e del re Aragona e de'Siciliaoi, tranne
di (iiovaii dì Crocida che già per più anni usò alla corte
é l^tro e di Costanza e poi ebbe tanta parte ne' fatti di
SciUa, ove egli appunto si trova quando è invitato a re
l'Aragonese, e vengono festosamente accolli a Palermo
con la madre Costanza, i due lìgli del novello re, Giacomo
e Federico. Abbiamo nella Biblioteca Comunale palerini-
tina un cod. rartaceo, segnato Qq E. 29. n. V, di mano
ilellWurta che lo trascriveva dairoriginale di Filippo Pa-
nila . f liti fu Segretario del Senato di Palenno lol titolo —
■ Anuaie delle cose accorse nella Città di l'aleniio e dilli
OffUiali che som stati e persone nominale, aitato dalli
dn tataiìfrt * dilloro..., (*) « diUete ricthfsia ano acquutata fama
frmtiisima. U quali ekww lucit se narrano in diversi volumi i,
r»M(CAc ri tu questa presente scrittura se comjionim — La lenone
Jt i|unlo cntlic palmnitano è in gMicrale pilt corrctla di quella ilellj
umpa lupoliUna; mu, come il i>ioil(mc$r, non ha divbionc di libri, aii»
tona Kinn a rrrto |iaoto iti nibrìchc, procnlomlo con ^ok ini'tnii in
rauo o inrdiino, e k nibrìclic, in nero, commcìano sotiuncntn con
^mo- Ctnim pajia AlMandru ritorno in YMia ci rfiomo m loin
barrita liedifica la cUa daìciatulria per suo noìno la (jualt. nella
Vatft citata na|>oli[:in3 r la 67.* del libro I. Poi, ovi niella stampa co-
naca D Lib. 11. e, I, il codice porla i|uesU rubrica, che non mpouilc
■bto alb dlTÌ«ione de] lesio. cioè: Chomensa loelai>o libro ove Iraela
M '« venula dìl Bt Karlo di puglia et di suo (adi ci di molti inu-
Htmmi cAf ftiruno in Ylatia al suo ttmpe. 11 coJìco non lia se^a-
tm. t Uni».', Cusl comi.' il niotlcnei-e, cut libro 11 della slainp.i napoli-
imM itwu.
O b peritameni è coii guitla che h parol* t iDleggtliIle. In un'an-
tta lrwcriil«nii che e' b tggìunla In earu , Ai camllcre ilei tee, XVI o
ITn, ti legge pompate : nella itampii napo titani bI legge pampe , e nel
tat. «M^rnf** popoli: mn 'l [iMrol.i piire piullnelo el;e ero pruiosr.
— 12 —
libri del Senato del tempo die si possono trovare sin hog^
ecc. cavato con quella fedeltà e realtà che ogn' utto potrà
a Silo modo per delti liltri reconoscere » — E quest' An-
nuale comincia dal 12H7 e lerniÌDa al 140S, con quest'aT*
vertenza deirAiiria: • Sin qui ho copiato (la un Onìnterao
d'antico carattere, cfie è in potere del Sig. D. Vincenzo
La Farina, Marchese di ,\fadonia e Barone d'Aspromonte,
ho^i 23 di Marzo 1667. • Ora, in esso si legge:
« Nel anno 1280.
Il detto Rè (Carlo d'Angiò):
Alaimo di Lentini Barone
Palmeri Abati Barone
Gualtieri di Caltagirone Barone
Giovanni di Precìda fatto Barone (1)
> In detto anno cominciò a trattare il sopradetto Giovau
■ dì Procida con li sopradettì Baroni di Sicilia, e eoa.
» Pietro Re di Aragona e col Papa e l'Imperatore il traU
1 tato di levare il regno di potere di Carlo d'Angiò,
» darlo a Pietro Rè di Aragona suo vero e legilimo Rè.
E sotto all'anno 1282. nel quale anno si pone. Pietra
Re d'Aragona Re, e si nota la oecisione de'Francesi,
trova :
K Le persone nominate nel trattato della Tattione con-
» tro Francesi furono li sopraddetti quattro, Procida, Lmh
■ tini. Abati, e Caltagirone, Baroni di Sicilia. Oltre, nella
» oecisione vi furono molt' altri che vi mossero mano,
» come foro: Giovanni di Calvello majore, Giovanni di
M Milite, Guido Filangeri, Pontio di Caslar, Gandolfo dì
(i) (Jucslo fallo barone accenna a dhoto titolo, non all'amico di
Procida che GtOTanni aven nel Regno; e si sa infatli che mn rial 1278 e
1S79 re Pielro d'Aragona av«Ta investito Giovanni de'caslelli e d^le
Signorìe di Luxcn, Beniziano a Palma. I diplomi di questo nuovo titolo,
pubblicati dal Saint-Priest, sono citati dall'Amari, Op. cii. cap. V. v. f.
. 103, Fir. I8fi«ì.
— 13 —
• IV)Dtecorona, Guglielmo TagUavia, Orlando di Miglia,
• Bartolomeo Mariscalco straticoto di Messina. »
Io non so capire perchè P Amari duri a combattere
la cronica del Vespro , quando già , tranne la forma dram-
matica, ne accetta la sostanza. L'illustre stoijpo norf sa
negare che un certo trattato, come dice la Cronica, tra
Pietro d' Aragona , il Papa , il Paleologo e ì Baroni siciliani,
già c'era, e lo maneggiava principalmente Giovanni da
Procida; e la Cronica non fa che mettere vivamente in-
nanzi agli occhi la pratica dì questo trattato, condotto
principalmente da Giovanni di Procida, che P Amari dice
destro y accorto y e audace (Appendice, voi. 2, p. 259),
non negando fede a Tolomeo da Lucca vescovo di Tor-
tello e prima bibliotecario della Vaticana , il quale afferma
a proposito delle pratiche tra Pietro e il Paleologo per
togliere a Carlo il reame di Sicilia, di aver veduto rac-
cordo trattato da Giovanni di Procida e Benedétto Zaccaria
da Genova con altri genovesi dimoranti in terra del Paleo-
logo; di guisa che, confessa il nostro storico, e le trame
co' Ghibellini e con alcuni Baroni di Napoli o di Sicilia,
non si possono ornai rivocare in dubbio (e. V. voi. 1, p.
112). > Ma, r Amari aggiunge: e Falso è che la pratica,
si strettamente condotta , fosse appunto riuscita a produrre
lo scoppio del Vespro... Mentre Pietro s'armava, e i no-
bili bilanciavano, e, concedasi pure, stigavano gli animi
in Sicilia, ma non si dava principio alle oper^, né forse
si sarebbe mai dato , il popolo di Palermo die dentro , in-
nasprito per la nuova stretta di violenze di Giovanni di
San Remigio, e acceso dagli oltraggi alle donne, rapito
dalla tenzone che ne seguì (v. 1, p. 112 — v. 2, p. 259). »
Or, in che si oppone la Cronica a questa spiegazione che
r Amari crede potersi tirare da' fatti e dalle narrazioni dei
contemporanei? Il tumulto di S. Spinto fu a caso, non
disposto da' baroni congiurati , i quali « maturavano e pre-
— li —
paravano tatlavia , quando il popolo proruppe (p. 112 v. 1).»
E la Cronica narra forse il fatto divci'saraente ? I Baroni,
« tutti SMurdati a un vuliri » erano in l'alcrmo « per-
fari la rebellìonì; » ma è un francese che dà occasione al
tumulto di S. Spirito, insultando una fanciulla, < dì cM
» la fimmina gridau, et horaini di Palermu cursini
» (juìUa fimmina, e riprisirnsi in briga, et in quilla bi^
» intisini quisti Baruni preditti, et incalzaru la briga contr»
1 li Pranzisi cu li Palermitani, et li hominì a rimuri (fi
> petri e di armi gridandu inorami li Franzisi intram
> intra la gitati cu grandi rumuri. » I congiurali a fare
scoppiare la ribellione sì avvalsero del tumulto , intt^tru i»
quitta briga soffiandovi sopra, e incalzarli la briga coni™ ti
Franzisi, sì che gli uomini di ì'aìermo qttantu Franm(M
trovavanu tutti li aucidiam; e pei'ò « quando lì Baroni dì
> Sicilia sì appiru vidutu tuttu quistu fatlu, tutti si ndì
> andaru in loru terri, e lìciru lu sumìgliantì ìn tutta la
• Sicilia, salvu Missina, chi adimandau un certu tempu (1). i
Non è questa appunto la storia rhe danno i documenti t
Senza clic la congiura avesse soffiato negli animi . e preso
r indirizzo del tumulto, questo si sarebbe restato a
Icrmo , e non avrebbe mossa la ribellione di tutta V Isolai
gli animi erano disposti a sollevarsi sì dalle violenze àe\U
mala signoria e sì dalle trattazioni scerete con l' Aragonesflj
il tumulto di S. Spirito fu l'occasione perchè si levasH
la ribellione, già macchinata; e cacciati a punta d'arme i
Francesi, sì chiamasse a re, pe' diritti della moglie Go-
stanza di Casa sveva, Pietro d'Aragona. La briga di S.
Spirito non fu scoppio della congiura : ma la congiura ^'
avvalse dì quella rissa, e cosi fu fatta la sollevazione.
Ma , conceduta la congiuia e la parte avuta in questi'
(1) V. Croiiidio SicUiaju Uè saatli Xlil, XIV e XV, ed. cil. psg.
132-133.
— 15 —
ilal Profida, come assolverlo, si diretjlie, tlol tradimenru
rimiro re Federico e la Sicilia , (piando lascia la Corte di
Palermo, e va a ripararsi in Corte di Roma favoreggiatricc
ìlìan dell' Angioino di Napoli contro Sicilia ? Giovanni par-
lira da l'alenilo, sotto vista di accompagnare la regina
Costanza, insieme a Rogero di Loria; e questo valorosis-
simo Ammiraglio, uscito dell'Isola, ove le sue castellasi
tommovevano contro re Federico, già ritoma nemico di
Sicilia ad offenderla per parte de' reali di Napoli: il tra-
ilìmeulo è confermato da'fatti. Per noi, quanto al Procida
i latti segnili alla sua parlila da Sicilia non confermano in
anlla l'accusa dell'Amari, più cbe provala dalla storia ri-
sfwtto a llogcro di Loria; e il passo della Cronica di Ma-
rino Santido puliblicato dall' Hops, cioè, die a quella pace
the re Giacomo trattava con Casa Angioina e col Papa,
l>erc(iù avesse fine la lunga guerra del Vespro, « asseii-
liruDO la Regina Costanza e Miser Zuan de Prochita; »
UnlAchè poi I Miser Zaan de Prochìla andò ad inchinarsi
• al 1>apa con una sua Tiglia, e fu assolto, e tolto in gra-
> m della Chiesa; n non fornisce contro il Procida armi
più valevoli che contro la Costanza: né si debba dire tra-
dimento il desiderio di pace dopo circa venti anni di guerra
ODde Sicilia fu desolata, tanto da far cedere ad accordi
r«roico Federico, al quale dovrehhe toccare la stessa accusa
ilei lYocJda se guardiamo alla pace di Caltahellolta e agli
ultimi anni del suo regno, o alle speranze non soddisfalle
Je'ghibcUini della penisola. C'è poi documento, il quale,
benclrè negativo [ né positivo ce n' ha alcuno ) vale più che
lUro a sostenere intemerata la fama del ]>rocÌda , per niente
pwteci)ie alta fellonia dell' Ammìra^'lio. Il documento è
tra' diplomi raccolti nel volume di Mss. segnalo Qq G I
della Bihiioleca Comunale palermitana, ed ò un bando di
fellonia che re Federico manda a un suo ofhciale contro
Hopero di Loria, già traditore di Sicilia: nel quale docu-
— IC —
mento Qon si legge paroln che accenni a Giovanni di Cro-
cida, compagno nella partenza da Sicilia al Loria, ma non
partecipe del costui fallo (1). Né co' tanti regali che e re
Giacomo e re Carlo dispensavano al Loria (2), qaasi a pre-
mio di sua defezione da Federico, ce n'è almen uno per
Giovanni, uomo non secondo né per nome né per im-
portanza di suo slato , al battagliero Ammiraglio. Anzi nel
(I) Ecco il documenlo: » 1297 — Ex auelographo inslrumenlo
recondito in Regio Tabularlo Barellinone in area Charlarum et Bul-
larum Papatium prò facto Sicilia tempore Dni laeobi teeundi Aragonia
et SieiliiB regi» olim.
FrHlericas Torlius Dei gralia Rgx Sicilix. Ducatas Apuli» et frin-
djialus Capuat, Nolum faciuius uniTcrsìs: Quod confisi de fide el legali-
raic NoMlis Itaymundi Fulconìs Vice Cornilis Cardons dilccii devoti no-
stri, consiituimus et ordinainus eum loco ci prò parte nostra ad impe-
Imdum scD mpiandum et accusandum Rogcrium de Lauria Militem de
iiilegalitate, et prodiciune, ijiiod ipsc abnei^ata fide et dominio nosirìs,
nipioquc hoinagio ei violato «icrainenlo, quod noUs tamquam Vassallus
naturalìs Doniino ore et mauibus praistilil ci Jnravil, et quibus nobis
tenebatur adslriclus, conlra Majcslalcin nostrani prodicionis committens
crinien et couirn fìdrm suam veniens adhx^t bostibus nostris cum eis
contra nos et (,'CDlcni nostram amictliam copulaTil, nitendo Iraclandoet
procurando quoil nos bonorcm lerrenuni et terraro nostram pcrdcremus.
Danics et conccdentes ei tenore pncseniiuin potestalem accusandi, reptandi,
ci convìncundi, scu Tacicndi convinci cundem Ro^erium de prxmissis pe-
lenito de lioc fieri ducllum, seu pugnani sccunduin usum Eiarchìnonun-
t djploi
I di r-e Catlo in cui si parla di restitazione
al Procida de' beni conSscati. in virtù di patii statuiti con
re Giacomo , non e' è parola di lode o che accenni a ser-
Tìai resi dal coDvertito, o a prezzo di tradimento; e quando
.«'ÌDTesle della signoria e del titolo del Gastcllu di Procida,
DOQ il primogenito di Giovanni, ma l'altro Gglio Tommaso,
à rinùccìa al primo l'infedeltà (e già Giovanni era morto),
si accusa di nan aver voUito pigliare la difesa del Regno
allora pericolante (in tanta discrimine positi), e si dice
diiaramenle lineila nuova investitura esser fatta ■ prmi-
p*K prn/iler multa graia et accepta servìtia , qua: dicHis
tìtomasitts poslqwim ad ctiltum uostrip /idei rediit fideliler
trhiiere eararit, et qute in jìoslerum ipsum prmtare spe-
nmus (1). So il padre ei-a toi-natu fedislo a Casa Angioina,
pwrtiè re Carlo non fa mai lode di questo rinsavimento?
anzi il ricordo d'infedeltà e di prodizione, e la nuova inve-
stitura , non avrebbero avuto più luogo. È invero un
po'oirioso il rileggere contro il Procida le fierissime pa-
role die sono a p. 13 e 6!» del voi. 2.° della Guerra del
Ve^ro, fondate sopra documenti clic già furono dal llu-
liieri e dal De Renzi interpretati e corretti secondo la loro
É, La lunga nota di p. 69, nella quale l'Amari vuol
argomento al sito partito da' due documenti pub*
dal Kubieri , non risponde alla bella interpretazione
k di essi due diplomi , che sono due epistole di Papa
izio, esso il Rnbieri nel suo libro, % XI. e XII. Né
per gli anni innanzi al Vespro crediamo di motta impor-
i l'alio di Vilerlio del 28 agosto 1267, citato dall'A-
n questa ultima edizione della sua storia (v. 2, p. 410),
"• provato che pur dopo la disfatta di Benevento
dda già disponeva di suoi beni esistenti nel Regno,
ì eternava il vincitore di Manfredi. Glie cosii signìli-
Ijt) T. lUpluaia del 911 >eU. 1300, mi Cod. ms. di. |>. 183, 18i.
2
— 18 —
casse lal^nóla usata da Carlo II a proposito del Procid
(li cui dice dtim eral in gralia palris mslri, lo spi^
bene colle formole feudali del tempo il De Renzi ; e qm
fine si avesse avuta la dotazione che Giovanni faceva alt
riglia protnessa, itittocEiè bambina, a un fanciullo di Gas
Caraccioli partigiana dell'Angioino, basta a darlo ad inte
dere che già romoreggiava allora la discesa di Corradim
e Giovanni era disposto a trovarsi tra' primi ad accoglierli
nel Regno, e a combattere pei legittimo erede di Gas
Sveva contro re Carlo.
E qui fermo il discorso sul Procida e su' fatti e I
testimonianze della Cronica, per dire, infine, che quesl
testo Vaticano è lo slesso che la Leggenda Modenese, trann
la mano poco perita e la parlata propria dell'amane
non so qiial parte del Napolitano o della Comarca , quam
la dizione della Leggenda è in lingua nobile e di man
toscana. Uno de' due testi suddetti, qualunque esso siai
stato il primo , fu esemplato in origine sul testo siciliane
che è l'originale; e basterebbe a provarlo, oltre gli
gomenti da noi altrove riferiti e rincalzati dall'Amari,
proemio al racconto come si legge sì nella Leggenda e i
in questo testo Vaticano, niente convenevole a tutta I
narrazione , ma posto a sfogo di odio ovvero d' ira di part
contro il Procida dal trascrittore che lo esemplava sull
Cronica siciliana. La frase di questo testo Vaticano è seta
pre italiana e propria del volgare illustre , quantunque nell
forma delle parole e nella grafia usata si scotte la pai
lata plebea del menante; e da' riscontri infatti che all' uop
si fanno de' tre lesti, o por dar luce alla locuzione, o pt
difetto ovvero eccellenza che sia in uno anziché in alti
di essi testi, scorgi le parole stesse e la frase medesim
che hai nella Leggenda, meno le storpiature e l'abbon
danza delle vocali e lo scambio e ìl r.iddoppiamento
consonanti, onde .tpecìalmente si distingue questo tesi
— 19 —
Vaticano dal modenese; i quali due si riferiscono è vero
entrambi al siciliano che n' è la fonte e V esemplare primo,
ma tra loro trovi ia differenza che si rileva tra le prime
prove di stampa e la nitida tiratura di uno stesso foglio.
Ho poi divisato pubblicare il testo cosi come si legge
con tutte le scorrezioni e la barbara grafìa del codice , per
la ragioDe die, pubblicandosi ora la prima volta, possa il
lettore quasi avere sott' occhio lo stesso codice , e studiarsi
eoa meglio la orìgine e i riscontri a proposito col testo
siciliano e con la Leggenda modenese. Se non che , questi
riscontri die il leggitore potrà fare a suo talento , io V ho
&tti solamente pei passi oscuri e difficili a intendere, quasi
dando nel luogo riportato sia della Leggenda, sia della
Cronica siciliana, la spiegazione al luogo di questo testo
poco 0 niente intelligibile. Né ho creduto apporvi note fi-
lologiche di sorta; essendo questa pubblicazione non per
giovani e novizii in questi studii, ma pe'maestri che ne
saprebbero all'uopo assai più che non ne sappia il suo
editore.
Palermo, 15 febbraio del 1870.
Vincenzo Di Giovanni.
LIBER YANI DB PROCITA ET PALIOLOCO (D
Se voleti ascoltare et intendere o eu vo contare e dimo-
strare apertamente lo gran peccato et uno pericoloso (allo che
feze et ordino misser Giani de procita de Salerno in cootra lo
re Karlo di si grande tradixione che feie centra se. Onde si
se dole et piange la gasa de roma. Ella cassa di franza e lor
amici. E però prego lo meo factore magistro fino che a mi
done gracia e virtù. E dia a la mia lingua bona memoria de
recordarese e descrivere il tenore del fato el modo. £1 dito
perfido homo misser Giani feze rebellare lisola de Cicilia da
la segnoria del grande Re Karlo Re de Cicilia e de gerusalem
e de probenza conte edangio (3) che era MCCLXXVIUI misser
(I) Questo codice Valicano e la Leggenda modenese , meno il lilolo
hanno lo slesso proemio, che non si legge nella Cronica siciliana, origi-
nale de' due lesti Vaticano e Modenese, ed è una giunta che d disac-
cordo con tutto il contesto'della narrazione, la I.egpnda modenese ha
per tìtolo: • Qui eomineia tu leggenda di Mmter Gianni di Pro-
cida > e il proemio è questo : < Volendo dimostrare apertamente a cia-
scheduno il gran peccato e 'I periglioso (allo che fece e contrasse messer
lo Ut eaiio nvcvn preso uaa guerra colo Re de greci» chi
m giaraslo palioloco e fczc armare multe de nave e de ga-
lee per pasaie io grecia con tulo il so ìsforzo. Et erano Jnvì-
uu tuia la bona zenle di franza e di provenzu e dilalia per
leocere e segnorezare. Allora il dito pessimo crudele misser
Gàm de prociia isl^ndo en lisola dì Cicilia penso come elio
(Messe desirurre e menare il pasage chavea lo Re cario or-
dinasoucra lo palioloco anlerile (1). E come potesse cadere e
itestnirre e menare a morte lo Ro cario, E chose potesse re-
Mlare il r^no dì Cicilia tulo Como piaze al inimico chel
menala el teneva (?) venegli pensato dandare in grecia per
paHare col dito palioloco a pensare corno il suo penserò ve-
nisse ìd alTetto: Allora si se parli misser Giani de procila per
VI ffns^roa et inlro in mare et andò verso quello palioloco e
NUDse iu costaiuiiiopolo e mando per duj cavaler li (jualli d'ano
rubellj de lo Re cario, el acoutosse a loro multe zellatamenle
^^^t ifi'r JII' (Iella Colleiiooc di opere inolile f rare ecc. per cur:i
^Hk B. Cominìssionc pe'TMti di Uaguj, Bologna, Romagnoli, 1865.
^^^Btacii: • A li milli dui cenlu setlantanovi anni ili la Incarnalinni di
^^^fell Mpiuri Jeu Cristi!, Iu Re CaHu stÌo prìsa una in^iiidi guerra
m In Impi^ratarì Piagatola di Ituntania; e per quilla guerra Iu dlllD Re
CvId Iki lari iddIL nari grossi e galeri per passar! in CosUnlinopoli
MB Milo Iu so sform, e supra ià havia invitala mulM bona genti ili
I r di Provenza e d'Italia, chi li [acissiru cumpagnia a quìllu pas-
■ per pnliri vinciri k Plagalogu e tutlu In so imperiu di Raniania. >
^(t> lùrido potrcbtte leggersi : < ordinalo ter a lo Palioloco a niente >
ordinalo n'era lo Palioloco a niente >. I.a Leggenda lin:
( peosù MCGODte (tolesse slmgg»'e e menare il detto passaggio al ne-
nie • - La {'.ronica siciliana: • si pinsau io chi modu putissi slurbari
l'aulut, h i)iiaU avia làUa Iu re Carlu conira Iu Plagalogu >.
{ì) Qar$lo: t Como piau al inimico chel menava el teneva > si
trfgr pure nella Leggenda modenese, e manca nel testo siciliano, poi-
àà è giunta, conforme al proemio, dell'amanuense guelfo, sia siato
, sia, come più probabile, di questo cod. Vaticano, sul
i essere trascritta la Leggenda, per ragione delle parole con
, le quali uon sono né nel lesto siciliano, nà in questo Vaii-
1 [àìi in li clic non i due lesti puddelli.
— sa-
per quello che venia Ìd quelle pane. E quele li domindo per
quc era venuto. E quello rispose. Sicom homo descazato di sua
icpac vome per lomundo percazanJo mia viia (1) pero vi pi^o
che mi acontati col palìoloco &e me volesse a famegla volen-
tcra demorareve coluj. E pregove che mi acoatate e metitom
avanle Lui di grande essere (3). E sono homo che so degne
magistere. Li cavaleri udiendo questo furou multi allure e
disseoo che volunlera la farcbeno quella ambaysala. Et incoD-
tanenti andorne al palìoloco e disseuo. Misser cosi ti dizamo
che nuy te portarne bone novelle che de lo regno dì Cicilia
ce venuto lo melglor magistro di fìsica che fusse al mundo
lo quallo vene a slare al vostro servigio. E dinamo per zerto
clie questo el pyu savio che sia e quelo che melgio sa li lati
de lo Ile cario e deli soy barone. — Quando lo palìoloco io*
tesse questo fue multe alegro e comandoe che fusse maialo a
luy in el palagio chello volia vedere. Allora se movo li diti
eivaleri e menaron il dite misser Giani de procita davanze al
palioloco. Onaodo fu davante luy fecelli reverencia Como a
segnore. £ quello lo ricevete alegramente. E fezello so magì-
(I) I.a Legenda modenese manca di questo: « Tome per lo mDDdo
percatando mia «ila >, e porta: t rispose e disse com' era discaccialo di
sua lem >; nel qnal luogo t'egr. sìg. Cappelli annoia: f il codice ha
ilj mia vita * ; e così pare cbc il menarne della Leggenda stilava le
parole tua (era e vome per lo mundo ptreazatulù , legando Sic-
coir' /ionio ttusca^ato di mia vila invece di irascrirere l' il
— aa -
I BMcrale e con&ilglere. £ dice die stando i
[
^^pl cune cra^U Culo multe tioitore dn luta genie. Maado a
HpHglesi et a dciljani Quasi laverano Tallo lor capo (I). Dice
^'cfte stando misser Giani solo col palioloco ilisselgle tmpera-
lore tiofdina per ileo uno seg^reto loco lo «tualo sia segreto
che homo spiar noi possa lo nostro conseglo. Allora disse 1
l>3ljoloct> ctie e io Giani clic ine vo parlar in segreto loco. K
ijueilo lor li ilisiio per lo maior besogiio die sìa al mundo li
vulne (zirlare falle zo sia tosto per ileo. Allora dice 0 anda-
ri>mo sopru la porta ili (JostantinoiKiUo la ve lo segreto loco.
1.1 sue »L-i il lesorio del palioloco. E i|uelIo disse or siame
00) bene in segreto loco, or di misser Giani zo die piaza in
luto a voi. Allora disse misser Giani. Imperatore cheunctia
tibia per savio e prò no ctieu to per lo conlrario per stuldo
e Iter vilo xicomo la l)estta die nosi sente se none locala col
nillello niortallc die tri mesi e più so stalo in tua corte e
DO lo oditi) Ite parlare ne pensare del (o perìculo: ni a de-
feosa di qiidlo pericolo che a dosso li veni. Or non pensa tu
multo e pazo elle lo Re cario lì ven a dosso per lorle lo Rc-
«nuiitc et occidere lo to legnazo. E vene coluy quello ki de
raion e sua costantinopolli zoe l' imperaior baliloyiio. E venie
a dosso con luti li cristiani. E con C galee ben armale. E
con XX «avi grosse. E con X m cavaleri ben adobati. E licn
eoo XL conte co loro masnadieri per conqideie le e tuta tua
gente. E questo abie per cerio: —
(t) Qù più correiumemc b Leggenda: « E dice die stando per
dai- inrsi ia sua corte %ìi i>ra Tuuo molto grande oiiore da tutta gelile,
UB Ja Pugliesi e ib Ciciibni pib , 1 quali a' avevano tatto loro capo di
lai i.U Haivlo a yolgleti ti a cieUìani quasi laveoano fallo lor oapo,
ilorn'Uu leEgei>Ì t Ma Ju polgli-si et da ciciliani quali Invevano tnllo
tur «twi 1. Si noti dir questo dice taolo della Leggenda cbe ili questo
leìlo, rìpFlDto più volte, è provu the si trascrìveva da altro leslo, ri.
tioDlu come r originale della uori'aiione; ne questo dìee iiiRilli si trova
nd ti-alu Ncillanu ; i[uanluui[ue il ilici, parlando, sia in buccii de' sici-
boi un lai quale riempitivo.
— 24 —
Lo palioloco .iiidicnilo questo comeDio Torte a piangete:
e disse. Messer Giani que sole keu faza, y so corno homo
disperato. Eu me son voluto aconzare colo Re cario multe
volle. E non posse trovar coluj ne veruno. Eu me sone tor-
nato alla giessa ài roma (1). Et al papa et a le cardinali noa
me valle niente. Et allo Re di Pranza et a quello dìngalterra
et a qudlo dispagna et a quello di granata veruno di questi
Re non pon trovare conzo coluy (2). Anzo no paura da morie
di lui clic non ci volo ne piar parte contra luy per la sna
possanza. Siche eo me son indurato (3). E di zo sera zo ke
poza da che no trovo aiuto da neuno Christiane. Et allora
mìsser Giani disse messeri paholoco mctriste niente ki le-
vasse di dosso questo furor (4). E quello disse zoo. Ki potesse
fare. Or chi sarebe tanto ardito. E quello disse eo sero quello
che menare a destruclione lo Re cario se tu me voray dare
aiuto it Eli sono aveduto di zo che bessogna (5) però li piaza
di sbrì}{arle. saze che mi e li altri soj rebelli ben vendica-
rome li onte nostri se a deo piaze. Allora disse el palioloco
II) La Leggenda lia; «io mi sono ammesso alla ecclesia dì Roma»
e il (lappclti annota: ammesso per ilirelto o presentato con ItUnre. Il
testo siciliano ha invece: « cu mi su niisu in pudri di S. Clesia dì
Ruma > , e mi pare cbe questa stesso voglia dire 1' ainnusso della Leg-
genda, quasi rriiMio \i\ mani. Qui tornalo lia senso dì rivolto , dirello,
se pur la lezione sia bene interpelraia.
(3) ( Non pon trovare codso co luy ■ cioè, non ponno trovare
accorilo.
(3) Cosi pure la Leggenda: ■ si ch'io niinde sono induralo >: ma
clic vale questo induralo? h me pare dovrebbe lecersi indusitio (in-
dugiato), e cosi avremmo il sejiso, cioè, non avendo potuto aver ajuli,
sono stalo ad aspettare senta saper che tare.
(4) La Leggenda: « Mess. Pallialoco; nielleresti tu neente ch'I' li
levassi di dosso qui-slo furore e questa morie? > Meglio il testo >ici-
liano: ■ lior cui li tirassi di svpre tutta quislu fururì el qnisla morii
et atfonnu, iDirilirissilu lu dì alcuni com? t
(5) Questo e il Eu sono avcduio iti xo che bessogna i la Legpmki
legge: t II mìo senno ha veduto ciò die bisottna > Ma il lesto ^iii-
liano: < et eu vidirù zAchi hìsognu li sarrà >.
— 28 ~
io qual modo. E quello disse el modo no te diroe. Ma se (u
mimproinite di dare C m. onze doro. £o faro venire uno chi
torà la tera di Cicilia a lo Re cario. E darà y li tanta briga
che di qua may non passera. Allora il palioloco fo molto ale-
grò e disse toto lo meo tesauro pigia se te piaze e fa ke sia
tosto. Misser Giani disse. Or me zurate credenza. E sagelare-
teme lelre de questo che vo me preferite. Et eo me partirò
in questo modo. E cercaroe tuto lo fatto. Et incontanente fo
fato il sacramento e sagelate le letre. E partirou si eu questa sera
la mia pania (1) perche no se spiase dil fato niente vo me fa-
rete dare bando et apellaretime traditore davanze daly amici
e dal popolo E direte cheu vabia offesso. E pare cheu mi
foga per questa caxione, xiche nexu sapia nostra credenza
niente. E zo che pensaromo vegna fatto. E son partiti, da poi
parloDO io grande godio luno co laltro (3): Or se mete mis-
ser Giani intel dito anno, e viene in Cicilia vestito a guisa dun
frate minore. E parlo con messer a lamo da lelitino (3) ba-
rooo ciciliano. E messer palmere abate. E con i altri barone
dil pagesse e dise a loro. 0 misseri venduti come cani e
sdavi malventurati chavite li cori vostri come petra. Or nove
movente mai voleti stare pur servi potendo istare segnore
vendicando lonte vostre. Allora pianseron tuti quanti e dis-
seoo. Misser Giani comò potromo altro fare. Non sai tu che
(1) Questo e E partirou si cu questa sera la mia partia « è assai
cooruso. n testo siciliano legge : t Intandu lu Imperatori fici sacramento
a Misser Gìoannì, e partirò dilla di quilla cammera : di chi Messer Gio-
anni dissi a lu Imperaturi, signuri, eu mi voglia partiri di vui in qui-
sln modo > Cosi il passo si rende intelligibile leggendo: e E partironsi,
e Misser Gianni disse questa sera la mia partia i. La Leggenda è
pare un pò confusa; e però T editore dovette leggere; e Fu fatto il sa-
cramenio, e disse: Partosi, e questa sia la mia partita, i Senza il disse
aggiunto, sono le parole stesse di questo testo.
Ci) La Leggenda : e e sono parliti da più parlare in grande gaudio
r uno dell' alu*o. i II testo siciliano : e Intandu si partiu V unu di Y au-
tra cu grandi alligrizza e confortu.
(3) l^jrgi: Alaimo da Lenlino.
no siimmo a tal segnor che zamay non serannie franclii per*
(|ucllo kt> xi ponderoso (1). E quello disse Axevelmenlc vene
posso Irare purché no vociati fare quello che ordinare di fare
per li noslri amici. E quel! diseno iriSne a morie vignaremo
fa de nuy zo che vogie (2). Che ne convera rei>elare luta la
lera di Cicilia ze pò kc ordinalo per li segnore di qnel si-
gnore sarei! multi contenti et alegre di sua segnorìa. AJlonk,
disse misser guallcr de calatugirone eomo pò essere zo che
voi dite habiamo lo più potente segnore a dosso che sia infra
chrisliani e dì più podere. Onde questo piensere mi par vano : —
Quando misser Giani di procila odi questo disse credile
voy cheu me fose impresse a fare uno si grande fato si
eo non avesse in prima pensato 20 ke era in prima da
fare, e eomo devesse andare il fato. Voi non avite a fare
ma una cosa (3ì che voi me legnati credenza almen uno
anno. E vedente per oura fare lo falò vostro (4). Allora
furon tuli acofdati e zurati credenza. E sagelaro le tetre a
messer Giani in questo modo : — Al grande e gentile homo.
Messer Pero di ragona Re. siciliano palmere abate e gualteri
di calatagiroue. e li altri barone de lisola di Cicilia salute e
recomendatione di lor persone sicomo homini venduti e sfr*
gnorezali cum bestie no si recomandemo et avo et ala vostra,
dona di ragona nostra a cuy devemo portar lianza (5). Mao-
(]) Cioè: per quello che è si poderoso, si potente.
(3) La Leggenda; In fino a morte ti segoileremo , fa por noi ciò
che foli. > Il lesto siciliano: t nni simu apparìcchiali tli seguirili Sua
alla morti ».
(3) La Leggenda: f Voi non avete a lare altro cli'uM cosa >: a
però questo t ina una cosa * dovrebtie leggersi: ca una cosa. 0 cha
{i) l.a Leggenda : f e poi vedereie fare per opera i &tlj noslri. 1
Il testo siciliano: t vidiriti per opere li uoslri Talli »; e meglio che lo
fato vottrv di questo lesto.
(5) La Leggenda piti carré llam enle : < Siccome uomini Tenduti e
subjugali come bestie vi ci raccomandiamo a voi ed alla vostra donna ,
la ({uale è di ra (rione n
I donna
i doven
— 27 —
e (lebiaii (rare di servii
nnMri inimici sicomo trasse nioise il popolo Ji mauo di fum-
UDe che no poasamn lenire per sesnore il vosiri fioli. E ven-
dicare di V perfliii lupi die ce devorano. Quello che no se
poli scrivere credcle ale parole dì misser Giani noslro se-
creto: — Quando ebbene sagelale lor letre si s^ parti et dito
ìtessrr Giani da lor e ilise che devessero lenir credenza zo
chera ordinalo di fare E moslro a lor le letre kel palioloco
h avea dnlo e dito dì Tare. E corno avea proferta multa mo-
neta e rurale credenza e compagnia colioro e con luti li i-c-
belli di: Io Re cario e ile la sua gente e cosi se partirono:
In quello tempo segnorezava e selhia in la apostolica seda
mister lo papa Nicola romano dinprima so nome era misser
Gunì gaylane di la cassa dolgorsioi di roma (Ij El uno die
isiaudo in una terra cha nome soriano. Venne misser Giani
da procita e disse padre santo eo voreo parlare con vo in uno
secreto loco. El pupa disse ke volenter e che ben lo cono-
sceva, e volenlera lo servirebe: AJlora disse misser Giani, pa-
dre santo che tuto lo mundo manlene in pax Que de ef^ore
rie quello misseri tapini diseazalì de lo regno de cecilia e de
pagla che non trovano icra ne togo ni albergo: che sono
pczo ke lebrossi. piazave de remelile in cassa loro che son
ben chrìsliani come li altri. Allora rispose il papa e disse.
Come li posse eo adiulare contro lo Re cario nostro fjlyolo
lo qualli maoliene noi e la santa gicssa in bono staio. Allora
disse misser Giani. Za soe bene che no obedissc li vostri co-
mandi (2) e negli curono niente. El papa disse si fa e. E
quello disse Como quando volisti parentar co luy e volisii
lesta siciliano: < »i comu lioiuiiii vinduii e sugiugali comu lipsiii, rì-
{«ouiidaniur.: a la vosira signuria, H a la sìgnura roslra mu^llerì la
quali é notlra «Ioana, a cui nui divìmu puriarì lianta >.
0} La Li^g^nila: < In queWa [empo sì gno roggia va e sedea iiciro-
paoolìcala Sedia ili Roma uiess. Nicola lerzo papa di Itonia, di prima
tao suine ine&s. Giaoni Gaetano della casa delli Orsini di Itoiiiu i,
li) La Leggnoda: « Giiì su io clic non obbidio in niuna cosa i
mtlri rniiiaDituiieiili cli'ìo w >.
— as-
tiare al nppoli soy vosir:i nppola. non vossc veditore le vostre
lelre. Ben ven devcrebe fecondare: —
El aliora il papa 3ud*ndo questo maraviglosse molte corno
elio lo sapea e dicioe conio say tu zo. e cel disse perke ve
pullica fama per tuta zicilia che no ve vole obedire mente. E
non vole fare parentado cum voy ne con vostre legnazi. Al-
lora il papa {o multo adirato e disse volimlera nel farebe pen-
tire che ben e vero zo che tu die. E misser Uiaai dise ve-
nuto homo el al mundo che! possa Tare ciim voi e con eo (1).
E quello disse corno puote essere. E misser Giani dise se vo
voieti dare parola eo faro tore la Cicilia el regno. El papa
disse Como cbelle de la giejta (2), E quello dise eo la faray
lenire e attendere ben linleressu a omo che volra essere vo-
stro amico e Tedelle (3). £ che vole parentado cum vostro le-
gnazo remetere noj (4) elli nostri amici in cassa. Allora el papi
disse. Chi sarebe quello segiiore die zo potesse fare e che
avesse tanto ardimento e che fornire potesse un tallo fato. È
misser Uianì disse se volesti tenere zelato soper la vostra anima
e de pena e di periculo eo lo dirò bene. E monslrarovi bene
corno essere potè. Allora disse il papa la mia fede dilo che ben
e zelalo. £ quello disse lo Re di ragona farà zo se voy voteli
contendere (5) colla forza del palìoloco e di ziciliani che sono
(t) Questo t e con eo > manca si nella |f>^geiula modeiiese e à
nel leslo siciltano, il quale ha: non è aiiionu homu a lu mundu chi In
pozu fui accDssl comu vai >. La Leggenda: < Niuono uonto hae nel
mondo chc'l possa fare me' di voi>.
(9) La Leggenda: • Come, eh' A della ecclesia? >
(3) Cosi la Leggenda : lo la ri foni tenere e rendere bene lo censo
ad uomo che voglia d' essere vosU-o Fedele >. Il lesto sicUiauo lia: ea
lu fino tari a Sipurì, chi roli essiri ndili di la Clcsia; lu quali vi rt»-
dirà beai lu tosIto censo *.
(i) La Leggenda pur dice : t e rimellere voi in vostro luogo > : mi
dovrebbe qui il lesto dire noi non i«i, e la Leggenda • rìmeltere noi
in noWro luogo ». Il testo siciliano correliamenle Im : € rimeiiirà a IDlti
noi in nostra locu t.
(5) Questo conlendere sarebbe eoinUndere, cioè, klendere ins
nella cosa. Cot^ la Leggenda: < Il re di Ragooa fìirìi àf>, se voi vi
— i!) —
i tmema di farlo. Kl co son procazHlore di zo ftirc (1).
I disse il papa sia Tulo zo che volge si me nioslrato le
k .Utora Jìsse inisser Giani: zo no» potè assere Ma sera (3)
*rt« voAre letro Et eo ajiorlaro ciim quelle die o al dito se-
niore. E) papa disse farolo quanto In vole. Feze Tare letrc
e sdgdare. on de bolla papalle. ma d' uno sugello caveva de-
Kuoe quando era cardinale. E misser Giani se parli in quc-
tui modo dal lupa in piena concordia et amore. E dise la leti^
io questo modo kio vi dico qui apresso. Al grande karissimo
Alialo so. pero di ragona. papa ntcola nostra bcnedictioiie. Azo-
ttw (3) li nostri lìdeli de Cicilia non sian segnorezati ne zegliy
boat (i) per lo Re cario ne per sua zente. si pregomoti die
v^ a scgnoreza) per noi tolo il regno e pigialo e tello per
Ni Crede a niesser Giani de procitu zo che dici. El e zellata
li che maj no sen savra nulla pero li piaza zo ricevere e di
mr mieoiier<? colla torsi liei l'allialoco e de' Ciciliani i. Ha coireltanieDlc
d iHib iKiliauo legijo: • Sanlu patri, illu »rà lu Ite d'Aragona; e
i|gitt« oiM ùrri cou h tana dì lu Plagalogu, si rai lu tuIìU consen-
un, e CD» bt furia di li sidb'aoi >.
(i) Ij lyfgendii: € ed io sono [irocaucialorc di ch'i Ikru i. Meglio
il IMO ticdUno: i et ea ndi su' procurati! ri di vi *. V. noi voi. cit.
tìk Cronache *ieiliane ecc. a p. ibi la nota (28) su questo passo.
(S) (}ueMa lera leggi se mi.
(3) Questo Aivdie, e i^lla Leggenda Acciocché, vale concmsia-
(t) Quello ne leghy boiìc É da leggere ne redi bone. Così la l.ng-
inida. e tùà il testo siciliano porla unta la lellera a re Pietro: < .\
la CnfUaaiuima Hgliu nostra Pelru Ite d'Aragona Papa Nicola lerzu.
U nottn beaeditioDÌ ti luandaiiiu coiti «aera cosa , chi li nostri ridili di
Sài», «icrniiriati non rìgiuti txmi per lu Ite l^rlu, si vi preganiu e cu-
■nriMin chi niì dlgiati andari e «gnnriarì per nui la Isula di Sicilia e
i mòSn, dnnomluTi talla In rcgnu di pigliar! e mantinìrì per nui, si
tmm igKa c«iuiui>talarì di la Saoln Matrì desia Itamana ; e di io chi ndì
Mffiiti cridirì a nisMr Gioanni di Prociin noatru secretu, tuiiu quillu
h qwii li dirrA a bocca; lenendu cilaiu lu bitlu, chi jaminai non siiidi
aecii arali : e [wrd vi plaia priodirì quisia iniprisa e di non liiuìii dì
I roH chi coatra a ti volisii oUendiri > — .
— ;ìo —
pigMre e Don leDiere Oe uieute: — (^mo questo processo Toy
falò e segeluto partisse messer Giani e prese ad andare in ca-
telogna. Allora quando fo zunie a lo Be di ragona. feceli lio-
nore asìay. E demorava corno homo umano col He (1). et era
con )uy la reginn. Quando fu st,iiu un tempo, menolo una sera
in maiolica per mare. El dito messer Giani disse a lo Re. Eo
voreve parlare con voi de celato duna grande credenza, la quale
no si convene sapere o per die o per note. Elio Re disse di
seguramenle zo ke vogle no li dico niente se no me ziiiri cre-
denza et allora ziird credenza: — Allora disse messer Giani.
Messer Pero de ragona or sapie die zo che te dico non sen
seta nulla, o in dito o in fato, peroche di lanto periculo ke
sarixe mortu tu e luti li te. Allora lo Ite di ragona ebbe grani
dotanza. disse messer Giani, eo crezo clieu so venuto tanto
avanti cheu posse fare de te segnoie del muudo se mi vote
teniore credenza. Allora disse lo Re sì faro se a dco piaze. Al-
Ioni disse messer Giani niisser lo Re di ragona voresli tu ven-
dicare de le ofTension ke te sun fnle per lontayo, o per no-
vello (2), cliie più unte e più vìiupcrii che may sia grande
signore. Xicome foe quela che lo Re mayfredo ti laxo a tua
molgcre il regno luto. E tu vile e coardo non volisti inay ve-
nire per eserone vendicale del unta de! avlo lou ke vilana-
mente lozis coli francescbi (3). Ora la poj vendicai'e. E raque-
stare luto il dalmayo (4) se se prò e valente, misser Giani.
(1) Questo ramo Iwtno ìàmano Don s'inlctidc, se mai dod dovesse
leggera conio uomo strano, cÌoÉ Jiraiitero, mn noto. \a Leggenda
dice: ( dimorava couc uomo disconosciuto > Il leslo siciliano: f addi-
murau certu leuipu cu lu De, ma non comu hoinu canuxalu *.
(Sj Questo }>fr lontayo a per novello nella Leggcoda si legge pure
per hìilano a fxir nooetlo; e Ìl Cappelli annota: t modo elLlt. che vaio
per tempo lontano e recente t. Il lesto siciliano ha: « vurrissÌTU voi
divingiarìTi di li offlsi, li quali vi sa' siali Tatti per la icmpu passatu,
chi harìii riciputu piai virgogni chi signuri cliì sia in Cristiani? >
(3) lia Leggenda ha: che tillanamenie l'uccisero i Franceschi». Il
testo .siciliano dice: < che vigliacca meni e In aucish-u li Franiisi a Hardla
in Tolusa >.
(i) DahnaijQ nella Leggenda è (ianna{rfrio; nel lesto siciliano duiii-
iiiaiu, a (laiìinaiu. e njeglio (okiì liumìiiaiii. dot iloininio, stato,
— ai —
0 the ai trovalo. Non s;ii lii kc la gicssa dì roma e la cassa
ili Franzo segnoregia luto il mundo. specjalmerite lo re cario.
Como (rfirebe essere ke uno segaov «li si picolo podere come
it meo pulesse conlrstare a zo che tu dici cliio possa fare tanto
coflio Ui lii. Ma se la me lo inostri per alcun modo, volcnlent
taro IO rlie se pora il meo podere, .\llora disse messer Giani.
£o ti voglo (lire il modo. Seo li do a padagnare la (era
sua» fiulicu, no la poi tu pilglarc. Seo ti do C m. unze doro no
1» poi III pilglare e Tornire le spese bone, disse lo Re. Como
i li bristi tu dare eo non credercve niente se no me Testi
Allora trasse misscr Giani fora le lelre del papa e del pa-
so, e deli baroni di Cicilia e porsegcie in mano. £ quello
! iieu IO kc li dizavaiio. Fuc multe alegro- E disse lien
t Ve tu sii boiio amico tanti lora iiy cercata et eo mi se-
< rjia la parie di dco. e rezcveo (ì). da poy ke messer lo
I vele ome ben securo pero ke elio e mio lo pò ben Ciré.
S quello ke in« dice, e cossi prometto e ztiro credenza a ijuanlo
Mi. Fa die mi vegna fato et eo piglaro zo che li piazera , e
lari] il fato. Resposse mìsser Giani e disse. Ora taparegla
umaile a l;i mia tornala. Eo torn.iro al papa et al palto-
luco el a cicilìani e si recliaro multa moneta per fornire il fato,
e mofitrdTO lo ricevimento vostro a tute quelli sacen che (2)
zo saaiu Per nexitna caxoiie no lo manifestare a allruy ne per
morte ne per vita chel [io se senta may ke di tropo pericolo
rrfao. Il liannag'jìo, danno, niaiicliereU)e di senso uiiilo al verbo ra-
qattiare, bMictiè putrelibe valere nella maniera siciliana e sallUfari Cullii
lu lou ilummaru lo $leìto cbe ribrli del danno soITcrlo. l'ref'irirci inm-
pr* b JF-iiotiR duminaiu. come |ii{i concorde al lonteslo.
(t| (^i la l.eggMiila: < E io mi segno da parie ili Dio i> ricevo,
da poi che maa. in \ia\ta vuole. Io mi renilo bon sicuro, perchè st |)UOIc
hre qncllo cbc mi dici, r cosi impromeilo e giuro credenia >. C'è pure
aicoriu t imbaraxio di parole. Il testo siciliano più chiaramenle : < el eu
«I iirafìilo di la parti di tlru, poiclii lo santu Pa|ia voli; ei ancora mi
rendu lieu aicuru da isìu, chi io chi diu uii proinelti {ioti ben Tari >.
{i> Ijuì la {tarola tacen nella Leggenda è siijruiri : secondo il lesto
«Kilunii itcreli. cioè a jiojfe tW acereto, cungiurali, a sì accosto a
i|uri>Ia inren , iiuaM loco^iifi.
— 32 -
sarcbe il fato. Mu u la parlila de mnyolica tornan<Jo in eal^
logna si lollo comiaio e presse ad audare e dise di questo
Tato mi ni posso dire nulla de <iue a la mia tornala comò o
ordinato coli cicilìanì e col papn e col palioloco. E partisse de
bazalona (1) e questo ne vene intra e misser Giani per mare
in Une a pisa. E vene per celali parte e vie fino a Viterbo.
Et ilio trovo misser lo papa. E quando lo papa Io vide tM
multe alegro per sapere come e lavesse falò per iute guise. E
messer Giani disse co fato tuto lo nostro intendimento com-
pìitamente et alegrament?. Et a rezivoto (2) misser lo Re dj
ragona la segnoria per le pregere vostre e multo vi recomanda
e mandavi leira Riumane voj ystudiaie et onlinate come sia celalo
e mandave (3) regraciando de questo fato. El papa disse a
scr Giani. Va du la mia p;irie ai palioloco ci in Cicilia a lì piue
copertamente e dìcigli die li aiutaro (4) e cliio procazero de'
trarli di siporia de lo re Carlo, e cola mia parola che averano:
buono signoi'e s*a deo piaze: — Allora se movo
Giani de procita. Et andoe in Cicilia per coniare questo fato
ay baroni di zicilia. Vene el dilo messer Giani per mare a
giunse i Napoli (5) e foc con messer Palmieri abbate e mandoe
per gialtrì baroni di Cicilia. Alora venero e conto loro tuto lo
fato. £ come il pajia de roma avea dato e concieduto
ser Pero Re daragona e come aveva recluta la siporìa e la
(1) Basalona, ciaf, Barcellona: ne vene in tra, cioè, ne viene
per terra.
(2) Reiivoto ?ale ricevuto.
(3) La leggenda ha: • e manda questa lettera siccome voi stadiaM
e ordinine couic sia celalo questo fallo e avacciato >.
{i) Nella Leggenda mancano queste parole: < Va da la mia parte
al palioloco et io Cicilia, a lì piue copertamcnle >; ma comincia ( E di
loro di' io alla copeiia li alerò ■ cod quel che segue. Il testo siciliano
porta: « impirò vatliudi in Sicilia, e dllU di mia par^ e di lu Piagalo-
gD, chi si spaccìana di xiri di li maou di la De fxirlu e di h sua si-
gnurin: sopra la mia parola, eu li ajuiird cdatsmenti, e dicitili chi to-
sta aTirnnnu bon siguurì, si a Oeu placirè >.
(5) Qui scorrotiamenle Napoli per Trapati, Trapani
' iaaomici avcvn giurato credentemente. linde vJ
! che legnate ciel-ito el fato de que a mia tor-
t mio ordine com pcnsaro (t) E jo me ne vo al pnlio-
r acoatarc il fato tuto come jstae El a rccliare la mo-
Kta per cominziare la armala bene grande e grossa. E sa deo
jnìie taremo lulo bene. E voi prego per dìo chel tepati eie-
Ino. uio ke may oo si sapia ke veouto e il lempo chenusie-
itie de scrviludine di vostri inimici e vendicarete le cole vo-
stre r fircto ttiij beni (2). E così se parilo e aporio in con-
ttaotioopoUo 3 guisa d* un Tralre minore (3). Inconlancule scn
indoe (bito al palìoloco e Tue co liij nel secreto loco. E disse.
Ora ulegra che o Icnicudimcnto vostro Tato io vi reco la ve-
ribde. sì come inesser lo papa di roma a conctedulo la morte
t U (IrsinictiiHie di lo Re Carlo (4) e dì cicilìanì. Et a cìo
(Ilio per capitano misser Pero di ragona. Et àc ricievoto la
imorii di Cicilia. E si e capitano della guera. Et à giurato
iKlib compagnia et a vita et a morte contro li loy inimici.
'> vbIc bene so quello chio linpromisì li viene bene litio lo
Illa ^ cosi abiamo ordinalo che en M.CCLXXXIl Cicilia sera
(fidbla da lo Re Carlo- E serano morti tuli ì soi rrancesctii
e loliie le galee e Iii navi e luto lo fornimento colo qualo de-
(l> Ndla Leggeaìa mancano qaesic ultime parolo, k quali nel le-
WfbìiaoD toao: « chi con i|uil]i ordinE ordìnatanienii chi cu haiu a
ìri, tln CD Togliu lodarì pn Tina a In Plagalogu ■.
(!) Il tfkto siciliano < e ndi Tcngircmo beni dì luiti nosli'ì vergogni
f diplacirì >.
|3) lj Lfggniila: < E cosi si parlio e inlrfl per mare e apporrà
■ rdMotiooiiotì a gnisa dì traio minoro ■. Il iGSio siciliano pib com-
< E poi pri«i coinmialu dì misscr Paliiieri Abitali, e per
anaun di Trapani con ona galìa dì Veneiiani, e misuniin in terra
■anit ad un loco lu quali haria noinu Nigruponti; a poi si nd-
■ ■ CoiUDtinapoIi «istuln a modu di tralì minuri per andari cela.
■Il, B lalcbi iuu non Tlissi canuxintu i.
(4) Odi oiaoca il Insto di laiuue parale cbc sono nella Leggenda •
roiraiulnrìo luo e de' die iliadi >. Il lesto siciliano: • lu
I Imi conckluiu la iiiorU e la distruiiooi di lu Re Carlu e cu lu tou
fc, t eoa qaitlo di lì ticiliani e di li nostri amici ■>
3
vea venire sopra a tee, e 11 il suo ialendiiiienlo perduto e
avera tanto ke farà si de lae ctie may non passera di quae : —
Quando il palioloco vide questo. E vide ciò chera per bo-
iate letre. Disse a misser Giani, io sono per fare zo che ti
piace che no lo feci anche ad homo oato se deo li ti da a
compiere (1). Misser Giani disse Or tosto mi dona e fee pcs-
sare XXXm. unze doro per apareglare la armata e soldare li
cavaleri. E dami uno tuo sergiente amico (3) che vegna meco
in aragona al segnore. A.lora disse eu voio fare parentado co
luy e voglo dare una mia Qglola ad uno sou flglolo per avere
più amore al fato. Àlora disse misser Giani bene mi piade
Or tosto sia fato quello cfaio domando chio no vorey supri-
slare al fato ne vedere persona die me cognosiesse. Foe pe-
salo loro tuto e messe in mare. — (3)
l^corUinuaJ
(1) Questo luogo è un po'euaslo. La LcgEcnds porla: ( Hcsser
Gianni, io sono per fare e dire eia che li juace, che cosa làUa non
piiotc mai Trastornarc con onore: ma voi il polcte meglio altare che uomo
naio, chÈ Dio f ha dato a aimpicrc *; e il senso va pure impaccialo e
non inlero. Meglio il leslo siciliana: e eu sogna per diri e fari luUu
quillu chi li piaci; che tu bai taiiu cosa chi homa di lu munda non la
hariria potuto fari; e pari chi Dea li haja datu to' Toliri a complimento >.
Quesi' ultima Trase è tuttavia viva, e vale: li abbia Tatto riusdre per filo
e per segno nella impresa, net disegno concepito.
(3) Invece di sergiente amico la I^ggcada legge più corretlamoile
segreto amico; e il lesto siciliano: t unu voslru sicretu e reru vosim
(3) Qui tanto in questo testo Valicano quanto nella Leggenda ino-
pericoloso Snme ; per l' aria , teme V uomo venti , tnoni ,
conruzioni d'aria: per lo fuoco, leme Tuomo caldo,
saette , baleni , incendi , e molte altre cose dìpendeoli i
queste : per la fenmina teme T uomo vergongoa e danno i
vergongna , perchè dì sua persona non falli : danno , pai
gli beni eh' ella puote male dispensare , e per molte altrt
ragioni che assegnare si potrebbono , e nota il seguire.
Areolo Teofasto essendo domandato da uno suo amÌo(
se egli il consigliava che togliesse moglie o no , cosi rispuQ
se : Se la fenmina che ti viene alle mani è buona , giovane ij
grande e bella, e bene costumata, e vìrtudiosa di sapere
fare e dire ciò che al tuo istato s'appartiene , e sia di buona
e onesta vita , che sia naia dì schìatU che a te si confao-
eia , e che sia il suo parentado acrescimenlo di stato ,
con questo ti rechi a casa di dota quello che a te si eoo*
viene , e tue ti senta e sia savio e ricco e virtudioso (U
pazienza, puossi fare; ma perchè rade volte s'accordane
tutte queste cose, ed è quasi inpossibile, non la tórre,
però eh' ella è ìupedlmento dello studio , e quasi d' ogoi
bene adoperare. Et ancora alle donne bisongniano moltfi
cose a ciascuna secondo suo grado , che non sono le^ièrfi
ad avere : però che come è maggiore lo stato , maggiora
ornamento e maggiore ispesa richiede ; e la fenmina è in-
saziabile , e >-uoÌe ricchi vestimenti , oro , perle , gieome ,
vai , gioielli , masserizie , ornamenti nuovi , che non sienft
mai veduti a persona, acciò ch'ella vantaggi tutte l'altre,
e ciascuna vuole essere quella ; e questo è
vuole fanti e fancielle a suo comodo e none a tuo ;
questo non farai , arerai continova battaglia di dì e di notte;
e non considerando tuo potere, ti dirà: Cotale e cotale
e altre tale . che non sono buone né dabbene com' io ,
sono adorne di tale e di tale cose, et io cattiva,
aparire tra l'altre donne: pongniamo che il biasimo sia
pure tuo. E (juesta battaglia non fmirà , se lu non adempì
— 37 —
sua dimanda ; e fornita che Taverai , rìcomincierà da capo
po' DaoYO disiderìo ; e però nolla tórre.
Ancora , se tu non le piacerai ella t' ara in dispregio , e
peoserà d'altro ; e se ayerai alcuno difetto , sarai mal servito
da lei; e se tu le vedrai fare alcuno senbiante ad altrui, mai
DOD dormirai sicuro per gielosia , e senpre viverai maninco-
Dico e accidioso e tristo , né a te piacerà V usanza altrui , nò
altrui la tua ; e se tu le piacerai e siagli in amore , se guar-
derai altra fenmina che lei , ed ella se n' aveggia , pensa
d'a?ere in casa poca pace; e se ti vedrà parlare colla
fante, ti dirà che tu non sia buono se non da strufinac-
doli ; e però non la tórre.
Et ancora , s' ella non averà figliuoli di te , dirà che
ta non sia da nulla, e penserà d'altro; e se ella n' averà
di te, le raddoppierà il rigoglio e la baldanza, e non
potrai vivere se tu non farai ciò ch'ella vorrà; e però
nolla tórre.
Et ancora , se tu se' povero e prendi moglie e abbine
figlinoli, se prima avevi assai di nutricare te, e poi ti
converrà nutricare te e loro , pensa come tu starai. E però
nolla tórre.
Et ancora , se tu se' ricco , senpre viverai in tormento
co' lei per le molte sue dimande , come detto è di sopra.
Ancora tu dèi sapere che nonn' è sì vile animale né si caro
inanzi che si conpri non sia provato, se non la moglie;
però che s' ella é matta o sozza o con molte magangne
0 scostumata , prima ti se' legato che tu il sappia : e sai
che quello legame non si può isciogliere se non colla morte.
Ancora, o bella o rustica ch'ella sia, senpre te la con-
verrà lodare e plagiare, e converratti dire ch'ella ti piaccia
sopra tutte l' altre ; e se cosi non farai , e tu guardi del-
Paltre, crederrà dispiacerti, e dirà che tu Pài a sdegno;
e quando farai saramento per mostrare che tu l'ami,
parlando co' lei ti converrà dire : Se Dio mi ti guardi e
salvi lungo tempo. Et ancora ti converrà contro a tua vo-
glia ispesso amare et onorare cui ella amerà; e perb
nella tórre.
Et ancora, le ti converrà dare siognorìa di ciò che tu
ài; e se noi farai, dirà cbe tu non ti fidi di lei, et ave-
ratti in odio e disìderrà la morte tua, e farà quanto nule
ella potrà, ispendendo e gittando il tuo a indovini e io
malìe ; e racciendo questo è da temere ch'ella non caggi in
avolterìo; e volendola guardare essendo disonesta, è in-
possibile; e però nolla tórre.
Ancora, snella sarà bella sarà vagheggiata e diside-
rata : e quella cosa eh' à bramata da molti , malagievobneute
si guarda , e molle volte se ne rimane perdente ; et a cui
è tolto r onoro di sua donna , non debbe essere mai con-
tento; e però nolla tórre.
E s' eli' è 0 rustica o sozza , ispesse volte ama e
disidera altrui , e da molti è servila; ed è molesto a pos-
sedere quello che ninno degna di volere; e non avere
per piccola affrizione, anzi per continua morte, vederti
senpre innanzi al mangiare e al bere e al posare quella
cosa che tu ài in odio et in dispetto; ma minore miseria
è avere la sozza , che guardare sempre la bella ; però che
chi per cortesia, chi per bellezza, chi per prodezza, chi
per pecunia, chi per molti altri diversi ingiengni che dire
si potrebbono, alcuna volta vince la cosa che da molti è
— 40 —
avoido rispetto, per lo bene ch'io ti voglio, alla tua con-
solazione, concludendo io ti protesto e dico, che tu doq
U^li moglie, se non vuogli islare sempre in doglie.
L'uomo è capo della fenmina, e non la fenmina dell'uo-
mo, però che la donna non può fare viaggio contro al volere
del marito , e quando la vuole menare è tenuta di segni-
tarlo; e per lo legame del matrimonio, se l'uomo vuole
andare in lontane parti , la donna il può ìstrìognere che la
meni seco , ed egli è tenuto di menarla ; e dò osservano
bene i Tartari che dovundie e' vanno la menano: ma pure
è mala compagnia la sua , ed è di gran rischio. E delle
femine disse il Cresastìco così : La fenmina è origioe del
peccalo, arme del diavolo, cacciamento di paradiso, ma-
dre di fallo , corruzione della leggie.
La Dina figliuola di Giacobe, mentre che istette in casa
co' suoi, conservò virginità ; ma poi ch'ella andò v^gìendo
l'altre contradì, da' figliuoli di Erese re fu vituperala (1).
Seneca dìcie che le fenmine rustiche senpre sono ca-
ste , non perchè manchi loro V animo , ma manca loro il
conronpitore.
Ovidio disse : Quelle donne che niegano , sono liete
d'essere pr^ate.
Salustio, per una fenmina che apparava a leggiere
disse: Il veleno del serpente s'agiungne a quello dello
iscarpione.
— 42 —
Fedra, vaga di Ii>olito, perchè non volle consentire a
lei, ella l'accusò al padre falsamente: ood' egli lo fede
■squartare , come piìi dinanzi dissi.
Isilfile fu madre delle due sopradette e moglie di
Minosso : e fu che essendo reina giacque con uno suo no-
taio , come detto è.
Siila fu figliuola del re Nisso, al quale tagliò la te-
sta, e porlolla al nimico suo di cui ella era vaga, come
dello è.
Bersabè fu amica di David, il quale per lei fece De-
cidere il marito.
Fue una pagana che seppe tanto fare che Salamooe
adorò gP ìdoli per lei.
SaRlra fu moglie di Marua(l), e con lui insieme vol-
lono ingannare san Piero.
Dido fu moglie di Siccheo, al quale promisse dì nm
rimaritarsi mai: e morto che fu, gli ruppe fede, e rima-
rìtossì subito ad Enea , come dicemo dinanzi.
Etena fu molglìe del re Menelao, la quale se orando
con Parisse: per la qual cosa seguitò la distruzione dì
Troia.
Mirra fue una che si trasformò in altrui forma , e
giacque col padre.
Gìrcie fue quella che per sue malie et incantamenti
fecie molli uomini diventare bestie.
— 44 —
e di loro dire e garrire si Taciea beffe. ODd'elle un dì
s'accordarono iD»eme e dieroDgli di molle busse, ed egli
tutto paziente sofTerse. El un altro die, l'una gli disse
molta villania. Onde egli diede giìi per la scala, etandos-
sene fuori in sulla panca; ed ella si fecìe alle finestre
isgridandolo e picchiando il palco sopra a capo: e quan-
d' ella il vide che d' ogni cosa si Taciea beffe , prese uno
bacino d'acqua e gittogliele a dosso. Onde Socrate isco-
tendosi i panni disse : De , come bene mi sta I ch'io dovea
bene pensare che rade volte vengono molti tuoni che
apresso non piova.
Maestro Ciocco d'Ascoli disse cosà:
De , non credete a fenmina isciocca ,
E non v'accienda sua fitta bellezza,
Ma riguanlate come dentro fiocca.
0 quanto è cieco chi a fenmina crede I
U quanta pena nascie del difetto,
Passando il tempo eh' elio ben non vede.
Lo fuoco e la feniniDa e la terra
L'abisso inferno mai non dice basta.
Ma sanza fine appitito serra. (1)
Secondo: La fenmioa è confondimento dell'uomo,
fiera insaziabile , continua sollecitudine , battaglia sanza
_ 46 —
sue forze ; e manifestato eh' egli ebbe che la sUa forza era
ne' capelli, ed ella poi che '1 sentì adormentato in grem-
bo , jl tosolò tutto ; onde ì Filistei saoi nimici , a cai istaDza
ella per pecunia l'avea fatto, sopragiunsono, e legòrollo,
et abacìnòrollo ; onde poi ne seguì cb'elli volle morire per
fare morire altri.
Assilla moglie d'An6rao,il qaale s'era nascosto per
nonne andare contro a' Tebaoi , dove trovava per sua arte
che la tetra il doveva inghiottire, lo fecie manifesto; onde
convenne che cavalcasse ; e quando fu presso alla città , la
terra sopra la quale egli era, s'aperse, et inghiotliUo
coli' arme e col cavallo; e questo fu per colpa d' Astila
sua molglie. (1)
Erìlon cruda Tue una fenmina incantatricie dì dimoni.
Butto Giovanni contro alle fenmine scrisse egli : (2)
(1) Cosi i due usti: ma ognun sa che il nome della moglie di
Anfiarao è Erilìle.
(2) Nella raccolla di Rime del Pucci fatla dopo il CeiUUoguio dal
P. Idcironso questo sonetto si trova appropriato al Pucci , e dice cosi :
Sonetto mìo, di femmina pavento,
Perocch' egli ène in femmina ogn' inganno,
Femmina pensa male tutto l'anno.
Femmina è d'ogni bene sfuggimenio.
Femmina è sempre d'ogni mal convento.
Femmina è dell' uom vergogna e danno.
— 48 —
Perchè di lor mi giova ,
CoDtra chi mal ne dice , sansa fallo ,
Difender vogliole a piede ed a cavallo. (1)
(1) L'eruditissimo sig. Avr. Bilancioni, al quale ietbo predose
notizie sulle rime inedite del Pucci , aieva gii trovala il presente sonetto
nnilamenle all'antecedente, nel Cod. Riccard. 1 103 , ove ambidue portano
in Tronte il nome di Uesser Antonio. Se non che l'aver trovalo poi la
proposta col nome di Ballo Giovanni nel Laurenz. 89 pluL 90 snp. gli
aveva fatto ritenere cbe a costui appartenesse il primo, al Pucci il se-
condo sonetto : e dalia presente nostra pubblicazione ognun vede quanto
bene il valcniuomo si Tosse apposto.
Ambedue i sanelli sì trovano poi nella parie 3' dei Sonetti del
Barchiello,ediz. di Londra, 1751 a pag. 199, e qui lì irascrìviamo an-
che secondo quest'altra lezione :
Amico mio, di femina pavento.
Però che fcmina è con ogni inganno,
Fcoiìna di natura è proprio alunno,
Feinina d'ogni mal cominciamenlo ;
Femina d'ogni male si è convento,
Femina è dell' uoro vergogna e danno,
Femina mal si pensa lutto l'anno,
Femina d'ogni bene slroggimento.
'Femina a peccare Adamo indusse ,
Femina a' Fiesolan fé' perder prova ,
Feinina fu che già l'uomo distrusse;
— 50 —
mali fanno più gli uomini che le fenmine. E quante fen-
mìne vegliamo noi andare a sforzare gli uomini alle letta
loro, 0 quante ne veggiamo andare conmetteudo iQÌcìdi o
furti 0 falsitade o ruberie? Cierto per ongni fenmina che
in alcuno di questi difetii cade, mille uomini vi sono eg-
uali; e por moltissime altre ragioni si potrebbono difen-
dere. E se vogliamo dire : Salamone non l' avrebbe biasi-
mata se cosi non fosse, salva la sua riverenza che esso
medesimo ne scrisse in più parti bene che male.
Giudit fu del legnaggio dì Simeone , figliuola di Meta-
ri; questa fu pìii forte e gagliarda che ninno uomo, e
non dottò il furore del re Aloferno ch'avea a.ssedÌato il
suo popolo Mn gli Ansirij : anzi si misse a dubbio di morte
per salute de' suoi, et inamicossi in vista con luì, et or-
dinò ch'ella di notte uscì fuori della terra sua e andò a
dormire ron Ini nel can^w; e quando ella il vide dormi-
re, gli tagliò la testa e pnrtolla al popolo suo , ond' eglino
presono ardire o uscirono addosso a' nimici , e sconfisson-
gli : di che il sommo poeta Dante disse :
Mostrava come in rotta si fuggirò
Gli Ansirì poi che fu morto Eloferoe
E anche le reliquie del marliro.
E Sfi volgliamo dire: Molle se ne truovano iscritte,
per coi furono cnnmessi molti mali ; molte si truovano piti
di quelle di cui ancora rcngna la fama acciesa di loro vir-
tù , e mai non si ispengnerà ; e d' alcune faremo menzione
brievemente. Se dicie alcuno che la fenmina nonn'à fede,
or rom' è quella di' ebbe [in] Cristo , Maria e Maddalena e
Marta e molte altre? E se vogliamo dire temporalmente,
in quale uomo si trovìj maggiore fede che fu quella di
Fisoia, di cui diciemo f^he dovendo morire, cioè ch'era
condannata a morie. Amone ch'era vago di lei istettc co-
J
33 —
morte, e dato al soprastante die lo
taciesse morire di fanm nella prigione, una sua figliuola
il vicitava , e uon possendogii portare alcuna cosa , che
tuttavia era ciercala quando andava a lui, gli dava la pop-
pa. Ond' egli alTamato poppava : e dopo più di maravi-
gliandosi il soprastante che non era morto, guardò dietro alla
fanciulla , e vide com'' ella il pasclea ongnì di due volta
del latte del petto suo ; e rapportato die l'ebbe al signore,
per piata perdonò a lui la morte e a lei la diresa.
Al tempo dì Giesere, secondo Lucano, davano la
fenmìne agli uomini di dota quanto gli uomini a loro,
doè che a petto della donna mettea il marito altrettanti
danari , e menavalasi a «asa , e di quello che Truttavauo le
due dote mai non toccavano se non per comune bison-
gno. E se l'uno moriva, e l'altro rimaneva reda: e ciò
era ragionevole e comune leggie.
Sidraco disse : Meglio è l'amore della buona fenraina
che l'odio della rea. E dee Tuomo amare la Temnina e
la fenmina lui, secondo il comandamento di Dio.
E legggiesi che sendo Roma al governo di dieci savi
uomini, de' quali era capo e maggiore Appio Claudio, il quale
essendo vago d'una figliuola d'un buon uomo di Roma, la
fede sotto cierta cagione richiedere dinanzi a sé : e venuta
ch'ella fue col padre e' non la voien rendere a malleveria
ma , volendola sostenere per vituperaria , il padre aveggien-
dosi della cagione, e sappiendo ch'egh non avea a fare
nulla con colui che avea posto il richiamo dinanzi ad
Appio Claudio, ma a sua istanza l'avea fatto, non pos-
sendola menare , prese un coltello d* un beccaio et uccisa
la figliuola ; per la quale cosa fu tolta la sìngnoria a que'
dieci uomini ; e come fu questa , cosi ne sono il di mille
volute vituperare.
0 quante fenmine s" inducono a mal fare per gli prieghi
e lusinghe degli uomini , chi con sonetti e chi con canzone.
— 53 —
chi con donare di gioie , chi per forza, chi per amore ,
chi per pecunia; e per molti altri diversi modi che dire
si potrebbe, sono condotte al mal fare I 0 quanti assaliscono
le donne al Ietto loro^ e quante ne sono state morte per
HDD acconsentirei Messere Yenetico Gaccianimici da Bo-
longna amiBanò la sirocchia al Marchese , e di lui disse il
sommo poeta Dante cosi:
Io SODO colai che la Chisola bella
Condussi a far la voglia del Marchese
Come che suoni la sconcia novella.
0 quanti ci à di questi mezzani e sensali di tale merca-
tanzia ! E se T uomo è più savio che la fenmina , quale è
la cagione che de' venti e' diciannove sono suggietti et
ubbidienti alle donne?
Per le dette donne e per molte altre cagioni che
raccontare si potrebbe , si vede assai manifesto ch'elleno
non meritano el biasimo che è loro dato, però che se
male fanno, vi sono condotte da Tuomo. E questo ba-
sti di loro.
i
«
IL PERDONO DI S. FRANCESCO D'ASSISI
Il breve scritto che viene ora pubblicato , è aoa I
gendaria nari-azione improntata delta consiiela carissima
semplicità , tanto famigliare agli scrittori del Trecento , dì
una apparizione al Santo d'Assisi presso la chiesa di
s. Croce di Porlingola, quale si legge in un'apografo del
secolo XV, contenuto in un grosso codice dell' vVmbro-
siana. È dessa raccontata da un Michele Bernarducci con-
cittadino e contemporaneo del Serafico, poco tempo dopo
la costui morte avvenuta nel 122tì. È ignoto il nome di
chi scrisse queste pagine ; si ha però in esse una scrittura
almeno del sec. XIV, quand' anche non la si voglia am-
mettere come autentica e fedele riproduzione del sup-
posto racconto del Bernarducci stesso; e sebbene le cose
ivi narrate non siano che popolari tradizioni , alterate forse
e travisate di mano in mano che s'allontanavano dalla
fonte primitiva, e passavano per le bocche di (pianti l'u-
divano e le ricontavano, pure come ne'Fioient, di cui
questo Capitolo è un' imitazione, vi si trovano non poche
elette, leggiadre ed evidenti forme del pariare toscano,
e vi spira un'aura di candore che tocca talvolta al sublime.
Personaggio eminentemente popolare fu Francesco
d'Assisi; in quel secolo ebbro di odii feroci, di guerre e
di violenze, a' giorni d'Kzzelino da Hom;ino, di Buoso da
Egidio, Silvestro e il venerabile Bernardo come perso-
naggi dei tempi eroìd, che inebbrìati dì quella pace ìnu-
sala corrono dietro ( all'ignota ricchezza », e con santo
trasporto s' aggiungono al fido amante , perchè * la sposa
piace > ; colloca 11 santo Archimandrita fra ì sapienti, per-
diè quel Sole Oriente non fa né ignorante né iautore
d^ ignoranza , come corollario della sua legge di pace
e d' inopia ; non pochi « di quella gente poverella > cre-
sciuta dietro a luì,
.... la cui mirabil vita
Meglio ìd gloria del ciel si canterebbe,
complici a della santa voglia e della dura intenzione * del
venerato maestro, e conscii della forza morale della pa-
rola, furono, secondo la sentenza d'un erudito italiano,
contemplanti ragionatori, eloquenti solitarii, dotti cittadini.
Segue un breve t Sermone che fece Cristo » , che
nel codice Ambrosiano, da cui anch'esso è tolto, si at<
tribuisce a s. Agostino, come scritto da lui nel libro che
fece a' Bomiti, e volgarizzato da anonimo trecentista.
Milano, nel marzo 1870.
— 3S —
iDsieme, e veggendo eh' eglino parlavano insieme, vergogna' mi
e si mi volla partire, ed eglino si mi cliiamorouo, ed io andai n
loro, e questo parlamento si era nell'orlo dov'era la cella di
santo Francesco, e uno di loro. cioÈ frale Piero Caltani, si ri-
volse a me e disse : Odi qua. Michele, maraviglìosa cosa che ad-
divenne a qnesti di prossìnii passati, quando lo nostro Padre
piatoso, cioè santo Francesco, era in quella celia. In que-
sto anno, cioè nel mese di gennaio prossimo passalo, quando
erano te grandi neve, nel mezzo della notte venne Setanasso,
e venne a lui allato alla cella, e '1 servo d'Iddio Francesco
era io orazione. Allora disse Selanasso: Francesco, perchè
vuo'lu morire innanzi al lempo? Perchè stai a fare queste
cose ? Non sa' tu che '1 dormire è '1 principale noiricamento
del corpo? E altre volte fò detto che tu se' giovane, e altre
volte tn potrai fare penitcnzia; perchè dunche t'affriggi tanto
in vigilare e 'n orazioni ? Allora il beato Francesco si si spo-
glione ignudo e uscì fuori della sua cella, e passò per una
griinde siepe, e si entrò i» una selva durissima e spinosa.
Essendo lo piatoso padie sauto Francesco in mezzo della
selva, avendo lulla la carne stracciata e 'nsanguinala per le pun-
ture de' pruni e delle spine, disse Francesco in se medesimo:
Meglio m'è in questo modo, cli^ io conosca la passione del mio
Signore Geso Cristo, che credere alle lusinghe dello ingan-
natore dell'umana natura; e 'ncontanente dette queste cose,
apparve io mezzo della selva un grandissimo lume, e in mezzo
del ghiaccio e della neve apparve fuori bellissime rose e fiori,
e apparirono schiere d'angioli senza numero, e nella selva
e nella chiesa di sanu Maria a Portingola. la ijuale era allato
alla selva. Allora dissono gli angioli con una solenne boce al
beato santo Francesco; Vieni tostamente al Salvatore e alla
sua dolce madre madonna santa Maria, che sono nella chiesa;
e allora apparve una via diritta e ornata i]uasi come seta per
andare alla chiesa, e santo Francesco colse allora del rosaio
dodici rose bìauclie e dodici rose rosse, e andO per quella via
iguudo con quelle rose in mano, ed entrò nella chiesa di santa
Maria di Portingola, e pose le rose, le quali avia recate^
eolle mani giunte in sull'altare; e allora vide Geso Cristo e
— 60 —
vespro clol primo à\ d'ngosio iiisìno
di il' agosto chìunchc vi fusse in quel di confesso e coiUrilo
d*ogni suo peccato, di tulli quelli che sì ricordi, gli sieno
perdonati tulli, e quali egli avessi commesso e fatti dal die
del battesimo inlino al di deir avvenimento e dell' enlramento
di quella chiesa.
Allora disse il beato santo Francesco : Santissimo Padre,
come si farà che questa cosa sì sappia, e venga a notizia
dell'umana generazione? Allora disse il Signore: Francesco,
questo si farà peli' aiuto della mìa grazia ; ma tu debbi an-
dare al vicario, il quale i''ò posto sopra '1 mondo, e al quale
i' b dato podestade di legare e di sciogliere, cheU egli questi
perdoni manlTesli, che pare a lui che si convenga. £ Io beato
Francesco disse: Come crederrà a me peccatore? Rispose
Iddìo onnipotente a san Francesco e disse: Porta teco per le-
stimonanza rose bianche e vermiglie, le quali tu ai colte del
mese di gennaio con aifrizione e dicìplina del corpo tuo, e
di quel numero le porta come ti parnl a te convenevolemente.
£ queste pi'edette cose si udirono lutti, frate Piero Cattaui
e frate Rulfino e frate Bernardo da Quintavalle e frate Mas-
seo Magnani e compagni dì frate Francesco, e quali stavano
nelle celle loro fuori della chiesa nell'orlo, dove la cella di
santo Francesco congiugne colta chiesa. Allora santo Francesco
di quelle rose, le quali aveva colte delta selva, lolse tre rose
bianche e tre rose rosse all' onore della santissima Trìnìlade e
a laulde di Dìo e della gloriosa vergine Maria. La divina
maestade colla sua madre incontanente levò un canto grandis-
simo d'angioli, e cantavano: Ta Deum laudamua, te Do-
minnm coafitemar. E dopo queste cose che sono dette di
sopra, la mattina per tempo il beato Francesco si veslle la
tonica sua, la quale e' portava, e venne a que'tre compagni e
chiamògli e disse loro: Apparecchiatevi dì venire meco a
Roma; e dispose a loro silenzio di queste cose, te quali aviano
udite, e questi tre suoi compagni furono frate Fiero Cattani [3)
cosa ai addi mandala, nia daccliè piace al re del ciclo e della
terra, il (jiiale pelli prieghì della sua madre groHosa e ver-
gine santa Maria assauldisca la tua orazione , noi iscriverremo
al vescovo d'Ascesi e a quello di Fiiligno e a quello di
Norcia e a quello d" Agobbio e a quello ili Perugia e a quello
di Spulcio, clii! vengliino al luogo di santa Maria di Portin-
gola il primo di di calenJi d' agosto, e annunzino la 'ndulgen-
zia, la quale piace a le.
E cosi il beato ■ Francesco ricevette le lettere del soitt-
mo pontefice papa Onorio co' suoi compagni aljì predetti ve-
scovi e rappresentò le lettere e procure il bealo France-
sco, che tulli i vescovi il primo di d'agosto vennono alla
Chiesa di santa Maria di Poriingola, e ivi vi fu fatto un
pergamo di legname, nel quale tulli e predellì vescovi salirono
col beato Francesco; ed essendo rannata gran moltitudine dì
genie intorno, quasi come nei mezzo della terza del detto di
disse il beato Francesco a' vescovi: 0"al è di voi che vuole
predicare e annunziare ta *ndulgenzia ? Ed eglino s'accordorono
insieme e dissono: Noi aviamo a seguire la volontA di frate
Francesco, secando il tinore delle lettere del sanlo Padre mes-
ser lo papa; e cosi dissono a lui, e santo Francesco disse:
E io voglio alcuna cosa dire in cospetto di questa gente, av-
vegna che io non ne sia degno, e annunzierò la 'ndulgenzia
da parte del re del cielo, la qual'è fatta alli prieghi della
sua dolce madre gloriosa santa Maria, e voi del comanda-
menU) del sommo pontefìce suo vicario s) l'annunziercte meco;
e levossi su il bealo Francesco e predicò si benignamente e
utile, che pareva veracemente un'angelo di cielo. E compiuto
il sermone, dinunziò le 'ndulgenzie sopra dette, cioè che chiun-
che venisse alla predella chiesa di santa Maria degli Angioli,
cioè di Portingola , ed è nelle parti d' Ascesi , dal vespro del
primo di d* agosto fmo al vespro del secondo di d' agosto ,
inchiudendo la notte e 'I die. sono perdonali a lui tutti e suoi
peccati, de' quali egli è confesso, ed anne ricevuto comanda-
mento dal sacerdote, e sono assoluti, e di quelli che non si
ricordano, dal di del battesimo inlino al di ch'entra nella detta
chiesa col cuore conlrilo e umilialo. E udendo queste cose,
J
— 64 —
Sermone che fece Cristo a la cena a la madre, e la
madre agli apostoli; e questo scrisse santo Ago-
stino nel libro che fece a' Romiti.
Leggiamo, fratelli carissimi, che santo Cipriano martire
e vescovo disse, che nella cena del nostro Signore Gesù Cri-
sto furono apparecchiate tre mense, delle quali Y una fu per
Cristo e per suo' discepoli cioè apostoli /Ja siconda' per la
madre sua gloriosa e per V altre donne, quali seguitavano Cri-
sto, e la terza per li altri suoi discepoli. Fatta che fu la cena,
innanzi che cominciasse il sermone a' discepoli, chiamò la ma-
dre sua benignamente, sicondo che narra il preditto santo Ci-
priano, e dissele che '1 tempo della sua passione già s'ap-
pressimava. 0 madre mia, voglioti manifestare uno segreto,
cioè che '1 figliuolo tuo sarà crudelmente crocifisso, legato e
sputato nella faccia. E veramente so tuo figliuolo, imperò che
ninna creatura è sopra la terra, che sappia così certamente
ch'io so vero figliuolo di Dio, come sai tu, madre mia. Tu
sai che per T angelo Gabriello ti fu annunziato, come senza
nulla gravezza mi portaresti nel ventre tuo, e senza alcuno
dolore mi partoriresti. Adunque, madre mia sacratissima, della
pena e della morte mia non ti dare afflizione, imperò che
cosi conviene che sia, acciò ch'io entri nella gloria mia. Tu
sola rimarrai meco nella fede; ed i discepoli miei a modo che
fusseno strani, fuggiranno da me. Tu sola colonna immobile
della fede mia rimarrai ; tu sola averai la certa speranza della
risurrezione mia, come maestra di tutte le cose secreto di Dio.
Onde ti prego, o madre pietosa, che quando mi vedrai cro-
cifiggiare e morire, per li miei cari apostoU al Padre mio
faccia speziale orazione; essi m'abbandonaranno, essi mi ne-
garanno e tradiranno. Tutte queste cose si faranno, acciò che
le sante scritture de' profeti s' adempino.
Poi che la madre di misericordia ebbe udito quelle parole,
chiamò gli apostoli ciascuno per se e disse : Ricordivi quali e
far bene, uè 1 diavolo non ti può far male, se tu prima non
consenli. Ecco quanto è la liberta e la dignità deiruomo; ed
avvenga che Paolo fusse cattivo, e per la vocazione di Cristo
diventasse buono e dottore delle genti, vaso di elezione, tromba
di verità, ciuadino di vita eterna ed amico degli angeli, non
vogliate per questo, Tratelli miei, aspeture d' essere rapiti co-
me fu Paolo; ma da che liberi sete fatti per grazia di Cristo,
imparate a far bene, pensando sempre quello che fece Dio a
Paolo per grazia singulare, a noi V adempirà per la legge stia.
Esso può tutto, e la legge guastare, e la legge adempire,
cioè guastarla per grazia ed adempirla per giustizia, e non
di meno ogni cosa bene e ordinatamente, e ciò che fa, fa
per grazia, per ciò die da )a parte nostra non potiamo me-
ritai'e nullo bene, ni' eziandio pensare. Onde falsamente dice
quello Pelagio, quando pose ed affermò nella fine della
vita sua, che per li merili dellì beni nostri noi potiamo ac-
quistare vita etema. Nulla cosa, nullo bene da noi potiamo
pensare, ma ogni nostra sufflcienzia procede e viene dall' etemo
Dio, qui est benedictus in secula. Àmen.
— 70 —
sunt Christiam de Etiopia , snbmissis presbitero Johanni.
Civilas ista est ad Marmam prope (lumen Sion. Predicti
fuerunt taliter deiempti quod nemo illorum a partibus
illis unquam reddidit. Anzi Àntoniotto scrive il 12 dicem-
bre 14SS di aver trovato in quelle regioni d' Etiopia (Nu-
bia?) hominem unum de natione nostra ex illis galeis,
credo Vivalde, qui se amiserunt sunt anni CLXX, qui michi
dixit et sic me affirmat iste secrelarius (di un Moro) non
restabat ex ipso semine salvo ipso.
Qualunque fede voglia darsi a questo racconto di Àn-
toniotto, certo è almeno il tentativo del giro delP Africa,
intrapreso nel 1281, e certa è Teco di quell'intrapresa,
durata oltre la vita di Dante. Imperocché quando nel 1340
Abul-Hassan di Marocco fu battuto al Salado, e gli ul-
timi Almoadi furono spazzati via dalla Spagna, Luigi de
la Cerda, discendente da Ferdinando d'Alfonso X di Casti-
glia e da Bianca di Lodovico il Santo di Francia, si fece
ad Avignone da papa Clemente VI investire con bolla del
15 nov. 1344 del principato delle isole Fortunate, abitate
da infedeli, e non soggette a principe cristiano (Y. il Ri-
naldi alPanno 1344 n. 39 — Baluzio t. 1 , p. 290 , Val-
singio p., 165, e Ughelli III, 423). Praetereo, scrive il Pe-
trarca sotto il 24 gennaio 1366 dedicando al vescovo Ca-
vagliense il suo trattato de vita solitaria (Yenet. 1501, I,
f. V., lib. II, tr. VI, e. 3), Fortunatas insulas, quae ex-
tremo sub occidente ut nobis et viciniores et notiores sic
quam longissime vel ab Indis absunt vel ab arcte terra y
muitorum sed in primis Flacci lyrico Carmine (Epod. XVI,
41 ad finem) nobiles, cuìììs pervetusta fama est et re-
cens; eo siquidem et patrum memoria (del 1281) lanuen-
sium armata classis (una armata intera!) penetravit, et
nuper Gemens sexttts UH patriae principem dedit; quem
vidimus Hispanorum et Gallorum regnum mixto sanguine,
generosum quendam virnm qui (meministi enimX dum eo
— 72 —
pena singolare, e rincontm d'Ulisse e di Diomede, non |
può dopo tante altri! maraviglie, tante altre pone, e tanti I
non meno alti incontri, giustificare ravvertimento del poeta: 1
E più lo 'ngegno alTreno eh' i' non soglio,
PerchÈ non corra che virtù noi guidi:
SI che se stella buona o miglior cosa
M' ha dato 'I ben, eh' io stesso noi m' invidi.
Il poeta stara per narrare la fine d' Ufisse diversa- 1
mente da tutte le narrazioni del ciclo troiano ; ed è per |
ciò eh' egli deve aPTrenare T ingegno sno. Apparecchiato il |
campo gli era dalle tradizioni antiche, che facevano il Laer- -
ziade visitatore di Scozia e fondatore di Lisbona, dall' a- 1
spettativa di tutta Italia sull'esito dell'impresa genovese. On- }
d'ci poteva dire che un'anima dannata airinfemo per le suo
frodi non poteva giungere al Purgatorio cristiano, lasciando
la speranza di felice riuscita ad una intrapresa arrischiala in
compagnia dì frati cristiani che s'imbarcavano per fini reli-
giosi; ma contraddiceva nonpertanto alla tradizione. E perchè
ciò ? Perchè dei molti innominati , che la tradizione faceva
perire nel tentativo di giungere al Paradiso terrestre, egli da
lìuoQ poeta popolare non poteva sciegliero uno e dargli un
nome, e da buon teologo gli ripugnava di farvi perire un cri-
stiano, che t per una lagrimetta » poteva acquistare am-
bedue i paradisi. E di t:ali cristiani nominati ve n'avevano.
Quel santo Nicolò, vescovo di Mira in Licia, che di
notte passava a nuoto il mare per fare la larghezza alle
putceile (Purg. XX, 32), divenne soggetto di canti po-
polari. In francese ci sono conservali de' frammenti che
risalgono al mille:
Seyntz, vos kc alez par mer,
De cel barun oiez parler,
Ke larit esl par lui secorahle.
E ne en mer <•<{ l;inl aiilatile.
— 74 —
Lada, il sole privato della luce, che fa le veci di san Ni-
colò, e di essa rimano le fanciulle:
Santa Lucia, mamma pia,
Metti un dono in scarpa mia;
Se la mamma noo lo mette,
Restaa vuole le scarpette!
Il benedetto santo nuotatore, protettor de* marinai,
avrà dato orbine alla leggenda del maledetto Nicola Pesce,
di cui canta il buon autore del Dittamondo ( 11, 27 ) :
Nicola bestemmiato dalla madre,
Ch'ei non potesse mai dai mare uscire,
Convenne abbandonar parenti e padre;
E poi volendo il precetto ubbidire
Di Federico, nel profondo mare
Senza tornar mai su si mise a gire.
Fazio, a quel che pare, attribuisce la leggenda ai tempi
di Federico svevo, re di Sicilia, meglio per lo meno dei
commentatori del Taucher di Schiller, che la fanno dei
tempi de' Ferdinandi aragonesi. Ma ella è piìi antica an-
cora; perchè come tale è mentovata dal trovatore Perdi-
gon, che vuoisi morto verso il 1269, ma che poetava nei
primi decenni del secolo , e sembra accenni a (utf altro
che a discesa tra Scilla e Gariddi per obedienza all' im-
_ 76 —
« undc Arrigherius:
u Ouem semel orrendìs mactilis infamia nigrat,
» .1(1 bene lergendum mulla latiorat nqua »,
(Biirlscli nel Jnhrb. (. roin. lìL XI. 43).
I regni conftnati dil mondo fluido, dalle onde, hoq
possono essere i tre regni dell'Inferno, del Purgatorio e
del Paradiso celeste ; ma si solamente l' isola di Brandano,-
il Purgatorio di S. Patrizio. Nell'esilio poi, nel 1305 (co-
me diremo in altro luogo), vennegli il pensiero di pren-
der l'acqua die giammai non si corse; il disegno della Di-
vina Commedia fu fatto allora, abbandonando le esercita-
zioni latine vergate a Firenze prima del 1294. Giammai
non si corse ; ctiè Dante non curava risioni ne di frati né
di laici, che troppo dovea frenare la propria 'fantasia; ben;^
vantaggiavasì pel suo line delle leggende del popolo, per
il quale scriveva, e senza di che sarebbe restalo incom-
preso e avrebbe scritto per sé. Chi negherà ingegno e
vena poetica e fbrma eletta a Luigi Carrer? ma perchè
poco la sua musa partecipò delle nazionali aspirazioni, breve
numero di amici, non la nazione il conosce. AtP incontro
i carmi di Giacomo Zanella, perchè unisoni al sentimento
nazionale, appena apparsi fecero il giro d" Italia e d' Eu-
ropa; e briosi ufTiriali dell'esercito e gravi senatori del
regno ne recitano, deliziandosi, interi componimenti a me-
moria ; come è fama avvenisse già de^ versi dell' Alighieri
0 del Petrarca.
Nella Venezia Dante trovb la leggenda del pozzo di
S. Patrizio bene radicala. Pmova n' è. a Padova, ìl pozzo
del cortile ili Rinalilo Scrovegni , oggi corte del capitaniato,
allora detto l'Inferno; il pozzo di Piero d'Abano, che il
(linvulo trasporlo dall' interno della corte sulla pubblica
via; il pozzo più non esistente nu che lasciò il nome alla
1
Reeius lo primo di de ^tgm Pieri e Toni so frodi de Yjà,
cioè di Adegliacco. L'iscrizione fu pubblicata poi in fac-
simile, ne! qnale uno sfregio del sasso appare erroneamente
per punto od accento. — L'afUiienza di gioventù colta e
studiosa air Università di Vicenza (1204-9) vi portò mo-
vimento anche nel campo delle muse; e Tommasino dei
Gerchiari di Forogiulio in quelli anni scrisse i suoi en-
senhamens della Cortesia e della Falsità, non ancora rìtrch
vati in originale, ma secondo ogni probabilità scritti in dia-
letto veneto. — Giotto, (Gotto, Gotto. Giacotto) mantovano,
cioè, a quanto io penso, il figlio del poeta piij antico
Visconti di Coito che s'appropriò il soprannome di El-Cort
rivoltando le liue voci, cedigliando il e e poi leggendosi,
come diceva la nuova voce, a ritroso (/e-lrof = tetros o
ledros = Sordel) — che recitava a Dante multai et bo-
nas canliones orelenvs (v, 2, It, 13), forse nel castello di
Cerbaia in vai di Bisenzio, dove a di 10 giugno 1279 tro-
viamo la sua Cunizza da Romano (Ardi. slor. v. n, p. 290,
a. 18S8) ; Sordello dico, nato nel 1202 e morto nel 1282
quando Dante contava 15 anni, poetava e parlava (poetando et
loquendo) in volgare illustre (1, 15), vivendo nella Venezia ia
gioventù, nella Toscana in vecchiaia ; e per ciò non ha parte
alla dilTasione del dialetto veneto. — Ma parte insigne deve
assegnarsi alla città di Verona, focolare di studi e di po&j
sia per tutto il medio evo. — Un elogio magnifico di Lo-
vato Lovati , poeta veriiacx)lo e satirico , ci ha lascialo il
Petrarca. Il Lovato. morto nel 1309, potè farsi leggere fia
dal 1250, perocché nel 1274 lo troviamo fra gli anziani,
vale a dire più che quadragenario. E Padova, citt.^ univer-
sitaria fin dal 1222 , certamente contribuì alla diffusione
del dialetto, poiché Dante, scrivendo a Padova, non cono-
sceva che un solo poeta padovano che .■^e ne fosse scostato.
Così convien credere che Marco Grioni ( il Marco Lombardo
— 80 —
riconobbe il chiaro editore stesso , e che si scorge larga-
mente nel Tesoro di Uaìmondo conservalo nella Marciana (1).
(i) Per lo studio <li quel dialeUo aniccipiamo qui intanto brete e-
strallo dal codice N. 531 della R. UniTcrsili di Padora, contenente stadi
grammaticali latini, tra' quali T'hanno i2 carte di vocabolario latino-ber-
gamasco. Il codice è del cinquecento, ma il TOcaholanelto palesasi per
l'ortografia copialo da altro del quattrocento; non 6 senu interesse an-
che pel latino mcdioeTale.
hic et hcc inraos, h fanti e la
fantina.
senectus, la compagnia di veg.
senecla, la edad del veg.
hoc sincipuiiuin, la parie denanx
dd elio.
hoc occipulium , la pari de dred
hoc sincìpul, ol zuf denani.
hoc occipul, ot luf de dred.
hcc culis, la codga.
hcc culclla, ol spluri de la .
hic capillos, ol caael del lioi
beo criois, ol cavel de la fé)
cesaries, fa cexa del hom.
coma, la ceia de la fetnna.
craneum, la erapa del eho.
Trons. rijs
eodga.
pinila, la cuna del nat.
mucidas, a, uni, cosa micimoia.
mongo, is, per mochà.
nasitergium, ol modtarol.
lif 0, as, per sbadagià.
slemulo, as, itranudà.
hyatus, lo sbadagià.
stran ulns, ol slranud.
labium, laver del hom.
gingira, la g^ngioa de la femna.
gena, la gotta.
malj, ol (noi de la golia.
dcns praecissor, ol detti da nam.
dens caninus, ol dcnt ogiàl.
mobrìs, ol ganasàl.
mordeo, es, per piar eoy denti.
ntastigo, per biasar.
mhnln, )i/T imlxicai:
belino (1293) insegna nel suo Reggimento delle donne
(Roma 1815, p. S), che gli scrittori non erano obbligati a
schivarìi :
Ileo , per piantar eoli lagrimi.
Ingeo, per piaiwer mj/ piuri.
bcrìiDor, per pianter cum tnent
abatuda.
gemo, per pianser denler da ti.
ploro, per pianier in vos.
plao^, per pianur cum bali-
meni.
planctas, oJ piani co U ma.
lersorioin, ol bedoseh.
Iacee, per tati inani che ic parti.
sileo, per Casi pò eh 'è t'à parlad.
mntesco, per /i mtU.
mudo, per mulesà.
surdesco, per fi lord.
ocilo, as, per cignià.
screo, per td&reayà.
screa Uim, ol tcarehayo.
anelo, per re/iadar.
alg'oror, per infregiàt.
algor, ol fregiar.
digero, per paylì.
digesiio, ol payli.
De TMtilltU 8t BBia
pertinentibu
interula, la eamisa.
serabalom, ta braga.
iumbar, ol bragarol over ot icng.
aluda, ta stringa.
stapiludiam, la tiratha da pichà,
ta siringa.
diplois, ol suparel over ol lupo,
over ol tack (*).
pignolalum, ol fustà.
bombii, ol vermatol che faol bom-
bas.
pi Ilo [ora, la pignadura.
cardo, ol garto.
discrimino, per scarleià.
melloia, ol tabar.
perula, la igiavina.
coacius, ol borda.
epitagìom, ol guarnazo.
tunicha, la eotardida.
— 84 —
NoD tarò mennglia perciò, se ne vediamo aodie ne'' versi
dì Romagna; a mo' d'esempio, nel sonetto burlevole di
gleba, la tota.
I, la mtAla.
Do OTM Bt pertinMtlbu
nuxtorìniD, la remra.
seilarios, ol tUr.
manipulas, la lava over la branca.
milicatiala, la mtigaiada.
legumen, ol («m.
laba (ressa, ta fava frangia,
cker fressnm, ol cùer frag.
wotms, la roveya.
siliqua, la toorxa del letn.
acns, ol granai.
loliun, oJ piolo.
óiania, la lirga.
tribola, ol flavel.
trìbolo, as, per bai i
merges, la dmva.
palleare, ol payer.
(rìtoro, ptr tretchà.
n hera.
SolTaliniiii, lomelafi over el fodia.
olerinus, coia de citen.
stipes, ol zoch,
cophinos, ol cofvn.
De ubIbaU et perUnentibus
^ euAÌiiAtui
ciatos, la layna ooer el moyol.
sa], la Kà.
salìnum, la (basca de) la sai
p;as, la suila.
bic vel bec adeps, l'aief.
artoiira, la torta del formag (').
artiboUiia, ol casojuei.
biseUns, ol forici de paddìa.
manatortam, ot eaton^ de pasqua.
pasiillus, ol motA over ol madutrg^
lagianom, la foyada.
coidolum, ol companàdeg.
vinum citrìnnin, ol vi cimi.
poQlbicus, cosa t>
arceus, ol tediai.
loda il faentino Ugolino Bacciola, che da qnel parlare si
rivoltasse. Per il che sembra a me Ugolino abbia voluto
rancoro, per savi da nwfa cuni maUirus, oota madura, maruda.
t la cdren,
rancibulus, a, nm
è la cartn.
macidas, a»a mu/lela cum iti pd.
carnea, la camola de la earen.
linea, la parma.
linealQS, cota parmada.
De p«mi et ndi psrHnutDnu
jegts, la vela omt la carerà.
Tegilicalus, ol vetdl.
yJnicoiKlra, la boiioia.
colus, ol BOlirol.
armila, la brerUa.
Dter, ris, l'oder over la boga.
geroUa, fa civera.
circumleatea, la eagnia day cirg.
circulos, ol cirg.
torqub, la itropa.
torqnilas, ol itropèl.
siler, la pendola <qv^ herbal,
calco.
bolTDS, ol grd de l'uva,
ransa cum racimas, ol rampai over ol gra-
pel.
palmea, ol gartol de l'uva.
tJrsnm, la troia.
acitnum, ol vinasol.
usta, la eavagnia.
cutella, la eavagniola.
corìnphus, ol eavriol de la vid.
De rtalnUo et pertlsentìbu
èA itabaliH
sonipes, ol deitrer.
troUnas, ol rond.
iumenlan), ol cavai da basi.
clitearius, ol tomer.
succusarìiu, ol troler.
quadrupedarius, ol porleler.
mando, is, per mangia ol fré.
frenum, ol fré.
capìstrum, ol sogiL
luiika. la e
dolo infarcito di qoMche modo del volgare veneto, sonetto
che fa inteso da Dante neir allegazione di cotesti due
vezzeggiativi :
Ocli de la Goradal eo m'ender nego.
E'fero in Truscana cb'ed viva;
Abbian mercè de l'anima gaittiva,
Digando ice per mi vi piazza il prego.
borit, la coca dei cor over la
tìiva.
Tomer, la matsa.
bigarvalis, ol pio.
cantus, ol gavtt de la roda.
modiidus, ol co de la roda.
orbila, la «prua de la roda.
et itii pertlaeiUliKS
TiciniB, e, la vUnexa.
tìcds, la maiala over la pùua.
templom, la tetia.
aocbona, l' andana over la mai-
ilad.
bmpas, la lampada over ol ci-
tendel.
r, (impersonale) a ( fl w
Ito wte «t ehi» pertiiintfltna
sUlio, (officina), la ttaxù.
pilìda, la pinola.
pL passule. li tiveli.
pi. tibe, Il lebidi.
papirotuin, ol btuolot.
piiis, la bumla.
Btnuneatuni, lo incoiUr.
iocos, la inchìten.
ìiKixInla, la indritneta.
fen-Qgo, la dogata del ftr.
sera, la rasga.
leviga, la piolo.
lerigula, ol ploltì.
lenibnun, ol gxrobi.
caTaniu, ol seti.
'juadrarifiula, la squadra.
— 90 —
tempo prima del Volgare Eloquio, e tprobabilmente tra il
1270 e 1280, quando la fama del volgare illustre di Guido
Cavalcanti dava ai Fiorentini un certo . sentimento di supe-
riorità. Il manoscritto la porta sotto il prenome di messer
Osmano ; e messer Osmano Castra, o Castratutti, non è al-
tri che il ser Manno del cod. chigiano 574 , il quale nel
sonetto pubblicato dal Crescimbeni (III, 73) buffoneggia
la scuola guittonesca. Pubblicandosi per la prima volta,
ed essendo d' importanza per l'attinenza al Volgare Eloquio,
riproduciamo esattamente il testo, mandando però nelle
note ciò che riteniamo del copista. Le voci in corsivo tra
parentesi sono aggiunte da noi, onde far camminare me-
glio il verso d'una canzone, che fu detta da Dante perfet-
tamente ligata.
MESSER OSMANO
'Na Permana (1) iscoppai da Gasciòli;
eletto detto sa già in grand' afna;
e cecino portava im pignòli,
saìmato di buona salma.
Disse: a te dare' rossi treciòli
e operata cinta, s'a maitina (2)
seco meco ti dai ne la caba,
(se mi viva mai!) e boni scarponi.
So e' a te malico] fa t che caba
la fantina di Ciencio Guidoni.
«
Kandotto meo, me l'ai comannato!
cà l'ai lene; va, dà a le rote
iqual sòcolo, vitto ferrato
(1) Il cod. Vna fonnana
(2) martina
— 92 —
— E io pib non ti ^ccìo ru busto,
poi cotanto (tu) m'ai sucotata;
vienci ancoi, no sia Pirìno Busto,
ed adoc^iia nom sia stimulata.
A l'aborto ne gio alaterato,
ch'era aWato senza follena;
1 (1) battisacco trovai bel lavato,
e da capo mi pose la sciena;
e tutto quanto mi M comsolato,
ce sopra mi gitt6 buona legna;
e con esso mi fui appatovito,
e unqua mt{i] non vi abrei.
— Ma i fai com'omo isciooito;
be' mi pare, che tu mastro èi.
Pralellevolmente a lato a questi dialetti rustici o me-
diocri, al pugliese di cui Daate allega il verso
Volzera che cbiangesse lo quatraro
e al siciliano di Vincenzo d'Alcamo, conservatoci in tradu-
zione pugliese, viveva di vita vigorosa il volgare illustre,
Calcioli, Gasòli, terra degli Abruni — aina, fretla — cocino, cuscino
— taimalo, saponaio — trecioli lenuoli. » Li minori (astori) sono n
— fti —
onde gli altri poeti toscani scrissero più in volgare me-
sciiiato, che non nel dialetto proprio; e perciò male fa-
rebbesi supponendo arbitrio de' copisti quello che fu ele-
zione dell'autore. Certamente, leggendo nel testo a penna
della Vaticana di sopra citato le seguenti rime di trovatori
toscani, facilmente ci persuaderemo, clfesse possono es-
sere stale scritte dagli autori in questa forma che ce le
porge il codice, copiato da altri, e que^i compilati dai
Togli volanti de' giullari.
e. 12. n. XLIII. — Messer Jacopo Mostacci.
A pena pare eh' Jo saccia cantare
N6 gioia (1) mostrare che ileggia plagirc;
C'a me medesmo credo esser furalo,
ConRlderando a lo breve partire.
Ma se non fosse eh" è piii da laudare
Queir uom che sa sua voglia coverire,
Quando gli avene cosa olire 'n suo grato,
Non cunLerla né farla gioia parire.
Ma però canto, donna mia valente,
Ch' io so veracemente ,
C* assai vi gravèria di mia pesanza;
Pur cantando vi mando allegranza,
Che crederete di me cerlamenle,
Poi la vi maudo, eh' io D*aggio abondanza.
Abondanza non n'ò, ma dimostrare
La voglio a voi, da cui mi suol venire;
Ch'io non fui mai allegro né confortato,
Se da voi non avesse lo verdire :
Cosi come candela che rischiare ,
Prendendo foco dà ad altra vedere;
(1) Messer Jucopo Mns
tiOìiill^liQ. Cosi iMjw {ao').
— 96 —
Ben m'averia per servidore avuto,
Se non fosse di frode adomata ;
Perchè lo gran dolzore
E la gran gioia m' è stata, i' la riGuto.
Ormai gioia che per lei mi fosse data,
Non m'averia savore.
Però ne parto tutta mia speranza;
Ch'ella pari à del pregio e del valore;
Che mi fa uopo d'avere altra intendanza,
Ond'io aquisti ciò che perdei d'amore.
Però se in altra intendo, da ella parto;
No le sia greve e no Ile sia oltraggio ;
Tant' è di vano affare.
Ma ben credo savere e valer tanto.
Poi la soglio avanzare, c'a dannaggio
Le saveria contare,
Se non fosse (aUri) 'n ella qual eo.
Chi sì fa dire tanto misdicente.
Cassai vai meglio partire da reo
Segnore, alungiare buonamente.
Om che si parte a lunga, fa savere
Di loco ove possa essere affannato,
E tra'ne suo penserò.
Ed io mi parto e traggono volere,
E doglio de lo tempo trapassato.
Che m'è stato falUre.
Ma non ispero, c'a tal segnoria
Son servato, che buono guiderdone
Àveraggio; che per zò che nobria,
Lo ben servente merita a stagione.
e. 13 n. XLVnL — Messer Jacopo Mostacci.
Mostrar vorria in parvenza
Ciò che mi fa allegrare,
— 98 —
C'ogD'oino golea famn e segooria,
Ed egli, ove piit potè , più s*asconde ;
Se vene ìd pala (1), perde sua vertute.
Uedesmamente à colpa de ramante,
Però c'avante
De' omo andare in cosa che ben ama,
Cà per ria fama
Gran gioie e gran ricchezze son perdute,
E rie parole gran fatto confonde.
, V. Q. LXXXVU. — COMPAGNETTO DA PrATO.
Per lo marito curare
L'amor m'è 'ntrato in coraggio;
Gà per lo suo lacerare
Sollazzo e gran bene aggio.
Tal penserò e' non l'avia,
Che sono presa d'amore;
Fin' amante aggio in balia,
Che 'n gran gioia mi fa stare.
Per lo mal che colui ag^.
Geloso, battuta m' Ai ;
Piaccti di darmi doglia;
Ha quanto più mal mi fai ,
Tanto il mi metti più in voglia.
Di tal uom m'accagionasti.
ac«a<
ftrc^^lMMa
nr kr ■■ )Mi l^K.
E ■• i «■ fv «''•
— 100 —
Ha per eh' io mi ti laoiento
D' una mia disaventura,
Non aver ta pensamento
Che d'altro amwe aggìe cura,
Se non br tuo piadmeuto.
e. i». ▼. D. LXXXVIU. — COMPAGNETTO DA PhATO
L'amor Ta una domia amare.
I^ce: Lassai com'braggioT
Quelli a cui mi voglio dare.
Non so se m'à 'n suo coraggio.
Sire Dio! s'è' lo savesse,
Ch' io per lui sono al morire,
0 c'a doona s'arenesse,
Manderìa a lui dire.
Che lo suo amore mi desse.
Dio d'anuK", quel per cui m' ài
Gomquisa, di lui m'aiuta;
Non l' è onor, se a lui non vai.
Combatti pur la reuduta.
Dio] ch'ell'avessero usanza
L'altre d' iochìeda' d' amare,
Ch'io inchedesse lui d'amanza,
Que* che m' i u4to 1 posare.
Per lui moro fw Manza.
..•.:•■■. ••■."•— 102 —
dift'sè ventura d* la rota à fermezza
, 'Indel altezza — di voi che mostrate.
In ciò considerate — ch'io son vostro
Più che del mio cantare non vi mostro.
Se non vi mostro le pene e la doglia
Che per amor patisco
Temendo, eo veo son' de pauros<^
Che 'aver di me non vi si sforzi voglia
Del penar ch'io norisco,
Inorando voi son' ne dubitoso.
Ma 80 che possedete canoscìeoza
Di che s'agienza — tutta botoianza,
Onde la mia sp^^nza ~~ si conforta ,
Gom' fò fenicie a rinnovar s'ammorta.
Morir meglio mi fora naturali,
Pensando li martiri
Cb' i' ò patuto e pato nott« e dia
Con altre cose non mi sono [a]gaali.
De! li mie! desiri
[Co]m'èD compresi di voi, donna mia)
Non l'auso dir, che la mente b raminga.
Né da la lingua — non pò provenire.
Potendomi salire ,~ se v'è 'o plagienza,
Come Taringhe fan contro a correnza.
A tale corso mi donao natura.
Non mio' posso partire.
— 104 —
lo non so dire, e vMia
La voglia mia
Contar pa mio parlameoto
A. qudla che m' à io balia.
Ila non so mia
Ch'io possa teaet ifabento.
Cà di ab che m'è mestiere
Aggio senno e soffrenza.
La Dompot^iza
Hi f» dolere in coraio,
Gom' quelli che per usalo
Tuttor perde sua semenza.
Di benvo^enza
Similmente è il mio danaio.
Lasso! perchè sono o fìii
Amante a cui
Lascio di dire per paura,
Non smo come colui
Glie per altrui
Si mette in aventura.
Gom' temente fo follia,
E vegDO a me stesso meno.
Tanto son leno
IM dir molto che mi vaglia)
Pili temo il dir che battaglia.
Paura mi tiene in tKm;
— 106 —
SI corno Adam, lo primo
Omo da Dio crìaio,
Fue sadotto per agnolo maligno ,
Secondo cbe noi sverno ,
Odo cbe Aie ingannato
Porgendo ad Eba 'i pome de lo legno:
Cosie eo per disdegno
Da una par sua vegno
Di tal guisa scbernito;
Cà s^ io fosse sciopito,
Noi doveria potere
Soffrir lo suo volere,
Chi noi l'avea fallito.
Già no' le minospresi,
Per nessuna cagione
Non osservasse '1 suo comandamento.
Secando cb'io inlesi.
Data mi Aie inlenzone
Pur a soa mossa e a suo cominciamenta
Di danni compimoito
A tutto il mio talento,
Quando fosse ragione.
Or m'alleva cagione,
Portami blasmo assai.
Già unque non pensai.
Cantasse a tradigione.
Che no volle menlire;
Poi eirebbe dalo il bollo.
Ad Artd re &h molto.
Lì si diede in servenza.
Donna, nel dire meo,
Merzè, fede pognate,
El mio prego inlendiate.
Che giusio far lo creo.
Cosi piacesse a Deo
Di voi dare umiliale.
Pregovi sol che reo
Non vi sia, né lardiate
Di darmi liberiate
De la gioia c'aver ileo.
La quale m'imprometie
La vostra maestate.
E voglio che sacciate,
Donna, che 'I lardare
M'ha messo in tal penare,
Che mone non n'è reo;
Che sono in tempestale
Più fera che di mare.
lOS —
Non posso argomenlare
Per lo perire veo.
Donna, poi mi convene
Perir, non vo' che sia
Null'iiom che di me dia:
— Vilmente morto ene — ,
Che no argomente bene
Che scampalo saria ;
Se tosto non mi vene
Da voi conforto mia,
Non tarderaggio dia,
Paleseraggio che òne
Lo male in che mi tene
La vostra segnoria ;
SI che s' alcun nom fia
Che li doglia del male
Ch' i' ò d'amor mortale,
Che saccia le mie pene,
Cosi forse porla
Trovar pietanza in tale
Che medicina quale
Mestier mi fosse, avre' ne.
E sebbene ì due sonetti che seguono , sappiano un
po' più del dialetto, e contengano maggior copia di me-
sàdari, io non dubito che (ili autori li abbiano dettali
quali stanno nel codice. Maglio è fiorentino al certo; il
nome suo è preso da uno de' nomi di Boezio , che nel
poema romanzo della prima metà del secolo X snona
MalUos, ne" casi obbliqui Mallio, cioè Manlio. Questo Ma-
glio dugentista vuoUì da alcuni progenitore di Antonio di
Matteo BiifTone araldo di Firenze a' tempi di papa Euge-
nio IV. Che cosa abbiamo da ritenere intorno a ciò, ne
dirà il chiarissimo storico Gaetano Milanesi, che del nomi-
nalo .\ntonio e di sua famìglia ha raccolto quanto si pub
— 110 —
E son moDlato per le quattro scale,
E son assiso; e dato m'ai feruto
De Io dardo de l'auro, ond' 6 gran male;
E per merzede lo cor m'à parlulo.
bit quello bello bimbo, tat altrettale
A. quella per cui questo m'è avvenuto.
E parimente leggendo il segueote soaetto doppio di Monte
d'Andrea di Firenze a ser Clone notaio in risposta ai so-
netto : Venuto è boce di lontan paese — pubblicato dal
Trucchi I, 186:
e. 165.
I baron de la Magna barn fatto impero.
E conquistarlo credono a ragione;
Se me vogliono amico a lai mesterò,
Nom faccìan dalla chiesa partigione.
Eo son ben certo, che lo lor penzero
E i'ovra tutta è 'n bona condizione;
Lo specchio ha bene ciaschedun slranero
Di non avere falsa openione.
Or vuo'li dica, amico, lutto il vero?
Convien 'n cfTetto avvegna la lezione.
Io ne laudo Dio e messer san Pero,
Che de la chiesa ancor ci è lo campione,
lo non mi credo voglia esser guerrero
— Fosse vera! —
Morte, al cor m'adduce.
La tua luce
Che riluce
Sovr'ogD' altro splendore.
Già consuma
Mo c'alluma;
SI mi strane Amore.
SI m'à priso
E conquiso
Dì cort uà benvoglienza ,
Che niente
ìNfrà la gente
Paté mìa vogUenza.
Chi mi vede.
Di te crede
Caggia pensagione,
E la fede
Mia non crede
Ch'egli aggia ragione;
Che il mio core
iSlà 'o errore
Pur di (e pensare:
A null'ore
'Un fa sentore
Se non di te amare.
Io prego
Senza nego
Che n'aggie pietanza:
Teco le gio'.
Meco il pregio
E tutta mia speranza
e Te conforti ,
e Me desporti,
Ch'[r] era senza noia;
Non mi porti
Di conforti
Nell'angore
Croia;
Gioia
Mi doni, che amore
' Non m'ammorti.
Gerlameiite panni, che Dante poteva sapere quale
fosse ta lingua di corte di Federigo U, di Enzo, di Man-
fredi; e distìngueudo i poeti da lui citati dagli altri siS-
— iU —
il principio d' una canzone clic dal Valerìanì è attribuita a
Simbuono giudice:
Spesso di gioia nasce una encomenza.
Che adduce dolore
Al core Immano, e pargli gioi sentire,
E fhitto nasce dì dolce semenza
Ch*è d'amaro sapore,
E spess' hore V ho visto addivenire —
e canzoni di altri bolc^esi e toscani. Dal citato passo di
Dante e dal titolo del libro di Giammaria Barbieri non
discende dunque, che ciò che fu detto siciliano, sia stato
scritto in dialetto siciliano. Ma ben senza fondamento no-
gherebbesi fede a Dante, quando afTerma che tale canzone
di Guido delle Colonne fu dettata in volgare illastre, e
tale altra di Vincenzo d'Alcamo in siciliano mediocre: in
siciliano, non in pugliese. Questa egli può aver sentilo
dair autore stesso ore tenas ; e se non egli , il suo amico
Guido Cavalcanti e il suo maestro Brunetto Latini possono
aver conosciuto di persona la massima parte de' cortigiani
di Federigo, e appreso le loro canzoni dalla bocca d^li
autori, anziché da' giullari, o dai libri.
I.a leggemla cIip piihlilicliianin, si* non fosse a docu-
SEGUE LA LEGGENDA.
S;ipiè che in lo tempo clic saa l'atrìcio lo guinilo s) an-
ilKva predicando in Iilandia la parola del nostro signor Jesii
Cristo (1), Dio sì conrermà la sua pridicn e li soi sermoni con
molti e gloriosi e gran miractiU. Qncslo sancto Patricio si IrovA
ìsk gente de giielle c<l<ide mollo salvadege a poderi! Tar creder
in la fede de Jesii Oislo, si die s'eli Tosseno stadi genie sen^a
intellelo, serave slade asse. EHI erano corno bestie. E p&nò
se faiigà molto granmente per poderlì insegnar ed amagistrar
in la sancta fede, predicandoli de h pene de lo inferno, e de
le alegrt^ce e coie del paradiso, sperando per (juello tirarli a
far creder in Jesi'i Cristo ed in la lege cvanj^elica. e farli ro-
magner de li soi grandi peccadi pei- la jiauru de le pene de la
inferno. £ si pensava de confermarli in la fede per dolct>V^i de
le zoie ed alegrece de paradiso, afocliè li s^ melesse a far
bone opere. Mo lo sancto omo si se faligava indarno, e poco
li valeva ; impercocb' eli dixeva , eh" eli non lo crederave tama'
I (?) eterno, se algun de loro non vedesse le pene de lo in-
ferno e le alegrece del paradiso, digaadoli che tiito quello che
lo dixeva, si lor pareva frasche e ^ani^e. Mo san Patricio, lo
ijual iera molto inlentivo e sollicìlo a servir lo nostro signor
Dio, sì comeni;^ mollo a Jù^inar ed a vegiar ed e (3) far cordiat
oralioo a lo nosli-o signor Dio per la saliide de le anime de
quello puovolo, lo guai si iera grande sen<;a numero. Alelìn
lo nostro signor Jesii Cristo nn corno sì li se demoslrà, corno
elo li aveva fato de le altre volte, che molle liade lo li era
aparesto vìsìbilnienle in forma umana. Cristo si li dona nn libro,
in lo qual icraiio scriti luti li vangelìi de tuli qualro vangelisti,
(t) Il codice iiorld scmpru l'abbruviBlui'a^ yhu X|io.
(2) in, avendosi caina' in Malleo ile'GrilIoni. Ha poln^bbu aiiirlie
enervi omniessu U jii'up. in.
(3) Troveri'ino ancora Ve in fona dulia prciKisìiioiii: a.
— 118 —
a quello tempo dentro molti omeni per purgar luti li lor pec-
cadì e per far la lor penitencìa in un comò ed in una notte;
e quelli die retornava indriedo de là dentro, si disevano tuto
quello eh' eli aveva vigudo (1) ed oldido, coiè (2) de li gran
tormenti de li peccadori e de le grande alegrece de li (usti.
E san Patricio si confermava li lor ditti digando, corno Dio
li aveva revelado la fossa e le cosse le qual ìeraoo dentro.
E santo Patricio si feva senlar a li soi più coloro ctii ierano
stadi là dentro, e quando elo lor aveva predicado, si feva
eh' eli confermava la so predica per vecuda e per olduda. E
quella fossa si sé chiamaiia purgatorio, ìmpercochè là dentro
se pui^ li peccadi che stanno commessi; e lo moDasUer sé
chiamado RegiUi Modredo. — (3) . . . . de la morte de santo
Patricio, lo prevosto de quella gesia, lo qual iera un gran
valente omo, e si iera vegnudo si vechio, che lo non aveva
se non solamente un dente in gola. Ed in percò elo se fesse
far una cella un pocu largo de lo monaslier, e si sse messe
a star dentro solo con un «ago (4), acochè li coveni de lo
monastier uon lo avesse in fastidio et in desprexio per la sua
gran vechie^^. E si non se voleva più piar (5) con essi, né
f^ lor despiaser. Elo tolse lo dito (6) de misser san Gregorio,
che disse in uno suo capitolo, che ma stando aocora l'omo
e la femena vechi infermi, eli sono dìsprìxiadi et tigDudi per
vili par la lor vcchieca, che lij proprij floli noi li voi veder,
e sempre dixéra (7) la lor morte- Mo pur li govenì de quello
monaslier si andeva spese Sade a la sua cella di questo santo
privosto per parlar con esso; e molle flade voiando trepar e
— 120 —
prevosto sancto molte persone entra in Io purgatorio, de li
qual (tlguni de romagneva in T anima ed in corpo là dentro,
ed alguni de retomeia sani et salvi. E quel! omeni che retor-
navano de là dentro, si contavano a quelli de Io monastier
tuto quello cir eli avevano vigudo et oldido, e sì Io feva (1)
meter in sento a^ò che li voleva veder, s' eli se acordava tuti
insembre de quelo eh' eli aveva vecudo et oldido. Mo ve dirò
la costuma e lo modo de lo entrar In quella fossa de lo pur-
gatorio. Sapiè che nigun non può entrar là dentro, se non è '1
per purgar li suo peccadi ; mo negun non de può entrar ancora
senca parola d' un vescovo de quella citade che xè là da presso,
lo qual à quelo purgatorio in so gqardia. E quando algun de
vuol entrar, elio va da quello vescovo avanti eh' elo d' entri,
et delo li conscia, eh' elo non debia entrar per algun modo,
in perQò che multi omeni de sono entradi , che sono peridi là
dentro e romasi in anima et in corpo, e non sono me più
retomadi. E se lo vede lo vescovo, che quello omo non se
voia romagner d'entrar là dentro per lo so conscio, elo si lo
manda con le sue lettere bolade e sigilade de Io so sigillo a
Io prevosto de lo monastier; e quando Io prevosto à ve^ude le
lettere de lo vescovo bolade de la sua bolla che lesse, fa dir
a quello omo tuta la so voluntade, et de velando pur disposto
a voler d'entrar, elo desconseia quanto elo sa e può, digandoli
eh' elio non debia entrar per algun modo né meterse a tanto
risico, e eh' elo se aleca (2) altra penitentia ca quella per
purgar li soi peccadi. E se Io prevosto vede pur, eh' elo non Io
possa cavar de lo suo proposito, elio lo fa star in la gesia
XY comi in oration ed in digunij ed in vigilie, ed in c;ìvo
de li XY corni lo prevosto asuna (3) tuta la sua gleresìa, e
la maitina canta una messa multo solempne avanti corno; e
quelo omo che voi entrar là dentro si sse confessa diligenta-
(1) Faceva. Il codice vcva.
(2) Elegga.
(3) Aduna.
^n contrìcion ile cuor. Aloi'a lo vescovo I
niu>[i[i;i die li pnrevii che fosse abile ;i poiler portar e far
segODilo li pareva li peccadi f^ran ci-udel. Alora disse lo cavalier
a lo vescovo : Misser , io som disposto d' entrar in io purgatorio
de san Pairicio. Quando lo vescovi) T oidi , si si lo discoasia
molto forte, digandoli: Misser, de! non vossc far si fata pe-
nitentia né meter vo a tanto risico de l'anima et del corpo;
imperiò che molti de sono entradi che 'nde seno (1) romast [in
anima] et in corpo, e sono peridi là dentro; meglio ve serave
ad entrar in qualclie santa reli^'ioii e far là dentro la vostra
penitentia. Alora lo cavalier disse a lo vescovo, che certamente
elo iera al luto disposto de far i|uella penitentia che nw altra
per alora, quado elio fosse con lo alturio (2) del signor Dio
leioi-nado da lo purgatorio. Fato può' novo conscio, velan-
dolo [lo] vescovo pur voler entrar al tuto in la fossa, s) li de
le so lelere sigilade de lo sua sigilo, e maudMo a lo prevosto
de lo monaslier. E cosi corno vui ave oldìdo avanti, elo stele
W (orni in la gliesìa in oracion et di^unij et di vigilie, ed
in cavo de li XV zorni luti li glérisi de là d' aionio se asu-
nàno a far insembre e ca[ila[r] lu messa segomlo la !or usanza de
maiUiia a bon'ora avanti (orno; e lo cavalier misser Aluvlse
se comunica a quella messa, e lo prevosto li get:'i de l'aqua
santa e dèli la henedicìon, e può' lo mena con gran procession
cantando le lelauie a la porta de la fossa . e lo prevosto aversè
lamtosto la porta, e si li disse a lo cavalier davanti tuli quelli
die ierano là. si ch'ogni orna lo podeva oldir; Misser, varda
qui lo luogo dove vui volè entrar; mo se vui volè creder a lo
mio conseio, vui non de entrare ponto, aretornaif^]ve aman-
tiente indriedo, e si fare la vostra penitentia per altro modo
in questo mondo; imperiò che molti de sono enlradi che non
de retornà mai piii indriedo, an sono peridi là dentro in corpo
et in anima; e questo si fò eh' eli non entra con ferma fede
— 124 —
con lo se^o iJc santa croicc, e può' s) cndrà multo ardida
menie in la ross:i. E lo prevosto sen\ tamtosto In porta, e si
relornà con la processìon indriedo a lo so monastier. E lo
cavalicr se ne andò mollo at'dtda mente e longa mente solo
soleto per entro de qiiela fossa; e quando (i) elo andava più
avanti, tanto elio trovala la fossa più scura, taalo eh' elo perse
ogni tuxe e ogni claritade. Mo quando elo To longameote an-
dato, elo vele un poco de luxc vegnir per la boca de la fossa,
et a quella lu\e elo pervene a la pia^a ed a lo palalo che lo
prevosto si aveva ditto. Mo quella luxe non jera Clara se non
comò sÈ adesso dredo lo sol, quando elo sé andadp a monte,
d' inverno. Quelo palalo non iera fato d' abasso ponto di muri;
an iera tuto in coione, tuto fato a volli, lavorado multo sutil-
mente. Lo cavalier l'andè vardando da erto e da basso tuto
aturno, e quando elo l'ave ben vardado, elio se maraveiiì
multo de la gran fatura e della belb fa^on d'esso e de tanto
sutil lavorier eh' elio vedeva da fuora. Può' si entra dentro, e
quando elo lo vete dentro, si maravcià ancora piii tropo de la
Ta^on d'entro e de la so gran beliega ; si eh' elio dixeva dentro
das.si niedessimo, che mai in lo mondo non de aveva ve^udo
un simil de belerà. Aiora quando elo l' ave ben vardado, si se
senta ^uso, ed abiando sentado un gran pe;o, si vene là da
elio XII omeni li qual parevano esser omeni de riligion , corno
mónesi o frari. Essi ierano luti vestidi de cape bianche corno
neve. Siando cntradi là suso in la sala dove sentava [io] cavalier,
comò elli lo vete, si lo saluta molto dolcemente, ed elo leva
lamtosto suso in piò e rcndèlì lo lor saludo reverentementc.
— 126 —
vjrlude e In possanca de Dio, sen^a fallo elio seravc inscido
dal seao. Elio li pareva che tuta la gente dal mondo e luti
li animali fosseno asunadi insembre, e tati siagasse ad alla
voxe; ancora disse che quella voxe icra Indisse (1) Ria^or. E
. driedo queste vose tante alte e spagorose de li demonij , dio
vele può' che crudel ed orìbile vision, tante, che quello palalo
de fo sì pien, che nigun si non lo porave dir né contar in
algun modo. Vogando li demonij vixibilnientc in diverse forme
che tuti feva sembianza de saludarlo e gabando e signando s)
li dixeva corno reprobando: Tu si' pur ben vignudo a casa no-
stra, in per^ò che li altri omeni, che ne serve, non vigneno
me da nui se non dredo la lor morte, e tu de sse* vegnudo
avanti la morie siaodo ti san, ed in per^ò nui ten demo (2) render
mior guiderdon asè; e sapi che nui te lo redendererao (3) mollo
ben e volentìera.in perc& che lu lagramente (4] de servidor tu xe
vignudo vivo qua a soferir li tormenti per li toi peccadiji qual
tu h fati ; sapie che tu averà apresso de nui pene e dolori più
che tu non vorà; mo imper0 che tu ne à longamcnte servidi,
se tu vuol creder al nostro conscio, tu retornarà a lo mondo
donde che tu è vegnudo, e nui te faremo per nostra bonlade
questo servixio e questa gracìa, che nui te mctercmo sano et
salvo a la porla, donde che tu entrasti, e si te lagaremo asà
viver al mondo a gran cola ed a grandi piaxeri e consolation
ed alegrege; e se tu non vorà fàr, sapic che lo non seri'i cossa
alguna che te possa aidar. Li dixeva tute queste cosse per
volerlo iaganar, s' eli podesse, o per manta]ce o per losengt^
sliijoli
— 128 —
di loDgo, a man de sera si (rovà, eli pervene apontc dove
va [lo] sol sotto la tera in li più curti ^omi che xè del de-
cembrio; e perveoe corno [d] la fin del mondo; e là oidi lo
cavalier de molli grun pianti. E iera si grande quello pianar
che lo pareva che tuta la gente del mondo fosse asunadi là
per far grandissimi pianti e gran dolori. E tanto quanto elo
se aproximava più a loro, tanto li oldeva ed intendeva raeio
e più claramentre li lor gran dolori. Quando elo fo andado
longamenle, elo arivà in un campo grandissimo e molto loDgo,
lo qual iera pien de ogni dolor e pena e caitivitade; elo non
podcva veder ci fin de quello campo, telato ieralo longo comò
serave una campagna tanta granda che non se podesse veder
la fln d'essa. E là dentro ierano omeni e femcnc de diverse
ilade, li qual si giaseva tuli nudi in Iera distesi con lo corpo
insuxo. Essi erano tuti ficcadi in terra con agudi ardenti in
tuie do le man ed in Iute do li pie. E sovra d' essi ierano
draconi ardcuti li qual lor ficcavano li lor denti in le carne, e
passavali lo corpo lina a li interiori dentro; e si pareva ch'eli
li volesse devorar tuli ciu^ndo (1) loro tuia la sangue (2).
Per la grande angosa eh' eli sofrìva, eli se volava con lo cavo
a morsegar la tcra, s' eli podeva, e si cridava molto piatosa-
mcnte digando: misericordia. Ma poco lor covava, eh' eli non
la trovava ponto, in per^ che I) iera (uslixia scn^ miseri-
cordia. Che corno li dcmonij li oldiva cridar in tal maniera,
si li corevano adosso, e si li tormentava multo crudelmente.
Alori disse li dcmonij a lo cavalier: Sapi die tu sofrirà luti
questi tormenti, se tu non credi a lo nostro conseglio, e nui
— i;t(i —
renusf eìò^liberado da <|uello si crudel lormeab). Vegand*'
(jiiello li demonij e non posando aver viltoria incontra d' asso,
st lo tolse de là, e menano in un altro lerco campo, in lo
qual iera tante maniere de gente de diverse ettade. che quello
campo de iena tnio roverlo. E questa genie si casevano luti in
terra fìcadi con agudi ardenti: mo questi ierano licadi per
tutì li lor membri da lo cavo lina a le pie tanto spexi, che.
nigun luogo non se averavc possudo meter lo dedo pìginin, chff
non fosse stado agudi ardenti. E quela gente piangeva e braivi,
comò fano colloro che sofra la morte crudel, si eh' eli i
podeva latianar le lor voxe per mmlo eli' eli Tosseno intexi. E
da presso quelle pene li demonij si li tormentava de diverài
tormenti mollo crudel. Alora eli disse a lo cavalieri Ques
tormenti sofFrirastu. se tu non retorni indriedo in Ingallern
a casa tua. Lo cavalier non volse asentir niente a le sue pa-
role; an se te' le befTc de loro, e li demonij negando. Qu^
si lo prexe volandolo gUtar a tera per far d" esso comò eli
aveva fato deh altri. Mo elo disse la so oration, e ssL fo Lanlosts
delibcrado da loro e de quelo cussi crudel tormento. Alora
velando li demonij non poder lormenLir in quelo campo, si lo
amiii in un altro campo, [in] lo qual ierano de tuie manien
de tormenti e de maraveioxi dolori ed aspie e crudele pene.
Ed entro da questo fuogo si ierano de molti arbori sechi,
si ierano cargadi de orneni e de femene de diverse eladc,
qual ierano tuli apicadi con cadene de ferro ardente, le qaii-
aveva in cavo angini ardenli. Alguni iera apicadi per li pie,
alguni per le man, alguni per lo colo, alguni per li narrane
del naxo, e per li ochi e per le rechie, e per le mamele, e
per li membri. E ipielo campo ardeva luto come farave i
fornaxe ardente ben abraxada ile fuogo e de solfere fetidissimo.
El alguni caxeva suxo cradele (1) de ferro in quello fuogti;
alguni ierano straxìnadi da li demonij per lo fuogo. e molti
ierano in terra gitladi con lo viso in suxo. £ li demonij colava
de diversi metali, e ssi eili gitava cossi ardenti in suxo per
la golia e per sovra tute le membre loro. Cossi li tormentava
(I) Graticole
— Isa-
ii'essa verso Taiere e altra verso U tera, dove iera im fuog
de diversi colori, corno fa solfere, che ardeva quelle anime,
per ine^^o d' essa ierano travi comò de ferro tutì pioni d
rosori, lì qual le uicava tute, quando li demonij menava I
roda atomo. Alora disse li demonij: Elo te convien sol
questo tormento al luto, se tu non reiomi indriedo; tu cercat
adesso, corno elo xii fallo questo tormento. K si comenci
menar la ruoda at«rno con (anta furia, che lo non se vedev
quasi quelle anime die iera apicade suxo 1' una de altra. 1
quelli che ierano suxo, si pienC'Cvano molto crudelmente, di
gando: Parenti et amixi nostri, pregè Dio per mi, e fé de I
elemoxine, oration per mi; e racatàne de tante pene; in perg
che la man de Dìo si ne tocu. Alora li demooij pense lo ci
valier, e si lo volse gitar ed apicar da un de li ancini de I
roda. Mo elio disse lantosto: Jesus Navarenus eie.; ed amaB
liente elio fo deliberado de quello eossi crudel tormento. Fai
questo, alora li lo mena de quello tormento in im' altra vallt
dove elio vele corno un gran pallaco, lo qua! fumava fonia
simamenle, corno se là /osse una gran fornaxa. Quella slanci
si iera mollo longa e granda lanlo, che lo cavalier non podev
veder né cavo né coda d' essa. Menandolo li demonij vi
d' essa, e siando elio ancora molto da longi, elo volse aresU
d'andar più inan^i per caxon eh' elo senti un st grande cai(
eh' elo non podeva sofrir né andar avanti. E li demonij si
disse: Mo perchè tu réstilu e demorì qui? sapi die questa x6'
una maxon da hagnarse dentro, che tu vedi; per qui o vòglisto
0 non, elio le convignerà bagnane con quelli che se bagnano
dentro. Mo quando elio se aproximava ad essa, elio oidi
tro de dolorosi e maraveiosi pianti. A la fin elo ontriJ dentro,
e siando intrado dentro, elio vardà, e si non poue veder la
fin de quella slancia, len tuui piena de fosse redonde
ierano tute una apresso l'altra, lanlo che pareva (I) che le
locasse r una l' altra ; e cadauna de quele fosse iera piena
diversi melali coladi; e là se bagnava gran quuotilade di
— 134 —
un Sion ed un torbdion (1) ile vento che M levi tuli de lì,
e s) leva elio e luti li demonij li qual ìerano con elio; e
d li porta de là looci, e si lì sapo<^ (3) tuti dentro da ud
fiume pien de spuoa e de grandissimo felor più fredo ca gla^a
flè neve. Uà lo cavalier dixe le sue parole e romaxe elio in
suxo la riva de lo fiume con li denionij cbe lo menava. E tuti
quelli che ìerano in lo tlume, si gridavano digando: misere-
mini mei eie; ed alguni dixeva: miserere mei Deus secundum
magnam miserìcordiam tuam etc. Alora se forchavano li de-
moni] de volerlo sapocar in lo fiume. Mo lo cavalier che non
se aveva miga desmentegado le sue sanie parole , sA le dixe
tantosto. E corno elo le ave dit«, subitamente elo fa deliberado
da quello tormento cossi crudel E quando quele anime voleva
inslr de quelo fiume, li altri deraonij si li sapo^ava solo con
li so forconi de Terrò tuti arden^. Vegaudo li demonij malvaxi
non li poder far cossa alguoa là in quello tormento, d lo taix
e menalo mollo longì de là verso oriente. £ cosi andando, elio
vete davanti da ssi una grandissima brama essl[rj a dentro
da una slancia tuta d'atomo. E là dentro oidi grao cose da
lamenti. E quando elo fo dentro, elo vete tre leti grandissimi
seooa numero ; e pareva queli leti a modo de fornaxe ardente
tuti coverti de fuogo tanto erto che non se vedeva la cima
del fuogo. E si vete in lo primo leto che parevano esser car-
denalì vescovi ed abadi, arcivescovi e monexi, frari e prevedi
e canonexi regolari, che per l'avarizia e per la simonia ieraoo
là dentro purgadi di suo pecadi. In lo secondo leto ìerano li
falsi re e conti e marchesi e duxi e visconti e castellani e
— Ì36 —
e per forca i eli feva ìnglolir, e può per logo de sotto insir-
Epuò^ implìva ^ran sacconi de quelli denari, essi i eli fo-
ceva portar a forsa adosso pon^doli con forconi di ferro pon-
iti, e con bastoni de ferro li pon^eva e bateva crudelmente.
Aloni li disse li demonii a lo cavalier: De do coxe (e OMivìen
br l'una; o tu retomi donde che (u xe' vegnudo, o te con-
vignerà sofrìr questi tormenti che tu vedi che soffrisse costoro
iaato aspre e crudelissime. Lo cavalier ancumè aveva provsdo
tante fiade in )i altri tormenti lo alturio del nostro signor Jesà
Cristo per parole eh' elo dixeva, si se fesse beffe de le Ich* pa-
role, e non lor respo^ie niente. Queli demoni roalvaxi à lo
prexc e volselo tormeoiar e (1) quelli che ierano (orment«dÌ.
Mo comò elo disse le suo parole, zoè: Jesus Na^renus rex
Judeorum miserere mei; tantosto elo fo deliberado da quesU
tormenti. Alora queli demonij si lo mena longi de là inverso
oriente; ed elo se revardà davanti da sì, e si vette una aama
intolerabille e negra comò un carbon, e tan[(]o purulente e
fetoxa che non se porave dir né contar. E quela dama esin
corno d' una boca d' un po^o (2j, e pareva che non fos se non
solfere die ardisse. E quela fiama li pareva che montasse molto
erto; e ssl vete omeni volar per aere che parevano scintelle
de fuogo ; e quando la vampa se rebasava , el oldiva le voxe
amare e pieloxe che isivano de quela boca. E corno eli vene
da presso, si vette a che modo quela fiama isiva del po^o (3).
E queli demonij li disse : Sapi che questo po^ (4) che tu
vedi qui, si xè l'entrada de l'inferno, e si xè questa la no-
stra slancia; ed imper^ochè in tuto lo tempo de la vita tua tu
— 138 —
volcnlìera, impercò che nui inganemo con )o mentir e con l«
buxie quelli che nui non potemo inganar digando la verìtade,
ed in parte (1) dixemo che questo non sé ponto lo inferno, ito
nui te meleremo tropo ben 1^ do' lo xè, e si le convigneii
cercar de le imbandixion le quali sono doilro. E s) kt tohe
con gran furor e con gran tempesta, e s) lo mena lon^i de U
flao ad un fiume mollo pu^elente e fetoso. E pareva a lo ct-
valier, che quello (lume ardesse luto quanto d'una fiama de
solfere, e si iera luto pien de demonij corno sé le bo^e (S)
(1) Inlanto, om; nolo per Dante.
(2) Alveari. Ricorre in versioni del Tesoro, in principio dd proe-
mio. Oggidì in lombardo ot bui di ae, in veronese e vicentino el buu
li'ave, in friulano il bo: liet tu (es), di genere maschile; cosi nei dà-
loghi (li S. Gregorio 3, 2G buai di peectiie. Buso era deUo nei di»
cento a Y^ieiia un naviglio (Ronianin, St. di Yen. I, 228, e 11, 5S),t
l'indoralo (indorào, induro) Buìindoro. Nel nostro Tocabolariella ber
gamasco trovasi Mium ol gos, il pesce gobio la bo:a , e la botte vini-
eotìiii-a la botsola. Boaria o bozzeria e una trave delle navi dove sono
conficcale le latte. Col baco da sola venne il diminutivo bozzolo; e fkr
bozzolo vale sciamare, e andar l'ii boxh andar in giro. Ilpnoco dri
ranciulli dell'andar in giro, o Tare la ridda, attorno ad uno bendilo ijt
ocelli colla cantilena :
BAiolo, bdzolo canarìn,
Dt'glic da bevcr al fantolin,
Mghenc poco, digliene assai,
— no —
andando svanii a poco a poco. E quando Hli andava più avanti,
lanU) elio trovava lo ponte più largo e {riìi sìgur d' andar per
su\o : 0 porevalì die lo pome se largasse d'ogn'ora tanto cbe
Io desirave andando un 4!aro cargado de fon. fiossi lo cavalier
se ne andava, abiando inprìma. quando lì demonij lo messe
suxo, dita la sua oraiìoo: e li demonij romaxe de q\ik in
suxo la riva de lo riutne. E quando eli vete eh' elo se n' an-
dava axiada mente, si comencà a far gran dolori e gra
lamento, e menar gran mina, vegando die al tuto eli à l«
perdeva; e tuti gridava de dolor in lo fiume. E percft feva a i
lo cavalier quelo tanto orribile cridor, ehe bob li feva li t
mttnti e li demonij die ierano là chxo in lo Hume: si li co-4
meoi^ a gitar dredo con li Iiasionì de ferro ardenti e sti^ I
ardenti; roo non lo podeva locar. E cussi passa lo e
oltra quelo ponte, corno se niguo non li .ivesse dado impa^
algun. E. quando elo fo passado olirà lo ponte, elo se volse J
a vardar indredo Io pome e lo fiume e li pericoli che elltf
aveva passadi. e corno tuti li demonij l'aveva lassado ed abaiF
dottado. (1) Certo chi pensasse ben sovra H tormenti e li
dolori che sono in inferao ed io purgatorio, tute le peoe che ^
se podesse mo me portar in questo mondo, pararave molto
pinole e motte liriere, e si non agreverave niente, e si i
delelerave de viver malamente uè in li gran pecadi uè in lì
ddetì vani del mondo. E <{ueli che sono in li remitorij ed in
le religìon . si se doverave ben pensar , quanto sono gi^odì
ed oribeli li tormenti e le pene de purgatorio e quelle d'io-
femo e ti gran dolori die ode sono. E quando xè più li^ieta
cossa a portar li dolori e le pene de quesu mondo, in Io quai
non se oe pub viver sen^a iravaia e senca briga e sen^a grande
avcrsiladee tribulation e pene, e spesse volte oldir de le cosse
che non se vorave oldir. Mo ctii porterà tute queste cosse paciett-
lemeote. vivando ben in li comandameati de Dio, si scamparà
Iute queste pene, e sera delibemdo de tuti questi dolori e pene.
SI che pregemo lo nostro Signor Dio per nostri padri e per nostre
|t) La sedente upplicaiinna idonle é aggtonta i"
— ut —
eh' el iera, e de qua! cìtade ; s' eli ihhi retornava, eh' eli perisse
là denlro, sì li Teva queli de lo monastier una croxe, inostraitdo
eh* elo iera dentro perjdo in anima ed in corpo; e si li relor-
nava indriedo ed eli savesse instessi scrìver, si li feva scrìver
in suxo quelo libro de lor man luto quelo ch'eli aveva vicodo
ed oldido ; e per veder s' eli se accordava insembre in lo kff
dir. Certo non de iera dtfii^encia alguna ; che quello che aveva
ve^iido l'un, aveva vezudo l' altro integramente. Ed impercA che
questo cavalier aveva letto in suxo quelo libro, elo saveva per
queli che^veva scrìto de so man tulo quelo ch'elo doveva trovar
Mi dentro. £ s'elt non saveva scriver queli che retomava , no de
queli de lo monastier scrìveva H 'ncontra de lo so nome luto quello
che aveva vi^udo ed oldudo là dentro. Ed impercò saveva que-
sto cavalier luto quelo ch'elo doveva dentro trovar. Mo avanti
eh' elo entrasse dentro da la porla, si li vene una granda pn>-
cessiò incontra, tanto grande, che impossibile serave a podedo
dir, imperché lo non de vette <;a mai in lo mondo una ^ grao-
da. E molti portava avanti dopierì , e si portava la croxe. le-
vada, e tuli portava in man rami de palma, che pareva esser
luto d'oro. E là vete lo assai genie de diverse eude, elo de
velie vescovi ed arcivescovi, monexi ed religiosi d'ogni sorte,
e prevedi, ed i resi, ed altra genie mondana asè ed io gran
quantitade ; e luti ìerano veslidi de ssl fato abito , corno dU
solevano portar in questa viia presente siando al mondo vivL
E cadaun demoslrava in che abito eli aveva Dio servìdo. E
là fo lo cavalier receudo con mollo grande alegrec«, e con
mie OTor. K ssi fo men:'i rons'i caiUando con dolye me-
— 144 —
canti e melodie cb' elo oldiva cantar da quele sanie e beoe-
dele compagnie; e gran pioxer e deleto aveva in queli suavis-
simi odori li qual elo sentiva là dentro. E può elio vedeva che
cadauD de loro feva festa grandissima de la so vegniida U
dentro; e tuti quelli che lo vedeva, si benediva e loldava lo
ooelro Signor Dio; e pàrevali che tuti fexe per la so vegnnda
novela ^ia e novela alegre^ e festa, corno se cadun avesse
so pare e suo fioli o fradeli rescoso de lo pericolo de la morte.
Là dentro no iera né caldo né D'edo nò cossa che li podesse
nuoxer. Molto iera lo luogo piacevole e deletevole. £ là qoelo
cavalier vele assai più cosse che lo non messe in iscrito io
suxo lo libro, in lo qual tuti queli che retomà, s) scrìveva queli
ch'eli aveva ve^udo là dentro. Imperfochè lo serave stado impos-
sibille a scriver tuto quelo che aveva ve^udo ed oldido. Mo quando
lo cavalier ave ve^udo tute queste cosse che vui ave oldido ed
assai pifi che non digo, alora li do arcivescovi che se lo menan
de me^o, si lo mena de parte, e può si li disse: Fradelo nostro
carissimo, mo astu vegudo quelo che desideravi a veder, zosè la
vita de li (usti e li tormenti de li pecadori. E benedeto sie lo Wh
stro Signor Dio, lo qual à fato tute cosse, e che ne racalò de
lo so precioxo sangue, che questo bon proposito te dona, de
lo qual elo te à dona de for^ e possane de passar )i tor-
menti, li qual tu à vegudi , e che per la sua gratia e pieUie
e misericordia tu xè vegnudo san e salvo qua da nui. Te di-
remo (0 che sé questo che tu à vcgudo. Sapie che questo pa-
iexe, lo i^ual tu à ve^udo, si xè lo paradiso terreslro, de lo
Adamo e
— 146 —
Dui avemo fati in nostra vita in lo mondo; e benclienui ooo
semo ancora ponlo degni d' andar in paradiso , ben die nui
semo qui in graodissima consolazion e goa ed in gran reposso,
cossi corno tu pò veder e senlir. E quando sera la voluntade
de lo onnipotfflte Dio nostro signor, nui monteremo de qui in
paradixo. E sapì che la nostra co:iipagnia eresse e sì descrese
ogni ^mo; cossi comò quelli de purgatorio veguino qua da
DUI, ^ vano de qui in paradiso. — E quando elli ave cossi
longamente partado con esso, elli lo mena in suso una tnoO'
lagna, e sfando lù suxo elli li dissi;, che elio vantasse in suso.
E cussi elo vardà. E può lo domanda digando : De che exAor
te par el cielo che tu vedi? Elio respoxe: Elio me par coma
\h V oro , quando elio \è ben nfìnado in la fomaxa. Ed eli
disse: Sapì che quello che tu vedi si xè la porta de paradisso;
quando li angeli dismontano de paradiso, eli desmonta per qui;
e queli chi vano de qui in parailixo, st vano per qua suxO-E
sapi clie cadun ^rno de quanto nui semo qui, lo nostro si-
gnor Dio si ne passe de la mana da f ielo; e tu saverà ^ bm-
toslo Como la nostra vivanda xò fata. E sapi che questa mon-
tagna si xè quella che nasce li quattro llumi principali , coxè
Tigris Elfrates Erixon e lo fiume Cordan. Ed in questa mot>-
lagna non nasce altre piere se uon robini baiassi e salili ed
altre piere prccìose, e si ode xè tuui piena. E queste Btunere
si de meua i;uxo in grandissima quantitade; mo la via si xè
tanto longa, che poche de può venir dove cbe abita gente, e
quele poche che xe trova al mondo, tute xè de qua dentro.
E chi podesse vegnir qua da presso da questo paradixo
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— 148 —
incontra la so voluntade. E la porla e si fo mollo tosto se-
rada dredo elio. Como elio (o essido fuora, elio relomà per
la via che lo iera vegnudo indna a la sala de lo pala^, dove
ri (1) aparete san Patrìcio con li XII monexi vestiti de veste
bianche. Tuli li demoaìj che lo inscontrava, luti scampava di
elio, conio fano li sor^i quando eli vede la gatta; inpergo-
ch'eli lo temeva molto dura mente, né negun de queli tor-
menti nollt puote nuoser niente né far mal algun. Cossi loslo
corno lo cavalier (o ronlo in la sala de lo pala^, tamtoslo
vene da elio li XII religiosi li quali aveva parlado a T andar,
e al loldà lo nostro Sipor molto gran mente, digamlo.-fiene-
deto sia lo onipoienle Dio, lo qiial le à mantegnudo in si
forte corano, che certo tu ii pisaaéi luti li altri, che sono
me stadi qua dentro, de conslancia o de ardir e de fone^ ìb-
Gonlra li demonij mnligni, e si non h me abudo paura d'essi,
e sempre tu k desprixiade le lor parole. E s\ li disse può':
Sapi che tu xè acquiutado ed asolto e piirgado de luti li loi
peccadi. Mo te convien reiornar indrìedo presta menie, inper-
^ochè r alba del ^omo si coment a parer sovra terra de
fuora al mondo; che lo prcvoslo vegnirA ad avrir la porta,
la clerixia con gran procession; e s'el non te trovasse a la
porla, quando elo la verrirà, eto se dubìtarave crecando (2)
tu fossi romaxo qua dentro in corpo ed in anima, corno de
sono romaxi molti de queli che nde sono entradi più tosto
per veder cosse nuove ca per purj^ar li loro pecadi. Ed io-
percù non te trovando, elo relomaravc tao tosto io dredo con
la procession a lo so monastier. Alora eli lo segna e benedl ,
LA LINGUA COMUNE
MiLOGO
AIIATOFILO, TIMETE, AMICO VEROSESE
AfìAT. — Giungi in liiion pnnto, Timefe; ho ripi-
glialo i miei siHdii liloingid, ila alcun tempo interrolli per
quelle ragioni, che sai. ed oi'a sto beccanilomi il cervello
a lille (li schiarirmi im (lul)l>Ìo, che m'è nato in mente
leggendo (jiiesta Appendice aìin Helaztatie iiitorm alt unità
della lingua, data alle stampe l'anno passato. Deh, se
non ti noia, aiutami, che temo di non sapere per io ap-
punto deciferare questo passo.
TiM. — Tu vuoi la baia de' fatti miei. Dimmi anzi
aperto il tuo pensiero.
— ini —
A«AT. — Sì, nel 1694, come è dello a pag. XVIII.
Tu vedi adunque
TiM. — Vedo che ìt granchio fu preso senz'altro.
AoAT. — Pare anehe a tef
TiM. — Sì, certo. Ma forse che il metodo prescelto
fu quello, che servì per le varie compilazioni Sno a que-
sta sesta, tanto che si possa dire di essa quello che della
prima?
Agat. — Né della prima, né dell'ultima, pcàchè gli
Accademici francesi mutarono poi tenore, le Dictùmnaire
ayatit vieilli pendata qu'on y travaillail, on revint sur
ce qu" on avait fait. — E sai perchè ? Perchè quando Ri-
chelieu ordinò si desse mano al Dizionario della linguii
francese, on ne savait pas encore ou preadre cette latigtte.
Elle n' étail plus dans V inculte liberté et la confusion
hétérogène du seizième siede; on ne la voyait pas encore
daits les génies rares et contestés des cotnmencemenls d»t
dix-septxème. Gli Accademici antichi formarono la Tavola
degli scrittori da citare; ma, vedi, si riduceva a pochis-
simi , e la loro lìngua , non avendo ancora preso suo stato,
era incerta, confusa, oscura, ed in gran parte già anti-
quata. Dunque, volendo pur fare un Vocabolario, non ri-
maneva che appigliarsi alla lingua parlata. Ma nOD era an-
cora compito il lavoro, che ecco penetrare nuove muta-
zioni nella lingua , ed il Vocabolario già invecchiato prima
— 154 —
loHles le!i unances dn laiìgaye Artt, e di tenere per re-
gola che d la lottgae les moderaieun de C usage y cedent
eiix-méauss, cootra il Bossaet, e lo Swin, i quali deside-
ravano si isliluisse un'Accademia in ciascuna delle loro
Capitali, investita deir autorità di governare, una la lio-
goa francese, e T altra la lìngua iaglese. Gli Accademici
adunque, non fanno eccezione di età, essendo o^imai
stabile sostanzialmente la loro lingua, comechè tì s'intro-
ducano mocU0cazioni accessorie, e gli scrittori sono ap-
provati, ove sappiano, conforme fecero i classici secen-
tisti, tenersi valentemente sulle orme dell'uso. Che ne
dici, Timete, di queste mie interpretazioni?
TiM. — Mi paiono dedotte a (11 di logica. Né so finir
di dolermi che da un pezzo in qua non si resti dal pro-
porcì a modello, non la sapienza nostrale, sì la forestie-
ra, che, eccellente per gli oltramontani, non fa però che
imbastardire il nostro genio, volendosi applicarla a noi
senza una discrezione al mondo.
AoAT. — Consento teco in tutto, e se alcuna volta
parlo alto e franco, il fo, non per irriverenza verso al-
cune persone, e perchè io reputi aver esse inleso di re-
car onta alla nostra patria , ma perchè panni che ad ogsà
modo un danno le provenga dalie loro dottrine. Come si
divulgasse tanto prestamente, e laicamente la lingua (Iran-
cese Pabbiam veduto, ne l'Autore dell' Appendice ^nora
— 156 —
corte di Sicilia, in Toscana, e hion, .s'avvezzavano a co-
municar fra loro mercè la lingua di quelli. Né mi penso
cbe la corte medesima abbia giovalo poco al dÌYQlgameDlo
della lingua, che se il ghibellinismo insanguinò la sventu-
rata Penisola , indusse però i popoli a trattar fra loro per
intendersi, e collegarsi, e non è a dubitare che air uopo
servi la lingua allora appena venuta fuori. Questo aiuto
insieme con P altro, che proveniva da' commerci, {h^
mosse r opera degli scrittori.
TiH. — Mi piaci in ogni cosa; e non so perchè la
nostra lingua es.<tendo di quella natura, che hai detto, non
avrebbe potuto avere , com' ebbe infatti , virtù di divulgarsi
a modo della francese, che pare sia tratta più schietta-
mente dal favellare comune.
Agat. — La ragione gli avversari non la dicono, e
poi il fatto prova il contrario, che la lingua de' nostri
scrittori è comune dalle Alpi alla Sicilia, come ho detto
altra volta. Vedi infatti se, dove che tu vada, parlando
assa lingua non sei inteso, e se chi ti ascolta non s'' in-
gegna di risponderti di conformità. Parla invece il tuo dia-
letto, od il puro toscano, e vedrai divario I
TiH. — È verissimo.
Agat. — L' errore de' contrari è lutto nel tenere la
lingua degli scrittori per una congerie di vocaboli, per un
Ar.AT. — La lìngua Traacesc, vicinissima al tempo in
che ebbe suo stato, non ha soflerto che lievi alteraziooi,
comechè tuttodì gazzettieri, e romanzieri le menino gra-
vissimi colpi. Appresso di noi la difTerensa fra la lìngua
scrìtta, e la parlata toscana è ben maggiore, perchè piti
antico il nostro secolo d' oro , e perchè alla libera ope-
rarono gli scrittori nostri eccellenti. Onde gli scrìtti italiani
possono traslatarsi nella favella pretta fiorentina, od'' altre
parti della Toscana, e viceversa; né la differenza corre
solo tra r esteriore, come sono le desinenze, e certe al-
terazioni particolari nelle parole, provenienti dalla pro-
nunzia, ma tra voce e voce, modo e modo, costrutto e
costrutto. Non dico già che si tratti di due lìngue; è una
lingua, che, essendo scritta, si è resa elegante , e si è ar-
ricchita di parole, e forme grammaticali derivate da altre
fonti, elle non sono le toscane, senza iwrciò diventare
metaforica né una congerie, ne una deformità.
TiM. — E (jiiesla lingua si chiama vìva, non è vero?
Agat. — Sì, perchè nella sostanza è toscana, e si
misura principalmente alPuso toscano, per questo che ne
accoglie le nuove voci necessarie, o utili, che la lìngua
scrìtta non può contener tutto, e lo scrittore acquista fran^
chezza conversando col popolo.
TiM. — E serve dì criterio per dìscernere la parte
— 1«0 —
iiniana perversità e follia , da lasciare pìcciola speranza di
rimedio, ove altri noQ s^ affidi nella maDO di Dio.
TiM. — E so che la tua non sarebbe vita d'ozio,
ma di assidua meditazione.
AuAT. — L'età presente, che non dà importanza se
non a ciò che cade sotto i sensi, e poi^ utile materiale,
giudica quel tenore di vita inRogardia, e biasimevole di-
spregio del mondo. Le prove sono recenti, anzi quotidia-
ne; eppure non si lagna della turba di certi eoa detti
ptMlkisti, e di certi componitori di romanzacci, che scia-
l>ano tempo ed ingegno in ben altro che in opera vana,
ìnducendp la civile società a corruttela, vituperando, e
belTeggiando tutto che la sapienza antica e moderna, di-
vina ed umana lia costantemente proposto per princìpio e
fine di vero e di bene.
TiM. — In realtà il governo della pubblica cosa è in
coleste mani. — Ma lasciamo (piesti discorsi , che ve^o
r amico mio. 0 Vincenzo, non volerci male^ se abbiamo
indugiato.
.Amico V. — Non cominciamo colle cerimonie, sai ne-
mico eh' io no sono.
Agat. — Sì, senza cerimonie : colie persone che amo
ed onoro mi è grato al sommo poter usare con dimesti-
chezza.
TiM. — Io poi nelle cerimonie mi ci trovo tanto im-
— 162 —
sce di nuove voci e forme di dire. E il suo m^gior torto
non istà nell'avere richiamato alle Tonti; era questo un
sano avviso ed un utile consiglio. Poiché la lingua era
corrotta, colà dovevasi attingere le nostre proprietà ed
el^oze accordandole coli' uso vìvo del dire toscano ; il
torto slava nel non ammettere salute iaon dei trecentisti,
nel pretendere la lingua formata, compiuta, perfetta e
fìnila nel trecento quanto a voci, forme, locazioni, frasi,
artefìdo, e die porgesse modo a dir lutto, oppure si
dovesse lasciar dì dire quello che il b'ecento non por-
gesse mezzo di esprimere, e che la lii^ua del trecento,
che vive in bocca del popolo toscano anche a nostri dì,
sia tutta negli scrittori dj quell'aureo secolo >.
.\«AT. — Se non vi spiace comincerei subito dal fare
alcune note a quello, che avete letto.
Amico Y. — È il piacer mio.
TiM. — Kd io, come arbitro, proporrei che, per
risparmio dì tempo, uno leggesse il suo scritto, e Taltro
approvasse, o disapprovasse con brevi argomenti. In tal
guisa sarebbero baslevolmente messe in chiaro le ragioni
prò e centra , e avreste agio di trattare di più cose prima
che si faccia notte.
Amico V. — Lodo il tuo consìglio, ed ascolterò di
buono grado gli appunti, che farà Agatofilo a' miei pensieri.
— Itìl —
pare av»r torto il Varchi assereodo die ttiuna tùtgua si
può chiamare veramente lingua, la quale non abbia, no»
dico tcrittori, ma lodati scnltori; ed il Bonbo che af^
femia lo stesso, cioè che non si può dire che sia vera-
mente lingua aicaaa favella, che non ha scrittori ».
Agat. — Siamo a quel medesimo, di supporre che
altri possa mai immaginar una lingua di scrittori che dod
sia insieme lingua dì popolo, cioè parlata. La quale sa-
rebbe la più amena immaginazione, poiché il fatto, ed il
raziodnio concordano nel mostrarne la falsità. E però il
Bembo, e il Varchi dissero: lingua che non abbia scrit-
tori, ponendo cosi che la lingua scritta sia prima parlata.
Ma essi considerando la lingua sotto un rispetto, a mio
senno , filosoiìco quanto mai, vollero si chiami lingua per
eccellenza, notate bene, per eccellenza, quella che ha
lodati, ovvero come sogltam dire, classici scrittori. £ si
clie in niuna lingua appaiono questi , se prima non è per-
venuta alla sua perfezione, che vuol dire al suo slato. —
E^i allora raffermano, se no fanno conservatori, e alB-
natori, principalmente scartandone quello che vi è di di-
scordante, e di troppo popolaresco, e però le danno
quella parte, che da essi soU può provenire, P eleganza.
Noi dunque abbiamo ragione di tenerla per letteraria,
sebbene non sia vero che la consideriamo per letteraria
AiiAT. — Riuscirebbero andie pe^io, se veramenle
il loro uso fosse divìso da quello del popolo, come hnao
que' colali scrittori, che abbiamo testé, come ^ doveva,
dannati. Ma quando si tratti di el^gere, e di altra mo-
dificazione consentita dall'indole della lingua, di forma
che questa ne esca realmente più vaga , e maestosa, lo
scrittore sarà le mille miglia lunge dall' affettato e dal
pedantesco, quando però non si voglia aflibbiar questi
nomi, per un esempio, ai tre principali scrittori del se-
colo XIV. — Concordo con voi che l'uso proviene dal
popolo: non ho io detto che fa la lingua? Ma o^o che
gli scrittori siano ridotti al solo ufficio negativo d'impe-
dire l'abuso, e la corruzione; primo, perchè se legge
assoluta è l'uso popolare, non si sa vedere quando de-
generi iu abuso, ed in corruttela. Sarà sempre buono e
lodevole. Secondo, perchè se gli scrittori sonda tanto da
frenar la lingua, che non si guasti, posseggono eziandio
r arte di man^giarla pensatamente, e di ridurla, come ab-
biam detto , ad urbanità , e splendore. Io somiglio la lingua
prima solo pariata, e poi anche scritta, ad una vergine leste
incolla, e vestita di rozzi panni, ed ora, conservatole il
candore, e T innocenza, ammaestrata a gentilezza, a squi-
sita civiltà, a perfetta grazia, e leggiadrìa. È sempre una,
ha sempre le fattezze di prima, e lo stesso ingegno,
comechè raggentilite quelle, e addestrato questo. Cosi
— 172 —
Amico V. — * Né io voglio sbandire Tnso de'claf^
sìci in omaggio alla lingua moderna ; basta accordarlo coK
r uso corrente , quando questo repugnaodo air oso de'
buoni scrittori di tutti i secoli, i quali ci ritrassero e
conservarono V indole di essa lingua , non chiariscasi per
corrotto, e fortaoatamente Tuso de^ classici e Paso cor-
rente vanno meglio d'accordo che altri non crede, e lo
stile del Fanfani vel mostra >.
TiM. — Qui poi Agatofilo non sarà di conlrarìo pa-
rere ; egli non rifìoisce mai di lodare lo stile del Fanfimi,
di M. Hindi , del Guasti e di pochi altri Toscani.
Agat. — E questi egregi uomini mi ritraggono in
atto lo scrittore , che ho in idea. Ma ho già detto che se
l'uso corrente )ia fra noi suprema autorità, non rimane
agli scrittori che acconciarsi ad esso, allora eziandio che
si dilunga dall'indole della liagua degli aitimi cinque se-
coli, e so di uluni che dicono appunto mancare il crìto-
rio per giudicare delle buone e delle male atteraziom,
che il popolo possa arrecare alla sua favella, e non vo-
gliono sentir parlare d'abuso, e di comiltela. E poi, a
che gioverebbero gli scrittori? Se una voce, od un co-
strutto è contrario air indole della lingua pariala , ci si
vede subilo paragonandolo ad essa, senza rimontare alle
età passale. Sicché nell'opinion vostra i nostri scrittori
valgono ciò che gli scrittori francesi del secolo decimo-
— i74 —
Siro criterio riduce a poro meno che a DÌeote l' impor-
lanza degli scrittori, salvo lo siile, e la matnia; il nostro
fa loro grm parte net fatto della lingua ancora, e Uene
in iioQ picciolo conto la lingua parlata. — Ecco perdiè
avreste un bel dire: < Non ^ ripudi nello scrivere la
lingua dotta; sarà ottimo quello solvere, die valradosi
il più della lingua parlata in Toscana, e di quella parie
delta classica e dotta, che è viva ancora, esprime il pen-
siero moderno conformemenle ali* indole immutabile della
favella, fondata dagli autori toscani ». Imperciocché tali,
0 somiglianti parole avrebbero loro proprio signincalo pei
Francesi, a moM' esempio, non per noi, che il piti della
lingua, anzi la lingua abbiamo n^^li scritiori classici. Voi
verreste sempre a i-idurre la parie della lingua dotta an-
cor viva ad essere tutt' uno colla lingua parlata dal popolo
toscano, e però tanto varrebbe porre in disparte affatto
gli scritiori, e non avere ricorso che al favellare di esso
popolo.
Amico V. — • Eppure nel mio concetto non intendo
ripudiare il lesero letterario della favella, ma stando io
per la lingua viva.... •
Agat. — Dite parlata, che viva è anche la scrìtta.
Amico V. — • Volli che coli' uso dei parlanti a ve-
nisse a conoscere quanta parte della lingua letteraria sia
— 178 —
poiché sarebbe di quella sorte che è il proemio uella pa^
lata liorentina della Novella del Faofanì; e se fosse iiiTeoe
tal quale é scritta tutta essa novella, sarebbe la lingua
comune italiana, che ci hanno data ■ classici, lemperab
colVnso delle persone colte di Toscana. Vuol dire, adan-
que, che i toscani d'allora non trascuravano il loro idio-
ma, poiché in esso non iscrivevano, £^ la lingua falla ita-
liana , e questa è la verità , essendosi poi dati a scrìver bene
parecchi tra loro, e de' primi Tuomo egregio ora nomi-
nato, e quegli altri già detti, i quali ottennero il fìne vo-
luto dall'Azeglio, ma con mezzi ben più acconci.
Amico. V. — ■ Io sto col Manzoni, non conosco al-
tra lingua che la parlata, altra lingua scritta che quella
die è conforme ad un uso parlalo, assegnato, determi-
nato ed uno. Il vostro peccalo originale è insomma il non
s.i|iervi dipailirc dal concello letterario della lingua rego-
lata, squisita e artificiosa, che sì può bene studiare e imi-
tare dagli autori, ma non mai rendere comune».
AfiAT. — Oggimai vi dovreste accorgere che il con-
cetto manzoniano sta in genere, non in ispecie, avendo
noi in realtà la lìngua comune mercè gli scrittori, per
negar che facciate non potersi mai, loro mercè, render
comune. H pregiudizio, adunque, o peccato originale,
pare sìa tutto di voi altri, che colle vostre teorie vorrò-
— 180 —
vulli bene che si corregga la lingua parìaia per via della
scrìUa, nell'uso lelterario, ma che nel tempo slesso la
scritta si attinga dai parlaali, e non dai libri soltanto; cbe
per la cognizione e ta pratica della parlata si distingua
nella letteraria ciò che è vivo da dò che è morto; volli
metter d' accordo coli' uso dei parlanti quello degli scri-
venti. E questo si chiama Tar opera da ingrati, sprezzar
i classici? ■
Ar.AT. — Voi, Vincenzo, mi fareste ingiuria se cre-
deste mai cir io abbia dubitato della Iwntà delle vostre
intenzioni. Volete fare del t>cnc, è cerio, ma, a mio giu-
dizio, errate neiP elezione dei mezzi. Non prendete aduo-
((ue in mala parie s' io continuo a parlare francamente.
Amico V. — Uilc a vostra posta.
.\(iAT. — Le nllìme vostre parole comprendono ve-
rità in palle, ed ìli parte son difeltuose. V^go, o panni,
che ponete delle restrizioni alla vostra opinione, rìducendo
air uso domestico principalmente la Nngua odierna, e nep-
pure per tutto esso uso, ma per (pielte cose in ispecie,
die non si trovano nominate su pei libri. — E fìn qui
potremmo essere con&>rdi. Il resto sente ancora un po'lrop-
po del criterio generico, che voi, e i vostri partigiani
avete nssunto, ed ha bisogno a sua volta di essere tem-
perato. Finattanlochè non riconoscerete quello, che è un
— 182 —
in SH por <li>clnrnp Ifì Icgf^. anziché rmlfre di potere iro-
pnnemente applicargli certe allre. troppo generali, perdiè
dedotte da lingue diverse.
Amico V. — « Ed io fo'per Io appunto così, pm-
che vo*che si imitìoo i classici in ciò che esà medesind
hanno fatto , che i TrecenUsU non usarono altra lingna da
quella che correva ai loro tempi sulle bocche del popolo >.
AoAT. — Questo è vero se s' intende con ci6 di a-
gnidcare die in sostanza scrivevano in queBa lingna, e più
prettamente i man colti. Ma come prima si passa a con-
siderarli con diligenza , si discerné V arte da loro osata
per discostarsi dal favellar comune, onde g)i uni dagli al-
tri riescono distìnti ; non parlo ora dello stile, ma dei co-
strutti e delle parole. E qnesto soprattutto si discopre in
queUi, che non iscrissero in solo servigio proprio, o del
popolo, senza proporsi, insomma, di fare opera lettera-
ria, quali sono gli scrittori di Leggende, di Ricordi, esi-
mili, ma in coloro, che informandosi prìncipalmaite su-
gli esempi latini, intendevano a fare opera durevole po-
nendo gP inizii d' una nuova letteratura. Ciò che poteano
farti assai agevolmente molti di loro, per questo ancora
che furtmo pili tempo fuori di Toscana, come intervenne
ad un infìnito numero di poeti, eziandio non toscani, ed
ai trt! sommi padri della nostra lingua e letteratura. E
peni, se pel natio candore, e per la purezza tutta ver
— 184 —
A<iAT. — Fatta la ilUttnziono di poc'anzi, si vedrà
in quali scrittori sì deliba cercare l'arte; e poi si consideri
die altro è che apparisca aver voluto uno scrìttCHre seguir
le norme dell'arte, e non essergli presso che venato fotto,
ed esservi mirabilmente riuscito. Il Triumvirato, che ebbe
questa sorte, servì subito di modello agrilaliaDi, e serve
tuttavìa. E che tutti questi abbiano scritto in lìi^na to-
scana l'ho già consentito, e so che non ostano forme e
voci latine, italiche, o forastiere, che vi siano state intro-
messe. — Ti ricordi , Timete , che già parlammo a lor^
di quello, die Dante ragiona nel libro del Volgare eb»-
qnio?
TiM. — Me ne ricordo benissimo.
AciAT. — Abbiamo veduto che egli distingae la lin-
gua parlala dalla lingua letteraria e comune, che dice vol-
gare illustre, aulico, cortigiano, perchè da magisterìo in-
nalzato, e^isendo dì tatitì diretti di pronunzia, di tanti con-
tadineschi accenti, così egregio, così districato, cosi per-
Tetto e così civile ridotto , come Gino da Pistoia , e Dante
stesso nelle loi'o canzoni dimostrano. Notate che tale opera
di modificazione attorno alla lìngua sì deve ad altri ezian-
dìo, oltre r Alighieri, il Petrarca, ed il Boccaccio. E la
lìngua co:^ innalzata egli dice esser quella , che in ciascuna
citta appare, e che in niuna riposa, che è di tutte te città
italiane, e non pare che sìa di ninna, colla quale i voi-
— 18(i —
l^tfendo le Prose, V l^-ivlano, e cotali altre opere, non
etxrettuatu le grammalìche, e parUatlanoeDte gli scrìtti
del Nannucci, e le oote e gli spogli distesi per dilìgena
di dotti filologi a corredo delle scritture treceatistiche. Io
stesso maitre che in sifliatii tesori mi delizio , sc^o tener
ricordo de' latinismi , e forestierismi d'ogni maniera, die
spessìssime volte occorrono per entro a quelle, ed af-
fermo che meri:è questo minuto studio, e continuo, mi
SODO meglio che mai certificalo di quello, che sostengo
conforme air opinione di egregi autori, essere, cioè, il
nerbo del nostro comune volgare la faretla tosoma, mi
doversene ricevere le leggi, e la forma perfetta dalle opere
immortali de' primi scrittori. Né si oppoi^ che certe pa-
role, e certi modi potevano essere allora comuni alla no-
stra, e alla lingua provenzale; perchè, oltre il coglierne
facilmente una cotal discordanza naturale dal tutto insieme
delle voci, e dei modi nativi, ed il trt^vare il più delle
volte questi di costa a quelli , la storia di que' tempi ci
i-cnde agevole il persuaderci di ciò che dico, pcnchè
le Crociate ci avvezzarono prima alla lingua franca, e i
Normanni accogliendo alla loro corte uomini illustri d'ogni
nazione, e primi fra essi erano ì trovatori provenzali, ac-
crebbero grandemente l' influsso delle lingue straniere. Se-
guitarono il loro esempio gli Svevi, e più cite tutti gli
Angioini, per amore di nazione prot^gitorì magnìfici
— 188 —
AMim V. — ■ PmpoDendo un linguagfpo da diffÌMt-
clere nel popolo, non è da badare, oso dire, né al buono,
uè al puro; ma solo a dare un mezzo eguale dì comu-
Dìcazione fra tutti i membri della nazione >.
Agat. — A. me pare sia da badare all^ona, e al-
Tallra cosa, chi voglia tare opera perfetta. Ma che dico?
Per noi non si traila punto di proporre un lingua^io, si
di aiutare con ogni mezzo il divulgamento di quello che
già è comune.
Amico V. — ■ Che cosa importa di più cirilmente
ti politicamente? Che vi siano cento uomini marcili in sui
libri, die sappiano in un caso parlarvi in un modo da
disgradarne la Crusca stessa, oppure che tutti i cittadini
d' Italia sappiano parlai'e, e parlino eflettivamente ìtaliaiw ? ■
AuAT. — Queste parole, il dico schietto, mi mara-
vigliano. — Gli uomini marciti in sul libri sanno fare ben
altro che parlare in modo da disgradarne la Crusca: essi
possono avere raccolto tanto senno da Tarvì avveduto che
civilmente, e politicamente non ^ova mettere opposizione
da di essi, ed i cittadini, che parlino, o no effettivamente
italiano; che se loro mercè il popolo si da a vita civile,
e politica, e la sua virtù si specchia nella sua lìngua fat-
tasi perfetta, conserva altresì, e lingua, e virtù per opera
di quelli. E quanto a noi, ripeto che nuovo afCatlo è il
vostro modo di onoi'are ({uegli uomini, che continuano le
unii sconcio gravisduno, al quale vuoisi porre proirio lì-
medio. Ma i^iò non U^ie cbe sia coamoe la lingua, per-
che ad ogni Diodo è intesa uniTersalmeole, e parlala
dai più.
Amico V. — ■ Ma cbe? 0 io Toscana si paria oggi
come parlaTasi e scrìTevasi nel trecento e nel cinquecento,
e la lingua è la stessa, e niente di male a imitare i to-
scani; ovvero ora parlano io manìo'a diversa, e la vostra
lìngua letteraria sarà bellissima, ma rancida e mmla >.
An\T. Sarrebbe stata rancida e morta sabito cbe fti
innalzata a perfezione, e divulgata, che fin d'allora ebbe
dalla parlata quel divario , che ho accennato. Ond' egli è
vano il vostro dilemma, perchè n<Hi comprende questo
terzo caso., il quale per soprappiù è il solo nspondeote
al fatto. — Non importa dunque esaminare se oggidì il
jiarìare tosiamo sia o m mtaùa bello, nrmonioso, pro-
jH-io, elegante , espresmo e paro, ove però non si voglia
farlo per sapere se si possa ad esso avere ricorso sicura-
mente quando si tratti dì rifornire il volgare di dò cbe
per avventura gli fa difetto.
Amico V. — • Però la lìngua studiata nei classici è
inefficace a preservare i molti da' francesismi nel parlare
e nello scrivere, ì molti, cbe sapendo imperfettamente e
male T italiano, ricorrono di necessità al francese, che
— ÌIH —
Amux) V. — V accordeivle dutique con questo trailo
(Ielle mìe note? * Costoro che vogliono la lingua lettera-
ria unica, perpetua, inalterabile norma della lingua co-
mune da parlarsi, e da scriversi, mi danno sembianza di
nn collettore di dipinti dMnsignì autori, il quale invitasse
i giovani pittori alla sua galleria, e tenesse loro un di-
scorso su questo gusto: ammirate capolavori che sono
questi. Se volete riuscire a Tame di simili traete di qua
le forme, le attitudini, le movenze; lasciate da parte la
natura, che è l)rutta e golfa. Forse die i]uei giovani non
si lideri'bliero de' Tatti suoi" E se le risa lasciassero loro
facDltà di parlare , non gli lisponderehbero tosto che quei
valenti fecero di cosi belle cose studiando sul vero, e
che in quelle opere s impiira solamente come si debba
imitare la natura? E così noi attingiamo le forme \ive
della lingua dal popolo clic la parla, impariamo ad al^
teggiarle dagli scrittori, che ce la serbarono, e che. la
illustrarono. Tutto il resto è archeologia, pedanterìa, e
convenzione accademica •.
,\cAT. — Non m' acconcio davvero a coleste dottrine.
TiM. — Addio, concordia!
A(iAT. — E che? Oggidì a forza di chiamare archeo-
logia, pedanteria e convenzione accademica, così nelle
arti [)eUe, come nelle lettere, tante cose che fin qui
— l'Ji —
fjualora si tratti di esprimere generalità di fttii, o di sen-
timenti, non quando occorrano materie ramiliari o leali-
che, e quella precisione di termini die è imposta dal bi-
seco di idee precise > .
AcAT. — Siccome non lio serrato T ascio a quello,
ctie è necessario, ed utile ad aggiungersi, così se la lin-
gua sente tal difetto, si provveda pure, che io non ìÀt-
simerò mai chi vi darà opera , anzi vedrei di buoD occhio
un vocabolario compito della lingua domestica, e scientì-
fir» , che raccogliesse -tutti 1 termini de' classici ancora in
uso, e lutti gli altri che i ben parlanti adoperano.
TtM. Vorresti dunque quel vocabolario dell'uso, die
altra volta non approvasti?
AtiAT. — Non lo approvai io quanto volersi dai^li
maggior estensione, e fargli tener luogo del Vocabolario
del volgare italiano. — A proposito, ti ricordi die io di-
ceva: dal detto al fatto corre un buon tratto?
TiH. — Si , ed il Vocabolario dell' nso non deve es-
sere neppure alPA: »nzi ho letto su pe' giornali la di-
chiarazione di uno tra' più illustri nomini eletti a compi-
larlo , rh' ei rinunziò l' incarico ricevuto ; sicché non so se
gli altri intendano a far più nulla.
Agat. — Desidererei ciie il vocabolario domestico, e
scientifico fosse fatto , e rimanesse separato da quello della
Crusca , per questo che necessariamente i termini di quella
— 196 —
TiM. — Ed io riservo la mia sentenza al gioroo che
dichiarerete ultimo della discussioDe. Per ora essa doo ha
fatto mutar parere né air uno né alV altro.
AcAT. — Qaesto non vuol dire die non aU)ianio a
termiuare per essere unanimi. Ma torniamo in dita.
Prof. 1. G. Isola
[tìj. •Mi, ini. tì. i' \<A.
31.
%. 0»Ì taira '*t Ut
31. imn wrir»
ìt. Da Chuip
IS, OMI M e DM
19. iowT'i
•J. 0)
Ifi. utìeu
17. J'jrdanuin
33- d*
IM. jrrofonikt lénrbm
22. (£/«9- II)
Kt. i*u.- t« non
27. /to i/ift/i
'.Vii l'^ir é>t Ktur
Di Ci^r
KM è «e MB
msMÌ
ynfaiidei Ihiibrft
a/m.mrn
ilib. 11. EJiy. SXXII)
i-iilerii , rrya ^i non le eitUril . rrfi
Uà aggi
Umetto ìili)uanLi minori, e alla S. Y. e ai diserai leiiori
caldamente mi raccomando
[li Torino, nella Domenica Quoti modo. Si Aprile 1
— 200 —
Nru.e Nozze Alessandim-Sai-vatoiiklu , Catailena di Ciro
Mdxsaroti. — Bagnaravalld . 1870,
Questa Cantilena deiresìmìo signor Giro Massaroli è
alquanto più sostanziosa e sostenuta delle altre per Nozze,
che è andato sciorinando nel volger breve di Ire o qnattro
anni, perchè questa volta le gralulazioni e il vaticinio sono
in nome d'un sacerdote cristiano, che festeggia il nuri-
taggio della gentile signora Allessandrì di Assisi coir ornato
giovine Salvatore Salvatorelli dì Perugia. E per vero , avolo
riguardo al carattere dell' ofTerente, non pdteva la poesia
starsi umile e rimessa , ma doveva assumere on tono che
sentisse alquanto dell'ecclesiastico. Egli è perciò che con
savio avviso il giovane rimatore ha condilo le sae Stanze
d'una rarta unzione religiosa, la quale ben si addice al
deilìrante Don Giuseppe !tIassaroli, persona di chiesa e
(legna dell'abito che veste.
Amico il prete Massaroli della famiglia Alessandri , xo^
gesi all'Annetta, die muta nome e paese, e ne Ta le lodi
con certe frasi afTettuosc e paterne, che non muovono da
altro luogo se non dall'altare.
Divola di pietà , bella e tV assai .
r ti eonosco già di iMiga mano:
E ti scìitii, pturicti , a'd\ sereni
Rider risetti di dolcezza pieni.
— ìoa —
fra le ameoiti del villeggiare. Al prezzo degU oAett, dice,
e delle querce secolari, aWatptìto dt^ verdi poggi e delb
vtUli fiorenti, al sereno de' suoi deli furciU« e diafani,
e più ancora aU'aara dei mUi e semplici costumi de'nioi
pacifici abitatori, nacquero coleste narrazioni piacevoli e
d^ affetto. Questo breve passo è sofficieale a dimostrare
quel che V autore si ha proposto , e il modo di dar forma
alle creazioni della sua Tantasia. Già si sente lo Scrittore
del nostro paese meridionale, che sempre tras^i'a della
dolce aara delle antiche siculo muse ; dì queir aura , che
poi trasfondeva tanta dolcezza nelle squisite egloghe del
Sannazaro e del Rota, e ne' soavi carmi del Tan^io, di
Galeazzo di Tarsia e del misurato Costanzo.
Crediamo che molte delle XXVI novelle del Pruden-
zano siano attinte dal vero , con quel po' di giunta dhe al
novellatore non solamente sì concede creare, ma che in
lui si loda altresì. Egli non ha seguito la forma'antica nel
disporre la materia, immaginando una occasione onde
qualche onesta brigata venga via via novellando ; ma , come
adoperarono presso che tutti i più recenti, libero di co-
testo vincolo seppe dare varietà al suo lavoro colle dovide
della propria fantasia. Quanto è allo stile e alla lingua,
e' ci paiono assai lodevoli, ed accomodati con senno ai ca-
ratteri delle persone che ne rappresenta; e mentre in buona
BULLETTINO BIBUOGRAFICO
PlTHK Ivol.pfimo/- Palermo. Lui-
gi Pedoie-Lauritl tditore, 1870,
U 8." di pagg. Xll-4&g,
Non è ÌDlendimcnto noslra
purlare slesamenie di (juesla |ire-
ziosa raccolta; ((uando ci tolessiiiia
ililTondcre, bene essa ci presterebbe
maierìa a larga mano; ci conlen-
icremo per ora di dame un aeoi-
ulìce annunzio, divisando ai nostri
leggitori puramente ciò cb' essa
conlienc. Ad una hreie Aevtrleata
succdc la nota delle Città e Paesi
nei quali sono stati raccolti i Canti.
i'oi uno Studio critico nui Canti
Popolari Siciliani, già altra volta
inesso [jori, aitcgnacliè in questa
ristampi di molto nccr sciuto e ntì-
Kliorato. In esso la criUc», l'eru-
dìiionc storica e la sapìeoia Tilo-
logica tanno nnirabìle prora: è di-
tÌso in tredici capitoli , non com-
presa la conclusione: toglìpsi dalla
jiag. 3 e Ta sino alla <71- Indi
seimila una diligente Bibliografiii
dei Canti Popolari d'Italia, dove,
secondo la copìzione noslra, non
TKta omm sso che un libercolo
avranno luogo le Leggende Sacre «
profane, i tJaitìi faaciuUesekì, gli
Inaoi-inrlii ecc. ecc. Le note sono
copiosissime, ma necessarie; niente
di soperchio: speme volle con raf-
fronti di Canti Italiani : rìputlaino
insomma cotesto libro ragiguarde-
voie per ogni conto.
Il solerte raccoglitore é uno di
3 negli uomini che non se ne stanno
a vero colle mani in mano : egli
ad ogoi breve tempo manda foori
opere degnissime dell'universale sp-
provaiione , perciò ba sapulo gua-
dagnarsi fama di esimio e bencroe-
rìlo letterato in Italia e fuori. 1 suoi
lavori sono tntti di somma erudi-
zione e d'ìmportania: essi partono
da una mente diritta, soda , piena
di studio e di sapere. Il stg. dott
Pìiré ha sempre dato saggi isvariali
di più svariata dottrina. Lo vuoi
scrittore eccellente di belle arti, e^li
è : lo vuoi di biografie e di storta,
niente lascia a desiderare: lo vuoi
inllnc di fìblogia e di buone lettere,
ne disgrada asui che sono in voce
di odimi.
Dien; alcuM del BcrliB busso,
alut ipifoUle dii piò iosipi com-
,^ p^ 3j
r intera nu
a lUrìbuilj ■ Dinlc,
onta A» DB ■Dticso libra dei frati
drik> Zoccolo ia Firenie , dell j qn ile
pil pirìò il HorfUi ne'Miat Còdici
aaMMcnllj ro/gan della Hbmia
ISamami: Veneiia . ZilU. 1786.
alla 42 , li rìporU per
Caunu inedita attribuii
Ktntfù JViJwM, ilawiiB M»-
M, IS69, iù p4f. XVl-160.
OuiiDo lenipo hi pracvtft
adi nodioM l'egrepo lis. nneaU
GiDTaimi Pimlti eolla ntiB^ fi
qncHo libre, non mi ihiiiawi
letto e studialo da chi ami icra-
UKDle inlonoBni per bcoe dellt
bellene della noitn loqacU. Ti pn-
reilò il tetto dì amllqiUd e b
Solenae tara«ta drth Arcade-
mia Ptlermilama di ttinzt , Irl-
lere fd arti fu memoria drl tua ,
tneio e tire pretidrmle n.r. Be-
nedfUo [fAcquiilo, Artitetrovo
di MonreaU. Palermo. Franre-
tra Lao, Ift69, ra i.' di pagq.
M), tol rilratlo ddtArrii-eicoro.
Vi si contencono Ire Iteriùoni
detl*illuMre ùf. Giuseppe De Mensa
« un eloquente e pieioso Ditrorto
ilei prof. Vincente Dì-GiDTannì, al
(|ii3le rannn corona diiene poesie .
in greco, in Mlinoe inTol}nre;lutti '
componimenti, dal più il meno, \
eleBaoti e praTalìssimi, secondo che :
sogliono uscire dille penne de' molli |
lelleraii della dotta Palermo. Gli '
:i>i(ori,cui Bp(iiirlenguHO sono; (1. |
He Spuches, can. I. Monlslhano.
'i. RoMM, S, Villareale.G. Spia
rte compilale. Rì|iianlaiMi
filologia, altre più tpedal
la storia. In fine allogò le Ditiia-
raàoiù di M. Yineettit Barwàim
d'alcune tocì antidie. le inui li
iravanQ per entro le Novelle. Noi
sono mai a sulficienia lodati quelli
che si occupano a pn della sin*
diosa giotenlù.
aiMOIaMMi ad a
rlaue Gimunal . .
Metga. In Kapoli, tiella ttenue-
ria del Fibreno, 1869. m S.' di
pagg. 19i.
Quesu lùJevùle ediilone. in-
trapresa dall' instancabile prof. cav.
Michele Melga . [u poi compiuta
dall' esimio orofesion.' Emmanuf'
gomcnto. Kiilift generali non ci |iare i
Aii fcro che eww giiin^no ni me-
rito di quelte più sopra registrale {
deli'egr^io sìg. Caroselli, mi pur
del buono sembraci *i si possa spi-
golare.
Poesie di Pietro Leohobi ro-
wuM. Trento, tip. ed. M. KUp-
peT'Fnmia, ìilO, tu 16." gof.
dipeigg. IV-64.
Qoesto volnmelto ci offre com-
ponimenti di un ben disposto p'o- |
fine lerse^alore, dai quali si |
apprende iKeTolmenle, che prose- :
Biiendo egli oltre nello studio dei |
buoni maestri , potrà cogliere frutti |
lef^adrì e saporosi : i concetti non ;
gli mancano ; lo spirito è jrentìle, e I
non se ne può indovinare che bene. '.
Nuove Poesie di Concettina '
RiKONDETTA FiNETl. Palermo, ,
tip. del Giomak di Sicilia, iS%, j
M 8.' di' pagg. VI-9Ì. '
La soaiiti e il caldo affetto e I
le vite e graiiose immagiai non si
lasciano desiderare in queste rime.
Per cib cbe risguarda la lingua e
lo stile Torrebbesi , a parer nostro, |
un po' di lima. La signora Ramon-
detta é iin nome che suona caro
e riierilo nell'odierno Parnaso ita- i
Viano da buon tempo, e coteste nuo-
"ft poesie confermano vieppiù il suo
DI un Itrgo intetnamealo pop»-
lare per Enrico RAlOHDim. Sm-
poli, 1870. M 8.* <fi pùgg. 3S.
Questo ragionamento h rìfàt-
tilo in qaatin Capitoli, e *i ri
paria abbasUnn di qnuito ai è pro-
posto r illastre autore. Beila peri
a Teder« sa la magfior parte dai
leggitori possano eoannire nelle lae
opinioni.
HotUte dei retlauralori dell» fU-
ture a mceaieo della R. CoffeU
la Palalina, MpigelaU eé e^ml»
da Gaetano Riolo tee. nUr-
m, 1870, M 8° di pagg, 48.
Molto acconcio può torurs
questo opuscolo agli aoutori aio-
goLirmente di belle arti , otc coi
buon ordine e con chiarena di mo-
siaìone si narra de' ristanrì bui
nella Cappella Palatina di Palerà»
dal t3i5 sino ai di nostri. L'^dh
aio sig. Riolo, prof, di disq^ nela
R. scuola tecnica parallela di Pa-
lermo, se n'abbia intanta le nostre
sincere congratu Iasioni. In fine sta
un' Appendiu di documenti all'uopo.
Precetti ed esempi 1 M/farlt
del comporre per la i.* * 5."
flaite gmnaiiiale . pfetedtti dt
brevi cenni tnlofflo alFiitoria dA
hello r deirarte per GiOBBPn
Frosina-Cannelij*. Porte /." —
Hovellft rfcUs (fmiM tfun notaio
tMMMoraKt d'ili! medico: daU»
IcMMM rfi nwttm Nicodamo. I»
Napoli e in Bolegn», a lA 15
Agata, 1869, in 8* di pagg. 16.
Ele^DU ediiiom di mIì dieci
esemplari per ordine Dumiratì ,
tulli in beìliuime pergamene di
Rami. Fu coDSicrtita all' esimia
bibijoniosis. Giovanni Pepanti, felice
culture de' Duoni studi! e gran rac-
coglitore e pubblicatore di Novelle.
Mot6Ua di TMiuignore GtO. DEL'
LA Casa fratta dal tuo Galateo.
Ih Livorno, pei tipi di Frauettco
Vigo, 1870, in 8.' di carie 16.
Ediiione di soli sedici eseni'
plani progressiTa mente numerali,
e tutti impressi in finissima perga-
mena dì Roma. È una delle più
eleganti e ^hiotle pubblicazioni che
m' abbia usto a nostri iji. Il lusso
e la elegania e la nilideiia tipo-
graftcì fi gareggiano insieme mi-
rabllmeaie e sono una prora in-
uontrastabile del buon ^usio del-
l'esimio editore, sig. Giovanni Pa-
panli, e del peritissimo tipografo,
sìg. Francesco Vigo. È impressa in
caratteri corsivi nuovi, co quali si
imitano per eccelleoia le stampe
più belle del Giolito. Quattro su-
perbe e finissime inmioni in legno,
eseguile apposilameote dall'illustre
prof, franeeseo lìaui.
Eire,m levigito, dotto poredlwM.
)U' Epigrafe premeiUTi , coDi
Juile l'iotitola al ai|. Giovani
spanti, ai rìtiM die la NofaUi
fu ilampau (bnt im Baleaml i
di XXIV GiuKi» del 186g. Tior
corsero due eiTori: alla pw. 5
cwea per ciiceo, e alla p^. 7, *•-
Illa per Mtia. Non w> poi, m per
aslraiione del proto, onero par
biuarria, fatto tta eoe il ftvlIoM
■I Irontispiuo i capovolto!
I dae iiBur»l, NonUm mm ■«
It* qui (teRuafa. Genova, fiaefnw
5cAnioiw, lB70,i
11.
.'■ * P*9S-
E d' autore iwidenio, il quale,
a detto dell'editore, volle per ma-
dnlia se ne lacesse il oorae. Fu
pubblicata dal civ G. B. Passano
ncir occasione delle nomi Ghinis-
sì- Ugolini, in 72 etemplari, ma
non numerati, dei <iuali dieci io
carta inglese da disegno, dieci io
carta colorata d' America e due ia
Sitissima pergamena di Homa.
novella di LsoKAitDo Bruni un-
tino leeondo itn codice Manod-
liano inedita, /n lÀvona, pei
tipi di Fratieaco Vigo, 1870,
in 4." di pagg. IO.
Iww a rhi chi> si fosse, mnndsia
ili uonlado la moglie a tempo de-
bito presso una sua cugina, noa
inijlò persona; aoii a irarii del
lutto Tuori J'ogni impaccio ed aver-
ne diletto, pensd una nuova nia-
liiia; e fu in questo modo. La sera
ìnoauzi al <li della f^sta, atuli a sé
gli apparatori, ordinò che la mat-
tina vegnente per tempissimo, a[-
Ire le colonne e le pareti della sja
casuccia , dovessero coprire con un
liuon telodi damasco eiìnadio la por-
ta. Uli apparatori, senz'altro iniesli-
^ai'e, essendovi già egli raccniuso,
k<xro il suo comandamento. In-
tanto SeraQno a mena mattina,
allor che incomiDció il concorso a
essere grande, fattosi alla Qoestn
di sopra, slaodn apnaKgiato col
petto sul davanzale e la testa spor-
);eDdu air infuori, mano mano ^11
veniva «eduto alcuno de' suoi amici
|iassar di colà, accennandogli, quivi
sotto il menava, e sommersamente
dicea: o ventura! vieni, vien su.
che Iddio Li dia il buon gìonui!
Vien su, se vuoi ristorarti: ci ho
del buon moscadello: vieni, non
beesti dì meglio I ci Lo anche le
ciambelle, Siiiì e giunta il rosolio
e la Carlotta ! vieni. E co>i dicendo,
traevasi dalla finestra, come se in-
contro gli volesse andare , i> non
vi ritornava poi, se non ^c passato
buono ìspaiìo, cio£ tanto che ri-
imlasse colui doversi essere dìle-
sp&nilExani)-. oh, io\ artie wnin,
che Iddio vi perdoni'. Serafino
non isti qui. ma nella casa da
presso. Allora quelli seni' altro,
giù, leiti e foori; e, oltrepassando
altresì la porta coperta, andavano
difilati ali altra, e quivi pur di-
mandavano di Serafino, E quei di-
cevano: deh! non è questa, ami è
coiest' altra d'allato la casa sua.
lodi, al rifarsi del giuoco, soegiu-
gnevano: oh diacine! cbe vuol dir
questo? altri motti per lui d teo-
nero lest^ ancora! noi non s'iam
gente da uccellare e prendere a
gabbo! e' la sì vuol finire una volta
cotests seccaggine! Laonde scu-
sandosi coloro e ravvolgendosi or
qua or lì. e salendo e discendendo
queste scale e queir altre, per niuna
guisa veniva fatto di ritrovar Se-
rafino. Alla perfine . caiteudo loro
le IravegRole dagli occhi ed accor-
§ ondosi ciascuno per sé della rìbal-
eria, avvegnaché tardi, tristi e di
mala voglia se ne ritornavano tra-
felati, dicendo: Iddio il facùa tri-
sto costui, che ce ne lascia ir colla
sete e colle beffe, ma a fare a fare
sia che noi gli renderem pan per
focaccia'. B cosi egli dalle dieci della
mattina infino a seni, quanti amici
e parenti vide, tanti beffò e deluse,
perchè r uno non manifestava quel
che gli era intervenuto all'altro,
vergognandone, e amando pur che
qualche cristiano s" ~' '-- — '
— ili —
degno di studio non meno degli animali più perfetti, eoa
ai suoi un' informe e rozza composizione sembra talvolta
meritevole di esame quanto una splendida creazioDe artì-
stica; poìcliè, se rinsetto può rivelare uno dei mille segr^
della natura, un miserabile lavoro letterario può I^r palese
un fatto nuovo, o una legge non anche osservata nella
vita del pensiero. Molte volte per vero accadrà a questa
disciplina dì affaticarsi intomo ad inezie, le quali nem-
meno per ([uesto rispetto paiono meritevoli di cDra; ma
anche in tal caso sarebbe ingiusto muovei^liene troppo
acerbo rimprovero; imperocché dessa, come ogai alta
scienza, non devo pi-ediliiiere Tuno anziché l'altro fatto,
sì Iv conviene raccoglierne il maggior numero possibile,
esarninarii. coordinarli, per poi trarne da ultimo oppw-
lune induzioni.
Di siffatte considerazioni ho io bisogno siccome di
schermo, mentre mi accingo a discorrere lungamente di
duo antichi romanzi cavallereschi italiani, noti fiDora a
[Kichlssimi. La bontà della lingua non basterebbe certo a
mìa discolpa; però stimo liene avvertire, che il fine ch'io
mi propongo, è scientifico piìi assai che letterario. Trattasi
di due versioni del Rinaldo da Montalbano, Tmia in pro-
sa, Taltra in ottava rima, delle quali io intendo esaminare
le relazioni reciproche, e quelle onde entrambe si rìool-
I li" Oli. Imperoccliè oramai è noto
— 216 —
Enti-ambi i manoscritti appartengono dunque all' in-
arca al medesiino tempo; anzi chi prenda a brne il nf^
fronto, li troverà sifTattamente d'accordo anche in molta
minuzie, da doverli tenere siccome copie di un medesimo
originale. Che d'altra parte l'uno non sìa trascritto dal-
l' altro, si argomenta con bastevole sicurezza da certe dif-
ferenze, dalle quali sembra apparire come la lezione ori-
ginaria sia conservata ora dal primo, ed ora dal secondo.
Il codice palatino poi (Pai. E, ti. 4, 46), a cui una
mano moderna ha apposto poco opportunamente il titolo
di « Prodezze dei Paladini di Francia » , mentre non può
essere designato altrimenti che col nome dì ■ Rinaldo da
MoHlalbano « , oppure < t qualtro figli di Amone > , consta
di 234 carte, contenenti ciascuna otto stanze, quattro per
ogni facciata. Le ottave ai^cendono in totale a 2038, divise
in cinquantun cantari, ognuno dei quali ne novera per lo
più quaranta. A questa somma ne vanno aggiunte altre
otto, perite per la perdita di un foglio. La scrittura non
è elegante, ma chiara, e potrebbe appartenere al secondo
quarto del secolo XV: il cite per altro non vale a deter-
minare l'etii della composizione, comechè l' essersi lasciate
in bianco molte parole e versi interi, mostri aperto, che
chi scrisse il codice copiava, ed anzi aveva dinanzi a sé
un esemplare, o malconcio, o mal scritto. Di questo codice
— 218 —
soverchio disdegno di ogni soggezione. Che se la tendenza
air unità nazionale, già fin d' allora viva nella Franda , e
più ancora T evidenza dei fatti, costrinsero ì cantori a rap-
presentare i rivoltosi fiaccati e domi alla fine, ne lì com-
pensarono la[^mente col guadagnare loro sempre le em-
patie di chi ascoltava, e col farli apparire anche nella
sconfitta ben piìi grandi del vincitore. Poco a poco, per
una confusione , prodotta in parte dalla simiglianza d^ no-
mi, in parte dall'incapacità del popolo di ben distingaere
ciò die è afline, Luigi e Carlo il Calvo cedettero in questi
romanzi il luogo al nome assai più noto e famoso di Carlo
Magno: onde il grande imperatore apparve d'allora in poi
in forma doppia e contradditoria, ora savio, magnanimo e
valente, ora stolto, vile, fiacco, e talvolta perfino traditore.
Così l'immagine sna era non solo stravolta, ma annien-
tala, con danno gravissimo dì tutto quanto il ciclo epico,
che le si aggirava dattorno come a suo centro.
Egli è forse da attribuire a siflatto lavoro dì trasfor^
mazione, su alcuni tra i romanzi di questa specie non
riuscirono ad acquistare ima compiuta unità ed armonia;
ce ne offre esempio per l'appunto il Rinaldo, dove noi
possiamo scorgeri' parti non anche bene accordate. lofatU
di questo poema ci sono pervenute tre redazioni francesi,
concordi nella sostanza, dl'^cordì spesso nei particolari e
— lìlll —
r criliti che Irallarono di qtiesif materia (1). Le
liìtteretae mi paiono derivare in ^ran jiaile dalla trasmis-
siDoe orale, poiché twu considerando la co^, si vede che
lutto e ire le versioni discendono da un comuae proge-
nitore. Ma ad ogni modo anche questo lesto originario
doveva esst^re una compilazione poco accurata, fatta in
no' età rispettivamente larda. Imperocché, pur tacendo
dell' opinione non improbabile dell'illustre Paolino Paris,
dii; la seconda parte del poema, l'assedio cioè di Montal-
laim. sia in origine un raddoppiamento della prima, ossia
di quello di Monlesoro {t), v'hanno qua e ìk delle con-
mddizioni evidenti, per le quali il romanzo dev'elisero
giodicato nn accozzo di parecchi cantari . di età e di autori
ddlLTtiili. Per addarne ima sola, mentre secondo ciò che
qui S4 narra. Orlando deve aver preso la prima volta le
anni oeir impre.sa contro i Sa-ssoni, che il libro racconta
t* rite procede immediatamente all'as-seiiio di Montalbano,
egli stesso, standosi qnivi a campo, accenna ad una guen-a
w Ispai^na. di cui è slato gran parte:
Ma^eille-z avez dil. le coni RoUant respoii.
Nos phsnies a force l'ctiseigiie laslamoii.
S' at>atisnies de Nobles la tor e le donjon ,
E coiiquìs rolifan a force e abandon:
Tiiil soni mori e vencu. se nO talent ne fon.
|1; V. llHUijrr liui-r. \ie la Prunce, Toiqp XXII.p. G67-70H; r.astoti
hri», ffiftoÌTP [HH'tiquf rie Cliorìemagne, Paris, Franck, 1865; Uauliur,
Lt9 Epopto rraacwses. rarìs. Victor Palntf^, T. H. p. 177-229. Somme
oMIg» linai io lio sopralUitto alla si^camla Ira quoaic opere, tarilo lodoLi
da podici auloret oliMÌrai . che sarebbe inuulc Tolcrue ijuì fare l'elogio;
tna ni bi efliuocisMiuo atiuiola n ritangare i nostri romanzi uavallerescLi ,
tè certo M ]K)ln-i operare «Enei il «un aiuto ili sirjcnn> rgiipsta iiialrrin
a aiTuITata.
ii) V. Hiu. liiii^. XXII. i> tm.
— 220 —
A un' impresa dì Spagna si accenna in più altri lac^ del
poema , e con parole tali , da far sospettare che si trattasse
in origine di quella terminata infelicemente colla catastro-
fe di Honcisvalle ; ma poiché si volle introdurre in qoesU
parie del ciclo il fìglio di Milone , dapprima senza doMào
alcuno affatto estraneo ad essa, convenne dì necessità scon-
volgere tutta quanta la cronologia primitiva. Potrei di leg-
gieri addurre altri esempi : ma non volendo uscire di ca^
reggiata. mi basti aver fatto cenno della cosa, perchè a
vegga con qual sorta <ii composizione noi abbiamo a hn,
lì non s'abbia poi a meravigliare se le versioni italiane
non risponderanno perfettamente a niuna delle ft'ancesi,
anche colà dove non v' lia ragione di credere a mulameoti
arbitrari.
Lasciamo dimqne la Francia, e ripassiamo le Alpi-
Se noi avessimo qui a discorrere di Buovo d'Antona, di
Orlando, o di Uggieri. ri converrebbe, prima di venire
più oltre , trattenerci qualche tempo nelle nostre Provincie
settentrionali. Ma intomo a Rinaldo non ci è pen'enuto
nessun cantare franco-italiano. Questo fatto dà luogo a
due interpretazioni: o i figli di Amone non furono mai
celebrati dai cantatori volgari di quell'età, o il tempo ha
usato anche qui della sua [Kitenza distruggitrice. Tra le
(lue ipolesi io non posso, nemmeno a prii^rì , dubitare un
istanti' di aintidJarmi alla sttconda: e a ciò m'induce.
— 2iì —
9Ìmettt^ noia; nìuna da cui .siano cresciuti l;intj nuovi
npolli; ninnii infine In qtiale. fino dai più aiUicbl do-
I cninenli a noi Riunii, appaia rìmutata profondamente al
pari di questa. Ora ititto codesto lavorio dovette procedere
con mcvita lentezza, e suppone quindi una lunga prepa-
razio[u^. compintasi certo nelP Italia settentrionale più assai
che allroTfi. A ([Desti argomenti, die verranno meglio chia-
rili nd processo del mio discorso, se ne aggiungeranno
non pochi altri, dedotti per una vìa alTatto opposta, i
(]itali. SK male non mi appongo, faranno apparire la cosa,
min solo prolwliile, ma cJ'rla. Essi emanano, siccome con-
■ necessaria, dail' esame e dal paragone delle due
mi italiane, alle quali ora mi volgo.
II.
Perchè la trattazione proceda semplice e chiara, co-
irò (fallo studiare imo solo dei testi, ben conn.scendn
'(|innl3 ennfiLiione nascerebbe dal trattare di entrambi mi
no tempo. Se io concedo la preferenza al testo in pro^t,
niuiu» "irto me ne vorrà dar biasimo; poiché per altri
K?enipi consimili nasce spontaneo il sospetto, che da esso
appunto debba essere derivalo quello in versi. Aggiungasi ,
non contenere la versione prosaica se non la metiì all' in-
dirà dolla materia racchiusa nell'altra; laonde quando
una volta ci ;aremo spacciati della prima, potremo ragio-
nare ordinatamente di quest'ultima, senza interruzione tli
sorta.
Il lesto in prosa del Rinaldo consta, secondo ^ià ac-
«ooai, di due libri. Volerne fin d'ora fissare l'età, sa-
retitH- cosa impnidentc; dirò quindi su di ciò il mio parere,
«Te (larrammi di potergli dare almeno apparenza ili pro-
InliìlìL^. I due libri difTeriscAno assni per il contenuto, il
— 222 —
quale, se nel primo è per lo più estraneo ai poemi frio-
resi , nel secondo invece si accorda mirabilmente con essi
In luogo (li riassumere d'un fiato tutta la scrìttara, mi
si permetterà dì far sosta di tratto in tratto, per ioserìre
mano mano le considerazioni che mi parranno opportone.
Comincia il romanzo colla descrizione di una gnu
corte tenuta da Carlo Magno in occasione della Pentecoste,
allorché la superbia di Gherardo da Fratta era stata flao-
rata, assia parecclii anni dopo le guerre di AgoUnte (!)•
Cotale indicazione di tempo sembra qui posta perchò ti
racconto venga a rannodarsi in qualche modo ai tre libri
dell' Aspramente : onde peraltro sarebbe grave arbitrio
l'inrerire, die i due romanzi facessero parte di una stessa
compilazione, e peggio ancora, die siano opera di un me-
desimo autore. Carlo adunque sì sta fra la sua baronia,
.seduto sulla seriola imperiale ; il caldo gli suscita stimoli
di sete, ed egli si fa recare una coppa ricchissima, ripiena
di perfetto vino. Dissetatosi, porge la coppa ad Amone,
affinchè beva ancor egli; ma un duca di M^anza, diii-
mato Ghinamo di Bajona, nemico di Araone, perchè questi
sposò la gentile Clarice della casa di Soave (Svevia), da
lui pure amata un tempo, si leva e lo accusa, siccome
reo di aver osato bere nella coppa imperiale , essendo gab-
bato dalla moi^ie. Stordisce Amone, e il traditore Ghinamo
— ìm —
i ^.-ooiATv 'stK il ^>jctituzionf delle Ire gesle, e spetiil>
mnA^ ii ■l'i-iiii Ai >la^Dza. riposa in Frauda sopra iv*
uu-^ <ii Unii eù. c>:)mp<^Mi soprattutto per muterò h
L-A\> i: oniiae tra la foofniA moliitodiiie di Darrazioiii a
■il ^■^rs:<uj;n Qiifuixuti nei poemi aalecedeoti. La prfr
t^si patvctrlj di .ViD'Mk- e Rinaldo eoo Gano e i suoi a
i.xkii <pò;ialm-rnle 1 >ril 1)i^d de Marence. composto 0
r.fitt.;* ::•'<. 3vj:itì la N^'iìoda metà del secolo XIII , e a
■l'irai-» ^ir? ;ì<>:i V"^r<*>:t(ii<>- ■> almeno non diEFusosi mi
et iM.vi. Cert'^ di '.'■'•taio affinila non ho scorto indizio nd
Ktrull'. -l.'tc- ili •{lieti 1. vece vesao Orlando peritarsi I
-'OiuUittrD^ >-<<L tu'ii-> di .Vni-_>iie. perchè appartiene alla sai
^^>w. li-ìvv^j diKi-HK .«:iche ii-rlla Francia esservi un tempo
ii-'ij vrTS)-''-':'.' Mmil'.- l'.i •iiiaiotie maniera a quella diventati
• '^miin-: ili lulki. ^eivind-' la <|uale Orlando e Rinaldo som
<.u_i:ii. ijuindi i>:> intìtio argomento a rafTorzare la ma
..TMietizj. fOQ-lua. iii spero, sopra buone ragioni, che la
trasmissione della letteratura romanzesca tra la Francia e
r Itilia fosse ^nà 'iiusi compiuta verso la metà del dngento:
lia iiuel temp-.ì alzimi nuovi cantari poterono gìimgere a
noi. Bu jlh sptCL-iolata. e in siiiisd da non turbare uè
deviare il oors>.t che «quella letteralura aveva già preso
iielU i>eiusotd.
Pntsejueiiilo l' esame del nostro testo, ci abbattiamo
— 2tl —
ran lir«nza ilj Carlo a ^lonti; Armitio una gran
(len. V autore si rifa addietro di molti anni per darci con-
tezza ili due personaggi, die dovi'aniio tra poco apparire
lU scena. Itacconta pertanto come la moglie di Buovo
A^ni^inoDte , fratello di Amonc, non avendo figliuoli,
'"ftcesse un voto, e ingi'avidata ben presto, n^ andasse col
marito in pellegrinaggio a San Jacopo di Galizia. Nel ritomo
ella partorisce in una selva due gemelli, che per il soprav-
ire improvviso di una forte schiera di f^aracìni , si rì-
ingonn folk in abbandono. L' uno dei bambini è raccolto
re Abitante, il (|uale. postogli nome Viviano, lo alleva
figliuolo, celandogli la vera sua schiatta: T altro,
Ilo ili nna fossa, ne è tratto dalla dama di Belfiore ,
tlla di Abìlante, e viene da lei edurato, e a suo temptj
imapslrato in grammatica. Ma l'accorto fanciullo impara
che non volesse ella medesiraa, poicliè riesce a car-
ie la scienza della negromanzia, nella (]uale è maestra.
Costretto ((iiindi, un demonio, e istmtlo da lui circa la
sua nascita, la schiatta, i cugini e la fiera bandita allora
appunto a Monte Armino, delil>era di procacciare a Itinal-
« ci migliore cavallo del mondo; e gittò l'arte, e trovò
la madre d'Achille, quando senti la morte d'Achille,
loranlò el suo cavallo in una montagoia, nel mezzo de!
mare (Jciano: e'ncanlowi l'armo e la spada che fu d'A-
i-hille >. Avuta quindi licenza dalla dama, Malagigi va a
tram' di colà Baiardo e Fnisberta, e dipoi, recando seco
anrlK- altre armi e cavalli, se ne viene a Monte Armino,
molraflalto a guisa di vecchione. Rinaldo, piacendogli Ba-
urdo. lo vuole acquistare, o Malagigi, dopo molte parole,
iuismminstosi con Ini e Clarice verso il castello, si rifa
gkivanc, con gran terrore della donna. Manifestatosi allora,
dà il cavallo e la spada al cugino, e poco stante si torna
in Ispagiia a Belfiore.
Tale è qui la sliiria della giovinezza di Malagigi, nar-
— iitt —
rata Iwii diven>ain(.>i)te , per quanto posso vedei'e dairilì-
stoii-e littéraire [1]. nel Maugbi dWigremont. Quivj il figlio
di Ruovo non è allevalo in Upagna. si nella Sicilia: il clic
Iiaiìterebbe a distoglierci dall'opinione die il nostro testo
derivi di lìi. sembrando olta'modo inverosimile ciie udo
scrittore o cantatore italiano volesse trasporre in paese
straniero una scena posta dai suoi fonti iii una parte del-
r Italia. Nondimeno, rlie «piesta nart^zionc non sia inven-
zione dei nostri . appaiv dall' intor[)retazione del nome di
Malagi^i, lii ([iiale uiauifestamcnte accenna alla forma fran-
cese (Mauyis): - E perchè ella (cioè la dama di Belfiore)
r aveva trovalo titilla fossa die t,'iacoa male, ^li \MX. DUoe
Mal^iaci: ma ef;li lue chiamalo >1ulagigi>. Quindi sembri
assai probabili' elio la nostra versione derivi da testi più
antichi, che non sìa il Maugb: a noi pervenuto: andie
perchè non è traccia in i':isa di una lunga serie di av-
venture, amorose la piìi parte, ove agevolmente si rav-
visa r imita/.iono della Tavola Rotonda. E in generale è
notevole as.si)i, non essere, a quanto pare, pervenuti ia
[talia (|uei cantari francesi, in cui il ciclo carobngio si va
mescolando col brettone: certo io non ho trovato alcuna
tracxia dell' iliion de Boideaux. .\nche la letteratura caval-
leresca italiana riesce da ultimo a (piesla mescolanza, ed
anzi la poita assai più oltre che mai non si fosse fatto:
riesce in un'età più tarda, i
— 230 —
pono» certo pretendere al vanto dell' antidiilà. Piuttosto,
salvo notevoli mutazioni, lo dovremo concedere alle iKtf^
razioni che qui tengono dietro nel romanzo italiano; esse
traggono orìgine dal Beuve d*Aigremont, cantare che ora
si ritrova soltanto a gnisa d' introduzione nei testi del
Renaud, ma che, a quanto pare, dovette un tempo avere
una vita sua propria e indipendente.
Un giorno adunque l'imperatore, punge Gano, cod
certe parole allusive all'imboscala, e questi indispettito,
si propone dì vendicarsi accendendo gran fuoco di discor
dia; a cotal (ine ricorda al consiglio che Buovo d'Agri-
smonte da heii otto anni non paga alla corona il debito
tributo. I baroni si prnlferiscono di cavalcare sopra (fi
lui, se Carlo vuol rompere la guerra; ma questi antepo-
ne di tentare altre vie. Un messaggiero è spacciato ad
Agrìsmontc, ed espone con molta tracotanza la sua ambi-
sciata; nulladimeno Buovo, dopo avergli risposto GeraroeiK
te , lo lascerebbe ripartire incolume , se egli non ucddesse
un gigante, che sta a guardia del ponte per cui ^ viene al
castello. Allora 1' aml>asciaIore è fatto morire , e una spia
di Gano reca dì ciò novella a Parigi. Ma non tutti pre-
standovi credenza, il conte maganzese propone l'invio di
un secondo messo. Per istigazione di lui medesimo, Alo-
rino, figliuolo di Carlo, si profferisca a questo ufficio, e
— fòi —
Gano, assalito dai figliuoli dì Ghioamo, e bitcìdato. Costo-
i-u, prese le insegne dei vinti, riescooo di poi a peoetnre
con ingaoDO in Agrismonte, e postolo a ferro e a roba,
se ne partono lasciaodori buona guardia, n cadavere dì
Buovo è recato dai traditori stessi a Parigi, e Cario si
mostra più lieto che dolente delP accaduto. Però Viviano
D Malagigi, sospettandolo complice deir assassinio , ìnsì&'
me con Girando si riducono in Rossiglione, e segretamente
chiedono aiuto ai parenti e agli amici. Tutta la gesta à
listringc allora insieme; i fìgliuoli di Ghinamo, traiti in
un aguato dall'astuzia di Malagigi, sono ammazzati con
due mila dei loro; Baiona è presa e messa a sacco, e Agri-
smonte riavuto. A queste nuove Carlo si lascia indurre da
Gano ad andai-e a campo a Rossiglione. Il primo fatto
d'arme riesce favorevole ai ribelli; ma siccome è troppo
gran cosa il resistere al capo della crìstiaoità, Mal^^
pensa di ricorrere alle sue arti. Raccomandata pertanto ai
consanguinei la custodia della terra, «non si seppe come
egli tii partisse, ma egli si fece portare al suo dimonio
Malaterra in sull'alpi d'Apennino, e vi congregò per forza
di dimonì grandissimi brevilegi, sugiellati del sogiello del
papa, con tutte quelle cierimonie ch'enno di bisognio; e
in cambio d' un altro cardinale di corte si fece legato di
Franza: e come cardinale si vestì, e fece molti fom^
— 234 —
composizioni toscane ci si mostra saldo nelle menli e infil-
trato in ogni parte del ciclo, converrà supporre cbe anche
anteriormente, prima ancora che il romanzo cavalleresco
mettesse radici sulle rive dell'Arno, le nimicizie tra Magann
e Chiaramonte abbiano dato argomento a baon Domerò
di canti ora perduti , o almeno non ancora riappare alta
luce (1). Certo ì documenti dell'età franco-italiaDa perr»-
nutì lino a noi s^ hanno a tenere per una parte assai
piccola dei romanzi delP Italia settentrionale; il più dovette
esserci tolto dal tempo; del che se Partista non ha sema
dubbio a dolersi né punto né poco, ben deve invece es-
seme dispiacente chiunque reputi degni di studio i pri-
mordi delle letterature, e la storia di quelle lotte, per cui,
a simiglianza di quanto succede secondo il Darwin negli
esseri viventi , un dialetto prevaie sugli altri e diventa lingoa
letteraria: cose tutte collegate necessariamente da strettis-
simi vincoli colla civiltà di un popolo.
Se poi ci facciamo a confrontare la versione italiana
del Buovo colle francesi, vedremo apparire differenze gra-
vissime, ma certo non riferibili tutte alle medesime ca-
gioni. Le une nascono dall' essersi abbreviata in più modi
la nanazione, e di queste non istarò a discorrere; le altre
si possono suddividere in due categorie, e parte consistono
nell' introduzione di qualche nuovo episodio o circostanza,
liarlc nell'esposizione alquanto ilJversa di fatti sostanziai-
— 230 —
cade nelP altra ventìone, Lohìer è il primo e il solo am-
basciatore spedito ad Agrismonte. Né meno di questa riesce
a scapito del testo a stampa la seconda differenza : poiché
qui, essendo stata trasposta la guerra subito dopo l'acci-
»one di Lohier, essa non può più trovar luogo dopo
quella di Buovo; mentre, se nel primo caso è inutile, o
poco meno, nel secondo invece è necessaria per soiiare
intatta la dignità del carattere dei tre fratelli superstiti, i
quali accordandosi così agevolmente con Carlo, complice
e quasi istigatore dell' assassinio, appaiono poco cnnnti
della sanguinosa oflesa toccata alla loro schiatta. Ma checché
si voglia pensare di ciò, a me basta osservare che il testo
italiano ora somiglia più allo stampato, ed ora al Mardaoa.
Con quest'ultimo ha comuni le circostanze dell' assasàoio
di Buovo; egli è quando invitato con messi da Carlo si
avvia a Parigi per fare omaggio e ricevere il perdono, che
è assalito e trucidato nel bosco. Nella versione stampala
per contro il Tatto si compie dopoché la pare è fermata:
quivi il duca, solo perchè così era necessario air autore,
muove alla volta di Parigi, mentre aveva già trascorso
tranquillamente alcun poco di tempo nella sua terra. Ma
poi il testo italiano Ita comune col testo a stampa una
particolarità di molto rilievo: in entrambi il figlio di Cario
è il secondo ambasciatore inviato a Buovo; in entrambi,
il messo spedito avanti a Ini è ucciso dal duca e porta
— 2:17 —
Btplin indizi, per rendere probabile quanto ho fiducia
di potere tra poco dimostrar-e.
Ripigliando il sunto del primo libro, ritrovo i (juattro
^U di Amone, i quali, postisi in via per compiere il pel-
legrìiu^o al Sepolcro, sì coiiducooo a Valenza; (|ui en-
tnno in nave, e da una tempesta sono spinti all' Isola
Perduta, sipioreggiala dal crudele gigante Brunalmonte,
figliuolo del re di Ulivanle e fratello di Mambrino. Inca-
[«fi di paura, essi scendono a terra, uccidono e fugano
molti caralieri mandati coTitro di loro, e cosi costringono
il Teroco gigante ad uscire egli slesso alla battaglia. Rinaldo,
piglialala sopra di sé, lìnisce col mettere a morte l'avver-
ario. e acquistata per tal guisa la signoria del paese, la
dà io ricompensa a Morando, padrone della nave che li
la qui ])(>rtati. Rimessosi quindi in mai-e, si Ta condurre
al ra.'iU^llo di Gostantiiio, fratello di Brunalmonte e di lui non
nkeno midele, il quale fia spogliato «lei suo dominio e ucciso
il signore del luogo. togiìendoKlì per di più una figliuola.
Aurhi^ rostui con tutta la sua brigata è fatto a pezzi, e
il i-astdlo viene restituito a un fratello del signore legit*
limo. QuÈ!.ti dona a Rinaldo un nano, assai bello d'aspetto
e pratico di ogni linguaggio dell' Asia e dell' Africa. A lui
dunque Rioaldo. il quale quind' innanzi si cela sotto il
nome di Brandor dell' Isola Perduta, ordina di condurre
9è ti i fratelli in luogo ove sìa guerra. < El nano entrò
per b Soria. All'entrare di Persia ba una cittii cliìamata
NìlibL in su 'n un Piume ch'avea nome Fosca; el paese
era prono di giente, e eravi (ad) assedio ci Soldano di
Persia, [xr torre la signoria ali" Amostanle di Persia. Ri-
naldo s' appresentò davanti al Soldano e domandogli soldo
per renio cavalieri, e '1 Soldano disse, cbe Orlando né U1Ì-
Tieri non meritavano tanto soldo, e diègli licienzìa ch'egli
eotnssc in Nilibì i. Cosi fa dnnque Rinaldo, il quale per
i cnnforti di Fiorita, figliuola dell' Amostante, è accolto
— £IS —
tirila l-^ts .- fallii ■Mt.iiaii.) ■_'rtB'raÌe. Né di rio hanno i
}>f;[itir-i jU a->>^lMli: >i tiene a Uittaglia giudicata, e per
•'[fera di lui il ><>Mano è preNj e le sue geoU sconfitte.
Ma mentre il i^valiere è siilenditlamente onorato, due spie
di Gann A<;i>pr»n>'i lui e i fralelli al Soldano, e questi d-
r .Vmo>ta[ite. C<>«lui allora, dimenticando i benefizi, li b
><irpr>'nder>:r adilumieiilali. e li ìmprìi^ima: di poi la pace coi
lUfniii'L rhe to>l<'i >i |jarti:>no. Ma Fiorila, inraghita (ino dal
[(rini-ipio iIt;llM ■'li-anifr.i. \.i nlla pritrione e offre scampo
■li ijuatlfii fratelli. >»• Rinaldo aivon-^ente a prenderla io
mo!2lie e n darle 1' amor suo. Non senza difficoltà Rinaldo
>i fiietia al suo de-^iderio. l* statosi con lei quella notte, è
>ei(r);Uniente Ulcerato la mattina, e si parte, promettendo
di ttjrnare. a^ipetia sciolto il voto al sepolcro.
Ma il >ìag!;io soffre lien presto nuovi inciampi. I
fralelli <!Ìungono alla città di .'Torini, dove il re Salione è
asst^liato a toit'i ila Cliiariflto. fratello ancor egli di Bru-
naimonte. Rìnildo si act-orda dì combattere con costui, il
quale dopo liin^ difesa, vedendosi perdente, fa scatenare
contro r avversario un feroce leone. Ma l' inganno non
vale; egli e la helva soffijiamono del pari, e le sue genti,
corse alle armi, sono tutte tagliate a pezzi dai nemid
Intanto certe spie di Gano erano venute a Salione; se non
che questi, in luogo di rimeritarle e tradire Rinaldo, le
:iveva impiccale. .\l .suo ritiinio le mo.stra quindi al chia-
— 238 —
nella terra e fatto capitano generale. Né di ciò hanno a
pentirsi gli assediati: si viene a battaglia giudicata, e per
opera di lui il Soldano è preso e le sue genti sconfitte.
Ma mentre il cavaliere è splendidamente onorato, due spie
di Gano scoprono lui e i fratelli al Soldano, e questi al-
l'Amostante. Costui allora, dimenticando i benefizi, li fa
sorprendere addormentati, e li imprigiona; di poi fa pace coi
nemici, che tosto sì partono. Ma Fiorita, invaghita fino dal
principio dello straniero, va alla prigione e offre scampo
ai quattro fratelli, se Rinaldo ac<;onsente a prenderla in
moglie e a darle V amor suo. Non senza difficoltà Rinaldo
si piega al suo desiderio, e statosi con lei quella notte, è
segretamente liberato la mattina, e si parte, promettendo
di tornare, appena sciolto il voto al sepolcro.
Ma il viaggio soffre ben presto nuòvi inciampi. I
fratelli giungono alla città di Sorini, dove il re Salione è
assediato a torto da Chiariello, fratello ancor egli di Bru-
nalmonte. Rinaldo si accorda di combattere con costui, il
quale dopo lunga difesa, vedendosi perdente, fa scatenare
contro r avversario un feroce leone. Ma V inganno non
vale ; egli e la belva soggiacciono del pari, e le sue genti,
corse alle armi, sono tutte tagliate a pezzi dai nemici.
Intanto certe spie di Gano erano venute a Salione; se non
che questi, in luogo di rimeritarle e tradire Rinaldo, le
aveva impiccate. Al suo ritorno le mostra quindi al cbia-
ramontese, e prende volontariamente il battesimo; Gui-
letta poi, sua figliuola, in memoria del combattimento dona
al liberatore una ricca sopravveste con trapuntovi un leone
sbarrato, che sarà quind' innanzi la sua insegna, e ottiene
in ricambio una grazia a sua scelta. Si partono di poi i
baroni, e la fanciulla, raggiuntili in abito da scudiero, do-
manda ora il dono promesso, richiedendo di poterli seguire
così vestita. Essi capitano quindi alla città di Valdinferna,
e dal re Roncano, grande amico di Chiariello, vi sono fatti
— i;!'.i —
imfpdSTa U-adimeolo. Pui-e al nano rkscn àf
(ijbU) profitla della libertà per recare le nuove u Satione.
Fratianlo « MaUgigi, eh' era cameriere de! re Carlo, avea
incantalo uno diavolo in uno anello, e chiamavalo Surpini
il novelliere, e ogni giorno il domandava ^ Rinaldo, e
qaando senti eh' egli era prigione a Valdinfecna », preso
da timore, manifestò la cosa ad Orlando, a Ulivieri e al
Danese. Questi, seguitati loro malgrado dn Astolfo, salpano
rome prima lo possono da Ac<|uamorta, e spinti da una
procella alle terre di Salione, sono dal nano riconosciatt
alte insegne. Però ricevono grande onore dal re, e di qui ben
presto si conducono sconosciuti a Valdinfema, che poco
Ntaote è assediala dal Saldano, pieno d'ira perchè Roncano
avera mancalo dì recarsi a corte colla bellissima Indiana,
sua moglie. Il re allora trae di prigione Rinaldo, che cela
la gioia del rivedere i paladini, e il giorno appresso uccide
il campione del Soldano, sicché questi, abboccatosi con
Roncano fuori della città, giura la pace.
Ma ecco per la terza volta due spie di Ganellone,
che .scoprono al Soldano Orlando e i compagni; buon per
loro, che avvedutisi a tempo della cosa, si ritraggono e
riiKhiudono nella terra, secondali da Indiana per amore
ili Salomone, il quale non mollo innanzi aveva fatto grande
onore a lei e a' suoi parenti, gittali da una tempesta sulle
roste della Brettagna. E in questo mentre Malagìgi. ma-
nifestato a Salomone l'amore della donna e la prigionia
dei crisliani, fa che con Girardo da Rossiglione e altri ca-
ralierì si parta segretamente, e dopo gran cavalcare si
conduca a Sorini, la città di Salione. Franando, mancando
in Valdinferna la vittovaglia, i baroni si partono per una
ria sotterranea ; scoperii e raggiunti, combattono con tanto
valore, che, mercè altresì il soccorso di Salomone e degli
altri, sopravvenuti opportunamente, ottengono la vittoria.
Tttrnatisi allora, saccheggiano la terra e si partono. Indiana
1
STUDll SULLE LINGUE ROMANE
DI VARII FILOLOGI MODERNI
tlA xmiVO BART01.I
l.
Sei anni or sono il signor Gastone Paris, in un artì-
colo inserito nella Biblioteca della Scuola delle Carte, la-
mentava lo stato nel quale versano gli studii delle lingue .
romane presso i popoli di razza latina, In paragone (U
quello elio si va Tacendo in Germania. Là molte cattedre
di filologia romana; là le opere di Diez, di Fudis, dì
Mahn, ili lÌJirl'^L'Ii. ili moUl nitri: l.i iiivt sometà berlinest;
— 241 —
vecchio. Cotale simiglianza tra i due romanzi apparirà
ancor più manifesta poiché avremo esaminato il secondo
libro: il quale, a differenza del primo, si attiene stretta-
mente a racconti antichi, a qael modo istesso che nei
Reali, mentre il libro di Piovo è qaasi tutto invenzione
nuova afibtto, le narrazioni invece che riguardano Berta
dal gran pie, Mainetto e altre ancora, appaiono derivate
la massima parte dai fonti delia tradizione. Anche discor-
rendo di questo secondo libro io continuerò ad usare nei
raflfronii il testo marciano, il quale per altro sembra quin-
di innanzi convenire per lo più collo stampato, pur diffe-
rendone qualche volta notevolmente.
( Conlintta )
Pio Rajna
— 244 —
alterazioni di forma, e qualclie volta anche in uuove pa-
role j le quali però non si paó asserire che non risalgano
Tino air antichità. Stabilire T età di una parola dalla data
della sua apparizione su un monumwto , è un processo
falso e superficiale. Molte parole sarebbero state giudicate
come appartenenti al basso latino, se per caso non fossero
state conservale da un qualche scrittore del periodo clas-
sico. Di molte parole l'omane di origine Ialina, sarebbesi
cercata l'etimologia in lingue stnmìere, se lo stesso caso
non ce ne avesse fatta conosoire chiaramente la prove-
- nienza. l'er valutare giustamo[itc le parole romane e le
parole della bassa latinità, occorre avere sempre presente il
fatto, die noi non possediamo cbe un Rammento del vo-
cabolario latino; e che la civiltà, le arti, le industrie, i
cx)stumi dei Domani richiedevano senza dubbio un numero
ben più gi'andc di vocaboli di quello che non sia perve-
nuto fino a noi. E molti di questi vocaboli, specialmente
quelli riguardanti le cose tecniche, è da credere che
sieno passati neiruso comune della bassa latinità.
Il Diez dà nella introduzione alla sua grammatica una
lunga lista di vocaboli del latino popolare anteriore al
medio evo, e un'altra lista del basso latbo: importantis-
sime ambedue per lo studio delle lingue romane, e per
islabilire la loro etimologia , e insieme la loro origine
— 246 —
Ainurescere (Palladio): pr. amarzir; rendere amaro.
Amicabilis (Goti. Giuslin., Giulio Finnico): sp., e
amiijable; ani. fr, amiablc.
Aiitplare per amplificare [Paciivio presso Nonio): ita
r.' : [ir. amplar,
' Annelius per annulus (Lucrezio e Cicerone): il. anello:
pr, anel; cai. andl; sp, anillo.
Apiario vulgus (lieti loca in quibus siti sunt alvei apum, sed
neminem corum ferine qui iacorrupte tocuti soni aut
scripsìssc mémini aut dixtsse (Aulo Geli-, Noci. Att.).
Apiariuin si trova in Ckìluniella, che, secondo ossem
Freutid, fu il primo ad usare questo vocabolo nella lUigiu
scritta. Ital, apiario; pr. apiari; ant. fr. achier.
Appropriare (Celio Aurelio); it, appropriare, appropiare;
sp. apropriar ; fr. approprier.
A'puttjìum, quasi aquae agium, i, e. aquae ductus (Feslo,
Pandelie): sp. atfuaije; pori, agoagem (1).
Arboreta ignobilius verbum est, arbusta celcbratius (Aulo Geli.
N. A.): it. arboreto e arbusto; sp. arboleda e arbutto,
arbusta (2).
Arlihis, bonis inslruclis artibus (Feslo, Plauto), (juesta parola
is evidentcmenle la primitiva radice delle seguenti: pr.
artisia. artisiir; it. artigiano; sp. artesano; fr. artisan:
cioè artitia, aHitiorixts, artitianus,
Astrum nel significalo di astro della sorte, sorte: t quem
adolescentem vidcs malo astro natus csl » (Petronio cit
da Galvani): pr, sim don Dieu boti astre (Ra n., Omx.).
— 248 —
Beber per fiber non ritrovasi che Dell' agg. ftebrinus (Sdud.
ad luvcnal): il. bevero; sp. ifiaro; fr. fttóare. Si h> pure,
celtico befer; ted. bibcr; anglosassone befor, ctc
Belare, rorma rara per baiare, usata da VarroDe. IL bdare;
fr. béler.
Bellatulus per bellulas (Plauto), suppone un primitivo beUatia,
ant. fr. belle: comp. bellatior; aDL fr. bellezour (1).
Berhex, forma volg. per fwyfx, (Petronio): il. berbice; nL
berbectcf; pr. berbitz: fr. ^eftis (2).
Bìbo-onis (Firmico): it. teucuic.
fitsof^^ium (Petronio): it. iiùacoa; sp. òùasa ; fr. Amocs. Dal
plur,,i«'samo (3),
• Birotus (Nonio): it. biroccio, baroecio; vai. berwette; sol,
fr. bouroaite; fr. brouette (4).
Blitum, gr. ^XiTEv (Plauto, Varrone, Fcslo): sp. firerfa; port.
(veito; cat. («■«/.
Boatus (Apuleio), dal verbo di uso piìi comune beare: iuL
sp. pg. boato.
Bojae, i. e. geiius vinciilorum, tam lignae quam ferreae di-
cuntur (Festo). — Boja i. e. torques damnatorum (Isi-
doro di Siviglia). II. boja; pr, buja : ani. fr. baje.
' Botones (scrittori Agrarii), cumulclti di terra soprammesM
ad indizio <11 conlìne : onde V il, bottoni ; fr. bouton ; pr.
sp. bot(m : pg, baino. Bottnre, buttare si fa derivar dal
m. led. b6zen, colpire, urlare (5).
Botìilìts. Parola usata da Marziale e che Aulo Gelilo pone tra ie
f verba obsoleta et macutantia ex sordidiore vulgi usu a.
— aso-
li-, liourii. Ha cei'to relazione coli' ant allo ted. bmrg, got
batirf/s, die voleva dire luoijo fortificcto,
Burrae, t illepidjm, riidem libellum, burras, quisquiliss ine-
ptiasiiue > (Ausonio]. Ms. iu borre plur. (1), sp. borrat
Dal diminuì, burrula, il e sp. burla.
Itarricus, buricu^, piccolo cavallo ( Vegezio, S. Paolino di
Noia), parola dell'uso volgare, f Manniis quem vulgo
buricum vocant o (Isidoro). Fr. bourrique, cavallo di
soma piccolo e cattivo, ed asino. IL bricco, briechelto,
buricco, nel senso solamente di asitw; sp. boorico.
Bioruin dicebant aniiqiii quod nunc dicimus rufum, onde
i-usiici burram appellanl buculam quae rostram tubel
nifum; pah modo rubens cilo et pollone ex prandio
burriu appcUalur » (Pesto). A ciò cola Miiller: «Glos- ■
sana Labb. burruin ^«-j^òv, nuppsv, gloss. Isid. bimts==
rafu^; primarius testis Ennius est., Annal., M, 5, ap.
Mortilam >. L'il. bujo; sp. buriel; pr. burel; di colore
scuro, sembra derivare da un agg. lai. bweus, bwiui,
Taliosi da burrus. Sono frequenti ì cambiamenti dì senso
nei nomi dei colori. Dalla forma birrus pare die derivi
r it. bii-retta; sp. birreta; fr, barrette, b&et. a cagione
del suo colore (2).
Cdballiis, usato solamente dai podi nel periodo classico, poi
anclie dai prosatori, per esprimere un cavaUo da fatico.
ìL cavollo; pr. cavaih; calai, cabali; sp. ccAailo; fr.
cfto'ai (gr. X3£«XXr,?).
Cnmhiarc: < emendo vendendoque aul cambiando mutusodo-
(Sioilo Fiacco, k'uge Salica). II. cnnihìare. con-
— Mi-
di istnimenli nivali: onile forse iL earuieri:b.t
»1 t'i>j.j ht. ranttTÌum (1).
:: US fer •'• 'Js Palladio Anlologia ) ; it. ^Mo : sp. gato ; pr. cat;
fr. c-,'.t i2).
:ui per ••■vs-rna (Scritlori Agrari'; it. sp. pg. p-. flai-o;
fr. .-•..:'.:■.
C.-yv-pui Lucilio per elau-ius: it. zoppo:sp. sopo, sombo:
MI. (f. t"«>^' 3 .
'u.?.r.- f-?f ..-'.li f-iv: il. chiudere; pr. ciurc.
K-:'o. mozuM (Pijuto? e Laberio, al quale Aulo Gellio lo
riniiTovera come parob triviale): usato spesso nel basso
lai. sono le forme cjcio . coccio. II. cozzone ; aut. tr. cotton;
pr. cussi . p;irola ingiuriosa.
Coiìdinarc (Aiiosiino. Sidooio^: it. combinare etc.
f-i:!\i-'-fsh (Tertulliano etf.); it. compassione eie.
Co'nputiiS Finnico): coinputum . compotom (in nno Scrittore
Agrario ì: ÌU '»*»/'>: sp. cucnto; fr. compie.
Con-'-ftcrc t Lattando. Cipriano): it. confortare; sp. conAorfor;
pr. c-viortor: fr. confortcr.
C'yiìiiau-lcrc Tertullìnno. Cipriano : it. congauzir; tr. conjouir.
Coniculart' (Solino : vai. cuiuntà. parlare ad alcuno, con>
venire oH'iucin.
Cooperi meni um Basso in Aulo Geli io): it. coprimento; pr. cn-
briinen :aat sp. colirimiento ; yaì. coperemunt,
Cooperlorium ,Vegezio, PanJettel: il. copertojo; sp. pr. oo-
bertor; fr. coiìi-ertoir.
Coquina per cu'ina Aniobio, Palladio, Isidoro): it. cucina:
— 254 —
Diumare inusitate prò Uiuvivare (Gellio). Le lingue ronune
non hanno che dei composti, come ita), soggiomare, ag-
giornare etc
Doga, gr. $ox^, vaso 0 misura per i Hquidi [ Vopisco): il, daga,
vai. doag, pr. doga, fr. (touve, in un senso alterato (i)>
Ducere se, andare, portarsi in un luogo. [Plauto: Due te ab
aedibus). [Terenzio: Duxitse foras]:it. condursi; sp. con-
durcirse.
Dueltum, forma arcaica di bellum, sebbene si trovi usalo
anche ai tempi dì Augusto. Nelle lingue romane questa
parola significava combattimento singolare, senso che ebbe
già battaglia; cosi duello è senza dubbio parola venuta
in uso piii tardi.
Dulcire (Lucrezio): pr. doucir; ital. sitamente addolcire,
sp. adulcir; fr. aUoucir.
Duplare per dit-pitcare (Pesto): arcaismo rimesso in uso
dai giureconsulti : it, doppiare ; sp. pr, disiar ; fr. doiMer.
Ebriacus per ebiv'us (Plauto, Laberìo in Nonio): ital. ^>riaeo;
anU sp. embridgo; pr, ebriac; ir. pai. clriat..
Eff'orescere o efferasccre ( Ammiano Marcellino ) : pr. s' esferexir,
s'esferzir, corrucciarsi.
Exagium, peso (Teod. e Valent. nov. 25; Inscr. in Gfoter):
i^d-fiov, pcnsatio, in Gloss. gr. lai. It. saggio; sp. enst^/o;
pr, essay; fr. essai.
Excaidare (Apicìo, Yulcazio Gallicana etc.): ital. scaidare,
vai. sceldà; sp. escaldar; fr. ec/iauder.
Excolare per percolare (Palladio, Vulgata): it, scolare; aoL
sp. escolar; fr. ècouler.
il) varie (liscipliac, ma ignaro di membranacei, cartacei e
simili cose, cliiama per sbaglio, ma con denominazione
che potrebbe rimanere, le cartacce d'Arborea
Se non che, prima ch'io entri in argomento, lasciale
ch'io mi Ialini un poco di voi. In un recente vostro ar-
tìcolo della lìevtte Critique d' hisloire et de littératnn
(7 Mai 1870) voi asserite che questi documenti < fureot
accucillis avec faveur en Italie • o che « ceux-lì seuls
qui y cro3'aient fìrent connaìtre leur opinion; ceui qui
doutaìent ({ardèrent le sìlcnc« > . Panni alquanto arrischialo
il dire che le carte d' Arborea trovarono favore in Italia.
Certamente esse ebljcro fautori fin dal loro primo appa-
rire; ma, se se ne tolgano gli scopritori, decifratori, com-
mentatori e pubblicatori, i quali dovevan pur credere alla
veracità dì quelle, la novella chiesa si riduce ad un esi-
guo numero di fedeli; né tulli di molta autorità. Vero è
che l'Accademia di Torino ammise nei suoi volumi al-
cuno di coleste carte sulla relazione del dotto Cav. Bandi
do Ve:;me ; ma essa non mi sembra essersi davvero com-
promessa, come corpo scientiQco, più che la vostra Ao-
cadcmia delle scienze pei falsi autografi del Sig. Yraio-LO'
cas : anzi forse un po^ meno. E neanche direi che tutti gli
oppositori si stessero in silenzio : che il Tota espresse per
la stampa la opinione sua: nel seno deir Accademia tori-
nesa manifestavano nel 18C4 gravi dubbii il Gibrarìo ed il
— 258 —
trambusti del 1860, per mostrare < riconoscente vtxw i
generosi fratelli italiani che con tanto sacrìGcio operarono
la redenzione della sua patria >; aggiuni^endo die certe
speciali ragioni l' ohbli^vano a tenere il silenzio , ma che
presto egli sperava di poter chiarameate manirestare il sno
nome. Ciò non è stato mai fatto: e sarebbe par tempo
che il donatore palermitano comparisse in scena, se egli
è non ombra vana, ma persona vera e vìva. Io ricordo
ancora la impressione che produsse suir animo mio code-
sto codice, quando mi fu pòrto ad esaminare dal biblio-
tecario Senese : il quale ' — e Dio abbia in pace T anima
di quel galantuomo! — mi pareva molto meravigliato e
confiLso di essere stato citato in questa questione corno
autorilii letteraria e paleograQca. Il codicetfo contienB
da principio dei computi frammischiati di parole catalane;
la scrittura , apparentemente del secolo decimoquinto,
è di inchiostro assai nero. Secondo gli editori, il trascrit-
tore delle poesie vissuto nel secolo XV, trovando un bel
giorno, anzi precisamente il 30 settembre del li53, alcane
carte bianche in questo libro di conti, le venne riem-
piendo con le rime di Aldobrando senese. A me parve al-
quanto strano clic l' inchiostro delle poesie, uguale del re-
sto a qncllo dei codici Cagliaritano e Fiorentino, fosse
pili svanito, e però apparentemente più antico, di quello
col quale già innanzi erano stati scritti ì conti delle
— 3'> ^
in tutte le biblioteche e in tatti gli archìvi della pe-
nisola? Si dovrà ritenere come pura opera del caso, cuite
bizzan-ja della fortuna, tale esclusioue delle rime di oo-
(leiìti poeti dai molti codici antichi e genaini? >'è sup-
pongo che del Tatto vorrà darsi la stessa ragione od po'
vieta ormai, ed arrecata già pei manoscritti boemi di Róo-
Oiginliof, e per le carte sarde, cioè • la timida e so-
spettosa dominazione straniera >; la quale non varrdìbB
al caso presente , perchè se anche dominazione straiùen
fosse stata in tante parti d'Italia nel sec. 13." e 14.°, mwà
comprenderebbe come cotesto rime avrebber potuto dille
ombra: che anzi le vedremo da uà viceré spagnuolo rictr-
cale e copiate nel 13.° secolo.
.Ma ammettiatno jiure che cotesti poeti e le loro rìM
attraversassero tutto il secolo XIV" sepolte entro codid
generalmente ignoti. Intanto gli editori presenti ci fvm
sapere come il codice fiorentino fosse trascritto in t àn-
tate Panormi die ìnlitulata XX mensis decembris annaa
nativitate domìni MCCCCXXXIII > da ■ qnodam puro
libro pergameneo quod servatur apud cgrcgium virum do-
minum ' ndream de 5ipeciali regni buius Sicilie thesaon-
rium, quodque, uti ipse dominus de Speciali asserii, trai-
sumpsìt ab alio anliqnissimo libro pergameneo recon^
in Archivio cnnventus sancii Benedicti »: e che il Sanese
fu nel 30 di Settembre 1453 trascritto in • hac civitate
— Ì6* —
iKanza. àeoza cbe se oe sappia prù doIU per tre se-
coli e mezzo. Nel X\T secolo s' incomiDciaDO per open
del GiuQti e del CorbiDelU, quelle nccolle di rime anti-
che die noD s' inlemùsefo mai dappcn. Nel XMP i'Allacd
irae da mi maDosorJtlì dod piccola messe di rimatori dd
primo secolo. Eppure oè questi eruditi editori uè qnaoti albi
reDoero dappoi , oalla mai ritrovarono dei poeti del XKl'
secolo, ed ignorarono del tutto che nel 400 se ne cooo-
scessero e se ne copiassero le rime.
Ed ignorate rimasero coleste poe^e sino a che rìpnl-
lularoDO prodigiosamente or sono pochi anni. Auspicate e
prenunziate da qualche fo^evol cenno che già se ne en
fatto nelle carte d' Arborea, e piìi dalle pubblicazioni del
1859 e del 60, a un dato momento, quasi contempon-
nearaente, sbucarono dal loro sepolcro più che quatri-
duano, come se fossero suscitate dalla parola di no
tatunatni^o o dalla bacchetta magica di un negromante:
Se non che noi sappiamo già quanto sia tenebrosa la loro
origine: ed è un brutto introdursi nel mondo senza l'qh
poggio di un nome autorevole che dia guarentigia delb
loro legittimità, anzi sapendosi da tutti che sono pionle
dalle nuvole, come gli scudi dei tempi di Noma.
Fatta questa esposizione storica, la quale non panni
molto atta a predisporre gli animi in forare di documeoli
— 266 —
HipoiliTÙ alcune osservazioni del s^. Gaston Paris (1) le
quali basteranno a dare una idea chiara della dispnta.
Intanto il lettore non si spaventi vedendomi abbastaim
lontano dal soletto che certo ai si aspetta veder trattilo
secondo il titolo del mio lavoro: forse non sarà Imfo
al lutto perduto, e in salito ■ et haec olim meminisae
juvabit. ■
< Un premier argumeni grave (dice, adunque, il ov
tico francese) conlre T autlienlicité des poemes tcfaèqnes
est la certitudo que des fabrìcatiòns de ce geore onl en ;
lieu en Bohème , à r epoque et daos le milieu on aa '
poémes ont été découverts , et pour servir les mémes ma ,
qu'a senies leur découverte. En 1816, une chanson sa ,
le Wychegrad , l' ancienne acropole de Prague , fui co» ;
[wsée par un faussairc reconnn aujourd'hui comme lei pir I
les Tclièques eux-mèmes. En 1818 , un maouscrìt fot wf- i
si&ieìiaemefìt envoijé au Museum natìonal de Prague
En 18:^:t, on trouva à la bibliothèqiie de ce méme Ho- :
seiim, (Ioni M. Hanka était directeur, un feuillet de pir
chemin contenant d' un coté un petit poème IjTico-épiqne,
</)(> se Irouva aiissi dans le ms. di Kiinìgitihof et dt
l'aulre une chanson ichèque du roi Veceslav L'^elc.»
Di questi e di altri monumenti , per così dire, prcftt-
ratorii del ms. di Kóniginhof, messi a luce dallo stesso sig.
Ihnka . per lo l'ure del (juale doveva poi venir a late
Di certo ra meraviglia come un nomo qnaPè il sig.
Chasles, abbia potuto credere alla ancerìtà di sifbtti mss^
però non bisogna dimenticare che ogni qnal Tolta unms.
dava da diro a' dotti francesi , e in conseguenza la fidam
dello stesso sig. Chasles cominciava un pochino a vacilla-
re, tosto venivano fuori nuovi manoscritti che confermavano
ì precedenti e ne mostravano T autenticità.
Le carte del Vrain-Lucas formavano così un tutto tal-
mente connesso, che era impossibile ammettere l'autenti-
cità di un manoscritto senza ammettere quella di tutti: e
il falsario ne aveva saputo comporre tanti , da dova- sem-
brare impossibile che un sì grande ammasso dì carte fosse
nuli' altro che una balorda menzogna (1).
Per ragioni dì analogia , che meglio parranno in se-
guito , abbiamo voluto preludere a questo lavoro (qualoo-
que e' si sia) sulle Carte ir Arborea, rammemorando coleste
due solenni imposture.
Che se le carte sarde fosser vere , un altro pfr
riodo verrebbe ad agginni^ersi alla storia della nostra let-
teratura, e la Sardegna avrebbe una storia documentatt
polìtica, letteraria, ecclesiastica, quale i dotti storici sardi
non si sarebbero mai aspettata , quando ebbero a lavorare
tanto di congetture, per tentare di colmare le grandi lacune
in cui spesso si abbattevano. Queste lacune, aimmo per
sistertìhhero nii'i: p. innltn
Li n^a-TMr par*: li ìà=i ì<)qi> in -fiaietia arda 4 m
.amili hlmììk^^** 3im !naiii:aai> puri oimè in nfihnn ,
:iniiii>r':' it^' mancsi-rTti -; :a v^-.m >liifla mafiffn è ^
''h>^. *:.n ::itr. r^ ^tàiarmenci <pn i ]à ìgxs. oeUe ioli
lei Hnrxi rj-ri :iit-; rrtnavj nm «pav«UEs cbimipe
^■jtpia nwOrT-i 1 -nu'Jaril
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mirif p<>.-L^^■r rr-r^xi ni-;' l«Ctjri -±1? funi ne abòóoo »M
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b(ii')tn:3 ''3j\\»nUT!3. Il MiDt^a le ili<:faiarò proT^nKoti di
Ort-tarui anth^a ^ilr 'Ìk re.?jli «li .\rti«?rèa : ^ di qui fl oom
41 1 Carti^ tlì Art-'Ti^j > . T3>:)7ce per'- ti Mawa della pa<-
Sina <:h<^ silirlé -Tori^-itun : ma il PiLIito. coi prima cfae
ad altri fnrrioij mo-?tme. dis.i^ che. doq ostanle il alenai
del frate, ^i poteva arer qasM certezza cbe esse kssm
stale «lepiìsitat-f nel ''ooTenM de' M. 0. di Orùtano sa»
all'anno 1^2 in coi fa ^ppres^o il coarentOL
< Comunque però . è certo che pacqa«o per più »
coli nelle tenetire e vi sarebbero rimaste per sempre, se
il lori] rilpr)tiir'^ n^n ayesse aralo la felice
— 271 —
occupiamo 9 e molto spesso, anzi, non vi si trova che
r esatta riproduzione del già detto da altri.
Ma lasciando da parte i lavori degli altri , e venendo
iD?ece a dir qualcbecosa del presente, i lettori che conoscono
la Raccolta del Martini si accorgeranno facilmente come
il cootenuto stesso de' manoscritti sardi mi abbia indotto a
dividere in due parti questo studio : nella prima, prenderò
in esame alcuni fatti della storia sarda antica e medievale
quali i nostri codici ci danno , assumendo quasi a tipo dei
Doyelli monumenti quello che primeggerebbe su tutti per
importanza e per antichità — il Carme di Gialeto: e nella
secooda , mi occuperò specialmente delle scritture in dia-
letto sardo e in lingua italiana, che per la prima volta i
manoscrìtlì arboreesi ci hanno fatto conoscere.
I.
La raccolta delle carte di Arborea comprende qua-
ranta manoscritti : otto pergamene , diciassette codici car-
tacei e quìndici fogli cartacei (1). Di certo , per abbondanza
di manoscritti è questa una gran bella raccolta : di che
più agevolmente si convincerà il lettore ove non voglia
dimenticare, che non pochi di questi manoscritti vanno sino
alle trmta e alle quaranta pagine in 4"" grande (1).
(1) Non è però straDo che altre carte Tengano a luce: anche dopo
le tute sioora scoperte, la storia e le lettere sarde hanno sempre biso-
fBO di schiarìmeoti e documenti. Il Bandi, in fallo, (Nuove notizie in-
$&rmé a Gherardo da Firenze etc. 1869) ci fa sapere essergli riescilo
acquistare quattro nuovi fogli di un ras. gifi in parte compreso nella
Raccolta del Martini ; e aggiunge che altri fogli contenenti poesie sarde
ampie note marginali , sono tuttora presso gli scopritori.
(t) P. es. il Codice gamerìano occupa 40 pagine (Appendice p. 21
;.), la Pergamena V* 31 pagine {Raccolta p. 177 segg.), il Codice
W (Ib. p. 279 segg.) 29 pagine etc. etc.
— 274 —
non potrà cosi facilmente rifiutare queste carte, vero pd-
ladio della nazione Sarda. Io vorrei tuttvìa che i Sv£
si persuadessero che le carte di Arborea per gU stnDÌeri
sono manoscritti come tatti gli altri, e che però il mei-
lerli in dubbio , il arcare di mostrare eh' e' sodo apootf
non è già un voler detrarre alla gloria della Sardina,
ma un voler rendere omaggio alla verità, o almeno a db
che come tale si presenta al loro intelletto (1).
Ma non voglio piìi a lungo insìstere su cose abba-
stanza evidenti : per conto mio posso ben dire d' essenù
messo a studiare le carte sarda « sine ira el studio, quo-
rum caiissas prociil habeo. »
Ciò che prima di ogni altra cosa si nota nella letton,
anche disattenta, de' manoscritti arboreesi è la connesfione
strettissima che ciascun manoscritto ha con gli altri. Si può
dire, senza pei-ìcolo di esagerazione, che se in un manoscriUo
si afferma brevemente, e però con poca chiarezza , nn btlo
di qualche importanza , vi sarà dì certo un altro manoscritto
almeno in cui sarà più ampiamente alTermato il fatto stesso;
e nel maggior numero dei casi non mancheranno altre carte
in cui con maggiore ampiezza, e spesso con più rettoria,
si tornerà alla esposizione del fatto medesimo. Quindi it-
veniva al Delta Marmerà quello stesso che accennamn»
avvenuto al sig. Cliasles con le carte del Yrain-Lucas. Se per
caso egli aveva a dubitare di qualchecosa, bentosto onon
— 273 —
isione di ttotli (1) , ia celebre giudicessa Eleonora
rArboK^, e poi i marchesi di Oristano Leonardo ed An-
tonio CubeDr».
Queste sono le notizie più importanti sulla scoperta
delle naove carte sarde : altri particolari avremo occasione
di rammenlarli iu seguito.
Disgraziatamente la quistione delle carte d'Arborea ha
preso, m certo modo, Paspistto stesso di quella degli antichi
mss. boemi. Ne' dotti sardi in generale, l'apparizione
delle carte arborecsi non produsse né poteva produrre
quolta impressione che produsso poi ne' dotti stranieri.
I dotti sardi non giunsero per la via della critica alla con-
rinziooe dell'autenticità de' manoscritti : ma li accolsero,
appena scoperti, con quell'entusiasmo che meritavano do-
cmneiitì di una antica gloriosa storia dell'isola loro. Le
drrosianze, che agli stranieri fornirono argomenti per im-
pn^urlì, non furono untate da' Sardi che quando già le
eUiero avvertite i dotti stranieri : si rispose da essi ,
quando ormai già erano avvezzi a vedere con un cer-
to senso di compiacenza la storia polìtica e letteraria
sarda (|aale i nnovi manoscritti l'avevano creala. — Na-
iuralro«nte io parlo qui de' Sardi in generale, che le
eccezioni non mancano. — In somma, i Sardi son troppo
lusiugalì nella loro vanità nazionale da queste carte. E
come del resto poteva altrimenti avvenire in bravi isolani,
dio tante lacune , tanti dubbii , tanti oscuri accenni trova-
vano udle memorie del loro passato? Ora avevano belle
pagine di storia : come supporre che dì buon animo le
polt?ss«To rifiutare ? — Ben potrà qualche eletto ingegno
avere una opinione indipendente da qnalsiasì preoccupazione
nazionale : ma la generalità degli uomini più o men colti
Ut « CoDimÌHÌo deputala su{ierlransuiiiplis eh ro naca rum.* Martini,
LS7l,Còit e V*. ^tlna deputaiìone di storia pairìa nel XV secolo!
— ni —
:< Irrlr <!•' IDf DT»-r-^ Vr30m Kinfc. SE^: ^^P-
■ru I L :: j ly* :, - : 1. sr «« 3. »«-
> it'iuzf u^b TT-.-'inzEKiii* «na fu tK* ■■Ha pv
u- TL-s. -iz. L -. : 1 ics I 7 ÌÙ. ■ 3. ì»: q
1 >» :x 1. US TI 1. wm-i.
??rL : -.-rvi ;3-^4. :± L L ?T a. ST: Q, ^l Oft
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>-i: * •- -. ki z. 3». ao: a
-■i-^t -jt "l r. rr s. 3SSl
■ -l-ie * 1 :. IV e. 3». ìM, n
: 4;^>. :. rifaer. p. 53-SI
. il-: 12^ -fr F^rz IV f-, IH: Ct I
;. iST: :. ^•. IV p. JW; XD
['. i±^: •:. flnkef. p. !23,S
Apf!»it«t : f>dk> cip. iSI;
n p. 432: m. ÌÒ8L 559;V,
irjfi: VI. ÌTO etf. eie
0nir>ii apf^Tr piastiv^m] t' oss^mzkne de) Don,
<-[><; ófifr. !•: ari« di .irt<or^ >ieao < aai mdhù siocen,
— 278 —
Ed è poi singolare i^he mentre negli scrìtti dei
sori delle carte di Arborea spesso è detto che qoeslì i
avrebbero resistilo ad ogni più accurato esame paleogE
fico, trovo iovece nel Jaffé (cui nessuno, io credo, t
contestare la qualità di giudice coinpeteDte) le
parole a proposilo della Perg. II:
D Già la forma delle singole lettere tradisce lo set
moderno, che non aveva una conoscenza sicura del |
Ucolare e fermo modo col quale una mano del i
teneva la penna. 1/ eguaglianza manca non solo ni
diverse lettere, ma anche in opiuna separatamente pra
l'crciò il documento ha un' apparenza grademenle e
spetta, die per certi riguardi dovrebbe bastare i I
glier fede alla credibilità di un'antica scrittura » {!).
E. come se questo non bastasse, il Jaffè conchiadc
" Non mette il conto di spender molte parole a i
scrivere ciò che poclii accenni bastano a far vedere i
bella prima : come cioè, ò evidentemente procurata ad ai
qutìll' apparenza di sudicio per cui si vorrebbero dar f
vecchie scritture recenti t Si vede che i fogli interi *
soli margini sono stati tuffati in diversi liquidi : vi si ved
' macchie più grandi o piii piccole fatte con del sadidin
liquido 0 vischioso, o versato o spruzzalo, o spalnl
di sopra o di sotto! Qnesti segni non servono che adl|
— *« —
voj cu ;r'j^i Er:-i--i -S -^ifesU ££cR>3oe. — E (pesto
:*<. ■'>,* T;;<'.or ì:4Ì-:'>,zTà-a . or:» lesinale ooonni
l'-.-vH' U:-: i.'^i r^ r>y»^>^T^ 1« oàs^mzàiwi de^ ai-
tn . pr.-Ury; '-•■m-» >:o? ala ><!iefiz] •^cti anlìdM (andai
pt^v- ciH^ i^'-esaiDr d-e'ms-. artoreea qoolo al ion
•tfTit^^Db:-. f^raio-l-L-mi f-riKi;'>atm<?Qt>? sdIIi Percameoa L
«♦v-'-m^ -^-riU -*ti^ [j-yi -^r-j^ 1 fresimi ilm per inqNN>-
tariM iji-n-a . ■? -'he f-^' partkr-Uri si anoeCte con qoisi
tmti :.ì aitri mirjx.rittL
ija-r-U ["irr-im-rta ooiti^ri^ il'i ritmo o anio pop»-
hr-- iìuri" -J' OM !' ìr-'v-m-iDl-:' friEk:Ìf*afe è (a almflio do-
irrl-l-- f-^rr Ì3 ru<^]ui-^t'iu iO'lì[>eDd«nza della Sardc^
iirir3ri'i'> t'is'7 lir-H'rra ^■.L'arr'. e l' innalzamenlo al inno
'il un «iiil-rtM n--'i'ile janli... Il p-jeta rtrii >i rompiare tì-
-it>jlrD>-:ii'.- 3 ni'T'^Tt la ^t>'>ri3 anti<'a «Iella Sarde^ ri-
]n->rtan'i-<nr! nutf'nlirhfr iDi-mArìe : e bisoima confessare che
iiitomf* 4 <[iieMi~i rìtnir) r^n arret-ttero proprio nulla di
rìilin: qrj>'^'|j |ist>(iil»H:riii<-i «'tie >i laenavano tio tempo
(trilla iniitilità della [M-»^ia.
Si liguri il lettore die iiuasi OLmì verso i,e il Rilnu
ne comprende 17t, ha la :>ua speciale importanza per
la storia politica o letteraria della Sardegna. Esso sa-
relfttf .stat'j roni|)0^to Ira il 6K7 e il Hi. e la copia eoo-
senatai-i sareblw molte probabilmenle del tempo, al-
— 282 —
l'eli') se ii[i Ueletone non fnsse ora ricomparso in qoeslì j
inaiiiHt-rìIti . la ramiglia <le' Deletoni sarebbe per la crìlia
storica (^à scomparsa dal numero dì quelle che un lenqw
esisterono in Sardegna, percliè iu Cicerone si le^ inreee
Delicottes o Iklecoites , e la . lettera e si Tede atAosUoa
chiara nel palinsesto.
Ma se il Manno avesse t-onosciula la buona le»M
lìetecones, non sarebbe per afreniura stato un Ddteem
r autore del nostro ritmo? (1)
V»)endo adesso al contenuto del Ritmo, wi fenBoè
in prima sul Tatto più importante In esso accennalo : b ~
rivoluzione sarda del (i87.
Serondo dunque il nostro Ritmo, Terso la fine àé
sec. VII r erano in Sardegna un Marcello preside e n
Atisenio duce, amltedue rappresentanti l'autorità ìai[»
riale di Ciiustiniano 11. Marcello • inumano preside ■ aii>
tato dair . empio • amico suo .\usenio riesce a Tarsi re
indipendente dell'isola. l*erò ìl popolo sardo, irritato p(r
lo vessazioni di ogni genere sofferte [ìer opera de'dne
amici, si solleva.
Allni-a Gialeto. i tre suoi Tratelli Xieolao, Tornito e
iHirùi . e il sno genero Auionio me.ssisì a rapo del popolo,
riivfuno ad uccidere Marcello ed .\usenÌo. Gialeto è fitto
giudice di Cagliari col nome di re di Sardegna, e lasca
— 281 —
avrebbe questo ritmo, il quale verrebbe cosi a colmare quella
^nn lacuna die gli storici sardi, per la mancanza assoluta di
documenti, disperarono già di poter riempire. Il Manno, giuQla
colla sua narrazione a questo periodo diceva, mestamente:
« Da questo punto ( 681 ) maggiori si addensano le
tenebre sulla storia civile ed ecclesia:itica della Sardina;
talché ne parrebbe che, mentre soprastava airisota la
massima delle sue pubbliche calamità, cioè r invasuoe
de' Saraceni, le sia mancato, se non il compassionamento
de'' contemporanei, il lamento almeno d^li scrittori D
progresso degli avvenimenti ci sbalza .ora, per coA dire,
nel mezzo ad una genia novella di feroci dominatori; e ci
sbalza inopinatamente, perchè mancano i ricordi dell' in-
vasione, restano le sole memorie della già acquistata si-
gnoria (1) ».
Dair accusa di maestà deir arcive.scovo cagliarìtaiu
Cilonato (680-1) si (Kissava di salto alla legazione di
Liutpi'ando pel riscatto del corpo di S. Agostino (721-25).
On. gnizit' alle carte di Arborea, la lacuna è interamente
scomparsa, e (quel che è piìi) le poclie congetture ià
^lanno su questo perìodo ricevono splendida conferma.
n frmpnp foni per acidcrf lioinpni foni eciam \ìfr l^roenc *.
. > — R ciis^i rncAfio giiprrn li- dili^ Ttiinpiic. E le Sarde siiiwIaM
— 285 —
I Medilanilo (dice Ji Manno) stille o/tndizioni politiche
I Sariieftna ne' secoli precedenti, io non altra «poca
ipi riconoscere più adatta allo stabilimento di quella
jDva maniera di signoria {i giudicati ), che quella in cui,
r lo decadimento dell'impero greco e la noncnranza
s cose dell'Occidente, atìQevolivasì da ana parte Pin-
mza dell'antico reggimento, e dall'altra, per lo peri-
» delle aggressioni esteriori, moltiplicavasi anche glor-
iente il bisogno di un' autorità presente, vigile e ri-
s|>etlJiW. Quest'epoca è qnella delle incursioni de' Longo-
bardi e de' Saraceni (1) ».
Noi abbiamo già visto come appunto in questa epoca,
Gtalelo divent<isse giudice di Cagliari.
Se poi c'era quistione sull'origine de^f/iiaUro giudi-
cati ftra il problema è pienamente risoluto: non furono
*lHnltrii fratelli i libei-atori della Sardegna?
Ma qnello di cui non so persuadermi davvero, si è
I Manno abbia dato tanto nel se^o quando, dopo
i abbozzato un quadro delle condizioni dell' isola du-
il decadimento della potestà imperiale bizantiua,
I con le seguenti parole: • Un popolo situato
stremo a\'ea bisogno di maggiore protezione, e
lopolo, rlie mal cura i bisogni o male scaglie i
dii, nutrivasi d' ìlItLsioui o di timori , mancati non
quegli uomini dalla loro riputazione o dalla
ronnria innalzati già a tal grado die il passo al
remo potere sarà stato Torse per essi un breve
. Ed in questo novero io comprendo non solo i
Eo(i7t i! -ir itola, ma gli stessi duci imperiali che,
fonati dall' ambizione, non ritratti dal timore, poterono
ftarsi ili una poteMà loro meglio abbandonata che
eom-essa e convertire un uffizio temporario w urna carUa
perpetua (1) >.
Ai notabili deW isola diamo Dome Giaieio, Xicolao de^
ai duci imperiali diamo nome MareeUo e Auiemar. ed
ecco in abbozzo la pei^amena prima.
Quello però che il Manno non prerìde, perchè en
diffìcile troppo il prevederlo, si è che qnesti mtUibUi dd-
r isola avessero dovuto unire air arvedalezza politica
l'amore degli sludii. Gialeto (e cosi anche i suoi fmàS}
è un dotto pento nelle cose e nelle lettere ^izìe e gre>
die, è protettore di dotti, tiene seco un erudito • elMvo
di corte > come lo disse il Gerhard, ed è qualcosa più che
iiD dilettante di archeologia. E il nostro Deletooe, accorto
come era, si avvide benissimo che nairandoci le scoperte
arclieologiclie de' quattro fratelli avrebbe potuto dara
qualche schiarimento a' futuri storici sardi, i quali non si
sarebbero trovati in grado di saperne tanto quanto lui
Del resto, non sì può negare che sìa molto ing^^DOSO
il modo in cui Deletone ci fa sapere tutte queste belle ed
utili cose. Egli apostrofa gli anttctiissìmì coloni della Sar-
degna, e, congiungendo mirabiltnente il t6no di poeta
solenne colle minnte ed esatle descrizioni dell'archeòlogo,
cosi dice:
Vers. liWO:
- '■- .. .■"*>- ■■■■-••■- t<i :r:ijf«Cifc di qnd-
> : ^:i^--'- >.- ij'-- «r- >tr:- or;<at^Ta l'oMìfO
:: Liz- -T-..-- -v --ji. j-c. ^viii i:l SanJeena ne'
— --:>■; --! -Lr -X -'C r^oitriv affatto in-
■■ -■-.■.- >:• :■ • — <-r^! i T-^-'-Dr ■tfw lierifrnno
-.~ -- ■•- '<■■- ' r-'.r - -.kj' -iif- iniiiT'* per (ìli
'• ■■. -. - :■:'.■, -_-^; --~'-='J ^'-i L> par-le del Meyer.
— .> -: -:ì- -.---^ Vi.-:-- M-.stK. che p»-
- ,- - ■ M '. ■-'_■- - -"ì", :.~:rj:e b Sanletma. e
- -■ -: . -~i '■■-.:■ -::.--T :ììi-:ud3 anche ne'
' '—. — :-- —ri' --•:. .-- -■- -u :-r:'ViD.:i3 ?oggetu
-; ,-■- i.'." ij_- " r_:-- i: >i:.:z,-- Wn polera co-
■_■ --■' . .-- .'.- '■ :• :-■': --srrr ui t-breii. perchè
-■_r,' :.■•-!-:, :. ?,■-:■ . i- .;>>.!iii i^t^vindij b IkIÌ-
>-. ".'•: ?;-:»-i. . L [»T-*V::-:r'.:it* •_+!■? 5i meraviphsn
:-. i ■' ., : -.\r-.ri >■ -.•ir-.c fi Gi-ìUtn. rispose 3
Mi.ri. ■- '.- *---!-;.:. :-i: ■■.-■ i-,; Cave-i-iui. a cui nnlll
:-:r»* pi n:tiir:-.T -• r:-!! «:.::i.!'i?> -'i-- U esaltazione de'
: st:,, ruvrium-:.:! r.r: !;■ ■ih-t.i' iri -ui uriinizìone ac(|uisla Is
;r..:i]( i'.Àn ■:•.:•{•:■.. z--.: ■ C -i il -vletir-- tiiluiini Cola di Rienzo
— 28» —
Mi à accuserà forse d' irriverenza alla memoria di
I nomo per tanti rispetti caro a^li amatori dell' anticlittà,
fi oserò notare che da Gialeto al tribiiEio romano c'è
'. secoli, e clic dagli scopi politici di Gola di Rienzo alle
! prettamente archeologiche di Gialtito e' è un gran-
Bimo divario?
Ma, (ornando al Martini, egli non potè ragione-
meotc presamere di aver dato una buona risposta
oLbìczìoni messe innanzi dal Meyer. A parer mio
mpossihile rispondere, anche restringendosi alla carta
secolo l\ cui le obbiezioni de! Mejer riferlvansi :
diremo poi del canne di Gialeto? — Noi alt-
dinanzi un monumento de! sec. VII, un ritmo
re (giacché come tale ce lo danno i difensori stessi
delia sua autenticità (1) uè altrimenti noi potremmo con-
siderarlo) in cui il poeta, almeno lino ad un certo punto,
deve essere interprete del sentimenti del popolo; e in
alesiti ritmo appunto, noi troviamo un gusto lellcrai-i».
vcheologico, linguistico assai nettamente formalo. Desta da
supporre che il popolo sardo si curasse poco o nulla delle
>ti)Ue ricerche di quella società di eruditi presieduta dal
re Uialelo, e che guardasse il museo archeologico della
corte di Cagliari con quella stessa ingenua curiosità che
i inou alla liUnnù Ellitnicn del come Dionigi Solumo:^ e
i: « Il Dulcloni? eil il Solomos furono due poeti storici, ini.
Mia Cirilla in Sonlrgna ed Jn Grt^cia; prrcliè i primi sierici
) lunmo poeli. ed 1 piti grandi poeti Ttirono fiorici fedeli i.
''^ f- i. Caoari, /.? earir rfi vlrftorrà eie. p. 8, So pameoni siffaiti
*"»«» lojore, oon so davrero cosa potrebbero rispondere i critici
• fh (irtwniasse loro comi' Anteriore di dieci secoli all'idra rolgare un
■Muilr ili jrcheologin in ver^i epici.
di i'nli p. e.: Mutini. ÌVmmm pirgtimtne iT Arhori-a voi. I,"
P' 19, Ci(lL.rì ffllfl.
— 290 —
anche oggi in molte citUk è propria alla maggior parte
de' visitatori di mmei.
Ma sarebbe stato mai po^ibile ud canto popolare
quale le carte arboreesi ce H danno ? Ciò premesso che nle
il dire: potevano essersi scoperte ioscrizìooi fenicie, po-
teva sapersi di greco, c'erano degh Ebrei. — Ci sg»
ghiamo forse una corte del VII secolo in cui si attende {Ms
a dissotterrare monumenti antichi che a gOTemare lo
stato; e un ritmo popolare di 174 versi de' quali 31 soli
(dal 135 a 106) sono spesi a narrare la grande in-
presa politÌi-.i di Ciialeto, e quasi tulli gli altri ad aimoTe-
iTime le scoperte archeologiche?
Ma prescindiamo anche dal carattere popolare dd
ritmo; consideriamolo pure come il resoconto poetico d
un'accademia scientilìca: riesciremo forse a persuaderò
della sua sincerità?
Nel continente italiano la condizione degli studii di)
VI al \I secolo non era dì certo idonea a produrre en-
Insiasmn per gli studìi di antichità, non dico in mia b-
miglia di principi, ma neppure in questo o queir altro
individuo. Se nplP universale ignoranza ci riesce scorgere
ogni tanto un dotto, o almeno un uomo reputalo tale
da' contemporanei , egli è un teologo. Di fantasticherìe,
sogni d' infermo, sottigliezze e sofismi scolastici, talvolta
niirlic ili lampi [l'iiigoinin verainentii specnlativ
— 291 —
Ma la Sardegna, si risponderà, poteva trovarsi in
condizioni diverse da quelle del continente italiano. —
Ecco la famosa obbiezione a cai, se volessi farla un po'
da avvocato, potrei evitar di rispondere, pefchè tocca a'
difensori delle carte arboreesi il dimostrare che in Sarde-
gna si era dotti qoando nel resto d'Italia si era poco più che
airabbicd; e perchè non incombe a me il provare che la
Sardegna non poteva fare eccezione alla barbarie univer-
sale. — Tuttavia che ragioni abbiamo per supporre tanta
differenza tra la Sardegna e V Italia continentale ? Di certo
la Sardegna in fatto di coltura non ha avuto dalP impero
romano beneflzii maggiori di quelli xhe ne ha avuti il
resto d^ Italia : a me basta la testimonianza di Deletonc:
V. 110-116:
Sed Romani Dunqiiam fuerunt — in agendo similes,
0! quam barbari isti fuerunt — cum evicto populo,
Avidique divìtiarum, — argenti et auri,
Praepotentes vexatores — et latrones pessimi,
Inimici sapientum — et scìentium litteras,
Quos omnimo obscurabant, — in noctis caligine
Et obscuri desinebant
V. 124:
Omnium demum procurabant — obsciirare ingenia (i).
Lasciando da parte quest'ultima espressione — pro-
curabant obscurare ingenia — che è per sé stessa, come
frase latina, un gioiello inapprezzabile, io domando se
(1) Di questo (tasso Ocleloue sarebbe potuto giungere a dire; S;tr-
«lioia e capta ferum viclorera cepit et artcs liitulit etc. ».
r impero romaDO poteva disporre la Sardegna a tiTenìre
un seminario di dotti e di artisti ne' secoli medieiaU-
l'eggio ancora il dominio bizantino.
Questi Sardi sbucarono, dunque, belli e sapienli dalli
madre terra.
E passando ormai a qualche consideraziooe ^eciile,
io credo che ogni lettore del rilmo di'Deletone non potri
non notare con diffidenza il ritorno rrequentissìmo di (or-
mole come le seguenti : Nam aegyptiorum taorum extaM
testimotUa (v. 41); Simt hodie vidimus (v. 61); ttf ex
plumbi taminis (v. 80. congettura del Cavedoai); De M
scimur evidente!' laminibus similibus (v. 83); Ut a»
slot tnanifeste ex aeaeis tabulis (v. 91); Ut ex ttictìi
doctimeiilis nocis conslat certius (v. 103); Ut ex ùwcri
ptionibm (v. 119).
Brava gente die erano questi Sardi del sec. VII, i
([Itali (superiori in ciò a tanti dotti moderni) non affer-
mavano cosa che non fosse colle detnte forme auten-
ticata!
Quasi saremmo tentati di dimandar perchè invece àà
nome di carme di Gialeio non siasi dato al nostro ritmo
(|uello più idoneo di BuUeltino archeologico Sardo dd
sec. VII!
E queste formolo del nosUo ritmo, non sono che un
■ah sjiL'uin di l'ió r.lift ritriìvasi nellf- altriìrartp. H l>ei
ramnitiUtiaiDD adesso «{ualclre fallo <li quelli che
il nostro Dclclone, per forluna de' futuri storici Sardi, ha
UDlo c«sceiiziosanieiite provali ed illnslrali.
fiitutiao mi Orosìo, lia le nazioni cbe spedirono legali
ad indiinare Alessandro Magno dopo le spedizioni del-
^J^^Uo e dell' India, nominano anche la Sardf^a, e Dio-
^^Bp Siculo, benché non la rammenti in particolare, la in-
^^Be Tumdimeno nell' espressione : < cimeli qui mare
^Hoe ad colnmnas Ilerculis accolebanl ».
Il Manno (v. I, p. 41 segg.) &i mostro propenso ail
Jia-ellari' i»er vero questo fallo: peni toinbatte con bun-
uissimH ra^noni gli scrittori ì quali tollero ■ die qiu.1U
li-^ziune fosse per la Sardegna un argomeulo di politirt
indipendenza, e che perciò ad un'età postcnoa jd \U>-
isodro f\ debba riferire il dominio cartaginese neir isola » .
Di (ini il Tola (\) osservò die quella legazione « se non
è prova di assoluta indipendenza della nazione che i legati
Sardi rappresentavano è certamente nn indizio della
costanza colla quale la sarda nazione cercava sempre di
MjUrar:^ al servaggio africano *.
Elibene cosa abbiamo nel ritmo f Dapprima si mette
in sodo cbc ì Cartaginesi erano già padroni dell" isola: e
poi Initlandosi di cosa tanto onorevole per la Sardegna
f ■ è qualche cosa che conferma r osservazione det Tola :
V. o»-ioa:
Molla ilanina vos (ulLstts — (Jarihuginlenses primJlus:
^^m Ci secreto» suos legalos — ad AJexandruni maiimum
^^T (I) (Wntt diplomai. Sariio, Disi. I, |i. 51. Il fìi§cicoIo del Cod
UfL is cai ^ contenato il bruno ciiato lu [jubblicalo non ilopo il
tKifi: h pcrfsiMtia I di Arborei tu \enduu al Hariini né Luglio
1847. ?- ■»rtìBl. .Vanir [Wi/. 't Ari,. Uluslrale n>!. I, p. 2. Ca-
nfori IXl!>
— iyv —
Sui Sopheii iam misissent — Olbìae ci O^Uis proiutiM, ]
De sua gloria graltilantes — el petenies gratiam:
Ci ex dictis documentìs — novts coQsUt certiu&
Che se [loi il lettore avesse vaghezza di s^re il
risultato (li questa legazione, la i]uale del resto, secoodo
il mìo debole parere, uon può altrimeoti ammetter» die
come un semplice omaggio al grande conqoislatore, em
qualche accenno nel Cod. cart. IV p. 263 :
■ Agrilla, ohi ! citate superba prò amicitia beDevolen-
tii) et grafia de Alexandre. »
Che diremo poi della fondazione dì Cagliari?
In una inscrizione (sincera o falsa, importa poco per
ora) Cagliari è delta < cìvìtas Jnlae ». Alcuni scrittori
antichi ne attribuivano invece a' Cartaginesi la fondazione.
Il Manno poi scrìveva (Ebid. p. 40): • Cagliari dK
a' Cartaginesi deve se non il primo suo innalzamento, li
sua ampliazione almeno etc. « K aggiungeva in noO:
■ ("ili scrittori rhe ne atlribuiscono la fondazione a' Car-
taginesi sono Claudiano (1) e i^usania. Un mezzo solo si
ha por conciliare le diverse sentenze, e questo è stato di
me segnilo rapportando a' tempi cartaginesi V ampIiaikM
almeno n la ripopniazione della capitale della Sarde([na •■
Anclie Dclctone la pensava cosi;
— £« —
\f^. I. K igsiDD^'erò aiKon qaaldie Mire carri^ionlHui
fra U nrV: t la f-oeu.
?>i tratta >ìì OD t^iii(>i4 eretto ab awliqmo Ha^ i»
luii a <^A Sordtr poàre b cai nninapDe en scolpiU
tiiir aneli» ilvl p»lre di Gialelo. come Tedemmo A
•rf-pra.
Manno. -Sf- d. s. voi. I p. i8 — < Nuoro e
iiia?sii'>r<- i-omprDvamentn delta religiosa memoria degfi
i-^il^tiì [>ri Sapii'i >ì è pure il tempio erettogli Delta coiti
■Mridrrntaltr della .Sardei^Tia >.
Tola, C Z>. j^. p. il nota ( — ■ Il ^o predm
•|i:l tempio L> doli' altare eretto a Sardo padre dagli s-
li<:l)ì.s.simi aiutatori delia Sanlegoa non è stato InUaiii
•l>.-ti.-nnitiato con certezza. Tolomeo nel testo della sn
iimfirata lo colloca tra i>sea e Napoli: ma nella Tarob
r:r)rtisFHi[idente lo nota pili verso il sud dell' isola in quel
ra/w II promontorio che oggi appellarsi della Frasca ».
Le «Mrte ili Arborea dovevano toglier via ogni dnb-
tiio. — (Jclelone apostrofa, al solito. SarAn padre, e itr
l'uiinatu lircveraoDte le Imprese principali, v' incastra con
maestria la menzione del tempio:
7:t-7;
— 2!t7 —
molto acume critico quando, alle afTeitiiose aposfi^u per
gli anticlii immigratori nella isola non ne aggiunse una
per quell'eroe che < il primo insegnò a" Sardi le regole
ddl" agricoltura e il governo delle pecchie e l'arte di
coagotare il latte >. Eppure se vi Tu tradizione difTusa
nella antichità intorno alla Sardegna, la Tu <piesta della
tenuta tli Arìsteo nell' isola I L' autore del libro < De
mirahilitius > , Diodoro Siculo, Pausania , Solino, Silio
9IÌCU cuiifermano ad una voce quasta famosa colonia
Mia: Virgilio stesso {Georg. IV. 317 segg.), tanto
liliare al cronista Antonio di Tharros (sec. Vni-IX),
l dimenticò neppur lui i naggi e le invenzioni agricole
LArisleo. Ebbene, né nel ritmo né in altri manoscritti
§ArtKM"éa rici)rre. che io rammenti, menzione del celei)re
Kore.
Questi antichi cronisti sardi i::he pur conobbero gli
llltori greci e latini che si occuparono della Sarrie-
I (l), nel resto li hanno Stì|juili. ma rispetto ad Aristeo,
ti n HutiBi Slesso lo smmeue « la spieRS a rgjesln modn
■ Non i crrilibile clic ad un'isola come la Sardegna, Inniii pron-
I Homi, e per lami secoli doiiiiuaia e cursa daftumanì, non
> le opere di que' grandi tenitori, e soTraluUo del sommo
, e non oe lucessero tesoro «luegll eleUi ingegni che, come
I presMU, Don saranno allora a lei mancati. Non ò credibile pnre die
Unnat lITiUo all'isoU xiano state le scrìuurc de'dolli oltremarini che
H parìarano, (n i quali è Tausania, citato dallMeyer >. Giudizii np-
^•di eie. p. IT.
Del resto si cfr. i segg. brani:
Funai*, Of rrb. Phnr. \ (cit. dal Tola, C. D. S. p. H nota 3):
I Tbespien<es (cioè i seguaeì di Jolao in generale), Olliiam condi-
: pri*atini fero Athenienses tioryllen; vel senato aliciiins de
I tribubos nonine. vel quod nniis ile thim dnctoribix llorvltu!!
I. f*rl tv, p. SBS:
— Ì08 —
personaggio il cui nome rivela un mito, :!J acoorseeo bene
t-li'ei non poteva entrare nel dominio della severa storii.
E siccome la critica vera è scopre la stessa, il Manno bi
seguito in ciò senza saperlo questi antichi dotti, retando
nel numero delle Tavole mitologiche la venuta di Ahsleo.
< Bello ravvicinamento * (esclamerebbe forse il bnon
Martini) Ira il Manno del sec. XIX e i croDisti sardi oie-
dievali !
Le stesse buone ragioni di critica storica ebbero a
convincere gli autori di diversi mss. arboreesi che quella
de'Fenicii fosse la prima colonia d' immigrazioDe in Sar-
degna: non ha forse avuto la stessa opinione il Manno,
lienchè timidamente egli l'abbia espressa (l. e p. 5)?
Ma d'^ora innanzi non più esiteranno a professarla aper-
tamente gli storici sanli, perchè re n' è testimoDianie
quante se ne vuole.
Ritmo, V. 32: • Vos primum o Phoenices qoi
invenistis insulam >.
Pergam. IV. p. IW: • ... illos navigalores FeniMS
qui primi in Sardiniam appulerunl >.
Cod. e. Vi. p. 357 : * Fenikos k\ ante omoes benirunt
in ipsa insula ».
Ma e' è di più : il .Manno accenna specialmente agli
« arditi navigatori di Sidone e dì Tiro che primi peri-
gliaronsi negli sconosciuti mari dell'Occidente >;
Iteri li ricordano essi stessi.
In ferità non A mollo agevole il discutere con loro:
dice — questi antichi sanìto troppo — gridano ana-
a' superbi che non vogliono intendere come i nostri
potessero in certe cose saperne più di noi: se si
— sanno poco — non si fa molto attendere la ri-
I die è rollia pretendere di più da genie che visse
Dpi poco propizìi agli sludii. Ma essi, che pure hanno
e studiale le nuove carte sarde, come hanno mai
» non accorgersi che Deletone, Anlonio di Tharros,
io di Lacon e trilli gli altri, spesso sanno quel che
lovrebboro sapere, e ignorano invece tpiel che non
bhero ignorare?
tb mieee di Termarci a considerazioni generali . sarà
o «ndare innanzi ancora per qualche poco, facendo
sali con gh storici sardi anteriori alla scoperta delle
Onesto è forse il \ero modo di conoscere la genesi
Kiri manoscritti.
0 Tola (C. D. S. p. 47) volle provare che prima
venata della colonia greca di Jolao la Sardegna era
liUta da Etruschi. In falli Slrabone ha: « Fertur enim
1 eo addaxisse quosdam filiorum llercuiis; et Inter
ros, qni eram Elrusci . eins insulae cullores habilas-
■DKPAiL «lanrfiila iMtnfnniM iwl nitmriT
Gaiide quoque o JoIìh*
Liieras alquc scienlius — conflmiasU firmilus.
Omnes artes iam florcntes — a Tyrrenis habiUì:.
Sive potiiLs Cliananaeis — qiios Etruscos dicimus.
Non si maravigli poi il lettore se mentre da Slnbone
son detti barbari gli Btrusclii , Deletone ce li presbiti come
cultori di scienze, lettere ed arti: prima di tutto, mno
abitatori della Sardegna e però dovevano essere fior di
civiltà; oltracciò gli Etruschi sono troppo noti per esser
tutt' altro che barbari. E il Tola stesso, soltanto poche pa-
gine innanzi (op. cit. p. 37), aveva fatto meniione del-
l'antica civiltà etnisca. Se poi il Mazzocchi e il MalTei (f)
avessero avuto la fortuna di vivere a' giorni nostri, quale
non sarebbe stato il loro giubilo nel veder confennata noi
delle loro predilette opinioni, gli Etruschi Cananei?!
C'era Trasdotti quistione sulla parola mastntca, se
cioè corrispondesse al vocabolo sardo moderno bestepedA
(abito di pelle) ovvero al colleiin (cuojetto): si comprende
(i) V. Kioftli, L'Italia av. il dom. dr'Biimani, toI. I, p. »! (To-
— :tiii —
Ma questo Apollo Sardo (come in sedilo lo dùvu
(iiorgiu di Lacon) m«ilava d'esser meglio cooosdato, ed
il Cod. cai-t. IV, p. 260-1 ce ne darà qualche cenno bio-
grafico.
■ Et fìdam Nora (1) haìt homines doctos..... ipso
(I) Cal|!o l'occuione Jal nome della cilla di Nora per bnnirnì
II» [to' sii' cosi iJcUi Nurhagi che tianno daio Unto da Tare agli anidili.
Iti ijiiesia quisiioih- k cane di Arlwréa mpprexentano una parte un pò
ilivena djlla solita. — È nolo the in Sarde;;(i3 rsistono migliiia di A'ar-
big* e. che opinioni dìsparatissime Turoiio emesse sulla loro orìgine ed
uso. Molli li crederono nntichi sepolcri, e il Hanno in ispecie li repgtb
Kiinhft di amiche r^iiniglie aristocratiche a'ieinpi della tìu nomade e
pastorale. Altri vollero vedervi torri dì dih-sa o di sanali. Altri fiaal-
iiicnte li crederono costniiìoni Tenicie destinate al cuIki del fuoco o degli
»>iri. (Ampie notizie troverà il lettore ricll' opera dì A. Della Harmora,
Vni/age n Sardaignr, llùmi- panie, p. 36-159 — Turin ISiO) — RL
cliiamerò l' attenzione del lettore sopra i seguenti brani de' dotti dw si
sono occupati della quistìone. — • ...Inclinai alla seulenia die i non-
chi fossero cdiQciì religiosi; che la religione (oss^ quella ebe Tu agli no.
mìni più aniicbi verso il sole e eli astri etc. ■ (Am^u lil. dal L»
Humorftf op. cit, p. Ufi) — (Se oon alle colonie, alla naTÌgiiioae
almeno ^enidir sono dovuti i nnrajihes >. (Kabbo op. tit. p. 8).
— • Fino a quando tniffliorì argomenti non discopransi, ogni ragieM
persuade che rìfi^iìr si debba l' edilìcxtione de'Noraghes a pii aulkii
popolatori della Sardegna ». (Id. III. p. 9).
I compilatori delle c:irte arhoresì non hanno osato darci udì soln-
e delioitiva ed ussoluia di una quìstione tanto difficile a KÌ(q;liei
— 3(14 —
ipsa rorda — ki furit binkitu prò Artide io ipsu lempas
de Tiberiu — ki donetsitsi ipsa morte de propria noBii
prò ki ipsu serba non desitli. Et hat demooMrata ipsa
Traude de ipsos scriptores Romanos prò ki tacereot ipsas
glorias de ipsos Sardos prò lande ipsoram comodo est in
ipsas suas satiras. Et multu scripsit contra ipsa Cicerone
de lingua acuta el falsa cuDtra ipsu et ipsos Sardos >.
A questo brano, cbe sarebbe della fine del sec. Vili
0 della prima metà del IX , un dotto annotatore quattro-
centista aggiunge, che GiM'gio di Lacon e Antonio vescovo
ploacense citavano alcuni versi dì Tigellio, ma cbe io
diversi arcliivii o' era molte altre poesie dello slesso poeta,
le (]uali un Giovanni Amoroso di Sassari avrebbe comin-
ciato a redigere, se non ne Tosse stato distolto dalla guem
cbe ebbe a sostenere contro Niccolò Dona. In seguito non
se ne occupò più nessuno, per causa de' caratteri che cre-
devansi turcbi e diffìcili a leggersi. Dicesi però (è sempre
il nostro bravo commentatore che parla) che prima del-
l'Amoroso un'altro le avesse raccolte, ma fìnora qod-
sf opera è ignota « propter heredum avaritìam vel igno-
rantiam ».
Suppongo die il lettore si diverta quanto me con
queste storielle, e però, senza chiedere altrimeute scusa,
pa-iiso al Codice gameriano (Append. p. 54-39) donde
raiTÒ an siioto, il più breve che io possa, della vitJt
Ti^eilin.
Tigeltio nato schiavo In Nora, per h sua belle^tza e
l'indegno oticnne dal padi'one Ennogene II permesso
I studiar lettere sotto II sardo Coriace di Bìore. che a)-
t insegava in Itoma. Avuta in seguito la libertà per
tamento di Ermogene . tornò in Sardegna insieme colla
I famìglia {! c^llo zio Famea. Datosi tolalmonte allo stii-
, in breve acquistò fama di poeta celebre, di cantore
1 sonatore di tetracordo (1). La sua fama crebbe tanto
s un Etrusco Cloantas . cantore e poeta aiiclie Ini , andò
"ipjtosla in Sardegna a sfidare Tigellio, ma non polendo
rc-ilsivre alla commozione prodottagb da' dolci suoni del
lelracordo del sardo cantore — « tu me — inquit — vi-
risli ipiin ilerum l'mserpinam vicisses, imo vei-o ipsnni
Orpheiim ».
Tigelliii per doni e legati divenne ricchissimo, e spese
mollo bene le sue ricchezze . perchè tra le altre cose ferii
edificare un Teatro (2) nella sua città natale. Avido di
sdenia se oc andò poi a Cagliari dove in maggior numero
am/lHebant gli eruditi , e anche in Cagliari ammassò im-
mense ricchezze e le spese in opere di arte. I'. es. com-
pKi delle terre in vicinanza dell'antiteatro dì Cagliari, evi
Jece editicare case ornale di marmi indigeni, con mosaici
rappresentanti Ercole che ammazza il Icone, Orfeo che
doma le fiere col suono della lira etc. (:)).
(I) Cf. lloniL Serm. I. 3. 6-8: - ....sì collìbuissut [Tigclliusj, uli
n*o Ihifiìr ìA mala cium • Io Dacché! >> ntado siiminn Vocr. mmlo
toc, reunui liane chonlis qnatuor ima i>.
nt Qnl t>iMCaiin appellarsela cliinra t lonria la parola Theairum
ptnl'è gii A- Della ttarmon/liin. etc.I,p.23S; V'o^n^c eie. Il p. 531)
«Hk ravine dì Kom tÌiIe an Tfatro e non un AnfUeatro comi! aveva
•ofaA» il Valeri. •
(3) ?4r| 1707 in un campo vicino alla diìesu ili S. Ucruanlo, dm.'
» ntnpeciu all'amico unltlcalro cagliarìlano, »i ^opri an i>avi-
3
Quindi la osa di lui divenne convegno di lettemi,
lioeti, musici e specialmente era frequentala da Fartdio,
Piatelo 0 PUUù (1) e PHoceno. Intanto Tigellio s' iDDamorì)
di Inorta, una poetessa dì Cagliari, eroina che eoo la m
eloquenza era riescila a pacificare i popoli iliesi co^ Roman
durante la pretura di Azio Balbo. Però il padre di lei, u
SÌimjo(2), non volle dargliela sposa, e quindi ire era-
dette da iunlte le parti. Tra le altre cose, Tigellio per
impedire che Inoria fosse costretta a sposare un certo Ho-
togene — • elegans fervidumque poema scripsit, qoo
juvenihus suadcbat ut celibatum matrimonio anteferroit,
i>I> illius maxima cmolumenta, Imjus gravissima incomoda.
Cumquo illud per lotam civìtatem, magna sociatus jdk-
num turba . cecinìsset , adeo eonim animos movìt , omoes
vitam celitiem , posilo cujuscumque pene vel infamie timo-
re, ducere dcc^missent, nec ipso excepto Protogene quen
c\ eo die ad intimam amicitiam Tigellìus adjnnxit (3) >.
1 commenti al IcttoiT.
Dopo ciò Tigellio eblw. occasiono di prender parte
Jillro mosaico ra|iprcacnlan[e Orfi'o con la li
viirJi aiiimiiii cil allieri. — Rcio come si indi
Arìioréa; eppure il Bandi scrìvevi
i ITU liguralo Eruolit. coperto da uoi pelb é
n mano. Nel 1762 nello stesso posto si ironu
in mano, utrconJiUi b
isconn d.i per tè le cintdi
ilo di questi mosaici :i
— ;io7 —
»uiie politiclio (idi" isola, mentre sene"!
rsoo il possesso Cesare e Pompeo. Entrato in grazia ili
sare, questi lo menò seco a Roma, dove il nostro lan-
Ltore fece tutte quelle cose che si sanno dalle lettere dì
Kpirerone e dal brano del Ce. IV già riportato, ma che
Enel codice gameriano sono , secondo il solito , narrate più
HTusamente e wn nuovi partimlari. P. es. da questo nv
! sappiamo come Tigellio potè vincere Orazio in quella
I dispala salla naliu-a degli dei: Tigellio aveva avuto
palcbc relazione con gli Israeliti e da . essi aveva jnipa-
Uo 3 pensare rettamente su tal soggetto!
E qui potrei continuare questo sunto della vita del
) cantore, ma per amore di brevità me ne astengo:
mio più che non troveremmo altro die particolari più
Dipi di quelle stesse cose le quali sappiamo da Cicerone,
che, ointinuando. avremmo molte occasioni
i br confronti con quel che di Tigellio disse il Manno
^la sua storia: ma di ciò bastami per ora la lestimo-
I (di certo non sospetta) del Martini, die ebbe a
> Come un rommenlo direi quasi alle stesse pagine
I Mauio) mi è dato produrre quanto disse di quella
(Ira Tigellio e Cicerone) il biot^i-afo di Tigel-
> («> '.
A<I ogni modo, io spei-o cbe il lettore sia convinto clic
l'DOslro bic^afo ùi persona molto Itene informata de' fatti
1 Tigellio: la precisione, 1' esattezza, la diffusione ne'par-
ui sono tante prove della sua veracità.
OÒ posto, si può creder mai che, in una biograTia
1 resto tanto esalta si cominci dal confondere il Tigellio
Pilo con un altro cantore dello stesso nome?
(>razio, comò è noto, rammenta due volle il nostro
(t) M&rtini, A/'t'rt
mi
iillii Storiu -lol M^iii)
— ;w8 —
Tìgellio sardo (1) e parecchie altre volte un Tigellio Er-
mogeoe senz'altro (i). Glie questi due Tigellii sieno di-
versi r uno dall' altro è evidentissimo, perchè in una slesa
satira ne' primi versi parlasi di Tigellio sardo come di p
morto, e negli ultimi è rammentato Ermogoie cometilF'
lora vivo (3;.
Ad onta dì ciò, molli de' vecchi commentatori di On-
/io e il Forcellini stesso (ad. v. * Tigetlios *) hanno id»
tificato questi due Tigelli, e co^ ne venne fuori nn sardo
Tigellio Ermogene, cioè un Tigellio liberto di Ennogcoe.
Ma un (ale orrore, per quanto si voglia grave, è spiip-
hilc 0 almeno conceiùbìle, trattando^ di commentatori Àe
conoscevano Tigellio sai-do solo per quello che ne di&n
Orazio e Cicerone. Si può già supporre die T essere tato
raro <|uesto nome < Tigellio » sia slata pe' conimenUloiì
una causa di identificare due persone distinte.
Di pili in Orazio trovavano essi chiamato ^nalmeoto
cttnlore l'uno e l'altro de' due Tigellii, ambedue li vedermo
disprezzati dal Venosino: che piìi per identificarli 'f (i)
Ed aticlie nelle carte di Arborea sarebbe sino ad tu
certo punto concepibile un tale errore, se si trattasse di
nn semplice accenno a questo Tigellio litet-to di En»
ijene:si potrebbe ciò considerare come errore prodotto di
poco attenta lettura di Orazio! Vero è che tale errore do-
trebbo far meraviglia in questi .inliclii scrittori sardì. eofl
— 309 —
profoodi ooDosdtorì della loro storia letteraria; ma con
UD poco di buona volontà^ tirerebbe di lungo.
Invece V autore della biografia era ben certo che Ti-
geliio fosse liberto di Ermogene, giacché ne racconta che
Tigelliò nacque in Nora, perchè colà erano stati mandati
i suoi genitori dal loro padrone Ermogene , che Ermogene
richiamò poscia a Roma la famiglia di Tigellio, che Er-
mogene preso dalla bellezza (1) e dalP ingegno del gio-
Tanetto lo mandò a ^ scuòla da Goriace dì Biore, e che alla
fine per testamento gli donò la libertà.
Questa è tutta una leggenda formata su quel dato
fiilso : « Tìgellio liberto di Ermogene. » Supporremo forse
che abbia accolta o formata utia tale leggenda quel Ser-
tobie del IV secolo, dottissimo e diligentissimo (2), il
quale raccolse i materiali per la vita di Tigellio? 0
sapporremo che P abbiano interpolata Narciso e Dele-
tone , che pure avevano a disposizione loro tutto quel
tesoro d'inscrìziom di cui ci parla il Ritmo, e che sugli
appunti di Sertonio compilarono la preziosa biografia?
Supporremo che tra i Sardi , i quali anche dopo tanti se-
coli portavano l'immagine dì Sardo padre sngli anelli, e
che sapevano a mente vita , morte e miracoli di ogni per-
sonaggio sardo di qualche importanza, s'ignorasse poi la
vera condizione del loro maggior poeta e uomo politico,
e la si andasse a cercare nelle satire di un suo acerrimo
nemico? 0 non sarà più probabile che qualcuno del seco-
lo XJX abbia fatta la vita di Tigellio su dati falsi conte-
nuti nella Storia del Manno (voi. 1" p. 129-Ì28) e nella
Biùgrapa Sarda del Martini (t. 3.' Cagliari 1838)?
(1) Orazio (Seno. I, X, 17-18) dà del e pulcher t a Ermogene,
■OB a Tigellio Sardo.
(Ti V. Martini , Appendice p. i.
20
— aio-
li Martini e il Maano ci danno llgeUìo come (Kìrni
schiavo e poi liberto di od Ennogene (1), e tale ce b
danno anche le carte d'Arborea. Il Martini (op. ài) os-
servava che — «la menzione (in Orazio) de' dogento soni
che talvolta facevano codazzo al sardo cantore, di nu
prova delle sue grandi ricchezze ■ — e le carte di Arborei
ci hanno Tatto anche sapere io che cosa ^Modeva que-
ste immense ricchezze Ma a che mi dilungo sa no-
velline che non si darebbero a intendere a' pntii ?
Ma donde è mai sbacato TigeUio poeta ?
Cantorem lo dice Orazio ; betlum tibicinen , $at bo-
num cantorem lo dice Cicerone : mai poeta, mai mi u-
cenno a poesie dì TigeUio (2) I
Il Manno (Dio glie! perdoni!) volle dire che Tigellio
ebbe — « feconda vena di poetico ingegno » — ed ecoo
nelle carte di Arborea tutta ana vita d' nomo rì&tta n
questo dato.
Il Hanno (Dio gli perdoni anche qnestal) volle dire
(1) MuBO : — 1 Era questo Tigellio un liberto d'Eraiogene.... e
pprciA ne rilnncva il nome, t — KEitiMl : — ■ Tigellio e Famea tbroH
nel novero degli schiavi di un Ennogene: ed indi de' di lui liberti, A
ooiutgucn^a della fattane manumùiione. i
(ì) Ci Torrcbbc molta buona toIodIì per credere accenno a piw
Ti^rlliii il -,i';;iii'iiif pa.'so ili Orazio: ~ ■ modo re;»
— 311 —
! Ttgellio — *> fu nella casa di Cesare e nella corte di
fosto dò che ne' tempi di mezzo furono i trovatori» —
BlOd ecco Del Foglio cartac. Il, p. i52 — f el trobador
peli! > — Dopo ciò legga pure, chi ne abbia voglia,
i farà di Tigeliio nel Foglio cartaceo I, p. 430: io non
|innoier(% il lettore col rìporlarlt (1).
Ha [lerchè la leggenda di Tigeliio non resti un fatto
tsnico nel suo genere a provare che le carte di Arborea
I sien» bhilìcaziooe moderna , vo' rammentare un altro fatln
fcorìosissimo.
Nel cod. cart. XIII (p. 426-7 } si rareonla di un certo
I Arrio [ì) sardo, nemico a' Romani, il quale unitosi a quel
1 Corelio. che noi già conosciamo (v. sopra a p. 303), —
• cum omnibus Corsis et Balaris et aliis populis con-
Irt Romanos et civitales et loca illis amicas ìnsurrexit
— cum ipsis priora dapna et peiora ferendo ejusdem L
Mummii Praeloris personam insutlando. » — In qncslo
|i}oogrt si allude alla sommossa de' Balari ed Iliesi comin-
rcàata sotto la pretnra di T. Ebuzio Caro nel 574 di no-
na (Liv. XLI. 6), e il Manno, dopo aver fatto cenno di
questa sedizione aggiungeva :
• Pretore allora (575) traevasi per la Sardegna L.
Mummìo : ma troppo importante era la fazione e troppo
ingrossava nell'isola la sedizione, perchè di tutto il maggiore
apparato nim fosse d'uopo e di forza e di autorità per com-
primeria. Provincia consolare dichiarata fu adunque in quei
<■) La ilranft contusione de' due Tigcllji, fu priinamenur tiot»la, per
i|ikI cbt » so, dal DoTe (f^ Sard. ìm. eie. p. 32).
{■£) Anche di questo Arno si narrano amcnissimc cose nelle cnrlc
di Srìtorra. Lo si dice p. e. inientore delle note lachìgrafichi^ , le <[ualj
anrblirtii pr«sn il oome di Ti'roniaru, perchè Arno confi Jù a Tìronu
h MS «coperta, i: ifuefìì riesci a liarla passar per sna. Ce da giurai^
cbf se molli iincora continueranno a ritenere sincere le carie arboreesi, ben
fn*to imi pronin in asm clie Omero era greco della colonia di Jnlao I
— 312 —
frangenti la Sardegna, ed al consolo Tiberio Sempronio
Gracco, cui la sorte ne toccò, il negozio fu commesso di
debellare i sollevati. » — Come vedesi, dal Manno non sì
rileva se L. Mummio andò anche lui in Sardegna col con-
sole Tib. Sempronio Gracco, oppure restò a Roma; ma
invece da Livio (XLI, 9) si rileva chiarissimamente che
non \1 andò , perchè altro incarico gli venne affidato.
Ora non si può dire che Terrore sia dipeso da qualdie
tradizione popolare. Come volete si sia formata una tradi-
zione popolare su questo pretore L. Mummio che non andò
in Sardegna ? E poi una tradizione così determinata ? —
Eliminato codesto , se il cronista avesse consultato Livio non
avrebbe potuto commettere Terrore che abbiamo notato;
e invece bene ha potuto commetterlo avendo preso a guida
il Manno.
Né del resto può mettersi in dubbio che questi brayì
cronisti sardi abbiano avuto presente il Manno, poiché
ne copiano persino le parole. Eccone un esempio. —
Trattasi della spedizione di Agilulfo.
Manno , St. di Sard. v. I , p. 326 :
« Era preveduta questa incursione in Roma , non nel-
r isola ; tuttavia fu maggiore in Roma che nell'isola lo spa-
vento, poiché i Sardi, sebbene malconci pel repentino o^-
salto , respinsero dal loro lido quegli aggressori. »
Cod. Cartac. I , comm. H , p. 229 :
« Set Caralitani — ubi ille gentes apulerunt — quamvis
improviso deprehmsi post magnam guerram ac multa dapna
a nobilissimo ac doctissimo Isidoro (1) calaritano duce — ac
ejus valorem animique vim imitantes — cumque adjutorio
nonnullorum vicinorum populorum — a litore fortiter re-
pulerunt multis spoliis ac cimbis armisque ibi relictis. »
(1) È V cloquenlissinw e chiarissimo delle lettere di S. Gregorio :
vedi 1, 1, cpisl. 3i; II, epist. 36 (Mansi).
— 313 —
E qual differenza troviamo infatti tra i due brani?
Questa , die i Sardi son diventati Caralitani (Cagliari è la
città predUetta di queste carte), e inoltre vi è un po' di
panegirico dei Sardi in generale e in particolare di Isi-
doro. Eran cose che potevamo bene aspettarcele (1).
E giacché siamo a' confronti delle carte di Arborea
con la Storia del Manno, accenniamone ancora qualche
altro. — Il Manno discorrendo T origine del motto no-
tissimo « Sardi venales > accettò P opinione del Frein-
sbemlo (Suppl. Liv. X , 3) che cioè derivasse questo dalla
gran quantità di schiavi tratti a Roma dopo le vittorie di
(1) Ecco an altro perìodo ingegnosamente formato sulla bozza del
Manno. TraUasi di ciò che avvenne in Sardegna durante le feroci gare
di Mario e SiDa.
Mumo, I. e. p. 108: — e Pacata tuttavia ebbe a rìmancre in
Sardegna fino a che, nel consolato di G. Mano il flgliuolo, soverchia-
mente ligio si dichiarò alla parte di lui Q. Antonio , il quale pretore era
in qod tempo dell* isola. Suscitata con ciò a maggiore ardenza la
fazione di Siila, proruppe a fare oflìensìone contro al pretore: ed as-
sstita da Lucio Filippo, che Siila aveva spedito neir isola colla qualità
di soo legato, in breve fugò ed uccise Q. Antonio, dimostrandosi in
qoel momento la più potente, come poscia fu la più fortunata delle
dee parti. Ed a gran bene della Sardegna dovette tornare tal fazione , che
io tal modo andò immune dalle terribili vcìidette del vincitore. >
Sapponiamo soltanto che la e maggiore ardenza » della fazione sillana
sia stata opera di un sagace e previdente Sardo, e conosciamo già il brano
corrispondente del Cod. carU IV, p. 261 :
€ Eciam furìt de akista citale (Nora) ipsu famosu Timena ki prò
ipsa magna Consilia suu salvarit ipsa patria de ipso furore de Siila
el fecit cognoscere ad ipsos populos ki ipsa fortuna de Siila erat ja facla
— et ki ipsu pretore Quinta Anthoniu inimicu de Siila debiat perdere
comodo successa , secundu ipsu consiliu suu. >
Trovammo già un Corelio per la guerra contro Sempronio Gracco,
Doo avremmo trovato un altro eroe per questa importante dazione?
Timeoa poi, secondo le carte, rappresentò più o meno la stessa
pule qoando venne H. Emilio Lepido e poscia Perpenna neir isola.
— 31* —
Gracco (377), schiavi che per molli gioroi rimasero sema
compratori.
Lo storico sardo interpretò io modo del tatto onore-
vole per gli antichi Sardi il motto che generalmente si
reputava disonorevole per essi. ■ Giovami (egli dice 1. e.
p. 01-2) affrontare apertamente tutto il rigore di qoella
proverbiate ingiuria, ed accettarla non senza gloria, dicen-
do : poter agli schiavi della Sardegna convenire an motto
attribuito ad an uomo straordinario delia nostra età sogli
schiavi di un'isola alla Sardegna assai vicina. « Non lo
> niego, egli diceva, giammai i Romani comprarono schìaii
» della mia patria; essi sapevano che avrebbero tentato
' impossibil cosa nel farli piegare alla schiavitù (1) » .
Si dica dunque essere pure stati gli schiavi sardi merct-
, tanzia di mala vendita ; ma dicasi del pari che non p«r
altro caddero in tal discredito, che per aver sentito,!
preferenza di tanti altri popoli di natura più tenera, qoanto
pugnassero questi due vocaboli, uomo e venale. *
Ora il Tota (C. D. S. Diss. I , p. 54 noU 4) ha di-
mostrato incontestabilmente che il molto rìferìvasi invece
agli Etruschi, e che soltanto per malignità o per ercm
v^ne qualche volta riferito a' Sardi. Nondimeno ecco coma
ne discorre Giorgio di Lacon nel Cod. e. IX, p. 331-2:
* Sed multi ahi (Sardi) in quantitale magna Rranani
trajccti fiienint in captìvìtatem in magno triumpho -
— 315 —
Dopo r taterprolazione datane dal Manno, i Sardi
debbono essere anche troppo contenti del motto storif-o,
e però Giorno di Lacon lo ha anche egli riferito a' Sar-
di. e lo ba dichiarato ( mii-abile accordo I ) allo stesso
iDodo del Manno.
Che se una così bella interpretazione non ne avesse
data il Manno , probabilmente avremmo vista confermata
l'altra opinione dd Tola.
Ha talora le carte di Arborea si discostano in qualche
cosa dal Manno : quando , cioè , trattasi di esaltare il valore
0 la forza de'' Sardi.
Scriveva il Manno (I. e, p. 311): — » Fra le ardite
paprese del re goto (Totila) si annovera da Procopio la
ione da esso ^tla de' maggiori snoì capitani con un
laTÌgtio onde impadronirsi delle isole di Sardegna
. spedizione che riesci a prospero fine , non
wnlrato gl'invasori, come lo stesso storico af-
" resistenza nessuna nella Corsieri : la qual cosa fa
prcsittnerc che pari ragione si possa rendere della facilità
Bicontrata nella occupazione della Sardegna. »
Vi ricordate di que' compiti di storia che si fanno dai
ngrunì su'' dodici anni ? — Sia il tema del maeslro —
« (Zadala dell' impero romano. • Lo scolaro comincia tosto
dalla c(«-niZ)one , licenza , disordini di ogni genere , man-
canza di disciplina militare etc. ; poi qualche luogo co-
niiiie die avrà allora allora riguardato nel libro di ret-
torica, e finalmente qualche digressioncella sul valore e
solla virtù romana.
Ebbene, spesso spesso le carte di Arborea rispetto al
.Manno mi sembrano una cosa stessa col compito dello
dolio scolare rispetto al tema del maestro. Ecco p. e. che
preso per tema il brano del Manno citato di sopra, il
commentitore Severino (Cod. cari. I, comm. K, p. 232-3)
I dal mostrare che, ne' diciassette anni che corsero
— 31fi —
dalla espulsione ile' Vandali alla occapazione de' Goti , le
cose dj Sai-degna erano andate tanto a male da dod potersi
pretendere una ordinata e seria resistenza da' Sardì (!};
ma questo non toglie, checcbè dica il MaoDO, che i Sardi
abbiano potuto fare prodigìi di valore (magna certamina),
e che Cagliari (ecco al solito, Cagliari) avendo avuto agio
dì prepararsi un po' dì più abbia potato resistere glorio-
samente ad un lungo assedio , e i Cagliaritani abbiano po-
tuto fare delle ardite sortite (2).
Un altro fatto ancora ci darà occasione ad osserva-
zioni dello stesso genere. Vollero alcuni de' vecchi storici
sardi che fossero venuti a predicare il vangelo in Sard^oi
gli stessi apostoli Pietro, Giacomo e Paolo.
IL Manno opinò (Ib. p. 260-1) che l'asserzione soltanto
del passaggio di S. Paolo in Sardegna aveva carattere dì
verisimiglianza , giacdiè se il desiderio dell'apostolo di andare
a predicare in Ispagna (ad Rom. W, 21-24) ebbe eBetto
(come alcuni avvisano), resta probabile che siasi f
in Sardegna ; 4 loccbè non sarebbe punto diverso dal 6
che egli vi predicò la divina parola, sapendo ciascuDO qua
fervido fosse in quel santo petto lo zelo di bandire J
genti tutte la novella fedu. ■ Questo (aggiungeva il Mann
potreblK! rendere pienamente credibile il ragguaglio s
batoc! da Teodoreto, che cioè S. Paolo passò in 1
— 318 —
Stifìlione Tece mettere una inscrìzioDe (H. A. P. F. D.
= Die apostolus Paulus fidem dedit) nel loogo della su
conversione, inscrizione che venne distratta da' Saraceo,
come sappiamo dalla perg. Il, p. 117.
Come o|;nun vede, non si è voluto togliere Tede io-
leramcnte alla tradizione (cara a' devoti sardi) del pas-
saggio in Sardegna de' tre Apostoli: ma il passalo di &
Paolo, che più verisimile credè il Manno, è aactte pia
volte e con maggiori prove, esso solo, aOermato (1).
Sicché ben può essere contento il Manno de'saoi
sUidii storici sulla Sardegna: egli ha visto coofeimate ixtìt
sue opinioni, congetture e persino parole, ed è mwto
con la dolce illusione che fossero sinceri i monumenti d»
tanto esattamente confortavano le sue ricerche nei temjd
pili oscuri della storia Sarda. Fortunati quanto lui damra
non saprei citare altri storici! Ben mi sovviene che m
Simonides (divenuto poi famoso per la sua stretta pareo-
tela con Annio da Viterbo) trovò non so dove certe arte
in cui erano confermate a capello le congetture del Lepós
sulla cronologìa egizia. Al Manno dunque potrebbe pn-
gonarsi il Lepsiiis, se quest' ultimo non avesse dovuto ben
presto dar ragione alP Humboldt, che mai prestò fede atti
preziosa scoperta, e non avesse dovuto bea presto correr
dietro a Simonides per farlo mettere in luogo sicoro dilU
giustizia (2).
■pò O TOlOOU
irde, e anfiouni che a Boi m ■•
ano questi manoMiini qiaoiB ala
' I ddb Sardegna (t).
I col femarnU or ipn or B,
I pef^amera prìna, i
ì forse al
l^oi sappimo che i rimo è awteapanHt al r
i la copia stan dm m »t ia è ti t
o: ciò posto, dm Kopo lana Éitwm 4e'i
) haec lainen ìalsr pian — i
) tme» et [
1 Jugnin toAtgisiis — ci brw hpcwi:
) Ssnlùiìam Itbenttii — ab iiiMii danài»,
! in plaDciii bbonbai — per Metta na^ntaa.
ì Marc«lltim vexaUmni - ~
I aminim eìas irapioia —
inxisUs et neeastii — saUento popolo:
0 pritmts fedt te r^ern — loMut Sardivàae
tra vero hstinianmn — qm kt^ui erat dominus.
(1) Lo (V«*n fi {MHRbtie dire ifì Kutini e iS Alimi» d
lon, ^ n|Hiiioni dir'qiuli hn» ipMio vi-niKTO confrnMle orile cirUs
i Ari«rte. Snio il T«b, chi? porr prptt>'> f«le alla prima peryanMU
hvy. V. Mia Raccolta) paUillcala ni?l 1846, MHA in aepiilo d^l-
1 ili ^el int., e ntl no Coitiiys IH/JonuUieo non delle adito
■ iMle carte di Arborea. V. Dvrc, In Sard. insula ole. p. 30
— 320 —
Ma uon doveva esser noto lippù et uutsorUiHi cbe
Marcello si efa fatto re, e che prima era GìustinìaDO il
signore della Sardegna? Non è, curioso che quando certe
notizie son tali da far comodo a noi moderni, questi aati-
chi sardi, singolarmeote previdenti, le espoogan sempre
con la massima precisione possihile? E co^ usavano doq
già solo i cronisti, ma i podi, i retori tutti quelli te
somma che figurano come autori di questo o quel muo-
scritto. — Giorgio di Lacon (n. 1177 m. 1227) in qnetli
tal lettera al suo nipote Pietro nella quale gli dà la trac-
eia di uti poema in onore di Cornila IV di Arborea, a
ne dà un altro esempio. Giorgio e Pietro erano cooles- ,
poranei di Gomita (1), Pietro inoltre conosceva molto ben j
Gomita, e nondimeno il previdente zio si crede neirobli- '
go di cominciare proprio ab ovo:
1 Cornila Barasonis alias Torgotori et lìenedicie Killvi-
lane judicisse fllius ctc. >
E perchè questo? Perchè di Gomita non si coDOScen
che il nome (Martini p. ItiO) e perchè c^era bisesti
sapere (Id. p. 1(14) che Barìsone e Torcotorio era» la
stessa persona (2).
(1) Sì rileva dalla i<>lli<ra Ktes&ai Perg. IV p, lil
— 321 —
E cod parmi di avere còlto parecchie volte in fallo
i nostri cronisti, e di avere suflBcientemente mostrato come
essi sanno talvolta quel che è impossibile abbiano potuto
sapere, e commettono invece degli errori su cose che bene
avrebbero dovuto conoscere : il ritmo di Gialeto e la con-
fusione di due Tigellii ne sono esempii anche troppo evi-
denti. Che se questo non basti, basterà di certo un fatto
recentemente notato dal Dove (1). Un Umberto arcivesco-
vo di Cagliari in un suo memoriale, che sarebbe stato
scrìtto nel 1020, manda i suoi saluti a^ consoli genovesi,
in predicla narratione piane sunt expressa > (p. 1^2); — e praeter cir
cmnstanlias loci et temporìs nihil aliud ut videbis Yariare ausus fui >
(p. 150) etc. etc
Epperò afeva ben ragione il Martini di servirsi di questa traccia di
poema, come di verìdica cronaca. — Ma quando le notizie non rìguar-
dano né ponto oé poco la storia sarda, allora Giorgio di Lacon non
Cora tanto ì particolari. P. es. egli raccomanda al nipote di enunciare
le città che Comìta tìsìIò durante i suoi viaggi e i principi che gli det-
tero ospitalità, e non si cura di dirci neppure i nomi di queste città e
questi principi. Invece il discorso che si suppone latto da Gomita a' suoi
ospiti è abbozzalo tuttaltro che concisamente, perchè in quel discorso
c'entrano tante peregrine notizie su Gomita e gli avi suoi, che sarebbe
Slata di certo una gran disgrazia se Giorgio avesse lasciata la cura di
Csirìo al suo nipote, il quale del resto, erudito com'era ( e Pere era
doctor tambe de grammatica » — Nota Marginale a p. 145), non do-
veva aver bisogno di cosi minute indicazioni per distenderlo. Del quale
discorso non posso astenermi dal riportare qualche periodo, perchè il
lettore giudichi da sé se è roba da poema, e se poteva crederla tale
Giorgio di LacoD che, almeno secondo le carte arboresi, era emunclae
naris homo. — e Scilicet quod prò anterìoribus judicatus dcbitis ac
plorìmis aliis gravìbas a Parasone rege Sardinie contractis Petrus ejus
filios creditoribos coactus ac potissimum ab Ugone de Basso Saluci Poncii
beres ac filios ejnsdem civitatis ditissimo egens pecunia virìbusque debi-
fior aervandi sibi regnom excogitavit. Propterea quod opportunum existi-
navit cum dicto Ugone fedus inire uli propinquo suo cujus gradum ta-
men qoia indecens praetcrmittes etc. etc. »
(1) BericJU iiber d, Uandschr. von Arborea p. 91.
— 323 —
mentre V instituzioDe de^ consoli geooreM data soliamo
dalla fine del XI secolo I
E se dal detto (in qai è eridente che le carte di
Arborea riguardanti la storia sarda sono una solenne im-
postura , non è meno evidente che la falsificazione è po-
steriore air opera del Manno, e che anzi V impulso a feb-
brìcare documenti di tal genere è venuto appunto di
quelle Trequenti menzioni di lacune, dubbii, incertezze nelli
storia sarda che il Manno ebbe spesso occasione di notare,
con rincrescimento naturalissimo in uomo amante dell'is(di
che era sua patria. La brama di possedere le pagine per
dute della loro storia dovè ne' Sardi snsdtarsi TiTÌsami
dopo le \amenlazioni fatte io proposito dal Manno; e * qod
non mortalia pectora cogis lUstoriae sacra &me3?(l)>-
(1) Dora, Di Sarà, iruuia etc p. 36. — Del retta qnetki Itt
delle Carle ili Arborra non è né il primo né l' ultimo di tal pam. lE
contpnicrA di rammentarne uno solo. < ì la fin do Kiiième aiède, M
jésuile nommò Jérdme Romain Higocra cbercba à réparer le sleset <■
historicns sor l' établissemeni du clirìsiiaiiisme en Espagne. ì Pa^te
Iradilions populairos iM des documenis de toat genre qn' il pai liak,
il composa des cliroiiìr|ues et en atlribua la plus part a FIatìdi Dedffi
hiilnricn cilé par saini J^rrtm'i, t». irmK le? fimnigm élsiml ^
1 il dt'plova, dans cene siiperchcrìe, l'adresse qui n
nremcnt aux bons pcres de snn ordrc, et sol ^»iler tiabilei
ficulu'. lOHJours si craudc pour un faussaire. de n
LEGGENDA DI SAN MARZIALE
NoD sembri faor di luogo od inopportuna la comparsa
d^un saggio di leggenda agiografica nel Propugnatore; in
00 Periodico esclusivamente letterario com' è desso , e de-
dicato al colto della lingua nostra dovrebbero trovare ac-
concia sede scelti monumenti delle varie forme deir antica
letteratura italiana, massime dei primi secoli della lingua
volgare, allorché questa, sebben recente, era pur sì ricca.
Qoaotanqoe il racconto delle azioni straordinarie o mera-
vigliose di taluni personaggi vissuti in qualsivoglia età,
lasciatoci dal medio evo, non possa punto vantare un' auto-
rità storica , intrecciandosi nei fatti narrazioni rifiutate dalla
critica ed impugnate ben anco dalla ragione; pure un' ec-
cezione è aomiessa a favore delle biografie del Trecento,
DOD già pel loro valore storico, ma pel merito della lin-
gua, maneggiata con tanto garbo dagli scrittori toscani,
che por essi sapevano innestare nei loro racconti il mera-
viglioso per destare P interesse nei lettori, pressoché al
modo ora usato nei romanzi storici. Quei semplici uomini
cogli scarsi mezzi letterari eh' aveano alle mani , coir idee
attìnte ai favolosi racconti cavallereschi , andavano in cerca
di un' estetica e d' un' intreccio , che escisse dai confini del-
l' ordinario sviluppo dei fatti , preludevano ad una rigene-
razione letteraria e civile a loro modo , tentavano sviare i
— 3*4 —
lettori da quelle leggende dì cavalleria soveote erotiche,
l'ol costituire loro le religiose . ioformate a nonne ed ài-
segnamenti di gran lunga più morali, porere baia d'arte,
ma slìmolnlrici alla virtii , ta quale operava nei persoD^
descritti prodigi e meraviglio. A cristianizzare il movùnenlo
della vita risorgente dalla barbarie sapeauo es^ qnal fonie
di supreme ispirazioni fosse il cristianesimo . nel quale s
attingono i più sublimi concelli, si sorreggono nei voli pii
arditi e colgono l'ideale con un'apostolato, che par ri-
sponderebbe ai bisogni anche del nostro secolo, cbe pv
lia camminato alacremente sulla via d' un' illuminato pro-
gresso.
Quella nuova forma cristiana di letteratun mtit
narrativa che fiorì nel Trecento, vera storia di pensieri e
dì affetti , non uscita da ingegni letterati ma dal vira »-
timento del popolo che tanto vi si affezionò, oa no^^
flcacìssimo mezzo a creare il predominio dello siHrìto sdh
forza materiale allora si prepotente, a dirozzare gli miaif
a volgerli al bello di allora, al vero, al buMio coD'il-
trattiva dell' esempio , die eccita^-a V imitazioite. La sloriv
rì è testimone di assai mutamenti secrelamente openliil
nell'indirizzo morale anche di celebrati personaggi De&B-
quiete delle mura domestiche colla meditazione ddle le-
gende agiografiche del medio evo, che tanta parte ebboo
^ nosi
P
iHime della Tede contro la scienza. D'altra parto però non op-
pongasi che colali scritture siano per noi un'anacronismo,
essendo ormai U'a^corsi i suoi bei tempi, né sì accusi clic col
produrle si voglia far tornare la sociel.'i nel decrepito passa-
lo, or rtif! per ìoc^into è bandita la riformatrìce innovazione
delle idee e delP indirizzo della cosa publica e privata.
No : ^juesta sovente spregiata forma letteraria k pur sem-
pre atki a rivolgere gli animi all'amore non servile ma
gioMo f ragionevole degli scrittori antichi, a farci ammi-
rare ed imitare 1" incantevole semplicità e l' ingenue gi'azie
di i|iiesti stupendi prosaturi-poeti , ad insegnare agli scrit-
turi presenti il debito e ad insinuar loro la vaghezza di
cnstodav gelosamente la purezza e la soavità della lingua
OOStra , documento irrefi'agabile e vìncolo dì nazionale unì-
tcsoro, potenza e delizia presente; ad ispirare il ri-
lUo ai sommi principii morali e religiosi, a reintegrare
il sentw morale dei popoli e rialzare il prestigio della pu-
blic» autorità col racconto delle azioni d'uomini veramente
liberi e liberali. Quei semplicetti nostri avi del Trecento
non erano anc/ir giunti alla pellegrina scoperta della mo-
rale indipendente, e d'un ibrida libertà di pensiero e dì
Oì^CKììza, a cui prelendesi assegnare il compito ili rigo-
iwTarp le nazioni e di costituire la religione dell' avvenire ;
non Mpoano ancora che per liberare gli istinti e le incli-
nazioni della natura fosse inevitabile distruggere l'idea di
Dio (1), urlo questo d'una selvaggia follìa.
Se a questo saggio sarà fatto buon viso , altre narra-
zioni Rnora , come questa , inedite e tolte dai mss. dell' Am-
brosiana, potranno comparire nel Propugnatore, pari di
merito per lingua, stile e colorito.
Milano, nel giugno 1870.
ih Oirr^ntifMcur Suii;
Ant. CtHlITl.
Incomincia la leggenda di santo Marziale,
uno de' settantadue discepoli di Gesù Cristo
SccoikIo die si legge nella s^inla Scrittura, predicando
nostro Signore Gesii Cristo nella provincia di Galilea, :iTrei
che della generazione di Beniamin era uno nobile omo, (
avi;va nome Marcello, il quale aveva una sua donna , che an
nome Lisabelta. e quali come piacque a Dio, ebbeno uno
j^liuolo. quale elibe nome Marziale. Avendo udito che 'I nos
Signore predicava e Taceva molti miracoli, e sapendo che C
sto amava molto santo Pietro e santo Andrea, e quali en
loro parenti., cominciarono a seguitare Cristo e udire le l
sjinLlssime predicazioni. Di che vedendo Cristo costwo noni
sere battezzali, comandò a santo Pieiro che li dovesse
zare e ammaestrare nella fede, e cosi fu fatto. E insieme i
loro battezzò uno che avea nome Zaclieo, e uno che aveva ne
Joseph. Questo Zacheo fu quello, del quale parla santo L
nel suo Vangelo, dove dice che esso Zacheo montò io sui
arbolo per vedere Cristo cbe passava per la via, imperi) i
ora s) pìccolo di persona, che altrimenti nollo poteva vede
e allora Cristo il chiamò e disse: Zacheo, discende, che
sogna eh' io stia oggi nelli cas,T tua. Questo !os6
di sopra fu quello, il qiinle insioriie coi) Nicodeiini seppeS!
rono poi tìt'sii Cristo.
innanzi la morte di (i'rìslo. ne* quali anni sUinilo con Hrislo e
cogli apostoli suoi, viilile e fu prcsenle a lutti i miracoli che
tlrìsio ÌR ({liei leinpo fece per la .«alrile nostra. Questo glorioso
s.inio Marziale Tu quello rancìiillo che aveva li cinque pani
il* orzo e (Ine pesci, de' quali Cristo sadò cinque initia uomini,
e avuuouiie dodici sporte. Costui Tu quello umilissimo fan-
cmllo. al quale Cristo poso la sua mano in capo nel mezzo
Ur'suoÌ discepoli, dicendo: Chi non Kirà umile come questo
fandullo, non entrare nel regno del cielo. In quella ora li ri-
mase la forma della mano m capo, e cosi vi si pareinfmoal
il) il' oggi. Anco fu presente e viilde quando Cristo lisuscitò
Lazaro; anco fu dipiilato a servire e apparecchiare a la mensa
neir ultima cena clic Cristo fece condiscepoli suoi, e lavò i
piedi e U(I) il sermone e tutte le parole «he Cristo disse nella
cena e dopo la cena. Anco fu insieme con tutti gli apostoli,
ilo Cristo dopo la sua santa risurrezione apparve a loro,
I) serrali per paura de'giuderi dentro nel cenacolo, e
i|n tttcìte nel mezzo di loro, rimanendo le porli (t) serrale, n
ipiesle (Kirole: Pace sia a voi; ed ei^lino mimano di ve-
lino spirito infiammato, e Cristo disse: Toccatemi le mani
piedi; e mangiii Gesù Cristo del pesce arrostito e un poco
fladowi (li mele, che gli aposloU li dero (2). E poi die Cristo
cosi mangiato, volse che gli apostoli suoi mangiassero;
■è hmaoeiido insieme con loro, santo Marziale mangiò del cibo
ebe avanzò innanzi a Cristo.
Quando e sauti Apostoli . secondo che Cristo li comandò die
ambsMru in Galilea per vedei'c Mi'sìcj, e saiilo Marziale andò
liiro i>or detto di santo Pietro, e ino riceva potestà insieme
apostoli ila Gesi'i Cristo di (iredicare il Kmto Vangdo
(ili altri apostoli, diceitdo Cristo: Andate per T universo
> e ammaestrate la i^ente, battezzando lutti nel nome del
(Ir Cio^ (•- /nrU- : %i Im l'islosìa tornin negli aiiliclii scrillori; p.
l ta Hdo Compagni: t V, co«l prnlemmo il primo li'ai|io, pnrucchè
a ciiimlere le porli >.
(J) n» ttftv; nei Volgariiz, (li AllxTlano del tt'ftivi ilei (hmol. >■ del
Gtni'g'- <»!'- WSIU • l-Ì 'jiiali utui unii i-mi lui i:oi»ìmIÌi> ili '<■ "lem p.
— 328 —
l'adrc e ilol Fi^'liuolo e dello Spirito Santo. Anco quando Cri-
sto enirò in una casa qunl era chiusa, quando nm v'era santi)
Tome, santo Marziale era con loro, e insieme cogli altri ri-
cevè da Cristo podestà di potere assolvane e legare come gii
»ltri apostoli, dicendo Cristo a loro, sofliaudo nelle loro facce:
Ricevete lo Spirilo Santo, e quelli peccali, quali perdonarete,
saranno perdonati. Anco il di dell'Ascensione, quando Cròio
nostro Redentore montò in cielo, santo Marziale insieme tm
la vergine Maria e santi apostoli ta presente, e vidde ùirin
cosi glorioso salire in cielo, e poi stette con loro lutti qndli
dicci di inrino a la Pasijua della PentecosLi in orazione, di-
giuni e vigilie, aspettando ([uello tanto celestiale dffliOj cioè lo
Spirito Santo, il quale Cristo aveva promesso di mandare i
loro. Il dì della Pasqua vidde venire sopra di sé il Anco dtflo
S|)irito Santo in spezie di lingua, e allora imparò Inlti lin-
giiaggi del mondo, si come gli apostoli.
Seguita, si come ditto è, avendo ricevuto lo Spirito Santo,
andò ciascuno per lo mondo a predicare in quella parie, Of'en
mandato da Dio; rimase iillora santo Marziale con santo Koo
suo maestro nella provincia di Galilea, e ine sle con Ini di-
\\\vt anni, e poi dopo la passione di 6«sì\ Oislo venne sfitìtt
Pietro nella provincia d'Anliocliin, e menò seco santo Marzìair-,
e ine predicando santo Pietro, comandò a santo Marziale d»
esso dovesse predicare la pnrola di Dio, impera che conoscevi
la Sila parola e predicazione, tariibbe gran Trutlo a la crisiiaoa
gente. E cominciò adiimjue sonlo Marziale a predicare il non»
— 329 —
Come santo Pietro per comandameiito di Dio mandò
santo Marziale con due compagni a predicare in
Francia, e fece grandissimo frutto.
Giogneodo a Roma santo Pietro e santo Marziale , furono
ricevuti da UDO eh' ebbe nome Marcello, consolo de' Romani, e
io questo modo stavano e predicavano. Apparbe Gesù Cristo a
santo Pietro e disseti : Manda Marziale nella provincia di Fran-
cia a predicare, imperò che v'è molto popolo tenuto e op-
pressalo dal dimenio. Allora santo Pietro manifestò a santo
Marziale tutto quello che Gesù gli aveva detto. Incominciò (1)
fortemente a piangere, però che malvolentieri si partiva da
lui, e temeva d'andare tanto di lunga (2). Allora santo Pietro
il chiamò e disse: Figlici mio e compagno, non ti contristare,
perche 1 nostro maestro Gesù Cristo sarà sempre con teco. Tu
sai che ci disse che sarebbe sempre con noi, e comandocci
andassimo per lo mondo predicando alla gente, si che noi do-
viamo ubidire; e però, figliuol mio, va prestamente e non in-
dugiare, e trovarai in quelle parti una città ch'à nome Le-
mogìa (^)j la quale Cristo ti raccomanda, e quella e tutta la
Francia si convertirà per tue predicazioni; e voglio meni il
tuo compagno Alpiano ed anco Austriano, quali sono preti, e
meoamoli d'Antiochia, e voglio che tu sia tanto sofferente e
tanto paziente, che se uno ti darà nell'una gota, voglio che
umilemeote tu apparecchi l'altra.
AUora santo Marziale con quelli due compagni, cioè Al-
piano e Austriano, si misero in cammino, e cosi andando da
Roma inverso la Francia, pervennero a uno fìume che aveva
uno ponte y il quale fiume si chiama l'Elsa, presso al quale
(I) Sottintendi s. Marziale,
(t) Di lungi, lontano: e Abitando un sanie Padre in un luogo de-
sarto e molto di lunga da ogni luogo abitato ecc. » Cavalca, Discipl,
tpirii, 156.
.3| Limoge», ritta nel dipartimento dt'lP Al a Vienna.
— 330 —
I)Oi)l<> e*» oggi il l'nslello che sì cliinmn Colle di Val d'E
ine infermò Auslridiano e morì, e Tn seppelliio presso a q
ponte. E vedendo questo santo Marziale, siibit.imente i
coir altro compagno Alpiano ritornarono indietro a Rot
santo Pietro |)cr nunzìarli quello eh' è intervenuto. Allora si
Pietro udendo ipiesto, disse a samo Marziale: ToDe (I] il&i
done mio e portalo con leco. e loccarai il tuo compagoe j
strìdiano che f- morto e soppellito, e risuscitare imman
Allora santo Marziale prese cpiet bordone, e tomi» a (
Val d' Elsa , dov' era 'I corpo de! suo compagno Ams*
lo (piale era staio mono e seppellito quaranta dt,e
tiordonc toccò il corpo morto, e subitamente fu i
Con molta reverenzia laudando Dio, coraincitì a predie
popolo di Colle ed a qucUi delle contrade d'intorno; e (|
fu il primo miracolo che fusse fallo da Roma in qita.i
verso le parti di ponente.
Anco per la predica dì questo risuscitalo, cìoèdf^
Austridiano, Colle si converll, e fu I.) prima terra (beri
vcrtisse a la fede cristiana da Roma insino a le poni i
nènie. Anco per (guesta ragione ninno papa mai porla |
rale ni bastone in mano, però che santo Pietro dette t
a santo Marziale, ed esso già mai nollo rendè. S Ai
parla sprcssamenie il decretale iu uno capitolo della n
zione, e credesi per lo fermo che quel bordone i
lora a Colle, e oggidì si truova alla Badìa di Spugna;
sto fu il primo pastorale che fusse mai. Nota cheq
grande miracolo fu fatto in uno luogo, dove ora è *
1 sanin MaiyialP
Come santo Marziale andò in Francia, e liberò
Dna bella fanciulla eh' era spiritata.
Pni che santo A.us(ridiano Tu risuscitalo, e la dilla terra
(il Culle fu convenite a la Tede santa, santo Marziale, santo
I Aoslrìdiano e santo Alpiano si partirò da Colle e andoro in-
I la Francia, e capitando a la cìtl:'i di Lemogia, entrarono
[in UDO «istdlo presso a la citU, e furono umanamenle rìce-
mui da lino grande ricco che aveva nome Arnolfo, e con iiii
I .Uateuo per ispazio di ilne mesi, e mai non cessavano di pre-
Kdicarc la parola di Dio. Ed in quel tempo aveva sanio Mar-
Lnale aiioì trentuno, e molti miracoli mostrava Dio per lui,
ktanlo che tutta i|uella patrin era convertita a la Tede cristiana.
[■Uuesio Arnoiru aveva una ligliiiola molto beila e non piii, e
Lipella era indimoaìala, e quando santo Marziale iulrò in casa,
^ipellodiiuonìo (trìdù ad alta boce e disserTnon ci posso stare.
!> che gli angeli, quali sono con teco, molto forte mi tor-
laDOi. Ma io ti scongiuro per quello Cristo crociQsso, il
tale ta predichi, che tu non mi mundi nell'abisso. (Jnesla
pn\i è molto da pensare per clic cacone la disse: ed allora
e sunto Marziale: Ed io per quello Cristo crocifìsso ti coman-
tio che li parli da questu fanciulla, u da ora innanzi nolla toccar
IfOt, e ra in luogo diserto, dove :.on abiti persona nò uccello,
e ine sta per ìnQuo al d) del giudìcio. A. questa voce subila-
L^ueitfe il dimonio si p,irt) e lassolla quasi mona, e santo Mar-
' ~^ la rendo ul padre suo sana ed allegra.
Era santo Marziale di grandissima santità e di profonda
|| mnilìlJi, e sempre slava in orazione, ed in quello medesimo
) era uuo omo, il quale era principe di quella provin-
rh; aveva nome Nerva, il quale cr.i putente dì Nerone ìm-
peradore. ed aveva uno suo Qgliuolo che ei'a stato affogato e
morto dal dimonio. Allora quello principe e la donna sua e
tutta la famiglia con grande revcrenzia e divozione sMngiiioc-
diiarono a' piedi di santo Marziale, e fortemente piangendo dis-
sCDO queste parole: 0 omo di Dìo, aitaci in tanta trìbulazione.
I
— 332 —
Allora santo Marciale mpose a qaestì che lo pregaTino, vol-
gendosi a lutto r altro popolo eh' era venuto per vedere, e
disse: Pregliiamo tutti Iddio, che ci rìsuBciti questo giovai»;
e TatLi divotamenle l'orazione, prese il giovano per mano e
COI) fiducia disse: Nel nome del mio Signore Gesù Cristo, il
quale e giuderi crocifissero, il terzo di risuscitò, i' li comanlo
che prestamente tu debbi risuscitare , e di e manifesta a que-
sto popolo quello clie tu ài veduto nello 'Dfemo. ADora subito
si levò e giltossi a' piedi di santo Marziale e disse: 0 uomo
ili Dio, battezzami e segnami del segno della fede erìstiiDi.
per la quale io sia salvo; e dopo questo disse altre parole,
cioè: Due angeli vennero a me. e dissero ch'io dovevo risa-
scitare per lì preghi di santo Marziale. Nello inferno non è
misura; ine è pianto grande, ine è tenebre, ine stridore d
denti, ine grandissima tristizia, ine f^do crudele, ine fìioco
terribile, qual mai non si spegne, ine morsi di sopenti e
grande puzza. Quivi grande miseria e vermi che mai non
muore (1). Ine sono diavoli coli' aspetto terribile, e quali pi-
gliano e grappano (2) l'anime, e di diversi tormenti le tor^
mentano. Allora tutto il popolo gridò e disse; Non È altro Dio
che quello predica questo santo uomo; e subilo ai batteaft
tremilia trecento persone, e quali volevano fare a santo Ml^
ziale grandi presenti e doni, in» nissuno ne volse rìcevare;
anco comandò che tutte quelle cose si dessero a'povarì per
amor di Dìo, e cosi fu fallo; e poi fece disfare tutti li loro
templi e ì loro idoli giitnre per terra. E quello principe fece
fare una chiesa a riverenzia di santo Marziale, e comandò che
>pel[isse mai ni>!suna per^oii^.
Come saoto Marziale si parti e andò pili oltre, e fugli
dato di molte busse.
Falte tanli> haoae opere e lanto rrutlo, parlisst santo Mar-
cie co'suai discepoli, e andò a una [erra chiamala Age-
duna Iti e cominciò a predicare. Allora vennero e preti di
quella terra, e delteao ài molte bastonate a santo Marziale e
a*8uot compagni, e santo Mai7i<ile sempre laudava Dio. ri-
cordamlofii di quello che santo Pietro gli aveva detto. Ed in ijuel
punta tulli que' preti divenlorono ciechi; e vedendosi cosi conci,
per volere guarire andarono a uno loro idolo, quale aveva
nome Mercurio, e dimandarono perchè erano cosi ciechi di-
venUili, e pregavano che li dovesse rendiirc il vedere. Esso
lo taceva e niente rispondeva, perchè aveva perduto ogni
per la virlfi del glorioso santo Marziale.
Udendo costoro cbeU suo idolo e loro Dio Mercurio non
•va, si recero menare a un'altre ìdolo, quale aveva
Giove, e dissero cosi; Noi siamo venuti per consiglio a
I, imperò clie'I nostro Iddio Mercurio è adirato con esso
e non ci vuole rìspondare. Allora rispose Giove e disse
li vostro idolo e vostro Dio non vi può rispondare, im-
però che in qucU' ora che voi percotesle lo servo di Dio Mar-
aale. iucootanenie fu legato da catene di fuoco. Allora ijuesii
preti dimaudaro consiglio di quello dovessero fare; ed egli ri-
spose e disse : Il consiglio eh' io vi do si è che voi vi gittiale
«'piedi di Marziale, e pregatelo che vi perdoni; io per me
luu vi posso aitare; e voi per altro modo già mai non po-
trete guarire. Allora questi preti si partirono e vennero a santo
MarEiale, e con gran piatilo si gittorono a* piedi suoi e dis-
sello; 0 uo.no di Dio, non guardate al nostro peccato, per-
donaci per amor di quello crocifisso che tu predichi, il quale
nui perfettamente crediamo. .Allora santo Marciale li perdonò
r (utlesolli, e subito furono ralhmiinati.
m Xhun . bl. .Ììi'ìIhuiii".
— 33t —
Allora uno ch'eri paralitico. udenJo questo miracoki.
pregò santo Marziale die lo snnasse; e saoto Maraiale btlo
che ebbe la siin orazione, lo sanò. Allora vedendosi sanato,
volse dare a santo Marziale molto oro e argento, ma santo
Marziale non volle niente: anco li disse che lì dovesse dire
a' povari.
Stando santo Marziale in (|uello medesimo luogo, Iz ap-
pari Gesù Cristo e disse: Entra nella cittÀ di LemoggiaenoD
temere; impei'ò clie sempre sarò con teco. £ la maltioi per
tempo santo Marziale chiamò e compagni, e disse come Crìsbi
gU aveva parlalo: onde sntiilo si partirono, e'Dtrarooo nelli
citta di Lemoggia.
Come a santo Harsiale e compagni fu dato molte InuH
B messi in prigione.
Intrando nella città di Lemoggia, furono rìceTuLi da una
grande gentildonna e contessa, la quale aveva nome Susama
ed era vedova. Aveva una lìgliiiola chiamata Valeria, e nos
aveva più n^ maschio né femina. Questa Susanna fii doeu
d'uno conte chVhbc nome Leocadio, il quale fu parente <lì
Tiberio impcradore. nel ifuule tempo Gesù Cristo ricevè per
noi morte e passione. Questo Leocadio era slato mandato ila
Tiberio il signoreggiare la Galizia e la Guascogna e l'altre
Provincie di là ; il quale conte fu morto in quelle parli a una
grande hattagli.i. Questa sua donna era rimasta tanto nobile e
! prn^alo ttnnio Marziale da quesLii nobile iJomia die li pia-
ì doverlo guarire; a la quale rispose cosi santo Marziale:
Lo doma, se mi vorrai credare, vedrai la polenzia e la gloria
di Gesù Cristo: e fallo il segno della sanla Croce, subito le
catene fìirono siiczzate e rotte, e quello Tamelico (a sanalo. E
vedendo quella gentildonna sì grande miracolo, subitamente si
fece batteizare so e sua figliuola Valeria con tutta la sua fa-
miglia ui numero di persone secenlo. Poi andò snnlo Marziali;
co'snoi compagni a una terra clie a nome Teatro, per predi-
care la parola di Dìo. Allora due falsi preti di quella terra, e
f\iiaH )' uno aveva nome Andrea e 1' altro Aureliano, fortemente
baslonoroDO santo Marziale e suoi compagni, e miserli in una
scura prigione. I.o seguente di all' ora della terza santo Mar-
ziale pr<>gò Iddìo, die mandasse a quella prigione tanta olila-
rilà, che polesscno vedere l'uno l'altro, e fatta Torazioue,
subito venne da delo una raaravigliosa luce, e di subito rup-
j peno le catene, colle quali e servi di Gesù Cristo in lanla
l 'jcaritl erano legati. Altre persone che erano in quella prigione.
iendfl tanto miracolo, lutti si gillorono in ginocchioni a'pìedi
i unto Marziale, pregando che h battezzasse; e'n quello mc-
) di fu uno grande tuono, ed in quella terra fu molli
loiil e baleni, per la qual cosa tutti fugarono a li loro tem-
pli per j)aura. e quelli due sacerdoti die miseno in prigione
e servi di Dio, furono percossi e morti dalla saetta. Allora
tutta la gente corse a la prigione, e trasse fiiora santo Mar-
nale e compagni suoi, e poi dissero a sanlo Marziale: Se tu
risnscilarai questi due nostri sacerdoti, certamente credaremo
ai luu Dio. Allora santo Marziale pregò Gesù Cristo e disse:
O [lidio, che dicesti se noi avessimo tanla fede quanto uno
Knnello di senape, e dicessimo a uno monte: passa di qua, e
vi passarebbe; adunque comanda che questi morti risusciti per
inatto de'tJoi augell. E dette queste parole, andò al luogo
tiov' erano quelli sacerdoti morti, e disse: Nel nome di Dio
rito fu crocilisso, levate suso risuscitali, e dite a questo pò-
(toto qutllo die bisogna fare acciò die sieiio salvi; e subita-
mente si levare sn quelli due preti laudando Dio e feceusi
tHiiezure. .\Hora vedendo quel popolo così grande miracolo.
— 330 —
incominciarono (iitli roriemonle a gridare, diceado: VeranieDle
non è altro Iddio, se non (juello che predica questo santo uo-
mo; ed in quel di se ne battezzò vintidue migliaia, e ine (é-
ceno una bella chiesa iid onore di Gesii Cristo e di santo ìàar-
zìale.
In quello di mori la beata Susanna conte&sa , e ta portala
dagli angeli In cielo, e fu soppellitn per mano di santo Mar-
ziale, e nanzi ch'ella morisse, molto raccomandò la sua fi-
gliuola Valeria a santo Marziale. La quale rimanendo dopo la
madre, diventò di lama scienzìa e di tanta santità, ed era d
perTelta la sua vita , clie nel numero delle sante si poteva com-
putare; e non ostante che maritala fusse, votossi a Gesù Cri-
sto di servare sempre la sua virginitil, e dentro dal suo core
elesse per suo l(;giltimo sposo e marito il diritto e vero sposo
Gesù Cristo beneiletto, e continuamente andava a le chiese, e
udiva le prediche, e quello che udiva, metteva in opera. Stava
mollo tempo in oriiziono, e faceva grandi e molte llmosine
per Dio, ajielli, oro, argento, pietre preziose, vesljmcnta ed
ogni altra cosa eh' ella aveva dì valore.
Venendo queslo duca Stefano suo marito con quiodid
roilli cavalieri a la città di Lemoggia per menare con suo
([uesla sua sposa Valeria, non sapendo lui ch'ella fusse Alta
cristiana, fulli detto che costei non farebbe a suo senno, pe^
eh' ella faceva a senno d* uno uomo eh' era venuto da Roma,
di che molto si maravigliò. Questo duca era slato mandilo
dallo 'niperadorc di Roma chiamalo Claudio, però che morto
era il padre di questa Valeria, il quale era stato mandato i
^^P Uossesi .idimi)iie iiueslo duca mollo adiralo per r|iiello
^^B ch'aveva uililo, e andò a questa sua sposa A'alfm con gi-m-
^r dissima geuU-, e la donna s'adornò come reina; però da Roma
per inverso poaunle dou en maggior donna dì lei, nÈ di iiiatj-
giorì riccliezze né di maggiore pareatudo di lei: e cosi simi-
lemeiile questo duca. I^ quaudo il marito ciilrò nel palazzo di
VaJenu sua douna, ella si levò da sedere, ctie sedeva in una
bellissima sedia d'oro, e cosi adorna a guisa di reina andò
inverso il marito con rhiar-i ed allegra iaccia. Allora il marilo
con adiralo animo le parlò e disse: K ctie è questo. Valeria?
È vero ctie tu ami allro nomo sopra di me? Ed ella rispose,
(liceudo <iiiesle parole: 0 nobile principe, gì.^ non ti Te io in-
KÌnrìa, se io amo piti Dio, il quale è d'ogni cosa creatore,
che io non amo te clic se' creatura; se io amo più colui, clic
t immorlale. glorioso ed elenio Dio, eh* io non amo le, che
ff>' corrullibile e mollale. E mostrali per molle e belle ra-
gioni come esso Dio ci à iatli a sua immagine e a sua si-
militudine, e come esso ci ricomperò lanto caramente in sul
della croce, e come '1 mondo per lui si governa e
itàtatt, e come ogni dominazione e signoria si governa e
iticQC da lui, e similmente tulli gli altri beni procedono
Ivi «opra ogn' altra cosa. Di clic già non si doveva di ciò
Riaravigliaru, che egli medesimo era obligato :) questo
tare, conchiudendo Hiialtnenle come era b.-illezzata e l^lui cii-
sUana, e che né Ini nò altro sposo già luai non vorrà, se non
*oIo (iesii Cristo, a! quale promesso aveva inseparabile fede e
perpetua virginità.
Come il daca per grande ira fece tagliare la testa a
Valeria sua donna, e l'anima fu portata dagli
Angeli vUibilfflente in paradiso.
Allora il duca pieno di furore, lalibia ed iia senza più
indutparc fece comandamento, che subito fusse menata alla
fCiusliida fuorc della terra, e subito le fusse laglialo la testa
per m.in'i d' uno su» siniscalco ctiiamalo Orlapino, ipial era
— 338 —
molto nobile uomo; e quando la menava al lui^ della p«-
stizia 0 vero del martirio, ella disse a quello sioiscalco: 0
stolto, stollo, in questa notte tu morrai, ed io oggi ìneomii-
ciai'ò a vivare; e quando fìi presso al luogo della giustizia
ovvero del martirio a mezzo miglio, s' inginocchiò e pn^
Idilio con divora orazione che perdonasse a quello suo marito,
dicendo: Dio mio e Sijniore mio, sposo mio, corona e speraaia
mia. 111 sai come i* b voluto te per mio marito e mio spoM^
e per avere te ò rìllulalo cosi grande signore come 1 dota.
I'rc;ioli aduiHiue. Signor mio. come io ò eletto e voluto (e,
clic In clegei e voglin me. E subito venne una boce cdestiale
e disse; 0 ililetla, o sposa mi» Valeria, non temere, ecco gli
angeli clic Taspcllimo con grandissima allegrezza per menarti
dinanzi da me tuo sposo Cristo ; e questa voce fu udita tb
ogni [icrson'i eh' ora presente. E ricevuta che ebbe qnesu
risposta, e giognendo al luogo del martirio, disteso il eti\a.
in uno colpo il cajio tu taglialo; e quella gloriosa anima vi-
sibilmente Tu veduta per e circostanti, e dagli angeli fu por^
(ala in cielo: e fu udito il canto angelico, che cantavano eoa
bellissime voci, dicendo: Beata se', Valeria, vei^ne e sposa
e martire di (Iristo.
Come santa Valeria tolse il suo medeaimo capo
che era tagliato, e portollo a santo Marxiale.
t
— 33!) —
Ulto Marnale, prtise ella rnedesinia lo suo cajH), ed iiigi-
noccliiossi e poselo dinanzi da lui, ed in quello luogo fece le
forme dcUi suoi piedi in uno nianiio dov' era su, le (|ujili
forme iiiliue al pi'esenle di chiaramcnle si veggono.
La sera seguente entrò unaigrande paurii a i|neIlo sini-
scalco per le tante cose che aveva vediilo ed udito, e massi-
onarocate dì quello che santa Valeria aveva detto a lui, quando
ella disse: 0 misero, sta notte, tu morrai; onde tanto tosto
andò al preacipe e signore sua duca e disse: Missere, io credo
che voi arcte mal fatto; e contolti tutto il modo e le grandi
eose clic veduto aveva. Allora il dnca si fece beffe di lui, e
Stollo clie tu se* a credare quesie cose. Non credi in
tìie io sappi quello che ò fallo? Niente me ne pento, e se io
Milo avessi fatto, si Io farei. Rispose allora il siniscalco e
idiese: Anco vi dico plfi, signor mìo, che voi non sapete.
"^ il duca: Qm i^? E '1 siniscalco rispose: Valeria disse
lic io morrei sliinotlc; e dillo questo, subito il dimonìo lo
!b V cadde in terra morto. .Ulora vedendosi costui dì
ibllo morto .l' piedi, ebbe grandissima paura e diventò tnllo
Lveulato, e dì subito mandò i>er santo Marziale, pregandolo
itì venisse a lid. Questo duca ai-ebbc voleniieri fatto tagliare
~Ù lesta a santo M.irziale, quando la fece tagliare a Valeria;
tttì perchè siinto Marziale era venuto da Roma, credeva il duca
die fussc romano, e per questo nollì fece male. Era in quello
tempo c^maudamenlo, che nullo romano fusse giustizialo senza
lieeaiia dello 'mperadorc; ma ih;i' ipieste grandi cose che
mlervennero, era rimosso il duca ed era d' altra opinione.
Vedendo santo Marziale die il duca manda pei- lui, par-
Gon due suoi compagni, cioè Alpiano e Austridiano, e
iwacro al duca Stefano. Allora il duca si vesti di cilicio, e
graodc umitil:'! e reverenzia si fece incontra a santo Mar-
jdile, e con grande pianto si gittò a' piei suoi pregandolo che
fi perdonasse, e che li piacesse di risuscitare Urtarlo l'shj suo
sJnìscalcD. Allora santo Marziale tenendo le mani del morto,
<IUse: Risusciti te quello Iddio, il quale e giuderi crocifissero.
e poi il di lerao risuscitò; e subitamente quello siniscalco fu
rauscilalo. Vedendo il duca sì (;r.inrJe miracolo, gitlossi a'
— aw —
piedi di saolo Marnile e disse: 0 amico del vero Ko, e noDU
simlissimo. jbbi misericordia di me: io b peccai^ perdonanri
e batiezzaiiii. Allora sanie Marziale con grande aBegrem
Italtezzò lui e tutta la stia gente, che eraao quindici niflii
omini. Misser santo M.ir/i;ile avendo battezzati cosUvt), ando-
rono .1 seppellire santa Valeria eoo grande onore (1). Questi
santa fu di donna la prima che per la fede cristiana tese
inartiiizzata, siccome santo Sterano fu il primo martire, e cobk
pregò per santo Favolo, quando serbava e panni a colmo cbe
io allapidavano, cosi questa preziosa santa Valeria pr^ per
io suo marito, quando e.sso la fece dicollare; e come per li
)>reglii dì santo Stefano santo Favolo sì salvò e tornò a la
felle, cosi per li preghi di santa Valeria si converti il suo
marito duca Stefano.
Beata santa Valeria fu dicollata e portala in cielo dagli
iȓiie\i a di dieci di dicembre, e fu sopellito il suo santo corpo
in quella santa chiesa, che fece fare sant:) Marziale a odor
de) primo martire santo Stefano, in un bello mooimento dalli
ditta chiesa: e 'I duca fece fare in quella medeama chiesi
allato a quello di santa Valeria due bellissimi monumeati, ■«>
per santo Marziale, e l'altro i>er sé; e poi fece fare nno spe-
dale, nel quale ogni di fusse pasciuto treceolo povarì a reve-
renzia di Dio e della sua donna santa Valeria; e un'altro ne
fece fare a onoro dì Orìsio e di sunto Marziale, e per memorìi
di sé, nel quale fussero pasciuti secenlo povarì.
— 341 —
itele NeroDC, quello die uccise sariio Pietro e sanie Pavolo; e
ùrno die fu imperadore. muiiilò a quel duca Stefano che do-
ve»»» andare a Roma con quallro legioni di cavalieri, clic ftono
tu somma vcoLiscì inigUaia e seicenEo scssanlaquallro. Allora
il duca Stefano si consigliò con santo Marziale, e riceulo il
buono e drillo cousigUo, congregò conti, baroni, cavalieri e
uomini da bene (ine al ditto numero, e andò a Roma sicondo
il rfmsìglìo di santo Marziale; e giunti cbe furo a Roma, si
come Marziale gli aveva dello, andò in prima a sanio l'ieiro,
il quale pn^dicavu in su la piazza. Allora il duca e molti altri
liaroni sì vestirono di cilicio, e tutti scalzi e cosi in qud modo
andarono a santo Pietro, e fatta la predicazione, tutti s' ingi-
itoccliianuio iu leira dinanzi da lui.
Vcdemlri santo Pietro lanL-i ^ente da bene slare a quel
modo, maravigliossi molto, e disse: Che gente scie voi? Onde
.fCiiile e che volete? Allora rispose il duca Stefano e disse:
veniamo delle parti dì Franda e della Gallia percoman-
:lo dell' imperadore, quale ii mandato per me, e so venuto
in prima perchè voi mi perdoniate e mie' peccali e datemi
Aiesaia, però clic feci lagliai-e la testa a una mia donna che
ffa nome Valeria, e per questo nt' à da voi mandato uno
die è vostro parente. Rispose allora santo Pietro: E come
DOiDe costui ? Disse il duca : A nome Marziale. Rispose santo
Tietro: K come si porta infra di voi? Che vita È la sita? Disse
il duca: Misscre. egli è uno santo omo: luì guarisce l'infermi,
CJuda li dimonia (t), ratlumìna e ciechi, dirizza gli attraili,
nmiila e lebrosì. risuscita e morti e battezza l' infedeli. Molte
altre viriti e santità adopera per la vìrlii di Gesti Ciisto. Ri-
spn^ allora santo Pietro e disse: Voi, ligliuolì, sete tutti bal-
lezzalif II tinca rispose: Santissimo Padre, si; ed iu quella
ora salilo Pietro levò gli occhi inverso il delo e disse: Padre
Dito oonipoieule, io lì prego che tu sia in suo aìutorio, però
fi) ¥nb! Giardaao, Pred. XXXIIl sullu Genesi: * Tulli gli altri
usi* peccurono • ; fu adoixtrala questa voce al genero njascoUno
:h d*l VIIUdI. lib. IX. Civ. LIX.
— 312 —
che per Io tuo amore egli andò cosi di longa a predicare il
nome lue, ed a sostenere molte pene per tuo amore. E mAto
cordialmente pr^ò allora santo Pietro per lui; e vedendo
santo Pietro che quello duca aveva cotanta contrizioDC; e cori
fortemente piangeva e suoi peccati, mosso > compassioDe ddk
lagrime sue, si li perdonò tutti e suoi peccati; ed il duca li
volse donare dugento libre d' oro, ma santo Pietro noi vobe
ricavare, ma disse che 1 portasse a santo Marziale che ne b-
cesse fare chiese. E poscia avuta la benedizione da santo Pietn,
il detto duca Stefano andò dinanzi a Nerone con ' tutta quella
gente; e poi che funo spediti da lui, e tornando inverso on
loro, irovaro un flume che si cliiama Laviceoa, e ine era ■
bellissimo palagio, nel quale volendosi riposare, fece teadan
trabacche e padiglioni, e fecero consiglio d' andare a vedere
santo Marziale innanzi che ritornassero a le case loro, poè
che avevano avuto molto prospero il cammino DeU'andve e
nel tornare.
E bagnandosi la gente in quello fiume, però che in qid
tempo era grande caldo, avvenne che un giovano nomiiuto
Ildelberto. fìgliuolo d' Arcadio conte di Pittieri (1), quando ri
bagnava io quella acqua, fu affogato e morto dalli dimooL ISr
la qual cosa il duca e tutta la sua corte ebbero giandinw
dolore, ed allora si diierminaro d' andare a santo Mandai^ e
santo Marziale vedendo il padre dì questo giovano, eogaobbe
per divina grazia che '1 lìgliuolo era da li dimoni iBogtìo, m
l'anima sua era salva. ÀHora disse santo Uaniale al padn
Uè" "
— tiVi —
orazioni; e iiuanOo suolo Mnrzinle fu gionto .1 quel fiume con
tiiua ijuella genie, disse queste parole: Io vi scongiuro, ilimoni,
die in questa aequa siale affogare la gente, che 'l corpo di
quello giovano voi a riva del lìiime lo giltiate subitamente, e
m lai modo apparite, che ogni persona eh' È qui presente, vi
possa veliere. Subitamente quelli dimoui preseno Torma di porci,
e col grugno gittaro quello corpo alta riva del fiume di longa
dall'acqua sei stadii, che sono delie quattro parti le tre d'uno
miglio (1); e santo Marziale vedendo ì dimoui avere preso
forma di porci, coniandone (2) che apparissero in forma pro-
pia come sono fatti; e cosi apparirò, e subito si gitlaro a'
piedi di santo Marziale con grande impeto e furore e ira,
ed erano neri più che non sono etiopi, eil avevano li piedi
grandi e fi\i occhi terribili e crudelissimi (3). Li capelli ave-
,vaDO si grandi, che tulio 't corpo coprivano; per la bocca e
[Ulti loro iDi'^li giltavano fuoco e solfo puzzolente. Lo suo
ire era come di cerbi, ed in tulle l' altre cose erano tanto
i ed orrìbili a vedere, che lìngua umana noi potrebbe
dire. Ciascheduno di loro aveva fn mano una catena di fuoco
mollo ardente, e santo Marziale disse: Dite li nomi voslrì; e
l'uno di loro disse: Io 6 nome Mille arti. Disse santo Mar-
mie: E perchè ài tu cosi nome? Ed egli rispose: Perchè io
ò mille arti per le mani a ingannare le persone del mondo.
Poi dimandò santo Marziale Taliro dimenio, dicendo: Tu com'ai
DomeT E rispose: Io mi chiamo Netlomio. Disse santo Mar-
ziale; Perchè ai cosi nome! Rispose: Tanto \nLol dire Net-
tomio :4), quanto affogalore; onde io sto qui a questo fiume per
1 PniKlenilo il ratallo per la rcdina, si cominciò a gridare in alti voci >
tJttMe ^pra Dant?, t'urgat. \.; < La sua figliuola mutata in colomba
dato (li suoi anni nell' alti torri ■ Ovid. Siminl. IV.
(1) Cioè tre quarti di miglio.
(1) Intendasi eùmtmdà loro; lo adoperatasi sovente dagli antichi in
«fOM e luogo di torti, come ledcsì anche poco appresso.
(3i Eiprimetano cioè la crudeltà del loro animo.
(Il Pai gr. vTjZTÓ^. nuoinnic.
— 3i4 —
affogare chiunchc ci passa, e moiri ò già affogati e menali
fuoco eterno. Disse allora santo Marziale: Queste caiene i
in mano potiate, che ne fate voi? Risposero: Quando i
avenio aggrappale 1' anime, con queste catene di Tuoco le 1
ghianio, ed al noslro prencipe delle tenebre le meùamo.
sanlo Marziale disse: Ironie à nome questo prencipe! Ris]
sero: X nome Rissardo- E perei»'! k cosi nome? Rispose)
Però che egli è quello eh' à a mettare resfa, briga, odio
discordia fra città e ciltù, fra castello e castello, fra uoBltt
uomo, e cosi non è nissiino male che esso non faccia e ba
fare; e detto queste parole, pregavano santo Marnale, dice
do: No' ti preghiamo che tu non ci facci pììi parltm ]
modo, che questa gente qui d' intorno ci possa inlendert !
sapiamo che In sai parlare e intendi tutti linguaggi (e li
era la verità, però che quando Cristo mandò lo Spirito S*
sopra gli apostoli, il quale lo 'nsegnò tutte le lingue, era iM
loro santo Marziale, e con loro ricevè lo Spirito Santo, e 1
parò tutte le lingue del mondo, si come fecero gli altri 4
stoli ) ; anche ti preghiamo che tu non ci mandi nd idI
Oceano né anco nello 'nferno. Le quali parole sono mollo 4
considerare, perchè eglino le dissero. Allora santo Mani
parlò a loro in liugua ebrea, e comandò a loro che andia
in parte diserta, là dove non abitasse né persone De bM
nÈ uccelli Tolasseno, ed ine stessero infine al di del ;
dicio, e non potessero offendare a nulla creatura,
partirò dì subito e mai noQ comparirò pi».
— 344 —
afiogare dihmche ci passa, e molti ò già affogati e menati al
fiiOGO eterno. Disse allora santo Marziale: Queste catene che
in mano portate, che ne fiite voi? Risposero: Quando noi
avemo aggrappate V anime, con queste catene di fuoco le le-
ghiamo, ed al nostro prencipe delle tenebre le meniamo. E
santo Marziale disse: Come à nome questo prencipe? Rispo-
sero: À nome Rissardo. E perchè à cosi nome? Risposero:
Però che egli è quello ch'à a mettare resia, briga, odio e
discordia fra città e città, fra castello e castello, fra uomo e
uomo, e cosi non è nissuno male che esso non faccia e faccia
fare; e detto queste parole, pregavano santo Marziale, dicen-
do : No* ti preghiamo che tu non ci facci più parlare per
modo, che questa gente qui d' intorno ci possa intendere. Noi
sapiamo che tu sai parlare e intendi tutti linguaggi (e cosi
era la verità, però che quando Cristo mandò lo Spirito Santo
sopra gU apostoli, il quale lo 'nsegnò tutte le lingue, era infra
loro santo Marziale, e con loro ricevè lo Spirito Santo, e im-
parò tutte le lingue del mondo, si come fecero gli altri apo-
stoli); anche ti preghiamo che tu non ci mandi nel mare
Oceano né anco nello 'nferno. Le quali parole sono molto da
considerare, perchè eglino le dissero. Allora santo Marziale
parlò a loro in lingua ebrea, e comandò a loro che andasseno
in parte diserta, là dove non abitasse né persone né bestie,
né uccelli volasseno, ed ine stessero infine al di del giu-
dicio, e non potessero offendare a nulla creatura. Allora si
partirò di subito e mai non comparirò più.
Allora il duca Stefano e M padre del giovano morto e
tutta r altra baronia pregarono santo Marziale, che li piacesse
di resuscitare quello giovano, e santo Marziale rispose e disse
cosi: Fratelli mici carissimi, tutti quanti stiamo in orazione e
preghiamo V altissimo Dio, che V anima di costui ritomi al
corpo. E prese la mano del giovano e disse: Nel nome del
nostro Signore Gesù Cristo leva su; ed elli si levò subita-
mente. Allora tutta quella gente s'inginocchiò, e con grande
reverenzia laudaro e ringraziare e benedissero Dio e santo
Marziale. Allora santo Marziale comandò al giovano eh' era
risuscitato, che narrasse a coloro in che modo affogò, e che
— Mo —
I f;ilto deiriDJm.i sua iieirallr.i vìia, e li? cose che vidde.
Altor-i incominciò n parlare nel cospetto di tutti e disse:
Uuando io mi bagnava in questo lìume, due dimoni mi pre-
seao l'uno per lo capo e l'altro per li piedi, e si m'alTogoro;
b qual cosa credo che m'avvenisse, perchè io non mi se-
gnai quando entr-V nel fiume; e volendomi legare con quelle
alene di fuoco, quali avevano in mano, ed ecco subitamente
uno angelo, e cavommì delle mani loro, e menandomi ron-
filo verso dell' oriente, ed ecco subitamente due grandi schiere
di (limoni venire a me; 1" una veniva dietro, e l'altra dinanzi,
e con saette di tuoco ardente; ed io vedendomi cosi condotto,
non ebbi mai nò credo avere si terribile paura; ed intanto
che tulio uscii fuore di me medesimo, e come esmaitito rag-
guardai Tangelo che mi menava, per volermi nascondere dopo
Ini per paura di questi furiosi dimoni. E 1" angelo vedendo
tìte io ero cosi smarrito, confortommi e dissemì: Non aver
panni, accostati a me e sta sicuramente, che io ti diCendarò
bcoc delle mani di costoro. Allora essendo io un poco rassi-
curata delle parole dell' angelo , esso angelo incominciò a
cantare ipiello salmo del Sallero: Benedic. anima ìiwa, Do-
miiio et celerà, cioè: 0 anima mia. benedice il Signore. E
cosi cantando giopemmo al purgatorio, e ragguardando io
«{uello, credevo che fusse lo 'iiremo; ed incominciai avere
^ode paura di non entrarvi, e T angelo che mi menava, mi
di5AC : Onesto non è 1* inrenio, anco è il purgatorio : e voglio
che sappi poi che la persona è battezzata, o poi vivendo nel
mondo pecca, e poi si conressa e Ta nel inondo parte della
peoilenzia, conviene che 1' altra parte facci in questo luogo
cbe tu vedi, e poi va a godere a la somma e felice gloria di
tìu etema. Ed imperciò che tu ài peccato, poi die tu fusti
battezzalo, ìu molte parole superflue ed in molte altre cose
non lecite, delle quali tu non a' nel mondo fatto peuìtenzia,
unperciò ti conviene tanto stare in questa luogo, die l' anima
tua sia motto bene purgata e purificata, come quando esce
deHa fonte del battesimo.
E guardando in quello luogo, viddi uno fiume molto cor-
rente, sopra lo quale era uno ponte molto stretto: e veduto
— 348 —
Della grande penitenzia che fece Aldeberto sopraditto,
poi che fu risuscitato.
Di poi santo Marziale e 'Iduca Stefano e Aldeberto e
tutti gli altri baroni ritomaro a la città di Lemoggia con
grande gaudio e letizia, sempre laudando e magnificando Dio;
e santo Marziale fece sacrifizio a Dio nella chiesa di santo
Stefano primo martire e suo parente, la quale aveva fatta fare
a suo nome e suo onore. Àdelberto, quale era risuscitato,
tondossi (1) e levossi e capelli, e promise di non partirsi mai
da santo Marziale, secondo che l'angelo T aveva ammaestrato,
e la vita sua era cosi fatta: poiché fu risuscitato, ma' vino
non bebbe, né mai carne non mangiò, né calzamento alcuno
più gon portò; solo col pane e acqua contento stava, e 1
cilicio su le carni sempre portava, con digiuni ed orazioni e
buone opere sempre perseverava, ed ogni cosa che '1 padre e
la madre li dava, a' poveri distribuiva. Lo conte Arcadie per
amore di questo Àldiberto fece grandi doni a la chiesa di
santo Stefano, e per li buoni esempli di questo Àldiberto molti
si convertirono e tornare a penitenzia e diventarono di buona
e santa vita; e '1 duca Stefano per comandamento di santo
Marziale mandò messi e corrieri a tutti quelli della Francia,
ed a tutte quelle Provincie che a lui erano suggette, che ve-
dute le sue lettere, dovessero disfare tutti li loro idoli e lor
falsi dei, e solo uno vero Dio del cielo, tre persone in una
essenzia adorasseno; e chi contrafacesse, fortemente sarebbe
punito. E fatto questo e ricevuto che ebbe ognuno la benedi-
zione da santo Marziale, ciascuno tornò a casa.
Era questo duca Stefano si grande signore, che dallo im-
peradore in fuore non era in tutto il mondo maggiore signor
(1) Cioè tosassi, dall* antiquato tondam in luogo di iondeni; nei
Morali di s. Gre{;orio: e Ora dunque tondarsi il capo non é altro, se non
tagliarsi dalla nostra mente ogni soperchio pensiero », lì. S5.
— 349 —
di lui; lui sempre la mezzedima (1) e 1 venardl digiunava,
vino non beieva (2), carne non mangiava, il cilicio continua-
mente portava, e mai donna non prese, castissimamente viveva,
grandi limosine faceva, e cherici molto onorava, quattro volte
r anno con tutta la sua gente santo Marziale visitava, e nella
chiesa di santo Stefano in orazione molto stava, ed a questo
modo la sua vita menava.
Come il bastone di santo Marziale guari uno
che era paralitico , e molta gente si converti.
Fu nella città di Bordella (3) uno conte, quale aveva
nome Sigisberto, ed era paralitico. Udendo dire si grandi
miracoli che faceva santo Marziale, chiamò la donna sua per
nome Benedetta, e disse : Prende compagnia, e tolte oro e ar-
gento assai, e va a quel santo omo nella città di Lemoggia,
ebe fa tanti miracoli^ e pregalo che mi guarisca, però eh' e
nostri dii non mi possano guarire, e tu lo sai. Subito la donna
Benedetta prese oro molto ed argento, e per sua compagnia
viototto ceotonaia di cavalieri, andò a la città di Lemoggia a
quello santo omo, e santo Marziale vedendo questa gentil donna
con tanta compagnia, cognobbe per divina grazia la cagione
perchè quella donna era venuta; onde parlò a quella donna e
disse: Tu ài uno marito, il quale è stato anni sei col male di
paralitico; e la contessa disse: Padre, cosi è vero, e però
prego la vostra santità che voi U faciale sano; so certa avete
la possanza se voi volete, e se questo farete, verrà da voi a
battezzarsi. Allora vedendo santo Marziale la fede di costei,
quale era contessa di Bordella, e tutto 'I suo paese adorava
ridoli, disse: Riloma a casa tua e lolle questo mio bastone,
€ tocca con esso lo tuo marito, e subilo sarà guarito. Ed in-
(1) Cioè li mercdedi^ il giorno medio della settimana.
(2) Dair antiquato beUre.
(3) Intendi Bordeaux, lai. Burdigala.
— 350 —
iianici die quesla conlcssa si partisse, ù bitleuò da santo
Marziale con luiu la sua compagnia, e poi prese il baralo di
santo Marziale e andossene.
Innanzi che giognesse a la sua città di Bordella, il mig'
gior sacerdote cioè il vescovo della ditta cittì andò a sacri-
ficare a uno loro idolo chiamilo Giove, il quale parli a ludo
il popolo e disse: Sappiate, tutu gente, È venuto '1 tempo
che io mi debbo pai'lire, e piii non posso slare ornai eoo voi,
percliò è venuto uno ebreo d' ollramare, il quale lutti e miei
compagni disperge, ed :inco me caccia e perseguita; e vuole
e comanda che ognuno ndori quello Dìo, che fece il cielo t
l'I terra, il quale poi incarnò della vergine Maria, poi fu ctd-
cilìsso e morto da' giuderi. Allora quello sommo sacerdMe
disse: Chi è questo ebreo, e perchè temete voi cosi forte!
Non sete voi più giande Dio e piìi potente di lui? E 1 i-
monio stava in quella imagine e rispose: No, perchè egli 1
amico dell' onnipotente Dio, e sempre vanno eoa Ini dofiei
aogeU a sua guardia, e vino non beie, carne non mangia, a-
micia non porta, bagno non usa, male parole non dice, aee
sempre lauda Dio, ed opi grazia che vuole da Dìo, senqve
ìi. Allora rispose il pontelìce e disse: La conlessa nosin
madonna Benedetu andò da luì, e ora toma con grande iD»-
grezza, e io con tutta la gente della città doviamo aniare |
incontra. 11 dìmonio rispose: Non sia ella Benedetta, anco na- 1
ladetta; e approssimandosi alla città, quello sommo sac^erdottl
insieme con tutto il popolo andò loro ìncoaira; e gionti Ai "
furono a la contessa, quello sommo sacerdote incominciò i 1
— 3:;i —
come mti'acolosamenle sì viJile così pivsto guarito, reudè
grazi» a Oìslo Leneilelto, e con molla grande genie e eoo
bello apparecchiamento andò a saulO Marziale, e con tntu la
sna genie si fece batlezzare, e poi sempre fu divoto e servo
di Dio.
Come la contessa spense uno grandissimo fuoco
col bacolo di santo Marziale.
In quella ridi'! dì Bordeila s*acce.se uno grandissimo fuo-
co, tanto che lutla la cillà era a mal porto, e vedendo que-
sto In contessa , con grande divozione e reverenzia prese quello
bacolo dì santo Marziale, e andò incontro quello fnoco. e mo-
strò guello bacolo a! fnoco e disse ad alla boce: Gesti Cristo,
campaci da questo fuoco pei- la vìrti'i del tuo sei'vo Marziale;
e ditto queste parole, il fuoco non andò più oltre.
Come santo Harsiale guari nove spiritati.
Fu ammonito santo Marziale dallo Spirito Santo, che .in-
dasse a nna provincia che si cliiamava Mauritaua, dove era
ut» grande popola che era appareccliiato a credere in Dìo,
jil quale comandamento santo Marziale fu uhbidìente. Andò al
ilitlo luogo e stcttcvi tre mesi, .il quale luogo fu menato nove
indinionialì, e pregato sauto Marziale che dovesse liberare co-
storo, mosso santo Marziale a compassione, pregò Dio per
loro, dicendo: 0 Iddio, il quale dicesti che era certa genera-
none di dimoni , quali non si possano cacciare se non per vìrtii
d'orazione e di digiuni, pregoli che saui costoro e lìberi da
(juesii diiimui. Ed io vi coniando, spìriti maligni, che voi vi
partiate prestamente e andate allo'nfento, ed ine stale per fine
al giudicio; e ditto queste parole, subito furono liberali.
Sigisberto conle di Bordeila, del quale è ditto di sopra,
sentendo come santo Marziale era venuto in quelle parli, mos-
sesi colla contessa Benedclla sua donna, e cm molti cavalieri
— 352 —
e grnnije apparecchiamenlo per andare a santo HaniJle, e an-
dniHlo i servi suoi per suo camandameDto a pescare, enlro-
rono in mare bene per trecento sladii, che monta vinUquallra
miglia; e subito si levò iu mare una grande tempesta, lano
che coloro erano per perire. Allora la contessa vedendo dalla
lunga la Tortima di costoro, prese quel bacolo di santo Mar-
ziale, e mostrollo verso il mare, e subito fu cessato la lem-
pesta, e furono liberi e riagraziarono tutti Dio e santo Mar-
ziale. Di poi tornò sauto Marziale a la città dì Lemo^^ Il
duca Stefano aveva fatto fare sopru il sipolcro di santa Vale-
ria sua donna una bella chiesa, la quale dovesse cwisecrare
santo Marziale a onore di Dio e di santo Stefano primo mar-
tire.
Coma santo Hariiale andA a tuta terra che si chiuna
Ansiaco, e ine fece grandi miracoli.
Partissi dalla città di Lemoggìa santo Marziale, e andò
a una terra chiamala Ansiaco, laddove era uno idolo, ed erano
grande moltitudine d'infermi di diverse e varie iofenniti, e
(|uella genie pregò divotamente Kiato Marziale Che facesse par-
lare il loro Iddio, però che avevano udito dire a lui mede-
simo, che egli dubitava d'essare legato dagli angeli dì santo
Marziale, e cosi era vero, però che egli era legato con ca-
tene di fuoco, .\llora disse santo Marziale: lo vi scongiuro,
inaladetti demoni che sete in cotesta statua, che subito ve-
— 353 —
' ore essi abitavano, e nella ({iiale si facevano adorare per e
Dii; e poi lo coniando che si partisseno e anda-iseno a luogo
diserto, ove non abitasse persona né uccello volasse, e di su-
bilo si partirò, e poi santo Marziale segnò liilli r|ue!li inferrai che
erano in quello luogo e subito furono tutti guariti; e poi tutti
li batleniì, e Lornossì a la città di Lemoggia, della quale era
vescovo: e per divina grazia cognobbe die a Roma Nerone
imperadorc fece tagliare l,i lesta a santo Favolo, e santo Pie-
tro era crocifisso per amore di Gesii Oislo. Onde comandò die
t ostoussc fornita lacbieta die'l duca Stefano aveva f^tto co-
minciare, la quale era cominciala e difìcata d'una possessio-
ne il) di santa Valeria sua donna. Anco fecero una chiesa ad
onore di santo Pietro e di sauto Favolo, e 1* altare adornò d' ìn-
lorno d'oro lino, e dinanzi vi posero sette lainpane di Quo oro, e
cinque bellissimi candelieri d'oro, e una bellissima croce d'oro,
Di poi disse santo Marziale al duca Stefano, ctie voleva con-
sacrare la chiesa che aveva fatto fare, e mandò per tutte le
sue terre a comandare, che ciascuno venisse e arrecasse vet-
' tovaglia e fornimento abbonilantemenle , e oguuuO (iicesse fe-
sta e allegrezza; ed intomo a la città fece tendare molli |)a-
f diglioni e ifabacdie , perchè la genie vi potesse capire. E ve-
I nutj tutti e popoli, disse a loro santo Marziale: Domattina sa-
I relè apparecchiali con divozione a vedere consagrare la cliie-
»3, e guardatevi da ogni peccato, acciò che voi siale parle-
fìci di quella consegrazione. La mattina seguente dipendo la
messa sauto Marziale, venne uno t[iovano, quale era conte di
Tunisi, con una sua donna, a' quali eulrò addosso lo spirito
niatigno in quella notte dinanzi, e quali fur menali dinanzi a
santo Marziale, mentre die ilìceva la messa, e disse: Perchè
sete voi, maladetlì spirili, inlrati addosso a coslm-o? E quelli
spirili rìsposeno: Perchè tu comandasti ieri che stanotte e oggi
si dovesse ogni persona guardare da peccare, e costoro tutta
questa notte sono stati insieme in atto di lussuria. Queste pa-
role so mollo da tenere a ipente. Allotti santo Marziale al
prego della gente che ine era, comandò a li dimoui che si
(I) Il Goilicp Ila pocttiivnr.
— 3.j4 —
partìsseno, e cosi fu f^tto. E questo conte e la sua doana (n-
rono liberi, e tutti quanti laudarono Dio e santo Maniale.
Tanto splendore mandb Dio in quella chiesa sopra di lui
quando diceva la messa, che T una persona non poteva vedere
r altra per tanta luce e maraviglioso splendore. Fu consegrata
la ditta chiesa di santo Pietro e di santo Favolo lo ^coodo
di di maggio.
Come santo Marziale miae il prete aella ditta chiesa,
e come Nerone aminaziA si medesimo.
Lo quanodccimo anno della signoria di Nerone, fece nar-
lìrizare santo Pii'iro e santo Favolo, e quello medesimo anno
uccise sé medesimo: e morto Nerone, fu fatto imperadore Ve-
spasiano- ConseciMla che fu la chiesa predetta, santo Maniate
e*l duca Stefano poseno a quella chiesa per prete uno che
aveva nome Andrea, compagno di Aureliano, li quali santo
Marziale aveva risuscitati da morte a vita. Anco vi pose Ildi-
berto iìgliuolo del conte di Pitticri, del quale fu ditto di so-
pra come fu l'isuscilalo da santo Marziale, e posevi treotas^
cherici e guardie a guardare il tesoro. Posevi dodici vaà
d*oro consagrati, e lassò che tutui questa genie avvessenoda
la detta chiesa vestimenti e calzanienti ed anco la vita (1), e
ciò che lo bisognasse. Anco fece fare uno spedale, nel quale
ogni di avessei'o loro vita cinquecento povarì. Lo terzo dì dopo
r
— 3SS —
slìaiia, il nostro Signore Gesù Cristo sempre laudava e bene-
diceva. vViìco orilinò e compose die qiiaiiro volte Panno ogiii
persona che venisse a qnella chiesa, avesse vintollo anni <li
perdonanza. Anco lì donò Dio tanta grazia, che conosceva la
c{isclenza delle persone, ed infra l' alire cose dava questo con-
siglio, che nissuna persona prendesse il corpo di Cristo, che
non fusse bene puro e mondo; e qualuoche omo o donna la
notte dinanzi avesse avuto alcuna corruzione per vìa dì ma-
trimonio 0 in qualunche altro modo, non prendesse quello inef-
bbile sacramento, e molle altre grandi, alte, buone e santis-
sime cose insegnava; e spezialmente die la virginitJÌ e uma-
iiilà e carità erano sopra tutte le virtù. Anco comandava Tu-
ttidienza e*l matrimonio, ma pifi commendava la viduità. Lui
sanava ogni infermità , e ogni grazia che la persona voleva da
lui, che russe sicondo Dio. volentieri faceva. Tante erano le
maravigliose cose e miracoli che lui faceva, che già mai non
» potrebbe contare.
Lo quarto anno che Vespasiano fu fatto ìmperadore dopo
il maladetto Nerone, il duca Stefano mori, e fu sopellito con
grande onore da santo Mar;£Ìale, e posto alialo al sepolcro di
tanta Valeria sua donna a di tie di maggio, e credesi per
fermo che sia santo per le mohe buone e virtuose cose che
adoparò secondo la dottrina di santo Marziale.
Dopo la morte del duca Sterno, cioè anni quaranta dopo
la santa resurrezione di Gesù Cristo, appari esso Gesìi Cristo
a santo Marziale, essendo egli allora nel suo oratorio, il quale
era nella chiesa di santo Stefano primo martire, e oiava; ed
in questo punto venne Gesù Cristo con grandissimo splendore,
e disse cosi: Pace sia a te, fedelissimo mio fratello; imperò
dte ubidisti a la mia voce, sarai a la mia compagnia nel re-
gno di vita eterna. E vedendo questo il glorioso discepolo di
Gesìi Cristo santo Marziale, fu fatto pieno dì gninde allegrezza
i: Signor mio, io so fatto si allegro, che mi pare
risuscitato da morte a vita. Tu se* il mio Signore, eie
tramato e desiderato. Tu se' il mìo maestro, la tua boce b
piena di grazia, pregoti che tu mi ricevi nella tua chiaritoi.
Allora Gesii Cristo li disse cosi: Da oggi a quindici di verro
— 356 —
a te, carissimo mio, e rioe^'aroUi co' miei santi apotfolì e ggUì
miei aogeli, e co' patriarci, co' martiri, co' dottori, co'coik
fessorì e colla graode lurtia delle rergini, e bratti reda dd
mio regno. E subitamente S discepolo di Gesii Cristo saito
Marziale maoifestb tutte queste cose a* suoi compagm, eioi
saoto AustrieJiano e santo Alpiano ed a certi altri suoi diset-
poli, e subito mandò messi per tutte le terre e [MQTiDde, U
dove aveva predicato, che eglino dovessono v^re a Ini a li
città di Lemoggia, peii che egli inteadera di dare a ìon li
sua benedizione e penlonanza di loro peccali nanzi che mo-
risse, s) come aveva avuta l'aatorìtà dì Gesù Cristo, ed ia
i|uelli di raguDÒ il popolo di Pittieri e quello di fintliceno,
quello (li Nerva e quello di Guascogna, quello di Gotti e di
molli altri paesi: ed iu quelli quìndici di il discepolo di Cristo
Marziale di e notte stava in orazione e conlinuamente predi-
cava, e ogni mattina diceva la sua messa e poco i
m«H> beieva.
Del buono ammaestramento cb' è dì santo Marnale
al popolo naniì che nOTÌsse.
Approssimandosi il di che santo Marziale doveva moriie,
andò fuore della cillà a predicare, percbè la gotte non vi ca-
piva dentro: o cosi andando per la via, diceva a la gente toiu
per ordine tulle le cose cbe'l nostro Signore Gesii Cristo ado-
aveva veduto Tare, e come lui a quelle cose Tu presente; ed
aminaestravnli dì liillo i|iie1lo die Jovessero Tare a piacere a
pio, ed a salvare raoime loro, e singularmenle amare Dio con
tuo il cuore sopra ogiii cosa, ed anco il prossimo loro per
itnore di Dio, e che I'udo amasse Taliro, e che l'uno non
l'altro quello die non dolesse che fusse fatto a lui;
' e come Cristo comandò non solamente amare il prossimo e
l'amico, ma eziandio il nimico, e per luì pregare Dio cou di-
vou orazione, e se lui à fame, si debba dare mangiare, e se
keoe, dalli bere, e cosi sovvenirlo in tutte le cose cheli fanno
bisogno; e come la pace e la morte, la vita e la concordia
eraDO grandissimo bene, e comcildimonìo temeva più la pace
^« ta concordia che veiiina altra cosa, e Dio piti l'amava, e
some la persona sì doveva guardare da ogni peccato mortale,
l come facesse da uno velenoso serpente. Queste e molte al-
ì cose buone e sante, le quali sarebbero longhe a recitare.
venuto il di della sua morte, e predicando ed
ammaestrando il popolo, il quale pareva che fusse ìnnumera-
bile a vedere, fece queste orazioni per tutti coloro che erano
ine congregati, e disse a loro che rispondessero Amen.
C«me BADto Marziale de la benedizione al suo popolo
cristiaDO, e come pregò Dio per loro inaanei che
morisse.
fieneiJicavi Dio e guardivi, ed abbi misericordia dì voi.
Amen. Gcsii Cristo onnipotente figliuolo di Dìo vivo e vero'
io U raccomando questo popolo, lo quale per tua grazia io ti
ò acquistalo per battesimo e per fede, e tu r,^i ricomperato
del tuo preziosissimo sangue. Tu, maestro mio, il quale quando
venni a slare con teco, mi dicesti che io non premlessì mo-
glie, ed io infìne a questo di ò guardato il cuore e'I corpo
mio, e so per tua grazia slato vergine, e per tuo comanda-
mento so venuto a questa provincia, nella quale ò .sostenuto
(adip per lo tuo amore, dirizci. Signor mio, bi mia vìtii a
■i-i
É
te
— 358 —
si che lo dimoDìo doq impedisca il mio <
: Utlldi,
Signore, il lume che nolla veda: apremi, Signore, la porli
del paradiso per tua misericordia, e nelle tue mani neoo-
maodo lo spìrito mio.
Vedeuilo il popolo morire santo Marziale, incomiiK»-
vano tutti quanti fortemente a piatire per la grandisfiimi
perdila di tanto uomo e tale maestro e si EiUo pastore; t
passando l'anima sua di i|uesta misera vita, gridanu» ad
alla boce. e (ìKevano ^ grande pianto, e metleraiio si gradi
slrida. che santo Marziale per lo grande impelo a sre^
come uno die si levasse dal sonno, e disse cosi: Tacete, fi-
gliuoli mìci, e non piangele; anco con meco vi nilgau
perchè '1 no-An ^por Gesù Uristo è venuto a me eoo tulli
la corte celesliale, sì come vi dissi oggi fa quìndid di: «1
ecco siibiiamcule un.i voce da* delo e disse: Vienne, dìkBO
mìo, Vienne, anima beoedelU, Vienne, glorioso discepolo mio,
ecco elle l'ani^eli mìe' l'aspettano: ecco Pietro, che fa M
maestro, l'aspetti con grande allegrezza, acciò che Ut sia»
ronato con luì nella somma bealitudine. E dette queste parale,
(|iiella gloriosa anima se n' andò in Cielo nel jnezzo àATm-
gelico coro. Allora fu uililo uno bellissimo canto il'angdi,t
i|uali caiitavaito am grunJissinui allegrezza e dicevano aà:
Bealo è qiiesio uomo, che lu. Dìo, ài eletto; e con qDesU
cauto e con questa allegrezza andò l' anima sua alla gloria ce-
lestiale di vita etema.
— 359 —
ziale i! guarisse, ed essendo già mori» santo Marziale, santo
Alpiano suo compagno tolse il sudano di santo Marziale, e
poselo sopra di quello ritropico, e subito fu liberato.
Come santo Marziale fu sopellito nella città di Lemoggia
da dne santi, e quando.
m
Fu sopellito questo santissimo corpo da santo Àlpiano e
santo Austreliano suoi compagni, e quali erano venuti con lui
da Roma, lo quale santo Austreliano era stato risuscitato da
santo Marziale a Colle di Val d'Elsa. Fu adunque sepolto
santo Marziale nella città di Lemoggia e messo in uno sepol-
cro fra santa Valeria e'I duca Stefano l'ultimo dì di giugno;
e cosi come santo Marziale nella vita sua stette coir apostolo
santo Pietro per ispazio di sedici anni, e amollo più che nis-
suno uomo di questo mondo, così piacque a> nostro Signore
Gesù Cristo , che Y uno di morisse santo Pietro e andasse in
cielo come maestro , e V altro di seguitasse santo Marziale come
buono discepolo, e così la santa Chiesa Tuno di, cioè il pe-
nultimo di giugno, si fa la festa di santo Pietro, e T altro di
si fa quella di santo Marziale, il quale sia nostro avvocato in
vita eterna. Amen.
Fu santo Marziale vescovo della città di Lemoggia anni
vintotto; visse anni cinquanta e nove.
Fine.
GIOVAN L'A PROODA
IL HIBELLAMENTO M SICUiA NEL l»2
^ax<yK' :l ntn i (Olìv* »S&
ijmnia ao-Ja^aiK per passare m Cidlia i
di pescai e éinaipi»m» 'ìe dotHI& E •inedi diserà. Sa|Éle
k«l papa Dicola sì e morto. Altre Dordf do d abbima. JUltn
•Ilv^ misMT Giani ora an-laiì cod dia el infisesi di M s^tn
nullo ke li cavaleri do s«a ades^oo di onUa ma mollo e dh
bioso misHr Giani il fato le quasi remaso se no die à pMC
recooforu ij. Et anJo io Cicilia e fne aporuio in inpolì cu
I Vi La L«;;;eDd> motcws'- : t ADcm disM meswr Goni : Or a-
■Ul? C40 ilio: I- ialÌDwi <ti nfin •apert- itvtttf p^nbè 'I canine d'm
— 361 —
sSF palmeri abbaie. Et incontanente andarono a mcsser
Idamo (li Ialino e per gialtri baroni di Cicilia che ciascheduno
iivesse venire eri liscia di malta a parlamentare con misser
" Ciani e col ambaglsalore del palioloco al più cielato chelli po-
tassero:—
Da che furono luti insieme assemblali fecìero multa festa.
l^Uanibasiatore dil palioloco il quale avia nome misser Aganlo
liilino. E (]ue si si levo misser Giani de procila e si cominzin
a dire come misser lo palioloco aveva ferma compagnia con
misser lo Re daragona. E kogli ciciliani. E come aveva data
multa moneta per cominziamento del fallo. Allora si levo mis-
ser Alamo e disse, misser Giani multo tingraciamo misser lo
palioloco e noj di tanto bene e di tanta fattcha guanta voj
aveti messo per note e per die in volerni trare di serviludìne
di nosti'i inimici. Ma sapiate per cierlo cbe ora ci e incun-
Irata una traversa (1] tropo rea si come fne quella di misser
lo papa, lo quale era capo de queste cose, e per cuy si po-
tano fare. Onde da di' e morto a me no pare e die si vada
più inanze al falò. E quello ke fato si legna zielato che no
pare che dio vogla un talle segno a mostrato di questo se-
gnore che e mono (^) cosi dico ke no si vada più ìnanzi al
. iiiiroj che noi no vodicramo chi sita papa se ila amico
1 segTiore. Allora vetleremo che sera da fare. E quello pare
I me ci megiorc che si fazia. A questo paroe cbe sacordas-
lero tuli gli aliri baroni dì Cicilia e ipiasi furono tuli discor-
* dati del fato si erano paui'osi de la morie dil papa (3), E raesscr
(1) La Lf^ggeniia ba pure: t una traversa molto ria *. Il lesto Si-
iaoo: 1 Diui imversa la i{uali csli multa ria a lu luislru fatlu >.
(i) Questo pasM) scorretto si JRggi? meglio nella Leggerla: 4 quello
LcÉ'i dito ù lenga celalo, che Dio non pare die voglia; Uile insegna
riM n'ha nuMlraia dì questo signore eh' à morto ■. Il lesto siciliano: < e
L>i(niUi che Ddi è staio talia si legna ben crlalu; che non pari chi Deu
Bio^à cbe si lai:», per tali signtt uhi vi esil muslratu di lu Papa, lu
ili i stala monu >.
(3) Il cod. Sau Giorgio Spnielli, con la leggerissima variarne di df-
kaearrfo/i invece di dìteorati. e rii dubituii anrì che ilubimi. comesi
— 362 —
GìaDD) thiio questo (òe multo rniciosso et Intasi e disse. BelK
SegDorì (1) multo mi maraveglo de zjoche voj dite, veri em
e die messer lo papa ee morto, ei e bea vero et al bto e dì
scoDZio asay la soa morte, ma noa dee tornare noo cotalk
Eato a retro per questa ragioue. sei papa fU oostro amico bcM
ista. e sa no fusse cominzia lite, eoa ciò do le falla che li
giessa perdona voluoterì (2). Se no zi veoo fato tiilo qodlo ke
pensiamo avere, mo almeno booo concio averemo. ìb se òe
vene fato A mal grado del papa e de la giessa di roma U-
remo la lera qual mal cini vogla se vor^e istare Itali signori
Che mayore forza fue quella de limperadore Frederico ke ao
sarebe (luella de lo Re cario. Se no lineste ad una mentre ko
ì>^ge nel testo siciliano mIÌId, lia : t a i|nistii diri si auwrdara ueii i-
Laranj di ùchilia apiasi ti foni rumasi di la bctu e duconbli H wn
<>ranD dobitiui e^pa^lì di la iDOrti di In fupi >.
(I) Im Legf.ntia modenese: • Uà signori >: ine^lts il Usta àa-
ì'umo e il coiL Spinelli : t Signori miei •: così come m («mincà ii Si-
cilia 1^1 discorso die $i rivolga a )hìi persone.
(i) Questo passo, e quello che st^ue, va mollo confuso si in^
sio teslo e si nella Leggenda o<e irori le parole slessa che <^i lano
qui. Il testo siciliano, in cui pare uanclii (|nalcosa, ìegpf. t H imftto
oon si diri lassari (|oÌ!ta cossi fatta imprìsa cossi grandi; prri|DL<iara-
sianì, chi Si In Papa chi si brrà sarrì noslrn amica adcumnuun
questioni, che la Clesia itumana perduna lutti li peccatari; e si ni i&
vni ratta quisto chi noi cridecnu, la terra a lo maldispeUo dik ~
e di la Clesia di Ruma la tenium per Tona >. Non s'intewlcbi
qitilu
■ h boni
— ."leu —
; islare insieme » otta (1). Kt ìmperzio dico ke no si
tassi, anzi sinnndn iannzi col falò vnlentemeolre et ardilamente.
Si kel giebe (2) tuli rincorati il detu sou. co le ragione che mo-
. E cossi fermalo ke si devessi mandare in corte de lo Re
■de ragona per sapere Li voluniade sua. E meser Giani disse
eiie zi voleva' andare pur eli col cavaliere caveva co luj. zio
uisser agardo (3) del paiinloco. chel glc voleva dare moneln
uveano co loru per fornire il falò elio navilio e cavalieri e
Riarmata mia bene.
Allora se parliroe per mare al andaro in catalogna mes-
Bscr Giaoi e messer a^rdo latino. E fiutino aportalì in bran-
Kluua vestili come frati cremini (4) ke no siano conossuti et
Pindaro a messer lo re. E quando lo Re gli vidde Tue multo
xlegro e disc loro chessero devesse (5) incontanente presse lo
(1) [niaidligibile nnclie (|ui»i'»liro [hieso, si> pur no» ù àeìtia
: ■ Se vi letieslit aduna' mcDtrc ke lolcsie slare aduna' t: (|ua»ii
riconlare come sotto Federico la Sicilia poié sostenersi contro
{Ki>clic concordi i BaroTii con I' linpeniUir«. Il testo siciliano
ha: ( impero chi indurì forza fu quilb di 1u imperaturi Pedericu. dà
quiib di iu re Carlo; e si tenissivu, lino chi vui rulissiru cg^ri lialì q
Nel (|ual luogo potrebbe anche leggersi: < e sì tenistiTU, lino
vai Tulislivu essiri liali e boni >. Il cod. Spinelli leggei ■ et si vi-
ìto fiiu ki vui vulissivu essiri liali e boni t.
(3) Qaesto gitbc vaie gli ebba. che unito a parola il gì sta per gli.
'come in altri luoghi si è visto. In [juesio luogo il lesto ìiìcitlano ha una
pcn'i leggiamo col coit. Spinelli; e In diri di mìssiir Jolinnni
cuna soi veri raiuni el fquì ntanca il nerbai cliascunu curqjnsu apln-
ala el cossi fa Tuniilu chi lulti disunì cbi sì divissi mandarì pri lu Re
di ar^ona in sua curii pri sapiri la sua rolunlati ».
(3) Di quesla miuer Aj/ardu il lesto siciliano dice: t Misser Ac-
eardn latinu, chi era naiu di lu chianu di Lombardia, lu quali era produ
t stviu e valenti caialieri ».
(<!) La leggenda modenese: « e tuoro apportali iu Barcellona ve-
stili aicconte frali erminii, che non fossero conosciuiì >. Il lesio sici-
liano: « e foru chicali ipcrvenuUj in Barcellona visitili a inodu di (Vati
Frati artninii, o cremini poliiibbero essere i frati eremili,
(5) Questo chessero lifveise nulla Leggenda si ha correlIainiHile: < e
dtue che sedessero >.
— 361 —
Re mpsser Giiini e menollo nella camera luto solo e Eecie n
luy grande compianto de la morte del papa. E di&se lo Re
follia e la pensala nostra da ke perduto lo nostro capo none
da andari giamay ioanzi col folto. Allora disse messer &ta.
per dio non dotare di niente Le Doj ziaveremo boao pqn e
fla bene noslro amico, pero non dotare di oieole. anie a»ii
più istudio chi may fussi per rincorare ^i amici nostri de Ci-
cilia, ke de la morte del papa non deba dotare di nieole. E
sapiale ke questo meo compagno si e uno cavalere dU palio-
loco dia nome misser agardo latina. Et e uno savio bom
foteglì lionore grande. El udirete quello ke ve voradireEi^
piale chel vi reche XW.*" unze doro per incominduneaioiM
foto che vapareccliiale di fore la armala grande: —
Da che lo Re udìe questo. Incontanente fue riDCorMa e
disse, io vegio che dio vole pur che cosi vada sia zio cfaeia
violi, foro zio che lu may delo. E cosi se partirò di la tsUt.
E venendo fuori gliamaio misser agardo e foceli mollo hooon
E messer Agardo lo saluto da la parte del palioloco. E diw
come aveva voluntade de luy veddere E di fore parentado e>-
luy e con sou legniayo. E presentato lor letre com'era ordi-
nato di fore e tenero miillo consìglo sopra al foto come do-
vessero andare E cominzìare la armata di y legni: —
Istiando in sieme messer lo Re di ragona E messer GìmL
E messer .Agardo in quello auiio zioe en n. ce. Isxijj. (1^
venne loro uno messo e conto loro si com era giamato pofes
un cardinale cliavìa nome messer symone de torso d
Il sou uome papale era Martino papa terzo (3).
Vttl
— .-MìS —
papa francLscho mollo ite pssere amico de Kc rjirlo. E po-
rcile essere (rapo isconzo al falò. Allora disse messer lo He
ragona. inesser Oianì pensate zio ke da pensare al falò. E
messer Giani disse lo malìore amico kavesse lo Re cario si e
questo in ciirte. ma pei-o faremo Luto nostro aparegi lamento e
vedremo quello che vora a fare e que vi pensaremo ijnello
che si convera a) fato: —
(i) Dicie che del niesu de febraro vene a lo Re cario in
igla UDO messo e contoglì siciime messer Pero de ragoiia
facieva grande armata io mare, e no si potè sapere come, ne
lOD perche la faciesse. ne a cny a dosso si era cielato. (Juando
lo Re cario udie questo maraviglossi. E disse iti questo modo
chio vi dico per apresso. Et egli sen andò a Roma al papa: —
« Al grande et al alto karissimo mio nepote philip[>o Re
Carlo He salute. Faciovi a sapere chio oe mesagio el i^uale
ci contio si come messer Pero di mgona fae armata di mare.
E lon perche no si sa. Uade vi mandiamo pregando che de-
biali mandare messagi ke sapiano in luto perkeglì la fa. Eia
cuj egli vuole ire a dosso, dia! postulo lo voglamo sapere ■ .
Quando lo He di Francia udìo questo maraviglossi molta
(2) E mando del messe de aprile uno ambaìsatore di Franzìa a
(1) Da (|u) sino ali» parolo: ■ E mando del mefc di oprile uno
wLiiuton' di Fniiizta a ui^ssei' lo n; da ra|;ona > inanr.a nolln L^t'Et^mla
e mtto rpesto Iratin iniportiinlJsxinio, clic non si tia nemmeno
d tetto siciliano; il quale dopo le parole di Gioranni al rp Piciro, se-
« E slaodu ioseiubli intisiru supra l' accumin sa menta di la armata si
tSa nani lu misi di Aprile. Di chi iuosi una ambaxalori di lu re di
franta r fu doranti lu Re d'Aragona ».
Nella iioTclla di Ser Giavanni Fiorentino non si legge neppure lo
letlorn di Carlo n Filippo di Francia, ma in contonnìiii alla Leggenda
nUfqta mand.-L ambasciadorì al re di Aragona per fama del tuo appo-
reeAiammio.
rt) Qui ricomincia sì la Leggenda e si il lesto siciliano. E manca
fan di Ulto intero iiuesto passo il Cod. Spinelli, nd quale co^i si
' legge: < et sianda insemlili inlisiru sopra lu accomcn samen lu dilarmnia
[lisi di aprìlL Dìki yunsi imbaxaiuri di lu Re di Franta
m(>»u>r lo rte fla ragotia e disse: Messer lo Re di Pmuiaper
lonore n pei' lamore cliel vi portii sencieodo ke voi fite ir-
inaUt di legni per andare sopra a saracini. vi si proTera aver
e persona a tato vostro comando. E pregavi per sou amore ke
deliialc per letra o per messo signillcare vostro passagio (t
io quale parie sera, e sopra a quali saracini. E se bisogu
luoncta. ke Torse vene bisogna, ka volentieri vece presiera
quanta bisogna: —
Allora disse lo Re da ragona: Dizie a misser lo Re di fma.
ke fazioj multe grafie de la gran proferta kezi ma fata n b
mia bisogna. Azio di ame non convenc parlare per leten ke
già fue mio cognato, parlaro a voj messer Cavaìere e dite il
Re de Traiiza da la mia parte, che vera cosa e chio debio n-
(lare sopra saracini. may io non direo ove. ne a cuy per nub
cagione, ma io credo che tosto lo sapra bito il moòdo. ongii
andare. Delle proferte soe a me no bisogna altro ke umobIl
EVegetello da la mia parte, che mi debia prestare de la sn
moneta XL." libri de tornesi per fornire me e mia gatte, sibij
piacie: —
l'artìssi lo cavaliere dal Re di ragona. et andooe in fta-
zia. e conto tuta questa ambaisata a lo He di Dranzia. Elio Be
ili fruncia comaiidoc iiicoiilaiienle che gli denari fossero apor-
tati in aragona a lo Re daragona. E furono XL." libri di ttr-
nesi (l). Et incontanente comando a questo ambaìs^ore mt-
ilesimo che cnvelrasse incontanente a He cario in pugla per
contare le novelle chavea dal Re daragona Come avea
rli.induvu sopra a saracìiii con graiide isforzo. ma n
^
— -MI —
quando vìilc qiiest.i amliaisai.i (1) miirnviglo» mitilo.
Allon disse lo He cario. Mandategli dicendo chegli voe sopra
a saraeini che li darcle aiuto grande. E se va sopra a cri-
stiani comandategli suto pena de la lera (2) ke no vada in parie
di dare danno a rieuiio fidele de la chiessa di roma. Quando
il papa aodie questo Incontanente mando per Trate lacobo de
lordine di y Irati predicatori. E disse chaconciasse sou biso-
gno per andai'e n lo He di ragooa. E digli cheu intendo che-
degli fae grande armata di mare per andare sopra a saraeini.
Che se va. vada da la parte di deo kegli dora gi-ande bene
forc. E se bisogna ainto dijioj che volnnl^^ira giele d.iremo. E
pregallo da la nostra parte che li dica in qua! parte e va. e
se va in terra de barbari o del Re di granata (3). kc al po-
Btuto lo voglamo sapere. (^Iic la soa andata dola tropo la gtessa
ei) honore e en danagio sou. E comanda solo pena dì perdere
la lera quanto da noj. che no vada sopra alcuno chrìstiano per
guerra fare. E di questo reclia risposta cierla: —
Il frate Jacopo col sou compagno e via andau in nragona.
E riie aporlato inanzo a lo He di ragona. e niostrogli tuia la
ambagisata kel [lapa martino gli mandava. Alora dicìo kel
mostra a incs.ser Giani di procila. E tenne cdIii> di zio coii-
seglo. t!t in ipiello giorno feciero la risposta al deto frate Ia-
copo. E dise io questo modo. Direte al nostro signore papa
martino che come nosti'o padre lo rengraciamo luy di tanta
buona proferta quanta ci mostra. E diretegli quando sera bi-
Mgno lo sou adiuto Tarolao rìnchiedere. sicome nostro padre.
Ma ditegli k.e del voler sapei-e quando nostra andata Ila. o a
(1) Pare die (|iil mancbj iV Papa, a cui Carlo raccania l'ainlM'
a del Re ili Pranciu'. n£ pollava meravigliarsi Carlt> die già sapvn
della cosa.
|S) Qw:, sotto pena di perdere il suo regno. La Leggenda, il lesta
iteiliano e il coti. Spinelli leggono: t sotto pena della terra che (iene
da voi >.
(3) Qui la Leggenda ha: « «e va in (erra di Tartari o di Bnrharì o
di Gnnata > ma il ti>$lo sidliano col cod. Spindli: t chi vi dica undi
. n in Urm di Kpilln o in DarlM'ria, n punì in firanata.
— 368 —
cuy a dosso quello no può sapere messer per veruno nnodo ke
sia. E dilegli se eu una mano il dicìese ^1 altra la muzarebe.
Pero ditegli ke mi perdoni a questa volta chessere no puote
altro. Ma sa deo piazie. eo credo andare in parte che messer
lo papa navra multa leticia e gaudio. Questo gli dite da la mia
parte. E pregovene per dio: —
Il frate Jacopo quando odio questo fue partito da Re di
ragona e venne in corte al papa et uno giorno venne a ridire
la ambagissata al papa che vi era presente lo Re cario. Elio
frate disse a messer lo papa quello che lo Re di ragona avea
risposto. E quando lodirono maraviglosi molto. Elio Re cario
disse Istia dixemo beni ke quello di ragona e uno barone.
(Mite bella risposta ka fata (1). ma fazia con dio zio ke fa
segli a buna fede daquestare sopra a saracini deveretene es-
sere alegro voi e tuta la chiessa de roma; —
Poi se partio il deto messer Giani da procita da lo Re
di ragoua. E disse io vo in Cicilia ad ordinare come la terra
se rebelli in questo anno da Re karlo. E foe partito da lo re
di ragona e disse a messere agardo latino ambaisadore del pa-
lioloco ka conciasse suo bisogno per andare co liig in Cicilia.
E presser comiato de mese de genaio en. M. CC. LXXXij. E
E giunse in trapalli. E mando per messere palmere abate, e
per messere aliamo di tentino, e per messere Gualtero de ca-
latagirone. che dovessero venire a parlamentare co luy e con
gli altri sacreti de lisola. In quel tempo venero tuti in trapoli.
E messer Giani cominzio a dire Bey sepori e buoni amici,
bone novelle vaporto dil nostro novello segnore. Come a fata
la più bella armata. Ke may fosse in mare, e de le megiori
genti Et ae fato amiraglo lo mìglore e lo più francho homo
ke sia et e nostro latino. Et a nome messer rugieri di loria
de caivra lo quale e istato Io più guerriero homo ke sia. e
quello ka più in odio li francieschi per la morte de lo son
(i) La Leggenda: « Dissìvi bene che'l re di Raona era un bric-
cone : udite bella risposta e ha fatta ! » Il testo siciliano : e Santa Pa-
dri, ben vi dissi veru eu chi re di Aragona è gran filluni: anditi bella
risposta chi ha fattu! > Il cod. Spinelli sopra ìe^ge folluni qui fulluni.
I
spia
1 •hii
— 36a —
si pensale ke la tcn sia tolui i
qualuDClie ragione ku si piiole. E may no Toc più belo Taic
clie ora (juando io Re cario e acorte del papa, el prenze e in
prolieitza. ami che sen tomi sera longo lempo passalo, e po-
leie meglo fornire vostre terre per liscia. Come piache a mes-
ser Giani fue fato et ordinato di Tare che al più tosto ke si
puole sia tolta la lera: —
Venne il tempo del mese di marzo i) secondo die dala
pasqua de resoreso {I). Et era in paleimo messer Giani, e
messcr palmeii e messe alamo. e messer Gualtieri e tuli gli
(1) Il IcMo siciliano: * IDrcii chi Tu vinulu In misi di Ai>rilì l' nnriti ili
li milti ducpnlo ottanl^diii, lu marikl) di tu Pas(|UR di la Rcsiirreclioni ».
La Leggenda ba pure il tnese di marut. cosi coiiic questo lesto: ma
in aoia io diedi ragiouc a pag. 153 delle Cronache cÌL perche inTcce
dì nurao li leslo siciliano dica Aprili. Il inarlcdì di Pasqua in qu<>ìl'anDo
1S82 cadde nel 3t mano, e perù lo scrittore siciliano segui l'orario
della ChicEa pel quale i Vespri aprono la solennità del giorno vegnente,
quando già entrava l'aprite. Cosi pure come Ìl lesto siciliano, il cod.
Spinellì, e. 19-20; « Eccu ki (n muta lu misi di apprìli lannn dili mìlli
•dui cbenlu oclanta dui In Marti dij dita poscua dila ncsurroccionì eccu
misMT palmeri nbali e misser alaimu diliniini ei misser galleridiCn-
itBgirani et tacti li altri barunì di sichilia lutti accordati ad un rolirì p
discreta consigla rìnira inpalerma p fari la rìbellacìoni dundi in
1 iomu p diclu si soli Tari una gran testa fora di la chiiaii di pa-
hmiu in uuu lovu lu qaali si cliama sanctu spirila Dundi una fraocliiscu
H |frì» una Gmniina loccandula cum li manu disonesiamenli coma ia
eranu niati di Tari Diki la Timinina gridau el liomini di palcmiu cursìru
in quiUa tìiuminu ci riprisuiisi in briga ni in quilla briga intisira qaisli
baruni prcdicli et incaltani la briga contra li tranchiskì et livani a ri-
■nurì et Ioni ali armi li D^nchiski cum li palermitani et li liomìnì ani-
muri di|>etri e di anni gridandu luoranii li francbiski et inlraru intra la
chitati cuui grandi rimurt el fora p li pia;! et quanti fnincliiscki troia-
nnu luci! li auchklianu >. Ma qui è da noiare che in calce di questa
Cronica sì leggono in rosso, e di caraiierc stesso di tutto il Codice,
due note, l'una delle Iquali t- questa: < A li millixclunij anni die
martj decime Ind, foru morti li francliischi in palennu ci p lucia si-
cliilia >.
— 3C8 —
ruy .1 dosso quello no può sapere messer per veruno modo ke
sia. E ililcgU se eu una mano il diciese ^1 altra U mmanbe.
l'ero ditegli ke mi perdoni a questa volta ctiessere do puott
altro. Ma sa deo piazie. eo credo andare in parte che mma
lo papa navra multa leiicia e gaudio. Questo 0i dite da la bi
parte. E pregovene per dio: —
li frate Jacopo quando odio questo fue partilo da Re <
rafrona e venne in corte al papa et uno giorno venne a rìdirc
ta anibafnssala al pa)M che vi era presente lo Re cario. Eli
frale disse a messer lo papa quello che lo Re di ragon ira
risposto. E quamlo lodirooo maraviglosi mollo. Elio Re aito
disse Istia ilixcmo beni ke quello di ragona e uno toone.
Odite l)ella risposta ka fata (1). ma fazia con dio zio ke b
seglì a Ijuna fale daquestare sopra a saracini deveretene a- .
sere alegro voi e luta la chicssa ile roma: — '
Poi se pnrtio il deto messer Giani da procita da lo Bl
dì ragoua. E disse io vo in Cicilia ad ordinare come la ton
sfi rebelli in iiuesto anno da Ke fenrlo. E fw pnnito fla te n_
di ragona e disse a messere agardo latino ambaisadore delf
tioloco ka conciasse suo bisogno per andare co liy in
E presser comialo de mese de gcnaio en. il. CC. LI)
E giunse in trapalli. E mando per messere palmere a
per messere aliamo di lenlino. e per messere Gualteroded
latagirane. che dovessero venire a parlamentare co luy e
i^li altri sacreti de liscia. In quel lempo venero tuli il
E messer Giani comìnKio a dire Bey segnorì e buoni i
bone nove!
I
— 371 —
Quando li deli t>uroui videro questo cosi andato ì) fato,
zinscliiuio aridoe in soa tera per la Cicilia, e Teciero il sonii-
gleale. salvo che messìDii peno vn poclio più per fare pe-
gio (1). E bene fuorono morti in iiuesto modo infino a quatro
miiia: —
Lutando in quello tempo in corte di Roma lo Re curio,
venelli uno messo da parte Ui larciveskevo di moreale, E dis-
sero si come cicdìa erano quasi rebellaia Iuta. E conto si come
erano morii soj franciesclii lon perche noi sapeva. Or vi con-
siglale quello che sia il meglo dì voj: —
Quando lo Re cario iidio questo fne multo crudoso. et
inconieneute andoe .il papa. E dise. padre santo malie novelle
vaporto de me. ke la tera de Cicilia me e l'ebellata. E morta
luta la mia gente, e lor perche noi soe. Pero piaciave di con-
siliglami e dajularmi di tuto quello ke mi sia bisogna perke
far io dovete voj e luti vostri frati (2) e con tuta la chiesa
di roma. El papa disse llglolo nostro no temere niente, che
luto laglolo el conseglo che voray E che sìe mestieri luto !o
ti laramo. va en lo regno e fa tua armata. E passa di la e ra-
questa ìKT concio e per piace che puoj. E mena con lecho
uno nostro legalo e nostre letiv. E da nostra parte dìray a ci-
ciliani che li Rendano la tera la quale tignamo nostra yspì-
ciale camera, allora se partio. lo Re cario, et aduno consiglo
de tuli y chìeressi e cardinali et altri prelati e pregogli per
dio chel devesseixi consiglare de le sue besogne. E conio loro
sì come Cicilia era rebellata e come aveva perduta la soa gen-
ie. Allora si levo messer Jacopo salvello e disse. Messer lo Re.
Alla chiese di roma piazìe ke voj sciate adiutato e consìglato.
per ke lo debiamo fare per tute Ragioni. Ke tropo amesso en
ìonore de la sancta chiesa di roma, e de suoi frali (3). Et io
(I) Il («sio siciliuno ha itolaiiiciitr t Salvu Mi>siria, ctii aililiiiian-
dau un certu icmpu ».
li) hHendi i Cardinali.
(3) Oui il tcsio siciliano legge; t irti|i[H] .iviii misa ail oiiiiri lu
Clcsia 'li Itunw <■ li sei latti •. yueslo/'fdd' iw Cuiilinali, loiiu' sopra.
k
— 372 —
pcrzio per me voglo ke vadi in Cicilia e meoi eoo tedio uno
legato cardinale. Che Luti y prociessi che si possano dare e fare
9,1 ke se raqiicsti la terra per via de pacie per voler guen. E
cossi per questo tenore dissero tuli glnltri. E questo fermaro
e tomaro al papa. E dissero i|uel]o chavean ordinato di fiffe
et al papa piace. Et amantenenle chomando a messer Girardo
da parma cardinale cha conciasse sou bisogno per andare in à-
cilia in servizio de la ciiiessa di roma e de lo Re cario. E
cossi foe fallo al so comandamento: —
Allora lo Re cario tolsoi messagi asay. E mandogU pir
Iute parti. Al He iti Francia et al prenze sou figliolo sì come
Cicilia era rebcllala da luj et erano luti morti li soj fraDÒe-
schi. cagione per ke noi sa|)eva. ctie per dio lo dovesse lo Re
di Fninzia consiglare et ainlare li^ in qnesto fato. Et al preme
che incontanente devese venire in piigla con quanto ìslÒRO
potesse e die pregasse luti li baioni di francia ke debiano ve-
nire in pugl.1 per lo soii amore. Allora quando lo Re di ftan-
cia udio (|uesto. Tue multo crucioso. e gito multi sos[Hrì. E
dise al prenze. fiMlello mio. lìrande paura oe che questo fUo
no sia fato a petilione di lo Re di ragona. Ke do mi vele dire
ne perche ne dove andava: —
Quando li prestai XL.™ libre ile tomesi tropo mene parve
male, ma si zio e. no poni io (urona. sìo no nel Ib pentire st
questo tradimenlo a falò alla cliie.ssa di roma et a la casa dì
francia. Et incontanente disse al prenze ke cavalcasse in pogb
et al conto artcsc et a quello di lancone de piemartino [l] et
— 373 —
fue mosso di branditia con oste di mare in fino a regio di ca-
lavra con luto sou isforzo. cavalieri e baroni francieschi e pro-
vinzale e lombardi e toscani e di tei*a romana e furono pas-
sati a messina. E quando fue di la puosse sul campo a sancta
maria di rocha maiora (1). Et era co luj el legato: —
Quando gli missinesi videro questo fuorono ispaventati si
come homeni che dovevano recevere morte, che bene la ave-
vano per servita (2i. Incontanente mandoe ambasiatore a Re
cario et al legato ke devesero venire per la tera si come le-
gipiimo segnore. pregando di misericordia di loro. E fusse lo
Re andato en la tera avevalla al so comandamento. Ma no
volse. E mandoli diffidando sicome traditori di soa corona chel
no volle loro prometere mercede, ma morte di loro, e di loro
figloli. Ke talle offensa aveano fatta. E tal peccato alla chiessa
di roma et alla cassa di franza che may non averano miseri-
cordia ma di morte. E de zio sou tuti dìgni. e ke tornasero
in loro tera. e defendeseno loro tera. E may no li venisero
più inanzì per neuno patto fare. E con questo si se partirono
da luy. e tornaronsi in messina. E contaro loro questa amba-
siata. Allora veddendo questo queli de messina Zioe questo
fato Li messinesi eboro paura di morte. E stetero iiij giorni
in questa conditione o davere misericordia o di perire: —
(1) Non Sancla Maria di rocha maiora, o Sancta Maria di
Rocca Majore siccome ha la Leggenda, e trascrissero il Malespini e il
Villani; bensì deve dire Santa Maria di Rocca amaturi, che è pro-
prio il nome del luogo, e come appunto si legge nel testo siciliano. Il
cod. Spinelli: e et misi campu undi sancta maria di rocca amaduri », se-
condo la pronunzia del sec. Xlli e XIV.
(2) Questo e che bene la avevano per servita > nella Leggenda è
solamente e che ben l'avevano servita > e il Cappelli annotò: servita,
meritata. Il testo siciliano dice: e hapf^iru gran paura, comu homini
li quali havianu servutu di ricipirì morti »; né potrebbe intendersi che,
come uomini che erano stati sudditi, e ora rubelli, si che erano in pena
di morte. Ma sta pure servita per meritata. 11 cod. Spinelli legge come
il testo siciliano : e appiru gran paura comu homini li quali aviaou ser-
TUtu di richipìri morti» .
2i
— 374 —
Et uno giorno venne el conte de monforte e quello di
brenna con cavalieri e con pedoni verso una terra cha nome
melazo. ardendo e vastando la terra usirono fuori credendo de-
fendere. E franceschi veddendo gli ussioro per forza loro a
dosso. E sconOssoro entra messinesi e de quelli de melazzo
bene octecento. Quando torno la novella a messina tenessi tuti
morti. E mandarono per lo legato ke devesse venire en la tera
per aconciarli colo Re cario, si che avessero logo en quelle
cosse. Elio legatto entro in messina e presento letre del papa
al comune di messina. E fi legero il processo che la chiessa
avea fato contra a loro, se per via di mercede non volessero
dare loro la tera portando lieltade sicome a legiptimo segnore.
E dissero le letre in questo modo chio vi dico qui apresso: —
c( Ay perfldi crudeli (1) di lisola di Cicilia Martino papa
terzo, de quelle salute che sete digni salute. Sicome corum-
pitorì de pacie e di xrìstianitate. Et ulciditori e spanditori di
sangue di nostri fedeli, noj comandiamo che vedute le nostre
letre dibiate Rendere la tera a nostro campione, zioe messer
karlo di gerùsalem e di Cicilia Re per lautoritade di sancta
(i) Gos) pure la Leggenda: Perfidi crudeli dell* isola di Cicilia ». Ma
più correttamente il testo siciliano: « Ài perfidi Judei della isola di Si-
cilia >. Questo Judei, parola che è ben ?iva in Sicilia per dire uomo
crudele, senza pietà, risponde bene alla risposta data per tre volte dal
papa ai legati siciliani che supplicavano con ripetere tre volte il mise-
rere rvohis , cioè: Ave reo? ludeorum, et dabant ei alapam, -^ Ave
ecc. et dabant — Ave ecc. et dabant ecc. Il cod. Spinelli ha: e A li
perfidi Judei allisula di sichilia ». In questa lettera di papa Martino dove
nel testo siciliano pubblicato si legge per Vautoritati, il cod che servi
air edizione del Di Gregorio e alla nostra del volume delle Cronache
Siciliane, ha pri l' aniichitati. Ma il Di Gregorio aveva corretto per
V autorilati , ed io ne accettava la correzione, che fu confermata dalla
Leggenda modenese, siccome lo è da questo testo Vaticano. Intanto è
da notare che anche il cod. Spinelli legge p lantiquitati , dando cosi a^
gomento che sovr' esso fosse stato esemplato la prima volta il cod. della
Biblioteca Comunale di Palermo, già trascritto dal Carrera nel sec. XVII,
sopra Codice antico in Messina. E questo sospetto si era da noi annun-
ziato sin dal 1865 a p. X delle Cronache cit.
— 375 —
chiessa di roma. Pero debiate voy a luj obedire come vostro
legiptimo segnore. E se zio no facieste anunciovi iscomunica-
Uone. et interdeti secondo luso de la divina ragione. Ànun-
ciandovi giuslicia In spirituale e temporale »: —
Quando il comune di messina videro questo. Il popolo fue
ispaurìto. E fuorono chiamati XXX homeni dil popolo de mes-
sina che devessero trovare concio co lo legato e co lo Re cario.
E quando fuorono multo istate sopra a zio domandogli illegato
ke pati vollesero. E quelli dissero che voleano cotalli patti
dal Re ke noj si gli darremo la tera. E pagerebo al fòdro
delo Re Guielmo (2). E voglamo segnorìa da luy. la quale sia
latina e no franciescha ne provenzalle. E volemo che perdoni
lofessa che li nostri fecioro a suoj cavaglieri. Se questo fa noj
istaremo buoni et fideli: —
Elio legato quando udio questo, dissero (3). Mandaremo
en el campo a Re cario. E vederemo la voluntade soa. E sa
dio piace noj faremo bene e meteremo in acordo il fato et in
pacie. Et incontanente tolse ilegato il camerlengo soa. E man-
dolo A Re cario, con questo mandato: —
Da parte di dio lo dovesse pigiare. E perdonare loro per-
che dio perdonasse luj : (4) —
Allora quando lo Re cario udie questo fue adirato. E que-
sta fue la sua risposta: —
Quegli che sono digne di morte et domandano pati. E
volonomi toglere la signoria. E volono kio tegna luso delo Re
(2) Fodro qui vale i tributi che si pagavano sotto il regno di re
Guglielmo li. Il testo siciliano ha: e e pagbirimu in quìllu modu comu
pagavamu anticamenti in lu tempu dì lu re Guglielmu >. E questo tempu
di iu re Guglielmo è restato nelle tradizioni del popolo siciliano come
tempo dì grande prosperità pubblica e privata.
(3) Correttamente diste. La Leggenda ha : e 11 Legalo udio questo ,
disse >: manca del quando, necessario al costrutto.
(4) Meglio il testo siciliano: e et incontanenti lu Legatu mandau
onu Camerlingu a lu Re Garlu cu tutti quistì patti, scrittu ancora da
parti di lu Legatu chi li duvissi placiri di parti di Deu chi duvissi prin-
dirsi quistì patti, e perdunarili, a tali chi Deu perduna.^i ad isso ».
— 376 —
Giiielnio. che iiooaveva quasi de reDdita del paese (1). none
far»! niente. Ma da che al legato piace eo perdonaro la mone
salvo che m* voglo dì loi^ viij. e. a poter fare di loro al mìo co-
man-lo *2 . E tenendo sejniorìa <le mee. quela che me piade
si come libero se;:nore. |kai;ando cotte e dogane, ste come
usato (3l. So •|iie$io vollono fare facialo E se no dt^eodassise
possono elio Ix'iio Lissogna loro: —
11 oanitTlonv'o torno in luessina con questa ambasiata. E
qu'tndo li XX.X. ili niessìna udirono questo furono diaanli a luto
il pcipollo. K dìsscno Come l-> Re cario aveva mandato diccnda
E qucfili dissero. Ojni vollonio manucharl Inno laltro. et aoii
votlemo morire in tra li nostri fintoli, et in nostra tera che
morire per lo mondo et in prigioni degli nostri inimici (4). E
(Il (1 ii'<tt> >ì<-ilt:i[;o dice: • l'Ili noD tiaiìa Df>mi lem « lu so ptià,
ne Di\ìuia ri'iiiiii.i t. Ma •|ii<>l-> .<' Ji'Tn-libe riniuoterù: né poi rìspoo-
deretdie il dii!» di r<- l'.uil) a^li .<:aiuii dv>' tempi Dormanni, né quali fii
5l eldk' il -k tir, ■■ d'I |>rì:.ci|i' eli.' (a appaiina^irio di-Ila famiglia ti-
pa, e i-i-n is-r- la !"j . i-3 .'i : iv; i^. vi<W li-oi che reodeTaiw alb
regina, niu^i doli- >'.;ì;m S;j!<'.
1^1 11 li-^to >ìi-ilijri^ non lu <]'ir^U domanda di Tilt cento daficAi,
come pur d'iv la l.iv^-nJj. Il ci-l. Spiiu-Ui non ba piti cbequc»lo:<ei
alloni piTlUfTiii lj Olili sjìtn <hi «a lo^lu cbi ip^i sLiyann animni pò-
tiri elbri dilani tneti Ha rohati >. "Svù à parla nemmuio di «uiidu
(3) Nd l«slo tidBaB» e nel «d. SfindE, à ha: « pagacdu culli f
dtoaada Mcanin ttà msna >. la aoa a qMsto passo noi pn'punrtanw
di kstcn eoli, gi»li, iB«Mr et eMi (caikue), a n^ione Mìe nò
— 377 —
questo risposeno al legato. E quando lo legato udio questo fue
multo crucioso e disse loro. Da che non volete fare zio a Re
cario. Et io vi denuntio iscomunicati. et interdeti de la sancta
chiessa e di messer lo papa di roma. E comando a tuti que-
gli al terzo die siano fuore de la tera. E rinchiesse il comune
di messina che dovesse di qui a XL. giorni conparire dinanzi
a messer lo papa ad audire sentenza soto pena de la tera che
teneano da la chiexa di roma (1). E usirono de la tera: —
Quando lo Re cario udie lo legato fuori de la tera sua
consiglosi colgli soj baroni quello che dovessero fare. E li ba-
roni lo consiglaro che gli devesse destruere la tera per ba-
iaygla e per dificij (2). si chelli avesse la tera per forza, da
che per pacie no si puotue avere. Allora lo Re cario udendo
questo, disse (3). jo no voglo guastare mia tera ne ocidere li
fautini che no vi ano colpa. Ma jo voglo assecare di vivanda
si poso (4). Et averemo la villa al nostro comando. E faro
certi mangani per gitali: e per ispaurali (5). E cossi fue fato.
(1) Con queste parole si vuol far intendere che il Comune di Mes-
sina esercitasse de' diritti, de' quali riconosceva T investitura dalla Chiesa
di Roma: e ciò a ragione che la Sicilia, o sia il Regno tutto, si teneva
dalla Corte romana come suo feudo. 11 testo siciliano col cod. Spinelli
ha pure la stessa condizione o pena.
(2) La Leggenda: e lo consigliarono che dovesse ristrengere la terra
per battaglia o per dificii per gìttare, sicch'egli avesse la terra per forza
ecc. >. Questi dipeli sarebbero macchine guerresche da assedio e da
guastare con projettili la città : il testo siciliano col cod. Spinelli ha so-
lamente: eli consigliaru ch'issu divissi slringeri la terra per battaglia»;
e l'aggiunta della Leggenda per gillari mi pare invero soverchia.
(3) Qui il testo siciliano e cod. Spinelli hanno di più che questo te-
sto e la Leggenda: e e lu re Carlo stetti a quillu consigliu un joniu
et una notti; e poi la matina vinendu mandau per li soi Baroni e dissi: >
(4) Questo asseccare di vivanda risponde all'uso che si la in Si-
cilia del verbo assicari di una cosa per dire non lasciar niente di una
cosa, portare alcuno al secco di danaro o di altro.
(5) Il testo siciliano ha : « ingegni et islrumenti per spagnarìli » e
sono i dificii di sopra. Il cod. Spinelli più correttamente legge ingegni
et instringimenti p spagnarili ad adveniri a nostra intencioni.
— 378 —
Et uno giorno voleano ilare una balagla alla tera. e
fecciorono colgli famigle e con fanciolì uno muro a la tera in
tomo dal lato dui liosle (1). E cominziaro a deffendere. E ààar
inarono loro Capitano E lor difTenditore. E stetero in questo
islato bene due messi: —
In quello tempo venne die lo Re de Ragona e mosso di
catalopa. E fccie vista dandare in tunessi. E capitoe ad una
tera dia nome ancelle. E degli una bataygla e demorogli XV.
giorni. In quel tempo del messe dagusto Messer Giani da pro-
cita. CI glaltri baroni ambasiadorì di Cicilia andorono per mare
al Re di Ragona che devesse venire. E glambasiadorì fuorono.
Messer Giani da procita e messer Guiglo dì messìna. E due
altri sindicLì de lisola. e gionsero ad ancolle dinand a lo Re
di ragona. Et sigli fecie loro honore asay. Et inconteoente lo
Re diedi mano a messer Giani e disse che novelle ci ae. che
lo Re cario he ad hoste a messina con multa gente. Et ae in-
volata la fera, che e da fare. Ora li consigla, messer Giani
disse, no dubilai'e di niente veray in sula tera. E manderay a
dire a Re cario che tisgombri la tera la qualla li coociedete
il papa nicola. che di ragione di tua mogliere. E questo e
ambasiadore di messina. udìray quello che vora dire E li
sindichi; —
Allora si levo lamhasiadore di mesana. E disse, messer
lo Re di ragona. molto vi desidera gli vostri Gdeli di messina.
che vegnate a la tera. e che faciale levare lo Re cario loro
da dosso. Che altro secorso no nateodono che lo vostro. Pia-
zavi dizio fare per dio. E seno voleste venire a loro securso
— 379 —
Ghey farebero lo comandamento de la ehiexa e de lo Re cario.
E quando questi ebe cossi detto gli altri sindichi dissero lo
somigliente: —
Allora si levo lo Re di ragona e disse che voluntieri ve-
rebe en Pisola in aiuto di soj fideli. E chandassero e dices-
sero ziaschuno al sou comune, che la venuta sira de presente.
E ditte a messinesi che stiano franchamente chio sero tosto di la
en loro adiuto. E quando gli ambasiadore udirono questo, fu-
rono partiti dal Re. (1) venne. E muovosse dancolle fue aportato
in trapoli con messere palmeti abbati, e con gialtri baroni. E
messer Giani disse. Messer lo Re per dio cavalcha tosto in
Palermo, e fa andare lo navilio per mare. E quando seramo
in Palermo pensaremo del nostro meglo sa deo piace: —
Dicie che en MCClxxxij de messe dagosto. giunse in Pa-
lermo lo Re dì ragona. E feciesin palermo grande festa. E
grande gioia di loro sicome coloro che se credeano scampare
per luy da morte. E tuti glisi federo incontra inGno a sey
miglia daono lato (2). Cavalieri e tuta altra gente. E fue a
grido di popolo fato Re. Se non che larciveschevo di mo-
riate nogli volse dare la corona del reame. Anzi si fugio il
tempo di note in fìno a roma. E cossi non fue incoronato si
no di fatto di voluntade de la gente. Et uno giorno vennero
tuti li baroni di lisola al Re. E furono a grandissimo conse-
glo. E levossi messer palmeri abbate e disse: —
<c Messere lo Re di ragona bene venuto fato il pensiero no-
sto el tractato nostro per la boutade vostra. E per quella di
misser Giani di procita. Dio il vogla che sia di tuto bono com-
pimento. Ma ben vorei che fusse venuto con più gente che no
siete, che sello Re cario viene per lisola di Cicilia Egla bene
(1) Qui manca, come è nella Leggenda: e E lo re venne >.
(2) La Leggenda più correttamente: e E tutti se gli fecero incon-
tro, donne e cavalieri e tutta gente >. Il testo siciliano ha: € luascon-
tram ben sei miglia cu grandi gazara di donni, e di dunzelli, homini e
fimini. Conti, e Baroni e Gavaleri ». Il cod. Spinelli ha più corretta-
mente: e lu ascuntraru ben sei migla cum grandi gazara donni e dun-
zelli, ecc. ».
!i ii'.iui:>i'- ii^aii- if-^i — i"~r>miiit. i 1»^ SII
•ni- .;à ',<-".a.i. ■■• —ì .«r-M li ■ '■.iniia i i nutìlu. ii i*
si'.itU'i ;'-,i^';**. .'ni-'ULiiiifii.- i-^-i ti laniTS ii ìwiia. w w?-
iiHtW "T-*! :nii*'nii- . l-iuii':!' ina v<h'. '-antt ma ìuhui
a iww.iia rr.^ m. i ini! iin.r -i -m i-'.r: I ^-irau^t rnntt ais-
ìint^f- ;ii.*:iin; vf ■■-ìtuui )-r •ii. iit! * m inr iiiie d*
■ •:iiu> .111" !■ iv.v i: ji- ;i^'*>^ i^rir^ ;i -«ci « ta &Sk-
*»;.>^ ■■. ':-.i:iiiiii:;i!iifnii', >. n ?.ì arJi. jun nm jmffif' «-
.'..■■.■T ■■. .-:* :: -iirna uitKiiiii nufsn fe2« acalar* ;
Mf -'.-■_; ^r- j^ '^;ir,kf.*'.iii*, - L:!rf iur^f ;«*r ini 'smfita ;«"
fjit-: i> ,ri-^-i > .1 ■,-»;■■■. Z :;ii«c: ;iir-i i lu Iii- nitpxiF dto
■JfM*. A ff.-* V; ;**i '.:.-t i: s: Vii :'fi* ■mi*ì» !»>i>. che
\', li'-. inTi'i u<. r. :.-'.-vjj -'rA 'li* ì"» nieU ■ *'. M» tim»
(,M li f* '^.'ii 4\A U.'.:3 ff-.:>:: « :i:::c-ji«t isubiii «n<m per
— 381 —
cosi; Noj mandaremo da parte di messer lo Re una letera allo
Re cario, che si come la lera di Sicilia fue data dal papa ni-
cola. che inconlenenle disgombri la tera. Se no si lo manda
difidando. Segli la lascia da cheto bene (1). se no mandaremo
lamiraglo nostro per mare in fino a messina. E piglara tute le
tere che rechano la vivanda a lo Re cario (2). Preselle tute,
convera che lo Re cario muoia di fame con tuta la sua gente.
E faremo di luy mayore vendeta che fuse may fata per home
del mundo. Ma segll disgombri la tera vedderemo che farà e
se viene ad altra tera di Sicilia: —
Quando lo Re e y baroni udirono questo furono tutti acor-
dati al deto di messer Giani. Et incontanente comando lo Re
a due cavalieri catalani chaconciassero loro bisogno, per an-
dare con letere e con ambasiata en el campo di lo Re cario
da la sua parte. E lune fue messer namico catalano (3). E
portarono una letera a lo Re cario in questo modo chio vi
diro per a presso: —
« Piero di ragona e di Cicilia Re. A Te cario Re di jeru-
salem e di prohenza conte. Signifìciiiamo a ti il nostro aveni-
mento. de lisola di Cicilia, sicome nostro judicalo che mee per
lautoritade di sancta chiessa di roma e di messer lo papa. E
di venerabili cardinali. Pero comandiamo a te che veduta que-
sta letera debiate levarvj de lisola di Cicilia con luto tou po-
dere e gente. Sapiendo se noi faciessi. chili nostri cavalieri e
fedeli vederesti di presente In vostro danagio ofendendo voi
e vostra gente » : —
Quando lo Re cario vidde questo fue a consiglo co li suoj
baroni. E quigli si maraviglarono multo. E gli baroni fran-
(1) Questo luogo potrebbe anche dire: < scegli la lascia da se,
sta bene > ma non ci par buona lezione quella della Leggenda: e e se
la lania, Dio con bene ».
(2) Invece di e pigliara tutte le tere che recano la vivanda a lo Re
Carlo > la Leggenda legge trite, navi onerarie, e il lesto siciliano col
cod. Spinelli, iiaviliu.
(3) Qui manca il nome dell' altro cavaliere che la Leggenda dice: e fue
mes. Guillelmo Catalano >. il namico nella Leggenda è Namigo Cata-
lano, e nel testo siciliano e nel cod. Spinelli, Misser Almingu.
_ _ 382 —
cieschi. quando udirono dire a lambasiadore di lo Re di ra-
gona e de la sua letera luto oltragio verso lo Re cario e suoj
cavalieri, levosse messer Guido de monforte e dise come zio
puote essere chuno signore de un piozolo podere potesse avere
si grande ardimento di tore la tera al magiore signore del
mondo : —
Istando jn questo li baroni fùorono a dire quello che pa-
resse loro del fato. Alla fine si levo lo conte di bretagna (1). E
disse, messer lo Re. Ame pare che voj respondiate a lo Re
di ragona per letera e per vostri messi si come vae fatto gran-
de tradimento. E comegli nolo devea fare. E come voj ne la-
bete servito (2). E come egli no lavea da la chiexa di roma
quello chegli dicieva. Anzi la allevato tractatamente di sou
tradimento (3) che incontanente diosgombri la tera. E di quello
cbavea fato e pensato egli ne sera bene recrehente (4) come
malvagio traditore huomo che may no si trova che uno se-
gnore andasse a dosso a laltro senza diffidare luno laltro. Ma
questo come malvagio traditore fecie buzie dandare sopra a
saracìni. Et ora e venuto contra li cristiani. E centra aUa chiessa
di roma. E questa e la mia voluntade chegli si mando per
letere. E per vostri messi. Allora tuti li baroni gridarono sia
fato. E lo Re ni stete tuto contento. E tolse una letera e diella
alambasiadore. E disse in questo modo chio vi diro per a-
presso: —
(1) Nel cod. della Bibliot. Comunale di Palermo, dal quale si trasse
il testo siciliano pubblicato, si legge 1u Conti di, e manca la parola
Brilagna, che fu supplita dal Di-Gregorio: e cosi pure nel cod. Spi-
nelli manca questa parola, e si ha solamente: e eppoi si livau la conti
di. » la quale lacuna conferma bene che Y antico originale è proprio questo
cod.Spinelli.
(2) Qui servito vale come sopra meritato. Il testo siciliano col cod.
Spinelli ha più chiaramente: e e zo nun duvia fari, chi Iure Carla non
lì avia fattu oltraiu ».
(3) Questo luogo un pò scorretto, si legge nella Leggenda: e anzi
lo s* ha pensato malvagiamente questo trattato » : e nel testo siciliano
e cod. Spinelli: e anzi Tavia fausamenti comu a tradituri ».
(4) La Leggenda: t e di quello eh* egli ha pensato e fatto e* ne
sarà ben ricreduto, siccome malvagio uomo e traditore ».
— 383 —
(c Karlo per lo dio gracia di gerusalem e di Cicilia Re prenze
di capua e dangio e di folcalcherìa e di prohenza conte. A te
piero di ragona e di valenza. Maraviglamoci di te come ardito
fusti (1) di salire e di venire in su lo reame di Cicilia giudicato
nostro per lautoritate di sancta giessa di roma. Perciò coman-
diamo a te che veduta questa letera debite partire de lo reame
di Cicilia si come malvagio traditore di sancta chiessa di roma-
E se cossi no faciessi Difidiamo voy si come nostro traditore
E di presente vederete in vostro danagio noj elli nostri cava-
lieri che volentieri disiderano voj veddere cum vostra gente: » —
Partissi lambassiadore da lo Re cario con letere e con
ambasiata. E presero ad andare verso palermo. E al Re di ra-
gona. E fuorono giunti. E presentarono loro letere. E quando
Io Re udiu questo fue a consiglo coli suoj baroni. E messer
Giani di procita si levo. E disse per dio manda lamiraglo per
mare a messina. E fa pigiare tuti jlegni da mestieri di lo Re
car|p (2) da chegli ta diffidato prochaza ancoymaj (3) Il fato
(1) Questo come ardito fosti si lesse da noi, contro il Di-Grego-
rio che lesse fusti usatu, e contro la lettera del cod. della Bibliot* Co-
munale palermitana che portava fusti usariti, cosi: fusti usanti. Questa
lezione è ora confermata dal cod. Spinelli: e comu tu fusti usanti di
inirari intni la ysula di sichilia >. 11 cod. suddetto della Bìbliot. Comunale
di Palermo legge appresso: e judicata nostra pri la utilitati di la de-
sia di Ruma », e il Di Gregorio aveva bene corretto, cosi come si ha
nel nostro testo pubblicato, e come fu confermato dalla Leggenda mo-
denese e ora da questo testo Vaticano, pri la autoritati: ma il cod.
Spinelli dà pure pri la utilitati di la ecclesia di Ruma, E nota che il cod.
della Comunale e questo Spinelli hanno tutti e due Ruma , non Roma,
siccome la Leggenda e questo testo Vaticano.
(2) La Leggenda ha pure e fa pigliare tutt* i legni da mistieri del
re Carlo » e il sig. Cappelli annota: « legni da mistieri, navi mercan-
tili da iraflìco, o per trasporto di vivande ». Il testo siciliano col cod.
Spinelli ha solamente: e comandatili chi prinda tutti li navili di lu re
Carlu ». E nota che il cod. legge al modo proprio del sec. XUI la mi-
raglia vostra, non lu Miragliu vostru, come leggemmo nel nostro
testo.
(3) Il cod. Spinelli legge: e misser alkirinu di amari ».
— 384 —
tau. E sigli fa lore lo navilio. E sigli remara di quae. E fallo
assichare di fame. E convera chegli sia morto con tuta sua
gente. Et averemo vinta la guera. E cossi fue fato effermo. Et
ordinato di fare. E mandorono per raesser Rugieri di loria
amiraglo. chandare dovesse a messina. E menare. Et ardere
luto lo navilio de lo Re cario : —
Questo sape una spia di messer arichioo di Mare amira-
glo (1) dilo Re cario. Incontanente fue a messer anellino. E disse
come la armata de lo Re de ragona venia verso lo fare di
messina. E devea cremare tuli y legni. E quando messere ari-
chino udie questo, fue a Re cario. E disse messer per dio
isbriga di passare in calavra. Saetia mia conto come Y amira-
glo di lo Re di ragona venia sopra il fare di messina per Cre-
mare lo navilio nostro. E segli ci viene io nono galee armate
per batagla. Anci eie legni da mistiere segli mi pigia sanza
riparo veruno, e tu rimaray di quae sanza vivanda. E conviene
che tu perischi con tuta la toa gente. E zio sera di qui a tri
giorni. Disbriga di passare di ioe per questa cagione. E per-
che il verno viene adesso ati. E tu non ay porto vernatoyo
oe jlegni tuoi istiano (2). E pero se tu tindugij li piagie Rom-
pirano y legni, linde per questa cagione ti conviene passare.
In tera ferma, si chelmercato ci vegna di nostra tera: —
Quando lo Re cario udie questo fue multo cruciosso. Et
in contanente fue a consiglo coli suoj baroni. Quando li baroni
udirò questo furono cruciossi. E dissero messer lo Re. Multo
Ci doglamo che no lasciaste pigiare messina per concio ne per
guera. Ora la voresti e no la puoy avere per neuna via. Multo
ne siamo cruciossi. ma no puote essere altro. Passiamo di lae.
essera zio che piaciera a deo. E cossi fue ordinato e fermo da
luti \ì baroni: —
Allora quando lo Re cario udio questo. Il stete dubioso
multo e disse fusse jstesso suspirando de or fossio morto, da
(1) La Leggenda: e procaccia oggimai il fatto tuo ».
(2) Cosi pure la Leggenda : e ti viene il verno in dosso , e tu non
hai porto vernatolo dove i legni steano >.
— 386 —
che tanta dìssaventura mincontra chi oe perduta la tera mia
no so perche E toglelami quegh che may no glele disservij (1).
E may noj glofessi. Multo mi doglo che no voli tore la tera
di messina. Ma da che va cosi passiamo di lae. E chi avrà
colpa di questo tradimento che me falò si sia morto. 0 cle-
rico 0 ladicho cliel sia. E cossi fue jstanciato e fermo dil mese
di setenbre a linxuta si levo in questo modo (2); —
Lo primo giorno passo la soa regina, lo sicondo die passo
Io Re con tuta la sua gente. E lassio di lae doi capitani, con
doa milia cavalieri E disse loro jstate diziae celati. E quando
quegli di messina usierano fuori per le robe date a la tera.
E irarette dentro a la tera. Et io tornerò a voj. Se fatto Ci
viene, cossi fue ordinato: —
Videndo questo quegli di messina fecero comandamento
che neuno iusisse de la tera. A pena de la vita. E cossi fue
fato. Quando y francieschi videro che quegli de la tera non
jusievano fuori. Aconciarono loro legni, e venne di fuori tuli.
E furono col Re E dissero la pensata nostra ci vene falita.
che quegli di messina non escono fuori. Allora lo Re cario
ftie adjrato più che in prima. E disse Istiamo a veddere di
loro E di lo Re di ragona: —
EUaltro giorno apresso, giunse lamiraglo de lo Re di ra-
gona per lo fare. Menando grant gioya e grant festa. E fuo-
rono alio navilio di lo Re cario. E presserò dicenove (3) tra
galee dil comune di pissa. venne E menolle a messina. E cossi
lo Re veddendo questo tenesi morto di dolore. E fecie sou
parlamento di qua da lo regno. E degli comiato a tufi quellgli
che no teneano tera da luy (4). E quando venne del messe
(1) Così il testo siciliano e il cod. Spinelli: e eu haiu pirdutu mia
terra, et hammila prisa horau, a cui ìammai eu non dispiacivi >.
(2) La Leggenda : e E air uscita del mese di settembre si levò da
Messina in questo modo >.
(3) II testo siciliano e il cod. Spinelli, hanno: e efforu prisi chincu
galei di lu Comuni di Pisa i.
(i) Cioè non erano suoi feudatarii, ma gente assoldata.
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— 387 —
IL CODICE SAN GIORGIO SPINELLI
ORA DELLA BIBLIOTECA NAZIONALE DI PALERMO
Presso il principe San Giorgio Spinelli di Napoli esi-
steva un Codice antico della Cronica del Vespro , del quale
aveva data notizia forse il primo, nel 1841, il Sig. Michele
Amari, neìV Appendice alla sua Storia della guerra del
Vespro Siciliano. « Il qual codice, avvisava l'Amari, per
l'ortografia e la forma de caratteri, con le lettere iniziali
azzurre o vermiglie e vestigia di dorature , appartiene senza
dubbio al secol XIV. Questo antico Ms. pervenuto allo
Spinelli forse da Messina, era del tutto ignoto in Sicilia
nel secol passato ; talmentechè Di-Gregorio pubblicò la Cro-
naca nella sua Biblioteca Aragonese sopra una copia del se-
colo XVII, con ortografia diversissima dal Ms. del San Gior-
gio , e con alcune varianti di maggiore importanza » . Ora,
questo Codice San Giorgio Spinelli fu testé acquistato dal
Ministero della Istruzione pubblica, e per le cure lodevo-
lissime deir Amari stesso venne dal Ministro mandato in
dono alla Biblioteca Nazionale di Palermo. Pertanto , giunti
quasi a metà di questa stampa, l'abbiamo potuto avere
sottocchio, si che oltre i riscontri colla Leggenda mode-
nese e col testo siciliano eh' era pubblicato , questo testo
Vaticano è stato pure riscontrato col Codice suddetto. I
quali riscontri poi ci sono giovati per rivedere la lezione
del testo siciliano edito sopra il Ms. della Biblioteca Co-
munale di Palermo, esemplato sopra altra copia che il
Carrera aveva tirata nel secolo XVII da un antico Mano-
scrìtto, il quale abbiamo conchiuso per molti argomenti
— 388 —
essere stato proprio questo Codice San Giorgio Spinelli,
specialmente se è vero che il Codice usci da Messina, dove
per appunto il Carrera faceva la sua copia.
La narrazione va divisa in brevi capi , senza rubri-
che, che cominciano con piccole iniziali a colore, del modo
stesso come nel Ms, della Comunale ; ed è da notare che
i luoghi più importanti sono segnali da linee, specialmente
quando occorre il nome di Johanni di prochita. Le varianti
che corrono tra questo Codice e il testo pubblicato sono
di poca 0 nessuna importanza, perocché nascono da scam-
bii di lettera o maniera grafica propria dell'antico scrit-
tore del secolo XIV e del moderno trascrittore del XVII :
il che è chiaro da' luoghi riferiti nelle note a questo testo
Vaticano. Il Codice è in 4'' piccolo, in carta bambagina
(non pergamena, siccome io dissi altrove, non avendolo
veduto da me stesso), e costa di carte 35 numerate da
una sola faccia: ha in rosso il titolo, e miniata, benché
non finanente, la prima lettera che é A. Le iniziali de'
capitoli sono a colore o rosso o azzurro; la lettera é ro-
tonda e della prima metà del secolo XIV. Non pare avere
avute indorature, tranne vedersi sparsi nella prima faccia
puntini in oro lasciati da qualche foglia di oro che fu
chiusa tra la guardia e la detta prima faccia, e si che
aderì alla carta qua e là un po' di polvere. Può dirsi il
Codice essere stato anticamente mal guardato, e però é
un po' guasto e sciupato, in rilegatura di pergamena assai
grossolana. In una carta di guardia posteriore ha l'im-
pronta di un suggello raddoppiato in secco, e sarà credo
della famiglia che ultima il possedeva, non avendo potuto
trovare quel blasone negli stemmi delle famiglie nobili si-
ciliane. I richiami a pie di pagina sono di altra mano e
di altro inchiostro che non il Codice, ma sempre più an-
tichi delle postille in margine, le quali scritte di minutis-
simo carattere in spagnuolo, sono del sec. XVII. Dopo
k
— aso —
r Amen the cbìade la Cronica , a pie dì e. 34*, se^ono
nella taccia retro in lettere rosse, e in carattere del tempo,
anzi della stessa mano che tutto il codice, queste due
note, cioè:
■ A li milli ce. lx\xij anui die marlj decime Ind. [oru
tDoni lì fraiicbisclu in p^lerniu et p tucla Sichilìa ».
■ A li milli e. Ixxxiiij fu ìncomensala la ecclesia mayiiri
di palermti chamaL-i scii m.' p lu archi epu galterj ».
L'ultima carta del codice ctie è la ^5' porta, infine.
dalle dae Tacco ana scrittura pur del tempo col Eilolo
Btasiì dt armi, la quale ci piace qui trascrivale con la
flessa graiia del Codice.
RLASO DI ARMI.
Omnt jalìnii in colurì e havuto p oru In armi nobilita In
petrarja topaclii In vesUmenli complimcnio In pianeti lu suli
In I anima Inlcllectu In virtù la fidi.
Omni hlancu in colurì e liavuto p argenta In armi ginli-
licza lu pelraria perii In vestimenti castitali In pianeti la luna
In lanimn la voltinLati In virtù cantati Omni russu incnluri e
e bavuui p goles lu armi ardimento In peirarìa rubinj In ve-
alligrìzza In alimenti focu In la calilali In saugu In
prudencia.
Oiddì bleuy in colurì e liavuto p aczolu In armi lìallati In
zafllrij In vestimenti humililali In alimenti lu ajru lu
la calilati colera In virlnU Justicia.
Onint virdi in colurì o liavuto e sinoble In armi Victoria
la petrarìa ysmiraldj In vestimenti spìrancia In alimenti 1 3ct[ua
In catiuti malinconia In virtuti fortilicza.
Onini nigru in colurì e itable lu armi llrmicza In peiraria
'fiìT'f»*' In vestimenti trìsticza In alimenti terra In calilaii
■evou In virtù temperancia.
Onni moratu e havutu p purpura In armi signoria In
prtrarìa amatisia lu vestimenti baraclarìa e veru chi la dieta
ttì
I e bavuui
^nmi pr
^^Hraria i
L.
— 390 —
purpura e coluri compostu hi la vera purpura e quilla sì vidi
alcuni di Spagna piglaudu di cada unu di Ij coiuij e quillu
culurandu divi portali si non qnilli su di casa reali in signi-
ficantia di la vestitura la qualu portau lu nostru redempturi
in la sua Immanità vistendu In armi pero non si chi duna prò-
prìu significatu pirkj e coluri compostu.
Armi si divinu faii vegitabili oy [sensibili per si extanti
oy per si non extanti, vegitabili comu su herbi : fiuri : arbori
sensibili animali inracionali per si extanti. Chitati Castelli turri
per si non extanti comu non si canuxi lu campu cum li armj.
Tucti li armi chi siano divinu essiri di quattro coluri et
dui mitalU di manyera chi mitallu non staya supra mitallu ne
coluri sopra coluri si no chi serìanu falsi e questi quattro coluri
si blasmanu goles aczolu soble esinoble (1) li dui mitali oru et
argentu lu muratu si consenti non per si ma comu coluri. divisi
guardari chi homu vivu non sia misu In armi per chi sarrianu
falsi ne tampocu mxunu animali si divi fari si non del suo co-
luri chi tali armi so impropri] ma non falsi.
La illusione di questa simboUca de' colorì e delle
imprese del secolo XIV ci condurrebbe a più che a una
semplice nota: e però ci basti, oltre la notizia del Codi-
ce, aver anche qui dato questa scrittura curiosissima e
pel contenuto e per talune voci che ci sono usate; la-
sciando ad altri occuparsene di proposito.
Palermo, 24 luglio 1870.
Vincenzo Di Giovanni
•
(1) Queste voci mancano al Vocabolarìo, dove si ha solamente V az-
zurrognolo che sarebbe questo aczo/u, e ì\ giallorino che risponderebbe
al jcdino (giallino) di sopra. E sarebbero pur da registrare le voci pe-
Ir aria , morato che mancano , e il diverso senso che qui hanno le voci
calitali, che non è la calidaii del Vocab. e blasmare che non è il
biasimare con voce antica. E avverti che jalino, per giallo, giallino,
è voce propria tuttora delle parti di Messina , donde si crede uscito que-
sto Cedicc.
'T'AJEòrElT^
«^«WWWIWMXx
ANCORA DELLA PAROLA GANDELLA
(V. alla pag. 447 anno %^ di questo periodico).
Poiché ho intrattenuto una volta i lettori del Pro-
pugnatore intorno a questo vocabolo, per dir loro che
esso dura ad essere vivo sulla bocca de' contadini Pisani,
siami conceduto di aggiungere oggi che, se non prendo
inganno, credo di avere trovata una non affatto irragione-
vole etimologia di questa voce. È noto come dal latino
candere derivi tanto candore che candela. Dall'idea di
cosa bianca e brillante si passò evidentemente a quella
di candela. Or che maraviglia che dallo stesso candere
si facesse pure candella per esprimere la gocciola del-
l' acqua, che appunto brilla nella sua candidezza ? Chi voglia
può vedere quanti vocaboli si formassero da candere, nel
Du Gange ed in altri glossari. E può anche estendersi a
considerare altre voci delle lingue romane, affini di signi-
ficato e di suono, e forse risalire ad una radice sanscrita,
e trovare in tutto ciò conferma della etimologia di car^
della ; la quale potrebbe senz' altro entrare nel vocabolario
della lingua se, accertatane la nobile origine, la leggiamo
adoperata da uno scrittore del secolo XIV, e la sentiamo
viva su labbra tosoiine.
Adolfo Bartoli
— 392 —
LA LEGGENDA DI PRETE GIUSTINO.
Kd GBROMCO!! di CmaiiM koraer, Ae r MUre cNipì mI lUl,
leggiaoM s«U0 r anM 1060 (F. G. Egcahih, Corpus
historicum medii aevi, li, 596-598) \à ttgKtU kfgmk:
In regno Sicilke prope habitalionem regiam^ secundum
Sigibertum (ì), quidam devotus sacerdos nomine Justmus
eremiticam vitam ducens, tantum sanctitatis nomen habuit^
ut plures peccatores ad ipsum concurrerent, et sibi con-
fitentes pcenitentias graves ab ipso reciperent. Rex autem
Siciliw unicam habuit filiam nomine Theodoram, qua^ tanUie
erat prudentiw et sagacitalis, ut in patris prwsentia ttaum
regnum administraret et singula bene disponeret. Consuevii
autem eadem virgo venationi quandoque insistere prò
temporis deductione cum militibus suis, nec solertem curam
habere solebat de virginitatis suce flore^ ne marcesceret.
Quadam ergo die, dum esset venationi intenta, deviare
eam contigit in densissimo nemore. Cumque sic sola va-
garetur, occurrit ei canis latrans, quasi feram insequens,
quem sequebatur Theodora quasi canem, licet diabolus
esset, qui eam errare fecerat, ut seduceret. Cum autem
advesperasset et nox instaret, ccepit virgo contristari eo
quod nesciret, quo se diverteret. Cui occurrens dcemon in
specie unius de familia sua et dixit ei : Ubi poterimus hoc
(1) Questa citazione di fonti è falsa. Già Lappenberg nel suo
articolo e Uber Hennanni Corneri Chronìcon • ( neir Archiv der Gesell-
schad f&r iltere deatsche Geschlchte VI, 595) dice: e La leggenda
di S. Giuliano non è presa da Sigiberto, secondo viene indicato sotto
ì' anno 855, come del pari non è tratta di là la novella del prete
Giustino, indicata sotto l'anno 1060 >.
I
— .Iln —
ospitium in fiac soHludine? Et respiciens
per nemoris spatia cidit procul domnnmtam et dixil
vìrgini: Hic prope nos quidam eremita demtus est, in
cuitis cellula manere polerimus iisque mane. Et ditxU
eain ad ittam. Cam aulem appropinquar et ei-emitorio,
dixil fiimiUtis ad virginem: Pnecedam vos ad eremilnm.
ut loquar eì de Destro adventu. At ubi eitm diabolits
tenissel, ail hoinini Dei: Ecce veitiel pia rcgis nostri ad
le, mansura tecum per noctem. Cui sacerdos: Bene veniat,
domina nostra, faciam ei melins qmd poterò. Venieniem
trgo virginem eremita juxia suam faciiltatem recepii et
pertraclavil, potum et cibitm siiti sotitum ei ministrando.
Cam aatem facta aena ad ignem sederent, surrexit fa-
midus et licentiam a virgine recìpìens et post horam se
reversurum asserens celbilam exivit, visui disparens, sed
prtssenliam non subtrahens. Crescere itaque caipit in sene
tmlatio, dianone ipsum instigante ex virginia pulcritudine.
et primo blande virginem alloquem, ipsa verba sacerdoiis
amtemsil, dure ipsam reprekendendo. Sed ipse tandem
oirgini vim inferens, eam oppressit et defloracit. At illa
opproiyriiim sibi factum imligne ferens minas eremit<B
intutit, dicens, se factum illud patri suo cum lacrimis
eonqae&luram. Qttod aadiens '■■enex iile et periculnm vita
formidans ex hoc sibi imminere, puellam invasit et inter-
fecil ac sub altari eam sepelicit. Quod cum fecìsset, dia-
Mus in aere voUians clamavit: 0 sceleratissime presbyter,
ttUia gravissimas pxnitenttas prò suis delictts hticusque
imposuisti et mine ipse in profundissimum vitiorum lutum
eeeidisti. Quibus diclis diabolus abscessit. Senex aufem
ad verba d(pninnis compiinctus cellam suam reliquit et
more bestiarum extra teda vitam agere cwpit. Cumqne
tic per longttm lempus transisset et crines ei in tantum
crevissent, tu quasi tunica ipsum operirenl, incepit ma-
ftifrttj et pedibus q^iasi bestia incedere, ut sic eo gravior
— 394 —
sibi esset pcenitentia sua, et per singulas dies lacrimis et
disciplinis multum se affligebat. CorUigit ergo post spatium
longi temporis, patrem interfectcB puelke in eodem nemore
venationi intentum óberrare. Cumque Deo disponente ad
locuniy ubi dictus eremita degebat, deviando pervenisset,
invenit ipsum prope quendam paludosum locum deambur
lantem et sequebatur eum. Aestifnans autem rex, prcedi-
ctum senem feram esse, eo quod manibus et pedibus
graderetur, ad instar bestice hispidus et hirsutus, tetendit
arcum suum, ut ipsum sagitta percuteret. Quod presbyter
videns lacum celeriter intravit, aquis se immergendo in
tantum, ut vix os extra undas haberet ad ventum spi-
randum. Quod rex cernens stetit attonitus, cogitans quid
hoc esset. Cumque dorsum rex verteret ad recedendum,
senex de palude se erexit, ut fugeret. Sed cum rex retro-
spiceret et senem videret, iterum arcum paravit ad ja-
dendum telum, Quod videns eremita ut prius se aquis
immersit. Hoc postquam scepius factum esset, admiratus
rex quid hoc esset, quod tam sagaciter sibi caveret de
jaculo, C(epit dubitare, si forte homo esset, quia de bestia
hoc insolitum erat. linde dixit rex: Si es homo, qui sic
latitando trepidas, securus ad me venias, quia in nullo
tibi nocebo. Senex autem timens tacuit. Et rex secundo
et tertio verba assecurationis repetens tandem dixit : Adjuro
te per Deum vivum prò nobis crucifiocum, ut, si homo es,
loquaris mihi. Ciii sacerdos: Homo peccator sum. Ad
quem rex : Securissime ad me accede. Al ille: Non audeo.
Cui rex tantam fidem tandem fecit, quod sibi nullo modo
noceret propter quemcunque casum, projiciens arma sua
procul a se. Tunc presbyter de palude exiens venit ad
regem et procidens in faciem suam coram eo, nesciens,
quod rex esset et prcesertim pater virginis, quam interfe-
cerat, ait: Oro, domine, ut meam audia^ confessionem.
Qutod rex cum lacrimis facere recusavit, asserens, se
tai
^^^ COI
■^'
1
■:
I
I
— 39a —
hoc ofjicium, eo quod laicas
veì-o cutn lacrimis institit, ut ipstim propter Deitm audirei
et poma alicui sacerdoti ea referret. Cui cum rex tandem
cmsenliret et inler mtera sita deticta audiret. quod post
tam Utrpem actam filiam stiam occidisset, commola sunl
coatra eam omnia viscera ejas. Et acerbntas nimxs dixìt:
Piletta illa a te tam crudeliter inlerfecta, virorum vitis-
sime, unica mea fuit pia, gius ubi denenerit nunqiiam
' -ire potili. Cujus quidem sepitlttirw lamm nìsi mtfii
teiewteris, protinus te interficiam. Senex autem timens
•mortem perrexit cum rege et qutvrens locum celltU<e, vix
tandem ipsum invenit, eo quod tugurium ittud prw vetu-
slaie jam corruisset et locas immutatus essel. Qui cum
imenissent seputcrum, foderunt et invento carpare adhuc
incorrupto et pallio suo involuto, sicut sepultum fuerat,
ait rex: Si jam aticujus meriti es apiid Deum, oremus,
ut hanc puellam rcsuscilel precibns noslris. Provoluti eryo
ambo et prostrati cum lacrimis oraveraut, et max puelta
mortila revixit. Et gavisus rex est supra modum. Tane
rex una cum fitia sua senem illuni de nemm-e editxit et
\iTini^s rasis ipsum veslibus induit el cum dispensatiom
\per papam {acta. ipsum in episcopum ordinari fecit.
Questa legenda narra del prete Giustino quello stesso
cbe. con differenze non essenziali, si raeconta anche dì Gio-
laoni Chrysostomo. di Giovanni Garinus (Guarinus). — alla
cai leggenda si connette la fondazione del celebre monastero
di Monserrate — e di un S. Albano. Io rendo nota qni la
legenda per complemento alla dotta introduzione di Ales-
sandro d' Ancona alla sca edizione della « Leggenda di
Sani' Albano, prosa inedita del sec. XIV, e Storia di S,
Giovanni Boccadoro secondo due antiche lezioni in ottava
ijima ■■ (Bologna, Romagnoli. 1865).
Weimar. Keinholi» K6in.t:((
LA NOVELLAJA MILANESE
ESEMPD E PANZANE LOMBARDE
RACCOLTI KKL I1UBB3B
DA VITTORIO IMBRUNI
1. El Treikiin. — li.OnRcedò sòceor. — III. L'Ombrian. — IV. U
jlella Didna. — V. p V. bis. El Sciavatlìn. — VI. B Cor*4U-
Un. — Vn. l Irii naranz. — Vili. L'omm e la àontut di£ on-
ilaven a Homma. — IX. L'omm apót aJ dotwn. — X. L'tMmpi
iti lader. — XI. L'esempi di tre lotànn. — XII. L'etempi iti
trìi frode-}. — X(lt. La Scindiraura. — XIV. Scindirìn-Seitr
diriFu. — XV. / tre totànit dd flc — XVI. SI Gestumìn. —
XVII. L'eternili del tcimbioU e di rmw. — XVIII. la Kegina in
del deiert. — XIX. La Monega. — XX. / Ire torfnn dd jirwlf
née. — XXI. El Sidetlìn. — XXII. £1 Boffitl. — XXIU. L'Mnnpt
de BfTlold. — XXIV. Ei Piyorée. — XXV. / duu mai-conlml. —
XXVI. L'eiempi di occA. — XXVII. Bllk del Sol. — XXVUI. U
Hegina superba.
— 397 ■
stioo il lavoro di ralTronto e di paragone , pel qual
necessario un accumulo preveoUvu di inatt;rialtì, che da
un solo mal può procacciarsi. Se a me non riuscirà mai
di eseguirlo, altri più felice soUenlrerà prima o poi nel
mio luogo e mi sarà mèrito t'avergli agevolato il compito.
Comincio dal mandar fuori un gruzzoletlo di liabe,
kftcezie e noYelline lombarde, raccolte in Milano stessa e
(nel contado. Le ho stenografate mentre si narravano da
contadine, operaje, domestiche; e quindi trascritte senza
fanni lecito di mutar sillaba alla dicitura ingenua primitiva.
Non ho cancellata una ripetizione , non un foderamento di
parole: non ho supplito lacune. Avrei slimalo delitto l'al-
terar checchessia, anche dove fondatamente poteva credere
di migliorare.
Malgrado T ajuto benevolo di parecchi amici non posso
isingarmi di non essere incorso in errore di sorta : è sem-
|)re grandissima temerità l'affaccendarsi intorno ad un dia-
letto del quale non s'è ndìto sillaba prima del sesto lustro.
Ma dove nessuno fa , chi pel primo fa , quantunque non
_,fiiccia che mediocremente , ha dritto almeno a qualche in-
dulgenza.
Della utilità d'un simigliante lavoro per la mitologia
^comparala, per la novellistica e per la fdologia, credo inu-
tile parlare . perchè non suppongo esista al mondo chi la
revochi in dubbio. Risparmio al lettore lunghe note intomo
■ alle orìgini ed alle vicende di ciascuna novella o fiaba , e
voglio solo aver dichiarato che con questi venlotto racconti
non pretendo mica di aver dato tutti quelli che si rac-
contano in Lombardia, né la miglior versione di ciascuno. So
benissimo esser questo lavoro di quelli , ne' quali non può
mai farsi tanto che non rimanga da fare altrettanto e più.
lei di
leu-
Ma
mr
^^"coi
VlTTOniO IlrtHBIAÌil.
i. Kl Xr-ede
OnaC2) volU(3) gh'era od pover-òmm. El gh'aven Irèdes
fideu, e el saveva minga come fa per dagb de mangii. On di
el ghe dis a sti ficeu: — « Andèm in campagna, in d'on
ih 7W<l«tn,<|ual5op[amiompnrl senso £ padre di Iriditi figliyùli.
manca nel Cberabìnì; doTe >■ «tlo regtsinto nrì ffoso dd IrrdUì di mar»:
— t C.mlf$i tbe io quello di ^i piuU^s^ in Kibno b Tede cmiiani t ri
■ .t'inalbfnisf(< la cimtc per b prima toIu. Nel secalo «corso ceMra-
> Tasi la fi-»ia rebtÌTa nelb Cfaìesa di San Konigi . stompar» sul fioin
» del serolo stt>^«o. e a tale lesta conrorrvn tnlla Mibno a bifà à
> rorsii. l^^iifi si Te^te^pa per b <teìMi oppilo nHla china M Pin-
> diM a Porla Vipentioa. Corrv opinione che b piog^, la mv«, il tmu
> e il !ole aUiiano o^ anno alternativo donunki fa questa gionab, t
> per Terìià l'opinione è amlorata dal ulto qua <i sempre. Il Ualntrarì
> iRìme in . id •■ ^f> lu una poesia ^ Tr^jln. » —
tSi (M . uasch. . i'ta . (enim. st>Di> articoli, l'yn od un . nueh.
ckHnti e ivtiHKj . fiiaaa. m(m nnmeralL
i3t lUra Iti aocbe r<rT-';>i . che cMninrb a sdiifanà ^' bea pwtaML
Il dtileUo niilanese e a»U'.i> e n coatimiamnile rinpnuleMkNi : e cerio
WS è pA «em ai poni nt^sth ch> cbe diceva il bodeU». £ Catithioi»
^h<ù . quando ^ fun.' :'. ■ì.'r.Co /.( dt>po anrr lodalo h brilna ed i
ctviKiì *flle miboe^'. e" jt-fpatp* : — * Et a ni* (per (fine ciù ck'io
1 r.t JMi[v> ■ nire che zmlf sjoch'i loro a Eu4e iM mio COfllpìlC, »
— 399 —
lem trova quajghedua (1) de podé damm
» 00 poo de pan , oii quajcoss (2) de podè mangia. » — Reus-
[ sissen a vess in d'ona campagna: là gh'èoo sit co[it(3) ona
cArt, e van denter. Gh'è là ona donna e el Tredesin el ghe
dU, se la gli'aveva de dagli quajcoss, ch'el gh^ aveva tredes
fìffiu. E lee la glie dìs : — a Pover-òmni, adess, me rincress, poss
M dav nient. perchè bisogna che ve scoiida; perchè se veii a
» cà el me mari. che l'è el mago( ). l'è bon de mètles adnìe
» a mangia i vosler Aceti. Bonca prima besogna che ve metta
n in cantiniia;e che daga de mangia a lu;ep(eu dopo gh'el
» diròo, che ve faròo vegnl de sora e ghe daroo de mangia
» anca ai voster fioeu. « — Difatti el mago el ven a cà ; el
» parlava napolitano chiaatuio e majoteco, lotte sst' noe n-detano. Isso
■ po' ppr' farcia loccà la coda co' li mmatio, decetir ad utin ca bceva
■ lo protonquanqaa : — Vedimmo 'no poco de' rasia si tango fneglio li
> pparole nosU o li rttuuU. Nvje tieeiinviù Gtpo ; e buje, eomme ikci-
* Uf — ffuje decinanoCù, — respose l'aulo. Ed is») : — Nt^je deeimmo
* Cu^ìebiycf — CI, — rcsponnel te l'auto. — NnJBdecimmalit.-ebiQc?
t —Hi, — llebrecaje lo lomaianlo. Ora lo Fclosorodecetic accessi: —
t M alla 'mpressa li parvle mtje a lengua toja : Io , Capo . Cua. —
I E lo lommanlo subbclo: —1ii,Cti,Co. — E si le eacà. — Heceile
> lo Napolitano, — le lu 'mmrretatle, pacca se dicea io ptijese ca non è
» mio : lengni, oft no'Ia'ntienne e ta la caos. Ora vide chi parla
I a lo ipruposelo ntije o buje ? E pj>e' dicere lu vero , tino parcnv j>a-
» laccvne chiille belle parale accinsi grasse e chialle, ca (lon ce n»
I maitca 'iia letlera ? Him saje citello , ca se conta de 'no itoverotn-
* mo de li «voslr . lo quale fiartuto da ìtnapole . addava lo paos te
» chiainma pane, arreraj!" a 'ti' auto pajéii: e (Tiii-qj'c ca sr detvva
» pan," pasiaìe cchiù 'iiniiu:c- e, sr rhiaminava pa ; luiiwi deecltc a
1 la campagnu : torDaninoQoeiiDe, ca se ochiò 'noanze iammo , non
> troTarrìiBBa ochiìi pane e nce morarrimno de fannie. > —
(1) Qy :jjltedùn, qucjgitediin o <iuaidun.
{ì) Noi Clienibini non c'I- che qtiaicùita. Ma io sono b«n cerio
di avere odito non una volta , n^ da una notellatricc quaicòss, con l'ar-
tìcolo on.
(3) Il ' di coni è euronico. v si nu'tii' nrilo quando la parola ac-
fuenie comincia per vocale,
(i) Mago . orco : manca nrl Cheruliìni.
— 400 —
ven a cà e el dis: — « Tniss tnisc(lX odor de crisUanusc (2). )» —
)» Toeu el mangia , perchè chi gh' è nissuD de mangia. » —
Qnand Tha avùu ben mangiàa, lée la 0ie dìs allora: — « Si,
)» caro ti; boo soondùu in caulinna on pover-òmm con trèdes
)» ficea. Te vedet, dì fioeu ghe n'emro anca min. Sicché, te
» vedet , donca besogna dagh de mangia a qu^ pover fioeu 11. » —
S^ciao, je fa vegnl de sora, e ghe dan de mangia a sti fioeu.
E lu, el dìs: — « Ben adess; metti a dormi tucc. E mettegh
» in eòo ai noster de nun la barretta bianca, e ai so de lu ona
» scuffia rossa. » — E s'ciao vann à dormi. Lu el Tredesin,
el lassa indormentà tutt i fioeu, e poeu adasi adasi el va, el
ghe tira via la scuffia di so fioeu e ghe V ha missa in testa a i
fioeu del mago; e quella che gh' aveva i fioeu del mago ghe Tha
missa in testa a i ^ de lu. E lu , el mago , la mattina el se
desseda, el leva sù^ el va, el ciappa tutt quij della scuffia rossa
e je mazza tutti e poeu via el va. E allora eì Tredesin che
stava 11 a guarda, che lu el se Tè immaginàa che ghe stava
denter qu^'coss, che lu (el mago) el voreva fa quel tradiment , el
ciappa i so fioeu , je fa vesti e poeu via el scappa. La mièe del
mago, la va là per fa leva su i so fioeu, la je troeuva ch'eren
tutti mazzàa. Yen a cà el mago ; la ghe dis : — /e Cosse V he
» fàa, ti ? t'hé mazzàa tutti i noster fioeu. (c — Allora el mago
el dis ; — « Ah quel baloss (3) de quel Tredesin I V ha capii
» che mi voreva mazzàgh i fioeu, e lu Tha scambiàa i scuffi
» e mi ho mazzàa i me. » — S'ciao, el Tredesin el va.
el saveva minga come podè fa per viv con tutti sti fioeu;
Yen che on servitor del Re F ha sentùu sta robba che era suc-
cess de sto Tredesin e lu ghe le conta al Re, per vede s'el
(1) Truss inisc, mucci mucci; manca nel Cherubini.
(2) Ci'isliamtsc per crislianurci , forse', e senza forse, non esiste
che in questa sola frase.
(3) BcUòss , barone , furfante , paltoniere. Così chiamansi per anto-
nomasia nel basso milanese que' vagabondi che si presentano sol far della
notte alle cascine chiedendo alloggio e vitto, certi d'ottenerlo pel timore
che incutono facilmente a' cascinai abitanti in luoghi pericolosi perchè
isolati.
I
— 401 —
podeva dagh qiiaijcossa a sto pover-àmm cli'el podeva minga
maniegn) i so ficeu. E lu, el He, el d)s: — « Sem, digli
B ìnsci : se l'è hon de anilà là del mago a robi'i quel pappa-
» gali ch'el gb'ha lu, che mi glie darò ona gran sómma. » —
E lu, el Tredesin, el ttis: — n Ma cora'lioo de falla mi?
9 Basti, provaròo d'andà Ifi quand el gli' è minga in elsa lu,
» che forsi con soa mièe poderoo robaghel. « — Difatti el
l'era, lee. I/era II coni in man el pappagal! per por-
iBghei via , qiiaiid capila el mago. E) mago ci ghe dis : —
■ Ah, te set nlii adess t Te nenrhfi Ragià viEunna; adess le
» secchi per famni quella di dò (I). » — El l'ha ligàa, e potu
el dis a la soa mièe: — » Guarda chl.ailess andaròo a tipu
l'acqua rasa, che voeuj dagh el fffiugh. Ti intreltant ciappa
sto beli legii chi. e la fole e s' céppa sto legn. Che insci quand
» vegni a cà metti su quij legn 11 e l'acqua rasa e el hrusi. » —
Lee, sta povera donna, la ghe dava per s'ccppà sto legn ; ma
.la stentava a s'ceppall perchè l'era lanl dur. El Tredesin el
le dis : — n Povera donna . deslighem on moment e tei s'ceppi
mi; e s'ci.to! dopo tornem a ligà, che insci el tò mari el
B ven a casa e el tro^uva beli' e s'ceppaa la legna. » — Lee le
dislìga: e lu, appena desIrgUa, corr, va a tceu el pappatali e
via el scappa. Ven a casa el mago per dagh el fixugh, el iroeuva
che gir è pu né el Tredesin, né pappagall. Lu, el se metl a
batt la mièe perchè l' ha desligàa e l'ha lassàa andà via e el fa ona
bamiffa del diavot. Lu, el Tredesin, e! va a portagh el so pappagall
al Re. El Re el ghe dà on gran beli regal che l'era coment come (2}.
El dis : — « Adess, te devct fanien on alter. Mi desideri che le
» vaghet là a robagh quella coverta che hi el gh' ha in sul lett
» che l'è lulla pienna de campanili (3). » — « Cara lu, com'iioo
(1) l)ò, due. femmiDile ; al inascliile sii dice duu. Quella di dò.
quella iti Irèdes e modi simili, la seconda, la deeimatma, eccetera.
fagliela de dò. ficcarla di bolòa, fare uua burln di p6|iu ad alcnno.
(2) Oomè; molto, assai, quanto mai. L' t grand comi, b grande
I tfsai. Vuol pur dire come, liceome.
(3) Camimnill, ca in panelli, la (piKto senso proprio non it nel Che-
I niliinì, .imi solo come nome di liorì, Imeantvr : coii»! noin<! d'islni*
— Si« —
j it; lù lu ^ wit» i uni t» fiBvetu tntla piesa de campi-
• mal * — -«Epvce <Wet b H poasibel (1) de aodalU a
1 iva. ■ — Tml^ el va. B va li iMreltm che soi mièe
[' <n 'b* bas a fi 1 » rollò : e la. el n de san adasi adaa
•TflBc 'M bombos.e Tèiinlàa imbonì ton sii eun|milt per
MB & óe Moana. e pan d *> ieoodòiL A b sera d mago
«1 va u ina: In. ^ k lana ttkxviati ben ben e pan et eth
ouiheia a poeta j podi a un in dò . a tira in gib. Lu d mago
4Ì s^ -leaneiii : el <iis t: — «*!:osse Té .'!ì) iosd die se seni la
> 0)vi>ru a on fio* ■ — E lo. el Tredesin. el fa : — « Gnau,
■ zuiL ■ — ^ b àiD <!•> vess 00 gaiL El le lassa indonnenli
ha t*u ^ p*xu a poeta a poeta l'è renssi a liraf^ela giò. E
f'ta rU O aiklaa eoo b 5aa coverta. El mago la maRiai
el tgK» lì o^v^ru e la trmva no. el la Irtenva in atssim
*it: — 1 Ah. 'YìA haVitw -le -idì?! Tr^ledD eh'el m'ha fia
■ 'l'alia -li [r«i4i' S'el me pò r«as8i a vegnì in man, mi ^
» d mazzi p-efch# ri m* q" ba faa tropp. » — Ln , el Tredeslii,
el va dei Re. El Re el fbe dis: -— « &avo. ma (e see propi bra-
» vo. te ebe see reiesLAJess te dooona gran somma che poeti ti
■ te siaree ben. Ade» te devei bmen oo'alira : allora te set od
» sciòr (5). Te devet fi in manera de eoaseffomm a mi el
» mago. ■ — « Com' boo mai de fiT Ch' el mago adess s'd me
memo miiiicik. i-adif-virv tliiw^:' . r coiw ippellaliTo di qoei ferri
posti nelle mxiae. >cch> quuklo dob è piò gnoo tra qnclle, risoDindo
tu di e^sT diano arrìso al magliaio di rìfoniirle di grano.
— W-i —
» ciappa el me mazza ! Basta , faroo de tuli. ]
» i|uesla. » — El pensa , el se vestiss {Ij tuli divers de quell del
so sòlit (3), el meit ona barba Bnta e poeu el va là. El glie dìs
a soa mièc : — « Vij (3) ! gh' è minga in cà el voster mari ?» —
■ Si, ch'el gli' è: adess vòo a ciamall subet. » — E el Tre-
de^n el ghe dìs: — « Mi sont vegniiu clil de lu , perchè
;irhoo bisogn Oli piasè (4), L' ha de savé die mi hoo mazzàa
» vun che ghe disen el Tredesln. e hoo de fagh la cassa e
gh'bòo minga de ass (5) de lìighela. Soni vegnim de lu a vede
li'el voeur minga damm di ass. » — El mago el dis: — « Bra-
■ vo, t'hé fàa ben de mazzall: te doo subet i ass. Yen chi,
> veo clit I Te jullaròo (6] anca mi a falla la cassa per metl deii-
► ter quel hirbón. Va lii!. .. » — El ghe da di ass; e lu el
1* è 0IÌ8S adree , el Tredeslo . a fi*! la cassa. E lu el mago l' è
lemper stJia 1) a guardngh adoss. L'ha preparada in manera
» vess pront a podella sarS{7). Qiiand l'ha linida : — « Adess
) mo sont iiirescìàa (8) , perchè suo minga la grandezza, per vede
I se l'andarà ben. Me par ch'el sia grand compagn de lu (9) el
<l) Se calisi, si reste.
(% Smt 0 SOM. Quell del tò solit . il solito suo.
(3) lìy.01à,FliÌ, A le, A tediuo. Vój ohi m, vìa] Vój ti. He'.
(4) PÌMi, e pitutri solo nella frase avegh tanl pmr i si minuti
(5) Àisa, siag. un'aiie: oji. plur. le itssi: ass, sìd|;. asso.
(6) Mia. ajuiare. altare.
(T) Sarù., serrare, chiuderei raiiiinargiiiara , cicairiiiare . saldare,
■"{de' cavalli) pareggiare il dente ; salare.
(8) Infescié, Impicciare, inibrog1iar«i imliarazure ; /gh' i paùon'ai-
tra robba che m'infeteia: qui poi t un'altra cosa che mi rompe;)
disajalarc, e^ser di distralo : inzafardare , iuibratuire.
(9) Grami eonijiagn de lu , grande quanto lei , della sua taglia. Lo-
raio Da Pome nelle sue Memorie parla de' biasimi di malevoli al suo.
ìurbtra di buon cuore : — (Ca!>ti si trovò imbarazzato e non osd dir
! apertamente d'un'opera clic tulli lodavano. Prese una via di
t mensu; iodd, ma v'aggiunse tanti ma. che la lode slessa Univa in
in /bndo, diceva egli, non i che una iToduiiime: bi-
} sogna vctUn ooiw anilrlt la faccenda in un'ofcra originale. Ma t
— 404 —
» Tredesln. Ch' el proeuva od poo a andà denter lu , che insci
» vedaroo perchè Tè grand come lo. Se la ghe va ben a lu,
» r andare ben anca al Tredesln. » — « Ben, spetta, adess
» vòo denter subet. Guarda , guarda se la va ben. » — Quand
rè stàa denter, el Tredesln el mett su el coverc (1), e tic tac in
d'on moment Y è stàa piccada giò (2) la cassa. Però el gh'aveva
faa di bus (3) in de la cassa per podè fiadà , perchè lu V aveva
de consegnali viv al Re. El gh' aveva visin di so amis per
jultall a porta sta cassa. Lór hin (4) stàa là pront e hin andàa e
r han portada là a la cort del Re. Ghe V han consegnada al
Re: e el Re Tè stàa tutt content a vede che Tè reussli a con-
segnagh el mago beli e viv. £1 gh'ha daa ona gran somma ,
che r è stada assèe de fa el scior per tutt el temp de la soa vita.
» prccalo ch'egli negliga lanlo la lingua : itLgU% , jìcr esempio, non
» vuol dire slalura; nella qual signifìcazione io aveva adoperata quella
» parola. Mi trovai accidentalmente dietro alle sne spalle quand* egli in
» tuon derisorio, e più col naso che con la strozza disugolata gorgo-
> gliava questo verso a un cantante : La taglia è come questa. Passai
> allora dalle sue spalle al suo petto, e in suono anch'io di strozza
» disugolata e nasale , gli ripetei questo verso del Berni : Gigante non
» fu mai di maggior taglia. Guardommi , arrossi , ma ebbe la onestà
» di dire : per dio , ha ragione. — Signor Abate , gli dissi io allora »
» chi non può criticar in un dramma che qualche parola, ne fa un
» grandissimo elogio. Io non ho mai criticato i gallicismi del Teo-
1 doro. Non gli diedi tempo di rispondermi e me ne andai. Quel can-
) (ante rise ; e il signor Abate rimase mutolo per più di dieci minuti.
> Cosi mi disse poi quel cantante, Stefano Mandini. > —
(1) Coverc, coperchio. El diavol el fa i caldar, ma minga i co-
verc. Parlando di pentole, caldai, ecc. il milanese chiama test il coper-
chio di ferro, coverc quello di rame o di terra cotta, spazzofu, quello
di lepo.
(2) Ficca giò, ficcar giù, spiega il Gherardinì ; è chiaro che qui vale
inchiodare.
(3; Bus, buso, bugio, buco, pertugio. Fa di biu , sforacchiare;
fa bus, far colpo.
(4) Hin, sono. Jlfi soni, ti te set, tu l'è, nun sem, vu sèe ,
lor hin.
— i05 —
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rt> Zincala o av.^
•^ "rpa ., fe ,\^ de risa.
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j-p»-™.™'* *,;--*
— 406 —
su ona pianta de per (1) a catta (2) pòmm (3). L'è rivaa el
padron de sti nespol e l'ha ditt ; — « Giò de quij flgh, ch'hin
» minga voster quij brugo (4). » — ET ha ciappàa on sass
che no gh' era e ghe V ha dàa tant su i calcagn , eh' el gh'ha
fàa dori (5) on' oreggia (6) per on ann.
III. IL.' Oml>z-ioii (7)
Ona volta gh'era on papà (8). El gh' aveva tre tosànn (9) e
l'era molto (10) pover e l'andava à cerca la carìtàa, per porta a cà
de mangia a sti so tosànn. E on dì gh' an ditt de portagh a cà
onpòbd'^g (11). L'è andaa foBura de cà, Tè passàa d'on sit,
l'ha vist on beli giardin , e l'è andàa dent (12). L'ha vist che
gh'era on beli scepp (13) d'aj ; e Tè andàa là e n'ha cattàa on
(1) Pianta de per ^ si dice anche on per.
(2) Catta, cogliere, captare, frequenl. di capio.
(3) Pomm, mela, ed anche il melo.
(4) Brugna; tanto il prugno o susino che la prugna o susina.
(5) Dori, dolere. Insalata de fràa, bombon de monegh, fan
semper dori el stomegh. — « Insalala di monache eh ! E' si spende più
» a mangiarne a capo d*anno che a mangiar starne e fagiani. G-elli.
> Sporta. > —
(6) Oreggia, sing. Orecc, plur.
(7) Ombrion, manca nel Cheruhini, dove non è che Ómbra ed
ombria per ombra, spettro (da non confondersi con Ómbra ed Om-
brìa, ombra ed ombria. Ave paura de la so ombrìa).
(8) Papà, paperin, babbo, papà.
(9) Tósa , sing. tosànn , plur. fanciulla , ragazza , tosa. Il diminu-
tivo tosètta, fa al plur, tosarèlt.
(10) Parola che non è nel dialetto.
(11) Aj, aglio. Coronna d'aj , resta d'aglio. Coo, capo. Gesa, spic-
chio. Coa 0 sgaùsc, coda.
(12) Dent o denter. Andà dent , entrare.
(13) Scèpp, fra gli altri signifìcati ha quello di cespo , cesto , cumulo
di molti figliuoli sur una sola radice di frutti o d*erba; lo stesso che
ceppaia, ceppata (sceppdda) negli alberi. Da non confondersi con s' ceppa,
fesso, screpolato; s' ceppa, schiappa, ecc.
— 407 —
poo. In del strappali , V è borlàa per terra e l' ha ditt : — « 0
» daj (1)! » — E gh' è compars come on ombria. E st'ombrion
rha ditt; « Cosse te set vegnuu a fa cont st'aj? » — E lu l'ha
ditt che rè per porta a cà ai so tosano che gh'han ditt lor de
andà a cattali. E lu, Tombrion, e) gh'ha ditt; — « Ben! o ti
» te menet chi diman a sfora vuna di tò tosànn, o la tòa
» vitta rè andada. » — E lu, sto pover-òmm Tè andàa a cà
tutt stremii (2) a piang. I so tosànn gh'han ditt cosa Pera che lu
el gh'aveva. E lu T ha ditt quell che gh'era success. Donca (3) i
tosànn, la maggior l'ha vorùu minga andà, la segónda nanca (4), e
la minor Tha ditt; — « Ghe andaròo mi! » — e Tè andada
lee in sto sit cont el pà (5). E quand el pader V è stàa là con la
sòa tosa, rha fàa a la stessa manera che Taveva fàa quand Tha
strappàa l'aj. E allora l'è compare l'ombrion e l'ha ditt; —
<c Lassala chi, che la toa tosa Tè in bon man e la patirà
» minga. » — L' ha menada giò d' ona scaletta e quand V è
stada giò, l'ha veduu on magnilìch sii, insci beli ch'el pareva
on palazz. E no ghe mancava nient , qualunque cossa che lee
la podeva desidera. Solament che la gh' aveva semper st'om-
brion denanz ai oeucc (6), e la podeva mai pizza el ciàr (7) de
sera; el gh'aveva proibii lu, ch'el voreva minga che de nott se
pizzass el ciàr. E quand el dormiva, lee le sentiva a ronfà (8)
come ona persona. E la ghe voreva molto ben; la s'era tant
affezionada che la ghe voreva molto ben. La gh'ha cercàa el
(1) Dàj , esclamazione, dagli! Ma qui y*é un bisticcio con d'aj.
(2) Slremìi, impaurito, sbigoiito. Fa stermì, impaurire, Slremiss,
rimescolarsi, sentirsi rimescolare. Stermìzzi, rimescolameuto. Taù su
on stremìzzi.
(3) Donca e donch. Ergo donca, trii conchin fan ona conca,
modo scherzevole di conchiudere.
(4) Nanca, gnanca e gnanch.
(5) Pà e pàder^ padre.
(()) Oeucc, occhio, plur. simile al sing.
(7) Pizza, appicciare, accendere. Smorza on moccheii per pizza
ona torcia. El ciàr, il lume.
(8) Ronfà, ronca, russare, ronflare, ronfere; (de* gatti) tornire.
— 408 —
permess d'andà a cà a trova i so sorej (1) e el so pà. E lu ghe
]'ha daa el permess doma (3) per yintiquattr'or(3). E lee la gh'ha
promess che la saria vegnuda prima anca di ventiquattr'or.
L' è andada a cà , T ha trovàa i so sorej e el so pà e la gh' ha
cuntàa , che la stava insci ben , che ghe mancava nagott (4). La
gh'aveva el dispiasè che la podeva minga pizza el dar, e che
la nott la sentiva Tombrion a ronfà come ona persona. Lor,
i sorej, gh'han daa de podè pizza el ciar; candela e zolfanej (5) ,
per pizza el ciar quand lu, Tombrion, el dormiva. I sorej,
voreven tegnilla là e lee la gh'ha ditt : — « No, poss no, per-
» che gh'hoo promess che saria andada prima di vintiquat-
» tr'or. » — L'è andada, e lu l'era là a ricevela. E l'è staa
content perchè l' è andada anmò (6) prima de quel che lu el
gh' aveva ditt. La sera quand hin andàa a dormi, lee Tha
lassàa indormentà e poeu l'ha pìzzàa el ciar. E l'ha vedbu che
r era on bellìssem gioven. El gh' aveva al coli on cordon cent
attach (7) ona eia vetta (8). Ghe l'ha tiràda via e l'è andada a
prova in di stanz che gh' era intorna al so palazz , per vede
dove r è che l' andava ben sta ciav. L' ha trovàa che in sta
stanza gh' era denter tanti donn che lavora ven e che diseven :
Fee fass, patton (9) e pattej (10)
Per el fioeu del Re.
(1) Sing. sorella; plur. sordi, e sorej.
(2) Doma e noma, solo, soltanto, solamente.
(3) Óra, sing. Or, plur.
(4) Nagott e nagotta, nulla, da ne gutta quidem, probabilmente.
(5) Il Cherubini nota come bella parola contadinesca SolfanèU o
Zolfinèll invece del cittadinesco Zo/freghètt o Zoffreghìn.
(6) Anmò , ancamò ; ancora , anche ; tuttora , tuttavia.
(7) Atlacch, accanto, allato, presso, vicino, accosto.
(8) Ciavetla, chiavetta, specialmente quella dell* oriolo, diminutivo
di ciav.
(9) Fee^ fate. Fass s. masch. plur. fasce. Patton, qui è sinonimo
di paltonin, pezza a più doppi o imbottita che si sottopone per pulizia
ai bambini lattanti fra le pezze line e quelle di frustagno.
(10) Fatteli e più comunemente al plurale pattij, pezze, que' pan.
nilini onde avvolgonsi i fanciulli in fasr.e.
— 409 —
E pceu rha saràa su e vìa Tè andada. Gh'è vegnuu a la
centra lu , T ombrìon ^ in forma d'un bel gioven(l). El gh'ha
diti : — « Adess , pòdem pu sta inserama. » — E lee V ha
ditt: — «Insegnem dove hoo de andà, che mi ghe andaròo,
» dove te voeut. » — Lu el gh' ha ditt : — « Va a la cort
» dei Re, che mi soo che lu l'aloggia i forestee(2), quej che
» desideren de andà là. GHe tutt i noti vegnaròo mi a trovatt.» —
Lee rè andada e là l'han aloggiada. La prima nott che l'om-
brion Tè andàa a trovalla gh'è ona lampeda là sul scalon e
quand Y era là el ghe diseva :
Lampada d'argento, stoppino d'oro
La mia signorina riposa ancora?
E la lampeda la ghe diseva:
Vanne vanne a buon'ora
La tua signorina riposa ancora.
Lu el ghe dis a la lampeda :
Quando mio padre saprà
Con fasce d'oro ti fascerà.
Quando i galU più non cantano,
E le campane più non sonano,
Sino a giorno starò qui.
(!) Giuven e Gioveìu
{% Foreslée , forestiere. Avendo Pietro Giordani stampato in un
articolo della Biblioteca Italiana , fra le altre cose che nella moderna
Italia forestiere, come nell'antichissima Roma, vuol dire inimico,
Carlo Porta gli rispose col seguente sonetto:
Quand i nost vìcciurritt e fiaccaree
Menen intoma on Milanes a spass,
Ghe diraven, a chi gh*ei domandass,
Che menen in caroccia on Fhrestec.
Quand i nost sciori inviden on vivee
_ 410 —
On servitor Tlia sentii sta robba, ooa noti e dò. E Tè «-
dàa a dighel al Re che sentiveo de nott quest che v^i¥a a
di sta robba. E lu. el Re, l'è andaa e l'ha voruasenl) lu; edi
fatt l'è andàa e l'ha senili sta robba. L'ha pe&segàa(l) a mandi
a fa mazza tult i gali e a fa sona pu i campann. Quand gh'è
staa pu campaoD che sonass, né gaj che canlass, cpielta oott
l'ombrion l'è andàa e l'ha tornàa a di'anmò alla lampeda
Vistess che el gbe diseva i alter volt:
Già le galle (?) più non cantano.
Le campane più non sonano.
Sino a giorao starò qui.
E la mattinna (3) , a l'ora solila che ghe portaven el calè a
sta tosa, van denter e veden che gh'è là on alter scìor inseni-
ma. E lu , sto scior , l' ha cercàd se se podeva parta al Re.
El RecheTeraquel ch'el desiderava , quaad l'ha veduti. l'hi
riconossùu che l'era so lioeu che l'era staa instriaa. E allon
lu r ha ditt : — « Quella l' è la mia deliberatrice ; se no ^'era
M questa mi podeva minga vess delìberàa ; perchè mi , el me
Di so amis HitaMS a reQziass ,
Hìd solet «ligi] al cixugh de regolasi
Che gh'han di Foreske, Lani che sia assee ;
E lu eh' ci sta chi insci a s' ceppa i radìs.
1." ha el corali! de slampann it
— 411 —
» iostrìament T aveva de bisogn de trova vuiuia che me voress
» ben, anca che mi fuss mostruós. » — E so pader el gh'ha
ditt: — a Ben, e li te la sposaret e la sarà toa sposa. »(1) —
E s'ciao (2).
L' è passàa on carr d' oli ^3) d' oliva ,
La panzanìga (4) Y è beir è finida.
fContiniui).
(i) Usanza moderna che è stata recentemente interpolata nella fiaba.
(2) Ciao, ciaw), s'ciao, schiavo, come formola di congedo e
d'addio.
(3) Oli e presso il volgo auli ed auri,
ii) Panzànega. Fiaba, fola, panzana, favola, pantraccola. 11 Che-
rubini riporta così questa chiosa comunissima.
E poeù gh*han miss su la saa, Taséc e Foli d'oliva
E la panzànega Tè bella e finida.
Risponde al modo toscano :
Stretta la foglia sia, larga la via,
Dite la vostra che ho detta la mia ;
nel quale è da notarsi che spesso (e cosi V ha scritto Nicomedo Tabacchi ,
ossia Domenico Ratacchi nei canto IX del libaìdone) il primo verso
suona :
11 fosso sta fra il campo e fra la via.
e talvolta semplicemente :
In santa pace pia.
I MANOSCRITTI ITALIANI
CHE SI CONSERVANO
NELLA BIBLIOTECA RONCIONIANA DI PRATO
(V. pag. 451. Voi. ^° Continuazione).
God. X.
Cartaceo, in fol., sec. XVI,
di carte 160 senza nnm.
I. — Mathbo Palmieri de Temporibus tradotto di latino in
lingua materna dal reverendo m. gabriello di antonio
Zachi da Volterra vescovo di Osmo. m.cccc.lx.
Comincia: e Dal princìpio del mondo o vero da Adam
primo delli Homini per insino al Diluvio, quale fu sotto Noe
sono computati 2242 >. A e. 8 1. : « Finisce el Libro de Matteo
Palmieri... », ripetendo il titolo. E la Cronaca termina coir an-
no 1444. Ripiglia poi coiranno 1453, e viene al 1509; termi-
nando a e. 81 con TtXtoq,
Del testo latino, più volte stampato, ved. Zeno, Bis-
seri. Voss,\ I, 110; Fabricio, Bibliotheca Latina med. et
infim. aet. (ed. Florent. 1858); V, 49-50. Il Moreni (Bt-
— 4l;t —
btiogra/ia storicfxagìonata della Toscana: II, 148} ricorda
che questa Cronaca « nel XV secolo, in cui fu scrina, fii
» ancoiti trasportata in volgare, e che di questa versione
, » UD Cod- in carlap. in 4, lo possedea Bernardo Trivisano,
[ ■ al dire del suddetto Zeno ec. ». Ma il bÌblÌop-afo fio-
rentino tacque, o non seppe, V autore del volgarizzamento;
e ignorò pure, che nella Magliabechiana se ne conservava
r autografo. Il codice magliabechiano ha questo ricordo:
, ■ Questo libro ene di me Zaa'aria di Antonio Zacchi da
l'I Volterra, il quale mi traslatò in volgare messer Gabriello
^ » mio fratello, et ene scripto di sua propria mano in anno
» Christiane salutis 1460 ». E questo ricordo ci fa accorti
dell'errore nel quale incorse chi copiò il nostro Codice;
perchè non Gabriele Zacchi, ma Gaspare suo fratello fu,
¥escovo d' Osimo. Di cbe può consultarsi il Compagnoni,
\ Jkmorie ec. della Chiesa e de' Vescovi di Osimo ; Lezione
tCCri; voi. Ili, 391.
— ( Cb OKI GHETTA VOLTERRANA, (1" ilIlOtlimO , (lai 13(Ì2 Sl
1478),
.\ e, 81 Comincia, senza [itolo; • Anno snlut-is mcccli
Kleg)^si LxO la noslra comunità iti Volterra, statim [toppo
1 tagliare della lesta a messer Bocliino di messer Ociaviano
;"BeIforli ». Finisce a e. 91 t-, coli' anno \M0.
Fu stampala questa Cronichetta neìV Archivio storico
taliano. Appendice, HI, 317 e segg. , da M. Tabarrini; e
~a pag. 776-82 si leggono le varianti da rao tratte da que-
sto Codice, e mandate alla Compilazione dellMrcAìtio con
lettera de' 28 di settembre 1846. Oltre le varianti, assai
buone, trovai di piò nel testo Roncioniano la deliberazione
de' 30 di ottobre 1431, colla quale i Fiorentini riposero
Volterra ne' diritti perduti per la ribellione del Catasto.
— 414 —
III. — (La Sfera di Fra Leonardo Dati, in citava rima.)
A e. 92 comincia:
f Al Patre, al Figlio, al Spirito Sancto
Per ogni secalo sia gloria et honore
Et benedicto sìa suo nome quanto
Tutte le creature hanno valore
Laudato et rengratiato in ogni canto
Con pura mente et con devoto chore
Et confessata sia la sua boutade
Pietà misericordia et charitade ».
Più volte, fino dal secolo XV, furono ristampati i
quattro libri della Sfera; e modernamente due volte da
Gustavo Galletti, che primo la pubblicò col nome del suo
vero autore, essendo andata per T avanti sotto il nome
di Goro Dati. Sono poi molte le copie a penna conservate
nelle biblioteche, e spesso ne troviamo di belle, ornate di
miniature.
IV. — Di m. Antonio Rinieri da Colle.
A e. Ili t.-113. (Canzone. Ritorno a Dio dopo i terreni
amori. )
Com.: € Sommo Padre del ciel, Padre immortale ».
Fin.; • Prega per me, ch'ai mio fallir perdoni ».
A e. 113-114 t. (Canzone d'amore.)
Com.: € Ahimè ben conosceva ».
Fin.: (( Canzon, de i pianti miei non più con quella
In cui pietate è spenta,
Ma meco ti lamenta ».
— 416 —
Antonio Rinierì, nativo di Colle, fu un tempo in
Prato, condotto da quel Comune a insegnare umane lettere
nelle pubbliche scuole; e nei funerali del proposto Bec-
cadelli (an. 1572) vi recitò T orazione. (Ved. Monumenti
di varia letteratura tratti dai manoscritti di mons, Lo-
dovico Beccadelli; Bologna, 1797; I, 164.) Anche verso la
fine del secolo scriveva sempre poesie latine e italiane in
lode dei Serenissimi di casa Medici.
V. — Di don Sbvbro Parella, detto Ctcinnio, da Volterra.
A e. 114 t.-116 t. (Canzone sul Natale di N. S.)
Coro.: e Nella stagìon eh' a noi r avara terra ».
Fin.; « Non ti festi di me perpetuo donno ».
A e. 125 t.-128 t. Sopra bl mbdbmo senso. (Cioè, in
morte del duca Alessandro de' Medici.)
Canzona I. Coro. : « In antri oscuri, in secco arido scoglio > .
Canzona II. Coro.: « Ah sventurato e miser Tosco lido ».
Canzona III. Com. : « Lasso I quant' alte e gloriose imprese ».
VI. — Di m. Giovanni Parella, detto Alfeo, da Volterra.
A e. 116 t.-125:
Com. : (c In ermi in rupi in fratf e arido scoglio > .
Fin.: <c 0 Dio per suo pietà ne porgh'aita ».
Sono LXII Stanze,' che piangono la morte del duca
Alessandro de'Medici.
A e. 125. Allo illustrissimo Cosmo. (Sonetto.)
Com. : (( L' aquir altiera per natio costume ».
— 416 —
Il poeta esorta il novello Principe ad aflìsar gli occhi
neir Aquila di Cesare. — È Giovanni Parelli V autore di
una Cronichetta latina, che, volgarizzata dal Tabarrini, venne
in luce m\V Archivio storico Italiano; Appendice, ITI, 333
e seg.; col titolo di Seconda Calamità Volterrana (an.
1530). L'editore disse, che del Parelli « nulla sappiamo,
» tranne il pochissimo che si può ricavare da questa sua
» narrazione nei luoghi ove parla di sé ». E soggiunge,
che fu Canonico in quella Cattedrale, e mori il 10 dicem-
bre 1568 in sacrarium diete Ecclesiae, subitanea morte.
Ora questo Codice ci fa sapere, che il Parella faceva anche
versi, e che delle calamità sue e patrie non fece colpa ai
signori Medici.
VII. — Di m. Lodovico Akiosto ferrarese. (Sei Stanze.)
A e. 130. Sono le Stanze 61-66 del Canto xliv del Fti^
rioso; ma invece che la Donna parli amorosamente a Ruggiero,
un Amante qualunque parla alla sua Donna cosi:
e Qual son, qual sempre fui, tal esser voglio
Fin al morte, e più, s' esser si puote.
0 siami Amor benigno o m' usi orgogho,
0 me Fortuna in basso o in alto ruote;
Pson di vero amor inmobil scoglio
Che d' ogn' intorno el vento e '1 mar perquote :
Che mai già per bonaccia né per verno
Stato mutai, né muterò in eterno.
Si vederà scarpel di piombo o lima
Formar in varie imagin diamante,
Prima che colpo di fortuna e prima
Ch' ira d' amor rompa '1 mio cor constante;
Si vederà voltar verso la cima
De gli alpi el fiume torbido e sonante,
Che per nuovi accidenti, buoni o rei,
Faccin altro viaggio i disir miei.
— 417 —
Madonna a voi tuttMl dominio ho dato
Di me, eh' è forse più ch'altri noi crede.
So ben eh' a nuovo principe giurato
Di questa non fu mai la maggior fede:
So che né al mondo un piii sicuro stato
Di questo, re né imperador possedè.
Non vi bisogna far fosse né torre,
Per dubio ch'altri mi vi possi torre.
Quel eh' i' v' ho dato, a custodir son buona ;
Non verrà assalto a cui non si resìsta:
Riccheza non sarà, che a voi prepona;
Né si vii prezo un gentil cuore acquista:
Non nobiltà né alteza di corona,
Ch'ai sciocco vulgo abagliar fa la vista;
Non beltà, ch'in liev' animo può assai,
Vedrò, che più di voi mi piaccia mai.
Non havet' a temer eh' in forma nuova
hìtagliare il mio cuor mai più si possa;
Se {leggi si) l'imagine vostra si ritrova
Scolpita in lui, eh' esser non può rimossa.
Che '1 cuor non ho di cera ; e fatt' ho prova,
Che gli dia {leggi die) mille, non eh' una percossa.
Amor, prima che scaglia ne levasse,
Quand' all' imagin vostra lo ritrasse.
•
Avorio e gemma e ogni pietra dura
Che da r intaglio meglio si difende
Si spezerà, ma non ch'altra figura
Che quella prenda, eh' una volta prende.
Non è '1 mio cuor contrario alla natura
Del marmo o d' altro eh' al ferro contende.
Prim' esser può che tutt' Amor lo speze,
Che lo poss' intagliar d' altre belleze d.
— 418 —
Ho volato recar qui per disteso queste Stanze non
solo per certe varianti che dà il nostro Codice, ma
perchè non sarebbe difficile che l'Autore medesimo le
avesse mandate fuori in questa forma avanti d'inserirle
nel suo poema. E perchè la mia congettura non sembri
affatto priva di fondamento, veda il lettore nelle Rime
deir Ariosto, fra i Capitoli in terzine, quello eh' è IX
nell'edizione procurata dal Dolce (Vinegia, 1560); dove
r editore ha posto la seguente nota : « Tutti i concetti, e
» quasi i versi interi di questo Capitolo ridusse l'Ariosto
» con molta felicità nel suo Furioso nella persona di
» Bradamante ». Ora, nel modo che dette fuori le terze
rime, può aver messi in ottava questi concetti amorosi
prima di inserirli nel poema.
A e. 130 t. Del medesimo. (Madrigale.)
« Quando ogni ben della mia vita ride,
I dolci baci niega;
Se piange, alhor'al mio voler si piega:
Cosi suo mal mi giova, e '1 ben m' accide.
Chi non sa come stia fra il dolce il fele
Provi, come provo io,
Questo ardente disio
Che mi fa lieto viver e scontento.
Cosi nasce per me di amaro il mele :
Dolor del riso pio,
Ch'el bel volto giullo
Lieto m'apporta sol per mio tormento.
Miseri amanti, senza più contesa.
Temete insieme e sperate ogni impresa ».
Mandai al professor Luigi Muzzi nel 45 questo Ma-
drigale, che non trovavo fra le Rime dell'Ariosto; e il
— 419 —
Professore mi rispose: « Il Madrigale, io come io, noi
» penserei mai delP Ariosto. Quegli antitesi, qae'concettini
» troppo bellini son forse più del Guarino, del Chiabrera,
» e anche anche del Tasso » . Ma in questo Codice stavano
scritti quando que' Poeti non erano ancora venuti al mondo.
E il professor Carducci, avutolo da me anni sono, lo
pubblicò nelle Veglie letterarie, voi. I, pag. 144, an. 1862.
Vni. — Dbl Molza.
A e. 131. (Sonetti due.)
Com.: « Se ciò che non in voi donna dispiace ».
(( Tu che ritrai quella fronte superba ».
IX. — Di m. Paulo Maffbi da Volterra.
A e. 131, « Si recitò su un carro ».
Com.: a Fa di questi Volterra hoggi memoria ».
È una Canzone in lode de' Medici, e di Volterra
suddita di que' Serenissimi.
A e. 142 t. € Si recitò su un carro •.
Com.: « Questa nostra alta e inclita regina ».
È una Canzone sulla Pudicizia.
X. — Di sbr Octaviano Ricciarello da Volterra.
A e. 132 t. € Recitato su un carro ».
Com.: • Su dal superno e glorioso ciostro
Da l'alto ciel, dove tornar desio,
Dove è tenuto a vile il viver nostro »....
E un Capitolo sulla Passione di Nostro Signore.
— 420 —
XI. — Elegia in obitu amplissimi CanlituUii IRppoiìti >U
dices.
A e. 133 t comiDcia:
« Su/rge age perpetui monstres me, musa, dfAorit *.
xn. — La Marchesana di Pescara al Sagro Impir&tou.
A e. 131 t. (Sonetto.)
Cora.: « Vincer i cor più saggi e ì re più altieri ■.
A e. 135-139. Sonetti della Marchrsa sr Pescara.
« Con la Croce a gran passi ir vorrei dietro ■.
n Rina.>;ca in te il mio cor questo almo giorno >.
« Se ne die lampa il cìel chiara e lucente > .
« Cibo dal cui meraviglioso effetto ».
« Se quanto ò inrerma e da se vii con sano ».
« Dietro al divino tuo gran capitano •.
a Da Dio mandata angelica mia scorta ».
« Di vero lume abisso immenso e puro ».
« Quasi gemma del ciel l'alto Signore ».
« Tempo è pur ch'io con la precinta vesta ».
— 421 —
Dal pigro SODDO onnai dove sepolta ».
Se pioggia ornai da Dio larga Don scende ».
Chiara fama tra noi Bodvìso soDa ».
DuDque Bodvìso mio del Dostro seme >.
La bella Italia che graD tempo stese ».
Mentre Bodvìso ìd più superbo volo >.
Fia mai quel di che U giogo amaro e grave >.
Prega Bonviso il ciel meco d'aita >.
Ecco che muove orribilmente il piede ».
Il Tebro l'Amo e '1 Po queste parole •.
Bonviso mio dai dispietati strali >.
Saggio Bonviso il gran pubblico danno > .
Degna nodrice delle chiare genti ».
XIV. — Di uiiA GENTIL Madonna Sanesb a un suo amante.
A e. 143 t. (Stanze XV.)
Com.: ce Misera in van mi doglio e mi lamento ».
XV. — Ave Maria.
A e. 145 t:
Com.: « Per voler l'amor mio mio petto aprire,
Et farvi 'I grand' honor che vi si debbe. *
Con reverentia son constretto dire
Ave.
Vagheza e honestà sempre 'n voi crebbe,
Beltà di par con pudicitia giostra;
Havete appresso a Dio la gratia eh' ebbe
Maria.
E cosi profanamente dì seguito sino all' Amen.
27
XVI. — EsOBTATIOnE DBLU PACE TBA L' IiPESÀIOIB B IL Re
DI FbAKCIA. COHPOSITIOUB 01 M. PiBnO ÀRBTinO.
À c 147-148 t. « Gae(Z0!<a ».
Gom.: ■ 0 Re 0 Imperador, temete e amate
I) Padre universa!, pereti' è Dio ia terra... »
Confrtrta quo' due a star in pace eoo Clemente \1I;
0, portando guerra al Turco, dar pace all'Italia. Notabili,
nella sua stranezza, qaestt versi della seconda strol^:
< Italia è nostra, e a noi la diede io parte,
Quando compartì '1 mondo, la natura ».
Ne abbiamo una rara stampa di Roma, 1524.
XVU. — Di F. Fedro voltehraho.
A e. 148 t.:
« Col pel cangiando l'amorose voglie ». (Sonetto.)
K Madonna i prieghi miei ». (Madrigale.)
« Nou è ver che pielade ». (Madrigale.)
— 423 —
A e. 149 t.-I5I t. Ck)m.: Dei opt. max. num. invocato,
aòsque cuius niUu,,,
XX. — Stanze recitate nelle nozb de hl.^^ Signor Duca
DI Fiorenza C!osho Medici. Finito el pasto si rappre-
sentò Apollo con tutte le sub Muse e le Ciptà di Sua
Ecc."*
A e. 151 t. Sono le Stanze di Giovarabatista Gelli, che si
trovano stampate nell' « Apparato e feste nelle noze dello illu-
strissimo Signor Duca di Firenze ec. » , descritto da Pierfran-
cesco Giambullari, e impresso da' Giunti in Firenze Tanno 1539.
Ma la nostra copia non viene dalla stampa; anzi ha varianti
notevoli.
A e. 159 t. Intermedii della Comedi a.
Sono stampati anche questi nell' t Apparato » ; e n' è
autore Giovambalista Strozzi. Furono pure impressi nel libretto
intitolato e Musiche fatte nelle nozze dello illustrissimo Duca
ec. • . ( Ved. Gamba, Serie de' Testi di lingua, n. 2750.)
XXI. — Epitafium T. Phedri, •
A e. 160 t. Fu da me pubblicato nelY Archivio storico
Italiano; Appendice, III, 777.
Finisce il codice con questo ricordo dello Scrittore :
SCRIPTO EL PRESENTE LIRRO PER MB FrANG.'^
Phedro Ingerrami da Volterra el
di xv dicbmr. m.d.xxxx.
— M% —
God. 41.
Membranaceo, in 4 pie, di e. 6 scrìtta.
RIA»>*ina cleiflt iiiBcl e iiiaa;i«tratt
della ten-a di Prato.
* Hoc est exempUir liUeramm iU."' et Mt.™ d, d.
Coirne Medicei predaritsimi Ducii U totiui domimi FUt-
rentini.
■ SpectabUei amici nostri precipui. Appr(q>iiiqiundon il
tempo da mi preSxo per dare la siia finale cooclusiODe alli
Rifomia delli VBlj et Magistrati di qaeDa lem et insane
ordinare tucto quello si conviene per 1' optimo gDvenM^ ino-
quìllilà, pace et conservatione ei del publico et del priTalo^
haveodooe sopra di wh preso la cura et incharìco per Io nnore
et siogulare aSectione ne portiamo cbome l' esperientìa ne ha
demodrato, et al presente meglio o^oscerete et ve ne e»ti-
ficherele, et per ciò posto ogni nostra diligeotia per aoeertard
dell' essere et stato di quella, et donde et perchè proceda la
sì trtiovi oppressati da tanti superchieTtrii debiti, et che todo
nasce da innumerabili spese exlraordìnarìe sema portare sed»
alcun Ihicto et proficlo, anzi più tosto danno cooftnione et
di ynam api n
I AIR ip.* Oa> a (
baio JimiL~ ù.a. IMS «H«B
Sono 17 Ot**- Isa
gumiw ddte &«e pie. per te ^
Mti brii pravndHob. E tf 4
A.
■IrHumiil ft»l * C 1»!
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Vi sono al
& eaao, con ì
God. 42.
Cartaceo, in fol., sema n. di e;
scritto tatto d' ona mano, sec. ZVm.
I^otUsare del Contai LORENZO KAaAI.OTri,
contro I* Ateismo.
Sodo le Lettere, che sotto il titolo di ■ Familiari *
Tennero pubblicate io Venezia, appresso Sebastiano Ctrieti,
1719. E poiché il nostro Codice appartenne a Giofast
batista Casotti, che lo emendò di propria mano: e il
Casotti fu in coirispondenza co' letterati e gii stampatori
Teneziani, e in Venezia passò vari me^ì: non è didìclle cbe
questo sia uno de' « due ottimi esemplari » che V editore
dice d' aver avuti da Firenze, oltre averne consultato no
altro romano ■ ne' passi dubbiosi > .
Dopo le Lettere seguono, della ste-ssa mano, i • Mo- 1
> tivi da aversi in considerazione da clii nel problema I
> Se i bruti abbiano senso o no. inclinasse a opinare per J
> TalTennativa *; e, d'altra mano, la Lettera
air anima de' bruti, al padre Angiolo Maria Querin
BIBLIOGRAFIA
Segni di Cartiere Antiche, del dottore D. Urbani. —
Venezia, Naratovich, 1870. Con dieci tavole.
Questo libretto del signor Urbani, V erudito e solerte
Vicedirettore del Museo Civico di Venezia, merita la più
grande attenzione per parte degli studiosi, sìa di quelli
che volessero intendere ad una storia delle Cartiere italiane,
sia di noi che abbiamo spesso per le mani Codici antichi,
e troppo spesso non sappiamo con precisione né quando
né dove sieno stati scritti. « Pochi sono, scrive il signor
Urbani, i quali non abbiano posto mente anco sulle vecchie
carte alla moltiplicità di quei segni che traspariscono con-
trapponendole alla luce, e dei quali talvolta pure si scorge
il solco leggero Le fabbriche diverse foggiarono alcuna
parte di quel fondo, con figure che ne facessero conoscere
r origine. Talora aggiunsero qualche segnuzzo o iniziale
presso r orlo, in un canto, in piccolissime dimensioni » .
E di questi segni o marche, che furono pure chiamati
filigrane, ci dà un saggio appunto il signor Urbani, che
potrebbe essere principio di più vasto ed importantissimo
lavoro. « Dagli stampati più antichi, egli dice, presi a
risalire verso i primi esordi delle cartiere per via dei
manoscritti, e a seconda che le carte si trovino usate in
— 428 —
uno 0 in altro luogo.... È quasi superfluo U dire quale
utilità rechi alla crìtica di tanti monuinaiti una sempre
più minuta osservazione della materia sulla quale furono
scrìtti.... Apparisce facilmente ancora quanto un così btto
studio aggiunge occasioni di penetrare bene addentro nelle
vicende de' piii celebri mss. cartacei, per V interesse pre-
cipuo regolatore delle ricerche nostre a rinvenire con
precisione il luogo dove una scrittura fu eseguita >.
Noi non entreremo nelle particolarità di questo lavoro,
il quale, come già dicemmo, vorrnnmo che fosse conti-
Duato, ampliato e condotto a compimento, se non per
tutte le carte italiane, almeno per quelle di Venezia; e
forse allora te altre città nostre dove sono le piìi cospicue
raccolte, di incunaboli e di manoscritti imiterebbero il
nobile esempio. Intanto valgano queste poche parole a
congratularci col signor Urbani, ed insieme a previo
che non sì stanchi neir utilissimo lavoro che siamo in
diritto oramai d' aspettarci da lui.
Adolfo Bariou
tVELLlNU PROVENZALE, OSSIA VOLGARIZZAMENTO DELLE ANTI-
CHE viTABELLE DEI TiiovATOHi, scntle già in lingua
d'oc da Ugo di S. Ciro, da Michele della Torre e da
altri. — Bologna, presso Gaetano Romagnoli, 1870,
in 12.' (Dìsp. CVIII della Scella di Curiosità lette-
I-arie), di pagg. XXII— 222.
Questo volgarizzamento è dovuto all' illustre penna
conte comm. Giovanni Galvani accad. della Crusca, e
nome suo si caro alle lettere sia in fronltì alla dedica-
toria ch'egli ne ha fatto al eh. comm. Francesco Zambrini
benemerito Presidente della R. Commissione pei testi di
lingua. Del quale volgarizzamento amando noi dare rag-
guagho che risalga al suo punto d'origine, ci è d'uopo
■render le mosse da due altre fra le varie opere mandate
luce dal nostro .\uIore.
Se ì Mitologi Anserò che Minerva nascesse armata dal
elio di Giove, similmente dir si potrebbe che il Gal-
vani nacque alla pubblicità letteraria in un' opera che lo
lasciava supporre maturo, laddove esso contava soltanto
23 anni d" età. Parlo delle Osservazioni sulla Poesia dei
Trovatori, le quali edite in Modena nel 1829, valsero ad
oUenei^li un'onesta e ben riconosciuta fama di eccellente
Mogo. Su queste Osservazioni, che formano un volume
olire 500 pagine in compatto carattere, il n. A. accom-
la ciascuna distinzione di rima provenzale coi migliori
esempi ordinali tradotti alla lettera e illustrati con raf-
fronti italiani di classica erudizione: e offerendo di tal
isa all'Italia, come già il Raynouard alla Francia, un'i-
completa della Poetica de* Trovatori, non che dell'ut!-
ne potrebbe trarre la storia del nostro idioma ,
iiisiniiandn nei lettori l'amore della lingua or^ilanica,
oiieni
^^olo
^m oli
i; esem;
i
— 430 —
:he moMra essere stata per ben due secoli dopo il
quella dell' amore e della cavallerìa.
A rendere maggiormente profittevole ìl suo lavoro,
pensò più tardi a presentarci in altrettanti quadri politici
e i:av3UeresGbi i principali avvenimenti della contrada t per
la quale avrebbero erralo, dicendo d'armi e di cortoae,
i suoi Trovatori, ed alle cui passioni ed alle cui guerre
o fortune o pericoli od allegrezze essi si sarebbero asso-
rjati per farne soggetto de' loro canti »; e all'importante
assunto diede egli lodevole adempimento col Fiore di sto-
ria delC Occitania cbe uscì in Milano del 1843. Nel quale,
dopo essersi fatto a parlare delle epocbe remote de' Scaliti
e Bardi ood' ebt)ero orìgine i trovieri in lingua à^oil e
trovatori in lìngua di oc, discende a trattare de' prìncìiH
e delle corti che in special modo coltivarono od ebba^
in protezione le lettere, e cioè dì Guglielmo IX duca dì
Aquitania, chiamato ìl trovatore primiero, di Riccardo Cuor
di Leone re d'Inghilterra, di Pietro I! d'Aragona e di
Raimondo Berengero IV conte di Provenza, terminando
con accompagnare Beatrice, figliuola a quest' uUimo, nella
nostra Italia alla conquista del regno dì Napoli, ove la
gloria del cadente linguaggio di oc viene con essa a man-
care, per dar luogo a quella del sorgente idioma del si.
— Nella prefazione al libro medesimo il n. A. promise
pure di fornirci ad opportuno contorno de' suoi quadri
storici le vile de' principali Trovatori; ma circostanze che
unicamente dipesero dal suo editore ne attraversarono la
sollecita pubblicazione.
Ad una tale promessa venne ora per cortese ìnrito
del eh. Zarabrini egregiemente supplito coll'ele^nte vo-
lumetto notato in capo del presente annunzio bibliografico;
ìl cui primo titolo di Noceltim provenzale non vuol gii
dire che le Vite de' Trovatori . ond' ei si compone, abbia-
no alcun che d' intromesso che non sìa pretta storia , ma
Bilie
soltanto il ricliiamare la singolare som^oza ctie~
offrono nella forma linguistica e nella concisione dolio
stile colia parte più antica del celebre nostro Novellino
Centomvelle o Libro di parlar gentile, il quale venne
cerio, come il presente, disteso sulla falsariga del pro-
izalc ad opera probabile di Francesco da Berberino. E
rafani ove Io studioso facciasi a confrontare le novelle che
quest' ultimo sparse ne" suoi IteggitaeMi delle dontte con
quelle che le^gonsi per entro il Cetilonovelle (tratto forse
Fiore di mbili detti del Monaco di Montalto, scritto
provenzale e andato miseramente perduto), non potrà
a meno di ravvisarvi tale un'' identicità di stile da do-
aggiustare alquanto di credenza al relativo giudizio del
itvani. Ad ogni modo, se anche il Barberino non avesse
essere P autore od il volgarizzatore del Centomvelle,
lerà però sempre indubitabile che il detto libro fu ri-
llcato sulla pro^ provenzale; cosi a noi torna di perfetta
somiglianza nella sua giacitura e andamento P esempio
portoci da questo Novellino provenzale, da sembrarci quasi
di tenere dinanzi gli occhi una seconda parte rimasta sin
qui sconosciuta di quel più antico, e come meglio appa-
rirà dalla vitarella che riferiamo, e che trovasi sotto il
,0. \1, alle pagg. 18 e 19.
K Otit co;*TA DI Messkr Roggeho.
(A. 1160-1180).
« Pier Roggero si fu d'Alvergna, cherico Ji Cbiarmonte,
le molto savio di lettere e di senno naturale. Fu gentil uomo
|t»clIo ed avvenente, e bene trovava e meglio cantava. Per
} ciò lasciò clercia (1) e grauimalica, e si fece giullare,
> ■ Taluni vocaboli s' incaricano di far l' elogio degli nomini di
Ecfaieia del dìhIìo evo. Chercu o chercia valevano allora mu' insieme
B taiiienU o )a(ii«nia; e laico, per conirario. Unto sigiiilìcava non
1 rfierru. ijuanLo iijnoranU. t
» *fmi óra rnwr-. :«» ^ila v k taim Mb fev-
• no» <fa «. S> ]' aid» -sa itSart ma^ t feavi* e Oft-
■ <afi 'fce k£ ^trw^KK àt fa» à te. « «te <
> Sipl'T *— ■ 1 MMl'li I HT VBÉ9t
*Lmw fcnf* wne ch Ifes» Riaftofti» f Oksn. e pà
MUt mt fort -ti hi.4 Jiiiw^' m Esfaon al baàrtìlB-
« wu AMwu» 'f AfatfOBL e ^ «i» ori feav i^Htr Rbbo^
• di T^laia UM* qi^Mo idi pixqw «ti rili nfte. Mah* cUe
» ejadi eaeri ad noailo tana «me» «' ri scor: ■> pa s
• readè ■drOnliK <li Gnamnk. « b edi tiA|w « fàL
*0n adite di lai mi coHiob fiatile caa cai nOe lodMi
. «1 è in questi «aMu:
— 433 —
ghiere ed i voU. nou ha mancato altreà di darci saggio
dì parecchie poe^e occitanìctie die sentimenti di tal sorte
appalesano, ora nel testo originale con traduzione letterale
iu prosa, ed ora soltanto (In conformità della cobbola sm-
rìportata) ridotte io rimo italiane mn si rara perizia e
fElìàtà di maniera da tornarci penoso di'* egli non rabbia
fatto più spesso, e diremmo anzi per lutti i componimenti
che cita per capoversi e die tanto strettamente si legano
ai casi narrati de' Trovatori. Se non riie abbiamo motivo
di credere cbe ciò possa esseigli soggetto di un altro la-
voro, come in prova della continua operosità sua rileviamo
dalla dedicatoria al Zambrini, die sta ora occupandosi a
farci nel suo vero aspetto conoscere il trovatore Sordelio
Mantovano ^ accarezzato da Dante.
Antonio Cappelli.
Del cb. signor pror. Salraiore
Salomon^Harìno armimo occasio-
nn di parlare alira volla, regiitran-
ib nella nostra bibliogra/ia il suo
lodaiissìmo lavoro della Storia del-
la Baronesta di Carini. Ora non
Toglìam (larimcnti passarci <!' un
ojiuscoio che leste ha dato ruorì col
utolo sopra indicato, il qaalc pur
contiene mullcplici pregi. È una
ristampa , ma corretta ed accrn-
leiula di parecflii altri Canti,
aameolando con cii^ tic pili l'im-
pwianza clw gii avea in sé cotesto
;tuì'>«!0 Ubriccino, che Torremiiio
inprìtamente più conosciaio in nue-
sie nostre Provincie. I.e pubblicu-
lioni del signor Salomone-Marino
baodg il Tanlitggio non nolanienle
ilei diletto, ma iizianilio dell'utile,
siccliè non indarno si leggono; sem-
pre l' ha di che siudrnrvi ei! ap-
La Chioma dì Berenirr. var-
ine di PlETHO CaI-iari — In
iiM Praneuehini-Farina. Ve-
na, flnetfUim e Franchini,
no, »n 4.' «il pfljj. 16.
Elegantissima rcrsionc pare a
noi cotesta, e da onorarsene l'il-
Insire Autore. Fedeltà al lesto Ca-
tulliano, eleganza di locniìone e
bcilità e graviilì a un iiunno dì ìcr-
«reggiare non mancano. Vorremmo
elle a bone delle nostre lettere
odierne, (ossero pib Trequenli cosi
kni esempi lodeTolissimi.
Elogio >(i Girolamu GargioUi
letto alla Società Colombaria
in Firema il dì 3 aprile 1870
da Guglielmo Enrico Saltini.
Pireme. Succettori Le Mou-
nier. 1870, in 8.' di pagg. i8.
Bellissimo e degno tributo al
btooraerìto commend- Gir. Gargìolli
4 qucst' Klofiio dettato dalla nobii
pana del signor Saltini. Stanno in
Appendice narecchie L:Ui:re d' uo-
mini iltusin imiirìlle allo «lesso
^^ Eie
Gargiolli, le i|uali i
dcmenlc il pregio a cotesto libro.
Saggio iJi ixilgarissamenti dal
greco e dal latino per Dome-
nico Bongiavanni. Forlì. Tipo-
gra/ia Sociale Democralica ,
1870, in 8." di pagg. 128.
Chi per |)oco sia dedito agli
sludii Danlesctu, non può ignorare
il nome del prof. Domenico Don-
giovanni mercé i suoi Prolegoìneni
del nvaso Commento Storìeo-llo-
rale-Esletico della Divina Com-
media, le cui opinioni, quantunque
non da lutti Tessero ugualmente ac-
colte, non cessa pero dall'essere
un' opera molto erudita e lodevole.
Ora cotesto nuovo Saggio dcjtti
svariati suoi studii leilerani vieppili
comprova il sapere e la dottnna
ond'Rglì k inTonnalo; e chi ebbe
in amore e in isiima il valentuomo,
non poò ora a meno ili non compia-
cersene e non congratularsene cor-
dialmente. Vi si contengono la Ba-
tracomiomachia d'Omero, un
Saggio di una nuova in ter prelazio-
ne dell' Odissea e tre Epistole di
Orazio. 1 componimenti sono pre-
ceduti da preliminari assai oppor-
tuni, ed in fine alle versioni stan-
no note illnslrative. Farci che il
SDO verseegiare sia 'coniato snita
roggia de'nnoni nostri poeti, jKr-
che sf'""" —-■--"—" ~— ".".~
ed piegante,
I Poeti itaiiani dei Cèdici d'Ar-
horéa. Note di ADouro BOROO-
csofii. Ravenna. Angelelli.i^lO,
in 8." .il' pagg. 29.
Assai preiiase sono, per nostro
avviso, coleste Nòie sulle Carle
d'Arborea, in cui si comballe bre-
vemente, ma con valide ngitni la
supposta loro auleniicìlà. Toccavisi
ancora dei vc-rii attribuiti ad Aldo-
brando da Siena, che da lai ven-
gono rigettali con buooa critica
siccome non apparicnentì all'eia
l'ui ii vogliono allriliuire.
- " jurrTU. mx^: — i
Paln-inilBLio f delle sue Hinit. delle
ijiuli alcune riporun»! a pìè di ita-
pan Me not« ed altre oeirultiTna
pnrie del preiìoso ragionamento.
Né, secondo il iiosiro avviso, si
■ppMc al Tcro r illiisire àg. Coc-
cmam, celebrando coleste poesie
(MIT Uione e de^nr d' essere inle-
r.)iiif(iir piiiililicjile secondo un cod.
!.iF» che si conserva nello
I omunalo di Palenno.
11. (lice egli, in volga-
Iioche lolle le Unezzc
•'M ^■■■.■', I' ^11 fu propria quella
raUai>i.i/a di forma e sicurtà di
gusto che sono indizio di arie ina-
lun e di »)|utsito sentimento.
^■^^Bsandro Pelo& fwrfa Un-
^^BCTMi!. IfCUitliiom di FEDEntCO
^^BPu.STiEiii. ìtapoli , De Angeli».
^^868, m 8." di pam. 30i.
^^ B«l serrìgio rese da tero allo
•oaiiv tenere l'illustre ste. Fede-
rico Funlieri col darci eleganle-
mcnU Tolgarinate le Poesie del
V«eA, appellato il Poeta della Iti-
ttilution' O'nghetvtf. il Tirleo del-
iL'nghz-rìa. Tacendoci cosi guslare,
K quanto si poteva in una Tede-
ima e stretta Tcrstone, l'indole
e le belleste originali di uno icrìl-
lorr rhc giodicatt il pib grandi!
In i po«li dì quella bellicosa Na-
lionr, od an de maggiori dell' Eu-
ropa contemporanea. U lìliro è pre-
erdulo da una lunga <• eireo^Uin-
mia ì'ita del PuelH . slei^a molto
pulitamente dallo stesso sii;. Pian-
lierì, la i(iule logliesj dalla pag, 13
r la nino alla 91. I componimenti
poetici, di vario genere, sono in
Ulto 91. Eccone un saggio:
ONOBATE 1 §E»PL(a SOLDATI
CUCI
lur pilrii i mUrifnt. eha par jnwio
ungmi lur. lur fiIU un iw'rllpH*
uatcbs ilncda; un mvle per Ha m^a
ft FIMI prò, so '] unno? Niaiu pifini
erwb ; iuta può f Ì4imD4Ì l' iilorii
nm>r IvW qaeitì che iKcumboDO
jot^r , in mulo il bcllin» furor.
irau li Hoiplicl kildili,
< snn |Hit grinili cliB li cip) lori
n morii.. Al toro eit a
)riù grindi elio li capi li
La. lingua comune in Italia,
Dialogo d'I. (ì. Isol\, Socio
detta Al Commissione pe' tasti
dì lingua e di altre diverse.
Bologna, Tipi Fava e' Gara-
gnani, 1870, in 8.' dipagg. 50.
Lodevole senza Goe 6 il divi-
sameuto dell'esimio nostro collega,
signor avv. IppoUlo Gaetano Isola,
di propugnare in cotesto prezioso
Diato^. come nelle ìsvariale sue
opere per In addietro fece, con
opi forza r illndre volgare italico;
ma diciamolo rrancamenlc, jter
quanta eloquenza e^lì adoperi e
per quanto sicn valide le ragioni
sue, rtsulla oggimai vano ogni ci-
menlo: è come un pesiar l'acqua
nel moriaio. La licenza e lo spinto
di novità, che entrati sono aa ogni
uscio, entrar vogliono eziandio nel
delie lettere; perche toma
invero assai comodo lo scrivere
studiare. 1 tempi van pur
cosi * inutile riesco per ora il com-
batterli. Ogni età ha suo speciale
28
-■«•-. ;.i. ■•«■dii amu b, _ -
-•i or ^nron. pnihf
•—:. zir- tm-r dfUi wMà
■ -.. .... ,0 t.jna t «*
. ■■ -n'.ze' Ed0D fiiit
■ ^■■^~ rmtriMt mUi 9M-
!-i (- prì". con pnMi
■^t-T . i.»rtiir dìodo dx M
■-n.aui;.ji- h.-ri-^fo r ifnvrrn-
■■- t; roScrtrle * L' dm i
- ! i: arnvì ctipoat futa
- ' — riòe. ndràdo. wnArr
■- aniittu . e
ili^r
£ Iti' DMHt: r ron ironÌFc
::-::.. te ìk-ÌTi- di un cooiom
'■ s ..aiÌL: ira j pia sffuM
:.:-.d^-:. l' Italii. la Gennaà
■- • ''I:;;bìIiiTra!Eiwia
■ ■: C--r~ cbe i botoli dk»
: !3rit 7 >.M è dnnqw Bfr
>:viJrT l-Tp ni snie:»
:";>■■ iw^oio: s tmem
.r-iij-" <-'ii.>rF cwnt f pff-
:5 ici:.>iKÌ3 a dfliin.'
rìdono di noi. rifr
un pi:<i) di bre.
■T •■ 3Dcon guari i»
. in uni ciiiì d'Ii^.
f jvod'nomo. cht «
rs di K-ieun- . lelim ed
^i iniunzi t
sci e;
i popoli
Éd-
1« ttellu, t pt-r lu [|uali-
Wero Gulurt! in
Ora il vBlenluoiiio ,
tolu ita alcun suo
donde avvenir potessr la
di coli disaocsio abbaiido-
Uata ignominia, loslo ri-
disH: —
una terra ilella Marca Tri-
oetebravasi a ifausiì passali
on solenniaùma e disusala
. Don-M qnale It»la cetile-
onore di nostri Donna, alle
.' Boa agùia e deiota Conrra-
di nolti Talenii e buoni uo-
K ÌD qoelb slanzi.ìv.mo. Ora
fakn) Mtarìale dìinoslraiinni
~j e di Rioia, (u, slamila
I corsa di caialli barberi,
I pnrniio ai tinciinrr. I.a
la pe' reggenti il Comune
, ch'erano, colpa l' altrui
atggìae o codanlia, i più
1i e i maggior briniuli del
ma bua ragione di parec-
Miaili), sì mossero a gran-
_ >re e mrono tosto alle luaoì
Irltì buoni uomini, prolrstando,
1 si Toleia sontrìre in
a, con eia tosse ch'egli
-.TbeDe, che si crossa mo-
ti dipartisse dal loro tillait-
BTC tanto minuto popolo di
i albergali; uia clie il ratto
r si aófta per Tomia, ch'el-
la i(DÌvi ad ogni modo si rìnianes-
i\i<-n (are: mpnire che
I 1 ra da cercare allro»e,
.1 i:ran dovizia aveji nella
sema che gli spct-
u.„ IiIkiu preso due Unii piti
dikllu D'I ii>di^r correre asiui clic
non cavalli. Ora le ragioni del Co-
maiK non troppo gradendo ai mem-
bri della Coniralerniia, nacque un
(Mrapiglia cosi buii, eh' io non vo'
air gualc, tanlo fu grande e acca-
atUt. Ben sappiale, die, dopo lunga
■ , venne alla prrflne deter-
minalo, che sicctunc il qulsllonire
anche lino aUa dimane, non sareb-
be in«n[aio a nulla, Ibsse da pro-
ceder^* a" voli, e che la maggio-
ranni prevaler dovesse. Si venne al
fatto. Nel giorno dipoi, a siiori di
campana, traggono que' terrazzani
rrellolosi, scamiciati, colle giulibe
io sulle s^lle. parte in zoccoli e
parie a pìp ignudi che sembrava
venissero dal Pei'dono; traggono,
dissi, a consiglio nelle case del
Comune, in numero di ben trenia
tre. a'qoali altrelianti membri della
Confralcmiia sono aggregali. Quivi,
dopo un lungo ragionar del Sinda-
co, messo mano alle fave e gettate
giti per lo bossolo: pale-sato, si tro-
varono li-enla tre bianche e trenla
Ire nere. Di che oltremodo hnpac-
ciata la Giunta, che suole essere
sempre inferiore alla derrata, e per
lo caso strano e pel bisbiglio nato.
chiamano a soccorso il Sindaco, e
lui invitano e parhuneniare di nuo-
vo. Questi, che (secondo avviene
comunemente) non disseparata dal-
l'ignoranza, avea buona copia di
malizia e ciucili da far correre, sali-
to su dì un desclieito, accennando
colla mano che ciascun sicsso cbe-
lo. fatto il silenzio, cosi prese a
dire: Signori Confraternili, Signori
Coinunisii, io veggo troppo Dene,
che la quistione polrebue andare
assai per le lunghe e non irarscne
prò alcuno. A me par quindi, che
si possa saiisfare ad ami» le parti
senza che l'util d'alcuno e l'onore
ne vadano, in queslo modo: che
s'ia lecito cioè e diritto aver luogo
alle corso asini e cavalli ad un ten>-
po; i Signori deUa Confraternita
ponendo cavalli a lor talento, pur
che sjeno di proprietà loro, ed asi-
ni «fucili del Comune. Viva il nostro
indaco! dissero alcuni ad alta vo-
ce; sìa latto, sia Gitio. Ha il Sin-
daco non lasciò dire oltre, anxi con
una voce da toro, soggiunse: Si-
leiUium. Signori; alteodcte la line
1
del mio ragionamenio e poscia Ci-
vellereie. Tacquero lutti allora, ed
egli asinescamenlc conlcgnoso e
Prave, aitorliKliaadusì per jeuo
estremila dei bafD, seguitò dicen-
do: Fogniamo dunque che non sia
fier dispiacenri la mìa proposta;
ciascun Comunista faccia di raccór
Ire asini e gli metta al cimenlo
co' cavalli della Confratemiu, con
Suesto però, che i micci abtuano
a precedere i catalli lo spazio al-
meno di pertiche dicci. A Canio
quelli del Comune nuovamente ap-
plaudirono, ed i Signori della Con-
n^temita, non pensando alla ma-
lizia del Sere, ne andarono pur
contenti, avvisandosi che un caval-
lo solo fosse sufficiente a rincerc
non cento, ma mille asini. Venne
dunque il d) della corsa. Cento e
uno furono i somieri, perchè di
privilegio delta scranna, volJc il
Sindaco melteroe uno per soprap;-
più, quello ch'eì teneva appo ac
per le maggiori e quotidiane sue
bisogne! ed era un cotale asinaccio,
gioTincello se Tolele, ma gran ra-
gliatore, tardo, prosuntnoso ed o-
slinato più che asino, il quale ci
chiamala Babbuino: ed un altro,
pur di privilegio, poco dissimigltan-
le dal sopraddetto, che area nome
Buacciolo, aggiunse il Segretario.
Un buono e un dabbene asino anche
il Curalo volca arrogere, e un ahro
il Medico e un terzo il Brigadiere,
ma non fu conceduto, perclié non
erano della terra. Tre cavalli sol-
tanto andarono al cimento, paren-
do che ciò fosse assai, Ira quali
un buono per intelligenza e per
prodezza, cognominato Corsa. Gli
spettatori e i curiosi eran uaolli,
e ciascuno che conoscerà la qui-
stione avea trailo da' vicini castelli
parendo loro mille anni vedpme la
line, intanto sono condotte al luo-
go del palio le due maniere di cor-
ridori. Al Tederli strilla il popolo
per la gioia. Si pongono innanzi
spazio delle dieci pertiche dtri-
sate, ed all'ora opportuna si " "
bramalo segno, percuotendo . . .
stando e mazzìcando e punieecIiÌBD>
do crud^enle. I ciumenti à av-
viano senza fretta e di lento trotto,
secondo che la loro natura com-
porta. Vanno ì C3i>-al]i, ma sena
usar loro corso: frcmilono, ulri-
sceno: è tuttuno: avanti non M»-
sono, impediti dalla tnrtta aÙDiU,
che già a plfi scomposte Ole e
pa la stretta via che mena all'
re Or dtcolo io, o piire il di
tacere? v'erano maschi e (inniatu
insieme e alFa rinfusa! potete bnw
imaginarvi che digrignare! che tor-
cere e sollevar dì musi! che ap»
lar d^le pendenti labbra! che o>'
rìcciar di nasi I che alzar di ragli,.
che levar di code, che trardica*'
ci, che talTeruglìo insomou e et
piacevolezze si vedeano! In cosi A
lo tramesto dunque il |
cavallo, come se mente unu
vesse, tà sosti un tratto;
andar oltre i giumenti; poi eoa
r irto crine e la svolaiaote coda
muove a gran corsa per sorpassar
li ; ma la sorte gli A à netnica, du
rotte le prime Ule, inciampa né
l'ultima, e propriam^nic ta qtn
maledetto asinaccio del Sòidioa
Casca per terra e guastasi la ctacJi
In questo il rumore si leva torte
tutu ^ridsuo: Viva gli asini, viti
gli asmi! E gli asini di b\Xo eoa
cordcmeote, preceduti da Babbain
e da Buacciolo, quasi ringraziasi
ro la bonarietà del popolo. raglìaiF
do e ruzzolando , giun^u prìia
alla meta. Guadagnano il premio
e inghirìandati di rose, di rair^
e di alloro, vengono con dolc^ sn
di strumenti condotti alle nugit
loro per quindi dover essere, nta
schi e feuimioe, ben ^ravveduiì ~
tempo opportuno^ ed i Consìglie.
grandi onori largiscono al Siadaci
che sì sotlìlmente ha disposto per
— 441 —
che la giustizia e le virtù trionfino,
e lui appellano, in benemerenza,
Gran Cordone dell' Ordine di Monte
Asinaio. E poi, ivi a non molto,
Babbuino e Buacciolo, come i più
garruli della brigata e i più sac-
centi e di più begli e lunghi orec-
chi forniti, avvegnaché di picciol
trotto, furono adagiati a due imone
e pingui mangiatoie; l'uno in quel
di Scaricalasino e l'altro in quel
d'Asinalunga ; dove, mercè la pro-
teggi trice gerarchia asinesca, non
più venne meno 1* annona : onde
vispi e rubesti, parendo già loro
essere divenuti gran bacalari per
r ottenute prebende, addottorati,
incominciarono vie maggiormente a
ragliare, a mordere e a trar di
calci senza una discrezione al mon-
do; e così forse dureranno insin
che non trovino qualche ardito me-
dico, che, sanandoli, lor tragga il
ruzzo del capo. —
Qui si tacque il valentuomo, e
quegli che l'avea da prima addo-
mandato, brevemente conobbe, che
non già le virtù e la dottrina fan
sempre salire e procacciano agi e
onorificenze, ma sì più snesso V in-
trigo, l'egoismo e le mal concette
f)rotezioni ; e che tante volte, come
a nebbia offusca lo splendor del
sole e lo sfavillar delle stelle, cosi
la moltitudine degli ignoranti e de'
tristi, insieme ristretta, impedisce
temporalmente e sgomenta il chia-
rore degli uomini onesti e virtuosi.
X.
t I
IMDIGE
La Direzione ai suoi Colleghi ed Associati Pag. 3
Giovai) da Procida e il Ribellamento di Sicilia nel 1282 (prof.
cav. Vincenzo Di Giovanni) i 5-360
Una Poesia ed una Prosa di Antonio Pucci ( prof. cav. Ales-
sandro D'Ancona) i 35
Il Perdono di S. Francesco D'Assisi e un Sermone di S.
Agostino (prof. ab. Antonio Ceruti) i 54
II Pozzo di S. Patrizio (doti. prof. Giusto Grion) . . . i 67
Dialogo della lingua comune (prof. avv. Ippolito Gaetano
Isola) » 150
Reltificameulo, al Direttore del Propugnatore (cav. Fran-
cesco Di Mauro di Polvica) i i97
Sul Rinaldo di Monlalbano (prof. Pio Rajna) . . . : . i 213
Studii sulle lingue Romane di ?arii filologi moderni (cav. prof.
A. Bartolo » 242
Delle Carte d'Arborea e delle Poesie volgari in esse conte-
nute (prof. Girolamo Vitelli) i 255
Leggenda di San Marziale, testo inedito (prof. ab. Antonio
Ceruti) . . . i 323
VARIETÀ
Della parola Candella (Adolfo Bartoli) i 391
La Leggenda di Prete Giustino (Reinhold Kohler) . . . i 392
La Novellaja Milanese (prof. Vittorio Imbriani) . . . . i 396
1 Codici Roncioniani (cav. Cesare Guasti) » 412
BIBLIOGRAFIA
Ricordo di Antonio Tumminello (S. M.) » 199
Cantilena di Ciro Massaroli (S. M.) i 200
Novelle di Francesco Prudenzano (Alcuni Soci ecc.) ...» 201
Lettere inedite di Pietro Giordani (A. D. A.) i 203
Segni di cartiere antiche (A. Bartoli) i 427
Novellino provenzale, ossia volgarizzamento delle antiche vi-
larelle dei Trovatori (cav. Antonio Cappelli) ...» 429
Bullettino Bibliografico (X.) i 204-434
IL PROPOGNftTORL
STDDII FILOLOGICI, STOEICI E BIBLIOGRAFICI
DI VARI soci
DELLA C0IIIS8I0IIE Pf-TISTI DI IINGUI
Voi. III. — Parte IL'
BOLOGNA
rilESSO GAIfTANO ItOHAGNOLI
Libraio-Editore della R. Coaiinissioiic pe'iesti di Lingua
1870
•moneti ML-nr.i
COMPENDIO ST(3I11C0
DELLA LETTERATURA TEDESCA
In ti* ofl I ■ z t o no.
Naia vastissima regione deir Asia, che confìna da una
parie coi Moali Caucasi ed il mare Caspio e dall' altra col
fiume Indo: )ìi, ove ebbero sede le stirpi dei popoli
Ariani, anche i Germani ebbero la loro culla, e di là per
motivi non abbastanza conosciuti, essi presero le mosse
rerso l'Europa. Il popolo dei Celti che li aveva prece-
duti, fu spinto da' suoi successori verso i paesi e le spìag-
gie occidentali d' Europa. I Germani si sparsero in parte
nei paesi intorno al mare baltico e nella Scandinavia, e
parte presero dimora ne! vasto territorio tra ìl Reno, il
Danabio. le Alpi, l'Elba, il mar lialtìco e quello del Nord.
Sul confine occidentale e meridionale delle loro terre
ucolte, venuti in contatto coi Romani, essi ne diventarono
oggetto della brama di conquista, ed insieme della voglia
sapere di questi conquistatori del mondo antico. Quindi
0 gli scrittori Romani, come presso gli storici poste-
dei Greci, dehbonsi cercare le notizie ed i documenti
[Mù antichi della Storia Germanica. A Cesare ed a Tacito
dobbiamo specialmente ricorrere. Quest' ultimo ha posto,
cosi dire, nella sua Germania un magnìfico monumento
«Isa
Biori
.«"OCLL r.rkzzii zxx'jt j-z-Seraiii, ^:<re dalb Berti
'iciìa O^raiaua KOÌr: U'^soA' lucia ti una hice troppo
itcfeT-ii :^f-: ^ :«èr':. cm i <>ìnBXii M lesq^ deb
pncc '.■:r: rT^u>:[i; '!-:i ft-'-mariL ent» dà aliiDmo pio-
a^ii i>7LJ »jìlnn- La des.TtDi-C'T di Tadto della loro
lio filiera i ffÌTia i? ■iim.:stn cfaanmeole. Fone
tadó: i>:c ani -as? snunett^cd-?. cbe ì Govuch mi-
UméLt^ ilU l'jTO Pihryjfx imfortaixiry aiuJK dall' Aà
la aXiTiic^rjì irili l-rttere nmkbe. a die afcerauno aocon
le tr>iz>:'rii [>:'pi>:be 5^■p^^ i>lii>:^. Q quale oltre la refi-
gioce ha a&:t-e infecijab> l' o^ delle tenere. Se si TogtiooD
àtqaJK qnaite primilÌTe tncde di caltoia e di poeà
gennanica, si dere preodere codsì^ parimenlì da Tadla
Qaestì ncwDia. che i Cennani celebravaiio ì pn^enilari
del loro popolo, il dio Tuiteo ed il di Ini Aglio JKuho
in antìcbe canzooi: cbe dal soooo più o meno damonno
del canto guerriero, co^ detto Barriius, cbe intnooaTXiD
prima della battaglia, e&si prooosticarano l' esito deUa [Nh
gna, e che es^ cnstodÌTano e celebrarano io canzom la
memoria dell' eroe nazionale Arminio. Inoltre GìuHaiia,
Terso la metà del terzo secolo, ricorda delle canzoni pò-
Oneste indicazioni ci sono prove safflcienti per cdo^
ciadere, che già nei lempì antichissimi si coltivava nella
Germania la poesia popolare. E principale oggetto della
medisiraa possono essere state le tre antichissime tradi2ioni
di Si'jfredo C incallito, del lupo Isengrimm e della volpe
Reinhart, che purtroppo nella loro forma originale sono
per noi perdnte. Le due prime ritraggono la loro origine
nel buio dei tempi pagani della Germania; così almeno
si potrebbe dedurre dal loro carattere mitologico-pagano.
Per ciò che riguarda la lingua delle differenti stirpi
Germaniche, si è reso sommamente benemerito il celebre
etimologista Giacomo Grimm. Secondo lui farebbero desse
UD ramo della grande famiglia indogermanica, subdivisa a
qoaiUo ci è lecito concludere dalle fonti primitive, nei
segnenti quattro dialetti principali: 1." il Germanico-orien-
late 0 Gotico; che non sopravvisse al regno degli Ostrogoti
in Italia ed a quello dei Vestrogoti nella Spagna, di cui è
figlia la nostra odierna lingua delPalta Germania; 2." il
Germanico superiore, che si subdivise in altri tre dialetti
cioè nel Bavarese, nel Franconio, e nello Svevo, il qual
ultimo nel progredire del medio evo oltrepassò in impor-
tanza lutti gli altri dialetti germanici ; 3.° il Basso Germa-
nico, ie\ qaaìe fanno parte l'Idioma Anglo-sassone, il
Fhsio ed il Sassone-antico colle sae diramazioni il basso
germanio) e r olandese ; 4." 1' Antico-nordico, da cui pro-
vengono r Islandese, il Danese e lo Svedese.
Nell'arte del verseggiare valeva sempre la suprema
legge, r accentuazione, cioè a dire, il verso consisteva in
un numero Asso di sillabe fortemente accentuate, così detti
alzamenti, fra i quali potevansi frammettere altre sillabe
meno fortemente accentuale. I più antichi versi regolari
in lingua Tedesca, che sono pervenuti sino a noi, appar-
tengono ai principio del nono secolo e consistono in versi
Im^i di otto alzamenti. Essi sono T antica misura del
k
■uLi. —■.Il-': :i'i;t:iiar^. ■■ aìiL*?D-:
■■-•- ni-3-estni: Tm bì'.' iti»v.> t uoao setxAo questi nri
i?:L'\-aii- irìra:. uij. ^'.." aitr:' mediante raUÌtteriàaoe,eà
iil)'.>r<i IL :•.•: '.-'•: nczz:* ^ìdii: nme finali La piò i^
strilla 2^: «-fl--' fjostsir IL àot twìj lancili.
Lt misarT aruii'^iili e ]v 9rMt di canzoni xtBUn
<>>it3iit'j ym tarÒL '_-ic>^ a] teinp'> del canto eroiìco. k
q\iì\ e;<:<'3 ia Vii^ii l^ìttc» alibi) arato inlopreli t
fT'jleiii'.o^. Diii; >; 7>d"' fissare ccm ;>redàone. Però ^
■li bu.t'j ora vi rraDj (anUtri e sn'Tnalori erranti i ffftà
catitavaii'.' <r r^(-it3Taii<:< i piirii cauti declì eroi ioaanii i
Grandi eil a) poiti-ì-ri. acoompacDaDdùsi coli' arpa e col
liuto.
Ancate ì fì? e jli er-:>i medesimi eseratarano la noli
arte del cauu.>. e ]•:• imostnao il vecdiio re nel pool
BeownlC l'ciUrfr nelle Nilielonsen e Horamd nd GodnaL
iK'i'O >:}aesta trere introdozione alla slorìa ddla lei-
Urratan le-les-:^ dividiamo la medesima in qnatlro epodie
prinapali f'm: 1." I (empi più antichi; 2.* il medio era;
3.* i tempi moderai e l.° i tempi remotissimi.
Ma prima di entrare Dell' analisi dì queste quattro
epoche daremo brevemente alami cenni generali sopn
r infloenza, che esercitarano il Cristianesimo . la poeà
a-iicetìca, la Romantica, l' antica cavallerìa ed il teatro medio-
evale sulla letteratura non soltanto della Gennaoia ma <fi
idecoiDposiziontì del moDdo antico, T ultima ora di qae-
[ Società si decrepila e passata allo stato di totale ma-
io, doveva scoccare. Il geime di una nuova Idea, la
, era cresciuta a poco a paco nel tempi del far-
ineoto degli Imperatori Romani ad una spirituale
rìvoluzionarìa irresistibile, la quale sconquassò
Edificio sociale dell' Antichità, attaldiè una parte del
mo dopo r altra cadde irremediabilmente sotto i
nuli assalti dei popoli germanici durante V uragano delle
'loro trasmigrazioni.
Ha questo immenso e mostruoso caos, durato quasi
cinque secoli, e che sembrava di voler distruggere lotal-
menle la cultura de) mondo antico, si erano sul limite
fra l'oliavo e nono secolo innalzate due istituzioni domi-
oalricì di una nuova era mondiale, cioè il Romano Papato
e l' Impero Romano-Germanico, questi due punti cardinali,
intomo ai quab si aggira V intero medio evo. Questo grande
perìodo della Storia universale può apparire al coperto da
ogni ranta-'magoria premeditata o non premeditata, alP im-
parziale osservatore d' oggi come un' epoca sommamente
bartiara, quantunque sarebbe stoltezza, se si facesse rim-
proTOM agli uomini di queir epoca per quello, che essi
senlivano. pensavano ed agivano, mentre tutto questo vo-
levano le idee di allora.
La suprema ed universale direzione degli spiriti era
ia roano della Chiesa. Essa Tu per lunghi secoli la sola
custode e V unica dispensalrice di ogni cultura. Egli è nella
natura di ogni dogmatismo, il volere promuovere il pro-
gresso solamente Qn là, ove si possa dire decisa la vittoria
della sua maniera di pensare, di credere e di insegnare.
Toslocbè il lavorio della cultura accenna a progredire un
po' innanzi, l'esagerato dogmatismo ne diventa il pili im-
placabile avversario. Questa triste verità ci è dimostrata
dilla storia della Chiesa ; non soltanto dalla Cattolica-Romana
— 8 —
0 Bisantina-Greca, ma con altrettanta evidenza dalla luterana,
dalla calTinista, dair anglicana ; anzi qaesr ultima era, ed
è forse la più insensibile, la più servile e la più esdnà-
vista di tutte le Chiese. Egli è fuor di dubbio che gli im-
mensi risultati materiali ed intellettuali della cultura, che
furono ottenuti in Europa durante i tre ultimi secoli, non
furono acquistati per mezzo della chiesa ; mentre può darsi
lo fossero suo malgrado. Nessuna meraviglia dunque, se
essa esiste già da lungo tempo non più per la relsAiva
maestà delle sue idee, ma per T apatìa spirituale e l** igno-
ranza delle masse e per la protezione degli stati e delle
costituzioni.
Col crollare dei moderni stati di polizia minerà anche
r artificiale meccanismo della Chiesa, perchè contro Tir-
resistibile forza del progresso e delle idee non ci ha scampo
veruno. L'anima divina del Cristianesimo rimarrà, perchè
essa è eternamente vera, ma il dogmatico corpo crollerà
sotto r urto continuato e prepotente della moderna Cultura.
Il Cristianesimo primitivo ha vinto il mondo antico
per la sublimità e l'energia della sua morale. Il Cristia-
nesimo primitivo era una reazione dello Spiritualismo,
prescritta dalla necessità storica, contro il prepotente e
frenetico Sensualismo, che dominava universalmente i popoli
di quel tempo.
Esso prescriveva air umanità, quando il Carnevale nei
tempi degli Imperatori Romani erasi convertito in una
frenetica orgia, una grama ma salutare cura di digiuno.
Ma come è solito di accadere, quando un nuovo principio
in tutta la freschezza, austerità ed esclusività della sua
forza giovanile, tempesta contro un antiquato, cosi avvenne
anche qui. « Il Cristianesimo, dice Jean Paul, distruggeva
come il giorno delP ultimo giudizio V intero mondo sen-
suale con tutti i suoi allettamenti, lo schiacciava alla forma
di avello, lo trasformava in gradino verso il cielo, lo ri-
leva a soglia, e poneva nn nuovo mondo spinto
► luc^o » . La demonologia divenne la propria mitolo^a
[ mondo fisico e demoni vagarono intorno solto Torme
1 «mane e mistiche: ogni vita terrestre cambiavasi in avvenire
celeste. Imperciocché il contegno del Cristianesimo verso
le arti e le scienze doveva essere in principio tutto ostile.
Eccitato dalle sofferte persecuzioni air intolleranza pivi
partigiana, volgevasi il Cristianesimo diventato potente pieno
di cieco furore contro i tesori dell'antica cultura. La
distruzione disegnava il cammino trionfante della nuova
fede. Bande di furiosi fenatici irrompevano dal mondo
claustrale e romilico dei deserti della Tebaide, e si slan-
ciavano con impeto barbarico contro i tesori delle arti e
scienze antiche. Le piìi nobili costruzioni e creazioni del-
r arto perirono sotto il furore esterminatore di stupidi e
fenaliti monaci, le biblioteche pili grandiose furono date
alle fiamme, come la sommamente pregievole biblioteca de)
Serapeo ìn Alessandria fu totalmente distrutta dall' arcive-
5C0T0 TeoGlo nell'anno 38f); le pili splendide tradizioni
di poetico slancio e di filosofico studio furono stigmatizzate
dai devoli padri della Chiesa col marchio della peccabilità
e proclamate opere del Demonio. Sulle mine di un
giocondo godimento della vita s' inalzò il culto della
morie e del cadavere: nel luogo delle leggiadre figure
delle divinità mitologiche subentrò il culto delle reliquie
dei corpi santi. Tosto però che questi saturnali del cieco
finalismo erano passati, ad ogni pensatore doveva venire
io mente, che la fondazione di una cultura esclusivamente
negativa e soltanto specificamente cristiana, era una mera
illosione di poca durata. Malgrado di ogni orgoglio del-
r astrazione cristiana si doveva risolversi a raccogliere i
materiali per la costruzione di una nuova cultura dai gen-
tili par sempre tanto disprezzati e condannati. Ed ancora
di più: siccome il bisogno di adornare ta nuova religione
— 10 —
milolob'icamente, facevasi seotire in modo inelutlabile, non
sì esitò a prendere ad iiuprestito presso i antichi poeti
tanto maledetti da parte dei padri della chiesa, tutto qoello
che potesse servire d' uopo di dotare ed adornare P Olimpo
cristiano.
Frattanto il Cristianesimo, come noi vedremo, ba
conscguentemente eseguita questa impresa soltanto nel sua
rappresentarsi sotto la forma di Chiesa cattolica, menlre
il Cristianesimo primitivo nella sua ascettica rigidezza in-
dietreggiò spaventato dinanzi ad una artìstica elaborazione
della dottrina e del culto, e si mantenne ostile contro la
vita stessa, come anche contro il flore della medesima,
l'arte. Questo era fissato anche dal tuono della primitiva
poesia cristiana, che attingeva le sue aspirazioni da quelle
del vecchio testamento. L'elemento visionario della profezia
produsse dalla parte cristiana ìl poema l' apocalisse, ed l
Salmi diedero alla Lirica cristiana un suono fondamemale,.
che corrispose interamente al contrito separarsi dalla
terrestre valle di lagrime. La forma dei più antichi poeti
del cristianesimo era una reminiscouza delle forme antiche,
e tale rimase ancora per lungo tempo; l'argomento en
formalo principalmente dalla parafrasi dei vangeli, piii tardi.
anche dalle biogiafle del martiri, dei quali nacqne od
corso dei tempi quella faragine di leggende spesse volte
stupide ed assurde. Aliato di ciò furono poetìzzati motti
inni che esaltarono le lodi del Redentore, celebrandolo on
sotto la mìstica figura del pastore del gregge dei credente
ora sotto quell'altra dell'agnello pasquale che tolse i
peccati del mondo.
Però tutta questa poesia era assai monotona e magra
e se talvolta introducevasl qua e là qualche suono armonico;
conforme alla natura ed all' umano bisogno, sì gi-ìdava ali
peccato. Cosi fu scacciato dalla sua sedia vescovile ìl VcscorO'
Eliodoro, perchè aveva scritto 11 romanzo
Cariclea ».
— li —
Il Canio iTJstiano più mlko si innalzò nèHI
i:a. I snoi rappresentanti principali sono: il padre delta
, Clemente (fi Alessandria verso il 200, al quale il
i celebre inno dedicato al Redentore, concede il diritto
I gloria d' essere cliiamato il più antico poeta cristiano;
I Gregorio tbscoto di Nazianzo { mori nel 391 } il quale
^ l'aolore del piìi antico dramma cristiano sotto il titolo
ly[fii'rzii wdTn.tv) ossia « Il Cristo sofferente », scritto in
*-KRi euripidiani; in oltre Appolinare di Laodicea, il Sinesin
di Cirene (morto il 431) e Melodie di Palara. Un assai
mediocre lavoro in poesia è la così detta Oinerocenlra,
una liiografia dì Cristo fatta in versi omerici da un certo
Peianio ne! S." secalo e continuata e terminala da Eudossia
\ì dotta consorte dell' Imperatore Teodosio II.
La poesia della Chiesa Romana (anche detta > l'Oc-
cidentale 1 ) comincia col padre della Chiesa Tertulliano,
die mori nel 220, e la quale ebbe specialmente una di-
rezione epico-didattica, nella quale lo seguirono Lattanzio,
Giovenco ed altri. La Lirica, cioè il canto proprio della
filiera, fu però soltanto introdotta dal celebre Vescovo
Amltrogio i Milano, che morì nel 397. Le premure di
Am)>n:^io per la dignità e la bellezza del Canto della
Cliit'sa furono accolte e continuale con riconoscenza dal
papa Gregorio I, il quale si dimostrò poeta valente nei
SQoi canti mattutini e vespertini. Di grande importanza ed
mflaenza per questi tempi ed i seguenti era il libro di
Severino Boezio morto nel 524, scritto parte in prosa e
I parte in versi e che tratta della consolazione della fìto-
^^H Coir nndecimo secolo, nel quale fu decisa la vittoria
^^■la Cbìesa Romana, essa cominciava a spiegare il suo
l^einlo nel modo il piìi potente. In questo tempo ebbe
ofigine il celebre * Dies irae > poetizzato probabilmente
da Tbimnaso di Celano; alquanto più tardi Tommaso
j
— 12 —
[T Aquino celebrò la Testa del Corpus DomÌDì, allora ìsliUiita
col suo beliissìmo e mìstico inno * Pange, Uagita ; »
Bernardo di Chiaravalie propagava nel canto uoa spede
(li stoicismo cristiano; li frate lampone cantava 11 suo
commovente e sublime • Stabai mater « ed il Cardinale
Damiani spiegava nel suo inno sulle gioe del paradiso tu
sommo ardore di fantasìa ed una magnìScenza di colorito,
che infervorano anche il più freddo ammiratore.
Da questa poesia della Chiesa Romana usa la poesà
neolatina, che si coltivava nel mondo dotto sino a) d6a-
mottavo secolo, emancipandosi però nel corso del tempo
dalla chiesa, trattava con severa imitazione della forma
classica, nella maniera di Virgilio, di Orazio e di OtoJ»
delle materie epiche e condiatteva le pazzie ed i vizi del
tempo 0 esternavasì anche in canti lirico-erolid. Dì là dh
scende nna serie di celebri poeti neoialini dal nono ma
al decimottavo secolo che comincia con Walafredo Strato
abate mitrato di Reicbenau che morì nel 849 e tenniu
col Cardinale Melchiore di Polignac morto noi 174L
Neir intervallo fra questi troviamo i nomi di molti altri
p. e. Giovanni di Salìsburg, Abalardo, Gualterio Mapes^
Petrarca, Poliziano. Sannazaro, Pontano, Felice HemmeriiO,
Erasmo. Ulrico di Hntten, Vida, Balde, Lotichius, Giuto'
Scaligero e Ugo Grotius.
Ma lutla questa poesìa latina aveva soltanto nto»
ed importanza nei cìrcoli dei dotti. Un proprio pregic
d'arte per la letteratura nazionale dei popoli essa uni
ebl>e : anzi fu alla medesima piuttosto di ostacolo di queUo
che r abbia promosso e le abbia giovato.
LA ROMANTICI E L'A!mCA CAULLERU-
L' uragano della trasroigrazìone dei popoli gettò ia
ruine il mondo Romano e fece cadere al suolo la soerralx
Cirilla del medesimo sotto V impetuoso assalto della ioooha
fora della natura. Ma questo uragano purificò ancbe io
pari tempo l' atmosfera della storia del oioDdo ed iatro-
diuse aa sangue fresco e sano nelle disseccate arterie del
corpo sociale. Suolsi comnoemente dire, per abitudine or-
mai ioTeterata , che , per la irruzioDe dei bartari nd-
rimpero Romano, l'umanità sia stata ricacciata per da
secoli nel suo primiero sviluppo. Nulla è più contrario b
storia, ne più ingiusto di questa gratuita asserrione; dap-
poicfaé la parte meridionale del mondo d'' allora, SaaaaaAe
e moralmente decaduta, è piuttosto debitrice della sua
rigenerazione unicamente alle popolazioni gennanicbe, che
conquistando e rovesciando si sono gettate contro di essa.
An^ come vedemmo, lungo tempo innanzi V uruziooe
dei barbari, Y antica cultura er? gi^ passata allo stato di
decadimento. I Germaoi furono soltanto gli esecutori di
una dì quelle grandi sentenze sempre vere, cbe di epoca
io epoca escono dalla bocca della Neraià, che regge la
storia ed t destini del mondo, sentenze, che condanoaDO
air estorminio una società decaduta ed in pari tempo ne
evocano alla vita una nuova.
I popoli germanici, ì quali al tempo di quella im-
mensa rivoluzione, che di solito noi chiamiamo la trasmi-
grazione dei popoli, conquistarono le provincie romane
avanzandosi impetuosamente dal Nord e Nord Est verso il
Mezzogiorno e Ponente, mescolavami coi soggiogati zìa-
Mdte loro nuova dimora e da questa mistione luciroBO
I
quelle nazioni mi;sle, che dlconsi Romane, i
tori framischiarono non soltanto il loro sangue, ma i
la loro lingua con quella dei vinti Romani, e siccome 1
lingua Latina godeva di una perfelLa cultura, non potei
non avvenire, ciie essa si sottomettesse 1 rozzi idiomi d
vincitori in modo tale da rimanere in tutte le proriDd
occidentali del già ioipero Romano la base universale
fondamentalo di discorso e dì scritto. Ciò non ostante t
doveva accomodarsi ad accogliere motti elementi
perdendo per V applicazione di questi elementi molto del
sua originalità e modulandosi nella bocca del popA
mentre il vero latino rimaneva pm' sempre la liogna <
dotti e delta cbiesa ; a poco a poco dal cosi detto /
il quale per lungo tempo nei paesi romani aveva i
universale valore, e dal quale poi con una più accenlni
separazione delle dìfTerentì nazionalità romane, si fom
vano anche i diCTerenti dialetti anzi idiomi romani. Coi
è noto; si fece diCTerenza nella lingua latina di un ser
rusticus (lingua popolare) e di un sermo urbanus (lin|
dei dotti), la quali' ultima mantenevasi separala dalla f
ma soltanto per T attività letteraria dei Romani. Si di
dunque conchiudere, che il seimo ruslims era ìppia
quel miscuglio di linguaggio, chiamato Romanzo che 4
formato mediante la fusione dell'idioma dei conquistala
colla lingua latina. Fra gli altri esimi scrittori d hi
fornito su di ciò preziose indicazioni e prove : il Sim
nella sua opera: < De la lilteralure du midi de PEun
e più tardi il Bulk nella sua storia della poesia itaH
La forma poetica del Romanzo era esenzialmente la rìn
in opposizione alla poesia germanica, ove dominava l'AH
terazione.
L' amalgamazione dei popoli del Nord con quelli i
Sud aveva però pei primi il danno, che essi perdetti
interamente o almeno in gran parte la loro storia pn
— 15 —
d^Ii eroi oazionali,
te, salla quale un popolo si appoggia nel suo proprio,
tependenle e sioriro sviluppo; ma quesla perdita venne
alqaanto compensata dalla appropriazione dell' elasticità
del Sud, la quale mitigava la rigida forza della loro innata
natura senza infrangerla; e perciò preso nel suo insieme,
prmiuceva appunto questa amalgaraazione di elementi del
Nord con ipielli del Sud, un risultalo sommamente bene-
fio) per avvanlaggiamento della cultura dello Stato e dello
spirito. La brutalità del feudalismo nordico, il quale di-
vvDDe la forma politica del medio evo. trovò subito da
principio un salutare contrapeso nella connaturale e seren,*)
mobilità della vita popolare meridionale, nella quale già
in allora come ancora addesso spariva maggiormente la
distinzione delle caste, come anche nelle reminiscenze di
una antica e repubblicaaa libertà, che non erano mai
spente e che dovevano ben presto energicamente ritornare
io vita. Oltre di ciò accumulava il vicendevole scambio
delle idee, delle tradizioni e leggende un tale capitale
poetico, che più tardi i numerosi poeti potevano soddisfare
a tulle le loro aspirazioni senza mai esaurire la ricchezza
del materiale. In ultimo, e ciò era il più importante, dai
popoli romani venne infranta al Cristianesimo la troppo
acuta pnnta dello spiritualismo ed ascetismo, suo carattere
precipuo, nel pnmo nascere, e la nuova religione come
Catlnlirismo divenne più conforme ai bisogni dei popoli e
del tempo, per quanto la sua essenza lo permettesse, il
Catlolirismo mitigava col suo intervento la tirannide feudale,
risenliva mercè la cflsliluzione della sua gerarchia delle
.simpatie democralicbe e preservava il popolo d'una parte
mediante i suoi stabilimenti di carità e di beneficenza dalla
morte per fame, e d' altra parte mediante il magnifico ed
artistico cerimoniale del suo culto dairabbnitlimenlo. Il
Cittoliciano creò Farte cristiana; egli voleva operare su
k
a
— 16 —
I sensi e suU' anima dell' uomo, e percib Don poteva Un
di meno della poesia, della pittura, della scultura e delli
musica; anzi esso fece delle chiese una specie di UìatHi
ove per la rappresentazione di commedie religiose (dui
male Misteri, Miracoli o Moralità) divenne il Tondalored
Dramma moderno.
Nel Cattolicismo, nel quale ^ì riproducevano :
forme più sublimi tutta la fantasia e tutti i simboU Aé
l'India antica, ha anche la sua sorgente la Romantica, \
la quale aprivasi un vasto campo, sia nella origiDalità, nelll
tradizioni e nella maniera di vedere e di credere, companff
e provocate dalla fusione delle nazioni medìanle la trasni
grazione dei popoli, sia mercè T inconscio desio di libeq
zione ed affrancazione dell' umanità, tormentata ed op|>re
dall' odiato sistema feudale. La Romantica anzi tatto i
pose il quesito, di esporre il dibattersi del soggetto !
lotta tra i precetti della morale cristiana e le
della umana natura. Mercè questo dibattersi i
deve elevarsi ad una trascendentale sublimita, nel \
stadio esso trionfa di tutte le seduzioni del mondo i
suale; ma nell'impossibilità, di spogliarsi totalmente <
cose terrestre, esso è contìnuamente in balia d'un ecótt
mento malatticcio, d' una bramosìa d' essere soddisbttd^
Essenzialmente cristiana è la Romantica per la maniera q
il modo, onde comprende T Amore. Cioè la Roin
fondava un formale culto d' amore, di cui idolo era I
donna. La donna ricevette dalla Romantica, per la qa»
in primo luogo era regola il cullo cattolico di
tutt' altro valore e posizione dì quello che avea nel moc
antico. Nei tempi antichi era 1' uomo, qual rappresala
della forza d' azione, il punto centrale della vita ; nel teiE
della Romantica invece divenne la donna il tipo dell' ii
mità di sentimento. 11 Cristianesimo come religione <
umiltà e di sommissione divinizzava la donna e la M
I prese perciò consf^ueiitementc l'amore per nna
kinc spirituale, per un mìstico atto, il qualo nuo
} nulla ch6 fare rolP amore naturale cioè del sesso,
meno desse a quest' allìmo la dovuta consacrazione.
L'ideale d'amore della nomanlica era il sole, che
I sbocdare il fiore sociale delia vita medio-evale, cioè:
Ilici cavallerìa. Il culto d'amore era l'anima della
lotica, la cavalleria il suo corpo. In quest'ultima
Romantici giunse al suo più perfetto splendore,
I con ciò si bipartiva in due differenti direzioni e pre-
sentava in queste sue diramazioni due varianti delle sue
tradizioni, cioè nella tradizione di Arturo la cavalleria
temporale, e in quella di Gral invece, la spirituale.
L'antica cavallerìa, come l'eoonneno politico, basavasi
salla rostituzìone feudale e faceva capo nelle sue differenti
graduazioni sino alla Corona, all'imperatore; di rìmpetto
a queslu stava il papa, come cima culminante della gè.
rarchia ■ — potere temporale e spirituale, il mondo di qua
contro quello dì là, combattcodosi senza tregua. Questa
era effettivamente la unione della vita medio-evale tanto
vantata dai romantici moderni. Del resto questa pretesa
unione avrebbe necessariamente distrutta la Romantica ;
perchè il romantico consiste anzi appunto nella dissensione,
egli è quel etemo essere non contento, quel mai soddisfatto
deski, quello sforzalo effondersi del terrestre nel trascen-
dentale. Come tale esso si è manifestato storicamente nelle
crocile, quell'epoca splendidissima dell'antica cavalleria,
e ba attinto la sua massima perfezione di forme dal con-
tinualo contatto, proveniente dalle lunglio lotte tra i credenti
dell'islamismo e quelli del Cristianesimo, nella Spagna e
I Francia meridionale cioè: tra P Oriente e V Oc*i-
IL TEATRO UEL MEDIO-EVO.
Come b ben noto agli eruditi la poesia drammatica
e l'arte teatrale dell' antichità erauo scaturite dal Culto
della divinità, tanto nella direzione tragica quanto comici
dì questa poesia ed arte. I teatri antichi, almeno gli Et-
ienici, erano luoghi di cullo, le rappresentazioni azioni (K
culto, e chi conosce le tragedie di Eschito e di Sorode,
non lo trovei'à in nessun modo sorprendente.
Anche le origini dell' arte drammatica Itomano-Itali
sono slate di natura religiosa. Nel Virgilio (nella sua
Georgica II) troviamo su di ciò i seguenti memorabOì
versi:
« Nec non Àusonii, Troia gens missa, coloni
\'crsibus ìiicomlis ludunt rìsuque soluto,
Oraque corticibus sumunt horrenila cavatis ;
E te, fiacche, vocant per carmina laeta (ìbiqiie
Oscilla ex alta siispendnnt mollia pinu ».
la di cui volgarizzazione suona all' incirca:
« Anche i Coloni d' Ausonia, gente originaria di Troia,
celebrano con rozzo canto e sbrigliala risa i loro giuochi
di Testa, e coperti di spaventevoli larve fatte dì savall
corteccia, essi invocano te, o Bacco, con liete canzoni ed
appendono mobili imagini di te sull'eccelso pino ».
Colla decadenza dell'arie drammatica la sema :
perdette sempre di piìi in più il suo c^irattere dì culto
divino , sinché essa nella Roma imperiale era soltanto
ancora il riflesso di una universale e orrida depravazione
di costumi. Lussuria e crudeltà davano spettacoli, coinè
K
^" Tifi!
— 19 —
net mondo reale, ancfie sulla scena, che Don è se non il
mondo slesso. Era però nel primo secolo dell' era cristiana
l'antica arte tragica giunta a tanto, che nella tragedia
« Ercole suU' Oeta a la parte litolare dovette essere rap.
presentata da un matrattore condannalo a morie, il quale
oeir atto Gnale, ad accrescimento dell' illusione teatrale,
le abbraccialo vivo. In un abbandono impudico e lascivo
trascinava la degenerazione del teatro antico soltanto
nel 4.° 5.° e G." secolo e specialmenle nelle provincìe
orientali dell'Impero Komano. Al tempo dell'Imperatore
Costantino il balletto « Maiuma » fece furore, la cai
scena più applaudita consisteva in ciò, che comparirono
sul teatro delle ballerine affatto nude che rappresentarono
una scena di bagno ; ed al tempo di Giustiniano, Teodora,
l'ortodossa consorte di questo imperatore, aveva comin-
ciata la sua cai-riera comparendo > sulla scena del teatro
vestita soltanto di una stretta cinta onde rappresentare
iBOSe che il pudore vieta di nominare.
I Imperciocché è assai facile a comprendere, che i padri
della chiesa cristiana principiando da Tertulliano tuonavano
con tutto loro zelo ed eloquenza contro il teatro e gli
spotticoli. Con ogni ragione e diritto S. Crisostomo poteva
chiamare il teatro di allora < abitazioni di demonio, scena
di dissolutezza, scuole di lussuria, aule della peste e gin-
nasi di ogni libertinaggio p. Nella ricetta morale, che il
cristianesimo prescriveva alla decaduta società, V anatema
lanciato contro gli spettacoli e gli artisti formava la parte
obbligata, e vescovi, sinodi e concilii afTatticaronsi conti-
nuamente di indurre i fedeli ad astenersi in ogni maniera
possibile, e a disvezzarsi del tutto dal diletto degli occhi. Se
però era forte lo spirilo, la carne, cioè la sensualità era
ancora piii forte. 1 Cristiani accorsero ai teatri con non
mena avidità dei gentili, ed il clero dovette finalmente
confessare, quantunque con stringimenti di spalla, cbe
— io —
)' Ttfon! hruA tcì nscQza D-xi è Dwole affinio OD aslnlto
l^i^tV-*-'-'- nu t-Hiii OH isàèti assai concreto, che vaole
as!*:4aEaiii'e{:ti: ouadare. tere. maritarci ed in varie guise
tLTertirrL E>1 in oltre, ^i fTà ìolisùio sospingere il pOfKds
alla re^-i'On^ i-it^ale Dtetiiuité la Een di reali esposióoDi e
nppnsentaùxu o ìq a: tre f>aroIe. il popolo, sia incolto o
edQ<3t'>. ba bis^cno |;>er ar>pp>priarsi i concetti e le idea
relijvj^t 'lelia nieiliazii'De -li rappreseutaziooi mìtolt^idie^
come aQ<.-he la iznn m.iÀ>3 as<:olta più TOloalierì le
prediche morati s<:>tlo una forma, che accoppia V utile e
salutare al dilettevole e>l attraente. Quindi il clero crisliaiio
ebbe la oxinoziorìe. che. 5e i gentili, abituati ad ud colti)
religio?t'i Sijtlo forma artistica, che dilettaTa i saia ed
eccitata la bntasia. doressero essere guadi^ati alla niuni
lede, era d'oopo far loro ritr.^tare nel collo del crìslà-
nesimo possìbilmente •pello. che abbaodonerebbero od
fienlilesimo. Per conseìmeoza si iraltaTa di trasformare
rirreli^oso diletto dei sensi nel colto pagano in nu
santa attrazione rerso il colto crìstiaao e di concedere
oeirintemo de^li stessi templi cristiani od salatane ed ìstmt-
tJTO pascolo a questo umano bisogno.
loiell^bilmenle n-^n è detto con ciò, che V iatam
culto cristiano, il suo rituale, le mistiche sne ■
e sacre fnnzioai siano provenute o scaturite da i
l.un^'e tìd EUlj il pensiero •}] voler al»ba>jare a motiri
secolo 1
lo zelo nfipo» per «■■■teae M *
nicdìanle i
nwtiTo (Q «amderc «1 aoMmtmt # ^
Di barn ora ga saiB MMAri itf^
ftue andw alABMIrMP>MK ■
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pia aniìebì li oMMb i^ d^ C i
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Mi ndnto delle dÉeae à flSqy» fs li
nimoli, o eonaefa ^feftnK, ^ *
Da' dnllen e oeOe pia» Afle dA • i
recdii e b leena amaà A |
plirl, rozzi e dilMtaL Itttma^^Sftt
ìdruiooe e tahm tann^ TsbAì 4fl
Testnrìn e h bfm *> M^B^fiiri^ !■■
cofKOTM) di maaa. di caM» e A É*l ìm
ii6 che al giorno ^o^ màm^mm «te i a
, Ita I
n^aaiola
|i" secolo, epoca in ai b :
iDto Q sao ponto criHÌBHie C api
ntazioiii rìtUedevMD fnpanCn i
» scenario. rafRgnnado tfvoftì hI» ^
delo, la t&n e l' inferno, si aveva una sc«oa con
di [re piaci; centioaie di allori la popolavano e sp
volte come aneDoe ogoi anno a Lacerna Della Sviz
per i mislcrì pasquali, la sc«na esteudevasi sopra parecchi
-piazze e strade della cillà. L'esercizio di <iuest'arte i
richiedeva un omnerosissimo personale passava perdo d
mani del dero iu quelle dei laici e si formarono
gnie ed unioDi di dotti, dì studenti, di mercatanti e <
artigiani, cosicché in tal modo diventarono spesse volt
aflari dei comuui, dei qnali si iDcarìcarano le autorìtì e h
magislralnre civiche.
Oggetto di questi spettacoli erano e rimanevano s
pre gii avvenimenti biblici, e tal volta vi si comprcode*
anche latta la storia sacra dalla creazione del miiodo si
al giudizio fìnale nel circolo di queste rappresentazìofl
che durarono non soltanto dei giorni ma delle :
Tn mistero rappresentato nell'anno 1380 d'innanzi {
VI re di Francia, aveva 23 lunghi atti, un altro ^egnil
nel li09 a Skinnersirell in Inghilterra durava 8
Delle commedie sacre rappreseiilale a Valmcietmcs ed
Bourges in Francia nel corso del 15.° secolo rìcJlied
per la loro rappresentazione I' una 25. e t' altn i
giorni.
La Letteratura francese, inglese e tedesca poss
ricdie collezioni di misteri, miracoli e spellaceli di i
e di pasqua, però tali opere hanno pìutloslo un
per la storia della cultura e dell'arte drammatica, che pi
la letteratura e l' estetica.
Terminati ora i C'enni su quelle cause storiche, ci
esercitarono una grandissima influenza sulla letteratura d
popoli della Germania, riprendiamo l'analisi delle qiiaUl
epoche, in che si divide lo sviluppo della letteratura i
dtìsca e comincieremo :
FXioi tempi i più antichi cioè dalla trasmigrazione dei
popoli sino agli Imperatori della casa di Svevia
oasia dal 345 al 1137 dell' era Cristiana.
È un fallo storico, che t'aspetto, le relazioni ud 1
P«>stiiim dell' antica GennaDia , subirono una totale trasfoK-
mazione per la trasmigrazione dei popoli. Ove una inier'a
nazione si mise i[i movimento, a One di cercare altri
clima, altre regioni ed altra dimora, dovette cambiarsi e
mutarsi tutto, specialmente le tradizioni della poesìa po-
polare, la quale venne strappata dai luoglii, aì quali essa
era legata sinora; circostanza, che ba essenzialmente pre-
([iudicato lo stabile sviluppo nazionale dell' antica poesia
germanica, spegnendo se non interamente almeno in parte
la reminiscenza delle tradizioni degli eroi del primitivo
tempo germanico mediante la confusione di nuovi avveni-
mentì d' una grandezza e vastità colossale; la tramischiava
_{>erò con nuovi coiicetti ed idee, e la patria leggenda
I fu in massima parte trasformata e ritìnta dalle
Love impressioni meridionali. La trasmigrazione dei po-
■ poli condusse i Germani incontro al cristianesimo e que-
sto piantava nell'anima dei distruggitori dell'Impero Ro-
mano i germogb delia itomantica, 1 quali poscia fiorirono
si magnificamente nella poesìa Germanica del medio evo.
I popoli tedeschi , che prima della trasmigrazione avevano
rappresentata una parte storica, o sparirono totalmente
dalla sceiia del mondo in seguito di questo rivolgimento
della situazione europea, o almeno cambiarono la patria
^ora con un altra nelle provincìe conquistate dell' Im-
^_,{>erò con
^Bpprdìca 1
^Plnove
— 2i —
pero Romano , o mescolaronsi anche con altri popoli sino
alla impossibilità di essere riconosciuti. Per questa cagione
si perdettero le antiche tradizioni di stirpe dalla memoria
dei popoli , onde V attenzione fu totalmente occupata dalle
gesta di altri potenti re, come di un Attila e di un Teo-
dorico; ed intomo alle figure di questi dominatori forma-
vansi nuovi circoli di tradizioni , le quali nella più svariata
guisa furono messe in relazione fra di loro e che fanno
il principale argomento dell'antica poesia epica dei Te-
^ deschi. Innanzi tutto presentaronsi sulla scena della storia
le genti dei Goti, Longobardi, Borgognoni, Franchi, Ale-
manni, Bavaresi, Turingi, Sassoni e Frisi e mediante le
tradizioni attenenti a questi popoli, esse entrarono nel cer-
chio della poesia popolare. In questo grandioso quadro di
celebrati eroi e donne appariscono: 1.** I re degli Ostrogoti
della stirpe degli Amali, perciò chiamati Amedunghi, cioò
Ermanrico ed il suo nipote Teodorico il Grande coi suoi
armigeri, formando le tradizioni ostrogotiche; 2.** I re
Borgognoni Gunterio , Gemot e Giselero colla loro madre
Ute, la sorella Krìemhilda, gli armigeri Hagen, Dankwart
e Volker e V eroe Siffredo che formano le tradizioni franco-
borgognone; 3.** Il re degli Unni Attila, intorno al quale
si aggruppano Gualterio di Aquitania, Ruggiero di Be-
chlar, Irnfredo di Turingia ed altri eroi formando le
tradizioni unniche; L*" Il re dei Frisi Ettel colla sua
figlia Gudiiin ed il re dei danesi Horand, ai quali
stanno incontro i re dei Normanni Lodovico ed Artuico
e da ciò le tradizioni frisio-danese-mrmanne; 5.* II re
do lutlandesi Beowoulf e gli eroi Scandinavi Vittico e
Vilando col loro seguito mitologico che formano le tradi-
zioni nordiche; e 6.° I re e gli eroi Longobardi Roterio,
Otnito, Ugo Teodorico e Volfteodorico formando le tradi-
zioni longobarde.
Si può ammettere, che già nel 6.^ 7.° ed 8." secolo
t Tra j popoli germanici, dotati di canto, delle
canzoni sopra le gesta di questi o quelli eroi delle so-
praddette tradizioni; viene aiicho espressamente provato,
che tali canzoni furono scritte e che il convento di fìei-
rhenau snl lago di Costanza possedeva già neir anno 821
dodici canti di questo genere, malgrado che il fanatismo
dei Clero sotto S. Bonifócio (dal 680 al 753) violente-
mente infuriasse contro la poesia popolare e che a tenore
di un decreto capitolare dell'anno 789 fosse stato vietato
specialmente ai monaci ed alle monache di scrivere ed
emettere delle canzoni popolari. Poi Eginardo ci racconta
che Carlo Magno aveva fatto preparare dalla bocca del pò- .,,
polo ima racj-olta di antiche canzoni degli eroi. Ma qnesta
raccolta « per noi perduta, ciò che facilmente si spiega per
l'odio del clero di quei tempi contro tutte le tradizioni pa-
gane. Noi possediamo soltanto tre antiche poesie in forme
primitive, provenienti dal 8.° o 9.° secolo, cioè, il poema
Beowulf in idioma- anglo-sassone, il canto di Ildebrando
e di Adebrando e quello di Gualtiero d' Aqnitanta. La
forma originale alto-germanica ed allilterale della canzone
di Idcbrando e di Adebrando esiste soltanto ancora in
fr-ammenti, mentre l'argomento di quel poema ci vicn
Kto conoscere interamente mercé d' una elaborazione, cho
poeta popolare Gasparo di fìoen intraprese non senza
luna sulla fine del 15.° secolo. Il poema, che descrive
; duello fra Ildebrando il vecchio armigero di Teodorico
Grande, e suo figlio Adebrando, ha l'impronta di tutta
ferocia e temerità della vita degli eroi al tempo delia
ismigrazione di popoli. L'altro poema. Gualtiero d'A-
itania, il cui argomento forma la fuga dell'eroe colla
a fidanzata ildegonde dalla corte dì Attila e le sue vìt
loriose pugne col re Gunterio, coli' armigero Ilagen ed
altri, ci fn tramandato soltanto in esametri latini, nei quali
|, monaco Eccardo tli S. Gallo ha trasformato verso la
! del 0." secolo la primitiva maleiia iradizionale.
— 26 —
Col nuovo periodo di cultura iniziato nella Germania
da Carlo Magno , V antico canto degli eroi nazionali si fece
muto , ed il suo posto prese la poesia cristiofuhspirituak.
Dopo che il Regno degli Ostrogoti era andato in roioa, il
Franco Carlo colla sua monarchia mondiale divenne pro-
priamente il propagatore del Cristianesimo nella Germania
e nel Nord, ove la spada operava quasi il lavoro mag-
giore, quantunque i mezzi più miti d'una politica astata
della chiesa producessero effetti più durevoli. Fra questi
mezzi prendono il primo posto le scuole monacali, alla
cui istituzione e direzione Carlo chiamò degli uomini dotti
dair estero. Cosi il Diacono Paolo, Pietro di Pisa ed Al-
enino. Il discepolo di quest' ultimo , il dotto Rabano Mauro
dal 776 al 856 divenne il vero fondatore della erudizione
monacale in Germania e la scuola monacale di Fulda da
lui fondata nel 804 era il modello di tutti gli altri. Che
la cultura nutrita e curata in queste scuole era essenzial-
mente teologica ed aveva per scopo principale la propa-
gazione del Cristianesimo tra il popolo, era nella natura
di questi istituti. SiccomiB i medesimi avevano radice nella
gerarchia Romana, doveva essere di somma importanza
per essi, di procacciare alla chiesa Romana sotto qualun-
que rapporto la vittoria sopra il Germanismo pagano, e
siccome una mano lava l'altra, l'imperatore Carlo ed il
suo figlio Lodovico il devoto prestarono l' ajuto del potere
temporale al promuovimento di disegni gerarchici altret-
tanto volonterosi, quanto le scuole monacali estendevano
ed assodavano il potere sovrano mediante la propagazione
del principio della cristiana sommissione. Onde assicurare
al Romanismo cristiano la preponderanza sopra la Nazio-
nalità Germanica, doveva apparire come assai congruente
r uso della lingua Latina. Il Latino divenne la lingua della
Chiesa, dello stato e del foro, in somma quella dei dotti.
Frattanto il bisogno, d'influire sul popolo colla propria
sua lingua, era pel clero troppo esigente, che esso avesse
potuto negligere interamente l'idioma Tedesco, e da ciò
proviene principalmente, che le scuole monacali acqni-
staronsi anche dei meriti per il perfezionamento della lìn-
gua madre.
Fulda sotto la direziooe del dotto Rabam Mauro
precedette e le scuole monacali di S. Gallo, Hirschau,
Ueìchenau, Weissemburgo e Corvei lo seguirono sulla ac-
cennala via.
Preti e frati comminciarono perciò a favorire la poe-
sia Tedesca, presupponendo, die la medesima sarebbe
soggetta alle mire della chiesa, e perchè essi erano in-
fluenti abbastanza , per mantenere la supremazìa di questa
tendenza durante un lungo periodo dì tempo ; e cosi spa-
risce la tradizione degli eroi nazionali col 9." secolo dalla
letteratura germanica, per cedere il posto alla mitologia
:ana e ricomparire di nuovo dopo tre secoli, ma al-
sommamente cristiana e romantizzala.
La Poesia cristiana clericale, che riusci dominante
it 9.** secolo, si affaticò, di sostituire le tradizioni pa-
gane colle leggende della nuova fede, gli eroi nazionali
coi martiri e santi.
Fortunatamente perà, almeno da principio, la forza
[jl^erativa delP antica nazionalità era aucora vegeta abba-
per emergere sempre nuovamente dai prodotti
lìelta poesia clericale, come risulta dal cosìdetlo canto di
Lodovico, poetìzzato da un ignoto ecclesiastico in occa-
sione della vittoria riportata da Lodovico III re dei Fran-
chi sopra i Normanni presso Saucourl. Ma ancora molto
più risplendente che nel predetto evinto si presenta vera-
mente grandioso ed energico l'effetto dell'antico spirito
Germanico nel poema anglo-sassone di nome lleliand che
vuol dire il Salvatore.
L' lleliand (di cui abbiano una bellissima riprodu-
leuei
gane
coi i.
!■ I
^■jl^era
^P^tanz;
u
— 28 —
zione neotedesca dai dotti etimologisti Rannegiesser/Sin^
rock e Rapp. del 1830) é stato poetizzato nella prima
metà del O."" secolo da ud poeta sassone, non lungo tempo
dopo la conversione alla fede cristiana di questo popolo,
da cui si spiega, come il poeta sapeva introdurre neir ar-
gomento eterogeneo tante proprietà della nazionalità sas^
sone, e dare al suo oggetto ebreo-cristiano la tinta della
vita degli eroi e del popolo antico^ermanico.
Sulla base dei quattro Evangeli il poema racconta in
un linguaggio semplice e popolare la vita di Gesù, con
una chiarezza veramente epica, senza far pompa di una
importuna erudizione monacale.
Il poeta partendo dal suo punto di vista nazionale , ci
descrive ingenuamente là corte di Erode, come se fosse
stato quella di un duca sassone; fa comparire Cristo in
mezzo ai suoi discepoli come un capostirpe germanico Ara
i suoi tributari e dipinge fìra le altre la scena della predica
di Gesù sul monte oliveto come appunto avevano luogo
le deliberazioni dei princìpi Germanici coi loro capi in
presenza del popolo radunato.
Uno spiccante contropposto a questo poema ne tà
un altro sotto il medesimo titolo « il Salvatore » poetiz-
zato circa 30 anni più tardi dal frate benedettino Otfredo
di Weissenburgo neir Alsazia. Quest' ultimo è diviso in 5
libri ed espone interamente la cultura Romano-Cristiana
di quel tempo senza riguardo alcuno per le reminiscenze
nazionali e guardando con disprezzo sulla poesia popolare.
Di valore poetico assai inferiore al sassone Heliandy Po-
pera di Otfredo è però di sommo pregio sotto l'aspetto
etimologico, perchè il pio frate nel suo disprezzo della
poesia popolare fondò la poesia Tedesca dell' arte ponendo
al luogo deir Allitterazione la rima Anale, la quale restò
di poi dominante nella poesia germanica.
Altre produzioni poetiche di quel tempo sono: la
— 29 —
Preghiera di Wessobrunuo e la poesia sulla fine del mondo
coaoscinla sollo il oome Muspilli, delia quale si cono-
scono soltanto alcuni frammenti. .Ma ambedue non si in-
nalzano air impoi'Umza Unguistioa dei suaccennati poemi.
A capo delle opere di prosa della letteratura Tede-
sca dì quest' epoca trovasi la celebre traduzione della Bib-
bia nel Gotico eseguita dal Vescovo Ulfila dopo la metà
del 4." secolo. Quest'opera è la fonte primitiva della
scienza lin^istica Tedesca ed il venerabile monumento
d' uno spirilo colto od sommamente importante. Il Codice
argenteo di Upsala ed il codice Carolino di Wolfeobìiltel
conservano principalmente i salvati frammenti dì questa
famosa opei'a letteraria. Altri frammenti furono scoperti
nella biblioteca Ambrosiana di Milano e ne possediamo
una edizione completa dell' anno 1857.
Dopo il secolo ottavo compariscono delle opere in
prosa nell'antico idioma alto-germanico, die hanno però
soltanto un pregio linguistico e consistono in formulari di
confessione, traduzioni del paternoster, estratti biblici,
inai di chiesa, frammenti di prediche e simili. Sul termi-
nare del 10.° secolo fu scritta dal monaco Notker Labeo
ài S. Gallo una traduzione e parafrasi dei salmi. Neil' 11.°
ilo Viiliravi Abate di Ebersberg, tradusse e comentò
mtico di Salomone.
Anche le traduzioni di opere dell'antica letteratura,
ime Porganone di Aristotele e le consolazioni della fi-
lo-'iofia di BoSzio, in cui esercilavasi V erudizione mona-
cale, sono d'importanza soltanto in quanto che dimo-
strano, come di buon^ora già si cercava nella Geimanìa
la conoscenza dell'antichità.
Dopo r 11.° secolo cessano per lungo tempo le oc-
cupazioni letterarie nella lingua madre nei conventi; con-
seguenza forse della degenerazione de! clero, sorvenendo
irdo alla poesia tedesca un totale riposo dal 10." se-
fino alla metà del 12.°.
— 30 —
La nazione doveva prima immedesimarsi gli elemeoti
della nuova cultura cristiana, trasfonderìi nei meati della
propria vitalità primache dalla medesima potesse sbocciare
la nucva poesia, cioè la Cristiano-romantica. L^ operosità
spirituale della Germania indietreggiava davanti la gran-
diosa aspirazione politica sotto gli imperatori Ottone il
Grande e Enrico III o si moveva soltanto fra i limiti di
erudizione latina.
Entro a questi limiti scrìssero ì famosi cronisti Vitur
Ghindo di Corvei le sue « Res gestae Saxonicae », Tiet-
maro di Merseburgo e Lamberto di Hersfeld le loro cro-
nache ed annali , la monaca Rosvitta del Convento di Gan-
dersheim le sue comedie sante ad imitazione di Terenzio,
ed una narrazione delle gesta di Ottone il Grande in esa-
metri latini.
I medio evo ed U periodo della Riforma, ossìa dal
1137 al 1600.
Il periodo, che si è solilo di designare come il fioro
l medio evo germanico, principia airincirca colPavve-
nìmeDlo degli Svevi (chiamati Hohenstaufen ) al trono Im-
periale, percui chiamasi anche la letteratura di quest'epoca
(dalla metà del secolo dodicesimo sino alta metà del de-
cimoquarto) la letteratura del periodo svevo, e ciò con
.tanto maggior ragioue, che il favorire della poesia per
parte degli Imperatori Svevi imprime anche al linguaggio
poetico di questo periodo la marchia de! dialetto svevo.
In virtù dell' inOuenza di questo dialetto della Germania
meridionale, come era usato nella Svevia, nella Svizzera,
nella Baviera, in Austria perfino nella Turingia, furono
respinti a poco a poco i dialetti delta bassa Germania dal-
l'uso delle classi privelegiate, e si raddolcì l'antico alto-
germanico temprandosi con quello del centi'ale alto-germa-
DÌco, la cui pieghevolezza, chiarezza ed armonia si pre-
■ono di buon grado al fertile espandersi della poesia
rie come allo svolgersi del popolo di questo tempo.
La caratteristica della poesia del periodo svevo è la Ro-
mantica, suir origine ed essenza della quale abbiamo già
parlato anteriormente. Mediante l'operoso e forte reggimento
degli imperatori svevi, principalmente di Federico Barba-
rossa , fu di nuovo portato ad onore e valore lo stato se-
colare, come venne rappresentato dalla Cavalleria, in fac-
alla troppo esclusiva influenza del Clero. Sebbene
l:
— 32 —
nelle sue fondamenta essenzialmente cristiana, fonnava
r antica cavalleria un fortissimo contrasto col sacerdozio
cioè nel suo significato ascetico, perchè essa richiedeva
espressamente lo splendore ed il godimento della vita, e
sosteneva i diritti delle passioni di fronte ai doveri reli-
giosi. Per tal cagione doveva anche infondersi nella poe-
sia, la quale nel precedente perìodo era diventata esclu-
sivamente monacale , un nuovo brio che attinse dai variati
fenomeni della vila cavalleresca il più abbondante nutri-
mento. Egli è noto universalmente che questa vita ca-
valleresca ed uno dei suoi frutti più belli, la poesia ca-
valleresca, fosse formata e perfezionata primamente in
Francia. Le crociate offrirono ai popoli Europei occasione
ad un molteplice contatto fra popoli, ed i Francesi appro-
fittarono di quest'occasione per propagare lo spinto dei
loro istituti cavallereschi e conciò anche quello deUa loro,
poesia romantica sopra tutti i paesi deir occidente. La
Francia d' allora esercitava già il suo dominio della moda
sopra r Europa. Sostegni della medesima erano la caval-
lerìa provenzale e della Francia settentrionale, nei circoli
della quale aveva preso voga unitamente al raffinamento
dei piaceri sensuali, al ravvivamento del commercio so-
ciale, air innalzamento morale della donna, anche il bi-
sogno di una cultura superiore, in cui specialmente svi-
luppavasi la poesia, la quale dalle principali sedi della
sua cultura cioè dalle corti dei principi e sovrani aveva
ricevuto il nome di arte cortigiana. Questa cavalleria Fran-
cese, che specialmente dopo la prima crociata era stata
circondata da un magico splendore d'onore e di gloria,
divenne il modello della nobiltà Germanica, che da essa
tolse e si adattò V organizzazione e le leggi della cavalle-
ria, Tettichetta di corte e la cortesia, la romantica e c^
valleresca venerazione della donna. Una necessaria conse-
guenza di questa influenza defla cavallerìa Francese sulla
— 33 ■
"era poi anche il desiderio di esK"citar^
rp>
conda del canto e della poesia conforme al loro modello.
Quindi si spiega facilmente, come breve tempo dopo la
sectìuda crociata , la quale aveva data occasione alla cavai-
lena Tedesca, dMmparare a conoscere i costumi francesi,
la poesia Tedesca non fosse più coltivata, come prima,
dai cantori del popolo e del clero, ma bensì ad esempio
dei Francesi, dai cavalieri; e che non fosse più esercitala
nelle adunanze popolari e nelle celle dei conveoli, ma
alle corti dei grandi, nelle aule imperiah, nei castelli del
Langravio di Ttiringia, dei duchi d'Austria e di altri prin-
. cipi ed ivi sì piegava ad un'andare unicamente cavallere-
■Seo e cortigiano, che cadde se non esclusivamente, però
I^Dcipalmente nelle mani di poeti di nobiltà, entrò in
opposizione colla antica poesia popolare e sì distinse nella
sua forma esteriore. Cioè mentre la poesia popolare im-
piegava in massima parte nelle sue produzioni, destinate
alla declamazione a guisa di canto, la strofa cosidetta delle
Nìbelungen, consistente in quattro versi lunghi con sei o
sette alzamenti, sì serviva invece la poesia artistica per
r epica dei versi rimati a due a due con tre a quattro al-
zamenti e per la lirica della costruzione della strofa di-
visa in ire parti.
L. Se dìriggiamo la nostra attenzione sulla poesia arti-
Eitica , vi e da osservare , che varie circostanze eransi unite,
[per mettere in fiore questa parte di letteratura nella Ger-
mania d'allora. I due imperatori svevi. Federico Barba-
rossa ed Enrico VI , avevano condotto T impero Germa-
nico verso l'esterno ad una imponente autorità, e nel-
r interno a saldezza ed ordme. Quella prima circostanza
dava alla vita intellettuale della nazione un potente im-
ri.palso, un fiero sentimento della sua forza e grandezza:
"l seconda allo stato materiale una attività e prosperità,
ì cercavano di appropriarsi tutti i godimenti e piaceri
— 34 —
della vita. Nelle città, che di fresco fiorivano, si dispie-
gavano la industria ed il commercio, che mercè le anno-
date conoscenze e relazioni colle città conmierciali d' Italia
durante le crociate e le spedizioni Romane, si estendevano
e si arrichiavano procacciando al ceto dei cittadini una po-
sizione più influente nello stato. L'ottusa monotonia dd
monachismo dalla parte d' Italia fu rasserenata e riscaldata
dai raggi di un culto ricco di fantasia e mediante il coni»
moversi più colorito della mitologia cattolica. DairOriente
i crociati riportarono alla patria fantastici ed incantevoli
racconti e tradizioni del mondo antico. Insorse lo splen-
dido periodo della cavallerìa Tedesca coi suoi tornei, feste,
nozze, elezioni dei re, incoronazioni e diete. Le corti
grandi e piccole, i principi temporali ed ecclesiastici gareg-
giavano in tali occasioni in pompa e lusso. Gol benessere
di quel tempo comparivano anche le arti: T architettura ,
la cui gigantesca forza ed assennata pazienza anuniriamo
ancora al giorno d' oggi nelle meravigliose cattedrali co-
struite in quel tempo ; la poesia , i cui nobili frutti fecero
dimenticare, essere essa un innesto straniero addattato
sul tronco Tedesco.
Fra le numerose produzioni della poesia artistica e
cortigiana risplendono principalmente due specie di poe-
sia, cioè: r epopea cavalleresco-romantica ed il canto
(f amore.
Come la Francia aveva specializzato alla poesia caval-
leresco-romantica la maniera, i tono e la forma, cod ora
le suggeriva anche la njaterìa e gli argomenti, che consi-
stevano principalmente nelle tradizioni di Carlo Magno e
dei suoi paladini, del santo Gral, di re Arturo e della
sua tavola rotonda ovvero di Tristano e d' Isolde. A lato
di ciò si elaboravano anche argomenti religiosi e leggende
di chiesa. La sfera , nella quale muovevasi con predilezione
l'epopea romantica, era il meraviglioso, come conveniva
— 3". —
ad nn prodotto delle crociate , che spìngevano la Tede mì-
nicolosa crìstiaaa alia . sua più alla cima. L'avventura,
cioè il fantastico intreccio d'avvenimenti meravigliosi era
propriamente la musa di questi poeti narratori. Il culto
divino e V amore per la donna , il desio rnmanticoKiristiano
pel sopranaturale e celeste, il valore cavalleresco, i co-
stumi di corte, e sopra tutto delle meravigliose storie
d' amore sono gli argomenti favoriti di questo poesie ca-
valleresche, cbe foggiano con un ricco cambìanienlo di
scem e di avvenimenti, di intrecciati destini degli eroi e
delle eroine , di inaudite avventure e casualità ; ma il tuono
fondamentale, che meno poche eccezioni, domina sempre
di nuovo in questo grandioso tema, è la lotta del mondo
cristiano con V Islamismo.
Con questo predominio delle tendenze religiose e spe-
cialmente cristiane non può sorprendere, come la poesia
anche al principio del 2.° periodo della storia della lette-
ratura Tedcsen fosse ancora trattata principalmente da ec-
clesiastici Infatti incontriamo in primo luogo varie opere,
che procurano la transizione della poesia monacale alla
cavalleresca. Tali opere, sono: l'armonia dei vangeli di
Gorlitz (così chiamala perchè il manoscritto trovasi in
quella città) di un poeta sconosciuto del 12." secolo; un'o-
pera sui 5 libri di Moisé dal principio del secolo 12.";
una versificazione della vita della Vergine Maria del Mo-
naco Guamicri; un Tramenio d'una leggenda di Pilato; in
oltre la cronaca degli Imperatori in 16,000 versi poetiz-
zata nella metà del 12." secolo; poi il canto di Anno
scritto nel 1180 in dialetto basso-renano in onore di S.
Anno, Arcivescovo di Cotogna, il cui linguaggio ricorda ìl
tuono degli antichi canti eroici e che comincia colia crea-
zione del mondo. Due produzioni più grandi e nel loro
genere di poesia ecclesiastico-cavalleresca assai pregtevoli
sono: ii Canto di Orlando, poetizzato dal prete Corrado
— 36 —
ed il 1177, di cui formano ar^
di Carlo Magno contro ì Mori in Spagna e specialUHO
la morte di Orlando nella valle di Itoucevai ; l'allro
caoU) dì Alessandro del prete Lamherlo, Tatto verso ta fi
del 12." seoilo, cbe nella sua priina patte è tatto CO
forme al testo di Curzio . mentre nella seconda dal [
OTG Alessandro giunge alla line della terra e tenia di o
(luistare il paradiso, si schiude d'innaazi al lettore U
il mondo meravigliosa del medio evo.
Questa arbitraria miscela della storia colla mltolof
deir indigeno collo straniero , specialmente coli' orienti
si trova ancora in tanti altri lavori di questo periodo
transizione, che principalmente risalta nel poema sofn
duca Ernesto. Il poeta comincia colla disunione del A
Ernesto col suo imperiale patrigno Ottone. Egli vieoe I
gliato e parte col suo fido amico Vclzel per paesi IodU
Una meraviglia dell' oriente segue Taltra. Ernesto gioogel
un popolo colle teste a becco, entra nel niaredelfqpl
passa presso la montagna calamitai, poi in un paese [Mf
lato da gente con un occhio solo in mezzo alla Ih
assiste questo popolo contro quello dei piedi scbìu
fa la guerra alle popolazioni colle orecclùe lunghe, I
i pigmei dagli uccelli mostruosi e dopo d' avere est
molti strani e meravigliosi fatti in terra santa, rìlon
patria e viene da sua madre Adelaide riconciliato coU't
peratore. Molti sono i poeti cbe in quest' epoca calft
rono l'arte poetica con queste idee romantico-medioT^
diverrei noioso e prolisso se nominassi ed anaiìzasti
strane produzioni di questo genere.
Ma in un modo grandioso e da profondo pensdl
trattò in principio del 13." secolo il geniale e dotlO pV
Voifram di Escbenbach P epopea romantica nei sddì '
lebri lavori Parcivai e Titurel. Quello in 16 capiìcAi
primo gran fatto deir idealismo Tedesco , il quale da (f
^
— 37 —
tànpo in poi non lia mai più cessalo di occuparsi di Dio,
dello scopo e del fine della vita umana. Perciò è il Far-
cirai un opera tutta originale, nn'' epopea psicologica a
fianco della quale sì pone con ogni ragione il Faust di
Goethe come dramma psicologico. V intero poema si erige
sopra Dna significante idea etica: esso dimostn, come na-
sce nell' uomo il dubbio , dove lo conduce , e come in
senso cristiano possa essere combattuto e vinto pel mi-
stero della redenzione dell' amanita operata da Cristo. La
seconda opera di questo poeta det medio evo il Titurel
esiste soltanto in due frammenti cioè ìh 170 strofe me-
diche.
Il gran coetaneo ed antagonista di Votframo di Es-
ubach era il maesti'O Godofredo di Strassburgo. Il suo
1 terminalo poema: Tristano ed Isolde e assai memo-
rile, perchè costitnisce la più completa autitesi colle
iraccennate opere di Escheobach. Esso stabilisce il con-
sto tra lo spiritualismo ed il sensualismo, tra lo spi-
► ideale-li'ascendentale e reale-umanistico, come dipoi
I traverso l' intera letteratura nazionale Tedesca, e die
sì pronuncia tanto distintamente nei tempi moderni tra
Klopstock e Wieland, tra Schiller e Gòthe.
In ferità, è una meravigliosa apparizione questo mae-
I Godofredo di Strassburgo; uno dei più grandi poeti
, uno d^li spiriti più luminosi della storia di
1 della Germania , un' Elleno fra i cristiani del me-
► evo, una anticipazione dell'arte classica di Goethe in
aio alla più accesa romantica. Il suo poema è un'o-
I d' arte senza difetto ed in paritempo una ardita pro-
I contro le vedute del mondo del suo tempo, i suoi
i e le sue eroine sono uomini e non soltanto idee; il
► lrngu3(^ìo è vero . reale, la sua materia , come quella
I Shakspeare, è la più inesauribile cioè: il cuore umano.
Con i prenominati poeti Volfram di Eschenbach e Go-
— 3S —
I aveva n^gm
. lo HM
B6n smbMo www Wtfwi m SnfBtÈefg èra
poem: i camliere cofia rota. JSwiep rfi nirte {
b CoroDa deOe Jneotiire; OrraAi Jlatt b leggeodi
FhM e Bbocflos; il poeta erocieo Oirr«t4o A'
tasse (bua indizioQe deOa pum di Troia no |
poema di 60,000 versi e poetìzzò meora molle dire li
ed arreoture ; Rodolfo <ti Bms ondasse eoa i suoi p
Alessandro e la cronaca del mondo, l'epopea en
sca sai ^ampo della storia e scrése 0 Go^iefaBO ti
leans , il baon Gerardo e la leggenda Bariamo e Gioofitt
Colle traduziooi delle le^oide firancbe
Ogiero, Rinaldo orrero i figli di Aimone e Malagìs, pffet
cipia la decadenza deir epica cortigiana. Al
riodo degli Sven segue ora ona le4n epoca di tot
fasione aotrersale. nella qnale campeggùvano U i
della pace poUilica, il dbillo del pia forte, la ■
r assassinio, la sbrigliala degeneraaone della nobili
del clero. Si spense la nta animata e tiorente oéYÉi
gioconda. Ai poeti maocava per co^ dire il (ialo per q
grandiose prodnziool come il Parcirat ed il lYistOM,
si conieotafa di racconti più piccoli e di novelle, eòe bi
presto degeneravano io celie e facezie spessevtdie Ini
e sciocche.
In questo tempo di decadenza nacque anche la i
naca rimala. In vicinanza dei paesi bassi furono scriUCl
prime opere di questo genere in dialetto della bassi Gì
mania, come la Cronaca dì Gandersheim del frate Rtemi
la cronaca dei principi di Brunswick e quella di (
del Maestro Godofredo Hagen. Alquanto meno ì
più romantiche di queste opere rimate sono l
Llviandia di Ditleb dì Alpeke e quella dell' ord
— 39 —
nico di Nicola di leroschin. Invano afTaticavasi l'Impera-
tore Massimiliano I che spese le sue migliori forze ed il
suo tempo, all'impossìbile ristaurazioue delP antica cavai-
lena e con lui si perdette r epopea cortigiana nel deso-
lato e noioso deserto del romanzo cavalleresco-allegorìco.
Il verso 0 la rima della poesia cavalleresca cominciarono
col secolo XV a sciogliersi nella prosa. Da questo pro-
cesso uscirono quei romanzi cavallerechi in prosa, che
più tardi si restrinsero in quei libri popolari, che da se-
coli laccontano ai popolo le leg[,'ende d" una Nfagelone,
d' una Melusina , d' una Genoveffa , di Lancilotto , di Tri-
stano, di Ottaviano, di Fortunato e così via.
In pari tempo colla epopea artistico-cavaliersca erasi
formata splendidamente la lirica cavalleresca , designata dal
suo principale concetto, l'amore (in Tedesco Minne) col
nome di canto della Mtnne o canto erotico. Fra i cultori
di quest' arte si contano molti illustri principi e sovrani
come: l'Imperatore Enrico \T, Corradino di Svevia, il
duca Enrico di Breslavia. il margi'avio Enrico di Meisscn,
il margravio Ottone di Brandenburgo ed il duca Giovanni
di Brabanto. A questa poesia lirica, diretta alla glorilìca-
zioce della donna, alla pratica delle discipline cortigiane
e di grado, alla cultura del sentimento religioso, che di-
venne poi come esenziale attributo della vita cavalleresca,
un elemento deir educazione morale del medio evo; ap-
partiene un posto d' onore nella storia della cultura Ger-
manica. Però a lode della verità si deve confessare che i
poeti erotici Tedeschi sono molto al di sotto dei Trova-
dori provvenzali. La virile ed Opposta tendenza, che emerge
dalle canzoni dei Trovadori; l'eroica bramosìa di lotta
d'un Bertrando di Born; il caldissimo ed avvampante sde-
gno contro Roma ed il pretismo di un Peire Cardinale;
il giubilante amore di libertà, la iìera forza attiva, la ru-
morosa gioia nelle giostre e nei banchetti, tutti questi
— 40 —
sintomi (li una vigorosa schiatta d' uomini , si cercberà in-
vano presso i cantori erotici Tedeschi , meno atcana scarse
eccezioni, e sommo dolore ci colpisce il loro strisciare
ed elimosinare intorno ai prìncipi e sovrani. La forma
esteriore dei canti erotici Tedeschi consiste in massima
parte in semplici rime accoppiate senza strofe chiamate
LaiSy ovvero in canzoni con strofe e rime intrecciate assai
artificiosamente, sotto le quali si nascondeva pur troppo
spesso la totale mancanza di pensieri. Come creatore del
vero canto erotico, cioè il primo poeta del medesimo si
nomina universalmente JSnrtco di Vddeke , che cantafa an-
cora prima del 1190. A lui fanno seguito Federigo di
Husen, Enrico di Rucke, Artmanno di Aue, Volfram
di Eschenbaoh , Ulrico di Singenberg ; e ptà avanti
verso la metà dal 13.^ secolo Cristiano di Amie» 6o>
dofredo di Nifen, Rodolfo di Rothenburgo, Gualtiero
della Yogetweide. Egli d'una parte appartiene ancora al
tempo più luminoso dell'arte di canto sverò, d^ altra
parte le sue canzoni formano la transizione del canto ero-
tico alla didattica. Anche Gualterio canta P amore, ancora
egli glorifica la primavera e rende omaggio alla donna,
anch' egli è pio e religioso; ma nello stesso tempo egli
scrive come coraggioso pensatore ed illuminato patriota
poesie piene di rammarico sopra la mina della grandezza
e virtù germanica, e castiga con parole di giusto sdegno
la corruzione del papato e del clero, come la vigliaccheria
dei principi e dei grandi. In questo periodo fu anche
scritto il poema della guerra sulla Wartburg, nella quale
quattro poeti hanno cantato a gara per il premio della toro
vita. Di questo poema ci ha fornito il testo e la trado^
zione il dotto Simmrock. Nel 14."" secolo Ruggiero di Ma-
nesse di Zurigo fece raccogliere e copiare le poesie di
136 cantori erotici e questo codice del canto erotico tro-
vasi nella biblioteca di Stato a Parigi. La raccolta più
— 41 —
mplela delle canzoni erotiche ha d»ta alla Inoe H Vtm
■ Hagm in 4 volmni stampati a Lipsia nel 1838.
Come abbiamo già accennato di sopra, il canto erotico
riocolse gi.'i di buon ora degli elementi didattici, perchè
I uomini valenti e saggi inveivano contro la menzogna e
l'immoralità nell'arte cortigiana, e si opponevano da una
parte contro la dissolutezza nelP amore e dall' altra contro
il pavoneggiarsi dei vuoti dottrinari. Però non si deve
pretendere da queste opere didatticlie delle poesie didat-
liclie come al giorno d'oggi; esse trattano, ognuno in
modo proprio e più o meno liberamente, le relazioni ed
apparizioni della vìla intellettuale , morale e fisica , partano
di virtù e di vizi, di sapienza e di stoltezza, o come pro-
prietà della singola natura umana, o di singoli popoli,
di famiglie e di caste , avendo riguardo agli affari pubblici
[■dell'epoca, annodandovi delle istruzioni, ammonizioni, de-
gli avvertimenti, che hanno per iscopo tanto la salute
dell'anima quanto la prosperità terrestre e la morigera-
tezza del consoi-zio umano. Perciò venne presto in cre-
dito la favola, che comparve nella letteratura Germanica
I «rtto una specie secondaria del cosidetlo Bispel ossia:
esempio. Questa specie di letteratura cortigiana fa co!tì-
I di buon ora e comprendeva baje, relie, novelle,
»nti di animali e favole. Una raccolta di tali esempi
i il ilfowfo del Stricker del 1230, il libro di Schachzabel,
"tradotto dal latino da Corrado di Ammenhusen net 1337,
la storia dei sette sapienti maestri , elaborala in poesia da
GiovanDi Biibler nel 1412, ed innanzi tutto la traduzione
delle • Gesta Bomanorum •> . Da qui trae anche l' origine
la noveltislica Tedesca, sulla quale operarano special-
mente i novellisti d'Italia ed il celebro romanzo di Aenea
{più lardi Papa Pio II) intitolato i Eiirialo e Lu-
crezia » trodotto nel 1462 dall' attaurio Nicola de Wyte.
Onesta successiva decadenza della romantica e della
— 42 —
poesìa lirica produceva a poco a poco il canto della Mae-
stranza. Esso è il prodotto d'un epoca, ove la cura ed
il godimento della vita intellettuale e la cultura emigra-
vano dai castelli dei principi e dalle rocche e fortezze della
nobiltà feudale e passavano nelle mura delle nuove fi
fiorenti città, ove al posto della degenerata cavalleria su-
bentrava come sostegno della cultura ed educazione il
ceto dei cittadini. Gol secolo IS.*" succedeva alla fantastica
deir antica cavalleria la saviezza cittadina. La manieni, nella
quale questi poeti esercitavano V arte di canto nelle scuole
dei cantori maestri, aveva bensì molto del mestiere prosaico,
ed il pregio artistico del canto della Maestranza è in
generale assai meschino ; però possiede il merito di avere
piantati e coltivati nel suo circuito molti germi di educa-
zione e non gli si può negare una certa ingenua inclinazione
all'oggetto ed un sincero ardore di sentimento. L'argo-,
mento di questo canto era una poesia lirica adorna di
sentenze, la quale poi si perdette nelP arida sabbia dldla
dogmatica scolastica e più tardi prese per norma la bib-
bia e l'ortodossia luterana. Lo spirito del canto di Mae-
stranza era dunque esenzialmente religioso. La prima cor-
porazione di cantori cittadini fu istituita da Frauenlob
nella città di Magonza. La più antica intavolatura a noi
nota è quella della scuola dei cantori maestri di Strasburgo
deiranno 1493. Intavolatura ctiiamavasi quel codice, in
cui erano contenute le leggi e prescrizioni della prosodia,
della metrica e rettorica. Le differenti specie di verso
chiamavansi in questa poesia « strutture » e le melodie
toni. La canzone destinata pel canto era costruita in istrofe
però così, che questa costruzione poteva smoderatamente
estendersi e chiamavasi « Bar » . Chi non conosceva ancora
perfettamente la intavolatura dicevasi scolaro; chi la co-
nosceva, amico di scuola; chi sapeva cantare alcune me-
lodie, cantore; chi faceva delle canzoni poeta; e chi in-
ventava una nuova melodia. Maestro.
«a ■>! a» w
wufoò le to^cfledib p
sub dì OMO buia
UNUOpHnMtO li lofD ■Il
Il àROlO fibfMl» <
«dw a isà otUtatt Al
a Sne <fi dedKVc h i
ifli
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— 44 —
maDi del clero, della cavallerìa e della boiighesia. La le^
genda germanica degli antichi eroi era stato interrotta nel
suo naturale sviluppo dalla trasmigrazione dea popoli ed
impedita nel suo popolare e poetico perfezionamento, prima
dalla poesia ecclesiastica e dotta dei preti e frati, e poi
dalla romantica cortigiana degli antichi cavallierì. Essa non
fu mai spenta del tutto nella memoria del popolo e per
comprendere il suo subitaneo risorgere al tempo della
romantica, si deve necessariamente dedurre, che le tradi-
zioni della patria leggenda degli eroi, fìirono propagate
pietosamente dal ceto popolare da una generazione alF al-
tra, malgrado il gusto della nobiltà. Queste tradizioni orali
erano la fonte, alla quale attingevano nel 1%"" e 13.'' secolo
i cantori erranti del popolo, e le cui canzoni in onore e
lode degli antichi re ed eroi senza arte alcuna, tn>?«Pono
a poco a poco anche adito nelle rocche e nei casteHi dei
potenti.
La base storica di questa epica popolare è prindpal^
mente il tempo della trasmigrazione dei popoli^ i em co-
lossali sconvolgimenti operarono ancora dopo secoli nelle
rimembranze del popolo. Su questa base, il coi "p&mo
forma Attila, il re degli Unni, innalzavasi la poesia eroioo-
nazionalc della Germania. Come naturale la parte storica
della tradizione fu rispinta dalla instancabile forza d^ ima-
ginazione del popolo e dei suoi cantori e la realti fki vìnta
dal meraviglioso. Certo è, che alla flne del ìiJ" secolo ed
al principio del IS."", poeti educati nelP arte cortigiana
s'impossessarono delle materie epiche della poesia popo-
lare, raccolsero le rapsodie dei cantori popolari e le rat '
fazzonarono.
In tal modo venne raccolto e verseg^o da un ignoto
poeta dal 1200-1210 il celebre canto delle NiMungen, al
quale viene dato con ogni ragione il nome onorifico di
epopea nazionale. In esso concorrono le tradizioni astrgfoH,
Bar
— io —
firanca-òorgognonc e unniche. Esso è composto di 30 casti
contenenti 2440 strofe di quattro versi ognuna e si divide
io due se7.ionJ. La prima comprende i primi 10 canti sino
alla morte dell'eroe Siffredo. la seconda dal 20." al 39."
canto gli avvenimenti posteiiorì dal malrimomo di Krim-
hilda col re Attila sino al rompimento della sua vendetta,
intero poema cccheggia per così dire del torriblle urto
ideile armi della trasmigrazione dei popoli. Esso presenta
nostri occhi le figure di ferro e di bronzo di quel tempo
irbaro e principiando la narrazione con epica calma, la
ingia ben presto in drammatica energia, nello svolgersi
di selvaggie passioni si precipita verso la fine e 1* epopea
termina colla potente impressione d' una grandiosa e ter-
ribile tragedia. Per quelli, che non conoscono T argomento
vogliamo damo un breve schizzo.
Dapprima il poeta ci introduce nella regia àà Bor-
gognoni nella antica Vormizja sul Reno, ore i tre re
Ganterio, Gernozio, e Giselberto hanno cura della loro
madre Ute e della sorella Krìmhitda, ed ivi impariamo
a conoscere i loro più distinti vassalli e guerrieri cioè
Hagen di Ironia, Volker, Dankwart ed altri. Di là il poema
ci trasporta al castello di Santen nei Paesi Bassi, ove re-
gnano il re Sismoodo colla sua consorte Sislìnda, i genitori
di Siffredo, Entrato nelP età virile Siffredo con pochi com-
pagni d'arme trae verso Vormazia ed al suo arrivo colà
spiega Hagen Teroica gioventii del neo arrivato raccontando,
come Sifb-edo si assoggettò una stirpe di giganti, chiamati
ì Nibelungen, e gli fece suoi tributari. Siffredo vede Krim-
hilda, r ama e la chiede in isposa rendendosi meritevole
di un tal favore con azioni guerresche che egli compisce
in fevore del di lei fratello Gunterio. Con questo fa la
^dizione in Islanda, ed a lui conquista con astuzia e
valore la regina Bruiiilda dì quel paese in isposa. Ritornato
a Vormazia Siffredo si marita con Krimhilda. Ma ora nasce
— 46 —
tra questa e la cognata Bruailda una funesta contesa per
i pregi dei loro mariti, onde la conseguenza è, che per
istigazione di Brunilda il guerriero Hagen uccide proditto-
riamente Siffredo alla caccia. L' afflizione di Krimhilda per
l'ucciso consorte è immensamente grande: essa giura
terribile vendetta, di cui le si porge tosto occasione.
Regnava in allora nel paese degli Unni (TUngaria del
giorno d'oggi) il potente re Attila, il quale, commosso
dalla fama della bellezza di Krimhilda, manda una amba-
sciata, alla testa della quale trovasi il nobile margravio
Ruggiero di Becbelar, per chiedere in isposa la bella vedova
dell'eroe. Indotta dal pensiero, che come sposa di un A
potente re potesse più facilmente eseguire i suoi piani di
vendetta, Krimhilda accoglie favorevolmente la proposta,
parte per V Ungaria e diventa sposa d'Attila. Dopo qualche
tempo essa invita i suoi reali fratelli e loro principali
guerrieri ad alcune grandi festività e non ostante V arver
timento di Hagen i Borgognoni accettano V invito. Ma appena
arrivati alla corte d'Attila, trovano da parte della loro
sorella il trattamento più ostile: in breve d' ora sorge
con gli Unni a poco a poco una lotta di distruzione, la
quale termina soltanto colla ruina di tutti i Borgognoni.
Hagen l' ultimo superstite, viene decapitato di propria mano
di Krimhilda.
A tal fatto ribolle il cuore del vecchio ndebrando,
che aveva combattuto a fianco del suo principe contro i
Borgognoni e stimava altamente le virtù di questi guerrieri.
Sdegnato di questa inumana sete di vendetta nel cuore
d' una donna che aveva cagionata la ruina di tanti generosi
e nobili guerrieri, Ildebrando snuda la sua spada e taglia
in pezzi la Regina.
La forma del poema è la così detta strofa delle Ni-
belungen. La forma metrica è il lambo, però vi si trovano
anche versi d'altro genere nel più variato cambiamento,
^Rle tra
I
HMai
— 47 —
1 modo assai Telice ia monotonia dell*7
I versi hanno sei alzamenti e vengono ordinariamente ta-
gliati in mezzo dalla Cesura. L' ultimo dei quattro versi
dì ogni strofa è di solito alquanto piìi lungo degli altri.
che da airintero poema una piacevole varietà.
Se si chiama il poema delle Nihelungen V Iliade Te-
si può con ogni ragione dar il nome di Odissea
iesca al grandioso poema eroico Gudrun, il quale tratta
'le tradizioni fristo-danese-normanne, perchè come in questa
anche nel poema Tedesco il mare coi suoi stupendi feno-
meni, colle sue (errìhili catastrofi forma il fondo dell'eroico
quadro e come V Odissea in antitesi all' Iliade termina con
felicità e gioia, cosi anche il Gudrun si chiude con pace,
,^oia ed un triplice matrimonio. Esso ha ricevuta la sua
presente forma da un poeta austriaco dal 1210 al 1212.
Dalla fine del 13.° secolo e durante tutto il secolo
ii." si spense V interesse pel canto eroico nazionale e
r epica popolare non ehhe sorte migliore dell'epica ar-
tistica. Sia nel 15.° secolo, ove la poesia, però soltanto
per breve tempo, fece ritorao al popolo e che si
risvegliò il gusto per le leggende patrie, furono anche
verseggiate le rimanenti tradizioni dei tempi antichi e rac-
colte in opere complete. Una tale opera è il libro degli
eroi che fu compilato neil' anno 1472 da Gasparo di Roen.
II contenuto formano dieci differenti leggende delle tradi-
zioni nordiche e longobarde parte in strofe e versi alla
guisa delle Nihelungen e parte in versi rimati accoppiati
due a due o anche in istrofe di sei versi ognuna. Pero il
[loro pregio poetico è assai meschino, il che prova che i
Itivi poeti erano uomini di poco o nian talento.
Coir entrata della borghesia e del popolo in quella
'posizione sociale, che nel li." e 15." secolo esclusiva-
mente occupava la nobiltà, e con quel sentimento democra-
tico, che avevano svegliato le battaglie degli Ussiti, le guerre
— 48 —
delle città germaniche contro la razza malaDdrìoa dei oo-
bili, le gloriose vittorie dei Ditmarsi nel settentrioiie e
degli Svizzeri nel mezzogiorno delia Germafììa contro i
principi e cavailieri oppressori, risvegliossi anche nel po-
polo l'impulso d'espressione poetica.
La canzone storica del popolo scavalcò la poesìa ca-
valleresca che erasì inaridita sino air allegoria ed al pa-
negirico.
Nelle marche limitrofe del Holstein e specialiD^te
nelle Alpi risuonarono tali canzoni liete e gioconde e le
più belle di questo genere sono quelle poetizzate verso la
fine del secolo IS."" da Vito Weber a glorificare le vittorie
degli Svìzzeri sopra Carlo il Temerario. Verso la fine del
ÌGJ" secolo perdevasi questo canto storico popolare e le
poesie del secolo HJ" appartengono sempre più alla re-
gione della poesia dotta.
Non soltanto V esistenza storica del popolo , ma anche
tutto il suo sentire e pensare, suo fare ed agire ester*
navasi in canzoni durante il 14.^ IS."* e 16.** secolo. Il
campagnuolo dietro il suo aratro cantava le gioie e le
tribolazioni del suo stato oppresso; il mugnaio accompa»
gnava il misurato strepito del suo molino con rime e canto;
il fantaccino abbreviavasi la faticosa marcia con canzoni di
lode e di scherno; giovani e fanciulle si svelavano il se-
greto dei loro cuori in canzoni, spesso di meraviglioso
appassionamento ; Partigiano ambulante cantava il suo ar-^
rivo e la sua partenza con canzoni di benvenuto e di co-
miato; il pelegrino salutava i luoghi della sua devozione
con pio canto; Tafilitto gemeva il suo affanno, il lieto
esternava la sua gioia nel canto; il cacciatore, il carnet*
tiere, il mendicante, il carbonajo, il minatore , il pastore^
il giardiniere , il vignaiuolo , tutti insomma facevano risao-
nare in canzoni ciò, che avevano veduto, sofferto e go-
duto. E siccome gli autori di milliaja di queste canzoni
non SODO conosciuti, di esse sì può dire comidel vento,
si sente bensì il loro alito , ma non si sa d' onde vengano
né dove vadano,
Allorcliè al lempo della riforma religiosa lo spirilo
del popolo Tedesco attese con maggiore cura agli avvenì-
menli politici ed animava maggiormente il ceto popolare,
aumeotavasi straordinariamente il nomerò delle canzoni
storiche popolari. Gli eroi e gli avvenimenti della riforma e
della guerra dei villani ribelli, le contese dei principi fra
di loro e coir Imperatore , le guerre d' Italia fra Carlo V
e Francesco I, ed i micidiali combattimenti contro ì Turchi
ne formavano il principale argomento. Dopo la metà del
Md.' secolo comiociava a sfuggire sempre piii il canto
'slorìco e profano, ed in vece sua il canto spirituale, per
la sua trasformazione in canti della chiesa protestante,
guadagnava nuove forze e diventava una manifesta potenza.
Martino Lutero (dal 1483 al 1546) diede il segnale a
questo slancio del canto ecclesiastico col suo inno • Una
soda rocca • che può chiamarsi la vera Marsigliese delta
Hiforraa,
Zelanti imitatori di Lutero sono : Zvingli , Giona , Era-
smo Albero, Paolo Sperato, Nicola Hermann. Giovanni
Rist, Filippo Nicolai, Simone Dach, Giorgio Neumarck
i«d altri, ma eccellente sopra lutti Paolo Gerardo (dal 1616
ai 1676). Dalla parie cattolica si segnalarono in questo
genere di poesia Giacomo Balde ed il Gesuita Federico
di Spee, che nei loro sublimi canti fanno dominare una
sincera pietà ed una vera tolleranza.
Il menzionare del canto ecclesiastico <^i conduce già
mezzo al periodo tempestoso ed angustiato della Ri-
la. Onesta, cioè a diro, il tentativo di riformare la
vHa religiosa, polìtica e civile, entrò in lotta colle istitu-
zioni del medio evo ed arrecava, quantunque naufragata
oel suo intero, almeno nel singolo una quantità di nuove
4
^Lmi
— 50 —
forze vitali air organismo sociale. Molte wi'
circostanze avevano cooperato di reodcre posabile
fenomeno, di cui preludio erano le guerre degli (Issi
In quella proporzione , nella quale colla decadenza d<
cultura cavalleresco-cortigiana i ceti inferiori della
presentaronsi sul proscenio della cultura e della stoi
misero essi anche da banda Tesclusivo valore politico
sociale della nobiltà e del clero. L' invenzione delia pohnt
da canone nel 1354. mise Qne alla importanza nulìlar
e per conseguenza alla politica della nobiltà, ponwido
luogo delle schiere corazzate di cavallieri, i fantacciiù
mali di archibugio e dando le armi in mano al popolo
che le costruiva. La successiva decadenza del
frangeva in pari tempo la feudale caparbietà àà i
ed essi principiavano sempre più a sottometterà
nobiltà di corte al potere principesco, il qual nltimo, u
mantenersi assoldava truppe mercenarie, e cercavate
arsi nella borghesia, che pagava balzelli ed imposte, t
forza ausiliare che a poco a poco sapeva attirare i
colla concessione di duovì ed estesi diritti e privile^
come la borghesia sempre pìii ponevasi in opi
vincitrice contro la nobiltà, cosi pure la scienza
contro la cliiesa. Anciie sul territorio scientifico pi
tasi una rivoluzione, che di certo poteva compiersi i
tanto allora, quando per le grandiose scoperte ed im
ziooi astronomiche, geografiche e tecniche del 14." ì
e 16." secolo erano state poste le fondamenta dì i
nuova veduta universale dei mondo, che per mezzo d
stampa, inventata da Giovanni Gullenberg di Magoni!
1436 al 1454, ricevette instancabili ale d'tma fona in
colabile, per dare al pensiero quel sublime vigore,
rendeva dottrina . scienza ed ogni sapere un bene otù
saie di tutti i ceti e di ogni nazione.
Se dunque da una parte alla irmginita sapieon
— 51 —
Topponevasi la sana ragione ed il giudizio naturale
dei bassi ceti del popolo . d' altra parte procedeva in mezzo
all'erudizione una riforma mercè il rifiorire degli studi
l elassici , i quali dagli scolari del celebro Tommaso a Kem-
Rpis (autore del famoso libro ascetico « De imtlatione
fCftmri ») dai Paesi bassi furono trasportati in Germania.
Qui , Rodolfo Agricola , Gerardo de Groote , Corrado
Celtes e spezialmente Giovanni Reuctilin (dal 1435 at 1522)
e Desiderio Erasmo (dal 1467 al 1536) coltivarono e
propagarono lo studio delle lingue e letterature antiche
con entusiastico risaltato.
^Dai circoli degli umanisti uscirono le famose lettere
BaUriche {Epislolae virorum obscuronim dal 1515 al 1517),
nelle quali si menava senza misericordia la frusta della
più acerba critica contro gli oscuranti d'ogni specie. In
queste satire ebbe la massima parte il magnanimo Ulrico
di Hutten (cbe visse dal 1448 al 1523). In lui si uni la
valente attività della gioventii Tedesca di allora ad un fer-
vido amore di libertà. Dm-ante l'intera sua vita combattè
pel Germanismo, per la luce, la libertà, la verità e la
ragione colla spada e colla penna, con ispirito o con a-
cume, con avvampante entusiasmo e valorosa energia; tra
le persecuzioni, i bisogni della vita e le più dolorose ma-
Llaltie. Degno emulo gli fu l'infelice Nìcodemo Frischlin
■dal 1547 ai 1590. che nelle sue poesie e comedie latine
^propagava le idee della sua epoca e diventava il media-
llorc tra la letteratura dotta e popolare.
Il ceto dei dolli aveva ricevuta una formazione cor-
ea, la scienza, maggiore sostanzialità ed indipendenza
a istituzione delle università, delle quah la prima fu
rta a Praga nel 1348. la seconda a Vienna nel 1385
1 terza a Heidelberga nel 1387, che presto estendevansi
i tutta la Germania. Ben^ da princìpio lo spirito di
ìTQ esame ed investigazione in questi istituti era ancora
— 32 —
oppresso e respinto dair assurdo e disgustoso ronnolarìo
della Qlosofia scolastica, ma giornalmente invigorendosi
alia fonte salutare degli studi classici , guadagnava però a
poco a poco terreno, procedeva da conquista in conquisti
e faceva avanzare il tempo, ove, come esclamava HqUia
n Gli spiriti si risvegliavano e vi era una vera gima à
vivere. > Ma questa epoca di luce nascente era mancairte
nella stessa misura, come la riformazione in generale, di
un genio vincitore delle circostanze oppositrici. (
creatore. Un tale genio Martino Lutero non |
ollrecciò la sua cultura ed erudizione non alzavasi il £
sopra del livello dell'ordinaria e teologica scienza di qud
tempo. Delle umane lettere egli non conosceva nttlla e
non voleva neanche saperne. Teologo in ogui sua fìtn,.
egli ha gareggiato coi pìii stupidì del suo tempo nelle a
perstiziose credenze ai demoni e alle streghe. Di cnllin
politica non vi era nulla in lui. In servilità verso i pràh
cìpi non è stalo superato mai da nessuno. II gran poiaerd
di una riforma della chiesa non soltanto, ma anche dello
stato, di una vera e non eflìimera rigenerazione della »■
zione Tedesca , che era Io scopo del geniale ardore i-
Hutten, non trovava spazio nello stretto cervello di Lnlenx
Colle sue prediche servili, come per esempio dicendo:d»'
2 e 5 fanno 7, tu poi comprendere colla tua ragione, n
quando l'autorità costituita li dic£: < 2 e 5 fanno 8, IB
devi crederlo cflntro ogni tuo sapere e sentire, » Lalen
è diventato il vero inventore della funesta dottrina di dea:
sommissione del suddito. A guisa di ogni mediocrità,
che Lutero ha rigettato come fantasticheria tutto queHtt»
che sporgeva al di sopra de) suo teologico accecamento t
della sua fanatica esacerbazione. La ragione era per I '
secondo il proprio suo detto grossolano " la
del demonio; » la lettera moria della bibìa era per luì R:
lutto. 11 pesante giogo del papato romano egli ha ìnfiranUit
I
— sa-
io è vero; ma in suo luogo ha posto il giogo ferreo
<d'una idolatria della lettera della bibia, la quale lia poi
Tovocato coir sudar del tempo gli innumerevoli e mes-
cbioissimi papi della ortodossia Luterana. La vera azione
illustre di Lutero, azione di una portata incalcolabile, era
la sua teoretica e pratica negazione del celibato. La sua
■ribellione contro la sede pontificale di Roma ottenne suc-
perchè il mescbino ed il mediocre viene sempre
accolto dalla immensa pluralità degli uomini, come con-
forme alla propria sua essenza; ma il grandioso ed il
geniale invece viene rifiutato, perchè da essa di rado com-
presi; in oltre anche, perchè Lutero univasi ai principi
contro il popolo e sapeva abilmente approOttare a favore
delia riforma la loro brama di dominio e della loro avi-
dità. Perciò che si riferisce all'importanza letterario-nazio-
nale di questo riformatore, essa si basa sulla sua poesia
di canzoni religiose , di cbe abbiamo già pariato , sulla sua
instancabile attività come scrittore satirico ed in ultimo
sulla sua famosa traduzione della bibbia. Però non bisogna
credere, che la traduzione di Lutero fosse stata la prima,
iperchè la più antica che abbiamo, fu fatta nel 1343 da
ijfaffì'o di Beheim e nel 1483 venne alla luce una seconda
|di Anlonio Coburger. Ma questi antecessori furono vinti da
Xutero di gran lungo. Egli principiò la sua grandiosa e
classica opera nel 1517 e la terminò nel 1534. 11 suo
linguaggio vigoroso ed enei^ico offriva al pensiero, scosso
dal suo lungo letargo, una forma rigida, pronta e con-
cisa, mentre l'argomento stesso del libro ha esercitato
validissimo ascendente sulla vita intellettuale della na-
ione Germanica. Certo é che Lutero è diventato grande
potente, perchè scriveva in Tedesco e sapeva come scri-
re pei Tedeschi.
Se il ritratto di questo Riformatore non è tanto con-
irme alle ordinarie e spesso esagerale descrizioni biogra-
4
— 54 —
Qche , esso ha però il pregio della verità storica ed i più
caldi panegiristi della riforma non possono negare la me-
diocrità di queste personaggio storico, sostenuto nella sua
impresa dalla casualità di moltissime fortunate circostanze.
11 bisogno della Prosa si era fatto valere soltanto
colla decadenza della poesia artistico-cortigiana e coir in-
nalzarsi della borghesia. 11 ceto dotto, a cui bastava il
latino come lingua della scolastica e del diritto Romano,
non fece nulla, per soddisfare a questo bisogno. Tanto
più operarono per la formazione e T abbellimento della
prosa i grandi predicatori del 13.** e 14."* secolo, come
Bertoldo di Augusta morto net 1272 ed il profondo Gio-
vanni Tauler morto nel 1361. Sullo sviluppo della mede-
sima, operò favorevolmente T innalzamento della lingua
Tedesca a lingua legale e della cancelleria in virtù d'un
editto di Rodolfo d'Absburgo, che ebbe per risultato
che dalla fine del IS."" secolo ogni città germanica di
qualche importanza facesse stendere in iscritto volgare i
suoi statuti, i libri di diritto e le sentenze dei Tribunali.
Tra il 1215 ed il 1276 ebbero anche origine le due rac-
colte di leggi ed usanze giuridiclie sì importanti per il
diritto Germanico cioè: il Sachsenspiegel compilato dal
cavaliere sassone Bike di Repgow, ed il Schwabenspiegel
redatto da un ecclesiastico della Germania superiore. Con-
tro r anarchia linguistica principiando nel 14.** secolo e
regnando durante P intero secolo 15.^ Lutero ha operato
efficacemente con i suoi scritti polemico-didattici come,
prediche, catechismi, lettere, pareri, discorsi di tavola,
scritti satirici ed epigrammi. L' influenza dello stile mostra-
vasi anche presto nella prosa storica, che ebbe già prin-
cipio nel 14.'' secolo. I più antichi libri di storia sono: la
cronaca alsaziana e strasburghese di Giacoìno Twinger del-
l'anno 1386; la cronaca limburghese di Giorgio Emmel
del 1538, la cronaca di Turingia della prima metà del
IS.' secolo, la cronaca bavarese di Gtovanoi Tliummajra'
del 15^ e qneila dì Pommerania dj Tommaso Kantum
dell' anno 1542. Ma assai pregievolì sono le croaadie
Sfìoire del 15." e 16." secolo, ed innanzi a mite il co-
Sidetto Chronicon llehelicum del Glarooese Egidio Tsijmdi
dai 150n al 1572. Voglio ancora menzionare due roemo-
ntnli opere, la biografia di GÓtz di BerlicbingeD, oltiBO
caraliero e paladino del feodaltsmo, scritta da Itd stoBo;
e ^i annali del Cavaliere silesìano GÌOTanni di Sobwemkbett.
Ai nostri tempi cioè nel 1862 fu pabbIkaU di m»
commissione dell'accademia storica bai-arese ona ncetimmt
raccolta dì cronache delle città tedesche, estratle diì Mi-
natiti conservati nei relatin archivi e nelle bìbbotedie.
solto il titolo * Monumenta Germamùr kisioriea * die
Tonna ttna ine^nribìle fonte per la storia ptiriii di Utta
U Germania.
Il tempo della riforma, cfae applicò il metro d'Ha
criticai ra^onevole ai tempi passali, dorette fnmrcifiiii
mente rìfìtiiare tulio ciò cbe era ronanlioo e tee frine
il principio d' una sana ragione andw ndb «fera ddh
Letteratura. In quest'epoca, ore la poeab pnae lyeHi*
Simo il carattere della pubblidU, mé^ prapenraa* fa
didattica e la salirà. La tnmsiiiooe ' ~
medio-evale alla polemica satirica , i
di Sirassbnrgo dal 1458 a] I55M cotta aa JSm» d^^ua.
die lb},'ella acerhamenle le sloUezK «d i tia M i^
tempo. La conosceoza di sé itesso é ì pano éeSe mte
dottrine. La straordinaria pt^wlarilà dcOa Nat* é^pmsxi
fra i coetanei, dimostra b dicoatata, (Ée i aUbnm»-
lore sacro Geiler di Kaitenfary, nsMlo dri ItS* ai ÌH9.
pose i singoli capìtoli (fi qaeslo Dbro amt leMs jMttm
prediche. È anche s^^eaoie, cfee a|V«lo A iac 4é
IS.° secolo, l'antica epopea anÌHaie, mM» Ì tilal» #
Anndce Vos, fu di quoto redatta e tea iÉ^igHeal f»-
à
— se —
. se Nicola Beaumaou o Eorico À
mar ne sia slato il nuovo autore; certo è, che questi
poesù) dava un gran soccorso alla direzione satirica
quel tempo. E^imi poeti di questo genere erano; Tbm
mano Murner dai 1475 al 1336, Erasmo Albero morto
nel 1553, Giorgio Roltenhagen che morì Qel 1609 e (ri
lutti segnalavasi il geniale Giovanni Fischart di Magona,
che morì nel 1589. Il gran numero delle opere e degfi'
scrìtti di questo satirìco, é pieno di brìo, di sale e fi,
una ragionala crìtica. Spezialmente egli flageUò i preUctF-i
della sua epoca , e scftprì e stigmatizzò gli abu^ e le
piludìni dei conventi e sopra tutto combatteva ad olUi
le mene dei Gesuiti.
Prima di chiudere questo periodo della
Tedesca , vogliamo tener parola ancora del celebre Hi
di canto Giovanni Sachs, il quale viveva dal li9S
1576. Questo fecondo poeta, dolalo di un vero gè
poetico, trattava con ispirilo e calma tutti i generi
poesia in allora in voga. Egli componeva canti erotìtti
gnomi, favolo, esempi, canzoni sacre, allegorìe,
dialoghi, prediche morali, facezie e salmi nello ^htìM
della riforma. In parì tempo egli apriva l'epoca della
teratnra moderna cioè occupandosi del Dramma, cfae é
poi divenne la forma principale dì ogni poesìa. L'
del Dramma si annoda, come abbiamo già anlcrìormenteA
mostrato, alla storia del colto religioso. Breve tempo ai!
la riforma separavasi il dramma religioso dal probno,
mistero di pasqua cambìavasi in rappresenlazioni
lesche, che divennero poi oggetto principale d^
cittadineschi nelle ricche e fiorenti città della Genuuu
Ben è vero, che la forma di questi giuochi era assai
schina e spesse volte dissoluta; le parti comiche delta
giomaliei-a, matrimoni, scandali matrimoniali. aTrenii
di fiere, btti di furberia e di trulTa, formavano !'<
— 57 —
meato. Dopo la riforma questo dramma prese an ca-
rattere essenzialmente satirico o critico. Cattolici e pro-
testanti rappresentavano degli spettacoli popolari , in cui vi-
cendevolmente si schernivano, si calunniavano, o non di
rado gravemente si insultavano. In pari tempo si cominciò
anche a tradurre delle comedie di Terenzio e di Plauto e
queste traduzioni ajutarono i poeti popolari nel perfezio-
namento dello stile drammatico. Nelle università e nelle
scuole filosoflclie prevalse l'usanza di fare rappresentare
dagli sttidenti delle comedie latino, e da questi istituti
propagavasi tra il popolo la brama di vedere rappresen-
tate simili comedie anche nella lingna propria. A questa
brama del popolo corrispose Giovanni Sachs in modo ab-
bondante, dando esempio di una assai rara fecondità di
mente, nel comporre piii di duecento di questi drammi,
che universalmente raccolsero gli applausi del popolo di
ogni ceto. Egli conosceva il vero gusto ed il carattere dei
suoi contemporanei, e quantunque diffettasse alquanto,
come tutti gli scrittori del suo tempo, nella scelta degli
argomenti, conservava però sempre la nobiltà del suo
cuore e la purità morale del suo carattere, dirigendo con-
tinuamente la sua mira alla correzione ed al miglioramento
alla Società del sno tempo. .\ lui seguiva Giacomo Ayrer
1 però raggiungere il suo maestro. Rimane però assai
morabile, come il primo, che in Germania scrivesse
I operette. Verso la flne del 16.° secolo vi erano già
Ila Germania delle compagnie erranti di Comedìanti, die
Bevano una professione di questo genere di rappresm-
bzioni , nelle quali una specie di arlecchino faceva la prima
parie; e nel 160S il duca Enrico Giulio di Brunsicick
ebbe già un uumero fisso di comici, primo esempio di
I teatro di coi1e in Germania.
(continua)
Carlo Fh-ippo Henrisch.
RINALDO DA MONTALBANO
(V. la pag. 213 Voi. HI Part. 1.* Continuazione e fine)
III.
L' autore comincia il secondo libro con una osservazio-
ne, che mostra in lui la pretesa di filosofare: « Per le nuore
apparenze e dimostrazioni che la fortuna fece , si può cono-
scere alcuna volta essere grande differenza della nostra
naturai vita, cioè nell'essere uno nato sotto la stella di
pace , e un altro sotto la stella di guerra , come fue Rinaldo,
a cui la fortuna sempre apparecchiava guerra ». Pertanto
erano appena scorsi due mesi dal suo ritorno , e già i
maganzesi si ristringevano insieme per trovar modo a farlo
morire. Un giorno egli sta giuocando a scacchi con Bertolagi,
che è cugino di Gano e uno dei congiurati alla sua morte;
costui prende dal giuoco occasione di contesa e mette
mano al coltello, ma Rinaldo, piii pronto, lo percuote
sul capo collo scacchiere e lo fa stramazzare privo di vita.
Si leva il romore: il Chiaramontese si difende da prode,
e in suo aiuto accorrono i fratelli. Carlo, offeso da certe
parole , ordina che tutti sieno presi ; ma ad essi vien fatto
di ricoverarsi nel palagio di Orlando, e poscia di uscir
salvi da Parigi , mentre V imperatore li mette al bando
della crìstiaoità, vietando adognuDO, eperflDoad Amone,
dì soccorrerli ìd ninna maniera, pena la vita.
I quattro fratelli vanno a Dordona alla madre, la
quale , suo malgrado , è costretta dai messaggi di Carlo e
di Amone a rinviarli. Essi allora si ricoverano sulla selva
di Dardenna, e quivi sopra un monte, presso il fiume
Musso (Mosa), fabbricano il castello di Montesoro, dove
conducono molta gente ad abitare. Nella Pasqua di Pente-
coste un messo, per opera di Gaiio, viene ad accusarli
di continue ruberie dinanzi all'imperatore, il quale per-
tanto, seguito dai suoi baroni, eccettuatine Orlando, Uli-
vieri ed Astolfo , muove ad assediarli. Il conte Rioiert , che
scorta le salmerie, scostatosi dall'esercito, è assalito da
Ricciardetto, che fa grande bottino, e conquista buon nu-
mero di prigioni.
Molti baroni consigliano l'accordo, e Carlo, fingendo
consentire, a istigazione di Gano manda per il Danese e
per Namo a invitare a parlamento Rinaldo e Ricciardetto ,
con pensiero di uccìderli: ma come essi non si fidano, strin-
ge il castello. Nondimeno Amone permette talvolta ai
figliuoli l'uscita, la qual cosa, rapportata da Gano all'impe-
ratore, muove questi a far giurare al duca mortale nimicizia
contro il suo sangue. Rinaldo allora esce una mattina e si
spinge fin dentro al padiglione imperiale , affine di trucidare
ciarlo; ma non ve lo trovando, è costretto a sostenere in-
sieme coi fratelli una cruda battaglia , nella quale si scontra
col padre istesso. Tuttavia riesce a ritrarsi salvo nella rocca,
dove per ben tredici mesi regge allo sforzo nemico. Da
ultimo un traditore, Rìnieri di Losanna, stretto un segreto
accordo coli' imperatore, si fa accettare nel castefio, fin-
gendosi cacciato dal campo, e nottetempo, messo il fuoco
asfi edifici , apre le porte a trecento nemici. Ma la fortuna
ajuta i fratelli, che uccidono costoro e squartano Rinieri;
Dore, l' essere distrutte dal fuoco tutte le vettovaglie fi co-
stringe a fiiggìre per una vìa celala. Inseguiti,
no; tre di loro perdono i cavalli; allora monlaoo tutti
groppa a Bajardo e si salvano per la selva, dove tìvc
a guisa di ladroni, eludendo le genti mandatevi dall'i
peratore, tornalo a Parigi, dopo avere smantellato Md
tesoro. Qualche tempo appresso Amone, andando con d
mila dei suoi verso le sue terre, passa per la selva .
denna.evi trova addormentati i figliuoli con certi comp
gni. Non li volendo uccidere a tradimento, li sfida,
quindi combatte con essi. Dopo fiera zuITa Rinaldo a
rralelli si fuggono , e rimasti alcun tempo in quelle p
si ritraggono nella Guascogna, mentre Amone, recatóà
Parigi , e rimproverato aspramente da Carlo dell" aver 1
scialo scampare i figlinoli, si parte di nascosto, )
nimicìzia alla corona.
Dalla Guascogna tornano quindi i banditi alla ì
Ardenna, e vi sofTrono nel verno le maggiori dui
Tomaia la primavera , determinano di andare per s
alla madre e di uccidere il padre , se ancora persevai
volere la loro morte. Venuti a Dordona, penetrano i
palagio, e da niuno riconosciuti, si pongono nella adi
sedere. Poco stante soppravviene la madre, la quale i
princìpio non li ravvisa pur essa, tanto li ha sfigurati I
vita .selvaggia; ma poi dopo vari discorsi, riconosciulo I
naldo da una cicatrice, li abbraccia e bacia con molte h
grìme e si studia riconfortarli. Ma non va molto, ecco I
tornare dalla caccia Amone, che vedendo ì Qglìaoli,
loro villania, sebbene la moglie si sforzi d' impietosivli
L' animo fiero del padre e di Rinaldo per poco non è e
gìooe di qualche orrìbile fallo ; pure alla fine Amom
ranunollìsce, e per offendere il meno che può la f«d
data a Carlo , sì parte da) castello e si trasferisce ad i
sua dimora , non lungi a Dordona. Rimastovi otto gior
si torna, e fa die ì banditi, abbondantemente provvisti ì
rattempo d'oiu, vesti e compagni, si par
qui. Quaudo appunto stanno per andarsene , ecco soprav-
venire Malagigi con quattro some d' oro , da lui rubate al-
l'' imperatore per soccorrere la loro povertà. Il ladrone
insieme coi cugini si reca allora in Guascogna dove oE&e
i servigi della franca brigata ad Ivone, re di Bordella.
assediato dal re Mambrino d'Ulivante, passato in Francia
p«r vendicare Brunalmonte e Costantino , suoi fratelli.
Ivone, par temendo di Carlo, per paura che sì prodi cava-
lieri s" acconcino col nemico , accetta la proposta. E presto
hassene a chiamar lieto: i Chiaramontesi gli rendono se-
gnalati servigi, tantoché Beatrice, di lui figlia, invaghisce
delle virtù dì Rinaldo, cui il padre la promette in isposa, se
Carlo lo ribaudìsce. Ma un giorno, mentre la fanciulla si sol-
lazza ad un giardino fuori della terra, Mambrino la rapisce,
e il di lei scampo è tutto merito di Rinaldo o dei fratelli. Alla
fine Carlo istesso viene con un esercito a recare soccor-
so, ma oitremodo s' adira, quando ha notizia del ricovero
dato agli sbanditi- Questi allora si partono e sì vanno a porre
sopra un monte vicino, aspettando opportune occasioni.
Ben presto cristiani e saracini s' azzuffano fieramente , e
Carlo viene in gravissimo pericolo; Rinaldo allora si muove
coi suoi , rinfresca il combattimento , dil Bajardo all' im-
peratore, che si trovava scavalcato, e da ultimo, venuto a
duello con Mambrino, lo uccide. Così la vittoria rimane
ai cristiani e Carlo riceve nuovamente in grazia Rinaldo e
i fratelli, i quali fanno pace coi Maganzesi, e si sentono
chiedere perdono da Gano. Poco stante, mentre P impe-
ratore si riposa in Bordella, Rinaldo, essendo con Mala-
gigi a cacciare, giunge a un poggio in vista della terra e
vicino alla Gironda, e s' invoglia di fabbricarvi un castello.
Ivone, pregatone, concede il paese, e Carlo dà la sua li-
cenza; del che poi tosto si pente, allorché viene a sapere
amie in quel medesimo luogo sorgesse già prima un' al-
— 6a —
tra rocca, che Pipìao aveva dovuto disfare con grand
stento. Ma senz'altro aspettare, per non dar tempo ai pen
timenti, Rinaldo si parte la notte con Alalagìgi, il qtul
per forza di demonii fa innalzare un fortissimo caslel](
a cui sarà poi dato nome di Montalbano. La mattina Cari
ed Ivone veggono con somma meraviglia questa nonH
ma non essendovi ornai riparo, consentono, invitali daK
naido, a recarsi al castello colta baronia. Malagigi si prendi
cura del desinare, che si compone di trenlasei rivanda^
tolte per arte alle mense del soldaao, del Papa e ^ i
tri princìpi. Tornatasi poi la brigala a Bordella. Hinaldl
vi sposa la bella Beatrice, dalla quale egli avrà due fi
gliuoli, Amonelto e Ivonetto.
Tale è la fine del secondo libro, l'ultimo delta i
ria in prosa dì Rinaldo, a cut sì possa assegnare nn'oi
gine antica; gli altri tutti — o sono parecchi — sono »
Meramente invenzione italiana. Ma invero le ^migUnift^
(piesto libro secondo col testo francese sono cosi prosai*
e continue , che se noi non avessimo la versione in ri
la quale ci porrà sulla buona strada, ci lasceremino d
leggieri condurre a induzioni contrarie alla verità: poìAl
notando la somma diversità che passa tra i due libri, d»
rivato il primo da fonti molteplici, il secondo da i
sola , questo pieno di casi avventurosi , quello fedele atti
tradizione, dì leggieri c'indurremmo a ritenere PauHft
della prosa un compilatore, che componesse insieme q
attingeva dì qua e di là, e aggiungesse mollo dì sua il
zione. Eppure , o io m' inganno a partito . o le
ben diversamente: mi si permetta dunque dì ind
ancora qualche poco la questione dell' oiigine , e di ffl
pago per ora di porre in mostra le differenze delta i
sione in prosa e del testo francese.
Colali dìITerenze sono la più parte di poco i
lo , mentre d' ordinario v' ha un meraviglioso accordo i
— 63 —
»se lievi. Stì io prendo a guida il codice mardaDÓT
nou incontrerò , è vero , nella nostra prosa uo lungo epi-
sodio, ivi contenuto , in cui Maugis libera con sue arti
Alardo, Gaiccìardo e Bicciardetto , fatti prigioni dall' im-
peratore, nella zuffa che segue all'uccisione di Bertholais;
ma poi, ben considerando, vedrò mancare questo raccon-
to — se pure non mi traggono in inganno i libri di cui
sono qui costretto a contentarmi — anche nel testo del Mi-
chclant, sicché nulla mi vieterà di riportare la mancanza
all'originale francese ; e questo potrò faro a tanto miglior
diritto , in quanto l'episodio era troppo conforme all'in-
dole del romanzo cavalleresco ilabano, perchè un nostro
rifadtore lo volesse tralasciare. Ma poi, procedendo oltre,
troTerò che sì nel testo francese come nell' italiano egli è
alla Pas(iua dì Pentecoste, che Carlo è avvertito della co-
struzione di Montesoro; in entrambi Ricciardetto è il primo
a combattere, e sconfitto Rìnieri { Regnier nel marciano), si
(a padrone di molto bottino; in entrambi Namo e Uggieri
sono inviati a tentare un accordo , e vi si adoperano colla
sl£s$a riuscita. Insomma, per non accumulare inutilmente
altri o.scmpi, se si pongano a paragone i due testi, dovnn-
cpie la materia conviene si troveranno frequentissimi ri-
scotrì. non solo di particolarità, ma ancora di parole: ri-
scontri di tal falla, da costringerci a riconoscere derivata
qui la prosa italiana da una versione assai simiglianto a
quella conservataci, e non già da una più antica. Ma in
qual modo avesse luogo la derivazione, se direttamente o
00, Io vedremo tra breve; notisi intanto che il prosatore
abbrevia sempre la narrazione, intollerabilmente prolissa
nei lesti in lìngua d'oil.
Ma v' hanno pure certe altre differenze , non riferibili
già oè al testo originario, né a licenza del traduttore,
sibbene dovute alla trasformazione prodottasi in Italia
dentro alla materia cavalleresca. Bertolagì , nipote di Carlo
À
— 64 —
nelle versioDi fraDcesi, diventa un conte di Msgttaa cu-
gino di Gano; né s'attribuisce al caso la contesa a^ scM-
chi. sì ad una coltura ordita dai Maganzesi. Egli è pare m
messo istigato da Gano colai che accasa a Carlo i qaatr
tro fratelli, ricoTcratisi nella selva Ardenna, ed è Gano
istesso. che sempre manda a ?aoto ogni opera di pace.
Né aji altro che a questa medesima trasformazione ù^
bono riferirsi le gravi differenze in cui ci avveniamo verso
la fine del libro, e sopratatto nella guerra sosteDUta da
Ivone. Secondo la versione marciana, i quattro fratdli,
partitisi da Dordona, vengono a Bordeaux al re Ton, di-,
sposti, s'egli rifiuta di assoldarti, a recarsi a Tolosa per
offerirvi i loro servigi al Saracino Bemier, suo nemioo.
Yon li ritiene senz'altro: e il re di Tolosa, vemito poco
stante a. porre il campo alla città, é assalito dagli asse>
diati e fetto prigione da Rinaldo. Si coocfaiode alien la
pace, e Bemier si toma colle sue genti a Tolosa. Qui
adunque Cario non ha parte alcuna nella guerra, e que-
sta non ha già per riuscita il rimettere in pace ood lui
gli sbandeggiati; la narrazione e più semplice assau, e Ber-
nier, m luogo dì essere, come Mambrìno, un re vernilo
dair oriente per £ire le vendette dei suoi consangoiuei,
non è altro che il signore d' una città della Francia nieri-
dionale. e ci rappresenta la tendenza de^ Arabi a diF>
fondere dal mezzodì il loro dominio su tutta rEan^HL
Ma poco a poco entra net romanzieri italiani una predOe-
zioqe singolare per le invasioni dei Saraeini . le qoafi , ben
s* intende, terminano sempre col loro macello: gli Ago-
lauti* i Troiani* i Bravieri si mohipUcaiio fuor di misera:
testimonio ad un tempo e della povertà di fantasìa di
codesti romanzieri* e insieme delle coodizioiii del popolo
per cui essi anoponevano. Certo dii poteva eoo dBetlo
prestare orecchio a queste monotone e oofosisànie narra-
zioni, doveva serbar vìva dentro dì sé la memoria delle
IV.
) e l'odio contro i seguaci di Maometto; se nelle
plebi toscane non fosse stato ancora assai potente il sen-
■ teieoto religioso, la lelleratura cavalleresca, o si sarebbe
presto spenta, o avrebbe dovuto tramutarsi, com'essa
fece , appena fu trasportata in una società piìi colta e meno
^^V Dalla prosa volgiamo ora il nostro studio al poema
^^B ottava rima, alliuchè dal raETronlo di quello eoo que-
sta ci venga qualche lume a rischiarare V oscurità per cui
ainiamo. E davvero ci è qui d'uopo usare cautela,
! se ci avveotuiassimo a giudicare dietro idee pre-
Ette e secondo r analogia , saremmo tratti probaliil-
) ad affermazioni enonee; e di ciò ebbi a far prova
Miesimo, poiché avanzando nello studio, mi vidi co-
I a riuegare le opinioni abbracciate da princìpio.
Gastone Paris, il primo che abbia preso a discorrere
i rigore scieniilìco della nostra letteratura cavalleresca,
i medesima maniera che solo nelle composizioui
►italiane vede il modo di ricongiungere i romanzi to-
1 colle chansoits di bngua d' oìl , pensa altresì che tra
Epròne e i cantari in ottava rima s'abbiano a collocare
i in prosa , e che i rimatori da piazza sempre abbiano
D da questi la loro materia. Cotale opinione non mi pare
■ verità accettabile in tutto. Potrei infatti noverare parec-
ehì romanzi in prosa, i quali in cambio di essere fonti ai
poeti popolari, sono essi stessi derivati da cantari in ottava
rima. Nulladiraeno, lo concedo, non mancano neppure gli
esompl del contrario, ed anzi si ponno forse dire più nume-
ro»; onde ogniqualvolta è d'uopo giudicare della priorità
(It nn romanzo in prosa e di un cantare in rima, in cui la
a
-rr?
— (J7 —
3 r autore li-aducesse dal fraucestì. Si raffronti [
0 questo luogo:
t-I,
C.= r, 8-9.
Onde un barone in pie sì fu levalo.
Con juiìicio (l'inpani e Irnriiincnlo;
CiA fu Ginamo, signor di Bajona,
Dicendo; Intendi me, santa corona:
Ohe non mi par che ragion dritta sia
A noni che sia tradilo da sua donna,
E con altr' nomo abbia Tallo follia.
Di ber con coppa di i|uel che i: colonna
K capo e guida e nostra signoria.
Udendo il dire, Amone il her Traslonna,
E invcr Ginamo si volse ridendo ,
Dicendo : Sire , ctie è quel cb' io intendo '!
Dell, dilel toÌ da molti o si da vero?
l'Ir che v'ha mosso a dir silTalta cosa?
i DOD sente nella rima un fare schiettamente italiano, e
i rersione posaica per contro l'eco di una favella fo-
Bliera? Mn i giudizi, in fatto di lingua e di siile tengono
Ipre assai dell'arbitrario, e però vogliono essere raf-
tati da ragioni piìi positive. Né qui esse fanno diffetto :
I in prosa contiene molte particolarità di cui non è
I nel poema, sebbene talune si possano dimostrare
ibbiamente antiche col riscontro dei testi francesi. Ad
npìo mentre la rima nomina Liveri il traditore intro-
i in Montesoro per aprirlo ai nemici, la versione
aica lo chiama Rinieri, convenendo così col cantare
, ove è nominato Regnier. E del pari, a propo-
D dcir assedio di questo medesimo castello , l' invio di Na-
fted'Uggieri per trattare un accordo manca nel poema,
Ire è conservato nella prosa, dove soltanto si altri-
e a Gano una parte non assegnatagli dalia forma origi-
I del raccoiilii, ma pienamente consentanea alle leggi
secundo le quali la iDat«rì;i cai^leresca sì andaia tnnui-
tando ÌD llalia. E una proia noa meno irrepagnatMle si
deduce dalla scena in cui si descrìve .Vinone, cbe s' ab-
baile nei figliuoli addormentati presso ad ana fonte; poi-
che qui il poema tace al tulio del combattimenlo , di eoi
oairano le altre due versioni, ne dice, a differenia di
queste, che il duca si tomaiise a Parigi, e vedeodoTisi
cadalo in di^razia di Carlo, ^ partisse celatamente, sen-
za averne ottenuto licenza.
Questi esempi ponao bastare a mettere fuor di dub-
bio la cosa, e però stimo inutile l'andarli molliplicaodo,
come potrei fare con poca fatica. Il guaio » è che alla
sua volta il poema conviene coi testi francesi in pjii cose,
nelle qnalì invece ne dUconla la pro^. Ad esempio il
nome di Inorante dato dal poeta al messo che Carlo io-
via ad .Vgrismonte , è certo più vicino alPEnguerrand ddb
versione stampata, che non sia il Morando del proiiatore,
E se cosini nei poema passa per Blois, aflìne dì giaagen
alla sua mela, del che tace la prosa, si vede die T as-
tore di quello collocava la terra dì Buovo ivi appoolo
dove la ponevano le versioni (mginarìe. Ma più assai gimi
il notare che la rima e il lesto francese f^nno della sposi
di Rinaldo una sorella di Ivone, la versione prosaica ubi
figliuola; questi la chiamano Claiice, quella invece, <£-
— 69 —
mio non avrebbero potuto essere ranoodate al medesimo
modo nella prosa, se l'autore avesse condotto più oltre
la narrazione. Che se ad alcuno restasse ancora qualche
dablùezza, basterà, io spero, a toglierla il riscontro no-
levolissimo di un luogo, dove perfino le parole del poe-
sia convengono col lesto francese. Trattasi delia scena in
coi Anione, tornando dalla caccia, ritrova in sua casa i
figliuoli in uno stato miserando. S'adira ìl duca da prin-
cipio, ma poi, sbollito il primo sdegno, rivolge queste pa-
role a Rinaldo, che gli va descrivendo le miserie patite:
I
XIX. Rispuose il padre: Che non andavate
Alle badie, che non stanno murate?
Ch' e* stanno più che l'altre genti ad agio;
E se do' non v'avesser ben Torniti,
Avessi morii i monaci a niisagio,
E colti loro lessi ed arrostiti.
Migliore è la lor carne eli' uovo o cacio,
Giovani, gi-assì, in ogni bea nodrìti.
Bea dovavale inanzi mangiar frati,
Che veuir qui si poveri e afTamati.
Con questo passo si paragoni ìl corrispondente del poema
, che io recherò come sta nel codice Marciano:
N'estes pas chevaliers, ancois estes garden;
Ja a il asez geuz iledenz sa regio»,
Clerc, preveires, e moines de grand religion,
Qui som cras sot gonaes e ont gres li reìgnon;
ta cler fain lor gist le foie e le poumon,
E si ont la char leadre ausi come poon;
Mdllors sonL a mangier que cers , ne que venoissou.
Bniisiez les abeies a force, a abandon.
Qui del suen vus dorrà si lì feìles pardon,
E qui si nel ferra, ja mais ait raenchoa;
Heogier les en quisiez e) feu e) zarbon;
— Tu-
li ne vus ttroai ja plus mal que veooissoo.
lianip 1f Dieu me coofunde. enfant, ce ditAymOD,
Mieli vaii un moioe au rosi, que ne fet un pian.
Il prosatore atteoaa alquaofo la crudezza di qnefe
:>ari.'>W: * DUse Amone: Egli è per la Toslra altìM,
\"jt:*m sìtle da pochi. Imperi) ch'egli ha tante badie t
i ui-.Miisieri per tutti questi paesi ìdsìqo a Parigi, che sono
iHissi e pieni di roba , che roi potavate virere e ralv-
i.'!'. wri'bè non sarebbe peccato a torre loro della nih
l.-^e 3(3?.za loro: che se io avessi bando come voi, Dn
ni! i-urtivi dì rullare le croci per non Tenire in tanta »
seria >.
Itopo di Ciò sarà forse lecito pensare die il rimiUn
mettesse in versi'' il romanzo in prosa? A me non pare;
ma poicliè neppure 1' affermazione coati'aria sarebbe so-
steniLiile. citnvt'nà cercare un'altra via, per iscit^liere il
Dodo, ^è arrcmi3 »-ì almanaccare di troppo per iscop^^
la, partM si ilefiutSi'a netiamente il problema. TroviuM
doe testi simìglìantt^simt tra di loro, tanto da conlenen
spesso le medesime trtsi e parole, ma che pure rìlen^
ciascuno alnooi tratti onjnoarii. mancanti in quella vttt.
0 alterali Dell" altro. Che s' avrà mai a pensare ? La solo-
zione è ovvia: ì doe lesti derivano entrambi, l'uiw in-
dipendt-ntemeote dairaltro, da un medesimo originalft
srgo siiDìgltanCe a quello del ms. XIU detta Marciana e di
altre composiziODi silTatte. Che fosse scritto Dei paesi cir-
cumpadani , ne dà sicurezza V essere colà ctie la lettera-
tura cavalleresca fece la prima sosta tra di noi, e comin-
ciò a Irasrormarsi ; che poi la lingua fosse, comunque si
voglia, forestiera, si argomenta dai due testi toscani: im-
perocché altrimenti, o era in prosa, ne sarelibe spiega-
bile resistenza delta versione prosaica, o era in ottava
rima, e rimarrebbe inesplicabile il poema. Di più non è
certo da lacere in questo luogo che il terzo libro della
compilazione in prosa, Il quale narra la storia del Danese,
mostra avere stretta parentela con una parte del ms. XIII
dì Venezia : onde è agevole trarre un argomento di ana-
logia a conferma della mia congettura.
Alla quale forse verrà opposta un'obbiezione, certo
dì nou lieve momento. Come sì spiega il continuo e quasi
perfetto accordo delle due versioni toscane, le quali hanno
spesso comuni frasi e parole ? lo per me credo s' abbia a
spiegare ammettendo che tanto il prosatore quanto il ri-
matore .li conservassero per lo più fedelissimi al loro testo:
né questa supposi:!ione può dirsi arbitraria , polche dì u-
guale e forse maggiore fedeltà noi possiamo trovare pa-
recchi esempi nella letteratura romanzesca. A ogni modo,
tacendo altresì delle ragioni addotte poc'anzi, se l'affer-
mare il poema derivato dalla prosa ci torrebbe qui d'innanzi
qualche leggiera dilBcollà, verrebbe tra poco a recarcene
una mollo maggiore, allorché, continuando il nostro esame,
sarà pur necessario spiegare come mai in moltissimi altri
^^Ughì il lesto in rima si accordi coi testi francesi perfmo
^Hrite parole. Certo sarebbe strano oltie ogni dire che co-
^Hbta simigtianza potesse conservarsi attraveno alla trafila
^^ una versione prosaica. Quanto poi al supporre gue-
st'ultima derivata dal poema in ottava rima, non può es-
servi luogo a dubbio: poiché se Della prosasi potrebbe.
J
_ 7i —
arbitrarìameute s^ioteode. ammeltere ima interpolazione «
un' alterazkme del lesto , P inlet^rìL^ del poema aiera 1^
deli ^l:^todi il verso, la rima, e ti numero costante del!»
stanze conlenate in ciascun cantare.
Però mi sembra pelere oramai considerare come m
btto xccertalo b mia congettura , Torse non infeconda à.
conseguenze per la storia del romanzo cavalleresco. Aoà*
tutto euo i cantari dell' .Vita Italia servire di mezzo anche
per il Rinaldo alla trasmissione della materia romanzaci
dalla FniDcia alla Toscana: Tatto assai importante ai mìfll
occhi, emendo questa la parte del ciclo che ebbe tra fi
noi più Tavore e si venne maggiormente allargando. M
non basta; che il Rinaldo franco-italiano, se mi è ledttf
chiamarlo cosi, ci permette di studiare il lavoro di Ir
mazione in uno stadio diverso da (pianti ne avevamo gii
potuto conoscere. Certo esso non era per la maggior |
che una semplice trascrizione del poema francese: ma pd
già vi appaiono scolpili tutti i caratteri del romanzo loscanoi
sicché la loi'o origine non solo , ma altresì il primo svot
gimento va attribuito alPetò di passaggio. Questi caralled
sono specialmente due: l'abbondanza di avventure nellf
regioni orientali, sol guslo dì quelle del ciclo brettonej
ma di gran lunga meno varie, e la parte sempre odloa
allribuita a tutta intera la stirpe di Maganza. Quanto alla
avventure nell'Oriente, già altri prima di me aveva relU-
mente sospettato doversene cercare l' orìgine nel Rinaldo;
rispetto poi alla gesta maganzese , egli è sempre , chi boi
guardi, in opposizione alla casa diChlaramonte, suape^
petna nemica, che dessa viene costituendosi come i
schiatta di traditori. Però l'origine di questo segno carat
teristico dei nostri romanzi sembra da riportare al BuofD'
d'Agnsmonle, anziché al cantare di Roncisvalle; e il suo
graduato allargarsi dovette procedere dì conserva colla
crescente fama della gesta di Chiaramonle, che divenne poui
1
— 73 —
ì pofo sede e tipo di ogni virtù cavalleresca. Ecco dunque
\ storia di Hinaldo apparire principale fattrice della Ira-
inazione del ciclo di Carlo; da essa dovettero questi
raiteri insinuarsi poco a poco negli altri racconti e ve-
rti gradataracnlB tramutando. Questo ci spiega come nella
leratura franco-italiana si possano trovare alcuni docu-
inti, non gran fatto più antichi dei Reali, e dove tutla-
scorgono appena i germi di quella metamorfosi,
! in questi ullimi appare compiuta e già mostra segni
l corrazione. Molti racconti poterono dunque conservarsi
■Ili 0 quasi, sia perchè già da tempo avevano posto
«, sia perchè non avevano attinenze colla sloi-ia di
' Rinaldo.
Qaaoto all'età rispettiva delle varie versioni, io posso
proporre delle congetture, ma nulla più. Il testo franco-
iulìano conteneva già un episodio di cui s' incontra il so-
migliante nelP Entrée en Espagne. Nel primo , Rinaldo ,
venato al campo del soldano di Persia, che assedia ìn Ni-
littì rAmostante, gli chiede soldo percento cavalieri: del
che meraviglialo , si sdegna il Saracino, tantoché lascia per
dispregio che lo straniero vada a portare il suo ajuto agli as-
sediati; neir Entrée un caso al tulio simile interviene ad Or-
lando , allorché partilo per isdegno da Carlo , è passalo in
Oriente. Quindi sembra probabile che di questi due luoghi
l'uno sia imitalo dall' altro; ma poiché Nicola da Padova
è poeta formio a dovizia d' ingegno e di fantasia , doti
die mal si potrebl>ero concedere all'ignoto rifacltore del
Hinaldo, a lai, anziché a quest' ultimo, parmi doversi attri-
hoire il merito dell'invenzione. Quindi il Rinaldo franco-
ÌUliano sarà posteriore all'Entrée, e a quanto .sembra
dalla natura di certo narrazioni, posteriore di un tempo
abbastanza considerevole: io non credo discostarmi dal
vero assegnandolo alla prima metà del trecento.
Tra il rUacimeaki franco-ilaliano e 11 romanzo ìn prosa
— 74 —
ci conviene frapporre un intervallo di molti aofìi, da«
rante il quale le avventure deir Oriente, apparse colà
per la prima volta, potessero progenerare altri rac-
conti del medesimo genere. Imperocché a niuno, come
aiCtiiaramontesi, furono attribuiti tanti figliuoli illegittimi,
nati da donzelle saracine. Ora già nel testo in prosa noi
ci avveniamo in uno di questi Epigoni, la di cui storia,
ivi appena accennata per incidenza, óome è affatto ignota
a me, doveva essere notissima all'autore; trattasi di un
Dragonetto di cui Ricciardo lascia gravida una fanciulla nel
castello deir ucciso Costantino. La storia di costui era pro-
babilmente opera di alcuno tra quei cantatori da piazza,
legittimi succcessori dei giullari , che dovettero in Firenze
e in altre parti di Toscana diffondere tra il popolo le vi-
cende dei paladini di Carlo , prima ancora che i romanzi fran-
cesi venissero tradotti in servizio di chi sapeva leggere. E
d' altra parte non si potrebbe rimuovere troppo verso la fine
del trecento la versione in prosa , se dev' essere contempo-
ranea ai Reali di Francia , coi quali mostra molta analogia.
Anzi non sarebbe forse audacia V affermare il Rinaldo an-
teriore ai Reali, poiché questi fanno menzione di due ba-
stardi del Chiaramontese , ignoti al primo e attribuitigli
da tardi continuatori : vo' dire Guidone e Dodonello (1).
Che se quanto a quest' ultimo può osservarsi , non essere
la narrazione condotta fino al luogo dove si avrebbe do-
vuto discorrerne, non sembra doversi dire la medesima
cosa del primo.
Il poema, finalmente, deve a mio parere reputarsi po-
steriore alla prosa , e composto verso la fine del trecento.
Dal crederlo più antico mi ritiene la forma, e il vedere
come vi sia accennata la storia di Guidone; ma d'altra
(1) Tolgo questi nomi dall'unico Ms. dei Reali, posseduto dalla
Magliabecchiana. CI. VI, Palch. I, cod. L
— 7o —
t non lo saprei oè anche tenere più receotie, si per-
I allude .id nna versione di questa storia diversa da
Ile altre, sì perchè non saprebbesi intendere come
t composizione di età piìi larda ridesse fedelmente i
ToediJ leslt. senza nulla accoglierti dei nuovi racconti, ger-
mogliati in gran copia sul vetusto tronco del Rinaldo. Del
resto non intendo di attribuire importanza a queste con-
geUore. e solo le propongo in mancanza di meglio: sono
torse tela di ragno , che ciascuno può agevolmente lacerare.
V.
E ora mi limane a discorrere dei venticinque can-
tari, che non hanno riscontro nella prosa. Comincìerò dal
riassumeiTi alquanto diffusamente, si perchè la storia di
Rioaldn, ìraporlantissima per ia letleralura cavalleresca ita-
liana, è quasi affatto sconosciuta fra di noi, sì perchè
questo è l' unico nostro romanzo in cui essa si trovi nar-
nU conforme alle antiche versioni.
Noi abbiamo dunque interrotto il racconto lasciando
Rinaldo tranquillo signore di Montalbano e novello sposo
dì Clarice; ma poco dura la di lui felicità; non molto
appresso Gano con quaranta de' suoi si parte da Parigi,
per isciogliere un voto a Corapostella, e giunto in Guas-
cogna meraviglia al vedere la nuova rocca, di cui le nuove
Don sotto ancor giunte alla corte. Saputala dì Itinaldo,
s'arvta a quella volta, e incontratosi nei quattro fratelli,
in ricaniSio dell'onore che s'ingegnano di fargli, li svilla-
Mggìa, si gitta addosso a Rinaldo, gli sputa sul viso, e
t^ì tira la barba. A questi atti il Chiaramonlese risponde
prima con dolci preghiere; ma nulla giovando, afferra il
lnditore.e lo gitta al suolo tutto sanguino.so. Sì fanno allora
izi gli altri compagni, e si accende una zuffa,
3
e
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i-nPiL* 7:<li: sanrù: òa tnàiton. Tormloà i taip,
■;^2d: 5^£a 1 !d a." iiii(>sAiJn e mm dd ostello <»-
jCtis; T'ccr: i i'i'A:-.. Cark> albn admu h baroMS
ru^^ -r?iir.-. p^ <au;nrnBa<c> dì Nudo s' ìqtÌUui
rjncfrr . gucr-: fncrlli. i qruli obbedienli si prei»
a:*: . b:)io5:nì :rìfvi'-:- tt/xmf'Kaarf di diiqaemib a-
TIJ7-. r a liùor: ù VWin L I33V Essi si scotp»,
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^■^la ::c =. '..:ir.-r:>: i Kiiiald?. boendo eoa che à m^
h. fsciTi^ aTiì n^ 4 MtZKìLiSi 5vebbero scoofitU, b
:»;c -rti-e^-rr: >>rr.:«^- da i>arecrtae migUaia dei tao,
fid TéciTr i zjs-'X:- b Pvip dal perfido Gano; sedil
e r-ìc T^c^r^-i diz ^stìii £ CbanmoDte si siItìdo, pro-
ifCTrii^: ^ ?;^-^ ><:-L~>pi«:-^'ar fo<xo ad od borgo drila adi
iiiUic:- 'Iriiirl: . a>i>t> a dtfeodere la ProTeoza dalPìon-
3:or i. si' ;rìi ara:^ . mena prisiouero a Pariff H im
C3>:-. :' £in£i:? >CT:-bSiy. àt^ pmde il battesimo e promede
m trl^<n.:> aL~ inkpef*:<¥. E questi, raccolto di nnofofl
rcQàr*io. colina a cìa>ciiDO di tenersi pronto per ani-
are »Qtr:> V-xitalbaiKx Nessuoo osa fiatare, eccettuto
no s«:>lo:
Astenia Ica molti sacnraenti
IXaaiiii a Cario, forte rimbrottando,
Qie » iroTisse Rinaldo le^lo.
— 77 —
i il cavallo vincitore, [tandila dunque la prova, Ki-
) Don sa reggere al desiderio di parteciparvi; (C." XXIX.
'.") i fratelli lo accompagnano, e insieme Malagigì,
lale il) un boschetto trosforma con sue arti sé, lui,
,0, in guisa da non potersi più riconoscere. La-
1 i compagni io un luogo riposto, Rinaldo e Mala-
i entrano nella città, passando attraverso alle guardie
«state per ispiarlì; ma postisi ad albergare presso un
SDlaio, sono da lui riconosciuti per certe parole disac^
, e sarebbero traditi, se Malagigì non desse morte a
tnì. Il giorno appresso si viene al prato delle corse;
143 v.°) ivi Rinaldo, lasciatisi addietro di grande
I talli gli emuli, tocca la meta, spicca la corona, e
i a Carlo il sno nome, fugge a rompicollo, inse-
> da molle genti, e prima che da altri dall'imperatore.
I fuor di modo per essersi cosi stoltamente fatto
ire. Un fiume attraversa la via : Bajardo lo valica d'un
. mentre Carlo si rimane lutto stizzito sull'opposta
la. Bramando pure di ricuperare la corona, offre la
I compenso: indarno: il cliiaramonlesB la vuol porre
> a Clarice, e ripigliato il cammino, trova Malagigì,
} tallo trasflgwato, guercio e zoppo e in vesti da pel-
I, siede sotto di un albero. A sua ricbicsta Rinaldo
e; ma poco stante sopravviene l'imperatore, e do-
I il falso palmiere se abbia veduto passare un cava-
> sopra un cavallo bianco. Malagigì risponde che si;
) scellerato gli ha scagliato il bordone sopra di un
•o. Carlo mosso a pietà, e pregatone da lui, scende
! s'ingegna con pietre di fario ricadere: ma in-
) Malagigì, colto suo tempo, si lancia sul cavallo, e
i il proprio nome, si fugge. Cario, pieno d'ira,
i vendetta , e costringe tutti i suoi , che poco appresso
nvvengODO, a giurare di guastar Montalbano e far pon-
ì i chiararaontesi. Torn.ito f[iiindi n l'arigi, appa-
recchia la guerra.
— 78 —
(XXXI, 148 V.') Frattanto Malagigi, raggiunto Rinaldo,
torna con lui a Montalbano, ove si fa gran festa delPaccaduto.
Ma tosto la gioia si rivolge in pianto , poiché l'oste di Carlo
viene in Guascogna e distrugge la rocca di Monbendello, pas-
sando a fil di spada anco le donne e i fanciulli. Qui b
sosta il grosso dell'esercito, mentre Orlando viene con
tremila cavalieri ad accamparsi sotto Montalbano; dove il
paladino, fidando troppo nelle sue forze, va con pochi
compagni a cacciare per la riviera. Rinaldo non dorme,
assale il campo, lo sbaraglia^ e si ritrae con grande bot-
tino, tra cui V insegna maestra, che per onta dei nemici
è inalbenata sulla torre (XXXII, 153 v.*"). A quella vista
Carlo crede preso il castello ; ma saputo il vero da Gano,
ne prova gran doglia. Allora fa cercare del nipote, che
gli è menato innanzi tutto vergognoso, sicché tocca al-
l' imperatore confortarlo.
Gano poi , sempre pari a sé stesso , propone a Carlo
d' impadronirsi per tradimento dei quattro fratelli e gliene
suggerisce la via. Il tristo consiglio trova facile ascolto, e
un messo é spacciato a Tolosa, la quale in questo luogo
è divenuta capitale del regno di Ivone. Questi, avuta la
lettera di Carlo, che lo invita con promesse e minacde
a farsi strumento di nefandezze, si ristringe co' suoi, e da
essi consigliatovi, finisce per consentire; quindi, scritta la
risposta, per mezzo di Gondarte, suo cappellano, la fa
pervenire alP imperatore. Questi allora chiama il Danese
e Folco da Smeriglione, e strettili anzitutto con giura-
mento, palesa il nefando trattato, che essi devono porre
a esecuzione, andando con quattro mila uomini ad appo-
starsi in Valcolore. Indarno il Danese vorrebbe esimer-
sene: ha giurato e gli conviene obbedire. Dipoi T impera-
tore rimanda Gondarte al re Ivone, che accompagnato da
molta baronia viene a Montalbano, e vi è accolto con fe-
ste e dimostrazioni di affetto, le quali gli passano P anima.
^^^P ~ 70 —
n ^omo appresso, mentre Malagìgi è alla carda, il re
dice a Rìnsldo di essere mandato dall'imperatore per trat-
tare l'accordo, (XXXIII, 158 v.") e lo stimolo ad andare di-
sarmato in Valcolore per fare parlamento con Carlo. Ri-
naldo bramerebbe recarvi le armi, ma asserendo il re
i ciò guasterebbe ogni cosa, comunica ai rratelli Pin-
. Clarice, presente ai loro discorsi,
Odcndo dir si fatti scnlimenlì,
Diceva: Signor mio, tu e tuoi frati
Non v'andate per Dio se non armati:
Ch'io sognavo stanotte sogni scuri
Di tutti quattro voi franchi guerrieri;
Pareamivi vedere a pie de' muri
D'un gran palagio, soli su'sentieii:
Ragionandovi voi piano e sicuri,
Cadevan delle mura canton Heri,
A cui io sulle spalle ed a cui in testa;
Quasi che a morte vi facean richiesta.
Poi vidi un orso che le mie mammelle
Tor mi volea del petto colle branche;
Se non che Malagigi a lai novelle
Vi giunse e liberò mie vene stanche.
Tutta notte sognai cose si felle.
Taltavolta Rinaldo , soffocando in cuore ogni sospetto
\ ascoltar solo la voce dell' obbedienza al suo signore,
Euade i fratelli all' andata e con loro si pone in cam-
» in compagnia di quindici conti di Ivone. Alardo,
(ìuicciardo e Ricciardetto vanno dinanzi cantando; e quei
canti raddoppiano il dolore a Rinaldo e lo fanno piangere,
pensando al pericolo clte forse li aspetta. Di ciò si av-
vede llicciardetto, e ne muove parola al fratello, che si
!(|m)ia ras.sicnrarlo. Così giunfjono ir Valcolore, luogo tutto
Aiuso da boschi, dove s' ini-rociano f|nattro vie: quivi
— 80 —
si celano quattro aguati, di Uggieri, di Folco da Smerì-
glione, di Ruberto da Pontieri, e di Canone da Losanna.
Il Danese lascia passare liberamente i fratelli; ma per
contro il maganzese Folco e gli altri, che appartengono
del pari alla stirpe maledetta , s' affrettano a mostrarsi. Al-
lora Alardo, Guicciardo e Ricciardetto, credendosi traditi
dal fratello, lo vogliono uccidere: ma rinsaviti per le pa-
role di luì , gli chieggono perdono. Egli poi , ornai chiaro
d'ogni cosa, si gitta sui conti guasconi, uccide rArchr&*
scovo d'Avignone, e pone gli altri in fuga. Non essendovi
modo a scampare, i quattro fratelli scendono dai muli,
su cui Ivone li ha costretti a qui venire, e s^ apparec-
chiano a far difesa colle sole spade. E già i nemici s'ap-
pressano (XXXIV, 163 v."*), e comincia la zuffa. Rinaldo
tocca da Folco una ferita, ma pure gli vien fatto di uc-
ciderlo e d' impadronirsi dello scudo e del cavallo; quindi,
provveduti al medesimo modo i fratelli, resiste con animo
imperterrito ai nemici. Pure alla fine manca ogni speranza;
Ricciardo è a terra ferito mortalmente; gli altri allora,
postolo sul cavallo , lo traggono a gran fatica ad una rocca
guasta, ove ancora potranno reggere qualche poco. Ivi
Rinaldo non guardò di far posate;
Ricciardo puose sulla terra dura
Con le budella del corpo cavate;
Sovra il suo manto, e poi sotto la testa
Gli misse un sasso e niente fé' resta.
Egli poi si pone con Alardo e Guicciardo a difendere l'en-
trata. Veduto ciò , Uggieri , desideroso di soccorrerli senza
parere, accorre e grida loro di arrendersi; ma ricevendo
risposte ingiuriose, fa ritrarre gli altri, e manifestato come
sia qui venuto suo malgrado, dà loro agio di fornirsi di
pietre. E siccome i maganzesi Io prendono a sgridare,
egli risponde menando ad uno di loro una fiera mazzata.
— 81 —
fXXXV, 168 ».") Ma mentre i quattro fratelli si iro-
vaao ÌD così grave traTaglìo , .Malagigi, (ornalo dalla caccia,
risa (la Goodarte tatto l'ordine del tradimento. Raccolte
senza iiulagìo le gt:Dti, sì parte, meoaiido seco Bajardo,
e si conduce in Valcolore , dove il fiero cavallo s' apre a
morài e calci la via fino al suo signore. 11 Danese ìnlaolo
abbatte Malagigi, che lo aveva assalilo, ma poi lo tasca
andare scnz' altro inciampo alla rocca. Quivi egli con mi suo
balsaiQO risana ogni ferita, e ritorna i cugini al primiero
vigore; sicché reintegrata la battaglia, ì magaozesi smki
rolli, e U^eri prende a guadare la Gironda. Motteggialo
da Rinaldo, torna addietro, ma poi questi doo tooI sa-
perne di combalEera eoo lui Da ottimo i Quaramaolesi
lomano con molti prigionieri e ricca prttb, e Itone, ri-
aputo ti fatto, fu^ge a una badia ne) bosco ddla Ser-
poila. Ma poco vale; la cosa è riferita a Orlando, il quale
con molle genti, e accompagnato da Ulivieri ed Astolfo, à
reca tosto colà. Ben gli ^ fa iocootro 1* abate cantando
e portando la croce ; ma Orlando vnole a ogni oknIo i
fellone, e ai rifiuti del monaco ri;>poDde eoo altro cbe
L'abale prese, in terra lo percosee.
Per la cappa di dietro, a lai panilo
Cbe Kanza più del mondo fu uscita
Ulivier prese per lo scapuUre
Sutiiio di que'roooaci il priore:
1d terra il percoteva a tale albr<?.
Che nel petto gli fé' crepare il cwe.
Diceva Astolfo: Cosi si vuol tue.
Uccìdetegli tutti per mio amore.
Gli altri monaci si fuggivao
Per la badia chi aie' può s' ft
cbe liecondo la meoie dei ooslii
— 82 —
stolfo non fosse un modello dì pietà, e sopratutto dm
se la dicesse troppo coi frati e i romiti. Come poi boat
è ritrovato, gli è tratta la cappa, e posto sopra di no
mulo, è afQ(bto a cento cavalieri, perchè Io appiccfaino
a Monfalcone, ìn vista di MODtalbano, sicché Rinaldo legfi
le sue vendette (XXXVI, M^ y.'). Cosi ortoiato il tetto,
Orlando toma verso il campo:
In questo mezzo Rinaldo giunge al suo castello:
E quando fur sulta sala gioiosa,
Venneli incontro la sposa e' suoi figli,
Clarice bella, tulla lacrimosa,
I figljuoi piangon, che parevan gigli:
Inginocchiarsi sanza prender posa
Al prò' Rinaldo, ed el con crudi pigli
Dice a'tigliuoi: Voi siate maltrovati
Poi che di tiaditor voi siete nati.
Dinanzi a me non mi venite mai.
Né voi, né vostra madre, ch'io non voglio.
Clarice piange con dogliosi guai;
Alardo e gli altri, vedendo il cordoglio,
A Rinaldo diceano: Glie Tarai?
Vedi che a noi non piace il tuo rigoglio
Di dirli cosa che noiosa sia.
A mal suo grado facemmo tal via.
ticr suo senno avessimo noi fatto.
— 8a —
Dirai che per amor del solo Idio
Kl venga a Tar con sue man ie vemlelle
Di me miser, lapin, traditor rio,
Che missi hii e' frali in si rie strette.
S'elli m'uccidon, salvo sarò io.
E se noi fan, tra genti maladelle.
Gira r anima e '1 corpo mio tapino
Colui si parie, e mettesi in cammino.
jj^enuto a [tioaldo, gli fa l'imbasciata, e questi piemie
irtìto di campare il traditore, acciocché non si dica per
I moudo
Uno parerne di questo s'appese.
pITiDta l'opposizione dei fratelli, adima le suo genti. Ira
ni sono duemila annali, condottigli ^al prode Lamberto
lonte di Tremogoa, suo parente carnale, e s^ avvia al-
l'Impresa. Io questo tempo medesimo il Danese, die sì
" tornava doglioso al campo , s' incontra in Orlando , ed è
da lui chiamalo traditore, perchè si è lascialo sfuggire i
quattro fratelli. Già si sta per veuire alle mani, quando,
essendo apparso Rinaldo coi suoi, Orlando si volge con-
tro di luì e nella giostra è gìttato a terra per colpa di
Veglianlino, che non regge all' impeto di Bajardo (\XXVII,
179 v."). Dopo molti colpi Rinaldo propone di sospendere
il duello, e consentendovi l'avversario , sprona il cavallo
alla volta della Serpenta. Per via incontra la schiera che
mena Ivone alle forche, libera costui, lo trae in Montai-
baoo, e datolo in custodia alla moglie, torna alla bat-
taglia. Intanto i nemici erano già a mal partito, sicché a
lui non resta che porre compunento allo sbaraglio. Com-
piata cosi r impresa , egli si torna ; ma Ricciardetto , troppo
^Ido neir inseguire i fuggiaschi, è sfidato da Orlando, e
— M —
ila lui oo!>i->tu> ffi^x^. Solo kì MoDUlbno Rinaldo s'av-
T(sle ox) JKvito -iolor^ della sua manfana: pure Mala-
vnp lo '.vxìfvYla. e tnnmtau>à in pdlegrino. Tiene a Carlo
e dì chi-ede TeoieUi dei dùramontesi. accusandoli di
averio nitoio. mxt'.vli qaittn> coBip^gni. quindi gittate
m urvi 5)e;^. i.rr k> hiQD> makoock) i morsi di rettili
velro.>>L L* jnr«ef}tore. tet> ^uardioso dair esperienza,
x>>f^ui: ii;oÌ£&fo:- olisce per ttsòarsi ancora inGnoc-
;iiur\ .ili f il>.' r^i^niìffe . '±e ìq più moA à h beSè di
luL rt-Kiic?: r.i3p:o:« Ve !i»>re di Vakolorv e riempioao
Ciri: 1 i5i7j:o. ^ifrSC' 5i >x-n?sw aU*ndire Tiidelice
no-vivi .1:1: 1 iifi >:s:-s:ca di OFtDl>. e solo lo «ne
r*:;j;iLi:: ».: jlV^ilt: ..i :jC2n ii Kstxùrìc^, al qoale Tim-
jvrK.c: !•>■ rriDif rL7?jra. ron^ìy di farlo ioqMC-
viT:. l. C3:rr.Kc:> raccoif ìrStamxàe. e pN^rtosso da
ijrr»:. *•: lAm xc ^xxKfLSL Ki i^t^S> e i pieri far-
i:o: a *tr?:cTi:s» .rcfcsi, f i rri»x>? rkooosce allora
ve r:i:«j j. .cLrri: s:c: >f jcci^f ifi paiaàero. Cario,
fcr&: 3if ^t:c^i•:^: ìi luiiiirS: Un 5:rAe. cera di no
m
:c.a. \ic&:. l'^^^n. 'J-raiiò:, Ttztic» ^ A2%>K> si ri-
z':.vcr j; ri.ui]»: li'.i: ili ji Tiri railìty ri si profle-
-s;^: v;i:cjr«:-u£n.»:r:L: r: iiuiraTJ^sf S^»: il Ripamoole.
Vfciia : :>':ci xTh :':si ^éìùk^ìt n i ^ferire iì tallo
I 5.i:jò. i :rj:;ii.: >tuju i:iiTXijr inxj : saj,"ì. e si la
\\\'A IS? • K voiji; i5i>cìrrjc: tee»:- .-oq traila
TinCUTlt-fTù:
•Mzri i •II*.'* I ;:r III»! i-v?!itr: e*: m n«a ii s-j^i
— 85 —
t^ occhi bendati e col capestro alla gola. Ma se donne
R^aklo, veglio Bajardo: il quale, veduta la cosa, desta
il suo signore, che balza in piedi, soccorre coi suoi, e
in luogo del Tralelto Ta che sia appiccio Itispo con Intlì
i compagni. Uicciardetlo poi, prese le anni e d arallo
di costui, viene a Carlo e lo sfida. Nello sconiro egli è
abbattuto, ma le genti chiaramontesi lo soccorrono, ne»-
tiv dall'altra parte si Tanno innanzi i fraDcesi, coaedK ì
duello si tramuta ìn una battaglia. Rinaldo scafala Tìb-
peratore, ma appena riconosciutolo gli si giiia ai peti,
(XL, 19i T.") e lo prega di pace:
To' Monte Mtaao e Baiardo die bo •ano.
E'miei tiglìuoli e b domu ebe ntn.
E gli altri miei Traiegli, e b far pace,
E dì me 1^, signor, ciò che ti pace.
Per amor di Gìesù te La duomda.
Che sofTerse per voi e per mì mane.
irìo in luogo di
I U spada, lo afferri, e lo bunnUte mm. m
rrìbile colpo di Orlando sm I» ao^haftmt a !»■
. Intanto Malagigi si arrende ad Cimri, dke b Mb
I lo dare a Carlo per qadli ma, té «^ ftmttÈt
alia sua volta di non fa^ire ■ qaeMo toa^ Mmtim
notizia , r imperatore si ricooteti ifokke pan. e OM»
Ei con Clivìeri, che qaesli, ritenta tima» ite i tap»-
manle non sarà offeso per on. gfe I» omÈKBt. €■!• to
carica di minaccie, e ibiaffp. I
KODO, gli chiede di cemre eoa 1
— 86 —
Niilladimeno a istanza della laronia concole la grazia:
Lo imperadore fu a l.ivola posto,
E Malat{igì gli fu posto apresso:
A seder si gli pose alialo loslo,
Poi gli altri suoi baron secoudo ad esso.
Vivandò assai di buon lesso ed aroslo
l^rlo non mangia per temenza d'esso.
Clic non gli Taccia qualctie trulTaria.
Tutta la genie di ciò oc ridia.
Malgigi (i } maagia e tra sé rìde e gode ;
Carlo il guardava per isbalordito,
E d' ira tutto quanto se ne rode.
Kinito il mangiare, Carlo lo fa caricare di catene (\U,
19fl v.") , del die egli si ride , e dice apertamente di w-
lersi partire avanti il giorno. Mentre la baronìa si soimk
con suoni e canti , V imperatore non leva gli ocelli dd
negromante , che dopo uo certo tempo addormenta cii^
cuno con parole magiche. i]uindi si scioglie dai c8p{N<
aduna in un Tascio Gioiosa o le spade di tutti i palai
Ciò fatto, per maggiore scherno apre gli occhi a Carlo, 1«
guisa peraltro che non possa muovere le membra, e chi»
stogli congedo, esce dal campo e s' abbatte in Kinaldo.
uscito fuori per cercare novelle di \m.
Venuto il giorno. Carlo si risente, e risoTvennttS
deir accaduto, desta i baroni, dolenti oltremodo al ritromj
privi delle spade. Quindi egli scrive a Rinaldo una letta»
piena d'ingiurie, onde questi si sdegna sì fortemente. di
uscito dalla rocc^ e lasciati in luogo opportuno i ftatd
(1) Il Cwl. ha Malagigi' ma r i|ui e ili Ogni allro luogo ^ di
riosiro come degli altri cnnlari, dove il verso richiede ire ùltabt, 1
non (luliito non s' ubbia a leggero Malgi0, fonn» del wsio cbt II
risponde alla francese (Mangìs).
peg^Onodo b nlb ka !««.
Udite bel miracol e
Cbe Crìsio fé' per d
Tra lor dse gionsc b npri mbi ftiM» -àe},
OtUDto fti per ciaieBi rieos rnlar»!
Cbe Pud non socia FiHn afe Tvlen;
Dice la stona cbe (>«u i (
Che QOD ftUtn cbe Oriandt |
HoBtnase sua Tiftb sopn i
^ pOB mìvier ^ areoac liab^
bi Vieona. quando e'tes» afle i
lon Oliando, disceso a \em.
A guisa come io bari tv jh^me;
Fone clie Cario nitighert rin.
lo appa^, uè è a <6n qnrto Carlo atUolori p
de] nipote, condoOo in MuiftlbaDo, e iti a
rande onore-
questo mentre sbarca a Borddb fl
d' Oriente per Tcndicare la norie 4 ]
aUri SQoi fratelli noeta da I
Ilo a Urlo, i) quàt lo ueno», iwiirllirti »
pagano di rinnegare Cristo, se egli lo libera dal sno i
mico. Di cid prendono tanto sdegno Namo, Ulivieri. Aslolfci
Guido, Ottone, Berlinghieri, Gualtieri e il Danese, che e
molle genti se ne vanno in Monlalbano. Gatlamoglier^
venuto in campo, manda a minacciare acerbamente Binaldo;
questi (XIJII. 209 v.°), apparsa l'alba, esce fuori armalo,
di Dnrlindana. e dopo lunga znfia spiccalo il capo al S»-
racino, lo reca a Cirio, rimproverandolo e diiedemloi
pace, Ma
Carlo gli volse le spalle e noi mira ;
Rinaldo fra la sua genie si tira.
I pagani sono messi a sbaraglio, e tutti i paladini Tanno
insieme a supplicare l' imperatore, che sempre ostiiwU,
risponde cliìamandolì felloni ; ond' ossi tornano a Montal-
bano, dove la sera Mnlagigi promette a Rinaldo dì Ant^
preso Carlo, avutane sicurezza che non sarebbe oifési
Venuto poscia nel campo, addormenta quanti soao nei
padiglione imperiale, e ravvolto Cario in un capperone, la
porla in Monlalbano. Quivi lo depone sopra di unleHo,*
vi conduce Rinaldo:
Carlo gli mostra dalla cera ardita:
I Fa, fraisi mìo, che tu .ibhi perdono
Prima che ci esca », e poi fece partit^i.
Rinaldo il guarda per isbalordito,
E non guardò Malgigi eh" ene ito,
Forse per non alarlo più giil mai
Uhi quanto Qa Rinaldo doloroso.
Ora direm di Malagìgi ornai,
Che se ne va, quel baron dilettoso;
E dìspogliossi i drappi d'oro e vai.
Poi si vesti di un panno tenebroso.
Con una gonna grossa ed un mantello.
Scalzo, ed in testa non avia nulla elio.
— m —
E tanlo cammiQÒ di noUtì e gioriia
Che anivd in un bosco Tolto e scuro;
Nel folto bosco andò lanto dintorno.
Che fece ud.i cellcttjt a secco muro.
(1)
Di Trasche uo letto corto e mollo duro.
Di spine e pnin, per maggior penilenzia,
E quivi orava Iddio con peniienzia. (2]
D' erbe selvaggie ognor se nutricava,
E dell' Kque beveva di una fonie;
Cristo per sé e per altrui pregava,
E per tutta la gesta dì Chiarmotile.
Spezialemcnte a Dio iticcom^indava
Rinaldo e' suoi trale' colle mas giunte,
E che pace lor renda Carlo Mano.
Or vo' tornar, signori, a Montalbano.
ì Rinaldo chiama i fratelli, tra cui Ricciardo vorrebbe
lo l'iioperatore, per vendetta dell' averlo voluto impic-
l Ma Rinaldo si oppone, e in quella vece (XLN. 214 v.")
luce al letlo latti i baroni, e avutane promessa che
rtcderaoDo per lui, con certe erbe, delle quali gli ha
peto l' uso Malagigi, risv^lia Carlo, il quale
Aperse gli occhi, intomo riguardossi.
Vide la zambra dipinta a fin oro.
Credendosi esser dentro al padiglione;
Subilo si pensò di qnel lavoro,
Glie Malagigi dormendo il portone.
Da seder si levò ira tutti loro,
D' ira cruccioso, e non facea sermone.
I paladini e Rinaldo cTratcgli
In ginocchion tutti si mìssor egli.
— 90 —
Ma anche questa volta le preghiere dod valgono a anaovere
Carlo, che vitupera i suoi come traditori e sfida Rinalda
Questi, geDtile quaPegli è, lo libera, rende la corom
imperiale, l'insegna e le dodici spade, e mole aocon
donargli Bajardo; ma T imperatore, tornato al campo, li-
manda il cavallo e quindi dà l'assalto alla rocca. Qnesb
resiste, e allora, e agli sforzi rinnovati nei giorni succes-
sivi ; se non che poco a poco vi si fa sentire h l^e, àie
insieme colle continue battaglie la viene spogliando al tutto
di difensori. Oramai vi rimangono soli in vita
Rinaldo e' suoi frategli, e '1 prò" Lamberto,
Clarice e' figli, e 'I re Ivon diserto.
Costui dal momento della sua liberazione dalle forcbe
rimase sempre imprigionato. Ad aggravare gli stenti Cirio
fa rizzare certi trabocchi:
Di Monte Albano opi cosa era alTraota;
Solo le mura e la rocca vi dura.
Che la fé" far Maiagigi per arte:
Pietra non se ne rompe né diparte.
Di otto cavalli superstiti quattro vengono divorati; e siri»-
gcndo sempre più il bisogno, si fa il medesimo di quelli
(li Ricciardetto, (XLV, 219 v.°), di Alardo e di Gmf-
Vegati quindi i fratelli e la mogie A
sera. <;sce dal castello e à rea il
.'amor paterno parta toàlo al ewredi
' aricatd di tetto?;
Poi per partirsi dal doa fa i
I Dicendo: Padre mio, Cristo ti g
Del ben cbe tu ci lai. Ed e) lispoose
Al prò' Rinaldo: Figluo', siile certi.
Che mai celale non vi fien mie cose;
Facdami Dio, come gli piare, meni.
— oz-
io v'alerò in palese ed in nascoso.
Rinaldo Y abbracciò di sotto al petto,
Poi si diparte a pie tutto soletto.
Fedele alla promessa, Amone in luogo di pietre trabocca
nottetempo nel castello
bottacci di cuoio incotto,
E castroni e gran sacchi di pan cotto.
Ma essendosi un giorno scoperto V artificio. Amone è fatto
uscire dal campo, e la fame toma in Montalbano sì acerba,
che per illuderla
Da due volte Baiardo insanguinaro;
Ma poco li durò tal bandigione.
Da ultimo Lamberto si risovviene di un antico sotterraueo,
che li dovrebbe poter condurre oltre i nemici; tutti si
danno a cercare, e riescono alla fine a ritrovarne la bocca.
In questo tempo Rinaldo trova morto Ivone, e lo piange.
Quindi la notte i superstiti, compreso Bajardo, entrano
nella caverna, e venuti all'aperto, camminano finché per-
vengono a un romito della casa di Chiaramente, dal quale
hanno cena, alloggio e tre cavalli. Di poi si conducono
fino a Tremogna, la città di Lamberto, (XLVI, 224 v.')
dove sono in ogni maniera onorati, e dove per volontà di
Lamberto istesso, la signoria è data a Rinaldo.
Per più giorni Carlo non s' avvede di nulla : alla fine
il non udire alcun rumore lo induce a scalare la rocca,
e non vi trovando anima nata e nemmeno cadaveri, si
toma scornato a Parigi. Ma Gano con sue spie scopre il
ricovero dei Chiaramontesi ; allora Carlo, raccolte le sue
genti, muove a quella volta, e Rinaldo gli si fa incontro
Hlbni
— 93 —
con un grosso esercilo. Già sono ordinate le schiere: pure,
avanlì che sì dia principio al combattere, Rinaldo va un'altra
volta soletto, ma ancora indarno, a chiedere il perdono.
Così sì fa battaglia, e per più giorni sì rinniiova, con
gravissimo danno di ambedue le parti; ivi resta morto
il baon Lamberto.
Mentre i Chiaramontesi sono io tale travaglio, e si
ino rinchiusi nella terra, Mnlagigi, Tatlone accorto, non
piiì dal demonio, ma da una visione, delibera di rivederli
ancora una volta e quindi pellegrinare a Gerusalemme
I
Acciò che Cristo a pace gli riduca,
Prima lor morte, con quel re Cai-Ione.
E poi si mosse con sua Taccia bruca,
E prese un grande e pesante bastone.
Dell' acqua beve e dell'erbe manduca,
La barba gli copri» '1 petto e '1 ventrone,
Discalzo e magro per la scura vita.
La taccia aveva palìda e smarrita.
Attraversando un bosco, vendica alcuni mercatanti di c^erU
ladroni, uccidendo sei di costoro e a due rompendo bisaccia
e gambe: di poi viene a Tremogna, e si appresenla a
Rinaldo, che siode a tavola coi fmlellì e la moglie (XLVII,
220 v."). Quantunque niuno lo riconosca, gli è fatto assai
onore, ma egli altro non vuole che un pane e dell'acqua.
Finito il mangiare, si scopre ai cugini, i quali lo credono
così sfigurato per arte:
Chi in ginochione e chi ritto T abbraccia.
Di tenerezza ognun par che si sraccia.
Rinaldo e gli altri parlavan piangendo:
• 0 signor nostro, ritorna in tuo viso.
Malgigì con amor parlò dicendo:
f Per lo servire a Dio di Paradiso
— 94 —
Son venuto si scuro > , e poi godendo
Gli abbraccia ftitti con tenero riso. *
Poi con suoi dir gli fece chiari e certi
Com' era Malagigi, e ne' diserti.
ProfTerendosegli ricchi doni, non accetta nulla, sal?o che
gli sia ferrato il bordone ; quindi si parte, sempre pregando
Iddio di voler dar pace ai suoi cari. Rinaldo, rimasto con
gran dolore, assale il campo e fa prigione Riccardo di
Normandia. Ne addolora Carlo; ma in luogo di piegarsi,
manda a minacciare Rinaldo, il quale risponde con rizzare
le forche, solo per mostra e a terrore dei nemici. A ot-
tenere ancor meglio l'intento, vi conduce Riccardo, come
volesse tosto impiccarlo. Allora tutti i paladini si fanno
a supplicare Carlo , già dogliosissimo per sé medesimo,
(XLVIII, 235 v."*) tantoché alla fine egli si lascia smuovere,
e così parla ai suoi:
Duo di voi vada a Rinaldo e dicete
Che io gli rendo la pace in questo modo:
S' el vuol far, mio comando posto ho in sodo:
Che io voglio i figli e la dama e' frategli,
E si Baiardo e la sua armadura:
E pace lor vo' fare a tutti quegli,
E render lor le tórre a dirittura;
E sol soletto, scalzo ne vada egli
Là dove Cristo fu sua sepultura;
Accattando per Dio, sanza altra scorta.
Con un bastone in mano esca la porta:
Che dinanzi da me noi vo' vedere
Se uno va prima scalzo dove il mando.
Per quanto duri siano questi patti, vengono accolti con
giubilo, e Rinaldo, prese vesti da pellegrino, senza indugio
si pone in viaggio. Clarice cade allora tramortita, e quando
— 95 -
si risente giura di leiicr sempre il bruno, fino a che non
sia tornato il marito. Carlo, avuto Bajardo, lo fa gittare
nel fiume con una macina al collo: ma il cavallo riesce
coir indomita sua fierezza a spezzarla e scampare. Uscito
dall'acqua, va indarno ricercando il suo s"
I Prima di partire Carlo rende
lelli di Rinaldo:
A Monte Alban n'andò ed a Dordona,
Paura avea di lui ogni persona,
lu quella grotta ove venne il serpente
Tonio il divallo onde Malgigi il trasse.
Mai più non fu dì verun uom vìvente,
Carlo né suoi non seppe ov'cgli andasse.
I terra e ogni cosa ai fra-
G tutti si tornarono a Dordona,
E Carlo con sua genie tornò in Francia;
E secondo che il libro mi ragiona.
Il duca Amone mori in poca stanza;
Mori la madre lor, come sì sona.
Onde Clarice ebbe tal loalenanza.
Che si mori, onde che gran lamento
Fero e Hgliuoli e suoi frale' possenti.
E frattanto Rinaldo limosinando la vita arriva a Giaffa.
e capita ad albergare nella casa medesima, ove Malagigi
si riposa delle asprezze del cammino. Lieti oltremodo di
rivedersi, ripigliano T indomani insieme la via, e giungono
presso Gerusalemme, assediata allora da grande oste di
Cristiani, liramosi di ritoglierla air Amostaote, che v'era
entrato per frode e aveva fatto prigioniero il re Simone
(XLfX, 2Ì0 v."). Si dà battaglia, e i cristiani indietreg-
giando vengono .id -itikitlorc una capanna di frasclio.
— 96 —
oift»tnitta dai dae peUegrini per rqMsanìsL Questi dlon,
armati ili tia5t<>Qi, si cacdano Del più fiorte delb misdù
e faoDO macello di SandoL Terminata poi la battaglia, si
danno a conoscere, Skcdà Rin^o è creato eoo festa ca-
pitano generale. Egli aUi^ra. ordinata ogni cosa oomeab-
Tolmente, dà T assalto, e presa la città costringe T Amo-
stante a tornarsene in Francia. Sdolto per tal go^a fl
voto, s* cidono nc*Telle cbe Cario è intonw a Roma, per
ritoglierla al ne Fatiorro d'India, che Tba oonqjaistata e
la difenile con doecento mfla pagani Allora 3 re Simone
e gii altri signori cristiani allestiscono on' armata, e con-
dottisi a SaieriK*. la lil^rano dall* assedio che già le aveva
posto r Amristaiite. p*er far vendetta del re 3fatteo. Tenuto
a oste a Genisalemme. LWmostante muore affogato, e
Rinaldo, cresciato «^i di cn«jve gentL viene a Roma e
alletta foori dalle mora il re pagano, mentre ^blagigi,
appiattatosi press«> la p*>xta. o>gUe 0 destro per avviarsi
alla città. Avvistosi delP ioganai:». Faborro torna rapidamente
addietro. L. 245 v.') ma Rina]«lo lo assale, lo ncdde e
fa a pezzi tutti i san«:toL QoìdIL avuta la terra, inalbera
io o-zni p<irte le sae tiandiere. oxi granale maraviglia di
Cario, che teme sia •{oesto iir>:> stratagemma dei nemici;
ma tosto veD;r*:>fì*:* a lai Ric^akio e )lalagigL e gli rimettono
le chiavi ili Gerosalemme e *li Roma. Allora, ottenuta eoa
iosperatameate la vittoria, tiitte I^ genti si tornaDO liete
in patria, e Ri&aldo. riavuti i fenili, insieme eoo Malagigi
rifabtirica Mootaltar^^. Mj solito appnftsso il figlio di Baovo
toma al n:kQUti>r>x e vi murfVc in t4we [^er b durezza
della penitenza. Ivi RioiMo erice on convento
Liouto «li ricfeexa e t-eae e tarilo;
E chiinaasi e cbja3&> Nin MjU^j^
Perchè wAxi miracoii fece elio.
Maggiore, da coostawm a S.
1 Dio vi si
) alacrità da br
flgti solo nle per notti, i
dì manoali; però costar^ niraiÉ
iarlo, e lu g^onn.
Al Danubio D*a
Che correa forte
Dentro il gitUr, la gnir
lai Rinaldo è santificalo (
t accorrono i pesci a «osteaere i 3aa% e h i
mpane della città incomiDciaao a s
le. LeTalisi allora gli abitanti, Teggon» ni ^^ §
, che si sta a galla, e ana schien d'aoRei <ftc ■
no sopra. Trattolo dall'acqua e rinrenaton i e
i elio lutti conoscono come il ManoaJe dì £, |
> lamento lo pongono sopra una ornila
Diuno riesce a tirare, ma la quale, lasciata Ubera,
da sé medesima e si feima a ima villa a meno
lega da Cologna. Ivi accadono infiniti miracoli d
d' ogni sorta restituiti a sanità.
Ed ecco capitare a questo luogo i fratelli e ì
che già da tempo andavano cercando di Rinaldo.
sciuto il cadavere, annunziano la dolorosa nuova i
e questi viene col suo baronaggio, e fa costrorre
ricca badìa, che si chiama ancora San Rinaldo,
poi fa vendetta degli uccisori; quindi
Fatta quella vendetta ritoraarsi
Carlo e'frategli e l'altra baronia,*
e così ha termine il libro.
VI.
Tali sono gti ultimi venticinque canti del pm
non hanno riscontro, ch'io sappia, nei nostri roH
prosa. Ma in quella vece ben lo trovano nel Rom'
cese; anzi ve lo trovano sì continuo e paku», i
avrei potuto risparmiare la fatica del rìa^una^ V
prima parte, e che alla prima si riconoscevano per invenzione
italiana. E così pure gli allri caratteri del nostro romanzo
cavalleresco hanno intaccato assai lievemente la forma origi-
naria del racconto. Certo anche qui Gano e i Maganzesi sono
intromessi ogni qualvolta vi sia da compiere qualche fel-
lonia, ed è singolarissimo come per tal guisa essi vengono
a prendere talvolta ìl luogo di taluno fra i baroni pili
lodati, ed anche di Carlo stesso. Infatti nel testo iu lingua
d'o'il il consiglio di tentare Ivone di tradimento viene dal
savio e illibato duca di Baviera; le spie che dopo la di-
struzione di Montalhano vanno ricercando il ricovero dei
Cfiiaramontesi, non sono inviate da Gano, sibbene dall'im-
peratore, a ciò istigato da Orlando. Però uno tra gli stimoli
a porre in così brutta luce la casa di Maganza devesi
ricercare nel desiderio di togliere agli altri baroni certe
parti odiose loro assegnate nei romanzi fi'ancesj, composti
io un' età di costumi più rozzi e pìii fieri. Altro esempio
del medesimo fatto noi troviamo precisamente al principio
di questa seconda parte. Nel testo francese non è già Gano
r autore degli scandali e della nimìcizia Ira Carlo e Rinaldo;
è in quella vece l'imperatore istesso, il quale tornandosi
da Compostelia scorge la nuova rocca, e nianda a minac-
ciare acerbamente Ivone. se non gli consegna i quattro
banditi: ma avutone un reciso ririnlo, si toma a Parigi
e va macchinando la guerra. E qui ìl testo fnince.se narra
distesamente una guerra contro ì Sassoni, nella quale
Orlando mostra per la prima volta il suo valore. Nel poema
italiano, dove questo episodio, introdotto per certo nel
Bcnaud in età assai tarda, è appena accennato, i Sassoni
sì trasformano in Saracini clie invadono la Provenza, e il
loro re Escorfaut nel gigante Scrofaldo : la quale tramuta-
zione deve certo essere notata diligentemente da chiunque
studìi le leggi che reggono lo svolgimento del ciclo caro-
— 100 —
Il bando della giostra, V andata di Rinaldo e il ratto
della corona si accordano quasi in tutto; nel testo francese
è la Senna il fiume a cui giunge Rinaldo, e che ef^ varca,
lasciando Carlo suir altra riva. Ma poi secondo questa
versione T imperatore non procede più innanzi; sicché non
trova riscontro V episodio di Malagigi, che si fe giuoco di
lui in forma di pellegrino. Tuttavolta la mancanza potreb-
besi attribuire air imperfezione dei testi a noi pervenuti;
almeno dà ansa a pensare cosi un luogo della scena in cui
Malagigi, a procurare la liberazione di Ricciardetto, si reca
alla tenda imperiale in sembianza .di palmiere. Ivi Carlo
pronunzia queste parole:
Je n^ amerai pauroier por Maugis le laron ;
Maint damage m^a fet, roainte pe^secution,
Quand il velt est paumier, e qaand il velt gddon.
Ora nei testi francesi sarebbe questa la prima volta che
Malagigi assume cotale travestimento.
Venendo innanzi troviamo leggiermente spostate alcune
scene nel tradimento di Yalcolore, dove del resto è meravi-
glioso raccordo tra le due versioni. Così la guarigione
delle ferite di Ricciardetto per virtù del balsamo di Malagigi
ha luogo nel testo marciano solo dopo la disfatta dei
Maganzesi: dove per verità sembra più logica la nostra
versione. Ma più gravi assai sono le differenze là dove il
poema palatino racchiude V episodio di Gattamoglìera; non
solo questo, come ben si poteva affermare con certezza
anche a prióri, manca affatto, ma altresì riescono assai
differenti le narrazioni che lo circondano, od hanno con
esso attinenza. Dopo che Malagigi si è fuggito recando
seco le spade, l'imperatore non iscrive già una lettera a
Rinaldo, sì gli manda ambasciatori Namo, Turpino, Astolfo
ed Uggieri, offerendo qual prezzo per la restituzione un
— 101 —
aaao di tregua. Rinaldo aderisce alla pnipoda, ed t
coi messi per ricevere gli oslag^:
ditore appartenente suiza daU)io al iigDaggio A Gmm,
offi« a Carlo di dai^lielo preso, e questi, che ìb Mto fl
romanzo tien molto del fellone, accetta d bona grwio. li
dopo rari casi Alardo e Rinaldo tommo sid
e con loro i quattro baroni Tenati a
quelli ciie avevano preso sopra la loro fede T «
dei patti. Carlo allora si apparecdiia ai
e Namo, risaputolo, tenta, ma ìndam^ 41 i
pace ; però Malagigi coaceptsce e dà esaonoae d f
di trasportare dentro la rocca V a
Se colali differenze si U^vassero già wé
eoi ebbe origine la versione in ottura i
forse eoa maggiore verisimiglianza a p
l'interpolazione del caso di (
oiatare (piesta parte del nccooto. I
momento si è questa, che od lesto
j&a Orlando, colui che desta V 'm
i lo ha immerso Mal^^ colie cbb aiti; I» a
^ il veder qui il paladiDO (
h iiioU set d' eochanlemeol RoDaad le Earte i
lilla mente l'episodio di
I e in rima, derivato sena
»la da Padova.
Da questo punto le diversità
liimatore deve avo-e attinto eoo
, à perchè questo doveva
ì a noi conservati. È notevole il mm
i alcuna menzione di Lamberto <&
g)o che a mìo giudizio non paó ii
Indicarsi un' invenzione italiana, lobtti, a
'Pnt0
— 102 —
è qui introdotto a gloriflcazione della città di Dortmand,
la quale tiene un luogo importante nella storia di Rinaldo,
veneratovi sugli altari. Anche nei testi francesi è sotto le
sue mura che Analmente i quattro figli d' Àmone ottengODO
la pace: ma chi vi accoglie i fuggitivi è il Vescovo, non già
Lamberto. Ma per farla breve, lascierò a chi lo volesse la
cura di rilevare altre numerose discrepanze, ponendo a
paragone T ultima parte del racconto nel testo francese e
nel mio sunto. È superfluo avvertire non iscorgersi nei
testi francesi alcuna traccia dei fatti di Salerno e di Roma,
nei quali appaiono manifesti i caratteri delle invenzioni
italiane.
Gotali diversità appariranno ben lievi, se si paragonino
còlie somiglianze, continue e assai strette: le quali già
per sé medesime ponno bastare a confermarci nell'opinione,
che anche in questa parte il rimatore non attingesse a un
romanzo in prosa, ma sìbbene ad un testo in lingua stra-
niera, simigliante assai alle versioni francesi che noi pos-
sediamo. Mi pare inutile aggiungere nuovi argomenti, facili
del resto a trovarsi, per provare nuovamente il fattb che
io credo aver dimostrato per quanto spetta ai primi ventisei
canti. Certo se T autore ebbe dinanzi fino a quel punto
una versione franco-italiana, non v' è ragione di sospettare
che da indi innanzi V abbandonasse. Gh' egli traducesse, e
traducesse da un testo in rima, lo possiamo confermare
anche colle parole di lui medesimo:
G.° XX VII, i. Grazia dimando, Vergine beata,
Ghe la mia mente, che a rimar ritoma
La bella storia eh' ho volgarizzatay
Piaccia e diletti, etc.
G.*" XXIX Gli stormenti cominciano a sonare,
Secondo che il cantar dice per rima.
— 103 —
*Del resto non senibi'a neppure die mai esistesse un testo
in prosa italiana, dove fossero narrate queste vicende di
Rinaldo; ed anche se i due libri da noi esaminati ebbero
mai altre continuazioni, oltre a quelle assai numerose in cui
si raccontano avventure avvenute neir Oriente, ed invasioni
di Saracìni in Francia, certo i racconti originarii vi dovevano
almeno in principio essere alterati. Imperocché, essendosi
fatto nella fine del libro secondo che Carlo istesso con-
sentisse alla fabbricazione di Montalband, questa non poteva
pili essere la cagione principato detli; nuove discordie,
come dicono i testi francesi, e in parte anche il poema
italiano.
Ma se il rimatore continuò senza dubbio fino all'ul-
timo a valersi del romanzo franco-italiano, ci conviene
ammettere da un Iato, che molte volte egli togliesse di là,
non solo i pensieri, sì ancora le parole, dair altro, che
questo romanzo fosse per lo più una pura trascrizione,
corrotta nella fonna, degli originali in lingua d'oìl. Senza
dì ciò non potrebbe spiegarsi la somiglianza, non di rado
sorprendente, della rima ilatiana e dei versi francesi. Se
n'abbiano qui questi esempi, tolti ai casi di Valcolore:
Marc. E vait ferir Ogìer, te nobille baron.
De BrieTort l'abat, ou il vousist ou uoa;
Quant l'a veu Ogier, sì dolenl ne fu hon;
Renaud descenl h terre de Baiard l' aragon :
Son ctieval l'cmena a Ogìer le poigneour,
Puis lì tìiit son eslrief, Ogier monte en l'arclion.
CousÌD, ce dìst Reoaud, or as lu guerendon
De la roche Mabon, oii or eins cstion;
Tu n' i asausis mie, tant feis que prodoni.
Selene celui servise as ici guerendon;
Mes itanl i feis que traitor felon,
C onques de nul de dos ne feis garison :
Hui me vos gardez bien, qar nos vos desfion.
~ 104 —
Pai. C.'' XXXV Rinaldo col Danese fti scontrato
E abbattello con sua forza magna;
Poi gli rendè il cavallo, e disse: Adesso
Te% ch'io ristoro tutto quello eccesso
Il quale hai fatto d' atarmi si poco :
Da oggi innanzi ti guarda da mene.
E poco più innanzi, allorché Uggieri si rivolge addietro per
combattere,
Qant Re. Ta veu, si Ten pris grand pechiez;
Oez con feitement il Ten a areisnez:
Danois, ce dist Re., i alez vus en ariers,
Qar de moi ne serez ne feruz ne touchez.
Bien sai e reconois que nos aves aidiez.
Pai. ib. Quando Rinaldo il vide rivoltato,
Disse: Vatti con Dio, baron pregiato,
Che già con meco non ti proverai:
Disse Malgigi: Perchè non T aspetti?
Rinaldo gli rispuose: Tu non sai
Com'el campecci di molti difetti,
Ed è de' miglior uomin che fur mai.
Qualche altro esempio trarrò dalP andata di Malagigi al
campo di Carlo in forma di pellegrino. Se nel testo
francese
XXX livres li donne li rois de bone mangon,
nelP italiano egli riceve trenta lire di grossi; e se nel primo
dice a Carlo :
De cesi pelerinage, où tant dei peine avon,
E de toz les bienfez que nos i atendon,
L'une... (1) parmi, sire, vos en donon,
(t) La parola è lasciata in bianco nel codice.
— ioti —
wl secondo gli sono poste in bocca queste parole:
Dì ({uamo gran perdono ho ricevuto:
Metà da me te ne sia conceduto.
Viacemi riportare da questo luogo medesimo anci)e tin
t tratto più lungo, che comincia con alcune parole di Ma-
Anuit soniaie un songe, e vint en avision
Qe vus me tailliez davant raoì mon paon,
Mon simle bulele (1) e seìgniez mon poisson,
E le premier morsel qe nos mongerion,
Me mette en la bouce par boene entencion.
Gè sai trcs bien de voir que or garion,
Qar maint ires bel miracle a lesu fet por vos.
Sire, dient trancois, por Dieu, tailliez le donc.
Volunters, dist le rois, par le cors saint Simon.
Agenoillons se mei 1" emperero Charllon,
E a pris le coutel e saissì le paon,
E coupa un morsel e fist beneì^n:
Paumiers, oevra la bouce, e nos le ti raetron.
Maugis Va engonle en guise de grifon,
E Karlles le misi enz par boene entencion.
Sachiez qe ne faillisse mout pelìlel non
Qe Maugis ne le prist as denz par le doilon.
Paumiers, boens dens as, or meluve abandoo.
E Maugis s' en est ris dedenz son zaperon.
I Pai. XXXVII Disse Malgigi: In visione mi vemie
Stanotte, quando io sentivo tal guai,
Che il miglior re del mondo mi sovenne;
Mangiar mi dava colle sue man gai,
Onde che tal dolor più non mi tenne.
(1) Creilo s'abbia a correggere bulelkz.
— 106 —
Carlo, fatto venire, precisamente come nel testo francese,
il pavone, e postosi ginocchione a partirlo dinanzi al ne-
gromante,
XXXVIII Prese un boccon per metterglielo in bocca,
Dicendo: e Peregrin, col nome di Dio
Confortati •, ed in bocca glielo accocca.
Malgigi tosto co' denti il carpio;
Poco fallì che il dito non gli tocca.
Carlo ridendo disse: Tu se' rio;
0 peregrino, mi perdonerai,
Colla tua man ne terrai, se vorrai.
Codesti riscontri, mentre fanno vienmieglio apparire
impossibile che il rimatore potesse attingere a una versione
in prosa, non nuocono per nulla alla mia congettura circa
il testo franco-italiano. L'esistenza del quale sembra del
resto confermata dalla Struziane di Montalbano, testo in
prosa contenuto in un' ampia compilazione di racconti
spettanti a Rinaldo, scritta forse verso la metà del quat-
trocento. Mentre tutte le altre parti sono manifestamente
inventate in Italia, la sola Struzione (1) narra molti fotti
tradizionali, accozzandoli peraltro insieme a caprìccio;
poiché, mentre il fondo del racconto è V assedio di Mon-
talbano, vi trasporta alcune particolarità dall'assedio di
Montesoro, e prende a prestito la catastrofe dai casi di
Tremogna. Ora questo testo, che ha comune col nostro
poema Gattamogliera e Lamberto, sembra conservare alcune
circostanze del testo francese, perdute in quello: onde
nasce spontanea V ipotesi che anche il compilatore di queste
narrazioni seguitasse il testo franco-italiano. Di qui adunque
si dedurrebbe un fatto assai importante, che cioè la let-
teratura cavalleresca dell' Italia settentrionale continuasse
(t) Slrusione significa Distruzione, non già Costruzione.
— 107 —
I essere Dola niìlla Toscana anche verso la metà del
secolo XV (1).
E qui mi si concederà il dar luogo ad un' osserva-
zione, che mi dorrebbe di tralasciare. Il nostro rimatore
conosceva una versione del Carletto o Maìnetto diversa da
qnella dei Reali:
t' Vni Non so, signor, se voi avete udito
Siccome Carlo, qiiand" era fantino,
Fuggi in Spagna si com" uora sentito,
E servi ( vi ) Galafro Saracino.
Sua Oglia (2] Sobilla viso colorito
Isposó, donde ne nacque Àlorino,
Un damigiel cortese ed avenante,
Nipote di Marsilio e Balugante.
Qui adunque è cliiamata Sobitia la Galerana, Galiana.
Galina, o Galienne degli altri testi italiani, francesi e spa-
gnuoli; ne argomenteremo adunque che la Conquista d'Ul-
tramar si facesse eco di voci più antiche, allorché diceva che
Galiana prese al battesimo il nome di Sibilla, e identificava
così la figlia di Gatafro colTinnocente e infelicissima sposa di
Carlo, dalle ben note avventure? Io non lo so; ma certo la
menzione del nostro testo mi sembra importante, perchè la
sola di un testo italiano in cui appaia una moglie dell' impe-
ratore con questo nome di Sibilla, mutato in Blanflflor
.irautore della compilazione di Venezia. E di più si vede da
^al
(1) Mi si pprdoiierò se non irallo qui più Jislfsarnpiile quosln
singolare questione: l'ar^omcnio di cui vado ore parlando, poco s(^ ne
arvantagjg'erebbc , ed io, coslreuo, come sono, a lavorare, non sai
codici, nja sopra ap{>unii presi da qnalchc tempo, correrei rìschio di dir
non sempre sicure. Cotale scusa mi valga anche per (|ualche int^
uà, da cni per aTreniara non avessi sapulo guardarmi.
(S) Fa?
— HO —
alle quali altro non maDc^ faorchè no' e^Kisizione sobria e
MUìiplkw quale averano forse Della TerskNie pio antìa,
ma che uon >i troverebbe per certo io qaeDe a iioi OMh
>eniiio, dove >i dura spesso fatica a scoprire la belkoa
del conienut-.^ >:«n> la scccza di una fonna oHremodo
tMKva e proMssa.
E D: p::irc> >:*:!' ìiiììh la storia di Rinaldo potè cliia-
luarsì f :«r:ui.£t£ : c^ :i rimaiore t^iscaùo doo era poeta, e
'tvr> d:c >:>:•:•: f.c^i^rr a.^vtiKiaiDeDte la materia die
avrva \rk > tuxu. Storca revàiasse ecli nwMtesiiiio in
ht.v;- v>u^ui:i?.. c-ihl tc? alien c^o^omie. i pf^ipm lavoro,
f Tif ;a:v*:>^' r^Dc ìr;na: òadi iscc4talori: ìdìMIì c^
>;»Tri:i-*f "r-sof itfoiuair- rm£ Indiirsi
F ìt SUI Xlnj-^^ Vfl-pK^ Mani:
.".1': n ■ i.jiiiTif laiif r^fT
:' nj;Ii: cTiT.»: t riaìdii alt ria
1-1 itr-Iu siii-u insau i àsasL.
i.ì- '.:*..':, '^t ;:ìiii«. Sii* iiiijrrcirflniiflaie chia-
iìNi k.-v :.»•- : • , ì:::, ,:. ini jiiiTr.»^"»fctf'Hiic»
.1 r-\iii-',i V* :.::;'- lì ini, T.ir i iirspf Kit
u-j^ in,* ■ • ^<\ ..• . n^ >*-' i-n . OTparràò*
^vn'^-. >w,''m. s..:?f*r. -3 - S 3
— HI —
Ha poi, s" egli era cjinlatore, doveva tenero in questa
schiera un luogo alquanto elevato : lo si scorge anche solo
alle rimo, cbe mostrano una varietà, insolila fra costoro.
E oeppure doveva da tempo o abitualmente esercitare
questo mestiere, poicliè ancbe in molle altre cose sì di-
stìngue dalla razza dei cantambanchi. Questi infatti dall'uso
de) recitare e cantare erano condotti a dare all'ottava e
al verso una fo«gia assai uniforme, ponendo sempre le
pose al medesimo luogo e chiudendo costantemente colla
slanza anche il periodo. Ora nel nostro poema troviamo
iavecc una struttura assai piii varia, e vediamo il periodo
continuarsi spesso dalP una alP altra ottava. E inoltre sono
qui molto meno frequenti le cbiuse convenzionali di versi,
ossia le parole poste unicamente per servire alla rima,
senza cbe nulla aggiungano al concetto.
Ma se io ciò il nostro autore si dislingue dalla mag-
gior parte dei cantatori da piazza, di molto maggior tratto
lo rimuovono dalla schiera dei poeti d' arte lo stile, il
fia«^^re e la mancanza di ogni ornamento studiato e di
qualsiasi citazione classica. Il suo stile pecc^ per una con-
tinua spezzatura e per la trascuratezza del periodare;
troppo spesso rasenta da vicino la prosa e se ne distingue
solo per il metro e le rime. Né queste sono sempre quali
sì richiedono dai poeti colti; che noi troviamo qui delie
rime femminine imperfette, cbe volentieri chiamerei conso-
nanze, dove si ha poco riguardo alla vocale accentuata. Ne
siano esempio: C." I." lamento, vanto ; II.° quanto, giunto;
V." amico, seco; IN." sapere, lenire; XU.° giunto, conto;
XXXII." conlento, vinto; carte, sorte; grida, giuda. Altrove
sono in quella vece poco curate le consonanti, sia che non
si tenga conto delle doppie, sia che si stia paghi dell'afB-
nità. senza chiederne la perfetta convenienza, sia che si
tolleri la mancanza di qualcuna di esse. Se ne abbiano questi
esempi : C." 1° capitano, vanno; mano, sapranno; L.° insieme,
— uà —
lerusalemme : — VI.'' corazza, allaccia; XI."" parlare, na-
turale; XX!!!."" meco, lego; XXX."" soccorso, sforzo: —
figliastro, casto. Quanto al metro, molte apparenti violaziom
si debbono per certo attribuire air amanuense, e più ancora
al costume di scrivere molle lettere che poi non si pronun-
ziavano; pertanto io non dirò errati i versi in coi Ualagigi e
Chiaramente valgono per tre sillabe, giacché le forme francesi
Maugis e Glermont ci danno ragione bastevole per credere
die si potesse pronunziare Malgigi, Ghiarmonte. Perdo-
nerò ancora ai versi mal foggiati od aspri, sia perchè
convenga omettere le elisioni, tollerando iati disaggradevo-
lissimi, come nel seguente :
I. Che andar pòssa infine a Dordona ,
sia perchè T accentuazione riesca disarmonica:
II. Cristo e San Iacopo di tal vittoria,
III. ÀI bosco di Quintafoglia fu giunto,
sia ancora per altre ragioni troppo lunghe a noverarsi:
XV. Per vedere impiccar que*car fratelli.
Ma pur concedendo venia a tutti questi versi , ne restano
ancora assai non riducibili a giusta misura. Tali sarebbero :
I. A Parigi era lo 'mperador Carlone
XV. Bertolagi traditor Rinaldo aflferra.
XXXVI. Rinaldo fu il primo principe chiamato.
XXXVIII. Dicendo: Peregrini, col nome di Dio.
XLIII. Tutti ci guardi T onnipotente Idio.
Del resto è noto a chiunque si è occupato di queste ma-
terie che tali pecche sono comuni a tutti i rimatori voi-
— 113 —
gari del tempo; sicché in luogo di averle ia codIo di di-
fetti, dobbiamo piuttosto considerarle siccome proprietà ca-
ratteristiche della nostra poesia popolare.
La quale, oltre Pandar soggetta a certe leggi generali
stabilite poco a poco e senza consapevolezza, suole anche
sottoporre le singole specie di composizione a certe forme
immutatabih, nate talvolta da circostanze particolari, ma con-
servale anche dopoché queste già sono venute a mancare.
Tali sono per la poesia narrativa della Toscana le invoca-
zioni sacre al principio, e i commiati al termine di ogni
cantare. E questi e quelli noi troviamo, com'è naturale,
anche nel Rinaldo; ma anche qui l'autore mostra spesso
di sapersi allontanare dal costume dei cantambanchi. Che,
se la più parte dei canti termina con una formula simile
a questa:
XI.I.
Or rinforza il cantar deir aspra giostra ;
Dio ci difenda la persona nostra.
i in parecchi altri non s' invoca l' ajuto divino nò per .sé né
per gli uditori:
I V. Rinforza il dir come insieme trovarsi
■ Con Malagigi e come apalesàrsi.
Le invocazioni poi sogliono essere più brevi che non sia
il costume, e non oltrepassare la prima metà della prima
stanza, mentre gh altri quattro versi contengono un breve
ihiamo alle cose detto nella fìne del canto antecedente :
Madre di Dio, che ricevesti doglia
In questo mondo del tuo caro figlio.
Concedi tanta grazia alla mia voglia.
Che io seguì questa storia in cui m' apiglio.
— 114 ~
Io vi lascia' che il prò' Viviao rìgoglìa
D'andare adosso al padre con rio fùgUo,
E si promisse allo re Abilante
Di dargliel preso e morto a lui davante.
Ma insieme alle invocazioDi foggiate alla maniera comone
ve ne hanno alcone di una forma indiretta, che di rado
s'incontra altrove:
XLIX. Chi vuole o (are o dire alcuna cosa
Che utile sia o di diletto alquanto.
Chiama sempre la Vergine graziosa,
Figliuola e Madre allo Spirito Santo.
Or torniamo alla storia dilettosa, etc
Talvolta poi segaita air invocazione un concetto morale ,
suggerito dai casi raccontati:
XIII. Col nome di Dio ritomo al mio dire.
Alla cui posta i ciel rotando vanno,
Chemmì dia grazia di' i' possa seguire.
Che piaccia a que'che per udir mi stanno.
Or ritomo, signor, come il sendre
À l'uomo ingrato talor toma danno;
Cosi quello Àmostante provedessi
Di dar morte a Rinaldo, ma pentessi.
Chi non iscorge qui il passaggio dalla forma d'introdo-
zione sacra propria dei cantatori da piazza ai graziosi
esordii usati talvolta dal Bajardo , e sempre poi dall' Ario-
sto? Ma a togliere affatto ai poeti d' arte il merito di que-
sta invenzione e' inducono alcuni principii di canti , ove
dell'invocazione sacra non rimane più traccia:
XIV. Signior chicci ha ventura e chi ci ha senno,
In questo mondo, e clii ci ha ria fortuna.
— 115 —
E chi ci ha pace, e chi guerra e disdegno,
Chi vive Heto, e chi sospir raguna.
Or ritorniamo a que'che mal là fenno, etc.
SpeciaUnente osservabile mi sembra questa introduzione,
nella quale il poeta si vale di proverbi :
XXV. Servire e di servir mai non ti scorda,
E però servi e non guardare a cui;
Un bel proverbio fra la gente s'accorda:
A chi diservi, guardati da lui.
Rinaldo per servire ebbe concordia
Dal buon re Carlo ed anco i frati sui.
Torniamo al conte Orlando, che dimanda
Se '1 prò Rinaldo fu per quella banda.
Né qui solo, ma altresì nel mezzo dei canti P autore va
talvolta citando siffatte sentenze , non inutili a farci vieme-
glio riconoscere in lui un vero poeta popolare;
XII. Un proverbio si dice con ragione.
Che Tuomo ingrato non conosce il bene;
Ed un altro ne dicon le persone.
Che a questo punto molto s'appartiene:
Chi lava l' asin si perde il sapone.
Rinaldo per servir sofferse pene,
Come udirete; e quando insieme stanno,
Giunser di ratto a lor due spie di Gano.
Altri due esordii meritano di essere qui riportati:
XV. Ciascun che si diletta d'ascoltare
Le dilettose istorie di coloro
Che si fanno e faranno ricordare.
Traggasi avanti senza far dimoro:
— 116 —
) canterò in rima ed in cantare
Di Carlo Mano e dì sao oobil coro ,
E di ciascun che vive là a suo caldo:
Ma più degli altri dirò di Rinaldo.
XXIX. Talor, signor, si vuol prender diletto.
Per discacciar dal cuor malinconia,
E per fuggire ancora onta e tUspetlo,
E ritrovar la lieta compagnia.
Al nome di Dio vo' tornare al mio deiKi
Di Carlo Mano e dì sua baronia:
Come Malgìgt a Rinaldo sermona
Dì togliere ai re Carlo la corona.
Se qui il nostro rìtnatore si va sciogliendo dai tìd-
coli del costume, altrove ci ofire uno tra i primi i
di certe dGScrìzioDi, le quali vediamo poi dÌTenire w
luogo coQiune della nostra poesia cavalleresca, e cbt
nou v'ha ragione di credere derivate dall' età franco-ilali)»
Non per questo vuoisi attribuire a lui il merito, qualffl
que esso sia , dell' invenzione ; ma pure la descrtzioDe deUi
tenda di Mambrino è degna, non foss' altro per la s
brevità, di essere qui riferita:
XX. Udite, be'iiignori a questa fiat.-i
Di quel bel padiglione il suo mestieri:
Stavavi il re Mambrin. ch'era gigante.
Che non s' udì giamai d' un tal sembiante.
Era quel padiglion doppio velluto
Vermiglio, in su uno fusto d'avoro.
E stonato à' or tutto tessuto :
Non fu veduto mai più bel lavoro.
Le corde a seta, che l'ha mantenuto,
E in sulla cima aveva un gran tesoro:
Un ìdol grande com'uom naturale.
D'or fino, e favellava in modo tale:
— 117 —
Quando vento veruii sì rìvolgea,
In questo padiglion tanto magnissimo.
Quel colai vento favellar facea
L'idolo con ìslrido crudelissimo;
E ctiiaramente in suo parlar dicea:
Viva Mambrin. die è sipor nobilissimo.
E tutta quanta la sua baronia. —
Or rilomiamo a dir di quella spia.
^K rima
Poco a poco sìlTalte descrizioni sì vanno ampliando, Suo
a diventare argomento dì poemetti speciali; a me giovi
qui ricordare il padiglione di Luciana nel Morgante del
Palei.
E se noi ci faremo a considerare più attentamente
lo stile e la maniera del nostro autore, non peneremo
ad avvederci come il merito di lui consista in un'esposi-
zione piana e semplice, e nella facilità del verso e della
rima. Ma poi l'anima sua non era né poetica né passìo-
sicchè non seppe trarre lastevole partito da una
materia che era certo tra le migliori del ciclo. Non vo'
dire con ciò che anche nel nostro poema non s' incontrino
qua e là dei passi veramente commendevoli. Nessun poeta
rifiuterebbe per certo questi due versi:
Sonando un'arpa con si bel piacere,
Che ogni uomo avrebbe detto : Ella favella.
Né poco efQcaci si diranno queste simililudìn
Non balle spesso il fabbro col martello,
Nò uccello alia quando vola forte,
Come feriva spesso ciascun d' elli .
Chi gli aspettava subito avea morte.
Non esce mai si forte la saetta
Quando ella va colla maggior tempesta.
Come Baiardo del correr .s'affretta:
La rondine sì ve'piìi manìfesla
— H8 —
Che non facla Baiardo per V erbetta :
Collo parea la bocca colla testa ,
Le gambe mena si forte e si spesse.
Buono arebbe il veder chi le scorgesse.
■
E senza dubbio s'incontrano altresì molti laoghi caldi
di affetto ; ma il merito è il più delle volte della materia.
e solo devesi concedere al rimatore la lode dì non aver
guasto con inutili ornamenti la semplicità ed eflBcada del
suo dire. Ben espresso è per esempio il dolore in questo
passo del canto XVI:
A tanto il prò' Rinaldo e la sua gente
Uscir di Montesor trista e dolente,
Dicendo: Castel mio di gran riposo,
Per forza abbandonar mi ti fo Carlo;
Tu ti rimani, ed io parto doglioso!
Ciascun si volse indrieto per guardarlo.
Lodevole ancora è a giudicare la scena della partenza di
Amone da Parigi e di suo incontro coi figliuoli nella selva
Ardenna. L'imperatore é adirato col duca, a parer suo
non ispietato abbastanza:
XVII. Poi disse al Duca Amon : Mettiti in via ,
Tosto ritorna nella tua cittade,
Che già con meco non vo'che tu stia.
E'I duca, tutto pien di niquitade,
Con tutta la sua gente si partia;
Per quelle selve prendeva le strade,
Dicendo: Figliuol mia isventurati,
Via più che Carlo v' ha perseguitati :
Et el mi rende cotal guìdardone!
Ma per Colui che mi ricomprò in croce,
Non dico di tenervi in mia magione,
Ma contra voi non sarò più feroce.
— no —
E menlre eh' el «liceva lai ragione ,
Cavalcando per quella folla foce.
Trovò i sua ligli eh' a dormire sUnno
C(U) tutti ì lor compagni per TafTanno:
E quali avevau tanto comballuto !
Dormiansi ludi in uno praticello;
E quando il duca Amon questo lia veduto,
Dormir Rinaldo e ciascun suo fratello,
(Rinaldo la sua genie avca perduto,
Con otto era riniaso il suo drappello.
Ed e'son quattro, e dodici in lutto;
Ciascuno a ben dormire era i-addutto).
E 'I duca Amon s'alissc con sua gente,
Guardando i sua llgliuoi diceva: Lasso!
Come dormile sicurosameotel
Poi pensa ; S' io gli piglio in questo passo
Carlo fo lieto e me farò dolente.
Fecie destargli, e ognuno parea lasso;
Ed e' si levar tutti isbalordili.
Diceva et duca: Voi siale assaliti.
' Questo passo, colla sua struttura sinlatlìca al quanto sciolta
da legge , può essere buon esempio dei pregi e dei difetti
propri! della poesia popolare nel secolo XV. E degno di
ricordo mi sembra anche il luogo seguente, ove Rinaldo,
I poco avanti di uccider Mambrino, soccorre P in^ieratore,
L die lo ha sì ferocemente perseguitato, e lo campa da una
i morte imminente:
Carlo il conobbe ed ebbe ^ran pavento;
Pensate s' el doveva aver paura !
Credeile Carlo in suo imaginamenlo
Che Rinaldo gli desse morte scura.
Diceva: Iddio, assai più contento
Sarei io stato dì cotal ventura,
Che il re Mambrin m' avesse morto o preso.
OmèI perchè rai son tanto difeso?
— 1*1 —
i>e>kva cLe RiiaM» ToJiisie
Om el faoerva M. ed el r
Cario «lintonio wxk di Borii
RiDaldo ÙTer di Ini s'
Cario il vide Tcnir. eoo tocì
A Gesà Cristo si neeouBdafa,
Che il guardi da soa mab opiaiOBe.
RioaMo giunse e dismoalò d*arcioBe.
E iogiooochiossi eoo gran rerereBia.
Diceoio: Signor mio. perdon ti diìeggio
[Iella mia folle e sem|riiee bUema,
Benché tal grazia chieder non ti d^ggio.
Ma per X amor di Dio e soa potenza
Recaci a pace del tuo regal seggio,
E sovra me vendica ogni tua ira.
Cario temendo con paura sospira.
Tiriamo un velo sugli ultimi versi, propriameote ÌDtolle-
rabili, e die ci confermano sempre più Del giudino pro-
nunziato intomo al valore letterario di questa composi-
zione. Nel giudicare dalla quale non dobbiauio dimenticare
gianrunai trattarsi qui di poesia composta da un rimatore
incolto , e destinata sopratutto al piacere del popolo. Non
ci meravigliamo dunque se anche nei luoghi meno difet-
tosi ci conviene conchiudere confessando che la materia
avrebl)e meritato di venire alle mani di un artefice più
esperto. V'hanno nondimeno alcuni luoghi a cui le lodi
si ponno concedere con maggior larghezza, e sono le
sc(3ne burlesche e umorìstiche, ove Malagìgi si fiat beffe di
Cario. L' una di esse è importante anche perchè non trova
riscontro nei testi francesi, ed ha luogo dopo il ratto
della corona; le altre seguono sotto Montalbano, e tra
({ucsto merita specialmente di essere notata quella in coi
Malagigi, guardato a vista da Carlo istesso e carico di
ceppi, trova modo di scampare. Fatta cadere nel letargo
— 121 —
mia la baronia, si st^ioglie,
tao le spade,
adunate quindi in
Certa sua erba che avea adosso prese;
Sii per lo viso dì Carlo signore
FregoIIa si, che g)i occhi aperti stese
Ver Malagigi, ed udia ciò che parla,
Ha sua persona non poiea levarla.
Cogli occhi aperti (verso) lui rimira,
E non potea levarsi da sedere ;
Dormiva e non dormiva Carlo d' ira ;
Malagigi diceva: » Bel messere.
Pano, » e col dito il viso gli raggira.
« Dammi licenzia, o nohite imperìere,
Che io ho Trclla d'andar, sono aspettalo,
E temo di non esser rampognato ».
Dicea Malgigi: Vedi, signor mìo,
Che a me bisogna d'andarmene ornai;
Dammi licenzia, e tu riman con Dio,
Ch'io ti promissi chiederla, e tu 'l sai.
Ben ode e vede Carlo il suo disio,
Hùa si potea mutar e sentja guai;
Malgigi fé' delle spade un fastello,
In sulle spalle se l'è via posto elio.
Parlando a Carlo con le spade in collo.
Diceva: Sir, con tua licenzia vonne.
Carlo col capo ver lui fece un crollo;
Malgigi disse: A Dio siate, ed andonne.
Cosi dormendo lui e' suoi lasciollo,
E le dodici spade via portonne,
Che c'era tal che valeva un castello.
Al duca Astolfo gi.'i non la tolse elio.
mque metta qui a paragone il testo francese si av-
■k U»lo di qnanto coda all' italiano, E in generale rie-
0 ^niglinri latte quelle patii ìd cui entra Malagigi, uno
— t-È —
i aK:"L*ii-s it^ •
E <tau7>. -m mj S3U1VÌU luiiaa .
^m m nc'i'Hu ^ in niràm b sa».
r'» :i 'UHI ìiia '^si ii rmiKai
^ >? >iK iTL nra jar^n ^au:
JUGib! i rac'i -t 1 >sr <? 1 itayn i 1 imat,
_^_ omoir via indLifa! *ì iioi bjbv.
Vn . )t!T)iiit[i I ■> r !isi imtt pur peat :
r'jHj l' irretì iTuu hai «■ lorv»-
np<jraniìi- i*ii lip* 1" icaL:!! ie-^ BhiBJ ventakiw (lA
bxìOìniuK:' p4^:a)f .'icnci?- ;*:«<st nyare m gìBiÌu> Ihì
fiiDilaii ':tr:3 la C:-niu <àH Qtjt^tP^ p^eai. La itie pi Ae
•li ne ?intz<:'li:- ìiiiììtìi1[l>:> A qa>*lk> «fi am dase ■■
tiera >fi nmati^rl. i4 [y>.-o <!imatì -lelU propra penai-
lità . <:b« D<>a ^r 'ietta^> uè ponto né poto b liigi Ì
tnouDdard ti lixii UHoe. La Uagm poi. tam/t beta
veile. è poTL icfaietta. pn^prii e però andie ikj^<
jitx'faé baerebbe a nbDstrare i^aanlo sia ren qBtIi
sentenza, riputata per tanti> tempo e dod ancon tao*
n.A^tra bteili ^
— 123 —
del trecento e del quattrocento ben poco abbia prodotto
che sia degno di encomio, o vuoi per V eleganza del det-
tato, 0 vuoi per la novità e leggiadria dell'invenzione;
questo non toglie che i nostri nonni, non meno i nobili
che i plebei, trovassero grande piacere nel leggere e
ascoltare quei romanzi, spesso così nojosi ed insulsi al
nostro gusto. Chi non lo credesse , prenda a esaminare le
opere bibliografiche, e quando abbia coniato le edizioni
del Buovo d'Antona, certo uno dei peggiori, e trovatene
venti 0 forse piii nello spazio di un secolo, tenga quel-
V opinione che meglio gli piace. E notisi come le edizioni
si andassero diradando solo in sul volgere del cinquecento,
vale a dire assai tempo dopo V apparizione , non pure del
Morgante e dell' Innamorato, ma altresì del Furioso. É
ben vero che questi poemi d'arte finirono poi per cac-
ciar gli altri di seggio, e dagli uomini colti scesero giù
giìi fino al popolo rozzo delle campagne, sicché oggidì
non è forse meno frequente il vedere tra le mani di un
contadino toscano il poema di messer Lodovico, che i
Reali e il Guerino ; ma così non doveva essere intorno al
1526, allorché il Folengo scriveva nel suo Orlandino, non
alludendo per cerio a persone del volgo:
t
^^m se i
Son certi pedantuzzi di montagDa,
Che poi eh' ttan Ietto A.ncroJa al Àllobello,
E dìcoD tutta in mente aver la Spagna,
E san chi ancise Almonle o Cliiarìello,
Credono l'opre d'altri sian d'aragna;
Le sue non già, ma d'un saldo martello.
se allora non mancava anche tra gli eruditi chi si ap-
passionasse a libii siffatti, ben doveva esseme dì gran
lunga maggiore il numero allorché ì poeti d'arte non
irano ancora entrati nella lizza. Né di ciò spetterebbe a
^^jrano ancora entrati i
— 124 —
noi il meravigliare , a noi che cosi ingordamente sogliamo
divorare fritte e rifritte in cento maniere le medesime in^
venzioni, condite per di più col sale dell'immoralità. La
differenza, se io non m'inganno, anzicchè nella cosa in
sé medesima, sta negli accidenti. GP italiani del quattro-
cento non si sarebbero mai saziati di udir descrìvere bat-
taglie e duelli, e noi porgiamo sempre avido orecchio a
chi ci narri di adulteri amori ; essi amavano i Rinaldi e le
Galazielle, noi gli Armandi e le Signore dalle Camelie;
essi sentivansi allettati dai draghi e dai grifoni, noi dai
mostri in forma umana; essi dalle fellonie di Maganzeà,
noi dagli avvelenamenti e dai suicidii. Mutarono i gusti,
ma Tuomo rimase' sempre quel desso, e del pari che
allora, oggidì, mai non è sazio di vedere rappreswtaU
quei sentimenti che gli stanno nel cuore. Quindi è che
siccome nei giuochi si rivelano più manifeste le tendenze
dei fanciulli, cosi ci è d'uopo ricorrere ai libri destinati
a sollievo dell'animo, se vogliamo acquistare perfetta co-
noscenza dei costumi e dei sentimenti di un' età. Però an-
che la letteratura cavalleresca dovrà sembrare argomento
degno di attenzione, non solo ai molti che nei giorni no-
stri si danno allo studio delle letterature, e sopratutto
delle popolari, come a quello di una scienza, ma altresì
ai cultori, assai più numerosi, degli studi storici. Questi
tutti tollerino dunque pazientemente la mia lunga diceria
intomo al Rinaldo da Montalbano. parte troppo impor-
tante nel ciclo carolingio perchè una succinta trattazione
potesse bastare. Qui, come già avvertii, le orìgini della
maggior parte fra i tratti caratteristici del romanzo cavid-
leresco d'invenzione puramente italiana; questa la sola
parte che venisse fuor di modo ampliata con intrusioni,
imitazioni , continuazioni d' ogni fatta. Poco a poco le in-
sidie di Gano per trarre a distruzione la stirpe di Ghia-
ramonte si vanno moltiplicando fuor di misura ; le sue
spìe, che già più volte abbiamo inconlrato Della prima
parte del romanzo ìd prosa e del poema, corrono a cer-
care tutto il mondo ; i suoi artiticii , le sue malvagità tra-
scinano ogni momento a trasmodare l'animo focoso del
figlio d' Amone e lo costringono ad impngnare per sua
nropria difesa le armi nella sala istessa di Carlo, il qnale,
divenuto omai cieco strumento nelle mani del perfido
consigliere, punisce colla piìi cruda severità chi è inno-
cente, 0 meritevole almeno di scusa. Quindi hanno origine
quei perpetui esilii di Rinaldo, occasione sempre a lunghe
peregrinazioni nell'Oriente e a casi avventurosi, in cui si
frammischiano anco gli altri paladini, animati oramai da
seutimenti non troppo dissimili da quelli degli erranti di
Brettagna. E con queste avventure si alternano, ripeten-
dosi non meno stucchevolmente, le imprese dei saracìni
nella Francia, le quali sempre, come nel nostro poema
quella di Mambrino. tevninano colla morte dei capi e la
distruzione delle orde da essi condotte.
Tali sono le fila principali onde s' intesse la povera
tela di un gran numero di racconti, spesso oltremodo
prolissi. Per non citare che i titoli di quelli che appar-
tengono propriamente alle storie di Rinaldo e ne coslilui-
scoDO le varie parti, nominerò il Dodonello, Baldo di
Fiore, 0 l'Ancroia, lo'mperador d'Aldelia, Calidonia, il
Castello del gran Lago, il Castello di Teris, Rubion d'An-
farna, i Vanti dì Dionesta. Altri si rannodano strettamento
al sire di Montalbano, come il Rinaldino e il Tapinello;
altri assai sono foggiati a imitazione delle sue storie o a lui
concedono la parie principale. Imperocché nell' Italia il
favore del pubblico fu sempre rivolto a Rinaldo più che
agli altri paladini; che se questi volleio mantenersi in
fama e non essere posti da parte come vieti arnesi, do-
vettero tramutarsi a sua sìmìglianza, deponendo le spo-
} antiche. Insomma, a dir tutto in breve, il protago-
— 126 —
Dista del romanzo cavalleresco italiano è Rinaldo, ed è
quindi nelle storie di lui che noi dobbiamo e possiamo
studiare le metamorfosi della materia a noi tramandata
dai giullari francesi. Cotale studio, non m'inganno, deve
di necessità essere fondamento alla cognizione storica della
nostra letteratura romanzesca.
Dopo aver compiuto, e in parte anche pubblicato,
questo lavoro, ebbi modo, grazie alla squisita cortesìa di
due patrizi milanesi, del Marchese Gerolamo D^Adda e
di Don Alessandro de' Conti Melzi , di esaminare due edi-
zioni deir Innamoramento di Rinaldo da Montalbano , pub-
blicate, runa nel 1517, T altra nel 1533. Questo esame
mi dimostrò come ben mi apponessi nel porre a fonda-
mento del mio studio il testo «palatino; le versioni a
stampa ci ridanno bene la medesima materia e pa* la
massima parte anco i versi medesimi; ma poi, oltre ad
offerire una lezione assai scorretta e arbitraria, alterano
le divisioni, aggiungono interi canti, molti ne amplificano
0 rìmutano, e perfino inseriscono nella narrazione princh
'pale altri romanzi, che non hanno che fare con quella.
Così non sarà forse discaro ai bibliografi il sapere come il
Fierabraccia, del quale conoscevasi una sola edizione, nota
dair unico esemplare della Corsiniana, si trovi stampato
frammezzo agli « binamoramenti di Rinaldo »; e come il
Tradimento di Gano, prima che apparisse da solo nel-
r edizione del 1538, avesse già veduto la luce in quella
che del nostro poema fu fatta nel 1533. Anche da questo
esempio ho potuto cosi avere nuova prova della poca
autorità, che si può dare alle stampe in fatto di lettera-
tura cavalleresca. Il titolo istesso. Innamoramento di itt-
naldOy comincia di già ad essere un' infedeltà non piccola,
— IÌ7 —
dalla quale ognuno sì lascerebbe trarre in errore: ctiè a
giustilicarlo non basta t' amore pei- Clarice , che bentosto
ha compiinenlo colle nozze. Mercè le aggiunte d'ogni
l^lla, alle quali qui posso appena accennare dì volo, il
Rinaldo delle edizioni accennate dì sopra viene a conte-
nere intorno a mille quattrocento stanze più che non ne
noveri il testo palatino.
Infine mi è qui d'uopo correggere un abbaglio, nel
quale troppo tardi mi avvidi dì essere caduto a pag. 73.
(Joivi io volli confortare V anteriorità dell' Entrée en Espa-
^e rispetto al Rinaldo franco-italiano, mostrando probabile
che r autore di quest' ultimo imitasse un episodio di
quella; ma il mio argomento è falso, poiché io confusi
l'Entrée colla Spagna in ottava rima, che ne deriva, e
ciò che asserii trovarsi nella prima, non istà in quella
lece die nella seconda. Che peraltro il poema di Nicolò
da Padova sia d'alquanto piìi aulico, non sembrami per
questo meno verisimile, come quello in cui noi vediamo
adoperato temperatamente un genere di narrazioni, di cui
nella prima parte del Rinaldo non solo si usa, ma fuor
di modo si abusa.
Pio Rajna.
nroRM AD nu cuoon i ad 13 msm italiani del sk. hi,
I AD EU usua SABDA, TRAni DAUl CARTE VASBQBEA,
LETTERA DI CARLO VESME
Al Sk. ConBXDATORB FRANCESCO ZAMBRINI
Preùémc Mb Ummsskm pei Testi A bgn MH'lBÌlia.
Torino, 29 settembre i870.
PregMO Signore ^
È noto a Y. S. , come fiao dall^ anno 1846 il signor
Pietro MartìDì di Cagliari, persona di specchiata onestà,
ed alla quale per commune consenso appartiene uno da
primi luoghi fra i Sardi che nel presente secolo illostra-
rono la patria cogli scritti, cominciò la publicazione di
una serie di nuovi documenti relativi alla Sardegna; e
come il primo di quei documenti fu accolto con plauso,
né da alcuno si mosse dubio contro la sua sincerità; ma
appena altri vennero in luce, e quel primo ed i seguenti
furono generalmente o non curati, o condannati come
spurii. Della non curanza fu principale cagione il trattarsi
in quei documenti quasi esclusivamente della storia di
Sardegna, generalmente negletta ed ignorata ed in Italia
e fuori.
Ma già in uno dei primi publicati (Tanno 1849) dal
Martini si trovava cosa, che aveva tratto particolarmoite
la mia attenzione : un non breve squarcio di poesia italiana
di un Bruno de Thoro da Cagliari, il quale, dal contesto
— 129 —
dHio scritto dove quella poesia era inserita, appariva aver
fiorilo nel secolo XII, Si aggiunge, che un'altra fra le
porgamene allora acquisiate dalla Biblioteca di Cagliari &
da me vedute {1} conteneva, in copia contemporanea al-
l'Autore, alcune altre poesie dello stesso Bruno. Io ecci-
tava perciò l'amico Martini alla sollecita publicazione di
quelle preziose anticliissime poesie, ed a Tarne argomento
di uno studio critico sui nostri piìi antichi poeti. Ma le
molte dilQcoltà che una ed altra volta intorruppero la
publicazione da lui intrapresa delle Carte di Arborea, e
l'essere le cure di quell'esimio Sardo più .specialmente
rivolte alla publicazione ed alla illustrazione dei documenti
che riguardavano la storia fino a quel tempo monca ed
oscurissima della sua Isola, resero vane le mie inslanze.
Parecchi anni dopo (1859) il valente paleogi-afo Ignazio
Pillilo publicava una canzone e un sonetto di un altro Tra
i poeti di quella età, Lanfranco di Bolasco da Genova. Ma
neppiu* questo valse gran fatto a volgere l' attenzione dei
dotti su colasti antichissimi avanzi delia nostra volgar
.^poesia.
Il Bene è vero, che a quel tempo la questione non ave-
ma preso l'importanza, alla quale la portarono le scoperto
* posteriori. Venivano a conoscersi due poeti anteriori di
un secolo ai piii antichi noti finora, ma le tenebre che
coprivano le origini della lingua e della poesia italiana non
erano dissipate: quando e per opera di chi dai volgari
parlali fosse sorta la lingua italiana; se fosse avvenuto
lutto ad un trailo, od a poco a poco nel cflrso dei secoli;
quali in que' principii fossero le relazioni della lingua italia-
na ^a col Ialino, sia coi volgari della penisola, e nominata-
mente, siccome è innegabile ed evidente la stretta aflìnilà
(1) Vcggasi Nuove Pcrgai'unc d'Arb-ima ita Pietro Martini; Ca-
ri. 18*9, pag. 3 e 7.
0
— 130 —
fra la lii^a italiana, ed i dialetti toscani e più particolar-
mente il Gorentino, qaale di ciò fosse la cagione , e se
r italiano, il toscano e il fiorentino fossero una sola e me-
desima cosa , come pretendevano gli scrittori fiorentini del
secolo XM, OTvero se l'italiano sia ben^ derivato dal
parlare toscano e più specialmente dal fiorentino, ma pm*
fosse e sia cosa diversa; quale influenza e quando il pro-
venzale abbia avuto sulla lingua e sulla poesia italiana; ed
infine come sia avvenuto, che il linguaggio di una piccola
provincia si trovasse già nella prima metà del secolo Xin
adoperato negli scritti in gran parte d'Italia, e nominata-
mente in Sicilia, mentre ed in questa e per ogùi dove
si scrìveva contemporaneamente nei volgari locali.
Diede occasione e mezzo di allargar la questione e
di portarvi una luce insperata la publicazìone fetta dal
professore Adolfo Bartoli da un codice Fiorentino, di un
sonetto inedito di un altro fra quegli antichi poeti, Aldo-
brando; e sopratutto di una notizia biografica tratta dal
medesimo codice, dalla quale appariva, che quel poeta
nacque in Siena Tanno 1112, morì in Palermo il 1186;
e che educato alla scuola dì Gherardo, poeta parimente
in lingua italiana, in Firenze, dove molti dotti uomini a
quel tempo si trovavano, acceso d' amore della sua lingua
italiana, quantunque fosse valente anche in poesia latina,
attese principalmente al volgare italiano, ed in questo com-
pose molte poesie (1). La novità della cosa fu cagione che
il Bartoli non vi prestasse fede, e nelle notizie biografidie
relative a quel poeta stimasse essere avvenuto T errore di
un intero secolo. Ma la falsità dì tale supposizione venne
indi a poco dimostrata dalla publicazìone che il Martini
(1) / viaggi di M&roo Polo secondo la lezione del codice Magli(i-
becchiano più antico, reintegrati col lesto francese a stampa, Firenze,
Lemonier, 1862; pag. lix-lxvi.
131 —
faceva, sotto forma di lettera diretta a V. S. (1), dì una
canzone di Aldobrando, che traeva da uno dei codici d'Ar-
borea, e che si trovava pure, ma non erasi potuta leg-
gere, nel codice fiorentino, la quale pei suo argomento
storico non poteva lasciar dubio intorno all'età del poeta,
quale era indicata dai codice fiorenlino. Indi a poco si
scopriva in Siena un altro codice delle poesie di Aldo-
brando simile al Fiorentino; ed io mi offriva all'amico
Martini di esaminarli ambedue ad uso dell' edizione, alla
rpiale appunto attendeva, di quelle poesie secondo il codi-
ce d'Arborea. Ma ei volle che io medesimo trattassi le
questioni cui dava occasione la scoperta dei nuovi docu-
menti; e indi ebbe origine la Dissertazione che publìcai
or fa quattro anni sotto il titolo : Di Gherardo da Firenze
e di Mdobrando da Siena, poeti del secolo XII, e delle
orit/ini del volgare illustre italiano (2).
i stessa cagione che aveva indotto il Bartofi a
lutare per congettura Ja lezione del codice fiorenlino
I a fare Aldobrando piii recente di un intero secolo,
9sia l'inveterala opinione che non oltre U secolo XIII
potesse ritrarsi l' origine della lingua scritta e della poesia
italiana: la stessa fece restie ad accogliere le nuove sco-
perte quasi tutte le persone che , numerose in Italia , trat-
tano dei primordi della nostra lingua e poesia. Per altra
parte la sincerità dì quei manoscritti essendo accertata
Pila concorde testimonianza di quanti li avevano veduti,
D avendo ragioni di qualche peso da opporre, né essen-
< possìbile, dopo le nuove publìcazioni, sfuggire la diffi-
da riferendo quei poeti , come aveva fatto il Bartolì , ad
(1) Letlera di Pietro Martini, Presidente della Regia BiblioUca
di Cagliari, al citiarinimo cav. pnf. FruieeMO Zambiinl, Presi-
dente della Commissione per i lesti di lingua nelle Piijvinaii itell'E-
milìa: Cagliuri 1865.
(2) Torino 1866, presso i fratelli Bocca.
^^Bsìa
^^m {t) Torino 1866, pre
— 132 —
un'età più vicina: lasciarono cadere la questione nei silen-
zio; e nel trattare delle origini della nostra lingua o tac-
quero dei nuovi poeti, o ne toccarono appena di volo,
come di cosa al tutto incerta e di dubia fede.
Mutaronsi interamente le cose dal principio di qne-
sfanno; poiché appena apparve la Relazione della Com-
missione Academica di Berlino che giudicava sparìe le
Carte tutte di Arborea, tosto in questa nostra che nuo-
vamente dico umile, ma non a torto umile, Italia /si
mostrò vero per parte dei contradittori di quelle Carte dò
che uno di essi. Paolo Meyer, disse invece de' loro pro-
pugnatori : che sovr' essi « V autorité des noms est d' un
» grand effet. » Tenendo, come attesta un altro di loro, la
falsità delle carte d'Arborea per quel giudizio provata in
modo, da non lasciare pur luogo ad appello: dA più chi
meno temperatamente, ma concordi, si scagliano contro
quelle innocenti, né una voce si alza a difesa (1); mo-
strando con questo nuovo esempio la verità del proverlMO:
ognun corre a far legna
Air albero che il vento in terra getta.
Ma se dopo quel giudizio fecero eco e furono una-
nimi in condannare le Carte di Arborea, assai poco, e
pressoché nulla di qualche valore, aggiunsero a quanto,
cercando dimostrarne la falsità, aveva detto la Commis-
sione Academica di Berlino.
Siccome in ciò mio solo desiderio e mio scopo si è,
non già di propugnare ad ogni costo la sincerità di quelle
Carte, che io primo combatterei se mi persuadessero gli
(1) Da princìpio perGno alcuni giornali Cagliaritani parvero fare eco
alla condanna, senza prenderla ad esame. Ora tuttavia alcuni giovani stu-
diosi publicano una serie di articoli, dove con valide ragioni propugnano
la sincerità di quelle Carte, nel giornale Cagliaritano La Speranza,
num. 1 e seguenti.
— 133 —
argommti conlrarìi, ma semplicemente di oUenere che
intorno alla presente questione, eh'' io reputo grave e sotto
pili d' un aspetto importantissima , sopralulto per noi Ita-
liani, ne da prendersi a gabbo come si fa dalla maggior
parte degli oppositori, si faccia la luce, e si accerti la
verità da qualunque parte si trovi: mosso da tale pen-
siero traslatai dal tedesco o publicai la Relazione Acado-
raica di Berlino, che le trasmetto (1); in risposta alla quale,
ed agli altri scritti posteriori di cui mi giunse notizia,
aggiunsi alquante mie Osservazioni; ed a queste a modo
di Poscritta alcune pagine di risposta all'Esame Critico
di quelle Carte, stato dal signor Girolamo Vitelli pubii-
calo appunto nel giornale diretto da V. S. — In quelle
mie Osservazioni ho trattato della questione delie Carte
d'Arborea in generale; di quanto riguarda i nostri pivi
antichi poeti e le origini della nostra lingua toccandone
sol tanto, quanto era necessario a rispondere alle obje-
zioni del Tobler e del Borgognoni. Ma qtiesto lato della
qnestione non potrà in tutta la sua ampiezza e con frutto
trattiìrsi, fuorché quando saranno per inloro conosciute sia
nuove poesie, delle quali ho dato alcuni saggi In Appen-
dice alle mie Osservazioni alla Relazione Berlinese; sia le
annotazioni storiche, onde quelle poesie sono accompa-
gnale nei manoscritti. Da questi nuovi documenti vengono
in gran parte confermate, in alcuna parte corrette, le
anteriori mie congetture intorno a Gherardo, a' suoi disce-
poli e alle loro poesie: veniamo a sapere che giovanissi-
mo, e non giunto ancora all'età di veni' anni, Gherardo
Mara opera a poetare in italiano; che in principio del
(i) Relaiione sui nutnoscritti d'Arborea publicala negli Alti del-
l'Academia delie Sctente di Berlino, geanaja 1810. — Osservazioni
■n'orno alla Belatione sui manoscrilli d'Arborea publìeaia ecc. —
0 aJJ'Esatne Crìlico delle Carle d'Arborea di Girolamo Viielli. —
1 e Fireiiix. Fralelli Bocea, 1870.
— 134 —
terzo deceoDio del secolo XIII, e cosi quando aveva
poco più di 25 anni, tenne scuola di lingua italiana e di
poesia in Firenze; che più tardi ebbe in ciò cooperatori
alcuni de^ suoi discepoli ; e che, non ostante molti contra-
sti, questa scuola fiori fin verso la fine del secolo, ossia
fin quando, dopo la morte di Papa Alessandro, riprese
vigore in Toscana la parte imperiale. Narrano quelle anti-
che memorie, che Gherardo adoperandosi a purgare, colla
scorta particolarmente del latino, il suo volgare dai vizii
dì pronunzia e dalle voci plebee, aspirava ad inalzarlo alla
dignità di lingua commune d' Italia , almeno nella scrittura ;
e che a ciò era mosso anche dal desiderio e dalla spe-
ranza, che gr Italiani, uniti di lingua, si unissero anche
d'animo, e cessassero dalle intestine discordie; ond' anche
Gherardo e i suoi discepoli presero parte attivissima alle
grandi guerre della Lega Lombarda. Aldobrando V anno
1181, fuggendo le ire dei nemici ed i perìcoli onde lo
minacciava la risorta parte imperiale, si rifugiò in Sicilia;
dove per cinque anni tenne scuola, ivi pure fra difficolti
non lievi, particolarmente per parte di quelli che volo-
vano che i Siciliani poetassero nella proprìa lingua, e ai
Toscani la loro lasciassero (1). Non ostante gli oppositori,
prevalsero in Sicilia gli ammiratori e i seguaci di Aldo-
brando; e cosi si trapiantava, e durante gran parte del
secolo XIII fioriva, la lìngua e la poesia italiana in Sicilia.
Ben so che tutto questo è troppo nuovo, troppo
grande, e sopratutto troppo conforme al vero, perchè
abbia di leggiero ad essere creduto; so che non manche-
ranno gli oppositori, ai quali facendo difetto gli argomenti,
continueranno a combattere collo scherno: ma a dimostrare
(1) Ma sì vostra naciuni plui amati,
Cantati quilli (canzuni) sunnu a nui cumuni,
Et a li Tuschi li Ioni lassali.
Da un sonetto siciliano contro Aldobrando.
— 135 —
t Terità rimarranno ire argomenti , clie uessiiiio, credo,
rarrà ad abbattere: T 1 manoscritti contenenti tali poesie
e (ali notizie, i quali, cbeccbè se-ne dica, sono indubita-
tamente sinceri, e come tati verranno senza fallo ricono-
sciuti da quanti, senza preconcetta opinione, si facciano ad
esaoiinarli; oltrecchè la sincerità delle notizie che quei
manoscritti contengono è già fin d' ora confermata da do-
camenti scoperti dopo la publicazìone dei manoscritti me-
desimi (1); 2" l'assurdità, cbe una lingua di origine evi-
deutemente toscana sia nata dapprima in Sicilia, e che già
nella prima metà del secolo Xin si scrivesse in gran parie
d'Italia, se prima non vi fu in Toscana una scuola onde
la nuova lingua sì diffondesse; 3° e sopratutto, le poesie
medesime, le quab per numero, per lingua, per argo-
mento, e parecchie per bellezza, sono tali, che è al tutto
impossibile siano opera di un odierno falsificatore.
Ma siccome ed in uno scritto già da alcuni mesi pu-
Uicato dal prof. Borgognoni, e non ha guari nella lettera
del prof. D'Ancona premessa air Esame Critico del Vitelli,
trovo essersi tratto argomento contro la sincerità delle
Carte d'Arborea da un sonetto composto da varii di quei
dìseepoli di Gherardo, del quale aveva fatto cenno il Gua-
sti (2) dietro indicazioni da me avuto ; e nominatamente il
D'Ajicona contro quel sonetto muove objezioni e dice cose,
die certo non avrebbe detto se avesse conosciuto il sonetto
medesimo, e V epistola colta quale Aldobrando lo trasmette
a Bruno de Thoro: mando qui a V. S. l' una e l'altro,
affinchè si compiaccia dar loro ospitalità nel Propugnatore.
r> a me, nel sonetto ravviso al tutto quel rotto
, cbe lo dimostra opera di diversi ; la lettera poi
ti) Vnli le nostre (htervasioni sulla Iklasione dell' Aeadcmìa di
iniino. i 100-106.
(S) / primi" patti italiani nvovammle tooperli; ncU'Arcbitjo Slo-
ric» loliaDO, Ser III, Voi. 111.
I
— 136 —
di Aldobrando, nella quale non sono itmestaU ad arte
parole e modi di fra Guittone, ma che da un capo air al-
tro è scritta in lingua che non è quella di oggidQ, è cosa
si bella e sì spontanea, che esclude pur il sospetto che
possa essere opera di un moderno falsificatore. E se alcu-
no è di contrario avviso; ha mezzo agevole e sicuro di
dimostrarlo; scriva un' epistola simile di metro, di lìngua e
di leggiadria, e che pel suo aspetto arcaico possa essere
tolta in iscambio con questa di Aldobrando.
E per aprire fin d'ora ai contradittori delle Carte
d'Arborea un più ampio arringo poetico, e maggiori mezzi
di dimostrarne la falsità, trasmetto a Y. S. per essere
aggiunta alle due italiane anche una poesia sarda. Le poe-
sie sarde nelle Carte d'Arborea sono assai meno nume-
rose che non le italiane del secolo XII; siccome tuttavia
non provengono da una medesima scuola, ma sono di vani
autori , di varia età, di varii luoghi , perciò fra loro differi-
scono assai più che non le poesie italiane, sia per argo-
mento, sia per lingua, sia per valore poetico; in tanto che
anche sotto questo aspetto è impossibile dirle opera di
un medesimo e tanto meno di un moderno poeta. Fra
queste scelgo una canzone di una figliuola, che piange la
morte della madre. Questa poesia per metro, per lingua ,
e per alcune espressioni imaginose , ha un' impronta sarda
antica inimitabile; ma soprattutto è ripiena di tante bellez-
ze, e di si tenero e vero affetto, che in qualsiasi lingua,
antica o moderna, difficilmente si troverà altra in simil
genere che possa starle a fronte. — Essa è tratta dal
medesimo manoscritto che ci conservò parecchie poe^e
di Gherardo e di Bruno; ed è fra quelli che furono tra-
smessi a Berlino (vedi la Relazione Berlinese, § 17).
Colgo questa occasione ecc.
Suo dev,mo ob.mo
Carlo Yesme
Certo sarìa fallare a la tua amanza,
Meo Brun. lassarle sanza
Conio di dò, eh' a la Città Fiorente
Nella scuola saccente
Del nostro Ijon Gherardo foe avvenuto;
U' pur fo comparuto
Lo nobil Alberigo, e lo Poncelo,
Lo Puccio, e lo Giuleto,
L'Aretin Meo, e Pereto, che fortuna
Caluno quasi io una
Addusse, e me, che reverenle allora
Venni a pagar la mora.
In tal pur trovo cavaiier, baroni,
Amici e sui campioni:
E cosi stanti, il bon Gherardo a cari
Belli sermoni e rari,
A comone allcgranza, gioco e riso,
A parlar si Toe priso:
Talché tutu r audir a gioja; e poi
Piacir facendo noi,
Lesse d'Apol la storia in sua poesia.
Che certo, a visa mia.
Per lo sermon saccente e giocond' estro,
Foe tal del nostro Maestro.
Ha cftmo cade ch'atizzoiM infermo,
Se di malor a schermo
Rechere lui giierenza sanguinosa
I^ mano dona ascosa
Del gueriior saccente, e viso volle,
E da tal parte tolle,
— 138 —
E a latti e a mod mostra sm nove.
Tutto diera tadre:
Cosi qadli baroni e caTalierì.
Che Doo pooèn paiseri
A cose tal, e lor dà ooja ed oou
Se di sarer si conta:
Lo viso lor torcean, ed ora suso.
Ed or miraTan gioso.
Dal Doir or dormienti, or osdtanti;
Sì ch'essi a pari tanti.
Dì bsùdìo già pien, qual orbi e moti,
Foron da noi partutL
A tal tutti rìdimo a tòrte rìso
A lor onta e disprìso.
Ma il buon Gherardo, ch'atto tal non fea.
Tali detti traea:
e Qual latto, amici, a ridere tì stringe,
0 qual mattia vi spinge? »
E noi: « Dei cavalieri la nescienza,
E tal lor disagenza;
Poi paran disintender dir gentile,
0 che materia è vile ».
Ed egli: « Ah no! lo meo gran disvalere
Fé' certo a lor spiacere ».
Ma noi maggio tomamo a rìso nostro,
Che non sorstava rostro.
PoMmagioam finar senza ientenza
Quel dia di gran piagenza
Ad un sonetto a loro disonore,
Onne respetio fuore,
Catun dui versi o più a mente criando,
Tutti pria rìme dando;
Alberigo e Gherardo non facenti,
Como li più prudenti:
E questo pur, meo Brun, ora t'invio.
E qui serra lo parvo dire mio.
— 139 —
Sonetto Comorb
Ahi porci vili, e muti can dormienti,
Cui l'ozio grave rende voi oscitanti,
Che vanieri, e più stolti e nescienti
L'altroi saver e dire trae penanti;
Lo vostro orgoi'e fumo adducon venti,
Noi pugnam disviar ognor stutanti;
E vostro tosco, par non han serpenti.
Noi sperderem, e malusati tanti.
Ah, non savete, a invidia viziati,
Com conta è noi la vostra disragione?
Poi vi credite più di noi sennati.
Ma, se disgrate son nostre persone,
Savem eh' ad occhio sete voi mirati,
Poi del vostro noir pande ragione.
Aldob.
Pereto.
Pucc.
Pene.
Giulete.
Hee Aret.
Aldeb.
Perete.
Pucc.
Pene.
Giul.
Mee Aret.
Peret.
Aldeb.
Culla mama istimada (1),
Qui fuit su meu contentu,
Unu furiosu bentu
Ohi ! m' inde l' hat leada (2).
Jovana fiat ancora.
Et sas gratias li riiant;
Sos ojos li lughiant,
Sa cara (3) fit s' aurora;
Perlas monstrait onne hora
Dae sa buca rosada.
Cum SOS pilos falados (4)
Pariat sa Maddalena;
S' inde faghiat cadena,
Gosì bene aconzados,
Rajos pariant dorados
De su sole ad s'intrada.
(1) Amata. (2) Levala, tolta. (3) Faccia. (4) Capagli sciolti.
— 140 —
De angela fiat sa mcflle.
De arcangdii sa eoro:
Ipsa fiat so thesoro
De sa Bosana gente:
Fìat docOe et pradeale.
Dae totos apressùda.
Com sa "e^re et so maato
Puiat ooa matrooa;
Oone persone bona
La miraiat com vanto:
Ca jughiat (1) aB'ineanto,
PìQS de famosa bda.
Femioa asie pretiosa
Non bi fdit nen hooesta.
Plus homile et modesta
Non b*hat naschida in Bosa;
Exemplu de oime isposa
Sas mamas Thaiant giamada.
De su*ODu (2) padre mea
Fiat su veni contenta;
Teniat su coro atenta,
A lu amare cum Dea,
Cum fide senza neu,
Cum coostaotia proada.
Quale abe (3) trabajante
Àrrichidu hat sa domo;
Cum sas lanas fiat corno (4),
Como cum su lactante,
Bolteudesi in su istante
Ad sa cosa inzipiada.
De abilitades piena,
Fiat ancu cautadora;
Cantende fit onne bora
Cum bogbe de sirena;
Ca de poesia sa vena
Mai li fit mancada.
(1) Portala. (2) TroDcameDto di bonu, (3) Ape. (4) Ora.
I annos bivesil
Cum sa sua compania;
Sa pagbe et s' allegria
CoQSlame li duresil;
Nessuna afianou proesit
Dae (oius honorada.
Ma quando a mala sorte
Ben/esil a Terquillti,
Su bona sou pubilla (t]
nriiat leailu sa mone;
Custu dolore fone
Non r hat abaudonada.
i* allegrìa
Et s'antigu conteotu,
Piaaghiat enne momeuiu
In pena et agonìa.
Eo la confonaia
A. su tugu (?) abrassada.
Uà cum pena et dolore,
Gosl narail a mie:
« Ctiie m' hat leadu et chie
Su coro meu, s'amore.
Culli! pretiosu flore
De tolu 53 contrada?
Et chie m'ìnde Turesit
Su bene meu. s'amante?
Cullu bellu gigante
Chie mi l'aterrcsii?
Et chie mi trunchesil
Culla palma dorada? s
« Ahi marna », intando naro.
« Lassade su lameutu;
Non bos dedes lopmentu
Pianghende cussu caro:
Ca non bi hat reparo
Cum sa morte ostinada.
«. (2) Collo.
— 142 —
In sa celeste sfera
Bivet s'anima pia,
Et prò nois, marna mia,
Pregat cum fide vera.
Non factades manera,
De m' ider disperada.
S'istimades a mie (1),
Comente lu monstrades,
Proite (2) bos ostinades
Pianghende nocte et die?
Non ischides (3) qui asie
Inde morzo (4) apenada?
Consolade, bos prego,
Cust' anima afflighìda.
Chi sa bostra fenda
Siat grave, non lu nego,
Nen de sentire omego
Sa disgratia passada.
Ma si gosl sigtùdes
In custu dolu et pianto,
Eo facto ateru et tanto.
Et ancu a mie perdides;
Tando bos consumides
Cum pena adopìada )>.
Ad custu narrer meu.
Quale bona meìghina,
Mi mirait sa meschina,
Et suspendiat su theu (5).
Solu unu forte: « Oh Deul »
Dae su coro mi dada.
Però ocultu sufriat
Cullu amaru dolore,
Chi cum febra et ardore
Sa Vida illi finiat.
(i) Se mi amate. (2) Perchè. (3) Sapete.. (i) Ne muojo. (5) Pianto
funebre.
Sa cara sua incanudal
Un'ispasimu forte.
Unu patire lenlu.
De momentu in momeniii
Li acoslaiat sa morte.
Ahi, cnideie sorte t
Ahi, fiza disgraziada!
Ahi marna! ahi \-ida! ahi coro!
Perdidn t" apo ea
Ali no! ah Don lu creo.
Chi mi lasscs, thesoro.
1 ctiìe CODIO adoro
Aleni oggetto b'IiadaT
Tue Qas su meu confortit
In omne afl1icti(Hie;
Sa mea coosolatione
Dae cando babu est moru ;
Tue juttestì [% ad so portu
Cussa nae desolada.
Abiza d' inde, abiza (3;,
Como chi ses dormida;
Mira inoghe (4^ afOighida
S' atjandonada Aza.
Consizala, coosiza
Cust^ mente a&dada.
Ha ja su nero velu
Sus Djos li obscuresil;
Su corpus marmuresil
Udu mortale gelu.
Abi! marna mia. a so cheiu
Como ti ses bolada.
Anima sancta et pura
In cussa eterna gloria
CoQsena sa memoria
. {i) GnkLisiì. (3) Desiali iodi, dt^taii. ({| Qui
— 144 —
De custa fiza iscura;
Prega a Deu in figura
Pro custa ìsfortunada.
Pregalu qui sa vida
Prestu inde leet a nùe^
Qui quanto presto a tie
Pota esser eo unida;
Ca dae te dividida
Biver non poto biada.
Biver poto et comente (1)
Senza babu nen mania ,
Iscura senza fama,
Senz'ateru parente,
Pobera senza niente
Quale arvure isfozada? (2)
Morte qui bictoriosa
Bolas in custa domo,
Ahi leam' inde comò ,
Pro cumplire onne cosa,
Leam' inde ; qui gustosa
T'abbrasso, a tie prostrada.
Leati custa vida
A mie odiosa et vana;
Gosl ti naro umana.
Si fusti incrudelida;
Pro qui custa ferida
Est sa mezus donada.
Db donna Elbna db Athbnb.
(1) E come viver posso. (S) Albero sfogliato.
ORIGINE DELLA LINGUA ITALIANA IN SICILIA
DLTIME HICEnCHE SOPRA LE ORIGINI RIMOTA R PROSSIMA
e SOPRA LA POBMAZIONE DELLA LINGUA ITALIANA
DEL Phop. VINCENZO PAGANO
FRANCESCO DE SvVNCTIS
RRSTAnUTORB DELLA CRITICA LETTERARIA
IR ITALIA
L' AUTOR B
OFFRE gOBSTB BiCSHCUE
Coloro che hanno discorso delle origini delia lingua
italiana e della sua derivazione dalla latina, tra i quali (e
sono i migliori) rammento il Muratori, il Cesarotti, il Per.
ticari, il Ginguenè, il Canlii, il Tommaseo, il Nannueci,
non potendo raccogliere né tutto né il meglio di quel che
poteva presentarsi alle loro investigazioni; e divagandosi
in digressioni estranee, non guardarono attentamente i fatti
e i documenti importanti, e non si ftìrmarono nella parte
critica della cosa. Primieramente era d' uopo riunire e
coDfrontare i documenti opportuni e coordinarli coi prin-
ctpii della linguìstica o sia della filosofìa delle lingue, la
qoale scienza è diretta a rischiarare le oscurità della pr&
sente materia. Secondariamente abbiamo le collezioni par-
ziali del Giunta, del Corbinelli, del Valeriani, del Perlicari,
del Mossi, del Nannueci, dell' Ozanam ; ma pare die ne
manchi una rx)llezione compiuta dei primi trovatori, i qnali
10
— 146 —
scrissero dalla infanzia di Pietro delle Vigne sino alla gio-
ventù di Dante Alighieri, almeno per un secolo e mezzo.
La quale illustrata in maniera sì grammaticale e storica,
come comparativa e critica, avrebbe potuto spandere nuova
luce sopra i vagiti della lingua toscana dei nostri maggiori,
e sopra le poesie dei trovatori.
Qualvolta si fossero perdute interamente le testimo-
nianze, che ora abbiamo della condizione della lingua latina
scrìtta, e delle altre lingue allora o parlate o scritte dentro
Italia, e di fuori per le ragioni che composero P Impero
Romano, noi conosceremmo per principj di linguistica,
appoggiati sulla esperienza e sulla veracità e fede dei
fatti, che la lingua latina era non altro che un dialetto
dominante, né poteva mai impedire, che si parlassero e
si scrivessero gli altri idiomi del mondo. Quel che oggidì
si osserva della lingua italiana, e che Dante avvertì sino
dalla infanzia di lei, si deve affermare altresì della lingua
latina. La lingua italiana, la quale comparisce, qual dialetto
dominante dell'Italia moderna, nelle poesie dei trovatori
del secolo tredicesimo, tenne fra i dialetti italici quel pri-
mato, che aveva tenuto la lingua latina nell'Italia antica.
E sì essa, come i suoi dialetti affini convengono fontal-
mente in alcuni elementi costitutivi dell' idioma, mentre
ne diversificano in altri elementi; talché convengono fra sé
per ragione generica del genere prossimo, e discordano
per ragione specifica delle specie congeneri. Poi, quanto
alle specie superiori, 'le lingue italiche sono tanti rami
delle lingue tracopelasgiche, pelasgiche o grecolane, secondo
la classificazione sistematica di Corrado Maltebrun, di
Adriano Balbi, di Cesare Cantù, di Francesco Marmocchi
e di altri.
Ciò posto, per concepire idee giuste delle origini e
della nascita della lingua italiana, uopo é distinguere più
fatti, i quali non solo sono indicati dalle teorìe della lin-
— 147 —
jtitsttra, ma sono anche tesliGcati e prorati alAondanie-
neote Aa documenti e ragiooì di storia, e dal confronlu
dei migliori scrittori, e anco dai meno ìolelligeoti ed esperti.
On, è cerio nella linguistica storica, che la lingua latina,
italiana e le lingue affini e vernacole d' Italia, le quali
pure si addimandano plebee e rusticbe, hanno quanto a
materia e Torma o sìa quanto a vocabolario e a grammatica
lale analogia dì Tocaholi, modi e costrutti, che ogonno
poà sl^guardare quelle lingue, come se elle fossero di una
prosapia e di una patria; onde gli scrittori più insigni
sogliono alTermare, che la lingua italiana sia la lìngua latina
rustica od osca, indi risorta in forma moderna nelle lìngue
Molalìne e romanze di Europa. Inoltre, è vero, che la
Bagna vernacola e parlata rinfranchi e ristori la lingua
dotta e scritta, e che, siccome, allorché scriveva TAIigiueri
nel 1300 la bella lingua volgare d' Italia prendeva sugo e
ligore da quattordici dialetti principali della penisola, cioè
jidliaDO. pugliese, romano, spoletano. toscano, genovese.
nrdo, calabrese, anconitano, romagnuolo, lombardo, trivi-
fJÈOO, veneziano, aquileiese, furiano e istriano, cosi tredici
aeooii addietro, mentre fioriva il secolo più splendido della
Itagoa latina dominante, questo idioma era distinto itoo
solo dal punico di Carta^ne e da altri idiomi barbari, ma
da quelli che erano usali dentro l'Italia, cioè greco, ligure,
ìosubre, patavino, etrusco, mnbro, latino, sabino e sanni-
tieo, lucano, Calabro bnizio e siculo, eh' erano rami
noti doli' osco. In Roma^ ove era la sede della lingua
btiDa. la lingua plebea, rustica, vernacola, o, vuoi dire.
partala, ancorché del continuo repressa, ammutolita e
^RC^la dalla maestosa lingua latina, rb'' era la favella
'■ùrersale dei dominatori e dei popoli del mondo gre-
llaronaDO, rì è attestata da innumerevoli scrittori e
^■onmnentì. Lo forme diverse della lingua latina scritta, o
BMero omonime o fossero sinonime, o regolari o anomale.
— lis-
ci mostrano colla massima evidenza T azione , T oso e la
esistenza delle due lingue, che tatto di s^ inoontrayano e
si mescolavano insieme, come se fossero dne espressiom
e due modi di una medesima lingua; perciocché, mentre
la lingua latina eulta soggiogava la lingua del volgo, doveva
confondersi seco, finché questa da ancella, eh* era, non
cambiò quella, che figurava come signore. La lingua plebei
era più semplice, più uniforme, più andante, e bisognevole
di poco artifizio ; e per queste sue proprietà prevalse sopra
r altra. Oltreché tutti i vocaboli italici erano qualificati
per romani da Quintiliano ; dei vocaboli e delle frasi di
sinonimia , sovente un téma é latino e V altro é vernacolo,
come accade nella lingua greca e nella lingua italiana, e
le desinenze erano in consonante e in vocale, come si
ravvisa nei dialetti attuali d'Italia. I Romani non pronun-
ziavano le parole come elle stavano scritte; ma, come é
costume dei Francesi, degl'Inglesi e di altri popoli, fro-
davano favellando alcune consonanti o sillabe per eufoidi
0 per proprietà di prolazione. Per esempio il vizio dd
metacismo o sia della m finale, poco noto ai Greci, che
parlavano con bocca rotonda e che poi si rese discara ai
Latini, era spesso usata nella lingua latina; e nel secolo
stesso Cassìodoro e Gregorio romano non si guardavano
dal sopprimere quella lettera, che sapeva male al loro
udito. Cosi le parole^ spogliate del metacismo, terminavano
in vocale, e diventavano voci invariabiU, come alcuni ncMni
indeclinabili o vernacoli, i nomi sostantivi della quinta de-
clinazione e le voci monottate terminanti in vocali. Questa
specialità era più estesa presso gli Umbri, i Tusci e altri
popoli, i quali solevano mettere la u invece della o con-
forme alla usanza della plebe. Avverti il MicaU nel 1810,
che Tuso della u finale continuava ancora in Corsica. Ma
continuava altresì nella plebe si della Sabina e del Lazio,
si della Sicilia, come osservava il Perticarì, e nella plebe
— 149 —
Ifeir Umbria, che udiva san Francesco d'Assisi, e in qaetfi
di Sardegna, come nota Ozanam; e noi possiamo aggiun-
gere, die così si vede per tutta l'Italia meridionale, eccetto
il dialetto napolitano, il quale tuttavia ama V o finale di
Roma. Non sì sovvenne il Micali, che la u Gnale si ravvisa
nella stessa lìngua latina, segnatamente nei sostantivi della
quinta declinazione, che conservano la u invariabile nel
numero singolare, e nei sostantivi della seconda declina-
zione, che, perdendo la s o la ra finale, ci danno la de-
sinenza umbra e tusta, ovvero quella che oggidì adoprano
i nostri popoli. Ora tali differenze, se siano ben ponderate,
dovevano trasformare le lingue antiche nelle lingue mo-
derne rispetto a grammatica, e questi sono già i semi
della lìngua italiana.
Mohi avrebbero potuto pensare da sé, che il caso
ablativo sia proprio dei Latini, perchè i Greci non Paveano,
ed aveano insegnalo ai Latini gli altri cinque cast; per
modo che il caso ablativo doveva essere il tipo o tema
indeclinabile dei sostantivi e degli addìettivi, secondochè
ora si scorge nella lingua italiana e nei dialetti della Italia
meridionale. La quale osservazione è si naturale, die io
credo, che non sia sfuggita agli eruditi. Eppure Varrone
DOD solo aveva distìnto la lingua latina co.'à propriamente
detta dalla vernacola ; ma egli e Diomede altro grammatico
ci palesavano una rara verità, che il caso eminentemente
e schiettamente latino era il caso ablativo. Cosi tutte le
parole sarebbero state monopiote o sia di una sola desi-
nenza, secondochè è accennato in una distinzione gram-
maticale di Prìsciano cesariese. Per quanto io sappia, il
nostro De Rìtis indicò il primo quella pi-egevolissima no-
tizia di Varrone nel 1821, e P annunziò, come sua cara
scoverta si nelle giunte fatte al Gìnguenè in quell'anno e
à negli Amali ciiiili di Napoli del 1841. Quindi ben con-
diiose, che ciò disegnava i primi e rimoti fondamenti del
— 150 —
Auleti:* r:«uE>x cbe f«i34 t dnreDOlo il odelvato idìoiiia
•jrìpEdr>> e ow^iCfe d" ItaliiL mantandosi col greco. Nod
2C>. perdìè i ktienli sesoeciL e il mìo fflustre amico Ce-
sare Ootù. fl qoale sì è iiKXsmto ^ diUgente e diffuso
tnttatc<« deik chissà della ììdsqi iUliaDa, e dotta e ver-
nKx*b, e cbe inr uAse qoaldie cosa daUe carte del let-
terato Dap-jlitaoo. abtia tadoto b recente scoperta. Però
secooào il mii> metodo àotetico, dialettico e complessivo
io onisco insieme i detti di Plinio, di VarrDoe, di Diomede,
di Agrezio. di Prisdano e di altri grammatici antichi; e
Ten^ a questa nuora e profonda conclusione, che altret-
tanto r u finale era distintivo di alcuni dialetti italici, quanto
To finale era distintivo del dialetto del Lazio; il che ne
manifesta la segreta e occulta granmiatica di qaelle lingue.
Simile divario corre presentemente tra U dialetto napole-
tano, simile al latino, e altri dialetti del Regno di Napoli
Gli antichissimi frammenti della lingua latina conservano
rimembranze e vestigìe di parole, dove le consonanti finali
sono taciute ed ommesse, e co^ è ma^iore il numero
delle parole, che terminavano in vocale. Onde erano allora
nei dialetti della nostra penisola alcune parole, che finivano
in consonante e altre parole che finivano in vocale; e
questo fatto fu osservato a' suoi dì (1300) dall' Alighim,
e poi dal Passavanti, dal Landino e da altri; e si oss^ra
pure nei monumenti scritti e nella lingua vivente. Dal
quale divario grammaticale nasce la grammatica simultanea
di due categorie di dialetti italici, e specialmente delle
lingue latina e italiana, o, vogliamo dire, della lingua latina
scritta e della lingua latina parlata. E, ove si levassero i
casi greci dai sostantivi e dagli addiettivi, e rimanesse sol-
tanto il sesto caso, che è il vero caso retto nella lingua
italiana, si avrebbe già una metà della scrittura gramma-
ticale della nostra lingua materna, e della coushnile for-
mazione delle lingue neolatine e romanze. Quel che si
— 151 —
) delle declìnazionj dei sostaotivi coavìeoe alle dedìoa-
10) degli addìettivi, le quali sono modellate sopra le
le, e, perchè la consonante Anale si elideva, conviene
»ra ai verbi ed alle altre parole del discorso. Ecco
ibrionc della lingua italiana, ch'era racchiuso nel grembo
i lingua latina, e che poteva essere quasi, come ora,
I lingua vernacola del Lazio.
Questa lingua implicita e inosservata, questa lingua po-
re, che chiamarono vernacola, rustica, plebea e volgare,
I pia semplice, più unirorme, più piana e più andante
ll^opevole di minore artìQzio e di minore studio; e
r lalfi proprietà doveva, nonché piacere, prevalere un
air altra. Per contrario le anomalie e materiali e
lali, di vocabolario e di grammatica , spuntavano aco-
I della lingua latina dotta, e non iscemarono, ma creh-
i colla venula e signoria dei Barbari, Germani, Fran-
ÌHt Saraceni e Giudei d'Italia, i quaU usavano lingue
mli e per vocaboli e per grammaticale struttura.
altre stirpi, conversando colle stirpi nostre, le
■U adoperavano la lingua italica sì civile, come plebea,
1^ adottando l'idioma delle plebi vinte, dovettero poi
: quella terza lingua più semplice, più schietta e
; uniforme, la quale comparve con le sembianze della
I e soave lingua italiana dopo sette secoli (476-1175).
idi più frequenti, piìi espressici e più spiccai) sono
J^iDdizi e i testimoni dì quest'altra lingua, che in prima
h^ìsse lìngua volgare; poiché la lingua volgare latina
I una forma recondita, più semplice, fornita di pre-
ì pure di articoli, che Varrone ed ì grammatici
ini non Irasandavano, e i poeti volgari latini nella de-
i della lingua scrivevano versi non col metro e
1 quantità, bensì colle assonanze e colle consonanze,
\ ritmo e coir accento, per modo che ì ritmi ben tosto
rono in rime. Questa seconda lingua, non rià_la
— 152 —
lingua grammaticalmeote osca, dorerà essere usata nelle
favole atellane, speóe di fiurse, die per la forma diam-
matica i Romani arenano appreso dagli Osd di Atdla,
preDdeodo da questi Q personaggio del Macco, poi rinato
JD abito del Poldodla acerraoo.e dagli Etrusdu g}^istrionL
Io somma lotte queste notizie couTengono in questo, die
la lingua latina avefa in una lingua due altre Imgue fr
stinte per la dirersità e moltiplicita delle forme varie e
parallele/ due idiomi in uno. E, siccome prima era pre-
valso quello che abbondava di consonanti, poi prìm^giò
quello che abbondava di vocali; ed ecco formarsi e nascere
la lingua italiana, quella che Dante salutava, come un
nuovo sole.
Intanto, correndo il secolo decimo, e propriammte
attorno a Capua, appariscono i chiarì s^ini ddla lingua
volgare, la quale era confusa con la lingua latina Tolgare
dei cherìci e dei notai; e, mentre la lingua latina, co-
mechè generale per V Italia e universale per altre regioni,
tentava di mantenere il primiero lustro e splainiore, la
lingua vernacola, che poscia si disse siciliana e italiana,
cominciava a mostrare la sua propria fisonomia. Special-
mente il dialetto capuano sì ravvisa in carte capuane del
960, 1113, 1124 e 1174, e fu compreso dair Alighieri
sotto la categorìa di dialetto pugliese. Se non che tì bi-
sognava una parola potente, che avesse sollevata la lin-
gua vernacola al grado di lingua illustre e cortigiana; e
ciò è dovuto a Guglielmo II e Federìco II, suo cugino,
i quali rìsedevano in Palermo di Sicilia; e, perchè que-
sto Regno , parte terra ferma e parte isola , era detto re-
gno di Sicilia nel Registro di Federìco del 1240, non già
Regno delle Due Sicilie, per questo la nuova lingua fu
detta siciliana, e dall'Alighieri i Siciliani ebbero il vanto
di essere stati i primi padri della lingua italiana. Ora si
possono ammettere questi fatti per ciò che si attiene alle
i lÌD^a siciliaDa. La lingua italiana doveva es-
sere coltirata sotto Guglielmo II, tra perchè tanto s'infe-
risce dair epoche additate dall' Aligliierì, da Benvenuto da
Imola e dal Giambullaii , e perchè secondo le aotizie sto-
riche la lingua siciliana fa scritta verso il 1186 da Giulio
d'Alcamo siciliano, da Lucio Drusi di Pisa, poi Fra Pa-
6co, da QD altro Pisano in Monreale, da Guglielmo da
Lisciano, castello vicino ad Ascoli, che celebrò in versi
ttidiani r ingresso di Arrigo VI in Ascoli verso il 1195,
e da altri per P Italia. Guglielmo II poi fu protettore
splendido delie lettere. Ma pure la lingua dori dopo venti
jddì , specialmente per l' esempio di due grandi marchi-
giani, san Francesco Moriconi d' Assisi e Federico Hoheo-
stanfeo di Jesi. Nel 20 ottobre 1208, mentre il cardinale
I^etro Capuano fondava del suo una scuola gratuita nel
ducato di Araaltì, Giovanni Curiale stendeva in vernacolo
napoletano, i cui prìncipii sono io una carta del 12 de-
cembrc 1115, un' istromento ; e Innocenzo III, ch'era
pontefice molto eloquente (1198-1216) favellava la nuova
lùigiia d* Italia. Folcacchiero Folcacchieri , cavaliere sanese,
scrisM in Siena nel 1177 una canzone, aderendo ai prìn-
cipii dello stile siciliano, e usando per esempio le voci
maraggio e miraggio. S. Francesco d' Assisi , prima viag-
^tore e poscia istitutore dì monaci, dettava con alcuni
Tersi facili dintorno al 1216 il cantico o salmo del sole,
die somigliava ad una lode vernacola, che un frate del
medesimo ordine recitava in san Germano nel giugno 1233,
«A altre lodi sacre, le quali si cantavano in quel secolo
in Firenze e in Cremona. San Francesco Moriconi di As-
si», oltrecchè aveva raggiato per 25 anni, e nel 1219
ivera ardito dì predicare la fede cristiana innanzi al sol-
dmo di Babilonia ed ai suoi Saraceni, aveva fondato un
ordine sì innumerevole, che esso sarebbe stato sufficiente
1 creare e dilatare la lìngua italiana. Nel 26 maggio 1219,
' :i j-.i n>iiiìii.'iala f!: *'.-::■::
I f,'i;[\-\\\iA II, l'Urlino di T*;r:
LI ijil iJiiS. .■ * >;-^llL' f^- ';
I M iiii": ,:, >■■ .; v-ff 'ili?:
^MiifiiT . iteti.: i: >s™
■. ' < Eriio di Sanl^
"■i'-iiiOJO.Rinieriili
>>Y nini, wiì- .lVt ^-aa
— 135 —
) slessa di Federico, qua) re- dei versi arca il 1330.
fallo è atlestalo ria sao Bonaventura, dal Tira-
i e da allri. F» altresì dì Sicilia monna NJna Sicala,
1 che scrisse versi siciliani a vicenda con Dante da
Fiesolano. Sicilianizzarono, ancorché non noli in
ì in Puglia, Saladino da Pavia, messer Polo da
elio 0 di Lombardia, Fredi Lucchese, Albertuccio
Viola, toscano, il cui stile per la versificazione e
ì parole inchina al siciliano. E pare, che non solo
Ighetlo da Setlimello, poeta Ialino di Toscana, ma an-
t messer Semprebene Bolognese, giureconsulto di Bo-
1 nel 122G e Bauieri dì Sammaritani abbiano visitala
rie di Federico, e Semprebene poetò in siciliano. —
i questi poeti di lingua e di scuola siciliana vìs-
prìma del 1250; né i trovatori che ne' medesimi
Ipi poetarono in volgare italiano per l' Italia , scrissero
\ proprietà siciliana. Onde è necessario ben determinare
\ di qneì poeti, per meglio conoscere la influenza
^dialetto siciliano. Manfredo di Taranto si dilettava di
j canzoni e versi nel 12S9; ma doveva pur poetare
!50, allorché era giovano capace di operare e di
ì la pienezza della vita. Enrico di Sardegna poteva
I poetare mollo prima, e nel 1238, allorché sposava
laide; cLe gli portò in dote la eredità dei due ^udi-
Torri e di Gallura, e da lui poi ottenuti; onde
I primo inverno del 1239 il regno di Sardegna venne
io potere dì Federico, padre dell' uno e suocero del-
:• l'altra.
Si è credulo, che Giulio d'Alcamo, nato in Sicilia,
ì è nominato quasi come il piùmo trovatore sici-
io, avesse scritto dopo il I23I il nolo epitalamio, si perchè
\ parla degli agostari, che furono battuti nelle zecche
isi e di Messina nel decembrc 1231, si perché
I difesa legale a sia della multa , che si pagava pe£ .
— 166 —
ingiurie arrecate a donne, conforme alle costitimom sì-
cale pubblicate di agosto 1231. Ma appunto, perchè vi
sono le allusioni degli agostari risalgono ad agosto e set-
tembre, prima che siano stati battuti nelle zecche di
Brindisi e di Messina, e le multe anzidette sono di im
tempo vieppiù antico. Il Ducange aveva avvertito, che
nelle costituzioni sicule si faccia spesso menzione degli
agostari; ma non avvertì che il tempo primiero di esso
fu r agosto del 1231 , molto prima della fine di qael-
Tanno, nella quale furono coniati gli agostari di Brindisi
e di Messina. Ma senza questa riflessione, che io afiacck)
per la prima volta, siccome dappoi sino al 1269 si &
menzione degU agostari e dei tari di oro, altro uome
della stessa moneta, così ben poteva esserci agostani pri-
ma di Federico II. Il Ducange, il De Ritis e altri, che
primi per T autorità di Riccardo da san Germano si fer-
marono alla fine del 1231, e che furono seguitati in oo-
testa opinione dal Balbo , dal Cantù , dal Fusco , dal Nan-
nucci , avrebbero dovuto dimostrare , che sotto Federico I,
Enrico VI , Ottone I , che nel 952 assunse il titolo di aiF
gusto ed altri più antichi imperatori germanici, i quali si
nomarono augusti, Pagostaro non fu nò moneta ideale,
uè moneta reale. Quindi, quegli uomini, sì pregevoli per eru-
dizione, non si avvidero, che vi rimaneva una difficoltà più
spinosa. Alcuni pure supposero, che P agostaro fosse moneta
più antica ; ma Carlo Du Gange e Domenico Schiavo appo-
sero le testimonianze del Sangermano, di Ricordano Male-
spini e di Giovanni Villani, i quali non dissero, né potevano
dire, che avanti Federico non vi fosse stata memoria di
agostari. Male a proposito il Gagliani e il De Ritis , disdi-
cendosi, citano le leggi sicule del 1231, dettate da Pietro
delle Vigne ; perchè Giulio d^ Alcamo accenna una difesa
0 sia multa di due mila agostari per ofiesa fatta a donna;
ma nei titoli delle leggi da essi citate non si trova a&tto
— 157 —
tfaeì numero di agostari, e dìpptu si allude ad antidie
consiietndini. Infine se per la multa degli agostari la cag-
ione dell' Aicamese dovesse discendere al 1232, noa sa-
rebbe da riputare la prima delle composizioni di trovatori
siciliani, come l'banno considerata per tradizione l'Ali-
ghieri e talte le raccolte dei poeti e prosatori del primo
secolo delia lingua italiana , dalla raccolta deir Allacci alla
recentissima del Nannucci.
A queste ragioni negative sonvi altre ragioni positÌTe,
le quali leggermente si sono abbandonate. L' Aicamese non
dimentica tra le prime cime delia società di quel tempo
antico i conti , i cavalieri , i marchesi , i giustizieri , il Papa
e il soldano, l'imperatore e il Saladino, ch'era il più ricco
dj tulli. Ora si sapeva nel Regno nel 1319, che dominavano
in Siria il soldano di Damasco e il suo fratello Sarecco, sol-
dano di Babilonia, non più il soldano e il famoso Sala-
dmo. Safadino e Saladino, che furono fratelli, signoreg-
giarono in Damasco e in Babilonia ; e Saladino , essendo
re dei Torchi . respinse i nostri Siciliesi . e conquistò l' E-
gilto con Babilonia e ìl Cairo e la Siria. Venuto a morte nel
t marzo 1193, divise la Siria e T Egitto ai suoi figliuoli
Safadino e Meriuccio, ì quali furono privati degli statì
patemi dal Safadino loro zio. Quindi Safadino successe a
Saladino , come soldano dei Saraceni e Musulmani di Ba-
hQooia, e signoreggiò in Gerusalemme e in Damiata infino
al 1210. anno della sua morte, allorché gli successe ìl
suo figlio Corradino, soldano dì Bnbllonia e di Damasco,
al quale Gregorio IX. mandò di Roma una lettera Tanno
primo del suo papato _nel 23 dicembre 1227, come rac-
conta il Paris. Corradino mori in marzo 1228, secondo
la testimonianza del Sangermano. Nel 1214 a Safadino,
soldano di Damasco e di Babilonia , Innocenzo III inviò una
lettera per gli affari di Terra Santa, giacché Gerusaleomie
^n soggetta al soldano di Babilonia. Similmente dintorno
— 158 —
a quelPanno Federico dovette dirìgere a Safadino o Sefe-
dino (Cephedino Sciffedin) una piccola lettera, che è tra
quelle di Pietro delle Vigne , a fine di rendere la terra di
Gerusalemme al culto cristiano. Nel registro di Federico II
del 1239 è detto dei messi del soldano dì Babilonia, cioè
di Safedino II ; onde la canzone dell' Alcamese deve ripor-
tarsi verso il 1193, allorché finì di vivere Saladino, e
proprio tra il 1187 e il 1193, allorché vivevano insieme
l'imperatore Federico I e Saladino, soldano di Babilonia.
E se la divinazione critica può cogliere il segno, diremo
che la canzone anzidetta è da riferirsi proprio al 1186,
allorché la lingua italiana era conosciuta in Monreale e in
Palermo per brevi iscrizioni e per le poesie del Drusi e
del Folcacchieri , secondo la testimonianza indiretta delP A-
lighieri, e allorché furono conchiuse le superbe e magni-
fiche nozze tra Enrico figlio dell'imperatore Federico I e
la principessa Costanza. Era allora Saladino nel colmo delle
sue vittorie e della grandezza. Il componimento amebeo
è un vero epitalamio, espresso in forma di dialogo, e
composto ad imitazione della cantica della Bibbia.
Parlano a vicenda lo sposo e la sposa sottto i nomi
dell'amante e della madonna secondo il costume corrente
di quel tempo, e conchiudono e terminano il dialogo con
pronunziare quel siy che rende rato il matrimonio, e s'av-
viano con la intenzione di consumarlo, come è costume
dei principi, per non rendere dubbia la successione del
trono. Così la principessa alla fine si dà per vinta, e sa-
luta il suo marito, quel paladino errante e straniero alla
terra italiana, col nome di sire. Anche Sara chiamava il
suo Abramo col nome di signore. Ella desiderava la gran-
dezza dei soldani di Damasco e di Babilonia , non che del
Papa, il quale allora, quant'ogni più pregiato principe,
raccoglieva in Roma dovizie , tesori , moneta coniata. Que-
st' ambizione , la quale sarebbe stata ridevole in bocca ad
— IM —
, beD s'addiceva all'unica erede della nnova
larchia di re Ruggiero, e che stringeva la mano del
a ed erede presuniivo dell" Impero Germanico. Costanza
l giaslamenle lusingata dal dolca pensiero di diventare
Kratrìce, mutando di titoli e di stato; e, perchè allora
massimo e quasi unico il pensiero della dinastia, e
a il pensiero dei popoli, sacriQcava volentieri nei sogni
ì sue speranze e delle sue gioie la sicurtà e la felicità
poli soggetti. Allorché ella , contro la opinione umana
I madre e poi sola imperatrice, viveva nel pensiero
i nato figliuolo e del suo regno ed impero d'Italia e
ICenoania. Posti questi elementi precipui del componi-
nto, io considero gli altri elementi, come accidentali,
i sembra che la canzone di Giulio d'Alcamo sia stata
lata dalla prima ispirazione delia poesia siciliana, che
) forma vernacola, pur nobile e classica nei versi di
_ ni Meli , fu serbata a celebrare un grande avveni-
mento, e che veramente fu tale, perchè fu la causa prin-
cipale di quel che poscia accadde in altri tre secoli.
Se dunque l'epitalamio dell'Alcamese si deve riferire al
1186, come in parte ho dimostrato e come io vado conghiel-
tnraodo e divinando, la poesia siciliana si trovava già nata
dopo quella di Provenza . e ai poeti volgari latini erano
sottenlrati i trovatori si provenzali e sì italiani. Federico ta
trovava già nata sotto il regno di Guglielmo il Buono suo
mgino, ma appena vagiente, e, prendendo a careggiarla
e a darla nella sua corte la parola dell'amore degli amanti
e delle belle , la rendeva cortigiana e illustre , come già
notò e ridisse l'AlIighieri. Questo primo periodo è da ri-
ferire, come di sopra si è accennato, dal 120S al 1212;
ma non si può conehiudere per questo con certezza , che
le poesie di Federico e di Piero delle Vigne , che certa-
mente sono delle più antiche, appartengono a quella gaia
ìpoca.
— 160 —
iDlaDto la poesìa dei nostri trofatori «aliaoi è stata
considerata o rispetto alla poesia dei troratorì prorenzali
0 rispetto ai trovatori bolognesi e pisani I tro?aAori sici-
liani elessero ana lirica ingenua e circoscritta. I prorenzaB ,
dice il Gingnené, cantarono, ad esempio degli anAM, le
imprese guerriere, le avrentore amorose e i piaeeri delh
fita. Farono abili e destri lottatori, satirici mordaci, no»
Tel latori licenziosi, ma pieni di sale e di rerìtà; e con-
fersando pia dappresso con gli arabi dì loro maestri,
dipinsero meravigliosamente gli oggetti materiali, e raccoo-
tarono in modo più vero e pia animato le grandi azioni
e i minimi fatti. Il gnsto ddle nuove lingne volgari e delle
canzoni d'amore era già penetrato nell'Italia al tempo di
Federico I, avo di Federico n. I poeti volgari, diee Dante,
scrissero di materia amorosa. I primi poeti sicfliani e ita-
liani non li imitarono ; ma di tatti gli argomenti ch^ erano
stati trattati dagli arabi e dai provenzali, ne rìtennoro od
solo, qael dell'amore; e dall'ampiezza originale e mae-
stosa , in cai esso si trovava fd chiuso nel cerdiio angusto
e violento delle corti. I trovatori italiani avrebbero potuto
non curare le argazie e le sottigliezze, onde l'argomento
era stato rivestito, e soltanto imitare tutto il resto. Onde
eglino non dipingono niente di vero e di reale. La loro
donna è affatto ideale, è un ente di ragione e, p^ dire
cosi, una silfide, non mai una donna ; perchè non si vede
né si conosce. Non si ascoltano le parole che si scam-
biano nei momenti di amore , non i giuramenti delle pro-
messe fallite, non le querele, non le paci, non gli sde-
gni, non il romanzo della vita. Il trovatore e la donna
nulla sperano e nulla veggono di reale , non godono e non
sentono di rimanere privati della gioia del loro cuore. Il
loro amore non ha né speranze, né trasporti, né rimen^
branze; non é eccitato e inspirato dalla natura, ma è un
amore di cavallieri , che sono freddi ed estatici ammiratori
— I6i —
di bellezze immagmarle e di frivoluzze galanti creale dalla
nuxla. 0 che il rìchiegga la donna o chit lo imponga l'a-
more, Ttillìcio dei trovatori è di cantare, e insieme di
cdebrare in lunghe e diffuse canzoni e in sonetti raffinati
ti spesso oscuri le bellezze incomparabili delle donne u le
ambasce inesprimìbili degli amanti. Talora si lasciano sfug-
gire nella rima qualche ingenua, piacevole e allettativa
espressione, ma questi pochi slanci dell'ingegno sono cir-
condati più spesso da estasi e da lamenti senza Qne , e da
ricerche amorose e platoniche, le quali spingono ad odiare
a morte e Platone e l'Amore. I trovatori possono tenere
soUo gli occhi i mari , i vulcani , una vegetazione abbon-
datile e varia, i maestosi e muti avanzi dell'antichità, i
giorni cocenti e le notti fresche e magnifiche ; il toro se-
colo può essere fecondo di guerre , di rivoluzioni, di sco-
perte e di grandi avvenimenti ; i costumi della età possono
atlirare i frizzi della satira o gli encomi dell'elogio. Ma
ta poesia deve essere insensibile a tutte queste sensazioni
della natura, della società, dell'individuo; insomma estra-
nea al movimento pieno della vita e alla vitalità rigogliosa
dello spirito. Dove non è vita, non pub essere poesìa. I
troTalori cantano nel parnaso della corte , come in un de-
serto ; e non debbono dipingere niente di tutto ciò die lì
attornia , e niente sentire e vedere dì tutto ciò che sentono
e reggono, neppure l'affetto della patria e delia famigUa,
die è il pili puro e più sacro. Nondimeno , tale fu per un
secolo intero la sola poesia che si conoscesse in Italia ; e
il gusto di essa, dilatatosi e divenuto generale per la
penisola, comunicò agli spiriti il pendio all'esagerato, al
vago 0 al falso, che sì sparse nelle opinioni, nelle cose
e nei (alti, che corruppe la storia e allontanò e distrasse
^i animi dallo studio della natura , e che produsse ìl
trasporto delle quìslìonì dì parole, delle puerilità, delle
ciaucìe, iuozio e baie sonore. Come sì perfezionavano la
11
— 162 —
lingua e lo stile a poco a poco , il solo orecchio fu dol-
cemente lusingato dair incanto melodioso del ritmo, ch^è
più spiccato ndlla lingua italiana; ma lo spinto non era
nudrito di giuste e chiare idee , e V anima non era scaldata
da veri e potenti affetti. Gol tempo lo spirito e T anima
ebbero pure i godimenti propri, ma forse subordinati ai
godimenti delP orecchio ; e se , almeno nella poesia , spesso
nei più begli ingegni e nei più bei secoli si rinviene qual-
cosa , che male confà col gusto puro e severo e col bello
semplice e naturale, che i soli antichi conobbero, e che
vuoisi antiporre ad ogni altra cosa, alfine bisogna risalire
sino ai primi tempi, per rinvenirvi la cagione, e investi-
gare nei portati dei primi padri della poesia italiana quella
macchia originaria, dalla quale i loro discendenti tanto
faticarono per togliersi interamente. Oggi quella macchia
è del tutto cancellata, avendo la patria ottenuta la sua
unità, libertà e indipendenza. 11 principio di nazionalità,
solenne desiderio di tanti secoli, ha conseguito il suo trionfo.
Continuando Pietro Luigi Ginguené nel 1804 la sua
critica dei poeti del primo secolo della lingua italiana,
soggiunge: Le poesie del principio del secolo decimo-
terzo hanno le stesse forme, e presso a poco lo stesso
stile di quelle di Federico, del suo cancelliere Pietro
della Vigna, e di altri antichi poeti siciliani, che gP Italiani
riguardarono come i primogeniti delle muse italiane. Si
scorgono in esse , e proprio in quelle di Giulio d'Alcamo,
di Federico II e di Piero delle Vigne, che la lingua e l'arte
dei versi siano nella infanzia. Gomuni i pensieri ; scorretto
e grossolano lo stile ; una mescolanza di siciliano e di pro-
venzale. Le canzoni hanno quasi sempre le forme, che
diedero a quelle i trovatori di Provenza ; ma il sonetto è
costantemente lo stesso , che fu poi ; il che conferma la
opinione intorno alla origine siciliana del linguaggio italia-
no. Leggierissima può essere la idea, che noi possiamo
— Hi:i —
dare di ([uei primi vagili e balbettamenti. Leggendoli , con-
yicne contrastare nel medesimo tempo con la barbarie e
COD la oscurità del linguaggio , col testo scorrettissimo e
Leon le mende tipograQcbe , di cui è piena la edizione del-
r Allacci. O^de, siccome la lingua dei trovatori provenzali
faveva grammatica regolare e compiuta, come avvisò il Si-
igmondi, non potrà affenaarsi ugualmente, che la gram-
L malica delia lingua siciliana sia stala unironue e perfetta,
[e sono evidenti le tracce, che v'impressero i dialetti, come
P Alighieri osservò.
Si distinguono avanti la metà del secolo XIII tre scuole
I sia tre specie di trovatoria italiana, cioè la scuola sici-
, la scuola bolognese e la scuola pisana. La poesia dei
Hrovatori siciliani è semplice , ingenua e breve , e il sonetto,
' breve forma del pensiero poetico, fu invenzione di essa.
È la poesia, che non è nutrita ancora della dottrina dei
filosofi e teologi, e quale vive in una monarchia moderna.
La poesia dei trovatori bolognesi, fra' quah primeggia Guido
Guinìcelli, applicò la filosofia platonica al princìpio dell'a-
more di uomo e di donna , in un comune libero e dotto,
e incarnò nelle immagini poetiche forza e nobiltà di pen-
sieri. La poesia siciliana e bolognese di questo secolo svol-
gono entrambe in maniera lirica il principio dell' amore ;
ma la prima si astiene dalla fliosofia, e la seconda vi si
accoppia, e ne impresta le sentenze morali. La poesia ero-
Uca siciliana ebbe la sua perfezione e finitezza nell'affet-
llnose e sdavi poesie della Vita Nuova di Dante, e finì con
PWse, per rinascere nelle pili tenere e dolci composizioni
dei più leggiadri ingegni italiani. Ben fu detto dal Perti-
cari , che il dialetto siciliano tenga originariamente del fiato
greco, anzi del dialetto eolico, e che questo comporti tanta
dolcezza a quello, quale si sente specialmente nell'Alighieri,
nel Compagni, nel Cavalca, nel Celli, nell'Ariosto, nel Firen-
zuola , nel Caro , nel Gozzi e nella veste piebeia del Meli.
— 164 —
La poesia erotica bolognese , anictnaDdosi più da presso
alla filosofìa platonica, fu perfezionata per FraDcesco Pe-
trarca, nel cui Canzoniere la poesia è di lingua pulita e
gentilQ, ma di pensieri concettuosi e freddi, e perciò è di
pregio inferiore a quella dell' Alighieri. La poesia pisana
si ferma anche alla superficie esterna e alla buccia della
espressione e mira a ritornare latina e agreste e dura,
senza penetrare nel concetto , allontanandosi dalla colla si*
ciliana per opera di Pannuccio del Bagno. In questa nuova
maniera non si rinviene niente che sia conforme alla poe-
sia siciliana, e per la scelta delP argomento e per la te-
stura dei versi, benché alquanti pisani allora seguissero
questa , e due scuole si mostravano nel comune libero di
Pisa. Le poche canzoni di amore non cadono nelle ordi-
narie languidezze e nei raffinati pensieri. Il dire pende più
alla veemenza oratoria , che alla spontaneità e facilità poe-
tica ; i costrutti si accostano alla maniera latina ; aspri e
duri sono i versi, ma pieni, vigorosi, robusti e fanno
pensare ; le rime sono le meno usuali per le consonanze
piene , e raddoppiate e triplicate nelle cesure ; il sonetto
siciliano variato meravigliosamente per versificatura ; la can-
zone ha un andamento più largo nel ritomo delle rime.
La poesìa di Pannuccio del Bagno si dice che abbia spie-
gato nei suoi voli quel maschio ardire, che avevano sui
mari i navigatori di Pisa suoi concittadini , e che poi si
mostrò nelle più grandi inspirazioni della Divina (^me-
dia deir Alighieri , o nei sonetti e nelle ottave di Torquato
Tasso. Insomma, nella poesia siciliana si veggono sempli-
cità , soavità e naturalezza di affetti ; nella poesia bolognese
nobiltà e gravità di pensieri ; e nella poesia pisana ardi-
mento e veemenza d'immagini. È questa la critica della
trovatoria italiana. Le tre scuole cercavano di rinnovare gli
spiriti romani, che ancora vivevano nella memoria degli
uomini , nei libri latini e greci e negli sforzi della grandezza
— 163 —
politici. Chi non rammenta i comuni del medio evo? Le
iibert.'i municipali, gli statuti, i commerci, le navigazioni, le
ioiluslric , le lotte ? Ma , se Bologna e Pisa inchinavano alla
forma repubblicana di Roma , Sicilia e Provenza inchinavano
alla forma imperiale. Dì qui nasce la diversità dello stile
e della espressione delle ire scuole. La politica ha sempre
inllutlo sulle sorti della poesia , e oggi le lettere non si
po.'isono scompagnare da quella. Peraltro la lirica proven-
lale e siciliana dei secoli duodecimo e decimoterzo , cioè
durante la trovatoria, é di un tipo particolare, ed è pro-
pria al cielo di Provenza e di Sicilia e alle corti e ai tro-
vatori di amore. È lirica amorosa . o , come la chiamava
Alessandro Tassoni, poesia melica, ma temprala dagli spi-
riti della civiltà ciistiana e moderna. Cotesta poesia, benché
sia legala al principio, che la contradistingue dagli altri
generi e specie , conserva i caratteri propri e le proprie
sembianze ; e poi divenne dantesca e petrarchesca , e com-
parve nelle pastorelltìrie arcadiche del settecento , e nelle
moderne cantiche e tragedie.
I ti-ovatori poterono influire con io esempio a destare
il ftioco poetico, che per innanzi rimaneva oppresso dalla
dominazione di popoli, i quali, diversi dMndole , di abi-
ludini , di religione , dovevano tirannicamente esercitarla ;
ed attendeva il fortunato momento della emancipazione a
divampare. Le turbolenze, le rapine, grincendii, che de-
Tastarono l'Italia, e, più ancora, il vandalismo de' poste-
riori tiranni, che distruggevano e lasciavano distruggere
gli archivi, ci hanno irreparabilmente privati di documen-
li . che sarebbero stati utilissimi ad illustrare vieppiù nei
suoi particolari il procedimento primo della lingua e let-
teratura italica. Ma pure abbiamo tanto da poter discemere
S vero dal falso. Bisogna saper studiare i pochi rimasti, e
prù bisogna aver fede nei destini della letteratura naziona-
le, dispreaando i lenocinli delle lingue straniere. La tii
— 166 —
italiana è d'uopo studiarla a preferenza , e profondamente.
Imperocché è a dolere gravemente , e questo fu anche un
lamento dell'agitata anima di Vincenzo Gioberti, che sonyi
Italiani in Italia, che conoscono Manzoni e Pellico per le sole
traduzioni francesi , e che studiano i nostri classici non nel
puro e vergine idioma italico , ma neiradulterato e manieroso
gallico e germanico. Io penso che la nuova luce delle lettere
nostre è mirabile cosa in paragone della coltura degli stra-
nieri , che si tolgono a maestri , massime i filologi e filosofi
tedeschi. Mentre costoro vegliano gelosissimi a serbare ed
accrescere la loro libertà intellettuale, i nostri, e sono
proprii quelli che stanno in cattedra nelle università , pre-
dicano imitazione straniera. Ma , grazie al cielo , la scuola
di questi pedissequi, che fra noi alzano il capo, e fuori
piegano umilmente il dorso, oggimai dechina, e in breve
sarà ridotta al nulla , o vivrà solo ne' rostri delle cronache
0 nelle inclite glorie de' giornali. GP Italiani si vanno ac-
corgendo delle sciagurate condizioni dove gli ha precipitati
la perdita della fede nei martiri del pensiero nazionale.
Riscaldino ancor più questa fede alle fonti purissime della
patria coltura, alla lingua italica, air archeologia , ai mo-
numenti della prisca sapienza nazionale, e gli studi filo-
logici non tarderanno ad avere fra noi anche il primato , al
pari della filosofia e della giurisprudenza.
Napoli, ottobre 1870.
Prof. V. Pagano.
■VAJRrBTA
&TA SUL VERSO DEL X CANTO DELL' INFERNO
FORSE cui GUIDO VOSTRO EBBE A DISDEGNO
Piangendo disse: Se |ier i|aeslo cicco
Carcere laì per altezza d' ingegno ,
Mio figlio m' è? e perchè non é teca?
Ed io a Ini: Da me stesso non vegno:
Colui, che all«nde lì, per qui mi mena.
Forse coi Guido loslro ebbe a disde^o,
(Versi 58-63)
Che cosa significa che Guido ebbe a disdegno Virgi-
lio? Dei commenUtori antichi rouirao e il Della Lana ri-
f^onduno che Torse Guido aveva antipatia per l' Eneide, gli
altri, come l' Anonimo, il Buti, il Boccaccio, che Guido
facendo professione di filosofo forse disprezzava i poeti e
Virgilio tra gli altri. Ma dell'anlipatia di Guido per V Eneide
non avremmo altra testimonianza che questo verso di Dante:
quindi se il verso non è suscettibile d' altra interpre-
tazione la testimonianza non può esser piii autorevole
né il fatto meglio accertato, ma se il verso può essere
spiegato altrimenti non bisogna tanto facilmente rassegnarsi
a credere a un fatto nuovo e singolare, che uno spirito colto
e geniale potesse, a quei tempi, aver antipatia per TE-
neide. Che Guido poi dìsprezzasse la poesia perchè filo-
sofo, e perciò non leggesse e avesse a noja i poeti inge-
nerale e Mrgilio in particolare, non è presumibile, giac-
ché Guido era poeta anche lui, tanto da togliere air altro
Guido ia gloria detta lirtgua. Per questi molivi altri hanao
— 168 —
«lanipie ^oppiTsto che Vìrgilb doq ài qui intéso uè
Vmlyre dell'Eneiile. ne come an nppresentanle defla
in generale, ma come rappresentante «leQ'arte aolìcai,del
classiin^mo della latinità, e che in questo senso Donle
deve voler dh-e che Gaido lo aveva a sdegno. Il Camlcanli
M sa che .spinse Dante a scrìver la Vita Nova in volgare,
lai non comp«>^ altro che in volgare, dunque non è al-
tro: dovea essere on dispregiatore degli w&dAj doveva
avere a disdegno la cnltnra latina che tahmi sì ostÌDavaoo
vanamente a continuare e far rivìvere. SeoDODchè, se il
predicato rcmaniirismo di Guido si spoglia di quelTaa-
reola mitica di cai è stato circondato, si riduce a tali
proporzioni , che il verso di Dante, se avesse proprio quel
senso che gli si vuol dare, annanzierebbe una cosa ina-
spettata e naova. II romanticismo , giacché l' ho eoa diìa-
mato, del Cavalcanti non ha fondamento die sulle parola
del S XXXI della Vita Nova là dove Dante dice: «... k)
intendimento mio non fa dapprincipio dì scrivere diro
che per volgare , e simile intenzione so che ebbe qoe-
sto mio amico (Gaido), a cai ciò scrìvo , cioè cb^ io gii
scrìvessi solamente in volgare >. Or da questo passo non
si rileva altro se non che Guido rìconfermò Dante nel
pensiero di scrìvere in volgare la Vita Nova. Dante, ben-
ché col suo buon senso vedesse che nel linguaggio ma-
temo e non nel latino doveva scrìvere la narrazione dei
suoi amori giovanili, poteva pure rimanere in ona certa
esitazione. Amava quei classici che continuamente leggeva
ed ammirava; quel latino, a cui anche dopo, quand'ebbe
r ardire di esporre la filosofìa in volgare, prestava un
culto come a cosa veneranda e sacra, (1) voleva pensarci
l)ene prìma dì lasciarlo dapparte; e Guido, più provetto
(1) Cfr. Conrilo, tr. i; de vulg. el, U, 4, 6.
— 169 —
, mcoo sensibile dì cerio alle bellezze degli aatichi
i. meno rispettoso d' indole, dette probabilmente
DlUma spinta , distrusse quel resìduo d' esitazione in cui
i ancora rimaneva. Più di (juesto dal passo della V. N.
ì si deduce: Guido voleva si scrivesse in volgare, come
mte, e penò probabilmente meno dì Dante a lasciare
di scrivere in latino. Da questo fatto un Fausto da Lon-
giano. grammatico delta (ine del cinquecento, ne prese
ardimento ad attribuire al Cavalcanti una grammatica ita-
liana. Ora che in Italia, dove la coltura del volgare era
cominciata da cosi poco tempo e si era tenuta in limiti
così ristretti, vi Tosse la possibilit,\ d' immaginare quello
che snin due secoli dopo fu cfirtaraente attuato, una gram-
matica italiana , lo creda chi vuole ; ma , lasciando stare
la possibilità e venendo alle prove di fatto , quale scrittore
antico da una sola frase da cui si possa tnrre il minimo
appoggio air alTermazione d' un grammatico posteriore
di più di tre secoli? Un antico anzi, Dante stesso, la
(«elude assolutamente con le parole con cui comincia il
libro de vulg. el. — cum neminem ante nos de vulgaris
doqaentiae doctrina inveniaraus traclasse — , mentre a
lui QOn sarebbe parso vero, (e ad ogni modo sarebbe stalo
iuerlUbile), dì ranunentare anche a principio quel suo
Guido che ramment.1 cosi spesso nel corso del libro. In-
tanto con un po' d' immaginazione . uno de' più benemeriti
siusiilìi degli studit letterari, e di buona volontà, dalle
parole della Vita Nuova e dalla Icggenduccia delia gram-
matica s'è fermamente stabilito il dogma, che la prefe-
nnza da dare al volgare sul latino fosse quasi il cardine
delle opinioni letterarie del Cavalcanti, la sua idea fissa.
Nulla dunqne di più naturale che considerando il verso
di Dante vi si trovasse subito il complemento della nota
opinione di Guido, vi si scorgesse il lato negativo d' un
sistema di cui si sapeva il positivo. Ma, ridotte le cose
— 170 —
al loro vero stato, e' si vede che il fatto dell'odio di
Guido per Tarte antica e per il latino in fondo non ha
che il verso del decimo canto da cui si possa dedarre,
e che, come fatto nuovo e singolare che esso è in un
uomo colto e gentile di quei tempi, non sarà da accet-
tarsi se non quando il verso non possa avere altra inter-
pretazione. Si potrebbe veramente dire che il disdegno
senza significare propriamente odio potrebbe indicare sem-
plicemente il lasciar da parte il latino, ma da un lato
sarebbe allora di questo peccato più che infetto anche
Dante, e dall'altro non sarebbe tal peccato, quando non
ci fosse unito odio, da metter male fra chi n'era reo ed
il rappresentante della latinità. (1)
(1) Phìialethes, cioè Giovanni di Sassonia, dà una forma propria a
quest* ultima interpretazione, ficcandoci, per giunta, anche un pò* della
precedente. Secondo lui Dante vuol dire che Guido, datosi tatto aUa
filosofia (e una), e alla maniera di poetare, un pò* leggerina, de' pro-
venzali (e due), non onorava, come lui, Virgilio; ed in senso allegorico,
che Guido, non occupatosi dello studio de' poeti antichi, non potea fare
una Divina Commedia, non potea trovare con luì la via per i tre regni
(Gdttliche Com6die, Qberlragcn v. P. , Leipzig 1865) — 0 state a ve-
dere che tutte quelle visioni della vita futura, delle cui narrazioni quel-
l'età ribocca, i monaci e gli asceti imparavano ad averle studiando i
poeti antichi ! E la maniera leggera provenzale di Guido è anche un bel
trovato! Dante chiama il Guinicelli massimo, savio, padre di lui e
degli altri suoi migliori , eppure dice che V ha levato di seggio il Ca-
valcanti; il Cavalcanti mette certo in sua compagnia quando si fa dire
dal provenzaleggiante Buonagiunta le vostre penne; al Cavalcanti dedica
le sue rime nove; e ora Dante slesso è costituito accusatore di
Guido, e deve proferir lui la sentenza che ricaccia Guido tra i leg-
geri provenzaleggianti! — 11 fatto è che quel girigogolo di parole,
ingeposamente accozzate a esprimere una cosa si vaga, che vo-
lendola dire a memoria con altre parole non si troverebbe la via , è se-
— ITI —
i preferisce un' ioieniretazioae poMMi, e oE^
getìan -. * Guido era godìi] , com' era stalo Dante fioo il
t:iOO , epoca della visioDe e del suo camìiiaEieolo. È i^oilo
baie eh' e^li non cooTenisse oell' idea deir impot) va-
gbeg^ab e predicala dall'amico — QahidJ la n^oot d^i-
fer potuto Daote accennare che G. eUx io dispetto Vìr^
cane cnloiv e sosteiutore della divina orìgioe deO'ìn-
pero, a citi il Gaelfo era contrario >. 11 BÉncbi cade qni
in mia beila contradinooe^ perthè inetundo al 1300 pKtt»
aodie Dante, non ^ capisce penbè al raggio del I3M
il gaelfìsmo cbe era d' impediiMolo il Gndaoti noo Ione
d' impedimento aodie a Ini Clie se per citoc ^mNI
contradizione sì rìoorre dia sapposiziaoe At Datfe fcne
diventato ghtbellÌDO prima àà I3O0L di a nmmata àdSt
qnistioni spbose sair epoca deb rvmjmiaaat del dr Jto-
tiardtia sa che s' eotn n aa paepraift bie dK età d»-
vero non ci sarebbe da poter ■■ eipìr ■erte dele p*>
role di [)ante. E poi rinlgprcijaaDiie poSfia k> mt par-
talo originale come ChanBO lotte r;dlre Asohr. I m-
.•denilorì delle wie inleipretaiioBi jiilUiu» atrta Mfi
una cgnisiioDe da propani e di liaoltere i* wm tmÉB
qnalunfpie: il proporab era ^èd Adto oAUIbb, e, pv
gianta poi, se se la lÓGsero proforta mOéuit ataa ••-
lete 3rri%-3ii alla ioierprctaaane pmsn. Tal» i pr aprii
SH Mfto ddli poa BCOHB e wfrt MTi^vaMMe. tmt éé
rato cbr qM«to acMés >wiiMki fa* f àiayRMn» rdH»
iortauto hù. QoimÌ « Shmm. Tatt, «bA» « 1m|» <-« o^
■eclio degfi iliri, ai dfax cfe fi jW M* «ri < m^^ te* <M>
' MBUtre; e unii ^tmotumt, f^ii» ■■■ ■ oyiB*. aa «Hrtiaw
L A rieorrtn • qnefle MiitiiÉt fm^mi, (te MadkiteM» A 4^
£■ n aeeonodunato tn d liMp* e b ««iSb * «pte < It «m^hh
di MM nurci rtedii.
— 172 —
dovere sarebbe spesso da farsi se non altro per torna-
conto I La qnistione era , ammesso pure che Guido
avesse antipatia per P Eneide: ma perchè e come po-
teva questa antipatia impedire che Virgilio lo menasse pei
regni infernali ? 0 , perchè e come poteva impedh*lo V an-
tipatia di G. per la poesia e per i poeti? 0, perchè e
come l'antipatia per Tarte classica e pel latino? 0, da
ultimo , perchè e come • V antipatia pel Ghibellinismo ? E
r impossibilità di dare una risposta a ognuna di queste
quattro domande avrebbe messa in chiaro la falsità delle
rispettive interpretazioni. — Il viaggio pe'tre regni non
era un viaggio per missione letteraria; perciò un antìvir-
giliano, uno sprezzatore della poesia, un nemico del la-
tino poteva benissimo farlo. Le sue storte opinioni lette-
rarie non avrebbero potuto impedire che la divina grazia
mandasse la ragione a fai^Ii da scorta, ammenodiè Vir-
gilio che rappresentava la ragione non vi si fosse voluto
negare per un risentimento personale. E neppure il guel-
fismo poteva esser un impedimento. Certo nelle opinioni
di Dante la monarchia universale, stabilitrìce della pace e
della concordia generale tra i popoli e cospirante con la
Chiesa al bene dell'umanità, era in connessione logica con
tutto il sistema della morale; ma se qualcuno in buona
fede avesse dalla morale dedotte dottrine guelfe non era
reo di tal colpa che non potesse visitare perciò i regni
eterni. Nella Commedia si trova spesso il senso politico,
spesso le passioni politiche tengono il campo, ma T In-
ferno, il Purgatorio e il Paradiso sono anzitutto i regni
del premio e della pena delle azioni morali di quaggiù;
la loro divisione in cerchi, gironi e cieli è fatta secondo
vizii e virtù morali esclusivamente; gli uomini politici
stessi non vi ricevono pena se non di colpe anche morali^
delle loro opinioni politiche mai. Il poeta avrà scelto più
^WHOnE
Ieri un simoniaco, tiu traditore ecc. in una :
avversa, come talora Iia preferito suoi nemici perspnali,
ma il titolo sotto cui fa che sien puniti è sempre la si-
mouia. la frode ecc. Lo opinioni morali, fliosoflche e re-
ligiose hanno pena neiP Inferno, e proprio in questo
luogo stesso ove Dante parla a Farinata, a Cavalcante, e
ove apprende che dimora quel magnanimo Federigo che
tanto onorava, ma le opinioni politiche no. Perchè dunque
Virgilio, sia pure di' e' fosse stato ìl cantore dell'impero
latino, non polca menare un guelfo? Se questo guelfo
avea la fede in Dìo e era docile a lasciarsi scorgere dalla
ragione illuminata dalla fede?
Or appunto questo al Cavalcanti mancava. Figlio d' un
fe^icureo che facea V anima morta col corpo , ora epicu-
cureo anche ini , tanto clie poi il volgo , a vederlo astratto
e meditabondo , s' immaginava che egli fosse assorto nella
ricerca di argomenti contro l'esistenza di Dio. « Egli al-
cuna volta, dice il Boccaccio, speculando molto astratto
dagli uomini diveniva , e perciò eh' egli alfjuanto teneva
dell' opinione degli Epicurei , si diceva tra la gente volgare
che queste sue speculazioni erano solo in cercare se tro-
var potesse che Dio non fosse ». Ora Virgilio non era
guida in qualità di poeta epico o d'autore latino, ma
il più gran savio del gentilesimo , come l' incarna-
le della sapienza lunana, c^me il massimo sforzo che
possa fare la ragione priva della fede, sforzo che giunge
quasi a indovinare la fede (quarta egloga); tale era la
Dgura di Virgilio com'era stala ridotta dall' elaborazione
l^gendaria de' dotti del medioevo. Dante alla sua volta
era guidato da Virgilio perchè promettesse bene in
sia 0 cose slmili, ma come uomo smarrito nella selva
vizii , che vuol salire al monte e n' è trattenuto da
Oere ossia tre vizii, e che appena la ragione sommessa
— I7J —
■■■dita difii grazia drriDa, gli si preseob,'
b Kgat, an la certezza d' esserne meràto t
la ftrto éi 5. Mefrv e </U spiriti mfsli e eoa 1
(Ée taàmm pia iefma b) coodaca poi alle tm
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I e nMk al aratore? Cocne poteva mtrapreodere 1
•ID é'àmtomta, se e^ all' oltretomba ooa aeieal
live b parificaziooe deQ'aaima culla risiooe, per
stUie SUO cane per nn ateo il cercare il ]
\o d' mn riBorso a' piedi d* an confessore. ?m^
dp Oralonte dnede : 5e ta TÌeoì qna per i
pBpBs, ptrdé BOD i cOQ te aiw-be mio figlio? Date
■de: ita io qii un d soa renalo da me, po' a-
(fee io aLtéa, p«r altezza d' mgegno come In dìd;
i watm b ragione N^mmesa alla Tede, e per comi
: hde stesa: e Guido, purtroppo, voi lo sapete,Dai
K ^Md fènt, die gl^interpr«ti tiOQ poisoDO spiegai
■I hiId aaàSaSboeoàe , perchè la verità non si i
OMS ■■ potesse Dmle doq e-ssere abbastanza «icitro i
Gàdo ama o i» antipatia per T Eneide o per la |
o pel bliBO o per r intiero, tanto da dire fortt eMf<
diidfeyii secz'affenDariù recisamente, è. nell'inteiprt
none che bo delio. T espressione non d'gpyeroJ
— 175 —
pio; quindi Dante non ha coraggio di dire crudamente la
cosa e per delicatezza verso il padre e per la pena che
egli stesso prova a confessare la colpa del suo primo
amico (V. N. I III) dice forse (1).
Francesco d'Ovidio.
(1) Accortomi d'aver commessa la negligenza di non guardare an-
che il Commento del Tommaseo, Tho ricercato subito, e v*ho trovato
un accenno alla stessa interpretazione che ho qui sostenuta. < Guido,
dice il T. , non curò V eleganza dello stile e lo studio degli antichi , cosi
come Dante, e cel prova la canzone: Donna mi prega.... guazzabuglio
peggio che prosaico, sebbene in alcune ballate il dire sia di tutta fre-
schezza. Non mai però l'arte e lo studio sono quanto in Dante profondi.
Allegoricamente intendendo: la filosofìa naturale e politica di Virgilio
era religiosa insieme e ghibellina; Guido irreligioso e guelfo; ma in
cuore avea i semi del Ghibellinesimo come li avea già Dante nel 1300:
però dice forse, > Si vede che in questa nota il sig. Tommaseo cercò
d'esaurire la rassegna di tutte le ragioni possibili e immaginabili per
cui Guido potè disdegnar Virgilio, e che perciò gli si è presentata tra
r altre anche quella della miscredenza di Guido, che egli ha gettata là
in un fascio con le altre. A sprigionamela quindi non avrebbe forse
mai pensato nessuno , senza esserci prima arrivato per altra via. Sia
come sia. Tessere slato preceduto dal valentissimo commentatore non
deve far che piacere, e in tutti i modi il tacerlo per malizia sarebbe
stato un ben povero ripiego.
LEGGENDA DI S. MARGHERITA V. e M.
Ecco un' altro Saggio di leggenda agiografica, che pnò
annoverarsi certo fra le migliori per purezza di lingua,
semplicità di stile e candore di esposizione. Un Teotimo,
vero 0 supposto narratore « ammaestrato di senno e di
lettera », che a lungo errò sui libri in cerca della yerìtà,
non trovò pace che nelle dottrine cristiane, vinto fors^ an-
che dair eroismo de' primi suoi testimonii , e volle che
fossero raccolti gli atti del martirio di santa Mai^herita
(al quale assisti di persona) da « coloro che in quello
tempo erano scrittori e scrissero tutte le cose di mar-
tirio » , dando ad essi perciò « pregio e carte » , e divul-
gò questa narrazione in molte parti concorde colla tradi-
zione popolare tuttora vivente intomo ad alcune circo-
stanze biografiche di quella invitta donzella, creata ap-
punto dalle antiche leggende. Quantunque somigliante, ha
tuttavia tali differenze da quella che pubblicossi a Trieste
nel 1858 e a Venezia nel 1866, da riputarla una versione
diversa non immeritevole della stampa.
È questo senza dubbio un prezioso documento di
virtù e di lingua, checché sentenziino delle leggende me-
dievali e d' ogni scritto volgare dell' aureo Trecento i
r<i3i. autnr e .
^m i ^ US
— 178 —
Incomincia la Leggenda di Santa Margarita.
Dopo la passione e la resurrezione di Dio nostro Signore
Gesù Cristo, il quale sali in cielo e sta da la parte diritta a
Dio Padre onnipotente, e nel suo nome moltissimi anno morte
e passione, e li apostoli sono incoronati, e molti in quella
ora sono fatti santi e vinseno questo mondo, e soprasterono
a^ tiranni e vinseno anco la smania delli omini e la rabbia del
diavolo, e T idoli ch^ erano sordi e muti, ed erano fatti per
mano d' uomini e adoravano li idoli, e quali non facevano bene
né a loro né altrui. Ed imperciò io Teodimo per. nome chia-
mato, che credo in Gesù Cristo, ammaestrato di senno e di
lettara, posi mente a tutte le carte per leggere, e non trovai
in cui potessi credare, se non (1) in Gesù Cristo ed in suo nome,
lo quale alluminò li ciechi, e li sordi fece udire, e li moti
fece parlare, li morti suscitare, e tutte quelle persone che in
lui credevano, fece salve. Ed imperò io Teodimo ricevetti
battesimo al nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito
Santo, e posimi saviamente a vedere come beata Hai^arita
pugnò col dimonio e vinse questo mondo; e io, sicondo la
mia virtù, detti pregio e carte a coloro che in quello tempo
era (2) scrittori e scrisseno tutte le cose di martirio, le quali
aveva sostenuto beata santa Margarita. E voi tutte persone , che
avete orecchie, udite e col core intendete le fortezze e le virtù
della vergine, come si legge la leggenda sua, e cosi fate, si
che abiate la luce e la corona di paradiso e la gloria sempi-
tema.
E beata santa Margarita fu figliuola d' uno uomo, il quale
aveva nome Teodimo, lo quale era nobile patriarca delti gen-
tili ed adorava T idoli, e non aveva altra figliuola se non beata
santa Margarita. Ed incontanente che ella fu nata, fu degna
(1) Il testo ha none, voce usitatissima a* primi scrittori, che così
la pronunciavano per istrascico.
(2) Era per erano, conforme al lat. erant.
I
I
— 179 —
Eiella grazia dello Spirilo Sanlo, e fu mandata a nutricare a
una cittA, ch'era di lunga (fa Anliocliia miglia quindici, e da
quella balia era nutricala mollo diligentemente. E quando poi
mori la madre sua, con maggiore desiderio era lemita da
quella die la nuiricava, imperciò che era molto bella e ado-
rava Cristo, ed era odiata dal padre suo. e mollo era amala
da Dio, e aveva già anni dodici, e stava in casa di colei che
la nutricava.
Beata santa Margarita tidl li comandamenti de* santi mar-
tiri e lo spargimento del sangue delli giusti, e Gesù Cristo
l'aveva ripiena di Spirito Santo, e tutta era Tedele a Domine-
dio, il quale la fece salva, e sempre guardò la sua virginita-
de. E beata sunta Margarita teneva a pasciare (1) le pecore
di colei che la nuiricava, ed ella e altre fancelle (2) di quella
città, e quando il signore d'Antiocliia andava perseguitando li
cristiani, e' dove udiva che ne fusse .ilcuno, incontanenle lo
faceva pigliare e mettare ne' ferri. E vidde quello crudele
signore beala santa Margarita, che teneva a pasciare le pecore
di colei che la notricava, e inconianente quello crudele signore
comandò a' suoi servi, e disse: « Andate tosto e pigliate quella
fanciulla; se ella è libera, la pigliarò per moglie; e s'ella è
serva, terrolla per amica e faroUe bene in casa mia per amore
della sua bellezza n. E quando la preseno quelli cavalieri, che
erano mandati da quello iniquo signore, e beala sauta Marga-
rita incominciò a dire: « Dominedio Gesii Cristo n, e disse
anco; ■ Miserare mei, Deus, misererò mei, non perda io col-
Timpii e coir iniqui l'anima mìa: fa. Iddio mio, escirc della
bocca mia sempre orazioni, acciò che l'anima mia stia pura e
netta, e '1 corpo mio stia fermo nella fede santa, e non sia mu-
talo il corpo mio della sozza iniquità, e non sia vinta dalle
sottighezze del diavolo: ma manda l'angelo tuo, che ammaestri
(1) Cioè a pascere, vezzo senese anticamente osato, come tnetfura,
I riffondare, astare, ecc. clic seguono, invece di metlere, rispondere,
\ mere.
(2) FanciuU»; nella Vila di S. Margherila già ricordala'. « Si la
I mandava a guardar le pecore con esso l'altre tancelle ■.
— 180 —
e apri il scono della mente mia e del corpo mio a rispoodare
con fiducia a V impio ed iniquo perfetto (1). Yeggiomi sicondo
che la passara è presa dair uccellatore nella rete, e presa so
come U pesce all' amo, e compresa sono si come capra od
lacciuolo. Aitatemi, Dominedio, e salvatemi e non mi lassate
nelle mani delli impii e de' tiranni ».
E tomaro quelli cavalieri ch'aveva mandati qiieUo àgnore
iniquo a beata santa Margarita, e disseno: cMissere, l'amore
tuo non può essare comune col suo, impercib che non serve
li dii nostri, ma solo quello Dio adora e chiama (2), quale
e giuderi crocifissene. > £ allora quello crudde signore si cam»
biò tutto nel volto suo, e comandò che fusse menata innanzi
a lui; e quando fu venuta, disse: iDi qua' generazione se'tnf
dimmi se tu se' libera ovvero ancilla. t E beata santa Marga*
rita rispose: « Libera so, cristiana; » e quello signore le disse:
i In quale Dio ài tu fede? E come ài tu nome? i E santa Mar-
garita rispose e disse : ■ Io chiamo Dio Padre onnipotente, padre
del nostro Signore Gesù Cristo, lo quale la mia virgimtade à
salvata infine a questo presente di senza lordamento^ e non
corrotta m' à guardata. Ed i* ò chiamato il nome di Cristo, fl
quale fu crocifisso, e mai il suo regno non averà fine. » Allora
quello signore ebbe grande ira, e comandò che santa Marga-
rita fusse menata in pregione, infine a tanto che trovasseno per
che modo la potesseno dispergere (3). Ed entrò quello iniquo
signore in Antiochia, ed andò adorare li suoi dii sordi e mu*
toli sicondo la sua fede.
Il sicondo di venne a sedere su la sedia sua, e comande
che li fusse menata innanzi santa Margarita, e disse a lei:
e Vana fancella, abbi misericordia del corpo tuo e della bellezza
e della tenarezza tua; non adorare Cristo, e consente a me, e
adora li dii miei, e darotti molti denari e faretti bene sopra
tutta la mia famiglia. > E santa Margarita rispose e disse : e Io
(1) Prefetto, per metatesi: e Sentendo una notte la famiglia del per-
fetto ecc. ». va. SS. Pad, 1. 259.
(2) Cioè inf)oca,
(3) Qui dispergere è in senso di confondere o vincere.
— 181 —
) il mio Signore Dio, quale m'k «jalo tanta gmja.
cite tu non mi potrà' tanto lusiogarc, che lu mi [Kuai mito-
vare da la via della verità, nella quale cominciai andare;
ma io colui adoro, del quale è'I mare e la terra me paura,
il qiiale ogni creatura deverebbe adorare, il quale rimarrù onai-
poleoie in saccula saccuiomm. Amen. > E quello signore disse:
j Se lu non adorarai lì miei dii, il coltello mio squarciarà la
carue tiin, e l'ossa tue si spargiaranno sopra il fuoco ardente;
e se lu adorerai li dii miei, innanzi a tutti costoro lo dico,
ctr io ti pigliarò per moglie, e bene farò a le sicondo che a
me. • E beala santa Margarita risponde: • lo do tutto lo corpo
mio a Gesù Cristo, e colli giusti e vergini da lui corona rice-
verò, e Cristo so medesimo per noi si dò a la morte, e io
per suo amore non ò paura della morte, però die lui m'k
segnalo col suo segno. > Allora quello crudele signore comandò
a li servi suoi, che la sospendessena in aria e che la battes-
seno con verghe; e mentre che quelli crudeli la battevano,
pose mente santa Margarita in cielo e disse: t In te. Domine,
Aperavi, imn sia io confusa in eterno, e non mi scherniscano
r inimici miei, e quelli che anno fede in te, non sleno confusi
per lo tuo nome. Liberami, Signore Dio, che benedetto sia i)
nome tuo in saecula saeculorum. Amen. > Ancora disse santa
Margarita: 'Pone mente in me, Dio mio, e abbi misericordia
di me e liberami delle mani de' miei nimici, ehe'l mio corpo
non ahi paura di questo camitico (I). E poscia manda a me
rugiada da cielo, che conforti le piaghe mie tanto cocenti, e '(
dolore mio si riposi e la tristizia torni in allegrezza. > K beata
A3Dta Margarita orava, e li messi la battevano colle verghe
il suo tenaro corpo, e lo sangue suo corriva (5) per le carni
MK si come acqua corrente di fonte. E quello inìquo nignore
gridava e diceva: < Crede, Margariu, al mio Dio; • e molti
piangevano per tanto sangue che usciva delle carni sue, e forte-
ti) In luogo di earaefief. tlanca qoesU tote nei dizionarìi,
<S> Correva: • Parve che i[ael velc-no al cor corritK > ¥ivui,
Quadrir., ilb. III. cap. tV; p nd cap IX < Pn- quelle ifiiast ognuu
mio conia »,
— 182 —
niente ne pareva loro peccato» e diceva r uno di coloro a beata
santa Margarita: e 0 Margarita, molto cMncresce di te, imper-
ciò che ti vediamo battare e macerare il corpo tuo mondo e
netto. 0 Margarita» quanta bellezza ài perduta, perciò che tu
non ài creduto a questo signore, ed ene fortemente irato oon-
tra di te la memoria sua. Deh I crede nelli dii suoi e vivraL »
E beata santa Margarita rispose: 1 0 gattivi (1) consiglieri^ o
omini pessimi , andate air uópare vostre, che a me è in aiuto
Domincdio mio. Che pensate voi se U corpo mio divorarete?
L' anima mia colle giuste vergini si riposare per questo tor-
mento del corpo, ma credete voi in Dio mio, che è forte, giusto
e pio, e poò bene esaudire coloro che lo pregano, e apre la
porta del paradiso a coloro che V addimandano, e io non adoro
H dii vostri mutoli e sordi, fatti per mano d' uomini, i E disse
a quello signore : t Tu fai V uopera del padre tuo diavolo. 0
svergognato, o crudele, a me è in aiuto Dio e li santi, ed otti (2)
dato podestà delle carni mie. 0 Dommedio, libera T anima
mia delle sue crudeli mani ed insaziabile leone puzzolente. »
Allora quello signore fu forte irato, e comandò che fiisse so-
spesa in aria, e colle verghe aspramente le carni sue fusseoo
rotte, battute e fragellate. E beata santa Margarita pose men-
te in cielo e disse: t Molti cani m'anno circondata, e consi-
glieri mali voli m'anno assediata; tu, messer Dominedio, in-
tende e aiutami. Levale e tollete T anima mia delle manidd-
r inimici mici, e di quelle del cane salvami e della bocca dello
leone; e conforta T umilila mia. Cristo, contra T avversario
mio, e mandami la colomba da cielo in aiuto, che guardi la
virginità mìa senza lordamente, e dammi fiducia chMo com-
batti contra T avversario mio, ch'io lo vegga acciecato innanzi
a la faccia mia, acciò ch'io dia fiducia a tutte le vergini
di confessare lo nome tuo benedetto in saecula saeculonun.
Àmen. »
(1) Coitivi, voce anliquata: cDe'luog^hi gallivi gli albori si vo-
gliono trasportare > Pallad. Marz. e. IX.
("2) Vale a dire: ti ò dato podestà ecc.
— 183 —
Li caniìflct e l'impii che battevano e moniftcavano le
carni sue, e quello crudele signore si copriva (1) lutti la fac-
cia sua, perchè non potevauo poiiei- mente a santa Margarita,
l;into saogiie escira delle carni sue; e simigliantcmente molli
altri si coprivano la faccia, perchè non la potevano risguar-
iLtre; tanto sangue 1' esciva. E [|uel1o signore disse: « Che ene
ci6, che tu non mi vuoi ubidire, Margarita, né di te non ài
misericordia? Ecco le carni ine sono mone nel giudicio mio;
consente a me e adora li dii miei, altrimenti il coltello mìo
signoreggiarà le carni tue e l' ossa tue innanzi a tutti costoro. »
Rispose santa Margarita: « 0 iniquo senza vergogna, o crudele,
&e tu non arai misericordia delle mie carni, T anima mia sarà
in cielo coronala, » Allora quello signore comandò che fusse
menata santa Margarita in pregione, ed era la settima ora
del d).
E beala santa Margarita segnò il corpo suo col segno di
Gesù Cristo, e incomincii ad orare e dire: « Dominedio, col
giudicio tuo e della tua sapienzta li degnasti di fare tuue quelle
cose che lemeno Cristo. Il secolo e gli abitanti nel secolo de'
«ecoli spaventano (3) e temeno la potenzia tua. Tu se'dispen-
saiore del bene e speranza di coloro che non si possono aita-
re; lu se' pastore delti orfeni e giudice verace delle vedove e
lume delli lumi; pone mente in me e abbi misericordia di
me, che sono unica del padre mio, ed elli m'ane abbando-
nato. Dominedio mio, fammi grazia, ch'io vinca ora lo nimico
mio, che meco pugna. Giudicio piglia contra di lui, e favellarò
a fiiceia a leccia con lui; non so che io l'abbia nociuto; tu se*
giudice giusto, tu giudica tra me e'I diavolo. Ecco la batta-
glia, falla so trista per lo dolore delle piaghe mie, incomincio
a piangere, e non mi abbandonare, Dominedio, e non sia me-
scolato il senno mio colli dimoni sordi e mutoli, però che la
(I) Si eoprivam. forma et ittica, Ibmig-liare agli antichi , che rtuon-
ttiai awai SOieoie Delta Vita di Cola da Rienso; il Barberino nel fkg-
fin. « auU ddU donne: ■ I masclil augelli stanno con v.$se e nascono
(1) Pavenlaiui, itmonù.
— 184 —
speranza mia è tutta in te solo, Gesù Cristo, che tu se* bene-
detto in saecula saeculorum. Amen. » Ed incontanente appari a
santa Margarita a la pregione la notrice soa, e davate pane
e aqua, e pose mente per la finestra, e scrisse T orazione di
santa Margarita. Ed incontanente del cantone della pregione
esci uno terribile e grande dragone tutto di vari colorì. La
bocca sua era come oro; e denti suoi erano come di fmo
acutissimi, e li occhi suoi si come fiamme di fuoco, e la liiH
gua sua gìttava sopra lo collo, ed aveva uno coltello in mano,
ed era orribile e molto scuro, e gitta (I) puzza per b bocca
come di soiro nella pregione. E beata santa Margarita diventò
come erba palida, e la paura della morte venne in lei.
Aveva Dominedio esaudito le sue orazioni, imperò eh* dia
aveva ditto a Cristo: <r Mostrami chi con meco pugna. » E santa
Margarita s'inginocchiò, e levò le mani sue in alto e disse:
a Dominedio Padre onnipotente, che se^ invisibile e fermasti (2)
il cielo e la terra, e desti termine al mare che non venisse
meno lo comandamento tuo, lo quale teme (3) le Scrittore tntte,
e che lo 'nfemo guastaste e 1 diavolo legaste e rompeste h
podestà del drago; pone mente in me e abbi miserìe(»tlia di me,
che so sola orfàna posta io trìbulazione. Non lassare noodare
a me questa mala fera. Signor mio, ma dammi grazia eh* io
vinca lei perchè pugna centra dì me, e io nella ò mai nocinto.
Ed ecco che s'affretta d'inghiottirmi e di menarmi nella sua
forza, f E quando santa Margarita questo diceva, il dragone
aperse la bocca e poscia sopra lo capo di santa Margarita, e
la sua grande lingua sopra lo calcagno suo, e incontanente
la'ngoUò nel ventre suo; ma la croce di Cristo, la quale s*a-
veva fatta santa Margarita, fece crepare il corpo del dragone.
(1) Gìttava; erano i trecentisti famigliari al passaggio da un tempo
air altro nelle loro scritture, talvolta per esprimere con maggiore ca-
denza i fatti che narravano.
(2) Fermare è qui in senso di stabilire, conforme al laL firiruuti:
t Verbo Domini coeli firmati sunt i Ps. XXX!!, 6; e Etenim GrmaTÌt
(Dominus) orbem terrae, qui non commovebilur » Ps. XCII, i.
(3) Cioè temeno o temono, conforme al lat. tinierU.
— 185 —
e niuno male si fece, e use) fuore del di'agone. Ed allora
santa MargnriUi s'inginocchiò in tprra e adorò e disse : • Lodo
e glorifico Io nome tuo, Dio mio e Signore di [ulti signori,
Trinilù perfell», a la quale sia onore e gloria, laude e giubi-
lazione per infinita saecida saeculoruni. Amen. »
Quando beala santa Margarita ebbe compita la sua ora-
Eione, pose mente in parie manca della prigione , ed ella vìddc
uno vero diavolo sedere sicondo che omo (1), ed aveva le mani
l^ate a le ginocchia; e levossi rìllo e cominciò andare a lei,
e toccò te mani di santa Margarita, e disse santa Margarita
al dimonio: i Non ti basta quello che tu m'ài fatto? Cessati da
me, matadetto; molli mali m' ài fallo. • E '1 dimonio disse; • Io
mandai a te il mio fratello carnale Bufone io similitudine di
dragone, perchè t'inghiottisse e lollcsse la memoria tiia; ma
tu l'uccidesti col segno della santa Croce; ora per le tue ora-
ziooi disideri d' uccidare me. > Ed allora beata santa Margarita
prese lo dimonio per li capelli e gitlollo in terra, e pose lo
piede suo sopra lo capo del (limonio e disse: • Cessa, maligno
senia mente, nulla contra la mia anima e virginità non puoi
fere, lo 50 anelila di Dio, sposa di Cristo, lo cui nome è be-
nedetto in saecula saeculorum. Amen. > E quando santa Mar-
garita diceva queste cose, tostamente rìsptendette lume nella
pregione, e la croce di Cristo pareva che stesse da terra fine
al cielo, e la colomba pareva che sedesse sopra lo capo della
croce, e diceva: > Beata Margarita, t'aspettano le porli del
paradiso. > Ed allora santa Margarita rendo grazia a Dìo, e
pivolsesi verso il dimonio, e disse: ■ Dove (2) è la nalura tua?
dimmelo. » E lid disse: < Fregoli, serva di Cristo, che tu levi
il pie tuo di sopra il capo mìo, acciò eh' io mi riposi un poco,
e poi ti dirò tutte le mie opere. • Ed allora santa fancella levò
a suo pie di sopra il capo dello dimonio. Lo dimonio rispose
Indisse: * Vuo' tu sapere lo mestiero mio? Di po'Balzab è prin-
Wtàpe delli dimoni (3), ed io centra ogni giustizia pugno, e la
(1) Cioè a guisa d'uoiiw.
(% Ovvero: quale è la profeiiione tua?
I Intendi : Dappoiché Balsab i principe ecc.
— 186 —
bdiga di molti ò tolto e vìnta, e niuDO me può vincere, ma tu
m*àì cavato Y occhio mìo: e Bufone uccidesti , e ora fai di me
dò che tu vuoi . però eh* io vedo Cristo dimorare e stare eoa
leco: ma innanzi che Cristo dimorasse in te, non potesti mai
nncere né le mie opere, né le mie virtù superchiare; ma solo
col segno di iiisio Bufone uccidesti, e me ài legato. Ora ti
dirò tutte r opere mie e quello eh* io fo. Io pugno e combatto
colli giusti, e accendo le reni loro, e follo (1) dimenticare la
sapienza celeì4ìale: e quando dormeno, vo sopra loro e disve-
glioli dal sonno, e quelli eh* i* non posso muovare dal soono,
folli peccare in sogno, e con qualunche arte ovvero iogegno,
eh* io possi trovarli freddi senza il segno della santa Croce;
ma da quelli che sono simili a te, sempre ne vado ccmfiiso e
vinto da loro, sicondo eh* io vo oggi vinto da te. E dod so
che mi fare né che più mi dire, perché da te so vinto. Le
armi tue sono buone e forti, e le mie sono rotte, e la virtù
mia é confusa, quando da una tenara fanciulla so vinto. E
maggiormente so dolente, che il padre tuo e la madre tua
sono in mia compagnia, e tu ài sollevato la generazione loro
centra me; e molto é da maravigliare, quando la flgliuola à
superchiato il padre e la madre, e la tua generazione à segui-
tato Cristo e lassato li dimoni e scacciato lo diavolo e ucciso,
e non ci vale niente la virtù nostra, quando da una fimdulla
vinti siamo. >
Ed allora santa Margarita vidde che aveva vinto lo dimo-
nio, e disse a lui: t Dimmi, nùsero inimico, la tua generazione
e chi vi comanda. » E lo diraonio rispose e disse: t DI tu a
me, Margarita, dov'è la vita tua e li membri tuoi che in te si
muovono, e dov' é la fede tua , e come Cristo é intrato in te,
e io dirò poi a te tutte V opere mie. • E beata santa Margarita
rispose e disse: e Non è lecito a me dire a te queste cose, però
che tu non se' degno d'udire la boce mia, ma grazia (2) di
Dio so quello ch'i' so. > Allora lo dimonio disse: e Satana è
{{) Fo loro; to' per loro, osato anticamente.
(2) Cioè per grazia di Dio, corrispondente al e gratia Dei som
quod sam » Ep. ad Cor. 1, XV, 10. L' ommissione del segnacaso è assai
frequente negli scritti di fra Goittone.
hit, quale Ita e
) di paradiso, e p
i earif, e Ironrai la nosln i
t non posso piò (!) <
I leeo, in
k di'» 1
1 Crislù
rare presso a t«, ed ò grude i
, penile qiMdp ve-
dùmo Cristo, le vie nostre noo sone sofn U lem. m comb
vaili andiamo e faggiamo. On fimudo te. adDa di Crisla^
che mi oda noa parola. Ecco che io dico taOe T mifen
oiie; io ti scon^uro per Dio vivo, sei quale tn credi, cbe ta
MM mi fKci più male, ma iegani in laogo remota da ma
pme, perchè io nelli dii '2| della vtta nia ■« pagm eoa-
U* a* giusti De incontra di te. Sabaone rnchót «oi ■ mm
naello di velro. Dia ooi da ma parte dd dino fiseflo Bdie-
mo fuoco, e li Domini dì BaUUonia Tennera e ]<aiiiii dK
fosse oro. e rappeno il vasdlo. Allora ttfli dtpi imIiii
via, e ricmpimo tutto il mondo e la itm. ■ E saia Hvgiriia
disse adon: • Iniquo dimonio, tace, gii ma Tafiri firn parato
di bocca tua. • Ed allora santa Mxr^arila legè 3 iKaMaia ■
oso canto della pregile, e disse: • Tua via, Sataaas •; ci
iMOoLiseote la terra io inghiooL
E l' altro di comandò qndla iaiqaB à^an cte 1 iMe
■OMU ionanzi. e santa Maniaritt esd ddla pregiiae, e «|ak
fl eorpo suo col segno di Cesi Orato. E aBsn mae arili
di quelli della città a vedere le poKdie patifa saMa Mai^
rìta. Disse quello cnidde xgnon: « Coaaeae a bk. Marswil^
e adora li dIi miei , cbe ri è ledi* adonre S aia M pìi
loeio ch'io li tnoL • E beafa «aaa li>niarila imt: lAm t
lecito a le, iniquo sigoov, adonve DaariMAa aia GaA Cratob
qaale sairadore di toui li aetxA e di Miai agata: e «e W
adoreni. diventanu amico suo e aoa aenirai atTìdoG faM,
fani. Moli e mototi.» Allora godio sipaMe eaaaadft dbe bae
•Mpesa in aria, e con fiacole dì toocs beae aeeeM aia ìaMi.
Ed allora ti servi cosi feecM, eoae lo'fa eaaaiKo dal tara
signore. Oiiaitdo il corpo £ santa Har^aila t' iaeeadeta e ar^
deva, ed ella adorava e fingraiiaTa Dio, e poi dkeva a ^mM
aerri: • Ardetemi le rem, aedo efae aaBa taa^ali ia ae da.»
(1) Intendi : non pano pi* p«rter tm lem.
La UtiA.tai daito pa ittaaàw « pi^
— 188 —
Anco disse quello iniquo signore a santa Margarita: e Ck)nseote
a me e sacrifica a li miei dii. > E beata Margarita rispose:
€ Non mai ti consentirò e non adorarò li dii tuoi sordi e mutoli,
e non potrà il nemico vincere la casta fanciulla , imperò cbe'l
mio Signore Gesù Cristo segnò il corpo mio e tutti li mem-
bri miei col segno della santa Croce. > Ed allora quello signore
comandò che fusse arrecato uno vasello d'acqua bollita (l), e
fusse legato le mani e piedi a santa Margarita, e fiissevi messa
dentro perchè morisse. E quando e ministri inteseno lo coman-
damento del loro signore , cosi fecero come comandato lo' ita. E
beata santa Margarita pose mente in cielo, e disse: e Dominedio,
che signoreggi il terreno (2), rompe li legami miei, e questa
acqua sia santificamento ed illuminamento e fonte di battesmo
che non venga meno, e vestemi di capelli di salute, e venga
sopra me la colomba santa piena di Spirito Santo, die mi
lavi e distrugga le piaghe mie, e batteggiami in nomine Patris
et Filii et Spiritus Sancti. » Ed incontanente fu fatto grande
tremuoto, e la colomba venne da cielo e portava corona d^oro
in bocca, e andò sopra di beata Margarita, e allora fturono
sciolte le mani di santa Margarita, e uscì fuore dell'acqua
bollita senza niuno male; e lodò e benedisse Dio e disse: e Do-
minedio, regna la bellezza e veste la forza e prineipe se'di
virtù (3). > Ed ecco la boce della colomba da cielo, 6 disse:
( Vienne, Margarita, nel regno del cielo abitare con Cristo. E
beata se' tu. Margarita, che la virginità tua guardasti. » Ed in
quella ora credetteno in Gesù Cristo uomini cinque milia cento.
E comandò il signore che tutti fusseno dicollali nel campo
della città d'Arminia, e disse a uno che aveva nome Mako:
« Fa distendare il capo suo e ricevere il coltello tuo » ; e Malco
disse a beata santa Margarita: e Abbi misericordia di me, ch'io
vedo Cristo appresso di te colli angeli suoi stare, i E santa
(1) Bollente; vedine un es. in M. Vili. 1,98.
(2) La terra, V universo; non v' hanno esempi ne* dizionari di tal
voce in questo senso.
(3) Corrisponde questa espressione al v. 1 del Salmo XCII : e Domi-
nus regnavit, decorem induit; induit Dominus fortitudinem et praocinxit
se virtutem »; ma qui la traduzione è inesatta.
largatila disse a Malco: • Io li prego che li
a tanto ch'io Unisca la mia orazione, e accomandi l'anima
mia a Gesù Cristo. > E questo Malco disse a santa Margarita:
1 Aiiiiimanda quanto tu vuoi e ricorditi di me. ■ E allora santa
Mai'garita incominciò ad orare e dire: i Dio, cbe lo cielo e la
terra fondasti , e desti icrmine al mare perchè non trapassasse
il comandamento tuo, esaudisce, Signore Dio mio. lo prego
mio; e che ciascuna persona che credarà ìq te, e leggiarà lo
libro mio di questo Tallo e di questa mia passione, ovvero
chi l'udire leggiere; similmente chi per me divotamenle a
raccomandare, sia meritato d'avere perdonanza de' peccali suoi;
e chi rccarà lume a la mia chiesa o farà ricordanza del nome
mio, e di qualunche iribulazione a te si richiamarà, sia meri-
tato; e chiunque sì trovare nel nome mio, liberalo da tribula-
zione. Anco t'addimando, Dominedio mio, che qualunche per-
sona farà chiesa ovvero altare al nome mio, ovvero libro della
passione mia scrivan'i, ovvero di suo pregio (1) comprarà,
riempielo di Spirito Santo. E nella sua casa non nasca fan-
ciullo zoppo né cieco nò mutolo, e non sia tentato nel mondo,
e se addimandar;') perdonanza de' peccati suoi, perdonali per
amore mio e per tua misericordia. »
E poscia die santa Margarita ebbe compito la sua ora-
zione, fu fatto uno grande tremuoio, 6 la colomba venne da
cielo colla santa croce , e favellò e disse : » Beala se' Margarita ,
che nelle tue orazioni di tutti coloro che li chiamano, avesti
memoria. > Ed udito questo, santa Margarita cadde nella faccia
sua sopra la terra, e tulli quelli che erano ine presentì, vìd-
dero la colomba, e toccò santa Margarita e disse: « Per me
medesimo t'adoro e per la gloria mia e per li angeli miei; che
ciò che tu chiedesti nella tua orazione e ciò che tu ricordasti,
l'è dato e d'ogni cosa se' esaudita. E beala se'Lu, Margarita,
che nelle lue pene li ricordasti di tutti; ma dove saranno le
tue reliquie o chiesa tua, e li peccatori verranno a quello luogo,
piangendo e memoria facendo del nome tuo nella sua orazione,
e chiamarà remissione de' peccali suoi, sarà esaudito; ed to
quello luogo, dove lo libro della tua passione sarà, spirito
(I) 0'
pre::o. iW s
|- denc
— 190 —
mdigDO ooD T* entrai, ma solo ^rìto di verità ed abbon-
danzia vi sarà e allegrezza e carità ^ e tutti saranno beati chi
a te credarà nd nome tao (1). E Ci e viene tosto al luogo che
t* è apparecAThìato. e io sono leco e aprirotti le porti del regno
del cielo. » Ed allora santa Margarita si levò dalle sue orazioni ,
e disse a le persone che T erano d** intomo: e Udite, padri e
madri e sorori (?) e fratelli , e tutti voi ammonisco che crediate
in Cristo Dio onnipotente ed in una Trinità perfetta ed in uno
Dio Signore di tutti li secoli, e lo quale tutti li secoli T ado-
rano, lo cui regno permarrà in saecula saeculorum. Àmen. E
pregovi faciate ricordanza del nome mio a Gesù Cristo, che
vi perdoni e peccati vostri, e facciavi credare e venire nd
regno del cielo. » E poscia santa Margarita benedetta da Dio
diceva: e Io rendo grazia a te, Dominedio re di tutti secoli,
che degna mi facesti d* intrare nello regno tuo e nella com-
pagnia delli giusti. Onde io dico e lodo e glorifico il nome
tuo, eh* è benedetto in saecula saeculorum. »
Dopo queste cose santa Margarita chiamò colui die la
dovesse dicollare; ed allora quelli che la doveva dicollare,
venne dinanzi a lei ed inginocchiossi, ed ella disse: e Fratello,
tolle lo coltello tuo e dicoUami, che già è venuto lo tempo
mio; > e quello disse: e Non farò, né nissuno ocddarò, però che
io odo Dominedio che favella con leco; imperò non ò ardire
uccidere te. t E beala santa Margarita benedetta rispose e disse:
e Se tu non farai questo, non arai parie meco nel regno dd
cielo. » Ed allora quelli che la doveva dicollare, si gitlò ginoc-
chioni in terra e disse: t Prego te. serva di Dio, che preghi
Dio per me; » ed allora santa Margarita adorò e disse: f 0
Iddio onnipotente, non imponere a costui questo peccato; » ed
allora colui con grande paura tagliò la lesta a santa Margarita
in uno colpo. La lesta cadde in terra ritta, ed ella si mise in
(1) Questa allocuzione, come la preghiera che poco indietro legge»,
fa dettata da scrittore fornito pib di semplicità che di pietà assennata,
come ognuno scorge di leggieri. E* conviene perdonarla all' ignoranza dei
tempi, poveri di critica e faciU ali* errore colle migliori intenzioni.
(2) Sorelle; adoperò questa voce, or in disuso, anche il Petrarca
nel Son. 283.
— 1!H —
Mituoiit; ed allora venne sopra al corpo di sanla Mar-
fflrìlì li angeli, laudando e benedicendo Dio; e poscia vennero
li dimoni che erano tormentali, e gridavano fortemenle e dlce-
rano: • Uno è Dio grande, uno è Dio onnipotente. 0 Margarita,
lo Dio tuo ci tormenta;» e questo udivano tulli l' inferrai e li
òcchi e li zoppi e mutoli, e iiuclli cir erano tenuti dal dimo-
dìo, tutti vennero al corpo di beata sanla Margarita, e furono
fallì salvi. E li angeli lolseno l'anima di sanla Margarita e
saglirono in cielo sopra uno nuvino (1), laudando Dio e dicen-
do: «Sanctus, sanctus, sanctus Donainiis Deus Sabaoth. Pieni
SUDI codi et terra gloria tua; osanna in excelsi.s. Benedicius
qui venit in nomine Domini, rex Isra«l. >
E io Teodimo, che dillo so dì sopra, portai le reliquie
dì beala sanla Margarita, cioè il corpo suo, in uno goEfancllo
dì pietra molto bello con ogni onore e diligenzia e con aro-
matico, e porta' lo in nella ciità d'Antiochia in casa di ditta
matrona. Ed io contemplai tulli e combatiinicnti di sania Mar-
garita, come ella con quello impio e iniquo signore pugnò, e
aAli suoi carnefici dimoni; e dava a lei pane e acqua, e le
sue orazioni tulle scriveva nella pregione, e mandavale a tutte
quelle persone che credevano in Cristo.
La iÌDC e combatlimenti e la passione di santa Margarita
fu del mese dì luglio: a' quattordici di ebbe fine la sua passione.
Voi che avete orecchi, udite, e con puro core adorate
Dominedio nostro Signore; in ciascun» città e castello fate ri-
cordanza, acciò che per quella memoria siamo degni tulli di-
nanzi a la sedia di Crislo andare ed adorare; a lui ed al coeter-
no Padre e Santo Spirito sia laude, onore e gloria e podesl/i
per ìniinìta saecula saeculorum. Amen.
Sanla Margarita vergine e marlire di Crislo benedetto, si
come noi crediamo, che per U nienti tuoi lu sia abil.'U'e nella
gloria celestiale, cosi prega per noi, acciò siamo degni delle
promissioni dì GesJi Cristo, il quale vive e regna in unilate
I Spiritus Sancii per inlìnita saecula saeculorum. Àmen.
> (I) lluwia, delta anche laholla nutnlo;
LA NOVELLAJA MILANESE
ESEMPU E PANZANE LOMBARDE
RACCOLTE NBL MILANBSB
DA VITTORIO IMBRlANi
IV. X^ SItella Diana (1)
Gh'era ona voeulta oq spezièe, che el gh'aveva ona tosa (2).
(1) Questa novella è quasi la fusione di due cunti del PerUame-
rone, cioè di Viola (trattenimento DI della giornata II: — e Viola,
> 'mmediata da le sore , dappò assai burle fatte e receTute da 'na Pren-
> cipe, a despietto loro le doventa mogliere. > — ) e della Sa^ia Uè-
carda (trattenimento IV della giornata III: — e Sapìa, co lo 'ngegnio
> sujo, essenno lontano lo patre, se mantene 'nnorata co tatto lo male
> asempio de le sore. Burla lo 'nnamoraio e previsto lo perìcolo che
» passava repara lo danno. Ed aU* utemo lo figlio de lo Re se la piglia
> ppe' mogliere > — ). Similmente la fiaba precedete V OmìbrìM ri-
sponde a Lo Catenaccio, trattenimento IX della giornata 11 del PerUa-
merone: — e Lucia, va ped acqua a 'na fontana e trova 'do schiavo
> che la mette a 'no bellissimo palazzo dov*è trattata da Regina; ma
» da le sore 'mmidiose consigliata a bedere co chi dormesse la Dotte,
> trovatolo 'no bello giovane, ne perde la grazia ed è cacciata; ma
> dapo' essere juta sperta e demcrta grossa prena 'na maniata d' anne
» arreva 'ncasa de lo 'nnammorato, dove fatto 'no figlio mascolo, dapo*
> varie socciesse fatto pace, le devenia mogliere. » —
(2) Tosa, fanciulla, pi. Tbsànn, Da intonsa. Celio Kaloq»iBi
Duecento Novelle. Parte IL Novella XLVI: — e II che veduto da lui,
L*en vnlaT, el gh'areva minga mièe(l], el glie voreva UbIo ben
a su soa tosa; e lee l'andava a ìmparii a cosi de biancheria
in d'ona soa amisa. E sia soa amìsa ghe pìaseva lauto i fior;
b gb 'aveva ona terrazza; e tutti i dopdisnàa (2) Taiidava a dacquà
sii (ior; e per conira ^'era on poggioeu (3) e gh'era semper
li 00 sdor. Lu el saveva clic lee la gh* aveva nomm : Stella
Diana. El ^e diseva; — 'Stella Diana, quanti Toenj (4) fa la
» soa laaggioraiu ! * — E lee la ghedis:— « E lu,sur nobii
* eavalier, quante stelle gb'è io J«l cielT n — Lu el dis: —
« 1 steli che gb'è in dei cìel non se poi coDlare. » — E lee
h ^e dis: — «La mia niaggìorana non si può rimirare. »
— E*)» d gb'aveva uot piasè de vetlella de visia sta tosa, l'è
anba iutes eoa qudla dove l'era io casa lee; el s'è vestii e
Via fìDt de jtss 00 pessee (5). de aodi ììi a reod el pess. Quella
(love Ten io essa da laorà [6,, la gbe dis: — < Famm el piasè
> a loeii ile qatl pessin. ■ — E la ghe dis cosse r è eh' el
nreva. E la d gb1u domaBdàa oo prezzi carissiin. E lee la gli'tia
per a pMfcmw ipiiMi Om itntnftnm.tfi riatw jtkmtn»
dK viia E poi (i fMB » fccpn em ìm Bigpsr cderiti M mmà»
tnimii: ikimà Mdfw «mim di 5» C*m (cUen mÉ» ocUr
fMcrt jifh'Mif»-' • lB««a óìt^ fcaw kIb iboa ukmat. *
— mia. uno. — * ti ffiét db Tt^mt-—. Ar «M fa WH vi
M^tt» iìn attf*. m nm efae mI IhoMc !• cm e tM A («eiff
M^sto. <fw*fc it A' rMMTTv fMA( loMMc (le «pai a IBiM
cari « cUmm* Ir tffa di anto) fa uM» W« ^ w x «*.
<l| Jfar. Biffie.
— 194 —
diti che le voreva minga, che Fera tropp car. — E la el
gh'ha ditt de fagh oq basin ch'el ghe dava'd p688in.S*ciio!
lee la gh'ha fàa el basin, e lu el gh'ha dèa d pessin. Al
dopdisnàa la torna anmò su la terrazza e la el ghe toma a
di: — « Stella Diana, quanti foeuj fa la soa maggiomia? »
— E lee la ghe dis: — • E lu, sur nobil cavalier, quante
» stelle gh'ò in del ciel? » — E lu el dis: — « I stdl che
» gh' è in del ciel non se poi contare. ■ — E lee la g^
dis: — « La mia maggiorana non se può rimirare. » — E
tu el ghe dis : — « Per on pessin , la m' ha fàa d basin. »
— Lee, Fera rabiada perchè el gh'ha fàa sto scherz; e lee
la pensava de faghen vun a lu. L'ha miss ona bellissima zeDta(l)
in vita, magnifica, e Tha ciappàa ona mula, e Tè aodada a
cavali ere passada via dove el stava lu, a posta pe bss vede
che la gh^aveva sta zenta insci preziosa. E lu, Tha vedoda e llu
ditt: — « Oh che bellezza d'ona zenta I come me piasaria,
» che la fuss miai » — L'è andàa de bass, e gh'ba diti
cosse r è eh' el voreva ( perchè V era vestida de omro ) per
quella zenta. E lu (che Tera lee vestida de omm) V ha ditt (2):
che lu le vendeva minga ; che chi ghe faseva on basin in dei
cùu alla soa mula, el ghe dava la zentura. S' ciao 1 e la Tba
guardàa , V ha vedùu che gh' era nissun attoma e la zenta la
ghe piaseva tant , el gh' ha fàa el basin , e T ha ciappàa la soa
zenta e via ! V è scappàa via subet. Al dopdisnàa tornea de
capp: lee, in su la soa terrazzale lu, in sul poggioeu. E lu el
ghe dis: — « Stella Diana, quanti foeiy fa la soa maggio-
» rana? » — E lee la ghe dis: — <c E lu, sur nobil cava-
» lier, quante stelle gh'è in del ciel? • — Lu el dis: —
«( I steli che gh' è in del ciel non se poi contare ! • — E lee
la ghe dis : — « Anca la mia maggiorana non si può rimirare I »
— E lu el ghe dis: — • E per el pessin, la m'ha faa el
» basin. • — E lee la ghe dis: — <c E per la zentura, d
(1) ZetUa, Cinta, cintolo, scheggiale. Zentura, cintura, ciotola.
(t) Dice il Manno ndY Adom, Canto XIV, stanza XXVU, in ana
seluazione consimile: Ei rivolto a colei ch'era colui.
— !{t5 —
» gh' ha baska el cùii a la mia miilla (t). » — Quand l*t)9 sentii
che lee la gli'ha f;ia sto Jesprèsl [2),allora lu el pensa de faghen on
alter nnmò a lee. L' è andaa in dove l' era in casa lee a laorà e
l'è restaa intè^ de fagh on scherz. AI dopdìsnàa, lee t'ha faa
per andà a cà. qiiand l'è in sti la scala, gh'è i b3sej(3)con
denler ili sfor, di bus, che l'è la scala che solt ghe restala
cantiDDa. El se prepara là e menter che la passava ci cascia
su la man e el ghe tira la vesta. Lee la diseva: — < Sura
» maestra, la se-ala mi lira, la scala mi lascia: gh'è nlssun
» che mi abbraccia? » — Lee, la maestra, l'amisa, la dì-
seva: — o Va, va, che la scala li lascerà, a — Lee adess
la s'è ammalada e l'è stada on poo de lemp senza podè andà
a la soa scola. Dopo 1' è andada e torna la slessa storia sulla
terrazza. Lu el ghe dis: — « Stella Diana, quanti foeuj fa la
ji soa maggiorana? » -- E lee la ghe dis: — « E lu, sur
» Dobii cavaiier, quante stelle gh' è in del ciel? n — E hi el
ghe dis : ^ n I steli che gh' È in del ciel non se poi con-
» tare, n — E lee la ghe dis: — « Anca la mia maggiorana
»> non si può rimirare, w — E lu el glie dis: — « Per el pes-
» sin, la m'ha Taa el basin. » — E lee la ghe dis: — « Per
n la zentura, l'ha basàa el citu a la mìa mula, n — E lu el ghe
dis: — a Sura Maestra, la scala mi lira, la scala mi lascia;
» gire nissun che mi abbraccia? Va , va, che la scala ti
» lascerà. » — Lee la seni sii robb tutta rabbtada , la pensa de
faghen vunna pussèe (4) bella. Donca la va a cà del so papà e
la ghe dis de faglici slo piasè, de dagli di danèe: — a ma
» tanti, perchè ghe n'hoo de bisogn.» — Luci ghe dis:— «Cosa
» le n'hède fan tu — Lee la dis; — «Tel diròo quand gh'avaròo
'*■* fila quel che gh'hoo intenzion de fa mi. » — E Tè an-
(1) Mula e SMIa, remiti, ilul, mascb.
(2) Deiprisi, dispello.
(3) Dasell. sìng. basej o baiij. piar. Gradino, icalino, scaglione.
. buco, foro, pcrlueio. Sfor. lace, apertura, ogni nno nelle
Sbricile.
<i] Putstv . più, dippiù; da jiiù assai (?f.
— 196 —
dada e V ha pagaa di servitor de la casa in dove el stava In,
per lassalla entra ona sera in di stanz in dove stava el so
padron. E lee la s'è missa on lenzoeu in testa, 'bianch; ona
gran torcia in man e on libcr ; e al moment che Tentrava in
stanza de lu Tha pizzaa sta torcia. E lu, a vede sta fantasma
tutr on tratt, con sto ciar a compari, el s' è stremi!. — « Que-
» sta r è r ultima ora de la toa vita : li te devet mori ! »
— E lu, tutt stremi!, el diseva: —a Morte roortina, lasciami
» stare che son giovinetto, va da mio padre clf è più vec-
» chio di me!» — E Ice la ghe diseva: — « No, questo è
» il tuo momento e non è il momento di tuo padre !(1)» — E
(1) Nel seicento ebbe gran voga un libro d* educazione morale in-
titolalo: L' Utile col dolw, cavalo da* delli e falli di diversi uomini
saviissimi, ciuf- si contiene in tre decade di arguzie dal padre Carlo
Casalicchio della Compagnia di Giesù; per ricreazione e spiritual
profitto di tutti e consolazione specialmente de' tril)olali et afflitti $
per efficace antidoto contro la peste della malinconia. Nell'argoiia
seconda della terza decade della parte terza , si mostra a guai precipisùf
conducili la passione dell' interesse narrando un furto tentalo da tre
birbe a danno di un oste decrepito ed avaro, secondo il racconto dd
padre Giacomo Bidermano: — e Alle due o alle tre ore dì notte, quando
> sentirono che Toste tutta via russava, Andrea, che questo era il
> nome di un de* tre ladri , apre pian piano la porta della camera del
■ vecchio, e mascheralo con una maschera che rappresentava la morte, e
» tenendo una tovaglia assai lunga in capo , che gli scendeva ìnslno ai
1 piedi, nella destra un arco con la saetta e nella sinistra un orologio di
» arena, sen va a dirittura verso del letto dove tuttavia dormiva il
1 vecchio e crollatolo con una gran scossa lo chiama per nome con
1 orribilissima e luttuosa voce o gli annuncia eh* è necessario senza di-
> mora alcuna partire da questa vita per passarsene all' altra. Qui il vec-
» chio (che per lo stordimento del sonno, che per Timagìne di colai
> che pur vedeva col debil lume che gli dava una lampada accesa e
» che per le tenebre della notte spaventosissima gli pareva, ebbe vera-
> mente a morire) tutto tremante prega la Morte e la scongiura per
È dio e per i santi tutti del cielo, che voglia avergli compassione, cosi
> appunto dicendole: Morie non esser così spietata el inumana con
• un povero vecchio r/w avendo faticato e stentato tutto it tempo di
I
— Ili: —
"poeu l'ha smorz3a(l) la M)a lorda, e vìa la gh'è scomparsa.
Lu el pessèga, el sona el campanili e el dimanda la serviti)
tutt stremii con paura: el fall l'è che l'ha faa ona maialila
de la gran paura che l'ha ciappàa e l'è slàa tanto lemp in
lett Quand l' è andaa ancamò in sul so poggioeu, l' lia veduu la
Stella Diana. Lit el ghe dis; — « Stella Diana, quanti focuj
» fa la soa maggiorana?» — E leelaghe dis: — « E lu. sur
» nobii cavalìer, quante stelle gh'è in del ciel? » — Elu, el
ghe dis: — « I sletl che gh'è in del ciet non se poi con-
» tare. » — E lee la ghe dis: — « Anca la mia maggiorana
» non si può rimirare. » — E lu el ghe dis; -^ « Per el pes-
» sin, la m'ha faa el basin.» — E tee la ghe dis: — « Per la
* vita sua ed ai-endo acquistato iiartcchi denari e molle Ticchniu.
» aveisi poi a iwrirc scusa disporre del mìo e tema aggiu-
I Ilare eJw i miei figli abbino a godere ognuno per la sua parie
> 1 miei sudori! E giacchi siete slata sempre con me el insina a
■ questo tempo cosi amorevole e cortese die iion me avete reciso il
* fU lielta vita, bettchi l'abbiale fallo, sensa tiersujia misericordia
> con tanti e tanti allri giovani e che non avevano nemmeno la
f ìnttà de'miti anni, siatelo ancora, io non dico per anni o mesi beni-
1 gna e cortese verso di me slesso eoi non togliermi la vita, ma per un
* giorno solo. Ciò stare dicendo colui ed Andrea iiUerrompendolo cosi
I gli aog^anse : il'ón occorre pi'i'i pregare né dar suppliche, è venuto
t il tempo, ni si pud di/ferire, che tu abbi in ogni modo a pas-
» sare all' altro nuindo. Questa è quella destra e queUa saetta che
t toglie lo spirito anche ai primi Principi e Potentati del mondo.
t Questo è quel ferro che uccide gì' Imperatori e i Re. Questo è- quel
1 dardo così crudele e potente che non la perdona a sorte veruna
t di persone e lutto insieme uccide e dislrtigge poveri e ricchi, gio-
> vanì e vecchi . di qualsivoglia ixndisione o slato alla rinfusa e
t sensa alcuna di/ferensa. Questa, questa saetta dunque ha da to-
t glierti la vita et ora el In questo punto et in questo momento.
» Uaec regios elisit kasla spiritui. Hìc mucro principes viros, hic
t Caesares Ictu potente fodil. Idem pauperes Evilalidem diviles ,
» dum sanguine Promiscuo laetalur. Ibc telo et tuum deiiiqu» ea-
9 pul petetur. » —
(I) Smorta e Smorta gid, spegnere.
i
— 198 —
» zeotura, Tha basaaelcùu a la mia mulla.» — E lu^d gbe
dìs: — « Sura maestra, la scala mi tira, la scala mi lascia;
» gli' è nissuD che mi abbraccia f Va , va , che la scala
» ti lascerà. » — E lee la ghe dis : — « Morte mortina , lascìa-
» mi stare che son giovinetto I va da mio padre eh* è pib vec-
» chio di me. » — E lu el sent che la gh' ha faa sto scberz,
el dis : — « La m' ha fàa de sti azion I Adess me veodicaròo
» mi deversament » — El va e le cerca al so pa per spo*
salla. E lu, el so pader, el ghe dis che Tè impossibel per-
chè rè fioeu del Re. E lee, la tosa, la ghe dis a so papà:
— « Lassa pur eh' el me sposa ; mi el sposi subet volentera. »
— DoDca fano el coDtratt.' Fissàa el di di sposalizi, tee,
cosa r ha faa lee ? La pensa de fa on' altra robba innanz che
Tavessaviiudesposalla, fa fa ona gran pigotta(l) gronda, le
mett in camisa cont on gipponin de lett (2) e la gh' ha fa mett
ona vessiga, chi, in del stomegh, piena de lacc (3) e vin e zac-
cher. Poeu la sera che V è andada a cà dopo sposada, lee la
gh 'aveva scondiiu la soa pigotta in d' on .vestee [(4). Intrettant
eh' el passeggiava in stanza che lee la se disvestiva per andi
in lett, la gh'ha miss in lett la pigotta e lee la s'è scooduda.
E lu d va là, cont on stil: — <c Ahi » — el dis — « adess
y> me vendighi mi I Quest chi, l' è propi el to ultim moment,
» e l'è minga el me. » — El ghe dà ona stilettada in de la
vessiga: lu l'ha credùu de daghela in del coeur, e gh'è ao-
daa on poo de sto vin e lacc dolz in bocca : — a Oh poer a
» mi ! come l' è dolz el sangue della mia Stella Diana t Poer (5)
» a mil coss'hoo mai fàal » — a piang tutt desperaa. —
« L' è vera che sont on Re ; ma se fuss el Re de tutt i Re,
» la mia Stella Diana la farla diventa viva anmòl » — Lee
l'ha lassaa piang desperaa e poeu l'è vegnuda foeura e la
gh'ha ditt: •-- « No, sont chi ancamò. La toa Stella Diana
(1) Pigotta, (anche Popola e Popoeura) bambola, fantoccio, pupo.
(2) Gipponin^ farsettino, giubbettino. II Cherubini non registra
Gipponin de lett, bensì Gipponin de noti.
(3) Lacc e Latt, pib gentilmente.
(4) Veslèe, armadio, armario.
(5) li Cherubini non ha che pover.
» l'è minga moria.»— S'ciao! lu dopo el gli'ha voruu ben;
ee l'è slaUa soa mie [1).
V. — e:i SclaT-aCtin. (S|
Una voeulia gh'era on sciavatlin. Sicché on d) l'era tani
(I) Il Elandello narra come Faustina romana l'osse infonnaia che il
marilo Marcanlonìo voleva ucciderla e ruggirsi con una Cornelia: —
< E «olendo alla mina del marito fabbricare una contrammiiia , ebbe se-
t grtla pratica con uno eccellente tegnajuolo e fecu Tare una statua
* della grandezza che ella era ma di modo fabbricala che se le acco-
1 moJata benissimo la pelle d'una bestia attorno. Alla quale ella avendo
1 inteso il determinato punto che il marito «olcva uccideria, acconciò
> certe vessiche piune d'acque rosse assai spesse, accia Tacessero Tede
r > dì sangue. Ella soleva la state nelle ore del incrìftge corcarsi nel letto
l > e dormire una o due ore; onde il marito in quel tempo voleva om-
> mazzarta. Ella venuta l' ora andi^ in camera e l' immagine Fatta ac-
> conciò nel tclio, che pareva proprio che Faustina Tosse quella cbe
> dormisse. Arevalc anche concio certe funi, per Tare a suo piacere,
t stando sotto il letto, scuoter l'immagine. Avendo poi di già messo
t mito ciò ad ordine che seco voleva portare, (che era roba, come di-
t cono i soldati, da manica), dicendo a le fantesche che voleva dor-
> mire, si mise sotto ti letto, serrate le rmesire de la camera. Venne
> il marito a casa et intendendo cbe la moglie dormiva mandò iia due
* donne che in casa erano, in certi servigi, che Insognava che slessero
t due ore a tornare a casa. Erasi già prima disfatto di quanti uomini
1 soleva tenere. Fatto questo se n' andò di lungo dentro la camera ove
■ credeva che la moglie dormisse. Quivi arrivato quanto pib chetamente
> potè se naodò al letto, e per esser l'uscio aperto eravi pure un co-
> lai barlume, dal cui splendore ajutato, vide, com' egli pensava, la
> donna che sopra il letto boccone giaceva. E stesa la mano sinistra e
> quella posta sovra il capo della immagine, tirò fuor un pugnale e
> con quanta forza puotè, quello ticcò ne le schiene a hi statua. Pau-
* slina che sotto il letto era e senti la percossa, tirò le funi di modo
> che r immagine tutta si scosse. Marcantonio pensando che la moglie
■ volesse levarsi, le diede un'altra ferita e passolla dt banda in banda.
t Era da la prima ferita uscito di quell'umor rosso pure assai, e me-
* desimauicnte della seconda; il perchè egli sentendo che la moglie piti
* non si moveva, pensando quella portar via, prese la statua e qiiella
> in un necessario, che in camera era, gettò, » —
(9) Sciavallin . ciahadino. Fa el triavatlin . oltre a Tare il mi--
^H {t) Sciavallin. cu
— 200 —
stuff de fa el sciavattin, el dis. *— • Adess voeuri aodà a cerca
t fortunna. • — L*lia compràa ona formagginna (1) e Tba missa
sul tavolili. La s*e impieoìda de mosch e lu Tha ciappàa ona
sciavatta , el gh' ha dàa ona scia vattada (2) e i ha mazzàa tutti.
Dopo i ha cuntàa, cinqcent creo mazzàa e quattercent n'ha
ferii. Dopo Y ha miss on sciabel coni in testa ona lumm (3) e
rè andàa a la cort del Re, e el gh'ha ditt: — e Io sono il
1 capo guerriero delle mosche, quattrocento n'ho ammazzate
• e cinquecento n'ho ferite. • — El Re el gh'ha ditt: —
f Subet che te set on guerriero, te sarèe bon de andà su qud
1 mont che gh' è su dùu maghi e Vi mazzaret. Se fi mazza-
• ret, te sposaret la mia tosa. » — Elgh'ha daa la bandera
bianca e quand i ha mazzàa d' espònela : ^— e e te sonarci la
• tromba. Te mettarèe la testa denter in d'on saccb , tutte dò
• i test , per fami vede a mi. » — Donca lu V è andaa su e
riia trovaa ona casa: sta tal casa Tera on ostarla: ghiera
mari e miée che eran poeu sti maghi. L'ha dimandàa alogg
e de mangia e tutt insomma. Dopo Tè andaa in d'ona stanza:
prima de andà in lett V ha guardàa per aria. Gh' era ona gran
pioda (4) de sora al lett; e lu, inscambi d'andà in leu el s'è
miss in d' on canton. Quand l' è stàa ona cert ora i maghi ban
slicre del ciabatiino , signiGca anche lunediare. A proposito di ciabattini,
nel cinquecento, come desumo da Celio Malespini, Duecento novelle^
parte 11, novella LXIV (dove narra delle nozze d'un d*essì) T*era in
Blilano un uso nuziale, ora dismesso: — e Acconciata che le ebbero
» la testa, et essendo ora di girne alla chiesa, accompognala da infinite
» donne ; non cosi tosto ella fu uscita fuori del stallo , che non gli fus-
» sero d* intorno più di duecento fanciulle gridando air oso loro : Dove
-^ la né? A casa del ferree a conzà i colzee; alludendo ad Imeneo
» iddio delle nozze; vetusto costume di quella grandissima città » che
» continua tuUavia e continoverà. > —
(1) Formagginna, non registrato dal Cherubini, probabilmente
diminutivo di Formaggia,
(2) Sciavallada, ciabattata, colpo di ciabatta.
(3) Lumm, tricorno, nicchio, capello a tre punte, cappello da
prete.
(i) Pioda, pietra piatta e grande, lastra, lastrone.
— idi —
sàa iiii) &ta pìoda e l'tia schìscìùn tutt el leu. A la manina
e] \a tic tiass: ci gli* ha ililt che Dia mai ijojìiu dormi per
el gran rreca.s,s. E lor gh'han din che glie cambteran la stanza.
Sicché la sera l'È andaa in slanza e l'ha giiardaa e gh'era
anmfl sta pioda. E lu el s'è tiraa in d'on canton. E guand
l'k sUia ona ccrt'ora aacamò come prima l'han lassada giò.
A U inaltina el va de bass, el ghe dis aumò che l'ha mai
poduu dormi per el gi'an frecass. E lor gh' haii Uit ancamò
che ghe cambieran la slanza. Quand 1' è slaa ona cert ora
tiìn amba in del bosch mar) e miòe a tajil on fass de legna.
Dopo hìQ vegnuu a cà e lu l'ha prepara» ona fole (1) e el gh'ha
itìlt: — ■ SpetlÈ. elle ve julli mi a tira giò el fass. » — E
lu, el Kciavatlin. d gh'ha dàa ona folciada, l'ha tajàa via el
eòo al mago. Dopo la va a casa lee, e lu l'ha THia l'ìstess,
riia cattaa via el eoo anca a lee, la maga. Dopo l' ha spiegàa
la bandpra e l' ha sonila la tromba , e gli" 6 andaa centra la
banda a ricevei. Dopo Tè rivAa a la cort, el Re el gh'ba
diu: ~ € Adess che t'è raazzàa 1 dùu maghi, te sposarci la
» mia iosa.» — Sicché lu, l'è andàa in leti, dopo sposada; e
l'era tanl siieETAa a lira el spagh, eh' et gh'ha dàa i pugn a
la mièe: e lee l'ha vornu pn dormi iasemma. E el Re ci
gb' ha dàa tanti danee e l' ha mandaa a casa.
V. bit. — 'El Scla-v-attin. (2)
(1) Fole. Talee. Folciada. ralciala.
j (2) Aitra Tariuite. — Ona volta glt'eTì on scJaTaltÌD che sluff
Blirl el spagli ci pensava la ntanera de lì^ rorlunoa. lulaol eh' ci slava
aria a cunlà i traviti, e) s'era desmeolegàa che l'aveva
I sol b::..heU ona basta de lacc; e i mosch, percLù l'era d'estàa,
I in gran quantità sui lacc, laot cbc l'era dcvcniàn tuli ne-
hr. Alora la el se accorg de sta robba, e el se alza su luU ian<ri&a,
Hlargn la tnau come fan 1 ciappamosch e gii on gran colp. Tanti
I tcappfia. ma oaa bona parie gh' hin reslàa in Ji man. Alora gh' è
1 de cuntaj: eren ciaqcenL Cosse l'ha Taa lu alora? L'ha Hi on
1 carlellon con su scritl: Con una mano tu jtuuio citiquectnlo.
— 202 —
Gh'era oq sdavattiQ che Tera al bandiett (1) a lavora e el
gh'aveva on formaggin e sto formaggin (2) gbe andava su tanti
mosch, e lu, n'ha mazzàa tanti ch'el diseva: — t Genti ho
i mazzaa e cent i ho de mazza, t — La gent sentiven a
Poeu 1* ha taccàa sto gran cartel lon foeura de la botega. A vii de savè,
che in quei temp el Re el ghe aveva ona gran guerra coot on so vì-
sin. Ma Tera semper slàa baltùu, tant che on di eh' el scappara l'è
passàa cont el so seguii denanz a la bottega del sciavattin e l'ha tlst
sto gran cartellon. El He Tha mandàa subet a ciamà; e lo, tati stre-
mi! per paura eh* el ghe fass quajcossa e anca vergognds de trovass a
la presenza de soa Maestà, Tè cors là subet — e L'è lem che voi
> con una mano ne massate cinquecento? > — e Si > — el respond
Itt tutt tremant. El Re: — e Ve sentireste el coraggio d'andare a
» combattere i miei nemici? > — El sciavattin ch'd sperava de fli
fortuna da ona part el gh' aveva paura, e dall' altra el dis : — < Tuit
> r è r istess : morì o seguita n h e\ sciavattin non savaria qnal' è el
> peggior di maj. Mi tenti. > — E alora el ghe rìspond al Re: —
e Si, ìfaestà. Ch*el me daga on cavali che mi vòo sobet a fa seappà
» tutt i so nemis. » — e Bene » — el Re — e se voi nascite io vi
> darò in sposa la mia flglia. > — Ditto fotto el sciavattin el monta a
cavali, che quasi Tera gnanca bon de sia su e cont ona gran bandeia
dove gh'era scritt: con una mano ne masso cinquecento^ l'è andàa
incontra al nemis. El nemis eh' el ved arriva costùu e che el legg sia
gran bandera V ha cominciàa a ciappà paura ; e poeu de meneman eh' el
sciavattin el vegniva innanz han cominciàa a scappa, i nemis; e in meo
de quella ghe n*era pu gnanca vun. El Re ch'el ghe vepiva adrèe a
la lontana, quand Tha visi sta poca fotta, Tè cors anca lu a jultà el
sciavattin. E quand di nemis ghe n' è stàa propi pu nessun, hin tor-
nàa a cà e ci dì dopo han fa el sposalizi co la tosa del Re: La prima
sera eh* hin andàa in lett i dùu spds, el sciavattin l'era tutt contenL
Ma quand el s'è indormentàa, el s'è insognàa de vess ancamò al ban-
chett, sicché el ghe menava pugn de lira a la soa sposina. Questa chi
a la mattina V è andada tutta piangenta dal so papà a lamentass; el qual,
non savend come combinalla, l'ha ordinàa che i dùu sp5s dormissen in
dòo stanz. E Tè per quest che i Re e i gran sciori no donnea nùaga
insemma marì e mièe.
(1) Banchetl, deschetto, banchetto.
(2) Formaggin, cacciolo, formella di cacio.
I
r Ceni i ho mazzaa e cent i ho de mazza. ■ — Gh'fian
l<ditt se l' era bon de andà a loeu la cìll^ de Casli. E lu el
ite de dagli on cavali eh' el saria andàa a toeu sta
lor gh'han daa od rozzon(l) d'on cavali, on cavallasc
come se sia. El saveva nanca fa a sta a cavali e l'andava
come un desperàa. E veden a vegnl sto niatt ch'el dtseva: —
1 Ceni i ho mazzàa e cent i ho de mazza. > — e gh' htn
cors a ia centra subit, cont i ciav de la ciuà de Casti. In
dei vegnl ìndr^e Tè passàa d'on sit e là gb'era on mago;
e ià slo mago l' ha cìappàa e l' ha miss in d' ona stanza , e
el gbe dava minga de mangia. Ei mago ei ghe dis: — • Vojl
ven chi. Mi gh' hoo ona balia ìnsci grossa : se li te see Iran
de ciappà sta balla chi e de butlaila fina in del mar, mi
te lassi andà. > — Lu l'ha ciappàa sta balla, V iia avùu
forza assee de buttalla in del mar. .\dess el sciavaltin el
dis: — « Ti le dee fa quel che te disi mi. Adess de mi e
li emm de guarda chi l' è che l' è pnsèe fort de tira gib
sia pianta. • — E là s' bin miss adrèe con sta pianta per traila
ò. Ei sciavatlin el ghe dis: — < Spella, che andaròo su
de la toa raièe e ghe diròo de damm la fole. • — El va de
sora de la soa mièe e et gbe dis el sciavaltin: -- i El m'ha
» dìtt insci el so mari, de damm la ciav del secretèr (2). » — E
lee la va a la fìnestra e la ghe dis al so mari : -^ ■ Voj I hoo
■ de daghela? > ■— E lu ci gh' ha dil: — • SI, si, dàghela,
1 dàghela in pressa. • — Lu, el sciavatlin, dopo l'è andàa
al secretÈr e l' ha portàa vìa tutti i danèe che l' ha trovaa.
Lee, la mièe, la credeva che fusseu jntÈs. perchè el gh'a-
veva diU lu, el mago, de dagb la ciav al sciavaltin, la cre-
deva che fussen inles de toeu su i danèe. Lu, el sciavatlin
l'è andàa via per l'altra porla, l'è minga passàa per dove
l'era il mago. Lu, el mago, el ved ch'el ven no, el ciama
la soa mìt-o, el ghe dis: — t Ma vojl te ghe l'è dada? >
(1) Roìion, roizonc, roizaccia. Cavallasc. manca al Cherubini,
(2) SecretfT (dal Secretaire francese), segreurio armadio e acriva-
L aia nel contempo.
-. € SI, rè on pexz. I/ba mò de vc^é; » — E li d vtf
di' et feo DO, fa a f«lè in dove fé. El ghedv a »■ aìb:
-*<Ma com <? el gii è in nìsraa sic?Cankrèchele^^W
• dia? » — < La daf di dante. » — « Ah fami mài Fcn
• la Me ebe U te gb'aTeret de dà, matok b cor. Bucr a ai!
» adess dov'boo de amlaO a Coen? » — Gaanb de cfei^iaih
de n, el seiafauio r ha mioga padm livfà *p«. La rki
ditt:— « Inreee «le aiidi a qnisci b dui de Csti,
f 9tàa dì danèe de m! • —
Vi. — El OorlMitCia. (t>
Ona folta ghiera on sdor e ou sdora, ch^ercn behI e
pregaf en d Signor di*d gfae dass oo fioen. lafin m di ^*è
pars in easa on corbatUn (2). On di, sto corbaltiB d eonìneba A
tanto de nrason -3). Lor gfae dimanden eossa d gh'aTefa.E tai,d
forefa minga digfad. In fin col seguiti a dimandagh, d ^
dis eh' el forefa toea mièe. In b cort ghe stafa od prestnèe(4)
di' el gh' af ef a tre béj tosann. Sto sdor el gbe db al pre-
stinèe se el voreva dagh ona tosa in sposa per d so eortol-
tb, e lor ghe disen de si, come dibtti el r ha qioada e
(1) È Io stesso argoroeoto della (afola prima nella secoada ^Wig
Tredici piacevoli notti dello Straparob: — e Galeotto, Re d'Andy
> ha OD figliuolo nato porco, il quale tre folte si marita; e posti gik
» la pelle porcina e difenuto an bellissimo gioTane, fa chiamato Be
> Porco. » — Vedi Novelline di Santo Stefano da Caleint^, rac-
colte da Angelo De Gabematis: Norellina XIV, Sor Fiorante mago ed
anche in parte Novellina XIII La Cieca (da paragonarsi con la DI fih
fola della III notte dello Straparola).
(2) Corbattin, ommesso dal Cherubini, vai quanto Scorbatiin^ di-
minutifo di Scorbatt^ contadinescamente Corbatt, conro.
(3) Muson, grugno, muso lungo.
(4) Prestinèe , fomajo , panicuocolo. 11 Cavour ne* suoi discorsi par-
lamentari ha adoperata la parola pristinajo, che è di pretta orìgine
latina.
han raa on gran dìsnà. Lu, quaml l'ò fenlì e1 disnà, el va
dentei' in tl'on lontl e el seguiu a sbatt i al: ei glie fava
and:'! adoss lult i gott de conza (1) a la sposa. E la ghe dis: —
» Guarda, ciall [2),clie le ra'hè smaggiàa(3) tult el vesHì.» — E
lu, l'ha dill nielli. A la sei'a ci va a dormi con la sposa:
r ha lassadn indormenti!i e T ha seguil:ìa a beccalla lln che
l'ha rada mori. Dopo lu, la manina l'è levàa su e l'è an-
dàa via e r è restìa via on seil o volt di. Dopo el von a casa
e e) comincia ancamò a (à tant de muson. 1 so gentlor ghe
dimanden cossa el voreva; e lu, el ghe dis ancora ch'el vo-
reva toeu miòe. E lor gh'han dilt ancamò a sto preslinee se
el voreva dagh anmb ona Iosa per sposa. E lu ei gh'ha dill
de sì. Dopo sposada han faa ancamò on gran pranz e lu el
va denter anmb in del lond, sbnlt i ali e gh'ha Taa andà su
tutl i golt in del vestii. E Ice, la sposa, la ghe dis: — « Sta
• quieti, ciall, che le me smagget tult el vesth. » — Allora
la sira el corhnttin l' e aiidàa a dormi con la sposa , l' ha
tassada indorraenlà e l' ha seguìl.'ia a beccalla che l' ha fàa
mori anca quella. Dopo lu a la mattina el leva su, el va via
per on seti o volt di, e dopo el ven a casa anmò, e el co-
mincia a fa el mu>«on, che el voreva loen mièe anmò. Allora
lor, so pader e soa mader. ghe disen al preslinee: — a Ve
» dem ona borsa de danèe, e di'n la vostra tosa per sposa
» ai corbatlin. » — E lor, ci preslinee e la Iosa, gh'han
diti de si. Quand l'ha avuda sposida, han fàa on gran dis-
nàa ancamò, e lu Tè andaa dentei' ancamò in del tond a
sball i al. E so pader el gh' aveva diit de digh nient. come
difalli a la sera hin anJaà a domili e el gli' ha faa nient.
L' è vegnìiu carneviia, el gh' ha dill: — u Varda che mi di-
a man, passaròo via de la porla vestii in maschera: e te fa-
1 ròo on basin. Varda ben a dighel a la mamma, perchè se
f li te ghei direi; <U'l turlurìt soni vegnùu e (IH turluru ior-
(1) Golia, goccia, gocciola. Conza o Cunsàa, candijncnto , salsn.
(2) Ciall, sioccD. CiMa. lenim.
Smaggià. macchiare.
— 206 —
n nardo cmdà, » -- Ck)me difatti V è passàa: el gb^ ha fta oo
basiD. La soa mamma Tha comiQCiàa a di: --^« Dimm^ chi Tè
» eh' è stàa che t' ha fàa on basiQ ? Se ti te mei diset minga,
D gh* el diròo al to corbattiQ. d — Lee infiQ la ghe V ha ditt che
rè stàa el corbattin. L'è passàa on mes, Tè passàa dùu, ei
corbattin r è andaa a casa pu. E lee la s' è imaginada de la
parola eh' el gh' aveva dilt L' ha fàa fe tre para de scarp
de fer, e la 3' è missa in viagg. In tutt i paes che la pas-
sava, la dimandava cunt per andà al paes del Turlulù. .Col
seguita a viaggia in fln la seguitava a piang e Ifha trovàa ona
porta: gh'era ona stria (1) in mezz e ona fila de tosftnn per
parL E sta strìa la ghe dimanda : ~ « Dove V è che la voria
» andà, 0 sposa? d — E lee la ghe dis: — « Ybo al paes
» del Turlulù. » — E la gh' ha cuntàa quel che Fé success. E
la gh' ha daa ona nizzoeula (2) a la sposa, sta stria, e on pe-
stonin (3) ; e la gh' ha ditt quand che Tavaria impienli d'acqua
de occ (perchè la piangeva, sta sposa) la trovarà on' altra porta.
Come di fatti l' ha seguitàa a viaggia e quand V è stàa pieo
el pestonin Y ha trovàa la porta che gh' era ona stria io mezz
e ona fila de tosànn per part E la ghe dis: — « Dove vo-
» rii andà, sposa? Dove vi, sposa? » — La 0ie dis: —
« Yòo al paes del Turlulu. » — E sta stria la ghe da ona
castegna e la gh' ha ditt: — <c Tegnii de cunt sta castegna,
» che la sarà l' occasion de fav andà insemma al voster cor-
» battin. » -— E la gh' ha dàa on alter pestonin e la gh'ha
ditt quand l'avaria impienìi d'acqua de occ, la trovaria on' altra
porta. Come difatti V ha seguitàa a viaggia. Quand l' è stàa
picn el pestonin l'ha trovàa on' altra porta: gh'era Dna stria
in mezz cont ona fila de tosann per part. E la ghe dis : —
« Dove vorii andà , sposa ?» — La ghe dis : — « V60 al
» paes del Turlulù. » — E lee , sta stria, la gh' ha dàa on
nOs e la gh' ha ditt de tegnii de cunt che sarà l' occasion per
{ì) stria, plur. slrij slrega, maga, fata, fatucchiera.
(2) Nizzoeula 0 NiscioeiUa 0 Niscioeura, nocciuola, avellana.
(3) Pestonin, fiaschetto.
I
I
— 207 —
andà insemnia al corbaUin. E la sposa la glie dimanda a la
Siria, se gh'cra ancsmò od pezz a riva al paes del Tiirlulfi. E
la strìa la gli' ha diU che se ved giamo el canipaoin e la
gh'ha insegnàa la maaera comi-, l'aveva de (i per andà a la
cort del Re, che l'era poeu el so corbaUin. Come di falli
rè andada a la porta del Re a dimandagli se vorcven cìappalla
pe fa la donzella (1). E lor gh' tian diti che ghen' bisognava no.
E lee, l'ha pregàa almen de ciappalla per cura i pùj (3):
e Inr l'han ciappada. On di l'era in giardin e gh'è vegniiu in
ment de romp la nìzzoenlu: e gh'è saltila' foeura ona bellissi-
ma rocca d'ora (3), che la lusìva tant che Ulti i ptij s' hin miss
a scappi). La Regina la gbc dis a la donzella: — r Guarda
» on poo quella cialla cosa Y ha Tàa che la Ik spavenU tulli
» i pùj. u — La donzella la guarda e la ghe dis: — « Se
» l'avess (le vede, sura Regina, che bellezza d' ona rocca
(c d* ora che la gh'ha la pollìroeula! L'è tanl bella, che la
» spaventa luti i piij I » — E la Regina la glie dis : — n Di-
j» mandela de sora. » — E la Regina la ghe dis a la polli-
roeula; — i Cosse l'è che le voenret a dammela a mi? »
~- E lee, la ghe dis: — « Nienl : solament ona noli a dormi
» insemma al so mari. » — E la Regina la ghe dis: — « Ben, te
» dormirei.! — I^e.ala sira, la gh'ha daa rindorraenlinna (4),
che l'ha seguiiàa a dormi lulla la noti, el mari. Quand l'è stàa
ìndormentii el corbaUin, la polliroeula la va in lelt e la seguita
tutta noli: — • 0 corbatto, o corbaUin, l'è Irti ann che viaggio
» per mare e per lerra, ho stracciato tre paja di scarpe di ferro,
» per venirti a trova, te. • — E lu, el s'è mni dessedàa. A
la manina, a bonora. glie va là la Regina e la glie dis: —
« Fuora, ftiora, pellegrina, che l'ha da entrar la bella Re-
{!) Domètla . cameriera.
(i| Pùj, pollo, polli; yvUii-ueula, pollnjuola, ^ii^irdiatia dc'pollì,
ftie de batte-oour,
(3} Veramente si avrebbe a dire òr, e non ora; ma ripeto, io
stenografo e non mi fo lecilo di correggere iieiniuaco gli spropositi
lividcnli.
(l) IniorniniHiviu per iiareolico, nuli c*é nel t^lierubini.
— a» —
p gina. » — E lee, la s'è lerada m e fé aodada de
(ìmwì V è <itàa el mezz dì la romp la cafltegna e salta fiiem
ona pò MVafipafl} ricorsi, la Iiisiva tant che cmt i pa| s^ìm
tfom a Mappa. Allora la Regina la gtie «l» a la dnaellai: —
tf Va mi pòo de basM; ame f ha &i qneOa daOa ?» — Al-
lóra la donzella la ghe dLs: — « Se Faveas de vedfe
t Regina, ehe bellezza d'on aspa die la gh'^ha b
9 rneoA^l ÌA \\ìsÀfigt tant ehe tntt i pAj se spaveatOL» — Al-
lora la Regina la ghe dis : — « Dimandeia de sorx > — E b
Regina la ghe dis a la poiliroenla : — « Cofise Tè cfae te fneorei a
» dammela a mi ? • — E lee la ghe dis: — « Voeori dorai
» on* altra nott insemma al so marL » — Allora b ghe
dis: — < Ben, te dormiret ». — La gh^'ha dàa aaeanb Fìa-
dormentinna al mart, ehe Tha dormii tutta b aolL Oud
rè sti^ indorment, la poiliroenla b fi in left, e b segata
tntta nott: — « 0 corbatto, eorbattin f r è trii ans che fbg-
» gio, per mare e per terra: ho straeeiato tre paja di acarpe
» di ferro, per ? enirti a trova' te. » --- A b matthina a Ink
nora b va in stanza la Regina: — « Fnora, fiiora peOegrba,
» ebe ha da entrare b belb Regina. » — Allora b polfi-
roenb la va de bass e b ra ancaroò in gbrdìn coot i pdg.
Qoand Tè stib mezz dì b romp il nos. Allora glie salta fideora
ona beliMsima carrozzella d'ora che b correrà attoma per et
giardin de per lee. Allora liitf i piij s' hin miss a scappi. La
Regina la ghe dis ancamb a la donzella : — « Va on poo de
ft bass, giiarrb cossa la fa la polliroeula. » — E la ghe dis:
— « Se Tavess de ve^lè, stira Regina, che bellezza d'ona
9 carrozzella che la corr de per lee per el giardin ! e tutt i
» piii scappcn. » — Allora la Regina la ghe dis: — « Di-
» mandela de sora. » — E la ghe dis : — « C!osse V è che
» te vocureta dammela a mi? » — E lee la dis: — « NienL
9 Voeuri dormi on' altra volta insemma al so corbaltin. » —
\jA Regina la ghe dis: — a Che dalla che te set! L'è minga
n méj che te ciappet di danèe? Ten doo fin che ten voeuL »
(1) Aspa, a.spo, ria s pò.
- E lee la ghe dis: — « Voeuri minga on cenfesim:
■ dormi on' altra volta ìnsemma al so corbattio. » — El Re,
el capiva cti* el stava minga tant ben a bev quella robba là,
e lu iflsambi de bevela, Tha trada via. La Regina te sa-
veva no. Quand l' è sta indomient, la polliroeub la va in lett
e la comincia: — a 0 corbatt, o corbattin, l'è trii ann che
o viaggio per mare e per terra; ho stracciato tre paja di
j> scarpe di ferro, per venirti a trova te, •> — Lu, el comin-
cia a fa <uidà la testa. Lee la toma on' altra volta a di l'i-
sless: — « 0 corbatt, o corbattin, l'è trii ann che viaggio
n per mare e per terra; ho stracciato tre paja di scarpe di
D ferro, per venirti a irovà' te. » — E lu, ei se disseda. Lee
la torna a dì on altra volta; e lu el dis: — • Ma chi te
• set? > — E lee la ghe dis; — • Sont quella tal, che te
> m'avevet spossa e pocu le m'hé abandonada •. — Allora
lu el ghe dis: — « Come 1" è che f he faa a vegni chi ? » —
Lee, la gh' ha cunlàa tutt come l'è stÀa. E lu el ghe dis:
— e Ben, mi faròo Gnta de dormi, quand che ven la Re-
» gina; e ti leva su. Poeu, la pensaròo mi, bella. • — Lee,
la mattina a bonora, la va la Regina in stanza e la ghe dis:
— • Tuora , fuora pellegrina , che ha da entrare la bella Re-
• gina. • — Lee l'è andada io lett insemma a lu, la Regina.
Dopo lu, el se disseda, el dis: — « Àdess, mi levi su, e U
• -Sta pur chi a dormi. > — E lee la ghe dis:— • Si; stòo
• chi on pòo tard, perchè me senti minga ben. • — L'ha
la&sada indormentà ; el gh' ha daa el foeugh al lett e ? ha
brusada in lelt. Dopo V è restada 1* altra per soa sposa.
/'Contìnua^
BIBLIOGRAFIA
Osservazioni intomo alla Relazione sui manoscritti d^ Ar-
borea , pubblicata negli Atti della JR. Accctdemia delle
Scienze di Berlino del Conte Carlo Bandi di Vestne. —
ToriDO, Stamperìa Reale, 1870, in 8.^ di pagg. LXn-152.
Ninna controversia letteraria fd a' nostri giorni trat-
tata con pari energia e costanza a quella delP aatentìdtà
0 falsità delle Carte d' Arborea , poste in luce dal celebre
letterato , commend. Pietro Martini. Sin d^ allora cbe esse
apparvero, molti eruditi uomini, si italiani che stranieri,
opinarono prò e contro; e bene a ragione, perchè con
tale pubblicazione si veniva in certo modo a sconvolgere
la storia letteraria de' primi tempi del nostro volgare, e
a togliere il primato a certe Provincie, che fino allora
aveano goduto. Fra i dotti che più animosamente ne so-
stennero r autenticità è da annoverarsi V illustre Conte
Carlo Bandi di Vesme , Senatore del Regno , il quale fer-
mò sempre T opinione sua sopra argomenti gravissimi e
validi quanto altri mai. Se non che vedendo che le dub-
biezze pur seguitavano nell'animo di parecchi altri valen-
tuomini, per amore agli studii nostri, standogli grande-
mente a cuore che una volta , se possibil fosse , si venisse
a conoscimento della verità e sincerità di quelle Carte,
deliberò sentir V opinione su tal proposito degli eruditi di
Germania. Onde nello scorso anno, essendosi trovato col
sig. Mommsen , membro della R. Accademia delle Scienze
— 211 —
rluM), io ìDTìtò perchè si àesse cara d'inaorre quel
celebre Consesso a prendere Ìq esame la iiuiìiUonc, e giu-
dicasse. L'Accademia tenne Piovilo; e, avuti a sé alcuni
(ti qtioi manoscriUI, dopo grave considerazione, un per uno
que' dotti uomini, tutti sentenziarono in WHilnirio airav-
viso dell'illustre Conte di Vesme e de' suoi [tartli^iaut.
A tale inaspettata sentenza il noijilc lelterat'j non ìkI>ì-
gottì punto, né si dette "per vinto, anzi valoro.samente se-
guitando nel suo aringo, ha risposto ne) sopra allegata
Tolum» ad ogni eccezione di que' falorosi Aecadeoiid,
QOD cbe ad altre, ria via che ^ie oe eorren il dettro,
da diversi studiosi mossali contro, e eoo (Mia faUdiH
dì ragioni , pare a noi , e à etlkatemealB , die ooa
molto dovrebbe restare oggimai da aggjangani io eootr»-
rio. Ma eoa lutto ób cgti ooD prenuM ìoippdlatiélea mio
giodizio, anzi eoo siogobre nodettia sellila, dioend»:^
Mio scopo è di promaofcre TMase e te dwwMooe; bcp*
^ cbe altri si an«iifa al ab aè MtUlnà paóaitt : Utif^
diffio^ià resmo a soperareL La eofitì e b pmieoM éib
soapetU, sopntliitto m pilo rifaarda i piimm0étMt
Imgaa italiana, kUmk 1 Mto «aarinto 4tNe wmm
teoperie a Iran nipwin tmtoimt» ifaml» ■eoaanrf»'
iDeale EKxmno tapfom A le Mlitfe, ^ le ikme mah
fitiaalchari — E qa aaa è MMava letta fa leS'
dMin e il «no d^'ilMre mmp. Ì ^f* «eie caÉMe-
■Mole e rmfriii le JpnrirJ <fce < mrem— >, li pwgr
■ ftaanMbiiae «he aéwMMi
Baine Mk le Carte «^M*-
proprio il caieA ifec Mi ae^taB* atti i
— 212 —
piccola mole: esigerebbe, ed esigette di fatti , il lavoro di
più anni il solo trascriverli dagli originali in odierna
scrittura; a comporre il contenuto non basta la vita di
un uomo. Ed oltre il comporli , si pretenderà che quel
creatore di cronache e di altri scritti , tra loro di lingua,
di stile, di forma e di argomento differentissimi , che
quell'autore di bellissime poesie sarde ed italiane abbia
passalo un terzo della sua vita a finger croniche antiche ,
un altro terzo ad avvezzarsi a poetare in lingua arcai^
ca, e r ultimo terzo a simtilare antichi caratterii
Ora , comunque su ciò possa giudicarsi , ad ogni modo
egli è pur cotesto uno strano avvenimento, e anche noi
ne facciamo le maraviglie, molto più considerando la na^
tura dell'uomo di lettere, il quale cerca fama e gloria e
non desidera per le sue fatiche rimanersi ignoto né senza
premio. Comunemente vediamo che in coda a un misero
sonettuccio, ad una sonnifera canzoncina-, ad una pedan-
tesca novelletta, ed uno arcadico ragionamento vuol pur
l'autore ficcare il suo riverito nome colla credenza di
guadagnar fama, non altrimenti che rumile fraticello ai
piedi d'un suo arruffato sermone. Quindi noi non cesse-
remo dalPammirare la modestia , anzi la bizzarria di colui ,
che a solo divisamento d' inganno , abbia speso tutta la
sua vita in simile ciurmeria senza proposito alcuno di bene.
E le nostre maraviglie tanto più van crescendo nel pen-
sare che cotest' uomo continui pertinace a nascondersi ; e
che , lui morto , non siavi amico , né parente , né cittadino
che il sappia o il voglia manifestare I Cotesto é un verace
mistero! Se ciò avvenisse, egli otterrebbe senza dubbio
plauso non comune dell'aver saputo così bene condurre
l'opera sua da illudere per lungo tempo una numerosa
schiera d'uomini eletti, e il giuoco suo tornerebbe oggi-
mai compensalo, e gli si perdonerebbe la frode. Se non
si cessa tuttavia di tributar lodi al Leopardi per una con-
— 213 ~
t di stile e di lingna fatta in quel suo Martirio
ié' Ss. Padri, da lai spacciato per del 300, e per tale da
Diolti allora credulo, or cbe cosa si direbbe di cbi tanto
prolODgò la baia in aliare si maggiormente importante . e ,
fiogeodo DOQ solo il contesto ma eziandio i varii anticlii
earatlerì, seppe aumentarla ed accrescerla in forma da
doTersi ricorrere ad un'Accademia delle più celebri d'Eu-
ropa per averne un gindicio? Certo costui sarebbe da am-
mirarsi e da rigaardarsi come Unica per le isvarìate e in-
comparabili sue abilità. Qui non ci ha che dire : il fatto
per sé stesso e grave : l' incertezza continua ; e chi difen-
de r autenticità delle Carte d'Arborea, potrà, a nostro
arrìso , gridare viiioria, Qnchè con assolute prove o al-
meno, con sotDcienti ìndizli , alcuno , conoscitore a pieno
dei luoghi e delle persone , non dimostri chi sia lo stre-
nuo e ardito falsificatore.
Notevoli e da prendersi in considerazione sono altresì
certe teorie poste in campo dal sig. Vesme sulP origine e
sull'indole della lingua italiana, delle quali si tocca in co-
testo eruditissimo libro. Dalla pag. 113 alla 126 stanno,
in Appendice , Rime edile od inedit« di Gherardo da Fi-
renze, di Bruno De Thoro, di Alberigo da Siena, di Tor-
bem Falliti e di Antonio Pira da Oristano, aggiunto a
provaro che ne quella lingua né queUa poesia non possono
essere opera di un odierno falsificatore , e che inoltre la
elidente diversità dì lingua, di stile e di ogni altra cosa,
dimostra che appartengono a varie età e a diversi autori.
Dalla pag. ^27 alla ISl sta una Bisposta all' articolo del
sig. Girolamo Vitelli contro le Carte d'Arborea, pubblicato
Beli" antecedente dispensa del Propugnatore.
Uno della Commissione.
i
— 216 —
ì propri! studi! e V opera con quante sono in Italia asso-
ciazioni educative. Scrivendo queste parole di proemio non
intendiamo di venir fuor! con larghe promesse, le quali
spesse volte non sogliono essere adempiute; ma fin d'ora
promettiamo di attendere al compito nostro con buon volere
e con operosità.
Propugneremo la libertà delPinsegnamento; procurando
che a questa siano veramente informati gli ordinamenti
della istruzione primaria, della secondaria e della superiore.
Della libertà comunale in fatto di studi! ci faremo promo-
tori. Avversi alla pedanteria, sotto tutte le forme la com-
batteremo, studiandoci di trattare la pedagogica con ragio-
nevole larghezza di vedute col giovarci dei lumi della
esperienza. Per questo speriamo che le nostre ossenrazioni
saranno sempre informate a un senso pratico, e che pos-
sano riuscire ad utile vero degli insegnanti e dello inse-
gnamento. La istituzione di biblioteche popolari e curco-
lanti promuoveremo ; ben comprendendo come a diffondere
la istruzione queste contribuiscano, e ci sforzeremo che
le grandi biblioteche diano indizio sicuro del progresso
dei tempi per buona scelta di opere, e riescano per sa-
viezza di ordinamenti agli studi! ed agli studiosi di van-
taggio. Di uomini e di cose giudicheremo con franchezza,
sine ira et stìidio; ed oppugnando le idee, rispetteremo
le persone e la libertà delle opinioni.
Con questi intendimenti cercheremo di promuovere
r incremento della istruzione e della educazione. Non ci
dissimuliamo che il nostro compito è difficile; ma noi
abbiamo fede nel vero, e crediamo che V efficacia di questo
debba trionfare sui pregiudizi! degP insipienti e dei nemici
del pubblico bene. A compiere quest'opera invochiamo
r aiuto dei buoni, e di quanti si fanno propugnatori della
morale e civile educazione del popolo.
I Compilatori
ì
— 217 —
n Periodico si pubblica il 1." ed il 15 di ogni mese.
L' associazione è obbligatoria por un anno, pagabile Lire S
a semestre, Lire 8 ad anno, anlicipalamenie.
Un' azione di Lire 30, da soddisfarsi a mese, dà drillo
a 6 copie della fìivista.
Un solo ninnerò costa Cent. SO.
LETTERARIO ROMANO
Or sia la Iwne arrivata cotosta nuova Istituzione let-
lerarìa ! È troppo necessario ne' presenti tempi, che gli
nomini dì lena e di buono intendimento si dieno attorno
con tutla r energia a discacciare le barbariche guise oltra-
montine che anno invaso il nostro suolo, e a sorreggere
foir opere loro e difendere le glorie nazionali. Dagli illustri
nomini che la compongono, chi potrebbe non prevederne
un ottimo e sicuro riusclmento? Noi ne meniam festa,
perchè siamo certi eh' ella tornerà degna de' valentuomini
che la istituirono e della città ove venne fondata. Ripro-
darremo qui appresso il Programma: —
Compiutosi appena il memorando avvenimento del 20
settembre 1870, il Sig. Cav. Enrico Nardocci si rivolse a
parecchi illustri suol amici, proponendo loro di comporre
un'associazione patriotica e letteraria, i cui intendimenti
sono indicati nel seguente manifesto:
I sottoscritti, valendosi del diritto di libera associazione,
e persuasi delle seguenti verità incontrastabili:
1." Che presso i popoli civili la coltura e floridezza
delle lettere segna II progresso intellettuale, onde nasce
la loro relativa prosperità e sicurezza;
i
— 218 —
%"" Che ciascuno, secondo suo potere, è tenuto a
promuovere il decoro e l'utilità della patria;
3.** Che molle aberrazioni politiche, le quali condu-
cono a decadimento e rovina gli stati, sogliono nascere
dalla ignoranza;
si sono costituiti in Circolo Letterario Romano.
Intendimento di questo Circolo è di propugnare l'onore
degli studi, caldeggiare i provvedfanenti che possano favo-
rirli e combatter quelli che potessero nuocerli ; rivolgendo
ogni suo sforzo al buon andamento della cosa pubblica.
Proponendosi il detto Circolo di giovarsi a questo
fine del concorso d'uomini chiari per ingegno e per dot-
trina, in Roma e nel resto d'Italia, ascriverà fra i suoi
socii chiunque sia proposto da tre dei sottoscrìtti, ed ap-
provato da due terzi almeno dei medesimi.
Con altro manifesto sarà indicato il luogo delle adu-
nanze.
Francesco Cerroti, bibliotecario della Corsiniana, PREsmEKTE
Rocco Botnbelli
Paolo Emilio Castagnola
Ignazio Gampi
Costantino CorvisieiH
Domenici) Gnoli
Basilio Magni
Achille Monti
Enrico Narducci
Antonio Stefanucci-Ala
Gustavo Tirinelli
Oreste Tomassini
Roma 30 settembre 1870.
Appena il detto Circolo sia definitivamente costituito
se ne darà avviso mediante pubblica affissione, ed inserzione
nei principali giornali della Capitale.
ANNUNZI BIBLIOGHAFICI
Orlilo otHa il bandito Siciliano.
CmUi Xlldi Carmelo Piota, tra-
tporlali III italiana favella dal
pnf. Giuseppe Cazzino. Paler-
mo. AmetUa. 1870, in IS.° di
fOQQ. Vili — 918.
È ili«Ì9o m dodici canti; tra-
dotto in felicissime e spontanee
MUve, non altrimailì c)ie era da
uptttarsi, dalli penna elegante del
prót caT. Giuseppe Ga»ino, il cui
tatore nelle nostre lettere già da
huH) tempo è a latti nolo.
Precetti ed etempi di Mort^ità
civile esitosli da LrctANO Sca-
luetLLi per l'educaiione dei
giovinelli ifoliant d' ambo i
itjii. Milano. Treva. 1870,
in 8.° di pagg. 33i.
Sono molte Novelle morali in-
trecdaie con ragionameniì oppor-
tuoi a bene educare la giovenlù
iudiana. L'opera é scritta con i.^pi-
(liaU eleganu : sarebbe prodlle-
tole mollo che corresse per le
nani d'ogni bejie inclinala &mi-
tlìa, e che i padri e le madri la
oesùro per lettura quotidiana a'
loro GgtÌDoIL
■Btwfl pugile dell'Avvocato Is-
NOCEK») Pahti. Imola. Galeali,
■1870, in S." di pagg. 88.
Vi sono jHKsje originali, e
tndoiioni dall' inglese, dal francese,
(bl latino, dal tedesco, dallo sp»-
pmolo e dal fnco. Ci raileeriamo
coir erodilo pome che alma sa-
puto informarsi di tante lingue eu-
ropee da tentare la Irasformaiione
nella nostra letteratura delle bel-
lezze delle lìngue morte e delle
nazioni oltranioRlane.
L'ultimo dei Patrisii vewzia-
ni. lìaeconto di Francesco Fa-
panni. Venezia, Cecchini, Ì810,
in 8." di pagg. 139.
Curiosissimo libro e molto
utile ancbe dal lato storico. Si to-
glie il racconto dal 1787 e va lino
al 1809. E scrìtto con molla di-
sinvoltura, con atiieismo e con
tstile piano e làmìglìare, ctie assai
piace.
Versi di hw,\ Celli. Imola,
Galeali. 1870, in 8." di pagg.
205.
Molle poesie di varìo eenei^
contiene questa raccolta: v'ba del
mediocre, pare a noi, ma più as-
sai del buono, Mori l'autore quando
la stainpa era condotta lino alia
pag. Ifli; e, quel ch'i jieggio,
mori il' amore. Negli ultimi giorni
dì sua vita dettava la seenenie poe-
sia contro la tidanzala cbe ^lì rup-
pe fede; la quale olTero qm sotto,
non come saggio del migliar suo
poetare, ma per la sua specialità
e novità.
A MARIA G....
A km U Irudna.
— 220 —
f flMTti «•• eh' i» ét0m« al
yff^Ham mmu b rtàAM min i
T« ftei Mia <k»<t»a «4 » tv> <avaS
T' b/i 4a f.nùAmt In «mi.
B«l«r«ai. b«:kr«»» e u «4 w
Co» IMI vbeieln »tt'4u ìa bnuMi faéMcftì;
e aui B«^rfi ureai itJAcfci.
Sc4o 4«i falG al Uno canto, qau^
L'avara Uir« noi ftfMrili rarria,
Ta Mi niM» avello d/iraurai. po«aa4o
Fra le oue ««jnie faraeaa.
Ma Doo «p«rar, f>^ rma rh^ ti d««ti,
Sóorti pfà mai dal fnMldo aUbraceiiiftoc
L« prooMM* 4' »flMr rbe U mi feali,
ffoii •« 1« porU il vesto.
Ta la fe mi finrafti! io la reclaoM»!....
Gisro «(piai mi chiedenti , e td formai;
IhuMfue Kbel«(ro aiMror f<oMo dir t* amo.
T' amo. e to mia «arai !
ftarai? rb4 diMi ! il mì. Dormi qoa meco ;
Non t'impasra ai vermi amor verace!
Qoal due «ia letto, vs lo «poM è aeco,
Ad <Yiu iipo»a |>iace!
fte la tlanza di notte k mal fonùla,
Di le ti dolf a che nm voletti ;
Noo ho più i bari rbe tradiiti In Tita,
Or ti dèi prender questi I
Mal ti appoaetti ron qsel tno tradire
Di eatonoia aiutato e di Kooforto!
Fu colpo, è ver, cb* io ne dovea morire.
Me laMo, e ne aon morto I
Son dì »rhele(ro i bari ; or tu K saggi,
rii li tof ^e*ti nn di col labro infido,
mi fuggi te puoi, se puoi mi faggi f
lo mi ti avTÌnghio, e rido!I
Le Rime di Francesco Petrarca
col tomento di Giuseppe Bozzo
(Volume primo). PalerrìV), Tip.
di Michele Amenta, 1870, in
8.*» di pagg. XL — 392.
Ecco il primo volume delle
Rime del nostro maggiore lirico,
nuovamente comontate da un va-
lentuomo: vi si contengono tutte
le poesie in vita di madonna
Laura. Un aggiustato proemio é
anteposto alle rime, cui succede la
vita dell'autore. Le chiose sono
molteplici, ma esposte con brevità
0 con chiarezza. La sobrietà è una
delle migliori doti, pare a noi,
d'un comentatore, da che la pro-
lissità suole incenerare noia e non
di rado concisione. Quelle disser-
tazioni, che alcuni usano ad ogni
e iB wmto a
Alb ne, 355
^ che i
TWcnte di
ì sa-
fili-
Àc-
trftk
I
onesta r-— —
361 alh 383,
pra h prìm parte: ìa fi
dici. Semfaraa cbe aoko
Tofanoite
tcnziò, che qnfslo bforo
e eofntmdnoU.
Liriche sedU di Patii Jkmm^
ni, versione di ksncnao Db
MiJiCHi seghila da «n Compem-
d» storico deUa ìeiiermiìsrm te-
desca antica e moderna. Pater'
mo, Giomaie di Sicilia, fSTQ,
in 8.^ di pagg. 224.
Importano assai qoesle Uri-
che, ffcrebò ci danno mi saggio
del roigUor poetare Akomiio tra-
sportato molto nofaflmenie nd no-
stro nazionale linguaggio. Ma im-
portano anche più, a nostro aniso^
le preziose nozioni storìcbe di qaeBa
letteratura antica e moderna, esporte
con grande erudizione: si tolgoBO
dalla pag. 121 e Tanno sino alb
224.
L' Adriana da Castigfiooe,
tragedia dello stesso illustre Anto-
nio De Marchi (Palermo Lanriel,
1870) ci sembra condotta con tutte
le regole dell* arte e degna di star
colle meglio che sicno uscite a
questi tempi.
Storia dell'Isola di Cipro nar^
rata da Romualdo Cannonerò.
Parte prima. Imola, Gateati,
1870, in 8.*» di pagg. Vili — 1 16.
Eleganza di stile e gran disin-
voltura parci che spiccano in co-
testa operetta, la quale ci rappre-
senta al vivo con particolare bre-
viloquenza un buon perìodo di sto-
ria antica. Questo prìmo volume
fa desiderare il seguito con solle-
citudine. Al pregio dell'opera ag-
!•« Fa
Favole di Fedro Uberto
Axtg\t*io, tradotte in vario
Irò da Cf,s\i& CwAnA. To-
ParoDÌa. 1870, in 8." di
ISO.
Felicissima v
< dell' illu-
0 collega cav. Cesare Ca-
nra. Il nome dell' autore è pà
nolo da buon tempo per gli ongi-
luli suui Canti popolari, che gli
piadaparono loaidovunque. Questa
«ersione di Fedro può slare, per
KWtN) avTJso, al paragone delle
meglio ctie fio qui si vedessero.
NoTelle ad uso dt' Giovani,
leelle dal Deeamerone di Gio-
r*NNi BoccACcro, ìllmtrate dai
proffsiorv lìa/farMa FomaeiaTi.
Milano. Betloni. 1870, in 8.°
di pagg. SXIII — 380.
Altre Scelte delle NoTelle del
Boccaccio aTemmo da registrare
Bd BuUrllim Bibliografieo del
Propvgrtalorc. lodandole con in-
thoocontiacimento sopra tutte l'al-
tre cbK in antecedenza eransì fatte;
ma coicsta dell' egregio sig. pror.
FoniBciari sembraci, a dir vero,
die M quelle porti il tanto, quoti-
UDqvp le Novelle non sieno che
por Tentiduque. L' accorto editore
non MUmeale volle adornare il suo
Mto d' utilissime note Glologìche
e gramaiicoli , secondo che altri
fece, ma ben anche si propose e
cani di br gustare agli studiosi
Utij que' brani piCi segnalali che
vi a' incontrano, rendendo ragione
ginsia di toro speciali bellezze.
Sassi di bigologia dei ■profet-
MOre Sae. HaITAELE DI FRANCIA.
mVolutM primo/, liessina, 1S70.
"■■ . UV — 98.
..«'optra, piena, a parer
I, di pforonda dottrina e di
lilosofica entdiziane, merita t'eaen
Iella ponderatamente e meditata da
chi ne volesse dare nn adeguato
avvisa. Dn questo primo Tascicolo
è a giudicarne assai vantaggiosa-
mente, e noi ne diremo qualcosa
di più, compiuta ch'ella sia.
Q. Orati! Flacci epistola mi
Piiones ex odo codio, nui.
Bibliolheeae NeapoHlanae, cura
ae studia SciPlONis Volpiceixab
edita — Dell'arte poetica di
0- Orasia Fiacco, versione di
Scipione Volpicella, Napoli.
Lombardi, 1870, in S° Di
pagg. 56.
Fra la moltiplicità delle ver-
sioni dell' atlegaln operetta, cotesta
del sig. cwfalier Volpicella & senza
dubbia una delle pi(i fedeli ed
eleganti. Ha per soprappiù il testo
latino a fronte, pubblicato conforme
alle lezioni di otto codici mano-
scritli, che presentano talvolta va-
rietà di lezioni importantissime.
Breve dell'arte degli ora/i Sen^
si, testo di lingua pubblicato
con noie da ÌAichkie Dello
tlusso. Napoli, Ferrante. 1870,
m 8." Di pagg. 60.
È un buon testo in lingua
sanese, che il Sig. Dello Russo,
instancalnle pnbblicatorc di antiche
scritture, ha ullimamenln riprodotto
a bene degli studiosi. Non è perd
né inedito né raro, da che crasi
S'à prodotto lino dal 1839 dal
>tl, Giovanni Cave, e poscia, nel
1854, dal doti. G' Milanesi,
Ricordo di Michele Pitrantoni,
per Emuco RiiiOLn. Lucca,eoi
tipi di B. Canovetii, 1870, in
8." Di pagg. BS.
Pietoso uflicjo fornì il signor
Enrica Itidolfi nel dettare e pub-
blicare cotesto Kicordo d'un affe-
zionalo amico e d' un egregio )et-
— 222 —
tifato ìlaiaBo, U cui immatara
morte Doo è imi abtastania com-
ponu, e noi giene trìbatìamo le
Dìà sÌDgobrì grazie. Egli il fece
da TalemaoiDO come è, e lasciò
proTa di verace amistà, di pietoso
Cittadino e dì Taknte scrittore.
Sonetti jopra rari argomenii
dtl ML Cat. LCC\ VlVARKLU
ora insieme raceoìti. hnola,
Gùleati, 1870, in 8.' Dipa9g,Z±
n nome dd sig. caf. Tivardli
è oggìmai noto amstania per la
Tanrtà e moltiplicità de' suoi com-
ponimenti in prosa ed in tersi : più
Tolte aTemmo cagione di fore ricor-
do di cotesti suoi kiTorì, e più Tolte
accreditati giornali d'Italia gliene
tributarono meritate lodi, quindi
noi non ci diffonderemo su questa
raccolta di ^ Sonetti di Tario
argomento, pubblicata per nozze,
contentandoci soltanto di dare un
componimento per saggio, affinchè
il pubblico giudichi un poco di per
sé stesso.
n MORTE DEL PROF. G. GIBELU
^1 it^f 4*uiiciiia iifaiitt
lai, tnàè lirlt, • filiti 4i«l rictilti
Ptilr* il ai* ciir! C«bc ìi ii huf hii ? «lu
Opi HiTÌt« ài aii f iti il piait« !
Nii hiic ulte, Bi èli feri ii tuli
CneiHc aair ci iiii entri U tUlt«
lifirlar, che fial lel fiig« arralta
U WIU Itile che fi lettre raite.
Ifli celi* irai i\ Seta l' errare
A eeakatter t' aceiite, e tatti i taggi
Slipiniie (1) il léir tute ralere ;
le leitii ceglì eteapli: tà er, ae latte!
Sem Ili tei piiieti erbe ài riggi,
Ile te che finger lerri il fredde tute.
Senofonte, Ricordi di Socrate:
Saggio di volgarizsamento di
(l) S'allude al suo libro sui prìncipi
di letteratura che quanto prima verrà m
iure.
Enea Pigcolominl In Firense
coi tijpi di M. CeUini, 1870,
in S,^ Di pagg. 18.
Consiste questo prezioso sarao
nella Tersione dei Capitoli n, vii,
VI del Libro D, e del lU dei Ri-
cordi di Socrate : ce ne par bene
assai, e ce ne congratuliamo col-
r egregio traduttore.
Due Centurie delle iscrizioni
italiane di Carlo Pepou. Bo-
logna, Romagnoli^ 1869, in 8.^
Di pagg. 96.
In questo fascicolo non si
contiene che la sola prima Oenith
ria: in uno successito siconterri
la seconda. Noi non sapremmo di-
Tisare se il celebre autore sia pift
benemerito cittadino o Taloroso
letterato. La fama sua è assai nota
in Italia e fuori e non ha Msogno
delle nostre parole di lode. Bene
noi non ci rimarremo dal dire,
che in questa raccolta di epigrafi
Te n* ha parecchie, che non si
Terffognereobero andar del pari con
quelle de' più illustri epigrafisti iti-
lianL
Topographia lunensis orae Car-
men Baltassard TARAVAsn Ca-
nonici sarsanensis. Genova ,
1870, in 8.^ Di pagg. 28.
È un caro libriccino messo
fuori dall' egregio signor Achille
Neri, studiosissimo del nostro vol-
gare idioma: al testo latino del
Taravasi, che fioriva nel secolo 16**,
sta di fronte una buona Tersione
in terza rima d'Anonimo de' tempi
nostri. In fine non mancano assai
note storiche ad illustraxione del
testo. *
Memorie care. Imola^ Goleati^
1870, in 8.*' grande. Di pagg. ia
È il conte Pietro Codronchi
che dedica alle nozze Rufini-Vi^eti
coleste Memorie care, che consisto-
no io Olio brevi poeiici e leggiadri
componJniFiili. Un cuore pieno d'at-
retti, un mimo gentile, seosi i pib
nobili ci sembra che spirino d'ogni
lato cotesti Tersi. A prova dì quanto
dissi, eccone un saggio:
V ORFANELLA
U, U I1.L..'^Ì: FiDciuTli. chs biH
Ed fiU*. &j>]nrBtida : OgEi hn perdiiLo
U «*rdu «Bla. povimi hodiilli,
CU U «nbrll?... Quella Bum vure ^
Redole grammaticali fier gli
aluniii lU'lla 2.' classe elenu'n-
lart 'kl Prof. Pasqumj; Piazza.
ÉPaiermo, tip. Mirto. 1870, in
9.' Di Pm- 32.
Queste BtgoU grammatieaii,
e non sono che un compendio
d'opera maggiore dello stesso illu-
Kre Lelt4?ratD, esposte con brevilì,
DM con lingnlarc chiarezza, debbono
loniar di ^ndc utile agli studiosi
Alile classi dcmeniarì, e noi ne
ónA tabnenle conTinti, che se
■TCSsimo giovanelli così (alti da
ammaestrare, tosto lo adotteremmo
ndb nostra Scuola.
CommemoraBÌone ikl dottore
Fr-WcescoGrott ANELLI tiiì'5an-
li da Siena Idrato, Guaiti,
1870/, "i 8." Di fogg. 30.
QoMto breve Commentario 6
odio or ora: appartiene all'aurea
paioa dell' illastre Mons. E. D. r.
di V. e P. In e&so Tan bella piova
inmane la pietà, il caldo alTcìto e
l'deeanio "^"^ dicitura: v'ha tutto
eiA insomma die si possa desiderare
di tncglin in un leggiadro compo-
oiiDrntoi stccliÉ la memoria del
Imo e buon Crottanelli ne vico
proprio onorau. In Qnc, alle Noie,
si produsse una breve lettera di F.
Zambrìni, indirllla al Groil^nelli
medesimo sin dalli 19 gennaio del
1868, colla quale egli invitava quel
bcnenierito a collaborare nel Perio-
dico il Ptvpugiialore. Ma chi ebbe
cura della stam;» non scrini Tedollà
all'originale, lasciando correre d'Ap-
pendi-ee della Collezione iovece di
Oli Appendice della CoUetìone, e
più sotto insana di popoli per
iruana di ipoeriU: ÒA ad amore
del vero.
Firensi\ Tiitiigra/ia del Voca-
bolario, 18fi9 (1870), mS." Di
paijg. X\IV.ÌU.
Sono preceduti da una dedi-
catoria al Marchese Ferdinando Pan-
ciatìchi Simejies, cui succedono
Giudisii di chiarissimi Latlerali
e Poeti italiani sui versi contenuti
nella «itata raccolta. Ai GiudUii
tengon dietro in primo luogo le
llitne Erotiche, poi le BÌ7m varie,
indi le Rime Politiche e le Bttrui
Saere. Sta in ultimo la tragedia
Giulio e Romeo. Secondo il nostro
avvisa, le Binus Erotiche sono le
meglio del volume, sicchf^ queste
preferiamo a tutte l'altre, quantun-
que in tutte il discreto leggitore
poirA cogliere lì ori.
Anche il sig. dotL Pancinlicbi
fece r onore al Zambrioi di produrre
fra ì Giudica una sua Lettera
conliJenziale, ina rpiivi incorsero
alcuni erromzxi, che propriamente
non uscirono, conforme veniamo
assicurati, dalla penna di lui. A
cag. d'es.: alla pag. XVIIIJin. 20:
merito d' alloro, invece di mirto
td alloro. Ed ivi pure, lin. 33;
stm» che gli si apparecchi un
briecioi di bene; in iscambio di:
icnsa che gli ti appiccichi un
briceiot dì bene.
i
-^ 224 —
Lettere di Andrea Bdonsignori
Oratore senese in Firenze in-
torno alla morte di Lorenzo il
Magnifico, con le risposte della
Balìa di Siena, ora per la
prima wlta pubblicate da Ce-
sare Paoli. Siena, BargeUini,
MDCCCLXX, in 8." di pagg. 24.
È un prezioso opuscolo pub-
blicato per nozze dal sig. Cesare
Paoli Le leltere sono 5, e to-
fflìonsi risguardare per altrettanti
documenti storici : furon tratte dal-
l' Archivia di Stato senese. Non è
libro venale.
Lettere inedite di donne illih
stri italiane^ dei secoli XV e
X VI temperatamerUe ridotte al-
la grafCa moderna, Padova,
Seminario, MDCCCLXX, in 8.*»
di pagg, 16.
Pubblicazione non venale, fatta
per nozze dal sig. ProC Cav. Fer-
rato. Le lettere sono VI e a detto
dell'illustre editore ricche di quella
naturalezza, di quella sponta-
neità, di queW abbandono che
formano il vero carattere della
lettera, eh' è appunto l'imitazixh
ne del parlar famigliare. Appar-
tengono ai sec. XV e XVI: ruron
tratte dall* archivio centrale dì stato
di Firenze.
Novella inedita d' autore senese
del sec. XVI. Livorno, Vigo,
1870, in 8.^ di pagg. 24.
Rara pubblicazione dell* instan-
cabile sig. Giovanni Pepanti. Que-
sta Novella che Gn qui era rimasa
inedita, fu tratta da un codice
della Biblioteca livornese. Quantun-
que la sintassi qui e qua sia un
{>oco intralciata ed oscura, pur
eggesi molto volontieri per gli
strani accidenti che via via fra di
lor si succedono. Lo stile e la lin-
gua sono conformi a quelli degli
altri novellatori della medesima età.
Se ne impressero soli sessanta e-
semplari per ordine numerati in
diverse carte distinte e quattro in
pergamena.
Novella inedita d' ignoto autore
del secolo X VII In Livorno Tip,
di Frane. Vigo, i870, in 8.*» di
pagg. 16.
Pubblicazione dello stesso sig.
Papanti. La Novella riguarda un'
astuzia d'un segretario del Duca
di Modena per mugner danari a
un Ebreo. Fu tratta da un cod.
Palat di Firenze. Se ne tirarono
soli sessanta esemplari in diverse
carte distinte e tre in pergamena.
Il Timore, Novella friulana di
Angelo Dalmistro. Livorno ,
Vigo, 1 870, in 8.°di pagg. XIV-U.
Fu tratta da un cod. della
Bibl. Patriarcale del Semin. di Ve-
nezia, ed ora pubbl. dal si^. Pa-
panti in soli 75 ess. in diverse
carte distinte, fra' quali tre in per-
gamena. In fine sta un'altra No-
velletta, intitolata t due Medici.
Detti e fatti curiosi e faceti
di Antonmaria Biscioni fioren-
tino per la prima volta stam-
pati sopra V autografo (Livor-
no, Vannini), 1870, in 8.* di
pagg. 24.
Elegantissima edizione di soli
16 esemplari tutti per ordine nume-
rati, dei quali tre in perj^mena.
È proprio un caro libnccmo, pel
quale i raccoglitori di Novelle deb-
bono saperne buon grado al so-
lerte editore, sig. Giovanni Papanti.
X.
LE PRETESE AMATE DI DANTE
DI e F. BERGNANN
Uno de' più iilusti'i cultori degli studìi dantesclii fuori
■Italia è senza dubbio il prof^ Guglielmo Federigo Berg-
Dncano della Facoltà di Lettere di Strasburgo e
ibro di quella Società Letteraria. Da olire a sei anni
i attende alla pubblicazione d'importanti lavori sopra
\jOiMnmedia e le Opere Muori del divino Poeta: ed essi
1 da tenere in molta estimazione non solo per l' assen-
Eza delle opinioni, ma ancJie per la grande e svariata
scenza che l' Autore vi mostra della letteratura italiana
1^ de* suoi classici scrittori. In conferma di ciò accade
lare come la sola Vision de Dante au Paradis ter-
re, stampata per la prima volta in Parij^i (Imprìmerìe
iale 1865) e ristampata a Colmar in Alsazia, (Imp. et
. Deker) sia stata tradotta in italiano e accolta bene-
mie da questo stesso Periodico (Il Propugnatore,
an. I. disp. V, gennaio-febbraio 1869). Che se fegual
sorte non è toccata ad altri opuscoli del valente Autore,
egli è a lamentare che in Italia rimangano tuttavia ignorate
molte opere profittevoli risguardanti assai da vicino le cose
italiane, e che. conosciute, con colpevole trascuranza si
tengano in non cale. Cosi, come og^ a' nostri dantofili si fa
maiiiresto il giudizio del Bei^mann sulla visione che Dante
Mippotu' di aver avuto al i'aradisu (erreslre a sulle forme
IM
1
— 226 —
simboliche da lui adoperate neir esprimere i suoi pen-
sieri; farebbesi del pari nolo ciò che il dotto Professore
meditò e scrisse della Poesia lirica nelle Opere di Dante
e di Dante poeta didascalico^ nelle lettere su Dante, sa
vie et ses ceuvres (Paris, Impr. Martinet 1865); di alcuni
passi della Divina Commedia travisati o fraintesi da' co-
mentari, negli articoli di Explication de quelques passages
faussement interprélés de la Comédie de Dante, (Paris,
Impr. imp. 1865); e delle Sestine di Dante, che pure son
da credere pubblicate prima in italiano a Bologna che in
francese a Strasburgo o altrove/ — Auguriamoci che pre-
sto cessi per noi tanta indifferenza, sì che aMolti forestieri,
i quali prendono affettuosa cura delle cose nostre, ne
venga riconoscenza e conforto.
Intanto un nuovo lavoro del Bergmann è venuto in
luce testé a Strasburgo intorno alle opere dantesche; ed
esso è tale che per P argomento, per la maniera ond'è
trattato e pe' documenti su cui si fonda, può reputarsi
superiore agli allri del nostro Autore e non ultimo tra'
molti scritti stranieri su Dante. Il suo titolo è: Les pré-
tendnes Mailresses de Dante, e leggesi da pagina 306 a
pag. 377 del voi. IV del Bulletin de la Société Littéraire
de Strasbourg. Tale Bui lettino corre in iscxirso numero
di copie fuori d' Italia, ed essendo quasi ignorato tra noi,
ho creduto non dover riuscire inutile una traduzione ita-
liana di quel saggio critico, ed ora la pubblico per amo-
revole eccitamento delT illustre Comm. Zambrini, cui la
R. Commissione po' Testi di Lingua deve la nxonfe aggre-
gazione del prof. G. F. Bergmann.
Nelle prétendms MaUresses de Dante V A. proponesi
mostrare che per una falsa interpretazione di alcuni testi
danteschi si è giunto ad attribuire a Dante fino a sette
amate, o amanti, o innanìorale: Beatrice Portinari, la Pietà
0 la Consolatrice, la Pargoletta, Genturca di Lucca,
— 227 —
E* Alpigiana, Pietra degli Scrovigni e Lisetta. In altrettanti
articoli l'egregio critico chiarisce i passi che riferisconsi
a quesli nomi: e, cominciando dalla Figlia di Folco, fa
osservare come,- personaggio reale, terrestre in origine, ella
fosse dicenula in processo di tempo simbolo della beati-
tudine, dama de' pensieri nelle ballate, personifìcazione
della beatitudine generale e però Genio del Cristianesimo
nella Divina Commedia. Morta Beatrice, Dante cercò e
trovò consolazione all' animo suo nella filosofìa e cantolla
in Dna serie di liriche e la incarnò in Gemma de'Donati;
se non che, convinto che la filosofia, questa fglìn ilell' im-
peratore deir universo, debba esser l'ancella della religione,
e cbe quindi la Consolatrice non possa tener luogo di
fede cristiana, tornalo al suo primo amore, cioè a Beatrice,
alla religione, egli guardò la sua passione per la fìlosofìa
come una specie d' infedeltà commessa agli occhi della
vera amata, che è il Genio del Cristianesimo.
I,a Pargoletta è la stessa della Consolatrice; quindi
la filosofia è l'Ancella della religione: l'amore della Par-
goletta, di cui è fatto cenno nel Paradiso terrestre, è
uoa chiara offesa all' antico amore di Beatrice beatificante.
Intorno alla Gentucca V A. fermasi sulla spiegazione de'
Tersi 34-93 del C. XXIV del Purgatorio, in cui ha luogo
lo incontro di Dante col lucchese Bonagiunta, che dà lode
al fiorentino del dolce stile non piìi udito delle sue can-
zoni; siile non adatto alla moltitudine, alta Gentucca. Nella
Alpigna n Montanina, sesta delle prétendues maitresses,
Bergmanii vede il nome poetico di una delle canzoni cbe
Dante esiliato indirizzò alla sua donna crudele, Firenze, per
cattivarsi T animo della parte Nera, e preparare il suo
ritorno in palria. In due sole sestine è cennato il nome
Pietra, ma esso non richiama a nessuna donna; pel Ber-
gmann vi è un'allusione all'alloro, simbolo dell'ispirazione
imelwa. La Li*eua fìnalmente non comparisce per verun
k
«HO sci erraci eff rÙDBt*r. ^àm- tit ooM laraote
X éimm -L n *^ni;f-::' £ -n i a^n» ?MCa pvla dei-
rsrwr- - oS.ijA SUI i«iBda3 e pensieri
wn^rr^j jci -TT'-r :Tizn nfcrir*!! * rinniiiiaiifi^i Dante:
^£1 liL'y «rissai -^ui auiia ciCwf i Boccaccio
: Tr-iin: i zrawb ?'»i«i &rsflUiK< Forse noo
nmt - T«T». > Ulti, ai-^ì^saoiie ii onssa» biwt>, cbè
n ini i' ir.i in-<: >!r i»^ -i-warroia arm^axi Y \, va
T-.Tip ..tr- ->-'.* :*f-^T>jr- Tw va— f -fjt te f«efa per m»
"a Tk^'dt iTTTj- ,v <ii.ii.s n ina -?rà impcvUnle mo-
>'i5tk: • r -san ^r.r»-! i Ts- fi rw^sTf rorazana
■^Ht-'T».*. H« •<!: tV"'!.
G- PirmÈ
>i]lro r errore e la calunnia,
la rìTendiciizìonc della t eri là
e della giustizia è elurna.
I.
Un uomo politico , parlando de' suoi avversari , disse
I volta: « Costoro vogliono esser liberi e non sanno
- giusti, ■ significando con ciò die la giustizia sia cod-
ì della libertà. Alla lettura di alcuni lavoii letterari
lerni si potrebbe egualmente dire de' loro autori:
gliono esser letterati, e non sanno interpretare i
I lesti: ■ intendendosi che la spiegazione filologica sia
: di ogni conoscenza letteraria. Codesta verità può
tarsi allo spesso, specialmente a proposito degli scritti
I cinque secoli in qua sono st^ti pubblicati sulla vita
ì opere di Dante, il maggior numero de' quali, per
felsa interpretazione de' testi, sono sparsi di errori sì gravi,
che la vera intelligenza delle liriciie e della Divina Com-
media del grande Poeta fiorentino è divenuta cosa molto
ditBcile. Egli è così che fino a sette amate si è giunto ad
attribuire a Dante: 1' Beatrice de" Portinarì; 2° la Con-
tolatrice o la Pielà; 3" ta Pargolella; i" Genfucca di Lucca;
5' r Alpiyna dell' alta valle del Casentino; 6° Pietra degli
Scrovigni di Padova; T finalme'nlo la Lisetta. — Noi ri-
feriremo i passi a' quali sì è credulo potersi appoggiare
per ammettere V esistenza di queste pretese amanti. Biso-
gnerà dar la vera spiegazione di tali passi; provare che la
maggior parte di queste donne o fanciulle non sieno altri-
menti esistite che nella immaginazione de' comentatori , e
die anco riguardo alle donne realmente esistite 1' amore
i
— 230 —
che Dante volò e cantò loro ne' suoi versi , sia stato tanto
platonico e metafisico da non aversene più veruna traccia;
amore che la maggior parte de' trovatori provarono per
le loro amate o per le dame de' loro pensieri.
n.
Beatirloe de' Portina.x'i.
ET non è da porsi in dubbio: Beatrice fu un personaggio
reale; tale però che dopo la morte venne nella poesia di
Dante trasfigurata in un personaggio simbolico. Beatrice fu
figlia del fiorentino Folco de' Porlinari. Nel 1274 Dante,
novenne appena, condotto dal padre a una festa in casa
di Folco, vide per la prima volta Beatrice, inferiore a Ini
d'un anno, bella, graziosa, amabile, la quale senza par-
lare gli produsse una passione indelebile. Ricordiamo a
questo proposito che ad otto anni Lord Byron innamorò
d' una fanciulla nominata Mary DufT. « Non è egli strano,
scriveva 17 anni dopo lo stesso Byron, che io sia stato
così perdutamente preso di questa fanciulla a un'età in
cui non potevo sentir l'amore, né comprendere il signi-
ficato di questa parola ? . . . Io ricordo tutto quanto ci dice-
vamo r un l'altro, le nostre carezze, le sue maniere; io
non avevo più riposo , né poteva dormire La mia an-
goscia , r amor mio era così violento che talvolta io chiedo
a me stesso se abbia sentito dipoi altro amore verace. Al-
lorché ebbi appreso più tardi il matrimonio di lei, mi sentii
colpito come da fulmine, venni meno, caddi quasi in con-
vulsione. » (1)
(1) Taine. Histoire de la liUérature angìaise, HI, p. 545.
Qu^ta stiDsibililà [jteiualura sì comprende iicU' indole
ardente di questi due raaciulli, poeti predestinali; ma per
apprezzar secondo verità questo amore pieooce, bisogna
SMmar la parie di passione che Danle e Uyron vi aggiunsero
poi con intelligenza, l'uno dopo più die 15 anni traspor-
tando alta sua infanzia la passione della sua giovinezza,
r altro, suir esempio di Danle, prestando 17 anni piii lardi
uo carattere un po^ romanzesco a un^ afTezione infantile.
Questa sensibilità non era ancora una passione amorosa
avvivata dall' ardor della giovinezza; era un amore come,
secondo T espressione di Vittorio Hugo, « l'alba è del sole. »
Era un comìnciamento d' amore adolescente , cioè un' affe-
zione pura e vergine, ove V istinto sessuale non s' è ancora
espanso, ma si reprime pel rispetto che ispira la fanciulla
al giovane, il quale adora in lei un essere nobile, angelico,
divino. Cosi nella Vita nuova, parlando come d'un ricordo
del suo affetto per Beatrice, Dante scrìve: <> Ed avvegnaché
la sua immagine, la quale continuamente meco stava ^ fosse
baldanza d' amore a signoreggiarmi , tuttavia era dì sì nobi-
lissima vìrlù, che nulla volta sofferse die Amore mi reg-
gesse senza il fedele consiglio della ragione in quelle cose
là dove cotal consiglio fosse utile a udire. <• Fin qui per-
tanto codesta passione niente avea di simile con un amor
vero, né tampoco con un amor di tiovatore. Per nove anni
il giovane Dante vide di tempo ìd tempo Beatrice, ma
oon le parlò nessuna volta.
L'affezione che Dante, fanciullo ancora, avea sentito
per lei, entrò naturalmente in un nuovo periodo e pre-
sentò una nuova mutazione senza perder nulla della sua
primitiva purezza si tosto come egli divenne giovane. Fu
allora che Danle cominciò a farsi innanzi come poeta, e
a celebrare ne' suoi cauli di trovatore la dama de' suoi
pensieri.
Il carattere distintivo della poesìa amorosa de' trovatori
k
. „ 282 —
si conosce. Questa poesia s' è formata pel connubio di due
elementi aiQni, i quali difTerìscono solo nella loro orìgine
storica : V amor platonico, e la galanteria cavalleresca , con-
seguenza naturale de' costumi delle classi elevate e della
società feudale. Infatti , secondo V idea poetica che s' era
formata de' doveri della gerarchia feudale , il cavaliere vas-
sallo dovea omaggio, fedeltà ed amore non pur al suo
signore o padrone, ma altresì alla sposa, o air amata, altri-
menti detta dama, di luì. La galanteria cavalleresca dunque,
sotto altra specie, era la forma feudale dell'amor plato-
nico, e costituiva, per un certo legame con esso, ciò che
si addimanda amor cavalleresco ; il quale veniva riguardato
non come passione de' sensi , ma come virtù dell' anima,
sorgente d' ogni virtù e di ogni merito cavalleresco; intanto
che nella pratica la galanteria o l'amor cavalleresco de' tro-
vatori non riusciva che di rado a mantenersi nella sua
purezza e nel suo ideale teorico. Questo il pericolo eh' essa
presenterà in tutti i tempi: il trovarsi posta come su
sdrucciolevole pendio, ove il culto disinteressato della dama
corre, senza posa, pericolo di finire in una passione sen-
suale, rivolgentesi alla donna. L'Alighieri cantando nel 1283
della sua Beatrice volle tentar di vincere la forma poco
elevata della poesia amorosa de' trovatori contemporanei
d' Italia e di Provenza ; ma bentosto, più sicuro di sé , ob-
bedendo all' indole sua, a' suoi gusti, al suo genio, iniziato
d'avvantaggio nel platonismo, ed ispirato soprattutto dal- .
l'amor mistico di S. Francesco d'Assisi, non meno che
dal culto poetico della SantaVergine , fu il primo a con-
cepire ciò che egli addimandò intelletto d' amore , cioè
r ideale , l' essenza del vero amore , dell' amore spirituale.
Fondò insieme con alcuni poeti suoi amici la compagnia
de' Fedeli d' amore , nella quale faceasi voto di fedeltà
all' amore delle cose celesti e divine ; onde le nobili donne
cantate nelle lor poesie venivano considerate personificazione
— 23a —
o stmbolfl terrestre, liifalii, come nulb poesia drammatica
e didatlrca di quel tempo erasi introdotto l'uso di perso-
nifìrare le idee e le qualità morali in donne allegoriche
fittizie, p. e. nella donna Bontà, nella donna Giustizia; così
seguendo un processo differente ma analogo, doveva esser
ben naturale che si considerassero certe donne viventi o
storiche come personificazione di ci'rte virtii e qualità
metafisiche.
Il giovane Dante scelse , per consepiienza , irn le donne
e le fanciulle fiorentine sessanta le più lielle e più savie,
e in ciascuna di esso rappresentò la qualità morale che
j(li parve predominasse in lei o venisse significata dal nome
di liallesimo: Lucia. Giovanna, Matelda, Beatrice. 0"est'nl-
lima, h figlia di Folco Portinari, fu la donna che egli elesse
e preferi tra tutte come soggetto del suo amore platonico,
e come argomento delle sue spirituali poesie. Questa fan-
cinlta, il cui nome significava beatificante, divenne pel
giovane poeta la incarnazione non solo della beatiliidine,
cioè della felicità suprema che ella gli diede in vita mercè
la vista della sua bontà e della sua virtù, ma altresì della
felicitò che apprestavagli incielo con l'amore della verità,
della santità e delta giustizia eterna che gli ispirava.
Dante celebrò la metamori'osi che subì il suo primo
amore di trovatore in amor platonico e spirituale; meta-
morfosi cantata in un sonetto nel quale suppone d' aver
avuta una visione , ove figura ìl dìo dell' amore terrestre
tramutantesì nel dio del r amore spirituale; ed ecco\o:
A ciascun' alma presa e gentil core,
Nel cui cospetto viene il dir presente,
A ciò che mi riscrivan suo parvente.
Salute ìa lor signor, cioÈ Amore.
— 234 —
Già eran quasi eh' atterzale V ore
Del tempo ch'ogni stella è più lucente.
Quando m' apparve Amor subitamente,
Cui essenza inembrar mi dà orrore.
Allegro mi sembrava Amor, tenendo
Mio core in mano, e nelle braccia avea
Madonna, involta in un drappo, dormendo.
Poi la svegliava, e d' eslo core ardendo
Lei paventosa umilmente pascea:
Appresso gir ne lo vedea piangendo.
Questa visione, che i trovatori cui veane indirizzata
non seppero spiegare, è T espressione poetica della lotta
interna onde dovetr esser travagliato Dante ne' primordi
della sua vita per giugnere a decidersi francamente e con
intiera convinzione intorno alla natura dell' amore eh' egli
accingeasi a cantare, e al tono che volea prendere come
trovatore nelle sue poesie amorose. In questa visione,
evidentemente fittizia, egli rappresenta il dio Amore, sim-
bolo qui della passione de' sensi , che sforzasi di soggiogar
Beatrice obbligandola a mangiare il cuore ardente del gio-
vane Dante per affascinarla ed incantarla. Ma, poiché ella
dimostra una invincibile ripugnanza a subire il dominio
di quest'amor sensuale, il dio pieno di dispetto cessa
dalle insistenze ed avviasi con lei, versando lagrime di
dolore, alla regione celeste, ov'egli si trasforma in signore
dell'amore spirituale. Beatrice non sarà dunque pel nostro
Poeta un'amante, una donna ordinaria, ma piuttosto una
guida spirituale y la cagione della terrestre ed eterna bea-
titudine di lui. Ed è appunto in questo senso elevalo che
bisogna spiegare non solo le poesie amorose tutte di Dante,
ma anche i tratti di galanteria della Vita nuova. Noi ricor-
deremo che come l'amor platonico si espresse sovente,
perfino negli inni cristiani, col linguaggio dell'amor naturale,
alla stessa maniera Dante stimò dover osservare qualche
— 233 —
^oltt^etl' espressione dell'amor suo spirittiatè'le Jòrroe,
gli usi. i costumi della gaìanteria cavalleresca ile' trovatori.
Tra le poesie amorose composte da Dante in questo primo
periodo, che corse dal 1283 al 1287, basta citare come
esempio un sonetto, nel quale l'amore cantalo dal nostro
Poeta tiene il mezzo tra la galanteria de' trovatori e l' in-
telletto 0 l'ideale dell'amore di Daute. Il sonetto è indi-
rizzato a' trovatori Guido Cavalcanti e Lappo Gianni degli
jerti, padre di Fazio:
Guido, vorrei che tu e Lappo ed io
Fo.ssi[no presi per iucanlanienict,
E messi ad un vascel, eh" ad ogni verilo
Per mare andasse a voler vostro e mio;
Sicché fortuna, od altro tempo rio,
Non ci potesse dare impodimenio;
Anzi vìvendo sempre in noi U talento
Di slare insieme crescesse "I disio.
E Monna Vanna (1) e Monna Lagia por,
r.0D quella su il minier delle trenta,
Con noi ponesse il buon incant;itore:
E quivi i-agionar sempre d' amore;
E ciascuna di lor fosse contenta
Siccome io credo che sariaino noi.
' (1) Monna l'arma abbrcvùizionc dì Giovanna (appellala cosi la
i>, i il nome della donna toscana di Guido Cavalcanti. Lagia
', di Alagia, t it nome della donna di Lappo, lo credo dir debba
leggersi col niaaoscrilio uiagliabecliiano 931 , Logia in luogo di tiice.
che, leiiipltcì! nota inargijialc aggiunta per cliìaiìre il verso seguonlP. tu
OKSN nel testo al posto dì lagia. Tra le 60 più tielle e piìi savie donne
DorcDline, Diiiiie avea collocata Beatrice le Ireiilesima, vale a dire al posto
d*oDorF: avendo 3tì donae alla sua destra e 30 alla sinistra. Dame, che
rìforìva uno grande importanza alla cifra 9, mulliph del Ivo, compose
Dna canzone nella quale il nome dì Beatrice ricorreva sempre 11 nono, il
dicioiimno , il veniiscttesiino, ecc. degli altri nomi. Seguendo la pratica
in' trovatori, di non indicare le loro donne che eccezionalmente dal nome,
designa qui Beatrice dicendo: ■ Coler che in conoscenza de' saoi amici è
collocatu >:ul numero trenta. >
k.
— 236 —
Nel 1287 Beatrice, toccando il suo ?entanesimo anno,
andò sposa a messer Simone de' Bardi. Questo matrimonio
non iscemò per nulla il culto che il nostro giovane poeta
avea votato alla sua donna; crebbe anzi agli occhi di lui
il merito di Beatrice , in considei*azione dell' influenza più
efficace che la condizione sua di moglie permettevale di
esercitare col suo esempio sullo spirito e sul cuore delle
donne di sua conoscenza. Ecco come il nostro Poeta, senza
la menoma ombra di gelosia , esprime la propria satisfazione
a proposito di questo matrimonio, e della influenza benefica
eh' esso procurava a Beatrice:
» Questa mia donna venne in tanta grazia, che non
solamente ella era onorata e laudata, ma per lei erano
onorate e laudate molte. Ond' io veggendo ciò , e volendol
manifestare a chi ciò non vedea, proposi anche di dire
parole nelle quali ciò fosse significato; e dissi questo so-
netto, che comincia: Vede perfettamente, lo quale narra,
come la sua virtù adoperava nelle altre :
Vede perfettamente ogni salute
Chi la mia donna fra le donne vede,
Quelle, che van con lei, sono tenute
Di bella grazia a Dio render mercede.
E sua beliate è di tanta virlute
Che nulla invidia air altre ne procede;
Anzi le face andar seco vestule
Di gentilezza, d'amore e di fede.
La vista sua face ogni cosa umile,
E non fa sola sé parer piacente.
Ma ciascuna per lei riceve onore.
Ed è negli atti suoi tanto gentile,
Che nessun la si può recare a mente
Che non sospiri in dolcezza d'Amore.
Beatrice , dopo tre anni sposa , mori a' 9 giugno del
1290, all'età di 24 anni. Questa morte fu una sventura
— 237 —
ptA Poeta, il quale siccome avea avuto per Beatrice san-
limenti di vero amore, perciò non la pianse nei suoi versi
colle parole strazianti li' un giovane che abbia perduta la
sua ridanzata; ma sentendo tutta la gravità delta perdita
che la sua vita morale e di poeta avea fatto, piaosela come
calamità sua e di tutta la città, la quale in Beatrice avea
perduto ogni gloria e splendore. Di che ecco una strofa
di una elegia ch'egli compose sotto forma di canzone;
Ita n'è Beatrice in Tallo cielo.
Nel reame ove gli Angeli hanno pace,
E sia con loro; e voi, donne, ha lisciate.
Non la ci tolse qualità di gelo,
Né di calor, siccome l'alire face;
Ma sola fu sua gran benigni tate:
C.ìiè luce della sua umìlilate
Passò li cieli con tante virlule.
Che fé* maravigliar l'eterno Sire.
SI che dolce desire
Lo giunse di chiamar tanta salute,
E fella di quaggìiiso a sé venire;
Perchè vedea ch'està vita noiosa
Non era degna di si gentil cosa.
Morta Beatrice , forse per dai-e una distrazione al suo
dolore, il nostro Poeta diedesi ardentemente allo studio
delle scienze naturali e filosofiche. Andò a Parigi, e vi si>
gui il corso filosofico del Dottor Séguter di Brabant (1).
Kitomalo in capo a un anno in Firenze, a 26 anni vi
(1> ArUsd de Hontor, lHiloiie d.- iJaut,- AHnkirri, p. 432. lo
iliino*trerA altrove comi; Dante sia sialo una sola volui u Parigi prima
dd 1 300. CoiiiP può siipporsi i^hr Danic nrtnìco disila francia p«r l' igno-
bilf condotta di Carlo àc Valois abbia sognalo di andare a Parigi dopo ,
il 1300?
^
— 238 —
prese in moglie Gemma , figlia di Manelli de^ Donati , le-
gandosi cosi con una delle più anlTche e nobili famiglie
fiorentine. È probabile che qualche dissenso sia insorto
più tardi tra Gemma , di famiglia guelfa , e Dante di parte
ghibellina; ma nessun documento prova quel che dicono
alcuni biografi , cioè che questo matrimonio sia stato poco
lieto a cagione della incompatibilità d'indole del marito
e della moglie.
Marito e ben presto padre di famìglia , Dante riguar-
dò la prima parte della sua vita, la sua gioventù, finita
a 25 anni; di lì cominciò la seconda, e scrisse successi-
vamente una nuova serie di lìriche.
Codeste poesie, che seguono la seconda fasi, o se-
condo periodo della poesia amorosa di Dante, differiscono
dalle prime in questo, che il soggetto non ne è più esclu-
sivamente la beatUndine, dì cui Beatrice era la sorgente
e il simbolo, ma la consolazione, che il Poeta, perdutala
sua donna, trovò nella filosofia da lui soprannominata
perciò sua consolatrice. Or come Dante amava personifir -
care le scienze e le virtù in alcune donne sia fittizie sia
reali, particolarmente con ciascuna delle sessanta più belle
e più savie donne dì Firenze, delPegual modo nella se-
conda serie delle sue liriche celebrò la filosofia consola-
trice sotto il simbolo d' una donna che dopo la morte di
Beatrice avea cercato consolarlo dimostrandogli viva com-
passione.
E più che probabile che T Alighieri, il quale in Bea-
trice cantò il simbolo della Beatitudine, abbia del pari
cantato in Gemma , sua fidanzata in prima e poi sua spo-
sa, la sua Consolatrice ovvero il simbolo della Saviezza e
della Filosofia. Gemma significa pietra preziosa (Purga-
torio, XXIII, 31) e astro celeste o stella CPnrg. IX, 4;
Paradiso XV, 22; XVIII, M5); ed è sotto la figura
d'una stella che Dante amava rappresentare la filosofia (V.
più innanzi, IV la Pargoletta),
— 2:ì9 —
Intanto dopo la morte dì Beatrice, Dante tuttoché
amanlt; della Filosofia o di Gemma, sìmbolo della umana
Saviezza, s'accese vieppiìi nell'amor platonico che avea
sentito per la sua prima donna. Beatrice, che in sua vi-
venza era sl^ta per lui simbolo dì salute terrena ed eter-
na, diventò in morte la personìRcazione delia beatitudine
generale, la salute e lo scudo d'ogni anima cristiana, e
però il riflesso della Trinità, il Genio del Cristianesimo.
Idealizzandola, trasdguraDdola così, Dante non si perdette
in an misticismo senza Torma nò poesia. È proprio de' con-
cepimenti poetici deirAlif^hieri e di ogni grande poeta
d'idealizzare persone e cose dando loro una significazione
Upica superiore a quella ch'esse hanno nella natura e
nella storia, e dì trasfigurarle rispetto all'idea senza di-
stniggere la loro figura storica, le loro qualità naturali,
i movimenti e gli attributi della loro vita reale. Per tal
modo Beatrice, sebbene Genio del Cristianesimo, nella poe-
sia dantesca non è una semplice figura allegorica, né un' idea
a:stratta personificala in una donna senza realtà, senza
vita, senza individualità. Ecco perchè alcuni illustri scrit-
tori, tra' quali Claudio Fanriel, ingannati da questa Torma
gwetica tanto concreta di Beatrice, non hanno saputo o
roliitn comprendere che questa figlia dì Folco Portinari
fosse divenuta nel pensiero di Dante qualcosa di simile
alh teologia, ossia la personificazione del Genio de! Cri-
stianesimo.
Intanto egli è proprio sotto questa qualità che Bea-
trice ridivenne il sofjgetlo della poesia dantesca. Persuaso
che il cristianesimo è supcriore alla filosofia, T Alighieri
cessò verso l'anno 12iJ5 di scrivere poesie liriche in onore
della donna Omsolatrice o della saviezza umana, ed in-
tese a cantar Ji nuovo il suo amore per Beatrice, IrasS-
gitrata nel suo pensiero in Genia del Cristianesimo. Egli
prese a dime quel che nessuna donna aveane detto: e a
— 240 —
tal uopo verso il 1295 die roano a ud poema didattico
in versi latini, nel quale volle rappresentare il Genio del
Cristianesimo personificato in Beatrice, sedente in trono
nel Paradiso terrestre, in atto di ricevervi gli omaggi di
tutte le illustri donne, simboli delle differenti virtù e
scienze, e di comunicar loro, perchè li trasmettano alla
cristianità laica ed ecclesiastica, i tesori di verità» di ca-
rità e di beatitudine contenuti nel Vangelo ; tesori a' quali
nel pensiero di Dante anche i dannati dell'inferno pote-
vano sperar di partecipare alla fine de' secoli.
Questo poema allegorico latino era nel genere del
Tesoretto in italiano e del Tesoro in lingua d'oli del fio-
rentino Brunetto Latini. Cominciato verso il 1295 venne
lasciato al settimo canto, nel 1300; e a' di nostri nonne
rimangono se non questi tre esametri, onde il poema à
apriva :
Ultima regna canam, fluido contermina mundo,
Spiritibus que lata patent, que proemia solvunt
Pro meritis cuicumque suis, data lege Tonantis.
Non solamente in questo poema didascalico latino ma an-
che nelle poesie liriche [italiane dell'Alighieri, dal 1295
al 1300, Beatrice venne rappresentata come la Beatitudine
0 come la Redenzione generale. Così nella canzone: Don-
ne, ch'avete intelletto d'amore, benché morta. Beatrice è
rappresentata come colei eh' è in desiderio presso i celesti.
Madonna è dCvSiata in sommo cielo;
dicendosi poi con evidente allusione al poema latino:
E' che dirà nello Inferno, a' malnati:
lo vidi la speriinzu de' beati.
> poema latino fu il primo abbozzo che, svjlnppato
e Irasformato, divenne poi la sua opera principale, la Di-
vina Cnmmedia.
Nella Commedia Beatrice non ha nulla ri' un' amante
terreslre; essa è in tutto e per tutto il Genio vivente del
Cristianesimo, il simbolo della fede, della carità e della
speranza. Guardata da tal punto di vista, ella comincia con
falcare il suo Dante, il fa guidare attraverso l'Inferno e
il Purgatorio da Virgilio, simbolo della fdosofia e della
scienza, Io riceve suo amante all'entrala del Paradiso ter-
restre, gli fa subir l'esame di coscienza circa i principi
fondamentali del Cristianesimo, gli dichiara il suo proprio
papa e il suo proprio imperatore , lo conduce al Paradiso
cele-sln. ove lo affida alla direzione di S. Bernardo, die
è sopra di lei in dignità siccome colui che è simlxtlo della
vita contemplativa in Din, la quale secondo Dante sta so-
pra ogni pratica religiosa.
Egli è chiaro: la poesìa delT Alighieri dai primi so-
netti 0 dalle prime canzoni a' concepimenti sublimi della
Conimedia ha sempre per soggetto !' amor di Beatrice.
Ma, dopo quanto abbiam detto, si cadrebbe in grande
errore intorno r1 cirattere di quest'amore e della poesia
che lo canta se in Beatrice volesse vedei-si adombrata una
donna lerrestre, o, come alcuni comentatori s'argomen-
tano, una amante dell'Alighieri nel senso ordinario od
anche nel senso più elevato della parola.
Xj» Plotu. o la OoDEtolftti-ice.
A prima vista pare che Dante stasso c'indichi l'esi-
stenza d'un' altra donna venuta a prendere nel cuore di
16
— 242 —
lui il posto della morta Beatrice ; di che leggesi nella Vita
nuova :
. » Poi per alquanto tempo, couciofossecosaobè io fossi
in parte nella quale mi ricordava del passato tempo molto
stava pensoso, e con dolorosi pensamenti, tanto che mi
faceano parere di fuori una vista di terribile sbigottimento.
Ond'io accorgendomi del mio travagliare, levai gli oc(^
per vedere s' altri mi vedesse. Allora vidi una gentil donna ,
giovane e bella molto , la quale da una finestra mi riguar-
dava si pietosamente quant' alla vista , che tutta la pietà
pareva in lei raccolta. Onde, conciossiacosaché quando i
miseri veggiono di loro compassione altrui, più tosto si
muovono a lagrimare , quasi come se di sé stessi avessero
pietade io pentii allora li miei occhi cominciare a voler
piangere; e però, temendo di non mostrare la mia viltà,
mi partii dinanzi dagli occhi di questa gentile, e dicea
poi fra me medesimo : « E' non può essere che con quella
pietosa donna non sia nobilissimo amore ». E però pro-
posi dire un sonetto, nel quale io parlassi a lei...
» Avvenne poi, che là dovunque questa donna mi
vedea si facea d' una vista pietosa e d' un color pallido
quasi come d' amore : onde molte fiate mi ricordava della
mia nobilissima donna, che di simile colore mi si mo-
strava...
» Io venni' a tanto per la vista di questa donna , che
li miei occhi si cominciarono a dilettare troppo di veder-
la; onde molle volte me ne crucciava, ed avevameneper
vile assai. E più volte bestemmiava la vanità degli occhi
miei... »
In un altro luogo Dante parla del contrasto che dentro
di sé pativa tra V amor della donna pietosa e P amor che
continuava a senth^e per Beatrice; se non che, pensando
bene a Beatrice si abbandona finalmente alla sua debo-
lezza. « Un di, dice T Alighieri, quasi nell'ora di nona
— i43 —
» levò una forte immaginazione in me: che uTparoiT»-
dere questa gloriosa Beatrice con quelle vestinienla san-
guigne «-olle qnali apparve prima agli occhi miei; e pa-
reami dovane in simile elade a quella io che prima la
fidi. Allora incominciai a pensare di lei : e secondo V or-
dine del tempo passato, ricordandomene, il mio onore
cominciò dolorosamente a pentirsi del desiderio, al quale
si vilmente s'avea lascialo possiedere alquanti dì, contro
alla costanza della ragione. E discacciato qaesto cotal mal-
Tagio desiderio, si rivolsero li miei pensamenti tatti alla
loro gentilissima Beatrice >.
Da questo tratto sembra risulti che Dante si fosse
innamorato in una giovane o giovinetta, la quale compa-
tendone il dolore voleva consolarlo della perdila di Bea-
trice; che egli avesse dovalo lottar contro l'amore che
provava per quesU donna compassionevole, la quale per
hii era ta pietà o la c4)nsolazione personificata; e che in
lino avendo scaccialo questo nuovo amore, che a luì sem-
brava un r/)lpevole desiderio , avesse riportato tulli t suoi
pensieri a Beatrice, sua prima donna.
Qnando si conosca la predilezione di Dante pe' con-
retti e per lo siile simbolico, può agevolmente compren-
dersi rome qui si tratti dell' amore per Beatrice, simbolo
della beatitudine lerres{re ed eterna : la donna compas-
sioaerole , che è considerata quale rir^U di Beatrice ,
deve egualmente avere una significazione simbolica. Ma
si andrebbe lontano dal vero prendendola semplicemente
come personificazione astratta e poelira della pielà e
delia consolazione; imperciocbè è proprio delle allego-
rie ili Dante di riferirsi generalmente a un fatto, a una
persona re^le, e d'idealizzare poi questo fatto e di
trasfigurar questa persona in modo che il lor carattere
reale^ e storico si cancelli e confonda del tutto col si-
gnificato morale V niL'lafìsico d'un personaggio allego-
— 244 —
rico. È dunque probabile che questa compas^ooevole
donna sia stata una persona reale, e senza dubbio una
deire sessanta più belle donne di Firenze; ed a me pare
più che verisimile esser Gemma de' Donati, la qutle per
una ragione o per un' altra il giovane Alighieri e i suoi
amici consideravano come la personificazione della filoso-
fia 0 la saviezza umana, e che quasi 18 mesi dopo la
morte di Beatrice andò moglie air Alighieri. Se non che,
quantunque la donna consolatrice ossia Gemma sia stata
come Beatrice una persona reale, tuttavia Dante, seguendo
il suo costume , non la cantò per tale nelle sue poesie di
trovatore, né per altro ne fece memoria che pel carat-
tere simbolico di lei^ o piuttosto siccome personificazione
d'una cosa intellettuale, morale, metafisica. E quaPera
egli la cosa o l'idea di cui Gemma, ossia la donna con-
solatrice, divenne simbolo nella poesia dell'Alighieri? la
Filosofia. In una delle sue opere in prosa, nel Convito,
che è per le poesie liriche del secondo periodo ciò che
la Vita nuova per quelle del primo, cioè un comentario sto-
rico e psicologico , Dante espresse chiaramente qual' era il
carattere simbolico della donna consolatrice, così parlan-
done: « La donna, della quale mi sono innamorato, fu
r umilissima e bellissima fif^lia dello Imperatore dell' uni-
verso, alla quale Pitagora diede if nome di Filosofia j».
È dunque supporto che, qualunque sieno stati i senti-
menti amorosi di Dante per la donna compassionevole o
per la sua donna Gemma , egli la cantò come simbolo
della filosofia.
Pertanto come dovette egli l'Alighieri considerare
l'amor suo per la donna consolatrice o la Filosofia per
rapporto all' altro suo amore per Beatrice ossia il Cristia-
nesimo? Egli dovette considerarlo dietro il valore che avea,
secondo lui, la filosofia rispetto alla fede cristiana. Per
comprendere il suo giudizio sul valore relativo dell^ una
— 21.1 —
e dell'altra, bisogna rJmrdarsi che al medio-evo, almeno
in sul princìpio, la fìlosofia, cioè la ricerca della verità
indipendente del dogma, non esisteva; essa era tuttavia
■■confusa colla teologia, e i suoi cultori erano una cosa
\ stessa co' dottori teologi. Piìi tardi , verso ìa fine del se-
colo \n, sopratutlo in Parigi, alla Sorbona, la filosofia
considerata come ricerca e pensiero indipendente del dog-
ma cominciò a dividersi dalla teol(^ìa, o ortodossia posi-
tiva. Abelardo e piìi lardi il Dottor Séguier de Brabant,
[ che professava nella via PoQ^rre del quartiere Latino, fu-
* rono i primi iniziatori di questo mutamento filosofico (\).
Nel Ì290, morta Beatrice, l'Alighieri forse per consolazione
dell'animo, ovvero per consiglio del suo maestro Brunetto
Latini, che avea lungamente dimorato in Francia, andò a
Parigi per un anno , e vi seguì il coi-so dello stesso Dottor
Ségnier, di cui conservò dipoi affettuoso ricordo si che
componendo la Commedia annoverollo tra' beati Dottori
del Paradiso celeste. Reduce ne" primi del 1293 in Firenze
continuò i suoi sludii letterari e scientifici, ch'egli com-
prendeva sotto il nome di Filosofia, e riguardava come
leonforto nella perdita di Beatrice. Al suo amore per costei
l tenne dietro l'amore per la donna consolatrice o per
Gemma de' Donati , che Dante chiamò sua filosofia. Rimes-
sosi alla poesia, compose tra gli anni 1293 e 1298 una
nuova serie di canti lirici, che per l'argomento e il tono
generale differivano dalle poesie del primo periodo: però
che Dante non più Beatrice, simbolo di salute terrestre
ed eterna, ma la donna consolatrice o la Filosofia celebrava.
Intanto, malgrado il valore che Dante attribuiva alla
filosofia, egli non andava tant' oltre da concepirne e am-
metterne r indipendenza assoluta e legittima dì fronte alla
I teologia. Animato de' principii più avanzati del tempo, egli
fi) llitloire miérain de la France. I. XXI, paft. 96-127.
— 246 —
opinava che la Qlosofla fosse subordiData alla teologia , cioè
al dogma cristiano. Già il padre della Chiesa S. Ambrogio
di Milano al IV secolo avea formulato questo concetto
dicendo : Philosophia theologiae atècilla; giudizio condivìso
da Dante e da tutti i dottori e sapienti del secolo.
Parlando delle quattro virtù cardinali che costituiscono
e rappresentano la Filosofia in opposizione alle tre virtù
teologali, costituenti e rappresentanti alla lor volta la Re-
ligione 0 Beatrice , Dante le personificò ed introdusse , par-
landone di questa forma: (Purg. XXXI, 106)
Noi sem qui ninfe, e nel ciel semo stelle;
Pria che Beatrice discendesse al mondo
Fummo ordinate a lei per sue ancelle.
Dopo di che , al cap. 1** del Convito , dice che il comento
è il servo del testo; la filosofia che spiega la religione è
perciò r ancella della religione. Così rappresentando la
Filosofia come sua consolatrice dopo che Beatrice fini dì
vivere, Dante consideravala non come quella che può e
deve in tutto e per tutto tenerci luogo di teologia o d'
fede religiosa , ma soltanto quale consolatrice o edificatrice
in mancanza di quella.
Dante riguardava perciò nelle sue poesie Beatrice o
il Genio del Cristianesimo come sua vera donna ; e la donna
consolatrice o la filosofia come ancella di Beatrice. Da ciò
si comprende com'egli avesse rappresentato poeticamente
Tamor suo per la filosofia, o l'ancella della teologia, sic-
come una specie d'infedeltà commessa agli occhi di Bea-
trice, la sola amante, o la sola donna vera e legittima. Nel
suo linguaggio allegorico e poetico pare che egli si faccia
un rimprovero di preferire T ancella alla padrona; egli si
rammarica per guisa del suo colpevole desiderio da scac-
ciarlo riportando tutti i suoi pensieri a Beatrice , col fermo
|U«po^lo di non cesiiare d' onorar ne' suoi canti la filosofia
per ricorrere al suo primo amore , 1' amor di Beatrice.
Così lasciando la poesia lirica , il cui soggetto era stato la
saviezza umana, apprestossi nel 12!>5 a parlar degnamente
di lei, e a dire nella Commedia ch'egli meditava ciò che,
secondo la sua espressione, non avea per anco detto nes-
suna donna.
Da queste nostre spiegazioni si comprende che nessuna
cosa 6 contraria al vero piìi di questa: che la Pietà o la
donna Consolatrice sìa stata un' amante dell' Alighieri;
eh' egli r abbia amata dopo la morte di Beatrice ; e che
rabbia cantata in mollo delle sue liriche come, p. e., il
trovatore Pietro Baimon cantò la sua dama Alixandre:j.
IV.
ila Pa l'aro le età.
^f II nome della Pargoletta figura principalmente in
due luoghi delle poesie di Dante, nella ballata cioè che
comincia :
lo mi son pargoletta bella e nuova,
e nelle terzine 15 a 20 del XXXI canto del Purgatorio,
I comentatori e i biografi dell' Alighieri han creduto tro-
vare in questi versi l'indicazione e la prova positiva che
Dante abbia parimenti avuto per amante, oltre a Beatrice
e alla Consolatrice, una certa Pargoletta. E pure basta
spiegarli e mostrare che la Pargoletta altro non sia se non
la Consolatrice, cioè la Filosofia o 1" umana sapienza, per
abbattere codesti errori. Per comprender la ballata bisogna
anzitutto ricordare che Dante, seguendo il suo costume,
iontfìcò la niosoGa o la scienza in una bella donna da
— 248 —
lui cantata in una serie di poesie parte liridie parte dida-
scaliche tra gli anni 1293 e 1298. La ballata vuol mostrare
la natura sublime e le qualità celesti di questa donna, e
giustificar cosi V amore ardente eh' ella ebbe ispirato al
poeta. Dante vi fa parlare lar Filosofia, o la donna stessa,
spiegando la sua natura e le sue qualità. Essa dice esser
sempre la pargoletta ; nome che qui è sinonimo di ancella,
essendo che nella maggior parte delle lingue antiche e
moderne la serva viene espressa con delle parole signifi-
canti petite fille. I Latini dicevano puelta ( per ptierula ) o
ancitta (per anculula) (1). Gli Alemanni dicono Magd o
Màgdlein. GP Italiani parimenti dicevano nel medio evo
parvola o pargola (dal latino parvula) o pargoletta. La
filosofia, che Dante chiama qualche volta stella (v. Gap. Ili)
pel suo splendore celeste , e ninfa come sinonimo di figliuo-
letta 0 di ancella , addimandasi qui ella stessa pargoletta,
perchè si considera come V ancella della religione. Essa
si dice nuova nel significato di giovane, perchè la filosofia
0 la scienza, secondo Dante, è posteriore alla religione e
nel mondo comparve molto più tardi. Ma essa aggiunge
che le sue sublimi bellezze provano la sua origine celeste,
che il suo lume di stella è di piacere agli angeli del cielo,
e che chi la vede e non l'ama non comprenderà mai il
vero amore disinteressato come V amor della scienza. Par-
lando ancora di sé stessa, aggiunge (la Filosofia) che fin
da quando madre natura V associò al vero amore, questo
non è mancato mai di piacere nel presentarsi con lei alle
donne nella poesia lirica. Ogni pianeta,© il mondo intiero —
prosegue — contribuisce colla sua luce all'ingrandimento
e alla bellezza dell' avvenire della sapienza , il cui splendore
è recente nel mondo, essendosi poi l'umana scienza for-
mata come riflesso della religione. Nessuno conoscerà le
(1) Origine et signi ficai ion du nom de Frane, pag. Ì9.
— 24!) —
MEze della filosofia che non sia compenetrato d' intenso
©re; il quale non tende già a godere ma piuttosto a pro-
sar t'alirui godimento. Ecco come s'esprime il poeta
I prima parte della ballala;
lo mi son pai^otflta bella e aova,
E SOR venuta per tnostrarini a vui
Delle bellezze e loco, ilond" io fui.
lo fui del cielo, e tornerovvi ancora
Per dar della mia luce altrui diletto:
E chi mi vede, e non se ne inuaniora,
D'amor non averà mai intelletto;
Che non gli fu in piacere alcun disdello.
Quando natura mi chiese a colui.
Che volle, donne, accompagnarmi a vui.
Qascuna stella negli oc^hi mi piove
Della sua luce e della sua vìrtutc.
Le mie bellezze sono al mondo nove.
Perocché di lassù mi son venute;
Le quai non posson esser conosciute.
Se non per conoscenza d' uomo, in cui
Amor sì mella per piacere altrui.
Nella seconda jiarte il poeta prende egli stesso la
•ola per dire che le qualità che la FiiosoQa sì ha attri-
buite traspariscono dal suo brillante viso; che conforman-
dosi a ciò eh' ella stessa avea detto in qnest' idlimo luogo,
cioè che li^ sue bellezze non sono comprese se non da
colui che è penetrato dell'amor vero, egli fissò amoro-
samente il suo sguardo sugli occhi di lei, ove risiede Amore;
che dopo questo tempo la sua passione per lei Tngli causa
di agitazioni che misero a pericolo la sua vita. Ecco la
seconda parte della ballata:
— 250 —
Ouesie parole si leggoo nei viso
D* un' Àogioletta die ci è apparita:
Ood* io cbe per campar la mirai fiso,
Ne SODO -a rischio di perder la vita;
Perooch* io ricevetti tal ferita
Da un eh' io vidi dentro agli occhi sui,
Ch' io vo piangendo, e non m' acqueto pui.
Dopo di che apparisce chiaro come la Pargoletta-, di cui
si è ragionato, non possa venir presa per un' amante
reale dì Dante, ma bensì, pari alla Pietà e alla Gonsola-
tiice, come personaggio simbolico, personificazione della
Filosofia o della Sapienza imiana. Ei ne ha anche della
Pargoletta di cui parla Beatrice ne' rimproveri che fa a
Dante neir abbandonar eh' egli fa il paradiso terrestre per
entrare nel l^aradiso celeste. A comprendere questa scena
che ha luogo nel paradiso terrestre , vuoisi tener presente
che, secondo il divino Poeta, per giungere alla verità e
alla santità v* abbiano tre gradi ascendenti: primo, la Scienza
0 la filosofia; secondo, la Fede o la religione cristiana;
terzo, la Contemplazione o la vita di Dio. Volendo nella
Divina Commedia insegnare air umanità i veri principii
dell'ordine sociale, morale, intellettuale e spirituale che
conducono alla verità e alla santità, e darsi T autorità
necessaria ad insegnare siffatti principii , V Alighieri suppone
d'essere stato iniziato nella scienza e nella filosofia da
Virgilio, da Beatrice nella Fede cristiana, da S. Bernardo
nella Contemplazione di Dio. Percorrendo sotto la scorta
del primo i cerchi dell'Inferno e del Purgatorio, egli ap-
prende quel che insegnano la scienza e la filosofia , il giusto
e r ingiusto , il bene ed il male , la causa della perdizione
temporanea ed eterna e la causa della salvazione sociale,
morale e spirituale. Giunto al sommo del Purgatorio , ossia
— 231 —
(' Paradiso terrestre , da quello che ha visto e udito , e
) dalle dìITerenti inizi.izionì per le quali è passato, già
(reputato padrone della scienza e della giustizia: quindi
UDzi non ha ptìi bisogno di guida temporale, egli papa
ì imperatore di sé stesso, è arrivato alla giuslificazione,
3 stalo d'innocenza primitiva, al Paradiso terrestre, donde
lamo ed Eva vennero cacciati dopo la loro caduta ; Vir-
ilio non può adunque insegnargli altro: gli bisognerebbe
I insegnamento superiore. Allora in una visione simbolica
)de svolgersi innanzi la storia dell' nmanità da' tempi
nitivi lino a' suoi giorni. La quale gì' insegna come sia
i nelle sue origini indirizzata V umanità, come preparato
^Kitrodotto nel mondo il crìstiane.simo; e gli Ta intendere
Bsta verità capitale , che la cristianità più che s' è coo-
genio del cristianesimo più è slata illuminala
^felice, e che più s'è allontanata dallo spirito del Van-
I, più è ripiombata nell'errore e nelP avvilimento. Con-
) di questa verità. Dante rivede Beatrice, il Genio del
janesimo; e la rivede più bella e divina che non dieci
ini innanzi. Beatrice non ha più bisogno d' indirizzarlo
f prìncipii del cristianesimo . che Dante già conosce , ma
[ Ih intender chiaro che egli ha Tatto come ogni altro
iano: ha abbandonato il Vangelo, la sua Beatrice, che
^i di scorta in gioventù, e s' è lasciato trasportare da
|bi vento di fal^ dottrina e dalPamor della pargoletta,
i dall'ancella, dalla Filosofìa. Dnnte non potrà pertanto
are nel Paradiso celeste se non crede in tutto e per
I che il solo N'angelo comprende la vera luce e la
Iole vera. Per condurlo a riconoscere il suo errore o la
infedeltà, a conressarsi di buona Tede, a meritare
l'assoluzione plenaria; e per esser degno infine d'en-
ì nel Paradiso celeste. Beatrice così rampogna Dante
t'essersi abbandonalo all' amor della pargoletta:
— 252 —
Tmiaràu perchè me' vergogna porte
Del tuo errore, e perchè altra volta
Udendo le sirene sie più forte.
Poh giù il seme del piangere, ed ascolta;
SI udirai come in contraria parte
Muover doveati mia carne sepolta. *
Mai non t^ appresentò natura ed arte
Piacer, quanto le belle membra in eh' io
Rinchiusa fui, e che son terra sparte:
E se il sommo piacer si ti fallio
Per la mia nsorte, qual cosa mortale
Dovea pm trarre te nel suo disio?
Ben ti dovevi per lo primo strale
Delle cose fallaci, levar suso
Diretr' a me che non era più tale.
Non ti dovea gravar le penne in giuso^
Ad aspettar più colpi, o pargoletta,
0 altra vanità con si brev' uso. (1)
Sarebbe dunque un volersi ingannare a partito il cre-
dere con alcuni de' comentatorì che la pargoletta significhi
qui una qualche amante deir Alighieri, e che Beatrice, V an-
tica amante platonica di lui, gli rimproveri con collera
e gelosìa V infedeltà commessa al suo sguardo. Qui si tratta
di cosa più grave che non è la infedeltà volgare tra gli
amanti. Beatrice non è una donna terrestre, gelosa, gar-
rula, che rampogna il suo amante d'averla abbandonata
per un' altra più giovane : essa è qui la figlia della Trinità,
il Genio del Cristianesimo, la personificazione della Fede,
della Carità e della Speranza. Dante non è mica un zerbino
volgare, frivolo e leggiero; egli è qui l'uomo giusto, il
saggio , che meritò d' esser coronato e mitriato da Beatrice,
dal Genio del Cristianesimo; per diventar quind' innanzi
(1) Purgatorio, Canio XXXI, 43-60.
idrone e donno di sé slesso. Il luogo ove Beatrice, dopo
dieci anni, lo rivede per la prima volta, non h poi nn
gabinetto nel quale la donna rinfaccia al suo volubile amante
la ìnfedeilà dì lui; questo luogo è il Paradiso terrestre, ove
i giusti e i santi soli hanno accesso, e che sta chiuso a
iDtli coloro a' quali avrebbesi ragione di rimproverare le
debolezze della carne. Or quaodo la Figlia della Trinità
rimbroccia di traviamento colui cbe merita d'esser papa
ed imperatore di sé stesso, e lo rimbroccia proprio nel
santuario del Paradiso terrestre, ei non può trattarsi che
d'uno di que' rari falli ne' quali cadono anche gli uomini
giusti e gli spiriti elevati. QuaP è il fallo rimproverato a
Dante da Beatrice? quello appunto d' aver dimenticato,
alla morte di lei, il suo primo e verace amore, Beatrice,
la fede e la beatitudine cristiana; e d'essersi troppo ab-
bandonato all'amor della donna pietosa o, come dic« il
Poeta, della pargoletta, cioè della Filosofia.
Questo nome della jiargoletla . che ricorre nella bal-
lala e nel passo sopracilato de! Purgatorio, essendo sino-
aimo di Filosofia, è chiaro che non prova in verun modo
arer voluto I)ant« significar con esso una giovane e gentile
tnoamorata. p^r la quale abbia messo in non cale il suo
antico amore per Beatrice, la figlia dì Folco portinari.
(Continua)
— 255 —
i aotìctiì filosofi, i qaali ebbero sacri i Tetasti cimelii
della mano e dell' LntelleUo dell'uomo; per cui Cicerone
dolorava di essersi smarriti i cauli convivalt anteriori al
vecchio Catone, e religiosamente venerava la elQ^e del-
l'aatichità. e la prisca vetustà dell'eloquio delle XII ta-
TtAe 1. Senza Pacavio e Nevio, non avremmo Ennio, e
senza costui Lua'uzio e Virgilio; senza i ducenlisli 1" Ali-
ghieri; comò senza i monumenti trogloditici e riclopei,
il Parteoope, S. Metro, Suez. E certo non può essere di
'gentile animo chi guata le aoliche maravigliose opere ar-
tistiche, 0 sfoglia i volumi da' magni spìriti, senza accen-
dersi di fervido culto per chi fu lucifero a cosi luminoso
meriggio.
Palermo, capitale della potente e vasta monarchia si-
Ciliana, i suoi dinasti normanni, seguiti dagli svevi e me-
glio dall' imperatore Federico II , crearono la grande era
ilalica, e se non riuscirono a collegare i popoli ausoni!.
colica i Papi e la Francia, li dotarono almeno di lingua
e letteratura nazionali. E primo documento scritto e an-
cora superstite di cosi nobile risorgimento, è la Tenzone
di Cìullo d'Alc^imo, tenuta merlLimenle in massima estì-
Bazione dagli ottimi. Nel 185S fui astretto da municipale
convenienza a dettarne estemporaneamente una parziale
Ouamiaa, che oggi elargo e tramulo in Comentario , non
solo per il pregio di quel Canto, ma sì pure perchè esti-
mo potersi meglio e a preferenza di qualsiasi altro inter-
pretare da quanti padano e studiano dall'infanzia la par-
lala nella quale essa fu scritta. ± Dal secolo Xlll sinora
mmeslrelli e giullari, copisti ed editori l'hanno lacerato
abbastanza; in sei centenni!, la slampa del 1856 del Nan-
nucrj è la piij ìnijenua; egli la risanò di molle piaghe
giovandosi spesso del Codice Principe Vatii'^no anteriore a
Dante. Non possiamo gloriarci della pubblicazione fattasene
in Sicilia nel IfoUsiario di Corte dal Gregorio, e poscia
— 256 —
nella ristampa del 1821. Il Duca di Villarosa stampò qnatr
tro volumi di poesie antiche, ma tralasciò la T^zone di
Giulio. Chi più atto a ciò di costoro? Ma essi per nostra
sventura non alzarono gli occhi al di là delP Allacci e del
Grescimbeni. Palmeri, Sanfllippo, Di Giovanni, La Lumia
limitandosi a distrigare epoche e fatti, diradarono vani
dubbii di chi li precesse, ed io molto lor devo, come
sarà ripetuto a suo luogo. Se i nominati, o altri siciliani
della loro tempera, vi avessero inteso l'animo davvero,
sarebbe stata da tempo dipannata P arruffata matassa.
A spingere innanzi T opera loro, ho messo anch'io
il piede in questo ginepraio; e diffidando di me, a dissi-
pare i miei rimorsi, ad evitare novelli errori od equivoci ,
ho consultato comentatori, codici e stampe qui e in terra-
ferma, e ho richiesto di consiglio non pochi illustri miei
riveriti amici, i quali mi hanno partecipato benevoli le
loro idee. 3. Soccorso da tanto senno, tenterò indagare
il vero tìtolo della lirica di Giulio, il luogo e il tempo
quando fu dettata, e di conseguenza i valori del medio
evo, le dìfense e multe, l'antichità degli agostari, l'epo-
ca del Soldano e del Saladino; cosi pure la lingua, me-
tro e grafia adoperati dal poeta ; parlerò de' codici e dell^
stampe , che quella ci serbarono e diffusero ; de' passi più
scorretti e delle loro emendazioni , del di lei merito , dan-
done il testo alla fine. Gosi ho procurato sodisfare il de-
siderio degli amatori della letteratura, che chiamerei fos-
sile per la sua vetustà, se in gran parte non fosse ancor
viva, e non suonasse rifatta sulle labbra de' minestrelli
dell'età nuova, accompagnata da' loro musicali strumenti.
Celebrità e titolo della Tenzone di Giulio.
Non è poBsia anteriore allo sfornino della Monarchia
siciliana, cioè alle disfatte dì Benevento e Tagliacozzo, né
più celebre, né più dìITusa dì questa. Non appena nata,
da Alcamo a Palermo, Napoli, Boma , Firenze, Padova,
Bologna ec. si sparse per lulta la penisola. E fu univer-
salmente accolla, perchè nella storia di quell'amor for-
lanato vedeano molli il caso proprio; per i suoi pregi
artistici; per la lingua volgare intesa appieno dal popolo
con diletto ed orgoglio; e perchè lusingando la vanagloria
dei poeti: celebrava il matrimonio d"' illustri personaggi. Se
oggi , dopo quasi settocent' anni , ne abbiamo copia del
secolo XllI, e parecchie del seguente, quante non ve ne
doveano essere quando era il canto favorito de' cavalieri,
delle castellane, delle eorti bandite? In Sicilia piacque
tanto, da faria sua il popolo de' monti e de' mari, e va-
riandola e trasformandola tuttora la ripete, intitolandola
ti mtiili viici, Lu Tuppi tuppi, Li setti fratelli, La
Donna Onesta, Lu Vnjareddu dili Caiani, per quanto è
a mia notizia. Perciò ben disse Giusto Grion poter mo-
strare come a Padova la Cantilena di Giillo fosse ttei
1300 divulgatissima. 4. E la prova più solenne di ciò si
è l'averla Danto registrata nel Volgare Eloquio, le impri-
mendo il suggello dell'eternità.
Volando da un labbro all'altro e dall'uno all'altro
sialo iUilico. ricevette il marchio ilialellico pugliese, ro-
mano, toscano, e cosi fu fidata alla carta, e qualche volta
qoa e \k adulterando il nativo insulari-. Allorché poi da' co-
dici passò a" tipi, e si moltiplicò con la stampa , non solo
17
I
— 258 —
furono accresciati quei guasti dagli emanaensi, ma per
arrota fu variamente battezzata. Si accostò meglio al vero
chi la lasciò innominata. Cosi tra copisti, editori e storici
della nostra letteratura , ebbe più nomi di Apolline presso
i mitologi.
Ma quarè quello che veramente le compete? Ck)n
quale saluteremo il ritmo vittorioso della fresca rosa di
Bari, della sdegnosa e pudica giovane, che chiusa nella
gloria del suo forte castello, avea resistito a conti, a ca-
valieri, a marchesi e a giustizieri, e si arrendeva all'in-
canto degl'ispirati numeri?
Canzone deriva da canto , perciò nel senso primige-
nio cosi furono dette tutte le poesie cantabili; di conse-
guenza Dante chiamò canzoni le sue liriche, e Bembo i
sonetti del Petrarca. Quando i retori dettarono i pre-
cetti dell'arte poetica, così intitolarono quella lirica, che
giusta rAliglìieri racchiude in se tutti i pregi degli al-
tri, e componesi di parecchie stanze, le quali serbano
per le più il medesimo ordine di rime e di versi. Tale
non è il dialogo di Giulio. Molto meno è quello che in
Sicilia appellasi Canzone, cioè un' ottava con quattro rime
0 assonanze alterne e variamnte intrecciate.
Né Cantilena. È questo termine musicale, male at-
tato alla poesia, e dalla Crusca e dal Fanfani definito:
<c quella sorta di canto usato per addormentare i bambi-
ni, lungo, lento e nojoso».
Ballata neppure, perchè non è regolata a tempo di
ballo, né si canta ballando, e non ha intercalare o ritor-
nello: insomma neppur uno de' caratteri co' quali la con-
trasegnano Trissino , Minturno, Affò, Crescimbeni , o come
la troviamo ne' classici, e segnatamente nella Raccolta di
Canzone a ballo stampata a Firenze nel 1568, ove sono
siffatte poesie di Lorenzo de' Medici, del Poliziano e di
altri corrotti e corruttori di lui corteggiane
Frottola non k, essendo questa tessuta di motti e
mottetti epigrammatici di versi brevi, senz'ordioe alcuno
disposti, per lo più in baja, come quelle di Antonio Buf-
fone e di Girolamo Bcnivieni, ricordate dall' Affò. Per al-
tro le Frottole, e tutte le poesie di simil genere, comin-
ciarono ad essere in uso dopo la metà del secolo XiV.
come notava il Nannucci B.
Serventese neppure. Se si accettasse P opinione del
Grion 6, il quale chiama sirventesi le rime, cbe tendono
ad ottener grazia dalle donne, tali sarebbero quasi tutti i
Canzonieri. Egli cosi scrisse, perchè fu detto che i trova-
tori giovaronsi di questo metro per Dio, per la Vergine,
per le loro amorose. Il Galvani senilmente scrutandone
l'origine, l'uso e la forma, dimostra con peregrina eru-
dizione e solidi argomenti, non potersi intitolare Serven-
tese il canto di Giulio. In pari tempo rigetta il cognomi-
narlo Altcrcazione , Contrasto, Canzone responsiva a dia-
logo, Rima, Tenzone, e adotta Cantilena; ma io riveren-
dolo ed esaltandone il merito, non so acconciarmi alla di
lui sentenza 7. Il nome di Contrasto alla poesia popolare,
quel di Tenzone alla letteraria compete.
La lirica dì cui ci occupiamo è certo un dialogo,
rome ne abbiamo molli nei Parnaso dotto e popolare; ap-
partiene al genere che in Sicilia appellasi Contrasti; quin-
di oltre di essere un dialogo semplice, è propriamente
una Tenzone, che ben corrisponde alla esatta definizione
datane dall' Accademia e dal Fanfani. Questa Tenzone tra
il poeta e la bella, fu imitata da altri, tra cui da Mazzeo
Bieco da Messina 8, e da Ciacco dell' Anguillara, se vero
il concetto del Trucchi 9, entrambe sbiadilo riflesso del-
l''antico esemplare. Di conseguenza ho estimato acconcio
chiamarla semplicemente Tenzone.
i i
]b ove oUizzKi imhatsamamto rjnB*ft inpaHr. b
f/)M nmiéutUi 4i «on i'ìnvaiz&ì i paiaifioa pa«n? !(»
^memfi de^HxoKrto «!he «lai iooi ws. — Sim) esà eit»
d«»niemi>nte ^nitti «topo januii> i ■acrntfsw. e
^tì(0re il di (ni :^U^i. Tedreno «»an& nsgalo A aullo
ikI pane iMT amata, ore m anoo prìBa di cfeìHlene b
flKUD era preso dì la:
Ora b oB aa»,
Ch* cifrala mi se*
e arer coooseeiiza delb bcottà^ della poma, delle Hfr
nenze de^di la coiksaiigiiioei ; ed essa d tempo medesìBio
essere al &tlo del V ammoni»^ del dì lui atere. Quel luogo
è determinalo dalla stanza quinta, che a cbiarìmecito dei
fero, dovremo esaminare. La gioranetta abitara il castello
del patire, ivi le vaste proprietà di costui, ivi i di lei
fratelli, la madre, il monastero privilegiato, di là fl dia-
letto di cai è intinta la Tenzone: insomma in Puglia, e
precisamente in Bari la scena. Il seguito di questo Co-
mento, ribadirà quanto affermo, perchè Puna parte dà
luce air altra, e tutte fra di loro si concatenano.
A inforsare questa mia convinzione mi sì oppongono
chi diede cau.sa alla Dis^imina del 1858, e il Grion. Colui
fra lo tante e^Jizioni della Tenzone, ripescata la più cor-
rotta, cioè quella del Gregorio per il Notiziario di Corte,
ove manca Bari, giunse a dire ch'io fantasticava. Ma
— un —
quella stampa, oltre di essere ricalco dell'Allacci, èmu-
tiia, errata, mancante della stanza 19: Molli son li ga-
rofani ec, e perciò inutile straccio e imbratto di carta;
e Dotisi die nel 1858 era già da due anni pubblicata la
seconda edizione del Manuale del Nannucci! A convincer-
sene basta leggere la strofa in discorso come il mio cri-
tico l' accettava :
^H Se luci paresti irovanmì, e che mi pozon fare?
" Una defensa meltoci di dumi
NoD mi tocara patreto per quanto avere ambare.
Manca in essa In rima, come vedremo, manca un emisti-
chio, e vi è creato dall' emannense queir omftare ignoto
a tutta Italia, e chi lo adotta, se non altro, confessa di*
non intenderlo.
Ecco a rincontro la lezione ripetuta universalmente e
meglio dal Valerianì, Sanfilìppo, Nannucci ec. ; il confronto
chiarisce le magagne:
5.
^pl 6 qui da notare che unica rima legando questi tre
versi, e certa essendo la desinenza di agostari, il Grego-
rio male accolse fare invece di fari, uscita rustica, ma
ingenua del verbo; e peggio quel mostruoso ambare.
Se tuoi parenti irovanmi,
E che mi posson fari ì
Una difcRsa meUoci
Di dumìlia agoslari.
Non mi toccarà patreto
Per quanto avere ha id Bari.
— 262 —
luogo di ha in Bari. Per cui integrando la stanza, e re-
stituendo Bari, ove lo allogò il poeta, la determinazione
della scena, rifulcita da tutte le altre ^circostanze cooco-
mitanti, accquista maggior sicurezza 10.
11 Grion opina essere scritta la Tenzone in Sicilia » e
non lo prova; e dippiù essere posta la scena né^dimami
di Messina, appoggiandosi a due argomenti. Il primo lo
trae da' versi:
23.
A mene non aitano
Amici né parenti,
Istrano, mi sod, carama,
Infra està bona genti;
il secondo dall' essere composta in buon dialetto siciliano.
Or il primo prova la scena non essere in Alcamo o
al più in Palermo , ove Giulio avrebbe avuto amici e pa-
renti: mentre il dichiararsi istrano convalida trovarsi fuori
del regno, come allora appellavasi a giusto titolo risola.
La Puglia era ducato, e al pari de' conquisti d'Africa e
dell'Arcipelago, provincia della vasta monarchia siciliana.
Stranio, istranio, straino, strano son lutt' uno, e diceasi a
quelli del paese del quale non erano i nostri padri nativi.
In questo senso li vediamo adoperati da Ser Giovanni Fio-
rentino nel Pecorone; e specificatamente Fra Guittone
chiamò straino chi non era in sua casa, e quindi il Buo-
naroti nella Fiera distinse gli strani da' cittadini. Perciò se
egli era istrano nel paese dell'amata, e quindi fuori del-
l' isola , non può assegnarsegli altra stanza temporanea , se
togli r avito di lei castello di Bari. Per quanto poi aguzzi
l'intelletto, non vi so leggere i dintorni di Messina. —
Nulla prova il secondo argomento, ancorché fosse vero;
— ÌG3 —
Ciollo peHet scrìvere in buon dialelio sidlumo Dgi
in Calabria, Puglia, Toscana e Babiiooia: ì viaggi ma
raoDO dimenticare la materna fareila. Rispello U Grioa,
ma persisto nella mia opioìODe, molto piò, come vedre-
mo, per r abito pagliose della Tenzooe.
Aocb' egli il ìlaisi inlbrsan amìcameote il mìo crile-
rìo poggiaodo il sao dabbio salla stanza 13, oeUa qoale
Gallo enomera all'amata i paesi cercali inraao per tro-
vare chi la somigliasse io cortesia. Se fra quelli è la Pu-
glia, egli dicea. Fono delia di lui (ntea rma en attrth
ve. — A [Mima gioota semJ)ra grave rosservaiioiie: na
riflettendo essere vasta qneDa beUa parte deOa amln mo-
narchia; che a giovane saoese, ast^òna o erióM, pa&
dirsi e si dice : bo covato nmio tmoa Tntrw, i He-
monte o la Sicilia, e
Udoai BOB rÉUwai taaàù carte»:
non vedo ragiope a canibóre jntcma. E gii è data «■■
g«oer^roeoie adottala, laato di Ma loro ì BOfelfi tcril-
lorìll.
D Di Giovanni con la Bwwrta «cane e pMlo» dd
soo ingegno, osservava cbe riofocare die fi TaMMa di
Ginllo, nella sL ae dopo ta XtaOt, S. Matteo, lior tkt
£ce:
^L Se^on ■ Pam, ■ Fa»,
die rcaaect A itìàm <|aMU» besMo fmdpl !
Saknio, paò br ìadBTc a porre la ieBB ia^
— 264 —
tadìnanza, e solo per divozione personale o di famiglia,
come spesso avviene, e ne ho storici esempii; che parte
del corpo di quel Santo, oltre di Salerno, è in Beau-
vais ed in Saint Mahè in Francia di cui è patrono; che
nel 1080 Papa Gregorio VII, giusta la testimonianza del
Baronio, riferito dal Galvani p. 24, rallegrandosi con Al-
fano Arciv. di Salerno, lo invitava a diffonderne la di-
vozione , e ad eccitar quella del Duca Roberto e della no-
bilissima sua consorte, aggiungendo essere nelle Due Si-
cilie venerato S. Matteo in quei tempi quanto S. Marco in
Venezia; che in Giulio ivi è ricordato isolatamente quel
nome, e qui espressamente la città di Bari, e poi il suo
celebre Monastero, il castello e le vaste possessioni del
padre della giovane, non trovo motivo ad innovare cre-
denza.
3.
Stato di Giulio e dell'Amata
Ma chi era Vincenzo d'Alcamo? — Fu certo altissi-
mo personaggio dell'epoca sua, quantunque le cronache
nostre ne tacciano. A divinarne lo stato concorrono la di
lui opulenza, studii, viaggi, dottrina, parentato, tradizio-
ne. I nostri critici e storici viventi, e meglio Sanfilippo,
Di Giovanni, Grion, La Lumia, ritennero vero quanto ho
precedentemente annunziato al proposito, t ali' K4e>s'ora
lo ampliarono. Senza occuparci di cl)i lo giudicò idiota ,
plebeo, tapino, tanghero, noi riguardando alle Costituzioni
del tempo, continueremo a chiamarlo uno de' primi ma-
gnati del regno.
Se nel secolo XII a sminuirne i possessi, diceagli
r amata :
Meli esle di miironze 1» tuo avire;
! egli potea imporre una difensa di duemila agoslari,
cioè onze 2i7S, 8, 17, pari a L. 31, 360, era ricco quanto
0 pia di un principe sovraDO, e dì dirilto grande feuda-
tario.
I viaggi sono indice del grado di Giulio. Egli ad esal-
tare il merito dell'amala donna dice:
I
i3.
Cercato ajo Calabria,
Toscana e Lombardia,
Puglia, CostaDiinopoli ,
Geoua, Pisa, Soria,
La Magna e Babilonia,
£ tutta Barberìa ec.
Or nello stalo delle partizioni territoriali, diffidenze e
guerre di quel secolo, non potea Giulio viaggiare da un
capo all'altro l'oriente e P occidente, senza il nome o la
bandiera del re di Sicilia, uno de più potenti d'Europa.
Suo padre, o che discendesse da' cristiani i quali chiama-
rono i normanni ad aiutarli a purgar Pisola dagli arabi,
0 che appartene.'^e a' commilitoni degli Altavilla, dovea
n&sere uno de'pììi notevoli baroni, valutando la di lui
ricchezza da quella del figlio. Perciò probabilmente, ed
anche prima di essere armato cavaliere, potea seguire il
genitore quando nel 1148 conquistammo quant' Africa è
compresa fra Tripoli, Tunisi, Sahara e Cairovano. Parec-
chie altre pacifiche e militari spedizioni vi furono ancora
Ira il liso e il 1189, anno della morte del buon Gu-
glielmo, ricordate da' nostri cronisti, alle quali polca e
dOTea come barone partecipare.
— 266 —
Delle più gravi di esse è particolareggiato racconto
ne' nostri storici, e meglio in quelli che di Guglielmo II
hanno scritto col sussidio della diplomatica e della critica
12. Quind'io ribadendo quanto toccarono al proposito il
Sanfilippo e il Di Giovanni, confermo aver potuto age-
volmente vedere il vasto oriente con le nostre flotte più
volte inviate* in Palestina e in Egitlo a protezione de' cn>-
ciati ; la Lombardia accompagnato a' cavalieri siciliani , che
seguirono Romualdo Arcivescovo di Salerno e Ruggiero
conte d'Andria, i quali nel 1177 conchiusero 15 anni di
tregua in Venezia tra il Barbarossa e re Guglielmo; la
Barberia quando nel 1180 la nostra poderosa armata co-
strinse Àbu-Jacub signor di Marocco a giurarsi nostro tri-
butario con il trattato, ch'ebbe vita sino attempi di Fe-
derico Il di Aragona ; Costantinopoli ne' varii messaggi dalla
nostra corte colà spediti lungo il tempo del Buono , e nel-
r impresa di Tancredi , che vi si accostò vincitore del Bo-
sforo. Allorché due nostre flotte cariche del flore de' no-
stri cavalieri salvarono Tiro e Tripoli, e di conseguenza
Antiochia , fiaccando le armi di Saladino , è ben probabile
siavi accorso il Sire di Alcamo. Non parlo de' varii stati
d' Italia , riuscirebbe superfluo. È verisimile abbia egli par-
tecipato alle trattative del maritaggio della principessa Co-
stanza con Enrico figlio del Barbarossa; e in Lombardia,
allorché essa medesima recossi in Milano ad impalmare
lo sposo, seguita dal corteo de' grandi signori della Sici-
lia, e da cinquanta some d'oro, d'argento, di preziosi
arredi d'ogni maniera.
Queste peregrinazioni non sono una finzione poetica:
né Giulio potea mentire innanzi ai suoi contemporanei,
innanzi all'amata. Senza del che i versi:
Donna non ritrovai tanto cortesi,
Onde sovrana di mene ti presi.
— ÌG1 —
I un elogio, sarebbero riusciti un dile^io 13. Conrer-
Wno l'emineule suo grado i titoli di cui P onora l'amala
Uamandolu mio Sire appellativo di eccelsa distinzione, e
\aiadino, di' io ritengo qual vocativo, titolo competente
jF supremi personaggi delie corti normanna e sveva.
j La tradizione municipale celebra Giulio costantemente
Ida secoli come un grande signore: quindi gli attribuisce
Pfir abitazione un castello , eli' ebbe forse originariamente
^al Bonifalo, ove sorgeva dapprima il grosso dell'antica
Alcamo, e che di poi i suoi discendenti riedilicarono nel
piano della cìltà nuova. Senza del che non sarebbesi per-
petuata nel popolo la denominazione di Casa di Giulio a
quella magione 14.
.41tro documento dell' elevata posizione e del merito
del nostro poeta, è la stessa di lui Tenzone. Mentre po-
chi Tra' nobili sapeano scrivere , e chierico era sinonimo di
letterato 15, Giulio dettava una lirica di 160 versi, in
32 stanze uniformi , con tre rime alternate con isdruccioli
in cìa.scuna, oltre quelle degli ultimi due versi baciate.
^-Perché egli a lauto fosse potuto giungere, dovette avere
^■levata e distintissima nascita ed educazione, e non pochi
^Rbi canti dovette trovare antecedentemente. E dì ciò ab-
^Trtamo una testimonianza nella Tavola delle voci notabili di
Federico Ubaldini, il quale riferendo die Giulio d'Alcamo
osò frequente la voce'uun per iVi uno, rapportò i se-
guenti quattro versi tratti da una canzone a lui attribuita
in un testo a penna vaticano:
Se 'nuno core ^^^^H
meo amore ^^^^H
Folleiato aggia, ^^^^|
Se lue esto saggia .... ^M
I Codice Barberino la Tenzone è preceduta da' ^^^M
— 268 —
Virgo pietosa, sgutami.
Ch'io non perisca a torto,
cb' estimansi di Giulio, e ch'io reputo tratti da qualche
di lui lirica su' pericoli dell' amore con la bella barese 16.
Dante chiamò plebeo il suo stile, non la sua persona,
e sarebbe stato meglio chiamarlo arcaico. Queir Altissimo
non registrava le famiglie nobili d'Italia come il conte
Litta; bensì cribrava il volgare eloquio della penisola.
Tanto ciò vero , che fra i plebei non solo annoverò il no-
stro alcamese, ma sì pure Guitton d^ Arezzo, nato di gen-
tilissimo stocco, figlio di Viva di Michele Gamerlingo di
quel Gomune; ed il Guittone fu ascritto all'ordine eque-
stre de' cavalieri di Santa Maria, e fu ricco feudatario ed
uomo di stato 17. Per lo che saviamente il Grion bene
interpreta che Dante citando la Tenzone di Giulio, intai-
dea indicare una poesia, la quale, a creder suo, andava
allora fra le migliori e fra le più divulgate §. I. Quindi
egli può dirsi a buon dritto barone , feudatario , paladino ,
sire, egli il più illustre poeta della reggia normanna §. 12.
Ed avendo richiesto e avuto in consorte opulente e
nobilissima donna, la più cortese di quante ne avesse vi-
sto ne' suoi viaggi, ne assoda essere egli ad essa pari di
grado. L'amata dovea appartenere ad una delle più rag-
guardevoli prosapie della monarchia, quando essa avverte
Giulio di potere essere ucciso dai di lei consanguinei, e
il di lui corpo impunemente gittate ne' correnti, che in-
torniavano il castello, per cui egli è obbligato ad opporle
la ingente difesa di duemila agostari. Quando essa gli ag-
giunge essere donna di perperi; possedere monti d'oro;
che sposar lui equivarrebbe a degradarsi — cadere dal-
l' altezze — ; che concederla a lui sarebbe una degnazione
de' di lei genitori; quando si considera che essa abitava
— 26!( —
rasa magnatizia, chiamata tre volle castello e tre volte
magione; e Onalmente che i di lei proci erano conti, ca-
valieri, marchesi e giustizieri, cioè i più cospicui perso-
naggi di una delle più potenti corti di allora. Acconcia-
mente il Galvani p. 7, la intitola: doviziosa e nobile ca-
stellana.
Né pelea essere altrimenti, avendo essa dritto di en-
trare nel monastero di Bari, che fondalo nel X secolo fu
destinato a ricevere la nobiltà pili fiorita, e raccolse don-
zelle di regio ed imperiai sangue 18. E che non sarebbe
degno di toccarle la mano il possessore de' favolosi tesori
del Soldano e del Saladino, ancorché ne facesse a lei dono.
SI. 6. Qual maraviglia adunque eli' ella vestisse gli abiti
più ricchi del tempo, St. 23, il di cui splendore amma-
liava il paladino poeta? E quanto è qui detto .■<! corrobora
e connette con quello che andrò svolgendo ne' seguenti
paragrafi. Non faccia senso agl'inesperti il dirgli l'amata
non esser degno della di lei mano, posseder poco al di
lei paraggTO, ed egli chiamarla villana, St. 13, nel fer-
vore della conciUizione del dialogo. Eran dardi di amore,
ed essa, che la prima era corsa alle offese, nobilmente
a lui ne chiede mercede pria dì andarne al letto, se mi-
Teso mai l'abbia.
r
Siegue. Valori del medio evo.
Non potremo estimare adeguatamente lo stato de' per-
sonaggi di cui ci occupiamo, senza richiamarci a memoria
i valori del medio evo. A conoscere quanto valesse chi
poteva imporre a sua difesa duemila agostari, e possedeva
le onze, è mestieri retrocedere sette secoli, e farci con-
jniU,
— 270 —
temporanei aggrandì del XII. E prima aggiungo che co-,
lui, il quale possedea once dieci annuali, era per le nor
stre leggi barone del regno; e siccome Giulio avea molto
di più di onze mille in avire, e disponibili al di là di
onze 2,475, potea rivaleggiare coi nati da' re. Perciò Giulio
avendo del suo in beni fondi — ed è poco — oltre onze
duecento di rendita, potea essere venti volte feudatario, e
dovea condurre secolui in battaglia largo stuolo di fanti
e cavalieri. Alcamo al 1300 era tassata per 100 pedoni e
33 cavalli ; s' egli ne fu signore , pareggiava i figli e nipoti
del Gonte Ruggiero 19.
A ragguagliare i valori, ricordo Oddardo Terreri e sua
moglie Emma nel 1156 aver venduto a Pietro di S. Bar-
tolomeo le case loro e del Gaito Kusaen poste in Palermo
per trenta tari; Filippo Orsino nel 1170 otto tumoli di
terreno a Nicolò Xero per cinquantasette tari 20; Grane-
rio sacerdote e Omenessa sua moglie nel 1183 il podere
denominato di Flaciano con altre possessioni limitrofe e
tutti i villani a Messer Pancrazio catecumeno del venera-
bile monastero di Demona per tari cento 21; Michele il
Flebotomo nel 1216 a Giovanni Endelusi, canonica) e te-
soriere della cattedrale di Palermo, l'intera di lui ofB-
cina ivi posta per tari venti 22. Perciò non faccia mara-
viglia se regnando gli svevi una salma di frumento valeva
tari S, d'orzo tari 2, 10; un giorno d'aratro grani 6 e
piccoli 4, la giornata^! un uomo per zappare grani 2,
per mietere 5, una gallina grani 4 e le uova quattordici
a grano. Gli estesissimi boschi di Troina sino a Brente fu-
rono valutati onze 200! Dopo gli aragonesi questi valori
crebbero progressivamente, come è dimostrato dall' od-
doamento del servizio militare prestato da' feudatari sici-
liani, riferito da' nostri pubblicisti. Bastano questi cenni a
determinare la gentile origine, la potenza, la sapienza di
Giulio e di colei, che gli fu moglie. V. §. 12. 23.
5.3.
Qaando scrisse Giulio?
Disaminato l'essere del nostro poeta, è i
volgerci a indagare l'epoia quand'egli dettava la famosa
Tenzone. È questo uno dei maggiori dubbii che essa pre-
senti, ma fortunatamente ne divinarono la soluzione Leone
Allacci, G. B. Strozzi, Castelvetro, e quindi Girolamo Ti-
rat)oschì, il quale la disse contemporanea ad Enrico VI.
Lo seguirono molti degli storici della nostra letteratura,
tra i [luali il Maffei, che la pose anteriore al 1193, e così
il Valeriani al 1197, e ultimamente il Trucchi, anch' egli
allogandola nella seconda metà del secolo XH. Pier Vin-
cenzo Pasquìni corse più innanzi, allorché stampava: sa-
prei lUmoslrare con buoni argommUi che Giulio fu imlu-
bilalamenle anteriore agli svevì. Nel 1869 disaminando la
quistione, e, senza aggiungere nuovi argomenti a quelli
enunciati da'* nostri, lo fa dieci e forse anclie tredici anni
posteriore a Folcaccliiero de'Folcacchierì. È contradizione?
Lo risolva egli medesimo: io noto e aintinuo 24.
Si dice all' incontro che Angelo Colocci , morto nel
1546, ebbe per le mani poesie inedite del nostro trova-
tore nelle quali nomina Fra Guittone, e allude a N.' Ja-
copo da Lentini; ma l'Allacci medesimo dichiara che an-
corché hnbbia usata diligenza nelli manoscritti notamenti
del Colocci, non vi ha però trovato tali parole 25. All'op-
posto altri , tra i quali il Nannucci , il Cantù e l' istesso
fino» la pongono alia metà del secolo sus.seguente. For-
tunatamente il Sanfilìppo, Vincenzo Di Giovanni e Isidoro
La Lumia meco d'accordo, dileguarono, o a dir meglio
eradicarono i dubbii nel modo il più incontrovertìbile.
— 272 —
Quantunqae la lìngua , lo stile e V ortografia di quella
celebre Tenzone me ne assicurino la vetustà, non credo es-
sere fiorito Giulio attempi normanni, e molto meno attem-
pi di Federico : per me nacque sotto i normanni , regnando
Guglielmo il Malo , e scrisse imperando Enrico VI. U Iei>-
tinese e V alcamese non furono e non poteano essare con-
temporanei: sono di stampo diverso, e chi li crede coe-
tanei s' inganna. Nel medesimo t^mpo , nella medesima
corte non potea coesistere cotanta notevole difformità. Chi
ha occhi e tatto esercitati in cosifatte investigazioni, non
sarà certo gabbato dalP asserzione degl'ignoti teUuni, at-
tribuita al Golocci. L' esame seguente farà disparire le di-
sopinioni.
6.
Siegue. Difesa, imperatore.
Le strofe 5 e 6 mentre suscitano apparenti difficoltà ,
prestano in fatto le più valide prove a determinare Tetà
della Tenzone, la mercè di reiterati sincronismi. Giulio
avvertito dall'amata di poter essere ucciso da' di lei con-
sanguinei, le risponde di opporre alla loro prepotenza
una difesa di 2,000 agostari, ed invoca a salvaguardia
r autorità sovrana. Ed essa ripicca : se tu mi donassi quan-
Vha il Saladino, e per giunta quant'Aa il Saldano^ non
mi toccheresti la mano. In questi versi storici sono cinque
dubbii, e altrettante conferme della priorità della Tenzone
al glorioso regno di Federico. L'imparziale loro analisi,
farà evidente il vero.
Essendo stati due gì' imperatori e all' istess' ora re di
Sicilia, Enrico e Federico, di quale di essi invoca la legge
e il nome? Coloro che opinano essere la Tenzone coeva
— 273 —
a Federico, credono avere primo costui bandito siffetta
legge, e nella quarta deca del secolo XIII. Perciò schia-
rire Terrore, basta dimostrarne la preestslenza e l'uso
comunissimo in Italia e in Siritìa.
Questa maniera di garanzie personali, ebbe Tra noi il
nome di multa e composizione, e da tempo immemora-
bile vive tuttora nel continente e nell'isola. Senza specu-
lare (]uando e da chi fosse stata fra di noi introdotta, è
l'erto Tacito ricordarla fra' costumi germanici ; i romani
averla conosciuta sin da' tempi della repubblica; i longo-
bardi e i galli quindi qui la ribadirono; si legge ancora
ne' Capitula Caroti Magni et Charta Dagoberti, anno 635
e 7SI presso il Mabillonio: e in Italia fu viemmaggior-
mento assodata da' normanni , da' pnpi , e da quanti ebbe
prìncipi. Se pure, come sembra piìi verisimile, non sia
indigena, giusta i snguentì indizii. Avvegnaché essa è de-
nominala faeda e fredo alla barbara, composizione alla la-
tina, e mitlta air italiana. Difatti il Remondini Iroxa multa
in una iscrizione elrusca, che si conserva nel Seminario
di Nola ; leggiamo in Festo : mnUam osci dici pulant p(e-
nam quidam; e in Varrone riferito da A. Gelilo: mullae
vocabuhim non latinum, sed sabinum esse; idque ad suam
memoriam mansisse in lingua samniiinm. Se a' sopra no-
tali testi aggiungiamo quanto registrò il Fabbretti, cioè
averla detta muliatic^ gli etruschi, ed essere usuale presso
gli antichissimi italici, non vi saranno più increduli. Tal-
volta alle mulle vennero sostituite pene corporali e infa-
mami; come oggi nel nuovo Regno d'Italia chi non può
pagarle al Fisco, le sconta col carcere valutato da'' nostri
legislatori L. 2 per ogni ventiquattro ore. Dapoìchè si
credeva allora — tempi barbari — e si crede oggi — tempi
civili — , che il danaro si possa rìc-attar con la pena, e
la pena col danaro! La mutla per lo più si divise in
due parti, l' una delle quali dovea essere pagata al Fi-
18
— 274 —
SCO, fredo; T altra a chi avesse sofferto il danno,
posizione.
Nessuno , che io sappia , chiarisce questo difficile t
meglio deir illustre A. Manzoni giovandosi delle inves
zioni del Montesquieu; ed io a testimonio di riverem
tesoro delle sue idee. Il fredo o feida, nella sua ver
senza feudale, giuridica, era quanto doveasi per la
tezione accordata dalla legge a' cittadini; la compoH2
0 difensa, quanto doveasi a chi avesse patito ingii
danno, ferita, o la morte di un suo intimo. Il fred
proporzionava alla grandezza del protettore, march
conte , duca , re , imperatore ; e quindi il fredo allo si
la difesa o composizione spettava all'offeso.
A meglio validare quanto abbiamo detto nel §. ^
i valori di quel tempo, e dimostrare essere queste 1
anteriori agli svevi, ecco una nota delle principali n
0 composizioni pecuniarie sancite daMongobardi per 1
lia, secondo il Nugnes nella Storia di Napoli, e t
dall'editto di Rotari:
Omicidio premeditato di un libero .... Soldi
Veneflcio premeditato
Di un aldio di altri
Mutilazione del naso , accecamento di un occhio ,
perdita di uno o due denti , da un soldo a
Violatori di sepolcri
Chi spogliava un annegato
Chi faceva abortire una serva o un^ giumenta .
Perciò valutavasi un rustico
Un pecoraio, massaro o bifolco
Un custode di porci
Un domestico
Un aldio , libero di persona e non di sostanze .
Un libero cittadino
e cosi via 26.
— 273 —
Ma queste difese conoscevansi in Sicilia? Non <
siavi bisogno di ullerrori lestimonianze. Pure a serenare ìl
signor Grion, e quanti altri potessero opinare secondo Ini,
potrei chiarirgli con ctnlo esempi la consuetudine uni-
versale neir isola sin dall'antichità di sìfatte guarentigie;
ma per brevità mi limito al tempo di Giulio, e prima che
Tosse nato Federico li. Nel H70 Filippo Orsino mette una
difesa di 36 numismi a favore del Fisco contro chi turbi
Nicolò Xero nel possesso pacifico del fondo vendutogli.
Nel 1192 Niccolò e Teodoro permutano con Pancrazio due
poderi, se ne impongono una scambievolmente, e altra
in prò del Fisco per chi mancasse a' patti consentiti. Gu-
glielmo [| con fa Costituzione XXXIV del Codice Vaticano
pubblicato dal Merkel , ìmponea la multa di 3 soldi d' oro
a chi depilasse la barba di un cittadino in rissa, e fuori
rissa di 6, 27. Pertanto ed il poeta e la giovane amata
dovevano aver familiare in Puglia e in Sicilia il sistema
delle tiìKlle 0 difese. 11 ricorrere alte Costituzioni di Fe-
derico del 1232, mostra poca, conoscenza pratica della
nostra storia giuridica. Le Costituzioni di Melfi per altro
Don furono una novità nella monarchia siciliana insulare e
rantinenlale; invece nella massima parte una collezione
delle prescrizioni pmcedenti de' Parlamenti e de' prin-
cipi 28.
Ma il Viva lo nniieralore, fjrazie a Beo, dee rife-
rirsi ad Enrico o a Fi'derico? Per chi ignora le nostre
leggi, all'uno e all' altro potrebbesi. A dileguare le peri-
tanze occorre il mio imico Vincenzo Di Giovanni con la
setfuente opportuna considerazione 29. Net Parlamento di
Melfi del 1231 Federico II fece imporre la pena capitale
a' rapitori di donzelle, e a chi facesse violenza a donna
qualunque eziandio non onesta. Or se Ciullo tentava la
giovane a cedere alle sue voglie, all' insaputa de' suoi ge-
aitori, come e perchè invocare F inesorabile autore dì
— 276 —
quella legge? E quali si fossero i suoi iuteoti è palese
dalle strofe 17 e 25. Perciò T apostrofe è diretta ad En-
rico , non già a Federico ; e Giulio si valse a buon dritto
dell'antica guarentigia, imponendo duemila agostarì per
sua difesa a chi V offendesse , ed invocando il nome della
suprema potestà tutrice delle leggi.
8.7.
Siegue. Agostari.
Volgiamoci ormai agli agostarì , moneta di coi parla
r alcamese , poiché V essere preesistita a Federico II , as-
soda viemeglio la fede di nascita della nostra Tenzone.
Nel §. 2 di questo Gomentario abbiamo riferito la
St. 5 nella quale Giulio li nomina. Più di un crìtico^ tra
i quali il Nannucci e ultimamente il Grion, notando aver
queir imperatore e re di Sicilia ordinato la coniazione degli
agostari nella seconda o terza deca del secolo XIII, ba
estimato la Tenzone posteriore all'epoca sopraccennata. E
se mai gli agostari non fossero stati antecedentemente co-
nosciuti, quella data cronologica avebbe arruffato la ma-
tassa.
Lacera la serie, e pochi i superstiti diplomi della
prima e della seconda dinastia siciliana; dapoichè fra gli
altri malefizii, dobbiamo a Garlo d'Angiò lo sperpero di
essi, avendone distrutto quanto fu in suo potere , quasi i
dritti dell'isola stessero nelle pergamene. E pure noi ab-
biamo ricordo che « ben prima di Federico vi erano mo-
nete dette agostari ; ed erano le antiche monete augusiales,
le monete de' Gesari Augusti 30 » .
Quella moneta coniata originariamente in Bisanzio,
come vedremo, si era diffusa per tutto T oriente, e quindi
— 277 —
fra i masulmaoi, che volgarmente e impropriamente «r- "
dti da' Qostri addlmandavansi ; per cui Lorenzo Bonincon-
tro scrivea: Post tandem pax Ananiae cnm Pontifice fir-
mala fuit, quam magister equìtum Rkhardus Fìlagirus
sicatns, augusto mense anno eodevi firmavit persolutis
ccn/uni vigiitti aagustalìbiis, sic entm ìd genus monelae
turcae appellabant 31.
Un altro ricordo di questo nummo troviamo ne' Di-
plomi normanni siciliaoi, e proprianneote nella Costituzione
65* di Guglielmo I, De officio Bajulorum, ove si legge:
quae tamen poena ^[uaatitatem augustalis unius per ti-
ces singutas non excedat. Qualche pubblicista evulgò er-
roneamente tale Costituzione a nome di Federico 11; ma
Huillard Bréholles la restituì a Guglielmo il Malo secondo
i piti riputati antichi codici, apponendovi questa nota: In ■
quibusdam edilionifnts et etiam apud Carcani, Friderico
Imperatori Utiiltis adscribìlur. Codicein vei'o nostrum se-
CHti hanc et seqtientes leges patius a Guillelmo emanasse
arbilramttr 32. Né in questo solo luogo è corretto il Car-
cajii, ma parimenti io diversi altri titoli delle sicule Co-
stituzioni, come può consultarsi: e nello stato presente
degli stadii diplomatici della nostra monarchia, non vi è
giudice più sicuro di Huillard Bréholles.
La Costituzione di cui è parola, fa parte del corpo
delle leggi sancite dal Parlamento di Melfi, grande nu-
mero delle quali erano state emanate dal re Ruggiero,
quasi il doppio da Guglielmo I, le rimanenti furono da
Federico. Questo dichiararono Pietro delie Vigne, che le
compilò, e il medesimo Federico nella introduzione alle
stesse 33. E a rassodare quanto ben disse V Huillard Br&-
hoUes, osservo che la Costituzione (15 riferita dal Carcani
a p. 68 del libro 1°, fu modiQcata da Federico, come si
legge neir Huillard a p. 37; e quindi ne esistono due, la
prima nonoanna, la seconda sveva; in quella è ragione
L
■
— 278 —
delP agostaro , in questa se ne tace: onde non possono
fra dì loro confondersi. Del soldo d'oro è parola nella
Costituzione XXXIV di Guglielmo II evulgata dal Merkel.
L'egregio Pietro Sanfilippo, tenuti presenti gli argo-
menti de' dotti, che lo precessero, sostenne essere stati
cogniti gli agostari in Italia fin dall'epoca de' longobardi
34. Egli considerando col Tiraboschi essere Mons. Vincenzo
Borghini « uom versatissimo nella storia, nelle antichità,
nella critica e nella diplomatica ancora, e dotato di buon
criterio nel discernere le vere dalle false opinioni » ri-
porta la di lui testimonianza, mercè la quale si conosce
essere in corso sin dal tempo de' longobardi , e all'istes-
s'ora aggiunge l'etimologia di quei numismi, con queste
parole: « A dire il vero si conosce che dagli imperiali e
forse papali in fuore, non si trovavano agevolmente in
quei tempi di qua da noi parlando , monete d' oro , e del
non si sentire ricordare per le scritture lo mostra il fatto ,
perchè agostari e bisanti che da' longobardi in qua in an-
tichissime scritture e privilegii si leggono; dei quali il
primo non pare che abbia dubbio, che dal nome di Au-
gusto si chiamasse; il secondo per avventura dalla città
di Bisanzio, seggio allora del greco impero, ebbe il no-
me 35 ».
Il Borghini non determina l'origine di sifatta mone-
ta , al che occorre Antonio GrafBoni , il quale presso l' Ar-
gelati a proposito del soldo d' oro , che fecero battere Co-
stantino e Valentiano, scrisse: « E questo si è il soldo
d'oro di cui tratta Giustiniano nelle sue leggi, che per
essere la sesta parte dell' oncia fu chiamato sextula , come
dice S. Isidoro nelle sue Etimologie. E questo similmente
è r agostaro , di cui discorre Mons. Borghini nel suo Trat-
tato delle monete, ed il Vocabolario della Crusca nella
voce agostaro, il quale ebbe l'origine da Costantino Au-
gusto 36 B. Che il soldo d'oro sia come l' agostaro una
— Ì79 =
ToDcia, è riconfermalo aeir Archivio NapolìtaDO,
ove leggo: ■ Solidus auretts e sexla unciae parte costa-
bat ac propferea mmctipari eliam sextula consuenil 37 • .
Dal sopradetlo si deduce che soldo d'oro, sextula
ed agostaro siano sinonimi, e forse anche il numìsmo,
coraanissimo ne' diplomi noiTnanni, equivaler all' agosta-
ro, come sapienti antiquari] opinano; che dagli Augusti
ricevette il nome; che fu coniato in Bisanzio; ed ebbe
origine da Costantino Augusto, e -valeva una sesta parte
dell' oncia.
Ribadendo quanto dì sopra, aggiungo che gli arabi
quando vennero in Sicilia conosceano V agostaro ne' loro
paesi orìginarii, e qui lo trovarono insieme alle altre mo-
nete bisantine. E ad esso rapportarono le loro tanto gli
aglabitì, quanto i primi fatemiti riducendolo e valutandolo
ad una quarta, invece di una sesta d'oncia, onde equipa-
rarlo al loro dinar 38. V istesso sistema conservarono ì
normanni, per i quali fu una moneta piuttosto nominale
che reale; e di conseguenza l'Imperatore Federico 11 vo-
lendola ridurre a moneta effettiva, adottò il pregio arabo-
normanno, e quindi secondo riferisce Riccardo di S. Ger-
mano, nel 1221 fece coniare in Brindisi e in Messina i
nuovi agostari d'oro: Mense decembrts 1221 nummi au-
rei, gui augustales vocantur, de mandato Imperaloris in
Utraque Sicilia, Brundisii et Messanae cudunfur.
1222. Mense innii quidam Thomas de Bando ciiis sca-
lettsis novam monelam auri, quue Aiigtistalis dicitar , ad
S. Germanum detulil di»tribuendam per lotam Abbatiam
et S. Germanum , «1 ipsa moneta utantur homines in em-
ptionibus el vendilionibus suis juxta valorem eì ab Impe-
ratore constifutum, ut quilibel nummus aureus recipialur
et expetidatur prò quarta ancia, sub panna personarum
et rerum in impertatibus literis, qiias idem Thomas de-
tulii annotata. Figura Augitstalis erat ab uno latere co-
— 280 —
put hominis cum inedia facie, et ab alio aquilam. Lodo-
vico Muratori, appoggiandosi e di accordo con Apostolo
Zeno , cui veterum nummorum est insignis peritia y dica:
il volgo aver creduto essere stati chiamati agostari da
Federico II augusto, ma ch'essi prendean nome da Ce-
sare Augusto; e conchiude che il loro peso, valore e
coniazione longe antea ad inventam disdmus ec. 39.
I nostri storici e letterati dissentono delP anno quando
fu coniata e dìifusa questa moneta: gP insulari inclinano
a crederla del 1222, i continentali del 1232. Io non mi
soffermo su questa inutile disamina: non è quistione di
decennio, bensì di centennii: certo sono differenti mone-
te, le prime bisantine, siciliane le seconde.
A conferma di quanto abbiamo esposto, ritomo al
Borghini. Egli che alla p. 127 scrivea essere rammemo-
rati gli agostari nelle antichissime scritture e privUegii
longobardi; poi a p. 221 e 223, ragiona distintamente
deiragostaro di Federico II, citando Giovanni Villani; il
che dimostra aver egli conosciuto P antico ed il nuovo.
Ecco le di lui parole a p. 221 ; « Questo agostaro di cui
parla Giovanni Villani , dovette essere battuto , o appunto,
0 assai vicino alla ragione della vecchia moneta (f oro do-
gi'imperatori romani ». E a p. 223: « ma che le prin-
cipali monete dell'oro fra le quali essere l' agostaro il
nome stesso , quand' anche non ci fosse altro , lo mostre-
rebbe, fussero di questo peso di sei per oncia, intenden-
do pure dal Gran Costantino in qua > . Ove è da notare
non solo di aver ragionato prima del nuovo e quindi del-
l'antico nummo, ma sì pure di aggiungere che questo
trae origine dal Gran Costantino.
Perciò non è a dubitare, a me sembra, che vi siano
state due coniazioni di agostari differenti fra di loro per
origine, per peso e valore, equivalendo l'antico ad una
sesta , e il nuovo ad una quarta d' oncia , talché V uno non
— 261 —
può menomamente con Taltro confondersi. Quindr se r ago-
slaro in Sicilia era termine t'enerico di qualunque moneta sin
dair epoca imperiale; se ilalla sua origine e difTusione orien-
tale, ei'a (letto moneta turca, come è riferito; se io trovia-
mo ricordato da Guglielmo I e dalle antichissime scritture
e privilegii longobardi; se ebbe nome da' Cesari Augusti
sin dall'epoca di Costantino; se è sinonimo di soldo d'oro,
di seslula, e Torse di numismo, monete al di qua e al di
\h del Faro, in Asia ed in ATrica divulgale; se gli arabi
lo trovarono in Sicilia, e lo accrebbero di valore per uni-
formarlo al loro dinar; se Muratori e Zeno lo estimarono
di antichissimo conio: se il Borghini parla a p. 127 del-
l'antico, e a p. 221 e 223 del nuovo agoslaro, e li di-
stingce insieme al Graffioni, senza tener conto di Vergara
e di altri, i quali ne ragionano; se essenzialmente sono
fra (lì loro distinti e differenti di peso, conio e valore,
I>otea Giulio nominarli allo scorcio del secolo \1I7 Avea
bisogno di vivere nel secolo XIII per giovarsene? Si, egli
e r amata ne aveano piena scienza , perchè in uso da se-
coli. Ed egli trattandosi di monete , mostrò ricordare le
antiche a preferenza delle moderne, come è evidente dalla
St. 6, quando la rosa invidiala ad ostentare ricchezza,
[lomina il perpero . anch' essa moneta d' oro degi' Impera-
tori bisanlini:
^ Doona mi son di perperi.
^L D'auro massa amotioo.
*■ Pertanto P. Emiliani Giudici nel Florilegio sanamente
scrivea: « Cbi argomenta che Federico fosse il primo a
dare il nome a ipicsta moneta, o su questo argomento
protrae l'epoca di Giulio a quella de! monarca svevo,
mostra d'ignorare la storia ». — Dietro queste conside-
razioni, rimetto a' prudenti il giudizio 40.
— 282 —
§. 8.
Siegue. Il Saladino, il Soldano.
Giulio fa dire air amata, come sopra abbiamo cexk-
nato, di essere ricca di casa sua, e scegli le offerisse
quanto hanno il Saladino e il Soldano , non si farebbe toc-
care la mano. E siccome, per quanto si voglia sofisticare,
due soli furono contemporaneamente cogniti con quei nomi
fra noi, è mestieri determinare chi furono e quando vis-
sero. Il Sanfilippo e il Di Giovanni hanno chiarito , il pri-
mo essere Saladino re di Babilonia , che disfece i crocìse-
gnati nel 1187-1188, morto nel 1193; e il secondo il Sot
dano di Damasco, che nel 1174 sconfisse T esercito del-
l' imperatore Emanuele. Innegabile essendo averne parlato
Giulio come di persone viventi, quella Tenzone fu scrìtta
tra il 1174 e il 1188, quando per le crociate la fama di
quei due potentissimi suonava alta fra di noi. Molto più
perchè teneasi come il Greso dell'oriente il Saladino, il
quale a far dimenticare nel 1171 le stragi la cui mercè
sottomise l'Egitto, e dopo avere ucciso il Galiffo Àded,
e usurpato l'impero de'Fatemiti, profuse gl'inunensi te-
sori accumulati dal califfato, per cui V occidente e V orien-
te magnificarono la di lui ricchezza , e quindi il poeta pri-
mo lo nomina. Se Giulio, com'è verisimile, nel H78
seguì i siciliani vessilli in levante a liberare Tripoli e Tiro
assediate dal Saladino; se nel 1188 contribuì con l'am-
miraglio Margaritone a disperdere l'esercito musulmano,
a soccorrere Antiochia contro l'istesso Saladino, bene e
opportunamente lo ricordava nella Tenzone.
E questo in quanto alla storia, che nessuno inforsa;
ma il Grion a trasformare in passato quei due presenti
— 28:j —
l Saladino, ha il Soldano,
Saiadino, ebbe il Saldano, e perciò far Giulio posteriore
di oltre mezzo secolo, crea una nuova uscita della terza
persona del presente indicativo del verbo avere. Nella
stampa egli sostiene queir o essere V habttit dei Ialini,
V aut 0 eiit dei francesi, e perciò un aii siciliano di suo
cervello, e a ciò impiega HO linee. Ma nella lettera det
4 febbraro 1869 forse sgannato dalle ragioni del Di Gio-
vanni, si pente e conviene essere ignoto a Sicilia queir au,
e quindi propone di leggersi:
Se tanto avir dunassimi
QuauV appi Saladino;
»
senza dirci come vorrebbe acconciare il verso seguente:
E per ajunta quant'/ia lo Soldano;
e a dispello dell'esempio di Dante, togliendo l'articolo il
a Saladino , e serbandolo a Soldano.
Ecco a the obbliga un'idea preconcettai Non è chi
sappia meglio del Grion leggersi in lutti i Codici a o ha,
e nel Valicano con chiarissima lettera sei volte con Ph,
cioè 1.° per quanto avere ha in Bari; 2.° ka lo Sala-
dino; 3." ka lo Soldano: i." hanno dura la testa; 3." l'ha
in sua potestà ; fi." per quanto acere ha il Papa e lo Sol-
dano. Or perchè non arrendersi all'evidenza, alle com-
prove consociate della lingua, dello stile, delle date, dei
sincronismi, e strologare storcendo la grammatica e gt'in-
genai versi di Ciullo? Perchè? Per trovare anche un filo,
no capello' a cui attenersi, e fer credere essere stata det-
tala la Tenzone dopo la morte di quei due personaggi.
Dnolmi che anche il Galvani propose tramutare Vha in
habe, variante, che devo rifiutare.
— 284 —
Dopo aver ricordato qual grande magnate e sapiente
si fosse Giallo d'Alcamo, mi è caro trìboire il meri-
tato elogio allo scultore Antonio d' Amore per averlo ri-
tratto di plastica. Ma per quanto ammiri il nobile e pa-
triottico concetto, non so comprendere perchè ablria yo-
luto figurarlo neir abito di umile minestrello , in attitodine
di cogitabonda mestizia, quasi Tasso a S.Anna, con appiè
la dimessa mandola. Invece avrei amato vederlo baldo ,
animato d' estri e d' amore, in abiti convenienti air alto suo
grado , e air istess' ora leggere nella pergamena , che strìnge
con la sinistra il principio della Tenzone, che lo rese ce-
lebre e immortale:
Rosa fresca aulentissima ,
Che appari iover la state eoe
Cosi usarono grandi artefici , e ultimamente il Vela col
Grossi, a cui pose nella destra un foglio ove si leggono i
passionati versi della canzone di Tremacoldo:
Dna croce a primavera
lYoverai su questo suolo eco,
versi, che nello storico atrio di Brera, mi trassero lagrime
di dolore e di affetto.
§9.
Lingua della Tenzone
Questa Tenzone, come è stato detto, ebbe P onore
di essere diffusa da un capo all'altro del continente, e
molti poeti neir isola e nella terraferma ne ricantarono
— 285 —
nrìiiBeoie V argomento divenuto famoso. La lìogoa e I
siile adoperali dall' alcamese, cioè la corteccia di quest'aU
bero sette-secoiare , Danlt; potè chiamarli plebei, ìd con-
fronto degli scritti della corte di Federico: come possono
dirsi plebei i di costoro al paraj^'gio di quelli di Cavalcanti
Goinicelli e dell' istesso Alighieri ; ma sarebbe meglio chia-
marli arcaici, cioè del periodo normanno, anteriore a
Federico II. Ed è questa la piìi sicura comprova di es-
sere stato Giulio sotto i Guglielmi, e di aver dettalo la
sm Tenzone molto prima delle poesie di cui T Accademia
imperiale facea suonare le aule del real palagio dì Pa-
lermo. Per lo che ben a ragione dicea il Tracchi: • La
maniera e lo stile e la lingua di Giulio son cosa affatto
diversa dalla maniera, e dallo stile e dalla lingua de' Irò-
valori italiani, che cominciarono a fiorire dopo la seconda
metà dei secolo Xll • . La Tenzone in discorso , i canti
di N*. Jacopo e de' suoi contemporanei, e quelli del di-
vino poeta presentano triplice aspetto; e se assumessero
persona, mostrerebbero la vecchiaia, la virilità, la giovi-
nezza de' tre periodi distinti , come al vedere )e melope
selenunline ciascuno avvisa la rudezza e la progrediente
perfezione artistica fra la prima, le susseguenti e le
Dltime.
Noi abbiamo tentato provare ne' Prolegomeni a' Canti
popolari la preesistenza del volgare italico agli arabi e ai
bUanlini in Sicilia. Per la terraferma il Muratori ne dà
documento in sin dal 900 con le testimonianze de! mo-
naco Gonzone, di quel di Bobio, di S. Gerardo Abbate:
a' quali aggiungendo quelli riferiti ultimamente dal Tom-
maseo, dal Canlù, e quelli che possono trarsi da' diplomi
dell'Archivio di Napoli .'^in dall'anno 003, 41, no deriva
essere esistite allora due lingue, cioè il volgare e il Ialino.
La prima l'antichissima de' pelasgo-siculi . che ancor vive,
1> seconda soprimposta: quella del popolo, questa della
L
ì
— 286 —
classe ieratica e imperante. Che il carattere del siciliano
siasi conservato tale quale oggi risuona, lo dimostra Te-
ditto del re Gialeto, che regnando in Sardegna dal 687
al 722, proibiva a' suoi sudditi Puso del nostro dialetto
42. E i cauli e le laudi volgari, che fra noi redtavansi
all'epoca normanna, originavano probabilmente dalla bi-
santina, e quindi erano precedenti all'araba.
Il maggiore incremento T ottenne, allorché la Sicilia
con r aiuto de' normanni , si sdossò i saracini , e racquistò
la propria indipendenza. Dal 1000 a tutto il 1300 la tra-
sformazione e il perfezionamento della lingua e dello stile,
sono notevolissimi; in questo periodo la nostra letteratura
presenta tre secoli distinti. Il primo corre dall' anno 1000
al 1100; il secondo dal 1101 al 1200; il terzo dal 1201
al 1300; e quello che noi chiamiamo primo, in fatto do-
vrebbesi dire terzo secolo, rettificando la cronologia fi-
lologica. Giulio sta tra il primo ed il terzo.
Del primo abbiamo tre documenti e tre testimonianze,
e testimonianze e documenti si accresceranno, qoando
avremo ordinati gli archivii, e rinsaviremo dalla smania
di frantumarli e isolarli, come si è fatto della nazione,
tagliuzzata in minuzzoli alla napoleonica, e l'una parte
ignota e quasi all'altra straniera.
Le testimonianze sono, prima quella di Roberto Cri-
spino, il quale avendo visitato Palermo mentre Guglielmo
il Conquistatore regnava in Inghilterra, cioè fra gli anni
1066-1087, e qui imperava il G. Conte Ruggiero, trovò
nelle aule sovrane canti, suoni e canzoni 43. La seconda,
la carta di memoria scritta da Ambrogio Vescovo di Patti
nel 1081 in linguaggio ufficiale, e contemporaneamente
tradotta in volgare per il popolo. La terza il permesso
di Augerio Vescovo di Catania, circa al 1090, col quale
concedeva che i catecumeni adulti ignari di greco o latino,
avessero potuto rispondere in volgare nell' amministra-
zione del santo battesimo.
— -288 — .
vassalli, e perciò scrìtta nel volgare de' tempi. Questa
versione o transunto fu pubblicata dal benemerito Giu-
seppe Spata 46, e il Di Giovanni la reputa sincrona 47.
A maggior chiarimento deflettori , ne pubblico un bran-
dello: e Conti Rogeri di Sicilia et di Calabria, ayutaturì
di li christiani. Impero hi scelliysti lu divinu amuri di la
pichulitali di li tennirìti di li ungi, et di exiri a la vita
monastica et viviri silenziusamenti et quietamenti et pnh
ticandu secundu lu dictu di lu apostulu di noeti et di^
jornu petendu et pregandu lu signuri deu pir la sthabi-
limentu pachificu pir tuclu lu populu chrìstianu adunca
ricolligastì bene plachenti a deu ec. »
Del secondo secolo possediamo i canti, che parlano
de' Guglielmi 1154-1189; la testimonianza del Buti, che
disse essere allora in corte bmni dicitori in rima (T ogni
condizione; le iscrizioni delle imposte di bronzo del tem-
pio di Monreale § 11; Tatto di permuta stipulato a 4
maggio 1153 fra Leone Yisiniano ed Oftimio Abbate di
Santo Nicola di Xurguri, da me riportato ne' Prolegomeni
a' Canti popolari: e forse le Consuetudini di Castiglione,
scritte in volgare, e credute del 1118.
Il terzo secolo è lo svevo , che male è stato chiamato
primo. In esso sovrabbondano i documenti , tanto che die
nome di siciliano alP italico volgare.
La lingua e Io stile del bronzo, delle pergamene e
della Tenzone, si possono dire ritratto fotografico gli uni
dell'altra, e tutte del tempo quando furono dettati. Coi>-
chiudo questo paragrafo con la seguente savia osservazione
del Crescimbeni: « Agli imperiti della nostra favella par-
ranno per avventura molte voci e forme di dire de'coiu-
ponimenti antichi, anzi spropositi che vocaboli e maniere
buone. Ma avvertano a non condannarle così alla cieca,
perchè elleno sono per lo più radici, dalle quali è poi
venuto il purgato dialetto che ora corre. Nel rimaoeDte
qoaalo alle tocì debbe aache ÉX>iisìdera[^ì che i poeti an-
tichi , salvo pochissimi , componevano nei dialetti delle
proprie loro patrie, o mescolavano variì dialetti anche
straaieri, e iterò i loro vocaboli alle volte si rendono
oscuri, e paiono slorpii e svarioni », Se a questo si ag-
giungono gli errori de' copisti, ì quali non solo corrom-
pono l'ortografia, ma quel eh' è più sostituiscono le loro
parole a quelle dell'autore, si conoscerà quanto sia dif-
flcile r interpretazione degli antichi testi.
* Ma quale la favella adoperata dal Sire d'Alcamo?
Cerio la siciliana italianizzala, o a proprio dire come i
gentili della corte la parlavano, e a dippiù intarsiata di
pngtieso, e spruzzata di rare reminiscenze francesi, latine
ec. Tiraboschi dicea che nelle poesie del primo secolo si
posson vedere non pache vestigia del dialetto di quelle
città in cui furono scriUe 48; talché conoscere il luogo
ore nacquero, vale conoscere il dialetto di quelle città e
ctsi viceversa. E questa osservazione corrobora quanto
abtHamo detto al § 2 pel luogo ove è locata la scena.
In quanto all'esservi tramescolalo l'elemento pugliese,
oggi detto napolitano, che vale lo slesso, è fatto consentito
da tutu i ntologi, Lo avevano notalo gli antichi, e ripetuto
Nannucci e Cantìi, e nel modo più affermativo possigli!
Ireneo Affò: < Lo stile dì Giulio è tale, egli scrìvea, che
mostra come a quei di ìn Sicilia il dialetto volgare en
similissimo a quello che anche og^ì mta il volgo di
Napoli, e ninno vi troverà strofa che non sembri venee*
mentf in lingua napolìtana » 49. Questo f u da m; d»>
mostrato nel 1858, e per tanto ne dirò oggi l*en poco.
La lingua volgare fu in uso in Siciba moHo phm
dell* arrivo de' normanni : senza internarci (pù neV epwlK
anliche. ne son documento l'edìllo del re fiàAelo, ià vt'
polcro de' Coppaia, i diplomi del 1000. Il dilefntani M
.iatino. arabo e greco, favelle ìmpoq/? m\ itanm^Mf, f^«
— 290 —
risorgere la lingua nazionale, e se non abbondano le per-
gamene sincrone, soccorrono la critica storica, i canti del
popolo, i diplomi, le osservazioni, la Tenzone di Giulio,
che non potea essere né solo , né primo. Quella lingua si
forbiva e perfezionava in tutta Italia, con le necessarie
vicissitudini locali, e meglio in Sicilia per l'indole della
nazione, per l'ottimo reggimento, per la liberalità e sa-
pienza de' suoi dinasti. Sicché noi possiamo chiamare cre-
puscolo di tanta luce i secoli anteriori al 1000; alba
r epoca normanna ; aurora la sveva, e V apparizione di*
Dante, Petrarca e Boccaccio pienissimo giorno. E questa
similitudine compiette la sintesi delle parziali analisi da
me dettate e ne' Prolegomini a' Canti popolari, e in varie
occasioni e polemiche suscitate da scortesi ignoranti, e da
urbanissimi dotti.
1 10.
É intinta di pugliese?
Quantunque ogni assennato comentatore riconosca
essere in questa Tenzone adoperate molte voci pugliesi,
talune venete, francesi, lombarde, latine; mi fu niegato
quanto io dissi di ciò , e principalmente dell' elemento
pugliese. Non ripeterò qui la lunga e documentata dimo-
strazione della concordanza fra Giulio e tutti gli scrittori
pugliesi dal 1063 al 1858 protratta da secolo in secolo, e
di parola in parola 50. Invece restringerò a sommi capi
questo esame, perchè mentre la illustra, ricomprova la
dimora di Giulio nelle Puglie e il luogo della scena.
Quando la pugliese favella era famosa in Italia, ancora
non avea nome la napolitana, e ne' tempi posteriori sino
a noi, scriver pugliese valse scrivere nella parlatura
Di quel con» d* luln. che s*
Di Bari, di Gaeta « di Coiroai,
Da onde Tronto e Verde in ■■
Pnad-TIH.
Ciò conferinava l' illastre mio anieo R. LOienlore nel s
Tnltato del Diak-Uo NapolìUno, e oc iodagna Va
e la cagione. La quale si è Tarere amlo il pogbese sooUi
scriltori, e niiino il napolUaiw sioo a Sanuazzara, die
detUvR lo Glomero, farsa, e lo avere Alfonso ordioaU) che
lutti gli atti pubblici in pogliese si scrìressero e doq piò
in latino, come Tu esegailo &in dall'anno 1142. Og^ è
cambialo il nome, e il pugliese appellasi napolitaoo.
\U qiiale è l'indole di quella biella? io qoì coda
la penna al Galeanì e al Lilieraiore. ì quali nati coli,
maestrevolmente ne hanoo ragionalo. Ed eecooe le pa-
role: * Il pugliese ed il napolitano sono somiglianti 51;
il volgare napolitano chiamasi pugliese 52: l'indole di
esso a chi voglia ben considerarlo, difTerìsce manirestissi-
mamenle e grandemente da qnella di tutti gli altri dialetti,
che si parlano dal Cenisio al Peloro 33. Differisce pre-
cipuamente dagli altri per una stia propria gagliofleria e
.scnrritilà. per le vocali piti aperte, la pronunzia più larga
e rotonda 54. E dobbiam maravigliare che in tanti secoli
— dal 1200 al 1800 — questo dialetto siasi in generale
conservalo cosi inlatto, che non vi è mutazione o quasi
indiscernibile. 1 Diurnali di Matteo Spinello dal I2i7 al
1268 (la di cui ingenuità oggi s'inforsa), e le cronache
(li Parlenope, che arrivano al 1382, ne sono prova. Es-
sendo esso antichissimo, veggonsi usati in gran copia le
«.uè voci da quei primi scrittori, i quali furono canonizzali
«ime testi di lingua, le quali voci — perchè non proprie
delle altri parti d'' Italia, e meglio di Toscana — sono
— 292 —
state poi mano a mano espulse da' toscani > . Pertanto di-
remo propriamente pugliesi quelle voci, le quali al 1300
0 prima, sino al 1800 o dopo, ancora si conservano da
quel popolo, come potere, bolére, tico, grolia, casiiello e
simili; giusta a quel modo che noi diciamo propriamente
siciliana quella voce, la quale dal 1300 o prima, sino al
1800 0 dopo ancora conservasi dal popolo siciliano; come
grasta per vaso di fiori, serbataci dal Boccaccio e ancor
fresca e viva fra di noi.
È carattere del pugliese vocalizzar le parole, cosi di
fosso far ftiosso ; di felice, fiélece; alle vocali naturali della
parola sostituire le più molli, aperte e liquide, come la e
alla i, la a alla e; q così di lingua far lengua; d'impie-
gato, impiagato; di fune, funa; di spirito, spireto ; amare
i dittonghi, e mentre tutta Italia dice Cicerone, ivi pro-
nunziasi Ciciarone ; usata ed ivi ausata ; unite ed ivi auni-
te; le desinenze plurali maschili tramutare per dolcezza
in plurale femenile con V articolo femenile, così invece di
gli angioli. Ile angiole; di amici, Ile amice 55 ; permutare
la g, b in v, così vammdce, per bambacia 56; viato, per
beato; favréca, per fabbrica; fr avola, per fragola; pre-
deliggere le desinenze in iello, in luogo di elio; così penniello,
per pennello, filariello, per filarello, fossettiella, per fossetta,
fratiello, per fratello ec. Congiungere e posporre — essi
soli in Italia, come ben disse Liberatore dal Cenisio al
Peloro — congiungere, ripeto, e posporre i pronomi de-
rivativi mio, tuo, mia e tua ai nomi, ai verbi, agli agget-
tivi, così dicendo patremo, patreto, vitama, casata, cara-
ma^ tagliaveme, accomplimi ec. E queste caratteristiche
della fisonomia dialettica pugliese-napolitana, di cui qualcuna
a caso trovasi negli antichi sparsamente e isolata, e in
maggior copia nei contermini romagnuoli, sempre ricono-
sciuti come napolìtanismi ne' loro patrii scrittori, veggoosi
accumulate nelle opere, come si udirono e si odono nel
oro quotidiano parlare.
Dopo del che gettiamo I' occhio sulla Tenzone di
inllo, quindi su qualche scrittore pugliese, tralasciando
nanlo è stampalo nella Disamina, e chiudiamo questa
oiosa ricerc».
In Giulio leggo secondo il Codice Barberino, V Allacci,
Crescimbenì e in parte secondo il Godic-e romano:
1.
Se ci ti trova potremo
Con gli altri mei parenti;
Non mi toccherà patreCa
Per quanto avere ha in Bari-
Di ciò che dici. vUama ;
Dunque vorresti, vitama:
Ora fa un anno vitama ;
Molti son li garofani
Che a c<lsata mandai;
Hai morto l'uomo in afsata.
Bene Io saccio, carama.
Rosa fresca a/ulentissima,
.... davanti fossi aucisa ;
Le tue paraule, o paravole :
Le donne le desiano:
Toccar eme non polena la mano;
Molte sono le femmcnc :
Che eo me ne pentesse :
Di quel frutto non albero :
.... li eavelli m' arrìtoniìo ;
Se li cavellì artonniti ;
Poi tanto Irahagliastiti :
Niente ti baie, e ixilontate;
Non baglio m'attalenti;
Quando ci passo e vcjoti;
Poniamo che s' ajunga il nostro amore;
Che il nostro amore cijungasì:
E per ajunla quant' ha lo Soldaoo;
Sposami d'avanti la jenti:
.... infra ista bona jenti;
— 294 —
8. Id paura non mettermi
Di lìuìWmanganiello ;
V stommi nella grolia
D'esto forte castiello;
9. Se chisso non accomplimi;
Chisso ben t' imprometto;
10. Se di mene trabagliti
Con Ugo stao la sera e lo matino;
Onde sovrana di mene te presi;
Tutti a mene dicessero;
À mene non aiutano;
Con tico m'ajo a j ungere ec.
Siccome tra le voci notate ne sono talune indabita-
tamente pugliesi, com' io sono siciliano, e perciò bastevoli
per sé sole a dir intinta di puglitse la Canzone di Giulio;
mi giova notarle a conforto di quanto asserii, per uscire
di quistione. Sono esse:
1. Grolia per gloria, che la Crusca, il Cesari, il
Manuzzi, i napolitani medesimi nel Vocabolario Universale
battezzano voce del dialetto napolitano, e che trovo, per
tacer di altri nella nona corda della Tiorba di Francesco
Balzano di Scafati, stampata nel 1646, intitolata Grotte de
Carnovale, e in Genuino, il quale nel 1842 pubblica nel
5 del Poliorama p. 121 un Canto a grolia e dde fresco
dell'anno scnrzo,
2. Mogliema per mia moglie, che tutti i lessicografi
battezzano voce propria del dialetto napolitano, e che coi
consimili è stata ed è usata da quel popolo universalmente
in prosa ed in verso 57.
3. Bolere per volere e simili, non boglio m' attalenti,
che Vincenzo Nannucci registra tra le voci proprie de' na-
politani, p. 235, N.° 4.
4. Tico uguale a mico de' napolitani.
5. Pàtere per potere, onde Ciullo : Avere non ne pò-
— 295 —
Hrn, 6 avere me non potei'ia eslo monna, e GflDuino lo
poturisse avisà. Arerta, p. 51,
6. Dar gli articoli femenili a' nomi maschili, cosi He
gentihtomene, Ile angiole ec. Né pìii ne aggiungo, e mi
volgo a riportare le altre da lui loKe alla Puglia, e ado-
perati dagli scrittori di terraferma.
Matteo Spioelli da Giovenazzo nato nel 1230, e colà
cresciuto, intìngea la penna nel calamaio del nostro tro-
vatore. Ludovico Paglia suo concittadino, chiama go/fe le
di Ini parole, dimentico come in quella lingua avessero
parlalo i pugliesi ùel \.II secolo, e come V ingenuo Matteo
avesse scritto cosi come parlava 58. Né la corte, né i
notari, allora persone di conto, altrimenti usavano, come
dalla Raccolta de) Pelliccia si dete^ige, e ciò dal sorgere
del 1200 sino a quando continuossì ad usare il pugliese
negli atti pubblici. A conferma del che basti la lettera del
Boccaccio scritta da lui appositamente nel 1349 in napo-
litano, e pubblicata la prima volta dal Biscioni, ristam-
pata (li poi dal Galeani, e ultimamente da G. Niccolini.
ibi più desidera, rilegga la Disamina sudetla.
I II.
Ortografia, metro. Codici e stampe della stessa.
Quella Tenzone, poiché fu cantala da minestrelli e
Bllari per la penisola, rimase patrimonio degli inferiori,
come direbbe l'Alighieri, all'apparire de' canti letterari!
dell'epoca sveva; perciò leggendola, o a dir proprio stu-
diandola, s\ vede in una stampa italianizzata, in altra am-
manierata alla siciliana con modi in parte ignoti a Sicilia,
in altra impiastricciata a capriccio d' italo-siculo ; talché mi
1 aua tavola bisaatina, come ne ho viste parecchie,
— 206 —
ritocca le venti volte e ritinta da' girovaghi pittori da sga-
belli, e da ciascuno rimodernata a modo o del tintore o
de' reverendi cappellani, o delle divote pinzochere, che ne
hanno saldato lo scotto.
Come ben disse il Grion, chi trascriveva le poesie, le
trascriveva per farle intendere e cantare, e le avvicinava
perciò neir atto stesso del copiare al proprio dialetto. Ol-
tre che la negligenza, V ignoranza e la presunzione de'co-
pisti non di rado adulterava a capriccio il dettato deiraa-
tore 59. Ecco V origine vera della difformità ortografica
e dialettica de' Codici. La prima vèste V abito di questa o
quella regione ; mentre la seconda, conservando i vocaboli
indigeni, dichiara, manifesta e comprova la favella di chi
la scrisse, e del luogo ove fu scritta 60. Delle voci e forme
pugliesi abbiam detto; le francesi sono cortigiane e riba-
discono Talto stato del poeta, che fu certo familiare de'
principi normanni; le altre erano al UGO nell'uso de'colti
uomini.
Da ciò proviene la disuguaglianza de' Codici ; tutti
pregevoli, nessuno perfetto. Esattamente scrivea T Allacci
parlando del Barberini, giudicarli egli scritti nello stesso
tempo 0 poco dopo degli autori ; aggiungendo che coloro
i quali li copiarono, li trascrissero con la stessa articola-
zione, la stessa ortografia e l'istesso tenore di come pai^
lavano 61. 1 difetti de' Codici Barberini sono visibili a cia-
scuno nelle stampe dell'Allacci, del Grion, del Crescim-
beni, che vi arrecò lievi cambiamenti. Quelli de' toscani
sono ripetuti nelle stampe della Bìbl. del Viaggiatore, del
Nannucci 1837 e del Valeriani 62. Il meno difettoso fra
tutti, è il Vaticano chiamato per antonomasia il Codice
Principe, riconosciuto universalmente anteriore all'epoca
di Dante Alighieri. Esso ci dà luce chiarissima per alcuni
dubbii passi, ma al tempo stesso è visibilmente errato in
più luoghi 63.
— a97 —
Ma come scrisse Giulio? Egli medesimo, i aiticrom e
ce ne daran segno. Con la di loro scoria noi po-
imo approssimativamente rifargli le vestimenla conforme
al lempo e all' uso di lui. Per e^mpio, l' Allacci adottò
Iraheme, gli editori fiorentini iraemi. il Codice Vat. trami,
la Volgare Eloquenza tragemi, il Grion Iragimì; ma avendo
Dante prescelto tragemi, io lui segno, essendone egli te-
stimonio e giudice irrecusabile. E l'ortografìa di questa
parola è riconfermala due volte da Odo delle Colonne.
Inoltre noto aver Giulio costantemente preferito le desi-
nenze illustri in o e in e. invece di » ed t alla sicula, se
logli ove la rima glielo vietava. Cosi nella SI. 5, troviamo
fari invece di fare, che rima con Bari ed agostari; nella
St. 8. gueri e camaneri: nella 11, cleri, momteri, wteth
tieri; nella 14, jiregherì, perì, monsteri; nella 23, parenti
e gemi; nella 39, uva e ventura Q4. Nelle altre stanze,
libero della rima, seguì l'ortografia comune italianizzando
il dialetto. Parimenti mi sarà guida il metro, come nel 3
verso dolla Tenzone. Ivi lo scorcierà di una sillaba chi
vorrà accogliere it Trami del Cod. Vat. e lo integrerà o
gli darà nerbo col Tragemi trasmessoci dall' Alighieri.
A comprova di essersi giovati gli scrittori di quel
tempo promiscuamente delle desinenze insulari e italiche,
leggiamo nell'alto de' Visiniano del 1133 mtigleri, meu,
aomu, manu, r)aluntati, e al loro fianco fiicolao, legitimo,
figlio, senza dolo alcuno, Palermo ec. ; e nelle imposte di
bronzo della porta maggiore del Duomo di Monreale del
1186: Eva serta a Ada — Caìm uccise frale suo Abel —
\w piantaci tinca — Abraha Irea vidi unu ajloravi —
Iteph Maria et puer fugge in Egiltu — La Quarantina.
A comprovare che Giulio abbia seguilo que<it' uso pro-
mìscuo, ma sempre più inclinando nelle desinenze alla
lingua comune, dì quanto al dialetto, bada ponderare
issionatamente come la mano dell' Alighierì ci 1
f
— 298 —
il 5."* e 6."* verso di quella Tenzone. Nella Volgare Elo-
quenza leggiamo:
Tragemi d'este focora,
Se V este a bolontate;
e mentre in siciliano dicesi vtduntati, che bene avrebbe
potuto rimare con stati e maritati, V altissimo poeta pre-
feri la desinenza in e, sostituì V o air u alP italica in focora^
e h b alla t; alla pugliese, perchè cosi trovò in Giulio.
Queste osservazioni microscopiche possono avviarci a sol-
vere il quesito. E notisi che Dante volendo implebeiare
quel canto, non avrebbe registrato la terminazione e le
vocali di uso nazionale, se la forma insulare fosse suonata
alle sue orecchie.
Il Grion tentò ancor egli restaurare la Tenzone di
Giulio, e vedendo starsi a lui di contro V autorità del-
l'Alighieri, che ne avea determinato la grafia, se ne sba-
razzò con la seguente osservazione : « Perchè ne' tre Godici
della Volgare Eloquenza si trovò scritto bolontate invece
di vuluntati, non è sufiQciente argomento a farci credere
che Dante cosi V abbia avuto 65 » . Io non V intendo :
Dante non operava di capriccio, e molto più in un'opera
di tanta critica. Credo anzi che il trovarsi in tutti e tre i
Codici superstiti di quel Trattato uniformemente scritti
quei due versi, sia indice e documento di come lì pro-
nunziava Giulio e li adottò il divino poeta; anzi aggiungo
che il modificarli noi dopo tanti secoli, sia quasi un'apo-
stasia letteraria.
Il laborioso Grion segui il Codice Barberino, restitiiendo
il testo, egli dice, al dialetto siciliano. Ove è da notare
che non essendo qui nato e vissuto, spesso erra, quantun-
que sia de' pochissimi, i quali abbiano tentato coscenzìosa-
mente di appararlo; e all' istess'ora che la sua non è una
— asji) —
ituiione. I^nsì adulleitizione <ti quella poesìa. Egli va-
poco le ragioni sopraccenate , gli esempi coevi, il
» sociale del poeta, i suoi viaggi nel conlinente ila-
, ti testimonio di Dante Alighieri, e molto meno la
I osservazione del Quadrio, allorché mostrava gli an-
i poeti essere stali « vaghi di accrescere e di impolpare
I loro nascente favella > . Lo iogentilire le ter-
lazioni delle voci fu loro costante studio ed industria,
dalle carte insulari scomparve qualsiasi vestigio
Etico 66. E bene notò il Crescimbeni avere i siciliani
) nella stessa lìngua degli italiani, e Petrarca mai
; intese che il linguaggio siciliano e il nostro fossero
I medesima cosa 67. Né la prosa del mio concittadino
isio tolta a guida dal Grton, può giovargli. Giulio
! nel secolo XII, .Atanasio nel XIII; quello inchinò
nazionale, questi alT insulare, e sono fra dì
i siile e carattere disuguali e difformi, per lo che
1 ne ho tenuto conto.
Nel % XI della Prefazione a' Canti popolari, abbiamo
tdito la convenienza dì scrìvere la presente Tenzone in
i ed endecasillabi, e ora vieppiù avendovi meditato
I molti altri anni, troviamo preferibile questa forma
I proposta sennatamente dal Crescimbeni all'altra
idente, e già seguita nel 18^6 dal Nannucci 68. Ma
! potissima sulla quale mi fondo, si è la testi-
deli' Alighieri, il quale così ci lasciò scritto:
Fin qui ninno verso ritroviamo che abbia la undecima
I trapassato, né sotto la terza disceso. Ed awegna
) i poeti italiani abbiano usato tutte le sorli di versi,
) sono da tre sillabe sino a undici, nondimeno il verso
! cinque sillabe, e quello di sette, e quello di undici
SODO in uso più frequente 09 ». E perciò ho preferito i
seltenarii agli alessandrini. Avverto air istess' ora averla
svecchiala dì h e k premesse o intromesse alle parole
quantunque usale nel secolo Xll e seguenti.
k.
— 300 —
Per cosiffate considerazioni ho conservato alla nostra
Tenzone le frasi e le parole siciliane italianizzandone le
desinenze, ove la rima non abbia imposto altrimenti. Con
queste guide ne ho tratto la interpretazione seguente
giovandomi delle stampe, che mi hanno precesso, di vani
testi a penna e meglio del Codice Principe Vaticano, ma
sopra tutto de'criterii logici, perchè la Critica è la vera
decima musa. Volea qui deciferare i passi più oscuri, ma
per non infastidire il lettore, li delucido con brevi anno-
tazioni, e ne produco le varianti in nota. Cosi potrà cia>
scheduno scegliere da se medesimo, senza essere costretto
di adottare la lezione da me estimata migliore.
Dichiaro finalmente discordare da quei comentatorì e
più dal Nannucci, i quali scambiano i latinismi di Ciullo
con vocaboli provenzali. Di quelli riboccano Italia, Francia,
Spagna e le loro Provincie, perchè tutti attinsero ad unica
fonte. I di lui francesismi, tuttora viventi in parte nel-
r isola, lo ripeto, provengono dalla reggia o dalla di lui
origine normanna, derivati tutti quanti dal ceppo italico,
che formò il substrato delle lingue romanze.
12.
Suo pregio.
Chi dimentico de' sette secoli interposti fra noi e
Ciullo, legga per la prima volta la di lui Tenzone, e sperì
trovarvi lo splendido e poetico eloquio del Parini, del
Monti, del Manzoni, s'inganna di certo, e se non altro è
facile che da se V allontani, offeso dalla sua apparente
rudezza. Ma invece chi assuefatto alla prosa e al verso
anteriori all' Alighieri, la mediti con amore, vi troverà
purissimo oro latente come nella ganga delle miniere, e
— aoi —
Re come sotto lo scabro involacm delle valve
condiiliari, ove s' iogenerano e chiudono. L' incondito di
quella stessa corteccia non le sminuisce decoro pel" chi
non è nuovo all' archeologia fdologica. Nel 1858 conchiusi
il mio ragionamento su di essa, dichiarando venerarla come
Quintiliano i frammenti di Ennio 70; e sofTolcilo dalle
medesime considerazioni, esordii nel dettare il Comeniario
presente.
Non altrimenti V. Alfieri usava con i nostri vecchi,
da' quali attìngea la proprietà de' vocaboli, la parsimonia
degli ornamenti, il nerbo delP espressione, che e-gii stam-
pava del suo marchio originale 71. A Cinllo perciò bene,
si attaglia quanto Nannucci scrivea per Fra lacopone:
• ma se ^li non è sempre bello di fuori nell'apparato
delle parole e delle frasi, è però quasi sempre bello di
dentro nei sentimenti e nelle immagini; a somiglianza de'
tabernacoli di Salomone, che di fuori coperti erano di
rozze pelli, ma di dentro splendenti d'oro e di gemme
72 ». Se ad onta di ciò vi sarà qualche schifilloso a cui
non garbi og^i lo stile del secolo XII, noi gli diremo
come Cicerone solca far risovvenire al proposito a qualche
lezioso di lui contemporaneo: < ita'enim lune loqueban-
tur 73 » ; 0 come il Boltaro osservava : t potrà dirsi lo
stesso di questo nostro stile fra SOO anni 74 ».
Il Quadrio nel contemplare l' epoca prima de' nostri
scrittori, così li scusava: o poveri e rozzi e di barbarie
ripieni erano quei tempi ». Che poleano però fare quei
primi verseggiatori? Eglino d'ogni parte s' aggiravano in-
dustriosi: « e vaghi di emulare nella gloria del canto le
altre nazioni, e dì accrescere nel tempo slesso e d' impol-
pare la materna loro nascente favella, ora quinci ora
quindi le parole tutte coglieano, che alla loro necessità
opportune si appresentavano 73 .. il che riunito alla
sentenza del Crescimbeni da noi trascritta al | 9, si ha il
carattere e l'indole dello stile di quel tempo.
k.
— 302 —
Magnanimo il proposito di Giallo nell' averci volato
dare nelP idioma volgare la di lui celebre Tenzone. Quan-
di egli ispirato dalP amore, scioglìea i melodici Dumerì, era
meno ardente, ma continuava ancora in Sicilia la lotta
tra il Vangelo e il Corano, tra la scuola araba e la greco-
italica. Ancora i re scriveano bilingui o trilingai i lem)
diplomi, e parimenti si scolpivano nel marmo le epigrafi.
Due scuole quindi occupavano il campo, difformi fra loro
quanto il vestire di chi le seguiva, ed opposte quanto le
loro credenze religiose. La prima orientale e semitica fa-
ceva suonare la kalida nella favella di Cairovano; la
seconda europea e giapetica idoleggiava i classici greci e
Ialini, seguendo Elpide, S. Giuseppe e gli altri innografi
nelle laudi delle chiese di Roma o Bisanzio. E mentre i
dotti poetavano nelle lingue oiTiciali greca o latina, il popolo
carezzava la nazionale e di essa abbelliva le sue canzoni.
Giulio, quasi profeticamente divinò la prossima elevazione
e supremazia della stessa, e spregiando il cachinno de'
nolari, de' chierici e de' letterati in toga, tolse dal trivio
l'antica favella insulare, la illeggiadrì mirabilmente, e in
essa emise i suoi canti, che a noi non pervennero, e
questa sua immortale' Tenzone. Egli nel secolo XII pose
in effetto quanto V Alighieri nel XIV. L' alcamese operò
vigorosamente alla sicula, né ci lasciò documento della
causa, che a tanto lo ebbe determinalo; il fiorentino se-
guendone animoso P esempio, volle spiegarcene la cagione.
Quello antepose il volgare all'arabo, al greco, al latino;
questi alla lingua d' oco, scrivendo nel Gonvito, averlo
prescelto « per confondere li accusatori del nostro lin-
guaggio, i quali dispreggiano esso e commendano gli al-
tri, massimamente quello di lingua d'oco, dicendo che è
pili bello e migliore di questo ». Per quest'altro titolo
venerano i savii la Tenzone, che meritamente è rico-
nosciuta essere il più vetusto monumento della lìngua
italiana.
I
i
— yoa —
giudizii emessi proprio sulla medesima^ spesso sa-
perficiali, variaoo secondo l' epoca e il senso de' critici ; e
però noi tralasciamo di rireridi lutti, attenendoci a tre
solamente, oltre a' surriferiti del Quadrio e del Crescim-
beni. Nannucci dicea: « malgrado della rozzezza dello
stile, il dialogo v' è condotto con ingenuità, e naturale è
il linguaggio di amore, ne mancante di affetto 76 >. 11
venerando Leone Allacci scrivea: " vedi in questo suo
dialogo non essere del tutto mispregevole poeta, bavendo
la sua locuzione proporzionata al verso, di fiori oratori!
ornata, e concetti non soliti del volgo, ma da dottrina
soda ed atti a persuadere 77 ». Finalmente T Emiliani
Giudici così la giudicava : « la Ingenuità onde procede il
dialogo, frammista d' una certa selvaggia gentilezza, dà uno
slacco mirabile agli aFTetti varli che animano la poesia: e
l'espressione manifesta uno spirito originale, spirito spe-
ciale del paese, cfi' io osservo in molti dialoghi di Teo-
crito, e che anche oggi sento nelle canzoni araoi'ose, con
coi il montanaro di Sicilia nelle tepide notti di estate fa
echeggiare le valli. La canzone di Giulio è al tutto scevin
di quel frasario erotico, che costituisce il carattere distin-
tivo delle posteriori poesie. Dalle quali osservazioni mi
sia lecito dedurre le considerazioni seguenti: che il canto
di Giulio non palesa nessuna influenza provenzale; che la
grammatica vi esìste in tutta la sua intierezza. dal che
si argomenta lo sviluppo del linguaggio essere accaduto
in un' età mollo anteiiore. Queste forme sono assoluta-
mente locali, 0 diciamo meglio municipali, avvegnaché dopo
sei secoli durano ancora nella bocca del popolo 78 ».
La Tenzone in discorso è per me miracolo d'arte e
di mente riguardando gli anni quando essa fu composta.
Giulio non solo seppe scegliere la lingua di cui la vestì,
ma ugualmente il tessuto, i colori, il disegno convenienti
a quell'abito. IS'azJonale nella parola, lo è parimenti nelle
— 304 —
forme. Quindi nulla ha d'arabo, poesia che oontagiaya
r isola da due secoli, ma che non giunse a corrompere
r indole classica della siciliana letteratura. E qui, a dir
breve, basti il ricordo di essere essenziale carattere del
Parnaso arabo T abuso della rima, talché per essi prose,
versi, titoli di libri, epigrafi, tutto era alliterazioni e con-
sonanze ; i saracini ne ponevano a principio, ne appiccavano
alla fine, ne disseminavano in mezzo di ogni linea ; diresti
che componendo un libro intendessero formare una specie
di ricamo calligrafico per gratificare la vista non meno
che r udito. AMunghissimi poemi correnti sopra una me-
desima desinenza, aggiungi tutte le arguzie affettate, i
sensi sforzati, i giuochetti di parole, gP indovinelli, i traslati
stranissimi e mille altre somiglianti peregrinità, formanti
un vero e perpetuo caustico mentale; e ne avrai una
letteratura affatto inadattabile al gusto de' popoli latini 79.
Come bene osserva V Emiliani, non solo non ha carattere
provenzale quel canto, ma non potea averne, avvegnaché
non era tuttora affuorestierata la nascente letteratura
d' Italia, e molto meno nel secolo XII poteva esserlo
quella di Sicilia, come altrove ho provato 80. Per altro
avendo assunto la poesia provenzale V idealismo delPamor
platonico, e Giulio dilettandosi del sensuale o pagano, era
di tipo e d'ispirazione non solo diversa, ma opposta. E
la Tenzone è riconferma essere fola e menzogna di ossessi
di fuorestierume che Sicilia abbia anche per poco seguito
le maniere arabe o provenzali, mentre invece continuò a
specchiarsi da se in se medesima q, nelle originali sue fonti
siciliote. Il canto di Giulio sopravvisse a quelli de' poeti
anteriori e suoi contemporanei, e fu modello a quelli del
secolo XIII.
Giò premesso raccogliendo sinteticamente 1' intera
Tenzone come in una continuazione di scene drammatiche,
che abbiano principio, mezzo e fine; noi vediamo dopo
— 303 —
l anno di amore nuilrilo di speranze e solo manifasiato
I dono di mazzi di Qorì mandati alla bella, e suom e
i noltm-ni accosto il castello di lei, venire risohiio
l'ultima prova, e quindi colto ji momento opporlUDo
cJùedeile il frutto del suo giardìm. e dopo una lotta di
repulse, insistenze, di sdegni simulali e amore crescente,
cedere la bella Gglia del signore di Bari, e concedergli di
andarsene secolei allo letto.
Il dialogo v'è condotto con grazia non solo, ma ^
pure con forza e concatenazione progrediente, acdiè non
è parte di esso non ammirevole. Il linguaggio è sponìaoieo,
non sopraccarico di oroamenti, invece sobrio; ooteroW
per una tal quale verginale proprietà da fartelo dfleWerole
e caro, quasi rimprovero a taluni poeti, i di cui rersi
azzimati, lisciali, ridondanti di ricercatezza artificiali, lestt-
iicano se non la decadenza contemporanea, T ktààsiàudti.
In Giulio tutto è natura, in castoro la miaàen amati
r ispirazione. Cosi la rima quantunque triplice, è semftr
spontanea; vero trionro della mente versatile od porti
sulla lingua ancora incomposta ed amorfa. Le imigìDi, |ti
epiteti, le figure naturali, non ricercate col lanlernoo OMK
oggi, 0 strane di frequente, e non rado Unte on le
tanaglie come i sillogismi scolastici. Giulio conoann ^
antichi: ma poetò come il cuore gli delta\-a, e qsele Me
slesse forme e voci, che oggi sarebbero insuele, Iraw
accolte da'' grandi della corte sveva, né disdegnale al MMo
dagli arcliimandritì delP italica poesia.
Gome è manifesto dalle note annesse alla TenMK,
noi le troviamo in tutti i poeti siciliani, e ne' più illofln
scrittori dal secolo XIII al XVI, senza loter discendere al
presente, a conlare da Guittone a Jacopone, a Umie e
Petrarca ecc. E in fatto in quale lìrica posteriore a Gallo
e anleriore al nuovo stile dolce di Dante Alighieri, * pm
vita, passione, evidenza, vigore, ingenuità? A lui cedon»
20
k
— 306 —
l)erciò i dugentisti delP isola e dei cootineDte, i quali
toccando unica corda, l' amore, non seppero avvivarlo del
caldo affetto di Giulio, che ben poteva ripetere con Matteo
Ricco da Messina:
Come fontana viva,
Che spande tutta quanta,
Cosi lo meo cor canta.
Pertanto io conchiudo, riepilogando questo ornai lungo
prodromo alla di lui Tenzone, essere Punico cimelio
deir epoca normanna diffusa e celebre in tutta la penisola,
scritta dopo il di lui matrimonio con giovanotta pugliese
non meno di lui nobile e ricca, regnante Enrico VI, come
si prova con moltiplici connesse testimonianze storiche ed
economiche, e dettata in lingua aurea pel tempo, ma
intinta di pugliese, giunta sino a noi guasta ne^ Codici, il
meno imperfetto de' quali è il Vaticano col di cui aiuto
e di coltissimi sapienti, propongo la seguente lezione.
1. Anliquitalis t
. lib. 1.
3. Vedi Idea. Gioruale di Pdemo, anoo % «oL t. p. %.
Ove è ioserìia la mia Disamina, ebe tU risUnpUa M Gab-
tola in Calania nel 1859. Chi (iesitlera m^giore siUbi^ e
sdiiarìmenti, e vorrà conoscere al miattU) i fauì e le mie con-
vinzioni al proposilo, può rivolgersi alla SegT«ierìa delf Acca-
demia degli Zelami dì Aci. ove ho depositato una lunga lettera
con documenti analoghi, un Raggiooanienlo, e N.° 29 Note
delucidative. Questi scritti riuniti alla Disaminn, spero, so>ii-
sféranno gli scrupoli de* più peritosi.
3. Sono essi Alberto Buscaino Canjpo da Trapani, Riccarda
Mitchel da Messina, Corrado Sbano da Noto. Vincenzo Hor-
lìllaro da Palermo, Giuseppe Angelo Giercber da Caltagirooe,
Vincenzo Di Giovanni da Salaparula, Salvatore Salomone da
Borgello. Michele Castógnoia da Catania, Giuseppe Cazzino da
Genova, Francesco Massi d.i Roma, Giusto Grion, Preside del
Liceo di Verona, Giuseppe Pilrè e altri,
4. 11 Sirventese di Giulio d'Alcamo, Esercitazione critica
del Doli. Giusto Grion. Padova 1855, p. 5.
5. Manuale della Lelleraiura del primo secolo delta lingua
italiana. Firenze 185fi.
6. Ivi, p. 10.
7. Nannucci, Analisi de' verbi: Firenze 1844, p. 23, N."
l •— Alcune vecchie e nuove Osservazioni del Conte Comm.
Giovanni Galvani sulla Cintilena di Giulio il' Alcamo. Modena
co'lipì di Cario Vincenzi. 1870. Pag. 31-40.
— 308 —
8. Nannucci, Manuale ec. toro. 1, p. 125.
9. Trucchi tom. 1, p. 65-73.
10. Senza fallo V emanqense, che scrìsse quello sproposito,
era oca, od ebbe dettata la Canzone da chi pronunziando a
suo modo ha *m Bare alla pugliese, per ha in Bari all'ita-
liana, r oca copista segnò sulla carta il famoso ambare a ta-
luno prediletto. — Non manco di rispetto pe' dotti, ma neces-
sità mi ha obbligato a tener conto di tanta laida e misera
povertà di critica.
11. Ed in Bari, dove Italia s' imborga specchiandosi nefle
adriatiche onde, fu preso Giulio dalle angeliche fattezze di una
timida fanciulla, e spiegò in elette rime il suo dolce patire —
Frosina Cannella, Schizzo Crìtico intorno a Giulio d'Alcamo
ec. p. 12, Palermo per Virzl, 1861.
12. Somma della Storia di Sicilia, di Nicolò Palmeri.
Storia della Letteratura italiana di Pietro Sanfilippo. Storia
della Sicilia sotto Guglielmo il Buono, di Isidoro La Luoiia.
Deir uso della lingua volgare in Sardegna e in Sicilia ne' secoli
XII e XIII, di Vincenzo Di Giovanni.
13. Il Grion aggiunge: ce io non posso non prenderli (i
viaggi) per gran parte che in senso letterale, riflettendo che
tutte le poesie de' ducenlisti sono poesie d' occasione, nelle
quali i lirici di allora inserivanonotizie della lor vita, se anche
abbellite ed esagerate poeticamente, non però mai inventate di
pianta. Quelli del nostro alcamese per la sua condizione e sto-
ria de' tempi, hanno sembianza di vero d. p. 5.
14. Per quante ricerche abbia fatto per 4X)noscere la ge-
nesi de' proprìetarii di quesf edifizio, nulla di sodo ho potuto
indagare, perchè in Àl&imo gli arcliivii municipali e notarili
sono quasi affatto deperiti. Quanto rapporta Ignazio del Giu-
dice nell'inedite di lui Memorie della città di Alcamo, con-
servate in quel Municipio, sulla genealogia di Giulio, è con-
tradetto dall'istoria.
La casa, alla quale si attribuisce il suo nome, fu nel se-
colo trascorso della famiglia Guarrosi, poscia del Monastero
Nuovo, oggi è del cav. Pietro De Stefani. La sua architettura
ò del sec. XIV, ma un frammento di cornice sporgente dalla
; occidentale della i
1 si argomenla essere stata i
ì le lineslrioe seo
: anticlii commessi a i
Inloitaco caduto, ranno a
r edifizìo. Ne' nidpri ddf a
irine. Essa è nel piaoo. i
gli altri bbbrìcati. — Ri«[>ilt0i q
I del n luglio 1870 del Pnit G. Fn
15. Cirio Magno, Federic* Bufaarona, FVppa Fi
, non sapeaoo scrìvere; ì noettì re ""■'■"■ éa^ su
I parìo, erano leiieraii. Il Baiirdo ia fin ad ìiiii ■>
Noo ptrt- a me che n pm
Sia» in sa ì likn a tdftuM
I Forliguerrj .aggiunge per Rinaldo:
Ita di «olpaiY o H tmaa;
JUbaldo c(Me del Sacro palazzo Dell* anno 874 souoicrìTea
i alto pubblico cosi: Qui ilii fui et ftropttr igiutrontias
siffnum sanctx crucis feci. Muratori, Rerum
\ lom. % p. 2. Tale la disugoagtianza fra i nostrì dinasti
|b di loro corte, dal rimanente di Europa; tale la superìo-
ì di Giulio fra 1 magnati suoi contemporanei!
16. Tanto da me stesso nel mio breve soggiorno a Roma,
per mezzo dell'illustre mio amico Prof. Francesco
S6Ì, bo cercalo invano se esistessero colà sinora il Codice
) dall' Ubaldini, e il Fatcio di poesie antìGhissìme sici-
? citato dal Crescimbeni, e non più si rinvengono, come
I Budello Massi e 1' egregio l^^iile Gnoli mi accertano.
17. Nanoucci, ivi, voi. I, p. 160
18. Il regno delle due Sicilie descritlo ed illustrato, voi.
9, p. 16. coi. 3.
19. Andrea Iscrnia. Commenl. ad consuci. Teudal. p. Ì0\:
L
— 310 —
Orlando, Feudalismo ia Sicilia. Gregorio^ GonsideraziODiy
Muscia &.
20, 21, 22. Le Pergamene greche esistenti nel Grande
Archivio di Palermo, tradotte ed illustrate da Giuseppe Spata.
Palermo 1861, p. 271, 297, 365, 433, 445. Historìa diploma-
tica Friderici IL ec. Parisiis 1859, voi. 1, Preface p. 386.
23. V. Isemia, Orlando, Gregorio.
24. Borghini, Giornale di Firenze, N."" 9, anno 1, Settem-
bre 1853, p. 545. Deir Unificazione della lingua in Italia, Le
Monnier, 1869, p. 45. Colgo quest'occasione per ringraziare
il Posquini delle cortesie usatemi, per manifestargli la mia
ammirazione per V opera citata, la migliore e più dotta e sot-
tile di quante ne abbia io letto su quest' argomento, che sarà
sempre un desiderio, un' utopia, la quale se mai si attuasse,
tramuterebbe r aurea nostra favella in babele.
25. Giusto Grion, a mia preghiera, con sua lettera del 4
febbraro 1869, cortesemente mi partecipava da Verona i suoi
argomenti, in conseguenza de' quali crede la Tenzone in disa-
mina, essere stata dettata tra r estate 1246 e il giugno 1247,
e mi manifestava che avessi riferito le sue stesse parole, di-
versamente opinando. Essendomi impossibile trascrivere la
sua lunga lettera di quattro fogli , andrò mano mano spo-
nendo le addottemi ragioni, e sottomettendo a lui e al pub-
blico le mie osservazioni, tendenti ad assodare la storica ve-
rità. Ed ecco al proposito del Colocci le sue e le mie de-
duzioni.
Nella lettera del Grion trovo che egli fonda i suoi criterii
nella vaga tradizione che taluni asserivano, avere scrìtto il
Colocci essere stati citati da Giulio Fra Guittone e Notaro
Iacopo. Ma la testimonianza di Leone Allacci, Custode della
Vaticana dopo dell' Olstenio, il quale dichiara che ancorché
liabbia usala dUi{ienza nelli ms, notamerUi del Colocci, non
ìu) trovato tali parole, eradica ogni dubbiezza.
Quella tradizione non pub ad altro valere, se non a farci
conoscere che anche nel 1661 vi erano taUmi, che opinavano
come ir Grion; e a ribadire essere uguale alla nostra la con-
vinzione doli' Allacci, basta il ricordarsi l' aver egli proclamato
— 311 —
-Talcamcsc il primo rimatore di cui si habbia notitta. A
questo ini son fermato per solisfure il Grion. Io Roma si sono
reiterale le ricerche, il Massi, lettore della Vaticana e Uotii^
Simo in questi studii, mi scrive direttamente i) 36 geonaro, e.
per mezzo del Conte Gnoti it 17 febliraio 1870: yiuji atcaUo
diasi Ili Cdocci che Ciullo nomini Lenlino e Fra GuHUme.
CiuUo aiaidùstitiio fiori sotto Arrigo il Crudele. ~ Ch' ^
conosce i mmjs. viticani quarOo le sue cose profiri^. av«rtt
riftta^ato di nttovo. e nulla vi esiste al proposito. — Tanto
basti a serenare il (ìrìon.
36. V. A. Manzoni. Ragionamento sall'Aikldti; Moiiieii)iea,
EsprìU des Lois. lib. 30, cap. 19 e 30; RkoUÌ, Sur. iTftalii.
Torino 1858: Leo, Stor. d' Italia vcd. 1 ; OriaMto, il temiUami
in Sicilia 1S47: Du Gange riporta, matta, eoMpoiHio. fredum,
e aggiunge die sodisfatto il fredo, rem paeem a Priimipe
consequituT. Sam frid germiirus idem vaUt fuorf fa».
Fabbreili Arìodantts Glossarinm te, Toriw 1887.
37. Spaia, ivi. p. 371. 309. U hmtìm. Gufata» II.
Cap. IV.
38. « Pietro delle Vigne per sw ioeark» tom^ Mie
U leggi de' re normanni, e qòcie pl*MÌfi^ • cfce ÌM(léBI
pubblicare Io stesso FederictL D awi*» Cadke !■ 4M s A-
scutere al Pariamenlo imiTacaMi im HeU. Nd pa^» dd (331
comincia la discussioiK, a A 23 M wgwlg j^aM 3 CoAee
fa pubblicato >. Palmoi, umm» ddbSlar.iiSkil^ Ftrienw
1839, voi. 3, p. 86.
A validare tie megli» «mm qaaie eoBeziari ftr io fsk
ritffodiuioni ddle le^ fnaàuai, ocearre i Cafiee ntìam
giudicato anunon al PirtifHu « lidi, e fnfh» *r|«M
anni dei r«gi» di Federieot. Qmam fitntimim» M. &. h
acquistato dalb Valkaj Mi IM4, e qiitM tuiiM» e p*-
bBcaio dal ÌMui od ISA. Camia$mm m tma varie «oalf-
tnioni di Ga^idBo D, che paé Éna* Jnrfannu Mie Fe-
dericeaw dd 1331. tme m mpàm éktÉm
39. DdToao dd vdgM la Saiten e ìb SMti ad se-
coli Xa e Xm. FrioM taSB^ pi tL B «Maia taCartiuAw
33. De rapterthms ift^wani vd ndurva. pt. 34. C«pdMnn
L
— 312 —
30. Trucchi voi. 1. p. XII. Pasquini, UDificazkuìe ddla
lingua, ivi.
31. Hist. sic. pan. 1. presso Lami Ddie: erodUor. p. 305.
32. Hist. diplom. Friderici secundi. Parisiìs 1854. tom. lY.
pars. I. p. 36.
33. Epist lib. 1. cap. 26. Petrus de Yineis. Io quas pre-
cedentes orones Siciliae santiones et nostras (quas servari de-
cernimus) jussimus esse transfusas, ut ex bis qust io presenti
constitutionuin nostrarum corpore roiDime contineotur, robor
aliquod nec auctoritas aliqua in judidis vel extra, possiot assu-
mi. — Hist. diplom. ec., p. 4-5.
34. Storia della letteratura italiana dal seo^ XI al XIV.
Palermo 1859, p. 51 e seguenti ec.
35. Mons. Vincenzo Borghini, Discorsi, Firenze 1585,
tom. 2. p. 127. Discorso sulla moneta fiorentina.
36. De monetis Italiae variorum illustrìum virorum Dis-
sertazione, p. IV; excepta ex Dissertatione Antoni! GrafBoni
p. 154, Mediolani 1752.
37. Sjilabus Membranarum, tom. 1, p. 11, N.* 3. V.
nota 26.
38. Mortillaro Opere, voi. 3. La storia, gli scrittori, e le
monete dell'epoca arabo-sicula, p. 334.
39. Antiquit. Medi aevi, Dissertatio XXVDd, p. 788-789.
40. Non è credibile quanto abbia fatto per assodare que-
sta veril<^! I più celebrati nummografi, tra cui primo il Mse
Strozzi, se ne sono lavate le mani. Due anni di corrispondenza
perduta — Credea trovar mirabilia nel Valeriani citato dal
Fanfani nel suo Vocabolario alla voce ago^aro; un mio illu-
stre amico dopo inGnite ricerche ebbe il libro irreperibile, con
pazienza e carità fraterna me ne spedi il sunto, e presi un
pugno di mosche. Ivi si ragiona di economia pubblica, non di
numismatica, e meno dì erudizione. Non ho potuto avere Topera
del Lo Schiavo da Palermo citata dal Valeriani al proposito,
ma credo ancor questa indagine infruttuosa: forse è negli atti
deir Accademia di Napoli. Sono stanco e mi fermo.
41. Syllabus Membranarum ec voi. 1.
42. Nell'editto del re Gialcto riferito nell'Appendice 1.'
— :ii3 —
Mie pergamene, Codici e Fogli cartacei di Arborea, raccolti
e illiiflrali da Pietro Martiaì, Cagliari 1863-65, vi si legge:
Et fiierii ipsu primu qui usarìt de narrer ipsu et ìpsa, in loeu
, de /'u et la dieta de ssos Corsos et Siciliauos, comodo ipsos
itarranint kt pani, lii castellu, comodo ad su presente; prò
su quale lu sttpradiciu latetii ponesit illu in eustu casu —
«jo amo illum ego illu amo — ef Hip cunat ponesìt ipse
amai: qui eciam hat usatu in locu de ssu diciu /«, proevilari
n confusione: per esemplo — ipsu pane illu manducai ipsu
honmie: qui ipsDs aniiquos narrarunt — tu pane lu Twon-
ducat lu homine — V. Di Giovanni I. e. p. 31. L'Accade-
I tata dì Berlino le ritiene apocrife. Lo sono? Lo siano o no,
I giova né nuoce a Sicilia.
43. Itd)ert Crìspin entra le ]ulaÌE,
On cauiait ei on sonnait lais,
Li un arpe, li aulrc vicllc (;c.
fei, St. lettei^ria ec. lom. 1. p. 67. Firenze 1855.
44. Vedi Canti popolari siciliani Cat. XLIL Canti sacri.
. 1857.
45. Questa interessa nlissinia epigrafe bilingue fu pubbli-
dal nostro bcDemerìto Di Giovanni, il quale ne ebbe un
Bc-simtle in cera. Io per ribadire quanL'egli prodncea l'ho
avolo ritratta con la massima diligenza dall' egregio Prof.
Papas Giovanni Harcìa. Es.sa è posta nella chiesa di S. Gio-
vanni Battigia del Comune di Monte S. Giuliano, antica Eriee,
a terra a destra dell' altare del Crocefisso, è scolpita sopra
lastra calcare. È quadrala di centimetri 32 per ogni lato.
A.11' estremità destra è spezzala, talché nel lato orizzontale ne
mancano centimetri 18, e nel verticale 10, e mancano perciò
Tasta iofeiiore della E e la M di amen. Le parole non sono
disgiunte fra di loro, ma invece riunite, e ogni lineo tocca il
vivagno del sasso. Sono screpolati superiormente il primo e
Urto zero del millesimo, senza d menomo sospetto di altera-
DOne, come pure 1" H di TheoUora e 1' A. di madre, e sem-
brano essere sclieggiale dallo scarpello, che le iacidea. A ri"
oonfermare l' antichità di quest' epigrafe occorrono due testi-
i
— 314 —
monianze. La prima si è del Guarrasi il quale ntìVEria
vendicato (1) p. 330, il quale ricorda essere dell'epoca d
Costantino la chiesa ov' è collocata, e quindi la chiaaia arUi-
chissima, e air istess' ora la ricopia fedelmente com' io T he
dato. L' opera del Guarrasi fa parte deir accanita polemici
suscitatasi in Erice sulla vera patria di S. Alberto» e il sue
Aero contradittore Niccola Maria Burgio, che gli appunta per
sino le virgole, non inforsa r ingenuità delP epigrafe de^ Gop
pota. La seconda è più antica di oltre due secoli. Io un M. S
d'ignoto erìcino deiri500, ove sono raccolte preziose notizii
di quella città cavate da vetustissimi documenti, è coatestat(
essere i Coppola una delle antichissime feudatarie del regni
nominando Niccolò Coppola uno de' primi baroni, e aggiungi
essere costui andato in Aragona al re Pietro Ambasciatore de
regno. Devo questi librì alla cortesia delP egregio Prof. Ug<
Antonio Amico ericino, che mi ha oralmente testiBcato essen
r epigrafe come e quale io la descrivo. Raccomando e fo-vot
addotti erìcini di togliere dal pavimento e collocare nel mun
delia chiesa l'epigrafe monumentale, tal che non fosse logor
dallo stropiccio de' piedi degli accorrenti in chiesa.
46. Spata, ivi, p. 182.
47. Di Giovanni, Il Borghini, Giornale di Filologia e d
Lettere italiane, Firenze 1863, voi. 1. p. 100.
48. Storìa della letteratura italiana. Aggiungo essere
dialetti, antichi quanto le lingue, e corrispondere a*" generi, ali
specie e alle varietà delle piante in botanica.
49. Ragionamento storìco sulla volgar poesia. Milano 182^
p. 64. È qui evidente V errore dell' Affò nello scambiare Na
poli, 0 a dir meglio Puglia e Sicilia: i due dialetti hann
caratteri proprii, come si detegge nettamente dalle opere i
essi pubblicate e da' loro vocabolarìi.
50. Vedi noU 2.
(1) Erice vendicato Lettere critico-storìco-apologetiche a favo
della verace nascita in Erice di S. Alberto ec. Palermo 1580 presi
0. Battista Gagliani.
— 3i5 —
51. D^l dialetto iiftiioliLirio p. 23.
52. In, p. 30.
53. Ivi, p. 28.
&4. Ivi.
55l In.
56. Genuino, Gita a Sora.
57. Il Grion osserva che il Pasqualino nel suo Vocabo-
I riporta questa voce come siciliana; ma ignora essere
) UDO de* lami errori del Pasqualino, e che i lessico-
1 I lui anteriori e posteriori non l' banno registralo, perchè
astenie.
58. Storie di Giovenazzo f. 87, rirerilo dal Mnralori.
Ui» Ualicarum snriptores ec. lom. VII, p. 1022. Oggi se
lìDftirsa riageouilà.
59. Ivi. p. 8.
. A chiarire quanto aflermo basla por mente alle per-
mulazioni di lettere come ti per b. bof/lio. brabofiUaU. cnveìii,
per voglio. traiMKjlitì, capelli: agli afSssi e suffissi ec. A
qtiesli iodizii il Nannucci riconobbe «he il Codice Magliabec-
diiano del Volgarizsammlo del TVaitato del governo ik'prin-
eipi di Egidio Colonna, (u copialo dalla mano di un sanese
(Ivi voi. 2, p. 324].
61. Ivi p. 70.
62. Costui scambia abere con a/jete ; gente con avvento,
e fa dire a (Uullo nella Stanza 13 non aver (rovaio donne in
tutti i paesi da lui visìlalit Gh uomini colà erano forse allora
ermafroditi.
63. Eccone la prova:
Si. 1. Trami, invece di ìtoìhk' o (ra^nii/ senza del che
il verso sarebbe monco di una sillaba.
Si. 3. Solicco per solacelo.
tSt. 4. Trovatiìi per Irovanmi plurale.
St. 7. Procazala per procacci;ila.
Si. 8. Ripresa e distesa per riprisa e dislisa, senza del
die non vi saiebbe rima.
Si, 9. Pensandome per pensandoci.
St, 13. Calabro per Calabria, Pulgiìa per Puglia, Gie-
lìwa per Genova, tuta Barheria per lulla Barberia.
— 316 —
St. 14. Trabagliasti per irabagliasUti^ adomcmimi per
addomannimi.
St. 18. Boi per boglio, disiano per disiarono.
St. 19. Ma 'non che salman dai invece di a casata
mandai.
Si. 21. Fosse per Fos", sans* onni colpo, invece di
dammi un colpo.
St. 22. Belio mi sofferò, invece di beilo mio socio.
St 23. Di eh' anno, invece di quanno.
St. 25. Poi che annegassUi^ invece di poiché cara an-
negassiti.
St. 26. E di Sardo Matteo, invece ed in Santo Matteo.
Figlio di giudeo, invece di o figlio di giudeo. E coltale per
cotali — N(m udire dire anch' eo ec. Mortasi la fenUna,
per ca mortasi ec.
Ad onta di queste mende, quel Codice variamente appellato
Priru>ipe, reale. Vaticano, è il migliore di tutti, ed ecco come
il Trucchi lo controsegna: par. CXXX, p. LXV.
<c II Codice Vaticano de' Trovatori Italiani, è senza con*
tradizione la più antica, la più ricca, la più preziosa, la pik
corretta e la più autentica raccolta delle rime de* prìnù tro-
vatori della nostra volgar poesia. Il Codice è io pergamena,
in foglio, benissimo conservato, di un carattere minuto e sot-
tile, ma uniforme dal principio al fine, tutto andante alla pro-
saica, senza divisione di stanze, di versi, e, alcune volte, nep-
pur di parole, e senza punteggiatura, al solito de' dugentisti,
di sorte alcuna. Non vi è data precisa del tempo in cui fu
scritto; ma per molte ragioni si può francamente affermare
che fu scritto tra il 1265 e il 1275, e contiene le poesie di
non meno di cento trovatori italiani, tutti anteriori a Lapo
Gianni, a Cino, a Guido e a Dante Alighieri; di modo che
si può dire, che contiene quasi tutte le rime dei più illustri e
de' più chiari trovatori italiani. »
64. Cosi Pietro delle Vigne mozzò la parda gioia di
un' a per farla rimare con voi, Nannucci p. 27;Rugerone da
Palermo scrisse nivi per neve, p. 54; Enzo, avveniri, p. 64;
Arrigo Testa, nojt^o, nascuso, accrisce, p. 71-72; Guido
, merciite, dim
78, 81 ; Stefano Proionoiaro,
il coltissimo F. Redi nel secolo meilicoo amwi, per amore,
tralascianilo gli esempli di Dante, Petrarca, Artoslo e degli
altri siciliani a Giulio di poco posteriori. V. Prefazione a'Canti
ec ediz, del 1857,
65. Ivi, p. 7.
66. Riporto a comprova di quanto asserisco qualctie parola
dal Grion dataci cotne siciliana, e ignota a noi.
Strofe. 2. davÌTìtri, per dda intra, interpretazione alla
quale ribellansi il senso e il dialetto. 4. Cwrenli, per cnirenci;
fra noi si dupplica la r. Bono la vìnuta. Invece dì bona. 5.
Si ci li toi mi trovo'nu. invece di Si li toi mi cei trovanu.
ifctuci; per mentud; toct£ra, per tuechirà, è forma delle
scale (li levante ; grazj a Oiu, si dice ; grazia a Diu, 6. Tu mia
non lasci viviri, per Tu non mi lasci è turco; e au per ha è
ìgDOto in Sicilia; cosi Tuatrimi non pótiri a la munu, in
Sicilia si direbbe: Non pìUiria tuccarimi la manu. 7. Ad-
dimimi e avvutesta sono errori manifesti di copisti, e indo-
vinelli fra noi. 10. Artocchi, per lecchino; 12. Impistimi, pa-
rola incomprensibile; circa per cerca; 17. Mosira per movirù,
ed fli, (Oli, per avrò e tuo; i8.jer' , invece àijeru, andarono,
dimenticando che il dialetto siciliano abborre i tronchi. 21.
fussi, per fussì, fossi; sansa, per seìiza; 23. Nella stampa ti
vistili lamaitUa, nella copia gentilmente donatami dal Grion,
leggo di sua mano a matita:
Di Qtantu lì TJstisli lo 'ntajalo:
Bella, da quillu jornu so' sooralo ;
mi riescono inintelligibili tanto il lanzajutu, guanto 'o 'ntajato.
?4. fii. per sarà.
67. Loco citato.
68. Ivi, p. 417.
69. Del Volgare Eloquio lib. 2. cap. V.
70. Ennium, sicut sacros veiusuie lucas adoremus. in
qtnbus grandia el antiqua robora Jam non tantum babent spe-
Hno, quam religionem.
— 318 —
71. Vita, epoca IV. cap. 1.
72. Ivi, voi. 1. p. 383.
73. Nel Bruto.
74. Prefazione alle lettere di Fra Guittone.
75. Stor. 1. 770. Vedi Grion p. 6.
76. Ivi, p. I.
77. Poeti antichi ec., raccolti da Moos. Leone Allacci
Napoli 1661, p. 15.
78. Stor. della Letteratura italiana, Firenze 1855, voi. 1.
p. 75. V. inoltre il giudizio dal medesimo emesso al propositc
nella Prefazione al Florilegio de' Lirici più insigni d'IkUia,
Firenze 1846, p. 18 e seguenti.
79. Ivi, p. 56.
80. Schiarimenti di L. V. a Costantino Nigra. Scienza <
Letteratura, Giornale di Palermo 1858, p. HO, par. 3.
LA TENZONE
DI
CIULLO D' ALCAMO
Virgo beata, sùatami
Ch'io Doo perisca a torto.
COD. BARBBiiOfO.
I. UOMO
Rosa fresca 1 aulentissiina %
Ca pari in ver la state.
Le donne 3 ti disiano
Pulzelle e maritate:
Tragemi d^este focora 4
Se t^este 5 a bolontate:
Per te non ajo abeoto 6 notte e dia 7,
Pensando pur di voi. Madonna mia.
2. DONNA
Se di mene 8 trabagUati 9,
Follia lo ti tà tare:
Lo mar potresti arrompere 10
Avanti^ e semenare;
L' abere 11 d'esto 12 secolo i
Tallo quanto assembrare,
Avere me non poterìa esio monno;
ivanti li Cavell! m'arrìtonno 13.
— 320 —
3. UOMO
Se li cavelli artonniti,
Avanti fossMo morto!
Ca io si mi pèrderà
Lo solaccio e 1 diporto 14.
Quando ci passo e Yejoti,
Rosa fresca de Torto,
Bono conforto donimi tutt*ore:
Poniamo che s'ajunga il nostro amore.
4. DONNA
Che il nostro amore sgungasi
Non boglio m' attalenti;
Se ti ci trova patremo
Cogli altri miei parenti,
Guarda non Tarricoigano
Questi forti correnti 15:
Como ti seppe bona la venuta,
Consiglio che ti guardi a la partuta.
5. UOMO
Se tuoi parenti trovanmi 16,
E che mi posson fari?
Una difensa 17 mettoci
Di dumilia agostari;
Non mi toccarà patreto 18
Per quanto avere ha *n Bari.
Viva lo 'mperatore, grazia a DeoI
Intendi, bella, quei ti dico eo.
— 321 —
6. DONNA
Tu me non lasci vivere
Né sera né mattino :
Donna mi son di perperi 19,
D' auro massa arootino 20.
Se tanto aver donassimi
Quant' ha 21 lo Saladino ,
E per ajunta quaot'ha Io Soldano,
Toccareme 22 non polena la mano.
7. UOMO
Molte sono le femine,
Ch'hanno dura la testa 23,
E Tomo con parabole 24
L'addimina 23 e ammonesta 26:
Tanto intomo percacciale 27,
Fin che V ha in sua podestà.
Femina d'omo non si può tenere:
Guardati, bella, pur di rìpentére.
8. DONNA
(Ih'eo me ne pentesse?
D' avanti foss' io auccisa I
Ca nulla bona femina
Per me fosse riprisa 28!
ler 29 sera ci passasti.
Corenno 30 a la distisa.
Acquistiti riposo 31, canzoneri.
Le tue paraole 32 a me non piaccion gueri.
21
— 322 —
9. UOMO
Quante sono le scliiantora 33,
Che m' ha' miso a lo core, .
E solo pur pensandoci 34
La dia quanno vo' fore 35 1
Femina d'esto secolo
Non amai tanto ancore
Quant'amo teve, rosa invidiata,
Ben credo che mi fosti distinata.
tO. DONNA
Se distinata fossili,
Caderìa de rattezze;
Che male messe forano
In teve mie bellezze 36.
Se tanto 37 addivenissemi,
Tagliarami le trezze 38,
E con sore 39 m'arrenno a una magione.
Avanti che mi tocchin 40 la pei'sone.
11. UOMO
Se tu con sore arrenniti.
Donna col viso cleri 41,
A lo Monstero 42 vennoci 43,
E rennomi con freri 44.
Per tanta prova vincere
Faràlo volentieri;
Con teco stao la sera e lo matino 45,
Bisogna eh' io ti tenga 46 al meo dimino 47.
li DONNA
Oimè 48 upiiu, auserà.
Com'hao reo dfetioiio 49!
Gieso Cristo P AltìissiiBo
Del to(o m* è airaMo 50:
(lODCiepisUmi 51 a abbattere ^
In omo Mestiemalo 53.
Cerca la terra, chieste gname assai.
Chiù bella doma di WÈt tivveraL
13. UOMO
Corcato ajo Calabria.
Toscana e Lombardia.
Puglia, Costantinopoli.
Genua, Pisa, Soria,
I^ Magna e Babflooia,
E tutta Bartieria:
Donna non ritrovai tanto cortesi.
Perchè sovrana di mene 54 te presi 55.
14. DONNA
Poi tanto trabagiiastiti,
Faccioli meo pregheri 56
Che tu vadi addomannimi
A mia mare e a mon peri 57.
Se dare mi ti degnano
Menami a lo Monsteri,
£ sposami davanti de la genti 58,
E poi farò li tuoi comannamenti.
— 324 —
15. UOMO
Dì ciò che dici, vitaroa,
Nejente dod mi baie,
Ca 59 de le tue parabole
Fatto n'ho ponte e scale 60:
Penne pensasti mettere,
Son ricadute V ale 61 ;
E dato f^o la botta 62 sottana,
Dunque se puoi teniti, villana 63.
16. DONNA
In paura non mettermi
Di nullo manganiello 64;
r stomi 65 nella grolla
D' esto forte 66 castiello :
Prezzo le tue parabole
Men che d'uno zitello:
Se tu non levi e vattine di quaci 67.
Se tu ci fossi morto ben mi chiaci 68.
17. UOMO
Dunque vorresti, vitama,
Ca per te foss'eo strutto 69!
Se morto essere deboci,
Od intagliato tutto,
Di quaci non mi moverà
Se non ajo 70 de '1 frutto,
Lo quale stae nello tuo jardino 71 :
Disialo la sera e lo matino.
— 325 —
18. DONNA
Di quel frutto non abbero
Conti né cabalieri :
Molti Io disiarono 72
Marchesi e justizieri :
Avere non ne pottero,
Gironde molto feri.
Intendi bene ciò che boglio dire,
Men este di miironze io tuo avire.
19. UOMO
Molti son li garofani,
Che a casata mandai:
Bella, non dispregiaremi
Se avanti non mi assai 73.
Se vento è in proda, e' girasi,
E giungeti a le prai 74;
A rimembrare t' hai este parole,
Ca di està 75 animella 76 assai mi dole.
20. DONNA
Macàra 77 se dolesseti,
Che cadesse angosciato!
La gente ci corressero
Da traverso e da lato;
Tutti a mene dicessono :
— Accorri 78 esto malnato, —
Non ti dipàra porgiere la mano,
Per quanto avere ha 1 Papa e lo Soldano.
— 326 —
21. UOMO
Dio lo volesse, vitama,
TiA te fos'79 morto in casa!
L'arma n'anderia consola,
Ca di e notte pantasa 80;
La jente ti chiamarono:
— Oi, periura, malvasa 81,
Ch' hai morto V omo in casata, traila 82
Dammi uno colpo, levami la vita 83.
^, DONNA
Se tu non levi e valline
CoMa maladizione,
Li frati mei ti trovano
Dentro chista 84 magione.
Ben io lo saccio, e ^ffero,
Perdici la persone 85,
Che meco sei venuto a sermonare:
Parente o amico non fave aitare 86.
23. UOMO
A mene non aitano
Amici, né parenti;
Istrano, mi son, carama.
Infra està bona genti 87.
Ora fa un anno, vitama.
Ch'entrata mi se"n menti:
Di quanno ti vestisti lo 'ntajuto 88,
Bella da quello jorno son feruto.
— 327 —
24. DONiNA
Al manto 'namorastili,
U luda lo trailo 89, .
Como 90 se fosse porpora,
Iscarlato o sciamilo!
Se a le VaDgelie jurimi
Che mi si' a marito 91,
Avere me non poterà esto monno
Avanti in mare jettomi al profonno 92.
25, UOMO
Se tu nel mare gittiti,
Donna cortese e fìna,
Di reto mi ti misero 93
Per tutta la marina:
Poiché, cara, annegassiti,
Trobariti a la rina 94.
Solo per questa cosa ad impretare
Con teco m' ajo a j ungere e peccare 95.
26. DONNA
Segnomi in Patre e 'n Filio,
Ed in Santo Matteo;
So che non sei tu retico,
0 figlio di giudeo 96:
E cotali parabole
Non udi' dire anch' eo :
Ca mortasi la femina a lo 'ntutto,
Perdesi lo sabore e lo disdutto 97.
— 328 —
27. DOMO
Bene lo saccio, carama,
Altro non posso fare 98:
Se chisso non accomplimì
Lassone lo cantare:
Fallo, mia donna, piacciati.
Che bene lo puoi fare:
Àncora tu non m'ami, eo molto t'amo;
SI m' hai preso come lo pesoe a P amo.
2a DONNA
Saccìo che m' ami ed amoti 99
Di core. Paladino 100;
Levati suso e vattene.
Tornaci a lo maUno 101.
Se ciò ca dico facimi,
Di bon cor t'amo e fino:
Chisso eo V imprometto senza faglia 102,
TeMa mia fede, che m'hai in tua taglia 103.
29. UOMO
Per ciò clie dici, carama,
Nejente non mi movo;
Innanti prenni e scannimi,
Tolli esto cortei novo:
Esto fatto far potesi
Innanti scalfì un uovo 104:
Accompli mi' talento, amica bella,
Ca Parma co lo core mi s' infella 105.
Ben saccio 1' arma doleli,
Com'omo ch'ave arsura;
E sliilari 106 non potesi
Per nuli' altra misura;
Se Don a le Vaiigelìe,
Como ti dissi, jura 107:
Avere me non puoi in tua podestà,
Innanli prenni e tagliami la testa.
I,e Vangelie, cai-ama.
Eo le porlo in sino,
A lo Monslero presile.
Non ci era lo patrino 108;
Sovr'cslo libro juroli,
Mai non li vegno mino.
Accompli mio talento in cantale,
Che Tarma me ne sta in suttilitate 10!
Meo Sire, poi jurastimi,
Eo tutta quanta incenno:
Sono a la tua presenzia,
Da voi non mi direnno;
S' eo minespreso 110 ajoti,
Merzp, a voi m'arrenno.
A lo letto ne gimo a la bon'ura 111.
Ca chissà cosa n' è data in vnntura.
1. È comune il paragone delP amata alla rosa; V osarono
ebrei, greci, romani. In Sicilia ogni bella è rosa o fiore. Ra-
nieri da Palermo la disse: Fresca rosa; Mazzeo Riccio: Aosa
colorita, e cosi via. Nei Canti popolari è Rrosa a buUuni;
Rrosa ca già cumincia a spampinari; Rrosa, si* vera rrosa
Usciandrina; Rrosa ca di li rrosi si* rrigina ec* In Fn
Guittone è rosa aulerde, che sembra imitato da Giulio; ù
Dante è la fresca verdura. Inf. 4. Ili; e in Petrarca V erbe
fresca. Sonetto 240.
2. Latinismo frequente. Cosi in Re Giovanni: ancor k
fior sia aìilente. E nella Nona rima attribuita dal Trucchi t
un siciliano, e dalPOzanam (Documents inédits pour sertm
à Vhistoire litteraire de /' Italie, Paris, 1850) a Dino Com
pagni, ma per me ancora d' incerto autore, si legge :
Le pratora son piene di verdone,
Gli verzieri cominciano a aulire.
In Fra lacopone: aulentissimo giglio.
3. Preferisco donne ad uomini secondo il più de' codici
e delle buone stampe, perchè i flori e più le rose sono loro
speciale cura, delizia, ornamento; perchè i poeti volendo esal-
tare la suprema bellezza femenile, dicono esser tale da inna-
morarnc perfìno il proprio sesso. Rigetto le Pìdzeìiette marUak
del Nannucci, errore si laido da doversi attribuire alla stampa
come U omini pulzelli del Grion, e seguo il Codice Vaticam
la di cui lezione è nitida e logica.
— 331 —
4. Focjyra per fuoclii, all' amica, non già per lo sdnic-
. Ne" Diplomi del Grande Arcliivio di Napoli, T. 1. p. 55.
I I leggo : Fumlura per fondi, drcora per arcfii, lócora
per luoghi, pn/tora per pralì, saepissìme occurronl in veieribus
monumenlis,
5. Este per è vive ancora in Sicilia, e fu fivquenie negli
antichi, ttinaldo d* Aquino:
PoicliP tal ette l'amorosa viia;
Barlolomco Manconi:
i:osÌ ni'ule in piaceiua ed in volrrc.
Iacopo ila Lenlini: este di tale usato; Bonaggiunta Urbicia-
ni: tanto esto abbassato; e in tulli i siciliani in verso ed in
prosa: oggi vive in Alcamo, in Messina e altrove in Sicilia.
6, Abento vive fra noi, V. i Vocabolarii; vale quiete,
riposo. È nella Romanza altribuila a Rinaldo d' Aiìiiino, imi-
tatore di Ciidio d'Alcamo:
lo non posso abentare
None né dia. p. 527.
E in Inghilfi'edi dì Palermo riferito dal Gregorio;
Perchè il mio con?
£ votolo assfniirc a l»l volere,
Ch' io non posso abóntarf.
7. Re Enzo: Là dove è Io mio core notle e din. Dal
greco X'.rt- Nella vita di Cola de Renzo è die alla Ialina.
8. Il Cod. Vaticano ha meve seguito dal Nannucci; Grion
mini; Allacci mcn^; cosi Creseimbeni e Gregorio, ch'io se-
guo, perchè il ne sembra valere mi, e il ve, voi.
9. Trabaglia/re t in Guittone e in altri. Galvani proponi*
irnhagliti. V. Alcune vecchie e nuove osservazioni del Come Com.
— 332 —
G. Galvani sulla Cantilena di Giulio d' Aicamo. Modena co'
tipi di Cario Vincenzi, 1870.
10. Questo è uno de' passi i pib difficili della Temone
fortunatamente ben corretto dal Cod. Vaticano. La donna dice
a Giulio di non poteria possedere ancorché &cesse T impossi-
bile e le offerisse tutti i tesori del mondo. Perciò se tu ari
il mare e lo semini, se riunisci le ricchezze mondiali, non
giungerai ad avermi. Quindi io leggo, se prima rompi il mare,
e di poi vi spargi la semente per raccoglierne il frutto: e ciò
per accrescere ostacoli insormontabili. Sostituirei rompere ad
arrompere, perchè fra noi si dice rumpiri, frangiri, e ri-
frangiri la terra. È ancora fra noi T antico proverbio: Zap-
pari all' acqua e siminari a lu ventu, da cui Giulio trasse
il concetto, che vesti Sannazzaro di nuove forme:
Neil* acqua solca, o nell* arena semina,
E tenta il vano vento in pugno accogliere.
Chi fonda sue sperarne in cor di femina.
V. Mortillaro. Diz. sic. rumpiri § 9. Noto a questo proposito
essere in Ciullo e in vani degli antichi il vezzo di premettere
avverbi degli affissi, come ar in rompere, rUonnare St. 2,
ricogliere St. 4, renno e tocchino St. 10 e 32. L' OUimo nel
Cemento al v. 16 nel 31 deirinfemo, ove Dante parla della
rotta di Roncisvalle, dice: Il detto sonare (di Orlando) fu si
forte e si lungo, che si crede che diseccasse il detto sonatore,
e li arrompesse il sangue, ond'egli morisse. E Guido delle
Colonne nei Fatti di Enea: Per cotale visione divenne spa-
ventata, e arruppesi in fluviali lagrime. Alberto Boscaino
Campo mi scrive essere vivo nelle campagne toscane arrotn^
pere per arare; e T. Gradi nella versione del Trinummus di
Plauto, ove si adopera la lingua quale si parla in Toscana,
dice cosi: « Prima di tutto quando si arrompe la terra, ogni
cinque solchi i bovi cessan morti ».
11. Ecco risanata una delle piaghe di Ciullo. Che signifi-
cato poteva avere assembrare r abete del secolo? Forse adu-
nare gli alberi delle selve o le navi de' mari? Spiegazione
— 333 —
1 e contorta, dicea sennatamente ì) Prof. Massi con io
ttno il Codice Principe. Il concetto si fa spontaneo e lucido
ttituendo avere od ahere ad abeie, e ben consuona con
nnto leggiamo nella sesia strofe e nelle altre. Nannucci nel
5 corresse il proprio ei'rore de! 1 837. Nel Cod. 'Vaticano
r per proprietà, ricchezza, è scritto di due modi, cioè, qui,
iDa Si. 18 ahere, nella 5 e 6 avir-c, ed io preferirei la v
' I b.
l'i. È comune negli anticlii, e non disdegnalo da Dante e
Voi credete
Forse che siaioo sperti d' silo loco.
Purg. % 62.
Nei Ùinvito: està vita, come in Petrarca.
13. Mi fo monaca, non mi marita. Hfunnu in Sicilia, fra
gli altri, vale matrimonio, congiunzione carnale. Essiri o no di
munriu. significa essere o no da marito; sapiri di mìmnu,
coooscere i misteri coniugali: per cui il Meli:
Tu sai di miinnQ cchtij assai di li liii.
L'ignoranza del siciliano fece male interpretare questo verso.
Quantunque inclini a scrivere munno e arritunno più insulari
e arcaici, preferisco la lezione vaticana, e per la stessa ragione
eaveUi a capelli, come negli altri. Fran. Barberino:
Cavelli Ila bìanclii, e viso e tutta veste. '
Franco SaccheUi:
I lor eaveUi quanto più bianchi hanno,
Più X ne conforta.
r^-cco Angiulieri:
Haggio cotwUi e iMrbu a lua taione.
— 334 —
I siciliani pronunziano la n congiunta alia d come se fossero
due n: come bando, quando, potendo dicono bawnu, qwjtnnu,
ptUennu. — Arritonno dal latino timdere, tosare^ voce ancor
viva. Emiliani Giudici I. e. p. 71.
14. Allacci, Crescimbeni, Gregorio, Nannucci ec. variano
di poco la lezione vaticana, che dice:
Calsi (ca i*sì) perderà
Lo solacco e lo diporto.
Grion scrisse:
Cà in issi eu pérdira,
equivocando i capelli,. t55^, per la persona. A me non garbano
io e mi cumulati dal Nannucci, perchè Fun T altro comprende,
e proporrei leggere:
Ga cos) io pérdira
Lo solacelo e '1 diporto.
Rifluto il solacco del Codice, mal seguito dall' Allacci e Cre-
scimbeni; peggio il solazzo del Gregorio, e seguo T autorili
di Iacopo Mostacci, il quale cantò:
Donna ed amore han fatto compagnia,
E teso un dolce laccio
Per mettere in soUaccio — lo mio slato;
Nannucci p. 303. t. 1.;
e di Guitton d'Arezzo, il quale anche in prosa dicea: Non <
sì acerba cosa, ove solaccio non trovi animo retto. Let. 3.
15. Codici, stampe, chiosatori quasi unanimi leggono cor-
renti, ritenendolo attributo de' fratelli deir Amata di Giulio
i quali non solo erano forti; ma si pure agili al corso, corri-
dori. Per me sono in errore per ignoranza del dialetto insù
lare. Currenti è sostantivo maschile, e vale ripida china ii
— 333 —
«alle 0 liM nioiili, nella qualo cbi la valiclii, 0 qualsiasi corpo
vi si gilli. precipua gìii sepolto tra le ghiaie, la terra e le
mobili pietre del correnle. Tale fra' cento dell' Etna, quello
Ira Fior di Cosmo e Cassone nella Vaile di S. Giacomo, a
tacere degli alirì della Colla di Messina. Busambra, il BoniTato
d'Alcamo ec. In questa Torma il discorso è piano, evidente e
armonico con l'intera Tenzone, e può spiegarsi : Guarda, bada
che i mici parenti non li uccidano, e non arricolgano il tuo
cadavere le Torre, i Tossali che intorniano il castello. Bd è
minaccia, pittura, poesia. Neil' alino è un non senso. Trala-
sciando che arricol'jano non vale rar/ffi ungano, e che Giulio
Don ruggiva. Che valore ha il dirgli: Bada che non ti nm-
colfjano mìo padre e ì miei parenti gagliardi e agili al corso?
E come sì lega con V intero tessuto della Tenzone, nella
quale è continua la minaccia, e T ìmperierrila resistenza di
Giulio? Finalmente essendo Li Multi vuci e Lu Tìippi Tuppi, da
me pubblicali. paraTrasi e spìeghc popoLirì della Tenzone di
Dulìo. prego chi dubita della mìa inierpreiazione a rileggerli
ponderaiamente, e in luogo di corse e Tughe, troverà morte e
villorìoso coraggio. Se altri invece di correnti vorrà sostituirvi
torrenti per valloni, non ne solTrirarno né la perspecuilà,
né la bellezM. L'Emiliani Giudici spiega: correnti di fiumi.
Qui pervenuU mi giova far conoscere la corrispondenza, e
quasi dirci il ricalco tra la Tenzone di Giulio e le altre po-
polari, rignardanli il pareniato della donna amata. DìTalli
trovo colà:
Gìuvlnì, si non vai ppi la io
via.
Gei lu tutti sApiri a li m
■gpuii
Ca mi teni a 'nsulenii 'n
casa mìa :
Tu no lu sai cu 'su li me
parcniì f
Su di bon sangu e di bona ìnìa.
t.i Muli!
uci, St. -i
E li promellu rarili ammazza
ri,
FarÌDÌ quallru quarti di ss
a testa.
ne' (rati sanu qualclii erruri,
l^iancr, mali pri mb, cliisia nuitaia.
— 336 —
Vattini, ca si venna li me* amici,
Ca su li fraii mei cori tinaci.
Chiù niuru U iarannu di la pici.
Tappi Tuppi, 3.
Va itivinni non facemu liti,
Ca mi scanlu si venna li me' frati,
E vi farannu tanti di firiti,
Qaanta mi stissa *an vi la figarati.
hi, 7.
Chi s'addimurì sinu a la matìna
Di li me* frati ni provi li roana.
hi, 9.
La sai li frati mei chi sunna marti,
E tennu Tarmi viiinusi e forti?
La corpu ti farannu in quattro parti
Si tu *un ti scosti d'arreri sti porti.
hi, li.
Sarai ccu Ugna e coteddi pigghiato,
Ca veni a parti chi *an po*avirì aiuto.
hi, 19.
Lu sai eh' è granni lu miu parintatu
Cintn d'onuri, nobili e cuietu.
hi, 23.
16. Ck)d. Vat. trovami — Anche Emìliam Giudici adotta
il fari.
17. Guido Orlandi;
T'accogli e fortemente far difenza.
G. Villani:
Sanza nulla difenza furono sconfitti.
Milia dal latino miUia, è vivo nelF isola, e come neMugen
tisti e trecentisti.
18. Cod. Vat. padreto.
19. Perperum vel hyperperv/tn, monetam imperatorun
bysantinoì^m av/rea, sic appellerà quasi e^xs auro exitni
— 337 —
) et recocta confecta esset. Du Gange — i
•perare. — Cosi Va(]ostaro, ili cui appresso, era moneta
nune anteriore agli svevi. Nov. Ani. E sappiendo die siamo
I ricco signore, prenderai questi perperì.'i quali sono molti.
. Villani: E a' marinari diede cinque mhperpcri,
30- Eccoci a un altro indovinello. I Codici hanno motìno,
l.starape variano tra molino e ammotino; Grion sostituì oro
fho a bottino. Come leggersi , come spiegarsi? Salvìni adotta
nmotiim,\o slima prima persona di ammotinare, unirsi per
e 0 insorgere, e lo spiega raguno. Massi crede molino sia
e viva io Sicilia, ove non esiste. Grion opina permutare le tt
l bottino in mm. Gli aitii si copiano. Io seguo il Cod. Vat.
leriore a tulli; ma non rifiuterei V ammotino, registrato
i Vocabolario con buoni esempii. — Emiliani Giudici spiega:
siedo oro a monti.
21. Per trasmorfare in passalo quest'Art presente, il Grion
Iptega una pagina, crea un au. ebbe, ignoto in Sicilia, e scorda
e di tempo presente la Tenzone, tutta la scena, e l'Ita del
seguente; cosi facendo il Soldano vivo e il Saladino
. Quel benedelio ha rovescia i suoi calcoli cronologici;
I la colpa non è nostra. V. Comentario ^ 8.
22. Gregorio scrive: Toccarem?, e Massi Toccàreme.
S3. 0 Gesù, donna, comu ri tacili
Aula, superila e lìolenli!
Li Multi mei, 3.
24. Leggo jiornhole e non paraute seguendo il Cod. Val.,
quantunque siano voci quasi identiche, e derivate dal greco, e
ciò principalmente percbò la lingua, che )ia ritenuto parola
e parohjv, registra parabolano , ed è nell' uso degli ottimi.
25. Cosi nel Cod. Val.; ma il Vocabolario accoglie di-
minare per dominare, diminio e dimino per dominio, per
cui la lezione del Nannuccì k esaiu.
26. Ecco un altro indovinello. N'e' Codici toscani h am-
modesla in luogo di ammonesta: am questa voce l'uomo
amoHHiìsce, persuade; eoa b Mcooda b noocJesta la domo.
S2
— 338 —
La seconda è preferibile , perchè la modestia è nemica delle
voglie amorose. Il Mittchel, Buscaino, Mortillaro, Salomone
accettano ammonesta; Sbano, Gazzipo e Capuana ammode-
5la. Emiliani Giudici spiega: mitica, ammansa.
27. Nel Cod. Vat. si legge procazala;si nòe sembra bene
indovinato il senso del poeta con percacciale, cioè le perse-
guita. Nel Tuppi Tuppi è ristesso sentimento, St 25, 26,
27, e cosi nelle Multi vuci. Emiliani Giudici spiega: fa loro
la caccia.
28. Nel Cod. Vat. si legge ripresa e distesa, che non
rimano con auccisa. Galvani propone: per te fossi riprisa;
p. 12.
29. Nel Cod. Vat si legge: Er.
30. Ecco una bella lezione del Codice Prìncipe; quel co-
retino è qui nel senso di musicando ben rinforzato dajr attri-
buto di canzoneri dato al poeta, quasi cantando a coro, co-
reando, come si usa nelle nostre serenate, il che ben con-
corda con lo cantare della St 27. Il correre sarebbe un^ illo-
gicità. Questa spiegazione acquista evidenza da^ seguenti passi
deir interpretazione popolare:
Ammatula mi canti pri davanti.
Lì Haiti vuci, f;
Vincinni cerchi ccu ssa io cantata ;
Ivi 10.
e il fine del Tuppi Tuppi:
Amuri ccu canzoni e puisia
N' ha 'nciammalu e vinciulu a talli dai.
31. Ancor questa è una grave variante di quel Codice.
Le tue canzoni a nulla approdano.
32. Quantunque nel Cod. Vat. si legga parabole , per ra-
gion di verso deve sostituirsi paraole.
33. Da schianto. Questo verso nel Cod. Vat. è cosi :
Doimè quanto son le schiantora;
t Maini propone leggerlo:
Doìmf quan' son Ip schianiora,
con accorciamento, secondo l'aDlica pronunzia, perchè il verso
non ridondi. Allri scelga. V. N. 4.
34. Nel Goil. Val. si legge pensandome.
35. Fuori, meglio fuore per la rima.
36. Alili legge : In le le mie bellezze.
Non ci [iinsjtrì no, ca non ci arrivi,
' Hegghiu d' aTanli sia porla li levi,
Cbi ristirai scnnlcnlu 'nlra li tjvi,
'Nvatiu a lanlj disiu lu ti kuIIrtì.
Tu non si oinu prì sia janca nivi,
Mancu ccu ss' occhi ^uardarì sii slroii (I),
Tappi Tuppi, n.
lama a
Ivi, 21.
37, Nel Cod, Val. sia tutto invece tli tanto, che io pri;
ferisco.
38. Frane. Barberino:
E di tanta bellezza
Che ognuno intorno le guarda la Irena.
Lapo Gianni: Bionda trozza
Branetlo Lalini nel Tesoro:
Si eh' io credea cbc il crine
Fosse d' un oro (ine
Partilo sema (r's:e.
(l) Slreti, logaccU dette scarpe
— 340 —
Che mal per me si vide
Il fronte e il viso
E quella bionda tresza,
39. II sore per suore y è come il fare per fiwre»
40. Invece di tocchin, nel God. Vai. si legge artocchin,
come arronvpere della St. 2 invece di rorrvpere.
41. Cleri 0 doro per chiaro, bello, Boc. Chiaro viso, e
cosi Petrarca. In un canto inedito di Messina:
Donna ch'hai lo ?i$o chiaro ec.
42. Monskri dal latino barbaro. Monasterium saepe sia-
mUur prò ecclesia Cathedrali^ voi prò ecclesia Monasteri:
Da Gange. Ebbe tre significati: convento di monaci, dì donne
chiesa madre.
* 43. Nel Ck)d. Vat. sta venoci.
44. Mi fo monaco anch' io. Freri dal latino, fratelli.
45. Nel God. Val. si legge maitino per manifesto errore
di emannense.
46. Preferibile al congiuntivo come nel Vaticano, invece
deir indicativo come nel Nannucci.
47. Ecco ripetuto il dimino della St 7 dominio. Tavola
Rotonda : E fermasi di mai partirsi se prima non ha la città
a suo dimino. Morelli, Gronaca : Da poi che lo re Piero ebbe
a suo dimino la Gicilia.
48. Nel God. Vat. si legge: boimè.
49. Distinato per destino è in Livio, nelle Pistole di Se-
neca, in Franco Sacchetti.
50. Airato per irato è ne' Gradi di S. Gregorio:
A colui è Dìo bene airato.
La lingua ha del pari i verbi aitare e airarsi. Questi quat-
tro versi potrebbero collegarsi insieme, come propone il Gal-
vani, con la seguente variante:
_ 341 —
Gleso disio r Aliiìsimo.
Del loto a iiid uirato,
Concepii temi a abbattere
ìd omo bleslictnalo !
51. Mi concepisli, mi creasti.
52. Nel Cod. Val. è scritto ad invece di a. Mi creasti
per incODtmrmì.
53. Cosi blestiainato, maledetto.
54. Nel Cod. Val. sia scritto meve.
55. Io credo clie questi due versi siano ilaliatiizzati nei
Codici di lerraferma, e che debba leggersi alla sicula cortesi
e presi. Quando il Valerìani e il Cautìi adottavano:
Donna non ritrovai jn tanti paesi,
voleano destare l'ilarità del lettore. La donna è ovunque.
56. Lo scambio de' generi è fre<|ueale uella formazione
della lingtia. Nello stesso Dante, Uime 3, leggiamo:
SeU lilla non ti credi;,
Di' che ilomandi Amor, sed eg\i i vero,
Ed alla fine falle uinil preghiera.
E nelle prose, Gradi di S. Girol.imo: Ben sapele che quelli,
che colale preghiero fa ec: Coil. de' SS. PP, E quelli non
sappiendo il fondo della quistion preposta, addimatidarono con
preghiero ec. ; cosi nella Vita di ti. G. e in altri.
57. Francesismo di corte normanna.
58. Non è preferibile jenti o genti, e li tuoi comanna-
merUi, invece di gente, e le tue ccnandamenteì 11 Galvani,
con la consueta erudizione, produce due diplomi comprovanti
la consuetudine di sposarsi innanzi la genti, anche i più illustri
personaggi. Ivi p. 15 e 16.
59. Ca senza accento vale percitH, con 1* accento qui. È
pretto siciliano, e chi lo scrive allrinicnti erra. Viene dal quia
deMatiai. Pier delle Vigne;
L
— 342 —
Ca lo troppo lacere
Naoce manta stagione.
60. Passo sopra a' tuoi discorsi come su ponti e scale.
61. Dante Purg. 10.
In giuso Tale.
Stefano Protonotaro:
in forte tìsco
Mi pare che sian prese le mie ale
62. Cod. VaL registra boUa, che il Massi spiega vMa:
ma la stoccata di seconda sottrarmi è da abile schermitore;
perciò per la perspecuità, e per la bellezza della lingua
r adotto.
63. Scortese, senza cortesia, eh' era la massima offesa
che poteasi allor fare tra cavalieri, o in senso di mal nata,
non di sangue gentile ma plebeo.
64. Mangano e Manganello, qui scritti alla pugliese , come
castiello, erano macchine militari. Non mi sgomento , né mi
cogli.
65. Cod. Val. è scritto IstomL
66. Il castello era forte, come i corre7Ui di cui era difeso.
67. Gitaci, qui.
68. Pugliese arcaico, ignoto in Sicilia. È preferibile piaci?
69. Nel Cod. Vat. si legge:
Ca per le fosse slrutlo.
È vivo neoclassici. Guittone: Strutti e morti. Ov. Pist Troja
è strutta. Davanzali, Tacito: Provincie strutte. Poliziano. Le
membra sento indebolite e strutte.
70. Nel Cod. Vat. non ai' per aio, ho.
71. Allusione facile ad intendersi, molto più per chi ha
familiari i canti del popolo. Caro, Long. Am. Mi ruppe la
_ a*3 —
^n^^riia il mio sodo, e per premio n'ebbe le prime rosé"
del mio giardino.
73. Assaggi, provi, dal Ialino b:irbaro: exagìum. As-
saiare per assaggiare, manca nel Voc.
74. Prai è voce comune in Sicilia, e vale spiaggia di
mare arenosa. Il senso è questo: se avrai il verno in prua,
e cadrai dalle altezze ove sei, allora ti risovverrai di quanto
ti ho avvertito, e ti dorrai di non aver corrisposto all'amor
mio.
75. God. Vat. codesta: io preferirei di questa per mag-
giore chiarezza.
Ha siddu moru, e sl'arma va dannala.
Bella, cb! D'aTJrai di lu ttm Toco?
Li Molli Tuci, II.
77, Macara , manca nel Voc. V è vtagari con esempio
del Varchi E probabile Giulio avere scritto maestri alla si-
ciliana, dal greco machari-os, beato.
78. Accorri per soccorri: Vita di S. Margherita:
79. Nel Cod. Vat. è scrino fossa. Il Massi sMtiMil fcw'iD
grazia del verso; lo adollò il Valcrianj. e dietro a lui il Nan-
nacci con due esempii uno di Pier delle VigtK, Taltr» del
bealo laeopoue.
80. La lezioae del Cod. Val. t- cliiarissima. È voM wt-
giaariameute gieca ditTusasi in lulLi etl in Francia. VmM,
Uistoire de la Poi'sii- provencale. In Marsijjlia é parttajttr,
in Sicilia panf an'ar^, abberrare, sognare, fantasticare. I>s «Ma
nac^iue fanlesiare. È il rever de' traace«i. Gailvan la Hét^
oppressa dall' incubo. Ivi, 30.
81. Malvagia. Come si dice asio « udaiu) \Kt »i^f e uttr
glo. NiJiinucci. Nel ribellameolu di Sicilia couro rr t'ji/tli
p. 120. Bologna 1865, ì francesi sodo ctiiamali: perlMi, taf/t.
— 344 —
vxalvasi, divoraiori. Fra Guittone: Fatta discrezion» niaUKh
sio ingegno.
82. Traditrice, come il traito della St. 24 vale traditore.
Vita di S. Margh. Fel, ladro, traUo si prese a dire che ve-
nisti per me traire. E Guittone LetL 5 ec.
83. Nel Cod. Yat si legge Sans* onni colpo. V istesso
pensiere il popolo T espresse cosi:
Facilini di mia zoccu vuliti,
Mi fa* ammazzari di li to' parenti,
Ca doppu mortu iu, sazia sarriti,
Figghia, pri amari a vui mora cuntentl.
Li Multi Voci, 3.
Iu, fìgghia, pri Iu tantu amari a tia,
No, non ni fazzu stima di la morti.
i?i, 5.
Si di la vita mia si ni fa festa,
Non mi ni cura ca mora pri amurì.
hi, 9.
Siddu a li porti ci sunu saitli,
Li miri *nfacci tutti a mia Tutati,
Sempri ca iu dirò sparati ritti
'Ntra stu misiru peltu, e non sgarrati;
*Nterra vidennu li mc'carai afflitti,
Sfardati tutti e dì sangu lavati;
Qual' è , fìgghia , V amuri ca m* aviti,
Comu ccu Tocchi non Iu dimustrati?
Ivi, i3.
84. Fra chista e chissà in siciliano corre la differenza
che è in lingua tra cotesta e questa ; e siccome non può equi-
vocarsi il senso, io adotto chista.
85. Questi due versi sono molto guasti ne' CodicL II socio
non c'entra per nulla, credo debba leggersi saccio colGrion.
La persone è puro francesismo, la perso7vne.
86. Il Massi propone non t* ha aitare, io direi non t* ha
ad aitare,
87. Nel Cod. Vat. leggo nettamente parenti, por cui per
— a45 —
cagìon di rima scrivo genti e uteiUi sìh sicula, come ^ nei
Godici e iu istauipa cleri alla Su H,pregtia-i alla ii,riprìsa
e distisa all'8, avire alla 18, chìaci alla 16, tralasciando le
altre.
88. Ne'codici,e quÌDili nelle sUimpe,ijueslo aonic è pro-
babilmente erralo o guasto, e forma la disperazione de'co-
mentalori. 0i;gi noi leggiamo trajuto. 'niajuto e nel Grìon
lonzajuto. È un enigma, ma non dell' alcamese. che scrivea
piano per farsi intendere dalla rosa invidiata, e lo fu da' suoi
coolemporanei, perchè nominava o^'gelti allora conosciuti. Egli
parla ceno di un tessuto splendido e ricco, non dì una foggia
di vestito, allrimenli non calzerebbe la risposta deir amala
nella stanza segueule. Io mi limilo a compendiare le varie
interpretazioni.
Clii ritiene intajuto. opina essere un tessuto particolare,
cosi detto con vocabolo forse orientale.
Coloro i quali lo estimano foggia di vestimenlo eoo la
co<la, adottano trajuto, e ne danno due spìeghe. Dal Ialino
traìteri: derivano il normanno train, strascico dell'abito, ap-
pellalo traino in volgare; e di \A i suoi derivali trainare,
trainante, trainato ecc., e credono Ciullo aver dello trujvto.
doè trascinalo. Gli altri lo iraggono diretlamente dal traiiere.
da cui provengono iraimenio, traiiore, irarre, iraimo; e il
poeta aver inleso esprimere con (|uella parola ito leaulo di
finissimi Dli di seta, forse simile a quello che oggi « trae
da' bozzoli e appellasi arsoio.
ti Grion sostituì lonzajuto, ritenendo, cocne nota il Gal-
vani, che kmza valga coda in siciliano; ou quoto roeabois
d è ignoto.
Frugati e rifrugati, lanlo da me, quanto con Ywon di
cospicui dotti, tulli i Tabulari, Arcbivi, L«ggi toirtoane e
Biblioteche nell' isola, dall' Inventario deUa Cbi«a dì %. Itiecatt
del 1173 e riservato nella Cappella Palatina di Véttma, mo
alla VeoJiLi dì oggeili mobiliari aodie dj reAi kmàmt. Ad
del IS'^O nel voi. ni. s. della Comnoale dì qocla òtti ic^l»
Q q, F, '231 , e inoltre gli anlictiì aalori a ne Mgirili. Ma
«be U XX.V Distruzione del Mmuri ari folin tMfaM
— 346 —
del medio-evo» non ho rinvenuto nome che possa sostituirsi
logicamente a quei due di disperata lezione. Né qui inserisco
quella noiosa e vana litania.
Or essendo certo aver Giulio adoperato un trisillabo piano
fìniente in uto o un equivalente, il Prof. Cor. Sbano da Noto
propose leggersi lo tuo viUo, cioè, il tuo abito votivo , per-
chè vestire il voto, per antica consuetudine, è costume delle
nostre donne.
Io, tenuto presente aver mandato s. Bonifazio arcivescovo
di Magonza nel sec. YIII a Daniello vescovo capsiUam villo-
sam, e Giovanni e Matteo Villani, non che Giov. Boccaccio
ricordare il velluto essere servito nel secolo XII ad ornarsene
le principesse, e il Muratori aggiungere che i principi e i re
usavano tali vesti di molta magnificenza, estimo possibile aver
Giulio scritto: Di quanno ti vestiti di (o lo) velluk).
Il Prof. V. Di Giovanni con sua lettera del 6 nov. 1870
produce un'altra soluzione del nostro enigma. L'aiuto, egli
dice, che aveva vestito un anno innanzi la fanciulla, non era
stato, come si vede da' versi, che seguono nella Tenzone, né
di porpora, né di scarlato, né di sciamito, che varrebbe sot-
tosopra il velluto; ma di roba meno pregevole, siccome ap-
punto lo 'nsajiUo di saina, drappo di seta leggiera; o lo 'n-
sajotto di saja, ovvero lo rasuto da raso, più leggiero della
porpora, dello scarlato e dello sciamito, che sarebbero stati
panni di alto prezzo. Raso italiano è accorciato di rasato, e
noi siciliani che diciamo rasu, dovemmo dire in antico ra-
sutu: poi per figura la materia è presa per T abito, siccome
in porpora, scarlato e sciamito sono usati il colore e la spe-
cie del tessuto per la roba slessa ; e cosi si potè avere lu ra-
sutu, che sarebbe stato forse il corpettino di raso usato dalle
nostre donne sino a^principii di questo secolo. Anzi, egli ag-
giunge, per opposizione a porpora e scarlato, foiose di color
bianco, proprio delle fanciulle e dell' età verginale. Queste due
voci 0 insajuto da saja, o rasato da raso, correggerebbero
senza accrescimento o scemamento di lettere le due voci in-
tajuto 0 trajiUo, che Onora abbiamo avuto come inintelligi-
bili. Tutto si ridurebbe all' errore grafico di aver tagliata la
I
— 347 —
s in insajuto, fac«m)one intojuto: ovvero Dell'aver I
una R forse majuscola, due leliere, cioè, ir, e confusa la s
con j dando cosi Irajuto, invece Ji rasutù.
Scelga clii vuole a suo libilo, o escogiti altri scioglimenti.
89. Ecco come variano le interpretazioni di questo passo.
lutla lo iL-aìto — Cod. Vat, NaoDucci 1856; Gregorio.
I tola lo trailo — Cod. Barb., Allacci, Cresciinbeni.
Giù dallo trailo — Valcrioni, Bibl. M Vtogg., Narinucci I8IG.
lu da lo trailo — Prof. Massi, Gi'A liallo slratcica.
0 luda lu iraitu. Gi'ion.
Io preferisco questa lezione, perchè la più logica e armonica
con i versi seguenti. Avverto però essere forma arbitraria, e
non siciliana ';V lu: non è colpa del Grìon ignorare il nostro
dialetto.
90. 91. Cosi nel Vaticano. Può migliorarsi
Si a le Vaugelie jarimi
Ca già mi se' marito.
92. V. St. 2, Nola 13.
93. Cod, Val. — Dereto mi ti misera. Il donna fina è
in Inghilfredi e in Guido tiuinicelli. Nel primo: A cui servir
mi sforzo, donna fina. Nel secondo: Orgoglio mi mostra
donna fina.
94. 95. Ecco un altro polipaio di dubbii. Il catergandoti
del Cod. Barb. seguilo da .Mlacci, Crescimbeni, Gregorio ec.
non ha senso; V altergaTidoti del Grion è in lingua; Dante
Inf. 20, 46, disse: Aronta è quei che al ventre gli s'atterga;
e Tasso, Gerus., 19 47.
Ei col ibrido ìaiirìzzando e con la terga
l.<? mandra innanzi, agli ulliini s' atterga.
Ha qui starebbe a proposito? Ne dubito. Val meglio Vanne-
— 348 —
gassiti del Cod. Val. Yaleriani, Nannucci ec. Il verso manca
di due sillabe, che ho supplito.
L' ultima parola della stanza ha avuto quattro interpre-
tazioni sufTolcite da gravi autorità. Sono esse:
1. — 0 appiccare del Prof. F. Massi nel senso di
congiungersi, attaccarsi insienie, incorporarsi , corroborato dal-
l' Alighieri.
Poi s' appiccar come di calda cera
Fossero stati. Inf. 25, v. 61.
Le gambe con le cosce seco stesse
S'appiccar si ec.
Ivi, V. i06.
2. — e peccare del Cod. Barb. seguito dall' Allacci,
Gregorio, Grion, Boscaino, En)iliani Giudici, Riccardo Mit-
chell e Prof. G. A. Chercher nel senso di peccare carnal-
mente con r amata. L' Emiliani Giudici e il Boscaino mi as-
sicurano che tuttora in Mussumeli e Trapani abbia peccare
un senso osceno, e che le parti sessuali muliebri si chiamano
peccaibra. Entrambe le lezioni di Massi, di Grion e de' sun-
nominati, hanno tutte unico sigoiGcato, che riceve luce e sug-
gello dalle Tenzoni dettate dal popolo sullo stesso argomento.
Così:
Non mi ni curu di li me* feriti,
Quantu durmissi un*ura 'ntra ssu pettu.
Li Multi vucì, i5.
Vurria vi viri acqua a ssa funtana.
Lu Tuppi Tuppi, 1.
lu chista sira ti vogghìu pri zzita.
Ivi. 2.
Nessuna auceddu pizzulia sta Gcu;
Di st' acqua *un vivirai né assai né pocu.
Ivi, 5.
Fammi sfugari la chimera mia,
Pri *na vota ti voggliiu e poi non chiui.
Ivi, 6.
— 349 —
Non mi ni curu si patisciu guai.
Basta chi sfogu la mia TanUsia:
Grapimi, bcdda, ca non e risia;
Pircbl M' in gratili! lini mi fai?
fa e' arriposu an piizDddn ccu lia,
E poi si inoru ciutenli mi fui.
hi, 12.
S' anelli sapìssi ca sia vita morì,
Gca IJa sta sira vogghiu cuuvìrsai'i.
Ivi, 16.
3, — 0 'mpiccare Coil. Fior., Nannucci, Valeriani,
Imdo, Cazzino, Salomoue, Morliilai'o. Ciascuno scel;^ a
suo grado: io mi sono limitalo a reintegrare il verso, e
ad accettare l'inlerpretazioiie, ctie sente meglio del siculo,
versificala da secoli ila questo popolo.
96. L'istesso linguaggio è ne' Canti popolari congeneri:
l!n
ureo mitili, un greca di lìvanii.
Li MuUi Vuci, I.
S' nvissi anirnnddatii lu ji3'IÌu
A Imi a la Tonti a traltiurì.
Ivi, 7.
97. 11 CoJ. Vat. scrive ilisitollo: ma la rima in Giulio
non falla, e la proniinria insulare T obbligava a Jire disdulto.
Questa voce è in Federico II, e in altri anltcliì nel senso di
diporto, [liacere, sollazzo. Nel sudelto Codice è scritto chia-
ramente sahnro. per sapore, t,'usto, piacere, potrebbe anciic
leggersi Inboro, per lavoro. Il senso è chiaro: Sei pazzo: che
ne fai di un cadavere? — Il disdotlo o disdutlo. come os-
serva il Nannucci, Verbi, p. 57, nota 2, deriva dal latino
deditca-c, da cui driìuctus. dilcltamento dell'animo, sollazzo,
divertimento, gioia, piacere in generale, ed in particolare
quello dì amore.
98. Nel God. Val. sta scritto poso e quisso invece di
poao e ciiisso.
— 350 —
99. Aiu TÌstu, ca m*aini ?ila mia,
E veru amari Iiaia mittutu a vai.
MolU Yaci, 25.
100. Sta bene come vocativo atteso il grado di Giallo,
come Gregorio e GrioD V intesero , cosi pure come aggettivo
giusta il Nannucci e il Galvani: io propendo perla prima in-
ierpretazione: o Paladino, io t' amo di core.
101. Si si* savia fidili e ben criatu;
Porsi chi un jornu ti faroggiu leta.
Tappi Tappi Sl 23.
102. È in Guittone, e due volte nel Tesoretto, capo L
Che l'aom, che Dio mi vaglia,
Crealo fa san faglia
La più nobile cosa.
103. Balia, baglia, rerum administroÀio » governo. Ro-
man de Guillaume au Court Nez, MS. Més pour tei Dieu
qui tout a en baillie — Du Gange.
Iacopo da Lentini :
.\ qaella a cui consento
Core e corpo in sua baglia.
m
Odo delle Colonne
Per uno ch'amo e voglio,
E non aggio in mia baglia,
Siccome avere soglio,
Però palo travaglia ce.
Quindi il ballare avere in balia. Dittamondo capo settimo:
Che bailo Crislo e lo veste e lo spoglia.
La morii, chi mi hai a duri presUi sa.
Tu[tpi Tujipi,
105. God. Barb., Allacci, Crescimbeai , Gregorio e Grion
[Ono inslella, de stella, in siciliano stedda, quasi astrila.
'.a, sclieggìn di legno; il cuore mi si fa a sctiegge.Gli al-
Itulli infelUi: ma diffcriscoQO nella spiega. Nannuccì, Mìit-
, Sbano, Gazziiio, Morlillaro, Salomone, Capuana lo dc-
10 da fiele, il cuore mi s'infiela, e Dame usfl felle per
»i, mi s'ifirellonisce, mi diventa feroce, mi si rende
ice d'ogni eccesso; io sommetto poter interpretare mi sì
a, da fcdda. Fetta, perciJ) fìdilulia, die Giulio ilalianiz-
, come è nel canto popolare:
Tutlu lu cori miu $i fiddulia.
^Odo delle Colonne leggo:
Perù palo iratuglia.
Ed or mi mena orgoglio.
Lo cor mi fende e tagHa,
~ch' è il nostro fUlduiia. Boscaino mi scrive esser viva in Tra-
pani la espressione mi si fedda lu coti, usala ad esprimere
un gran dolore.
106. Voce ancor viva nell'isola. E in Tommaso di Sasso:
Tardo mi risvegliai a disajiiarL',
Glie noti si pui^ slutare
Coìj senta htìca udo grao Toco.
|auìI
leggouo cs(o fatto invece di statari ; io preferisco l'in-
stazione del Grion, perchè lega e rincalza quanto di sopra.
lurami III .s.irai inuggliiLTÌ mia,
La moni *ìxia mi sparli di vui,
lura In voli.
T'ippi Tuppi , 25.
— 352 —
106. Meglio parrino, come in Sicilia , sacerdote.
109. SuUilikLte: coosoozione. La tisi in Sicilia si diiami
mali suUilì, perciò morire di mo/i suUili, importa morire con-
sunto. Emiliani Giudici Florilegio.
110. Minispreso dal latino mima preiiare , mimqNn-
zare.
IH. .... *Ntn la casa mia
Trasi skaro, e chidda ca fo foL
Toppi Toppi, 2S.
In questo momento ricevo dal mio amico, Sig. Giuseppe
Silvestri da Palermo, una lettera con la quale mi annunzia
esistere nella Biblioteca comunale di quella città un prezioso
Codice Doganale del 1300, nel quale, ove tratta della Gabella
della tintoria^ si legge quanto siegue :
ce Pro qualibet canna tele tingendo in mayuto tarennm
unum ».
« Item de cuculio, si ve seta tinta in maynto de qnibii-
stibet duabus unciis tarenum unum ».
Si raccoglie parimenti dair istesso Codice che il dazio
governativo su gli altri colori deMessuti di filo, di cotone o
di seta, quali luni^ riridi, sarco , musumi^ ialino ^ ckatbalo ec
era se npre inferiore al colore mayuto. Di guisa che paò bene
argomentarsi che le famiglie nobili adoperassero a prrferenza
la stoffa di questo colore, che più di ogni altra era in pregio
e gravata di dazio.
Sembra quindi probabile che il verso 7."* della Stanza
23 della Tenzone di Giulio debba leggersi:
Di qoaiino ti Teslisti (o nuToto.
(di
La metonimia adoperata dal poeta per indicare la veste
della donna amata è comune agli scrittori di tutti i secoli e
di tutte le nazioni.
SAGGIO DI COMMENTO
mONlCA FIORENTINA 1)1 DINO COMPAGNI
Al Comm. Fhanciìsco ì^amukini.
Della Cronica Fiorentina (li Dino Cumpai^i, Ja me
commentata, pubblicava, non son molti mesi, il primo li-
liro la signora Amalia Betloni, in una collezione scolastica
ch'ella stampa a .Milano. E non è per Tambizione di con-
dliarmì lode di dotti, sMo otTro alla S. V. un saggio della
conlinuaziooG di questa per me non leggera Mica; ma
perchè dai dotti, a' quali il modesto libretto milanese può
facilmente restare ignoto, vorrei sentirmi dire se la via
Della quale mi sono messo mostra condurmi, od è mia
superba speranza , ad una vera e compiuta rivelazione dei
sensi di quel difBcilissimo autore , rivelazione da nessuno .
sino ad oggi , se però non m' inganno , neanco tentata.
Dico non essere stata tentata con la forma del commento,
che ^ pure la sola a ciò direttamente appropriata; per-
chè veramente il signor Carlo Ilillebrand, nella sua dotta
e accuratissima monografìa su Dino . molto bene si adden-
\m , non che in generale nello spirito di quel mirabile li-
— 354 —
bretto , ma io molte parti aacbe più riposte o dubbie del
testo , sia quando prese a considerarlo rispetto all' arte sto-
rica e alla letteratura, sia, e più profondamente (perchè
studiar bene Dino vuol dire studiar bene i fatti e i tempi
di lui raccontati), quando con la sua scorta e, spessis-
simo, con le proprie parole di lui, volte in un vivace e
snello france^. ritessè la sua medesima istoria. Ma, com'è
facile comprendere . a superar tutte tutte le difficoltà che
offra r interpetrazione d' un testo , non e' è se non il com
mento che obblighi: perchè solamente il commentatore,
arrivato a un intoppo, è costretto a fermarcisi sopra, e
a non andare innanzi finche non lo abbia in un modo e
in un altro tolto di mezzo. Chi scrive un libro sopra uc
libro, come il sijinor Hillebrand lo scrisse davvero bellis
Simo sul nostro istorico, per quanto copiosamente parafrasi,
colorisca, illustri il suo originale, non avrà mai né tante
strette ne tanto continue catene, quanto impone un com-
mento: fatto, W\ì s'intende, con un po' di coscienza e d
senno. A queste catene mi sottomessi io, nella interpe
trazione del Compagni ; e s' io ne abbia guadagnato sol-
tanto le noie della servitù e della pedanteria, ovvero la
intima unione col mio autore, vorrei, ripeto, mi fosse
detto da chi sa e può dirlo, e che, come V. S., non
nega, in ogni caso, una parola di conforto alle buone in-
tenzioni, ancoraché non seguite d'effetto.
Ch'io scelga per saggio il tratto che, nella partizione
da me stabilita, è Pxi capitolo del libro II, n'è cagione
che quel capitolo durò per parecchi giorni a disperarmi
di sé; dico, clfio non vedevo per che verso s'avessero
a prendere le parole di Dino, anzi non giungevo a farmi
un' idea de' falli da esso narrali. Avvertasi che si tratta di
fatti morali: cioè d'opinioni, di sentimenti, di sospetti,
d' avvedimenti , d' intrighi ; nella cui esposizione Dino , come
per solito è accuratissimo, cosi anche è sottile, senten-
aoso, pièno (l'allnsioni e di secondi sensi, ctm, se mlest,
illumÌn.ino e coloriscono il quadro, ma se sfuggono, ge-
nerano dubbiezza e oscurità: tanlo più che in ({nelle parti
la interpetrazione del suo libro non può menomamente
vantaggiarsi del confronto di altri storici, come quando si
tratta di storia esteriore, comprendente cioè fatti di co-
mune dominio degli scrittori. In questo capitolo io sentivo
il pensiero dell'Autore, come la corda dantesca, «aggrop-
palo e ravvolto >; né mi riusciva trovarne il bandolo: e
maggiore sgomento ra' era , che a guardare gli altri rac-
contatori della storia fiorentina di que' tempi, quelli spe-
cialmente fra i moderni che si sono serviti delle notizie e
spesso anche delle parole di Dino, quando arrivavano a
cotesto arduo passo, li vedevo abbandonare il mio autore,
e tenersi più o meno sulle generali: e questo di uomini
dell'autorità del Balbo, della diligenza del Fraticelli, del-
l'acume dell' Hillebrand. Cito dantisti: perocché quel ca-
pìtolo ha la speciale importanza di riferirsi ad uno de' mo-
menti più gravi nella vita del divino nostro poeta, anzi
nella vita sua politica il più doloroso: T ambasceria a papa
Bonifazio.
F, tu n'hai cavato le gambe? Glie dunque? ci verrai
forse il dire d'aver tu pel primo trovata, in qualche vecchio
armadio del Palagio de' Priori, la mirabile cliiave d'un au-
tore, che dal Muratori in poi tutti gli studiosi svolsero,
gli eruditi citarono, le coltane storiche ristamparono, eie
antologie scolastiche ne delibano, e lo registrano i pro-
grammi ufTiciali d'insegnamento; e tutti col Giordani lo
dicono * sallustiano », e col Pertìcari « breve, rapido,
denso • , e a coro pieno lo cantano » principe de' croni-
sti,? — Lasciamo stare di quest'ultima appellazione, che
I conviene a Dino per la sua Cronica fiorentina, quanto
Iute s'adatterebbe, in grazia della Cotntnedia, il titolo
I principe de' comici > ; e che basta a mostrare non
— 356 —
inteso un libro mal definito; ma rispetto alle altre lodi,
giova distinguere quelle date alla cieca , che non si ha da
tenerne alcun conto , da quelle certamente autorevoli di cri-
tici insigni : e di queste è da dire eh' ebbero piuttosto fonda-
mento in una apprensione delle qualità esteriori dello stile di
Dino , che in una perfetta intelligenza de' suoi pensieri ; e
che però al caso nostro non provano nulla , cioè non pro-
vano che in me sia baldanza irreverente a dire che Dino
sin qui non lo abbiamo saputo leggere. Ben mi conten-
terò' io che la interpretazione mia apparisse errata ne^ par-
ticolari per difetto deir interprete , ma vera nel metodo e
nello spirito; cosicché da essa potessero più felici ingegni
trarre avviamento alla vera.
Io prego dunque mi si dica , chi abbia la pazienza di
leggere le mie note, se le cose che io ho vedute nel te-
sto, ci sono 0 no: non per menare scalpore, se le ci
sono, e per misurare a spanne T altrui vista e la mia,
ma perchè si convenga d'amore e d'accordo che Dino
Compagni, da quando il Muratori lo pubblicò, ce lo slam
letto ed ammirato senza curarci troppo d' intenderlo ; e
contenti di paragonarlo encomiasticamente a Gaio Grìspo
Sallustio , non abbiamo spese intorno al ruvido , acuto , im-
petuoso Prior Bianco di Firenze quelle cure delle quali
troppo maggior bisogno aveva egli che l'elegante e com-
passato pretore romano.
E qui una domanda. Dino è proposto alle scuole; e ai
più teneri alunni delle liceali, a quelli del primo anno.
Con quanta opportunità? Risponda per me ai facili com-
pilatori e rimpastatori di programmi scolastici un valen-
tissimo professore d' una delle nostre Università , il quale
messosi, or sono tre anni, a spiegarlo a' suoi uditori, non
potè (mi scriveva) che toccare appena, e con grande e
vera fatica , la fine del libro primo , e lasciò la cosa per
disperala. Ma s' entrassi su questo argomento delle scuo*
— 357 — __^^
le, e propràmenle sul modo come ti sono on&Dati' fijl
studii di lettere italiane, il da dire sarebbe troppo; equi
ci starebbe a pigiooc. Però fo punto; ed a Lei, riTcrito
signore, raccomando le mie passate e future esercitaziooi
su Dino Compagni.
Firenze, nel decembre del 1870.
Isidoro Del Lì:>'go.
^V li, XI. — In questo tempo lomorono i due am-
basciadori ritnandati indietro dal Papa: Tono fa Maso
di messer Ruggierioo Minerbetti, falso pupolaDo. il
quale non difendea la sua volontà ma seguiva quella
XI. Tornano da Udua nof. degli ambasciatoki. La Si-
gnoria SI RIMETTE NELLA VOLONTÀ BEL fONTKFjrE, E, iE-
ORSTAMBNTE, CHIEDE UN SUO LEOAT«. LO RI£AX>0 I NSfit:
LORO TlMOItl E SUPPOSIZIONL CoU' ERA INTERNAMENTE ORDI-
NATA Parte Nera. (1-8 novembre 1301).
1. I (lue ambasciadori. Cioè dell* ambasceria inviata a
Roma dal Comune nell'ottobre, ilopo g:ÌDnlo colà il Valese,
e compunta il] tre ambasciatori. Aveva per commJBsione di
contrastare alle maligne inflaenze cLe buIP animo A\ lui e
dei Ponteflee esercitavano I Neri. Ma non gianse in Corte
non dopo partitone Car\o. Rimandali dal Papa il Mlner-
;i e il Corazza, era rimasta presso ti i lai Uaole Aligbie-
Cfr. Il, IV, 11, 16, 22; xiv.
2. Falso popolano ecc. * Non affezionalo di cuore alla
parte pupolare , e die perciò non lon«ndo (difendere) troppo
olla opinioni e sentimenti propri!, secondava facilmente gli
11»
É
— 358 —
d'altri; Y altro fu il Corazza da Signa, il quale tanto si
riputava guelfo, che a pena credea che nell' animo di
3. Il Corazza da Signa, Di costui cfr. II, xxxi, dove lo
chiama « savio uomo guelfissimo »; ma allora lo vedremo
disingannato dai fatti, e cruccioso spettatore delle esorbi-
tanze de* Guelfi Neri: ora (cosi paiono da interpetrare le
parole di Dino: cfr. not. seg.) sperava nella pacificazione
delle partì. Egli (cfr. cap. seg.) stava co* Bianchi.
4. ,,.che a pena credea che neW animo di niimo fusse
altro che spenta , narrando le parole del Papa, Cosi resti-
tuisco, sulla fede del più antico manoscritto e della prima
edizione. La volgata ha: c?ie a pena credea che nell'animo
di niuno quella parte ftisse altro che ^enta. Narrarono le
parole del Papa ecc. Ad accogliere questa lezione mi fece
ostacolo, innanzi tutto, la sua ambiguità, non riuscendomi
cavarne un senso netto e sicuro; poi l'avervi messo la
mano gli editori, sebbene, com* altri giustamente notò, potes-
sero le parole da essi aggi un te, 9ue22aj7arf e, riguardarsi come
contenute implicitamente, per costrutto di pensiero, nel-
r adiettivo guelfo. Aggiungi che due Manoscritti hanno la-
cuna fra altro e Naìrarono , mostrando con ciò che il testo
debba a questo punto avere comecchessia sofferto. Per que-
ste ragioni, come arbitraria incerta ed oscura, rigettai la
volgata lezione. Adottando P altra, del vecchio codice e della
prima stampa, non pretendo di aver dissipate le tenebre
da questo passo, dove qualche guasto di copisti pare pro-
babile ; ma solamente di averlo ridotto capace di qualche
interpetrazione, in armonia specialmente e con ciò che pre-
cede e col passo (II, iv) dove Dino ci ha riferite distesa-
mente le parole del papa alle quali qui accenna. La Inter-
petrazione che proporrei è la seguente: < Il quale tanta
fede aveva nell* altrui guelfismo, misuranc^clo dal proprio
(su questi secondi sensi o impliciti, cfr. Proem, 5: I, xu,
8 e altrove) , che stentava a credere che nelT animo di qua-
lunque cittadino fiorentino la volontà (oggetto deirinciso
relativo, coordinato a questo, nella proposizione preceden-
te) non dovesse del tutto piegarsi, rimettersi in tutto e per
tutto (spengersi, quasi cessando di essere, e fusse spenta
— 359 —
niuDO fosse altro che spenta, narranrio le parola del
Papa. Onde io a ritrarre sua ambasciata fui colpe-
vole: misila ad indugio, e feci loro giurare credenza;
e non per malizia la indugiai. Appresso rauoai sei savi
per fmse per spegnersi) al Pontefice capo di Parte Guelfa,
quando fossero conosciute le parole di luì >. 0 altrimenf.i:
< Il quale tanta fede ecc., che sì dava quasi per sicuro, ba-
stasse rifiirire (narrare) le parole conciliative del papa,
percliè Bìancbi e Neri egualmente dovessero inchinarsi >.
A questa indole dì « guelfo in buona fede e celante » cor-
risponde queir appellativo, die sopra notammo, di < sa-
vio uomo guelfiesìmo ■. La interpetrazione da me propo-
Bla mi pare s'accordi con questa versione del Balbo (Vita
di Dante, I, xu), il quale segue pure la prima stampa:
< L'ano, Maso Minerbetti, uomo senza volontà propria;
* l'altro, il Corazza, tanto guelfo, clic appena credea pò-
> tesse rimaner volontà in nessuno, narrandogli le parole
> del Papa >.
5. Onde ecc. Si cliiama in colpa Dino (il quale in que-
sti affari sembra avesse largo mandato da' Priori suoi col-
legbi) ili aver posto indugio a riferire (ritrarre) a'ConsiglI
del Comune queir ambasciata, dalla quale il Corazza s' a-
epettava cosi grandi effetti per la paclQcazione di Firenze.
(Il legame fra queste due idee 6 espresso da onde [efr., su .
questo eoslrutlo, I, vi, 1) e da sua, ohe riferirai al Coraz-
za). Ma aggiunge, in propria difesik, che ciò non feco già
per malizia, cioè < perchè credendo probabili quelli effetti,
e' li volesse distornare ».
fi. Crtdema. • Silenzio, segretezza >.
7. Appresso ecc. Ecco la cagione per la quale Indugiò,
e poi s'astenne afTatto di portare a' Consigli l'ambasciata.
ibitando della convenienza di ciò fare, e credendo più
idiente die la Signoria provvedesse da sé, aveva, innanzi
f determinarsi per l'uno o per l'altro partito, rlohlesti
^rere sei dotli giureconsulti: comunica ad essi (far ri-
vi y ambasciata; e avutone parere conforme al proprio
Mto Inciso 6 tutto da sottintendere), non lascia consi-
— 360 —
legisti , e fecila innanzi loro ritrarre, e non lasciai con-
sigliare: di volunlà de* miei compagni, io proposi (
consigliai e presi il partito, che a questo signore s:
8. Consigliare. È nel senso di < tener consulta, o ada-
nanza de* detti Consigli »; ne* processi verbali de^ quali ve'
diamo appunto detto di ciascuno degli oratori : < Dominua..
consuluit quod ecc. »
9. Di volufUd ecc. Muto la punteggiatura della volgati
che porta: e non lasciai consigliare di voluntà de* mie
compagni. Io proposi e consigliai ecc. Dopo fermata la in-
terpetrazione di ciò che precede, ciascun vede che rinci»
di voluntd de' miei compagni quanto ò superfluo, e forse af
fatto inopportuno e di ni un senso, riferito a lasciai ecc.
tanto riesce, non che opportuno e logico, necessario a il
lustrare le frasi io proposi e consigliai e presi il partito
delle quali tempera il significato, che potrebbe parere trop<
pò assoluto anche non dimenticando (cft*. not 5) la grande
autorità che a Dino avevano concessa in que* momenti
colieghi.
10. Proposi.... consigliai.... presi il partito. Nelle Consul-
te il Capitano del Popolo o il Potestà, ovvero alcun lon
ut£icìeL\e , proponevano , presente la Signoria, la quistlone di
trattarsi («In Consilio proposuit dominus Capitaneus....
,» proposuit dominus Potestas.... , praesentibus Prioribus e1
» Vexillifero lustitiae, omnia infrascripta »); gli adunati
consigliavano^ esponendo ciascuno il proprio parere («Do-
» minus N. consuluit quod ecc. »): dopo di che, il proponitore
0 presidente faceva o prendeva il partito (« Facto partito su-
» pra praedictis ad sedendum et levandum per dominum Po-
» testatem, placuit ecc.») Quelle parole adopera dunque Dino
in istretto e storico significato; e mentre ci dà con esse la
chiave alla interpetrazione di tutto questo difi^icile para-
grafo, viene a dire che € la Signoria fece essa e deliberò
da so, dopo sentito ravviso de* sei legisti, quello che or-
dinariamente sarebbe stato materia di consulta ».
11. il questo Signore. Cioò < al Pontefice »; ma perché
comunemente con la parola Signore è da Dino indicato il
Valese (cfr. II, xiv, 2), perciò ne* Manoscritti e nella voi-
— 301 —
volea ubbidire, e cLe subito gli fusse scritto cbe Doi
eravamo alla sua volunlà, e che per noi addirizare
ci mandasse messer Gentile da Montetiore cardinale.
Colui, che le parole lusinghevoli da una mano usava
e dall'altra producea il Signore sopra uoi, spiando
gata, in Qne del presente periudo, dopo la parola cardinale,
sono quoste altre, che lio creduto, come gluaGcma ili copi-
sti, dover espungere: Intendi questo Signore pel Papa e
non per messer Carlo.
12. Addiriiare. < Correggere, ravviare a buono e paci-
fico Btuto, rìfurmare nel governa >.
13. Oetttile da Montefiore. Frale Oentilu da Monteftore
(Montefiore dell' Aeu, nella provincia d'Ascoli Piceno),
de' Minori conventuali, fu fatto cardinale dei SS. Silvestro
e Martino nel 1293 da Bonifazio Vlll^ del quale fu molto in-
trinseco e, ciò cLe torna a sua lode, ne sostenne, lui mor-
to, dinanzi a concilii e principi, ed anclie per iscritto, la
difesa. E Omelie ed opuscoli scrisse. Fu nel 1307 legato in
Unglieria. Morendo in Avignone, nel 1312, lasciò d'esser
portato a Geppellìre In una sua cappella in San Francesco
d'Assisi. Può dirsi pertanto clie uomo non volgare scegliesse-
ro I Fiorentini, e tale clie, per la stretta amicizia col Ponte-
fice, doveva al Pontefice stesso piacere, se però questi fosse
alato in buona fede. La politica di quella Signoria, della
quale Dino fu l'anima, era dunque: continuare col Vulois
le apparense di buona amicizia; e intanto prendendo in pa-
rola il Pontefice, cbe per mezzo de' due ambasciatori chie-
deva sottomissione a' suoi voleri, trattare direttamente con
lui, e invocare un legato pontificio, cbe se fosse persona
savia e di.Lbene, come pare stimassero questo messer Gen-
tile, da porsi lealmente d' accordo co' Priori e col loro par-
tito, li faceva forti contro 1 Neri e magari ancbe contro
Carlo. Ed ecco perchè Dino non volle portare ai Consigli
la cosa, e fece giurar credenta agli ambasciatori eoe.
14. Colui, < Il Papa »; producea, < spingeva >.
— 362 —
chi era nella città, lasciò le lusinghe e usò le minacce.
Uno falso ambasciadore palesò T ambasciata , la
quale non aveano potuto sentire. Simone Gherardini
avea loro scritto di Corte, che il Papa gli avea detto:
« Io non voglio perdere gli uomini per le femmi-
15. Chi era nella città, Allade alle soldatesche guelfe^
delle quali si era Cario fatto forte in Firenze. Cfr. II, a, C
e seg.
16. Lasciò le lusinghe ecc. € Scopri le sue vere Inten*
zioni , buttò giù la maschera ». Ciò ò a dire che giunte s
Roma le oneste proposte della Signoria, egli rispose, senzi
dubbio air ambasciatore colà rimasto. Dante, esser tempc
di Unirla, e che non cercava la pacificazione de* Biaocbi
co* Neri, ma il trionfo di questi su quelli: non di addiriS'
zare^ ma di percuotere e fiaccare. Avverti che qui, come
altrove (cfr. I, xxi, 14, 41; e tutto il xxvi) Dino anticipa
sugli avvenimenti. La risposta del Papa, tenuto conto della
distanza tra Firenze e Roma, fu di molti giorni posteriore
agli avvenimenti de* quali subito, nel seguente paragrafo,
riprende il filo.
17. Falso ambasciatore. Certamente il Minerbetti: cfr
not. 2.
18. Aon aveano ecc. Cioè, i Neri; perchè a Neri vuoisi
sottintendere dopo palesò.
19. Simone Gherardini, Cfr. I, xxi, dove è da corregge-
re, anche in questa mia edizione, la lezione volgata: Si'
mone Gherardi^ conformandola al passo presente e a un al-
tro pure del II libro (xxvi).
20. Li Corte. Cfr. I, xxiii, 5.
21. Io non voglio ecc. Vale a dire: e Io sono con voi,
Neri, e sto a*patti, purché operiate virilmente, e presto vi
disfacciate de' vostri potenti avversarli; a che vi ho dato
modo io stesso, prestandovi la gran potenzia di Carlo (li,
li): che se non riusciste o andaste per le lunghe, a me non
mette conto inimicarmi i Guelfi Bianchi, che infine sono
ancora i signori di Firenze ».
— :t63 —
nelle ». 1 Guelfi neri sopra ciò si consigliarono.'
sliuiarono per queste parole che gli ambasciadori fus-
sero d'accordo col Papa, dicendo: « Se sono d'ac-
cordo, noi siamo vacanti ». Pensarono di slare a ve-
dere che consiglio i Priori prendessono, dicendo: « Se
92. Sopra ciò. e Sopra l'ambasciata e il molto >.
23. Siimarono ecc. A sentir Bonifacio parlare in quel
mollo al Oheranliiii, sospettarono die )e parole ila esso
mandate ai Fiorentini, e ad essi Neri ridette dal Minerliet-
ti . non fossero già, come pur troppo erano, lusinghevoli e
finte, ma che pM ambasciatori, specialmente il Corazza e
r Alighieri, fossero riusciti nell'intento di rompere la lega
fra il Pontefice e Parte Kera.
24. Noi siamo vacanti. • Noi restiamo a mani ruote,
delusi, perdiamo il frutto delle nostre fatiche >. Dal senso
ellmolofrico di rtwante (vuoto) passa ad on figurato.
25. Dicendo: Se ecc. Queslo pare fosse il ragionamento
che dei Neri riferisce qui Dino. Rammentiamoci ch'essi
partivano dal supposto che gli ambasciatori fiuterò d'ac-
cordo col Papa, cioè fossero riusciti ecc. (cfr. not. 93). Giù
posto, essi dicevano: • La risposta che sta per dare la Si-
finorin è, senza dubbio, concerlitla con lui: se questa 6 un
no, cioè se la Signoria non si sottomette, al Ponlelìce. al-
legando che noi Neri e' infin^iiamo e cerchiamo non la pace
ma \;i vendetta, Bonifazio si serve di questa risposta o per
ritirare il mandato a Carlo di Valoìs. o, pestio, per taa-
tarftllelo. imponendogli (che per Carlo, una volta cuntrnlo
il Papa, era la stessa) di dare addosso a'Neri e protejigere
i Bianchi; e allora noi siam morii, cioè siamo periluti, e
la meditata vendetta su' Bianchi si converte nella nostra
rovina. Se invece la Signoria, sempre d'accordo col Pon-
tellce. piglia il si, cioÉ il partito di sottomettersi alia sua
votuntà. Bonifazio sì serve di tale risposta per mutare il
£|jkiid&to a Carlo in questo senso, cioè che cerchi vera-
! e lealmente la pacitìcazlone, e allora la vendetta ci
:; tn cotesto caso, precipitiamo gli eventi, e prima che
i la riiposta del PoDUQoe , pialiamo noi i ferri , e dia-
— 364 —
prendooo il no, noi siàn morti: se pigliano il sì, pi
gliamo noi i ferri , sì che da loro abbiamo quello che
avere se ne può ». E così feciono. Incontenente ch(
udirono che al Papa per li rettori s'ubbidia, subite
s*armorono, e misonsi a offendere la città col tuoa
e* ferri , a consumare e struggere la città. I Prior
scrissono al Papa segretamente: ma tutto seppe h
parte Nera; però che quelli che giurarono credenza
non la tennono.
La parte Nera avea due priori, segreti di fuori
mo addosso a' nostri avversarii ». Ora il supposto de* Ner
par troppo non avea fondamento, e Bonifazio (efr. not 16
era sempre e rimase con loro: ma se le intenzioni sue fos*
sere state più oneste, e eh* egli avesse acconsentito alh
proposta di sostituire il Montefiore al Valese ecc., vedes
quanto danno portava il tradimento del Minerbetti , che dett<
modo ai Neri di prepararsi agli avvenimenti.
26. Incontenente ecc. Anche qui anticipa nella narra-
zione: Tarmarsi e il misfare dei Neri non comincia pru*
priamente che dal cap. xv.
27. Rettori. Qui, ma è, crediamo. Tunica volta, la pa-
rola rettori sta per e Signoria »: che di solito ha tutt* altre
senso. Cfr. I, xu, 6; xiii, 18; xix, 12.
28. Però che quelli ecc. Queste parole pare accennine
che non fu solo il falso ambasciadore a tradire il segreto
forse, alcuno de' sei legisti (cfr. sopra).
29. La Parte Nera ecc. Il seguente accenno alla costi-
tuzione di Parte Nera si lega con le cose precedenti, per-
chè giova a far intendere come le riuscisse procurarsi no-
tizie, corrompere cittadini ecc., specialmente servendosi dì
gente come questo Noffo, dato qui da Dino come un tipo dì
partigiano Nero.
30. Due priori, € Due capi, due ufficiali », presa la pa-
rola in senso del tutto generico e comune. Segreti di fuori,
cioò che non dovevano esser conosciuti altro che da' Neri
medesimi.
— 365 —
durava il loro uGcio sei mesi; de' quali ano era
bffo Guidi, iniquo popolano, crudelp, perchè pes-
namenle aoperava per la sua citlà, e avea in uso
I le cose, facea in segreto, biasimava, e in palese
i biasimava i fallori : il perchè era tenuto di buona
speranza, e di mal fare traeva suslaoza.
' 31. B durava ecc. Cioó, die ogni mese si ri elegge vano.
^. Notfo Gvidi. Il medesimu clie altrove (I, xiv) ha
liitnato FìolTo (li Gaido Boiiafeiii: qui, e nomìnanJolo al-
tre, fa casato del patronìmico latino; di cbe troveremo
^1 esempli, oltre quello cbe giti notammo in [, ii, 15,
ifre accennammo, da consnltarBÌ in proposito, il NanDUCoi
1 Uuratori.
:. Avea in uso che ecc. < Soleva pnbblicamente dir
jilfl di cose cii'egli stesso segrelamente avea fatte, e di
loro che le facevano >. Difticile dunque il guardarsi da
ntni. Tuttociò ba stretta relazione con la qualità che se-
gretamente rivestiva Noflo, di Priore de' Neri: come Nero,
partecipava alle loro macchinazioni; poi intingendosi, di
queste medesime pronunciava severi biasimi e rimproveri.
34. Buona temperanza. « Buona tempera, buona ed o-
neita naturu >.
■ 35. Sustanza. « Guadagno >: pare, cioè, cbe coteste vili
^^^Milie gli fossero da* suoi Neri ben pagate; o forse, che
^^B^eulasse felicemente sulla dabbenaggine de' Bianchi. A ogni
^^^Ms, la bella ed aflicaoe frase suona: < e di queste bas-
^^^■to campava
— 366 —
Non ad altro fine se non di Inostrare , come dal pre-
sente passo non abbiano potuto gP illustratori della vita e
dei tempi di Dante trarre perfetta e compiuta la narrazione
dei fatti a' quali Dino accennava, mi si permetta che da' li-
bri meritamente letti e pregiati del Balbo, del Fraticelli,
deirilillebraod, e da due recenti monografie tedesche,
io stacchi la pagina che ai medesimi fatti si riferisce.
G. Balbo, Vita di Dante; I, xn: In questo, ritornarono,
restando Dante in Roma, i due imbasciatori collegbi di lui,
mandali indietro dal Papa. L'uno, Maso Minerbctli, nome
senza volontà propria; l'altro il Corazza, tanto Guelfo ,~ die
, appena credea potesse rimaner volontà in nessuno, narrandogli
le parole del Papa. Quali fossero tali parole non è detto (a);
ma fattane giurar credenza, cioè segreto, ai due ambascia-
dori, e adunato un consiglio di sei legisti, fu preso il partito
d'obbedire (6), e scrivere subito al Papa: — esser eglino a
sua volontà, e che per addrizzarli ei mandasse messer Gen-
tile da Monlefiore cardinale. — - « Uno falso ambasciadore pa-
» leso la imbasciata; Simone Gherardini havea loro scrìtto da
» Corte, che il Papa gli avea detto: Io non voglio perdere
» gli huomini per le femminelle. I Guelfi Neri sopra ciò si
» consigliarono, e stimarono, per queste parole, che gli im-
» basciadori fossero d' accordo col Papa , dicendo : 5' ei sono
(a) Anzi è; e com'io ho osservato nella nota 2, Dino ha già ripor-
tate distesamente nel cap. iv di questo Libro le parole del Papa ai tre
ambasciatori: t Perchè siete voi cosi ostinati? Umiliatevi a me. Ciò vi
> dico in verità eh' io non ho altra intenzione che di vostra pace. Tor-
> nate indietro due di voi; e abbiano la mia benedizione, se procurano
> che sia ubidita la mia voluntà ».
(b) Vcdesi che il Balbo qui salta V indugiare, il consigliare ecc.
— 367 —
[' accordo, noi siamo vacanti. E (e) inconlanenle che in-
Llesero che al Pnpa per gli reltorì si ubbidiva, subito s'ar-
larono, e messonsi a offeDdere la ciltà col fuoco e' ferri,
i È coD-sumare e struggere la citl.^ ». È chiaro da tulio ciò,
die gli aiubasciadori , e cosi probabìlmcnle Dame, erano per
Tobbedienza al Papa; e che questa, secondo l' opinione slessa
dej Neri, sarebbe stata lor perdizione, o almeno salvameolo
de' Itjaachi. Ma non era più («rapo. 1 Neri sciolsero la qui-
stìone colla violenza. « I Priori scrissero al Papa segretamente,
D ma lullo seppe la parte Nera; perocché quelli che giura-
li rono credenza, non la tennono. La parte Nera havea due
» Priori segreti di fuori » (cioè {(/) crauo eletti di fuori, ma
staì-3D0 dentro a tradire). « Uno era Noffo Guidi.... e avea
» in uso, che le cose faceva in segreto, biasimava, e in
» p.ilese ne biasimava i fattori; il perchè era tenuto di buooa
» temperanza e dì mal fare traeva sustanza ».
P. Fraticelli , Stor-ia ik-Ua Vita di Datile Alighieri , cap.
v: In questo tempo giunsero in Firenze i due ambasciatori,
tornati addietro da Roma; e i priori, intese le parole del papa,
mandarono (e) segretamente nuove isiiiidoni a Dante, secondo
le qu.ili significasse a Bonifazio, ch'egli erano pronti ad ub-
bidire, ma solo il pregavano a voler loro mandare per rifor-
(c) Qui (MÌ r oiaìssianc è anche più grave. Cbè sebJKne Dino sìa
Balbo liberamente irascrillo, parrà troppa libertà che, senza nean-
Doure con puntoliai la lacuna, sia saltato lutto rjucl difllcilc passo
riferisce i diil^iì e i proposili de' ^m , da me dicliiarato con la
\iì Hi pare che la glassa sia pili oscura dei lesto, il quale puree
amo, solo che sia punteggialo a dovere (cfr. la mìa nota 30).
Anche il Fraiìcdli, come il Balbo, passa sopra all'indugio, alla
de'IegìRt inibito dopo accennala inosaliamunle), al raduFiaru
119 i CootiglI ecc.
— 368 —
matore il cardinal Gentile da Montefiore. E i Neri , che avean
segreta intelligenza con alcuno de' sei priori , che in qoest
tempo si erano contro alle leggi voluti aggiungere a{^ altri (f]
avendo saputa la cosa, e temendo che (g) la venata del cai
dinaie, quando pure il papa l'avesse consentita, noiifoflsepc
guastare i loro disegni, presero le armi, e comindaroiio a
offendere i loro awersarii.
K. Hillebrand, Dino Convpagni, Étude hittorique i
liUéraire sur V epoque de Dante, III, u, p. 132. Cesi àc
moment que les ambassadeurs revinrent de la cour de Rome
où ils avaient laissé leurs coUègues Dante et Andrea Gherai
dìni [h]. Ils rcndirent compie de Tinsuccès de lear missioi
Il en résiiltait clairement qua si Ton ne voulait se livrer vo
loutairemeiit à ses ennemis, il ne restai t plus qu' à faire 1
jKiix avee le Pape, qui y seroblait assez dispose. « Je ne n
(f) Cotest* afTennazione non ha alcun fondamento, l sei legisti, de' qua
intende qui il Fralicelli, furono semplicemente chiamati da Dino (rat
nai) per aTcre da essi un parere legale sulla convenienza di non deA
rirc la cosa ai Consigli. E il non avere inteso quel punto vizia tutt
queste interpretazioni. La Signoria non si aggiunse nessuno: tentò (m
non vi riuscì, secondo che si trarrehbc dal Vannucci, / primi Ump
della lib'Ttà fiorentina, p. 270, e dall' Hillebrand , Dino Compagn
ecc. , p. 1 3i ) di far eleggere , a mano , un Priorato misto ; il che Dim
narra nel capitolo seguente (xii): e (ìnalmentc 1*8 novembre cede i
posto (Dino, li, XIX ; dov'è da correggere, su documenti originali, l
data ) ai nuovi Priori , Neri.
(g) Qui pure il Fraticelli taglia corto, poco meno che il Balbo
sulle incertezze e la politica de' Neri.
Qi) Perchè questo Andrea Gherardini , ricordato da Dino in tntt'altr
proposilo (I, XXV, XXVI) sia dall' Hillebrand aggiunto airamhascerì
fiorentina, non so vedere. Forse T Hillebrand sbagUò fra Andrea e S
mone Gherardini, che era invero a Corte, ma come agente de'Ner
Cfr. qui la mia nota 19.
— m'A —
idoDni'r Ics iioinines pour des fetumes ■> , avait-
U (til, el les Neri virenl bìen que là élait le iluoger pour eux.
« S'ils tombent d'accord avec le Pape, nous sommes per-
dus o, disaìeDt-ils. Les Bianchi ne voulurent poinl les cora-
pmidre ((), Dino seul, inalgré le peu des disposilions favora-
bles (le ses collègues, parla dans le sens d' une reconciliation
avec le Pape, et finit par réussir à rallier le membres dii
Goiivernement. a Oi-s que (k) le Neri apprirent que les Piieurs
se soumellaienl au Pape, ils s'amièrent et se préfarèrent à
allaquer b ville par le feu el le fer, el ii la dévasler el la
(Ié4ruire. Les Piieurs écrivìrent cependant secrèlemenl au Pape;
mais le parli Nero siit toul, parce que ccnx qui juraìenl le
secret ne le gardèrenl p;is. »
■P l'er ullinio confi'oiUo df I c.ipilobi della Cronica a nar-
razioni riesimte da quello, ecco i passi rorrispundnili di
due libri tedeschi su Dante, dove la piccola dilTerunza.
<i) tlii che si ilediiue cutcììlo, n h cose clic seguono, «opra le ili-
apo«noui poco lavoreToli de'collegbì di Dino, e l'esser egli stalo il
Mio che sostenesse In concilla):Joae col Papa, ecc.? Temo, non da al-
Iro, che dalla caliita punieggiatura della lezione volgata (cfr. noia 9),
e dall'afere anche il dolio professore urtalo nella in ter pe trazione dei
eoit'glian: — U quale, dei resto, sarelibe indiscrete «a cliieder« a
uno straniero, ijuando i postillatori ilaliani della Cmiira annotano a
quella parola: € Non lasciai die si pri>ndesse consiglio a rolonlì ile'niiei
compagni, mn io Tiiì che proposi e consigliai ■. Curiosa Ggura, e nnova
alli storia ili Firen»?, questo Priore prepolente, che inette in sacco ìl
Gonbionier'- e gli altri eingtie Priori, per fare e disfar egli a suo modo !
Ha lasciando di ciù, il vero è che a volere spiegare an autore conio
Dino, bisogna bene avvertire, innanzi di dare alle parole il comune e
odierno signìGcaio, so ne ricevano alcun sUro meranumte storico.
ih} Inutile ripetere qui 1' osscrvaiionc Tatta sul Balbo in e sul fm-
. ikdU '(j..
il
f'tsfso: «fi- />i rn -.«Ji tra ?-:jRrpa
^/^, mèi V^^n^ Mi, .S^;-»-*: Bi
LUOGHI DEL CONVIVIO
CHE ILLUSTBANO IL POEMA DI DANTE
Pia di Irenranni fa, nella prima stampa del mio
mento, notavo l'utilità del raffrontare Dante con Dante
stesso , offrendone qualche saggio. Nella ristampa lo feci
con maggiore larghezza, quanto concedevano gli altri non
lievi assunti dell' umile mio lavoro, e segnatamenli; la cura
doir accennare alle molte fonti di bìblica e di pagana poe-
sia, di teologica e rdosofica tradizione, alle quali attinse
il Poeta , fonti da comentatori e dotti e pi! non ancora
siiOìcienteniente indicate. A illustrare Dante con Dante at-
tende di proposito il prof. Giuliani : ma non potrebtte senza
prolissità minuziosa e senza ripetizioni frequenti scendere
a que' riscontri d' immagini e di locuzioni ciie pur danno
a conoscere l' intima mente dello scrittore ; e chi non le
osservi, non pufi dire di intenderlo rettamente. Un dizio-
nario dantesco, più compiuto che quello del sig. Blanc, e
condotto con più alti ìntendimenli di scienza e con più
delicato senso del bello, a ciò gioverebbe: ma debbono a
ciò provvedere principalmente col vivo loro insegnamento i
maestri, e a tale esercizio di paragoni fecondi venirsi edu-
rando. Apparrebhe di qui come Dante, il quale nelle opinioni
politiche non si può dire che non abbia mai variato, nelle
c:u;cnziali dottrine !;ia sempre costante a se slesso : come
— 372 —
nella ricchezza del dire osservi la proprietà de' vocaboli;
come sappia essere originale nelPatto del fedelmente ri-
verire r autorità de' maggiori , anzi sia davvero orìgioale
per questo ; come V erudizione non gli sia materia ammoo.
tata che soffochi il fuoco della fantasia , ma sottoposta io
maniera che lo ecciti e lo alimenti. Della ispirazione par
che abbiano un falso concetto i più de' verseggianti mo-
derni ; che si fìngono nemica a lei la scienza , cosi come
la meditazione e la lima; intendono volare nel vuoto , e
reggersi sempre sulle ale, sdegnando l'uso dèi piedi, co-
me se qualcosa di simile non fornisse la natura agli stessi
volanti. Cosi certi pittori e scultori si tengono genii. tanto
più vergini quanto più sono ignoranti ; certe anime tenere
tanto più amabili quanto più passionatamente delirano;
certi politicanti tanto più benemeriti della libertà quanto
più vendicano a sé e ad altri licenza di rompersi il collo
e le gambe. L' esempio di Dante , insegnandoci a non di-
videre l'arte dalla scienza, c'insegna pure a non fare dello
stile poetico e del prosastico due linguaggi differenti , anzi
lingue tanto diverse che la poesia di certuni a chi pure
intende la prosa italiana par come latino. Raffrontando il
Convivio al Poema, rincontransi in questo locuzioni che a
non pochi poetanti parrebbero umili troppo , e non poche
degnissime della poesia nella semplice prosa.
Dirò quel clic ha olTerto occasione al tenue lavoro di
cui do saggio , e con che intendimento potrebbesi legger-
lo, e come coglierne qualche frutto. Spogliando il Con-
vivio per r Accademia della Crusca, ho notati alcuni raf-
fronti tra quel libro e il Poema : ma , perchè sminuzzare
ciascun passo secondo l'ordine dell'alfabeto, non fornirebbe
soggetto a lettura e a studio continuato , io qui , sotto una
delle parole che cadono nel passo citato, vengo raccogliendo
in nota que' raffronti che concernono altre locuzioni del
passo medeshno; raffronti che accennano anco alle idee;
— ;i7:ì —
e sopra i quali può non solamente il maestro volg
l'attenzione de' giovani, ma può lo sladioso meditare da
sé. Nel Convivio alcuni passi veggonsi felicemente corretti
dagli editori milanesi, dal Pederzini, dal prof. Wilte, e dal
Fraticelli; altri diieggono d'e-ssere sanali con collazione
d" altri codici o degli scrittori da Dante citati ; altri schia-
risconsi punteggiando altrimenti. L'' ortografìa molto im-
porta alPestetica , nonché alla grammatica ; come e a) senso
e al sentimento delle cose che dicansi e scrivonsi importa
l'accento. Gli studiosi, ponendo mente alle idee molte che
possono essere da un vocabolo significate, e agli svariati
conpogni che un vocabolo con altri comporta, e alla finezza
dell'idea e alle pieghe del sentimento che possono essere
da que' congegni delineale o- adombrate , riconosceranno
quanto sia preziosa ricchezza insieme e forte peso l'eredità
della lingua; e, considerando come in quella varietà ma-
raviglinsa pur domini, piiì mirabile ancora, un'arcana
unità , s* avvedranno come sta opera di scienza insieme e
di virtù il ministero della parola ne' modi debiti esercitato.
Lalino ^ri^ , Che cosa. Dante , Inf. 3. Ben puoi sa-
omai . chr'l mo dir swma. Convivio 191. {'Eilis.
Uioell''. Lo loco nel ipiale dico, esso ragionare si è la
le : ma , per dire che sia la mente, non si prende di ciò più
idim^nto che prima. E però è da vedere che questa mente
iamenie significa (1). — Inf. 7. Questa forluna di che in
(Il '■'■'• 'Uff. nei wnso die il Pelmrcn Caiiz. Koit nvilo ritt
giammai dai yigTO lonno Levi lattila, prrehiamar rh' uiim faccia.
e dH Par. 32. Jfon niuor* oeckio prr cantare osanna. — Preode-
■-• inUodlnsntC, CopliiT^ il »'■•'> Pmv.'iS II rintcc simno Yrniva
— :ni —
mi tocclie (Me è. che i beif del mondo ha d tra bnnch
Coìiv. 193. a mezzo: Unde si puote ornai vedere che è menti
Il di che, il mezzo , id de quo ; la qaal forma didiiai
r origine di Onde in senso di per. Data. Conv. 200 e 201
Tornando adunque al proposito, dico che nostro intelletto, pc
difetto della virtù della quale trae quello eh* el vede (che
virtù organica, cioè la fantasia), non puote a certe cose salì
re : però che la fantasia noi puote aiutare, e die non ha lo e
che; siccome sono le sustanze partite da materia; delle qua:
(se alcuna considerazione di quelle avere potemo) inteodef
non le potemo , né comprendere perfettamente (1). — Air ai
ticolo U può notarsi che la lingua concede potorio premetter
a* verbi e a' nomi , ad avverbi e a particelle : come qui ap
punto il di che.
Quanto che, per Quanto e dicevasi per Quomltunque: Con
vivio 206-209. Ora per due modi si prrade dagli Astrologi : Tuo
è, che del di e della notte fanno ventiquattr* ore , cioè dodi<
si del di . e dodici della notte , quanto che 1 di sia grande
piccolo. E queste ore si fanno picciole e grandi nel di e nell
notte, secondo che'l di cresce e scema ( alcuni codici meno
ìì\aj. E queste ore usa la Chiesa, quando dice Prima, Ter
la. Sesta, e Nona; e chiamansi cosi ore temporali (2).
a me co* suoi ioteadimenti. — Prendere ha qui senso affine a Torre
InL 8. Appena il potea rocchio torre. — Però è da Tederà, ano
nel verso , Par. 2. Questo non è : però è da vedere Dell'altro. — Ptì
piiaaeBte, nel senso e grammaticaìe e filosofico.
( I ) Toraare , fibrato , Par. 7. Ritomo a dichiarare in alcun locc
— HMtro, rumano. Par. I. .Appressando sé al suo desire, Nostro in
tellello si profonda tanto. Che retro la memoria non può ire. — XI
Inf. ^IJl Con tulio eh' eì fosse di rame. Pure ei pareva da! do!o\
trafitto. Boccaccio: El mi y^re. — Partito, da materia Purg. 18. Ogn
forma susianzial che setta È da materia. — ComddenudMM , pensieri
dito considerando, idea considerando acquistata. — Caipraadara, pii
d* intendere.
{t) Preadarei, Intendere. Par. 11. -Francesco e Poverlà per qoesl
amanti Prendi oramai nel mio parlar diflfaso.
— 375 —
Cbed. Inr. 31- Clu-U dia incontro petu/a. Conv. lIOi
nifesto è clted ella è la cagione stata dell'amore di' io
0 ad esso.
CJItcrIco
I l>er il Glossario. Nel S 3 del Manuzzi ) , aoche ìi Laico
edocalo agli sliidii, come solevaoo essere gli aomuii di CUe-
sa. Ci»»'. 305. Une : Non ^ da lasciare . ttMochè il tato à
taccia , che messere lo Imperatore in questa parte non errò
pur nelle parti della difinìzìone. ma eziandio neltnodo di
difinire favvetjnaehè . secondo la fotna che di lui grida .
t^i fosse laico e clierico grande) 11).
Clietai*e
Conv. 177. a mezzo fla scienza divina) cìwtma per-
fetta, pn-dtè perfettamente ne fa U Vero vedere, nel quale
si elicla Vanima rìostra. Par. '28. Come la lor veduU si pro-
fonda Nel vero in che si queta ogni ìniellelto. E 4. Giammai
Don si sazi» Noslru iolelletto se il Ver odo lo illustra Di fuor
dal qual nessun vero si spazia. Posasi io esso.
Chi
Gonr. 201 principio: Dimostrasi (l'anima) negli occhi
tanto manifesta, che conoscer si puì) la tua presente pas-
sione, da bene la mira (9;. — Quest'uso del c/ii h l'iaeiso
Il I Luoiare, col A'.-n e sena, tralasciare parfando o striv*odo. —
TMt», liliro aulomoic.in genere; quasi personilìcaio. — Tacer» /l-
Stiralo, d' autore e di libro. ìat 25. Xicóa Locano ornai. — Qrid^
qua» tiguraio. Par 5. Se mala cupidigia allro ri pida. — Loieo ìa!
•7. - erude, in sen» di lode o di biasimo, bl«iuiio .Idia »^,ii
di CUI H ragiona. Inf. 15. E Mirrali grandi e di gran faiaa.
(2) MftBifèato, Diimttrati mini fatto, aggedifo >
m namej ma ìaiendesi corae atierhio, Manifetlamnu. -
— 376 —
stare da sé , e potersi inchìudere nel costrutto , come pareni
Spiegando l' ellissi intendesi : se alcuno la mira , 9i quis ,
vero , a chi la mira.
OblamAire
Dal § 15 in poi, e dal 30 in poi, néir^. Mcmuzzi,
parecchi paragrafi di Chiamare coir a; nessuno, mi pare, \
Va e coir infinitivo. Conv. 140-141. Poi gli ho chiamai
wìire (jt^Uo clw dire voglio; assegno due ragionL^. (1)
Impon^e nome non a persona ma a cosa. Conv. 14ì
princ. Perocché ancora l*uUiina sentenza della mente, i
lo consentimento, si tenea per qMsto pensiero che la memo
aiutava , chiama lui anima e Valtro spirito ; siccome eh
mare solerne la cittade quelli che la tengono , e non qu
che la combattono ; avvegnaché Vuno e Valtro sia cittcidi
Invocare. Par. 10. Perch'io V ingegno e Varte e Vuso eh
mi, Sì noi direi, die mai s'immaginasse. E Purg. 29. 0 sac
sante vergini , se fami. Freddi e vigilie mai per voi soffeì
Cagion mi sprona eh* io mercè ne chiami. E 7. Rade «
riswge per li rami U umana probitate ; e questo vuole Q
die la dà , perchè da lui si chiami. Conv. 257-258. E, com
dando, chiamo quel signore (Amore, e simbolicamente
Verità) Ch'alia mìa donila negli occhi dimora. Per dfe
di se stessa s' innamora, (Può intendersi che la sapienza ste
dimora in chi Y ama ; ed esso amante , amando in lei se st
so, inquanto partecipa di quel bene; cioè che la dignità d
r uomo rendesi rispettabile al sentimento suo stesso ).
Figurato. D. Conv. 183 princ. Canz. St. 3. Gli atti soc
disella mostra altrui. Vanno chiamando Amor, ciasou
a prova , In quella voce che lo fa sentire (2).
qualùnque impressione e sentimento conseguente. Purg. il. Che ria
pianto son taìUo seguaci Alla passion da che ciascun st spicca , (
men seguon voler ne' più veraci.
(1) Poi per poiché, Purg. 10; Par. 2.
(2) A pi\)va, Inf. 8. Ciascun dentro, a prova si ricorse, —
voce, Par. \0. Più dolci in voce che in vista lucenti.
— 377 —
a nome propi'io di persona o di luogo, la!.
I motitagna.... che si cliiamò liUi. E iìO. Tosto clic
correr mette co', Nonpdìt Btnaco, ma Mincio, si
iama. ti 6. Voi. cittadini, mi cJaamaste Ciacco. Conv.
Un monte m Toscana , che si chiama FuUet'ona. E
t96. Si legae nelle storie d'Ercole, e nello Oviiiìo mag-
i Lucano , e in altri poeti , che , combattendo col
■e cJte si chiamava AnU-o , tutte volte che 'l gigante era
, ed elli ponea lo suo corpo sopra la terra disteso (o
i volontU , 0 per forza il' ErcoleJ, (orsa e vigore in-
mente della terra in lui risorgeva . nella tjìuilc e dalla
! era generatoci). E 196 in Bne: La natura razionale
I mente,
haitotare. Conv. ?35 a mezzo : Aon si dee chiamare vero
ofo colui eh' è amico di sapiensa per 'utilità.
Col Di. lalioo: nomine appellare. Conv, 332 princ. ftico
intelletto per In nobile parte dell'anima noUra, che. di co-
mitne tfiotbalo Mente si pw> chiamare {%.
FigNralo. nel senso che cbi dice lale o Ule l'oggeilo, «'
lo psAn . cioè od scaso die om propaazioae i un giudi-
no. CooT. ^ I mem: E dico, tieeomt U mitri occhi chia-
, do» ^mMeano. la MeOa tatara atrim^nli ehe tia la
t tmiiwimt. daè ywgflo iallMMi tmaiOgrÒ qttata
■ aeeamia rafforrtum. éimerimU dal vera, per in-
m»ekt di tnffo dim tra pattùmala (3).
I !«•, W StW.- ««fa,* bifaM, t„»tea. _
— 378 —
Figurata CooTfr. 184. a mezio : CaiK. sL a. Jb /i f
jfr* occhi per cagioni assai Chiaman la sieUa ialor ieneh
sa. Così quafuTella (b mia canzone } la chiama argoglM
Non considera lei secondo 7 tyro , Ma pur secondo 9
che a lei parta (1).
Gridare. Porg. 22. Là dove tu chiame(o Virgilio), Omeci
quasi aWumana naiura : Per che non reggi iu, o saera fa
Dell oro. l'appeiiio de niariali? ijottf. 214 fin. Lascisi sU
quanto contro esse (hecheoe Salomone e suo padre g
da, quanio conira esse Seneca , quanio Orazio, quanto G
renale, e, brievemerUe. quanto ogni scrittore, ogni poei
e quafUo la verace Scrittura divina chiama conSro a qi
ste false meretrici (riecbeae' (2^.
Par. 21. Quinci vien F aUegrezza ond* io fiammeggi
Perch'alia visto mia , quant'elia e chiara , La chiarUò de
fiamma pareggio. Coqt. 212-213. Di cpj sensibile esem\
potemo avere dei soie. Xài vedemo, la luce del sale,
quale è una fonte derivala, diversamente dalle €wpo§a
sere ricevuta ; siccome dice Alberto in quello libro che
dello intelletto , che eerti corpi , per molta ckiardò di di
fono avere in sé mista , tosto che il sole gli vede , divi
tafui tanto luminosi , che , per multipUcamento di luce
{ìì Stella, M soie. mterfrHmo mtm mdTlsL ±
chi saot pia cW h strib. — Csmiàmmn. ipnio. La
dbtono, fl tnttaco, cauààen k urie o tik tsfeas li cMi. —
i», il rebjwae a : camt Pvf. ti. ii riJ' in Cà -mm di migHor j
3''«Ai« 5a»iiÌi) rarii.tsùj. ,igurmio Q^toiUti , per ri« » di fuor
mo^U «nsiuc ^Lo sgtno drih stnii oa pàcB» i^ mmapm
«■K qwle dàt sofn k «cpottore 9 ^e^foao ; ■>, <pMa» a
SuìUaia, Pìr. tL U Atuc^ « U p^rùturs *m£iekA, E 32. ^r
Serial
fi. appena discernibile è io loro aspetto, e rmdofio agii
altri di sé grande splendoro; siccome è l'oro o alcuna pie-
tra (1).
n piimo esempio nel vocabolario dell'ab. Manuzzi è di Dan-
te: Luculenta e chiara gioia, il'aiiiaia beata. Oiiesl'allro è
più vivo e bello, e usato Del proprio; e però ^ova a meglio
discernere la differenza ira Lucetìtc e chiaro : giaccbè non ogni
luce è cliìara luce. Conv. 184. Canz. st. 5. Tu sai che 'l del
setnpr' è lucente e cìmro , E, /pianto in sé , non si («rio
giammai (2).
Vedere le cose chiare, invece di chiaramente: aUribuila
(I) 8eulblle,(]ui, non, dito a sanlire. ma pomìInIr a p;5cre ppr-
cepilo l'o' Ji'iisi. Pur. i^. iVcf iiioii(i<i leniibi'': — Esempio, non nel
KCnw ili f^iiipliiri' 0 Jiioclcllo, ina dì ogjjL'tIo chi', per via ili soiniglianui,
dicbiarì o conrcrmi. Aectc cscìii[iiu , in senso anche più laio. semplice mo-
do, e {kcrA più nolabìle. — Poi esrnipio con due Di , porianli diverso si);ui-
flcaio. -Miro è l'esempio dell' oggetto csemplìJìcanle, altro è l'esempio ilel-
Toggello chi? per vìa d'esempio dichiarasi. —Ponte, figuralo, FiinU dì luce.
Un inno : Foiis /umiliti (Rio}. — Kioevore, della luce, Par. 3. Com'aajua
rtetpe Raggio di soie, permanendo unita. E Ì9. £a somma ture che
tulla la raia , Per tanti modi in essa si reeepe , Quanti son gli splen-
dori a etti s' appaia.... D'amar la doleeiia ùiveriamenle in eiii
ferite Uff. — Di&fhiio, sostanlivo.lrasparcnra. — Per, coll'inOnìlivo
e altre parolu Trapposte. — Mlato, l'ar. ì. in senso, non uguale roa so-
BDgliantr.dcllodd lume degli astri, £a i'i>/ù miila. per tv corpo, luce.
dmta leliiia per pui>illa riea. — Diversamente, de' gradì d'una
Ibiu, vedi il citato del Par. W. — Holtiplioamento , Par. 10. Quando
Lo raggio -IMa Grazia HoìIipI irato , in le tanto ntplende. —
Beadere, Pur^-. U. E, come npaccliùi , l' vno all' allm nsnàe. Par. U.
B iì come earbon elis fiamma rtnik. Chi! . per vivo iplendor, qveUo
tovrn-hla Tanto cU la parocnìa si difenile. E figuralo, Purg. 28.,
Ma Ince rende il salino delectasli.
(3) Tnrbsre, nel proprio senso di intorbidare. Par. 19. .'
MH è. tt: non vmn dal irreno Ch» non ai turba inai.
re; poi, più oltre, dubita; poi
cedendo , lo vi»o , dùgiunto , nul
Figurato, in senso ìDtellettua
perocché nelle bontadi della rului
etra delta divina, vifiu che naturi
quelle per via ipirituale si unisce
quatta quelle più appaiono perfe
fallo , secondoché la conoscenza
pedita. { Non chiara , e da megli
parimento è fatto). E questo un^
amore (2).
(I) BagtoBtn, che fanno i pensie
mi ragiona. — CMwUadflre, tot pa
co) (|iuirto caso , non np| senso del Pui
siero , e ne' proprìi pensieri, lai IO. tnt
riperuando À quel parlar , fJu mi pi
sì tmarrito? — Di fkiori, conlrappo
unuDo, Par. 9. S'abbuia L'oiiUira di
E Poi^. 15. Come f animo mio torn
fuor di Ivi. «re. E 18. Se amore i di /
vista, qui notabile perchè accanto a gtia
preposto. — Pnoeien, dell'occhio, laC
mio sguardo il curro, l'idiru un'alti
passeggiando W andava io cogli occhi
cose TedQte,noii della Intellettuale ferii
anobio, quasi superìitiTO di quello. -
a ulUrius; masiimamenle olire, all'ul
Assoluto. Catlolica, nelle sue pratiche. Codv, 208. E que-"
ore usa la Chiesa, quanilo dice Prima, Terza.... £369.
Par. 6. Quando il dente longobardo morse La Santa Chie-
da. Conv. 136. Secondo che la Santa Chiesa ruole , che non
può dire menzogna.
Coir aggiunto di Santa, senza articolo. Par, 4. E Santa
Chiesa con aspetto umano Gabriele e Michel vi rappresenta.
K Ira l'articolo e raggiunto .iltre voci. Conv. 136. La tua
sposa e segretaria Santa Chiesa (della quale dice Salomone:
• Chi è questa che ascende dal diserto , piena di quelle cose
che duellano {iìélicììs atQuens) , appoggiata sopra l'amico
suo?») (I).
^^B olili*dcx-e
escludere gli occhi , per non vedere. Modo enfatico. Goov.
397 (ine : Al mio gìudicio , così come chi uno valente uomo
infama . ti degno d'esse rfuggito dalla gente, e non ascoltato :
cosi l'uomo vile, disceso degli buoni maggiori, è degno d'es-
sere da tutti scacciato ; e deesi l' uomo chiudere gli occhi
Ivra . Ed in una luslantia eiitt e t' umana. — Salone, non la
ngioQi^ Jeir esscrv , ma il modo di rpodere a sé ragione dell' enUi, —
Dal plurale Boutadi è resa ragione , e falla risaltare la Mleia , dell' altro
Par. 31. .41/1 ornali di liille oniMladi. — Tralre, in sema di eonst-
guire. — Unini, d'.iiiima con anima, o con le perfraoni amabili d'altra
aaitua. — Conaacensa, rnlelIpKiialr e morale, de' pregi dell'anima; co-
BoseeniaasuiadaBllraanima.adinéreniada! Purg. 28. E Io spirito mio.
die giù enlonto Tempo era stato che olla sua pretensa Hon tra di
Stupor. Iremando, affranto. Sema degli occhi atter. piii. eonoian-
sa. Per occuila virtù che da lei mmie, d'anliro amor sentì la gran
{ì) l'ar. II. Perà eft-i anitatte vèr lo nio ditello la t/ìota di Colui
» ad allf grida OÌsjjusò lei nel sangwj bciivdeilu.
Tì^rm flVfOle kì . ,
tmpmm t §fb'amdt, Cm^^ SI a
pm$$éitmi 9mm$ frwffrit éMwmmm wmmmm , éMi qrnaH fm n
U FiUmi(è BfUm sma BMmiem ; emé frmsim , zei
\ mtiiim, mm0rt,t €er§&fmmzéi mdim di fai;
cài ■«■ t€fmm Iff irmtMm'M . te , ftr frmmàe ritta , éem
3).
I, ad pai ^Ak» fi»f<»: tmm m Hr^ ^%s
p«nMa. m «!&!« «Ae iS'bt SI Tieifem édk r^tt. E 12. L
ÌMBMà 4k CnHi ^ M^m'xs^n . — flato , ctWxìkmit paipoift». pia
KMÉ^ flBMMift ^'^fWUÈtM lft***S» -— BA^ifl^lA S/feS^KÈA lAtl^lAfSA A
f.^^uc X*^**^ ^-'"■*^^"* •■"-■r^^- .^i^^^^t^. «s^^^^v, a^v&^H^iv ■■
lilU.
<?t €k«an. P«^ 9L /? MbMr, «vaf réfit. mta; £ fa
L ~ TMm, fi ' éiaà,UL f.; e Pat^ «L £#
a Zsfi»; JKMrkoofìéia , a Mr«^«; J«»rra Hrfiyiia f
{la è ifiiLiMiiii citt rilefM 4i nT«eBa. éi f)fn9»ri. —
JUrrn /^fKTia, ii£ fX Ai éti»r fmetSrm. ~
^f. l mfta* fh€ dimuiri 3d im parimrt
t, ^ ì*
— 383 —
Obi uso
Del fiore. laf. 2. Quale i fioretti , dal notturno gelo Chi-
nati e chiusi, poi che 7 sol li imbianca , Si drizzane tutti
aperti, in loro stelo. Par. 21. L'affetto che dimostri — Cosi
ha dilatata mia fidanza , Come il sol fa la rosa , quando
aperta Tanto divien quanVella ha di possanza. Conv. 385
princ. Appresso la propria perfezione , la quale s^ acquista
nella gioventute, conviene venire quella ehe alluma non pur
sé, ma gli altri; e conriensi aprire Puomo, quasi come una
rosa che più chiusa stare non può , e V odore cK è dentro
generato , spandere (2).
/^ «:>e*^^*.» <r»^ ^-« V>
^ÌL^^ ♦• / '♦ ^ ^^ /i^'^*
i'f^
Ch'io veggio e noto in tutti gli ardor 'vostri. Così ha dilatata mia
fidanza Come il sol fa la rosa. — Dentro, Inf. 33. fo non piangeva:
sì dentro impietrai, — Yeidre , flgura simile Purg. 6* Molti han giu-
stizia in cuor ; ma tardi scocca, Per non venir senza consiglio al-
l'arco : Ma il popol tuo l' ha in tommo della bocca.
(2) PerfeidoBei Par. 13. Tutta la perfezion quivi s'acquista. —
CoiiT8iiirey coli* infinitivo, in amico, Purg. 17. Esser conviene Amor
sementa in voi d'ogni virtute E d'ogni operazion che merla pene. —
AlloBUure. Par. 20. Colui che tutto il mondo aUuma. — Odorei Par.
23. j^tvt è la rosa in che 'l Verbo divino Carne si fece ; quivi son
li gigli Al cui odor si prese il buon cammino.
LA ROTTA
DI
RONCISVALLE
NELLA LETTERATURA CAVALLERESCA ITALIANA
Allorché Dante, volte le spalle ai peccatori dell'
tava bolgia, muove il passo verso Torlo della nona, s'<
dal fragore di un corno rintronare gli orecchi. Dì q
corno vuol egli rappresentare al vivo, quanto più gli
possibile, lo strepito inusitato; e per ciò fare, non e
tento di averlo detto tale
.... ch'avrebbe ogni tuon fatto fioco,
(e.'' XXXI, 13), soggiunge:
Dopo la dolorosa rotta, quando
Carlo Magno perde la santa gesta, (t)
Non sonò sì terribilmente Orlando.
(1) Queslo verso da qualche secolo in qua ha la disgrazia di esi
male inlerprctato , per colpa di quella parola gesla, e deil*oscyrìU
cui è caduto il fallo, al quale Dante fa qui allusione. I cofflmeiita
moderni, quanii almeno io ne vidi, intendono pcv santa gesla V ìnupi
— 385 —
^■{Ib. v.° 16-18). Cotale paragone sarà certo setìflffsfS^po^^
efficace, per non dire ozioso alTatto, a tutti, o quasi,
del cacciare i Saraceni dalla Spagna. ìié de.sst soliamo cadano in questo
abbaglio, ma allresi i migliori nostri IcssicograQ , la Crusca, il Manui-
li, il Tommaseo, i quali tulli adilucona il luogo daniesco siccome
esempio della voce gesta usala a signillcar« impresa. Al Tommaso {taro
iDllaTia alquanto insolilo 1' uso ivi faltone , pojcbè dice : ■ Le gesta sono
specialmc^nie guerriere o polilictie , grandi e memoi'abili ; per lo più for-
lunale. — Ma Dante \n{. 31 », etc. Il fatto st.i che la parola non ha
qui punto questo sìgnìfìcato, nel quale, quanto Trcquen temente è usala
oggtdU altrettanto rado lo tira nel trecento. La si adoperava iuvece
spessissimo ìn quello di lekiatla. del quale i lessici non lasciano di ad-
durre alcuni esempi, a cui se ne (lolrebbcro aggiungere parecchie ccn-
UnaÌM, traendoli dai romanzi caiallcrrschì. I^d e naturale: che, mentre
nel valore à' impraa questa voce p un pretto latinismo, in quello di
iftiùuia e simigliami è tolta a prestilo dal francese, e praprìamenle dalla
leitcnlDra romaniesca. \a Francia pure essa derivò dal Ialino, e doTcUe
usarsi sniitutto a signincarc le cronache scritte iti Ialino, che appunto so-
levansi nel Medio Evo inlilotai^ Gesta, in qurst' uso la possiamo vedere
in più lunghi dilla Cliatison de Roland, e tra gli altri al verso U14:
Il e
escrii en la gesle Tnijicor,
dove ciascuno riconosce la denominazione Jalina, ;
dal significar cronaca , la parola venne per un rapido e ardilo passaggio
a lignificare ìl complesso degli uomini di cui la cronaca narrava le im-
prfie, ossia la schiatta, la Tamiglia: non qualunque peraltro, ma quella
soltanto che si fosse resa Cimosa per imprese celebrate nei romanei Però,
a lacere d'infiniti altri esempi, un poeta del secolo xtli, l'autore del
Giran de Viane , poteva dire non v' essere che t ni. gcstcs * nella Fran-
cia: del re, di Doon de Naiancc, e di Garin de Honglane. E questo
appunto è il sipilìealo che In parola gesta conserva più dì frequente
anche fra di noi nel trecento e nel quuiirocenlo , e che va poco a
poco allargando. Specialmente mi |iare notevole il vederla usata a de-
signare un'unione d'uomini congiunti da qualche vincolo, che non i>
più b) comune di.-Miendeuu da un medesima capostipite Di qucsl' uso ci
di un esempio la Spagna in rima, là dove, parlando (telb morie di
Turpioo, dice uhu gh angeli ne presero l'aniiua e
k
ìffi
— 386 —
lettori del divino poema dalla metà del cinquecento ai n
stri giorni ; eppure io oso asserire che il poeta non avre
be attempi suoi potuto sceglierne alcuno più acconcio
conseguire il suo intento. Della rotta di Rondsvalle, del
quale ora ben pochi conoscono anco il nome, non e
nel trecento chi non sapesse appieno le vfcende e i ps
ticolari. Orlando era scolpito nella mente d^ ognuni
•
Ne la portaro via tra la gran giesta,
(c.^ xxvi, 26). E un secondo, che fa ancor meglio al nostro caso, tro
ancora nel medesimo poema: Fautore (c.^ xxxii, 2) chiede a Dio
poter raccontare la cruda battaglia
C'a Roncìsvallc fu tra que*duo monti,
Dove mori la franca e santa gesta.
Sanla gesta sono qui chiamati cogli altri baroni i paladini, i quali era
stretti r uno coir altro da fratellanza d' armi, e però formavano quasi i:
sola famiglia. E tale appunto è il valore della voce anche nel passo dan
SCO , dove quindi perde la santa gesta significa perde la santa schie
dei paladini, santa, perchè moriva combattendo i Saractni. Che e
veramente s'abbia a intendere, è facile a dimostrare. Se cogli interpr
moderni per gesta intendiamo impresa, facciamo dire a Dante una c(
al tutto falsa: Carlo secondo tutù i romanzi e la cronaca istessa de
PseudoTurpino, non perde altrimenti l'impresa a Roncisvalle, poict
morti i paladini, egli ne fa tosto acerba vendetta, e sterminati due esi
citi saracini, s'impadronisce di Saragozza e di tutta la Spagna, che
forza viene convertita alia mansueta (cde di Cristo. S'aggiunga che i coi
mentatori antichi, sebbene i più non diano un' interpretazione letten
di questo verso, perche il senso a loro appariva chiarissimo, mostra
aperto di non aver inteso in altro modo. Basti per tutti Jacopo de
Lana, che alla parola santa nota: e imperquello ch'elli combattem
per la fede e colli saracini >. E dello stesso Jacopo si consideri qi
si' altra chiosa al verso 122 del canto xxxii, ov' è nominato Ganelloo
la quale ottimamente conforta tutto quanto sono venuto dicendo : e Qi
sii tu uno d'AIemagna, cioè todesco della casa di Maganza, lo qa<
tradì la gesta dei paladini >
— :i87 —
Doo già quale ce lo rappresentiamo noi in grazia delle
le^adre e fanlasticlie invenzioni del Bojardo e dell'Ario-
sto, ma come l'idealo del perfetto cavaliere, dell'eroe e
del seguace del Cristo. Forse adunque io non farò cosa
inalile e ingraia agli enidìlì, ricercando e studiando le
?arie descrizioni, che di quella battaglia s'incontrano nei
romanzi cavallereschi italiani dei secoli XIV e XV. Siffatto
studio verrà, io spero, a spargere un po' di luce sulla
storia di questo genere di letteratura ; esso mi porgerà oc-
casione di far conoscere docnmenti fin qui sconosciuti , ed
in5Ì«rao di mettere in chiaro attinenze non mai rilevate
tra altri, che pur videro la luce molte e molte volte.
Ln poca notizia che di questa materia si ha general-
mente nell'Italia, non solo dalla maggior parte dei let-
tori, ma non di rado altresì da chi scrive la storia delle
nostre lettere, mi costrìnge a rifarmi dalle origini piti an-
liclie, e a trattenermi qualche poco nella Francia: dove la
rolla di Roncisvalle è tra le poche parti del ciclo di Carlo
Magno, a cui con testimonianze autentiche noi possiamo
assegnare un fondamenln storico. Eginardo ne discorre a
questo modo negli .Annali (ad ann. 778): • Wascone?.
insidiis conlocatis. extrcmnm agmen adoni, totiira exercj-
lum magno tumultu perturhant. Et licei Franci Wasconi-
bus, tam armis qnam animis, praeslare vìderenlur, lamen
et inìqiiilalc locorum, et genere inparis pugnae inferinres
effecti sunl. In hoc certamine plerique aulicorum, quos rex
copiis pracfecerat, interfecti sunt, direpta impedimenta,
et hostis, propler notiliam locorum, statim in diversa di-
lapsus est.. E nella vita di Carlo (cap. IX): « Hispanìam
quam maximo poterai l)elli apparatu adgredilur Karolus
salluque PjTinei superato, omnibus quae adieral opptdis
atque castellis in deditionem acceptis, salvo el incolumi
excrcitu reverliliu'; praeter quod in ipso Pyrinei jugo
li\ascouicam perndiam parumper conligit oxperìri Nam
— 388 —
cum agmiae loDgo, ut loci et aDgastiarum sitas pen
tebat , porrectus iret exercitas , WascoDes , io sammi n
tis vellica positis insidiis,... extremam impedimentor
partem et eos qui novissimi agmiois incedeates, subs
praecedentes tuebantur, desuper incursantes, in subjec
vallem dejiciunt, consertoque cum eis proelio, usque
unum omnes interficiunt , ac , direptis impedimentis , ne
beneficio , quae iam instabat , protecti , summa cum ce]
tate in diversa disperguntur... In quo proelio Eggihar
regiae mensae praepositus, Ànselmus comes Palatii
Hruodlandus, Britannici limitis praefectus, cum aliis e
pluribus interficiuntur. Ncque hoc factum ad prae^
vindicari poterat, quia hostis, re perpetrata, ita dispei
est, ut ne fama quidem remaneret, ubinam gentium qu
potuisset 1.
Dalle nude e scarse parole del biografo di Carlo
descrizioni dei romanzi v'ha certo un abisso; che se
che in queste ultime non è improbabile si contenga d
storico e del tradizionale più che non paia, una p
senza paragone maggiore vi si deve assegnare alPimn
nazione del popolo. Questi sembra essere stato vivami
colpito dalla distruzione di una mano di prodi nelle (
dei Pirenei ; con un' assennatezza , che non sempre si ti
nelle età civili, comprese essere gloriosa una rotta, qua
fino all'ultimo i combattenti si lasciano tagliare a pe
ma non cedono né si arrendono ; però venne mano m
adornando di splendida aureola la memoria di quegli esti
e specialmente del maggiore tra tutti, del paladino
landò. Ma poco a poco il sentimento popolare si ve
corrompendo: non ispontaneamente forse, ma più
opera di cantori, che per acquistarsi favore e doni^
sforzarono di piaggiarlo. Allora la santa gesta più i
cadde se non dopo avere sterminato trecento migl
di saracini; allora alla sconfitta tenne rapida dietro
1 Ma
— 389 —
indetta, e Carlo .Magno, (ornato al di là dei monti,
far macello dei nemici superstiti, conquistarne
città ed i regni, e dare egli slesso, o cagionare la morte
capi loro. Egli è in questa maniera, se io non m'in-
ganno, che dalle tradizioni e dai primi canti in onore dei
caduti si pervenne via via ai poemi giunti fino a noi.
Roncisvalle è argomento alla più antica tra le chan-
sons de gesie risparmiate dal tempo: a quella che oggidì
è conosciuta sotto il titolo di Chanson del Roland. Critici
assennati la reputano composta alla line del XI o ai princi-
pio del secolo XII, prima ancora che i trovatori di Pro-
venza si dolessero in versi della crudeltà delle dame. E
come in ordine di tempo, così questo poema va senz'al-
tro anche in ordine di pregio collocato il primo; che se
troppo s'informano, mi si perdoni il dirlo, dalla boria
nazionale certi giudizi che taluni ne recano, disconoscendo
l'immenso spazio che lo disgiunge dai poemi omerici,
certo è che esso ha comuni coir Iliade non pochi carat-
teri, ed offre campo a huon numero di raffronti, utili e
fecondi per la conoscenza dell'epopea. Pertanto pochissimi
tra i monumenti delle nascenti letterature romanze a me
sembrano a! pari di questo meritevoli dello studio di chi
cerca il hello senza il lumicino dei retori, e ovunque lo
trovi, lo ammira, non riconoscendo in fatto d'arte altro
codice, fuorcliè le leggi eterne della natura e del cuore.
Ma pur troppo anche nel .Medio Evo, come ai dì nostri
- gusti non trovavano posa; questa sola è la differenza'
in quei tempi essi tramiitóvansi, non già per causa
di passeggiere aberrazioni delP intelletto e del sentimento
ma hensì in forza del tramutarsi delle società umane lé
quali dalla barbarie dei secoli di ferro si trascinavano fa-
ticosamente verso la civiltà odierna. Quindi agli ascoltatori
della seconda metà dei secolo XII la Chanson de Roland
pane già cosa troppo selvatica e rozza; i versi riusciva*
— 390 —
aspri, le assonaoze intollerabili, lo stile troppo rotto
coDciso. Allora non tardò a trovarsi chi, togliendo tal
quanto offendeva gli orecchi delicati, rimise a nuovo
poema , ammorbidi i versi , alle assonanze sostituì le ria
rammodernò la lingua, snervò lo stile, duplicò o triplicò!
la lunghezza della composizione , e con sifihtti artifici n
più accetto il poema a' suoi contemporanei. Così la Cte
son de Roland cedette il luogo al Roman de Roncevaox (
Apertaci cosi dinanzi la via, veniamo a considerar
rampolli che da questi tronchi crebbero neir Italia, esai
nando particolarmente e nelle reciproche loro relazioni
1. Il testo del codice marciano GIV. 7. 4.
2. La Spagna in prosa.
3. Le differenti versioni della Spagna in ottava rio
4. Gli ultimi canti del Morgante.
I.
Determinare quando propriamente la Ghanson de E
land cominciasse a divenir nota al di qua delle Alpi,
cosa , non che difDcile , ma nello stato attuale delle nost
notizie al tutto impossìbile. Solo si può affermare, e
(1) Il numero dei versi diflerisce non poco nei varii rifacimenti,
maioscritto di Versailles, posseduto dal Bourdillon, ne novera 8830;
treUanli a nn dipresso se no trovano nel codice marciano CIV. 7. 7;
versione invece pubblicata dal Michel sopra un codice parigino uni
mente alla Ghanson de Roland (Paris, Didot, 1869) ne conta ben 1310
e ne avrebbe più assai se non mancasse il principio, che dovette ess(
supplito col testo di Versailles, assai meno prolisso.
{% Per brevità mi varrò di questi nomi , chiamando sempre Chans
la versione del codice d' Oxford, Roman de Roncevaux i rifacimenti,
specialmente quello pubblieato dal Michel.
pochi poemi dovettero giungere a noi prima di questo;
die niun altro poteva sostenere con esso la gara, e pre-
tendere a uguale nominanza. La Cliaoson de Itoland ap-
Hure, 3 ciii l)en guardi, siccome il centro del ciclo caro-
^fegìo: alla morte inrelice, ma gloriosa, che v'incontra,
^Eleve Orlando sopratutlo quella fama, cl)e mosse I cantori
a fare di lui Peroe di tante imprese; in niun altro canto,
airinfiiori di questo, appat-ivano da principio quei dodici
frslclli d'arme, che sotto il nome di paladini act|uistarono
poi tanta celebrità. Chi conoscesse tutte le altre narrazio-
ni, e questa sola ignorasse, non potrebbe dire di cono-
scere la letteratura cavalleresca. I casi di Roncisvalle, a
differenza della guerra contro i Sassoni, costituivano un'im-
presa, non già dei Franchi, si della cristianità; questa e
non la Francia rimaneva pericolante ed afflitta per la di-
struzione della forte schiera, e si riaveva dappoi per la
tremenda rivincita che il volere divino concedeva a Carlo
Magno. Orlando poi. meglio assai che un eroe francese,
era il campione della fede cristiana. Di qui che nell'Italia
s'inventò intorno alla sua fanciullezza una leggenda assai
bella, la quale valesse a ricongiungerlo col popolo italiano
e a fare di lui poco meno che un eroe nazionale. E quc-
} medesimo sentimento di gelosia e di orgoglio si ap-
alesa ancora in ciò , che la schiera d' Orlando , la quale
I tutu i testi in lingua d'oii si compone unicamente dì
incesi, nelle versioni nostre diventa una milizia italiana,
Idala al Paladino dal Pontefice, e da lui comandata irì
"\ di senatore di Roma e gonfaloniere della Chiesa (1),
(Il Quesli duu iralii, counlo carallerisrici . appaiono già lino dal-
■ (ranco-ilaliana in Nicola da PadoTa. I veiilimila uomini, che cnslì-
cmo ia schien d' Orlando, qudla che è poi tulio qama slerminaia
I RoDcis«lle, gh sono ivi concessi dal Pa|« nel principio deWa Bucrra
■ B udiamo cliìamare < Las souitokr Uè ttume t [{." 88 y,») ]|
n di Carlo si è deUo ripciuUuiBiile tenetor roman.
— 3»2 —
Da questi due fatti pare a me da inferire che la Chan
venisse in Italia in tempi remoti , quando il popolo nof
non porgeva ancora ascolto alle narrazioni dei giullari ce
a piacevoli novelle , ma bensì le ascoltava con animo ]
sionato , e vedeva in esse la verace storia dei trionfi
stiani. Però era naturale, che allora, e allora soltan
esso procurasse appropriarvi a sé medesimo quella n
gior parte che per luì si poteva. E poiché ragioni i
lievi, ma che non posso qui né esporre, né discute
m' inducono a giudicare , che la trasmissione della mat
cavalleresca dalla Francia air Italia si operasse nella secoi
metà del secolo xn* e nella prima del wif, cod io cn
di poter affermare con bastevole sicurezza, che la CI
son de Roland dovette diffondersi al di qua delle i
avanti il principio del dugento.
Nulla di più concreto mi sembra potersi dedurre
gionevolmente da certe traccie , di cui più volte si é fs
parola da altri. Se dal vedere che nel 1131 i cavalieri
consoli di Nepi, giurando un patto, imprecavano al '
latore la morte infame di Ganellone (ì), noi volessi
argomentare che già fin d'allora fosse ben nota nel e
re deir Italia la Chanson de Roland, non potremmo é
che il nostro fosse un ragionare a fil di logica. Anzii
dal poema, a me pare più probabile assai che gli aul
del giuramento dovessero la conoscenza del fatto alla e
naca del falso Turpino (cap. xxvi), compiuta, secoi
dimostra il Paris (2), non più tardi del 1119. Né ar
mento migliore per V Italia settentrionale potrebbesi tra]
(1) Cosi si legge nel Lebas, Ree. d*inscriptioDs, 5. Cahier, p. 1
Tolgo la citazione dal Paris, che alla sua volta Tha tratta dal Gei
Chanson de Roland, xxi.
(2) V. De Pseodo-Turpino , disseruit Gaston Paris, Parigi, FniD(
1865.
— 393 —
dalle effigie di Orlando e L'Iivieri, scolpite a basso riUero
sugli stipiti della porla maggiore del duomo di Verona (1),
lo qiiali pure debbono avere on<;iiie ecclesiastiir;) , e non
sembrano del re.sio auleriori alla seconda metà del secolo
XII (2). Assai più probabilmente può essere riferito alla
Chaoson de Kolaod il passo del Cronista citalo dal Mu-
ratori, ove si dice cbe snlT antico teatro milanese * fli-
strìones cantabant, sicut modo cantantur de Rolando et
OliTerio (3) » ; se non che V importanza di questa attesta-
zione scema d' assai , se si considera non sapersi bene a
qual tempo sia da rirerire.
Se pertanto , lasciati questi semplici indizi , noi ci fó-
remo a ricercare veri e proprii documenti, non dovre-
mo certo stupire di ritrovare anche per questa parie del
ciclo i più antichi neiritalia settentrionale, e piìi spe-
dalmenle tra l' Adige e il mare. Ma la narrazione della
rotta di honcisvalle, forse in causa della sua stessa ce-
lebrità, non subì quivi quella medesima trasformazione
a cai soggiacquero tante altre, venute al pari di Francia;
la forma primitiva si perpetuò per secoli , come fosse
((Uesto un racconto veramente storico , e da ascollare con
rispetto poco meno che sacro.
Due manoscritti che richiamano qui il nostro studio,
troviamo alla Marciana di Venezia; Funo (civ. 7. cod. 7)
ci fornisce un rifacimento assai ■ somigliante a quello del
(t) Non già di S. Zenone,
! liicono erroneamente ii l'.ii
(3) Il lijiniiìcato delle due immagini a me pare chiaro abbatianu:
9 ed liliTÌeri, campìuni della fede crìslìana, sono piiili » ^lardare
■ del leiDpio del Signore. PiuUo9o io dubilo forte *e il cofflp>-
6 d'Orlando sia qui Teramenle Ulifieri, ti qnaht non m afirt conM
poUoe esKre armalo , non della 9|wdi, in di una nani, ■ cai ^ a^
pea nna patb moniia di ponle.
43) Moniori. Dissert xux. Tom. II.BU.
li -^^(HiCl * ;f;SCLJa tA m iir.1
nuiirub alta prtsi à. \irt*jCiì-. ì
tntki il rinuTiffttc. Socrj di^reoi
dislìDiniuiio r ima daU* altra queste
la iirìma, di gran Int^ maggior
coir antica versione del codice d'
si ritrova in nian altro testo, e I
^cimenti. Ma come mai si potè
lU Di niitfXo ms. si potò ■
— 393 —
accozzo al quale dod sarebbe agevole irorare un rìsooo-
Iro? La rìsposUi oon è facile, e più che il certo, dqÌ do-
vremo coDtentard di conoscere il probabile, preodendoa
guida r osi^rvazione della lìogoa.
Que-sta , se beo si coasiderì , è beo lontani dalT essere
uniforme in tutto il poema. Lasciando per on le minori
differenze, non può non balzare agli occhi di ogni lettore.
par disattento che sia , come neir ultima il tiogoagf^ sia di
gran lunga meno alteralo che nelle altre due, dorè ani
lale un miscuglio di forme dialettali Tenete, da oostitiare.
non già una lingua, ma piuttosto uno slranissiBO gergo.
Se ne abbia un breve esempio, preso a caso:
r. 77 v.° Disi Bollant moli e fera nostra baiane;
Eo cornare, si l'oira Qarlo d Maìie^
Disi Oliver; Vu »"averi gran blasroe.
E reprocer vostro maior Ugnate.
Quand eo vel dis, soner do ve dignase;
Se le roì li fiist, no avresme doamaìe.
Se vos cornee, do ve wra vasalace.
Per questa man. e per tfuesi^ mia barbe,
S'eo podes veder mia cent sor AWe,
Vos non caseris carnai in le soe brace.
Certo non è neppur mestieri del paragotw del testo d^Oi-
ford (1) per iscoz^ere quanto corrotta sia la leaàooe <fi
qnesti versi. Ma se invece noi prendiamo, ngnalmeole a
(1) Srrii: 130. lo chiamo irru ad una rima, o aoi
iMUlit serie, per uon avrr Mpuia UaraK dì meglio, dA che i ftmtm
dicMiu liTodi monoriine. Dì dire lirata dod mi rtfgtn il cMn; I
rncaboln tlmfa non rì^panilcv» abbasuoza alla eoa; fa toa iI*bm.
dotnidu io spttM [urbrp «itlu> di otu*e no» , sirebbe pnenio co»-
U
— 396 —
caso , un luogo da quella parte che s' acoorda coi r
meutì, troveremo certo anche qui ddla corruzione,
di gran lunga minore:
f. 95 V.* Aude se leve, soa raxcm a finee.
Pois torna arere cum feme adolee:
Frere Oliver , cum m'ave desevreel
Sir Rollam, vos m'avec iuree;
Se Dee plaist que fuse mariee.
Sur tut dames fus per vo& prisee.
La scorrezione in questo luogo, e in generale in
r ultima parte del poema, è di tal fatta, da potersi
volmente attribuire air amanuense italiano, speciain
se si voglia anunettere. cosa punto inverisimile , che
stui trascrivesse da un esemplare già scorretto, p(
ancor esso copiato in Italia. Si ponga ben mente app
nere il codice al secolo xlv^ né a quanto pare, ai ]
anni del medesimo; è dunque trascorso gran tempo
che il poema fu rìgentilito , o per dir meglio annacq
dai rifacitorì. Ma potremo noi attribuire del pari alla
ignoranza dei copisti il gergo delle prime due parti ?
Per dare una risposta compiuta converrebbe i
varsi dal caso nostro ad una ricerca assai più ardu
estesa , e indagare in generale V orìgine del gergo usat
poemi franco-italiani. Codesta indagine mi trarrebbe tr
fuor di via, sicché mi basti accennare la mia opini
senza appoggiarla per ora né a ragioni , né a fatti. Il
biema a me sembra assai complesso, e capace di
soluzioni diverse, quanti sono i casi particolari,
quanti sono i documenti di questa rozza letteratura,
che é vero per uno di essi , può essere falsissimo pc
altri ; poiché se in questo la scorrezione é dovuta sa
cemente agli amanuensi, in quello invece fu il rimai
— 397 —
) ToUe, ma dod seppe comporre i
attese di proposilo a innalzare il suo dialetto a di-
) di liogaa letteraria; in un terzo poi egli è alta in-
nissione orale, che si deve la trasfonnazioue del testo
•iginario. Se a ciò si a^'giuuga clie ognuno di questi casi
combinarsi e complicarsi cogli altri, sj vedrà quante
) le soluzioni possibili, e come però sarebbe vano e
Wicoloso i! voler stabilire un principio generale ed as-
ito.
Nel caso del lesto marciano ci si presentano spécial-
iste due m : la trasformazione può attribuirsi , o ai co-
li, 0 alla trasmissione di bocca in bocca. Imperocché
Spiamo che non sempre i giullari apprendevano dai li-
i il ricco corredo di racconti d' ogni fatta, che andavano
i ricantando di terra in terra, di castello io castello;
) le narrazioni si trasmettevano oralmente dal mae-
1 discepolo, e certo poteva accadere che dopo avere
^to a questo modo per lungo tempo, fossero di bel
1 fissate colla scrittura. È naturale che per tal guisa
l' tenisse allora ad ottenere una versione non poco dif-
! dall' originaria. E questo appunto mi sembra essere
iduto al testo della Chanson; che P amanuense, chi ben
ii, dà prova nell'ultima parte di saper trascrivere, se
correttamente, almeno con assai minore scorretlezsta
I quella che sarebbe stala necessaria per ridnrre le altre
t forma in cui noi le troviamo. Né alcuno potrebbe
tenere che egli od altri volesse di proposito alterare ri
[uaggio col miscuglio continuo di forme proprie del
I veneto, afiìne di renderio piii intelligibile ai mai
mpaesani. Lasciando stare che se (ale fo.vic .sialo il soo
isiero egli avrebbe al medesima modo insformaio »n-
i quanto prendeva dai t«sti rìf»UÌ, non si Mprf^iU» dav-
iro intendere lo .'^copo di un itifEatto Uram: il motari!,
^piuttosto modUicare dieci parok ninil ron
1
— 398 —
sembianze al tutto forestiere, non. poteva certo agevoU
alle plebi P intelligenza del poema, se esse non aveva
già in pratica la lingua d' o'il ; né i nobili , soliti a vale
in quei tempi dei linguaggi della Francia si meridion
che settentrionale, avevano punto mestieri di questo i
schinissimo ajuto. S' aggiunga non essere piccolo il num(
delle parole che, se non sono francesi, non si ponno d
né manco venete, o in qualunque modo italiane, e di q
ste, quanto ovvia si presenta la spiegazione supponendo
trasmissione orale per le bocche dei nostri giullari , aitr
tanto riuscirebbe difficile trovare un ragionevole perchi
chi si appigliasse ad altre ipotesi. Di tal fatta mi sembn
le seguenti: bugi (busti), ^avil (capelli), blanda (bianc
tramitissa ( trasmetteste , inviaste ) , aseio ( asedio ) , osU
(ostaggi), spea, cevo (capo), vid (vidi), cella (quelli
sonfé ( suonate ), avremes ( avremmo ), dovum ( dobbiam<
condux (conduce), cumo (come), cet (gitta), sai (esci
vedes (vedessimo), poi (potete), sei amisi (i suoi amie
gerpisca (lasci), cri (credo) ecc. Assai probabilmente
m'ingannerò per taluna di queste voci, ma certo ne
sterà pur sempre un numero considerevole, le quali,
possono tenersi per semplici falli dell'amanuense, né]
trebberò credersi sostituite a disegno, affine di rendi
più agevole V intelligenza del testo. So bene che le di
colta scemerebbero supponendo che il codice marciano
rampollo di una schiatta antica, trapiantata di buonN
in Italia, e sempre più tralignata mano mano che s'alh
tanava dal capostipite; ma se le difficoltà scemano, n
vengono certo a svanire, tanto più che ci converret
supporre sempre veneti gli amanuensi, poiché non ti
viamo, a quanto pare, nel testo traccie di altri dialei
Però a me sembra assai più probabile T altra ipotesi,
mi sembra scorgerne non inefficace conferma in certi ve
che si leggono nel principio del testo marciano, e e
mancano in tutti gli altri: ^
Chi voi oir vere signifìcADce,
A san Donis ert uae ieste io Fraine.
Cil ne sa ben qui per le scrit ii
Non deit aler a pei (obier qae cade.
Mais civalcer mul e desirìer de Rabìe.
De sot comenza lì iraimeni de Gayoe,
E de Rollant, li nef de Carie el Mavne.
Chi era tanto tenero dei giollarì , non poien i
Un giullaro egli stesso; né alcano, faorchè o
irel>be, a quanto pare, espresso ma ael jeeoodo i
a pur sostenendo che il le^o i
I appartenere al dominio dei e
terÒ bene al tempo slesso cbe anche afl"i(
imannensi abbia ad assegnarsi Dna certa parte, b <
I paneoM di à»
si può misurare appro^simatiramente col
! (xk trascritto dai rìradmenli. Cerio io
lai ai recitatori Parer mutalo repo? in repoft, Ui
Maiit, nns (anni) in ani. frane io ùwc, pasi ■ |
podesté in podesler, nef in ner, e cosi ria, mia
lerchè in luogo di assonanze si areffiero tmt perfe
Adrinque la concinsioDe e 0 wa^o truUo #
0 ragionamento sarebbe, po^to dw
BTsaadere ì lettori, V aver nuatntù cbe la
} Roland dovette di hnoo' ora
sere recitata sulle piazze e oei
tenti della seconda metà dd
tei decimoterzo secolo non TednmUDo
dK per la scrittura Anche rtnesto «
te insieme r«n molli altri può
nonoingia dei poemi tnoexyHttlmtu
E di qui rifaceodod al
teremo dorersi
— 400 —
cozzo deir antica versione e del rifacimento , quale
vediamo nel Marciano. Certo se l'ultima parte fosse
sata ancor essa di bocca in bocca, non avrebbe pò
conservarsi tanto vicina alla sna forma originaria. Ma q
ragioni abbiano indotto allo strano miscuglio, non è age
il determinare. A me pare sommamente improbabile
si ricorresse al rifacimento per bisogno dì riempiere
lacuna della versione più antica; sarebbe davvero sii
lare, per non dire portentoso, che ^ la lacuna cominci
ivi appunto, dove aveva luogo una delle principali divis
del racconto. Sembrami poi meno improbabile sì,
tuttavia poco verisimile, che nella recitazione, e però
che nella scrittura, potesse di^iungersi dal resto o
lasciarsi aflatto T ultima parte, in cui si contengono
fatti di somma importanza, la morte d' Alda e il snpp
di Gano. Piuttosto è a credere che il raflfazzonatore f
guidato puramente da ragioni di gusto, vo' dire eh
versione rammodemata gli andasse in questa parte pi
genio dell'antica, forse in causa del lungo episodio d
fuga di Gano, che in quella mancava. Quanto poi air
sodio in cui è narrata la presa di Nerbona, sembra
pensare che già nella recitazione dovesse andar congii
coli' antica versione, se il linguaggio vi appare com
del pari, se non forse più. Del resto s'avverta bene esi
io ben lontano dal supporre, nonché dall' affermare,
il raffazzonatore e il trascrittore del codice marciano
biano a tenersi per la persona medesima; l'accozzo f
e forse deve, supporsi avvenuto per opera d' altri in
tempo assai anteriore, e il nostro testo non credo ess
altra cosa che una copia.
Resta che noi prendiamo a esaminare una per
le tre parti delia composizione. Non istarò qui, con m
fatica e scarso profitto, a confrontare minutamente
prima col testo d' Oxford; cotale raffronto spetta
— iOI —
' editori della Clianson, e non giti a clii intraprende uiiu
studio lelterario intorno alle trasformazioni che dessa subì
nel!" Italia. S' io mi vi accingessi, potrei mostrare con ab-
bondanza di esempi, come la vera lezione ora sia conser-
vala dall' uno. ora dall' altro testo ; come e iiell' uno e
neir altro v' abbiano lacune, non solo di versi, ma d'intere
serie; come ad esempio l'oxfordiense abbia erroneamente
ridotto a due le battaglie della scliiera d' Orlando contro
i Saraeini, confondendo in un solo, o almeno mal distin-
gnendo, l'esercito ili Grandonio e quello di Marsilio, la
seconda battaglia e la terza. Potrei anche far vedere che
ora neir uno, ora nell' altro, è migliore la disposizione
delle serie e ilei versi, ed altre cose siffatte, le quali di-
mostrano che il lesto onde deriva questa parte del Jlar-
ciano dilTeriva da quello d' Oxford, o che per ispiegare le
dilTereuze devesi pure, anche astraendo dalla lingua, con-
cedere qualche luogo alla trasmissione orale, sia che questa
intervenisse soltanto neir Italia, sia che già prima si fosse
intromessa nella Francia. Ma poiché non s' appartiene a
questo luogo uno studio silTaito, noterò solo che ai 392fì
versi, di cui nel Marciano si compone la prima parte,
corrispondono solo 3675 nel manoscritto bodleiano. Quindi
arri nel testo di Venezia un di più di 251 versi, parte
dei quali vanno giudicati interpolazione, parte invece deri-
vano dalla versione primitiva. Fra gli altri mi piace se-
gnalarne alcuni, che non hanno riscontro nel manoscritto
d* Osford, sebbene lo trovino noi rifacimenti (1), i quali
dimostrano colle loro aspre assonanze quanto antico sia
il concetto, che, la fellonia fo.sse ereditaria in tutta quanta
.la slirpp di Gano. Il passo fa paile di una serie, che ari-
drebbe collocata tra la 13fi" e la 130' del testo bodleiano:
— 402 —
f.*" 78 v"* Carlo cival^a tant quant el porto dure;
Eli demeoa tei dol e tei rancure;
Qo dit li roi, saocta Maria aiue;
Per Gayuo gran pene m' est cresue.
In la veire geste est mis in scrìture;
Ses antesur firent ingresme fellune,
E fellonie tutor ave in costume.
In Capitolile de Rome ca 'n fé une:
luUìo Qesar oncìent il per ordre;
Pois ont il malvas sepolture.
Chi in fogo ardent et angosos mis fure.
Attribuire perfino V uccisione di Cesare alla schiatt
Gano è davvero un po' troppo; gli stessi Reali si con
tano di innestare la fellonia nella stirpe maganzes
tempo di Costantino. Oramai non v' era che a fare
passo, e Caino stesso sarebbe divenuto egli pure
lignaggio maganzese.
Ancora mi giova osservare, non essere, quanto a
gua, ugual grado di scorrezione in tutta la prima pai
ad esempio il principio e qualche luogo ove comincia
nuova serie di narrazioni sono conservati con magg
fedeltà, il che ottimamente si spiega colla mia ipol
Altrove poi non sapremmo trovare ragione del perchè
lingua sia meno guasta, salvo questa, che la memoria
giullari avesse apprese e ritenute certe parti meglio
certe altre. Del resto non intendo già di determinare
e sarei matto se ci pensassi — per quante bocche dove
passare il poema, avanti di essere nuovamente messo
iscritto; stimo verisimile che la trasmissione merame
orale non dovesse durare gran tempo, quantunque Pese
pio dei poemi Indiani, dell'Edda e cosi via, mostri co
là dove la memoria è solita tener luogo di scrittura, 1
— 404 —
riconforta quando Arnaldo di Bellanda gli si dichiara prò
a ricevere la città, non per sé, ma per un suo fig
letto, che lasciò in Francia al suo partire. Arnaldo iste
parte per andarne in traccia, giunge a Bellanda, e qi
a Isabella sua donna racconta la tremenda catastrofe
Rondsvalle. Poco stante egli rivede con gran gioia il
glio, reduce dalla caccia, e gli narra come Carlo vo
donargU onore di terra; ma
Per, dist Aimerig, no ve stuet parler,
No prendro tera tanto cum avrò durer,
S' ella no e quella che me viot en penser.
La noit, quant eo dormo, in vixion me ve;
Ne noit ne ior no me lassa polse;
^0 est Nerbona, che seit sor regoi del me;
Alfarìs la tint, un fol roi desfaé.
Come egli sente, questa appunto essere la terra di
Carlo lo vuole infeudare, accetta con gioia, né punt(
lascia smuovere dalle trepidanze del cuore materno.
L'indomani, baciata la madre, Amerigo parte
Arnaldo , e con lui insieme giunge sotto Nerbona. Il pa
dice allora di volerlo presentare al re; ma il franco
vinetto riQuta baldanzosamente, dichiarando eh' egli w
venirgli innanzi da sé medesimo. Sdegnasi Arnaldo, e
nuto solo a Carlo, fa che esca fuori della città accon
guato dalla baronìa divisa in dieci schiere, tenendosi i
r ultima fra Namo e il Danese; se Amerigo non sa
riconoscere tra tutti questi l'imperatore, non più ved
da lui , egli medesimo gli spiccherà il capo , in pena d
sua tracotanza. Il giovinetto allora si rimane sulle pri
alquanto confuso ; tuttavia disceme Carlo , gli si presei
e salutatolo, e baciatigli i piedi, chiede onore di ten-
di cavalleria. L'imperatore lo loda dell'ardire e del i
— 40S —
bel parlare , tosto lo fa r.ivaliere, e infendalolo di Nerbona
e lascialigli dieci mila cavalieri, si parie e toroa ad Asia
(Aix).
Uì versione delP Aimeri de Nartwniie è assai più in-
tricata, 0 sebbene mostri nel principio grande simiglianza
colla nostra, se ne spicca poi, e non ha più con essa che
uoa remota analogia. Ivi Nerbona non è signoreggiata da
un solo, ma da tre re, due dei quali evidentemente non
sono trovati che per allungare il racconto, poiché fino
dal principio si partono per una via sotterranea, e si con-
ducono 3 Babilonia, donde torneranno poi con un eser-
cito innumerevole per muovere guerra ad Aimeri , sta-
bilito di Tresco nella signoria. Questi poi non trovasi già
a Rellanda, ma si nell'esercito slesso di Carlo, sicché
mancano qui di necessità tutta Tandata e il ritorno di Ar-
naldo, che nel nostro episodio costituiscono la parte raas-
giore e più bella. La città poi non è già presa per mira-
colo , ma bensì colle armi e colf ingegno.
Ne questa narrazione, né la nostra, si accordano
colla versione della presa di Nerbona accennata nel!' antico
testo della Chanson (v. 2990), secondo la quale la città
doveva essere stata conquistata avanti il disastro di tton-
cisvalle (I). E il testo marciano contraddice a sé mede-
simo anche in ciò, che qui assegna una durata di dicia-
sette anni alla guerra di Spagna, la quale nel principio
della prima parte esso aveva detto colla Chanson essersi
cominciala sette anni innanzi :
(larle li reis. noslre imperer de Frante,
Set ans tut plens a estetz in Spagne.
r
(t) Tale e aimeai} l' ìnterprplazionc d?\ Puri* (llisl. poi"'!, 2r)<i), sulla
ile 8 dir letù avrei a muovere dei duMiiì.
i
— 406 —
Qui invece Arnaldo dice di avere alla sua partenza lasc
un bambino di tre anni , che se vive ancora , potrà ave
intorno a venti. Simigliantemente nel Gui de Bourgogn
fa durare questa medesima impresa ventisette anni,
dar tempo agli Epigoni di farsi adulti. Da questa dis
danza, che si poteva togliere con assai poca fatica , api
che il nostro episodio non fu già inventato per contini
la Ghanson , ma venne qui trasportato non saprei doi
Giò peraltro dovette farsi in età remota, se noi ve
vediamo congiunto per me^zo di certi tratti, che
potrebbero supporsi invenzione del secolo XIII. Taccii
certi versi, in cui ci si pone innanzi Gano: poiché
volmente potrebbero togliersi dal luogo ove sembi
stare a pigione; ma quando Arnaldo sta per partin
Nerbona, è bello udirlo dichiarare che non mentirà il v
e rifiutare obbedienza all'imperatore, il quale gli vi
imporre di celare la catastrofe, e di rispondere una e
zogna a chi, passando da Parigi, gli chiederà nuove
r esercito :
Dites che grani coia a T imperar puissant.
Garlo stesso è obbligato a piegarsi, e il conte, iute
gato a Parigi, svela il tradimento di Gano e la m
dei pari:
Les dames quant Tintendent font ìì dol si grani
Tal mai non fu in le seigle vivant.
Queste tristi novelle gli convien poi ripetere nuovam^
alla moglie ed al figlio.
A codesti segni di antichità se ne ponno aggiun^
altri ancora. Come nella Ghanson de Roland, così
— 407 —
Dio manda il suo messafittiero celesle a conrortare Cario
suppliclievole:
Jesu li manda )ì angle cherubìn:
Droit iinperer. no le doler de ria.
Che Dio rira alquant de lon plaxiu.
E qui ognuno poirà agevolmenle scorgere un' assonanza,
mal dissimulata dall' amanuense, che abbandonò per dispe-
rata quest'impresa in un'altra serie:
Deo ama Carlo e olde le soe vose;
Quel c^rno li manda aher et solìbione.
E un aure et un si fon deluvione.
Clic da mille parie faxea runer le mure.
Ouand li lemps est remes, Trani^ìs prendenl li arme,
Vieni 3 Nerbona, entra per me le porte.
Di qui non sarebbe forse sovercliio ardire il dedurre che il
nostro episodio, rimato nel resto, derivi nondimeno tntto da
una versione appartenente all' età in cui le assonanze tene-
vano ancora il luogo delle rime. E ben si noti, cbe il
miracoloso acquisto della città, che cì richiama la caduta
di Jerìco, non è già un'invenzione o un'imitazione pro-
pria del nostro testo. Non solo il falso Turpino riferisce
il medesimo miracolo a proposito dì Pamplona, non solo '
Filippo Mousket e il falso Philomena, convalidati da tra-
dizioni locali, narrano che a questo modo fu conijni-
slala da Carlo Carcassona, ma Ramon Keraud (1) narra
die Nerbona istessa venne presa grazie ad un terremoto,
che fece crollare le mura; solo v' è questa differenza,
che costui, com'era naturale, dà il merito della cosa al
(I) Vie ilu Saim llonoral.
— i08 —
suo santo , narraDdo che Carlo volgesse a lui la pregfak
e che alla sua intercessione fosse dovuto il miracolo,
ultimo non è neppure da trascurare un altro indiz
quando Carlo, conferita la signoria ad Aìmerì, si pai
da Nerbona, non s^ avvia già a Laon, come nei rif<
menti, ma bensì ad Aix (Asia), l'antica capitale dei <
rolingii, come nel testo d' Oxford. Cosi l'episodio viene
trovarsi in disaccordo colla parte del romanzo che
tien dietro.
Questa narrazione a me pare così notevole, che
piace riportarne per saggio il luogo ove si racconta co;
Arnaldo e Amerigo giungessero a Nerbona, f. 90, r.** :
Filz, disi li coni, in ver mi intende
Veez de Nerbona li ter et li scile,
La est Carlo de Pranza Timperé;
Or siec prò et saco air acuite.
Oit il Aimerig, si '1 prist a rampogé;
Pere, dist il, no ven conven parler;
la bora veiardo no m' avrà presenter,
Tut per mi sol e voi al roi parler.
Se davant li roi no me so apresenter,
Deo no me lassi mes corona porter,
Se de soa tera me donara a baillé.
Oit il Arnaldo, si se prese adicé:
Gloto, dist il or, vos con vera fé;
Se vos non faites cum eo vos ai vanté.
Deus in Bellanda no me lassi tome,
Se de sor le spalle no ve faro li cef colpe.
Sotto la dura scorza di una forma rozzissima , si nasco
dono , a mio parere , in tutto questo episodio non comu
bellezze. Però non mi è rincresciuto spendere un lunj
discorso a trattarne, mentre poche parole basteranno p
r ultima parte del testo.
— 409 —
Questa presi io a confrontare colla versione del co-
dice settimo, e coir altra pubblicata dal Michel. In que-
st'ultima essa risponde ai versi 11138-13109; non de-
riva peraltro né dall'uno, né dall'altro testo, poiché ora
s' accosta maggiormente al primo , ora al secondo. Questi
poi convengono tra di loro meglio che non facciano colla
versione del codice quarto.
( Continua }
LEGGENDA
DI S. MARGARITA V. e M,
IN OTTATA RIMA
AL CAV. PROF. ALESSANDRO D'ANCONA
STRENUO INVESTIGATORE
E PROMTLGATORE
M ANTICHE POPOLARI LEGGENDE
F. Z.
CONSACRA
/m im cod. Misceli., cognominalo Quolìbet, (
iaceo im f., a due colonne y del sec. XV j num. 157,
n conserta nella R. Bibl. di quesla ciitày del quale
[ersi una minuta descrizione dalla pag. 122 alla 1
e dalla 251 alla 272, Anno I del Propugnatore, in
questo componimento in rimOy che io credo inedito
dettato, a quel che si pare, sul finire del sec. XIY
circa. Letto con diligenza, sembrami che ri spicchino
cune ottave molto graziose e degne deir approvazione
cultori veraci della nostra letteratura e delle antiche i
dizioni popolari , sulle qtiali a' di nostri molti valeni
mini fanno sttidii profondi, dimostrandone la uiUità
rica e letteraria , e profferendone al pubblico diversi es
plari. Onde come quelli furono bene accolti, cosi per
stessa ragione mi confido avverrà del presente, che,
parer mio, non dissomiglia loro gran fatto.
— *n —
Qttaitro diversi testi sul medesimo argomento io co-
* ttosco in islatnpa, ma d' uno aW infuori, tulli in prosa.
Il primo fti pubblicato mi 1731-32 da Domenico Maria
Manni fra le Vite di Santi e Sante in aggiunta al mi-
garizzanieiuo delle Vite de'Santi Padri, detti propriamen-
te deir Eremo, di fra Domenico Cavalca, secondo un te-
sto posseduto dagli Accademici della Crusca; e poscia ri-
prodotlQ mano mano in ogni ristampa di queW aureo vo-
lume. Il secondo, dal benemerito e solerte sig. prof., ca».
Pietro Ferrato, secondo un cod. Marciano, già Farsetti,
in Venezia alla Tipografia Clementi nel 1867. // terzo,
dfUl' egregio sig. ab. doli. Antonio Ceruti , confm'me a un
ms. delP Ambrosiana , dalla pag. 178 alla 191 di questo
medesimo volume. Il sig. Ceruti, ne//' Avvertenza premes-
savi, ricorda ««'erfi's. di Trieste del 1838, ma cotesta
non contiene se non quel testo del Manni piii s(^ra ricor-
dalo, quivi riprodotto dal prof Racheli insieme colle pre-
fate Vite de"' Santi Padri. Finalmente una quarta compi-
lazione abbiamo, ma in versi rimali a due a due, quando
il poeta per bene sapeva imberciare, la quale eziandio
fu inserita dallo stesso Manni, esemplata su di un cod.
Bargiacclii, dopo la Leggemla in prosa della medesima
santa. Secondo che il diligente editore annota, essa ci veone
dal fraiizese antico, conciossiachè non ritengano i versi nna
giusta misura, e manchevoli sieno per lo più della rima,
la quale si vede chiaro, che era beusì nel Tranzese, donde
^i voltala.
^^L Or chi è pratico e si conosce delle antiche poesie,
^Hpn farà le maraviglie nelV abbattersi talvolta in versi
^Kmeilosi nel metro, mila rima e negli accenti; assai esempi
^Bm riporta fra gli altri il celebre piof. Vincenzio San-
Bnucn nel suo Manuale della letteratura del primo secolo,
e ne adduce apertamente le ragioni, e perché eran mossi
i nostri antichi a cosi fare: chi i^oglia approfittarne, ri-
— 412 —
corra a qml prezioso volume. Ciò nondimeno^ aik
mi aovenioa di non contraffare molto alla legittimi
testo y qui e qua ritoccai leggiermente quel che mi p
errore delP antico amanuense, mettendo però in
allor che importava, la genuina lezione del codice, qu
ella si fosse. Con questa pubblicazioncella tuttavia
intendo di produr cosa che aumenti le nostre glorie
rarie , ma bensì un antico documento popolare da
ai molti altri già posti in luce, il quale se non è
affatto da mende, certo né pur va mancante al tu
pregi e di maestre wli tratti. Valga se non altro a
pendice della Leggenda in prosa più sopra edita di
stro sig. dott. Antonio Ceruti.
F. Z
LEGGENDA DI SANTA MARGARITA
Io prego la divina maiestate,
Padre e Figliuolo col Spirito Santo,
Grazia mi presti per la sua pietale,
Gli' io possa raccontar con dolce canto
Una Leggenda, piena di bontaie,
D'una pulcella, che tormento tanto
Sostenne da un crudele imperatore.
Per render castità al suo creatore (1).
Q.
Dell! stale attenti, per lo vostro onore,
Dal mio principio sino alla finita,
D'una pulcella serva del Signore,
Che lo suo nome è santa Margarita,
Che figlia (a d' un re di gran valore ,
E piccola da balia Tu nutrita:
Lontana era dal siio tei paese
Qtidla pulcella vergine o cortese.
— 414 —
III.
Lo suo bel padre a balia Tavea data,
Perchè la madre nel parto^morio ;
Poco tempo da poi ch'ella fa nata
El suo padre del mondo transio.
Questa è la verità che v' ho contata ,
E so che la sua istoria non mentio.
Rimase la fantina piccoletta:
La sua Leggenda sì vi dico dretta.
IV.
Da poi che fu cresciuta la pulcella,
Sempre laudava Cristo Salvatore:
La sua Ggura era tanto bella,
Che dir (2) non si porta per trovatore.
Guardando un giorno lei le pecorella,
Di li passoe (3) il tristo imperatore:
Subitamente ne fu innamorato,
Vedendo il suo bel viso delicato.
V.
E disse alli messaggi: tosto gite
Arditamente, e perfetto coraggio;
Et a quella fantina si dirìte,
S'eirè (i) libra, per moglie la torraggio;
E, s'elPè serva, aver li promettite:
Quanto ne mole, tanto le daraggio.
E li messaggi tosto a lei n'andamo
Cortesemente e poi la sakitamo.
— 415 —
VI.
E dissero: o pulcella dilicata,
Or rispondete per lo vostro onore;
Se voi sete pulcella o maritata,
A noi il direte sanza aver timore:
L' imperator v' ha tanto vagheggiata ,
Che lui al tutto (5) vuole il vostro amore.
E quella gli rispuose incontinente:
Ancilla son di Cristo omnipotente:
VII.
E lui invoco e chiamo notte e dia ,
Che la mia prece intenda per pietate,
Et al mio cuore tanto dea balìa.
Ch'io non perda la mia virginitate;
E Tangel suo mi guardi tuttavia,
Ch'io non consenta vostra vanitate.
Allora li messaggi ritornarno
E quel ch'avia detto li contarno.
Vili.
Lo imperatore fu forte adirato;
Cambiò la faccia e'I viso incontinente,
Et al li suoi messaggi ha comandato:
Andate, e qui menatela presente.
Ciascun di loro si fu apparecchiato,
E corseno a pigliarla arditamente,
E lei menarno a quello imperatore;
Onde lui le parlò con gran furore.
1>e^ OUfStti IHlDlt' cc^
Iv: Vinnrita mi chiac
I Gesù Cristo cÉumif-
Cu« iDlinr> a mo m' ha
JiT'UDieni às poi che i
X.
~ nspose
^x dumi Crhito?c'da
liiireltr tana, tu sarai
> rhiami Im die ti di
Li siudei li dier morte
tir tTfdi a me. cbe V*
omelia rispose: queiflo;
\jasa f- ta verità, cbe
Alkir r impannn- la
In OBI ranxr cb' ai i
n A e la noOr ^ la :
Cbe le penan mea«n
xa
Se lo mìo dio tu tuoi adorare,
Io V amaro sopra ogni famiglia :
Se non mi credi, farotli consamare (sìcj,
E batter farò (7) tua carne vermiglia :
Or pensa qual partilo vuoi pigliare,
E di risponder tosto t' assottiglia :
E quella disse: ben ci pensaroe,
E prestamente ti rispouderoe :
xia
Se lo mio corpo sarà tormentato.
L'anima mìa ^rà in salvazione;
Che'! mio Signore in croce fu chiavalo;
Per me sostenne grave passione :
Del tuo pensiero ben sarai 'ngannato,
Che esso sta con meco a ogni slagione;
E' non mi lascierà perir neente
Lo mio Signore, Cristo omnipotenle.
XIV.
L' imperatore allor la fé spogliare
E batter il suo corpo delicato:
Tanto con verghe la fece frustare,
Che'l sangue suo correa per ogni lalot
Tulli gridavan: più non ci durare.
Che del tuo fatto ne prende peccato.
Assai v' eran di ijue' che piangoano
Quando frustar Margarita vedeauo (8).
Ox -7;-^ •y.rj-.iry.- &■
A Marzarlu diièe: fa
K qatita [Mfoa più no
— 419 —
XVIII.
0 empio ed o malvagio (11) chi mei dice,
Glie lo mio Dio non debbia onorare,
Che cielo e terra et ogni cosa fecel
Ogni creatura il debbe adorare!
Ma lo tuo dio ch'ai sulla cronice,
E sordo e muto, e sì non può parlare:
SMo li credessi, farei villania.
Però che è falso et è pien di follia.
XIX.
Quando Timperator, lui questo intese,
In piana terra si lasciò cadere;
E tanto era suo cuor di fuoco acese,
Che di tal doglia pensava morere.
E in una scura prigion sì la mese,
Che cielo e terra non potea vedere.
E quand'ella vi giunse per intrare
Con la man dritta sì s'ebbe a segnare.
XX.
E disse: o Signor mio pien di sapienzia,
Quest'orfana ti sia raccomandata:
Allo mio cuore dà tanta potenzia,
Che vinca questa gente rinegata;
E del martire non abbia temenzia
In nulla parte dov' io sia menata ,
E r avversario mio che mei fa fare,
A faccia a faccia con lui mi fa stare.
— tiO —
XXL
fl gojnfian che la prigioo gunfara.
Tutte le soe parole s scrìrefa,
E pane et acqua dascon A le dava.
Ma già DOD efa per parola sua.
L'imperatore sì lo comaodaTa,
E però altro fame dod poteta:
Dì Margarita molto era dolente.
Dico di lui, e eoo moir altra gente.
XXB.
Standosi sola in carcere, peosara.
Sempre adorando, a Cristo ommpot«te:
Da totte Tore si raccomandai
Con pianti e con sospiri fortemente:
E quando pose mente, rigoardaTa
Un drago oscir di terra (12* arditamente:
Di bocca gli nscìa foco e gran fetore;
E qoeUa disse: aiotami. Signore!
xxm.
E, come fossi m terra, impditfio:
Non gii rimase neente colore:
Segoi>ssi. e disse: aiatamì, mio Dio (13;,
Tu cbe del moo*!*) fosti ordinatore!
Misericordia del peccato mìo.
Tn cbe ri^L>mpierastì fl Creatore fsicf!
AUo mio caor te presta tanta possa,
Cbe qoe:slo <fra^ oflfeiider non mi possa.
XXIV.
R (]u3ndo l'orazìon ebbe fornita,
Quel drago si si mosse all'adirata:
La bocca aperse ed ebbela inghiotlita,
E dentro nel suo corpo I' ha cacciata.
Tanto qui crebbe santa Margarita,
Che crepò il drago et essa fu campata.
Più ne usci bella assai che non c'entroel
Allora in piana terra inginoccLioe :
XXV,
Grazie ti rendo, o altissimo Padre,
Che m'bai tratta del corpo del dragone:
Anco ti priego per la tua pietade ,
Che dii conforto alla mìa passione;
Ch'io la sostenga con iimilitade,
E non ci senta tribulazTone ,
Che per tuo amore la voglio soffrire:
Fortezza dammi infino al suo finire.
XXVI.
Guardando la pulcella delicata,
E un altro gran demonio le aparia:
La feccia a forma d'uom avea formata,
E di quel luoco lui non si parila.
Croce si fece, essendo scapigliata,
Dicendo: aita (14), o vergine Maria!
Presel pHr li capelli e gittò in terra,
Dicendo: vien tu qui per farmi guerra?
xxvn.
E quel demonio aDora le rì^)ose:
0 HargariU, lasduni e noo fare;
Le tae oranoo soo a oooclose,
Cbe difender ood mi posso uè drizzare (sic).
E quella il piede ritto m capo impose,
Diceodo: bdro, mi vien ta a tentare
Ch' io soQ sposa di Cristo benedetto?
Or ti leva da me, can maled^to.
xxvra.
Guardando in la prigion vide ona croce.
La qaal splendor grandissimo rendia:
Una colomba vide con gran lace.
Di sopra a quella croce si ponia:
A lei parloe e disse ad alta voce:
Ora non dubitar, figliuola mia;
Gli è certo che tu vìnci ogni battaglia;
SeM corpo paté pene, non ten caglia.
XXK.
Or santa Margarita s' allegrava
Di quel che la colomba gli avea detto:
In piana terra si s'inginocchiava,
Rendendo grazie a Cristo benedetto;
E Io demonio falso addomandava:
Ora mi dici, falso maledetto;
Onde venisti, e che va' tu facendo?
Io ti scongiuro che 1 venghi dicendo.
XXX.
E quel demonio le rispose altun:
0 gemma Margarita genitrice (sic).
Se volete ch'io dica mìa natura.
Levate'! vostro pie di mia cervice.
Et io prometto a vostra fede pura,
Ch'io li risponderoe (15) a ciò che dice.
E quella levò il piede e dèlli posa;
E quello venne contando ogni cosa.
XXXI.
Or qoesto Tu primo cominciamenlo,
Che a Margarita si cominciò a dire:
Dal Signor senti posto a dar tormento;
Ciò che comanda convenmi obbedire,
E non eh' io senta alcuno pensamento
Che lande a Dio mi convien seguirò (sic).
Et io mi parlo e voe incontinente,
E tutta ne conturbo la sua mente:
XXXII.
Le cose brutte, belle fo parere,
E toglioli lo senno e la scienzia;
Conturboli et accieco il suo vedere
E non li lascio levar penitennia;
E lo mal far so sì bene imbellero.
Che già di Dìo sì non ha temen/ia.
Ora i'ho detto a voi la mia natura,
Or dite a me la vo-stra, o vefgìri pura.
— 424 —
xxxm.
E quella presto si gli prese a dire:
0 ladro, falso, che cerchi iDgannare,
Ch'io noD mi degDo (16) di te reverire,
E tu npD mi se' degno d'ascoltare:
La grazia di Dio tu dod può' sapere.
Ch'ella è quella che mi fa parlare :
Et io dalla sua parte ti scongiuro.
Contarmi il fatto tuo senza dimuro.
XXXIV.
Allora le rispose con tremore
E con sospiri ,' forte lacrimando:
Che Satanasso è degno mio signore;
Esso è quello che me fa gir penando;
Ma io ti scongiuro per Cristo Signore,
Che tu mi facci quel ch'io ti domando;
Che mi rinchiudi nella tua balia,
Ch' io non tomi sotto sua signoria.
XXXV.
Salamon (17) ci rinchiuse in un vasello
Che non andasse attorno fra la gente:
Dopo sua morte venne un ladroncello.
Che quel vasello aperse incontinente:
Ognun ne usci volando come uccello,
E tutta Taer ne impimo certamente:
D'allora in qua giammai non ci posamo.
Se non come alla gente (18) danno faciamo.
XXXVl.
Allora li rispose Margarita:
Lo vostro parlamento lutto pule:
Or prestamente la da me partita:
A'ostre malvagità son cooosciate!
Piangendo andate nella vostra vita
Delle vostre anime, che son perdute;
Et io mi Taccio il segno della croce.
Strìdendo, si partìo, ad alta voce.
XXXVII.
Poi l'altro dì che venne la fé trare
L'imperatore fra tutla la gente,
E disse: 'l mio dio tu viioh adorare?
Ora a me rispondi incontanente.
E quella disse: i'non voglio pensare;
Risponder si ti voglio allegramente:
Il vostro dio è sordo, muto e cieco,
E lo mio Dio sempre sta con meco.
xxxvm.
Disse l'imperatore: or la spogliate,
E in allo l'appendete per la mano,
E con le verghe tanto la frustate,
Che non rimanga nullo membro sano:
Il nostro dio disprezza in ventale,
E dice eh' el è sordo, muto e vano!
Apparecchiale; fuora il gran tormento.
Et obbedite il mio comandamento.
— 426 —
XXXIX.
Or stando nel martirio fortemente,
Ad alta voce ella cominciò a dire:
0 lesa Cristo, Padre omnipotentel
Tu sulla croce volesti morire,
Aiutami da questa falsa gente
Ch' io non possa giammai consentire :
Da lor difendi mia virginitade:
A te piaccia, Signor, per tua pietadel
XL.
Quando Timperator questo intendia.
Che air alto Dio si raccomandava ,
Del suo martirio forte si dolia,
E molto dolcemente la pregava:
Or credi a me, dolce speranza miai
Allo martirio non star cosi prava.
E quella disse: taci e non parlare,
Che'l mio martirio in gaudio de tornare.
XLI.
Allora con grand' ira comandoe.
Che stretta per le man' fosse legata ;
Et una conca d'acqua apparecchioe ,
Qual era molto cupa e smisurata;
E con sua bocca la sentenzìoe
Col capo sotto la fusse cacciata
In cotal modo ch'ella qui morisse.
Acciò che più martirio non sentisse.
Quando '1 suo corpo nell'acqna fa messo.
Tutta la gente slava a riguardare:
Tremò la terra giù , fin all' abisso )
Ogni persona cominciò a tremare.
Una colomba lì venne per messo,
E Margarita prese a confortare:
Levati su , che Dio non t' abbandona ;
Per te, pulcella, arreco la corona.
Allora si rizzoe incontinente,
Et air alto Signor rendè salute:
Te laudo, lesù Cristo omnipotente,
i grazie vengono adempiute.
Venne una voce, e disse: allegramente
Le vostre orazTon son ricevute:
Verrai a me, figliuola delirata,
A ricever gloria in vita (il) beata.
— 428 —
XLV.
La gente cbe d stava, era in pensiero:
Quando che vider la terra tremare.
Far cinque miglia cbe m convertero,
E tatù quanti si fer battezzare!
Allora qud malvagio rio imperiero
A tatti quanti fé il capo mozzare;
E die sentenzia tosto alla spiegata,
Cbe Margarita fosse decolbta.
XLVI.
Levato fne m pie lo mal fiittore
Incontinenti / a cui fu domandato.
Fecesi a le? con grave furore,
Misse mano alla spada cfa'^avea a hto:
0 Margarita, misera in dolore.
Di questo fatto mi prende peccato!
China lo capo, di' io non ho altro a &re.
Che detto m*" è di' i' te '1 debbia mozzare.
;-ii V. 1
E quella li rispose
Or ti sostieni un poco per poche ore,
Ch^ io preghi Jesà Cristo omnipoteote,
E sìe per me et ogni peccatore,
Cbe mi difenda da quei fuoco ardente.
Là dove è sempre puzza con fetore.
E quello le rispose: vokntieri;
Pregate Dio quanto vi b mestieri
XLvni.
'
E quella disse: o Iddio, cbe mi creasti,
La prece mia ti piaccia d' ascollare :
Con le tue mani lo ciel misurasti,
E poi la terra partisti dal mare,
E r uomo alla tua immagine Tormastì ,
E volesti morir per noi salvare!
Però li priego, allo Signore Iddio,
Cbe intmdere a te piaccia lo dir mio.
XLIX.
Chi pensarà nella mia palisi one.
E nel suo cuore n'ara rimembranza,
D'ogni peccalo abbia remissione:
0 Jesu Cristo, per la tua pietanza
Difendilo da Iribulazione,
Et alla fine dagli consolanza:
A chi legge, 0 chi l'ode per mio amore,
Gli suoi peccali perdona, o signore:
La casa, dove (fuella itarà Kiilla,
Da me, Signor, la tua grazia m tìnta :
Femina in parto non fi muoia afflilU,
Né ereda non ci nas<;a macnlala.
Ne dal demonio non sa malarlitU;
Notte né di non pò**» en^r UitrMiM:
Nullo peric<jl li poetila inwnlrare;
A le piaccia. Sigtirjr. dw lo piwi ferii.
— 430 —
LI.
Vedendo Cristo la sua prece dritta.
Una colomba bianca le mandoe
Con una croce in bocca ben fornita,
Che tutto quel tal luoco allnminoe.
Parìoe e disse a santa Margarita :
Cristo per messo mi manda, e si son soe (sic);
E dice, che la vostra prece è intesa;
A ciò eh' hai detto non sarà difesa ;
Ln.
E ciò ch'hai detto, abbi per certanza.
Dall'alto Dio si è stato ascoltato:
Chi per tuo amor li chiede perdonanza ,
Dalla sua parte ben gli è perdonato.
Or ti conforta, non aver turbanza,
Che lo suo regno a te è reservato:
Fra tutte T altre vergini starai,
E sempre la sua faccia vederaì.
LUI.
Allora disse santa Margarita:
Or ti fa innanzi tu, che dei mozzare.
Che troppo ci son stala in questa vita:
Per Dio ti prego, non m'indugiare!
Farmi mill'anni ch'io faccia partita,
Che l'alma mia si vada a riposare:
Al primo colpo ti prego che facci.
La testa dal busto che tosto (22) spacci.
— 432 —
LVU.
AUon tatti gli angel si motaro,
E sa DdPaer ne feoer gno canto,
E Talto ^gnor Dio rìngraziaro:
Cìascao dicea: santo, swto, santo!
Infino allo soo corpo si bassaro.
Dove la gente ne C^ea gran pianto.
Benedicendo il^soo corpo benegno:
Poi rìtomomo in delo al santo regno.
LVm.
E li denonii T'aodonio a Tedere:
Con graie strida e grare pestilenzia
MalaÀeeano tatto Q loro sapere,
E lor sattflitate e lor potenzia:
Il Signore d b pena soliere , (23)
Che non poieno rkicer la soa scàeniìi!
Piangendo e bcrònaodo si parteroo.
Et in fira loro gran romor sì fierao.
LDL
n goanfian che la prigioo goardoe
Sì prese k> suo aìrpo deficato,
E con grao referenzia k> portoe,
E dentro da an t^el pOo Tha potsalo.
E 1 Bai telar che 1 capo di mìa»
Tati* era già ce» hy actioaafMBlo.
Pìiowodd e tarrìBMMk) fra le
Dì qMl €b*af« fatto eia doteote.
Sempre giva dicendo: o Margarita!
Deh t priega Cristo che non m' abbandoni t
Quando che io verroe a mia Unita,
Questo peccato e gli altri mi perdoni!
Oimè, dolente I trista la mia vita!
Pianger io debbo a tutte le stagioni,
Quando ricordo (24) della tua pietanza :
A Cristo per me chiedi perdonanza.
LXI.
Qnesrè la verità senza mentire,
Che Palma sua fu salva alla fìnita,
Il guardian che la fece seppellire,
E Punoe P altro andò in gloria adimpita.
Qualunque persona che viene al morire,
Si s'arricordi di santa Margarita.
Or tu la prega con molta reverenzia,
Che lei ci scampi dalP infernal sentenzia (sic).
(1) Lez. test casliUUe al suo creatore,
(f) contar, il cod.
(3) passò, il cod.
(4) Se l'è, lì cod.
(5) Ch'ai tutto lui, il cod.
(6) che da giudei, lez. lest
(7) farolli, il cod.
(8) Quando Margarita frustare vedeano; lez. test
(9) I nostri antichi si rìmaser contenti talvolta nell' oso de
alle assonanze, come nel caso presente, che l'Autore ha Yolato
dura con furora e dimora. Co^ in Giulio d* Alcamo troTiamo
ventura : ne* Documenti del Barberino destro con presto .* in E
segna con islagna, ed altri molti de' così &tti; come pur trover
alla stanza 18, fece con dice e cornice; e alla SI sua con j
e poteva; e alla 25 padre con pietade e umilUade; e alla 28 ì
croce e wce, e così altrove diversi altri.
(10) E quella, il cod.
(il) 0 empio e malvagio, lez. test
(12) Un drago che uscio, lez. test.
(13) Segnassi, e disse aiutami Dio, così il cod.
(14) aitami, così il cod.
(15) Anche Io scambiamento de' numeri fu comune agli an
prof. Nannucci ne riporta molti ess. nel suo Manuale: ecconc
In Bonaggiunta Urbicciani:
J)a voi sì dipartìo
La bellezza e l'onore
E non sei quella di' eri.
— i35 —
E in Cinlto d'Alcamo:
per Ib Mn aiù abenlo nolU e «Ut.
Pitisarulo jiur di voi. Madonna nu&
. E qui più sotto, alla sLania U:
Le voilre oraiion lon ripreu/c.
Verrai a ut, figliuola ddicala.
(16) non degni, così il cod.
(17) Cht Salamon, così il cod.
(18) Alcune Toci dagli aniidii si scrirpvano in od modo e si pro-
àswo in un altro, accorciando, e troncando come in ijucllo Icnni-
■ in etile, in endo, in andò e simili.
Pier delle Vigne :
Che m'ha inalzato curalmenle d' amama.
Kazieo Ricco:
Come faccio eo diveitetido geloso.
I te TOci eoralmtnle. parenti, diiienendo. ce., come di ragione osser-
ItS Nanaucci, per la giusta inisara del verso, vogliono essiir pronun-
e ooralmen', paren', di venen' ce. Cosi nel nosiro caso, in iscnm-
^ di genie, leggeremo gen'.
(19) allora eon gran pianto, ki. tesi.
(SO) fanima. iei. test.
(ti} la gloria di vita: cosi il cod.
(S3) La lata dal busto elte lotto la ijiacci.' coiii la lei, tetl.
(33) Il lesto legge: Il Signor nostm.
(il) rieordotiii; cosi la !cz. lesL
DELLE CUtTE DI ARBOREA
: POESIE VOLGARI LN ESSE C0>
tsua carneo
M OBOUMO WTTLLÌ
I^JILIH bi rXi LEITEkA
D-(l)
St lÉ «b A quatto die già osservammo
strillo, voglia lunaria il teli
i doaunemi sardi <; quelli e
■ •• coQgum^iQo, benché veouti ru<
forte d'Un. e'ttoiTi aocbe rassegnarsi ad, ai
a 1.* Cht ^ taliaai ebbero una letterata
I fa aderito sioora, aoteriOTe
— 437 —
4." Che in Firenze ccdIo anoì prima della uscita
i di Federicn di Svevia v' era una fiorente scuola di
k poetica letteralara; >
5.° Cbe linatmente al tempo di quegli aDtichissimi
i erasi già formata la così detta lingua comune itji-
1(1}.
(1) Le prime quallro dednzioni sono ammesse e treqneaieateoie
tale da' sosieni tori il eli' amen lìciti! delle cane sarde (V. Bftndi, pas-
, Ctauti, op. ciL p. ì, Oìossa, p. SS); che poi, ammessa la sin-
k delle carie arboreesi, debba ancbc Deccssariamenle ammeliersi
alleno di una lingua comuae italiana bella e funiiala nel XU secolo,
j^nione sosienula ripeluiamenle dal sig. Baudi, e basta rigtwlar qual-
1 de' supposi! antichi poeti per pr«Tarlo.
Bruno ile Thoro. cagliaritano {11)0-1306) io Hartiiii App.
( Da quel d) che con pìb giocando viso Ascoliasli pietosa
l' meo orare, F. temprando le labia a dolce riso L' alma di gioj ' mi fe-
e. Tale allegranza pari a paradiso, Cli' altra quaggifi non evfi
tggian lo me dimom ognor, e piue l'atiso Se lue bellezze in-
ìembrare etc. >.
Lanfranco ik Bolasco. genovese (inorlo poco dopo il 1162) in
, p. 489: — t Onde trovar piacere Nel TOslro orto vcrduto
' [uore: Che mi fu cerio a cuore Fiori galden ti e alberi gityosi.
gustosi. Di gl'amie vabmniio e di dolciore, Non Tur certo
i. Né galdeaiì e gradivi, a meo viso. Quelli del paradiso etc. t.
Àldobrando da Siena (HI2-tl8G) in Kartìsl, App. p. 110: —
Dli e più vidi giovano giojose In dilettoso e bel giardino ameno,
, pcH colle le venniglie rose Ed altri ilori, ne abbelluvan seno; Poi
)nì ed amorose Rendean quel loco d' allegranti pieno etc. *.
Aggiungerò anche il madrigale ormai notissimo del grandi homttie
lam, che sarebbe del tlS7, come giusiamenie osserva ilsig. Baudi,
a del IfST, come erroneamente trotiamo scrino nel memoriale di
a de Orru. — < Ahi! disveniara, la Tede! Co ri n la. Bella qual rosa
r giardin piacente, Ch'a li chiari occhi suoi diceasi vinta 1^ luna
ilendcnle, Morbo Talal da lo meo sen divìse, E lo meo cor conquise.
'', pietosi pastori, al pianto meo Lo roilro pure unite. E mesti a pie
mo dite De le ninfe l'onor, ahi deitiu reo! Lo nostro
re, qui Corinia giace; Possa gauder tra li tilrì eUn^
— 438 —
Giorfio dì Latoo oetla soa lettera al nipote Piel
prìoio d dice qualche cosa di un Amiio de Tharo
€ italkoram canniniim > (Race, p. 147). Vennero
altri stfaiarimenli e altre poesìe, come soleva avrer
fia per tntte le altre carte arboreesì (redi Perg. m ]
138; Foglio cartac. VOI p. 489^; cod. csiac VI eti
Coà sì ebbero ancbe notizie di on Lanfranco de ì
geooTese, e si troiò andie on frammento di prosa
sia italiana doTUto a penna sarda del XII secolo,
babìlmente ad Elena, una delle tre figlie di G
d'Arborea (1). In Italia però non si fece gran <
questo: ma la Tortona ToUe confimnare solennem<
sincerità di lotta la fiuraggìne dei codici sardi. Ess
donqae T ingegnosa idea di Cu* capitare in mano
palermitano doe codici di antiche poesie italiane,
palarmitano, al qoale dovremmo appropriare on
che non sarebbe qoello di galantocmio (2), li arrebl
vati in loogo di coi non ci dà notizia (3) dorante ì
busii del 1860, e, ad onta della soa ignoranza, \
Se è fero che per Eir la crìtica dì antichi monainenli lett
bisogno più che altro di on certo sentimento storico dell'età
Toirebbero riportare, dovrà ammetti^rsi che i sostenitori delk
rilà delle carte d* Arborea, a' quali non dà punto sospetto on
gale con le ninfe e i pastori nel Xll secolo (e sin pure nel
intendano la critica un pò* troppo a modo loro.
(1) Come di questi, si ebbero anche notizie di sardi meno
poetanti in lingua italiana, del qual numero sono Torbeno Fall
fino Chelo, Francesco Carau, )iichele Conco, Gavino Garobela,
vescovo di Ploaghe, Antonio Pira etc. (V. KaitiBi, /fi/rodtfs. pi
(2) Non esito a pronunziare siflatto giudizio soU'anonii
lermitano, perché non credo si trovi veramente fra quanti ma
bevono e vestono panni in Sicilia.
(3) Ognuno ricorderà come le carte del Manca abbiano ancl
la stessa origine misteriosa.
— 439 —
~poluto lecere il nome di Firenze nell' uno e' HT Sigi» '
nell' allro. pensò di mandare P uno al gonfaloniere di
Firenze e l'altro a quello di Siena con lettera anonima
tn cui diceva : « essergli sembrato die restituire i versi di
» antichi poeti {alle ciltà cui appartenevano) sarebbe alto
> di giustizia e al tempo slesso dì riconoscenza verso i
■ generosi Tratelli italiani che con tanto sacriflcio opera-
• rono la redenzione della patria u . Aggiungeva poi come
lo avesse spinto a mandarli il desiderio di saperne il con-
tenuto , e perciò esorlava con notevole insistenza a darne
qualche notizia ne' pubblici diarii.
Certo è qni da ammirare nuovamente il saggio pro-
cedere della Fortuna la quale, ne' trambusti della rivolu-
zione palermitana, fece capitare queste preziose carte in
mano appunto di chi non era tanto ignorante da gettarle
al fuoco, 0 venderle al pizzicagnolo, né così poco dotto da
non prevedere (sebbene e' non sapesse leggervi dentro)
cbe la loro vera sede doveva essere in Siena ed in Fi-
renze. Ne per un pezzo si fece motto di queste carte;
che non era impresa da pigliarsi a gabbo quella dMn-
tenderci qualche cosa. Finalmente Adolfo Barloli, nella
prefazione a' viaggi di Marco Polo, fé menzione del codice
Oorentino, ne pubblicò un sonetto, e congetturò che
r autore Aldobrando , dovesse farsi discendere un se-
colo più giù della data fornita dal codice. Intanto il 28
Giugno 1865 il Manca vendeva al Martini due nuovi codici,
di cui già qualche tempo prima gli aveva dato contezza
{Àpp. p. 115 segg.); e il 22 .\gos.to dello stesso anno il
Martini inviava una lettera al Coinm. Zambrini, facendo
noto per tal modo che in uno de' duf^ codici acquistati
si contenevano più o meno le stesse materie del codice fio-
rentino e se ne confermavano le Jate. Letta la lettera del
Martini, il Grottanelli, bibliotecario di Siena, gli s
aonanziandogli che nn codice delio stesso geoe'*
— 440 —
remino e del cagtònitano lrova?asi nella sua bi
fin dal 1862, anno in coi era?i stato mandato d
nimo palermitano.
Il lettore ricorderà che anche per le carte i
Boemia trovammo che, come dice il Paris» e un
scrit fot mysterieosement envoyé au Musemn nati
Pragoe » e che in on foglio di pergamena trovai
biblioteca di quello stesso Moseo si conteneva un
poema epico-lirico, e qui se troava anssi dans le ms.
niginhcrf > . Qaesti non sono certo argomenti, ma ;
molto significative: né è senza importanza il vedere co
raccolte di carte egualmente solite, sien venute a
tanta distanza di luoghi e di tempi, colla stessa parti
di casi concomitanti. Analogia perfetta troviamo ani
la scoperta dei codici sardi e quella de^ codici fiore
sanese. Quelli mette foorì il Manca, né ci dà
precise della loro provenienza, forse (dicono i or
perchè non ne era aflatto legìttimo possessore col
glieli aveva affidati; questi, li manda un palermita
scrive soltanto una lettera anonima, forse pere
non erano roba sua : sicché gli uni e gli altri hanno U
macchia, quella del peccato d'orìgine, che se pui
sulla specie umana, non è verisimile non abbia
valore trattandosi di opere della mano dell' uomo.
Oltredichè tanto ne' codici sardi quanto ne't
se diamo un' occhiata alle indicazioni della lor
gine, troveremo conformità certo non insignifìc
codici arboreesi sarebbero roba degli archivii di Oi
dove una serie di principi dotti e amanti di cron
di versi nel XIV e XV secolo li avrebbero fatto
gliere; ì codici toscani dovremmo ripeterli da un
e da un tesoriere di Sicilia. Così negli uni come n^
le indicazioni della provenienza son fotte con la
precisione e con le stesse solite formule; e Tes
— 441 —
Sùie biograRche (Baudì, Memoria etc. p. 31}
ne' codici toscani conlenate, non avrebbe risrX)ntro se non
ne' codici sardi , che già sappiamo qual mirabile cosa sieno
scilo queslo rispetto. E se aggiungiamo che anclie i codici
fiorentino e sanese si compiono a vicenda col cagliaritano (1)
e che tra gli uni e gli altri c'è concordanze persino or-
tografiche (Baudi, ibid.), avremo argomento da so-
spettare che la pretesa scoperta degli uni sia molto con-
nessa collo strano modo di comparire degli altri. Ma più
che per altre vie, la stretta parentela de' ms. toscani coi
sardi si rivela da (fuelle indii^zionì in latino di cui abbon-
dano, e che basla scorrere per non dubitare che escano
dalla stessa ofticina {2). Che se poi vogliamo procedere
col principio cassiano del * cui hono « non arriveremo
a conseguenze diverse: ecco in fatti come il Martini (che
con la sua buona fede e il patrio zelo non sospetta nep-
(1) P. e. il codice fior, e il ssnese (Bandi, ib. p. 9) hanno: —
e Et ideo ab anno sue elatis XVIII (Aldobramitis) rt:cit ìllum vulgo So-
ncto ad Jhcsum crucilìxum, quod pj|ic lionorio <licaTÌl, ciim alio, qtioJ
vero perivi! >. Non liispcrianio ili qacsl' atiro : il cod. cagliariUino, al-
meno secondo il Bandi (p. *0), ce lo conscrra.
fi) Cod. Hot. — t flìc pnela Aldobrnndus naiua est in civitate
Sene anno Domini MCXII, et oUil anno UCLXXXTl, etaiis suo LXXIlt
in cÌTiiaii! Panoroii, ad quam confugit in eiircmis sue vite annis.
.... Magno amore e:ursus ob suam linguam iialicam, ad eam incubuii,
magnalo operam ob id poncris ila quod carmina latina spcmens, in
qnibus valde perilus eral, italico sermone varia carmina scrìpt^iL . . , .
Toi vero sua carmina pprierc ob illiu? temporis guerras, ob invi-
di», ac etiuui '|uia mullos liabull inimìcos >.
Cod. cagliariL — i Aldobrandus senensìs vcrsabatur in raultis
scìenliìs et permaximc in sacris scripturis et iheologia; cognovit pero-
ptime lingunm latiuam et sluduit eliam propriam sue palrio, qnam aii-
lit, expurgavil, ornavi t el expolivìl sed multas persecucioni'S
snbslulit, et guerre discrimina et emnios el varia inrorlunia passus
L
filali' I » *-
— 442 —
pure «n dteooBSlo nggìro) magnifica V importaiu
scoperta di dae codici toscani per la dimostrazic
r antentìcità delle carte sarde: — € E qui noi
dissinuilamii il sommo compiacimento mio nel v<
de^ due codici fiorentino e sanese con
Si può chiedere pmova più luminosa della
tenlidtà? Pdò darsi un migliore argomento di qn
che ddle altre carte di Arborea die ascìvano
stessa Ibnte? »
E chi non Tede die pel fiilsarìo era an n
recidere ogni qoistione soir autenticità delle sne
cationi, quello di mostrar codid vaanti a luce i
parte d^ Balia, i quali corrìq[)ondendo col codice i
se, senrirebbero alla loro volta a confermare la i
di tutta la non breve serie dei codid sardi? Par
che avreno ormai a scrìvere in quel suo bello s
tanto si ammira nelle indicazioni sparse a larga n
codid di Arborea, non abbia pensato a mutarla
ponendo i due codid toscani: ed è incalcolabile
no che gli deriva da tale inescusabile negUgenz;
cosa ormai nota che per essere buon falsario non
spensabile aver grandi doti intellettuali: che se
queste si accoppiassero a quella attitudine imitali
pria di chi esercita il turpe mestiere, forse molt
gior copia di roba falsa passerebbe per sincera.
Ora che abbiamo visto a quanti non infondati
dia luogo la concordanza de' codici toscani col
tano, diremo pure qualche cosa delle illazioni
sognerebbe trarre da' nuovi codid ove sinceri v<
reputarsi, e cominciamo da quella prima importa
serzione che, cioè, gP Italiani ebbero una letteratu
riore alla provenzale e perciò indipendente da essj
Ebbi a provare non poca meraviglia, quand
in un opuscolo del Martini (Giudizii opposti etc
«he il Littré ■ aveva trovali degni dì profondi stadi i
monumenti tutti d'Arborea ». Non so per verità se il
Littré <it)bia studiato le carte sarde, ma se nel Luglio del
i864 o' poteva . a priori e senza esame attribuisce
grande importanza alle carte sarde , credo che oggi, dopo
la pubblicazione del celebre manuale di Gomita de Orni
e delle poesìe italiane anteriori ad ogni influsso proven-
zale, avrà di molto modilìcalo il suo giudìzio su carte,
che se concordano colle idee pììi comuni e volgari intorno
alle lìngue neolatine, si oppongono ai risultamenti più
arrerati e sicuri della scienza moderna. Non dimentichiamo
che le carte d'Arborea danno al Martini (Ibid. p. 7)
il diritto di chiamare la lìngua italiana < la primogenita *
delta lingua de! Lazio, e di farne risalire la formazione
al tempo di Giustiniano. Eppure il Littré (Htstoire de la
(angue Fran^. Paris, 1863) era ginnlo per via scientifica
al resultato , che • e' est la langued'oc et la langne d'oB
qaì ont T antécédence, contre P opinion volgaire, qui attri-
bnait P antécédence à PiUlìen (L p.XXXVII-XXXVm, In-
troduction) * . E aveva già detto altrove [Journal des savanu,
1858 ; cf. Hisioire de la langue Frane-, U. ^2-3) : • À la lan-
gne des Gaules appartieni, avec la prìorité phìiologiqiie
la prìorité de production; e' est là que commeocent les
oeuvres nouvelles eie. • (cf. anche II, 286). Or (pieste
conclusioni del Martini, tratte da' nuovi monamenti sardi,
le quali non permettono certo al Littré di prestar fede
alle carte arboreesì , come quelle che ripngnano del latto
alle leggi piii sicure delle lingue e letteralore neolatine;
hanno forse servito ad illudere molli altri, specialmente ita-
liaoì. die grandemente accarezzati nella vanità nazionale o
mantcipale, hanno con troppa let^gerezza acj!ettalo come
buona merce ciò che veniva a dar loro argomenti da sosto-
nere il primato Ungaìslico e letterario del loro paese. Uacio
— 444 —
da parte i Sardi che io latta la qoistiODe delle
d'Arborea sono troppo interessati, ma gr Italiani ii
nerale, non scapiterebbero di certo, ove sinceri ave
a reputarsi i codici fiorentino, sanese e cagliaritan
par egli poco per gP Italiani che una serie abbastanz
merosa di documenti venga a provare, come essi
debbano ninna riconoscenza a' trovatori di lingua
per r ingentilimento di quella che sarà poi la
gua di Dante e di Petrarca, ma debbano invece rìt
questo influsso do' provenzali coma gran male
alle nostre lettere già svolte abbastanza , e T averli i
come < primo frutto di quelle che il Balbo eh
preponderanze straniere > ( Guasti , p. 7 ) ? Si agg
che le carte di Arborea verrebbero apparentemente a
glìere non pochi dubbi sul primo p^odo della i
lingua e letteratura. In fatti, come mai la co^ detfa
gua comune d'Italia è in fondo in fondo, il dialett
rentino sollevato a dignità di lingua scritta ? Ni^te é
semplice : nel millecento e tanti, e' era in Firenze un
maestro di poesia, Gherardo, alla cui scuola conva
studiosi da tutte le parti d'Italia, Aldobrando da S
Bruno de Thoro da Cagliari, Lanfranco da Genova , Pe
da Siena, Puccio da Pavia ed altri, che tutti, tornati
loro case, poetarono in fiorentino, e cosi il dialeti
Firenze si diffuse per tutta T Italia.
Se poi i siciliani usaron anch' essi il fiorentine
prìmordii della nostra letteratura, non si creda già
le nostre carte non diano ragione anche di questo
Aldobrando da Siena perseguitato in patria si rìc<
a Palermo, e scolari di lui certo saranno stati i
rimatori della Sicilia. Gli è vero che una tale solu
potrà essere difiìcilmente accettata, quando si tenga i
di tanti altri fatti della nostra antica letteratura; m;
pare probabile per chi créde che la formazione
"flhgaa e della letteratura Italiana era per noi un mito
prima che le peregrine scoperte dei codici sardi ce la
piegassero (1). Certo si può ammettere in tal modo,
ma poesia Italiana anteriore ad ogni ioQusso proveii-
sle: sebbene anche cosi opinando, sarà necessario af-
frontare diflìcollà gravissime. Ma quando invece si muovo
da' risultali scientifici . su cui non è lecito il dubbio ,
bisogna confessare che, se pnre si scoprissero migliaia
di documenti che per altre vie non dessero sospetto di
ftlsilà. (e non è di certo tale il caso delle carte d'Ar-
borea) non si dovrebbe però coirere cosi alla lesta
a rifare da capo tutto l' edificio. — Se è provato che
la lingua e le lettere Italiane abbiano assunto forma
d'arte più tardi delle allre neolatine, appunto perchè in
Italia più che altrove l'antica cultura romana, non mai
scomparsa intei-amente . impediva lo svolgimento del vol-
gare; il filologo non potrà credere a chius' occhi e senza
maturo esame, alla sìnr^rità di documenti che suppon-
gono il contrario di ciò che egli ha scientilìcamcnle ap-
provato per vero. Se le ragioni per dimostrare che i pri-
mi Italiani imitarono dai provenzali fossero oggi le Ktes-se
di quelle addotte dal Varchi, di certo bisognerebbe ri-
di Riporleró un brano della — Storia liAk [^llirraiura Iluluiiia —
dd de Sanotìs, non prchè io voglia cotitonikn: il Talfntn crilici am
Unii allri da mmo di lui, ma per mosinrc coititi iBJfolu dai miKlloii
ti dia occasione alle esageraiioni dei mediocri, t Coni'; e quindo
la lingua Ialina sìa ila ìn decomposizione, quali inno i dialclli umII
dillr *Jrìc idcrlù, come e quando ticnti fonnite Ik linjiuc nuum r uut-
4ertie neo-latine, quando e rome «icà formalo il noilro lolgarr, ii pn/,
congtUurare con ptfi o meno Trrì«i mig liana , ma non li |h>A tthrmant
per la inNiflìcicnu de' docnmniii. Ultr^tif , non è 'jiitln II Uioft M
esaminare e cliiarìre quisiioni niolofficlM di «om alio inlcntHC, — tuìji
non ancora esausla di leliili ed ippiidonili ^rfTTTfmi a fV«l. ),*
I
— 446 —
pndiarle quando nuovi docomeoti Yemssero faoii
moslrarci il contrario; ma oggi non è più lecito
mersi dobitatiTaniente col Yardii (1) e dire — i rii
proreniali furono prima dei toscani; pardo à pem
essi abbiano dato e non ricevuto — , oggi stfebl
surdo il porre in duMm che ^* Italiani abbiano ii
dai provenzali le forme comuni agli uni e agli altri
Ma sia che si voglia di dò , esaminiamo adess<
da vicino la quistione ; vediamo, cioè, se possa soste»
tesi , che gi' Italiani ^bero una letteratura anterior
provenzale. E^ non è fuor di proposito rammentar
il Faurìel , dopo aver toccato delle condizioni politi<
dvili deir Italia medievale , aggiunge : — € Gomment
serait-il arrìvé qu' avec tant , et de si belles données
avoir d'aossi bonne benre que possìble, une littéi
originale , V Italie da moyen àge n^ eut eu , en ce g
qu^un début tardif et servile? Il y a là quelque <
hors de tonte vraisemblance , qaelqae chose qui a b
d'étre expliqué. Od est irrésistiblement conduit à
conner que la littérature provengale , loin d^ étre la so
le point de départ de la litteratore italienne , n^ en fu
contraire , qa' on accident , qu' noe revolution. Il y a
(1) Vureki, Ercolano (Firenze, Gianti 1570, pag. 159). — e
Ere, — e Non sarebbe egli possibile, che i toscani avessero ak
coleste stesse voci non dai provenzali preso, ma da quelle me
lingue, dalle quali le pigliarono i provenzali? — Varchi: Sare
anco , che la Provenza ne avesse preso alcuna dalla Toscana , ma
i rimatori provenzali furono prima dei toscani perciò si pensa
— Lo stesso Vftreki nel suo IHicorso ovvero Dialogo, sul
della lingua nostra ( in fondo ali* Eroolano dell* edizione fiorenti
1730) dice a pag.. 466: e Ciascuno sa come i provenzali cornine
a scrivere in versi; di Provenza ne venne quest'uso in Sicilia, e
cilìa in Italia, e in tra le provincie d'Italia in Toscana etc. >.
— 447 —
' et tOQl autorise a regarder la vogue qu'obtìDt celle lil-
lérature élrangère qnand' elle vini envahir la litléralure
italienne dejà existante et plus ou moìns llorissante, woune
r une des causes qui firent negliger les moauments de
celle demière, et en occasionuèrent la perle (1) >.
Le condizioni della civiltà italiana nel medio evo erano
certamente tali da dar luogo ad una letteratura piìi o
meno perfetta : o almeno era probabile in Italia piìi che
allrove il nascimento di una letteratura : ma quale ne po-
teva essere lo strumento ? Se una letteratura poteva sor-
gere in Italia, appunto per essersi qui conservata piiji
iutegi'a la tradizione della civiltà aDtìca romana , sarebbe
poi stato strano che non avesse vestito quella forma che
più naturalmente le si conveniva , vale a dire una forma
più 0 meno latina, quale durava pur sempre allora per
ciò che spetta alla liturgia , alle leggi ed alla politica.
Non abbiamo dunque ragione dì maravigliarci che
r Italia abbia preso le mosse, nella sua nuova cultura
telteraha, dalla imitazione provenzale : codesto non è in
contradizione colte condizioni accennate: anzi ne è la conse-
guenza logica , per quanto strana possa sembrare a prima
vista. — Noi fummo troppo tenaci di'quella civiltà romana che
siamo anche oggi superbi di chiamar nostra : e se vogliamo
aver diritto ad un tal vanto, del quale sono forse anche trop-
po teneri i nostri retori , non possiamo poi rifiutarne le con-
seguenze. Né si può pretendere che l'Italia, culla della ci-
(t)r&iiriel, Dante et Us orig. de la lilléral. italienne, 1,350; e cfr.
ibid. 251 ■ le tableau mémc (de la lilléralure ilatienne svanì Dante)
ine fournira (Ics dotini^es pour établlr cn dehors de celle lillérature ita-
liennc-protcncale, ou provenga li sée , l'cxìstence d'unu lillérature plus
ancienne, plus spontanee, plus iialienne, doni les sources se perdent
dans Ics siécles les plus recniés du mojen àge. * Vedi poi Tomo II ,
p. 831-393.
— 448 —
Tiltà romaia, e sede di nna Chiesa che fece su b fiogii
Lazio, precedesse le altre naxioBi neiriiso teaerario de
Tolgane, giacché era natiirale che i fruiti delTk^iegDO fts
eootinoassero a festìr forma latina , sìdo a che gT II
DOD si fossero persoasi, eoo resen^rio di altre im
che andie una naota Imgoa , ^ersa da qndla di Vir
poterà aspirare a perfezìoDe diarie, e gloriosamenli
gioi^erla. Cosa taoto rera, che anche dopo Daote, bs
risorgere degli stndi classici per br quasi porre in noi
r idioma ?olgare. Ammettiamo, donqae, come gim
osservazioni del Faoriel , ma non dimentidiiamo d
possono con Tenta riferirsi ad ona letteratnra di
latinità , sarebbe poi assordo il riferirle ad una lettei
italiana in lingna volgare.
Però, oltre qoesta letteratnra di bassa latàiità,
lia , innanzi alla influenza provenzale , ebbe una poest
polare (V. p. es. Fauriel, n, 460492). Ne abfc
pochi accenni, pochi firammeoti: ma in fatto di [
popolare si sa bene che sarebbe pio strano assai Ta
molti (1). Troviamo cosi due forme diverse fra lorc
(1) II sig. OoAsti, movendo dal principio che Dante nel noto
del XXV^ capitolo della Vita Nuova accenni a poeti in lingua di
1140, si accinge a Dame ricerca, ripetendo il Virgiliano e antigas
quirite matrem ». Quindi ricorda le &?ole fiorentine e dei Troi<
Fiesole e di Roma », il Ritmo modenese del 924, on rìtmo san
1000, e poi proverbii e molti tratti dalla cronaca di Fra Salimb
dotto critico avrebbe potuto arricchire il suo opuscolo con ci
di altri accenni alla nostra poesia popolare, ma dal caiito nosti
sapremmo trovare la relazione delle rozze poesie popolari, delU
potrebbe ad ogni modo supporsi verso nn certo tempo l'esiste
ciascuno degli informi dialetti d'Itilia, se anche non ne avessimo i
gli, colle poesie studiate di Gherardo, di Aldobrando, di] Bm
Thoro e degli altri poetanti secondo forme d*arte e con lingnagg
terario comune.
iCn atafi) sìqùu
ppnnu*. che stili ;
atun , potessero aostiture aOa tmgoa, testioioiiìo ilt
I le ghNÌe (taliane. il rozzo dialetto del tolj^.
• eoQtfizioai D>3a sussistevano invece in l'roveD-
I quale par godeodo largameale de' betie&'ii dt;U'ti>-
) romano, qoq credè per qaesto esst>r )a Uirella
I glorie di Itoma. La Lingua ile' dooiiiiatoh dou
) coli quell'assoluto duminio che et>be da noi , e perì^
maggior probabilità che 1" idioma TOlgare piiles»
ivi dìteotar presto hngua eulta e letteraria.
E che COSI sia avvenuto, lo pro^-a il Tatto incontrasta-
bile cJie. ne' primunUÌ della nostra lelteraliira , abbiamo
arato noa scuola di poeti ìmìlatori de' provenzali : scuola,
' àon pili dove meno, diflusa per tutta l'Italia, la ipialo
sorse probabilmente collo scendere dei tnivatmi in ilalin.
Dal 1154 0 al più dal 1162 ìn poi , v«dìamo quanti trovatori
accolli festosamente ne' castelli feudHli dell' Italiii dui Nord.
Ogicri di Vienna nel DGlRnato, lU'niardo da Ventiiduur
(1140-1195), Cadenel, Rambaldo di Yai|UDÌras (limKtìt07),
Pietro Vìdal ed altri poetarono con plauso fì'a noi; e niaoulri)
Buoncompagno fioreotìno ci fa tostìmouianza di quanto roHM
stimato uno di loro , Bernardo da Ventadnur. CimI dalle
due poesie di Amerigo di Pe^uiltiim [1ÌUK-1Ì70) in nloglo
di un marchese Malaspina e dì un ranrrlieMo il' KhIii , iln*
AiDti , possiamo congetturare qua! lieta nri:ottnfìiiita ni lu-
cesse a' poeti provenzali nelle corti Italiano verMi h llnu
del XII e nella prima metà ilei XIII Mwoto.
Per altra parte sappiamo che ali» corln di (liiKllHliito
il Buono (IIGO-IISI)....) c'erano buoni ■ dicilJiri )i) rimti
di {^i conditione > e u excellentiiwimi cAiHalori * ( Da
— 450 —
Buti al KX dd Pui^. e Ottimo Commento).
sero poeti stranieri è per noi ìDdtibìUbile, ci
opìoi in coQtrarìo, quando si raoiiuer.ti con i
i Normanni promossero in Italia la coltura de'
gua, secondo che Gu^'lielmo di Puglia ci allei
Di i>oi la corte di Federico II fa il seg(
portante della poesia provenzale in Italia, e s
lile il pia discorrerne : come sarebbe del pari
diSusamenle degr italiani che scrìssero in pr
di quelli cbe in volgare italiano poetarono alla
poiché da Alberto Malaspina a Dante da Mai:
una serie abbastanza lunga , e della quale ci;
prender afrevolmente notizia.
Ebbene : lutti questi poeti nostrali del >
se vuftlsi prestar fede a" codici sardi, avrebbe
zata la maniera poetica già in fiore sino da'
del XII , e per colpevole errore si sarebber ?■
venzali, arrestando cosi l'avviamento originale d
ilatiane. Di tatti gì' Italiani d' allora si dorrebl
quel che de' più recenti diceva Dante nel Conv
* malvagi nomini d' Italia . cJie commendano
attnii, e lo proprio dispregiano abhomi
lìvi d'Italia, che hanno a vile questo prezioso
quale se è vile in alcuna cosa , non è se non
egli suona nella borea meretrice di questi adui
— 431 —
I della nuova poesia de'' troratori , ad essa &* erano
Uli, perchè non truvavano in patria uno strumento che
sse starle a fronte nelP espressione dei pensieri e dei
»si (l'amore?
Dai preziosi codici recentemente scoperti veniam però
l sapere « che in principio del terzo decennio del se-
tcolo Mll, tenne scuola di poesìa e di lingua italiana in
Lflrenze un maestro Gherardo lìorentino; che più tardi
■«bbe in ciò cooperatori alcuni de' suoi discepoli ; e
Vcbe, non ostante molti contrasti, questa scuola fiorì fin
1 Terso la fine del secolo, ossia fin quando, dopo la morte
idi Papa Alessandro, riprese vigore in Toscana la parte
[imperiale. Narrano quelle antiche memorie, che Ghe-
r rardo adoperandosi a purgare , colla scorta particolar-
^ mente del latino , il suo volgare da' vizii di pronunzia
• t dalie voci plebee , aspirava ad inalzarlo alla dignità
Idi lingua comune d' Italia , almeno nella scrittnra ; e
Kdw a ciò era mosso anche dal desiderio e dalla spe-
linnza.che gl'Italiani, aniti di lìugiia, si unissero anche
M'animo, e cessassero dalle intestine discordie ; ond'an*
l«he Gherardo e i suoi discepoli presero parte attivissi-
■ ma alle grandi guerre della Lega Lombarda. Aldobrando
iranno 1181, fuggendo le ire de' nemici ed i pericoli
^ende lo minacciava la risorta parte imperiale , si rifugiò
kin Sicilia; dove per cinque anni tenne scuota, ivi puro
^ fra difficoltà non lievi, particolarmente per parte dì
!• quelli che volevano che i Siciliani poetassero nella prò-
t pria lingua, e ai Toscani la loro lasciassero. Non ostante
^ gli oppositorì, prevalsero in Sicilia gli ammiratori e i
> seguaci di Aldobrando ; e cosi si trapiantava , e durante
i^ gran parte del secolo Xlll fioriva la lingua e la poesia
» italiana in Sicilia (1). >
ì
(t) Budl, Inbirno ad una e
r ad un monello Ualiani t
i
— 452 —
Ma se nel XII secolo era tanto in flore la poesù
liana, come mai allora appunto tanto favore incontri
noi la provenzale? Se in quel tempo fosse stata 2
bambina la poesia italiana e la provenzale già adulta ,
tremmo non meravigliarci della imitazione che ne f(
gl^ Italiani ; ma mentre Aldobrando scrìveva le canzc
Maria Vergine, La battaglia di Legnano ecc., e il soi
epigrammatico < Venti e più vidi giovane gioiose » ;
ci pare possibile la preponderanza di una poesia,
quanto si vuole , ma straniera , e congiunta a istituzi<
costumanze aliene dalle nostre.
Si opporrà forse che anche dopo il Guinicelli si |
in provenzale, e pure esso si era posto a capo di
scuola poetica italiana; e che però, anche mentre
la prima scuola di Gherardo, poteva attecchire in Ital
poesia de' trovatori. Pur non vuoisi dimenticare eh
Guinicelli in poi la poesia provenzalesca è sempre ii
cadenza; ma se anche si fosse per qualche tempo
tenuta in fiore, so ne troverebbe di leggieri la ra;
considerando che prima del Guinicelli era essa la sol?
ma accetta e lodata di poesia volgare^ e però fai
invece meraviglia se ad un tratto fosse stata dimen
e dispetta. Ma ammettendo la sincerità de' nuovi c(
avremmo un fatto assai strano : la prima volta che la p
d'oltralpe avrebbe fatto capolino in Italia sarebbe
appunto allora , quando si vorrebbe farvi fiorire una se
di colti poeti schiettamente italiani.
ad una eansone sarda traili dalle carte d'Arborea, Lettera al (
F. Zambrìni, p. 9. Soggiunj^e l'autore che non mancheranno opp
i quali conlinueraniw a combcUlere eolio scherno. Ha lontani d
lunque intenzione di scherno, che dire quando con tutta serietà
l»arla di un Gherardo che nel 1 1 30 insegnava lingua italiana , fac
scelta de* vocaboli colla scorta del latino , e che aspirava ad ii
il dialetto di Firenze a lingua comune d* Italia?
— 433 —
Animessa la sincerità de^DuOTÌiiutDoscrilti, rasu don-
, molto dilTicile spiegare la vosra die oUenno ira noi la
isia ilo' trovalori ne'primordiì della nostra lotlornlura.
uesla è cosa di poco momento per chi conosca i
i secoli delle nostre lettere. OUredichè i nuovi docii-
i, di cui ci intratteniamo, offrono un'altm non lìov<»
oltà; e per vero, riesce dillìcile il supporrò come I
tenitori della autenticità loro possano trionf^lmento »»•
rada. È noto che la poesia provenzale eliltii un rrasn-
speciale e che ben presto divenne qualcosa di ar-
cioso; ma, io origine, esso Tondavasi sullo condì/Ioni
lìtiche e civili e sulle costumanze cavallerosctje d'ul-
ilpe, che 0 non esisterono aflatto, o appem fecero nuv
1 di sé in Italia. In Provenza p. e& dove eoa ttMe ra-
i aveva il sistema feudale, e dove era aitt iiMlÌtU2Ìone
1 e reale la cavallerìa , non fen oolU di mano àm
I personificazione poetica dell' Amore tome m fmmtn
noe con U sua corte e i suoi /«dUì, ArrawK iti bUft
, e i trovatori di Proreon riefàmoo a imA^ fimmm
\ «ioail UnKiuggio penino io Malia* 4m« b fewMtt»
1 mai il l^ao Don:, e 4ow b onierti ttsét vm^n
che 'wmunmw i fnmuaC. ti S* k mmn/k".
e pen*i le é nmmitu»^ mOm m t/m»
I o C taoip* i» I w<Mw-:
— 454 —
— « Se avarele un nnrìlo.... che barn servg lì sia
manza ec fibid.) ».
— « A forza d^ amore e fedel servaggio (p. 121) ■
— « Ed è giocoso gradir, mirar ed andir ban fedel
pione, tntr altro di Toi moslrì non calere (mn. cL p,
passim) ».
Go9 anche Brano de Tboro (1110-1206):
-— « Perdoo, donqne, mercede. Al meo coraggio
Che umile ve r^ere. amor donate ,
E fedel te convente vassallaggio. » (Mait. p. 133 cf. App. 1
[ Var : — « E fedel ve convente vassallaggio. > App. p
Aldobrando stesso (1112-1186) eoa italiano in tattc
questo sì accorda con gli altri (1):
— e Spietata donna e maggio, ora te chiamo:
Està mercè me doni for paraggio
Misvolendo lo meo fedel servaggio ^
Poi già gran tempo mi t^esti all'amo? » (App. p. 1
Come sia possibile un tal frasario in poeti ci
vogliono anteriori ad ogni influsso provenzale, io noi
Forse alcuno risponderebbe: crediamo che tutto eie
d'origine italiana. Ma chi non vorrà così facilmente
dere , come potrà tener sinceri i codici qhe tali poesie
tengono ?
Né certamente potrebbe menarsi buona l'ipotesi,
corroborata da alcun sussidio di notizia storica, che
(1) App. p. 170: f lo bon servaggio Che v'offre meo corag
— p. 173 e fedel campione i dove sebbene non si tratti di amo
donna, pure abbiamo sempre on modo proprio del formulario
veniale.
— 455 —
Citazione dei provenzali, jn forma volgare italiana, co-
minciasse dalla prima metà del XII secolo (1). Ciò die
sappiamo invece di sicuro su guest' argomenlo si ac-
corda anche col logico svolgimento dei fatti. Dapprima
invero avemmo trovatori provenzali scesi fra noi: poi ita-
liani poetanti in lingua d'oc: per ultimo, ma solo nel XIII
secolo, italiani che adoperarono T idioma italiano, ma
infarcito di frasi e parole provenzali , e seguente le fonne
dell'arte dei trovatori.
Né meglio sapremo spiegare codeste voci e locu-
zioni provenzali e francesi, di cui sono intarsiale le poe-
sie che ci scoprono i codici toscani e sardì. Certo lutto
questo tesoro di vocaboli e di frasi lo troviamo tale e
quale ne' nostri antichi poeti provenzateggianli del XIIl
secolo. Ma donde l'attinsero Bruno, Aldobrando e gli
altri? Il lettore da' saggi di poesìe sinora citate avrà no-
tato con che profusione vi ricorrano coleste forme: ad
ogni modo ne darò un saggio abbastanza copioso.
— Bellore: Elena p. 120, 122, 123; Bruno, p. 148, 149,
^t 150; Aldobrando, App. 167, 172 ec. — prov.
^H
^K> LA valuba; Elena p. 120 (valente valer p. 119, 124 cfr.
H 122, 148. 489, App. 169); cf. la i'a/«r in Lao-
^H rranco p. 490.
^K> LA noB: Elena p, 124 etc. — prov. la fior, frane, la fUur.
^Hp (t) Sebbene molle delle poesìp. iti Aldobrando. Rinno et. si rife-
^WKano alla fine del XII secolo, nondimeno rammenlandosi che i due
soneili di Aldobrando, l'uno a Gcsfi crocifìsso t divinai sacriQcio d'a-
more > e l'altro sulle Irìbulationi, si riroriscono all'anno 1129 (vedi
Baudi, Di Gher. e Aldob. ce. p. 40-1 ) e già mostrano imitazione
proTcntate ibMore. eternai, Uioiìia'. fullore . bombansu ec.A Imso-
gnerebbe ammettere cbe sin dal 1120 Tosse conosciuta o imitala in lia-
lia la poesia di Itnpa d'oc.
i
— 456 —
LA baiu:uba: Id. p. 124; Aldobrando, App. p. 166,
— prov. rancar, rancura, fr. roMcoeur,
cune (femm.)
DBLivHATo: Lanfranco, p. 489 ec
umbra: Eleoa p. 120; Bruoo, App. 155.
FAZONB, fazzonb: p. 123, 119, 120, 121, 124, 149 (
mahbntb: Eleoa p. 121 — prov. maneni, manen (1).
coBAGGio {= cuore): Lanfr. 493; Bruno, App. 154;
dobrando, App. 168, 169, 170.
E cosi tante altre voci di desinenza straniera:
-- PABAGGio, 490, 491, App. 154, 169, 170 — pì
N AGGIO, 490, App. 154 — DANNAGGIO, App. 124 — FALU
App. 148, 155, 169, 171, 172, 173 (fallenza, 171,
176 j — PADRONANZA, 491 — LBANZA, 493 — ALLBGRJ
App. 151, 163, 166, 167, 168, 170. — desianza, App.
— PBRDONANZA, ibìd. — ASSBNNANZA App. 159. — MBMBRj
(1) e si che essere sekaggia mostriale e digiuna d*on
more, fino nelle fiere è manente, i 11 Martini annota: e che fìno
lìere alberga » — e per verità pare che anche Elena abbia ado[
manente per die mane, altrimonte non avrebbe forse detto e ma
nello fiere > né avrebbe premesso e digiuna d* onne amore. » (
noto che in prov. maneni vuol dir ricco, opidento, potente, i
tanto in tal significato fu adoperato manente da' nostri antichi imi
de* provenzali, se pure non voglia citarsi in contrario il noto laoj
fra Guitlone (Lelt. 16, 46) dove ManeìUe è un nome proprio. Mi
tavia molti de' nostri vocabolari hanno commesso lo stesso erro
Elena: or non potrebbe essersi inspirata in questi la nostra poetessa?
tanto più ci parrà verisimile, se ricorderemo quello che già ebbe
tare il Tobler {Bericht ù. d. Handschriflen v. A. p. 86) rìspeti
l'uso sbagliato della voce adesso,
V. Nannucci, Voci e locuz. Hai, ec. p. 49-51; Raynouard,
quo Roman, alla voce Manens.
— 457 —
^■Afp. 166. 169 — acokvanza; App. 174 — auhu, (pi
Amansa, Aimavsa) 119, 120, 121. 136. imfcorol amanza).
494, 49ó. App. 148, 153, 154. 155 (amorosa amanza),
164, 174. 176 — ODOHAKU, 120 — fidama, 121. — »bhi-
oìiAMA, 121. 122 — piBTANiA, r= piflà), 124, 132, App.
166 — BOBBAKZA, 122; App. 172 — mSAMOItA.tZA , 135 —
POSASiA. (far posanza di sé = posarsi j 136 — piackhtéb,
(plazentfr prov.^ 121, App. 177 — piacenza, (prùv. pla-
I Mata, plazenza) 150 — guabk:«z*, App. 151, 163, 171,
■ri^ — VALSNZA, App. 165, 177.
1^ E poi freqiienli bisticci a modo di quelli adoperati
da Fra Goittone :
rVuiNTB VALER, 119, 124; LUCB LvciosA, 134, cfr. App. 162
(luciore), 167 (lucioso); dolcioso dolcoh, 493,
495; DOLCE AMANZA DOLCIOSA, App. 153, 155
(cfr. dolcioTu, dolciore 489, App. 148. 163,
167, DOLzuHA, 120, 131, ec); piacente piacer,
App. 166 ec. ec.
Eorder6 anctic le forme di comparativi: fortiór bene, App.
154; FoaziòBK e più mo^itanie, App. 176; fohziòh
FATTI, (disioso di) App. 173; DOLZiòRH loco, j4;ip.
158; DOLCióR FRUTTO, App. 166 eie. pldsòb ptr
più etc. Sono Trequenti poi per poiché (p. e.
122, 120. 132) e per tìcciocchr {App. 494 ec),
e forme come misvolb5do, kiscompoh, misfa-
CBRDO, MESDIHB, HESDICENTB etC. CtC.
E potrebbesi continuare per un buon pezzo ancora
' qaesta licita già lunga 3bb3slanz;a, se ve ne fosse bisogno.
Ma cerchiamo piuttosto d' ìmmaginaro la condizione
d'intelletto in cui trovavasi chi compose queste poesìe. Egli
A
— 458 —
voleva creare un aotichissimo perìodo della nostra
ratora poetica: dove danqae avrebbe potato m^
spirarsi per la lingua, se non in qaelU che la toc
mane addita come tali che più interamente e copiosai
ne riproducono le forme proprie?
Usare i modi di Fra Goittone, spargere a piene
le sue composizioni di tutti que' vocaboli che i nosb
antichi usarono, era per lui Tunica via da seguire
mentre gli antichi poeti presi a modello furono i
tori de' provenzali , e poiché si vuole che questi altri
posti antichissimi non sieno stati in ciò simili ad essi ,
mai possiamo credere alla sincerità delle poesie deg
timi, quando vi ritroviamo le stesse, note caratteri^
che nelle rime dei primi? Né parlerò dello stile,
di questo faccio appello a chiunque abbia conos<
de' nostri antichi, e son certo che la maggior parte
noscerà come tutr altro che stile di antichi sia q
de' poeti de' nuovi codici ; ma la lingua stessa , ancbi
nendo da parte le forme prese dal provenzale, è
lingua del XII secolo?
Al Tobler, che faceva consimili obbiezioni snlk
carità delle poesie arboreesi , il signor Bandi pam
sponda col § 72 e. delle sue « Osservazioni intornc
relazione su' manoscritti d' Arborea ec. ( p. 76-77 ) i
ragrafo che credo necessario riportare :
< Sebbene gli scritti italiani conservatici dalle '
d' Arborea siano senza fallo (?) sotto l' aspetto pc
scevri da ogni imitazione de' provenzali, anzi da
altra imitazione qualsiasi , salvo de' Latini : vi si tre
tuttavia alcune parole, quantunque non in gran n
ro, che sono o sembrano di origine provenzale o
cese: agenzare, aonito, bealtà, cieray deretano
bonare^ dolziore per più dolce y dottare per tet
fazzone^ laiisore, manto, plusore, zambra. Molte
— 459 —
> tarb, anzi crediamo, la maggior parte di queste y
■ baono il loro riscontro in idiomi italici: tale cera in
* alcune parti d'Italia, e cara in Sardegna; tale zambra,
1 trovandosi camera nel medesimo senso già in iscritti
« sardi del Xil secolo; tale anche bealtd, che crediamo
» tratto dal volgar fiiorenlino (!?). All' incontro certamente
* non è dal horentìno plusor, ostandovi il suono pt: lo
■ erediaìno tuttavia d' origine italiana , e vi ravvisiamo il
1 pasé de' Lombardi, che l'usano appunto a modo d''av-
» Terbio, forma notata dal Tobler nelle Carte di Arbo-
» rea ec. »
Ma per riuscire nel suo intento il sig. Baudi avrebbe
dovuto provare scientificamente che tntte quelle voci di
rattezza straniera, le quali s' incontrano in qnesti poeti, sicno
invece italiane e pìii specialmente fiorentine; giacché non
va dimenticato che Gherardo lavorava alacremente sul suo
dialetto per innalzarlo a dignità di lingua comune italiana;
o non potendo provarlo per tutte , avrebbe dovuto pro-
varlo per la maggior parte , e spiegarci poi come sia av-
venuto che , essendo d' origine italiana , quelle voci sieno
scomparse come per incanto, appunto quando l'imitazione
degli stranieri cessò. Ma il sig. Bandi si contenta di affer-
mare che la maggior parte di tali voci abbiano riscontro
in idiomi italici, e cita ad esempio camera e cei'a. Certo
camera sarà del dialetto sardo del Xtl secolo , ma questo
prova forse che zambra per aver ragione di essere in
italiano -non abbia bisogno d'un francese chambre? Crede
che bealtà sia voce tratta dal volgar fiorentino : ma che
ragione egli abbia per crederlo , non ci è dato saperlo.
Crede che il plasor sia d' origine italiana . e vi ravvisa
jl pusé de' Lombardi : ma non ci spiega come poterono
usarlo Bruno, Lanfranco ed Elena toscani per educazione
letteraria, o Aldobrando toscano anche per nascita. E poi
come c^ entra il pusé in questa quistione ? 11 sig. Baudi
— 460 —
avrebbe potuto dire cbe plusor non è poi tanto sti
air Italia , poiché vi si ravvisa il plus de' latini , e £
valso tanto qaanto citare il pusé lombardo. Sare
stesso come se alcuno volesse dimostrare che amc
voce italiana nella sua terminazione, osservando e
liane sono le voci amore e amare.
Per noi dunque è spiegato come quelle tali
trovino nelle poesie di Aldobrando , di Bruno e deg
Chi le fabbricò , non sapendo formare una nuova iìnj
attenne a quella de' nostri antichi più noti , non badi
grossolano anacronismo die commetteva. Inesperto, a
era , sulla origine delle voci italiane antiche , e solk
delle varie fogge e determinazioni che esse ci mosti
queir età , tenne per carattere costante e fisso ciò (
accidente transitorio e fuggevole. Di qui è ch'i
sparso a piene mani le terminazioni in anza^ enzc
venute in voga fra noi pel contatto e la celebrità <
vatori, e volendo esser troppo antico è riuscito
vera caricatura , ad una parodia , che rammenta i ne
del conte di Gulagna, nella Secdiia rapita:
0, diceva, bellor dell' universo
Ben meritata ho vostra benioaoza.
E questo anacronismo ci parrà anche più credibile
corderemo che il sig. Liverani ne trovò uno sin
dialetto sardo delle carte arboreesi. In fatto il man
Gomita de Orru , a giudizio del Liverani , porta imp
vestigia di un dialetto, che ha ricevuto in sé Tel
spagnuolo. Ora il libro di Gomita è del 1271 circ;
Aragonesi sbarcarono in Sardegna nel 1323, quindi a
un anacronismo di almeno mezzo secolo (1).
(1) Hivista Europea, l"* Dicembre 1870, p. 9-10. W sig.
Conclucliarao dunque , non esser punto probabile che
gP Italiani avessero una lelleratura fi' arie anteriore alla
provenzale; e se anche l'avessero avuta, dovrehbe essa
ritenere indole diversa da quella che mostra negli esempi
arrecati, non punto esenti da traccfl di provenzale imi-
tazione.
Dopo ciò va inleso con discrezione l'altro assioma , che
nel sec. XHI la poesia dì lingca à'or. e oil infiacchì e cor-
ruppe l'italiana per guisa da rendere i poeti di quel tempo
di molto inferiori per merito ad Aldobrando , Bruno e agli
altri del sec. XH. — Non fu certo una gran bella poesia
quella de' provenzaleggianti del XIII e XJV secolo , ma
considerandola rispetto alla storia della nostra lingua, dob-
biamo sempre tener presente, che se la poesia de' trova-
tori non avesse incontrato favore tra noi , e molti de" nostri
non si fossero messi a poetare secondo i modelli stranie-
ri, probabilmente gl'italiani non si sarebbero cosi presto
persuasi che un idioma volgare, e perciò anche il loro, po-
teva servire all' uso poetico e all' arte , e chi sa per quanto
altro tempo ancora il latino avrebbe continuato a tenere
incontrastato il campo. So bene che molti negano originalità
per verità crede vi sia anacronismo di pili d'un secolo, perchè suppone
che il libro di Cornila sia sialo cominciato nel ISOT e lerminalo nel
1Ì23. Invece qnc.sic indicazioni di daie si rirerìscono alla « Storia della
lingua sanlesca > dì Giorgio di Lacon (1177-1967), della quale si servi
Cornila nella compilacionF del ano manuale. Ecco inianlo il brano, trailo
a caso dal ilocumenlo, addoilo dal sig. Livcrani a prova delta sna as-
senione: « esi causa bene conoschida qui ipsos romanos dominadu liaot
toias ssas nacìones el etìam bcniranL in ipso insula nostra ei bJ douii-
namnt per plus longo lompus di ip;os aieros conquista lo res et obllga-
runt ipsos bincliilos eie. t
Lasciamo al critico la responsabilità del giudizio che egli porta circa
le Ibltczie spagnuolc di questo pi?riodo ; a noi sembra certo che , ad
Ogni modo, non abbia i caralteri del tempo antico cui si vorrebbe ri-
L
I
— 462 —
alla nostra antica poesia , perchè incominciò dall' imi
provenzale. Però giudicando co^ non sì tien conto
perìodo d'imitazione provenzale pel crìtico cbe t
storia delle nostre lettere, non è che preparazioi
vera nostra poesia; e che qaando la lingua si è
per molte prove , sorge la poesia vera italiana , U
non cessa d'essere orìginale solo perchè fta preoed
tentativi imperfetti , ove si mostra evidente Vesm
forme aliene.
Vuoisi poi notare che il merìto delle poesie coi
ne' codici sardi , fiorentino e sanese , non è poi quel
si vorrebbe da- taluno far credere.
Si è detto e rìpetuto più volte che esse non pc
essere una falsificazione, perchè di molto valore
co (1). A noi veramente non parrebbe codesta , ragie
(1) È noto che nelle carte dì Arborea e* è on sonetto a i
bligate composto da sei poeti del IH secolo , e che fa trasmesi
dobrando a Bruno con una epistola poetica.
Il sonetto e la lettera sono stati altimamente pubblicati da
Bandi , il quale ne parla così : e In quanto a me , nel sonetto
al tutto quel rotto e scucito, che lo dimostra opera di diversi; !<
poi di Aldobrando, nella quale non sono inneslcUe ad arie j
modi di Fra Guitloììe, ma che da un capo all'altro è scritta i
che non è quella di oggidì , è cosa sì bella e sì spontanea , che
pure il sospetto che possa essere opera di un moderno falsific
Dopo tali parole di un uomo così autorevole , come è il sig. Ba
non si figurerebbe che si tratti davvero di una bella poesia?
Ebbene, rileggiamone qualche brano :
e Certo saria fallare a la tua amanza , — Meo Bnin , lassar
— Conto di ciò, eh* a la Città Fiorente — Nella scuola sacc
Del nostro bon Gherardo foe avvenuto ; — IT pur fo comparate
nobil Alberigo e lo.Ponceto, — Lo Puccio, e lo Giuleto, — I
Meo , e Peroto , che fortuna — Catuno quasi in una — Add
me, che reverente allora — Venni a pagar la mora — M
cade eh* atizzoso infermo , — Se di malor a schermo — Ree
guerenza sanguinosa — La roano dotta ascosa — Del guerìtor sao
— 463 —
dsiva : e sembraci ollracciò che ben poco dì beilo vi si
trovi per entro, ed invece esse tradiscano sempre o la
stentata afTetlaztone dell'antichità, o mal celali punsieri in-
teramente moderni.
E su questa che è quistione di gusto letterario non
credo inutile trattenermi alquanto. È forse l' argomento
creduto da taluno più forte io sostegno della sincerità de' nuo-
vi codici, e mette perciò il conto di discorrerne a lungo.
lo non dirò che sia assolutamente brutto il sogtionto
sonetto di Bruno (App. p. 251):
» Alma dell'alma mìa, e spirto e vita
Di questo corpo ahi! quanto Jiircrmo o lasso,
Se tu me sdJci ina pietosa aita,
A.I niente meo, e neentc soti , irnpasso.
Che del tuo viso che lo sole imita
SluDgiato soe in loco obscitro e liasso ,
U' sol conforta ilolce tua ferita
Lo meo penar, e si tra vivi passo.
Ma se dando più indugi tua guarenzii ,
Tardo gire in voler , credo saria .
Diraggio , fosse gire da partenza.
Ma già me fuge il di. Atii I dorma miu ,
lo per te moro. Dhe , se pare senzii
M'amasti in vita, in morte simuli pia. n
Ora io dimando soltanto se sono a^pras-sioni possihijl
del XII secolo: • alma dell'alma mia, o spirto o vita il|
tìm voOe , — E da tal parie lolle , — E n ralli e a moli inoilra ano
noire, — Tutto cliera lacire;
Po' imaginam lìnnr senxa tonienu — Quel dia dì gmn jilagniiin —
Ad DO sonelto a loro disonore , — Onne res|)ello fuor» , — Vatun dui
versi II più a mttile a-iaiido, — Tulli pria rime ilaiulu ; — Albnrigo n
Gherardo non Cicenli, — Como li pih prudenti:— R [|U0Kt0 por, iiipo
BniD, ora t'invio. — E qui serra lo jianro dire mio. i
Giudìcliì il leltore il giudino del sig. Biudi o il mio.
— u» —
qii«t»> corpo » — se fmb essere del XD secolo qiiel
coià efmwmBBÈko « al wiBBie Beo. eneemesM,!
so: » e <e a qae^le forme eleeaBlì posono. silio i
OH neìperto fibìÉcatore, che non teée è«m émlFm
rmUn jiito, ump^ianem altre d'indole cosi dm
Goà nel sonetto iX dello ste»o Inrf troro:
praidole lafaìa a doke iìsd » nella prisa q^artìsi :
rnMaa tenìoa: « A le consacro la nna nla e l<
frasi che baso '■pronli aodcraa^ cose sa di m
anche Tallra del sonetto YI € E chi nescime don
eodiot^a. Mofcil. K« f»^fa a pia kfSKro lenlo
raauKota troppo heut i noli Terà fi Ftaocesco fi Fi
o ined»> qneOa tioalBo^ioe tradsóMfee che se ne Irò
lArHUy musKalo àaà Verfi.
Di più. è esfi KM pi>»ilide che Bmno de The
ifBsAi arerà sdino i sonetto € Da qnel A che pi
s»xijQrto fi?o eie. B tp. 131 con lìDfvi^^ spici
se«p&e. sirmesse potsteriorseale .1) ano del ^snei
— MB pa
X-sn bcu. ce td hra 2 r^ve
E V^j»r pei prw: ch*>iess»
GfST» eLJ». e paio ul Bàv
Mi ^«14 uflU KilaÉi iù^*a£fnGe.
V^ cr»M jf«» ffic esrpo iJae
Ah: ! che nf è a lede e mb se sfiere.
Afii se cx> |ff««v vìrtesii a fKO,
O a $arf% . «
k— 463 —
Che tua vila di vilio miradore
I Non sia a paraggio , si la creo di poco ,
Ver dolce libertà di corpo e core. »
Questa cosi profonda diversità di forme nelle poesie
ilo stesso autore h anche più notevole in quelle di
dobrando , così che V autore stesso delle preziose indi-
cazioni contenute ne' codici si credette in dovere di dar^
cene adeguata spiegazione :
D AldobraDilus multas persecuciones substulit et guerre
discrimina . et emulos. et varia infortunia passus est, per quc
ingenii vis minuitur: et hoc clarìus adnotatur ex ipsamet stilis
varietale, quo in suis carminibus usus est, ubi poeta tum no-
bilìs tiiiQ plebeus adparel. »
Chi si contenta di tal ragione non sarà meravigliato
in vedere che Aldobrando , l'autore del sonetto semipe-
trarchesco « Venti e più vidi giovane gioiose, » possa poi
usare forme incerte e scontorte come le seguenti :
— pili non lui spietati ( = non pili spietati di lui) App. p. 175.
— no» tosco inriilie amare ( = non invidie amare più che
tosco) Ib. p. 165.
— Quella pastion crudele Per quasi cui fu anciso il giusto
Abele. Ib. p. 175.
— viira a bon ragione (= drizza al bene la ragione) Ibid.
— con tale ambizione Dei bon Dio . m lo del tutto provede
Como mistero vede , Miseompor previdenza forte intendi ,
E disposf onne misfacendo offendi ( Senso ; — con tale
ambizione roriemcnte intendi scomporre la provvidenza del
»buon Dio che nel ciel tutto provvede, come vede il biso-
gno; e malfacendo offendi lutto il disposto) Ibid. (1)
(1) G'à il prof. Comparetti aveva a suo tempo nouio qut^sla ìnlni-
aoiK di Torme moderno nelle poesie arboreensì, die ben dettola l'ine-
«pena mano del ralssrio: < Che ceni versi come Degli aterciH Dio, padre
30
k
— 466 —
Ma qaello che forza nmana non varrebbe a spi
e che pare passa come la cosa più naturale del i
agli occhi degli ammiratori delle carte arboreesì , è il
di sentire di Aldobrando circa alle cose politiche. -
avrebbe mai sapposto che nel XII secolo , quandi
città pensava a se\ cercando di fare il maggior mal
sibile alla sua vicina , da cui era ricambiata di pari
to, fosse poi vissuto un poeta che sapesse sollev
concetto della nazionalità italiana? Eppure Aldobrai
narra della battaglia di L^[nano, combattuta dai
lombardi , come glorìa d' « Italia grande » e d^ « 1
gli 9 che in essa si reser chìarL Che più ?
» Ma a comuo ben pagnando ,
Non a loro daonaggio , ma difesa
Di Dum umvKisAL » C^PP- 168).
Si domanda se queste parole e questi peosier
sano davvero essere del Xn secolo !
Panni che le carte di Arborea si manifestino t
spesso per quel che sono.
Sostiene a ragione il signor Bandi che se false
molte vie debbono dare argomento a scoprire V
stura; ma se egli stesso parla con compiacenza del
neroso delirio » politico di Aldobrando (Di Gherar
Firenze e Aldob. da Siena etc. p. 71), non potrà ceri
amoroso o come Indiinàii a' tuoi pie gli Raii figli non possane
in alcona gnisa di nn poeU del XU secolo, e convenga scendere
più in gi& di qoeir epoca per trotare nno stile poetico a cui si
no , è per me cosa di eridenza as^omatica. Se però on nomo di
sappia che ha letto anch* egli i poeti italiani da Cinllo al Leopardi,
che questo eh* io vedo ei non Io vede , e mi chiede di provar
quelfi e tanti altri simili versi non possono esser di queU* epoca,
prìo mi troverò ridotto a mal partito, e dovrò rass^narmi a
queO* uomo nel suo errore > fNùowa Antohgia, Giugno f 870).
— i67 —
persuadersi, come tanti altri ritengano solentidl
tutta la farraggine delle carie sarde {!).
(I> Credo ulile raccogliere in questa nota maggior copia di esem-
pi , sia di parole che di pensieri, che mi sembrano in coniradizìone col
tempo cui si ilovrcbbcro rìrerire , ammessa la sijic«rità de' codici sardi. Il
lettore vi iroierà anclie alcane fonile proprie di nessun tempo, e spiegabiii
soltanto col rìpeosare al proposilo delil>eralo del falsario dì alTeUarc
oscarìtà 0 slraneùa per dare apparenza di vetusta alle sue composi liooi.
Nel canto dì un pastore sardo, Gililino de Corya de Ollolai, che
sarebbe (issuto verso I' 800 dopo Cristo, leggonst i seguenti versi di-
retti alhi sua sposa Barbarila :
Cum magna ragione, Habo clamare, Te sole et stella,
la kelo secura. Et astru desideraiu. Sole splendente,
Stella nuiante, Et lana bella eie. >
(Martini, p. 467).
^^m Ecco alcuni versi di un canto guerriero di un llfredìco
^BS: si riferiscono all'invasione di Museto. P, una specie di n
sarda . cosi il Martini , del 1000, e c'è menzione di un valorosi
del poeta Bruno de Thoro :
Sa patria prò salvare.
Sa patria prò salvare
Dae nova invauonc.
Commns juvenlude
Honstranus sa virtude
Ad so ree Parasene
RaccomaDdiamo « filologi €tl agli
vertirri, Divertimento nel wasa loro a
secolo.
< Costa crudele et dol
Hi restai filta in s' i
f Voi ne adonnto eo malti
(Da voi Tìtaperato, io n>
t Ch'ooDe Inltj, non solo dir
(percbè tolto è creato per tn
( L'alma dì gioj' mi fesl
« tntt'alma inebria. >
Amor Tiaato imparo
Sodo di Aldobraodo (111M186):
( Qi'nom bulilo da ni oa
E Buggio ove su patria
in quatto d
d'oorcTirie onor a Ib
Cose <|OHlÌ aitimi Tfni rìcordaao la 1\.* oiuta ilrl qu>rtik mmIu
IcUi Gerralnmiie lìtrrau . cosi i sTgumii mi sriiibrano calcilli (ulht
noDMiMiK dello sUsso Tasso :
■ 0 Nasa tue che io .>' etwoniu nioaio
Sa dalche limba tiu to' bu ìnspirwlu.
Inspiraroi a reni, M ìfm iiwntii
CoDiusida, agìloda
Aperìnii, et abìm Uilimi'nk',
Il decoro, gratia, kinciMUdo.
Canle so nieu suUoclu.
« Sa« fnrcMie ias pxlts t
— 471 —
•rimi anni del \ll secolo c'era un Gherardo che metteTa
mola (li lingua e poesia italiana, e" era it poeta romano
> Procnrel, non suspendat
Sn cotnerciu, $' industria, sas anes, >
(p. 361).
I PromoTeiHlE) sas arles , sas scientiis. i
(p. 3H).
I Armai sa manu a sa non sua lundicla. *
( IbiiiO.
I Pro snìilari dae s' ìnsula iti su loia
Sa genie Aragonesa. i
( rbld.).
t Sa Vida prò sepie horas prolungando (i niediei).*
(p. 37i).
D Francesco Carau , discepolo di-l rollili ,
1 Molle di piamo e pallido nel riso,
Siretio lo core, e di mestizia pieno . . . . ,
Abi ! lo dolor lolle valura , e priso
□amini lo ingegno , e slrinsc iti duro Treno .
Onde il vasccl da lo limon diviso
Varcar non può dello gran mar il seno. ■
(p. :
18).
di natura il drìit«. :
( p, 204).
I Se aberra dal drillo. >
(Ibid.).
< Tulla scietiza elio ebbn citinvennnio
Allo suo talento sufliclenii). >
(p, 20r,).
t Ma tulio spiritoso
Fu lo SDo canlare. >
( p. «Ufi ).
In un codii:e supposto do' primi anni del secolo XV si legiiono
i tegnenti versi di Amosio di Ploaglic ;
[ - 472 -
k
che scrìveva il madrìgale in morte di Gorinta^ e Aldobi
poeta politico; prima di loro qualche tentativo di p
d' arte ci sarà pur stato. Or che' ci danno le carte di
borea che non ci lasciano mai dubbiezze, lacune od <
rìtà? Ci danno la canzone di Azone da Siena del 99
e Caro Cola eo te saluto
De li fiorì u^ son beato.
Sodo in Florencia un mese jà rìvato:
^ Et lo di che son venuto etc. »
e r altra di Misser Petruccio de Florencia dell'
1085:
« Lo tuo amico te saluta,
Ke la cosa fue plagiuta,
Et tute lo denaro me foe dato,
Et lo vino fu bombato,
Et lo pretio brancicato etc »
E' si vede facilmente che Tuna e T altra sono o
della stessa persona^ e che devono essere state comp
non già a quasi un secolo di distanza, ma V una in:
diatamente dopo T altra e da un falsano inesperto, t
è la somiglianza di stile (se pure in questo caso è U
parlar di stile) e tanta è la simiglianza persino nelle i
e nella forma, che è V epistolare. Ma anche tenendole
merce buona, qual mai differenza di poesia da quest
quella di Bruno, dal 1085 al 1130 o 40 forse I Ck>m<
e Che se Imene Tegg' io scaoter la foce ,
Come lieto scoccava amor suoi dardi.
Nascer pur veggo mille eroi gagliardi
Temati io guerra e Teuerati in pace. >
(pag. 337).
cotesti rozzi saggi, una trentina d'anni dopo aTremmo
forme così diverse di poesia? Qui non vi è più progresso
ma salto!
Chi dice dunque che le carte rli Arborea illustrano
la storia delle lettere italiane, dovrebbe dire piuttosto che
r abbuiano.
E infatti : per la Sardegna ci hanno dato una corte ipo-
tetica del VII secolo trasformata in accademia archeologica. Ci
hanno data una lista di 70 pittori sardi ( Martini,
p. 263-4 noia E) da! 900 al 1400, laddove se ne troverà
appena due o tre ne! 500 e 600. Ci hanno dato un Gior-
gio di Lacon (1177-1267) che fa profondi studi sulle
lingue romanze e sul romano rustico: un Gialeto che fk
mutar lingua a' Sardi e inventa gli articoli : un' Elena che
fa versi e prose italiane nel XII secolo (1). Non una sola,
r
(I) Aggiungerti [|ai in nota qualche saggio delle doiirìnc degli ari-
fi lologi su Hi ariKireesi.
Deieione aposirofii Gìaleio e i suoi quatlro h^iieili:
I Nosirae linguae varialio vesira est sapienlia. •
GaTJno di Marongio ci fa sapere clie Gìalclo < lia il.nln graiii-
mntica cum anìcoli nori a la lingua sarda che anle erano a Torma de
Ialino rustico che no yolia li diii arlicoli >.
E CoitiJta de Orru del XIII secolo; < ipsu supradictu reo rurii
ipsD prìmu qui usarìt de narrer ipsu el ipsa iu loco de tu et la, dictn
de SOS Corsoi et Siciliana^ ■.
Gomita de Orru: — « E questa lingua rustica romana, la quale fd
generale ne' popoli Ticini italiani, cioè i più Ticini a Roma, sì apprese
da ogni nazione sommessa, con alcuna variazione in quanto alla pronunzia
e lerminanione per la diversa qualitii e natura de' (lopoli: ed è rimasa
quasi giusta o terma in ogni parte d'Italia: come T ha provato il soprad-
detto autore Giorgio de Lacono, per inezio di molti ed innumerevoli
verbi ovvero parole, che ha raccolto nel grande e mollo alile Tiaggio
_ 474 —
ma tutte quante queste meravigliose rìvelaziooi ea
giustamente i dubbj degli studiosi: le notizie storie
le letterarie, lo stile delle poesie e le forme di ver
zione, le immagini, i pensieri, le parole, le dottrine
rafie e le filosofiche, tutto è egualmente controvei
discutibile.
sao nell' Italia, Fraocia e Spagna. I quali Terbi nella Carnosa opei
citò uno per uno etc. etc > (Tradaz. del Martini, p. 127 Appen
Onesta opera di Giorgio di Lacon è detta — Idatoria de s;
gua sardesca — da Gomita, e — historlft lingue sardesdie -
l'annotatore GioTanni Pnliga.
— p. 128 — e fa la rima conosciuta in que' tempi eziandi<
altri poeti, come Virgilio ed Ovidio F hanno usata, ad imitano
canto de* rustici nel mezzo dei Tersi loro, almeno per gioco. I
certo che hanno conosciuta la detta rima i detti grandi poeti Le
poesie colla rima i nostri poeti rustici hanno composto non cono
OTTero non istando alla misura de* versi latini etc. > — E il
' annota: — e Ego credo quod Tulgus, Terum credens modun
Virgilii et Ovidii, et cum illi placuisset, statim imitasset, quia
stat auditui et non decernit, et per consequens rustici acceper
retinuerunt, non autem dederunt supradìctis poetis qui ludendo can
sed post rustici dederunt literatis, qui in arlem naluram Terter
(p. 121 ).
— p. 130 — 1 Però noi [Sardi] cacciata che fu in
dair Italia, compresa Pioma, ed altri luoghi la vera lingua latina,
barbarie de* tempi, e tanti altri disastri e guerre ed oppressi
popoli, non abbiamo avuto la necessità di formare una lingua ]
scritti, ed abbiamo continuato ad usare e scrivere la lingua rustica r
che dopo di pochi secoli ed eziandio per le dette ragioni, si fi
nostra propria, eziandio negli scritti. Però gì* Italiani restarono
tempo per formarsi la lingua perfetta a modo da scriverla civil
facendo tante mutazioni negli scritti, quante furono le disgrazie d
pi, come è evidente dagli scritti dei notari e cancellieri, l qua
volendo scrivere la detta lingua rustica che fu in uso, tentar
scrìvere in latino intelligibile alla plebe per molto tempo. Il quale
fu il più barbaro e deformato, che meglio sarebbe stato scrii
lingua del popolo etc. » —
— 476 —
Se è Jfgwfnto A poco lariore
rìlà de^oodid vbomsi <|iìelo del
chi so tatti que' prelesi poeti che
Bè dì OD solo paeseL Dme scrive i Ar
paria de ' poeti di ogai parte f
di CWIod'AkaBo, e
■B periodo detta nostra
ben Molto si potrebbe dBUMicie,
detto a loBpo, rtsparvìo al lettore
o avea lette altrove o di se
e ma contenterò di notare cqbkì
rispondere a <|nesta obfeaenaner
per ipioranB od
tsporan& e dfei ad
del conte UfoBn^ cane sé i
ifi
Ilo
«reti» !!a%s$arà ila
et pHÌ^ soft i
■fwamad teiùas « - — e Téot san
nes ic joàimiiiia jer
BC wsusani ssùsaosn
— 477 —
fello diflàsa tra i letterati italiani, e motto Terisiirale, le
- poesie Sicilie non ci sarebbero giunte altrimenti che in
tnscrizioDÌ di toscani, e che a' traschltorì devesi dare
il merito 0 la colpa di averle ridotte in lingua più o meno
toscana, come non doveva essere molto dìOlcile qundo i
paletti italiani erano di Torma molto più vicini Ira loro.
1j canzone, in puro siciliano, di Stefano Protonoiarjo
riportata dal Barbieri nel suo trattalo • Dell' origine ddb
poesia rimata • (Modena 1700, p. 143-145) dà molu ap-
parenza di verità a questa opinione.
Né ci farà meraviglia il trovare oe' primi siciliaiu forme
poetiche e dì stile e di metro già svolte abbastanza, »
ripensiamo che essi sì modellavano sulla poesia protemale
giunta ormai ad alto grado di perfezione, senza sapporre
di necessità, col sig. Baudi, una anteriore scuola iialio.
Un altro argomento recato dal sìg. Bandi in favore
delle nuove poesie, parmì abbia anche esso poco valore,
sebbene ei lo dica di fate evidenza da convincere i piA
restii. È nolo che nelle poesie, specie in qnelle di Aldo-
brando, s' incontrano spesso modi alTatto gniltoniaDi. 0
Bandi ha creduto dimostrare che Guittone e non Aldo
brando sìa l'imitatore; e cita due «sempi, mio de' quali,
a quel che e' ne dice, dimostrerebbe ìncontrastabìlmeute
il suo assunto.
Confessiamo che con la migliore volontà del mondo
non siamo riusciti a veder la necessità dell' asserzione del
sìg. Baudi. e ci è parso sempre afTalto impossibile deter-
minare con certezza o almeno con molti gradi di proba-
biUtà, quale de' due poeti ne' brani messi a confronto, sia
r imitatore, quale l'imitalo. Se non che, noi abbiamo
altre ragioni per credere che il modello sia il frale Are-
lino, mal ricopiato dal moderno falsario.
Finirò (pieste osservazioni su' io
col rammentare l' uso frequenti»
tnwr per in.
— 478 —
Il sig. Baadi Del suo Glossario ad Aldobrand(
an esempio di Loffo Bonagnidi : e Dio mercè, avrò
mai riposo 0 troveraggio iaver P amor riparo. »
egli stesso a p. 77 delle sae e Osservazioni iotoro^
relazione etc. pabblicata negli Atti della R. Acca
delle scienze di Berìino » dice invece che dì tal vo<
se n'ha esempio ne' poeti antichi; e in fotti è
che r inver in Loffo Bonagoidi significa tntt' altro ci
Né è vero che sia incerta P orìgine della voce,
vorrebbe il sig. Bandi: inver significa verso, ed i
etimologicamente chiara come incontro, innatue ^
strano è soltanto neir osarla in vece di tu. Or non sa
possibile, che siccome già il sig. Bandi intese T ini
Loffo Bonagnidi per tu, cosi anche il compilatore di (
poesie rabbia inteso nello stesso significato, e <
sparso a piene mani nelle supposte poesie del
secolo?
m
Avrei volentieri discorso anche delle poesie e
prose sarde della raccolta arboreese, ma non conos^
a fondo il dialetto sardo ne' suoi vani perìodi, i 1
mi perdoneranno facilmente, io spero, se ho preferì!
sciare anche più incompiuto il lavoro, che arrischiai
discorrere dì cose per me non abbastanza studiate. <
invece far cosa più utile esaminando qualche argot
messo innanzi in favore delle carte di Arborea in gen
Il più importante di certo è quello della menzione <
ha nel cod. gameriano di un Caesius Aper preside i
riale in Sardegna nel primo secolo dell'era volgar
costui non si seppe nulla, prima che nel 1856 fosse
blicata dal Borghesi una inscrizione di Sostino, in cu
— 479 —
ainato. Intanto il codice gameriano era noto sino dal
, Riporterò le osservazioni d^l Mommsen:
« Non v" ha dabio, cìie qui s' intende appunto quel
t Cesio Apro, che, secondo le inscrizioni, era nell' anno
I prefetto d' una coorte, e più tardi legalits prò prae-
j dell' imperatore in Sardegna. Questa carica di Cesio
I in Sardegna fu conosciuta per mezzo dell'inscrizione
I Sestino, pubblicata per la prima volta dal Borghesi nel
tetlino delt Inslitulo, 185& p. 140; Io scritto del Bor-
i Tu indi a poco ripubblicato dal benemerito Spano
l Bollettino Arclieologico Sardo, Anno IV (1838), p. 181.
Ille è il fatto, che venne piìi volte allegato in prova,
! notizie positive date dai manoscritti d' Arborea si tro-
"ono confermale da inscrizioni posteriormente scoperte.
i è d' uopo che prima e" intendiamo, che cosa s' intenda
1 questo posteìiormente scoperte. Certamente, Tinscrizione
1 parecchi secoli dopo V età alla quale si pre-
nde appartenere quel manoscritto secondo l' opinione
>' suoi difensori, ossia al secolo \V. Ma questo è appunto
lel manoscritto (3° fra gli enumerati dal Vesme), la
IsiU paleografica del quale fu sopra dimostrato dal
è, ed inoltre manc^ assolutamente ogni prova, che la
iota marginale in questione sia stata veduta da persona
I di fede prima dell' anno 1856. Il Vesme dice bensì:
> dal 1850 era noto, e slato visto da parecchi, quel
éiee che, acquistalo poco dopo dal Sig. Cesare Gameri,
I poscia da lui donato alla Biblioteca di Qigliari. È
tamente a dolere, che in simil caso, dove anche da
Dioro che prendon parte a simili controversie letterarie
i sarebbe richiesta un' assoluta esattezza ed una precisa
ssignazione dei fatti, quale si esige in un processo cri-
ninale : i difensori delle Pergamene si siano ristretti a
late così generali e ad espressioni così poco precise, come
Mr esempio quella visto da parecchi. Ma questa è una
li
I '
1.
I
— 480 —
' svista pio di forma che di sostanza; ed ìnSstti non
che tale prova, assolatamente necessaria, potrà ;
venire sommìniArata. Se non che anche ammesso i
qoale pienamente provato, gli toglie ogni forza la
stanza, che il passo in questione si legge in margio
manoscritto, e dallo stesso primo editore venne dato
aggianta posteriore. Ora non è p^ nulla dimostrate
quando anche il manoscritto già esistesse nel 1850
sia stato possibile al falsificatore mutarne alcuni fo{
almeno farvi alcune aggiunte in margine. Questo
scritto di difiicile lettura, come quasi tutti questi
menti, fu lungo tempo nelle mani dei trascrittori; (
assicura, che alcuno di essi non sia appunto il fa
od in intima relazione col falsario? e l'esistenza de
noscritto nel 1850 prova essa forse, che già alle
fossero quelle note marginali? se si trovasse una
aggiunta in margine ad una lettera di commercio,
tribunale ne terrebbe conto in giudizio? Di certe
v'ha che questo: che T inscrizione fu trovata dap
nel 1856, e che la notizia in questione venne dap
pubblicata nel 1865 ; e che perciò V autore di
notizia può benissimo essere stato in grado di far i
quella inscrizione. »
Se non si avesse a lottare invano con le obbi
del Mommsen, qui si avrebbe di certo una prova abba
concludente della sincerità del manoscritto. Or non
mai fuori V uomo autorevole e degno della fiducia de
il quale dica: — prima che fosse pubblicata Pinscr
io stesso ho visto quella tal nota marginale nel (
sardo? (1).
(1) Almeno pc'mss. boemi c'era il Dr. Hanka, che affem
averli egli slcsso irovali, ma per ciò che riguarda I* orìgine delle
sarde e dei codd. fiorentino e sanese, lutto è mistero.
— 481 —
proposito di DotG margiDalì, mi sia permesso
ire UD allro fallo che, in cosa dì mìoore imporlanza,
I una seconda edizione di quello si bene esami-
I dal Mommsen. Vedemmo già nella prima parte del
sente lavoro conio nel cod. cartac. XIII p. 426 (pub-
1 dal Can. Spano nel 1859) quel tale Arrio
) fosse dato come « nolamra sive sci'iptura compendii
Il Martini in una nota a quel luogo a si tenne
i' attribuire ad Arrìo il merito dell'invenzione »; di poi
l approfondila la quistione, non esitò a negarlo {!). »
) che le ragioni stesse che misero in dubbio il Martini,
I fatto mutare opinione all' autore del codice gar-
I, giacché in questo ultimo si dice che Sifilione
«re studuit nolis compendiariis [' ab Arrio in Sar-
i inlroductis]. » E le parentesi quadrate indicano
) una nota marginale, identica a quella in cui è
le di Cesio Apro ; e queste note marginali il Mar-
l stesso afferma possano credersi interpolate.
Sarà reo di giudizio temerario il lettore se supporrà
, come la menzione di Cesio Apro potè essere inserita
I pubblicata P inscrizione di Sestine, cosi del pari fu
> ad Arrìo il brevetto d' invenzione, soltanto dopo i
sti dubbii del Martini (2)?
Altro argomento addotto dal sig. Baudi è la menzione
I si ha di un incendio di Villa di Chiesa per opera di
briano giudic« d' Arborea in un poema arboreese ìn lode
di Ugone pubblicato sin dal 18<iì. Di tale incendio non
si conosceva nulla prima che il sìg. Bandì stesso nell'aprile
(1) App. p. IlO-llt. Le ragioni sarà Torse inutile rìpelErIp: le note
uchigrafìclic erano in Roma cosa mollo piti amica e di Arrio e di Tirane,
>olo per errore inveleralo lo si chiamano tironiane.
{t) Nello slesso codice la noia marginale B a p. 30 conferma una
optntone dal Martini espressa a p. Slii delia Raccolia.
31
^
— 482 —
del 1865 esaminasse alcune carte antiche della
Villa di Chiesa, in cui se ne trova frequente rie
Mi sia permesso dubitare che questo e gli altri ai
dello stesso genere addotti dal sig. Bandi (1) sieno
Era già noto per fama, che P archivio della città i
conteneva molte e preziose carte antiche : ora chi ]
assicurarci che il falsario non ne avesse preso ai
mente conoscenza? o ne avesse d'altronde notizia
La più strana però delle argom^tazioni del si
è quella per cui deduce la sincerità delle carte s
gran numero e dalla gran varietà de' nuovi do
Egli sfida il Dove a comporre, con la diversità
che è fra Tuno e P altro, il Ritmo in lode di Gi
concione delegati di Torres e Figulina e la vit;
gellio contenuta nel codice Gameriano; come sfid
terati italiani a comporre poesie del genere delle ai
A me pare che se anche nessuno de' contraditto
atto a contrafare un verso di poesia o periodo e
non per questo il contradittore avrebbe vinta la cau
che l'attitudine alle falsificazioni è attitudine spec
l'intelletto, come potrebbe essere per esempio una ]
sa memoria, una tendenza istintiva alla imitazione (
e della voce altrui. E tale è l' attitudine del falsario,
riescire nel suo intento non ha neppur d'uopo di gra
dizione. A' nostri giorni Vrain-Lucas che non era un
tico, ha illuso per gran tempo un illustre matematica
ad un certo punto anche l' Accademia delle scienze e
(1) § 103, 104, 105 delle Osservazioni etc.
(2) Lo stesso può dirsi di notizie conosciate solo per m
carte di Arborea e poscia confermate da carte scoperte ncU'a
Cagliari.
— 483 —
jppe Velia era nn ignorante, e seppe tanto di arabo
uto altri della lìngua degli Oltenloti, e pure pabblicò
i volumi in (]aarto e uno in folio, codici arabi, da
i ru ingannato un orientalista di gran riputazione, il
- 1(1).
Chi poi non sappia figurarsi come si possano falsifìcare
i manoscritti quanti ne ha la raccolta Arboreese, legga
^Operetta del Tiraboschi « Riflessioni sugli scrittori ge-
tàogicì » (Padova !789) e vedrà ivi quanto seppe fare il
creili (2). Leggansi anche le « Notizie spettanti all'opera
n-ira intitolata Storia degli Svevi e Vita del Beato Cala « (3)
(I) V. Seinà, Protpelto della Storia LilUraria di Sieilia, voi. 3°
3. È un capitolo che merìU di esser letto da chi non crede
e r iraposiura possa giungere a lanlo.
{% Alfonso Cicurclli da Deraglia (1533-1583) fu condannato a
Mite per aver flnlo due leslanieiili, uno slrumenio della conferma della
supposta donazione di Costanliao sollo nome di Teoitosio ìoiperalore, e
diverta htperalorum Privilegia, geneaiogias , et hislorias. et alia
pretentorum inttrumcnlofiim traiuuinfiCa. Tra queste ultime iinpO'
sinrc va annoTcraia. nn' opera Ialina in 5 libri di un Fanusio Cara|iano,
il irailalo dr Cardinalalu et Cardinalibui di on Jacopo Gorello da
Colonia, l' opera de antiquilale et rebus Campaniae Felieii , et itt
marima Seai>oliii nobilitale eie
Ha della pericolosa facollà inteutiva del Ciccarclli t prova lamìno-
lissiiiu r indice di aoiori e opere da lui supposti, eh; pufi vedersi a
p. 5&^ dell' operetta del Tiraboschi.
(3) t Lo Stocchi comìncio dal falsificare due libri con carta, ca-
rallerì, e stampa uniforme a quei del sec. XV e principi! del XVI, uno
del 1473, l'altro del t509, clic sparsi ne' suoi mw per l'Europa,
wppe dopo del tempo fame venire una copia in Napoli, per presentarla
al regio Ministro >,
' Due manoscritti inserì nella Vaticana r nell'Angelica ove poi furono
rìlroTatì. Una quaiilìlà di opuscoli, frammenti, diplomi, lettere ed allif
carte, che in tutto passano il ceniinaio, fece trorare negli arcliivìj ft
btici e nelle cose privale del regno di Napoli, e luui li raccolse ift>
tomo, a cui fece seguire due altri tomi in latino.
k
— 481 —
tloBiL 1792) e si vedrà carne m prete, Ferd
Sloodi. ìofsniasse bob solo foloBii ìb ìqUo, ma ri
«fecfae a far pKsare per coqio di un saolo la caro
■n aàBù! Qttetsto per fero bob è aBcora anenalc
earte d" Arborea, sia chi sa! —
Si don die càò die fm possibile un teBipo,
ofgt; laa ai ponà nostri fa possibie b frode, ben
cone^pota e preparata, del Simonides, e V ìBTeniìoo
carte boesK, e le 27 nSa lettere dd Vrùi-LocasL
o^ è iiia<iili1i Taccorteiza de' dotti, bob è asci
■entata Pastazìa de'mahagì? Se ad bb ignorante A
scorsi riesdia iigaBBare i dotti d * allora, bob potF
riesdre lo stesso ad bb mediocrenieBte erndtto de
teiBpi?
Si dosandera poi: a che scopo qoeste fidsi6G
A toglier fona aD * obbiezioBe basterebbe rispoodei
BBa Msificazione poò per eoa dire esser Gne a sé
Si falsifica per Gdsificare. Ma nel caso delle carte Arti
Efft ìksmtn € M hnwo tessalo eoa talee tasta «le, e
himtaiMae e coatfesàoae di chi arerà arila parte nefla medesi
af^*s^ posto ÌB s4>5peUo i lefptorì. saivbbe stato forse difficile
j tono di »a!!iù. Ne re<taroao ioàtti ioponali tanti reTÌsorì.
ìa <^oel tempo de' piò iHimitkati , che aiesse Napoli, i diver
de' qinli 5i fe^^ooo in testa di ciasche^fan tomo, e conlessai
of^mti tutti i moonmecti aotenticl che mostraTsio la chiara
che obèU^Taoo -a prestar loro (^i mairgior fede. E fra questi
manca hi Hopo alT opera di moosi^. Gregorio Cara£b tpscoto
sano, e repo coosi^liere, cbe riconosce io essa h mano di Dio
Tohito fflani£estar b gloria della soa onnipotenza nella TÌrtù e
di questo santo >.
La fran moie di scrittore cbe doTeitero ìnTeniar di sana
questi hlarii qui accennati, dere scemar la meraTÌ^lia d^ Soc
afmmissione dei testi di lingfua^ cbe neiroltimo fascicolo del
gtiatore p^ ±ìt parre negar fede ai contraddittori delle carte d' ■
coAsiiierando la quantità e varietà di queste.
— 485 —
non ci potrebbe esser anche qualche altro flne? E non
v' è poi anche lo scopo della glorificazione della Sardegna,
e un poco anche dell'Italia e della sua poesia, restituite
al primo posto nella serie delle letterature romanze?
Ma son quistioni coteste alle quali non siamo obbligati
a rispondere, come del pari non siamo obbligati a ri-
spondere alla quistione: Chi è il falsario? Noi abbiamo
visto come la storia sarda, quale dalle carte arboreesi ci
è data, è una nuova edizione corretta ed ampliata della
storia del Manno: abbiamo visto che i codici sardi ci offrono
poesie italiane del XII secolo che, per argomenti intrinseci
ed estrinseci, non possono essere del tempo cui son rife-
rite : abbiamo creduto poter ritenere perciò un' impostura
tutta questa congerie di carte — e cosi sembraci finito il
nostro compito.
"V-AJEZ/IETA
AL DIRETTORE DEL PROPUGNATORE
NICOLÒ TOMMASEO
"MMMMHM
Firenze, 13 Dicembre, 1(
Giacché neìV utile giornale diretto da Lei ha
tamente trovato accoglienza T interpretazione dal
Francesco D'Ovidio proposta intorno a un de' più i
luoghi deir Inferno di Dante, mi conceda ch'io po^
stesso ringraziarlo del cortese modo com'egli a
avere il Comento mio antivenuta l' induzione alla
egli, prima di leggerlo, venne da sé. Né di corte
lamente, ma io credo cotesto essere atto di prol
gliene rendo la debita lode.
Al Cavalcanti che domandava del figlio, e perei
sia anch' egli compagno a tale viaggio se l'ingegno
a Dante lo ha meritato, risponde Dante additando
Ho : Colui che attende là , per qui mi mena , Fot
Guido vostro ebbe a disdegno (1). Intende il sig. D'
per queste parole sola una cosa : che il sentimento
ligiosa pietà, ispiratore del canto virgiliano, non era
(1) Inf. 10.
— M»7 —
la, «osi ftKieawDie mtìàno da Giùlo; « om affatT"
! rigetti le iolerpreiizMni che a (pesto toso
Le quali io noo mi credetti dover tacere ,
itesse 3 lettore ^udicanie da sé ; ma alle altrnt
ì b mn , come soglio . ieazs fame espressamente
) la novità , cooleoto del rendere , come posso , al
1 Terità Q mio modesto tributo. Offesso, però.
t io qneir altre interpretazioni io rìconoscu qualche cosa
I DOo si poter rigettare ; conresso che lo siile della can-
Ddmm MJ prtga potrebbe a taluni far credere che
■miGO di Guido , commendandolo per altezza d' in-
, intendesse insieme notare quanto quella mauieni ,
! poi ingenUlila da un più vero amore, fosse distante
I virgiliana eleganza schietta , da quella pensala e no-
mi^icità. Potrebbe ad altri parere cite qui si accenni
) opinioni guelfe di Guido, e non assai concordanti at
I cantore della Monarchia ; dì Guido non però guelfo
I gaìsa de' parteggianti volgari , s' egli ebbe a mostrarsi
) avverso alla fazione di Corso : nel quale intendimento
l forse verrebbe a dire che Guido non avesse, quanto
fin, a disdegno il pensiero rivite del Latino maestro,
(ogni modo, la parola disdfffno non è da voltare ìn di-
ì come il canonico Bianchi fa. Anima sdegtiosa dice
Vìi^lio a Dante slesso , e lo abbraccia , e benedice sua
madre (1); Virgilio che di forza ribatte 1 dispetti del superbo
Capaneo (2) , e fa che ìl senese , ucciso per sua superbia ,
dice : L'opere leggiadre Be' miei maggior'' mi fér xi om>-
gatue Che Ogni nomo ebbi in dispetto (3). All' incon-
tro , Dante e il Petrarca (4) accoppiano disdegno coli' ag-
ii ) Inf, K.
(2) Inf. ti.
I
— 488 —
giunto di giusto; e il dolore che trae Pier delle Vi
essere ingiusto contro sé neir uccidersi , non lo ai
chiamato dispetto Dante che pur lo dice disdegno e
gnoso gusto (1), che corrisponde alla fiera dolcezi
mite Petrarca (2).
Ma certo , dovendo scegliere una interpretazione
alla accennata da me , e confermata meglio dal sig.
dio, conviene appigliarsi; perchè veramente si dis
r Eneide dall' Iliade e da tutti i pagani poemi , e da
de' cristiani altresì , nel sentimento religioso congiu
civile, e che lo consacra e lo sublima, e sin nell
lezze del mondo esteriore diffonde un che di spirit
di santo, lo aveva accennato un sospetto , che il Boc<
confondendo Guido col padre, apponesse al figliu
bestemmie o i dubbi del pensiero paterno; e sarà
il Novelliere stato ingannato da voci che allora cor
di partigiani, calunniatori per mestiere e per vezzo,
senza prove si saran flgurato che l'educazione doi
contaminasse la coscienza di Guido. Intorbidata , noi
altro , potevano sospettarla i nemici , gli amici teme
a tale sospetto risponde il forse e V ebbe di Dante ;
dire : non lo credo già io ; e se ciò potè essere o
per qualche tempo, adesso non è. Uebbe rimane senza
altrimenti ; giacché ben sapeva Dante che Guido era
E , anche spiegando quel verso altrimenti , convei
pur sempre intendere che un mutamento fosse s
nella mente o nel cuore di Guido. E a me , che e
D'Ovidio convengo , piace pensare che il mutamente
opinioni religiose Guido lo dovesse in gran parte a
cizia di Dante.
(!) Inf. 13.
(2) Canz.
Occnpato dal presentimento che in lai destano le pa-
role di Farinata, rammentandogli cbc ì Ghibellini seppero
ben ntoi'nare a Firenze, ma i Guein no, Dante rimane
in Bn turbamento simile a quello che nel Purgatorio è
descritto d'un'' anima commossa airannunzio di domestiche
e patrie calamità : Come air annunzio di futuri damU
Si turba il viso dì colai che ascolta , Da qualche parte il
periglio lo assaimi (1). Fors' anche per questo, Vii^ilio non
è nominato, cioè per non entrare in lunghi discorsi, for»
s* anche per questo la risposta, nella sua pieaezza, non
è cauta a prevedere il colpo che quell'e&6c farà sul cuore
paterno. Del resto, co/mi non suona qui irriverente; e nel
Purgatorio dice La suora di colui , soggiungendo tra pa-
rentesi : e il sol moslrai (2) ; questo dice parlando a|)-
panto di Virgilio sua guida.
Accennai nel Comento la corrispondenza tra il bol-
lissimo Hector ubi est (3), e ìl non men bollo net suo
genere Mio figlio ov'é? All'tiso del pronomo in Virgilio
Quid puer Ascanias? superatne et vescitur aara:^ Quum
tibi jam Trqja — , corrisponde il (lanlfisco elegante Form
cai Guido vostro ebbe a disiteijno : e dire al padre minoro
Guido vostro è più e meglio che dire /' amico min. Lr
semplicilii della locuzione aggiunge all'afTetlo; n/) iikI prii>
cedente verso detrae punto al decoro poetici) Il per i/tit
accanto al là. il colui col fnt mAut, anm (incriililii' n\
verseggiami moderni.
In Virgilio superarne et vetcilur aura *l»ll td'llit H
Andromaca dalla abbondanza del mt«Nll4tl|ti|ii Hlftilln hiH'
temo ; qui con abbondinza a MariUi pl/l iitiiiillM nliri il
Virgilio, non vìv'bqU ancoruT Soti far» yli ui^fillt ilhU h
(l> C (4.
(S> C. K
(3) L. 3.
ì Éiv* : I iTaftr kA^ :>{>er¥ e
■■aarMe . viffii . axvae j1
3 W 9&
LA NOVELLAJA MILANESE
ESEMPn E PANZANE LOMBARDE
RACCOLTE NBL MILANESE
DA VITTORIO IMBRUNI
VII. — I tri! iiax*ansE. (1)
Ooa volta ghiera on albergator. El gh' aveva ona tosa.
(1) Questa panzana ha molti punti di somiglianza con la Palomma,
trattenimento settimo della II giornata del Pcntamerone : — e 'No pren-
> cepe pe 'na jastemma datale da 'na vecchia, corze gran travaglio, lo
> quale sse ffece cchiù ppejo pe' la mmardezzione de 'n 'Orca. A la fine
» pe* 'nnnstria de la figlia de TÒrca, passa tutte li pericule e se accasano
» 'nsiemme. » —
La fanciulla che (h scala delle sue trecce si ritrova in parecchi
canti popolari; eccone uno di Napoli:
Nenna, ca staje 'ncoppa a 'sta fenesta,
Famme 'na grazia, non te ne trasire.
Calami 'nu capillo de 'sta trezza,
Galamillo, ca voglio saglire.
Quanno simmo 'ncoppa a la fenesta,
Pigliame 'mhraccia e portame a dormire.
Quanno simmo 'ncoppa a chillo letto.
Mannaggia tanto suonno e chi vo' dormire!
Altra, del pari napolitana
Accalami sti trecce 'mperiali.
Figlia de 'a gran torca Emmanuela;
Vui scennite ra sangue reale.
Parente de 'a Rrecina delli dei.
Facitemi 'na 'razia se potite,
Levateme 'sta catena re 'sto pede
— e La 'razia è fatta e la guerra è fcnita
t Vattene, ninno mio, ca la grazia ha' 'vuto. » —
Var. V. 8. Vattenne, ninno, addò tu sì benuto. — Altra lezione na-
politana :
— 492 —
La stava semper in slanza ; b voreva mai sortL S
Cabteve ila trena iaperìale,
Fiffii 4e io Gnodnca Haoiiele.
Tje fcmaile 4e saighe mie;
Pvtsie a b Rreciia de li dee.
Portale gìBste *sie Tafanie 'mniaiio
Coume le porta lo giisto Michele.
FauMDe 'na *nm si nme b può* fbre,
Lefine *su calma da 'sto pede:
le di Pomiglisio d'Arco e B^nofi Irpeoo.
T&cciati a b finestn 'mperale,
Figfia de lo Gran Turco Umamieie
Voi ne Tieni ra sango reale,
SUe parerne alb Regina Lena.
Famme 'oa fraiia, ca mme b può fi*
Lerami b catena ra lo pere,
To che le poorti roe Tabnxe 'mmaDo,
E gliiiisto pesale come a Su Micbele.
VariaBle di Lecce:
Donna, ci stai *n(acciata alb fenescà,
Famme 'na ^zia, na* te ode trasire.
)lioame *na capello de toa trezza
La cab a basso ca Togiìa salire.
Quando soggiunto sobra alb fenescia,
'Ccoaxa la lietlu, ca Toglia darmire.
Ca quando slama inir' a ddha bianco lieUo,
Belb donna, ca' tie t(^o morire.
Inalile ed inopportimo sarebbe il Toler qui rinlraocìare a
alludesse il canto, del quale soprarnTono cotesti firammenti
moria popolare.
Si raccoola nel Milanese ancbe un ahra pazana , sotto il
titolo: I trii aanaa. Eccob: — t Gh>ra ona Tolta oa fio<
» cbe Tera preso da b malinconb; e alora el Re el gbe bT
» dÌTertiment per Ted • de rallegrali, ma nieiit reossÌTa. On di
1 su 00 poggioea el ved a passa ona donnetta goeohba e con
» color del ramm: e Io, el s'è miss a rìd. Alora b donnetta
— 493 —
I almea a la finestn , om volla Dia tlii!i mia
■ rolla e la ghe dis: Com'è? le gh' M noroKJ rta
) adrèe a mi? Behn! mi lo faroo an tlrìan t te ridarei inai
aadte le avrfe Irooàa la Mr iti Trii uarani. DlOilli ilo t\o«a
ai podùD rid, per qnant el faiCMen iUtoril, E ilora io
r el gh'ha diti: L'unica l'i che la le meliti in viagg jinr
i a la TSr di trii narant. E alorn ilonu ni un iiidi in fiJttfg
Ai Mnitor e canj e carroii. El tu, pI tu! Vi clic Ip «a, cu
n, e mai el ritata: quind nnatmciil ci ini ons (or lontan
n quella l'era b Tor di Ini nstnuz. Kl gb' arerà dlr^ ona
\ de saron , di »ceh de saron per dtiragginl i cadi^ni» e di
b de pan per dagb ai ou. cbc m de no gli« umttn utiAa
L Dmm el dar i taàttan e denttr m la lAr el rnl tul (amiu
L El ne dtr* wéii tM e Mka fawan ooi bella rìo«ìiiì , cIm
t &: Oontin nii' <lt btv db mi imoeuri. Im d corr ■ loeufli
1, nn le rm nap ia imy « li bcU flovioa h moetr.
B li n. l'ciw! El K 4rrT «d «ber ' '■ alu bara «m
fa pvrin MI Mi, c*e b 4b: Aimm 'ie nMNftA; m d(
MMTi. SECMed(irM*>aÌH>4t4if it MnM.CMt
b I ta BMv. RiritaM d im 4 Mn « m (mmi m>
pvria waa» ^ li 1^ «*: J0 M «fe'Aw mi fé ai
a a* Mf dh(«M|ft éoK. Alnei |lhc ^mm «MHIimHk*-
■M w mka fK «a* a t* 4r •> p4ir « apirfta.
■ r«i>ro< ^ariiifc.» ivkww awite téim;
■ j» «ÌV M e fc ^ tart * (M M k 4m< Ito
rii^. ■ V ta» S pg|l ^ W «MMK Im NMM k
■ «•is Cmì yiMidr ^*k 6 «Mw (cafcMl*' Jb
LKaMM.»«Ì»«rli«ÉMi9*tf ««pM» ,méé>
■. •k'rf tM M Ik «1 ^ «Mw ìMv ttm-, m *
■■h-e k ^b nel- Am; ■•nana ■ mtht • uui i> «i^
>a*«^ &<»^
— 494 —
iesu io qoeUa eoDtnda; e rtum inibODida(l)d'andà a
stn. Uhao bssada sola e gfa^è passàa ona Siria; b
ristess. Inrers d fioea del Re e rabbiàa come on scin, el :
su bnitu tosiu Q im a cà ; e so pader el ?oeiir tri TÌa ì
Tede sto bnitt mosler; el ghe dìs: Èia Vhi de onda insc
per foni insci on master f Ma in somna qod che Fé, Vi
Teia mini» d con^ de mandalla imkée. E l' ordina el prani
lotant cfa'd coeogfa Y è adrèe a preparali, ven denter in la ci
colomba e la gfae éìs: Cuoco, M cuoco, cosa fole? — Lei
rosio, hi el rìspood. Lesso e roslo subito bruciato, perdU
efUm strega non ne abbia nuii mangialo. E snbet brasa tu
dì caniroenL El coengfa strenui el fa sobet a avisà d fioei
de qnd che d ghe socced , e la d capiss che gh' è denter on
d ghe dis de torni a roettess in cosina e de lassa Tegni d
colomba in cosina. La colomba b toma a Tegni li e la ghe
(fi : Cuoeo^bet cuoco, cosa fate? E hi d rìspond nient e la
la Ten denter e lo le ciappa e ghe le porta li al fioea del
fioeo dd Re el goarda sta colomba, le carena, e d se acc
h gh*ha dèo spontoo in testa. Ghe ne tira ria Ton: d Ted
focnra mem ticcia de la soa sposa che Y a?efa perdùo. Aloi
tffa foeora Tia Y alter e ven foeora totta qoella bdla gioì
gh* era tant piasùu. Alora el cascia ria la bratta strìa , d spc
fì che el ghe pia$, e fon on pranz con Toli d*olÌTa e la |
Ve bella e fìnìda. > — E questa fiaba è tale e quale le t\
trattenimento IX della V giornata del Penlamerone. — e Cena
vole mogliere; ma taglìatose *no dito sopra *na recotta, la
de petene jaoca e rossa come a cbella che ha ha fatto de i
sangue; e pe* chesto cmmina pellegrino peMo manno ed air
le tre Fiale ave tre cetre, da lo taglio d*ana de le quale acq
bella lata, conforme lo core sujo, la quale accisa da *na scfa
glia la negra *ncagno de la Janca. Ma scoperto lo trademiento, li
è fatta morìre e la £aita tornata viTa deventa Rrecina. > — L'
della persona reale incapace di rìso, si rìtrova nella Introduzione
tamerone. Cf. De Gubernatis, Novelline di Santo Stefano di Ci
IV. Le tre meU ed anche : V. / tre aranci.
(1) Imbonì significa non solo placare, anzi pure tridur
sucuiere.
— 495 —
ngììiu oa d)t, e Tha strusada giò(l) in spalla. L*ha por-
1 via disUDt in ci'on sii che gh'ei'a doma (2] ciel e acqua ;
1 OQ piccol senl^ che gh'era poeu la cà de la slria.
lassada là e la gh' ha ditt : — < Guarda che mi vòo
) e quand vegni a casa . te dìròo : Figlia mia , figlia co-
a, lassa ffiò la toa trezza e tira su la toa mamma
. n ~ So pader e) va desora , el Iroeuva pu la soa
V Ita tnandaa dùu servitor con la carrozza ; el gh' ha
, chi trovava la soa tosa, ghe la dava per sposa. Infin
I Tè propi andàa ìd del sit in dove l'era; là e) s'è infor-
i d' on vesin e el gh' ha ditt , el gh' ha insegnàa la ma-
I d' andà in sta casa , de digh : — • Figlia mia , figlia
■a, lassa giò la toa trezza e tira su la toa mamma ca-
1 — Lùu, sto servitor, Tè andàa là, el gh'ha ditt,
;b'ha dimandàa: — < Figlia mia, figlia cara, lassa giò
i toa trezza e tira su la toa mamma cara, » — E lee , sta
tosa , pronta l' ha lassàa giò la trezza e l' ha tiràa su. El gh'ha
dimandàa com'a l'è stàa d'andà in quel sii là. E Ice la
gh' ha ditt che l' è stada ona stria ; e la gh' ha ditt de fa
prest a andà via , perchè se la va a casa , chi sa cossa la ghe
fa. E lu. l'è andàa ancamò in de sto vesin. De li a on poo
va a casa la stria : l' ha capi che gh' era stàa on quajghedun e
la gh'ha diti: — • Mi per trli di vegni a casa pfi. Te dòo sti
» trli naranz (3) chi. Se ven ciil on quajchedun, traghen adrèc
« vun, ch'el restarà in d'on gran fastidi.» — Dopo va là an-
mò el servitor ; el gh' ha diti a la tosa : — «Fa presi , ven
I giò , che gh' hoo chi la carrozza. • — E la voreva minga
andà, per la paura che la trovass la stria. La ghe dis : — «Se
» la irteuvem, chi sa cossa la me Ta. • — E lu, el gh'ha
ditt : — < Toeu su i trli naranz , che al cas die la troeuvem ,
» ghen butterem adrÈe vun, che la reslarà lee in d'on gran
(1) strusa, strascinare, strascicare. Slruià gio
ir giù.
(2) Donià 0 noma, solo, soltanto, selamentc.
(3) Jfaram. arancia, melarancia.
— 496 —
1 fastidi. » — Come difatti han viaggiàa oo gr^Q toccb ;
la se guardia iodrèe e la ved che veo la stria. La ghe
drèe oo naranz : lee , Y è restada in d' on sit pien de
che la podeva pu difendes. Quand Tha poduu pu, la gì
— a Ciappio (1) , ^utem ; che se i ciàppem , ne fem vi
> uo (3). > — Dopo de li on poo , la tosa la se guarda in
la ved che veo ancora la strìa. La tra indrèe on alter o
e la stria Tè restada in d'on sit pien de sass, che la ]
\ pa difeodes. La ghe dis ancamò al ciappin : — e Ajuten
1 se i ciappem ne fem vun per un. > — Dopo de lì a a
] la tosa la se toma a guarda indrèe e la ved apcamò ci
' la stria e la ghe tra indrèe on alter naranz. La stria ]
i stada in d* on sit pien de sjhu, che la podeva pu dìfen
la ghe dis ancaroò al ciappin : — e Ajutem, che se i eia
» ne fem vun per un. > — El servitor fa prest a fa cor
il
I
■■
1
t cmniaio, \U, 21.
(1) Ciappin, demonio, diaTok). In Napoletano Chiappino vo'
firbo« astato, onde forse lo Scapin francese. Cortefle.^Io Cerri
Ma Tonno md'ch'era 'no gran chiappino
Sentette da lontano lo gre' addore.
(i) Questa invocazione del diavolo, ci mostra che qui la
semplicemente una strega, non già una fata. Nel Penlamerotie i
d'un' Orca. Il mesi'iig ilo delle fate col diavolo è cosa letteraria, t
nendo queste due creazioni a due cicli mitici diversi. ( Ricciardetto ^
Il diavola donne mie, pud far gran cose:
Basta solo, che dio lo lasci fare.
Però non siate ponto dubitose
Di ciò che adiste ed udrete cantare
De l'opere di lui meravigliose.
Che sebbene il trìstaccio «on appare,
E su le late si versa la broda;
Ei però vi pon sempre e corno e coda.
So ben che ci son molte come voi.
Che credono romanzi e favolette
Le cose delle tate : ma son buoi ,
Né sanno che il demonio non perdette
^ > — ^ • a
■ lìn cbe r era wll «n I
» rh> ciappii Mi Kàra» e i
t oa fer e i ha fa aU beva a rana a tibub: e ì ha i
I poco r« aadia Uarm a ran ptr b etnia. El dìsna: GioMutmi IV
» d^m n' ha aMuia «&MnW i« 4'(m coJp Mi ; toni jmtèr gktn /Wm
> «dia . coni pKnfa ne «acTM watti* E d Re T ha ba ciani « «I
» ^' b* diti te d TCMvn aodì a caccia la miiBiu tàrit iDstnuH «
( bL E ha tio MiantliD, el fh'la dUt de si. E areien ile mkU ■ ctl^
» fé do betti che iTeten ani podbn càppaj. Slo scìaratlin, qiMad l'i
» ma ■ OKlà «inda, l'ba dell: f'ialUr andM giù de M * Mt tw
t gid de li. F. tw scuTaiijn qoand l'ba T^bo awfni OM btMil, fte
) tnllù ia d t' ciopp e 1' è icappàa in su OM piaaCk. Sta hMk fla
1 da per c<^"t^ adrée; e gh'era (oeura on te^l da h finta • MI
> bestia l'è resuda accada mi. La allora d s'è Rn eonn <** **f*l
f pò. D«po l'è andìa iaoaai oo poo o l' tu tmIdu a \rpA \ ahn h^-
» Mia. E gh'era li oca casa eoa dealer du u». E lu 1'^ amlia denirr
> in de »la caia ; e l' ha laa per ittdà deuier $ia huita e b l ha «arwll
> dealer, i'. Tegnuo el ite ; el gh' ha diti se i ba ciapf pia. K el m>ì«-
* laitia el gh' ha din de ti ; e el gh' ha din : Vutwa 1 hixi eitppaita per
> la co(^ e l'boo laccada su quella pianta ; e l'altni I1mm cìift|iBiiU per l'«-
— 500 — '
mièe : — < Guarda che mi vbo iQoaoz , tira adrèe V os'c.
E lee r ha capii de portali adrèe. Andàa ionaiiz oa gran to
la ghe dis al mari : — e Spèttem , ajùtem a portali , pc
» r è molto grev. » — E lu el ghe dis : — t Cialla ci
» set ! T ho ditt de tirali adrèe , ma minga de portali adi
— El dis: — « Adess che scm chi, che Tè giamo (1) i
» andarem io quel bosch a dormi. » — Come di fatti hio a
sott a ona pianta ; e poeu lu ghe ven in ment : — e Andà ben
• chi ghe ven i lader a dormi > — El dis : — « Anden;
» su sta pianta tutt e dùu. • — E pcKu ghe ven in ment
e E poeu, se ven i lader e veden che gh^è giò V us^c, gua
1 su e me veden V istess. • — Come di fatti a mezzanott
va ona troppa de lader sott a quella pianta : e vun se
adrèe a fa el risoti ; e i alter se metten adrèe a cuntà i d
eh' aveven robbàa. Qudla donna la dis : — e Voj vu ! g!
• volontàa de pissà. i — E lu, el dis : — e Falla on poo
> Fistess. 1 — Dellaonpoola ghe dis al mari: — e
• reggia e Y hoo missa denter in quella cà. E dopo la 1* era de sposa b
> del Re perchè Tha ciappàa sti besti. E el di adrèe eren de ai
> prend la ciltàa de Casco. E a la nott el s* ìnsognaTa che T era ì
» a tira el spagb ; e el gh* ha dàa i pugo a la soa mlèe che V t
» tosa del Re. A la matiuna el sciavattin l'è andàa a cavali per
» a 'oeu la cittàa , e perchè el boriava giò el continuava a dì : A e
> E i alter ghe dimandaven se el boriava giò; e lu el diseva che
» dava a toeu la citlàa de Casco. Dopo de lì a on poo l'è boria
> e in quel uienter passava ona legora ; e el gh* ha dia che V è ve
> gi('> apposta per ciappalla. Innanz a on poo de strada anmò
> tomàa a boria giò e gh* era ona crooz. E gh* han dimandàa
> s* era faa inai : e lu el gh' ha ditt che Y aveva faa per ciappà s
» crooz. Quei de la cittàa de Casco han sentii che vegniva si* orni
> sci fort , gh* bau dàa i ciav de la cittàa e hin scappàa lutt S* ci
— Questa variante è gallaratese e vi si notano alcuni idiotismi
colari a quella città.
(1) Giamo, già. È evidente T etimologìa latina.
(S) Amia ben, andà ile dio, andà de He. andà de pappa
dare di vantaggio o di rondone o in poppa o a seconda.
— SOI —
I vu! Iio volontùa Je caga. > — E el dis: — * F.ilb on poo
;h'è IMsless.» — Allora i latler s'hin miss a di;» — Oli el
|i «gnor come l'è bon I el ne Ta vegaì giò la manna del ciel {!).»
- E lor, gb'è scappàa el rìd a sii duu : gh'è scappàa de rid a tticc
: lassàa andà Tus'c e ì lader han sentii sic IicihIcII (2) a vegnl
I, s'bìo miss a scappa ; han lassàa giò el risoU e tiilt i diitièn.
r dopo liin vegnìiu abass e han tolt su tuli i dan^e e liiii
a casa, lasci vjveven de scior. Uin andùa innanz on poo
! temp e i danèe i han finii, sicché et mari el dis nncam^:
• cui bisogna andiì ancamb a cerca fortnnna. > — E la niiòu
s : — « Andaroo mi. • — E Tè andada ancamò in su
a pianta che l'eren amia prima. Quand l' è stèda meiizanott
e passa doo ^^trij. E vimna la dis adrèe l'altra: — «Teseo
ùnga? Girò malàa la Iosa del Re, già licenzìada (3) di dottor.
] gb'è nissun rimedi de falla guari, foeura clic l'ucipia de
nella fontana là: tré goil sol hin assèe de Talia guari. • —
Hors la mattinna (|uella donna la va a tteu on hogKcIlIn
! empiss de st' acqua e la va là a la porla del Re e la
e dis a la guardia de lassalla passa che la gli' ha on re-
lì per fa guari la tosa del Re. Allora la guardia Vk andada
ftdìgtiel al Re. E el Re el gif ha diti de laxsalla poma, die
fé facii a savènn pusee Ice che nk (4) i medìgh. Allora lee
I va dessora e la comincia a daglien ona gotta, e la iosa del
t la comincia a dervl i oeucc. Ghe n'ha dàa on'nltra golia:
\ comincia a parla. Ghe ne dà on' altra golia e \'k slada guari-
. Allora el Re el gh'ha daa ona gran somma de dan6c,de
(1) ¥, impossibile <|ui non riutnlani del celelire wntlio di l^rlu
t sulla manna dogli Kbriii, cbe fone gli uri ilalo npinia di una
■iticsccnu di questa iioTellina inb^n da bimbo.
(3) Bardell. Rorida; cbiano, bordello: — t Va latitu bunlHlo, I
t Travicello > — Oiaatì. La parola mìUoeu duu ba imnlo r in
I caso il tenso che tùia alle perfooe ben educale di ìniitpi-nri! in
a U parola aiuloFa.
(3) Lieemiada, spedila,
(t) H^. in fuetto cavi nimiOca no- Che ni ilal r.ut a aiuiA dute
— 502 —
b b «elafi in che b scuBpa, lee e d so mari. Ona soa
àn b di*bEi arài bràlb e b dìs: — « Yoeari prova
• m^MibaoHrcàiiUMMi » — Come difatti r è aiHbda in
bik ìB sa FÈ^aessa pòau. A b mesanoU ^e passa a
4WI ^ttii :!<r^ La eonbòa vmn e b dis : — e Voj ! t€
» Hi^Ea che T^ norib b tosa dd Re? e ghiera nissoi
» «eift f««n che qadTacqn b. Andà ben, gh'era di
» fHÌdiiBAB m Ad tesch a seMimm. Àdess guardi: se tr
» «t ^p^ìdtedHi el Ili Mt a toedL > — E b comincia
« r«. «e! <i sa <k cnstianase! » — e b guarda su
pnoca^ b v*^i d^ di'è a sia doooa. Gh^è andàa su b
< riti cnb abass. pixa V ha biada tutt a tocch.
«1
UN ESEMPLO MORALE INEDITO
TRATTO DAL COD. MAGI. 56. P. IV.
i parla if uno religioso , come i ciltadini si voleano
confessare da lui.
Leggesi d' uno relegioso eh' era in nuna ciltà , la qaale
(sic) tutti i cittadini si voleano confessare da lui. Ed in
questa città avea uno tiranno, il quale, vegniendo a morte,
si confessò da questo riìegioso, e mostrò tanta divozione
e tanta contrizione e giltò tante lagrime , che questo coo-
fessoro diciè: veramente Iddio farà misericordia a costui I
E quando i religiosi venieno a costui a letto a vicitarlo,
ed e' dicea troppo buone e sante parole. E quando venne
a comunicarsi , si si mise la coreggia in collo, e parea uno
santo. Morì costui, e questo suo confessoro si predicò di
lui al popolo tutto ciò ch'egli avea veduto; ed egli e'I
popolo isperavano bene di lui e ponevallo in paradiso co'
santi. E poi, dopo pochi di, istando questo suo coufes-
soro nella chìe.sa in orazione per costui, udi in diversi
luoghi della chiesa di dfversi guai e bocie di tapini dello
inferno; e l'una bocie dicea: guai a me! guai a mei
tristo doloroso, che mai non vedrò Iddiol E l'altra gri-
dava e diciea: guai a me! ch'io ebbi la buona volontà
e nolla misi in opera quando io potea! E altre molte
istrìde e diverse bocie di dannati udì. E levando gli oc-
— 50i —
eiiì ÌD soào al tetto deib chiesa, ride infinito m
di diiToli e di (fimoQi inferDali: e dentro, nel mei
loro, à era Taoima dolorosa di questo tiranno eh' en
to. ed era legato ed incatenato diTersamente. E ve
costai «ineslo. ebbe grande paora; e poi, segmandi
a Dio seiq>re, e' disse: dii se' tu,
. cotà tixnKiitata ? E quegli disse: no mi e
ts toislo, chi son io. tra^aglkito tra le mani? e io
nenie ^ disse: io 5i3oo qoello cavaliere che mi co
e coamnkai uMe tne manL Allora disse qoesto sai
fessoro. credendo ch'egli fosse in purgatorio: dìmn]
che tm andasti in purgatorio ed io t' aiuterò. Il qiu
tanlo grande ed amarissìnio sospiro, con guai, dis
■e! Hiiàero d>)lente! ch'io sono in luogo che tu i
pnoì aìmare. però di* io sono dannato all' inferno! p
che per Hfee non ti aStfìchi. però che no mi potre:
lare ne aiutare*. Vedi, confessoro mio, abU contro
penileiiia nella morte, ed io sono tra' morti e tra'' d
e b oDQirìzìone eh' ebbi e le lagrime eh' io gittai e
lor^ che tu mi regesti, non ebb' io del peccato eh' ì
coinmesi5«>. and m'iocresriè «lì me e de' miei figli
4?Ba mìa d«XkQa e de' miei parenti e di me , perch"
rira coQtr> al mii? Tolere e di loro, perch'io mi
malTolentieri da loro e no eli lasciava com' io \ol
dotenmi eh' io lasciaTa il mondo che m' em molto p
e pìacea . e no mi ci panea essa^ istato un dì né n
e però dc« durare in me Catica che non ti varrebt
loca d&>p«ì. e questo suo confessoro rivelò poi al
questo miracolo che Iddio avea mostrato , e le gien
narv^oo molto a Iddio. Ora preghiamo Iddio , che per
uùserieor^ ci dea tali occhi, che noi fociamo pei
mentre che noi siamo viri e sani, sì che noi abbia
grazia di vita etema, alla quale ci conduca il figlio
Dìo. il quale vive e regnia in secuU seculorum: ;
1 MANOSCRITTI ITALIANI
NELLA BIBLIOTECA RONCIONIANA DI PRATO
(V, |KI|;. t!2 Anno III, Parie t." noiitiiuarioiK; ).
' Cartacee, in fol., sec. XVIII, dì carte 204 num.,
scritte da più mani.
Proso di niuusitjruof GIOVANNI DELLA CASA.
I codice, che fu <Jel conte Giovani batìsla Gasolti,
e servi alia sua oolissiraa edizione delle Opere di monsi-
gnor Delia Casa (Firenze, 1707, voi. 3; Venezia, 1728-29,
voi. 5), si divide in cinque parti; cioè sì compone di al-
trettanti codicetli , ora qui legali in uno. Cosi descriven-
dolo mi terrò a questa originale partizione, con distin-
guere ciascuna parte per una lettera dell' airabelo. I do-
cumenti descritti sotto la lettera C sono postillati da An-
lommaria Salvini, che pare tenesse un'altra copia a
riscontro.
A) da e, 1 a 4 inclusive.
« Di Monsignor Già. Della Casa Nunzio a Venezia. Al
33
Snaiu V<Kttu — E i««iììn> tBa
■ocim di Nostro Sij
»3it! mnmL Hicissstnci. «. •.
Bi }«cfiit ki «ZìHQCiL dki M
Ti'Mij a coiliTioiie di
•OH» MG» «opci. ti Émt: Anprùtu
iter. 71W>ifuis ofxAtfpi^
npìesB-.
■aso BoBaTcaton ddk
K 4à c^ i ^ 76 ÌBclKm:
: m le e 17, 26, 31
< Akane édk Lecure fiiiBMi e domestìcbe di
smt óiiK L^iiìLi «Ifesi armesoyvo dì Bcmevento ».
e A Hi. PHkL R. (^Pwfeli» Roedlai) sao nipole
RtMBL natotì t5òiX
AI Bi^lesia». — 9 jt^!Q6to toòCl
Ai iKdfsàiirK ~ 19 isdìo lo5a
Ai awiifsowL — Vffflena. li seombre tool.
AI aieiiesìawL — 3 «f ottobre tool.
Al Meikiì^j^ — 3 dkmbffv 1551.
Ai BAfesùKw — 30 dkefbbre 1551.
Al Beiksw». — ^ z^dnano 1552.
AI r^BC;ft «laàHL — « Avendo io ottenoto moli
-VI V^si-oirt ,ii i^ortofti. — Flr«iie, 21 gennaio 1
A F'Mii^ifo R. >w> nipote. — « Credeva che le lue
dwne. «. ».
LiHien di PiHìdoUo Rocellai a monsignor GioTann
• -IS». — e Per b feiiera di V. S. de' 9, ec ».
A*^. — « HLklo e ReTjno signor mio padron
FVr noQ tedùn^ V. Sl Illifitrissima con lungo ragionamenl
AI i.aniì&ile Sl Vitale. — Venezia. 30 luglio Ix.
A*^. — RevjDo et IlLmo Signor Patn>n mio ce
5ÌIWL Io s(rts>ì siKito a V. S. IlLma ».
« Al medesimtx — Non crelo che sia possibile
)ilcw]B!àr»]c lostiniano. ec. » — L* ultimo del 52.
A*^. — « So che V. S. DLma e ReT.ma ha n
dì MoKìgBor Instinìano, ec ».
— 507 —
( Al Cardinal Caraffa. — Il Capitan Lorenzo da Casti-
! è mio cugino, ec u.
t Medici »( cioè, al Cardinale dc'Medici).— « Non voglio
fetlar a ringraziar V. S. lll.ma e Rev.ma, ec. «.
I Al Cardinal Farnese. — Quanto meno mi par nuo-
, ec ».
e AI Cardinal Monte.— Son cerio che l'opera e l'aulo-
d, ec. » (Frammenlata).
« Lettere di Monsignor Della Ca»a tratte da una copia
ino non conosciuta ».
I A messer lacomo Marmitta. — Se mai V. S. desl-
ec. ».
I Al clarissirao M. Girolamo Quirino. — Io non posso
lovinare, ec ».
AI medesimo. — Roma, 22 marzo 1555.
C) da e. 37 a 150 inclusive ; delle quali sou bianche
\ 104, i2i, laa, 150.
o Al Duca d' Uihino. — Questi signori fratelli del Car-
dinal Camarlingo, ec ».
« Lega fra il Papa e il Re di Francia ». Firmata in
Roma nel palazzo di San Marco, l' ottobre 1555; e a Villa
Coire, il 1 d'ottobre 1555. Ratificala In Roma, nel palazzo
di San Pietro, a' 15 dicembre 1555, e soitoscritla da Paolo
IV, da Francesco Cardinale de Tornoii e da Carlo Cardinale
di Lorena.
« Al signore D. Antonio Caraffa. — Roma, 28 Tebraro».
o Insiruzione del Cardinal CaralTa e Duca di Montorio
data al Duca di Somma. — Quando V. S. sarà con sua Mae-
stà Cristianissima, ec. ».
0 Discorso al Cardinal CarafTa per aver Siena dall' Impe-
ratore. — Credo che V. S. lll.ma possa pensar d' aver per
Gasa sua Siena, ec ».
a Instruzione di Paolo IV. — Dopo le salutazioni e be-
nedizioni paterne e consuete, direte a sua Maestà, ec
J
3
i
r
t
c «^utiiiii «ieftì Trfna per cìBqse anni tra V Imp
Re r Ibdidtiim a 3 Re «Instiaiiissìiiìo, ranno 1^.
^emàaÀ oMoa h oerra ib akia anoi in qua, ec >.
e KspiKa ési Caniìaai Carafli al Re CrisUaniss
lé ha éao^ dm sì Teée^, ec ».
< Letaera M •jvtinal i]aralb al Duca di Pali
Lane, i 6 òaun» tòòd. — Da Mafsigiia scrissi a V. E.
e Lettiera tJel «lardinai Caraffi, legato io Francia
Dvta *& PaiiaHi: 1 17 «fi giano ì5q6, di Fontana ».
e DKtmzkiBe Jd ilardisd Caraffii, data al R. Fi
p«r la *jx^ JT ktfhiiterTa. — Vostra Signoria se n^ ao
^jrnuà 'ad B^ «r h^ilierra . ec ».
e Trena tra Xttstro Signore d il Duca d^ÀJva,
Rdofii a'^S^ '& novembre 1oò6l — Essendo successo i
pimenfu kOa znerra. ec ».
e Iffi^mizioae a Miiosi^nor Oloardo per andars
«lirlinsii ijÈnSx, — Avete a dire a soa Signoria Ill.ma
e LKirTBxoiie a Moasisoor Domenico Del Nero, i
•la Paoto Orarlo al Duca d*AlTa in Napoli, in rìsj
«pianto pi>rtò il •joofie A San Valentino a nome di Siu
lenia. — Di Runa. Il ^loslo 1556 ».
e «JofHa Je*Capiioli della Pace tra Nostro Sigoo
Re di SjpasnLi iieBa 2taem *h Napoli. 1557 ».
< «.apitoli e <^veafìOQi passate tra il reverendissi
iinale t^raili e f eccdienliss>imo signor Duca d'Àlva. —
«.be per parte «li S. M. Oictolica. ec ».
« 0>pta delia r^puolazico segreta ». — 14 settembi
A**^. — € lìLmo e Rev, Signore e Padrone a
tiissimo. Non h*) scritto a V. S. IlLma per il corriere
Roma, 1 dicembre 1557.
Memoriale al Re di Spagna ; senza titolo, comincia
lecitaodo io di venire alla spedizione de' negozi, che
stati commessi da Stia Beatitudine, ec ».
a Instruciioms prò IUmw H Revjno Cardinali
(Ul Philippum Hf/spaniarum regem. 1557 ».
a Ricordi al Re Cattolico neir andata del Cardii
raffa a Sua Maestà. — Considerando Monsignore illus
mio, ec. ».
istruiioDe del Duca di
ina per rill.mo Signore
a Monsignor <
Cardinal Caraffa. Di Rt
Xinaro 1558 »
d (>)pi3 del Memoriale delle cose che si domandano per
e di Sua Sanlilà nelle Leiiere et Insiruzioni. — Intesa
i ebbe Sua Beatitudine la morte della Regina vecchia di
lia, ec. ».
( Instruzione del Cardinal Caraffii per Monsignore il Ve-
) di Terracìna, da Brusetles i 5 gennaro 1558 >.
L Risposta air Instruzione dell* lll.mo e Hev.mo signor
} il sig. Cardinale Caraffa. 1558 ».
n Instruzione sopra le cose di Paliaoo.del Cardinale Ca-
Fa, dopo il suo rìioroo da S, Maestà a N. Signore. 1558 ».
n Alcuni Capitoli dell' Distruzione sopra le cose di Pa-
lìano. ~- Il negozio più importante, dal quale dipende, ec ».
« Instructio sanctistimi domini no^ri Pavti . papae
Quarti prò iU.mo Cardinali TriuU'O ad ffenricum GaUcrum
regein. — M Dei nomine, amen. Oilecte Pili. C-um adeha-
rissimum in Christo fUium lìostrura llenricum. He. »,
« Instruzione ad .^JMlrea Saccheui per negoziare eoi Duca
dì Paliano. — In prima, che essendoci al partire dì M. Lo-
renzo Emo risoluti, ec. ». È del Cardinal Caraffa.
« Instruzione a H. Paolo Filooanlo, di quanto abbia a
trattare in Corte di S. Maestà Cattolica. — Sebbene >'. S. ha
cercalo, ec. ». È del Duca di Paliano.
a Instruzione a SL Paolo Filooardo, di qudlo die lu da
trattare per me in Corte coli" IlLmo «gnor D. .\olonìo Dona. —
Io dubito che la Maestà del Re CaUoUco. ec ». De) Dan
soddelio.
« Instruzione al Signor Filonardo. — Anlerele dalla à-
ptora Contessa Madre, ec. ». Di don Antonio Carab.
■e Lettera dd Cardinal <Jaralb al ***, perchè s'addofxrì
eoo S. Sanlità, die ^ voglia dare ad iuleodere le sue ra-
giooi, pronieUetido di dargli coutro ». — £>i Paliano, i 19
geonarD t5c0.
« Lett«n del Carduul Caratla al l^jrdìnal dì Carpi, di
GTiUlaTìaia . ai 3S febraio 1^9 ».
l'anno 1558. — Noslro Signore i
Acato, ec. ».
D) da e. 151 a 196.
Lettere, Istruzioni e Memori!
deir Arcivescovo Della Casa; dal
d'aprile del 1556.
E) da e. 197 a 204; ma
Testamento di Monsignor Gic
di maggio 1551, in Roma.
Cod. '
Cartaceo, in fol., t
di carte 57
scrìtte da pi
Poe«i« di -vK
Maggi , segretario del Senato dì I
Sonetti. « Io grido, e griderò I
« Lungi vedete il torbi<
« Giace l'Italia addorm
— 811 —
<c // Petrarca donato a Gran Dama dal sig. Maggi.
(( Leggi le vaghe altrui rime canore ».
« Risposta d' altro Autore al precedente Sonetto.
(( Maggi, se dietro Torme il pie movete ».
« Quis ego sum. Domine, ut amari te iubeas a me, et
nisi hoc fecerim, mineris ingentem miseriam? Par-
vane ipsa miseria est, si te non amem? (Aug. p.
Confess.)
« Dell! ciii son io, che d'increato Amore».
(( Signor, dehl chi son io, che mi chiedete ».
« AW Isola Vitaiiana.
« Io che seguii la gloria in su' verd' anni ».
« M lode di B. D. (bella donna).
(( Alma si chiara a noi, si cara a Dio ».
« 0 bella Veritade, il cui splendore ».
RucBLLAi Orazio.
Sonetto. ^< In morte di B. D.
(( Nel giorno che costei si bella nacque ».
Ricciardi Giovamratista.
Sonetto. « Nel punto della sua morte.
« Mi chiede il tempo di mia vita i conto ».
« Nel ìnedesimo soggetto.
« Per render conto del perduto tempo ».
G. P.
« Risposta al secondo Sonetto del signor Ricciardi.
« Altro ci vuol eh' un punto sol di tempo ».
Incerto.
Sonetto. « Si detesta lo stato pi^esente di Roma.
(( Roma che fai? In questa tua bonaccia ».
PlGNATTBLLI STEFANO.
« Per l'altezza serenissima del principe Francesco
Maria de' Medici. Canzone.
— 512 —
4. Qwl di*a sapèeou. die li raom Tcr^uomo »
Rm Fia!«ec)Ol
€ Amar maesiro.
« Lflfeci è Tane d*aiiior. ta tìui è breTe ».
« Amor civeUakK
< Già ta metta apparecchiata e 1 Gschio ».
« CoB le soe proprie mani il ciuio Amore ».
« La beltà di ¥ai1oona entro al mio core ».
< Al sù^ amU Federigo Veierani.
« Se r Cagherò mbdo e il Traosavano ».
€ Al sig, marche» Gùk Vincenzo Salv
marchese Cìemenie ViieUi solide.
« t>»d *io^ che avvezzo a spmnafrhiare i Galli »
Terzine. « AIT iU,"^ sig. marchese Clcmenie ViieUi
piere del serenissitHO Gran Duca di Toscana.
« b «TArtimiiio i rugiadosi e molli ».
Fhjcau Vi!iceq»x
Terzine. * .Ufo di Cofììriziom,
i P;idre od eie!, che eoo pietose braccia ».
* h\ f'»,«^,v Jrl s^r. sùj. Cordirìal Leopoldo di ]
'kj. r^'S.V'^i^U'tììia dci!a Crusca dtilo il Cai
Conz^ìc.
« Alma bella Real. che sì repente ».
Rkcukm Gk>taUìTI5TA.
« A salvator Rosa, Canzone.
4 Sotto rigida stella ».
Aizoij5a.
e Saiiriì di Ulonsignore Azolini, coniro la sfrena
del simso. Dialogo tra r Autore ed Apollo.
« Liascia Soratte. o ser ApoUa e cinto ».
Asosmo.
a Alta felicissima cUtà di Prato, per il maravì(tlio30
germoglio dei gigli appesi più tempo fa cui vn'lrna-
ifine di Maria sempre Vergine, ec. Madrigale,
it Ferlilissimo Prato ».
« AH' ili.'" ctttà di Prato, stante Ut devosione verso
la Vergine beatissima: allude all' arme della mede-
sima cititi, in occasicme dell'lmagine di Maria sco-
perta con U Giglio miracoloso. Madrigale.
« Caodidjssimo llore ».
Mi l'U."" città di Prato, in occasiotie deli tmagine
miracolosa di .Varia, scoperta nvavamerde: allude
all'esser posta in faccia d'un pozzo. Madrigale.
« Prodigiosa Regina »,
Al serenissimo Carlo V duca di Lorena, generalissimo
dell'Armi Imperiali, per V acquisto fatto dell'im-
portante piazza di Buda. Canzone.
« Se del sagro Permesso *
A
— 514 —
Cod. 46.
Cartaceo, ia 4, sec. XTII-TQI,
ii carte f 5€ aam.
n a»ie GionAbatxsU Casotti, trovaiìdosi a
scfreCjrio del foTìato toscano presso qaella (
aBìdm con nri letterati francesi, e spedata
coi stptuho ddl* Accademia , abate F. Regoier Desm
al qaak iodvìzzò poi la Vita di Monsignor Della
itHinia ìananiì aD* Opere di hii (Firenze, 1707).
fei qwsto Codice si contengono:
a) XXX Bigfietti e Lettere aotografe del Regn
CasoOì. senile di Rvigi dal lG9i al 21 novraibre ^
twÉOe italiane. ^Da e. 1 a e. 55) (1).
b« Lettera del Lancelot. che mi piace di pnbb
r netta soa originale ortografia) perchè concerne al Rei
e ci offiv «ie* curiosi particolari che non ho trovati in
che biografia dì Ini. ^Ved. Histoire des membres de i
ééwùe FroMCoise morts depnis 1700 ec. Paris, 1785,
m, pag. 201 e segg.). Anche questa è indirizzata a
sottL iCar. 5fr57.'i
( 1 » Sono scrìne in boooo italiano; e meriterebbero d* essere sta
Altre ne sono oeDe Kbiiotecbe Oorentine, e molte in an Codice
■a^por Kbiioceca di Parigi, segnato 6^ Supplémenl,
r d^ais pea de iea&. Vobs r«àK «h taev » Th»-
E GKqn; sor le quay des l^etfìK. B 5 a IM9HR
i jusqu' a ce «iue oei bosud ,aÉl taé vtmtt. M. Ir
e Lauzon, qui ea esl deran racfMKv, Iny (U si-
Immediatemeol apres sa anfùnUJorn ce demy vers d«
. Vetfres migrate oolaiù: «onplìmenl (\n\ ne pini
i au vieil bosle, qui croyoìl -y avoir clioisi un Jonii-
ur (ouie la vie.
) maladie n'est venue que d'une ìndi)t(<!tlioii riiiiiiiii>
r un exces quii fit eo fruii (I). Gens (li^ncx d'wtfx m»
t asseuré quii avoii maogé uvnte quatrc jioclim Pl pn*-
|ue tout un meloQ ea un scul rcpii.i. L'ciitoiiiiii'li l'iiii li'tiii-
. fort derangé. Dans cette silunlion viult'rit'i II no rcvltit
l de l'eatestemeiil quii avoil contro In nm\M'\m \A \t^
^ecins: il voulul essaycr cocorc di* «ft itiC'i'li' l'Jy iriNNt)
ativc qui luy avoit ilejii rRUUHy. Il u>li il pH (^«( d«« WH.
ne de celle cy. Il s'onlonna u luy uii'iiii' uim •HtifH'''' j ''Ut'
ntiOD monelle dans une coujoacUir(- W\k 'iw »'W'- W fiw
rouvoil. Ud de ses amlK ipii In vliTI trttir 1»^ i*pM*M4 ili
( quii avoit eu, et luy dil quii uuroU iift^^i rvf^ tv W/«
'er un vomissemenl par <lf \' i-oint'Vf l> «.vivii' uM
t avìs comrae quckfue «Ii'im 'f wr < ' . ^^t
hll sorti quii euvo)a tt Uirtr ^ti^.i ,| u
" '". Ce fui un surcfWM fl'ifrBi^wo'. /, ^i»
> trùuer sa maladie, a, 1
■ Tigoarem ne pnt resìste
» dés pris a contrtiems:
■ sa vigoeur et soq boa
> pns <j' m mois. Dans i
• venMnl il tasi besoUi i
» la erainle d' en maoque
» qui teotent professioo
> Roy pour Iny qoelque
» quer da necessaire. £b
a moìBs Becessaìre cbei
> Le RoT luv eoroya cec
> les dooiMHt pour cejtte
> dust les regarder coma
■ en cas quii eo revioL
€ n est mort en fv
> enlerré sus appareil n
■ Vons seavez, sans
> bé fVrffMJT (1), a cau
> croyem quii meriloit o
K mkìeos en conTÌennent
« Entr' antres legs <:
■ de Noailtes soa PoeoH
-va pres d' ud an. Il \
• mais eo geoenl od pe
» iimtcìi. ou si vons vou
■ lueiue assei de peine a
• a beaucoup d' eodroils
■• obsoures ou (res comn
« demìcien. auteur de la
" Mecuieur testameotaiit
■ J" espere appreodr
■ V honoeur de vaus mai
> comme od id' a promìs
i\ì M.r d'Alembert rJcoi
irslanliggiae oiiiniàtreli. lo
— 517 —
> m Piifi— li— faina ma. Sta «'ta ^t^» V. S.
4d ìb, àOr \Aei&. (^mtn bMetMoo al signor AUoM
Btfgìacefii* Qwi Signon, in te naa» de't|Mfti ha pdssal»
^mI Bbnik b pn^BB dK w (fica il parer simk
' « Oum Aig. Maria Qnfiai ha finahiMnte iasrìata la kk
'im cU hieri ralDo per aodarseoe per h via di Lmae^
PiQToua eie. a Fìrefoe. el poi ridursi in Ve-
■ D preoB dd Sacy è dì lire' d^tto franchi vinti tr^
Se io ^ì ^oi, è per sottomeiteriDì alla sua ^tdoutit. alU
^■de starò sempre attaccalo. Tornerà V. S. presto in Fì-
rene, e b soa girata si finirj. Gli prego ogni felicilà. ^
paria qui (kl sito viaggio come d' ud viaggio (ie conltance
qne S. A. R. Ini a rait taire pour la conversìoo d* un illustre
PrDsdvte (h. Faites moi la grace. mon cher Monsieur, en
quelque lieu et eo <[ue1iue situatton que vous vous trouviet
de me ilonner quelque pari dans vostre estime et dans vostre
sonvenir. Quand voiis serez plus sedentaire j" espere la me-
riter mieux-Jesuis avec toule la siuccritt' et l'eslinie ik»s-
sible,
0 Monsieur.
Il vostre ires hiimble ^l Mvs oticissanl wrviti-ur
1 Je ne vous enlrptiendrny pus rette fois cy '1*' iioii^''''"*
< liueraircs. Vous estes en ville bien Inslniile. Si von» u»
■ souhaitez neaiiimoins, vous n'aver iju'n m' ordoimf""- i*
(I) li Come Casoni i-rn sialo dalo <U f.nsimo HI " ""'TlJólin i ■
principe Federigo AukusIo di Sassonia nr/duni vingK' I^"" ' .^ , ,,,„„
a Venezia si irotava noli' osiain n nell' auliinno il
di G. fl. Caro»,- accwlrmiro delta Cruf» «' ''^'"''^T"" •«,«
■ al Gan. iorenx Gianni, elio tono " "*
Pralm.)
1
I
n
I
t:
— 518 —
)) crois pouvoir vous eo appreodre quelques uoes qu
» seront oouvelles, puisquil y a si longtems que nostre coi
» a esté iaterrompu ».
cj Poesie italiane del Regnier. (Da e 58 a e. 65]
1. (( Quant' ha fatto d'un uom V ambizione ». Rondò.
tografo, con due versi di biglietto al Casotti.
2. Altra copia del medesimo, autografa, con due versi
3. « Si descrive r alto del serenissimo Principe Gio. C
di Toscana, protettore delP Accademia della Crusca, <
I S. A. si portò air Accademia per presentarle di su
i pria mano le Poesie d' Anacreonte tradotte in versi
dall'Abbate Regnier Desmarais. Sonetto. — Cogl
i sommi ingegni eletto coro ». Autografo.
4. (c Avendo l' Accademia della Crusca decretato che si 1
venire il ritratto dell' Abbate Regnier Desmarais pe
terlo nel luogo ov' ella si raduna (cosa non fatta a
; altro Accademico in vita) il Sig. Inviato di Tos
j Parigi lo fece fare d' ordine del Serenissimo Princij
Gastone; e nel mandarlo egli a Firenze fu accomi
con questo Sonetto dell'Abbate. — Vanne, ritratte
vanne là dove ». Autografo.
5. c( Al signor Abate Anton Maria Salvini sopra i su
netti in lode della mia traduzione d'Anacreonle ir
toscani, ed invitandolo a dar fuori la sua. — Salvi
le lodi onde sei degno ». Autografo.
6. « In lode di Monsignor della Casa. Sonetto. — Qua
nobil fiume a sdegno prende ». Autografo.
7. « L'Abate Regnier, sopra la sua età d'ottanta ann
piti il IS*' d'agosto 1712 ». La diamo per saggio;
copia di mano del Casotti.
(1) M/ d* Alembert giudica che il Regnier valesse più nella
italiana che nella francese.
— 519 —
Ottantanni oggi appunto ho bclPe fatti;
Pur senz'uso d' occhiali e scrìvo e leggo,
E sulle gambe poi mi muovo, e reggo
Con facil portamento e liberi atti:
Né dair etade offéso ,
Dell'età sento peso;
Ma qual fui di cinquanta,
Tal sono presso a poco ora d'ottanta.
Quanti già dopo me nel gran camino
Entraro della vita, a cui '1 destino
Fece giugner l'inverno a primavera,
E nel lor bel mattino
Veder l'ultima sera!
Mentre io per via, come dal ciel si vuole,
Qual leggier pellegrino
Cantando vo dall'uno all'altro sole,
Né per iniqua strada unqua ri Ano.
Cosi talor antiqua quercia suole
Nella fredda stagione
Dall'irato aquilone
Illesa mantener sua chioma verde.
SI che foglia non perde;
Mentre per l' aria a volo
Delle querele minori
1 brevi verdi onori
Sen vanno a stuolo a stuolo
Perduti i lor colori,
E di caduche frondi empiono il suolo.
Vien tempo alfln eh' anch' ella
À i repetiti ognora assalti cede
Di tramontana fella,
E dagli antichi rami erranti vede
Cader l'aride foglie,
Dell'inverno già vecchio ultime spoglie.
Or che giunto mi truovo
Della mia vita a più di mezzo il verno;
— 520 —
Né per me altra stagion torna di naevo,
Che firoodi e fior m'apporte,
Tosto tosto avverrà, s'io ben discenio.
Che deir antica quercia avrò la sorte;
Non già sol nelle frondi al vento ^Mute»
Anzi ne' rami e nello tronco istesso,
Gli' in breve ha da cader a terra anch' esso.
Ma di me ndl' eccelsa e miglior parte
Della vicina morte,
Che stammi in sulle porte,
Prendo questo conforto,
Gh' ella di somma pace etemo porto,
Ella d' immortai vita a me fia germe,
Quando dell' uman verme
Posta giù la terrena impura spoglia.
Tornerò nudo spirto al gran Fattore;
E l'assetata v(^lia
Spegnerò in Lui del vero ond'arde il cuore.
Pien di si fiata spene
n fatai giorno estremo
Del mio mortai non temo;
Ma quanto più ripenso all' alto bene,
E più tarda a roorìr quel che in me muore,
Tanto più col liesir ne affretto Tore.
d ; « Sopra la traduzione d' Ànacreonte dal greco i
toscani, del sig. Abate Regnier, Sonetti del sig. Abate
Maria Salvini ».
« Ànacreonte placido e tranquillo ».
ce Eran da Lui che il Tosco cielo adoma ».
(Car. 66-67.)
{
' e^ Poesie del Regnier, parte autografe e parte (
I ' dal Casotti e da altri, per lo più in francese. (Da
1 a e. 153.)
— OSI —
le k credo del Hegnier: ran troppo ci vorrebbfi ad
i autori. Ve<la, chi vuole, la mccoiui dullit hiiii
I varie lingue, stampala in 2 volumi in Vi u [iro-
Ista dall' AuiobiograHa. Noterò, clic ullu Siilym tur la
r Dirtction. cbe sta a e. 145-150, il Casotti iliUOKilu
1* astore: ùu Pére Santeuil chan. r^ffuller da tiamto Gémh
vieve.
Cartaceo, in 8, sec. XVII,
di carte 42 num.
, I..ettei-it del Galileo Ih «lllltMU dui mhu
f xvttiito clfoa 11 moto dolln toi'i'n.
(^lesto codìcetto, che porla ([uul tllolo Hulla prima
, eoatiene:
aj Lettera di G. G. al a Mollo HI." e Rev."" Sig. mio
{padrone coleadissimo », che comincia: « Perchè ìo so che
(. S. ec- »: ed ha la d.ila « DI Firenze, 16 febbraio 1614
I Me. »; con una Poscrilla, che principia: b Ancorché io
Bcìlmente possa creilerc ». In Une il CtsouÌ ha scritto:
I Riscontrala con una copia di mano del signor Vincenzio
yviam »; e difetto è qua e l;'i con'etta di mano del medesimo
Otti. (Da e. ? a e. 5 retto.)
6; « Alla serenissima madama la Granduchessa Madre
lidileo Galilei ». Comincia: « Io scopersi alcuni anni ad-
ilro, ec. «. Anche questa copia è inlta ricorretta dì mano del
Wlli. (Da e 5 tergo a e. 39.)
« Excerpium ex Didaci a SliiniRi Satmaliceusis Oom-
Mtariis in lob, ec. ... Si riporta quel che dice il detto co-
:t4
— 522 —
meoutore sul verseUo 6 del capìtolo 9 di Giob : Qm
inavH terrcmi de loco suo, ec (Gar. 40-41.)
dj Doe ricordi di mano del Casotti, concernenti
stampa ddla Lettera del Galileo, htta con la Tersiooe
impensis Klzeviriorum nd 1636, col titolo di fhv-A
Sandorum Patrum ei probakjrum Theologoirwn doc^
Sacrae ScripUarae tes^'monm in condusiorUbus meri
ralibui, He ; e alla opiniooe espressa suir essere o no
9oletn moveri et terram stare, dal gesuita Riccioli nel
ArnuMgesii Novi, parte I, tomo I, pag. 52 delP ediz
Bologna, 1651.
God. 49.
Cartaceo, in fot., sec. X?II,
e. num. 48 e 106.
SquIttiAo della Iill>e]rtÀ Vonota»
Comincia: « Chi asserisce Venezia esser nata lil
es^tersì mantenuta sempre tale« ec b.
Monsignor Ferdinando Raldanri, già bibliotecarie
Rondoniana* scrisse nella guardia di questo Codice U S4
« N. B. Ouest* opera — Squittirne della Libertà Vene
V che comparve drai Fanno 1612, fu attribuita a Man
» sero ooosole di Augsbourg sua patria nato ai 20
* lo5& Vedi il Dizionario di Bayle ».
Non fia titola e comincia: < Padre mio nel coor d
» riTeritìssìaa — A tante grazie rìcemle da V. R»
» p»saia, io aggìngo qnesto nnon> Cifoie d'haTenni tra
— 523 —
I A libro intitolalo Concordia tra la fnttica o la i/uiete ti
I » r Orastone, esposto alla luce dal P. Paolo Hnitiiurl ilellR I
I» Conpagnia di Giesù; e mmlre m'imponi: 1' oIiIIho, iiliu
> lo saura alla sfuggita, ma che a pasm Idnio vmlu pniidOBl
la nailo e masticando i sentimenti e le proponi/ioiii (-onlKnuMi
\m ìb esso, affinchè io possa dì poi aprirle tulio Itilorii II inlvl
«v, e palesargli quegli effetti, che hanno cagiuiioll iiM I
> spirito: soD costretto a dire, come iIIkm lan Iilrolaiii0|i
!■ che te grandi malerìe ricercano un grami' IngOdiio, ec. n, .
|L*.\iioaiiiio fa le meraviglie a vi»ler " la Imm^ìimiu
ari il Segneri preiiende indurre una via ili muiio, Iti
\ » qoale presuppone essere stato irMiUn lUi Sunti inÀtf 1
|« trcKorsi ec. ». e si pone ad uiuininarne a parie a purtC |
.1.
1
BIBLIOGRAFIA
Delle Rime volgari, Trattato di Antonio da Tanpo
dice padovano, composto nel 1332, daio in luce
gralmente ora la prima volta per cura di G\
Grion. — BologDa, Romagnoli, 1869, in 8/ di pagg.
Quesf importante libro , che fa parte della raccoli
Opere inedite o rare dei primi tre secoli della /ti
pubblicate a cura della R. Commissione pé* testi di lin
è preceduto da utilissimi preliminari delP illustre 6
ne' quali si tratta delia famiglia da Tempo, del libr
Antonio , del Pseudo-Antonio e delle due edizioni del '
tato, cioè di quella fatta nel 1509 e della sopra annunc
Vi si prova con buone ragioni e con soda crìtica, ci
Commento alle Rime e Canzoni del Petrarca e la
del Petrarca stesso, che sotto suo nome si stampa
più volte, non sono né potrebbero essere di Antonio,
verso il 1275 e morto in principio del 1336, ma ben
Domenico Saiiprandi Mantovano, cognominato Giro]
Squarciafico Alessandrino, che scrisse dopo li 10 li
del 1471; sicché il supposto Antonio da Tempo iun
nipote dell'altro Antonio, autore del Trattato, non san
insomma che un pseudonimo.
Cotesla nuova ediz. è fatta sopra un cod. ms. raemltr.
la fine del sec. XIV, che sta nella Bibliot. del Semi-
jrio di Padova, segn. del num. 4. Se V egregio prof. Grion
" avesse consultato eziandio il lesto a penna clie conservasi
nella Capitolare di Verona, certo gli avrebbe giovato, se-
condo elle opina V illustre e benemerito Mons. Conte G. B.
Giuliari. I preliminari vanno sino alla pag. OC, donde il
Trattalo delle Rime volgari sino alla 173. Nella Prefazione,
nelle note al Testo e aell' Appendice seconda si leggono
Rime edite ed inedite di Francesco Vannozzo , di A/arsi/io
da Carrara, di Gkidino o Gidino da Sommacampagna,
di Contrasto di Bontempo , di Ùmctaco da Belluno , di Atf
tonio da Ferrara, di Matteo da' Griffoni da Bologna, di
Fazio e dì Lapo degli liberti, di un Anonimo, di Jacopo
Sanguinacci, di Domenico Scolari e di Antonio e Fran-
cesco Baratella, del quale ultimo sta un Compendio del-
l'arte Ritmica dalla pag. 179 alla 240. in grosso volgar
padovano, da lui dettato nel 1447, sedecimo dell'età sua.
Dalla pag. 241 fino alla 292 è la prima Appendice conte-
Dente i Rìioli dei cittadini di Padova dal 1275 al 1321.
Dalla 29b fino alla 383 sta la seconda Appendice conte-
nente Poesie del trecento deW Italia superiore , le quali ap-
partengono alla maggior parte de' Poeti sopra indicati.
"INella 384, die è l'ultima, V Indice del volume.
Un libro così prezioso e ricco di isvariati e impor-
intissimi documenti doveva naturalmente riscuotere il
degli eruditi e dei veracissimi letterati, come di fatto
avvenne, nullostante i difetti che vi si possano incontrare.
Onde parecchi Giornali parlarono in lode di cotesto pub-
blicazione e singolarmente un di Germania de' piìi accre-
ditati che v' abbia , ìl Central-Blat dello Zarnacke che
li stampa in Lipsia. Tra i nostrali poi il celebre G. Zanella
tffermava, che il libro del Grion può mostrare che gV /(«-
\ani, quando vogliono, non sono da meno dei Tedeschi
— 526 —
rneUe rictrcàe esatte e faiicose della filologia. Ma <
toglie che il Gtìoq non isfiiggisse, come dicemmo, (
menda : chi non b non falli , e nell' opere degli
gammii noo si troTi la perfezione , e stupido è eh
doTerfi essere e folle dii presame tro?ar?ela, sicché
si foglia « OTonqae la malignità o la sofisterìa {
\ agercAmeiite trovare cagione di colpa.
Un intempestiTO e inginrioso cicaleccio contro
pobUìcazioQe osa fìiorì ndla Kmsta delT Umbria
Martke , scritto dal signor Cristoforo Pasqualigo, g
fessore od R. liceo di Verona presieduto dal Grìoi
paerìlmente assale eziandio la Ck)mmìssione pe
di lingoa ; ma la critica perde a grande pezza d
valore quando non sia urbana e gentile: l'astiosa
I che non si addice a nessuno ben costumato uomo
anche in sospetto ragionevolmente di sleale e di esa
donde la poca fiducia de' prudenti leggitori. Di priv
e di sdegni non è lecito mescolare e rend^ parte
pubblico sotto quale si voglia forma, manto e coU
come la critica buona e modesta è di grande giov;
alle lettere, cosi la rabbiosa toma dannevole; e, ai
abbattere il criticato, umilia e rende abbietto il crìi
ma di questo basti per ora.
IL NUOVO ISTITUTORE
GiORÌtMS.
V ISTRIZIOSF, ?. Ili F,Di;CAZFONK
È cotesto un Periodico compilalo enti molto senno,
ratezza e buon gusto: ìasu dire che tr ò Direttore
stre professor G. Olivieri, e che vi lavorano letterati
loon piccola rinomanza: il chiarissimo 8Ìg. professor Fraiv
I Lingaiti è de' primi , per tacer iV altri. In cotesto
late, che comincia ad avere tre anni ili vita, sta Dn
l^di lutto: scritture di pedagogia e ili didatlia,di agri'
[ara, di filologia, di bibliografia, ecc. ecc. Insomma
Britei^bbe d' essere un po' più conosciuto ({ua da noi,
:faè fra la moltitudine di Periodici che ripullulano per
a Italia, il Suovo Istitutore cammina co' migliori, onde
Ili lo raccomandiamo a chiunque ami il decoro della no-
I Penisola. Si pubblica in Salerno tre volte al mese.
Le associazioni si fanno a prezzi anticipati mediante
iglia postale spedilo al UiretUjre. Le lettere ed i pieghi
non francati si respìngono: né sì restituiscono manoscrìltì. —
Prezzo : anno L. 5; sei mesi L. 3: un numero separato di
otto pagine Cent. 30; doppio Cent. SO.
I
ANNUNZI BIBUOGRAFICI
Due Nocelle per festeggiare la
laurea dottorale in ambe le
leggi del signor Adriano noh.
De Malfer presso la R. Uni-
versità di Padova. Venezia,
Narratovidi, 1870, in 8.*» di
pagg. 16.
Edizione non yeoaìe esegpila
a Cora delF illastre 5ig. Andrea
Tessier. La prima NoTeUa venne
tratta dal Magazxino letterario,
Tol. 1.^ edito in Treviso nei 1823;
h seconda dall* Vonìo di conversa-
sione; Venezia, Poggi, 1833.
NoYeliette di Paolo Mlnucci
est rat le dalle note al Mal mùn-
tile r acquistato di Lorenzo
Lippi. Venezia, Tipografìa del
Commercio, 1870, in 8."* di
pagg. 30.
Appartiene questa pubblica-
zione altresì al prefato sig. Andrea
Tessier , che Toue intitolarla all' e-
simio bibliofilo sig. Giovanni Pa-
panti, il quale pochi mesi innanzi
avea pur dato fuori due di coleste
Novelle in soli quattro esemplari
numerati, col titolo: Due Novelle
di Paolo Minucci tratte dalle
Note al Malmantile di Lorenzo
Lippi; Livorno. Vannini, 1870,
n 8.^ Della suddetta raccolta del
sig. Tessier s'anpressero
pie, delle quali alcune in
carte distinte, e tre in pei
Le Novelle sono in latte
L'ammazza sette, e Por
proverbio: Oli è folto \
all'oca son le doe che in
denza avea stampate il
pantL
Pletrino e la Coma
velia di Francesco A:
da Temi non prima sii
Modena, Tipografia C
1870, in 8.** di pagg. '
Se ne impressero sol
semplarì, cinque de' quali
colorata d* America e cii
carta bianca da disegno,
velia è intitolata al sig.
colla seguente Epigrafe:
A
Gifvuii Pabuli
ractoflitore iitflli§eite e s
editore splesdiJo tà arcar
ài Rovelle
scritte ài illisth italiai
•ire
ìb sefio ài stila ed zm
AbImìì Cappelli.
Rime di Francesco Petrarca
con inleriirelazioiii di Giacomo
Leopardi e wn nota inedite di
Francesco AmbrosoH. Fircnte,
Barbèra. 1870. in fidili pagg.
XX-ll).i. a dw col.
La Gerusalemme liberata
di Torquato Tasso correda-
la iti noie filologiche e sloriehe
e di varianti e risoontri eolia
Conquistata [ler rura di Do-
menico Carboi»!. Ftrense, Bar-
bèra. 1870. in 8.° di pagg. XVI-
3S4, a due col.
U onorevole sijj. prof, cav. Oo-
menico Carbone, rcj^io ProTTed. agli
smdii pella Provìncia di Milano, piii
0|>ere fìn tgiii ha poslu in luce a
beneficio della studiosa gìoTentli
con particolare diligenza e assen-
nalczza, e coleste sopra citale to-
glionsi tenere in grande connidera-
»«ne. Sono luite corroborale di
oittme e giudiziose illustrazioni, sic-
ché chi TI stndia npproiiilerà gran-
demente. Che Iddio lo benedica t e
gh mantenga il Tenore di adope-
rarsi a prò della crescerne eenera-
ajonc, in parie assai isviala da ogni
bene, colpa singolarmente ì \iziosi
sensi che di primo trailo su^p Ira
le pareti doniesiichc. I vecchi padri
eraii troppo pietosamente severi,
ma i moderni son troppo criidel-
] nenie pietosi.
Seemplare della Divina
Commedia iknalo da Papa
(Benedetto XIV) Lambarlini con
lutti i luoi libri atlo itudio di
Bologna, cJìlo seconda la sua
fiorlografia, illuslrala dai oon-
L^nli di allrì XIX codici dan-
^tetchi inedili e fornilo di noie
aritiehe da Luciano Scarabelli.
aolognOt presto Gaetano Aoino-
Jano/i', Regia Tipografia, 1870,
To/. 1." IH 8."
Fa parie della Colletione di
oprre iiicdile o ^
seeoli delia lin^a che si pubblica
dalla R. Commiss. pe' lesti di lin-
goa. È colesta una pubblicazione
veramente im porta niissi ma non solo
pei Danlorili, ma per ogni maniera
di letterali e di eruditi. Il prof. L.
Scarabelli ha tale energia e solenia
die non la cede a nessuno, e non
perdona a fatica per ipianlo possa
essere grave e dimcoltosa. Vi snrA
(gualche menda, ma é inevitabile in
un lavoro cosi laborioso e compli-
calo. L'opera è preceduta da una
dedicatoria all' inglese conte E. C.
Barlow, cui .seguita una larga ra-
gionala Descritione de'codici Dan-
teschi dati in questa pubbiirasio-
ne; indi il testo Lamberliniano con
a pie di pag. le variami dej^li altri
XIX lesti a penna, e note copiosia-
Oltre glj ess. ulT. altri 50 ne
furono impressi a spese dell' illu-
stratore, in gr. 4.10, con fac-simili,
con dedicatoria al Re, toltone via
quelln al Barlow, e con una Prefor
sione siorico-Ii io logica, che non si
legge nelle copie ufllciali.
Cauti Q Racconti del jMpolo
ilaliitno. jmbblicati jmr cura
'li* Domenico Comparetli ed Ales-
sandro d'Ancona. Torino-Firan-
te, Ertnantio Loescher , 1870,
m. 1." in 8.° di pagg. XVI-t58.
L' utilità storica e letteraria
di questi componimenti popolari tu
assai volte dimostrata da valorosi
injfegni
dell' eia nostra. Molli volu-
ne furono pubblicati pertinenti
aiiu varie Provincie della Penisola,
ma ninno lln qui si ora proposto
di fame una raccolta completa. A
ciÙ vogliono ora provvedere gli
illustri proff. Comparetli e d'An-
cona, sicché per lalc uopo anno
fallo un appello a quanti amano
in Italia le nostre lettere. Da fanale
precipua cagione ei sien mossi, ■-
— 530 —
peruoicBle il dìcoao nefi* Àfrecteii-
a che firecede qoesto primo toIb-
■K. Ecco If kNt> parole medesime:
€ La nostra grande open naiioBale
imifira^ ef Q^fia cd iDoalza il pen-
siero dei nostri Tolfhi, opi giorno
meno Arisi, spingcndoto in uà via
di irvnatamento, per la qiale do-
fra aTicfiire che unto si distacchi
àà lalni prodotti del soo passalo
da obkiaru aiitto. È d* nono adon-
<|ne afrettarsi a colmare le beone
in mi campo di rìcercbe di ormai
troppo nota importana. >
Onesto primo Tolome conlieae
C4Mii Popolari Manferrini me-
eoUi ed atwoUUi dal DoiL Giu-
seppe FifTora; e sono in nomerò
di 111
Arte, Patria e Reli^one,
Prtùe di Giambattista Giofiaoi
Firense, Le Monnùr, 1870, in
ia* di pagg. YI-46S.
Anreo e fMte manipolo di scel-
tissime Prose d* uno de* pib ^»len-
didi ingegni e de* pia tersi scrittori
defl* eà nostra. La maggior parte
di coleste Prose versa sai Dirìno
Poema di Dante, ma T*ba nutavia
da deliziarsi ancora in tarie altre
scrittare di gnTÌ e dì srarìati ar-
^omeotL Stanoo in fioe HL eiegan-
tissime Epigra/i a Cario Alberto e
Itafia. Gfi stodiosi oca debbcNio la-
sciar di proTTedersi di questo to-
lume, nel quale Tedranoo come si
rsa maestreTolmeote scrìTere tra
stìl de* moderai e fl sermon
prtseo.
Sonetti di Francesco Petrarca,
ora scoperà e pubblicati. Ve-
ncsia. Tipogra/ia S. Giorgio,
MDCCCLXX, in id.^ di pagg, IO
non nufn.
Granosissima publJicazione pro-
cnrau dall' illustre sig. prot Gìo.
Vehhlo, Tìcepreletto d^la Marciana:
I
I
ogni baoi^;nstaio aeua da
merebbe di possederla, ma
stampata in ristretto nom.
per le nozze di Amedeo G
oon Emma LevL Tero è t
tutti sono propriamente ine
testi sei Sonetti, essendotq
tro che anticamente vider
ma e* sono tanto rari, cb
potrebber chiamarsi inediti,
dail* inedito al raro d ha
poca differenza. Circa poi
partenere o no al Petrarc
dubbio: ad ogni modo noi p
dello stesso arriso deU*
sig. Yebido, ed il ìiarsan
sua Bibtiotéca Petrarehest
firancamente potersi sostea
laTorì del nostro primo li
Notizie per la vita di L
Ariosto traile da documé
diti a cura di Giuseppe C
5ècoiida edizione correi,
tevolmente aeeresciuta.
na, (ui^amst, 1871, in
pagg, 145l
Ediz. di soli 906 esemj
ordine nomeratL Capiosissn
i ramagfi intorno a Lodofi
sto eoe quÌTÌ si leegooo,scr
maggiore disioTcSlora e ci
n caldo e curioso ammin
quel sommo Poeta, gli stod»
cose storiche e delle glor
rane tì troTeranno assai d
che possano desiderare e
qui da Teruno altro non ci €
nferilo. Sparse per entro
ma parte leggonsi molte
inedite di ec4^si personags
Te all' argomento trattato, s
dall' ilhislre Autore negli Ai
Mantova e di Modena, le r
rooo sdtanto aggiunte ii
seconda edizione e che auj
assai pregio aQ* opera. Gra
rese pertanto ali illustre
merito signor marchese C
Campori
Discorso inaugurale per la
ììia}icrtura dell' l/nivsriilà lii
Bologna nell' aniio seolaslieo
I87tì-71. klla dal \trof. F. Fio-
reniino Ugìor'io Ì6 Nuv., 1870.
Bologna . Società Tipografica
dei Compoiilorì. 1870. in 8."
di pagg. 18.
Gravità di stile e Tobnstetu Hi
niponi rìsplendoDo in questo fllo-
solico ragionamento, il quale non
produce meno effelio « sensazione
nei leggerlo, di quel che si tacesse
all' udirlo pronunziare dalla viva
loce dell' Aulori! nella grande Aula
dell' Uni?ersiLì Bolognese, dove ri-
scosse ragionevoli e Tragorosi ap-
Cola di Rieneo, Tragedia di
Nicolò Tialio. Palermo. Tipogra-
fia dfl Gionialf di Sicilia, 1870,
in 8° rfi i<agg. 139.
Che cosa proprJamenie esser
possa colesla TrageMa. in breve
ce lo dice l' Autore stesso in una
AvoertctiM ai lettori die le va in-
Twmi. Ecco le medesime sue pa-
role:
■ Non ho inleso ritrarre un
fallo, ma un' epuea: non un lipo.
ma un uomo. Ho spezzalo i ceppi
delle ntoriehe peJanlerie. ho Tran-
te le catene del secchio classici-
smo, ed ho respirato le purissime
aure di quella libarla che (àvorì-
sce i voli dell' ingegno e le ispi-
razioni ikir arte. — Ho ben fello?
Ti sono riuscito? •
Sia come si voglia, risponde-
remo noi, ad o^ni modo l'Autore,
secondo eli' i';;ii stesso ci palesa, ha
veati anni soltanto! e se è giunto
8 *pmar ceppi e a franger catene
nella sua tenera età, ha latto pro-
digi! Se perù possa tornargli a bene,
Iwcieremo eoe altri giudichi.
e di .San
L
rissale da fra Domenico Cavalca
con noie e schiarimenti dtl
sac. Francesco Cerniti dottore
in Lettere, nrim, 1870, in 16°
di pagg. 960,
Fa parte dì una Biblioteca della
Gioventù italiana. Cliì potrebbe
non lodare il slg. ilott. Cerniti, che
con unto telo si adopera ad alle-
stire pe' teneri giovanetti cosi falle
auree scritture , le (|uali insieme
colla lingua buona ispirano eziandio
ottimi esempi di belle costumanze
e di morale pietà? Noi ne andiamo
assai lieti e confortiamo q^uel bene-
merito editare a proseguire oltre
con solerzia e coraggio. Ci permet-
teremo soliamo di ferali notare, che
la Leggenda di S. Francesco non
è gii versione che appartenga al
Cavalca , ma ad Autore Anonimo.
Essa fa parte delle Vite ili Satiti
e Sante pubblicale dal Uanni in
aggiunta alle >T(r de' Santi Padri
delti dell' Eremo, e di queste sol-
tanto fa volgarizzatore ÌI Cavalca.
I Hotameatl di Matteo Spinelli
da Gionenaiio difesi e illu-
strali da Camillo Miiiieri Riccio.
N-apoli. Militiero. 1870, in 8"
di pagg. Wìt.
È coieslo libro un bel saggio
della vasta erudizione slorica del
sig. Hioieri; e chi l'abbia ponde-
ratamente letto sarà forzalo dalle
polenti ragioni quivi esposte a non
credere una felsIHcaiione i Diurnali
dello Spinelli, scondo che con un
suo acuto e sottile ragionamento
avea fello credere l'illustre Gugliel-
mo Bernhard], professore del lìin-
n»sìo di Luisenstadl di Berlino.
Quesl' apologia ha in fine 63 Zto-
--■"■'■ Ialini.
Il Libro inlorno la consola-
Itone, dalla lingua Ialina re-
calo nell' italiana dall'aviiocato
Filippo Cicconetli, Boma, Tipo-
;i
grotta deiU beUe arti. 1870, in
8° di pagg. 92.
Niuno polli non lodire l' ele-
Sinle versione dì quesl' opnscolo.
lire la bontà della lin)^ e dello
siile a raccomanda mirabilmente
per la materia conteauia; e cbi
scirri e cbi patisca lidssìiudiai Iro-
veri nande conrorto nel leggerlo
e meditarlo, e i dolori e i ramma-
ricbi di che Tosse trafitto, a pat^
nostro, si ailcvieranao.
Le Operette marali di Giacomo
Leopardi oon la Prefatione di
Pietro Giordani, editioiu aecre-
tciuta e corretta da G. Chiarini.
Livorno. Vigo. 1870, in 32°
di pagg. XXXXVIIl-5m
Vano torna ragionare del Leo-
pardi: egli baiai Tama, cbe niuno
Sotrebbe, per quantunque colesse
ime, accrescergliela o diminuirla.
Diremo soltanto che qaesl' edìiione,
allestita dall' illustre sig. Car. Chia-
rini, è fatta con grande amore e
imelligenza, concludendo infine che
r eleganza dei tipi e la nitideua
son tali, che proprio fónoo onore
all'egrepo tipografo sig. Cai. Fran-
cesco Vigo, if quale, si »ede chiaro,
esercita la professione sua più ad
onore di essa cbe per materiale
lucro.
ProTTisioni e Statuti d' una
Brigala Carnevalesca mi 1613.
Scrittura inedita d'un bell'u-
more Fiorenlino del secolo X VII.
Firenze, presso Giovanni Dotti,
1870, in S" di pagg. 30.
Non è da vero senza pregio
cotesto componimento, quaniunr|uc
a' nostri tempi possa trovare chi
gli faccia mal viso. Anche dalle più
minute cose i nostri antichi sape va n
Irar materia di scherzo e di gio-
vialità: oggi a tulio, cbe non sia
di gazzette, di politica, di hrillanii
carneficine belliche e di romanzi, si
snoie far ceSo, ed il vecch
rebbe interamenle distrti^
cbè [Dito si biasima e si
Or che diamine è egli mai
Che fossero lotti imbecilli
padri? Or che la verace
cbe lutto lo scibile tUDai
sviluppati oggidì soltanto
noi credono, anzi tengo» p
che, salvo le debite cccezìoi
sente abbiavi grande copia
di prosDOtione, di vanterìe
tività con un po' d' ignor
tornando al nostro libricc
che egli è scrìtto molto
mente, e cbe dobbiamo sap
do all'egregio sig. Giulio I^
il trasse da un cod. Maglb'
peccato cbe ne facesse il
un cosi scarso numero d' e
Trentasei numerali son pc
de nostra!
OtBervaileai oritict
Tertina 10 del Canta
l' Inferno di Dante.
Penado, 1870,in8»<ii
È lavoro di un egreg
ne, il sig. Alessandro de l
dìoso e ammiratore del pr
nosirì classici antichi Poe
buone e ragionevoli semi
sue Osservaiioni e da pre
considerazione. Ad ogni mi
dimostra assai studioso, i
di sonile ingegno, qaM
lodi e conforto.
Lo Spiritismo, Novella
maso VallaurL Torini:
in 32."
Graziosissima Novella
in cui l'Autore si cimenta i
quanto sien fallaci le prA
colesti Spiritisti, e ne '
apertamente le loro ciunn
condotta e T intreccio sono
assai e la lìngua e lo stile
tanan di moljo dall' odiem<
barbariche guise. Sembrai
— 533 —
sig. Vallauri possa e debbasi allo-
gare tra i meglio Novellatori de* no-
stri tempi. Lo Spiritismo è per or-
dine la decima delle sue Novelle.
Canti Popolari Siciliani rac-
colti ed illustrati da Giuseppe
Pitrè, preceduti da uno studio
critico dello stesso autore. Volu-
me secondo, Palermo, Luigi Pe-
done - Lauriel, 1871, in 8* di
pagg. XU-500 con 16 pagg, di
Tavole in musica.
Non meno importante e dilet-
tevole ed erudito del primo volume
è cotosto secondo, che pur dobbia-
alle incessanti sollecitudmi dell* illu-
stre Pitrè. Noi già parlammo di
questa copiosissima e graziosa rac-
colta alla pag. 204, Anno 111, Parte
prima, del nostro Periodico, e quel
poco che ne dicemmo allora in nota,
or vie più riconfermiamo, colà ri-
mandando i nostri leggitori. In que-
sto secondo volume si contengono
NinneNanne, Canti fanciulleschi,
Invocazioni e Preghiere, Indovinel-
li, Arie, Leggende e Storie, Contra-
sti, Satire, Canti religiosi e mora-
li; in tutto sono componimenti 279,
i quali, uniti ai 727 del primo volu-
me, forman la ragguardevole raccol-
ta di 1006! Non vuoisi in fine pre-
termettere, che in qnesto secondo
volume, oltre la moltiplicìtà delle
note dichiarative e d*ogni maniera
d* erudizione , sta pure un ampio
Glossario , comprendente in singo-
iar modo la maggior parte delle
voci illustrate alle note.
A Vittorio Emanuele II Re
d' Italia, Canzone di Achille
Monti. Firenze, Tipografia di
G. Barbèra, 1870, in 8*» gr.
di pagg. 15.
È un componimento che, a
parer nostro, non ha da invidiare
1 più belli che di tal genere sieno
usciti sin da quando fiorivano i no-
stri maggiori letterati nei primi anni
del corrente secolo : chi voglia per-
suadersene si faccia a leggerlo at-
tentamente. Il signor Monti, in una
)arola, è depissimo nipote del ce-
ebre Vincenzo, e che in fatto di
ettere da lui non traligna: ce ne
rallegriamo cordialmente.
X.
INDICE
Compendio storico della letteratura tedesca (prof. Carlo
Filippo Henrisch) Pag, 3
Rinaldo da Montalbano , Conlinuaziùne e fine ( prof. Pio Raina) > 58
Intorno ad una Canzone e ad un Sonetto italiani del Sec.
XII, e ad una Canzone Sarda, tratti dalle Carte d'Ar-
borea (conte Carlo Yesme) » 128
Orìgine della lingua italiana in Sicilia ( Prof. Vincenzo Pagano) » 1 45
Le pretese amate di Dante ( Bergmann-Pitrè) » 225
Comentario sulla Tenzone di Cìullo d'Alcamo (cav. Lionaroo
Vigo) » 254
Saggio di commento alla Cronaca fiorentina di Dino Compagni
(prof. cav. Isidoro del Lungo) > 353
Luoghi del convito che illustrano il poema di Dante ( Nicolò
Tommaseo) » 371
La Rotta di Roncisvalle (prof.. Pio Raina) > 384
Leggenda di S. Margarita fin qui inedita, in ottava rìma
(Francesco Zambrini) » 410
Delle Carte d'Arborea e delle Poesie volgari in esse con-
tenute, continuazione e fine (Girolamo Vitelli) . . » 436
VARIETÀ
Nota sul verso del X Canto dell'inferno. — Forse cui Guido
vostro ebbe a disdegno (prof. Francesco d'Ovidio). . • 167
Leggenda di S. Margarita vergine e martire, in prosa (dott.
Antonio Ceritti) » 176
La Novellaja milanese. Esempii e Panzane lombarde (prof. Vrr-
torio Imbruni) «192491
Nota sul verso del X Canto dell' inferno. — Forse cui Guido
vo tro ebbe a disdegno ( prof. comm. Nicolò Tommaseo) » 486
Esempio morale antico * 503
l codici Roncioniani illustrati (cav. Cesare Guasti). . . * 505
3
— 536 —
BIBLIOGRAFIA
OssenraiìoDi intorno alla relanone sai manoscrìiU d'Arborea
del conte Carlo Bandi R
La Palestra del Sannio , Periodico settimanale
Rifista italiana dMstniiione e d'educanone
Circolo letterario romano
Antonio Da Tempo, delle rime Tulgari
Il nuovo istitutore, giornale d'istmiione e di educaiione .
Bollettino bibliografico
rODU FILOLOGICI, STOKICI E BIBUOeund
m VARII 8WJ
in APPENDICE ALLA C0IlKZ10i\E EH OPEM |
IRNO 3.* DISPENSI I.*
MAGGiO-OlUONO
D'IMMINESTE reBBLltVZIONE:
OPERE
STORICO-NUMISMATK
CARLO MORBIO
DBClCtlOI» UUmiUTl DEIXE SUE lUCTAI
\
ini; J
meli
Questo volume non lui bisogno di raccomanilazioni;
titolo annunzia l'importanza dcH'argomemo; ti nome
lustre autore lo raccomanda,
lìilizioae in 8." ili 300 esemplari ordinalamenle nume
di pagg. XXIV^72 con due tavole litograiìcUe.
DUE CENTURIE
I
ISCRIZIONI ITALIAN.
CARLO PBPOLl
Un lifil volume del formalo Le Monuier di |ngg. 1
INDIQE
«Iella px>eseiite IMapensa
La Direzione ni suoi colleghi ed associati P
Vincenta Dt QioTanni — Giovan da Prociila e il ri-
belbnitnio Ji Sicilia nel 1282
Alessandro D'Ancona — Una poesia ed una prosa
ili Antonio Pucci, prccidute da una lettera al profes-
sore A, Wcssclofsky
A. C. — Il Perdono di S. Francesco d'Assisi e un Sei'inonc
di S. Agostino
QiuBto Grion — Il Pozzo di S. Patrizio
I. Q. Isola — Dialogo dclJii Lingu» comune
Francesco Di Mauro di Polvica — Al Direttore del
Propuguatore
S. M. , N. N-, A. D. A. — Bibliogralla
F. Z. — Dullcltino bibliograflco
Li; ;LsstM:i;iuo[ii si riceveranno dal sotloscrttU
eiliiurv iiui in ntilogiia cn' sci^ctili jiatti.
It Oìoni:ili! sarà riiiarlitii in ffii fascicnli annui, ogn
ili IO fogli in 8.°. (li pa^R. 1(1 jn-r riascnno, ila pai
ili bitnesii-c lii bimesirc.
S(! per forza di (iJ!ip(»Ìzi(ne Oelle risfiettivc i
fascicolo iloves»c tornar meno «le' fogli i>run]es!ii ,
nciiuiriiDlJ saranno Hf.itiì in alcuno de' iirossinii ;
r incoiitni , se i fogli ollrepasseniiiiio il niimei-o dell
Nc m l^rà rai^giiaiilio alla sna mM-j.
L' xssoàaxiimt sarà obbli^alorìa per un ;
gai'si aulicìpaianifflitc di scmeslre io scmi»tr&
D' ora iiuunzi non ai animcuoiio cambi s
perioilici scienlilici e Iell«rari.
Gaetano Hohacnoi.! KdUore f.
e n'SfmiSftl/ile