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'BIBLIOTECA ITALO-ALBANESE - Voi. I
ARTURO GALANTI
L'ALBANIA
NOTIZIE GEOGRAFICHE, ETNOGRAFICHE
E STORICHE
ROMA ;. '" ^
SOCIETX KDITRICl! DANTE ALIGHIERI
190 1
Proprietà letteraria
Roma — Tip. Nazionale di G. Bcrtero e C.
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1
V
V
INDICE
^A.VVERTENZA Pag. 5
PARTE I.
Notizie geografiche ed etnografiche.
Gap. I. Geografia fisica. La piccola e la grande
Albania Pag. 7
Id. n. Origini del popolo albanese o shkipe-
taro e dei nomi Albania e Shképèria. » 25
Id. III. Lingue dominanti nella piccola e nella
grande Albania. Tribù e colonie al-
banesi )> 33
Id. IV. Popolazione dell'Albania. Statistica. Il
costume albanese » 46
Id. V. Religioni dominanti nell'Albania. Istru-
zione. Scuole confessionali e nazionali. » 52
Id. vi. Circoscrizioni amministrative. Governo.
Usi e consuetudini » 59
Id. VIL Condizioni cconom'che deirAlbanìa. . » 66
O
69649
— 4 —
PARTE li.
Notizie storiche.
Gap. I. Età antica. Tribù illiriche ed epirote.
La conquista romana Pag. 80
1d. II. La dominazione bizantina. I Bulgari.
I Serbi. I Normanni. Manfredi, gli
Angioini, i Duchi di Durazzo. La
dinastia dei Baisela e altri dinasti
albanesi. I Turchi e la Repubblica
di Venezia (a. 395-1421 deirE. V.). » 100
Id. III. Giorgio Gastriota, detto Scanderbeg. I
Turchi conquistano l'Albania dopo
la morte di Scanderbeg. L'Albania
sotto la dominazione turca. Golonie
albanesi in Italia (a. 1421-1750). . » 13S
Id. IV. Bey e Pascià ereditari. I Busciatli di
Scutari. Ali Tepelenli (di Tepelen)
Pascià di Janina (a. 1 750-1 831) . . » 180
Id. V. Storia recente dell* Albania. La Lega
albanese. Gli Albanesi d'Italia ... » 216
Saggio di una bibliografia geografica, etno-
grafica E STORICA dell'Albania .... » 239
Carta geografica dell'Albania e carta etno-
grafica DELLA penisola BALCANICA.
5^WW^W^^HWW^^fH?^H^^
AVVERTENZA
Questo lavoro si chiude con una copiosa bi-
bliografia; ma non è facile immaginare che far-
raginosa congerie di notizie incerte o incomplete
o contraddittorie o erronee o fantastiche o esagerate
vien fuori dalla maggior parte dei libri da me
consultati ed additati al lettore. L'Albania non
possiede archivi né ha documenti propri della
sua storia. Documenti notevoli non c'è da tro-
varne, per alcuni periodi della storia albanese,
che negli archivi di Venezia. Ma comporre una
storia documentata non fu il mio compito, né
consultai perciò quegli archivi.
Scrivendo specialmente per le scuole io mi sono
dovuto contentare di raccogliere succintamente in
un solo libro ciò che si trova disseminato in opere
diverse, più o meno voluminose, più o meno degne
di fede e di studio ; ma la fatica che in molti casi
dovetti durare per rintracciare il vero fu tutt'altro
che lieve, e sarebbe stato necessario che empiessi
il mio libro di note e ne raddoppiassi la mole,
se avessi voluto volta per volta additare gli errori
altrui, ed esporre te ragioni che determinarono
la mia scelta tra notizie discordi, tra racconti di-
versi, tra disformi descrizioni, tra disparati giudizi.
Discussi soltanto quando mi sembri» necessario.
In tutti gli altri casi della bontà dei criteri, con
cui procederti nel comporre l'opera mia, giudi-
cheranno i competenti, che non possono essere
molti, dappoiché non vi ha forse altro paese
d'Europa, che sia cosi poco conosciuto e studiato
e cosi difficile a conoscersi ed a studiarsi, come
fu sempre ed è tuttora la terra degli Shkipetari.
^^^W^W^WWWWWWWW^^^^'WW^^'''^
PARTE I.
Notizie geografiche ed etnografiche.
Capitolo I.
Geografia fisica.
La piccola e la grande Albania.
// popolo albanese, — Il popolo albanese o Shki-
petaro (i) è un antichissin^o popolo, fiero, valoroso,
amante dell* indipendenza e della patria, del quale
potrebbe dirsi ciò che lo storico romano Cornelio
Tacito disse della piccola nazione germanica dei
Longobardi: a Per questa gente è titolo di gloria
la scarsezza del numero ». Molti e molti secoli
passarono infatti dairepoca nella quale i remoti
progenitori dei prodi Shkipetari si stanziarono
(x) Avverto una volta per sempre che nella trascrizione
dei nomi albanesi credetti opportuno attenermi, così nelle
carte gec^rafiche come nel testo, alle norme seguite dalla
Società geografica itaìiana. Ciò posto, al gruppo fonetico sh
deve assegnarsi lo stesso valore, ch'esso ha nelPalfabeto
inglese (es. Shakespeare, Sheridan), pari a quello del gruppo
alfabetico italiano se dinanzi alle vocali i ed e {sci sce).
— 8 —
nelle sedi, che i loro discendenti occupano tuttora,
ed altri popoli o assai più numerosi o assai più
potenti e civili vollero conquistare quelle sedi; ma
la conquista non fu mai completa, e nulla valse
a cancellare il carattere nazionale albanese, quale
risulta sopratutto dall'aspetto fisico, dall'indole
intrepida, dalle tradizioni, dai costumi, dalla favella
tutta sua propria di questo piccolo popolo di
guerrieri.
Ciò sarà messo in chiara luce specialmente dalla
storia degli Shkipetarì. Ora è anzitutto necessario
dare qualche notizia geografica della regione che
gli Italiani chiamano Albania e gli Albanesi Shké-
pèria.
U Albania nella penisola balcanica, — L'Albania
fa parte di quella grande penisola, che si estende
a sud est del continente europeo tra il mar
Nero, il Bosforo, il mar di Marmara, i Dar-
danelli, il mare Egeo (costa orientale), il mare
Jonio e l'Adriatico (costa occidentale), e si chiama
Balcanica, perchè attraversata da est a ovest, a
mezzodì del basso Danubio, dalla catena montuosa
dei Balcani. La parte meridionale di questa pe-
nisola è costituita dal regno di Grecia, tra il mare
Egeo e lo Jonio; la parte centrale dalla Turchia
europea tra il mar Nero, il Bosforo e il mar di
Marmara, i Dardanelli e l'Egeo all'est, lo Jonio
e l'Adriatico all'ovest; la parte settentrionale da
parecchi Stati compresi tra il mar Nero e l'Adria-
tico, vale a dire la Bulgaria con la Rumelia orien-
tale, la Romania, la Serbia, il Montenegro e una
parte dell* impero austro-ungarico (Erzegovina,
Bosnia, Croazia e Dalmazia). L'Albania spetta alla
— 9 -
seconda di queste tre parti, vale a dire alla cen-
trale (Turchia europea) che si divide in tre prin-
cipali regioni : l' Albania suddetta a occidente,
lungo rAdriatico e lo Jonio, la Rumelia e la Ma-
cedonia a oriente, dai confini delFAlbania al mar
Nero, al mar di Marmara, all'Egeo.
La costa albanese ha di fronte suU* Adriatico il
littorale delle provincie pugliesi del regno d'Italia,
sullo Jonio risola di Corfù e le isolette di Paxo
e di Antipaxo (regno di Grecia) e più lungi la
costa di Calabria (regno d*Italia). Al nord della
costa albanese lungo TAdriatico si estendono le
coste del Montenegro e della Dalmazia (Impero
austriaco), al sud lungo lo Jonio le coste della
Grecia. Fra Otranto, sul canale dello stesso nome,
che congiunge il mar Jonio e l'Adriatico, e il capo
Glossa (it. Linguetta) sulla costa albanese non cor-
rono più di 72 km. di un mare non molto profondo;
né di molto maggiore è la distanza che separa
il porto di Brindisi (costa italiana) da quello di
Valona o Avlona (costa albanese); ond*è che
qualche geologo ha espressa a questo proposito
Topinione, che in remotissimi tempi, anteriori ad
ogni memoria storica, non un canale separasse,
ma un istmo congiungesse in quel punto le due
opposte regioni. Più stretto ancora è il canale
che separa Corfù da quella parte dell'Albania che
porta il vecchio nome di Epiro. 11 tratto di mare
tra le due estremità settentrionale e meridionale
della detta isola e la costa epirota è addirittura
brevissimo.
Confini geografici, — Non è facile segnare i confini
geografici deirAlbania, così lungo il lido occiden-
IO
tale come verso le interne regioni della penisola
Balcanica, giacche ragioni storiche, etnografiche e
politiche ne hanno continuamente variata l'esten-
sione e la configurazione. Il Montenegro ad esempio,
che per un certo tempo fu compreso nell'Albania,
oggi non solo sta da sé, ma occupa città e ter-
ritori albanesi: Antivari, Dulcigno (Ulkùn), Pod-
goritsa, Giabliak e Fùndina coi rispettivi territori, e
le tribù dei Cuci e dei Triepshi.
11 distretto di Arta, tra il fiume Arta e il Pindo,
fu ceduto dalla Turchia alla Grecia colla conven-
zione di Costantinopoli del 24 maggio 1881 in
seguito al trattato di Berlino.
Cosi anche largamente rappresentato, ma non
prevalente, è l'elemento albanese in quella contrada
che nel medio evo ebbe il nome di Rascia
(vecchia Serbia), nella Serbia meridionale, nei
territori di Mitrovitsa e Prishtina a occidente
della Serbia meridionale e nei territori di Uscub
o Scoplje (Scopia) in Rumelia, di Monastir
o Bitolia e di Castorià in Macedonia; ond*è
che la Rascia con Novibazar, Mitrovitsa e Prish-
tina e la famosa pianura di Cossovo, dove i
Turchi fiaccarono nel secolo xiv la potenza dei
Serbi, nonché parte della Rumelia e della Mace-
donia si trovano comprese nell'Albania in più di
un libro e in parecchie carte geografiche. Airin-
contro altre razze e nazionalità, cioè la greca, la
valaca, la serba, la bulgara, la turca, sono pure
alla lor volta rappresentate in città e territori di
quella regione, cui si attribuisce senza contrasto
il nome di Albania.
L* Albania geografica e la etnografica. — Tutto ciò
— II —
m'iaduce a distinguere due Albanie, la geografica e
la etnografica^ che potrebbero anche chiamarsi la
piccola e la grande Albania, alla stessa maniera che
si distinguono da chi vi ha interesse la piccola e
la grande Serbia, la piccola e la grande Bulgaria,
la piccola e la grande Grecia.
DeirAlbania etnografica, che non ha confini na-
turali, parleremo nel seguente capitolo. Meglio
definiti sono i confini di quella che abbiamo chia-
mata TAlbania geografica, esclusa per altro la
parte limitrofa al Montenegro, dappoiché il nucleo
montuoso costituente inattuale Stato montenegrino
può ben dirsi che formi geograficamente una cosa
sola coir alta Albania. Ciò premesso, T Albania
geografica è situata, misurando i due punti più
lontani da nord a sud (la frontiera settentrionale
e la punta di Prevesa) fra il 39® e il 43* all'in-
circa di latitudine boreale. Per la longitudine il
punto più occidentale (il capo Linguetta) si trova
a circa 19% 20' di longitudine est da Green wich, e
uno dei punti più orientali (il monte Peristeri a
sud-ovest di Monastir) di poco oltrepassa il 21".
Essa inoltre è parte integrate, come già si disse,
della Turchia europea, e confina a nord e a nord-
ovest col Sangiaccato di Novibazar (Rascia del
medio evo) e col Montenegro, a ovest col mare
Adriatico e con lo Jonio, a sud col golfo di Arta,
che la divide dalla Grecia centrale, ad est colla
Grecia, da cui la divide il fiume Arta, colla Ma-
cedonia, e coi sopra ricordati territori di Uscub
e Prishtina (vecchia Serbia), da tutte le quali con-
trade la divide quella linea montuosa di displuvio,
che distaccandosi dalle Alpi albanesi comprende
— Il-
la massa dello Sciàr-Dagh (l'antico Scardus) e va
a raggiungere per via di altipiani e montagne più
o meno elevate il sistema del Pindo al sud, se-
parando i bacini dell'Adriatico e dello Jonio da
quelli del Danubio e dell'Egeo.
Forma generale. — Nella forma generale, date
le naturali irregolarità dei lati, l'Albania può sem-
brare un rettangolo inclinato nella direzione nord-
ovest sud-est con 400 km. circa di lunghezza su
1 20 in media di larghezza e uno sviluppo di coste
che supera i 500 km. Linee ed anelli di montagne
pietrose la ricoprono tutta dal Montenegro alla
Grecia, notevoli soprattutto per la moltiplicità, ta-
lune anche per l'altezza.
Monti^ laghif fiumi, stagni e lagune, — Parti-
colarmente degne di nota per la loro altezza
appaiono in primo luogo le Alpi albanesi^ che di-
rigendosi da sud-ovest a nord-est, tra il lago di
Scutari e la pianura di Gossovo, chiudono a set-
tentrione il bacino del Drin; poi al sud-est di
questa catena la massa dello Sciar Dagh, diretta
alla sua volta da nord-est a sud-ovest.
Le Alpi albanesi, che verso il sud si diramano in
numerosi gioghi e non furono ancora interamente
esplorate, raggiungono probabilmente i 3000 metri,
e per il loro carattere alpestre meritano il nome
che venne loro attribuito. Le più alte vette appar-
tengono ai monti Procletja, Mocra, Visitor e Com,
Il Ljuheten, ch'è la più alta cima dello Sciar-
Dagh, s'accosta ai 2700 metri.
Allo Sciar mettono capo quelle due linee di
montagne, connesse ai monti della Bosnia, in
mezzo alle quali scorre da nord a sud il Drin
- 13 -
bianco, proveniente appunto dai gioghi più o-
rientali delle Alpi albanesi. Allo Sciar mette
capo una delle due catene montuose, in mezzo
alle quali scorre, profondamente incassato, da
sud a nord, il Drin nero, proveniente dal lago
di Ocrida. Questa catena è quella a destra del
fiume. La catena a sinistra si distende sino al-
l'estremità meridionale del lago di Ocrida, e da
essa partono parecchie ramificazioni, fra le quali
scorrono i fiumi, che si dirigono verso l'A-
driatico, attraversando una buona parte dell'alta
Albania.
Il Drin bianco e il Drin nero, riunendosi presso
restremo limite orientale delle Alpi albanesi dopo
un corso di circa 1 50 chilometri per ciascuno, for-
mano il Drin (l'antico *Drilon), che è il più gran
corso d'acqua dell'Albania. Due ponti sono co-
struiti sul Drin nero e sul Drin bianco a poca di-
stanza dal punto ove confluiscono. Un altro ponte
più antico, detto il ponte del Vizir, sorge non di-
scosto dagli altri due sul Drin, il quale corre dap-
prima da sud-est a nord-ovest, poi piega a occi-
dente verso il mare.
La stretta e profonda valle chiusa da monti
senza sentieri con pareti a picco di 1000 metri
d'altezza, in fondo alla quale esso scorre appena
formato, si allarga mano a mano, i monti digra-
dano, e il Drin entra nella pianura di Scodra o
Scalari, la più estesa di tutta l'Albania. Il mezzo
di questa pianura è occupato dal vasto lago di
Scutari (anticamente Labeatis), che si estende da
sud est a nord-ovest in lunghezza (Km. 50) più
che in larghez'za (Km. 14), limita al sud l'altipiano
— 14 —
della Zernagora (Montenegro) e per una por»
zionc verso ponente appartiene politicamente al
Montenegro, per tutto il resto all'Albania. 11 Drin,
dopo un corso di circa loo chilometri, manda
la maggior parte delle sue acque verso Scutari
per un alveo che esso si formò da sé medesimo
nel 1858, non ostante le dighe con le quali si
era tentato di contenerlo. Codesta diramazione del
Drin, che ha nome Dr inazza, sbocca nella Bojana^
emissario del lago, p ne accresce soverchiamente
la massa acquea, di guisa che i quartieri più bassi
di Scutari sono oggidì frequentemente inondati,
quando il Drin è in piena. La necessità di rego-
lare il corso del Drin è quindi universalmente ri-
conosciuta; ma là questione si dibatte senza risul-
tato da molti e molti anni.
Nella Drinazza affluisce, sotto Scutari, il grosso
torrente Kiri, che nasce dalle montagne a nord-est
di codesta città . Men ricco d*acqua , il ramo
principale del Drin corre per altri 40 km. verso
il sud con pendenza incerta e cangiante, e va
a gettarsi a traverso a terreni paludosi nel mare,
non lungi dalla piccola città di Lesh o Alessio
(rantica Lissos).
Questo ramo del Drin non è quindi naviga-
bile. Navigabile è invece dalla foce al villaggio
di Obotti per i battelli di modeste proporzioni
la Bojana, sopra ricordata, che nasce a sud-est del
lago, dove trovasi Scutari, ha un corso assai si-
nuoso, e si getta nel mare tra Dulcigno e San Gio-
vanni di Medua. Obotti è a tre ore di cavallo da
Scutari.
La Bojana e dai geografi considerata come la
— 15 —
continuazione del fiume Moraccia^ che forma il
lago di Scutari entrando in esso dalla parte del
Montenegro, Dal villaggio di San Giorgio sino al
mare la Bojana segue il confine politico tra il
Montenegro e la Turchia. Affluente di destra della
Moraccia è il Zem o Sem (in lingua serba Gjevna)^
che oggi appartiene nel suo corso superiore alla
Albania e nell'inferiore al Montenegro.
Fra le diramazioni che si distaccano dalla sum-
mentovata catena di sinistra del Drìn nero e se-
parano Tuno dalFaltro i principali fiumi dell* Al»
bania, è notevole la più settentrionale, tra il Drin
e il Mali o Matja, formata da un gruppo di mon-
tagne alto appena mille metri, ma di assai difficile
accesso, che è come la cittadella inespugnabile
di quella che suol chiamarsi VAUa Albania, L'abi-
tano le invitte tribù montanare dei Ducadgini e
dei Mirditi.
Là enormi roccie di serpentino emergono in
mezzo a terreni calcarei, alte muraglie si elevano
da tutte le parti attorno a valli anguste, e rumo-
rosi torrenti corrono rapidamente su scoscese
pendici e precipitano in cataratte e cascate.
D'altro canto nella regione montuosa orientale
dell'Albania il contrafforte meridionale dello Sciar
sulla destra e la catena ad esso parallela sulla sini-
stra del Drìn si abbassano a poco a poco, prendendo
un aspetto meno formidabile, per abbracciare da
ultimo larghi bacini lacustri, dove si raccolgono
le acque Ed eccoci al lago di Ocrida (Tantico
Lychnis), il più grande dell'Alta Albania dopo
quella di Scutari, a 680 metri sul livello del mare,
con 269 chilometri quadrati di superficie, jo chi-
— i6 -^
lometri di lunghezza e i^ di larghezza. Esso è
cosi trasparente^ che vi si veggono r pesci a 20
metri di profondità ; ed è quella ov'csso si trova
tutta una regione lacustre al confine della Mace-
donia, da cui la separa una catena di monti, la
quale può considerarsi come il seguito di uno dei
contrafforti meridionali dello Scardo, e alla quale
appartengono gli alti picchi granitici del Pensieri
(m. 2360) e della catena Neretshca piattina. Me-
ritano di essere ricordati in. questa regione lacustre
insieme al lago di Ocrida, dal quale nasce il Drin
nero, il piccolo lago Malik^ lungo /o e largo j chi-
lometri, a 8^0 metri sul livello del mare, il Presta^
lungo 28 chilometri e largo /o, e il Venlrok o
lago di Drenavo, lungo 18 e largo in media 5 chi-
lometri.
Siti ambedue a 8^0 metri sul livello del mare
e separati da un istmo largo appena un chilometro,
i laghi Venlrok e Presta comunicano probabilmente
tra loro per vie sotterranee. Fra i laghi di Ocrida e
di Presba si eleva la catena dei monti Galicilsa,
A sud di codesta regione di laghi, dominata
a sud-ovest dalla superba cima del Tomor, co-
mincia, in quella che suol chiamarsi Bassa Al-
bania, il sistema del Pindo, che nella sua parte
più settentrionale prende il nome di Grammos,
Il Grammos separa il bacino del lago di Caslorià
(Albania etnografica) e la valle della Vislrilsa, che
scorre verso il golfo di Salonicco, da quella parte
dell'Albania geografica, che è bagnata dai fiumi
Devoly Ljumi Beratil e Vojussa (l'antico Aoo), Giova
osservare a questo proposito che la catena del
Grammos è piuttosto bassa, con colli e valichi di
- 17 -
facile accesso tra 1* Albania e la Macedonia e ter-
mina con una notevole depressione al sud del
monte Vojon. Da questo punto la catena va grada-
datamente elevandosi e raggiunge quasi i 2600 metri
nello Smolica, donde si possono scorgere a un
tempo le acque dell'Egeo e dello Jonio e le rive
della Grecia di là dal Golfo di Arta.
Dallo Smolica in poi la catena del Pindo torna
ad abbassarsi, finché all'est di Janina^ capitale
della Bassa Albania, che al sud della Vojussa ha
Tantico nome di Epiro^ forma il massiccio, o nodo
montagnoso di Meizovo, dove appunto ha principio
la giogaia del Pindo propriamente detto con le
sue pittoresche e disordinate piramidi alte fin
oltre i 2300 metri, colle sue foreste di pini e di
faggi. Per il passo di Zigo presso Metzovo dalla
valle di Janina si passa in quella della Salamvria
(antico Peneo) nella Tessaglia. Il Pindo si dirige
verso il sud con due linee di montagne, oggi spet-
tanti ambedue politicamente alla Grecia, in mezzo
alle quali scorre VAspropotamo (antico Acheloo).
Ai piedi della linea occidentale, che è la più bassa,
le valli epirote assumono carattere schiettamente
meridionale.
Il fondo del largo bacino calcare situato alla base
occidentale del massiccio di Metzovo è occupato
dal lago di Janina (Pambotis lacus\ molto meno
elevato sul livello del mare del lago di Derida
(metri 480). Assai poco profondo in generale,
quantunque in qualche punto (tra l'isola e la sor-
gente di Trabattova) oltrepassi i 50 metri, questo
lago misura 61 kmq. di superficie, 8 km. di lun-
ghezza e 4 di larghezza, e non ha affluenti note-
2
— i8 --
voli, ma viene alimentato dalle copiose sorgenti,
che pullulano a pie' delle roccie. Esso inoltre co-
munica per mezzo di un canale paludoso con un
altro bacino lacustre, situato più al nord e chiamato
Lapscistas, Ambedue questi bacini hanno poi degli
emissari invisibili. Le acque del Lapshìstas si
gettano infatti in un gorgo per ricomparire a sud
ovest in un grosso torrente che si chiama Velchis
e si getta nel fiume Calamas (l'antico Thyamis).
Le acque del lago di Janina piombano ugual-
mente in varie voragini e scorrono sotterra per
alimentare a grande distanza, secondo T opinione
di qualche geografo, il Mavropolamo (fiume nero),
che è l'antico Acheronte e si getta nel mare Jonio
in una piccola baia, la quale ha nome Porto Fa-
nzrì (il Glychys limen degli antichi). Al Mavropo-
tamo, chiamato anche Panari o Glichis, viene ad
unirsi vicino al mare un altro fiumicello non meno
celebre, il Oocito^ dalle acque insalubri (oggi
Vuvos).
A settentrione del lago di Janina la catena dei
monti Micicheli si estende da sud-est a nord-ovest,
A sud-ovest dello stesso lago le linee montuose
deir 0//7sica e del paese di Suli raggiungono ancora
i 1500 e i mille metri di altezza, ma le altre linee
che le fiancheggiano, quantunque assai scoscese
e di difficile accesso, son molto meno elevate,
e verso il mare digradano in bassi promontori,
rocciosi e brulli. Frequentemente nelle anguste
valli chiuse da queste piccole alture stagnano
le acque piovane, persino nel letto dei torrenti.
Ma a nord dello stagno di Butrìnto, situato
lungo il braccio più angusto del canale di Corfù
- 19 -
e paragonabile agli stagni che s'incontrano sulla
riva settentrionale del golfo di Arta, il littorale
torna ad elevarsi per formare Taspra catena dei
monti Chimara o ^ Acrocerauni, che supera colla
sua più alta vetta (Cica) i 2000 metri. A questi
monti fu dagli antichi greci dato il nome di Acro-
ceraunij perchè terribilmente battuti dai venti, dagli
uragani e* dalle folgori. Gl'infami scogli acroce-
rauni della poesia classica sono ancora assai temuti
dai naviganti. Il Capo Linguetta segna il termine
di queste montagne precipitanti a picco sul mare»
Altre catene interne notevoli della bassa Albania
son pure quelle che, staccandosi dal Pindo, si di-
rìgono da sud-est a nord-ovest, separano il bacino
del Devol da quello del LjunU Beratit (monti Tomof)
e il bacino del Ljumi Beratit da quello della
Vojussa, e chiudono a sinistra quest'ultimo bacino.
La catena del Tomor raggiunge nel Tomor pro-
priamente detto i 2400 metri. La catena a sinistra
della Vojussa raggiunge i 2000.
Fatta eccezione per i monti acrocerauni, l'ab-
bassarsi delle montagne da est ad ovest, ossia
verso il littorale, è un carattere comune a tutta
TAlbania. Di qui i frequenti e grossi stagni e la-
gune in comunicazione col mare ed i terreni pa-
ludosi lungo tutta la costa, che nella stagione
dei calori esalano miasmi altrettanto pestiferi e
pericolosi, quanto buona e salubre è in ogni epoca
dell'anno l'aria delle montagne e delle alte valli
albanesi. Le febbri della Bojana sono tra le più
terribili di tutto il littorale Adriatico. Anche a Pre-
vesa e a Filippiades infieriscono febbri ribelli ad
ogni cura e violente, quantunque rare, perniciose.
— 20 —
Ecco i nomi delie sopraddette lagune. Lagune di
Cravasta e Cavacli e stagno di Terbuf tra i fiumi
Shcumbi e Semeni ; laguna di Soli a settentrione
della foce delia Vojussa, laguna di Arta o di Va-
Iona a settentrione di Valona; laguna di Butrinto
di fronte all*inboccatura settentrionale del Canale di
Corfù; lagune di Cucalia e di Logaru tra le foci
dei fiumi Luros ed Arta nel golfo di Arta.
Nelle bassure paludose vengono naturalmente a
finire i principali fiumi dell'Albania. Eccone i nomi
a cominciare dal nord. La Bojana e il Drin già
ricordati e descritti ; il Mali o Matja, che ha le
sorgenti nel distretto di Elbassan, scorre dapprima
da sud-est a nord-ovest, pòi volge a ponente verso
l'Adriatico, subito dopo aver ricevuto il suo prin-
cipale affluente che ha nome Fani ed è formato da
due rami {Pandi Mali e Fandi Vogeli) i quali rac-
colgono in massima parte le acque dei numerosi
torrenti della Mirdiùa o paese dei Mirditi ; VIshmi
e VArzen^ fiumicelli quasi paralleli al carso infe-
riore del Matja; lo Shcumbi (antico Genusus), il
quale ha le sorgenti sulle montagne che costeg-
giano la riva occidentale del lago di Ocrida, e
scorre dapprima, per breve tratto, da nord a sud,
poi da oriente a occidente, segnando per circa
loo chilometri il confine fra Taita e la bassa Al-
bania, fino all'Adriatico, dove si getta ai sud di
Durazzo ; il Semeni appartenente esso pure ai ba-
cino dell'Adriatico e formato dalla unione dei-
YErghent o Liumi Beratit, che proviene dai sud-
est) col Devoli che esce, come già sappiamo, dal
lago Maiik ; la Vojussa, o Vjosa, che viene per
importanza subito dopo il Drin, nasce dai monte
— 21 —
Zigos presso il nodo di Meteovo, scorre da sud-
est a sud-ovest per circa 190 chilometri, quanti
non ne misurano insieme il Devol e il Sementa ri-
ceve sulla sinistra il Orino (verso Tinterno) e la
Suscitza (verso il mare), paralleli al suo corso, e
si getta nell'Adriatico al nord di Valona ; il Pavia
e il KalamaSy veri torrenti che dopo un breve corso
affluiscono allo Jonio nel canale di Corfù; il Ma-
vropotamos e il Vuvos già mentovati, e infine il
Luros (antico Oropos) e VAria (antico Arachltis) che
scorrono da settentrione a mezzodì, ricevono a
destra e a sinistra numerosi torrenti e terminano
nel golfo di Arta. Dei due, TArta è il più notevole
con un corso di 1 30 chilometri ali'incirca. Il golfo
di Arta è quello che gli antichi chiamavano d*Am-
bracia. V'ha chi ritiene con qualche fondamento che
le voragini del Lago di Janina alimentino non il
Mavropotamo, ma il Luros.
Scorre solo in parte dentro i confini dell'Albania
il Um^ che nasce dal pendio meridionale del Com,
passa accanto ai villaggi di Gusinje e di Piava,
gira attorno al nodo più settentrionale delle Alpi
albanesi e volgendo al settentrione va a gettarsi
nella Orina, affluente della Sava (bacino del Da-
nubio).
Scorrono fuori dell'Albania geografica, ma in
parte dentro quelli dell'etnografica, Vlbar che è un
affluente della Morava di Serbia e quindi appartiene
al bacino del Danubio, e il Vardar, che è il fiume
principale della Macedonia. Neiribar affluisce presso
Mitrovitsa il fiumicello Sitnitsa^ che bagna la pia*
nura di Cossovo, e riceve il Lab, Vicino al Vardar
trovasi Uscub, e il Vardar può considerarsi come
— 22 —
fiume appartenente all'Albania etnografica fino a
Kòprùlù.
Da un'espansione del Lim^ in quel tratto del suo
corso superiore che appartiene all'Albania, è for-
mato il piccolo lago di Piava, lungo circa 7 chilo-
metri, largo 3, a 810 metri sul livello del mare.
Troppo rapidi e poco profondi e facili a dissec-
carsi nell'estate, i fiumi dell'Albania non sono
adatti alla navigazione, eccettuandone la Bojana
anche per i piccoli vapori fino a Obotti e il Luros
per le barche di piccolo tonnellaggio fino al vil-
laggio dello stesso nome. Anche la Vojussa e il
* Semeni possono essere risaliti per breve tratto da
piccoli caiki. Non sarebbe difficile rendere la Bo-
jana navigabile sino alla stessa Scutari.
Rade e porti, — Il littorale albanese non difetta
di golfi, di rade e di porti naturali. Nell'alta Alba-
nia, sempre procedendo dal nord al sud, la rada di
San Giovanni di Medua, che può dirsi la rada ma-
rittima di Scutari, la rada e il porto di Durazzo
(l'antica Dyrrhachium\ che sarebbe un ottimo porto,
se l'adiacente laguna fosse ben mantenuta come
anticamente in comunicazione col mare ; nella bassa
Albania il porto di Valona o Avlona fra i più ampi
e sicuri dell'Adriatico, a due chilometri dal suo
scalo, sul golfo dello stesso nome formato dalla
penisola che termina al capo Linguetta e perfet-
tamente difeso da codesto capo e dall'isolotto di
Sasseno, la rada di Porto Panormo o Palermo, for-
mata dagli estremi contrafforti meridionali della ca-
tena degli Acrocerauni, la rada di Santi Quaranta
di fronte alla punta settentrionale dell'isola di Corfù,
le rade di Sajada, Gomenitza e Plataria, il piccolo
- 23 -
porto di Parga in faccia allPisoletta di Paxo, inac-
cessibile ai vapori, e finalmente il porto di Prevesa
airentrata del golio di Arta, non lungi dal famoso
promontorio di Azio, che appartiene alla Grecia
sull'opposta sponda. Il porto di Butrinto, un dì
eccellente, altro non è da gran tempo che una
palude. Nel golfo di Arta merita appena di essere
ricordato il piccolo porto di Salahora tra le lagune
di Cucalia e di Logaru.
Oggidì il più notevole porto dell'Albania è senza
dubbio Valona, così per la sua sicurezza ed am-
piezza come per la vicinanza alle coste d'Italia.
Esso oggidì non ha traccia di fortificazioni. Chi
volesse e potesse servirsene a scopi militari for-
tificandolo, godrebbe incontrastabilmente una po-
sizione formidabile e privilegiata sul canale di
Otranto, che è quanto dire su tutto il mare Adriatico.
Clima. — Come già dicemmo, il clima dell'Al-
bania è sano, fatta eccezione di parecchi distretti
del littorale, dove regnano le febbri palustri. Le
acque dei iSumi, inquinate da insetti e vegetali in
putrefazione, non sono generalmente potabili, e
rendono necessario Tuso dell'acqua di sorgente,
che abbonda specialmente sui monti.
Brusche e sensibili sono in Albania le variazioni
della temperatura. L'inverno è breve, ma freddo,
particolarmente sulle montagne a causa della bora
(tramontana), che le percuote frequentemente. Nella
stagione estiva all'incontro il termometro rara-
mente supera i 28 gradi centigradi. Le più gravi
epidemie difficilmente allignano nelle regioni mon-
tuose.
Albania settenirionaley centrale e meridionale» —
I
I
— 24 —
Abbiamo già accennato che lo Shcumbi (af&uente
al mare presso il 41^ parallelo che attraversa il
lago di Ocrida) divide Talta dalla bassa Albania.
Quest'ultima suol essere alla sua volta divisa in
Albania centrale e meridionale, separate Tuna dal-
l'altra dal fiume Vojussa. È all'Albania meridio-
nale che spetta il nome di Epiro.
Osservazioni. — Da quanto fin qui si è detto
parmi che risultino evidenti certe condizioni geo-
grafiche dell'Albania, alle quali giova ricollegare
fin d'ora alcuni fatti d'indole etnologica, storica
ed economica, che osserveremo in seguito e di cui
dovremo renderci ragione parlando della etnologia,
delle vicende storiche e politiche e delle passate
e presenti condizioni economiche dell'Albania.
Invero, dalla sua conformazione geografica, es-
senzialmente montuosa e di difficile accesso in
parecchi punti, deriva la persistenza quasi indi-
sturbata in essa per secoli e secoli dell'antichis-
simo popolo che s'insediò, in tempi assai remoti,
su quelle montagne, e quivi conservò immutato
il proprio tipo linguistico e l'antropologico. —
Dalla sua situazione in un punto appartato della
penisola balcanica, fuori delle grandi vie fluviali,
terrestri e marittime tra il settentrione e il mez-
zodì, l'oriente e l'occidente d'Europa, nonché tra
l'Europa e gli altri continenti, e dalla prevalenza
del terreno montuoso, boschivo e da pascolo sul
suolo coltivabile dipendono gli scarsi progressi
economici, sociali, civili e politici di quella popo-
lazione. — Infine dalla grande vicinanza delle sue
spiaggie alle opposte spiaggie d'Italia, all'ingresso
del mare Adriatico, trae origine la ragione pre-
- 25 —
cipua per cui sovente, cosi nei tempi antichi come
nel medio evo e nell'età moderna, chi fu padrone
delfuna spiaggia cercò di esserlo delFaltra e chi
ebbe mire e interessi suU* Adriatico dovette prima
o poi rivolgere la propria attenzione sugli scali
albanesi.
Capitolo II.
Origine del popolo albanese o shkipetaro
e dei nomi Albania e Shkeperìa.
. La razza bianca e la stirpe aria o indo-europea.
— La razza bianca, che fin dai tempi preistorici
popolò la maggior parte della terra nota agli an-
tichi, specialmente attorno al bacino del Mediter-
raneo, fu dagli etnologi divisa in base ad un cri*
terio essenzialmente linguistico in due grandi rami
o stirpi : la stirpe camilosemitìca e la stirpe aria o
indo-europea.
Al ramo ano appartenevano nell'antica Europa
le seguenti famiglie : la greca o ellenica, la traco»
illirica, ritalica propriamente detta, la celtica, la
germanica, la sarmatica o slava, ciascuna delle
quali suddiyidevasi in numerose tribù.
La /amiglia traco-^iliirica» — La famiglia traco*
illirica, che è quella che più e* interessa, estende*
vasi in tempi assai remoti dalle rive occidentali
del Mar Nero {Ponto Eusino) all' Adriatico ; a
oriente le tribù traciche (Dardania, Peonia, Mace-*
donia. Tracia, Mesia, Dacia): a occidente le illi-
riche, lungo lo Jonio (Epiro) e tra l'Adriatico e il
- 26 -
Danubio (lllirio propriamente detto, Dalmazia, Li-
burnia, Pannonia), donde si propagarono pure in
Italia lungo le coste occidentali dell'Adriatico
(Istria, Venetia, lapigia).
Dissi che il criterio su cui si fondano queste
classificazioni etnografiche è essenzialmente lingui-
stico. Ciò significa che tutte le lingue parlate dai
popoli della stirpe aria o indo-europea presentano
delle importanti somiglianze nella grammatica e.
nelle radici delle parole, pur rimanendo fra loro
distinte per notevoli differenze, secondo le famiglie
alle quali i popoli suddetti appartengono. Le lingue
e i dialetti si distinguono quindi in famiglie o
gruppi come i popoli: il gruppo ellenico, il traco-
illirico, il celtico, Titalico, il germanico, il sarma-
tico o slavo. Da queste antiche lingue derivano le
moderne.
Ma non tutte le lingue antiche nel trasformarsi
ebbero la fortuna di sopravvivere in eguale misura,
per il fatto ben noto agli studiosi che alcuni po-
poli predominando sugli altri imposero loro la
propria lingua, di guisa che per alcuni gruppi il
campo del dominio linguistico si estese, per altri
si ristrinse. Acquistarono terreno il gruppa elle-
nico, il germanico, lo slavo, l'italico (lingue neo-
latine); lo perdettero il celtico e il trago-illirico.
Il campo occupato dalle lingue traco-illiriche,
alle quali dobbiamo limitarci, fu infatti invaso in
Italia dalla lingua latina (dialetto veneto, dialetto
friulano e dialetti pugliesi), nella grande penisola
tra il Mar Nero, l'Egeo, lo Jonio e l'Adriatico e
nella valle del Danubio dalla lingua greca, dalla
latina (rumeni o valachi), dalle favelle slave (serbo-
— 27 -
croati e bulgari), e dalle lingue ungherese e turca,
le quali ultime non sono di tipo, ario {inflessivó)^
ma di tipo uralo-altaico {agglutinante). Alla penisola
balcanica si dà oggi infatti da qualcbe geografo il
nome di slavo-ellenica, mentre un tempo la si
poteva chiamare traco-illirica.
Gli albanesi sono neo-illirici. — Premesso tutto
questo, giova notare che la lingua albanese, se*
secondo gli studi più recenti e più autorevoli, è
una lingua che appartiene senza dubbio al tipo
ario o indo-europeo e non può di troppo essere
ravvicinata, perchè ha una struttura ed una im-
pronta tutta sua propria, né al greco, né alle
lingue slave, nò ai celtici dialetti.
Non c*è bisogno di aggiungere altro per com-
prendere, come abbiano ragione coloro i quali so-
stengono, che la lingua albanese è in sostanza,
pur tenuto conto delle naturali trasformazioni e
della inevitabile intrusione di elementi estranei, la
lingua degli antichi Illirici, Ed è questo un primo
titolo di gloria per quel minuscolo popolo di mon-
tanari, che solo fra tutti i popoli traco-illirici seppe
conservare la favella dei suoi remoti progenitori,
anche meglio di quel che abbiano saputo conser-
vare il loro idioma originale i montanari della
Cornovaglia, del Principato di Galles e della Scozia,
e gli abitanti deirirlanda e della Brettagna occi-
dentale francese, che sono gli unici rappresentanti
genuini delle genti celtiche un tempo dominanti
sopra una plaga assai estesa del continente euro-
peo. In conclusione ai moderni albanesi conviene
il nome di neo-illirici, come ai greci moderni quello
di neo-greci, e ai moderni italiani, francesi, spa-
gnoli, portoghesi e rumeni quello di neo-latini.
— 28 —
Gli albanesi non sono pelasgi né slavi. — La
chiarezza, o meglio la evidenza di questa ipo-
tesi mi dispensa dali'obbligo di combattere a
fondo le altre opinioni, che sull'origine degli Shki-
petari furono messe innanzi dagli scrittori di cose
albanesi. Alcuni infatti sostennero che la Ungua
albanese è Tantica lingua dei divini Pelasgi, mentre
ancora è da dimostrare che i Pelasgi siano mai
esistiti come popolo a sé, e v*ha all'incontrò chi
opina ch'essi debbono essere piuttosto identificati
colle antiche tribù traco^illiriche o con le elleniche
o con le italiche e persino colle semitiche. Altri
hanno voluto ravvicinare gli Shkipetari ai Caldei
della Mesopo tamia o agli Albani del Caucaso, ma
i Caldei non erano un popolo ario e nulla si sa
della lingua parlata dagli Albani del Caucaso,
Altri poi asserirono che 1* albanese è la lingua
degli antichi slavi, ma questa opinione non ha
ombra di fondamento, perchè l'albanese troppo
differisce dalle odierne lingue slave. Le somiglianze
che indubbiamente vi sono, o dipendono dalla co-
mune appartenenza al ceppo ario, o vanno attri-
buite a infiltrazioni non tanto remote: e questo
ragionamento vale anche contro coloro, che fissa-
rono la propria attenzione sopra altre somiglianze
e affinità col greco, specialmente eolico, col celtico,
col latino, coirarmeno e persino coU'etrusco I Per
il latino tuttavia giova osservare, che qualche dotto
linguista ha potuto riscontrare nella lingna alba-
nese tracce evidenti dell'influsso che aveva comin-
ciato ad esercitare sull'illirico idioma il latino ai
tempi della dominazione romana.
VAlbania del Caucaso. — Dì tutte le opinioni
- 29 -
qui riferite Tunica che possa fermare l'attenzione,
per ridentità dei nomi, è quella che ricongiunge
TAlbania d'Europa all'antica Albania del Caucaso
(regione oggidì conosciuta col nome di Schirvan
o Georgia orientale): tanto più che gli albani del
Caucaso, non per la lingua, di cui nulla si co-
nosce, ma per i caratteri antropologici, pei co-
stumi e per le istituzioni, quali si desumono
dagli antichi scrittori, sembra che fossero anche
essi un popolo ario affine alle popolazioni arie
dell'Armenia, della Persia e di tutto laltipiano
iranico. Se non che nessuna memoria storica do-
cumentata e accertata ci pone in grado di affer-
mare che gli Albani del Caucaso sieno mai trasmi-
grati in Europa per fissare la loro dimora là dove
oggi si trovano gli albanesi. Gli storici armeni,
che sono i più autorevoli per la vicinanza del loro
paese al Caucaso e che chiamano l'Albania cau-
casica Arganie, narrano solamente che nel 7* se-
colo dopo Cristo gli abitanti dell' Arganie, premuti
dai Kazari e da altri popoli nomadi, emigrarono
nell'Armenia. 1 loro discendenti parlano oggi l'ar-
meno, né si sa, come ho già detto e ripetuto,
quale fosse la loro lingua primitiva. A buon conto
nessuna delle lingue che oggi si parlano nella re-
gione caucasea somiglia all'albanese.
Origine del nome Albania, — Si tratta dunque
di una di quelle somiglianze o identità di nomi, che
sono tutt'altro che infrequenti in geografia e da
cui non è lecito trarre deduzioni troppo arrischiate.
D'altra parte l'antica Britannia fu anche chiamata
Albion. I montanari della Scozia chiamano il loro
paese Albany. Alba ò nome frequentissimo nella
— 30 —
antica Italia {AìbaLonga nel Lazio, Alba Fucense
nel paese dei Marsi, Aita Ponipéia, oggi Alba,
Albìum Ingaunum, oggi Albenga, AUmim Intemelium,
oggi Ventimiglia, e la tribù degli A /^/ct in Liguria).
Nella antica Gallia e nelFantica Spagna s*incontra
pure il nome di Alba. A tutti nota è la città di
Albi in Provenza, donde trassero il loro nome gli
eretici albigesi nel secolo XIII. Chi oserebbe da
tutti questi nomi dedurre, che gli albanesi abbiano
avuto stanza in tempi antichi anche nella Bri*
tannia, nella Gallia, nella Spagna e in Italia >
Maggior considerazione merita invece V ipotesi,
che tutti o quasi tutti questi nomi richiamino il
radicale ario alò o alp, significante bianco e alta
montagna (dalla bianca cima nevosa). Quasi tutti
i luoghi sopra nominati sono infatti montuosi, e
per V Albania si avrebbe anche questa notevole
coincidenza, che il detto nome corrisponderebbe
abbastanza esattamente a quello di Shképèria, deri-
vato da una parola albanese che vuol dire roccia.
« Montanari^ abitanti le roccie » tale sarebbe il si*
gnifìcato dei nomi Albanesi e Shkèpètari,
Ma i nomi Albania ed Albanesi^ dicono alcuni
dotti, sono diventati di uso generale solo nel se-
colo XV, dopo la lotta degli Shkipetari coi Turchi
e il passaggio di molti di essi in Italia. Furono
gli eruditi italiani che misero in voga quei nomi
e primi identificarono gli Albani d'Asia e gli Alba-
nesi d'Europa. Ciò è vero, ma non risolve la que-
stione deirorigine del nome. Donde venne quel
nome agli abitanti della Shkèpèria } Qui sta il nodo
della questione.
Ora occorre sapere che l'antico geografo greco
— 51 —
Tolomeo del 2" secolo dell'era volgare ricorda
nella sua Geografia la città di Aìbanopoli in un
territorio deiriUirio, che corrisponde a una parte
della moderna Albama. Cosi pure neiriUirio egli
nomina un monte AWanoriy che è pure ricordato
da un altro geografo dell'antichità, da Strabone,
col nome alterato di Albion. V'ha pertanto chi ha
▼oloto rintracciare il nome corrispondente ad Aì-
banopoli nella città di Berat^ che in lingua alba-
nese significa la bianca^ chi in quello di Elhassan
(l'antica Scampa)^ affermando che Elbassan s*in«
contra col nome di Aìbanopoli anche nelle ero*
nache, che narrano le gesta di Roberto Guiscardo
e dei Normanni d'Italia in Albania (sec. XI). —
D'altra parte un cantone marittimo dell* antica
Caonia, ossia della regione degli Acrocerauni, abi*
tata dalla tribù albanese dei Ljapt, porta il nome
di Ar berta o Arbenia, e un tempo nei libri eccle-
siastici, oggi in tutte le scritture albanesi, questo
nome è adoperato per Shkèpèrìa, Si noti inoltre,
a proposito del naturale scambio delle due con-
sonanti liquide / ed r, che gli scrii tori armeni
chiamano Arganie l'Albania del Caucaso, che negli
scrittori bizantini s'incontra fin dall'i i*^ secolo il
nome degli Arbanitai (Albanesi), che i greci mo-
derni chiamano gli Albanesi ArvaniteSy i serbi li
chiamano Arbanàs, e i turchi e i bulgari ArnautL
Ciò posto, non dovrebbe parere inverosimile
che il nóme di Arberia siasi esteso a poco a poco
a tutto il paese degli Albanesi. Lo estendersi del
nome di un determinato luogo a una regione è
un fatto assai frequente nell'uso dei nomi geogra-
fici. Il nome Italia^ per esempio, fu un tempo
- 32 -
limitato all'estrema punta della penisola di fronte
alla Sicilia. 11 nome di Forum Julii (oggi Cividale)
si propagò a tutta la regione Forumjuliana o friu-
lana (oggi Friuli).
Gli eruditi italiani sarebbero semplicemente tor*
nati alla forma fonetica primitiva {aW per arv o
arb\ tratti dalle già rilevate somiglianze con altri
nomi, specialmente coli* Albania del Caucaso ; e la
forma creata, o meglio rinnovata dagl* Italiani,
avrebbe prevalso in tutto il resto d*Europa, meno
TAlbania, la Turchia, la Grecia, la Serbia e la
Bulgaria, dove tuttora la liquida / è sostituita
dalla liquida r.
V'ha infine chi afferma, che i Normanni di Ro-
berto Guiscardo avrebbero dato all'intera regione
il nome di quella che era loro sembrata la mag-
giore città (Albanopoli, vale a dire Elbassan): ed
anche in questo caso si sarebbe esteso a tutta una
plaga geografica ed etnografica il nome di un
luogo isolato.
Origine del nome Shkèpèria. — Pieno accordo non
regna tra gli eruditi neppure sulla derivazione del
nome Shkèpèria, Taluni, anziché da Shkip = roccia
(confronta latino scopulus), vollero derivare code-
sto nome dal greco xi/os=i spada o da skeptòs^=ifuU
mine: altri dalla voce albanese Shkjpoing, che si-
gnifica intendere, quasiché Shkipetari volesse dire :
coloro che intendono la lingua nazionale; altri da
Shkjup = aquila, di guisa che Shkipetari signifi-
cherebbe: figli delFaquila. Ma non sembra che
queste ipotesi abbiano avuto fortuna. Oggi la eti-
mologia più comunemente accettata é quella alla
quale io pure diedi la preferenza.
- 33 -
Capitolo III.
Lingue dominanti
nella piccola e nella grande Albania.
Tribù e Colonie Albanesi.
Gheghi e Toski — Non è da credere che gli
Albanesi formino un tutto così omogeneo dal
punto di vista etnico e nazionale, da non dar
luogo, come tanti altri popoli, a distinzioni e a
divisioni. Differenze di lingua, di religione, di
costumi e di tradizioni, rivalità d'interessi territo-
riali, politici ed economici, e persino disparità di
caratteri antropologici, rendono necessarie delle
nette distinzioni, le quali un tempo erano ben giu-
stificate da odi implacabili e da lotte accanite.
Quegli odi non ancora spenti del tutto potranno
cessare soltanto per virtù del sentimento nazio-
nale, che accenna a trionfare e a prevalére anche
in Albania, nonostante i gruppi e le tribù, in cui
la nazione albanese si decompone.
Due sono i gruppi: i Gheghi e i Toski; i Gheghi
dal confine settentrionale (territori di Ipek e di
Gusinje, valle della Cijevna o Zem, lago di Scutari e
corso inferiore della Bojana) al fiume Shcumbi ; i
Toski dallo Shcumbi in giù : donde i nomi di GAe-
garia e Toskeria all'alta ed alia bassa Albania. Spe^
cialmente tra i Gheghi e i Toski ferveva in tempi
non lontani un odio mortale. Oggi le ire si vanno
raddolcendo, e il comune interesse nazionale si
impone. V'ha per altro tra gli uni e gli altri dif-
ferenza notevole nei dialetti. V'ha differenza nella
3
- 34 -
religione, come più oltre dimostrerò. V'ha diffe-
renza negli usi, nei costumi e nel grado di ci-
viltà, giacché i Toski sono alquanto più civili e i
Gheghi, soprattutto sulle montagne, conservano
ancora parecchie costumanze barbariche e feudali.
V'ha infine differenza nei caratteri antropologici,
giacché tra i Gheghi prevalgono la grande sta-
tura, l'occhio e il capello nero e la forma dolico-
cefala del cranio (testa lunga), mentre i Toski
sono di forme assai meno slanciate, e hanno so-
vente l'occhio ceruleo, il capello biondo e meno
lunga la forma del cranio : tutti indizi probabili di
incrocio diverso con genti d'altra stirpe, che fu-
rono dal popolo illirico degli Shkipetari assimilate
al nord e al sud del loro paese, pur conservando,
specialmente nell'alta Albania, un tipo che li di-
stingue da tutti gli altri popoli d'Europa.
Tribù gheghe. — I Gheghi comprendono anzi-
tutto una quarantina di tribù (fis o fare), che me-
ritano questo nome per la loro solida e com-
patta organizzazione, specialmente nelle regioni
montuose. Ogni tribù comprende un numero mag-
giore o minore di villaggi : ogni villaggio un certo
numero di case o famiglie.
Ciò posto, vanno in primo luogo notate nel
territorio che si distende a settentrione del Drin
le tribù maljsore o montanare propriamente dette,
dalla voce albanese malj, che vuol dire montagna.
Ricorderò le più importanti.
Verso il confine del Montenegro, nelle valli su-
periori del Lim e del Zem, la tribù Kilmeni; sulla
sinistra del Zem inferiore, la tribù Cruda; più
prossime al lago di Scutari (riva orientale), se-
— 35 —
guendo la direzione da nord a sud, le tribù Hoti od
Hotti^ Castrati, Busahuit e Coplik: al nord-est dei
Castrati, successivamente, le tribù Screlt^ Boga e Cle-
menti; più prossime al Drin, procedendo da sud-
ovest a nord«est, lungo i pendii delle montagne
comprese tra la valle del Drin e la valle del Kiri,
le tribù Posripa^ Dushmani, Pubti, Sciosci, Sciatta;
tra Pulati alFest e Castrati all'ovest la tribù Rioli,
Appartengono tutte queste tribù alla provincia o
vilajet di Scutari, e alle cosiddette Sei montagne di
Scutari la maggior parte di esse.
Poiché le singole tribù si suddividono, come
vedremo nel seguente capitolo, in Bariak o ban"
diere^ v*ha chi attribuisce il nome di tribù a dei
Bariak^ Così, ad esempio, Temali e Shlaco sono
bariak di Posripa, Lohe è bariak di Rioli.
Vivono nelle montagne al sud del Drin infe-
riore, sempre nel Vilajet di Scutari, i Ducadgini^ e
al sud dei Ducadgini i Mirditi e al sud e all'ovest
della Mirdizia altre piccole tribù di minor conto.
S'incontrano nel Vilajet di Cossovo, a cui ap-
partengono, procedendo dal territorio di Pulati e
degli Sciosci e Scialla verso il limite orientale
delle Alpi albanesi, fin presso le città di Prizrend,
Giacova e Ipek, a destra del Drin, le tribù Mer-
turiy Tasciy Nicai, Crasniky Tropoja, Gasai, Biluci,
Hassi, Berisk, Bugovaj ecc., e su alcuni pendii dello
Sciar-Dagh la tribù Luma o Ljuma.
Appartengono al Vilajet di Monastir tre altre
tribù gheghe degne di menzione : Matija nella valle
superiore del Mati, Luria tra la Mirdizia e il Drin
nero, Dibra sulle due rive del Drin nero e spe-
cialmente sulla riva destra.
-36-
Accennai già nel primo capitolo alle piccole
tribù gheghe, oggi soggette al Montenegro.
L'orìgine e il significato dei nomi di parecchie
di codeste tribù sono difficili a rintracciare, e cir-
colano in proposito tra gli Albanesi racconti e
leggende diverse e contraddittorie. L'idea preva-
lente è la discendenza da un comune antenato.
Alcuni nomi di tribù erano infatti un tempo casati
di famiglia. Moltissimi tuttavia derivano da nomi
di luogo, altri da epiteti e appellativi; per altri
poi si è ricorso, in mancanza di meglio, ad un
eponimo: per es. Hotti da un preteso Hot^ Cle-
menti da un Qolmendi (Nicola il saggio) o da
un certo abate Clemente che secondo una curiosa
tradizione era un veneziano rifugiatosi sui monti
dell'Albania. Su questa materia peraltro non vale
la pena d'insistere. Siamo qui, generalmente par-
lando, nel campo della leggenda più che in quello
della Storia.
Città e cantoni dei Gheghi, — Tra il mare da
una parte e i monti dei Ducadgini, dei Mirditi e
dei Matija dall'altra, nel Vilajet di Scalari, gisice un
tratto di paese vicino alla costa, limitato al nord
dal lago di Scutari e dalla Bojana, al sud dallo
Shcumbi, che è abitato da Gheghi i quali non si
raggruppano in vere e proprie tribù, ma costitui-
rono dei centri di popolazione che dir si possono
grandi, se si paragonano ai villaggi abitati dalle
tribù montanare. Tali sono coi rispettivi territori
o distretti le maggiori città di Scutari e di Tirana,
e le città minori, cui meglio converrebbe il nome
di grossi villaggi, di Alessio o Lesh, Cavaja, Croja
o Cruja, Prezija, Ishmì, Durazzo, Pekinje,
•■y ■"■" ,*'•
— 37 -
Dopo le tribù e le città vengono in 6 ne i Canloni,
che comprendono un numero maggiore o minore
di piccoli villaggi, e non formano quella unità
organica che è propria delle tribù, nò presentano
quel complesso di tradizioni, di costumanze e di
diritti che delle tribù sono propri. Si tratta di
unità o circoscrizioni Semplicemente locali, costi-
tuite dagli abitanti d*una vallata, d*un altipiano,
d'una pianura, con naturali frontiere più o meno
nettamente delineate. Tali sono, ad esempio, nel
Vilajet dì Scutari, i cantoni Anamalijt, cioè la pia-
nura che si distende sulla riva destra della Bojana
verso il lago di Scutari, Bregti-Bunes a sinistra
della Bojana, Bregu-Drinit a destra del basso Drin,
Zadrima o Sappa sulla sinistra del Drin fino ad
Alessio, e qualche altro.
Dal Vilajei di Scutari passando a quello di Cos-
sovo sono da notare le città e relativi territori o
distretti di Teiovo, Prizrend^ Giacova, Ipek nell'Al-
bania geografica, Uscub o Scopia, Mitrovitsa, Prishtina
e Ghilane nella etnografica, e i cantoni Podrtma,
sulla riva sinistra del Drin bianco, Drenila, cioè la
collina. tra la pianura di Metoja presso Ipek e la
pianura di Cossovo presso Prishtina, e qualche altro.
Infme nel Vilajet di Monastir, senza uscire dal
territorio dei Gheghi, s'incontrano le città e i re-
lativi distretti di Dibra (alta e bassa) j Ocrida, Elbassan
(Alta Albania geografica), Monastir, FriUp, Crcevo o
Crescevo (Alta Albania etnografica), nonché il can-
tone Cermenica a oriente di Elbassan.
Taluni attribuiscono a tutte queste città e can-
toni dei Gheghi nell'Albania geografica ed etno-
grafica il nome di triHi del piano.
- 38-
Tribù, città e cantoni dei Toski. — Anche i Toski
si suddividono in tribù, cui meglio converrebbe
per la loro costituzione il solo nome di cantoni,
delle quali le più notevoli sono : i Tosk o Toski
propriamente detti tra lo Shcumbi e la Vojussa ed
anche sulla sinistra di questo fiume ; i Liab o
Ljapi, chiamati anche, ma impropriamente. Lapidi
o Japidi, neir Acroceraunia e tra il corso medio
della Vojussa e il mare fino a Delvino e al fiume
Pavia, coi principali centri nelle città e territori
di Delvino e Berat (Ljapuria); i Chimarioti nella
regione dei monti Chimara; gli Sciamidi o dami
(Ciam) tra il Pavia e il Mavropotamo, coi princi-
pali centri a Paramitia, Margariti e Filiates (da"
muria o Sciamuria); e gli abitanti del Lamariy
distretto di Prevesa. È assai verosimile che i dami
abbiano tratto il proprio nome dal Thyamis (l'o-
dierno Calamas).
Anche ^nella bassa Albania ci sono poi città più
o meno importanti e veri e propri cantoni: cioè,
nel Vilajet di Janina, la città e i grossi villaggi,
coi relativi distretti, di Berat, Valona, Premet,
Conitsa, Delvino, Argirocastro, Filiates, Paramitia,
Margariti, Filippiades, Parga, Prevesa e Janina, e i
cantoni Musachia tra i corsi inferiori dello Shcumbi
e della Vo)ussa, Colonia alle sorgenti del Ljumi
Beratit, Chimara sul pendio occidentale del Monte
Cica, Pogoniani a sinistra della Vojussa e alle sor-
genti del Orino e del Calamas, Zagori al nord di
Janina e alle sorgenti della Vojussa e delfArta
tra i monti Micicheli e il Pindo, SuU tra Janina e
Parga, e qualche altro : nel Vilajet di Monastir le
città e distretti di Ghiortsa (Coritsa o Corda) al sud
- 39 -
del lago Malik (bassa Albania geografica) e Ca-
storia sul lago dello stesso nome (bassa Albania
etnografica), e i cantoni Sopat al sud di Elbassan
tra i fiumi Shcumbi e Devol, Mocra al sud del
lago di Ocrìda, Devol alFest di Coritsa e alle sor-
genti del fiume omonimo, e Opara all'ovest di
Coritsa sulla sinistra riva del Devol.
/ Greco<ilbanesi. — Debbo per altro affrettarmi a
notare, che più si scende verso il sud e più il dialetto
albanese dei Toski cede il campo alla lingua greca,
specialmente al sud di Argirocastro, Conitsa, Ja-
nina, Prevesa ed Arta, che oggi appartiene alla
Grecia, sembrano città elleniche. L'albanese non è
quivi parlato, quando è parlato, che fra le pareti
domestiche. Questi albanesi delle tribùt toske, che
parlano albanese e greco, si chiamano pure greco-
albanesi. Per essere anche più chiaro dirò che Tuso
dell'idioma ellenico domina in tutta quella parte
della bassa Albania di qua dal Pindo e al nord
del golfo di Arta, che ha per centri principali
Prevesa, Arta, Janina e Coritsa, e trovasi unito
all'uso dell'idioma albanese nel cantone di Chimara,
nella regione che ha per centro Premet e in tutto
il paese a oriente del mare Jonio, che ha per
principali centri Delvino, Filiates, Paramitia e Mar-
gariti.
Prettamente albanese è per altro la lingua della
costa dal Capo Linguetta fino al villaggio di Ca-
stro-Sikia (Fortezza del Fico), vicino a Prevesa, e
i puri albanesi costituiscono pur sempre i due
terzi della popolazione dell'Epiro e primeggiano
per censo e per posizione sociale.
Serbia Bulgari e Turchi. ^— C'è poi da notare
— 40 —
che un grosso distretto popolato da Serbi si stende
da Ipck a Prizrend ; che nella stessa Prizrend vivo-
no serbi e albanesi, quantunque con prevalenza di
questi ultimi; che un distretto, ma assai più pic-
colo, di Serbi s'incontra fra la Vojussa e il Semc-
ni ; che a Ocrida appaiono i Bulgari e costituiscono
un'isoletta di lingua bulgara fra i due laghi di Ocri*
da e di Presba ; che altri bulgari s'incontrano nel
paese dei Dibra lungo il Drin nero. I Turchi sono
piuttosto numerosi a Monastir, e ve n ha pure a
Uscub, a Prizzend, a Scutari ed in Elbassan.
Gli Zinzari, — Una speciale menzione meritano
in Albania dal punto di vista etnografico gli Zm"
zari o Tzinzarij o Valacki o greco-valachi, che
parlano una lingua affine al rumeno, quantunque
coi rumeni non s'intendano, e spesso anche greco,
e sono assai numerosi cosi dentro in confini del-
TÀlbania geografica come dentro quelli della et-
nografica, vale a dire sulle pendici del Grammbs
e del Pindo fino a Castorià e nella piccola città
di Cruscevo a 7 ore da Prilip verso Dibra, e s'in-
contrano anche a Uscub, a Còprùlù, a Prizrend,' a
Scutari, ad Alessio, nonché in parecchie isole
linguistiche tra il lago di Ocrida e il mare, spe-
cialmente a Elbassan, Pekinje e Durazzo. Altro
centro importantissimo di questi Valachi è la po-
liglotta Monastir. Essi non vanno confusi con gli
Zingari^ di cui v'ha qualche piccola tribù errante
anche in Albania. Il loro nome di Zinzari deriva,
secondo una tradizione rumena, dal latino Quirt'
quarii o Quintarii^ cioè soldati della V legione,
ed essi vengono così riconnessi alle colonie di
veterani romani che l'imperatore Trajano collocò
— 41 -
nella Dacia e che diedero origine alla liagua ru-
mena o moldo-valaca, che è lingua neolatina.
Altri oggi sostengono che questa lingua di tipo
neo-latino, dominante in parecchi punti della pe-
nisola balcanica fuori della Rumenia propriamente
detta, e parlata persino nel centro dell' Istria da
popolazioni montane, sia Tavanzo e l'indizio del
largo dominio che la lingua latina aveva acqui*
stato nella detta penisola ai tempi del dominio
romano.
Con denominazione di origine greca i valachi
del Pindo e di Monastir sono anche chiamati
Kulzo-Valachi o Valachi zoppi^ che è come dire
falsi valachi. Esiste infine fra i Valachi dell'Epiro
una popolazione speciale di circa 20 o 25,000 in-
dividui che si chiama degli Arhanito-Vlaki {Valachi
albanesi)^ forse perchè parlano Tidioma albanese e
il valaco, e fra loro di preferenza l'albanese.
In conclusione, isole elleniche al sud, bulgare e
valache a oriente e al centro, serbe al settentrione,
limitano l'elemento albanese entro gli stessi con-
fini dell'Albania geografica, ma senza nulla togliere
alla sua compattezza.
La grande Albania, — Dal canto suo l'elemento
albanese si estende, come più volte si è visto,
anche oltre i confini di codesta Albania, in conti-
nuità coi territori che le appartengono, formando
così insieme all'Albania geografica, quella che ab-
biamo chiamata la grande Albania o Albania etnch
grafica. Riassumiamo a questo proposito ciò che
in gran parte abbiamo di già accennato.
Vanno compresi anzitutto in questa grande Al-
bania le citte o villaggi che dir si voglia e i ter-
- 42 -
ritori montenegrini di Dulcigno e di Antivari lungo
TAdriatico, le città o villaggi e i territori di Podgo-
ritsa, Spug' e Giabliak, e i territori delle tribù
albanesi dei Cuci e dei Triepshi, accanto alle
tribù maljsore deirAlbania. Dacché Podgoritsa,
Antivari e Dulcigno per il trattato di Berlino del
1878 appartengono al Montenegro, molti albanesi
musulmani le hanno abbandonate cedendo il campo
all'elemento serbo -montenegrino; ma v'è tuttavia
in questi luoghi una notevole rappresentanza del-
Telemento albanese.
Appartengono inoltre alla grande Albania l'an-
tica Rascia ed altre parti della vecchia Serbia,
giacché Telemento albanese è rappresentato nella
Rascia da nuclei notevoli sino a Novi-bazar e anche
più oltre a nord-ovest, è numeroso nel piano di
Cossovo^ circonda le isole di lingua serba di Mi-
tropica o Mitrovitsa e Prishtina in territorio turco,
e popola una buona parte del bacino superiore
della Morava detta di Bulgaria fin sopra Curshumlje
e Procoplje, entro i confini del regno di Serbia.
Appartengono alla grande Albania anche alcuni
distretti della Rumelìa e della Macedonia, perché
nella valle superiore del Vardar, a Calcandele o Te-
toro, a Còprùlù o Valesa, attorno ad Uscub, popolata
prevalentemente da serbi e anche, da turchi, vivono
non pochi albanesi ; perché gruppi albanesi sono
insediali al nord e ali* est di Uscub nei dintorni
di Cumanovo e Caratova in continuità coi gruppi
albanesi della vecchia Serbia; perché ci sono al-
banesi di là dal Grammos nel bacino del lago di
Castorio e nella valle superiore della Vistritsa;
perché infine, quando ci si dirige verso Monastir,
- 43 -
oltrepassata risola di lingua bulgara Ocrida-Presba,
s*incontrano, prima di giungervi, altri albanesi, i
quali oltracciò, a mezzogiorno di Monastir (popo-
lata da serbi, bulgari, albanesi, turchi e valachi) e
più ancora a settentrione di essa fino a Prilip^
formano nuclei veramente compatti e affermano
tuttora colla propria presenza il loro vecchio di-
ritto a considerarsi come indigeni della Macedonia.
È in forza di questo diritto d'indigenato, che i pa-
trioti albanesi comprendono nella grande Albania
la Macedonia intera, quantunque in essa si noti
pure l'incontestabile presenza delle lingue bulgara,
serba, turca e greca, e della intera Tessaglia, quan-
tunque in essa non si parli che greco. È indubi-
tato del resto che nomi locali di origine albanese
s*incontrano in paesi oggi abitati esclusivamente
da serbi, da bulgari e da greci.
Assai degne di considerazione sono altresì le
colonie di Albanesi, lungi dalla madre patria.
Le più importanti si trovano in Grecia ed in
Italia.
Gli Albanesi della Grecia. — Esistono colonie
albanesi nella Locride, in Beozia vicino a Tebe,
nell'Attica e fin presso l'acropoli d'Atene. Colonie
albanesi costituiscono l'intera popolazione della
parte settentrionale di Andros e dell' Eubea me-
ridionale (Negroponte), nonché delle isole di Spetzia
e d'Hydra al sud della Morea tra i golfi di Egina
e di Nauplia. Ne esistono nella Megaride. Pre-
dominano sulla popolazione greca nell' isola di
Salamis (golfo di Egina) e nell'isola di Paros
(Cicladi). Formano (nella Morea o Peloponneso)
la massa principale degli abitanti dell' ArgoUde,
— 44 —
della Corinzia e delia Sicionia. Se ne incontrano
nell'Arcadia, nella Laconia, nella Messenia e nel-
TElide. In altre parole gli albanesi costituiscono
circa una settima parte della popolazione di tutta
la Grecia, tantoché voglionsi da molti considerare
come indigeni ossia abitanti di quei luoghi fin dai
tempi antichi quali tribù illiriche. Per altro questi
albanesi della Grecia sono oggi tutti più o meno
ellenizzati. In massima parte cioè essi parlano greco,
o per lo meno greco e albanese. Relativamente
pochi son quelli che parlano albanese soltanto.
Gli Albanesi d* Italia. — In Italia le colonie al-
banesi, che non risalgono più indietro del se-
colo XV, formano gruppi di piccoli villaggi nelle
Calabrie, nelle Puglie, nella Basilicata, nella Ca-
pitanata, nei Principati, nella provincia di Te-
ramo (Abruzzo) e in Sicilia. In Italia la lingua
albanese si conserva nel popolo ignorante meglio
che fra la gente colta, ed è la lingua esclusivamente
parlata tra le pareti domestiche. E difficile, tut-
tavia, in quei villaggi trovare oggi un albanese,
che parli la propria lingua soltanto e non conosca
pure il dialetto italiano circostante o la lingua
italiana, mentre venti o venticinque anni fa non
vi si parlava che l'albanese.
Tanto gli albanesi della Grecia, quanto quelli
dell'Italia cooperarono al risorgimento ed alla in-
dipendenza delle due nazioni che li ospitano : quelli
anche più di questi, com'era naturale, data la im-
portanza numerica proporzionale incomparabilmente
maggiore della popolazione albanese che dimora
in Grecia di fronte a quella che vive in Italia.
All'incontro gli albanesi d'Italia raggiunsero un
— 45 —
grado di coltura ben più elevato che non i loro
fratelli di Grecia e d'Albania» contribuirono co-
stantemente a illustrare la storia e la lingua della
propria patria d'origine, e quel che è più, note-
volmente contribuiscono tuttora a formare e tener
desto con lavori letterari il sentimento nazionale
albanese e a rinsaldare e ribadire i secolari vin-
coli di amicizia e di simpatia, che legano il popolo
Shkipetaro all'Italia.
Altre colonie albanesi. — Qualche altro nucleo di
albanesi esiste m Dalmazia {Borgo Erizzo presso
Zara) e a Fiume, in Croazia {Mitrovic^ con due
piccole propagini della tribù dei Clementi), nella
Bosnia, in Bulgaria, in parecchi punti della Turchia
europea oltre i già ricordati (per es. a Salonicco)
ed in Egitto, dove nel secolo XIX gli albanesi fu-
rono attratti in buon numero dalla dinastia di ori-
gine albanese dei Khedive (sovrani) quivi oggi re-
gnanti, e specialmente dal fondatore della dinastia
Mehemet Ali e dal suo nepote Ismail-pascià. Molti
albanesi vivono pure in Rumenia, specialmente a
Bukarest, e gareggiano con quelli d'Italia per la
devozione all'idea nazionale.
Meritano due parole anche i villaggi greco-alba-
nesi del Bosforo: Arnaut^Keui sulla costa d'Europa
a kil. 7 1/2 dal porto di Costantinopoli, e Arnaut-
Keui sulla costa d'Asia a io kil. da Beicos. Questi
ed altri villaggi di Arnauti o Shkipetari in Turchia
e nell'Asia Minore sono dovuti a concessioni di
terre fatte dal governo ottomano ai veterani ar-
nauti dopo un lungo e lodevole servizio militare.
A tutti nota è poi l'importanza che oggi hanno
gli albanesi a Costantinopoli, nell'esercito special-
— 46 — -
mente, nei pubblici uffici e nella corte del Sultano.
La guardia personale del Gran Signore è composta
di albanesi, che soli hanno il diritto di portare il
turbante verde. Le ragioni di questo attaccamento
degli abitanti dell'Albania al governo turco, e della
fiducia che il Sultano ripone in essi, risulteranno
evidenti dalla recente storia della Skèpèria e ap-
pariranno, quali sono, una logica conseguenza del
ridestato sentimento nazionale degli Shkipetari.
Capitolo IV.
Popolazione dell'Albania. Statistica.
Il costume albanese.
Dati statistici generali, — Il numero di tutti gli
albanesi viventi nella Grande Albania^ su di una su-
perficie di oltre 25,000 chilometri quadrati, senza
calcolare quelli che hanno perduto Tuso del proprio
idioma, si fa ascendere generalmente a 1,300,000
anime, di cui 1,100,000 in quella che abbiamo
chiamata Piccola Albania, A tutto il territorio della
piccola e- della grande Albania unite insieme, senza
distinzione di lingue e di stirpi, si possono asse*
gnare 2,000,000 di abitanti. Mancano per altro sta-
tistiche precise e sicure, giacché in Turchia, e più
specialmente in Albania, un vero e proprio censi-
mento non si è mai fatto finora. Oltracciò si pos-
sono contare 50,000 albanesi a Costantinopoli, in
altri punti della Turchìa europea ed asiatica, nel-
l'esercito turco e nella guardia albanese del Sul-
tano ; 1 5,000 nel principato del Montenegro ; 280,000
- 47 -
nella Grecia (v' ha chi esagera questa cifra) ; circa
50,000 in Italia, secondo il prof. Leopoldo PuUèi
nella Terra del Marinelli, Voi. IV, Gap. XI, pag. 508
(200,000 secondo gli scrittori italo-albanesi); non
meno di 30,000 sparsi qua e là in altri Stati : in
tutto 1,750,000 all*incirca (2,000,000 secondo altri
computi un po' esagerati, 1,500,000 secondo altri
calcoli men favorevoli airelemento albanese). —
Abitano inoltre nell'Albania etnografica 140,000
Valachi, 150,000 Greci e 400,000 slavi (bulgari e
serbi) in cifra tonda, nonché poche migliaia di
turchi e di ebrei; e si forma così con 1,300,000
albanesi la popolazione di 2,000,000 sopra accen-
nata per la Grande Albania,
Popolazione delle tribù, — Le tribù più numerose
neirAlta Albania sono quelle dei Dibra e dei Mirditi,
Pei Dibra le cifre sono molto incerte. Ai Mirditi
chi assegna 32,000, chi sole 20,000 anime. Ven-
gono poi le tribù di Palati con gli Scialla e gli
Sciosci (11,000), dei Ducadgini (11,000), dei Matija
(10,000), dei Gis/ra/» (10,000), degli Motti (9500), dei
Clementi (9000), degli Screli (9000), di Coplik
(8000), di Gruda (5000). Tutte le minori tribù
montanare dell'Alta Albania messe insieme non
superano le 20,000 anime. Ci sono tribù, che non
raggiungono il migliaio di persone, come ad esem-
pio i Busahuit,
Popolazione delle città, — Per il resto dell'Albania
geografica accennerò soltanto ai principali centri
di popolazione delle tribù del piano nell'alta e
delle tribù toske nella bassa Albania, dappoiché co-
deste tribù non costituiscono unità distinte e quasi
autonome, come le tribù gheghe delle montagne. Si
- 48 -
noti inoltre che taluni di codesti centri di popola-
zione non sono, come già sappiamo, abitati da soli
albanesi.
Nel Vilajet o provincia di Cossovo (Alta Albania
nord-orientale) : Ipek o Pechia tra le Alpi albanesi
e la vasta pianura del Drin bianco non lontano
dalle sorgenti di questo fiume e a 39 chilometri
dal lago di Piava (sede di un mutessarrif turco,
ossia capoluogo del Sangiaccato di Ipek: abitanti
i5,Qoo); Giacova o Jacova al sud di Ipek (abitanti
12,000); Prìzren, Prizrend o Prizrendiy al sud-est
di Giacova, sulla Bistritsa affluente del Drin bianco,
ai piedi di un monte su cui sorge Tantica citta-
della (sede di un mutessarrif: abitanti 30,000) ;
Tetovo sur un contrafforte dello Sciar-Dagh, a 12
ore da Prizren (abitanti 8000).
Nel Vtlajet di Monastir (Alta Albania sud-orien-
tale) : Dibra presso il Drin nero (sede di un mutes-
sarrif: abitanti 15,000); Ocrida sulla riva orientale
del lago dello stesso nome (abitanti 15,000); /?/*
bassan sulla riva destra dello Shcumbi (sede di un
mutessarrif. Abitanti 8000). Nello stesso Viia^et di
Monastir, ma nella bassa Albania orientale : Coritsa,
Ghiortsa o Corcia^ al sud del lago Malik (sede di
un mutessarrif: abitanti 10,000).
Nel Vilajet di Scutari (Alta Albania nord-occi-
dentale) : Scutari sul lago dello stesso nome, tra il
lago, la Drinazza e il torrente Kiri, con una vec-
chia cittadella sulla collina (sede del Vali o Gover-
natore : abitanti 35,000), e da Scutari in giù, Croja
o Cruja sopra un*altura con un'antica cittadella di-
roccata (abitanti 6000) ; Tirana^ sorta nel secolo xvii
in una pianura interna della media Albania a de-
- 49 -
stra deirArzen (abitanti 12,000); Durazzo sul mare
all'ovest di Tirana (sede di un mutessarrìf: abi-
tanti 3000); Cavaja a sud-est di Durazzo presso il
mare (abitanti 5000).
Nel Vilajet di Janina (bassa Albania) : Berai sulle
due rive dell'Erghent, con un ponte dì pietra e
un'antica e forte cittadella, dai Bulgari e dai Turchi
chiamata Belgrado d Albania (sede di un mutessar-
rìf: abitanti 15,000); Valona o Avlona a mezz'ora
dalla costa con un ottimo porto (abitanti 5000);
Erghen o Argirocastro non molto lungi dal mare
sulla sinistra del Orino affluente della Vojussa
(sede di un mutessarrìf : abitanti 1 2,000) ; Tepelen.
Premei e Conitsa, piccole città nella valle della
Vojussa; Delvino al sud di Argirocastro presso' alla
rada e scalo di Santi Quaranta (abitanti 7000);
Filiates nella valle del Calamas a breve distanza
dallo scalo di Sajada ; Janina sul lago dello stesso
nome tra un gruppo di colline e il lago (sede del
Vali.: abitanti 22,000); Parga sul mare (abitanti
2000); Margariti e Paramitia^ borghi di 3000 abi-
tanti fra Parga e il cantone di Suli ; Prevesa sul
mare (sede di un mutessarrif ; abitanti 8000), Filip-
piades fondata di qua dal fiume Arta da profughi
di Arta dopo la cessione di questa città alla Grecia
(abitanti 5000).
In complesso, per l'Albania geografica, si possono
assegnare 500,000 abitanti all'alta e 600,000 alla
bassa Albania.
Sono inoltre centri notevoli di popolazione, sem-
pre di nazionalità mista, dentro i più larghi con-
fini dell'Albania etnografica, nel Sangiaccato di
Novibazar, Novibazar Jenibazar al conQuente della
4
— 50 —
Jesinitsa e della Rashca affluenti deiribar: nel
Vilajet di Cosso vo, Mttrovitsa al confluente della
Sitnitsa coiribar, Prishtina al sud-est di Mitrovitsa
(sede di un mutessamf : abitanti 21,000); Ghilane^
piccola città con 6000 abitanti presso il confine
serbo e capoluogo del distretto, ove si rifugiarono
gli albanesi di Nishy Lescovatz e Vranja dopo la
cessione di quei territorii alla Serbia pel trattato
di Berlino ; Uscub o Scopia^ sulle due rive del Var-
dar tributario del mare Egeo (residenza del Vali
di Cosso vo : abitanti 35,000) : nel Vilajet di Mo-
nastir, Monastir o Biiolia a nord-est del monte
Peristeri sulle due rive del ruscello Dragar (sede
del Vali : abitanti 50,000) ; Prilip (abitanti 6000)
snWi. via tra Monastir e Uscub ; Cruscevo a ponente
di Prilip (abitanti 8000) ; Castorià o Casrieh sul lago
dello stesso nome (abitanti 8ooo).
Appartiene alla Grecia Arta sul fiume Arta (abi-
tanti 8000). Appartengono al Montenegro Podgo-
ritsa (abitanti 4000), Dulcigno (3000), Antivari {i$oo\
Spug o Spuz (1000) GiahKak o Jabliak (looo).
Caratteri antropologici degli Albanesi in gene-
rale. — Accennai già ai caratteri antropologici, che
distinguono i Gheghi dai Toski. Caratteri general-
mente comuni ad ambedue le stirpi sono il collo
lungo, il petto largo e forte, il corpo asciutto e
nervoso. Hanno occhi non grandi, sguardo fisso
e diritto, sopraccigli brevi, fronte piatta, naso
affilato. D*una singolare agilità di membra e pie-
ghevolezza di muscoli, ostentano tuttavia nel por-
tamento, specialmente i Gheghi, un non so che
di teatrale, come gli atleti. In questo portamento
quasi potrebbe dirsi che si rivela l'orgoglio na*
— se-
zionale, come nelle parole e nei gesti. Le donne
sono degne degli uomini.
// costume albanese, — A questo insieme di bei
caratteri fisici dà grande rilievo il magnifico cO'
stume albanese, adottato anche dai greci e perciò
detto impropriamente costume greco, col giusta-
cuore scintillante di ricami d*oro e di seta multi-
colore, colle tnaniche svolazzanti e colla fustanella
o gonnella bianca (phistan) dalle pieghe innumere-
voli, stretta ai fianchi da una rossa cintura. Questa
cintura porta attaccato sul davanti una specie di
astuccio di pelle ricamato in oro, che si chiama
siiakì dal nome turco silah (arme), perchè in esso
r Albanese colloca le sue armi: pistole, pugnali,
jatagan, insomma un vero arsenale. Gli Shkipetari
si radono abitualmente la testa lasciando sopra
la fronte un lungo ciufiò di capelli, e non con-
servano della barba che i baffi. Una propria
foggia di vestire hanno i Mirditi. Indossano
infatti una zimarra di lana bianca, aperta da-
vanti, e portano sulle spalle una specie di man-
tello nero con cappuccio quadrato, pure di lana.
Larghi calzoni che arrivano appena al malleolo,
grosse calze di lana e sandali ai piedi, in capo
un casco o calotta di feltro, attorno alla vita una
fusciacca di pelle nera, nella quale si veggono
artisticamente inserti e disposti pugnali, pistole e
jatagan, e ad armacollo Tinseparabile Martina (fu-
cile Martini moderno) completano il singolare ab-
bigliamento. Anche altre tribù montanare usano il
mantello néro, che, secondo la tradizione, fu dai
cristiani albanesi adottato in segno di lutto per la
morte di Giorgio Scanderbeg. Le donne portano
- 52 -
la zimarra, i calzoni con ricami, la gonnella e il
grembiule. Merita altresì di essere notato un ori-
ginale abbigliamento delle donne scutarine catto-
liche: un ampio mantello di panno rosso con
pellegrina quadra, destinata a coprire, rialzandola
sul capo, il talman (diadema). Le musulmane, rigo-
rosamente velate, in modo da non lasciare scor*
gere che gli occhi, come esige il costume turco,
si ravvolgono in una specie di dominò di seta,
nero o a colori.
Giova aggiungere che il costume di andare ar-
mati appartiene più specialmente agli Albanesi
delle montagne. Le fogge occidentali vanno anche
diffondendosi, com*è naturale, tra gli Albanesi,
particolarmente nelle città. Diffusissimo è l'uso del
fez.
Capitolo V.
Religioni dominanti nell'Albania - Istruzione.
Scuole confessionali e nazionali.
Religioni. — La popolazione dell'Albania appar-
tiene a tre diverse confessioni religiose : la maomet-
tana, la cristiana cattolica, e la cristiana ortodossa
o greca-scismatica, come dicono i cattolici. La cat-
tolica è delle tre la più antica in Albania. La greca-
scismatica vi si diffuse ai tempi della dominazione
bizantina in seguito allo scisma d'Oriente (sec. xi)
e per infiltrazioni serbe, bulgare, valache e greche
nella nazione albanese. La maomettana cominciò
a diffondersi specialmente fra i signori albanesi
— S3 —
(beg o bey) ed i loro aderenti fin dai tempi della
conquista turca (sec. xv), come unico mezzo per
sfuggire alla prepotenza e alle spoliazioni degli
invasori. Nella bassa Albania molto contribuì alia
difihsione dell'islamismo, tra la fine del xviii e il
principio del xix secolo, Ali di Tepelen pascià di
Janina.
Nell'alta Albania, tra le tribù gheghe delle mon-
tagne a sinistra del Drin e in alcuni tratti del lit-
torale da Dulcigno a Valona prevale la religione
cattolica, segue la maomettana, viene ultima a
grande distanza l'ortodossa; fra le tribù del piano
e tra quelle che dimorano lungo il Drin bianco e
il Drin nero e sulla destra del Drin, la religione
maomettana è in notevole prevalenza sulla catto-
lica, e l'ortodossa viene ultima parimenti con poche
migliaia di seguaci.
Nella bassa Albania all'incontro è in assoluta
prevalenza la religione maomettana; segue la or-
todossa, e la prima sta alla seconda come tre a
due. Di cattolici indigeni nella bassa Albania non
ve ne sono. Il cattolicismo non vi è rappresentato
che da stranieri, e in tutto il vilayet di Janina
dessi non arrivano a 400 persone.
Per scendere a qualche particolare aggiungerò
che secondo alcune statistiche, in verità tutt' altro
che sicure e precise, nella piccola Albania i cat-
tolici non sarebbero più di 1 10,000, i maomettani
1,100,000; e a questo proposito giova osservare,
che sono interamente cattolici i Mirditi; che pre-
valgono di gran lunga i cattolici tra le tribù Moti,
Clementi, Screli, Castrati, Pulati, Scialla, Sciosci e
in qualche altra di minor conto; che si equi-
- 54 -
librano quasi cattolici e musulmani nelle tribù dei
Ducadgini e Posripa (con lieve prevalenza dei cat-
tolici) e nelle tribù Cruda, Rioli, Coplik e Matija
(con lieve prevalenza dei musulmani); che final-
mente sono molti i cattolici nel cantone della Za-
drima e nella piccola città di Alessio e suo terri-
torio. In tutto il rimanente delFalta Albania il
numero dei cattolici è molto scarso.
Quasi tutti i Toski non ellenizzati sono musul-
mani e popolano specialmente TAcroceraunia, e i
distretti di Berat, Tepelen, i\rgirocastro e Delvino.
I Toski ellenizzati, circa 150,000, sono quasi tutti
ortodossi.
I maomettani delle città dell* Alta Albania sono
credenti fanatici. Vivono invece fra loro in buona
armonia, persino nella stessa casa, e stringono
anche fra loro parentadi e matrimoni i cattolici e
i musulmani delle tribù maljsore. Non sono cre-
denti fanatici neppure i maomettani della bassa
Albania e accade di sentirli giurare così per la
Panaghia (la Vergine) come per il Profeta.
Di ebrei ve n*ha soltanto nella bassa Albania
fin dai tempi in cui Filippo II cacciò gli israeliti
dalla Spagna. I valachi seguono tutti indistinta-
mente la religione greca.
Fuori dell* Albania geografica prevalgono di gran
lunga gli albanesi maomettani nella Bosnia e nella
vecchia Serbia, a Prishtina, a Uscub, a Monastir
e nel resto della Turchia, gli ortodossi a Ca-
storio.
Per gli albanesi cattolici d*Italia e scismatici della
Crecia valgono le cifre già accennate per la po-
polazione albanese in quei due Stati, di albanesi
- ss - •
dltalia appartengono per altro, in massima parte,
al rito greco-unito.
Diocesi arcivescovili e vescovili delP Albania catto-
lica» — L'Albania cattolica ha tre diocesi arcivescovili
e tre vescovili. Le arcivescovili sono : Uscub o Scopia
con sede a Prìzrend e 8 parrocchie, Scutari con 20
parrocchie, Durazzo con sede a Derbinisti e 78 par-
rocchie ; le vescovili sono : Zadrima o Sappa con 20
parrocchie e sede a Nensciati, Alessio con sede a
Calmeli e io parrocchie, Pulati con 9 parrocchie,
più l'abbazia di Orosh con l'abate mitrato, che
i Mirditi riconoscono come loro capo spirituale.
L'abbazia di Orosh conta io parrocchie. È sede ar-
civescovile, con IO parrocchie, anche Antivari (Mon-
tenegro). Un culto speciale professano gli albanesi
cattolici per S. Nicola vescovo di Bari, e non c'è
diocesi albanese, che non abbia una parrocchia
dedicata a questo santo.
Vescovi ortodossi. — Risiedono vescovi ortodossi
a Ocrida, Durazzo, Argirocastro, Berat, Janina,
Paramitia, Conitsa e Prevesa.
I valachi non hanno né vescovo né clero pro-
prio, ma ecclesiasticamente dipendono dalle dio-
cesi ortodosse sopra citate, ed è appunto per
questo che furono facilmente ellenizzati. Circa venti
anni or sono un valaco del villaggio di Ardela
(distretto di Samarìna, vilayet di Monastir), di nome
Apostolo Margariti, iniziò un'attiva propaganda per
svincolare i valachi dal clero greco e creare un
clero valaco con propri vescovi. Furono anche
tentate delle pratiche a questo fine presso il Sul-
tano : pratiche costantemente avversate dal Patriar-
cato greco.
- 56-
Moschee. — Ogni centro notevole di popolazione
musulmana ha inoltre le sue moschee, e in mo-
schee furono dai turchi trasformate molte chiese
cristiane. Nella sola Prizrend se ne contano ven-
tiquattro. Di molte altre chiese cristiane oggi non
esistono che le rovine in parecchi punti delFalta
e della bassa Albania.
Conventi, — Qualche convento cristiano più o
meno antico s'incontra pure in alcune città albanesi.
Famoso tra gli altri il convento di S. Francesco
in Alessio, che la tradizione dice fondato dal po-
verello d'Assisi in persona. Monastir deve il suo
nome al convento Moncisitr Bucova, che sorge a
un* ora di di stanza dalla città. Più non esistono
che poche rovine di una famosa abazia benedet-
tina, detta di S. Giovanni, che sorgeva presso Scu-
tari, nella diocesi di Drivasto, tra il torrente Kiri
e il lago, come risulta da Registri pontifici e da
documenti veneziani dei secoli XIV e XV.
Scuole con/esstonali. — Non mancano, dove c'è
popolazione cristiana, missioni e scuole tenute da
corporazioni religiose cattoliche e greche. I parroci
cattolici, i papas greci e i muezzin musulmani sono
molto frequentemente i maestri dei bambini alba-
nesi: il clero cattolico è in massima parte indigeno.
L'insegnamento dei muezzin è ristretto al Corano.
Del resto i genitori poco si curano di fare istruire
i propri figliuoli, e la percentuale degli albanesi
che sanno leggere e scrivere rimane senipre assai
bassa, specialmente fra i gheghi.
A Scutari e in genere in tutta l'Albania gode-
vano una volta grande favore fra la popolazione
cattolica i soli francescani. Oggi vanno aggiunti ai
- 57 -
francescani i gesuiti e le monache stimolatine e
di Zagabria (Croazia). L'Austria ha la protezione
del culto in Albania e provvede in gran parte e con
liberalità alle esigenze di esso. Sussidia inoltre a
Scutari tre scuole, due maschili rette da gesuiti e
francescani e. una femminile retta dalle suore slim"
matincy oltre un asilo, d'infanzia; protegge e sus-
sidia il seminario di Scutari, tenuto dai Gesuiti.
Ha fondato due scuole, una maschile e una femmi-
nile, a Durazzo, una scuola maschile a Tirana, una
femminile a Ipek, una maschile a Giacova. Altre
scuole austrache esistono a Scirocca sul lago di
Scutari, a Trosciana ("Zadrima) e nel paese degli
Ho ti. Una scuola femminile che verrà affidata a
suore di carità di Zagabria, si sta costruendo a
Calmeti, residenza del vescovo di Alessio. L'Au-
stria ha fondato e mantiene a Scutari un ospedale
servito da suore di carità di Zagabria e un me-
dico-chirurgo gratuito pei cattolici poveri. Non
mancano borse di studio concesse dal governo
austriaco ai giovani albanesi, che si recano a fre-
quentare le scuole secondarie e le università della
Cisleitana. L'Austria protegge altresì la missione
dei Lazzaristi francesi a Monastir.
I greci dal canto loro hanno disseminato
scuole da Elbassan ad Arta, ma più specialmente
in Epiro, e queste loro scuole dipendono dal
clero e dai vescovi ortodossi, e sono larga-
mente sussidiate dal Sillogos di Atene (Società per
la diffusione della lingua greca). Ha una certa, im-
portanza il Ginnasio greco di Janina. Le scuole
greche hanno senza dubbio contribuito a diffon-
dere fra i Toski una cultura e civiltà alquanto su-
- 58 -
periore a quella un po' troppo arretrata dei Gheghi,
e ai Toski mussulmani, che abbiano raggiunto ufi
certo grado di cultura, non è difficile aprirsi la
via ai più alti offici dello Stato, come infatti non
di rado avviene. Proprie scuole hanno anche i
valachi, specialmente in Ocrida, a Janina, a Berat
e in molti villaggi del Pindo, e munifico soste-
nitore di queste scuole valache è il sopra ricor-
dato patriota valaco Apostolo Margariti. Vi sono
inoltre scuole slave a Scutari e nei principali
centri di popolazione mista serbo-albanese e bul-
garo-albanese. Vi sono anche scuole turche, ma
la Turchia spende per esse poche migliaia di lire.
Scuole italiane, — L*Italia, che ha vecchie tra-
dizioni di coltura e di diffusione della propria
lingua in Albania da mantenere e le antiche rela-
zioni di commercio e di buona vicinanza fra le
due opposte rive dell* Adriatico da rinnovare,
mantiene soltanto una scuola tecnico commerciale,
due scuole elementari (una maschile e una femmi-
nile) e un giardino d'infanzia a Scutari. Con tutto
ciò la lingua italiana è sempre, tra le lingue
straniere, la nieglio conosciuta, specialmente nel-
Talta Albania, dove si parla da molti italiano. Pa-
recchie parole italiane penetrarono nel dialetto di
Scutari ai tempi della dominazione veneta: il che
per altro non esclude che molti abitatori delle
montagne albanesi ignorino persino il nome e la
esistenza deiritalia.
Scuole nazionali. — Col ridestarsi del sentimento
nazionale non può essere a meno che gli albanesi
si persuadano della necessità di scuole nazionali.
Per ora una scuola nazionale è sorta a Corìtsa
- 59 -
ed una a Prìzrend. Solo è a desiderare che molte
altre scuole simili sorgano tra breve in tutta l'Al-
bania. Vero è d'altronde che il governo ottomano
non aveva mai voluto concedere fino ad oggi che
s'istituissero scuole con insegnamento in lingua
albanese.
Capitolo VI.
Circoscrixionl amministrative - Governo.
Usi e consoetndini.
Circoscrizioni amministrative, — Per quanto ri-
guarda le circoscrizioni amministrative è da notare
anzitutto, che la Turchia nello stabilire queste
circoscrizioni, soggette a mutazioni assai frequenti,
non bada alle frontiere naturali, né segue criteri
etnografici. In Turchia la provincia o governo (vi-
lajet) si suddivide in distretti o circoli maggiori
(sangiaccati o mutessarriflik), che alla loro volta si
suddividono in distretti o circoli minori (Kazà o
Kaùnacamlik e Nahie o Miidiriet). A capo di ogni
villaggio sta poi il cosiddetto Muktar. Nelle città
ha il suo Muktar ogni quartiere.
Ciò posto, delle quattro provincie, nelle quali
l'Albania è compresa, due sole, quelle di Janina e
di Scutari, sono interamente chiuse entro i confini
geografici dell'Albania.
11 governo o provincia (vila)et) di Cossovo com-
prende i sangiaccati di Ipek, di Prìzrend, dì Novi-
bazar e di Uscub. Il vilajet di Monastir comprende
i sangiaccati di Dibra, Elbassan, Monastir e Ser-
- 6o -
figiè. Ora, Novibazar, Uscub e Monastir sono fuori
dei confini geografici della vera e propria Albania,
quantunque debbano essere compresi entro i suoi
confini etnografici. Viceversa non appartengono
nemmeno alfAlbania etnografica pel vilajet di
Cosso vo buona parte del sangiaccato di Novibazar
e la metà orientale del sangiaccato di Uscub e
pel viJajet di Monastir i due terzi del sangiaccato
di Serfigiè.
Infine il vilajet di Janina abbraccia i sangiac-
cati di Berat, Argirocastro, Janina e Prevesa e
quello di Scutari i sangiaccati di Scutari e Du-
razzo.
Governo, — Un vero e proprio governo esiste
solo nelle città e tribù gheghe del piano e nelle
città e tribù dei toski senza eccezione, coi rispet-
tivi distretti e cantoni. Con queste città e tribù e
rispettivi distrettì e cantoni le Autorità turche,
cioè il Vali o governatore della provincia, che è
ordinariamente un Pascià, investito della somma
dei poteri civili e militari, il Mutessarri/ o prefetto
del sangiaccato, il Kaimakam o sotto-prefetto del
Kazà e il Mudir o capo del Mudiriet, trattano
come con gli altri sudditi dell* Impero ottomano,
facendo valere possibilmente la legge, ammini-
strando con una certa regolarità la giustizia e
riscuotendo regolarmente le tenui imposte, con
speciali riguardi e particolare propensione, com' è
naturale, verso l'elemento musulmano.
Come in tutti i vilajet deirimpero, si riunisce
sotto la presidenza del Vah il Consiglio o tribu-
nale pascialicale {Medjlts\ composto dall'Intendente
di finanza {Maliè-mudtr)^ dal giudice {Cadì)^ dal
-- 6i -
prete (Mujìi) e da dieci altri membri, tutti nomi-
nati dal Vali e scelti di preferenza fra i musul-
mani. Varie ed estese sono in materia ammini-
strativa, civile, penale e di polizia le attribuzioni
dei Consiglio o tribunale pascialicale^ contro le cui
deliberazioni non è ammesso appello.
Ai musulmani spetta di diritto e di fatto la pre-
valenza anch& nei tribunali di commercio (Tidjaret*
medjlis).
Soltanto la popolazione musulmana delle sud-
dette città e tribù e rispettivi distretti e cantoni
presta il servizio militare tra i soldati regolari
(nizam) e nella riserva (redi/). La popolazione
cristiana paga una tassa di esenzione militare,
detta nizamiè. È da avvertire per altro che il san-
giaccato dì Scutari è privilegiato (mustesnà) e per
effetto di tal privilegio i musulmani sono in quel
sangiaccato esenti dal servizio militare e debbono
solo prendere le armi in caso di guerra per la
difesa della frontiera. 1 cattolici poi della città
pagano il nizamiè^ come nei vilajet non privile-
giati (tanzimat).
Fra i toski musulmani sono reclutati in gran
parte i 600 soldati (askier), che costituiscono la
Guardia di Palazzo del Sultano.
La legge della montagna. — Sostanzialmente di-
verso è il governo delle tribù gheghe montanare,
che ben possono dirsi, alcune specialmente, quasi
indipendenti. Esse si governano infatti e si ammi-
nistrano da sé medesime secondo le loro consue-
tudini e tradizioni, che chiamano legge della mon-
tagna e che non è legge scritta e viene attribuita,
come si vedrà a suo luogo, al famoso capo alba-
nese Lek Ducadgin.
- 62 -
Esiste inoltre a Scutari un tribunale speciale
detto Gibal, il quale applica nei diversi casi, cosi
in civile, come in penale, la legge della montagna e,
assistito dall'Autorità turca, procede all'esecuzione
delle sue sentenze.
Ogni tribù si divide in bandiere o bairak^ coman-
date da un bairaktar. Il numero dei bairak varia
secondo l'importanza delle tribù. Quella dei Mir-
diti, ad esempio, comprende 5 bairak: Orosh, Spaci,
Kushneni, Pandi e Dibri,
Ogni bairaktar tratta e sorveglia i più gelosi
interessi del bairak e provvede all'applicazione
della legge, assistito da un Consiglio di anziani
(vecchiardi) delle principali famiglie, sedenti nel
Consiglio stesso frequentemente per diritto eredi-
tario. Il numero dei componenti il Consiglio varia
secondo l'importanza del bairak. La riunione dei
bairaktar costituisce il Gran consiglio della tribù,
che in caso di guerra nomina il capo supremo
con potere strettamente determinato e temporaneo.
Di solito ogni tribù tiene un rappresentante
presso il Vali da cui dipende, e il Governo otto-
mano è alla sua volta rappresentato presso cia-
scuna tribù da un personaggio, il cui principale
ufficio è quello di riscuotere le imposte, quando
ciò sia possibile e quando le imposte non vengano
condonate per meriti di guerra o per altra ragione.
Questi rappresentanti delle tribù presso il Vali e
del Vali presso le tribù si chiamano bulouk'basct o
semplicemente bey. Il più autorevole è per singo-
lare privilegio il bulouk-basci delle tribù degli Hoti.
E nemmeno le tribù gheghe della montagna
prestano servizio nell'esercito regolare: bensi in
-63 -
tempo di guerra accorrono alla chiamata del Sul-
tano fra gli irregolari {basci-ònzuk^ ciascuno sotto
le proprie bandiere e i propri capi, e costituiscono
la più formidabile delle milizie ottomane. Le tribù
dei Mirditi e degli Hoti hanno il privilegio di
marciare alla testa delle altre colle loro bandiere.
U nome degli Arnauti suona pertanto ammirato
e temuto in tutto TOriente e persino in Egitto e
nella stessa Abissinia, giacché un corpo di milizie
albanesi faceva parte degli eserciti egiziani ai
tempi di Mehemet-Alì e dei suoi successori. Del
resto quest'uso di militare negli eserciti stranieri
è invalso tra gli Shkipetari fin dal secolo xv, come
a suo luogo vedremo, ed era cosa naturale in un
popolo battagliero per indole e per tradizione.
Sentimenti e costumanze speciali degli albatiesi, —
Una volta le tribù gheghe erano assai frequen-
temente in guerra tra loro, coi Montenegrini, coi
Serbi e colle tribù toske. Oggi pel ridestato sen-
timento nazionale resta immutato l'odio pei Serbi
e pei Montenegrini, ma sono diminuite notevol*
mente le rivalità e i dissensi intestini. Frequenti
in ogni tempo furono contro il comune nemico
strettissime e spontanee alleanze tra le diverse
tribù albanesi. Cessato il pericolo, sempre cessò
del pari la lega o alleanza; e le cose non vanno
diversamente ai tempi nostri.
Del resto accanto all'amor della patria ed all'at-
taccamento alla propria tribù domina vivissimo
neiranimo di ogni Albanese il sentimento della
libertà e del diritto individuale. 11 Ghego delle
tribù montanare ed anche il Tosko delle montagne
porta con sé costantemente il suo fucile e sulla
-64-
bocca di esso le proprie ragioni. E qui è il caso
di accennare anche ad altri sentimenti e ad altre
costumanze proprie degli Albanesi. Quanto alle
donne osserverò che in Albania esse vengono
gelosamente custodite in casa dai musulmani e
anche dai cristiani delle città, finché sono ra-
gazze, e che fra gli stessi maomettani, a meno
che non abbiano lungamente dimorato a Costan-
tinopoli, non è frequente la poligamia. In com-
penso la donna è circondata dal massimo rispetto,
e può recarsi sola dovechessia senza timore d*ia-
sulti e di violenze. La maggiore delle vigliaccherie
per un Albanese è Tuccidere una donna, o un
prete, o un fanciullo perchè impotenti a difendersi.
Chi si pone sotto la protezione di una donna può
percorrere anche i luoghi più appartati e perico-
losi senza alcun rischio, e i luoghi pericolosi non
fanno difetto, giacche nell'Alta Albania è frequente
la vendetta personale e gentilizia, ossia per soli-
darietà di parentela. La bassa Albania poi è anche
infestata dal brigantaggio. Sono sacri altresì per
gli albanesi, specialmente sui monti, i doveri del-
TospitaUtà; inviolabile è la persona dell'ospite.
Ucciderlo è delitto mostruoso, anche se si tratti
di un traditore o di una spia, di un omicida o di
un seduttore; in questi casi, per Io meno, finché
la colpa dell'ospite non sia di pubblica ragione e
il termine della chiesta ospitalità non sia trascorso.
Tutte queste costumanze delle tribù montanare
albanesi furono paragonate ^ a quelle di parecchi
popoli non ancora civili, antichi e moderni. Le
somiglianze dipendono esclusivamente dallo stato
primitivo delle tribù albanesi, a tutte le società
- 65 -
primitive facilmente paragonabili. A questo modo
si giustifica il sopraddetto costume della vendetta,
a cui è obbligata per diritto e per dovere con-
suetudinario tutta la parentela delFuomo e della
donna, cui fu recata offesa o violenza, tal quale
come nella famosa fodda dei Longobardi. Talvolta
questo diritto e dovere, detto del sangue (Diak),
si estende air intera tribù, tantoché in siffatti casi
la giustizia del Vali turco o arriva troppo tardi,
o si riduce ad una semplice formalità. Per le stesse
ragioni il concetto di patria limitavasi un tempo
presso gli Albanesi, come presso tutte le società
primitive, alla sola tribù, per lo meno nella
maggior parte dei reciproci rapporti. Solo di
fronte al nemico comune il sentimento di razza
e di nazione si affermava unanime e potente. Il
che spiega come dal secolo xv in poi il nome
dell'eroico Scanderbeg sia divenuto il simbolo
deirunità nazionale albanese. Gli avvenimenti del
secolo XIX, il principio di nazionalità universal-
mente affermatosi in codesto secolo, la propaganda
della Lega albanese dopo il trattato di Berlino
hanno anche in Albania rafforzato ed esteso oltre
i confini della tribù il concetto di patria. Ed è
giusto che questo avvenga, ed è lecito augurare
che questo nuovo sentimento della grande patria
albanese valga a salvare quel popolo di valorosi
dalle cupidigie di conquista e di assimilazione dei
popoli e degli Stati che lo circondano. E quanto
di meglio ponno oggi desiderare a questo fine gli
Albanesi, si è di rimanere, possibilmente, autonomi
sotto la Turchia, che la nazionalità Shkipetara ac-
carezza, per lo meno nei momenti di pericolo, e
5
- ee --
di strìngere amichevoli legami coiritalia, che della
nazionalità albanese può essere a tempo debito
sostegno e presidio per tutela dei suoi propri in-
teressi nell'Adriatico.
Capitolo VII.
Condizioni economiche dell'Albania.
Agricoltura, — L* Albania è sotto Taspetto agri-
colo ed industriale in uno stato primitivo, quale
dev* essere naturalmente lo stato di un popolo, cui
mancano in gran parte gli stimoli naturali del
progresso sociale : istruzione, contatto costante con
popoli più progrediti, conoscenza dei comodi della
vita e dei mezzi per procurarseli, curiosità, attività,
emulazione, concorrenza, moltiplicità di bisogni
da soddisfare. L'Albania produce, in luoghi diversi,
slntende, secondo il clima e la natura del suolo,
grano, orzo, segala, avena, riso, la cui coltura è
oggi quasi abbandonata, mais, lino, canapa, ta-
bacco, olio, vino, in quantità insufficiente anche
per il paese essendo state le vigne devastate dalle
malattie, frutta, legumi, ortaglie, aranci, limoni,
resina, sommacco e scotano (per la concia delle
pelli) e kermes. La bassa è delle due Albanie la
più ricca, specialmente di olive ti, di grasse pra-
terie, di pingui orti e di fioriti giardini. La produ-
zione dei cereali è copiosa sopratutto nelle pianure
Bregu-Bunes, Bregu-Drinit, Zadrima, Musachia,
Cossovo, Metoja. Del mais se ne produce più del
bisogno e se ne esporta dalle pianure di Scutari
-67-
e dalla Musachia in Dalmazia, nel Montenegro e
in altri paesi dell* Adriatico. Cossovo invia grano
ai molini di Salonicco. Gli oliveti prevalgono nella
zona marittima, specialmente nei dintorni di Ales-
sio, Cavaja, Elbassan, Valona, Parga e Prevesa e
si esporta olio albanese, in verità male confezio-
nato, in Italia, in Austria, a Malta e nei paesi
interni della Turchia. La coltura del tabacco pre-
vale nell'alta Albania, e dei tabacchi di Ipek,
Giacova e Scutari si fa notevole contrabbando,
non essendosi potuto imporre a quei paesi il mo-
nopolio. Va all'estero il tabacco da naso di Berat.
Abbondano in tutta l'Albania le foreste, e quindi
il legname da costruzione : il pino, l'abete, il pla-
tano e specialmente il frassino, e la quercia. Me-
ritano particolare menzione le foreste della vallata
deiribar, della Mirdizia, del Grammos e di Chi-
mara e quelle che si distendono tra il basso Mati
e il basso Arzen. Velieri di Dulcigno trasportano
legna da fuoco dall'Albania in Egitto, Tunisia e
Tripolitania. Da Valona ebbe il suo nome la Val-
lonea (ghianda di cerro), che serve ai cuoiai ed ai
tintori. Le vallonee sono fornite particolarmente
. dai boschi di querele di Parga e Chimara e ven-
gono imbarcate nei porti di Valona e di Parga e
nei minori scali tra Parga e Valona. Il sommacco
si trae dal polverizzamento delle foglie e lo sco-
tano dal polverizzamento del legno di un arbo-
scello che i montanari raccolgono e vendono nelle
piazze commerciali, specialmente di Scutari e di
Alessio. Le montagne della Mirdizia ne producono
la maggior quantità. Le pelli d'orso, di volpe, di
faina, di martora e particolarmente di montone e
- 68 ~
•
di capra costituiscono un altro ramo di produzione.
A Ocrida fioriva trent*anni fa il commercio delle
pelliccie, oggi notevolmente diminuito. Oggi Scu-
tari, Janina, Premet, Coritsa e i porti del littorale
sono le piazze di smercio delle pelli e delle lane.
Se ne importano specialmente in Austria e in
Italia. Erano famose nell'antichità le razze di ca-
valli e di vacche e i cani molossi dell'Epiro. Og-
gidì sono tenuti in gran pregio i cavalli del ter-
ritorio della Musachta, piccoli, nervosi, vivacissimi,
resistenti a qualsiasi fatica e indomabili come gli
abitanti. Nella Ljapuria si ammirano ancora certi
grossi cani così coraggiosi e forti da levare facil-
mente un cavaliere d'arcione. Furono sempre e
sono ancora assai fertili i piani di Prìzrend, di
Ipek, di Cossovo, di Scutari, di Janina, della Mu-
sachia e di Butrìnto, la vallata del Mati, quella
di Argirocastro, attraversata dal Drino, il piano
ben coltivato di Tirana e tutto l'Epiro meridionale.
Ma tutta la produzione sopra descritta ha il di-
fetto capitale di essere scarsa e lavorata con me-
todi arcaici e attrezzi primitivi. Le macchine agrì-
cole sono in Albania sconosciute. Immensi sono
d'altronde i danni che quasi ogni anno arrecano ,
i fiumi per difetto assoluto di arginature e d'inca-
nalamenti. Ignote del pari le opere di dissecca-
mento e d'irrigazione.
Molti generi di prima necessità debbono essere
importati, e la esportazione costante è ristretta ai
seguenti prodotti naturali : legname, sale minerale,
pelli, sommacco, vallo nea, kermes, tabacco, mais,
lana, capre, montoni, cavalli, bestiame bovino. Se
i raccolti vanno assai bene si esportano in pie-
-69-
cola quantità anche Tolio ed il grano. Con tutto
ciò la peggior piaga deirindustria agricola, spe-
cialmente della bassa Albania, ò sempre la pasto-
rizia, dappoiché i terreni per la maggior parte
sono ridotti a pascoli o lasciati incolti. Questq
preferenza per l'allevamento del bestiame ha fon-
damento neirindole e nelle tradizioni degli abi-
tanti. Son dedite alla vita nomade di pastori tutte
le tribù montanare dell'alta Albania, e nella bassa
Albania specialmente gli abitanti di tutto il bacino
della Vojussa, del cantone Pogoniani, del cantone
di Suli, delle montagne del Tomor, del Grammos,
e migliaia di pastori frequentano nell'estate i pa-
scoli dello Sciar Dagh,
Industria mineraria e manifatturiera. — Più infe-
lici ancora appaiono le condizioni dell* industria
mineraria e della manifatturiera. Unica industria
mineraria ò quella esercitata dalla Banca Otto-
mana a Seleniza nel distretto di Valona per
estrarre bitume. Ci sono inoltre le saline di Se-
meni, di Arta e di Cavaja, le quali ultime sono
messe a profitto dall* Amministrazione delle entrate
cedute ai creditori della Turchia. Esistono giaci-
menti di cromo nei distretti di Uscub, Ipek
e Prizren, di rame in quello di Coritsa. Ma i
fiacchi tentativi per trarne un utile non diedero
ancora buoni risultati. Per quanto riguarda Tin-
dustria manifatturiera, gli oggetti di prima neces-
sità vengono di fuori, specialmente dall'Austria
(Cisleitana), ossia da Trieste. Le principali ma-
nifatture a cui si dedicano gli Albanesi sono
quelle che hanno relazione col costume: ma per
le armi vengono di fuori le canne da fucile, le
- 70 -
lame da coltello, la polvere; per le industrie fab-
brili le ferramenta ; per le vesti le tele di lino, le
sete e i panni grezzi; pei ricami i fili d'oro e di
argento e di seta e lana colorata. A Scutari, a
Prizrend e a Giaco va si fabbricavano un tempo in
grande quantità armi di lusso e calci e casse da
fucile e da pistola e lame e manichi di coltello e
Jalagan : ma le armi moderne di fabbrica europea
hanno fatto decadere in Albania il mestiere del-
Tarmajuolo. A Scutari, a Prizrend e a Janina si
fabbricano altresì drappi e giubbetti e giacchette
ricamate in oro ed in seta, di cui si ha largo smercio
in Bosnia, Albania, Dalmazia e Montenegro. Gia-
cova fornisce dei passamani, cordoni, galloni, bot«
toni in seta e fili metallici. Scutari, Dibra, Prizrend
e Janina forniscono cuoi marocchini rossi e gialli.
Un pò* dappertutto si tessono stoffe e panni spe-
ciali con telai a mano.
Esistono inoltre parecchi molini a vapore nel
vilajet di Monastir (a Prishtina, a Uscub, a Prilip,
a Cruscevo, a Ocrida, a Coritsa), segherie mecca-
niche a Mitrovitsa e a Smoctina presso Valona,
una fabbrica di panni speciali detti aha per uso dei
dervisci e dei poveri a Dihovo presso Monastir e
alcuni opifici di passamani ugualmente presso I^lo-
nastir, a Magarovo.
Rispetto a certi speciali mestieri vale la pena di
notare, che la tribù di Dibra fornisce in abbon-
danza muratori e legna) uoli. Sono inoltre rinomati
in Turchia i pasticcieri di Monastir, Coritsa, Prizren
ed Elbassan. Gli abitanti di alcuni cantoni dello
Sciar-Dagh percorrono i paesi balcanici vendendo
sakp e buia^ due bevande di grande consumo tra
— 71 -
il popolo di quei paesi. Da alcuni cantoni del Vi-
lajet di Janina provengono parecchi macellai, fornai
e mercanti di stoffe di Costantinopoli e di altre
città deirimpero turco, alcuni dei quali misero in-
sieme grosse fortune.
Industria della pesca. — Tutt'altro che fiorente è
sulle coste albanesi Tindustrìa della pesca ma-
rittima. Si può ben dire ch'essa non è nemmeno
praticata.
Misera ò pure la pesca dei laghi. Soltanto
Scutari esporta in piccola quantità anguille dissec-
cate, scoranze affumicate e bottarga.
Commercio — Date queste modestissime primi-
tive condizioni della produzione, ò naturale che
altrettanto modeste e primitive sieno le condizioni
del commercio, rese anche più difficili dalla quasi
assoluta mancanza di vere e proprie vie di comu-
nicazione. Basti dire che fra lo scalo di San Gio-
vanni di Medua e il bazar di Scutari non esiste
una strada, ma soltanto un sentiero, che edge
dieci ore di cavallo, di guisa che la via preferibile
per recarsi a Scutari è quella di Cetiigne^ capitale
del Montenegro, donde si discende facilmente a
Rieca^ punto di partenza di un vaporetto che at-
traversa il lago. Le vie, a cui si diede il nome
di strade, e che pongono in comunicazione fra
loro i principali centri di popolazione sopra ricor.
dati, diventano impraticabili nella stagione delle
pioggie e nella bassa Albania sono anche malsicure
per il non infrequente brigantaggio, né possono
servire al commercio che per mezzo di carri tirati
da buoi e a dorso di cavallo.
Non sono molto migliori delle altre le due così
- 72 -
dette strade carozzabili tra Janina e i porti di Pre-
vesa e di Salahora, la prima delie quali passa per
Delvino, la seconda vicino ad Arta, con cui è con-
giunta da una piccola diramazione. Non esistono
strade carrozzabili neppure di nome nel Vilajel di
Scutari. Qualcheduna di più che in quello di Janina
se ne conta nel Vilajel di Monastir: da Monastir
a Janina per Liascovik e Coritsa, da Monastir a
Struga, da Monastir a Salonicco, da Monastir a
«
Cozana, da Monastir a Prilip e Gradsco.
I corsi d^acqua non sono in massima parte na-
vigabili, come già sappiamo, e mancano di ponti,
tantoché si additano come rarità monumentali i
ponti altrove ricordati del Drin bianco e del Drin
nero, i ponti veneziani sul Kiri e sulPArta, il ponte
di Kurd Pascià sullo Shcumbi vicino ad Elbassan
e più su, sopra lo stesso fiume, i ponti di Hagi
Pascià, Cumara e Ciuches. I porti sono, per dir cosi,
abbandonati alla natura.
II commercio interno è quindi solo possibile per
mezzo di carovane, e le interruzioni di questo ser-
vizio possono durare settimane intere. Quindi an-
che soltanto i prodotti che compensano pel loro
valore le spese di trasporto possono essere di-
retti verso i grandi centri e i porti d'imbarco. Il
resto rimane quasi senza valore nei luoghi di pro-
duzione ed è venduto a vii prezzo nei piccoli bazar
del paese. Ognuno comprende, ad esempio, quanto
maggiore importanza potrebbe assumere in Albania
il commercio del legname da costruzione, se le vie
di comunicazione e i mezzi di trasporto non faces-
sero difetto.
Il commercio marittimo è quasi esclusivamente
— 73 —
austriaco per la via di Triestei essendo tutti gli
scali albanesi regolarmente frequentati dai piroscafi
del Lloyd austriaco con tre approdi alla settimana
(linea celere settimanale, linea greco-albanese e linea
tessalo-albanese). Esiste pure una linea esercitata
dalla Società di navigazione ragusea, linea che par-
tendo da Trieste va fino a Obotti, risalendo la
Bojana. L'Austria, per vecchia concessione, ha
uffici postali in tutta la costa albanese ed a Janina.
Da poco tempo gli scali d'Albania sono pure toc-
cati dai piroscafi della Società Italiana di Naviga-
zione La Puglia^ con quattro viaggi al mese. Ba-
stimenti a vela turchi, dulcignotti e greci approdano
irregolarmente nei porti albanesi e qualche tra-
baccolo italiano sale fino a Obotti. Le navi degli
altri Stati, della Francia, per esempio, e deir In-
ghilterra, effettuano ordinariamente gli scambi
commerciali coi porti albanesi mediante il trasbordo
delle merci sui battelli del Lloyd e della Puglia
in altri porti. Ma ad ogni modo il commercio in-
glese, il francese, l'italiano, il turco ed il greco,
seguono, a notevole distanza, il commercio del-
l'Austria coirAlbania. L* Inghilterra viene dopo
l'Austria coi tessuti e coi manufatti di cotone;
quindi la Francia colle farine. L'Italia tiene il
quarto posto. Anche la Germania cerca da un po'
di tempo di stringere con l'Albania qualche rela-
zione commerciale per la via di Trieste, sopratutto
per il legname da costruzione. Cento anni fa il
monopolio del commercio sulle coste albanesi era
diviso tra i Veneziani, i Ragusei e i Provenzali.
I soli marinai albanesi, che si possano dire per
secolare tradizione intraprendenti, sono i dulci-
- 74 -
gnotti, e Dulcigno non appartiene più airAlbania.
Nondimeno, buon numero di Duicignotti, dacché
Dulcigno fu occupata dal Montenegro, emigrarono
a Scutari e misero i loro velieri sotto bandiera
turca. Gli abitanti cristiani del cantone di Chimara
esercitano pure il mestiere di marinai.
Da rapporti dei consoli francesi a Scutari e a
Janina, negli anni 1883 e 1884, risulta che il com-
mercio di Prevesa rappresentò, nel 1883, per la
bassa Albania, un valore di lire 8,415,745 tra im-
portazione ed esportazione, e il commercio di Scu-
tari rappresentò, per Talta Albania, nel 1884, un
valore ugualmente complessivo di lire 5,778,652.
Ma i rapporti dei consoli francesi sono inesatti.
Dati recenti, estratti dai libri delle Dogane, e senza
tener conto naturalmente del contrabbando, pre-
sentano in cifre rotonde per il solo vilayel di Ja-
nina 9iOoo,ooo di franchi per V importazione e
6,000,000 per la esportazione. Nel 1898 tutta l'Al-
bania ebbe 34,000,000 di franchi d* importazione
e 12,000,000 di esportazione, con troppo forte
prevalenza, a dir vero, a favore della esportazione
nella bilancia commerciale, ove per giunta si con-
sideri, che le merci che s' importano in Albania
sono in massima parte di consumo e in parte mi-
nima di uso industriale. La Grecia, che conta ap-
pena mezzo milione di più di abitanti dell* intera
Albania, ci presenta invece nel 1898 per l'impor-
tazione lire 116,276,000 e per l'esportazione lire
72,477,000.
Il contrabbando è d'altronde esercitato in Al-
bania su larga scala.
Strade ferrate — Non sono per ora le strade fer-
- 7S -
rate che possano aver migliorato di molto questo
stato di cose. Nessuna ferrovia oggi percorre quella
che abbiamo chiamata Albania geografica. Solo il
territorio delFetnografica è attraversato dalie linee
Salonicco-Monastir, Salonicco - Uscub - Prishtina-
Mitrovitsa , Uscub*Salonicco, Uscub -Vranja-Nish
(Nissa) Belgrado-Vienna.
Speranze e progetti per ^avvenire. — Quanto fin
qui si è detto non esclude per altro la speranza
di futuri progressi, pei quali la popolazione Shkipe-
tara potrà aumentare di qualche milione senza bi-
sogno di allargare i confini del proprio territorio.
La fertilità del suolo in parecchi luoghi, il clima
temperato quasi dappertutto, l'energia degli abi-
tanti, i progressi della coltura giustificano i migliori
presagi per Tavvenire di quel forte paese riguardo
alla produzione agricola ed anche ali* industriale.
Nò meno legittime sono le speranze per i com-
merci. Prizrend, Scutari, Janina occupano allo
sbocco delle montagne siti ove già dovette natu-
ralmente agglomerarsi la popolazione a causa dei
vantaggi naturali che vi si trovano riuniti. Coritsa
a mezzodì dei laghi di Ocrida e di Malik ò e
diventerà sempre più un luogo di traffico assai
frequentato, grazie alla sua posizione sulla. soglia
del passaggio tra il versante del mare Adriatico
e quello del mare Egeo. Importanza commerciale
sempre maggiore deve acquistare Monastir negli
scambi tra la Macedonia e TAlbania. A Ipek, a
Prishtina, a Giacova, situate in valli magnifiche,
debbono naturalmente operarsi gli scambi tra la
Macedonia e la Bosnia, tra i serbi e gli alba-
nesi. Novibazar o Yenibazar, il cui nome significa
-76 -
nuovo mercato e che è succeduto a Staribazar
{vecchio mercato)^ un di capitale della Rascia o
vecchia Serbia, costituisce eoa Mitro vitsa il punto
naturale a cui debbono convergere, per vie con-
centriche, i traffici del Montenegro, della Ser-
bia, della Bosnia, dell* alta Albania e dell' alta
Macedonia. L*esecuzione della strada ferrata da
Nish a Vranja e il suo collegamento colla li-
nea Mitrovitsa-Uscub-Salonicco ha messo TAl-
bania orientale in comunicazione colla rete delle
ferrovie europee, e questo è già molto. È in que-
stione per ora una ferrovia che dovrebbe attra-
versare TAlbania da est a ovest, avendo la sua
testa di linea a Valona e il termine a Salonicco.
Esistono pure in progetto la congiunzione di Du-
razzo con la linea Monastir-Salonicco e di Scutari
e San Giovanni di Medua con le ferrovie serbe. È
nota infìne Y intenzione dell* Austria di costruire una
ferrovia, a dir vero più strategica che commer-
ciale, tra Serajevo, Novibazar e Mitrovitsa. Ognun
vede del resto quanta importanza sopratutto avrebbe
pel commercio albanese la costruzione di comu-
nicazioni trasversali tra i porti e gli scali albanesi
dell'Adriatico e dello Jonio e le piazze commer-
ciali dell'Albania orientale (Ipek, Giacova, Prizren,
Uscub, Dibra, Monastir e Coritsa).
Le buone strade carreggiabili, i ponti sui fiumi,
il miglioramento degli scali marittimi sono altri
benefici che non potranno mancare col naturale
progresso della civiltà in Albania.
Certo è poi che, se il governo turco fosse il
primo a promuovere ed eseguire opere di pub-
blica utilità, sarebbe anche il primo a risentirne i
vantaggi.
Uffici consolari. — Giova infine ricordare, che
parecchi sono gli Slati europei che tengono uffici
consolari in Albania: l'Austria, l' Italia, la Francia,
ta Russia, l'Inghilterra, la Grecia, la Serbia, la
Rumenìa e il Montenegro. La Grecia ha sette
consolati nel solo Epiro. L'Austria ha uffici con-
solari nei quattro VHajet albanesi di Scutarì, Ja-
nina, Cossovo e Monastir. L'Italia ha consolati a
Scutarì, a Janina e a Monastir, viceconsolati a Va-
lona e Durazzo e un'agenzia consolare a Prevesa.
r^T^
U^lJ9i9ti$iSUlfi9U^L9U^a^kStt^i3tl^i^^
PARTE 11.
Notizie storiche.
Capitolo I.
Età antica. Tribù illiriche ed epirote.
La conquista romana.
IlUrio ed Epiro. — Come i moderni così gli an-
tichi abitatori illirici dell'Albania si dividevano in
tribù: dal lago di Scodra ai confini dell' Acro-
ceraunia le tribù illiriche propriamente dette, dal-
TAcroceraunia al golfo di Ambracia (oggi d*Arta)
le tribù epirote. Vero è che nelFantichità classica
greco-romana il nome di Illirio o Illirico si estese
a tutta la regione situata fra il Danubio e l'Adria-
tico, comprendendo anche la Dalmazia, la Liburnia
e la Pannonia; ma il paese cui spettava da più
antico tempo il nome di Illyrium o Illyris era ap-
punto quello che oggi abbraccia il Montenegro
e Talta e media Albania. L'Albania inferiore chia-
mavasii come ai giorni nostri, Epiro.
Tritìi illiriche. — Le principali tribù dell' Illirio
propriamente detto erano i Parthini e i Taulanzi
- 8o -
{Taulantit) lungo l'Adriatico, i Penesti lungo il
Drilo (Drin nero), i Pirusti e i Dcssareti nella re-
gione dei laghi, i Fordei nel centro del paese.
Tribù epirote. — Le principali tribù delir Epiro
erano i Parauei e gli Atintani sulle due rive del-
TAoo superiore (Vojussa), i Caoni {Chaonia) nel-
r Acroceraunia, i Molossi (Molossis) attorno al
Pambolis lacus (lago di Janina), i Tesproti {The-
sprotta) lungo lo Jonio, fra il Thyamis (Calamas)
e il golfo di Ambracia, i Drìopi al sud, sul fiume
Arachtus (Arta), i Dolopi nella valle superiore
delFAcheloo (Aspropotamo), gli Athamani (Atha-
manta) nella valle dell'Inaco, affluente dell'Acheloo,
gli Anfilochi {Amphtlochia) a oriente del golfo di
Ambracia. Ramo dei Tesproti erano i Cassopei
{Cassopìa), colla importante città di Cassope nel
bacino deirOropo (Luros). Ramo dei Molossi
erano gli Hellopi colla città di Hella o Dodona
(Helloptà), Per questa parte dell'Epiro meridionale
trovasi anche usato il nome di Selleide da quei
Selli che nell' Iliade di Omero sono posti a cu-
stodia deiroracolo dodoneo. Alla Macedonia ed
alla Mesia appartenevano le contrade che noi
abbiamo escluse dalFAlbania geografica e inclu-
se neir etnografica. Scopia, ad esempio, oggi
Uscub, suirAxio, oggi Vardar, era città dei Dar-
dani, tribù illirica della Mesia. E superfluo ag-
giungere che anche la Mesia e la Macedonia,
come tutte le altre regioni accennate nel capi-
tolo li della I parte, erano anticamente popolate
da tribù traco-illiriche, di stirpe aria o indo-eu-
ropea, affini a quelle delFIllirio e delFEpiro. Come
i traci, gli antichissimi Illiri tatuavano i loro corpi
— 8i —
e offrivano alle loro divinità sacrifici umani. Il
contatto coi greci prima, poi coi romani, li rese
un pò* più civili. Quanto ai famosi pirati illirici
è bene sapere ch'essi appartenevano alle tribù
settentrionali della costa adriatica, cioè alle libur-
niche ed alle dalmatiche, non a quelle di cui qui ci
occupiamo.
Antiche leggende, — Non vale la pena di riferire
minutamente quanto i poeti, i geografi e gli storici
deirantichìtà classica favoleggiarono sui più antichi
re illirici, sui nomi di questa o di quella regione
deirUlirio e dell'Epiro. I Pelasgi primi abitatori di
di quelle contrade e fondatori di Dodona, i Colchi
fondatori di Colchinio o Ulcinio (Dulcigno), Gorgo
figlio di Cipselo fondatore di Ambracia, Pirro Neot-
tolemo figlio di Achille che divenne re dell'Epiro
e fu il capostipite della dinastia dei Pirridi, Eleno
figlio di Priamo fondatore di Buthroto (Butrinto),
Enea che sbarca coi suoi troiani sui lidi d'Epiro
e visita Buthroto, come racconta Virgilio nel 3®
dtWEneide (v. 293 e segg.). Clinico re dell'IUirio
figlio di Millo che manda 72 navi ai greci durante
l'assedio di Troia, i Selli custodi dell'oracolo della
pelasgica Dodona, come afferma Omero nel XVI
àtìVlliade (v. 234, 235), sono tutti nomi e fatti
e personaggi da relegarsi nel regno delle favole.
Dalle origini al iv secolo avanti Cristo. — Dalle
origini fino al iv secolo avanti Cristo la storia può
soltanto affermare con una certa sicurezza i fatti
seguenti.
Alle antiche tribù illiriche ed epirote vanno at-
tribuite le massicce mura a pietre poligonali so-
vrapposte senza cemento, che sogliono chiamarsi
6
— 82 —
pelasgiche o ciclopiche e di cui si trovano avanzi
qua e là nella bassa e nelFalta Albania, cioè nella
vallata di Paramitia ai piedi delle montagne di
Suli, sulle due rive della Vojussa, per esempio
presso il villaggio di Plotcha a 4 ore di cavallo
da Valona e tra le rovine di Byllis presso Gra-
ditsa, a Zalongo sulla destra del basso Luros,
nelle fondazioni della piccola città di Castritsa e
in alcune rovine presso la città a poca distanza
dal lago di Janina, ai piedi dei monti Mtctcheli.
In queste rovine il colonnello Leake nel 1835 aveva
creduto di riconoscere gli avanzi della famosa Hella
ó Dodona. Lo stesso Leake aveva trovati, qualche
chilometro a S O. di Castritsa, ai piedi dell' O/i-
tstca, in una valle che prende il nome dal villaggio
di Dramisious o Dramési, gli avanzi di un teatro
e di due templi e aveva supposto che questo fos-
se il sito di Passaron, capitale dei re Molossi. Ma
nuovi scavi misero quivi in luce nel 1877 non solo
parecchie antichità, ma anche due tavolette ex-voto
con iscrizioni a Giove Naios o Dione e molti fram-
menti di tripodi. Il sito dell'antica Dodona e del-
l'oracolo Dodoneo è quindi oramai definitivamente
accertato.
Sono di costruzione ciclopica anche le parti in-
priori delle muraglie del castello di Alessio, e le
reliquie del cosiddetto castello Gaetani a un'ora
da Scùtari. E poi facile scorgere come quel genere
di costruzione non sempre appartenga, in quei luo-
ghi, alla più remota antichità, ma siasi quivi conser-
vato anche in tempi nei quali altrove l'arte del co-
struire aveva fatti notevoli mutamenti e progres-
si; ed è ovvio dedurne la scarsa influenza che
-83 -
l'arte greca doveva aver esercitata in quelle con-
trade. Io credo che vadano pure attribuite agli
antichi Illirici le tombe di Comani (Alta Albania),
nelle quali il Console di Francia a Filippopoli A.
Degrand ha rinvenuti numerosi oggetti in ferro, in
argento e specialmente in bronzo (A. Degrand.
Souvenir s de la Haute' Albanie^ 1901, pag. 249-265).
Ad antichità remotissima, forse anteriore all'immi-
grazione illirica, appartengono invece certi monu-
menti megalitici (Dolmen e Menhir) che s* incontra-
no qua e là in Albania, come in tante altre con-
trade del mondo antico.
L'Epiro fu forse abitato da tribù elleniche prima
del passaggio neirElIade o Grecia, non potendosi
altrimenti spiegare il culto che i greci avevano
per Tantichissimo oracolo di Dodona, non infe<
riore per fama ed importanza agli oracoli di Delfo
e di Delo, e il fatto che anche altri nomi consacrati
dalla greca mitologia, l'Acheronte, la palude Ache-
rusia attraversata dall'Acheronte, il Oocito, gli
Elisi, r A verno ebbero origine in Epiro. In quei
luoghi cavernosi, dove in profondi abissi si get-
tano le acque del lago di Janina e del Lapscistas,
posero gli EUeni la discesa all'Averno, ossia ai
regni di Ade o Plutone, mentre nei piani deliziosi
di Janina collocarono gli Elisi. Di qui il nome di
antica Eliade dato da Aristotile alla regione, dove
sorgeva la città di Hella.
La città di Phoenice, cui serviva di porto On-
ckesmo, nella Chaonia, non molto lungi dal lido
che guarda Corfù, doveva forse il suo nome a un
emporio dei più vecchi e famosi navigatori e
mercanti del mondo antico, dei Fenici.
- 84-
Più tardi i greci stabilirono importanti colonie ma-
rittime sulle coste illiriche ed epirotiche, quali : Pan-
dosia sull'Acheronte (Mavropotamo), antica colonia
dell'Elide; Ambracia^ oggi Arta, fondata dai Corei-
resi (ab. di Corcyra, ossia Corfù) nel 635 av. Cristo;
Epidamno o Dyrrachio (Durazzo) fondata dai Cor-
ciresi nel 627 av. Cristo; Elatria^ Elaea e Chimerion
sulle coste della Tesprozia, Apollonia presso la foce
deirApso (Semeni), Argos Amphilochion nell'Anfi-
lochia a oriente del golfo di Ambracia, tutte fon-
date da Corciresi e Corinzi, essendo i Corinzi alla
lor volta i fondatori di Corcyra o Corfù. — Ephyra
alla foce dell' Acheronte, ricordata nell' Odissea
d'Omero (1, 259, II, 328) non pare che fosse colonia
greca. Cosi anche non sembra che abbia fonda-
mento la tradizione derivata da un racconto di
Diodoro Siculo, che Lissos (Alessio) sia stata
fondata dai Siracusani ai tempi del tiranno Dio-
nisio il vecchio. I critici affermano che si tratta
di un errore di scrittura, e che invece di Lissos
deve leggersi /ssa, oggi Lissa, isola e città della
Dalmazia. Dal nome dell'antica Apollonia (oggi Poi-
lina) deriva probabilmente quella della medievale
e moderna Avlona (Valona), quantunque il luogo
dove oggi sorgono Valona e il suo scalo non sia
precisamente quello dove sorgevano la città ed il
porto dell'antica Apollonia.
Nel VI secolo av. Cristo i Galli, condotti da
Sigoveso, invasero e depredarono rillirio e forse
anche T Epiro.
Devcsi anche ricordare che durante il primo pe-
riodo della guerra del Peloponneso (432-422 av. C.)
alcune città e tribù della costa illirica ed epirota,
- 85 -
specialmente Epidamno o Dyrrachio ed Ambracia,
furono impegnate nel conflitto, che scoppiò fra i
Corciresi ed i Corinzi e fu cagione della guerra.
Il conflitto anzi ebbe principio nel 435, perchè i
Corinzi erano intervenuti a favore della fazione
democratica di Epidamno contro Taristocratica, la
quale era favorita dai Corciresi, per difenderla
contro la tribù illirica dei Taulanzi, che alcuni no-
bili fuorosciti avevano condotta ai danni della città.
Non insisterò per altro su questi fatti, perchè Epi-
damno ed Ambracia non erano allora città illiri-
che, ma greche.
Conquista macedone, — Come ognuno vede, i fatti
che ho accennati finora, sono per la massima parte
incerti e frammentari. La storia certa e continua del-
PlUirio comincia nel secolo IV avanti Cristo, allor-
quando le tribù illiriche assalirono la Macedonia e
furono respinte da Filippo il Macedone, padre di
Alessandro Magno, verso il 360 av. Cristo. Il re degli
miri Bardyles ritentò la prova nel 356, ma fu bat-
tuto nuovamente, e Filippo invase e conquistò
riUirio e lo annesse alla Macedonia, di guisa che
il nome della Macedonia fu da lui esteso fino al-
l'Adriatico e al porto di Durazzo.
I figli di Bardyles Clito e Glauco si ribellarono,
ma il figlio di Filippo, Alessandro, li, ridusse al-
l' obbedienza e costrinse gì' lUiri a fornirgli un
corpo di milizie ausiliari per la spedizione contro
la Persia (a. 334 av. Cristo).
Dopo la morte di Alessandro Magno grilliri
riconquistarono T indipendenza sotto la condotta
di Glauco, al quale successe il figlio Pleurate.
Agrom, succeduto a Pleurate, soggiogò l'Epiro,
- 86 -
s*impadroni di Corcira e guerreggiò colla Lega
etolica allora dominante nella Grecia centrale (a.
250). La capitale dell*Iilirio era a quei tempi
Scodra (Scutari).
La regina Teuta. Roma e gPIlliri, — Alla morte
di Agrom la vedova di lui Tenta assunse la reg-
genza in nome del figlio minorenne di Agrom
Pineas, nato dalla prima moglie del morto re
(a. 232). Questa bellicosa regina, assalite le isole
della Dalmazia e della Liburnia, nidi di pirati, le
aveva già ridotte nel 230 sotto il suo dominio
tutte tranne Issa (Lissa), che aveva deliberato di
bloccare in persona, quando giunsero al suo co-
spetto due legati o ambasciatori, Cajo e Lucio
Corunciano, che Roma le inviava per querelarsi
con essa delle piraterìe illiriche. Tenta rispose
che i re degriUirii non erano soliti impedire ai
proprì sudditi di far uso del mare. Mosso a sde-
gno da questa risposta, il più giovane dei due
Corunciani esclamò : « Se tali sono gli usi degl* II-
liri, i romani non indugeranno a prestarti aiuto
per correggerli. » Tenta indignata alla sua volta
per questa acerba ironia, non appena i due am-
basciatori furono partiti, diede ordine che s'inse-
guissero e si uccidesse il più giovane.
Intanto dopo la resa d*Issa Tenta aveva prose-
guite le sue conquiste e si era impadronita della
greca Dyrrachio e di Corcira e minacciava TEpiro.
Allora gli Epiroti chiesero aiuto a Roma, e il S&i
lUito accolse subito la domanda. Due consoli ro-
mani comparvero con grandi forze di terra e dt
mare innanzi a Corcira, che Teuta aveva dato a
governare a un greco suo confidente, che aveva
-87-
nome Demetrio di Faro. Costui consegnò Corcira
ai Romani senza nemmeno tentare di difenderla,
e Teuta fu costretta da questo e da altri successi
dei Romani a chiedere la pace. Essa dovette ce*
dere Corcira e la parte meridionale del suo stato,
che furono date a governare a Demetrio sotto la
protezione dei Romani: dovette inoltre pagare un
tributo e promettere che griUirii non sarebbero
comparsi mai a mezzodì di. Lissa con più di due
barche alla volta.
Un'invasione della Macedonia tentata dagrillirii
nel 221 fu respinta dal re macedone Antigono Do-
sone. Di li a qualche tempo Teuta mori, e Deme-
trio occupò tutto lo Stato, cercando nel tempo
stesso di sottrarsi al predominio dei Romani. I
Romani gli mossero guerra, lo cacciarono dal re-
gno, che tornò al legittimo erede di Agrom, Pi-
neas, sempre sotto la protezione di Roma. Deme-
trio, costretto a fuggire, erasi recato alla corte di
Filippo V di Macedonia, allora in guerra coi
Romani. Filippo non solo ricusò di consegnarlo ai
Romani, che glielo richiedevano, ma ne fece il suo
principal consigliere (216 av. Cristo).
Durante le guerre macedoniche tra Roma e Fi-
lippo V gli Illirii stettero per i Romani, e qualche
importante avvenimento si compiè neirillirio.
Eesendosi indotto Filippo V ad allearsi con An-
nibale cartaginese durante la guerra che questi
conduceva contro la potenza romana nell'Italia
meridionale, fu tra l'altro convenuto fra i due al-
leati che sul trono d'Ulirio sarebbe stato ricollo-
cato Demetrio, e l'Epiro sarebbe passato sotto il
dominio di Filippo. Costui erasi quindi spinto con
— 88 —
un forte esercito sino ad Apollonia, ed aveva oc-
cupato Lissos ed altre città dell' lUirio, pronto a
passare in Italia in soccorso di Annibale, quando
il pretore Marco Valerio con una piccola squadra
sorprese alla foce del fiume Aoo (Vojussa) le navi
del re macedone, e lo costrinse a bruciarle tutte
e a ritornare in fretta nel suo regno, dove i Ro-
mani Io tennero a bada suscitandogli contro la
Lega degli Etoli e Attalo re di Pergamo nell'Asia
Minore. Qualche anno dopo (205 av. Cristo) a
Dyrrachio fu conchiusa la pace per opera del con-
sole Publio Sempronio Tuditano tra Roma e Fi-
lippo, e cosi ebbe fine quella che suole chiamarsi
la i^ guerra macedonica.
Scoppiata la seconda guerra pei subdoli maneggi
di Filippo, il console Publio Scipione Galba sbarcò
ad Apollonia (a, 200), e al principio dell'anno se-
guente, guidato dagrillirii, si avanzò sin nella valle
deU'Axio (Vardar); ma non avendo potuto indurre
Filippo a scendere in campo aperto, se ne tornò
per la valle dell' Apso (Ergent e Semeni) ad Apol-
lonia senza aver nulla conchiuso. Il suo successore
Publio Villio Tappulo nel 198 risali la valle del-
l' Aoo coll'intenzione di passare dall'Epiro in Tes-
saglia attraverso alla catena del Pindo, e trovò
Filippo fortemente trincerato in un'angusta gola
della detta valle. Si accingeva ad assalirlo, quando
gli giunse la notizia che il nuovo console Tito
Quinzio Flaminino era giunto a Corcira per assu-
mere il comando.
Flaminino, consigliato da Epiroti esperti dei
luoghi e specialmente da un tal Caropo, principe
epirota ch'era tenuto in molta considerazione dalle
-89-
tribù deirEpiro, riusci a far pervenire 4000 fanti
e 300 cavalli sulle alture che dominavano il campo
dei nemici. Filippo fu battuto, e colle reliquie del
suo esercito si ritrasse in Tessaglia, dove Flami-
nino non tardò ad inseguirlo. La guerra fu quindi
trasportata in Tessaglia.
// re Genzio - Vlllirio provincia romana, — Re-
gnava allora neiriilirio Pleurate II, succeduto a
Pineas. A Pleurate II successe Genzio, che fu l'ul-
timo re degli lUirìi, e pose la sua sede a Lissos
(Alessio) ritolta ai Macedoni. Costui fu un despota,
che non seppe farsi amare dai suoi sudditi. Inoltre
tornò a incoraggiare con tutte le sue forze la pi-
rateria, e da ultimo si collegò con Perseo re di
Macedonia in guerra coi Romani. L'anno 168,
mentre il console Lucio Paolo Emilio, sbarcato a
Dyrrachio, recavasi a combattere Perseo in Mace-
donia e in Tessaglia, il pretore Anicio Gallo, coi^
1000 fanti e 300 cavalli, fermavasi ncirillirio per
assalire il re Genzio, che di lì a poco fu costretto
a rinchiudersi in Scodra, e dopo alcune infruttuose
sortite dovette arrendersi a discrezione. Genzio
adornò colla sua moglie Etleva il trionfo del vin-
citore, e riUirio divenne provincia romana. Gli
abitanti di Ulcinio (Dulcigno), che durante la
guerra avevano parteggiato per Roma, ottennero
speciali privilegi.
Assai più gloriosa di fronte a questa antica
storia deinUirio è quella deirEpiro per un famoso
personaggio, che gli Albanesi giustamente esal-
tano come un eroe della loro schiatta. È questi
il re Pirro, che fu il più singolare venturiero del-
l'antichità.
- 90 -
V Epiro - Alessandro Molosso. — Anche la storia
deirEpiro non ci appare certa e continua prima
dei IV secolo avanti Cristo, nel quale cominciano
a dominare su tutto TEplro la tribù dei Mo-
lossi e una dinastia uscita dal grembo di questa
valorosa tribù. Tutte le tribù epirote furono in-
fatti ridotte sotto il proprio scettro dal re dei
Molossi Alessandro, cognato di Filippo di Mace-
donia, padre di Alessandro Magno. Ond*è che gli
Shkipetari a ragione affermano che Alessandro
il grande, pur non tenendo conto della stretta affi-
nità etnica fra i Macedoni e griUiro-epiroti, aveva
nelle vene sangue albanese, giacché la madre di
lui, Olympia, era appunto sorella del re dei Mo-
lossi, divenuto ormai re deirEpiro. È noto inoltre
che Olympia era donna violenta e imperiosa ed
oltremodo superba della nobiltà della sua stirpe,
che vantavasi di discendere da Pirro, figlio di
Achille.
Alessandro, re delFEpiro, morì nel 326 avanti
Cristo, e gli successe Eacide, e ad Eacide Alceta,
dopo il quale sali al trono il celebre Pirro, che
non dimorò lungamente nel paese, perchè la sua
brama di gloria e di avventure lo spinse in cerca
di lontane imprese e lo trasse finalmente a morire
lungi dalla patria.
Nella battaglia d*Ipso combattuta fra i diadochi
o successori d*Alessandro Magno per dividersi
rimpero macedone, Pirro, giovinetto di appena
17 anni, pugn^ da valoroso al fianco di Demetrio
Poliorcete, figlio di quell'Antigono re di Siria che
era uno dei diadochi e perdette in quella battaglia
la vita (anno 305 av. C). Passato quindi in Egitto,
-gi-
ove regnava Tolomeo Sotero, figlio di Tolomeo
Lago, altro dei diadochì, Pirro trovò grazia presso
la regina Berenice, la quale gli diede in moglie
la propria figlia Antigone. Pochi anni dopo, di-
venuto re d'Epiro, alla morte del fratello Alceta,
lo troviamo in Macedonia, dov'era sorta contesa
per la successione tra i figli del re Cassandro,
morto nel 297, i quali avevano appunto fatto ap-
pello a lui ed a Demetrio Poliorcete. Pirro vi
giunse prima e tentò una spartizione dei regno
fra i contendenti; ma Demetrio Poliorcete, essendo
poi sopraggiunto con forze preponderanti, costrinse
Pirro, un dì amico suo, a ritirarsi e assunse per
se medesimo il regno di Macedonia, che tenne
sette anni (294-287). Demetrio venne in uggia ai
suoi sudditi per Talterigia e l'arroganza dei modi
e per la pazza e sfrenata prodigalità cui erasi ab-
bandonato; ond*è che, quando nel 287 Pirro si
presentò a contendergli il trono, i Macedoni affa-
scinati dall'indole generosa e affabile e dall'audace
valore del re d'Epiro, lo accolsero come un libe-
ratore e abbandonarono tutti Demetrio, che fu co-
stretto a fuggire. Ma nemmeno Pirro riusci a
mantenersi lungamente sul trono di Macedonia e
ne fu cacciato alla sua volta dopo soli sette mesi
da Lisimaco re delh Tracia e dell'Asia Minore.
Tornato in Epiro Pirro visse in pace alcuni anni,
abbellì Ambracia e ne fece la metropoli del suo
regno, edificò Berenicia (oggi Prevesa) e regnò
splendidamente. Ma l'indole instabile e la irre-
quieta giovinezza non gli permettevano di godersi
una lieta tranquillità.
Egli aveva sposato in seconde nozze la figlia di
- 92 -
Agatocle, tiranno di Siracusa, morto nel 289 av. C.
e famoso per aver cacciati i Cartaginesi dalla Si-
cilia assalendoli nella stessa Africa. Di guisa che
quando gli giunse dagli abitanti della colonia do-
rica di Taranto, in guerra con Roma, Tinvito di
recarsi in Italia a difenderli, egli, desideroso di
emulare la gloria del suocero, e memore del pro-
posito di Alcibiade e di Alessandro, che avevano
mirato^iroccidente come a un nuovo campo di
guerre e di trionfi, non tardò ad accogliere le sol-
lecitazioni dei legati di Taranto. Dopo aver debel-
lati i Romani e i Cartaginesi e aver ridotto sotto
il proprio dominio la Magna Grecia (Italia meri-
dionale e Sicilia) e la Libia, egli vagheggiava di
tornarsene carico d'allori a dominare la Grecia
tutta, a dettar patti agli esausti monarchi della
Macedonia e dell'Asia. Questi sogni Pirro rivelò
un giorno con sicura fede nel successo della pro-
pria impresa, come narra Plutarco nella vita di
lui, al suo fido consigliere Cinea; e avendogli
Cinea domandato : « Ma ottenuto tutto questo che
farem noi> » a Riposeremo in pace, egli rispose,
passando il tempo fra divertimenti e conversazioni
filosofiche. 9 « E chi c'impedisce di farlo subito,
soggiunse Cinea, mentre abbiamo agi e comodità >
A qual fine andremo, se cosi è, a spargere il san-
gue, a sostenere travagli e fatiche, ad incontrare
pericoli, a fare e a riportare molti mali> » « Per
la fama e per la gloria! conchiuse Pirro: e in
queste parole era Tuomo, era il principe.
Volgeva alla fine l'anno 28 1 e Pirro non aveva
che 38 anni, quando con una forza di 20,000 uo-
mini ordinati in falangi alla maniera dei Mace-
- 93 -
doni, 20éo arcieri, 500 frombolierì, 3000 cavalli e
20 elefanti approdò a Taranto, che subito costrinse
ad abbandonare le sue mollezze ed a partecipare
alla guerra con uomini e denaro.
c( Codesti barbari non sono barbari diss*egli,
quando si trovò per la prima volta di fronte ai
Romani e scorse i loro accampamenti e li vide
ordinati in battaglia; e due volte in vero li vinse,
ad Eraclea e ad Ascoli di Apulia, ed ambedue le
volte tanta fu la strage dei suoi, che la frase
Vittoria dì Pirro passò in proverbio per indicare
un successo ottenuto a caro prezzo.
E insieme al valore dei Romani egli ebbe anche
a sperimentarne ben presto la virtù. La incorrutti-
bilità di Fabrizio, T inflessibile dignità del popolo
e del Senato di Roma, col quale invano trattò di
pace e di accordi a mezzo di Cinea, e infine la
generosa condotta dei consoli romani, i quali gli
fecero sapere che il suo medico aveva offerto di
avvelenarlo, lo indussero a fare una tregua per
il momento senza condizioni, per passare in Sicilia
al comando di un esercito greco-siculo contro i
Cartaginesi e i Mamertini (a. 278). Dopo aver com-
battuto in Sicilia con varia sorte, mortogli Cinea
e tratto sempre a cambiar partito dalla sua insta-
bile natura, abbandonò l'isola, e tornò a tentare
la fortuna in Italia. Ma la fortuna non gli fu pro-
pizia, e presso Benevento fu battuto dal console
Curio Dentato, avendo i legionari romani con frecce
avvolte in stoppa ardente spaventati gli elefanti,
che volgendosi indietro misero lo scompiglio tra
le file degli Epiroti (a. 276).
Dopo la disfatta di Benevento Pirro si ritrasse
- 94 -
a Taranto e mandò a chiedere aiuti in Macedonia
ed in Siria. Non avendone potuti avere, lasciò a
Taranto un piccolo presidio e salpò per l'Epiro,
e là avuta notizia che Antigono Gonata, figlio di
Demetrio Poliorcete, si era impadronito del regno
di Macedonia fin dal 278, volle contendergliene
il possesso. Si guerreggiò per due anni, dal 274
al 272, e la lotta fra i due emuli ebbe fine in Argo.
Pirro infatti era entrato nel Peloponneso per sog-
giogare le città che parteggiavano pel Macedone.
Fallitogli un tentativo contro Sparta, si volse
contro Argo, alla cui volta mosse pure Antigono
con tutte le sue forze. I due eserciti entrarono
nella città dà due opposte parti e pugnarono per
le strade, finche Pirro, colpito alla testa da un
tegolo che una donna aveva scagliato dal tetto
dèlia propria casa, cadde da cavallo e fu messo
a mòrte da alcuni soldati di Antigono. Questa fine
miseranda ebbe uno fra i più valorosi e intra-
prendenti capitani deirantichità, il migliore senza
dùbbio dei principi del suo tempo, ammiratore
dei propri nemici, se come lui valorosi, e da essi
ammirato; ma troppo impetuoso, troppo incostante
nei suoi propositi, troppo intollerante dell'avversa
fortuna per potersi assicurare la fiducia degli amici
e il successo delle belle imprese, immaginate più
per vaghezza di gloria che per ponderata ambi-
zione. Come Riccardo I d'Inghilterra e Carlo XH
di Svezia egli vinse molte battaglie, ma non seppe
mai cogliere il frutto delle vittorie, e finì inglorio-
samente una vita trascorsa in mezzo ai pericoli,
senza che la storia abbia potuto registrare il nome
di chi l'uccise.
- 95 -
. U Epiro e i Romani, — A Pirro successe nel 373
suo figlio Alessandro, cui tennero dietro Pirro II e
Tolomeo, col quale si estinse la discendenza di Ales-
sandro Molosso (335 av. C). Le tribù e le città del-
TEpiro tornarono allora a governarsi ciascuna per
conto proprio, ed essendosi inimicate colla Lega
etolica^ salita verso quell'epoca a notevole potenza, e
avendo stretta alleanza contro gli Etoli con Filippo V
di Macedonia e con la Lega Achea, gli Etoli invasero
TEpiro e distrussero nel 319 il tempio di Giove
a Dodona, che per altro venne più tardi restaurato.
Scoppiate qualche anno dopo le ostilità tra Fi-
lippo V e i Romani, le tribù e le città dell'Epiro
accettarono di buon grado la protezione di Roma,
ed aiutarono anche talvolta, come già sappiamo,
i Romani nelle guerre contro la Macedonia. Ma
nell'ultima di queste guerre contro gli Epiroti
furono compromessi da Cefalo, un principe che
godeva tra le tribù dell'Epiro la stessa considera*
zione che aveva goduta quel Caropo, di cui parlai
nella guerra tra Filippo V e il cònsole Flaminino.
Cefalo infatti si obbligò con Perseo, re della Ma-
cedonia, a sollevare l'Epiro contro i Romani.
V Epiro provincia romana» Ulllirio e l'Epiro sotto
la dominazione di Roma, — Sconfitto Perseo nella
disastrosa giornata di Pidnà (168 av. C), Cefalo e gli
altri capi delle tribù insorte delFEpiro cercarono
volontariamente la morte : ma questo non bastò ad
appagare il Senato romano ed il condole Paolo
Emilio. Per ordine del console furono distrutte le
mura di tutte le città dell'Epiro, vennero obbUgati
gli abitanti a consegnare quanto possedevano di più
prezioso, e ben 150,000 di quegli infelici vennero
-96-
tratti in prigionia e venduti schiavi. L*Epiro, ridotto
in provincia romana come rillirio, diventò una de-
solata regione, e solo seguitarono a prosperare col
favore di Roma le città della costa o prossime alla
costa: Avlona, Oricon, Amantia, Phoenice, Butrotum,
Pandosia e la stessa Ambracia, quantunque assai
decaduta dallo splendore dei tempi di Pirro. Fioriro-
no altresì le città costiere dell* lUirio: Scodra, Sardos,
Lissos, Dyrrachion, Apollonia, Byllis. Certo è d'al-
tra parte che anche al tempo dei Romani le tribù
illiriche ed epirote dell' interno rimasero in quella
condizione di quasi indipendenza, ch'esse hanno
saputo conservare più o meno attraverso a tutte
le dominazioni, che si proclamarono e furono ri-
conosciute padrone di quelle contrade. Il fatto che
la lingua degli Illirici non subì radicalmente l'in-
fluenza latina e la migliore prova di siffatta affer-
mazione. Il dominio sicuro ed assoluto della costa
era quello che premeva ai Romani. Giulio Cesare
infatti ridusse a colonia romana Butrotum. Più
tardi delle colonie romane furono pure condotte
a Scodra e ad Antibarum (Antivari). Scodra co-
niò persino monete proprie. D'altro canto Apollo-
nia, Dyrrachion ed Oricon, in fondo al golfo for-
mato dal capo Linguetta, divennero porti as^ai
frequentati dai Romani nelle loro relazioni con
la Macedonia, con la Tessaglia e in genere con
tutto l'Oriente europeo, Nell'lllirio aveva perciò
principio la grande strada, che metteva in comu-
nicazione l'Oriente con i porti italiani ed illirici
dell'Adriatico, la famosa Via Egnazia (Aegnatia),
A Brindisi (Brundusium) infatti, sulla costa italica,
faceva capo la Via Appia, e un breve tratto di mare
- 97 -
separava il porto di Brindisi da quelli di Dyrrachio
e d* Apollonia. Da queste due città movevano poi
due rami della Vìa Egnazia per congiungersi a Co-
dana sul Genuso (Shcumbi), donde la detta via pro-
seguiva per Scampa (Elbassan), e girando la punta
settentrionale del lago Lycnis, toccava Lycnido
(Derida), Eraclea, Tessalonica (Salonicco), Amphì-
polis, per terminare a Byzanzio (Costantinopoli). La
Via Egnazia era insomma la via che doveva più
rapidamente condurre Je legioni romane in Tes-
saglia ed in Grecia, nella Macedonia e nella Tracia,
sulle rive del Danubio e sulle spiaggie dell'Egeo,
della Propontide, del Bosforo e del Ponto Eusino
(Mar Nero). Questo carattere esclusivamente mili-
tare e niente affatto commerciale della Via Egnazia
spiega il come e il perchè neppure al tempo dei
Romani Tlllirio e TEpiro abbiano raggiunta una
vera e propria importanza commerciale ed econo-
mica. È da notare inoltre che, come i Greci non
si curarono d'introdurre la civiltà e la coltura nel-
rinterno del paese, così non se ne curarono i
Romani.
Ad Apollonia venne ad imbarcarsi coi suoi le-
gionari Cornelio Siila, reduce dalla guerra mitri-
datica combattuta in Grecia e nell'Asia Minore
(a. 83 av. C). La città di Apollonia fu anche
centro di studi, e il giovane Ottaviano vi studiò
retorica. Oggi un convento sorge sul luogo della
fiorente Apollonia. Di antichi avanzi non e' è che
una colonna dorica logorata dal tempo.
Oltre che nelle guerre macedoniche anche nelle
guerre civili che tra Cesare e Pompeo, fra Otta-
viano ed Antonio, in Tessaglia e in Macedonia,
7
-98-
e vicino alle spiagge illiriche ed epirote per terra
e per mare si combatterono, i porti e le città del-
rillirico e dell'Epiro (Durazzo specialmente, Apol-
lonia ed Orico) ebbero grande importanza come
luoghi di approdo e basi di operazioni militari. Il
primo periodo della guerra tra Cesare e Pompeo,
come Cesare stesso racconta nei suoi Commentari,
si svolse nell'Epiro, attorno a Durazzo e sulle rive
dell'Apso. Di là Cesare, risalendo la valle dell' Aoo,
trasportò la guerra in TQ3saglia. In Orico Giulio
Cesare pose il suo quartiere generale prima di
muovere contro Pompeo a Durazzo. Quivi si trattò
anche, ma inutilmente, la pace. Nel porto di Orico
la squadra Cesariana, affidata da Cesare al suo
luogotenente Acilio, quantunque tirata a terra e
difesa da tre coorti, venne distrutta da Sesto figlio
di Pompeo. Più tardi da Apollonia, dove si tro-
vava a studiare, il figlio adottivo di Cesare, Otta-
viano, corse a Roma dopo la uccisione del Dittatore.
Durante la contesa fra Antonio ed Ottaviano
Durazzo segui la parte di M. Antonio, e all'in-
gresso del golfo di Ambracia fu combattuta nel
31 av. C. la famosa battaglia d'Azio. A perpetuo
ricordo di questa vittoria, che gli fruttò il titolo
di Augusto e l'impero di Roma, nello stesso
anno 31 Ottaviano gettò le fondamenta di una
grande città, Nicopolt (città della Vittoria) a set-
tentrione di Berenice (Prevesa) fondata da Pirro
e rimasta senza importanza. Nicopoli, proclamata
colonia romana, divenne la prima città non solo
dell'Epiro ma di tutta la Grecia occidentale, e tale
si mantenne fino al medio evo. Nel medio evo
decadde e si spopolò, e delle mura, dei teatri.
_ 99 -
delie terme e dei palagi marmorei che l'adorna-
vano oggi non rimangono che le rovine: magni-
fiche rovine che destano tuttora la meraviglia del
viaggiatore e dell'archeologo. Anche di altre an-
tiche città epirote oggi restano notevoli reliquie,
cioè di Amantia, di Byllis e di Cassope, capitale
dei Cassopei*
Augusto stabilì pure una festa quinquennale in
onore di Apollo Aziaco a Nicopoli in comptiemo-
razione della sua vittoria.
È noto inoltre che Durazzo accolse per breve
tempo Cicerone esule da Roma poco prima del
suo richiamo in patria.
Men certo si è che alcune città dell'IUirio pro-
priamente detto abbiano dato i natali ad alcuni
imperatori dell'epoca romana e bizantina, vale a
dire Antivari a Diocleziano, Prizrend a Giuliano
Vapostata e Ocrida o Uskub a Giustiniano. Le
fonti più autorevoli dicono invece Giustiniano na-
tivo della Mesia e propriamente di un piccolo
villaggio dov'egli, divenuto imperatore, fece co-
struire la città di Justmtana, oggi Kustendil (Bul-
garia). Giuliano Tapostata si ritiene piuttosto na-
tivo di Costantinopoli, dove vide la luce il 6 no-
vembre 331. Diocleziano infine vuoisi con maggior
probabilità che sia nato presso Salona in Dalmazia.
Egli era per altro oriundo di Dioclea Doclea,
le cui rovine esistono col nome di Dukla presso
il confluente dei fiumi Zeta o Zedda e Moraccia
nel Montenegro. Doclea apparteneva realmente al-
l' Illirio, e può considerarsi come compresa entro i
confini della vecchia Albania prima che l'elemento
serbo sostituisse nel Montenegro T illirico.
— 100
Agli albori del Cristianesimo rillirio e TEpiro
furono probabilmente visitati dal 1- apostolo San
Paolo e dai suoi compagni, che sbarcarono ad
Apollonia per recarsi di là in Macedonia, neiril-
lino e nell'Epiro, e i vescovi illirici ed epiroti
compaiono frequentemente nella storia dei primi
sette secoli del Cristianesimo, e specialmente nella
storia dei Concili, come partigiani ferventi della
fede cattolica.
In conclusione, tranne alcuni fatti che riguar-
dano la storia ecclesiastica, nuU'altro abbiamo dal
I secolo dell'era volgare al iv, da Augusto a Teo-
dosio, che meriti attenzione e ricordo neirillirio
e nell'Epiro.
Capitolo IL
La dominazione bizantina - I Bulgari, i Serbi, i
Normanni - Manfredi, gli Angioini, i Duchi di
Durazzo - La dinastia dei Baisela e altri dinasti
albanesi - I Turchi e la Repubblica di Venezia
(a. 395-1421 dell'E. V.).
La dominazione bizantina. — Allorché, dopo la
morte di Teodosio il grande (a. 395 d. C.) l'Impero
romano fu definitivamente diviso tra i suoi due
figli Arcadio ed Onorio, e al primo toccò l'Oriente,
l'Occidente al secondo, l'Albania, che non aveva
ancora questo nome, fu aggiudicata airimpero orien-
tale o bizantino e obbedì agl'imperatori di Bisanzio
(Costantinopoli). Essa faceva parte allora della
Prefettura dell'/Z/ir^'co, che dicevasi orientale per
riicn'nguerlo dall'/Z/ir/co occidentale (Dalmazia, Li-
lOI —
burnia, Paniionia), ch*era una diocesi della Prefet-
tura d'Italia, spettante airimpero d'occidente. Ol-
tracciò r Albania era divisa in tre provincie : Talta
Albania dalle valli della Zeta e della Moraccia
(nell'odierno Montenegro) allo Shcumbi col nome
di Prevalitana {Praevalts o Praevalitana), la media
Albania dallo Shcumbi alla Vojussa col nome di
Nuovo Epiro, la bassa Albania dalla Vojussa al
golfo di Arta col nome di Vecchio Epiro.
I Goti. — Ai Visigoti, tribù germanica ch'era
stata accolta nelle terre dell'Impero dall' impera*
tore Valente (a. 276 d. C.) e alla quale era stata
assegnata dapprincipio come sede la Mesia (oggi
Bulgaria), Arcadio concesse di stabilirsi appunto
nella Prevalitana e nell'Epiro. Di là il famoso Ala-
rico mosse una prima volta, nel 402, poi, fallita
questa impresa, una seconda volta nel 409 alla con-
quista di Roma. Fu questa la prima occupazione
barbarica toccata a quelle provincie dell'Impero.
Liberate dai Visigoti, che dall'Italia passarono di
poi nella Gallia e nella Spagna, la Prevalitana e la
provincia d*Epiro restarono unite, com'erano fin dal
395, airimpero d'Oriente o greco o bizantino che
dir si voglia. Nel 481 le visitarono gli Ostrogoti,
che avevano alla lor volta valicato il Danubio e
presero per assedio Durazzo. Ma anche gli Ostro-
goti passarono verso la fine del V secolo in Italia,
e l'Epiro e la Prevalitana ancora una volta fu-
rono libere. Se non che Teodorico, re degli Ostro-
goti e conquistatore dell'Italia, avendo estesa sul
principio del VI secolo la propria dominazione
nella Liburnia, nella Dalmazia, nella Pannonia e
in tutto rillirico fino al Danubio, anche la Pre-
— 102 —
valitana venne sotto la sua giurisdizione. Proba-
bilmente fu sua anche la città di Durazzo, dove
la figliuola di lui Amalasunta avrebbe tenuto, se-
condo la tradizione, palazzo e corte. L'Adriatico
trovavasi così in tutta la sua estensione, dal ca-
nale di Otranto al golfo del Quarnero, sotto il
dominio dei Goti.
Di nuovo la dominazione bizantina. — L'impera-
tore Giustiniano (a. 527-565) ritolse, per opera
di Narsete, agli Ostrogoti insieme àiritalia anche
le regioni della penisola balcanica eh* essi ave-
vano assoggettate, e sulle terre costiere del mare
Adriatico e dello Jonio dominò per qualche tempo
la sola Bisanzio. Lo stesso Giustiniano eresse
nella Prevalitana e nell'Epiro, come nelle altre
Provincie del suo Impero, numerosi castelli forti-
ficati come luoghi di rifugio e di difesa contro le
irruzioni dei barbari. È opera dell'imperatore Giu-
stiniano l'antico acquedotto, che mena l'acqua po-
tabile a Uscub da una distanza di due ore e mezza.
Presso la città l'acquedotto attraversa una piccola
vallata sopra un'alta galleria con 120 arcate.
Giova ricordare che, durante la guerra tra gli
ostrogoti e i bizantini, il re Totila venne con una
armata a devastare le coste dell'Epiro, ma, come
ho detto, gli ostrogoti furono battuti da Narsete
(a. 552-554), e per un pezzo nessu n'armata navale
salpò dalle coste italiane alla conquista dell'Al-
bania. I conquistatori vennero invece dalle terre
danubiane.
/ Serbi, — Nella prima metà del vn secolo, re-
gnante l'imperatore Eraclio I, comparvero i serbi,
ch'erano un popolo slavo, e invasero ed occupa-
- 103 -
rono, oltre il paese che da essi ebbe il nome di
Serbia, la Bosnia, la Dalmazia e l'Albania setten-
trionale.
Ai serbi seguirono in quello stesso secolo i
Croati, altro popolo slavo; ma nella Prevalitana
i Serbi prevalsero, per altro soltanto nelle pia-
nure, che le tribù illiriche delie montagne rima-
sero indipendenti o semi-indipendenti, quali erano
su per giù anche sotto i romani e i bizantini. I
capi o principi serbi si chiamavano zupani e solo
nelFxi secolo su tutti gli altri zupani primeggiò
Stefano Dobroslaw, il cui figlio Michael (1050-80)
prese il titolo di re (Kralj) ed ebbe confermato
questo titolo dal pontefice romano Gregorio Vii.
A quel tempo T Albania settentrionale e parte del
Montenegro obbedivano a un proprio principe o
zupanot che riconobbe Talta sovranità di Michael;
e la residenza di questi principi serbi dominanti
suiralta Albania era Scutari. An ti vari ad essi ap-
parteneva.
Leggendaria origine dei Mirditi. — Spetta pure
al secolo VII un fatto al quale si vorrebbe da
taluno riconnettere Torigine della valorosa tribù
Shkipetara dei Mirditi.
Nel VII secolo, essendo imperatore d'Oriente
Giustiniano II, gli Arabi invasero la Siria e co-
strinsero le popolazioni cristiane del Libano ad
emigrare. 1 20,000 Mardaiti o Maroniti, dice una
leggenda tutt'altro che popolare e da nessun do-
cumento storico confortata, furono allora traspor-
tati per ordine di Giustiniano II sull'altipiano
albanese, in cui abitano tuttora col nome di Mir^
diti^ fedeli sempre come allora alla Chiesa di
— I04 —
Roma. Ma questa non può essere che una fiaba,
derivata dalla somiglianza dei nomi, come la pre-
tesa di ricongiungere gli albanesi d'Europa agli
albani del Caucaso e i Gheghi, i Ljapi e i Ciami
ad altre popolazioni caucasee, nei cui nomi s'in-
contrano delle assonanze coi nomi suddetti più
che delle affinità glottologiche che possano essere
con rigore scientifico dimostrate. I mirditi parlano
inoltre il puro albanese della Ghegaria e non una
sola parola o forma di linguaggio semitico con-
forta la loro pretesa origine siriaca. Essi presen-
tano qualche differenza dagli altri Shkipetari nei
costumi e nella foggia del vestire; ma nulla v'ha
in quei costumi e in quelle vesti che sappia di
asiatico. Nelle tradizioni del popolo nessun ri-
cordo del Libano. All'incontro una tradizione del
paese afferma che i mirditi derivino da quei Du-
cadginz, che si rifugiarono dopo la morte di Scan-
derberg (1467) sui monti della Mirdizù e quivi a
lungo difesero la propria indipendenza. In ap-
poggio di questa tradizione starebbero i seguenti
fatti. I mirditi abitano ancora accanto alla tribù
dei ducadgini loro costanti amici ed alleati. I mir-
diti osservano tuttora nella sua più pura forma la
semplice e austera legge di Lek Ducadgin^ del
quale avrò occasione di parlare in questo stesso
capitolo e nel seguente. Dei mirditi non si trova
menzione documentata prima del secolo xvi. Il
loro nome significa in lingua albanese: a i bravi,
i valorosi, »
/ Bulgari, — Fin dal vii secolo anche la media
e la bassa Albania, che costituivano tuttora due
Provincie bizantine, le cui metropoli erano NicopoH
— 105 —
e Duraz70, furono occupate dai barbari. Le invasero
i bulgari^ popolo di origine asiatica (gruppo uralo-
altaico) che si uni a genti slave e ne adottò la lin-
gua, la religione e i costumi. Il famoso Stmeon,
primo zar dei bulgari, che aveva estera la propria
signoria sulla Tracia, la Macedonia e la Tessaglia,
si spinse tra il 914 e il 927 fino a Butroto, a
Chimara, ad Avlona, e le conquistò. Gli successe
Peter (927-969), sotto il quale Timpero bulgaro si
divise in due: il regno dell'est e il regno del-
l'ovest. Il regno dell* ovest ebbe per capitale
Ocrida e fu il più potente. Oggi si ammira an-
cora presso Ocrida il vasto convento di San
Naum, che risale all'epoca del regno bulgaro ed
è uno dei più ricchi della Macedonia. La stessa
Durazzo fu presa dallo zar Samuele (977-1010).
Per altro, vivo ancora Samuele, Basilio II, im-
peratore bizantino, assali il regno degli Zar bui*
gari e riusci finalmente ad abbatterlo. L'ultimo
zar fu Johann Wladislaw. La provincia o Thtma
di Durazzo fu subito ricostituita.
Gli Amalfitani e i Ragusei, — Notevoli commerci
iniziarono allora nel porto di Durazzo i mercanti
della famosa repubblica italiana di Amalfi sul
golfo di Salerno e quelli di Ragusa in Dalmazia.
I Ragusei riuscirono anzi ad estendere in seguito
i loro commerci anche nell'interno dell'Albania e
a mantenervisi più a lungo degli Amalfitani, la
cui potenza commerciale ebbe fine proprio nel
secolo XI. Nel bazar di Uscub si addita oggi un
vecchio Han (specie di Caravanserraglio, ossia di
albergo e magazzino ad un tempo per mercanti e
mercanzie), che nel medio evo ed anche più tardi
— io6 —
servi di residenza e di deposito ai mercanti ra-
gusei. E noto infatti che l'attività commerciale
degli abitanti di Ragusa non ebbe fine che al
principio di questo secolo, dopo che a Ragusa fu
tolta la sua «ecolare indipendenza da Napoleone T.
Ragusa per altro non coltivò in Albania che i suoi
interessi commerciali. Essa non aspirò mai, come
Venezia, a domini territoriali.
/ Veneziani e gli Ungheresi, — Infatti fin dal
secolo XI volsero le loro mire a Durazzo anche i
Veneziani e persino gli Ungheresi, ma né gli unì
né gli altri riuscirono a stabilirvisi solidamente.
Gli Albanesi e lo scisma d'Oriente. — Durante lo
stesso secolo xi, per lo scisma d'Oriente che se-
parò la Chiesa greca dalla romana, si determinò
neir Albania la prima scissura religiosa, giacché
le tribù toske aderirono alla Chiesa bizantina, men-
tre le gheghe rimasero fedeli alla romana.
/ Normanni. — Sulla fine del secolo xi si get-
tarono sull'Albania con rapida, ma passeggera for-
tuna, i Normanni, una gente germanica originaria
della Scandinavia che aveva dato il nome alla
Normandia francese. Dalla Normandia di Francia
buon numero di Normanni passò alla conquista
dell'Italia meridionale, e di là a quella deiriUirio e
dell'Epiro, giacché era naturale, come si é visto
coi Romani, coi Goti e coi Bizantini, e come"
vedremo in seguito per altre dominazioni, che
chiunque diveniva padrone dell'Italia meridionale
aspirasse altresì al possesso dell'Albania sull'op-
posta e troppo .vicina riva dell'Adriatico.
Erano condottieri dei Normanni, nell'impresa
d'Epiro, Roberto Guiscardo e il figlio di lui Boe-
— 107 ~
mondo, coi quali aveva stretto alleanza la repub-
blica di Ragusa. Partiti dal porto di Brindisi con
una potente armata di i6o legni, i Normanni s'im-
padronirono anzi tutto di Corfù, quindi posero
Tassedio a Durazzo nel giugno del 1081, Roberto
Guiscardo per mare, Boemondo per terra, essendo
con una parte dell'esercito sbarcato a questo scopo
sulle spiaggie deirCpiro. L'imperatore d'Oriente
Alessio Comneno, salito al trono nell'aprile di
quello stesso anno, si rivolse per aiuto a Venezia
promettendole larghi privilegi e il compenso delle
spese; e i Veneziani naturalmente avversi alla
nuova potenza normanna, che minacciava d'inse-
diarsi sulle due rive del canale di Otranto all'in-
gresso dell'Adriatico, cedettero senza indugio alle
imperiali promesse. Un'armata veneziana condotta
dallo stesso Doge Domenico Selvo accorse a Du-
razzo, sforzò vittoriosamente l'entrata del porto e
costrìnse i Normanni a togliere il blocco dalla
parte del mare. Difendeva la città Giorgio Paleo-
logo. Roberto Guiscardo e Boemondo continuarono
gagliardamente l'assedio dalla parte di terra e,
in compenso del non aver potuto impedire ai Ve-
neziani d'entrare in Durazzo, sconfissero nell'ottobre
del 108 1 con 15,000 dei loro un esercito di 75,000
uomini, che Alessio Comneno conduceva in per-
sona in aiuto della città. Il grosso della flotta Ve-
neziana allora si ritirò, e al principio del 1082 i
Normanni entrarono in Durazzo, secondo la storio-
grafa bizantina Anna Comneno per tradimento
degli Amalfitani e dei Veneziani, secondo gli sto-
riografi italo-normanni Goffredo Malaterra e Gu-
glielmo Apulo per tradimento di un solo Veneziano,
— io8 —
dopo un'accanita, ma inutile resistenza degli altri
Veneziani e dei Durazzesi. Dopo la presa di Du-
razzo, Avlona, Cassope, Butroto (oggi Butrinto),
Jobannina o Janina (così detta fin dal sesto se-
colo dal suo patrono S. Giovanni), Ocrida e Scopia
(Uscub) caddero Tuna dopo l'altra in potere dei
Normanni, che penetrarono anche in Macedonia
e in Tessaglia occupando Castorià e Tricala. Per
altro, Boemondo rimasto solo, perchè il padre
aveva dovuto far ritorno in Italia, e abbandonato
da una parte dei suoi, dovette sgombrare le Pro-
vincie conquistate, che non poteva più a lungo di-
fendere.
Ridotto cosi a mal partito egli mandò a chiedere
aiuti a Roberto, mentre l'imperatore Alessio rivol-
gevasi di nuovo ai Veneziani. 11 Guiscardo s'in-
dusse finalmente a ritentare l'impresa con una
formidabile armata, e scontratosi coli* armata ve-
neziana presso la spiaggia di Cassope ebbe per
due volte, a distanza di tre giorni, la peggio. I
Veneziani rimandarono allora in patria una parte
delle navi ; ma il Guiscardo, non ancora debellato,
tornò alla riscossa e vinse (1084J.
I Normanni svernarono a Porto Panari, alla foce
del Mavropotamo. I Veneziani si ripresentarono
nella primavera del 1085 e nelle acque di Butrinto
e di Corfù riportarono una nuova vittoria. Il Gui-
scardo si volse allora contro le isole e, mentre
assediava Cefalonia, fu colto dalla pestilenza che
quivi infieriva, e nel luglio del 1085 morì. Lui
morto, i Bizantini riconquistarono le terre albanesi
ed epirote, che ancora rimanevano in potere dei
Normanni e tra queste Durazzo. Venezia ebbe dal-
— 109 ""
l'Imperatore d'Oriente un compenso in denaro,
terreni e botteghe e magazzini in Durazzo e Co-
stantinopoli e libero approdo senza pagare gabella
nei porti dell'Impero. Era doge a quel tempo Vi-
tale Falier.
Come altrove accennai, nelle cronache che nar-
rano le gesta dei Normanni compare per la prima
volta in occidente il nome di Albania, già in uso
fin dal principio del secolo xi negli scrittori bi-
zantini.
Così ebbe fine Teffimero dominio dei Normanni
sotto il quale si erano riunite ancora una volta,
ma per breve ora, le opposte spiaggie delle Puglie
e deir Albania con grave preoccupazione dei Ve-
neziani già predominanti da lunga pezza sul mare
Adriatico e padroni dei porti dell'Istria e della
Dalmazia. Durazzo non toccò per altro ai Vene-
ziani, ma fu nel ino occupata dai Serbi, ai quali
la ritolse Manuele Comneno (1143-80), di guisa
che la provincia o Thema di Dyrrachion potè
essere per l'ultima volta ricostituita. L'intera pro-
vincia comprendeva allora a mezzodì Valona o Av-
lona, Glavniza (Acroceraumia) e Berat, a setten-
trione Croja, Alessio, Drivasto, Pulati, Dulcigno
e Antivari, la quale acquistò importanza dopo la
scomparsa di Doclea, da cui ereditò la qualità e il
titolo di sede metropolitana o arcivescovile.
Durazzo era di questa grossa provincia la capi-
tale, ma della sua grandezza oggi non rimangono
altre testimonianze che le rovine della cattedrale
e le cadenti mura.
Regnante Ruggero II nelle due Sicilie e l'impe-
ratore Manuele in Oriente, i Normanni ritentarono
— Ilo —
rimpresa contro la Grecia e TAlbania, espugna-
rono Corfii e saccheggiarono Cefalonia, Negropontc,
Atene e Corinto (i 145). Manuele Comncno si ri-
volse anch'egli a Venezia promettendo nuovi pri-
vilegi e concessioni diverse, tra le quali è ricor-
data la cessione della Chiesa di S. Andrea a
Durazzo. I Veneziani non intrapresero la guerra
che nel 1148, essendo doge Domenico Morosini.
Riportarono a ogni modo alcuni successi e libe-
rarono Corfu. Morto Ruggero II (1154) il doge
conchiuse la pace col successore di lui Guglielmo L
Infine, regnando a Bizanzio l'usurpatore Andronico,
Durazzo fu occupata per brevissimo tempo dal re
normanno delle due Sicilie Guglielmo II (i 185), cui
nuovamente si opposero, ma con poca fortuna, i
Veneziani. Durazzo fu in quella occasione data al
saccheggio da Tancredi, conte di Lecce, ch'era
stato da Guglielmo II posto a capo della flotta
normanna.
/ re Serbi di Rascia. — Pochi anni dopo vi
rientrarono i Serbi, essendo loro re quello Ste-
fano Nemanja^ che fu il capo stipite della dinastia
dei Nemanidi e il fondatore del regno di Rascia,
cosi chiamata perchè Stefano pose la sua residenza
a Rascia o Rassia (Staribazar, poi Novibazar).
Avanzi di terme romane, di chiese e di castelli
serbi restano ancora a indicare l'importanza che
ebbero un tempo quei luoghi.
I Serbi dominarono allora sull'Albania da Sta-
ribazar, Prishtina e Uscub ad Antivari, Durazzo
e Berat. Degna di nota è la sorte speciale tbccata
ad Antivari, alla quale i re Serbi, per la sua ec-
cellente posizione sul mare, concessero tali privi-
— Ili —
iegi, ch'essa potè costituire una specie di repub-
blica aristocratica, quasi indipendente, che batteva
moneta propria e che ai re serbi pagava soltanto
tributo. Tra le sue nobili famiglie si citano i Bazan,
i Boris, i Churiaze, i Cratsh, i Goya, i Maruscio,
i Miros, i Prode, i Samoili, i Tichoje. Secondo
una tradizione consacrata in un rapporto diretto
nel 1692 da Mario Giorgio, arcivescovo di Scutarì,
alla Congregazione di Prapaganda, il re serbo
Wladimir dimorò con la sua corte a Cralna presso
Antivari. Della chiesa dedicata all'Assunzione della
Vergine, dove il re Wladimir sarebbe stato sepolto,
e di un convento eretto a fianco della chiesa dalla
vedova di lui Cossawa, non restano che scarse
vestigia.
È superfluo aggiungere che le tribù shkipetare
delle montagne anche sotto i dinasti di Rascia*
finché il regno di Rascia durò, conservarono quella
semi-indipendenza alla quale erano abituati da
secoli.
La IV Crociata^ Venezia e l'Albania - Michele
Angelo Despota di Epiro, — Ma non tutte le con-
quiste dei re serbi di Rascia furono durature. Nel
1302 un Michele Angelo Comneno, figlio di Gio-
vanni Angelo Sebastocratorc (erano gli Angeli
una famiglia appartenente per discendenza femmi-
nile alla dinastia dei Comneni già imperante a
Bizanzio), si ribellò all'imperatore Alessio III An-
gelo suo cugino, che aveva alla sua volta usurpata
la corona.
E noto che in quell'anno i condottieri della
IV Crociata, tra cui primeggiava Enrico Dandolo,
doge di Venezia, la quale aveva fornito per quella
— 112 —
spedizione le navi, anziché dirigersi difilati alla
liberazione del Santo Sepolcro, s* indugiarono per
compenso a riprendere Zara ribellatasi ai Vene-
ziani coirà ppoggio di Emerico re d'Ungheria, poi
ad assediare in Costantinopoli 1* imperatore Ales-
sio HI. Michele Angelo Comneno fece causa co-
mune coi Crociati, e appena Costantinopoli fu
caduta, s' impadroni dell'Epiro, deirAcarnania, della
Etolia e di una parte della Tessaglia, che fino
allora avevano fatto quasi sempre parte dell* Im-
pero bizantino, fondando cosi uno Stato autonomo,
ch*egli intendeva di trasmettere ai suoi successori,
col titolo di Despota di Epiro,
Intanto nel trattato di spartizione delle terre
deir Impero bizantino fra i conquistatori, dopo la
presa di Costantinopoli e la creazione dell* Impero
latino in sostituzione del greco (a. 1 202-1 204),
venivano assegnate a Venezia, insieme a tante altre
terre ed isole, la provincia T>yrrackii et Arbani,
1* Epiro, TAcarnania, l' Etolia e le isole Jonie.
Venezia occupò anzi tutto Corfu e la città e pro-
vincia di Durazzo, che eresse in ducato, prepo-
nendovi Marino Valeresso. Ma quando volle avan-
zarsi verso 1* Epiro, lo trovò occupato da Michele
Angelo. Dopo lunghe contese, di cui poco si co-
nosce, si venne tra il 1208 e il 12 io ad un accordo,
pel quale Venezia ritenne Corfù e la provincia
Dyrrachii et Arbani^ mentre per tutte le altre terre
componenti la nuova Despotia di Epiro, come ad
esempio la provincia Nicopolis, la provincia Joan-
nina, la provincia Drynopolis, la provincia Acridis
(Ocrida), si accontentò di un platonico riconosci-
mento dell'alta sua sovranità feudale e di un annuo
— 113 —
tributo di 42 iperperì e due broccati d*oro, colla
promessa per giunta che il Despota Tavrebbe aiu-
tata a tenere a freno gli Arhanitai (Albanesi), che
probabilmente facevano dai monti non infrequenti
scorrerie sulle città della costa. Che Durazzo era
ancora in possesso dei Veneziani nel 1210 risulta
dal fatto che il Duca Marino Valeresso non voleva
riconoscere l'arcivescovo di Durazzo, Manfredo,
perchè non era veneziano. S* intromise il ponte-
fice Innocenzo III e l'arcivescovo fu confermato
appunto nel 1210, e nella sua investitura promise
fedeltà al Doge di Venezia per so e per la città
affidata alle sue cure spirituali.
Teodoro Angelo, — Ma il dominio dei Veneziani
su Durazzo, yArbani e Corfù non durò .a lungo.
Essendo stato assassinato nel 1214 il despota Mi-
chele Angelo, il fratello di lui, Teodoro^ che fu
acche Imperatore di Tessalonica (Salonicco), assaU
i possedimenti veneziani e tutti li occupò, non
esclusa Corfù (12 15). Erroneamente è da taluni
storici attribuita questa conquista allo stesso Mi-
chele o ad altro despota dello stesso nome, che avrebbe
regnato tra Michele e Teodoro. Verso quel tempo
i despoti d*Epiro appaiono anche signori della città
di Drtvasto sopra ricordata, la quale sorgeva a
oriente del lago di Scutari e fu sede vescovile
fin dal IX secolo ed ebbe nei secoli xiii, xiv e xv
notevole importanza, ma poi decadde, come più
oltre si vedrà e come anche oggi attestano le ro-
vine dei suoi castelli, delle sue mura, delle sue
torri.
I Veneziani sperarono in una rivincita, quando
nel 1217 Pietro di Courtcnay, conte di Auxerre,
8
— 114 -
mosse con poche forze alla volta di Costantino-
poli per prendere possesso della corona d'Impe*-
ralorc latino d'Oriente dopo la morte dell'Impe-
ratore Enrico di Fiandra. Essi indussero Pietro di
Courtenay a sbarcare a Durazzo e a inaugurare il
suo regno colla riconquista di quella città. Ma
Pietro di Courtenay non riuscì nell'impresa e
cadde prigione del despota Teodoro e morì nella
prigionia (1217-1219).! possedimenti albanesi furono
per Venezia perduti.
Di nuovo Bulgari e Serbi - Stefano Duscian zar
dei Serbia dei Greci e degli Albanesi. — Intanto fin dal
1 18Ó i Bulgari si erano ribellati a Bisanzio essi pure,
e avevano ricostituito un nuovo Impero bulgaro,
che ebbe la sua sede a Tirnovo di Bulgaria. Lo
zar bulgaro Johann Asan lì, il re Joanniccio degli
storici italiani (121 8-1 241), occupò una parte del-
l'Albania e si spinse fino all'Adriatico. Egli vinse
e fece prigioniero nel 1230 Teodoro Angelo Com-
ncno, despota di Epiro e imperatore di Tess aionica,
durante la cui prigionia la despotia di Epiro fu
governata dal suo fratello minore Manuele Angelo
(t230i237). Asan li diede in moglie a costui una
propria figlia e sposò nel 1240 una figliuola di
Teodoro Angelo, Irene. Nel 1237 Manuele Angelo
fu deposto da un figlio di Michele I, Michele li,
che resse la despotia di Epiro fino al 1271. Quanto
a Johann Asan li, si sa che, trovatosi nel tempo
stesso alle prese coi bizantini, coi serbi, cogli
ungheresi e coi tartari della Russia meridionale,
non potè reggere solo contro tutti, e la parte
orientale del nuovo Impero fu ben presto riacqui-
stata dall'imperatore latino di Costantinopoli, Bai-
- 11$ —
dovino II di Courtenay, la parte occidentale dai
re serbi di Rascia, che tuttora dominavano in una
parte almeno deiralta Albania. Nelle vicinanze di
Scutari si osservano ancora gli avanzi di una chie-
sa fondata, dicesi, dall'imperatore Giustiniano, e
ricostruita dalie fondamenta nel 1 240 in onore dei
Ss. Martìri Sergius e Bachus da Elena, figlia del«
l'imperatore Baldovino II e regina reggente di
Rascia durante la minorità dei figli Stefano e Urosh,
chiesa in cui già alcuni re serbi deirxi secolo
(Bodino» Dobroslaw, e Gradijna) erano stati sepol-
ti. Si sa d'altro canto che Uscub fu definitivamente
rivendicata al dominio dei serbi da Stefano Urosh
II Milutin (a. 1282-13 30), sotto il quale i serbi
s'impadronirono anche della media Albania, del-
l'Epiro e della Macedonia (a. 1292 e seguenti).
Regnante Urosh II, nel 1288, i serbi che apparte-
nevano fin dal VII secolo alla chiesa cattolica,
passarono alla chiesa greca. Gli albanesi loro
soggetti rimasero fedeli a Roma, e nel 13 12
presero addirittura le armi per difendere la pro-
pria fede. Nel 13 18 si collegarono altresì con
Filippo di Taranto, fin dal 1304 signore di Du-
razzo, come fra poco vedremo, con Carlo Roberto
d'Anjou re di Ungheria, con Mladin batto di Bosnia, e
costrinsero Mil.utin a riconoscere il loro diritto (i 321).
Urosh II morì nel 1330 e fu sepólto in Uscub. A
Urosh II Milutin successe Vladislao, a Vladislao
Urosh 111, che combattè con fortuna coi bulgari, a
Urosh III Stefano Duscian (i 336- 1 356), soprannomi-
nato Silni ossia il forte^ il potente^ che fu il più gran
re della Rascia. Egli combattè con successo coi
bizantini, cogli ungheresi, coi bulgari e sottomise
— ii6 -
la Bosnia, la Macedonia, la Tessaglia, tutta l'Al-
bania coirEpiro e una parte della Grecia, e si in-
coronò nel 134Ó zar, ossia imperatore, dei Serbi,
dei Greci e degli Albanesi. Sul punto di annientare
l'impero bizantino, soggetto fin dal 1261 alla di-
nastia greca dei Paleologi, egli mori nej 1356. Se
avesse potuto compiere le sue imprese e ringio-
vanire, trasformandolo, Timpero bizantino, forse i
turchi ottomani non sarebbero mai riusciti a met-
tere piede in Europa. Nel 1349 egli emanava in
Uscub, che aveva scelto per sua sede abbellendola
notevolmente, il famoso codice^ col quale garantiva
la vita, la libertà e la proprietà dei propri sudditi.
Egli crasi anche proposto di promuovere tra i
suoi popoli la coltura e il commercio ; ma la morte
ne troncò i disegni, e colla sua scomparsa lo
splendore del regno serbo di Rascia si spense
Altra sede favorita di Duscian il forte fu Prizren.
Duscian fece altresì coltivare con ottimi risultati
le miniere d'oro e d'argento di Novobrdo presso
Prishtina, oggi abbandonate. Codeste miniere, le
cui più antiche notizie risalgono al 1326, seguita-
rono ad essere esplorate anche sotto i successori
di 'Duscian fin verso la metà del 1400. Novobrdo
era allora in relazione con Sofia, Adrìanopoli,
Costantinopoli, Salonicco e l'Italia,, e gli italiani,
e specialmente i veneziani, avevano in Novobrdo,
ch'essi chiamavano Novomonie, una fiorente co-
lonia. Della città di Novobrdo oggi non esistono
che le rovine.
Duscian aveva dato a governare ai più potenti
bojari o nobih del popolo serbo le provincie con-
quistate. Sotto il suo debole figlio Stefano Urosh
- 117 -
quei governatori di provincie si resero quasi indi-
pendenti e costituirono altrettanti piccoli regni.
Con Stefano Urosh IV si estinse altresì la dinastia
dei Nemanidi.
Ai tempi di Stefano Duscian appartiene proba-
bilmente la fondazione del celebrato castello Ro-
sa/a di Scutari, sul quale serbi e albanesi raccon-
tano strane leggende. L'architetto che aveva nome
Rosa^ dice una di codeste leggende, non sapeva
che si fare vedendo crollare a più riprese Topera
incominciata. Corse allora insistente la voce, che
la facessero crollare le fate. Per placarle e rendere
la rocca incrollabile e inespugnabile era necessario
sacrificare loro una giovine donna murandola viva
nella fortezza L'architetto vi fece murare la sua
stessa sorella, che chiamavasi Fa. Di qui il nome
Rosa/a del Castello di Scutari, incrollabile e ine-
spugnabile per volonjtà delle fate come le montagne
della Ghegaria e delFAcroceraunia
Anche la bassa Albania aveva dovuto subire il
giogo di Stefano Duscian, non esclusi i despoti
d'Epiro. Ma qui occorre tornare un po' indietro.
// re Man/redi. — Nel 1259 il despota di Epiro
Michele II Angelo diede la sua figlia Helena Angelo
in moglie a Manfredi di Svevia o d'Hohenstaufen,
re delle due Sicilie, che dalla dinastia normanna
erano passate a quella degli Svevi per le nozze di
Costanza di Altavilla, figlia dell'ultimo re normanno
Guglielmo II, con Enrico VI di Svevia, ava di Man-
fredi. Michele II Angelo assegnò in dote alla sua
figliola Valona, Canina, Berat, Durazzo e Corfù. Ma
con Manfredi ebbe fine la dominazione degli Svevi
nelle due Sicilie. Carlo d'Anjou che aveva tolto il
- ii8 -
regno e la vita a Manfredi, morto combattendo nella
battaglia di Benevento (1266), volle, com'era na-
turale, occupare le città dell'Albania che al suo
avversario avevano appartenuto e che Michele II
Angelo desiderava riprendere, dopo aver fatto as-
sassinare Filippo Ghinardo lasciato da Manfredi a
governare i possedimenti albanesi.
Gli Angioini e i Duchi di Durazzo, — Gli alba-
nesi, sostenuti dai bizantini e da Michele II, si
opposero a Carlo d'Anjou per parecchi anni. Ciò
nonostante Carlo potè riavere Durazzo nel 1272
e Berat nel 1273, essendo despota di Epiro fin dal
1271 il figlio di Michele II, Niceforo. Nel 1274
Durazzo fu scossa dalle fondamenta da un terribile
terremoto Gli abitanti fuggirono, e le crollanti
case lasciate in abbandono vennero saccheggiate
dagli albanesi delle montagne. Solo quattro anni
dopo i durazzési tornarono da Berat. ove in mas-
sima parte si erano rifugiati; ma Tantico splendore
della loro città s* era di molto eclissato.
Il IO aprile 1279 due procuratori, nominati da
Carlo d'Anjou, ricevevano da Niceforo Angelo
Comneno l'omaggio e il giuramento di fedeltà, e
il giorno 12 aprile altri commissari del re Carlo
occupavano in suo nome alcuni importanti luoghi
dell'isola di Corfù. La despotìa d'Epiro veniva
così a trovarsi sotto l'alta sovranità dei re delle
due Sicilie. Niceforo mori nel 1 296 'e gli successe
Tommaso Angelo Comneno, suo figlio.
Del resto il tentativo degli Angioini di ridurre
durevolmente sotto la propria dominazione am-
bedue le rive dell'Adriatico all'ingresso di codesto
mare non ebbe miglior fortuna di quello dei re
Normanni.
— 119 —
Nel 1292 ricomparvero, come sopra si è visto,
i serbi, e le conquiste angioine andarono perdute.
Nel 1296 Tommaso Angelo Comneno riusci a ri-
prendere Arta, Janina e Lepanto. Nel 1304 un
Filippo principe di Taranto e di Acaja, nel quale
Carlo II d'Anjou aveva trasferiti i suoi diritti, s'im-
padronì di Durazzo. A Filippo la tolse poi il
fratello Giovanni principe di Morea, che prese il
titolo di duca di Durazzo, trasmettendolo ai di-
scendenti, che sedettero sul trono di Napoli (ramo
durazzese degli Angioini) : ond' è che questi re
fecero battere moneta in proprio nome a Durazzo,
a Corfù ed a Lepanto; e all'ambizioso re di Napoli
Ladislao di Durazzo piacque persino di attribuirsi
in qualche diploma il titolo di Rex Albaniae, Ma
di fatto re dell'Albania egli non fu mai.
Già si vide come nel 1 3 1 8 gli albanesi abbiano
fatto causa comune con Filippo di Taranto contro
il re dei serbi Urosh II. In questo stesso anno 13 18
Tommaso Angelo veniva assassinato dal suo ne-
pote Nicola Orsini detto Comneno, conte di Cefa-
lonia, che ne sposò la vedova.
Fra il 13 3Ó e il 13 56, mentre soggiacevano alla
dominazione di Stefano Duscian tutta l'Albania e
il despotato di Epiro tolto ad Anna Paleologa
vedova di Giovanni II Orsini Comneno succeduto
nel 1323 al fratello Nicola da lui assassinato,
la sola Durazzo rimaneva in potere degli Angioini
di Napoli per virtù di un valoroso capo albanese,
Tanusio Topia, che riusciva a conservarne la si'
gnoria alla vedova di Giovanni duca di Durazzo,
Agnese di Perigord. È notevole il fatto che il
monaco francese Evocar dus (Brochard) nel 1332
— 120 —
distingueva gli abitatiti della città e territori di
Durazzo dai circostanti illirici o albanesi e slavi
col nome di Latini, ed è faori di dubbio che i
Durazzesi, come anche gli abitanti di Antivari,
Dulcigno, Scutari e Drivasto vergavano nel medio
evo in latino i loro atti, e composero in latino le
iscrizioni delle loro monete, quando ne coniarono.
Giova pure ricordare, prima di procedere oltre,
che nel medio evo erano città importanti dell'E-
piro Glavnitsa (Acroceraunia), Graditzion, Stefa-
nikiai e Cernii. Queste città oggi più non esistono
come più non esiste Nicopoli. Di Cernii non si
conpsce nemmeno il luogo dove sorgeva.
Ed ora riprendiamo il filo della narrazione dopo
la morte del re Stefano Duscian il forte.
I Balscia^ signori della Zedda, i Topia ed altri
dinasti albanesi, — Quando sotto il debole figlio
di Stefano Duscian l'impero serbo si spezzò in
parecchie signorie e i re di Serbia non conserva-
rono che una sovranità nominale sui propri do-
minii, tra codeste signorie una ne sorse notevolis-
sima, fondata nel Montenegro sul fiume Zeta o
Zedda, affluente di destra della Moraccia qualche
chilometro a monte di Podgoritsa, da Balscia /,
un nobile serbo che aveva servito valorosamente
in guerra Stefano Duscian. È puerile e non me-
rita nemmeno di essere confutata la derivazione
di questi Balscia dalla famiglia provenzale dei
Baux.
II distretto della Zeta o Zedda era stato per un
certo tempo governato da un ramo dei Nemanidi,
i quali affermavano d'essere originari di quella
contrada, essendo Stefano Nemanja, il potente re
— 121 —
di Rascia altrove ricordato, nativo di Rtbnica, oggi
Podgoritsa. Codesto distretto avevano invaso nel
momento delia loro maggiore potenza i Despoti
d*Epiro. Poi Tavevano governato dei personaggi
scelti fra i maggiorenti del Regno serbo, quale
fu ad esempio quell'Elia conte (Knex) della Zedda,
che nel ni8 fu mandato da Stefano Urosh II am-
basciatore ai Ragusei insieme al vescovo di Scutari.
Ora vi compaiono i Baiscta^ destinati a estendere
di li a poco la loro dominazione sopra una non
piccola parte dell'Albania.
Balscia I morì nel 1361 e lasciò tre figli: Stra-
scimir, Giorgio I e Balscia II, i quali sottomisero
la repubblica di Antivari, che si impegnò a pagar
loro un tributo annuo di 2000 ducati, e s'impa-
dronirono della costa adiacente fino a Dulcigno;
poi conquistarono Scutari, che il Bano di Bosnia
Tvrtko aveva occupata dopo la morte del re dei
Serbi Stefano Urosh e infine tolsero Croja a Carlo
Topia signore di Durazzo, e la Zadrima sulla si-
nistra del basso Drin ai principi Ducadgin.
Ma come mai, si domanderà, erano i Topia di-
ventati signori di Durazzo, che Tanusio Topia aveva
tenuta e difesa per conto degli Angioini } Occorre
sapere anzi tutto che il figlio di Tanusio Topia, An-
drea, aveva conquistato il cuore e la mano di una
figlia naturale del re Roberto di Napoli destinata ad
altre nozze. La cosa dispiacque alla corte angioina
e i due infelici tratti con bugiarde lusinghe in
Italia, furono fatti morire. Gli orfani Carlo e Giorgio
Topia, allevati a Croia, giurarono di vendicare i
propri genitori, e affermandosi eredi dei diritti
angioini, perchè sangue reale angioino correva
— 122 —
nelle loro vene, volsero l'animo a conquistare Du-
razzo, che fu assediata da Carlo Topia nel 1361
e difesa dal capitano che governava Durazzo per
conto della regina Giovanna I di Napoli, nepote
di re Roberto. Nella contesa si immischiarono
anche le repubbliche di Venezia e di Ragusa, che
avevano colonie mercantili nella città, e Giorgio
Balscia. Una pestilenza decimò inoltre assedianti ed
assediati, ma il capitano angioino dovette alla fine
arrendersi nel 1363, e Carlo Topia divenne signore
di Durazzo. Dopodiché, pacificatosi coi Balscia, si
uni con essi in parentela sposando Caterina figlia
di Balscia I. Da Carlo Topia fu pure ucciso in
battaglia il figlio di Giovanni II Orsini, Niceforo,
che nel 1356 dopo la morte di Stefano Duscian
aveva ricuperata la despotia d'Epiro, e che fu l'ul-
timo della discendenza maschile degli Orsini Com->
neno.
Altre parentele intanto avevano preparato ai
Balscia possibili successioni : parentele strette con
Andrea Musachi signore di Castorià, con Alessandro
Glorie signore di Canina e Valona, slavo di ori-
gine, e con Gropa o Ropa signore di Ocrida. Essi
occuparono inoltre Dulcigno e cercarono di stabi-
lire buone relazioni con Vlasio di Matarango, un
albanese che signoreggiava nelle vicinanze di Du-*
razzo e con Ragusa e Venezia, con Venezia spe-
cialmente che li annoverò tra i suoi cittadini e
loro riconobbe il diritto di armare navi, ma nello
stesso tempo non permise che sottomettessero con
esse la città di Cattaro. La stessa Venezia fece in
quell'epoca intendere a Carlo Topia, che essa non
poteva permettere le imprese piratesche, alle quali
pareva volessero dedicarsi i Durazzesi, mentre Ra-
gusa dal canto suo si opponeva al commercio del
sale, che i Durazzesi volevano istituire con Cattaro
in concorrenza coi Ragusei.
Morto il principe Alessandro signore di Canina
e Valona, i Balscidi assalirono e vinsero il suo figlio
e successore Giorgio Gioric e occuparono quelle due
città (a. 1371), aiutati in questa impresa da Andrea
Musachi e da Gropa, che in ricambio chiesero di
essere soccorsi contro Marko Kraljevic' (i), figlio
del Voivoda Vukatshin, che alla morte di Stefano
Urosh aveva occupato il trono serbo. Questo
Marko Kraljevic' aveva tolte a Gropa e a Musachi
le città di Ocrida e Castorià. Gli alleati, dopo
l'impresa di Canina e Valona assalirono il Kra-
ljevic', e non solo gli ritolsero Castorià ed Ocrida
ma anche Ipek e Prizrend, che vennero occupate
dai Balscia (a. 1372J. Verso questa stessa epoca
saliva pure a notevole potenza nella bassa Albania
un Gino Bua Spata, principe albanese, figlio di
Pietro Bua Spata, signore di Argirocastro. Questo
Gino Bua Spata tolse nel 1375 la signoria o de-
spotia di Arta a un Gino Loshia Mazarachi, che
l'aveva ereditata dal padre Pietro Loshia, investi-
tone nel 1358 dal re dei Serbi Stefano Urosh IV«
Intanto fin dal 1373 il principe Ludovico di Na-
varrà, investito per ragioni di stretta parentela dalla
regina Giovanna I di Napoli dei diritti su Du razzo
e l'Albania, si accinse a farli valere. Ma egli appena
sbarcato morì, e le sue truppe presero a guerreg-
(i) A questo e' si dia il suono palatale che ha nella
lingua italiana il e dinanzi alle vocali % ed e.
^ 124 —
giare per conto proprio cogli albanesi e special-
mente con Carlo Topia. Questi ricorse per aiuto
al cognato- Giorgio Balscia, e Durazzo fu facil-
mente liberata dalla incomoda presenza di quei
mercenari. I due alleati per altro non tardarono
ad attaccar briga, ma Durazzo rimase a Carlo Topia
(1376). Ricomparvero più tardi i Balscidi, e Bai-
scia II riuscì a impadronirsi per sorpresa delFam-
bita città e del suo porto (1383). Carlo Topia
dovette esulare.
/ Turchi ottomani e la Repubblica di Venezia, —
Colla conquista di Durazzo la potenza dei Balscia
raggiunse il suo culmine. Carlo Topia dal canto
suo ebbe allora il torto di rivolgersi ai Turchi ot-
tomani^ che dal regno di Brussa (Bitinia) nell'Asia
Minore o Anatolia erano a quel tempo passati sotto
il sultano Amurat o Murad I in Europa, e anda-
vano rapidamente estendendo il proprio dominio
nella penisola balcanica. Dopo parecchie piccole
scorrerie i turchi invasero con grandi forze l'Al-
bania, condotti da Chaireddin Pascià, e giunti di-
nanzi a Berat la presero e la incendiarono. Bal-
scia II accorse con 1 1 ,000 guerrieri e si combattè
sulle rive della Vojussa. L'esercito di Balscia II
subì una grave disfatta, lo stesso Balscia fu uc-
ciso e la sua testa chiusa in un sacco venne spe-
dita al Sultano, come annunzio della vittoria
(a. 1385). Carlo Topia riebbe Durazzo, ma i turchi
imbaldanziti si spinsero fino al confluente del Drin
Bianco e del Drin nero da un lato, dall'altro fin
sotto Valona.
La signoria del Balscia fu allora scossa grave-
mente, e parecchie città albanesi passarono sotto
— 125 —
altri padroni. Cimara ad esempio sotto un certo
Ermolao Lombardo, la Zadrima sotto i Ducadgin, ai
quali i Baisela l'avevano tolta parecchi anni prima,
mentre alla vedova di Baisela II Comnena, figlia
di Andrea Musachi, restava la signoria di Valona
e Canina.
Intanto Carlo Topia impensierito della presenza
di quei turchi, il cui intervento aveva egli stesso
invocato, sollecitava la protezione della repubblica
di Venezia, che a quel tempo volgeva di nuovo
e più risolutamente che mai le sue mire verso il
littorale albanese, sia per rifarsi della perdita
della Dalmazia, toltale dal re d'Ungheria Luigi il
grande d'Anjou col famoso trattato del i8 feb-
braio 1358, sia per porvi piede stabilmente prima
che i turchi arrivassero a impossessarsene, giacché
la conquista turca avrebbe significato la perdita
di tutte quelle franchigie e di tutti quei privi-
legi che nei porti di Albania godeva la Sere-
nissima.
Nel 1388 sotto la protezione di Venezia pone-
vasi pure interamente Comnena signora di Valona
e Canina.
Giorgio 11 Strascimirov Balscia, figlio di Stra-
scimiro e nepote e successore di Balscia 11, ugual-
mente preoccupato dei minacciosi progressi della
potenza ottomana, erasi dal canto suo legato
in parentela col conte Lazaro Grebljanovic', di-
venuto re dei Serbi di Rascia, sposandone la fi-
gliuola Despa (Elena).
Ed eccoci all'anno 1389, al terribile anno che
segnò la fine della potenza dei Serbi.
Già fin dal 1371 il voivoda Vukatshin, re dei
— 126 —
Serbi di Rascia, aveva perduta la vita combat-
tendo contro il sultano Murad I, e il figlio di lui
Marko Kraljevic', sopra ricordato, erasi sottomesso
al vincitore.
Lazaro Grebljanovic', già governatore di Mashva
e Sirmio, proclamatosi re, volle sottrarre la Serbia
al giogo turco, e alleatosi col Bano di Bosnia
Tvrtko, affrontò le forze ottomane nella pianura di
Cossovo a un'ora da Prishtina verso il nord, là
dove il Lab confluisce nella Sitnitsa. Egli perdette
la battaglia e la vita, e con lui peri il fiore della
nobiltà serba. Nella tremenda battaglia perì anche
il sultano Murad, cui fu eretto in mezzo alla pia-
nura un mausoleo, che ancora esiste. Non è certo
che a Cossovo abbia combattuto anche Giorgio li
Baisela, ma certo è ch'egli, trinceratosi nei suoi
stati, vi fu assalito dai turchi e perdette Castorià,
Berat, Drìvasto e Scutari e si ridusse alla sola si-
gnoria di Antivari e di Dulcigno, giacché il do-
minio della Zcdda era passato a Radic' Cernojevic',
genero di Giorgio I Balscia. Drivasto e Scutari
Giorgio II le potè poi riavere per intercessione
di una sua parente, che trovavasi nell'Harem del
Sultano. Più tardi, nel 1396, assalito di nuovo,
egli vendette' Drivasto e la città e il castello Rosafa
di Scutari con i territori adiacenti per una pen-
sione annua di 1000 ducati ai veneziani, la qual
cessione è da taluni storici erroneamente attribuita
a Strascimiro Balscia, suo padre. Intanto i vene-
ziani nel 1392 avevano ottenuta anche la città di
Durazzo da Giorgio Topia figlio di Carlo, che ne
aveva fatta consegna a Saracin Dandolo, capitano
del Golfo, e s'erano presa Alessio colPaiuto di
— 127 —
Radic' Cerno je vie e dei Ducadgin. E qui si noti che
Alessio era la chiave del commercio di Durazzo
verso rinterno, commercio allora limitato al sale.
Nel 1404 sottomettevasi alla repubblica di Venezia
anche Nichela Topia, figlio di Giorgio, impadro-
nitosi di Croja dopo che questa città fin dal 1393
era stata ceduta ai veneziani da un Marco Barba-
digo, genero di Carlo Topia. La repubblica, ac-
cettandone Tomaggio, lasciava Nicheta Topia al
governo di quella città. Verso codesto tempo pro-
clamavasi del pari suddito della Serenissima Da-
miano Dushman signore di Pulati, già suddito del
sultano Bajazet.
Il dominio Veneziano andava insomma acqui-
stando grandi e giustificate simpatie per la sua
moderazione e saggezza tra gli Albanesi, e alfe-
stensione della preponderanza veneta sulle coste
di Albania contribuiva, al principio del 400, la
momentanea decadenza delFimpero turco sopraf-
fatto dal Kan dei Mongoli Tamerlano (Timur
Lenk), che aveva costretto Bajazet I a togliere
l'assedio da Costantinopoli per correre incontro
alle orde mongoliche nell'Asia Minore, dove fii
battuto e fatto prigioniero (a. 1402 — Battaglia
di Angora). Nella prima metà del secolo xv i Ve-
neziani riuscirono anche a stabilirsi solidamente
a Valona, a Butrinto, a Parga e persino a Patrasso
ed a Lepanto, quest*ultima cedutale nel 1407 da
Paolo Spata, figlio naturale di Gino Bua Spata
sopra ricordato. Infine delle vicine isole Jonie
tranne Cefalonia, la Repubblica di Venezia era
venuta in possesso, per spontanea dedizione, fin
dalla seconda metà del secolo xiv, non ostante ì
— 128 —
diritti che su di esse, e specialmente su Corfù,
vantavano i re angioini di Napoli del ramo du-
razzese. A questi diritti rinunziò definitivamente
per 30,000 ducati il re di Napoli Ladislao (16 agosto
1402), quello stesso che restituì ai Veneziani i
porti della Dalmazia, che Luigi d*Anjou re d'Un-
gheria, suo stretto parente, le aveva tolti. Sui
porti dalmati, come sul ducato di Durazzo e sulla
despotia d'Epiro aveva solennemente affermata la
propria sovranità, dopo la morte del re Luigi (1383)
Carlo di Durazzo, padre di Ladislao e pretendente
al trono d'Ungheria.
Giorgio II Strascimirov Balscia, ridotto nuova-
mente al solo possesso di Antivari e di Dulcigno,
morì nel 1404, e a lui successe il figlio Balscia III.
Nel colmo della sua potenza Giorgio II aveva altresì
fatto coniare moneta propria in slavo ; e monete
col nome suo, ma in latino, avevano coniate il
municipio di Scutari intitolandola al protomartire
S. Stefano e quello di Antivari sotto il patrocinio
di S. Lorenzo. Nel 1386 anche il Municipio di
Dulcigno commetteva ad un orefice di Ragusa il
conio per le sue modeste monete di rame.
Balscia III, nonostante le simpatie che sulle coste
albanesi e persino fra le indomite tribù shkipetare
delle montagne Venezia erasi accattivate colla
mitezza e liberalità del suo governo, lottò finché
visse colla Serenissima allo scopo di rialzare la
potenza della sua casa, alternando lunghe ostilità
e brevi tregue o effimeri accordi, ora alleato or
nemico dei piccoli signorotti albanesi limitrofi al
suo piccolo Stato. Egli venne a morte nel giugno
del 1421 senza aver nulla conchiuso e senza la**
sciar figli maschi.
— 129 —
Quando Balscia III morì, Venezia era già pa-
drona non solo di Scutari, Alessio, Durazzo e
Valona, ma anche di Dulcigno, come pure di tutta
la costa da Antivari alle bocche di Cattaro. Questi
domini! essa governava coi suoi Procuratori, salvi
sempre i privilegi locali, mentre nella rimanente
Albania signoreggiavano numerosi dinasti, o del
tutto indipendenti come certe tribù montanare,
ovvero sotto l'alta protezione, ora del Sultano da
un lato, ora di Venezia dalFaltro.
Dinasti albanesi. — Primeggiavano tra costoro
Stefano Cernojevic' voivoda del Montenegro, im-
padronitosi pure di Antivari alla morte di Bal-
scia III, Paul e Lek (Alessandro) Ducadgin nel paese
oggi appunto occupato dalla tribù che si chiama
dei Ducadgini e obbedisce ad un complesso di leggi
a Lek Ducadgin attribuite, Peter Span o Spanos
in Dri vasto, Giorgio Stresio e Goiko Balscia tra
Croja e Alessio, Lek Dushman in Pulati sulla
destra del Drin, Lek Zaccaria nella Zadrima infe-
riore e a Dajna (Dagno) sulla sinistra del Drin,
Gropa a Dibra, i Musachi nella così detta Musachia
sul Semeni, Andrea Topia nella media Albania
lungo la costa, Zenevisi attorno ad Argirocastro,
Arainites Topia Golem Comnenos nell'Acrocerau-
nia e nell'alto Epiro, i Tocco nel basso Epiro.
I Tocco estendevano la loro signoria anche nel-
TEtolia. Essi erano succeduti anzi tutto agli Or-
sini Comneno nella contea di Cefalonia, e su-
bito si erano eretti a pretendenti della despotìa
di Epiro, venuta, come già sappiamo, per la mas-
sima parte in possesso degli Spata. Nel 14 18 Carlo
Tocco assalì ed uccise Maurizio Bua Spata Sguro
9
— 130 —
e riunì le despotìe di Arta e di Janina alla Contea
di Cefalo nia. Oggi è poi messa in dubbio con va-
lidi documenti la vecchia tradizione, che Croja(Kruja
= la città delle fontane, in lingua albanese) abbia
appartenuto per un certo tempo a quel Giovanni
Castriota, da cui nacque Teroe albanese Giorgio
Castriota detto Scanderbeg, che - segnò il punto
più luminoso delia storia dell'Albania. Né più si-
cura di questa è la tradizione, che assegna origine
serba ai Castrioti, a Peter Spanos e alla famiglia
dei Ducadgin.
Intanto la potenza turca, fiaccata dai Mongoli
come ho sopra accennato, riprendeva dopo pochi -
anni lena e vigore con Solimano Chelebi( 1402-14 io),
con Musa Chelebi (14 io- 141 3), con Maometto I
(141 3-1 421) e più ancora con Amurat o Murad II
(1421-1451).
I Turchi rinnovarono le loro intraprese nella
penisola balcanica, e la stessa Venezia s'indusse
a pagar loro un tributo annuo di 1000 ducati pei
suoi possessi albanesi, conchiudendo a questo scopo
un trattato con Solimano Chelebi (febbraio 1410),
mentre parecchi dinasti dell'Albania si ponevano
sotto la protezione del Sultano. Del tributo poi la
Repubblica veneta si compensava ordinando al
Conte Capitano di Scutari d'imporre a quelle po-
polazioni la tassa di mezzo ducato per ogni foco-
lare, a imitazione di Balscia III, che per pagare il
tributo al Sultano aveva imposta, in forma meno
tollerabile, per ogni focolare la tassa di un ducato.
Alcune città albanesi, come ad esempio Croja, ac-
coglievano anche presidii turchi. Nel 1430 Venezia
ebbe a temere per la stessa Scutari, dov'era scop-
- 131 -
piata una ribellione, e inviò Silvestro Morosini
per domare i ribelli Stefano Maramonte e Zanusio,
e di là tener d'occhio i Turchi, pronti ad appro-
fittare di qualsiasi occasione. Nel 143 1, mentre
Murad II assediava Tessalonica (oggi Salonicco)
per toglierla ai Bizantini e ai Veneziani, che anche
in quel porto godevano larghi privilegi, si pre-
sentavano a lui ambasciatori della città di Janina
per offrirgliene il possesso, purché fossero rispettati
i beni e le persone, e gli abitanti avessero facoltà
di governarsi da loro sotto Talta sovranità del
Sultano. La proposta fu bene accolta, ma i citta-
dini di Janina ebbero motivo di non essere troppo
soddisfatti delle conseguenze della loro profferta.
Pochi anni dopo cadeva in potere dei Turchi
anche Arta, di guisa che ai Tocco più non rima-
neva che la Contea di Cefalonia, di cui sulla fine
del secolo xv furono definitivamente spogliati dai
Veneziani.
Politica di Venezia in Albania — L' Albania,
divisa o meglio frantumata in tante piccole si-
gnorie, spesso discordi e rivali, era destinata a
soccombere. Designati alla sovranità del paese
altri non potevano essere che i Turchi o i Vene-
ziani.
Da quanto abbiamo sin qui narrato e dai docu-
menti che si conservano nei veneti archivi risulta
abbastanza chiara la politica, che la Repubblica
Veneta seguiva, nei tempi di cui ci stiamo occu-
pando, per estendere i propri dominii in Albania
col maggior risparmio possibile di uomini e di
denaro.
Impotenti a difendersi dai Turchi e a conscr-
- 132 -
vare da sé soli la propria signoria, i dinasti alba-
nesi si rivolgevano per soccorsi alla Serenissima
e le offrivano il dominio delle loro terre conten-
tandosi in compenso di modeste provvigioni annue.
Venezia annuiva, nonostante il magro profitto che
da quegli acquisti poteva derivare al tesoro dello
Stato, perchè le premeva di opporre un argine al
dilagare della potenza turca.
B. Cecchetti in una comunicazione fatta allVs/A
tato Veneto intorno agli stabilimenti politici della
Repubblica Veneta nell'Albania (Atti del R, Istituto
Veneto, nov. i8jy, ott, iSy^f), ragiona molto acuta-
mente intorno a questa politica, e le sue osserva-
zioni possono anche servire di preambolo a quanto
dovrò raccontare nel seguente capitolo. Talora,
dice a un dipresso il Cecchetti, la Repubblica
accettava senz'altro Tofferta dei signori albanesi,
ma voleva che si allontanassero dalle terre cedute;
o riceveva quei luoghi, morti i principotti, dalle
loro mogli ; o li rifiutava, se il conservarli le avesse
costato grave spesa. Quasi sempre incoraggiava i
signori albanesi a resistere ai Turchi, ma occor-
rendo, consigliava pure la pace. Talvolta accettò
quei signori come amici e tributari, quasi fossero
investiti da lei di feudi con giurisdizione. Li acca*
rezzo, ma sempre col minor dispendio possibile.
Fece anchcr qualche scusa ai Turchi. Respinse, poi
accettò del pari la signoria offertale da talune Co-
munità. Mandavano esse in tal caso loro amba-
sciatori a Venezia colle condizioni o capitoli delia
dedizione, i quali stabilivano i diritti della citta-
dinanza di fronte al Governo veneto. Questo li
approvava o li modificava o respingeva per decreto
- 135 -
del Collegio o del SenatX) (Mislì e Mar); (i) poi
mandava in quelle terre Provveditori o Rettori ordi-
nari o Sindici inquisitori. Amministravano costoro
secondo gli statuti del luogo, o dove mancassero
secondo le leggi veneziane ; qualche volta a tenore
degli statuti locali nella parte civile, nella crimi-
nale secondo il veneto diritto.
Il Cecchetti ha inoltre legato alVlstituto Veneto
una copiosa raccolta di documenti, che suffragano
le sue osservazioni. Da un documento del 1393
riguardante Alessio appare, ch'era vietato cedere
un luogo cogli abitanti a guisa di schiavi, tranne
il caso in cui tali fossero per nascita o vendita.
Da documenti del 1365, del 1407 e del 1475 risulta
che Venezia ebbe qualche vertenza e contesa colla
Corte di Roma per la nomina di un arcivescovo
di Durazzo e per impedire il trasferimento di quel-
Tarcivescovato in altra città. Da un documento di
Drivasto del 1405 si deduce il pareggiamento degli
ecclesiastici agli altri cittadini nella custodia della
città e nel pagaménto delle imposte. Altri docu-
menti si riferiscono a maritaggi di signori albanesi
con gentildonne veneziane, ad elezioni di giudici
locali per piccole liti, a trattative con personaggi
e Comunità albanesi. Notevolissima è la raccolta
di ducali e di decreti del senato per l'acquisto, la
difesa e l'amministrazione delle terre d'Albania.
Contuttociò, non ostante l'avveduta politica e
il buon governo della Repubblica Veneta, i Turchi
(i) Vedi Bibliografia (Medio evo, dalla caduta delV Impero
d^occidente a Giorgio Scanderbeg), là dove si accenna agli
archivi di Venezia.
- 134 -
finirono col trionfare, perchè erano i più forti,
perchè a Venezia mancò l'invocato soccorso dei
principi cristiani e perchè la Serenissima di altro
non si preoccupava che del possesso della costa
necessaria al suo predominio commerciale, lad-
dove nell'interno non dell'Albania soltanto, ma
di tutta la penisola balcanica, il dilagare della po-
tenza ottomana era favorito dalla debolezza e
dalla rivalità dei grandi e piccoli Stati cristiani.
Infatti, come si è già visto in parte e come in
parte si vedrà, proseguendo i Turchi nell'intra-
prendcre le loro conquiste in Europa trovarono
la penisola balcanica sminuzzata in numerose e
tra loro ostili signorie: l'impero bizantino, ormai
decrepito e ridotto a troppo angusti confini, lo
Stato serbo-macedone, indebolito dall'assoluta au-
tonomia feudale di governatori paragonabili agli
antichi satrapi della Persia, le despotie albanesi
nelle condizioni sopra descritte, le colonie vene-
ziane, il ducato d'Atene e i principati bulgari e
moldo-valachi. Riuniti, questi grandi e piccoli
Stati avrebbero potuto facilmente aver ragione
dei Turchi. Divisi e spesso rivali e nemici cad-
dero ad uno ad uno in balia del conquistatore, e
furono sua preda e possesso.
Soltanto la nazione albanese ebbe prima di sog-
giacere un eroe, e questo eroe fu Scanderbeg,
135
Capitolo III.
Giorgio Castriota detto Scanderbeg - I Turchi
conquistano l'Albania dopo la morte di Scan-
derbeg - L'Albania sotto la dominazione turca -
Colonie albanesi in Italia (1421-1750).
Giorgio Scanderbeg, — Incerta é tuttora rorigine
della famiglia dei Castrioti, giacché alcuni le attri-
buiscono origine serba, altri albanese; alcuni affer-
mano che l'avo di Giovanni Castriota, padre di
Giorgio, chiamavasi Costantino, e avendo sposata
Helena Topia, figlia o nepote di Carlo Topia, avanzò
pretese per questo titolo sulla città di Croja e fu
giustiziato come ribelle dai Vene iani nel 1402;
altri invece sostengono che il padre di Giovanni
Castriota chiamavasi Paolo, e il Costantino in que-
stione apparteneva al casato dei Baisela. Comunque
sia, non tocca a noi risolvere una questione di cosi
mediocre importanza. La fama di Scanderbeg é tutta
sua, e nulla le tolgono e le aggiungono le oscure
origini e le incerte gesta de' suoi antenati.
Come non é certo che Giovanni Castriota, padre
di Giorgio, divenisse signore di Croja, cosi non é
affatto sicuro ch'egli abbia avuta in signoria la città
di Castorià e che dal nome di questa città sia de-
rivato il cognome dei Castrioti, Taluni infatti ri-
ducono il dominio di Giovanni Castriota a pochi
e oscuri villaggi nel territorio delle tribù dei Matija
e dei Dibra. Non so con quanto fondamento altri
ravvicinano il nome dei Castrioti a quello di Castri,
piccolo villaggio presso S. Giorgio nella Mirdizia,
— 136 —
o ai nomi riuniti delle tribù dei Castrati e degli
Hotti.
Certo è soltanto che Giovanni Castriota fu per
un certo tempo vassallo dei Veneziani, la cui pro-
tezione aveva chiesta contro i Turchi, e ricevette
da essi una pensione. Certo è pure che combat-
tendo contro i Turchi di Evrenos Pascià nel 1410
Giovanni Castriota fu vinto e costretto a dare come
ostaggi quattro suoi figliuoli, tra i quali era Giorgio.
Giorgio era nato nel 1403 a Croja, secondo una
tradizione non molto sicura, e aveva 7 anni quando
fu condotto a Costantinopoli, dove naturalmente
venne educato nella fede maomettana. Dei suoi
fratelli più non si ebbe notizia, e si disse che pe-
rissero avvelenati. Cresciuto in età Giorgio diede
prova di straordinario valore combattendo in Asia
contro i nemici della Mezzaluna, si da meritare la
benevolenza di Amurat o Murad II, che gli fu
largo di onori e di benefizi, nonché l'ammirazione
dei turchi, che lo soprannominarono Iskender-bey
(il signore ^Alessandro^ nome che diventò più tardi
Scanderbeg sulle labbra degli Albanesi.
Giorgio Castriota fece dunque le sue prime armi
senza essere costretto a combattere contro i propri
compatrioti e a far macello di genti cristiane. Ma
lion doveva essere sempre cosi.
Fin dal 1425, salito al trono di Serbia Giorgio
Brankovic', nepote di Lazaro Greblianovic', il cui
figlio Stefano Lazarovic'aveva pagato tributo al sul-
tano Bajazet, erasi il nuovo re proposto di scuotere il
giogo turco e di riconquistare l'Albania, e aveva stretto
alleanza a questo fine con Sigismondo di Lussem-
burgo, sacro imperatore romano e re di Germania,
- 137 -
di Boemia e d'Ungheria. Gii Ungheresi mandati
incontro ai Turchi furono battuti e Giorgio Bran-
kovic', abbandonato a se stesso, dovette obbligarsi
a pagare un annuo tributo dì 50,000 zecchini, a
offrire la sua figlia a Murad II e a servire come
vassallo negli eserciti del Padiscià.
Pochi anni dopo moriva il padre di Giorgio Ca-
striota (1432), ma non risulta da verun fatto o do-
cumento accertato che l'eroico albanese abbia in
tale occasione manifestato il desiderio di lasciare
il suo posto d'onore fra i guerrieri del Sultano per
succedere al padre nei suoi modesti domini! fra le
tribù maljsore dell'Albania. L'ora della riscossa non
era ancora suonata.
Nel 1439 Giorgio Brankovic' ritentò la fortuna
delle armi e fu di nuovo sconfitto e obbligato a
rifugiarsi in Ungheria. In questa impresa vuoisi
che nell'esercito turco militasse e si coprisse an*
Cora una volta di gloria Giorgio Castriota, che forse
fin d'allora cominciò a sentirsi a disagio tra i sol-
dati del sultano, perché col vinto re di Serbia ave-
vano combattuto parecchi de' suoi fratelli albanesi.
Scanderheg e Giovanni Hunyady. — Un valoroso
condottiero sorgeva di li a qualche tempo in Un-
gheria ad arrestare la marcia trionfale dei turchi
verso l'occidente d'Europa. Questo valoroso chia-
mavasi Giovanni Hunyady, voivoda di Transilvania,
e il desiderio di emularne le gesta spinse proba-
bilmente Giorgio Castriota, che già meditava nel
grande animo nuovi disegni, a tornare alla religione
de' suoi padri e a combattere per l' indipendenza
della patria sotto il vessillo di Cristo. L'occasione
non tardò a presentarsi.
- 138-
Nel 1440 Ladislao Jagellone re d'Ungheria, in-
coraggiato da papa Eugenio IV, risolse di opporsi
ai turchi irrompenti e di rimettere sul trono di
Serbia Giorgio Brankovic', e pose alla testa dei suoi
ungheresi Giovanni Hunyady. L'Hunyady disfece
gli Osmanli a Vorag e a Nissa sulla Morava (1442).
Fu appunto nella battaglia di Nissa che Scanderbeg
si staccò dal Sultano.
Gesta di Scanderbeg in ^Albania - ^urad II, —
Dopo avere assistito, v'ha chi dice d'accordo col-
l'Hunyady, alla disfatta dei turchi, egli raccolti attorno
a sé trecento albanesi si fece incontro al segretario
guardasigilli (Rejs Effendi) del Padiscià, travolto nella
fuga dei turchi, e lo costrinse a scrivere a nome di
Murad II una lettera, nella quale lo si nominava go-
vernatore di Croja ; quindi lo uccise. Ciò fatto co' suoi
albanesi si diresse alla volta dell'Albania e giunto a
Dibra alta, fu da quelle genti, tra le quali i ca-
strìoti avevano tenuto signoria, accolto con im-
menso entusiasmo. Scelse fra quei di Dibra altri
trecento compagni, e con questa piccola ma fida
scorta di 600 prodi giunse a Croja, e in virtù della
lettera che aveva fu ricevuto solennemente dal go-
vernatore turco, che gli cedette, come la lettera
ingiungeva, il potere. Nella notte il presidio turco,
colto alla sprovvista, veniva messo a fil di spada.
Il mattino appresso Scanderbeg chiamò il popolo
a libertà e proclamò la propria conversione al cri-
stianesimo insieme al nepote Hamza.
I tbrchi che si trovavano nell'Albania s'affretta-
rono a rinchiudersi nei luoghi fortificati, Moises
Golem, che signoreggiava sopra una gran parte
del paese dei Dibra come vassallo del sultano, si
— 139 —
sottomise a Scanderbeg e divenne il suo braccio
destro.
Scanderbeg stabili anzi tutto di assediare il forte
di Petrejla, eretto a difesa dei passi pei quali da
Tirana si scende a Durazzo e ad Elbassan. Di que-
sto forte oggi esistono soltanto le rovine. Giorgio
Castriota in breve costrinse i difensori alla resa,
mentre Hamza con 3000 cavalieri albanesi obbli-
gava il comandante turco del forte di Gar-i-barth
(Petralba), altro castello di cui oggi non restano
che pochi avanzi nel territorio dei Matija, a conse-
gnargli la piazza con libera uscita da es$a per sé
e per i suoi.
Altre forze turche si erano chiuse nella fortezza
di Svetigrad a sud est di Dibra alta sulla destra
del Drin nero. Anche di Svetigrad si veggono og-
gidì le rovine presso Kodzondgik.
Fallito un primo tentativo per espugnarla, Scan-
derbeg lasciò a bloccarla Moises Golem con 3000
cavalieri e tornò a Croja, donde mosse poi verso
Derida, dove si stava concentrando un corpo di
turchi per tentare la liberazione di Svetigrad. Con
soli 300 cavalieri egli costrinse i turchi a ritirarsi,
quantunque avesse già al suo comando 8000 cava-
lieri e 7000 fanti.
Tutto questo accadde nel 1443. In questo stesso
anno Venezia s'impossessava di Antivari toglien-
dola al Voivoda montenegrino Stefano Cerno) evie',
perchè dalle sue terre egli recava eccessive mo-
lestie ai dominii albanesi della Repubblica, e per
far cessare queste molestie invano il Senato Veneto
aveva scritto al Sultano, del quale il Voivoda era
nominalmente suddito. Esecutore degli ordini del
— 140 —
Veneto Senato nella occupazione di Antivari fu An-
tonio Diedo, capitano del golfo (31 maggio). Nella
primavera del 1444 si sparse la voce che Murad II
apparecchiavasi a ridurre l'Albania all'obbedienza,
e allora Scanderbeg risolse di convocare i capi al*
banesi a un convegno in Alessio, essendo la repub-
blica di Venezia, cui Alessio apparteneva, ben di-
sposta come sempre a favorire qualsiasi proposito
o tentativo per arrestare i progressi degli Osmanli.
L'appello di Giorgio Castriota non rimase ina-
scoltato. Convennero in Alessio Arainites Topia,
Andreas Topia, Giorgio Stresio, Goìko Balscia, i Du-
cadgin, Giovanni Musachi, Lek Zaccaria, Pietro Spa-
nos. Lek Dushman e il principe montenegrino Ste-
fano Cernojevic', ch'era nato da una figlia di Gio-
vanni Castriota e sposò Voisava di Giorgio Scan-
derbeg. Assistevano al convegno anche i governatori
veneziani di Alessio, Scutari e Durazzo.
L'assemblea deliberò di costituire una lega per
difendere l'Albania contro i Turchi, e capo della
lega, su proposta di Arainites Topia, fu procla-
mato Giorgio Castriota. Ch'egli sia stato procla-
mato invece re dell'Albania non é vero, perché
ognuno di quei dinasti voleva per conto suo rima-
nere indipendente e sovrano. Il dominio diretto di
Scanderbeg altro allora non abbracciava che Croja,
il paese dei Mirditi e dei Matija, ai quali possessi
egli più tardi aggiunse Dibra, la piccola Musachja,
e alcuni altri lembi di territori tolti in propizie oc-
casioni ai suoi alleati.
Intanto Moises Golem aveva espugnato Svetigrad,
lasciandovi un presidio, e con 5000 uomini rag-
giungeva il capo della lega, il quale, messi insieme
— I4X —
cosi 15,000 guerrieri, afFrettavasi a muovere incontro
a 40,000 turchi condotti da Ali-pascià. Scanderbeg
prese posizione a Dibra bassa e quivi attese il ne-
mico, che non tardò a giungere e si accinse ad
assalire le fortificazioni albanesi senza potervi im-
piegare tutte le proprie forze ad un tempo. La di-
sfatta dei turchi fu piena. 22,000 osmanli giacquero
sul campo di battaglia, 2000 prigionieri e 25
bandiere caddero in mano degli albanesi.
Chiamato subito dagli altri principi cristiani che
erano in lotta coi turchi in loro aiuto, Scanderbeg
mosse con 20,000 uomini verso Belgrado, ed essen-
dosi opposto al suo passaggio Giorgio Brankovic',
egli già accingevasi ad aprirsi la strada colla forza,
quando gli giunse notizia che l'Uniade era stato
sconfitto dai turchi a Varna e il re Ladislao d'Un-
gheria era perito nella terribile battaglia (io no-
vembre 1444). Se ne ritornò allora in Albania, e
quivi dopo qualche tempo gli fu recata una let-
tera del sultano, che aveva risoluto di negoziare la
pace tanto con lui quanto con l'Uniade. La lettera
per altro, com'era da aspettarsi, non chiedeva la
pace, bensi prometteva perdono al ribelle vassallo
e cosi cominciava: « xAmurat oiiomanOy sovrano dei
turchi e imperatore d^Oriente, a Scanderbeg suo in-
grato pupillo. 3> Era stata scritta il 15 giugno 1445.
L'eroe albanese convocò l'assemblea dei capi per
giudicare delle proposte del sultano, e l'assemblea
fu unanime nel respingerle sdegnosamente. Forte
di questo voto, Scanderbeg inviò a Murad II una
fiera risposta in data del 12 agosto, intitolandosi
« soldato di Gesù Cristo e prìncipe albanese e degli
Epiroti* »
— 142 —
I turchi ripresero l'ofFeasiva nell'autunno del
1445, ^ Fizur-pascià alla testa di 9000 uomini si
accinse a penetrare nell'Albania per la via di Priz-
rend. Scanderbeg ne fu informato, e con soli 3500
uomini attese fra anguste gole di montagne il ne-
mico e piombò all'improvviso sulle file ottomane
costrette dalla natura dei luoghi ad allungarsi e a
procedere separate senza potersi appoggiare a vi-
cenda.
II pascià scampò alla strage con pochi superstiti,
I prigionieri furono soli 300.
Mustafà-pascià, mandato con nuove forze alla ri-
scossa nella primavera del 1446, non fu più fortu-
nato di Fizur. Quantunque avesse mutato tattica e
procedesse cautamente di posizione in posizione,
assicurandosi le retrovie, devastando il paese per
dove passava e portando dappertutto il terrore, si
lasciò cogliere da ultimo in una imboscata, e assa-
lito di nottetempo non potè impedire che Timpre-
veduto assalto portasse lo scompiglio tra i suoi.
Riusci egli pure a fuggire lasciando moltissimi
morti e circa 300 prigionieri, e raccolte le truppe
che aveva lasciate a protegfgere le retrovie raggiunse
a stento il confine turco, inseguito senza tregua
dagli albanesi, che in questa terza battaglia non
avevano avuto che soli 70 morti.
Poco dopo l'annunzio della sconfìtta di Mustafà,
Murad II abdicava nominando suo successore il
figlio Maometto II. La cristianità respirò, sperando
in un periodo di tregua, e il nome di Scanderbeg
corse glorioso per tutta l'Europa.
Scanderbeg in guerra con la Repubblica di Venezia,
— Nello stesso tempo scoppiava purtroppo un con-
- 145 -
flitto tra Scanderbeg e i veneziani. Lek Ducadgin
aveva fatto assassinare Lek Zacaria signore della Za«
drima inferiore e di Dajna (Dagno) per impossessarsi
dei suoi beni. La vedova dell'ucciso si rifugiò a Scu-
tari e trattò coi veneziani la cessione di Dagno, e la
Serenissima ne ordinò senz'altro la occupazione. Ma
a questo punto si fece innanzi Giorgio Castriota,
affermando che con un precedente trattato Lek
Zacaria aveva ceduto a lui Dagno in caso di morte*
Tentò quindi di sorprendere Dagno, ma non vi
riusci. Batté per altro i veneziani in battaglia cam-
pale, quantunque essi si fossero collegati coi despoti
Lek Dushman di Palati e Peter Span o Spanos
di Drivasto. ; e corse a metter l'assedio a Dagno, dopo
aver costrutto on luogo fortificato (Balesa) per im-
pedire le comunicazioni fra Dagno, Scutari e Dri-
vasto. V'ha chi afferma, non so con quanto fonda-
mefite, che l'uccisore di Lek Zacaria sia stato non
Lek Dukadgin, ma Lek Dushman.
Le cose erano a questo punto, quando Murad II,
peiitito della propria abdicazione, riprese le redini
dello Stato e subito pensò a vendicarsi di Scan-
derbeg. Dicesi che a tale impresa lo incoraggiasse
questa volta anche un messo del Senato Veneto.
Murad II mandò in Macedonia Mustafà-pascià con
20,000 uomini e con l'ordine di tenersi sulla difen-
siva, finché egli in persona non fosse giunto con
maggior nerbo di truppe. Ma il Pascià, informato
della guerra che si combatteva tra Venezia e Giorgio
Castriota, scrisse al Sultano afiìnché volesse per-
mettergli di approfittare dell'occasione, e ottenuto
il permesso, passò al principio del 1447 il confine
sopra Ocrida dirigendosi rapidamente su Croja;
— 144 —
ma egli altro non fece che andare incontro a una
nuova sconfitta, che Scanderbeg gl'inflisse nel ter-
ritorio dei Mirditi. Il pascià fu fatto prigioniero
con 12 de' suoi capi e io,ooo turchi giacquero sul
campo di battaglia, mentre gli albanesi non ebbero
che 200 morti (1447).
Il Senato Veneto, che aveva occultamente seguita
verso il Castriota una doppia e perversa politica,
dovette allora pacificarsi coll'eroe albanese. Ecco
infatti com'erano andate le cose. Il Senato, non
potendo aver ragione di Scanderbeg colle forze della
Repubblica, si era accordato, come sopra ho detto,
col Sultano, ordinando nel tempo stesso al Capi-
tano di Durazzo Paolo Loredan, che si apparec-
chiasse ad assalire il Castriota, appena giungessero
i Turchi; ma ove questi tardassero, per guadagnar
tempo intavolasse delle trattative di pace col Ca-
striota, e gli ricordasse l'antica amicizia della Re-
pubblica col padre suo, e gli promettesse per la
cessione di Dagno un annuo tributo di 1 500 ducati,
e soli 500 se egli volesse conservare quel castello,
I Turchi vennero finalmente e furono battuti: e
allora il Senato conchiuse senz'altro la pace (gen-
naio 1448). Fu quindi stabilito che la Repubblica
considererebbe come veri e buoni amici Scanderbeg,
Lek Ducadgin e gli altri principi albanesi; che ri-
terrebbe Dagno e pagherebbe 1400 ducati all'anno;
che i Veneziani avrebbero facoltà di prendere in
afiitto in Albania case e terreni, e Scanderbeg
avrebbe diritto di ritirare da Durazzo dugento
some di sale e altre mercanzie senza dazio. Pro-
metteva inoltre il Castriota di unirsi all'esercito di
Giovanni Hunyady.
— 145 —
Conchiusero il trattato per la Repubblica Paolo
Loredan, conte e capitano di Purazzo, e Andrea
Venier provveditore ; e da quel momento tra Scander*
beg e la Repubblica veneta durò un accordo perpetuo
contro il comune nemico, e il nome di Giorgio
Castriota detto Scanderbeg fu scritto nel libro d'oro
della nobiltà veneziana. Si attribuisce a Scanderbeg
la fondazione di una cappella dedicata alla Madonna,
che tuttora esiste ai piedi della montagna, su cui
si veggono oggidì soltanto le rovine della città e
fortezza di Dagno. Dagno fu città vescovile fino al
1520. La distrussero i Turchi.
Intanto Murad II, che aveva vinto ancora una
volta rUniade (18 ottobre 1448), s'apparecchiava a
condurre in persona contro il suo ribelle vassallo
albanese un esercito di 60,000 soldati, e nel febbraio
del 1449 muoveva su Svetigrad continuamente mo-
lestato durante la marcia da Scanderbeg, di guisa
che solo verso la metà di maggio potè si poderoso
esercito cingere d'assedio quella piccola piazza.
Scanderbeg era sempre solo co' suoi albanesi,
non avendo ottenuto che un po' di danaro dal Pon-
tefice e delle vettovaglie da Venezia. Contuttoció
non si perdette d'animo. Non più di 1000 uomini
difendevano Svetigrad, mentre Scanderbeg con
5000 uomini si aggirava, comparendo e scompa-
rendo continuamente e a tempo opportuno, at-
torno agli accampamenti ottomani. Più volte
Murad II ordinò assalti parziali o generali, e gli
assalitori furono sempre respinti. Il 22 giugno, in
una delle solite improvvise comparse del Castriota,
i turchi perdettero 2000 uomini tra morti e feriti e
600 prigionieri; degli albanesi non uè caddero più
IO
— 146 —
di 40. Ili un'altra fazione peri Fizur-pascià e 4000
turchi soggiacquero. Migliaia d'uomini costarono i
numerosi assalti, tanto che in capo a due mesi e
mezzo il sultano aveva di già perduti 30,000 uo-
mini e accingevasi ad abbandonare l'assedio, quando
essendo i turchi riusciti a intorbidare l'acqua di
cisterna che gli assediati bevevano, gettando nella
cisterna un cane morto, il presidio capitolò, e
avendo ottenuto di uscire dalla ifortezza con l'onore
delle armi andò a raggiungere Scanderbeg. In quel
frattempo era pure caduta in potere dei turchi la
città di Berat, che dominava la strada da Durazzo
a Janina.
Il sultano pago di questi successi iniziò il 31 lu»
glio 1449 la ritirata, che non potè compiere senza
nuove perdite inflittegli dall'infaticabile condottiero
albanese con incessanti molestie.
Partito Murad II, Scanderbeg tentò subito di ri-
prendere la fortezza perduta, ma per mancanza di
artiglieria dovette abbandonare l'impresa.
Murad II aveva giurato di tornare l'anno ap-
presso, e tornò infatti con 6000 cavalli, e 40,000
giannizzeri per assediare Croja, e impiegò nel-
l'assedio parecchi grossi cannoni. Ma l'assedio di
Croja fu per lui più sfortunato di quello di Sveti-
grad, giacché dopo 5 mesi di continui assalti e di
ripetuti insuccessi che gli costarono molte migliaia
di uomini, dovette ritornarsene indietro con tutto
TesercitOj e arrivato ad Adrianopoli, quivi mori
poco dopo, il 5 febbraio 1451. I principi cristiani
inviarono a Scanderbeg doni e provvigioni, e lo
proclamarono strenuo e impareggiabile difensore-
della cristianità. Largheggiava più di tutti gli altri
- 147 -
principi in queste dimostrazioni di simpatia Alfonso V
d'Aragona, re di Napoli e di Sicilia.
Nel colmo della sua gloria Scanderbeg sposava
Andronica, figlia di Arainites Topia Golem, e spo-
gliava nel tempo stesso i meno potenti dei suoi al-
leati di una parte dei loro possessi.
Scatiderbeg e Maometto II. — Uno dei primi atti del
nuovo sultano Maometto II, fu di rivolgersi a Scan-
derbeg per invitarlo a dichiararsi suo vassallo e
a pagare tributo. La risposta dell'indomito alba-
nese fu una scorreria nel territorio turco.
Per immediato ordine del sultano Hamza-pascià
mosse contro l'Albania verso la fine del 145 1 con
un grosso esercito, e questa volta il nepote di
Skanderbeg Hamza ebbe intero l'onore della vit-
toria. Egli piombò sul nemico con 5000 guerrieri.
Caddero 7000 turchi, e gli albanesi non perdet-
tero che 34 uomini.
Nella primavera del 1452 altri 20,000 turchi con-
dotti dal Sangiacco Debreas-pascià non ebbero mi-
gliore sorte per virtù di Scanderbeg in persona,
che varcò i confini dell'Albania per recare la de-
vastazione e lo spavento nel bacino del Vardar. Le
città di Uscub e di Monastir, che già da parecchio
tempo obbedivano ai Turchi, dovettero premu-
nirsi contro un possibile attacco degli albanesi.
Nell'inverno dello stesso anno il Castriota consi-
gliatosi coi suoi luogotenenti, deliberò di riconqui-
stare Svetigrad e Berat. Egli accingevasi a com-
piere questa impresa, quando inaspettatamente si
vide abbandonato da due suoi luogotenenti Moises
Golem e il nepote Hamza, che disgustati probabil-
mente dall'abituale alterigia del loro capo offersero
— 148 —
i propri servigi al sultano, il quale li accolse con gioia
e affidò nella primavera del 1453 15,000 uomini a
Moises Golem. Ma costui fu sorpreso e sconfitto
nella valle del Drin nero e non ricondusse al sul-
tano che 4000 soldati.
Intanto Maometto II, avendo espugnata Costan-
tinopoli (29 maggio 1453), proclamava Hamza pa-
scià d'Albania e gli dava 5000 cavalieri, coi quali
unitosi ad Isa pascià di Rumelia, che disponeva di
45,000 soldati, Hamza si accinse a conquistare il
suo pascialato. Incontro a questi 50,000 osmanli
mosse Giorgio Castriota nella primavera del 1453
con li, 000 guerrieri, e ancora una volta piombò
di sorpresa sul nemico e lo disfece. 20,000 turchi
copersero il campo di battaglia, 10,000 ne furono
trucidati nella fuga, soli 1500 ne rimasero pri-
gionieri con lo stesso Hamza, che deriso e di-
sprezzato da tutti potè fuggire più tardi a Costan-
tinopoli, dove fini miseramente la vita. Miglior
sorte toccò a Moises Golem, che caduto in disgra-
zia del sultano se ne tornò in Albania e riusci a
riconciliarsi col suo antico signore, cui rimase fe-
dele sino alla morte.
Intanto il Castriota avendo ricevuto da Alfonso V
di Aragona denari, uomini comandati da Raimondo
d'OrlafFa, viveri ed armi, fra cui parecchi cannoni,
si preparava all'assedio di Berat, che iniziò nella
primavera del 1455 con 15,000 uomini fra i quali
1000 italiani. Narrasi che fra il 1453 ^ ^1 ^455 Giorgio
Scanderbeg sia stato ospite dei Ragusei, i quali piut-
tosto che tradire l'ospitalità permisero ai Turchi di
aumentare il tributo, che ad essi pagava la Repub-
blica, da 1500 a 5000 ducati.
— 149 —
Maometto II inviò in aiuto di Berat Sevali pa-
scià con 40,000 cavalieri. Sevali giunse fin presso
alla città con rapidissime marcie quasi inaspettato.
Scanderbeg rimase questa volta con 4000 de' suoi
attorno a Berat. Incontro al nemico mosse Mu-
sachi; ma la cavalleria di Sevali riusci ad avvilup-
parlo. Accorse Scanderbeg, ma troppo tardi per
vincere. Gli albanesi riuscirono soltanto a ritirarsi
in buon ordine, abbandonando tutta l'artiglieria e
lasciando sul terreno 5000 morti, fra i quali quasi
tutti gl'italiani. I turchi pagarono la vittoria con
la metà dell'esercito.
Scanderbeg approfittò della morte di Musachi, ca-
duto combattendo, per impadronirsi di una buona
parte de' suoi dominii.
A quest'epoca l'invitto condottiero albanese po-
teva già vantarsi di aver ucciso di propria mano
parecchie centinaia di turchi, con quella spada, che
secondo la tradizione, nessun altro braccio avrebbe
potuto e saputo maneggiare con altrettanto vigore.
Si hanno incerte notizie sugli avvenimenti degli
anni 1456-57. A quanto pare Maometto II lasciò
in pace l'Albania, perché occupato nella conquista
della Serbia e nell'assedio di Belgrado, sotto le cui
mura subi per virtù di Giovanni Hunyady una me-
moranda sconfitta (11 luglio 1456), Scanderbeg
potè quindi volgere l'animo irrequieto ad altre
imprese.
Scanderbeg in Italia, — Il 27 luglio 1458. mori
l'amico e protettore di Scanderbeg, Alfonso V di
Napoli detto il Magnanimo, e gli successe il figlio
Ferdinando. La morte di Alfonso destò un vivo
rammarico nell'animo del Castriota e di tutti gli
— 150 —
albanesi ; oiid*é che essendo sorta contesa per la
successione fra Giovanni della seconda casa di
Anjou, sostenuto da quasi tutti i baroni del regno
e da parecchi principi italiani, e Ferdinando che
altri non aveva dalla sua parte che il duca di
Milano Francesco Sforza e il pontefice Pio II, una
domanda di soccorso pervenuta a Scanderbeg dal
figlio di Alfonso V non rimase inascoltata.
Giorgio Castriota deliberò di accorrere in difesa
di Ferdinando d'Aragona, ridotto a mal partito dal
suo competitore Giovanni d'Anjou e dal capitano di
ventura Giacomo di Nicolò Piccinino, che l'Angioino
aveva assoldato; e conchiuso un accordo colla Re-
pubblica di Venezia, la quale promise di difendere le
coste dell'Albania e i dominii del prode albanese du-
rante la sua assenza, salpò da Durazzo con 8000
uomini tra fanti e cavalieri e approdò sulla fine di
giugno del 1459 ^ Bari, dove Ferdinando trovavasi
assediato. Il Duca d'Anjou fu costretto a togliere
l'assedio, e al principio del seguente anno fu battuto
ad Ursara Irpina. Scanderbeg obbligò quindi la mag-
gior parte dei baroni ad abbandonare l'Angioino, sot-
tomise Trani e in compenso dei suoi servizi fu da
Ferdinando investito dei feudi di Trani e di San Gio-
vanni Rotondo e di un vasto territorio ai piedi del
Gargano (Siponto), tornandosene nel maggio dello
stesso anno 1460 in Albania, dove la sua presenza
era reclamata da nuove minaccie di invasione dei
turchi.
Ultime gesta dì Scanderbeg in Albania, ^ Quattro
eserciti turchi, forti ciascuno di 30 o 40,000
uomini, furono uno dopo l'altro disfatti dall'invin-?
cibile Castriota tra il 1460 e il 1461.
— iSi -
> Questa serie d* infelici imprese de* suoi generali
indusse il sultano a più miti consigli. Egli diresse
al capo dei collegati albanesi una lettera amichevole
con queste tre proposte : libero passaggio alle truppe
turche nel territorio albanese in caso di guerra con
Venezia, libero commercio tra albanesi e turchi,
invio a Costantinopoli come ostaggio di Giovanni
Castriota unico figlio di Scanderbeg. Questi rispose
di non potere accettare che la -seconda di codeste
proposte, e Maometto li, contro la generale aspet-
tativa, annui e la pace fu ratificata (1462): ma nori
durò più di un anno.
Pio II avea intanto convocata in Ancóna la crociata,
bandita nel concilio di Mantova fin dal 145.9. Stretti
ih lega i veneziani e Mattia Corvino re d'Ungheria,
egli indusse il Castriota ad unirsi alla lega e a
rompere là pace conchiusa con Maometto li, scio-
gliendo solennemente dal giuramento lui e ^'iotti i
capi albanesi per mezzo di una bolla diretta all'ar-
civescovo di Durazzo (1463).
Scanderbeg, dichiarata la guerra al sultano e
presa senza por tempo in mezzo l'offensiva, ripor-
tava una delle sue solite vittorie con immensa strage
dei nemici, ai confini della Macedonia presso Ocrida,
il 4 agosto 1463, cioè il giorno stesso nel quale
moriva in Ancona Pio IL La morte del pontefice
mandò a monte la crociata. I principi ritirarono
l'adesione, i convenuti ad Ancona si sbandarono,
l'armata veneziana comandata dal doge Cristoforo
Moro tornò a Venezia, e Scanderbeg si trovò solo
contro tutte le forze che Maometto II aveva rac-
colte per far fronte alla crociata. Per altro di queste
milizie riunite nella Rumelia solo una parte fu in*
- 152 -
viata in Macedonia per porre un termine alle scor-
rerie albanesi. Se non che Balaban-Vader-pascià, un
rinnegato albanese che era tra i migliori generali
di Maometto II, non si contentò di questa inglo-
riosa difensiva e volle invadere l'Albania.
. Sconfitto due volte con enormi perdite ritentò la
prova una terza volta al principio del 1464, diri-
gendosi con 24,000 soldati verso la fortezza di Pe-
tralba (Gur-i-barth), mentre Jakub-Arnaut con altri
16,000 combattenti muoveva da Berat verso Tirana.
Scanderbeg con mirabile tattica li assali separata-
mente l'uno dopo l'altro e annientò i loro eserciti.
Caddero nei due scóntri 20,000 turchi, 1000 ne fu-
rono fatti prigionieri e vennero liberati 4000 schiavi
cristiani. Il Castriota uccise di propria mano Jakub
Arnaut.
Allora Maometto II, il conquistatore di Costanti-
nopoli, fuori di sé per la collera risolse di condurre
in persona un poderoso esercito contro il suo ter-
ribile avversario, ed aggiunte nuove truppe alle
forze raccolte da Balaban Vader si mise in mar-
cia con 150,000 soldati. Egli erasi proposto di
prendere Croja, e nella primavera del 1465 lo
smisurato esercito si trovò radunato attorno alla
capitale di Giorgio Scanderbeg. La difendeva la
valorosa tribù dei Mirditi. Dirigeva le operazioni
della difesa Baldassarre Perducci. L'intrepido Ca-
striota, come durante l'assedio tentato nel 1450 da
Murad II, si aggirava con poche migliaia di uomini
nei boscosi e dirupati dintorni della città, piombando
ora da una parte ora da un'altra sui turchi, mentre
gli assediati compievano alla lor volta con buon
successo sortite diurne e notturne.
- 153 -
Minacciato per giunta dagli Ungheresi sul Danu«
bio e dal principe del Cherman (Caramania) in
Asia, Maometto II dovette alfine anche lui, come
Murad II, abbandonare l'assedio di Croja, dopo
avervi senza frutto sacrificato 30,000 dei suoi, la-
sciando a proseguire l'assèdio Balaban con 19,000
soldati.
A corto di mezzi per liberarsi da questa incomoda
presenza, Scanderbeg deliberò di fare un viaggio a
Roma, dove ebbe una splendida accoglienza, ma
non potè ottenere dal pontefice Paolo II che un
lieve soccorso in denaro. Più generosa fu la Repub-
blica di Venezia, che a quel tempo lottava coi tur-
chi nella Morea e che gl'invio denari e vettovaglie,
armi ed armati. Ottenuti inoltre nuovi contingenti
di truppe dai capi e dalle tribù albanesi collegate,
la cui fiducia in lui non aveva più limite, potè
mettere insieme un esercito di 24,000 uomini, coi
quali inflisse a Balaban una nuova sconfitta, in cui
questo rinnegato perdette la vita. Una canzone al-
banese ne celebra la morte, ma senza far menzione
di Scanderbeg. Essa con poca verosimiglianza attri-
buisce la uccisione di Balaban a un Tanusio To-
pia, che sarebbe stato alla sua volta ferito a morte.
- Nella primavera del 1466 tornò il sultano in per*
sona con 130,000 combattenti contro V astuto ribelle^
com'egli chiamava il Castriota, e i veneziani suoi al-
leati, e pose l'assedio a Durazzo. Da Durazzo passò
a Croja; da Croja tornò verso Durazzo, e molestato
continuamente dagli albanesi senza riuscire a nulla,
dopo una breve sosta ad Elbassan riprese umiliato
ed afflitto la via di Costantinopoli, lasciando ai con-
fini un corpo di 20,000 soldati in osservazione.
— 154 —
Erano corsi inutilmente sei mesi dal suo ingresso
in Albania.
Ricevuti nuovi soccorsi in denaro e in vetto-
vaglie dal re di Napoli e dalla Serenissima, Scan-
derbeg si recò in Alessio, e quivi convocò tutti
i dinasti albanesi e i rappresentanti delle tribù per
intendersi con essi sul piano di difesa contro nuovi
e non improbabili attacchi dell'implacabile sultano.
3\iCorte e glorifica%ione di Scanderbeg, — Già erano
cominciate le sedute di quel Congresso, quando il
Castriota fu colto dalla febbre. Si racconta che es-
sendogli stato annunziato che i turchi erano com-
parsi nelle vicinanze di Scutari, l'eroico albanese
volle montare a cavallo, quantunque ammalato,
e che al suo apparire i turchi presero senz'altro la
fuga e scomparvero. Dopo aver cosi trionfato an-
cora una volta col solo terrore del suo nome, Scan-
derbeg mori in Alessio il 17 gennaio 1467, nell'età
di 64 anni, dopo 24 anni di guerre e di vittorie.
La storia può dire di lui, come di Giulio Cesare
e di Alessandro, che non fu vinto mai. In 22 bat-
taglie affrontò con poche forze eserciti numerosis-
simi e vinse sempre. Codeste forze erano costituite
negli ultimi anni da una milizia stabile di 8000
cavalli e 7000 fanti, oltre parecchi venturieri fran-
cesi e tedeschi. Oggi lo si sarebbe chiamato un
eroico guerrigliero, « Nuovo Alessandro, Principe dei
Cavalieri »: sono questi i nomi con cui lo celebrò
Giorgio Byron.
Fu sepolto in Alessio, nella cattedrale di San Ni-
colò, che fu più tardi trasformata in moschea. Là
tomba dell'eroe é scomparsa. Del suo corpo dice
una strana leggenda che i turchi di Maometto II,
- 155 -
allorché nel 1478 occuparono Alessio, se lo divisero
in minutissime particelle, che portavano indosso
come talismani per essere invulnerabili e vittoriosi
in ogni guerra.
' Il pontefice Paolo II, il re di Napoli Ferdinando
e la repubblica di Venezia decretarono alla sua me-
moria straordinarie onoranze.
La tradizione afferma che lo stesso Maometto II
abbia detto un giorno di lui: « Un simile leone
non apparve né apparirà più mai sulla terra ». La
sua spada é pure consacrata nella tradizione, e un
canto albanese, fra i tanti che ancora lo celebrano,
pone sulle sue labbra queste parole: « sul taglio
della mia spada sta rappreso il sangue dei Turchi
e là dorme la morte ». A Maometto II che glie la
chiedeva in dono dicesi abbia risposto, che non
poteva mandargliela, perché ci avrebbe dovuto
unire anche il braccio che la maneggiava.
Sir William Tempie nel Saggio sulle virtù eroiche
colloca Scanderbeg, insieme a Giovanni Hunyady^
fra gli eroi che meritarono la corona senza portarla.
Nella biblioteca granducale di Weimar si con-
serva col nome di libro di Scanderbeg un manoscritto
in pergamena di 325 fogli adorni di figure in in-
chiostro di Cina e diviso in due parti. La prima
rappresenta macchine e invenzioni di guerra, ponti,
mulini, ecc. del secolo xv, la seconda, certo po-
steriore, contiene scene di vita pubblica e privata,
giuochi, feste, costumanze, mestieri, ecc. Dicesi che
lo regalasse al Castriota Ferdinando d'Aragona.
V Albania dopo la morie di Scanderbeg, — Occu-
pato continuamente a guerreggiare, Giorgio Ca-
striota non ebbe agio di ordinare e consolidare
^ 156 -
quella specie di Stato federale che lo aveva eletto
per suo capo. Fors'anche non ne ebbe voglia, né
é lecito aflfermare che, volendolo, avrebbe saputo
farlo. Eroica ed immortale personificazione del va-
lore albanese, egli non amava che la guerra, e cre-
devasi predestinato a distruggere la potenza musul-
mana e ad annientare i nemici della fede di Cristo.
Perciò non volle accettare la pace che Murad II
gli offriva: perciò infranse senza scrupolo i patti
giurati con Maometto IL Lui morto, la lega alba-
nese, composta di elementi indisciplinati e tenuti
insieme soltanto dalla indiscussa autorità del suo
capo, si sciolse, e la fiducia degli shkipetari in se
stessi, ravvivata continuamente dall'invitto eroismo
del loro condottiero, venne meno. L'indipendenza
dell'Albania era ormai destinata a finire. Venezia,
cui l'invincibile Castriota aveva af&data la tutela
dei proprii domini, ne tentò la difesa con l'aiuto dei
montenegrini e di qualche capo o tribù della Shké-
pèria; ma furono inutili sforzi. Solo Scanderbeg
sapeva vincere sempre gli sterminati eserciti degli
Osmanli; ma Scanderbeg non poteva risorgerei
(Assedio e difesa di Scutari, — La guerra coi Per-
siani aveva impedito al sultano Maometto II di trar
subito profitto dalla scomparsa à^Wastuto ribelle. Fi-»
nalmente nel 1474 egli potè inviare alla conquista
delle città albanesi tenute dai Veneziani, che accen-
navano a voler raccogliere l'eredità del Castriota,
molte migliaia di uomini e un'artiglieria formidabile
sotto il comando di Suleiman Pascià di Rumelia.
Essendo doge di Venezia Niccolò Marcello, il 17
maggio 1474, i Turchi incominciarono l'assedio di
Scutari, difesa appunto dai Veneziani comandati da
- 157 -
Antonio Loredano e dai Montenegrini di Ivan Cer-
no) evie' (Ivanbeg)y presso il quale erasi recato a sol-
lecitare soccorsi il Provveditore Lodovico Bembo.
Intanto alla foce della Bojana Tradiano Gritti
sconfiggeva Tarmata turca e riceveva per questa
vittoria le congratulazioni del Senato veneto, il
quale con lettera ad Antonio Donato, oratore a Roma,
s'affrettava altresì a domandare che il pontefice
Sisto IV inducesse i principi italiani ad unirsi alla
Repubblica nella guerra contro il Turco e le pro-
curasse per lo meno looo fanti e looo cavalli per
tre mesi. Altri aiuti il Senato veneto chiedeva di-
rettamente al re di Napoli Ferdinando d'Aragona, e
inviava Sebastiano Badoer ambasciatore al re d'Un-
gheria Mattia Corvino. Aiuti non ne vennero pur-
troppo da nessuna parte. Ma Scutari seppe tuttavia
valorosamente resistere. Di questa eroica resistenza
ci ha lasciata una descrizione il contemporaneo Ma-'
lipiero, ricordato da Samuele Romanin nella sua
Storia documentata di Venezia (Voi. IV, pag. 372).
« Avevano gli Scutarini, scrive il Romanin ser-
vendosi di codesta descrizione, certi cofani di vi-
mini impeciali, nei quali conservavano il frumento,
ed empiutili invece di pece, zolfo e stoppia li get-
tavano ardenti sui Turchi. Facevano inoltre rotolare
dall'alto immensi massi, caricavano le artiglierie a
ciottoli e adoperavano diverse specie di fuochi arti-
ficiali; coi quali mezzi tanta strage fecero dei ne-
mici, che il pascià fu costretto alla fine a ritirarsi,
molestato continuamente dagli abitanti dei luoghi
per cui passava. 9 Perirono, dicesi, in quell'assedio
7000 osmanli, 14,000 ne rimasero feriti.
A Venezia si celebrarono per cosi fortunato sue-
- 158 -
cesso grandi feste, e un vessillo cremisi col S. Marcò
e collo stemma di Scutari fu deposto a perpetuo
ricordo di quell'eroica difesa nella basilica di S. Marco.
Il glorioso avvenimento fu pure immortalato in un
quadro di Paolo Veronese, che adorna la sala del
Gran Consiglio a Venezia, con questa scrittura : Scod"
rUj bellico omni apparaiu diu vehementerque a Turco
oppugnate^ accerima propugnaìione retinetur. Il Lore-
dano fu creato cavaliere e nominato Provveditore
d'armata ed ebbe in dono 2000 ducati per maritare
una sua figliuola.
In questo stesso anno 1474 vuoisi che i Turchi
abbiano fondato sulle rovine dell'antica Ribnica il
forte di Podgoritsa.
Caduta di Croia e di (Alessio. — Ma il Sultano
voleva cacciare ad ogni costo i veneziani da tutta
l'Albania. Venne quindi in persona con 150,000
combattenti, e nel mese di maggio del 1477 com-
parve dinanzi a Croja. Accorsero alla difesa di quella
piazza Ambrogio Contarini da Durazzo con 22,000
soldati e il famoso capo albanese Lek Ducadgia con
8000 guerrieri delle montagne. In una felice sor-
tita essi penetrarono inaspettati nel campo ottomano.
L'esercito turco fu sbaragliato, ma essendosi i vin-
citori abbandonati al saccheggio degli accampa-
menti per poi tornarsene via, i difensori di Croja
vennero ricacciati nella fortezza, l'assedio fu ripreso
e dopo 13 mesi di resistenza Croja stretta dalla fame
più che dalle armi dovette arrendersi. La guarni-
gione e gli abitanti vennero passati a fil di spada
(15 gì^g^o 1478), non ostante la promessa che
avrebbero avuta salva la vita. Il Contarini e Lek Du-
cadgin perirono fra i tormenti. Ma anche qui non
— 159 —
so con quanto fondamento taluni sostituiscono Lek
Dushman a Lek Ducadgin. Il Romanin afFerma che
alla difesa di Croia era pure accorso il 27 gennaio
1478 Giovanni figlio di Giorgio Scanderbeg. La fa-
mosa fortezza di Croja, che tanti assedi aveva vit-
toriosamente respinti, fu demolita assai più tardi, nel
1832. Soltanto pochi avanzi rimangono del Castello
bianco y residenza di Scanderbeg. Croja ha oggi
l'aspetto di un villaggio di agricoltori e le sue case
sorgono disperse senz'ordine sul declivio del monte
di Santo Spiridione in mezzo agli olivi.
Nello stesso anno 1478 fu pure espugnata Ales-
sio, ed anche di Alessio, ch'era sotto i veneziani
una città ricca di edifizi, di chiese e di scuole, oggi
più non esistono che poche rovine e un misero
ammasso di case attorno ad un piccolo ba^ary abitato
da bottegai cattolici e avvelenate nella stagione
estiva dai miasmi delle acque stagnanti^ lasciate dalle
inondazioni del Drin. Gli abitanti musulmani più
agiati dimorano oggi di preferenza nel borgo detto
Varosey a due miglia dal ba^afy sul pendio della
montagna che domina il diruto castello. Il baiar è
situato tra la collina, ove sorgono i resti della cit-
tadella veneziana, e la riva del Drin.
Nuovo assedio e cessione di Scuiari - Caduta di
Drivasto. — Addi 20 maggio 1478 fu infine cinta
d'assedio per la seconda volta la città di Scutari,
dinanzi alla quale comparve, dopo la caduta di
Croja, lo stesso Maometto II. Scutari era difesa da
1600 cittadini, fra cui parecchi veneziani, e da al-
trettanti montenegrini. Alla testa dei veneziani sta-
vano il provveditore Antonio da Lezze, Nicola
Moneta, Florio Jonima e l'ingegnere Donato. luco-
— i6o —
raggiava gli assediati alla difesa con ardenti parole un
frate domenicano, fra Bartolomeo d'Epiro. Il campo
turco occupava la pianura e le alture all' intorno
per un circuito di 40 miglia! 150,000 soldati cir-
condavano la città da tutte le parti, e ben die^
cimila cammelli erano stati adoperati a traspor--
tare le artiglierie, le munizioni e le provvigioni.
Un terribile cannoneggiamento, durato parecchi gior-
ni, abbatté pertanto in più punti le mura, sostituite
dagli assediati con trincee di pietre e fascine. Con-
dotte le cose a questo punto, il 22 luglio già la
mezzaluna sventolava sul bastione della porta prin-
cipale, quando le truppe ausiliari montenegrine
piombarono sui turchi e riuscirono a respingerli,,
e al posto del vessillo turco sventolò di nuovo
quello di San Marco. Calò la notte e fu tregua* Il
giorno appresso si rinnovò l'assalto e fu ugual-
mente ributtato. Perirono in quegli assalti 400
assediati e 12,000 assedianti. Il 27 luglio i turchi
tentarono un nuovo investimento generale e fu-
rono obbligati a ritirarsi con perdite non inferiori
a quelle del giorno 22. Il sultano se ne consolò
di li a poco tempo colla presa di Drivasto, i cui
difensori caddero tutti fino all'ultimo. Le loro teste
furono portate dinanzi alle mura di Scutari, ma l'a-
troce spettacolo non spaventò gli strenui difensori
di quell'eroica città: tanto che il Padiscià s'indusse
finalmente a partire, lasciando a proseguire il blocco
della piazza soli 40,000 uomini sotto Ahmed Eyrc-
nos Pascià. Ciò non ostante Venezia, stanca del-
l'abbandono in cui era lasciata dai principi cristiani,
chiese al principio del 1479 la pace, che venne con-
chiusa il 25 gennaio. Scutari, le cui angustie erano
- i6i -
andate crescendo di giorno in giorno, affermando
il provveditore Antonio da Lezze che non la si
poteva più sostenere, fu dai veneziani consegnata
al Sultano, salva la vita dei difensori. Gli assedi di
Scutari e di Drivasto avevano costato ai turchi la
perdita di 45,000 uomini. Anche della caduta di
Scutari abbiamo una descrizione lasciataci dallo
scutarino Barlezio (Marinus Barletius. De expugna'
tione Scodrenst).
Il Provveditore veneto Antonio da Lezze usci da
Scutari con 450 uomini e 150 donne seco recanti
gli averi, le armi e i sacri arredi delle chiese, senza
che i Turchi 11 molestassero. Egli fu dapprima creato
cavaliere, ma poi, essendo stato accusato da alcuni
scutarini di avere affermato che la città non si
poteva più difendere, mentre vi erano vettovaglie e
munizioni per altri quattro mesi, fu dal Consiglio
dei Dieci punito con dieci anni di relegazione a
Capo d'Istria e colla esclusione perpetua dai pub-
blici uffici.
Il trattato conchiuso con Maometto II stabiliva
taluni patti rispetto ad altre questioni pendenti fra
il Sultano e la Serenissima: ma questa é materia
che non ci riguarda. Dirò soltanto che rimase ga-
rentito a Venezia il libero accesso nei porti del-
l'Albania.
Acerbe censure furono anche mosse a Venezia
per codesto trattato. Ma che cosa di più si poteva
da essa pretendere, dopo una guerra di tanti anni,
contro un cosi potente nemico, senza che alcuno
mai l'aiutasse?
Vale la pena di ricordare che un anno dopo,
•cioè nel 1480, i Turchi sbarcavano ad Otranto e la
II
— 102 —
saccheggiavano orribilmente. Ma per buona ventura
dell'Italia, Otranto non rimase in possesso dei
Turchi, che, appena morto Maometto II (1481),
più non si curarono di estendere la loro domina-
zione sulle spiaggie e sui porti delle Puglie. Nello
stesso anno, infatti, in cui mori il potentissimo Sul-
tano, Otranto fu ripresa dal re di Napoli, Ferdi-
nando d'Aragona, e i Turchi più non tornarono.
Dopo la caduta di Croja, di Alessio e di Dri-
vasto, e la cessione di Scutari, anche Giovanni Mu-
sachi fu nel 148 1 vinto e spogliato dai Turchi, e
mori nel 1510. Per l'Albania non v'era più salvezza.
Molti albanesi allora esularono e furono bene ac-
colti nelle terre della Repubblica veneta, nell'Italia
meridionale e in Sicilia. A quegli abitanti di Scu-
tari che si rifugiarono a Venezia vennero concesse
pensioni, impieghi e terre da coltivare. Risale pro-
babilmente a quell'epoca la colonia albanese di
Borgo Erizzo, presso Zara, dove si parla il dialetto
dei Gheghi Delle colonie allora stabilitesi nella
bassa Italia e in Sicilia parlerò alla fine del pre-
sente capitolo. Solo i Mirditi si difesero ancora per
qualche tempo prima di venire ai patti col vinci-
tore, che s'impegnò a lasciarli in possesso delle loro
armi e a rispettarne la proprietà, i costumi, la re-
ligione: i quali patti furono e sono ancora rispettati
dai turchi.
Anche gli Albanesi della bassa Albania, che si
erano rifugiati nei monti Acrocerauni {Chimarioti\
lottarono intrepidamente contro le milizie di Bajazet II
nel 1492, e ottennero nel 1537 da Solimano il Ma-
gnifico onorevoli patti, che loro garantivano una
relativa indipendenza, per lo meno dai pascià della
bassa Albania.
- i63 -
/ Veneziani perdono Duralo* Dulcigno, Antivari
e Valona, — Solo alcune città della costa restarono
ancora per qualche tempo in possesso dei Veneziani,
i quali tanto si preoccuparono di non provocare
ulteriormente le ire e l'intervento degli Ottomani,
che nel 1495 imprigionarono l'arcivescovo di Du-
razzo, perché incitava la popolazione all'odio contro
i Turchi.
Contuttociò i turchi assalirono e presero Durazzo
nel 1501. Dulcigno e Antivari rimasero ai veneziani
fino al 1571. In quest'anno i turchi assediarono Dul-
cigno condotti da Ahmet pascià. La difendeva Serra
Martinengo con soldati italiani ^ francesine dopo una
lunga resistenza fu pattuita la resa. Ma non appena
la capitolazione venne sottoscritta, entrarono nella
città i giannizzeri, e si abbandonarono al saccheggio
e alla strage. I pochi superstiti si rifugiarono sui
monti. Antivari, dopo aver resistito a un primo as-
sedio tentato dal pascià di Scutari Suleiman nel
1538, cadde in potere dei turchi nel 1571 per la
viltà del suo governatore Alessandro Dogato. Costui
all'annunzio dell'arrivo degli ottomani prese con la
guarnigione la fuga, abbandonando la città al suo
destino. Gli abitanti capitolarono senza resistere.
Molti di poi esularono, altri si convertirono all'isla-
mismo. L'arcivescovo Giovanni, che aveva cercato
d'indurre il Donato a resistere, fu per ordine del-
l'ammiraglio Ali pascià obbligato a vestirsi dei suoi
sacri indumenti e quindi appiccato. Fu in questo
medesimo tempo distrutta dai Turchi la piccola città
di Sfakia (Sciassi) tra Scutari e Autivani. Dalle molte
chiese di Sfakia, ch'era città vescovile, più non re-
stano che pochi avanzi. Nel 1590 anche i Cimarioti,
— i64 —
afHtti da una terribile carestia, dovettero ricono-
scere l'assoluta sovranità del sultano.
Due imprese tentate dai veneziani nel 1 649 e nel
1717 per riprendere Antivari fallirono interamente,
quantunque nel 17 17 fossero anche soccorsi dal
Vladika Danilo e dai suoi montenegrini. Ugual
sorte ebbero nel 1696 e nel 17 17 gli assedi di Dui-
cigno. Nel 1696 i turchi ebbero per alleata la tribù
degli Hotti. Nel 17 18 non giovò ai veneziani per
Dulcigno, come non aveva loro giovato per Anti-
vari, l'aiuto del Vladika Danilo.
Valona fu perduta dalla Serenissima nel 1690.
Tersistenia del dominio veneto nella bassa Albania
e nelle isole Jonie. — In compenso furono dai Ve-
neziani conquistate Arta e la sua cittadella nel 1668,
durante la guerra di Candia, Prevesa, da essi con-
quistata nel 1449 e perduta e ripresa più volte, ri-
mase definitivameme a Venezia durante la guerra
suddetta. Il trattato di Carlovitz (1699) glie ne con-
fermò il possesso.
Parga moderna, edificata dagli abitanti dell'antica
Parga (Paleoparga) a occidente di questa e munita
di una cittadella, erasi posta fin dal 1401 sotto la
protezione di Venezia, che nel 1572 ne costrusse
il porto. Anche Butrinto e qualche altro punto
della costa epirota erano venuti in potere dei vene-
ziani nel secolo xv, e Parga, Prevesa e Butrinto
erano specialmente utili alla Repubblica, perché
situate in vicinanza delle isole Jonie, la maggior
parte delle quali essa possedeva come già sappiamo
per spontanea dedizione fin dalla seconda metà del
XIV secolo, e il cui possesso a lei lungamente
conteso dai Turchi le fu definitivamente assicurato
- i65 -
dal trattato di Passarovitz (a. 1718). Vedremo a suo
tempo come anche Arta, Butrinto, Prevesa e Parga
vennero insieme alle dette isole in potere degli
ottomani tra la fine del secolo xviii e il principio
del XIX.
Oggidì della dominazione veneta non esistono
in Albania altre vestigia che il veneto leone scol-
pito all'ingresso principale del castello Rosafa di
Scutari, e rovine di castelli, e chiese trasformate
per la maggior parte in moschee, secondo il co-
stume dei turchi, e avanzi di costruzioni, di scul-
ture, di iscrizioni e di stemmi veneziani (fra i quali
non manca mai il leone di San Marco) ad Antivari,
a Dulcigno, ad Alessio, a Durazzo, a Valona, a
Prevesa, a Parga, non che un ponte sul torrente
Kiri presso Scutari detto dì Ura-thCesit ed uno sul
fiume Arta ad Arta.
Sarebbe altresì cosa di sommo interesse rintrac-
ciare nei veneti archivi, pubblici e privati, i docu-
menti delle strette relazioni che per un pezzo esi-
stettero tra Venezia e l'Albania. * Molti albanesi
infatti ottennero la cittadinanza veneziana e persino
il titolo di nobiltà e presero dimora nelle città
della Veneta repubblica; molti veneziani si stabi-
lirono in Albania, e si strinsero frequenti parentele
tra famiglie albanesi e veneziane.
Tanto più utili sarebbero queste indagini negli
archivi dì Venezia, in quanto che andarono irre-
missibilmente perduti quasi tutti i documenti delle
nobili famiglie albanesi, che lottarono con Giorgio
Scanderbeg per l'indipendenza dell' Albania. Tra i
pochi studiosi che di qualche nuova ed utile ri-
cerca abbiano dato sinora notizia (vedi bibliografia)
— i6ò —
merita particolare menzione B. Cecchetti, che nella
Comunicazione airistituto veneto altrove citata rende
conto succintamente di oltre 700 documenti riguar-
danti l'Albania da quando la Repubblica veneta vi
ebbe, in parte, dominio, fino alla caduta di Scutari
e degli altri luoghi in potere dei Turchi, nonché
talune sollevazioni degli albanesi nei secoli xvn e
XVIII.
A proposito poi di Dulcigno cade qui in accon-
cio ricordare che, durante la guerra tra Venezia e
i turchi nel secolo xvii, i* Dulcignotti si dedicarono
per proprio conto alla pirateria con certe barche di
tipo speciale, e divennero terribili corsari. Un pa-
scià di Scutari, Mehemet Busciatli, verso la metà
del secolo xviii riusci finalmente a sorprendere e a
distruggere codeste barche tutte insieme nel porto
di Dulcigno vecchia, tre miglia a nord-ovest della
moderna Dulcigno. La vecchia Dulcigno fu dai
Veneziani cinta di mura, che ancora si ammirano.
L'Albania sotto la dominazione turca. — La storia
dell'Albania sotto la dominazione dei turchi an-
novera frequenti guerre coi montenegrini, anche in
sostegno della Turchia, e frequenti contese fra tribù,
specialmente fra Gheghi e Toski. Delle tribù al-
cune, come più volte accennai, rimasero quasi
indipendenti, particolarmente sulle montagne meno
accessibili, essendo solo obbligate a fornire sol-
dati irregolari, volendo, e a pagar tributo, po-
tendo. Anche parecchi dinasti rimasero per molto
tempo autonomi, come semplici vassalli della Porta,
Nuove signorie ereditarie, con vero carattere feu-
dale, sorsero anzi per opera di alcuni pascià indi-
geni preposti al governo 'di questa o di quella parte
— lóy —
dell'Albania (di Ipek, per esempio, di Scutari, di
Prizrend, di Uscub, di Janina). Avendo infatti la
religione di Maometto acquistati numerosi proseliti
tra gli shkipetari e in special modo tra i dinasti e
tra le più ricche famiglie, cui premeva di conservare
sotto la protezione del sultano i beni e la potenza,
tantoché tra i convertiti si citano persino alcuni
membri della famiglia Dukadgin, ne segoni che la
Turchia comprese ben presto la convenienza di af-
fidare a pascià e bey nazionali il governo del ter-
ritorio albanese.
Pascià e bey nazionali - Sollevaxioni degli (Albanesi.
— In questa persuasione venne la Porta subito dopo
la disfatta toccata al Pascià Pasvan-Oglù nel Campo
degli Spahi presso Scutari per opera degli albanesi
insortì nel 1572. Il primo pascià indigeno fu , pro-
prio il condottiero dei ribelli Ibrahim della famiglia
di thCahtnud ^eyoli di Ipek. I discendenti di Ibrahim
governarono una parte dell'alta Albania fino al
1830, e talvolta furono anche in guerra col sul-
tano. Un bel canto albanese del 1572 cosi celebra
il glorioso evento:
« Acuti gridi portati sulle ali rapide del vento
boreale si sono uditi nelle campagne; la polvere
del suolo sollevata in nuvole, che si scorgono da
lungi, annunzia la marcia di un esercito. Sono i
ventimila albanesi di Scutari, che dal vasto piano
di Lamac Spahive (Campo degli Spahi) si avanzano
contro il nemico.
« Chi é colui che, si differente in ciò dai suoi
compagni d'arme, mostra tanta semplicità nel ve-
stimento, e si grande modestia nel contegno ? colui
che ispira tanto terrore per la colossale statura e
— i68 —
pel fiero sguardo, colui che coU'accìaro fiammeg-
giante in pugno, precedendo i più valorosi, mostra
il cammino della battaglia? È desso Ibrahim della
illustre famiglia di Mahmud fìeyoli, il capo degli
albanesi, Teroe più illustre fra tutti quei guerrieri,
cosi per la sua virtù, come per il suo coraggio.
Avanzati, o Pasvan-Oglù, colle tue falangi, co' tuoi
Bosniaci, co' tuoi Rumelioti, co' tuoi asiatici; seb-r
bene tre volte più numerosi di noi, porteranno essi
stessi il disordine nelle loro masse, è saranno ca-
gione della disfatta delle tue schiere! Il sangue
scorre a flutti, e il suo corso é arrestato dalla bar-
riera che gli oppongono i cadaveri ammonticchiati
dei giannizzeri caduti in tre scontri ..... Un pa-
nico terrore si é impadronito delle truppe otto-
mane. Pasvan-Oglù, minacciato dai suoi, prende
la fuga, seguito dai suoi soldati. Perché fuggire, o
Pasvan? Avanzati, al contrario! Vieni per impa-
rare a conoscere il valore albanese, per far com-
prendere al sultano, tuo Signore, gli effetti d'una
guerra intrapresa per oscurare Tonor nostro e at-
tentare alla nostra libertà. Delle bandiere scono-
sciute fino ad ora, dei ricchi e splendidi stendardi
sono mescolati a quei dei vincitori; essi sono i
trofei della vittoria, le spoglie del nemico abbando-
nate nel campo di battaglia. Venite, o generosi
figli ! Venite o sposi adorati ! Venite nel seno della
vostra famiglia a riposarvi delle fatiche della guerra
e ad insegnare ai vostri figli ad imitare il vostro
coraggio. »
Tra la fine del secolo xvi e il principio del xvii
(1570, 1571, 1580, 1596, 1602, 1616) ripetute of-
ferte di sollevazione furono fatte alla Repubblica
— 169 —
veneta dai Ducadgini e dai Cernojevic'; mala Re-
pubblica non se ne prese cura. Tra i documenti
di quelle sollevazioni rimaste in progetto, raccolti
dal Cecchetti, questi addita come notevoli quelli
del 1602 e del 16 14, che narrano le deliberazioni
prese dai Capi del popolo albanese adunati in
Sant'Alessandro nel territorio dei Ducadgini, per
avvisare ai modi migliori per condurre ad effetto
l'impresa. A quelle assemblee faceva per l'appunto
difetto la segretezza, perché potessero approdare a
qualche cosa di pratico e di sicuro. Risulta infine
da quegli stessi documenti che tra il 161 5 e il 1619
un turco, che si spacciava per fratello del Gran
Signore e gran principe ottomano, insieme a un al-
banese, Giovanni Renesi, tentò in Francia qualche
pratica per sollevare l'Albania. Non se ne fece nulla,
secondo il solito.
Nel 1592 gli albanesi offersero la signoria del
loro paese a Carlo Emanuele di Savoia, ma Carlo
Emanuele, in guerra colla Francia, declinò l'offerta,
come pure la declinarono nel 1606 Rodolfo II
d'Absburgo, nel 161 5 il duca di Parma Ranuccio I
Farnese. Né miglior esito ebbero in quella stessa
epoca altre offerte al re di Spagna e ai Pontefici :
tanto scarsa speranza ponevano a quel tempo i
principi cristiani in una lotta coi Turchi.
Nel 1623 Sulejman pascià di Scutari invase con
80,000 soldati il Montenegro e fu respinto. Nel ri-
torno piombarono su di lui presso Podgoritsa gli
uomini delle tribù dei Cuci e dei Clementi e fe-
cero grandissima strage dei turchi. Sulejman tornò
nella valle del Sem l'anno appresso per vendicare
l'onta della sconfitta, e fu di nuovo battuto. Solo
— lyo —
nel 1638 la Turchia potè aver ragione della belli-
cosa tribù dei Clementi. Perduti i suoi condottieri
Vakodud e Hotash, la tribù si sottomise. Ai nota-
bili fu tagliata la testa e l'intera tribù venne tra-
piantata in altri luoghi, in massima parte nei din-*
torni di Prishtina. Nel 1645 i Clementi stabilirono
di tornare a viva forza nelle loro sedi primitive,
tra i maljsori, e ai turchi non riusci d'impedirlo.
Fondazione di Tirana. — Nella prima metà del
1600 sorse in mezzo a una pianura ben coltivata,
* a oriente di Durazzo e a non grande distanza dal
fiume Arzen da un lato e dagli affluenti di sinistra
dell' Ishmi dall'altro, la città di Tirana, che oggi
conta 12,000 abitanti, quantunque manchi di una fa-
cile comunicazione col mare. Secondo una tradizio-
ne albanese l'avrebbe fondata un potente bey di nome
Souleyman, della famiglia dei Barkine, e l'avrebbe
chiamata Teheran (donde Tirana) in ricordo di una
vittoria da lui riportata in Persia guerreggiando pei
Turchi. Souleyman mori a Bagdad e a Bagdad se
ne conserva il cuore mentre il suo corpo é sepolto
presso una moschea di Tirana, detta la vecchia Mo^
schea,
Vlslamismo si diffonde tra gli ^Albanesi, — Ma
intanto le conversioni degli albanesi, come anche
dei bosniaci, all'islamismo, si facevano sempre più
frequenti, e gli shkipetari maomettani, ben altri-
menti dei serbi, dei bulgari e dei greci rimasti fe-
deli alla religione di Cristo, cominciavano a consi-
derarsi come osmanli e ne erano alteri. Devoti al
Sultano, essi finirono col costituire il nerbo degli
eserciti turchi, tanto che si può bene affermare che
nella seconda metà del secolo xvii i turchi non
- lyi -
avrebbero certo avuta la forza d'invadere l'Ungheria
e di assediare la stessa Vienna (1683), senza la va-
lida cooperazione dei loro sudditi bosniaci e albanesi.
Né soltanto gli shkipetari maomettani appaiono in
questo singolare periodo della storia albanese alleati
degli ottomani, ma tali si mostrano per la maggior
parte anche gli shkipetari cristiani; il che non deve
far meraviglia, ove si pensi che le rozze tribù mon-
tanare dell'Albania, conservatesi cristiane, servendo
come milizie ausiliari volontarie negli eserciti otto-
mani, erano ben pagate e rimunerate, partecipavano
largamente alla spartizione dei lauti bottini di guerra,
e non erano per giunta soggette ad altro obbligo
che a quello di riconoscere la sovranità del Sultano.
Certo anche più indipendenti di loro rimasero i
vicini abitanti della Zernagora, che all'obbedienza
non si vollero mai sotto nessuna forma piegare;
ma questa completa autonomia essi non poterono
mantenere che a prezzo di guerre e di molestie
incessanti.
Ciò posto, era ben naturale che tra gli albanesi
il concetto dell'indipendenza assoluta non potesse
germogliare che nel cervello di qualche Pascià ere-
ditario, come vedremo nei seguenti capitoli.
Gli albanesi nelle guerre austro-turche. — 11 ca-
pitolo presente chiuderò con brevi cenni sulla
condotta degli albanesi durante le grandi guerre
austro-turche tra la seconda metà del secolo xvii
e la prima metà del xviii, e sulla origine delle
numerose colonie albanesi in Italia ed in Grecia.
Fra il 1683 e il 1690, mentre si combatteva fra
l'Austria e la Turchia la terribile guerra che ebbe
fine col trattato di Carlovitz, dopo la liberazione di
— 172 —
Vienna per opera di Giovanni Sobieski re di Po-
ionia, l'Albania orientale e l'alta Albania furono
invase dagli austriaci, che vennero battuti e costretti
a ritirarsi (a. 1689). Si segnalarono in questa cam^
pagna tra le milizie ausiliari della Turchia i mir-
diti.
Nell'anno 1700 compare l'eroe nazionale t prin-
cipe dei mirditi Ghion (Giovanni) Marku, che molte
imprese compiè per proprio conto e al servizio dei
turchi e dei pascià di Scutari, d'Ipek, di Prizrend
e di Giacova, ed è ancora celebrato nei patri canti
non meno di Scanderbeg. Non é certo che egli
discendesse dal famoso guerriero e legislatore Lek
Ducadgin. Certo è invece ch'egli fu il capostipite
di quella dinastia dei principi dei mirditi, alla quale
appartiene il vivente Prenk-Bih-Doda, di cui par-
leremo più oltre. Ghion Marku cadde ucciso in
uno scontro sul fiume Shkumbi. Soltanto le tribù
dei Clementi e dei Cuci appaiono durante le
guerre austro-turche collegate ai montenegrini con-
tro gli osmanli, e precisamente negli anni 1687 e
1688 in cui gli ottomani subirono nuove disfatte.
All'anno 1690 appartiene la traslazione del pa-
triarcato serbo di Ipek (Pekia) a Carlovitz, Esistono
ancora in Ipek il celebre monastero che serviva di
residenza al patriarca, e una chiesa del 1562 con
parecchie tombe di patriarchi.
Gli austriaci invasero di nuovo l'Albania nel
1737 e domandarono la cooperazione dei Clementi.
Essi accettarono, e il 12 ottobre si trovarono im-
pegnati nella sanguinosa battaglia di Valjevo. Di
20,000 albanesi e serbi non ne scamparono che soli
1000, fra i quali 500 Clementi, che si trasferirono
— 173 -
nel territorio austriaco, dove i loro discendenti po-
polano ancora alcuni villaggi. Anche questa volta
i mirditi combatterono insieme agli albanesi mao-
mettani pei turchi contro gli austriaci, tantoché
nel 1739, dopo il trattato di pace di Belgrado tra
l'Austria e la Turchia, un firmano di Mahmud I
concesse al principe dei mirditi ed ai harjaktar della
tribù un assegno annuo di 100 some di biada. Non
so con quanto fondamento taluni fanno risalire
questa concessione al 1689.
Colonie albanesi in Italia. — Ho accennato a piccole
colonie albanesi soggette all'Austria. Ben più impor-
tanti di queste colonie albanesi in Austria sono quelle
che sorsero in Italia, prima e dopo la morte di
Giorgio Scanderbeg. È opportuno, anzi necessario,
dire qualche cosa di queste colonie, che non hanno
dimenticata la propria origine e hanno contribuito
non poco a illustrare la nazione albanese.
Allorché Alfonso V d'Aragona volle consolidare
il conquistato reame di Napoli e domare i calabresi,
ben conoscendo il valore degli Shkipetari, per la
fama che già di sé aveva levato in Europa il Ca-
striota, ottenne che dall'Albania venissero a militare
al suo soldo molti albanesi, comandati da un tal
Demetrio Reres, che aveva seco due suoi figli
Giorgio e Basilio. Domata la Calabria, con diploma
del 1443, di cui si conserva copia nel seminario
albanese di Palermo insieme ad altri documenti che
si riferiscono alla fondazione di colonie albanesi in
Sicilia, Alfonso nominò il Reres governatore della
provincia di Reggio-Calabria, e volle che una parte
delle truppe albanesi si stabilisse in Sicilia, per di-
fenderla contro i possibili attacchi dei suoi rivali
- 174 -
angioini della seconda casa d'Anjou. Sorse cosi in
Sicilia la colonia di Contessa in provincia di Palermo,
circondario di Corleone (a. 1450). Intanto sorgevano
in Calabria i villaggi albanesi di Amato, Andalo,
Arietta, Casalnovo, Caraffa, Vena, Zangarone, Palla-
gorla, S, Nicola delV^Alto, Carfini, Giwerie, Marce-
dusa e Zagaria, tutte in provincia di Catanzaro.
Qjaando Scanderbeg accorse in aiuto di Ferdi-
nando I, figlio di Alfonso, ed ebbe in premio, come
sappiamo, i feudi di Trani, S. Giovanni Rotondo e
Siponto, molti de' suoi quivi rimasero dopo la sua
partenza, adescati dalla feracità del suolo e dalla «-
mitezza del clima. Altri ne vennero, vivo ancora
Scanderbeg, e più anche dopo la sua morte e dopo
la caduta di Croja e di Scutari in potere della
Turchia, bene accolti dal re Ferdinando, che loro
concesse terre da coltivare e aiuti in denaro nei
primi anni della loro dimora. Cosi fra il 1461 e
il 1480 ebbero origine le colonie albanesi di Fag-
giano, S, Tietro in Galatina, Martignano, Montepa-
rano, %pccafor7jita, S. Martino, S. Mariano, Sier^
Ilaria, Corigliano, Zollino nella terra d'Otranto o
provincia di Lecce, alcune delle quali si dicono
greche non solo perché come quelle di Sicilia pro-
fessano il rito greco, ma anche perché traendo ori-
gine da paesi greci della bassa Albania parlano greco.
Sorsero in quella stessa epoca e per le stesse ragioni
le colonie di Casalnovo, Casalvecchio, 5. Paolo, Greci,
Panni, Castelluccio de' Sauri e Facta in Capitanata o
provincia di Foggia, di S. Elena, S. Croce di Migliano
e Colle del Lauro nel Molise o provincia di Campo-
basso ; di S. Demetrio, Macchia, S. Cosmo, Vaccari\%p,
S, Giorgio Albanese, Spezzano, Lungro, Firmo, Acqua"
- 175 —
formosa^ Castroregi^, 5. Costantino ^ Cavallarino,
Cervicato, Cerieio, Civita, Frassineto, Mongrassano,
Plaiki, Penile, Rota, S. Basilio, S. Benedetto Ul-
lano, S. Caterina, S. Giacomo, S. Lorenzo, S. Mar"
tino, 5. Sofia d'Epiro, Serra di Leo Marri e Falco-
nara Albanese in Calabria, provincia di Cosenza
(circondari di Rossano, Paola e Castrovillari).
I nomi di tutti questi villaggi sono, come ognuno
vede, quasi tutti italiani. Ma ciò non deve parere
strano, perché si trattava di contrade che già ave-
vano il lóro nome, ma erano quasi affatto spopo-
late prima dell'arrivo degli albanesi.
Fra il 1481 e il 1492 altri albanesi cristiani emi-
grarono recandosi in Sicilia, ove sorsero le colonie
di Palatilo uidrianOy 'Piana dei Greci, Santa Cristina,
Gela e Mexxpjuso in provincia di Palermo (circondari
di Corleone, Palermo e Termini Imerese), Sanf (An-
gelo in provincia di Girgenti, San Michele di ^agoria
e ''Bronte in provincia di Catania.
Nel 1534 gli albanesi di Corone in Morea, che
due anni prima si erano sottomessi ad Andrea
Doria, ammiraglio genovese al servizio dell'impe-
ratore Carlo V, essendo la loro città caduta nuo-
vamente in potere dei turchi, ottennero dal viceré
di Napoli Don Fedro de Toledo di essere accolti
nell'Italia meridionale e vennero su 200 navigli, e
alcuni si unirono ai loro connazionali, già dimo-
ranti in Sicilia e nel continente, altri si stabilirono
a Napoli, a Melfi e nell'isola di Lipari, altri infine
fondarono le colonie di barile, D^aschite, San Co-
stantino Albanese, San Taolo Albanese, brindisi della
Montagna nella Basilicata o provincia di Potenza,
e di Farneta in provincia di Cosenza.
Nel 1680 nuovi emigrati albanesi fondarono Ururiy
Torlocannoney CampomarinOy 3^ontecilfone nella pro-
vincia di Campobasso e Chieuti nella Puglia (pro-
vincia di Foggia).
Nel 1744, regnante a Napoli Carlo III di Bor-
bone, gli abitanti cristiani di un paese dell' Acroce-
raunia, soverchiati dai maomettani, vennero con-
dotti da tre sacerdoti in Italia e furono collocati
nel feudo di badessa già appartenente ai Farnesi
di Parma nell'Abruzzo ulteriore (provincia di Te-
ramo), e quivi fondarono il villaggio di Villa ba-
dessa.
Finalmente sotto Ferdinando IV vennero gli ul-
timi albanesi, che si stabilirono a Brindisi.
Oggidì si contano in Italia una settantina di vil-
laggi di origine albanese : venticinque sono cristiani
cattolici di rito greco unito e tutti gli altri di rito
prettamente latino. Peraltro parlano la lingua albanese
secondo Francesco L. PuUé, che di codesti villaggi
ne omette parecchi, solo 50,000 persone (V. La Terra
del Marinelli, voi. IV. L'Italia, cap. XI, Le lingue
e le genti d'Italia di Francesco L. PuUé, pag. 508),
Connesso alla trasmigrazione degli albanesi in
Italia dopo la morte di Scanderbeg é il trasporto
dell' immagine di una Madonna detta del ^uon
Consiglio da Scutari a Genazzano nel Lazio. Co-
desta Madonna reputata miracolosa é oggetto di
un culto secolare e méta di devoti pellegrinaggi
per le popolazioni rurali del Lazio e degli Abruzzi.
La leggenda racconta che il 25 aprile 1467, poco
dopo la morte del Castriota, mentre i turchi con-
quistavano l'Albania e i cristiani l'abbandonavano,
quella immagine per non essere profanata dagli
— »-
- 177 —
infedeli si distaccò dalla parete in cui si trovava,
e trasportata dagli angeli traversò l'Adriatico e
l'Appennino e venne a posarsi vicino a Roma, a
Genazzàno del Lazio, feudo dei Colonna e patria
del pontefice Martino V (Oddone Colonna) e di
quel Colonna Marcantonio che fu tra i vincitori di
Lepanto. A Scutari si mostra àncora nella parete
di una chiesa diroccata presso la città il luogo dove la
immagine si trovava, e quel luogo é anche là visitato
dai cattolici albanesi con grande devozione. Scutari é
sempre pei cattolici albanesi sotto la protezione
della Madonna, cui é dedicata la nuova cattedrale,
essendo state tutte le chiese di Scutari ai tempi
della conquista turca atterrate o convertite in mo-
schee. Una canzone popolare cattolica invoca il
ritorno della miracolosa immagine a Scutari, che
non ne é immemore. Quanto a Genazzàno, quivi
ancora vivono delle famiglie che si vantano di di-
scendere da pellegrini di Scutari; quegli stessi
forse che vi trasportarono la portentosa Madonna.
Colonie albanesi in Grecia, — Meno note delle
origini delle colonie albanesi d'Italia sono le origini
delle colonie albanesi della Grecia. Talune di esse
si fanno persino risalire a genti illiriche di già sta-
bilite in Grecia fin dai tempi antichi, citandosi in
proposito un passo di Tucidide, in cui lo storico
della guerra del Peloponneso parla di una gente
barbara dimorante ai piedi dell'Acropoli, dove anche
oggi esiste una colonia albanese. « Albanesi nel
Peloponneso — scrive Gustavo Meyer — sono
nominati per la prima volta nel 1349, ma non si
può dubitare che già molto prima alcune schiere
albanesi abbiano preso dimora in Grecia. » Dopo
12
— 178 —
la conquista ottomana molti altri shkipetari emigra-
rono nell'Eliade, e il loro nnmero andò continua-
mente crescendo per le naturali relazioni fra l'Epiro
e la Grecia.
Venturieri albanesi, — Giova infine ricordare che
molti altri albanesi abbandonando la patria ridotta
in servitù, anzi che adattarsi a costituire pacifiche
colonie di agricoltori in paesi stranieri, preferirono
di dedicarsi, conforme ai loro bellicosi istinti, come
gli svizzeri, al mestiere delle armi. Furono essi che
costituirono almeno in parte le famose milizie degli
stradiotti (JStratioti\ cioè soldati della repubblica ve-
neta. Altri di essi nel secolo xvi militarono in Inghil-
terra, in Germania, in Francia, negli eserciti di
Enrico VII, Massimiliano d'Austria, Francesco I.
Le gesta di uno di loro. Mercurio ^oua, compiute
fra il 1495 e il 1520, furono descritte in versi greci
da Gorona'ios di Zante, cui le dettò in prosa lo stesso
Bona, che aveva visti da vicino Carlo VII, Luigi XII
e Giulio II e aveva assistito alle sedute del Senato
veneziano. Sono altresì ricordati nella storia i di-
scendenti dei Castrioti, dei Renesi, dei Cos;azza,
dei Leca.
Tra i documenti raccolti dal Cecchetti c'^ una
deliberazione del Senato veneto del 9 aprile 1500
sopra uno Scanderbeg, che voleva tentare la riscossa
dell'Albania a prò di Venezia.
Nei primi anni del secolo xvi uno Scanderbeg da
Ravenna era capitano dì soldatesche venete, lodato
per le sue operazioni fedeli e valorose. Mori a Fama-
gosta nell'isola di Cipro.
Un altro erede del nome dei Castrioti fu Antonio
marchese d'Atripalda e duca della Ferrandina, va*
— 179 —
loroso capitano ed amico di Carlo V, morto assas^
sinato il 17 febbraio 1548 a Murano, dov'è sepolto.
Unico superstite della discendenza dei Castrioti è
presentemente un marchese Castriota Scanderbeg,
che vive a Napoli.
Il reggimento %eal Macedonia istituito da Carlo III
nel regno di Napoli componevasi di albanesi.
Codesto reggimento si segnalò per valore ed ardi-
mento nella famosa battagha di Velletri (a. 1744)
e nella difesa di Guastalla (a. 1746) durante la
guerra di successione d'Austria. È notevole un
rescritto del re Carlo HI, che proclama corpo
nazionale il reggimento %eal Macedonia e lo fissa
di guarnigione a Napoli, accennando ai diritti
dei re di Napoli sull'Albania: diritti che probabil-
mente si facevano risalire per eventi a noi noti ai
re normanni, svevi e angioini. « Avendo in vista
il Re il diritto di dominio che gli compete sugli
albanesi, dei quali é composto il reggimento « di
fanteria %eal Macedonia • ha dichiarato e
determina che il mentovato reggimento sia consi-
derato come corpo nazionale, e che aver debba
per queste circostanze le prerogative e preferenze
che gli appartengono. » Questo reggimento, il cui
nome sulla fine del secolo xviii era stato cambiato
in quello di Reggimento ^Albanese, fu sciolto nel
1812^ quando il re Ferdinando concesse alla Sicilia,
per suggestione degli inglesi, la costituzione di
Spagna. La maggior parte degli ufficiali e soldati
vennero rimandati in patria. I pochi che espressero
il desiderio di rimanere furono incorporati in quei
reggimenti napoletani, cui si dette il nome di esteri
per distinguerli dai reggimenti siciliani, che si chia-
— i8o —
marono nazionali. Tra gli ufficiali superiori che
rimasero nell'esercito napoletano merita di essere
ricordato il tenente generale Demetrio Leca o Lecca,
nato nel 1799 da una famiglia chimariota. Allievo
del R, Collegio delV<iAnnun7Jatella^ nel quale per de-
creto di Carlo III doveva essere riservato costante-
mente un posto a un albanese di nobil famiglia,
Demetrio Leca fu ufficiale nel reggimento %eal Ma-
cedonia e sali in seguito ai primi gradi. Mori nel
1862.
Del resto la formazione di una milizia albanese
nel Reame di Napoli ai tempi di Carlo III di Bor-
bone serve anche a dimostrare, che appena ricosti-
tuito uno stato indipendente nell'Italia meridionale,
gli occhi del nuovo Principe si erano rivolti senza
indugio verso l'opposta riva dell'Adriatico, mentre
ìa dominazione spagnola aveva annientata qualsiasi
relazione fra le due sponde, né era valsa a ranno*
dare codeste relazioni la breve dominazione austriaca.
Ed ora torniamo alla storia dell'Albania, che an-
cora ci riserba fatti di singolare interesse.
Capitolo IV.
Bey e Pascià ereditari — I Busciatli di Scutari
— Ali Tepelenli (di Tepelen) Pascià di Janina
(1750-1831).
^ey e Pascià ereditari, — Si é già visto come sotto
la dominazione ottomana l'Albania fosse governata
in modo da non avere un solo ed assoluto signore,
pascià o vizir, che la reggesse tutta a nome del
Padiscià. Città e tribù costituivano quasi altrettante
— i8i —
repubbliche o piccoli stati vassalli e tributari della
Porta, retti da più o meno potenti signori o bey e
da pascià ereditari, i quali non si peritavano di met-
tersi in conflitto anche coi turchi, se il loro parti-
colare interesse lo richiedeva. Causa di tali conflitti
era non di rado un manifesto desiderio di assoluta
autonomia.
I ^usciaili, — Fra questi ambiziosi bey e fra
queste famiglie di pascià ereditari, di ciascuna delle
quali non sarebbe né interessante né agevole tessere
la storia, meritano particolare menzione nella seconda
metà del secolo xviii e nei primi lustri del xix i
Busciatli di Scutari e Ali di Tepelen. Obbedirono i
primi esclusivamente all'impulso di personali ambi-
zioni. Cominciò il secondo allo stesso modo e fini
coU'atteggiarsi a vindice dell'indipendenza nazionale,
greca e albanese.
La famiglia dei Brusciatli pervenne alla dignità
del pascialato verso la metà del secolo xviii. Ne é
il capostipite Mehemet Bey di Busciat, un villaggio
presso Scutari che era un tempo un luogo di piacere
delle nobili famiglie scutarine, adorno di eleganti
edifizi di cui oggi non esistono che le rovine. Me-
hemet bey, quantunque maomettano, pretendeva di
discendere da un ribelle fratello di Giorgio Cerno-
jevic', signore del Montenegro, eh' crasi rifugiato a
Busciat. Dato che ciò sia vero, era evidentemente
la sua come tante altre una famiglia dicristiani
rinnegati.
Mehemet 'Brusctatlu — Mehemet Brusciatli per-
venne al pascialato con la violenza e con l'astuzia.
Essendosi infatti stabilito a Scutari nel quartiere o
sobborgo di Tahakiy ch'era una volta la Scutari
— l82 —
veneziana, e avendovi acquistato credito e prestigio,
si recò un giorno incontro a un nuovo pascià, che
la Porta inviava a Scutari per sedarvi una contesa
sorta fra i due principali quartieri della città, Tabaki
e 7erii. Incontratolo con piccola scorta egli lo
indusse a recarsi in casa sua, e quivi lo trattenne
come prigioniero, spogliandolo anzi tutto di ogni
suo avere e quindi costringendolo a chiedere alla
Porta il proprio richiamo è ad affermare, per giunta,
che nessuno poteva essere tanto degno e capace di
reggere il pascialato di Scutari quanto Mehemet
Busciatli.1
Costui fu infatti nominato pascià, e di li a poco
tempo ottenne altresì di trasmettere ai suoi discen-
denti il proprio potere. Dopo di che egregiamente
secondato dai fìgli Mustafà, Kara Mahmud, Ibrahim
e Ahmed, si sbarazzò dei bey rivali e delle loro
famiglie, distruggendole con inganni e tradimenti
degni di Cesare Borgia. Consolidata cosi la propria
signoria, si alleò colle tribù Maljsore e coi Mirditi
riconoscendone l'assoluta indipendenza e mosse con-
tro Dulcigno, ch'era diventata come già sappiamo
una repubblica di Corsari. Sorprese e distrusse la
flottiglia di barche che i pirati dulcignotti tenevano
riunita nel vecchio porto, e costrinse la città a sot-
tomettersi. Quindi assoggettò con pari accorgimento
e non minore energia Alessio, Tirana, Elbassan, e
il territorio dei Ducadgini, il cui pascià Karaman
divenne suo vassallo.
Nel 1768, allorquando la Porta inviò un esercito
di 120,000 uomini contro il Montenegro, che alla
dominazione turca non voleva piegarsi a nessun
costo, il figlio di Mehemet, Kara Mahmud, fece parte
- i83 -
della spedizione con 40,000 uomini. L'impresa falli
e Kàra Mahmud battuto co' suoi albanesi dai mon-
tenegrini, tornò indietro verso Antivari con 15,000
uomini di meno. Subito dopo morì Mehemet pascià,
avvelenato, a quanto si dice, per ordine del governo
turco, perché si era rifiutato di partecipare alla guerra
contro la Russia, regnante la zarina Caterina II.
Non dissimile sorte toccò al suo figlio primogenito
Mustafà in Morea, dov'erasi recato per ordine del
sultano con 3000 gheghi per punire i toski, che
opprimevano le città greche di cui si erano impa-
droniti. Ottenuto l'intento, il Gran Signore permise
ai greci di sbarazzarsi anche dei gheghi che li ave-
vano liberati, e neppure uno di essi rivide la patria.
Kara Mahmud ^usciatli, — Kara Mahmud rac-
colse l'eredità paterna e rese ben presto il suo
nome assai temuto tra gli elleni, i toski, gli slavi
e gli ottomani. Egli si mostrò dapprincipio bene-
volp verso la Porta, e nel 1770 condusse 20,000
gheghi a sedare la rivoluzione ch'era scoppiata in
Grecia per eccitamento dei Russi. « Sciami di alba-
nesi — scrive uno storico greco — piombarono
sul Peloponneso e sparsero per tutto il paese la più
grande desolazione 3>.
Tornato a Scutari Mahmud volle vendicarsi dei
montenegrini, che Io avevano battuto pochi anni
prima, ma non ebbe in questa sua spedizione mi-
glior fortuna. Bruciò due villaggi, rapi degli ar-
menti, ma dopo aver perduto 1000 dei suoi 30,000
guerrieri dovette ritornarsene. Più fortunata fu una
nuova spedizione contro la Zernagora nel 1785.
Egli approfittò dell'assenza del Vladika (Principe
Vescovo) Pietro I Petrovic', e nel maggio di quel-
— i84 —
Tanno invase il Montenegro, accompagnato da Prenk
Leka, nepote del famoso Ghion Marku, e dai suoi
Mirditi, occupò Celtigne, ne bruciò il monastero,
levò il tributo, prese ostaggi e se ne ritornò indietro
violando, contro le promesse fatte anteriormente al
Provveditore straordinario di Cattaro, il territorio
veneziano, bruciando chiese e conventi e tutto de-
vastando. Dopo di che se ne venne ad Antivari e
di là alla residenza di Scutari.
Il Senato veneto incaricò allora il Bailo, cioè il
suo ambasciatore a Costantinopoli, di chiedere una
riparazione pei danni e per le offese. Il Sultano,
colta ben volentieri l'occasione per finirla col troppo
intraprendente vassallo, inviò un esercito per pu-
nirlo. Il bosniaco Stanitsa e Bateli capo della tribù
dei Dibra^ alleati di Mehemet, trattennero l'esercito
turco fino all'arrivo del pascià coi suoi albanesi. I
turchi subirono una completa disfatta nella famosa
pianura di Cossovo. Ma gli alleati di Mahmud fu-
rono da lui assai male ricompensati. Avendogli il
Sultano mandato a dire che gli avrebbe restituita
la sua grazia, se gli avesse mandate le teste di quei
suoi alleati, egli ottemperò alla sleale richiesta. « An-
cora manca una testa, gli fece scrivere il Padiscià,
la tua! j>
Il Pascià di Scutari vide allora la necessità di
procacciarsi altri e più potenti amici, e dappoiché
era per più indizi evidente, che l'Austria fin dai
tempi di Maria Teresa volgeva cupidi sguardi verso
l'Adriatico, egli offerse all' imperatore Giuseppe II,
figlio di Maria Teresa, i propri servigi, e durante
le trattative adoperò parole cosi benevole verso i
cattolici, che a Vienna si sperò addirittura nella sua
- i85 -
conversione. È noto infatti che l'Austria appunto
col proteggere gl'interessi del cattolicismo in Al-
bania e col favorire e istruire gli albanesi cattolici
mirava a immischiarsi nelle faccende albanesi e ad
acquistarvi credito ed influenza. In un'assemblea di
capi convocata a Podgoritsa, Mahmud giurò ad un
tempo sul Corano e sul Vangelo, che avrebbe com-
battuto ad oltranza contro la Turchia, ed ebbe poco
dopo in regalo da Giuseppe II una grande croce
d'argento massiccio.
Il Sultano Abdul-Hamid fu oltremodo sdegnato
di quest'aperta ribellione e dei progressi dei giaurri
(infedeli) in Albania. Per ordine dello Scheich-uUIslam
il gran Muftì pronunciò l'anatema contro Kara
Mahmud e lo dichiarò fermatili^ cioè scomunicato
con firmano officiale. Ventiquattro pascià sotto il
comando supremo del Serraschiere Kara-Zechi, si
accinsero a schiacciare«il ribelle con 60,000 uomini.
Mahmud ebbe appena il tempo di rinchiudersi nel
castello Rosafa di Scutari con 80 guerrieri, e di là
tenne segrete pratiche con alcuni dei pascià asse-
dianti, non meno di lui ambiziosi, tra i quali v'era
un altro famoso ribelle, Ali di Tepelen pascià di
Janina, cui ben poco premevano, pei disegni che
andava di già mulinando, gl'interessi del Governo
ottomano. Incoraggiato dal benevolo atteggiamento
dei pascià, Kara Mahmud finse di volersi arrendere
e chiese di recarsi al campo degli assedianti. Appena
egli vi fu giunto, scoppiò una insurrezione fra le
truppe albanesi. Le tribù cattoliche degli Scialla e
degli Sciosci, secondate da quella dei Posripa, fu-
rono le prime a combattere contro Kara-Zechi.
Mahmud s'impadronì dell'artiglieria. I pascià si voi-
— i86 —
sero in fuga e Tesercito turco venne tagliato a
pezzi. Selim pascià, che con 15,000 bosniaci accor-
reva in aiuto di Kara-Zechi, fu sbaragliato dalla
tribù degli Hotti. Quella dei Mirditi unita a genti
maljsore sterminò un altro esercito condotto dal
fratello del Serraschtere Ibrahim, mentre lo stesso
Mahmud incendiava la flottiglia turca ancorata alla
foce della Bojana.
Albanesi musulmani e cristiani, gheghi e tosici,
si erano per la prima volta uniti e avevano vinto.
Mahmud era al colmo della sua potenza.
Una canzone ghega musulmana celebra ambedue
queste memorabili vittorie del pascià di Scutari.
Ecco anzitutto la descrizione della battaglia vinta da
Mahmud.
« Per tutta la Rumelia si sparge la fama, che
il Sultano abbia dato ordine ai tre viziri di mettersi
in marcia sotto il comando del serraschiere. I pascià
hanno mandato Causcioli (un ghego) a Prishtina
per raccogliere gli spahi e condurli seco. Cosi
vuole il Sultano.
« In un'ora quest'annunzio é pervenuto a Mahmud
pascià. Col coraggio del drago, egli misura i piani
della Rumelia in un istante.
a Causcioli guarda coU'acuta sua vista. Da lon-
tano, da molto lontano io veggo arrivare il leone.
Egli piomba colle sue schiere sugli spahi. Guardate
ciò che fa l'eroe... ..
« La battaglia e il fuoco durano fino a mezza-
notte. Tutti i pascià sono fuggiti. Oh come il loro
esercito é messo a fil di spada !
a Selim pascià co' suoi bosniaci sfugge agli as-
salti degli Hotti, ma Ahmed pascià (// fratello più
— iSy —
giovane di Kara Mahtnud) e gli albanesi combattono
come eroi dell'antichità.
« Duecento, trecento teste sono tagliate. Dei capi
ne rimangono sette sul campo della strage. Le
pietre, gli alberi, sono imbrattati di sangue. Tutto
questo toccò agli infelici bosniaci. »
E qui il poeta passa a descrivere l'assedio del
castello %osafa,
« Ma guardate il vizir del mare. Egli viene col
suo naviglio che porta nei fianchi la strage. Le
pianure e il mare sono coperti di soldati
cr Essi potrebbero raccogliere il mondo intero,
ma non riuscirebbe loro d'impadronirsi della for-
tezza, di questa opera divina.. ..
« Majo Babà (un pascià albanese, morto combat-
tendo per lo Islam sotto le mura di Drivasto e ono-
rato fra i santi musulmani) e tutti i santi pregano
Allah di non abbandonare i suoi fedeli servi alba-
nesi
a Andiamo, corriamo contro il nemico, racco-
mandiamoci ad Allah! Cosi dice il leone e piomba
fuori abbandonando i bastioni. Alla sua vista il
nemico atterrito prende la fuga, e la maggior parte
degli osmanli rimangono suoi prigionieri. Tabaki,
Terzi, quanti sono i nostri ? Rimania^no tutti presso
il nostro signore. Mostriamogli ogni giorno che
siamo pronti a morire per lui. Allah sia lodato,
che gli potemmo provare il nostro coraggio.
« E voi , uccelli dell' aria e della montagna,
piangete Causcioli, l'albanese traditore della sua
patria..... »
Liberatosi dei turchi, l'astuto e sospettoso Mahmud
volle anche troncare i maneggi dell'Austria. A
— i88 —
un'ambasceria mandata da Giuseppe II con ricchi
doni e 50,000 ducati toccò una ben triste sorte.
Mahmud conchiuse un trattato di alleanza, accettò i
doni, li ricambiò con un fucile albanese e due
belle pistole e accompagnò gli ambasciatori fino
alla Moraccia. Sull'altra riva li aspettavano parecchi
albanesi, che tagliarono loro la testa, li spogliarono
delle vesti e dei doni e mandarono ogni cosa al
pascià di Scutari. Le teste degli ambasciatori au-
striaci furono da lui spedite a Stambul e bastarono
a riconciliarlo colla Porta (a. 1789).
Ma la vittoria, che gli aveva arriso contro i turchi,
non gli arrise ugualmente contro i montenegrini,
dei quali fu sempre nemico, quantunque si vantasse
di discendere da una famiglia di principi della
Zernagora.
Il 13 ottobre 1789 fu battuto dai montenegrini
suo fratello Ibrahim. Tra la fine del 1789 e il prin-
cipio del 1790 egli stesso di ritorno da una poco
fortunata spedizione in Croazia, vide quasi annien-
tato il suo esercito dai montenegrini alleali cogli
Erzegovesi e coi Bocchesi (abitanti delle Bocche di
Caltaro). Due anni dopo mandò contro il Monte-
negro 12,000 uomini con alcuni suoi fidi luogote-
nenti, e furono respinti lasciando sul terreno 90
morti e 270 feriti. Accorse egli stesso con 10,000
guerrieri e il Vladika Pietro I gl'inflisse una nuova
disfatta. Mahmud perdette 1000 uomini, e ferito
egli stesso fuggi. I distretti di Piperi e di Bielo-
pavlic' rimasero da quel momento soggetti al Mon-
tenegro.
Lasciati in pace i montenegrini , 1* irrequieto
Mahmud si die a molestare altri vicini, e nel 1795
— 189 —
mosse guerra a Kurd pascià di Berat, capitale della
Toskeria, il quale vantavasi, non si sa con quanto
fondamento, di discendere da Giorgio Scanderbeg.
Certo é che la sua famiglia governava quel pascia-
lato sin dal secolo xvi. Anzi i pascià di Berat ave-
vano esteso il loro dominio sopra una buona parte
dell'Albania meridionale, v'ha chi dice sino alla
stessa Janina. Quindi il pascià di Scutari assalendo
Berat mirava evidentemente a propagare alla sua
volta la propria dominazione su tutta l'Albania.
Kurd aveva fama inoltre di uomo pacifico è poco
disposto a uscire in campo, ed era perciò poco
accetto ai suoi sudditi toski, non meno bellicosi dei
gheghi.
Cominciarono ben presto le diserzioni. Il genero
di Kurd, che governava Elbassan, dopo un effimero
tentativo di resistenza si accordò con Mahmud. Il
figlio di Kurd, inviato a soccorrerlo, ritornò fug-
gendo a Berat. Il bey di Cavaja Mahmud, che
aveva sposata una sorella di Kara Mahmud, Krajo-
Khanum, quantunque l'avesse ripudiata, stette per
l'aggressore.
Se non che Mahmud, dopo un combattimento
vittorioso che costò la vita a 6000 albanesi, e dopo
aver devastato il paese con grande furore, se ne
tornò indietro, forse perché minacciato sulla sua
frontiera settentrionale, e abbandonò il suo propo-
sito di impadronirsi di Berat.
La guerra fratricida aveva fatto rinascere l'odio
fra i gheghi e i toski, e una canzone popolare
ghega celebra la vittoria di Mahmud, il valore dei
gheghi e l'ignavia dei toski al loro paragone.
« Aga Ruka grida: O Toski, perché fuggite
— 190 —
come donne? A che vi servono le sciabole, che
portate al fianco? Meglio mille volte morire che
vivere disonorati.
« Essi non odono la sua voce. Essi fuggono in
disordine. Andate, o Toski di Berat e
non vi misurate più con gli Scutarini. Essi non
sanno fuggire, ma sanno in vece con le loro lunghe
armi colpire da lontano. »
L'anno appresso (1796) Kara Mahmud raccolse
20,000 guerrieri e assali di nuovo il Montenegro,
ma questa volta perdette egli stesso nel terribile
scontro la vita. I canti della Zernagora dicono che
3000 albanesi perirono co] loro capo. Una canzone
ghega, diretta al bey di Cavaja, attribuisce a due
cagioni la disfatta é la morte del fratello di Krajo-
Khanum, sposa del bey di Cavaja: la precau-
zione dei Montenegrini di nascondersi dietro le
siepi e le roccie e l'assenza dei mirditi, dei fedeli
guerrieri mirditi, che non erano là a sostenere il
leone di Scutari. Se non che un'altra tradizione af-
ferma che il capo dei mirditi Prenk Leka accom-
pagnava Mahmud. I montenegrini, secondo il poeta
albanese, uccisero il pascià con le palle usctle
dalle siepi: « Avanti miei fedeli mirditi, egli
conchiude, fate piangere a quegli infedeli lacrime
di sangue per vendicare il Bassa, che, se voi a-
veste preso parte alla battaglia, non sarebbe rimasto
solo. »
Certo é ad ogni modo che i montenegrini ucci-
dendo l'intraprendente e ambizioso pascià di Scutari
resero al loro secolare nemico, il padiscià, uno
straordinario servigio.
Ihrahim 'Busciatli. I Toptan di Tirana, — Morto
- 191 -
Kara Mahmud, il governo del pascialato di Scutari
passò a suo fratello Ibrahim, che essendo stato subito
riconosciuto dalla Porta mostrò la sua gratitudine
adoperandosi a propagare Vlslam attorno a Scutari
e combattendo i bey poco devoti all'autorità del
Sultano. Tra costoro prin^eggiava Kaplan pascià della
fanijglia d^i Toptan, la quale pretendeva di discen-
dere dai famosi Topia ed alla originaria signoria di
Croja, riacquistata nei primi anni del secolo xvi da
un Ali bey, dei Topia unico superstite, aveva ag-
giunta negli ultimi anni del secolo xviii la signoria di
Tirana. Kaplan pascià mori di veleno nel 1816, e gli
successe il figlio Abdul Rahman^
L'altro fratello di Ibrahim Bosciatli, Ahmet, era
caduto in potere di Kara-Zechi pascià nel 1786, du-
•
rante l'assedio di Scutari, ed era stato decapitato.
Nel 1806, mentre Zerni Giorgio e i suoi serbi
davano molto da fare al sultano Selim III, Ibrahim
ebbe ordine di marciare contro i ribelli e raccolse
45,000 uomini. Altrettanti ne aveva raccolti tra i
serbi mussulmani il pascià di Bosnia, Bekir: ma
albanesi e bosniaci non riuscirono ad aver ragione
degl'insorti.
Musiafà 'Busciatli. — Ibrahim mori senza lasciare
figliuoli e la successione toccò al nepote Mustafà,
contro il quale Ali di Tepelen pascià di Janina
eccitò il principe dei mirditi Prenk Leka. La guerra
durò qualche anno, e il pascià di Scutari fu alfine
costretto a comprare la pace a caro prezzo.
Nel 181 2 Ali di Tepelen legavasi in parentela
con Mustafà dandogli in isposa una sua nepote, che
il sospettoso pascià di Scutari mandò a prendere
da bey di Dibra con 800 cavalieri, non stimando
— 192 —
prudente muoversi egli stesso dal suo Konak o pa-
lazzo nel Castello Rosafa.
Giunti a questo punto ci é necessario conoscere
chi era e che cosa macchinava a quel tempo Ali
di Tepelen.
Alt di Tepelen, — In una delle più tetre gole d'una
montuosa contrada nel territorto dei Toski, a Tepelen,
nacque (Ali nel 1741 da una nobile famiglia Toska,
convertita come tante altre all'islamismo e dedita alla
guerra di generazione in generazione. L'avo suo
Muktar pascià cadde combattendo per la Turchia al
principio del secolo xviii. Il padre Veli bey venne
scacciato da Tepelen dai propri fratelli e postosi a
^capo di una Banda di clefti riusci a vendicarsi dei
suoi persecutori. Chiamavansi Clefti o (Armatoli i
battaglieri abitanti di alcune contrade della Grecia
settentrionale, delia Tessaglia, della Macedonia e
dell'Epiro, che rifugiatisi sui monti fin dai tempi
di Maometto II, quivi esercitavano sotto propri
capi il brigantaggio: donde il nome di Clefti, I
pascià della Macedonia, della Tessaglia e dell'Epiro
spesso ne riconoscevano l'indipendenza e rispetta-
. vano l'autorità dei loro capi, e non meno frequen-
temente li assoldavano come milizie irregolari. I
Clefti della Tessaglia e dell'Epiro furono nel 1821
l'anima e la forza della greca insurrezione. Essi
sono anche noti sotto il nome di Talikari^ cioè
forti giovani. Per mezzo di questi giovani Veli bey
punì i fraterni oltraggi, ma non lasciò, morendo,
al figlio Ali che una capanna e poche e incolte
terre. La vedova di lui Khamco, figlia del Bey di
Conitsa, era donna assai energica, e coltivò nel
proprio figliuolo la brama della potenza e l'istinto
- 193 -
del comando. « Debbo tutto a mia madre — dice
egli stesso in certe memorie frammentarie dettate
a un greco suo segretario — perché mio padre
morendo non mi aveva lasciato che un buco e pochi
campi. La mia immaginazione accesa da colei che
mi die due volte la vita, dacché di me fece un
uomo e un vizir, mi svelò il segreto del mio de-
stino. Ond*é che io non sognai altro che potenza,
tesori, palazzi, insomma tutto ciò che il tempo ha
effettuato e ancora mi promette, perocché il segno
a cui son giunto non é il termine delle mie spe-
ranze. »
La madre gli procurò anzi tutto i mezzi per met-
tere insieme una banda di Clefti toski, coi quali
doveva vendicarla degli abitanti di Hormovo e di
Cardiki, che avendola catturata dopo la morte del
marito si erano permessi di offenderla atrocemente,
e non l'avevano lasciata libera che mediante un
grosso riscatto. Vinto fuggi a Tepelen, dove la
fiera donna lo accolse con amare parole. Cadde
quindi con altri clefti in potere di Kurd pascià di
Berat, e invece di essere condannato a perire sulla
forca come i suoi compagni, fu per la sua affasci-
nante giovinezza e perché era parente di Kurd dal
lato materno, trattato con ogni cortesia e quindi
rilasciato.
A 24 anni sposò Emineh, figlia di Capelan pa-
scià di Delvino e diede una sorella in moglie ad
Ali pascià di Argirocastro. Capelan pascià di li a
poco tempo, per aver mostrate delle velleità d'in-
dipendenza dalla Sublime Porta e per avere inco-
raggiato delle ribellioni nella bassa Albania, fu
preso, e per ordine del sultano decapitato a Mona-
— 194 ~
stir. Ali tentò di succedere al suocero, alla cui ro-
vina aveva contribuito denunziandolo, ma non vi
riusci, perché fu prevenuto da Selim pascià.
Alla morte di Kurd pascià. Ali sperò di ottenere
il vizirato di Berat, ma anche questa speranza restò
delusa, perché l'ottenne invece il genero dì Kurd,
Ibrahim bey di Valona. Ali deliberò allora d'impa-
dronirsi di Tepelen, e questa volta raggiunse l'in-
tento e divise fra i suoi seguaci le ricchezze tolte
ai trucidati nemici. Qualche tempo dopo, saputo
che Selim pascià di Delvino era caduto in disgrazia
del Sultano per alcune concessioni fatte ai vene-
ziani, gli fece mozzare il capo che mandò in dono
al Gran Signore, Quindi occupò Delvino. Venne
allo stesso modo in suo potere Argirocastro, dopo
ch'egli ebbe fatto assassinare il cognato Ali pascià.
Simili procedimenti non erano del resto affatto
nuovi neir Impero ottomano in generale, ed in par-
ticolare nell'Albania.
(Ali, pascià di Janina, — Nel 178^, per i servigi
resi alla Turchia nella guerra turco-russa. Ali ottenne
il pascialato di Trikala (Tessaglia) e la carica di
'Dervendgibakiy ossia di preposto alla sicurezza e po-
lizia delle strade, e in verità per opera sua dalle
goledel Pindo alla valle di Tempe e al passo delle
Termopili l'ordine e la tranquillità rassicurarono il
paese e chi aveva necessità di percorrerlo. Il nome
di Ali già suonava assai temuto, ed egli ne approfittò
per impadronirsi nel 1788 del pascialato di Janina,
che aveva appartenuto, a quanto sembra, per un
certo tempo a Kurd di Berat. I ministri turchi si
lasciarono corrompere dall'oro di Ali e legittimarono
senza indugio l'occupazione ; né valse che i princi-
- 195 -
pali cittadini di Janina, la quale costituiva da un pezzo
una specie di repubblica aristocratica, dove il bassa
€ra costantemente il balocco dei bey, facessero a
Costantinopoli delle rimostranze, perché volevano
al solito un pascià mite e temperato. Ali s'impose,
e tosto cominciò a fortificare la città per assicu-
rarsene il possesso, e vi edificò il castello di L/-
tharitiay detto anche il Castello del lagOy sormontato
da una gran torre a cinque piani. Era una specie
di cittadella, costruita sovra una penisoletta del lago
di Janina, e separata dalla terra per mezzo di un
fossato, in cui entrava l'acqua del lago.
Intanto si compieva la spedizione a noi già nota
del Serraschiere di Rumelia contro Kara Mahmud
pascià di Scutari. Ali approfittava dell'occasione per
occupare Ocrida, e dappoiché era di già padrone
di Metzovo, si può ben dire che erano ormai in
suo potere i valichi che conducono da Costantino-
poli e dalla Macedonia in Albania.
Poco dopo riusciva ad occupare Hormovo e la
distruggeva con orrende stragi, dappoiché la madre,
morendo nel 1787, gli aveva legata quest'atroce
vendetta. Di là passò ad occupare in parte i pos-
sedimenti di Ibrahim di Berat, il quale si vide
inoltre obbligato a far lega con esso contro gli agà
ed i bey dell'Epiro occidentale e contro i Sulioti, e
a consentire alle nozze di due sue figliuole con
due figli del pascià di Janina, Muktar e Veli.
cAlì e i Sulioti. — Già fin dal 1788 Ali assalendo
i Sulioti, che gli erano avversi, aveva dato princi-
pio ad una guerra che é rimasta famosa nella storia
come uno dei più gloriosi esempi di lotta pertinace per
l'indipendenza contro la preponderanza del numero-
— 196 —
1 Sulioti discendevano da alcune famiglie cri-
stiane dell'Epiro, che si erano stabilite verso il
1660 sulle inaccessibili montagne di Suli per sot-
trarsi alla tirannia politica e religiosa dei conqui-
statori ottomani. Nel 1788 la comunità saliva a
560 famiglie, che parlavano soltanto albanese e si
reggevano a repubblica con 18 villaggi.
Ali mandò tra il 1788 e il 1789 contro Suli un
esercito di 10,000 uomini, che fu disfatto. Ne mandò
un altro nel 17^2 di 22,000, che subi la stessa sorte
per il valore principalmente dell'eroico Zavella, e
della moglie di lui Mosko e della figlia Kaido,
giacché le donne in questa guerra di Suli non fu-
rono certo meno eroiche degli uomini. Ali, che
seguiva da vicino la spedizione, si salvò a stento
egli stesso. Al ritorno in Janina Emìneh, la sua
sposa, volle intercedere presso di lui per i sulioti*
Ali montò in furore e la minacciò di morte, con
una pistola sparando per altro in aria. Emineh am-
malò per lo spavento e mori.
Miglior esito non ebbero dopo questo rifiuto i
raggiri, poiché Zavella, allora prigioniero di Ali,
mandato a Suli per trattare un amichevole accordo,
che senza dubbio celava il proposito di un tradi-
mento, quantunque avesse lasciato a Janina in
ostaggio un proprio figlio, anziché incoraggiare i
sulioti alla resa, ne li dissuase e scrisse in propo-
sito ài pascià di Janina una memorabile lettera:
« Io mi congratulo — egli scriveva — di avere
ingannato un impostore e sono pronto a difendere
la mia patria contro un assassino tuo pari. Mio
figlio può perire, ma saprò vendicarlo prima di
scendere io stesso nella tomba. Alcuni infedeli, che
- 197 -
ti somigliano dicono che io sono un padre senza
pietà, perché sacrifico mio figlio alla propria mia
liberazione. Ma, rispondimi, se tu divenissi padrone
delle nostre montagne non uccideresti mio figlio e
tutta la popolazione con esso? Allora chi farebbe
le sue vendette ? Ora che siamo liberi possiamo
essere vincitori, e mia moglie ancora giovane può
darmi altri figliuoli. Se il figlio mio si lagnasse di
essere sacrificato per la patria, sarebbe indegno di
vivere e di portare il mio nome. Consuma dunque
il tuo delitto, o perfido, che io sono impaziente di
vendicarmi. »
L'astuto pascià dovette rimandare l'impresa di
Suli a miglior tempo, e intanto si consolò dell'onta
inflittagli continuando ad abbattere, ora colla vio-
lenza, ora coli' inganno i signorotti (bey ed agà)
dell'Epiro, tra loro, come sempre, gelosi e discordi,
spogliandoli d'ogni loro avere e mandandoli tal-
volta a rifarsi con uffici e missioni in altri luoghi.
Nel 1797, approfittando dell'amicizia dei francesi,
che condotti dal generale Gentilly avevano sostituita
la repubblica di Venezia nel dominio dèlie isole
Jonie e delle città e porti di Prevesa, di Parga e di
Biitrinto, nonché di Arta e Salahora, Ali assoggettò
la popolazione dell'Acroceraunia. L'anno appresso,
scoppiata la guerra tra la Porta e la Francia per
la spedizione di Napoleone Bonaparte in Egitto,
occupò Arta e Butrinto, sbaragliò i francesi presso
le rovine di Nicopoli, prese e distrusse Prevesa
e molti francesi menò schiavi o fece decapitare,
ricevendo per queste sue gesta, le congratulazioni
di Nelson. Ciò fatto, cominciò anche a vagheggiare
l'idea d'insignorirsi con le proprie forze delle isole
— 198 —
Jonie, dacché invano, a quanto dicesi, le aveva
chieste a Napoleone Bonaparte per riunirle con
l'Epiro, promettendo in compenso di proclamarsi
vassallo della Francia. Se non che quelle isole fu-
rono, il marzo 1799, occupate da un'armata turco-
russa e quindi costituite in repubblica sotto il
protettorato della Turchia e della Russia (Conven-
zione di Costantinopoli del 21 marzo 1800). La
Francia riconobbe la Repubblica delle Isole Jonie
nel trattato di Amiens (marzo 1802). Ali soprasse-
dette e volle intanto aver ragione ad ogni costo
degli abitanti di Suli. Nel 1799 un nuovo esercito
di 12,000 uomini venne respinto da Mosko, da Foto
Zavella e da Kisto Botzari. Ma l'ultima campagna
condotta fra il 1800 e il 1803 ottenne finalmente
l'esito agognato, e Ali dopo aver riguadagnati col
denaro coloro che si erano uniti ai sulioti e dopò
essere riuscito a far esulare Foto Zavella, nonostante
l'ostinato valore di quei montanari e l'energia del
monaco Samuele che li animava alla resistenza,
potè finalmente costringerli a capitolare in capo a
tre anni di guerra il 12 dicembre 1803. Aveva do-
vuto impiegare nell'impresa 30,000 uomini! Il mo«
naco Samuele aveva dato fuoco alle polveri ed era
saltato in aria con 600 musulmani. Kisto Botzari
era caduto con dieci compagni nelle mani dei ne*
mici, che lo fecero perire tra i tormenti. Meritano
poi glorioso ricordo le donne di Zalongo, che dopo
aver combattuto da eroine, per non essere preda
dei vincitori si precipitarono nei burroni e nei
fiumi tenendosi per mano e cantando o coi figli
lattanti tra le braccia. A quei sulioti che potè avere
in poter suo il feroce Ali fece pagare il fio per
— 199 —
tutti gli altri, condannandoli ai' più atroci supplizi.
Interi villaggi vennero nella Selleide dati alle fiamme.
Suli fu rasa al suolo e la maggior parte dei su-
lioti, ritiratisi nella vallata di Parga e cacciati anche
di là, si rifugiarono, come vedremo, nelle isole
Jonie. Richiamati più tardi, come pure vedremo
fra poco, da Ali in guerra con la Porta, lot-
tarono per l'indipendenza contro i turchi. Esiliati
di nuovo nelle isole Jonie, poterono finalmente
dopo la pace tornare nel continente e riguadagnare,
decimati da tante traversie, le loro montagne. Sul
posto della vecchia Suli sorge oggidì una fortezza
costruita da Ali e restaurata nel 1853.
(Ali al colmo della sua potenza. — Lasciando da
parte, per non dilungarci troppo, altri fatti di mi-
nore importanza, come la liberazione della Mace-
donia dalle bande di clefii e di armatoli che la
infestavano, imposta ad Ali dal Sultano, che inge-
losito della sua crescente fortuna sperava di per-
derlo con quel difficile incarico, pur avendolo no-
minato Comandante generale della Romelia ; lasciando
da parte le vicende de' suoi figli e nepoti, che con
cariche e offici in altre provincie turche lo aiutavano
ad esercitare indirettamente la propria signoria e ad
estendere il proprio prestigio fuori delle terre
albanesi, veniamo senz'altro al momento in cui
l'intraprendente pascià raggiunse il culmine della
sua potenza in seguito alla conquista di Berat.
Il saggio e pacifico pascià di Berat Ibrahim, as-
salito alla sprovvista e costretto a capitolare, si
rifugiò colla moglie a Valona, e di là passò, non
sentendosi abbastanza sicuro, tra i Ijapi dell' Acro-
ceraunia; ma fu invece proprio da costoro conse-
— 200 —
gnato ad Ali, che Io relegò dapprima a Conitsa e
lo fece da ultimo condurre a Janina e gettare nelle
terribili segrete del serraglio, ove tanti prigionieri
languivano e donde usciva soltanto chi poteva ri-
scattarsi a prezzo di molto oro (a. 1812).
Cosi ebbe fine la signoria dei bassa di Berat,
che pretendevano di essere discendenti di Scan-
derbeg.
In questa impresa giovò molto ad Ali Topera di
Omer Brionia un prode bey albanese che nella
guerra egiziana aveva battuti a Rosetta gl'inglesi.
Si affrettarono allora a riconoscere spontanea-
mente la suprema signoria del vizir di Janina i
pascià di Elbassan e di Croja e gli altri signorotti
dell'alta Albania. Poco dopo cadeva in suo potere
Cardiki, su cui egli compi la terribile vendetta le-
gatagli dalla madre, come già aveva fatto su Hor-
movo. Intanto con spoliazioni e confische andava
continuamente accrescendo anche i propri tesori.
. Certo é che giunto a tanta altezza, se non avesse
giudicata ben salda la dominazione dei Busciatli di
Scutari nella Ghegaria, li avrebbe senza dubbio
assaliti. Non aveva mancato d'altronde di aprirsi
per questa impresa una strada, cercando, come al-
trove si é detto, di sollevare contro il nuovo pascià
di Scutari, Mustafà Busciatli, i mirditi.
Avendo Mustafà dopo alcuni anni di guerra con-
chiusa coi mirditi, quantunque a caro prezzo, la
pace, Ali di Tepelen giudicò miglior partito strin-
gere con esso alleanza e parentela, e la primogenita
del figlio suo Veli andò sposa infatti a Mustafà.
L'Albania trovavasi cosi nel 181 2 quasi interamente
soggettata a due soli capi supremi, indipendenti di
— 20I
fatto se non di diritto dal Gran Signore, il pascià
di Scutari e il pascià di Janina.
Cessione di Parga, — Nella primavera del 1813 Ali
occupava definitivamente tutto TEpiro, meno Parga,
ov*eransi rifugiati i sulioti. Dal 18 14 al 18 17 la rocca
di Parga fu tenuta dagl'inglesi, essendo stato rico-
nosciuto all'Inghilterra dai trattati di Parigi e di
Vienna il protettorato della Repubblica delle isole
Jonie, ricuperate dai Francesi pel trattato di Tilsitt
nel 1807 e ad essi dagli inglesi ritolte tra il 1809 e
il 1814. Anzi allorquando nel trattato di Vienna del
1815 si trattò di confermare all'Inghilterra il protet-
torato di quelle isole, lasciando alla Turchia tutte le
città e i porti dell'Epiro che prima del 1897 appar-
tenevano a Venezia, i Pargioti avrebbero voluto se-
guirne le sorti. Questo desiderio non fu soddisfatto,
e gl'inglesi abbandonarono Parga. Parga fu quindi oc-
cupata da Ali di Tepelen nel maggio del 181 9, quando
per altro quasi tutti i suoi abitanti, che l'Inghil-
terra non avrebbe mai dovuto tradire, avevano esu-
lato ritirandosi insieme ai sulioti a Corfù e por«
tando seco le ossa dei loro padri. Isella fortuna e
cessióne, di /Porga parla degnamente Ugo Foscolo
nelle sue opere politiche. I profughi di Parga é
il titolo di una poesia di Berchet.
c4/i e il Sultano Mahmud IL — Ma intanto il
Sultano. Mahmud II, salito al trono fin dal 1808,
andava da lungo tempo meditando il disegno di
ridurre l'Albania ed i suoi capi all'obbedienza asso-
luta* Le vicende della rivoluzione francese, le im-
prese napoleoniche, le mire ambiziose e i progressi
della Russia, le agitazioni serbe e moldo-valache,
l'espansione marittima dell'Inghilterra avevano fino
— 202 —
allora impedito che la Sublime Porta attendesse di
proposito alle cose dell'Albania, e tutte codeste cir-
costanze avevano anche favorite indubbiamente le
ambiziose mire di Ali di Tepelen, come di altri
riottosi vassalli della Turchia in Asia ed in Europa.
Mahmud II, il sultano riformatore, meditava di ap-
plicare al suo Impero la politica dell'accentramento
e di ridurre tutti i ribelli indistintamente a piegare
il collo sotto il giogo ottomano. Domati l'uno dopo
l'altro i grandi vassalli più o meno indipendenti
dell'Asia, intimoriti con procedimenti esemplari e
spietati i bey serbi, capi della turbolenta aristocrazia
bosniaca, indotto a mostrarsi devoto agl'interessi della
Turchia anche il pascià di Scutari, Mustafà Busciatli,
il Sultano si propose di far tornare al dovere i due
soli principi che non parevano disposti a obbedirlo
e che erano proprio due albanesi, Mehemet Ali in
Egitto e Ali di Tepelen in Albania.
Anima e mente della congiura contro la potenza
di Ali era a Costantinopoli Ismaele-Pacho bey, che
il Pascià di Janina aveva esiliato. Ali, informato di
tutto, cercò di farlo assassinare, e prezzolati sicari
lo colpirono, ma non a morte, mentre recavasi alla
moschea di S. Sofia. L'audace attentato fu ragione
più che sufficiente per dichiarare ribelle il signore
di Janina ^ cancellarlo dall'elenco dei vizir dell'Im-
pero, mentre il Muftì Hadgi Kalil Effendi lanciava
contro di lui l'anatema e lo proclamava scomuni-
cato (fermatili). Era l'anno 1820.
Tutti i governatori musulmani della Tracia e
della Rumelia furono chiamati alle armi per oppri-
merlo, non escluso il pascià di Scutari, e il co-
mando supremo della spedizione venne affidato a
— 203 ~
Ismaele Pacho bey, già nominato vali di Janina e
di Delvino.
tAlt e VinsurreTJone greca. — Ali spiegò allora ri-
solutamente la bandiera dell' insurrezione, e mentre
fino a quel tempo non aveva mirato ad altro che a
far trionfare la religione di Maometto e molto aveva
contribuito a diffonderla nella bassa Albania, cambiò
d'un tratto tattica e condotta, e cercò aiuti anche
fra i cristiani, riconciliandosi cogli armatoli dell'A-
croceraunia e coi sulioti (parecchi dei quali avevano
fra il 1807 e il 18 12 costituito un reggimento alba-
nese al servizio della Francia e di Napoleone I), ec-
citando i greci alla rivolta, concludendo una specie
di lega con VEteria greca (famosa società secreta
per la redenzione morale e politica della Grecia
suddivisa in numerosi comitati o eforie) e riunendo
da ultimo nel maggio del 1820 a Janina parecchi
armatoli e clejìi greci e adepti délV Eteria, nonché
moltissimi capi albanesi, cristiani e maomettani. Al
cospetto di costoro egli cercò anzitutto di giustificare
la sua precedente condotta, aflFermando che tutto il
male che aveva fatto ai cristiani lo aveva compiuto
per obbedire agli ordini della Sublime Porta, mentre
tutto ciò che aveva fatto di bene, riunendo sotto
la propria dominazione gran parte dell'Albania, era
opera sua, diretta al solo scopo di emancipare la
patria. Invitò quindi gli arcivescovi e i sacerdoti
del profeta Issa (Gesù) a benedire le armi dei cri-
stiani ch'erano figli suoi, e rivolto ai capi loro,
raccomandò di difendere i diritti comuni e di reg-
gere con equità la valorosa nazione ch'egli asso-
ciava ai propri interessi. Il solo Prenk Leka, capo
dei Mirditi, protestò ch'egli ed i suoi non avreb-
— 204 —
bero mai preso le armi contro il padiscià; ma la
sua protesta fu soffocata dalle grida unanimi di
« viva Ali! viva il restauratore della libertà I »
Intanto due eserciti turchi movevano verso l'Al-
bania, seminando dappertutto il terrore e la morte.
Li conducevano Pehlevan Babà pascià di Bulgaria e
Ismaele Pacho bey eletto pascià di Janina. Ali posse-
deva moltissima artiglieria e aveva messo in condi-
zione di difendersi e di resistere tutte le principali
città del suo Stato: Ocrida, Valona, Canina, Berat,
Premet, Butrinto, Delvino, Argirocastro, Tepelen,
Porto Panormo, Parga, Prevesa, Su li, Paramitia,
Arta, Janina e i suoi castelli (i82i). Ottenne inoltre
dal Vladika del Montenegro la promessa di attaccare
Scutari, ove Mustafà Busciatli movesse ai suoi danni,
mentre mandava agenti provvisti di denaro nella
Morea, nelle isole dell'Arcipelago, a Smirne, a Sa-
lonicco, a Bukarest, nel^a Bosnia e nella Serbia
per suscitare una generale sollevazione contro la
Turchia. Ormai egli non era più rambizioso e cru-
dele pascià musulmano, nemico dei cristiani, avido
di dominio e di ricchezze, avvezzo ad abusare senza
pietà della vittoria e servirsi di qualunque mezzo
per raggiungere i suoi fini. Egli che aveva allagata
di sangue l'Albania, era diventato d'un tratto il cam-
pione della libertà e della indipendenza dei popoli
cristiani e maomettani contro la dominazione dei
turchi. Greci, albanesi, serbi, rumeni, bulgari, turchi
erano ugualmente chiamati da lui a rivendicare i
propri diritti. Greci e albanesi specialmente dove-
vano stringersi in un sol patto di solidarietà e di
fratellanza pel comune riscatto. V'ha chi dice che
egli giunse persino a promettere una costituzione,
— 305 —
e che la sua prediletta donna, Vasiliki, lo chiamava
novello Scanderbeg.
Purtroppo però il nuovo Scanderbeg, a differenza
dell'antico, non aveva intorno a sé che amici diffìi-
denti e inquieti, di guisa che al momento supremo,
più che le armi del nemico, furono le diserzioni, i
tradimenti, i dissensi de' suoi, che troppo lungo sa-
rebbe enumerare e descrivere minutamente, che lo
ridussero agli estremi, non ostante le rivalità e le
defezioni che travagliavano pure i) campo avversario,
non ostante che in tutta la Grecia serpeggiasse e
si andasse diffondendo la insurrezione, non ostante
il valido appoggio dei valorosi sulioti, tornati ai
loro monti e condotti alla difesa di Ali da Nothi,
Cristo e il figlio di Cristo Marco Botzari, da Nicola
Zavella, da Lambro Veico.
Fine di Ali, — Dopo circa due anni di guerra, nella
quale le milizie di Ali, e più specialmente i Sulioti,
riportarono frequenti ma infruttuose vittorie sopra
Kurscid pascià della Morea, che aveva surrogato nel
comando supremo dell'esercito turco Ismael Pacho
bey, essendo caduto nell'ottobre del 1822 in potere
di Kurscid, per tradimento o viltà del presidio, il
castello di Litharitza sul lago di Janina, che i turchi
assediavano da diciotto mesi. Ali si trovò rinchiuso
in un fortino del castello con 35 uomini e con la
prediletta sposa Vasiliki. Quivi egli teneva a dovere
e in inquietudine il vincitore colla minaccia di dar
fuoco alle polveri, che si trovavano accumulate in
200 barili sotto il fortino, e di mandare cosi tutto
in aria, comprese le sue ricchezze ch'erano avida-
mente desiderate dai turchi. Kurscid finse allora di
volere intavolare con esso delle trattative di pace e
■— 206 —
di riconciliazione facendosi intermediario fra lui e
il sultano, e lo indusse a trasferirsi a questo fìne
nel convento di Panteleimon, che sorge in un'iso-
letta in mezzo al lago» Quivi Ali fu preso a tradi-
mento, non vivo per altro come Kurscid avrebbe
desiderato. « La mia testa non si consegna con
tanta facilità! » esclamò uccidendo con un sol colpo
di pistola uno di coloro che lo dovevano catturare.
Si impegnò una lotta fra costoro e i palikari di
Ali. Ali ferito a morte da un colpo di pugnale,
ebbe il tempo di gridare a uno dei suoi, a Costan-
tino Botzari: « Va, uccidi la pura Vasiliki, perché
non sia contaminata da questi infami ! » Egli aveva
allora 8i anni. Vasiliki non venne uccisa, ma potè
scampare, e mori dieci anni dopo a Missolungi,
ov'erasi ritirata.
V'ha per altro sulla morte di Ali una versione,
giusta la quale la stessa Vasiliki avrebbe tradito il
vizir. Secondo codesta versione Ali pascià, abban-
donato dalla maggior parte dei suoi soldati, perché
non li pagava, si sarebbe ritirato spontaneamente
dal forte di Litharitza nel convento di Panteleimon
in mezzo al lago. Prima per altro di abbandonare
il forte, ov'erano nascosti i suoi tesori, egli collocò
il suo fedele negro Selim presso al deposito delle
polveri con l'ordine di appiccarvi il fuoco, qualora
i turchi accennassero a voler penetrare nella for-
tezza. Ali mostrò altresì a Selim un anello e gl'im-
pose di giurare che non avrebbe abbandonato il
suo posto né spenta la torcia accesa che doveva te-
nere in mano, se non quando gli fosse recato l'a-
nello. Ciò avrebbe voluto dire che ogni pericolo
era cessato. Selim giurò e il vizir si ritrasse nel-
— 207 ~-
risola Qui Vasiliki gl'involò l'anello e lo vendette
a Kurscid pascià, , informandolo nel tempo stesso
degli ordini impartiti al negro Selim. Kurscid potè
cosi in virtù del prezioso gioiello impossessarsi
senza rischio del forte e forse dei tesori ivi na-
scosti.
Poco dopo segui nel modo sopra descritto la
catastrofe di Ali di Tepelen.
La testa del ribelle, portata a Kurscid, che s'in-
chinò rispettosamente dinanzi ad essa e. baciò la
lunga barba bianca che dava al vecchio vizir un
aspetto patriarcale e venerando, fu poi mandata a
Costantinopoli per essere esposta alle porte del ser-
raglio. Gli Shkipetari accortisi troppo tardi della
grave perdita che avevano fatta, gli celebrarono degli
splendidi funerali e lo piansero; ma non si può
certo dire che lo avessero difeso ad oltranza!
Ecco un brano di canzone popolare su Ali Te-
pelenliy soprannominato cArslan (il leone) : « Dove
sei Ali pascià? Cadesti da valoroso coi tuoi com-
pagni di gloria e di sventura. Tu fosti un eroe e
come tale ti piansero l'Epiro e l'Albania. Ma il tuo
sangue non resterà senza vendetta. Shkipetari ed
Elleni, deponendo gli odi antichi e i presenti ran-
cori, versando sangue nemico e compiendo i tuoi
disegni consoleranno il tuo spirito immortale. » Gli
storici francesi dipingono Ali a neri colori : alcuni
storici inglesi ne fanno quasi un eroe: la verità
sta, come sempre, nel mezzo.
Spento Ali, anche i suoi figli Veli, Muktar e Salik,
che già da qualche tempo avevano consegnate ai
turchi quasi senza difenderle le piazze di Prevesa,
di Argirocastro e dì Premei, ed erano tenuti in
— 208 —
prigionia come ostaggi, furono condannati a morire.
La stessa sorte toccò a Mehemet pascià di Delvino,
figlio di Veli. Veli, Salik e Mehemet vennero de-
capitati. Muktar vendette a caro prezzo la vita,
dopo aver gridato fieramente a coloro che dovevano
eseguir la sentenza : « Un albanese non muore come
un eunuco! » Visto perire nella resistenza l'ultimo
de' suoi uomini, egli già carico di ferite diede fuoco
alle polveri e non lasciò al sultano che ceneri e
cadaveri.
Altri figli di Veli erano stati strangolati sotto
gli occhi del padre e cosi di tutta la famiglia del
despota di Janina non rimase che la memoria. Sin
le donne furono uccise, tranne, come sopra ho
detto, la bella Vasiliki che lo aveva tradito.
La Corte di cAlì di Tepelen. — Della splendida
corte di Ali si legge una magnifica descrizione nel
Giovine Araldo di Giorgio Byron, fervente ammira-
tore dell'Albania e degli albanesi. In quella corte
v'erano pure parecchi italiani, che Ali amava e sti-
mava. Pochi anni prima che Ali cadesse, racconta
l'alsaziano Cherfbeer nelle sue Mémoires sur la Grece
et sur V^Alhanie (Paris, 1827), il veneziano Pesarini
addestrava un piccolo corpo di cavalieri alla tattica
europea, il lombardo Agostino Frappano comandava
l'artiglieria a cavallo, il napoletano Del Carretto e il
siciliano Santo Monteleone erano ingegneri, il còrso
Marcellese aveva sotto i suoi ordini una piccola squa-
dra navale, Vincenzo Micarelli napoletano era chimico
del vizir, il dott. Tagliapietra era suo medico, il resi-
dente inglese Foresti, altro italiano, suo consigliere.
Dovevansi indubbiamente a costoro le idee di pro-
gresso che Ali vagheggiava. Egli infatti cercò di prò-
— 209 "~
muovere Tagricoltura e i commerci, e fece di Janina
una città bella e popolosa, che raggiunse sotto la
sua signoria i 40,000 abitanti. Vi aveva anche isti-
tuite delle scuòle elementari e secondarie ed una
biblioteca. Scomparso Ali, Janina decadde rapida-
mente, o meglio tornò qual'era prima che Ali ne
avesse fatta la capitale del suo Stato. I danni del-
l'assedio del 1821-22 furono gravissimi. Delle sue
16 chiese non ne rimangono che 6, rialzate dalle ro-
vine. Sofferse parecchio anche la Moschea di Ar-
slan Agà, ch'era stata costrutta nel 1712 sul posto
della basilica di S. Giovanni, patrono della città e
che ancora racchiude parecchie antiche colonne.
Venne distrutto anche il forte Litharitza sul lago.
Gli albanesi e Vindipendenia della Grecia: — In-
tanto continuava l'insurrezione della Grecia, e gli
albanesi, divisi purtroppo fra le milizie turche e
quelle dei rivoltosi, compierono dall'una parte e
dall'altra meraviglie di valore.
Ma più specialmente degni di ricordo sono gli
albanesi e i valachi d'Albania, che combatterono
eroicamente per l'indipendenza della Grecia fra il
1821 e il 1827: primo fra tutti Marco Botzari, che
passò in Grecia dopo aver invano tentata co' suoi
sulioti, morto Ali, un'ultima difesa dell'Epiro, che
durante quella terribile rotta fu orribilmente deva-
stato. Stanno a fianco di Marco altri due Botzari
Nothi e Costantino e poi Tutza, gli Zavella Chistos,
Cristos e Giorgio, Condurioti, Tombasi, Odisseo,
Karaiskakis, Gura, Griva, Zervati, Sturnari, Jallocosti,
l'amniiraglio idriota Miaulis ed altri molti. Generalis-
simi dell'esercito greco furono per un certo tempo due
epiroti, Odisseo nella regione orientale, Marco Bot-
H
— no —
zari nella occidentale. Fecero causa comune coi
sulioti nel pugnare per la greca indipendenza gli
armatoli dell' Acroceraunia. Zaimis e Canaris, due
altri eroi dell' insurrezione ellenica, erano albanesi
ellenizzati. L'eroismo dei marinai albanesi d'Idra e
di Spetzia é scritto nelle pagine della storia a lettere
d'oro. Missolungi, Navarrino, Nauplia, Psara, Eleusi,
il Pireo, l'Acropoli d'Atene risuonano ancora del
nome albanese.
Combatterono invece per la Turchia contro i Greci
insorti Mustafà pascià di Scutari e Prenk Doda
principe dei Mirdìti, figlio e successore di Prenk
Leka, insieme allo zio Lek-i-zij (Alessandro il nero),
al cugino Prenk Marku, e quell'Omer Vrioni che
qualche anno prima aveva gagliardamente sostenuto
Ali di Tepelen, e Varnakiotis, un suliota rinnegato.
Erano con tutti costoro non meno di 15,000 gheghi
e 5000 toski.
A Karpenizi in Etolia nel 1823 erano di fronte alba-
nesi contro albanesi. Nella notte del 22 agosto Marco
Botzari si propose di sorprendere il campo turco e di
penetrare nella tenda di Mustafà pascià di Scutari per
ucciderlo. « Se mi perdete di vista — diss'egli ai
240 sulioti che lo seguivano — dirigetevi alla tenda
di Mustafà e là mi troverete. Dio ci vede e guida! »
Essi giunsero inosservati nel campo nemico, e Marco
Botzari entrò nella tenda di un capo dell'esercito
turco credendo che fosse quella di Mustafà. Era
invece la tenda del principe dei Mirditi Prenk Doda.
Quivi l'eroe suliota cadde sotto i colpi di Lek-i-zij,
ch'era il più terrìbile guerriero della Ghegharia.
V'ha per altro sulla morte di Botzari un'altra ver-
sione, secondo la quale egli sarebbe stato ferito a
— 211 —
morte nella tenda di Hussein pascià, nepote del
pascià di Scutari.
Nel ritorno Prenk Doda sottomise i Dibra, che
erano insorti contro Mustafà Basciatli. Circa un
anno dopo una donna di Scutari l'avvelenò ed egli
mori a Cattaro, dove si era recato per curarsi e
dove ancora esiste il suo sepolcro. Fu riconosciuto
principe dei Mirditi suo zio Alessandro il Nero.
Ma la sorte di Ali di Tepelen e le sue imprese
avevano lasciata una traccia profonda negli animi
degli albanesi. Il sentimento nazionale si era, per
opera del pascià di Janina, ridestato come ai tempi
di Scanderbeg, e la devozione al sultano Mahmud II
era scossa, tanto più che il Gran Signore colle sue
tendenze riforraatrici e colla distruzione dei Gianniz-
zeri, era giunto a scontentare una gran parte dei
musulmani del suo impero.
Le insurrezioni albanesi contro il dominio otto-
mano dovevano di tratto in tratto rinnovarsi e al-
ternarsi con atti eroici di devozione e di fiducia, a
seconda delle circostanze, cosi nell'alta come nella
bassa Albania. Doveva (ciò che più importa) il se-
colo XIX, sacro ai trionfi del principio di nazionalità,
veder sorgere accanto alle altre questioni nazionali,
la greca cioè, la serba, la bulgara, anche la que-
stione albanese.
Ultime imprese di Mustafà ^usciatli, pascià di Scu-
tari, — Tornato a Scutari Mustafà entrò in tratta-,
tive con Milosh Obrenotvic', capo dei serbi, collo
Zar della Russia Nicolò I e coU'ambizioso Mehemet
Ali viceré d'Egitto, figlio di un agà albanese di Ca-
vala in Macedonia, ricevendo da tutti costoro consigli
e denari. Al pascià di Scutari altro non si chiedeva
— 212 —
che dì guadagnar tempo con diversi pretesti e di
non muoversi, finché i russi non fossero in marcia
su Costantinopoli. Gli eventi avrebbero dovuto
suggerirgli la condotta che più gli conveniva.
Fedele ai patti, Mustafà non si mosse da Scutari
se non quando il generale russo Diebìtch era di
già padrone di Adrianopoli e marciava su Stambul.
Allora con 35,000 uomini Mustafà entrò in Bul-
garia^ occupò Nissa ed attese. Intanto l'intervento
della Francia e dell' Inghilterra e il trattato di
Adrianopoli (1829) salvavano il Sultano dall'estrema
rovina, e Mustafà tornavasene, quantunque a malin-
cuore, a Scutari. Si é detto con ragione che, ove
egli fosse stato più intraprendente ed energico, e
avesse avuto animo e mente pari all'ambizione, la
dinastia dei Busciatli regnerebbe oggi sul Bosforo.
Il gran vizir Mahemed Rescid pascià si propose
allora di restaurare l'autorità imperiale. Ma il mo-
mento era critico, che nel 1830 un' insurrezione era
scoppiata nella Toskeria essendosi accordati per
un'azione comune contro la dominazione turca Veli
bey, governatore di Janina, Metzovo, Arta e Prc-
vesa e Seliktar Poda pascià della media Albania.
Intanto la Bosnia e la Tessaglia erano pure in armi,
e Mehemet Ali continuava nel suo atteggiamento
ostile in Egitto»
Il pascià di Scutari prometteva a tutti il suo ap-
poggio, ma al solito non si moveva, e dava tempo
così a Rescid pascià di sopraffare i ribelli, prima
che avessero potuto riunire le loro forze.
Battuti da Rescid, i toski ribelli prestarono fede
alle proposte di riconciliazione, di pace e di gene*
rale amnistia del gran vizir e caddero in un mo-
struoso agguato.
— 213 ~
Per festeggiare l'avvenuta riconciliazione Rescid
pascià invitò ad un banchetto a Monastir tutti i
capi delle fare e i nobili della Toskeria. Le mense
furono imbandite nell'aperta campagna ; ma durante
il convito un improvviso fuoco di moschetteria e
una carica alla baionetta di gente appostata semi-
narono la morte e il terrore fra i convitati.
Si mosse a questo punto anche Mustafà ; ma, al
solito, era già troppo tardi. Mehemed pascià di
Prizrend e Ivzi pascià di Ipek avevano promesso di
secondarlo. Il primo tenne la promessa ; il secondo
era un traditore.
Mustafà mandò innanzi Ali bey, figlio di un bri-
gante romeliota, con 8000 uomini per occupare
Sofia, e Ali bey condusse a fine l'impresa, ma com-
mise atroci crudeltà, che alienarono gli animi delle
popolazioni già ben disposte verso il pascià di
Scutari. Costui parti dalla sua capitale accompa-
gnato da 7 pascià amici suoi con 4000 guerrieri.
Alessandro il Nero, principe dei mirditi, era con
lui. Senza difficoltà i ribelli s'impadronirono di
Prilip, oasi albanese in mezzo a bulgari macedoni.
Dopo aver perduto a Prilip in feste ed in orgie
un tempo prezioso, gli albanesi procedettero innanzi
ed occuparono il monte Babuscia, che domina le
gole conducenti a Monastir.
Rescid si mosse alla sua volta per sorprenderli e
al sorger del sole era ai piedi delle alture di Ba-
buscia. Aveva con sé éooo ni%am (regolari), dei
volontari e qualche cannone. Corse all'assalto, e la
mancanza di direzione, la mitraglia dei cannoni, un
terribile assalto alla baionetta dei ni%am e la defe-
zione delle genti di Ivzi pascià misero nell'esercito
di Mustafà un vero e proprio terror panico.
— 214 —
Mahraud di Prizrend tentò invano di arrestare la
fuga. L'onda dei fuggiaschi travolse poco dopo
anche Mustafà. La sua tenda, tolta dall'avo suo al
Sultano, cadde con tutto ciò ch'egli aveva portato
seco nelle mani del nemico.
Solo i più bravi dei gheghi, tra i quali i mirditi
con Prenk Marku, si trincerarono in un luogo che
dominava la gola, e resistettero per dieci giorni
agli assalti di tutto l'esercito di Rescid, che li
snidò finalmente^ ma con gravissime perdite. Intanto
Mustafà ebbe il tempo di rifugiarsi a Scutari con
alcuni maljsori e mirditi, e di rinchiudersi nel ca-
stello Rosafa, insieme al suo fido alleato Lek-i-zij.
I montanari cristiani della Ghegharia, malcontenti
di un capo che non aveva saputo tener alta nelle
gole di Babuscia la fama della sua casa, lasciarono
passare l'esercito di Rescid, che moveva all'assalto
di Scutari, senza molestarlo. Dell'esercito di Rescid
faceva parte Abdul Rahman bey di Tirana, della
famiglia dei Toptan, il quale nel 1817 era stato
cacciato dalla sua signoria da Mustafà Busciatli e dal
bey di Cavaja Ibiahim, e l'aveva riacquistata nel 1820.
Ma alcuni giorni di buona resistenza ridestarono
il sentimento nazionale delle tribù montanare. Non
doveva un esercito turco calpestare per troppo
tempo il suolo albanese. Corse quindi un'intesa fra
gli scutarini e i maljsori, a capo dei quali stava
allora la tribù degli Hotti, antichi rivali degli abi-
tanti di Scutari : che cioè in un giorno determinato
avrebbero compiuta un'azione combinata contro i
turchi, i maljsori piombando dalle montagne, gli
scutarini facendo una sortita. I primi tennero la
promessa, ma gli scutarini non si mossero, di guisa
- 2IS —
che dopo una breve lotta quelli dovettero ritirarsi,
lasciando 50 morti e 150 feriti nella pianura e 22
prigionieri.
Più tardi, dopo la caduta dei pascià ereditari di
Scutari, in una fazione provocata dal vladika del
Montenegro, gli Hotti si vendicarono del vergognoso
abbandono, decimando e cacciando in fuga 1500
guerrieri di Scutari, che movevano in aiuto di
Podgoritsa, minacciata dai montenegrini.
Dopo la ritirata dei maljsori, Rescid iniziò contro
Scutari e la fortezza Rosafa un terribile bombar-
damento, e tentò vari assalti che vennero respinti.
I mirditi fecero al solito prodigi di valore. Ma
dopo quattro mesi di resistenza, avendo una bomba
fatto saltare in aria la polveriera ed incendiato il
konak o palazzo del pascià, questi si vide costretto
ad arrendersi. L'Austria, la cui mediazione Mustafà
aveva chiesta, lo salvò dalla sorte toccata ad Ali
di Tepelen.
Condotto a Costantinopoli colla famiglia, ebbe
una pensione di 100,000 piastre, e alla fine attirò
sopra di sé l'attenzione del sultano Abdul-Medgid,
che gli restituì il titolo di pascià a tre code e lo
manc^ò governatore (vali) in parecchie provincie.
La dinastia dei Busciatli aveva finito di regnare.
Il principe dei mirditi Lek-i-zij fu, dopo la resa
del castello Rosafa, relegato a Janina. Al suo ritorno,
nel 1837, crudeli uccisioni e vendette funestarono
la famiglia dei principi dei mirditi, dei discendenti
di Ghion Marku. Cosi pervenne il governo della
tribù a un giovinetto che aveva nome Bib-Doda,
il quale acquistò ben presto fama di valoroso con-
tinuatore delle gesta dei suoi antenati.
2l6 —
Capitolo V.
Storia recente dell'Albania - La lega albanese.
Gli albanesi d'Italia.
Fine del feudalesimo albanese. — Caduto il po-
tente pascià di Scutari, il gran vizir Rescid pascià
credette di avere definitivamente sottomessa l'Al-
bania, e cominciò a demolire i castelli e le torri
dei bey e si propose di ridurre tutti i pascià ere-
ditari, che risiedevano a Giacova, Ipek, Prishtina e
in altre città albanesi, nonché le tribù montanare,
alla vera e propria condizione di docili sudditi.
Certo é che, come Ali di Tepelen aveva distrutto
il feudalesimo ereditario albanese nella Toskeria,
può ben dirsi che il gran vizir Rescid pascià lo abbia
annientato nella Ghegaria*
Mehemei-Alt pascià d* Egitto. — Mentre era inteso
a quest'opera, Rescid ebbe l'incarico di arrestare
la marcia vittoriosa degli egiziani di Mehemet«Ali.
La miglior truppa egiziana era appunto formata dì
albanesi, e il figlio di Mehemet-Ali, Ibrahim, scon-
figgendo a Koniah Rescid pascià (183 1), parve quasi
che avesse voluto vendicare la disfatta che i con-
nazionali del pascià d'Egitto avevano sofferto a
Babuscia ed a Scutari.
Ancora una volta, se non fosse stato trattenuto da
una lega europea, un albanese sarebbe forse riuscito
a insediarsi sulle rive del Bosforo. Di li a qualche
anno per il trattato di Londra (15 luglio 1840) Me-
hemet-Ali dovette contentarsi della sovranità eredi-
taria dell'Egitto. È quindi albanese la famiglia dei
— 217 ~
Khedive egiziani anche oggi regnante sotto l'alta
sovranità della Porta e la sovranità eflfettiva o pro-
tettorato che dir si voglia dell'Inghilterra.
Non erano d'altra parte ancora finite nel 183 1 le
agitazioni nell'alta e nella bassa Albania.
Moti albanesi tra il i8^j e il 18^4, — Ali-Namik
pascià, che Rescid aveva lasciato al Governo di
Scutari, trovò ben presto assai grave l'esercizio del
suo ufficio. Il Vladika del Montenegro Pietro II
disfece due volte le truppe che il pascià di Scutari
aveva inviate per costringere ia Zernagora a rico-
noscere la sovranità del Sultano.
Nel 1835 i capi musulmani di Scutari insorsero,
costrinsero i capi cristiani ad accordarsi con loro e
obbligarono il pascià a rinchiudersi nel Rosafa. I
gheghi minacciarono persino di piombare su Bcrat,
capitale dei toski e chiave dell'Albania, contando
sull'appoggio del nuovo governo della Grecia. Ma
il re Ottone, fiacco ed incerto, non volle compro-
mettersi. Con tutto ciò i ribelli mandarono una de-
putazione a Costantinopoli e ottennero il richiamo
di Namik. .
Il suo successore Hafiz pascià, appoggiato da sette
battaglioni, sperò di avere miglior successo. I mu-
sulmani diedero anche questa volta l'esempio della
resistenza (anno 1836). Erano alla loro testa Jussuf-
bey della famiglia dei pascià ereditari, e Hamza-
Agà-Kazasi già compromesso nella precedente sol-
levazione. Una delle solite canzoni gheghe celebra
e descrive questi fatti, e contiene questa caratteri-
stica frase: «Non crediate, o soldati del Nizam,
che Skodra somigli Babuscia. Qui troverete la
morte ». Anche questa volta le tribù maljsore ac-
— 2l8 —
corsero in aiuto degli scutarini, si creò un governo
provvisorio ed Hafiz fu alla sua volta costretto a
rinchiudersi nel Rosafa. « Il nemico é vinto dap-
pertutto I - dice la canzone - Skodra ! Skodra ! Oggi
tu hai mantenuta la tua fama ». Già da sei mesi
durava questo stato di cose, quando il Vali di Ru«
melia Mahmud pascià mosse con 20,000 uomini al
soccorso di Hafìz. Ma la sua avanguardia composta
di 3000 toski fu al passaggio del Drin battuta dai
gheghi, ed egli ritiratosi in disordine dovette accon-
sentire alla deposizione di Hafiz. Una generale am-
nistia fu concessa.
Venne quindi nominato pascià di Scutari Bajram
bey, che governò pacificamente. Gli successe Hassan
Pascià Valf, che nel 1839 mosse guerra ai monte-
negrini, conducendo seco anche alcune migliaia di
albanesi. I montenegrini ottennero prima vittoria e
costrinsero le tribù degli Hotti, dei Gruda e dei
Clementi e i bey di Prizrend, di Ipek e di Prish-
tina a unirsi ad essi e a far causa comune coi
cristiani. Il sultano Abdul-Medgid si rivolse allora ai
mirditi per ridurre all'obbedienza i ribelli, ma i
mirditi rifiutarono di prendere le armi contro i loro
fratelli di stirpe. Nuovi tentativi per assoggettare il
Montenegro fallirono, e la sconfitta del pascià di
di Scutari rimase invendicata.
In quello stesso anno 1839 e nel successivo un
agitatore albanese, Tafil Bazi, andava preparando
d'accordo coi greci un'insurrezione generale ; ma il
governo ottomano insospettitosene lo chiamò a Co-
stantinopoli, e quivi lo trattenne . sotto assidua vigi-
lanza come amico dei greci e promotore di torbidi
in Albania.
— 219 "~
Nel 1842 scoppiò a Scutari una sommossa contro
ì gesuiti^ che sostenuti dall'Austria e dal pascià vo-
levano edificare una scuola. L'agitazione si propagò
tra i musulmani dell'Albania e vi parteciparono
anche parecchi cattolici, scontenti dell'importanza e
dell'influenza che andavano acquistando nel paese i
preti forestieri, strumenti della politica austriaca,
tanto più che il clero indigeno era scarso e tale da
non poter aspirare generalmente che ai gradi infe-
riori della gerarchia. I gesuiti dovettero abbandonare
il paese. Sopraggiunse Omer pascià, vinse gli alba-
nesi presso Caplan Han e presso Calcandelen, prese
e puni Uscub e Prishtina, e l'Albania fu pacifi-
cata (1844).
Nel 1847 si sollevarono i Ciami e per parecchi
mesi sostennero vigorosamente la lotta ; ma essendo
loro mancati al solito gli aiuti promessi dal governo
greco dovettero alla fine deporre le armi II serra-
schiere Rescid pascià si servi in questa campagna
contro i ribelli epiroti del valoroso principe dei mir-
diti Bib-Doda.
Nel 1849, nel 185 1 e nel 1852 delle scorrerie
tentate dai maljsori e nuove spedizioni intraprese
dai turchi contro i montenegrini furono vigorosa-
mente respinte. Governava allora la Zernagora quel
principe Danilo I della famiglia dei Petrovic', che
riuscì nel 1852 a trasformare il Montenegro da prin-
cipato episcopale elettivo a principato laico dinastico.
Durante la guerra turco-montenegrina del 1852,
2000 mirditi condotti da Bib-Doda in aiuto di Omer
pascià e di Osman-Mazar pascià di Scutari condot-
tieri dei turchi, ebbero a soffrir gravi perdite, ma
copersero la ritirata dell'esercito turco e lo salva-
rono da un completo annientamento.
— 220
Nella guerra della Crimea Bib-Doda accompagnò
coi suoi mirditi Omer pascià sul Danubio. Una
questione provocata da Omer fu appianata soltanto
nel 1856 dallo stesso Bib-Doda, che si recò in per-
sona in Costantinopoli e fu quivi spalleggiato dal-
l'ambasciatore francese.
Una rivolta scoppiata a Scutari nel 1854 costrinse
Alla pascià a rinchiudersi nel castello. S'intrbmise
il console francese e la rivolta fu sedata.
A un tentativo d'insurrezione nella bassa Albania
mancò in quello stesso anno, coinè nel 1835 e net
1847, il promesso appoggio dei greci. Alla fine del
gennaio di quell'anno Spiridione Karaiskaki, alla testa
di alcuni ferventi partigiani délValleania greco-alba-
nese e di un impero ellenico, proclamava dal quartier
generale di Radabizi nella provincia di Arta l'indi-
pendenza e la libertà di tutte le regioni dell'antica
Grecia. Ma la Grecia non mandò che un corpo di
volontari, partito il 14 marzo da Atene sotto il co-
mando di Cormusi vice presidente della Camera
dei deputati.
Comparve altresì nel campo degli insorti l'ex Mi-
nistro della guerra del Regno di Grecia Zavella,
altro albanese. Ma tutto fini li, e l'accordo delle
potenze alleate per la guerra della Crimea nel non
voler secondare le aspirazioni greco-albanesi obbligò
gl'insorti a deporre i bellicosi propositi.
Né miglior sorte ebbe nella stessa epoca un
tentativo di Grivas, greco di Acarnania, che con
numerosi fuorusciti epiroti e suoi compaesani passò
in Epiro, e recatosi da Arta sulle montagne di Giu-
merica giunse fino a Metzovo e se ne impadronì,
seminando dappertutto il terrore e saccheggiando
— 221
a man salva le case dei privati e le chiese. Accor-
sero i toski in massa per opporglisi, ed egli dovette
ripassare le montagne e far ritorno in Grecia, carico
per altro di bottino come un brigante.
Greci e albanesi, — Da quel momento le simpatie
degli albanesi per la Grecia andarono scemando
d'anno in anno, e la idea di costituire un impero
ellenico fondato sulla unione e magari sulla fusione
degli shkipetari e degli elleni andò perdendo credito
e terreno, e più non ebbe che pochi e solitari se-
guaci.
Ciò apparve evidente quando, più tardi, nel 1862,
sembrò che l'idea dovesse risorgere, e a Janina e a
Durazzo si costituì una giunta greco-albanese per
promuovere nuove agitazioni. Questa giunta altro
non potè fare che scrivere e diffondere un memo-
randum ai popoli cristiani, in data del 15 luglio
1862, il quale lasciò il tempo che aveva trovato,
come a nessun risultato condusse la speranza collo*
cata in Giuseppe Garibaldi e dall'eroe dei due
mondi incoraggiata con un proclama ai popoli slavi.
Giuseppe Garibaldi, cambiando di un tratto propo-
sito, dedicò invece nel 1862 tutta l'anima sua al-
l'impresa che lo condusse ad Aspromonte, e di una
insurrezione albanese più non si tenne parola.
I gesuiti in Albania, — Intanto fin dal 1855 erano
tornati a Scutari i gesuiti, sostenuti e sovvenuti
dall'Austria, e avevano fondato un seminario catto-
lico albanese. Per la fondazione di questo seminario
l'imperatore Francesco Giuseppe conchiuse col Va-
ticano uno speciale concordato (15 agosto 1855) e
diede 81 io fiorini immediatamente, più una rendita
annua di 3000 fiorini. Ma la diffidenza non era spenta
— 222
negli animi degli scutarinì, e si rinnovarono le agita-
zioni in quell'anno e nel successivo, tantoché il pascià
di Scutari dovette permettere la demolizione del se-
minario (i2 giugno 1856). Giova notare che queste
diffidenze albanesi erano alimentate dal sospetto,
che l'Austria mirasse alla conquista dell'Albania, so-
spetto che rimontava all'epoca dei noti maneggi ed
intrighi di Maria Teresa e di Giuseppe II e si era
perpetuato, di guisa che lo si trova espresso anche
in un canto del 181 3 ov'é detto: « Le belle e fer-
tili contrade d'Albania, queste montagne d'oro e
questi eroi stanno a cuore all'Austria ; essa le vuole
e le avrà, quando questi leoni diventeranno agnelli. »
Tornando ai gesuiti, é d'uopo aggiungere ch'essi
non si diedero, com'è loro costume, per vinti. Ces-
sata la guerra di Crimea, Mustafà pascià venne sulla
fine del 1856 con 10,000 uomini a ristabilire l'or-
dine a Scutari, e la Compagnia di Gesii ottenne
dalla Porta un indennizzo e il permesso di rifab-
bricare l'edifizio atterrato.
In quello stesso anno 1856 si rinnovarono tra
gli albanesi e i montenegrini vecchie contese a ca-
gione della tribù shkipetara dei Cuci, compresa da
gran tempo nel territorio montenegrino.
Nel 1862 Bib-Doda accompagnò con 2000 mir-
diti Omer pascià in una spedizione contro il Mon<
tenegro e si segnalò come sempre in tutti gli scontri
pel suo valore. La stessa città di Cettigne corse
pericolo di essere presa. L'intervento diplomatico
della Russia salvò il Montenegro. Bib-Doda mori
nel 1870.
Gli tAlhanesi nelle guerre del i8j6 e del 187J. —
Una relativa tranquillità durò nell'Albania dal 1862
— 223 —
al 1875. Nel 1875 scoppiò l'insurrezione della
Bosnia e dell'Erzegovina, e il principe Nikita del
Montenegro tentò di sollevare anche gli albanesi;
ma il tentativo non ebbe felice esito. Nel 1876 i
maljsori stettero dalla parte dei turchi contro il
Montenegro e furono travolti nella loro disfatta. I
mirditi, che la Turchìa aveva cercato di ridurre a
una più stretta dipendenza trattenendo come ostaggi
a Costantinopoli il figlio di Bib-Doda Prenk Bib«
Doda, rimasero neutrali.
Dopo i primi successi del Montenegro, Dervish
pascià cercò di guadagnare i mirditi alla causa della
Turchia rimandando il principe prima a Scutari,
quindi al suo paese col titolo di pascià e colla de-
corazione dell'Osmanjé. Mille mirditi sarebbero in
compenso venuti in aiuto dei turchi. Altre vittorie
del Montenegro e la circostanza che lo zio di Prenk,
Ghion Marku, era tenuto prigioniero da Dervish
pascià indussero invece Prenk Bib-Doda a mandare
a Cettigne una persona di sua fiducia per conchiu-
dere col principe del Montenegro la desiderata al-
leanza, che fu infatti stipulata. Cominciarono subito
dopo le ostilità, e avendo i mirditi preso Senal bey
lo barattarono con Ghion Marku, il quale fu cosi
liberato.
Ma gli aiuti promessi da Nikita tardarono, per-
ché la Serbia aveva conchiusa la pace (18 febbraio
1877) e la Russia non aveva ancora dichiarata la
guerra. Il ritardo riusci fatale. Dervish pascià rac-
colse tutte le sue forze, e la preponderanza del nu-
mero e le armi perfezionate ebbero ragione del leg-
gendario valore dei mirditi. Orosh fu presa, Prenk
Bib-Doda e sua madre fuggirono. Altri capi è fau-
— 224 —
tori dell'alleanza col Montenegro vennero esiliati o
condotti in ostaggio, e ritornarono in Albania quando
il successore di Dervish pascià. Ali Saib, si riconciliò
con Prenk e riuscì a staccarlo dal Montenegro.
Intanto nello stesso anno 1877 aveva principio
la guerra turcorussa. Agenti russi invano tentarono
di far insorgere gli albanesi, e Prenk Bid-Doda fo
co' suoi mirditi tra gli eroi di Plewna e di Scipka,
dove anche le altre milizie albanesi si segnalarono.
11 3 settembre 1877 i montenegrini s'impadroni-
rono del forte di Nicsish e tredici giorni dopo di
Bilek, e, riusciti vittoriosi in altri scontri, il 25 di-
cembre assalivano i turchi accampati tra Dulcigno
e la Bojana. Nel 1879 Antivarì e Dulcigno cad-
dero in loro potere. Avendo anzi i dulcìgnoti
conteso ferocemente ai montenegrini la conquista
della loro città casa per casa, ne segui un incendio,
che ridusse in cenere una quarta parte di Dul-
cigno.
Dal canto suo la Serbia, che aveva riprese le osti-
lità dopo la caduta di Plevna, vinceva i turchi a
Vranja e proclamava la propria indipendenza.
// irattaìo di ^Berlino, — Ho detto già ch'era ri-
serbata al secolo xix la sorte di veder sorgere tra
le altre questioni nazionali anche ima questione alba-
nese, 11 momento storico di questo importante fatto
é appunto quello a cui siamo giunti : e parrà strano,
ma cosi é, chi spinse gli albanesi a celliere codesto
momento storico e a cercare di profittarne fu lo
stesso governo ottomano con un atto d'innegabile
scaltrezza politica.
Il trattato di Berìino, in sostituzione di quello
stipulato tra la Russia e la Turchia a Santo Ste>
— 225 —
fano, era stato sottoscritto (13 luglio 1878). La
Serbia otteneva il riconoscimento della sua com-
pleta indipendenza ed un aumento di territorio a
spese dell'Albania (territori di Kusumlje e di Vranja) ;
il Montenegro vedeva anch'esso riconosciuta final-
mente dalla Porta la sua indipendenza e otteneva
sempre a spesa dell'Albania Antivari, con l'annesso
littorale meno Dulcigno, e i territori di Gusinje e
Piava e della tribù dei Triepsi; la Grecia, che
aveva addirittura chiesta per sé tutta l'Albania, oltre
la Macedonia e la Tessaglia, riceveva pur sempre
a danno dell'Albania geografica parte dell'Epiro,
all'Austria era concesso d'occupare e amministrare
la Bosnia e l'Erzegovina, e le si ri^erbava il di-
ritto di porre guarnigione nel sangiaccato di Novi-
Bazar, popolato non da serbi soltanto ma anche da
shkipetari. Era cosi aperta all'Austria una strada fa-
cile e sicura per accrescere, specialmente nell'alta
Albania, la propria influenza. I bulgari e i rumeni
ebbero pure la loro parte di concessioni. In con-
clusione tra tutte le nazioni balcaniche la sola na-
zione albanese veniva a bella posta lasciata in di-
sparte senza farle nemmeno l'onore di nominarla.
Brandelli di territorio albanese erano anzi destinati
ad arrotondare la Serbia, il Montenegro e là Grecia.
Poco mancò che un lembo di terra albanese ve-
nisse concesso anche ai bulgari ; e mentre il sul-
tano rimaneva di fronte all'Albania padrone della
casa, l'Austria metteva un piede sulla soglia. È giusto
per altro riconoscere che gli albanesi nulla ave-
vano fatta fino al trattato di Santo Stefano per es-
sere diversamente trattati. Anzi quando era scop-
piata la guerra turco-russa essi avevano fatto, come
15
— 226 —
si é visto, causa comune colla Turchia. Dunque
non si poteva tener conto di diritti ch'essi non ave-
vano né saputo né voluto affermare.
Vero é, d'altro canto, che, durante il congresso
di Berlino, avuto sentore che in esso sarebbero
stati in gran parte confermati quegli strappi al ter-
ritorio albanese, che il trattato di Santo Stefano
aveva di già sanciti, erasi formato un Comitato ceti"
ir ale per la difesa dei diritti della nazionalità alba-
nese. Vero é pure che la Turchia con fine accorgi-
mento politico trovava degno di appoggio questo
primo accenno ad un movimento nazionale albanese,
che le giovava per tenere a freno gli appetiti dei
serbi, dei montenegrini, dei greci e di qualche altro
ancora, tanto che il rappresentante ottomano nella
seduta del i° luglio non aveva tralasciato di rile-
vare che al Montenegro si poteva dare qualche
cosa verso il nord, per rispettare al sud i diritti
degli albanesi, e che la cessione di Spitza sarebbe
stata da preferire a quella di Antivari, dove i mon-
tenegrini non si sarebbero potuti mantenere che a
dispetto di quelle popolazioni. Intanto un proclama
diramato il 30 maggio dal sopraddetto Comitato
centrale chiudevasi con queste parole: « Noi desi-
deriamo ardentemente di vivere in pace con tutti i
nostri vicini del Montenegro e della Grecia, della
Serbia e della Bulgaria. Non domandiamo, non vo-
gliamo niente da loro; ma siamo fermamente riso-
luti a ben conservare ciò che é nostro. Si lasci
dunque agli albanesi la terra albanese. »
In seguito al trattato di Berlino, i serbi abban-
donarono le contrade che non erano loro assegnate,
e si ritirarono di qua dai nuovi confini erzegovesi,
— 227 ""
instaurando la propria amministrazione ne) territorio
che loro veniva aggiudicato. Solo in alcuni villaggi,
tra Prishtina e Lescovaz, dovettero usare la forza.
I montenegrini dal canto loro ritennero i distretti
dei Triepsi e di Antivari, e abbandonando Dulcigno
domandarono che venissero loro consegnati i di-
stretti di Gusinje e di Piava, che non avevano àn-
cora occupati.
Allora, autorizzato indubbiamente dal Governo
ottomano, il vali di Scutari, Hfussein pascià, con^
vocò nell'estate del 1878 i notabili delle diverse
tribù albanesi a Prizrend, e loro fece meglio com-
prendere, ciò che del resto avevano di già capito
da sé stesse, quanto fosse cioè ignominioso che di
tutti i popoli balcanici i soli shkipetari obliassero
la loro nazionalità e lasciassero strappare dei brani
dal corpo della nazione albanese a profitto di altri
popoli.
La Lega albanese, — Questi eccitamenti furono
accolti dai rappresentanti di tutte le contrade del-
l'Albania con straordinario entusiasmo. Maomettani,
cattolici e ortodossi, toski e gheghi dimenticarono
i secolari odi e dissensi, e da tutti unanimemente si
deliberò di opporsi alla consegna di distretti albanesi
alla Serbia, al Montenegro, alla Grecia, e di fondare
una Lega albanese per difendere a oltranza i minac-
ciati interessi nazionali dell'Albania.
Ecco i tre principali articoli dello statuto della
Lega, che nella sua concisione rispecchiava l'indole
risoluta e fiera del popolo shkipetaro.
« Art. I. La Lega albanese é costituita per la
difesa e la rivendicazione del territorio nazionale,
« Art. 2. Ogni albanese può far parte della Lega,
— 228 —
giurando nel momento dell'ammissione di propu-
gnare con tutti i mezzi la completa autonomia della
sua patria.
« Art. 3. Qualunque membro della Lega che di-
sconoscendo i propri doveri si renderà reo di tra-
dimento, cadrà inesorabilmente trucidato. »
Uno dei primi atti della Lega fu quello di pre-
sentare a Lord Beaconsfield durante il Congresso
di Berlino un memorandum in data del 13 giugno
1878 da Scutari d'Albania.
Occorre aggiungere che si formarono ben presto
tre Comitati della Lega con residenza a Prizrend, a
Scutari e ad Argirocastro : i primi due contro la
Serbia, il Montenegro e l'Austria, l'ultimo contro
la Grecia.
Ma contro la Serbia, che, come si é visto, aveva
già occupata la parte sua, c'era poco da fare.
Più agevole era opporsi ai montenegrini ed ai
greci, che la parte loro non avevano ancora occu-
pata del tutto e contro l'Austria, che dopo aver
domata la resistenza dei bosniaci, minacciava di
occupare anche il Sangiaccato di Novi-Bazar, come
gliene dava diritto in caso di necessità il trattato
di Berlino.
Le forze della Lega si insediarono pertanto nei
distretti di Gusinje e di Piava per opporsi alla occu-
pazione montenegrina.
Il principe Nikita, volendo evitare un inutile
spargimento di sangue, ricorse allora alle trattative
diplomatiche. La Russia intervenne e obbligò la
Sublime Porta a inviare in Albania il Muschir Me-
hemet Ali pascià allo scopo di persuadere gli al-
banesi a rassegnarsi. Gli albanesi appiccarono il fuoco
— 229 —
alla casa in cui Mehemet Ali aveva preso alloggio
a Giacova e lo uccisero, mentre cercava mezzo bru-
ciacchiato uno scampo.
Non fu più fortunato, nell'inverno del 1879,
Ahmet Muktar pascià, cui per poco non toccò la
stessa sorte. Egli invano si sforzò di ridurre all'ob-
bedienza gli shkipetari con 6 battaglioni fatti venire
da Mitrovitsa, e fini col rinunciare all'impresa. Degli
scontri ebbero anche luogo sulla fine del 1879 tra
montenegrini e albanesi.
Allora da uno dei rappresentanti delle Potenze al
Congresso di Berlino fu messa innanzi la proposta
di uno scambio. Il confine del Montenegro non sa-
rebbe stato più rettificato dalla parte di Piava e
Gusinje, ma dalla parte di Podgoritsa. Col consenso
della Turchia cosi fu stabilito il 18 aprile 1880.
La Porta ritirò le sue truppe dal territorio ceduto,
ma subito ne presero il posto le bande della Lega.
Parve in tal frangente alle Potenze che tutto ciò
non potesse accadere senza segreti accordi col Go-
verno turco, e lord Granville, ministro inglese, mise
innanzi la proposta di presentare alla Turchia un
ultimatum^ in cui le s'imponesse come nuova defi-<
nitiva transazione di cedere ai montenegrini dentro
tre settimane il territorio marittimo da Antivari
alla Bojana, compresa la città di Dulcigno coi suoi
due porti di Dulcigno e di Val di Noce (nome
dato dai veneziani, che oggi si conserva ancora).
Rimanevano inoltre aggiudicate al Montenegro Pod-
goritsa, Giabliak e Fùndina coi rispettivi territori e
la tribù dei Triepshi.
L'Austria non voleva veramente accettare questa
proposta, contraria ai suoi interessi ; se non che.
— 230 —
non avendo potuto avere dalla sua l'Italia, molto
interessata essa pure in tale vertenza, fini coiraderire
alV ultimatum^ come lo aveva formulato il governo
britannico.
Il 26 giugno l'Inghilterra fece alla Porta la con-
cordata intimazione, e a sostegno della medesima
si ebbe dinanzi a Dulcigno una dimoslra%ione navale^
cui parteciparono tutte le potenze che avevano fir-
mato il trattato di Berlino.
D'altro canto la convenzione di Costantinopoli
del 24 maggio 1881 poneva la Grecia in possesso
del ■ distretto di Arta fra il fiume Arta e il Pindo,
conforme alle decisioni del trattato di Berlino, eia
occupazione greca si compiè senza dar luogo a sub-
bugli, non essendo stata concessa ai greci Janina,
com'era corsa voce si volesse fare contro i voti e
le speranze della Lega albanese.
. Ho già detto del resto e dimostrato che ogni
simpatia e qualsiasi fiducia degli albanesi nella Gre-
cia risorta era venuta meno fino dall'epoca della
guerra di Crimea, per l'inerzia e l'incapacità dimo-
strata dai greci in parecchie occasioni. Una riprova
dell'indifferenza, o meglio della ostilità degli shkipe-
tàri di fronte alle aspirazioni dei patriotti elleni, si
ebbe altresì all'epoca del Congresso di Berlino non
solo nell'atteggiamento della Lega di Prizrend con-
tro le pretese dei greci, ma anche nel modo come
fu accolto in Epiro uno dèi soliti tentativi di sol-
levazione in favore della annessione alla Grecia.
Cinquecento greci, fra cui pochi epiroti insieme al-
l'italiano conte Conturbia di Milano, sbarcarono a
Licur%iy vìcmo a Santi Quaranta^ appunto per solle-
vare l'Epiro: ma neppure un cristiano si mosse, e
— 231 —
l'albanese musulmano Giulecca (Ghion Lek) coi
suoi shkipetari sbaragliò facilmente la malcapitata
coorte. Molti di coloro che la componevano, fra i'
quali Conturbia, vennero uccisi. Tutti gli altri fu-
rono fatti prigionieri, e dovettero la propria sal-
vezza all'intervento dei consoli esteri, che ne otten-
nero la liberazione.
Contro gl'insorti dell'Alta Albania la Porta mandò
un esercito di 30,000 uomini, comandato dal vec-
chio giannizzero Dervish pascià, che colle arti di-
plomatiche più che colle armi ottenne, in capo a
qualche anno, la completa sottomissione degli al-
banesi, che oggi vivono in quelle condizioni so-
ciali, politiche ed economiche che furono già da
me descritte nella prima parte di questo libro.
Dulcigno, ch'era stata dai montenegrini restituita
alla Porta, conforme alle deliberazioni del trattato
di Berlino prima deWultimatum sopra ricordato, fu
da Dervish pascià occupata dopo aver battuti 600
dulcignoti, che, uniti ad alcuni altri albanesi venuti
in loro aiuto dalle montagne di Scutari, erano usciti
dalla città sotto il comando di Hadgi Mehemet bey
e Shakis Effendi per opporsi all'esercito del sul-
tano.
Dervisch pascià riusci persino a togliere ai mirditi
ed all'ancora vivente principessa madre il loro gio-
vane principe Prenk Bib-Doda, che venne relegato
a Castamuni nell'Asia minore, dove si trova, e ad
istituire in quel libero paese una gendarmeria, i co-
siddetti laptiè mirditi, che quivi fanno a dir vero più
male che bene, perché, non pagati regolarmente,
s'impongono e danno motivo a fermenti.
È superfluo aggiungere che, ristabilita la quiete
— 232 —
in Albania, quasi tutti ì capi albanesi compromessi
nella Lega di Prizrend furono spenti o esiliati. Con
tutto ciò nessuno potrebbe mai negare che un sen-
timento nazionale albanese oggi esista, come. risulta
anche da fatti posteriori al 1880, ma troppo a noi
vicini perché sia lecito farne argomento di storia.
Accennerò soltanto alla nuova Lega stretta nel mag-
gio 1883 fra le tribù dei Castrati, Hotli, Cruda e
Screli per opporsi alla delimitazione definitiva del
confine turco-montenegrino, e all'entusiasmo con
cui gli albanesi presero parte in prò della Turchia
all'ultima guerra turco-greca (1897), nonostante i
tentativi di propaganda filellenica, che i greci avevano
rinnovati dopo il trattato di Berlino fra i cristiani
dello Epiro coU'appoggio del patriarcato greco di
Costantinopoli. Se la Grecia avesse vinto nella
guerra del 1897, si sarebbe senza dubbio ingrandita
a spese della Macedonia e dell'Albania, mentre l'Al-
bania non vuole oggi essere assorbita dalla Grecia,
come non vorrebbe essere aggregata all'Austria,
alla Serbia, alla Bulgaria, al Montenegro. Gli alba-
nesi preferiscono rimaner fedeli alla Turchia, a
patto che essa rispetti e difenda la loro integrità
nazionale e conceda delle riforme. I desideri di
una parte di essi non si spingono più oltre di una
larga autonomia sotto la sovranità del sultano. Non
mancano i fautori dell'indipendenza assoluta sotto il
protettorato di una qualche potenza europea. Inte-
grità nazionale e riforme sono i concetti fondamen-
tali della Lega che avvince anche presentemente
tra loro gl'irrequieti e indomabili abitatori delle
città e distretti di Prizrend, Ipek e Giacova (Vilajet
di Cossovo). Partigiani e propugnatori in Albania
- 233 —
deirantagonismo coi greci, coi bulgari, coi serbi,
dell'opposizione alla propaganda austriaca, e di una
larga autonomia nazionale sono oggidì anche i vala-
chi, i quali, quantunque in massima parte ellenizzati,
hanno perduta essi pure, dopo l'ultima guerra, ogni
fidacia nella Grecia. V*ha oggi tra essi chi spera
piuttosto in un'intima unione valaco-albanese.
Ciò posto, il sentimento nazionale di un popolo
antico e valoroso, di una schiatta pura e gagliarda
qual'é l'albanese, dev'essere tenuto in considerazione
non dai turchi soltanto, ma da tutti gli stati confi-
nanti, e in particolar modo dalla diplomazia europea,
arbitra delle sorti di tutti i popoli balcanici. È inutile
aggiungere che un compito speciale spetta in questa
politica avveduta e conciliante alla nostra Italia, in
cui Gheghi e Toski, generalmente parlando, veg-
gono un'alleata naturale disposta a sostenerli e ad
aiutarli.
Gli albanesi (Tlialia, — Dappoiché, finalmente, in
questa affermazione del sentimento nazionale alba-
nese e dei diritti nazionali dell'Albania non ultima
parte hanno gli albanesi di Italia, mi si permetta di
dedicare alle colonie italoalbanesi le ultime pagine
di questo libro.
Molti albanesi d'Italia acquistarono chiaro nohie
nelle armi, nelle lettere, nella politica e nella car-
riera ecclesiastica. Ricorderò fra i primi Ferrante
Castriota marchese di Civita S. Angelo, caduto nella
battaglia di Pavia (1525), Nicolò e Giorgio Basta,
che militarono gloriosamente nella seconda metà
del secolo xvi e sul principio del xvii al servizio
degli Asburgo. Ricorderò pure tra gli studiosi
di storia, lingua e letteratura albanese, nel se-
— 234 —
colo XVII, Pietro Bcrgdano e il padre Francesco
Bianco, nel secolo xviii il padre Francesco Maria
da Lecce e Giulio Variboba, nel secolo xix Fran-
cesco Antonio Sartori. Girolamo De Rada, il nestore
dei patriotti e letterati albanesi, Giuseppe Serembe,
Demetrio Camarda, Giuseppe ed Angelo Masci, Ga-
briele. Darà, Giovanni Schirò, Luigi Petrassi, Giu-
seppe Crispi, Vincenzo Stratigò. Egregi raccoglitori
di canti albanesi sono il De Rada, il Camarda, il
Dorsa e lo Schirò. Sono albanesi l'illustre statista
Francesco Crispi e il prof. Pasquale Turiello del-
l'Università di Napoli. Era di origine albanese Fe-
derico Seismit-Doda, che fu deputato al Parlamento
italiano e ministro del Regno d'Italia. La vera e
propria Albania non può certo vantare ugual numero
di uomini illustri per coltura. La sua gloria è tutta
nelle armi. Si citano ciò nonostante Marino Barlezio
di Scutari, storico di Scanderbeg del secolo xvi, il
dotto conoscitore della lingua albanese Kristoforidis
di Elbassan il poeta Nesim bey da Premet (Epiro), e
il letterato Naim Beg Frashèri della bassa Albania,
che ha vissuto e scritto a Bukarest fra il 1886 e
1896.
Le colonie albanesi d'Italia vantano pure dei
propri istituti d'istruzione: // collegio di Palermo
e // collegio di S, KAdriano, Questo secondo col-
legio fondato nel 1733 in Ullano dal papa Cle-
mente XII, Corsini, che aveva la madre di origine
albanese, fu poi nel 1794 trasferito da Ullano,
ov'eragli stato assegnato il Monastero di S. Bene-
detto ceduto a tale scopo dall'Ab. Commendatario
Cardinal Carafa, nel monastero di S. Adriano (co-
mune di S. Demetrio a Corone, provincia di Co-
— 235 —
senza) licenziando i monaci basiliani che l'occupa-
vano, e venne dotato di laute rendite e posto sotto
patronato regio dal re Ferdinando IV. Per il testo
delle Bolle di Clemente XII e del Dispaccio reale
di Ferdinando IV, e per i decreti sovrani posteriori
riguardanti l'istituto di S. Adriano, emanati dal re
Gioacchino Murat nel 1810 e nel 181 2, dal Didat-
tico Giuseppe Garibaldi e dal Prodittatore Giorgio
Pallavicino nel i86o in nome di Vittorio Emanuele
II re d'Italia, e dallo stesso Vittorio Emanuele nel
1864, rimando i lettori ai Titoli di fondazione del
Collegio italo-greco Corsini di S, (Adriano, pubbli-
cati dal dott, Guglielmo Tocci a Corigliano Calabro
nel 1889. L'uno e l'altro dei suddetti collegi di
Palermo e di S. Adriano furono destinati sin qui
all'istruzione ecclesiastica e classica dei giovani delle
colonie albanesi di là e di qua dal Faro, e diedero
alla coltura albanese i suoi migliori rappresen-
tanti.
È noto inoltre che il risorgimento politico del-
l'Italia trovò tra gl'italo-albanesi non pochi fautori
ardenti e devoti, alcuni dei quali soffersero anche
il carcere e l'esilio e salirono il patibolo per la
causa italiana. Agesilao Milano impiccato il 13 di-
cembre 1856 per avere tentato di uccidere il re
Ferdinando di Napoli, era albanese di S. Benedetto
UUano.
Esiste pure in Italia una Società nazionale alba-
nese, che sorse nell'ottobre del 1895 collo scopo di
provvedere all'adozione di un alfabeto albanese, alla
compilazione di un dizionario, alla pubblicazione di
una Rivista italo-albanese ed all'instaurazione di
maggiori relazioni colla madre patria.
- ii6-
Certo é, in conclusione, che l'halia e l'Albania
furono in ogni tempo l'una all'altra congiunte da
vincoli di varia natura. Se cìó risulta evidente da
questo libro, il modesto scopo per cui esso fu scritto
si può dire raggiunto.
Nota al Capitolo VII della Parte i\
Ho detto nel Capitolo VII della r* Parte di questo
libro, che Tltalia tiene presentemente negli scambi com-
merciali deir Albania cogli Stati europei il quarto posto.
Aggiungerò qui alcune notizie recentissime, da me raccolte
quando già il libro era in corso di stampa, dalle quali è
lecito argomentare che le relazioni commerciali fra Tltalia
e l'Albania potranno acquistare in tempo non lontano
quello sviluppo e quella importanza, che dovrebbero avere
e non hanno.
La Società Tuglia, aderendo a un voto espresso dal
recente Congresso geografico di Milano, studia un progetto
di navigazione del Lago di Scutari con bandiera monte-
negrina, mercè il quale dei vaporetti costruiti a tal uopo
risalirebbero da San Giovanni di Medua per Obotti a Scu-
tari, e toccherebbero partendo da Scutari altri punti del
lago, cioè GlavnìtZci, Vir e Rjeca che non è veramente sul
Iago, ma comunica con esso per una larga via d'acqua.
Il servizio marittimo fra l'Italia e l'Epiro, ora quindi-
cinale (Brindisi, Santi Quaranta, Corfìi, Prevesa, Salahora),
sarà reso settimanale.
L'agenzia commerciale italiana, fondata a Janina fin
dall'anno scorso, procede abbastanza bene.
In un recente articolo del sig. Charles Loiseau, com-
parso nella Revue de Taris (i® maggio 1901), si parla tra
l'altro con particolare favore di un progetto di ferrovia,
al quale io pure ho accennato nel Capitolo VII della i*
PartCy e che dovrebbe congiungere Scutari e San Giovanni
di Medua colle ferrovie serbe.
— 238 —
Codesto progetto, utile senza dubbio al Montenegro,
avrebbe innegabilmente una qualche utilità anche per FAl-
bania, che non ha, come già sappiamo, vie ferrate che
Tattraversìno dalPìn terno al mare.
La detta ferrovia, movendo da Nish. toccherebbe in-
fatti Prishtina e Jpek, e quindi penetrando nel territorio
montenegrino passerebbe per Andrievitsa e Podgoritsa e
metterebbe capo a Scutari^ donde due diramazioni, l'una
verso Antiyari (Montenegro), l'altra verso San Giovanni
di Medua (Albania) la porrebbero in comunicazione col
mare.
A me sembra nondimeno che per l'Albania e per il
suo commercio con Pltalia sarebbe sempre più utile una
strada ferrata, che attraversando il territorio albanese nel
cuore dall'Albania mettesse capo sul mare a Durazzo o a
Valona. Ad ogni modo un progetto non esclude l'altro.
Così potessero tutti avere esecuzione, il che non è davvero
probabile ai tempi che corrono.
>AùM)Aù^i()M>^iùAÙAÙAÙ^>AÙAÙ^iùMfM)AO^
SAGGIO
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L. Fr. Tafel. De via Romanorum Egnatia, Tùbingen, 1842
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A. Degrand. Souvenirs de la haute ^Albanie. Op. cit.,
cap. XVII. Les nécropoles mystérieuses.
La città e l'oracolo di Hella o Dodona e relative
notizie archeologiche.
Omero. Iliade. L. VI; Odissea. L. XIV, XIX.
Hesiodo presso Strabone.
Erodoto, L. I, li.
Eschilo. Prometeo,
Scoliaste di Sofocle (Trag.. Trachinie).
Pindaro nel Peana in onore del nume Dodoneo (fram-
menti).
Aristotile (Meteorol, l).
Plutarco. Vita di Pirro,
DioTORO Siculo, d. XXVI.
Strabone, L. VII e IX.
Polibio, L. IV.
Pausania, L. Vili, X.
Cicerone. De divinatione,
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et ses ruines par M. Const. Carapanos.
Epoca preellenica, ellenica o greca e romana
fino alla caduta dell'Impero d'Occidente.
Scrittori greci: Tucidide (Storia delia guerra del Pelopoti-
neso); Plutarco (Vite di Alessandro, Demetrio^ Pirro,
T, Quinzio FlamininOy Paolo Emilio, Cicerone, Pompeo,
G. Cesare, Antonio); Diodoro Siculo (Biblioteca sto-
rica); Appiano alessandrino (Storia romana); Polibio
(Storia universale); Dione Cassio (Storia romana).
Scrittori latini; Tito Livio (^& urbe condita libri); Giulio
Cesare (De hello civili); Cicerone (Epistole e Filip''
piche) ; Lugano (Pharsalia) ; Vellbjo Patercolo
(Historia romana); C. Svetonio Tranq.uillo (De
Vita Casarum); Floro {Epitoma bellorum omnium);
C. Plinio (Naturalis Historia); Giustino {Epitoma
historiarium Philippicarum Pompei Trogi); Eutropio
(Breviarium ab urbe condita); Cl. Claudiano (De bello
getico e Panegirici).
Corpus Inscriptionum latinarum,
JoRDANES. De rebus geticis (nei Monumenta Germaniae
historica),
Historia Miscella (nei Rerum Italicarem Scriptores del Mu-
ratori, voi. I). Cfr. nuova edizione riveduta, ampliata
e corretta con la direzione di G. Carducci. Lapi, ed»,
Città di Castello, 1900.
ZosiMo bizantino. Hist, novae libri sex (trad. dal greco).
Zippel. Die rómische Herrschaft in lìlyrien, 1877.
G. O. a. Moller. De Corcyraeorum republica, 1835.
Janske. De rebus Corcyraeorum, 1849.
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Neumamn. De veteribus nummis et nuuquam in lucem e^
ditis. 1779.
Storici moderai della Grecia: Grote, Hertzbèrg, Smith,
ecc. ecc.
Storici moderni di Roma e dell'Impero romano: Rollin,
Vannucci, Niebuhr, Mommsen, Jhne, Iager, Hertz-
BERG, Merivale, Bertolini, Duruy, ecc, ecc.
Weber. AHgsmeine Weltgeschichte, '
Cantù. Storia universale,
Helmolt. Weltgeschichte. Viertes Band, Die Randìànder des
Mittelmeeres, Leipzig und Wien. Bibliographisches In-
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VoN Hahn, Hecciuard, GoPCBRic'. Opere citate nella Bi-
bliografia per la i* parte.
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a Giorgio Scanderbeg.
Storici moderni di Teodorico re degli Ostrogoti e del regno
gotico in Italia (De Roure, Deltuf, Hurter, Brad-
ley, Manso, Dahn, Von Pflugk-Harttung, Hodgktn,
Mommsen, ecc.).
— z^ —
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JoSIFr^CT 3E "^ rr.gffJTlUirtlUV. ^Mitili -^ SE CkjkXT
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?- AaukSdLN^nsos^ Cnrntf^^U ÀàJ^^n ,£:raK»\ AtaDe,
- ♦ -<
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AppENDiNi. Notizie istoriche criticU suir antichità, storia e
letteratura dei Ragusei. Ragusa, 1802.
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Mormora. Storia di Corftì,
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sotto il dominio veneto, Venezia, 1858.
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Nuova edizione dei Rerum Hai, Script , riveduta, ampliata
e corretta con la direzione di G. CARDUCCf. Lapi,
Città di Castello, V. Tomo XXII, Parte IV. Le vite
dei Dogi di Marin Sanudo, a cura di G B. Monticolo,
con note importanti per l'indicazione delle fonti.
P£RTZ. Monumenta Germaniae historica inde ah anno D ad
MD.
Rerum Sicuìarum scriptores. Frsincoforte, 15 79*
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ad an, 1266.
Dal Re. Cronisti e scrittori sincroni napoletani, Napoli,
1845.
Società napoletana di Storia patria. Monumenti storici.
Fra i cronisti e storiografi medievali per Tepoca normanna
e per le relazioni normanno albanesi, specialmente
importanti Guglielmo Apulo, Goffredo Malaterra,
Lupo Protospatario, Romoaldo Salernitano, Ugo
Falcando: per l'epoca sveva e angioina e pei Duchi
di Durazzo, Riccardo da San Germano, Niccolò
DE Iamsilla, Saba Malaspina, Domenico di Gra-
vina, Tristano Caracciolo, Pandolfo Collenuccio,
e i Registri angioini (Inventario cronologico sistematico.
Napoli, 1894).
Michael Ritius. (Michele Rizzio sec. xvi) De regihus Nea-
polis et Siciliae,
Fra i cronisti e storiografi veneti specialmente importanti
per le relazioni veneto -albanesi sino ai tempi di Giorgio
Scanderbeg: Martin da Canale, Andrea Dandolo,
Marin Sanudo, Paolo Morosini, Andrea Navagero;
Marco Antonio Sabellico, Bernardo Giustiniani,
ViTTOR Sandi.
- 253 -
Storici moderni dei reami di Sicilia e di Napoli: Angelo
DI Costanzo, Pietro Giannone, Camera, Summonte,
- Capecelatro, ecc.
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en Sicile et en Grece, Paris, 1830.
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Normands, 1846.
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Karl Schwartz. Die Feldiùge Robert Guiscards gegen das
hyiant^ Reich, Fulda 1854.
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nopea, Napoli.
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und Sicilien. Leipzig, 1894.
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Schirrmacher, ecc.).
De Noulis. Histoire des Rois de Sicile et de Naples de la
Maison d^Anjou,
Storici moderni della Repubblica Veneta : Laugier, Daru,
' Cappelletti, Romanin, Le Bret, Gfròrer, ecc.
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i^iani colle ottomane scà'e di Duralo ed Albania, Ve-
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schichte der byxantinischfvenetianischtn ^ ^e^iechungen,
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seppe Muller, Venezia, 1866.
E. Musatti. Venezia e le sue conquiste nel medio evo. Ve-
rona, 1881.
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del Vaticano. Nell'Archivio di Stato di Venezia (il più
importante di tutti) le raccolte note sotto i nomi à\
Liher plegiorum, libri pactorum, liber albus, Commemo-
riàlì, Misti Senato (cioè non separati per materie am-
ministrative, ma misti dì materie comuni e diploma-
tiche), Secreta Senato, e registri delle parti Senato Mar
(riguardanti l'amministrazione ordinaria delle città della
Dalmazia, dell'Istria, dell'Albania e del Levante, mentre
i decreti o parti riguardanti le città di terraferma erano
dette del Senato terrà).
Petrus De Santo Odorico. Descripiio urbis Scutari et
Albaniae cum registro concessionum, 1416-17. (R. Arch.
gen. di Venezia. Collezione codici ex Brera).
Parte dei documenti depositati da B. Cecchetti nell'Ar-
chivio del R. Istituto veneto (Vedi Comunicazione del
socio B. Cecchetti intorno agli stabilimenti politici
della Repubblica veneta nell'Albania, &tta al R. Isti-
tuto veneto nell'adunanza del 23 febbraio 1874. Negli
Atti del R. Istituto veneto, novembre 1873, ottobre
1874).
— 2$5 -
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R. Accad. di Monaco, ^* classe, voi. Vili, parte I).
Spruner e Menke. Atlante in 139 carte per la Storia del
medio evo e moderno (tedesco).
Bevan and Phillott. Medieval geography,
Droysen. Atlante storico (ted.).
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MoRONi. Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica.
Parlati, lllyricum sacrum. op. cit.
Bullarium Sumtn, Pontificum,
Iaffé. Regesta pontificum romanorum.
L, Duchesne. Vlllyicum ecclésiastique, pp. cit.
Cantù, Weber. Storie universali^ già citate.
E. La visse. Histoire generale du IVme siede à nos jours,
Giorgio Scanderbeg. La conquista ottomana.
Cronisti e storiografi veneti già citati.
Storici della Repubblica veneta e del Reame di Napoli già
citati.
Archìvi già citati.
Parte dei documenti depositati da B. Cecchetti nell'Ar-
chivio del R. Istituto Veneto..
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piero. Firenze, Viesseux, 1843. Arch. stor. it., I Serie,
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ne^ia. Voi. IV, pag. 372).
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G. M. BoNARDO. Vita di G, Castriota. Venezia, 16 io.
JocoBUs ScHRENK. *Auguslissimorum Imperatorum, Serenis-
simorum Regum, lllustriss. Trincipumy Comitum, Ba^
ronum, etc. et verum ah ipsis gestarum descriptiones.
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nel 1603 col ritratto di Scanderbeg.
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coforte, 1609.
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1898.
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Cantù, Weber. Storie universali, già citate.
La VISSE. Hist, generale, ecc., già cit.
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Scanderbeg e il figlio (1458-1467) nel Notatorio 2
(N. 25 'dell'Archivio) degli Officiali alla Rason Vecchia,
Codice denominato Graecus con docum. del tempo della
caduta di Scutari in potere dei Turchi, 1478- 1504.
(R. Arch. gen. Atti diplomatici restituiti dal Governo
austriaco nel 1868, n. 231).
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C^ernovich e Antivari, 1443-1494. Gli ultimi conati
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Guillet. Fie de Mahomet II,
17
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Giovanni Schirò, A, Straticò. Anonimo ghego.
Up. cit
Periodico La Naiiane albanese.
Dal principio della dominazione ottomana
fino ai nostri giorni.
Storici moderni della Turchia e dei Sultani turchi, del-
l'Austria e dei sovrani austriaci, della Repubblica Ve-
neta, del periodo napoleonico e della Grecia.
« Relatione et descrittione del Sangiacato di Scutari, dove
si da piena contezza delle città et siti lóro, villaggi,
case ed habitationi, rito, costumi, bavere et armi
di quei popoli » fatta da Mariano Bolizza, nobile di
Cattare, 1614. (R. Arch. gen. di Venezia, Miscellanea
codici. Cod. n. 254).
Informazioni sopra origine e metodo delle arbitrarie in
affari di sangue in Albania (sec. xviii). (R. Arch. gen.
di Venezia. Cancelleria secreta. Cattaro e popolazioni
confinarie).
Matricola della Scola di S. M. e S. Gallo degli Albanesi
in S. Maurizio in Venezia. (Biblioteca Marciana, CI. VII,
cod. MCCXXXVII).
Taluni dei documenti depositati da B. Cecchetti nell'Ar-
chivio del R. Istituto Veneto.
Da consultarsi la pubblicazione della R. Sqvrin tendenza
agli Archivii veneti : Gii Archivii della Regione veneta.
Venezia, 1881. Voi. II. Città di Venezia. Alle rubriche:
Dalmazia ed Albania^ Dura^xp, Senato (Decreti Dal-
maxia ed Albania^ Dispacci Ambasciatori e Residenti,
Dispacci Provveditori generali). Nobili delF Albania.
Archivii del Vaticano e di Propaganda Fide. Archivii della
Compagnia di Gesù.
— 259 —
PouauEVJLLE. Mémoires sur la Vie et la puissance d'Ali
pasciày viiir de Janina,
Id. Voyage dans la Grece, Paris, 1821.
Id. Histoire de la guerre pour Vindépendance de la Grece.
Cerfbeer. Mémoires sur la Grece et V Albanie. Paris, 1827.
Dora d'Istria. Albanesi musulmani. Nuova Antologia, giu-
gno 1868, maggio 1870, settembre 1870.
GopcEVic'. Oberalbanien und seine Liga. Leipzig, i88i.
Pietro Chiara. U Albania, Palermo, 1869.
Id. L'Epiro, gli Albanesi e la Lega Palermo, 1880.
Bernard. La Turquie et TEllènisme contemporain*
Anselmo Lorecchio. La Questione albanese. Catanzaro 1898.
A. Baldacci. Gli albanesi nel Montenegro, Boll, della Soc.
geogr. it., voi. XXXV, 1898.
Id. V Italia e la questione albanese. Firenze, 1899.
Giuseppe Schirò. Kènkat e luftès (I canti della battaglia)
con note e osservazioni sulla questione d'oriente. Pa-
lermo. 1897.
Id. Ta Dheu i huaj (Nella terra straniera). Poema, con note
storiche. Palermo, 1900.
Gabriello Dora. Kènka e Spràsme e Balés (Il canto ultimo
di 'Baia). Prefazione agli albanesi. Catanzaro, 190I9
in corso di stampa.
Manlio Bennicl V Austria e V Albania. Roma, 1901.
Charles Loiseau. Les chemins de fer du Balkan occidental,
(Revue de Paris, i^r mai, 1901).
Id. Vèquilibre adriatique. Paris, 1901. Cbap. IV. La question
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Brunet de Presle e Blanchet. La Grece depuis la conquéte
romaine jusqu'à nos jours. Op. già citata.
Ugo Foscolo. Della fortuna e della cessione di Parga, (Opere
politiche).
Byron. Child Harold.
Atti del trattato di Vienna (181$) e del trattalo di B^rliqg
(1878).
— 26o —
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Periodici: La giovane Albania^ la bandiera albanese e la
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M. Fauriel. Chants populaires de la Grece moderne.
Raccolte diverse di canti e racconti albanesi (Von Hahn,
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Cantù, Weber. Storie universali, già citate.
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Enciclopedie francese, italiana e britannica. Enciclopedia
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