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Full text of "La vita e le opere di Scipione Ammirato (notizie e ricerche)"

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ri 5 7-10 
e 75 



; 

Dott. UMBERTO CONGEDO 



LA VITA E LE OPERE 



SCIPIONE AMMIRATO 



(notizie e ricerche) 



TRANI 

V. VECCHI, TIPOGRAFO -ED ITO RE 

1904 



Jw'Sl 




Dott. UMBERTO CONGEDO 



LA VITA E LE OPERE 



SCIPIONE AMMIRATO 



(notizie e ricerche) 



TRANI 

. VECCHI, TIPOGRAFO-EDITORE 



(Estr. dalla Rassegna Pugliese, Voi. XVIII, fase. 10 e sgg.) 



* • 



< 






le 

ì 



4 



ALLA CAEA MEMOBIA 



dell' Aw. FRANCESCO AYROLDI. 



Quando, lieto della gaia vita universitaria, 
studiavo V opera dell* Ammir alo, già pensavo, se 
e quando mi fosse concesso, di offrire a Te, co- 
me ad un padre, il frullo delle mie ricerche, 
Tina sciagura grande quanto la Tua bontà mi 
ha tolto il compenso ambilo d'una Tua parola, 
d'un Tuo sorriso di gradimento: tuttavia, scio- 
gliendo il voto antico ed obbedendo ad un bi- * 
sogno vivo del cuore, alla Tua memoria santa 
consacro il mio lavoro, e voglio che sia pegno 
modesto dell'affetto grandissimo per Te e nuovo 
anello d'una catena soavissima di fraternità colla 
Tua famiglia, coi figli Tuoi. 



LIB. COM. 
LIB6RMA 
StPftMBfcR 1*28 
17636 



PREFAZIONE, 



Il primo che diffusamente scrisse di Scipione 
Ammirato fu Domenico De Angelis, letterato 
leccese vissuto fra il secolo XVII e il XVIII (i). 
La sua « vita » compresa fra quelle di altri 
illustri salentini, sebbene in molte parti fanta- 
stica ed errata, in altre manchevole ed oscura, 
è stata la fonte unica a cui gli studiosi nostri 
e stranieri hanno attinto ®, e solo recentemente 
qualche nuovo contributo han recato il De Si- 
mone e il Valacca. 



(1) Nacque a Lecce il 14 ottobre del 1675. Studiò a Napoli : 
a Roma fu ascritto air accademia degli Arcadi col nome di 
Arato Alalcomenio, a Lecce fece parte degli Spioni e dei Tra- 
sformati. Viaggiò nella Spagna e in Francia : da Luigi XIV 
venne eletto istoriografo reale. Imprigionato in Catalogna dai 
m i chele t ti fu condotto a Barcellona. Liberato, tornò a Boma, 
dove rivesti onorevoli cariche, quindi a Lecce come vicario 
apostolico. Morì il 7 agosto del 1718. Le Vite dei letterati salen- 
tini furon pubblicate a Firenze nel 1710. 

(2) Cfr. la vita negli Elogi degli illustri toscani, III, p. 305, e 



— 6 — 

L'autobiografia che il nostro avrebbe lasciato 
tra i suoi manoscritti è una pura invenzione; 
essa non si riscontra in un elenco dei mano- 
scritti lasciati da lui a Cristoforo del Bianco 
suo erede universale, elenco riportato nel suo 
testamento e tanto minuzioso da escludere fin 
il dubbio di trascuratezza o di dimenticanza (*). 
Tra i manoscritti invece mi ha fornito un gran 
numero di notizie il Mgb. VIII-1481, una specie 
di copialettere: per il resto mi han soccorso il 
carteggio Mediceo dell'Archivio di Stato fioren- 
tino, le opere a stampa, dove l'Autore spesso 
parla di sé, e le opere, specialmente gli epi- 
stolari, dei suoi contemporanei ed amici, nelle 
quali il nome dell'Ammirato ricorre frequente. 
Con tali aiuti ho cercato di narrare minuta- 
mente i fatti della sua vita e di ritrarre la sua 
figura sotto i diversi aspetti in cui ci si pre- 
senta, di abbate e di cortigiano, di uomo bron- 
tolone e di studioso infaticabile. 

Degli scritti suoi molteplici ho parlato bre- 
vemente di alcuni, più largamente di altri, spe- 



rai tra nelle Memoires pour servir à Vhistoire de* hommes illustre* 
dans la republique des lettres. Paris, Briasson, 1728, IV, p. 99. 
Meglio degli altri il Mazzuchelli, Scrittori d' Italia, I. 

(1) Cfr. Valacca, Contributo alla biografia di S. A. (estr. dalla 
Rassegna pugliese, a. XIV, f. 11, app. III). 



\ 



— 7 — 

cialmente degli inediti, secondo mi è parso me- 

4 

ritasse la loro importanza, e anche qui ho cer- 
cato di porre in rilievo la rara versatilità del 
suo ingegno, di commediografo e di trattatista, 
di storico accuratissimo e di poeta non sprege- 
vole. 

Se al merito dell'opera dell'Ammirato ha cor- 
risposto molto imperfettamente il nostro stu- 
dio, valga a scusarci la carità del natio luogo 
e l'amore delle sue glorie migliori. 

Lecce, 1901. 

Umberto Congedo. 



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I. 



La famiglia Ammirato — Primi anni di Scipione — Primo sog- 
giorno a Napoli — Braccio Martelli — L'Ammirato a Ve- 
nezia — Gli argomenti all' Orlando Furioso e il Trionfo 
oV Apollo — In casa Contarini — L'Ammirato e la famiglia 
di Paolo «IV Carrafa. 

Nel 1391, per le discordie intestine che strazia- 
vano Firenze, molte nobili famiglie dovettero esu- 
larne: tra le altre quella degli Ammirato, che, rap- 
presentata da un Bardo, si recò nella Puglia a fis- 
sarvi stabile dimora, come in quella regione dove 
numerose erano le famiglie toscane stabilitesi per 
ragioni di commercio M. 



* (1) V'eran le famiglie dei Per uzzi, dei Maremonte, dei Cap- 
poni, dei Filicaia, dei Carnesecchi, dei Perondini, dei Tolomei, 
dei Giugni, dei Risaliti, dei Guaimari: i loro nomi ricorrono 
spesso negli atti del tempo. 



— 10 — 

Nobile era la stirpe degli Ammiratoti:' essi 
avean sostenuto onorevoli cariche nella republica. 
Lo stesso Scipione, narrando le vicende di Firenze, 
non trascura di ricordare i suoi antenati illustri : 
se è pio, egli dice, raccogliere le memorie altrui, 
è doveroso radunar quelle della propria famiglia. 
Un Bardo Ammirato cavaliere fu de' Priori e Sin- 
daco dei guelfi nella pace del 1280 coi ghibel- 
lini: dei due figli di lui Nuccio fu dei Signori nel 
1305( 2 ), Ammirato nel 1311. Dei figli di Nuccio 
Chiaro fu podestà di S. Giovanni nel 1345 e* dei 
Signori nel 1349, Nero, ebbe quest'ultima carica 
nel 1356. Da Chiaro nacquero Giovanni, che venne 
eletto podestà a Montecatini, e Michele, dei figli 
del quale, condannati nel 1391, Bardo emigrò, e 
Baciozzino, imparentandosi coi Pitti, rimase a Fi- 
renze e partecipò alla vita pubblica. 

Degli Ammirato di Lecce il primo di cui tro- 
viamo notizie è Niccolò notaio e giureconsulto 
molto caro alla regina Giovanna I di Napoli. Di lui, 
come Sindaco della città, si parla in una lettera 



(1) L'arme della famiglia fu d'argento alla sbarra caricata 
da un cane corrente al naturale. 

(2) Nel 1329 fu mandato a custodire la fortezza di Mon- 
tecatini e nel 1332 fu ambasciatore di pace tra Firenze e Pi- 
stoia. — C£r. S. Ammirato, Storie fiorentine, Firenze, 1647, I, 
pp. 230, 367, 380. 



— li- 
di Giovanni d'Enghien, signore della contea di 
Lecce, a Tommaso Campanile W. Figli di Niccolò 
furono Francesco ( a > e Tommaso : * quello, dice lo 
stesso Scipione, fu chiamato da tutti il giudice 
Francesco, il quale oltre la disciplina legale, alla 
qual egli vacava, si dice per una varia cognizion 
di cose, assai intendente essere stato, et perciò 
uno dei più cari et intimi famigliari che avesse a 
quei tempi la reina Maria moglie di Ladislao » ( 3 >. 
Da lei infatti fu eletto capitano e suo vicario a 
Lecce, e nel 1417 ne assistette il figlio 0io. Anto- 
nio Orsini nella cessione del feudo di Marigliano 
ad Annecchino Mormile ( 4 ). Tommaso, monaco con- 
ventuale ( 5 ), fu prima commendatario della chiesa 
di S. Niccolò e Cataldo di Lecce, quindi vescovo 



(1) Per gli antenati di S. A. del ramo leccese più ampie no- 
tizie in De Simone, Gli studii storici in Terra <V Otranto, estr. del- 
VArch. stor. ital., 1888, p. 275. 

(2) Un breve cenno di lui scrisse il Tafubi, Istoria degli scrit- 
tori nati nel regno di Napoli, Napoli, Mosca, III, p. 202. 

(3) Cfr. S. A., Il Maremonte, in Opuscoli, Firenze, Massi, 1642, 
III, p. 338. 

(4) Cfr. S. A., Famiglie nobili napotetane, Firenze. Massi, 1651, 
p. 821. 

(5) L' Infantino dice come ai suoi tempi nella chiesa conven- 
tuale di Lecce era il suo ritratto con l'iscrizione: Frater Tho- 
mas Ammiratila Epìscopus Lycìensis, et constructor coenobii Sanctae 
Clarae. — Cfr. Infantino, Lecce sacra, p. 67. 



/ 



- 12 - 

della città dal 1429 al 1438 con fama di insigne 
teologo beti accetto a Martino V e ad Eugenio IV. 
Nel 1414 costruì la chiesa di S. Chiara col mona- 
stero annesso, ed ivi fu sepolto (*). 

Figlio di Francesco fu Luigi sindaco di Lecce nel 
1462 (2); da lui nacquero Gurello milite di 6. Or- 
sini, Tommaso notaio e G. Battista: da Gurello 
nacque un Francesco, che mandò a rovina le fi- 
nanze della famiglia. Un figlio di questi, Iacopo, 
padre di Scipione, fu preposto alle fortificazioni in 
Brindisi (*) e combattè in servigio del re di Spagna 
insieme con due dei suoi figli, uno dei quali vi la- 
sciò la vita ( 4 ); di Domizio, cugino di Iacopo, morto 
nel 1578, si sa che benificò l'ospedale di Lecce ( 5 ), 



(1) Cfr. S. A., Lettera al vescovo Spina, in Opuscoli, II, 312. — 
Vedi anChe Ughelli, Italia sacra, IX, 51. 

(2) Cfr. Bernardino Braccio, Cronaca di Lecce, ms. nella bi- 
blioteca del Museo Castromediano di Lecce. 

(3) Cfr. S. A., Discorso del tempo opportuno alle provvisioni in 
Opuscoli, II, p. 89-90. 

(4) < Son di famiglia la qual di lunga mano ha seguitato la 
fazione Aragonese, come mostrerei con iscritture reali, quando 
cosi bisognasse, et mio padre e due miei fratelli, de' quali un 
vi pose la vita, già militarono in servigio di Vostra Maestà ». — 
Cfr. S. A., Orazione a Filippo II, in Opuscoli, I, p. Èì, 

(5) Compare in un protocollo di notar Filippello dell'anno 
1552 (Archivio not. di Lecce, a. 1552, f. 1026). Col suo testamento 
rogato il 25 sett. del 1568 donava all'Ospedale alcuni stabili 
adiacenti allo stesso. 



- 13 - 

e della sorella Minerva che andò moglie a Camillo 
Petraroli (*>. Iacopo, oltre ai figli maschi, ebbe tre 
femine: Virgilia, Ippolita, Minerva, che finirono 
monache, la prima anzi badessa, del convento di 
S. Chiara, Vittoria, che andò sposa a Cesare Mon- 
tefuscoli gentiluomo leccese, e Camilla che fu mo- 
glie di Mercurio de* Giorgi ( 2 ). 

Le case degli Ammirato erano presso la chiesa 
di S. Chiara, oggi piazza Vittorio Emanuele, nel 
quartiere che ancora porta il loro nome. I beni 
della famiglia furono dilapidati da Francesco, avo 
di Scipione, tanto da provocare nel nostro storio- 
grafo frequenti querele sulla propria povertà 9) : 



(1) Cfr. Arch. cit., istrumento del notar Petrosino del 24 feb- 
braio 1571. 

(2) Virgilia volea investire di un beneficio il fratello Sci- 
pione, ma non potè. Vedi S. A., Opuscoli, II, p. 412. — Ippolita 
si trova ricordata in un istrumento del 1577 del notar Orazio 
Petrosino. Vittoria è ricordata in un rogito del 1504 del no- 
taio Donato Brunetto. Lo stesso Scipione nella canzone alla 
Speranza (Opuscoli, II, p. 595) le chiama: 

le dilette e care 
mie verginelle, e l'altre due cui il giogo 
maritai preme. 

(3) Domizio Ammirato nel 1554 possedeva il feudo di S. Vito 
e quello di Mauri ambedue in territorio di Mesagne. — Cfr. 
Fosca rini, I dottori in legge ed in medicina di Lecce, p. 6. 



— 14 — 



Chiudiamo queste brevi notizie intorno alla fami- 
glia Ammirato con un albero genealogico di essa (*): 





Agnolo 






Bardo 

1 




Nuccio 
1 




1 
Ammirato 


1 
Giovanni 


Michele 

1 




! 
Bacio zzino 

1 


Chiaro 


1 
Bardo 

1 


Antonio 


1 


1 


1 
Giovanni 


Francesco 

I 


Fra Tommaso 


1 
Ammirato 

1 


Luigi 

1 




Iacopo 


I 


1 


1 
Ammirato 


Giurello 

| 


Tommaso 
| 


1 
Roberto 


Francesco 
| 


G. Battista 
| 


1 
Niccolò 


Iacopo 

1 


Domizio 



I 



I 



I 



Scipione Orazio Ferrante Virgilio Ippolita Minerva Camilla Vittoria 

Scipione Ammirato nacque il 7 di ottobre del 1531 
in Lecce ( 2 ), città allora delle più belle e delle più 
importanti del reame di Napoli per ricchezza, per 



(2) Un albero genealogico degli Ammirato si trova in un 
ms. di Iacopo Gaddi: Ms. Mgl., Vili, 295. Esso è incompleto 
come tutti quelli che han dato gli studiosi anche moderni. 

(1) Spesso si errò sull'anno di nascita del nostro: il Crasso 
nei suoi Elogi assegna il 1533, altri, come il Settembrini (Stor. 
della lett., II, p. 157), il 1532, L'Arditi (Corografia della provìn- 



»» 



— 15 — 

nobiltà e per frequenza di popolo fl-). Sua madre 
fu Angiola della nobile famiglia Caracciolo di Brin- 
disi, e fu pronipote del celebre frate ed oratore 
Roberto Caracciolo C 2 ). Il De Angelis scrive che 
egli apprese i primi rudimenti a Poggiardo, vil- 
laggio della provincia salentina, da Angelo Sorano, 
quindi verso il 1545 venne a Brindisi a studiar 
rettorica sotto Battista Lasci e Lucio Foretano ( 3 ) ; 
segui quest'ultimo a Galatina e visse seco per al- 
cun tempo finché, dato termine allo studio di quelle 
discipline, dovette, sul finire del 1547, recarsi a 

Napoli per addottorarsi in diritto. 

« 

L'incantevole Partenope, sogno e delizia dei poeti, 
dimora splendida e favorita del fiore dei cavalieri 



eia di Lecce, p. 276) dà come giorno natalizio il 27 settembre, e 
tutti dopo di lui hanno accettato questa data, senza tener conto 
di una lettera dell'Ammirato stesso scritta il 24 agosto del 1596 
al cardinale Aldobrandini, dove il giorno della nascita è espli- 
citamente indicato. — Cfr. S. A., Opuscoli, II, p. 459. L'A. parla 
anche della propria nascita nelle Storie fiorentine, I, p. 62, e negli 
Opuscoli, I, p. 81, e II, p. 417. 

(1) Cfr. Relazione di Napoli di Gr. Ramusio, in Relazioni venete, 
XV, p. 341. 

(2) Cfr. S. A., Storie fiorentine, III, p. 63. — Sulla famiglia 
Caracciolo v. Della Monaca, Storia di Brindisi, Brindisi, 1647, 
p. 463; su Boberto lo studio del Torraca, in Studi di storia let- 
teraria napoletana, Livorno, Vigo, 1884, p. 167 e segg. 

(3) Cfr. S. A., Opuscoli, II, p. 89, 



- 16 - 

• 

e delle dame accentrava, anche per gli studii, tutta 
la vita della bassa Italia; le altre provincie, tra- 
scurate in tutto dai viceré, che dal beneamato go- 
verno spagnolo erano inviati a reggerle, e non 
avevano altra cura se non di spillare dalle loro 
fertili terre tanto oro da saziare l'avidità della 
Corte di Napoli e la propria, non vivevano vita 
colta e letteraria (*). Non mancano, è vero, frequenti 
e numerose accademie, le quali cercano di tener 
viva la fiamma del sapere e della poesia, ma esse 
non esercitano alcuna influenza sulla generale cul- 
tura. Il popolo non partecipa a questa pallida vita 
intellettuale; non ne ha tempo: la miseria batte 
alle porte, il commercio è in mano di * mercanti 
fiorentini o veneziani sfruttatori, la corruzione e 
la violenza trionfano, e l'uomo del popolo può dirsi 
contento se ha avuto da mangiare, se il signorotto 
ha risparmiato l'onore della sua famiglia. 

A Napoli dunque. E Scipione vi andò, dicemmo, 
che era il Natale del 1547. Appena giunto infermò 
di grave malattia : curato amorosamente da un Gio- 
vanni fiorentino, che lo aveva ospitato, risanò e 



(1) Non servi a migliorare per nulla le condizioni di Terra 
d'Otranto una serie di viceré onesti, quali il Di Somma e il 
Loffreda, a cui anche l'Ammirato tributa Iodi. — Cfr. Famiglie 
naj>olelane, I, p. 11. — V. anche il Tansillo, SoìieUi, XX-XXI? 
dell 'ed. Fiorentino, 



— 17 — 

tornò a Lecce, donde poco dopo il padre lo rimandò 
a Napoli. Questa volta vi giunse privo di ogni mezzo 
per vivere, perchè i malandrini, che in quel tempo 
infestavano la Basilicata, lo avevano derubato di 
tutto. 

Giovanni Bolognqtto e Marcello Benignino leg- 
gevano allora con gran successo diritto nello stu- 
dio napoletano: ma il nostro non era proclive a 
quegli studii, e alle scuole affollate preferiva la 
quieta casa di Bernardino Rota e di Angelo di Co- 
stanzo, che egli avea conosciuto per mezzo di An- 
tonio Guido 0). Qualche volta tuttavia si recava 
alle lezioni di quei dotti giuristi, e quivi conobbe 
Bartolomeo Maranta, con cui si legò di salda e du- 
revole amicizia. A tanto giunse il suo entusiasmo 
per la poesia che « per amore di essa senza mi- 
surare le forze del padre a parecchi giovani dette 
ricetto e spese nella sua casa; perciochè egli nu- 
drl per molti mesi Landolfo Pighini da Imola, sì 
come fece ancora verso Gio. Iacopo Manzone » C 2 ). 



(1) Per l'amicizia del Guido col Rota ctr. la saffica del Rota : 
« Ad amicos Romae degentes ». Per le relazioni col Costanzo 
cfr. Agostino Gallo, Vita di Angelo Costanzo, innanzi alle Poesie 
latine ed italiane dello stesso, Palermo, Lao, 1840, e il sonetto 
del C. a p. 143. 

(2) Cfr. De Angelis, Vita cit., p. (39. 



— 18 - 

E a Napoli la vita letteraria, la poesia fiorivano. 
Vivo ancora il ricordo dell'accademia Pontaniana, 
altre in gran numero ne sorsero tentando di per- 
petuarne, rinnovandole, le splendide tradizioni. Ber- 
nardino Martirano, già accademico cosentino, nella 
superba sua villa di Leucopetpa radunava i poeti 
e i dotti partenopei, tra i quali il Tansillo, il Rota, 
il de Leo (X). Alessandro da Ponte, Antonio Carrafa 
e sua moglie Ippolita Gonzaga fondavano la Argo 
dandole per motto: Semper vigli Argus propter 
Mercurium. Il Rota, il Costanzo, il Carrafa face- 
van pure parte degli Eubolei, mentre i nobili del 
seggio di Capuana, raccolti già nell'Accademia de- 
gli Incogniti, nel 1547 fondavan, presidente Fer- 
rante Carrafa ( 2 ), quella degli Ardenti, della quale 
il Rota, il Caracciolo, il Costanzo divennero l'a- 
nima e riuscirono a darle il primato sulle altre. 



(1) Per l'accademia cosentina v. Fiorentino, Bernardino Te- 
lesto, Firenze, Lemonnier, 1872, I, p. 1 e segg. — Della villa di 
Leucopetra ci dà una descrizione il Summonte, Storia di Napoli, 
Napoli, Bulifon, 1675, I, p. 266. — Pel Martirano e per la sua 
accademia cfr. Pometti, I fratelli Martirano in Atti dell'Acca- 
demia dei Lincei, II, p. 118 e segg. 

(2) Cfr. Miniebi-Biccio, Cenno storico delle accademie fiorite in 
Napoli, in Archivio, storico napoletano, V, p. 174 e 520; e Napoli- 
Signobellt, Vicende della coltura nel regno di Napoli, IV, p. 880.. 
— La frequenza dell'Ammirato in casa del Carrafa ci è ricor- 
data dal De Anqelis a p. 69 della Vita cit, 



— 19 - 

Un anno prima i nobili del seggio di Nido avean 
costituito l'accademia dei Sereni con intenti lette- 
rari e scientifici sotto la presidenza di Placido di 
Sangro e col concorso tanto ricercato ed ambito 
di Antonio Epicuro, del Rota, del Galeota, di Fran- 
cesco Brancaleone 0). 

Non contento il Rota di far parte di tante ac- 
cademie, ne aveva raccolta una in casa sua, al 
n. 32 del vicolo Pallonetto di S. Chiara, chiaman- 
dovi i più noti letterati napoletani. Quivi l'Ammirato 
conobbe il Costanzo, l'Epicuro, il Capaccio, il Di 
Sangro®, quivi giovanetto, ascoltando quelle dotte 
conversazioni, imparò a gustare i nostri migliori 
poeti, specialmente i cinquecentisti ( 3 ). Con quanta 
cura egli li leggesse e li studiasse, si può dedurre 
da un suo lungo e paziente lavoro, nel quale con- 
frontando accuratamente le varie edizioni delle 
rime del Bembo, raccolse le diverse lezioni postil- 



(1) Per l'accademia dei Sereni v. Tafuri, Serie cronologica 
degli scrittori nati nel regno di Napoli, in Calogerà, Opuscoli, XVI, 
p. 189. — Il Rota per l' iscrizione sua a questa accademia scrisse 
i] sonetto : « Così mai sempre il del sereno e puro » . Cfr. le Poesie, 
Napoli, 1726, 1, p. 302. -— Tutte le suddette accademie vennero 
chiuse nel 1548 per ordine del viceré perchè sospettate di cospi- 
razione. 

(2) Cfr. Rime del Costanzo, Padova, Cornino, 1750, p. 127-8; 
e S. A., Il dialogo delle Imprese, in Opuscoli, I, 460. 

(3) Cfr. S. A., Famiglie nob. napoletane, I, p. 32. 



- 20 — 

landone un esemplare dell'edizione romana del 1547. 
Egli stesso dice che « li suoi raffronti furono al- 
lora trascritti con singolare piacere dal Rota, dal 
Costanzo, dal Serone W e da tutti i migliori scrit- 
tori di quell'età, potendo a lor gusto vedere con 
qual giudizio avesse il Bembo non solo le piccole 
cose già dette, ma molte et molte altre queste ri- 
putando e quelle ripigliando, fattone scelta » &). 
Grande stima nudriva l'Ammirato pel Bembo poeta: 
« fu egli, dice nel suo ritratto, eccellente scrittore 
di cose poetiche, intese benissimo le lingue, e so- 
prattutto grandemente meritò della Toscana la quale 
per suo studio grandemente risorse ».Non ne lo- 



ci) Del Serone l'A. ci ha lasciato il ritratto : « Nello scriver 
versi toscani stimo io che fosse stato inferiore a niuno dell'età 
sua. Mal si contentava delle sue cose e però n'era parco, ma 
quelle che lasciava andar fuori eran tutte pulite e ben con- 
dotte, né in loro si potea trovare un brusco ». — Cfr. S. A., 
Opuscoli, II, p. 241. — Alcune sue poesie sono in Parnaso ita- 
liano, Venezia, 1787, XXXI, p. 265. — Fu amico del Tansillo 
(T., Sonetto XLIV, dell' ed. Fiorentino) e del Varchi. — Vedi 
S. A., Famiglie nob t napoletane, I, p. 50. 

(2) Cfr. Opuscoli di S. A., II, p. 181, miscellanea, XIII. — L'A. 
donò la copia annotata a Carlo Spinello duca di Seminara 
« riuscito così savio e valoroso cavaliere come altri abbia per 
avventura nel nostro reame » . Egli non interruppe gli studi 
sul Bembo e nel 1560 vagheggiava il disegno di pubblicare le 
sue annotazioni ed altre fatte dopo. — Cfr. il Commento alle poe- 
sie del Rota, p. 288. 



— 21 — 

dora invece le Storie, di cui preferirà il testo la- 
tino imitante lo stile di Cesare al testo italiano 
tutto contorsioni e lungaggini : ne biasimerà la ari- 
da secchezza e la mancanza di quegli episodi che 
« sono a chi legge quasi ombre e piacevoli allog- 
giamenti a viandanti, alleggiando con la dolcezza 
della novità l'animo affaticato del lettore »( 2 ). 

Della vita napoletana calma e feconda, confor- 
tata dallo studio e dal lavóro letterario assiduo, 
egli potè godere per circa quattro anni. Per una 
nuova malattia tornò a Lecce, accoltovi dal padre 
adirato solo dopo lunghe preghiere della madre. 
Le accoglienze non furono né affettuose né liete : 
i parenti gli rimproveravano la sua leggerezza, il 
padre, che sperava far di lui un avvocato (allora 
gli avvocati formavano il quinto elemento della 
vita nonché dei cavalieri e dei signori, di chiun- 
que avesse un po' di terra al sole(D), appena ne 
tollerava la presenza. Come se questo non bastasse, 
ecco un altro guaio: 



(1) V. il ritratto del Bembo in Opuscoli di S. A., II, p. 248. 

(2) Il Ramusio, ambasciatore veneto a Napoli, scrive a que- 
sto proposito: e Son nudi i cavalieri della cognizione di tutte 
le cose ; voglion sempre aver l'avvocato accanto, ed è cosa vera 
che un titolato volendo comprare un bacile o vaso d'argento 
lavorato, mandò a chiamare l'avvocato per consigliarsi seco 
quanto dovea pagar la manifattura ». — Cfr. (t. Ramusio, Re- 
lazioni di Napoli, in Relazioni venete, XV, p. 318-9. 



':-, 



,.* 



- 22 - 

Nella mia patria che brighe e contese 
nudre mai sempre, e fu fatto un centone, 
che il peccato d'ogni uom facea palese. 

Subito immaginaron le persone, 
fuor d'alcun buon cui mia natura è nota, 
che quella fosse stata mia invenzione. 

O come in breve volge la sua ruota 
fortuna: io ch'era dianzi a tutti caro 
subitamente ognun mi punge e nota. 

E tal si fu, che del suo onore avaro 
pensò rendermi pan per {schiacciata 
a fin che l'altro e l'un gisse par paro. 

Altre cose vi fur che la turbata 
et stanca mente isbigottiro in guisa 
che la patria da me funne lasciata (1). 

Era il maggio del 1554. 

* 
* * 

Dopo d'essere stato a Napoli e a Roma, si fermò 
a Venezia, dove visse fino al settembre di quell'anno 
in compagnia di Aurelio Grazia, figlio di quel Nic- 
colò che Sperone Speroni pone a ragionare nel 
primo dialogo d'Amore, e di Girolamo Grimani che 
lo aveva accolto con cortese ospitalità. La dimora 
di Veriezia fu alternata con frequenti gite a Pa- 
dova, celebre allora per gli studii ( 2 ). L'Ammirato 



(1) V. il Capitolo al Costanzo, in Opuscoli di S. A., II, p. 660-1. 

(2) Cfr. Bernardo Navagero, Relazione di Padow, in Eoma- 
nin, Storia documentata di Venezia, VI, p. 455; e Montaigne, Viag- 
gio in Italia, ed. D'Ancona, p. 126-7. 



— 23 — 

avrebbe voluto continuare quivi il corso di giuris- 
prudenza interrotto a Napoli, ma, non sovvenuto 
dal padre e credendo rabbonite le ire dei concit- 
tadini, tornò a Lecce. Eppure 

Chi il crederà? cruccioso più che mai 
vi trovai alcun, ma racchetato al fine 
del passato mio mal mi ristorai (1). 

Suo fratello Orazio, che avea vestito l'abito ec- 
clesiastico, volle mutare la stola nella spada, e la 
nera zimarra fu assunta dal nostro, incitatovi dal 
vescovo Braccio Martelli, che lo dotò pure di due 
benefizi ( 2 ). Grande fu la benevolenza del Martelli 
per l'Ammirato, il quale lo contraccambiò colla 
venerazione più profonda e con l'ammirazione più 
entusiastica. E bene quel vescovo le meritava : tra 
i prelati più battaglieri e più audaci nel Concilio 
di Trento, incorse nelle ire della Curia romana e 
da Fiesole venne mandato a Lecce: liberale del 
suo, coll'energia e col buon esempio represse i cat- 
tivi costumi dei chierici, tolse molti abusi, molte 
discordie, riordinò la malandata amministrazione 
dei beni eclesiastici( 3 ). Aspirò al cardinalato, ma 



(1) Capitolo al Costanzo cit., in Opuscoli, II, p. 668. 

(2) Cfr. U. Congedo, Nota preliminare a cinque lettere di S. A., 
Lecce, tip. Salentina, 1898. 

(8) De la nostra città vescovo è Braccio 

Martello, un uom che per la sua bontade 
legato il cor m'ha assai di più d'un laccio. 



— 24 — 

la condotta serbata nel Concilio tridentino gliene 
precluse la via. Nel novembre infatti, poco dopo 
che l'Ammirato avea vestito l'abito, il Martelli lo 
mandò a Roma per sollecitare tale onore, « il quale 
egli a viso aperto e pago dalla sua coscienza di- 
ceva non bramar tanto per esser cardinale, quanto 
per vivere con una bella ed onesta speranza di po- 
ter pervenire al pontificato, ove quando fosse mai 
arrivato, credeva con quello instromento poter far 
molte cose utili alla cristianità » W. Giulio HI parve 
all'Ammirato un uomo dotto, ma non adeguatamente 
dignitoso nell'altissimo suo ministero e troppo ar- 
rendevole coi suoi e coi cortigiani talora indegni 
delle sue grazie ( 2 ). 

Senza aver nulla ottenuto pel Martelli e dopo 
aver anche sperato invano in Pierantonio di Capua 



Questi dal di ch'io venni a ste contrade, 
a se chiamommi, e mi sovviene e dona; 
cosa che forse di non molti accade. 

Così PAmmirato nel Capitolo al Costanzo. Più ampie noti- 
zie intorno al vescovo Martelli, oltre che negli Elogi degli uo- 
mini illustri toscani, Lucca, 1772, III, p. 118; anche U. Congedo, 
Uh vescovo della diocesi leccese nel sec. XVI, Lecce, tip. Lazza- 
retti, 1899. 

(1) Cfr. S. A., Degli onori, in Opuscoli, I, p. 607; e Famìglie 
nobili fiorentine, p. 107, dove narra le accoglienze fatte in Roma 
a Pietro Strozzi, alle quali egli fu presente. 

(2) Cfr. il ritratto di lui in Opuscoli, II, p. 228. 



- 25 — 

arcivescovo di Otranto, che gli avea promesso la 
carica di segretario se egli fosse stato nominato 
cardinale, dopo nove mesi di dimòra a Roma (*), 
anziché tornare a Lecce, preferì di recarsi a Ve- 
nezia, dove era stato già così bene accolto, « con 
l'animo di mettersi a servizio di qualche ambascia- 
tore e conoscere cosi le corti » ( 2 ). 

Anderò spesso spesso a ca Venieri 
Ove io non vado mai ch'io non impari 
Di mille cose per quattr'anni interi. 

Perch'ivi sempre son spiriti chiari, 
Et ivi fassi un ragionar divino 
Fra quella compagnia d'uomini rari. 

Chi è il Badovar sapete e chi '1 Molino 
Chi il padron della stanza è l'Amai teo 
Il Corso, lo Sperone e l'Aretino. 

Ciascun nelle scienze è un Capaneo, 
Grande vo' dire e son tra lor sì eguali, 
Che s'Anfìon è l'un, l'altro è un Orfeo. 

A questi bisogna aggiungere altri, come l'Ata- 
nagi, il Ruscelli, Celio Magno( 3 ). Domenico Veniero, 



(1) Capitolo al Costanzo cit., in Opuscoli, II, p. 669. 

(2) Cfr. De Angelis, op. cit., p. 73. 

(8) Per tutti costoro cfr. Cicogna, Delle iscrizioni veneziane, 
Venezia, 1827, III, p. 54 ; la Vita del Molino scritta da mons. (?. Ma- 
rio Verdizzotti, in Rime di Girolamo Molino, Venezia, 1570; il 
Capitolo al conte Alessandro Lambertico nella seconda parte delle 
Rime di G. Pababosco, in Venetia, Francesco e Pietro Rocca, 
1555, p. 61; e i Tre discorsi di Girolamo Ruscelli a M, Ludo- 
vico Dolce, in Venetia, MDLIII, p. 255-6. 



- 26 - 

colpito da gravi ed incurabili malattie, non potendo 
partecipare alla vita pubblica, d'animo buono e 
d'umor piacevole, radunava in sua casa quanti let- 
terati vivevano o capitavano a Venezia C 1 ). L'Am- 
mirato, subito accoltovi, narra così le sue impres- 
sioni : « Fu la sua casa con strano mescolamento 
ripiena sempre di tutti i letterati e poco men che 
di tutti i cervelli gagliardi, per non dir dei pazzi, 
che capitavano in Venezia, massimamente dei pec- 
canti nell'umor della poesia ». Quella conversa- 
zione non avea, secondo l'Ammirato, nulla di ac- 
cademico o di pesante: vi si discorreva tanto delle 
questioni che allora si agitavano intorno alla poe- 
sia, quanto dei fatterelli accaduti nella città, si 
leggevan versi e si narravan novelle. Il Ruscelli 
disputava sull'Orlandi Furioso e Ferrante Ave- 
roldo raccontava le bravure d'un cane di France- 
sco I, che al padrone, che avea smarrito un guanto, 
ne portava due rubati da un mercante, mentre Gi- 
rolamo Molino, lasciato da parte il Petrarca ed il 
Bembo, spiegava agli uditori meravigliati come il 
suo cane cantasse una delie canzonette allora in 



(1) Cfr. Il diamerone di M. Valerio Marcellino, in Venezia, 
appresso Gabriel Giolito de' Ferrari, MDLXV, p. 3, ove è una 
minuziosa descrizione delle radunanze e dei discorsi che vi si 
tenevano. 



- 27 - 

voga a Venezia (*). A quando a quando se capitava 
nella città qualche celebrità artistica, il Veniero 
volea vederla, udirla, ed, entusiasmato, la rimandava 
con ricchi doni o la celebrava nei suoi versi e la 
facea celebrare dagli amici. Cosi nelle sale del suo 
palazzo si udiron gli accordi di Perisan Cambio e 
di Gasparo Fiorino, e risuonò la voce melodiosa di 
Franceschina Bellamano: il Parabosco, oltre che 
poeta, musico e organista di S. Marco, accompa- 
gnava al clavicembalo ( 2 ). 

L'Ammirato ben volentieri frequentava le alle- 
gre serate di questa casa, legandosi di sincero af- 
fetto con Domenico Veniero, che, egli dice, sarebbe 
bene stato zotico e di villan cuore colui, il quale 
avendo alcuna pratica seco non l'avesse singolar- 
mente amato C 8 ). Per tutti gli altri ebbe stima e 
venerazione, ma quegli che lo colpi più vivamente 
fu l'Aretino: di lui si parlava spesso in quelle 

m 

conversazioni, talora egli stesso vi interveniva^), e 



(J) Cfr. S. A., Mescolanze, in Opuscoli cit., II, p. 173. 

(2) Cfr. Seràssj, Vita del Veniero, innanzi alle Rime, Bergamo, 
Lancel lotti, 1751, p. XIV. — In una lettera dell'Aretino si dice 
che il Parabosco musicava mottetti allora in voga. Cfr. il 
Quinto libro delle lettere di Ms. Pietro Aretino, Parigi, appresso 
Matteo il maestro, 1609, p. 195. 

(3) Cfr. Ritratti di S. A., in Opuscoli cit., II, p. 252. 

(4) Molte lettere dell'Aretino ricordano la conversazione in 
casa del Veniero. — Cfr. Lettere dell'Aretino cit., V, p. 46, 89, 
218; VI, p. 127 e 273. 



— 28 — 

il nostro udì con stupore narrare dallo Speroni le 
peripezie del primo viaggio di Pietro da Venezia 
a Roma a piedi e senza un soldo. Pur non giudi- 
cando durevole l'opera sua letteraria e trovando 
nell'animo di lui alcunché di semplice per cui si 
sarebbe lasciato ingannare da chiunque, tuttavia lo 
guardò con meraviglia per la sua arditezza. « Ha- 
resti, scrive di lui, con difficoltà veduto vecchio 
più bello di lui né più pomposamente ornato. Né 
era se non cosa dolcissima sentirli dire, come pre- 
ponendo egli la stanza di Venezia a quella di Roma 
e la semplice e schietta gloria che traeva dal ve- 
dersi ammirato dal mondo e temuto da principi al 
cappel rosso che harebbe potuto uccellar da Giu- 
lio III suo conoscente, si contentava della vita pri- 
vata. Perciochò in un medesimo tempo a chi esa- 
minava il suo stato, parevan parole da ciurmatore 
e chi vedea quel che in lui avea adoperato la sorte, 
non lo stimava che parlasse vanamente e a caso. 
Dica quel che altri si voglia: egli fu un ritratto 
della pacienza de' principi e un mostro della for- 
tuna, perchè a divenire un uomo bassissimo papa 
vi si trova la scala, ma chi volesse avviarsi per 
l'erta che tenne l'Aretino, romperebbe il collo alla 
prima montata » Q). 



(1) V. il ritratto dell'Aretino, in Opuscoli cit., II, p. 264. 



- 29 — 

L'amicizia contratta col Ruscelli in casa del Ve- 
rnerò fece sì che l'Ammirato componesse in questo 
tempo gli argomenti all' Orlando Furioso, il poe- 
ma da lui prediletto. « Giovane di belle lettere, di 
felicissima vena e di forti studi » scrive il Ruscelli 
dell'Ammirato, che certo nelle adunanze geniali 
dei letterati veneziani avea colto il destro di farsi 
conoscere autore di versi e critico di poesia non 
spregevole Q>). 

Frutto anche di quelle conversazioni fu un'ope- 
retta composta dall' Ammirato a Venezia e poi, se- 
condo il de Angelis, perduta nel viaggio da Vene- 
zia a Lecce, o, che è più probabile, nella fuga pre- 
cipitosa dalla città delle lagune. Era il Trionfo 
d'Apollo, « nel quale dei poeti ragionando, oltre il 
raccontare l'historie di essi, ebbe agio di scoprire 
quasi tutta l'arte di quella scienza, il quale, andato 
poi male, fortemente gli increbbe perciochò avea in 
esso asseguito molta dell'imitazione di Dante » ( 2 ). 
E l'argomento medesimo che tratterà più tardi nel 
Dedalione o Dialogo del poeta. Lo studio amoroso 
dei trecentisti non fu mai da lui trascurato e ve- 



(1) Orlando Furioso di M. Ludovico Ariosto tutto ricorretto e di 
nuove figure con le annotazioni, gli avvertimenti e le dichiarazioni 
di Girolamo Ruscelli, la vita delVautore descritta dal sig. Giov. Bat- 
tista Pigna, in Venetia, Vincenzo Valacrino, MDLXVIII. 

(2) Cfr. De Angelis, op. cit., p. 74. 



- 30 — 

dremo come la fiorentinità della lingua viva e 
schietta tratta da essi sarà una delle lodi migliori 
che i contemporanei daranno alle sue opere. 

A Venezia però non era la dotta conversazione 
di casa Veniero Tunica compagnia dell'Ammirato. 
Egli era ospite di Alessandro Contarmi, nobile pa- 
trizio, da lui già conosciuto per ragioni di com- 
mercio nelle Puglie. Avea il Contarini in moglie 
una delle più belle e gentili dame veneziane, chia- 
mata per la sua grazia la bella Loredana, la quale 
accolse con tanta benevolenza l'Ammirato, che alla 
sera, quando il marito si recava all'aristocratico 
ridotto, ella lo facea chiamare e s'intratteneva con 
lui in piacevoli discorsi. Talora leggevano una no- 
vella del Boccaccio, tal' altra egli le descriveva i 
costumi delle dame napoletane. 

Sino a qual punto siano giunte le relazioni fra 
la dama veneziana e l'Ammirato non sappiamo 0)\ 
forse i versi con cui la Francesca di Dante chiude 
il suo pietoso racconto tornarono alla mente del 
giovane abbate quando fu costretto a fuggire pre- 
cipitosamente da Venezia. Un di, narra iL De An- 
gelis, che cerca di scolpare l'Ammirato asserendo 
che la lettura e la conversazione eran fatte in pre- 



i 



(1) In dubbio rimane anche l'autore delle vite degli illustri 
toscani, op. cit., p. 806. 



— 31 — 

senza delle cameriere, la Contarmi mandò all'Am- 
mirato un dono di finissima biancheria: ciò, rife- 
rito al marito, destò tanto il suo furore da mettere 
in pericolo la vita del giovane. Solo nel capitolo 
al Costanzo l'Ammirato parla di questa sua avven- 
tura e ne parla in modo ambiguo: 

Giunto a Venezia io trovo un che comparte 
suo pensier meco, e con man larga e piena 
misero a me d'ogni suo don fa parte. 

In men spazio che il ciel tuona e balena 
vidi rivolta in guerra ogni mia pace 
e seminato il seme in su l'arena. 

Oh quanto è il meglio, il men di quei che piace 
prendersi l'uom, perchè in si breve tempo 
quasi nebbia sparisce e si disface. 

L'Ammirato, è vero, scriverà più tardi nei pro- 
verbi:** L'adulterio è opera di mal cristiano, ma 
l'impacciarsi con la moglie dell'amico è fallo di 
malissimo gentiluomo ». È il rimprovero dell'uomo 
vecchio ai trascorsi della propria gioventù? 

A 23 anni, piacente d'aspetto e non mediocre 
d'ingegno, poteva egli, in quel tempo e fra la vo- 
luttuosa vita delle lagune, ben destare e gradire le 
simpatie di una donna giovane e bella trascurata 
da un marito vecchio e politicante. 



* 



— 32 — 

Comunque sia, Scipione dopo sei mesi di dimora 
a Venezia, al fin dell'inverno del 1555 ritornò a 
Lecce, e nella solitudine di una sua villa vicina 
alla città si diede, come egli narra, a comporre 
in prosa e in verso e a studiare gli antichi ed i 
moderni poeti. 

Giulio III frattanto moriva e la notizia dèi nuovo 
conclave, dice il nostro W: 

Di subito il cor mi sferza e punge, 

non perchè a mie parole e mio conforto 
e' s'avesse a creare il pastor nuovo, 
che cotanto alto il mio valor non porto, 

ma per veder s'a la gallina l'uovo 
potea trovar trovandomi un padrone, 
che mi cacciasse donde ancor mi trovo. 

Che come muta volto ogni stagione, 
or portandone il ghiaccio ed or la rosa 
sì muta Roma stato alle persone. 

Partimmi tosto, ma fé' farmi posa 
la casa ch'era in Bari ancor ridutta 
a cui giusta negar non parea cosa (2). 

Il padre infatti dimorava a Bari* ai servigi di 
Bona Sforza regina di Polonia ( 3 ). Morto il marito 



(1) Le parole stesse dell 'A. confutano quanto il De Angelis 
scrive sulla fondazione dell'Accademia dei Trasformati a p. 80 
della sua op. cit. 

(2) Cfr. il Capitolo al Costanzo, in Opusc, II, p. 670. 

(3) Cfr. S. A., Famiglie nobili fiorentine, p. 210; e Fam. nob. 
napoletane, p. 17. — Il padre dell'Ammirato era in grazia del 



Sigismondo Augusto, ella si era stabilita a Bari, 
terra che insieme ad altre del leccese C 1 ) a lei era 
venuta in eredità dalla madre Isabella d'Aragona. 
Corde il marito ( 2 ) amante degli studii e protettrice 
dei letterati, ella, che nella sua giovinezza era 
stata avviata nelle lettere da un altro illustre lec- 
cese, Antonio De Ferraris detto il Galateo, ac- 
colse con grande piacere l'Ammirato, che le fu 
raccomandato da G.Lorenzo Pappacoda, marcfteée 
di. Capurso, il più intimo dei familiari della re- 
gina. 

Durante la dimora dell'Ammirato a Bari H con- 
clave si era riunito, e senza contrasto era stato 
eletto papa il cardinal Cervino, che prese il nome 
di Marcello IL Parve che si rinascesse a vita nuova, 
tanta era la speranza riposta nel nuovo papa ( 8 ). 



viceré di Terra d'Otranto Ferrante Loffreda marchese di Tri- 
vico. — Cfr. Dialogo delle imprese di S. A., in Opusc, I, p. 529. 

(1) Cfr. De Giorgi, Geografia della prov. di Lecce, II, p. 465. 

(2) V. In funere Sìgismundi Augusti regis Poloniae. Oratio atque 
poemata, Neapoli, apud I. Cacchium, 1576. — Per le relazioni 
fra Bona e i letterati cfr. Lettere alV Aretino, in Scelta di curiosità 
letterarie, CXXXII, p. 39, e Lettere deW Aretino cit., VI, p. 17, 54. 

(3) Cfr. ciò che dice lo stesso Ammirato negli Opuscoli, II, 
p. 228. -— V. anche le Lettere volgari di Paolo Manutio divise 
in quattro libri, in Venetia, MDLX, p. 5 e 6; e la Raccolta di 
lettere fatta dal Pino, IV, p. 390-1. / 



— 34 — 

- Ogni uom si volse a ringraziare il cielo 
chiamando il secol d'oro secol beato. 

Amicissimo del papa era Niccolò Maiorano, ve- 
scovo di Molfetta, il dotto grecista bibliotecario 
della Vaticana: gli si rivolse l'Ammirato, e lusin- 
gandolo col miraggio di un cappello cardinalizio, 
lo indusse ad andar seco a Roma ed a presentarlo 
al nuovo eletto, nella speranza che alcuno dei suoi 
numerosi nipoti lo avrebbe preso a proteggere. Non 
si erano ancora accinti al viaggio che Marcello II, 
dopo appena un mese di pontificato, mori, spegnen- 
do, tra le altre, le speranze dell'Ammirato. 

Fortuna al comun ben nimica rea 
uccise in ventun giorni il Santo Padre 
et spense in un con lui la bella Astrea. 

Occupato io fra me d'oscure ed atre 
doglie e veggiendo i miei pensieri in nebbia 
conversi e rotti tutti a squadre a squadre, 

non sapendomi più quel che far debbia, 

■ rifuggo in villa, e mi dispongo, e '1 dico, 
che vo* spender i miei giorni in gioco, 

e con. Virgilio e con Lucrezio antico 
sotto i bracci di Dafne alla bell'ombra 
passar il tempo e far più che non dico. 

La notizia dell'assunzione al papato del cardinal 
Giampietro Carrafa col nome di Paolo IV, dap- 
prima, non turbò gli ozi campestri del nostro ; ma 
in seguito la speranza di far fortuita lo stimolò 



— 35 -: 

a tentare una nuova prova (*). Possedeva allora il 
ducato di Mesagne, piccola terra del Leccese, la fa- 
miglia Beltrano, imparentata con Caterina Toraldo, 
figlia di D. Vincenzo marchese di Polignano (2) e 
di Brianna Carrafa; figlia questa di un fratello del 
papa, Giovanni Alfonso conte di Montorio. Amico 
del duca Beltrano, l'Ammirato si recò a Mesagne, 
ove Brianna dimorava con la figlia 

a chinar piede e capo 
ai servi e ai padron basso ed umile. 

Accolto favorevolmente, acquistato il favore di 
Brianna < 3 > 

Dei suoi mi fece e con un dolce impero 
* mi comandò le fossi io sempre appresso. 



(1) Lo aiutava nella speranza la fama di gran letterato che 
Paolo IV godeva. — Cfr. Relazioni venete cit., I, 881 ; Tansillo, 
Mime, ed. Fiorentino, Napoli, 1882, p. 127. — Per le sue rela- 
zioni coi letterati napoletani cfr. Napoli-Signorelct, Vicende 
della cultura del regno di Napoli, IV, p. 335-6. 

(2) Della sua morte nelle prigioni della Vicaria a Napoli per 
ordine di Ferrante Sanse veri no parla lo stesso Ammirato nelle 
Famiglie nobili nap., II, p. 71. ' 

(3) Di Brianna e della sorella Giovanna il De Leo nel suo 
Amor prigioniero canta : 

V'è Brianna Carrafa* a cui natura 

de 1 doni suoi fu liberale e larga 

e la sorella che mill'alme fura 

s'avien che i biondi crini al vento sparga, 



- 36 -. 

« Fu ella, dice l'Ammirato parlandone alcun 
tempo dopo, una delle più belle dame del suo 
tempo, e pei* molti anni che élla sopravvisse ve- 
dova molto commendata di castità; benché altiera 
e di animo molto sdegnoso a chi conobbe le sue 
sventure fu a guisa di un'immagine delle umane 
miserie; imperocché oltre il marito ucciso e due 
figliuoli che ella vide morti nel fior della giovi-» 
nezza, si trovò a sentir la morte di due fratelli 
scannati dal carnefice » W. 

La reciproca simpatia che all' Ammirato facea 
delineare un ritratto cosi affettuoso della sua pro- 
tettrice, fece pur si che fosse da lei tenuto come 
il più caro dei famigliari, il più fidato dei consi- 
glieri ( 2 ). Recatosi con Brianna a Napoli, fu da lei 
mandato a Roma presso la zia Beatrice sorella del 



e rende il mar tranquillo e l'aria pura 
* quand'Eolo a' feri venti il chiostro allarga 

Giovanna bella, o raro don di Dio 
. canti Febo di lei che non bast'io. 

Il poemetto fu edito dal Cboce in Rassegna pugliese, XI. 
— Di ambedue le sorelle cantò anche il Beldando nello Spec- 
chio delle bellissime dame napoletane, Napoli, Iohanne Sultzbacb, 
MDXXXVI. 

(1) Cfr. S. A., Fani, nob. nap., II, p. 71. — A pag. 34 la chia- 
ma bellissima sopra tutte le donne dell'età sua. 

(2) Cfr. S. A., Capitolo al Costanzo cit. ; e De Akgelis, Vita 
cit., p. 75. 



— 37 - 

papa, la quale era in discordia col fratèllo per 
averle, diceva lei, mancato di rispetto. « Era lunga, 
scrive l'Ammirato, e magra, e come quella che 
avea in minoribus porto aiuto al fratello, non pò- 
tea patire che giunto al pontificato non avesse 
mandato a visitarla e usato con esso lei dimostra- 
zioni quali essa stimava che ai meriti suoi si con- 
venissero. Imperocché ella era stata ancor molto 
casta e per- la lunga età, col risparmio e con ras- 
segnamento, non inutile a' suoi. A fatica si sarebbe 
potuto trovar donna di maggior politezza di lei, 
la quale, avendo copia grandissima di biancheria 
né Teta né la fortuna della sua casa né cosa altra 
del mondo la ritenne giammai, che non volesse 
una o due volte Tanno esser presente ne' suoi bu- 
cati che più non se ne facevano » (*).'"" 

L'Ammirato dovea indurla ad andare a Roma, e 
vi riuscì; come riuscì pure ad acquistarsene tutto 
il favore salvandola in un pericolo di viaggio ( 2 >. 
D'altra parte la fiducia di Brianna cresceva: ella, 
volendo por pace fra due gentiluomini, Marco de 
Gula e Gabriele Moles, chiese la intercessione di 
Vittoria Colonna e mandò a lei t'Ammirato, che 



(1) Cfr. Famiglie nobili nap., II, p. 82. 

(2) V. il Capitolo al Costanzo cit. 



i 



- 38 - 

della celebre poetessa serbò; il più gradito è dure- 
vole ricordo (*). 

Nell'anno stesso, durante l'autunno, si recarono 
tutti insieme a Roma é nelle frequenti discordie 
tra le due dame ne andò di mézzo proprio l'Am- 
mirato, il quale fu dalla marchesa incolpato d'aver 
indotto la zia ad andare a Roma. Quivi i litigi e 
i guai per l'Ammirato continuarono, e il solo ri- 
cordo lieto che egli potè riportare da questa sua 
prima dimora tiella città eterna fu una cena in 
.casa* di Giovanni della Casa, il ghiotto ed elegante 
monsignore, il quale un dì, passando le dame e 
l'Ammirato dalla sua casa ed essendo allettate dal- 
l'odor dell$ vivande, « le invitò e le pasteggiò no- 
bilmente » &). 

I lutti ed i dispiaceri famigliari inasprivano l'a- 
<nimo di Bianca a segno che, essendosi un giorno 



(1) I<'A. parlando del marito della Colonna scrive a pag. 104 
del voi. II delle Famiglie nobili nap.: Ebbe il Marchese per mo- 
glie Vittoria Colonna illustre non solo per la grandezza della 
famiglia ma eziandio per la grandezza delle lettere e della 
poesia, nella quale con onorata lode dell'età passata e con in- 
fcredibrle locle di lei e del sesso suo valse tanto, che non molto 
si debbano invidiare l'antiche Saffo e Corinne delle quali forse 
con miglior ventura che verità fecer gli antichi tanti rumori. 

(2) Vedine il ritratto in Opuscoli, II, p. 255. — Nel Trattato 
della Ospitalità (Opuscoli, I, p. 556), parlando di questa cena, 
ricorda che nulla vi si desiderava. 



— 39 — 

l'Ammirato lasciato sfuggire un tal Luigi di Bianco 
che ella gli avea ordinato di raggiungere, lo li- 
cenziò dalla sua casa senza nemmeno volerne udir 
le scuse. 

Ben dirò che fa tanta il mio cordoglio, 
Qnand'io mi viddi ingiustamente fore, 
che in me fui per voltar tutto l'orgoglio. 

Con le man proprie io fui per trarmi il cuore, 
fui per gittarmi al Tebro e far di quelle 
cose che a dirle non è forse onore. 

Vero è il proverbio che gli antichi fenno 
sovra le donne, e io l'ho visto aperto, 
che quando han lungo il crine ban corto il senno. 

E l'Ammirato tornò a Lecce C 1 ). 



(1) Di Paolo IV fa una breve difesa in un Ritratto, dove, 
lodando la bontà, la castità e la magnificenza di lui, attribui- 
sce la ferocia postuma dei romani contro il suo simulacro al 
fatto che gli uomini avvezzi a vivere licenziosamente, non si 
possono cosi presto ridurre sulla retta via. 



- 40 - 

» • '' f. ■ ' ' e. - 

n. : 

L'Ammirato a Lecce — Il Capitolo al Costanzo — L'accademia 
dei Trasformati — La commedia / Trasformati — I dialoghi 
Il Dedalione e II Maremonte — Le Mescolanze. 

Con forma se non pura e tersa certo molto effi- 
cace l'Ammirato cantò le sue sventure nel Capitolo 
al Costanzo, il più lungo componimento di tal ge- 
nere che abbia la nostra letteratura; in esso gli af- 
fanni patiti e la miseria presente insinuano tra il 
brio una nota di mestizia e di sconforto. Il Co- 
stanzo C 1 ) ha invitato l'Ammirato a recarsi a Napoli, 
dove avrebbe potuto trovare protezione e ricetto 
presso qualche nobile signore: l'Ammirato risponde 
che è stanco di viaggiare e che ha deciso di pas- 
sar l'inverno a Lecce, città di clima mite. È stanco, 
dice, di servire i signori, i quali non hanno alcuna 
stima di chi ii serve; ma si vendicherà un giorno 
ed essi se ne pentiranno. D'ora in avanti, la triste 
esperienza lo consiglia, chi vorrà i suoi servigi do- 
vrà pagare: 



(l) Per le relazioni . tra il Costanzo e V Ammirato cfr. Rime 
del Costanzo, ed. Gajl,p, p. 240.. 



— 41 — 

Quel sarà mio signor che la scarsella 
m'empia di scudi e non mi lasci in preda 
al brodo d'una misera scodella. 

Non che egli sia avido di oro, bensì perchè cosi 
bisogna trattar con questi « ribaldi ». Un solo fa 
eccezione, ed è Braccio Martelli, che non pago di 
avergli assegnato dei benefizi, lo va soccorrendo 
sempre di denaro e di consigli, 

Cosa che forse di non molti accade, 

ed è contraccambiato da lui con stima e riverenza 
profondai - •• 

Dimorando a Lecce verso il 1558 T Ammirato 
fondò l'accademia dei Trasformati, di cui egli si 
fece principe col nome di Proteo W. In tutto il re- 



(1) Il Tafuri nella Storia degli scrittori del regìto di Napoli, 

t 
i i • * t 

II, p. 57 crede fondata l'accademia nel 1540, non avvertendo 
che l'Ammirato aveva allora nove anni; l'Arditi pone il 1548 
(op. cit., p. 272), il Quadrio e il Tiraboschi il 1560. — Conside- 
rando che il dialogo del Dedalione, edito nel 1560 e composto 
qualche tempo prima, parla dell'accademia come già formata, 
crediamo che la data da noi attribuitale approssimativamente 
non sia lungi dal vero. Gli eruditi citano una storia dell'acca- 
demia scritta da Oronzo Palma e pubblicata a Lecce da Tom- 
maso Perrone nel 1708 : questa però per loro come per noi è stata 
irreperibile. — Anche a Milano verso il 1550 esisteva un'acca- 
demia dei Trasformati, ricordata dal Domenichi nei suoi Ra- 
yionamemti, e nel 1578 ne fu fondata un'altra d'ugual nome a 



— 42 — 

gno di Napoli, in ogni più piccola città di esso 
pullulavano allora le accademie, e non seconda alle 
altre in tanta fioritura fu la provincia di Lecce, la 
quale, prima del 1548, oltre a molte accademie mi- 
nori, come quella degli Erranti di Brindisi, ne 
aveva contato due celebri, Tuna fondata da Anto- 
nio Galateo a Lecce, l'altra da Bellisario Acqua- 
viva in Nardo. 

Il Galateo, annoverato tra i più chiari ornamenti 
dell'accademia Pontaniana, nella quale egli emerse 
per il suo ingegno e per quell'umor faceto ricor- 
dato cosi sovente dal Pontano C 1 ), stabilitosi a Lecce, 
dopò essère scampato dalle . mani dei corsari, . in 
casa sua riunì pochi dotti amici per discorrere di 
filosofia e di letteratura ( 2 ). Ecco come delia sua 
piccola accademia parla lo stesso Galateo: « Multo 
melius esse puto, scrive egli a Crisòstomo, animum 
quiescere, corpus laborare, quam in quiete corporis 
animum angi, ac variis affectibus perturbar!. Cum 
in urbe sum, sola nobis solatio est hieronimiana 



Firenze. — Tali omonimie fecero attribuire falsamente, e il loro 
contenuto lo dimostra, agli accademici leccesi gli Scherzi de* si- 
gnori accademici Trasformati raccolti da Piergirólamo Gentile, in 
Venezia, MDCV, appresso Sebastian Cambi. 

(1) Cfr. Pontano, De sermone, lib. V. 

(2) Cfr. C. Minieri-Hiccio, Notizia delle accademie istituite nelle 
Provincie napoletane, in Arch. stor. nap., TU, p. 153. 



— 43 — 

cryptoporticus, et cellula ipsa plus elegans quam 
sumptuosa, in qua nuper inscripsimus ouSs^ x*xo; 
eaotro. Sed ne aliquis Diogenis scammate in nos quo- 
que utatur et ut aliis praeripiamus dicterium aut 
sententiolam, dicet quis: at tu et dominus qua in- 
trabitis? Certe nos mali non sumus, «eque in con- 
sessu nostro malus qui spi am diu admittitur, quod 
ad cognoscendum hominum mores, crede mihi, ar- 
gumentum est minime ac nunquam fallax. Nos hic 
praeter Spinectum ecc., neminem admittimus. Cae- 
namus hic quandoque non laute, sed laete et fru- 
galiter, colloquimur libere.... Talis est nostra vita, 
et quam vis neminem laedimus, neminem iniuria af- 
figimus, tamen non caret (ut scio) haee nostra aca- 
demiola suis obtrectatoribus. Tarn prona est ad ma- 
ledicendum mortalitas » C 1 ). A questa accademia s'è 
voluto attribuire; forse a torto, uno scopo poli- 
tico ( 2 ) ; a noi però ora importa solo il ricordare 
che il tentativo dell'Ammirato avea avuto un illu- 
stre predecessore, del quale il nostro non facea quasi 
che riprendere l'opera. 



(1) La lettera è in Muv, Spicilegium romanwn, Roma, 1842, 
p. 556-7. — L'accademia cessò d'esistere alla morte del Galateo 
nel 1517. 

(2) Cfr. per la questione N. Barone, Nuovi studi sulla vita e 
sulle opere di A. Galateo, Napoli, D'Auria, 1892, p. 38. 



- 44 — 

Un altro accademico Pontaniano, Bellisario Ac- 
quavi va duca di Nardo, venuto in sospetto di Fer- 
dinando il Cattolico per la sua amicizia con Con- 
salvo di Cordova, si ritirò nel 1507 nella sua città, 
e quivi fondò un'accademia letteraria che chiamò 
del Lauro; eissa ebbe una certa notorietà e fu ce- 
lebrata dal Sannazzaro (*). 

Questa era, diremo così, la tradizione accademica 
della provincia di Terra d'Otranto quando l'Ammi- 
rato riunì la sua dotta adunanza, nella quale con- 
vennero i più eletti ingegni del luogo ( 2 ). L'acca- 
demia ebbe per insegna un albero ergentesi sulla 
riva di un fiume; le foglie, Cadendo nelle acque, 
si trasformano in candidi cigni. Il motto fu: Melior 
saeciorum nascitur ordo. — « I Trasformati, dice 
il De Àngelis, amavànsi l'un l'altro di cuore, spesso 
a desinare insieme di compagnia convenivano « 
gran parte della notte nonché dei giorni insieme 
trascorrevano, né mai in così spesse adunanze di 



(1) Nell'epigramma: De Lauro ad Neritorum ducem. — Cfr. Na- 
poli-Signorelli, Vicende cit., Ili, p. 441, e Minieri-Riccio, op. 
cit., p. 293. 

(2) Degli accademici dei primi tempi conosciamo solo i nomi 
di Pietro Antonio Taf uri, Niccolò Guidano e Marino Cosen- 
tino; in seguito vi presero parte persone delle più nobili fami- 
glie: Paladini, D'Anna, Perrone, Morelli, Capoccio, Gravili. — 
Cfr. Della Monaca, Memoria historica di Brindisi, Lecce, 1674. 



— 45 - 

giovani, il che fu di grandissima meraviglia, pur 
ombra si vide di dispiacere nonché gara o qui- 
stione alcuna vi fosse nata giammai. Anzi, usando 
con esso loro molti che all'accademia non erano, 
ancor essi quella maniera di vita apprendendo di- 
venivano costumati e modesti » C 1 ). Poco l'Ammirato 
parla della sua accademia: ci dice solo che vi si 
lessero per intero i dialoghi di Platone, ragionando 
dei quali l'accademico Marsia, Pier Antonio Tafuri, 
e Efone, Niccolò Guidano, spiegarono i miti di Me- 
dea e di Marsia « nel primo o secondo ascenso nel 
dì del convivio ». Così l'Ammirato, traendo occa- 
sione dal giudizio di Platone intorno ad Aristofane, 
commentò il sonetto del Petrarca: Qui dove mezzo 
son, Sennuccio mio ; Marino Cosentino « buono e 
valoroso * lesse le sue interpretazioni dei simboli 
tratti dai versi di Orazio e di Virgilio e dall'antica 
mitologia ( 2 ). Son poche notizie, ma son le sole che 
ci diano sicura cognizione delle letture e degli studi 
praticati nell'accademia. 

Nel carnevale, come ci fa sapere il De Angelis, 
si rappresentavano con magnifico apparato alcune 



(1) V. De Angelis, Vita cit., p. 87. 

(2) Cfr. il Commento dell 1 A. alle poesie del Rota, p. 166 e 174. — 
Di Niccolò Guidano si ha una lettera dedicatoria di una com- 
media d'un suo fratello a G. A. Piccinno da Lecce. — V. Eu- 
stachia, Comedia, dalla libreria di Aldo, in Vinegia, MDLXX. 



- 46 — 

cotnmedie, e probabilmente in tale occasione fu com- 
posta e rappresentata quella dell'Ammirato intito- 
lata I Trasformati, che dedicata manoscritta con 
lettera del 25 gennaio del 1561 a Ferrante Mon- 
sorio, rimase poi, non sappiamo perchè, inedita. À 
questa opinione ci induce oltre che il titolo della 
commedia, anche certi accenni locali, che l'autore 
ha voluto dare pur ponendo la scena a Padova, 
città che gli ricordava la sua prima giovinezza. 
Nella scena decima dell'atto terzo Fabrizio spie- 
gando ad Orazio come mai, essendo ambedue in 
Padova non si fossero visti, dice: Non ti meravi- 
gliare che appena giugnemmo qui, che fummo presi 
da certi buon compagni scolari da # Lecce, né mai 
ci lasciarono partire: E continua lodando il valore 
dei soldati leccesi : « Et sta lor tanto bene la spada 
in mano che se tu gli vedessi par che siano nati 
per l'esercitio dell'arme »; e narra come in un an- 
golo della piazza maggiore v'è una pietra rotonda, 
presso la quale i soldati convengono a ragionare 
di armi e ad infiammarsi al racconto delle proprie 
e delle altrui imprese, onde si chiamano « i soldati 
della pietra rotonda ». E qui Fabrizio domanda se la 
statua equestre che si trova nella chiesa di S. Zane 
e Polo a Venezia sia d'un leccese, e Orazio gli ri- 
sponde esser quella la statua di Leonardo Prato 
« famiglia nobilissima in quella città, et particolar- 



- 47 — 

mente tutta data all'arme ». Tale divagazione, che 
occupa quasi una intera scena e non ha nessun le- 
game coir intreccio della commedia potrebbe ben 
essere una appiccatura d'occasione. Né farà mera- 
viglia, quando si pensi alle condizioni dei tempi, il 
vedere rappresentata questa commedia qua e là poco 
morale in una adunanza di giovani nobili e costu- 
mati, tanto più che la lubricità di essa non sta nel 
contenuto, ma in una inutile ed inopportuna scurri- 
lità di forma (*>. 



* 
* * 



A Padova l'una dirimpetto all'altra abitano due 
famiglie: quella di Federico Capodivacca, vecchio 
sessantenne, che vive con una figliuola e con due 
servi, lo Scalza e la Giacomina, l'altra di Leonardo, 
detto siciliano, in compagnia della sorella Violante, 
dei due nipoti Vincenzo ed Ifigenia e del servo 
Stramba. Ma Leonardo non è siciliano, nò Violante 
è sua sorella: egli è un Rucellai di Firenze, che, 
avendo smarrito nel sacco di Roma la moglie e due 
figli, Pierino e Laudomia, si era ritirato in una 
sua villa presso Firenze, ove avea preso al suo ser- 



(1) La commedia dell'A., di cui noi avevamo data notizia 
in Corriere Meridionale di Lecce, marzo 1900, fu pubblicata per 
intero daC, Valacca, Trani, Vecchi, X900. 



— 48 — 

vizio un siciliano marito di Violante e padre di 
Vincenzo e di Ifigenia, i quali dopo la morte del 
padre son rimasti con lui. Leonardo è innamorato di 
Ifigenia d'un amore castissimo, che egli non si de- 
cide a rivelarle, e, pur di stare con lei, fuggendo 
dalla patria per ragioni politiche, ha posto dimora 
prima ad Ancona, fingendosi servo di Violante, poi 
a Padova, dicendosi fratello di lei. Federigo Ca- 
pòdivacca è innamorato di Violante, la Livia, sua 
figlia, ama in segreto Leonardo: la Giacomina aiuta 
i lóro amori, sebbene in apparenza debba far si che 
la Livia, come vuole il padre, sposi Vincenzo. Fe- 
derigo è ben accolto da Violante: la Livia poi, ve- 
stita da turchetta, all'insaputa del padre, dovrà 
andare dono di nozze in casa di Leonardo, e, ser- 
vendolo, cogliere il destro di palesargli l'amor suo. 
Questo disegno, trapelato dallo Scalza, non gli va 
a genio, giacché egli ha fatto il progetto di intro- 
durre nella famiglia di Leonardo, travestito da tur- 
chetta, Pierino capitato a Padova creduto figlio di 
un capitano Cecco e innamorato di Ifigenia. Lo 
Scalza, camuffandosi da chiromante, prende il po- 
sto di Giacomina nelle grazie del padrone, si fa 
assegnare il compito di condur lui la turchetta da 
messer Leonardo e induce lo stesso Federigo a ve- 
stirsi da spazzacamino per ottener più presto, en- 
trando nella casa di lei, i favori di Violante. Men- 



— 49 - 

ire che i servi macchinano quest'imbrogli, Lo- 
renzo, un amico comune delle due famiglie, cerca 
di conchiudere il parentado fra la Livia e Vin- 
cenzo; questi però non vuol saperne, che, venendo 
da Venezia, ha fatto il viaggio e stretto amicizia 
con un giovane, Orazio, al quale ha promesso di 
dare in moglie la propria sorella, sposando egli 
quella di lui. Giacomina, che non ha rinunziato, 
malgrado gli ordini del padrone, al suo disegno, 
mena Livia, vestita da turchetta, in casa di Leo- 
nardo; lo Scalza vi mena Pierino, ambedue condu- 
cendo i propri protetti come dono nuziale di messer 
Federigo. Questi, vestito da spazzacamino, riesce a 
penetrare in casa di madonna Violante, spera già 
di goderne l'amore quando riconosce, vestita da 
turchetta, la figlia, che egli crede presso una zia 
monaca: perduta la ragione, grida al tradimento, 
vuol ricondurre la figlia con se, ma è cacciato e 
percosso. Ed ecco che in cantina Vincenzo sorprende 
in colpevole amplesso Ifigenia e Pierino; nel suo 
furore vorrebbe ucciderli, ma per fortuna sorge 
allora in mente a tutti il dubbio che tutto sia ge- 
nerato da un grande intrigo. Chiamata la Livia, 
questa svela Tesser suo e il suo amore per Leo- 
nardo: Orazio riconosce in Pierino il fratello che 
egli è venuto a cercare a Padova, e dichiara che 
egli, Orazio, non è già un uomo ma una donna, 



— 50 - 

Laudomia, che per non separarsi da Vincenzo, che 
ella ama, ha preso vesti maschili. Né Pierino e 
Laudomia sono già figli del capi tanto Cecco: furon 
trovati da lui al sacco di Roma e non sono altri 
che i due bambini smarriti da Leonardo. Tolto l'e- 
quivoco, Livia sposa Leonardo, Pierino Ifigenia, 
Vincenzo Laudomia, Federigo Violante, e, come se 
non bastasse, lo Scalza prende in moglie la vera 
turchetta, e lo Stramba si contenta della Giacomina. 
Come si vede, la commedia dell'Ammirato non 
presenta nò originalità, nò novità notevoli nella 
trama generale e nei particolari intrecci. Nell'in- 
sieme non è che la triplicazione di un motivo co- 
mune ai novellieri ed ai commediografi del cinque- 
cento: il travestimento per ottenere il possesso 
della persona amata. Questo espediente probabil- 
mente, e diciamo così pensando alla conoscenza 
della letteratura drammatica che l'Ammirato potea 
avere in quel tempo, trasse dai Suppositi del- 
l'Ariosto, dove Erostrato si camuffa da servo per 
amor di Polissena. E comune era anche il ricono- 
scimento di fanciulli scomparsi nei saccheggi delle 
città: negli stessi Suppositi si scopre il servo Dulino 
esser figlio del dottor Clearco, che l'avea smarrito 
nel sacco dì Otranto del 1480. Nò ignote all'Am- 
mirato doveano essere le commedie dell'Aretino, 
da lui conosciuto a Venezia, e da esse 



— 51 — 

nelle linee generali la figura di Leonardo, che ama 
in segreto ed in segreto soffre, consolandosi solo 
nella confidenza d'un amico sincero. Se l'Ammirato 
conoscesse direttamente i modelli latini, non sap- 
piamo ; tenderemmo però ad escluderlo. È vero che 
egli nel Trattato della Diligenza pubblicato nel 
1583 parla di Plauto e delle sue commedie, ma già 
24 anni son trascorsi nei quali egli ha indefessa- 
mente studiato: del resto, la maniera vaga e su- 
perficiale con cui egli parla del grande comico la- 
tino non ci autorizza a credere che egli ne avesse 
studiate le opere. 

Dei caratteri più completamente sviluppato è 
quello di Federigo: un vecchio di 60 anni che vuol 
mostrare d'averne 20 di meno, e che col ricordo 
delle passate avventure amorose e della giovanile 
gagliardia già da tempo infiacchita, vuol persua- 
dere sé e gli altri di poter ancora aver Venere 
benigna, e cerca di spremere l'ultima goccia d'un 
genio poetico che non ha mai avuto per comporre 
una canzonetta, che, secondo lui, dovrà conquistare 
il cuore di madonna Violante. Tuttavia è per im- 
pazzire e dimentica sé e il suo amore quando vede 
la figliuola sua vituperarsi in casa altrui : e questo 
sentimento vivissimo dell'affetto paterno, cosi poco 
frequente nella commedia del 500, ci fa dimenti- 
care il vecchio zerbino e ci rende la sua figura 



— 52 - 

simpatica. Proprio all'opposto di Federigo sta Leo- 
nardo, uomo saggio e prudente, che pur amando 
con tutta l'anima una sua beneficata, non osa, data 
la sua età non più giovanile, .di aprirle l'animo 
suo. Egli ha allevato Ifigenia, l'ha accarezzata bam- 
bina, e quel timido pudore che gli ha vietato di ba- 
ciarla giovinetta, si è mutato in amor puro e casto 
Federigo ama Violante acceso dal ricordo delle prò 
dezze giovanili ; Leonardo per far felice l'amata, cir 
condarla di cure affettuose, proteggerla e difenderla 
Quando Ifigenia cede all'amplesso di Pierino, egli si 
accora non per non poterla più far sua, ma per la 
riputazione di lei, per aver visto macchiato il suo 
candore, che egli era felice di contemplare. Non 
son prive d'efficacia le due scene, in cui egli narra 
la storia del suo innamoramento, e si lamenta della 
svanita illusione: sono la rivelazione di un uomo 
onesto, e fra le abbondanti allusioni oscene che sono 
nella commedia e le disoneste vanterie di Federigo 
ci lasciano una piacevole impressione. 

Onesto al pari del suo protettore è Vincenzo, il 
quale sente vivissimo in sé il sentimento dell'amici- 
zia e della fede alla parola data e vuol far giustizia 
di colui che ha vituperato la sua casa amandone la 
sorella. Pierino è uno dei tanti innamorati che, pur 
di conseguire l'amore dell'amata, non badano a sot- 
terfugi : cosi nulla di particolare v'è nelle persone 



— 53 — 

dello Scalza e di Giacomina, che sono, si può dire, i 
fulcri intorno a cui si muove tutta l'azione: ogni 
loro valentia sta nel superarsi l'un l'altro in arti 
furbesche e nel far riuscire il proprio disegno. 

I caratteri delle donne sono con minor cura trat- 
teggiati e precisati: Violante è una brava donna 
che si adatta a sposare un vecchio come Federigo 
pur di sdebitarsi in qualche modo della continua 
protezione accordatale da Leonardo, e cerca di per- 
suadere il figlio a fare la volontà di questo. La 
Livia è una ragazza innamorata, che pur di otte- 
ner l'uomo da lei amato si adatta così alla leg- 
giera a mutare abito e ad entrare nella casa di 
lui ; ed anche meno verosimile è Ifigenia, la quale 
senza aver conosciuto Pierino, solo al sapere che è 
andato per lei, cede alle sue voglie. 

L'intreccio non è mal condotto: qualche scena 
non è priva di movimento e di vivezza, come quella 
in cui Federigo ritrova la figlia e il dialogo tra 
Violante e Vincenzo. I mezzi per far ridere a cui 
ha ricorso l'Ammirato più che comici sono triviali: 
egli stesso nella lettera dedicatoria a Ferrante Mon- 
sorio avverte di non badarci e di cavarne solo gli 
insegnamenti morali. Nell'insieme, se i Trasfor- 
mati non mostrano nell'Àmmirato un vero ingegno 
comico, se son difettosi principalmente nella pittura 
del mondo in cui i personaggi vivono e si muo- 



— 54 - 

vono, rivelano una certa attitudine a cogliere i ca- 
ratteri e a rappresentare con efficacia alcuni mo- 
menti della vita umana. 

* * 
Frutto delle conversazioni accademiche e degli 
studii prediletti fu il dialogo delle ingiurie o Ma- 
remonte, e l'altro del poeta o Dedalione. Non è 
improbabile che in essi l'autore abbia voluto anche 
rinnovare discorsi e impressioni riportate dalle riu- 
nioni in casa del Veniero, dove certamente Sperone 
Speroni avea esposto le sue idee contro il duello W, 
ed egli stesso e gli altri quelle riguardanti la poe- 
sia. Essendo vivo tuttora in lui il ricordo dei dotti 
ritrovi veneziani, su questi volle modellare la sua 
nuova accademia. 

Nel primo dialogo sono introdotti a parlare delle 
ingiurie Giuseppe Maremonte e Ferrante Raino, 
quest'ultimo prete ( 2 ). Son due amici dell'Ammirato: 



(1) Cfr. // dialogo dello Speroni, non però compiuto, fu pub- 
blicato per la prima volta insieme col Trattato della pace del 
Pigna dal Muratori dopo la sua Introduzione alla pace privata, 
Modena, Soliani, 1708, p. 159. 

(2) Parliamo prima del Maremonte, perchè esso accenna al- 
l'accademia come non ancora costituita. Verso la fine infatti 
dice il Maremonte: Vi ringrazio Ferrante, ma più vi ringra- 
zierei se dentro queste erbe me ne deste una che mi trasfor- 
masse in voi spirito divino e celeste. L'altro risponde: State 
a buona speranza Giuseppe, che presto ci rivedremo in miglior 
stanza che non è questa. — Cfr. Opuscoli, III, p. 352. 



— 55 — 

che in un giardino di Ferrante ragionano all'ombra 
sdraiati sui loro mantelli: è d'estate, l'acqua fre- 
schissima di un pozzo disseta le gole arse dal ra- 
gionare. Giuseppe afferma che non ci sia cosa più 

• 

dolce delle ingiurie, Ferrante vuol provare il con- 
trario: ambedue cavano le loro armi dal vecchio 
arsenale degli autori classici, filosofi e giureconsulti. 
Determinato che cosa sia ingiuria, come offesa fatta 
all'onore, e che cosa sia il vero onore e il suo con- 
trario, si ricercan le fonti dell'onore stesso e si 
conchiude che l'ingiuria non può toglierlo o me- 
nomarlo e perciò è ingiusto il vendicarsi di chi lo 
ha offeso. E dall'onore personale passano al fami- 
gliare: la donna adultera si deve ripudiare, le fi- 
gliuole non si devon punire pei loro trascorsi, che 
la colpa è tutta dei padri, « di modo che se il padre 
di famiglia fosse stato sollecito e accorto padre, 
la figliuola non sarebbe stata preda delli amanti ; 
che sì come condannar si deve il guardiano d'una 
rocca, il quale mentre si sta dormendo i nemici 
gli scalano le mura, non meno condannar si deve 
quel padre, il quale per l'usanze dell'altre male 
femmine che in casa gli vengono, o per li molti 
vezzi e libertà che dona alla sua famiglia, o per- 
chè egli mentre l'altrui case va ricercando lascia 
la sua agli altrui ricercatori patente » trova alla 
fine la casa sua in preda alla corruzione e al diso* 



- 56 - 

nore W. E parlando di famiglia e di corruzione, nel 
dialogo si leva anche la voce a difesa dei bastardi, 
di questi reietti della società, che non hanno altra 
colpa che quella d'esser frutto d'una colpa. 

Venendo alla trattazione delle speciali ingiurie, 
l'autore distingue quelle fatte alla roba, alla per- 
sona, all'onore, e poi alla roba e alla persona e 
alla persona e all'onore insieme. Nella prima in- 
giuria occorre guardare alla intenzione di chi là 
fa, nella seconda è meglio perdonare, nella terza si 
deve riconoscere il torto se l'ingiuria è meritata, 
se no ribatterla. Ad ogni modo, qualunque sia l'in- 
giuria, l'uomo non deve mai punire l'offensore da 
sé, solo può o negare o respinger con arguzia l'ac- 
cusa. Le offese fatte alla persona e alla roba non 
disonorano se non chi le fa: quelle fatte alla per- 
sona e all'onore son le più gravi e la loro gravità 
varia a seconda dell'agente, del paziente, dello stru- 
mento, del luogo, del tempo, del modo e della ca- 
gione loro. Ma nemmen da queste l'uomo rimane 
disonorato; non deve quindi prenderne vendetta, che 
per esse come la libertà dell'animo così anche l'onore 
rimane incontaminato. La vendetta dunque è cosa 
contraria alla ragione. 



(1) Opuscoli, III, p. 360. 



— 57 — 

I rimedii adatti ad eliminare la vendetta dice che 
molte volte bisogna trovarli in alcuni sentimenti 
tutti intimi: Ruggero, non combatte con Rinaldo, 
perchè questi è fratello della sua donna (*). Cesare 
non si vendica di Clodio perchè ha in cuore am- 
biziosi disegni. « Chi non si vendica delle ingiurie 
non è né debole né vile. Gli uomini forti son co- 
loro i quali nelle cose oneste sprezzano la morte ; 
et coloro i quali ponendo la vita a rischio per ogni 
minuzia indistintamente, si credono acquistar il 
nome di forti, son pazzi e bestiali » (?). A dimostrare 
sempre più la bassezza della vendetta, ricorre il 
Raino ad un libro di Francesco Ammirato sulla in- 
giuria, di cui riporta un lungo passo ( 8 ). Con la vit- 
toria di Ferrante il dialogo ha termine. 



(1) Anche qui mostra l'ammirazione sua per l'Ariosto ; dice 
ben poter egli addurre l'autorità di lui se Cicerone addusse 
quella di Ennio « nostro concittadino, che per voler parlar 
senza invidia tolta via la riverenza dell'antichità nulla ha da 

^ far con questo poeta », p. 317. 

(2) Op. cit., p. 328. 

(3) « Questi mi diceva mio padre, dice il Raino, haver udito 
dal suo che in un libro di carta di cuoio come gli antichi usa- 
vano ne avea scritto delle famiglie della patria nostra, alla fine 
sì fatte cose avea notate della vendetta, le quali io essendo 
fanciullo per mio esercizio allora nella nostra lingua tradussi » . 
- Cfr. Opusc, III, p. 333. 



- 58 - 

L'argomento svolto dall'Ammirato è ben adatto 
ai tempi e ai costumi. Nel cinquecento di duelli ne 
accadevano ogni giorno, e tutti si affannavano a 
stabilire le norme che doveano regolarli: solo un 
esiguo numero di principi, alla testa il Duca d'Ur- 
bino, tentarono colle loro leggi di porvi un argine, 
aiutati in ciò da una schiera forse più numerosa di 
letterati. Guerrieri e trattatisti aveano affrontato 
l'argomento già prima dell'Ammirato. Giovanni 

* 

Vendramino, che avea servito nell'armata di Carlo V 
acquistandosi gli sproni di cavaliere, avea composto 
colla certezza di fare cosa « utilissima » un dia- 
logo in materia di duello dedicandolo a Luigi di 
Requesens governator di Milano e capitano gene- 
rale in Italia per Sua Maestà Cattolica W. Dopo 
di lui Giovan Battista Possevino avea pubblicato a 
Venezia nel 1556 un Dialogo dell'onore dedicato 
al cardinale Santa Fiora, nel quale, pur ammettendo 
che i testimoni e la ragione sian prove più valide 
che il duello, tuttavia in molti casi lo crede neces- 
sario, e propone la costituzione di un tribunale 
d'onore, a cui si deferiscano tutte le contese; s'in- 



(1) È anche questo un dialogo finto in Senago, lungi da Mi- 
lano sei miglia, tra dodici gentiluomini milanesi. — Cfr. Della 
letteratura veneziana di Marco Foscarini, Padova, Manfrè, 1752, 
I, pag. 53. 



- 59 — 

tende che egli cosi « ragiona civilmente et non se- 
condo la nostra santa religione » (0. 

L'Ammirato invece, ecclesiastico egli stesso, prete 
uno degli interlocutori, fa un trattato non caval- 
leresco, ma morale; non vuole che si ricorra ai 
giuri d'onore ed esclude qualsiasi forma di ven- 
detta o di punizione da infliggersi dall'uomo all'uo- 
mo. E senza tener alcun conto dei tempi di mezzo, 
nei quali il duello era sorto, risale ai giureconsulti 
romani, mostrando di loro vasta conoscenza, e coi 
testi alla mano condanna ogni istituzione tendente 
ad attribuire all'uomo di vendicarsi delle offese, 
dimostrando che di qualunque specie esse siano, 
quando siano immeritate, non macchiano l'onore. 

Notevoli per la storia del costume sono le pa- 
gine in cui si tratta dell'onore della famiglia, ispi- 
rate da un vivo disgusto dalla depravazione con- 
temporanea e da un alto sentimento di moralità. 
L'Ammirato sin da questo suo primo trattatello 
si mostra studioso degli antichi poeti italiani, la 
lettura dei quali formava senza dubbio argomento 
delle adunanze accademiche. Le citazioni sono fre- 
quenti, qua e là si accenna a quistioni di lingua 



(1) € Aggiungasi che nel libro si ragiona di tutti i modi 
possibili del far le paci, la qual cosa è utilissima alle città » . — 
Cfr. Dialogo deWonore di M. Giovanni Battista Possevino, in 
Venezia, Giolito, MDLVI, p. 112. 



— 60 — 

e di letteratura allora vive C 1 ), e già l'Ammirato 
ha saputo ricavare dalla lettura di quegli autori 
uno stile facile e chiaro, che sarà poi uno dei pregi 
migliori delle sue opere. 

La lettura di Piatone e propriamente del De Re- 
publica, nella versione del Ficino C 2 ) fornisce ma- 
teria all'altro dialogo, il Dedalione o del poeta, 
tra due accademici, Dedalione e Tiresia; quest'ul- 
timo soprannome di Marino Cosentino. L'Ammirato 
lo compose per consiglio del vescovo Martelli e di 
Girolamo Seripando arcivescovo di Salerno già le- 
gato del Concilio di Trento. A quest'ultimo anzi lo 
dedicò facendolo stampare nel 1560 a Napoli ( 3 ). 
L'Ammirato, come dice egli stesso, si propose di 
« mostrare veramente qual sia l'ufficio del poeta, 



(1) Parla a p. 317 degli studi del Bembo sui trecentisti, e 
della controversia se l'autorità degli antichi giovi o no nelle 
questioni moderne. 

(2) L'Ammirato non sapea di greco e si serviva della ver- 
sione del Ficino: di ciò ci fa persuasi oltre alle citazioni del 
Ficino stesso nel dialogo, anche quelle riportate a pag. 147, 
154, 162, 167, 175, 176, 183, 197 delle Annotazioni al Rota, Napoli, 
Muzio, 1728. 

(3) Aveva il Seripando lodato l'Ammirato in un'adunanza 
di cavalieri in modo che dice egli stesso: io me ne sento non 
solo alquanto chiaro e conosciuto, ma forse invidiato da molti. 
— Cfr. la lettera dedicatoria, Opusc, III, p. 354. 



— 61 — 

e che intenda egli di fare con ristrumento del- 
l'arte sua ». 

Dedalione è in dubbio se darsi alla poesia o alla 
medicina: lo allontana dalla prima la sentenza di 
Platone, il quale vorrebbe lungi dalla repubblica 
da lui ideata i poeti. Tiresia non crede che Pla- 
tone sia stato interpretato esattamente, e si sforza 
di dimostrare che il grande filosofo greco non avea 
escluso dallo stato, quale egli lo immaginava e lo 
andava disegnando, i poeti in genere, ma i cattivi 
poeti. Che essendo l'uomo formato di anima e di 
corpo, come per questo cosi per quella ha bisogno 
di medici, i quali son di due sorta: legisti e poeti; i 
primi per la vita civile, i secondi per la morale, 
sebbene poi questi ultimi servano anche alla vita 
civile per gli effetti di cui la poesia è feconda, 
quando tenda al miglioramento delle istituzioni. Né 
la poesia potrà bandirla dallo stato chi riguardi 
alla sua origine: perchè la verità fosse più age- 
volmente appresa, era necessario darle una veste 
facile e piana; questa fu il verso. Man mano poi 
che la poesia si sviluppò, essendo fino allora stati i 
numi rappresentati con tutti i vizi umani, si sentì 
il bisogno di nascondere sotto il velame del verso 
la favola, in modo che gli uomini non scoprissero 
le opere malvagie degli dei. Essendo poi il poeta 
un personaggio civile, i suoi versi devono ispirarsi 



- 62 - 

al vero e all'utile, che se « torcendo i poeti dalla 
primiera strada e fin loro, si sono volti a ridicoli 
imitando il peggiore, come oggi quasi da tutti si 
vede, et massimamente di coloro, che non so che 
di Berneschi capitoli scrivono, che paion piuttosto' 
buffoni che poeti, o di quelli che nulla altra cosa 
hanno a fare che a cicalare d'amore vano e la- 
scivo, cotesto non è colpa né difetto de la poesia » (*). 
Se fine della medicina è portare sanità al corpo ri- 
movendone la malattia, fine della poetica è indurre 
nell'anima la virtù discacciandone il vizio; e il 
poeta in tanto deve dilettare in quanto può gio- 
vare : il filosofo giova col sillogismo, l'oratore colla 
facondia e colla persuasione, il poeta colla favola. 
Sotto questo riguardo il poeta si congiunge col fi- 
losofo e coll'oratore. 

Come si vede chiaramente il dialogo dell'Ammi- 
rato è condotto esattamente sul platonico dal quale 
prende anche la forma esteriore. È un dialogo, ma 
non v'è scambio o contrasto di idee: uno degli 
interlocutori spiega all'altro i suoi pensieri e l'al- 
tro ordinariamente non fa che assentire con lievi 
risposte. Così pure nella forma del ragionamento, 
posta avanti una obbiezione, l'Ammirato fa come 
Platone e non confuta subito e direttamente l'av- 



(1) Opuscoli, III, p. 375. 



- 63 - 

versano, ma valendosi di una similitudine, che da 
principio sembra che non abbia nulla a che fare 
con l'argomento, man mano va dichiarandone le 
attinenze. À spiegare meglio il concetto di Pla- 
tone e il proprio l'Ammirato mette a profitto an- 
che il Teeteto, l'Alcibiade, il Filepo, il Fedro, dello 
Stagirita la Rettorica e l'Etica di Cicerone la Re- 
torica, il De legibus e l'Oratore e poi Plutarco, 
Dionisio Areopagita, ecc., mentre dai poeti, da Pin- 
daro al Sanazzaro e al Pontano, cava gli ornamenti 
eruditi del discorso, atti non ad alterare o a cor- 
reggere il testo platonico, ma solo a lumeggiarlo e 
a compierlo. 

Monsignor Seripando con lettera del 21 dicem- 
bre 1560 ringraziava l'autore esprimendo anche il 
proprio giudizio sull'opera: « vi dico in parola di 
verità che io non ho letto tra i latini dialogo pur 
uno più simile ai platonici di questo, dico quanto 
ai filosofo et al modo di procedere. Perchè i dia- 
loghi di ms. Tullio (voglio scoprirvi cosa, mai più 
da me nò scritta né detta ad altri, ancorché io gli 
abbia sempre letti con grande mio piacere et sod- 
disfattone) nondimeno mi è paruto sempre, che 
rappresentassero più presto persone congregate ad 

ascoltar uno, che a ragionar fra loro Piacemi 

ancora che a guisa di Platone tratta cose appar- 
tenenti a varie scentie et arti, il che fa la copia 



- 64 — 

del dire, e serva quel che si fa ne i cotidiani ra- 
gionamenti et dispute : ove con la varietà si fa una 
certa ostentatione alla quale sono gli uomini co- 
munemente inchinati. Quanto alla materia non vo- 
glio distendermi, essendo tutta utile e trattata tanto 
dotta e facilmente con risolutione di tutti i dubbi, 
che possono occorrere al lettore, che più non può 
desiderarsi » (*). 



(1) La lunga lettera del card. Seripando è a pag. 99 e segg. 
della IV parte della raccolta del Pino. Dopo aver dato il suo 
giudizio nel dialogo dell'Ammirato, espone le proprie idee al 
proposito e dopo aver detto come Platone non cacci dalla sua 
repubblica i poeti, ma le loro favole che servano a corrompere 
la gioventù, continua dolendosi che « havendo noi un poema 
tale, qual'è il parto della Vergine del nostro Sincero, ove niente 
manca che possa desiderarsi dà uno artificiosissimo poeta, ove 
non è cosa che possa contaminare i buoni et civili costumi, ove 
solo tra i poeti si truova la verità della religione, ove il verso 
a tutti quei numeri che hanno avuto i più perfetti poeti an- 
tichi, da lui prima avvertiti e poi dal Pontano anoor nostro 
scritti, ove le fittioni sono dolcissime.... mi son doluto dico che 
si legga da' maestri della gioventù e che si veda nelle mani 
dei giovani altro poeta (p. 103). Conchiude inculcando all'Am- 
mirato di leggerlo o spiegarlo nella sua accademia. — Fu il 
cardinale Seripando autore di una orazione a Carlo V molto 
celebre a quei tempi, e amico di molti letterati dell'età sua: 
la raccolta del Pino contiene alcune lettere da lui scritte a 
Paolo Manuzio, al Pinelli, al Rota. — Cfr. pag. 92, 93, 94 ecc. — 
Del Rota abbiamo un epigramma per la sua morte: 

Tune ille, heu moreris pravi spes ultima saecli? 
Tune iaces sacri lux Seripante chori? 



— 65 — 



* 



Alla fine del dialogo del Maremonte il Raino 
regala al suo interlocutore un po' di insalata mista. 
Il particolare sarebbe di poca anzi di nessuna im- 
portanza se il dono non fosse stato accompagnato 
dalle parole: forse queste mescolanze non meno vi 
piaceranno che quelle dell'Ammirato <*). A questo 
tempo dunque sono da riportarsi anche le Mesco- 
lanze che l'Ammirato ebbe in animo più tardi di 
pubblicare dedicandole a Ferrante Gonzaga C 2 ). Non 
avendole poi date alla luce, vi andò man mano ag- 
giungendo nuove osservazioni e nuovi episodi fin 
della vita menata a Firenze. Come dice il titolo 



Cfr. Delle poesie del signor Bernardino Bota cavalier Napole- 
tano, Napoli, Muzio, 1726, p. 215. — A lui indirizzò anche il 
sonetto : 

Tu che con ricca e ben feconda vena. 

(1) Opuscoli, III, p. 352. 

(2) Nel Dialogo delle Imprese l'A. dice: Ma di questi verbi 
a lungo s'è ragionato sulle Mescolanze, le quali usciranno pre- 
sto fuori, piacendo a Dio, drizzate all'Illustissimo signor Fer- 
rante Gonzaga ed or sarebbe un trascivere. — Cfr. Opusc, I, 
p. 191. — Non vennero pubblicate dal nostro Scipione, bensì 
dal l'Ammirato il giovane nel voi. VI degli Opuscoli, p. 163, de- 
dicate a Vincenzo Piazza, uditore fiscale del Granduca di To- 
scana. 



— 66 — 

medesimo le Mescolanze trattano di vari soggetti, 
racchiudono appunti di storia e di letteratura, qui- 
stioni grammaticali e lessicali, ricordi di grandi 
uomini ed episodi di poco momento come i versi 
per la tomba di un canino e gli altri per un tale 
che morì pel morso di una gatta: sono reminiscenze 
di dispute fatte in crocchi geniali o pedanti di 
poeti e di critici, di letture, di viaggi, notevoli 
tutte per la notizia che ci danno degli studi del 
nostro. Da esse infatti trarremo in seguito profitto 
specialmente per determinare quali studi e quali 
letture facesse egli sui primi poeti e prosatori ita- 
liani, per vedere l'attività sua in mezzo a quel 
movimento letterario, che nella seconda metà dei 
secolo XVI si svolse rigoglioso, se non per opere 
originali, certo per Tesarne critico dei monumenti 
migliori dell'arte e del pensiero italiano. 

La composizione di questi scritti, le conversa- 
zioni dell'accademia, gli studi tranquilli rendevano 
meno sgradito all'Ammirato il soggiorno di Lecce. 

Sazio non già ma d'ir cercando stanco 
Cosa, ond'in parte antica voglia appaghi, 
Rota, qui venni, ove non monti o laghi 
Ma ad ognor miro un prato azzurro e bianco, 

scriveva al Rota, con cui aveva sempre mantenuto 
amichevole relazione, e gli descriveva i suoi studi, la 



— 67 — 

sua vita monotona si ma tranquilla e senza dolori : 
che anche Cupido teneva da lui lontani gli amo- 
rosi strali ora che egli si era volto alle cose di 
religione. E il Rota gli rispondeva invidiandogli 
quella tranquillità: amore mi tormenta, gli scri- 
veva, tutto ho posto in non cale, cavalleria e let- 
tere, e conchiudeva: 

Ben' hai tu mio buon Scipio eletto il meglio 
Se volto a Dio vivi a te stesso in parte, 
di puro giudizio esemplo e speglio. 

L'Ammirato era ancora probabilmente a Lecce 
quando Porzia Capece morì: all'inconsolabile ma- 
rito egli inviò un affettuoso sonetto, che è uno dei 
migliori fra i tanti che in quella luttuosa circo- 
stanza si scrissero : se per far germogliare il gra- 
nello e mutarlo in verde pianta, è necessario che 
la pioggia lo percuota, cosi per farne oggetto di 
culto, per elevare lo spirito di lei alla gloria del 
cielo, è stato necessario mutare in cenere le belle 
forme che lo rivestivano in terra. 

Cosi cinse il bel corpo un freddo gelo 
E pura e santa, ali or- eh 'a noi s'ascose, 
Apparve fra gli spirti alti e divini (1). 



(1) Cfr. Rota, Poesie cit., I, p. 337. — Un altro poeta lec- 
cese, Scipione dei Monti, si uni all'Ammirato nel piangere Por- 
zia Capece con un sonetto in lingua spagnola. — Cfr. Rota, 
op. cit., p. 124 e 338. 



— 68 — 

Men che sei mesi dopo troviamo l'Ammirato a 
Napoli: quella instabilità, di cui egli stesso si con- 
fessa colpevole nel Capitolo al Costanzo, forse an- 
che un invito di quest'ultimo, che, memore della 
raccomandazione : 

se alcun mi paga 
Sappiate che al venir son pronto e baldo, 

gli avrà trovato un protettore, lo ricondussero, il 
tempo preciso lo ignoriamo, a Napoli. 



i 






— 69 - 



III. 



La vita napoletana e gli amici dell'Ammirato '— Le Annota- 
zioni al Rota — Il Trattato delle imprese — Prima d'andare 
a Firenze. 

Nella scena VI dell'atto III del Corredo del Cec- 
chi, Ercole, vantando le proprie fortune amorose, 
ricorda con pascolare compiacimento quelle di 
Napoli: 

E a Napoli? 
Che mi facean quelle gentil donne? 
E quelle principesse? e se ve n'è 9 
Non se ne parli. Io ero tra loro (come 
Si dice) il Matteo ne' Tarocchi : e il sale 
Delle vivande loro e dei banchetti. 

Pecchia, Oh io ho sentito .dire che e* vi si fa 
Bravamente all'amore? 

Ere. Io ti dirò 

Que' signori di Napoli, che sono 
. Tanti tanti e poi tanti, e ve ne sono 
Or ricchi assai pur per la maggior parte 
La spesa è più qualcosa òhe l' entrata : . 

Onde che essendo scarsi di contanti, 
Si vanno fn trattenendo in su l'amore, 
Et se la passan con quelle lor vaghe 
Canzonette, 've tutto sale, composte 






— 70 — 

E cantate da loro. E perchè e' sonò 

Benissimo creati e di maniere 

Al par di altri lodevoli e garbati 

Si trionfano del mondo; e quelle dame, 

Avvezze tra cotante gentilezze, 

Son le delizie dell'altro. Ma vedi, 

E' bisogna, io dico, stare in cervello, 

E misurare e per sette e per nove 

E le proposte e le risposte, che 

Se tu scappucci punto, elle ti scorgono 

Per un ser uomo, e ti cacciano in concia 

E ti fanno restare uno stivale (1). 

Napoli, la più incantevole città d'Italia, popolata 
di duecentomila abitanti ( 2 >, cint%di colli aprichi, 
specchiantesi nel mare limpido come il cielo (3), 
attraeva cavalieri e baroni, mercanti ricchissimi e 
nobili dame. Più di settecento eran le sue famiglie 
nobili, padrone di feudi e di castelli; cento tra 
conti, principi e duchi, tutti ricchi dai duemila ai 
cinquantamila scudi d'oro di rendita ( 4 ). Le spese 



(1) Cfr. A. Cecchi, 11 Corredo, Venezia, Bernardo Giunti, 1585. 

(2) « Duecenta circi ter milia civium capita esse prò com- 
perto affìrmat ». Folieta, De laudibus urbis Neapolis, in Bdr- 
mann, Thesaurus, IX, p. 1233-4. 

m (3) Cfr. la entusiastica descrizione di Napoli in H. Landò, 
Commentario delle pia notabili et mostruose cose d' Italia e altri luo- 
ghi, di lingua Arartiea in. italiana tradotto; nel guai s'impara e 
prendesi estremo piacere , MDXL, p. 11. 
(4) Cfr. U. Folieta, op. cit., p. 1234. 



ì 



— 71 - 

erano eccessive, onde i nobili eran costretti a ven- 
dere i propri feudi, che, tornando al re, eran dati 
a chi più li pagava; e li compravano mercanti e 
villan rifatti, dando cosi luogo ad una nuova no- 
biltà, odiata ed odiatrice dell'antica (*). 

Nella vita tutto convenzionale e fittizio : la cor- 
tesia era galanteria, cortigianeria l'amore, quan- 
tunque ft tutto la natura circostante, desse un'im- 
pronta di armonia e di gaiezza. Siamo sul tramonto 
lungo la marina vivida di spesse scintille: nei coc- 
chi fastosi (?) passano le bellissime dame, i cavalieri 
o corrono sui cavalli ^perbamente bardati o di- 
gnitosi passeggiano con ricco codazzo di servi ( 8 ), 
e « siccome attendono — dice un ambasciatore ve- 
neziano — alla pratica delle dame con tutta la per- 
sona e con tutte le facoltà e ne sono corrisposti 
bravamente, cosi si levano la berretta non per sa- 
lutare ma per essere salutati » ( 4 ). Se è d'estate il 
mare li invita e li accoglie: 



(1) V. la Relazione di Napoli di Aloise Landò, in Albert, 
Relazioni venete, s. II, t. V, p. 464. 

(2) I cocchi a Napoli in questo tempo erano circa 1600 e le 
Reggette o portantina 800. Cfr. Relazione di Napoli di G. Ra- 

musio, in Relazioni ven. cit., XV, p. 321. 

(3) Cfr. S. A., Famiglie nob. nap., II, p. 35, e il Dialogo delle 
Imprese, in Opuscoli, I, p. 361. 

(4) Cfr. la cit. Relazione del Bamusio, p. 818. 



Eh oh ! che spassosissimo piacere 

Che par che allor si muoia 

L'estate è di vedere 

Verso la sera al tardi 

Mille celesti sguardi 

Splender in barca o pur sopra uno scoglio 

Dando pena e cordoglio 

Ad ogni volger di begli occhi alteri 

A principi, a signori, a cavalieri, 

Ed altri lamentar cantando ognora 

Sin che il giorno s'imbruna 

Di madonna d'amore e di fortuna. 

Poi gli altri uscendo fuora 

À più bell'agio in la felluca apposta 

Girar tutta la costa ^ 

Sino alla torre a noi detta Gaiola. 

Non una barca sola 

Con bandiere e tendai posti e spiegati, 

Ma cento insiem di bei color fregiati, 

O sonando o cantando 

Dolcemente pian pian gir remigando: 

Altri veder nuotare 

Presso il lido del mare, 

Come del fin guizzando, 

Ed altri innanzi alla dolce aura fresca, 

Che quel contorno infresca, 

Su le chiare e tranquille onde scorrendo 

Van per tutto godendo, 

Sfogando alma contenta 

Cosi talvolta quel che la tormenta (1). 



(1) V.-Cr. B. del Tufo illustratore di Napoli del secolo XVI. 
Memoria di S. Volpicella, negli Atti dell'Accademia di ardi., 
leti, e belle arti, Napoli, 1880, p. 164. 



- 73 - 

E gli amori si intrecciano: pei giardini di Po- 
sillipo ricchi d'aranci, pei viali delle superbe ville 
che ricingono la riviera, sulle terrazze che guar- 
dano il mare il cavaliere e la dama, talora d'al- 
trui sposa a lui cara, parlano leggiadramente d'a- 
more e i madrigali di lui abilmente scbermeggiano 
colla simulata ritrosia di lei. Delle dame, dice il 
nostro ambasciatore veneziano, perchè son donne 
bisogna dire per ogni maniera bene, lasciando che 
sia tenuto proposito di loro da quelli che le hanno 
domesticamente praticato, i quali pubblicamente af- 
fermano che non v'è amore in alcuna W. I costumi 
spagnuoli hanno. col pensiero e colla coscienza in- 
fi acchito anche il cuore: la cortesia, o in realtà la 
pratica di un cerimoniale ridicolo, è la virtù mi- 
gliore di una dama, come il fasto è il suo sogno 
più caro, la cura favorita ( 2 ). 

E, generalmente, mal coperta dal lusso la cul- 
tura di moda è scarsa, e nelle lettere limitata a 
pochi autori passati nella tradizione o come codici 
di cavalleria o come scrigni di galanti amorosi 
gioielli^); l'Ariosto per le quistioni cavalleresche, 
il Bembo e il Petrarca per quelle d'amore. 



(1) Cfr. la cit. Relazione del Hamusio, p. 319. 

(2) Cfr. H. Landò, op. cit., p. 11. 

(3) « Fra tanto numero non dirò di titolati ma fra tanta 



— 74 — 

Il popolo d'ingegno svegliato, pieno d'astuzia C 1 ), 
è nemico capitale della nobiltà, e, non potendo li- 
berarsene, cerca di emularla nel lusso, « per il 
che si vedrà la moglie d'un sarto o di un calzo- 
laio in veste di velluto e -sottana di raso, fregiata 
d'oro con gli stessi adornamenti che usano le gran 
dame, le quali non si riconosceriano da quelle se 
l'artigiane non andassero a piedi e le nobili in coc- 
chio ; ma il peggio è che hanno anco introdotto 
le mogli de' notari e scrivani di non voler andare 
a piedi » (2). 



* 



Se tale era la vita a Napoli, quale culto era ser- 
bato alle lettere? In una lettera sconfortante Ga- 
briele Zerbo lodando a Paolo Manuzio la sua ora- 
zione pel marchese di Vico, dice che fu letta e 
ammirata da alcuni gentiluomini che non hanno il 



moltitudine di cavalieri pochi sono letterati ma tutti macchiati 
di una pece: e soleva dir loro il gran Cardinale Farnese, ve- 
dene uno vedeli tutti, e il principe Doria, Napoli essere un 
sacco pieno di sonagli ». Rei. cit. del Ramusio, p. 318. V. in- 
vece le lodi della nobiltà napoletana fatte fare in una suppo- 
sta Risposta di Bernardo Tasso al parere attribuito da Torquato 
al Martelli, e le altre del Foglietta, op. cit., p. 1284. 

(1) Cfr. la cit. Relazione del Ramusio, p. 320. 

(2) Cfr. ibid. 



— 75 — 

gusto corrotto, qui tamen pauci sunt. « Che già 
V. S. avrà molto ben inteso che gli uomini di que- 
sto regno oggidì non patiscono gran fatto di indi- 
gestione per soverchia palizia di lettere latine: anzi 
il ragionare # si nota pedanteria. Poeti volgari vi 
sono quanti l'arena, che mettono tutto il Parnaso 
a rumore et il nostro ms. Marcantonio Passero ne 
è l'archivario segreto ♦C 1 ). Certo lo Zerbo esage- 
rava : e se pel culto del latino s'erano illanguidite 
le gloriose tradizioni dell'accademia, né echeggiava 
più la delicata mestizia del Pontano, né rifulge- 
vano i colori vivi della poesia del Sannazaro, né 
a compensarne la perdita bastava la spigliata ele- 
ganza del Marti rano, quanto al volgare, accanto ai 
poetucoli nobili e plebei, tutti intenti a cantar fa- 
ticosamente le grazie delle loro donne o a bruciarsi 
sfacciatamente incensi a vicenda, il Tansillo, il Co- 
stanzo, il Rota, tra gli altri, tengono nella produ- 
zione lirica. italiana postò onorato. 



(1) Cfr. la cit. Raccolta di lettere del Pino, IV, p. 143. Tristi 
previsioni fa anche l'Ammirato, quando nel Dialogo delle Im- 
prese fa dire al Gambi: « A me dispiace se ben non son napo- 
letano che in questa città di giovani massimamente si veggon 
pochi, nei quali si possa fondare speranza di qualche bene. Per- 
ciocché cavatine il signor Carlo d'Imoli e il signor Ferrante 
Monsorio.... non so chi altro possiamo annoverare, di cui si 
possa avere aspettazione veruna ». 



— 76 — 

Non mancava anzi un certo fervore : si costitui- 
vano accademie, e quivi o si leggevano versi pro- 
pri! o si commentavano il Petrarca e il Boccac- 
cio ( l ) ; i nobili la pretendevano non solo a poeti 
ma a mecenati degli studii ( 2 ), e nei palazzi patrizi, 
nelle più splendide ville del golfo convenivano in 
folla letterati e devoti delle Muse. Le case di Ve- 

* 

spasiano Gonzaga, di Ferrante Carrafa e di Ferdi- 
nando Loffredo erano le più frequentate. Il primo, 
ritiratosi' dopo l'abdicazione di Carlo V nella sua 
villa di Mergellina, accolse, come narra il Min- 
turno, una schiera di poeti, primi tra i quali il 



(1) « Venni a Napoli ove facendo prova delle mie lunghe fa- 
tiche e trovandovi non pochi studiosi della nuova lingua, la 
quale per tutta l'Italia celebrata è venuta di giorno in giorno 
sì avanzando degli ornamenti e de la dottrina che nulla o poco 
ornai le bisogna alla somma de l' eloquentia. Cominciai a ra- 
gionar con loro delle cose del Petrarca e non so come piacendo 
quei ragionamenti che tra gentilissimi spiriti ragunati quasi 
in Academia se ne faceano, fu alcuno di sì presta mano che 
in gran parte gli notò con la penna » . Così scrive il Minturno 
al Guidiccioni confutando un severo giudizio del Guidiccioni 
stesso. Cfr. Lettere di Messer Antonio Minturno, in Vineggia, ap- 
presso Girolamo Scoto, 1549, p. 18. 

(2) Cfr. Delle rime di diversi illustri signori napoletani e d'altri 
nobilissimi ingegni. Allo illust. Ferrante Caracciolo, in Venezia, 
appresso Gabriel Giolito de Ferrari et fratelli, MDLV. Tra essi 
non mancano di vigoria i versi del Marchese del Vasto con- 
fortanti Carlo V alla guerra coi Turchi. 



— 77 — 

Carrafa, il Rota, il Costanzo, il M inturno stesso, 
al quale quelle conversazioni dieder materia ad un 
trattato di poetica ( l ). Ferrante Carrafa, marchese 
di S. Lucito: 

D'una Latra gentil servo e marito, 

Pur di gran gloria al par d'ogni altro degno 

Onor della mia patria e d'ogni regno (2) 

fu poeta e i poeti suoi amici lo difesero quando fu 
accusato di aver tradito il suo re, lo lodarono sem- 
pre ( 3 ): il Maranta in un suo dialogo latino disse 
di lui: « si Musae humano ore loqui vellent, non 
alio possent quam eius ore loqui »( 4 ). Nel superbo 
palazzo di Pizzofalcone, a cui 



(1) Di Vespasiano Gonzaga scrisse la vita Ireneo Affò, Vita 
di V. G. duca di Sabbioneta ecc., Parma, Carmignani 1780. Per 
i meriti letterari del Gonzaga, v. p. 36 e segg. Per le relazioni 
coll'A. cfr. Dialogo delle Imprese di S. A., in Opuscoli, I, p. 425, 
e la lettera del Gonzaga al Rota nella Raccolta del Pino cit., 
IV, p. 392. 

(2) I versi sono del Del Tufo. Cfr. la cit. Memoria del Vol- 
picella, p. 44. Moglie del Carrafa era Faustina Gapecelatro. 

(Ò*) La tua fede, gli scrisse il Rota: 

ne l'altrui sdegni e ne l'inganni 
Divien qual oro in mezzo al foco e quanto 
Cercan macchiarla più tanto è più pura. 

Cfr. le Rime di diversi illustri sig. nap. cit., p. 94. 

(4) Cfr. Bartholomaei Marantae Venusini, Lucullianarum 



— 78 — 

non è simile 

né più forte o sicur castello o rocca. 

Ferrante Loffredo ospitava il fiore dei poeti e degli 
scrittori napoletani, e « Quocumque doctrinae ge- 
nere non tninus quam armis praestantissimus », è 
chiamato dal Maranta 0\ che col Cambi, col Cicca- 
rono e cogli altri già nominati ayea trovato presso 
di lui amichevole accoglienza. 

L'ordine del viceré, pel quale si eran già chiuse le 
accademie, era stato revocato: eran risorti gli Ar- 
denti, gli Incogniti, i Sereni, e ne ambivano a gara 
il nome nobili e letterati ( 2 ). Dei Sereni, dopo la 



quaestionum libri quìnque ad lllustritsimum Colant.onìum Caraccio- 
lum Vici Marchionem. Basileae, per Joannem Oporinum, mdlxiv, 
p. 94. 

(1) V. op. cit., p. 82. Per i meriti letterari del Loffreda cfr. 
Napoli-Signorelli, op. cit., IV, p. 271*. 

(2) In un curioso libretto del Falco ecco come è descritto 
lo stato degli studii a Napoli: « Già gli antichi studi delle 
prime accademie s'aprono, se ben per disavventura pur poc'anzi 
interrotti, li onorati esercizi s'insegnano, li animosi si vegono 
e i peregrini ingegni di nuovo in Napoli fioriscono. Già nel- 
l'accademia dei Sereni si vede di nuova luce il biondo Apollo 
risplendere, in quella degli Ardenti i sacri incensi della virtù 
fumano e nell'amicitia degli Incogniti la conoscenza di sé stesso 
proponesi ». V. la Descrittione dei luoghi antiqui di Napoli e del 
suo amenissimo distretto per Benedetto di Falco napoletano. In 
Napoli, appresso Mario Cancer., 1568, p. 18. Né è da dimenti- 
care tra l'altre l'accademia dei Segreti fondata nel 1560 da 
G. B. della Porta. Cfr. Miniebi-Biccio, op. cit., p. 590. 



— 79 — 

morte di Placido di Sangro, divenne anima il Ro- 
ta, che 

Oltre l'esser già buon cavaliere 

Fu di sorte gentile 

Nel grazioso stile 

Che già la fama va volando oarca 

Più delle glorie sue che dei Petrarca. 



* 

* * 



L'Ammirato cominciò a frequentare di nuovo lo 
studio, ma avendo ricevuto in un diverbio una col- 
tellata da Paolo Terracina, che fu poi vescovo di 
Calvi, se ne allontanò per sempre. La sua amicizia 
con Bernardino Rota, che tanto si compiaceva di 
esser nobile 0) e di star coi nobili ( 2 \ lo fece ac- 
cogliere nelle case di molti cavalieri, che gli fu- 
ron larghi di amicizia e di protezione: così potè 
vivere in tutte le sue parti quella vita di palazzi 
e di accademie, di cui abbiam tracciato un breve 
disegno. Più che alle altre l'Ammirato serbò gra- 
titudine alla famiglia Carrafa : che Mario, che più 
tardi fu arcivescovo di Napoli, lo volle per alcun 



(1) V. l'accurato saggio di Giov. -Rosalba, La famiglia di 
Bernardina Rota (estr. dagli Studi di letteratura italiana ì I, p. 160 
e segg.). 

(2) Cfr. Ammirato, Ritratto di B. Rota, in Opuscoli, II, p. 250. 



— 80 — 

tempo nella sua casal 1 ), Ferrante lo accolse nelle 
sue adunanze C 2 ), Vincenzo e il Duca d* And ria « col 
testimonio loro honorandolo e con amorevoli acco- 
glienze ad ogn'hora nella lor casa ricevendolo, et 
altamente nelle sue occorrenze e negli accidenti del 
mondo giovandolo, furon cagione che egli oppresso 
dall'intollerabile peso della fortuna nel duro viag- 
gio di questa vita, quasi nel mezzo del cammino 
miseramente senza più rilevarsi non cadesse » ( 8 >. 
Lo protesse Iacopo Antonio Acquaviva, figlio di Be- 
lisario duca di Nardo, Ferrante Monsorio cavaliere 
e letterato lo volle seco sovente, e cosi Vespasiano 
Gonzaga e i duchi d'Atri ( 4 ). 

Né ne sdegnaron gli omaggi le dame, che a lui 
ricorrevano per motti ed imprese. Chi sia stata la 



(1) Credendo al De Angelis, l'Ammirato si sarebbe allonta- 
nato da Mario Carrafa lacerando in sua presenza una polizza 
di denaro che questi volea fargli accettare. De Angelis, Vita 
cit., p. 84. 

(2) Cfr. Dialogo delle imprese di S. A., in Opuscoli, I, p. 521 ; 
e B. Mabanta, op. cit., p. 94. — In casa del Carrafa l'A. as- 
sistette certamente alle rappresentazioni drammatiche datevi 
da gentiluomini dilettanti, intorno alle quali v. B. Croce, I tea- 
tri di Napolij Napoli, Pierro, 1891, p. 48 e segg. 

(8) Cfr. Dialogo delle imprese cit., p. 521, ove dice che oltre 
che signori e padroni usava chiamarli suoi innamorati. 

(4) V. Opuscoli di S. A., II, p. 288. — Col Duca d'Atri e 
con Pietro Gambacorti fece l'A. un'ascensione su Montecas- 
sino. Cfr. S. A., Famiglie nob. nap. cit., II, p. 30. 



— 81 — 

dama alla quale l'Ammirato offrì i suoi pensieri 
non sappiamo: era nobilissima e, dobbiam creder- 
gli, di sovrumana bellezza, ma crudele e incostante. 
E questo amore è argomento di sonetti e di can- 
zoni: ed egli or si lamenta petrarchescamente che 
la donna non creda al suo amore, or invidia ai 
suoi amici l'andar lieti e il goder di tutto scarchi 
d'affanni mentre egli è tormentato da pene d'ogni 
sorta e non riesce a liberarsene, or con intonazione 
catulliana si duole che la sua donna sia lungi, or 
piange l'abbandono di lei (*). Nella canzone alla 
Speranza, la migliore lirica ch'egli abbia scritto, 
esclama: 

Sentier spinoso ed erto ebbi per piano, 
Stimai sete e digiùn cibo soave, 
E caro un cesto più che seggio d'oro, 
Né fu le lunghe notti il vegliar grave. 
Locato in due begli occhi era il tesoro 
Della mia fragil vita, 
U' si volgea come a sua ferma stella 
* Tutta pronta ed ardita. 

Misero, e gran ragion men dai tu fella, 
Che fui di tante mie grazie divine 
Altro ch'ai volgo vii favola alfine.. 



(1) I sonetti dell' A. sono pubblicati nel Primo volume delle 
rime scelte di diversi autori, di nuovo corrette e ristampate, Vene- 
zia, Gabriel Giolito dei Ferrari, MDLXIII, p. 310 e segg., e 
in Opuscoli, II, p..600 e segg. 



— 82 — 

E gli amici ne ridevano: l'abbate in pena per 
un bel viso ne eccitava gli scherzi, ed egli se ne 
sfogava con l'amico Antonio Guido e gli inviava 
i sonetti che andava componendo, ricevendone in 
cambio buoni consigli ( 1 ). I versi non fecero brec- 
cia sull'animo dell'amata e allora l'Ammirato com- 
pose prima un'impresa col vaso di Pandora, nel 
fondo del quale, volata la felicità, rimaneva la spe- 
ranza; poi un'altra rappresentante il bue di Susa 
(che secondo la tradizione trasportava da solo cento 
barili d'acqua al giorno) con alcuni barili allato e 
col motto: Sai prata bibere, volendo dire che era 
stanco di versar lagrime. Sperava di rabbonirla, 
ma a nulla valse; ed allora, disperato e adirato, 
ne fece un'ultima, in cui una iena scopre il sepol- 
cro dove è la salma dell'amante. C'era da aspet- 
tarselo ; la donna se ne offese ed ogni relazione fu 
rotta: tuttavia egli « dubitando di non offenderla 
colla riverenza e con l'adoramene che le faceva, 
s'era restato non di amarla o di osservarla col 



(1) Cfr. la cit. Raccolta di lettere del Pino, IV, p. 383 e segg., 
dove il Guido scrivendo nel 27 ottobre del 1560 all'Ammirato, 
dopo aver lodato uno dei sonetti, in cui l'A. paragonava la 
sua donna al sole, lo invita a venire a Roma ad un bel luogo 
di là dall'Aventino « dove staremo tutto il di a diporto con 
diversi piaceri, ma di questo dovete esser sicuro che sete più 
desiderato che non è il Messia dai (jiudei », 



- 83 - 

cuore, ma ben di visitarla e di servirla con l'ope- 
re ». Né il ricordo si spense ; che l'Ammirato scri- 
verà a Biagio Pignatta: 

Già d'una bella treccia in sé raccolta 
Più che di perle e d'ostro il mio cor arse, 
E del sol chiamai Tore avare e scarse, 
Se fuggendo dal ciel me l'ebber tolta. 

Dolorosa memoria! e fu talvolta 
Che rio di pianto per lo sen si sparse, 
E qual contra a me stesso io vidi armarse 
Turba di rei pensi er fallace e stolta ! (1). 



* 
* * 



Pur frequentando le case dei signori, pur tortu- 
rato dai guai d'amore, l'Ammirato non trascurò gli 
studii sorretto e confortato dai consigli degli amici, 



(1) Cfr. Opuscoli di S. A., II, p. 601, e il Dialogo delle im- 
prese, ove il Nino dice: « Affé che l'Ammirato fa onore a noi 
altri preti, poiché egli con si nuove e peregrine imprese va fe- 
licemente spiegando i suoi amorosi concetti » ; e il Cambi, par- 
lando di una cena a cui avrebbe dovuto prender parte l'Am- 
mirato: « Non ve ne curate troppo, signori, che duri prandi 
e terribili cene se l'apparecchiano ogni giorno. Et con tutto 
ciò ha più caro il fiele e l' assenzio di quelle mense che tutte 
quelle dolcissime confettioni che mai venisser da Genova. Et 
è pur dura cosa al meschino come più piacciano le ripulse e 
gli sdegni et gli orgogli della sua tigre che le buone et ono- 
revoli accoglienze di signori suoi padroni. Giovane veramente 
degno di lacrime e di compassione ». p. 448, 



— 84 — 

specialmente del Rota, del quale lasciò un ritratto 
pieno d'affetto e di devozione tenerissima. Dopo la 
morte della moglie il Rota inconsolabile si era ri- 
tirato nella amena villa sua nei dintorni di Napoli, 
e viveva quasi sempre quivi tutto immerso nel suo 
dolore componendo o rifacendo poesie. Che se la 
critica ha negato ai sonetti di lui per la defunta 
il carattere di uno spontaneo tributo d'amore, di- 
mostrando che furono scritti talora in altre circo- 
stanze e per altre persone, se ha fatto risaltare in 
quelli in morte di Porzia una gonfiezza che soffoca 
il sentimento, la figura del Rota marito fedelissimo 
ed amoroso è rimasta quale la ritrasse l'Ammi- 
rato d). 

A questa amicizia sincera dobbiamo le edizioni 
delle Rime del Rota fatte dall' Ammirato nel 1560. 
La prima raccolta consta di trentasei sonetti in 
lode della defunta; l'Ammirato li mandò, seguiti 
da un'ampia illustrazione, ad Annibal Caro ( 2 ). Que- 



(1) V. l'ingegnoso articolo del Kos alba, Uh poeta coniugale 
del sec. XVI, in Giornale stor., XXVI, p. 92 e segg. 

(2) Per le relazioni tra il Rota e il Caro, v. il sonetto del 
Caro : « Rota, io mi son ben caro or eh' io son anco » , in Rime 
di sig. ili. napoletani cit., p. 187. L'Ammirato stesso dichiara di 
dedicarle a lui perchè sa « che quel giudizio che va insieme 
con quella buona memoria di mons. della Casa avete sempre 
avuto dei componimenti di questo cavaliere, il troverete tanto 



— 85 -=- 

sti, secondo che ci dice la dedica, avea richiesto 
l'Ammirato dei sonetti del Rota: si recò il nostro 
dall'amico malato di podagra e da lui, 'lontano da 
ogni pensiero piacevole e tutto dato alla vita dello 
spirito e alle pratiche cristiane, potè ottenere, gra- 
zie al nome del Caro W, solo trentasei sonetti e 
la promessa delle rimanenti poesie. « Tra questo 
mezzo — scrive il nostro al Caro — V. S. con la 
lezion di queste poche in così breve corso di tempo 
non composte, ma quasi cadute di bocca, odori, ed 
attenda di veder la qualità dell'altre, con più ma- 
turo giudizio e con più sottil diligenza cavate fuor 
•dalla penna. Benché il dolore che in queste lacri- 
mose composizioni è stato infinito, l'ha per siffatto 
modo abbellite di tutti quegli affetti che possa par- 



beiie impiegato in leggendo queste poche rime, da lui quasi 
dettando composte, che v'accorgerete non esser gran meravi- 
glia se come vi si dà illustre nome di leggiadrissimo scrittore 
cosi vi si doni singoiar laude di persona prudente e giudiziosa > . 

(1) Nel sonetto pubblicato a p. 69 della ed. cit. il Bota dice 
all'Ammirato e al Flaminio, che teme molto il giudizio della 
critica, onde 

Invan caldo desio dunque vi tiene 
Ch'escan da me vagando in ciascun lato. 

L'Ammirato gli rispose col sonetto: « Cosi quella che felce e 
duro scoglio ». 



— 86 - 

tori re un animo tributato, che non so se maggior 
bellezza possa gittar fuori il diletto e il piacere » W. 
I sonetti commentati dall'Ammirato sono, come 
abbiam detto, trentasei, tanti quanti gli anni in cui 
visse la Capece, e son tutti in morte di lei, e le 
annotazioni non fanno che spiegare il significato di 
ogni concetto e fin di ogni parola con frequenti 
richiami e raffronti col Petrarca e col Bembo, il pa- 
dre e il corifeo della lirica amorosa. Una gran sup- 
pellettile di notizie storiche e un vasto sussidio di 
erudizione, spesso spesso superflua, son messi a pro- 
fitto per chiarire i concetti dell'autore, analizzati 
e anatomizzati alla stregua delle dottrine erotiche 
del tempo e per discutere numerose quistioni gram- 
maticali. Invano però vi si desidera quello che allo . 
studioso moderno soprattutto interessa: la notizia 
della vita del poeta e delle occasioni che ispirarono 
i vari componimenti e che l'Ammirato, intimo come 
era del Rota, avrebbe potuto indicare. Le annota- 
zioni non hanno che un fine: mostrare l'eccellenza 
dei sonetti dell'amico, e possono solo avere impor- 
tanza per conoscere i criteri con cui a quel tempo 
si giudicava di un componimento poetico ( 2 ). 



(1) Cff. Rime del Boia, ed. cit., p. 109. La lettera dell'Am- 
mirato al Caro è del 15 gennaio 1560. Della prima edizione si 
fecero 100 esemplari in dono agli amici. 

(2) Avendo il Bota adoperato alcune voci nuove nelle sue 



— 87 - 

Il Caro ricevendo il dono dell'Ammirato, ne lo 
ringraziava, con lettera del maggio del 1560, me- 
ravigliandosi però come questi avesse in nome suo 
richiesto le poesie al Rota, senza che egli gliene 
avesse espresso il desiderio. Usò l'Ammirato di una 
pietosa bugia per ottener dall'amico i versi, e volle 
poi rimediarvi dedicandoli al Caro stesso? 

Comunque sia, un coro di lodi si levò dai cento 
amici ai quali le poesie vennero inviate, lodi pei 
poeta e pel commentatore. Che se il cardinal Seri- 
pando, scrivendo al Rota, si maravigliava che la 
sua mente « sia in tanta bonaccia che habbi po- 
tuto produrre e scrivere cose alle quali non può 
arrivare se non un animo superiore a tutte le cose 
umane > (*), il Guido chiamava le annotazioni un 
ricamo fatto a perle orientali e proclamava l'Ammi- 
rato il primo filosofo del suo tempo per la fine e 



Eiine, VA. fa alle annotazioni seguire un breve discorso, nel 
quale coll'autorita degli scrittori da Orazio al Bembo dimostra 
il diritto che ogni autore ha di creare qualche nuova parola: 
« Che se molte voci cosi al Petrarca come al Boccaccio fa per- 
messo di usare, perchè insieme con Orazio non diciamo al 
Bembo, al Molza, al Guidiccione, al Casa ed oggidì a questi 
grandi ed illustri scrittori che vivono, al nostro Bota, al Caro 
e al Veniero doversi simigliantemente permettere?... Si deb- 
bano queste per avventura sprezzare perchè dal Petrarca non 
vennero dette? ». 

(1) Cfr. la Raccolta cit. del Pino, IV, p. 55. 



- 88 — 

destra analisi usata nell' illustrare i sonetti. « Quelle 
particelle poi, gli scrive, dell'orazioni delle quali 
come di lumi sono distinti i sonetti del signor Ber- 
nardino, le raccogliete cosi bene, e cosi bene le cri- 
vellate, che non vi resta mistero per voi nella 
lingua che non sia fatto già noto ed aperto » W. 

Tre mesi dopo l'Ammirato dava alle stampe le 
Egloghe pescatorie del Rota, dedicandole a Fran- 
cesco Mormile, nobile napoletano e congiunto del 
poeta. Già da ventisette anni, come ci fa conoscere 
l'Ammirato stesso, esse erano scritte ed anche note 
agli amici, e Vittoria Colonna tanto se n'era com- 
piaciuta da mandarne gran parte a memoria e re- 
citarle e celebrarle « come frutto di sommo poeta 
ed illustre ». Che come Mergellina ed Echia ga- 
reggiavano in bellezza, cosi il San n azzar o e il Rota 
gareggiavano in lucentezza di immagini, in vigo- 
ria di stile; e se il primo aveva nella sua Arcadia 
alla poesia inframmésso la prosa, l'Ammirato pro- 
metteva di far un giorno lo stesso per le egloghe 
dell'amico. 

Più tardi, nell'agosto del 1560, il voto dell'Am- 
mirato espresso nella lettera al Caro era adem- 
piuto, e tutte le rime del Rota in onore della sua 
donna vedevan la luce dedicate a Vespasiano Gon- 



(1) V. op. cit., p. 382. 



— 89 - 

zaga, come ad uno degli amici migliori del poeta 
ed intelligente estimatore di poesia. All'elegia della 
defunta Porzia, notabile esempio e rarissimo orna- 
mento di tutte le signore napoletane, l'Ammirato 
aggiunse quello del marito, « che siccome non è 
in alcuna* parte stato inferiore a niuno scrittore 
che nell'età avanti noi furono, che già son morti, 
così niuno di coloro che oggi vivano ragionevol- 
mente dir gli possa superiore » (*). Esagerato giu- 
dizio senza dubbio, che, insieme alle cure spese nelle 
edizioni delle rime del Rota, prova ancora una volta 
l'affetto e la stima dell'Ammirato per l'amico e 
pel protettore. 

E il Rota lo ricambiava di pari assidua amicizia: 

Ammirate, huc huo quo te vocat Aeg1a(2), venito 

Non bene cum Musis convenit aula, forum 
Ecquid adhuc yanas lentus aulicus horas ? 

Felle venenato superba tecta suadent. 
Huc tecum venia t Ninus, nec Cambi us absit 

Tu Cicarelle veni, tuque Maranta veni, 
Qui simul hic repetant: mors una duobus 

Et recolant gemitus tot monimenta mei 



(1) La dedica è del 25 agosto. Grande favore incontrarono 
le rime del Bota, e nel 1567 PAttanagi le ristampò coi tipi del 
Giolito dedicandole a Girolamo Acquaviva. 

(2) Cfr. Bota, op. xùt., II, p. 162, dove il Bota descrive con 
colori vivi e delicati la pace e la tranquillità della sua villa. 



— 90 - 

Quorum colloquio statuae, circumque resultet 
Porticus et nostro pietà dolore domus(l). 

Invitava egli l'Ammirato a godere della campagna 
in un luogo pieno di mesti ricordi e di pace me- 
lanconica, in quella villa dove tutto ricordava colei 
che si rimpiangeva; e vienici con gli amici più 
cari, gli diceva, col Nini, col Cambi e cogli altri. 

Nino Amerini era vescovo di Potenza fin dal 1530, 
e, come allora usavano gli alti prelati della bassa 
Italia, se ne stava a Napoli, dilettandosi di poesia 
e compiacendosi della conversazione in casa del 
Rota, dove portava una nota di brio e di lepi- 
dezza 2 ). Il Maranta era un erudito e nello stesso 
tempo un buon uomo, burlone e chiacchierone, di- 



ci) L'elegia del Rota (lib. Ili, 7. a ) canta le lodi della vita 
campestre e l'antica libertà d'amore, e finisce: 

At nos quid tantum valeris commi si mus ut non 
Antiqua liceat conditione frui? 
Vix datur optatas procul ins poetare puellas 
Saevit enim nostro tempore avarus amor. 

(2) Una sua lettera a Latino Latini è nella Raccolta del Giu- 
stiniani (Ili P* 350); un suo sonetto in onore di M. Buonarroti 
nel libro II De le rime di diversi nobili poeti toscani raccolte da 
Ms. Dionigi Attanagi. Venezia, Lodovico Avanzo, 1565, p. 231. 
Mori nel 1564 e Bernardino Bota compose per lui un'elegia in 
cui ne ricorda le doti: 

Raptus abis tecumque omnes abiere lepores. 



- 91 — 

sperato del suo lungo nome di Bartolommeo ( J ). 
Il Cambi, nato a Napoli, ma di famiglia nobile fio- 
rentina, cavaliere di S. Stefano, era nella città na- 
tale ricevitore di questa religione ( 2 ). Amico del Gio- 
vio, del Caro, del Manuzio, al quale fornì molte 
lettere delle sue collezioni 9\ era tra i frequenta- 
tori più assidui della casa del Rota e fraterna- 
mente amico dell'Ammirato; uomo allegro, faceva 
bersaglio ai suoi frizzi il Maranta, sconsigliando il 
Rota dall' invitarlo al pranzo, perchè « dare a man- 
giare a un pugliese è tanto come se aveste un eser- 
cito di tedeschi in casa ». 

Oltre a questi tre e all'Ammirato, assidui, un 
gran numero di letterati frequentava la villa del 
Rota: Antonio Caracciolo, il Caserta, Iacopo Mon- 
sone, Gio. Pietro Ciccarello, Vincenzo d'Uva, Mario 



(1) Cfr. l'opera citata del Maranta e S. A., Dialogo delle im- 
prete, in Opusc, I, p. 437. 

(2) Cfr. S. A., Famiglie nob. fiorentine, p. 77; Archivio di 
Stato in Pisa: Provarne di nobiltà dei cav. di 8. Stefano. F. V., 
p. II, n. 50, e Marchesi, Memorie del sac. ord. militare di S. Ste- 
fano. Forlì, Marozzi, 1735, p. 323. Sulla casa di lui v. Capasso, 
La fontana dei Quattro del Molo, in Arch. stor. napol., V, p. 160. 

(3) Cfr. Delle lettere famigliari del comm. A. Caro. Padova, 
Cornino, 1725, I, p. 276, e II, p. 41, e Delle lettere famigliari di 
A. Caro per cura di A. Seghezzi. Bassano, 1782, III, p. 117. — 
Per la relazione col Manuzio cfr. Scelta di cur. leti., CLVII, 
p. 71-o* 



- 92 - 

Galeola, Piero Vernaleone, Camillo Pagano (*) ac- 
correvano a Piedigrotta ad udire le dispute eru- 
dite, a prender parte alle letture ed alle discus- 
sioni, nelle quali il Rota portava sempre il suo 
giudizio ascoltato con religiosa attenzione, come 
quello di un uomo savio, maestro di poesia e di 
stile ( 2 ). Nobili dame quali Felice Orsini, Girolama 
Colonna, Laura di Policastro eran talora oggetto 
dei loro discorsi, quelle dame belle ed eleganti che 
tenevano anche il primato per cultura ed intelli- 
genza ; se ne lodavano la magnanimità e i rari ta- 
lenti, si ricordavano le poesie da loro ispirate. E 
da esse quasi involontariamente si cadeva nelle lodi 
e nel rimpianto di Porzia, che da poco avea pri- 
vato quelle adunanze del brio e delle grazie della 
propria bellezza e della cortesia, della saggezza del 
suo pensiero intelligente. Tutto in quella villa par- 
lava di lei: le pareti dipinte di imprese allegori- 
che, i cortili, i viali ornati di statue rievocanti 
i pregi e le virtù dell'estinta, il volto di Bernar- 
dino atteggiato sempre a dolorosa mestizia. Uno 
spettacolo stupendo si distendeva agli occhi degli 



(1) L'A. parla di tutti costoro e ne tesso le lodi nel Dialogo 
delle imprese cit., p. 436, 509, 448, 391, 449, 515. 

(2) Cfr. S. A., Opit8c., II, p. 175, Mescol., IX, e la lettera del 
Cambi al Caro nella Raccolta cit. del Pino, IV, p. 873. 



- 93 — 

intervenuti, talora raccolti sugli ampi terrazzi: ai 
piedi del Vesuvio sempre fumante, ad arco sul 
mare tranquillo, Napoli la sirena, tutto intorno odo- 
rosi giardini, verdi campagne, superbe nell'alto 
Pizzofalconc e Leucopetra. E allora era un coro di 
lodi alla magnificenza della città, a quel mare, a 
quel cielo, a quel verde e per uno strano accordo 
di idee si scrivevano elegie ed egloghe, rimpianto 
dei bei tempi dell'età aurea, si cantava la* vita se- 
rena e tranquilla dei campi CO, si inneggiava alle 
antiche divinità agresti ( 2 ): 

Ite iam blandae procul ite nugae, 

Urbis hic. tandem liceat quex*elas, 

Hic forum invisum aufugere hic potentum 

Limen avarimi: 
Hic mihi mentis liceat procellas 
Pellere, hic curas ani munì 
Vivere hic saltem breve tempus, hic mi 

Rsddere memet (3). 

* 
* * 

Una delle tante dotte e geniali conversazioni tra 
il Rota e ; i suoi amici ci ritrae l'Ammirato nel 
suo dialogo delle Imprese, che volle chiamare « il 



(1) Cfr. Elegia VII del libro III ad Scipionem Ammiratum. 

(2) Cfr. Elegìa IV del libro II del Rota ad Bacchimi. 

(3) Cfr. Ad Aeglam de villa sua Rota, — Cfr. Poesie cit. del 
#OTA ? II, p. 162. 



— 94 — 

Rota » dedicandolo a Vincenzo Carrafa, figlio del 
conte di Ruvo W. L'argomento, se non nuovo, era 
di moda. Negli ultimi anni del secolo XV e nei 
primi del XVI le nobili dame aveano avuto la 
mania dei medaglioni colle proprie immagini da 
mandarsi in dono alle amiche e ai cavalieri ( 2 ): pas- 
sata questa moda, venne quella delle Imprese W. 
Irene da Spilimbergo ( 4 ) « si dilettava molto, come 
dice la sua vita, di fare imprese negli abiti che 
ella portava e nei lavori e in altre cose che spesso 
donava. Per le quali con ingegnosa inventione ad 
alcuno scopriva, ad alcuno nascondeva le sue in- 
tenzioni e i suoi pensieri, o sotto forma d'ani- 
mali o sotto la vaghezza d'un fiore, o sotto la 

vista di vari colori o altra cosa trovata da lei, 
aiutando quello che non poteano esprimere intera- 
mente le cose sole con poche e brevi parolette, le 
quali o trovava da sé o voleva che fossero com- 
poste da' primi letterari della città ». Si volevano 



(1) Cfr. Ammirato, Opusc, I, p. 354 e segg. 

(2) Valenti artefici furono a ciò impiegati, quali Vittor Pi- 
sani e Matteo da Pasti. — Cfr. R. Erculei, Una dama romana 
nel XVI secolo, in N. A., CXXXVI, p. 687 e segg. 

(3) Cfr. Domenichi, Ragionamento nel quale si parla d'imprese 
d'armi e d'amore. Lione, Rovillio, 1559. 

(4) Cfr. la sua vita in Rime di diversi nobilissimi et eccellentis- 
simi signori in morte della S. Irene da Spilimbergo. In Venezia 
apresso D, G. Guerra 1581, 



— 95 — 

ricamare sulle accollature e sulle maniche delle 
vesti, e celebri son quelle portate da madonna 
Bianca d'Este e da Taddea donzella di Beatrice W. 
Spesso i ricamatori aveano dinanzi disegni tracciati 
da grandi artisti, e il Giovio ricorda l'impresa del 
signor Girolamo Adorno « disegnata a colori dal 
chiarissimo ms. Tiziano, fatta di bellissimi ricami 
ad intaglio dall'eccellente Agnolo da Modena rica- 
mator veneziano ». Alle virtù della dama ( 2 >, alle 
sue sventure, alla sua bellezza si alludeva comu- 
nemente nelle imprese; ne usavano i cavalieri: l'in- 
namorato per manifestare i propri pensieri, il se- 
vero e marziale per ricordare il proprio valore 0*). 
Scendendo nei torneamenti per far mostra non di 
ardimento, ma di leggiadria ( 4 \ i cavalieri porta- 
vano rilucente sulla bardatura del proprio cavallo 
la impresa, il corpo e V anima della quale avea 
trovato per lui un letterato cortigiano e suo amico. 
Tutti i poeti e i letterati di quella età s'adattarono 



(1) ffr. Erculei, op. cit., p. 688. 

(2) Eleonora di Toscana fece dipingere per propria impresa 
la figura di Lucrezia col motto: Famam servare memento. 

(3) Gfr. il Ragionamento delle imprese di M. Paolo Giovio, in 
Bibl. rara del Daelli, V. 

(4) Il Maranta dice che si esercitavano nelle armi non per 
la guerra bensì beli or um simulacri* ad vohtptatem solarti excogita- 
Vis contenti. 



— 96 — 

a fare imprese, tutti dovettero frugare nei classici 
alla ricerca di una frase, di un motto che illu- 
strasse il dipinto ; e spesso si lamentano per avere 
esaurito ogni materia (*). 

Di importazióne francese, questa, chiamiamola 
cosi, scienza fu coltivata in Napoli specialmente 
sui principi del XVI, e ne fu maestro Marcantonio 
Epicuro ( 2 ) del quale non parleremo, notando solo 
che egli lasciò vivissimo ricordo di sé negli amici di 
Napoli, i quali ne invocavano l'autorità nelle loro 
dispute. L'Ammirato in uno dei suoi ritratti dice di 
lui: ebbe grazia et destrezza grandissima in far 
imprese et forse non è stato uomo che abbia corso 
questo arringo mèglio di lui, e alle norme e alle 
regole da lui dettate in questa materia quantun- 
que non lasciasse alcuno scritto nell'argomento, si 
uniformarono quanti contemporaneamente e dopo 



(1) Cfr. Lettere del Caro, ed. cit., II, p. 41, 153 ecc. Sull'uso 
principalmente dei colori e dei simboli vedi l'accuratissimo 
studio di A. Salza — Imprese e divise eT arme e d'amore nel- 
V Orlando Furioso con notizia d'alcuni trattati del 500 sui colori 
t- in Giorn. stor. leti, U., XXXVIII, p. 310 e segg. 

(2) Di lui, con gran cura e compiutezza, ha scritto il prof. 
Percopo, specialmente rilevando la fede che meritano le noti- 
zie dell'Ammirato. — Cfr. Percopo,- Marcantonio Epicuro, in 
Giorn. stor. htt. it., XII, p. 37, dove scagiona l'Ammirato delle 
accuse di inesattezza mossegli dal Palm a «ini in Scelta di curios, 
lett. } CCXXI. 



- 97 — 

ia Napoli specialmente ne trattarono C 1 ).- A ciò si 
aggiunga che eoo molti frequentatori di casa Rota 
egli era stato in grandissima amicizia, anzi il Rota 
stesso l'avea accolto per lungo tempo presso di sé» 
Quando adunque a Mone comparvero i trattati 
del Giovio e del Domenichi ( 2 ), nei quali quello, che 
aveagià deriso l'Epicuro per aver preso d,a vec- 
chio una moglie giovane in una lettera al Caro 
certo non sconosciuta, toglieva ora a lui la prece- 
denza, come già all'Alenato la gloria, in questo 
ramo dello scibile cinquecentistico, era naturale che 
qualcuno insorgesse e protestasse. E questi uscì dal 
gruppo dei letterati della villa di Piedigrotta, e fu 
l'Ammirato il quale nel ritratto dell'Epicuro rin T 
tuzzò lo scherno del Giovio sul matrimonio di lui < 3 ), 



(1) Cfr. Dialogo del Rota cit., p. 372, e Percopo, L'umanista 
Pomponio Gaurico. Napoli, Pierro, 1895, p. 81 e 199. 

(2) Cfr. per le varie edizioni del Giovio, Camerini, Nuovi pro- 
fili letterari, Milano, Battezzati, 1876, IV, p. 79. — Una edizione 
del Giovio col ragionamento del Domenichi comparve a Lione 
nel 1559 e questa certamente conobbe l'Ammirato. Infatti a 
pag. 392 accusa il Giovio di aver detto che chi non conosce 
Orazio non sa chi seguire, mentre il Giovio non nomina che 
una sola volta Orazio a p. 47 per rimproverare il Molza di 
avere usato un verso di lui accessibile solo ai dotti. E invece 
il Domenichi che magnifica Orazio a p. 181, e l'Ammirato con- 
fuse l'un con l'altro citando di memoria. L'ed. del '59 è sco- 
nosciuta allo Zeno e al Camerini. 

(3) Cfr. Opusc, II, p. 261, 



— 98 - 

e nel Dialogo delle Imprese riunì ed espose le re- 
gole insegnate dal maestro. L'intepto di porre in 
rilievo l'opera del dotto napoletano e di confutare 
talora con pungente acrimonia il Giovio appare in 
ogni pagina: di costui l'Ammirato ora rimprovera 
la trascuratezza, ora la confusione, e, dopò averlo 
accusato di plagio, scrive parole come queste: Oh 
quanta fatica si ricerca in questo luogo che non 
si inciampi nel goffo e non si facciano di quelle 
sciocchezze che racconta mons. Giovio (*). 

Vista cosi la probabile origine del trattato del- 
l'Ammirato, non ci mera vigileremo se egli non si 
preoccupi di ricercare quanti prima di lui abbiano 
trattato la stessa materia ( 2 ): egli non vuol fare 



(1) Cfr. DkU. cit., p. 883 e 888. 

(2) Oltre al Giovio e al Domenichi abbiamo: Le sentenziose 
imprese e il dialogo di Gabriel Simeoni, Lione, Roviglio, 1560; 
Costanzo Landi, Lettera sopra l'impresa di un Pino, Milano, An- 
toni, 1560. Né dopo l'Ammirato la- materia fu esaurita e qual- 
che nome non sarà inutile: Ragionamento di Luca Contile sopra 
la proprietà delle imprese con le particolari degli Accademici Af- 
fidati. Pavia, Bartoli, 1574. — Discorsi di Giov. And. Palazzo 
sopra le imprese. Bologna, 1575. — Imprese nobili e ingegnose di 
diversi prhtcipi ecc. di Ludovico Dolce. Venezia, Giolito, 1578. 
— Trattato di M. Franc. Caluracci da Imola, ove si dimostra U 
vero modo di fare le imprese. Bologna, Bossi, 1580. — Le imprese 
illustri di Girolamo Ruscelli aggiuntovi nuovamente il IV libro 
da Vincenzo Ruscelli da Viterbo. Venezia, Franceschi, 1584. — 
Imprese illustri di diversi coi discorsi di Camillo Camilli e con le 



— 99 — 

un'opera erudita, bensì rimettere in onore le dot- 
trine di un uomo morto a lui caro e da altri ca- 
lunniato. 

È il 10 aprile del 1562: una splendida giornata, 
ce lo dice lo stesso Ammirato, « ride ogni cosa, 
l'erbe, le fronde e i fiori mostrano allegrezza ». 
In casa di Bernardino Rosa sono accolti il Nini, 
il Cambi, il Maranta; allettati dalla serenità del 
cielo deliberano di uscire fuori di Napoli, ed ec- 
coli stipati nella carrozza del Rota alla volta della 
villa di lui. Il motto: mors una duóbus dà occa- 
sione alla disputa sulle imprese: si propongono di 
trattar bene l'argomento volendo narrarne poi al* 
l'Ammirato colla fiducia che questi lo metta in 
carta. Tratto tratto interrompon la disputa attratti 
o dalla magnificenza dello spettacolo, o dalla gran- 
diosità degli edifici 0-) o da qualche cavaliere ridi- 
colo nei suoi vestiti alla spagnuola o alla tedesca. 



figure intagliate in rame da Girolamo Porro* Venezia, Zi letti, 
1586. — Il Castiglione ovvero dell 1 armi di nobiltà del dialogo di 
Pier Grizzio da Iesi. Mantova, Osanna, 1587. — Vari discorsi 
e concetti di Giulio Cesare Giacobini intorno aWarmi di molte 
famiglie. Ancona, Salvioni, 1589. — Imprese di Scipione Barda- 
gli. Venezia, Franceschi, 1589. — Delle imprese, trattato di Giu- 
lio Ces. Capaccio sii tre parti diviso. Napoli, Carlino, 1592. — 
Tasso, Trattato delle imprese, in Vita del Solerti, I, p. 782. 

(1) Su di essi cfr. Capasso, art. cit., p. 158, 



, j j 



— 100 - 

Non esporremo minutamente ogni quistione, ma 
solo le ultime conclusioni a cui si arriva dopo 
lunghi dibattimenti. L'impresa deve esser formata 
di anima e di corpo, mediante i quali viene ad es- 
sere una significazione delia mente nostra sotto un 
nodo di parole e di cose. Né queste devon essere 
una dichiarazione di quelle né viceversa, ma unite 
insieme devono mettere in rilievo il senso riposto 
sotto il velame dell'impresa. I savi antichi trova- 
rono le favole poetiche per nascondere i precetti 
della scienza, i savi moderni hanno escogitato le 
imprese per occultare i propri pensieri. Che men- 
tre l'arme appartiene alla famiglia, l'impresa è 
una cosa tutta personale: e le imprese sono anti- 
che, gli antichi eserciti le usarono rappresentando 
l'animale prediletto dal Dio pel quale avean vinto (*). 
Il motto si può scriver da sé o si può cavarlo da- 
gli antichi autori, il corpo da qualunque oggetto 
e ciò secondo le idee dell'Epicuro C 2 > che è 

con illustre e. fortunato stile 
Hor fera, hor angue, or sasso, or pietra, or fiore 



(1) Per dimostrar ciò l'Ammirato sfoggia una larghissima 
erudizione, allegando Platone, Cicerone, Plinio, Tacito, Sal- 
lustio. 

(2) Trattandosi di animali o di alberi o di piante bisognava 
attenersi specialmente a quanto ne avea detto Plinio ritenuto 
il sommo dei naturalisti* 



— 101 r 

Fece parlar leggiadramente amore 
Novo di poesia fiorito aprile (1). 

L' impresa non deve essere un enimna^ bensì ge- 
nerare stupore, presentando il corpo e l'anima ora 
di genere affine, ora diverso. 

Ed ecco gli amici giunti, dopo aver pregato 
lungo la via in una chiesetta, alla villa del Rota, 
da lui con grave dispendio riordinata e rifatta. 
Davanti alla casa si. stendono ampie aiole, in mezzo 
alle quali si erge un busto di marmo, in onore di 
un servo africano del Rota che si chiamava Amore: 
un epitaffio dimostra come si possa nello stesso 
tempo servire ed esser padroni di Amore. Tutt' in- 
torno lungo il muro che cinge il giardino si ve- 
dono delle antiche iscrizioni rinvenute sul luogo e 
conseryate, ed alcune statue di squisita fattura. 

Entrati in casa (tutta la villa ed il giardino son 
ordinati cosi come Columella e Palladio insegnano) 
ammirano le bellissime imprese trovate dal Rota 
o fornitegli dagli amici e tutte in memoria della 
moglie ( 2 ). Dalla terrazza ammirano l'incantevole 
panorama, mentre il ghiotto Maranta dichiara che 



(1) Bota, op. cit.j I, p. 36. 

(2) Anche il Giovio aveva adornato tutta la casa con le im- 
prese di suoi signori ed amici. Cfr. Domenichi, op. cit., p. 99. 



— 102 — 

lo" troverebbe più bello se fosse allietato da un 
pranzetto all'aperto. 

Ma a furia di girare han fatto tardi e, risaliti 
in carrozza, ritornano a Napoli. La discussione sulle 
imprese non è stata mai interrotta: han parlato 
della difficoltà che si prova nello spiegarle ed han 
conchiuso che l'autore di esse non deve preoccu- 
parsi se il volgo lo intenda o ho. 

Mentre girano lungo il Castel dell'Uovo e il molo, 
non essendo ancora Torà del pranzo, ammirano la 
bellézza di quel sito, cho il viceré stava abbellendo 
con l'erezione di fontane 0) e di edifizi e discuton 
frattanto delle imprese senza motto. Finora ha fatto 
le spese della conversazione l'Epicuro; ora che si 
viene a parlare delle fonti da cui si possono attin- 
gere i corpi, il Caserta fornisce tutti gli argomenti : 
il Cambi anzi riferisce tutto intero il discorso fat- 
togli da questo letterato. Dall'arte, dalla natura, 
dalle favole, dalla storia si possono trarre i sog- 
getti delle improse, « ma più sicura fonte è quella 
della natura e più ricca e più ampia e, quel che 
più importa, meno calcata da orme volgari e ple- 
bee ». Ad onore del Caserta ( 2 ) si esaminano al- 



ci) La fontana del molo eretta dal duca d'Alcalà è descritta 
dal Sum monte, Storia di Napoli cit., I, p. 251. 

(2) Cfr. Dia?, cit., pag. 495-505» Il Caserta è chiamato per- 



- 103 - 

cune sue imprese; durante tutto il dialogo or l'uno 
or l'altro degli interlocutori ha ricordate le pro- 
prie. La penultima parte del dialogo è riserbata 
alle imprese ridicole, a quelle cioè, secondo pure 
credeva il Giovio, in cui l'oggetto dipinto espri- 
meva anche il motto; nient'altro che i nostri mo- 
derni rebus. 

L'ultimo posto serba l'Ammirato alle proprie 
imprese: quantunque qua e là ne abbia preceden- 
temente nominate. Anche a lui i signori avean so- 
vente ricorso per' averne, le dame gli aveano con- 
fidato i loro nascosti pensieri, egli ne avea offerte 
tante spontaneamente W. 



sona dotta ed erudita ed autore di molte imprese lodate per 
belle e spiritose. 

(1) Iti portiamone qualcuna: a Placido di Sangro, che da 
Carlo V avea ottenuto la revoca dell' Inquisizione da Napoli, 
volendo rappresentare il suo disinteresse fece l'icneumone che 
rompe le uova dei coccodrilli pel bene degli uomini col motto : 
Facti fama tot eri. A Giulio Gesualdo, che l'avea richiesto di 
un'impresa denotante la costanza, fece il libro che non lascia 
l'osso se non lo ha rotto colle parole: Os aut os. Pel marchese 
di Tùrremaggiore che ardeva d'amore rappresentò la lucerna 
di Callimaco ; per Marcantonio Colonna che nella lotta contro 
il papa era uscito sempre vittorioso, l'elee che, tagliata, più 
cresce, col motto: per damna per caedes; per un altro innamo- 
rato, Antonio Metrano, l'asta d'Achille con le parole: vulnus 
opemque gerit ; per un altro innamorato di una signora Adriana, 
il mare adriatico col motto: immergar aut eniergam, — I motti 



- 104 - 

Non tutto son felici o ingegnóse; ciò malgrado 
l'Ammirato non è parco di lodi alla sua perspicacia. 
* Certo, fa dire di una sua impresa al Rota, non è . 
men bella questa per grave e militare, che fu l'al- 
tra per dolce e amorosa, et 1* una et l'altra mi par 
dolce et grave insiememente »; un'altra la giudica 
bellissima, e altrove dice di meritar un elogio per 
la eccellente composizione ( 1 ). 

Il rapido esame fatio dello scrìtto dell'Ammirato 
persuade facilmente che nulla di nuovo egli porta 
in ciò che riguardava le regole generali per la 
composizione di un'impresa. Quel che il Giovio, il 
Domenichi, il Simeoni avean detto prima di lui, egli 
ripete per dimostrare che l'Epicuro prima di loro 
avea dato quelle norme ai suoi discepoli e le avea 
applicate alle sue numerose produzioni in questo 



dell'Ammirato son tolti quasi sempre da Virgilio. « L- altro dì, 
racconta il Maranta, essendo nella sua camera io gli vidi quasi 
un libretto di mezzi versi et di due o tré parole di quel divino 
poeta molto belle con infinite brevi storiette d'uccelli e di fiere 
e di pesci e d'erbe è d'altre cose cavate da istorie e da favole, 
et dimandandolo che facea di quelle, disse: Questa è la mia 
guardaroba, sig. Maranta, perciocché subito che alcun mi ri- 
chiede qualche impresa io ricorro a questo libro, et non vi ho 
da fare altro che maritare ed accoppiare insieme il corpo con 
l'anima. E dicendogli: perchè sol di Virgilio? Questa è lamia 
anima, egli rispose, né volendo mi saprei partir da Lui > p. 533. 

(1) Cfr. pag. 523-5-8/ 



— 105. — 

secco ramo dell'araldica. E un'opera tutta di riven- 
dicazione, nella quale non è da cercare né origina- 
lità né "novità, ma solo l'affetto per un uomo ve- 
nerando e il disgusto per i suoi detrattori (*). Non 
per questo però il dialogo dell'Ammirato perde la 
sua importanza. Le imprese del Giovio si leggono 
ancora, perchè in esse quasi in una danza fanta- 
stica ci passan davanti dame e personaggi, quelle 
dell'Ammirato ci rappresentano una gran parte 
della vita napoletana e danno allo studioso una 
ricca insolita messe di episodi, di notizie, di ritratti 
in quel periodo tanto notevole della storia delle 
Provincie napoletane. Titolati di nobiltà secolare, 
gente venuta dal basso e che con blasone comprato 
cerca di legittimare la sua arroganza, uomini illu- 
stri nella loro vita intima, coi loro amori, colle loro 
frivolezze, letterati affannantisi per trovare un'im- 
presa che appaghi il gusto non sempre facile di 
questo è di quello, tutto questo mondo ci passa da- 
vanti leggendo il dialogo dell'Ammirato. 

Purtroppo quello che era costretto a fare nella 
vita, fa anche in questo scritto: a piene mani egli 
distribuisce lodi e a questo e a quello; bisogna con- 



ci) Non consegui però l'Ammirato il suo scopo e anche dopo 
la pubblicazione del suo libro al Giovio fu dato il primo posto 
nel genere delle Imprese, Cfr. Capaccio, op. cit., pag. 1592. 



- 106 — 

venire che, accanto al proposito di far rinverdire 
la memoria dell'Epicuro, l'Ammirato nutrisse l'al- 
tro di Solleticare la vanità di chi potea giovargli. 
Anche il Giovio e il Do me ni chi avean profuso lodi 
a chi portava le insegne da loro descritte, ma 
quanto sono meno temperanti dell'Ammirato! Già 
si sa delle due penne del Giovio, d'oro l'una, di 
ferro l'altra; del nostro non si può dire altrettanto, 
in esso l'adulazione non è mai falsità. Se la storia 
ha tolto dal loro piedistallo molti dei suoi eroi, se 
ne ha sepolto altri nell'oblio, non si può rimpro- 
verare all'Ammirato d'averli esaltati, chò l'opinione 
dei contemporanei li stimava grandi e pari a tante 
fenici. 

Il dialogo dell'Ammirato fu accolto con gran fa- 
vore: il Caro in una lettera dell'ottava di Pasqua 
del 1562 scriveva al Cambi: « Altro non m'occorre 
se non gli pregarvi a far riverenza in nome mio al 
signor Rota ed agli altri che sapete esser miei si- 
gnori, e spezialmente al signor Ammirato, ringra- 
ziandolo del libro delle imprese che ha fatto donare, 
e dell'onorata menzione che vi ha fatto di me, ral- 
legrandomi ancora seco della molta lode che gli 
sento dare da tutti che lo leggono » (*). Luca Anto- 
nio Ridolfi, scrivendo allo stesso Cambi, dice di aver 



(1) Cfr. l'ed. Cominiana delle Lettere, II, pag. 277. 



— 107 — 

letto il libro quasi in un sorso bevendolo, e d'a- 
verlo trovato molto bello e piacevole sopratutto pel 
modo con cui è condotto il dialogo, nel quale chi 
parla non ha solo uditori che assentono, ma anche 
contradittori che oppongono 'e non cedono facil- 
mente ( 1 ). 

Ma non mancarono i malcontenti. Parlando nel 
dialogo il Cambi di un'impresa fatta da Cesare Gallo 
per la signora Felice Orsini e rappresentante la 
felce col motto ita et re, la dice più di buon au- 
gurio che bella. Il Gallo, segretario di Marcanto- 
nio Colonna, marito della Orsini, scrisse al Cambi 
una lettera che, ad argomentarlo dalla risposta, 
dovette essere molto aspra: « L'autore, dice Al- 
fonso scusandosi, mi è amicissimo, delle cose che 
nel libro si contengono ne ho ragionato molte volte 
seco, di parte di esse gli ho dato notizia ed in al- 
cune egli ha seguito il parer mio, ma dall'altra 
banda essendo il libro suo l'ha fatto a suo modo, 
e quando l'avesse fatto tutto a modo mio, non 
avrebbe certo lodato o almanco sotto la persona 
mia certi che egli loda. Non mi avrebbe fatto 
chiamar pazzo, non m'avrebbe comparato a quello 
imperatore, ecc. » ( 2 ). Il libro poi, continua, fu stam- 



(1) Cfr. Raccolte di lettere del Pino, IV, pag. 156-7. 

(2) lbid., IV, pag. 173. 



— 108 — 

pato in fretta né fa riveduto dall'autore, che d'al- 
tra parte avea il diritto di non rimaner contento 
di qualche impresa; tuttavia la maggior colpa bi- 
sognava darla alla fretta ed alla trascuratezza* 1 ). 
Quasi quasi il Cambi, non n'era rimasto troppo 
contento nemmeno lui! 



* 



Stava cosi l'Ammirato a Napoli, quando fu ri- 
chiamato dal padre, il quale, dopo la morte del fra- 
tello Orazio, temendo che la famiglia non si ve- 
nisse a spegnere, come di fatto si spense, voleva 
dargli moglie. Racconta il De Angelis< 2 ) che stando 
Scipione il giorno prima della partenza con Alfonso 
Cambi e vedendo passare G. Manfrino, che avea 
fama di chiromante, lo chiamò, e questi, guardando 
le sue mani, gli prognosticò che non si sarebbe 
ammogliato. Cosi avvenne: giunto a Lecce sor- 
sero tante difficoltà che le nozze andarono a monte. 



(1) I posteri hanno stimato molto il libro dell'Ammirato: il 
Capaccio, op. cit., dice che diede buona certezza delle imprese. 
Durante il regno di Luigi XIV ebbe l'onore di una versione 
francese fatta da un canonico di Liegi per dimostrare che l' im- 
presa assunta da Luigi (il sole col motto : nec pluribus impar) 
era stata prima di Filippo II. Cfr. Mazzucchellt, Scrittori d'/- 
talia, I, pag. 641. 

(2) Vita, pag. 84. 



— 109 — 

Rimase alcun tempo in patria, poi, avendogli il Ca- 
serta, forse dietro sue premure, proposto di passare 
ai servigi del marchese di Vito Antonio Caracciolo 
con duecento scudi di salario e col titolo di can- 
celliere, accettò. Si recò a Napoli, ma il marchese 
voleva che svestisse l'abito da prete, egli rifiutò e 
rimase cosi di nuovo senza protettori ( ] ). Ferrante 
e Vincenzo Carrafa gli diedero ospitalità; per poco 
però, che, essendo stato richiesto da Giovan Galeazzo 
Pinello se volea recarsi al servigio del marchese 
Squarciafico di Galatone, borgata allora del Lec- 
cese, tornò in patria e stette alcun tempo col nuovo 
padrone. Quando questi, visitate le sue terre, tornò 
a Genova, l'Ammirato non volle seguirlo e rimase a 
Lecce, ove nell'agosto del 1563 venne delegato dal- 
l'università a recarsi a Roma per sostenere presso 
il papa le ragioni del convento di S. Chiara, ove 
le sorelle sue erano rinchiuse. La cura del mona- 
stero era affidata ai frati, da ciò nascevano con- 
tinui scandali; l'Ammirato dovea fare in modo che 
questa cura fosse affidata al vescovo. In pari tempo 
il convento di S. Giovanni gli dava incarico di ot- 



(1) Cfr. Fani. nob. napol., I, pag. 48 e 1*24. Di questo mar- 
chese decanta la magnificenza: « Io non vidi mai signore al- 
cuno nel nostro reame con maggior favore e seguito di costui... 
egli si facea poi servire non a guisa di signore ma di principe, 
volendo al servigio suo persone di conto ». 



- 110 - 

tenere che la badessa meglio che perpetua fosse 
triennale. Passando da Napoli egli si fermò a sa- 
lutare gli amici, e si munì di lettere commendatizie 
del cardinale Alfonso Carrafa, che allora reggeva 
il vescovado napoletano ed aveva interesse che an- 
che da alcuni monasteri della sua diocesi si to- 
gliesse la giurisdizione fratesca. A Roma fu ospi- 
tato da un ms. Piersanti, a cui il Carrafa l'avea 
raccomandato; trovò lieta accoglienza presso mons. 
Saracino e mons. da Carpi, i quali, persuasi della 
convenienza della domanda di lui, gli promisero 
ogni aiutò presso la S. Sede 0). Lieto di ciò l'Am- 
mirato il 18 settembre del 1563, scrivendo al Car- 
rafa, lo incitava a far venire da Napoli un nunzio 
per perorare insieme la medesima causa. Sia per il 
suo zelo, sia per l'intercessione di molte Eminenze 
il convento fu tolto dalle. mani dei frati ed affidato 
allo cure dei vescovo <2\ 



(1) II da Carpi era protettore dei frati : ma a tanto era giùnta 
la. sfacciataggine di quelli che, dice l'Ammirato: e dopo aver- 
mi assai bene et pazientemente ascoltato, mi disse che quando 
io avessi proseguito a parlar tutto di de casi loro non havrei 
detto la millesima parte di quel che ei ne sapeva ». 

(2) Soi pione fu benefattore del Convento di S. Chiara. Una 
epigrafe posta dietro l'aitar maggiore della chiesa conventuale 
lo ricorda. Essa dice: Virgilia Ammirata Florentinae nobilitatis 
flore lectùfsima, cuius maiores Ghibellinae factionis invidiae deceden- 
te* fortunarum suarum doviicilium Lupus coHocQrunt Magni illiu# 



— Ili — 

Sbrigata a Roma ogni faccenda, in% r ece di tor- 
nare direttamente a Lecce, votle recarsi prima a 
Venezia e poi colà imbarcarsi per Brindisi : « Giunto 
in quella città fu onorevolmente ricevuto da quei 
letterati che egli avea altra volta conosciuto, onde 
si trattenne alcuni mesi (0. Tornato a Lecce vi di- 
morò breve tempo: gli amici di Napoli, facendogli 
balenare grandi speranze di ottimo trattamento, 
lo richiamarono ed egli li raggiunse verso la fine 
del 1564, Fu ospitato dai Carrafa, riprese a fre- 
quentare la compagnia del Rota, e così lo vediamo 
interlocutore nelle Qaestiones Lucullianae del Ma- 
ranta(§). Queste non sono altro in fondo che un 



Thomae Ammirati consanguinea, qui Lupiensis Diocaeseos Anlixtes 
Clarae sanclissiniae virginia nomini templum hoc exlruxit aedesque 
tempio contiguas suis mmptibus exidificatas virginibus eiwt attribuii» 
Sciplonid Ammirati lectiasimi viri oc politissimi scriptoris qui eiusdem 
templi reditus auxit coniunctissima soror Sacellum hoc a fondamenta 
excitavit egregiisque operibus instruxU anno d&nini 1630* Questi 
meriti ch'Ammirato furono riconosetttti, e l'Infantino ci dice 
che ancora ai suoi tempi (verso il 1634) a* 29 di gennaio si fa- 
ceva un anniversario per l'anima dell'abate Scipione « come 
insigne benefattore di questo convento, dove interviene tutto 
il capitolo di questa città... con l'intervento anche del sindico 
della città al quale medesimamente si danno due scudi. Cfr. 
Infantino, op. cit., pag. 137. 

(1) Cfr. De àngelis, op. cit., pag. 90. 

(2) Bartholomaei Marantae Venusini, op. cit. — Il Maranta 
fu anche autore di medicina: Methodum suam semplicium medi- 



— 112 — 

esame di tutte le teoriche della poetica secondo 
quel che ne dicono Platone e Aristotile, applicate 
al poema virgiliano. La disputa avviene nelja villa 
di Ferrante Loffreda, detta Luculliana* e vi par- 
tecipano oltre all'Ammirato W il Cambi, Girolamo 
Colonna e il Ciccarello. li nostro sostiene la parte 
più notevole del dialogo, come quegli che per la 
lettura di Platone avea acquistato una ampia co-' 
noscenza delle opinioni e delle sentenze del grande 
filosofo ( 2 ). 

Il 26 ottobre del 1565 veniva eletto arcivescovo 
di Napoli Mario Carrafa <P) f che già vedemmo pro : 



camentorum e vai gai uni inscripsit, anno MDLVIII. Cfr. Vita loan- 
nis Vicentii Pinelli Patricii genuensis auctore Paolo Gualdo patri- 
eh vicentino. Augustae. Vindelicorum ad insigne pinus, MDCVIII, 
pag. XXVIII. 

(1) L'Ammirato entra nel secondo dialogo, essendosene an- 
dato per alcune faccende in Puglia Giovanni Villani. Di lui si 
dice nel dialogo: Tua poemata in Hetrusca lingua prescripta fir- 
missimo siint omnibus testimonio f quantum tu in rebus poeticis profe- 
cerisy pag. 83. 

(2) I tre fratelli Capilupi erano Ippolito, Lelio e Giulio. — 
Cfr. Laeli Capilupi, Centones ex Virgilio, Romae, Lelio ti, 1590. 
Fa parte dei Capiluporum Carmina nella medesima edizione. 

(3) Grandissime son le lodi fatte a questo arcivescovo da 
chi scrisse della diocesi di Napoli. Il Chioccarello dice che era 
laude dignus praelatus in colloquis quoque famigliaribus gratus oc 
lepidtis, amicis iucundus, virtuosis viris fautor, pauperibus libera- 
lis etc. Cfr. Bartolomeus Chioccarello, Antistitum praeclarissi- 
mae Napolitanae ecclesiae catalogus, Napoli, Savio, 1643, pag. 343, 



— 113 — 

• 

tettare di Scipione. Egli, dimenticando alcuni dis- 
sidi sorti tra loro qualche anno prima, lo volle te- 
nere con so, e lo condusse a Roma nel gennaio 
dell'anno seguente quando fu eletto papa Michele 
Ghislieri col nome di Pio V. Ci narra anzi l'Am- 
mirato d'aver appreso in questa circostanza una 
grande verità, che abbiamo rinvenuta notata in un 
suo manoscritto C 1 ): « Io mi trovavo in Roma nella 
creazione di Pio V con Mario Carrafa arcivescovo 
di Napoli, il quale mi disse una mattina queste pa- 
role: il cardinale Farnese mi ha detto: monsignore, 
chi non può far cavalli faccia poliedri, come ho 
fatto io che non potendo far mons. Maffei cardi- 
nale, l'ho fatto datario. Né era Farnese si ignorante 
delle cose del mondo, che non sapesse molto bene, 
che non era per fargli Pio di primo colpo Maffei 
cardinale, ma chiese il più perchè ottenesse il meno 
et fece in guisa che ivi a non molto tempo per 
quello scaglione il condusse in ogni modo alla di- 
gnità del cardinalato ». 

In questa circostanza conobbe l'Ammirato molti 
eminenti prelati e sedette alla mensa dei cardinali 
Castiglione e Crivello, ottenendo da loro ogni sorta 
di favorevoli proteste. 



(1) Cfr. Bibl. naz. di Firenze, Mgl. XXX-8-245, e. 129 r. 



- 114 - 

Verso la metà dell'anno 1568 ritornò a Roma 
per sostenere le ragioni dell'arcivescovo Carrafa a 
torto accusato dal viceré. Non sappiamo veramente 
di che si trattasse ; l'Ammirato stesso, che ci dà 
notizia di questa sua missione (*), non ce ne dice 
nulla, né la ricordano gli autori di storia ecclesia- 
stica napoletana. Probabilmente a Perafan de Ri- 
vera non piaceva l'opera di restaurazione e di ri- 
forma dei costumi iniziata dal Carrafa e la sua 
energia nel riabilitare la potenza sacerdotale C 2 ). 
Recandosi a Roma l'Ammirato si fermò a Gaeta, 
dove Luigi Tansillo, da lui forse già conosciuto a 
Napoli, tenea l' ufficio di capitano di giustizia ( 3 ). 
Questi lo ospitò, e gli fece vedere le Lacrime di 
S. Pietro scritte in tanti « cartocci che Apolline 



(1) Cfr. Parallelo LX1 in Opusc.j I, pag. 216. 

(2) V. Chioccarello, op. cit., pag. 348. Di Perafan de Rivera 
l'Ammirato ci ha lasciato un ritratto, nel quale loda la sua 
giustizia, la sua ospitalità, ne biasima il vizio del giuoco e l'aver 
rubato molte cose antiche del regno per mandarle nelle sue 
terre. Cfr. Opusc, II, pag. 237. 

(8) Del Tansillo ci ha lasciato il ritratto in Opuscoli, II, 
pag. 256. « Fece la sua vita a Napoli caro alla casa di Toledo 
più per la destrezza d'ingegno che per molta cognition di let- 
tere ». Lo scagiona dell'accusa di scostumato ed impertinente 
fattagli per la composizione del Vendemmiatore e ne rimpiange 
la perdita, non certo immatura ma tuttavia molto dolorosa » . 
Per il Tansillo v. la bella monografìa del prof. Flamini. 



— 115 — 

non li avrebbe rinvenuti » oltre a quella parte che 
gli recitò a memoria e che non avea scritta. Sci- 
pione lo incitò a distendere e ad ordinare l'opera 
sua; e fu utile consiglio, che pochi mesi dopo, nel 
dicembre, il Tansillo mori. Alcuni anni più tar- 
di poi, nel 1585, l'Ammirato stesso vide con pia- 
cere la pubblicazione delle Lacrime curata dall'At- 
tendolo, dalla quale, quantunque questi ritoccasse 
alcuni luoghi e aggiungesse delle strofe, tuttavia 
risaltavano i pregi della poesia Tansilliana C 1 ). « Non 
potrebbe V. S., scriveva l'Ammirato, di gran lunga 
stimare con quanto contento sto aspettando le La- 
crime di Pietro, poiché in un certo modo posso io 
chiamarmi causa di questo bene che siano in luce, 
avendo confortato il signor Tansillo poco prima che 
morisse a metterle insieme » ( 2 ). Avendole poi rice- 
vute nel febbraio dell'anno seguente ne tornava a 
scrivere: « Non ho potuto contenermi di non leg- 
gerle in trenta ore, ancorché abbia avuto a dirmi 
l'ufficio e fare l'altre cose opportune alla vita. Mi 



(1) Queste aggiunte dell'Attendolo furono eliminate nella 
edizione del poemetto fatta nel 1606 da Tommaso Casto, il quale 
dichiara di ristamparlo « su di una copia intera di esso trovata 
dopo la stampa dell'Attendolo ». Cfr. Le lacrime di S. Pietro 
del sig. Luigi Tansillo etc, in Venezia appresso Barezzo-Ba- 
rezzi, MDCVI. 

(2) La lettera è in Solerti, Vita del Tasso, II, pag. 219. 



— 116 — 

han cavato le lacrime dagli occhi in tanta abbon- 
danza che è una meraviglia » (*). 

A Roma Scipione trovò ottima accoglienza presso 
Pio V, che, creatura di Papa Paolo IV, era favo- 
revolissimo ai Carrafa ( 2 ): fece la sua ambasciata, 
ed ottenne dal pontefice la desiderata discolpa pel 
vescovo ( 3 ). Ma a Napoli non tornò più : le molte 
amicizie contratte nel collegio dei cardinali gli fe- 
cero sperare un protettore, e non piccola fiducia 
ripose anche nel papa ( 4 >, di cui volle lasciare note- 
vole giudizio in uno dei ritratti. Né sperava invano, 
che della sua benevolenza avea avuta una prova 
quando, procurando il papa un* edizione delle opere 
di S. Tommaso, lo avea chiamato a collaboratore ( 5 ). 

All'Ammirato però non fu dato di trovare un pro- 
tettore certo e durevole, presso del quale potesse 
menare una vita tranquilla e sicura; ed allora pensò 
di ricorrere a Firenze, dove lo splendido governo 
di Cosimo gli faceva sperare pace, protezione e un 



(1) Cfr. Solerti, op. cit., pag. 250. 

(2) Cfr. A. Biànchi-Gtiovinj, Storia dei Papi, Milano, San v ito, 
1873, Vili, pag. 32. 

(3) Cfr. Parallelo LVI in Opusc, I, pag. 716. 

(4) E c'era da sperare: dice di lui il Ciccarelli, che ne 
scrisse la biografia: « Amò sopra modo i virtuosi e valenti 
uomini e fu avido di onorarli e di tirarli a maggior dignità e 
splendore ». Cfr. Bianchi-Giovini, op. cit., pag. 39. 

(5) Cfr. Fara, Nap., pag. 153. 



— 117 — 

lavoro onorevole e stimato. Perchè mai l'Ammi- 
rato, malgrado gli onori e le carezze dei cavalieri 
napoletani, si alienò totalmente da essi tanto da 
non tornar più a Napoli? È dal 1564 al 1568 a 
quali studi attese ? A dire il vero i napoletani non 
aveano fatto che pascerlo di speranze belle e lu- 
singhiere : perciò tanto più doloroso era il vederle 
svanire. Durando alcune controversie fra il governo 
regio e la sede Apostolica, egli avea rinvenuto al- 
cuni documenti favorevoli al primo: perciò in pre- 
mio gli fu promessa una pensione da prelevarsi 
dalle entrate del re. Il signor Carlo Caracciolo pro- 
pose che col titolo di segretario della città gli ve- 
nisse data una mediocre provvisione affinchè potesse 
attendere alla composizione della storia di Napoli 
e delle sue famiglie nobili; Ferrante Loffredo se- 
condò questa proposta, aggiungendo che alle en- 
trate regie si sottraessero diecimila scudi e colla 
loro rendita lo si stipendiasse come storiografo uffi- 
ciale. Nessuna delle promesse fu adempiuta, e l'Am- 
mirato, sfiduciato, colse l'occasione del viaggio a 
Roma e non tornò più a Napoli (*). 



(1) Il padre Negri adduce come causa dell'allontanamento 

dell'Ammirato da Napoli l'offesa ricevuta dal governo, che non 

volle approvare la pubblicazione della storia di quella città 

dall' Ammirato composta. Cfr. Storia degli scrittori fiorentini del 

P. Giulio Negei ferrarese, Ferrara, 1722, pag. 492. 



— 118 — 



IV. 



Le Storie di Napoli. — Ragioni dell'opera, fonti, contenuto e 
giudizi principali. 

Il ras. XXIV-10-666 della Nazionale di Firenze, 
proveniente dall'Ospedale di S. Maria Nuova, è un 
voluminoso autografo dell'Ammirato, che contiene 
alcune parti della storia di Napoli. Esso si intitola: 
Delle antiquilà del regno di \ Napoli \ dopo che 
cadde il Romano | Impero \ et de suoi re et delle 
famiglie \ nobili napoletane \ di Scipione Ammi- 
rato | parte prima. Vastissimo era dunque il di- 
segno dell'Ammirato: descrivere la storia militare 
e la civile, le guerre coi nemici esterni e le lotte 
tra i piccoli baroni, tra famiglia e famiglia, la 
vita dei grandi re e quella di ogni feudatario di 
una qualche importanza. Di storie notevoli ed or- 
ganiche del regno di Napoli, fino alla metà del 
secolo XVI non si aveano che quella del Riccio in 
latino e l'altra del Collenuccio C 1 ) in volgare, che, 



(1) Compendio delle historie del regno di Napoli composto da 
riesser Pandolfo Collenuccio iurisconsulto in Pesaro. In Venetia 
MDXLI. Con privilegio del sommo pontefice Paulo terzo e de 



— 119 — 

dice l'Ammirato, potea essere scritta con maggior 
diligenza e verità ( l ). Il giudizio è giusto, ma d'al- 
tra parte è degno di lode quell'autore che primo 
tentò di riordinare un materiale arruffato e con- 
fuso, sparso in cronache sconnesse e frammentarie. 
Egli stesso, il Collénuccio, non si era dissimulata 
una sì grande difficoltà: « io, scrive infatti, volen- 
tieri ho assunto la provincia e confesso tal histo- 
rie essere intricatissime e varie e disperse e per 

questo laboriose e moleste a ridurle a ordinata 
narratione. Nondimeno il farlo volentieri e deiet- 
tarmi ne l'opera pel studio di piacere ogni fatica 
mi sarà leggera » ( 2 ). Quanto l'opera sua giungesse 



la Cesarea Maestà et de lo Illustrissimo Senato Veneto per anni 
dieci. — La storia del Collénuccio va dall'era volgare fino ai 
primi anni del re Ferdinando I d'Aragona, ed è divisa in 6 libri. 

(1) E soggiunge: « Ma il non aver quel nobilissimo regno 
havuto mai scrittura d'alcun conto, fa che insino a questi di 
sia libro desiderato. — Cfr. Opusc, II, p. 245. 

(2) Cfr. op. cit., e. 1 t. La povertà delle fonti è attribuita 
dal Collénuccio alla incuria dei Napoletani, che, tutti intenti 
alle guerre e travagliati da esili ed inquietudini, non han pen- 
sato a porre in carta le loro gesta e di più all'opera devasta- 
trice degli incendi e delle rapine. Op. cit., e. 2 r. Intorno alla 
storia di Pandolfo, cfr. Saviotti, Pandolfo Collénuccio umanista 
pesarese del sec. X V {Annali della R. scuola normale, Pisa, Nistri, 
1888, p. 205 e segg.). I pregi del Collénuccio erano già stati po- 
sti in luce dal compianto Capàsso, Le fonti della storia delle Pro- 
vincie napoletane dal 568 al 1500, in Arch. stor. per le prov. na- 
poletane, II, p. 29. 



— 120 — 

a tempo, quanto se ne sentisse il bisogno, allora che 
ogni altro Stato d'Italia avea avuto i suoi croni- 
sti ordinati ed esatti e i suoi storici agghindati 
alla latina, è provato dalle undici edizioni fattene 
nella sola prima metà del secolo XVI. 

A confutare la storia del Collenuccio 0-) il Co- 
stanzo attendeva, dice egli stesso ma con poca 
verità, sin dal 1527, confortatovi dal Sannazaro. 
Oltre alle notizie non vere, lo avean colpito in 
quello storico « le aspre punture di parole non 
pur rispettevoli, ma piene di veleno » che egli ri- 
volge ai Napoletani. Quattro decenni impiegò a rac- 
cogliere fonti e documenti per la sua storia, or ab- 
bandonandone sfiduciato l'idea, or ripigliandola con 
nuova lena, pieno di generoso entusiasmo e di feb- 
brile attività, gareggiando coll'emulo Carrafa, che, 
nobile anche lui, andava componendo una storia di 
Napoli, che usci poi nello stesso anno di quella del 
Costanzo. Vi fu anzi un tempo in cui questi incitò 
l'Ammirato ad accettare l'incarico di narrare i fa- 
sti napoletani < 2 ); ma poi nel 1572 diede alle stampe 
il primo saggio della sua storia, e dopo, nel 1581, 



(1) È fuori dell'argomento la questione se il Costanzo sia 
stato o no l'autore dei voluti Diurnali dello Spinelli. Accetta- 
bile ci pare l'opinione del Oapasso. — Cfr. B. Capasso, Sui Diur- 
nali di Matteo da Giovinazzo, Firenze, Sansoni, 1895, p. 11 e segg. 

(2) Cfr. Gallo, op. cit., p. LXXIII. 



— 121 — 

incitato dagli amici, pubblicava i 20 libri che com- 
pongono tutta la sua opera C 1 ). 

La pubblicazione della storia del Costanzo di- 
stolse l'Ammirato dal mandare a termine la pro- 
pria; forse anche il non voler consacrare in un'ope- 
ra completa le gesta di quella città verso lui in- 
grata. Andato egli poi a Firenze ed impiegatovisi 
in altri uffici, non ebbe più né il tempo né l'occa- 
sione di continuare i suoi studi, e si contentò, an- 
ziché di compiere l'opera, di dar fuori, estraendoli 
dalle parti già composte, alcuni episodi, alcune bio- 
grafie: quali la storia dei duchi di Benevento e di 
Salerno, la vita di Ladislao, di Giovanna, ecc. Noi 



(L) Benedetto dell'Uva, monaco cassinese di cui parleremo, 
inviò un sonetto al Costanzo: 

Voi che schivando il foro ed il volgo stolto, 

in cui lo incitava a finire la storia. Il Costanzo gli rispose che, 
essendo stata la prima parte scritta con stile incolto, non volea 
apportar disdoro a sé per far onore ai principi da Ini celebrati. 
Cfr. Costanzo, ed. Gallo, p. 226-7. Pare che il Costanzo non ri- 
manesse soddisfatto dell'accoglienza fatta alla sua opera. Scrisse 
infatti al duca d'Airola, Ferrante Caracciolo, dedicandogli la 
seconda parte delle storie: « Avendo V. S. IH. ma con l'esempio 
di lei visto che per il poco conto che la patria nostra ha fatto 
dell'animo e delle fatiche mie per mantenerle il titolo di fede- 
lissima contra gli autori che la tassano d'infedeltà io stavo 
piuttosto per ardere che per cacciare il rimanente dell'istoria 
mia ». La storia del Costanzo va dalla morte di Federigo II 
al 1480. 



— 122 — 

non parleremo di ognuna di queste parti tenendo 
riguardo al tempo in cui furono pubblicate, male 
aggrupperemo ordinandole tutte come le membra 
di quel corpo, che il nostro autore avea in mente 
di comporre, e forse ci verrà fatto di dimostrare 
come l'Ammirato innalzasse alla sua bella regione 
un monumento se non aere perennius certo degno 
di lei e riboccante di affetto e di santo sdegno per 
tante brutture commessevi. Non lieve fu il lavoro 
compiuto dall'Ammirato. Era incominciato a preva- 
lere nella storia il metodo della ricerca d'archivio, 
di fonti sicure, originali, da cui si potesse attin- 
gere notizia certa dei fatti (*). La bellezza della 
forma, affannoso tormento degli umanisti, la sin- 
tesi meravigliosa, la critica profonda dei fatti e 
delle cagion loro, parto genialissimo della mente 
del grande Segretario fiorentino, avean ceduto il 
posto alla ricerca accurata e paziente di fonti e 
di documenti col fine di correggere e di emendare 
gli storici e i cronisti precedenti ( 2 ). 



(1) Cfr. Cobio, Istoria di Milano, Venezia, Bonelli, 1554, pre- 
fazione. Questa industria quantunque sovente degenerasse in 
ricerca di troppo minuti particolari, fu commendata dall 'Am- 
mirato, Opusc.j II, p. 215. Note son poi le ricerche del Giovio, di 
cui egli stesso dà notizia al Duca Cosimo. — Cfr. La prima parte 
della historia del suo tempo di Mons. Paolo Giovio tradotta per 
M. Ludovico Domenichi. In Venecia, Comin da Trino, MDLVIII. 

(2) I Diurnali creduti già dello Spinelli, come ha dimostrato 



— 123 — 

L'Ammirato non solo comprese questo nuovo in- 
dirizzo, ma ne fu anzi uno del più strenui soste- 
nitori, e lo applicò largamente in tutte le sue opere 
di indole storica. Degli studi e delle ricerche da lui 
fatte ci parla egli stesso, né v'è tema che esageri: 
la scrupolosità e la esattezza delle citazioni e lo 
studio accurato delle fonti da cui egli attinse ne 
han persuasi, ed abbiam trovato ben meritato l'elo- 
gio che di lui fu fatto come del più accurato de- 
gli storici del cinquecento nell'esame dei docu- 
menti letterarii e archivistici. Per la storia di Na- 
poli infatti egli ha frugato non solo l'archivio regio 
e sopratutto le cancellerie angioine ed aragonesi, 
ma ha visitato numerosi archivi privati, che allora 
più che nel secolo seguente, in cui andarono smar- 
riti tanti preziosi avanzi di passata grandezza, si 
era gelosi custodi di quelle che si dicevan le carte 
di famiglia, che ne attestavano la grande e vetusta 
nobiltà, e contenevan privilegi e commende di re e 
di papi. Anzi i principi e i nobili fecero a gara 
ad aprire le proprie cancellerie al nostro storico, 



il Bernardhi, compilati nella seconda metà del sec. XVI, mo- 
strano come il loro autore facesse studi negli archivi ma con 
poco successo. — Cfr. Bernardhi, traduz. del Coen, in Propttgn., 
II, p. 87. Anche il Costanzo adoprò gli archivi pubblici e pri- 
vati di Napoli per i suoi studi storico-genealogici; lo notò il Ta- 
furi e lo ha largamente dimostrato il Bernardhi stesso. Op. cit, 



— 124 — 

erudito e paziente, dal quale s'attendevano un al- 
bero genealogico ricco di rami innestantisi su tronco 
secolare, o almeno una lode negli scritti che avreb- 
be composto: e le opere sue ci dimostrano qual 
miniera di notizie, tratte dai vecchi scaffali, egli 
abbia saputo mettere a partito. 

Né erano solo le pergamene e i diplomi origi- 
nali l'oggetto delle ricerche del nostro: le cròna- 
che, i ricordi di chi, ignaro dell'utile che avrebbe 
apportato ai posteri, aveva segnato senza alcuna 
pretesa letteraria, molte volte nel proprio sgramma- 
ticato dialetto (e di tali scritti abbondavano le pic- 
cole biblioteche famigliari), le cose accadute sotto ai 
suoi occhi, formavano la gioia dell'abbate leccese. 
Visitò monasteri e meglio di tutti quello di Mon- 
tecassino, tanto provvisto di libri e di manoscritti, 
e ne trasse preziosi materiali. Stando a Roma avea 
visitato le librerie vaticane, e da numerose memo- 
rie manoscritte avea desunto notizie e particolari. 
Circa cinquantamila pergamene lesse e mise a pro- 
fitto durante la dimora nel Napolitano W per scri- 
vere la storia di quel regno e narrare la discendenza 
e le vicende di tante illustri famiglie. Purtroppo 



(1) Cfr. Famiglie nob. nap., I, p. 158. Ci è stato impossibile 
rintracciare tali memorie, pur avendo fatto fare al riguardo 
diligenti ricerche. 



— 125 — 

la sua opera rimase incompiuta: parte fu condotta 
a termine e pubblicata da lui e dall'Ammirato il 
giovane, parte giacque dimenticata. 

Si apre il manoscritto della storia di Napoli con 
una descrizione dell' Italia W, interrotta però sul 
principio; dopo alcune carte bianche, destinate ad 
accoglierne il resto, comincia il racconto colla 
morte d'Augusto, e, condotto dietro la scorta degli 
storici latini, specialmente di Tacito, va fino a Ve- 
spasiano e alla sua spedizione in Terra di Lavoro 
per riordinare quella regione. Si salta indi alla 
morte di re Teodorico, vale a dire al 526, si nar- 
rano le vicende degli ultimi re longobardi, il sor- 
gere del ducato di Benevento e del principato di 
Salerno, l'accrescimento della loro potenza fino a far 
della propria storia quella del regno di Napoli, la loro 
lotta finalmente coi Greci e coi Saraceni. Questa 
parte, compiuta poi dall'Ammirato coir aggiunta de- 
gli altri duchi da Radelchi in poi, fu pubblicata ( 2 ), 



(1) « L'Italia è circondata tutta dal mare eccetto di verso 
ponente > . Alla descrizione generale seguiva quella particolare 
del regno di Napoli. «Ma quella parte di essa che già fu bàr- 
baramente regno di Sicilia di qua dal faro chiamata ». 

(2) La dedicava al conte d'Airola Ferrante Caracciolo, viceré 
di Terra d'Otranto e di Bari. — Cfr. Famig. nob. nap., I, p. 57. 
Ecco le vite dei duchi secondo che son riportate nel mano- 
scritto: Zotone e. 57 r., Arechi e. 58 r., Aione e. 58 t., Rodoaldo 
e Grrimoaldo e. 59 r., Bomoaldo e. 59 t., Grimoaldo II e. 64 r., 






— 126 — 

estratta esattamente dal manoscritto, avanti alla 
prima parte delle Famiglie nobili napoletane. 

Con predilezione l'autore narra le vicende del 
monastero di Montecassino C 1 ), esalta la pietà, dei 
principi, che gli concessero privilegi e lo dotarono 
di rendite, il culto dei corpi santi in esso custoditi. 
E volentieri, come su un lato caratteristico della 
vita di quei principi dotati delle più grandi virtù 
e dei più grandi vizi, s'indugia sulle loro opere 
religiose: se i Romani, egli dice, ci han lasciato 
delle loro opere di pietà estesa notizia, perchè dob- 
biamo noi tacere i trionfi della nostra religione? 
Montecassino, dove si accentrava la vita religiosa 
e intellettuale del tempo, è considerato dal nostro 
oltre che come un faro luminoso anche come un 
luogo sacro alla quiete, alla celestiale contempla- 
zione e alla attività prodigiosa degli ingegni nel 
nome di una fede salita e di un principio alto ed 



Gisulfo e. 64 r., Romualdo e. 64 1., Gisulfo II e. 65 1., Liutprando 
e. 68 t., Arechi II e. 68 t., Grimoaldo III e. 71 t., Grimoaldo IV 
e. 73 r., Sicone e. 82 r., Sicardo e. 86 r., Radelchi e. 92 t., Ra- 
delgario e. 97 t., Radelchi e. 98 t., Ganderi c..l02r., Radelchi 
e. 102 r. Nella dedica al duca d'Airola dice che narrare le vi- 
cende precedenti del regno di Napoli sarebbe soverchia arro- 
ganza dopo che illustri storici latini ne han parlato. 

(1) A e. 28 narra l'episodio del riconoscimento di Totila da 
parte di S. Benedetto, a e. 65 descrive la edificazione del mo- 
nastero, a e. 66 enumera i privilegi concessigli. 



- 127 — 

umanitario. Per lui son gloriosi quei re che « ha- 
vendo più in pregio una nera cocolla che le co- 
rone et gli scettri lietamente andarono a can- 
giare con un orto o con una piccola vigna che 
con ristesse lor mano coltivavano, le ampie si- 
gnorie et ricchi regni et V imperi del mondo » ( l ). 
Questa religiosità e il loro valore guerresco ren- 
dono l'Ammirato indulgente verso i principi lon- 
gobardi e gli fan perdonare le tante crudeltà com- 
messe P), come d'altra parte lo determinano a giu- 
dicare severissimamente le imprese dei Saraceni ( 3 ). 
Su tre fonti è condotto principalmente il racconto 
per questo periodo: Paolo Diacono, Erchemperto, 
Leone vescovo Ostiense : ad essi si possono aggi un - 



(1) e. 57 t. — Dell'Ammirato si è detto che abbia composta 
una cronaca in continuazione alla Cassinese ; a noi non è stato 
possibile rintracciare alcuna notizia sicura, quantunque abbiam 
fatto fare anche accurate ricerche nella biblioteca del celebre 
monastero. La cronaca di cui l'Ammirato avrebbe composto la 
continuazione è la cronaca del cardinale Leone Marsicano. La 
notizia è in So ri a, op. cit., II, p. 391. 

(2) Di Sicone, l'uccisore di Grimoaldo, dice: « principe de- 
gno certo di laude a chi riguarderà all'ardire et grandezza del- 
l'animo, alla sua invecchiata prudenza, alle forze del corpo 
et a molte altre belle parti et doti, che in lui non mediocre- 
mente risplendevano », e. 86 r. Parole veementi ha invece per 
Sichinolfo che rubò da Montecassino croci e vasi d'argento, 
e. 95 t. 

(3) e. 84 t. 



— 128 — 

gere gli atti dei pontefici e le opere loro. Cerca 
l'autore di conciliare i loro racconti ma finisce per 
conchiudere: « Veramente egli è difficile in tanta 
penuria di scrittori et in cose così antiche trovare 
la verità » W. Grandissima è l'autorità che attribui- 
sce a Paolo Diacono, ma quando papa Zaccaria af- 
ferma aver visto a Montecassino i corpi di alcuni 
santi che Paolo dice portati via, egli crede più 
agli occhi di un pontefice che all'opinione di uno 
storico ( 2 ). Ed Erchemperto dà grande importanza 
come a chi è del luogo e molto vicino ai tempi di 
cui parla ( 3 ), a Leone Ostiense presta in ogni cosa 
assoluta fede ( 4 ). Nel vagliare e nel giudicare i fatti 
narrati da questi autori è importante notare ch'egli 
dichiara « non dover sempre con una regola et 
con una misura legger i diversi stati delle re- 



ti) e. 98 r. 

(2) e. 64 r. e. t. 

(3) Differente giudizio ne diede il Costanzo, il quale pare 
che non conosca né Paolo Diacono né Leone d'Ostia, scrivendo: 
« Volendo cominciare dalle cose de' Longobardi le trovai op- 
presse dalle tenebre dell'antichità.... non avendosi di quelle al-' 
tra notizia che quanto ne scrive Eremperto longobardo tanto 
confusamente, che dopo che s'è letto, se ne sa meno che pri- 
ma ». — Cfr. Proemio, p. 3. 

(4) e. 98 r. — Erchemperto è un continuo controllo per Paolo 
Diacono, e ingegnosi se non sempre esatti son i ragionamenti 
con cui l'Ammirato giunge a conciliarli. — Cfr. e. 66 r. 



— 129 — 

pubbliche et delle signorie et i costumi et V usanze 
delle genti, ma quelle secondo la ragion de' tempi 
et delle persone et delle nationi et secondo fa 
potenza o debilità delle forze dover andar il 
più delle volle prudentemente scemando o cre- 
scendo » 0). 

Dalla fine del ducato di Benevento alla venuta 
di Carlo d'Angiò vi è una lacuna, e la narrazione 
ricomincia proprio colla chiamata di Carlo per 
parte di Urbano IV a fine di porre un argine alla 
grande superbia di Manfredi C 2 ). Nella serie di 
eventi favorevoli, che accompagnarono la venuta 
dell'Angiò.a Napoli, l'Ammirato trova l'applica- 
zione di una legge comune, per la quale, « quando 
alcuna nostra attione è per riuscire felicemente, 
lutti i mezzi che a quella ci conducono molte 
volte senza nostra molta prudenza ordinati ci si 
mostrano facili et piani; dove alt incontro quan- 
do le nostre operazioni dalla malvagità della 
fortuna guidate a cattivi fini siano governate, 
rotto nondimeno ogni riparo precipitosamente 
corrono e traboccano dentro » ( 3 ). Questo concetto 
ripetuto anche nel ritratto di Carlo I ( 4 ), che non 



(1) e. 87 t. 

(2) e. 105. 

(3) e. 105 t. 

(4) Cfr. Opusc, II, p. 303. 



— 130 — 

è se non un estratto di questa parte della storia, 
dimostra come l'autore credesse legittima 1* impresa 
di re Carlo, e la giudicasse guidata più che dal 
suo senno dalla mano della Provvidenza ( L ). E que- 
sta mano il nostro riconosce in tutto lo svolgi- 
mento della guerra ( 2 ): gli stessi errori di Man- 
fredi ne sono una prova. Volle egli combattere e 
commise un doppio sbaglio « V uno a rischio di 
perdere, potea combattendo a casa sua, perder 
la vita et il regno come perdette; ove guada- 
gnando egli non vincea ricchezze né stato né 
cosa veruna, V altro che avendo a combattere con 
uomini quasi posti in disperatione delle cose ne- 
cessarie, se bene stanchi, venia per questa causa 
ad haver a fare con uomini feroci et arditi. Né 
d'altra parte si può dal lato di Carlo commen- 
dar altro che la fortuna, non rimanendo luogo 
lodar la prudenza, poiché non erano anco due 
mesi che era entrato nel regno s'era portato in 



(1) Cosi pure aveva giudicato il Collen., op. cit., e. 104. 

(2) Dato specialmente il carattere dei Francesi, i quali per 
lor natura « anche sòl con la furia possono essere agli altri su- 
periori et con la prestezza; ma se niente son ritardati dalla 
maestria e senno degli avversari, estinguendosi in loro quel 
primo ordinamento divenir languidi et impacienti alle fatiche 
et perciò atti ad esser vinti et superati da un suflritto capi- 
tano », e. 116 r. 



— 131 — 

• 

modo, che già gli eran mancati i danari et la 
vettovaglia. Dal che si può veramente r accorr e 
lui haver preso la guerra più tosto fondato in 
sulla speranza de 9 movimenti de' regnicoli et nelle 
promesse della fattione et del papa, che in sul 
saldo et fermo stabilimento delle proprie forze. 
Et non è dubbio veruno, se Manfredi havesse 
?>oluto contenerse dal combattere sol per due 
giorni, che Carlo per mancamento di vettovaglie 
sarebbe stato costretto prender duro partito per 
casi suoi. Ma è verissimo niuna cosa esser più 
diffìcile al mondo a schifare che il fato né ri- 
medio alcuno truovarsi contra a mali determi- 
nati » f 1 ). 

Volea il fato che il Manfredi cadesse, e cadde: 
ecco il giudizio che ne dà il nostro storico: « Fu 
egli veramente poco amico de* Romani pontefici 
et il quale poca cura si prese della fede et della 
religione, vago di donne, di suoni e di canti et 
nella cui corte volentieri si riparavano huomini 
sollazzevoli. Ma per essere stato bello del corpo 
et gratioso, et di bella aria, et sopra tutto largo 
et liberale ; di cui non è cosa, che più sia atta 
a prender gli animi delle persone, sommamente 
fu per il più amato da sudditi suoi. Hebbe seni- 



(1) Cosi pure il Collenuccio, op. cit., p. 103. 



— 132 — 

pre in usanza di vestir drappi verdi. Valoroso 
fu della persona et bene avventurato in tutte 
l'altre sue guerre salvo che in questa. Et come 
che nel tempo del suo principato non fussino 
mancate delle molestie per cagione di dette guerre 
molto ben seppe governare in pace et quiete il 
suo reame tenendo per terra e per mare conti- 
nuamente di molte genti armate per opporsi 
agli assalti dei suoi nemici. Ma non è contra- 
sto contra la mano di Dio, la quale differendo i 
nostri supplita per dar tempo di ravvederci, 
quando ogni dimora vede essere stata indarno, 
non lascia di darci la proportionata et degna 
vendetta » M. Con queste osservazioni e con que- 
sti giudizi egli intramezza il racconto della guerra 
tra la casa di Svevia e la Angioina, attinto per la 
massima parte al Villani ( 2 ). Guelfo si mostra l'Am- 



(1) Qua e là l'A. non trascura di enunciar altre massime 
specialmente militari; là dove si narra la battaglia a S. Ger- 
mano, occasionata da una scaramuccia tra i fanciulli della terra, 
avverte : « Nel che si vidde manifestamente quanto nelle guerre 
ogni minimo disordine può recare di grandi danni e calamità 
a coloro che non se ne tengano conto et non ne fanno stima » , 
e. 114 r. — Cfr. il giudizio che di Manfredi dà il Collenuccio, 
op. cit., p. 107. 

(2) Non manca però di confutarlo dove i documenti o altre 
ragioni lo impongano ; così p. es. il Villani, parlando della ben 
nota liberalità del conte Beltramo del Balzo nel ripartire il te- 



— 133 — 

mirato narrando questa guerra: per lui essa non 
è che la vendetta divina contro l'arroganza di Man- 
fredi verso la santa sede: Eppure come è impar- 
ziale nel giudicare il biondo bello ed infelice re! 
Come cattolico e partigiano del papa ne biasima la 
poca sommessione, come storico ne riconosce il va- 
lore ed i meriti acquistati nel governo dei popoli. 
Dopo una interruzione di circa 80 anni si ripi- 
glia il racconto con la mòrte di re Roberto W. Di 
questo re si dice: « Fu sì per lunga dottrina delle 
cose fiumane et divine, come per naturale de- 
strezza d'ingegno il più savio re che passe stato 
tra i cristiani ai suoi tempi. Dolcezza et amo- 
revolezza usò egli gravide co' suggelli, con gli 
amici e confederati suoi. Et se verso il fine della 
sua vita non fusse stato in molte cose conta- 
minato dalVavaritia, come che esso se ne scu- 



soro acquistato da Re Carlo, dice che questi ebbe da quello in 
premio il ducato d'Avellino. Il nostro dimostra che tale ces- 
sione avvenne molto dopo, e. 123 t. 

(1) e. 137. — Probabilmente l'Ammirato avea scritto anche 
la parte che riguardava il Regno di Roberto. Parlando infatti 
dei soldati mandati a Minervino, dice: « ove erano stati messi 
da Roberto per cagione de' disordini fatti in Barletta, come di 
sopra si è detto » , e. 142. Fonte non ultima per la vita del re 
erano state le opere del Petrarca; a e. 140 t. FA. cita la let- 
tera di lui a GL Colonna, dove è descritta la tempesta nel golfo 
di Napoli del 1343. 



— 134 — 

sasse imputandolo alla necessità dei tempi per 
la guerra che havea per r acquistar la Sicilia, 
forse appena si sarebbe potuto non dico miglio- 
rare ma pareggiare per molti sècoli » C 1 ). Gli av- 
venimenti svoltisi durante il regno di Giovanna I 
sono narrati con larghezza e con abbondanza di 
particolari, desunti nella maggior parte dalle sto- 
rie dei Villani, che come contemporanei dettero 
ampio ragguaglio di quei fatti, dalle storie di Si- 
cilia e da numerosi documenti e diplomi ( 2 ). Della 
morte d'Andrea l'Ammirato, come già il Collenuc- 
cio e il Riccio ( 3 ), dà la colpa alla regina, fondan- 
dosi sulla autorità del Villani, quantunque non dis- 
simuli la gravità delle ragioni contrarie ( 4 ). « E 
opera biasimevole, dice egli, difèndere sotto falsi 



(1) e. 188 t. — Lo scagiona dall'accusa a lui mossa, di aver 
avvelenato suo fratello nell'ostia consacrata, tramandata dalla 
tradizione orale e confermata dal fatto che egli edificò la chiesa 
di S. Chiara, dove ogni anno nella festività del Corpo di Cristo 
si porta dal Duomo il Sacramento e si lascia per otto giorni. — 
Cfr. anche il Collenuccio, op. cit., p. 131. 

(2) e. 147 e 151. — Qua e là nel margine del ms. sono ap- 
punti per aggiunte da farsi; a e. 151: «Vedi l'istorie di Sicilia 
al regno di q. Ludovico et rimetti come fu fatta la pace » . A 
e. 248 cita una storia di Cola di Rienzo. 

(3) Cfr. Collenuccio, op. cit., e. 181, e Michele Biccio Napo- 
litano, De* re di Napoli e di Sicilia, Venezia, Valeris, MDXLIII, 
e. 54. 

(4) e. 115. 



— 135 — 

veli d'incertezza et d'ignoranza gli huomini scel- 
lerati, quando in questo modo si potrebbe -dar 
animo a molti d'haver a scampar V infamia dei 
posteri et a scrittori esempio con fallaci invi- 
luppi di metter sossopra la verità delle cose ». 
Le lotte che seguirono alla morte di Andrea 
son narrate con gran ricchezza di particolari: ma 
chiare e nette emergono da quel gran cumulo di 
fatti le figure dei due contendenti: Luigi e Ludo- 
vico, che, vicendevolmente or vincitori or vinti, 
travagliarono il regno, e colle paci alternate alle 
riprese ostilità dimostrarono che « niun legame 
è più presto a sciogliersi che l'amicizia riconci- 
liata » (\\ « Fu veramente, egli scrive, Ludovico 
liberale et magnifico oltremodo, et per ciò som- 
mamente amato dai suoi soldati. Questa cosa il 
fé soverchio ardito nelle sue imprese, percioc- 
ché come egli havea molta fede in loro, così spesso 
senza molti provvedimenti imprese a fare gran 
cose; le quali con eguale prestezza spesse volte 
abbandonò, onde da questo canto si guadagnò 
nome piuttosto d'animoso che di prudente. Ri- 
gido et fiero fu nelle guerre et i suoi comanda- 
menti volea che inviolabilmente fossero eseguiti 
senza dilatione alcuna. Fuor di quelle piacevole 

(1) e. 246. 



— 136 — 

et cortese con tutti. Grande amatore fu della giù- 
stizia et severo castratore di ladroni et di co- 
loro i quali essendo ai servigi suoi proprii si 
servivano malamente della sua grafia... fu poco 
grato alla nobiltà napoletana, ma peraltro alla 
plebe ed ai popoli lasciò se non desiderio pure 
non odiosa recordatione del nome suo. Fu in- 
somma (si può dire) ne* movimenti francese, 
onde egli traea l'antica sua origine, nelle riso- 
lutioni et in molle altre sue qualità italiano, 
qual era slato Vavo, unghero nell'austerità del 
punire, essendo egli insieme col padre nato et 
continuamente cresciuto in quella provincia ». 

Nessuno degli storici napoletani fa di Ludovico 
un ritratto tanto favorevole; l'Ammirato spoglia il 
re da qualunque sentimento di ambizione, asserendo, 
che da nuli' altro se non dal desiderio di vendicare 
la morte del fratello fu spinto ad assalire il reame 
di Napoli <D. 

Debole ed incerto ci dipinge invece Luigi, ti- 
mido sopratutto della nobiltà ( 2 ). « Gli parea me- 



(1) e. 202-3. 

(2) Si contentava di finire la guerra più con i denari che 
con le armi ; « ignorante, osserva giustamente il nostro, la vera 
pace et quiete dei popoli non altronde procedere che dal tra- 
vaglio d'una asprissima guerra ; la quale grave et molesta nei 
suoi principii porge alla fine sicurezza et tranquillità perpetua, 



— 137 — 

glio sotto simulation d'ignoranza mostrar di 
non accorgersi de 9 mancamenti dei suoi baroni, 
che con avvedersene farsi conoscere per impo- 
tente di gastigarli (X) ». Onde alla simpatia delle po- 
polazioni, pel valore e per la generosità, attribui- 
sce le vittorie di Ludovico, alla fortuna quelle del 
secondo ( 2 ). 

Il popolo frattanto « come è costume naturale 
di tutti lusingare i potenti et seguire gli affetti 
di coloro, ove la fortuna si mostra piti favore- 
vole, trasportati anche dal desiderio delle cose 
nuove, dal quale spesso siano tirati ad appetire 
effetti contrarli alla volontà » plaudiva or al- 
l'uno or all'altro, e, pure essendo abbattuto e 
smunto, celebrava cou pompe solennissime le nozze 



dove la -moneta che si dà ai nemici non è altro che' un porger 
l'acqua l'inferno, a cui per lunga esperienza si vede più tosto 
accrescere che spegnere la sete », e. 221. 

(1) e. 193 t. — « Ma volendo Luigi, conosciuto per l'espe- 
rienza delle cose nelle passate perturbationi di quanto momento 
fosse la fede et l'amor de' suggelli, atte più a guadagnarsi con 
gli onori et con l'amorevolezza che col fasto et la superbia, 
farsi etiandio oltre l'omaggio con più particolar obligatione 
congiunti molti di que' cavalieri, che egli stimava di maggior 
pregio istituì la Compagnia del Nodo », e. 207 t. 

(2) e. 233 r. — Il Costanzo, meno severo nel giudicare Luigi, 
dice di lui che fu non meno savio che valoroso, poco felice nelle 
imprese per le condizioni speciali del regno, e che non ebbe luogo 
né occasione di mostrare il suo valore. Op. cit., II, p. 81. 



— 138 — 

di Giovanna con Luigi e le feste per la loro inco- 
ronazione. Mai lusso cosi grande si era visto a Na- 
poli : « perciochè V amore porgeva alla reina di 
natura liberale, arti ed inventioni straordinarie 
dì pompa e di magnificenza et la temenza d'haver 
quasi perduto il regno facea maggiore Valle- 
grezza d'haver lo a possedere senza sospetto. Nella 
guai cosa si conobbe massimamente l'abbondanza 
et fertilità del paese, il quale non prima era 
uscito dalle rovine et incenda delle guerre, che 
come non fusse mai slato tocco da esse, ministrò 
profusamente lutti gli agi et le morbitezze, non 
che le cose necessarie che in siffatti apparecchi 
si richiedevano W. Eran dissanguate le popola- 
zioni, e tante cause vi avean concorso : la maggiore 
erano state le rapine, le devastazioni di cui si fecero 
autrici, rendendosi celebri, le compagnie di ven- 
tura, che sorte da quello stato di cose, fluttuante 
ed incerto a sostegno dell'una o dell'altra parte, 
davano la vittoria a chi meglio le pagava. Scon- 
fortanti e calde d'amor di patria sono le parole 



(1) e. 205-6. — Un'altra grande verità enuncia l'Ammirato 
in questo punto, che pone in rilievo uno dei caratteri essen- 
ziali della nobiltà napoletana : « è cosa molto indubitata a niuna 
arte o esercitio attender i sudditi con maggior diligenza che in 
quello ove veggono indirizzato l'animo o l' inclina tione del si- 
gnore », e. 207. 



— 139 — 

che l'Ammirato scrive intorno ad esse: Io arros- 
sisco talora fra me medesimo di scrivere somi- 
glianti cose perciochè mi persuado che alcuni mi 
terranno o per maligno raccontando forse troppo 
mordacemente le miserie di quei tempi, o per 
dappoco considerato non le sapendo occultare 
almeno con i modi del dire. Et forse alcuni, i 
quali misurano gli avvenimenti di quegli anni 
con la misura dei nostri aggiungeranno a que- 
ste cose il mendacio, come se il tempo non si 
mutasse con la signoria, et come se io a guisa 
di scritlor forastiero non disiderassi abbattermi 
a materie che con la gloria et laude dell'imprese 
fatte rendessino chiara et illustre la mia storia. 
Ma io non posso se non tirar quelle fila, le quali 
mi vengono avanti, vietatomi dalle severissime 
leggi della verità, che è lo spirito di chi scrive, 
potere o per mia inclinazione o per odio tor- 
cermi punto da quelle cose, le quali mi vengano 
approvate per vere. Ma temperi il dolor della 
vergogna chi sentirà passione di questi successi 
con V ammaestramento che potrà cavarne ad es- 
ser più ardito et più coraggioso; poiché le cose 
avvenute se tornar non si possono indietro, son 
buone a consigliarsi in quelle d'avvenire C 1 ). Tri- 



(1) e. 228-4. 



— 140 — 

ste è il quadro che del Napoletano fa l'Ani mi rato: 
la fame e la peste, i furti, i banditi travagliavano 
da ogni parte le popolazioni, le finanze erano esau- 
ste, la corruzione spaventevolmente diffusa. E in 
mezzo a tanti mali non energia nel cercar dei ri- 
medi, ma spensieratezza e vanità (*). 

Dall'anno 1360 in poi le difficoltà nelle fonti 
crescevano: « Siamo scrivendo in fino a questo 
luogo come da fedeli scorte stati accompagnati 
oltre da alcune particolari scritture da Giovanni 
et da Matteo Villani, dei quali più volte s'è fatto 
mentione. Et senza dubbio ci hanno meraviglio - 
samente con la loro compagnia addolcita la no- 
stra fatica, perciochè siamo caminati come di 
giorno, se non per luoghi del tutto piani et aperti, 
almeno tali, che nella difficoltà et intrighi hab- 
biamo potuto scorger le strade, onde condurre al 
nostro camino. Ma considerando che da questo 
anno in fino al 1420 (nel qual tempo dà prin- 
cipio ai suoi commentari Bartolomeo Facio ge- 



(1) e. 147 t. e 150 r. — Nell'anno 1356 narra minutamente 
delle febbri, del male della idrofobia che allora infieriva, delle 
varie mutazioni atmosferiche nei singolari mesi, delle tempe- 
ste, dei fulmini coi relativi miracoli, e. 237. Il racconto dei mi- 
racoli è fatto sempre con gran cura, perchè essi « servono a 
farci ravvedere con quanto riguardo si debba procedere nelle 
cose di religione », e. 206-9. 



- 141 — 

novese, il quale scrisse buona parte del regno 
della reina Giovanna II e quasi lutto il regno 
d'Alfonso I re d' Aragona, che primieramente 
trasferì dalla casa d'Angiò V impero Napoletano 
a Catalani) non abbiamo certo né particulare 
autore niuno con che proseguire questi sessanta 
anni del rimanente del regno della reina Gio- 
vanna I, di Carlo III, di Ladislao et di quella 
parte di Giovanni IL Certamente io confèsso non 
solo vedermi circondato da grandissimi travagli 
ma quasi in un certo modo esser preso et occu- 
pato da disperatione, essendo rhassime l'inten- 
tion nostra (come già habbiamo incominciato) di- 
gerir le cose d'anno in anno et non confonderle 
con la semplice et indistinta narration del fatto 
nell'incertezza et ignoranza dei tempi. Che in 
questo modo riputeremmo noi questa impresa age- 
volissima, et da farne picciolo conto. Nondimeno 
come siamo slati tirati a questa opera da arden- 
tissima carità, che non stiano del tutto sepolte 
le memorie del nostro regno, et questo ci ha 
senza altro interesse o speme di guadagno ve- 
runo fatto metter le spalle sotto gravissimo peso, 
da quella stessa guidati ci anderemo con ogni 
nostra suprema sollecitudine et diligenza affati- 
cando di proseguire questi altri anni con quella 
maggior chiarezza e splendore, che possa esser 



— 142 — 

possibile ad un uomo et disprezzator d'ogni fa- 
tica » W. 

E in questa parte abbiamo una prova della data 
da noi attribuita alla composizione dell'opera del- 
l'Ammirato. Non avrebbe potuto fare, né avrebbe 
fatto egli, che non esagera mai le sue fatiche, tali 
lamenti sulla mancanza delle fonti se avesse già 
conosciuto i diurnali del duca di Monteleone, di 
cui ebbe cognizione solo dopo per l'uso fattone dal 
Costanzo ( 2 ) (uso tanto largo da far credere al Ber- 
nardin che fossero una sua falsificazione, come già 
quelli dello Spinelli) e che colmano proprio que- 
sta lacuna. Conosciutili dopo, se ne servì in alcune 
aggiunte marginali apposte alle parti della storia 
già scritte ( 3 ), e, come vedremo, nella stesura finale 
delle Famiglie nobili napoletane. 



(1) e. ÌÌ48-9. 

(2) I Diurnali erano conosciuti anche prima; se ne era ser- 
vito, come ha dimostrato il Faraglia, che ne ha dato una edi- 
zione critica, il Bonincontro nei suoi annali. — Cfr. e. VI della 
pref. ai Diurnali detti del duca di Monteleone, pubblicati a cura 
di Nunzio Federigo Faraglia, Napoli, 1895. « Avendomi il duca 
di Monteleone, narra il Costanzo, Ettore Pignatello, donato un 
libro antico di diurnali tenuto caro dal duca di Monteleone suo 
avo, che fu di rari signori che nell'età passata fossero al regno, 
nel quale libro sono annotate di per dì le cose del tempo della 
Regina Giovanna I fin alla morte di re Alfonso I, etc. ». Cfr. 
Costanzo, op. cit., proemio. 

(3) P. s. a e. 274 t. 



— 143 - 

All'anno 1360 s'interrompe il racconto del nostro, 
e vien ripreso solo all'anno 1378: manca quindi 
la storia di tutto il regno di Carlo III e parte di 
quello di Margherita. E nemmen quest'ultimo è 
descritto fino alla sua fine, che la narrazione si 
estende appena per un anno « anno principio et 
origine di grandissime rovine nella chiesa di Dio 
per lo scisma che nacque tra pontefici » (*). Or- 
bano VI e Clemente scismatico si contendevano la 
sedia apostolica, e il racconto termina là dove i 
Napoletani, capitanati dall'arcivescovo Bozzuto, si 
rivoltarono contro la regina che da principio pa- 
reva favorisse Clemente (2). 



(1) Era morto Gregorio XI, « il quale quanto utile recò con 
la vita sua a Roma et all'Italia, riducendo di nuovo la corte 
d'Avignone ov'era stata strasferita per sessantanni a Roma 
tanto danno ci apportò con la sua morte, si per lo scisma et 
di vision della chiesa di Dio che per quarantanni segui poi in 
tutta .la cristianità con grandissimo detrimento et scandalo 
della religione, come per le differenze et litigi de' novi succes- 
sori del Regno di Napoli che con acerbissime battiture et fla- 
gelli di questa provincia durano infino a presenti giorni », 
e. 252 t. 

(2) e. 262. — Ecco le sue parole: « Con tutto ciò ha vendo 
incominciato a scorrer per S. Pietro Martire, per Santo Aloe 
et per S. Sanseverino che erano luoghi la maggior parte abi- 
tati da oltramontani, andarono a trovare il Bozzuto et mena- 
ronlo nel palazzo dell'arcivescovado, il quale havendo saccheg- 
giato permisero che il Bozzuto ne prendesse il possesso. Poi ti- 



— 144 — 

Dal 1378 al 1404 vi è una nuova lacuna; poi 
ci rimane, edita dalVAmmirato alcuni anni dopo, 
la vita di Ladislao (*). Forte della persona, tenace 
nei propositi, valoroso nelle battaglie, parve, se- 
condo l'Ammirato, rinnovare la grandezza del re- 
gno e portarla a quel grado a cui era assorta sotto 
Roberto. Ma mentre questi, ligio ai papi, li avea 
difesi a Firenze, Ladislao occupò Roma, e minacciò 
la Toscana. Accanto ai pregi l'Ammirato ricorda 
anche i difetti, e, pur tratteggiando il suo perso- 
naggio con una certa evidente simpatia, non tace, 
biasima anzi, i suoi amori, la eccessiva sua cru- 
deltà nello sterminio dei Sanseverini ( 2 ). Non è 
molto ricca di particolari la vita di Ladislao; in 
compenso però v'è una netta delineazione della sua 
politica, dei suoi intenti, del suo carattere. 

Anche la vita della regina Giovanna II fu pub- 
blicata: essa però è descritta con maggiore atti- 



rando verso il castello dell'Uovo, quando furono sopra il ponte 
con voci, che penetrarono il cielo, per buona pezza gridarono: 
Muora pp. Clemente et la Reina sei vuol favorire et viva pp. 
Urbano ». 

(1) Pubblicandola nel 1583 nei suoi Opuscoli, la dedicava ad 
Andrea Minerbetti, come quella di Giovanna a Palla Hu- 
cellai. 

(2) Cfr. Opuscoli, I, p. 614. V. anche il giudizio che ce ne dà 
il Collenuccio, op. cit., e. 147 1., e l'altro del Costanzo, op. cit., 
Ili, p. 63. 



— 145 — 

piezza, quale ad una storia generale del regno si 
conveniva, nel manoscritto C 1 ). Gli avvenimenti, espo- 
sti con una larghezza e minuzia di particolari, ta- 
lora eccessiva, oltre che dal Facio C 2 ), sono attinti 
estesamente dal Corio, dal Campano, dal Giovio, 
dal Giustiniano. Del Corio sappiamo già quel che 
l'Ammirato pensasse; al Campano rimprovera giu- 
stamente la palese affezione, anzi partigianeria pel 
suo eroe, e, uniformandosi al giudizio che se ne 
dava in quel tempo, stima la sua biografia da te- 
nersi per molto sospetta. 

Per l'abbondante raccolta di fatti, per l'ampiezza 
della esposizione, per un ritratto esatto e compiuto 
dei personaggi è questa la parte della storia mi- 
gliore, e meritevole di essere pubblicata integral- 
mente colla sicurezza di portare un notevole con- 



ti) Le carte 278-282 son riprodotte da p. 552 a 658 della vita. 
Cfr. Opusc., I, le carte 291-294 da p. 500 a 633. Lo stesso mano- 
scritto è anzi servito probabilmente per la pubblicazione ; di- 
fatti troviamo tra linee racchiusi i brani da pubblicarsi, ed 
escluso cosi il racconto di tutti gli avvenimenti che colla bio- 
grafia della regina non hanno una stretta attinenza. 

(2) Babtholomaei Facii, De rebus gesti» ah Alphonso primo Nea- 
polilanorum rege, commentarium libri decem. Lugduni apud 
haeredes Sebastiani Gryphi, MDLX. — L'esemplare posseduto 
dalla Bibl. Universitaria di Pisa fu già, come dichiara la firma 
autografa sul frontespizio, di S. Ammirato : in margine vi sono 
frequenti richiami e postille di sua mano. 

io 






— 146 — 

tributo alla conoscenza di un periodo tra i più for- 
tunosi della storia napoletana. Che, se ne togliamo 
due lacune, una dal 1421 al 1435 C 1 ), l'altra dal 
1438 ® al 1440 ( 3 ), la narrazione degli avvenimenti 
si spinge fino alla completa conquista del regno 
fatta da Alfonso d'Aragona, comprendendo tutte le 
lotte fra questo e Renato d'Angiò. 

Pubblicando la vita della regina Giovanna e fa- 
cendola precedere, per ottenere maggiore efficacia, 
dalle lodi della castissima Maria d'Aragona, l'Am- 
mirato si proponeva, coordinando tutti i fatti a que- 
sto scopo, di additare alle donne, ed alle donne di 
elevata condizione, un tipo di donna da non imitare. 
Nella storia invece il racconto della vita di lei, reso 
più oggettivo, si lega e si intreccia a tant'altri fatti, 
a tant'altri avvenimenti; e la figura di Giovanna 
ci appare tale quale essa è, con tutti i suoi vizi, 
ma anche con tutte le sue infelicità. Severo, seve- 
rissimo il giudizio che l'Ammirato dà di lei; già 
nel cinquecento, quando ancora di certi criteri sto- 
rici moderni non v'eran che lontani barlumi, Gio- 



(1) Ricomincia infatti proprio colla descrizione della morte 
di Giovanna II, e. 350. 

(2) Gli avvenimenti di quest'anno son portati fino alla im- 
presa di Trani condotta da Giovanni Carrafa, e. 392. 

(3) Il primo fatto narrato è l'andata di Alfonso a Pozzuoli 
per conquistarla, e. 398. 



— 147 — 

vanna appariva donna in tutta la sua bassezza mo- 
rale, regina in tutto il suo rovinoso favoritismo, in 
tutta la sua crudeltà C 1 ). Era cosi destinato pel povero 
regno di Napoli ( 2 ): « Per essersi da folle amore 
lasciata signoreggiare divenne col marito malva- 
già, co 9 figliuoli da sé eletti ritrosa, verso gli al- 
lievi del fratello ingrata, co 9 sudditi perversa, con 
Vistesso amante, con tutti mutabile, e di guerre 
e di miserie riempì il suo reame, il guai non 
solo mentre che visse, travagliò ma lasciowi dopo 
là morte per lunghissimo spazio di tempo appic- 
cato pernizioso e memorabile incendio W ». 

Accanto a lei, che è la figura principale, si muo- 
vono e si agitano infiniti personaggi: Iacopo della 
Marcia colla sua sciocca superbia è « utile am- 
maestramento a ciascuno di doversi nel grado, 
nel quale egli si trova portarsi con gentilezza et 
humanità più tosto che con orgoglio et con cru- 



(1) Gfr. Oollenuccio, op. cit., p. 160. Il Campano si contenta 
di dire che « in tutte le sue attioni mostrò veramente d'es- 
ser donna », op. cit., p. 87. 

(2) « Morto Ladislao, dice l'Ammirato, successe al regno con 
pessimo augurio Giovanna sua sorella, lasciata già vedova da 
Guglielmo Duca d'Austria ; perciocché andava molto per le boc- 
che degli uomini un verso profetico per il quale si dinotava 
che l'ultima donna di casa di Durazzo sarebbe stata la rovina 
del regno >, e. 258. 

(3) Cfr. Opusc, I, p. 649. 



— 148 — 

deità; poiché quando ben dagli uomini doviamo 
tutti alla fine esser certi da Dio non potere scam- 
pare i dovuti supplica » C 1 ). G. Antonio Orsini, il 
celebre e temuto principe di Taranto, dimostra 
quanto in quel tempo fosse sfrenata per la debo- 
lezza dei re la licenza dei «baroni, e come talora 
volgesser le fortune del regno secondo i loro ca- 
pricci. Tra lo Sforza e Braccio da Montone tutte 
le simpatie del nostro sono pel primo : di una delle 
tante gesta generose da lui compiute dice: «e il che 
seguì certo con maggior meraviglia et essempio 
della virtù sua, la quale quanto più rara in si- 
mili tempi traviati quasi in tutto dalV antico va- 
lore 9 tanto senza dubbio è più degna da co- 
mendare » ( 2 >. 

Ma la figura che in più favorevol luce è pre- 
sentata dall' Ammirato è quella di Alfonso d'Ara- 
gona il magnanimo ( 3 ). In un eloquente discorso 
fattogli pronunziare egli spiega come non abbia 
in animo di togliere il regno a Giovanna, ma solo 
assicurarsene la successione ( 4 ). E lo storico ne 
esalta la pietà e la clemenza, colla quale rende- 



(1) e. 295 r. e t. 

(2) e. 299 r. 

(3) Collenuccio, op. cit., e. 187-8; Riccio, op. cit., p. 62; Co- 
stanzo, op. cit., IV, p. 119. 

(4) e. 348. 



— 149 — 

vasi amiche le popolazioni C 1 ), e, compiendo la nar- 
razióne della conquista del regno, dà di lui questo 
giudizio : « In questa guisa Alfonso a capo di ven- 
tun anno s'insignorì della nobilissima et antiquis- 
sima città di Napoli. Nel che veramente tu non 
sai se si debba più lodar la fortezza di tanto uomo 
et la costantia, che la clemenza, né si habbia a 
prender più meraviglia della sua felicità che del- 
l'altre lodi et pregi di virtù che in ogni sua at- 
tione cotanto meravigliosamente risplendevano. 
Entrato dunque vittorioso a Napoli et sotto formi- 
dabili pene comandato che non si commettesse più 
oltre violenza alcuna, a molti cittadini gran parte 
delle cose che si poterono dalle mani dei soldati 
ricuperare fé' liberamente restituire, parendogli 
ufficio di valoroso principe il perdonare a' vinti, et 
insiememente giudicando esser da re savio et pru- 
dente voler esser più tosto signore d'una città inte- 
ra, che rovinata, il che gli accrebbe appo gli nemi- 
ci istessi amore e benivolenza incomparabili » @). 



(1) A proposito dell'aver ricevuto e nutrito le donne cacciate 
dal campo nemico come bocche inutili. « Et certo non fu que- 
sto di picciolo giovamento ad Alfonso: perciocché egli è incre- 
dibil cosa a dire, quanto rapportato il grido di questa clemen- 
tia per i paesi vicini, havesse verso lo stato suo negli animi di 
tutti conciliato benivolenza et amore ; essendo cosa naturale a 
ciascuno l'haver compassione a gli afflitti », e. 362. 

(2) e. 415-6. 



— 150 — 

Termina il racconto con la presa di Castelnuovo, 
ultimo baluardo di Renato d'Angiò e colla convo- 
cazione del parlamento a Napoli fatta da Alfonso (*), 
e rimane quindi interrotto fino al 1492, alla morte 
cioè di papa Innocenzo ; dopo avere descritto le mire 
dello Sforza duca di Milano su Napoli, si interrompe 
di nuovo per ripigliare con la morte di Ferdi- 
nando. « È fama, dice il nostro di lui, per molti 
secoli non essere stato portato a seppellire re al- 
cuno con maggior pietà né con più vere lagrime 
da ogni sesso et da ogni ordine di quel che fu Fer- 
dinando. Perciochè oltre che egli morì a tempo che 
dovea sentire qualche frutto delle passate fatiche 
et che collocato in somma gloria ragionevolmente 
potea sperare d'aver a pareggiar la grandezza dei 
suoi maggiori, facea anche più grave il dolor la 
sua giovinezza, Vhaver sì poco tempo goduto la 
moglie, il non haver lasciato figliuoli, et non solo 
la certa opinione per molte prove che s'havea del 
suo valore, ma quasi l'indubitata speranza che 
havea ciascuno della clementia et liberalità sua, 
ancora che molti habbino ricoverato interamente 
il suo regno et non gli fosse restata temenza di 
nuove perturbazioni, harebbe in ogni via cercato 
di vendicarsi dei baroni Angioini » ( 2 ). 



(1) e. 420. 

(2) e. 428. 



— 151 — 

• Continuano le lotte nel regno di Napoli, e l'Am- 
mirato interrompe la sua narrazione, e questa volta 
per non più ricominciare, colla presa di Capua, 
per opera dei Francesi nel 1501 e col riscatto del 
capitan Fabrizio per opera di G. Orsini 0). 

Tale è il contenuto della storia dell'Ammirato, 
che, considerata come raccolta di materiale attinto 
a fonti per lo più sicure e come campo di osser- 
vazioni a volte acute e saggie, è di importanza 
non lieve. L'autore ha meditato lungamente sui 
fatti, li ha vagliati e li ha giudicati, secondo che 
abbiam già visto, mano a mano che si sono svolti, 
con retta interpretazione e con sano discernimento. 
Se un difetto ha quest'opera, che poi è il primo 
lavoro ampio di genere storico composto dall'au- 
tore, sta nel modo di usar delle fonti: l'Ammi- 
rato non ha ancora appreso e non possiede l'arte 
di rifar da sé il racconto e, pur raccogliendo le 
notizie da altri, dare alla sua 'narrazione un'im- 
pronta propria e originale, che imprime invece ben 



(1) e. 441. — Ecco quel che dice di Alessandro IV : « Creato 
dunque Luigi XII parea che non vi rimanesse più da temere se 
non l' immoderata ambitione del pontefice, il quale d'ogni altra 
cosa tenendo più forma che di vicario di Cristo, di niun altro 
pensiero ingombrava con maggiore attenzione l'animo, che di 
trovar via onde far grandi i figliuoli non fusse stato cagione 
di produr nuovi mali », e. 438. 



— 152 — 

marcata solo nei giudizi e nelle osservazioni. Pur 
padroneggiando perfettamente la materia, non pensa 
quasi di allontanarsi nella parte formale ed esposi- 
tiva dai suoi predecessori. Eccone qualche esempio: 

Haec sententia comprobata Ioanna confestim Antonium Oa- 
raffam cognomento Mali tiara, cui maxime confìdabat mittit 
iubetque, nisi intra tertium diem auxilium Pontifice impetret, 
ad Alphonsum in Sardinaneam naviget, atque ab eo auxilium 
postulet.... Post haec Franciscum Ursinum et Ludovicum Co- 
lumnam claros copiarum duces mercede conducit Christoforo- 
que Cai etano acursito (hi omnes ad mille equites ducebat) 
Ioanni Caratiolo Urbis custodiam demandat.... Malitia navi 
longa ac biremi acceptis Pisas atque inde pedibus Florentiam 
ad Pontificem profectus.... qui spem sibi dari animadverteret 
statuit ad Alphonsum traiicere, Ioanna prius de sua profectione 
certiore facta. Erat enim forte per id tempus Florentiae Gar- 
tias quidam (1) ect. 

« Finalmente il pensiero et la guardia della città 
fu commessa a Sergianni Caracciolo et Francesco 
Orsino; Lodovico Colonna et Cristoforo Gaetano 
aveano la condotta' di mille cavalli. Con tutto ciò 
conoscendo non esser queste forze bastanti... fu co- 
mune parere di coloro che governavano, che si ri- 
corresse ad aiuti forestieri. Et sopratutti doversi 
prima far capo dal pontefice, e dove questa spe- 
ranza mancasse ricorressesi a qualsivoglia prin- 
cipe di cristiani et spetialmente ad Alfonso d'Ara- 



ti) Cfr. Facio, op. cit., p. 21. 



— 153 — 

gona... Eletto dunque a così importante ambascia- 
ria Antonio Carrafa detto per soprannome il Ma- 
litia, huomo in cui la regina confidava molto, 
havendo con sé una galea ed una fusta si conferì 
subitamente a Pisa, e di Pisa per terra a Fiorenza, 
ove era allora Martino dal quale non cavando se 
non parole, raguagliata del tutto Giovanna, pensò 
incontanente andar a trovar Alfonso, poiché tro- 
vandosi presso il papa un cavaliere spagnuolo detto 
Garzia » ecc. C 1 ). 
E ancora: 

Ad eum profectus, inquit scire se legatura a Ioanna missum 
ab eo opem postulare nec id dissiniulari posse. Caeterum exi- 
stimare ac haud commissurum ut novam lohannae gratiam ve- 
teri Ludovici gratiae atque amicitiae prelaturus sit.... Vocari 
Ludovicum a Neapolitanis civibus magnis obtestationibus : re- 
gnum quod sibi legitimo iure debeatur quodque a civibus ul- 
tro offeratur, armis vendicare. Sibi vero haud dubium esse si 
quas petiit naves, Lodovico concesserit, aut certe ei ad versus 
non fuerft. Ludovicum sperati atque exoptati regni brevi com- 
potem fore deberi id certe tum veteri consangui nei tati tum 
amicitiae nec commictendum, ut imperandi cupidine, a Ludo- 
vici amicitia discessisse videatur, haec Alphonsus non negare 
se primum Ioanna ab se auxilium petére; caeterum nihil adhuc 
super ea re decretimi esse cognationem et amicitiam Ludovici 
quain commemorarit sibi caram cara mq uè esse magni exsisti- 
mari (2). 



(1) e. 305. 

(2) Cfr. Facio, op. cit., p. 25. 



— 154 — 

« La qual sentenza mentre tenea travagliato 
l'animo del re per quel che si vedea inclinato dai 
canto suo a soccorrer Giovanna che a trovarlo 
l'ambasciatore di Ludovico et a dirgli ch'egli sa- 
pea molto bene essere già venuto ambasciator di 
Giovanna a chiederli aiuto, ma che non si persua- 
derebbe però giamai ch'egli volesse più tosto far 
conto della nova amicizia di Giovanna che l'an- 
tica congiuntione et amicitia di Ludovico, il qual 
chiamato ad un regno che giustamente gli appar- 
teneva da' propri popoli era tanto lontano a cre- 
dere ch'egli re l'avesse ad impedire, che solo per 
questo era stato mandato per ottenere dieci galee da 
lui acciocché il re suo se l'acquistasse più facil- 
mente o almeno a priegarlo che egli non si oppo- 
nesse, il che sperava conseguir facilmente, non giu- 
dicando esser cosa da re il posporre le amicitie et i 
parentadi per cupidità di regnare. Alle quali cose 
rispose Alfonso esser verissimo, che Giovanna li 
dimandava aiuto, ma sopra ciò non essersi ancora 
cosa alcuna diliberata, dell' amicitia et affinità di 
Ludovico fare egli grandissima stima » 0-). 

L'Ammirato non tornò più tardi sull'opera sua, 
se non per emendarla lievemente C 2 ) o per riem- 



(1) e. 310. 

(2) Qualche menda tuttavia è importante: narrando, p. es., 



— 155 - 

pire qualche lacuna, per fare qualche breve ag- 
giunta specialmente in quelle parti che furon pub- 
blicate. Deposta completamente l'idea di mandarla 
a termine e di pubblicarla per intero, l'opera sua 
rimase tra i suoi manoscritti, e toccò in eredità 
a Cristoforo del Bianco, che non ne tenne alcun 
conto, ed immeritamente. 

Della storia di Napoli fece l'Ammirato stesso un 
estratto col titolo : Annali di Napoli 0-). Ma que- 
sto manoscritto, pur ricordato tra quelli lasciati 
dall'Àmmirato in un inventario del testamento del 
1602, non c'è stato possìbile, malgrado diligenti 
ricerche, rinvenire. 



del permesso dato da papa Clemente VI al matrimonio fra il 
Duca di Durazzo e la cugina Maria di Giovanna I, avea scritto : 
« L'ottenne non senza però grande scandalo et mormorio di 
tutti Christiani. Havendo allhora molti uomini versati tra i 
libri dell'antiche scritture, i quali dicevano cosi fatti matrimoni 
essere stati biasimati infino a tempi degli infedeli Romani, hor 
quanto maggiormente dover parer rozzi et pieni di schifo et 
d 'abomina tion e tra la purità et nettezza della religione Chri- 
stiana. Et che perciò attendevano in breve spatio di tempo do- 
verne vedere malvagia fine » . Queste amare parole son cancel- 
late e in margine è descritto il dolore della regina Sancia per 
questo matrimonio. 

(1) Cfr. Famigl. nob, nap, t I, p. 151. 



166 



V. 



L'Ammirato a Firenze — I Ritratti di casa Medici — Cosimo 
e gli storici — Amici dell'Ammirato — Francesco I — Il 
Vinta — Alcune genealogie. 

Scipione presentandosi a chiedere la protezione 
di Cosimo (era Testate del 1569) gli offriva un suo 
scritto sulla nobile e potente famiglia, i Ritratti 
cioè di casa Medici W, che egli forse avea comin- 
ciato a scrivere stando a Roma e finito nei primi 
mesi di dimora a Firenze. È una vera e propria 
storia famigliare composta coir intento di piacere 
al duca e di acquistarne i favori. 

Comincia l'Ammirato dal 1360 con Giovanni di 
Averardo de' Medici, di cui narra il grande di- 
sinteresse e l'amore costante al popolo dal quale 
egli s'attese ed ebbe infatti tutta la sua potenza, 
per dedurne che legittimo è il potere de' Medici in 
Firenze, come quello che emana direttamente dalla 



(1) Son pubblicati nel terzo volume degli Opuscoli e da Sci- 
pione Ammirato il giovane dedicati a D. Lorenzo de Medici. 
Da essi, dice l'Ammirato, deve apprendersi che le grandi im- 
prese non son fatte dal fato ma dalla operosa attività degli 
uomini. 



- 167 — 

gratitudine del popolo verso i propri benefattori. 
Questa potenza s'afforza ancora più in mano di un 
uomo superiore, di Cosimo padre della patria, che, 
lottando contro infinite difficoltà e numerosi ne- 
mici, forte della popolarità acquistata colla sua 
munificenza e colla giustizia, riesce a farsi, col- 
l' unanime consenso dei suoi concittadini, principe 
di Firenze C 1 ). Non tace l'Ammirato del disgusto di 
una parte della città per questo nuovo governo, 
ma se ne vale per esaltare la prudenza e la sa- 
gacia del nuovo dominatore. Qui per la prima 
volta vien citato il Machiavelli per notarne le ine- 
sattezze ( 2 ), vien rammentato invece il Guicciardini 
per lodarlo « autore in somma ammiratone et re- 
verenza tenuto », e riferirne lo splendido elogio 
al grande Cosimo ( 3 ). È la prima lancia spezzata 
contro il segretario fiorentino ribelle, la prima lode 
a chi avea aiutato i Medici a ritornare in Firenze. 



(1) « A queste parti s'aggiungeva grave e grata presenza, 
prudenza molto matura e una destrezza d'ingegno tanto ec- 
cellente che non mettendosi a tentar cosa alcuna contro la 
parte, né contro quella forma di governo che allora correva, 
ma attendendo con squisita diligenza e prontezza a beneficar 
ciascuno, ei s'havea in processo di non molti anni acqui- 
stato tanti partegiani et amici che oltremodo cominciò la sua 
grandezza ad essere formidabile >, op. cit., p. 7. 

(2) Op. cit., p. 6. 

(3) Op. cit., p. 19. 



— 158 — 

• 

Figlio di Cosimo è Piero il Gottoso; di lui che 
fece rifiorire il patrimonio della famiglia, per le 
molteplici spese di Cosimo scemato, l'Ammirato 
narra le lotte con i numerosi e sempre più acca- 
niti avversari, finché per la prima volta non af- 
fermò la propria superiorità di fronte ai magistrati. 
A farne dimenticare la severità ecco succedergli 
Lorenzo il Magnifico, nel quale « sotto poco leg- 
giadro e piacevol viso stè nascosta la più bella et 
gentile anima, che per lungo tempo innanzi fosse 
mai scesa in corpo d'uomo mortale » W. Né certo 
altra figura meglio di questa si offre ad essere 
tratteggiata quale immagine di forza e di libera- 
lità, e l'Ammirato ne dice quanto di meglio può 
dire senza offendere la verità storica. Sorvola, è 
vero, sui suoi difetti, e se ricorda la sua tendenza 
ai piaceri d'amore, conchiude subito : « ma da noi 
sarebbe trapassato il costume della proposta bre- 
vità, se di questo uomo distintamente volessimo 
ogni cosa andar raccontando » ( a ). Il sesto ritratto 
è dedicato a Piero, lo sfortunato guerriero che morì 
nelle acque del Garigliano : i suoi errori sono dal- 
1* Ammirato attribuiti ai tempi e all'avverso destino, 



(1) Op. cit., p. 33. 

(2) Op. cit., p. 48. Anche per Lorenzo l'Ammirato riporta 
il giudizio del severissimo Guicciardini. 



— 159 — 

le sue crudeltà non sono taciute. Il settimo de- 
scrive la figura e le gesta di Leone X, ed è pieno 
di episodi in parte tolti dal memoriale del Grassi, 
maestro di cerimonie, in parte dal Guicciardini, 
in parte narrati all'autore da Braccio Martelli 
che era stato cameriere di Clemente VII; perciò 
il ritratto non è privo di importanza per la cono- 
scenza della vita intima del pontefice. Dopo aver 
parlato brevemente di Giuliano duca di Nemours W 
e di Lorenzo duca di Urbino, l'Ammirato s'intrat- 
tiene a lungo intorno a Clemente VII, e lo para- 
gona per le sue sciagure e per la tenacia dei pro- 
positi a Galba e per l'uso delle ricchezze a Leone X; 
viene quindi al cardinale Ippolito e al duca Ales- 
sandro del quale, dopo avere accennato alle muta- 
zioni apportate alle magistrature fiorentine, narra 
un gran numero di episodi per elogiarne la giu- 
stizia, la liberalità, ma trascura affatto gli atti 
della vita politica. Senza parlare di Lorenzo fra- 
tello di Cosimo I, pel quale non fa che riassumere 
la orazione funebre dettata per lui dal Poggio, di 
Pierfrancesco suo figlio e di Giovanni nato da que- 



(1) Di lui ricorda che « venne ad essere introdotto dal Bembo 
in quel suo bellissimo ragionamento della toscana lingua, più 
simile al lodato orator di Cicerone, che a humili ammaestra- 
menti de' principii delle vulgari o toscane lettere », op. cit., 
p. 99. 



— 1G0 — 

st' ultimo, di Giovanni delle Bande Nere il valo- 
roso, per i quali si diffonde in episodi di ardire, 
di prudenza, di generosità, giungiamo all'ultimo 
ritratto, che è quello del granduca Cosimo. È in- 
terrotto e non giunge che al conseguimento del 
principato; è inutile dire che le lodi sono profuse 
a piene mani, e non manca dopo il ritratto incom- 
piuto un lungo parallelo fra il granduca e l'impe- 
ratore Augusto, neppur esso mandato a termine. 

* 
* * 

L'opera portò il suo effetto e le prove di sim- 
patia, gli atti di protezione fioccarono. L'Ammi- 
rato, appena venuto in Firenze, fu ospitato da Ma- 
rio Colonna figlio di Stefano. Questi, amico del 
Varchi, di cui pianse affettuosamente la morte C 1 ), 
del Caro ( 2 ), della Laura Battiferro, del Vettori, era 



(1) Compose anche in quest'occasione un epigramma latino: 
come ad amico del Varchi, Pier Vittori gli inviò una lettera 
latina piena delle lodi dell'estinto. Mario è chiamato « Opti- 

mus studiisque bonarum artium deditissimus nobilis at- 

que omni genere laudis florentissimus » . La lettera del 31 feb- 
braio 1565 è posta in fondo ai Componimenti latini e toscani da 
diversi suoi amici composti nella morte di M. Benedetto Var- 
chi in Firenze 1566. 

(2) Mario aveva inviato al Caro un sonetto dove dichiarava : 

Scrittore ultimo, ignoto, al vento spargo 
le vostre lodi al mondo illustri e prime. 



— 161 — 

anch'egli poeta, e compose sonetti d'amore per la 
signora di Piombino Fiammetta Soderini e ad imi- 
tazione di Dante alcune « pietre madrigali ». Tutti 
i suoi versi, compresi i sonetti a Cosimo de* Me- 
dici C 1 ), furono raccolti e pubblicati da Bernardo 
de' Medici ( 2 ) e dedicati al Bargeo come a colui 
« che quel signore sempre amò e onorò tanto e 
delle cui lodi sempre con meraviglia ragionò ». 
Tutto dedito agli amori nella sua villa al Poggio, 
quando l'Ammirato venne da lui, il Colonna era 
ancora convalescente di una malattia venerea che 
gli avea tolto il cervello; e ben tosto tanta fa- 
migliarità si stabilì tra loro che Scipione spesso 
rimproverava l'amico della sua sregolatezza, e que- 
sti rispondeva che in amore era abituato a coman- 
dare e non a servire, e che quelle donne che al- 



Cfr. Poesie toscane dell' ill.mo sig. Mario Colonna et di M. Pie- 
tro Angelio con l'Edipo Tiranno tragedia di Sofocle tradotta dal 
medesimo Angelio. In Firenze, appresso Bartolommeo Sor man- 
telli, MDLXXXIX, p. 51. — Il Caro rispose col sonetto: « O 
qual tempo in Parnaso e qual vegg' io », nel quale tesse le 
lodi del Colonna e si reputa, cantato da lui, un eroe. 

(1) Cfr. op. cit., p. 44, dove celebra l'assunzione di Cosimo 
alla corona granducale, e p. 65, ove descrive la felicità della 
Toscana sotto il regno di Cosimo. 

(2) Di una disputa sorta fra il Medici e Roberto Titi per 
il congedo di una canzone del Colonna ci dà notizia S. Ammi- 
rato, Mescolanza, XXVII, in Opusc, II, p. 195. 

li 



— 162 — 

rami co non piacevano erano come uva dolcissima 
che dapprima è coperta di polvere, e subito che 
venga nettata diventa gustosa al palato. 

I buoni uffici del Colonna aiutarono l'Ammirato 
ad entrare in grazia di Cosimo; i Ritratti la con- 
fermarono, sicché Cosimo affidò a Scipione di scri- 
vere una storia completa della Toscana (*). 

Eran tempi di gran tranquillità per Firenze: i 
Medici eran tanto forti, che nessuno pensava si 
potesse più cacciarli. « Con la severità della giu- 
stizia castigando i rapaci, con la continenza rassi- 
curando i buoni, dice un ambasciatore veneziano ( 2 ), 
si sono acquistata la riverenza della moltitudine ». 
Si rendean sicuri dalle sedizioni mantenendo il po- 
polo con le arti e i guadagni, si custodivano dalle 
congiure tenendo lontani dalla Corte i Fiorentini ( 3 ). 
La storia va facendo giustizia a Cosimo: despota 
per necessità, dotato di volontà tenacissima e di 
animo caldo, rialzò le sorti di un popolo disfatto 
dalle civili discordie, e riunendo le sparse membra 
della Toscana le ricompose in un corpo forte e 
temuto. « Primo tra i governanti d'Italia, dice il 



(1) Cfr. Famiglie nob. napol., I, p. 207. 

(2) Cfr. Mei. venete cit., XV, p. 278. 

(3) E nota poi l'antipatia della moglie Eleonora di Toledo 
per i Fiorentini e per le loro usanze. Cfr. Saltini, L'educazione 
di Francesco 1, in Arch. ut. il., VII, p. 53. 



— 163 — 

Saltini che al governo di Cosimo I ha dedicato un 
dotto studio, e più fortunato di tutti, egli potè 
sperimentare con frutto le dottrine di Stato del 
Machiavelli e del Guicciardini; i nemici forti de- 
bellò e vinse, i più deboli rese impotenti, gli in- 
differenti e gli incerti guadagnò con sottili arti 
principesche, gli amici poi mantenne con le ca- 
rezze, coi donativi e gli onori. Volle avvedutamente 
cancellato ogni ricordo dell'antica libertà, e tolse 
la voce e le armi al popolo, ma poi ne addolci gli 
animi esercitando giustizia eguale e incorrotta, 
promovendo, come potè meglio, le industrie e le 
arti, usando a tempo con tutti graziose famigliarità, 
divertendo spesso la città con le feste, gli appa- 
rati, i giuochi, e soccorrendo sempre, spontaneo e 
generoso, alle* miserie dei poveri » W. 

È nota la protezione da lui accordata alle arti 
e alle lettere ( 2 ), sopratutto agli scrittori che po- 
tessero celebrare nelle loro opere le sue virtù; si 



(1) Cfr. Saltini, Tragedie Medicee domestiche, premessavi una 
Introduzione sul governo di Cosimo I, Firenze, Barbèra, 1898, p. 
LV. Prima del Saltini avean procurato di riabilitare la memo- 
ria di Cosimo il Ferrai col suo Cosimo de' Medici duca di Fi- 
renze, Bologna, Zanichelli, 1882, e col Lorenzo de Medici e la so- 
cietà cortigiana del cinquecento, Milano, Hoepli, 1891. 

(2) V. La vita di Cosimo de'' Medici primo Granduca di Toscana 
descritta da Aldo Manutio, in Bologna, MDLXXXVI, p. 179. 



— 164 — 

sa come egli a mensa si facesse leggere le storie 
antiche e moderne, « la cui lettione, dice il Ma^ 
nuzip, ora con l'altrui et ora col suo proprio or- 
gano da lui frequentata, non meno utile gli fu che 
famigliare W. I principali storici dei tempo ebbero 
relazione con lui ( 2 ): a Ludovico Doraenichi dette 
l'incarico di scrivere la storia della guerra di 
Siena ( 3 ); Camillo Porzio fu da lui caldamente rac- 
comandato alla Maestà Cattolica perchè ottenesse 
la carica di consigliere a Napoli ( 4 ); il Giovio fu 
da lui liberalmente ospitato ( 5 ), così che gli dedicò 



(1) Cfr. op. cit., p. 180. 

(2) Curò anche il rinvenimento delle antiche memorie di 
Firenze. Una lettera di Matteo Brano dell' 11 maggio 1552 da 
.Elimini avverte Cosimo I che nella libreria del signor Malate- 
sta si son trovati i libri 11 e 12 della Oronaca, di Giovanni Vil- 
lani « acciocché sendo ella desiderosa che una cosa tale non 
rimanga occulta, possa farlo porre in stampa come le piacerà » . 
Si profferisce a trarne copia. — Cfr. Bonaini, Lettera di Matteo 
Bruno a Cosimo I, in Giorn. sU degli arch. toscani, III, p. 70. — 
I due libri furono poi pubblicati due anni dopo dal Torrentino 
e dedicati a Francesco de Medici. 

(3) Con lettera del 1.° novembre 1556 il Domenichi mandava 
al Granduca l'abbozzo dell'opera sua per leggerlo e segnarvi 
tutto ciò che non fosse di suo gradimento. La lettera fu pub- 
blicata dal Bonaini in Giorn. cit., Ili, p. 235. 

(4) Cfr. Guasti, Documenti che concernono a C. Porzio, in Giorn, 
cit., IV, p. 76. — Accompagna la lettera del duca un'altra sullo 
stesso tenore del card. Giovanni. 

(5) Nel suo trattato delle imprese il Giovio narra d'aver 



— 165 — 

la storia scrivendo: « A voi la dedico perchè ella 
fu già con lieto augurio favorendomi Leone inco- 
minciata, et vigilata in casa de 1 vostri maggiori, la 
qual fu sempre un famoso ricetto dell'eccellentis- 
sime arti. Et non dubito punto che seguitando voi 
gli onorati vestigi de' vostri progenitori, voi non 
siate per essere di grandissimo aiuto, poiché si re- 
ligiosamente e liberalmente osservate quei mede- 
simi studi delle Muse, i quali alzarono già la fa- 
miglia vostra al principato della città » . Non è da 
dimenticare però che il Giovio avea accortamente 
maltrattato nelle sue Storie i Fiorentini; che a 
difenderli sorse G. Michele Bruto, il quale chiamò 
il vescovo beneventano laido, sordido, menzognero e 
parziale ( x ), senza pensare che difendere i Fiorentini 
era offendere i Medici; tanto è ciò vero che quasi 



abitato nel palazzo mediceo e proprio nella camera che fu del 
cardinal Giulio poi papa Clemente VII. Quando il Giovio mori 
il duca gli fece fare ricche esequie nella chiesa di S. Lorenzo. 
Cfr. Domenico Mellini, Ricordi intorno ai costumi di Cosimo 1, 
Firenze, Mogheri, 1820, p. 6. 

(1) Cfr. Le difese dei Fiorentini contro le false accuse del Giovio. 
In Lione, app. Giovanni Martino, MDLXVI. — Anche il Gian- 
notti era indignato dei giudizi dati dal Giovio, la cui storia 
diceva al Varchi scritta per buffoneria, e scriveva augurandosi 
che egli l'avrebbe nella sua storia interamente confutato. — 
Cfr. Giannotti, Op., II, p. 425. 



— 166 — 

tutte le copie del libro • suo appena uscite furon da 
questi ricercate e distrutte. 

Bisognava fare la storia un po' a modo loro, o 
almeno esser prudenti; che non era solamente 
espressione di meraviglia quella: « Ser Benedetto, 
miracoli, miracoli », che il duca rivolgeva tratto 
tratto al Varchi W mentre questi gli andava leg- 
gendo le sue Storie, il più completo e accurato 
processo che si sia mai fatto alla, dominazione Me- 
dicea. Era stato coraggioso il Varchi e il duca 
forse pensava che non erano state spese tutte bene 
le provvisioni accordategli per scriver l'opera sua: 
l'onesto pievano di S. Gavino non avea taciuta la 
verità sui predecessori di Cosimo ed avea scritto 
pagine piene di malinconico rimpianto, egli, l'amico 
migliore di Luigi Alamanni, sulla caduta della li- 
bertà repubblicana. 

Prima dell'Ammirato avea avuto l'incarico di 
storiografo ufficiale 6. Battista Adriani con lauta 
provvisione; a l'uno e a l'altro Cosimo apri gli 



(1) Cfr. La vita del Varchi scritta da O. Silvano Razzi e 
premessa all'edizione delle Opere, Firenze, 1848, e Adriani, Sto- 
rie fiorentine, lib.-III. Anche il Nardi Cosimo avrebbe voluto a 
Firenze. « Il gran Cosimo vi desidera, gli scriveva l'Aretino, 
riguardando i meriti che vi gli fanno amico e non alla causa 
che vi gli fé 7 contrario » . Cfr. Il libro delle lettere di M. Pietro 
Aretino. Parigi, Matteo il Maestro, 1609, p. 269. 



— 167 — 

archivi fiorentini. Il nostro ne profittò e si mise 
alacremente all'opera, volendo far cosa degna di sé, 
del magnifico suo protettore, e della città che avea 
dato i natali ai suoi maggiori e che ora alma ma- 
ter lo accoglieva dopo tante traversie. L'Ammirato 
dimorava in villa, nella Petraia prima, nella To- 
paia poi W, dove si ridusse a mandare a termine 
l'opera commessagli : spesso però veniva a Firenze 
ove strinse amicizia coi migliori letterati, di cui 
allora la città era ricca C 2 ), e familiarità più intima 



(1) La Topaia era una villa poco discosta dall'altra no- 
tissima della Pietraia. La Topaia era stata data nel 1558 al 
Varchi, che le mutò il nome in quello di Gosmiano e vi com- 
pose molte delle sue opere. Aveva essa un terrazzino, il quale, 
dice messer Benedetto, posto sopra una loggetta, con meravi- 
gliosa e giocondissima veduta scuopre oltre mille belle cose 
Firenze e Fiesole. — E il Lasca : 

Varchi, la vostra villa è posta in loco 
che ella volge le spalle al tramontano, 
sicché soffi a sua posta o forte o piano 
che nuocer non vi può molto né poco. 

Quella della Pietraia fu rifatta per ordine di Ferdinando I dal 
celebre Buontalenti e divenne < la delizia di tutta la famiglia 
Medicea ». Cfr. Anguillesi, Notizie storiche dei palazzi e ville 
appartenenti alla I. e R. Corona di Toscana. Pisa, Capurro, 1815, 
p. 209. 

(2) Era ingiusto il Montaigne quando scriveva: « Il n'y a 
aussi nul exercice qui vaille, ny d'arme ny de chevaux ou de 
lettre ». Cfr. Montaigne, op. cit., p. 467. 



— 168 — 

* 

col Borghini priore degli Innocenti (*). Ottenuta la 
fiducia de* suoi protettori gli furono commessi nu- 
merosi incarichi. Portava con sé il nome di buon 
facitore di imprese, e la principessa Eleonora di 
Toledo, allora accademica fiorentina, volle averne 
una per sé. Di difficile gusto, non rimase contenta 
della prima, e ne chiese una seconda: una fonte di 
fuoco che sorge dalle acque Scozie, e a lato un 
frassino perennemente verde: il frassino è l'acca- 
demia che dal fuoco della principessa attinge la 
vita (2). 

Eran giorni quelli di grande allegria per Firenze: 
il duca Cosimo, dopo le reiterate e mai fino allora 
mantenute promesse dei papi, cingeva in Roma la co- 
rona granducale. Pio V, volendo compensare l'aiuto 
da lui prestato alla Chiesa nella guerra contro gli 
Ugonotti, lo avea fatto venire a Roma e in solenne 
concistoro, tra gli applausi dei Romani, l'avea in* 
coronato ( 8 ). 



(1) Al Borghini probabilmente l'avea raccomandato il Gambi, 
che gli era amicissimo. Il Borghini scriveva nel 1566 parlando 
del Cambi al Bencivieni : « Pure ci è stato questa vernata e 
ci è ancora messer Alfonso Cambi, venuto da Napoli che mi 
è quanto si può di piaoevol trattenimento ». Cfr. Prose fioren- 
tine, IV-IV, p. 218. 

(2) Cfr. Opusc.j I, p. 679. 

(3) Vedi la descrizione della cerimonia in Natale Coim, 
Storie, lib. XXI, par. II, p. 76. 



— 169 — 

Inutile descrivere i sontuosi apparati, la pazza 
gioia dei Fiorentini nell'accogliere il loro signore 
lieto di più alto titolo:. era gente di tutte le classi 
dhe si recava in folla a riceverlo fuori della città, 
le gravi insegne dei gonfaloni repubblicani svento- 
lavano numerose al suo passaggio, il popolo plau- 
dente a lui perchè anche sotto il manto d'ermellino 
non aveva dimenticato il lucco, ne gridava il nome 
ebbro di entusiasmo. In mezzo a cosi grande folla 
l'Ammirato, abbagliato da tutto quel fasto, assor- 
dato dalle grida di evviva, guardava con compia- 
cenza il suo nuovo signore ( 4 ). 

Passate le feste, ritornò nella sua villa, e rico- 
minciò tranquillamente i suoi studi prendendo parte 
alle questioni che allora si dibattevano fra i lette- 
rati. Fiori van gli studi intorno al Boccaccio, la cui . 
opera, proibita per lungo tempo," veniva ora rimessa 
in onore. Cosimo I avea ottenuto da papa Pio V 
il permesso di ristamparla, e il Borghini ( 5 ) fu uno 



(4) L'Ammirato in quest'occasione fu spettatore della morte 
improvvisa di Tommaso Gualtierotti. Cfr. Storia della famiglia 
Bandirti, p. 224. 

(5) Non era il Borghini uno dei più entusiasti per il Boc- 
caccio: dibattendosi infatti la questione se il Boccaccio si do- 
vesse o no imitare nello stile, il Borghini fu contrario a tale 
imitazione. « Mi risolvo, scriveva al Salviati, di tenermi pure 
a quello stile che dalla natura mi viene, amando meglio sve- 



- 170 — 

dei quattro deputati dal duca alla revisione del te- 
sto, anzi si assunse la cura delle Annotazioni che 
ben vennero dette un tesoro di critica filologica e 
paleografica W. Nel 1573 venivan pubblicate final- 
mente le Cento novelle C 2 ), e un esemplare perve- 
nuto all' Ammirato provocava la seguente sua let- 
tera al Borghini ( 3 ) : 

Molto Mag.eo et molto Rev.do Sig. Mio Oss.mo. 

V. S. mi obbliga molto con le sue molte cortesie, et io mi 
avveggo molto bene d'ha ver le fatto l'usura. 

Le rendo infinite gratie così del dono come del favore che 
ella mi fa, il qual reputo più che altra cosa. M.r Baccio Naldi 
il quale mi disse questi di a dietro a Castello che havea ve- 



stirmi di povero mantello, che si mostri mio e fatto a mio dosso 
che pompeggiare con ricca e sconvenevole roba che subito si 
scuopra attaccata ». Il Salviati sosteneva invece l'imitazione 
perchè, diceva, le leggi del bello sono sempre le stesse. Cfr. 
Opuscoli inediti o rari raccolti per cura della Società poligrafica ita- 
liana, Firenze, 1884, I, p. 120. 

(1) Cfr. Oesabb Guasti, Rapporto dell'anno accademico 1881-2 
in Atti della R. Accademia della Crusca, Firenze, Galileiana, 1888, 
p. 10, dove si fa la- storia di questa edizione del Boccaccio. 

(2) < Il Decameron di messer Giovanni Boccaccio cittadino fio- 
rentino ricorretto in Roma et emendato d'ordine del Sacro Conc. di 
Trento et riscontrato in Firenze con testi antichi et alla sua vera le- 
zione ridotto da deputati di loro Alt. ser. », in Fiorenza nella 
stampa de' Giunti, MDLXXIII. 

(3) E senza data, nel cod. Strozziano dell'Arch. fior., CXXX, 
e. 64 r. ; sul tergo : « Al rev. sig. mio mons. Priore degli In- 
nocenti ». 



- 171 - 

duto una parte dell' annotationi di V. S. mi è testimonio di 
quello che di dette annotationi io le dissi, et molti miei amici 
dicendomi che era stato errore a non farle andar insieme col 
Boccaccio, perchè non si venderebbono, io risposi che per me 
harei compro prima l' annotationi che il Boccaccio. Sì che mi 
rallegro di cuore che sian per uscir presto e che V. S. mi fac- 
cia tanto honore con esse. Io sono tornato a stare a Firenze 
pochi dì, onde harò comodità di venir qualche volta più spesso 
a far riverenza a V. *S. Bev.ma a cui molto basoio le mani: 
che Dio le doni ogni contento et felicità, et le giuro che uno 
de 7 desiderii che havea in questa vita era che dette sue anno- 
tationi uscissero fuori. 

L'anno seguente infatti vedevan la luce, edite dal 
Giunti, le Annotazioni U). 

L'Ammirato alternava la dimora della villa con 
quella di Fiesole e con brevi gite a Firenze, ove 
si recava a riveder gli amici o a leggere i primi 
libri della sua Storia al granduca. Un quadro con- 
servato nella chiesa di S. Maria Nuova a Firenze 
lo rappresenta in piedi leggente presso il duca Co- 
simo, che seduto lo ascolta. Breve tempo però potè 
l'Ammirato godere della protezione del munifico 
Granduca: questi nell'anno stesso, quando già da 
qualche tempo si era ritirato dal governo dello 



(1) Annotationi et discorsi sopra alcuni luoghi del Decameron 
di M. Giovanni Boccaccio, fatte dalli molto Magnifici sig. Depu- 
tati da loro Alt. Ser., in Fiorenza nella stamperia de' Giunti, 
MDLXXIV. 



— 172 - 

Stato, lasciandone l 'amministrazione al figlio Fran- 
cesco, mori. Ai panegirici ed ai discorsi commemo- 
rativi e laudativi di Pietrangelo Bargeo, Pier Vet- 
tori, Battista Adriani, Lionardo Salviati, Baccio Ban- 
dini che lessero alcuni in italiano, altri in latino (*), 
si aggiunse V Ammirato, e in una devota compagnia, 
non sappiamo quale, tessè le doti' del defunto suo 
protettore. Riferire anche brevemente l'orazione 
dell'Ammirato pel munifico principe è superfluo; 
basti dire che fu, come doveva essere, una lode 
ininterrotta alla magnificenza del defunto, alla sua 
grandezza, alla sua prudenza, alla sperimentata sag- 
gezza nell'arte di governare, ed insieme un augu- 
rio, tratto naturalmente dai promettenti auspici of- 
ferti fino allora, che il governo del figlio Fran- 
cesco somigliasse in tutto a quello del padre. 



* 
* * 



(1) Cfr. Descrittane della pompa funerale fatta nelle essequie del 
aer.mo sig. Cosimo de Medici Gran Duca di Toscana nel V alma città 
di Fiorenza il giorno XVII di maggio dell'anno MDLXXI1II. 
In Fiorenza, appresso i Giunti, 1574. Le orazioni del Bargeo e 
Adriani fatte in latino furono edite dal Giunti, le altre tutte 
dal Sermantelli. Il Vettori parlò in S. Lorenzo, l'Adriani nel 
Palazzo pubblico, il Salviati nella chiesa dei Cavalieri in Pisa, 
il Band ini nell'Accademia fiorentina. 



— 173 - 

Purtroppo le previsioni non si avverarono, e il 
successore del primo Granduca fu il peggiore della 
sua stirpe. Il giusto contemperamento che Cosimo 
avea saputo stabilire tra la severità di un governo 
nuovo che ha bisogno di porre salde radici e le 
aspirazioni legittime risorgenti tratto tratto nel 
popolo dal ricordo di una libertà per tanti secoli 
goduta, disparve Sbtto Francesco I. Moderando le 
spese di una Corte dove il fasto era tradizionale, 
impiegando le maggiori entrate in opeì*e di pub- 
. blica utilità, soccorrendo sempre e dovunque alla 
sventura, Cosimo era riuscito a farsi perdonare 
ogni imposizione anche gravosa ; Francesco invece, 
avaro per indole, smungendo il popolo fino all'estre- 
mo, lasciando in non cale le arti e le industrie, 
avea reso .la città misera e diffidente. « Tanti pò 
veri, dice l'ambasciatore veneziano, vanno mendi- 
cando per tutte le strade, per le abitazioni ristrette 
per le faccie pallide, per il vivere ordinario loro, 
che è molto tenue » ( 2 ). La fiducia che i Fiorentini 



(2) « Attendendo a riscuoter le entrate con ogni rigore, e 
metter da parte il denaro, ha ridotto la città a gran miseria, 
perchè non cessando egli né la Corte di spender molto, non 
prestò mai denari alle arti, come fece il padre e come vuol fare 
il successore ». Gfr. Relaz. di Firenze di Tom. Contarini, 1588, 
in Relaz. venete, appendice, XV, p. 255. La popolazione scemò 
da 120,000 cittadini, quanti erano sotto la repubblica, a 80 o 



- 174 - 

aveano riposto in Cosimo, giustificata dalla equità 
e dalla giustizia delle sue sentenze, dei suoi Tri- 
bunali, venne a mancare: atroci delitti furono com- 
messi, ne fu macchiata la stessa Corte, eppure tutti 
o quasi tutti rimasero impuniti (l). 

Nella protezione però degli studi e degli studiosi 
Francesco non fu indegno del padre suo, forse per 
effetto della educazione ricevutalo anche per ob- 
bedire alla generale tendenza di interessato mece- 
natismo tuttora in fiore. Nel greco egli avea avuto 
a maestro Pier Vettori, nel latino Antonio Angelió 
da Barga, fratello di Piero, il celebre filologo let- 
tore nello studio di Pisa. ( 2 ) « Ad hanc huiusmodi 
disciplinam, dice Piero, non modo a tanto patre 
informatus est sed etiam ad assidua optimorum 
auctorum lectione in primis eruditus, quando et 
latine et graece sic sciebat, nulli ut essent vel hi- 



90,000, e in tutto lo Stato da 1,300,000 a un milione. Francesco 
durante il suo governo mise da parte circa 3 milioni di scudi 
d'oro. 

(1) Cfr. Saltini, op. cit., p. 279 e segg. ; largamente ne avea 
parlato F. Inghirami, Storia della Toscana, Poligrafia Fiesolana, 
1843, X, p. 250. Severa è la storia con Francesco I, malgrado 
le lodi sperticate dategli dai panegiristi. V. per tutti: Oratio 
Francisci Bocchii de laudibus Francisci Medici» Magni Ducis Etru- 
riae, II, apud Iuntas, MDLXXXVII, p. 14. 

(2) Cfr. Saltini, L'educazione del principe don Francesco de* Me- 
dici, in Arch, stor. ti., s. IV, XI, p. 57 e segg. 



— 175 — 

storiae veteris, vel recentiònis memoriae scriptores 
quos accurate diligentesque non perlegisset, nulli 
etiam pene poetae, quos puer non attigisset » W. 
Veritiera pertanto è la lode che gli fa il Tebal- 
ducci, quando elogiandolo nell'orazione funebre 
dice: « Dell'amore ed onore alle scienze testi- 
moni sien i tanti libri al suo nome dedicati, la fa- 
mosa libreria dei Medici di molti e nobili volumi 
da lui arricchita, la Fiorentina Accademia mante- 
nuta, i favori prestati agli scrittori delle istorie 
della città, i premi e stipendi che ad uomini chiari 
per dottrina o per pregio d'arte meritevoli soleva 
assegnare » ( 2 ). Il Porzio infatti, per citarne uno, 
inviandogli una copia della sua Congiura dei Ba- 
roni scriveva, che memore dei benefizi ricevuti 
avrebbe in tutte le sue scritture esaltato il nome 
di lui (3). 

E di tale esaltazione si preoccupava grandemente 
Francesco, tanto che, componendo verso questo tem- 



'(1) Cfr. Ovatto Petri Angelii Bargaei Fiorentine habita in fu- 
nere Francisci Medicis Magni ducis Hetruriae, XVIII, kal. Ianua- 
rii, MDLXXXVII, Florentiae, apud Philippum Giuntam, p. 18. 
E nota la gran passione di lui per la chimica e le arti mecca- 
niche. Cfr. Montaigne, op. cit., p. 172. 

(2) Cfr. Orazione in lode del Gran Duca Francesco di Lorenzo 
Giacomini Tebalducei, in Prose fiorentine, I, 1, p. 105. 

(3) Cfr. Guasti, doc. cit., in Giorn. stor. degli Arch. Tose, 
IV, p. 77. 



- 176 — 

pò Natale Conti la sua Storia W, egli fece pratiche 
perchè in essa si parlasse onorevolmente di lui e 
del padre suo, e, ottenutolo, scriveva ali* autore lo- 
dandogli l'opera « non meno per una volontà libera 
del disteso, che per il giudizioso spirito et elegantia 
di esso », e protestando che la lettura di essa sa- 
rebbe stata « un continuo rinfrescamene della me- 
moria di voi, et del mio desiderio, et inclinatione 
per ogni vostro commodo et benefizio » ( 2 ). Natu- 
rale quindi che l'Ammirato venisse mantenuto nel 
numero degli stipendiati e a lui si lasciasse libero 
l'accesso negli archivi e si dessero tutti gli agi per 
poter condurre a fine l'opera maggiore già iniziata 
e promettente lustro e feste alla famiglia regnante. 



(1) La prima edizione del Conti uscì a Venezia per i tipi del 
Sessa nel 1572. Le pratiche di Francesco coll'autore furono ini- 
ziate e menate a termine nel 1576 per mezzo di Ottavio Ab- 
bioso, residente medico a Venezia, sicché le lodi del Duca Co- 
simo e del figlio furono aggiunte nella seconda edizione: Na* 
talis Comitis universae historiae sui temporis libri triginta ab. anno 
8alutÌ8 nostrae 1545 usque ad annum 1580, Venezia, Zenaro, 1581, 
II, p. 211 e segg. 

(2) Cfr. Saltini, Aneddoti letterarii in Giorn. stor. Arch, Tose, 
VII, p. 64. Di questa ambizione del Granduca ci è anche prova 
una lettera scritta dal Borghini al Vinta, in cui lo si avverte 
che a Perugia s'è trovato un manoscritto riguardante Casa 
Medici, opera di un Giovanni Carlo dell'ordine dei Predicatori. 
Ne propone l'acquisto anche pagandolo più di quel che valga. 
Cfr. Saltini, op. cit., pag. 14. 



— 177 — 

A conservare il nostro Scipione nelle grazie del 
duca contribuì anche il segretario Vinta che fu dav- 
vero l'angelo suo tutelare. 

Il Minerbetti W, che 'tessè l'elogio del Vinta, 
dice che la giovinezza sua questi impiegò nello stu- 
dio delle buone lettere e nella lettura delle storie, 
adulto da queste apprese il modo di ben consigliare 
i principi e tanto vi si approfondì che « alcuna 
notabile azione da principe o personaggio grande 
fu mai fatta al mondo che egli letta non avesse, 
ed altrui, quando tempo e luogo fusse, fedelmente 
e chi scritta Tavea non raccontasse ». Educato alla 
scuola di Bartolomeo Concino, fu adoperato da Co- 
simo in molte ambascerie alla Corte di Germa- 
nia. Richiamato in Firenze fu dallo stesso Cosimo 
fatto cavaliere e dopo la morte del Concino chia- 
mato da_lui e dal successore, insieme col Serguidi 
a guidare la nave dello Stato. A lui infatti la To- 
scana deve tutto quel che di buono fu fatto sotto 
Francesco, a lui Ferdinando i migliori consigli. Uo- 
mo di prodigiosa attività, quale ce lo presenta T in- 
numerevole carteggio conservato negli archivi Me- 
dicei, trovava anche il tempo fuori delle cure am- 
ministrative di tenersi in relazione coi principali 



(I) Cfr. Orazione di Alessandro Minerbetti in lode del Vinta, 
in Prose fiorent., I, 6, p. 93. 

18 



— 178 — 

letterati del tempo e di incoraggiarli nell'opera 
loro (i). 

Tale è l'uomo a cui l'Ammirato per gratitudine 
inviava il sonetto: 

Ben si può dir che somigliate Atlante 
Senza venir sotto il gran pondo meno, 
Voi che del buon Porsena avete in seno 
Gli alti segreti e li tirate avante. 

Ma qual dolcezza è che fra cure tante 
Ov' altri suol versar tosco e veleno 
Dal ciglio di pietade e d'amor pieno 
Non parta uom mai con torbido sembiante. 

Nulla io vi chieggio, di portar contento 
Al freddo sasso che m'aspetta, lieve 
A mio sommo poter la veste antica. 

Solo ho di lodar voi gioia e talento. 
Perch'oltre il dare altrui quel che si deve 
Dolce di gloria umor virtù nutrica (2). 

L'Ammirato frattanto si era stabilito nella sua 
piccola villa di Fiesole ( 8 ). Rimane ancora oggi, 



(1) Del Vinta si ha un epigramma latino in Compon. latini 
e toscani di diversi cit. Comincia: 

Imperanti quicquam si mihi oontigiter unquam. 

(2) Cfr. Opusc, II, p. 652. 

(3) Era di proprietà dell'Ammirato, il quale pagava l'annua 
tassa di f. 10 all'Estimo di Fiesole. Cfr. Archivio di Stato, De- 
cime, Estimo XVIII di S. Giovanni del 1570, e. 528. — Fu poi 
durante il 700 dei Padri serviti. Cfr. D. Moreni, Notizie isteri- 
che dei contorni di Firenze, Firenze, Cambiagi, 1792, III, p. 125. 



— 179 — 

quantunque riattata, e sull'architrave si legge: Sci- 
pio AdmiràTus Reip. Flor. Scriptor: è una mode- 
sta casetta posta accanto alla cattedrale. Qualche 
volta scendeva a Firenze, o, inforcato l'asinelio o il 
ronzino (*), visitava i signori che abitavano sul de- 
clivio del colle fiesolano. Potea dirsi contento, la 
vita era tranquilla e non mancava qualche svago. 
Frequentava assiduamente la villa di Baccio Comi 
che era tra le più belle e ritrovo gradito della nobile 
gioventù fiorentina, che quivi « con non mai man- 
cante apparecchio di larghissima colazione il Comi 
riceve e con dolcissima musica ricrea » : tanto nu- 
merose eran le adunanze che una sera vi fu l'or- 
chestra di cento suonatori ( 2 ). Né mancavan le vi- 
site dei vecchi amici : Àntonmaria Gesualdo nobile 
cavaliere napoletano andò a trovare, viaggiando 
per 1* Italia, l'Ammirato, che lo presentò al Gran- 
duca e a sera lo tenne ad allegro convito in casa 
sua insieme con Giovanbattista Tomacello e col 
cavalier Monaco, anche loro napoletani residenti a 
Firenze ( 3 ). Un'altra volta, passando da questa città 
Matteo Veni ero, si riunirono con l'Ammirato in 



(1) Un ronzino, un asinelio e una capra formavano tutta la 
stalla dell'Ammirato. Cfr. Cod. Magi., II, I, 256, 6, e. 18, dove 
in una noterella di mano del nostro se ne ricorda la compra. 

(2) Cfr. Parallelo LXXI, in Opuscoli, 1, p. 726. 
(8) Cfr. Famigl. nob. napoletane, II, p. 8. 



— 180 — 

casa di Iacopo Salviati alcuni letterati e cavalieri. 
Si lesse il primo atto e i cori di una tragedia del 
Veniero che « piacque a ciascuno meravigliosa- 
mente, fu lodata la locuzione e la sentenza »; poi 
come tutti i salmi finiscono in gloria, si andò a ta- 
vola lietamente con tutta la compagnia, di cui fa- 
cean parte Giovanni Acciaiuoli, Giovanni e Sanso- 
netto de* Bardi, Vincenzo Alamanni e tant'altri W. 

Perchè menasse questa vita bisogna dire che la 
provvisione della Corte e i proventi propri fossero 
se non lauti certo non scarsi : eppure a sentir lui 
mancava di tutto: si lamentava, e, bisogna rico- 
noscerlo, anche quando non ne avea ragione, e 
piangeva miseria anche avendo la scarsella discre- 
tamente fornita, 

Ecco come scriveva il 28 settembre del 1576 a 
Francesco : 



(1) L'Ammirato riporta anche l'argomento della tragedia: 
Un re di Frigia, venuto in sospetto della moglie, la uccide e di- 
sereda la figlia, dichiarando erede una nipote Isalda. Morto il 
re, il padre di Isalda vuol incoronare la figlia, ma ella non 
vuole, temendo che non le si lasci sposare l'uomo del suo cuore. 
Sposatolo è fatta regina. Frattanto però la vera regina ha at- 
tirato a sé il capitano dei soldati nemici ; scoperto il tradimento 
ella fa prendere il padre e il marito di Isalda e li fa uccidere ; 
la figlia per l'angoscia muore. Cfr. Opusc, II, p. 507. 



181 — 



« Serenìssimo Gran Duca, 

« Mando a V. Altezza l'albero che io ho nuovamente fatto 
di tutti i Re di "Napoli et di Sicilia, parendomi cosa da «prin- 
cipe il vedere le ragioni et pi'étendenze degli Stati et saper le 
successioni degli altri principi. Et se restasse servita in alcuna 
cosa farmi aiutar da Melchiorre, il quale ho veduto che inta- 
glia eccellentemente farei l'albero de' re di Castiglia et d'Ara- 
gona; dal qual si vedrebbe come V. A. per via materna di- 
scende: che non sarebbe se non un aggiugner ornamento et 
splendore alla sua serenissima casa. L'historia cammina oltre 
gagliardamente et vo tuttavia ordendo cose per le quali non 
apparirò del tutto ministro inutile della sua gloria. Non so- 
stiene il mio piccolo merito che io usi con sì gran principe 
termine alcuno d'importunità, ma poi che le piacque dirmi 
già per immensa sua cortesia che quando il negozio de' ribelli 
fosse maturato io mi facessi innanzi, ho preso baldanza. di ri- 
cordarle et di supplicarla, hor che è venuto il tempo, a farmi 
veder alcun frutto della sua liberalità, se non meritato da me, 
almen debito al real costume della casa de Medici, da cui gli 
studi delle Lettere sono stati sempre favoriti : havendo io ferma 
speranza cosi nella bontà di Dio come nella mia sincera et ar- 
dente servitù, che V. A. non si pentirà mai di ha ver usato 
verso me sorte alcuna di benignità. Et in tanto priegandola 
della divina bontà l'assegui mento d'ogni suo alto et christiano 
desiderio, resterò baciandole humilmente le mani. — A 28 di 
settembre 1576. Di Firenze ». 

Coli' intento di ottenere qualche compenso e di 
entrare nelle grazie dei granduca, in occasione del 
parto di Giovanna d'Austria, prima moglie di Fran- 
cesco, compose alcune sestine inneggianti al futuro 



— 182 — 

dominatore della Toscana. È nato, egli canta, il pa- 
store che difenderà il gregge tosco dai lupi rapaci : 

Tra qual vider mai pianta i colli d'Arno 
Da che al gregge pastor temeo di lupo 
Germe non mise mai si chiari rami. 

Ma i suoi versi confusi tra i tanti composti in 
quella occasione restarono senza compenso v 1 ;. 

L'anno dopo dedicando la storia della famiglia 
Gambacorta a Camillo degli Albizi, coppiere della 
Granduchessa, lo ringrazia della sovvenzione data- 
gli, si lamenta degli amici venutigli meno al mo- 
mento del bisogno « e però, aggiunge, io godo tra 
me medesimo quando mi ricordo in otto anni che 
sono stato a Firenze non essere stato grave né 
noioso ad amico mio alcuno » v 2 ). 



(1) Ecco qualcuno dei poeti che insieme coli 'Ammirato dalle 
proprie composizioni nella fausta circostanza attendevano pro- 
tezione ed aiuto: Flamini Bah, Pratensis carmina in ortu ser. 
Principia filiù etc, Plorentiae apud Iuntas, 1577; Oda et alcune 
stanze di Giovan Francesco Buoni da Reggio nel parto della ser. ma 
donna Giovanna d 1 Austria, Firenze, Sermantelli, 1577 ; Canzone di 
Michel Capri nel natale del ser.mo Principe di Toscana, in Fi- 
renze, Sermantelli, 1577; Canzone di mess. Antonio Rinieri nel 
natale etc., Firenze; Nel battesimo del ser.mo Principe di Toscana 
canzone di Giovanni Cervoni da Colle, Firenze, Marescotti. — 
Insieme coll'Ammirato pubblicò alcune sestine il Dell'Uva, 
nelle quali questi, vaticinando la futura grandezza della To- 
scana, impetra da Dio lunga vita per poterne godere. 

(2) Cfr. Fam. nob. napol., I, p. 17Q, — I denari chiesti in- 



— 183 — 

Tanto più si troveranno ingiustificati i suoi la- 
menti, quando si pensi che un'altra fonte e non 
piccola di guadagno eran per lui le genealogia ri- 
chiestegli da famiglie principesche e da cittadini 
facoltosi, i quali eran superbi di vedere i propri 
nomi in cima ai molteplici rami, ripetenti la loro 
origine da un tronco più o meno annoso. 

A tal uopo egli faceva frequenti viaggi per i 
conventi e i castelli patrizi della Toscana, e dalle 
antiche carte egli cavava le notizie necessarie. Do- 
vunque era ospitato con cortesia e benevolenza 
senza pari 00. 



vano agli amici e datigli poi dall'Albizi e dall'altro amico suo 
Antonio Mellini servirono a rimettere a nuovo la villa della 
Topaia donatagli dal card. Ferdinando. Della benevolenza del 
cardinale per l'A. parla questi in una lettera al segretario di 
lui in data 16 ottobre 1577: 

« Il signor Palla Rucellai darà a V. S. la lettera dedicato- 
ria a Mons. Ill.mo comune padrone. La supplico, poi che senza 
averle mai fatto alcun servizio ha preso a cuore le cose mie, 
a leggerla in modo che vegga espressa nelle parole la mia viva 
et schietta servitù. Non ho potuto attendere a trascriverla, 
pur credo che si possa leggere, ma so che V. S. l'aggiugnerà 
polso et spirito se toccherà a leggerla a lei. Verrò un di que- 
sti dì in corte, se l'opere mi lascieranno et già mi sono reso 
securo che V. S. piglierà in ogni cosa protettione di me. Il 
quale se non di fatti per le poche forze che mi presta la mia 
debol fortuna, almeno di parole mi chiamerò sempre perpetua- 
mente obbligato ». 

(1) Il Borghini scrivendo da Pian di Mugnone il 24 luglio 



— 184 — 

Uno dei principi che si rivolsero all'Ammi- 
rato fu Alberico I Cibo Malaspina, mecenate de- 
gli untori di storia da cui s'attendeva onore e 
fama '-*). « Havendo inteso, scrìve il 3 marzo del 
1572, che voi scrivete le case nobili, parendovi che 

del 1577 a Baccio Valori, diceva: « li! per ora non dirò più che 
non ho che dire, se non che ier sera cenò e dormi qui messer 
Scipione Ammirato qptÀóXoya multa in sermone orcootaìov còSèv. 
— Cfr. Prose fior, cit., IV-IV, p. 103. 

(1) Son noti i versi di Bernardo Tasso: 

Alberico a cui Massa e Carrara 

Portan di marmi in sen varia ricchezza 
A cui non fu l'alma natura avara 
D'alta presenza e di viril bellezza, 
Cui natura e virtù diedero a gara 
Tutti quei doni onde l'uom più s'apprezza 
Liberal, saggio, valoroso e forte. 

Fu amico di Michele Bruto, di Ludovico Domenichi, di 
Paolo Manuzio, di F. Serdonati, del Porzio, del Ruscelli, del 
Foglietta. Le lettere del Cibo all'Ammirato si trovano nell'ar- 
chivio di Massa, dal quale furono trafugate quelle dell'Ammi- 
rato a lui, come avverte lo Sforza che delle prime fu editore. 
Cfr. G. Sforza, Scipione AmmircUo e A. Cibo, in Arch. stor, it. t 
S. V-XVIII, p. 109 e segg. — Scopo dell'amicizia del Cibo coi 
letterati era oltre l'esaltazione propria anche quella dello zio 
Innocenzo e dell'avo papa Innocenzo Vili. Né i suoi favori 
tornaron vani, che il Porzio nel marzo del 1570 inviandogli il 
II libro delle Storie scriveva « che avea per l'amor che gli por- 
tava amplificate le cose che gli riguardavano ». Cfr. Campori, 
Curiosità storiche e letterarie > CLVII, p. 288. — Per le relazioni 
col Serdonati, cfr. la lettera di questo al Cibo edita dal Cam- 
pori, op. cit., p. 369. 



— 185 — 

sia impresa onorata et che dia inditio della virtù 
vostra, ho voluto scrivervi questa mia e dirvi che io 
desidero conoscervi et d'havere occasione di farvi 
qualche servitio, et acciochè possiate più confiden- 
temente farlo, ra' è parso di pregarvi che vi piaccia, 
quanto prima potete avvisarmi quello che havete 
pensato di scrivere della Casa mia, perchè quando 
voi non fussi appieno informato, vederei che se- 
guisse, acciò che voi vi concordassi con la verità 
et non con quello che n* hanno scritto et scrivono 
altre persone valenti, sì come mi rendo certo che 
haverete caro di fare ». L'Ammirato accettò l'in- 
vito, sicché il principe gli scriveva di nuovo il 7 
dicembre 1576, inviandogli le notizie estratte dagli 
spogli delle carte della badia di S. Siro e dell'ar- 
chivio familiare, additandogli poi come buone fonti 
per la storia della famiglia Vanusio Campano e Gio- 
vanni Virgilio W. La cosa però fu portata in lungo, 
tanto che in una minuta di lettera dell'Ammirato a 
Nicolò Calefati del 3 gennaio 1587 troviamo che 
quegli si scusa di non aver compilato ancora l'al- 
bero dei signori di Massa per aver creduto dono 
del principe un libro di memorie di casa Cibo, in- 
viatogli invece per usarne nella genealogia ( 2 ). 



(1) Cfr. Sforza, op. cit., p. 111. 

(2) Cfr. Cod. Magi., Vili, 1481, dalla minuta si rileva che 
l'A. avea inviato al principe l'albero dei re di Francia. 



— 186 



VI. 

Le « Famiglie nobili napoletane » e le fiorentine. 

Maggior gloria e guadagno che non dalle opere 
precedenti l'Ammirato ritraeva dalle genealogie delle 
famiglie nobili napoletane che egli pubblicava nel 
1580 ( 1 ). Alcuni anni dopo la sua partenza da Na- 
poli, come egli stesso ci racconta nella lettera alla 
nobiltà napoletana, che chiude le genealogie, un 
M. Angelo Pacca ( 2 ) gli avea offerto una forte som- 
ma di danaro perchè cedesse a lui le fatiche du- 
rate intorno a quelle; ma molti cavalieri napole- 
tani protestarono, e l'Ammirato, non volendo esser 
rimproverato di poca onestà, per avere già da al- 
cune famiglie ricevuto carte autentiche e denaro 
per le spese e per compenso dell'opera sua, decise 
di rimetter le mani nella gran messe di notizie 
raccolta durante la dimora a Napoli e anche dopo 



(1) Cfr. Delle farri, nob. nap. Parte I. Firenze, per Amador 
Massi, 1580. 

(2) E lo stesso Pacca medico e cattedratico napoletano che 
continuò la Storia del Collenuccio. Compose anche una descri- 
zione della città e terre del regno di Napoli, una Istoria della 
famiglia d'Aquino, i Quaesita logicalia ecc. — Cfr. Napoli-Si- 

» 

ONOEELLI, Op. Cit., IV, p. 280. 



— 187 - 

il suo allontanamento da quella città, e, riordinatala 
un po' in fretta (*), darla alle stampe. L'opera co- 
minciò a pubblicarsi nel 1577, come ci dice la de- 
dica a Ferdinando de* Medici: interrotta per molte 
difficoltà, non fu terminata che nel 1580. Con essa 
l'autore credette di sdebitarsi da qualunque obbligo 
contratto con la nobiltà napoletana. 

Quarantacinque ( 2 ) son le famiglie di cui egli 
narra le vicende, di dodici dà gli alberi ( 3 ), a sette 
prepone una dedica speciale nella quale offre l'o- 
pera sua o a qualcuno della famiglia illustrata, per 
averne ricevuto conforto e sovvenzione, o a persone 
estranee, verso di cui l'autore sentiva gratitudine: 



(1) Ne dà coJpa egli stesso alla brevità del tempo, aggra- 
vato come era dalle fatiche impostegli dal Granduca. — Fam. 
nob. napoL, I, p. 132. 

(2) Son le famiglie: Accrociamura, Alagna, Alemagna, Al- 
neti, Aquini, Avella, Belmonte, Belvedere, Bonifazio, Brenna, 
Brussoni, Cabani, Capua, Capresi, Caraccioli rossi, Cavanigli, 
Celani, Clignetti, Coscia, Diano, Dionisiaco, Gambacorti, Gen- 
tile, Ianvilla, Marramaldi, Marzani, Mastro giudice, Monaci, 
Monsorio, Pipini, Pollicini, Porcelletti, Procida, Samframondi, 
Sangiorgi, Sanguineti, S. Severini, Sant'Angelo, Sans, Saurani, 
Siginulfi, Suardi, Sus, Tomai, Tuzziaco. 

(8) L'Ammirato avrebbe voluto apportare una novità negli 
alberi e porre invece de' soliti cerchietti col nome del perso- 
naggio l'immagine del personaggio stesso, ma la ristrettezza 
del tempo e il considerevole aumento di spesa glielo impedi- 
rono. — Cfr. op. cit., I, p. 85. 



— 188 - 

cosi per la storia dei Coscia dedicata a Giovanni 
Bonor.i, signore di Martignano e percettore regio 
in terra d'Otranto, e quella dei Gambacorta of- 
ferta a Camillo degli Albizi, da cui, come vedemmo, 
era stato aiutato nelle spese della villa. Ma non 
era a queste le sole fatiche durate dall'Ainmirato 
attorno alla nobiltà napoletana: di altre settanta- 
quattro famiglie possedeva numerose notizie, ma a 
rimetterle insieme ordinate ed a completarle non 
si sentiva ben disposto ora che doveva impiegare 
la maggior parte del suo tempo nella Storia, per la 
quale era stipendiato. Nella lettera alla nobiltà na- 
poletana, con la quale chiudeva il volume pubbli- 
cato, dichiarava di porre a disposizione di chiun- 
que li volesse tutti i documenti inediti da lui rac- 
colti, che egli non se ne sarebbe più occupato. E 
così fece: mandò solamente a termine la storia di 
un ramo dei Carrafa inviandola a G. Francesco di 
quella famiglia W; delle altre genealogie alcune sono 

(1) Scrive nella dedica: e Dal qual discorso se ella caverà 
alcun diletto e perciò le nascerà nell'animo alcun desiderio di 
giovarmi io di speziai grazia la richieggo che quello spenda 
tutto in benefizio della mia patria, la quale essendo stata ot- 
timamente retta dall' Ill.mo Sig. Duca Airola suo predecessore 
sarà segno che ella sia in particolar cura et protezione dell'e- 
terna provvidenza, che del continuo da prudenti e savi e buoni 
magistrati e rettori abbia ad esser governata ». — Cfr. op. cit., 
II, p. 160. 



— 189 — 

condotte a buon termine, di altre si danno poche e 
frammentarie notizie ( x ). L'avere poi alcuno ado- 
perato i manoscritti del nostro senza farne cenno 
indus#nel 1651 Scipione Ammirato il giovane a 
pubblicare anche questi frammenti dedicandoli a 
Ferdinando II Granduca di Toscana ( 2 ). 

Esaminando noi l'opera dell'Ammirato la guarde- 
remo nella sua integrità, poiché il secondo volume, 
pur composto di membra disiecta, ha gli stessi 
pregi del primo quanto a metodo e ad esattezza di 
ricerche. 

Il primo volume adunque è dedicato al cardi- 
nale Ferdinando de' Medici con una lunga lettera 
nella quale si fanno gli elogi della sua casa e della 
protezione accordata agli studiosi. « Imperocché, 



(1) « Ho io rossore — egli scrive — di non poter produr al- 
tro... prendano dunque da me gli uomini quel che io posso et 
se altri più ritrova non gli sia grave d'aggiungere perchè con 
isfacciate adulazioni e con brutte menzogne la purissima im- 
magine della bella verità non imbrattino ». — Cfr. II, p. 54. 

(2) Cfr. Delle fam. nob. napoL di Scip. Ammirato, parte II. 
In Firenze, per Amadore Massi, 1651. — Come in appendice 
al primo volume era stata pubblicata la storia della famiglia 
Risaliti di Firenze, così in questo fu aggiunta quella della fa- 
miglia d'Appiano, signora di Piombino, già scritta nel 1576 e 
dedicata a Iacopo IV di quel nome. In fondo ai secondo vo- 
lume ci son le aggiunte e le correzioni al primo, che l'A., sol- 
lecito sempre dell'opera sua, era andato facendo anche dopo la 
pubblicazione. 



— 190 - 

dice l'A., sebbene non altrove che a Napoli e fra 
lo spatio di molti anni cosi da pubbliche che da 
private scritture, come da sepolture e dalle memo- 
rie dei vecchi ho tutte le cose raccolte, %he in 
questo libro si contengono, nondimeno per molte 
difficoltà che porta con sé questa imprèsa non 
prima che a questi tempi, non altrove che in Fi- 
renze né sotto altri auspici che della casa de' Me- 
dici ho potuto racco rie e metterle insieme ». Nel 
proemio dopo aver parlato delle fatiche sopportate 
e degli intenti propostisi, preferire cioè la verità a 
qualunque altra cosa, insiste neir affermare la pro- 
pria indipendenza di studioso e di storico. Nulla, 
egli dice, ho guadagnato per dar mano alla storia 
di molte famiglie, a molte altre non ho chiesto al- 
cuna sovvenzione, pur sopportando ingenti spese; 
tutto ho fatto in omaggio alla verità e all'amore 
del luogo ove son nato: che se talvolta taccio le 
nefandezze di questo o di quello, uso di quel di- 
ritto concesso ai pittori di Filippo, che per es- 
sere egli cieco, lo rappresentavano sempre di pro- 
filo (i). 

* * 



(1) Ciò non gli proibisce di inveire talora acerbamente con- 
tro i malvagi. — Cfr. op. cit., II, p. 172. 



~ 191 — 

Le genealogie costituivano nel cinquecento un 
ramo dello scibile importantissimo: si paragonavano 
per la loro importanza storica alla geografia, se 
ne consultavano sovente gli autori nelle questioni 
giuridiche per eredità o per matrimont, servivano 
infine a rivendicare le antiche origini della nobiltà 
italiana presso gli stranieri che le conculcavano. 
Anche quando l'Ammirato dimorò a Napoli inter- 
venne in molte questioni di famiglia tra i casati 
più cospicui della città, e la sua sentenza, frutto 
di ricerche negli archivi domestici, disse l'ultima 
parola nelle controversie W. Allettato da questi ri- 
sultati, dalle profferte di aiuto, dalle promesse di 
compenso che da tante famiglie gli venivano, egli 
allargò le sue indagini fino a concepire, come si è 
detto, il disegno di una storia genealogica completa 
di tutti i più nobili lignaggi napoletani o nel napo- 
letano trapiantatisi. Tentativi prima di lui c'erano 
stati e, quantunque esigui, aveano avuto fortuna v 2 ) : 



(1) Egli stesso ci narra di ricerche fatte per stabilire la pa- 
rentela tra i Gesualdo e i principi di Consa, op. cit., II, p. 12; 
così per la famiglia Milani, II, p. 342. — In una lettera del 
13 settembre 1595 scriveva al Duca d'Urbino: e 35 anni sono 
feci un poco di rumore in Napoli per conto delle famiglie, che 
mi diede alcun utile et onore ». — Cfr. Opusc, II, p. 448. 

(2) Per esempio V Historia di casa Orsina di Francesco San- 
sovino nella quale oltre all'origine sua si contengono molte nobili 
imprese fatte da loro in diverse provincie fino ai tempi nostri. In 
Venetia, appresso Bernardino o Filippo Stagnini, MDLXV. 



,_ 192 — 

d'altra parte esempio e incitamento a queste ricer- 
che dovettero essergli dati anche dal Costanzo, che 
a Napoli passava per uno dei più eruditi genealogi- 
sti i 1 ). 11 vanto quindi che l'Ammirato si dadi essere 
stato il primo ( 2 ) a scrivere su quel soggetto non 
gli tocca: egli è bensì il maggiore autore del ge- 
nere per copia e compiutezza di trattazione. 

Non poche difficoltà egli dovette superare per 
mandare a bene la sua impresa. Triste era lo stato 
degli archivi regi: e Scipione si lamentava che i 
registri angioini ed aragonesi fossero riuniti in ma- 
niera confusa e intricata, tanto che « per istral- 
ciarli lunga opera et diligente et intendentissimo 
uomo vi si richiederebbe ( 3 ) », e aggiungeva: « sa- 
rebbe opera pietosa che quelle membra fossero a 
lor luoghi collocate e che i ministri regi commet- 
tesser la guardia di così nobil tesoro a persone 
intendenti ( 4 ) ». Né minori ostacoli offrivano gli ar- 



(1) Cfr. Napoli-Signorelli, op. cit., IV, p. 271. — Un suo 
opuscolo genealogico si trova nella Apologia dei 3 seggi stam- 
pata a Napoli nel 1633. 

(2) Cfr. la dedica della famiglia Sanseverina: « Siccome 
niuno infino a quest'ora si è ritrovato che si sia messo a cor- 
rere questo arringo... cosi pochi senza alcun fallo saranno co- 
loro i quali possano ad impresa si faticosa sottentrare » . ' 

(3) Cfr. Fam. nob, nap. t I, p. 136. 

(4) Cfr. op. cit., I, p. 193. 



— 193 — 

chivi privati : in disordine anche essi, eran quasi 
inaccessibili per l'avarizia e la grettezza dei pos- 
sessori. Questi, gente di poca levatura, mossi a ri- 
cercar la propria genealogia dal fasto e dalla va- 
nità, pensavano che il disegnare un albero genealo- 
gico fosse qualche cosa di somigliante al riscuotere 
le imposte sui frutti degli alberi delle proprie te- 
nute, e, annoiati dalla lunghezza delle ricerche, le 
facevano interrompere e finivano col negare carte 
e documenti ( l ). Spesso il nostro si lamenta del di- 
fetto d'aiuto da parte dei signori: « non si meravi- 
glia alcuno se così seccamente io di gran cose ra- 
giono, non essendo pur uno che di esse m'abbia 
fatto copia delle sue scritture, avendo tutto ciò che 
diciamo di nostra industria e non senza molta fa- 
tica da molti luoghi raccolto ; e sarebbe pur do- 
vere il procurar di far vivi i nomi e l'opere di co- 
loro i quali hanno fatto in modo che i loro succes- 
sori si possano ragionevolmente chiamar nobili » ( 2 ). 



(1) Li rassomiglia l'Ammirato a quei contadini, a cui non 
torna il conto d'aspettar la ricolta, che si distenda oltre lo 
spazio della seguente stagione, e quindi non son vaghi di pian- 
tare alberi nobili e di tarda produzione. 

(2) Cfr. op. cit., II, p. 216, p. 83 per la famiglia Cantelmo, 
p. 110 per la famiglia Caracciolo. Dove ha ricevuto aiuti non 
lo tace; così: I, p. 6 per la famiglia Gesualdo, p. 69 per la fa- 
miglia Di Capua. 

15 



— 194 — 

Quantunque impedito da tante contrarietà potè 
egli, aiutato da una singolare vigoria di corpo e 
da una pazienza e volontà ferree, rinvenire ed esa- 
minare più di cinquantamila documenti tra diplomi 
e pergamene private; e somma era la sua gioia 
quando potea portare a casa, avendola tolta dagli 
ammuffiti scaffali di un pizzicagnolo, il che non 
era infrequente, una carta antica o una pergamena, 
che egli poi gelosamente custodiva W. Nò trascura 
le cronache manoscritte e le storie a stampa: i 
vecchi gli narrano le discendenze di cui essi ser- 
bano memoria C 2 ) ; egli sa delicatamente interro- 
gare le nobili dame e sorprendere i segreti e gii 
intrighi delle alcove ( 3 ). « Oh se si potessero, 
esclama egli, una volta vedere le mie fatiche e le 
mie vigilie, quanto sarei io giudicato d'avere ben 
meritato con le famiglie napoletane » ( 4 ). Di cro- 
nache manoscritte egli cita: i diurnali detti del 
duca di Monteleone ( 5 ), i diarii di Taranto del Gra- 



ti) Cfr. op. cit., II, p. 209 e 212. 

(2) Cfr. op. cit., II, p. 74. 

(3) Cosi per la contessa di Molitorio, alla quale per le di- 
chiarazioni fattegli da Cornelia di Gennaro, dama nobilissima, 
toglie la trista fama di adultera. — Cfr. op. cit., p. II, p. 63. 

(4) Cfr. op. cit., II, p. 87. 

(5) Li chiama « talora molto confusi negli anni e scritti 
con poca diligenza ». Cfr. op. cit., II, p. 192. — In generale 
biasima tutti i cronisti napoletani: « Vitupero certo dei no- 



— 195 — 

sullo, una cronaca d'anonimo fiorentino posseduta 
da Brancaccio Rucellai, un'altra del trecento an- 
teriore al Villani posseduta da Riccardo Riccardi 
bibliofilo di Firenze e finalmente alcuni diarii scritti 
da un barbiere e datigli da Vincenzo Acciaiuoli. 
Delle cronache e delle storie già a stampa adopera 
largamente: Leone Ostiense, Pietro Diacono, Padre ' 
Onofrio, Giovanni e Matteo Villani, G. Pontano, il 
Platina, il Fazello, il Caracciolo, Ugone Falcando, 
lo Zurita, il Galateo, l'Aretino, il Panvinio nella 
vita di Urbano IV, il Facio, Michele Riccio, Fla- 
vio Biondo, il Valla, il Corio W, il Collenuccio, il 
Marineo, il Bembo, il Manente, il Guicciardini, il 
Giovió, il Porzio ( 2 ), il Sigonio, il Carrafa, Scipione 
Capece ( 3 ) nella storia della famiglia Loffreda, e il 
Costanzo. 



stro reame — scrive a proposito del Villani — che s'abbia a 
mendicar queste notizie da straniero scrittore il quale in pas- 
sando le tratta e fuor di sua principal materia ». Cfr. op. cit., 
I, p. 84. 

(1) Lo dice : « Copioso e diligente scrittore o per dir meglio 
raccoglitore delle cose di Milano ». — Cfr. op. cit., II, p. 70. 

(2) Giudica la sua Storia breve ma bella e leggiadra; del 
Giovio nota l'usato « stravolgimento » ; del Guicciardini gran- 
dissimo e prudente scrittore non osa parlare senza grande ri- 
verenza. 

(3) « Scipione Capece uomo illustre non meno per la scienza 
civile e per l'antica sua nobiltà che per l'eccellenza della poe- 



— 196 — 

Come si vede, le fonti non sono poche: si può 
dire che nessuna di quelle allora conosciute sia 
stata da lui trascurata. L'esame critico di esse pro- 
cede qui più accurato che nella Storia di Napoli, 
e ciò oltre che per la maggior pratica acquistata 
dall'autore, anche per la natura stessa dell'opera. 
' Il confronto fra le notizie offerte dagli storici e i 
documenti è qui più facile, giacché si tratta di 
esaminare fatti staccati, non disposti in un tutto 
armonicamente ordinato; e di più, trattandosi di 
storia famigliare, il materiale delle storie civili ha 

w 

una importanza molto secondaria rispetto alle per- 
gamene e agli atti privati, che esse non offrono che 
lo sfondo del quadro, nel quale dovrà campeggiare 
questo o quel personaggio che abbia illustrato il 
nome ricevuto dagli avi. 

Nell'uso delle carte antiche si mostra non solo 
espertissimo lettore, ma anche diligente e scrupo- 
loso trascrittore, talora riportandone esattamente il 
testo, tal'altra riferendone il contenuto o i tratti 
più importanti. Quando i documenti mancano e vi 

sia e cognizione delle lettere ; scrisse particolarmente la genea- 
logia della famiglia Loflreda » — della quale dichiara di es- 
sersi molto servito — « non essendo massimamente nostra 
intenzione arrogarci temerariamente le fatiche altrui e con in- 
vidiosa malvagità defraudare ciascuno della sua lode » . — Cfr. 
op. cit., II, p. 307. 



— 197 — 

è dubbio intorno alle discendenze, egli non si perde 
in ipotesi vane e in snpposizioni indeterminate o 
fantastiche; vi si indugia se presentano qualche 
grado di probabilità, altrimenti dichiara franca- 
mente di non sapere e si contenta di esporre di- 
rettamente i risultati delie sue ricerche C 1 ). Per 
questa scrupolosità di studioso e per le prove in- 
numerevoli, che mai egli si è lasciato trasportare 
dalla propria fantasia o da sciocca presunzione, 
questa opera genealogica dell'Ammirato ha pregio 
non piccolo come fonte ricchissima di notizie si- 
cure e di risultati generalmente attendibili. 

Che se dei tempi suoi o poco da lui lontani l'Am- 
mirato confessa di aver trattato deficientemente, 
dicendo: « tutti desiderosi dell'antichità, abbiamo 
inavvedutamente trascurate le cose presenti », tut- 
tavia anche per questo verso l'opera sua non è 
priva di importanza: poiché molti dei personaggi di 
cui parla egli l'ha conosciuti, e il ritratto che ne 
fa è ben fedele e pieno di vita ( 2 ). 



(1) « Ma se non ci compiacessimo punto ov'è molto tempo 
corso per mezzo d' andar con le nuove case riattaccando le an- 
tiche e non ci tenesse continuamente spaventati un timore che 
incominciando agevolmente a dar luogo alle congetture piglias- 
simo nome o di troppo creduli o quel che è peggio di favo- 
loso ». — li, p. 175. 

(2) Non ne tace specialmente i meriti letterarii, né le lodi 



— 198 — 

Né si deve trascurare il fine, a cui secondo l'au- 
tore è rivolta l'opera: offrire ai nobili dell'età sua 
la storia delle loro famiglie, perchè se ne servano 
di esempio; il che gli dà modo di trarre dalla sto- 
ria insegnamenti ed avvertenze a loro vantaggio ( j ). 

Son note, per esempio, le persecuzioni sofferte 
dai Sanseverini per parte dei re di Napoli; dal rac- 
conto (Ji esse « vedrà, scrive 1' Ammirato a Ber- 
nardino Sanseverino, di quanti danni e pericoli le 
sia stato cagione il voler troppo ostinatamente con- 
tender del pari con la potenza de' Re. Imperocché 
sebbene molte volte di ciò fare le ne sia stata ra- 
gione, è nondimeno prudente e savio consiglio l'ac- 
comodarsi talora ai tempi, a guisa di cauto mari- 
naio gittar molte volte delle più preziose merci al 
minaccevole impeto dell'avversa fortuna per salvezza 
del legno ». E agli orfani giovanetti figli di Fabri- 
zio conte di Ruvo: « Amate e ubbidite al vostro 
principe, non perchè sia Spagnuolo o Francese, ma 



che ne han fatto poeti e artisti. — Cfr. le importanti notizie 
che p. s. ne trasse il Percopo pel suo studio su Dragonetto 
Bonifacio. Giorn, st. della lett. itaL, X, p. 221. 

(1) Notevole per esser fatta da un prete la lode al conte Ga- 
leotto di S. Severi na ; « le cinque figliuole tutte onorevolmente 
allogò ed amò meglio le sue facoltà indebolite . che contro la 
volontà di chicchessia sotto zelo di religione le sue figliuole a 
perpetua prigione rinchiudere ». — II, p. 178. 



— 199 — 

« 

perchè da Dio v'è stato dato per vostro principe. 
Né fallo di re per grave che sia scuserà mai ribel- 
lione di barone, avendo a tener per fermo che 
quando i principi sono malvagi sono per colpa dei 
sudditi, e sono adoperati da Dio r come ministri della 
sua giustizia, onde noi faremmo a guisa di cani, i 
quali mordon la pietra, non s'accorgendo di chi 
l'ha tirata » C 1 ). C'è già qui come nella storia di 
Napoli quella tendenza politica che troverà più am- 
pia esplicazione nei Discorsi su Tacito. 

Appena pubblicata, l'opera dell'Ammirato trovò 
da una parte lodatori entusiasti, dall'altra denigra- 
tori accaniti; il nome di lui divenne notissimo in 
tutto il Napoletano e dovunque gli studi genealogici 
erano coltivati ( 2 ) : i nobili gli profferivapo aiuti 



(1) Cfr. op. cit., II, p. 155. — Non mancano d'altra parte 
avvertimenti ai principi: « Misurate dunque bene, q principi, 
potendo manifestamente accorgervi che con quella misura che 
altrui misurate, sarete misurati ancor voi > . E al marchese del 
Vasto ancor giovane: « Due cose fanno grandi i principi: la 
temenza della vergogna e il desiderio ed amor della gloria » . — 
I, p. 140. 

(2) Il Sansovino pur non traendo dall'opera dell'Ammirato 
quanto avrebbe potuto e dando notizie inesatte su personaggi 
per i quali il nostro l' avea date esattissime, lo cita sovente 
encomiandolo. — Cfr. Della origine et de fatti delle famiglie illu- 
stri d' Italia di Francesco Sansovino. In Vinegia, presso Alto- 
bello Salicato, MDXXXII. — Lo loda Cornelio da Vitignano 



— 200 — 

e guadagni, spesso soltanto a parole, desiderando 
di farselo amico C 1 ). 

Altri invece lo accusò, perchè investigando troppo 
addietro le origini di alquante famiglie nobili, le 
avea rinvenute molto umili; altri si lamentò, per- 
chè avea rammentato anche le modeste cariche so- 
stenute dai membri di qualche casata. Rispondendo 
a costoro l'Ammirato lasciava scritto nella storia 
della famiglia Carrafa che « l'istoria non deve di- 
ventare poesia piaggiando a ricchi e a potenti e di 
boriosa vanità riempendoli » e che ricordando ai 



nella Cronica del regno di Napoli impressa nei 1585, là dove ra- 
giona della nobiltà delle famiglie. di Napoli, Capua, Salerno, 
Gaeta. — Cfr. Napoli-Sighorelli, op. cit., IV, p. 309. — Fu 
adoperato non poco come fonte nei Discorsi delle famiglie nobili 
del regno di Napoli del sig. Cablo de Lellis, Napoli 1671 ; nella 
Historia genealogica della famiglia Carrafa del sig. Don Biagio 
Aldimari, Napoli, Bulifon, 1691, e nelle Memorie historiche di 
diverse famiglie nobili così napoletane come forestiere dello stesso au- 
tore, Napoli, JRaillard, 1691. — Oltre ai genealogisti ne tras- 
sero profitto i commentatori per chiarire e spiegare gli storici. 
Vedi per tutti Tommaso Costo nelle Annotazioni alle storie del 
Collenuccio. — Cfr. le Storie del C, Venezia, Barezzi, 1591, pag. 
19 e segg. 

(1) Narra egli stesso che Fabrizio Carrafa quinto conte di 
Ruvo, avendo incontrato ad Ancona due cavalieri fiorentini, 
domandò dell' A. senza averlo mai veduto e gli scrisse poi il 4 
novembre 1581 profferendogli quell'amicizia di cui era stato 
creduto meritevole da' suoi zii. — Op. cit., II, p. 154. 



— 201 — 

posteri l'umiltà dei propri antenati si insegna loro 
a non insuperbire dell'acquistata grandezza W. 

Così qualche verità dispiacque: Bartolomeo Ta- 
furi che avea fornito all'Ammirato tante notizie 
sulle famiglie di Terra d'Otranto C 2 ) gli scriveva 
che il libro avea destato qualche malcontento spe- 
cialmente per un'accusa di fellonia e lo consigliava: 
« In simile materia dove può escusare le persone 
ce lo persuado sommamente, perchè qualch 'altro 
pur si lamenta et io ebbi a far questione un di 
sopra tal materia ». Si trattava insomma che l'Am- 
mirato avea accusato Andrea Matteo Acqua vi va 
duca d'Atri di aver tradito re Ferrante II: Giro- 
lamo di quella famiglia gli facea sapere per mezzo 
del Taf uri il suo rammarico e nello stesso tempo 
gli prometteva un largo compenso se nella storia 
della famiglia Acquaviva avesse corretto questo giu- 



' (1) Op. cit., II, p. 162. 

(2) Lo aiutò specialmente nella storia della famiglia Acqua- 
viva. « Volendo, egli dice, io parlar del duca Bellisario son 
costretto se non voglio esser tenuto per uomo ingrato di lo- 
dar il buono e valente nostro amico Bartolo Tafuro nato nella 
città di Nardo e uomo per destrezza e vivacità d'ingegno e 
per naturale eloquenza aiutata in gran parte dagli studi delle 
buone lettere, degno di lode e d'ammirazione ». — Cfr. op. 
cit., II, p. 31. Per il Tafuri cfr. Opere di Angelo, Stefano, Bar- 
tolomeo, ecc. Tufuri di Nardo rist. ed ann. da Michele Tafuri. 
Napoli, stamperia dell'iride, 1851. 



— 202 — 



dizio. Ma l'Ammirato, e ciò gli torna ad onore, 
non volle tradire la verità, non cancellò l'accusa, 
né si lasciò persuadere dalle ragioni che il duca ad- 
duce va per difendere il suo antenato C 1 ). 



* 



Carità di patria, l' impegno assunto aveano deter- 
minato l'Ammirato a dare alle stampe le sue fa- 
miglie nobili napoletane; gratitudine di beneficato, 
premurose insistenze da parte di amici e di lette- 
rati lo inducevano a scrivere la storia delle famiglie 
nobili fiorentine. Non pubblicò già egli in questo 
tempo un libro completo intorno alle vicende di 
quella borghese nobiltà, ma solo raccolse quelle 
notizie che diciassette anni dopo la sua morte, ve- 
nivano dalle cure diligenti di Cristoforo dei Bianco 
riordinate e tutt' insieme pubblicate. Man mano che 
egli finiva la compilazione della storia di una fa-" 
miglia, o richiestone da essa o per fare atto d'omag- 
gio a qualche amico e protettore, la mandava, come 
avverte lo stesso del Bianco, alle stampe. Dalle date 
delle lettere di dedica ricaviamo che dall' 80 all'82 
egli le compilò quasi tutte: perciò non abbiamo 



(1) Cfr. op. cit., II, p. 20. 



— 203 — 

stimato inopportuno trattarne qui e mostrare in 
questo modo tutta insieme la maggior parte del- 
l'opera dell'Ammirato in questo ramo della cultura 
storica allora di tanta importanza. 

Àbbiam detto che premure d'amici e di letterati 
lo incoraggiarono a sobbarcarsi al non lieve né 
grato lavoro: tra tutti merita il primo posto Vin- 
cenzo Borghini, che purtroppo non potè vedere i 
frutti dei suoi consigli condotti all'ultima matu- 
rità. Fu egli chiamato il Quinto Fabio Pittore delle 
antichità di Firenze ( x ) e non a torto; ben disse di 
lui il Varchi, che di cose fiorentine s'intendea: 
« Essendo dottissimo e d'ottimo giudizio nella lin- 
gua greca, comune nella latina, ha nondimeno letto 
e osservato con lungo ed incredibile studio le cose 
toscane e l'antichità di Firenze diligentissimamente 
e fatto sopra i poeti e in ispezialità sopra Dante 
incomparabile studio » ( 2 ). Autorevole in ogni caso, 
il suo giudizio era ricercato specialmente nelle qui- 



(1) Cfr. Termini di mezzo rilievo e d : intera dottrina tra gli ar- 
chi di casa Valori in Firenze. Firenze, Marescotti, 1604, p. 8. 

(2) Cfr. Varchi, Er colano, ed. cit., p. 84. — Cita l'autorità 
del B. per raffermare la propria opinione sulla autenticità del 
De vulgari eloquentia dell' Alighieri. — Il Vettori nella lezio- 
ne XXI lo chiama « virum acri iudicio praeditum ac elegante 
doctrina expolitum ». 



— 204 — 

stioni storiche ( l ) e genealogiche C 2 ), intorno alle 
quali aveva speso non lievi fatiche. Le sue lettere 
ne parlano spesso ( 8 ), e per un'ampia trattazione 
sulla origine e sulla nobiltà di "Firenze, oltre ai 
discorsi che faron pubblicati, aveva raccolto un 
ingente materiale che, se rimase informe, tuttavia 
ci attesta la vasta preparazione, con la quale egli si 
accingeva all'opera ideata ( 4 ). E per quanto erudito 
altrettanto era modesto e avveduto ; ce ne fa fede 
quel che egli scrive intorno alla difficoltà di sta- 
bilire la discendenza nelle famiglie fiorentine: « La 
via del trovare l'origine con le discendenze conti- 
nuate e come corre l'uso del dire far albero delle 



(1) In una lettera del 4 gennaio 1566 al Borghini il Mei lo 
ringrazia del benevolo giudizio dato di un suo breve scritto 
sull'origine di Firenze. Il Mei poi trovò un cortese oppositore 
nel Vettori che lo combattè forte dell'autorità di Tacito. — 
Cfr. Prose fiorentine, IV, III, p. 69. 

(2) Cfr. Borghini, Lettera intorno alla consorteria dei Vettori e 
dei Capponi. Fu scritta ad istanza di Antonio Benivieni e fu 
pubblicata in Opuscoli ined. o rari, Firenze, 1884, p. 107. 

(3) In una lettera senza data del Borghini si mandano i 
frutti di alcune ricerche intorno alla famiglia Guadagni e si 
parla della grande difficoltà che offriva la storia delle famiglie 
prima del 1200: « bisognerebbe l'arte dello indovinare a tro- 
varne una chiara e sicura » . Cfr. Prose fiorentine, IV, IV, p. 300. 

(4) Cfr. M. Barbi, Degli studi di Vincenzo Borghini sopra la 
storia e la lingua di Firenze, in Propugnatore, N. S., X, p. 1 
e segg. 



— 205 — 

famiglie nostre, come e' sia da ricercare troppo in- 
dietro, ci riesce a questi tempi tanto difficile e 
impedita che per poco si può dire chiusa affatto. 
Perchè, lasciando da parte le scritture che per via 

delle antiche contese civili andarono a male.... 

quelle tante che ci sono rimase in privato o in pub- 
blico sono di sorte che non meno ci possono aiutare 
ad errare e traviarci in un altro paese se non sa- 
remo ben desti et accorti che servire a condurci 
a casa 0-) ». 

Dal Borghi ni adunque, che chiamava diligentis- 
simo raccoglitore delle memorie antiche ( 2 ) e forse 
anche dal Salviati ( 8 ) l'Ammirato ricevette conforto 
ed aiuto ( 4 )'. Il passo di monsignor Vincenzo testé 
ricordato mostra che se triboli v'erano stati per 



(1) Cfr. Discorso di mons. Vincenzo Boroitini sopra il modo 
del fare V Alberi delle famiglie nob. fiorentine. Fiorenza, Giunti, 
1602, p. 1. 

(2) Cfr. Famiglie nob. fior., p. 186. 

(3) Anche il Salviati passava per genealogista. Compose in- 
fatti una storia della famiglia Farnese, e meditava un'opera 
di mole vastissima: « Io ho preso, scriveva ad un amico nel 
giugno del 1570, e già ho dato qualche principio a scrivere 
l'origini e le storie di tutte le case, le quali posseggono oggi 
in Italia o Duchee, o Principati, o Città, o Isole, o Porti, e 
non d'altre ». — Cfr. Lettere di letterati conservate nelVArch. di 
Parma. Parma, 1853, 1, p. 655. 

(4) Cfr. Famiglie nob. fior., p. 186. 



— 206 — 

mandare a termine la storia delle famiglie napole- 
tane, per quella delle famiglie fiorentine la via non 
era cosparsa di rose. Là eran nobili di vecchia data 
che vantavano privilegi da re, da papi, da impe- 
ratori, che nei vecchi castelli feudali avean me- 
nato una vita in cui il fasto non era stato pari 
alla gloria; qui invece eran cittadini iscritti alla 
nobiltà civile, come la chiama lo stesso Ammirato, 
sorta grande e rispettata dalle lotte cittadine, no- 
biltà che avea cospirato sempre col popolo al bene 
della repubblica. Essa, scrive il nostro, se bene non 
ha baronaggi è capace di grandissimi onori, per- 
ciocché esercitando i supremi magistrati della sua 
patria, viene spesso a comandare a capitani d'eser- 
citi ed ella stessa per sé o in mare o in terra 
molte volte i supremi carichi adopera C 1 ). Le ri- 
cerche quindi per questo lato si presentavano, e 
furono infatti, allo storico più agevoli. Queste fa- 
miglie avevano certo meno scrupoli ad aprire i 
propri archivi; le pagine più brutte della loro 
storia eran quelle dove esse figuravano macchiate 
di sangue nelle gare cittadine; quel sangue non se 
lo rimproveravano né se lo ascrivevano a colpa, 
che da quelle lotte la loro città era uscita più ga- 
gliarda e più grande. Né gli archivi famigliari 



(1) Cfr. Famiglie nob. fior., p. 125. 



— 207 — 

eran poi Tunica fonte di notizie anche d'indole 
privata. 

Dacché Cosimo I avea istituito l'Archivio pub- 
blico W, dove ad ogni notaio era stato imposto di 
depositare tutti gli atti rogati da lui e dai suoi 
antenati e famigliari, era qui che si potean ricer- 
care le notizie di discendenze e di parentadi. Men- 
tre perciò nelle Famiglie napoletane il nostro non 
fa che lamentarsi per la incuria o la gelosa riser- 
vatezza di chi poteva e doveva aiutarlo, nelle Fa- 
miglie fiorentine invece son frequenti le lodi a co- 
loro che lo aiutarono nella sua fatica ( 2 ). L'Am- 

(1) All'anno 1570 narra I'Adriani: c Havea ben quest'anno 
il Granduca creato un nuovo magistrato chiamato dell'Archi- 
vio, che custodisse le scritture *e contratti pubblici che prima 
si guardavano nella casa del proconsolo o della Università de' 
Notai nelle quali spesso si trovava esser fatte fraude ; onde a 
questo servizio destinò le stanze che sono sopra la Madonna 
d'Orto S. Michele, di cui anticamente si faceva granaio pub- 
blico e ora vacavano, le quali per altezza e fortezza loro sono 
sicure da acque e altri pericoli ». — Cfr. Storie ed. cit., p. 851, 
e cfr. Bianchini, op. cit., p. 18. 

(2) Basti citare quel che dice nella lettera a Vincenzo Can- 
cellieri: « La qual lode senza alcun fallo par che si convenga 
a M. Iacopo vostro fratello, il quale d'ogni altra cura spoglia- 
tosi con ogni suprema diligenza e con ispesa non piccola si è 
per lungo spazio di tempo affaticato in andar queste memorie 
raccogliendo per poterne esser da me tessuta la piccola isto- 
rietta che vi mando ». — Cfr. Fam. fiorente p. 49. — V. an- 
che p. 211 per la famiglia Carducci. 



— 208 — 

mirato trattò compiutamente di diciannove famiglie: 
per molte altre lasciò frammenti ed appunti che 
il suo erede non pubblicò (rimangono ancora ine- 
diti W), ma pose a disposizione di quelli che aves- 
sero voluto servirsene aggiungendo : « e prego cia- 
scuno a credere, che non desidero che compiacere 
a tutti, sapendo tale essere stata la. mente dell'au- 
tore quando si messe a questa impresa ». 

Quegli stessi pregi che cercammo di porre in 
rilievo parlando delle genealogie napoletane, si ri- 
scontrano tutti nelle fiorentine. L'esatto discerni- 
mento nella scelta d'elle fonti e l'uso oculato di 
esse, l'ampiezza nelle pazienti ricerche, l'esattezza 
nel riferirne i risultati danno ad esse un gran 
valore. 

Nuovo materiale si presentava davanti a lui stu- 
dioso, ed egli lo esaminò e lo vagliò. Gli archivi 
famigliari gli fornirono diari e cronache, per esem- 
pio un memoriale di Giovanni Carducci dal 1366 
al 1419 « nel quale e de' suoi fatti, e de' suoi ma- 
trimoni e dei suoi figliuoli si vede distinta e par- 
ticolar notizia » ( 2 ), i diari di Luca e Giovanni dee-li 



(1) Riguardano le famiglie Acciajuoli, Alamanni, Aldobran- 
dino Del Bene, Boni, Cavalcanti, Cerretani, Felchi, Guadagni, 
Guicciardini, Mannelli, Pucci, JRicasoli, Rucellai, 

(2) Cfr. Famiglie nob. fior., p. 201. 



— 209 - 

Albizi, anch'essi raccoglitori di memorie famigliari 
del principio del secolo XVI, i commentari mano- 
scritti di cui era provvista la biblioteca dei signori 
Riccardi C 1 ), e una genealogia di casa Cancelleria 
dal 1428 al 1469 scritta in latino (2). Delle fonti 
edite esaminò tutte le storie di Firenze, le opere 
degli umanisti, come il Platina nella Vita di Gre- 
gorio IX, dei commentatori come il Landino, degli 
artisti come Luca della Robbia per la vita di B. Va- 
lori, dei viaggiatori come Fra Leandro Alberti. 

Il proposito di parlare di tutti i personaggi delle 
famiglie spiegandone la discendenza, non tralascian- 
done alcuno, dà a queste storie, come già a quelle 
delle famiglie napoletane, una forma rigida e sche- 
matica. Ma mentre sui varii personaggi delle fa- 
miglie di Napoli, ognuno dei quali quasi occupa 
un capitolo a parte, l'autore si indugia raccogliendo 
intorno ad essi tutto ciò che ha potuto saperne e 
esponendolo con ogni particolare, nella storia delle 
famiglie fiorentine, questa parte, diciamo cosi bio- 
grafica, è attenuata. Ed a ragione, giacché se la 
vita di questo o quel barone si riattacca con tenui 



(1) Cfr. Famiglie nob. fior., p. 25 e segg. — Dei signori Ric- 
cardi, specialmente di Riccardo, fu amico l'Ammirato. Su di 
essi cfr. l'articolo del Saltini in Arch. stor. ti., N. S., XVIII, 
p. 73. 

(2) Cfr. Fani. nob. fior., p. 52. 

14 



— 210 — 

fila alla storia generale del regno, le gesta di que- 
sto o di quel cittadino fiorentino, specialmente pei 
tempi anteriori al definitivo stabilimento del go- 
verno mediceo, sono così intimamente legate a tutta 
la storia della città, che a volerne trattare anche 
con parsimonia sarebbe stato necessario entrare in 
un intreccio di fatti troppo complesso, uscire quindi 
dai limiti segnati; ne sarebbe risultata una storia 
generale, anziché una illustrazione chiara ma mo- 
desta degli alberi genealogici di ogni singola fa- 
miglia. Ben s'avvide l'Ammirato della necessità di 
tralasciare tutto quello che, pur dando luce sulle 
singole persone, avrebbe prodotto confusione nel- 
l'insieme e turbato l'economia generale dell'opera. 
« Parrà ad alcuno, egli scrive, che io a guisa di co- 
loro i quali si pongono a fare un lungo inventario 
d'arnesi o d'altre siffatte masserizie attenda con 
rozza et poco erudita appiccatura a congiungere 
Tuna cosa con l'altra; della qual riprensione ma- 
lagevolmente mi saprei riparare, se io mi fossi 
posto a scriver vite; ma dovendo bastar a costoro 
che io porga ben altrui campo e materia di scri- 
verle, non essendo gli altri stati tanto diligenti 
quanto bisognava, lasceranno me proceder oltre 
secondo il mio proposto cammino » C 1 )" 



(1) Cfr. Fani. nob. fior., p. 99. 



— 211 — 

V'era poi un'altra ragione perchè egli non si di- 
lungasse nelle biografie : occorreva parlare di tanti 
personaggi, dei quali non si sarebbe potuto dir 
altro che bene e che, paladini dell'antica libertà 
repubblicana, si erano fieramente opposti al governo 
mediceo. Se il trattarne non era strettamente ne- 
cessario per il fine proposto, perchè farlo e dispia- 
cere anche indirettamente alla famiglia regnante? 
Qualche volta però, quando non può farne a meno, 
nomina i Medici ed esamina le loro relazioni coi 
cittadini di Firenze, e allora, gli si deve ascrivere 
a lode, non tace la verità: così dove ricorda Bar- 
tolomeo Valori e Fattività da questo spiegata per 
il ritorno dei dominatori nel 1512, dice chiara- 
mente che lo faceva contro il sentimento del po- 
polo, che di Medici non volea saperne ( x ). 

Rinfrescando la memoria di tanti illustri che si 
eran dedicati tutti al maggior decoro della città 
natale, l'Ammirato fece si che i posteri ad essi ri- 
volgessero il loro pensiero. Infatti sorsero, come 
egli dice, sepolcri e marmorei monumenti, si inci- 
sero lapidi ed iscrizioni, si innalzarono altari e cap- 
pelle, cose tutte « che senza questo stimolo non 
harebbon fatte; le quali opere se opere virtuose 
interamente non sono, potendo ancor elle trar ori- 



(1) Cfr. Fani. nob. fior., p. 105, 



— 212 — 

gine d'ambizione, non è perciò che così non sia 
conforto alla virtù la speranza della lode come ri- 
tegno delle opere scellerate è la tema del bia- 
simo » 0-). Tutto ciò certo era non piccolo com- 
penso alle fatiche dell'Ammirato, come guiderdone 
confortante era la stima generale da cui veniva 
circondato. Non si sa se il compenso materiale, vo- 
gliamo dir pecuniario, sia stato soddisfacente: a 
credere a lui si direbbe di no. Nella canzone alla 
Fortuna, alludendo alle sue fatiche intorno a ge- 
nealogie, esclama: 

Meretrice importuna e con quai sproni 
Mi cacciasti da' tarli e da la polve 
A rimenarne al dì gente sepolta? 
Quindi ognun lieto i pregi antichi ascolta 
Per la mia voce e ben conviensi ai buoni 
La lode che la man pietosa volve. 
Ma ecco come in fumo si dissolve 
Ogni mio studio perchè picciol vanto 
Fa i propri onor l'altrui gloria apparire. 
Così zampilla a lato al riso il pianto 
Del vano' stuolo e le minacce e l'ire 
Ch' ognun vorria la vesta 
Che spesso altri lasciò corta ed angusta 
Di perle e d'or contesta. 

Schernito or qual dir può tua causa ingiusta, 
Già vedi il guiderdon ch'ampio raccogli 
Di tante notti e di vergati fogli (2). 



(1) Cfr. Fam. nob. fior., p. 212. 

(2) Cfr. Opuscoli, II, p. 591. 



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— 2VÓ — 

A questo scontento, certamente esagerato come 
quello di chi molto ripromettendosi da un lavoro 
e vedendo in parte deluse le sue speranze, tiene 
in poco conto ciò che ne ha ricavato, si- aggiun- 
gevano ad amareggiargli l'animo, le cattive gesta 
di due impostori. L'uno, un suo concittadino di 
nome Sansonetto Barba, viaggiando col nome di 
Scipione Ammirato e commettendo truffe d'ogni 
sorta, gli procurò brighe infinite W; l'altro, Al- 
fonso Ciccarelli da Bevagna, « uno dei più furbi e 
dei più arditi impostori che siansi al mondo ve- 
duti > C 2 ), datosi a scrivere genealogie falsificò di- 
plomi e pergamene, inventò cronache e memorie 
mai esistite, finché, intentatogli processo da coloro 
che da queste falsificazioni si sentivan danneggiati, 
fu, per sentenza di monsignor Girolamo Mattei, 
condannato alla decapitazione il 1.° giugno del 1583. 

L'Ammirato in varie circostanze lo aveva sma- 
scherato e chiarito per impostore e falsario. Una 
volta per scroccare denaro e favore aveva il Cic- 
carelli fatto sapere al principe Cibo d'aver tro- 
vato la cronaca di un tal Giovanni Selimo riguar- 
dante la sua famiglia. Gliela richiese il Cibo, e 
non ottenendola domandò all'Ammirato che ne pen- 



(1) Cfr. Opuscoli, I, p. 136. 

(2) Cfr. Tiraboschi, Riflessioni sugli scrittori genealogici. Pa- 
dova, Tip. del Seminario, 1789, p. 8. 



— 214 - 

sasse. Questi, che conosceva il suo uomcf, rispose al 
duca ch'era una falsità, e il duca ne scriveva al 
Ciccarelli : « Scipione Ammirato Napolitano, scrit- 
tor buonissimo d'istorie che oggi lo trattiene il 
Granduca di Toscana, si ride a sentir nominare 
questi libri, che essendo esercitatissimo in simili 
materie et studiosissimo non abbia pur avuto una 
minima notizia di nessuno di essi, si che le tiene 
piuttosto favole che istorie ». Il nostro Alfonso, 
per nulla sconcertato, rispondeva che quel che as- 
seriva Scipione era cosa vana perchè, sono sue 
parole, « uomini avvezzi a leggere solamente libri 
usuali et a scrivere senza metodo, ma sempre con 
adulazioni et energie di parole, bisogna che dicano 
cosi delli autori che non hanno mai visto » W. E 
aggiungeva che all'Ammirato si parlasse di qua- 
lunque libro anche a stampa, avrebbe detto sem- 
pre di non conoscerlo. L' impudenza era pari alla 
disonestà. Come se non bastasse, quando al Cicca- 
relli fu rimproverato di aver finto diplomi, egli ri- 
spose che tutti gli altri genealogisti facevano come 
lui: Francesco Rosieres nei suoi Stemmi dei duchi 
di Lorena, Wolfango Lazio nella sua opera De 
Transmigatione gentium, il Sansovino ( 2 ), l'Ammi- 



(1) Cfr. Tiràboschi, op. cit., p. 21. 

(2) E da notare che il Sansovino era incorso nell'inganno 



- 215 — 

rato, il Contile nei loro alberi e nelle loro genea- 
logie. L'accusa veniva da chi meno degli altri aveva 
diritto di accusare, tuttavia l'Ammirato non potè 
non rimanerne addolorato. Giustizia gli han fatto 
i posteri e le opere genealogiche dell'Ammirato 
sono state sempre giudicate modello di esattezza e 
di diligenza: il nome di lui fu celebrato come quello 
del principe dei genealogisti, del più provetto co- 
noscitore della diplomatica nel secolo XVI. Il Co- 
lonna, il Rinuccini, il Possevino lo innalzarono al 
cielo nei loro scritti W. Pel 600 basti citare il rag- 



preparato dal Ciccarelli e nella Storia di casa Orsini stampata 
a Venezia nel 1565 e in quella delle Famiglie illustri d'Italia 
pubblicata nella stessa città nel 1582 avea posto a frutto i falsi 
materiali offerti dal Ciccarelli. 

(1) Cfr. Possevino, Bibliotecha seterìa, II, p. 406. — Il Rinuc- 
cini in un sonetto loda l'Ammirato perchè il suo libro raccende 
i cuori a nobili imprese: 

Far d'estinto valor perpetuo speglio 
Alla futura età non son quest'opre 
Degne d'eterno onor, d'eterni carmi? 

Cfr. Poesie del sig. Ottavio Rinuccini alla Maestà Cristianissima 
di Luigi XIII. Firenze, Giunti, 1622, p. 110. — Del Colonna si 
hanno un sonetto e un epigramma latino, che mandati mano- 
scritti all' A* (si conservano frammessi alle carte 54 e 55 del 
manoscritto delle Notizie genealogiche) furono dall'Ammirato 
il giovane pubblicati innanzi al volume delle famiglie fioren- 
tine. Il sonetto comincia: « Scipio che sol di vera gloria ava- 
ro, » e termina: 



- 216 — 

guaglio 50.° della prima censura dei Ragguagli di 
Parnaso del Boccalini, critico tutt'altro che bene- 
volo. Come prima, dice egli, Scipione Ammirato 
giunse in Parnaso, apri una pùbblica bottega dove 
fin'ora fa il mestiere di compor le genealogie e fab- 
bricar gli alberi più illustri, nel qual negozio egli 
ha l'ingegno tanto accomodato, che fa le prime 
faccende di questa Corte. Segue narrando come un 
marchese domandò all'Ammirato la sua genealogia e 
gli dette in compenso 200 scudi. Il nostro fece il li- 
bro, e presentatolo al committente questi lo compen- 
sò con 1000 scudi, ma quando vide l'umile origine 
da cui l'autore aveva fatto scaturire la propria di- 
scendenza si inalberò e rivolle i denari datigli. 

Il racconto del Boccalini in fondo è una satira 
per coloro che agli studi genealogici si applica- 
vano e per quei boriosi che la pretendono a no- 
bili, ma in pari tempo è una lode alla onestà e 
alla fedeltà storica del nostro C 1 ). 



Selva gentil, a te non vengan meno 
le frondi, ch'esser denno in ogni parte 
fregio all'Esperie fronti alto e sovrano. 

Nell'epigramma latino canta la modestia dell'A. che, mettendo 
in luce i pregi altrui, nasconde i proprii. 

(1) L'esemplare delle Famiglie nobili fiorentine posseduto dalla 
Bibl. Naz. di Firenze ha numerose postille anonime, probabil- 
mente del '700; in una nota posta verso la fine del Proemio è 



- 217 — 

Quanti in seguito si occuparono di genealogie 
fecero tesoro delle notizie fornite dall' Ammirato W, 
e se talora ne corressero i risultati avvalendosi di 
documenti nuovamente scoperti, non poterono mai 
accusarlo di frode o di negligenza. 



scritto: « Io penso che l'Ammirato fosse ut plurimum sincero 
candido e libero scrittore delle Storie e delle famiglie di Fi- 
renze. Nondimeno mi parve qualche volta amante et ossequioso 
a certe famiglie che fiorivano in Firenze non ordinarie o per 
la moltitudine degli huomini o per qualche generale o per lit- 
terati famosi dai quali poteva sperare aiuti e lodi o temer dis- 
gusti e censure ». 

(1) V. per es. il Corbinello, Histoire genealogìque de la mai- 
son de Gondi, Paris, Coignard, 1705, e Sommario storico delle fa- 
miglie celebri toscane compilato dal conte Francesco Galvani e ri- 
veduto in parte dal cav. Luigi Passerini, Firenze, Diligenti, 1865. 
Il Tiraboschi che sui genealogisti nel '500 avea fatto studi spe- 
ciali scrive: « Queste opere genealogiche dell'A. sono in grande 
stima presso gli eruditi e ci mostrano uno scrittore che cerca 
quanto più si può di appoggiarsi all' autorità di autentici mo- 
numenti; cosa tanto più pregevole allora quanto più scarsa 
era la cognizione che aveasi della diplomatica ». Cfr. Tirabo- 
schi, Storia, VII, p. 1357. 



— 218 — 



VII. 



Lutti famigliari — Le poesie del Dell' UVa — Gli Opuscoli — 
Lamenti intorno alla propria condizione — L'Accademia de- 
gli Alterati e le quistioni intorno alla « Gerusalemme libe- 
rata » — La difesa dell'Ariosto. 

Gravi lutti famigliari afflissero nel 1582 l'Am- 
mirato; moriva in Firenze, ove con lui unico figlio 
rimastogli dimorava, il padre, uomo onesto e labo- 
rioso, che avea trascorso la sua vita or servendo 
questo or quel signore, or occupando onorevoli 
cariche pubbliche. Quantunque egli non avesse 
avuto per il figlio un amore sviscerato, tuttavia la 
sua perdita cagionò a Scipione grave cordoglio, al- 
leviato solo dal compianto affettuoso degli amici e 
dagli studt assidui. — « Per la lettera di V. S. al 
signor duca d'Airola intesi la morte del signor 
Iacopo suo padre che me ne afflissi sommamente, 
così per averlo sempre amato et osservato come 
padre ancor mio, come anco per il gran dispiacere 
che V. S. si avrà sentito come conviene a rive- 
rente figlio verso cosi onorato et amato padre. Io 
non entro a consolarlo perchè pari suoi si pren- 



— 219 — 

dono la consolazione da loro istessi ; egli è morto 
in età perfetta et in man d'uno unico figlio che 
l'era rimasto, né si può dire fuor di casa, poiché 
i dua insieme rappresentavano la casa intiera et in 
ogni luogo li era patria. Qua è stato pianto da 
quanti lo conoscevano et questo dovria bastarle ». 
Cosi scrivea da Nardo al nostro Bartolomeo Tafuri 
il 23 luglio del 1582 W. 

Malgrado tali dolori l'Ammirato continuava ala- 
cremente le fatiche intorno alla Storia di Firenze: 
dimorò alcun tempo in Mugello, sia per visitare 
alcuni conventi, sia per prendere conoscenza de 
visu di quei luoghi che erano stati teatro di tante 
guerre, e non poca importanza avevano avuto nelle 
vicende della gloriosa Firenze. Cosi in Mugello lo 
troviamo come testimone in un atto civile del 4 
settembre 1582 ( 2 ). 



(1) La lettera già citata nel ms. della Bibl. Naz. di Firenze, 
XXVI, 187, dopo la e. 434. Termina: « Se qua occorresse al- 
cuna cosa del servitio di V. S. in questa perdita del sig. suo 
padre adoprimi al securo che io desidero di servirla, come so- 
pra l'eredità non so come rimane, le sorelle son tutte mari- 
tate o fatte monache che le dovria apportar contento. Mi 
duol solamente che quella bona memoria in Bologna trovò 
morto il sig. Alessandro Bovio; che Phaveria accarezzato et 
governato ». 

(2) Cfr. Archivio di Stato in Firenze. Decime. Filza di giu- 
stificazioni di città del 1582, e. 475. 



— 220 - 

Oltre che ai lavori propri attendeva anche alla 
stampa di scritti altrui; sui principi di quest'anno 
avea pubblicato i Contentarti del conte di Biccari 
sulle cose fatte da don Giovanni d'Austria in Ita- 
lia C 1 ), nella seconda metà dell'anno curava la stampa 
delle poesie del dell'Uva C 2 ). 



(1) Con lettera del 4 marzo, conservata nell'Arch. fior., ne 
mandava un esemplare al duca d'Urbino: « Come io ho l'a- 
nimo pieno di desiderio di guadagnarmi con ogni onesto modo 
qualche piccola parte della gratia di Vostra Eccellenza così non 
ho voluto lasciare passar questa occasione di mandarle un li- 
bro de' Commentari del P. Conte di Biccari delle cose fatte da 
don Giovanni d'Austria in Italia. Il quale havendolo io fatto 
mandare alle stampe ho giudicato che non sia indegno dono di 
lei, sì per far più d'una volta honorata menzione di V. Ecc.za 
et sì perchè trattando di cose tanto gravi et nelle quali ella 
intervenne, non potrà se non porgerle con riduglierle alla me- 
moria dilettazione et piacere. A me intanto, mentre l' Ecc.za 
Vostra darà talora di mano a cotesto libro sarà singoiar gra- 
tia, se mi sia noto che ella non ischifi et abborrisca questi pic- 
coli et umili segni della mia prontissima servitù. Di Fiorenza 
a 4 di marzo 1582 ». 

(2) Fu il Dell'Uva di nobile famiglia e nacque a Capua: ma- 
turo di anni si rese monaco in Montecassino. Fu amico del 
Tasso; in un manoscritto cassinese tra molte rime di lui vi è 
un sonetto: 

Tasso cui diede il ciel nobile e raro. 
Fu amico del Caro e ne pianse la morte con un sonetto: 
Adunque è morto il Caro a cui concesse. 



_ <X>1 

Nell'agosto pubblicò il Pensiero della morie con 
una lunga sua lettera dedicatoria a Girolama Co- 
lonna duchessa di Monteleone, come a colei che 
« uscendo dalla via ordinaria, la quale è calpestata 
dalle gran donne che in morbidezze vivono, avea 
mostrato d'aver animo superiore alla femminil fra- 
gilità » W. I versi del Dell' Uva C 1 ), formano in tutto 
cinquanta sonetti W, una apoteosi della morte consi- 
derata come la panacea di tutti i mali, il termine 
di tutte le tribolazioni, e ciò per dimostrare che 
essa non deve spaventare, anzi deve essere accolta 



Oltre le opere edite a cura dell'Ammirato compose: il Doroteo, 
poemetto istruttivo per la gioventù, e il Trionfo dei Martiri. 
— Cfr. per lui: TosTf, Storia dell'Abbadia di Montecassino t III, 
p. 274. 

(1) Cfr. Opuscoli, II, p. 355. Una numerosa schiera di poeti, 
non soltanto di Napoli ma di tutta l'Italia, ne cantarono le 
lodi: 

Questa che vive e spira 
e sotto il sacro suo nome si mostra 
d'ogni eccelso valor salda colonna 
in abito di donna 

.... è dea discesa in questa chiostra 
per le genti bear dell'età nostra. 

scriveva il Cappello. Cfr. le Rime) ed. Serassi, Bergamo, 1753, 
canz. 26; vedi anche i sonetti 223 e 226 e le Rime di Celio Ma- 
gno et Orsatto Giustiniano, in Venezia, Muschio MDC, pel so- 
netto : 

Questa che d'oro e d'alabastro pura. 



— 222 — 

con lieta e serena fronte e non col dolore di la- 
sciare questa vita, che è, cosa accertata, una valle 
di lagrime. 

Contemporaneamente al Pensiero della morte fa- 
cea pubblicare i Martini delle cinque vergini dello 
stesso Dell'Uva dedicandole con lettera pure del 25 
agosto a Felice Orsina, moglie a Marcantonio Co- 
lonna e vice- regina di Sicilia W. La descrizione dei 
tre regni d'oltretomba e poi la narrazione di tutte 
le torture sofferte dalle cinque vergini Giustina, 
Caterina, Agnese, Agata e Lucia porgono materia 
a questo libretto del padre benedettino composto 
ad istanza della stessa signora Felice. Grandi lodi 
ne fa l'Ammirato nella lettera dedicatoria, lodi che 
si spiegano colla antica e sincera amicizia per l'au- 
tore, che i versi monotoni e fiacchi quantunque 



(1) Cfr. Opuscoli, II, p. 349. — Inviando i Martirii delle cin- 
que vergini a Francesco I granduca con lettera del 3 ottobre 
1582, conservata nel carteggio mediceo dell' Arch. fior., l'A. lo 
consigliava a incaricare il Dell'Uva « che facesse la Giuditta 
Santa del vecchio testamento come queste son del nuovo », 
credendo « che fusse per ricevere bello et leggiadro poema et 
sarebbe comandamento degno d'un principe toscano et non 
che amatore ma intendentissimo delle belle lettere come l'Alt. 
Vostra » . In pari data ne inviava anche un esemplare al Vinta 
« perchè ella ha gusto della poesia et perchè so che le cose re- 
ligiose l'aggradano massimamente quando ben scritte da tale 
inchiostro » . Cfr, Carteggio Mediceo F. 98 ? e. 78 e 84. 



— 223 — 

ispirati ai sublimi della Divina Commedia non le 
meritano. Belle parvero pure quelle poesie alla 
nobile donna che scriveva rispondendo ali 'Ammi- 
rato C 1 ): Tutte queste opere del padre don Benedetto 
dell'Uva mi paiono in modo che avanzano il pen- 
siero e nutriscono l'anima di vera soddisfazione. 



* 
# * 



Poco dopo la stampa delle rime del Dell'Uva 
l'Ammirato curò quella dei propri Opuscoli ( 2 ) dedi- 
candoli a Francesco de' Medici. Essi comprendono: 
I. della ospitalità ; II. della diligenza ; III. se gli 
onori si debbano procurare; IV la vita del re 
Ladislao; V. la vita della regina Giovanna; 

VI. orazione in morte del gran duca Cosimo; 

VII. lettera alla signora donna Eleonora di To- 
ledo in materia d*una impresa ; Vili, i paralleli. 
Dei trattati 3, 4, 5, 6 già parlammo ; consideriamo 
per un momento gli altri. 

L'argomento della ospitalità non era nuovo ma 
era sempre d'occasione. Non era nuovo, perchè il 
Pucci per il primo in una briosa canzone avea par- 



(1) Cfr. Opusc.j II, p. 353. La lettera è del 20 gennaio 1583. 

(2) Gli Opuscoli di Scipione Ammirato al Sepen.mo 8. D. Fran- 
cesco de' Medici Granduca di Toscana, II, in Fiorenza, appresso 
Giorgio Marescotti, 1583. 



— 224 — 

lato del modo di contenersi in casa altrui. Suppone 
egli che un cavaliere arrivi di notte ad un castello : 
il signore lo accoglie con gioia secondo che ha fatto 
ogni volta che gli si è porta l'occasione di mostrarsi 
cortese. Tutti i cavalieri precedentemente alloggiati 
al loro partire aveano toccato solenni bastonate, 
perchè si eran profusi in cerimonie facendo gli 
stizzinosi e non ubbidendo in tutto alla volontà del 
padrone di casa; l'ultimo cavaliere se ne astiene 
e perciò lo si ricolma di ricchi doni. 

.... Chi non vuol bastonate, 

Chi arrivi a casa altrui, ed egli piaccia, 

Quel che gli è detto faccia, 

E faccial tosto senza far contese... 

Ch'egli è buono imparare all'altrui spese (1). 

Nel 400 e nel 500 nelle novelle e nelle comme- 
die si accenna sovente ai doveri dell'ospitalità: 
l'Ariosto, per citare un esempio, parla nella Sco- 
lastica, atto I scena 3. a , dei preparativi da farsi 
per ricevere gli ospiti. 

Si comprenderà come giungesse opportuno lo 
scritto dell'Ammirato quando si pensi alla gran dif- 



(1) La canzone del Pucci fu pubblicata nel giornale fioren- 
tino L'Etruria, anno II, 1851-2; è tratta dal cod. vaticano 8212. 
— Cfr. Lumbeoso, Memorie italiane del buon tempo antico, Torino, 
Loescher, 1889, p. 105. 



— 225 — 

ferenza tra i viaggi di oggi e quelli di un tempo, 
anche nei luoghi meno frequentati e meno acces- 
sibili. Forse, dice il Lumbroso, nessun punto della 
vita passata ci offre un distacco cosi forte da quella 
di oggi, come il modo di viaggiare ed alloggiare 
per via. Poiché la lunghezza dei cammini e i di- 
sagi delle strade e gli usati mezzi di trasporto e 
le tappe, fermate ed avventure che ne consegui- 
vano e le locande appena appena in sul nascere e 
l'antica ospitalità sempre in fiore, sia nei conventi, 
sia nelle case private, e le regole osservate per 
questa sorte d'uffici, e gli umori dei riceventi, 
tutto insomma dava ai viaggi ed alloggiamenti in 
genere un aspetto ed un carattere che al mondo 
non sono più C 1 ). Questo però valeva per le per- 
sone facoltose o per i viaggiatori d'una certa im- 
portanza, per i poveri diavoli la cosa era ben dif- 
ferente, gli spiriti cavallereschi si erano andati 
illanguidendo. Che se Fra Leandro Alberti, il quale 
fece un viaggio per tutta l'Italia, ci dice che non 
sempre trovava accoglienze festose (si noti che per 
i frati le porte dei castelli eran sempre aperte), 
immaginiamoci quel che' dovea essere per un po- 
vero secolare. 



(1) Cfr. Lumbroso, op. cit., p. 105. 

15 



— 226 - 

L'Ammirato andando da Firenze a Lecce e avendo 
cosi nell'andare come nel tornare patito molte mo- 
lestie, tanto per la malvagità della stagione quanto 
per la incomodità degli alloggiamenti e per la lun- 
ghezza del cammino, pensò, come racconta egli stesso, 
alla ventura che avean gli antichi di trovare dap- 
pertutto ospitalità e gli venne idea di fare un trat- 
tato che contenesse tutti i doveri di chi ospita e 
di chi è ospitato, richiamando a quel sentimento 
di vicendevole carità, per il quale il contadino pu- 
gliese a chi varchi la soglia del suo abituro offre 
il migliore boccone della sua povera mensa, e la 
ricca dama fa spalancare, per chi giunga, dai gal- 
lonati servitori la porta del palazzo sontuoso. Non 
è quindi della ospitalità pubblica che l'autore in- 
tende parlare, non della cristiana che i vescovi 
devono offrire a chi ricorre a loro, ma della ospi- 
talità nel significato latino. 

La lingua italiana, osserva il nostro autore, non 
ha la parola corrispondente alla latina, perchè gli 
italiani, senza alcun dubbio, meno dei latini e degli 
antichi di questa virtù si dilettano. 

Sicurezza e quiete occorre offrire all'ospite, pel 
quale s'abbian le camere apposite, come pure pel 
suo servo e pel cavallo. Con lieto viso accolto trovi 
egli, stanco del viaggio, quei conforti che sollevano 
il corpo affaticato: un bel fuoco, una camera ar- 



— 227 — 

redata di tutto l'occorrente e le vesti da mutarsi; 
se è malato non gli manchino cure e medicine. Le 
mense siano abbondanti, e come non si deve far 
distinzione fra ricco e povero, cosi non per fasto, 
ma pei» spirito di cortesia si riceva il forestiero. 

Questi alla sua volta ha degli obblighi : non vanti 
sapienza e virtù, non faccia accorto chi l'ospita di 
qualche errore commesso, non ne profani con turpi 
pensieri la casa, non litighi mai con lui. 

Al momento di partire, dopo aver mostrato de- 
siderio che l'ospite si trattenga ancora, lo si av- 
verta del cammino che deve fare e lo si doni. 

Tali in breve i precetti che dà l'Ammirato, il 
quale li commenta con esempi cavati dagli antichi 
poeti, specialmente da Omero e dalla novellistica, 
o offerti dalla propria esperienza. Il libro è di pia- 
cevolissima lettura interessante per le tante notizie 
che ci porge intorno ai costumi del tempo, alla vita 
di tanti illustri signori di castelli e di città. Son 
episodi curiosissimi, avvenuti cosi nelle corti come 
nelle capanne, a cui l'Ammirato si è trovato quasi 
sempre presente, narrati con stile brioso e lepido: 
ora è il Grosso, buffone di Cosimo I, che si piglia 
giuoco di un cavaliere spagnuolo che quando beve 
pretende avere accanto due paggi con torce accese, 
ora è la buona contadina pugliese che va a dor- 
mire colla vicina comare per lasciare il posto al- 



— 228 - 

• 

l'ospite, ora son feste, tornei, commedie che si danno 
in onore di un ospite illustre, dove gli attori co- 
minciano a picchiarsi per ischerzo e finiscono per 
darsele di santa ragione. 

E lo stile si adatta all'argomento procedendo 
spigliato e semplice, la lingua se non elegante è 
tersa e risente di quella fiorentinità che l'Ammi- 
rato ha saputo così bene appropriarsi e trasfondere 
nei suoi scritti C 1 ). 






« Il Pensiero si congiunse in matrimonio con la 
Prudenza, e poiché molte notti giacquero insieme, 
la Prudenza divenuta gravida partorì e fece una 
figliuola femina chiamata l'Operazione, la quale se 
ai suoi parenti ubbidisce è tutta modesta, tutta ac- 
corta, tutta savia, tutta buona, ma se ella sviata 
dai sensi, i quali sono giovani scostumati, si di- 
mentica i buoni consigli, datile dalla madre, allora 
ella, perduto ogni onore, diventa femina di mondo ». 
Con questo apologo l'Ammirato apre il trattato della 



(1) Dell'efficacia del trattato dell' Ospitalità ci fa testimo- 
nianza Vespasiano Gonzaga, duca di Sabbioneta, che nel di- 
cembre del 1585 scriveva all'Ammirato: quello dell'ospitalità 
non solo mi è piaciuto, ma ha causato regole in casa mia in 
alcune cose, nelle quali era difettiva. Cfr. Opusc, II, p. 394. 



— 229 — 

diligenza, diretto a Pierantonio Muzio suo giovane, 
che molto diligente, a quanto pare, non dovea 
essere. 

Vuole l'Ammirato dimostrare come nelle cose 
occorra speditezza e buona volontà: i disagi e le 
avventure non devono essere un ostacolo, ma uno 
sprone. Plauto scrisse le sue commedie quando era 
allogato in un mulino, un mastro Ricciardo leccese, 
lucidando i morsi, leggeva e mandava a memoria 
libri di teologia. 

Il diligente è un avaro del tempo, è industrioso 
ed attento all'opera che compie; e qui il racconto 
del contadino romano che, tratto colla figliuola da- 
vanti ai giudici per rispondere di magia, fu pro- 
sciolto dopo aver mostrato i suoi arnesi e le sue 
mani incallite. 

Né la diligenza deve usarsi solamente nelle grandi 
cose, ma anche nelle piccole; massimamente dalle 
donne, alle quali spetta tener ordinata la casa, ac- 
cudire ai fanciulli. Come poi è difetto la diligenza 
frettolosa, cosi pure è difetto la soverchia e la 
troppo minuziosa che ingenera sospetto. « Onde, 
racconta l'autore, io sentii una volta Baccio Va- 
lori, eccellente dottor di leggi come tu sai e molto 
nelle altre scienze versato, molto meravigliarsi per- 
chè i Veneziani discretissimi e prudenti uomini per- 
mettevano che cotante relazioni de* loro ambascia- 



— 230 - 

tori fuori si veggano, parendo che il notar con 
tanta squisita diligenza senza l'altre cose gli altrui 
costumi, sia opera piena di molto sospetto e di 
molta gelosia ». Ciò alle volte deriva da superbia, 
di voler fare le cose molto eccellentemente, e biso- 
gna rifuggirne. In questa maniera l'Ammirato dava 
al suo giovane le norme per compiere il suo uffi- 
cio con savia ed attenta opera. 

Giovanni della Casa avea col suo Galateo dato le 
norme del ben vivere nella nobile società, l'Am- 
mirato collo scritto sulla diligenza ci dà le norme 
della vita famigliare, riguardanti il buon anda- 
mento, l'ordine e le cure della casa. Ed è per que- 
sto un documento, non privo di importanza, sulla 
vita e sui costumi del tempo: v'è in esso un indi- 
rizzo diverso da quello dei tanti trattati contempora- 
nei sulla buona creanza, sulle cure della donna ecc., 
un indirizzo tutto famigliare e pratico di contro 
agli altri del tutto teorici. Non si rivolge l'Am- 
mirato ad una dama, bensì ad un suo umile dipen- 
dente, ma anche quella avrebbe potuto leggere con 
profitto il volumetto, tanto è giusto e sano il cri- 
terio col quale è compilato. 






— 231 — 

Il terzo discorso, se si debbano o no ricercare 
gli onori, è dedicato a 1 Camillo degli Albizi, cop- 
piere della Granduchessa, il quale pare avesse do- 
mandato consiglio al nostro sul chiedere o no un 
avanzamento. Questi risponde dimostrando che chie- 
dere un onore, una carica di cui ci si senta degni 
non è male, ma anzi è doveroso, da che è proprio 
degli uomini aspirare sempre a gloria maggiore. 
« Se conosce in so diligenza et destrezza in trattar 
le cose del suo Comune o del suo principe, o animo 
invitto contra lo splendor dell'oro o robustezza et 
vigore nelle cose da guerra, o perizia alcuna o 
scienza intorno alcuna arte o ingegno, volgasi pur 
arditamente a chieder siffatte cose che ne ripor- 
terà sempre gloria e riputazione immortale ». Né 
al principe deve riuscir molesto che un suo dipen- 
dente gli chieda onori quando ne lo reputi degno. 
Ma quanto male air incontro fa colui, che, non mi- 
surando bene le proprie forze, briga per ottenere 
alte cariche alle quali non ha attitudine, e crede 
che basti ad amministrarle Tesser mediocre W. 

Con i suoi tre discorsi intorno alla ospitalità, 
alla diligenza, agli onori l'Ammirato ci porge de- 
lineata la condotta dell'uomo verso il prossimo o 
condotta sociale, verso i proprii affari o domestica, 



(1) Cfr. Opuscoli, I, p. 609. 



— 232 - 

verso la patria o civile. E tale intento egli dovette 
avere quando li riunì e li ordinò in un sol vo- 
lume. Additando adunque i doveri dell'uomo verso 
gli altri, verso sé stesso, verso lo stato, egli, gio- 
va ripeterlo, compiè opera differente da quella di 
molti suoi contemporanei'; alle altrui teoriche astra- 
zioni oppose le norme della vita pratica quale al- 
lora si viveva. Dopo il trattato del governo della 
famiglia dell* Alberti, nel quale 1* elemento classico, 
sovrabbondante più di quel che comunemente non 
si creda, dà una intonazione non del tutto consona 
alla vita del tempo suo, non si era avuto nessun 
trattato con un intento cosi pratico come quello 
del nostro, espressione dei tempi in cui, affievolito 
l'ideale della libertà civile, si badava ad educarsi 
alla realtà e ai bisogni della vita. 



* 



Veniamo ora ai Paralleli dedicati ad un amico 
affettuoso, Roberto degli Albizi. Leggendo l'Ammi- 
rato le antiche storie man mano che si imbatteva 
in qualche avvenimento che trovasse un riscontro 
con altri moderni, un aneddoto di un generale o 
un politico greco o romano somigliante a quello di 
un generale o principe del suo tempo, egli li no- 
tava e ne istituiva il confronto. Così, ci dice l'au- 



— 233 — 

tore, ebbero origine questi Paralleli, della pubbli- 
cazione dei quali non fu ultima causa il voler dare 
il debito omaggio alla virtù e al senno dei con- 
temporanei e il rendersi benevoli molti lusingan- 
done il merito. Che anzi per molti paralleli si può 
supporre che il processo di composizione sia stato 
inverso a quello da lui indicatoci : che cioè egli dai 
tempi moderni sia risalito agli antichi, e per com- 
plimentare amici e protettori abbia ricercato negli 
antichi storici gli esempi convenienti. Cosi essendo 
stato eletto a cardinale lo Sforza, gli inviò insieme 
con una lettera di congratulazione il parallelo tra la 
sua famiglia e Catone C 1 ). Però, malgrado questo 
carattere i Paralleli sono storicamente degni di stu- 
dio, offrendoci essi una gran quantità di notizie 
sulla vita e sul carattere di eminenti personaggi 
del tempo; ci parlano cosi dello smisurato affetto 
che Eleonora di Toledo, quantunque donna appa- 
rentemente altera e poco espansiva, nutriva per 
suo marito Cosimo I, tanto da vegliarlo la notte 
fingendo di giuocare ( 2 ), e insieme della curiosa so- 
miglianza che passava fra il granduca Cosimo e un 



(1) La lettera dell'Ammirato allo Sforza e la risposta di que- 
sto in Opuscoli, II, p. 347-6. Il parallelo è il XXII. 

(2) Par. XLV. 



— 284 



suo servitore C 1 ); ci narrano alcuni fatti di giusti- 
zia di Francesco I ( 2 ), altri della vita particolare 
di Pier Vettori ( 8 ). 



* 
* * 



L'ultimo parallelo stabilisce un confronto tra 
re Dario e Pio V e termina parlando della bene- 
volenza di questo papa per l'autore. Nella chiusa 
v'è una dolorosa querela sugli scarsi mezzi dati- 
gli per vivere: si duole l'Ammirato « che perve- 
nuto all'età di 52 anni, dei quali ne ha trenta il 
lungo fascio de chiericali abiti portato, non avesse 
di benefizi di chiesa pareggiato in sino a quest'ora 
al numero degli anni quel degli scudi... che dove 
tanti altri nati in minor fortuna di lui e meno di 
lui conosciuti e in più giovane età posti abbiano 
le ampie dignità e rendite procacciatosi; egli già 
vecchio e da lungo e grave peso delle fatiche af- 
fannato non ebbe ancor certezza di poter chiudere 
gli estremi giorni suoi senza sentire i disagi della 
povertà » ( 4 ). Anche più compassionevole era la let- 
tera con la quale accompagnava un esemplare de- 



(1) Par. XXIX. 

(2) Par. XVIII. 

(3) Par. XI. 

(4) Par. LXXIV. 



— 235 — 

gli Opuscoli al cardinal Ferdinando : « non dubito 
della vostra benignità umanissimo Principe et si- 
gnor mio, et so benissimo che ella mi dovrebbe or- 
mai dar animo a chiederle qualche giusta e onesta 
grazia, almeno perchè negli anni gravi della vec- 
chiezza uno eh' è stato quattordici anni a' servigi 
della casa de' Medici, non abbia a piatire le cose 
necessarie alla vita, o almeno per non esser mo- 
strato a dito non senza argomento chiaro de 1 miei 
demeriti, che io solo fra tanti rimunerati sia stato 
lasciato a dietro, ma come l'esempio delle cose 
passate mi ha insegnato a sperar poco per l'avve- 
nire, così mi basterebbe anco il cuore a superar 
la fame, et il biasimo non procedente da mia colpa, 
se questo solo non m'affliggesse che per manca- 
mento di comodità io non posso mandar innanzi al- 
cuni miei onesti desideri in materia di lettere e 
tutto in grandezza e gloria dei miei principi » W. 
Senza dubbio v'è dell'esagerazione in cotesti la- 
menti. 

Francesco, è vero, fu ben diverso da Cosimo, ma 
nemmeno egli tolse all'Ammirato la provvisione as- 
segnatagli, né lo abbandonò nei suoi bisogni. E vero 
pure che la Bianca Cappello, tutta intenta a do- 



ti) Cfr. Opuscoli, II, p. 346. 



— 236 - 

nare a chi, lodandola per bellezza C 1 ) e liberalità, 
le indirizzava madrigali e canzoni ( 2 ), non poteva 
essere ben disposta verso di lui, che mai una volta 
la ricorda nei suoi scritti, che non le ha mai in- 
viato un sonetto, né dedicato un libro, a lei che 
di tante dediche servilmente adulatrici era stato 
oggetto. L'Ammirato guardava con disgusto quella 
donna sciagurata e ambiziosa, che dominava nella 
corte in cui avea vissuto severa e castissima Eleo- 
nora da Toledo, e gli torna a sommo onore il si- 
lenzio che di lei serba e Tessersi accostato di più 
alla parte del cardinal Ferdinando, che, malgrado 
l'apparente cordialità, era spietato nemico della 
figlia della repubblica veneziana, e di più promet- 
teva di perpetuare in tutto le gloriose tradizioni 
paterne. 

Il Cardinale rispondeva all'Ammirato rigranzian- 
dolo del dono e dichiarandosi « desideroso di poter 



(1) « Cette Duchesse — scriveva il Montaigne — est belle, 
a l'opinion italienne, un visage agreable et imperieux, le cor- 
sage gros, et de tetins à leur souhait. Elle lui sembla bien 
avoir la suffisance d'avoir angeolé ce prence et de le tenir a 
sa devotion longs-temps ». Cfr. op. cit., p. 174. 

(2) Basti citare il Tasso, che, avendone celebrate le doti pre- 
clare, ricevette in dono una ricca coppa d'argento. Per lei lo 
sventurato poeta sperava di dar fine a' suoi travagli e princi- 
pio ad una vita più tranquilla. Cfr. Lettere del Tasso, ed. Gua- 
sti, II, p. 275. 



— 237 — 

valere a sollevarlo, cosi egli scrive, talmente, che 
degli anni spesi in cotesto servizio possiate restare 
contento, parendomi che questo tocchi non meno 
altri che voi, il cui merito evidente par che la 
fortuna non sarebbe per oscurare se non molto dif- 
ficilmente. In questo non solo non recuso quella 
parte che me ne tocchi, ma volentieri me ne pi- 
glio di più per adoprarmi in vostro beneficio in 
tutti quei modi, che me ne mostrerete » (i). Ma 
eran parole, e l'Ammirato non se ne contentava, 
sicché il 23 novembre del 1583 scriveva al Cardi- 
nale di nuovo sollecitandolo a rimuoverlo dall'an- 
gustia nella quale si trovava ( 2 ). 

Il bisogno di migliorare la propria fortuna lo 
indusse a offrire i propri servigi al duca d'Ur- 
bino, al quale mandava il 31 di marzo gli Opu- 
scoli, dichiarandosi disposto a fare l'albero della 
famiglia e a venire per tale scopo a Pesaro e ad 
Urbino. Dal Duca però non riceveva che rin- 
graziamenti e promesse di patronato e di aiuto. 
Pensò di rivolgersi anche alla munificenza di Fi- 
lippo II di Spagna, e con Bongianni Gianfigliazzi 
mandò gli alberi della famiglia imperiale, dei re 



(1) Opuscoli, II, p. 346. 

(2) Del 10 dicembre dello stesso anno v'è una lettera con la 
quale gli manda i primi fogli di un'opera a lui dedicata. 



— 238 - 

di Napoli W, di quelli di Portogallo e dei duchi di 
Milano. L'ambasciatore fiorentino presentò al Re 
il dono e Filippo, secondo che il Gianfigliazzi stesso 
scrive, lo gradi e promise di ricordarsi dei bisogni 
dell'Ammirato ( 2 ). 



* 
* * 



In fine alla sua lettera il Gianfigliazzi manda a 
mezzo dell'Ammirato i saluti agli amici accademici 
Alterati, anche a nome dell'Aspro che era Fran- 
cesco Bonciani. Già accennammo alla grande ami- 
cizia che legava l'Ammirato a molti dei più noti 
letterati, fiorentini ( 3 ). La stima per lui andò sem- 



(1) Già Tristano Caracciolo avea composto: Genealogia Ca- 
roli I Siciliae "Regia e De Ferdinando, qui postea rex Aragonum 
futi eiusque genealogia, 

(2) Con lettera del 15 settembre 1583 l'A. ringrazia il Gian- 
figliazzi dei continui favori che gli va facendo. Cfr. Opuscoli 
cit., II, p. 344. 

(3) La sua fama era sparsa anche fuori di Firenze: nume- 
rosi letterati ambivano la sua amicizia: basti citare G. V. Pi- 
nelli con cui tenne, mentre questi era a Padova, affettuoso 
carteggio. Cordiali relazioni mantenne coi letterati della sua 
patria. In una lettera senza data ad Ascanio Persio dice: «ri- 
cevo singoiar conforto di vedere di due persone tali qual'ella 
è e Monsignor suo fratello andarsi adornando la nostra pro- 
vincia, come non è molto tempo che sentii il medesimo affetto 
essendo pervenuto a notizia del valore G. Battista Crispo da 



— 239 - 

pre crescendo, tanto che Leonardo Sai v iati, pubbli- 
cando nel 1584 gli Avvertimenti della lingua so- 
pra il Decamerone, al libro II, cap. VI, mentre 
confuta coloro che biasimavano la lettura degli au- 
tori del secolo d'oro, dopo avere addotta l'opinione 
del Bembo e dell'Ariosto, scrive: « Cosi oggi non 
dice ms. Scipione Ammirato, il quale per eseguir 
con più finezza l'onorato carico della storia della 
nostra città, onde prima discesero i suoi progeni- 
tori di nobile schiatta ed antica, ha già molti anni 
ritrovato il suo seggio in guisa, che non pup nello 
scrivere, ma nella usanza del favellare domestico, 
quasi in tutto, come natio n'è divenuto oramai » C 1 ). 
Vedemmo con quale entusiasmo l'Ammirato par- 
lasse al Borghini delle sue annotazioni intorno al 
Boccaccio. Allo studio dei trecentisti lo spingeva 



Gallipoli. Talché vo dicendo fra me medesimo, aggiunto i me- 
riti e la dottrina del buono et dotto Gio. Paolo Verruliani: 
Hammi Dio serbato infine a quest'hora perchè prima ch'io 
muoia vegga risorgere le lettere dell'antica magna Grecia et 
che Napoli, Roma, Bologna e Padova risuonino delle lodi de' 
miei paesani » . Cfr. Opusc, II, p. 498. — Del* Crispo ricordato 
dall'A. si nomina principalmente la Vita di Z>. Giacomo San- 
nazzaroj Roma, Coattrino, 1593, che ebbe posteriormente otto 
edizioni, l'ultima delle quali è quella di Venezia del 1752, e 
due orazioni contro i Turchi. Roma, Zanetti, 1594. 

(1) Cfr. L. Sàlviati, Avvertimenti della lingua sopra il Deca- 
ìnerone, Napoli, 1712, p. 75, 



— 240 — 

oltre l'amore suo naturale al secolo d'oro anche 
l'amicizia degli uomini dotti, specialmente di quelli 
che presero viva parte alle questioni intorno alla 
Divina Commedia. Tutti i suoi amici si può dire 
che siano fra i più insigni dantisti del tempo. Ol- 
tre il Borghini e il Salviati, che se furono stu- 
diosi del poema divino videro con mente larga la 
necessità di studiare tutto il trecento C 1 ), erano a- 
mici dell'Ammirato G. Adriani, G. B. Strozzi, 0. 
Capponi, lo Speroni, Roberto Titi, Antonio degli 
Albizi, Bastiano de' Rossi, e il Mazzoni ( 2 ) e il 
Bulgarini ( 3 ), che tanta parte presero alle nume- 



(1) Cfr. Del Lungo, Dino Compagni, I, p. 476. — Sui meriti 
del Borghini nello studio del 300 cfr. Barbi, Degli studi di V. 
Borghini eto., in Propugnatore^ N. S., X, p. 40 e segg. 

(2) Dell'amicizia dell'Ammirato col Mazzoni ci fa testimo- 
nianza una lettera di questo a quello nella quale ringrazian- 
dolo di una orazione inviatagli, scrive : « Le cose di V. S. son 
per se stesse di maniera perfetta e limate che senza lode d'al- 
cuno sono sempre maravigliose e stupende, tuttavia chi le loda 
e chi le ammira fa il debito suo dandoli quello che se convie- 
ne ». Cfr. p. 390, e De Angelis, Vita cit., p. 103. 

(3) Il Bulgarini in una lettera al Titi gli invia un'opera in 
versi latini di un gesuita per darla all'Angelio, all'Ammirato, 
allo Strozza etc. Gli dice inoltre d' aver ricevuto il sonetto del 
Titi all'Ammirato e di lodarlo moltissimo. In un'altra lettera 
lo manda a salutare come singolare patrone. Le lettere sono 
nel carteggio del Titi conservate nella R. Universitaria di Pi- 
sa, voi. II. 



— 241 — 

roso, accanite dispute intorno alla Divina Com- 
media W. 

Fondata verso il 1569 l'Accademia degli Alte- 
rati che avea per impresa un tino di uve, che am- 
montate si scaldano e bollendo si purgano ( 2 ), col 
motto: Quid non designai ebrietas?, avea raccolto 
nel suo seno i principali letterati di Firenze e 
avea preso ben presto salde radici e largo sviluppo. 

Subito v'entrò l'Ammirato e fu uno degli acca- 
demici più attivi e solerti: egli stesso ci parla 
delle lunghe chiacchierate cogli altri letterati e 
delle dotte loro dispute. Talora eran questioni eti- 
mologiche ( 3 ) e di indole particolare, tal' altra eran 
tesi più larghe che si ponevano in campo. Per la 
lingua italiana il nostro era persuaso che, pur ri- 
manendo immutate alcune regole eterne, dovessero 
adottarsi nuove parole man mano che se ne sen- 



(1) Per la parte presa da tutti questi letterati nella qui- 
stione intorno a Dante, rimandiamo allo studio cit. del prof. 
Babbf, Della fortuna di Dante nel sec. XVI (Ann. della R. Scuola 
nona, sup. di Pisa), Pisa, Nistri, 1890. 

(2) Cfr. Ferro, Teatro d'imprese cit., II, p. 719. 

(3) Narra che avendo in alcune scritture di casa Alamanni 
trovata la frase, di rio in buono, in significato di guadagno 
delle terre, ne domandò Luigi Alamanni, il quale in quelle pa- 
role trovò l'origine del motto: di rimbuono, vivo nel contado 
fiorentino. Eoberto degli Albizi, anche lui Alterato, confermò 
l'etimologia. — Cfr. Mescolanza I, in Opusc, II, p. 165. 

16 



- 242 — 

tisse il bisogno W ; strano è però che la ritenesse 
poco adatta all'analisi e opportunissiraa alla sin- 
tesi ( 2 ). Vivo era il culto di Dante nell'Accademia, 
dove si investigava più d' ogni altra cosa sulla na- 
tura dell'opera massima del divino poeta e se né 
prendevano le difese contro i detrattori ( 8 ). II no- 
stro giudicò che in esso tra molte lordezze vi erano 
seminati fiori, bellezze, lumi di poesia più che in 
qualunque altro poema. Studiò anche il Petrarca, 
ne notò alcuni errori di cronologia ed alcune con- 
fusioni di fatti storici ( 4 ), ne riportò, adattandoli, i 
versi, come quando, rivolgendosi ad Enrico IV, finse 
che Cristo non riconoscesse più il Santo Sepolcro: 



(L) Cfr. Trattato della segretezza, in Opus?., I, p. 845. 

(2) « Non sostiene la condizione della lingua, nella quale io 
ragiono narrazione di casi molto particolari, perchè essendo 
ella piana e agevole, diverrebbe languida et bassa fuor di mo- 
do ». Orazione in morte di Filippo II, in Opwtc, I, p. 130. 

(3) Cfr. Barbi, op. cit., p. 215. — Non prive di interesse do- 
vettero essere le lezioni del Rinnovellato (Luigi Alamanni) sulla 
topografia dell'Inferno dantesco, op. cit., p. 143: di .Dante si 
presero le difese sopratutto contro il Castrovilla, e si risolsero 
dubbi come questi: perchè egli non assegni gl'entrata dell'In- 
ferno; perchè faccia sì lungo viaggio in sì breve tempo e, se 
lo fa per virtù divina, perchè s'affanni ed ansi, ecc. ecc. 

(4) Cfr. il Trattato della segretezza, in Opuscoli, I, p. 325, dove 
spiega la confusione fatta dal poeta nei versi: 

Tacendo, amando, infino a morte cose, ecc. 

tra Antioco Magno e Antioco Sotero. 



— 243 — 

Non è questo il terren ch'io toccai pria 

Non è questo il mio nido 

In cui nutrito fui poveramente. 

Per Dio questo la mente 

Taìor mi muova e con pietà' guardate 

Le lagrime del popol doloroso 

Che sol da voi riposo 

Dopo Dio spera, et pur che voi mostrate 

Segno alcun di pie tate, 

Virtù contra furore 

Prenderà l'arme, e fia il combatter corto 

Che il divino valore 

Nell'italici cor non è ancor morto (1). 

Dell'assidua lettura poi dei minori poeti del tre- 
cento ci fa fede la miscellanea 19 in cui ne ri- 
porta molti passi (2). La lode quindi del Salviati 
non era immeritata. 

Negli studi e nelle conversazioni, nelle feste che 
di continuo allietavano Firenze e alle quali egli 
partecipava, trovava sollievo alle sciagure che lo 
tormentavano ( 3 \ dimenticava le strettezze e la 
lotta per una vita meno incomoda. Cosi in una 



(1) Cfr. Opusc», I, p. 267. Per altre dispute cfr. la Mese. X, 
in Opusc, II, p. 176-7, 

(2) Cfr. Opuscoli, II, p. 186. 

(3) Senza dubbio molte delle imprese che portavano i cava- 
lieri fiorentini, specialmente i .Riccardi nelle mascherate della 
Bufala, fatte per la venuta in Firenze di Vincenzo Gonzaga, 
furon composte dall'Ammirato. Cfr. La descrizione delle pompe 



— 244 — 

grave contesa letteraria fu impigliato per aver 
pubblicato un discorso di Camillo Pellegrino W. 

Verso la fine del 1584 egli curava la stampa 
delle rime dell'Attendolo, del Dell'Uva e del Pel- 
legrino ( 2 ) alle quali seguiva un dialogo di que- 
st' ultimo intorno a l'epica poesia, dove si innal- 
zava ai cieli la Gerusalemme Liberata, dichiaran- 
dola superiore dell' Orlando Furioso e si diceva 

4 

finalmente che l'Italia dopo tanto avea avuto nel 
Tasso il suo vero poeta eroico ( 3 ). 



e delle feste fatte nella venuta alfa città di Firenze del Serenissimo 
Don Vincenzo Gonzaga Prìncipe di Mantova e del Monferrato. In 
Firenze, B. Sermantelli, MDLXXXIV. 

(1) Cfr. per lui il Pbatilli nella sua opera Degli uomini il- 
lustri dell'antica e nuova JJapua. La raccolta di lettere di illustri 
autori al Pellegrino conservasi nel Museo campano di Capua; 
le copiò tutte il Sebassi ( Vita del Tasso, II, p. 106) e formano 
nella Biblioteca Nazionale di Firenze il cod. palatino 224. Le 
più ampie notizie intorno a Camillo Pellegrino si trovano nel 
Verbale della tornata 11 giugno 1894 della R. Commissione 
conservatrice dei monumenti ed oggetti d'antichità. 

(2)' Prima parte delle rime di D. Benedetto deWUva, G. B. At- 
tendolo et Camillo Pellegrino con un brieve discorso dell'Epica poe- 
sia. In Firenze nella stamperia Sermantelli, MDLXXXIIII. 

(3) Alle lodi del Tasso accennano anche i versi degli altri 
due. Il Dell'Uva a p. 35 canta: 

La nostra lingua già molti anni aspetta 
il suo poeta e fino ad or non l'ave 
tal che dal pregio suo molto lontana. 



— 245 - 

Sin dal suo apparire la Gerusalemme avea avuto 
lodatori e detrattori, aveva dato argomento a cri- 
tiche e a comparazioni col Furioso, Come è noto, 
per compiacere a Marcantonio Carrafa il Pelle- 
grino stese un ragionamento avvenuto fra don 
Luigi Carcafa principe di Stigliano e G. Battista 
Attendolo. La diffusione del dialogò ancor mano- 
scritto ed il rumore levatosene indussero il Pelle- 
grino a pubblicarlo, e perciò lo mandò a Firenze 
all'Ammirato perchè ne curasse la stampa. L'inca- 
rico non riusci molto gradito, e l'Ammirato scri- 
vendo a don Luigi Carrafa nella dedica gli diceva 
che mal volentieri egli acconciava gli orecchi a 
sentir cosa che detraesse alla dignità del nostro 
ferrarese Omero W. 

La tempesta preveduta dall' Ammirato scoppiò: 
gli accademici Cruscanti fecero una risposta nella 
quale criticando il poema del Tasso, innalzavano 
l'Ariosto; e quantunque la risposta fosse diretta al 



E I'Attendolo a p. 100 rivolgendosi al Tasso lo dice colui 

Onde il nostro idioma alzato al segno 

per voi si vede de' supremi onori 

che bramò invan più d'un sublime ingegno. 

(1) Non dissimulò al Pellegrino che avrebbe trovato avver- 
sari, ma « nulladimeno sarebbe stato difeso, havendo *in Fi- 
renze di letterati che sentivano et di favor del Tasso et in fa- 
vore dell'Ariosto ». Cfr. La replica del Pellegrino, p. 12. 



— 246 — 

Pellegrino, loro fine era colpire il Tasso stesso: 
tanto ciò è vero che a Camillo, il quale si lamen- 
tava della violenza degli attacchi dell'accademico 
Bastiano de 1 Rossi (*), 1' Ammirato faceva sapere 
che l'Accademia non avea inteso di offenderlo nel- 
l'onore, e lo incitava a non commuoversi ed a ri- 
spondere in tono scherzevole ( 2 ). Scipione stesso si 
adoperava a rendere "più miti i Cruscanti, e il 3 
agosto del 1585 poteva scrivere all'amico: « quelli 
della Crusca medesima par che si vadano giustifi- 
cando. Ora essi aspettano con infinito desiderio la 
risposta di V. S. alla quale si preparano di rispon- 
dere con uguale cortesia ( 3 ) ». Così pure lo teneva 
al corrente delle repliche e controrepliche dell' In- 
ferigno, del Tasso, del Patrizio, di Orazio Ariosto, 
sicché il Pellegrino a lui inviava la replica per- 
chè la esaminasse per la stampa ( 4 ) e la presentasse 
agli accademici dei quali tesseva infinite lodi. Nella 
stessa lettera d'invio si mostrava dolente d'aver 



(1) Cfr. La lettera di Bastiano de Rossi a Flaminio Mannelli 
nobil fiorentino. In Firenze a stanza degli Accademici della Cru- 
sca, 1585. 

(2) La lettera dell' A. in Solerti, Vita del Tasso } I, p. 417. 

(3) Cfr. Solerti, op. cjt., II, p. 219. 

(4) Cfr. la lettera in fondo alla Replica di Camillo. Pellegrino 
alla disposta degli Accademici della Crusca, fatta contro il dialogo 
dell' Epica poesia in difesa, coni 1 e* dicono, dell' Orlando furioso del- 
l'Ariosto. Vico Equense, G. Cacchi, 1585. 



— 247 — 

suscitato l'odio della Crusca contro il Tasso, e non 
contento di ciò scriveva una lettera a Bastiano 
de* Rossi persuadendolo a far cessare ogni afflizione 
per il povero poeta ed additando l'Ammirato ( l ) 
come la persona più adatta a comporre quel dis- 
sidio. Questo invece crebbe, con quanto danno del- 
l'animo già malato del povero Tasso ognun sa. 

Le quistioni intorno alla Gerusalemme trovarono 
eco anche nell'Accademia degli Alterati, dove l'Am- 
mirato sostenne le ragioni del Ferrarese. Grande 
era sempre stata la sua ammirazione per l'Ariosto; 
l'A. avea fatto, come sappiamo, gli argomenti al 
Furioso, e già nel Dedalione lo aveva chiamato il 
nostro giovane Omero ( 2 ). Nel parallelo 50.° discor- 
rendo della naturalezza della poesia omerica e 
della pittura nicomachea esclama: « Veramente a 
me pare che il medesimo possiamo dire ai nostri 
tempi di Ludovico Ariosto e di Andrea del Sarto, 
la poesia e la pittura dei quali come che prive 
di studio e di fatica per la lor facilità appariscano, 
onde ai dotti e agli indotti parimente dilettano, 
niuna cosa poi è più difficile a mettere in opera 
che .una cosi fatta facilità » ( 8 ). Abbiam visto pure 



(1) Cfr. Solerti, op. cit., II, p. 253. 

(2) Cfr. Opuscoli) III, p. 391. — Cfr. anche il Commento al 
7?ofo, p. .143. „ 

(3) Cfr. Opuscoli. I, p. 712. 



- 248 — 

come egli, dedicando il dialogo del Pellegrino al 
Carrafa, dichiarasse di non accettare le idee di 
lui anzi di credere che tutto il ragionamento più 
che frutto di vera convinzione fosse un esercizio 
delle forze dell'ingegno. 

Il 7 febbraio del 1585, ci dice il diario dell'Ac- 
cademia W, il Puro (Giovanni de' Bardi) lesse una 
lezione in difesa dell'Ariosto contro l'accusa di 
Camillo Pellegrino, gli contradisse l'Ardito (Ales- 
sandro Rinuccini), il reggente Allegro (Agnolo Nic- 
colini) sentenziò in favore dell'Ariosto dicendo per 
altro che ciascuno dei due poeti avea le sue pro- 
prie bellezze. 

Nella seguente tornata l'Ardito discorse della 
comparazione tra l'Ariosto e il Tasso; così pure fece 
l'Aspro (Francesco Bonciani) ( 2 ); contro di loro il 
Trasformato, cioè il nostro Scipione. Il reggente non 
giudicò in favore di alcuno, affermando essere^ ambe- 
due i poeti degni di lode. Il discorso dell'Ammirato 
ci è conservato, e fu pubblicato dal Moreni ( 8 ). 



(1) Le notizie sull'Accademia son tolte dal Fiacchi, Opuscoli 
scientifici e letterari, IV, p. 20 e segg. 

(2) Dei Bonciani ci rimane uno scritto Sulla maniera di far 
le orazioni funerali pubblicate dal Moreni, Firenze, Magheri, 
1822; una orazione funerale in morto di G. B. Adriani, in Prose 
fiorentine, I, III, p. 27 ; e una lezione sopra la natura delle no- 
velle, in Prose cit., II, I, p. 74. 

(3) E contenuto nel cod. Magìiabechiano, VI, 1G8. — Cfr. 



— 249 — 

Cosi l'Ardito come l'Aspro aveano, questo con 
maggiore enfasi, magnificato la Gerusalemme e 
rimproverato molti difetti al Furioso: alla difesa 
del « divino » Ariosto sorse Scipione. Volerlo of- 
fendere, egli dice, è impresa pari a quella di chi 
voglia rotolare su per un erto monte un grosso 
sasso. Comincia dar ribattere l'accusa fatta a Lu- 
dovico d'aver nell'episodio di Isabella rappresen- 
tato ebbro Rodomonte: sostenendo che tutto per- 
metteva di rappresentare gli eroi presi dal vino, 
la tradizione classica in Omero e la cavalleresca 
nel Boiardo. La seconda accusa era mossa alla de- 
scrizione: 

Al vento di maestro alzò la nave 

di cui l'Aspro avea chiamato bassi quei versi nei 
quali il poeta descrive le varie occupazioni dei 
marinai. L'Ammirato invece la dice superiore a 
quelle di Omero e di Virgilio, i quali descrivendo 
le tempeste han fatto dei loro eroi tante femmi- 
nette prese dallo spavento. Così la cena di Rug- 
gero con Alcina è, secondo il nostro, superiore per 
vivezza e magnificenza a quella di Enea e Didone 
neir Eneide. 11 Bonciani aveva detto inoltre scon- 
venienti le parole: 



Moreni, Della imperiai villa Adriana di Titoli, descr, di 'Gio. 
Bardi, Firenze, Magheri, 1825. 



— 250 - 

Dunque baciar sì belle e dolci labbia 
Dev' altri, se baciar non le possMo? 

pronunziate da liradamante. Ma essa l'ha ripetute 
fra se stessa, osserva l'Ammirato, né v'è da op- 
porre le parole della Francesca C 1 ) in Dante, che 
hanno in sé qualche cosa di pudico e di velato: 
Bradamante non è una principessa gentile ma una 
agguerrita virago. L'amore al grande poema in- 
duce l'Ammirato a perdonare anche quel che vi è 
di meno onesto. L'Aspro, entusiasta della castigata 
Gerusalemme, era rimasto scandalizzato davanti al 
canto XXXII del Furioso: 

Tu m'hai Rugger lasciato, io te non voglio, 

versi questi, diceva egli, cantati nelle taverne; cosi 
pure il suo senso morale si ribellava leggendo l'epi- 
sodio di Giocondo e Fiammetta. Ed ecco l'Ammi- 
rato, che altrove tanto acerbamente biasima le la- 
scivie e la corruzione rappresentate nelle comme- 
die, difendere l'Ariosto, rispondendo al primo rim- 
provero: la poesia è fatta per essere cantata, e se 
la ripetono uomini volgari, che non badano al si- 
gnificato ma all'armonia delle parole, ciò vuol dire 
che è numericamente perfetta e che ha ottenuta 



(1) Francesca, diciamo noi, colmando una piccola lacuna 
che v'è nel manoscritto. 



— 251 — 

una gran diffusione. Alla seconda accusa risponde 
Che l'episodio è conforme alla realtà e quindi 
eminentemente poetico ; e non contrasta alla gra- 
vità epica trovandosi molti esempi simili nei poeti 
anteriori, e di più è conforme al gusto del tempo 
« e fa di mestieri imitar secondo i tempi rasso- 
migliando le cose che piacciono e che dilettano », 
contiene l'allegoria ed è fatto per ammaestrarci a 
non aver fede nelle femmine venali; finalmente ha 
per protagonisti persone secondarie e non gli eroi 
principali, nel qual caso sarebbe stato biasimabile. 
Con queste ragioni l'Ammirato difendeva l'Ariosto 
dalle accuse degli accademici, e non si può negare 
che usi una certa libertà di giudizio e una lar- 
ghezza di apprezzamenti da meravigliare in un 
uomo della sua condizione. 

Le occupazioni dell'Accademia, la parte di inter- 
mediario che gli toccò di fare nelle divergenze tra 
il Tasso e la Crusca non lo distolsero peraltro dai 
suoi studi, che anzi in questo tempo un nuovo in- 
dirizzo si determina nei suoi intenti e nelle sue ri- 
cerche. 



— 252 - 



Vili. 

Indirizzo politico negli stadi storici dell'Ammirato — I Di- 
scorsi varii — L'orazione a Sisto V — Nuove genealogie — 
Morte di Francesco I. 

L'anno 1585 l'Ammirato dava compimento ad 
alcuni discorsi coi quali si preparava alla tratta- 
zione di quistioni politiche e apparecchiava le armi 
contro il Machiavelli di cui si farà fiero avversa- 
rio nei Discorsi su Tacito. Nei Discorsi che sono i 
primi passi, le prime avvisaglie, ma non per que- 
sto meno degni di studio, l'erudito si trasforma 
nel politico, lo storico abbandona la ricerca mi- 
nuta e l'analisi dei fatti per tentarne la sintesi, 
trattando di politica religiosa e di scienza militare. 

Il Vaticano godeva allora di una grande po- 
tenza politica: Sisto V, quegli che a trafiggere En- 
rico III manderà, promettendogli la palma del mar- 
tirio ed un posto fra i beati, il domenicano Cle- 
ment e paragonerà in pubblico concistoro l'omicida 
a Giuditta e Lazzaro, era stato chiamato proprip in 
quest'anno a reggere la sedia pontificia e sotto di 
lui l'autorità papale cominciava ad essere reinte- 
grata nell'antico fastigio. Indotto dalla forza mo- 



— 253 — 

rale del nuovo papa e forse per renderselo favore- 
vole l'Ammirato, Tanno stesso della elezione, com- 
poneva cinque discorsi sul dominio temporale dei 
papi. Nel primo « se è vero che la sedia aposto- 
lica tenga V Italia divisa » tenta di dimostrare 
come mai, sin dalla fondazione del papato, i pon- 
tefici abbiano avuto alcuna parte nelle divisioni 
d'Italia, prodotte dal succedersi e dal combattersi 
dei vari dominatori. Fin nella venuta di Carlo di 
Francia, di cui il Machiavelli rimproverava i papi, 
l'Ammirato vede unico movente l'interesse del re 
straniero: e ad ogni modo, aggiunge, questa discesa 
non portò alcuna divisione. Nelle lotte posteriori 
l'Italia fu travagliata per colpa dei principi bene- 
ventani e non dei papi, i quali, chiamando sempre 
principi potentissimi, davan loro occasione di uni- 
ficare l'Italia, non di dividerla. Pei tempi più re- 
centi, venendo all'accusa mossa- dal Machiavelli a 
Giulio II per essere entrato nella lega contro i ve- 
neziani, risponde che egli ne fu parte secondaria, 
e che se dopo cacciò i Francesi per mezzo degli 
Svizzeri, questo servi a diminuire e non accrescere 
le divisioni d'Italia. 

Se non dei papi di chi dunque la colpa? Di nes- 
suno: l'Italia è divisa per l'eterno avvicendarsi 
delle umane cose: 930 anni restò disunita prima 
della conquista romana, 800 stette tutta sotto il 



— 254 — 

dominio della città eterna, poi rimase di nuovo di- 
visa per 1040. In questo circolo di unità e di di- 
visione si deve fatalmente aggirare la nostra pa- 
tria; tuttavia quand'anche il dissidio sorgesse da 
vizi umani, non si deve imputare ad un solo uomo 
quello che è colpa di molti. La Francia e la Spagna 
si son potute unire in regno indipendente perchè 
più presto esse si costituirono, staccandosi dall'im- 
pero romano, in dominio ereditario. L'Italia invece 
non potendo per varie ragioni costituirsi da sé in 
nazione, impedì col valore dei suoi figli agli stra- 
nieri di costituirla. Però quand'anche l'Italia fosse 
riunita sotto un unico principe sarebbe per questo 
meglio ordinata? Senza dubbio l'Italia fatta una 
godrebbe dei vantaggi, non ultimo quello di opporsi 
validamente alla potenza turca, ma per il suo be- 
nessere è preferibile che essa sia governata da una 
confederazione di principi. Diversi sono i bisogni 
secondo i diversi luoghi della penisola, un principe 
proprio ad ognuno di essi può meglio provvedervi. 
La Grecia infatti fu potente finché fu formata da 
varii Stati ognuno a sé, decadde quando sotto il 
dominio romano fu riunita in un sol corpo. L'unità 
poi in Italia non .è possibile, perchè vi sono città 
così potenti e superbe di sé, Milano e Venezia in- 
segnino, che non si indurrebbero mai a stare alla 
dipendenza di un'altra. 



— 255 - 

Il quarto discorso è tutto dedicato a descrivere 
il governo della curia romana, non dispotico ma 
moderato ed* elettivo fondato su di un consesso di 
cardinali' che è istituito alla sua volta su una base 
elettorale assai larga, nella quale tutte le persone 
capaci, degne e virtuose possono cooperare al bene 
dello Stato. 

Neil* ultimo discorso non compiuto si esamina 
quel complesso di ragioni per le quali la Chiesa 
romana ha acquistato un così grande dominio tem- 
porale; e, cominciando dai possedimenti dei cristiani 
prima di Costantino, l'autore viene a discorrere 
del cosiddetto patrimonio di S. Pietro, delle dona- 
zioni di Arisperto, di Liutprando e di Pipino, le 
quali ultime spiegano l'accostarsi del papa ai Fran- 
cesi. Roma, libera dai Greci e insofferente di qua- 
lunque altro dominio straniero, rimase a poco a poco 
in potere del papa. Qui ha fine il discorso, il quale 
peraltro, cosi com'è, contiene la parte più impor- 
tante, vale a dire il sorgere e il saldo stabilirsi 
della potenza papale. 

Con questa serie di discorsi pubblicati dal Ca- 
sotti, l'Ammirato si era proposto di rintuzzare l'ac- 
cusa del Machiavelli: non essere la Chiesa romana 
stata tanto forte da unificare l'Italia, non tanto 
debole da permettere ad altri di compiere questa 
impresa; e l'altra sulla illegittimità del potere tem- 



— 256 — 

porale, questione quest'ultima che solo le armi ita- 
liane dovevano finalmente risolvere. L'Ammirato 
però, dobbiamo riconoscerlo, non fa nella sua trat : 
tazione una questione di parole, non lancia invet- 
tive inutili contro gli avversari, ma coglie dai fatti 
il lato che più si presta alla difesa della corte ro- 
mana e lo illustra al lume della ragione e della 
storia. I suoi discorsi sono la difesa migliore e più 
accorta che si possa fare del potere temporale dei 
papi: dimostrare cioè che la loro ingerenza nel go- 
verno politico non è stato un male ma un bene 
per la nazione. L'Ammirato più che elementi di 
dritto adopera nel patrocinare la causa papale ar- 
gomenti di opportunità. La dottrina seguita dal- 
l' Ammirato che una regione divisa sia meglio go- 
vernata, dottrina che poco prima avea anche soste- 
nuta un altro grande politico, il Boterò, dovea 
aver dalla sua potenti ragioni nella storia se ha 
trovato eloquenti sostenitori anche in tempi non 
lontani dai nostri. L'idea dell'Italia una potea essere 
concepita ai tempi del Machiavelli quando lotte e 
rivolgimenti turbarono l'Italia, quando in molti luo- 
ghi della penisola era vivissima l'aspirazione alla 
libertà ed alla indipendenza. Ma nella seconda metà 
del secolo XVI per lo stabilirsi di dominii saggi e 
provvidi come quello di Toscana, liberali come 
quello del Piemonte, quando anche il governo spa- 



- 257 - 

gnuolo non avea ecceduta tanto da render possibile 
la rivoluzione di Masaniello, l'unità non brillava 
più come una mèta a cui bisognasse con ardore giun- 
gere. Non faceva quindi opera solamente partigiana 
né antipatriottica né ingenerosa l'Ammirato pro- 
clamando utile la divisione dell'Italia in tanti sta- 
terelli l'un dall'altro indipendenti. 

Per la seconda parte, sul dominio temporale, bi- 
sogna considerare: che, dimostrata la sua utilità, 
veniva ad oscurarsi la. questione della illegittimità; 
che l' Ammirato era prete e figlio del tempo suo, 
di un tempo nel quale il papa ha dato la corona 
granducale a Cosimo de' Medici, malgrado le pro- 
teste d'oltr'alpe, e sarà pregato di ribenedire l!u- 
gonotto Enrico IV, perchè questi possa governare 
in Francia. 

* * 

Cogli altri discorsi inizia l'Ammirato le sue scrit- 
ture contro i Turchi, la potenza dei quali, come 
vedremo, provocherà da lui e da altri alcune elo- 
quenti orazioni, ed insieme espone alcune sue idee 
sulla milizia, frutto della lettura di Tito Livio. La 
potenza dei Turchi andava spaventevolmente cre- 
scendo ; già si erano avanzati durante la guerra di 
Cipro colla presa di Famagosta, ma la sconfitta di 
Lepanto ne avea fiaccato l'orgoglio. Quando però 

n 



_ 258 — 

si poteva approfittare della vittoria, la flotta spa- 
gnuola si rifiutò di combattere e Filippo VI, intento 
alla guerra dei Paesi Bassi, non si curò più dei 
Turchi. Venuto al soglio papale Gregorio XIII, mal- 
grado le sue buone intenzioni, non si fece nulla e 
i Veneziani firmarono pace col Turco che riprese 
tutte le terre di già conquistate, tra cui Cipro. 

Successe un momento di tregua, nel quale i Tur- 
chi furono occupati in una guerra contro i Persia- 
ni; durante questo tempo furono scritti i discorsi 
dell'Ammirato, il quale avrebbe voluto si approfit- 
tasse delle strettezze del nemico per assalirlo, sor- 
prenderlo, vincerlo. Le funeste conseguenze di una 
vittoria dei Turchi in Occidente sono descritte con 
vigoria ed eloquenza: le infamie e i soprusi che 
dovrebbero patire gli Italiani sono messe al nudo 
con colori vivi ed efficaci. « Non sono i Turchi 
ni mici tali che con subitani et improvvisi procedi- 
menti si possa alla lor arme resistere, è necessario 
che noi ci facciamo di discosto et forniti non solo 
d'uomini, e di denari ma di lungo tempo instrutti 
nell'arte della guerra ce li facciamo incontro »: 
perciò egli si accinge a dare alcuni precetti intorno 
all'arte militare. Il tempo più propizio alle prov- 
visioni è durante la pace, quando gli animi sgom- 
bri da ogni altra preoccupazione si possono con 
calma addestrare insieme coi corpi alla guerra. 



- 259 — 

Quando poi questa sia scoppiata è necessario affi- 
darla ad un capitano valoroso ed anche, e sopratutto, 
astuto. Infiniti sono gli inganni di guerra C 1 ), e non 
bisogna mai credere alle mosse dei nemici essendo 
frequentissime le diversioni ( 2 ). Bisogna alla nostra 
volta andar tentando il nemico o come talora ne- 
gli atti civili i principi annunziano di voler fare 
una cosa o l'altra per scoprire le intenzioni del 
popolo così in guerra bisogna far finte mosse, fi- 
nanco finger di fuggire o d'aver paura ( 3 ) pur di 
svelare i disegni dell'avversario ( 4 ). All'astuzia è 
necessario aggiungere la prudenza : se la guerra si 
porta in lontani paesi, ed era proprio il caso della 
guerra dei turchi, badi il capitano a provvedersi . 
di un posto ( 5 ) che serva cosi di passaggio di armi 
e di armati, cóme di rifugio e di ritirata in caso 
*di un rovescio; che non son da fuggirsi le ritirate 
quando tornino utili ( 6 ). Sia egli prudente nel pa- 
lesare i propri disegni e faccia in modo che il 
soldato non li conosca mai appieno » ( 7 ). 



(J) Discorso IX. 
(2) Discorso X. 

(8) Disc, inedito non compiuto : « Del mostrare d' haver pau- 
ra * , Mgl. XXV, 665 e. 101. 

(4) Discorso XI. 

(5) Discorso XII. 

(6) Discorso XIII. 

(7) Discorso XIV. 



— 260 - 

Venendo ai soldati l'A. vuol dimostrare come 
non basti il valore, ma sia necessario anche il nu- 
mero. Per le armi crede gli antichi fossero meglio 
provvisti di noi C 1 ), tanto da dare la* superiorità a 
100 picchieri su altrettanti archibusieri. 



* 
* * 



A questi discorsi altri se ne sarebbero dovuti 
aggiungere; uno sulla quistione se ai principi si 
debba o no domandare o se valga meglio atten- 
dere che essi diano spontaneamente; un altro sugli 
influssi delle comete; un altro sui doveri verso i 
forestieri ; un altro sulla prodigalità dei principi ; 
un altro se si debba dir la bugia; e fin uno sul 
digiuno ( 2 ). Quasi tutti sono incompiuti, anzi furono 
in vari tempi ripresi dall'autore e accresciuti con 
aggiunte ( 3 ). L'ultimo ci mostra l'intenzione che 
l'A. aveva di dedicarli alla Granduchessa: infatti 
comincia: « Tempo è Madama Ser.ma che io tratti 
con V. Alt.za d'altre materie che di politiche, co- 
me conviene a un sacerdote vecchio con una sua 



(1) Discorso inedito: « Se è vero che le nostre armi siano 
migliori di quelle degli altri antichi romani », cod. cit., e. 59. 

(2) Questi ultimi in ms. cit., e. 15, 109-145, 159, 162, 165-167. 

(3) Così nel discorso: Di quanta importanza sia il chiarirsi 
di alcune cose infine si porta dell'impresa di Ferrara fatta dal 
Papa nel 1599. 



— 261 — 

padrona, alla quale ha cotanto obbligo quanto ella 
sa et per hora le scriverò del digiuno acciochè 
nella soprabbondanza di tante delizie in quanto 
Iddio T ha collocata, ella che è tutta pia et devota 
prenda talor piacere che vi sappia por freno, e 
usar moderatamente il dono della sua divina mae- 
stà » : del discorso però ci ha lasciato digiuni e 
forse non abbiam da lamentarci. La dedica ci di- 
mostra come questi discorsi venissero composti in 
vari tempi, e la principessa è certo la moglie di 
Ferdinando, Cristina di Lorena, da cui tanto l'Am- 
mirato, come vedremo, fu beneficato. A lei certa- 
mente è rivolto il discorso che nella pubblicazione 
del Bianco è primo. S'intitola Ammaestramenti 
alle gran principesse. Esso si propone di dar con- 
sigli alle mogli dei principi intorno al modo di 
comportarsi nelle loro varie condizioni. Vivente il 
marito esse prendano a modello Livia, moglie d'Au- 
gusto, affettuosa verso il consorte, severa coi figli, 
amorevole con i congiunti, sobria nella vita, utile 
a molti, casta, ubbidiente, non intrigante fino a dis- 
simular di conoscere gli amori dell'imperatore. La 
buona principessa curi non solo la salute del ma- 
rito, come già faceva Eleonora di Toledo, vegliando 
Cosimo durante la notte, ma anche ne vigili i pen- 
sieri, ne corregga gli errori, consigliandolo al bene. 
Deve ella essere insomma una delle due corde che, 



■ — 262 — 

vibrando armonicamente con l'altra, il principe, 
produca il benessere dello Stato W. Se una prin- 
cipessa riman vedova e il figlio è piccolo, per ov- 
viare ai pericoli che possono minacciare la sua au- 
torità, gli scelga un tutore di gran senno e potenza, 
ed ella stessa, pur procurandone la grandezza, non 
si mostri con lui debole. Se finalmente ad una prin- 
cipessa tocca per eredità un regno, il che Fautore 
.crede sia contrario alla giustizia ed alla prudenza, 
rimanga, se è vedova ed ha figli, vedova; se no 
prenda marito e questo sia preferibilmente un con- 
giunto. Tali erano i precetti e i consigli che l'Am- 
mirato dava a coloro che la fortuna aveva collo- 
cati sul trono. 



* 
* * 



La contenenza dei discorsi intorno alla potenza 
del Turco e alle provvisioni da fare per portargli 
guerra fu riassunta nella orazione che il nostro 
dirigeva a papa Sisto V, incitandolo a quella guerra. 
La parte nuova della orazione consiste nelle pro- 
poste che l'Ammirato fa al papa sul modo di ap- 
parecchiare la guerra ( 2 ). Procurata una gran quan- 



(1) Opuscoli, I, p. 21. 

(2) Che l'orazione a Sisto V sia del 1585 ci è detto dallo 
stesso Ammirato in una delle orazioni a Filippo II: « Accioc- 



— 263 - 

* tità di moneta, che è il nerbo della guerra, la af- 
fidi ad una società, ad una apposita magistratura 
che la aumenti impiegandola nell'acquisto di beni. 
La somma poi sia anzitutto devoluta alla forma- 
zione di una armata, senza della quale, maestri i 
veneziani, nessuna impresa può menarsi a termine. 
Si pensi contemporaneamente alla costituzione di 
un esercito bene educato: un utile espediente è la 
fondazione di collegi, ove gli alunni poveri e spe- 
cialmente gli esposti vengano istruiti nel maneg- 
gio delle armi. « Io, conchiude, di quel favore, 
che dianzi dissi ripieno, se prima che io giunga 
all'occaso di questa vita, vedrò spiegare ai Cristiani 
l'insegne gloriosissime tue (o Gesù) perla ricupe- 
razione di quella terra, che fu calpesta dai tuoi 
piedi, et di quel sepolcro che fu onorato del toc- 
camente felice della tua carne, prometto canuto 
sacerdote impugnar l'elza et lo scudo et offerir 



che non rimanca alla Maestà V. alcun dubbio di questa verità 
sono già tredici anni passati, che infin dal primo anno del pon- 
tificato di Sisto V scrissi a quel pontefice un' orazione intorno 
i preparamenti che dovea farsi contro la partenza del Turco ». 
Opusc., I, p. 289. — Una intera letteratura fiorì in questo tempo 
contro i Turchi. Basti citare la serie di orazioni composte dal 
card. Bessarione: Lettere ed Orazioni del Rev.mo Card. Bessa- 
rione tradotte in lingua italiana nelle quali esorta i Principi d'Ita- 
lia alla Lega e a prender parte alla guerra contro il Turco. In 
Venetia appresso Comin da Trino, MDLXXIII. 



— 264 - 

questo petto all'armi nimiche per vittima al tuo 
santissimo nome ». 

Né è tutta rettorica; se i consigli che l'Ammi- 
rato dava al papa fossero o no praticabili nel se- 
colo XVI non tocca a noi giudicare, ma è innega- 
bile che T entusiasmo dell'Ammirato non era a 
freddo; c'è qualche cosa che agita il suo cuore di 
credente e impronta molte pagine ad una eloquenza 
schietta e spontanea. 



* 
* * 



Pur attendendo ai discorsi ed alle orazioni non 
trascurava quegli studi che a lui eran fonte di 
onore e di guadagno, vale a dire gli studi genea- 
logici. Diciamo di guadagno, perchè se tutti i suoi 
lamenti sulle proprie misere condizioni fossero giu- 
stificati, se le famiglie cui egli portava coli' opera 
sua lustro ed onore fossero state davvero ingrate 
alle fatiche sue, egli non avrebbe continuato a ten- 
tare ogni via per illustrarle e renderle chiare. 
Nel 1585 pensava di comporre una serie di ritratti 
di cavalieri napoletani: al qual proposito scriveva 
al duca d'Airola: « Piaccia a Dio che sia principio 
di quello che più tempo è che io ho desiderato, 
cioè di mettere insieme alcuni ritratti di cavalieri 
napoletani degni per merito o per via d'arme o 



— 265 — 

di lettere, che io lo riputerei a singoiar ventura 
et alla fama et gloria di coloro di cui forse non 
nuocerebbe » C 1 ). Di più, recandosi in questo tempo 
Lorenzo Tornabuoni in Francia, l'Ammirato gli 
dava l'albero della casa di Nivers per presentarlo 
al duca di quel nome promettendone altri ( 2 ). Gior- 
gio Brandens, tanta era la fama dell'Ammirato an- 
che fuori d'Italia, in qualità di decano di Colonia 
gli scriveva il 15 gennaio 1585, richiedendolo del- 
l'albero della famiglia Ranzonio che governava il 
ducato d'Alsazia: « Hoc autem, dice la lettera, quin 
nemo mortalium te uno melius, vel accuratius prae- 
stare queat, has ad te litteras scribo rogans, num 
(salvo debito honorario) istius nobilis familiae per 
arborem aditionem in te suscipere velis ( 3 ) ». Sei 
mesi dopo la genealogia dej duchi d'Alsazia era 
compiuta e l'Ammirato la inviava con i disegni 



(1) La lettera è del 22 giugno 1585 ed è inedita nella Bibl. 
Naz. di Firenze. Ms. Vili di S. Maria Nuova. In essa ringra- 
zia il Duca di un suo ritratto inviatogli. 

(2) L'A. al Tornabuoni inviava prima della sua partenza 
un memoriale in cui lo incaricava di far ricerche per stabilire 
la parentela fra la famiglia Corcia napoletana. Mandava un al- 
bero genealogico dei duchi Gonzaga, dei re d'Inghilterra, ne 
prometteva uno dei re di Francia e chiedeva quello dei duchi 
di Lorena. Il memoriale nel ms. cit. 

(3) Ms. cit. 



_ 266 — 

fatti dal Sadoleto eccellentissimo artefice C 1 ). In pari 
tempo mandò al re Enrico III di Francia V albero 
della sua famiglia e ricevette in dono cinquecento 
scudi d'oro ( 2 ). Il 26 marzo del 1586 mandò al 
cardinale Aldobrandino l'albero degli ultimi re dei 
Giudei per presentarlo al papa e annunziargli un 
dono ancor maggiore, fatica di più anni, vale a 
dire una tavola di tutte le età e i re del mondo ( 3 ). 



(1) Non era il Sadoleto il solito incisore degli alberi dell'Am- 
mirato. Tre nomi ricorrono più di frequente: Epifano da Al- 
fano monaco di Vallombrosa, Ottavio de Sanctis senese e Do- 
menico Falcini. 

(2) Cfr. la lettera al duca di Urbino del 13 settembre 1595, 
in Opuac.) II, p. 448. 

(3) La lettera è nel ms. cit. di S*Maria Nuova : « Nella cor- 
tese lettera con che piacque a V. S. IH. ma di rispondere alla 
mia questi mesi addietro, phe io mi rallegrava con esso lei 
della sua promozione, mi parve di riconoscere tanto affetto 
della sua benignità, che io non solo ho preso sicurtà di va- 
lermi del favor suo, ma mi parrebbe in un certo modo haver 
commesso villania di non darle occasione di esercitare la pron- 
tezza del libéralissimo animo suo in benefìcio mio et con tutto 
ciò non intendo di gravarla in altro che in supplicarla di farmi 
favore di presentare questo albero degli ultimi re Giudei alla 
Santità di N. S... Supplico dunque a farmi questa gratia pre- 
sentandole anche la lettera, che con questa viene allegata, et 
se domandata da Sua Beatitudine dello stato mio, però che 
nulla io chieggo, né intendo chieder da lei, piacerà a V. S. 
111. ma dirle che io sono huomo che non mi sono mai stracco 
di faticare, né ella graverà in cosa alcuna la sua coscienza, né 
io mi sarò più di quello che convenga esaltato o depresso ». 
Nel ms. seguono poche righe della lettera al papa. 



— 267 — 

Consisteva essa intuii libro contenente l'elenco di 
tutti i monarchi della terra, nel quale, dopo avere 
tracciato l'albero delle famiglie loro e date le no- 
tizie etnografiche intorno al loro paese, si narra- 
van le vicende-dei regno W. 

Era già bene avanti: sussidi alle spese per gli 
intagli degli alberi non eran mancati. L'A. ne dava 
così notizia in una lettera del 21 giugno 1586 ad 
Orazio Rucellai ( 2 ) : 

E *an tempo ch'io ho avuto in animo di fare un libro di 
tatti i re del mondo, cosi antichi come moderni, nel quale 
dopo gli alberi delle loro famiglie et siti de 1 regni ai quali han 



(1) Gli alberi pubblicati sono: Austria, a Maddalena arci- 
duchessa, 8 giugno 1580; Aspurg, a D. Giovanni d'Austria, 
80 gennaio 1576; Francia, ad Arrigo III, 1.° marzo 1586; Lota- 
ringia, a Cristina di Lotaringia, 1591; Aragona, a Filippo fi- 
glio di Carlo d'Aragona, 1584; Anglia, a Ferdinando de' Me- 
dici, 1584; Portogallo, 1579; Scozia al card. Santorio, 1594; 
Baviera, a Guglielmo conte Palatino, 1588; Macedonia, a Ric- 
cardo Riccardi, l.o luglio 1586; Siria, a Braccio Valori, 1593; 
Daunia, 1583; Sassonia, al cardinale Santorio, 1596; Carolingi, 
a Cristina di Lorena, 1599; Ottomani, alla stessa, 1598; Casti- 
glia e Aragona, a Filippo di Spagna, 1594. L'albero dei re 
d' Anglia a Ferdinando de' Medici è accompagnato con questa 
letterina: < Tuum est Admiratum tqpm amplecti, fovere et 
ex hac tenui fortuna quandoque ad mediocrem provehere, ut 
laetissimo et uberrimo foenore cuncta sui ingenui meditamenta 
numini tuo dedicare hilaris queat ». 

(2) La lettera è inedita nel ms. cit. Vili di S. Maria. 



- 268 — 

comandato brevemente fosse scritta Potoria di tutto quel re- 
gno; talché chi volesse verbigrazia saper le cose degli Egizi 
senza andarle cercando in molti volumi, quivi unitamente e 
in brevità raccolte le ritrovasse. Et già ne ho non piccola parte 
compilato; solo mi dava noia il non poter questo mio deside- 
rio con le mie facoltà tirare innanzi, pure non mi sono mai 
diffidato di poterlo un dì fare pure che io havessi dato prin- 
cipio, et in questo o cosa somigliante a quella mi è Iddio, et 
i signori et gli amici stati favorevoli, perchè avendo il Prin- 
cipe di Bisignano dato in Napoli principio alla sua famiglia, 
fu cagrone che molti altri signori di quel regno facessero il 
medesimo. In Firenze Mons. di Fiesole die cominciamento alla 
sua, et poi molti han seguito talché il libro è molto bene in- 
nanzi. Il Gran Duca Cosimo di sé mi aperse la strada a prin- 
cipio, et cosi altri li sono iti dietro, le quali cose mi sono stato 
nell'angusta fortuna mia di commodo et di riputatione. Quello 
dunque che la sua infinita bontà mi fa prorompere a cercar di 
lei perchè di libera volontà, et non da altro mosso, senza so- 
gnarmelo io, si era già spinta ad usar questo ufficio con meco 
non dovuto né necessario, si è concorra solo a quella parte che 
toccherà a Re d'Egitto; et non mancheranno degli altri che 
con questo principio verranno dietro, la quale parte come io 
ho cominciato dedicherò al nome suo ecc. 

Il lavoro non fu menato a termine e di esso non 
ci rimangono se non alcuni alberi pubblicati poi 
sparsamente e due volumi manoscritti di notizie 
raccolte per quello scopo. Nel primo troviamo ra- 
dunati sotto i nopi delle varie regioni, disposte 
in ordine alfabetico, tutte le notizie che sui re, 
sugli ordinamenti, sui costumi di quelle avea l'au- 
tore attinto dagli scritti altrui, con la completa ed 



— 269 — 

esatta indicazione delle fonti C 1 ). Nell'altro sono 
pure raccolte alfabeticamente note geografiche ed 
etnografiche sopra popoli, regni, città. La ricchezza 
delle citazioni nelle quali riscontriamo nomi di 
storici antichi e moderni, di giureconsulti e di 
geografi, di poeti e di trattatisti ci dimostrano 
quale ampiezza di letture e di ricerche l'Ammi- 
rato facesse per mandare a termine questa sua 
fatica, ed altresì la bontà del suo metodo e la 
sua scrupolosità di studioso. Questi due volumi di 
note e la conosciuta perizia del nostro ci dan di- 
ritto a credere che quest'opera generale di lui si 
sarebbe lasciato indietro quella di quanti, e non 
furono pochi, tentarono nel 500 di descrivere a 
pieno tutto l'orbe abitato. 

Frattanto con un'altra potente casa, l'Estense, 
l'Ammirato stringeva relazione e ne riceveva l'in- 
carico di alcuni alberi genealogici, con quanto suo 
utile è facile immaginare. Ci siamo dilungati su 
questi vari servigi resi dal nostro a famiglie illu- 
stri é coronate per dimostrare che le condizioni 
sue non erano così disperate come egli vorrebbe 
far credere con le sue continue querele sulla pro- 
pria miseria ( 2 ). 



(1) Cfr. Ms. Mgl. XXIV, 169 e XIII, 94. 

(2)* Le lettere agli Estensi furori pubblicate dal Campori, 



— 270 - 



* 
* * 



Nell'ottobre del 1587 egli rimaneva di nuovo 
senza protettore: il 18 di quel mese, non senza so- 
spetto di veleno, sospetto ormai rimosso dalla cri- 
tica storica, moriva il granduca Francesco. Come 
già avea fatto per Cosimo, l'Ammirato anche que- 
sta volta volle tessere l'elogio del suo benefattore. 
Dopo una triste pittura della vita quale i principi 
d'allora la vivevano, descrive quella del suo Me- 
cenate. Della sua astinenza, egli dice, non possono 
esser chiamati giudici gli altri principi suoi con- 
temporanei « ai quali non che a fallo o a peccato, 
ma a gentilezza e nobiltà d'animo è imputato l'ub- 
bidire alle leggi d'amore, anzi per cattivo esempio 
dei nostri lirici poeti d'infingardo e di neghittoso 
animo e di basso e di abbietto par che renda se- 
gnali non dico quel privato signore, ma quel pri- 
vato cittadino, il quale non ami » W. Così anche 
della parsimonia, che « la grandezza e la gloria 



Lettere di scrittori italiani del secolo XVI, in Scelta di curios. lett., 
CLVII. La prima colla data del 1.° aprile 1586 accompagnava 
l'albero delle famiglie reali di Francia, con cui gli Estensi 
erano imparentati. 

(1) Cfr. Opuscoli, I, p. 296. 



— 271 — 

sovrana del presente secolo è metter pomposa ta- 
vola, giocar somme grossissime di denari, vestire 
riccbissimamente, et come fregio et accrescimento 
colmo et supremo d'ogni grandezza il dispregio 
degli inferiori ». Ben fece Francesco ad essere buon 
economo: che se si fosse continuato a spendere 
sontuosamente come già ai beati tempi di Cosimo, 
la Toscana si sarebbe dissanguata. Venendo poi alle 
relazioni speciali tra sé stesso e il Granduca, l'A. 
non nasconde di non avere ricevuto le sovvenzioni 
che si attendeva: « quel che di te si dica, egli 
scrive, quel che altri di te pensi e scriva o discorra, 
questo so ben io che tu mi hai insegnato a vivere 
del mio, da te ho apparato a restrignere i miei 
desideri secondo la misura del mio potere »; sic- 
ché se il Duca potesse leggere nel suo cuore, certo 
vi vedrebbe « non minore obbligo del povero stato, 
nel quale mi hai lasciato, che in altri per li molti 
ampli doni che hai dato loro ». Lodi eccessive 
quindi non ve ne sono: è tutta una difesa del si- 
stema economico adottato da Francesco in Toscana. 
E si che questo doveva essere piaciuto poco all'Am- 
mirato! 

L'orazione per il granduca Francesco fu man- 
data a molti amici e a numerosi potenti personaggi, 
al Cardinale da S. Severina, al Carrafa, al cardi- 
nal Gesualdo, al duca d'Urbino, ai cardinali Gon- 



— 272 — 

zaga ( x ), Alessandrino e Aldobrandino. A quest'ul- 
timo dava l'incarico di presentarla al papa insieme 
con una lettera, nella quale egli s'augurava che 
questi volesse finalmente fondare un seminàrio mi- 
litare per gli orfanelli, che « sicuramente la più 
gloriosa et necessaria et utile opera commetterebbe 
che da pontefice alcuno suo predecessore conside- 
rata la condizione dei tempi nei quali ci ritrovia- 
mo fosse stata commessa giammai » ( 2 ). Abbiam vo- 
luto notare queste parole, perchè più tardi l'Am- 
mirato promuoverà la stessa istituzione presso il 
granduca Ferdinando. 



(1) Scipione Gonzaga fu fatto in quei giorni cardinale e 
l'A. inviandogli l'orazione per Francesco si congratulava con 
lui. Cfr. Opusc, II, p. 858-60. — Intorno al card. Gonzaga cfr. 
Cardinalatum illustra principi Scipionis Gonzagae Iosephi Casta- 
lionis panegyris. Romae apud Franciscum Zannettum, anno 
MDLXXXVII. 

;2) La lettera nel cit. cod. dell 'A, 



— 273 — 



IX. 



Il Granduca Ferdinando e l'Ammirato — Lutti domestici dell' A. 
— L'orazione in morte del Tasso — Il canonicato — Le ora- 
zioni per la guerra contro i Turchi: le Filippiche e le Cle- 
mentine. 

« È di spirito alto ed esquisito conservatore di 
quella dignità della quale è costituito. È d'ingegno 
acuto e presto intende le cose e conosce le persone. 
Tratta gravemente e dolcemente i negozi. È affa- 
bile nel conversare e secondo la diversità del con- 
versare va trattando con esse ». Così un ambascia- 
tore veneto giudicava il granduca Ferdinando ( l ). 
Con lui parve ritornare lo splendore e la saggezza 
di Cosimo: i cortigiani furono meglio scelti e più 
numerosi che sotto Francesco, le caccie più fre- 
quenti, ogni pompa più magnifica e in pari tempo 
le leggi più giuste, i tribunali più severi, la mu- 



ti) Cfr. la Relazione del Contarmi in Relazioni venete > XV, 
p. 276. Lo stesso Contarmi ci dice che Ferdinando, ascendendo 
al Granducato, temeva che i Fiorentini, angariati dal fratello, 
non assalissero il palazzo, ricco degli immensi tesori da questo 
ammassati — p. 276. 

18 



- 274 — 

nificenza più oculata e più larga. Firenze riprese 
r antico aspetto, gaio ed ordinato, e con essa tutta 
la Toscana, specialmente Pisa, mal ridotta dalle 
tasse gravose, corrotta e corruttrice, non più splen- 
dida del suo studio, che gli studenti per la poca 
sicurezza che vi si godeva, avevano disertato W. 

Primo ministro divenne l'Usimbardi che ebbe 
piena balia negli uffici, e, quantunque non si con 
servasse integro, ottenne la illimitata fiducia di Fer- 
dinando C 2 ). Alla segreteria privata del Granduca 
rimasero il Serguidi, il Corboli e il Vinta che colla 
luce della propria virtù, dice il Minerletti, avea 
scacciata ogni nube di opposizione. 

L'Ammirato con lettera del 7 dicembre 1587, 
inedita nell'Archivio Mediceo ( a ), salutava il nuovo 
signore : 



(1) Cfr. A. Redmont, Di due ambasciatori veneti a Ferdinando 1 
dei Medici, in Arch. stor. U. } N. S., XV, p. 76. 

(2) Cfr. A Reumont, op. cit., p. 78. Si cantava a quei tempi 
in Firenze: 

Caterina, tu non guardi? 
E' governa V Usi m bar di, 
E se punto tu ti fidi, 
Farà peggio del Serguidi. 

V. la lettera di G. Soderini a S. Piccolomini in Saltini, Della 
morte di Francesco I e di B. Cappello, in Arch. stor. iV., N. S., 
XVIII, p. 72. 

(3) Carteggio Mediceo, filza 793, e. 150 r. 



- 275 



Serenissimo Gran Duca, 

Siami lecito, benignissimo principe, in tanta universale al- 
legrezza d'Italia quel che io non potei far con la lingua far 
con questa lettera. Il che è di rallegrarmi di vero cuore del- 
l'esaltazione di S. Alt.za non perchè alla persona sua sia ag- 
giunto maggiore splendore et maggior comodità, percioche che 
mancava di agi e di dignità al Card. Ferdinando de 7 Medici?; 
ma perchè al generoso animo suo si è offerta maggiore oppor- 
tunità di esercitare in beneficio delle genti l'ineffabile bontà 
et benignità sua, della quale assunzione dell' Alt.za V. al prin- 
cipato se ha veduto et vede tuttavia impazzar questo popolo 
d'allegrezza et se con nuovi esempi vede venirsi a rallegrar 
seco questi non mai più venutici, può credere che uno il quale 
ha di molti anni fatta professione d' esser suo particolar servi- 
tore, quando per pensiero non s'aspettava nella persona di lei 
il principato né nell'età mia il successo di tali cose, se ne ral- 
legri et giubili da dovvero. Il qual mio affetto dee esser tanto 
più gradito a V. A. quanto che sentendolo io per la gloria che 
ne risulta a lei et per lo beneficio che ne perviene ai popoli, 
per conto mio particolare soggiaccio a conditione più perico- 
losa che non era la prima: percioche dove prima la mia debol 
fortuna si potea imputare alla natura et conditione de' tempi 
che ailor correvano, hor che la natura et conditione dei tempi 
è mutata s'imputerà solo a mia colpa e a mio demerito. Non- 
dimeno aiutommi allora l'A. V. con pietose et cortesi lettere, 
delle quali come di ampissimi privilegi mi servì io appresso 
molti signori in giustificare il mio infimo stato. Venuto è hora 
il tempo nel quale possa giovarmi con V opere et, se il vero mi 
è stato rapportato, già la benignità sua senza aspettarne in- 
vito ne ha fatto nella sua real parola nuova promessa. In qua- 
lunque stato vi piaccia tenermi,- amatissimo principe et signor 
mio et vera et viva immagine del paterno valore dalla cui sin- 



— 276 — 

gular beneficenza tutto quel che io mi sono a principio et ori- 
gine ponerò, poiché toscana ha da esser la mia sepoltura, at- 
tenderò ad adorarvi nel mio romitaggio di Fiesole, vi riverirò 
et celebrerò in Fiesole, honorato sarò perpetuo testimonio della 
vostra magnanimità nella luce del mondo, et intanto priegherò 
la divina bontà per la lunga et felice vita di V. Alt.za, da cui 
dipende il tranquillo stato di tanti popoli suoi. 
A 7 di dicembre 1587, di Firenze. 
Di V. Alt.za ser.ma 

umil.mo et dev.mo tervitore 
Scipione Ammirato. 

Ai buoni uffici dei ministri ed anche all'antica 
servitù sua con Ferdinando dovè l'Ammirato la for- 
tuna di rimanere alla dipendenza di Casa Medici. 

Vi concorse anche l'amore tradizionale della fa* 
miglia agli studi e la preoccupazione che il Gran- 
duca, come i suoi predecessori, aveva del futuro 
giudizio della storia. « Per favorire secondo il co- 
stume della sua casa le lettere e le scienze, allettò, 
stimolò con promesse e privilegi e favori e con di- 
susate provvisioni i primi professori delle scienze e 
dell'arti nobili, e di quelli lo studio di Pisa ne ri- 
fiorì, e gran parte dei letterati d'Italia ebbero in 
Firenze o nella sua corte onorato intertenimento. 
Le nobili adunanze di virtuosi sé ebbe in grado, 
che non solo a tutti mantenne sempre lor privilegi 
e in parole e in fatto le favorì, ma nel regal suo 
palagio fondò nuove accademie d'uomini eccellen- 



— 277 - 

tissiini sì per le scienze, si per lo molto adopera- 
mento, «ce. »( 1 ). Di quanto egli si preoccupasse del 
giudizio degli scrittori intorno a sé ed alla sua 
famiglia ci basti, coinè prova quel che disse della 
vita di Cosimo scritta dal Bandini, la quale, se- 
condo lui, « non poteva andare a torno senza qual- 
che diminuzione della riputazione che quel principe 
godeva di prudente e valoroso, né servire da me- 
modale, poiché con mala elettione sono posti molti 
particolari, molti taciuti et altri interpretati tanto 
inettamente da sembrare scritti con poca cogni- 
zione delle cose ». 

Rimase dunque l'Ammirato alla Corte Medicea 
stipendiato e benvoluto. « A questo Principe è pia- 
ciuto di confermarmi nel numero dei suoi servitori, 
il che non mi è paruto poco essendosi fatta una 
gran cassagione dei vecchi et insiememente ha vo- 
luto ch'io partecipi del donativo del principe morto, 



(1) Cfr. V Orazione di G-iul. Giraldi, accademico della Crusca, 
detta nel 1609 in onore di Ferdinando, in Prose fiorentine cit., 
I, 1, p. 295. — « Et con stipendi ordinari aiutava li creati non 
nella militia e nelli studi pubblici et anco alle case loro in li- 
bertà > , dice la Vita dell 1 Usimbardi a p. 390 e nota la spe- 
ciale protezione da lui accordata a Pietro Bargeo, l'autore della 
Siriade e professore a Pisa. Cfr. V Orazione di Francesco San- 
dolini in lode del Bargeo, in Prone fiorentine^ I, 1, p. 158 sgg., e 
V auto biografia dello stesso Bargeo in Sàlvini, Fasti consolari 
deW Accademia fiorentina. Firenze, Tartini, 1717, p. 287. 



— 278 - 

avendomi fatti pagare scudi 370 ». Così scriveva 
l'A. al duca di Sabbioneta (*); forse egli stesso temè 
per un momento di essere licenziato. Il dono dei 
370 scudi gli faceva bene sperare, sicché, mandando 
al Granduca l'orazione in morte del suo antecessore, 
gli rendeva infinite grazie d'averlo confermato nel 
numero dei suoi servitori ed aggiungeva: « Et mi 
giova andare sperando che siccome il signor nostro 
Cristo a noi storici donò il regno del cielo, così 
V. A. la quale come principe e simulacro di Dio, 
non sarà a me suo istorico avara degli onori et 
degli commodi della sua casa, per la grandezza et 
maestà della quale facendo io continui pensieri et 
veggendo per ora soprastar tempi di delizie e di 
nozze ho pensato a due spettacoli, i quali per non 
dar sempre nelle cose medesime di barriere, di 
giostre, di tornei, di bufolate et di simil giuochi, 
crederei che per la grandezza et novità loro fris- 
sero degne del ser.mo duca Ferdinando »(' 2 ). 



(1) Era questi ai servigi creila Maestà Cattolica: in qualità 
di ambasciatore fu adoperato in un convegno delle due maestà 
Cattolica e Cesarea per la elezione di Massimiliano di Polonia. 
Cfr. la lettera di lui all'Amm. in Opuscoli, II, p. 862. Negli 
stessi termini il nostro scriveva al Card. Gonzaga. Cfr. Opuscoli, 
II, p. 358. 

(2) Che spettacolo volesse preparar l'A. non sappiamo, a 
meno che non sia stato lui a. suggerire la rappresentazione son- 
tuosissima della commèdia di Emilio Cavalieri e Giovanni Bardi. 



— 279 - 



Il duca Ferdinando infatti, messa da parte la 
porpora cardinalizia, prendeva moglie ; tre proposte 
di matrimonio erano andate a monte: una gentil 
giovinetta sorella di Virginio Orsino, la figlia del- 
l'arciduca Carlo e quella del duca di Braganza ne 
avrebbero accettato l'anello; finalmente egli sóelse 
Cristina, figlia del duca di Lorena. Bianca come 
marmo pario, di statura media, dalla faccia non 
eccessivamente bella, ma ispirante viva simpatia per 
l'atteggiamento ingenuo e pur pieno di vita e di 
grazia (*), alla piacevolezza delle forme accoppiava 
un cuore aperto ai più squisiti sentimenti dell'af- 
fetto e della benevolenza verso le persone che l'at- 
torniavano. Contrapponendo le più delicate cure e 
la pazienza affettuosa di un animo nobilmente edu- 
cato alla freddezza, e, direi quasi, alla noncuranza 
del marito, dissimulando ogni risentimento, osse- 
quiosa e carezzevole alleviandogli le fatiche del 
governo, riuscì ad acquistar tutto l'affetto e la fi- 
ducia di Ferdinando ( 2 ). E noi la vedremo soccor- 



— Cfr. l' opuscolo di Bastiano de' .Rossi, Descrizione deW appa- 
rato e degli intermedii fatti per la commedia rappresentata in Fi- 
renze nelle nozze dei ser.mi Don Ferdinando de* Medici e M»ma Cri- 
stina di Lorena granduchi di Toscana. In Firenze, per notar Pa- 
dovani, MDLXXXIX. 

(1) Cfr. Relazione del Contarini cit., p. 445. 

(2) Cfr. la Istoria del granducato dell' Usimbardi, p. 371. 



• 
— 280 — 



rere e provvedere al nostro Ammirato, che vec- 
chio in lei trovò la protettrice benefica, la estima- 
trice intelligente dei suoi meriti e la ascoi tatr ice 
indulgente dei suoi lamenti. 



* 



A turbare la gioia dell'Ammirato per il miglio- 
ramento della sua condizione e per la speranza di 
un avvenire sempre migliore vennero i lutti fami- 
gliari, che gli rapirono un diletto sereno e gradito. 
Nel necrologio della Grascia, conservato nell'Archi- 
vio di Stato in Firenze, si trova colla data del 2 
agosto 1588: « Agnola di Scipione Ammirato re- 
cata in S. Iacopo sopr'Arno ». Questo documento 
è la conferma di un dubbio destatoci dalla lettura 
di due sonetti dello stesso Ammirato, che son dei 
suoi migliori per il vivo affetto che li ispira: 

Questo fia dunque de miei fiori il fine 
Tesserne a l'Angiol mio mesta corona; 
Deh, non vegga io più fior, e non sia buona 
Questa terra a produrre altro che spine. 

Tu ne l'ore tue fresche mattutine 
Lieve ten voli al nobile Elicona; 
Me la cadente età non abbandona 
Rugoso il volto, et già canuto il crine. 

Lodato sia '1 Signor che 'n Cielo stassi, 
E quindi forse tu prima sei giunto 
Per mostrarmi la via dietro i tuoi passi. 



- 281 — 

Quant'habbia il cor del tuo partir compunto, 
Figlio, tu vedi. Hora i miei spirti bissi 
Consoia fin ch'io a te sia ricongiunto (1). 

E nell'altro sonetto, al par di questo affettuoso : 

Tu quetavi ogni turbo ogni procella 
Di fortuna al mio ben scarsa ed avara 
Mentre il mio cor somme letizie impara 
Da V indistinta tua dolce favella. 

Semplicetta colomba ecc. 

Da chi l'Ammirato, già cinquantenne, abbia avuto 
questa figliola, morta poi in tenerissima età, non 
sappiamo ( 2 ). Ad ogni modo è bene che si ricordi 
che l'Ammirato non era un prete celebrante, ma 
solo un abate. 

Si era appena acquetato l'animo dell'Ammirato 
a non consolarsi più colle tenere carezze della sua 
piccola Angelella, che una funesta disgrazia incolse 
Firenze: la famosa piena dell'Arno del 1589. 

A Virginio Orsino, duca di Bracciano, l'Ammi- 
rato inviava con lettera del 15 maggio 1589 una 
minuta descrizione dell'inondazione, del modo come 
avvenne e si sviluppò, e insieme una breve rassegna 



(1) Cfr. Opuscoli, II, p. 635-6. 

(2) Nel suo primo testamento son tre le (isonne a cui lascia 
dei legati: Un'Angela e una Caterina, che *pno le due perpe- 
tue, e Selvaggia degli Oricellari. U testamento fa pubblicato 
da G. Valacca nella Rassegna pugliese, anno XJY> fase. 11. 



- 282 — 

» 

delle inondazioni di cui si conservava memoria ( 1 ). 
Notevole quel che dice intorno alle cause della inon- 
dazione, che egli « favellando umanamente e da sem- 
plice isterico » attribuisce alla gran pioggia caduta 
in quei giorni. Il quadro è bello e vivo, ricco di 
scene e di episodi or terribili, or pietosi: in mezzo 
ad esso campeggia la figura del Duca che, trovandosi 
al Poggio, scese senza indugio ad apportare alla 
città gli aiuti necessari e a tutti seppe dare con- 
forto e soccorso: 

Allor porgeste ai sacri chiostri aita 
Che di morte le mura avean dipinto 
Ed alla plebe afflitta e sbigottita (2). 

* 
* * 

L'Ammirato continuava la sua vita di studioso 
ricercatore delle antichità di Firenze: dimorando, 
quasi stabilmente a Fiesole, veniva sempre più di 
raro in Corte. Talora però vi si recava a visitare 
illustri personaggi che passando da quella città 
chiedevano di vederlo. Egli stesso lo scriveva al 
Capponi : « son divenuto cavai correttone e se esco 



(1) La lettera è in Aiazzi, Narrazioni storiche delle pia consi- 
derevoli inondazioni dell 1 Arno, Firenze, Piatti, 1845, p. 25. 

(2) Opu8c.y II, p. 638. I due sonetti in lode del Granduca li 
inviava con lettera del 18 marzo 1592 a G. B. Strozzi a Roma. 
V. Bibl. Naz. di Firenze, ms. Vili, 1399, e. 332. 



— 283 - 

dalla mia grillaia non vedo Torà di ritornarvi » (*). 
E dalla stessa lettera del 16 giugno 1590 sappiamo 
che, passando da Firenze gli ambasciatori di Sasso- 
nia, Cristina lo invitò a venire, e fu in questa 
circostanza ch'egli vide da lontano il Tasso, che, 
accasciata e sfigurato dai dolori fisici e dalle tor- 
ture dei suoi nemiqi, alla Corte di Ferdinando avea 
chiesto ricetto ( 2 ). Noq andò a visitarlo, e fu roz- 
zezza, dice egli stesso al Capponi, che era uno degli 
assidui in casa del Tasso; ma pur avendolo visto 
per via alla sfuggita, « ne serbò gradita et ad un 
tempo mesta impressione » ( 3 ). E pel Tasso senti sem- 
pre, anche in seguito, affetto sincero e profonda 
compassione: al cardinale Aldobrandini scriveva 
compiacendosi con lui per aver accolto in «casa il 
poeta e alleviato cosi le sue sciagure ( 4 ), e, non 



(1) La lettera è fra le Lettere di vari letterati a G. B. Strozzi 
e ad altri, in Bibl. Naz. di Firenze, ms. Vili, 1399, e. 38. 

(2) Cfr. C. Guasti, 11 Cardinal del Monte, etc., in Gior. sfar, 
degli arch. toscani, IV, p. 78-9, e Solerti, op. cit., p. 649 sgg. 

(3) Cfr. V Orazione in morte del Tasso, in Opuscoli, III, p. 500. 

(4) La lettera in Opuscoli, II, pag. 377. — La Crusca, pla- 
cato il suo odio contro la Gerusalemme, aveva anzi inaugu- 
rato un corso di lezioni intorno ad essa. Molti cruscanti, amici 
dell'Ammirato, frequentavano oltre al Rucellai la casa del Par- 
mucci, quali G. Battista Strozzi iuniore, Michele Dati, Ottavio 
ed Alessandro Kinuccini. — Cfr. Guasti, Lettere del Tasso, IV, 
p. XXXVIII, e Solerti, op. cit., p. 156. 



— 284 — 

contento della lettera affettuosissima, inviava allo 
stesso Cardinale un sonetto. 

Cosi al cardinal S. Giorgio, che pur egli con- 
solò gli ultimi momenti del poeta, ne indirizzò un 
altro in cui celebrava le lodi della Gerusalemme 
Liberata. Quando poi il Tasso mori, lo stesso Am- 
mirato, per compiacere al cardinal Cinzio, com- 
pose e recitò alla presenza di lui, di prelati, di 
signori, e di popolo immenso una orazione in lode 
del grande estinto. Pregio precipuo del Tasso, se- 
condo l'Ammira io, è Tessersi valso delia poesia come 
mezzo acconcio alla diffusione di un'idea santa e 
nobile; la liberazione del sepolcro di Cristo e la 
diffusione del Cristianesimo; a lui quindi più che 
il nome di poeta profano si deve dare quello di sa- 
ero. E vero che molti difetti furono riscontrati 
nel poema, ma ad essi si sarà facilmente indulgenti 
quando si considerino le difficoltà che un lavoro 
si fatto presentava sia nella concezione che nella 
esposizione. Il Tasso è terzo dopo Omero e Virgilio; 
il soggetto suo però ha superato tanto quello degli 
altri quanto le cose divine avanzano le umane. 
« Ricco senza soprabbondanza, casto e colto senza 
scarsezza, morbido e agevole senza infingardia in 
tutte le parti et in ciascuna di esse bello, grazioso 
magnifico (tu) ordisti il più nobile poema eroico, 
che da che fur sentite toscane rime mentovare da 



— 285 — 

poeta alcuno o nato toscano o non nato, fosse stato 
composto giammai ». Né il Tasso per l'Ammirato 
è solamente lodevole come poeta epico, ma anche 
come lirico e drammatico, come filosofo e autore 
di trattati e di dialoghi. Grande fu dunque il me- 
rito del cardinal Cinzio « offrendogli non solo da 
vivere, ma anche pensando di dare colla incorona- 
zione un premio a tante virtù » W. 

* 
# * 

Il 26 giugno del 1591 l'Ammirato inviava per 
mezzo del cardinal Aldobrandini a papa Grego- 
rio XIV alcuni alberi genealogici. Ma questo non 
era che il pretesto per chiedere la conferma di un 
beneficio, che veniva ad accrescere sensibilmente le 
sue entrate. L'Ammirato già, come vedemmo, go-* 
deva di due benefizi della Cattedrale di Lecce, che 
gli rendevano venti scudi, e di altri due benefizi di 
due chiesette ( 2 ) : un quinto voleva concedergli la 



(1) Le relazioni fra il Tasso e l'Ammirato furono anche ri- 
cordate nel marmo. Nel monumento inaugurato nel 1887 nella 
cappella di S. Onofrio lo scultore sulla base volle descrivere 
la pompa funebre del Tasso: Reggono il feretro il Pellegrino, 
il Beni, i'Ottonelli e un altro. Avanti e dietro al feretro vanno 
amici ed ammiratori del Tasso, accanto poi con due torcie ac- 
cese camminano Cesare Guasti e l'Ammirato. 

(2) Cfr. il mio op. cit. Cinque lettere di S. A, a Bellisario 
Vinta. Nota preliminare, p. 7. 



— 286 - 

sorella abbadessa. Per la conferma di quest' ultimo 
egli brigò oltre che presso l'Aldobrandioi anche 
presso il cardinale di S. Severi na. Ma il Concilio 
di Trento avea chiaramente deciso al proposito: i 
cinque benèfici sarebbero stati raccolti sub eodem 
tecto e ciò non si poteva (0. La lettera del cardinal 
di S. Severina in risposta alle preghiere del nostro 
dovette essere anzi non senza rimproveri per le 
eccessive richieste dell'Ammirato, se questi con- 
fessava di ben meritarli. 

Ad ottenere protezione e sovvenzione mandava 
al duca di Ferrara un bellissimo intaglio rappre- 
sentante l'albero di Casa Lorena, con la quale il 
Duca si era imparentato ( 2 ). Al cardinal Gesualdo 
inviava l'albero della famiglia, fatto già pel fra- 
tello cardinal Fabrizio, e di più quel brano della 
Storia fiorentina in cui nominava quest'ultimo, per- 
chè vedesse se era di suo compiacimento (fi). Tutto 



(1) Cfr. Opuicoli, li, p. 831 sg£. 

(2) Il Duoa ringraziava con lettera del 25 ottobre 1591 l'Am- 
mirato lodandolo. — Cfr. Arch. di Stato in Mantova : Cancelle- 
ria ducale, Archivi speciali, Letterati, Scipione Ammirato. L 1 albero 
della Casa di Lorena trovò gran fortuna, lo adoperò Theodore 
Godrfroy nella sua Genealogie dea due* de Lorraine fidelement ré- 
cueillè de plusieurs hiatoires et littres authentiques, MDCXXIV. 

(8) La lettera è del 2 agosto 1592. Il 18 ottobre il Cardinale 
rispondeva manifestandogli il gradimento per l'albero, quan- 
tunque un cavaliere della Casa ne avesse fatto uno accuratis- 



- 287 — 

ciò doveva ben dargli dell'utile; eppure a leggere 
le sue lettere non si ascoltano altro che lamenti, 
continui lamenti: a tutti si rivolge per ottenere 
qualche cosa, e questo è il rimprovero più grave 
che si può muovere al carattere dell'Ammirato. 
Il domandare e il dichiararsi privo di tutto, fin 
del necessario, è in lui antico uso, e lo abbiam visto, 
ma negli ultimi anni le querimonie diventano in- 
finite, la sua petulanza diminuisce la simpatia che 
si può avere per lui come uomo e come studioso. 
Eccolo a chiedere al duca d'Urbino, a cui, almeno 
a quanto sappiamo, non era stato per lo innanzi le- 
gato da stretta amicizia né da lunga consuetudine, 
eccolo a chiedergli una barella « delle rifiutate e 
men nobili per poter portar queste ossa aggravate 
dalla vecchiaia e dalle lunghe fatiche, essendomi 
in modo invecchiato un muletto che ho tuttavia 
con meco che né me, né se stesso può più soste- 
nere ». Il Duca l'accontentò e l'Ammirato lo rin- 
graziava « che ha usato questa carità con un vec- 



8Ìmo. Riguardo al brano da inserirsi nelle storie, dice di es- 
serne ben contento quantunque troppo encomiastico per un sa- 
cerdote. Cfr. Opuscoli, II, p. 369. Della curiosa figura del Card. 
I Gesualdo che prima di essere cardinale era uno dei più azzi- 

J mati cavalieri napoletani e che, anche dopo presa la porpora, 

\ serbò molte delle sue abitudini .sibaritiche, ci ha serbato una 

t briosa pittura il Del Tufo. — Cfr. l'ed, cit. del Volpicellà, p. 182. 



— 288 — 

cbio et povero sacerdote, il quale essendo nell'età 
di 64 anni, certa cosa è che non ha 64 ducati di 
entrata di chiesa », e in ricambio gli inviava un 
sonetto in sua lodeW. 

Al papa Clemente Vili chiedeva reiteratamente 
un sussidio: « I giovani secolari che portano spada 
et vanno con l'ampie lattughe han le centinaia degli 
scudi di pensione, diasene alcuna diecina a un ser- 
vidore di 65 anni », a un vecchio servidore che 
ha portato non piccolo lustro alla famiglia quando 
ne ha fatto l'albero genealogico ( 2 ), 

D'altra parte leggendo le lettere scambiate tra 
l'Ammirato e i suoi padroni si vede come questi 
lo colmassero di cure affettuose e lo accontentas- 
sero in tutti i suoi desideri. Son piccoli doni, re- 
gali di ghiottonerie, ma tutt' insieme ci fan chiara 
la benevolenza di Ferdinando e specialmente di 
Cristina verso il loro storiografo ( 3 ). 



(1) Cfr. Opuscoli, II, p. 447-450. 

(2) Cfr. Opuscoli, II, p. 457-461. In una delle lettere narrava 
al cardinale Aldobrandino la novelletta di re Alfonso che aiutò 
il villano a rialzar l'asino. Cfr. la lettera al. Card. S. Giorgio, 
Opusc.j II, p. 417. 

(3) Una volta la Principessa gli avea inviato un cinghiale 
salato di 160 libbre e il Duca un pasticcio di oche: curioso 
il modo con cui avea provocato il' dono: avea parlato di un 
cinghiale regalatogli dal Pignatta, il Duca lo avea domandato 
se mangiava poponi e l'Ammirato avea risposto che mangiava 






i 



— 289 -, 

Denaro a profusione non doveva certo averne, 

ma farebbe dispetto, se non destasse commise ra- 

* 

zione, una lettera come questa al Vinta : « Et se le 
pare di ricordarle che in 25 anni che servo questa 
real casa io non ho un giulio di rendita di beneficio 
dove un maestro della S. Pellegrina ebbe seicento 
scudi d'entrata, faccialo che io gliele ricordo più 
per non parere che io manchi a me medesimo, che 
per troppa avidità: avendo già meno l'animo in 
una somma quiete di vivere et morirmi nei panni 
et stato che mi truovo ». 



* * 



Premio di lunga fatica nella illustrazione di tante 
famiglie nobili, frutto dell'amicizia con tanti car- 
dinali, si lusingava l'Ammirato di poter conseguire 
un vescovado che già Paolo IV e i cardinali Car- 
rata gli aveano promesso quando avesse fatto Fal- 



carne. Ora una corba di pesci, ora un'altra di cacciagione; ta- 
lora la carrozza del Granduca portava l'Ammirato alla ricca 
mensa del Duca; nelle gite frequenti nei dintorni ed anche 
fino a Livorno l'Ammirato tra tutti gli altri cortigiani pre- 
scelto e sedeva nei ducali equipaggi. Son piccole cose, ma nel- 
l'insieme dimostrano il gran favore che godeva il nostro nella 
Corte, e quindi l'inopportunità dei suoi rammarichi. Cfr. la 
lettera inedita dell'A. al Pignatta in Arch. di St. fior.: Car- 
teggio cit., f. 851, e. 220. 

19 



— 290 - 

bero e la storia della loro famiglia C 1 ). Verso la 

fine del 1594 la speranza un'altra volta tornò a 

* 
brillare, e una lettera, un pò* oscura in vero, di 

lui al Vinta ci fa supporre che all'Ammirato si fa- 
cessero delle proposte proprio per il vescovado di 
Lecce. Perchè e come ogni speranza si dileguasse 
non sappiamo, e il Nostro invece che del manto 
paonazzo dovette accontentarsi del fiocco di cano- 
nico della cattedrale fiorentina ( 2 ). 

Per divenire canonico dovette laurearsi prima 
in teologia. Il 23 gennaio del 1595 innanzi alla 
Università fiorentina fu giudicato degno del titolo 
di teologo e di professore di sacra scienza. Sedici 
teologi di Firenze, e G. Battista Concini, il Busotti, 
il Giani, questi due ultimi serviti, giurarono del 
profondo suo sapere: il Vicario Generale di Firenze 
lo proclamò ( B ). 



(1) Cfr. Opuscoli, II, p. 459. 

(2) Cfr. Cinque leti, ecc. cit., Cfr. V Orazione a Filippo II, in 
Opuscoli, I, p. 82. — In uno dei discorsi su Tacito, XV, 5.°, 
scrive che i principi devano provvedere acche non si facciano 
frodi negli uffici, « non potendo nessuno essere assunto alla di- 
gnità vescovale se non fosse o maestro in teologia o canonista 
o per testimonio d'alcun collegio atto ad insegnare altrui, chiara 
cosa è, ed a me è manifesto molti aver senza non dico teolo- 
gia od altro ma non pur intendendo la lingua latina in una 
notte essersi addottorati ed ottenuto il Vescovado ». 

(3) Cfr. G-. Ceekacchini, Fasti teologali della sacra Università 



— 291 — p 

Non dovea essere ignoto il nome dell'Ammirato 
ai suoi giudici ecclesiastici. Tra i suoi manoscritti 
se ne trova uno che ha la data del 1573, e non è 
altro se non un lungo ed accurato ragguaglio dei 
benefizi della diocesi fiorentina, così distribuito : € Di- 
gnitates et Canonicatus Ecclesie Metropolitanae; Cap- 
pellate ecclesie S. Laurentii; Prioratus civitatis; 
Ecclesie parrocchiales civitatis; Oratoria civitatis; 
Hospitalia civitatis; Cappellate in diyersis mona- 
steriis civitatis; Abatie; Plebes diocesis; Prioratus 
extra civitatem ; Oratoria ruralia ; Hospitalia extra 
civitatem; Collecta beneficiorum ad collactionem or- 
dinarli ». È adunque una specie di prontuario e 
di statistica, dalla quale chiaramente risultano le 
condizioni di ogni chiesa, il suo grado, le rendite 
sue, ecc. Né è improbabile che l'Ammirato si sia 
accinto a questo lavoro proprio per conto del Ca- 
pitolo o dell'Arcivescovo W. 



fiorentina. Firenze, Moliche, 1738, p. 332. — Una notizia di tale 
proclamazione, che si trova nel cod. D, VI, 9, e. 140 della Bi- 
bliot. com. di Siena, dà una data diversa: < hieri mattina (26 
gennaio 1595) prese il grado di dottorato per poter pigliare 
come si crede il canonicato del duomo che vaca per l'assun- 
zione al vescovato di Fiesole del sig. Alessandro Marzi, S. A. ». 

(1) Comunque sia, ricordiamo che il padre Boninsegni lesse 
intorno alla dottrina dell' Ammirato una lusinghiera relazione : 
« Vidi ac legi, dice il dotto padre, multa praeclare quidem di- 
serte, ac doctrina fulgentia opera edita a pobis insigni atque 



, — 292 — 

Tutto pareva pronto per la consacrazione : i ca- 
nonici dopo compieta eran tutti riuniti per la ce- 
rimonia, quando sorse il canonico tesoriere e disse 
che la vestizione non poteva esser fatta se prima 
l'Ammirato non pagava 17 ducati d'oro che il cano- 
nicato dovea da molto tempo W. Questo contrat- 
tempo angustiò l'Ammirato ; pure finalmente, come 
Dio volle, per intercessione della Granduchessa e 
del Vinta, ogni divergenza fu appianata e l'Ammi- 
rato fu canonico ( 2 ). Si distinse egli per zelo e per 



admodum reverendo domino Scipione Ammirato longaeva con- 
suetudine laudabili profecto in hac civitate Fiorentina at alibi 
conspicuo, in quibus praeter rerum humanarum divinarumque 
cognitionem quibus piane abudant, animadverti quoque plu- 
rima in eis ex sacri s litteris desumpta pulchre docteque ne- 
dum aliata, verum etiam luculenter exposifca. Unde illius eru- 
di ti onem non solum in humanis, sed etiam in divinis observans 
admiratus sum, gratulatusque. pari ter hominem hac nostra ae- 
tate datum fuisse; qui illam et virtutis exemplo et doctrinae 
copia illustraret. Quapropter omni honore ac praeterea omni 
gradii dignitateque eum dignum censeo, qui alios quoque in sa- 
cris litteris docere valeat ». — Cfr. Cerbacchini, op. cit., p. 332. 

(1) Intorno al canonicato cfr. le lettere dell' A. in Arch. di 
Stato fior. — Carteggio Mediceo, f. 856 n. 178, f. 807 n. 508 e 671, 
f. 858 n. 74 e f. 848 n. 619 da me pubblicato in Cinque lettere 
di 8. A. cit., p. 18 e segg. 

(2) Cfr. Catalogo cronologico dei canonici della chiesa metropo- 
litana fiorentina compilato Vanno 1751 da Salvino Sat.vini. Fi- 
renze, Cambiagi. L'Ammirato è chiamato riguardevole per la. 
pietà, istorico e letterato famoso. 



— 293 — 

solerzia: alla Granduchessa ricorse spesso perchè 
provvedesse ad alcuni oggetti occorrenti alla chiesa 
del duomo: tre anni dopo fu eletto dal Capitolo 
curaiolo di S. Maria del Fiore W. 

Ma di una nuova ed utile istituzione introdotta da 
lui nel collegio dei canonici bisogna qui far parola. 
Appena pubblicati gli Annali ecclesiastici del Baro 
nio T Ammirato, che all'autore avea scritto encomian- 
doli ( 2 ), persuase i canonici a radunarsi per leggerli 
insieme; e la cosa andò per lungo tempo con gran 
soddisfazione del Nostro che si augurava che in 
altre parti d'Italia si seguisse tal costume, « per- 



(1) L'11 settembre del 1597 raccomandava alla Granduchessa 
di provvedere ad una custodia dell 1 Ostia, ed ella ordinava al 
Giugni che si facesse dare dall' Ammirato nna nota degli og- 
getti occorrenti e li acquistasse. La pregava ancora d'interes- 
sarsi perchè alcune monache di S. Martino, già donne di vita 
perduta, potessero ricamare e trarne qualche guadagno. — Cfr. 
Opusc.j II, p. 465-467. 

(2) < Infinito, egli scrive, e da non esprimerlo invero cosi age- 
volmente, fu poi il diletto quando vidi uscito fuori il primo 
tomo di essi Armali, non solo colmo di tutte quelle notizie che 
a tal materia appartenevano, ma nobile per la lingua, chiaro 
nello stile, ornato di lumi istorici e sopratutto qual a tanta 
opera si conveniva eruttante per ogni sua parte il decoro della 
cristiana Maestà e disprezzante a suo sommo studio non dico 
le non vere ancorché divote et ricevute credenze di molti in- 
torno le cose sacre ». — Cfr. Opuscoli, II, p. 454. 



- 294 - 

che come all'uomo preme sapere i fatti dei suoi 
antenati, così al cristiano deve valere di conoscere 
i fatti della sua religione ». 



* 



Come sacerdote e come cristiano, con costanza 
e'd entusiasmo l'Ammirato bandì in una serie di 
orazioni calde di fede e di santo zèlo la crociata 
contro i Turchi, che allora minacciavano al sud 
l'Ungheria, dove i Cristiani cadevano a centinaia 
sotto la scimitarra ottomana. 

Né egli fu solo a dimostrare la necessità di una 
guerra contro un nemico potente e minaccioso: 
cardinali, poeti infiammati dagli epici fatti delle 
antiche crociate, ridestate alla memoria degli Ita- 
liani specialmente dal poema del Tasso, gareggia- 
rono in questa santa impresa, incitando principi e 
popoli, papi e imperatori a prendere le armi. Era 
papa Clemente Vili, celebre per due fatti cosi di- 
versi tra loro, la morte di Beatrice Cenci e la in- 
coronazione dell'infelice Torquato: dalla sua ener- 
gia, talvolta spinta fino alla crudeltà, si sperava una 
impresa vigorosa, ma nulla fu fatto e solo nel 1601, 
quando già l'Ammirato era morto, fu spedito dal 
Papa contro i Turchi un corpo di 800 soldati ita- 
liani, ingrossati fino a 23000 da Tedeschi e ventu- 



- 295 — 

rieri e guidati da Francesco Aldobrandino. La pri- 
ma orazione dell' Ammirato è rivolta ai signori na- 
poletani, chiamati all'impresa dalla tradizione, dalla 
ricchezza, dalla opportunità del luogo e dalla edu- 
cazione militare, se la superbia, per la quale tutti 
volevan comandare e nessuno ubbidire, e la como- 
dità del vivere, comodità che rasentava la effemi- 
natezza, non si fossero opposte. Si ricordino essi, 
dice l'Ammirato, che in tante congiunture gli im- 
peratori hanno ubbidito ai loro subalterni e che 
prima lode dei guerrieri è la frugalità: e cita 
esempi antichi e moderni, sacri e profani. Il mar- 
chese Alfonso del Vasto è il personaggio che l'autor 
nostro offre a modello di saggezza e di valore mi- 
litare: si ispirino -tutti ad esso e si facciano ini- 
ziatori di quella impresa utile e gloriosa, pensando 
a quel che diverrebbe il regno di Napoli in mano 
dei Turchi U). 



(1) L'orazione dell'Ammirato non rimase lettera morta; fu 
accolta dovunque con simpatia e con favore. L'arcivescovo di 
Napoli, cardinal Gesualdo, scriveva all'Ammirato il 15 luglio 
del 1594: « L'Orazione di V. S. è parto degnissimo del suo in- 
gegno e della sua dottrina, ed è scritta con tanta energia che 
questi signori napoletani, a chi è indirizzata sono astretti di 
seguire ciò che ella s'ingegna di persuader loro per efficacia di 
ragione ». Cfr. Opuscoli, II, p. 416. — Colla stessa data il prin- 
cipe Andrea di Conca scriveva che tanta era stata l'efficacia 



— 296 — 

La seconda oraziane è diretta a Filippo II re di 
Spagna, e in essa l'Ammirato dapprima dimostra 
come i principi si debbano pacificare, tutti fra loro, 
mercè una politica di equilibrio, della quale egli 
trova il modello nella storia di Spagna dalla sua 
costituzione in regno fino a Filippo IL Dinanzi alle 
conquiste di Carlo V l'autore dice che è vero che 
questi ha .conquistato e vinto, ma non ha ritenuto 
gli acquisti, e se ha saccheggiato Roma, non ha 
tenuto per sé nessuno dei castelli della campagna 
romana. Conseguita la pace universale, allora so- 
lamente è possibile muovere contro il Turco e de- 
bellarlo. 

Ma il desiderio dell'Ammirato rimase infruttuoso. 
La politica egoista del re spagnuolo non consen- 



di quella orazione, che egli si sentiva spinto a chiedere a S. M. 
di poter passare in Ungheria con 200 cavalli a proprie spese — 
Cfr. Opuscoli, II, p. 414, e la lettera dell' A. al Granduca in 
Arch. di St. fior. Carteggio c#., f. 851, e. 248. A questa lettera 
l'Ammirato rispose con un sonetto nel quale ricordava al 
Principe 1-ayo morto in Puglia contro i Turchi e lo inci- 
tava ad andare là 

Dove ardimento in bel drap pel ristretto 
Fuga il terror e in lieve cerchio il serra, 
Dove giace il pallor smarrito in terra 
Ned osa muover braccio o formar detto. 

Cfr. Opuscoli, II, p. 651. 



- 297 — 

ti va una generosa spedizione dalla quale nessuno 
o ben poco vantaggio gli sarebbe venuto; d'altra 
parte i pericoli interni e la politica coloniale ne 
esaurivano l'attività. Nel 1598 Filippo II moriva, 
e l'Ammirato con una orazione, detta la terza Fi- 
lippica, tesseva di lui l'elogio il più eloquente, il 
più entusiastico. Le tradizioni familiari mai. inter- 
rotte per lungo ordine di discendenze chiare e il- 
lustri, il valore in guerra, la saggezza nell'ammi- 
nistrazione dei popoli a lui soggetti, lo zelo nell' in- 
traprendere viaggi per la scoperta di nuove terre, 
tutto è ricordato a prò della fama del morto mo- 
narca. Tuttavia quest'orazione, che parrebbe non 
avere altro intento che le lodi del figlio di Carlo V, 
si muta infine in una nobile esortazione al succes- 
sore di lui perchè compia quello che il padre non 
aveva voluto o potuto, l'impresa contro la mezza- 
luna. Cosi sarà eterna l'aureola di gloria che cin- 
gerà la fronte del nuovo monarca e l'autore sarà 
contento di poter contribuire con tutte le sue forze 
a che pagine gloriose ne segnino il regno nella 
storia. 

Altre tre orazioni sono rivolte con lo stesso in- 
tendimento a papa Clemente. « Cinquecento anni pri- 
ma Urbano II aveva bandita la crociata e cinque- 
cento anni più innanzi sotto Clemente I si aveva 
cercato di acquetare lo scisma dei Corinzi, quasi 



— 298 — 

antevedendo che l'ottavo Clemente, essendo l'ot- 
tavo numero quasi corona che stringe il fine col 
suo principio, avesse ai suoi tempi dopo tre volte 
cinquecento anni a sbarbar del tutto il sommo Pa- 
triarca del paganesimo » ( 1 ). Non è stato mai amante, 
lo dice egli stesso, di simili sottigliezze, ma questa 
volta la coincidenza non può che esser opera della 
Provvidenza, che chiama Clemente Vili a compiere 
l'opera dei suoi predecessori. E qui una lunga espo- 
sizione di tutto ciò che i pontefici fecero per riac- 
quistare alla cristianità il luogo dove il Redentore 
aveva patito ed era morto per gli uomini ( 2 ). A 
questa orazione, in cui colla rassegna di tanti pie- 
tosi pontefici, colla viva rappresentazione di quel 
santo entusiasmo di cui si mostrarono accesi i cuori 



(1) Cfr. Opuscoli, I, p. 169. 

(2) Cfr. Opuscoli, I, p. 148. In questa enumerazione il nostro 
autore aveva dimenticato papa Innocenzo Cibo. Il principe Al- 
berigo con lettera del 18 gennaio 1595 muove rimprovero al- 
l'Ammirato di questa dimenticanza e gli spiega i meriti del 
suo antenato sotto questo riguardo. — Cfr. Sforza, art. cit., 
p. 113. — Poco tempo prima lo stesso principe avea scritto che 
rivendicasse la fama del cardinale Innocenzo accusato dal- 
l'Adriani, a ciò indotto da cattivi consiglieri, di aver mostrato 
poca lealtà nella sua condotta verso il duca Cosimo. — Cfr. 
Sforza, op. cit., p. 112. — Per i fatti che determinarono l'ac- 
cusa dell'Adriani, cfr. L. Staffetti, Il cardinale Innocenzo Cibo. 
Firenze, Lemonnier, 1894, p. 212 e segg. 



— 299 — 

quando falangi di guerrieri, turbe di popolo si ri- 
versarono sulla terra bagnata dal sangue divino al 
grido fatidico di: Dio lo vuole^ tenta di riaccen- 
dere quell'ardore nel petto di Clemente W, segui 
dopo poco un'altra, la Clementina seconda, nella 
quale, come già aveva fatto rivolgendosi alla no- 
biltà napoletana, indica i mezzi e dà i consigli utili 
al generoso intento. L'Ammirato aveva già pubbli- 
cato i discorsi su Tacito, dei quali parleremo più 
innanzi, e ad essi sovente si richiama sopratutto 
per quel che riguarda gli armamenti. « Non ci 
spaventi, Beatissimo Padre, che il dir oggi soldato 
si dica per lo più giuocatore e bestemmiatore, che 
il dir soldato si dica ladro e adultero, che il dir 
soldato si dica un composto di ogni vizio scompa- 
gnato da ogni virtù, perchè tali son quelli soldati, 
i quali bravi cogli amici sono vili coi nemici, i 
quali inubbedienti e contumaci coi loro capitani 
non osano mirare l'aspetto dei Turchi, i quali fug- 
gono senza esser seguitati, i quali stimano non con 
le loro armi a avere a difendere le fortezze, ma 



(1) L'orazione piacque; infatti il cardinal Toledo ringra- 
ziando l'autore gli scriveva che essa gli avea dato grandissimo 
\ gusto leggendola « per li belli et vivi concetti che in quella 

■ erano ». — Cfr. Opuscoli, II, p. 893. — Lodi lusinghiere gli 

, fece anche il cardinal Borromeo — p. 391-2. 



— 300 - 

che le fortezze sian difese delle loro armi, » W. 
Propone quindi la costituzione di un esercito, saldo 
e disciplinato e tutti quegli altri espedienti adatti 
a vincere cosi prepotente nemico (?). . 

Eran tempi in cui i Cristiani avevan toccato non 
lievi sconfitte in Ungheria e il nostro aveva scritto 
nell'ottobre del 1594 alla Granduchessa di Toscana 
incitandola a far recitare nel Duomo di Firenze una 
messa solenne in onore dei caduti e a fare ogni 
anno dal Duca celebrare con pompose esequie e con 
orazioni l'eroismo di quei valorósi ( 8 ). 

A rialzare le sorti cristiane venne posto a capo 
degli eserciti il Principe di Transilvania. « Possa 
tu essere nuovo Golia », gli scriveva l'Ammirato 
nell'ottobre del 1595 ( 4 ), inviandogli la canzone; 
« Alma real che inaspettata appari ». 



(1) Cfr. Opuscoli, I, p. 198. 

(2) Gran fortuna ebbe questa seconda Clementina: Filippo 
Giunti la mandò al fratello Giulio ricco libraio a Madrid. Questi, 
che col fratello da prima si era lamentato perchè gli mandava 
di tali libri che non si poteano smerciare, la presentò poi al re ; 
« questi, presala in mano e cominciatala a leggere stando il 
Giunti a vedere, non la posò mai finché egli non l'ebbe letta 
tutta ». Il Giunti ne chiese a Firenze altre due copie per due 
signori della Corte. — Cfr., Opuscoli, II r p. 443. 

(3) Cfr. Opuscoli, II,. p. 428. ■■... ,■<***' 

(4) Cfr. Opuscoli, II, p. 452. 



— 301 — 

Particolarmente informato delle vicende d'Un- 
gheria, 1*A. ne ragguagliava quasi, ogni giorno Cri- 
stina che con Ferdinando dimorava a Pisa, dove 
questi era venuto per dar sèsto colla sua presenza 
agli affari della città sempre in rovina. Le sue let- 
tere, buon numero delle quali inedite, sono improfc 
tate tutte a sentimenti di pietà e di compassione 
per là cristianità vessata W. A Ferdinando scriveva 
nel maggio del 1595, proponendogli un piano di 
guerra, per il quale si dovevano attaccare, allora 
che ne era tempo, i Turchi in Transilvania, senza 
attendere i loro assalti in Ungheria ( 2 ). Fisso sem- 
pre nella sua opinione, del resto verissima, che per 
menare a termine una guerra sterminatrice e de- 
cisiva occorra un esercito ben disciplinato e non 
allestito all'improvviso, sottomette alla considera- 
zione del suo signore la proposta di mutare il ri- 
covero degli Innocenti in una vera e ben ordinata 
scuola militare. Si sa che quando i fanciulli ivi 



(1) Cfr. Arch. di St. fior. Carteggio cit., f. 851, e. 248; la let- 
tera del 27 agosto 1594 al Duca d'Urbino; l' altra alla Grandu- 
chessa del 20 gennaio 1595 in Arch. cit. Cart. cit., f. 857, e. 275: 
le altre a Bellisario Vinta del 7 febbraio 1595, ibid., f. 857, e. 511; 
alla Granduchessa del 10 marzo dello stesso anno, f. 858, e. 136; 
del 19 marzo, ib., e. 225; del 31 marzo, ib., e. 327; del 10 aprile, 
ib., e. 513. 

(2) Cfr. Opuscoli, II, p. 481. 



- 302 — 

raccolti raggiungevano l'età di dodici o tredici 
anni erano impiegati nelle galere ducali W; l'Am- 
mirato invece avrebbe voluto farne dei forti e ben 
agguerriti soldati ( 2 ). Quantunque il Duca fosse di 
parere che ai cittadini non si dovessero dare armi 
e che Firenze più che dai suoi figli dovesse essere 
difesa dalle città vicine ( 8 ), non accolse male la 
proposta dell'Ammirato e gliene espresse il suo 
compiacimento, pur senza metterla in pratica ( 4 ). 



(1) Il Borghi ni, con lettera del 3 aprile 1559 avvertiva il Con- 
cino che 40 fanciulli erano stati apparecchiati per le galee e 
glie li raccomandava affettuosamente. — Ofr. Saltini, Lettere 
di V. Borghini, in II Borghini, 1888, p. 5. 

(2) Cfr. Opuscoli, II, p. 525. 

(3) Cfr. Relazione di F. Contabini, in Rei. venete, II, 5.o, 437. 

(4) A questo proposito scriveva il 13 di aprile 1595 alla Gran- 
duchessa: < Già dissi a Vostra Altezza come si potea rizzar una 
milizia de' fanciulli degli Innocenti, né so perchè il Ser.mo Gran 
Duca mio sig. non si disponga a farsi autore di un'opera cosi 
eroica. Ricordili l'Alt. za Vostra che gli antichi romani cosi 
grandi come furono impararono molte cose dai toscani, di modo 
che non sarebbe gran fatto se ai tempi presenti gli altri prin- 
cipi cristiani dal toscano principe imparassero un'arte di tanta 

importanza, quanta è la militare Madama Ser.ma, io non 

sono soldato, né spero mettendo innanzi questi concetti d'es- 
ser capitano o colonnello, ma il zelo del mio principe mei fa 
dire. Il bisogno grande che non solo si vede ma si tocca con 
mano et una grandissima speranza che come la Reina Isabella 
fu cagione al re Cattolico di prestar orecchi al Colombo et sco- 
prir il nuovo mondo, cosi l'Alt.za Vostra ascoltando benigna- 



- 303 - 

Frattanto il 5 settembre del 1595 Enrico IV, dopo 
essere stato deposto da papa Clemente, veniva ri- 
benedetto e rimesso sul trono di Francia. Vi fu 
chi, già prevedendo tale atto, lo aveya biasimato, 
perchè con esso il Papa veniva meno agli interessi 
della. Spagna. 

Sorse a difenderlo l'Ammirato, che il 10 agosto, 
circa un mese prima della solenne ribenedizione, 
faceva consegnare dal card. S. Giorgio al Papa un 
suo scritto diviso in 27 paragrafi, dove discuteva 
la convenienza di queir atto con ragioni di indole 
religiosa e politica: religiosa, perchè mai si deve 
impedire il ravvedimento a chi vuol ravvedersi ; 
politica, perchè non deve mettersi in istato di guerra 
un paese quando si può ad esso dare la pace, né 
si devon dividere le forze e distrarre quelle di un 
potente alleato, quando si ha da combattere un 
nemico come il Turco W. Insistendo l'Ammirato 
su quest'ultimo concetto, si vede che fine precipuo 



mente me suo aff.mo servo conforti il Ser.mo mio padrone a 
far questa scuola, la quale imitata dagli altri principi sarebbe 
atta a liberar cotanti cristiani, che cadono sotto l'aspro giogo 
del Turco, opera, se io non ho perduto il cervello, non minore 
che l'acquistar un nuovo mondo » . Cfr. Arch. cit., Carteggio «>., 
f. 858, e. 513. 

(1) Cfr. il Discorso 77, in Opuscoli) II, e V Orazione ad En- 
rico IV, in Opuscoli, I, p. 238. 



— 304 - 

del discorso è incitare Enrico a prendere le armi 
e lodare il Papa per aver fatto sì che tutta la cri- 
stianità possa muovere unita contro il crudele ne- 
mico. 

Ad infiammare sempre più il Re alla guerra gli 
inviò una orazione. Come era naturale, questa dovea 
riuscire una esposizione di consigli prudenti e ben 
misurati sulla condotta da serbarsi nelle relazioni 
colla S. Sede e nello stesso tempo un'apologia del 
potere papale, pur proclamando in apparenza la uni- 
versalità del potere spirituale. « Tutte le monar- 
chie, egli dice, sono di temporali beni et sopra le vite 
temporali degli uomini et non son sopra l'anime. 
In modo molto diverso, per sentieri non più cal- 
cati, con nuova sorte d'usanze e costumi, se ben 
accennata molto prima alquanto oscuramente, piac- 
que a Dio d'introdurre nel mondo un'altra mo- 
narchia non temporale ma spirituale.... la quale è 
la nostra cristiana monarchia » (*). Ma alla pro- 
clamazione di questo bisogno di riunirsi sotto il 
vessillo della fede e della maestà papale fa seguire 
una fiera rampogna ai successori di S. Pietro che, 
tutti dediti all'ingrandimento de' parenti, trascurano 
i loro principali doveri. « Avvampando nel petto 
dei principi sacri a guisa di fornace ardentissimo 



(1) Cfr. Opuscoli, I, p. 245. 



— 305 — 

il desiderio di far grandi i parenti, non poteva in 
un medesimo tempo albergar il pensiero e la sol- 
lecita cura del tuo sepolcro, o Cristo » C 1 ). 

E al rappresentante di Cristo, allo stesso papa 
Clemente Vili, rivolse l'ultima delle sue orazioni, 
la 3. a Clementina composta nel 1596. È l'estremo 
grido di allarme che l'Ammirato manda al capo 
della cristianità per pregarlo un'ultima volta di 
farsi duce della impresa contro gli infedeli. « I Ro- 
mani antichi in 45 giorni tàgliaron legni, li misero 
in acqua, allestirono una armata; non faremo noi 
questo in novanta in modo che alla fine di aprile 
si possano aver pronte 100 galee? » E per l'ultima 
volta addita nel Duca di Ferrara il capitano chia- 
mato da Dio a guidare la spedizione: chi più adatto 
di lui ? « Energico e ad un tempo affettuoso coi 
sudditi, che governa non con la violenza ma colla 
persuasione, guerriero valoroso quale dimostrò di 
essere aiutando a Canossa Massimiliano- contro i 
Turchi, impavido sprezzatore dei pericoli, prudente 
politico è proprio l'uomo chiamato a dirigere una 
spedizione pel S. Sepolcro. Qual gioia pel mondo 
cristiano, qual vanto presso i posteri, se da loro 
due eccitate, le genti correranno a squadre contro 
la mezzaluna ! » 



(1) Cfr. Opuscoli, I, p. 252. 

so 



— 906 — 

Cosi il nostro Canonico tentava colla forza degli 
argomenti, con gli slanci dell'eloquenza di trarre 
in Oriente il popolo cristiano, di smuovere i prin- 
cipi dal letargo e spegnere le loro contese. Vec- 
chio più che sessantenne, aggravato dalle fatiche, 
concorre con la gagliarda costanza di un giovane 
a richiamare gli animi a quelle generose imprese 
che avean fatto la grandezza delle generazioni tra- 
scorse: e la sua voce è sinceramente pia e ispirata 
dal sacro fuoco della fede. Non soverchio sfoggio 
di erudizione e di citazioni di testi sacri e profani, 
non magniloquenza, non abuso di immagini, ma un 
parlare schietto e semplice, vivezza di rappresen- 
tazione, efficacia di incitamenti. Che se qua e là 
non mancan le lodi a questo o a quel principe, 
son parti affatto secondarie ed oscurate dall'entu- 
siasmo del credente e del sacerdote. 



— 307 — 



X. 



La pubblicazione dei Discorsi su Tacito — Nuove genealogie — 
I trattati della Segretezza e delle Cerimonie — La versione 
dei Salmi e le Rime spirituali — I testamenti dell' A. — 
Sua morte. 

« Io vorrei scemar a V. S. delle noie et non 
aggiugnerle et però cercai di sopir da me le diffe- 
renze di precedenza tra il dar la licenza dello stam- 
pare che passava tra il Vicario dell' inquisizione e 
il signor Dani. Et cosi avrei voluto fare di messer 
Filippo Giunti, il qual prima volea che io soggia- 
cessi alla spesa, caso che il libro fosse rivocato in 
•Roma, poi da se medesimo si ritrasse da questo 
parendoli la domanda poco honesta ed è entrato 
in un altro umore, che vorrebbe la dedicazione del- 
l'opera per sé contentandosi di darmi XII volumi, 
poi è salito a XVI, poi ha lasciato in bianco et dal- 
l'altro canto a me non pare onesto violentarlo con 
l'autorità ancor che habbia già voglia d'haver il 
libro et mi pesa l' indugio » W. 



(1) Lettera inedita nell'Archivio fiorentino, Carteggio Mediceo, 
f. 842, e. 851. 



— 308 — 

Così scriveva il 24 dicembre del 1590 a Beli- 
sario Vinta l'Ammirato alludendo alla stampa dei 
Discorsi su Tacito. Il 16 gennaio dell'anno seguente 
annunziava con gioia allo stesso Vinta la scritta 
già fatta, non sappiamo a quali patti, col Giunti e 
lo pregava di intervenire ancora nella contesa tra 
l'inquisitore e il Dani C 1 ); il 19 febbraio di nuovo 
gli facea sapere che: « la revisione de* discorsi va 
bene, ma il Giunti stampato ch'ebbe un foglio di 
essi è in guisa per la sua piacevolezza stato abban- 
donato da ministri che il servano che l'opera è ar- 
renata et sebbene io l'ho campo addosso per esser* 
misi obligato di darmi un foglio il dì per scrittura 



(1) Dallo stesso Carteggio, f. 856, e. 152 : « Se io non dubitassi, 
aggiunge l'A. in questa lettera, d'usar male le molte occupa- 
zioni sue, le racconterei una novella strana di messer Filippo 
Pigafetta il quale incontratomi questi giorni addietro et det- 
tomi che si rallegrava con meco che saremmo insieme andati 
alla stampa et il medesimo mandatomi a dire per Mastino Spi- 
gliati mio giovane, cosa che a me d'andarvi o non andarvi non 
rilevava nulla, da seno in seno odo che ha fatto un siffatto ro- 
moreet schiamazzo per Firenze aggiungendo che il Ser.mo 
Gran Duca non harebbe patito questa congiuntione, come se 
io havessi tal cosa procurata, che in parte mi sono riso e in 
parte adirato e in parte meravigliato dell' humore, dell'ardire 
et della stranezza di questa persona la quale continuamente ho 
soccorso di miei libri et cercato di farle ogni piacere et servi- 
gio scusandolo con alcuni gentilhuomini, i quali havean col- 
lera seco per haver poco modestamente parlato di questa citta » . 



- 309 - 

pure conviene haver pacienza » W. Finalmente il 
10 dicembre poteva scrivergli, mandandogli due 
esemplari dell'opera per presentarli al Granduca 
ed alla Granduchessa : « Si son pur finiti questi 
discorsi per grazia di Dio che invero io ho ha- 
vute tante tabulazioni ed indugi che posso dir che 
sia stato il parto dell'elefante ». 

Del contenuto, del merito e della fortuna dei Di- 
scorsi su Tacito parleremo nel seguente capitolo: 
basterà qui averli ricordati tessendo la storia della 
mirabile attività dell'Ammirato nel campo degli 
studi (2). 

* 

Né abbandonava le ricerche genealogiche. Il ms. 
Mgl. XXVI-7-1 contiene, con una lettera dedica- 
toria del 12 gennaio 1595 a Cristina di Lorena ( 3 ), 



(1) Dallo stesso Carteggio, f. 856, e. 178. 

(2) Discorsi del signor Scipione Ammirato sopra Cornelio Tacito. 
Alla Ser.ma Madama Christiana di Lorena Gran Duchessa di To- 
scana. In Fiorenza, per Filippo Giunti, MDXCIIII. 

(3) Eccola: « In questo comandamento fattomi da V. Alt.za 
Madama Ser.ma io non ho trovato quello intero contento che 
havrei voluto, il che era di aggiugner sotto ciascuna famiglia 
di principi, de' quali si tratta le rendite, genti, città et terre 
da essi principi possedute, accennandone senza diffondermi in 
altro, il sol numero brevissimamente, li quali notizie così tosto 
non ho potuto avere, perchè in questo modo et l'Alt.za Vostra 



- 310 - 

armi e notizie di principi: è autografo e nel tergo 
di ciascuna carta ha un disegno in penna delle 
armi delle singole famiglie e nel recto della carta 
successiva un brevessimo cenno storico di esse. Ri- 
mase inedito ed in qualche parte incompiuto, e in 
sostanza non è che una modesta raccolta di noti- 
zie intorno alle principali famiglie regnanti in Eu- 
ropa, cosi che egli nella lettera alla Granduchessa 
si scusa se la ristrettezza del tempo non gli ha 
fatto fare opera completa e degna della nobile ri- 
chiedente. 



ne sarebbe restata più pienamente instrutta ; et io havrei ador- 
nata et fatta più bella questa fatica, la quale senza cotali ar- 
redi le capitarà innanzi scarsa, magra, povera, et come dicono 
i pittori di maniera secca et non morbida. Et se ben l'apparato 
della commedia è fuor dell'uficio proprio del poeta, nondimeno 
molti poeti sono stati vittoriosi per cagion dell'apparato, vo- 
glio dir, che queste armi di questi principi sarebbe convenuto 
che fossero state fatte da un buon pittore, co' svolazzi, et con 
belli et leggiadri abbigliamenti, tocche di colori, et d'altre gen- 
tilezze, quali sarebbono convenuto ad un libro che si dovea pre- 
sentare ad una principessa della grandezza et potenza che è 
l'Alt. za vostra. Ma parlò il vero Madama chi primieramente 
disse la povertà essere un gran vitupero, poiché da lei non può 
venir cosa che habbia del nobile, et del magnifico, il che solo 
intendo che mi vaglia in iscusa del mio difetto, andando io 
per altro in guisa moderando gli affetti e i desideri, che assai 
ricco vivrò et morrò, se sarò certo di vivere et morire non po- 
vero della grazia vostra. — A XII di gennaio 1595, di Firenze * . 



— 311 — 

Nello stesso anno pubblicò la storia della fami- 
glia de* Paladini di Lecce (*). 

Aveva l'Ammirato conosciuto Luigi Maria barone 
di Campi, « cui malagevolmente avrebbe saputo tro- 
var pari in opere di dolcezza, di costumi e di corte- 
sia accoppiati con una certa naturale gravità che 
singolarmente lo rendevano amabile e reverendo con 
ciascuno » ( 2 ). Più stretta amicizia ebbe con Ferrante 
« bruno di viso ma candido d'animo ». Poco avanti 
che desse alla luce questa sua operetta ricevè a Fi- 
renze una visita di Lelio Paladini dottore e sacer- 
dote mandato dal Papa al Granduca: e questi forse 
lo incitò a compiere ed a pubblicare la genealogia. 

Lontano da Lecce non avrebbe certo potuto man- 
darla a termine se Vittorio Priuli, gentiluomo di 
quella città ed autore di una particolareggiata nar- 
razione delle tristi imprese dell'armata turchesca 
nella sua provincia, non lo avesse soccorso con 
ampio e disinteressato aiuto ( s ). 

Alla narrazione delle vicende della famiglia Pa- 
ladini, argomento d'occasione, frammette l'episodio 



(1) Cfr. S. A., Della famiglia de' Paladini di Lecce, In Firenze, 
presso Giorgio Marescotti, 1595. — L'esemplare della Biblioteca 
Nazionale di Firenze ha qualche nota autografa, ma poco im- 
portante, dello stesso Ammirato. 

(2) Cfr. op. cit., p. 39. 

(3) Cfr. op. cit., p. 33 e 40. 



— 812 — 

dell'assalto dato dagli Ottomani al paese e del 
sanguinoso combattimento sostenuto a Racale da 
Ferrante Loffreda e dai baroni leccesi, primi i Pa- 
ladini, e rievoca la pompa delle fosti solenni entu- 
siastiche fatte allora per lamentare la fiacchezza 
dei tempi presenti. Quegli stessi pregi che riscon- 
trammo nelle altre genealogie dell'Ammirato, ren- 
dono pregevole anche questa: esattezza cioè e bontà 
di metodo, accuratezza di ricerche, animata questa 
volta da un soffio di affetto per la propria città, 
impersonata in quella famiglia. L'A. non è sola- 
mente lo storico paziente e il freddo espositore dei 
propri studi, ma anche il cittadino che innanzi ai 
fasti e alle grandezze della sua patria si esalta e 
dà notizia di monumenti e d'artisti, di cui i primi 
più non esistono, i secondi meritano di essere ri- 
messi in onore W. 

E uguale entusiasmo riscontriamo nella storia 
della famiglia Dell'Antoglietta pubblicata due anni 
dopo ( 2 ). L'autore, lieto di « veder di cosi belle piante 
andarsi adornando la patria sua », dedica quest'opu- 
scolo ai discendenti di una stirpe tanto illustre, 
augurandosi che alle belle glorie di cui è adorna 



(1) Cfr. op. cit», p. 44. 

(2) Della famiglia dell' Antoglietta scritta da S. Ammirato. In 
Firenze, appresso Gr. Màrescotti, 1597. t 



— 313 — 

la loro casa aggiungano quella di una vittoria con- 
tro il Turco. Si giovò TA. nella compilazione delle 
carte del grande Archivio di Napoli, di cui egli 
ebbe notizia dagli impiegati a quello addetti, e del- 
l'aiuto dello stesso Vincenzo Priuli, che avea rac- 
colto e riordinato in Taranto, per commissione di 
Domenico e Filebo Dell'Antoglietta, figli del barane 
di Fragagnano, tutte le carte della famiglia. Tut- 
tavia in molte parti la storia ha delle lacune e 
molti dubbi sono lasciati insoluti. « Ogni cosa, dice 
l'autore, è piena di oscurità, né io posso a cotali 
malagevolezze porger riparo, lontano e senza poter 
vedere il fonte da cui cotali notizie sono cavate » W. 



* 
* * 



Per terminare la rassegna degli studii genealo- 
gici dell'Ammirato sulle famiglie nobili ricordiamo 
la storia di altre tre famiglie: dei Baroncelli e Ban- 
dini, dei conti Guidi e dei Borromeo, da lui la- 
sciate manoscritte. La prima fu pubblicata dal pa- 



(1) Di grande utilità gli fu la Cronaca tarantina inedita di 
Antonio Crasullo, nella quale sovente si accenna alle gesta 
della famiglia. Non sappiamo quale accoglienza avessero in 
Terra d'Otranto questi lavori dell'Ammirato: l'abbandono in 
cui pur troppo hanno quelle famiglie lasciato i loro archivi ci 
ha resa infruttuosa ogni ricerca. 



— 314 — 

dre Ildefonso nelle Delizie degli eruditi toscani C 1 ), 
l'altra da Scipione Ammirato il giovane ( 2 ), la terza 
rimane ancora inedita ( 3 ). La storia della famiglia 
Bandini in buona parte non è che il rifacimento di 
una cronaca domestica di un Giovanni nipote di un 
Bandino Bandini, dal 1356 al 1410, continuata poi 
dal nipote Gaspare ( 4 ): pure l'Ammirato non trascurò 
di fare ricerche non solo negli archivi ma anche 
sui luoghi e sui monumenti, dove l'azione distrug- 
gitrice del tempo e la mano dell'uomo aveano in 
non piccola parte distrutto preziosi avanzi. 

L'amicizia col cardinale Borromeo, la benevola 
protezione e i validi aiuti più volte ricevuti in- 
dussero l'A. a scrivere la storia della famiglia, che, 
come dai vari esemplari manoscritti che se ne pos- 
seggono si può dedurre, era già pronta per la stampa. 
Per la mancanza però di chi avrebbe potuto aiu- 
tarlo nelle ricerche questa breve genealogia non 



(1) Cfr. P. Ildefonso, Delizie degli eruditi toscani, XVII, p. 200. 

(2) Cfr. S. A., Albero e istoria della famiglia dei conti Guidi 
con aggiunte di Scipione Ammirato il giovine. Firenze, Massi, 1640. 

(3) Ms. Palat. della Biblioteca Nazionale di Firenze, n. 1078* 

(4) Riporta l'autore tutto il proemio di quella cronaca * il 
quale per essere in quel puro e felice secolo del Boccaccio vis- 
suto, nel qual secolo si favellava comunemente bene da tutti, 
si vede che puramente ed acconciamente ancor egli ne favella » . 
Op. cit., p. 203. 



— 315 - 

presenta nulla di veramente notevole o di nuovo. 
Nel maggior numero sono notizie tolte da crona- 
che e da storie, sicché non vi è da vedere altro 
se non la buona volontà dell'autore di mostrare in 
qualche modo la sua gratitudine a chi l'avea be- 
neficato, l'ossequio a chi nella gerarchia ecclesia- 
stica gli era superiore. 

Di maggiore importanza è la storia della fami- 
glia dei conti Guidi, risultato in gran parte delle 
ricerche fatte dal Nostro nei monasteri di Vallom- 
brosa attraverso infinite difficoltà. Malgrado tali 
indagini e Tesarne delle storie già conosciute, come 
della genealogia della stessa famiglia fatta dal ne- 
gligente Villani, delle opere del Borghini, del Co- 
rio, del Rucellai, del Capponi, egli stesso comprese 
d'aver fatto opera farraginosa e poco organica; e 
dichiarò d'aver solo voluto porre insieme le me- 
morie raccolte per non lasciarle disperdere. E se 
alcuno, egli confessò, mi dicesse che io non fo al- 
tro che un raccolto di storie, gli risponderò che 
a me basterà d'essere in questa parte lodata la mia 
diligenza, mostrando come procedono queste discen- 
denze, non essendoci la divina grazia scarsa di 
darci altre notizie ove si possa scoprire se in noi 
è alcuna facoltà di erudizione e di ingegno. 

Dati tali difetti, fu possibile a Scipione Ammirato 
il giovane fare tante aggiunte all'opera del suo 



— 316 — 

protettore da raddoppiarne quasi il volume. Si servi 
egli delle notizie fornitegli da un tal Cena addetto 
all'archivio Mediceo, dalle memorie manoscritte del 
Salviati, dalle aggiunte sparse lasciate dallo stesso 
Ammirato, dalle carte inviategli dal marchese Giu- 
lio dei conti Guidi di Bagno, e potè or correggere 
errori, or chiarire dubbi. Dal vecchio Scipione il 
giovane avea ereditato la pazienza e la accura- 
tezza, e veramente cospicuo è il numero delle per- 
gamene delle quali egli ci dà ragguaglio e che gli 
offron modo di aggiungere nuovi rami all'albero 
dato dall'Ammirato. L'Ammirato il giovane dedicò 
la genealogia a Claudia di Toscana e, più fortunato 
del suo antecessore, ebbe da lei in dono una splen- 
dida credenza d'argenteria dorata. 

Parleremo qui di un'altra opera genealogica* del- 
l'Ammirato, a cui, essendo stata composta in vari 
tempi, non si può assegnare una data precisa: in- 
tendo dire la serie Vescovi di Arezzo, Volterra e 
Fiesole W. Il ms. Magi. II, II, 414 contiene in 
ordine alfabetico un buon numero di notizie del- 
l'A. sui vari vescovadi d'Italia, da Aquila a Vol- 
turara. L'Ammirato forse meditava di far la sto- 



(1) Cfr. Vescovi di Fiesole, di Volterra e di Arezzo del sig. Sci- 
pione Ammirato, con V aggiunte di S. Ammirato il giovane e nel 
fine i cataloghi per le tavole. Firenze, Massi, 1637. 



— 317 - 

ria di tutti i vescovadi d'Italia; poi restrinse in 
men vasto limite le sue ricerche e si contentò 
di investigar l'origine e le vicende dei tre vesco- 
vadi suddetti. Ne lo richiesero il Diacceto per Fie- 
sole, il Serguidi per Volterra, l'Usimbardi per 
Arezzo, ma, secondo che avverte l'Ammirato il gio- 
vane, « come che di quei di Fiesole avesse migliori 
notizie più vi si compiacque e li ridusse in miglior 
forma di quella dell'altre due, delle quali in molti 
vescovi se ne sta all'opinione di cataloghi manda- 
tigli ». Tutti e tre quei prelati aiutarono valida- 
mente l'Ammirato, ed egli stesso lo dichiara quan- 
do, giunto al loro tempo, li elogia C 1 ). Tenendo pre- 
sente il catalogo dei vescovi inviatogli, l'Ammirato 
andò aggruppando sotto ad ognuno di essi tutte 
quelle notizie che gli fu dato trovare: s'intende 
che non son notizie complete, specialmente per i 
tempi più antichi. Fonte di grande importanza gli 
fu S. Antonino, « uno dei più chiari lumi e orna- 
menti di Toscana e specialmente della patria sua » ; 
si servi anche del Martirologio del Baronio e poi 



(l) La storia dei vescovi d'Arezzo era finita fin dal 1592: 
l'Ammirato la mandava con lettera del 19 ottobre a monsignor 
Pietro Usimbardi, vescovo di quella città, avvertendolo che 
erano « mal condizionati » e augurandosi di « riaccomodarli » 
se il vescovo stésso lo avesse fatto accedere negli archivi della 
Curia. Cfr. op. cit., p. 195. 



— 318 — 

di tutte quelle scritture che gli fu dato di vedere, 
compresi gH alberi del Volturano e del Falconcini C 1 ). 
Maggiore importanza acquista anche questo libro 
dell'Ammirato per le copiose aggiunte fatte dal 
Del Bianco, il quale ebbe modo di vedere carte 
e documenti che a quello furono inaccessibili. Dal 
vescovo di Fiesole Lorenzo della Robbia ebbe in- 
fatti un registro di istrumenti del 1290, da Carlo 
Strozzi molte notizie tratte dalle scritture della Ba- 
dia di Firenze e dell'Archivio di S. Maria in Campo, 
ricavò molte altre dagli archivi di Volterra e da 
quelli fiorentini delle Riformazioni, dal dott. Giov. 
Battista Conti ebbe un nuovo catalogo. Né si con- 
tenta egli solo di aggiungere, ma in molti luoghi 
corregge errori, ripara a dimenticanze nelle quali 
l'altro era caduto, or citando diplomi e documenti 
or trascrivendoli per intero. E ciò è debito di giu- 
stizia ricordare. 



* 
* * 

Tristi erano le condizioni di salute dell'Ammi- 
rato nel 1597: al cardinale Aldobrandino scriveva 



(1) Dopo dell' A. il Gtiovànnelli componeva la Cronistoria 
dell'antichità e nobiltà di Volterra raccolta da diversi scrittori, Pisa, 
Fontani, 1613. Le molte somiglianze con l'Ammirato si possono 
spiegare forse con la identità delle fonti. 



— 319 — 

il 15 marzo che gli era seguito « un diluvio delle 
sue sciagure, ristringimenti acerbissimi di urina, 
febbri ardentissime e ribrezzi ardentissimi di mor- 
te » C 1 ). Malgrado tali malanni e le cure del ca- 
nonicato ( 2 ) f egli lavorava, lavorava febbrilmente. 
Non contento delle fatiche genealogiche, dava o- 
pera a due trattati, l'uno sulla segretezza, l'altro 
sulle cerimonie ( 3 ). Il primo è dedicato a don Gio- 
vanni dei Medici e l'autore lo dice frutto delle 
molte considerazioni che il Granduca facea alla let- 
tura di Plutarco. Scopo dell'opera è dare alcun 

(1) Cfr. Opuscoli, II, p. 463. 

(2) Dalle Rime spirituali, pag. 75, si ricava che egli fa anche 
sacro oratore e dovette predicare. spesso nel duomo: 

Nella gran chiesa in pubblico ho già detto 
Di tua giustizia com'è a te palese 
Ne fia da me per tempo unqua disdetto. 

Di tua pietà non tacqui e là ove spesse 
Eran vieppiù le genti al popol pieno 
Questa mia voce il tuo gran vero espresse. 

(3) Cfr. S. A., Della segretezza. Venezia, Giunti, 1599. L'altro 
sulle cerimonie in Opuscoli, III, p. 895. Il trattato della segre- 
tezza era già composto nel 1597: infatti in una lettera dell 'A. 
al Vinta si dice: < L'ecc.mo sig. D. Giovanni motu proprio 

1 mi promise di far leggere a sua Alt.za una mia operetta della 

i segretezza. Se a V. S. passando le paresse di ricordargliene 

senza cerimonie me ne rimetto cosi alla prudenza ecc. ». La 

lettera del 3 gennaio 1597 è in Arch. fior., Carteggio cit., f. 877, 

; e. 43. 



— 320 — 

giovevole ammaestramento a quelli che praticano 
coi principi : di qui la sua importanza per la stpria 
del costume nel 500 W. 

Per segretezza l'A. non intende solo il tacere 
quello che, palesato, può produrre altrui danno, ma 
in generale l'astenersi da ogni atto che possa tornar 
altrui di svantaggio: perciò violano la segretezza 
coloro che nei propri scritti narrano fatti turpi, 
avventure scandalose. E qui una invettiva contro i 
novellieri e i commediografi che riempivano le pro- 
prie produzioni di luridi intrighi, di turpi amori 
attribuiti specialmente agli ecclesiastici, e una lode 
al Concilio di Trento che aveva portato un note- 
vole mutamento nell'indirizzo letterario, vietando 
tutti i libri che offendessero la morale e togliendo 
dai capolavori dell'arte del trecento e del cinque- 
cento tutto ciò che suonasse offesa al pudore e alla 
decenza. 

Non meno importante è la segretezza negli af- 
fari pubblici, dove Io svelare immaturamente un 
disegno può portare tristissime conseguenze. Il ma- 



(1) La prima parte infatti è dedicata al costume specialmente 
delle danne, alle quali non si potean più rinfacciare i celebri 
versi che il divino poeta aveva rivolto alle sue concittadine: 
modeste nel vestito, e più negli atteggiamenti e nel parlare 
molte di esse son ricordate dall'autore a modello di castigata 
modestia. 



— 321 — 

gistrato non deve mai chiarire ad alcuno quel che 
si delibera per la salute della patria, tanto meno 
alla propria moglie, perchè essendo la donna per 
natura ciarliera, ben presto verrebbe a propalarsi 
quel che deve rimanere occulto. Lo stesso dicasi 
degli affari del principe e degli apparecchi attinenti 
alla guerra. La segretezza non deve però trarre 
l'uomo ad essere cupo e taciturno: si può essere 
socievoli e insieme prudenti. È necessatfb quindi 
educarsi alla scuola della prudenza e della ocula- 
tozza; l'intima convinzione di far male, non il ti- 
more della pena, deve indurre gli uomini a man- 
tenere il segreto. L'ultima parte del trattato mo- 
stra i gravi danni in cui si incorre tradendo il 
segreto specialmente — era ad un uomo d'arme 
che l'autore parlava — negli affari guerreschi. 
Tutte le argomentazioni sono corroborate da lunga 
serie d'esempi tratti dalle antiche storie e da epi- 
sodii contemporanei ; sicché l'esposizione facile e 
ordinata, lo schietto disgusto per tante lordure di 
tempi a lui molto vicini, la quantità non piccola 
di ricordi personali e di aneddoti danno a questo 
trattatello un grande interesse e ne rendono utile 
la lettura. 






91 



— 322 - 

Un intento morale ed insieme cortigianesco si 
proponeva l'Ammirato con l'altro scritto sulle ce- 
rimonie (0. « Ho chiamato questa materia indistin- 
tamente cerimonia perocché a volerla ben distin- 
guere quelli onori che i maggiori fanno ai minori, 
naturalmente si posson chiamare favori e a quelli 
che i minori fanno ai maggiori serbare i nomi di 
onori e di riverenza, quelli più strettamente chia- 
mando cirimonie che si fanno l'un l'altro i pari 
fra loro » ( 2 ). Insegna quindi l'Ammirato ad evi- 



(1) Assegnando cronologicamente questo posto al trattato 
delle cerimonie crediamo di non esser lontani dal vero, come 

dal seguente passò può rilevarsi: « fa molto commendato 

Orazio Rucellai, il quale come che ad ogni -otta e ad ogni suo 
piacere potesse al Gran Duca Francesco essere intromesso, non- 
dimeno volendo seco d'alcun suo fatto parlare, una mattina in 
palese in sul dar delle frutta quando ciascun altro cittadino 
ordinario suol negoziare negoziò ». Op. cit., p. 422. — È evi- 
dente dalla stessa maniera d'esprimersi che il fatto narrato ap- 
partiene ad un passato non molto prossimo. Anche alla p. 425 
si accenna alla dimora dell' A. a Firenze e al parere di al- 
cuni letterati fiorentini su un modo di parlare venuto dalla 
Spagna. 

(2) « Io ho stimato, scrive sul principio, ciò essere materia 
degna di discorso e di trattazione poiché e per li antichi e per 
li moderni esempi chiaramente apparisce così i nobilissimi re, 
come le grandi e potenti repubbliche molte volte più della ri- 
putazione haver fatto stima che non del fatto, siccome a' pri- 
vati uomini avviene che più si son recati ad onta lo scherno 
che l'ingiuria ». Op. cit., p. 327. 



— 323 — 

tare da una parte la rozzezza, dall'altra la sover- 
chia adulazione. La prima riverenza è quella che 
dee a padre alcun figliuolo, poi vengon quelle ai 
sacerdoti del culto divino, dei quali tanta è la po- 
tenza che « sciocca per non dir empia sarebbe qua- 
lunque competenza che Principe alcun secolare 
presumesse aver con loro ». Si onori chi esercita 
un'arte, si onorino i vecchi e tutti gli uomini che 
coi loro costumi danno esempio di ottima vita, o 
che sono eccellenti per ingegno e dottrina. Si ri- 
spettino i principi e ci si mostri a loro in tutto 
inferiori. Nelle relazioni cogli stranieri si usi il 
massimo riguardo, scrivendo loro è bene scrivere 
nella propria lingua, andando invece nel loro paese 
si vesta alla loro foggia. Questa quistione della ' 
lingua da usarsi con gli stranieri e specialmente 
cogli Spagnoli non era nuova e non sarebbe un 
fuor d'opera studiarla ampiamente, perchè anche 
nel 500 essa si risolveva in quistione di alto de- 
coro civile, in affermazione solenne di nazionalità. 
A Napoli nel 1562 si era già dibattuta questa qui- 
stione: ce ne informa una lettera di Annibal Caro 
ad Alfonso Cambi dell'ottava di Pasqua di quel- 
l'anno, lettera che il Cambi avrà certo dato a leg- 
gere all'Ammirato W, il quale d'altra parte avrà 



(1) La lettera del Caro nell'ed. cit., II, p. 276. Verso la fine 



— 824 — 

forse partecipato alla disputa stessa. « Quanto al 
discorso, scrive il Caro, che mi mandate: Che a 
quelli che scrivono Spagnolo non s'abbia da ri- 
spondere nella medesima lingua, con tutta la 
gran balìa che avete di comandarmi, mi risolvo 
per questa volta di non ubbidirvi.... non si conviene 
a me uè a voi di torre queste gatte a pelare... 
Questo di certo me si avverrebbe, che mi tirerei 
addosso una parte di voi o forse la Spagna tutta ; 
perchè non si può parlar della lingua in questo 
caso, che non si parli dell* imperio e della nazion 
che domina o di quella che è dominata. Ma senza 
offesa di persona e di nazione alcuna, credo di po- 
ter dire in genere la conclusion sola di quello che 
voi vorreste che vi provassi per discorso, la quale 
è: Che meglio con più decoro, con men sospetto 
d'adulazione e men pregiudicio di servitù si sfcrive 
e si risponde nella lingua propria che nell'altrui ». 
La lettera del Caro è prudente sì, ma dignitosa: 
se la servitù politica non si può evitare, almeno 
si conservi quel patrimonio che della nazionalità 
è l'espressione migliore, la lingua. L'Ammirato in- 
vece, pur citando molti esempi dello zelo geloso con 



il C. prega il Cambi di congratularsi a suo nome con l'Am- 
mirato per la bella accoglienza che i letterati han fatto al suo 
dialogo Delle Imprese. 



— 325 — 

cui i Romani custodirono la preminenza della lin- 
gua latina, e pur constatando che il parlare nella 
lingua altrui sia segno di inferiorità, tuttavia non 
dà alla quistione della lingua una grande impor- 
tanza politica, e conchiude: « Onde vediamo ai no- 
stri tempi che più si costumerà che gli Italiani 
con gli Spagnoli ragionando spagnuolo ragionino, 
che non avverrà che lo Spagnuolo parlando con 
l'Italiano italicamente favelli; come quelli che co- 
noscendo la grandezza dell'Imperio esser a loro 
in gran parte passata, giudicano che a loro meri- 
tamente et non a noi tocchi di tener questo punto, 
per usar questo termine, il qual comunemente da 
tutti in tal caso è tenuto ». Così l'Ammirato evita 
di dir chiaro il suo parere, e dopo aver dato un 
colpo al cerchio ne dà un altro alla botte bia- 
simando il Marchese di Pescara il vecchio, « il 
quale non ostante esser nato in Italia di padre ita- 
liano, parlava ben spesso con gli stessi Italiani il 
più delle volte Spagnolo, e quel che è peggio havea 
per male che egli non fosse nato in Spagna ». 

Continua il trattato a parlare delle cerimonie 
dovute dai grandi ai piccoli: i principi non oltrag- 
gino i sudditi e mantengano le date promesse ; be- 
nefichino gli uomini virtuosi e non premino chi di 
premio non è degno. E qui il trattato s'interrompe. 

Tanto nella dissertazione quanto negli esempi 



— 326 — 

l'A. attinge, come già nel trattato precedente, agli 
scrittori antichi, Tacito, Polibio, Livio, Platone, 
ai propri ricordi e alle storie contemporanee. 

Cosi si chiude la serie dei trattati dell'Ammi- 
rato, serie, come s'è visto, non breve. Nell'ultimo, 
in cui quasi vuol dar le norme del viver fra gen- 
tiluomini, invano cercheremmo grandi novità: Mon- 
signor della Gasa e il Castiglione avevano già in 
buona parte sfruttato il campo. Tutto insieme però 
il trattato dell'A. ci aiuta a comprendere quali 
fossero gli umori regnanti alla fine del secolo XVI, 
fra dominati e dominatori, le costumanze del vi- 
vere civile: e sotto questo aspetto è un interessante 
documento storico. 



* 
* * 



L'Ammirato, e lo abbiamo notato man mano che 
se ne è presentata l'occasione, si era mostrato nei 
componimenti poetici non diciamo poeta ispirato o 
fine cesellatore di versi, ma nemmen privo di una 
certa facilità e di buon gusto. Fino alla vecchiezza 
non compose che versi d'occasione: Scipione Am- 
mirato il giovane li raccolse nel secondo volume 
degli Opuscoli. Versi d'amore, sonetti e corone in 
lode dei suoi protettori é dei suoi amici formarono 
fino a questo tempo la suppellettile poetica del No- 



— 327 — 

stro : l'età, la condizione di sacerdote, forse anche 
il voler tentare un nuovo genere gli fecero negli 
ultimi anni mutare argomento. Ricorsi alle sacre 
carte, reminiscenze di letture dei divini profeti, 
della mistica sublime poesia dell'umile salmista non 
sono infrequenti nelle opere dell'Ammirato: egli 
riprende ora quei cantici e attende, vecchio com'è, 
all'ardua fatica di tradurli, dal testo latino s'in- 
tende. La traduzione era già finita, come si vede 
dal titolo del manoscritto già preparato da lui per 
le stampe, nel 1597 ( x ), meglio che una traduzione 
essa si può dire una parafrasi della semplice poesia 
davidica: presa l'intonazione dal primo versetto di 
Davide, egli ne spiega nei versi successivi il pen- 
siero attenendosi al testo solo nelle linee generali, 
secondo il metodo allora comune specialmente alle 



(1) Cfr. Cod. Magi., XL-10-77, ant. S'intitola: Salmi di Da- 
vid | Latini | secondo la volgata editione \ et da 8. Ammirato \ Fatti 
Toscani \ Il men che habbia potuto dal | testo latino allon \ tonan- 
dosi 1 MDIIIC — 15 giugno. Sulla prima carta a tergo in alto: 
Scritti di propria mano del sig. S. Ammirato. L'altro Cod. Mgl., 
II-2-464, contiene : In Psalterium Adnotationes Scipionis Admirati. 
È aut. e nelle prime otto pagine contiene scritto fittamente un 
principio della vita di David che comincia: David il più pic- 
colo di sette figliuoli, e termina: e poscia a David volgendosi 
cosi soggiunse. Furon pubblicati i salmi da S. Ammirato il gio- 
vine : Poesie spirituali di S. Ammirato sopra alcuni salmi e cantici. 
Firenze, Massi, 1649. 



— 328 — 

versioni sacre. Prima dell'Ammirato avean com- 
posto salmi Bernardo Tasso, l'Alamanni, il Varchi: 
quest'ultimo anzi, la versione del quale rimane, 
per quel che risulta a noi, inedita, avea tenuto 
proprio lo stesso metodo che tenne il Nostro. Solo 
la forma metrica è differente, che, mentre il Var- 
chi avea adoperato le strofe brevi miste di ende- 
casillabi e di settenari, l'Ammirato adoperò la ter- 
zina come metro più adatto ad esprimere la gra- 
vità e la mestizia del peccatore credente che si 
prostra innanzi al suo Dio cantandone le lodi. 

Malgrado ciò, egli non riesce che a ritrarre pai- 
lidamente la efficace schiettezza del modello, e se 
nell'opera sua non difetta quasi mai il sentimento, 
difetta non di rado l'esatta interpretazione e la in- 
tuizione dell' intimo senso del profetico canto. 

Non contento di aver cavato dai salmi materia 
a lunga fatica, attese alla composizione di una spe- 
cie di canzoniere sacro, nel quale egli descrisse i 
sentimenti dell'anima appressantesi al giudizio su- 
premo. Rimasero queste poesie inedite e furono 
pubblicate dal Del Bianco, che le dedicò al Prin- 
cipe don Lorenzo di Toscana W. Che siano opera 
senile dell'autore, lo dice egli stesso: 

Egli l'età cadente mia rimuova, 



(1) Cfr. Rime spirituali del sig. S. Ammirato. Firenze, Massi, 1649. 



— 329 — 

e l'editore ancor più precisamente: da vecchio vi- 
cino al settuagenario. Del resto ce lo dimostra tutto 
l'insieme, la fiacchezza nel verso e nello stile, se- 
gno di una mente non più nella sua piena vi- 
goria. 

È una completa confessione che l'Ammirato fa 
dei suoi peccati innanzi a Dio e agli uomini im- 
plorandone perdono. Di tutti i vizi, di tutte le 
colpe egli si pente e piange pensando al male già 
fatto e alla sorte che l'attende oltretomba: son 
fiere invettive contro la vanità delle umane cose: 

.Ricordasi di nostra vanitàde: 

Che noi siam polve e fieno i giorni nostri 

E fior che all'alba spanta e a sera cade. 

E altrove: 

Mentre ch'io vengo a riveder le mura 
Di Fiesole mia cara antiche e rotte, 
Ben riconosco in voi mine e grotte 
Di nostra umanitade ombra e figura, 

conchiudendo: 

Che locar dunque in mortai cosa il core? 
Ergiti mente al Cielo e quindi sprona 
Ch'ivi si coglie il frutto eterno, il fiore. 

Malgrado questa intonazione tutta disprezzo per 
le cose del mondo e rimpianto dei passati trascorsi, 
non mancano alcune poesie di un certo interesse 
per ritrarre più compiutamente che sia possibile 



— 380 — 

la figura del Nostro. Anche pensando al perdono da 
ricevere in cielo, egli si scaglia contro i propri ne- 
mici e con carità tutt'altro che evangelica esclama: 

Poiché senza ragion dov'io mi passi 
Teser lacciuoli e preser di me scherno, 

Senza ch'io loro oltraggio alcuno usassi, 
Quanti a me nodi ordirò e noie derno, 

Tornino in capo lor fra sirti e scogli 
Trovando sempre orribil morte e verno; 



Non vada altiero e del mio mal si pregi, 
Ohi m'odia a bel diletto e poi sorride 
O mostra avere a schifo i miei dispregi. 

a 

Un altro passo ancora di maggior rilievo ci pa- 
lesa il suo disgusto per le corti; non parrebbe 
scritto da un beneficato di casa Medici: 

Infidi alberghi di superba gente, 
Benché sian d'or le mura e d'oro i tetti 
Quali in tant'anni, e. ben l'alma sen pente, 
In voi trovo giamai veri diletti? 

In voi da l'opre van contrari i detti 
E caritate e cortesia son spente, 
In voi si pregia, i saldi cuor negletti, 
Bugiarda lingua e lusinghevol mente; 

Ma perch'io in voi lunga dimora, 
Dove schernito, povero e mendico 
Veggo alla sera egual girsen l'aurora? 

Quanto fia meglio in valle o colle aprico 
Finir del dì quel che ci resta ancora 
Contenti a cibi del secolo antico. 



— 331 — 

Dell'ultimo verso del sonetto non sapremmo dire 
se l'Ammirato dica da senno; negli antecedenti 
però esprime una grande verità, che certo egli 
pratico delle corti potea affermare meglio d'ogni 
altro. La forma, già l'abbiam detto, risente degli 
anni maturi e del prossimo seicento: alla fiacchezza 
del pensiero, alla povertà dell'entusiasmo per la 
fede nei destini umani si va sostituendo la frase 
strana, il pensiero contorto: 

Fecesi Dio dal gran balcon del Cieltf 
Per riguardar s'è tra mortali alcuno 
Ch'attenda in alto e arda il cor di zelo. 

E volendo descrivere la creazione: 

Egli (Dio) a guisa di pelle il Ciel superno 
Distese intorno e il circondò poi d'acque 
Ed il bel carro di nubi ha in suo governo. 

La poesia sacra dell'Ammirato risente del fiacco 
sentimento del tempo: la mente sua avvezza alle 
considerazioni e alle massime della politica, mal si 
spiega ad esprimere miti e gentili pensieri di reli- 
gione. Ci si proverà più tardi il Boterò C 1 ), ma an- 
che lui, quantunque di ingegno più vigoroso del- 
l'Ammirato, fallirà la prova. 

* * 



(1) Cfr. le Rime spirituali di G. Boterò al ser.wìo Carlo Ema- 
nuele duca di Savoia. Torino, MDCIX. 



— 332 — 

Nuovi torbidi frattanto e nuove lotte turbavano 
l'Italia e distraevano l'Ammirato dai tranquilli suoi 
studi. Venuto a morte Alfonso d'Este, ultimo duca 
di Ferrara, senza prole, gli succedeva, per sua vo- 
lontà, il cugino Cesare. I camerali romani prete- 
sero che, estinto il ramo diretto, il ducato non toc- 
casse a Cesare, e Clemente, spinto principalmente 
dal cardinale Alessandrino, pubblicò un monitorio 
contro di lui accordandogli quindici giorni soli per s 
portare le sue ragioni a Roma, e malgrado le pre- 
ghiere di cospicui ambasciatori mandò, spirato que- 
sto termine, il cardinale Alessandrino contro Fer- 
rara. La città dovette cedere ( l ): subito dopo la 
conquista il Granduca Ferdinando, partecipando alla 
generale preoccupazione dei principi italiani, mandò 
a Ferrara il Vinta per estinguere colla sua pru- 
denza qualunque altra causa d'incendio e ristabilire 
la pace da quella guerra turbata. 

In una lettera diretta non si sa a chi l'Ammi- 
rato, richiesto del suo parere intorno a questa 
guerra, risponde mostrandosi contrario ad essa. E 
ciò per molte ragioni: perchè ogni papa deve es- 
sere clemente verso i principi cristiani, perchè i 



(1) Cfr. Expeditio Fierrariensis et Ferrarla recepta Josephi Casta" 
lìonis iuriscoìùulti romani ad Petrum Aldobrandinum Cardinalem S. 
D. N. legatura. Romae, apud Aloisium Zannettum, MDXCVIII. 



— 333 — 

diritti di Cesare d'Este sono incontestabili, perchè 
questi ha tutti i pregi dell'ottimo principe, perchè 
occorre che l'Itali a sia governata da molti principi 
e non si accentri il potere in un solo W. 

Le continue minacce dei Turchi fecero sentire 
il bisogno di una ristampa delle Orazioni dell'Am- 
mirato; e questa fu fatta nel 1598 a Firenze dal 
Giunti, il quale alle Orazioni aggiunse le lettere 
e le orazioni del cardinale Bessarione. Questa ri- 
stampa ed un'altra fatta nell'anno precedente a Pa- 
via provano la grande fortuna toccata agli scritti 
del Nostro. E grande fortuna toccò anche ai Di- 
scorsi su Tacito, poiché nello stesso anno se ne cu- 
rava la 3. a edizione 2 ). 

Gravi mali affliggevano frattanto l'Ammirato, de- 
rivanti dalla età e dalla malferma salute ( 3 ). Tutto 
però egli dimenticava consolato dal veder già ini- 
ziata, mercè la munifica sovvenzione di Cristina di 
Lorena, la stampa dell'opera sua maggiore, della 



(1) Cfr. Opuscoli, II, p. 511. 

(2) Cfr. Opuscoli, II, p. 473. 

(3) La malferma salate gli impediva di andare a Roma, come 
ne avea avuto commissione dai suoi concittadini, per pregare 
papa Clemente Vili di rimandare a Jiecce il vescovo che era 
stato richiamato dalla diocesi 



- 334 - 

Storia fiorentina. Si era cominciata la pubblicazione 
dal secondo volume, che conteneva più distesamente 
le gesta di casa Medici; nell'aprile del 1599 erano 
stati già tirati 50 fogli ( l ). 

Nel 1599 l'A. dette anche principio alla compo- 
sizione del Principe, che dovea essere secondo lui 
« il chiodo della sua vecchiaia ». Avrebbe dovuto 
contenere in estratto tutte le considerazioni politi- 
che, le norme di buon governo esposte nelle altre 
opere: ma fu appena cominciato. Di quattro parti 
principali doveva comporsi: come conservare la 
roba, la vita, l'onore e l'anima. Sul primo argo- 
mento egli scrisse qualche pagina dove dimostra 
come e donde il principe debba procurarsi denaro, 
discorre dei prestiti, delle tasse, del dar da guada- 
gnare al popolo, dell'inculcare la parsimonia di- 
minuendo la sfrenatezza delle donne perdute etc. In 
sostanza, non vi è nulla di più di quello che ritro- 
veremo nei Discorsi e non ci pare opportuno di- 
scorrerne qui ampiamente C 2 ). 



(1) Ofr. Opuscoli, II, p. 473. — L'ambasciatore del Duca di 
Modena scriveva in data del 24 febbraio 1599: di Fiorenza non 
s'intende altro che Scipione Ammirato mette in stampa l'isto- 
ria di quella città dal giorno della sua fondazione -aiutato nella 
spesa dalla liberalità di quella Granduchessa. — Cfr. Arch. di 
St. in Modena, Cancelleria ducale — Avvisi e notizie dall'estero. 
Roma. s 

(2) Cfr. Opuscoli cit. di S. A., Ili, 459, 



— 385 — 

L'A., oltre a non compiere quest'ultima opera, 
non potè veder pubblicata per intero l'opera sua pre- 
diletta: l'I! gennaio del 1600, sentendosi vicino a 
morire, testò lasciando al Granduca i volumi delle 
sue storie, a Cristoforo del Bianco tutti i suoi ma- 
noscritti e ogni suo bene; legati speciali ai suoi 
servi e alla Chiesa di S. Chiara (*). Quando nel 1596 
l'Ammirato era stato gravemente infermo avea fatto 
un altro testamento, nel quale aveva istituito eredi 
generali alcuni nipoti, i De' Giorgi. Il Valacca( 2 ), il 
quale pubblicò i testamenti, scrive a questo pro- 
posito che il biografo di Scipione deve rispondere 
alla domanda: perchè questa mutazione nel trat- 
tamento Del Bianco? L'editore stesso poi soggiunge: 
«l'avergli lasciato una parte delle sue sostanze, e 
quel che più è notevole il suo nome e il diritto di 
fregiarsi delle sue armi e delle sue imprese, pena la 
perdita dell'eredità, noi, non sapremmo spiegarci 
davvero senza malignare ». Perchè malignare? Se si 



(1) Esecutori testanti entarii furon lasciati Andrea Minerbetti 
e Baccio G-hirardini. Quest'ultimo fu canonico di S. Maria del 
Fiore: « et mi ricordo, dice l'Amm. il giovine, che quel buono 
virtuoso et valoroso vecchio (V A.) stimava molto questo genti- 
luomo perchè gli parea ch'egli avesse quello stimolo che do- 
vrebbero avere tutt' i nati nobili, i quali ne hanno bisogno, di 
rimettere in posto la sua casa » . — Cfr. le aggiunte di S. A. il 
giovane ai Vescovi di Fiesole, p. 51. 

(2) Cfr. Valacca, op. cit., p. 15. 



— 336 - 

trattasse del vincolo della paternità, perchè l'Ammi- 
rato non l'avrebbe riconosciuto, lasciando anche 
nel primo testamento erede universale il Del Bianco, 
che pure, secondo lo stesso editore del documento, 
bisogna riconoscere in uno dei due pueri? Non oc- 
corre, no, malignare, in nessun modo, per spiegare 
quello che è spiegabilissimo a chi voglia guardare 
la cosa con animo spassionato e privo della preoc- 
cupazione, purtroppo non rara, di trovar lo scan- 
dalo anche dove non c'è. Parecchi anni son passati 
dal primo al secondo testamento, nei quali il fan- 
ciullo è divenuto un giovane, e un giovane pro- 
mettente. L'Ammirato lasciava dei manoscritti che 
egli sapeva di non poter pubblicare : non era egli 
naturale che legandoli ad un giovane pieno di buone 
speranze anziché ad un congiunto ignorante, che li 
avrebbe trascurati, non era egli naturale che gli 
fornisse i mezzi per poterli dare alla luce? Spe- 
gnendosi inoltre con Scipione il nome degli Ammi- 
rato, perchè egli non avrebbe dovuto perpetuarlo 
in un giovane che non era indegno di portarlo? 
Pochi giorni dopo aver fatto testamento, il 31 
gennaio del 1600 l'A. moriva. < Giovedì a di 31 di 
gennaio 1600 a ore 18 fu sepolto in duomo il reve- 
rendo signor Scipione Ammirato canonico di duomo 
et storiografo gentiluomo napolitano, uomo di gran- 
dissime et belle lettere et lassò tutto il suo a un 



— 337 — 

giovane allevato da lui che gli scriveva le storie. 
Al suo mortorio volle vi fusse il Capitolo fiorentino, 
il Capitolo di S. Lorenzo, il Capitolo di S. Friano, 
S. Pier Maggiore et S. Felicita, S. Ambrogio : torcie 
16 alla Croce et 14 al corpo et le portavano chie- 
rici tutte » (*-). 

Sincero fu il compianto che lasciò dietro di so 
l'Ammirato: un anonimo ne celebrava così le virtù: 

Quest'aurea penna che si tolse a Lete 
Saggia ben mille eroi e mille augusti 
E gloriosi a gli etiopi adusti 
Portò i lor nomi et a l'Erculee mete, 

In fra pompe di morte ora vedete 
Per adeguar i mausolei vetusti 
E andar fra' bronzi de' suoi pregi onusti 
Cui fan corona archi trofei e mete (2). 

Tutta pietosa di sua man la fama 
A l'invidia la sacra*, e i cigni d'Arno 
Tromba le sono, anzi Maroni e Orfei. 
. Formano il motto ne lor carmi ascrei : 
Contro Scipio s'armò la morte indarno 
Ch'egli l'alme dal Tartaro richiama. 

Come si vede, son versi tutt'altro che belli ; è 
un sonetto lasciato lì nella sua prima redazione: 



(1) Cfr. ms. Marucelliano A, 117, 1. La data della morte è 
confermata dall' Arch. Capitolare in S. Lorenzo, Registro dei 
morti, B. 

(2) Il dott. Giov. G-entile, a cui dobbiamo la trascrizione di 
questo sonetto, ci avverte che non può leggersi altrimenti. Il 
sonetto è nel Cod. Riccardiano, mise. 2708, c.'l. 

ss 



■ 

i 



— 338 — 

pure serve a dimostrare in che fama fosse salito 
l'Ammirato. Nell'Accademia degli Alterati fu reci- 
tata la orazione funebre da Marcello Adriani che 
disse pel Nostro parole piene di affettuoso rimpianto. 
Dopo avere accennato brevemente alle principali 
vicende della vita intrattenendosi sulla protezione 
accordatagli dai vari granduchi, l'Adriani tesse le 
lodi dell'opera intelligente ed attiva dell' A. tutta 
rivolta ad illustrare le glorie della sua Firenze: 

« Si che non guari dopo venuto agli occhi del 
Granduca Cosimo, lo innalzatore delle belle arti, 
lo esaltatore delle scienze, raccoglitore degli spi- 
riti elevati, ritrovarsi in Firenze si grand'huomo 
e ripieno di si belle cognizioni volle haverlo ap- 
presso e con utile e con honore il carico gli die 
di scrivere la storia Fiorentina, opera grande lunga 
e di gran fatica; perchè essendo la storia luce 
della verità desidera scrittore che nell'intelletto 
abbia tanto lume di sapere, e di scienze, che non 
sia cosa al mondo che non sappia; riandi con la 
memoria le passate azioni e le disponga in tal ma- 
niera che le faccia tornare vive e presenti avanti 
agli occhi dei lettori. E questo quanto sudore, 
quanto vigilie, quanto fatiche ricerchi ben di leg- 
gieri comprenderemo se prendendo in mano i qua- 
ranta libri della Storia Fiorentina dèi Trasformato 



— 339 — 

nostro considereremo come direttamente ha tenuto 
il filo delle azioni dei Fiorentini in pace o in guerra 
per lo spazio di 1600 anni. Ma quanto li resta obli- 
gata la nobiltà fiorentina! la quale prima o rima- 
neva oscura nelle tenebre portate dalla lunghezza 
del tempo, che tutto consuma e tutto mena a per- 
dizione e morte» overo havea notizie si confuse e 
torbide del natio suo splendore che mal poteva ri- 
conoscere gli avoli suoi: senza che essendo pronti 
alcuni a corrompere le scritture pubbliche o pri- 
vate si toglieva, o si dava onore agl'indegni: la 
dove oggi per l'opera e per lo studio del buon Tra- 
sformato nostro, che ha rimandate all'eternità le 
sacrosante memorie della nostra città, può agevol- 
mente ciascuno riconoscere i suoi gran genitori, 
e l'opere eccelse di suoi consorti. Questo nobil 
frutto e generoso nato nel fertil campo dell'intel- 
letto del dottissimo Accademico fu nel primo nasci- 
mento, quand'era ancora acerbo, ben conosciuto di 
buon sapore dal Granduca Cosimo di felice memo- 
ria, ottimo conoscitore e giudice sincero dell'opere 
belle; onde continovamente tenendosi appresso l'au- 
tore di opera si degna, voleva dalla viva voce di 
lui sempre ascoltarla, e tanto altamente la com- 
mendava e celebrava che, sentendosi un giorno l'au- 
tore lodarsi da si lodato Principe oltre la misura, 
che per modestia credeva a lui convenirsi, con one- 



— 340 — 

sto rossore abbassata la fronte cosi disse: Ben so 
che costume suol essere d'adulare i Principi, ma 
che i Principi adulino i servitori, non già. E ben- 
ché havesse tra mano opera si grande che ricer- 
cava tanto studio e diligenza tale, che non fu casa 
o convento, o libreria publica o privata che non 
ricercasse minutamente, nondimeno perchè per la 
lunga pratica delle azioni fiorentine era divenuto 
veracissimo oracolo rispondeva a tutte le domande, 
che gli faceva la nobiltà, la quale continovamente 
frequentava la casa sua per sapere il vero di sue di- 
scendenze; e non tralasciò già mai di condurre gli 
studii suoi più gravi con la poesia con l'eloquenza 
e con trattati e discorsi morali e politici » C 1 ). 

Nulla in Firenze ricorda oggi l'Ammirato, non 
una scritta, non una pietra: meglio riconoscente 
la sua città natale, fra il verde del giardino pub- 
blico, ha inalzato a lui un ricordo marmoreo : fra 
i busti di G. C. Vanini, di re Tancredi e degli al- 
tri illustri cittadini leccesi spicca la figura dell'A. 
bonaria e insieme severa. 



(1) Tolgo questo brano, il più saliente, dell'elogio funebre 
che nel ms. Mgl., XXXVIII, 115, e. 203 è di mano di Ms. Mar- 
cello Adriani. Grazie all' amico dott. Salza, che mi comunicò 
copia di tutta la necrologia. 



— 341 — 



XI. 

» 

I Discorsi su Tacito. 



Mio animo non è d'insegnare ai tiranni, 
ma ben di mostrare come abbiano ad essere 
fatti i buoni e giusti principi. 

Disc., II, 8. . 



Varia era stata la fortuna delle opere del Ma- 
chiavelli, molti i loro oppositori prima che vedes- 
sero la luce i Discorsi dell'Ammirato. Pur tacendo 
dei libri di Roseo Mambrino C 1 ) e di quel mal riu- 
scito rimpasto che dell'opera del Machiavelli fece 
Agostino Nifo ( 2 ), storici eletti si diedero a confu- 
tare le dottrine del segretario fiorentino, e tra que- 
sti primi il Paruta, il Giannotti, che se non aveano 
la profondità dello sguardo di lui, avean pratica 
somma dei fatti e delle istituzioni politiche ed eru- 
dizione storica non scarsa. Il primo si propose la 
ricerca dell'ottima forma di governo, e tenendo 



(1) Ofr. Rosei Mambbini, Istituzioni del principe cristiano, .Ro- 
ma, 1548. 

(2) Cfr. Aoustini Nifi, Medicea philosophi suessani. De regnandi 
peritia, aedibus Gatherinae de Silvestro, MDXXIII. Sul Nifo 
v. F. Fiorentino, Del Principe del Machiavelli e di un libro di 
A, N., in Giorn. nap. di filosofia e lettere cit., I, I, 1879. 




— 342 — 

sempre volta la mente ad una idealità di perfe- 
zione morale e civile, intende al conseguimento di 
tale fine con nobilissima fede e con acume di in- 
vestigazione e di considerazioni C 1 ). Il Gian notti C 2 ), 
ingegno più penetrativo, animo insofferente di qua- 
lunque servitù, tanto da chiamar tirannici alcuni 
degli stessi ordinamenti repubblicani della sua Fi- 
renze ( 8 ), vide il fondamento di uno Stato forte e 
temuto nel buon costume e nella virile educazione. 
Nemico di ogni principato, sia pure ordinato e forte, 
disdegnò di parlarne; e cosi poteva scrivere al Var- 
chi annunziandogli lo scritto sul governo di Vene- 
zia: « Perchè non possiamo ragionare dei fatti 
nostri, ragioneremo di quelli d'altri, e cosi non 
saremo banditi da casa » ( 4 ). 



(1) Cfr. G. Paoli, Gli scrittori 'politici nel 600, in La vita ita- 
liana nel 500, Treves, 1894, II, p. 812. V. anche Monsani, Della 
vita e delle opere di P. P,, in Opere politiche del P., Firenze, 
Lemonnier, 1852, p. XXVII. 

(2) Sul Giannotti cfr. Giannotti, sa vie, son temps et ses dottrì- 
nes. Etude sur. un publiciste flore ntin du XVI svèche par M. Char- 
les Tassins, Paris, Duniol, 1869. 

(8) Della Repubblica fiorentina, II, 8, in Opere, Firenze, Le- 
monnie ( r, 1868. 

(4) Per le fatiche da lui compiute per mandare a termine 
il libro sulla Repubblica veneziana, cfr. Vannucci, Intorno alla 
vita ed alle opere di Donato Giannotti, ed. cit., I, p. XXIX. La 
lettera al Varchi è del 10 giugno 1638. In Opere, II, p. 421. 



— 343 — 

E il Varchi s'accordava coll'amico sul giudizio 
da darsi degli scritti politici del Machiavelli : ri- 
conosceva in questo un ingegno poderoso e una 
gran pratica delle arti di' governo ( l ), ma chiamava 
il Principe « opera empia veramente e da dover 
essere non solo biasimata ma spenta », ed indi- 
cava la cagione per la quale il Segretario fioren- 
tino trovava nella sua patria tanti nemici: « pa- 
reva a' ricchi che egli di tor loro la roba inse- 
gnasse e ai poveri l'onor, ed agli uni ed agli altri 
la libertà (2). 

L'opposizione al Machiavelli cresce per l'inter- 
vento della Chiesa romana : Paolo IV condanna gli 
scritti di lui, nei quali pur da tutti si sòn ricono- 

* 

sci ut i eminenti pregi di lingua, e Osorio, Bosio, 
Possevino, Ribadeneyra gli si scaglian contro giun- 
gendo fino al volgare insulto ( 3 ). Le accuse passano 



(1) « Niccolò se alla intelligenza che in lui era di governi 
delli Stati ed alla pratica delle cose del mondo avesse la gra- 
vità della vita e la sincerità dei costami congiunti si poteva 
a mio giudizio piuttosto con gli antichi ingegni paragonare 
che a 1 moderni». — Cfr. Varchi, Storie fiorentine, II. Il Nardi 
avea giudicato i Discorsi e opera certo di nuovo argomento e 
non più tentata da alcuna persona > . Cfr. Nardi, Storie fioren- 
tine, VII, 8. 

(2) Cfr. Varchi, op. cit., libro IV. 

(3) Cfr. Machiavelli e il suo tempo, in Opuscoli politici e lette- 
rari di G. Ferrari, Capolago, Tip. Elvetica, 1852, p. 88. 



— 844 — 

* 

i monti e da Losanna ci giungo un libretto di In- 
nocenzo Genti Ilei, in cui il Machiavelli è chiamato 
chen impur e gli è negato perfino l'ingegno e la 
cognizione della storia del mondo: de jugement 
naiurel ferme et solide Machiavel n'en avait 
point C 1 ). 

Nel 1584 in un altro scritto, tutto ispirato alle 
idealità platoniche, il Bodino assale con parole più 
che veementi il Machiavelli, « questo trist'uomo, 
che è venuto in voga fra i cortigiani e mena vanto 
del suo ateismo », e del quale « coloro i quali san- 
no veramente ragionare degli affari di Stato, con- 
verranno che non si addentrò mai nelle profon- 
dità della scienza politica, la quale non consiste ili 
quelle furberie tiranniche, andate da lui cercando 
in tutti gli angoli d'Italia. Il suo principe in- 
nalza fino al cielo e prende a modello dei re il più 
sleale figlio di prete che sia mai esistito al mondo 
e che non ostante tutta la sua accuratezza preci- 
pitò vergognosamente qual furfante che era. Cosi 
è sempre* avvenuto ai principi che ne hanno se- 
guito l'esempio, andando dietro ai precetti del Ma- 



• 

(1) Gfr. I. GenTillet, Discours sur le moyens de bien gouver- 
ner et maintenir en bonne paix un royaume . . . ., Lausanne, 1576. 
Ebbe gran fortuna: fu tradotto in latino nel 1576 e in tedesco 
nel 1588. 



— 845 — 

chiavelli, il quale pone a fondamento della sua re- 
pubblica l'empietà e l'ingiustizia » C 1 ). 

Cinque anni dopo il libro del Bodino usciva a 
Venezia lo scritto di un prete colto ed amato nelle 
geniali conversazioni di dame e cavalieri, pieno di 
belle e cortesi maniere ( 2 ), voglio dire la Ragion 
di Stato di Giovanni Boterò ( 3 ), che, letta subito 
con vivo interessamento, si sparse nel mondo con 
incredibile celerità. Pensatore profondo era il Bo- 
terò, l'avversario più formidabile ed agguerrito delle 
teorie machiavelliche. 

Combatter queste e sulle rovine edificare al lume 
della religione ( 4 ) e della virtù un nuovo edificio 
politico, fu lo scopo del Èotero, il quale volle pre- 
cipuamente dimostrare che quella ragione di Stato 
dal Machiavelli invocata per giustificare anche le 



(1) Cfr. Villari, N. M, e i suoi tempi, 3.a ed., II, p. 438. Sul 
Bodino in particolare cfr. B. Bodin et son tempe, tableau des theo- 
rie* politiques et des idees economiques aux seizieme siècle par Henri 
Brondillart, Paris, Guillaume, 1853. 

(2) Cfr. G-ioda, La vita e le opere di G. Boterò, Milano, Hoe- 
pli, 1895, I, p. 105. 

(3) Della ragion di Stato, libri dieci di G. Boterò alVULmo e 
Bev.mo sig. Volfango Teodorico arcivescovo e principe di Salczburg. 
In Venetia, Giolito, MDLXXXIX. 

(4) Va anzi all'eccesso e pretende, per esempio, ohe i prin- 
cipi prima di muovere a qualche impresa consultino un con- 
siglio di coscienza composto di teologi: p. 89. 



— 346 — 

losche azioni dei principi e dopo di lui divenuta 
sinonimo di malvagità e di perfidia (*), doveva essere 
e poteva essere tutta ispirata alla virtù, alla lealtà, 
alla generosità dell'animo. È strano, e muove a sde- 
gno, che la ragion di Stato si posponga alle leggi 
di Dio e a quelle della coscienza, e non si sa « che 
chi sottrae alla coscienza la sua giurisdizione uni- 
versale di tutto ciò che passa fra gli uomini si 
nelle cose pubbliche come private, mostra che non 
ave anima né Dio » ( 2 ). 

* 
* * 

Con tali predecessori l'Ammirato s'accinse alla 
non difficile impresa di una nuova confutazione della 
dottrina machiavellica (evita perfino di nominare 
il Machiavelli, chiamandolo sempre l'autor dei Di- 
scorsi). Nuova era l'idea di confutarla fondan- 
dosi sull'opera di Tacito; tanto più nuova dopo 
che il Boterò avea messo in un fascio Tacito e 
Machiavelli. « Viaggiando nelle corti, dice il B., mi 
ha recato somma meraviglia il sentir tutto di men- 
tovare ragione di Stato, ed in cotal materia citare 
ora il Machiavelli, ora Cornelio Tacito, quello per- 
chè dà precetti appartenenti -al governo, questo 



(1) Cfr. Campanella, Aforismi politici XXXV, in Opere ed. 
d'Ancona, Torino, Pomba, 1854, II, p, 17. 

(2) Cfr. la dedica dell'opera. 



i 

1 

a 
■ 

f 



— 347 — 

perchè esprime vivamente l'arti usate da Tiberio 
Cesare e per conseguire e per conservarsi l'impe- 
rio di Roma » W. E continua meravigliandosi gran- 
demente che un autore cosi malvagio e* il governo 
di un tiranno siano tenuti in tanto conto da farne 
quasi là norma e il modello dei governanti. 

Eppure il Boterò si opponeva a una lunga tra- 
dizione che avea fatto di Tacito il maestro dell'arte 
di Stato. Citato frequentemente nei secoli XIV e 
XV nelle opere del Boccaccio, del Bruni, del Pog- 
gio, non fu compreso né ben giudicato ( 2 ). Ma dopo 
che sui principi del sec. XVI il Beroaldo curan- 
done la stampa ebbe scritto: « Io ho sempre giu- 
dicato Cornelio Tacito come un autore sommo e 
sommamente utile sia ai privati, sia ai nobili, sia 
ancora ai principi ed imperatori », e dopo che 
Paolo III, principe che di politica s'intendeva, ne 
ebbe sgualcito tutta una copia a furia di leggerlo 
e rileggerlo ( 3 ), Tacito fu preso a studiare univer- 



(1) Cfr. la dedica dell'opera a Teodorico. 

(2) Cfr. F. Ramorino, Cornelio Tacito nella storia della cultura, 
Milano, Hoepli, 1898, p. 32 e segg. 

(8) Cfr.. M. Antonio Mureto, Orai. XV. — Il Boccalini dice 
che Paolo III era solito di chiamar Tacito « degno del primato 
fra gli insegnatori di buona politica ». Cfr. T. Boccalini, Os- 
servazioni politiche sopra i 6 libri dell 1 Annali di Tacito, Castil- 
lana, Widerhold, 1678, nella introduzione. 



— 348 — 

salmente e dette origine a una larga letteratura 
intorno alle sue dottrine politiche e forni argo- 
mento di lezioni nelle nostre università W. 

A questi studii partecipò l'accademia degli Al- 
terati, né è improbabile che in essa l'Ammirato 
abbia concepito l'idea e il disegno del suo lavoro. 

Quando Enrico Stefano nel 1570, nella sua ope- 
retta sulla preminenza della lingua francese ( 2 ), cercò 
di provare la minor concisione dell' italiano rispetto 
al francese paragonando un passo della versione 
di Tacito fatta da Biagio Vigenere col corrispon- 
dente di quella del Dati, l'Accademia si occupò della 
questione e il Davanzati si assunse l'incarico di 



(1) Antonio Benivieni scrivendo al Borghini da Padova il 
15 gennaio 1566, diceva: « Di umanità e 1 è il B-obortello molto 
favorito dalla nazione tedesca; legge ora Cornelio Tacito. Cfr. 
Prose fiorentine, IV, IV, p. 344. — Notevole tra gli studi su Ta- 
cito prima dell'A. son quelli dello Scoto cameriere segreto di 
Sisto V a cui son dedicati: Annibali» Scoti Piacentini Corniti* et 
IuriconsuUi, Sisti V. P, M. cubilani intimi, in P. Cornelii Taciti 
Annales Commentar ii ad Politiconi et aulicam rationem praecipue 
spedante», Romae, 1584. — Il Lipsio nello stesso anno procu- 
rava un'edizione di Tacito molto importante dal lato filolo- 
gico: Ad libros Politicorum breve* notae, Lugd., 1589, dove lo 
chiama « non historia solum sed velut hortus et seminar ium 
praeceptorum », p. 20. 

(2) Fu recentemente ristampata dal i'Huguet, Paris, Collin, 
1896. 



— 849 — 

tradurre l'opera latina; nel 1582 leggeva ai col- 
leghi ammirati e plaudenti il primo libro degli 
Annali. 

Nello stesso anno un altro accademico ed amico 
carissimo di Scipione, Leonardo Salviati, in fondo 
ad una ristampa della versione di Tacito del Dati 
pubblicava un discorso sopra le prime parole del 
testo, nel qual discorso « si spiega onde avvenne 
che Roma non avendo mai provato a viver libera, 
potè mettersi in libertà, ed avendola perduta, non 
potò mai riacquistarla ». Nove anni dopo finalmente 
troviamo, sotto la data del 20 giugno, che il reg- 
gente dell'Accademia volendo far sì che l'ozio stesse 
lontano da essa ( 1 ), impose ad ognuno degli acca- 
demici lo studio di Tacito, e il Trasformato, che 
in questo tempo era tra i più illustri dell'adu- 
nanza ( 2 ), si impegnò di leggere i suoi Discorsi sopra 



(1) Cfr. la lettera dell' Amm. allo Strozzi in Barbi, Della 
Fortuna di Dante cit., p. 335. 

(2) Sovente ai ricorda l'Ammirato nel Diario dell'accademia 
degli Alterati. Nel gennaio dello stesso anno 1591 si fecero 
delle trattative per unire l'accademia degli Alterati e dei De- 
siosi con quella della Crusca. Gli Alterati, che in questa unione 
vedevano l'annullamento delle loro leggi, deliberarono di. non 
cedere. La tornata del 20 febbraio fu tempestosa; reggeva il 
principe don Giov. de Medici. Marcello Adriani, il Torbido, 
nella sua qualità di censore avea firmato una proposta di com- 
posizione. Tutti si dolsero con lui « che si fosse indotto (dice 



— 360 - 

Cornelio Tacito e si offerse « d'impegnar l'Accade- 
mia in considerar la sua storia », mentre l'Adriani 
prometteva di leggere la versione di Plutarco ( j ). 

Sin dal 1591 dunque l'Ammirato dava mano alla 
composizione dei Discorsi. « Quando io posi mano 
a questa impresa, scriveva egli stesso al Taverna, 
non mi feci da capo, ma secondo mi abbatteva a 
cosa che mi piacesse o che mi paresse opportuna 
ad insegnare a chi sapea meno di me n'andai fa- 
cendo tanti (discorsi), che parendomi che fossero 
un giusto libro, li vo ora rimettendo nel lor libro 
secondo l'ordine dei libri del medesimo autore; il 
che quando sarà finito, sarà facil cosa ch'io lo 



il Diario) a suscrivere una scrittura tanto contraria alla ripu- 
tazione dell'Accademia ». Si accusò il vice-gerente di non 
averlo punito, diminuendo con ciò la maestà dell'Accademia 
e la propria autorità. Dopo di questo il Trasformato fece al 
Torbido una paterna e grave riprensione intorno alla predetta 
scrittura. Al che il Torbido rispose affermando non aver cre- 
duto pregiudicare all'Accademia, la quale sapeva che non era 
per acconsentire a quella proposta, ma che vi si era indotto 
forzato dagli amici. Cfr. Collezione di opuscoli cit., VI, p. 81. — 
Nel 30 agosto del 1593 l'Ammirato prendeva viva parte alla 
discussione se l'Accademia si dovesse o no unire a quella dei 
Desiosi, e veniva eletto con altri due a trattar tale fusione pur- 
ché si conservasse il nome di Alterati. Cfr. Collezione cit., VI, 
pag. 32. 

(1) Collezione cit., VI, p. 33. 



— 351 — 

dia fuora, se così ne sarò da' severi giudici confor- 
tato » W. I Discorsi dunque che l' Ammirato leggeva 
nel 91 air Accademia non son quali noi li abbiamo, 
pubblicati dall'autore, ma slegati e disordinati ( 2 ). 
Per qual ragione l'Ammirato scegliesse Tacito 
come maestro del futuro principe, ce lo dice egli 
stesso; perchè è il pittore più ampio ed accurato 
del principato romano e perchè l'opera sua va per 
le mani di tutti. « L'autor nostro, egli scrive, ci 
dimostra qual sono le vere arti del dominare, uti- 
lissime non meno a' signoreggianti, che a' signoreg- 
giati et di tanta sicurezza, che niuna altra cosa 
può esser maggiore, come confesserà ciascuno che 
punto vi applica l'animo » ( 3 >. 
**"01tre a Tacito, e come esplicatola e dichiaratori 
d'idee politiche e fonti inesauste di osservazioni e 



(1) Cfr. Opuscoli delVA.f II, p. 495. — La lettera al Taverna 
non ha data, ma dev'essere stata scritta verso il 1591: gli manda 
l'Ammirato il discorso su quel luogo del IV libro di Tacito: 
< Destrui fortunam suam Caesar >. 

(2) Guglielmo Libri in una sua lettera a Gino Capponi in 
data del 21 ottobre 1826 scriveva, che fra i libri del Poirot, 
già direttore della Zecca e bibliofilo appassionatissimo, aveva 
trovato l'esemplare di Tacito, che servì all'Ammirato, tutto 
pieno di note autografe, con alcune carte manoscritte aggiunte. 
Cfr. Lettere di Gino Capponi raccolte da A. Carraresi, Firenze, 
Lemonnier, 1882, I, p. 206. 

(3) Discorso XX, 9, 



— 352 - 

di esempi, egli adoperò Livio, Cesare, Dione, Plu- 
tarco nella Politica e nelle Vite, Cicerone nel De 
legibus, Platone e Senofonte (*). Perocché l'Ammi- 
rato non si contenta di esporre la dottrina di Ta- 
cito e commentarla con le osservazioni proprie, 
ma con larga copia di esempi non solo tolti dal- 
l'antichità, ma anche dai tempi moderni la avva- 
lora e la compie. Certe verità per l'Ammirato sono 
eterne; coi tempi non muta altro che gli acci- 
denti e le circostanze: l'esempio antico quindi, nel 
quale quelle verità son provate, deve indurre anche 
i moderni a seguirle C 2 ). 



* 
* * 



Vediamo brevemente come l'Ammirato vada tem- 
prando lo scettro ai regnatori. 

Gli esercizi del corpo, l'adusarsi alle fatiche della 
guerra e del campo, la lettura delle gesta magna- 
nime e dei savi precetti politici devono formare 
la vera educazione del giovane principe, affinchè 
egli negli eventi del suo ministero sappia, valoroso 
in armi, difendere il proprio paese, giusto e pru- 



(1) Per le varie edizioni di queste opere, cfr. la bibliografia 
in fine ai Discorsi. 

(2) Discorso XVIII, 8. 



i . — 353 — 

dente, governarlo in pace 00. Fortezza, lealtà, cle- 
menza devono essere le virtù principali di chi go- 
verna. 

La clemenza però non deve essere mollezza e il 
principe deve badare all'osservanza delle leggi, spe- 
cialmente di quelle sul buon costume. In ciò anzi 
è da desiderare un ritorno all'antico, che « gran 
ragione avea da meravigliarsi il cardinal Borro- 
meo tra tanti mancamenti dell'età nostra, che 

noi cristiani in molte opere morali ci lasciassimo 
porre il piede innanzi da gentili »: sia ristabilito 
perciò l'ufficio del censore per la punizione degli 
usurai, dei giuocatori, degli adulteri ( 2 ). 

Se la clemenza genera e rafforza l'affetto del po- 
polo al, principe, il far quello partecipe degli onori 
produce la stima e l'amicizia. Son da biasimare 
quei principi che tengon lontani i sudditi dalle 
armi, dagli onori, dalla cultura, che è più da te- 
mere un popolo offeso che uno beneficato, ed è 
meglio destar l'ambizione sua che il desiderio delle 
congiure ( B ), senza contare che l'esercizio delle armi 



(1) Discorso H, 1, 7, 10. 

(2) Discorso XI, 2. 

(3) Non è questa che l'esposizione .teorica delle norme se- 
guite da Cosimo de Medici nel suo governo, norme così rias- 
sunte dal Contaeini: « Le cause per le quali il popolo ama la 
libertà si trovano essere che alcuni di maggiore condizione de- 

23 



— 354 — • 

educa ad obbedire e render affezionati i popoli, 
specialmente se sono stati assoggettati essi stessi 
colle armi, e la cultura oltre a rendere più gentili 
gli animi li sprona alla gloria, e fa loro sentir meno 
il peso della servitù politica. 

Si guardi ancora il principe di offendere aper- 
tamente le vecchie istituzioni e la dignità del suo 
popolo; ritenga in vita gli ordini sociali già esi- 
stenti, specialmente la nobiltà, che col suo esempio 
deve guidare gli altri nella via della virtù. « I 
principi essendo sulla terra ombra di Dio hanno 
da studiarsi d'avere appresso di loro uomini grandi 
e di diversi gradi e qualità qual più e qual meno, 
si come appresso di Dio diverse di onori e di pre- 
rogative sono le schiere e le gerarchie degli an- 
geli » C 1 ), ne è sempre vero, e di più è sempre atto ti- 
rannico, esser meglio, come già disse il Machia- 
velli, dominare su gente umile e vile, anziché su 
cittadini di alti sentimenti ( 2 ). 



siderano esser liberi per comandare ed avere autorità, e gli al- 
tri, che sono i più, bramano la libertà, per esser sicuri di quelle 

m 

cose che agli uomini son carissime: l'onore, la vita, la roba. 
Per satisfare i primi che eran pochi si dieder loro carichi e si 
conferirono onori ecc. ». Cfr. Relazioni venete cit., XV, p. 272. 

(1) Discorso II, 8. 

(2) Cfr. Boterò, op. cit., p. 38. — Dell'uso delle spie sotto 
Francesco e Ferdinando, cfr. Relazione del Contarini cit., p. 259. 
Per i parentadi dei principi, cfr. anche Boterò, op. cit., p. 216. 



— 855 — 

La dignità del popolo si offende vietandone la 
libera manifestazione delle idee e il franco giudizio 
sulle azioni del principe. « Vietare, dice l'A., agli 
scrittori il biasimare le opere cattive dei principi 
e dei privati, io non istimo meno rea opera che 
il vietar loro di lodarne le buone opere. Et ben 
disse Tacito, che è proprio ufficio di coloro che 
scrivono annali, far menzione delle cose oneste e 
vergognose, perchè le virtù non si tacciono e per- 
chè de' malvagi fatti o detti se ne tema l' infamia, 
che si lascia a' posteri » W. 

Ed egli, l'Ammirato, non tace il suo sdegno contro 
molti principi del suo tempo che da questa norma 
s'allontanarono. Purtroppo, egli dice, « se alcuno è 
che osi ripigliar i re, i re non soffrirebbero ad ascol- 
tarlo, come quelli che non vogliono maestro. Da che 
viene che ai tempi nostri con tacito ed universal 
consentimento di tutti è vietata la rappresentazione 
della tragedia, perchè non degnando ella d'inse- 
gnar a' privati, ha solo ogni suo pensiero rivolto 
alla dottrina de' principi, a' quali io chieggo per- 
dono, se per avventura ho con esso loro troppo ar- 
ditamente parlato, giurando.... niuna cosa spronarmi 
a scriver queste cose che desiderio di bene » (?). 



(1) Cfr. Discorso IV, 8. 

(2) Cfr. Discorso XVIII, 4, e Boterò, op. cit., p. 53. 



— 356 — 






Oltre che a questi, che sono i bisogni morali di 
un popolo, tocca al principe di provvedere ai bi- 
sogni materiali di esso: l'aumento della popola- 
zione, la sicurezza, il benessere economico. È noto 
in qual conto i Romani tenessero il matrimonio e 
con quali leggi severissime essi vietassero il celi- 
bato. Tali leggi non sono più attuabili, ma lo Stato, 
dice il Nostro, può opporsi al male privando i ce- 
libi di certi uffici e accordando larga protezione 
a chi offre ai servigi della patria numerosa prole, 
procurando che si contraggan matrimoni tra i cit- 
tadini del suo Stato e quelli delle città assogget- 
tate: che nessun vincolo maggiore del parentado 
può tenere stretti i popoli. 

Alla sicurezza pubblica provveda punendo i mal- 
fattori C 1 ). 

La causa principale del delitto sta per l'A. nel- 
l'ozio. Il popolo ha diritto alla vita e al lavoro ; 
questo il principe procuri e favorisca. In pace egli 
avvii e protegga le industrie, e queste sieno varie 



(1) L'autore ci offre una pagina importantissima sulla sto- 
ria del brigantaggio, terrore di quei tempi, col Piccolomini e 
con Marco Sciarra, sulle sue cause e sui mezzi, per rimediare 
a tanto male. Cfr. Bianchi, Storia dei papi cit., XIII, p. 147. 



— 857 — 

e largamente coltivate; è giusto cbe a tutti sia 
dato modo di far qualcosa e di guadagnarsi one- 
stamente da vivere. È dovere precipuo del prin- 
cipe dare al proprio popolo il benessere economico, 
mezzo uniòo di tranquillità, e di concordia, e pro- 
curare colla propria parsimonia e con l'evitare 
inutili dispendi di aver nei momenti del bisogno 
di che sollevare la povertà W senza gravare il po- 
polo di troppo gravi tasse ( 2 ). 



(1) Cfr. Discorso XV, 1. Anche il Boterò, op. c&., p. 131. — 
« Non sempre vi potrà esser l'abbondanza, vi sarà anche la 
carestia ed è bene premunirsi contro di essa : il Principe deve 
ben conoscere i bisogni del suo popolo, e quandi il pane venga 
a mancare egli che già n.e ha fatto grandi provviste procuri 
di distribuirle ordinatamente, dividendo la città in quartieri 
ed evitando le adunanze a scopo di mangiare. Né solo a' citta- 
dini intenda, ma anche ai miseri abitanti delle campagne, ai 
quali in tempo di penuria potrà aprire le proprie bandite ». 
Cfr. Discorso XII, 3. L'esperienza forniva all'Ammirato tali 
suggerimenti. Nel 1593 una grave carestia avea travagliato la 
Toscana ed egli avea potuto coi propri occhi vedere le illumi- 
nate e generose provvisioni del granduca Ferdinando. . In tale 
circostanza avea anche composto pel Granduca due sonetti: 

quando invan le sue fatiche ha sparte 
e mira il villanel secco il terreno 
e chiuso il ciel, tu la man apri e il seno 
e lieto ogni mortai da te si parte. . 

Cfr. Opuscoli, II, p. 637. 

(2) L'Ammirato consiglia di estendere quelle volontarie sul 
giuoco, sul porto d'armi ecc., che si pagano di buon grado e 



— 858 — 

Nelle relazioni tra sudditi e principi l'Ammirato 
considera il caso di un principe malvagio, e, par- 
tendo dal principio della legittimità del potere per 
diritto divino, inculca ai sudditi l'assoluta sogge- 
zione al sovrano. « Anche sotto principi malvagi, 
egli dice, crescono e fioriscono le arti, nascono e 
vivono grandi uomini e la malvagità del gover- 
nante non fa che rendere più meravigliose le prime, 
più amati e venerati i secondi » ( 4 ). 

Sicché non ci meraviglieremo se riguardo alle 
congiure egli creda che non siano degni di scusa 
coloro che le fanno e che giammai debba il sud- 
dito ricusale di obbedire al suo legittimo signore: 
« quando quello pur reo e • malvagio fosse, vuol 



non destano alcun malcontento. Cfr. Discorso III, 8. — Il Bo- 
terò nel suo trattato insiste su questo punto, p. 24 e 179. 

(4) Cfr. Discorsi, IV, 4; IV, 6; e III, 6. — E qui cade in ac- 
concio ricordare alcuni consigli che l'Ammirato dà a quelli che 
han pratica coi principi. < Eingraziateli sempre se *non avete 
ragione di ringraziarli ; non rimproverate ai principi i servigi 
fatti, anzi mostrate ciò che avete fatto di buono esser venuto 
dalla grandezza e felicità loro (Discorso IV, 3) ; non vi millan- 
tate di vostra nobiltà alla loro presenza; non comparite in 
parte alcuna alla presenza del principe che siate più. gagliardo 
di lui, che questo è un minacciarlo; non mostrate d'aver cara 
più la vostra vita e quella dei vostri figliuoli che la sua (Di- 
scorso V, 1); non date ai principi noia per ogni affare, ma ad 
essi riserbate gli affari più importanti » (Discorso III, 5). 



— 859 — 

dire che in ogni modo gli si presti obbedienza tol- 
lerando pazientemente l'asprezza della sua ser- 
vitù »(i). 

È vero che ordinariamente si suol dire che le 
congiure si fanno per l'amor alla libertà, ma questa 
non è per l'A. che una scusai). Il cittadino non 
ha il diritto di punire il principe delle sue scelle- 
ratezze: la migliore e più potente punizione è per 
lui la propria coscienza, i sospetti e le paure che 
gli tengono mala compagnia ( 3 ). 

* * 

Nella politica estera il principe deve cercare di 
non permettere l'accrescimento di un altro prin- 
cipe, procurare cioè la stabilità dell'equilibrio po- 
litico, di cui esempio bellissimo diede Lorenzo de' 
Medici ( 4 ). Come è dannosa la neutralità ( 5 ), cosi è 
dannosissimo l'attaccar guerra con chi è notoria- 
mente più forte ( 6 ): ma ingaggiata che sia, bisogna 



(1) Anche il Machiavelli avea scritto: « I privati imparino 
ad esser contenti a vivere sotto quello imperio che dalla corte 
è stato loro proposto ». Cfr. Machiavelli, Discorsi, III, 6. 

(2) Discorsi XIX, 10. 

(3) Discorsi V, 4. 

(4) Discorsi XX, 10. 

(5) Discorsi XVIII, 8. 

(6) Discorso XXII. 



— 360 — 

procedere con tutta lealtà e non cercare la morte 
del principe nemico se non sul campo, « se noi ne' 
quali risplende il chiarissimo lume della cristiana 
verità, non vogliamo esser da meno di coloro i 
quali, involti nelle tenebre del paganesimo, erano 
solo guidati dal debol lume della natura » C 1 ), 

Un ramo importantissimo della politica esterna 
sono le relazioni coi pontefici. Che la religione sia 
indispensabile ad uno Stato non è cosa nemmen da 
mettersi in dubbio, perocché « si può dire che sia 
nata con l'uomo, essendo cosa impossibile che ri- 
volgendo gli occhi al cielo, onde la natura ci diede 
il corpo più atto a riguardarlo, che agli altri ani- 
mali, subito non si desti in noi una credenza, che 
alcun grande architetto sia stato fondatore di mac- 
china non solo cosi bella, ma cosi meravigliosa e 
cosi stupenda > ( 2 ). Che essa sia fine a sé stessa e non 
mezzo per indurre alcune persuasioni nel popolo, 
è manifesto dal fatto che gli antichi interpreta- 
vano i loro auspici secondo la loro religione e non 
secondo le necessità politiche. Proprio il contrario 
di quel che avea detto il Machiavelli ( 3 ). Accre- 
scere il culto religioso, adunque, deve essere uno 



(1) Discorso II, 13. 

(2) Discorso V, 5. 

(3) Discorso V, 5; e Machiavelli, Disc., II, 3. 



— 861 — 

degli uffici del principe come anche il vietare che 
nuovi culti sottentrino ai vecchi ; la religione degli 
avi deve essere sacro retaggio, e se i Romani si 
convertirono dal paganesimo al cristianesimo, ciò 
avvenne perchè questa era la vera religione C 1 ). 

Data la necessità della religione, è naturale che 
il principe sia in relazioni col papa, che, per di- 
retta ed esclusiva volontà di Dio ( 2 ), governa la 
Chiesa. L'autorità di questa non viene scemata dal- 
l' aver avuto uno o due pastori indegni o men che 
dediti alle cose religiose o per esser stati i co- 
stumi dei preti in qualche tempo trascurati. E qui 
evidentemente l'A. allude ai celebri Discorsi del 
Segretario fiorentino intorno alla corruzione della 
corte papale ( 3 ). 

Dato adunque il carattere universale e l'incen- 
surabilità della corte papale, per le quali cose essa 
ha una potenza veramente sovrumana, è vano ogni 
sforzo che si faccia per abbatterla, ed è anche 



(1) Discorso XI, 8. 

(2) Discorso III, 1. 

(3) Discorso III, 12. — Intorno alla Inquisizione dice: « se 
gli scrittori parlano contro la religione e contro i buoni co- 
stumi, non par che sia da dubitar punto che i libri si debban 
levar via. Onde invano si lamentano alcuni che da ministri 
della nostra religione siano alcuni scrittori stati censurati ». 
Cfr. Discorso IV, 8. 



1 



— 862 — 

poco prudente andar contro di lei, che anche, essen- 
dole materialmente superiore, non la si può colpire 
sia per un nascosto giudizio di Dio che la protegge, 
sia per la reputazione che essa gode, sia per il bia- 
simo che cade Su chi cerca d'offenderla, sia perchè 
pur vincendo il papa non si vince il papato 00. 

Elemento importantissimo nelle relazioni con gli 
altri Stati è la milizia, e moltissimi discorsi dedica 
l'Ammirato a questa istituzione. Non abbiamo eser- 
cito, egli dice, che tale non si può dire quell'ac- 
cozzaglia di genti diverse improvvisate lì per lì 
quando la tromba ha dato il primo suono ( 2 ). Mal- 
grado ciò egli spera che un esercito stia per 
esser dato all'Italia per opera di Giovanni de' Me- 
dici: di nulla si deve disperare quando si abbia 
forza di volontà. Si addestrino gli Italiani alle armi, 
alla vita del campo, anche arruolandosi come mer- 
cenari negli eserciti stranieri ( 8 )! 

E sulla strategia e sul governo militare l'A. si dif- 
fonde confutando largamente il Machiavelli e pren- 



(1) Discorso XX, 11. — Per -un'altra ragione ogni principe 
deve rispettare il papa, perchè « mai egli può star peggio che 
quando gli manca a portar rispetto ». Discorso XIV, 1. 

(2) Anche il Boterò consacrò molte pagine a trattar della 
milizia; egli però si diffonde specialmente nella disciplina o 
nella sua importanza. — Op. cit., p. 246 e segg. 

(3) Discorso XIV, 6. 



— 363 — 

dendo a modello le gesta di Corbulone, capitano ro- 
mano, che secondo lui incarna il vero modello del 
soldato e del generale. E così va trattando alcune 
questioni di indole generale, se, per esempio, valga 
più la fanteria o la cavalleria, se i denari siano o no 
il nerbo della guerra, e riguardo alla prima sostiene 
contro al Machiavelli il gran conto in cui bisogna te- 
nere la cavalleria ( 1 ), intorno alla seconda dubita che 
l'autor de* discorsi sulla prima deca di Tito Livio 
abbia voluto, negando il valore del denaro, mostrare 
più la forza del suo ingegno che la verità, lo con- 
futa nei singoli fatti da quello inesattamente riferiti, 
e conchiude che nella guerra le ossa sono i soldati, 
ma i muscoli che le fan muovere sono i denari' C 2 ). 



(1) Una corrente contraria alla cavalleria allora spirava: 
basti dire che i granduchi di Toscana Francesco e poi Ferdi- 
nando diminuirono le compagnie e poi le cassarono. Cfr. Re- 
lax, venete cit., XV, p. 267. — Dagli scrittori d'arte militare 
però si ricercava di riporla in onore. Nel 1577 alla Signoria di 
Venezia perveniva da Scipione Costanzo, capitano di cavalle- 
ria pesante al servizio della Serenissima, un ricordo sulla ne- 
cessità di conservare la cavalleria di grave armatura nell'eser- 
cito veneziano. Lo pubblicò il cav. Stefani per nozze Cecchini, 
Venezia, Cecchini, 1868. Il Boterò osserva che, parlando asso- 
lutamente, è di importanza molto maggiore la fanteria della 
cavalleria, ma che a questa bisogna concedere il dominio della 
campagna: chi nei luoghi aperti ha più cavalli, riesce vinci- 
tore. Op. cit., p. 293. 

(2) E l'Ammirato in tutti i singoli precetti continua la con- 



— 364 — 






Come conclusione l'autore dedica un capitolo spe- 
ciale a quella che si diceva la ragione di Stato C 1 ). 
La distingue egli in quattro classi: di natura, ci- 
vile, di guerra, delle genti; ed esaminandola poi 
nei caratteri generali conchiude che essa deve mi- 
rare al bene pubblico ed è « una contravvenzione 
di ragione ordinaria per rispetto di pubblico be- 
neficio ovvero per rispetto di maggiore e più uni- 
versa! ragione » : cosi per ragion di Stato si opera 
anche contro la ragion privata o civile. Scopo del- 
l'autore è cercare « in qual guisa essa si possa ri- 
durre a perfezione, tal che non abbia difetto e se 



lutazione dell'opera del Machiavelli. Stima le fortezze di grande 
importanza, perchè o il nemico ci si indugia o le lascia, e al- 
lora può essere preso e davanti e alle spalle. Disc. XIV, 4. — 
Il Machiavelli avea detto che un capitano non può fuggir la 
giornata quando il nemico la voglia dare ad ogni costo. L'Am- 
mirato invece dimostra che ufficio di gran capitano è cono- 
scere se una guerra s' ha da affrettare o ritardare, e ciò fa con 
lo stesso esempio di Filippo di Macedonia che il M. avea ci- 
tato a vantaggio della sua tesi. Disc. XVIII, 5. — Vinto poi 
che abbia e preso la città nemica, non deve seguire il consi- 
glio del Machiavelli, di abbatter tutto, ma seguire la clemenza 
e la equità. Disc. XIII, 8. 

(1) Disc. VII, 1. 



— 365 — 

le aggiunga tutta quella bellezza che sia possibil 
maggiore ; affine che non sia ne' pulpiti e nelle 
scuole, e negli scritti degli uomini dotti cacciati 
dalla ragunanza della virtù come alcuni han fatto ». 
Per raggiungere questo scopo è necessario che essa 
non venga anteposta alla religione ed a tutto ciò 
che è doveroso ed onesto; le altre ragioni, special- 
mente la privata, devon cedere ad essa « in modo 
che la ragion di Stato sia il trapassamene del 
privilegio nel beneficio di molti ». Siccome lo Stato 
poi si accentra nel principe, così tutto è sottoposto 
al bene di lui, quantunque le leggi regolino i rap- 
porti tra principe e popolo. Perciò è lecito al prin- 
cipe, varcato il limite dell'ordinaria ragione, per 
esempio, far prendere di fatto un colpevole e senza 
processo farlo tagliare a pezzi, se riconosca la via 
ordinaria potergli recar danno o pericolo indubi- 
tato. Quantunque poi la difesa e il bene del principe 
siano la difesa e il bene dell'universale, quando 
Tuna e l'altro siano discordi ed è necessario che 
l'un ceda, deve sempre soccombere la prima ( x ). 

* 

I Discorsi dell'Ammirato ispirati da questa o da 
quella sentenza di Tacito sono ordinati secondo il 



(1) Disc. VII, 1. 



— 366 — 

testo latino; essi quindi non corrispondono allo 
svolgimento ordinato del pensiero, non si succe- 
dono con logica dipendenza, né sono aggruppati 
secondo uno schema prestabilito, sicché malagevole 
riesce il riassumerne le dottrine. 

Vedemmo già qual concetto il Boterò avesse dello 
storico imperiale: l'Ammirato, pur accordandosi in 
molte considerazioni coll'autore della Ragione di 
Stato, rivendica allo storico latino principii di ele- 
vata morale, di buon governo, di clemente e sag- 
gia amministrazione. Vuole egli mostrare che se 
è vero che Tacito narra le gesta tutt'altro che 
. gloriose di alcuni imperatori romani, ha tuttavia 
per chi legga bene le sue opere una messe abbon- 
dantissima di profonde e sagge sentenze. L'Italfe, 
egli dice in un discorso, dopo lunghe e sanguinose 
guerre, è entrata in un periodo di pace, nel quale, 
costituitisi già i principati e saldamente formatisi, 
si deve attendere a tutte quelle riforme che por- 
tino al miglioramento materiale e morale dello 
Stato stesso. Egli così ha evitato lo scoglio prin- 
cipale, affrontando il quale il Machiavelli avea sta- 
bilito la dottrina tanto confutata da' suoi detrat- 
tori, vale a dire ha evitato di parlare dei mezzi 
adatti a conquistare e a formare uno Stato, nella 
quale trattazione era facile anzi inevitabile, dati i 
tempi, fornir precetti men conformi a quell'idea 



— 367 — 

di alta moralità civile che l'A. volea porre a fon- 
damento dei suoi Discorsi. La generazione che avea 
visto l'eroica caduta di Firenze, quella generazione 
di caldi patriotti che avean preferito l'esilio e la 
corte francese alla patria asservita e alla corti- 
gianeria medicea, era tutta spenta o ne rimaneano 
pochi gloriosi avanzi che avean finito, perduta ogni 
speranza di un ritorno alla repubblica, coll'acco- 
modarsi alle nuove necessità. Né si poteva più, 
dopo il governo di Carlo V, nudrire il pensiero .di 
una ricostituzione dell'Italia sotto un sol principe, 
quale l'avea sognata Niccolò Machiavelli. Ai tempi 
dell'Ammirato anzi era più universalmente .accet- 
tata l'idea che una nazione divisa in vari stati 
godesse maggiore prosperità che essendo unita; il 
Boterò avea dedicato a questo argomento uno dei 

* 

più importanti discorsi ed avea finito col conchiu- 
dere che i piccoli Stati disuniti eran da preferirsi 
ad un unico grande W. 

Che cosa rimaneva all'Ammirato, data questa 
corrente di idee, se non delineare la condotta di 
un governo mite e tutto rivolto al conseguimento 
del comune benessere? Per far questo l'Ammirato 
non ricorse a Livio, ch'era stato eloquente narra- 
tore delle glorie repubblicane, ma a Tacito, il ri- 



(1) Cfr. Ragione di Stato, ed. cit., p. 12. 



— 368 — 

goroso scultore degli imperatori tiranni. Nò invano 
egli avea a lungo studiato sulle moderne istorie 
che tanti errori gli avean mostrato, tanto cumulo 
di esperienza gli avean fornito: ed egli tutto mise 
a profitto in questi suoi Discorsi. 

Fu detto che le massime dell'Ammirato son più 
morali che politiche C 1 ): Tesarne da noi fatto dello 
scritto dimostra che se è vero che egli ha sempre 
davanti il fine morale e tutto ad esso subordina, è 
vero altresì che non mancano anzi abbondano i pre- 
cetti politici; e se l'Ammirato talora eccede nelle 
considerazioni d' indole morale, ciò si spiega facil- 
mente guando si pensi che egli avea per non ultimo 
scopo la confutazione delle dottrine di chi, si credea, 
aveva sottoposto la morale alia ragione di Stato. 

Conchiudendo diremo che i Discorsi su Tacito 
sono il frutto di un lungo ed amoroso studio della 
storia antica e moderna, e insieme di una esatta 
coscienza delle tendenze e dei bisogni dei proprii 
tempi ; all'autore si può rimproverare, quantunque 
i tempi lo scusino, d'aver consigliato al popolo la 
cieca sommissione ai principi, ma si deve dar lode 
per aver suggerito ai principi savii precetti sul 
governo dei sudditi e le norme più adatte al be- 
nessere comune. 



(1) Monzani, Disc, cit., p. XXV. 



- 369 - 

L'Ammirato riconosce necessaria alla concordia 
sociale la prosperità economica, indica i mezzi per 
conseguirla e i doveri de' principi su questo pro- 
posito in numerosi discorsi modello di saggezza e 
di dottrina né anguste né circoscritte al suo tempo. 
L'esposizione chiara e, per quanto lo permetteva la 
materia, di non difficile lettura, nella quale l'eru- 
dizione non soffoca il ragionamento, assegna al libro 
dell'Ammirato il primo posto tra quanti trattarono 
di politica sulla fine del sec. XVI, che gli altri, 
eccettuato il Boterò, non fanno che affastellare ci- 
tazioni antiche e moderne e generare confusione 
e fastidio in chi si accinga a leggerli. 



* * 



Non scarsa fu la fortuna dei Discorsi dell'Am- 
mirato. La Granduchessa gli scriveva che sperava 
« di cavarne utilità di virtuosi e giusti avvertimenti 
et compiacimento » e li chiamava un libro saluti- 
fero. Il Granduca sperava anch'egli di trarre da essi 
con diletto frutto ed aiuto al suo governo, come 
quelli che erano ispirati a cristiana pietà, a giusto 
e prudente reggimento e ad una accorta conserva- 
zione e al pubblico benefìcio di popoli e di Stati C 1 ). 



(1) Cfr, Lettere, — Opivscoli, II, p. 433-4. 

14 



— 370 — 

Simile accoglienza ebbero nel mondo letterario; 
li lodò il Possevino W, furono tradotti nel 1609 in 
latino ( 2 ), nel 1619 in francese da Lorenzo Mel- 
lier( 8 ); li lodò il Rapin pur ritenendo lo studio 
della politica di Tacito le plus vaine de touts ( 4 ). 

Non mancò però chi li giudicasse male. Il Boc- 
calini, che avea dato all'Ammirato il primato come 
scrittore di geneologie, nel ragg. 90.° della prima 
centuria in cui si racconta una visita fatta da 
Apollo nelle carceri dove giacciono i letterati per 
delitti e per debiti, dice : « Il medesimo Baiardo 
fece relazione di un processo fabbricato contro 
Scipione Ammirato, ancor egli professore di poli- 
tica, il quale si trovava convinto di aver commessi 
molti gravi eccessi, perciocché ad un principe che 
con nuove e bruttissime angherie scorticava i po- 



(1) Possevini, Bibliotheca selecta, II, p. 382. 

(2) Eccone il lungo titolo: Scipionis Ammirati celeberrimi in- 
ter neutericos, scriptoris, dissertationes politicete, rive discursus in C. 
Cornelium Tacitum nttper ex Italico in latinum verri et cum toto 
reipublicae sludiosorum orbe communicatae. Quibus praemissae sunt 
ex eodem Tacito excerptae digressiones Politicae a Cristophoro Pelu- 
gio ecc. Helenopoli, 1609. 

(8) Cfr. Scipion Admirate, Discours politiques et militaires sur 
Oomeille Tacite. Lion, 1619. 

(4) Cfr. le Reftexions sur Veloquence, la poetique, l'histoire et la 
philosophie de M. Rapin. Amsterdam, Ahaham-Wofgang, 1636, 
p. 804. 



— 371 — 

poli suoi, affine ch'elleno ne' suoi Stati non cagio- 
nassero novitadi impertinenti, pose loro gli one- 
stissimi nomi di donativi, di sussidi, di aiuti, e che 
fino ad una odiosa gabella, non dubitò di porre lo 
specioso nome di Monte di Pietà.... Grandemente 
meravigliato Apollo della scellerata perfidia di quel 
politico, e dopo aver liberamente detto che con 
dispiacer suo infinito si era chiarito che i politici 
erano gli Zingani, i Barri, i Ciurmatori, i Taglia- 
borse de' Letterati comandò che quel mostro di na- 
tura (nientemeno) fosse precipitato dal sasso Tar- 
peio » W. 

Accusa molto esagerata derivante forse da gelo- 
sia di mestiere!. Il Boccalini non era del resto 
grande amico di Tacito ( 2 ). 

Tra i moderni, Amelot de la Houssaye nella sua 
nota versione di Tacito cosi si esprimeva a pro- 
posito dei Discorsi dell' Ammirato : « Je n'ai pas 



(1) Cfr. De* ragguagli di Parnaso del sig. Traiano Boccalini 
romano. In Venetia, 1644, I, p. 310. 

(2) Nel Bagg. I, p. 29, il Boccalini scriveva: « Agli amba- 
sciatori molto ampollosamente di se stesso parlando rispose Ta- 
cito, che qual egli si fosse nella scienza di ben saper governare 
gli Stati era noto ad ognuno, poiché tal era la stima che il 
mondo tutto facea degli scritti suoi, che con molta verità li 
pareva di potersi dar vanto, che con le sole regale della sua 
Politica da' moderni principi fosse governato l'universo ». 



— 372 — 

laissé de trouver beaucoup de bon sens dans ses 
raisonnemens et naème beaucoup de droiture dans 
ses maximes ». Notata poi l'opposizione al Ma- 
chiavelli ed una certa oscurità derivante, secondo 
lui, dall'aver voluto imitare soverchiamente lo stile 
di Tacito, continua: « Il entre-mèle assez souvent 
les exetìaples modernes avec les anciens afin, dit-il 
dans un de ses discours, que chacun voye que la 
vérité des choses n'est pas alterée par la diver- 
tite des temps. En un mot, son Commentai re est 
assurement un des milleurs que nous ayons sur 
Tacite ». 



— 878 — 



XII. 

Le Storie fiorentine. 

a 

Il vero censore è l' istorioo veritiero, il quale senza 
mirare in viso persona loda o biasima quello 
ohe di lode o di biasimo stima esser degno. 

Proverbi, Op., II, pag. 566. 

L'Ammirato è nel secolo XVI il più sincero rap- 
presentante di quel metodo tendente negli studi 
storici ad affermare fatti e notizie sulla scorta di 
autentici documenti e dopo un'accurata critica delle 
fonti; e abbiamo detto il migliore e più sincero 
rappresentante, perchè predecessori anche degni 
di menzione non mancarono. Abbandonato nella 
narrazione degli avvenimenti il lucco modesto della 
semplice cronaca, vestito il ricco paludamento li- 
viano, gli storici italiani nel secolo XV parvero far 
rivivere gli antichi modelli: trascurando la narra- 
zione degli intimi rivolgimenti delle città, la descri- 
zione dei loro ordinamenti, sfoggiando nella pittura 
di battaglie sanguinose, nei ritratti di capitani, emuli 
degli antichi, dove la fervida lusingatrice fantasia 
dello scrittore e il fine magistero dello stile po- 
teano risplendere in tutto il loro lusso di colori e 
di immagini, gli umanisti, in particolare i fioren- 



- 374 — 

tini, avean narrato le glorie della loro patria. Nei 
primi decenni del secolo XVI da una parte si con- 
tinuò su questa via, dall'altra si volle guardare 
oltre che alle vicende esterne degli Stati, anche e 
principalmente agli interni rivolgimenti; si volle 
non solo narrare i fatti, ma, e sopratutto, indagarne 
le cause : il genio era sorto in Niccolò Machiavelli. 
Il Machiavelli moriva quando ancora Firenze 
non aveva piegato nella titanica lotta del 30: il 
Guicciardini visse dopo la caduta della patria sua, 
e, cooperando efficacemente all'insediarsi de' Medici, 
li additò come i reggenti più desiderabili in To- 
scana. Ogni ideale di libertà era caduto, e gli ani- 
mi si andavano adattando al nuovo ordine di cose; 
e anche la storiografia risenti delle mutate condi- 
zioni, dei mutati ideali; la sintesi ardita del Segre- 
tario fiorentino cedette il luogo all'analisi indu- 
striosa e sicura. Su questo cammino si avviarono 
gli storici aiutati dalle cognizioni di diplomatica 
che andavano diffondendosi W; si ripresero come 



(1) Cfr. U. Foglietta, Deratione scribendae historiae, in Georgi 
Graevii, Thesaurus antiquitatum et hìstoriarum Italiae. Lugdunii 
Batavorum, Vander, 1704, I, 2, p. 1201, e l'altro trattatello 
sullo stesso argomento di F. Robortello edito a Firenze dal 
Torrentino nel 1548. V. anche una lettera di Antonio Cesareo 
al Ferreto autore di una storia dell 1 Esarcato. Raccolta del 
Pino, IV, p. 61. 



— 375 — 

fonte gli antichi cronisti, i più schietti a genuini 
narratori delle memorie antiche, si esaminarono le 
carte d'archivio, inconfutabili testimonianze degli 
avvenimenti. 

In Firenze il primo che meniti di essere ricor- 
dato per aver attinto largamente alle fonti cancel- 
leresche è il Varchi. Sarebbe utilissimo studiare 
con criterio diverso da quello tenuto finora l'opera 
di ms. Benedetto; risulterebbe con evidenza l'ine- 
sattezza del giudizio datone finora e si riconosce- 
rebbe in lui uno storico veritiero che fece tutt'al- 
tro che vendere la propria penna ai Medici C 1 ). 

Sin dal 1547 il Giannotti scriveva al Varchi: 
« de' libri de' signori Dieci che vorresti ritrovare, 
io non ho notizia alcuna, né trovo qua chi me ne 
possa dare informazione. So bene che tutte quelle 
scritture di quel magistrato vennero alle mani del 
Guicciardini e forse saranno tra le cose sue re- 
state ( 2 ) ». E dal 1547 al 1563 è un chiedere in- 
cessantemente da parte del Varchi notizie e docu- 
cumenti ad amici, a ministri ( 3 ); sicché egli non 



(1) L'accusa è del Tiraboschi, op. cit. VII, pag. 1846, e fu 
ripetuta a proposito e a sproposito. 

(2) Cfr. Giannotti, Opere politiche e letterarie^ Firenze, Le- 
monnier, 1850, II, p. 424. 

(3) Al Caro avea chiesto alcune indicazioni. Cfr. Prose fio- 
rentine, IV, III, p. 48. Al Giannotti chiedeva notizie intorno 



- 376 — 

esagerava quando scriveva nel proemio delle Sto- 
rie: « Potrei bene testificare che per supplire colla 
industria dove l'ingegno mancava sappiendo che 
della verità se non sola, più certo di lei che di tutte 
le altre cose insieme si deve nell' istoria conto te- 
nere; spesi sì lungo tempo e cotal diligenza usai, 
e tante fatiche durai per rinvenirla ancora nelle 
cose menomissime ed in un certo modo soverchio, 
che egli per avventura, dicendole io, creduto non 
mi sarebbe. Conciossiachè, non ritrovandosi nella 
segreteria alcuni libri pubblici, nei quali erano le 
cose dello Stato e della guerra più segrete e più 
importanti notate, perciocché furono, secondo che 
coloro dicevano a cui la cura di essi toccava, a 
papa Clemente instantissimamente richiestili, dopo 
l'assedio, in diligenza mandati subito: fui costretto 
non pure a leggere, ma notare e intavolare per 
l'ordine dell'alfabeto e poco meno che trascrivere 
non solo molti libri dei signori Dieci di libertà e 
pace e molti delle informazioni e d'altri magistrati, 
e infinite lettere e registri d'ambasciatori, di corn- 



ai 1520; il Giannotti rispondeva che non era possibile averle 
senza le scritture di Palazzo. Cfr. Q-iannotti, op. cit., II, p. 426. 
Con lettera .del 9 gennaio 1549 il Varchi pregava il Guidi, se- 
gretario ducale, che gì' inviasse alla villa di Rezzano, in Mu- 
gello, alcune filze di informazioni utili per la storia. Cfr. Prose 
fiorentine, IV, I, p. 98. 



- 377 — » 

missari, di vicari, di potestà e d'altri ufficiali che 
di tutto il contado, distretto e dominio fiorentino 
nel palazzo già de' Signori e oggi del Duca, in nu- 
mero quasi innumerabile, parte in filze e parte in 
libri ridotte, sotto la custodia di ser Anton Ma- 
ria Bonanni, cancelliere dei signori Otto di pra- 
tica, meno diligentemente che fare non si dovrebbe, 
si guardano, ma volgere eziandio e rivolgere non 
pochi parte zibaldoni, che così li chiamano, e parte 
scartabegli e scartafacci di diverse persone, le 
quali in vari tempi le cose che nella città si fa- 
cevano o si dicevano, di giorno in giorno, più to- 
sto con molta diligenza e curiosità (del che non 
poco si deve loro obbligo avere), che con alcuno 
ordine e studio andavano in su detti stracciafogli 
notando ; e sopra esse alcune fiate, ma bene spesso 
più secondo le passioni, e cotale alla grossa, che 
secondo la verità o giudiziosamente discorrendo : 
senzachè m'avvenne infinite volte il dovere ora fa- 
vellare e ora scrivere quando a questo cittadino e 
quando a quel soldato per avere informazione d'al- 
cuna cosa, o per la certezza intendere d'alcun'al- 
tra, la quale essere stata diversamente o detta o 
fatta o nelle bocche de' vivi, o nelle scritture de' 
morti si ritrovava » ( l ). 



(1) Cfr. Varchi, op. cit., I, p. 43. 



— - 378 — 

Il desiderio di ricorrere agli archivi per trarre 
da essi una gran quantità di notizie era universal- 
mente sentito, e gli archivi fiorentini allettavano. 
Il Nardi da essi voleva trarre le corde per sferzare 
il governo Mediceo, e il Varchi, che poteva visitare 
l'archivio e fare estratti delle informazioni, trasmet- 
teva notizie a quelli che lontani, come il Nardi, dalla 
patria si andavano occupando di storia fiorentina C 1 ). 
Al Giannotti balenò l'idea di scrivere una storia 
degli avvenimenti dal 1527 al 1530, e a tal uopo 
avrebbe voluto vedere le carte fiorentine; non po- 
tendolo per essere fuoruscito, ne depose per allora 
il pensiero, pronto a ripigliarlo se fosse tornato a 
Firenze ( 2 ). E quel che accadeva per Firenze, ac- 
cadeva anche in quasi tutta la Toscana, e basterà 
citare la storia di Pisa, frutto di pazientissimi 
studi del Roncioni ( 3 ). 

Il nuovo metodo era così bene iniziato quando si 
conferi all'Ammirato la carica di storiografo uffi- 
ciale della città di Firenze. Il codice palatino della 



(1) Cfr. Prose fiorentine, IV, III, p. 195. 

(2) Cfr. Giannotti, op. cit., II, p. 422. 

(3) Il Roncioni in una sua lettera a Baccio Valori da Ma- 
drid parla di una edizione del Villani da curarsi da molti stu- 
diosi insieme, poiché « un solo non basterebbe a tanta fatica 
sì per essere necessario risolvere alcune cose, come per doverlo 
riscontrare quasi tutto ». Cfr. Prose fiorente IV, III, p. 237. 



— 379 — . 

Nazionale di Firenze XXI-2-895 e l'altro della Ric- 
cardiana 2302, quest'ultimo di minore importanza, 
ci son testimoni degli studi accurati dell'Ammirato 
negli archivi fiorentini : basti dire che il primo, 
in due volumi di 1133 carte, contiene, oltre il re- 
sto, uno spoglio diligentissimo dell'archivio delle 
riformagioni, di un gran numero di diplomi e di 
pergamene, del priorista W ecc., e la trascrizione 
dei passi o dei documenti più importanti. 

Grande libertà ebbe l'Ammirato di usare degli 
archivi; per6no si fece inviare i documenti a Fie- 
sole, essendo granduchi Cosimo e Francesco. Fer- 
dinando ne fu più geloso tanto che Scipione scri- 
veva a Braccio Aldobrandini il 3 aprile del 1592: 
« Se io potessi vedere le scritture delle riforma- 
gioni a mia posta, di che ebbi già facoltà ai tempi 
del Granduca Francesco, mi darebbe l'animo di 
trovar delle cose. Con tutto ciò non me ne dispero, 
a tante cose mi vo ogni giorno abbattendo ». Ol- 
tre le carte fiorentine esaminò quelle dell'archivio 
di Pisa ( 2 ), degli archivi e delle biblioteche dei mo- 
ti) Cfr. Opuscoli, II, p. 829. Il cod. 1824 della Eiccardiana 
contiene il priorista per le famiglie fiorentine con l' indice di 
mano dell'Ammirato. Alcuni errori del priorista sono notati 
nelle Storie fiorentine, II, p. 1091. 

(2) Lo ha provato il Bonaini per alcuni diplomi del 1274 e 
del 1280. Cfr. Giorn. stor. degli ardi, toscani, HI, p. 99. Lo ab- 



.- 380 — 

nasteri di quasi tutta la Toscana, dei quali parla 
sovente nelle sue lettere. 

Nel 1592 lo troviamo a Vaiano e a Pistoia C 1 ), 
nello stesso anno a S. Fedele a Pioppi, a Colti - 
buono donde scrive : « ah se io avessi facoltà da chi 
può di vedere le scritture di tutti i monasteri d' Ita- 
lia, quante belle cose si caverebbono dalle tene- 
bre et io che in ciò conosco il mio talento, pre- 
porrei questo agli onori del cardinalato ». Rin- 
graziando altrove il vescovo d'Isola di alcune con- 
fetture, gli scriveva che forse riderebbe a vederlo 
per i monasteri coperto di polvere e di cacherelli 
di topi a leggere scritture antiche, per la cogni- 
zione delle quali gli pare d'essere diventato un 
armario d'antichità ( 2 ). E si entusiasma per le sue 
ricerche: a monsignor Ferrante Taverna narra di 
avere in due conventi di Vallombrosa viste circa 
quattromila scritture e di essere stanco dal lavoro : 
« ma, aggiunge, mi è in modo temperata la fatica 
dal diletto incomprensibil ch'io cavo dalle cose 
che vi ritrovo, che scordatomi dei miei interessi 
e d'aver logoro i panni e l'ossa mi chiamo ricco 



biamo confermato esaminando le carte riguardanti le relazioni 
tra Pisa e Genova nel 1160. Cfr. Storie fior., I, pag. 55. 

(1) Cfr. Op., II, p. 496. 

(2) Cfr. Op. } II, p. 487. 



— 381 — 

quando son povero, gagliardo quando son debole e 
poco curando non che d'altro degli onori che mi 
potessero venir fatti da' principi grandi, non so se 
con nuova spezie di pazzia o forse fatto ottimo e 
intero conoscitore del talento concedutami da Dio, 
dico che tocca a me di onorar altrui, non che io 
lusingando vada con ignominiosa ambizione pro- 
curando d'esser onorato dagli altri, poiché cavando 
dalle tenebre memorie bellissime posso recar luce 
a moltissime cose » ( 1 ). Quando si pensi che chi 
scrive cosi è un vecchio di 60 anni, non si può 
esser presi che da ammirazione per la sua attività 
infaticabile, per il suo giovanile entusiasmo. Furon 
circa trenta anni di studio assiduo, di lavoro inde- 
fesso; degno frutto la storia più completa e più 
attendibile della sua città prediletta. 

Alle carte, ai diplomi, ai documenti cancellere- 
schi bisogna, esaminando le fonti della storia del- 
l'Ammirato, aggiungere le opere letterarie inedite 
ed edite. Già parlando delle Famiglie nobili fioren- 
tine avemmo occasione di citare alcuni diarii da 
lui studiati. Firenze, lo dice egli stesso, è ricchis- 
sima di questi ricordi che i cittadini lasciavano in 
eredità alla propria famiglia, e molti egli ne ha 
consultati ( 2 ). Alcuni di questi diarii sono vere e 



;i) Op., II, p. 491. 

(2) Cfr. Stor. fior., II, p. 996. 



— 382 — 

proprie storie, e pubblicati in seguito apportarono 
molta luce sulle vicende dello Stato fiorentino; tra 
essi meritano speciale menzione le storie di Gio- 
vanni Cambi Importuni W e quelle del Segni. Delle 
prime che vanno dal 1480 al 1535 l'Ammirato 
dice che sono stese « con tanta fede ed integrità 
per quel che si è potuto osservare, che io vera- 
mente confesso molte utili cognizioni aver da lui 
avute nello scrivere a questi tempi della famiglia 
Medici »; e aggiunge che questo libro « con molti 
altri prestatigli da Alfonso suo nipote lo ha libe- 
rato da non piccoli dubbi » ( 2 ); trascrisse le se- 
conde tutte di sua mano, e con tanta diligenza 
che il suo manoscritto servi all'edizione moderna 
del Gargani ( 8 ). 

Oltre alle fonti manoscritte e alle notizie orali che 
a questo e a quello chiedeva ( 4 ), consultò numerose 



(1) Furono pubblicate dal padre Ildefonso nelle Delizie degli 
eruditi toscani, XX-XXIII. 

(2) Cfr. Famiglie nob. fior., p. 76. 

(3) Cfr. Istorie fior, dall'anno 1527 al 1555 scritte da Bernardo 
Segni, Firenze, Barbèra, 1857, p. 9. Spesso VA. si addossava la 
fatica di trascrivere i manoscritti che più interessavano i suoi 
studi, né a far questo era solo tra gli eruditi. Cfr. per il Bor- 
ghini, Barbi, op. cit., p. 45. 

(4) Cfr. la lettera del dicembre 1597 al Card, di S. Giorgio, 
in Opuscoli, II, p. 479, dove gli chiede se veramente la don- 
zella che alla corte del duca d'Urbino non volle danzare con 



— 383 — 

storie a stampa: di Giovanni Villani, tanto noto 
nel 500, ebbe grandissima stima, e se rilevò, come 
era naturale, la favola nei principi della storia, 
nel resto lo ritrovò veridico « non avendo scritto 
per altro che per lasciar memoria di quel che era 
accaduto; le virtù e i vizi di quel tempo in qua- 
lunque soggetto si fussero, senza alcun ricoprimento 
per la sua opera chiaramente appariscono: il che 
debbe essere il vero fine -di chiunque scrive » (*). E 
largamente ne usò, anzi, riputando la sua lingua 
molto pura e degna di essere imitata, non esitò ad 
imitarne le frasi e fin interi periodi. Malgrado ciò 
non si affida a lui ciecamente e ne corregge ta- 
lora gli errori col confronto dei documenti origi- 



Maramaldo uccisore del Ferruccio fosse la madre di papa Cle- 
mente Vili. — L'A. stesso ricorda i racconti a lui fatti dal 
duca Cosimo e dagli altri della corte spettatori di tragici fatti 
del '80 e del '37. 

(1) Cfr. Ritratto, in Opuscoli, II, p. 243, e Storie fior., I, p. 508: 
« Mori in questa peste Giovanni Villani, non piccolo ornamento 
del nostro nome fiorentino, se noi con occhio non livido vo- 
gliamo por mente non aver la lingua toscana forse più antico 
o al sicuro più copioso scrittore di lui, onde a lui solo siccome 
ad un fonte abbondantissimo vediamo ricorrere tutti coloro, i 
quali le memorie dei passati secoli di qualsivoglia stato o prin- 
cipato del mondo s'han tolto cura di mettere insieme, e ciò 
non solo con gloria e honor della patria sua, ma con lode par- 
ticolare della pietà della famiglia de 7 Villani » . 



— 384 — 

nali vi). In minor conto tiene gli altri due, Matteo e 
Filippo : il primo per avere, essendo stato escluso 
dagli affici della repubblica, taciuti molti fatti e 
molti avvenimenti della propria patria ed essersi 
diffuso più sui forestieri : il secondo per la brevità 
del racconto e per un certo artifizio nello stile (2). 
Di confusione e di disordine accusa il Malespini, 
ch'egli crede fonte dello stesso Villani. 

Dei quattrocentisti, oltre che del Platina, dello 
Stefani ( 3 ), del Poggio, del Facio, si servi, principal- 
mente per i fatti esterni della città, di Leonardo 
Bruni ( 4 ), or seguendone il racconto e lodandone 
i giudizi, or correggendo e mutando. Dei cinque- 
centisti, oltre il Sabellico, il Bembo, Giovanni Ru- 
cellai, Niccolò Valori, il Varchi ( 5 >, il Nardi, il Segni, 
si servi sopra tutti del Machiavelli e del Guicciar- 



(1) Cfr. Storie fior., p. 461. 

(2) Cfr. Ritratto, in Opuscoli, li, p. 244. Di Matteo si valse 
solo in alcune aggiunte, essendo stata la cronaca di lui pub- 
blicata dopo la stesura della parte corrispondente della storia 
dell'Ammirato. Cfr. Storie fior., II, p. 622. 

(3) Cfr. Storie fior., II, p. 749. 

(4) Cfr. le lodi che fa di lui come umanista e il giudizio se- 
vero cbe ne dà come storico. Cfr. Storie fior., p. 44. 

(5) Cfr. Opuscoli, II, pag. 284; dovè non dà di lui storico 
alcun giudizio, ma gli attribuisce il merito di aver procurato 
« che lo splendor della lingua toscana, il quale era incomin- 
ciato a cadere, risorgesse, essendo stato purissimo prosatore » t 



— 885 — 

dini. Del Machiavelli, come vedemmo, ammirava il 
potente ingegno, la profondità meravigliosa delle 
sentenze, avversava i principi politici e ,in un'opera 
di lunga mole aveva cercato di confutarne le male- 
fiche dottrine; ora ne biasima la poca esattezza e 
il trascurare scientemente la verità o per secondi 
fini o per obbedire alle esigenze della forma. 

« Oltre che invero si vede il Machiavelli esser 
poco diligente in tutta quella sua opera, i cui er- 
rori se noi volessimo andar riprovando o non os- 
serveremmo il decoro dell'istoria o senza dubbio 

ci acquisteremmo biasimo di maligno Scambia 

gli anni, muta i nomi, altera i fatti, confonde le cau- 
se, accresce, aggiugne, toglie, diminuisce e fa tutto 
quello che gli torna in fantasia senza freno o rite- 
gno di legge alcuna, e quel che più pare noioso 
è che in molti luoghi par che egli prenda errore 
o che non sappia quelle cose esser andate altri- 
menti, fosse perchè cosi facendo lo scrivere più- 
bello e men secco ne divenisse, che non avrebbe * 
fatto se a tempi e a fatti avesse ubbidito come se 
le cose allo stile e non lo stile alle cose s'avesse 
ad accomodare » W. Più grave si fa l'accusa dove lo 
chiama ignorante dell'arte storica e di ciò che rende 
bella la lingua; e qui saremmo indotti a soggiungere 



(1) Cfr. Storie fior., Ili, p. 96-7. 

25 



— 386 — 

col Villari (*) che l'Ammirato non comprendeva 
punto il valore storico del Machiavelli, se non si 
dovesse riferire l'accusa dell'Ammirato all'indugiare 
che fa il Segretario fiorentino non sui fatti che 
hanno per sé una maggiore importanza, ma su 
quelli che valgono meglio a mettere in luce il suo 
pensiero dominante, e alla trascuratezza, spesso sin- 
golarissima, di ogni cosa che a tal fine non possa 
servire ( 2 ). Tuttavia, malgrado queste accuse, l'Am- 
mirato serba una certa simpatia pel Machiavelli, 
dinanzi al quale, pur notandone gli errori e non 
risparmiandogli le censure, prova, egli l'uomo d'in- 
gegno davanti al genio, un senso di rispetto e di 
ammirazione. Quando parla dell'eroica impresa di 
Biagio da Melano riporta le generose parole del 
Machiavelli, e dice: « né mi vergognerò di mettere 
le stesse parole dell'autore, acciocché comprendano 
ancora i posteri da questa parte i sentimenti ga- 



(1) Cfr. Villari, op. cit, III, p. 277. 

* 

(2) Cfr. Villari, op. cit., p. 210. Che l'A. intendesse allu- 
dere alla simpatia del Machiavelli per alcun genere di fatti, è 
reso chiaro dal rimprovero che altrove gli muove di prediligere 
il trattar delle congiure,, tanto da non contentarsi delle fioren- 
tine e andar cercando le altre svoltesi a Milano, a Napoli, ecc. 
Pare ali 'A. che il Machiavelli « sia riuscito come a quei di- 
pintori, i quali eccellenti a ritrarre con somma meraviglia al- 
cuna parte del corpo umano, non abbiano però abilità di met- 
terlo bene insieme ». 



— 387 — 

gliardi e l'arguto e stretto procedere di cotale scrit- 
tore » ; e finisce col lamentare che di tutte le opere 
sue si sia fatto un fascio e si siano indistintamente 
proibite. 

Né è quello il solo luogo dove l'Ammirato si 
serve delle stesse paiole del Machiavelli: Ecco p. e. 
il passo in cui si narra la morte di Corso Donati: 

« Ms. Corso dall'altra parte non per vedérsi da 
molti de' suoi abbandonato, non per la sentenza 
data, non per l'autorità dei signori, né per la mol- 
titudine dei nemici sbigottito deliberò, poiché 

era disperato nella vittoria, vedere se potea tro- 
vare rimedio alla salute » (Mach., Storia, Firenze, 
1851, pag. 92). 

« Il quale non sbigottito punto nell'animo della 
moltitudine che sentiva venirgli incóntro, non raf- 
frenato dalla sentenza dei magistrati né per vedersi 

da molti de' suoi abbandonato cercò poiché non 

gli rimanea sperare nella vittoria di vedere se po- 
tea rimediare alla salute ». 

Un altro esempio più significativo è la parlata 
del Rustichelli al duca d'Atene, che il Nostro ha 
tolto, si può dire, di peso, dal Machiavelli: 

« Niuna ineffabil dolcezza può essere mai cosi 
grande che contrappesi quella della libertà! » 

« Quali opere volete voi che contrappesino alla 
dolcezza della libertà? ». 



Ambedue gli scrittori dimostrano come le gran- 
dezze passate servano di risveglio ai cittadini e come 
sia fallace l'appoggio della plebe : 

< Convennero adunque i signori che la mattina se- 
guente il popolo si radunasse in sulla piazza, pell'au- 
toi'ìtà del quale si desse per un anno al duca la 
signoria con quelle condizioni che già a Carlo duca 
di Calabria si era data • (Mach-, Storia, II, 34). 

• Alla fine fu conchiuso che lasciato radunare il 
popolo la mattina seguente se gli dovesse dare la 
signoria con un anno con quelle condizioni che già 
a Carlo duca di Calabria era stata data >. 

Grande stima l'Ammirato aveva del Guicciardini: 
gli dava lode di non magnificare né rimpicciolire 
gli avvenimenti, di possedere ordine, chiarezza, ab- 
bondanza, di avere sentenze piene di maestà, vi- 
vezza nel descrivere i costumi dei prìncipi: unico 
difetto la lingua piena di barbarismi W .Delle due 
Storie molti passi si possono dire identici, ma più 
che dall'aver l'Ammirato tenuto presente l'autore 
fiorentino, derivano dall'aver usato ambedue di fonti 
simili: i diarii di Biagio Buonaccorsi e i docu- 
menti dei Dieci ( 2 ). — Riportare tutti i giudizi che - 
l'Ammirato ha dato dei suoi predecessori sarebbe 



(1) Cfr. Ritratti, in Opmcoti, II, p. 247. 

[2) Cfr. Stor. fior., Ili, p. 206 e 248. 



- 389 — 

troppo lungo:, lasciando da parte il Giovio, del 
Nardi è detto che con meraviglioso disordine stra- 
volge ogni cosa ( x ), dell'Adriani che, pur non avendo 
dato al suo libro l'ultima mano, tuttavia ha fatto 
opera tale che « per la copia delle cose, per la ve- 
rità degli avvisi andrà tanto più prendendo riputa- 
zione, quanto più si scosterà dal presente secolo » (*). 
Giudizio esatto come quello di un'opera che, trat- 
tapdo di avvenimenti modernissimi non poteva es- 
sere accolta con interesse (tagli studiosi dell'età sua 
che di quei fatti erano stati spettatori, ma è tenuta 
dai posteri in grande stima per la gran copia di 
notizie che fornisce ( 8 ). 



* 
* * 



(1) Cfr. Storie fior., Ili, p. 391. 

(2) Cfr. Ritratti, in Opusc, II, p. 253. La storia dell'Adriani fu 
pubblicata nel 1583. Cfr. Istoria de* suoi tempi di Gk B. Adriani 
gentiluomo fiorentino, divisa in libri 22* In Firenze nella stampe- 
ria de» Giunti MDLXXIII. 

(3) L'Ammirato, come era naturale, si servì nella Storia delle 
altre opere da lui composte : nel voi. I, p. 130 e 209, 230, 281, 
si adoperano le genealogie delle famiglie Niccolini, Strozzi, della 
Batta. Nel voi. Ili, p. 240, si riporta un lungo brano tratto 
dalla famiglia Valori, nel quale si descrive la distruzione di 
una parte di quella famiglia. Cfr. Famiglie fior., p. 108-4. La 
storia della famiglia fu composta prima delle Storie, perchè dà 
come vivo Baccio che mori nel 1578. 



- 390 — 

Più vasto che quello dell'Adriani era il disegno 
dell'Ammirato: descrivere le vicende di Firenze 
dalla fondazione della città fino ai suoi tempi; non lo 
potò effettuare che in parte, e la Storia giunge solo 
fino al 1574, anno della morte di Cosimo (*). Del 
tempo in cui le varie parti della Storia furono com- 
poste poco sappiamo, che egli pur accennando nelle 
sue lettere a fatiche e a studi parla sempre in termini 
generali; tuttavia qualche data non manca: da ac- 
cenni a fatti contemporanei si ricava che nell'ottobre 
del 1571 attendeva già al 10.° libro (2), che il 20.° 
fu rifatto nel 1599 pontificando Clemente Vili ( 3 ), 
che il 25.° fu corretto Tanno in cui Ferdinando de' 
Medici faceva costruire l'altare dell'Annunziata tutto 
d'argento, e il 30.° finalmente fu scritto dopo che 
Francesco Sforza fu eletto duca di Milano. 

Ricordati brevemente i primordi di Firenze, per 
i quali rimanda all'opera futura del Borghini e 
ad altri ( 4 ), e poi i tempi pagani, saluta il sor- 



ti) V'è una lacuna dal 1554 al 1561, che, come avverte lo 
stampatore, si trovava nel manoscritto e non era stata mai 
riempita dall'autore. L'inquisitore tolse anche all'anno 1512 un 
lungo ricordo che l'autore faceva dei precedenti concili a pro- 
posito del conciliabolo di Pisa, III, p. 224. 

(2) Cfr. Storie fior., I, p. 494. 

(3) Cfr. Storie fior., II, p. 1095. 

(4) Vivamente si era dibattuta la questione dell'origine di 
Firenze e molti letterati vi avean partecipato: il Gelli, il Bor- 



— 891 — 

gere del Cristianesimo e con eloquenti parole de- 
scrive la vita di Firenze nei primi secoli cristiani C 1 ). 
Non vivendo essa di vita propria, l'autore allarga 
le sue notizie a tutta l'Italia e particolarmente alla 
Corte romana, di cui, dopo aver difeso la dona- 
zione costantiniana, disegna e segue lo svolgersi 
nella potenza temporale e spirituale, descrivendo 
con rispettoso terrore gli effetti delle scomuniche ( 2 ) 
e i prodigi mirabili accaduti (9). Sorto il Comune fio- 
rentino, esso divenne baluardo della Chiesa quando 
l'Italia si divise tra Guelfi e Ghibellini:, lo svol- 
gersi di queste lotte in Firenze non impedisce al- 
l'autore di dare tratto tratto uno sguardo al resto 
d' Italia. Il Comune fiorentino saldamente costituito 
tutto lo entusiasma colle sue lotte cogli altri Co- 
muni, colle generose opposizioni a re e ad impera- 
tori, col mutarsi e rimutarsi degli ordinamenti in- 
terni, la trattazione dei quali predilige e svolge con 
grande minutezza ( 4 ). Lo entusiasma tanto, che egli, 



ghini, il Mei, ecc. ; per essa cfr. il cit. art. del Barbi, p. 10, e 
dello stesso, Il Trattatello sull'origine di Firenze di Giovan Bat- 
tista Gelli. Firenze, Carnesecchi, per nozze Gigliotti-Michela- 
gnoli. 

(1) Cfr. Storie fiorentine, I, p. 8. 

(2) Cfr. I, p. 9, 12, ecc. 

(3) Cfr. I, p. 142, 287, ecc. 

(4) Qui vuol giustizia che si ricordino le aggiunte di S. Am- 
mirato il giovane che conferiscono maggior compiutezza ed 



_ 392 — 

dando dopo la caduta di Enrico VII uno sguardo 
retrospettivo, esclama: « Ora sprezzino le guerre 
e i preparamenti militari di questa mezzana anti- 
quità coloro i quali hanno in moda riputar per grandi 
le cose presenti, quando quello che ai tempi più 
freschi non feciono il Pontefice e i Veneziani e la 
stessa Repubblica fiorentina, già molto aggrandita, 
per salvezza di Roma, alcune poche città di To- 
scana e di Romagna feciono ». Biasima le lotte tra 
grandi e popolani, che portarono alle vere e pro- 
prie signorie o cittadine o forestiere, e quando 
narra nel 1343 e 44 le lotte accadute in Firenze 
dopo la cacciata del duca d'Atene per espellere i 
grandi, egli non può a meno di dimostrare il suo 
disgusto per tali eccessi e di disapprovare il go- 
verno tenuto solamente da gente minuta C 1 ). 

Scemata l'antica reputazione fra le famiglie 
grandi, dice egli, non mancarono occasioni di gare 
tra le stesse famiglie popolari, divenute per le ric- 
chezze e per gli onori più rilassate e morbide delle 



importanza all'opera del vecchio. Ebbe anche agio l'Ammirato 
il giovane di consultare molte carte d'archivio e cosi di confu- 
tare in alcuni luoghi i cronisti di cui l'altro, non avendole 
viste, avea accettato il racconto; menziona leggi sfuggitegli, 
amplia notizie da quello date in succinto, talora riporta interi 
documenti. 

(I) V. Storie fior., I, p. 492. 



— 393 — 

nobili; qualche capo anzi del popolo sotto nome di 
libertà esercitò una tirannide più fiera di quella 
del duca d'Atene: « cosi è proprio spesso sotto 
uno apparente nome di ritener la libertà comune, 
saziar l'animo ingordo di sanguinose crudeltà » (*). 
Non che l'Ammirato abbia in odio il governo 
popolare; solo egli negli ultimi rivolgimenti repub- 
blicani non vede quel giusto temperamento tra le 
varie parti della popolazione, che è la vera ga- 
renzia della felicità di qualsiasi stato. Anzi egli ha 
parole di sincera ammirazione per le virtù demo- 
cratiche, e come avea ammirato Cola da Rienzo 
che « ebbe l'ardire di ricondurre la moderna Roma 
all'antico splendore, a guisa d'una vampa tenuta 
occulta sotto le ceneri della seppellita e quasi spenta 
virtù romana, armato solamente della potenza delle 
parole, ed ebbe in sé tanta nobiltà d'animo che gli 
bastò il cuore di sollevare prima la plebe romana 
alla speranza dell'antica grandezza e con l'aiuto di 
quella di tirarsi dietro Roma e gran parte d'Ita- 
lia » ( 2 ), cosi ora nel governo dei Ciompi, indegno e 
crudele ma necessario ( 3 ), non è parco di lode per 
Michele *di Landò. « Ma è vera cosa che sotto l'om- 



(1) V. op. cit., II, p. 557. 

(2) Cfr. I, p. 501. 

(3) Cfr. I, p. 557. 



— 394 — 

bra dell'arti riputate più vili stia spesso celata gran- 
dezza d'animo meravigliosa e che ne' poveri tetti 
piovano talora dal cielo divini spiriti. Michele di 
Landò come se per il grado datogli fosse in quel mo- 
mento cresciuto ancora di senno e di intelletto in- 
cominciò, per quanto la corruzione di quello Stato e 
di que' tempi pativa, prudentemente ogni cosa a 
governare » W. Le lotte però e le stragi cittadine 
hanno infiacchito la republica; i cittadini, discordi 
anche là dove l'interesse della patria richiederebbe 
unione ( 2 ), son costretti a invocare armi straniere, 
« dalle quali, poi, dovea con pessimo esempio esser 
non che Firenze ma tutta Italia taglieggiata » ( 3 ). 
Colla fine del trecento e coi principi del quattro- 
cento un'altra èra comincia per Firenze; si inizia 
una nuova lotta tra la cadente repubblica e il prin- 
cipato che sorge. La Casa dei Medici, che l'autore 
ha seguito nello sviluppo della sua potenza sin dai 
più remoti ed umili principi, ha vinto senza forti 
scosse e si è insediata, con un uomo d'ingegno e mu- 
nifico, ad arbitra dei destini di Firenze. Alla gloria 
delle armi succede quella del commercio e delle let- 
tere. Ecco come l'A. descrive la città sui primi de- 



(1) Cfr. I, p. 730-1. 

(2) Cfr. I, p. 559. 

(3) Cfr. I, p. 537. 



\ 



- 395 - 

cenni del sec. XV: « Credevasi de' denari contanti 
fra cittadini essere il valore di due milioni di fio- 
rini d'oro. Incredibile esser quello di mercantie di 
possessioni e di crediti di monte. Con queste ric- 
chezze crebbero ancora gli esercizi e l'arti nobili, 
onde in questo anno particolarmente si menziona 
essersi dato principio al mestiere dell'oro filato, il 
quale infino a' presenti di si fa il più bello e il mi- 
gliore che in luogo altro del mondo. Il mestier 
della seta non lavorò mai tanti drappi quanti in 
questo tempo, né mai si fecero i più ricchi drappi 
d'oro e di maggior pregio. L'architettura cavata 
quasi di sotterra per lo sommo ingegno di Filippo 
di ser Brunellesco W allora incominciava a mostrar 
le bellezze sue e insieme con essa venivano tuttavia 
fuori quasi uscite d'una lunga e oscura prigione 
la scultura e la dipintura. Leonardo Aretino se- 
gretario della Signoria avea in gran parte resusci- 
tata l'eloquenza e gli studii delle lettere greche e 
latine. E in somma bandite da tutta l' Italia Tarmi 
forestiere, quelle con grande gloria di molti de' loro 
posteri e loro furono amministrate da capitani ita- 
liani. Ma sopratutto fioriva la città di Firenze di 
cittadini per prudenza e per senno naturale vene- 



* 

(1) Vedi del Brunellesco l'elogio là dove si parla della sua 
morte. Storie fior., Ili, p. 48. 



- 396 — 

randi, i quali avendo fatto forti e alti argini contra 
gli impeti della plebe e de* grandi, molti de' quali 
già erano entrati nel popolo, mantenevano quello 
Stato in somma quiete e riposo » W. 

E qui l'autore dichiara che, benché egli sia sti- 
pendiato da casa Medici, nulla potrà fargli tradire 
la verità ( 2 ): da questo momento i fasti e i nefasti 
medicei si intrecciano, si confondono, contrastano 
con i fasti e i nefasti dello stato fiorentino, finché 
vittoriosi non ne trionfano. A Cosimo padre della 
patria succede, grande e non indegno di un trono, 
Lorenzo il Magnifico. Dallo Stato di pace che godette 
sotto di lui l'Italia l'autore prende occasione per 
spiegare l'equilibrio politico da lui stabilito e per 
riavvicinare la quiete d'allora con la pace alla fine 
del sec. XVI. Dal confronto risulta che questa è 
materialmente ed economicamente più benefica del- 
l'altra: ma v'è un male che contrappesa tutti i van- 
taggi, l'essere molta parte d'Italia in potere di 
principi stranieri ( 3 ). 



(1) Storie fior., I, p. 997-8. 

(2) « Non negherò, egli dice, e dal Gran Duca Cosimo esser- 
mi stato dato questo carico e da G-ran Duchi Francesco e Fer- 
dinando suo figliuolo essermi stato raffermo. Ma costoro non 
hanno mai vietato il dire e il credere quel che altri si voglia » . 
Cfr. Storie fior., Ili, p. 1-2. 

(3) Storie fior., Ili, p. 181. 



— 397 — 

E con Lorenzo ci vediamo passar davanti tante 
e tante figure, di gaudenti e d'austeri, di palleschi 
e di piagnoni, di letterati e di asceti. Conviene 
l'Ammirato esser stati quelli tempi di grande cor- 
ruzione, epperò comprende ed encomia l'aspra bat- 
taglia data da fra Girolamo Savonarola a tutto 
ciò ch'egli vedeva contrario alla morale e al buon 
costume. Sebbene il frate non gli riesca simpatico 
nella politica e nelle riforme cittadine da lui ini- 
ziate, e il perchè si capisce facilmente, tuttavia 
nel racconto delle sue gesta è imparziale, sicché 
riferendo i giudizi del Guicciardini, tanto severi, 
contrappone loro la narrazione benevola del Cambi, 
più attendibile, secondo lui, perchè contempo- 
raneo W. 

La quarta grande, e tristamente grande, figura 
tratteggiata dall'Ammirato è quella del duca Va- 
lentino: i colori son foschi, più foschi a bella po- 
sta, perchè si trattava di contrapporre un aspetto 
ad un altro dello stesso personaggio, il Valentino 
uomo al Valentino politico. L'Ammirato pur rico- 
nosce in lui il sagace reggitore, il guerriero va- 



(1) Cfr. Storie fior., Ili, p. 246. Anche nelle Famiglie fioren- 
tine avea detto che era stato da molti riputato per profeta, da 
altri per seduttore, da tutti per uomo dotto, eloquente, poten- 
tissimo per la via della predicazione nel governo della repub- 
blica fiorentina. • 



— 398 — 

loroso, ma quasi sorvola su questi pregi e lo 
guarda come novello Nerone per libidine e cru- 
deltà (*), come nemico dell' umana generazione e 
uomo € che né ad amici né a nemici serbava al- 
cuna fede, procurando ogni cosa di sottomettere 
alla sua crudelissima libidine » ( 2 ). 

Tornando a Firenze Lorenzo de' Medici avea sa- 
puto camuffare la Signoria serbando gli ordinamenti 
repubblicani e abbagliando il popolo colle feste e 
colla magnificenza; i suoi successori non seppero 
farlo, e Piero lasciò scorgere troppo i suoi disegni 
di rendersi padrone del governo e di abolire lo 
stato repubblicano « che incominciava sopra modo 
a piacere a ciascuno ». 

L' ultimo periodo della repubblica riempie d'am- 
mirazione il nostro storico, lo esaltano quei con- 
sigli di uomini incorruttibili e alieni dalle pas- 
sioni ( s ), le opere di Michelangelo ( 4 ), l'amore ar- 
dente di tutti i cittadini alla loro patria. I primi 
tre decenni furon gravidi di avvenimenti e ricchi 
di uomini straordinari per la Repubblica fiorentina; 
di tutti e di tutto' l'Ammirato dà il suo giudizio 



(1) Cfr. Opuscoli, li, p. 211. 

(2) Cfr. Storie fior., Ili, p. 270. 

(3) Op. cit, III, p. 284. 

(4) Cfr. l'elogio che ne fa a p. 276 e 588 del III voi. 



— 399 — 

sempre, può dirsi, sereno e imparziale. Il pontifi- 
cato di Leone X e di Clemente VII a Roma, il 
sacco della città eterna, col quale volle Dio « nella 
sua eterna provvidenza gastigar in quel tempo i 
falli di prelati di Roma » W, gli esempi bellissimi 
dell'antico valore, che, per opera di Giovanni delle 
Bande Nere, si mostrò vivo ne' petti italici ( 2 ) col- 
piscono nell'Ammirato l'uomo e lo storico. Suc- 
cede la gloriosa caduta della libertà fiorentina, ar- 
gomento difficile per un protetto dei Medici. Ma 
egli non nasconde la sua lode per. tanti prodigi, 
per tanti eroismi; La cavalleresca figura di Fer- 
ruccio lo riempie di meraviglia, sicché dopo averlo 
difeso dalle accuse di crudeltà mosse contro di lui, 
concbiude: « chi consideri il suo ardimento, la ca- 
rità verso la patria, la prestezza in pigliar partiti 
e in non ismarrirsi giammai per cosa avversa che 
gli avvenisse, dirà sempre che in lui era molto 
più da lodare che da biasimare ». 

Eguale libertà mostra nel giudicare gli avveni- 
menti che diedero luogo al governo di Alessandro 
de' Medici e a tutte le sue crudeltà. Pur conoscendo 
l'apologia di Lorenzi no l'Ammirato, non nasconde 
alcuna delle nefandezze di quel duca, dalla ucci- 



(1) Cfr. op. cit., Ili, p. 820. 

(2) Cfr. op. cit., Ili, p. 260. 



4% 



— 400 — 

sione della madre alle accanite persecuzioni dei 
fuorusciti C 1 ), tanto da meritare dal Borgognoni ( 2 ) 
l'accusa di eccessiva severità. Ma l'abile difesa del 
critico non muta affatto il giudizio dato dall'Ani- 
mirato del più tristo fra i dominatori e i bastardi 
di Casa Medici. 

A rinfrancare lo spirito da tante brutture e da 
tanta corruzione, l'Ammirato descrive, ultimo, il 
governo illuminato e prudente di Cosimo I .Gran- 
duca: sembran rivivere i tempi d'Augusto, tanta 
è la quiete, la fortuna nelle guerre, lo splendore 
nella vita; tuttavia non nasconde che, verso gli 
estremi anni, Cosimo abbia con due atti, l'uno 
d'incontinenza e l'altro di crudeltà, in qualche parte 
adombrato lo splendore di cotante sue virtù ( 8 ). 

La stessa lodevole imparzialità, che abbiamo vi- 
sto proclamare e mettere in pratica per la casa 
Medici, è usata dall'Ammirato, quantunque sacer- 
dote, anche là dove parla de' papi. Egli afferma 
che dirà la verità, perchè i pontefici come uomini 
possono errare, e la malvagità di uno o di un al- 
tro non deve generare disprezzo per l'autorità del 



(1) Cfr. op. cit., Ili, p. 435. 

(2) Cfr. Borgognoni, Studi di letteratura storica, Bologna, Za- 
nichelli, 1891, p. 16. 

(3) Cfr. Storie fior., Ili, p. 563. 



i 



— 401 — 

papato. Dell'avarizia di Paolo II, della crudeltà di 
Urbano VI, delle turpitudini di Alessandro VI, delle 
inumane disonestà del Cardinale di Valenza nulla è 
taciuto. E valgano su questo argomento due esempi: 
il giudizio di Clemente VII, papa, e di Casa Me- 
dici, « in cui le qualità rie andarono innanzi alle 
buone » (1), e il rimprovero di nepotismo che fa 
ai papi dei suoi tempi, primo Sisto V. « Non era 
ancora cosa favolosa divenuta, dice all'anno 1588, 
il prender Tarme contra infedeli e far i gloriosi 
passaggi d'oltremare o per ricuperazione o in soc- 
corso della terra santa; perciocché come gli animi 
dei pontefici v'eran caldi presi dal desiderio di fare 
il debito loro, et non ancora contaminati dal di- 
letto d'ingrandir i lor parenti, così trovavano an- 
cor preste le volontà dei principi e de' popoli per 
favorir così santa et lodevole impresa » ( 2 ). L'Am- 
mirato dunque non nasconde quel che vi è di più 
cattivo in coloro da cui egli dovea sperare e te- 
mere, e questo non è poco merito in tempi in cui 



(1) Cfr. op. cit. , III, p. 429. Narrando l'eccidio commesso dai 
Fiorentini sull'Orlandini che avea detto Clemente VII papa il- 
legittimo, scrive che non devon far meraviglia gli esilii inflitti 
dagli imperatori romani ai loro detrattori se « con tanta fretta 
e con tanta rabbia i presenti fiorentini a si scellerata crudeltà 
si condussero » III, p. 351. 

(2) Cfr. Storie fior., I, p. 61. 

26 



._ 402 — 

alle più basse adulazioni si ricorreva per ricevere 
doni e più lauti stipendi. 

Non diremo che egli di ogni personaggio o di 
ogni avvenimento dia sempre il giusto giudizio: ta- 
lora eccede nella lode e dà importanza ad alcuni 
fatti òhe non ne avrebbero se non vi campeg- 
giasse questo o quel principe amico o antenato 
degli amici di lui. Eternare nella sua opera mag- 
giore le gesta delle famiglie dei suoi protettori era 
il miglior modo di manifestare loro la stia grati- 
tudine; ed egli stesso lo confessa: l'abbondare nelle 
lodi serve, egli dice, ad accendere gli animi alla 
imitazione di ciò che è bello e grande. 

• * 

La narrazione degli avvenimenti procede ricca 
di particolari: che Tesarne degli atti pubblici e dei 
documenti sincroni mette l'autore in grado di of- 
frire allo studioso una quantità grandissima di no- 
tizie. Le tregue q le paci sono talora riferite in 
tutti i loro articoli, le battaglie descritte in tutti 
i loro momenti, le assemblee e i concilii in tutte 
le loro deliberazioni. Per i fatti interni son ricor- 
dati accuratamente i nomi dei magistrati, e seguito 
particolarmente lo svolgersi, il mutarsi, il succe- 
dersi degli uffici. L'Ammirato medesimo talora si 
avvide di incorrere nel difetto della soverchia mi- 



— 408 — 

mitezza, ma egli non guarda al diletto dei contem- 
poranei, bensì all'utile dei posteri (*). I particolari 
che ora sembrano insignificanti, egli scrive, a chi 
dopo di noi vorrà studiare lo stesso periodo sto- 
rico saranno utilissimi. 

Un altro pregio che l'Ammirato incessantemente 
vuol conseguire è l'accertare le date e il narrare 
la verità là dove egli la trovi falsata dai suoi pre- 
decessori. Per questa parte la sua storia è fonte 
importantissima. Le notizie che egli ci dà possono 
essere quasi sempre accettate con la. sicurezza che 
sian le vere. Difficilmente ingannato, non inganna 
mai, e dove non lo soccorrono le sue fonti di- 
chiara di non saperne, quando il suo giudizio può 
essere arrischiato e non suffragato dai documenti 
non lo dà e lo lascia alla discrezione del lettore. 

Erudito vasto e coscenzioso, egli non si segnala 
certo per larghezza di vedute o per profondità di 
pensieri, tuttavia è costante in lui jjna non leg- 
gera conoscenza dell'animo umuio e delle sue pas- 
sioni, una attitudine tutt'altro che superficiale nel 
cogliere i caratteri generali delle età che descrive. 
Perciò egli nel giudicare gli uomini, senza lasciarsi 
trarre a rivendicazioni storiche più o meno indo- 
vinate, tien Gonto delle condizioni in cui quelli si 



(1) Cfr. Storie fior., Ili, p. 420. 



— 404 — 

trovarono, delle cause che ne determinarono le 
azioni. Dove -però il senso morale sia offeso non 
tenta nemmeno la difesa, e se scusa le crudeltà 
'dell'alto medioevo, le civili sanguinose lotte della 
Repubblica, non ha una parola per giustificare né 
il Valentino né il duca Alessandro. 

La storia, egli scrive, deve insegnare con qu$li 
arti o sotto la repubblica o pure nel principato, 
s'apra un buon cittadino la strada all'onore e alla 
gloria, quanto sia dannosa agli uomini l'ambizione, 
quanto biasimo e vituperio abbia a molti recato il 
desiderio della ricchezza, quanto sia vana e teme- 
raria impresa i'opporsi molte volte sotto vari pre- 
testi alla volontà di Dio 0-). Questo sentimento mo- 
rale, il concetto che la storia debba essere maestra 
della vita, e di una vita onesta ed ispirata ai sensi 
del giusto e al bene della patria, informa tutta 
l'opera dell'Ammirato, la avviva, le dà efficacia. 
Guardando a questa mèta egli si ferma a tratteg- 
giare le figure dei grandi che col l'opera hanno 
dato ancora vita e nobile esempio alla loro età: 
di qui anche una notevole parte data nelle sue 
Storie alle biografie. In queste hanno la prefe- 
renza i poeti e gli artisti : vi troviamo la entusia- 
stica ammirazione dall'autore per Dante, di cui si 



(1) Cfr. Storie fior., I, p. 2-3. 



— 405 — 

compiace recare versi e sentenze o per spiegarli 
coi fatti storici o per avvalorar con essi la sua 
narrazione, le lodi del Petrarca, del Ficino e di 

i 

tant' altri di cui o giudica le opere o narra curiosi 
aneddoti. Agli aneddoti anzi l'Ammirato annette 
non piccola importanza, poiché mostrano più sin- 
ceramente e schiettamente il carattere dell'uomo; 
e come dell'uomo così dei tempi; onde nell'opera 
dell'Ammirato ricorron frequenti le descrizioni di 
usi e di costumi, di feste e di spettacoli, dalle adu- 
nanze ai Marmi alle commedie rappresentate in 
questa o in quella circostanza, dalla vita intima 
dei principi agli scherzi arguti fra cittadini. 

E tutto ciò è narrato in uno stile chiaro, talora 
eloquente e non privo di efficàcia. S'indugia l'au- 
tore, confórme alla tradizione degli storici, a far 
parlare i suoi personaggi : raramente però le sue 
orazioni non servono alla maggiore intelligenza dei 
fatti, e sempre sono da lui usate come mezzo per 
narrare ed esporre. E un uso appreso dai classici, 
e d'essere classico, di rievocare ogni tanto il mondo 
romano l'Ammirato si compiace: i frequenti raf- 
fronti tra gli avvenimenti moderni e gii antichi, 
il paragone fra personaggi viventi e capitani e sta- 
tisti d'altri tempi contribuiscono alla vivezza ed 
alla efficacia della narrazione. Vivo ed efficace è 
nelle descrizioni specialmente dei luoghi, 'a cui egli 



— 406 — 

tanto bada come a cosa necessaria per la intelli- 
genza dei fatti: i luoghi egli l'ha visti, li ha vi- 
sitati particolarmente, con la curiosità e l'accura- 
tezza dello studioso. Se non sempre terse ed ele- 
ganti nella lingua le Storie dell'Ammirato giustifi- 
cano però il giudizio che ne avea dato il Salviati : 
la sua è lingua fiorentina attinta dai modelli mi- 
gliori e dal vivo uso del popolo. 

Il merito dell'Ammirato fu riconosciuto appena 
la Storia apparve W, e basti citare i versi con cui 
la Crusca lo lodò: 

Poiché del tempo edace hai vinta e doma 
La forza e tolto a Lete i fatti egregi, 
Si dice Clio mossa da tuoi gran pregi, 
Nuovo Livio risorge a nuova Roma. 

Nei secoli posteriori fu stimato sempre uno de- 
gli storici più accurati e più fedeli. In un tratta- 



ti) I tre volumi della Storia costarono dapprima 14 lire fio- 
rentine, come ci avverte il Mimicci, agente del Duca d' Urbino 
in Venezia in una lettera a Gk B. Laderchi segretario dello 
stesso duca. V. Archivio di Mantova, Cancelleria Ducale, Car- 
teggio degli ambasciatori) Venezia, Minuoci Andrea ; intorno alla 
fama dell'A. cfr. Scipione Mazzella, Descrittione del regno di 
Napoli, Napoli, Cappello, MDCI, p. 187. Tasselli, Antichità di 
Letica cit., p. 524, et Henbici Bacci et Caesàeis de Engenio, 
Deseriptio terrae Hidrunti, in Bubomann, Thesaurus, IX, p. I, p. 90. 



— 407 - 

tello di metodo storico del Manni troviamo che si 
consiglia la lettura del solo Ammirato fra tutti gli 
storici di Firenze, come di quello su cui si può 
meglio fidare C 1 ). 

Oggi che gli studi progrediti hanno portato alla 
luce un immenso materiale storico, la veridicità del 
nostro è stata sempre confermata. Il Del Lungo lo 
chiama osservatore diligentissimo e circospetto della 
storia di Firenze e lo giudica il più erudito storico 
che abbia avuto quella città; né noi potremmo 
porre migliori e più autorevoli parole a conclu- 
sione del nostro lavoro. 



(1) Cfr. Metodo per istudiare con brevità e profittevolmente le Sto* 
rie di Firenze del signor Domenico Mabia Manni, Firenze, Mon- 
che, 1754, p. 24. Altri giudizi possono leggersi nel Toppi, Bi- 
blioteca napolitano, Napoli, 1678, II, p.. '279, nel Tibaboschi, VII, 
p. 135, nel G-oubmont, nel Settembrini, ecc. 



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* 

* 



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INDICE. 



V 



Prefazione Pag. o 

I. — La famiglia Ammirato — Primi anni di Sci- 
pione — Primo soggiorno a Napoli — Braccio 
Martelli — L'Ammirato a Venezia — Gli argo- 
menti all' Orlando Furioso e il Trionfo d'Apollo — 
In casa Contarmi — L'Ammirato e la famiglia 
di Paolo IV Carrafa » 9 

II. — L'Ammirato a Lecce — Il Capitola al Co- 
stanzo — L'accademia dei Trasformati — La 
commedia 1 Trasformati — I dialoghi 11 Deda- 
lione e II Maremonte — Le Mescolanze . . . . » 40 

III. — La vita napoletana e gli amici dell'Ammi- 
rato — Le Annotazioni al Bota — Il Trattato 

delle imprese — Prima d'andare a Firenze . . » 69 

IV. — Le $torie di Napoli — Ragioni dell'opera, 

fonti, contenuto e giudizi principali .... » 118 

V. — L'Ammirato a Firenze — I Ritratti di casa 
Medici — Cosimo e gli storici — Amici dell'Am- 
mirato — Francesco I — Il Vinta — Alcune 
genealogie » 156 

VI. — Le « famiglie nobili napoletane » e le fio- 
rentine » 186 

VII. — Lutti famigliari — Le poesie del Dell'Uva — 
Gli Opuscoli — Lamenti intorno alla propria con- 
dizione — L'Accademia degli Alterati e le qui- 
stioni intorno alla Gerusalemme liberata — La 
difesa dell'Ariosto * 218 



'V 



— 410 — 

Vili. — Indirizzo politico negli studi storici del- 
l'Ammirato — I Discorsi varii — L'orazione a 
Sisto V — Nuove genealogie — Morte di Fran- 
cesco I Pag. 252 

IX. — Il Granduca Ferdinando e l'Ammirato — 

Lutti domestici dell'A. — L'orazione in morte 

del Tasso — Il canonicato — Le orazioni per 

la guerra contro i Turchi: le Filippiche e le 

Clementine ' 273 

X. — La pubblicazione dei Discorsi su Tacito — 
Nuove genealogie — I trattati della Segretezza 
e delle Cerimonie — La versione dei Salmi e le 
Rime spirituali — I testamenti dell'A. — Sua 
morte » 307 

XI. I Discorsi su Tacito 341 

XII. Le Storie fiorentine . . . *. » 873